Gloriae Romae - Dalle Origini al Dominio del Mondo

di Ashura_exarch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Romolus et Remus ***
Capitolo 2: *** Regis iusta est ***
Capitolo 3: *** Magnis merger ***
Capitolo 4: *** Pestilentia et bellum ***
Capitolo 5: *** Expansionem et republicae ***
Capitolo 6: *** Primus cladis ***
Capitolo 7: *** Finis autem primum ***
Capitolo 8: *** Municipiis et seditionem ***
Capitolo 9: *** Damnatio memoriae ***
Capitolo 10: *** Instabilitatem consilium ***
Capitolo 11: *** Frustra conari ***
Capitolo 12: *** Viae et reperiantur ***
Capitolo 13: *** Devotio pro diis ***
Capitolo 14: *** Finis autem secundum ***
Capitolo 15: *** Res expectatur ***
Capitolo 16: *** Qui est principium, valde expandi ***
Capitolo 17: *** Maximus industrias ***
Capitolo 18: *** Inopinatum lucra ***
Capitolo 19: *** Colonias et exercitum novus ***
Capitolo 20: *** In pontumque moueri ***
Capitolo 21: *** Finis autem tertium ***
Capitolo 22: *** De legibus humanis iuribus ***
Capitolo 23: *** Digae et salinas ***
Capitolo 24: *** EXTRA - Biografie ***
Capitolo 25: *** Arx quoque et in antris ***
Capitolo 26: *** Magnis rebus ***
Capitolo 27: *** Therraemotus ***
Capitolo 28: *** Finis autem quartum ***
Capitolo 29: *** EXTRA - Roma all'estero nel VI secolo a.C. ***
Capitolo 30: *** Recuperatione ***
Capitolo 31: *** Major reformat ***
Capitolo 32: *** Muri mole et mysterious mortes ***
Capitolo 33: *** Melinie ***



Capitolo 1
*** Romolus et Remus ***


Era una notte uggiosa, quella del 24 marzo del 771 a.C. (anno 18 Pre-Romae). Più che uggiosa, infuriava un vero e proprio temporale, di come non se ne erano mai visti ad Alba Longa, e forse in tutta la Lega Latina. E mentre tuoni e fulmini imperversavano nel cielo, negli appartamenti del Palazzo Reale della città la principessa Rea Silvia stava partorendo. Dopo oltre tre ore di contrazioni finalmente il nascituro si decise a venire al mondo. O meglio, i nascituri. Re Proca poteva ora vantare di essere bisnonno. Alcuni interpretarono la nascita dei due durante quella tempesta come un segno divino, anche se nessuno, nemmeno gli aruspici più esperti seppero dare giudizi concordanti fra loro. Alcuni sostenevano che era segno che in futuro i gemelli avrebbero fatto qualcosa di strabiliante, mentre altri credevano che sarebbero stati causa di sventure e di grandi catastrofi. E nell'ombra qualcuno cercava di dare credito a queste ultime dicerie.

La famiglia reale di Alba Longa era abbastanza numerosa, e la successione era assicurata. Al tempo della nascita dei gemelli regnava Proca. Egli aveva due figli, Numitore e Amulio. Amulio era celibe, mentre Numitore aveva cinque figli, quattro maschi e una femmina, Rea Silvia. A parte Rea Silvia, sposata con Marente, un uomo proveniente da Gabii, tutti gli altri figli di Numitore erano celibi, ma non se ne preoccupavano perché erano ancora giovani.

Re Proca era piuttosto tranquillo, ed era un re buono e generoso. Numitore era di indole simile al padre, mentre Amulio pareva appartenesse ad un'altra famiglia. Era irruento, facile all'ira, ma soprattutto ambizioso. Con la nascita dei due gemelli era scivolato al decimo posto in linea di successione, e questo proprio non gli andava giù. Così, quando sorsero le prime malelingue attorno alle reali nascite, Amulio le sostenne e gli diede segretamente credito, nella speranza che il popolo si ribellasse per rovesciare Proca; in tal caso si sarebbe schierato dalla parte del popolino e una volta spodestato il legittimo re sarebbe salito lui al trono.

Purtroppo (o per fortuna) ciò non si verificò, ed Amulio, più furioso che mai, pensava di usare metodi più "diretti" per ottenere ciò che voleva. L'occasione giusta si presentò quando Proca, la cui gotta non era un mistero per nessuno, morì poco tempo dopo il lieto evento. Con un rapido colpo di mano fece arrestare Numitore, Rea Silvia e i gemelli. I figli maschi di Numitore e il marito di Rea Silvia opposero resistenza, e per questo furono uccisi tutti. All'inizio Amulio non sapeva che farsene dei prigionieri, ma dopo che un indovino gli predisse che i gemelli l'avrebbero spodestato e ucciso una volta diventati adulti, non ebbe più dubbi. Per prima cosa esiliò Numitore, che trovò rifugio a Caere, in Etruria, molto lontano da Alba Longa. Fece poi annegare Rea Silvia nel Tevere. Inizialmente per lei aveva pensato di relegarla nell'ordine delle Vestali, ma non essendo la donna più vergine ciò non era possibile.

Lo stesso destino sarebbe toccato anche ai gemelli, ma il servo incaricato di affogarli non ne ebbe il coraggio, ma sapeva che se non l'avesse fatto sarebbe stato ucciso egli stesso. Così confiscò una cesta, vi depose i neonati, li lasciò alla deriva e se ne andò, sperando che si ribaltasse e che i bambini affogassero.

Cosa che non accadde. Dopo non molto, la cesta si arenò ai margini della palude del Velabro. I vagiti dei gemelli attirarono sul posto il pastore Fausto, che stava facendo pascolate le pecore. Egli, impietosito e timoroso che i lupi presenti in zona venissero a reclamare la carne dei bambini, li raccolse e li condusse a casa sua, ad alcuni chilometri ad est del fiume.

Fausto abitava con la moglie, Acca Larenzia. La notizia della strage della famiglia reale di Alba Longa era arrivata fino a Veio, e i pastori capirono subito che i gemelli erano i nipoti di Numitore. Non li vollero consegnare ad Amulio, prima di tutto perché non potevano sopportare l'idea dei bambini uccisi, e anche a causa della tirannia di egli, con la quale si era inimicato molti. Su pressione della moglie, Fausto decise di adottare i bambini, con la speranza che crescendoli un giorno avrebbero riconquistato il loro trono.

Fu proprio Acca Larenzia a trovare i nomi ai bambini, che fino ad allora non ne avevano ricevuti. Uno venne chiamato Romolo, in onore di uno dei fratelli di Rea Silvia; l'altro Remo, per ricordare il condottiero italico ucciso da Niso nella sua incursione notturna assieme ad Eurialo nel campo dei rutuli durante la guerra contro Enea.

Note dell'autore
Salve, vi ringrazio per essere passati. Questa storia mi è stata inspirata da "Cos'è questa follia?" di Napoleon53 e tradotta in italiano da John Spangler, che trovate qui sul sito e che vi consiglio di leggere. Non ve la linko perché l'ultima volta che ho linkato qualcosa su EFP non ci sono state belle conseguenze (per me), per cui ve la dovete cercare da soli.
Comunque, ho sempre desiderato plasmare il mondo a mio piacimento, e quale modo migliore per farlo se non immedesimandosi nei romani? Lo so, il mio latino lascia alquanto a desiderare, ma se siete esperti (o avete parecchio tempo libero) siete autorizzati a dirmi titoli e termini più corretti grammaticalmente.
Grazie dell'attenzione,
A_e

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Capitolo 2
*** Regis iusta est ***


L'infanzia e la giovinezza di Romolo e Remo trascorsero abbastanza tranquille, senza particolari episodi o avvenimenti. Fausto e sua moglie decisero di non rivelare ai due la verità sulle loro origini. Romolo infatti aveva sviluppato un carattere fiero, guerriero e iracondo, simile al prozio Amulio ma non ambizioso come lui. Remo invece era più calmo, riflessivo e controllato, ma tendeva a seguire il fratello, che era molto carismatico. I pastori sapevano che se i due giovani avessero saputo la verità avrebbero cercato subito vendetta, fallendo sicuramente.

Solo quando ebbero compiuto sedici anni e raggiunto la maggiore età ai gemelli venne svelato tutto. Esattamente come avevano previsto Fausto e Acca Larenzia i due cercarono subito vendetta, ma i tutori gli consigliarono di studiare prima un piano. E così fecero.

Per prima cosa i gemelli si recarono a Caere, trovarono Numitore e si fecero riconoscere da lui come suoi discendenti. Con lui si recarono poi a Bovillae, una piccola città allora in guerra con Alba Longa, dove Numitore e Remo si guadagnarono un posto di rispetto nel piccolo esercito cittadino. Assieme condussero un contingente di cinquecento uomini sulle rive del lago di Albano, dove riuscirono a respingere un esercito grosso più del doppio comandato da Amulio in una battaglia che durò oltre due giorni (755 a.C.).

Nel frattempo Romolo si era recato in incognito ad Alba Longa, dove il malcontento era altissimo, e grazie al suo carisma non faticò a fomentare una rivolta che praticamente non trovò opposizione, tanto era odiato Amulio. Egli, di ritorno dopo la sconfitta subita, venne ucciso sotto le mura della città da una freccia che gli trafisse il collo. Alcuni sostengono che sia stato Romolo stesso a scagliarla, ma tale teoria è ritenuta piuttosto improbabile, visto che era un pessimo arciere.

Romolo e Remo, una volta ricongiuntisi, rimisero sul trono il nonno, e presero residenza alla loro città natale. Ma i due non erano ancora soddisfatti, perché Numitore, nonostante fosse abbastanza in avanti con l'età, era sano come un pesce e ancora ben lontano dalla sua dipartita. I due decisero di fondare una nuova città e di divenirne sovrani.

Con la benedizione del nonno, i due partirono da Alba Longa agli inizi del 753 a.C., e si diressero a nord. Assieme a loro c'erano settecento abitanti di Alba Longa, centoventi di Bovillae, e un altro centinaio proveniente dal resto della Lega Latina. Si aggiunsero poi un centinaio di greci originari di Corinto, guidati da Cartocrate. Essi avevano le stesse intenzioni dei gemelli, e si accordarono per fondare assieme la città.

A quei tempi l'area compresa tra i Colli Albani e il Tevere, nonostante fosse quasi tutta formata da una fertile pianura, era poco abitata, per cui si decise che la città dovesse essere fondata lì. I gemelli non fecero fatica a decidere il luogo esatto: c'era infatti un gruppo di colli solitari che si innalzavano sulle rive del Tevere, circa a circa cinque chilometri a sud di Fidene, da cui si poteva dominare l'intera pianura.

Una volta arrivati lì, nacquero delle vicissitudini sul luogo esatto dove porre la prima pietra. Romolo voleva chiamare la città Roma e costruirla sul colle Palatino, posto in una posizione centrale rispetto alle altre alture. Egli voleva fare così anche perché erano già presenti le fondamenta, resti dell'antica città di Pallante, andata distrutta dopo una sfortunata guerra contro Veio un paio di secoli prima. Remo invece voleva chiamarla Remora e fondarla sul colle Aventino. Le vicissitudini presto si trasformarono in discordia, anche perché Cartocrate aveva un parere ancora diverso, ovvero di chiamarla Ramina e di fondarla sul Campidoglio, anche perché da lì si poteva controllare il guado dell'isola Tiberina.

Per evitare scontri si giunse allora ad un compromesso: i tre sarebbero andati sui colli da loro designati e avrebbero atteso un segno degli dei. Così Romolo salì sulla cima del Palatino, Remo su quella dell'Aventino e Cartocrate su quella del Campidoglio.

Dopo alcune ore Remo scorse uno stormo di sei avvoltoi, e lo interpretò come il segno atteso. Si diresse subito dal resto del gruppo, trovando Cartocrate che aveva rinunciato, e quando ormai la notizia era ufficiale Romolo scorse uno stormo di dodici avvoltoi.

La tensione era alle stelle. Romolo sosteneva che era il numero degli uccelli quello che contava davvero, mentre per Remo era il tempo il fattore fondamentale. Cartocrate rimase neutrale. Scoppiarono dei piccoli tafferugli tra i rispettivi sostenitori, che divennero prima una rissa e poi una battaglia vera e propria, dove Remo rimase ucciso.

Romolo, nonostante fosse addolorato per la perdita del fratello, decise di seguire le proprie intenzioni, così per prima cosa tracciò il pomerium, ovvero il limite sacro della città dove sarebbero sorte le mura e all'interno del quale non si potevano portare armi. I primi edifici vennero costruiti sulle rovine della città di Pallante. Oltre alle abitazioni e alle mura, sorse anche un altare a Giove Zelante (storpiatura latina di Zeus, nome greco del padre degli dei).

Si celebrarono dei giochi funebri in onore di Remo (vinti da Orante, cognato di Cartocrate), e una volta terminati, Romolo si rivolse ai suoi seguaci per eleggere colui che avrebbe comandato sulla città. Essi (greci e Cartocrate compresi) risposero che Romolo doveva essere il re, e così fu.

 


Note dell'autore
Grazie di nuovo per essere passati. Allora, da qui comincia tutto. E già dal prossimo capitolo si mostrerà l'indole guerriera di Roma.

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Capitolo 3
*** Magnis merger ***


Una volta che Romolo ebbe consolidato la sua posizione si recò da solo in Etruria per consultare degli esperti di leggi. Tornò alla fine del 753 a.C., e cominciò a pianificare il futuro della città. La neonata Roma contava a quel tempo poco più di un migliaio di abitanti, e il suo re era intenzionato a far sì che ci fosse una rapida crescita demografica. Dichiarò allora che chiunque si fosse stabilito a Roma entro due anni era dichiarato cittadino e poteva entrare a far parte della società romana, che all'inizio era piuttosto egualitaria. Romolo infatti, pur essendo re, era considerato un primus inter pares ricalcando il modello greco.

Egli pose un limite di tempo a ciò (due anni), al cui termine, nel 751 a.C., la città poteva vantare circa quattromila abitanti, provenienti dalle più svariate culture (erano per la maggioranza latini ed etruschi, ma non mancavano greci, sanniti, celti ed altre popolazioni italiche).

Il primo nemico che Roma si trovò ad affrontare non fu né una città, né un popolo, né nient'altro con cui avrebbe avuto a che fare in futuro. Gli inverni tra il 753 e il 751 furono molto rigidi, soprattutto nelle zone montane degli Appennini. La maggior parte degli animali predati morì a causa del freddo, e ciò determinò un cambiamento delle zone di caccia dei lupi, che a quei tempi erano molto numerosi. Molti branchi si spostarono infatti nella pianura e nelle foreste laziali. Dopo essere transitati per i territori degli Equi, i lupi prima devastarono gli allevamenti e i raccolti attorno a Gabii, per poi spostarsi ulteriormente ad ovest, stanziandosi nelle foreste a sud-est di Roma.

Nel 751 cominciarono i primi avvistamenti di imponenti branchi di fiere da parte di alcuni cittadini romani. L'anno seguente il comportamento dei lupi si fece più aggressivo, tanto che oltre agli attacchi alle greggi e agli allevamenti si ebbero anche alcuni morti.

Il territorio di Roma era ancora molto piccolo, e non aveva risorse per sopravvivere oltre all'allevamento e all'agricoltura (anche molti campi vennero devastati), per cui i romani ricorsero a soluzioni drastiche. Il 750, il 749 e parte del 748 vennero interamente impiegati per scovare ed uccidere tutti i branchi di belve. Romolo stesso partecipò attivamente a tale caccia, tanto che si dice abbia ucciso da solo un centinaio di bestie. Fondamentale fu il contributo della città di Tellenae, che risentiva anch'essa dei danni dei lupi. Ai romani vennero fornite dai tellenensi cani da caccia, guide per i boschi, archi ed altri mezzi utili per portare a termine la caccia.

Alla fine del 748 i lupi capitolini (come vennero chiamati in seguito) si potevano considerare estinti, e per celebrare tale evento Romolo adottò tale animale come simbolo della città. Una statua raffigurante un lupo di bronzo fu eretta sulla cima dell'Aventino, mentre sul Palatino, al posto dell'altare a Giove Zelante ne venne eretto uno a Giove Capitolino, che in seguito crebbe fino a diventare un vero e proprio tempio.

Conclusasi la caccia ai lupi, i rapporti fra Roma e Tellenae si erano intensificati molto. Romolo era diventato molto amico del re della città, Gresilio, tanto che ne sposò la figlia Ersilia, e cominciarono i primi scambi commerciali romani con relativa affluenza di mercanti. Nel 747 a.C. l'amicizia tra Roma e Tellenae si trasformò in una vera e propria alleanza, culminata l'anno dopo nell'annessione della città al territorio romano alla morte di Gresilio. La maggior parte degli abitanti si trasferì a Roma, mentre circa centocinquanta vi rimasero, ai quali si aggiunsero un altro centinaio di cittadini romani. Tellenae divenne ufficialmente la prima colonia romana.

Nonostante la fusione con i tellenensi, la popolazione femminile rimaneva piuttosto bassa. Per ovviare a ciò, Romolo propose alla città di Antemnae, posta alla confluenza dei fiumi Aniene e Tevere, di fare la stessa cosa che aveva fatto Tellenae. Il re di Antemnae, Tito Tazio, rifiutò sdegnosamente. Roma era malvista dopo l'assorbimento di Tellenae da tutti i paesi limitrofi, compresa Alba Longa, dove Numitore era deceduto nel 748 a.C. per cause naturali.

Allora Romolo decise di fondersi con gli Antemnati con la forza. Si ebbe una cruenta battaglia sotto le mura di Antemnae, che vide vittorioso per poco Romolo. Egli integrò a Roma sia le donne che gli uomini di Antemnae, e fece di essa la sua seconda colonia. In battaglia Romolo aveva combattuto di persona contro Tito Tazio, e riconoscendone il valore gli aveva proposto di regnare assieme a lui. Era il 743 a.C., e già dieci anni erano passati dalla fondazione dell'Urbe.

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Capitolo 4
*** Pestilentia et bellum ***


Gli anni tra il 743 e il 739 a.C. passarono tranquillamente e abbastanza velocemente. Romolo ed Ersilia ebbero un figlio, Ersilio, e la co-reggenza con Tito Tazio procedeva bene. Purtroppo c'era una pecca in tutto ciò.

Tito Tazio, nonostante fosse molto esperto di combattimento e un capo carismatico, era abbastanza sgradevole come persona. Romolo presto si pentì della sua decisione, ma credette che per il momento fosse meglio non fare nulla, in quanto non poteva minimamente competere con lui.

L'occasione si presentò nel 738 a.C., quando alcuni antemnati in una rissa uccisero un mercante di Laurentum venuto a Roma per commerciare, in quanto accusato di vendere merci difettose. Allora i suoi connazionali fecero appello al diritto delle genti, una legge simile a quella del taglione. Tito Tazio, invece di applicare le leggi come di dovere, favorì i suoi connazionali e  anzi scacciò dalla città tutti gli abitanti di Laurentum.

