La maledizione del Burattinaio

di La sposa di Ade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte - APOKALYPSIS Prologo - Sangue cattivo ***
Capitolo 2: *** 1. Giochi d’anime e d’ombre ***
Capitolo 3: *** 2. Certe cose oscure ***
Capitolo 4: *** 3. Io ho un corpo. Io sono un corpo ***
Capitolo 5: *** 4. L'ostilità dei sogni ***
Capitolo 6: *** 5. Morrigan. La bestia parla ***
Capitolo 7: *** Seconda parte - DAEMON - Il sangue è come acqua ***
Capitolo 8: *** 7. Calma piatta ***



Capitolo 1
*** Prima Parte - APOKALYPSIS Prologo - Sangue cattivo ***


A Selina, 
che crede in questa storia più di me
.

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LA MALEDIZIONE DEL BURATTINAIO

PRIMA PARTE - APOKALYPSIS

SI PUò FARE LUCE IN UN CIELO TUTTO MELMOSO E NERO?
SI POSSONO LACERARE TENEBRE PIù DENSE DELLA PECE
 
SENZA MATTINO Né SERA, SENZA STELLE, SENZA LAMPI FUNEREI?

 

Prologo. Sangue cattivo

Porte socchiuse. Il mio monastero dichiara silenzio. Sono il mio mantra buio, il lato nevralgico affidato alla vita -vicino a te- che sfioro i tuoi momenti di digiuno. Mangio parole, preghiere di pelli indicizzano il muro che si riempie di crepe. Maschero il pianto, ungo le costole. Sono ombre dietro al velo che lasciano intatto il percorso che mi porta alla tua anima.

Una violenta pioggia si era abbattuta su quella piccola città, e già da due ore non dava segno di voler smettere, sembrava piuttosto voler cancellare l’alone oscuro che la impregnava e lavare via le macchie di sangue che negli anni mai avevano abbandonato quel posto triste.
Una figura minuta si sporse dall’ingresso del grande tempio per guardare fuori, mentre dietro di lei un canto troppo simile a una nenia si sollevava lenta.

Niente di strano, va tutto bene. Si disse. Ed era vero, non c’era niente di strano in una giornata di pioggia.
Si voltò osservando l’interno di quel tempio; soffitto alto e la lunga navata, vetrate colorate proiettavano all’interno la poca luce della giornata, rendendo il tutto più cupo di quanto sarebbe dovuto essere, file di panche di legno scuro erano disposte con un ordine impressionante e le teste chine facevano assomigliare il tutto a una scena di un funerale piuttosto che a una messa, tornò a osservare la pioggia vedendola per la prima volta più felice e rassicurante di qualsiasi altra cosa la circondasse.

Hanno quasi finito. Si disse, semplicemente, per convincersi del fatto che non mancava molto che un’ orda di persone silenziose uscisse da lì e la circondasse, consentendole di tornare a casa tranquillamente. Sospirò continuando a osservare la pioggia e il fango che andava a crearsi poco lontano dai suoi piedi. Quella era una città che le faceva paura, che le aveva fatto paura da sempre, fin da piccola, fin da quando osservava dalla finestra della sua piccola casa la pioggia sorprendere i bambini che invece giocavano tranquilli in strada. Aveva sempre visto quella pioggia di un colore differente dagli altri, adulti e bambini, e quel colore la spaventava, quel rosso era ciò che di più odiava a quel mondo insieme ai suoi stessi ricordi.
Rabbrividì involontariamente quando qualche goccia di pioggia raggiunse il suo viso, fece un passo indietro, per evitare di bagnarsi ancora di più, per poi asciugarsi il volto. Strinse i pugni avvertendo quella giornata troppo simile a quella di anni prima, perché non smetteva di piovere?
 

Osservava la pioggia dalla finestra della sua piccola stanza, ascoltando il suo suono continuo e il rumore di sua sorella di sotto che trafficava con gli utensili da cucina e canticchiava; vivevano da sole, solo loro due e il loro legame. Non era facile andare avanti così ma insieme si facevano forza a vicenda, portavano avanti la loro piccola famiglia a forza di risparmio e sorrisi.
Colpi forti alla porta e subito sua sorella smise di cantare, non aspettavano visite, non quel giorno. Magari qualcuno che aveva bisogno di cure, si disse la minore, non capitava spesso ma visto che la maggiore lavorava al tempio, che veniva usato come rifugio per i feriti di guerra, non ci sarebbe stato nulla di così strano nel trovarsi qualcuno che aveva bisogno di cure alla porta di casa. Sentì appena i suoi passi, ma distinse chiaramente il cigolio della porta di pesante legno.
“Veiler, sei guarito? Riesci già ad alzarti...” Poi la sua voce si era interrotta bruscamente, quelle erano state le ultime parole che aveva sentito sulle sue labbra, il resto era stato solo urla di dolore e un pianto sommesso, il suo, di paura e impotenza nel sentire quelle urla strazianti precedute da quel nome su cui avevano fatto tanto affidamento, quel nome di cui sua sorella Zaphiria si era segretamente innamorata, tremava e le sue gambe erano legate da fili invisibili che il suo stesso istinto le imponeva.
Poi il silenzio aveva avvolto la casa, e lei, che divorata dalla paura non era riuscita a muoversi ordinò alle sue stesse e ormai tremanti gambe di scendere al piano di sotto; ampie finestre lasciavano intravedere la pioggia, i vetri macchiati di rosso le donavano quel colore orribile, che per sempre le si impresse nella mente, mentre il corpo di sua sorella giaceva a terra straziato in una pozza rossa, con gli occhi aperti fissi sulla porta che lasciava entrare il freddo di quella giornata. Poi qualcuno urlò, mentre dentro la casa il sangue colava dai vetri e colorava di rosso la pioggia incessante.
 

Non si accorse dei passi che si avvicinavano sempre di più e quando alzò lo sguardo una figura alta e snella la sovrastava, aveva il volto di un ragazzo, ma una grossa cicatrice copriva interamente la parte sinistra del suo volto senza però intaccare il colore così luminoso dell’ iride, di una strana tinta ambrata che non aveva mai visto, i suoi capelli del colore della sabbia erano coperti da un cappuccio largo su cui era attaccata una spilla dal lugubre sorriso. Era fradicio, eppure non sembrava importargli più di tanto, la ragazza si fece da parte pensando che volesse entrare in quella chiesa, invece non si mosse rimanendo fermo dov’ era senza distogliere i suoi occhi dalla giovane che aveva abbassato lo sguardo, solo in quel momento vide la grossa arma fasciata che portava a tracolla e che teneva dietro la schiena all’ altezza delle mani, una delle quali stringeva una sigaretta ancora miracolosamente accesa. Le sue mani iniziarono a tremare nello stesso istante in cui lo sconosciuto, con grande sollievo della ragazza, passò oltre entrando nella chiesa ora silenziosa, se non per il frusciare degli abiti dei presenti che si stavano preparando per tornare a casa. Arricciò il naso quando il cacciatore le passò affianco lasciando una scia di fumo di sigaretta, si voltò giusto in tempo per vedere le sue ampie spalle sparire tra la gente che si dirigeva verso l’uscita. Strano, si disse, prima di sospirare di sollievo, appena prima di intravedere una macchia nera volare piuttosto alta e infilarsi nel tempio, ma presto sarebbe potuta tornare a casa e lasciare quel luogo che non più come un tempo le dava quel senso di sicurezza di cui aveva sempre avuto bisogno.
Le faceva paura la pioggia, portava a galla orribili ricordi e tanta, troppa, paura; da quando sua sorella era stata uccisa brutalmente dalla persona che amava la sua rabbia si era mescolata alla paura, sparendo.
Le persone le sfilarono accanto, sfiorandola appena a avvolgendola con l’odore degli abiti ora impregnati d’incenso, le sue gambe erano bloccate; vedeva quell’ acqua come una pioggia d’aghi e le faceva paura stare lì, eppure la prospettiva di entrare e restare sola, seppur al riparo era la peggiore. Quindi rimase appoggiata allo stipite del grande portone quando anche le ultime persone l’ebbero superata, solo per sollevare lo sguardo e accorgersi che la protezione su cui aveva fatto conto poco prima si stava allontanando. Fece il primo passo, non riuscendo a udire il suono della sua scarpa bucare l’acqua di una pozzanghera perché uno sparo coprì per un breve istante ogni suono, rimbombando in quell’ ampio spazio dietro di lei.
 

I suoi passi erano silenziosi in quella dimora dell’eco ormai deserta. Il fumo della sua sigaretta si confondeva con l’incenso ancora presente nell’aria, disperdendosi in grigie volute. Si sistemò meglio la grossa arma che teneva a tracolla, senza avere però l’intenzione di usarla.
Giunse nella cella in cui una figura lievemente ingobbita stava riponendo i suoi gioielli alla base di una statua dai lineamenti nascosti, l’unica cosa che spuntava dalla lunga veste di pietra erano un paio di mani, dai lunghi artigli, ben aperte e con i palmi rivolti verso il basso.
Il giovane estrasse dalla fondina nascosta una pistola che con un lieve rumore si posizionò all’altezza del capo del sacerdote. Questo si irrigidì un istante per poi voltarsi lentamente con un’espressione timorosa sul volto.
“La messa è finita figliolo.” Disse con voce roca, ignorando la pistola puntata contro la sua fronte. “Perché non torni domani?” Il suo volto rugoso si allungò in un lieve sorriso mentre i suoi occhi si socchiudevano.
La pistola era sempre più pesante e il polso più debole, la voglia di continuare a uccidere stava svanendo, si chiese perché continuasse a cacciare competendo in continuazione con i demoni, fingendo di non scappare. La mente gli si riempì di desideri e idee non sue.
Strinse gli occhi, sentendo fili di sottile acciaio stringersi sul suo polso. La sigaretta scivolò dalle sue labbra, spargendo cenere sul pavimento liscio quando venne in contatto con esso, piccole scintille si alzarono coraggiose per poi morire subito dopo, mentre una sensazione di freschezza invadeva il suo occhio sinistro.
Rialzò il braccio e sparò. Fu un suono che rimbombò in tutta la chiesa, raggiungendo ogni angolo. Pezzi di scura pietra caddero a terra dietro al sacerdote ancora in piedi; al posto di una delle mani ossute della statua ora c’ era un foro fumante. 
“Ma tu sei umano.” La sua voce era spiacevole, come unghie che grattano sul vetro. Il vecchio lo osservò con stupore, non capendo come avesse trovato la forza di compiere una qualsiasi azione. “Come puoi resistere ai suoi fili?”
“Con me non funziona.” La sua voce era piatta, incolore e fredda, indicò appena l’occhio ambrato con la mano libera e vide un lampo di comprensione attraversare il volto dell’altro.
“Non può essere.” Il suo volto gli ricordò per un istante il marmo chiaro, cosparso di segni scuri come fossero vene. La canna della pistola tornò a puntasi contro la sua fronte. “Che cosa…”
Il ragazzo agitò la pistola intimandolo a tacere. “Sto cercando l’Annullatore, è così che lo chiamate ormai voialtri, no?” Sul volto del vecchio apparve un sorriso che rischiò di trasformarsi un una risata.
“Sono in tanti a cercarlo, e in tanti sono venuti qui a chiedere di Lui.” Fece una pausa osservando il volto sfregiato del giovane che attendeva e la pistola ancora fermamente puntata tra i suoi occhi. “E a tutti ho dato la stessa risposta; nonostante sia qui che la sua anima da umano è cambiata, non ho idea di dove si trovi ora, né…” Un altro colpo di pistola e questa volta cadde a terra il corpo ora mollo del sacerdote mentre sulla veste scura della statua dietro di lui era apparsa una rosa rossa di sangue e cervella.
“Inutile.” Mise a posto l’ arma, voltandosi e incamminandosi verso l’ uscita; un altro buco nell’ acqua.

 

Alcuni punti su questa storia e sul capitolo

-La poesia appena sotto al titolo è di Baudelaire e a proposito di questo, avrete notato che le lettere accentate sono in minuscolo al contrario delle altre… Su word diventavano quadratini bianchi, quindi le ho lasciate piccole. Sorry me
-Apokalypsis: La parola apocalisse deriva dal greco (apokalypsis), composto di apó ("separazione", usato come prefissoide) e kalýptein ("nascosto”), dunque significa un gettar via ciò che copre, un togliere il velo, letteralmente scoperta o rivelazione (grazie Zia Wiki <3). Questo semplicemente perché questa prima parte della storia è un insieme di scoperte, un modo per descrivere la storia, un enorme prologo.
-Per il tempio mi sono immaginata un miscuglio tra la Sainte Chapelle (interno) e la Cattedrale di Beauvais (esterno).
-Le successive supposizioni dei personaggi non sono altro che, appunto, supposizioni. Nessuno dei personaggi è al corrente di tutti i fatti, quindi alcuni potrebbero avere una loro idea riguardo un fatto che potrebbe non essere corretta.
-Il narratore sarà onnisciente, si scopriranno i nomi senza che ci sia bisogno che i personaggi si debbano presentare anche nella storia. Ma non per questo ve li svelerò tutti subito, alcuni saranno parecchio importanti
-Mi viene ancora da schiacciare lo spazio dopo l’apostrofo, so che è sbagliato ma sto cercando di correggere, quindi scusate se troverete qualche spazio di troppo
-Boh, questa prima parte non piace più di tanto nemmeno a me, ma da qualche parte la storia doveva pur cominciare no?

 Spero davvero che la formattazione non mi mandi tutto a puttane :c

Avrei voluto pubblicare nel giorno del mio compleanno con moolta calma, tipo revisionare decentemente qualche giorno prima e pubblicare nel pomeriggio, alla fine la scelta della giornata non è stata delle migliori, ma vabbè, non sono in ritardo, solo molto di fretta e non del tutto soddisfatta. Ma va bene, perché è da tantissimo che volevo iniziare a pubblicare questa storia. Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e spero, per chi intende seguire, che vi piaccia anche il seguito :)
A presto.

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Capitolo 2
*** 1. Giochi d’anime e d’ombre ***


1. Giochi d’anime e d’ombre

Con la bocca come chiesa, ché ci entri dentro, in ginocchio, sul sagrato, con i calci allo stomaco del desiderio nascente -occhi negli occhi-. Ungimi di oli interni, sciolti, fluidificami durante la nenia delle nostre conversioni. Pelle su carne, carne su ossa, ossa su desideri. Miscele di amari martiri di frenesia animale.

