La maledizione del Burattinaio di La sposa di Ade (/viewuser.php?uid=152568)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte - APOKALYPSIS Prologo - Sangue cattivo ***
Capitolo 2: *** 1. Giochi d’anime e d’ombre ***
Capitolo 3: *** 2. Certe cose oscure ***
Capitolo 4: *** 3. Io ho un corpo. Io sono un corpo ***
Capitolo 5: *** 4. L'ostilità dei sogni ***
Capitolo 6: *** 5. Morrigan. La bestia parla ***
Capitolo 7: *** Seconda parte - DAEMON - Il sangue è come acqua ***
Capitolo 8: *** 7. Calma piatta ***
Capitolo 1 *** Prima Parte - APOKALYPSIS Prologo - Sangue cattivo ***
A Selina,
che crede in questa storia più di me.
LA
MALEDIZIONE DEL BURATTINAIO
PRIMA PARTE
- APOKALYPSIS
SI
PUò FARE LUCE IN UN
CIELO TUTTO MELMOSO E NERO?
SI
POSSONO LACERARE TENEBRE PIù DENSE DELLA PECE
SENZA
MATTINO Né SERA, SENZA STELLE, SENZA LAMPI
FUNEREI?
Prologo.
Sangue cattivo
Porte
socchiuse. Il mio monastero
dichiara silenzio. Sono il mio mantra buio, il lato nevralgico affidato
alla
vita -vicino a te- che sfioro i tuoi momenti di digiuno. Mangio parole,
preghiere di pelli indicizzano il muro che si riempie di crepe.
Maschero il pianto,
ungo le costole. Sono ombre dietro al velo che lasciano intatto il
percorso che
mi porta alla tua anima.
Una
violenta pioggia si era abbattuta su quella piccola città, e
già da due ore non
dava segno di voler smettere, sembrava piuttosto voler cancellare
l’alone
oscuro che la impregnava e lavare via le macchie di sangue che negli
anni mai
avevano abbandonato quel posto triste.
Una
figura minuta si sporse dall’ingresso del grande tempio per
guardare fuori,
mentre dietro di lei un canto troppo simile a una nenia si sollevava
lenta.
Niente di
strano, va tutto bene. Si disse. Ed
era vero, non c’era
niente di strano in una giornata di pioggia.
Si voltò
osservando l’interno di quel tempio; soffitto alto e la lunga
navata, vetrate
colorate proiettavano all’interno la poca luce della
giornata, rendendo il
tutto più cupo di quanto sarebbe dovuto essere, file di
panche di legno scuro
erano disposte con un ordine impressionante e le teste chine facevano
assomigliare il tutto a una scena di un funerale piuttosto che a una
messa,
tornò a osservare la pioggia vedendola per la prima volta
più felice e
rassicurante di qualsiasi altra cosa la circondasse.
Hanno quasi
finito. Si disse,
semplicemente, per
convincersi del fatto che non mancava molto che un’ orda di
persone silenziose
uscisse da lì e la circondasse, consentendole di tornare a
casa tranquillamente.
Sospirò continuando a osservare la pioggia e il fango che
andava a crearsi poco
lontano dai suoi piedi. Quella era una città che le faceva
paura, che le aveva
fatto paura da sempre, fin da piccola, fin da quando osservava dalla
finestra
della sua piccola casa la pioggia sorprendere i bambini che invece
giocavano
tranquilli in strada. Aveva sempre visto quella pioggia di un colore
differente
dagli altri, adulti e bambini, e quel colore la spaventava, quel rosso
era ciò
che di più odiava a quel mondo insieme ai suoi stessi
ricordi.
Rabbrividì
involontariamente quando qualche goccia di pioggia raggiunse il suo
viso, fece
un passo indietro, per evitare di bagnarsi ancora di più,
per poi asciugarsi il
volto. Strinse i pugni avvertendo quella giornata troppo simile a
quella di
anni prima, perché non smetteva di piovere?
Osservava la
pioggia dalla finestra
della sua piccola stanza, ascoltando il suo suono continuo e il rumore
di sua
sorella di sotto che trafficava con gli utensili da cucina e
canticchiava;
vivevano da sole, solo loro due e il loro legame. Non era facile andare
avanti
così ma insieme si facevano forza a vicenda, portavano
avanti la loro piccola
famiglia a forza di risparmio e sorrisi.
Colpi forti alla porta e subito sua
sorella smise di cantare, non aspettavano visite, non quel giorno.
Magari
qualcuno che aveva bisogno di cure, si disse la minore, non capitava
spesso ma
visto che la maggiore lavorava al tempio, che veniva usato come rifugio
per i
feriti di guerra, non ci sarebbe stato nulla di così strano
nel trovarsi
qualcuno che aveva bisogno di cure alla porta di casa. Sentì
appena i suoi
passi, ma distinse chiaramente il cigolio della porta di pesante legno.
“Veiler, sei guarito? Riesci già ad
alzarti...” Poi la sua voce si era interrotta bruscamente,
quelle erano state
le ultime parole che aveva sentito sulle sue labbra, il resto era stato
solo
urla di dolore e un pianto sommesso, il suo, di paura e impotenza nel
sentire
quelle urla strazianti precedute da quel nome su cui avevano fatto
tanto
affidamento, quel nome di cui sua sorella Zaphiria si era segretamente
innamorata, tremava e le sue gambe erano legate da fili invisibili che
il suo
stesso istinto le imponeva.
Poi il silenzio aveva avvolto la
casa, e lei, che divorata dalla paura non era riuscita a muoversi
ordinò alle
sue stesse e ormai tremanti gambe di scendere al piano di sotto; ampie
finestre
lasciavano intravedere la pioggia, i vetri macchiati di rosso le
donavano quel
colore orribile, che per sempre le si impresse nella mente, mentre il
corpo di
sua sorella giaceva a terra straziato in una pozza rossa, con gli occhi
aperti
fissi sulla porta che lasciava entrare il freddo di quella giornata.
Poi qualcuno
urlò, mentre dentro la casa il sangue colava dai vetri e
colorava di rosso la
pioggia incessante.
Non si
accorse dei passi che si avvicinavano sempre di più e quando
alzò lo sguardo
una figura alta e snella la sovrastava, aveva il volto di un ragazzo,
ma una
grossa cicatrice copriva interamente la parte sinistra del suo volto
senza però
intaccare il colore così luminoso dell’ iride, di
una strana tinta ambrata che
non aveva mai visto, i suoi capelli del colore della sabbia erano
coperti da un
cappuccio largo su cui era attaccata una spilla dal lugubre sorriso.
Era
fradicio, eppure non sembrava importargli più di tanto, la
ragazza si fece da
parte pensando che volesse entrare in quella chiesa, invece non si
mosse
rimanendo fermo dov’ era senza distogliere i suoi occhi dalla
giovane che aveva
abbassato lo sguardo, solo in quel momento vide la grossa arma fasciata
che
portava a tracolla e che teneva dietro la schiena all’
altezza delle mani, una
delle quali stringeva una sigaretta ancora miracolosamente accesa. Le
sue mani
iniziarono a tremare nello stesso istante in cui lo sconosciuto, con
grande
sollievo della ragazza, passò oltre entrando nella chiesa
ora silenziosa, se
non per il frusciare degli abiti dei presenti che si stavano preparando
per
tornare a casa. Arricciò il naso quando il cacciatore le
passò affianco
lasciando una scia di fumo di sigaretta, si voltò giusto in
tempo per vedere le
sue ampie spalle sparire tra la gente che si dirigeva verso
l’uscita. Strano,
si disse, prima di sospirare di sollievo, appena prima di intravedere
una
macchia nera volare piuttosto alta e infilarsi nel tempio, ma presto
sarebbe
potuta tornare a casa e lasciare quel luogo che non più come
un tempo le dava
quel senso di sicurezza di cui aveva sempre avuto bisogno.
Le
faceva paura la pioggia, portava a galla orribili ricordi e tanta,
troppa,
paura; da quando sua sorella era stata uccisa brutalmente dalla persona
che
amava la sua rabbia si era mescolata alla paura, sparendo.
Le
persone le sfilarono accanto, sfiorandola appena a avvolgendola con
l’odore
degli abiti ora impregnati d’incenso, le sue gambe erano
bloccate; vedeva
quell’ acqua come una pioggia d’aghi e le faceva
paura stare lì, eppure la
prospettiva di entrare e restare sola, seppur al riparo era la
peggiore. Quindi
rimase appoggiata allo stipite del grande portone quando anche le
ultime
persone l’ebbero superata, solo per sollevare lo sguardo e
accorgersi che la
protezione su cui aveva fatto conto poco prima si stava allontanando.
Fece il
primo passo, non riuscendo a udire il suono della sua scarpa bucare
l’acqua di
una pozzanghera perché uno sparo coprì per un
breve istante ogni suono,
rimbombando in quell’ ampio spazio dietro di lei.
I suoi
passi erano silenziosi in quella dimora dell’eco ormai
deserta. Il fumo della
sua sigaretta si confondeva con l’incenso ancora presente
nell’aria,
disperdendosi in grigie volute. Si sistemò meglio la grossa
arma che teneva a
tracolla, senza avere però l’intenzione di usarla.
Giunse
nella cella in cui una figura lievemente ingobbita stava riponendo i
suoi
gioielli alla base di una statua dai lineamenti nascosti,
l’unica cosa che
spuntava dalla lunga veste di pietra erano un paio di mani, dai lunghi
artigli,
ben aperte e con i palmi rivolti verso il basso.
Il giovane
estrasse dalla fondina nascosta una pistola che con un lieve rumore si
posizionò all’altezza del capo del sacerdote.
Questo si irrigidì un istante per
poi voltarsi lentamente con un’espressione timorosa sul volto.
“La
messa è finita figliolo.” Disse con voce roca,
ignorando la pistola puntata
contro la sua fronte. “Perché non torni
domani?” Il suo volto rugoso si allungò
in un lieve sorriso mentre i suoi occhi si socchiudevano.
La
pistola era sempre più pesante e il polso più
debole, la voglia di continuare a
uccidere stava svanendo, si chiese perché continuasse a
cacciare competendo in
continuazione con i demoni, fingendo di non scappare. La mente gli si
riempì di
desideri e idee non sue.
Strinse
gli occhi, sentendo fili di sottile acciaio stringersi sul suo polso.
La
sigaretta scivolò dalle sue labbra, spargendo cenere sul
pavimento liscio
quando venne in contatto con esso, piccole scintille si alzarono
coraggiose per
poi morire subito dopo, mentre una sensazione di freschezza invadeva il
suo
occhio sinistro.
Rialzò
il braccio e sparò. Fu un suono che rimbombò in
tutta la chiesa, raggiungendo
ogni angolo. Pezzi di scura pietra caddero a terra dietro al sacerdote
ancora
in piedi; al posto di una delle mani ossute della statua ora
c’ era un foro
fumante.
“Ma tu
sei umano.” La sua voce era spiacevole, come unghie che
grattano sul vetro. Il
vecchio lo osservò con stupore, non capendo come avesse
trovato la forza di
compiere una qualsiasi azione. “Come puoi resistere ai suoi
fili?”
“Con me
non funziona.” La sua voce era piatta, incolore e fredda,
indicò appena
l’occhio ambrato con la mano libera e vide un lampo di
comprensione
attraversare il volto dell’altro.
“Non può
essere.” Il suo volto gli ricordò per un istante
il marmo chiaro, cosparso di
segni scuri come fossero vene. La canna della pistola tornò
a puntasi contro la
sua fronte. “Che cosa…”
Il
ragazzo agitò la pistola intimandolo a tacere.
“Sto cercando l’Annullatore, è
così che lo chiamate ormai voialtri, no?” Sul
volto del vecchio apparve un
sorriso che rischiò di trasformarsi un una risata.
“Sono in
tanti a cercarlo, e in tanti sono venuti qui a chiedere di
Lui.” Fece una pausa
osservando il volto sfregiato del giovane che attendeva e la pistola
ancora
fermamente puntata tra i suoi occhi. “E a tutti ho dato la
stessa risposta;
nonostante sia qui che la sua anima da umano è cambiata, non
ho idea di dove si
trovi ora, né…” Un altro colpo di
pistola e questa volta cadde a terra il corpo
ora mollo del sacerdote mentre sulla veste scura della statua dietro di
lui era
apparsa una rosa rossa di sangue e cervella.
“Inutile.”
Mise a posto l’ arma, voltandosi e incamminandosi verso
l’ uscita; un altro
buco nell’ acqua.
Alcuni punti su questa storia e sul capitolo
-La
poesia appena
sotto al titolo è di Baudelaire e a proposito di questo,
avrete notato che le
lettere accentate sono in minuscolo al contrario delle
altre… Su word
diventavano quadratini bianchi, quindi le ho lasciate piccole. Sorry me
-Apokalypsis:
La parola apocalisse deriva
dal greco (apokalypsis), composto di apó ("separazione",
usato come prefissoide)
e kalýptein ("nascosto”),
dunque significa un
gettar via ciò che copre, un togliere il velo, letteralmente
scoperta o
rivelazione (grazie Zia Wiki <3). Questo semplicemente
perché questa prima
parte della storia è un insieme di scoperte, un modo per
descrivere la storia,
un enorme prologo.
-Per il tempio mi sono immaginata un miscuglio
tra la Sainte
Chapelle (interno) e la Cattedrale di Beauvais (esterno).
-Le successive supposizioni dei personaggi non
sono altro
che, appunto, supposizioni. Nessuno dei personaggi è al
corrente di tutti i
fatti, quindi alcuni potrebbero avere una loro idea riguardo un fatto
che
potrebbe non essere corretta.
-Il narratore sarà onnisciente, si
scopriranno i nomi
senza che ci sia bisogno che i personaggi si debbano presentare anche nella storia. Ma non per questo ve
li svelerò tutti subito, alcuni saranno parecchio importanti
-Mi viene ancora da schiacciare lo spazio dopo
l’apostrofo, so che è sbagliato ma sto cercando di
correggere, quindi scusate
se troverete qualche spazio di troppo
-Boh, questa prima parte non piace più di tanto nemmeno a
me, ma da qualche parte la storia doveva pur cominciare no?
Spero davvero
che la formattazione non mi mandi tutto a puttane :c
Avrei voluto pubblicare nel giorno
del mio compleanno con
moolta calma, tipo revisionare decentemente qualche giorno prima e
pubblicare
nel pomeriggio, alla fine la scelta della giornata non è
stata delle migliori,
ma vabbè, non sono in ritardo, solo molto di fretta e non
del tutto
soddisfatta. Ma va bene, perché è da tantissimo
che volevo iniziare a
pubblicare questa storia. Spero che questo primo capitolo vi sia
piaciuto e
spero, per chi intende seguire, che vi piaccia anche il seguito :)
A presto.
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Capitolo 2 *** 1. Giochi d’anime e d’ombre ***
1. Giochi
d’anime e d’ombre
Con la bocca
come chiesa, ché ci
entri dentro, in ginocchio, sul sagrato, con i calci allo stomaco del
desiderio
nascente -occhi negli occhi-. Ungimi di oli interni, sciolti,
fluidificami
durante la nenia delle nostre conversioni. Pelle su carne, carne su
ossa, ossa
su desideri. Miscele di amari martiri di frenesia animale.
La
carrozza sobbalzava sulla strada dissestata, mentre il costante rumore
della
pioggia non dava segno di voler smettere. In quello spazio angusto e
buio
circondato da robuste assi di legno stavano due uomini, in silenzio ad
ascoltare chi la pioggia, chi il suono del proprio cuore, troppo veloce
da un
paio d’ore a quella parte.
L’aria
lì dentro si era fatta umida e l’acqua che correva
sul legno e sul vetro dava
ancor più la sensazione di essere bagnati fino alle ossa.
L’uomo più grasso e
agitato non riuscì a trattenere un brivido mentre
l’altro spostava il suo
sguardo d’oro sul suo viso, senza dare
l’impressione che quell’ uomo potesse
essere più interessante della pioggia che fino a quel
momento aveva guardato.