L'anno successivo una virulenta epidemia colpì Roma, probabilmente portata da qualche città della Lega Latina che ne stava soffrendo, come Alba Longa, Gabii oppure Labicum. Circa un sesto degli abitanti della città morirono, compreso Tito Tazio. Molti considerarono ciò come un castigo divino. Romolo dal canto suo non diete discredito a queste voci, anzi.

Laurentum, desiderosa di vendetta per il trattamento subito, vide un'opportunità da non lasciarsi scappare, si alleò con la città di Fidenae e marciò contro l'Urbe. I fidenati attaccarono e saccheggiarono Antemane, mentre l'esercito romano comandato da Romolo riuscì non senza difficoltà a sconfiggere i laurentini presso Tellenae.

Mentre Romolo era ancora impegnato a combattere, un secondo esercito Romano al comando del generale Aulo Atrio sbaragliò i fidenati presso i campi di Caractae (735 a.C.), facendogli guadagnare così il soprannome di Caractoro.

 

***

 

- Mi scusi?

Matteo Umbrio Senna interruppe la sua spiegazione.

- Sì, Sesto?

- Non capisco, di norma i tempi più antichi della storia dell'Urbe vengono considerati anche quelli più oscuri, allora come mai lei ci sta spiegando con tutta sicurezza queste cose qui?

- In effetti la tua domanda non è priva di senso. Allora apriamo una piccola parentesi. Dovete sapere che il figlio di Romolo, Ersilio, fece iniziare a tenere gli Annales, di cui purtroppo solo questi pochi frammenti sono pervenuti fino a noi.

- E li chiama anche pochi - borbottò tra sé e sé Sesto Modio Tulla.

- Hai detto qualcosa?

- Nulla, magister.

- Bene, allora credo che possiamo proseguire con la spiegazione.

 

***

 

Caractoro, una volta sconfitti i fidenati, prima riconquistò Antemnae e poi si preparò a marciare verso Fidenae, ma un fulmine che colpì e uccise un suo soldato lo convinse a lasciar perdere dopo che un augure l'aveva interpretato come un segno infausto.

Vennero stipulate due paci separate con entrambe le città, e per il momento vi fu la pace. Ma i romani non dimenticarono il saccheggio di Antemnae.


Note dell'autore
Ringrazio molto Capricornus per essere passata a recensire e AleGritti92 e Aurelianus (scelta peculiare?) per aver messo la storia tra le seguite e nel caso del primo anche tra le preferite. Ringrazio ancora Capricornus per avermi dato l'idea del maestro che spiega agli alunni.

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Capitolo 5
*** Expansionem et republicae ***


A Roma ci vollero alcuni anni per riprendersi dalla pestilenza e dalla guerra contro le altre città laziali. Il numero degli abitanti era diminuito molto, per cui nel 733 a.C. Romolo stabilì che prima che la città dovesse condurre una nuova guerra, sarebbe passata almeno una generazione. I romani rispettavano molto Romolo, e così fu.

Il resto del regno di Romolo passò abbastanza in sordina, durante il quale Roma crebbe di nuovo, e anzi, acquisì nuovo potere. Nel 718 a.C. venne infatti fondala la mitica Prima Legione (Legio I Lupus), di cui l'anziano Aulo Caractoro ne divenne primo comandante. Dalle imprese che avrebbe compiuto in futuro il corpo d'armata il modo di dire "avere il comando della Prima Legione" sarebbe diventato sinonimo di conquistare fama e gloria.

Nel 716 a.C. Romolo si spense, e nessuno ebbe nulla in contrario quando gli succedette il figlio Ersilio. Fin da subito egli si dimostrò un re calmo, controllato e saggio. Fece subito iniziare a tenere gli Annales, dove annotò tutti gli eventi accaduti durante il regno del padre, e dove iniziò a far contare gli anni nel metodo ancora oggi usato (Ab urbe condita, nominativo attribuito all'antico scrittore Massimo Laberio Proceo, di cui purtroppo sono pervenuti solo pochi frammenti).

Nel 712 a.C. fece inoltre compiere il primo censimento (censori Nono Ninnio Galera e Anco Quintizio Tucciano), dal quale risultò che la popolazione romana totale ammontava a circa ventimila abitanti.

Nel 708 terminò la generazione di pace stabilita da Romolo, ma la tranquillità durò ben oltre il tempo stabilito, fino alla fine del regno di Ersilio. Un decimo di queste persone faceva inoltre parte della Legio I,  per cui a quei tempi, nonostante fosse un periodo di pace, lo Stato Romano era molto ben difeso. Ebbe infatti modo di estendere i propri confini a sud scendendo lungo il Tevere, fondando anche la colonia di Vitinia (chiamata così a causa dei tanti campi di vite, importata decenni prima da Cartocrate).

Inoltre ad Ersilio è attribuita anche la fondazione del Senato, che all'inizio contava cinquanta membri scelti tra le famiglie più illustri della città, che avevano il compito di consigliare il re nelle sue decisioni.

Ersilio sposò una donna romana, Atria Priscilla, figlia di Aulo Caractoro, ed ebbe un figlio, Avilio, che gli successe nella carica di re quando morì, nel 685 a.C.

Avilio fin da subito mostrò di avere un carattere aggressivo e feroce, simile a quello di Amulio. Per prima cosa, volendo a tutti i costi estendere il territorio romano, fece un'alleanza con la città di Collatia, allora in guerra con Caenina, conquistando ed annettendo la maggior parte dei territori di quest'ultima. Per celebrare ciò nel 681 a.C. venne celebrato il primo trionfo della storia romana, tutto dedicato ad Avilio e riportato anche negli Annales.

In seguito si espanse nelle pianure sia a sud che ad est, facendo cominciare a preoccupare le città latine. In particolare Gabii e Tusculum erano molto guardinghe nel trattare con l'Urbe, in quanto erano sicure di essere le loro prossime prede (ma si sbagliavano). Stabilirono allora un'alleanza con Fidenae (che continuava ancora a tramare contro Roma) e mossero all'unisono i loro eserciti.

Mentre l'esercito collatino (Collatia era ancora alleata di Roma) bloccava quello latino a Caenina, Avilio inflisse una dura sconfitta ai fidenati nella battaglia del Cremera (676 a.C.), ed era sul punto di conquistare la città quando venne stroncato da un'improvvisa quanto sospetta malattia. E' anche doveroso precisare che a quel tempo le acque del fiume Cremera erano piuttosto malsane e invivibili, ma era altrettanto risaputo della salute di ferro del re, e ciò lascia sempre dei dubbi sull'effettiva letalità della sua malattia.

La sua morte inizialmente lasciò nello scompiglio i romani. Senza la sua guida molti generali optarono per la ritirata a Roma, e in effetti così fu. I fidenati, credendo che i nemici si fossero arresi, misero insieme un secondo esercito e marciarono contro Roma.

Le vere intenzioni dei romani però erano ben altre. Lasciarono aperte le porte della città, facendo credere ai nemici di averla abbandonata, e una volta che il grosso dell'esercito fu entrato per le strette vie della città venne assalito e decimato dalle truppe romane nascoste nelle case. Chi provò a scappare venne subito intercettato da un secondo esercito romano che era rimasto nascosto in una pineta poco distante. La vittoria romana fu schiacciante, e anche Fidenae cadde sotto il dominio romano.

L'artefice di questa brillante vittoria, Spurio Pollio Bibacolo, era un ex-generale di Avilio molto scaltro e ambizioso, quindi colse l'occasione per mettersi a capo della città. Non si fece però proclamare re, ma, assieme al generale che aveva intercettato i fuggitivi fidenati Mamerco Flavio Vepgeno, si fece nominare console. Roma così da regno passò a repubblica. Era il 673 a.C.

Bibacolo però non aveva intenzione di restare console a lungo. Infatti era afflitto da una grave malattia (interpretata come tachicardia) che lo costrinse a lasciare la carica l'anno dopo assieme a Vepgeno che sul modello greco proclamò le libere elezioni per la carica di console.


Note dell'autore
Ringrazio Triz per aver messo la storia tra le seguite, e mio caro Aurelianus spero che questo capitolo sia di tuo gradimento, visto che su tua richiesta ho fatto passare ben sessant'anni in una botta sola.

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Capitolo 6
*** Primus cladis ***


Dopo il ritiro di Bibacolo e Vepgeno la situazione politica della città divenne piuttosto confusa. E' interessante un manoscritto redatto dall'addetto agli Annales Stazio Marziale, non incluso in essi per ovvi motivi.

 

La città era nel caos più totale. Ad ogni angolo girato saltava fuori un candidato per la carica di console, e non si poteva fare due passi senza essere tediati da essi. Allora mi sono profondamente vergognato di essere un cittadino romano. La città era invasa da scritte sui muri [fino a circa il IX secolo d.C. a Roma si usava fare propaganda politica scrivendo sui muri della città]. Mi sarei tolto la vita piuttosto che ridurmi ad un tale comportamento.

 

Roma era frammentata, tanto che si arrivarono a contare settantaquattro candidati. Allora, con un veloce colpo di mano, i nobili Consenzio Asina e Lucio Erennio Ventore presero il poter. A causa della frammentazione dei romani praticamente non trovarono resistenza. Non vollero però abolire la repubblica, e anzi si fecero proclamare loro stessi senatori.

Nonostante le proteste iniziali, i cittadini romani si abituarono bene al consolato dei due. Asina e Ventore fecero promulgare la lex Asinia e la lex Ventoria. La prima stabiliva che i candidati al consolato dovessero essere dei senatori ed avere alle spalle almeno venti anni di presenza al senato, mentre la seconda stabiliva il costante ricambio generazionale, imponendo il divieto della rielezione alla carica di console. Fu soprattutto quest'ultima legge a contribuire alla buona riuscita della repubblica. La cosa particolare è che nessuna delle due venne messa per iscritto prima del IV secolo a.C.

Allo scadere del mandato, nel 671 a.C., i due lasciarono le loro cariche e al loro posto salirono al potere Postumio Pesenzio Labieno e Gaio Assio Tremera, i vincitori delle prime libere elezioni romane, e forse della storia. La cosa che sorprese fu la salita al potere di Tremera. Egli possedeva vari poderi adiacenti al fiume Cremera, e all'inizio era quello il suo terzo nome, ma a causa dei tremori cronici di cui soffriva venne ribattezzato Tremera. Il suo consolato fu abbastanza anonimo, mentre le imprese che compì negli anni seguenti furono degne di nota.

A Tremera si deve anche il brevetto della prima merce di scambio romana, l'Aes rude, ovvero dei pezzi di ferro (all'inizio, e successivamente di bronzo) che fungevano come moneta a quell'epoca. L'Aes rude venne usato fino al secolo successivo, quando venne sostituito dall'Aes grave.

I quarti a ricoprire la carica di consoli furono Aulo Secondo Vibio e Quinto Atrio Mordantico (discendente di Aulo Caractoro). Essi espansero il territorio romano verso sud ai danni di Tusculum, la quale non reagì memore della sconfitta di pochi anni prima (nonostante non fossero stati i romani a fermare il suo esercito).

I quinti, Tito Lucio Clemente e Vopisco Rabirio Primo, continuarono l'opera dei loro predecessori, scatenando però una reazione della città latina. Nella battaglia dei Campi di Vergata (669 a.C.) l'esercito romano subì la prima sconfitta della sua storia, ed anche il console Tito Clemente rimase ucciso.

I tusculani, incoraggiati dalla vittoria, rincorsero l'esercito romano in rotta, puntando direttamente verso Roma. E fu questo il loro errore. Tremera, che si trovava allora a Caenina, organizzò rapidamente un nuovo corpo militare e si diresse verso la capitale. Mentre le forze di Tusculum assediavano la città Tremera le colse da dietro, e anche con l'aiuto della milizia cittadina che era nel frattempo uscita dalle mura, Roma capovolse la situazione.

Grazie a Tremrera l'Urbe fu capace di estendere ulteriormente il proprio dominio a danni di Tusculum, di cui incorporò la maggio parte dei dominii. Venne anche fondata una colonia nelle nuove terre, proprio dove i romani erano stati sconfitti, Vergata (nel V secolo d.C., quando le popolazioni barbare provenienti da nord si insediarono nel centro Italia, a Vergata venne eretto un tor, tipica fortezza di quelle genti, ed allora da quel momento la cittadina è nota come Tor Vergata).

A Tremera venne offerto il consolato dell'anno dopo, ma attenendosi alla lex Ventoria rifiutò.

 

Note dell'autore
Volevi una sconfitta? Eccoti accontentato, AleGritti92. Ringrazio anche Capricornus per aver fatto la stalker come suo solito.

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Capitolo 7
*** Finis autem primum ***


Era scesa la sera, e sul terrazzo della scuola superiore "Aulo Caractoro" stava un uomo intento a fumare, appoggiato ad una ringhiera e con la faccia rivolta verso le montagne lontane. Il suo sguardo si era perso tra quelle catene montuose, debolmente illuminate dalle luci della città. Il suo sguardo si era perso in quei fitti boschi, che a quell'ora parevano impenetrabili nella loro compattezza e nella loro oscurità. Ma in realtà l'uomo non stava davvero prestando attenzione a ciò.

Matteo Umbrio Senna stava pensando. Stava pensando al proprio cognome, "Senna". Per la precisione stava pensando come se l'era procurato. Lui da piccolo abitava a Lutezia, in una casa sulle rive del fiume che attraversava la città. E una volta c'era quasi affogato, in quel fiume. Era per questo che fin da piccolo l'avevano sempre e solo chiamato Senna. Mai Submerso o Supersto, ad indicare che era ancora vivo, ma Senna. Da giovane odiava quel nominativo, ma col passare degli anni ci aveva fatto l'abitudine, anzi, adesso ringraziava Dio per il fatto che ce l'avesse. "Matteo Umbrio Submerso" sarebbe stato proprio un nome orribile, e nonostante "Matteo Umbrio Supersto" avesse il suo fascino, aveva preferito tenersi il cognome originale.

Tirò una boccata alla sigaretta. Venne però interrotto da una voce alle sue spalle.

- Sai che non si può fumare, vero?

Opitero Ebuzio Onorato si appoggiò anch'esso alla ringhiera.

- Zitto e fuma - rispose l'altro, porgendogli la sigaretta. L'altro sorrise, la prese e tirò un paio di boccate, osservando il fumo che si disperdeva nell'aria.

- Non ti deprime?

- Che cosa? - chiese stupito Senna.

- Il corso che tieni. Le ripetizioni sono sempre terribili. Io personalmente non ho mai tenuto un corso del genere, e non ci tengo per niente.

- Tu sei tu, io sono io. Sai almeno perché lo faccio?

- No.

- In primis perché a me piace la storia...

- Questo si sapeva, non per niente sei il magister di storia.

- Secondo, ho problemi di soldi, per cui mi serve fare questo corso.

- Ah, ora capisco. Ma sono sicuro che ci sia dell'altro, non è cosi?

Matteo si zittì per un secondo, poi continuò.

- Ultimamente non ho nulla da fare il pomeriggio.

- Davvero? Eppure non sembra.

- Invece te lo assicuro.

- Se lo dici tu. Bene, io vado, Antonia mi aspetta.

- Ciao, a domani.

Onorato spense la sigaretta sul davanzale e se ne andò. Senna sospirò. Gli aveva mentito sull'ultimo motivo. Aveva accettato di tenere quel corso anche perché era depresso. Non trovava un motivo per vivere, si era semplicemente stancato della sua esistenza. Pensieri suicidi avevano sfiorato la sua mente, ma non li aveva mai messi in atto.

L'unica cosa che pensava lo potesse salvare era la storia. Era stato sempre un grande appassionato, bastava vedere la passione che ci metteva quando spiegava. Fin dai livelli più bassi di istruzione aveva sempre eccelso in storia, ed era per questo che adesso era diventato professore.

Poi era solo. Non aveva nessuno che l'aspettasse a casa, nemmeno i genitori, gli amici oppure i vicini. Era completamente solo.

Sperava vivamente che la sua passione gli potesse far tornare la felicità. Matteo Umbrio Senna rientrò dentro.


Note dell'autore
Oggi mi andava di approfondire la trama esterna. E poi voglio fare un chiarimento sul cognome.
Per i nostri amici qui l'onomastica è così strutturata: c'è un nome, un prenome e un cognome.
Il nome è quello normale, che può essere Marco, Lucio, Aulo, Gaio, eccetera.
Il prenome è quello della gens, ovvero nel caso di Matteo Senna è la gens Umbria, che è originaria dell'omonima regione.
Il cognome invece inizialmente non è presente, ma è aggiunto agli altri due per un evento che coinvolge il portatore oppure per una sua impresa, ma può anche essere tramandato di padre in figlio. Nel caso del nostro professore l'ho già spiegato prima il motivo.
Spero che questa lezioncina vi sia servita. A presto!

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Capitolo 8
*** Municipiis et seditionem ***


Roma, nonostante la vittoriosa guerra contro Tusculum, era rimasta spossata dagli incessanti combattimenti e sia l'economia che la demografia erano instabili. I sesti a ricoprire la carica di consoli, Numerio Giulio Catullo e Gaio Giunio Clodiano, presero esempio da Romolo e stabilirono una seconda generazione di pace per ripristinare la situazione ante-guerra.

I settimi, Gaio Ponzio Meceno e Amulio Sepunio Venanzio, continuarono l'opera dei loro predecessori, e gli ottavi (Nono Camillo Terzio e Pompeio Porco) ampliarono il senato da cinquanta a settantacinque membri.

I noni (Nonio Lucio Geniale e Publio Servilio Gracile) fecero effettuare un censimento, gestito da Canidio Elerio e Opitero Papinio Publiano, dal quale risultò che la popolazione romana si aggirava attorno ai trentamila abitanti. I consoli e i censori stimarono che entro la fine della generazione il popolo sarebbe variato fino ad arrivare a circa quarantamila abitanti. Cosa che in effetti avvenne.

Sotto i decimi consoli (Terzio Laberio e Quintilio Lutorio) i confini romani vennero espansi verso ovest sfruttando l'assenza di insediamenti in quei pressi, anche se in maniera molto meno appariscente rispetto a come fecero Clemente e Primo. Venne fondata anche una colonia, battezzata Caractae per ricordare l'antico generale (nel tempo Caractoro sviluppò un notevole culto della personalità che nel I secolo a.C. lo portò persino a venir elevato a divinità. Ciò sfociò in un conflitto tra i suoi fedeli e i repubblicani, che non avevano approvato la divinizzazione).

Gli undicesimi consoli, Marcello Licinio Agricola e Gallo Liburnio Ventore (Lucio Ventore era suo zio), decisero di fondare un'altra colonia ad est, ai limiti dei confini romani e all'inizio del Lazio, per tenere sotto osservazione i movimenti della Lega Latina. Tale città venne ribattezzata Bibacola, per commemorare l'omonimo ex-console, deceduto tre anni prima. Le campagne attorno a Bibacola erano molto fertili, e costituirono il granaio della repubblica finché non venne annessa la regione di Siracusa.