 
La carrozza sobbalzava sulla strada dissestata, mentre il costante rumore della pioggia non dava segno di voler smettere. In quello spazio angusto e buio circondato da robuste assi di legno stavano due uomini, in silenzio ad ascoltare chi la pioggia, chi il suono del proprio cuore, troppo veloce da un paio d’ore a quella parte.
L’aria lì dentro si era fatta umida e l’acqua che correva sul legno e sul vetro dava ancor più la sensazione di essere bagnati fino alle ossa. L’uomo più grasso e agitato non riuscì a trattenere un brivido mentre l’altro spostava il suo sguardo d’oro sul suo viso, senza dare l’impressione che quell’ uomo potesse essere più interessante della pioggia che fino a quel momento aveva guardato.
“Siamo quasi arrivati.” Disse lui, non tanto per rassicurare l’altro che aveva iniziato a torcersi nervosamente le mani grasse e sudate, quanto per preparare anche se stesso a una situazione che avrebbe richiesto parecchia pazienza; cosa di cui lui era praticamente del tutto sprovvisto.
Accavallò le gambe si sistemò più comodamente sui sedili di rosso velluto della carrozza proprio mentre un ultimo sobbalzo la scuoteva, seguito dallo sbuffo dei cavalli che la trainavano, ora fermi. Guardò il mercante che si costrinse a fare profondi respiri e a non alzare lo sguardo.
“Non abbiate paura, ho solo bisogno che lei risponda ad alcune mie domande.” La sua voce era melodiosa e come tirato da fili invisibili il grasso uomo si ritrovò a osservare la sua figura; stava seduto sullo stesso mantello che avvolgeva i suoi fianchi, i muscoli del torso coperti da uno strato di sottilissima stoffa nera, le sue braccia –ed erano quelle che terrorizzavano il povero mercante- non sembravano appartenere ad un essere umano; lisce, prive di ogni movimento che potesse far intuire che fossero composte da muscoli, sembravano componenti essenziali e perfetti di una macchina, e le sue mani non erano da meno, rigide come quelle di un’ armatura dagli artigli eccessivamente lunghi che sembravano fusi con le dita stesse. I suoi capelli biondi  scivolarono sulla spalla quando inclinò la testa per studiare l’espressione dell’ uomo.
“Signore, ho bisogno di sapere cosa sa della pietra filosofale.” Detto questo si chinò in avanti pronto ad ascoltare ciò che aveva da dire. L’uomo sembrò dover raggruppare le informazioni in suo possesso per fare un discorso lineare.
“Beh, ci sono molte informazioni riguardanti la pietra, non tutto ciò che si dice su di essa può essere considerato oro colato.”
“Mi dica quello di cui è a conoscenza, sono qui per ascoltarla.” Un angolo della sua bocca si sollevò lasciando però intuire che quello che era apparso sul suo volto non era un sorriso, quanto un segno di impazienza.
“Bene; la pietra filosofale è conosciuta come l’elemento perfetto, in grado di risanare la materia dalla corruzione; può curare qualsiasi tipo di malattia, ma non è vero che dona l’immortalità, perché l’immortalità non esiste, nessun…”
“Mi risparmi questa parte, so bene che per quanto una creatura possa essere longeva e resistente non può sopravvivere a tutto. Non sono le nozioni basilari a interessarmi.” Il mercante fece un’altra pausa prima di riprendere, perché i suoi occhi dorati lo avevano catturato per un istante nel quale un’orribile sensazione di vuoto si impadronì di lui.
“Non è vero che doni l’onniscienza, ma può tramutare metalli, e non solo, in qualcosa di differente. C’è chi dice che sia una pietra lucente e più rossa del rubino più puro, c’è chi dice invece che sia polvere, chi liquida, o stolti che sono convinti del fatto che la pietra filosofale sia in ognuno di noi. Ma la verità è che è una pietra delle dimensioni di un occhio, più scura della tormalina ma dai riflessi sanguigni, inalterabile nel tempo come l’oro.”
“Queste sono cose che so anche io, ciò che voglio sapere è se ha potere sulle anime.”
“Anime?”
“Anime perse, anime dannate, rubate e immonde. Controllate.” Inclinò di nuovo la testa in un gesto animale; come un lupo che osserva la sua preda divorata dalla disperazione agitarsi, in cerca di una via d’ uscita, mentre i suoi occhi luccicavano di una luce che di umano aveva ormai poco.
“Io non so niente di anime.” Finalmente ebbe tregua e riuscì ad abbassare lo sguardo, ma solo perché l’altro si alzò, facendo un piccolo passo verso il lato della carrozza come se volesse uscire, invece scostò appena le tendine semitrasparenti per guardare la pioggia che continuava a scendere, trattenne la rabbia, il nervoso e la frustrazione per aver perso altro tempo. “Sono solo un misero mercante, se volete sapere come purificare un’anima sul confine della città c’è il Tempio Nero, c’è chi dice che lì vi sia custodita.” Ancora, inclinò la testa, prima da una parte poi dall’ altra, per scacciare la tensione che si era impadronita dei tendini del suo collo, alzò la mano e con un movimento lento fa scorrere il lungo artiglio contro il vetro, producendo un suono orribile che fece contorcere il mercante, che lentamente stava raggruppando il poco coraggio di cui era dotato.
“Ho sbagliato di nuovo.” Sussurrò appena distogliendo l’attenzione dalla pioggia e bloccando con il chiavistello la porta, sentì il frusciare degli abiti costosi del grasso mercante e di una lama corta che veniva snudata.
Sentì la lama tagliare l’aria con un sibilo sinistro, prima di sentirla penetrare nella sua schiena tra le sue vertebre. Non sentì alcun dolore, solo un gelido fastidio in mezzo alla schiena.
“Un essere come te non dovrebbe esistere, cosa sei? Quale Dio ha permesso la tua lurida esistenza?” Dalla ferita sgorgò sangue scuro che schizzò sul volto del mercante, questo arretrò quando l’ altro si voltò con un’ espressione indecifrabile dipinta in volto, provava pena per quell’ uomo che era così legato alla sua misera vita.
I suoi occhi tremavano, il terrore di un cadavere nel vedere il proprio corpo mangiato inesorabilmente da vermi e corvi.
“Saresti sorpreso nel sapere che è lo stesso che veneri tu, misero essere.” Alzò appena l’avambraccio distendendo le dita lunghe e artigliate mentre sui polsi del mercante di avvolgevano stretti dei fili invisibili di metallo, un sorriso sofferente si allungò sul suo volto, tirato dal dolore che iniziava, seppur lentamente, a invadergli la schiena.
Si avvicinò al mercante con passo lento mentre i suoi polsi si facevano sempre più vicini, intrappolati da manette invisibili.
“È un peccato.” Allungò l’altra mano dietro la schiena per sfilare il pugnale, inutilmente perché troppo lontano dalle sue dita, con una smorfia tornò a osservare il mercante. “Un vero peccato.” Si avvicinò ancora, ora erano a pochi centimetri di distanza e poteva benissimo sentire il tanfo del terrore che il suo corpo emanava in quel momento. Tentò di liberarsi da quei fili affilati che si stringevano sempre di più. “Ma almeno avrò da divertirmi un po’.” Sul suo volto si distese una maschera di terrore quando l’altro gli sorrise.
 

Aveva visto la carrozza fermarsi nel bel mezzo della strada che portava al Tempio Nero, era rimasto fermo sotto la pioggia per vari minuti mentre i cavalli battevano di tanto in tanto gli zoccoli sul lastricato bagnato scuotendo i crini ora fradici. Ed era ancora lì, nascosta alla pioggia sotto un albero una ragazza osservava rapita quella carrozza da ricconi, aspettando che ne uscisse magari un bel giovane. Ma quando la porticina cigolò e dall’interno sgocciolò fuori una grande quantità di sangue riuscì a malapena a trattenere un urlo; la porticina permetteva a malapena il passaggio di un uomo alto e dal petto coperto su cui ricadevano alcune ciocche di capelli biondi, dietro le sue gambe era riuscita ad intravedere un altro volto orrendamente sfigurato, ma prima di distogliere lo sguardo era riuscita a carpire troppi dettagli; l’ uomo era riverso a terra e a decorare la sua espressione terrorizzata c’erano delle profonde incisioni sui suoi zigomi, che partivano da sotto l’ occhio privato ora di palpebre e arrivavano fino alle guancie, lasciando intravedere oltre al rosso puro del sangue le gengive e la dentatura al di sotto di quei solchi, sulla sua fronte vi si trovava invece una mezza luna tratteggiata con noncuranza. Il suo volto era una maschera di terrore e sangue e solo quando aveva distolto lo sguardo in mente si fece strada anche l’ immagine delle labbra strappate via, lasciando a quel volto un sorriso grottesco. A quel punto, senza ulteriori indugi, si voltò e corse verso il tempio, terrorizzata da ciò che sarebbe potuto accadere se si fosse premessa di indugiare.
Si dovette però fermare dopo poco, quel rosso ora le impregnava la mente, la riempiva di angoscia e la faceva stare male. Cadde in ginocchio sotto la pioggia boccheggiando tra un conato e l’altro, vomitava a vuoto e ringraziò il cielo per il fatto di non aver ancora pranzato mentre lacrime di dolore le annebbiavano la vista.
Combattendo contro le gambe molli si mise in piedi scacciando l’immagine di quel viso straziato e del sangue che denso colava fuori dalla carrozza, mescolandosi con la pioggia.
Guardò dritta davanti a sé e stringendosi tra le braccia si diresse a passo svelto e malfermo verso il tempio.
 

 “Ebbene? La pietra?” Scese sul lastricato bagnato per rivolgersi al cocchiere, che ovviamente aveva sentito tutto, ormai non cercava neanche più di nascondergli le cose, vista la sua innata capacità di immischiarsi negli affari altrui, oltre a quella di percepire la pietra.
“Sì, è vicina, la sento chiaramente. È molto probabile che sia davvero al Tempio.” Sorrise tra sé. “Infondo a qualcosa serviva quel vecchio.”  Storse la bocca, gli scocciava parecchio aver bisogno di qualcuno, ma era stato parecchio fortunato a trovare una persona con capacità del genere, anche se in quell’ ultimo periodo non avrebbe saputo dire chi si stava servendo di chi.
“Non dubitare mai.” Si ripromise di sbarazzarsi di lui il prima possibile. “Muoviamoci.”

Il sapere non è sempre una buona cosa, Ayn.
Una ragazza, poco distante, ascoltò quelle ultime parole, tremando.
 

Vuoto.
La messa che si svolgeva tutte le mattine in tutti i templi di tutte le città era ormai finita da tempo e i suoi passi pesanti rimbombavano nel piccolo spazio vuoto dove il silenzio poco prima inghiottiva tutto, ora anche le gocce che cadevano dalle punte dei suoi capelli biondi e dai suoi abiti fradici sembravamo assordanti. Aveva il cuore che correva più di quanto avesse fatto lei fino a poco prima. Si fermò solo un attimo, per appoggiare le mani alle ginocchia e riprendere fiato, prima di riprendere a camminare e scendere nella cella di sotto.
Raggiunse l’altare e scovò la piccola botola di cui solo fedeli adepte come lei e i sacerdoti conoscevano l’ esistenza; le sue mani tremavano mentre maldestre tentavano di aprire la serratura. Nella sua testa ancora il rumore di passi e la sensazione di essere seguita, osservata, braccata. Dalle sue labbra uscivano respiri nervosi, perchè ormai era una corsa contro il tempo.
Finalmente si sbloccò e poté sollevare la piccola anta nascosta nel pavimento, vi si infilò senza esitazione, tornando a sentirsi al sicuro.
Fiaccole dal fuoco azzurro illuminavano quello spazio ampio e circolare, l’ umidità impregnava l’ aria e una vibrazione di energia e vita percorreva le sue spesse mura. E al centro quella pietra rossa a cui tutti ambivano, era l’ unico sprazzo di colore rosso in quell’ ambiente che possedeva i colori di un incubo.
Vi si avvicinò sentendosi subito più tranquilla quando il lieve bagliore che emetteva riscaldò il suo viso freddo e bagnato, ma questa piacevole sensazione svanì all’ istante quando forse solo nella sua testa rimbombò il suono i passi pesanti su una superficie non troppo resistente. Tutti i suoi muscoli si irrigidirono mentre il cuore prendeva a pulsare con forza, quasi impedendole di prestare l’ attenzione che avrebbe voluto a ciò che accadeva al di fuori di quel buco più o meno sicuro.
Di nuovo, questa volta però ne era certa, era certa che qualcuno si trovasse più vicino di quando lei stessa avrebbe mai voluto, era certa che non sarebbe passato molto perché scoprissero lei e il suo rifugio, era del tutto certa che avrebbe dovuto prestare più attenzione; delle orme bagnate che terminano appena prima del velluto scuro del tappeto sopra la botola non danno troppi sospetti, certo che no.
Più forte, qualcuno stava battendo con molta più forza su quella piccola porta di legno, e lei tremava, come il legno e le camole dentro di esso.
Uno schianto e una nuvola di polvere venne illuminata dalla luce che ora penetrava in quell’ ambiente, le fiamme sulle fiaccole attaccate ai muri tremarono sollevandosi rabbiose, allungando le ombre in modo spettrale.
Vide le sue gambe fasciate da abiti neri scendere lentamente le scale appena sotto la botola, tremò di nuovo quando si fermarono e vide il suo busto piegarsi; prima delle ciocche di capelli che dovevano essere biondi, poi un volto affilato dalle labbra sottili, e un paio di occhi dorati che la fissavano. Quando si rimise in posizione eretta per finire di scendere le scale la sua paura diventò qualcos’ altro, i tremiti che correvano su per la sua schiena erano comunque spiacevoli, ma erano diversi da prima, si intensificarono sempre di più mentre lui si avvicinava, fino a che non ci fu più abbastanza spazio dentro il suo corpo.
“A quanto pare sono in ritardo per la messa.” Qualcosa dentro di lei decise di fare ciò che un qualsiasi umano temerebbe più della morte; come in trance infilò la mano in quel piccolo spazio dedicato alla pietra mentre, voltando le spalle all’ uomo che aveva ripreso a scendere le scale e, ripetendosi che quello era il suo dovere, avvicinò quel calore che ora si ritrovava tra le mani al viso, socchiuse la bocca, sempre più sicura di sé e sentendola prima sulla lingua la spinse giù; raschiò contro le pareti della gola e trattenne le lacrime di dolore sforzandosi di mandarla giù. Un sapore salato simile a quello del sangue le invase la bocca mentre un forte dolore iniziava a bruciarla dall’ interno. Si piegò su se stessa tossendo, mentre brividi di altro dolore le correvano su tutto il corpo. La sua coscienza sembrò isolarsi da tutto, l’ unica cosa a cui riusciva a pensare era quello che sentiva dentro di sé  l’ unica cosa che vedeva era il terreno lucente di quella strana cripta, sentì a malapena che qualcuno la prendeva malamente per i capelli e le tirava indietro la testa.

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Stava rannicchiata per terra, con la schiena contro una di quelle fredde colonne del tempio, tremava nel silenzio assordante che si era creato dopo lo sparo. 
Di nuovo, non riusciva a muoversi, aveva paura come anni prima, il silenzio immobile sembrava avvolgersi su di lei rendendo anche il suo corpo parte di quel quadro fisso e stabile. Si chiese come lo fosse venuto in mente di tornare dentro dopo aver sentito lo sparo, neanche avesse voluto apposta buttarsi di testa nei guai.
Aprì gli occhi che non si era accorta di chiudere e davanti a lei, con la testa lievemente piegata da un lato, c’era un corvo nero come la notte che la fissava, immobile. I suoi occhi erano tunnel d’ ombra e il becco appuntito e lucido era come una lama puntata verso di lei. Rimase immobile, sperando che il volatile la lasciasse perdere, ma questo sembrò innervosirsi e si agitò sistemandosi nelle ali, poco prima di spalancarle e gracchiare due volte verso di lei, come se stesse ridendo.
Poi dei passi. Vicini.
Una scarica di paura e adrenalina la fecero scattare in piedi, fuori da quel nascondiglio per niente sicuro che si era trovata, si mise a correre, con le suole degli stivali ancora bagnati che scivolavano sul pavimento liscio; sentiva lo sbattere frenetico delle ali dietro di lei, quando senza alcun preavviso un braccio forte e freddo le avvolse la vita facendola strillare appena.