“Siamo
quasi arrivati.” Disse lui, non tanto per rassicurare
l’altro che aveva
iniziato a torcersi nervosamente le mani grasse e sudate, quanto per
preparare
anche se stesso a una situazione che avrebbe richiesto parecchia
pazienza; cosa
di cui lui era praticamente del tutto sprovvisto.
Accavallò
le gambe si sistemò più comodamente sui sedili di
rosso velluto della carrozza
proprio mentre un ultimo sobbalzo la scuoteva, seguito dallo sbuffo dei
cavalli
che la trainavano, ora fermi. Guardò il mercante che si
costrinse a fare
profondi respiri e a non alzare lo sguardo.
“Non
abbiate paura, ho solo bisogno che lei risponda ad alcune mie
domande.” La sua
voce era melodiosa e come tirato da fili invisibili il grasso uomo si
ritrovò a
osservare la sua figura; stava seduto sullo stesso mantello che
avvolgeva i
suoi fianchi, i muscoli del torso coperti da uno strato di sottilissima
stoffa
nera, le sue braccia –ed erano quelle che terrorizzavano il
povero mercante-
non sembravano appartenere ad un essere umano; lisce, prive di ogni
movimento
che potesse far intuire che fossero composte da muscoli, sembravano
componenti
essenziali e perfetti di una macchina, e le sue mani non erano da meno,
rigide
come quelle di un’ armatura dagli artigli eccessivamente
lunghi che sembravano
fusi con le dita stesse. I suoi capelli biondi
scivolarono sulla spalla quando inclinò la
testa per studiare l’espressione
dell’ uomo.
“Signore,
ho bisogno di sapere cosa sa della pietra filosofale.” Detto
questo si chinò in
avanti pronto ad ascoltare ciò che aveva da dire.
L’uomo sembrò dover
raggruppare le informazioni in suo possesso per fare un discorso
lineare.
“Beh, ci
sono molte informazioni riguardanti la pietra, non tutto ciò
che si dice su di
essa può essere considerato oro colato.”
“Mi dica
quello di cui è a conoscenza, sono qui per
ascoltarla.” Un angolo della sua
bocca si sollevò lasciando però intuire che
quello che era apparso sul suo
volto non era un sorriso, quanto un segno di impazienza.
“Bene;
la pietra filosofale è conosciuta come l’elemento
perfetto, in grado di
risanare la materia dalla corruzione; può curare qualsiasi
tipo di malattia, ma
non è vero che dona l’immortalità,
perché l’immortalità non esiste,
nessun…”
“Mi
risparmi questa parte, so bene che per quanto una creatura possa essere
longeva
e resistente non può sopravvivere a tutto. Non sono le
nozioni basilari a interessarmi.”
Il mercante fece un’altra pausa prima di riprendere,
perché i suoi occhi dorati
lo avevano catturato per un istante nel quale un’orribile
sensazione di vuoto
si impadronì di lui.
“Non è
vero che doni l’onniscienza, ma può tramutare
metalli, e non solo, in qualcosa
di differente. C’è chi dice che sia una pietra
lucente e più rossa del rubino
più puro, c’è chi dice invece che sia
polvere, chi liquida, o stolti che sono
convinti del fatto che la pietra filosofale sia in ognuno di noi. Ma la
verità
è che è una pietra delle dimensioni di un occhio,
più scura della tormalina ma
dai riflessi sanguigni, inalterabile nel tempo come
l’oro.”
“Queste
sono cose che so anche io, ciò che voglio sapere
è se ha potere sulle anime.”
“Anime?”
“Anime
perse, anime dannate, rubate e immonde. Controllate.”
Inclinò di nuovo la testa
in un gesto animale; come un lupo che osserva la sua preda divorata
dalla
disperazione agitarsi, in cerca di una via d’ uscita, mentre
i suoi occhi
luccicavano di una luce che di umano aveva ormai poco.
“Io non
so niente di anime.” Finalmente ebbe tregua e
riuscì ad abbassare lo sguardo,
ma solo perché l’altro si alzò, facendo
un piccolo passo verso il lato della
carrozza come se volesse uscire, invece scostò appena le
tendine
semitrasparenti per guardare la pioggia che continuava a scendere,
trattenne la
rabbia, il nervoso e la frustrazione per aver perso altro tempo.
“Sono solo un
misero mercante, se volete sapere come purificare un’anima
sul confine della
città c’è il Tempio Nero,
c’è chi dice che lì vi sia
custodita.” Ancora,
inclinò la testa, prima da una parte poi dall’
altra, per scacciare la tensione
che si era impadronita dei tendini del suo collo, alzò la
mano e con un
movimento lento fa scorrere il lungo artiglio contro il vetro,
producendo un
suono orribile che fece contorcere il mercante, che lentamente stava
raggruppando il poco coraggio di cui era dotato.
“Ho sbagliato
di nuovo.” Sussurrò appena distogliendo
l’attenzione dalla pioggia e bloccando
con il chiavistello la porta, sentì il frusciare degli abiti
costosi del grasso
mercante e di una lama corta che veniva snudata.
Sentì la
lama tagliare l’aria con un sibilo sinistro, prima di
sentirla penetrare nella
sua schiena tra le sue vertebre. Non sentì alcun dolore,
solo un gelido
fastidio in mezzo alla schiena.
“Un
essere come te non dovrebbe esistere, cosa sei? Quale Dio ha permesso
la tua
lurida esistenza?” Dalla ferita sgorgò sangue
scuro che schizzò sul volto del
mercante, questo arretrò quando l’ altro si
voltò con un’ espressione
indecifrabile dipinta in volto, provava pena per quell’ uomo
che era così
legato alla sua misera vita.
I suoi
occhi tremavano, il terrore di un cadavere nel vedere il proprio corpo
mangiato
inesorabilmente da vermi e corvi.
“Saresti
sorpreso nel sapere che è lo stesso che veneri tu, misero
essere.” Alzò appena
l’avambraccio distendendo le dita lunghe e artigliate mentre
sui polsi del
mercante di avvolgevano stretti dei fili invisibili di metallo, un
sorriso
sofferente si allungò sul suo volto, tirato dal dolore che
iniziava, seppur
lentamente, a invadergli la schiena.
Si
avvicinò al mercante con passo lento mentre i suoi polsi si
facevano sempre più
vicini, intrappolati da manette invisibili.
“È un
peccato.” Allungò l’altra mano dietro la
schiena per sfilare il pugnale,
inutilmente perché troppo lontano dalle sue dita, con una
smorfia tornò a
osservare il mercante. “Un vero peccato.” Si
avvicinò ancora, ora erano a pochi
centimetri di distanza e poteva benissimo sentire il tanfo del terrore
che il
suo corpo emanava in quel momento. Tentò di liberarsi da
quei fili affilati che
si stringevano sempre di più. “Ma almeno
avrò da divertirmi un po’.” Sul suo
volto si distese una maschera di terrore quando l’altro gli
sorrise.
Aveva
visto la carrozza fermarsi nel bel mezzo della strada che portava al
Tempio Nero,
era rimasto fermo sotto la pioggia per vari minuti mentre i cavalli
battevano di
tanto in tanto gli zoccoli sul lastricato bagnato scuotendo i crini ora
fradici. Ed era ancora lì, nascosta alla pioggia sotto un
albero una ragazza
osservava rapita quella carrozza da ricconi, aspettando che ne uscisse
magari
un bel giovane. Ma quando la porticina cigolò e
dall’interno sgocciolò fuori
una grande quantità di sangue riuscì a malapena a
trattenere un urlo; la
porticina permetteva a malapena il passaggio di un uomo alto e dal
petto
coperto su cui ricadevano alcune ciocche di capelli biondi, dietro le
sue gambe
era riuscita ad intravedere un altro volto orrendamente sfigurato, ma
prima di
distogliere lo sguardo era riuscita a carpire troppi dettagli;
l’ uomo era
riverso a terra e a decorare la sua espressione terrorizzata
c’erano delle
profonde incisioni sui suoi zigomi, che partivano da sotto l’
occhio privato
ora di palpebre e arrivavano fino alle guancie, lasciando intravedere
oltre al
rosso puro del sangue le gengive e la dentatura al di sotto di quei
solchi,
sulla sua fronte vi si trovava invece una mezza luna tratteggiata con
noncuranza. Il suo volto era una maschera di terrore e sangue e solo
quando
aveva distolto lo sguardo in mente si fece strada anche l’
immagine delle
labbra strappate via, lasciando a quel volto un sorriso grottesco. A
quel
punto, senza ulteriori indugi, si voltò e corse verso il
tempio, terrorizzata
da ciò che sarebbe potuto accadere se si fosse premessa di
indugiare.
Si
dovette però fermare dopo poco, quel rosso ora le impregnava
la mente, la
riempiva di angoscia e la faceva stare male. Cadde in ginocchio sotto
la
pioggia boccheggiando tra un conato e l’altro, vomitava a
vuoto e ringraziò il
cielo per il fatto di non aver ancora pranzato mentre lacrime di dolore
le
annebbiavano la vista.
Combattendo
contro le gambe molli si mise in piedi scacciando l’immagine
di quel viso
straziato e del sangue che denso colava fuori dalla carrozza,
mescolandosi con
la pioggia.
Guardò
dritta davanti a sé e stringendosi tra le braccia si diresse
a passo svelto e
malfermo verso il tempio.
“Ebbene?
La pietra?” Scese sul lastricato
bagnato per rivolgersi al cocchiere, che ovviamente aveva sentito
tutto, ormai
non cercava neanche più di nascondergli le cose, vista la
sua innata capacità
di immischiarsi negli affari altrui, oltre a quella di percepire la
pietra.
“Sì, è
vicina, la sento chiaramente. È molto probabile che sia
davvero al Tempio.”
Sorrise tra sé. “Infondo a qualcosa serviva quel
vecchio.” Storse
la bocca, gli scocciava parecchio aver
bisogno di qualcuno, ma era stato parecchio fortunato a trovare una
persona con
capacità del genere, anche se in quell’ ultimo
periodo non avrebbe saputo dire
chi si stava servendo di chi.
“Non
dubitare mai.” Si ripromise di sbarazzarsi di lui il prima
possibile.
“Muoviamoci.”
Il sapere non
è sempre una buona
cosa, Ayn.
Una
ragazza, poco distante, ascoltò quelle ultime parole,
tremando.
Vuoto.
La messa
che si svolgeva tutte le mattine in tutti i templi di tutte le
città era ormai
finita da tempo e i suoi passi pesanti rimbombavano nel piccolo spazio
vuoto
dove il silenzio poco prima inghiottiva tutto, ora anche le gocce che
cadevano
dalle punte dei suoi capelli biondi e dai suoi abiti fradici sembravamo
assordanti. Aveva il cuore che correva più di quanto avesse
fatto lei fino a
poco prima. Si fermò solo un attimo, per appoggiare le mani
alle ginocchia e
riprendere fiato, prima di riprendere a camminare e scendere nella
cella di
sotto.
Raggiunse
l’altare e scovò la piccola botola di cui solo
fedeli adepte come lei e i
sacerdoti conoscevano l’ esistenza; le sue mani tremavano
mentre maldestre
tentavano di aprire la serratura. Nella sua testa ancora il rumore di
passi e
la sensazione di essere seguita, osservata, braccata. Dalle sue labbra
uscivano
respiri nervosi, perchè ormai era una corsa contro il tempo.
Finalmente
si sbloccò e poté sollevare la piccola anta
nascosta nel pavimento, vi si
infilò senza esitazione, tornando a sentirsi al sicuro.
Fiaccole
dal fuoco azzurro illuminavano quello spazio ampio e circolare,
l’ umidità
impregnava l’ aria e una vibrazione di energia e vita
percorreva le sue spesse
mura. E al centro quella pietra rossa a cui tutti ambivano, era
l’ unico
sprazzo di colore rosso in quell’ ambiente che possedeva i
colori di un incubo.
Vi si
avvicinò sentendosi subito più tranquilla quando
il lieve bagliore che emetteva
riscaldò il suo viso freddo e bagnato, ma questa piacevole
sensazione svanì
all’ istante quando forse solo nella sua testa
rimbombò il suono i passi
pesanti su una superficie non troppo resistente. Tutti i suoi muscoli
si
irrigidirono mentre il cuore prendeva a pulsare con forza, quasi
impedendole di
prestare l’ attenzione che avrebbe voluto a ciò
che accadeva al di fuori di
quel buco più o meno sicuro.
Di
nuovo, questa volta però ne era certa, era certa che
qualcuno si trovasse più
vicino di quando lei stessa avrebbe mai voluto, era certa che non
sarebbe
passato molto perché scoprissero lei e il suo rifugio, era
del tutto certa che
avrebbe dovuto prestare più attenzione; delle orme bagnate
che terminano appena
prima del velluto scuro del tappeto sopra la botola non danno troppi
sospetti,
certo che no.
Più
forte, qualcuno stava battendo con molta più forza su quella
piccola porta di
legno, e lei tremava, come il legno e le camole dentro di esso.
Uno
schianto e una nuvola di polvere venne illuminata dalla luce che ora
penetrava
in quell’ ambiente, le fiamme sulle fiaccole attaccate ai
muri tremarono
sollevandosi rabbiose, allungando le ombre in modo spettrale.
Vide le
sue gambe fasciate da abiti neri scendere lentamente le scale appena
sotto la
botola, tremò di nuovo quando si fermarono e vide il suo
busto piegarsi; prima
delle ciocche di capelli che dovevano essere biondi, poi un volto
affilato
dalle labbra sottili, e un paio di occhi dorati che la fissavano.
Quando si rimise
in posizione eretta per finire di scendere le scale la sua paura
diventò
qualcos’ altro, i tremiti che correvano su per la sua schiena
erano comunque
spiacevoli, ma erano diversi da prima, si intensificarono sempre di
più mentre
lui si avvicinava, fino a che non ci fu più abbastanza
spazio dentro il suo
corpo.
“A
quanto pare sono in ritardo per la messa.” Qualcosa dentro di
lei decise di
fare ciò che un qualsiasi umano temerebbe più
della morte; come in trance
infilò la mano in quel piccolo spazio dedicato alla pietra
mentre, voltando le
spalle all’ uomo che aveva ripreso a scendere le scale e,
ripetendosi che
quello era il suo dovere, avvicinò quel calore che ora si
ritrovava tra le mani
al viso, socchiuse la bocca, sempre più sicura di
sé e sentendola prima sulla
lingua la spinse giù; raschiò contro le pareti
della gola e trattenne le
lacrime di dolore sforzandosi di mandarla giù. Un sapore
salato simile a quello
del sangue le invase la bocca mentre un forte dolore iniziava a
bruciarla dall’
interno. Si piegò su se stessa tossendo, mentre brividi di
altro dolore le
correvano su tutto il corpo. La sua coscienza sembrò
isolarsi da tutto, l’
unica cosa a cui riusciva a pensare era quello che sentiva dentro di
sé l’
unica cosa che vedeva era il terreno
lucente di quella strana cripta, sentì a malapena che
qualcuno la prendeva
malamente per i capelli e le tirava indietro la testa.
Stava
rannicchiata per terra, con la schiena contro una di quelle fredde
colonne del
tempio, tremava nel silenzio assordante che si era creato dopo lo
sparo.
Di
nuovo, non riusciva a muoversi, aveva paura come anni prima, il
silenzio
immobile sembrava avvolgersi su di lei rendendo anche il suo corpo
parte di
quel quadro fisso e stabile. Si chiese come lo fosse venuto in mente di
tornare
dentro dopo aver sentito lo sparo, neanche avesse voluto apposta
buttarsi di
testa nei guai.
Aprì gli
occhi che non si era accorta di chiudere e davanti a lei, con la testa
lievemente piegata da un lato, c’era un corvo nero come la
notte che la
fissava, immobile. I suoi occhi erano tunnel d’ ombra e il
becco appuntito e
lucido era come una lama puntata verso di lei. Rimase immobile,
sperando che il
volatile la lasciasse perdere, ma questo sembrò innervosirsi
e si agitò
sistemandosi nelle ali, poco prima di spalancarle e gracchiare due
volte verso
di lei, come se stesse ridendo.