I dodicesimi consoli (Vibio Rutilio Catonio e Tito Azio Iuniano), vista la crescente estensione del territorio romano, concepirono l'idea di dividerlo in municipi per facilitarne l'amministrazione. Iniziarono a stilare un disegno di legge, che venne completato dai loro successori (Gaio Epidio Critone e Vibio Visellio Dacieno) e che venne approvato dal senato. Così, nel 660 a.C., i neo eletti consoli Avidio Vegenzio e Mamerco Cesulenio Nennio annunciarono l'istituzione di otto municipi, uno per ogni città romana, ognuno dei quali sarebbe stato gestito da un municipale il quale sarebbe restato in carica per tre anni. Quasi tutti i municipali erano ex-consoli, o comunque senatori, e tutti amministrarono bene il loro settore, tranne uno.

I quindicesimi consoli, Decio Clelio Advento e Marcello Pontino Velio, rafforzarono l'esercito, portando i soldati da duemila a quattromila unità e creando la seconda legione, la Legio II Aprum.

Nel 658 a.C. alcuni ateniesi arrivarono nel Lazio dopo aver sentito parlare di Roma, e una volta raggiunto il senato si dichiararono intenzionati a sottomettersi alla repubblica e a fondare una nuova colonia. I consoli Gaio Papirio Lucano e Osto Lucio Pittore concedettero il permesso per incrementare ulteriormente la popolazione, e poco tempo dopo venne istituita la città di Avilio (con annesso municipio).

I diciassettesimi a salire al potere, Mamerco Umbrenio Nerva e Proculo Iuventino Armigero, si trovarono ad affrontare una crisi non da poco. Quando quasi tre anni prima erano stati istituiti i municipi a quello di Caractae era stato assegnato come municipale Pompeio Porco, chiamato così per il fatto che mangiava tantissimo, come se dentro di lui fossero presenti tre persone contemporaneamente.

Quando il suo mandato stava per scadere emerse la corruzione che aveva dominato la città e la violenza con cui aveva represso tutte le proteste contro di lui. Infatti nulla era trapelato a causa della mancanza di vie di comunicazione, e quando a Roma si venne a sapere i consoli destituirono Pompeio dalla carica. Il municipale non la prese bene, e si barricò dentro Caractae dichiarandosi indipendente da Roma.

I suoi seguaci erano comunque pochi, per cui bastò un contingente di meno di cinquecento uomini comandato dal centurione Lucio Salonio Rufrio per riconquistare la città. Pompeio venne ucciso, il suo corpo riportato a Roma ed esposto durante il trionfo del centurione, promosso generale.

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Capitolo 9
*** Damnatio memoriae ***


L'anno dopo, com'era da aspettarsi, salirono al consolato Rufrio e il suo compagno d'arme Placo Virio Cotta. I due uomini, Rufrio in particolare, avevano acquisito molta popolarità dopo la morte di Pompeio Porco. Si può dire che tutto l'esercito aveva acquisito popolarità dopo quell'episodio. Ciò vide una salita vertiginosa delle reclute, che da poco meno quattromila che erano arrivarono ben preso a più di settemila, su una popolazione di poco più di trentacinque mila abitanti (cifra stimata senza censimento). E ciò fece molta paura sia ai politici esterni che a quelli interni all'esercito.

Proculo Armigero (console 657 a.C.) era un generale dell'esercito molto ambizioso, e stava cominciando a temere la popolarità di Rufrio e Cotta. Infatti i due, che fino a prima dell'elezione erano stati suoi uomini, ora stravano prendendo le distanze da lui, e stavano cominciando a prendere decisioni pericolose per l'ex-console. Con il progetto di rimpiazzare i due con altri suoi uomini (in rispetto della lex Ventoria), Armigero organizzò una congiura contro di loro.

Appena due mesi dopo l'elezione, Rufrio e Cotta presentarono al senato un piano di ridimensionamento totale dell'esercito, e ciò fece pensare ad Armigero che era il momento di agire. Il 6 marzo del 656 a.C., sull'entrata del senato, Rufrio e Cotta vennero assaliti da una decina di congiurati. Cotta venne pugnalato a morte, mentre Rufrio riuscì a fuggire rifugiandosi nella sala delle udienze del palazzo.

La notizia della morte dei consoli (vera a metà) si sparse a macchia d'olio nella repubblica, e nel giro di una settimana si seppe in ogni angolo del territorio romano. Armigero prese con un rapido colpo di mano il potere, nell'errata convinzione di aver fatto fuori anche Rufrio, tutt'altro che morto e nascosto nei bassifondi della città.

Appena tre settimane dopo una rivolta popolare cappeggiata dal console rovesciò Armigero, che venne catturato e ucciso attraverso crocefissione. Fu il primo uomo in assoluto ad essere ucciso in tale modo. Anche l'esercito subì una profonda epurazione al fine di scovare tutti i sostenitori dell'ex-console. Proculo Armigero fu in assoluto il primo romano a subire la damnatio memoriae, tanto che il suo nome fu per fino cancellato dagli Annales in un primo momento, anche se fu fatto recuperare una cinquantina d'anni dopo. Come disse Rufrio dopo la morte dell'usurpatore: - Chi uccide un romano non ha il diritto di vivere, chi uccide un console non ha il diritto di esistere.

Poco dopo, non potendo governare da solo, Rufrio elesse a secondo console Nono Qiunzio, facendolo di fatto il primo suffectum della storia romana. Con la promulgazione della lex Quinzia infatti si dispose infatti che se un console fosse morto durante la carica potesse essere sostituito da un altro uomo dello stesso suo partito. Invece con la lex Rufria si istituì che chi avesse ucciso un console fosse punibile con la pena di morte. Il corpo di Placo Cotta, inizialmente buttato in un fosso dai suoi nemici, venne recuperato e tumulato con tutti gli onori, forse nell'Esquilino (non si sa con esattezza dove, negli Annales viene solo accennato che Cotta venne sepolto in uno dei sette colli).

L'anno dopo però sorse un piccolo problema: Quinzio infatti si ricandidò al consolato, sostenendo infatti che non avendo occupato tutto il tempo dell'incarico poteva prendervi parte una seconda ed ultima volta. Ciò venne approvato (anche se tra qualche protesta) dal senato, così Quinzio poté salire una seconda volta alla carica di console assieme ad un altro militare, Gneo Lucio Lupino. Ciò venne reso ufficiale poco dopo con la lex Lupina (non potevano chiamarla con il nome di Quinzio perché ce n'era già un'altra, così presero il nome del secondo console). C'è da dire che tale regola non ha mai arrecato, a parte alcune occasioni, gravi danni alla repubblica.

I successori, Clovio Silano e Amulio Memmio Fortunato, cominciarono i preparativi per la festa del centenario della fondazione di Roma. Preparativi che vennero ultimati dai loro successori, Terzio Duronio Enneca e Servio Elvio Gorgone.

La festa fu un successo, tanto che anche abitanti di Veio e della Lega Latina si recarono nell'Urbe per prendere parte alla festa. Certo, un po' la faccia di Servio Gorgone sfigurò (letteralmente; il console aveva questo soprannome perché era inguardabile, tanto era brutto), ma per il resto fu un successo, tanto che la popolazione romana venne incrementata fino ad arrivare precocemente a quarantamila abitanti.

Note dell'autore
Contento Aurelianus? A sto giro il verbo "fare" non compare nemmeno una volta.

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Capitolo 10
*** Instabilitatem consilium ***


Il consolato del 652 a.C. fu abbastanza anonimo, se si esclude che uno dei due consoli (Secondo Vitellio Dardanio) morì per cause naturali e venne sostituito dal sacerdote del tempio di Zeus, Tanico Metello.

Il sacerdote venne eletto l'anno successivo, e assieme al collega Cassio Clodio Metilio diede inizio alla costruzione del tempio di Giano, che oltre ad essere il centro del culto del dio nella repubblica, sarebbe anche stato il quartier generale dell'esercito romano. Non ufficialmente, si intende.

La costruzione venne completata l'anno successivo, e i consoli Flavio Sestio Carino e Servio Nemetorio Docilino, entrambi adepti di Metello, ufficializzarono il funzionamento del tempio. I portoni della struttura erano enormi, arrivavano a circa dodici metri di altezza, ed erano fatti di legno verniciato di oro (sostituiti poi da oro vero qualche secolo dopo). In tempo di pace le porte non venivano mai aperte, tanto che i fedeli potevano entrare solo dagli ingressi laterali. Chi cercava di forzarle era addirittura punibile con la morte. In tempo di guerra invece venivano totalmente spalancate, e l'ingresso era libero a tutti.

In quel tempo, al partito militare, stava facendo una gran concorrenza quello "dei templi", come inizialmente venne definito dispregiamente dai soldati, ma che in seguito venne adottato come nome ufficiale del movimento. La tensione salì non poco, tanto che nel 649 a.C, quando salirono al consolato Druso Cepasio Castorio e Flavio Caristanio Primo, il primo appartenente all'esercito e il secondo ai sacerdoti, si arrivò ad un passo dalla guerra civile.

Il senatore Gneo Gavio Celestino seppe però calmare gli animi tramite un abile orazione, complice il fatto che era sostenuto dal vecchio Gaio Tremera, ancora molto popolare. Il senatore salì al potere l'anno dopo assieme al moderato Appio Ninnio Quintilio, e cercò di rimettere in riga i partiti, in particolare quello militare e quello dei templi, dando invece potere all'ala moderata.

A capo dei militari c'era Sesto Virio Paziente, mentre a comandare i sacerdoti si trovava ancora Metello. Paziente e Metello a quel punto si allearono, anche se di malavoglia, ed attuarono un colpo di stato. Quintilio venne ucciso e Celestino mandato in esilio. Paziente e Lucio Didio Cerinto (un uomo di Metello) si fecero eleggere consoli (come suffecti, in modo da farsi rieleggere l'anno dopo).

Durante il loro doppio mandato Paziente rafforzò l'esercito istituendo la Legio III Aquilam, mentre Cerinto fece ampliare il tempio di Zeus e diede inizio ai lavori per quello di Vesta, che sarebbe diventato la sede principale dell'Ordine Vestale. Venne effettuato anche un censimento (censori Placo Modio Eburnio e Aulo Avidio Augurio), dal quale risultò che la popolazione romana totale ammontava a circa quarantatremila abitanti, dei quali ottomila facevano parte dell'esercito e tremila al sacerdozio.

A fine mandato venne stabilito un patto segreto, dal quale si stabiliva che fino alla fine della generazione stabilita da Geniale e Gracile i due consoli sarebbero stati rispettivamente uno dell'esercito e uno dei templi. Tale patto venne detto ironicamente dal senatore Gaio Giulio Enneca lex Suprema. Per questo il senatore venne ucciso, e il resto della gens Giulia venne esiliata.

Nel 646 a.C. divennero consoli Gneo Cario e Amulio Canzio Solinio, i quali diedero inizio ad un periodo di instabilità politica, prima organizzando un riuscito attentato a Metello (che stava acquisendo troppo potere per i loro gusti) e poi rivolgendo le loro attenzioni al partito moderato. Il capo di tale movimento, Vopisco Calvenzio Alurede, stava cercando di opporsi al duumvirato, ma senza particolare successo. Giudicandolo pericoloso, i consoli lo fecero uccidere, e misero al suo posto Terzio Velio Glabrio, totalmente asservito a loro. Non soppressero il partito perché era molto popolare e si sarebbe scatenata sicuramente una rivolta, ma lo mantennero come un loro fantoccio.

L'anno dopo ciò venne dimostrato dal fatto che le elezioni vennero palesemente pilotate, ma nessuno si oppose all'elezione di Gneo Mucio Calero e di Glabrio, messo al potere per mantenere il favore del popolo.

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Capitolo 11
*** Frustra conari ***


Mentre a Roma imperversava il terrore imposto da Calero (Glabrio era una figura totalmente inesistente, e Sesto Paziente era stato giustiziato con l'accusa di tradimento), al di fuori della "repubblica" qualcuno complottava per ristabilire l'ordine.

Quando era stato esiliato, Celestino si era rifugiato a Veio. Il governatore di Veio, Lars Porsenna, l'aveva accolto a braccia aperte, ma per un motivo ben preciso. Era infatti un uomo molto ambizioso, e negli ultimi tempi si era interessato notevolmente a Roma. Guardava avidamente il territorio romano, e bramava segretamente di impossessarsi della repubblica per estendere i suoi domini, e accogliendo Celestino pensava di usarlo per avere informazioni sulle difese della città e la struttura dell'esercito.

Porsenna dovette però aspettare alcuni anni, poiché non aveva ancora abbastanza truppe per intervenire con la forza. L'occasione buona si presentò quando la gens Giulia venne esiliata da Roma. La maggior parte dei suoi membri si recò proprio a Veio, e allora il lucumone della città capì che il momento era arrivato.

Mobilitò l'esercito della città e, accompagnato da Celestino e dai Giulii, invase il territorio romano all'inizio del 644 a.C., poco dopo le "elezioni" consolari nell'Urbe. Un esercito venne inviato contro di loro, ma i suoi componenti, insofferenti anch'essi al dominio assolutista della lex Suprema, disertarono e si unirono a quello di Porsenna.

Anche Roma cadde senza che sangue venisse sparso, mentre i consoli Gaio Norbanio Torquato e Potito Vitruvio Surio e i loro sostenitori si barricarono sulla cima del colle Celio. Resistettero per circa tre mesi, ma alla fine furono tutti sterminati. Subito dopo la loro sconfitta salirono alla carica di console Celestino per la seconda volta (sfruttando il fatto che era stato deposto da un colpo di stato) e Terzio Giulio Ignazio Calvino, un uomo di Porsenna. L'etrusco poteva infatti conquistare la città con la forza, ma preferì inserirsi pacificamente nella politica della città per evitare inutili morti. Il tentativo di Porsenna fallì in quanto morì pochi anni dopo, ma contribuì ad inserire la cultura etrusca in quella romana.

La prima azione dei consoli fu l'applicazione della damnatio memoriae a tutti i consoli che erano stati al potere dopo il colpo di stato, ovvero Sesto Paziente, Gneo Cario, Amulio Solino, Gneo Calero, Terzio Glabrio, Gaio Torquato e Potito Surio. La punizione venne risparmiata a Lucio Cerinto in quanto non apportò danni sostanziali alla città. Egli fu infatti anche l'unico ad evitare la pena di morte.

I successori di Celestino - Umbrenio Capitone e Gneo Cesonio Sanga - ristabilirono l'ordine, mentre quelli che vennero ancora dopo - Sesto Novio Fallofode e Stazio Muciano - aggiunsero altri quindici anni alla generazione di pace di Geniale e Gracile, portando la data di scadenza al 625 a.C.

Nel 641 a.C. i consoli Sisinnio Clelio Dardanio e Vibio Loreio Carnefice emanarono la lex Dardania, che impediva la formazione dei partiti. Questa legge venne applicata con successo fino al XVIII secolo, quando venne abolita.

Il 640 a.C. portò al consolato Cesonio Calpurnio e Marco Norbanio Menimio, entrambi architetti, ed entrambi avevano studiato architettura in Etruria, apprendendo la tecnica dell'arco a volta dagli etruschi. I due misero in atto una gigantesca opera di ristrutturazione e di ampliamento della città. Era un progetto molto ambizioso, ed incontrò non poche proteste dai senatori più conservatori, ma alla fine venne approvato, visto che i soldi per fare ciò c'erano (sembra strano, ma i turbolenti anni tra il 648 e il 644 non avevano intaccato la finanza romana).

Nel 639 a.C. morì l'anziano Gaio Tremera (nato nel 705 a.C., ovvero l'anno 48 Ab Urbe condita), e i consoli Sesto Cosconio Parato e Tullio Pomponio Ausenzio organizzarono un sontuoso funerale di stato. Il corpo dell'ex-console venne tumulato sul Celio, anche se come la tomba di Placo Cotta il luogo esatto della sepoltura venne dimenticato col passare dei secoli.

 

Note dell'autore
Grazie per essere passati.
Voglio fare un piccolo annuncio. La successione dei capitoli verrà interrotta, e gli appuntamenti del 7, 10, 13, 16 e 19 luglio salteranno perché sarò in Inghilterra, a circa tremila chilometri dal mio amato personal computer, impossibilitato a continuare. Ma non vi preoccupate, a partire dal 22 si ricomincia.

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Capitolo 12
*** Viae et reperiantur ***


Nel 638 a.C. non successe nulla di rilevante, a parte il decesso di Papinio Vetranio, l'ultimo uomo nato nel regno di Romolo, appena due giorni prima della sua morte. Nonostante fosse un semplice mercante, i consoli Massimo Nemetorio Dacieno e Gallio Cetronio Cucupa gli tributarono lo stesso un funerale di stato come quello dell'anno precedente per Cremera.

Nel 637 i consoli Mamerco Cetronio Marziale (fratello di Cucupa) e Cosso Salonio Olennio annunciarono un ambizioso piano di infrastruttura al senato: costruire una strada che collegasse l'estremo nord (Fidenae) con l'estremo sud (Avilio) della repubblica. La proposta venne accolta con fervore, dato l'allora mancanza di vie di comunicazione. Era una grande innovazione per l'epoca, dato che le poche strade che esistevano erano solo sentieri tracciati dall'infinito passare dei viandanti. La costruzione di una strada avrebbe rivoluzionato l'intero sistema dei trasporti.

I lavori iniziarono l'anno successivo, e nessuno dei due consoli in carica (Spurio Pontidio Assanio e Cosso Rutilio) risiedette mai a Roma, in quanto entrambi erano impegnati nella supervisione dei lavori, l'uno al nord e l'altro al sud. La stessa cosa successe con gli immediati successori (Proculo Rutilio Melo e Numerio Victricio Congrio) e quelli ancora dopo (Marco Armenio Lovernio e Lucio Rutilio Floriano). Bisogna notare che durante la costruzione della strada uno dei due consoli era sempre un appartenente alla gens Rutilia, in quanto era stata la maggiore finanziatrice dell'ambizioso progetto. Infatti, una volta terminata, la strada assunse la denominazione di via Rutilia.

Marco Lovernio, che aveva tale nome perché era molto amante dell'inverno, lavorava assieme agli operai, per questo lui e i suoi sostenitori ottennero molta stima. Purtroppo il console morì proprio a causa di questa abitudine, in quanto lavorando d'inverno si prese un malanno che lo portò alla morte. Colui che lo successe come suffecti, Tullio Pontidio Verecondo, tentò di farlo divinizzare come accadde non ufficialmente con Aulo Caractoro, ma ottenne un netto rifiuto dal senato. Fu così inconsapevolmente brevettata l'apoteosi, ovvero l'esatto opposto della damnatio memoriae, nonostante il tentativo di applicarla a Lovernio fosse fallito.

L'anno dopo Verecondo (fresco di rielezione) e Secondo Acilio Elvio inaugurarono ufficialmente la via Rutilia. La suddetta strada, partendo da nord, iniziava a Fidenae, attraversava Antemnae, Roma, Tellenae e Vitinia per terminare infine ad Avilio. La strada si snodava per la sola riva destra del Tevere, senza attraversarlo mai. C'era solo un ponte, quello sul fiume Aniene, che comunque non era nemmeno tanto grosso.

I consoli successivi, Rusonio Vinde e Proculo Viducio Cittino, pensarono di costruire un'altra strada che collegaste l'est e l'ovest della repubblica, ma i lavori per la costruzione della via Rutilia avevano quasi del tutto prosciugato l'erario, per cui l'idea venne accantonata, ma non dimenticata.