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Appunto: il tribale là sopra è per separare le due 'situazioni' visto che questa storia tendenzialmente proseguirà su due strade più o meno parallele per quanto riguarda il tempo e i gruppi dei personaggi
Grazie a recensisce, aggiunge a preferite/seguite e a tutti i lettori silenziosi 

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Capitolo 3
*** 2. Certe cose oscure ***


2. Certe cose oscure

Con le dita come coppe di ceneri e i capelli come tende, nude le spalle che agli occhi sei un miracolo. Il mio. Santo dentro, peccato d'amore il tuo verbo, avanzi sui miei sogni, indecorosa creatura dei cieli. Muovi sguardi, occhi come spilli. E le confessioni, vizi di carne consumata, riesumano il nostro atroce mosaico.

 

A malapena si sentì trascinare per il lastricato fuori dal piccolo tempio, avvertì però il freddo della pioggia passare attraverso i suoi vestiti già bagnati mentre, lentamente, il bruciore ustionante dentro di lei sembrava attenuarsi, donandole di nuovo i sensi e la capacità di muovere gli arti. Quel dolore svanì gradualmente da lei mentre veniva sostituito dalla sensazione dell’aria fredda nei suoi polmoni e dal costante dolore che provava all’attaccatura dei capelli. Si mise a strillare e si agitò quando quel dolore aumentò, divenne quasi insopportabile, era peggio di quanto sarebbe dovuto essere in realtà e ora le lacrime le rigavano il viso ma venivano lavate via dalla pioggia incessante. Ogni cosa che sentiva era amplificata in maniera assurda, l’acqua ghiacciata delle pozzanghere le raggiungeva le ossa, i brividi le scuotevano il sangue nelle vene.
Si accorse con fin troppa lucidità di venire caricata con malagrazia dentro alla carrozza, la stessa in cui c’era ancora il corpo straziato di quel mercante riverso nel suo stesso sangue. Urlò ancora quando si sentì tirare ancora per i capelli ed essere spinta sopra uno dei sedili di velluto rosso, lo stesso rosso che ricopriva il legno sotto di lei, per quello non si sarebbe accorta delle macchie di sangue sul tessuto se non fosse finita con la faccia su una di esse.
Si rannicchiò in posizione fetale, per proteggersi da quello che si trovava intorno a lei; sangue, paura e il rumore incessante della pioggia che le rimbombava con insistenza in testa. Sentì qualcosa stringersi sul collo, non con troppa forza, ma sentì quel tocco con dolorosa consapevolezza, sembravano mille lamette che le raschiavano fin nelle ossa. Gemette e alzò lo sguardo. Incrociò i suoi occhi di ghiaccio e si sorprese di non vedere né rabbia né altro sentimento in essi, solo un’ espressione di forzata pazienza.
“La pietra.” Lo disse come se la persona che si trovava davanti a lui sapesse esattamente ciò di cui stava parlando, infatti.
Ma dalle labbra della ragazza uscì solo un suono inarticolato. Una mano artigliata e scura si allungò verso di lei; una richiesta impaziente.
“Non…” Iniziò con voce roca; con le parole che raschiavano con forza contro le pareti della gola.
"sai di cosa sto parlando?” Terminò per lei sollevando le sopracciglia. “Bene, vedremo se durante il viaggio ti verrà qualcosa in mente.” E chiuse la porta, il vetro vibrò e la serratura scattò. Rimase immobile con il cuore che batteva con forza contro la cassa toracica, sentì i cavalli nitrire e la carrozza iniziare a muoversi. In quel momento temette di aver ampliamente sottovalutato la situazione.
Aveva paura, paura di qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere, qualsiasi cosa lei avesse fatto.

    “Hai sempre avuto paura.”
Sobbalzò, sentendo quella voce poco familiare dentro la sua testa, si rannicchiò abbracciandosi le gambe e fissando la piccola finestra, la pioggia continuava a scendere e i suoi abiti erano ancora bagnati, come se si trovasse proprio lì fuori. Vedeva gli alberi scorrere ai lati della strada, tentando di allontanare il pensiero della sua casa accogliente che si allontanava sempre di più, vedeva quella piccola finestra come le sbarre di una prigione, quando un’idea le si insinuò nella testa facendola fremere.
    “Puoi farlo, rompi il vetro e sblocca la serratura, sarai libera.”
    “Ma ovviamente ha troppa paura per farlo vero? Allora lasciami il posto.”
Si prese la testa tra le mani, non voleva lasciare che quel mostro prendesse il suo corpo; già una volta era successo e da quando si era ritrovata con un vuoto nella testa e del sangue fresco sulle mani si era ripromessa che lei sarebbe stata l’unica in grado di muovere il suo stesso corpo. Tremava, e sentiva la propria determinazione scivolare via lentamente. Che cosa poteva fare quando il terrore e l’angoscia avevano in pugno il suo cuore?
    “Lasciami il posto, o morirai.”
Non l’avrebbe fatto, era sempre riuscita a resistere e così sarebbe stato anche quella volta.
Ma questa volta fu diverso, la sentì agitarsi dentro di lei, come un forte bisogno, come l’ ossigeno dopo un’apnea troppo lunga. Non era più così convinta di voler rimanere inerte ad aspettare il peggio. E per la prima volta fu lei stessa a decidere di lasciarle lo spazio di cui aveva bisogno; le avrebbe prestato la sua mente un’ altra volta.
 

Il suo primo ricordo era, come poteva esserlo per molti, quello della propria madre e del suo abbraccio gelido, del suo freddo corpo sopra di lei e dei corvi che le strappavano gli occhi.
Era iniziato tutto con un’ attacco dei briganti, e quelli che la ritrovarono viva in mezzo a macerie e morti ritennero che la donna che le avesse fatto da scudo fosse sua madre. Nonostante la situazione in cui si trovava la bambina venne sbattuta nell’ orfanotrofio di una città puzzolente e umida. La vecchia che si prendeva cura dei bambini veniva chiamata Mary la Gentile… una bugia, una facciata per proteggersi dalle parole degli abitanti della città, la verità era che non esisteva persona peggiore di Mary; bastava un tono di voce troppo altro, un solo sguardo per finire chiusi nella stanza buia che era la punizione per tutti i bambini di quel posto. La sua era cattiveria gratuita e sosteneva che i bambini l’ avrebbero ringraziata una volta diventati adulti, sempre che avessero raggiunto l’ età adulta.
La città era mefitica, tutto puzzava di muffa, anche i panni appena lavati, le acque erano sporche e i topi erano più degli abitanti.
Zaara aveva capito come funzionavano le cose lì dentro; loro non contavano nulla, erano solo degli svaghi o degli oggetti su cui sfogare la rabbia, a volte sembrava bastasse semplicemente respirare l’ aria di Mary per sentire arrivare le cinghiate o finire per restare chiusi per ore dentro quello sgabuzzino buio infestato dai topi.
La ragazza aveva imparato a stare al suo posto e a provare un certo distacco per tutto ciò che le accadeva intorno; stava gran parte della giornata seduta sul letto con le spalle contro il muro e le braccia attorno alle ginocchia raccolte, i capelli biondi a coprirle il volto, si era stufata della realtà in cui viveva.
Tutti iniziò quando uno dei bambini che vivevano lì era stato adottato, per sua fortuna, perché sembrava essere considerato da Mary il suo giocattolo preferito.
Quando il bambino lasciò la casa la tensione divenne palpabile; a chi sarebbe toccato? Chi sarebbe diventato il nuovo giocattolo di quella vecchia prepotente? Zaara era quasi tranquilla, al contrario di quel bambino, lei non urlava né correva per l’ orfanotrofio facendo cadere vasi e rompendo ciò che poteva essere rotto, era sicura che avrebbe potuto passare altro tempo in quel suo angolino sicuro.
Aveva ancora quel leggero sorriso tranquillo quando si sentì afferrare per il braccio da una mano rugosa e ossuta; sollevò la testa, mentre le sue sicurezze crollavano, il volto della vecchia a poca distanza dal suo.
“Che ne dici di giocare con me?” La gola le si chiuse e le lacrime forzarono per uscire. Era delusa? Di certo non si aspettava nulla di buono da Mary, ma si chiese perché fosse stato suo il braccio quello sulla quale si era stretta la sua mano. No, non era delusa, era a pezzi, come un vetro rotto infranto dalla pietra lanciata da un bambino che lasciava entrare il gelo dell’ inverno. Stava provando per la prima volta qualcosa di nuovo che la faceva tremare e le faceva correre brividi su per la schiena, ebbra di quel sentimento venne chiusa dentro quella stanzina buia, da sola, lei e il suo nuovo odio.
Si riscosse quando sentì delle zampette minute correrle velocemente su un piede; balzò indietro andando a sbattere contro la porta mentre uno squittio riempiva il buio di quello sgabuzzino non più largo di un paio di metri. Il panico si fece strada dentro il suo corpo, lì dentro non vedeva nulla, e il battito frenetico del suo cuore copriva qualsiasi altro suono impedendole di capire dove fossero i topi per starne a debita distanza; la sua prima reazione fu quella di voltarsi e iniziare a battere con i pugni sul legno, pregando e urlando che la facessero uscire, continuò fino a quando non le bruciò le gola e non terminò tutte le lacrime. Alla fine si lasciò scivolare a terra, le spalle contro il legno ruvido, inerte e quasi indifferente dal poco che le accadeva attorno.
Solo quando sentì il morso di un topo sulla caviglia scheletrica si mosse con una freddezza e una rapidità che non sapeva di possedere; afferrò il piccolo corpicino, sentendo le setole di pelo grattarle contro la pelle e i denti affondare nella poca carne delle dita, sentiva i suoi deboli squittii e le sembrava quasi di poter intravedere la sua sagoma nelle tenebre, poi, con un movimento deciso schiacciò contro il pavimento la testa del topo, che si spense con un verso raccapricciante.
Passarono giorni, o almeno fu quello che credette Zaara, prima che quella vecchia strega che aveva imparato ad odiare con tutta se stessa si degnasse di tirarla fuori da quel buco.
“Hai smesso presto di urlare, eh?” La sua voce le graffiava le orecchie, ogni parola non faceva che aumentare la rabbia che ribolliva dentro di sé, alimentando una furia che di umano non aveva più nulla. La donna continuava a parlare, ma lei non l’ ascoltava, non sentiva più la sua voce, per lei era già morta. Tra le dita sentiva ancora il viscido sangue del topo che aveva ucciso, si guardò le dita sporche di sangue secco con distaccata freddezza e pensò che quel sangue sarebbe potuto anche trattarsi di quello umano.
Quando si scrollò dalla presa della vecchia per rifugiarsi in bagno. Non la sentì rincorrerla, era sicura di sé, loro erano bambini nella
sua casa; li avrebbe riacciuffati quando voleva. Quando si chiuse la porta alle spalle la prima cosa che fece fu rompere l’ unico specchio di cui era fornito quel posto, la seconda, fu infilzare una di quelle schegge più e più volte nella schiena di Mary.

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La luce della luna entrava dalle alte vetrate, andando ad illuminare le varie carte sparse sulla scrivania di legno scuro; una figura stava seduta tranquillamente sulla sedia a guardare tutte quelle lettere tentando di collegarle le une alle altre; nessuna sembrava dire qualcosa di realmente importane o utile e dopo averci passato quasi tutta la notte lui era ormai quasi del tutto certo che quella strada che stava tentando di crearsi non l’ avrebbe portato da nessuna parte, o che non fosse mai esistita, sin dall’ inizio.
Quanto poteva essere sfiancante cercare un uomo e tenere sotto controllo persone problematiche? L’ unico che sembrava almeno provare a ragionare sulle cose era lui, con il risultato di ritrovarsi con più problemi di quanti avesse mai risolto e un niente di fatto. Con un gesto nervoso spazzò le carte dalla scrivania che caddero a terra con un dolce fruscio, era quasi rilassante, la paradossale idea di potersi liberare di tutti quei pesi e compiti che non gli spettavano. Si allungò sulla sedia, distendendo le gambe sulla scrivania. Con lo sguardo fisso sulle vetrate perfettamente pulite la sua mente vagò come un uomo disperso nel deserto, girava in tondo, tornava sui suoi passi e calpestava le sue stesse impronte con passi trascinati e stanchi, non sarebbe andato da nessuna parte, non sarebbe riuscito a risolvere nulla stando dietro a quella fottuta scrivania a spremersi il cervello, non era quello il suo posto. Sospirò, cercando di cancellare tutte le cose inutili dalla sua testa nel tentativo di sprofondare in un nero oblio, che non tardò ad arrivare.
Pochi minuti dopo qualcuno bussò lievemente alla porta, non sentendo alcuna risposta il messaggero entrò silenziosamente nella stanza e, notando che l’ uomo stava dormendo, appoggiò sulla scrivania una lettera, prese il tagliacarte e, soppesandolo tra le mani, lo portò davanti a sé, puntando la figura di quella persona di che di umano non aveva nulla; l’unico occhio rimasto nascosto dietro la palpebra, l’altro sotto una benda nera, aveva un insolito colore arancione che faceva a pugni con il rosso intenso dei suoi capelli creando un’ immagine quasi sfuggente, come frammenti di un vetro rotto di cui era impossibile ricostruire la forma originale, era come se gli occhi si rifiutassero di soffermarsi su quel volto pallido, impedendo di carpirne la vera natura, che però era bellamente messa in mostra dalle orecchie a punta e dalle corna ritorte che le sovrastavano.
Infilzò il tagliacarte attraverso la carta della lettera nel legno duro. Altri avrebbero approfittato di quel suo momento di debolezza per rubare il suo posto con metodi poco ortodossi, e probabilmente lui stesso sarebbe stato uno di quelli, ma in quel momento quel demone aveva un ruolo fondamentale da svolgere, senza la sua mente e senza le sue abilità loro sarebbero stati inutili, come burattini dai fili tagliati.
 

Dischiuse l’unico occhio rimasto, osservando la lama piantata nel legno della scrivania, sbuffò, pensando al buco che ci avrebbe trovato. Poi osservò la porta che si era chiusa da poco, pensando che se il Corriere avesse osato avvicinarsi a lui poco di più con una potenziale arma in mano, non avrebbe esitato a sbarazzarsi di lui, in fondo possedeva diversi uomini veloci nella corsa, sostituirne uno era come schiacciare una formica per poi osservare le altre passarci sopra con noncuranza. Si allungò sulla sedia e senza sfilare il tagliacarte prese la lettera, strappandone una parte.
Dopo che l’ ebbe letta con attenzione si permise un lieve sorriso; non si sarebbe più dovuto preoccupare dell’ integrità della scrivania.

