Gloriae Romae - Dalle Origini al Dominio del Mondo di Ashura_exarch (/viewuser.php?uid=632781)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Romolus et Remus ***
Capitolo 2: *** Regis iusta est ***
Capitolo 3: *** Magnis merger ***
Capitolo 4: *** Pestilentia et bellum ***
Capitolo 5: *** Expansionem et republicae ***
Capitolo 6: *** Primus cladis ***
Capitolo 7: *** Finis autem primum ***
Capitolo 8: *** Municipiis et seditionem ***
Capitolo 9: *** Damnatio memoriae ***
Capitolo 10: *** Instabilitatem consilium ***
Capitolo 11: *** Frustra conari ***
Capitolo 12: *** Viae et reperiantur ***
Capitolo 13: *** Devotio pro diis ***
Capitolo 14: *** Finis autem secundum ***
Capitolo 15: *** Res expectatur ***
Capitolo 16: *** Qui est principium, valde expandi ***
Capitolo 17: *** Maximus industrias ***
Capitolo 18: *** Inopinatum lucra ***
Capitolo 19: *** Colonias et exercitum novus ***
Capitolo 20: *** In pontumque moueri ***
Capitolo 21: *** Finis autem tertium ***
Capitolo 22: *** De legibus humanis iuribus ***
Capitolo 23: *** Digae et salinas ***
Capitolo 24: *** EXTRA - Biografie ***
Capitolo 25: *** Arx quoque et in antris ***
Capitolo 26: *** Magnis rebus ***
Capitolo 27: *** Therraemotus ***
Capitolo 28: *** Finis autem quartum ***
Capitolo 29: *** EXTRA - Roma all'estero nel VI secolo a.C. ***
Capitolo 30: *** Recuperatione ***
Capitolo 31: *** Major reformat ***
Capitolo 32: *** Muri mole et mysterious mortes ***
Capitolo 33: *** Melinie ***
Capitolo 1 *** Romolus et Remus ***
Era
una notte uggiosa, quella del 24 marzo del 771 a.C.
(anno 18 Pre-Romae).
Più che uggiosa, infuriava un vero e proprio temporale, di
come non se ne erano
mai visti ad Alba Longa, e forse in tutta la Lega Latina. E mentre
tuoni e
fulmini imperversavano nel cielo, negli appartamenti del Palazzo Reale
della
città la principessa Rea Silvia stava partorendo. Dopo oltre
tre ore di
contrazioni finalmente il nascituro si decise a venire al mondo. O
meglio, i
nascituri. Re Proca poteva ora vantare di essere bisnonno. Alcuni
interpretarono la nascita dei due durante quella tempesta come un segno
divino,
anche se nessuno, nemmeno gli aruspici più esperti seppero
dare giudizi
concordanti fra loro. Alcuni sostenevano che era segno che in futuro i
gemelli
avrebbero fatto qualcosa di strabiliante, mentre altri credevano che
sarebbero
stati causa di sventure e di grandi catastrofi. E nell'ombra qualcuno
cercava
di dare credito a queste ultime dicerie.
La
famiglia reale di Alba Longa era abbastanza numerosa, e la successione
era
assicurata. Al tempo della nascita dei gemelli regnava Proca. Egli
aveva due
figli, Numitore e Amulio. Amulio era celibe, mentre Numitore aveva
cinque
figli, quattro maschi e una femmina, Rea Silvia. A parte Rea Silvia,
sposata
con Marente, un uomo proveniente da Gabii,
tutti gli altri figli di Numitore erano celibi, ma non se ne
preoccupavano
perché erano ancora giovani.
Re
Proca era piuttosto tranquillo, ed era un re buono e generoso. Numitore
era di
indole simile al padre, mentre Amulio pareva appartenesse ad un'altra
famiglia.
Era irruento, facile all'ira, ma soprattutto ambizioso. Con la nascita
dei due
gemelli era scivolato al decimo posto in linea di successione, e questo
proprio
non gli andava giù. Così, quando sorsero le prime
malelingue attorno alle reali
nascite, Amulio le sostenne e gli diede segretamente credito, nella
speranza che
il popolo si ribellasse per rovesciare Proca; in tal caso si sarebbe
schierato
dalla parte del popolino e una volta spodestato il legittimo re sarebbe
salito
lui al trono.
Purtroppo
(o per fortuna) ciò non si verificò, ed Amulio,
più furioso che mai, pensava di
usare metodi più "diretti" per ottenere ciò che
voleva. L'occasione
giusta si presentò quando Proca, la cui gotta non era un
mistero per nessuno,
morì poco tempo dopo il lieto evento. Con un rapido colpo di
mano fece arrestare
Numitore, Rea Silvia e i gemelli. I figli maschi di Numitore e il
marito di Rea
Silvia opposero resistenza, e per questo furono uccisi tutti.
All'inizio Amulio
non sapeva che farsene dei prigionieri, ma dopo che un indovino gli
predisse
che i gemelli l'avrebbero spodestato e ucciso una volta diventati
adulti, non
ebbe più dubbi. Per prima cosa esiliò Numitore,
che trovò rifugio a Caere, in
Etruria, molto lontano da Alba Longa. Fece poi annegare Rea Silvia nel
Tevere.
Inizialmente per lei aveva pensato di relegarla nell'ordine delle
Vestali, ma
non essendo la donna più vergine ciò non era
possibile.
Lo
stesso destino sarebbe toccato anche ai gemelli, ma il servo incaricato
di
affogarli non ne ebbe il coraggio, ma sapeva che se non l'avesse fatto
sarebbe
stato ucciso egli stesso. Così confiscò una
cesta, vi depose i neonati, li
lasciò alla deriva e se ne andò, sperando che si
ribaltasse e che i bambini
affogassero.
Cosa
che non accadde. Dopo non molto, la cesta si arenò ai
margini della palude del
Velabro. I vagiti dei gemelli attirarono sul posto il pastore Fausto,
che stava
facendo pascolate le pecore. Egli, impietosito e timoroso che i lupi
presenti
in zona venissero a reclamare la carne dei bambini, li raccolse e li
condusse a
casa sua, ad alcuni chilometri ad est del fiume.
Fausto
abitava con la moglie, Acca Larenzia. La notizia della strage della
famiglia reale
di Alba Longa era arrivata fino a Veio, e i pastori capirono subito che
i
gemelli erano i nipoti di Numitore. Non li vollero consegnare ad
Amulio, prima
di tutto perché non potevano sopportare l'idea dei bambini
uccisi, e anche a
causa della tirannia di egli, con la quale si era inimicato molti. Su
pressione
della moglie, Fausto decise di adottare i bambini, con la speranza che
crescendoli un giorno avrebbero riconquistato il loro trono.
Fu
proprio Acca Larenzia a trovare i nomi ai bambini, che fino ad allora
non ne
avevano ricevuti. Uno venne chiamato Romolo, in onore di uno dei
fratelli di
Rea Silvia; l'altro Remo, per ricordare il condottiero italico ucciso
da Niso
nella sua incursione notturna assieme ad Eurialo nel campo dei rutuli
durante
la guerra contro Enea.
Note dell'autore
Salve, vi ringrazio per essere passati. Questa storia mi è
stata inspirata da "Cos'è questa follia?" di Napoleon53 e
tradotta in italiano da John Spangler, che trovate qui sul sito e che
vi consiglio di leggere. Non ve la linko perché l'ultima
volta che ho linkato qualcosa su EFP non ci sono state belle
conseguenze (per me), per cui ve la dovete cercare da soli.
Comunque, ho sempre desiderato plasmare il mondo a mio piacimento, e
quale modo migliore per farlo se non immedesimandosi nei romani? Lo so,
il mio latino lascia alquanto a desiderare, ma se siete esperti (o
avete parecchio tempo libero) siete autorizzati a dirmi titoli e
termini più corretti grammaticalmente.
Grazie dell'attenzione,
A_e
|
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Capitolo 2 *** Regis iusta est ***
L'infanzia
e la giovinezza di Romolo e Remo trascorsero abbastanza tranquille,
senza
particolari episodi o avvenimenti. Fausto e sua moglie decisero di non
rivelare
ai due la verità sulle loro origini. Romolo infatti aveva
sviluppato un
carattere fiero, guerriero e iracondo, simile al prozio Amulio ma non
ambizioso
come lui. Remo invece era più calmo, riflessivo e
controllato, ma tendeva a
seguire il fratello, che era molto carismatico. I pastori sapevano che
se i due
giovani avessero saputo la verità avrebbero cercato subito
vendetta, fallendo
sicuramente.
Solo
quando ebbero compiuto sedici anni e raggiunto la maggiore
età ai gemelli venne
svelato tutto. Esattamente come avevano previsto Fausto e Acca Larenzia
i due cercarono
subito vendetta, ma i tutori gli consigliarono di studiare prima un
piano. E
così fecero.
Per
prima cosa i gemelli si recarono a Caere,
trovarono Numitore e si fecero riconoscere da lui come suoi
discendenti. Con
lui si recarono poi a Bovillae, una
piccola città allora in guerra con Alba Longa, dove Numitore
e Remo si
guadagnarono un posto di rispetto nel piccolo esercito cittadino.
Assieme
condussero un contingente di cinquecento uomini sulle rive del lago di
Albano,
dove riuscirono a respingere un esercito grosso più del
doppio comandato da
Amulio in una battaglia che durò oltre due giorni (755 a.C.).
Nel
frattempo Romolo si era recato in incognito ad Alba Longa, dove il
malcontento
era altissimo, e grazie al suo carisma non faticò a
fomentare una rivolta che
praticamente non trovò opposizione, tanto era odiato Amulio.
Egli, di ritorno
dopo la sconfitta subita, venne ucciso sotto le mura della
città da una freccia
che gli trafisse il collo. Alcuni sostengono che sia stato Romolo
stesso a
scagliarla, ma tale teoria è ritenuta piuttosto improbabile,
visto che era un
pessimo arciere.
Romolo
e Remo, una volta ricongiuntisi, rimisero sul trono il nonno, e presero
residenza alla loro città natale. Ma i due non erano ancora
soddisfatti, perché
Numitore, nonostante fosse abbastanza in avanti con l'età,
era sano come un
pesce e ancora ben lontano dalla sua dipartita. I due decisero di
fondare una
nuova città e di divenirne sovrani.
Con
la benedizione del nonno, i due partirono da Alba Longa agli inizi del 753 a.C.,
e si diressero a
nord. Assieme a loro c'erano settecento abitanti di Alba Longa,
centoventi di Bovillae, e un altro
centinaio
proveniente dal resto della Lega Latina. Si aggiunsero poi un centinaio
di
greci originari di Corinto, guidati da Cartocrate. Essi avevano le
stesse
intenzioni dei gemelli, e si accordarono per fondare assieme la
città.
A
quei tempi l'area compresa tra i Colli Albani e il Tevere, nonostante
fosse
quasi tutta formata da una fertile pianura, era poco abitata, per cui
si decise
che la città dovesse essere fondata lì. I gemelli
non fecero fatica a decidere
il luogo esatto: c'era infatti un gruppo di colli solitari che si
innalzavano
sulle rive del Tevere, circa a circa cinque chilometri a sud di Fidene,
da cui
si poteva dominare l'intera pianura.
Una
volta arrivati lì, nacquero delle vicissitudini sul luogo
esatto dove porre la
prima pietra. Romolo voleva chiamare la città Roma
e costruirla sul colle Palatino, posto in una posizione
centrale rispetto alle altre alture. Egli voleva fare così
anche perché erano
già presenti le fondamenta, resti dell'antica
città di Pallante, andata
distrutta dopo una sfortunata guerra contro Veio un paio di secoli
prima. Remo
invece voleva chiamarla Remora e
fondarla sul colle Aventino. Le vicissitudini presto si trasformarono
in
discordia, anche perché Cartocrate aveva un parere ancora
diverso, ovvero di
chiamarla Ramina e di fondarla sul
Campidoglio, anche perché da lì si poteva
controllare il guado dell'isola
Tiberina.
Per
evitare scontri si giunse allora ad un compromesso: i tre sarebbero
andati sui
colli da loro designati e avrebbero atteso un segno degli dei.
Così Romolo salì
sulla cima del Palatino, Remo su quella dell'Aventino e Cartocrate su
quella
del Campidoglio.
Dopo
alcune ore Remo scorse uno stormo di sei avvoltoi, e lo
interpretò come il
segno atteso. Si diresse subito dal resto del gruppo, trovando
Cartocrate che
aveva rinunciato, e quando ormai la notizia era ufficiale Romolo scorse
uno
stormo di dodici avvoltoi.
La
tensione era alle stelle. Romolo sosteneva che era il numero degli
uccelli
quello che contava davvero, mentre per Remo era il tempo il fattore
fondamentale. Cartocrate rimase neutrale. Scoppiarono dei piccoli
tafferugli
tra i rispettivi sostenitori, che divennero prima una rissa e poi una
battaglia
vera e propria, dove Remo rimase ucciso.
Romolo,
nonostante fosse addolorato per la perdita del fratello, decise di
seguire le
proprie intenzioni, così per prima cosa tracciò
il pomerium, ovvero il limite sacro
della città dove sarebbero sorte
le mura e all'interno del quale non si potevano portare armi. I primi
edifici
vennero costruiti sulle rovine della città di Pallante.
Oltre alle abitazioni e
alle mura, sorse anche un altare a Giove Zelante (storpiatura latina di
Zeus,
nome greco del padre degli dei).
Si
celebrarono dei giochi funebri in onore di Remo (vinti da Orante,
cognato di
Cartocrate), e una volta terminati, Romolo si rivolse ai suoi seguaci
per
eleggere colui che avrebbe comandato sulla città. Essi
(greci e Cartocrate
compresi) risposero che Romolo doveva essere il re, e così
fu.
Note dell'autore
Grazie di nuovo per essere passati. Allora, da qui comincia tutto. E
già dal prossimo capitolo si mostrerà l'indole
guerriera di Roma.
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Capitolo 3 *** Magnis merger ***
Una
volta che Romolo ebbe consolidato la sua posizione si recò
da solo in Etruria
per consultare degli esperti di leggi. Tornò alla fine del 753 a.C.,
e cominciò a
pianificare il futuro della città. La neonata Roma contava a
quel tempo poco
più di un migliaio di abitanti, e il suo re era intenzionato
a far sì che ci
fosse una rapida crescita demografica. Dichiarò allora che
chiunque si fosse
stabilito a Roma entro due anni era dichiarato cittadino e poteva
entrare a far
parte della società romana, che all'inizio era piuttosto
egualitaria. Romolo
infatti, pur essendo re, era considerato un primus
inter pares ricalcando il modello greco.
Egli
pose un limite di tempo a ciò (due anni), al cui termine,
nel 751
a.C., la città poteva
vantare circa quattromila abitanti, provenienti dalle più
svariate culture
(erano per la maggioranza latini ed etruschi, ma non mancavano greci,
sanniti,
celti ed altre popolazioni italiche).
Il
primo nemico che Roma si trovò ad affrontare non fu
né una città, né un popolo,
né nient'altro con cui avrebbe avuto a che fare in futuro.