L'estate del 631 a.C. fu molto secca, e scoppiarono numerosi incendi, il più grande dei quali arrivò addirittura a distruggere un ottavo della piccola città (Roma a quei tempi non era certo la metropoli di oggi), compreso il palazzo del Senato. Per fortuna tale rogo scoppiò di notte, ragion per cui non ci fu nessuna vittima tra i senatori. Gli allora consoli Flavio Betico e Mettio Calvisio Latino, essendo l'erario ancora semi-vuoto, trasferirono temporaneamente il luogo delle sedute senatorie all'interno del tempio di Giano, in attesa di avere i fondi necessari per ricostruire il senato.

Il sacerdote di Giano, Gallio Verecondio Luterio, non prese bene questa decisione, e minacciò di bandire i senatori dal culto del bio bifronte se non se ne fossero immediatamente andati. A dispetto di quello che sembrasse da fuori, il tempio di Giano era veramente un luogo molto angusto all'interno, e cento persone di certo non ci potevano stare.

I consoli allora si videro costretti a chiedere prestiti di denaro a Veio. Il lucumone Lars Perenna, il figlio di Porsenna, fu ben felice di concederli, perché aveva intenzione di perseverare nel piano fallito del padre.

Note dell'autore
Eccomi di ritorno!

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Capitolo 13
*** Devotio pro diis ***


Perenna acconsentì a inviare prestiti a Roma, ma decise di attendere l'anno successivo per inviarli, tanto per far crescere gli attriti tra Luterio e i senatori. Quando finalmente arrivò il 630, Lars Perenna si recò di persona in città con un grande seguito, e consegnò personalmente ingenti quantità di oro, di argento e di ferro (non di monete, che a quell'epoca erano sì conosciute ma usate pochissimo. La stessa Roma adotterà il conio solo due secoli dopo). In particolare fu memorabile la scena in cui il lucumone, dopo il prestito, strinse la mano ai consoli in carica, Decio Clelio Giocondo e Vibio Cepasio Bruccio. La stretta di mano con Decio Giocondo durò addirittura quaranta secondi, e venne accolta tra i fischi dei cittadini romani radunati lì. Il popolo romano infatti non prese granché bene l'aiuto fornito dagli etruschi. Molti considerarono tale gesto come un segno di debolezza, e addirittura i senatori più anziani non volevano accettare gli aiuti di Perenna.

Alla fine comunque, una volta che la "merce" fu consegnata, Perenna abbandonò la città. Non aveva fissato un limite di scadenza per la restituzione dei prestiti, tanto per ingraziarsi i consoli. In particolare la sua presa su Giocondo, che non era rinomato per la forza di carattere, si venne molto a rafforzare. Porsenna aveva fallito nel suo intento, ma suo figlio non era intenzionato a fare altrettanto. Per il momento decise di restarsene quieto per vedere come evolveva la scena politica romana, in attesa del momento propizio per intervenire.

Per più di un anno gli aiuti di Perenna non vennero utilizzati, e per questo i consoli Terzio Elvezio Giuniano (poi sostituito da Manio Antistio Opis a seguito della sua morte per cause naturali) e Spurio Calavio Eletto. Opis non venne rieletto proprio per questo, e fu molto criticata anche la sua mansione di censore alcuni anni dopo.

Finalmente nel 628 a.C. i consoli Erio Vorenio e Gallio Domizio Magunnio decisero di usufruire dei soldi etruschi. A quei tempi i culti principali a Roma erano tre: quello di Giove, quello di Giano e quello di Vesta. In particolare alla prima e all'ultima di queste divinità venne prestata attenzione. Venne prima di tutto fatto costruire un tempio a Giove Laziale (ce n'era già un altro, ma andò distrutto nel grande incendio del 631), e venne istituita la carica del pontifex maximus, ovvero l'amministratore della religione romana. Il pontifex ricopriva la carica a vita, e doveva per forza essere un ex-console. Egli si occupava del culto romano, ma non solo quello riguardante le divinità maggiori, ma anche quelle delle divinità minori e dei semidei. All'inizio non era prevista una grande quantità di religioni (come poi sarebbe stato), tanto che a partire dal II secolo a.C. venne creato l'Annales pontifis, ovvero la lista delle divinità approvate dal pontefice massimo e che potevano essere venerate nella Repubblica. Il primo a ricoprire tale carica fu l'ex-console Lucio Rutilio Floriano (rimasto in carica fino alla morte nel 618 a.C.).

Poco tempo prima era venuto a mancare Cassio Secondio Acacio, un ricco cittadino romano con vari possedimenti sparsi in tutto il territorio della repubblica. Non avendo eredi, nel testamento disse che lasciava tutto alla comunità. Il suo più grande immobile si trovava a Roma, ed era una grossa casa sul Palatino. I senatori decisero di ingrandirla per poi farne un tempio dedicato alla dea Vesta, e dove l'ordine delle vestali avesse un centro simbolico di culto.

I lavori al tempio di Vesta o delle Tre Colonne (chiamato così per il fatto che una parte della casa si erigeva su un burrone ed era sostenuta da tre robuste colonne) terminarono l'anno successivo, e venne ufficialmente inaugurato dai consoli Mamerco Messenio Vito e Secondo Insteio Marullo.

A quel punto già due terzi degli aiuti forniti da Perenna erano stati usati, e il senato decise di non impiegarli se non per stretta necessità. I senatori volevano attendere che l'erario fosse di nuovo pieno per ripagare il lucumone etrusco, e ci sarebbero voluti ancora molti anni perché ciò avvenisse.

Il 626 a.C. passò nella trepidante attesa della fine del periodo di pace. I consoli Papirio Martino e Aulo Titinio Santo meditarono di aggiungere ancora altri anni, ma tutti (sia popolo che senatori) erano stanchi del periodo di pace, e avevano sete di conquiste. In particolare Flavio Larzio Iustiano, un ambizioso generale dell'esercito.

Note dell'autore
Cara Capricornus, non mi ero dimenticato di te. Volevi che approfondissi il fattore divinità? Ora si inizia.

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Capitolo 14
*** Finis autem secundum ***


- ...e così la RSSE ha annunciato che entro il 2020, ovvero il 2773 Ab Urbe condita, invierà sulla Luna una missione con equipaggio. Il responsabile delle relazioni con l'esterno dell'associazione, Gaio Duccio Postumio, ha ribadito il fatto che se dopo vari anni di accertamenti verrà tracciata una zona sicura, si comincerà con la fondazione di colonie sul nostro satellite. Citando le sue testuali parole, "Daremo inizio a una nuova era". Ancora l'equipaggio per questa prima missione non è stato reso noto, anche se è già risaputo che a capo di essa vi sarà Quinto Osidio Nasone Spaziale, già rinomato per le sue passeggiate spaziali sulle sonde Detector 6, 7, 9 e 10. Inoltre la Romanae Societatis Spatium Explorationem ha affermato che...

Matteo Umbrio Senna spense il televisore. Ne aveva abbastanza del concitato sbarco sulla Luna, che doveva ancora avvenire per giunta. Lui studiava la storia passata, non quella futura. Ed era proprio la storia passata che lo stava tenendo impegnato: doveva infatti correggere una ventina di compiti in classe, e il notiziario non aiutava.

Aveva messo su quel canale tanto per avere un sottofondo. Quando aveva sintonizzato il notiziario stavano facendo un reportage su quell'efferatissimo omicidio commesso a Mervio, ma non molto tempo dopo avevano cambiato servizio in quello che stava ascoltando. Sinceramente al magister non poteva importare di meno dello sbarco sulla Luna e sulla fondazione di colonie su di essa. Se c'erano due cose di cui era certo si trattava del fatto che era nato sulla Terra e che sulla Terra sarebbe morto. Ma poi detestava anche il tono esaltato con cui ogni volta ne parlavano, gli dava letteralmente il voltastomaco. Come se quelli al potere non fossero già abbastanza esaltati.

Provò ad accendere la radio, sintonizzandosi su un canale di musica leggera, l'ideale per rilassare la mente. Il magister, più calmo rispetto a poco prima, riprese a correggere i compiti. Una pila con ventitré fogli gli si parava davanti, ma di tutti quelli per il momento ne aveva riveduti solo due. Era stato quel maledetto servizio a fargli perdere la concentrazione, ma non aveva intenzione che succedesse di nuovo.

Quei test erano abbastanza facili. Erano composti da venti domande, diciotto delle quali erano con il vero o falso. Solo due erano le risposte aperte, che alla fine della fiera non erano nemmeno così impegnative. Se si aveva studiato ovviamente. Al parere di Matteo solo una capra poteva sbagliare quel test. E invece Secondo Icilio Celiano ce l'aveva fatta, aveva sbagliato tredici domande su venti. Anche il più magnanimo dei professori gli avrebbe messo il voto più basso del suo arsenale, ma Matteo Senna quella sera si sentiva buono, e non lo voleva scoraggiare nel proseguo del corso. Per cui gli mise una grossa "D" sul retro del foglio.

Non gli aveva appioppato un voto più basso anche per il fatto che non voleva perdere studenti. Era già grossa che per quel corso gli fossero arrivate più di venti persone, e non avrebbe permesso di perdere iscrizioni. Già la sua autostima era bassa, figuriamoci se avesse perso alunni.

Mise da parte il compito di Celiano, e si accese una sigaretta per scacciare lo stress. Ultimamente stava pensando di recarsi da uno psicologo, ma non ne era del tutto sicuro.

Tirò una boccata alla sigaretta, e si mise a pensare al compito di Celiano. Ma come si faceva a sbagliare la domanda sull'ubicazione di Caractae? Persino suo nipote di sette anni sapeva che la città non sorgeva sullo stesso luogo della battaglia. Si sarebbe dovuto impegnare molto con quell'alunno.

Spense la sigaretta, dopotutto non se la sentiva nemmeno di fumare. Ripensò alle sue lezioni: erano già passate due settimane dall'inizio del corso. Se tutto fosse andato bene, per i prossimi anni si sarebbe tenuto impegnato con quelle ventitré persone, se fossero rimaste tutte ovviamente, cosa di cui dubitava. Ma con tutto il suo cuore sperava che quel corso sarebbe servito sia a lui che a loro.


Note dell'autore
Ecco qua, mio caro Aurelianus e mia cara Capricornus. E dal prossimo cominciano le grandi manovre. E casomai non l'aveste ancora capito, gli sprazzi del presente ci saranno ogni sette capitoli.

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Capitolo 15
*** Res expectatur ***


Il 625 a.C. vide eletti consoli Fausto Camillo Profuterio e Spurio Secondo Castino. L'elezione di Castino fu del tutto inaspettata, in quanto egli era un sostenitore della pace, e addirittura era candidato successore a Lucio Floriano come pontefice massimo, anche se non ufficialmente. Anche se provò ad ostacolare il collega, Castino non poté far nulla per evitare la mobilitazione dell'esercito.

Nonostante Castino non avesse molto credito, Profuterio aveva capito che era una avversario pericoloso. Fausto Profuterio conosceva Flavio Iustiano, e entrambi convennero che Castino doveva essere eliminato. Ma sfortunatamente non c'era tempo per una congiura, in quanto le azioni belliche richiedevano la loro presenza. Così Profuterio e Iustiano partirono, il primo per il sud e il secondo per il nord, mentre Castino restò nella capitale.

Profuterio assunse il comando della Legio III, e seguì il corso del Tevere fino ad uscire dai territori della repubblica. L'obbiettivo era la piccola città etrusca di Cosmae. Sarebbe stata facile da conquistare, in quanto non aveva praticamente rapporti con gli altri connazionali. Come previsto, l'assedio al paese non richiese né tempi lunghi né perdite eccessive, per cui nel giro di un paio di mesi il console era riuscito a conquistare e a pacificare la zona, facendone un nuovo municipio. Per metà anno era già rientrato a Roma.

A nord invece le cose erano un pochettino più complicate. Nomentum e Crustumerium erano due antichi insediamenti sabini, da sempre in guerra da loro, e quel momento non faceva eccezione. Iustiano, al comando della Legio I e buona parte della Legio II, si proclamò pacificatore della situazione. Dopo essere giunto sino al fiume Allia, le truppe romane attaccarono l'esercito crustumerino, che aveva appena sconfitto quello nomentano. I romani ebbero gioco facile, e in meno di un mese Crustumerium fu presa. L'assedio di Nomentum fu un tantino più difficoltoso, in quanto i sabini erano decisi a resistere. Iustiano fu persino ferito, ma alla fine la città venne presa. I romani ebbero gioco facile, in quanto anche i due insediamenti sabini avevano da tempo interrotto i rapporti con i loro vicini.

Dal canto suo Castino non rimase certo inattivo mentre la maggior parte dell'esercito stava assoggettando nuove terre. Appena giunse la notizia della conquista delle nuove lande, il console fece inviare due censori (che furono Manio Antistio Opis e Marco Rutilio Floriano, figlio del pontefice massimo). La nomina di Opis fu aspramente criticata, e questo fece perdere a Castino una buona fetta di sostenitori.

A fine anno la guerra si poteva considerare finita, e quando anche Iustiano fu rientrato in città fu concesso il trionfo al generale e a Profuterio. La festa fu grande, e il popolo li elogiò enormemente.

Il 624 passò anch'esso nella trepidante attesa dell'anno dopo. Nel 623 a.C. sarebbe infatti ricorso il cinquantenario della repubblica, e la carica consolare di quell'anno sarebbe stata considerata molto prestigiosa, per questo quasi nessuno aveva voluto essere eletto a console nell'anno corrente. Alla fine si procedette al sorteggio, e uscirono Manio Balvenzio Checo e Potito Cassio Regino. I due presero molto male la cosa, e infatti non fecero nulla durante la loro carica, a parte il fatto di rendere noti i risultati del censimento dell'anno precedente, dal quale risultava che la popolazione della repubblica superava i quarantottomila abitanti.

Finalmente arrivò il 623 a.C., e con esso le elezioni. Fu una battaglia senza esclusione di colpi, ma non ci furono storie. Iustiano vinse con uno scarto pauroso dagli altri contendenti, ma fu il secondo console a ricevere le attenzioni di tutti. Gneo Gavio Celestino aveva sfruttato il fatto di non aver mai portato a termine un incarico pieno e si ricandidò per la carica di console. Se al tutto si aggiungeva il fatto che si sarebbe ritirato dalla politica una volta finito il mandato, aveva vinto in partenza. Molti altri candidati si fecero da parte per rispetto nei suoi confronti, e quindi Celestino riuscì ad occupare per la terza volta, caso più unico che raro, la carica di console.

L'intero anno passò molto velocemente, anche troppo per i gusti dei romani. Fu una festa senza fine, e persino le sentinelle che dovevano stare costantemente a guardia delle mura cittadine disertarono per festeggiare. Quando giunse dicembre, tutti salutarono con calore Celestino. Il senatore aveva infatti intenzione di ritirarsi definitivamente, e quando ciò accadde fu come se gli fosse concesso un trionfo. Quando abbandonò l'Urbe per andare a vivere i suoi ultimi anni ad Avilio, fu salutato con commozione da molti romani scesi in strada.

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Capitolo 16
*** Qui est principium, valde expandi ***


Il 622 a.C. si aprì con una lotta per la successione per il comando della Legio I. Infatti il precedente comandante, Marco Clelio Advento, figlio dell'ex-console Decio Advento, era morto in circostanze non troppo chiare. I pretendenti erano tre: Flavio Consenzio Agorice, Aulo Cincio Aurelio e Sisinnio Betucio Cicone, tutti e tre esperti combattenti e tutti e tre assetati di potere. Essere il comandante della Legio I consentiva questo appunto, di avere il totale comando dell'esercito.

I consoli, Aulo Titinio Polibio e Lucio Tremellio Eugenio, realizzarono di non essere in grado di fronteggiare la spaventosa guerra che si profilava all'orizzonte. Si rivolsero allora ad un esterno: Perenna. L'etrusco aveva infatti seguito con crescente attenzione ed interesse il peggioramento della situazione della repubblica, ed era intenzionato a non lasciarsi scappare l'occasione. Alcuni storici odierni affermarono che fu lo stesso Perenna a provocare la morte di Marco Advento.

Sta di fatto che ognuno dei tre canditati si adunò con le proprie truppe. Il favorito alla vittoria sembrava Agorice, con l'intera terza legione e parte della seconda al seguito, ma gli avversari non erano da meno. Aurelio godeva di vari appoggi nella Lega Latina, mentre Cicone cominciò ad arruolare dei mercenari.

Mentre i consoli provavano a risolvere la situazione con la diplomazia (fallendo), Perenna cominciò a radunare le truppe. Al contrario del padre Porsenna, che aveva tentato di conquistare Roma con la politica, suo figlio avrebbe usato la forza.

Verso la metà dell'anno l'esercito di Veio scese lungo il corso del Cremera e in poco tempo arrivò alle porte di Fidenae. Agorice, che guarda caso si era proprio barricato nella città, non aveva intenzione di arrendersi, vantandosi dei suoi oltre cinquemila seguaci.

Ma Perenna non si fece intimidire. Ordinò a tutti i suoi dodicimila uomini di assaltare le mura cittadine, e lo fece a squarciagola in modo che tutti potessero udirlo. Sentendo ciò il municipale della città, Postumio Epidio Miniciano, decise di tradire Agorice e lo fece consegnare alle truppe di Perenna, dichiarandosi sottomesso al suo volere.

L'etrusco fece uccidere Agorice e, quando i due consoli romani gli vennero incontro mostrò loro la sua testa. Polibio ed Eugenio pensavano di aver trovato un alleato, ma si sbagliavano di grosso. Poco tempo dopo Perenna li catturò e li fece strangolare, e marciò verso l'Urbe percorrendo la via Rutilia. Aurelio e Cicone, avendo capito al volo la grande occasione che gli si prospettava, decisero di mettere da parte le divergenze e unirono le loro truppe, dichiarando Perenna un nemico dello stato e muovendo guerra contro di lui.

Lo scontro decisivo lo si ebbe a metà strada tra Antemnae e Roma. Aurelio e Cicone disponevano di circa quattromila legionari (inclusi i rinforzi inviati dalla Lega Latina e i mercenari) mentre Perenna, oltre a dodicimila etruschi, comandava anche i cinquemila legionari appartenuti ad Agorice.

Ben sapendo il grande svantaggio posseduto, i due generali romani agirono in fretta. La notte prima della battaglia un ufficiale di nome Spurio Canio Lucullo venne inviato di nascosto nell'accampamento etrusco, e riuscì a convincere Tiberio Seio Marziale (il comandante dei romani al servizio di Perenna) a passare dalla sua parte.

Il giorno dopo avvenne la battaglia sulle rive del Tevere. Lo schieramento romano era compatto a formare un'unica entità (tranne i mercenari che fungevano da ala destra per evitare che il nemico tentasse di aggirarli), mentre l'esercito etrusco fu diviso in quattro: due unità a combattere davanti e due a difendere le retrovie (una di queste ultime era fatta dalle unità di Marziale).