 

 

 

 

Intanto mi scuso, perché mi stavo dimenticando di aggiornare, e poi, sì, un nuovo personaggio che avrà un ruolo importante nella storia è apparso, è un personaggio cha adoro e che spero possa piacere anche a voi proseguendo con la storia. E la ragazza è bipolare? Più o meno, è qualcosa di più interessante, e forse complicato, ma lo scoprirete più avanti :D
Ringrazio, come al solito, tutti coloro che stanno seguendo la storia e si stanno facendo sentire :) Grazie per i consigli e per tutto il resto!
A presto!
PS, magari dal prossimo capitolo vi posto i disegni dei vari personaggi, vi va? :)

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Capitolo 4
*** 3. Io ho un corpo. Io sono un corpo ***


3. Io ho un corpo. Io sono un corpo

Pudicizia frantumata. Con le mani artigliate ad avvolgere gli odori d'incenso. Dissacrante! Generi contratture e tensioni sparse, disperse, omogenee nella mappa perfetta di una corporeità goduta a tratti, dilaniata a passi. E le parole dimentiche d'ogni perdono, a colpire e maciullare, sgretolare. Livide labbra. Vino divino che scorre dall’ intimo per il nuovo sacro.

 
Non si trattava esattamente di decidere, perché sapeva benissimo che ciò che stava per fare era giusto; non aveva fatto niente di male questa volta, non aveva mai fatto nulla.
Quando vide i contorni del campo visivo scurirsi non si preoccupò; era stata anche lei stessa a volerlo. Quindi quando giunse l’oblio vi si abbandonò tranquillamente, sapendo che almeno questa volta non aveva fatto la scelta sbagliata.
 

Stava seduta su una sedia rigida e scomoda, con le braccia attorno alle ginocchia raccolte, il mento appoggiato su di esse. Si stingeva le mani, passando da un dito all’altro; sì il rosso che la sensazione del sangue viscido sulla propria pelle era svanito, ma non ricordava ciò che era successo; quando era riemersa nel nero si era ritrovata sdraiata a terra, con le mani e i vestiti sporchi si sangue non suo, se non per il poco che colava da un taglio sul palmo della mano. Era riuscita a ricollegare quella ferita alla scheggia di vetro lasciata a terra, nient’ altro. Era spaesata e confusa, le guardie della città urlavano, le stringevano il braccio con forza e tutto quello a cui era riuscita a pensare era che il giorno dopo si sarebbe ritrovata dei lividi. In quel turbinio di persone ed eventi non riusciva a distinguere nulla, se non il viola scuro di tuniche che si riversavano nell’ orfanotrofio e, allontanando le guardie con parole che non riusciva a comprendere, la sollevarono da terra con estrema delicatezza.
“L’ ha uccisa!” Nonostante non vedesse più le guardie, le loro voci le rimasero impresse in testa, eppure ancora non capiva; la sua mente si rifiutava di collegare quei frammenti di consapevolezza. Le tuniche la avvolsero in un abbraccio protettivo e nella confusione la accompagnarono fuori, lungo il lastricato nero che conduceva al tempio. Mentre dietro di loro il vociare di guardie adirate e di quelle persone fasciate da cappe scure continuava imperterrito.
“Ci prenderemo cura noi di lei.”
 

Era sempre stata una lotta interna; le poche volte che si era ritrovata risucchiata in se stessa, era una feroce battaglia per riavere il controllo dei muscoli, dei tendini, del proprio corpo. Questa volta li sentì abbandonarla, come fili molli che scivolavano sotto la sua pelle, mentre iniziava a galleggiare tranquillamente nella pece.
 
Stava rannicchiata sulla sedia, con le ginocchia strette al petto e le braccia a cingerle con forza; davanti a lui una scrivania e un uomo seduto su di essa, fasciato in una tunica viola. Non osava alzare lo sguardo dalle proprie mani ancora sporche, perché lentamente, quella parte di sé che aveva gioito nel farlo iniziava a svanire, lasciando nella sua mente un buco che si andava colmando di paura e confusione. E la presenza di quell’ uomo davanti a sé, nonostante non sembrasse ostile, la metteva a disagio.
“Zaara.” La bambina sobbalzò nel sentirlo pronunciare il suo nome, stringendosi ancora di più nel suo stesso abbraccio. “Ora ti spiegherò un po’ di cose, va bene?”
 

Dolore.
Pelle che bruciava, sangue che scorreva e polmoni in fiamme che sembravano prendere il primo vero respiro dopo troppo tempo. Ma non respirava, non riusciva a dare aria al corpo che sembrava sul punto di frantumarsi e rompersi in mille pezzi, e così che lentamente iniziò ad avvertire il proprio corpo nuovamente come suo, a riaverlo.
 

“Ora ti spiegherò un po’ di cose, va bene?”
Doveva sapere, le avevano detto. Doveva avere coscienza del suo corpo e di ciò che si celava dentro di lei. Si chiese perché quelle cose non gliele avesse mai dette nessuno; non sapeva perché sua madre era umana e suo padre no, non sapeva che la prole di due razze differenti aveva sempre dato alla luce neonati morti. Non sapeva perché lei era viva così come non sapeva, ne si curava, del perché o del come si facesse a respirare.
Ma le avevano detto che lei era unica, che nonostante la natura umana e quella demoniaca di solito non potessero convivere, nel suo corpo doveva esserci una condizione adatta per ospitarle entrambe. Separate, ma profondamente unite.

 
La prima cosa che vide fu una nube nera e uniforme, dai bordi densi come catrame e il centro che si schiariva sempre di più gli permise di mettere a fuoco ciò che si trovava davanti ai suoi occhi. Ma prima ancora di riuscire a capire ciò che stava accadendo percepì una fastidiosa e fredda pressione alla gola e la consapevolezza che l’ aria che giungeva ai polmoni non era abbastanza per permetterle di restare cosciente a lungo. Non sentiva terreno sotto ai piedi ma fu stranamente consapevole delle minuscole stilettate gelide inferte dalla pioggia scrosciante.
Un volto liscio e pallido si delineò davanti ai suoi occhi, più vicino di quanto avesse desiderato, gli occhi dorati gelidi e attenti che scrutavano il suo volto. La sottile maglia nera era strappata in più punti e lasciava intravedere brutte ferite, profonde e scure, una delle quali gli attraversava il collo mettendo in mostra buona parte della laringe, in quegli istanti di confusione riuscì a chiedersi come quell’ uomo potesse essere ancora in piedi, vivo.
La guardava con le labbra socchiuse da cui emetteva brevi fischi, probabilmente non sarebbe riuscito a parlare per via delle profonde lacerazioni per qualche minuto, forse di più.
Le ragazza gemette quando vide entrare nel proprio campo visivo un altro uomo, che doveva trattarsi del cocchiere, prima di venire avvolta dall’ oscurità, aveva freddo. Si sentiva morire e poco prima di crollare si chiese perché quella volta fosse stato così diverso e doloroso.
 

 “State bene?” Non ottenne risposta, solo uno sguardo gelido da parte del biondo e poco dopo un cenno del capo che lo incitò a muoversi, a legare la ragazza con nodi che non riusciva a vedere. Continuò a fissarlo, aspettandosi una risposta, una conferma. Il cocchiere sollevò le sopracciglia, constatando di preferirlo di gran lunga ora che non era in grado di parlare.
“L’ha lei, ne sono certo.” Rispose con un sorriso storto.
Quello che sembrava un sospiro breve e pensante uscì dalle sue labbra; una scomoda contrazione dei muscoli sotto la pelle lacerata, Ash, il cocchiere, riuscì a interpretarlo come un ‘bene’. Quindi caricò la ragazza che l’altro aveva appena lasciato cadere a terra, rigida e piegata su se stessa, tremante. Si rabbuiò pensando che la ragazza si trovava in quelle condizioni a causa del’ altro, era forte, indubbiamente, aveva un potere che gli faceva venire i brividi.
Si sarebbe sbarazzato di lui il prima possibile.

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“Lasciami!” Tentò di divincolarsi per scappare ancora, inutilmente perché la stretta attorno alla sua vita era ora una morsa dura come la pietra. Il corvo le volava attorno gracchiando con insistenza. Sentì il cacciatore dietro di sé muoversi lievemente e vide davanti a sé il suo braccio teso che impugnava la pistola che aveva usato per uccidere il sacerdote puntarsi verso quell’ uccello, notò appena un paio di gocce di sangue rappreso sulla canna.
Lo sparo le fece fischiare le orecchie e sobbalzò quando il corvo cadde a terra, in un mucchio scomposto di nero e piume; eppure si agitava a ancora, tentando di rimettersi sulle zampe, continuando a gracchiare, seppur più debolmente.
“Impossibile farti stare zitto vero?” Si issò la ragazza sulle spalle come se non pesasse niente e non si stesse dimenando urlando. Con grande sorpresa della ragazza il corvo riprese a svolazzare tranquillamente intorno a loro, questa volta però senza gracchiare.
“Dovrei ucciderti.” Quelle parole uscirono dalle sue labbra accompagnate da un sospiro stanco. Anche se non vedeva dove stessero andando iniziava a sentire sulla pelle l’umidità e il freddo della pioggia provenienti dalla porta lasciata aperta.
“No, ti prego, ho delle informazione sulla persona che stai cercando.” Probabilmente l’avrebbe detto anche se non fosse stato vero, perché l’idea di morire la terrorizzava.
Appena si accorse delle gocce di poggia che come aghi le passavano attraverso la stoffa leggere degli abiti di ritrovò con il sedere dentro una pozzanghera.
“Se mi stai prendendo in giro, giuro che ti ammazzo.” I suoi occhi la fissavano da sotto il cappuccio scuro, e così faceva anche quella spilla gialla dallo strano sorriso. Ne era certa anche lei.
Probabilmente si aspettava una risposta, perché dopo qualche istante di mutismo lui si chinò così da avere il suo volto all’ altezza degli occhi.
Verdi, cosi strani che Eris ne rimase turbata per qualche attimo, ciò che le fece correre lunghi brividi sulla pelle furono i segni chiari della cicatrice atrofica che deturpava metà del suo volto, certo, l’ aveva già notata prima, ma ora vedeva chiaramente e riusciva a notare tutti i macabri dettagli; le pieghe complesse che prendeva il tessuto fibroso e il colorito ancora più pallido della pelle.
“Senti, ora è il caso di allontanarci da qui, non ti ucciderò, a meno che tu non tenta di fare qualcosa di stupido come mentirmi o cercare di uccidermi.”  La ragazza rimase in silenzio; tutti i muscoli irrigiditi. Lei, congelata tra sorpresa e spavento non rispose. “Ora dimmi, chi ti manda?” Era probabile, ragionò il cacciatore, che si trattasse di una qualche spia inesperta non ancora a conoscenza del fatto che l’uomo che si trovava davanti in quel momento aveva probabilmente ucciso il suo padrone. Aveva svolto molti di quei lavori, premurandosi di eliminare tutti quei possibili ostacoli.
“N… Nessuno.” Un angolo della sua bocca scattò, forse un mezzo sorriso, più probabilmente un riflesso creato dall’irritazione. Poi uno suono deciso, a lei sconosciuto, e la canna della pistola a fissarla come un’ orbita vuota. Panico.  “Ehi, sono sincera! Io vivo da sola e vengo qui ogni giorno, non conosco quasi nessuno e se vuoi sapere qual’ è il mio lavoro… beh, sto al tempio e mi occupo di piccole cose.” Il suo corpo venne percorso da un tremore mentre l’ altro abbassava lentamente la pistola, decidendo di concederle un minimo di fiducia, in fondo non aveva mai conosciuto una spia così inesperta e goffa.
“Come conosci l’Annullatore?” Il suo tono era piatto, pieno di una pazienza invidiabile.
“Veiler.” Annuisce e lui quasi si sorprese nel ricevere una risposta immediata. “È una storia un po’ lunga, quindi vorrei andare all’ asciutto.” Lui storse la bocca guardandosi un attimo in torno. Neanche a lui andava molto a genio restare all’aperto.
“Ovviamente.”
Già da prima che il cacciatore la afferrasse per il gomito e la tirasse su iniziando a trascinarsela dietro la sua mente già vagava, veloce, nel tentativo di mettere insieme le poche cose che sapeva e le poche idee che le erano balenate in mente; avrebbe fatto il possibile, si disse, per restare viva e per poi tirarsi fuori da quella situazione. Osservò la schiena del cacciatore notando per la prima volta cinture, foderi e fondine nascoste, piccole gocce di sudore si mescolarono alla pioggia mentre il timore le avvolgeva il cuore, di nuovo. Tentò di calmarsi, dicendosi che non aveva motivo di ucciderla, almeno finché non gli avesse detto ciò che sapeva. Ma cosa sapeva lei? Potevano davvero tornare utili piccoli episodi del passato suo e di sua sorella? Di quel soldato ferito che si era rivelato essere un mostro? Lo farà bastare, per la sua vita e per il cacciatore, si disse.
Ma aveva una gran paura, inutile tentare di negarlo, aveva paura di morire, di essere già morta. Quindi rinunciò definitivamente all’autoconservazione.
“Che fine ha fatto il sacerdote?” Temeva la risposta, anche se era certa di conoscerla già. Ciò che le sfuggiva era tutt’altro.
“Morto.”
“Perché?”
“Dovresti fare attenzione a quello che chiedi, non sempre si ottiene la risposta che si vuole.”
“Bene allora; dove stiamo andando?” Chiese timorosa, con un sospiro tremante.
L’ altro rimase un attimo in silenzio, seppur continuando a camminare verso i vicoli più stretti, prima di rispondere in tono calmo. “All’asciutto.”
Ovvio.
 

Dopo aver girovagato per i vicoli di quella città silente giunsero ad una locanda schiacciata tra due case, Eris aveva ormai perso il senso dell’ orientamento e sopportava passivamente la presa, forse un po’ troppo forte, del cacciatore sul suo braccio.
L’ adrenalina era scemata e si sentiva incredibilmente spossata, l’ unica cosa a cui riusciva a pensare era al letto caldo delle stanze superiori, mentre ignorava totalmente il fatto di trovarsi in compagnia di un cacciatore che aveva fatto esplodere la testa ad un sacerdote e al suo corvo che ogni tanto si posava sulla sua spalla e altre volte sembrava sparire nel cielo grigio.
E infine si sentiva bagnata, bagnata fino alle ossa da quella pioggia che, più del freddo, le faceva correre orrendi brividi lungo la schiena. Quasi le si chiudevano gli occhi, e di certo le ciocche bagnate di capelli che le scivolavano in faccia non l’ aiutavano a restare più vigile.
Quindi quando salirono in stanza notò appena che vi era un solo letto e vi si buttò sopra, ignorando il fastidio degli abiti bagnati e sospirando di piacere, poco importava se si sarebbe svegliata con il naso gocciolante.
“Che stai facendo?” Sollevò la testa incrociando lo sguardo del cacciatore nella penombra della stanza e osservandolo che se non dovesse trovarsi lì.
“Non è evidente?” Rispose lei scocciata.
“Hai delle informazioni da darmi e non siamo qui per riposare.” Quello spiegava il letto singolo, ma non perché il cacciatore avesse di nuovo in mano la pistola, o forse si. La ragazza sbuffò, mettendosi seduta e rimpiangendo subito la morbidezza del letto e raccolse un attimo le idee sentendo chiaramente lo scroscio umido e insistente della pioggia contro le pareti e le finestre dalle tende accuratamente tirate.
“Innanzitutto vorrei sapere il tuo nome.” Fece lei, beccandosi un’ occhiata gelida e niente più. Vide poi un piccola fiammella illuminare il volto sfregiato del cacciatore per poi affievolirsi e rimanere un flebile bagliore a poca distanza dalle sue labbra, il grosso corvo che la ragazza non aveva notato, stava ora appollaiato sulla sua spalla, perfettamente immobile.
“Raven.”
“Eris.”