Gli inverni tra il
753 e il 751 furono molto rigidi, soprattutto nelle zone montane degli
Appennini. La maggior parte degli animali predati morì a
causa del freddo, e
ciò determinò un cambiamento delle zone di caccia
dei lupi, che a quei tempi
erano molto numerosi. Molti branchi si spostarono infatti nella pianura
e nelle
foreste laziali. Dopo essere transitati per i territori degli Equi, i
lupi
prima devastarono gli allevamenti e i raccolti attorno a Gabii,
per poi spostarsi ulteriormente ad ovest, stanziandosi nelle
foreste a sud-est di Roma.
Nel
751 cominciarono i primi avvistamenti di imponenti branchi di fiere da
parte di
alcuni cittadini romani. L'anno seguente il comportamento dei lupi si
fece più
aggressivo, tanto che oltre agli attacchi alle greggi e agli
allevamenti si
ebbero anche alcuni morti.
Il
territorio di Roma era ancora molto piccolo, e non aveva risorse per
sopravvivere oltre all'allevamento e all'agricoltura (anche molti campi
vennero
devastati), per cui i romani ricorsero a soluzioni drastiche. Il 750,
il 749 e
parte del 748 vennero interamente impiegati per scovare ed uccidere
tutti i
branchi di belve. Romolo stesso partecipò attivamente a tale
caccia, tanto che
si dice abbia ucciso da solo un centinaio di bestie. Fondamentale fu il
contributo della città di Tellenae,
che risentiva anch'essa dei danni dei lupi. Ai romani vennero fornite
dai
tellenensi cani da caccia, guide per i boschi, archi ed altri mezzi
utili per
portare a termine la caccia.
Alla
fine del 748 i lupi capitolini (come vennero chiamati in seguito) si
potevano
considerare estinti, e per celebrare tale evento Romolo
adottò tale animale
come simbolo della città. Una statua raffigurante un lupo di
bronzo fu eretta
sulla cima dell'Aventino, mentre sul Palatino, al posto dell'altare a
Giove
Zelante ne venne eretto uno a Giove Capitolino, che in seguito crebbe
fino a
diventare un vero e proprio tempio.
Conclusasi
la caccia ai lupi, i rapporti fra Roma e Tellenae
si erano intensificati molto. Romolo era diventato molto amico del re
della
città, Gresilio, tanto che ne sposò la figlia
Ersilia, e cominciarono i primi
scambi commerciali romani con relativa affluenza di mercanti. Nel 747 a.C.
l'amicizia tra Roma
e Tellenae si trasformò in una vera e propria alleanza,
culminata l'anno dopo
nell'annessione della città al territorio romano alla morte
di Gresilio. La
maggior parte degli abitanti si trasferì a Roma, mentre
circa centocinquanta vi
rimasero, ai quali si aggiunsero un altro centinaio di cittadini
romani. Tellenae divenne
ufficialmente la prima
colonia romana.
Nonostante
la fusione con i tellenensi, la popolazione femminile rimaneva
piuttosto bassa.
Per ovviare a ciò, Romolo propose alla città di Antemnae, posta alla confluenza dei fiumi
Aniene e Tevere, di fare
la stessa cosa che aveva fatto Tellenae.
Il re di Antemnae, Tito Tazio,
rifiutò sdegnosamente. Roma era malvista dopo l'assorbimento
di Tellenae da tutti i paesi
limitrofi,
compresa Alba Longa, dove Numitore era deceduto nel 748 a.C.
per cause naturali.
Allora
Romolo decise di fondersi con gli Antemnati con la forza. Si ebbe una
cruenta
battaglia sotto le mura di Antemnae,
che vide vittorioso per poco Romolo. Egli integrò a Roma sia
le donne che gli
uomini di Antemnae, e fece di essa
la
sua seconda colonia. In battaglia Romolo aveva combattuto di persona
contro
Tito Tazio, e riconoscendone il valore gli aveva proposto di regnare
assieme a
lui. Era il 743
a.C.,
e già dieci anni erano passati dalla fondazione dell'Urbe.
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Capitolo 4 *** Pestilentia et bellum ***
Gli
anni tra il 743 e il 739 a.C.
passarono tranquillamente e abbastanza velocemente. Romolo ed Ersilia
ebbero un
figlio, Ersilio, e la co-reggenza con Tito Tazio procedeva bene.
Purtroppo
c'era una pecca in tutto ciò.
Tito
Tazio, nonostante fosse molto esperto di combattimento e un capo
carismatico,
era abbastanza sgradevole come persona. Romolo presto si
pentì della sua
decisione, ma credette che per il momento fosse meglio non fare nulla,
in
quanto non poteva minimamente competere con lui.
L'occasione
si presentò nel 738 a.C.,
quando alcuni antemnati in una
rissa
uccisero un mercante di Laurentum
venuto a Roma per commerciare, in quanto accusato di vendere merci
difettose. Allora
i suoi connazionali fecero appello al diritto delle genti, una legge
simile a
quella del taglione. Tito Tazio, invece di applicare le leggi come di
dovere,
favorì i suoi connazionali e anzi
scacciò
dalla città tutti gli abitanti di Laurentum.
L'anno
successivo una virulenta epidemia colpì Roma, probabilmente
portata da qualche
città della Lega Latina che ne stava soffrendo, come Alba
Longa, Gabii oppure Labicum.
Circa un sesto degli abitanti della città morirono,
compreso Tito Tazio. Molti considerarono ciò come un castigo
divino. Romolo dal
canto suo non diete discredito a queste voci, anzi.
Laurentum, desiderosa di vendetta per il
trattamento subito,
vide un'opportunità da non lasciarsi scappare, si
alleò con la città di Fidenae
e marciò contro l'Urbe. I
fidenati attaccarono e saccheggiarono Antemane,
mentre l'esercito romano comandato da Romolo riuscì non
senza difficoltà a
sconfiggere i laurentini presso Tellenae.
Mentre
Romolo era ancora impegnato a combattere, un secondo esercito Romano al
comando
del generale Aulo Atrio sbaragliò i fidenati presso i campi
di Caractae (735 a.C.),
facendogli
guadagnare così il soprannome di Caractoro.
***
- Mi
scusi?
Matteo
Umbrio Senna interruppe la sua spiegazione.
-
Sì, Sesto?
-
Non capisco, di norma i tempi più antichi della storia
dell'Urbe vengono
considerati anche quelli più oscuri, allora come mai lei ci
sta spiegando con
tutta sicurezza queste cose qui?
-
In effetti la tua domanda non è priva di senso. Allora
apriamo una piccola
parentesi. Dovete sapere che il figlio di Romolo, Ersilio, fece
iniziare a
tenere gli Annales, di cui
purtroppo
solo questi pochi frammenti sono pervenuti fino a noi.
- E
li chiama anche pochi - borbottò tra sé e
sé Sesto Modio Tulla.
-
Hai detto qualcosa?
-
Nulla, magister.
-
Bene, allora credo che possiamo proseguire con la spiegazione.
***
Caractoro,
una volta sconfitti i fidenati, prima riconquistò Antemnae e poi si preparò a
marciare verso Fidenae, ma un
fulmine che colpì e uccise un suo soldato lo
convinse a lasciar perdere dopo che un augure l'aveva interpretato come
un
segno infausto.
Vennero
stipulate due paci separate con entrambe le città, e per il
momento vi fu la
pace. Ma i romani non dimenticarono il saccheggio di Antemnae.
Note dell'autore
Ringrazio molto Capricornus per essere passata a recensire e
AleGritti92 e Aurelianus (scelta peculiare?) per aver messo la storia
tra le seguite e nel caso del primo anche tra le preferite. Ringrazio
ancora Capricornus per avermi dato l'idea del maestro che spiega agli
alunni.
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Capitolo 5 *** Expansionem et republicae ***
A
Roma ci vollero alcuni anni per riprendersi dalla pestilenza e dalla
guerra
contro le altre città laziali. Il numero degli abitanti era
diminuito molto,
per cui nel 733
a.C.
Romolo stabilì che prima che la città dovesse
condurre una nuova guerra,
sarebbe passata almeno una generazione. I romani rispettavano molto
Romolo, e
così fu.
Il
resto del regno di Romolo passò abbastanza in sordina,
durante il quale Roma
crebbe di nuovo, e anzi, acquisì nuovo potere. Nel 718 a.C.
venne infatti
fondala la mitica Prima Legione (Legio I
Lupus), di cui l'anziano Aulo Caractoro ne divenne primo
comandante. Dalle
imprese che avrebbe compiuto in futuro il corpo d'armata il modo di
dire "avere il comando della Prima Legione"
sarebbe diventato sinonimo di conquistare fama e gloria.
Nel
716
a.C.
Romolo si spense, e nessuno ebbe nulla in contrario quando gli
succedette il
figlio Ersilio. Fin da subito egli si dimostrò un re calmo,
controllato e
saggio. Fece subito iniziare a tenere gli Annales,
dove annotò tutti gli eventi accaduti durante il regno del
padre, e dove iniziò
a far contare gli anni nel metodo ancora oggi usato (Ab
urbe condita, nominativo attribuito all'antico scrittore
Massimo
Laberio Proceo, di cui purtroppo sono pervenuti solo pochi frammenti).
Nel
712
a.C.
fece inoltre compiere il primo censimento (censori Nono Ninnio Galera e
Anco
Quintizio Tucciano), dal quale risultò che la popolazione
romana totale
ammontava a circa ventimila abitanti.
Nel
708 terminò la generazione di pace stabilita da Romolo, ma
la tranquillità durò
ben oltre il tempo stabilito, fino alla fine del regno di Ersilio. Un
decimo di
queste persone faceva inoltre parte della Legio
I, per
cui a quei tempi, nonostante
fosse un periodo di pace, lo Stato Romano era molto ben difeso. Ebbe
infatti
modo di estendere i propri confini a sud scendendo lungo il Tevere,
fondando
anche la colonia di Vitinia
(chiamata
così a causa dei tanti campi di vite, importata decenni
prima da Cartocrate).
Inoltre
ad Ersilio è attribuita anche la fondazione del Senato, che
all'inizio contava
cinquanta membri scelti tra le famiglie più illustri della
città, che avevano
il compito di consigliare il re nelle sue decisioni.
Ersilio
sposò una donna romana, Atria Priscilla, figlia di Aulo
Caractoro, ed ebbe un
figlio, Avilio, che gli successe nella carica di re quando
morì, nel 685 a.C.
Avilio
fin da subito mostrò di avere un carattere aggressivo e
feroce, simile a quello
di Amulio. Per prima cosa, volendo a tutti i costi estendere il
territorio
romano, fece un'alleanza con la città di Collatia,
allora in guerra con Caenina,
conquistando ed annettendo la maggior parte dei territori di
quest'ultima. Per
celebrare ciò nel 681 a.C.
venne celebrato il primo trionfo della storia romana, tutto dedicato ad
Avilio
e riportato anche negli Annales.
In
seguito si espanse nelle pianure sia a sud che ad est, facendo
cominciare a
preoccupare le città latine. In particolare Gabii
e Tusculum erano molto guardinghe
nel
trattare con l'Urbe, in quanto erano sicure di essere le loro prossime
prede
(ma si sbagliavano). Stabilirono allora un'alleanza con Fidenae
(che continuava ancora a tramare contro Roma) e mossero
all'unisono i loro eserciti.
Mentre
l'esercito collatino (Collatia era
ancora alleata di Roma) bloccava quello latino a Caenina,
Avilio inflisse una dura sconfitta ai fidenati nella
battaglia del Cremera (676 a.C.),
ed era sul punto di conquistare la città quando venne
stroncato da
un'improvvisa quanto sospetta malattia. E' anche doveroso precisare che
a quel
tempo le acque del fiume Cremera erano piuttosto malsane e invivibili,
ma era
altrettanto risaputo della salute di ferro del re, e ciò
lascia sempre dei
dubbi sull'effettiva letalità della sua malattia.
La
sua morte inizialmente lasciò nello scompiglio i romani.
Senza la sua guida
molti generali optarono per la ritirata a Roma, e in effetti
così fu. I
fidenati, credendo che i nemici si fossero arresi, misero insieme un
secondo
esercito e marciarono contro Roma.
Le
vere intenzioni dei romani però erano ben altre. Lasciarono
aperte le porte della
città, facendo credere ai nemici di averla abbandonata, e
una volta che il
grosso dell'esercito fu entrato per le strette vie della
città venne assalito e
decimato dalle truppe romane nascoste nelle case. Chi provò
a scappare venne
subito intercettato da un secondo esercito romano che era rimasto
nascosto in
una pineta poco distante. La vittoria romana fu schiacciante, e anche Fidenae cadde sotto il dominio romano.
L'artefice
di questa brillante vittoria, Spurio Pollio Bibacolo, era un
ex-generale di Avilio
molto scaltro e ambizioso, quindi colse l'occasione per mettersi a capo
della
città. Non si fece però proclamare re, ma,
assieme al generale che aveva
intercettato i fuggitivi fidenati Mamerco Flavio Vepgeno, si fece
nominare console.
Roma così da regno passò a repubblica. Era il 673 a.C.
Bibacolo
però non aveva intenzione di restare console a lungo.
Infatti era afflitto da
una grave malattia (interpretata come tachicardia) che lo costrinse a
lasciare
la carica l'anno dopo assieme a Vepgeno che sul modello greco
proclamò le
libere elezioni per la carica di console.
Note dell'autore
Ringrazio Triz per aver messo la storia tra le seguite, e
mio caro Aurelianus spero che questo capitolo sia di tuo gradimento,
visto che su tua richiesta ho fatto passare ben sessant'anni in una
botta sola.
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Capitolo 6 *** Primus cladis ***
Dopo
il ritiro di Bibacolo e Vepgeno la situazione politica della
città divenne
piuttosto confusa. E' interessante un manoscritto redatto dall'addetto
agli Annales Stazio Marziale, non
incluso in
essi per ovvi motivi.
La
città era nel caos più totale. Ad ogni
angolo girato saltava fuori un candidato per la carica di console, e
non si
poteva fare due passi senza essere tediati da essi. Allora mi sono
profondamente vergognato di essere un cittadino romano. La
città era invasa da
scritte sui muri [fino a circa il IX
secolo d.C. a Roma si usava fare propaganda politica scrivendo sui muri
della
città]. Mi sarei tolto la vita
piuttosto
che ridurmi ad un tale comportamento.
Roma
era frammentata, tanto che si arrivarono a contare settantaquattro
candidati.
Allora, con un veloce colpo di mano, i nobili Consenzio Asina e Lucio
Erennio
Ventore presero il poter. A causa della frammentazione dei romani
praticamente
non trovarono resistenza. Non vollero però abolire la
repubblica, e anzi si
fecero proclamare loro stessi senatori.
Nonostante
le proteste iniziali, i cittadini romani si abituarono bene al
consolato dei
due. Asina e Ventore fecero promulgare la lex
Asinia e la lex Ventoria.
La
prima stabiliva che i candidati al consolato dovessero essere dei
senatori ed
avere alle spalle almeno venti anni di presenza al senato, mentre la
seconda
stabiliva il costante ricambio generazionale, imponendo il divieto
della
rielezione alla carica di console. Fu soprattutto quest'ultima legge a
contribuire alla buona riuscita della repubblica. La cosa particolare
è che
nessuna delle due venne messa per iscritto prima del IV secolo a.C.