Lo scontro durò per ben due giorni, con la prima giornata chiusa in parità. Aurelio e Cicone avevano davvero paura che Lucullo avesse fallito nell'impresa, ma il secondo giorno di battaglia li smentì. Mentre il combattimento infuriava Marziale diede l'ordine di attaccare la retroguardia etrusca. Questa, colta totalmente di sorpresa, venne rapidamente messa in rotta, permettendo agli uomini di Marziale di caricare alle spalle le truppe di Perenna. Quelle, strette in una morsa, invece che cadere in preda al panico combatterono furiosamente.

Memorabile fu la scena che vide protagonista Cicone. Vide da lontano che il portainsegne della Legio I fu ucciso e perse lo stendardo con il lupo, ovvero il simbolo della legione. Allora il generale si gettò coraggiosamente in mezzo alla mischia e riuscì a recuperare lo stendardo. I legionari, rincuorati da tale azione, continuarono a combattere e riuscirono a piegare Perenna e i suoi.

A fine giorno erano rimasti circa settemila cadaveri sul campo di battaglia, sia etruschi che romani. Non si conoscono le stime precise, ma si dice che l'acqua del Tevere si colorò per tre giorni di rosso dopo gli scontri. Fatto sta che Perenna, gravemente ferito, dovette ritirarsi. Era iniziata la guerra contro Veio.

Note dell'autore
Ringrazio Saccuz per essere entrato a far parte della combriccola.

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Capitolo 17
*** Maximus industrias ***


Perenna riparò a Fidenae, dove il municipale Miniciano gli diede sostegno curandolo e rifocillando il suo esercito. Aurelio e Cicone si ritirarono nell'Urbe. Avevano sì vinto una battaglia, ma non certo la guerra. Il loro esercito si era notevolmente assottigliato, e le forze etrusche rimanevano consistenti nonostante la disfatta. Dovevano trovare una soluzione al più presto, altrimenti Roma avrebbe veramente rischiato di essere conquistata.

Per prima cosa al posto dei defunti consoli furono nominati due suffecti, Amulio Erennio Severo e Decimo Betucio Tiberino. Erano entrambi dei rispettati senatori, per cui non stupì la loro nomina. Inviarono poi Tiberio Marziale nelle città della Lega Latina per ottenere ulteriori rinforzi. Giunsero in più delle notizie confortanti da Caractae: il municipale della città, l'ex-console Aulo Titinio Santo, stava mobilitando molti cittadini per accorrere in aiuto dei connazionali (e anche per vendicare Aulo Polibio, suo fratello).

I due generali, una volta stabilizzata la situazione della capitale, radunarono nuovamente l'esercito e si diressero verso Antemnae per stabilire una testa di ponte contro Perenna. Poco prima di giungere in città Cicone si separò da Aurelio, e si diresse verso est e poi verso nord per tentare di accerchiare il nemico.

Aurelio passò alcuni mesi ad Antemnae, e visto che il lucumone non si muoveva decise di fare la prima mossa. Assediò quindi la città, con l'intenzione di prenderla per fame. Poco dopo giunse Cicone, che nonostante fosse riluttante a quel metodo prese anche lui parte all'azione, se così si può definire.

Ma la situazione non si sbloccava, e l'anno successivo Fidenae non dava segni di cedimento. Aulo Santo era impegnato a coprire le spalle ai generali per evitare che giungessero rinforzi nemici da Veio e ancora non si avevano notizie di Marziale. Severo e Tiberino erano impegnati a Roma, dove a fatica mantenevano sotto controllo la popolazione, in subbuglio per il prolungarsi della guerra. Nel frattempo Perenna si era ristabilito, e meditava di provare a rompere l'accerchiamento.

Verso la fine dell'anno gli etruschi attaccarono dalle mura, e finalmente uscirono per affrontare i romani in una seconda battaglia campale. L'esito restò a lungo incerto, ma dopo molte ore la situazione volgeva a favore di Perenna. Sarebbe stata sicuramente una disfatta per i romani, se Marziale non fosse arrivato con i rinforzi dalla Lega Latina. Gli etruschi, provati dai lunghi combattimenti, non furono difficili da sopraffare. Perenna, vista persa la battaglia, preferì togliersi la vita che cadere in mano ai romani. Era consapevole di quello che gli avrebbero fatto se lo avessero preso vivo. Il suo corpo fu mutilato, e la sua testa portata come trofeo nell'Urbe.

Alcuni veienti riuscirono a scappare, ma la maggior parte venne catturata e resa schiava. A quel punto la strada per la conquista di Veio era aperta, così con l'intero esercito residuo i tre generali mossero contro la città etrusca. I veienti resisterono eroicamente, ma non poterono nulla contro la furia dei romani. La città fu conquistata ed incorporata al territorio romano. I suoi abitanti furono resi a tutti gli effetti cittadini romani, nonostante i prigionieri di guerra fossero stati resi schiavi a tutti gli effetti (solo chi se lo poteva permettere riscattò i familiari).

Nel 620 a.C. i tre generali celebrarono il loro immenso trionfo, e i consoli Gaio Placidio Pastore e Gaio Settimio Bubone erano lì solo per fare scena più che per altro. Infatti i costumi romani prevedevano che in un anno si potesse avere o un trionfo o un consolato, e i generali preferirono il trionfo, sicuri che sarebbero stati eletti negli anni seguenti.
E così fu: nel 619 a.C. furono eletti Aurelio e Cicone, mentre l'anno successivo Marziale e Lucullo (l'ufficiale che era riuscito a convincere proprio Marziale a tornare alla causa romana). Marziale però per accedere alla carica consolare dovette rinunciare a quella di comandante della prima legione, carica detenuta provvisoriamente e poi definitivamente dal 622. Al suo posto venne nominato Aulo Titinio Santo, che rimase in carica sino a 610.

C'è però da dire che nonostante fossero militari quasi del tutto ignoranti di politica, i quattro uomini seppero gestire bene la situazione. Stimolati dal fatto che il debito con Perenna poteva considerarsi estinto, incoraggiarono il commercio e l'erario tornò finalmente a riempirsi.

Nel 618 a.C. inoltre passò a miglior vita il pontefice massimo Lucio Floriano, e al suo posto venne nominato Spurio Castino, che morì nel 602 a.C.


Note dell'autore
Mi scuso umilmente per il leggerissimo ritardo nella pubblicazione.

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Capitolo 18
*** Inopinatum lucra ***


Il 617 a.C. si aprì per la repubblica romana con una nuova minaccia. Un esercito stava infatti devastando le campagne dell'Urbe, e stava conquistando una città dopo l'altra. Quando Veio era stata sconfitta, si era scatenata una feroce quanto silenziosa caccia ai sostenitori di Perenna, fossero stati suoi alleati o solo gente comune costretta a collaborare per paura di ritorsioni. Postumio Epidio Miniciano, il municipale di Fidenae, il quale aveva sostenuto Perenna durante tutta la guerra, fu costretto a fuggire per non essere ucciso.

Ma non andò molto lontano dai territori repubblicani. Si sistemò infatti a Collatia, dove aveva numerosi parenti e amici, e nel giro di poco tempo riuscì a convincere il governante della città, Euterio, a muovere guerra contro Roma. Il re latino accettò anche per il fatto che si sentiva minacciato dalla crescente potenza romana, ed era timoroso che prima o poi sarebbe stato attaccato, così decise di fare lui la prima mossa.

D'altro canto era già nei piani del senato di ampliare ulteriormente i territori della repubblica, e Collatia era tra le opzioni di conquista. Ma i consoli di quel periodo, Cluilio Euterio e Tito Granio Muciano, non avevano intenzione di mettersi a fare guerra in quel periodo, in quanto l'esercito aveva ancora bisogno di riprendersi dal conflitto contro Veio.

Per questo giunse totalmente di sorpresa l'attacco sferrato dall'armata collatina contro Bibacola e Vergata. Entrambe le città caddero dopo poco tempo, ma il piccolo esercito non sarebbe stato in grado di battere le disciplinate truppe romane se fossero mancati due fattori fondamentali: il carisma di Miniciano e il genio militare di Euterio. Ciò portò anche alla caduta di Caenina, che era considerata inespugnabile per il suo alto livello di fortificazioni (all'epoca). In realtà fu tutto frutto di un tradimento: Miniciano riuscì a corrompere Tarpeia, figlia del municipale della città Spurio Tarpeio, che aprì le porte al nemico.

Roma venne scossa da questa guerra lampo. L'esercito non era ancora pronto per contrattaccare, e i consoli tergiversavano. La popolazione era in subbuglio, e serviva qualcuno che sapesse ristabilire la situazione. I consoli allora si rivolsero all'ex-generale Iustiano, da alcuni anni in pensione. L'uomo fu ben felice di poter tornare a comandare le truppe, e in meno di una settimana la situazione a Roma fu stabilizzata. A circa metà anno Iustiano ed Euterio (il console) partirono per affrontare Miniciano e l'altro Euterio (l'invasore).

Ci fu un tentativo di risolvere la situazione pacificamente in un incontro nella pianura a sud di Caenina, dove Euterio console provò a riappacificare gli animi con Euterio latino citando la loro lontana parentela (non si chiamavano casualmente allo stesso modo), ma il tentativo fallì. Allora nello stesso punto i due eserciti si diedero battaglia. La situazione inizialmente volse a favore dei collatini, ma il sopraggiungere di rinforzi romani guidati dai generali Aurelio e Cicone ribaltò la situazione. L'esercito collatino fu così sbaragliato, Euterio catturato, Miniciano messo a morte e Collatia annessa alla repubblica.

Il 616 a.C. fu impiegato dai consoli Dillio Bromido e Decio Murrio Arrunte per stabilizzare la situazione e per fare il ricapitolo della situazione. L'erario era di nuovo tornato pieno dopo la conquista di Veio e Collatia, e la forza lavoro era stata notevolmente incrementata da qualche migliaio di schiavi. D'altro canto adesso la popolazione era sicuramente maggiore, e necessitava di alcuni anni per riprendersi dagli scontri. L'unico atto concreto dei due fu applicare da damnatio memoriae a Miniciano.

I consoli successivi, Postumio Cesonio Superiore e Arrunte Plinio Cosma, fecero effettuare un censimento per stimare la popolazione aggiunta dalle nuove conquiste. I censori Spurio Cosconio Eugenio e Tito Caninio Traseolo stimarono la popolazione romana a circa cinquantacinquemila abitanti, con un esercito forte di ottomila uomini.

Nessuno lo sapeva all'epoca, ma da quelle conquiste minimali ed inaspettate presto Roma avrebbe cominciato a fare sul serio.


Note dell'autore
Pubblico oggi perché domani non posso, ma tranquilli, il 12 riprende il ciclo normale.

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Capitolo 19
*** Colonias et exercitum novus ***


Gli ultimi quindici anni del VII secolo a.C. videro un notevole aumento demografico nell'intera Italia centrale. La maggior parte della crescita si ebbe nella Lega Latina e nella Sabinia, ma anche la repubblica romana cominciò a rafforzarsi. Molti nuovi insediamenti vennero fondati in quel periodo, e cominciarono una serie di grandi cambiamenti, anche climatici.

Dal 614 a.C. cominciò per la repubblica un periodo di benessere in quasi tutti i campi. Con l'erario molto più pieno rispetto agli anni precedenti, i consoli Gneo Rufio Larzio e Cosso Anzio Comeno progettarono di ampliare la via Rutilia, sia a nord che a sud per agevolare ulteriormente le vie di comunicazione.

Il proseguimento meridionale venne dopo poco abbandonato poiché i senatori non vedevano l'utilità di un collegamento col mare (come invece sarebbe stato in seguito), così l'attenzione si concentrò sul proseguimento settentrionale. Il piano prevedeva che la strada continuasse a risalire il Tevere, passando per la Sabinia, una regione molto estesa e fertile a nord della repubblica. L'ampliamento prevedeva il proseguimento del percorso fino a dove il piccolo fiume Allia si gettava nel Tevere, costruendo anche una nuova colonia. Tale azione avrebbe sicuramente facilitato i commerci con i sabini, che erano una popolazione di origine simil-latina, anche se nel corso dei secoli avevano subito molto l'influenza etrusca.

Il progetto incontrò l'approvazione del senato e i successivi consoli Aulo Ponzio Fleminio e Secondo Cluilio Milonio avviarono i finanziamenti al progetto. I consoli incaricarono per la riuscita del progetto Gaio Rutilio Floriano, figlio del censore Marco e nipote del pontefice Lucio. La gens Rutilia era infatti la maggior finanziatrice della strada, e non ufficialmente la gestiva anche.

Questa volta i lavori vennero portati a termine nel giro di un solo anno (anche a causa della non proprio eccellente manodopera), e i consoli in carica nel 612 a.C. (Gallo Calvenzio Dardanio e Decio Vagnio Stazio) guidarono personalmente alcune centinaia di coloni fino alla fine della strada. Venne fondata alla foce del fiume Allia la città di Alliena, e i consoli vi risiedettero anche dopo la fine del loro mandato.

Nel 611 vennero eletti Appio Salvio Soterico e Sesto Nigidio Mallo, che crearono il municipio di Alliena (stranamente i loro predecessori non l'avevano fatto, forse per una svista o forse perché era terminato il denaro a loro disposizione). Coloro che li succedettero, Secondo Mucio Meceno e Decio Anzio Superbo, crearono la Legio IV Anguem per fronteggiare il costante aumento dell'esercito (che aveva raggiunto le dodicimila unità su un totale di circa cinquantaseimila abitanti, vale a dire un quinto della popolazione, schiavi compresi).

Concepirono anche un'idea per suddividere in modo concreto l'esercito. Fino ad allora infatti le milizie non avevano una vera e propria organizzazione concreta, e le stesse legioni avevano un numero molto eterogeneo di soldati. I due cominciarono a stilare il progetto, che venne completato dai loro successori Postumio Mazio Nazario e Modio Vopisco. La riforma dell'esercito venne presentata in senato l'anno successivo dai consoli Oppio Sergio Letiniano e Camillo Modio Arminio.

La riforma prevedeva che ogni legione fosse composta da tremila uomini, e che una nuova potesse essere formata in caso di eccessi di unità nelle altre legioni. Ogni legione era suddivisa in tre coorti da un migliaio di uomini ciascuno, che a loro volta erano formate da cinque manipoli da duecento unità. I manipoli erano ulteriormente suddivisi in quartane da cinquanta uomini, e queste erano infine costituite dalle quintane da dieci unità ciascuna. Secondo la legge ogni miliziano, dal più infimo soldato semplice al più potente generale, doveva sapere a memoria ogni singola suddivisione di cui faceva parte. La pena prevista per l'infrazione a ciò erano cinque frustate.

Era poi stabilito che il comandante dell'esercito dovesse essere un tribuno militare, eletto ogni cinque anni tra i comandanti delle rispettive legioni. Il tribuno era anche un membro del senato, e doveva rappresentare l'esercito. Col tempo tale carica divenne sempre più simbolica, tanto che al giorno d'oggi si parla di abolirla definitivamente.

Tutto ciò era stato stabilito nella lex Arminia, che fu in assoluto la prima legge ad essere messa per iscritto due secoli dopo.

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Capitolo 20
*** In pontumque moueri ***


Nonostante l'abbastanza chiara ed efficiente organizzazione del nuovo esercito, le legioni mancavano ancora di una base specifica. A risolvere questo problema ci pensarono Vario Tranione e Quinto Veranio Ignazio, consoli per l'anno 607 a.C.

I due passarono la maggioranza del loro mandato a lavorare su questo, e a poco tempo dallo scadere della carica fecero approvare dal senato la lex Ignatia, che prevedeva che ogni legione dovesse avere base in una città distinta. Ciò era anche utile per non concentrare l'esercito interamente in un solo punto e favorire l'accentramento dei comandi. C'è anche da dire che all'epoca la repubblica era ancora molto piccola, per cui le basi non distavano troppo le une dalle altre.

Consultandosi con Gaio Giulio Catullo, primo magister militum dell'esercito e fresco di elezione, stabilirono la città base di ogni legione. Per la Legio I, la più prestigiosa ed importante, venne ovviamente riservato un posto appena al di fuori dell'Urbe. La Legio II, III e IV ottennero rispettivamente come basi Caenina, Caractae e Tellenae.

Essendo scaduto il loro mandato non ci fu modo per discutere ulteriormente, ma a ciò pensarono i successori Cesio Victricio Additore e Publio Sepurcio Victricio (lontani cugini). Infatti i due aggiunsero un passo alla lex Ignatia che spiegava come fare per decidere la base per ogni nuova legione creata. Il meccanismo prevedeva che il tribuno militare (sinonimo del ben più usato magister militum) si consultasse con i consoli e insieme a loro decidesse il da farsi.

Adesso che l'esercito era rinnovato ed efficiente, non restava altro che individuare la preda perfetta per testare la nuova macchina. I consoli del 605 Nono Vagnio Calatino e Sesto Antistio Cimbero, assistiti dal magister militum Catullo e dal comandante della Legio I Mamerco Papirio Lucano, impiegarono tutto l'anno per individuare l'obiettivo adatto.

Le attenzioni caddero quasi subito sulla città latina di Gabii, pericolosamente vicina al confine della repubblica (pericolosamente per i latini, si intende). Il confine della repubblica arrivava infatti a meno di un chilometro dalla città a seguito della conquista di Collatia, e ciò aveva profondamente preoccupato Ciamo Recettore, il re di Gabii.

Attraverso alcuni informatori nell'Urbe, Ciamo riuscì a scoprire i piani dei romani, e alla riunione triennale dei capi della Lega Latina denunciò il pericolo che costituiva la repubblica. Nessuno gli diede credito, e l'uomo se ne ritornò mogio nella sua città.

Nel 604 a.C. salirono al consolato Appio Tanico Foriano e Gaio Catullo, il magister militum. Quest'ultimo venne eletto proprio in occasone dell'invasione imminente, e sfruttando la morte di un mercante romano nella città latina iniziò a radunare gli uomini. Si mobilitò solamente la seconda legione per due motivi principali: i consoli pensavano che una sola legione bastasse per sottomettere la debole città latina e visto che la base militare più vicina all'obbiettivo era quella di Caenina si pensò di usare la legione che vi risiedeva (ovvero la Legio II).

Avevano ragione: in meno di una settimana la città latina cadde e venne incorporata alla repubblica. A Catullo e a Servio Umbrenio Giuliano (il comandante della Legio II) venne concesso il trionfo, e l'ultimo dei due si candidò al consolato dell'anno successivo in occasione dei centocinquant'anni dalla fondazione dell'Urbe.

La caduta di Gabii accese un campanello d'allarme nella Lega Latina, che fino a quel momento non aveva quasi considerato i cugini romani. Adesso la repubblica era una minaccia concreta che si stava pian piano palesando.

Nel 603 a.C., mentre a Roma si festeggiava con a capo i consoli Giuliano e Quinto Appuleio Campano, i latini indissero una riunione straordinaria della Lega. La questione venne discussa più volte tra i capi delle varie città, ma non venne mai trovato un accordo a causa delle divisioni interne. Ciò fu la causa della loro futura rovina.

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Capitolo 21
*** Finis autem tertium ***


Matteo aveva da pochi minuti terminato la lezione. I ragazzi si erano già dileguati, e lui era rimasto solo all'interno dell'aula. Stava rimettendo a posto i suoi appunti quando qualcuno spalancò la porta con un calcio. Opitero Onorato entrò di filata dentro la classe.