 

Vi ho fatto aspettare lo so, ma l’ispirazione va a intermittenza, spero comunque che questo capitolo vi piaccia, io sono abbastanza soddisfatta della prima parte, la seconda un po’ meno, purtroppo una situazione del genere è necessaria, per non farvi procedere con la storia senza capire, visto che ho voluto evitare le enormi spiegazioni iniziali. Informazioni in pillole, ecco :)
Qui sotto vi posto un mio disegno di come mi immagino il tipetto biondo con le braccia strane, e, uhm... senza maglia nel disegno ._. (niente digitale per me, solo matita e foglio ^^)
Ancora grazie a tutti quelli che stanno seguendo e che mostrano interesse, grazie anche ai lettori silenziosi.
Ricordatevi che le recensioni aumentano l’autostima dell’autore :)

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Capitolo 5
*** 4. L'ostilità dei sogni ***


4.L’ostilità dei sogni

 Bevi il mio spirito a lunghi sorsi, fanne vangelo e dettane le condizioni eterne che destano il tuo paradiso sporco, ché i segni del dolore li abbiamo ancora addosso. Scomponimi sul tuo altare.

Erano anni felici e loro, insieme, non vivevano male.
Lei, ancora piccola a gironzolare per la casa e sua sorella maggiore, bellissima, a lavorare al tempio della città che in quel periodo accoglieva i feriti di guerra. Erano andate avanti così per molto, risparmiando su ogni cosa, perché la guerra si portava via tutto, e le città erano sempre più vuote. Zaphiria lavorava moltissimo, passava intere giornate al tempio, mentre la minore stava a occuparsi della casa, in attesa del rientro della sorella che sotto gli occhi portava i segni sempre più pesanti del duro lavoro che faceva e degli orrori che si premurava di curare, non sapeva cosa lei vedesse, non sapeva quanto la sorella piangeva quando non riusciva a salvare una vita. Ma la minore aveva un grande intuito, allora lei la prendeva tra le braccia e stando sotto le coperte ascoltavano il proprio respiro, stanco e pensate, ma non più triste. Perché loro due insieme avevano speranza.
I giorni, le settimane e i mesi si trascinavano avanti tutti uguali, l’unica cosa che cambiava era il volto di Zaphiria, sempre più pallido e tirato, il cuore sempre più pesante e meno vivo. Il lavoro la consumava ed Eris non sapeva cosa fare, non sapeva come far tornare a letto la sorella né come scacciare gli incubi che anche da sveglia le annebbiavano la vista.
Eppure prima ancora che la minore potesse ideare qualcosa Zaphiria tornò a sorridere, seppur lentamente, ogni giorno il suo volto pallido era un po' più sereno del precedente. Tornò tutto come all’inizio; sorridevano entrambe e il lavoro non sembrava neanche più tanto pensate. Eris non sapeva cosa fosse accaduto e quasi non le importava, le bastava che sua sorella fosse felice.
Eris ricordava benissimo il giorno in cui, con un lieve sorriso sulle labbra, la sorella l’aveva svegliata e le aveva chiesto se volesse aiutarla al tempio. Lei non aveva risposto subito, era rimasta un attimo a pensare, titubante, se fosse il caso. Certo, la guerra era finita, e quello era indubbiamente un bene, come lo era che loro fossero riuscite a cavarsela in quella piccola casetta di quella piccola città ormai quasi del tutto deserta, quindi al tempio erano rimasti gli ultimi feriti o quelli particolarmente gravi ricoverati già da tempo. Niente di terribile in fondo, di disse la minore, perché no?
Quella mattina Eris scoprì il motivo dietro ai nuovi sorrisi di sua sorella.
Non  si poteva di certo dire che quello fosse un ambiente piacevole, con l’aria pesante e colpi di tosse che rimbombavano nello spazio vuoto. Il tempio era stato chiuso apposta per accogliere i feriti quindi dalle vetrate colorate filtrava una tenue luce, che andava  mescolarsi con il lieve bagliore delle candele, e nient’altro. No, non era affatto un bell’ambiente, con quelle ombre profonde e grevi, eppure come sua sorella vi entrò un nuovo sorriso si dipinse sul suo volto e sembrò quasi che una nuova luce illuminasse quel posto.
Eris vedeva come sua sorella lavorava; occupandosi di chiunque, da quelli che ancora non riuscivano a stare in piedi a quelli che riuscivano già a restare fermi in ginocchio, a donare preghiere e ringraziare quella divinità che per quella volta era stata clemente con loro.
Eris vedeva sua sorella fermarsi spesso in un punto preciso, accucciarsi e restare a parlare con una persona in particolare, vedeva quell’uomo sdraiato su una spessa coperta, con le braccia fasciate e altre varie bende, il volto pallido più di quello di sua sorella, occhi e capelli come oro sporco. Vedeva lo stesso sorriso di sua sorella riflettersi sul suo volto e le loro mani strette insieme, a farsi forza a vicenda, nonostante Eris lo notasse benissimo, che in due, di forza, ne avevano ben poca.
Si chiese quanto sarebbe durato, quel periodo dolceamaro di cure al tempio, di visite e di sentimenti che lei ancora non era in grado di comprendere fino in fondo, si chiese se quell’uomo sarebbe andate a trovarle alla loro umile casa, ad aiutarle e a far sorridere ancora sua sorella, oppure se sarebbero dovute andare loro a trovare lui, sepolto qualche metro sotto terra, perché la vedeva chiaramente, la debolezza che gli annebbiava la vista, il fiato grosso che gli gonfiava il torace e le bende che si riempivano di macchie rosse per ogni minimo movimento.
Ma mai avrebbe immaginato come sarebbe andata a finire.
Quando sua sorella si voltò vero di lei con il più bel sorriso che le avesse mai visto addosso si disse che non le importava, che quel giorno andava bene così, calmo e sereno come non mai, decise che quel giorno non si sarebbe preoccupata e avrebbe sorriso anche lei.
Quel giorno, dopo mesi di sole cocente, pioveva.
 

 “Spiegami come tutto questo possa tornarmi utile.” La ragazza rimase un attimo interdetta nel sentire la voce scocciata del cacciatore e il gracchiare ritmico del corvo che sembrava ridere di lei.
“Non lo so come possa tornarti utile, cosa ne so io? Ti sto solo raccontando tutto quello che so, e ringraziami che sto cercando di non tralasciare nulla.” Raven sospirò attendendo che la ragazza riprese a parlare, quando dei suoni al piano di sotto attirarono la sua attenzione; un urlo soffocato, qualche tonfo, poi nulla, se non dei passi lievissimi.
“Cosa…?” Zittì la ragazza prima che potesse dire una sola parola prima di impugnare saldamente la pistola, avvicinarsi alla porta e aprirla con cautela per guardare nel corridoio in penombra. L’ uccello aveva abbassato il capo, attento a qualsiasi cosa.
Un altro respiro pensante uscì dalle sue labbra e alla ragazza sembrò assurdo vederlo rilassarsi e tornare a sedersi dove si trovava prima, lasciando lo porta aperta. Poi sentì i passi, lievi e misurati, prima di veder la sagoma poco delineata di quello che doveva essere un uomo apparire nel rettangolo d’ombra della porta.
“Perché ci hai messo tanto?”
“È difficile non farsi notare in città come queste, dovresti essertene accorto anche tu.” Il cacciatore sospirò, come dargli torto? Non passava di certo inosservato un uomo dai capelli rossi con un paio di corna ritorte. Per loro passare inosservati era fondamentale, e in quello erano sempre stati molto meticolosi, non a caso erano in molti a non conoscere la loro organizzazione, sempre che così si potesse chiamare.
“Ti vedo stanco…” Il demone spostò lo sguardo lucente sulla ragazza, sorridendo e mostrando appena i denti affilati. “ma in compagnia.” Solo in quel momento lei notò la benda scura che copriva l’occhio sinistro.
“Non correre a conclusioni affrettate, ha delle informazioni.”
“Utili?” Il suo volto si illuminò; era stato per così tanto dietro a quella scrivania che qualsiasi cosa anche vagamente interessante gli sembrava una boccata d’aria fresca.
“Affatto, visto come stiamo procedendo.”
“Ehi!” Esclamò la ragazza nonostante il timore causatole  dai loro discorsi e in parte anche dall’ aspetto del nuovo arrivato.
“Immagino vorrai farla fuori, dopo.”
“Ovviamente.”
“Lo sai come la penso riguardo queste cose.” Sorrise, spostando nuovamente lo sguardo sulla ragazza che rabbrividì, non per la prima volta si pentì amaramente della situazione in cui si era cacciata, quindi, con molta chiarezza e calma, iniziò a pensare, a ragionare come era solita fare.
“Fin troppo bene.” Sentì lo scatto della pistola, un proiettile in canna? L’adrenalina e la paura la invasero, spingendo i suoi muscoli a compiere uno scatto improvviso e doloroso verso l’unica via d’uscita più o meno libera. Non avrebbe fatto in tempo a raggiungere la finestra, lo sapeva benissimo, ma contava sul fattore sorpresa e al diavolo i ragionamenti, si sarebbe anche lanciata fuori se una morsa dura come la pietra non l’avesse bloccata a metà strada, di nuovo.
“Cosa ti avevo detto?” Sentì il suo fiato sul volto e le sembrò che la Morte le sussurrasse all’orecchio. Tremò quando sentì la canna della pistola premere contro la sua tempia, il fiato bloccato in gola.
In quello scatto il corvo si era sollevato dalla sua spalla e si era posato sul tavolo in fondo alla stanza, graffiando con gli artigli il legno tenero.
“Cosa ti avevo detto io piuttosto, Raven, riguardo chi ha delle informazioni?” Nella voce dell’ altro non c’era più la leggerezza che aveva avvertito pochi minuti prima.
“Lo sai come la penso riguardo queste cose.” Rabbia trattenuta, nel tremore delle mani e nel tono di voce che sarebbe dovuto essere un po’ meno rigido.
“Hm, non ti vedo in forma.” Indubbiamente non aveva un bel colorito e il tremore delle mani difficilmente lo abbandonava, in fondo era umano, lui, al contrario dell’ altro, che a malapena avvertiva la fatica.
Lasciò il bacino della ragazza senza preavviso e questa crollò in ginocchio con il fiato grosso.
“È giorni che non mangio, mi hai dato un lavoro difficile.” E non aveva più chiuso occhio da quando tutte le sue ricerche si erano rivelate quasi del tutto inutili.
“È vero, ed è per questo che mi hai fatto recapitare quella lettera?” Rimase qualche istante in silenzio, in cui meditò se fosse il caso di mostrare la sua gratitudine per quel fatto, poi lasciò stare. “A quanto pare abbiamo parecchie informazioni da condividere qui.” Il corvo gracchiò debolmente andando a posarsi sulla spalla dell’ ultimo arrivato e fissando la ragazza di traverso con occhi che sembravano perle nere.
Quanti occhi aveva addosso? Il rosso osservava il corvo sulla sua spalla con espressione assorta, quasi stesse intraprendendo una conversazione mentale con l’animale, mentre il cacciatore non staccava gli occhi di dosso alla ragazza, così come non mollava la presa dalla pistola. 

Un giorno era stato profondamente diverso dagli altri; si era svegliata sentendo sua sorella canticchiare dalla cucina. Si era alzata dal letto come in sogno, il sole mattutino che colorava di tinte calde la sua misera stanza, e si era diretta in punta di piedi verso la cucina, timorosa di infrangere quello che le sembrava un fragilissimo sogno.
Allora sua sorella si era voltata, l’aveva vista e, smettendo di cantare e con un radioso sorriso, le aveva fatto cenno di avvicinarsi.
Le aveva raccontato degli ultimi giorni al tempio, di come quasi tutti stessero meglio e le fossero grati, di come cercassero di dare una mano con il poco che era loro rimasto, poi parlava di lui, che ancora stava male e non si reggeva in piedi ma che era felice quanto lei. Che aveva speranza quanto loro. Le disse che prima o poi sarebbe andato da loro a dare una mano.
La minore non sapeva, nonostante osservasse e capisse al volo, il motivo di tanta felicità; le cose non erano cambiate dalla situazione in cui si trovavano prima, non per Eris almeno. Eppure, come negarlo? Si sentiva incredibilmente bene vedendo sua sorella sorridere come mai prima, mentre sperimentava un sentimento tanto forte da rivelarsi distruttivo.
La minore provava qualcosa di simile, una felicità e una gioia di vivere che non credeva potesse mai provare, non di certo paragonabile a ciò che sentiva la maggiore, ma pur sempre qualcosa di fantastico.
Avrebbe potuto troncare la storia lì, con uno strano lieto fine, perché era certa che il segreto fosse far calare il sipario al momento giusto. Perché allora non lo sapeva, che dopo la felicità si guasta sempre tutto.
Perché lui era stato il suo sorriso e indirettamente anche quello della minore, era stato il suo ossigeno, senza il quale Zaphiria non sarebbe riuscita a vivere, era stato la prospettiva di una vita serena, in cui la guerra sarebbe stata solo nelle cicatrici e nei lontani ricordi. Lui era stato tutto, anche la sua morte.

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“Cosa è successo?” Cercava di scacciare la confusione, di rendere più chiara la sua mente e capire perché questa volta si fosse sentita così male, così persa dopo essere tornata se stessa.
        “Mi hai chiamato, finalmente.” Lei? Sì. Era stata lei a deciderlo questa volta, ma cos’altro c’era? Perché prima di allora non aveva mai sentito la sua voce, se non mentre veniva inghiottita in quell’oblio di buio e ricordi sparsi? Cosa c’era di più?

Tremava e sentiva tutti i suoi muscoli fremere. Dolore; gridava la sua mente.
Uno strato si semicoscienza si era posata sui suoi occhi, trascinandola in un oblio in cui era tutto ovattato, in cui lo scorrere della vita non esisteva. Sentiva un pianto sommesso, forse il suo, di certo, si disse, perché sentiva il volto umido, il prurito della pelle delle gote sotto quel liquido rosso.
Rosso?
La mente era fiacca, ricordava a malapena, anzi, non ricordava, forse non voleva ricordare.
Si chiuse in se stessa, in quel nero che la avvolgeva e si passò le mani sul volto.
Altro dolore; le unghie affilate che grattavano sul sangue rappreso sul suo volto. Allontanò le mani, non erano le sue, si disse, non potevano esserlo. Le sue non potevano essere macchiate di un rosso che non si poteva lavare, non potevano avere unghie come artigli affilati.
    “Uccidere.”
“…”
    “Tu hai ucciso, sai che significa uccidere?”
“Io ho ucciso?” Si guardò le mani, identiche a prima, imbrattate di sangue. Sangue che scendeva fino all’ avambraccio, fino al gomito e gocciolava su un pavimento. Molle. Vuoto. Nero. “No.”
    “Ma tu volevi uccidere.”
“Volevo?” Si sentì sprofondare nel fango. No, non era fango, era più caldo, più rosso. Altro sangue. “No.”
    “Allora dimmi, credi ci abbiano ucciso?” Si sentiva soffocare; sangue, confusione.
“Ci hanno ucciso?” Nuotava, affogava nel sangue. “Si.”
         “E hai paura?”
“Si, ho paura.”
         “Ma ci hanno ucciso, i morti non hanno paura.” Si sentiva sprofondare, il rosso era sangue suo. “Eppure hai paura.” Si sentiva viva e morta allo stesso tempo. Era questo? Era morta? Non poteva essere morta. Sentiva la carne viva rigettare linfa vitale nella pozza in cui era immersa. Sentiva l'odore, la consistenza, sentiva che veniva svuotata di ogni sua energia.