Allo
scadere del mandato, nel 671 a.C.,
i due lasciarono le loro cariche e al loro posto salirono al potere
Postumio
Pesenzio Labieno e Gaio Assio Tremera, i vincitori delle prime libere
elezioni
romane, e forse della storia. La cosa che sorprese fu la salita al
potere di
Tremera. Egli possedeva vari poderi adiacenti al fiume Cremera, e
all'inizio
era quello il suo terzo nome, ma a causa dei tremori cronici di cui
soffriva
venne ribattezzato Tremera. Il suo consolato fu abbastanza anonimo,
mentre le
imprese che compì negli anni seguenti furono degne di nota.
A
Tremera si deve anche il brevetto della prima merce di scambio romana,
l'Aes rude, ovvero dei pezzi di
ferro
(all'inizio, e successivamente di bronzo) che fungevano come moneta a
quell'epoca. L'Aes rude
venne usato fino al secolo
successivo, quando venne sostituito dall'Aes
grave.
I
quarti a ricoprire la carica di consoli furono Aulo Secondo Vibio e
Quinto
Atrio Mordantico (discendente di Aulo Caractoro). Essi espansero il
territorio
romano verso sud ai danni di Tusculum,
la quale non reagì memore della sconfitta di pochi anni
prima (nonostante non
fossero stati i romani a fermare il suo esercito).
I
quinti, Tito Lucio Clemente e Vopisco Rabirio Primo, continuarono
l'opera dei
loro predecessori, scatenando però una reazione della
città latina. Nella
battaglia dei Campi di Vergata (669 a.C.)
l'esercito romano
subì la prima sconfitta della sua storia, ed anche il
console Tito Clemente
rimase ucciso.
I
tusculani, incoraggiati dalla vittoria, rincorsero l'esercito romano in
rotta,
puntando direttamente verso Roma. E fu questo il loro errore. Tremera,
che si
trovava allora a Caenina,
organizzò
rapidamente un nuovo corpo militare e si diresse verso la capitale.
Mentre le
forze di Tusculum assediavano la città Tremera le colse da
dietro, e anche con
l'aiuto della milizia cittadina che era nel frattempo uscita dalle
mura, Roma
capovolse la situazione.
Grazie
a Tremrera l'Urbe fu capace di estendere ulteriormente il proprio
dominio a
danni di Tusculum, di cui
incorporò
la maggio parte dei dominii. Venne anche fondata una colonia nelle
nuove terre,
proprio dove i romani erano stati sconfitti, Vergata
(nel V secolo d.C., quando le popolazioni barbare
provenienti da nord si insediarono nel centro Italia, a Vergata venne
eretto un
tor, tipica fortezza di quelle genti, ed allora da quel momento la
cittadina è
nota come Tor Vergata).
A
Tremera venne offerto il consolato dell'anno dopo, ma attenendosi alla lex Ventoria rifiutò.
Note dell'autore
Volevi una sconfitta? Eccoti accontentato, AleGritti92. Ringrazio anche
Capricornus per aver fatto la stalker come suo solito.
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Capitolo 7 *** Finis autem primum ***
Era
scesa la sera, e sul terrazzo della scuola superiore "Aulo Caractoro"
stava un uomo intento a fumare, appoggiato ad una ringhiera e con la
faccia
rivolta verso le montagne lontane. Il suo sguardo si era perso tra
quelle
catene montuose, debolmente illuminate dalle luci della
città. Il suo sguardo
si era perso in quei fitti boschi, che a quell'ora parevano
impenetrabili nella
loro compattezza e nella loro oscurità. Ma in
realtà l'uomo non stava davvero
prestando attenzione a ciò.
Matteo
Umbrio Senna stava pensando. Stava pensando al proprio cognome,
"Senna". Per la precisione stava pensando come se l'era procurato.
Lui da piccolo abitava a Lutezia, in una casa sulle rive del fiume che
attraversava la città. E una volta c'era quasi affogato, in
quel fiume. Era per
questo che fin da piccolo l'avevano sempre e solo chiamato Senna. Mai
Submerso
o Supersto, ad indicare che era ancora vivo, ma Senna. Da giovane
odiava quel
nominativo, ma col passare degli anni ci aveva fatto l'abitudine, anzi,
adesso
ringraziava Dio per il fatto che ce l'avesse. "Matteo Umbrio
Submerso" sarebbe stato proprio un nome orribile, e nonostante
"Matteo Umbrio Supersto" avesse il suo fascino, aveva preferito
tenersi il cognome originale.
Tirò
una boccata alla sigaretta. Venne però interrotto da una
voce alle sue spalle.
-
Sai che non si può fumare, vero?
Opitero
Ebuzio Onorato si appoggiò anch'esso alla ringhiera.
-
Zitto e fuma - rispose l'altro, porgendogli la sigaretta. L'altro
sorrise, la
prese e tirò un paio di boccate, osservando il fumo che si
disperdeva
nell'aria.
-
Non ti deprime?
-
Che cosa? - chiese stupito Senna.
-
Il corso che tieni. Le ripetizioni sono sempre terribili. Io
personalmente non
ho mai tenuto un corso del genere, e non ci tengo per niente.
-
Tu sei tu, io sono io. Sai almeno perché lo faccio?
-
No.
-
In primis perché a me piace la storia...
-
Questo si sapeva, non per niente sei il magister
di storia.
-
Secondo, ho problemi di soldi, per cui mi serve fare questo corso.
-
Ah, ora capisco. Ma sono sicuro che ci sia dell'altro, non è
cosi?
Matteo
si zittì per un secondo, poi continuò.
-
Ultimamente non ho nulla da fare il pomeriggio.
-
Davvero? Eppure non sembra.
-
Invece te lo assicuro.
-
Se lo dici tu. Bene, io vado, Antonia mi aspetta.
-
Ciao, a domani.
Onorato
spense la sigaretta sul davanzale e se ne andò. Senna
sospirò. Gli aveva
mentito sull'ultimo motivo. Aveva accettato di tenere quel corso anche
perché
era depresso. Non trovava un motivo per vivere, si era semplicemente
stancato
della sua esistenza. Pensieri suicidi avevano sfiorato la sua mente, ma
non li
aveva mai messi in atto.
L'unica
cosa che pensava lo potesse salvare era la storia. Era stato sempre un
grande
appassionato, bastava vedere la passione che ci metteva quando
spiegava. Fin
dai livelli più bassi di istruzione aveva sempre eccelso in
storia, ed era per
questo che adesso era diventato professore.
Poi
era solo. Non aveva nessuno che l'aspettasse a casa, nemmeno i
genitori, gli
amici oppure i vicini. Era completamente solo.
Sperava
vivamente che la sua passione gli potesse far tornare la
felicità. Matteo
Umbrio Senna rientrò dentro.
Note dell'autore
Oggi mi andava di approfondire la trama esterna. E poi voglio fare un
chiarimento sul cognome.
Per i nostri amici qui l'onomastica è così
strutturata: c'è un nome, un prenome e un cognome.
Il nome è quello normale, che può essere Marco,
Lucio, Aulo, Gaio, eccetera.
Il prenome è quello della gens, ovvero nel caso di Matteo
Senna è la gens
Umbria, che è originaria dell'omonima regione.
Il cognome invece inizialmente non è presente, ma
è aggiunto agli altri due per un evento che coinvolge il
portatore oppure per una sua impresa, ma può anche essere
tramandato di padre in figlio. Nel caso del nostro professore l'ho
già spiegato prima il motivo.
Spero che questa lezioncina vi sia servita. A presto!
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Capitolo 8 *** Municipiis et seditionem ***
Roma, nonostante la
vittoriosa guerra contro Tusculum,
era rimasta spossata dagli incessanti combattimenti e sia
l'economia che la demografia erano instabili. I sesti a ricoprire la
carica di
consoli, Numerio Giulio Catullo e Gaio Giunio Clodiano, presero esempio
da
Romolo e stabilirono una seconda generazione di pace per ripristinare
la
situazione ante-guerra.
I settimi, Gaio
Ponzio Meceno e Amulio Sepunio Venanzio,
continuarono l'opera dei loro predecessori, e gli ottavi (Nono Camillo
Terzio e
Pompeio Porco) ampliarono il senato da cinquanta a settantacinque
membri.
I noni (Nonio Lucio
Geniale e Publio Servilio Gracile) fecero
effettuare un censimento, gestito da Canidio Elerio e Opitero Papinio
Publiano,
dal quale risultò che la popolazione romana si aggirava
attorno ai trentamila
abitanti. I consoli e i censori stimarono che entro la fine della
generazione
il popolo sarebbe variato fino ad arrivare a circa quarantamila
abitanti. Cosa
che in effetti avvenne.
Sotto i decimi
consoli (Terzio Laberio e Quintilio Lutorio) i
confini romani vennero espansi verso ovest sfruttando l'assenza di
insediamenti
in quei pressi, anche se in maniera molto meno appariscente rispetto a
come
fecero Clemente e Primo. Venne fondata anche una colonia, battezzata Caractae per ricordare l'antico generale
(nel tempo Caractoro sviluppò un notevole culto della
personalità che nel I
secolo a.C. lo portò persino a venir elevato a
divinità. Ciò sfociò in un
conflitto tra i suoi fedeli e i repubblicani, che non avevano approvato
la
divinizzazione).
Gli undicesimi
consoli, Marcello Licinio Agricola e Gallo Liburnio
Ventore (Lucio Ventore era suo zio), decisero di fondare un'altra
colonia ad
est, ai limiti dei confini romani e all'inizio del Lazio, per tenere
sotto
osservazione i movimenti della Lega Latina. Tale città venne
ribattezzata
Bibacola, per commemorare l'omonimo ex-console, deceduto tre anni
prima. Le
campagne attorno a Bibacola erano molto fertili, e costituirono il
granaio
della repubblica finché non venne annessa la regione di
Siracusa.
I dodicesimi consoli
(Vibio Rutilio Catonio e Tito Azio Iuniano),
vista la crescente estensione del territorio romano, concepirono l'idea
di
dividerlo in municipi per facilitarne l'amministrazione. Iniziarono a
stilare
un disegno di legge, che venne completato dai loro successori (Gaio
Epidio
Critone e Vibio Visellio Dacieno) e che venne approvato dal senato.
Così, nel 660 a.C., i neo eletti
consoli Avidio Vegenzio e Mamerco Cesulenio Nennio annunciarono
l'istituzione
di otto municipi, uno per ogni città romana, ognuno dei
quali sarebbe stato
gestito da un municipale il quale sarebbe restato in carica per tre
anni. Quasi
tutti i municipali erano ex-consoli, o comunque senatori, e tutti
amministrarono bene il loro settore, tranne uno.
I quindicesimi
consoli, Decio Clelio Advento e Marcello Pontino
Velio, rafforzarono l'esercito, portando i soldati da duemila a
quattromila
unità e creando la seconda legione, la Legio
II Aprum.
Nel 658 a.C.
alcuni ateniesi arrivarono nel Lazio dopo aver sentito parlare di Roma,
e una
volta raggiunto il senato si dichiararono intenzionati a sottomettersi
alla
repubblica e a fondare una nuova colonia. I consoli Gaio Papirio Lucano
e Osto
Lucio Pittore concedettero il permesso per incrementare ulteriormente
la
popolazione, e poco tempo dopo venne istituita la città di
Avilio (con annesso
municipio).
I diciassettesimi a
salire al potere, Mamerco Umbrenio Nerva e
Proculo Iuventino Armigero, si trovarono ad affrontare una crisi non da
poco.
Quando quasi tre anni prima erano stati istituiti i municipi a quello
di Caractae era stato assegnato
come
municipale Pompeio Porco, chiamato così per il fatto che
mangiava tantissimo,
come se dentro di lui fossero presenti tre persone contemporaneamente.
Quando il suo mandato
stava per scadere emerse la corruzione che
aveva dominato la città e la violenza con cui aveva represso
tutte le proteste
contro di lui. Infatti nulla era trapelato a causa della mancanza di
vie di
comunicazione, e quando a Roma si venne a sapere i consoli destituirono
Pompeio
dalla carica. Il municipale non la prese bene, e si barricò
dentro Caractae dichiarandosi
indipendente da
Roma.
I suoi seguaci erano
comunque pochi, per cui bastò un contingente
di meno di cinquecento uomini comandato dal centurione Lucio Salonio
Rufrio per
riconquistare la città. Pompeio venne ucciso, il suo corpo
riportato a Roma ed
esposto durante il trionfo del centurione, promosso generale.
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Capitolo 9 *** Damnatio memoriae ***
L'anno
dopo, com'era da aspettarsi, salirono al consolato Rufrio e il suo
compagno
d'arme Placo Virio Cotta. I due uomini, Rufrio in particolare, avevano
acquisito molta popolarità dopo la morte di Pompeio Porco.
Si può dire che
tutto l'esercito aveva acquisito popolarità dopo
quell'episodio. Ciò vide una
salita vertiginosa delle reclute, che da poco meno quattromila che
erano
arrivarono ben preso a più di settemila, su una popolazione
di poco più di
trentacinque mila abitanti (cifra stimata senza censimento). E
ciò fece molta
paura sia ai politici esterni che a quelli interni all'esercito.
Proculo
Armigero (console 657 a.C.)
era un generale dell'esercito molto ambizioso, e stava cominciando a
temere la
popolarità di Rufrio e Cotta. Infatti i due, che fino a
prima dell'elezione
erano stati suoi uomini, ora stravano prendendo le distanze da lui, e
stavano
cominciando a prendere decisioni pericolose per l'ex-console. Con il
progetto
di rimpiazzare i due con altri suoi uomini (in rispetto della lex Ventoria), Armigero
organizzò una
congiura contro di loro.
Appena
due mesi dopo l'elezione, Rufrio e Cotta presentarono al senato un
piano di
ridimensionamento totale dell'esercito, e ciò fece pensare
ad Armigero che era
il momento di agire. Il 6 marzo del 656 a.C.,
sull'entrata del senato, Rufrio e
Cotta vennero assaliti da una decina di congiurati. Cotta venne
pugnalato a
morte, mentre Rufrio riuscì a fuggire rifugiandosi nella
sala delle udienze del
palazzo.
La
notizia della morte dei consoli (vera a metà) si sparse a
macchia d'olio nella
repubblica, e nel giro di una settimana si seppe in ogni angolo del
territorio
romano. Armigero prese con un rapido colpo di mano il potere,
nell'errata
convinzione di aver fatto fuori anche Rufrio, tutt'altro che morto e
nascosto nei
bassifondi della città.
Appena
tre settimane dopo una rivolta popolare cappeggiata dal console
rovesciò
Armigero, che venne catturato e ucciso attraverso crocefissione. Fu il
primo
uomo in assoluto ad essere ucciso in tale modo. Anche l'esercito
subì una
profonda epurazione al fine di scovare tutti i sostenitori
dell'ex-console.
Proculo Armigero fu in assoluto il primo romano a subire la damnatio memoriae, tanto che il suo nome
fu per fino cancellato dagli Annales
in un primo momento, anche se fu fatto recuperare una cinquantina
d'anni dopo.
Come disse Rufrio dopo la morte dell'usurpatore: - Chi uccide un romano
non ha
il diritto di vivere, chi uccide un console non ha il diritto di
esistere.
Poco
dopo, non potendo governare da solo, Rufrio elesse a secondo console
Nono
Qiunzio, facendolo di fatto il primo suffectum
della storia romana. Con la promulgazione della lex
Quinzia infatti si dispose infatti che se un console fosse
morto durante la carica potesse essere sostituito da un altro uomo
dello stesso
suo partito. Invece con la lex Rufria si
istituì che chi avesse ucciso un console fosse punibile con
la pena di morte.