- Hey! - gridò Matteo - Che ti prende?!

- Hai saputo?

- Cosa?

- Accendi subito la radio.

Matteo rimase un attimo perplesso. La radio? Perché la radio? Cos'era successo? Decise infine di seguire le indicazioni dell'amico, e si avviò verso la radio. L'apparecchio era accantonato su di un banco isolato in fondo alla stanza, e aspettava solo di essere usato. Era un modello Linum2, risalente agli anni 80, ma funzionava ancora. Gli alunni la usavano a ricreazione per sentire le ultime notizie.

- Su che canale? - chiese all'amico.

- Qualsiasi.

Matteo rimase fermo un momento, perplesso, ma alla fine premette il pulsante d'accensione. Non toccò la manopola per regolare la frequenza, visto che l'amico aveva detto di mettere un canale qualsiasi. L'apparecchio si sintonizzò su Urbis104.

- ...l'annuncio ufficiale è arrivato all'incirca un quarto d'ora fa a tutte le emittenti televisive e radiofoniche, anche se tale dichiarazione risale ormai a questa mattina. Alle 12.00, ora dell'Urbe, l'imperatore Placo si stava apprestando a concludere il suo discorso all'impero dalla sede governativa a Limosoquia, quando, con sconcerto di tutti i presenti, ha annunciato l'intenzione di abdicare a breve in favore del figlio Marco. Ancora non è stato specificato il giorno in cui ciò accadrà, ma si presume che avverrà entro la prossima settimana. I nostri osservatori alla corte imperiale di Roma hanno già scorto i preparativi per l'incoronazione e il passaggio della porpora. Adesso cinque minuti di pubblicità, ma restate con noi per ulteriori aggiornamenti!

Marco non poteva credere alle proprie orecchie. L'imperatore dimissionario era una cosa totalmente inaspettata e quasi del tutto inedita. Quasi, perché era successo già una volta alla metà del XIX secolo. Prese a girare freneticamente la manopola delle frequenze per tentare di avere qualche informazione in più.

- ...l'imperatore abdica...

- ...Marco Sallustio, il futuro imperatore...

- ...fioccano già le scommesse sul nome del...

- ...per adesso il papa non si esprime...

- ...passaggio della porpora imminente...

Avrebbe continuato all'infinito, se Opitero non gli avesse staccato la mano dalla radio, spengendola subito dopo.

- Vedo che la notizia ha sconvolto anche te.

- Hmm...

- L'imperatore Placo che abdica... nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Tu?

- No. - mugugnò Matteo.

Restarono per un po' a parlare. In realtà parlava praticamente solo Opitero, visto che Matteo si limitava a grugnire una risposta ogni tanto.

- Bene, adesso io vado. Antonia starà sicuramente attaccata al telefono per dire a tutti la notizia. Se non vado io a staccarla quell'apparecchio le si incolla, ci si vede!

Onorato uscì, lasciando Matteo da solo. Si accasciò su una sedia, senza fiato per ciò che aveva appena appreso. Questo sì che sarebbe entrato nella storia. Matteo era il primo a gioire per una cosa del genere, ma non era per nulla contento della decisione dell'imperatore. Non sapeva perché, ma aveva il presentimento che sarebbero cambiate molte cose. L'imperatore Placo aveva segnato gli anni precedenti, e se decideva di ritirarsi niente sarebbe stato più come prima. Forse nemmeno Matteo.

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Capitolo 22
*** De legibus humanis iuribus ***


E' molto importante specificare che dall'inizio del VI secolo a.C. cominciarono a verificarsi molti cambiamenti nella repubblica, in parte anche influenzati da quelli che ne stavano avvenendo all'esterno.

Un esempio importante è quello della lingua. Infatti fino al VI secolo a Roma (ma anche nel Lazio in generale) si parlava un dialetto molto rozzo del greco. Un dialetto molto diluito, ma pur sempre greco, quindi bene o male ci si capiva anche con gli ellenici. Alla fine però, con la conquista di Cosmae e Veio e i progetti di ampliamento verso la Sabinia, Roma cominciò a subire l'influenza etrusca, e pian piano la lingua assorbì molti dei loro termini. Nel resto della Lega Latina invece cominciò a svilupparsi quello che nel giro di un secolo sarebbe diventato il latino.

Il 602 a.C. passò tranquillo, cosa strana per Roma. I consoli Spurio Larzio Caractoro (altro discendente di Aulo) e Terzio Veturio Recettore dovettero praticamente solo sottoscrivere (si fa per dire) le nomine di Sesto Nigidio Mallo (console nel 611 a.C.) e Gaio Nemetorio Docilino rispettivamente a pontefice massimo e magister militum.

L'anno successivo Mallo aggiunse all'Annales pontifis il culto dei Lari, divinità protettrici della casa totalmente autoctone e romane. I consoli (Gneo Edinio Mordantico e Quinto Canidio Abito) fecero invece effettuare un censimento (censori Numerio Cepario Luperco e Vopisco Quintilio Sticone), dal quale risultò che la popolazione totale ammontava a sessantatremila abitanti, di cui settemila schiavi.

Nel 600 a.C. venne approvata una legge rivoluzionaria per l'epoca: la lex Ceciliana, promulgata dal console Cesio Irzio Ceciliano e dal collega Druso Cedicio Ceriale. Ceciliano era quello che oggi chiameremmo "difensore dei diritti umani". Quell'uomo aveva infatti una grande sensibilità, soprattutto per gli schiavi. Il censimento dell'anno precedente aveva scatenato molte polemiche sul fatto che nel numero degli abitanti dovesse essere inserito anche il numero totale degli schiavi. Alla fine, per evitare ogni discussione, erano stati conteggiati anche gli schiavi, ma la faccenda non era stata per nulla risolta. La cosa era stata proposta in senato e inizialmente era stata respinta, ma Ceciliano e i suoi sostenitori riuscirono, seppur con molta fatica, a convincere i senatori ad approfondire tali argomenti. Quando venne eletto console Ceciliano sfruttò la sua posizione per migliorare leggermente la considerazione degli schiavi. Ciò gli fruttò non pochi nemici, e addirittura quando il suo consolato terminò rischiò il linciaggio. I consoli successivi, Oppio Dannico e Osto Cecina Ceriale, furono costretti ad assegnare una scorta armata a Ceciliano.

Nel 598 a.C. divennero consoli Sesto Murrio Aciliano e Lucio Domizio Ausilio. Proprio in quel periodo morì Mamerco Papirio Lucano, ovvero il comandante della Legio I, e rischiò di scatenarsi una crisi come quella che aveva portato all'invasione di Perenna. Per scongiurare ciò, con la lex Ausilia si stabilì che dovesse essere il magister militum a nominare i comandanti delle varie legioni. Gaio Docilino elesse a comandante Tiberio Cepasio Castorio.

Nel 597 a.C. il pontefice massimo aggiunse al proprio annales anche la venerazione dei Mani e i Penati, altre divinità della casa. Riteneva infatti che non fosse possibile credere nei Lari senza avere fede anche negli altri due gruppi. I Lari e i Mani erano in parole povere gli spiriti degli antenati benigni che difendevano rispettivamente l'interno e l'esterno della casa dai nemici. I Penati invece erano spiriti dannati, appartenenti a coloro che non avessero nessuno a ricordarli. Gli antichi romani infatti avevano un grande rispetto per la memoria degli antenati, e consideravano blasfemo chi non ricordava e chi non veniva ricordato. I consoli Sesto Claudio Minervale e Gaio Celio Castorio approvarono inoltre un ricorso del pontefice che rendeva Aulo Caractoro il Lario più importante. Venne inoltre eletto a magister militum Quinto Lutazio Claro, il bellicoso comandante della Legio II, che non vedeva l'ora di invadere qualche città vicina e combattere.


Note dell'autore
Mi dispiace, ma a causa di un imprevisto ho dovuto saltare la scorsa puntata. Ma non vi preoccupate, avrete anche un capitolo extra!

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Capitolo 23
*** Digae et salinas ***


All'inizio del 596 a.C. Claro presentò ai neo-consoli Potito Nigilio Ciriaco e Spurio Murrio Cicone un piano di conquista molto ardito, ma anche molto subdolo e sottile. L'obbiettivo principale era la conquista di Fregenae, un porto etrusco all'estuario del fiume Arrone, ma non era previsto che fosse Roma a fare la prima mossa.

Per prima cosa nel 595 a.C. i consoli Sesto Munio Seneciano e Decio Volcazio Ireneo stabilirono un'alleanza con un'altra città etrusca, Careiae, anch'essa sulle rive dell'Arrone, ma posta molto più a monte rispetto a Fregenae. Il lucumone della città, Vel Arsenna, una volta appreso il piano dei romani, acconsentì immediatamente all'alleanza. Elogiò grandemente Quinto Claro per la sua genialità, e garantì l'appoggio militare nel caso ce ne fosse stato bisogno. Careiae era da lungo tempo una rivale di Fregenae, visto che entrambe le città si contendevano il controllo delle acque (che a quell'epoca erano navigabili) del fiume Arrone, che conducevano fino al lago Sabatino.

Nel 594 tre coorti della Legio III marciarono da Caractae sino al fiume Arrone, ed iniziarono immediatamente i lavori di costruzione di una diga. Era interamente fatta in legno, ed alla sua costruzione assistette il console Marco Cassio Sisinnio e il comandante della legione Marco Cepasio Bruccio. L'altro console, Spurio Albazio Publicio, risiedette a Roma per tutto il mandato.

La diga venne completata l'anno successivo. I traffici sul fiume (che provenissero da Fregenae oppure da Careiae) vennero bloccati, nel primo caso sotto la minaccia degli arcieri romani. Il lucumone fregenino, Lars Turenna, appena venuto a sapere della diga, rimase profondamente turbato. Da una parte sapeva che era un affronto imperdonabile alla città, dato che regolando il livello dell'acqua a loro piacimento i romani avrebbero potuto condizionare l'attività del porto etrusco, con grandi danni all'economia locale. D'altro canto era consapevole che dichiarare guerra ai romani sarebbe stato un suicidio. Ma pressato dai suoi consiglieri, fu costretto a prendere le armi.

Un esercito etrusco si mosse subito verso la diga, e prontamente Claro fece spostare lì l'intera terza legione, anche se per stare maggiormente sicuro fece arrivare anche la quarta. A comandarla c'era persino il console Decimo Cispio Pollio. L'esercito romano si schierò a difesa della diga, e la battaglia passò alla storia come Scontro delle Acque Ferme. Fu denominata così perché il ponte più vicino alla diga venne demolito dai romani, e per questo l'esercito etrusco si ritrovò costretto a passare il fiume a piedi. I romani attaccarono proprio in quel momento, e la maggior parte degli scontri si svolse in acqua. Lo stesso console Pollio annegò durante i combattimenti, ma l'esercito romano riuscì ugualmente a trionfare.

Fregenae si arrese senza combattere, e ai soldati vittoriosi venne concesso il trionfo, durante il quale ad affiancare il console Amulio Duccio Asprena andò comesuffectum Gaio Rutilio Floriano, colui che una ventina d'anni prima aveva coordinato l'ampliamento della strada omonima.

La conquista di Fregenae era molto importante anche dal punto di vista strategico. La città infatti, oltre a fungere da porto alla repubblica, avrebbe consentito il controllo delle foci del Tevere e delle vicine saline, che fino a poco tempo prima erano state controllate proprio dalla città etrusca.

A tal proposito, in quei luoghi vi era ancora di stanza la guarnigione fregenina, comandata da un certo Spurinna. Per questo nel 592 a.C. il nuovo magister militum Manio Minucio Treno si mosse con la Legio II per sconfiggere definitivamente gli etruschi in quella che venne ricordata come battaglia delle Saline.

Claro, console per il 592 a.C., e il suo collega Gallo Veranio Properzio concessero al magister il trionfo, e gli venne anche garantito il consolato per l'anno dopo assieme a Gaio Floriano.


Note dell'autore
Il lago Sabatino sarebbe quello che oggi è il lago di Bracciano, ma nell'antichità era conosciuto con quel nome. E il capitolo bonus arriverà a breve.

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Capitolo 24
*** EXTRA - Biografie ***


BIOGRAFIE (per riassumere)

Aulo Atrio Caractoro
766 - 701 a.C.
Le informazioni sulla vita di Aulo Caractoro sono molto vaghe. Si sa solo che era assieme a Romolo quando egli fondò Roma ed aveva circa tredici anni, per cui si è dedotto che fosse nato nel 766 a.C.
Scalò velocemente i ranghi del primo esercito costituito da Romolo, e salì agli onori delle cronache quando sconfisse nel 735 a.C. i fidenati nella battaglia dei campi di Caractae. Tali gesta gli fecero guadagnare il cognome con cui divenne famoso.
Era molto amico di Romolo, tanto che promise sposa sua figlia Atria Priscilla ad Ersilio, ovvero il figlio del re romano e suo erede.
Nel 718 a.C. Romolo decise di affidargli il comando del primo corpo militare romano vero e proprio, ovvero la Legio I Lupus, ed Atrio ne divenne il primo comandante. Restò in carica fino al 702 a.C., quando, sentendo che le forze lo stavano abbandonando, lasciò la carica in favore di Marco Virio Cotta, nonno del console Placo. Morì per cause naturali l'anno successivo.
Col passare dei secoli si creò una vera e propria aura divina attorno alla sua figura, tanto che alcuni pensarono addirittura di farlo inserire nell'Annales pontifis.

 

Spurio Pollio Bibacolo
722 - 666 a.C.
Spurio Pollio Bibacolo nacque a Tellenae nel 722 a.C., ovvero l'anno 30 Ab Urbe condita. Si arruolò giovanissimo nell'esercito, e presto cominciò a scalare i ranghi assieme all'amico Mamerco Flavio Vepgeno.
Assistette Avilio nella sua guerra contro Fidenae, e assunse il comando dello sbandato esercito romano dopo la sua morte. Contribuì alla vittoria romana, e piuttosto che farsi proclamare nuovo re (visto che Avilio non aveva lasciato eredi) decise di rendere Roma qualcosa di più evoluto per l'epoca. Si dice che dopo tre giorni di isolamento assieme a Vepgeno i due abbiano infine concordato di rendere Roma una repubblica, cioé da reis (cosa) e da publicae (pubblica). Una cosa pubblica, ovvero di tutti, come spiegò nel suo discorso ai romani. All'inizio la denominazione era proprio reispublicae, ma il suono si ammorbidì e si semplificò col passare dei secoli.
Fu il primo console romano nel 673 a.C. assieme all'amico Vepgeno, e stabilì le basi per quella che sarebbe diventata la più grande potenza mondiale. Finito l'anno si ritirò a vita privata, consumato da un male incurabile all'epoca. Morì proprio per causa sua nel 666 a.C., e tre anni più tardi gli fu dedicata una città, ovvero Bibacola.

 

Mamerco Flavio Vepgeno
722 - 659 a.C.
Mamerco Flavio Vepgeno nacque a Vepgenae, una città a nord di Roma, ma giovanissimo si trasferì con la famiglia nell'Urbe. Arruolandosi poco più che uomo nell'esercito ottenne la cittadinanza romana, e strinse una salda amicizia con Spurio Pollio Bibacolo.
A lui venne affidato il comando dell'esercito di riserva durante la prima guerra contro Fidenae, e contribuì in modo decisivo al trionfo romano. Divenne console nel 673 a.C. assieme all'amico, e contribuì a riportare stabilità nello stato.
All'inizio non si voleva ritirare dalla carica di console, ma dopo che Bibacolo gli ebbe parlato acconsentì alla richiesta. Concluse la propria vita come privato cittadino nel 659, morendo probabilmente per cause naturali.

 

Consenzio Asina
720 - 661 a.C.
Rampollo di una famiglia agiata, Consenzio Asina venne fin da piccolo indirizzato verso la carriera politica.
Di lui si seppe poco fino al colpo di stato del 672 a.C. per riportare ordine a Roma assieme a Lucio Erennio Ventore. Del duo rimane sempre quello meno ricordato, e infatti anche negli annales si sa poco della sua vita dopo il consolato. Viene solo accennato che morì nel 661 per una caduta da cavallo.

 

Lucio Erennio Ventore
724 - 662 a.C.
Si arruolò prestissimo nell'esercito, e divenne un ufficiale di spicco della prima legione. Divenne una personalità rispettata, e gli venne addirittura proposto il comando dell'esercito, ma rifiutò poiché aveva giurato che non avrebbe mai ricoperto ruoli importanti (cosa smentita in seguito).
A Consenzio Asina serviva un uomo forte (e con uomini) per prendere le redini della situazione romana, e la scelta ricadde su Ventore. Assieme riportarono ordine in città e divennero i secondi consoli della storia romana.
Ventore fu l'autore della nota lex Ventoria, che non permette la rielezione alla carica consolare. Nonostante avesse infranto la promessa fatta, governò bene e senza abusare del suo potere. Morì nel 662 a.C., forse per cause naturali.

Note dell'autore
Eccovi il capitolo extra tanto millantato, pure più lungo del normale, spero ve lo siate goduto!

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Capitolo 25
*** Arx quoque et in antris ***


Adesso che le Saline e Fregenae erano state conquistate, non rimaneva che occupare il territorio attorno alle foci del Tevere. Ma a qualcuno quest'idea non piaceva per niente.

Incredibilmente nessun romano, mentre erano in corso i combattimenti contro gli etruschi, si era accorto che una spedizione colonica greca (forse proveniente da Argo, ma non è sicuro) era approdata lì ed aveva cominciato a costruirsi una città. La repubblica ne venne a conoscenza solo a guerra terminata, ovvero quando la Legio II ebbe una scaramuccia con alcuni esploratori greci.

Manio Treno rientrò a Roma e chiese udienza al senato. Raccontò loro quanto accaduto, e ricevette l'autorizzazione dai neo-eletti consoli Gaio Betucio Cicone e Paolo Barrio Perperna. A poco meno di metà del 590 a.C. la Legio II si presentò ai greci, e Treno gli offrì di arrendersi per non ingaggiare battaglia. Aristoforo, il capo della spedizione, rifiutò sdegnosamente, e allora si passò alle armi. Non avendo ancora nemmeno le mura la città non fu difficile da conquistare, ma alcuni guerrieri asserragliatisi nell'acropoli, l'unico edificio costruito per intero dell'insediamento, diedero del filo da torcere alle truppe romane. Ma dopo quattro giorni di assedio si arresero, e lo scontro terminò.

I romani però, invece che distruggere la città, permisero ai greci sopravvissuti di continuare la costruzione ed abitarvi, purché ovviamente si sottomettessero a Roma. Aristoforo accettò, e l'anno seguente i consoli Servio Amazio Pascenzio e Sesto Flavio Romolo vi si recarono personalmente, e crearono ufficialmente il municipio locale, dando il nome all'insediamento di Acropolis, a causa dell'edificio che la dominava. Acropolis rimase per lungo tempo il porto principale della repubblica, ma il progressivo spostamento verso sud della foce del Tevere le fece perdere man mano importanza.