Poi dei
passi. Vicini.
Una
scarica di paura e adrenalina la fecero scattare in piedi, fuori da
quel
nascondiglio per niente sicuro che si era trovata, si mise a correre,
con le
suole degli stivali ancora bagnati che scivolavano sul pavimento
liscio;
sentiva lo sbattere frenetico delle ali dietro di lei, quando senza
alcun
preavviso un braccio forte e freddo le avvolse la vita facendola
strillare
appena.
______________________________________________________________________________________________________________
Appunto: il tribale là
sopra è per separare le due 'situazioni' visto che questa
storia tendenzialmente proseguirà su due strade
più o meno parallele per quanto riguarda il tempo e i gruppi dei personaggi
Grazie a recensisce, aggiunge a preferite/seguite e a tutti i lettori
silenziosi
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Capitolo 3 *** 2. Certe cose oscure ***
2. Certe cose
oscure
Con le dita come coppe di ceneri
e i capelli come tende, nude le spalle che agli occhi sei un miracolo.
Il mio.
Santo dentro, peccato d'amore il tuo verbo, avanzi sui miei sogni,
indecorosa
creatura dei cieli. Muovi sguardi, occhi come spilli. E le confessioni,
vizi di
carne consumata, riesumano il nostro atroce mosaico.
A
malapena si sentì trascinare per il lastricato fuori dal
piccolo tempio,
avvertì però il freddo della pioggia passare
attraverso i suoi vestiti già
bagnati mentre, lentamente, il bruciore ustionante dentro di lei
sembrava
attenuarsi, donandole di nuovo i sensi e la capacità di
muovere gli arti. Quel
dolore svanì gradualmente da lei mentre veniva sostituito
dalla sensazione
dell’aria fredda nei suoi polmoni e dal costante dolore che
provava all’attaccatura
dei capelli. Si mise a strillare e si agitò quando quel
dolore aumentò, divenne
quasi insopportabile, era peggio di quanto sarebbe dovuto essere in
realtà e
ora le lacrime le rigavano il viso ma venivano lavate via dalla pioggia
incessante. Ogni cosa che sentiva era amplificata in maniera assurda,
l’acqua
ghiacciata delle pozzanghere le raggiungeva le ossa, i brividi le
scuotevano il
sangue nelle vene.
Si
accorse con fin troppa lucidità di venire caricata con
malagrazia dentro alla
carrozza, la stessa in cui c’era ancora il corpo straziato di
quel mercante
riverso nel suo stesso sangue. Urlò ancora quando si
sentì tirare ancora per i
capelli ed essere spinta sopra uno dei sedili di velluto rosso, lo
stesso rosso
che ricopriva il legno sotto di lei, per quello non si sarebbe accorta
delle
macchie di sangue sul tessuto se non fosse finita con la faccia su una
di esse.
Si
rannicchiò in posizione fetale, per proteggersi da quello
che si trovava
intorno a lei; sangue, paura e il rumore incessante della pioggia che
le
rimbombava con insistenza in testa. Sentì qualcosa
stringersi sul collo, non
con troppa forza, ma sentì quel tocco con dolorosa
consapevolezza, sembravano
mille lamette che le raschiavano fin nelle ossa. Gemette e
alzò lo sguardo.
Incrociò i suoi occhi di ghiaccio e si sorprese di non
vedere né rabbia né
altro sentimento in essi, solo un’ espressione di forzata
pazienza.
“La
pietra.” Lo disse come se la persona che si trovava davanti a
lui sapesse
esattamente ciò di cui stava parlando, infatti.
Ma dalle
labbra della ragazza uscì solo un suono inarticolato. Una
mano artigliata e
scura si allungò verso di lei; una richiesta impaziente.
“Non…”
Iniziò con voce roca; con le parole che raschiavano con
forza contro le pareti
della gola.
"sai di
cosa sto parlando?” Terminò per lei sollevando le
sopracciglia. “Bene, vedremo
se durante il viaggio ti verrà qualcosa in mente.”
E chiuse la porta, il vetro
vibrò e la serratura scattò. Rimase immobile con
il cuore che batteva con forza
contro la cassa toracica, sentì i cavalli nitrire e la
carrozza iniziare a
muoversi. In quel momento temette di aver ampliamente sottovalutato la
situazione.
Aveva
paura, paura di qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere, qualsiasi cosa
lei
avesse fatto.
“Hai sempre
avuto paura.”
Sobbalzò,
sentendo quella voce poco familiare dentro la sua testa, si
rannicchiò
abbracciandosi le gambe e fissando la piccola finestra, la pioggia
continuava a
scendere e i suoi abiti erano ancora bagnati, come se si trovasse
proprio lì
fuori. Vedeva gli alberi scorrere ai lati della strada, tentando di
allontanare
il pensiero della sua casa accogliente che si allontanava sempre di
più, vedeva
quella piccola finestra come le sbarre di una prigione, quando
un’idea le si
insinuò nella testa facendola fremere.
“Puoi
farlo, rompi il vetro e sblocca la serratura, sarai libera.”
“Ma
ovviamente ha troppa paura per farlo vero? Allora lasciami il
posto.”
Si prese
la testa tra le mani, non voleva lasciare che quel mostro prendesse il
suo
corpo; già una volta era successo e da quando si era
ritrovata con un vuoto
nella testa e del sangue fresco sulle mani si era ripromessa che lei
sarebbe
stata l’unica in grado di muovere il suo stesso corpo.
Tremava, e sentiva la
propria determinazione scivolare via lentamente. Che cosa poteva fare
quando il
terrore e l’angoscia avevano in pugno il suo cuore?
“Lasciami
il posto, o morirai.”
Non
l’avrebbe fatto, era sempre riuscita a resistere e
così sarebbe stato anche
quella volta.
Ma
questa volta fu diverso, la sentì agitarsi dentro di lei,
come un forte bisogno,
come l’ ossigeno dopo un’apnea troppo lunga. Non
era più così convinta di voler
rimanere inerte ad aspettare il peggio. E per la prima volta fu lei
stessa a
decidere di lasciarle lo spazio di cui aveva bisogno; le avrebbe
prestato la sua
mente un’ altra volta.
Il suo primo
ricordo era, come
poteva esserlo per molti, quello della propria madre e del suo
abbraccio
gelido, del suo freddo corpo sopra di lei e dei corvi che le
strappavano gli
occhi.
Era iniziato tutto con un’ attacco
dei briganti, e quelli che la ritrovarono viva in mezzo a macerie e
morti
ritennero che la donna che le avesse fatto da scudo fosse sua madre.
Nonostante
la situazione in cui si trovava la bambina venne sbattuta
nell’ orfanotrofio di
una città puzzolente e umida. La vecchia che si prendeva
cura dei bambini
veniva chiamata Mary la Gentile… una bugia, una facciata per
proteggersi dalle
parole degli abitanti della città, la verità era
che non esisteva persona
peggiore di Mary; bastava un tono di voce troppo altro, un solo sguardo
per
finire chiusi nella stanza buia che era la punizione per tutti i
bambini di
quel posto. La sua era cattiveria gratuita e sosteneva che i bambini
l’
avrebbero ringraziata una volta diventati adulti, sempre che avessero
raggiunto
l’ età adulta.
La città era mefitica, tutto puzzava
di muffa, anche i panni appena lavati, le acque erano sporche e i topi
erano
più degli abitanti.
Zaara aveva capito come funzionavano
le cose lì dentro; loro non contavano nulla, erano solo
degli svaghi o degli
oggetti su cui sfogare la rabbia, a volte sembrava bastasse
semplicemente
respirare l’ aria di Mary per sentire arrivare le cinghiate o
finire per
restare chiusi per ore dentro quello sgabuzzino buio infestato dai topi.
La ragazza aveva imparato a stare al
suo posto e a provare un certo distacco per tutto ciò che le
accadeva intorno;
stava gran parte della giornata seduta sul letto con le spalle contro
il muro e
le braccia attorno alle ginocchia raccolte, i capelli biondi a coprirle
il
volto, si era stufata della realtà in cui viveva.
Tutti iniziò quando uno dei bambini
che vivevano lì era stato adottato, per sua fortuna,
perché sembrava essere
considerato da Mary il suo giocattolo preferito.
Quando il bambino lasciò la casa la
tensione divenne palpabile; a chi sarebbe toccato? Chi sarebbe
diventato il
nuovo giocattolo di quella vecchia prepotente? Zaara era quasi
tranquilla, al
contrario di quel bambino, lei non urlava né correva per
l’ orfanotrofio
facendo cadere vasi e rompendo ciò che poteva essere rotto,
era sicura che
avrebbe potuto passare altro tempo in quel suo angolino sicuro.
Aveva ancora quel leggero sorriso
tranquillo quando si sentì afferrare per il braccio da una
mano rugosa e
ossuta; sollevò la testa, mentre le sue sicurezze
crollavano, il volto della
vecchia a poca distanza dal suo.
“Che ne dici di giocare con me?” La
gola le si chiuse e le lacrime forzarono per uscire. Era delusa? Di
certo non
si aspettava nulla di buono da Mary, ma si chiese perché
fosse stato suo il
braccio quello sulla quale si era stretta la sua mano. No, non era
delusa, era
a pezzi, come un vetro rotto infranto dalla pietra lanciata da un
bambino che
lasciava entrare il gelo dell’ inverno. Stava provando per la
prima volta
qualcosa di nuovo che la faceva tremare e le faceva correre brividi su
per la
schiena, ebbra di quel sentimento venne chiusa dentro quella stanzina
buia, da
sola, lei e il suo nuovo odio.
Si riscosse quando sentì delle
zampette minute correrle velocemente su un piede; balzò
indietro andando a
sbattere contro la porta mentre uno squittio riempiva il buio di quello
sgabuzzino non più largo di un paio di metri. Il panico si
fece strada dentro
il suo corpo, lì dentro non vedeva nulla, e il battito
frenetico del suo cuore
copriva qualsiasi altro suono impedendole di capire dove fossero i topi
per
starne a debita distanza; la sua prima reazione fu quella di voltarsi e
iniziare a battere con i pugni sul legno, pregando e urlando che la
facessero
uscire, continuò fino a quando non le bruciò le
gola e non terminò tutte le
lacrime. Alla fine si lasciò scivolare a terra, le spalle
contro il legno
ruvido, inerte e quasi indifferente dal poco che le accadeva attorno.
Solo quando sentì il morso di un
topo sulla caviglia scheletrica si mosse con una freddezza e una
rapidità che
non sapeva di possedere; afferrò il piccolo corpicino,
sentendo le setole di
pelo grattarle contro la pelle e i denti affondare nella poca carne
delle dita,
sentiva i suoi deboli squittii e le sembrava quasi di poter intravedere
la sua
sagoma nelle tenebre, poi, con un movimento deciso schiacciò
contro il pavimento
la testa del topo, che si spense con un verso raccapricciante.
Passarono giorni, o almeno fu quello
che credette Zaara, prima che quella vecchia strega che aveva imparato
ad
odiare con tutta se stessa si degnasse di tirarla fuori da quel buco.
“Hai smesso presto di urlare, eh?”
La sua voce le graffiava le orecchie, ogni parola non faceva che
aumentare la
rabbia che ribolliva dentro di sé, alimentando una furia che
di umano non aveva
più nulla. La donna continuava a parlare, ma lei non
l’ ascoltava, non sentiva
più la sua voce, per lei era già morta. Tra le
dita sentiva ancora il viscido
sangue del topo che aveva ucciso, si guardò le dita sporche
di sangue secco con
distaccata freddezza e pensò che quel sangue sarebbe potuto
anche trattarsi di
quello umano.
Quando si scrollò dalla presa della
vecchia per rifugiarsi in bagno. Non la sentì rincorrerla,
era sicura di sé,
loro erano bambini nella sua casa; li avrebbe riacciuffati quando
voleva. Quando si chiuse la porta alle spalle la prima cosa che fece fu
rompere
l’ unico specchio di cui era fornito quel posto, la seconda,
fu infilzare una
di quelle schegge più e più volte nella schiena
di Mary.
La luce
della luna entrava dalle alte vetrate, andando ad illuminare le varie
carte
sparse sulla scrivania di legno scuro; una figura stava seduta
tranquillamente
sulla sedia a guardare tutte quelle lettere tentando di collegarle le
une alle
altre; nessuna sembrava dire qualcosa di realmente importane o utile e
dopo
averci passato quasi tutta la notte lui era ormai quasi del tutto certo
che
quella strada che stava tentando di crearsi non l’ avrebbe
portato da nessuna
parte, o che non fosse mai esistita, sin dall’ inizio.
Quanto
poteva essere sfiancante cercare un uomo e tenere sotto controllo
persone
problematiche? L’ unico che sembrava almeno provare a
ragionare sulle cose era
lui, con il risultato di ritrovarsi con più problemi di
quanti avesse mai
risolto e un niente di fatto. Con un gesto nervoso spazzò le
carte dalla
scrivania che caddero a terra con un dolce fruscio, era quasi
rilassante, la
paradossale idea di potersi liberare di tutti quei pesi e compiti che
non gli
spettavano. Si allungò sulla sedia, distendendo le gambe
sulla scrivania. Con
lo sguardo fisso sulle vetrate perfettamente pulite la sua mente
vagò come un
uomo disperso nel deserto, girava in tondo, tornava sui suoi passi e
calpestava
le sue stesse impronte con passi trascinati e stanchi, non sarebbe
andato da
nessuna parte, non sarebbe riuscito a risolvere nulla stando dietro a
quella
fottuta scrivania a spremersi il cervello, non era quello il suo posto.
Sospirò, cercando di cancellare tutte le cose inutili dalla
sua testa nel
tentativo di sprofondare in un nero oblio, che non tardò ad
arrivare.
Pochi
minuti dopo qualcuno bussò lievemente alla porta, non
sentendo alcuna risposta
il messaggero entrò silenziosamente nella stanza e, notando
che l’ uomo stava
dormendo, appoggiò sulla scrivania una lettera, prese il
tagliacarte e,
soppesandolo tra le mani, lo portò davanti a sé,
puntando la figura di quella
persona di che di umano non aveva nulla; l’unico occhio
rimasto nascosto dietro
la palpebra, l’altro sotto una benda nera, aveva un insolito
colore arancione
che faceva a pugni con il rosso intenso dei suoi capelli creando
un’ immagine
quasi sfuggente, come frammenti di un vetro rotto di cui era
impossibile
ricostruire la forma originale, era come se gli occhi si rifiutassero
di
soffermarsi su quel volto pallido, impedendo di carpirne la vera
natura, che
però era bellamente messa in mostra dalle orecchie a punta e
dalle corna
ritorte che le sovrastavano.
Infilzò il
tagliacarte attraverso la carta della lettera nel legno duro. Altri
avrebbero
approfittato di quel suo momento di debolezza per rubare il suo posto
con
metodi poco ortodossi, e probabilmente lui stesso sarebbe stato uno di
quelli,
ma in quel momento quel demone aveva un ruolo fondamentale da svolgere,
senza
la sua mente e senza le sue abilità loro sarebbero stati
inutili, come
burattini dai fili tagliati.
Dischiuse
l’unico occhio rimasto, osservando la lama piantata nel legno
della scrivania,
sbuffò, pensando al buco che ci avrebbe trovato. Poi
osservò la porta che si
era chiusa da poco, pensando che se il Corriere avesse osato
avvicinarsi a lui
poco di più con una potenziale arma in mano, non avrebbe
esitato a sbarazzarsi
di lui, in fondo possedeva diversi uomini veloci nella corsa,
sostituirne uno
era come schiacciare una formica per poi osservare le altre passarci
sopra con
noncuranza. Si allungò sulla sedia e senza sfilare il
tagliacarte prese la
lettera, strappandone una parte.