Il corpo di Placo Cotta, inizialmente buttato in un fosso dai suoi
nemici,
venne recuperato e tumulato con tutti gli onori, forse nell'Esquilino
(non si
sa con esattezza dove, negli Annales
viene solo accennato che Cotta venne sepolto in uno dei sette colli).
L'anno
dopo però sorse un piccolo problema: Quinzio infatti si
ricandidò al consolato,
sostenendo infatti che non avendo occupato tutto il tempo dell'incarico
poteva
prendervi parte una seconda ed ultima volta. Ciò venne
approvato (anche se tra
qualche protesta) dal senato, così Quinzio poté
salire una seconda volta alla
carica di console assieme ad un altro militare, Gneo Lucio Lupino.
Ciò venne
reso ufficiale poco dopo con la lex
Lupina (non potevano chiamarla con il nome di Quinzio
perché ce n'era già
un'altra, così presero il nome del secondo console).
C'è da dire che tale
regola non ha mai arrecato, a parte alcune occasioni, gravi danni alla
repubblica.
I
successori, Clovio Silano e Amulio Memmio Fortunato, cominciarono i
preparativi
per la festa del centenario della fondazione di Roma. Preparativi che
vennero
ultimati dai loro successori, Terzio Duronio Enneca e Servio Elvio
Gorgone.
La
festa fu un successo, tanto che anche abitanti di Veio e della Lega
Latina si
recarono nell'Urbe per prendere parte alla festa. Certo, un po' la
faccia di
Servio Gorgone sfigurò (letteralmente; il console aveva
questo soprannome
perché era inguardabile, tanto era brutto), ma per il resto
fu un successo,
tanto che la popolazione romana venne incrementata fino ad arrivare
precocemente a quarantamila abitanti.
Note dell'autore
Contento Aurelianus? A sto giro il verbo "fare" non compare nemmeno una
volta.
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Capitolo 10 *** Instabilitatem consilium ***
Il
consolato del 652 a.C.
fu abbastanza anonimo, se si esclude che uno dei due consoli (Secondo
Vitellio
Dardanio) morì per cause naturali e venne sostituito dal
sacerdote del tempio
di Zeus, Tanico Metello.
Il
sacerdote venne eletto l'anno successivo, e assieme al collega Cassio
Clodio
Metilio diede inizio alla costruzione del tempio di Giano, che oltre ad
essere
il centro del culto del dio nella repubblica, sarebbe anche stato il
quartier
generale dell'esercito romano. Non ufficialmente, si intende.
La
costruzione venne completata l'anno successivo, e i consoli Flavio
Sestio
Carino e Servio Nemetorio Docilino, entrambi adepti di Metello,
ufficializzarono il funzionamento del tempio. I portoni della struttura
erano
enormi, arrivavano a circa dodici metri di altezza, ed erano fatti di
legno
verniciato di oro (sostituiti poi da oro vero qualche secolo dopo). In
tempo di
pace le porte non venivano mai aperte, tanto che i fedeli potevano
entrare solo
dagli ingressi laterali. Chi cercava di forzarle era addirittura
punibile con
la morte. In tempo di guerra invece venivano totalmente spalancate, e
l'ingresso era libero a tutti.
In
quel tempo, al partito militare, stava facendo una gran concorrenza
quello
"dei templi", come inizialmente venne definito dispregiamente dai
soldati, ma che in seguito venne adottato come nome ufficiale del
movimento. La
tensione salì non poco, tanto che nel 649 a.C,
quando salirono al consolato Druso
Cepasio Castorio e Flavio Caristanio Primo, il primo appartenente
all'esercito
e il secondo ai sacerdoti, si arrivò ad un passo dalla
guerra civile.
Il
senatore Gneo Gavio Celestino seppe però calmare gli animi
tramite un abile
orazione, complice il fatto che era sostenuto dal vecchio Gaio Tremera,
ancora
molto popolare. Il senatore salì al potere l'anno dopo
assieme al moderato
Appio Ninnio Quintilio, e cercò di rimettere in riga i
partiti, in particolare
quello militare e quello dei templi, dando invece potere all'ala
moderata.
A
capo dei militari c'era Sesto Virio Paziente, mentre a comandare i
sacerdoti si
trovava ancora Metello. Paziente e Metello a quel punto si allearono,
anche se
di malavoglia, ed attuarono un colpo di stato. Quintilio venne ucciso e
Celestino mandato in esilio. Paziente e Lucio Didio Cerinto (un uomo di
Metello) si fecero eleggere consoli (come suffecti,
in modo da farsi rieleggere l'anno dopo).
Durante
il loro doppio mandato Paziente rafforzò l'esercito
istituendo la Legio III Aquilam,
mentre Cerinto fece
ampliare il tempio di Zeus e diede inizio ai lavori per quello di
Vesta, che
sarebbe diventato la sede principale dell'Ordine Vestale. Venne
effettuato
anche un censimento (censori Placo Modio Eburnio e Aulo Avidio
Augurio), dal
quale risultò che la popolazione romana totale ammontava a
circa
quarantatremila abitanti, dei quali ottomila facevano parte
dell'esercito e
tremila al sacerdozio.
A
fine mandato venne stabilito un patto segreto, dal quale si stabiliva
che fino
alla fine della generazione stabilita da Geniale e Gracile i due
consoli
sarebbero stati rispettivamente uno dell'esercito e uno dei templi.
Tale patto
venne detto ironicamente dal senatore Gaio Giulio Enneca lex
Suprema. Per questo il senatore venne ucciso, e il resto
della gens Giulia venne esiliata.
Nel
646
a.C.
divennero consoli Gneo Cario e Amulio Canzio Solinio, i quali diedero
inizio ad
un periodo di instabilità politica, prima organizzando un
riuscito attentato a
Metello (che stava acquisendo troppo potere per i loro gusti) e poi
rivolgendo
le loro attenzioni al partito moderato. Il capo di tale movimento,
Vopisco
Calvenzio Alurede, stava cercando di opporsi al duumvirato, ma senza
particolare successo. Giudicandolo pericoloso, i consoli lo fecero
uccidere, e
misero al suo posto Terzio Velio Glabrio, totalmente asservito a loro.
Non
soppressero il partito perché era molto popolare e si
sarebbe scatenata
sicuramente una rivolta, ma lo mantennero come un loro fantoccio.
L'anno
dopo ciò venne dimostrato dal fatto che le elezioni vennero
palesemente
pilotate, ma nessuno si oppose all'elezione di Gneo Mucio Calero e di
Glabrio,
messo al potere per mantenere il favore del popolo.
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Capitolo 11 *** Frustra conari ***
Mentre
a Roma imperversava il terrore imposto da Calero (Glabrio era una
figura
totalmente inesistente, e Sesto Paziente era stato giustiziato con
l'accusa di
tradimento), al di fuori della "repubblica" qualcuno complottava per
ristabilire l'ordine.
Quando
era stato esiliato, Celestino si era rifugiato a Veio. Il governatore
di Veio,
Lars Porsenna, l'aveva accolto a braccia aperte, ma per un motivo ben
preciso.
Era infatti un uomo molto ambizioso, e negli ultimi tempi si era
interessato
notevolmente a Roma. Guardava avidamente il territorio romano, e
bramava
segretamente di impossessarsi della repubblica per estendere i suoi
domini, e
accogliendo Celestino pensava di usarlo per avere informazioni sulle
difese
della città e la struttura dell'esercito.
Porsenna
dovette però aspettare alcuni anni, poiché non
aveva ancora abbastanza truppe
per intervenire con la forza. L'occasione buona si presentò
quando la gens Giulia venne
esiliata da Roma. La
maggior parte dei suoi membri si recò proprio a Veio, e
allora il lucumone
della città capì che il momento era arrivato.
Mobilitò
l'esercito della città e, accompagnato da Celestino e dai Giulii, invase il territorio romano
all'inizio del 644 a.C., poco dopo le
"elezioni" consolari nell'Urbe. Un esercito venne inviato contro di
loro, ma i suoi componenti, insofferenti anch'essi al dominio
assolutista della
lex Suprema, disertarono e si
unirono
a quello di Porsenna.
Anche
Roma cadde senza che sangue venisse sparso, mentre i consoli Gaio
Norbanio
Torquato e Potito Vitruvio Surio e i loro sostenitori si barricarono
sulla cima
del colle Celio. Resistettero per circa tre mesi, ma alla fine furono
tutti
sterminati. Subito dopo la loro sconfitta salirono alla carica di
console
Celestino per la seconda volta (sfruttando il fatto che era stato
deposto da un
colpo di stato) e Terzio Giulio Ignazio Calvino, un uomo di Porsenna.
L'etrusco
poteva infatti conquistare la città con la forza, ma
preferì inserirsi
pacificamente nella politica della città per evitare inutili
morti. Il tentativo
di Porsenna fallì in quanto morì pochi anni dopo,
ma contribuì ad inserire la
cultura etrusca in quella romana.
La
prima azione dei consoli fu l'applicazione della damnatio
memoriae a tutti i consoli che erano stati al potere dopo
il colpo di stato, ovvero Sesto Paziente, Gneo Cario, Amulio Solino,
Gneo
Calero, Terzio Glabrio, Gaio Torquato e Potito Surio. La punizione
venne
risparmiata a Lucio Cerinto in quanto non apportò danni
sostanziali alla città.
Egli fu infatti anche l'unico ad evitare la pena di morte.
I
successori di Celestino - Umbrenio Capitone e Gneo Cesonio Sanga -
ristabilirono l'ordine, mentre quelli che vennero ancora dopo - Sesto
Novio
Fallofode e Stazio Muciano - aggiunsero altri quindici anni alla
generazione di
pace di Geniale e Gracile, portando la data di scadenza al 625 a.C.
Nel
641
a.C.
i consoli Sisinnio Clelio Dardanio e Vibio Loreio Carnefice emanarono
la lex Dardania, che impediva la
formazione
dei partiti. Questa legge venne applicata con successo fino al XVIII
secolo,
quando venne abolita.
Il
640
a.C.
portò al consolato Cesonio Calpurnio e Marco Norbanio
Menimio, entrambi
architetti, ed entrambi avevano studiato architettura in Etruria,
apprendendo
la tecnica dell'arco a volta dagli etruschi. I due misero in atto una
gigantesca
opera di ristrutturazione e di ampliamento della città. Era
un progetto molto
ambizioso, ed incontrò non poche proteste dai senatori
più conservatori, ma
alla fine venne approvato, visto che i soldi per fare ciò
c'erano (sembra
strano, ma i turbolenti anni tra il 648 e il 644 non avevano intaccato
la
finanza romana).
Nel
639
a.C.
morì l'anziano Gaio Tremera (nato nel 705 a.C.,
ovvero l'anno 48 Ab Urbe condita), e
i consoli Sesto Cosconio Parato e Tullio Pomponio Ausenzio
organizzarono un
sontuoso funerale di stato. Il corpo dell'ex-console venne tumulato sul
Celio,
anche se come la tomba di Placo Cotta il luogo esatto della sepoltura
venne
dimenticato col passare dei secoli.
Note dell'autore
Grazie per essere passati.
Voglio fare un piccolo annuncio. La successione dei capitoli
verrà interrotta, e gli appuntamenti del 7, 10, 13, 16 e 19
luglio salteranno perché sarò in Inghilterra, a
circa tremila chilometri dal mio amato personal computer,
impossibilitato a continuare. Ma non vi preoccupate, a partire dal 22
si ricomincia.
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Capitolo 12 *** Viae et reperiantur ***
Nel
638
a.C.
non successe nulla di rilevante, a parte il decesso di Papinio
Vetranio,
l'ultimo uomo nato nel regno di Romolo, appena due giorni prima della
sua
morte. Nonostante fosse un semplice mercante, i consoli Massimo
Nemetorio
Dacieno e Gallio Cetronio Cucupa gli tributarono lo stesso un funerale
di stato
come quello dell'anno precedente per Cremera.
Nel
637 i consoli Mamerco Cetronio Marziale (fratello di Cucupa) e Cosso
Salonio
Olennio annunciarono un ambizioso piano di infrastruttura al senato:
costruire
una strada che collegasse l'estremo nord (Fidenae)
con l'estremo sud (Avilio) della repubblica. La proposta venne accolta
con
fervore, dato l'allora mancanza di vie di comunicazione. Era una grande
innovazione per l'epoca, dato che le poche strade che esistevano erano
solo
sentieri tracciati dall'infinito passare dei viandanti. La costruzione
di una
strada avrebbe rivoluzionato l'intero sistema dei trasporti.
I
lavori iniziarono l'anno successivo, e nessuno dei due consoli in
carica
(Spurio Pontidio Assanio e Cosso Rutilio) risiedette mai a Roma, in
quanto
entrambi erano impegnati nella supervisione dei lavori, l'uno al nord e
l'altro
al sud. La stessa cosa successe con gli immediati successori (Proculo
Rutilio
Melo e Numerio Victricio Congrio) e quelli ancora dopo (Marco Armenio
Lovernio
e Lucio Rutilio Floriano). Bisogna notare che durante la costruzione
della
strada uno dei due consoli era sempre un appartenente alla gens Rutilia, in quanto era stata la
maggiore finanziatrice
dell'ambizioso progetto. Infatti, una volta terminata, la strada
assunse la
denominazione di via Rutilia.
Marco
Lovernio, che aveva tale nome perché era molto amante
dell'inverno, lavorava
assieme agli operai, per questo lui e i suoi sostenitori ottennero
molta stima.
Purtroppo il console morì proprio a causa di questa
abitudine, in quanto
lavorando d'inverno si prese un malanno che lo portò alla
morte. Colui che lo
successe come suffecti, Tullio
Pontidio Verecondo, tentò di farlo divinizzare come accadde
non ufficialmente
con Aulo Caractoro, ma ottenne un netto rifiuto dal senato. Fu
così
inconsapevolmente brevettata l'apoteosi, ovvero l'esatto opposto della damnatio memoriae, nonostante il
tentativo di applicarla a Lovernio fosse fallito.
L'anno
dopo Verecondo (fresco di rielezione) e Secondo Acilio Elvio
inaugurarono
ufficialmente la via Rutilia. La suddetta strada, partendo da nord,
iniziava a Fidenae, attraversava Antemnae, Roma,
Tellenae e Vitinia per terminare infine ad Avilio. La strada
si
snodava per la sola riva destra del Tevere, senza attraversarlo mai.
C'era solo
un ponte, quello sul fiume Aniene, che comunque non era nemmeno tanto
grosso.
I
consoli successivi, Rusonio Vinde e Proculo Viducio Cittino, pensarono
di
costruire un'altra strada che collegaste l'est e l'ovest della
repubblica, ma i
lavori per la costruzione della via Rutilia avevano quasi del tutto
prosciugato
l'erario, per cui l'idea venne accantonata, ma non dimenticata.
L'estate
del 631
a.C.
fu molto secca, e scoppiarono numerosi incendi, il più
grande dei quali arrivò
addirittura a distruggere un ottavo della piccola città
(Roma a quei tempi non
era certo la metropoli di oggi), compreso il palazzo del Senato. Per
fortuna
tale rogo scoppiò di notte, ragion per cui non ci fu nessuna
vittima tra i
senatori. Gli allora consoli Flavio Betico e Mettio Calvisio Latino,
essendo
l'erario ancora semi-vuoto, trasferirono temporaneamente il luogo delle
sedute
senatorie all'interno del tempio di Giano, in attesa di avere i fondi
necessari
per ricostruire il senato.