Nel 588 a.C. i consoli Fausto Nasennio Ceciliano e Gneo Vitellio Nemesiano fecero compiere un censimento (censori Terzio Cesennio Lepido e Spurio Rutilio Floriano, fratello di Gaio), dal quale risultò che la popolazione ammontava a settantanovemila abitanti, di cui quasi diecimila schiavi.

Con l'incremento della popolazione se ne ebbe uno anche dell'esercito, tanto che l'anno successivo i consoli Appio Tuccio Durone e Titedio Fimbrione furono costretti a fondare una nuova legione, la Legio V Tauros, chiamata così più in omaggio ad Appio Lucio Tauro (comandante della prima legione deceduto l'anno prima) che all'animale.

Nel 586 i consoli (Tito Giovenzio Tiberillo e Marco Pompeio Bello) non dovettero fare nulla, se non certificare la nomina a magister militum di Secondo Epidio Salonino. Nel 585 invece salirono al consolato due favoriti del popolo, ovvero Decimo Petronio Faustillo e Vibio Volumnio Neneo. Essendo di umili origini anch'essi condividevano le gioie e i crucci del volgo, e come la maggior parte degli abitanti dell'Urbe sentivano che in città mancava un mercato. O meglio, quello c'era, ma era l'organizzazione a non esserci. La fiera si teneva infatti ogni anno in posti diversi, tanto che una volta i sacerdoti dei templi di Giano e di Zeus, rispettivamente Flavio Virio (soprannominato Fastidio dalla folla) e Quinto Elvio (chiamato Musico per via della sua passione per la cetra, il cui suono veniva surclassato dal chiasso della folla), avevano cacciato decine di mercanti dall'entrata dei loro santuari.

Faustillo e Neneo cominciarono in segreto a studiare la conformazione dei colli romani, e trovarono il posto adatto per ergere una struttura permanente nella stretta valle tra i colli Palatino e Campidoglio. I lavori iniziarono quasi alla fine del loro mandato, e terminarono l'anno successivo, quando i consoli Osto Pisenzio e Quinto Ostilio Massimo inaugurarono il Foro Boario, ovvero il primo dei fori romani. Venne chiamato così per via del fatto che prima della costruzione del Foro non era infrequente trovarvi a pascolare le mucche.

Nel 583 i consoli Nonio Caprenio Senzio e Sesto Licinio Ausonio diedero l'ordine di cominciare a far ampliare Roma verso nord, poiché molti senatori non potevano accettare il fatto che il Foro si trovasse al di fuori del pomerio, ovvero il confine sacro della città. Tali lavori terminarono una decina d'anni più tardi, e diedero inizio al sempre maggiore ampliamento dell'Urbe.

Nello stesso anno morì anche il pontefice massimo Spurio Castino. Furono proclamati tre giorni di lutto in città, e al suo posto venne eletto l'anziano Aulo Titinio Santo. Le spoglie di Castino vennero tumulate nel Campidoglio, e se ne persero presto le tracce.

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Capitolo 26
*** Magnis rebus ***


Nonostante tutto il trambusto iniziale, nessun latino aveva preso provvedimenti contro Roma dopo la caduta di Gabii, anche se adesso i rappresentanti del resto della Lega erano più cauti e guardinghi quando dovevano trattare con la repubblica. I governanti, come già detto in precedenza, erano consapevoli del pericolo costituito dall'Urbe, ma la loro ostinazione a non unirsi li portò alla rovina.

Una prova si ebbe già nel 582 a.C., quando il nuovo magister militum Appio Aufidio Ceriale propose in senato di espandersi ai danni ti Tibur, una città latina vicina che si stava espandendo rapidamente. Tibur era, in ordine di grandezza e popolazione, la seconda città del Lazio dopo Alba Longa, e la sua sconfitta sarebbe servita a stabilire una volta per tutte chi comandava in quella zona. I consoli Oppio Vipstanio Casca e Tito Vitruvio Mucone acconsentirono, e tutto il 582 venne impiegato a preparare l'esercito. Vennero mobilitate tutte e             cinque le legioni, poiché Tibur non era un avversario da sottovalutare, e nel 581 a.C. partì l'invasine.

Ma Teopropida, il re di Tibur, aveva intuito quello che stava per succedere, per cui anche lui aveva già fatto mobilitare le truppe da lungo tempo, e non aveva intenzione di lasciar fare ai romani la prima mossa. Attraverso una delazione Teopropida venne a sapere che le truppe romane avrebbero marciato contro la sua città risalendo il fiume Aniene, e passò giorni interi a studiare la strategia per fermare le truppe consolari aiutato dal generale Severino Lepido.

Alla fine prese una decisione. Era un piano ardito, ma coronabile dal successo. Per arrivare a Tibur i soldati romani sarebbero stati costretti a passare all'interno delle paludi di Oppidum, poiché se volevano mantenere l'effetto sorpresa (comunque già svanito) ci avrebbero messo troppo tempo aggirandole.

L'esercito tiburtino contava dodicimila uomini circa sotto il comando del generale Severino Lepido, e quello romano più o meno lo equivaleva (la Legio I era rimasta indietro per problemi logistici e partì con alcuni giorni di ritardo). Teopropida mise undicimila uomini all'interno della palude, in modo che combattessero i romani, mentre fece nascondere il restante migliaio all'esterno con il compito di trucidare gli eventuali fuggiaschi nemici. Teopropida voleva annientare l'esercito romano, non solo sconfiggerlo.

Ma quello che non aveva previsto era che avrebbe perso. La tattica del generale Severino Lepido era quella del cosiddetto "mordi e fuggi". Lui puntava a sfiancare le truppe romane, con rapide sortite, furti di cibo, rumori notturni (in modo da togliere il sonno ai soldati romani) e finte diserzioni (in realtà uccidevano soldati romani e poi li portavano via facendo credere che avessero disertato). Questa tattica poteva anche funzionare, ma venne tirata troppo per le lunghe.

Dopo due settimane Severino si decise ad ingaggiare una vera e propria battaglia, convinto di aver esasperato i romani. Ma essi più che sfiancati erano furiosi per quella tattica di guerra, e combatterono allo stesso livello, se non superiore, di quando erano in forma. Nonostante ciò l'esercito romano rischiò veramente di soccombere, e lo stesso magister militum Ceriale venne quasi ucciso. A sistemare le cose venne la prima legione, comandata personalmente dai consoli Servio Minucio Ciprio e Secondo Vassenio Liviano (il comandante, Gaio Lucio Luciano, gli aveva ben volentieri lasciato il comando dopo essere stato esonerato dalla carica per i cosiddetti problemi logistici [si pensa che fosse stato pagato da Teopropida per boicottare la campagna romana]), che dopo aver sbaragliato i tiburtini all'esterno non faticò a dare manforte ai romani dentro la palude. Quella che nelle intenzioni di Teopropida doveva essere una trappola per i romani si rivelò un'arma a doppio taglio: molti tiburtini in fuga misero il piede in fallo ed annegarono nelle infide acque malsane di Oppidum. Lo stesso generale Severino ebbe questo destino.

Tibur si arrese senza opporre resistenza, e ai vincitori venne offerta prima un'ovazione e poi il trionfo (l'unico a non partecipare fu Ceriale, che tecnicamente non aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria, e per questo se la prese a male). Per evidenziare il carattere magnifico di quella conquista non vennero nemmeno fatti schiavi, anche per la felicità di Ceciliano, che encomiò pubblicamente i consoli per cotale decisione (in realtà i prigionieri erano talmente pochi che non sarebbe convenuto farli schiavi, per cui vennero tutti rilasciati).


Note dell'autore
A causa dei cosiddetti "problemi logistici" da oggi non pubblico più di sera ma di pomeriggio. Scusate anche il ritardo.

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Capitolo 27
*** Therraemotus ***


La conquista di Tibur confermò tutte le paure latine. La tensione, da Alba Longa sino ai territori degli Equi e dei Volsi, era palpabile, e sarebbe bastata una minima provocazione a scatenare una guerra. I consoli del 580 a.C. (Potito Fabio Lezzio e Tiberio Cicereio Fabiano) provarono a riallacciare i rapporti diplomatici con i latini, invano. Ad abbattere il loro morale arrivò anche la notizia della morte di Aulo Titinio Santo, considerato come quasi il beniamino della repubblica e sua immagine vivente. Con il passare dei secoli il pontefice massimo, oltre alle sue funzioni normali, si assunse anche questa.

A sistemare la situazione ci pensò Manio Minucio Treno, divenuto pontefice massimo al posto di Aulo. Organizzò un incontro con i vari capi delle città latine, ed in particolare dopo aver parlato con il re di Alba Longa Olimpio Gracco seppe giungere a compromessi. Roma, essendo reduce da ben due guerre, doveva ancora aspettare per poter fare la prima mossa, così Olimpio decise di approfittarne, e chiese all'Urbe un contributo annuo alla Lega Latina per provare che la sua fiducia fosse ben riposta. Con l'approvazione dei due consoli (Gallio Fulcinio Flaviano e Vibio Falerio Abito) Treno suggellò tale promessa con il sangue, si dice.

Il 578 fu per Roma un anno drammatico. Poco tempo dopo l'elezione dei consoli, un terremoto sconvolse i territori della Lega Latina settentrionale e della repubblica, devastando in particolare Roma e Tusculum. Le vittime furono numerose, "molte migliaia", come scritto negli annales, sia tra i romani che tra i latini. Molti edifici crollarono, e il palazzo del senato collassò su sé stesso proprio mentre vi era una seduta. Il console Tarquinio Prisco rimase ucciso e il suo collega Vopisco Fulvio Fugino gravemente ferito. Scoppiarono anche numerosi incendi, andando ad incrementare il numero delle vittime.

Anche in altre città della repubblica ci furono danni, i più gravi dei quali a Vergata, molto vicina all'epicentro, ma Roma era messa molto peggio. Al posto di Prisco venne fatto suffectum Titinio Lucio, il quale non perse tempo a coordinare la ripresa: gli incendi vennero domati in fretta, e le macerie degli edifici vennero usate per ergere molte pire funerarie sulle quali bruciare le vittime (i palazzi erano fatti interamente di legno al tempo). Il giovane figlio di Prisco, Spurio Tarquinio, venne affidato temporaneamente al vecchio generale Iuniano, e il console fu seppellito con tutti gli onori.

La distruzione era stata pressoché totale, per cui si dovette ricostruire il tutto da zero. Questa volta per gli edifici vennero impiegati, oltre al legno, anche pietra e calce naturale, ottenuta mescolando la sabbia delle rive del Tevere alla sua acqua. L'erario quasi si svuotò a causa di questo. Un aiuto fondamentale venne da Careiae, ancora alleata di Roma, che inviò numerosi aiuti all'Urbe nel momento del bisogno. Facendo ciò la città si guadagnò lo status di socius perpetuus (alleato perpetuo) di Roma.

Il 577 venne usato per riprendersi dalla tragedia, e i consoli Flavio Carvilio Victricio e Tiberio Edinio Geniale fecero effettuare un censimento (censori Arrunte Papinio Protacio e Sesto Stazio Frumenzio) per stabilire la popolazione post-terremoto. Da quasi ottantamila abitanti la popolazione era diminuita di quasi un quarto, ed erano deceduti un quinto degli schiavi.

Nel 576 venne preso un altro importante provvedimento. Quando l'edificio del senato era crollato due anni prima, quasi tutti i senatori erano rimasti uccisi o gravemente feriti. Per questo, per evitare che si potessero azzerare a causa di un tale disastro, il loro numero venne aumentato a cento da una delibera dei consoli Manio Norbanio Ulpio e Arrunte Rutilio.

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Capitolo 28
*** Finis autem quartum ***


La classe IG si trovava all'ultimo piano dell'istituto scolastico Aulo Caractoro, proprio in fondo ad un lungo corridoio. Per arrivarvi (e per andarsene) bisognava per forza passare davanti alla porta che dava sul tetto. Fu proprio mentre vi transitava davanti che Matteo Umbrio Senna notò che era socchiusa. Fece per serrarla, quando notò una figura in piedi dietro alla ringhiera. Preso dalla curiosità, uscì.

Il figuro era quasi del tutto in ombra, complice anche il fatto che il sole stava calando. Nonostante questo riconobbe quasi subito l'esile contorno di Sesto Modio Tulla, uno dei suoi allievi. Rimase immobile per qualche secondo, chiedendosi perché uno dei suoi ragazzi fosse lì. Il tetto della scuola non era certo un bell'ambiente. Sporco, polveroso, pieno d'escrementi di uccello, cocci, vetri rotti, bottiglie di plastica vuote, cartacce, cicche di sigarette e resti di cibo avariato: era così perché da anni nessuno lo ripuliva. Il tetto dava un'idea del degrado delle zone circostanti, che forse erano conciate anche peggio.

- Sesto?

La piccola figura parve riscuotersi da una sorta di apatia. Si girò, e nonostante Matteo non lo vedesse molto bene poté intuire che si era impaurito. Del resto non era consigliabile per uno studente andare in un posto come quello.

- Ma-magister...

- Cosa fai qui, ragazzo?

- Io... n-niente...

Era palese che stava mentendo, eppure, oltre alla paura, sembrava che nel suo tono ci fosse anche... tristezza. "Molto strano" pensò Matteo "Tutto mi aspettavo meno che questo."

- Sesto...

Il ragazzo prese leggermente a tremare.

- Sesto, non sono nato ieri. Non si viene qui per non fare "niente". Avanti, dimmi perché sei qui.

Sesto Tulla abbassò la testa, mise le mani dietro la schiena e cominciò a strascicare i piedi. Si vede che stava cercando di dire qualcosa, ma c'era qualcosa che lo convinceva a fare il contrario.

- Il fatto è che... - si sforzò a cominciare.

- Sì?

- Il fatto è che volevo stare un po' da solo, e questo è l'unico posto che so per certo essere evitato dalla maggior parte della gente.

- Non dovresti essere qui, e lo sai.

- Sì, ma... nell'ultima settimana non credo di sentirmi molto bene.

Matteo si inquietò leggermente.

- Cos'è che hai?

- E' da quando è stato annunciato che l'imperatore avrebbe abdicato che non sono più lo stesso. Sento come se mi mancasse qualcosa.

- Tutti siamo addolorati per la decisione dell'imperatore, ma...

- Una volta, qualche anno fa - lo interruppe l'allievo - i miei genitori mi portarono a Roma, in occasione della sfilata della famiglia reale per festeggiare la fondazione della città. Noi eravamo proprio in prima fila, e i reali ci passarono vicinissimo. Quando vidi l'imperatore mi emozionai moltissimo, e cominciai a salutarlo con la mano. Lui mi vide e ricambiò il gesto. Nonostante mio fratello maggiore sostenga il contrario, sono sicuro che l'imperatore guardò e salutò proprio me. Quello fu il giorno più bello della mia vita. E non posso credere che la persona più importante dell'impero...

Matteo pensò al discorso di Sesto. Era sensato in effetti. L'imperatore governava su sette miliardi di persone, eppure tra tutte quelle che c'erano aveva salutato proprio Sesto. E il ragazzo non doveva averla presa bene quando Placo aveva deciso di abdicare. In fondo lo capiva, con la fine di Placo tramontava un sogno.

- Ti posso capire, Sesto. Ma non credo che sia questo il posto adatto per stare da soli a pensare. - dicendo così Matteo gli posò una mano sulla spalla - E poi mica muore! Si vede che si è stancato di tutti quei cerimoniali. Animo! Prima che Placo muoia ce ne vorrà di tempo. Va adesso, i tuoi genitori si staranno preoccupando.

Sesto Modio Tulla corse immediatamente verso l'uscita, fermandosi però sulla soglia. Si girò verso l'insegnante, e gridò:- Grazie magister! - . Ripartì immediatamente, scomparendo nell'istituto. Matteo sorrise. "Ah, i bambini e i loro problemi. Dovrò fargli entrare in testa che Placo non è stato l'unico ad abdicare".

Note dell'autore
Ah, i problemi logistici, continuano ad assillarmi ritardando la stesura della storia. Adesso che inizia di nuovo la scuola non so se riuscirò a mantenere il ritmo.

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Capitolo 29
*** EXTRA - Roma all'estero nel VI secolo a.C. ***


La prima menzione di Roma nelle cronache greche venne fatta dallo storico Archita di Corinto nel suo Popolazioni della Magna Grecia, all'inizio del VI secolo a.C. Archita aveva raccolto numerose notizie sull'Urbe (che fossero voci o testimonianze veritiere non è mai stato chiarito) e le aveva inserite tra le descrizioni delle popolazioni della Magna Grecia. All'inizio intendeva fare solo una descrizione delle città del sud Italia, come Taranto, Siracusa e affini, ma poi finì per includere anche i popoli nomadi a nord, la Lega Latina e quindi Roma. Stando a quanto gli fu riferito Archita dipinse un'immagine abbastanza positiva della repubblica. Purtroppo il manoscritto è andato perso e ne siamo a conoscenza solo grazie a resoconti successivi.

Il discepolo di Archita, Liburnio, decise di recarsi in viaggio in Italia. L'escursione durò una decina d'anni, e il greco visitò le principali città greco-italiane (in ordine Taranto, Sibari, Crotone, Locri, Messina, Paestum, Neapolis e Cumae) e si diresse poi a nord, visitando Laurentum, Alba Longa, Lavinium e infine Roma. Arrivò in un momento critico per l'Urbe, poiché erano passati pochi mesi dal grande terremoto che sconvolse la città ed ancora quasi nulla era stato ricostruito.

Nel suo resoconto Dramma Laziale, Liburnio descrive così Roma: "[...] cumuli di macerie sono costanti ai lati delle strade, e gli abitanti vagano come fantasmi dallo sguardo spento [...] nobili e popolani sono al pari livello, si struggono allo stesso modo e piangono sulle loro proprietà distrutte dalla furia della Madre Gea. Quale loro affronto sarà stato tanto grave da spingere la Madre Terra a punirli così? [...]".

Solo pochi frammenti sono pervenuti ai giorni nostri, ma rendono l'idea della situazione romana all'epoca. L'opinione greca ne fu molto colpita, tanto che il tragediografo Adirte di Megara trasse una tragedia dal pensiero che sia stata Gea stessa a punire i romani. L'opera d'arte, intitolata La furia di Gea, ottenne presto numerosi riconoscimenti non solo a Megara, ma anche ad Atene e a Corinto. In particolare venne rappresentata ai giochi olimpici del 552 a.C., tanto era divenuta popolare. Era soprattutto apprezzata la scena in cui Liburnio discute con la musa Calliope del motivo per cui Gea sia stata così crudele con Roma. Ancora oggi tale scena è un esempio di profondità artistica.

Molti greci furono colpiti dalla cruenza con cui veniva descritta la situazione romana, per cui partirono di loro spontanea volontà verso il Lazio con l'intenzione di aiutare i romani a risollevarsi. Secondo il loro pensiero "bisognava aiutare i fratelli", visto che più o meno i romani discendevano da migranti greci approdati sui lidi del Lazio nel XII secolo a.C. Questo fenomeno contribuì in modo fondamentale nella ripresa di Roma. Molti greci si stabilirono lì una volta che ebbero finito di dare una mano.