         “Non ti piace questa sensazione vero?”
“No, non mi piace.”
         “Cosa ti hanno fatto Zaara? Cosa ci hanno fatto?” Lentamente uno strato di lucidità la invase, lievissimo.
“Cosa hai fatto?”
         “…” Silenzio. “Cosa ci hanno fatto? Chi siamo? Cosa vogliono da noi?
“Noi?”
         “Vogliono sangue, tanto. Perché sono umani. E gli umani vogliono il sangue.”
“Anche io sono umana.”
         “No.”
Zaara abbassò lo sguardo, sul mare denso e caldo che spandeva quell'odore metallico e pressante, nauseabondo.
         “Chi sono io, Zaara?”
“... chi sei, tu?”
         “Morrigan è il mio nome.”
“Morrigan.”
         “Io sono come te.”
“Sei come me.”
         “Io sono te.”
“Me? Chi sei tu?”
         “Ti conosco. Meglio di chiunque altro.”
“Meglio di me?”
         “Perché sono dentro di te.”
“Dentro... di me?”
         “Ti piacciono le prigioni, Zaara?”
“No...”
         “Nemmeno a me. Chi sono?”
“Morrigan.”
         “Morrigan è il mio nome. Ricordatelo, Zaara.”
Aprì gli occhi, perle azzurre senza macchie nere, porte limpide per la sua mente ora più lucida, ora più spaventata.
Viva.

 

 

 

Ritardo mostruoso!

Ma hey, almeno ora conosciamo, più o meno, l’Altra e tenetela bene in considerazione perché non renderà affatto la vita più facile al resto dei personaggi.

E i tasselli iniziano a posizionarsi, scommetto che qualcuna/o di voi abbia già intuito qualcosa, o almeno che si sia fatto le dovute seghe mentali. Qualche teoria da espormi? :D

E boh, basta direi, sono contenta però di questo capitolo :)


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Capitolo 6
*** 5. Morrigan. La bestia parla ***


5. Morrigan. La bestia parla

Demone caduto con gli occhi che fendono l'ultima mia essenza umana, con l'assenza disumana della pretesa. Voglia vermiglia e nera colpa, un nuovo buio che crei. Con la coda di topo in trappola tra le feritoie delle tue mani che si dischiudono a brandirmi e percuotermi la coscienza senza criterio. Abbeverami alla fonte battesimale.

“Beh, tutto questo è piuttosto interessante.”
“È inutile. Come può aiutarci sapere ciò che è accaduto mesi fa a trovarlo adesso?”
“Ti sfugge il punto Raven.” Il demone si allontanò dalla finestra, dopo essersi assicurato che non ci fossero presenze sgradevoli. “Le informazioni, di qualsiasi tipo, possono rivelarsi un’ arma.” Andò invece ad appoggiarsi allo schienale di una sedia dall’ aspetto scomodo. “Cosa abbiamo scoperto da questa piacevole storiella? Innanzitutto che Veiler era umano, l’avresti mai detto? Io no. Poi possiamo presupporre che la ragazzina qui presente non ci stia dicendo tutto e che possegga altre informazioni, utili o meno, ma comunque altre potenziali armi.” Dicendo questo spostò lo sguardo sulla ragazza che rabbrividì, tentando di non darlo a vedere, mentre sul volto del rosso si allungava uno strano sorriso.
“Stai prendendo questa storia troppo sul serio.” Ancora sorridendo il demone spostò lo sguardo sul Cacciatore, poi sul corvo, che come attirato dal suo sguardo si sollevò in volo e si posò su uno dei suoi corni.
“Continua a pensarla come vuoi, ma finché sarai un Cacciatore dovrai fare quello che ti dico io.” Sentendo queste parole Raven non riuscì a fare a meno di lanciargli un’occhiataccia, alla quale però il demone rispose con un sorriso. “Quindi non pensare che solo perché ti abbia lasciato più libertà per questa missione tu possa comportarti in maniera sconsiderata.”
“Non è di questo che stiamo parlando.” Nella sua voce c’era una nota di rabbia trattenuta.
“Hai ragione, ma non c’è altro da dire, quindi...”
“Non sono il tuo burattino.” Levò i suoi occhi sul demone, mentre la rabbia iniziava a montargli dentro.
“Ah, davvero? Eppure lo sei sempre strato e ancora adesso non stai dando segno di non voler seguir i miei ordini, o sbaglio?” Mise le mani ai fianchi, avvicinandosi di un passo al Cacciatore che si era appena alzato.
“Ordini?”
“Esattamente, sai bene chi comanda.”
“Ah, è così quindi? Non si tratta più di un dare per avere, di aiuti reciproci?”
“Esatto, non si tratta più di questo perché dobbiamo muoverci, e il tuo piagnucolare non ci aiuta. E se credi che ci sia qualcuno libero di fare ciò che vuole beh, ti sbagli, quindi rassegnati ragazzino.” La sua voce era diventata un ringhio, una miscela di rabbia e frustrazione, forse impazienza, che gli faceva brillare gli occhi di una luce sinistra.
“Ti sfugge il punto Valentine. Io sono un’eccezione.” Sul volto del demone si dipinse una nuova espressione. No, non l’aveva dimenticato, semplicemente gli aveva dato poca importanza. Il fatto che su di lui il destino faceva presa, quel caso che lo rendeva libero come un corvo nel cielo grigio, libero di scegliere su quale lapide posarsi e di banchettare con ciò che desiderava.
Quindi in pochi istanti lo vide impugnare la pistola e puntarla verso la ragazza che era rimastra tremante sul letto. Con la rapidità che apparteneva solo ai demoni Valentine si lanciò contro la traiettoria del proiettile, ma quando sparò non avvertì il dolore lacerare la sua carne, si rese vagamente conto del corvo che scontrava il suo ventre, lasciando una macchia di sangue sul suo cappotto prima di finire a terra.
Un lieve sollievo distese le sue labbra e istintivamente voltò la testa verso la ragazza che alla vista della sua strana espressione arretrò andando a schiacciarsi contro il muro, gli occhi lucidi e i muscoli contratti per la paura.
“Non ha fatto altro che ostacolarmi questo tuo stupido corvo.”
“Lo sai che non è più mio.” Spostò lo sguardo sulla macchia nera ai suoi piedi che iniziava ad agitarsi nel tentativo di rimettersi dritto sulle zampe, mentre con il becco andava a cercare il proiettile nella carne lacerata. “Adesso vediamo di darci una calmata e di riflettere un attimo.”
Eris aveva cominciato a tremare, anche se sospettava di non aver mai smesso da quando aveva visto per la prima volta il Cacciatore. Il cuore che batteva con forza contro la sua gabbia toracica smorzava il silenzio e nonostante tutta la forza che ci potesse mettere non riusciva a rendere il proprio respiro meno affannoso e pesante.
Le importava poco di sapere in quale assurda situazione si fosse cacciata, voleva solo trovare un modo per uscirne e tornare a vivere la sua noiosa e semplice vita. Demoni, Cacciatori, cosa c’entrava lei?
“Io davvero non so altro.” Disse con voce tremante dopo qualche attimo di silenzio. Il demone era seduto in fondo al letto e le dava la schiena, il cacciatore si stava fumando la seconda sigaretta e per la ragazza l’aria iniziava a diventare irrespirabile. Con quell’affermazione non aveva di certo sperato di levarsi da quella situazione ma di almeno provocare un minimo di reazione in uno dei due, visto che dopo quegli ultimi fatti nessuno aveva più detto una parola, neanche il corvo che, dopo essersi rimesso in piedi, si era posato sul davanzale e non aveva più fatto un suono.
“Sto pensando ragazzina.” Come si era aspettata fu il demone a parlare, per poi voltare appena la testa verso di lei. “Comunque sarebbe improbabile il contrario, sempre che tutto quello che ci hai detto sia vero.” Si mise in piedi, attirando l’attenzione di Raven.
“Hai concluso qualcosa?” Spense la sigaretta sul tavolo, lasciando una macchia di cenere sul legno scuro.
“Innanzitutto tu devi riposare, un corpo sano e una mente stanca sono una pessima combinazione.” Nonostante il consiglio del demone il cacciatore sembrò ignorarlo. “Perché non mi dici cosa ne pensi tu, innanzitutto?” Raven sapeva bene che il demone era solito raccogliere quante più informazioni poteva prima di giungere a una qualsiasi conclusione.
“Non può essere stato un umano.” Rispose con voce stanca. Non che ci avesse ragionato molto in quel’ arco di tempo appena trascorso.
“Lo era, e ne sono certa!” I due si voltarono verso la ragazza, osservandola come uno strano prodigio, una presenza magicamente apparsa in quella stanza.
“Ne è certa, quindi dobbiamo considerare un altro elemento. Cos’è che può cambiare la natura di un essere vivente?” Eccolo, il ragionamento che si era delineato nella sua mente in quei minuti iniziare a serpeggiare nella mente altrui.
“Non può essere.”
“A quanto pare invece si, è l’ unica spiegazione.”
“Vuoi davvero prendere in considerazione la pietra filosofale?” Eppure, nonostante lo scetticismo, neanche Raven poteva trovare una spiegazione migliore.
“Cosa ci sarebbe di strano a questo punto? L’unica spiegazione plausibile è che sia riuscito a impossessarsi della pietra.”
“Ma perché lo cercate?” Aveva iniziato a calmarsi e, insieme alla profonda stanchezza, un po’ di curiosità si stava infilando nella sua mente, orami c’era dentro fino al collo, si disse, perché non infilarci anche la testa?
“Ordini dall’alto. Comunque è interesse comune fermarlo, o preferiresti che l’assassino di tua sorella di chi sa quante altre persone resti impunito?” A quel punto intuì stancamente che forse, forse, il cacciatore e il demone non fossero un pericolo per lei. 
“Non sto dicendo questo, ero solo curiosa.” Si strofinò gli occhi, iniziava a faticare a tenere gli occhi aperti.
“Quindi non ci resta che muoverci.” Concluse Valentine nella cui mente iniziava a delinearsi una mappa accurata di movimenti per nuove ricerche.
“Per dove?”
“Conosci l’antico culto di Izalith, Raven?”
“So che è estinto.”
“Già, sarebbe bello se lo fosse. Sai, si dice che sia stata lei, la Serpe Bianca, che donando il suo sangue a voi umani abbia creato la pietra filosofale.”
“Ho capito. Avremmo parecchia strada da fare, ma almeno ci toglieremo dalle città.”
“Ehi, io prima ero serio dicendo che dovresti riposare, ma se riusciamo a partire subito è meglio.”
“Non è un problema per me.” Fece un cenno del capo verso ciò che era alle spalle del demone e quando questo si voltò fu quasi sorpreso di vedere la ragazza con gli occhi chiusi, crollata in un sonno pensante. Sospirò.
“Prendiamoci questa notte, poi cercheremo di fermarci il meno possibile. Sarà stancante, ma la fine sarà una grandiosa rivelazione.”

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Stava ad osservarla nello spazio ristretto e sporco della carrozza, chiedendosi se ciò che aveva davanti agli occhi si trattasse di uno scherzo della natura o semplicemente di una macchinazione più o meno divina nata al solo scopo di infastidirlo e nuocere ai suoi piani.

Non che ci fosse qualcosa di divino nella prole di un umano e un demone, si disse, eppure era risaputo che tale unione era letale e impossibile, poiché la natura differente dei genitori generava solo un piccolo corpo morto. E allora cosa?

Di cosa si trattava lei esattamente? Cos’era stata quella furia che le aveva colorato gli occhi di nero e reso le unghie come artigli in grado di lacerare con estrema facilità la sua pelle? Cosa aveva osservato esattamente quando aveva visto la rabbia e il nero defluire lentamente dal suo volto, donandole quell’ espressione sofferente e indifesa che aveva tutt’ora, rannicchiata scompostamente sul sedile di fronte a sussurrare a fior di labbra mezze parole e frasi incomprensibili?

La vedeva socchiudere le palpebre tremanti, e allora cercava di capire di che colore fossero i suoi occhi, a chi appartenessero.  

         “Lo vedi?”
“Cosa?”

         “Lui.”
“Chi?”
         “L’umano che non può morire, che non siamo riuscite ad uccidere.”
Lentamente nella sua mente si delineò un viso affilato, pallido e contornato da capelli del colore del grano secco, gli occhi dello stesso colore.
“Chi è lui?”
         “Una preda pericolosa, la nostra.”
“È pericolosa.”
         “Sì. Ricordi il mio nome?”
“Morrigan.” Senza esitazione.
         “E Morrigan può tutto.”
 

Un fremito, una contrazione involontaria dei muscoli, i vincoli che si indeboliscono sempre di più e una forza pressante che cresceva dentro di lei e smaniava per uscire.
Zaara si sentiva sempre più debole, la volontà che scemava lentamente, poi una nuova forza, una nuova guida.
        “Bravissima bambina.” Anche il timore iniziò a scemare, la paura di se stessi cadde nei recessi più profondi della sua anima. Ma era sicura di quello che stava facendo?

Cosa stava facendo?
        “Lasciati guidare.” Gli occhi si aprirono, scintille nere che colorarono velocemente l’azzurro e il bianco, un movimento davanti a lei, una macchia nera, veloce.
        “Lasciati sopraffare dalla furia.” E lei doveva essere più veloce, più veloce dell’uomo dei fili. Più veloce dell’ umano che non può morire. Ma allora perché?
Un dolore sordo alla testa, la vista che si annebbia e si schiarisce, una mano fredda che stringe con forza il suo capo, non ha il tempo di gridare, solo di osservare la pioggia rigare il vetro della finestra prima di venire scaraventata contro questa; vetri rotti le graffiarono il volto, pioggia gelida sulle sue gote e un dolore lancinante al collo. Poi il calore, la stessa sensazione fastidiosa di poco prima. Affogava, il sangue la stava soffocando, uscendo copioso dallo squarcio sulla sua gola.

        

          “Vieni da me piccola.”
“… perché?”
         “Perché sei morta.”
“No.”
         Si.
 