Il
sacerdote di Giano, Gallio Verecondio Luterio, non prese bene questa
decisione,
e minacciò di bandire i senatori dal culto del bio bifronte
se non se ne
fossero immediatamente andati. A dispetto di quello che sembrasse da
fuori, il
tempio di Giano era veramente un luogo molto angusto all'interno, e
cento
persone di certo non ci potevano stare.
I
consoli allora si videro costretti a chiedere prestiti di denaro a
Veio. Il
lucumone Lars Perenna, il figlio di Porsenna, fu ben felice di
concederli,
perché aveva intenzione di perseverare nel piano fallito del
padre.
Note dell'autore
Eccomi di ritorno!
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Capitolo 13 *** Devotio pro diis ***
Perenna
acconsentì a inviare prestiti a Roma, ma decise di attendere
l'anno successivo
per inviarli, tanto per far crescere gli attriti tra Luterio e i
senatori.
Quando finalmente arrivò il 630, Lars Perenna si
recò di persona in città con
un grande seguito, e consegnò personalmente ingenti
quantità di oro, di argento
e di ferro (non di monete, che a quell'epoca erano sì
conosciute ma usate
pochissimo. La stessa Roma adotterà il conio solo due secoli
dopo). In
particolare fu memorabile la scena in cui il lucumone, dopo il
prestito,
strinse la mano ai consoli in carica, Decio Clelio Giocondo e Vibio
Cepasio
Bruccio. La stretta di mano con Decio Giocondo durò
addirittura quaranta
secondi, e venne accolta tra i fischi dei cittadini romani radunati
lì. Il popolo
romano infatti non prese granché bene l'aiuto fornito dagli
etruschi. Molti
considerarono tale gesto come un segno di debolezza, e addirittura i
senatori
più anziani non volevano accettare gli aiuti di Perenna.
Alla
fine comunque, una volta che la "merce" fu consegnata, Perenna
abbandonò la città. Non aveva fissato un limite
di scadenza per la restituzione
dei prestiti, tanto per ingraziarsi i consoli. In particolare la sua
presa su
Giocondo, che non era rinomato per la forza di carattere, si venne
molto a
rafforzare. Porsenna aveva fallito nel suo intento, ma suo figlio non
era
intenzionato a fare altrettanto. Per il momento decise di restarsene
quieto per
vedere come evolveva la scena politica romana, in attesa del momento
propizio
per intervenire.
Per
più di un anno gli aiuti di Perenna non vennero utilizzati,
e per questo i
consoli Terzio Elvezio Giuniano (poi sostituito da Manio Antistio Opis
a
seguito della sua morte per cause naturali) e Spurio Calavio Eletto.
Opis non
venne rieletto proprio per questo, e fu molto criticata anche la sua
mansione
di censore alcuni anni dopo.
Finalmente
nel 628
a.C.
i consoli Erio Vorenio e Gallio Domizio Magunnio decisero di usufruire
dei
soldi etruschi. A quei tempi i culti principali a Roma erano tre:
quello di
Giove, quello di Giano e quello di Vesta. In particolare alla prima e
all'ultima di queste divinità venne prestata attenzione.
Venne prima di tutto
fatto costruire un tempio a Giove Laziale (ce n'era già un
altro, ma andò
distrutto nel grande incendio del 631), e venne istituita la carica del
pontifex maximus, ovvero
l'amministratore della religione romana. Il pontifex
ricopriva la carica a vita, e doveva per forza essere un ex-console.
Egli si
occupava del culto romano, ma non solo quello riguardante le
divinità maggiori,
ma anche quelle delle divinità minori e dei semidei.
All'inizio non era
prevista una grande quantità di religioni (come poi sarebbe
stato), tanto che a
partire dal II secolo a.C. venne creato l'Annales
pontifis, ovvero la lista delle divinità approvate
dal pontefice massimo e
che potevano essere venerate nella Repubblica. Il primo a ricoprire
tale carica
fu l'ex-console Lucio Rutilio Floriano (rimasto in carica fino alla
morte nel 618
a.C.).
Poco
tempo prima era venuto a mancare Cassio Secondio Acacio, un ricco
cittadino
romano con vari possedimenti sparsi in tutto il territorio della
repubblica.
Non avendo eredi, nel testamento disse che lasciava tutto alla
comunità. Il suo
più grande immobile si trovava a Roma, ed era una grossa
casa sul Palatino. I
senatori decisero di ingrandirla per poi farne un tempio dedicato alla
dea
Vesta, e dove l'ordine delle vestali avesse un centro simbolico di
culto.
I
lavori al tempio di Vesta o delle Tre Colonne (chiamato così
per il fatto che
una parte della casa si erigeva su un burrone ed era sostenuta da tre
robuste
colonne) terminarono l'anno successivo, e venne ufficialmente
inaugurato dai
consoli Mamerco Messenio Vito e Secondo Insteio Marullo.
A
quel punto già due terzi degli aiuti forniti da Perenna
erano stati usati, e il
senato decise di non impiegarli se non per stretta
necessità. I senatori
volevano attendere che l'erario fosse di nuovo pieno per ripagare il
lucumone
etrusco, e ci sarebbero voluti ancora molti anni perché
ciò avvenisse.
Il
626
a.C.
passò nella trepidante attesa della fine del periodo di
pace. I consoli Papirio
Martino e Aulo Titinio Santo meditarono di aggiungere ancora altri
anni, ma
tutti (sia popolo che senatori) erano stanchi del periodo di pace, e
avevano
sete di conquiste. In particolare Flavio Larzio Iustiano, un ambizioso
generale
dell'esercito.
Note dell'autore
Cara Capricornus, non mi ero dimenticato di te. Volevi che
approfondissi il fattore divinità? Ora si inizia.
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Capitolo 14 *** Finis autem secundum ***
- ...e
così la RSSE ha annunciato che
entro il 2020, ovvero il 2773 Ab Urbe condita, invierà sulla
Luna una missione
con equipaggio. Il responsabile delle relazioni con l'esterno
dell'associazione, Gaio Duccio Postumio, ha ribadito il fatto che se
dopo vari
anni di accertamenti verrà tracciata una zona sicura, si
comincerà con la
fondazione di colonie sul nostro satellite. Citando le sue testuali
parole,
"Daremo inizio a una nuova era". Ancora l'equipaggio per questa prima
missione non è stato reso noto, anche se è
già risaputo che a capo di essa vi
sarà Quinto Osidio Nasone Spaziale, già rinomato
per le sue passeggiate
spaziali sulle sonde Detector 6, 7, 9
e 10.
Inoltre la Romanae Societatis Spatium Explorationem ha affermato
che...
Matteo
Umbrio Senna spense il televisore. Ne aveva abbastanza del concitato
sbarco
sulla Luna, che doveva ancora avvenire per giunta. Lui studiava la
storia
passata, non quella futura. Ed era proprio la storia passata che lo
stava
tenendo impegnato: doveva infatti correggere una ventina di compiti in
classe,
e il notiziario non aiutava.
Aveva
messo su quel canale tanto per avere un sottofondo. Quando aveva
sintonizzato
il notiziario stavano facendo un reportage su quell'efferatissimo
omicidio
commesso a Mervio, ma non molto tempo dopo avevano cambiato servizio in
quello
che stava ascoltando. Sinceramente al magister
non poteva importare di meno dello sbarco sulla Luna e sulla fondazione
di
colonie su di essa. Se c'erano due cose di cui era certo si trattava
del fatto
che era nato sulla Terra e che sulla Terra sarebbe morto. Ma poi
detestava
anche il tono esaltato con cui ogni volta ne parlavano, gli dava
letteralmente
il voltastomaco. Come se quelli al potere non fossero già
abbastanza esaltati.
Provò
ad accendere la radio, sintonizzandosi su un canale di musica leggera,
l'ideale
per rilassare la mente. Il magister,
più calmo rispetto a poco prima, riprese a correggere i
compiti. Una pila con
ventitré fogli gli si parava davanti, ma di tutti quelli per
il momento ne
aveva riveduti solo due. Era stato quel maledetto servizio a fargli
perdere la
concentrazione, ma non aveva intenzione che succedesse di nuovo.
Quei
test erano abbastanza facili. Erano composti da venti domande, diciotto
delle
quali erano con il vero o falso. Solo due erano le risposte aperte, che
alla
fine della fiera non erano nemmeno così impegnative. Se si
aveva studiato
ovviamente. Al parere di Matteo solo una capra poteva sbagliare quel
test. E
invece Secondo Icilio Celiano ce l'aveva fatta, aveva sbagliato tredici
domande
su venti. Anche il più magnanimo dei professori gli avrebbe
messo il voto più
basso del suo arsenale, ma Matteo Senna quella sera si sentiva buono, e
non lo
voleva scoraggiare nel proseguo del corso. Per cui gli mise una grossa
"D" sul retro del foglio.
Non
gli aveva appioppato un voto più basso anche per il fatto
che non voleva
perdere studenti. Era già grossa che per quel corso gli
fossero arrivate più di
venti persone, e non avrebbe permesso di perdere iscrizioni.
Già la sua
autostima era bassa, figuriamoci se avesse perso alunni.
Mise
da parte il compito di Celiano, e si accese una sigaretta per scacciare
lo
stress. Ultimamente stava pensando di recarsi da uno psicologo, ma non
ne era
del tutto sicuro.
Tirò
una boccata alla sigaretta, e si mise a pensare al compito di Celiano.
Ma come
si faceva a sbagliare la domanda sull'ubicazione di Caractae?
Persino suo nipote di sette anni sapeva che la città non
sorgeva sullo stesso luogo della battaglia. Si sarebbe dovuto impegnare
molto
con quell'alunno.
Spense
la sigaretta, dopotutto non se la sentiva nemmeno di fumare.
Ripensò alle sue
lezioni: erano già passate due settimane dall'inizio del
corso. Se tutto fosse
andato bene, per i prossimi anni si sarebbe tenuto impegnato con quelle
ventitré persone, se fossero rimaste tutte ovviamente, cosa
di cui dubitava. Ma
con tutto il suo cuore sperava che quel corso sarebbe servito sia a lui
che a
loro.
Note dell'autore
Ecco qua, mio caro Aurelianus e mia cara Capricornus. E dal prossimo
cominciano le grandi manovre. E casomai non l'aveste ancora capito, gli
sprazzi del presente ci saranno ogni sette capitoli.
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Capitolo 15 *** Res expectatur ***
Il
625
a.C.
vide eletti consoli Fausto Camillo Profuterio e Spurio Secondo Castino.
L'elezione di Castino fu del tutto inaspettata, in quanto egli era un
sostenitore della pace, e addirittura era candidato successore a Lucio
Floriano
come pontefice massimo, anche se non ufficialmente. Anche se
provò ad
ostacolare il collega, Castino non poté far nulla per
evitare la mobilitazione
dell'esercito.
Nonostante
Castino non avesse molto credito, Profuterio aveva capito che era una
avversario pericoloso. Fausto Profuterio conosceva Flavio Iustiano, e
entrambi
convennero che Castino doveva essere eliminato. Ma sfortunatamente non
c'era
tempo per una congiura, in quanto le azioni belliche richiedevano la
loro
presenza. Così Profuterio e Iustiano partirono, il primo per
il sud e il
secondo per il nord, mentre Castino restò nella capitale.
Profuterio
assunse il comando della Legio III,
e
seguì il corso del Tevere fino ad uscire dai territori della
repubblica.
L'obbiettivo era la piccola città etrusca di Cosmae. Sarebbe
stata facile da
conquistare, in quanto non aveva praticamente rapporti con gli altri
connazionali. Come previsto, l'assedio al paese non richiese
né tempi lunghi né
perdite eccessive, per cui nel giro di un paio di mesi il console era
riuscito
a conquistare e a pacificare la zona, facendone un nuovo municipio. Per
metà
anno era già rientrato a Roma.
A
nord invece le cose erano un pochettino più complicate. Nomentum e Crustumerium
erano due antichi insediamenti sabini, da sempre in guerra da loro, e
quel momento
non faceva eccezione. Iustiano, al comando della Legio
I e buona parte della Legio
II, si proclamò pacificatore della situazione.
Dopo essere giunto sino al
fiume Allia, le truppe romane attaccarono l'esercito crustumerino, che
aveva
appena sconfitto quello nomentano. I romani ebbero gioco facile, e in
meno di
un mese Crustumerium fu presa.
L'assedio di Nomentum fu un tantino
più difficoltoso, in quanto i sabini erano decisi a
resistere. Iustiano fu
persino ferito, ma alla fine la città venne presa. I romani
ebbero gioco
facile, in quanto anche i due insediamenti sabini avevano da tempo
interrotto i
rapporti con i loro vicini.
Dal
canto suo Castino non rimase certo inattivo mentre la maggior parte
dell'esercito stava assoggettando nuove terre. Appena giunse la notizia
della
conquista delle nuove lande, il console fece inviare due censori (che
furono
Manio Antistio Opis e Marco Rutilio Floriano, figlio del pontefice
massimo). La
nomina di Opis fu aspramente criticata, e questo fece perdere a Castino
una buona
fetta di sostenitori.
A
fine anno la guerra si poteva considerare finita, e quando anche
Iustiano fu
rientrato in città fu concesso il trionfo al generale e a
Profuterio. La festa
fu grande, e il popolo li elogiò enormemente.
Il
624 passò anch'esso nella trepidante attesa dell'anno dopo.
Nel 623
a.C. sarebbe infatti
ricorso il cinquantenario della repubblica, e la carica consolare di
quell'anno
sarebbe stata considerata molto prestigiosa, per questo quasi nessuno
aveva
voluto essere eletto a console nell'anno corrente. Alla fine si
procedette al
sorteggio, e uscirono Manio Balvenzio Checo e Potito Cassio Regino. I
due
presero molto male la cosa, e infatti non fecero nulla durante la loro
carica,
a parte il fatto di rendere noti i risultati del censimento dell'anno
precedente, dal quale risultava che la popolazione della repubblica
superava i
quarantottomila abitanti.
Finalmente
arrivò il 623 a.C.,
e con esso le elezioni. Fu una battaglia senza esclusione di colpi, ma
non ci
furono storie. Iustiano vinse con uno scarto pauroso dagli altri
contendenti,
ma fu il secondo console a ricevere le attenzioni di tutti. Gneo Gavio
Celestino aveva sfruttato il fatto di non aver mai portato a termine un
incarico pieno e si ricandidò per la carica di console. Se
al tutto si
aggiungeva il fatto che si sarebbe ritirato dalla politica una volta
finito il
mandato, aveva vinto in partenza. Molti altri candidati si fecero da
parte per
rispetto nei suoi confronti, e quindi Celestino riuscì ad
occupare per la terza
volta, caso più unico che raro, la carica di console.
L'intero
anno passò molto velocemente, anche troppo per i gusti dei
romani. Fu una festa
senza fine, e persino le sentinelle che dovevano stare costantemente a
guardia
delle mura cittadine disertarono per festeggiare. Quando giunse
dicembre, tutti
salutarono con calore Celestino. Il senatore aveva infatti intenzione
di
ritirarsi definitivamente, e quando ciò accadde fu come se
gli fosse concesso
un trionfo. Quando abbandonò l'Urbe per andare a vivere i
suoi ultimi anni ad
Avilio, fu salutato con commozione da molti romani scesi in strada.