Al di fuori dell'Italia e della Grecia Roma a quei tempi era poco conosciuta. Ai Fenici giunsero poche informazioni, ed ancora di meno agli Egizi. I Cartaginesi, nonostante la vicinanza, ne sentirono a malapena parlare, mentre le città siciliane, calabresi e pugliesi videro un grande afflusso di gente verso l'Urbe. Nessuno poteva immaginare che quella città sconvolta dalle scosse sismiche si sarebbe presto (forse non tanto presto, ma prima o poi vi sarebbe arrivata) ritrovata con il ruolo di "signora e padrona del mondo".


Angolo dell'autore
Salve! Dopo giorni di assenza sono tornato! Spero abbiate apprezzato questo extra. Ecco, a causa di impegni vari la serie è temporaneamente sospesa, mi devo mettere in pari con alcune cose e devo schiarirmi le idee. Ma tranquilli, prima o poi riprenderò.

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Capitolo 30
*** Recuperatione ***


Nonostante fossero già passati tre anni da quel maledetto terremoto, l'Urbe ancora faticava a riprendersi. Le violenze dilagavano, l'esercito era in fermento e si vocifera che alcune città tramassero per ribellarsi. Inoltre alcune tribù nomadi stavano scendendo da nord e minacciavano i confini settentrionali del paese. Serviva qualcuno di forte, che fosse capace di sistemare tutto, o che almeno ci provasse. Le descrizioni di Liburnio d'altronde sembravano non lasciare quasi speranze per la Città Eterna, ma qualcosa successe veramente.

Nel 575 a.C. i consoli Larzio Allezio e Gallo Petilio Surio decisero di dare una svolta radicale alla situazione in cui versava la repubblica.

Per prima cosa sedarono l'esercito, facendo sostituire il debole magister militum Marco Papirio Lucano dal ben più serio Marco Umbrenio Nerva, comandante della Legio I. Egli lasciò al comando della prima legione il suo secondo Massimo Plozio Natalino, e si recò di persona dai soldati dell'esercito, tutti radunati poco lontano da Roma. Con un abile discorso, riportato successivamente dallo storiografo Sornazio, Nerva seppe calmare gli uomini e riportare l'esercito dalla sua parte.

In meno di due settimane fu risolto anche il problema delle violenze nella capitale. Fu imposto quello che oggi chiameremmo coprifuoco, all'epoca noto come incessus circolationem. Fu allora effettuata una seduta straordinaria nel senato, dove si discusse sul da farsi.

A sud c'era Acropolis, la città greca conquistata pochi anni prima, che era diventata incandescente subito dopo la notizia del terremoto di Roma, e stava premendo sempre di più per riottenere l'indipendenza. Da nord invece stavano scendendo i Pioraci, una popolazione appenninica proveniente forse dalla Pianura Padana. Essi potevano contare su circa diecimila unità, di cui la metà erano combattenti o comunque guerrieri, che all'epoca era tantissimo. Erano queste le due principali minacce.

Dopo molte ore si ebbe un piano: l'esercito sarebbe stato diviso in due per affrontare simultaneamente le minacce. Ritenendo i Pioraci più pericolosi rispetto agli Acropolesi, a sottomettere i greci vennero inviate la quarta e la quinta legione, con a capo il console Surio. Egli assediò Acropolis, che capitolò dopo poco tempo a causa della mancanza di provviste.

Più arduo si rivelò invece sconfiggere i Pioraci. La popolazione, dopo varie scorribande in Sabinia, penetrò nella repubblica saccheggiando Crustumerium e mettendo sotto assedio Nomentum. La prima, seconda e terza legione (al comando di Allezio e Nerva) si recarono in soccorso delle città settentrionali, riuscendo a riconquistare Crustumerium e a ricacciare a nord gli invasori da Nomentum.

A causa della fine dell'anno i consoli furono costretti a rientrare a Roma per le elezioni, ma raccomandarono ai successori Pomponio Trebellio e Osto Cocceio Eumenio. In quel periodo ricorreva anche il centenario della fondazione della repubblica, ma per ovvie ragioni le festività furono accantonate.

I nuovi consoli diedero presto segnali positivi. I Pioraci stavano infatti accennando a rientrare nella repubblica, così i due decisero di anticiparli. Si attestarono con l'esercito sulla collina di Virnum, un piccolo rilievo da cui si poteva dominare la Pianura Sabina meridionale. I guerrieri pioraci, non avendo nozioni di strategia, attaccarono senza pensare, e vennero presto sconfitti e massacrati.

Trebellio ed Eumenio rientrarono a Roma come eroi, e assieme ai loro predecessori sfilarono in trionfo (seppur in maniera modesta). Subito i due si misero al lavoro per cominciare veramente la ripresa dello stato. Impiegarono il resto del loro mandato a progettare il modo per risollevare le sorti della nazione, e tale piano fu iniziato dai successori Decio Tullio Bibulo e Arrunte Socellio Pelagio.


Note dell'autore
E' successo il miracolo, ho trovato un buco di tempo per scrivere questo capitoletto. Non fraintendete, è solo uno sprazzo, non credo che ancora riprenderò a scrivere questa storia qui. Lo faccio solo per non far dimenticare (sia a me che a voi) che esiste e che è ancora in corso.

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Capitolo 31
*** Major reformat ***


Bibulo e Pelagio per prima cosa posero rimedio ad una stupida dimenticanza dei loro predecessori. I consoli precedenti si erano infatti dimenticati di assegnare una base alla quinta legione senza un apparente motivo (forse all'inizio furono delle inezie burocratice e in seguito il caos causato dal terremoto a far dimenticare questa faccenda). Vi posero rimedio insediandola ad Antemnae.

Subito dopo si diede il via ai lavori di ricostruzione della città. Questa volta fu sì usato il legno, ma misto ad una buona dose di pietra. Gli architetti a cui si erano rivolti i senatori avevano infatti capito che la pietra era molto più resistente del legno, e per questo venne impiegata. Era però assente la calce, che venne introdotta solamente mezzo secolo più tardi. A quel tempo le costruzioni stavano in piedi grazie ad un complicato ma ingegnoso sistema di pesi e contrappesi fatto appositamente in modo da sfruttare la gravità. Ciò era però svantaggioso in caso di pioggia o forte vento come si vedrà, ma in assenza di modi migliori si adottò questo.

I consoli per il 572 a.C., Mamerco Ceionio Felicissimo e Clelio Trenico introdussero un'altra importante riforma. Fin dal consolato di Gaio Tremera, avvenuto ormai quasi un secolo prima, a Roma e dintorni si usava come monetazione l'aes rude, ovvero grossi pezzi non lavorati di materiale (oro argento e ferro, ma molto più frequentemente bronzo).

Ma col passare del tempo tale sistema si era rivelato ingombrante e difficile da applicare, in quanto difficilmente si poteva correttamente stabilire il valore effettivo di un singolo pezzo di metallo. Trebellio ed Eumenio nel loro piano avevano cercato di porre rimedio anche a questo.

Il progetto prevedeva la fusione di tutti i pezzi di aes rude, per poi ricavarne dei sottili e piccoli dischi, tutti di eguale dimensione e peso. Era stata presa a modello una moneta etrusca importata da un mercante, e grazie a ciò nacque la prima moneta romana, ovvero l'aes grave.

Purtroppo a noi sono pervenuti pochi esemplari di aes grave, ma da quei modelli ci si è potuta fare un'idea di come fossero le altre monete. Pesavano all'incirca 100 g (un po' pesanti in effetti), e valevano tutte come "1". Recentemente sono stati rinvenuti degli esemplari di semiasse risalenti a quell'epoca, dimostrando l'esistenza del primo sottomultiplo economico. Il semiasse valeva appunto mezzo asse e pesava 30 g.

La prima riforma monetaria statale venne completata l'anno successivo, e i consoli Appio Canzio Montano e Settimo Sepunio Musico gestirono personalmente la redistribuzione del nuovo conio. A dispetto della mole di lavoro il compito non risultò difficile, e già l'anno successivo l'economia poté ripartire. Grazie alla riforma monetaria venne aumentato il numero delle monete e allo stesso tempo il loro valore, a causa del leggero miscuglio del bronzo con l'argento.

Nel 570 venne prese altre due importanti decisioni: l'impiegamento della totalità dell'erario e la difesa delle frontiere. I consoli Celio Pertace e Mettio Minucio Protacio rischiarono molto per queste scelte, ma vennero ripagati, ed anche molto.

 La ricostruzione di Roma era ormai stata quasi ultimata, e per questo Pertace e Protacio decisero di impiegare i fondi rimanenti nella ricostruzione e nell'ampliamento delle altre città danneggiate dal terremoto. I fondi si diressero principalmente verso Vergata, Bibacola e Gabii, le tre località maggiormente colpite.

All'inizio i due governatori vennero presi per pazzi. Fino a quel momento le città al di fuori di Roma erano state lasciate abbastanza a sé stesse, e nessuno vedeva l'utilità di ampliarle. Pertace e Protacio ebbero però l'intuizione vincente. Capirono infatti che ciò sarebbe stato utile a far ripartire l'economia, in quanto avrebbe stimolato il commercio con l'esterno. E così fu, dato che i mercanti della Lega Latina ricercavano molto le merci romane in quanto più pregiate delle loro. Bisogna anche pensare che un'ondata di gente greca (quegli stessi greci che avevano letto la tragedia di Archita, scritta nel 575) arrivò proprio in quel periodo e contribuì ai lavori facendoli finire nel tempo record - per l'epoca - di un anno. Si ebbe così anche un aumento demografico con una conseguente ripresa dalle vittime causate dal terremoto.

I consoli inoltre decisero di porre la repubblica sulla difensiva, ovvero rinunciare a conquiste nell'immediato futuro in modo da far rafforzare l'apparato statale. L'esercito venne ugualmente mantenuto alle stesse dimensioni.

Note dell'autore

E rieccomi qui, con un altro capitolo. Avevo detto che non ne avrei fatti più, e invece ecco qua. Sono una contraddizione vivente.

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Capitolo 32
*** Muri mole et mysterious mortes ***


Nel rispetto della politica difensiva adottata dai predecessori, i consoli Quinto Nepio Candido e Fausto Gratidio Bolano, eletti per il 569 a.C., presero una decisione che in futuro si sarebbe rivelata più che utile.

Fino a quel momento Roma si era espansa abbastanza al di fuori del pomerium creato da Romolo, ma sorprendentemente, in quasi due secoli di storia, non si era mai munita di una cinta di mura. Era stata sempre una scelta azzardata, presa poiché i re prima e i consoli poi ritenevano sicuro il territorio romano.

Bolano e Candido invece non avevano questa sicurezza, e temevano per il futuro. Nonostante la reticenza generale della popolazione romana, i due riuscirono a far approvare in senato un progetto per la costruzione di mura attorno alla città. Nelle loro intenzioni esse dovevano cingere anche i quartieri più recenti, ovvero quelli costruiti dopo il terremoto, e dovevano essere lunga in totale circa quindicimila passi (il "passo" romano venne utilizzato per lungo tempo come unità di misura nella repubblica, ed un passo valeva all'incirca quaranta centimetri. Quindi quindicimila passi corrispondevano a circa sei chilometri, che per l'epoca era tantissimo).

Ai due consoli si opposero i senatori dell'ala più conservatrice, come l'ex-console Ciprio oppure il rinomato senatore Decio Floridio Spendio. Famoso fu il discorso di quest'ultimo, conosciuto come De tutum Spendie, riportato dallo storico Sornazio nel suo libro Historice Dicta, per sostenere la sicurezza del territorio romano, che però non servì a fermare i consoli.

I lavori furono fatti iniziare l'anno successivo, e famoso è un episodio ad essi legato. Spendio, furioso per l'inutilità delle sue parole, si era recato da un indovino, il quale aveva predetto che se i consoli non avessero partecipato ai lavori di costruzione le mura sarebbero state destinate a crollare presto. I consoli Nonio Tiziano Camerio e Numerio Nemetorio Memore, consigliati dal pontefice massimo Manio Minucio Treno, presero parte ai lavori posando rispettivamente l'uno la prima pietra e l'altro l'ultima. La loro risposta alla provocazione di Spendio fu talmente memorabile che il commediografo Plauto vi scrisse una commedia sopra, Due pietre per due consoli, molto popolare alla fine del II secolo a.C.

Nel 567 a.C., mentre i lavori per il completamento delle mura erano ancora in corso, i consoli Lucio Ceionio Cerinto e Celio Gratidio Nostro decisero di rinnovare l'alleanza con Careiae, dove si incontrarono con il lucumone Arsenna. Egli espresse l'amicizia della città verso il popolo romano, e garantì assistenza in caso di bisogno. La stessa cosa fecero i consoli romani.

Nel 566 furono completate le mura della capitale, e in una grande cerimonia presieduta dai consoli Servio Flavinio Edicio e Oppio Livio Sirico l'ex-console Memore posò l'ultima pietra del cantiere nell'unico spazio vuoto rimasto. Il senatore Spendio non partecipò a tale evento per ovvi motivi.

Il 565 venne ricordato come "l'anno dei grandi addii". In quel periodo infatti spirarono in rapida successione tre importanti autorità: in ordine di dipartita Massimo Plozio Natalino (comandante della Legio I), Manio Minucio Treno (pontifex maximus) e Spurio Salonio Rufrio (magister militum) che pure avrebbe dovuto terminare il mandato a breve. La coincidenza di tali eventi spinse i consoli Osto Nevio Geminiano e Numerio Vitellio Rutiliano ad organizzare una grande cerimonia d'addio ai tre. Poco dopo vennero eletti come comandante della prima legione Flavio Sertorio Viridio, come pontefice massimo Tiberio Cicereio Fabiano e come capo dell'esercito Vibio Ottavio Cervidio.

Già il fatto che tre prominenti personalità statali fossero morte in rapida successione poteva far intuire qualcosa, ma nel momento in cui anche i due consoli perirono in circostanze poco chiare il complotto lo si poteva vedere chiaramente. Non era così forse per i due consoli suffecti, ovvero Barrio Celeste e Oppio Pomponio Tremero, i quali si limitarono a bollare come annus horribilis quel periodo di strane morti. Ma i visionari avevano ragione, in quanto c'era davvero qualcuno a manovrare dei fili.

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Capitolo 33
*** Melinie ***


Fortunatamente mancava poco alla fine dell'anno, e i successivi consoli Proculo Olcinio Spartico e Canuzio Valgo, erano coscienti della gravità della situazione e dichiararono lo stato d'emergenza (eas res tumultum). Non vennero però prese eccessive misure di sicurezza. E ciò si rivelò una scelta sbagliata.

Una notte di quintilio (antico nome del mese di luglio) scoppiarono tre incendi simultanei nella capitale: uno al palazzo del Senato, uno all'antico tempio di Zeus Laziale, meta di pellegrinaggio da tutta la repubblica, e un altro al tempio di Giano. Fortunatamente quello al Senato fu domato dopo poco, mentre quelli ai templi no. All'alba il fuoco al tempio di Zeus continuava a bruciare, mentre quello al tempio di Giano era stato domato a fatica.

L'ammontare dei danni venne calcolato la settimana successiva. Al Senato i danni erano stati trascurabili, ma non negli altri luoghi. Il tempio di Giano era stato distrutto per più di metà, mentre quello di Zeus era andato completamente in fumo. La cifra per ricostruire il tutto ammontava a più di ventimila aes gravi, tantissimo per l'epoca.

Il fatto che gli incendi erano stati dolosi era stato appurato fin da subito. Questo bastò perché utte le legioni venissero mobilitate e poste a guardia della capitale, mentre tutti i municipali ricevettero messaggi di allarme che invitavano a monitorare chiunque uscisse e chiunque entrasse nelle loro città. Ci si aspettava un attacco nemico da un momento all'altro, anche se non si sapeva bene da chi.

Questo arrivò, ma non prima dell'anno successivo. Furono mesi di paura, quelli che intercorsero fra il 564 e il 563 a.C. La popolazione aveva paura ad uscire di casa, e pattuglie di soldati marciavano costantemente per le strade, giorno e notte, per controllare l'identità di eventuali vagabondi. Il panico scoppiò quando giunse la notizia di una battaglia.

Lo stagno di Melinie si trovava a qualche chilometro a sud di Caractae, in una posizione intermedia tra la città e Roma. Quando l'anno prima le legioni erano state mobilitate, una coorte della Legio III era rimasta in città per fare la guardia al centro abitato. Era però arrivato l'ordine di rientrare nella capitale da parte dei neoconsoli Terzio Grazio Petro e Appio Quintilio Minervale, i quali intendevano serrare la sorveglianza nell'Urbe.

Erano state richiamate truppe anche dalle altre città sedi di legione, fra le quali anche la coorte di Antemnae guidata dall'ufficiale Massimo Balvenzio Umile. Egli conosceva il comandante della coorte rimasta a Caractae, ovvero Nono Marcio Melo. Per questo motivo si erano accordati per riunirsi a circa un chilometro dalla capitale per serrare i ranghi ed entrare insieme. Questo appuntamento era stato previsto per il pomeriggio del 14 settembre. La mattina del 15 non si era ancora visto nessun legionario appartenente alla Legio III. Umile, allarmato, decise di mandare degli esploratori a controllare la posizione di Melo. Questi tornarono nel pomeriggio, e non poté credere alle proprie orecchie. Mobilitò i propri uomini e si mosse verso la direzione indicatagli dagli esploratori.

Quando arrivò allo stagno di Melinae gli si presentò davanti un vero e proprio bagno di sangue. Romano. L'accampamento di Melo era stato distrutto, e l'erba era fradicia di sangue. Le acque dello stagno stesso erano rosse e piene di corpi galleggianti. Non era sopravvissuto della coorte di Nono Melo.

Umile fece esaminare tutti i corpi prima di erigere una pira funeraria, e tutti risultarono avere il segno identificativo della Legio III, ovvero un piccolo simbolo dell'aquila cucito sul vestito. Ciò voleva dire che chi li aveva attaccati non aveva subito perdite, e ciò era ancora più disturbante.

Umile si diresse subito verso Roma e avvertì tutti dell'accaduto. Il console Petro svenne quando gli venne comunicato ciò. Minervale, che invece aveva più sangue freddo, chiese di farsi portare sul luogo del massacro. Vi arrivarono a tarda sera, e, nonostante il parere sfavorevole di molti soldati, il console decise di accamparsi lì per esaminare tutto il mattino seguente.

Nella notte si ripeté probabilmente lo stesso copione di quanto era successo a Melo e ai suoi uomini. I romani vennero attaccati da tutti i lati, e molti vennero massacrati. Melo e Minervale, svegliati dal clamore della battaglia, mantennero la calma e assieme ad un manipolo di uomini si concentrarono al centro dell'accampamento rappresentato dal bivacco, armati di torce e di lance. Quando vennero anch'essi attaccati combatterono furiosamente, e seppero tenere impegnati gli assalitori fino all'alba. Il sorgere del sole fece dileguare gli sconosciuti nemici, mentre i romani crollarono a terra esausti. Il console Minervale invece si mise a contemplare il corpo di un nemico appena abbattuto. Non indossava armatura, ma portava solo una spada ed uno scudo, sul quale vi era rappresentato il sole che sorge. Il simbolo di Alba Longa.

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