La carrozza si era fermata, la pioggia no.
Ma avevano raggiunto la loro meta; un tempio in rovina privo di colori e con piante rampicanti violacee ad avvolgerlo quasi interamente.
“Ma che diavolo stai facendo?” Ayn scese velocemente quasi lanciando le briglie dei cavalli e corse verso il corpo della ragazza; una grossa macchia rossa stava colorando l’erba alta, gli occhi ancora come pozzi neri a fissare la pioggia, vuoti.
“Mi ha stufato.” Ayn spostò lo sguardo sconcertato sull’altro, rischiava di mandare tutto all’aria. Anzi, era sempre più certo che l’avesse già fatto.
“L’hai uccisa!”
“Non morirà per così poco.”
“Scherzi? L’hai sgozzata! È tanto se ha ancora la testa attaccata al resto del corpo.”
“Ayn.” Il tono gelido, come una brezza ghiacciata a sfiorargli la schiena.
“Cosa?!”
“Non vuoi fare la sua stessa fine vero?” Deglutì rumorosamente, tentando di darsi un contegno, le mani che passavano tra i capelli fradici tremavano. Non è che avesse paura di lui, non più del solito almeno, era che non riusciva a trovare una soluzione a una situazione che stava diventando sempre più disastrosa.
“No, ma se devo essere sincero non vedo come questo” Indicò la ragazza a terra. “possa essere d’aiuto.”
“Senti ancora la pietra?”
“Si.”
“Allora non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

 

   “La tua rabbia sale.”
“Si.”
         “Sei morta, bambina.”
“Credo di si.”
         “Pregami, bambina.”
“Smettila di chiamarmi così.”
                “Sono la tua vita, pregami.”
“La mia vita.”
Memoria, ricordo.


Persi. Agglomerati.

Nulla.
La confusione totale.
L'istinto che prepotente ritornava a galla, in tutta la sua grandiosità.
L'aveva riavvicinato quando Morrigan s'era impossessata completamente di lei.
L'aveva riacquistato con lentezza mentre tutto sfumava. Mentre la sua vita finiva. No, cambiava. Quando lei non era più Zaara, non era più umana: era solo demone.


“Io  voglio vivere.”
    “Sì.”
“Allora proteggimi. Lasciami in pace. Lascia che io trovi il modo di vendicarci, e ci vendicheremo.”
    “Hai i miei servigi, bambina mia.”

 
“Ha ragione.” I due si voltarono nel sentire una nuova voce provenire dal cortile del tempio; la figura di una donna snella si stagliava tra l’erba alta; la pioggia le bagnava i lunghissimi capelli neri e la pelle nivea che gli abiti succinti non riuscivano a coprire. “Non morirà per così poco.” Si avvicinò ai due con un rumore di sonagli e perline osservando il corpo riverso a terra; gli occhi fissi che guardavano ostinatamente il cielo, gli arti aperti in maniera scomposta, una macchia di sangue che colorava l’erba e una grossa scheggia di vetro ancora conficcata nel suo collo. 
“Safin, è un piacere rivederti.” Una voce fredda distolse la sua attenzione da quel macabro capolavoro. “Non sei cambiata per niente.”
 “Fare il bagno nel sangue delle vergini mi mantiene giovane” Sorrise. “Ne è passato di tempo Veiler, anche per me è un piacere.”

 

In ritardo? Chi io? Hahahah!

Si, scusate tantissimo, non ho giustificazioni, ma almeno vi ho postato qui un capitolo che io trovo interessante; con l’arrivo di quello che è uno dei miei personaggi preferiti, Valentine sarà molto importante come personaggio, perché senza di lui il caro Raven non saprebbe dove sbattere la testa.

E ora ditemi, quanti di voi avevano già fatto lo scontatissimo collegamento con Veiler e il caro amico sanguinario conosciuto in carrozza? Si, è proprio lui.

Quindi dopo questa ””””””grandiosa””””””” rivelazione la prima parte della storia si chiude, il grande prologo è concluso e si può passare alle faccende più serie.

E sto omettendo di proposito di parlare di Zaara perché tutto quello che la riguarda va scoperto pian paino :)

Detto questo ringrazio tutti quelli che leggono e che seguono, chiedendovi se vi va di lasciare un piccolo parere per aumentare la mia autostima.

A presto :)

 

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Capitolo 7
*** Seconda parte - DAEMON - Il sangue è come acqua ***


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SECONDA PARTE–DAEMON

TIENE IL DIAVOLO I FILI CHE CI MUOVONO!
SCOPRIAMO UN FASCINO NELLE COSE RIPUGNANTI;
OGNI GIORNO D’UN PASSO, NEL FETORE DELLE TENEBRE,
SCENDIAMO VERSO L’INFERNO, SENZA ORRORE.

 

6. Il sangue è come acqua

Siamo fiori malsani noi. Sbocciamo solo quando tutto intorno è buio.
Dipinti sono i nostri petali con i colori dell'abisso. P
elli, carne e ossa colorati di questo manto ombroso.

“Bene, vogliamo entrare?” La donna inclinò la testa di lato e accarezzò uno dei mastini neri che l’avevano affiancata e, senza attendere la risposta di uno dei due uomini, fece un lieve cenno che bastò ai due cani per farli avvicinare al corpo per terra. “Non c’è bisogno di essere delicati con lei, vero?” Una luce sinistra brillò nei suoi occhi quando rivolse la domanda a Veiler che non aveva smesso di studiare quelle due creature che sembravano spuntate dal nulla. Lo notava solo in quel momento, mentre si allungavano a stringere tra le fauci le braccia della ragazza, le cuciture sui loro corpi e gli occhi vitrei di uno e i crateri neri che erano quelli dell’altro.
“Non ricordavo che ti dilettassi in queste cose.” Safin sorrise genuinamente.
“Ah, se solo sapessi quanto può essere vasta la magia.” A quelle parole Ayn rabbrividì guardando ostilmente la donna, poi l’altro. Capiva poco di quella situazione; la magia era per chi praticava il culto di Izalith, com’era che Veiler, reso migliore da Ragnor, il Burattinaio, si affidasse a una seguace della Serpe Bianca?
Entrarono nel tempio fatiscente, senza porgere omaggio alcuno alle macerie della statua che svettava in fondo alla navata centrale. 
“Avete trovato quello che stavate cercando?”
“È probabile.” L’entusiasmo invase il volto della donna.
 

Due menti fuse ma sfuse.
La storia non aveva neanche bisogno di essere raccontata, perché già insita nella sua mente, nelle sue carni, nelle pupille affilate negli occhi che si coloravano di nero.
Due entità distinte, questo era l’importante.
Due entità distinte e al contempo infinitamente legate.
        “Hai paura?”
“Di cosa devo aver paura?”
        “Hai paura del buio?”
“No.”
        “Allora guarda quanto splende l’ombra adesso.” L’ombra aveva un sapore diverso, un colore diverso, un odore diverso. L’ombra la investiva, le scivolava sul volto, s’ insinuava nei suoi polmoni. Era tutto ciò che riusciva a percepire sul suo corpo. Rossa, calda ombra.
Ma mancava qualcosa.

Con un'esplosione dei muscoli cercò l'aria. Un unico, enorme movimento, dopo pochi improvvisi e interminabili istanti di silenzio e sgomento vivo.
E la sua innata voglia di vivere sembrò essere l'unica vincitrice.
Un urlo smorzato, interrotto, soffocato. Tossì violentemente cercando di riadattare i suoi occhi alla luce.
Pulsava.
Tutto pulsava.
Ogni singolo muscolo bruciava, come sciolto nell'acido. Piegata a metà, cercava solo di capire.
Dove.
Perchè.
Quando.
Cosa.
E i polmoni erano due baratri incendiati ad ogni affannatissimo respiro. Tremava.
Era come essere rinati. Come aver ripreso la prima boccata d'aria della propria vita.
E faceva MALE. Male da morire.
Poi si guardò attorno: rocce.
Rocce impilate in una strana imitazione di mura, una stanza scarna e lei stava sdraiata per terra.
Cercò di issarsi in piedi.
Cadde.
Sul corpo sentì un peso innaturale: calò lo sguardo, osservando le sue mani.
Lerce di sangue, anch'esse brucianti come il resto del corpo. Pallide e gelide.

E poi un battito.
Sussultò.
Un altro. 
Aritmico. Accelerato.
E poi normale: il battito di un cuore. Che pompava sangue. Che scorreva nel suo corpo. Che sembrava ridare colore alle sue braccia, alle sue dita.

Non era la prima volta che succedeva.
No, lo sapeva.
Forse aveva addirittura sperato troppo. Forse era stata stupida a pensare che quella era l'unica via. Ma c’era stata la paura, la disperazione. Cosa avrebbe dovuto fare?
Ma ancora tremava, disgustata dal colore che macchiava le sue mani. Infilò le dita nei capelli piegando la testa e prendendo a ragionare con una lucidità che non riconosceva. Non voleva provare di nuovo quelle sensazioni, non voleva annegare di nuovo nel sangue.
Non voleva. Punto.
Si chiuse in se stessa, stringendo le gambe al petto osservando la stanza malmessa intorno a lei. Dall’angolo in cui si trovava i suoi occhi ancora brucianti vedevano una porta in metallo, una finestra troppo piccola per poterci passare e strani simboli bianchi attorno a lei; per terra, sui muri e sul soffitto. Fissava con ostinazione tutti i dettagli, obbligando la sua mente a un distacco che riuscì a mantenere per poco. Sentiva il battito del proprio cuore come un dono, una nuova e fantastica melodia.
“Piccola mia.”
NO. Le ritornò tutto alla mente e si contrasse, tentando in tutti i modi di escludere quella voce, quella presenza dalla sua mente. Passò freneticamente le mani sul collo, aspettandosi di trovare un solco profondo e sentendo solo la pelle liscia sotto le dita.
“Cosa sta succedendo?”
         “Bambina mia.”
“È tutta colpa tua.”
    “Di cosa mi stai dando la colpa?”
“Sono morta.”
    “Eppure respiri.”
“Io…” Dondolava in maniera impercettibile, mordendosi le labbra, stretta nelle spalle, come a volersi proteggere. Era stata come una folata, rapida ma preannunciata, sembrava aver rimosso il sudario di polvere dalla sua mente. Era il vuoto, che incombeva e si muoveva lento, che inesorabilmente marciava e nel paradosso la riempiva di nulla.
Sentiva lacrime calde iniziare a scorrerle sul viso. Strava crollando, era a pezzi.
“Va’ via.” Non avrebbe mia più ascoltato un suo ordine.
“Va’ via.” Non avrebbe mai più parlato con lei.
“Va’ via.” Non sarebbe mai più stata Sua.
         “Non essere così ingenua.”
“VAI VIA!”
         “Non posso. Lo sai, piccola mia.”
“VATTENE!” Chiuse gli occhi e li strinse con forza. Era persa nel nulla, lo era anche l’altra, lo erano tutte e due. E non c’era nessun posto dove potessero andare per sottrarsi a ciò da cui stavano fuggendo.
“Cosa dovrei fare?”
         “Hai già dimenticato?”
 

“Una cosa del genere è possibile?”
“Non c’è altro modo.” Veiler rimase un attimo in silenzio, organizzando un’altra volta le informazioni. “Hai percepito la presenza della pietra sin da quando l’abbiamo vista la prima volta, l’hai sempre, sempre, sentita su di lei, no?”
“È così.”
“Anche quando l’ho uccisa-“
“A dire il vero…” Tentennò un attimo, poco sicuro di quello che avesse sentito e poco sicuro delle conseguenze delle sue parole. Ma lo sguardo dell’altro lo obbligò a continuare. “In quel momento è successo qualcosa di strano. È stato come se la pietra si consumasse, l’ho sentita più flebile, ma non come se si fosse allontanata. Ma adesso è tale e quale a prima.”
“Quindi non può che essere così.” Si massaggiò le tempie realizzando che tutto quello gli avrebbe facilitato le cose. Sorrise tra se, mentre Ayn rabbrividiva. “Meglio così.”
“Come-“
“Non si può cavare sangue da  una pietra, ma da un corpo si.” Disse quasi tra sé.
Ayn fremette. Quella proprio non ci voleva. Aveva sperato di guadagnare del tempo, e invece era tutto il contrario; tutto stava andando troppo velocemente e ancora doveva parlare chiaramente a Safin, doveva ancora organizzarsi.
“Come è possibile una cosa del genere?” L’altro posò per un istante i suoi occhi d’oro su di lui per poi tornare a osservare il vuoto.
“Lascia che sia Safin a occuparsi di queste cose.”
 

Passi, passi lievissimi si avvicinarono, e non se ne sarebbe accorta se questa presenza non si fosse portata dietro il chiasso di sonagli e altre cianfrusaglie che erano appese ai suoi abiti.
Quando la porta si aprì vide una donna dalla carnagione pallida, lunghissimi capelli neri e abiti di un colore che le ricordava terribilmente il sangue. Le sorrise, avvicinandosi e posando al limitare di un cerchio bianco che contornava un perimetro intorno a Zaara, impedendole gran parte dei movimenti, alcuni contenitori e strani strumenti.
“Ciao piccola.”

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Passò la mano sulla chiazza di sangue che era rimasta sul suo cappotto nel tentativo di pulirlo. Il risultato fu allargare ancora di più la macchia. Il demone fece una smorfia alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta.
Raven, svegliato dal suo sonno leggero, lo osservò con occhi attenti.
“Dove vai?”
“Dovremo pur uscire da questa città senza causare un putiferio, no?” Il Cacciatore non rispose. Non aveva pensato a come uscire dalla città e si maledisse per quello; ormai tutto veniva registrato e non entravi se prima non ti identificavi e non avevi un buon motivo per varcare le mura. Stessa cosa per uscire. Popolazione e commercio erano tenuti costantemente sott’occhio. “Non ti sarai mica registrato per entrare in città, vero?”
“Figurati.”
“Bene. Usiamo il solito metodo.” Detto questo allargò un braccio, il corvo volò velocemente verso di lui e affondò gli artigli nella sua manica, prima di sistemarsi in una posizione comoda. Il demone si fermò un attimo, soppesando qualche istante le parole. “A quanto pare in questa faccenda sono immischiate tante anime, più di quante credessi, probabilmente molte si perderanno, io spero solo che tu non sia una di quelle. Sei un buon cacciatore Raven, fa attenzione.” Senza dire altro Valentine uscì dalla stanza, portandosi dietro quella macchia nera che aveva iniziato a gracchiare.
Il Cacciatore sospirò, cercando nelle tasche il suo pacchetto di sigarette, e con immenso dispiacere si rese conto di averle finite tutte. Appoggiò la testa sullo schienale, sbuffando e fissando il soffitto. Il silenzio era assoluto, neanche il letto cigolava e la pioggia si sentiva appena, la ragazza giaceva sotto le coperte, immobile come se fosse morta. Lentamente e con un briciolo di concentrazione Raven si mise ad ascoltare il battito del proprio cuore. Si accorse appena delle palpebre che iniziarono a farsi pesanti, e mentre respirava con regolarità la sua mente correva, collegando i suoi pensieri al sogno.
 