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Capitolo 16 *** Qui est principium, valde expandi ***
Il
622
a.C.
si aprì con una lotta per la successione per il comando
della Legio I. Infatti il
precedente
comandante, Marco Clelio Advento, figlio dell'ex-console Decio Advento,
era
morto in circostanze non troppo chiare. I pretendenti erano tre: Flavio
Consenzio
Agorice, Aulo Cincio Aurelio e Sisinnio Betucio Cicone, tutti e tre
esperti
combattenti e tutti e tre assetati di potere. Essere il comandante
della Legio I consentiva questo
appunto, di
avere il totale comando dell'esercito.
I
consoli, Aulo Titinio Polibio e Lucio Tremellio Eugenio, realizzarono
di non
essere in grado di fronteggiare la spaventosa guerra che si profilava
all'orizzonte. Si rivolsero allora ad un esterno: Perenna. L'etrusco
aveva
infatti seguito con crescente attenzione ed interesse il peggioramento
della
situazione della repubblica, ed era intenzionato a non lasciarsi
scappare
l'occasione. Alcuni storici odierni affermarono che fu lo stesso
Perenna a
provocare la morte di Marco Advento.
Sta
di fatto che ognuno dei tre canditati si adunò con le
proprie truppe. Il
favorito alla vittoria sembrava Agorice, con l'intera terza legione e
parte
della seconda al seguito, ma gli avversari non erano da meno. Aurelio
godeva di
vari appoggi nella Lega Latina, mentre Cicone cominciò ad
arruolare dei
mercenari.
Mentre
i consoli provavano a risolvere la situazione con la diplomazia
(fallendo),
Perenna cominciò a radunare le truppe. Al contrario del
padre Porsenna, che
aveva tentato di conquistare Roma con la politica, suo figlio avrebbe
usato la
forza.
Verso
la metà dell'anno l'esercito di Veio scese lungo il corso
del Cremera e in poco
tempo arrivò alle porte di Fidenae.
Agorice, che guarda caso si era proprio barricato nella
città, non aveva
intenzione di arrendersi, vantandosi dei suoi oltre cinquemila seguaci.
Ma
Perenna non si fece intimidire. Ordinò a tutti i suoi
dodicimila uomini di
assaltare le mura cittadine, e lo fece a squarciagola in modo che tutti
potessero udirlo. Sentendo ciò il municipale della
città, Postumio Epidio
Miniciano, decise di tradire Agorice e lo fece consegnare alle truppe
di
Perenna, dichiarandosi sottomesso al suo volere.
L'etrusco
fece uccidere Agorice e, quando i due consoli romani gli vennero
incontro
mostrò loro la sua testa. Polibio ed Eugenio pensavano di
aver trovato un
alleato, ma si sbagliavano di grosso. Poco tempo dopo Perenna li
catturò e li
fece strangolare, e marciò verso l'Urbe percorrendo la via
Rutilia. Aurelio e
Cicone, avendo capito al volo la grande occasione che gli si
prospettava,
decisero di mettere da parte le divergenze e unirono le loro truppe,
dichiarando Perenna un nemico dello stato e muovendo guerra contro di
lui.
Lo
scontro decisivo lo si ebbe a metà strada tra Antemnae
e Roma. Aurelio e Cicone disponevano di circa quattromila
legionari (inclusi i rinforzi inviati dalla Lega Latina e i mercenari)
mentre
Perenna, oltre a dodicimila etruschi, comandava anche i cinquemila
legionari
appartenuti ad Agorice.
Ben
sapendo il grande svantaggio posseduto, i due generali romani agirono
in
fretta. La notte prima della battaglia un ufficiale di nome Spurio
Canio
Lucullo venne inviato di nascosto nell'accampamento etrusco, e
riuscì a
convincere Tiberio Seio Marziale (il comandante dei romani al servizio
di
Perenna) a passare dalla sua parte.
Il
giorno dopo avvenne la battaglia sulle rive del Tevere. Lo schieramento
romano
era compatto a formare un'unica entità (tranne i mercenari
che fungevano da ala
destra per evitare che il nemico tentasse di aggirarli), mentre
l'esercito
etrusco fu diviso in quattro: due unità a combattere davanti
e due a difendere
le retrovie (una di queste ultime era fatta dalle unità di
Marziale).
Lo
scontro durò per ben due giorni, con la prima giornata
chiusa in parità.
Aurelio e Cicone avevano davvero paura che Lucullo avesse fallito
nell'impresa,
ma il secondo giorno di battaglia li smentì. Mentre il
combattimento infuriava
Marziale diede l'ordine di attaccare la retroguardia etrusca. Questa,
colta
totalmente di sorpresa, venne rapidamente messa in rotta, permettendo
agli
uomini di Marziale di caricare alle spalle le truppe di Perenna.
Quelle,
strette in una morsa, invece che cadere in preda al panico combatterono
furiosamente.
Memorabile
fu la scena che vide protagonista Cicone. Vide da lontano che il
portainsegne
della Legio I fu ucciso e perse lo
stendardo con il lupo, ovvero il simbolo della legione. Allora il
generale si
gettò coraggiosamente in mezzo alla mischia e
riuscì a recuperare lo stendardo.
I legionari, rincuorati da tale azione, continuarono a combattere e
riuscirono
a piegare Perenna e i suoi.
A
fine giorno erano rimasti circa settemila cadaveri sul campo di
battaglia, sia
etruschi che romani. Non si conoscono le stime precise, ma si dice che
l'acqua
del Tevere si colorò per tre giorni di rosso dopo gli
scontri. Fatto sta che
Perenna, gravemente ferito, dovette ritirarsi. Era iniziata la guerra
contro
Veio.
Note dell'autore
Ringrazio Saccuz per essere entrato a far parte della combriccola.
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Capitolo 17 *** Maximus industrias ***
Perenna
riparò a Fidenae, dove
il municipale
Miniciano gli diede sostegno curandolo e rifocillando il suo esercito.
Aurelio
e Cicone si ritirarono nell'Urbe. Avevano sì vinto una
battaglia, ma non certo
la guerra. Il loro esercito si era notevolmente assottigliato, e le
forze
etrusche rimanevano consistenti nonostante la disfatta. Dovevano
trovare una
soluzione al più presto, altrimenti Roma avrebbe veramente
rischiato di essere
conquistata.
Per
prima cosa al posto dei defunti consoli furono nominati due suffecti, Amulio Erennio Severo e Decimo
Betucio Tiberino. Erano entrambi dei rispettati senatori, per cui non
stupì la
loro nomina. Inviarono poi Tiberio Marziale nelle città
della Lega Latina per
ottenere ulteriori rinforzi. Giunsero in più delle notizie
confortanti da Caractae: il
municipale della città,
l'ex-console Aulo Titinio Santo, stava mobilitando molti cittadini per
accorrere in aiuto dei connazionali (e anche per vendicare Aulo
Polibio, suo
fratello).
I
due generali, una volta stabilizzata la situazione della capitale,
radunarono
nuovamente l'esercito e si diressero verso Antemnae
per stabilire una testa di ponte contro Perenna. Poco prima di giungere
in
città Cicone si separò da Aurelio, e si diresse
verso est e poi verso nord per
tentare di accerchiare il nemico.
Aurelio
passò alcuni mesi ad Antemnae,
e
visto che il lucumone non si muoveva decise di fare la prima mossa.
Assediò
quindi la città, con l'intenzione di prenderla per fame.
Poco dopo giunse
Cicone, che nonostante fosse riluttante a quel metodo prese anche lui
parte
all'azione, se così si può definire.
Ma
la situazione non si sbloccava, e l'anno successivo Fidenae
non dava segni di cedimento. Aulo Santo era impegnato a
coprire le spalle ai generali per evitare che giungessero rinforzi
nemici da
Veio e ancora non si avevano notizie di Marziale. Severo e Tiberino
erano
impegnati a Roma, dove a fatica mantenevano sotto controllo la
popolazione, in
subbuglio per il prolungarsi della guerra. Nel frattempo Perenna si era
ristabilito, e meditava di provare a rompere l'accerchiamento.
Verso
la fine dell'anno gli etruschi attaccarono dalle mura, e finalmente
uscirono
per affrontare i romani in una seconda battaglia campale. L'esito
restò a lungo
incerto, ma dopo molte ore la situazione volgeva a favore di Perenna.
Sarebbe
stata sicuramente una disfatta per i romani, se Marziale non fosse
arrivato con
i rinforzi dalla Lega Latina. Gli etruschi, provati dai lunghi
combattimenti,
non furono difficili da sopraffare. Perenna, vista persa la battaglia,
preferì
togliersi la vita che cadere in mano ai romani. Era consapevole di
quello che
gli avrebbero fatto se lo avessero preso vivo. Il suo corpo fu
mutilato, e la
sua testa portata come trofeo nell'Urbe.
Alcuni
veienti riuscirono a scappare, ma la maggior parte venne catturata e
resa
schiava. A quel punto la strada per la conquista di Veio era aperta,
così con
l'intero esercito residuo i tre generali mossero contro la
città etrusca. I
veienti resisterono eroicamente, ma non poterono nulla contro la furia
dei romani.
La città fu conquistata ed incorporata al territorio romano.
I suoi abitanti
furono resi a tutti gli effetti cittadini romani, nonostante i
prigionieri di
guerra fossero stati resi schiavi a tutti gli effetti (solo chi se lo
poteva
permettere riscattò i familiari).
Nel
620
a.C.
i tre generali celebrarono il loro immenso trionfo, e i consoli Gaio
Placidio
Pastore e Gaio Settimio Bubone erano lì solo per fare scena
più che per altro.
Infatti i costumi romani prevedevano che in un anno si potesse avere o
un
trionfo o un consolato, e i generali preferirono il trionfo, sicuri che
sarebbero stati eletti negli anni seguenti.
E così fu: nel 619 a.C.
furono eletti Aurelio e Cicone, mentre l'anno successivo Marziale e
Lucullo
(l'ufficiale che era riuscito a convincere proprio Marziale a tornare
alla
causa romana). Marziale però per accedere alla carica
consolare dovette
rinunciare a quella di comandante della prima legione, carica detenuta
provvisoriamente e poi definitivamente dal 622. Al suo posto venne
nominato
Aulo Titinio Santo, che rimase in carica sino a 610.
C'è
però da dire che nonostante fossero militari quasi del tutto
ignoranti di
politica, i quattro uomini seppero gestire bene la situazione.
Stimolati dal
fatto che il debito con Perenna poteva considerarsi estinto,
incoraggiarono il
commercio e l'erario tornò finalmente a riempirsi.
Nel
618
a.C.
inoltre passò a miglior vita il pontefice massimo Lucio
Floriano, e al suo
posto venne nominato Spurio Castino, che morì nel 602 a.C.
Note dell'autore
Mi scuso umilmente per il leggerissimo ritardo nella pubblicazione.
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Capitolo 18 *** Inopinatum lucra ***
Il
617
a.C.
si aprì per la repubblica romana con una nuova minaccia. Un
esercito stava
infatti devastando le campagne dell'Urbe, e stava conquistando una
città dopo
l'altra. Quando Veio era stata sconfitta, si era scatenata una feroce
quanto
silenziosa caccia ai sostenitori di Perenna, fossero stati suoi alleati
o solo
gente comune costretta a collaborare per paura di ritorsioni. Postumio
Epidio
Miniciano, il municipale di Fidenae,
il quale aveva sostenuto Perenna durante tutta la guerra, fu costretto
a fuggire
per non essere ucciso.
Ma
non andò molto lontano dai territori repubblicani. Si
sistemò infatti a Collatia,
dove aveva numerosi parenti e
amici, e nel giro di poco tempo riuscì a convincere il
governante della città,
Euterio, a muovere guerra contro Roma. Il re latino accettò
anche per il fatto
che si sentiva minacciato dalla crescente potenza romana, ed era
timoroso che
prima o poi sarebbe stato attaccato, così decise di fare lui
la prima mossa.
D'altro
canto era già nei piani del senato di ampliare ulteriormente
i territori della
repubblica, e Collatia era tra le
opzioni di conquista. Ma i consoli di quel periodo, Cluilio Euterio e
Tito
Granio Muciano, non avevano intenzione di mettersi a fare guerra in
quel
periodo, in quanto l'esercito aveva ancora bisogno di riprendersi dal
conflitto
contro Veio.
Per
questo giunse totalmente di sorpresa l'attacco sferrato dall'armata
collatina
contro Bibacola e Vergata. Entrambe
le città caddero dopo poco tempo, ma il piccolo esercito non
sarebbe stato in
grado di battere le disciplinate truppe romane se fossero mancati due
fattori
fondamentali: il carisma di Miniciano e il genio militare di Euterio.
Ciò portò
anche alla caduta di Caenina, che
era
considerata inespugnabile per il suo alto livello di fortificazioni
(all'epoca).
In realtà fu tutto frutto di un tradimento: Miniciano
riuscì a corrompere
Tarpeia, figlia del municipale della città Spurio Tarpeio,
che aprì le porte al
nemico.
Roma
venne scossa da questa guerra lampo. L'esercito non era ancora pronto
per contrattaccare,
e i consoli tergiversavano. La popolazione era in subbuglio, e serviva
qualcuno
che sapesse ristabilire la situazione. I consoli allora si rivolsero
all'ex-generale Iustiano, da alcuni anni in pensione. L'uomo fu ben
felice di
poter tornare a comandare le truppe, e in meno di una settimana la
situazione a
Roma fu stabilizzata. A circa metà anno Iustiano ed Euterio
(il console)
partirono per affrontare Miniciano e l'altro Euterio (l'invasore).
Ci
fu un tentativo di risolvere la situazione pacificamente in un incontro
nella
pianura a sud di Caenina, dove
Euterio console provò a riappacificare gli animi con Euterio
latino citando la
loro lontana parentela (non si chiamavano casualmente allo stesso
modo), ma il
tentativo fallì. Allora nello stesso punto i due eserciti si
diedero battaglia.
La situazione inizialmente volse a favore dei collatini, ma il
sopraggiungere
di rinforzi romani guidati dai generali Aurelio e Cicone
ribaltò la situazione.
L'esercito collatino fu così sbaragliato, Euterio catturato,
Miniciano messo a
morte e Collatia annessa alla
repubblica.
Il
616
a.C.
fu impiegato dai consoli Dillio Bromido e Decio Murrio Arrunte per
stabilizzare
la situazione e per fare il ricapitolo della situazione. L'erario era
di nuovo
tornato pieno dopo la conquista di Veio e Collatia,
e la forza lavoro era stata notevolmente incrementata da qualche
migliaio di
schiavi. D'altro canto adesso la popolazione era sicuramente maggiore,
e
necessitava di alcuni anni per riprendersi dagli scontri. L'unico atto
concreto
dei due fu applicare da damnatio memoriae
a Miniciano.
I
consoli successivi, Postumio Cesonio Superiore e Arrunte Plinio Cosma,
fecero
effettuare un censimento per stimare la popolazione aggiunta dalle
nuove
conquiste. I censori Spurio Cosconio Eugenio e Tito Caninio Traseolo
stimarono
la popolazione romana a circa cinquantacinquemila abitanti, con un
esercito
forte di ottomila uomini.
Nessuno
lo sapeva all'epoca, ma da quelle conquiste minimali ed inaspettate
presto Roma
avrebbe cominciato a fare sul serio.