Dopo che
l’ ebbe letta con attenzione si permise un lieve sorriso; non
si sarebbe più
dovuto preoccupare dell’ integrità della scrivania.
Intanto
mi scuso, perché mi stavo dimenticando di aggiornare, e poi,
sì, un nuovo
personaggio che avrà un ruolo importante nella storia
è apparso, è un
personaggio cha adoro e che spero possa piacere anche a voi proseguendo
con la
storia. E la ragazza è bipolare? Più o meno,
è qualcosa di più interessante, e forse
complicato, ma lo scoprirete più avanti :D
Ringrazio,
come al solito, tutti coloro che stanno seguendo la storia e si stanno
facendo
sentire :) Grazie per i consigli e per tutto il resto!
A
presto!
PS,
magari dal prossimo capitolo vi posto i disegni dei vari personaggi, vi
va? :)
|
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Capitolo 4 *** 3. Io ho un corpo. Io sono un corpo ***
3. Io ho un corpo. Io sono
un corpo
Pudicizia frantumata. Con le
mani
artigliate ad avvolgere gli odori d'incenso. Dissacrante! Generi
contratture e
tensioni sparse, disperse, omogenee nella mappa perfetta di una
corporeità
goduta a tratti, dilaniata a passi. E le parole dimentiche d'ogni
perdono, a
colpire e maciullare, sgretolare. Livide labbra. Vino divino che scorre
dall’
intimo per il nuovo sacro.
Non si
trattava esattamente di decidere, perché sapeva benissimo
che ciò che stava per
fare era giusto; non aveva fatto niente di male questa volta, non aveva
mai
fatto nulla.
Quando
vide i contorni del campo visivo scurirsi non si preoccupò;
era stata anche lei
stessa a volerlo. Quindi quando giunse l’oblio vi si
abbandonò tranquillamente,
sapendo che almeno questa volta non aveva fatto la scelta sbagliata.
Stava seduta su
una sedia rigida e
scomoda, con le braccia attorno alle ginocchia raccolte, il mento
appoggiato su
di esse. Si stingeva le mani, passando da un dito all’altro;
sì il rosso che la
sensazione del sangue viscido sulla propria pelle era svanito, ma non
ricordava
ciò che era successo; quando era riemersa nel nero si era
ritrovata sdraiata a
terra, con le mani e i vestiti sporchi si sangue non suo, se non per il
poco
che colava da un taglio sul palmo della mano. Era riuscita a
ricollegare quella
ferita alla scheggia di vetro lasciata a terra, nient’ altro.
Era spaesata e
confusa, le guardie della città urlavano, le stringevano il
braccio con forza e
tutto quello a cui era riuscita a pensare era che il giorno dopo si
sarebbe
ritrovata dei lividi. In quel turbinio di persone ed eventi non
riusciva a
distinguere nulla, se non il viola scuro di tuniche che si riversavano
nell’ orfanotrofio
e, allontanando le guardie con parole che non riusciva a comprendere,
la
sollevarono da terra con estrema delicatezza.
“L’ ha uccisa!” Nonostante non
vedesse più le guardie, le loro voci le rimasero impresse in
testa, eppure
ancora non capiva; la sua mente si rifiutava di collegare quei
frammenti di
consapevolezza. Le tuniche la avvolsero in un abbraccio protettivo e
nella
confusione la accompagnarono fuori, lungo il lastricato nero che
conduceva al
tempio. Mentre dietro di loro il vociare di guardie adirate e di quelle
persone
fasciate da cappe scure continuava imperterrito.
“Ci prenderemo cura noi di lei.”
Era
sempre stata una lotta interna; le poche volte che si era ritrovata
risucchiata
in se stessa, era una feroce battaglia per riavere il controllo dei
muscoli,
dei tendini, del proprio corpo. Questa volta li sentì
abbandonarla, come fili
molli che scivolavano sotto la sua pelle, mentre iniziava a galleggiare
tranquillamente nella pece.
Stava rannicchiata sulla sedia, con
le ginocchia strette al petto e le braccia a cingerle con forza;
davanti a lui
una scrivania e un uomo seduto su di essa, fasciato in una tunica
viola. Non
osava alzare lo sguardo dalle proprie mani ancora sporche,
perché lentamente,
quella parte di sé che aveva gioito nel farlo iniziava a
svanire, lasciando
nella sua mente un buco che si andava colmando di paura e confusione. E
la
presenza di quell’ uomo davanti a sé, nonostante
non sembrasse ostile, la
metteva a disagio.
“Zaara.” La bambina sobbalzò nel
sentirlo pronunciare il suo nome, stringendosi ancora di più
nel suo stesso
abbraccio. “Ora ti spiegherò un po’ di
cose, va bene?”
Dolore.
Pelle
che bruciava, sangue che scorreva e polmoni in fiamme che sembravano
prendere
il primo vero respiro dopo troppo tempo. Ma non respirava, non riusciva
a dare
aria al corpo che sembrava sul punto di frantumarsi e rompersi in mille
pezzi,
e così che lentamente iniziò ad avvertire il
proprio corpo nuovamente come suo,
a riaverlo.
“Ora
ti spiegherò un po’ di cose, va
bene?”
Doveva sapere,
le avevano detto.
Doveva avere coscienza del suo corpo e di ciò che si celava
dentro di lei. Si
chiese perché quelle cose non gliele avesse mai dette
nessuno; non sapeva
perché sua madre era umana e suo padre no, non sapeva che la
prole di due razze
differenti aveva sempre dato alla luce neonati morti. Non sapeva
perché lei era
viva così come non sapeva, ne si curava, del
perché o del come si facesse a
respirare.
Ma le avevano detto che lei era
unica, che nonostante la natura umana e quella demoniaca di solito non
potessero convivere, nel suo corpo doveva esserci una condizione adatta
per
ospitarle entrambe. Separate, ma profondamente unite.
La prima
cosa che vide fu una nube nera e uniforme, dai bordi densi come catrame
e il
centro che si schiariva sempre di più gli permise di mettere
a fuoco ciò che si
trovava davanti ai suoi occhi. Ma prima ancora di riuscire a capire
ciò che
stava accadendo percepì una fastidiosa e fredda pressione
alla gola e la
consapevolezza che l’ aria che giungeva ai polmoni non era
abbastanza per
permetterle di restare cosciente a lungo. Non sentiva terreno sotto ai
piedi ma
fu stranamente consapevole delle minuscole stilettate gelide inferte
dalla
pioggia scrosciante.
Un volto
liscio e pallido si delineò davanti ai suoi occhi,
più vicino di quanto avesse
desiderato, gli occhi dorati gelidi e attenti che scrutavano il suo
volto. La
sottile maglia nera era strappata in più punti e lasciava
intravedere brutte
ferite, profonde e scure, una delle quali gli attraversava il collo
mettendo in
mostra buona parte della laringe, in quegli istanti di confusione
riuscì a
chiedersi come quell’ uomo potesse essere ancora in piedi,
vivo.
La
guardava con le labbra socchiuse da cui emetteva brevi fischi,
probabilmente
non sarebbe riuscito a parlare per via delle profonde lacerazioni per
qualche
minuto, forse di più.
Le
ragazza gemette quando vide entrare nel proprio campo visivo un altro
uomo, che
doveva trattarsi del cocchiere, prima di venire avvolta dall’
oscurità, aveva
freddo. Si sentiva morire e poco prima di crollare si chiese
perché quella
volta fosse stato così diverso e doloroso.
“State
bene?” Non ottenne risposta, solo uno
sguardo gelido da parte del biondo e poco dopo un cenno del capo che lo
incitò
a muoversi, a legare la ragazza con nodi che non riusciva a vedere.
Continuò a
fissarlo, aspettandosi una risposta, una conferma. Il cocchiere
sollevò le
sopracciglia, constatando di preferirlo di gran lunga ora che non era
in grado
di parlare.
“L’ha
lei, ne sono certo.” Rispose con un sorriso storto.
Quello
che sembrava un sospiro breve e pensante uscì dalle sue
labbra; una scomoda
contrazione dei muscoli sotto la pelle lacerata, Ash, il cocchiere,
riuscì a
interpretarlo come un ‘bene’.
Quindi
caricò la ragazza che l’altro aveva appena
lasciato cadere a terra, rigida e
piegata su se stessa, tremante. Si rabbuiò pensando che la
ragazza si trovava
in quelle condizioni a causa del’ altro, era forte,
indubbiamente, aveva un
potere che gli faceva venire i brividi.
Si
sarebbe sbarazzato di lui il prima possibile.
“Lasciami!”
Tentò di divincolarsi per scappare ancora, inutilmente
perché la stretta
attorno alla sua vita era ora una morsa dura come la pietra. Il corvo
le volava
attorno gracchiando con insistenza. Sentì il cacciatore
dietro di sé muoversi
lievemente e vide davanti a sé il suo braccio teso che
impugnava la pistola che
aveva usato per uccidere il sacerdote puntarsi verso quell’
uccello, notò
appena un paio di gocce di sangue rappreso sulla canna.
Lo sparo
le fece fischiare le orecchie e sobbalzò quando il corvo
cadde a terra, in un
mucchio scomposto di nero e piume; eppure si agitava a ancora, tentando
di
rimettersi sulle zampe, continuando a gracchiare, seppur più
debolmente.
“Impossibile
farti stare zitto vero?” Si issò la ragazza sulle
spalle come se non pesasse
niente e non si stesse dimenando urlando. Con grande sorpresa della
ragazza il
corvo riprese a svolazzare tranquillamente intorno a loro, questa volta
però
senza gracchiare.
“Dovrei
ucciderti.” Quelle parole uscirono dalle sue labbra
accompagnate da un sospiro
stanco. Anche se non vedeva dove stessero andando iniziava a sentire
sulla
pelle l’umidità e il freddo della pioggia
provenienti dalla porta lasciata
aperta.
“No, ti
prego, ho delle informazione sulla persona che stai
cercando.” Probabilmente
l’avrebbe detto anche se non fosse stato vero,
perché l’idea di morire la
terrorizzava.
Appena
si accorse delle gocce di poggia che come aghi le passavano attraverso
la
stoffa leggere degli abiti di ritrovò con il sedere dentro
una pozzanghera.
“Se mi
stai prendendo in giro, giuro che ti ammazzo.” I suoi occhi
la fissavano da
sotto il cappuccio scuro, e così faceva anche quella spilla
gialla dallo strano
sorriso. Ne era certa anche lei.
Probabilmente
si aspettava una risposta, perché dopo qualche istante di
mutismo lui si chinò
così da avere il suo volto all’ altezza degli
occhi.
Verdi,
cosi strani che Eris ne rimase turbata per qualche attimo,
ciò che le fece
correre lunghi brividi sulla pelle furono i segni chiari della
cicatrice atrofica
che deturpava metà del suo volto, certo, l’ aveva
già notata prima, ma ora
vedeva chiaramente e riusciva a notare tutti i macabri dettagli; le
pieghe
complesse che prendeva il tessuto fibroso e il colorito ancora
più pallido
della pelle.
“Senti,
ora è il caso di allontanarci da qui, non ti
ucciderò, a meno che tu non tenta
di fare qualcosa di stupido come mentirmi o cercare di
uccidermi.” La
ragazza rimase in silenzio; tutti i
muscoli irrigiditi. Lei, congelata tra sorpresa e spavento non rispose.
“Ora
dimmi, chi ti manda?” Era probabile, ragionò il
cacciatore, che si trattasse di
una qualche spia inesperta non ancora a conoscenza del fatto che
l’uomo che si
trovava davanti in quel momento aveva probabilmente ucciso il suo
padrone. Aveva
svolto molti di quei lavori, premurandosi di eliminare tutti quei
possibili
ostacoli.
“N…
Nessuno.” Un angolo della sua bocca scattò, forse
un mezzo sorriso, più
probabilmente un riflesso creato dall’irritazione. Poi uno
suono deciso, a lei
sconosciuto, e la canna della pistola a fissarla come un’
orbita vuota.
Panico. “Ehi,
sono sincera! Io vivo da
sola e vengo qui ogni giorno, non conosco quasi nessuno e se vuoi
sapere qual’
è il mio lavoro… beh, sto al tempio e mi occupo
di piccole cose.” Il suo corpo
venne percorso da un tremore mentre l’ altro abbassava
lentamente la pistola,
decidendo di concederle un minimo di fiducia, in fondo non aveva mai
conosciuto
una spia così inesperta e goffa.
“Come
conosci l’Annullatore?” Il suo tono era piatto,
pieno di una pazienza invidiabile.
“Veiler.”
Annuisce e lui quasi si sorprese nel ricevere una risposta immediata.
“È una
storia un po’ lunga, quindi vorrei andare all’
asciutto.” Lui storse la bocca
guardandosi un attimo in torno. Neanche a lui andava molto a genio
restare
all’aperto.
“Ovviamente.”
Già da
prima che il cacciatore la afferrasse per il gomito e la tirasse su
iniziando a
trascinarsela dietro la sua mente già vagava, veloce, nel
tentativo di mettere
insieme le poche cose che sapeva e le poche idee che le erano balenate
in
mente; avrebbe fatto il possibile, si disse, per restare viva e per poi
tirarsi
fuori da quella situazione. Osservò la schiena del
cacciatore notando per la
prima volta cinture, foderi e fondine nascoste, piccole gocce di sudore
si
mescolarono alla pioggia mentre il timore le avvolgeva il cuore, di
nuovo.
Tentò di calmarsi, dicendosi che non aveva motivo di
ucciderla, almeno finché
non gli avesse detto ciò che sapeva. Ma cosa sapeva lei?
Potevano davvero
tornare utili piccoli episodi del passato suo e di sua sorella? Di quel
soldato
ferito che si era rivelato essere un mostro? Lo farà
bastare, per la sua vita e
per il cacciatore, si disse.
Ma aveva
una gran paura, inutile tentare di negarlo, aveva paura di morire, di
essere
già morta. Quindi rinunciò definitivamente
all’autoconservazione.
“Che
fine ha fatto il sacerdote?” Temeva la risposta, anche se era
certa di
conoscerla già. Ciò che le sfuggiva era
tutt’altro.
“Morto.”
“Perché?”
“Dovresti
fare attenzione a quello che chiedi, non sempre si ottiene la risposta
che si
vuole.”
“Bene
allora; dove stiamo andando?” Chiese timorosa, con un sospiro
tremante.
L’ altro
rimase un attimo in silenzio, seppur continuando a camminare verso i
vicoli più
stretti, prima di rispondere in tono calmo.
“All’asciutto.”
Ovvio.
Dopo
aver girovagato per i vicoli di quella città silente
giunsero ad una locanda
schiacciata tra due case, Eris aveva ormai perso il senso
dell’ orientamento e
sopportava passivamente la presa, forse un po’ troppo forte,
del cacciatore sul
suo braccio.
L’
adrenalina era scemata e si sentiva incredibilmente spossata,
l’ unica cosa a
cui riusciva a pensare era al letto caldo delle stanze superiori,
mentre
ignorava totalmente il fatto di trovarsi in compagnia di un cacciatore
che
aveva fatto esplodere la testa ad un sacerdote e al suo corvo che ogni
tanto si
posava sulla sua spalla e altre volte sembrava sparire nel cielo grigio.
E infine
si sentiva bagnata, bagnata fino alle ossa da quella pioggia che,
più del
freddo, le faceva correre orrendi brividi lungo la schiena. Quasi le si
chiudevano gli occhi, e di certo le ciocche bagnate di capelli che le
scivolavano in faccia non l’ aiutavano a restare
più vigile.
Quindi
quando salirono in stanza notò appena che vi era un solo
letto e vi si buttò
sopra, ignorando il fastidio degli abiti bagnati e sospirando di
piacere, poco
importava se si sarebbe svegliata con il naso gocciolante.
“Che
stai facendo?” Sollevò la testa incrociando lo
sguardo del cacciatore nella
penombra della stanza e osservandolo che se non dovesse trovarsi
lì.
“Non è
evidente?” Rispose lei scocciata.