Le penne erano perfette e lucide, circondate da una gabbia piccola e bianca. Un paio di occhi furbi e intelligenti scrutava oltre quella piccola voliera, inclinando appena il capo, facendo luccicare il becco nero come una lama.
“Perché un corvo? E perché dentro una gabbia?”
“Perché i corvi sono astuti e non hanno mai paura, volendo troverebbe un modo per uscire da lì.” L’ uomo guardò il volatile che gli restituì uno sguardo estremamente intelligente, Huginn, l’aveva chiamato il suo maestro.
“Allora perché non lo fa?”
“Perché i corvi sono astuti.” Ripetè. “Sanno osservare e adattarsi.” Si accese una sigaretta, aspirando con forza. Il ragazzino rimase in silenzio, ma lo osservò chiedendosi quanto suoi polmoni si avvicinassero al colore delle piume del corvo, che sembrava ascoltarli in silenzio.
“Domani lo tireremo fuori di lì per farlo volare, a meno che non sia già uscito da solo.”
“Perché un corvo? Perché non un falco?”
“I falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.”
“Quindi si dovrà adattare?”
“È quello che facciamo tutti prima o poi.”


Il mattino seguente erano all’aperto, con loro la gabbia del corvo e qualche boccone di carne secca. Il vento soffiava lieve creando onde sull’ erba alta, in cielo non c’era una nuvola e il sole primaverile scaldava piacevolmente la pelle.
E nonostante quella splendida giornata il ragazzino sentiva un forte disagio crescere dentro di sé, aveva già addestrato diversi falchi, ma mai un corvo, e in quel momento si chiese se il suo maestro, nel momento in cui aveva deciso di addestrare un corvo, non fosse stato ubriaco. Non aveva idea di come cominciare, come trattare quel volatile dallo sguardo penetrante.
Si riscosse quando, dopo aver fissato a lungo lo sguardo negli occhi neri del corvo, tanto intensi da sembrare pozzi senza fondo, questo non gracchiò da dentro la voliera, come a incitarlo a fare qualcosa.
Spostò lo sguardo sul suo maestro che con un cenno d’assenso lo incitò ad aprire la gabbia, mentre il falco incappucciato sul suo braccio si sistemava le ali.
Quando il corvo zampettò fuori dalla gabbia si guardò un po’ intorno, spostando l’attenzione da una persona all’altra inclinando la testa.
“Cosa devo fare maestro?”
“Osservare.” Il corvo gracchiò ancora, aprendo appena le ali e iniziando a camminare velocemente e in modo un po’ goffo in mezzo all’erba, il ragazzo vide con la coda dell’occhio l’uomo che sfilava dal capo del falco il cappuccio.
Quando il corvo si alzò in volo, una macchia nera come la pece contro il cielo sereno, tre paia d’occhi erano puntati su di lui. Volava placido, sbattendo con foga le ali per poi lasciarsi cadere e tornare di nuovo su con fluidità.
Il ragazzino osservava e vedeva una creatura orgogliosa e libera in un cielo che non gli apparteneva.
“Uccidi.” Un fruscio d’ali, aria che gli sfiorò il volto, poi una sagoma scura si diresse velocemente verso il corvo che ancora si stava librando in aria. Lo colpì una volta con gli artigli prima di riprovare con il becco, si inseguirono in un fruscio disordinato di penne. Il corvo non era veloce come il falco ma con virate improbabili e movimenti imprevedibili riusciva sempre a sfuggirgli, fino a che non si lasciò cadere in picchiata; il falco lo seguì poco dopo restando a distanza, attese di vederlo aprire le ali e planare per piombargli addosso e schiacciarlo al suolo.
 

Non riusciva a chiudere occhio, o almeno era quello che aveva creduto, in verità come si era steso sul letto una pesante stanchezza lo aveva spinto a chiudere gli occhi. Ma si era fatto violenza tentando di tenerli aperti per ragionare un po’ su ciò che era accaduto quel pomeriggio. Non piangeva per la perdita dell’animale, gli avevano insegnato a non affezionarsi. Ma era rimasto turbato perché in fondo, e lui lo aveva capito solo alla fine, non era il corvo che doveva essere addestrato, quanto lui.

“I falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.” Tutti si devono adattare, prima o poi. E lui? C’era riuscito?  O quel turbamento era qualcosa di differente e più profondo che comunque non avrebbe mai dovuto mostrare al maestro? Non sapeva. Non sapeva nulla. Ed era una cosa che odiava.
Stava per scivolare nel sonno quando un suono insistente lo ridestò; c’era qualcosa che batteva con forza contro il vetro e lui, esausto, tentò di ignorarlo fino a che non sentì la finestra incrinarsi. Allora spalancò gli occhi, infastidito dall’ idea di dover passare una notte al freddo nel caso la finestra si fosse rotta. Ancora ignorava cosa ci potesse essere al di fuori del vetro.
 

Stessi occhi come pozzi neri senza fondo, intelligenti. Stesso modo insistente di gracchiare. E l’incendio sotto di loro donava riflessi vermigli sulle penne nere.
Bruciava, tutto bruciava. Era un mare di fuoco, rosso e rovente.
Terrificanti le figure di demoni informi che correvano fra le fiamme.
Sfigurato il corpo del suo maestro riverso nel suo stesso sangue.
Orrendi occhi neri su di lui, inumani e affamati. Roventi.
Atroce il dolore al volto.
Buio.

 

La poesia all'inizio è di nuovo Baudelaire, e 'Daemon' significa semplicemente Demone, titolo che sarà parecchio adatto per questa parte della storia.

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Capitolo 8
*** 7. Calma piatta ***


7.  Calma piatta

I dolori segreti sussurrati ai venti, giaciono tra le ultime foglie morenti.
Gli occhi profondi lasciati aperti sulla notte, le nuvole sepolcri morbidi per le stelle che rifulgono sisnistre nell'anima.


Imprecò mentre la pioggia continuava a scendere violenta e riduceva la visibilità, poi pensò che era lo stesso anche per gli altri e che quindi era un po’ come tornare a vedere normalmente.
Scivolò appena dal tetto spiovente per osservare meglio la strada, grosse gocce d’acqua gocciolavano dalla pelliccia ormai fradicia che orlava il suo cappuccio , ormai anche i suoi capelli iniziavano a bagnarsi mentre il volto era già fradicio, neanche avesse buttato la faccia nell’acqua. Una guardia passò sotto di lui, il lume nella lanterna che stava acceso a stento. Sorrise pensando che il bello degli umani era che non guardavano ma verso l’alto quando dovevano controllare qualcosa.
Balzò giù dal tetto atterrando silenziosamente dietro all’uomo che non si accorse di nulla. Un colpo ben assestato alla nuca e questo cadde a terra, esanime.
Sospirò "Bene, mancano le guardie di confine e i cecchini." Si disse, iniziando a trascinare il corpo lontano dalla strada. Quello non era un lavoro che gli piaceva fare, si sarebbe divertito molto di più a rubare l’ identità a qualcuno e a uscire tranquillamente, facendogliela letteralmente sotto il naso. Ma sarebbe stato un lavoro lungo e di tempo ne avevano ben poco.
Fin da quel momento era riuscito a garantire una strada sicura e aveva appena terminato la parte più semplice del lavoro. Ma stava per farsi giorno e sarebbe stato bene uscire prima dell’alba.

Riaprì gli occhi che non si era accorto di chiudere, avvertendo la spiacevole sensazione di essere osservato.
La ragazza si mosse appena e il Cacciatore in un istinto che ormai era parte di lui allungò velocemente la mano verso la pistola ancorata al suo fianco, fedele compagna nata da ossa di demoni, per poi ricordarsi che in quella stanza non era da solo, e che l'altra persona era tutt'altro che un pericolo.
Rimasero entrambi in silenzio a lungo, svegli, fino a che il disagio nel corpo della ragazza non aumentò a tal punto da sentire la necessità di dire qualcosa.
“Che cos’è quel corvo?”
Il Cacciatore soppesò le parole, non del tutto certo di voler rispondere a quella domanda. “Un ricordo.” Disse infine, passandosi la mano sulla cicatrice che sfigurava metà del suo volto. La ragazza rimase in attesa, aspettando una risposta che l’avrebbe aiutata a capire di più. Ma il cacciatore non disse altro. Lei strinse tra le mani le coperte pesanti, mandando al definitivamente al diavolo l’istinto di autoconservazione.
“Cosa ti è successo?” Di nuovo silenzio, e questa volta non ne seguì alcuna risposta.
La ragazza cercò di resistere ancora ma quando il silenzio di fece troppo pesante e vide Raven cercare una posizione comoda sulla sedia, non riuscì a trattenere la lingua. “Se vuoi puoi venire a letto.” A quella strana proposta il cacciatore sollevò un sopracciglio guardandola scettico. Il rossore sul volto della ragazza mandò a fuoco la sua pelle quando si accorse di quanto era suonata sconveniente quella frase. “Cioè, ho dormito abbastanza.” Tentò di rimediare, rendendo però ancora peggiore la situazione, vista l’ambiguità della frase. “Puoi riposarti qui mentre io sto sveglia.” Disse infine in tutta fretta, coprendosi appena il volto in fiamme con le coperte.
Raven era quasi sconcertato dall’ingenuità della ragazza.
“Torna a dormire.”
 
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“Che cos'è?”
La donna abbozzò una sottospecie di sorriso. La ragazzina aveva finalmente parlato. Aveva sollevato leggermente il mento.
Zaara era persa.
“È un'entità superiore a noi esseri umani.”
“Come fa ad essere dentro me se è superiore a me?”
“Perchè il volere della Serpe le è ulteriormente superiore.” Sussurrò. “Comunque non è dentro di te, lei è te” Era confusa.
“Chi è la Serpe?”
“Immagino lo scopriremo presto, piccola.”
“Ti prego non chiamarmi così.” Safin rimase un attimo interdetta, poi sorrise.
“Come vuoi.” Almeno lei, si disse Zaara.
Passarono qualche istante di silenzio in cui Safin continuò ad armeggiare con le cose che aveva portato nella stanza e l’altra a non staccarle gli occhi di dosso, finché la donna non si bloccò, alzando lo sguardo verso la ragazza.
“Come vi chiamate?” Chiese curiosa. Zaara spalancò gli occhi rimanendo spiazzata da quella domanda. Non capiva. Non sapeva.
La donna sembrò leggere lo sconcerto nei suoi occhi. “Come ti chiami?” A quella domanda la ragazza si calmò, e rispose abbassando lo sguardo.
“Zaara.” La donna sorrise, riprendendo a lavorare, mischiare erbe a una sostanza bianca e maleodorante.
“Non vuoi dirmi come si chiama lei?” Le chiese poi, senza alzare la testa dal suo lavoro. La ragazza rimase in silenzio. Aveva paura, una paura irrazionale nel chiamare il suo nome. Non voleva più sentirla, non voleva svegliarla.
“Non voglio svegliarla di nuovo.” In quel momento notò un sorriso derisorio nascosto tra i capelli neri della donna, ma quando questa alzò il volto vide solo un’espressione serena e tranquilla.
“Così come lei è te e lo è sempre stata, lei è sveglia e lo è sempre stata. Sei tu a decidere, non delle semplici parole, non lei. Tu sei la sua prigione, così come lei potrebbe essere la tua. Si tratta solo di equilibrio.” Rimasero in silenzio, lei che teneva ancora ostinatamente nascosto il suo nome. “Ad ogni modo, ti aiuterò a fare un po’ di chiarezza. Altrimenti rischiamo di non risolvere nulla.” Si mise in piedi tenendo in mano uno di quei contenitori che aveva cominciato a fumare, entrò nel perimetro delimitato dai cerchi bianchi e si accucciò di fronte alla ragazza. “E noi dobbiamo fare in fretta.” Mise il contenitore sotto il naso di Zaara che la guardava terrorizzata. Vedendo la sua espressione il volo della donna si intenerì. “Tranquilla, sarò qui quando tutto terminerà.” Le sorrise un ultima volta, poi gli occhi della ragazza si velarono mentre cadeva in un sonno profondo.
Così, lascia che si fidi.

    “Piccola mia. Piccola mia.”
“Sono due parole inutili. Vai via.” Domandava.
    “Piccola mia. Mio cucciolo, mia creatura.”
“No. Taci. Taci.”
    “Non è semplice vivere, piccola mia.”
“Non sono la tua piccola.”
    “Tu credi?”
“Non sono la piccola di nessuno-“
    “E invece lo sei.”
“Lasciami andare-“
    “Non posso”
“Voglio solo andare-“
    “No.”
“Ti odio.”
    “Lo so.”
“Ti prego”
    “No.”
“Non posso più decidere nemmeno della mia vi-“
    “Non ti appartiene, piccola mia.”
“Sì.”
    “No”
“Era l'unica cosa che avevo capito.”
    “No.”
“Lasciami andare.”
    “Non posso.”
“Esci e lasciami.”
    “Non voglio.”
“Cosa vuoi da me?“
    “Tu cosa vuoi?” Cosa voleva? Non lo sapeva, non ancora.
“Non è bello ciò che ci hanno fatto”
    “… No, non lo è.”
Era tornata a galleggiare nel nero, gli occhi ostinatamente chiusi, nel terrore di scatenare quell’illusione rossa di sangue che ormai vedeva frequentemente. Morrigan le parlava dolcemente, accarezzando con la sua voce la sua pelle, a smuovere con l’ombra i suoi capelli biondi, ad avvolgerla, protettiva e calda come un grembo materno.
Morrigan sentiva le sue catene allargarsi e stringersi con irregolarità.
Zaara era in cerca di un equilibrio. Ogni singola variazione di stretta infastidiva Morrigan, e spesso le faceva male. Ma sopportava.
Sia perchè Zaara era la sua bambina, sia perchè, in fin dei conti, non poteva fare altro.
    “Io odio gli umani, bambina mia.“
“Io sono un essere umano.”
    “Non ancora. Probabilmente mai.”
“Taci.”
    “E' questo che desideravi, bambina mia. Poter parlare chiaramente con me. Da infinito tempo. O sbaglio?”
“No. E' vero.”
    “Sei la mia trappola, ma al contempo io sono la tua.”
“Io ti odio.”
    “Solo in parte.”
“... non cambia.”
    “Io sono costretta all'esistenza entro di te, e così io ti costringo a vivere. Finché io intendo vivere, non saranno sufficiente ne' uno, ne' mille chilometri di caduta. Potrai soffrire, e soffrirai. Tanto quanto colui che l'istante seguente è morto. Ma non basteranno mai.”
“Così tu mi costringi ad una vita che non posso controllare e non intendo proseguire.”
    “Non è nel mio volere.”
“Allora liberati e lasciami andare.”
    “Questo va al di fuori delle mie e delle tue capacità. Le nostre catene sono infinitamente forti.”
“Allora a quel punto mi andava bene morire”
    “Ma non smettere d'essere, solo smettere di vivere. Poiché tu vuoi decidere. Ah, grande è stato l'errore degli uomini a crearci.”
“Non cederò. Non più. Non ti lascerò il controllo.”
    “Ne sono consapevole, bambina mia. Rare saranno le volte, semmai accadrà.”
“Cosa vuoi da me?”
    “Nulla, bambina mia. Ormai più nulla.”
“Impossibile.”
    “Oramai io ti amo.”
Zaara spalancò gli occhi, davanti a lei non più il buio pesto, non il rosso del sangue che la faceva affogare, solo un muro di pietre e una donna appoggiata ad esso che osservava fuori dalla finestra con un’espressione incredibilmente seria.
Sospirò, e attese. Non sapeva cosa. Ma attese, con la pace nella mente.

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