Note dell'autore
Pubblico oggi perché domani non posso, ma tranquilli, il 12
riprende il ciclo normale.
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Capitolo 19 *** Colonias et exercitum novus ***
Gli
ultimi quindici anni del VII secolo a.C. videro un notevole aumento
demografico
nell'intera Italia centrale. La maggior parte della crescita si ebbe
nella Lega
Latina e nella Sabinia, ma anche la repubblica romana
cominciò a rafforzarsi.
Molti nuovi insediamenti vennero fondati in quel periodo, e
cominciarono una
serie di grandi cambiamenti, anche climatici.
Dal
614
a.C.
cominciò per la repubblica un periodo di benessere in quasi
tutti i campi. Con
l'erario molto più pieno rispetto agli anni precedenti, i
consoli Gneo Rufio
Larzio e Cosso Anzio Comeno progettarono di ampliare la via Rutilia,
sia a nord
che a sud per agevolare ulteriormente le vie di comunicazione.
Il
proseguimento meridionale venne dopo poco abbandonato poiché
i senatori non
vedevano l'utilità di un collegamento col mare (come invece
sarebbe stato in
seguito), così l'attenzione si concentrò sul
proseguimento settentrionale. Il
piano prevedeva che la strada continuasse a risalire il Tevere,
passando per la
Sabinia, una regione molto estesa e fertile a nord della repubblica.
L'ampliamento prevedeva il proseguimento del percorso fino a dove il piccolo
fiume
Allia si gettava nel Tevere, costruendo anche una nuova colonia. Tale
azione
avrebbe sicuramente facilitato i commerci con i sabini, che erano una
popolazione di origine simil-latina, anche se nel corso dei secoli
avevano
subito molto l'influenza etrusca.
Il
progetto incontrò l'approvazione del senato e i successivi
consoli Aulo Ponzio
Fleminio e Secondo Cluilio Milonio avviarono i finanziamenti al
progetto. I
consoli incaricarono per la riuscita del progetto Gaio Rutilio
Floriano, figlio
del censore Marco e nipote del pontefice Lucio. La gens
Rutilia era infatti la maggior finanziatrice della strada, e
non ufficialmente la gestiva anche.
Questa
volta i lavori vennero portati a termine nel giro di un solo anno
(anche a
causa della non proprio eccellente manodopera), e i consoli in carica
nel 612
a.C. (Gallo Calvenzio
Dardanio e Decio Vagnio Stazio) guidarono personalmente alcune
centinaia di
coloni fino alla fine della strada. Venne fondata alla foce del fiume Allia
la
città di Alliena, e i
consoli vi
risiedettero anche dopo la fine del loro mandato.
Nel
611 vennero eletti Appio Salvio Soterico e Sesto Nigidio Mallo, che
crearono il
municipio di Alliena (stranamente
i
loro predecessori non l'avevano fatto, forse per una svista o forse
perché era
terminato il denaro a loro disposizione). Coloro che li succedettero,
Secondo
Mucio Meceno e Decio Anzio Superbo, crearono la Legio
IV Anguem per fronteggiare il costante aumento dell'esercito
(che aveva raggiunto le dodicimila unità su un totale di
circa cinquantaseimila
abitanti, vale a dire un quinto della popolazione, schiavi compresi).
Concepirono
anche un'idea per suddividere in modo concreto l'esercito. Fino ad
allora
infatti le milizie non avevano una vera e propria organizzazione
concreta, e le
stesse legioni avevano un numero molto eterogeneo di soldati. I due
cominciarono a stilare il progetto, che venne completato dai loro
successori
Postumio Mazio Nazario e Modio Vopisco. La riforma dell'esercito venne
presentata in senato l'anno successivo dai consoli Oppio Sergio
Letiniano e
Camillo Modio Arminio.
La
riforma prevedeva che ogni legione fosse composta da tremila uomini, e
che una
nuova potesse essere formata in caso di eccessi di unità
nelle altre legioni. Ogni
legione era suddivisa in tre coorti da un migliaio di uomini ciascuno,
che a
loro volta erano formate da cinque manipoli da duecento
unità. I manipoli erano
ulteriormente suddivisi in quartane da cinquanta uomini, e queste erano
infine
costituite dalle quintane da dieci unità ciascuna. Secondo
la legge ogni
miliziano, dal più infimo soldato semplice al più
potente generale, doveva
sapere a memoria ogni singola suddivisione di cui faceva parte. La pena
prevista per l'infrazione a ciò erano cinque frustate.
Era
poi stabilito che il comandante dell'esercito dovesse essere un tribuno
militare, eletto ogni cinque anni tra i comandanti delle rispettive
legioni. Il
tribuno era anche un membro del senato, e doveva rappresentare
l'esercito. Col
tempo tale carica divenne sempre più simbolica, tanto che al
giorno d'oggi si
parla di abolirla definitivamente.
Tutto
ciò era stato stabilito nella lex
Arminia,
che fu in assoluto la prima legge ad essere messa per iscritto due
secoli dopo.
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Capitolo 20 *** In pontumque moueri ***
Nonostante
l'abbastanza chiara ed efficiente organizzazione del nuovo esercito, le
legioni
mancavano ancora di una base specifica. A risolvere questo problema ci
pensarono Vario Tranione e Quinto Veranio Ignazio, consoli per l'anno 607 a.C.
I
due passarono la maggioranza del loro mandato a lavorare su questo, e a
poco
tempo dallo scadere della carica fecero approvare dal senato la lex Ignatia, che prevedeva che ogni
legione dovesse avere base in una città distinta.
Ciò era anche utile per non
concentrare l'esercito interamente in un solo punto e favorire
l'accentramento
dei comandi. C'è anche da dire che all'epoca la repubblica
era ancora molto
piccola, per cui le basi non distavano troppo le une dalle altre.
Consultandosi
con Gaio Giulio Catullo, primo magister
militum dell'esercito e fresco di elezione, stabilirono la
città base di
ogni legione. Per la Legio I, la
più
prestigiosa ed importante, venne ovviamente riservato un posto appena
al di
fuori dell'Urbe. La Legio II, III e IV
ottennero rispettivamente come basi Caenina,
Caractae e Tellenae.
Essendo
scaduto il loro mandato non ci fu modo per discutere ulteriormente, ma
a ciò
pensarono i successori Cesio Victricio Additore e Publio Sepurcio
Victricio
(lontani cugini). Infatti i due aggiunsero un passo alla lex
Ignatia che spiegava come fare per decidere la base per ogni
nuova legione creata. Il meccanismo prevedeva che il tribuno militare
(sinonimo
del ben più usato magister militum)
si consultasse con i consoli e insieme a loro decidesse il da farsi.
Adesso
che l'esercito era rinnovato ed efficiente, non restava altro che
individuare
la preda perfetta per testare la nuova macchina. I consoli del 605 Nono
Vagnio
Calatino e Sesto Antistio Cimbero, assistiti dal magister
militum Catullo e dal comandante della Legio
I Mamerco Papirio Lucano,
impiegarono tutto l'anno per individuare l'obiettivo adatto.
Le
attenzioni caddero quasi subito sulla città latina di Gabii, pericolosamente vicina al confine
della repubblica
(pericolosamente per i latini, si intende). Il confine della repubblica
arrivava infatti a meno di un chilometro dalla città a
seguito della conquista
di Collatia, e ciò aveva
profondamente preoccupato Ciamo Recettore, il re di Gabii.
Attraverso
alcuni informatori nell'Urbe, Ciamo riuscì a scoprire i
piani dei romani, e
alla riunione triennale dei capi della Lega Latina denunciò
il pericolo che
costituiva la repubblica. Nessuno gli diede credito, e l'uomo se ne
ritornò
mogio nella sua città.
Nel
604
a.C.
salirono al consolato Appio Tanico Foriano e Gaio Catullo, il magister militum. Quest'ultimo venne
eletto proprio in occasone dell'invasione imminente, e sfruttando la
morte di
un mercante romano nella città latina iniziò a
radunare gli uomini. Si mobilitò
solamente la seconda legione per due motivi principali: i consoli
pensavano che
una sola legione bastasse per sottomettere la debole città
latina e visto che
la base militare più vicina all'obbiettivo era quella di Caenina si pensò di usare la
legione che vi risiedeva (ovvero la Legio II).
Avevano
ragione: in meno di una settimana la città latina cadde e
venne incorporata
alla repubblica. A Catullo e a Servio Umbrenio Giuliano (il comandante
della Legio II) venne concesso il
trionfo, e
l'ultimo dei due si candidò al consolato dell'anno
successivo in occasione dei
centocinquant'anni dalla fondazione dell'Urbe.
La
caduta di Gabii accese un
campanello
d'allarme nella Lega Latina, che fino a quel momento non aveva quasi
considerato i cugini romani. Adesso la repubblica era una minaccia
concreta che
si stava pian piano palesando.
Nel
603
a.C.,
mentre a Roma si festeggiava con a capo i consoli Giuliano e Quinto
Appuleio
Campano, i latini indissero una riunione straordinaria della Lega. La
questione
venne discussa più volte tra i capi delle varie
città, ma non venne mai trovato
un accordo a causa delle divisioni interne. Ciò fu la causa
della loro futura
rovina.
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Capitolo 21 *** Finis autem tertium ***
Matteo
aveva da pochi minuti terminato la lezione. I ragazzi si erano
già dileguati, e
lui era rimasto solo all'interno dell'aula. Stava rimettendo a posto i
suoi
appunti quando qualcuno spalancò la porta con un calcio.
Opitero Onorato entrò
di filata dentro la classe.
-
Hey! - gridò Matteo - Che ti prende?!
-
Hai saputo?
-
Cosa?
-
Accendi subito la radio.
Matteo
rimase un attimo perplesso. La radio? Perché la radio?
Cos'era successo? Decise
infine di seguire le indicazioni dell'amico, e si avviò
verso la radio.
L'apparecchio era accantonato su di un banco isolato in fondo alla
stanza, e
aspettava solo di essere usato. Era un modello Linum2,
risalente agli anni 80, ma funzionava ancora. Gli alunni la
usavano a ricreazione per sentire le ultime notizie.
-
Su che canale? - chiese all'amico.
-
Qualsiasi.
Matteo
rimase fermo un momento, perplesso, ma alla fine premette il pulsante
d'accensione. Non toccò la manopola per regolare la
frequenza, visto che
l'amico aveva detto di mettere un canale qualsiasi. L'apparecchio si
sintonizzò
su Urbis104.
- ...l'annuncio
ufficiale è arrivato
all'incirca un quarto d'ora fa a tutte le emittenti televisive e
radiofoniche,
anche se tale dichiarazione risale ormai a questa mattina. Alle 12.00,
ora
dell'Urbe, l'imperatore Placo si stava apprestando a concludere il suo
discorso
all'impero dalla sede governativa a Limosoquia, quando, con sconcerto
di tutti
i presenti, ha annunciato l'intenzione di abdicare a breve in favore
del figlio
Marco. Ancora non è stato specificato il giorno in cui
ciò accadrà, ma si
presume che avverrà entro la prossima settimana. I nostri
osservatori alla
corte imperiale di Roma hanno già scorto i preparativi per
l'incoronazione e il
passaggio della porpora. Adesso cinque minuti di pubblicità,
ma restate con noi
per ulteriori aggiornamenti!
Marco
non poteva credere alle proprie orecchie. L'imperatore dimissionario
era una
cosa totalmente inaspettata e quasi del tutto inedita. Quasi,
perché era
successo già una volta alla metà del XIX secolo.
Prese a girare freneticamente
la manopola delle frequenze per tentare di avere qualche informazione
in più.
- ...l'imperatore
abdica...
-
...Marco Sallustio, il futuro
imperatore...
-
...fioccano già le scommesse sul nome
del...
-
...per adesso il papa non si
esprime...
-
...passaggio della porpora
imminente...
Avrebbe
continuato all'infinito, se Opitero non gli avesse staccato la mano
dalla
radio, spengendola subito dopo.
-
Vedo che la notizia ha sconvolto anche te.
-
Hmm...
-
L'imperatore Placo che abdica... nessuno se lo sarebbe mai aspettato.
Tu?
-
No. - mugugnò Matteo.
Restarono
per un po' a parlare. In realtà parlava praticamente solo
Opitero, visto che
Matteo si limitava a grugnire una risposta ogni tanto.
-
Bene, adesso io vado. Antonia starà sicuramente attaccata al
telefono per dire
a tutti la notizia. Se non vado io a staccarla quell'apparecchio le si
incolla,
ci si vede!
Onorato
uscì, lasciando Matteo da solo. Si accasciò su
una sedia, senza fiato per ciò
che aveva appena appreso. Questo sì che sarebbe entrato
nella storia. Matteo
era il primo a gioire per una cosa del genere, ma non era per nulla
contento
della decisione dell'imperatore. Non sapeva perché, ma aveva
il presentimento
che sarebbero cambiate molte cose. L'imperatore Placo aveva segnato gli
anni
precedenti, e se decideva di ritirarsi niente sarebbe stato
più come prima.
Forse nemmeno Matteo.
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Capitolo 22 *** De legibus humanis iuribus ***
E'
molto importante specificare che dall'inizio del VI secolo a.C.
cominciarono a
verificarsi molti cambiamenti nella repubblica, in parte anche
influenzati da
quelli che ne stavano avvenendo all'esterno.
Un
esempio importante è quello della lingua. Infatti fino al VI
secolo a Roma (ma
anche nel Lazio in generale) si parlava un dialetto molto rozzo del
greco. Un
dialetto molto diluito, ma pur sempre greco, quindi bene o male ci si
capiva
anche con gli ellenici. Alla fine però, con la conquista di Cosmae e Veio e i progetti di
ampliamento verso la Sabinia, Roma cominciò a subire
l'influenza etrusca, e
pian piano la lingua assorbì molti dei loro termini. Nel
resto della Lega
Latina invece cominciò a svilupparsi quello che nel giro di
un secolo sarebbe
diventato il latino.
Il
602
a.C.
passò tranquillo, cosa strana per Roma. I consoli Spurio
Larzio Caractoro
(altro discendente di Aulo) e Terzio Veturio Recettore dovettero
praticamente
solo sottoscrivere (si fa per dire) le nomine di Sesto Nigidio Mallo
(console nel
611
a.C.)
e Gaio Nemetorio Docilino rispettivamente a pontefice massimo e magister militum.
L'anno
successivo Mallo aggiunse all'Annales
pontifis il culto dei Lari, divinità protettrici
della casa totalmente
autoctone e romane. I consoli (Gneo Edinio Mordantico e Quinto Canidio
Abito)
fecero invece effettuare un censimento (censori Numerio Cepario Luperco
e
Vopisco Quintilio Sticone), dal quale risultò che la
popolazione totale
ammontava a sessantatremila abitanti, di cui settemila schiavi.