“Hai
delle informazioni da darmi e non siamo qui per riposare.”
Quello spiegava il
letto singolo, ma non perché il cacciatore avesse di nuovo
in mano la pistola,
o forse si. La ragazza sbuffò, mettendosi seduta e
rimpiangendo subito la
morbidezza del letto e raccolse un attimo le idee sentendo chiaramente
lo
scroscio umido e insistente della pioggia contro le pareti e le
finestre dalle
tende accuratamente tirate.
“Innanzitutto
vorrei sapere il tuo nome.” Fece lei, beccandosi
un’ occhiata gelida e niente
più. Vide poi un piccola fiammella illuminare il volto
sfregiato del cacciatore
per poi affievolirsi e rimanere un flebile bagliore a poca distanza
dalle sue
labbra, il grosso corvo che la ragazza non aveva notato, stava ora
appollaiato
sulla sua spalla, perfettamente immobile.
“Raven.”
“Eris.”
Vi ho
fatto aspettare lo so, ma l’ispirazione va a intermittenza,
spero comunque che
questo capitolo vi piaccia, io sono abbastanza soddisfatta della prima
parte,
la seconda un po’ meno, purtroppo una situazione del genere
è necessaria, per
non farvi procedere con la storia senza capire, visto che ho voluto
evitare le
enormi spiegazioni iniziali. Informazioni in pillole, ecco :)
Qui
sotto vi posto un mio disegno di come mi immagino il tipetto biondo con
le braccia
strane, e, uhm... senza maglia nel disegno ._. (niente digitale per me,
solo matita e foglio ^^)
Ancora
grazie a tutti quelli che stanno seguendo e che mostrano interesse,
grazie
anche ai lettori silenziosi.
Ricordatevi
che le recensioni aumentano l’autostima dell’autore
:)
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Capitolo 5 *** 4. L'ostilità dei sogni ***
4.L’ostilità
dei sogni
Bevi il mio spirito a
lunghi sorsi, fanne
vangelo e dettane le condizioni eterne che destano il tuo paradiso
sporco, ché
i segni del dolore li abbiamo ancora addosso. Scomponimi sul tuo altare.
Erano
anni felici e loro,
insieme, non vivevano male.
Lei, ancora piccola a gironzolare
per la casa e sua sorella maggiore, bellissima, a lavorare al tempio
della
città che in quel periodo accoglieva i feriti di guerra.
Erano andate avanti
così per molto, risparmiando su ogni cosa, perché
la guerra si portava via
tutto, e le città erano sempre più vuote.
Zaphiria lavorava moltissimo, passava
intere giornate al tempio, mentre la minore stava a occuparsi della
casa, in
attesa del rientro della sorella che sotto gli occhi portava i segni
sempre più
pesanti del duro lavoro che faceva e degli orrori che si premurava di
curare,
non sapeva cosa lei vedesse, non sapeva quanto la sorella piangeva
quando non
riusciva a salvare una vita. Ma la minore aveva un grande intuito,
allora lei
la prendeva tra le braccia e stando sotto le coperte ascoltavano il
proprio
respiro, stanco e pensate, ma non più triste.
Perché loro due insieme avevano
speranza.
I giorni, le settimane e i mesi si
trascinavano avanti tutti uguali, l’unica cosa che cambiava
era il volto di
Zaphiria, sempre più pallido e tirato, il cuore sempre
più pesante e meno vivo.
Il lavoro la consumava ed Eris non sapeva cosa fare, non sapeva come
far
tornare a letto la sorella né come scacciare gli incubi che
anche da sveglia le
annebbiavano la vista.
Eppure prima ancora che la minore
potesse ideare qualcosa Zaphiria tornò a sorridere, seppur
lentamente, ogni
giorno il suo volto pallido era un po' più sereno del
precedente. Tornò tutto
come all’inizio; sorridevano entrambe e il lavoro non
sembrava neanche più
tanto pensate. Eris non sapeva cosa fosse accaduto e quasi non le
importava, le
bastava che sua sorella fosse felice.
Eris ricordava benissimo il
giorno in cui, con un lieve sorriso sulle labbra, la sorella
l’aveva svegliata
e le aveva chiesto se volesse aiutarla al tempio. Lei non aveva
risposto
subito, era rimasta un attimo a pensare, titubante, se fosse il caso.
Certo, la
guerra era finita, e quello era indubbiamente un bene, come lo era che
loro
fossero riuscite a cavarsela in quella piccola casetta di quella
piccola città
ormai quasi del tutto deserta, quindi al tempio erano rimasti gli
ultimi feriti
o quelli particolarmente gravi ricoverati già da tempo.
Niente di terribile in
fondo, di disse la minore, perché no?
Quella mattina Eris scoprì il
motivo dietro ai nuovi sorrisi di sua sorella.
Non si poteva di
certo dire che quello fosse un
ambiente piacevole, con l’aria pesante e colpi di tosse che
rimbombavano nello
spazio vuoto. Il tempio era stato chiuso apposta per accogliere i
feriti quindi
dalle vetrate colorate filtrava una tenue luce, che andava mescolarsi con il lieve
bagliore delle
candele, e nient’altro. No, non era affatto un
bell’ambiente, con quelle ombre
profonde e grevi, eppure come sua sorella vi entrò un nuovo
sorriso si dipinse
sul suo volto e sembrò quasi che una nuova luce illuminasse
quel posto.
Eris vedeva come sua sorella
lavorava; occupandosi di chiunque, da quelli che ancora non riuscivano
a stare
in piedi a quelli che riuscivano già a restare fermi in
ginocchio, a donare
preghiere e ringraziare quella divinità che per quella volta
era stata clemente
con loro.
Eris vedeva sua sorella fermarsi
spesso in un punto preciso, accucciarsi e restare a parlare con una
persona in
particolare, vedeva quell’uomo sdraiato su una spessa
coperta, con le braccia
fasciate e altre varie bende, il volto pallido più di quello
di sua sorella,
occhi e capelli come oro sporco. Vedeva lo stesso sorriso di sua
sorella
riflettersi sul suo volto e le loro mani strette insieme, a farsi forza
a
vicenda, nonostante Eris lo notasse benissimo, che in due, di forza, ne
avevano
ben poca.
Si chiese quanto sarebbe durato,
quel periodo dolceamaro di cure al tempio, di visite e di sentimenti
che lei
ancora non era in grado di comprendere fino in fondo, si chiese se
quell’uomo
sarebbe andate a trovarle alla loro umile casa, ad aiutarle e a far
sorridere
ancora sua sorella, oppure se sarebbero dovute andare loro a trovare
lui,
sepolto qualche metro sotto terra, perché la vedeva
chiaramente, la debolezza
che gli annebbiava la vista, il fiato grosso che gli gonfiava il torace
e le
bende che si riempivano di macchie rosse per ogni minimo movimento.
Ma mai avrebbe immaginato come
sarebbe andata a finire.
Quando sua sorella si voltò vero
di lei con il più bel sorriso che le avesse mai visto
addosso si disse che non
le importava, che quel giorno andava bene così, calmo e
sereno come non mai,
decise che quel giorno non si sarebbe preoccupata e avrebbe sorriso
anche lei.
Quel giorno, dopo mesi di sole
cocente, pioveva.
“Spiegami
come tutto questo possa tornarmi
utile.” La ragazza rimase un attimo interdetta nel sentire la
voce scocciata
del cacciatore e il gracchiare ritmico del corvo che sembrava ridere di
lei.
“Non lo so come possa tornarti
utile, cosa ne so io? Ti sto solo raccontando tutto quello che so, e
ringraziami che sto cercando di non tralasciare nulla.” Raven
sospirò
attendendo che la ragazza riprese a parlare, quando dei suoni al piano
di sotto
attirarono la sua attenzione; un urlo soffocato, qualche tonfo, poi
nulla, se
non dei passi lievissimi.
“Cosa…?” Zittì la ragazza
prima
che potesse dire una sola parola prima di impugnare saldamente la
pistola,
avvicinarsi alla porta e aprirla con cautela per guardare nel corridoio
in
penombra. L’ uccello aveva abbassato il capo, attento a
qualsiasi cosa.
Un altro respiro pensante uscì
dalle sue labbra e alla ragazza sembrò assurdo vederlo
rilassarsi e tornare a
sedersi dove si trovava prima, lasciando lo porta aperta. Poi
sentì i passi,
lievi e misurati, prima di veder la sagoma poco delineata di quello che
doveva
essere un uomo apparire nel rettangolo d’ombra della porta.
“Perché ci hai messo tanto?”
“È difficile non farsi notare in
città come queste, dovresti essertene accorto anche
tu.” Il cacciatore sospirò,
come dargli torto? Non passava di certo inosservato un uomo dai capelli
rossi
con un paio di corna ritorte. Per loro passare inosservati era
fondamentale, e
in quello erano sempre stati molto meticolosi, non a caso erano in
molti a non
conoscere la loro organizzazione, sempre che così si potesse
chiamare.
“Ti vedo stanco…” Il demone
spostò lo sguardo lucente sulla ragazza, sorridendo e
mostrando appena i denti
affilati. “ma in compagnia.” Solo in quel momento
lei notò la benda scura che
copriva l’occhio sinistro.
“Non correre a conclusioni
affrettate, ha delle informazioni.”
“Utili?” Il suo volto si
illuminò; era stato per così tanto dietro a
quella scrivania che qualsiasi cosa
anche vagamente interessante gli sembrava una boccata d’aria
fresca.
“Affatto, visto come stiamo
procedendo.”
“Ehi!” Esclamò la ragazza
nonostante il timore causatole dai
loro
discorsi e in parte anche dall’ aspetto del nuovo arrivato.
“Immagino vorrai farla fuori,
dopo.”
“Ovviamente.”
“Lo sai come la penso riguardo
queste cose.” Sorrise, spostando nuovamente lo sguardo sulla
ragazza che
rabbrividì, non per la prima volta si pentì
amaramente della situazione in cui
si era cacciata, quindi, con molta chiarezza e calma, iniziò
a pensare, a
ragionare come era solita fare.
“Fin troppo bene.” Sentì lo
scatto della pistola, un proiettile in canna? L’adrenalina e
la paura la
invasero, spingendo i suoi muscoli a compiere uno scatto improvviso e
doloroso
verso l’unica via d’uscita più o meno
libera. Non avrebbe fatto in tempo a
raggiungere la finestra, lo sapeva benissimo, ma contava sul fattore
sorpresa e
al diavolo i ragionamenti, si sarebbe anche lanciata fuori se una morsa
dura
come la pietra non l’avesse bloccata a metà
strada, di nuovo.
“Cosa ti avevo detto?” Sentì il
suo fiato sul volto e le sembrò che la Morte le sussurrasse
all’orecchio. Tremò
quando sentì la canna della pistola premere contro la sua
tempia, il fiato
bloccato in gola.
In quello scatto il corvo si era
sollevato dalla sua spalla e si era posato sul tavolo in fondo alla
stanza,
graffiando con gli artigli il legno tenero.
“Cosa ti avevo detto io
piuttosto, Raven, riguardo chi ha delle informazioni?” Nella
voce dell’ altro
non c’era più la leggerezza che aveva avvertito
pochi minuti prima.
“Lo sai come la penso riguardo
queste cose.” Rabbia trattenuta, nel tremore delle mani e nel
tono di voce che
sarebbe dovuto essere un po’ meno rigido.
“Hm, non ti vedo in forma.”
Indubbiamente non aveva un bel colorito e il tremore delle mani
difficilmente
lo abbandonava, in fondo era umano, lui,
al contrario dell’ altro, che a malapena avvertiva la fatica.
Lasciò il bacino della ragazza
senza preavviso e questa crollò in ginocchio con il fiato
grosso.
“È giorni che non mangio, mi hai
dato un lavoro difficile.” E non aveva più chiuso
occhio da quando tutte le sue
ricerche si erano rivelate quasi del tutto inutili.
“È vero, ed è per questo che mi
hai fatto recapitare quella lettera?” Rimase qualche istante
in silenzio, in
cui meditò se fosse il caso di mostrare la sua gratitudine
per quel fatto, poi
lasciò stare. “A quanto pare abbiamo parecchie
informazioni da condividere
qui.” Il corvo gracchiò debolmente andando a
posarsi sulla spalla dell’ ultimo
arrivato e fissando la ragazza di traverso con occhi che sembravano
perle nere.
Quanti occhi aveva addosso? Il
rosso osservava il corvo sulla sua spalla con espressione assorta,
quasi stesse
intraprendendo una conversazione mentale con l’animale,
mentre il cacciatore
non staccava gli occhi di dosso alla ragazza, così come non
mollava la presa
dalla pistola.
Un
giorno era stato profondamente
diverso dagli altri; si era svegliata sentendo sua sorella canticchiare
dalla
cucina. Si era alzata dal letto come in sogno, il sole mattutino che
colorava
di tinte calde la sua misera stanza, e si era diretta in punta di piedi
verso
la cucina, timorosa di infrangere quello che le sembrava un
fragilissimo sogno.
Allora sua sorella si era
voltata, l’aveva vista e, smettendo di cantare e con un
radioso sorriso, le
aveva fatto cenno di avvicinarsi.
Le aveva raccontato degli ultimi
giorni al tempio, di come quasi tutti stessero meglio e le fossero
grati, di
come cercassero di dare una mano con il poco che era loro rimasto, poi
parlava
di lui, che ancora stava male e non
si reggeva in piedi ma che era felice quanto lei. Che aveva speranza
quanto
loro. Le disse che prima o poi sarebbe andato da loro a dare una mano.
La minore non sapeva, nonostante
osservasse e capisse al volo, il motivo di tanta felicità;
le cose non erano
cambiate dalla situazione in cui si trovavano prima, non per Eris
almeno.
Eppure, come negarlo? Si sentiva incredibilmente bene vedendo sua
sorella
sorridere come mai prima, mentre sperimentava un sentimento tanto forte
da
rivelarsi distruttivo.
La minore provava qualcosa di
simile, una felicità e una gioia di vivere che non credeva
potesse mai provare,
non di certo paragonabile a ciò che sentiva la maggiore, ma
pur sempre qualcosa
di fantastico.
Avrebbe potuto troncare la storia
lì, con uno strano lieto fine, perché era certa
che il segreto fosse far calare
il sipario al momento giusto. Perché allora non lo sapeva,
che dopo la felicità
si guasta sempre tutto.
Perché lui era stato il suo
sorriso e indirettamente anche quello della minore, era stato il suo
ossigeno,
senza il quale Zaphiria non sarebbe riuscita a vivere, era stato la
prospettiva
di una vita serena, in cui la guerra sarebbe stata solo nelle cicatrici
e nei
lontani ricordi. Lui era stato tutto, anche la sua morte.
“Cosa
è
successo?” Cercava di scacciare la confusione, di rendere
più chiara la sua
mente e capire perché questa volta si fosse sentita
così male, così persa dopo
essere tornata se stessa.
“Mi hai chiamato, finalmente.” Lei?
Sì.
Era stata lei a deciderlo questa volta, ma cos’altro
c’era? Perché prima di
allora non aveva mai sentito la sua voce, se non mentre veniva
inghiottita in
quell’oblio di buio e ricordi sparsi? Cosa c’era di
più?
Tremava
e sentiva tutti i suoi muscoli fremere. Dolore; gridava la sua mente.
Uno
strato si semicoscienza si era posata sui suoi occhi, trascinandola in
un oblio
in cui era tutto ovattato, in cui lo scorrere della vita non esisteva.
Sentiva
un pianto sommesso, forse il suo, di certo, si disse, perché
sentiva il volto
umido, il prurito della pelle delle gote sotto quel liquido rosso.
Rosso?
La mente
era fiacca, ricordava a malapena, anzi, non ricordava, forse non voleva
ricordare.
Si
chiuse in se stessa, in quel nero che la avvolgeva e si
passò le mani sul
volto.
Altro
dolore; le unghie affilate che grattavano sul sangue rappreso sul suo
volto.
Allontanò le mani, non erano le sue, si disse, non potevano
esserlo. Le sue non
potevano essere macchiate di un rosso che non si poteva lavare, non
potevano
avere unghie come artigli affilati.
“Uccidere.”
“…”
“Tu
hai ucciso, sai che significa uccidere?”
“Io ho
ucciso?” Si guardò le mani, identiche a prima,
imbrattate di sangue. Sangue che
scendeva fino all’ avambraccio, fino al gomito e gocciolava
su un pavimento.
Molle. Vuoto. Nero. “No.”
“Ma
tu volevi uccidere.”
“Volevo?”
Si sentì sprofondare nel fango. No, non era fango, era
più caldo, più rosso.
Altro sangue. “No.”
“Allora
dimmi, credi ci abbiano ucciso?” Si sentiva soffocare;
sangue, confusione.
“Ci
hanno ucciso?” Nuotava, affogava nel sangue.
“Si.”
“E hai paura?”
“Si, ho
paura.”
“Ma ci hanno ucciso, i morti non hanno
paura.” Si sentiva sprofondare, il rosso era sangue suo.
“Eppure hai paura.” Si
sentiva viva e morta allo stesso tempo. Era
questo? Era morta? Non poteva essere morta. Sentiva la carne viva
rigettare linfa vitale nella pozza in cui era immersa. Sentiva l'odore,
la
consistenza, sentiva che veniva svuotata di ogni sua energia.
“Non
ti piace questa sensazione vero?”
“No, non mi piace.”
“Cosa
ti hanno fatto Zaara? Cosa ci hanno
fatto?” Lentamente uno strato di lucidità la
invase, lievissimo.
“Cosa hai
fatto?”
“…”
Silenzio. “Cosa ci hanno fatto?
Chi siamo? Cosa vogliono da noi?”
“Noi?”
“Vogliono
sangue, tanto. Perché sono umani. E gli umani vogliono il
sangue.”
“Anche io sono umana.”
“No.” Zaara abbassò lo
sguardo, sul mare denso e caldo che spandeva
quell'odore metallico e pressante, nauseabondo.
“Chi
sono io, Zaara?”
“...
chi sei, tu?”
“Morrigan
è il mio nome.”
“Morrigan.”
“Io
sono come te.”
“Sei
come me.”
“Io
sono te.”
“Me?
Chi sei tu?”
“Ti
conosco. Meglio di chiunque altro.”
“Meglio
di me?”
“Perché
sono dentro
di te.”
“Dentro...
di me?”
“Ti
piacciono le prigioni, Zaara?”
“No...”
“Nemmeno
a me. Chi sono?”
“Morrigan.”
“Morrigan
è il mio nome. Ricordatelo, Zaara.”
Aprì gli occhi, perle azzurre senza macchie
nere, porte limpide per la sua mente ora più lucida, ora
più spaventata.
Viva.
Ritardo
mostruoso!
Ma
hey, almeno ora conosciamo, più o meno, l’Altra e tenetela bene in
considerazione
perché non renderà affatto
la vita più facile al resto dei personaggi.
E
i tasselli iniziano a posizionarsi, scommetto che qualcuna/o di
voi abbia già intuito qualcosa, o almeno che si sia fatto le
dovute seghe
mentali. Qualche teoria da espormi? :D
E
boh, basta direi, sono contenta però di questo capitolo :)
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Capitolo 6 *** 5. Morrigan. La bestia parla ***
5.
Morrigan. La bestia parla
Demone
caduto con gli occhi che fendono l'ultima mia
essenza umana, con l'assenza disumana della pretesa. Voglia vermiglia e
nera
colpa, un nuovo buio che crei. Con la coda di topo in trappola tra le
feritoie
delle tue mani che si dischiudono a brandirmi e percuotermi la
coscienza senza
criterio. Abbeverami alla fonte battesimale.
“Beh,
tutto questo è piuttosto interessante.”
“È
inutile. Come può aiutarci sapere ciò che
è accaduto mesi fa a trovarlo adesso?”
“Ti
sfugge il punto Raven.” Il demone si allontanò
dalla finestra, dopo essersi
assicurato che non ci fossero presenze sgradevoli. “Le
informazioni, di
qualsiasi tipo, possono rivelarsi un’ arma.”
Andò invece ad appoggiarsi allo
schienale di una sedia dall’ aspetto scomodo. “Cosa
abbiamo scoperto da questa
piacevole storiella? Innanzitutto che Veiler era umano,
l’avresti mai detto? Io
no. Poi possiamo presupporre che la ragazzina qui presente non ci stia
dicendo
tutto e che possegga altre informazioni, utili o meno, ma comunque
altre
potenziali armi.” Dicendo questo spostò lo sguardo
sulla ragazza che
rabbrividì, tentando di non darlo a vedere, mentre sul volto
del rosso si
allungava uno strano sorriso.
“Stai
prendendo questa storia troppo sul serio.” Ancora sorridendo
il demone spostò
lo sguardo sul Cacciatore, poi sul corvo, che come attirato dal suo
sguardo si
sollevò in volo e si posò su uno dei suoi corni.
“Continua
a pensarla come vuoi, ma finché sarai un Cacciatore dovrai
fare quello che ti
dico io.” Sentendo queste parole Raven non riuscì
a fare a meno di lanciargli
un’occhiataccia, alla quale però il demone rispose
con un sorriso. “Quindi non
pensare che solo perché ti abbia lasciato più
libertà per questa missione tu
possa comportarti in maniera sconsiderata.”
“Non è
di questo che stiamo parlando.” Nella sua voce
c’era una nota di rabbia
trattenuta.
“Hai
ragione, ma non c’è altro da dire,
quindi...”
“Non
sono il tuo burattino.” Levò i suoi occhi sul
demone, mentre la rabbia iniziava
a montargli dentro.
“Ah,
davvero? Eppure lo sei sempre strato e ancora adesso non stai dando
segno di
non voler seguir i miei ordini, o sbaglio?” Mise le mani ai
fianchi,
avvicinandosi di un passo al Cacciatore che si era appena alzato.
“Ordini?”
“Esattamente,
sai bene chi comanda.”
“Ah, è
così quindi? Non si tratta più di un dare per
avere, di aiuti reciproci?”
“Esatto,
non si tratta più di questo perché dobbiamo
muoverci, e il tuo piagnucolare non
ci aiuta. E se credi che ci sia qualcuno libero di fare ciò
che vuole beh, ti
sbagli, quindi rassegnati ragazzino.” La sua voce era
diventata un ringhio, una
miscela di rabbia e frustrazione, forse impazienza, che gli faceva
brillare gli
occhi di una luce sinistra.
“Ti sfugge
il punto Valentine. Io sono un’eccezione.” Sul
volto del demone si dipinse una
nuova espressione. No, non l’aveva dimenticato, semplicemente
gli aveva dato
poca importanza. Il fatto che su di lui il destino faceva presa, quel
caso che
lo rendeva libero come un corvo nel cielo grigio, libero di scegliere
su quale
lapide posarsi e di banchettare con ciò che desiderava.
Quindi
in pochi istanti lo vide impugnare la pistola e puntarla verso la
ragazza che
era rimastra tremante sul letto. Con la rapidità che
apparteneva solo ai demoni
Valentine si lanciò contro la traiettoria del proiettile, ma
quando sparò non
avvertì il dolore lacerare la sua carne, si rese vagamente
conto del corvo che
scontrava il suo ventre, lasciando una macchia di sangue sul suo
cappotto prima
di finire a terra.
Un lieve
sollievo distese le sue labbra e istintivamente voltò la
testa verso la ragazza
che alla vista della sua strana espressione arretrò andando
a schiacciarsi
contro il muro, gli occhi lucidi e i muscoli contratti per la paura.
“Non ha
fatto altro che ostacolarmi questo tuo stupido corvo.”
“Lo sai
che non è più mio.” Spostò
lo sguardo sulla macchia nera ai suoi piedi che
iniziava ad agitarsi nel tentativo di rimettersi dritto sulle zampe,
mentre con
il becco andava a cercare il proiettile nella carne lacerata.
“Adesso vediamo
di darci una calmata e di riflettere un attimo.”
Eris
aveva cominciato a tremare, anche se sospettava di non aver mai smesso
da
quando aveva visto per la prima volta il Cacciatore. Il cuore che
batteva con
forza contro la sua gabbia toracica smorzava il silenzio e nonostante
tutta la
forza che ci potesse mettere non riusciva a rendere il proprio respiro
meno
affannoso e pesante.
Le
importava poco di sapere in quale assurda situazione si fosse cacciata,
voleva
solo trovare un modo per uscirne e tornare a vivere la sua noiosa e
semplice
vita. Demoni, Cacciatori, cosa c’entrava lei?
“Io davvero non so
altro.” Disse con voce
tremante dopo qualche attimo di silenzio. Il demone era seduto in fondo
al
letto e le dava la schiena, il cacciatore si stava fumando la seconda
sigaretta
e per la ragazza l’aria iniziava a diventare irrespirabile.
Con
quell’affermazione non aveva di certo sperato di levarsi da
quella situazione
ma di almeno provocare un minimo di reazione in uno dei due, visto che
dopo
quegli ultimi fatti nessuno aveva più detto una parola,
neanche il corvo che,
dopo essersi rimesso in piedi, si era posato sul davanzale e non aveva
più
fatto un suono.
“Sto
pensando ragazzina.” Come si era aspettata fu il demone a
parlare, per poi
voltare appena la testa verso di lei. “Comunque sarebbe
improbabile il
contrario, sempre che tutto quello che ci hai detto sia
vero.” Si mise in
piedi, attirando l’attenzione di Raven.
“Hai
concluso qualcosa?” Spense la sigaretta sul tavolo, lasciando
una macchia di
cenere sul legno scuro.
“Innanzitutto
tu devi riposare, un corpo sano e una mente stanca sono una pessima
combinazione.” Nonostante il consiglio del demone il
cacciatore sembrò
ignorarlo. “Perché non mi dici cosa ne pensi tu,
innanzitutto?” Raven sapeva
bene che il demone era solito raccogliere quante più
informazioni poteva prima
di giungere a una qualsiasi conclusione.
“Non può
essere stato un umano.” Rispose con voce stanca. Non che ci
avesse ragionato
molto in quel’ arco di tempo appena trascorso.
“Lo era,
e ne sono certa!” I due si voltarono verso la ragazza,
osservandola come uno
strano prodigio, una presenza magicamente apparsa in quella stanza.
“Ne è
certa, quindi dobbiamo considerare un altro elemento.
Cos’è che può cambiare la
natura di un essere vivente?” Eccolo, il ragionamento che si
era delineato
nella sua mente in quei minuti iniziare a serpeggiare nella mente
altrui.
“Non può
essere.”
“A
quanto pare invece si, è l’ unica
spiegazione.”
“Vuoi
davvero prendere in considerazione la pietra filosofale?”
Eppure, nonostante lo
scetticismo, neanche Raven poteva trovare una spiegazione migliore.
“Cosa ci
sarebbe di strano a questo punto? L’unica spiegazione
plausibile è che sia
riuscito a impossessarsi della pietra.”
“Ma
perché lo cercate?” Aveva iniziato a calmarsi e,
insieme alla profonda
stanchezza, un po’ di curiosità si stava infilando
nella sua mente, orami c’era
dentro fino al collo, si disse, perché non infilarci anche
la testa?
“Ordini
dall’alto. Comunque è interesse comune fermarlo, o
preferiresti che l’assassino
di tua sorella di chi sa quante altre persone resti
impunito?” A quel punto
intuì stancamente che forse, forse,
il cacciatore e il demone non fossero un pericolo per lei.
“Non sto
dicendo questo, ero solo curiosa.” Si strofinò gli
occhi, iniziava a faticare a
tenere gli occhi aperti.
“Quindi
non ci resta che muoverci.” Concluse Valentine nella cui
mente iniziava a
delinearsi una mappa accurata di movimenti per nuove ricerche.
“Per
dove?”
“Conosci
l’antico culto di Izalith, Raven?”
“So che
è estinto.”
“Già,
sarebbe bello se lo fosse. Sai, si dice che sia stata lei, la Serpe
Bianca, che
donando il suo sangue a voi umani abbia creato la pietra
filosofale.”
“Ho
capito. Avremmo parecchia strada da fare, ma almeno ci toglieremo dalle
città.”
“Ehi, io
prima ero serio dicendo che dovresti riposare, ma se riusciamo a
partire subito
è meglio.”
“Non è
un problema per me.” Fece
un cenno
del capo verso ciò che era alle spalle del demone e quando
questo si voltò fu
quasi sorpreso di vedere la ragazza con gli occhi chiusi, crollata in
un sonno
pensante. Sospirò.
“Prendiamoci
questa notte, poi cercheremo di fermarci il meno possibile.
Sarà stancante, ma
la fine sarà una grandiosa rivelazione.”
Stava
ad osservarla nello spazio ristretto e sporco della carrozza,
chiedendosi se
ciò che aveva davanti agli occhi si trattasse di uno scherzo
della natura o
semplicemente di una macchinazione più o meno divina nata al
solo scopo di
infastidirlo e nuocere ai suoi piani.
Non
che
ci fosse qualcosa di divino nella prole di un umano e un demone, si
disse,
eppure era risaputo che tale unione era letale e impossibile,
poiché la natura
differente dei genitori generava solo un piccolo corpo morto. E allora
cosa?
Di
cosa
si trattava lei esattamente? Cos’era stata quella furia che
le aveva colorato
gli occhi di nero e reso le unghie come artigli in grado di lacerare
con
estrema facilità la sua pelle? Cosa aveva osservato
esattamente quando aveva
visto la rabbia e il nero defluire lentamente dal suo volto, donandole
quell’
espressione sofferente e indifesa che aveva tutt’ora,
rannicchiata
scompostamente sul sedile di fronte a sussurrare a fior di labbra mezze
parole
e frasi incomprensibili?
La
vedeva socchiudere le palpebre tremanti, e allora cercava di capire di
che
colore fossero i suoi occhi, a chi appartenessero.
“Lo vedi?”
“Cosa?”
“Lui.”
“Chi?”
“L’umano che non può
morire, che non
siamo riuscite ad uccidere.”
Lentamente
nella sua mente si delineò un viso affilato, pallido e
contornato da capelli
del colore del grano secco, gli occhi dello stesso colore.
“Chi è
lui?”
“Una preda pericolosa, la nostra.”
“È
pericolosa.”
“Sì. Ricordi il mio nome?”
“Morrigan.”
Senza esitazione.
“E Morrigan può tutto.”
Un
fremito, una contrazione involontaria dei muscoli, i vincoli che si
indeboliscono sempre di più e una forza pressante che
cresceva dentro di lei e
smaniava per uscire.
Zaara si
sentiva sempre più debole, la volontà che scemava
lentamente, poi una nuova
forza, una nuova guida.
“Bravissima
bambina.” Anche il timore iniziò a scemare, la
paura di se stessi cadde nei
recessi più profondi della sua anima. Ma era sicura di
quello che stava
facendo?
Cosa stava facendo?
“Lasciati
guidare.” Gli occhi si aprirono, scintille nere che
colorarono velocemente
l’azzurro e il bianco, un movimento davanti a lei, una
macchia nera, veloce.
“Lasciati
sopraffare dalla furia.” E lei doveva essere più
veloce, più veloce dell’uomo
dei fili. Più veloce dell’
umano che non
può morire. Ma allora perché?
Un dolore
sordo alla testa, la vista che si annebbia e si schiarisce, una mano
fredda che
stringe con forza il suo capo, non ha il tempo di gridare, solo di
osservare la
pioggia rigare il vetro della finestra prima di venire scaraventata
contro
questa; vetri rotti le graffiarono il volto, pioggia gelida sulle sue
gote e un
dolore lancinante al collo. Poi il calore, la stessa sensazione
fastidiosa di
poco prima. Affogava, il sangue la stava soffocando, uscendo copioso
dallo
squarcio sulla sua gola.
“Vieni
da me piccola.”
“…
perché?”
“Perché sei morta.”
“No.”
“Si.”
La
carrozza si era fermata, la pioggia no.
Ma
avevano raggiunto la loro meta; un tempio in rovina privo di colori e
con
piante rampicanti violacee ad avvolgerlo quasi interamente.
“Ma che
diavolo stai facendo?” Ayn scese velocemente quasi lanciando
le briglie dei
cavalli e corse verso il corpo della ragazza; una grossa macchia rossa
stava
colorando l’erba alta, gli occhi ancora come pozzi neri a
fissare la pioggia,
vuoti.
“Mi ha
stufato.” Ayn spostò lo sguardo sconcertato
sull’altro, rischiava di mandare
tutto all’aria. Anzi, era sempre più certo che
l’avesse già fatto.
“L’hai
uccisa!”
“Non
morirà per così poco.”
“Scherzi?
L’hai sgozzata! È tanto se ha ancora la testa
attaccata al resto del corpo.”
“Ayn.”
Il tono gelido, come una brezza ghiacciata a sfiorargli la schiena.
“Cosa?!”
“Non
vuoi fare la sua stessa fine vero?” Deglutì
rumorosamente, tentando di darsi un
contegno, le mani che passavano tra i capelli fradici tremavano. Non
è che
avesse paura di lui, non più del solito almeno, era che non
riusciva a trovare
una soluzione a una situazione che stava diventando sempre
più disastrosa.
“No, ma
se devo essere sincero non vedo come questo”
Indicò la ragazza a terra. “possa
essere d’aiuto.”
“Senti
ancora la pietra?”
“Si.”
“Allora
non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
“La
tua rabbia sale.”
“Si.”
“Sei morta, bambina.”
“Credo
di si.”
“Pregami, bambina.”
“Smettila
di chiamarmi così.”
“Sono la tua
vita, pregami.”
“La mia
vita.”
Memoria,
ricordo.
Persi.
Agglomerati.
Nulla. La
confusione totale.
L'istinto
che prepotente ritornava a galla, in
tutta la sua grandiosità.
L'aveva
riavvicinato quando Morrigan s'era
impossessata completamente di lei.
L'aveva
riacquistato con lentezza mentre tutto
sfumava. Mentre la sua vita finiva. No, cambiava. Quando lei non era
più Zaara,
non era più umana: era solo demone.
“Io voglio
vivere.”
“Sì.”
“Allora proteggimi. Lasciami in pace. Lascia che
io trovi il modo di vendicarci, e ci vendicheremo.”
“Hai i miei servigi, bambina
mia.”
“Ha ragione.” I due si voltarono nel sentire una
nuova voce provenire dal cortile del tempio; la figura di una donna
snella si
stagliava tra l’erba alta; la pioggia le bagnava i
lunghissimi capelli neri e
la pelle nivea che gli abiti succinti non riuscivano a coprire.
“Non morirà per
così poco.” Si avvicinò ai due con un
rumore di sonagli e perline osservando il
corpo riverso a terra; gli occhi fissi che guardavano ostinatamente il
cielo,
gli arti aperti in maniera scomposta, una macchia di sangue che
colorava l’erba
e una grossa scheggia di vetro ancora conficcata nel suo collo.
“Safin, è un piacere rivederti.” Una
voce fredda
distolse la sua attenzione da quel macabro capolavoro. “Non
sei cambiata per
niente.”
“Fare il
bagno nel sangue delle vergini mi mantiene giovane” Sorrise.
“Ne è passato di
tempo Veiler, anche per me è un piacere.”
In
ritardo? Chi io? Hahahah!
Si,
scusate tantissimo, non ho giustificazioni,
ma almeno vi ho postato qui un capitolo che io trovo interessante; con
l’arrivo
di quello che è uno dei miei personaggi preferiti, Valentine
sarà molto
importante come personaggio, perché senza di lui il caro
Raven non saprebbe
dove sbattere la testa.
E
ora ditemi, quanti di voi avevano già fatto lo
scontatissimo collegamento con Veiler e il caro amico sanguinario
conosciuto in
carrozza? Si, è proprio lui.
Quindi
dopo questa
””””””grandiosa”””””””
rivelazione la prima parte della storia si chiude, il grande prologo
è concluso
e si può passare alle faccende più serie.
E
sto omettendo di proposito di parlare di Zaara
perché tutto quello che la riguarda va scoperto pian paino :)
Detto
questo ringrazio tutti quelli che leggono e
che seguono, chiedendovi se vi va di lasciare un piccolo parere per
aumentare
la mia autostima.
A
presto :)
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Capitolo 7 *** Seconda parte - DAEMON - Il sangue è come acqua ***
TIENE IL
DIAVOLO I FILI CHE CI MUOVONO!
SCOPRIAMO UN FASCINO NELLE COSE RIPUGNANTI;
OGNI GIORNO D’UN PASSO, NEL FETORE DELLE TENEBRE,
SCENDIAMO VERSO L’INFERNO, SENZA ORRORE.
6. Il sangue
è come acqua
Siamo
fiori malsani noi.
Sbocciamo
solo quando tutto intorno è buio.
Dipinti
sono i nostri petali con i colori
dell'abisso. Pelli,
carne e ossa colorati di
questo manto ombroso.
“Bene,
vogliamo entrare?” La donna inclinò la
testa di lato e accarezzò uno dei mastini neri che
l’avevano affiancata e,
senza attendere la risposta di uno dei due uomini, fece un lieve cenno
che
bastò ai due cani per farli avvicinare al corpo per terra.
“Non c’è bisogno di
essere delicati con lei, vero?” Una luce sinistra
brillò nei suoi occhi quando
rivolse la domanda a Veiler che non aveva smesso di studiare quelle due
creature che sembravano spuntate dal nulla. Lo notava solo in quel
momento,
mentre si allungavano a stringere tra le fauci le braccia della
ragazza, le
cuciture sui loro corpi e gli occhi vitrei di uno e i crateri neri che
erano
quelli dell’altro.
“Non ricordavo che ti dilettassi in queste
cose.” Safin sorrise genuinamente.
“Ah, se solo sapessi quanto può essere vasta
la magia.” A quelle parole Ayn rabbrividì
guardando ostilmente la donna, poi
l’altro. Capiva poco di quella situazione; la magia era per
chi praticava il
culto di Izalith, com’era che Veiler, reso migliore da
Ragnor, il Burattinaio,
si affidasse a una seguace della Serpe Bianca?
Entrarono nel tempio fatiscente, senza
porgere omaggio alcuno alle macerie della statua che svettava in fondo
alla
navata centrale.
“Avete trovato quello che stavate cercando?”
“È probabile.” L’entusiasmo
invase il volto
della donna.
Due menti fuse ma sfuse.
La storia non aveva neanche bisogno di essere
raccontata, perché già insita nella sua mente,
nelle sue carni, nelle pupille
affilate negli occhi che si coloravano di nero.
Due entità distinte, questo era l’importante.
Due entità distinte e al contempo
infinitamente legate.
“Hai paura?”
“Di cosa devo aver paura?”
“Hai paura del buio?”
“No.”
“Allora
guarda quanto splende l’ombra
adesso.” L’ombra aveva un sapore diverso, un colore
diverso, un odore diverso.
L’ombra la investiva, le scivolava sul volto, s’
insinuava nei suoi polmoni.
Era tutto ciò che riusciva a percepire sul suo corpo. Rossa,
calda ombra.
Ma mancava qualcosa.
Con
un'esplosione dei muscoli cercò
l'aria. Un unico, enorme movimento, dopo pochi improvvisi e
interminabili
istanti di silenzio e sgomento vivo.
E la
sua innata voglia di vivere sembrò essere l'unica
vincitrice.
Un urlo smorzato, interrotto, soffocato. Tossì
violentemente cercando di riadattare i suoi occhi alla luce.
Pulsava.
Tutto pulsava.
Ogni singolo muscolo bruciava, come sciolto
nell'acido. Piegata a metà, cercava solo di capire.
Dove.
Perchè.
Quando.
Cosa.
E i polmoni erano due baratri incendiati ad ogni affannatissimo
respiro. Tremava.
Era come essere rinati. Come aver ripreso la prima
boccata d'aria della propria vita.
E faceva MALE. Male da morire.
Poi si guardò attorno: rocce.
Rocce impilate in una strana imitazione di mura, una
stanza scarna e lei stava sdraiata per terra.
Cercò di issarsi in piedi.
Cadde.
Sul corpo sentì un peso innaturale: calò lo
sguardo,
osservando le sue mani.
Lerce di sangue, anch'esse brucianti come il resto del
corpo. Pallide e gelide.
E
poi un battito.
Sussultò.
Un altro.
Aritmico. Accelerato.
E poi normale: il battito di un cuore. Che pompava
sangue. Che scorreva nel suo corpo. Che sembrava ridare colore alle sue
braccia, alle sue dita.
Non era la prima volta che succedeva.
No, lo sapeva.
Forse aveva addirittura sperato troppo. Forse era
stata stupida a pensare che quella era l'unica via. Ma c’era
stata la paura, la
disperazione. Cosa avrebbe dovuto fare?
Ma ancora tremava, disgustata dal colore che macchiava
le sue mani. Infilò le dita nei capelli piegando la testa e
prendendo a
ragionare con una lucidità che non riconosceva. Non voleva
provare di nuovo
quelle sensazioni, non voleva annegare di nuovo nel sangue.
Non voleva. Punto.
Si chiuse in se stessa, stringendo le gambe al petto
osservando la stanza malmessa intorno a lei. Dall’angolo in
cui si trovava i
suoi occhi ancora brucianti vedevano una porta in metallo, una finestra
troppo
piccola per poterci passare e strani simboli bianchi attorno a lei; per
terra,
sui muri e sul soffitto. Fissava con ostinazione tutti i dettagli,
obbligando
la sua mente a un distacco che riuscì a mantenere per poco.
Sentiva il battito
del proprio cuore come un dono, una nuova e fantastica melodia.
“Piccola mia.”
NO. Le ritornò tutto alla mente e si contrasse,
tentando in tutti i modi di escludere quella voce, quella presenza
dalla sua
mente. Passò freneticamente le mani sul collo, aspettandosi
di trovare un solco
profondo e sentendo solo la pelle liscia sotto le dita.
“Cosa sta succedendo?”
“Bambina
mia.”
“È tutta colpa tua.”
“Di cosa mi stai dando la
colpa?”
“Sono morta.”
“Eppure respiri.”
“Io…” Dondolava in maniera
impercettibile, mordendosi
le labbra, stretta nelle spalle, come a volersi proteggere. Era stata
come una
folata, rapida ma preannunciata, sembrava aver rimosso il sudario di
polvere
dalla sua mente. Era il vuoto, che incombeva e si muoveva lento, che
inesorabilmente marciava e nel paradosso la riempiva di nulla.
Sentiva lacrime calde iniziare a scorrerle sul viso.
Strava crollando, era a pezzi.
“Va’ via.” Non avrebbe mia più
ascoltato un suo
ordine.
“Va’ via.” Non avrebbe mai più
parlato con lei.
“Va’ via.” Non sarebbe mai più
stata Sua.
“Non
essere così ingenua.”
“VAI VIA!”
“Non
posso. Lo sai, piccola mia.”
“VATTENE!” Chiuse gli occhi e li strinse con forza.
Era persa nel nulla, lo era anche l’altra, lo erano tutte e
due. E non c’era
nessun posto dove potessero andare per sottrarsi a ciò da
cui stavano fuggendo.
“Cosa dovrei fare?”
“Hai già
dimenticato?”
“Una cosa del genere è possibile?”
“Non c’è altro modo.” Veiler
rimase un attimo in silenzio,
organizzando un’altra volta le informazioni. “Hai
percepito la presenza della
pietra sin da quando l’abbiamo vista la prima volta,
l’hai sempre, sempre,
sentita su di lei, no?”
“È così.”
“Anche quando l’ho uccisa-“
“A dire il vero…” Tentennò un
attimo, poco sicuro di
quello che avesse sentito e poco sicuro delle conseguenze delle sue
parole. Ma
lo sguardo dell’altro lo obbligò a continuare.
“In quel momento è successo
qualcosa di strano. È stato come se la pietra si consumasse,
l’ho sentita più
flebile, ma non come se si fosse allontanata. Ma adesso è
tale e quale a
prima.”
“Quindi non può che essere
così.” Si massaggiò le
tempie realizzando che tutto quello gli avrebbe facilitato le cose.
Sorrise tra
se, mentre Ayn rabbrividiva. “Meglio
così.”
“Come-“
“Non si può cavare sangue da
una pietra, ma da un corpo si.” Disse quasi
tra sé.
Ayn fremette. Quella proprio non ci voleva. Aveva
sperato di guadagnare del tempo, e invece era tutto il contrario; tutto
stava
andando troppo velocemente e ancora doveva parlare chiaramente a Safin,
doveva
ancora organizzarsi.
“Come è possibile una cosa del genere?”
L’altro posò
per un istante i suoi occhi d’oro su di lui per poi tornare a
osservare il
vuoto.
“Lascia che sia Safin a occuparsi di queste cose.”
Passi, passi lievissimi si avvicinarono, e non se ne
sarebbe accorta se questa presenza non si fosse portata dietro il
chiasso di
sonagli e altre cianfrusaglie che erano appese ai suoi abiti.
Quando la porta si aprì vide una donna dalla
carnagione pallida, lunghissimi capelli neri e abiti di un colore che
le
ricordava terribilmente il sangue. Le sorrise, avvicinandosi e posando
al
limitare di un cerchio bianco che contornava un perimetro intorno a
Zaara,
impedendole gran parte dei movimenti, alcuni contenitori e strani
strumenti.
“Ciao piccola.”
Passò la
mano sulla chiazza di sangue che era rimasta sul suo cappotto nel
tentativo di
pulirlo. Il risultato fu allargare ancora di più la macchia.
Il demone fece una
smorfia alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta.
Raven,
svegliato dal suo sonno leggero, lo osservò con occhi
attenti.
“Dove
vai?”
“Dovremo
pur uscire da questa città senza causare un putiferio,
no?” Il Cacciatore non
rispose. Non aveva pensato a come uscire dalla città e si
maledisse per quello;
ormai tutto veniva registrato e non entravi se prima non ti
identificavi e non
avevi un buon motivo per varcare le mura. Stessa cosa per uscire.
Popolazione e
commercio erano tenuti costantemente sott’occhio.
“Non ti sarai mica registrato
per entrare in città, vero?”
“Figurati.”
“Bene.
Usiamo il solito metodo.” Detto questo allargò un
braccio, il corvo volò
velocemente verso di lui e affondò gli artigli nella sua
manica, prima di
sistemarsi in una posizione comoda. Il demone si fermò un
attimo, soppesando
qualche istante le parole. “A quanto pare in questa faccenda
sono immischiate
tante anime, più di quante credessi, probabilmente molte si
perderanno, io
spero solo che tu non sia una di quelle. Sei un buon cacciatore Raven,
fa attenzione.”
Senza dire altro Valentine uscì dalla stanza, portandosi
dietro quella macchia
nera che aveva iniziato a gracchiare.
Il
Cacciatore sospirò, cercando nelle tasche il suo pacchetto
di sigarette, e con
immenso dispiacere si rese conto di averle finite tutte.
Appoggiò la testa
sullo schienale, sbuffando e fissando il soffitto. Il silenzio era
assoluto,
neanche il letto cigolava e la pioggia si sentiva appena, la ragazza
giaceva
sotto le coperte, immobile come se fosse morta. Lentamente e con un
briciolo di
concentrazione Raven si mise ad ascoltare il battito del proprio cuore.
Si
accorse appena delle palpebre che iniziarono a farsi pesanti, e mentre
respirava con regolarità la sua mente correva, collegando i
suoi pensieri al
sogno.
Le penne erano
perfette e lucide,
circondate da una gabbia piccola e bianca. Un paio di occhi furbi e
intelligenti scrutava oltre quella piccola voliera, inclinando appena
il capo,
facendo luccicare il becco nero come una lama.
“Perché un corvo? E perché dentro
una gabbia?”
“Perché i corvi sono astuti e non
hanno mai paura, volendo troverebbe un modo per uscire da
lì.” L’ uomo guardò
il volatile che gli restituì uno sguardo estremamente
intelligente, Huginn,
l’aveva chiamato il suo maestro.
“Allora perché non lo fa?”
“Perché i corvi sono astuti.”
Ripetè. “Sanno osservare e adattarsi.”
Si accese una sigaretta, aspirando con
forza. Il ragazzino rimase in silenzio, ma lo osservò
chiedendosi quanto suoi
polmoni si avvicinassero al colore delle piume del corvo, che sembrava
ascoltarli in silenzio.
“Domani lo tireremo fuori di lì per
farlo volare, a meno che non sia già uscito da
solo.”
“Perché un corvo? Perché non un
falco?”
“I falchi vivono per essere
addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.”
“Quindi si dovrà adattare?”
“È quello che facciamo tutti prima o
poi.”
Il mattino
seguente erano all’aperto,
con loro la gabbia del corvo e qualche boccone di carne secca. Il vento
soffiava lieve creando onde sull’ erba alta, in cielo non
c’era una nuvola e il
sole primaverile scaldava piacevolmente la pelle.
E nonostante quella splendida
giornata il ragazzino sentiva un forte disagio crescere dentro di
sé, aveva già
addestrato diversi falchi, ma mai un corvo, e in quel momento si chiese
se il
suo maestro, nel momento in cui aveva deciso di addestrare un corvo,
non fosse
stato ubriaco. Non aveva idea di come cominciare, come trattare quel
volatile
dallo sguardo penetrante.
Si riscosse quando, dopo aver
fissato a lungo lo sguardo negli occhi neri del corvo, tanto intensi da
sembrare pozzi senza fondo, questo non gracchiò da dentro la
voliera, come a incitarlo
a fare qualcosa.
Spostò lo sguardo sul suo maestro
che con un cenno d’assenso lo incitò ad aprire la
gabbia, mentre il falco
incappucciato sul suo braccio si sistemava le ali.
Quando il corvo zampettò fuori dalla
gabbia si guardò un po’ intorno, spostando
l’attenzione da una persona
all’altra inclinando la testa.
“Cosa devo fare maestro?”
“Osservare.” Il corvo gracchiò
ancora, aprendo appena le ali e iniziando a camminare velocemente e in
modo un
po’ goffo in mezzo all’erba, il ragazzo vide con la
coda dell’occhio l’uomo che
sfilava dal capo del falco il cappuccio.
Quando il corvo si alzò in volo, una
macchia nera come la pece contro il cielo sereno, tre paia
d’occhi erano
puntati su di lui. Volava placido, sbattendo con foga le ali per poi
lasciarsi
cadere e tornare di nuovo su con fluidità.
Il ragazzino osservava e vedeva una
creatura orgogliosa e libera in un cielo che non gli apparteneva.
“Uccidi.” Un fruscio d’ali, aria che
gli sfiorò il volto, poi una sagoma scura si diresse
velocemente verso il corvo
che ancora si stava librando in aria. Lo colpì una volta con
gli artigli prima
di riprovare con il becco, si inseguirono in un fruscio disordinato di
penne.
Il corvo non era veloce come il falco ma con virate improbabili e
movimenti
imprevedibili riusciva sempre a sfuggirgli, fino a che non si
lasciò cadere in
picchiata; il falco lo seguì poco dopo restando a distanza,
attese di vederlo
aprire le ali e planare per piombargli addosso e schiacciarlo al suolo.
Non riusciva a chiudere occhio, o
almeno era quello che aveva creduto, in verità come si era
steso sul letto una
pesante stanchezza lo aveva spinto a chiudere gli occhi. Ma si era
fatto
violenza tentando di tenerli aperti per ragionare un po’ su
ciò che era
accaduto quel pomeriggio. Non piangeva per la perdita
dell’animale, gli avevano
insegnato a non affezionarsi. Ma era rimasto turbato perché
in fondo, e lui lo
aveva capito solo alla fine, non era il corvo che doveva essere
addestrato,
quanto lui.
“I
falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani,
no.” Tutti si devono adattare, prima
o poi. E
lui? C’era riuscito? O
quel turbamento
era qualcosa di differente e più profondo che comunque non
avrebbe mai dovuto
mostrare al maestro? Non sapeva. Non sapeva nulla. Ed era una cosa che
odiava.
Stava per
scivolare nel sonno quando
un suono insistente lo ridestò; c’era qualcosa che
batteva con forza contro il
vetro e lui, esausto, tentò di ignorarlo fino a che non
sentì la finestra
incrinarsi. Allora spalancò gli occhi, infastidito
dall’ idea di dover passare
una notte al freddo nel caso la finestra si fosse rotta. Ancora
ignorava cosa
ci potesse essere al di fuori del vetro.
Stessi occhi come pozzi neri senza
fondo, intelligenti. Stesso modo insistente di gracchiare. E
l’incendio sotto
di loro donava riflessi vermigli sulle penne nere.
Bruciava, tutto bruciava. Era un
mare di fuoco, rosso e rovente.
Terrificanti le figure di demoni
informi che correvano fra le fiamme.
Sfigurato il corpo del suo maestro
riverso nel suo stesso sangue.
Orrendi occhi neri su di lui,
inumani e affamati. Roventi.
Atroce il dolore al volto.
Buio.
La
poesia all'inizio è di nuovo Baudelaire, e 'Daemon'
significa semplicemente Demone, titolo che sarà parecchio
adatto per questa parte della storia.
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Capitolo 8 *** 7. Calma piatta ***
7.
Calma piatta
I dolori
segreti sussurrati ai venti, giaciono tra le ultime foglie morenti.
Gli occhi profondi lasciati aperti sulla notte, le nuvole sepolcri
morbidi per le stelle che rifulgono sisnistre nell'anima.
Imprecò mentre la pioggia continuava a scendere violenta e
riduceva la visibilità, poi pensò che era lo
stesso anche per gli altri e che quindi era un po’ come
tornare a vedere normalmente.
Scivolò appena dal tetto spiovente per osservare meglio la
strada, grosse gocce d’acqua gocciolavano dalla pelliccia
ormai fradicia che orlava il suo cappuccio , ormai anche i suoi capelli
iniziavano a bagnarsi mentre il volto era già fradicio,
neanche avesse buttato la faccia nell’acqua. Una guardia
passò sotto di lui, il lume nella lanterna che stava acceso
a stento. Sorrise pensando che il bello degli umani era che non
guardavano ma verso l’alto quando dovevano controllare
qualcosa.
Balzò giù dal tetto atterrando silenziosamente
dietro all’uomo che non si accorse di nulla. Un colpo ben
assestato alla nuca e questo cadde a terra, esanime.
Sospirò "Bene, mancano le guardie di confine e i cecchini."
Si disse, iniziando a trascinare il corpo lontano dalla strada. Quello
non era un lavoro che gli piaceva fare, si sarebbe divertito molto di
più a rubare l’ identità a qualcuno e a
uscire tranquillamente, facendogliela letteralmente sotto il naso. Ma
sarebbe stato un lavoro lungo e di tempo ne avevano ben poco.
Fin da quel momento era riuscito a garantire una strada sicura e aveva
appena terminato la parte più semplice del lavoro. Ma stava
per farsi giorno e sarebbe stato bene uscire prima dell’alba.
Riaprì gli occhi che non si era accorto di chiudere,
avvertendo la spiacevole sensazione di essere osservato.
La ragazza si mosse appena e il Cacciatore in un istinto che ormai era
parte di lui allungò velocemente la mano verso la pistola
ancorata al suo fianco, fedele compagna nata da ossa di demoni, per poi
ricordarsi che in quella stanza non era da solo, e che l'altra persona
era tutt'altro che un pericolo.
Rimasero entrambi in silenzio a lungo, svegli, fino a che il disagio
nel corpo della ragazza non aumentò a tal punto da sentire
la necessità di dire qualcosa.
“Che cos’è quel corvo?”
Il Cacciatore soppesò le parole, non del tutto certo di
voler rispondere a quella domanda. “Un ricordo.”
Disse infine, passandosi la mano sulla cicatrice che sfigurava
metà del suo volto. La ragazza rimase in attesa, aspettando
una risposta che l’avrebbe aiutata a capire di
più. Ma il cacciatore non disse altro. Lei strinse tra le
mani le coperte pesanti, mandando al definitivamente al diavolo
l’istinto di autoconservazione.
“Cosa ti è successo?” Di nuovo silenzio,
e questa volta non ne seguì alcuna risposta.
La ragazza cercò di resistere ancora ma quando il silenzio
di fece troppo pesante e vide Raven cercare una posizione comoda sulla
sedia, non riuscì a trattenere la lingua. “Se vuoi
puoi venire a letto.” A quella strana proposta il cacciatore
sollevò un sopracciglio guardandola scettico. Il rossore sul
volto della ragazza mandò a fuoco la sua pelle quando si
accorse di quanto era suonata sconveniente quella frase.
“Cioè, ho dormito abbastanza.”
Tentò di rimediare, rendendo però ancora peggiore
la situazione, vista l’ambiguità della frase.
“Puoi riposarti qui mentre io sto sveglia.” Disse
infine in tutta fretta, coprendosi appena il volto in fiamme con le
coperte.
Raven era quasi sconcertato dall’ingenuità della
ragazza.
“Torna a dormire.”
“Che cos'è?”
La donna abbozzò una sottospecie di sorriso. La ragazzina
aveva finalmente parlato. Aveva sollevato leggermente il mento.
Zaara era persa.
“È un'entità superiore a noi esseri
umani.”
“Come fa ad essere dentro me se è superiore a
me?”
“Perchè il volere della Serpe le è
ulteriormente superiore.” Sussurrò.
“Comunque non è dentro di te, lei è
te” Era confusa.
“Chi è la Serpe?”
“Immagino lo scopriremo presto, piccola.”
“Ti prego non chiamarmi così.” Safin
rimase un attimo interdetta, poi sorrise.
“Come vuoi.” Almeno lei, si disse Zaara.
Passarono qualche istante di silenzio in cui Safin continuò
ad armeggiare con le cose che aveva portato nella stanza e
l’altra a non staccarle gli occhi di dosso, finché
la donna non si bloccò, alzando lo sguardo verso la ragazza.
“Come vi chiamate?” Chiese curiosa. Zaara
spalancò gli occhi rimanendo spiazzata da quella domanda.
Non capiva. Non sapeva.
La donna sembrò leggere lo sconcerto nei suoi occhi.
“Come ti chiami?” A quella domanda la ragazza si
calmò, e rispose abbassando lo sguardo.
“Zaara.” La donna sorrise, riprendendo a lavorare,
mischiare erbe a una sostanza bianca e maleodorante.
“Non vuoi dirmi come si chiama lei?” Le chiese poi,
senza alzare la testa dal suo lavoro. La ragazza rimase in silenzio.
Aveva paura, una paura irrazionale nel chiamare il suo nome. Non voleva
più sentirla, non voleva svegliarla.
“Non voglio svegliarla di nuovo.” In quel momento
notò un sorriso derisorio nascosto tra i capelli neri della
donna, ma quando questa alzò il volto vide solo
un’espressione serena e tranquilla.
“Così come lei
è te e lo è sempre stata, lei è
sveglia e lo è sempre stata. Sei tu a decidere, non delle
semplici parole, non lei.
Tu sei la sua prigione, così come lei potrebbe essere
la tua. Si tratta solo di equilibrio.” Rimasero in silenzio,
lei che teneva ancora ostinatamente nascosto il suo nome.
“Ad ogni modo, ti aiuterò a fare un po’
di chiarezza. Altrimenti rischiamo di non risolvere nulla.”
Si mise in piedi tenendo in mano uno di quei contenitori che aveva
cominciato a fumare, entrò nel perimetro delimitato dai
cerchi bianchi e si accucciò di fronte alla ragazza.
“E noi dobbiamo fare in fretta.” Mise il
contenitore sotto il naso di Zaara che la guardava terrorizzata.
Vedendo la sua espressione il volo della donna si intenerì.
“Tranquilla, sarò qui quando tutto
terminerà.” Le sorrise un ultima volta, poi gli
occhi della ragazza si velarono mentre cadeva in un sonno profondo.
Così, lascia
che si fidi.
“Piccola mia. Piccola
mia.”
“Sono due parole inutili. Vai via.” Domandava.
“Piccola mia. Mio cucciolo,
mia creatura.”
“No. Taci. Taci.”
“Non è semplice
vivere, piccola mia.”
“Non sono la tua piccola.”
“Tu credi?”
“Non sono la piccola di nessuno-“
“E invece lo sei.”
“Lasciami andare-“
“Non posso”
“Voglio solo andare-“
“No.”
“Ti odio.”
“Lo so.”
“Ti prego”
“No.”
“Non posso più decidere nemmeno della mia
vi-“
“Non ti appartiene, piccola
mia.”
“Sì.”
“No”
“Era l'unica cosa che avevo capito.”
“No.”
“Lasciami andare.”
“Non posso.”
“Esci e lasciami.”
“Non voglio.”
“Cosa vuoi da me?“
“Tu cosa vuoi?” Cosa
voleva? Non lo sapeva, non ancora.
“Non è bello ciò che ci hanno
fatto”
“… No, non lo
è.”
Era tornata a galleggiare nel nero, gli occhi ostinatamente chiusi, nel
terrore di scatenare quell’illusione rossa di sangue che
ormai vedeva frequentemente. Morrigan le parlava dolcemente,
accarezzando con la sua voce la sua pelle, a smuovere con
l’ombra i suoi capelli biondi, ad avvolgerla, protettiva e
calda come un grembo materno.
Morrigan sentiva le sue catene allargarsi e stringersi con
irregolarità.
Zaara era in cerca di un equilibrio. Ogni singola variazione di stretta
infastidiva Morrigan, e spesso le faceva male. Ma sopportava.
Sia perchè Zaara era la sua bambina, sia perchè,
in fin dei conti, non poteva fare altro.
“Io odio gli umani, bambina
mia.“
“Io sono un essere umano.”
“Non ancora. Probabilmente
mai.”
“Taci.”
“E' questo che desideravi,
bambina mia. Poter parlare chiaramente con me. Da infinito tempo. O
sbaglio?”
“No. E' vero.”
“Sei la mia trappola, ma al
contempo io sono la tua.”
“Io ti odio.”
“Solo in parte.”
“... non cambia.”
“Io sono costretta
all'esistenza entro di te, e così io ti costringo a vivere.
Finché io intendo vivere, non saranno sufficiente ne' uno,
ne' mille chilometri di caduta. Potrai soffrire, e soffrirai. Tanto
quanto colui che l'istante seguente è morto. Ma non
basteranno mai.”
“Così tu mi costringi ad una vita che non posso
controllare e non intendo proseguire.”
“Non è nel mio
volere.”
“Allora liberati e lasciami andare.”
“Questo va al di fuori delle
mie e delle tue capacità. Le nostre catene sono
infinitamente forti.”
“Allora a quel punto mi andava bene morire”
“Ma non smettere d'essere,
solo smettere di vivere. Poiché tu vuoi decidere. Ah, grande
è stato l'errore degli uomini a crearci.”
“Non cederò. Non più. Non ti
lascerò il controllo.”
“Ne sono consapevole, bambina
mia. Rare saranno le volte, semmai accadrà.”
“Cosa vuoi da me?”
“Nulla, bambina mia. Ormai
più nulla.”
“Impossibile.”
“Oramai io ti amo.”
Zaara spalancò gli occhi, davanti a lei non più
il buio pesto, non il rosso del sangue che la faceva affogare, solo un
muro di pietre e una donna appoggiata ad esso che osservava fuori dalla
finestra con un’espressione incredibilmente seria.
Sospirò, e attese. Non sapeva cosa. Ma attese, con la pace
nella mente.
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