Nel
600
a.C.
venne approvata una legge rivoluzionaria per l'epoca: la lex
Ceciliana, promulgata dal console Cesio Irzio Ceciliano e dal
collega Druso Cedicio Ceriale. Ceciliano era quello che oggi
chiameremmo
"difensore dei diritti umani". Quell'uomo aveva infatti una grande
sensibilità, soprattutto per gli schiavi. Il censimento
dell'anno precedente
aveva scatenato molte polemiche sul fatto che nel numero degli abitanti
dovesse
essere inserito anche il numero totale degli schiavi. Alla fine, per
evitare
ogni discussione, erano stati conteggiati anche gli schiavi, ma la
faccenda non
era stata per nulla risolta. La cosa era stata proposta in senato e
inizialmente era stata respinta, ma Ceciliano e i suoi sostenitori
riuscirono,
seppur con molta fatica, a convincere i senatori ad approfondire tali
argomenti. Quando venne eletto console Ceciliano sfruttò la
sua posizione per
migliorare leggermente la considerazione degli schiavi. Ciò
gli fruttò non
pochi nemici, e addirittura quando il suo consolato terminò
rischiò il linciaggio.
I consoli successivi, Oppio Dannico e Osto Cecina Ceriale, furono
costretti ad
assegnare una scorta armata a Ceciliano.
Nel
598
a.C.
divennero consoli Sesto Murrio Aciliano e Lucio Domizio Ausilio.
Proprio in
quel periodo morì Mamerco Papirio Lucano, ovvero il
comandante della Legio I, e
rischiò di scatenarsi una
crisi come quella che aveva portato all'invasione di Perenna. Per
scongiurare
ciò, con la lex Ausilia
si stabilì
che dovesse essere il magister militum
a nominare i comandanti delle varie legioni. Gaio Docilino elesse a
comandante
Tiberio Cepasio Castorio.
Nel
597
a.C.
il pontefice massimo aggiunse al proprio annales
anche la venerazione dei Mani e i Penati, altre divinità
della casa. Riteneva
infatti che non fosse possibile credere nei Lari senza avere fede anche
negli
altri due gruppi. I Lari e i Mani erano in parole povere gli spiriti
degli
antenati benigni che difendevano rispettivamente l'interno e l'esterno
della
casa dai nemici. I Penati invece erano spiriti dannati, appartenenti a
coloro
che non avessero nessuno a ricordarli. Gli antichi romani infatti
avevano un
grande rispetto per la memoria degli antenati, e consideravano blasfemo
chi non
ricordava e chi non veniva ricordato. I consoli Sesto Claudio Minervale
e Gaio
Celio Castorio approvarono inoltre un ricorso del pontefice che rendeva
Aulo
Caractoro il Lario più importante. Venne inoltre eletto a magister militum Quinto Lutazio Claro, il
bellicoso comandante
della Legio II, che non vedeva
l'ora
di invadere qualche città vicina e combattere.
Note dell'autore
Mi dispiace, ma a causa di un imprevisto ho dovuto saltare la scorsa
puntata. Ma non vi preoccupate, avrete anche un capitolo extra!
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Capitolo 23 *** Digae et salinas ***
All'inizio del 596 a.C.
Claro presentò ai neo-consoli Potito Nigilio Ciriaco e
Spurio Murrio Cicone un piano di conquista molto ardito, ma anche molto
subdolo e sottile. L'obbiettivo principale era la conquista di Fregenae,
un porto etrusco all'estuario del fiume Arrone, ma non era previsto che
fosse Roma a fare la prima mossa.
Per prima cosa nel 595 a.C.
i consoli Sesto Munio Seneciano e Decio Volcazio Ireneo stabilirono
un'alleanza con un'altra città etrusca, Careiae,
anch'essa sulle rive dell'Arrone, ma posta molto più a monte
rispetto a Fregenae.
Il lucumone della città, Vel Arsenna, una volta appreso il
piano dei romani, acconsentì immediatamente all'alleanza.
Elogiò grandemente Quinto Claro per la sua
genialità, e garantì l'appoggio militare nel caso
ce ne fosse stato bisogno. Careiae era
da lungo tempo una rivale di Fregenae,
visto che entrambe le città si contendevano il controllo
delle acque (che a quell'epoca erano navigabili) del fiume Arrone, che
conducevano fino al lago Sabatino.
Nel 594 tre coorti
della Legio
III marciarono
da Caractae sino al
fiume Arrone, ed iniziarono immediatamente i lavori di costruzione di
una diga. Era interamente fatta in legno, ed alla sua costruzione
assistette il console Marco Cassio Sisinnio e il comandante della
legione Marco Cepasio Bruccio. L'altro console, Spurio Albazio
Publicio, risiedette a Roma per tutto il mandato.
La diga venne
completata l'anno successivo. I traffici sul fiume (che provenissero da Fregenae oppure
da Careiae)
vennero bloccati, nel primo caso sotto la minaccia degli arcieri
romani. Il lucumone fregenino, Lars Turenna, appena venuto a sapere
della diga, rimase profondamente turbato. Da una parte sapeva che era
un affronto imperdonabile alla città, dato che regolando il
livello dell'acqua a loro piacimento i romani avrebbero potuto
condizionare l'attività del porto etrusco, con grandi danni
all'economia locale. D'altro canto era consapevole che dichiarare
guerra ai romani sarebbe stato un suicidio. Ma pressato dai suoi
consiglieri, fu costretto a prendere le armi.
Un esercito etrusco
si mosse subito verso la diga, e prontamente Claro fece spostare
lì l'intera terza legione, anche se per stare maggiormente
sicuro fece arrivare anche la quarta. A comandarla c'era persino il
console Decimo Cispio Pollio. L'esercito romano si schierò a
difesa della diga, e la battaglia passò alla storia come Scontro
delle Acque Ferme. Fu denominata così
perché il ponte più vicino alla diga venne
demolito dai romani, e per questo l'esercito etrusco si
ritrovò costretto a passare il fiume a piedi. I romani
attaccarono proprio in quel momento, e la maggior parte degli scontri
si svolse in acqua. Lo stesso console Pollio annegò durante
i combattimenti, ma l'esercito romano riuscì ugualmente a
trionfare.
Fregenae si
arrese senza combattere, e ai soldati vittoriosi venne concesso il
trionfo, durante il quale ad affiancare il console Amulio Duccio
Asprena andò comesuffectum Gaio
Rutilio Floriano, colui che una ventina d'anni prima aveva coordinato
l'ampliamento della strada omonima.
La conquista di Fregenae era
molto importante anche dal punto di vista strategico. La
città infatti, oltre a fungere da porto alla repubblica,
avrebbe consentito il controllo delle foci del Tevere e delle vicine
saline, che fino a poco tempo prima erano state controllate proprio
dalla città etrusca.
A tal proposito, in
quei luoghi vi era ancora di stanza la guarnigione fregenina, comandata
da un certo Spurinna. Per questo nel 592 a.C.
il nuovo magister
militum Manio
Minucio Treno si mosse con la Legio
II per
sconfiggere definitivamente gli etruschi in quella che venne ricordata
come battaglia delle Saline.
Claro, console per il 592 a.C.,
e il suo collega Gallo Veranio Properzio concessero al magister il
trionfo, e gli venne anche garantito il consolato per l'anno dopo
assieme a Gaio Floriano.
Note
dell'autore
Il
lago Sabatino sarebbe quello che oggi è il lago di
Bracciano, ma nell'antichità era conosciuto con quel nome. E
il capitolo bonus arriverà a breve.
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Capitolo 24 *** EXTRA - Biografie ***
BIOGRAFIE
(per riassumere)
Aulo
Atrio Caractoro
766
- 701
a.C.
Le
informazioni sulla vita di Aulo Caractoro sono molto vaghe. Si sa solo
che era
assieme a Romolo quando egli fondò Roma ed aveva circa
tredici anni, per cui si
è dedotto che fosse nato nel 766 a.C.
Scalò
velocemente i ranghi del primo esercito costituito da Romolo, e
salì agli onori
delle cronache quando sconfisse nel 735 a.C.
i fidenati nella battaglia dei campi di
Caractae. Tali gesta gli fecero guadagnare
il cognome con cui divenne famoso.
Era
molto amico di Romolo, tanto che promise sposa sua figlia Atria
Priscilla ad
Ersilio, ovvero il figlio del re romano e suo erede.
Nel
718
a.C.
Romolo decise di affidargli il comando del primo corpo militare romano
vero e
proprio, ovvero la Legio I Lupus,
ed
Atrio ne divenne il primo comandante. Restò in carica fino
al 702
a.C., quando, sentendo
che le forze lo stavano abbandonando, lasciò la carica in
favore di Marco Virio
Cotta, nonno del console Placo. Morì per cause naturali
l'anno successivo.
Col
passare dei secoli si creò una vera e propria aura divina
attorno alla sua
figura, tanto che alcuni pensarono addirittura di farlo inserire nell'Annales pontifis.
Spurio
Pollio Bibacolo
722
- 666
a.C.
Spurio
Pollio Bibacolo nacque a Tellenae
nel
722
a.C.,
ovvero l'anno 30 Ab Urbe condita.
Si
arruolò giovanissimo nell'esercito, e presto
cominciò a scalare i ranghi
assieme all'amico Mamerco Flavio Vepgeno.
Assistette
Avilio nella sua guerra contro Fidenae,
e assunse il comando dello sbandato esercito romano dopo la sua morte.
Contribuì alla vittoria romana, e piuttosto che farsi
proclamare nuovo re
(visto che Avilio non aveva lasciato eredi) decise di rendere Roma
qualcosa di
più evoluto per l'epoca. Si dice che dopo tre giorni di
isolamento assieme a
Vepgeno i due abbiano infine concordato di rendere Roma una repubblica,
cioé da
reis (cosa) e da publicae
(pubblica). Una cosa pubblica, ovvero di tutti, come
spiegò nel suo discorso ai romani. All'inizio la
denominazione era proprio reispublicae,
ma il suono si ammorbidì e
si semplificò col passare dei secoli.
Fu
il primo console romano nel 673 a.C. assieme
all'amico Vepgeno, e stabilì le basi per
quella che sarebbe diventata la più grande potenza mondiale.
Finito l'anno si
ritirò a vita privata, consumato da un male incurabile
all'epoca. Morì proprio
per causa sua nel 666 a.C.,
e tre anni più tardi gli fu dedicata una città,
ovvero Bibacola.
Mamerco
Flavio Vepgeno
722
- 659
a.C.
Mamerco
Flavio Vepgeno nacque a Vepgenae,
una
città a nord di Roma, ma giovanissimo si trasferì
con la famiglia nell'Urbe.
Arruolandosi poco più che uomo nell'esercito ottenne la
cittadinanza romana, e
strinse una salda amicizia con Spurio Pollio Bibacolo.
A
lui venne affidato il comando dell'esercito di riserva durante la prima
guerra
contro Fidenae, e
contribuì in modo
decisivo al trionfo romano. Divenne console nel 673 a.C.
assieme all'amico, e
contribuì a riportare stabilità nello stato.
All'inizio
non si voleva ritirare dalla carica di console, ma dopo che Bibacolo
gli ebbe
parlato acconsentì alla richiesta. Concluse la propria vita
come privato
cittadino nel 659, morendo probabilmente per cause naturali.
Consenzio
Asina
720
- 661
a.C.
Rampollo
di una famiglia agiata, Consenzio Asina venne fin da piccolo
indirizzato verso
la carriera politica.
Di
lui si seppe poco fino al colpo di stato del 672 a.C.
per riportare ordine
a Roma assieme a Lucio Erennio Ventore. Del duo rimane sempre quello
meno
ricordato, e infatti anche negli annales
si sa poco della sua vita dopo il consolato. Viene solo accennato che
morì nel
661 per una caduta da cavallo.
Lucio
Erennio Ventore
724
- 662
a.C.
Si
arruolò prestissimo nell'esercito, e divenne un ufficiale di
spicco della prima
legione. Divenne una personalità rispettata, e gli venne
addirittura proposto il
comando dell'esercito, ma rifiutò poiché aveva
giurato che non avrebbe mai
ricoperto ruoli importanti (cosa smentita in seguito).
A
Consenzio Asina serviva un uomo forte (e con uomini) per prendere le
redini
della situazione romana, e la scelta ricadde su Ventore. Assieme
riportarono
ordine in città e divennero i secondi consoli della storia
romana.
Ventore
fu l'autore della nota lex Ventoria,
che non permette la rielezione alla carica consolare. Nonostante avesse
infranto la promessa fatta, governò bene e senza abusare del
suo potere. Morì
nel 662
a.C.,
forse per cause naturali.
Note dell'autore
Eccovi il capitolo extra tanto millantato, pure più lungo
del normale, spero ve lo siate goduto!
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Capitolo 25 *** Arx quoque et in antris ***
Adesso
che le Saline e Fregenae erano
state
conquistate, non rimaneva che occupare il territorio attorno alle foci
del
Tevere. Ma a qualcuno quest'idea non piaceva per niente.
Incredibilmente
nessun romano, mentre erano in corso i combattimenti contro gli
etruschi, si
era accorto che una spedizione colonica greca (forse proveniente da
Argo, ma
non è sicuro) era approdata lì ed aveva
cominciato a costruirsi una città. La
repubblica ne venne a conoscenza solo a guerra terminata, ovvero quando
la Legio II ebbe una scaramuccia
con alcuni
esploratori greci.
Manio
Treno rientrò a Roma e chiese udienza al senato.
Raccontò loro quanto accaduto,
e ricevette l'autorizzazione dai neo-eletti consoli Gaio Betucio Cicone
e Paolo
Barrio Perperna. A poco meno di metà del 590 a.C.
la Legio
II si presentò ai greci, e Treno gli
offrì di arrendersi per non ingaggiare
battaglia. Aristoforo, il capo della spedizione, rifiutò
sdegnosamente, e
allora si passò alle armi. Non avendo ancora nemmeno le mura
la città non fu
difficile da conquistare, ma alcuni guerrieri asserragliatisi
nell'acropoli,
l'unico edificio costruito per intero dell'insediamento, diedero del
filo da
torcere alle truppe romane. Ma dopo quattro giorni di assedio si
arresero, e lo
scontro terminò.
I
romani però, invece che distruggere la città,
permisero ai greci sopravvissuti
di continuare la costruzione ed abitarvi, purché ovviamente
si sottomettessero
a Roma. Aristoforo accettò, e l'anno seguente i consoli
Servio Amazio Pascenzio
e Sesto Flavio Romolo vi si recarono personalmente, e crearono
ufficialmente il
municipio locale, dando il nome all'insediamento di Acropolis,
a causa dell'edificio che la dominava. Acropolis
rimase per lungo tempo il
porto principale della repubblica, ma il progressivo spostamento verso
sud
della foce del Tevere le fece perdere man mano importanza.
Nel
588
a.C.
i consoli Fausto Nasennio Ceciliano e Gneo Vitellio Nemesiano fecero
compiere
un censimento (censori Terzio Cesennio Lepido e Spurio Rutilio
Floriano,
fratello di Gaio), dal quale risultò che la popolazione
ammontava a
settantanovemila abitanti, di cui quasi diecimila schiavi.
Con
l'incremento della popolazione se ne ebbe uno anche dell'esercito,
tanto che
l'anno successivo i consoli Appio Tuccio Durone e Titedio Fimbrione
furono costretti
a fondare una nuova legione, la Legio V
Tauros, chiamata così più in omaggio ad
Appio Lucio Tauro (comandante della
prima legione deceduto l'anno prima) che all'animale.
Nel
586 i consoli (Tito Giovenzio Tiberillo e Marco Pompeio Bello) non
dovettero
fare nulla, se non certificare la nomina a magister
militum di Secondo Epidio Salonino. Nel 585 invece salirono
al consolato
due favoriti del popolo, ovvero Decimo Petronio Faustillo e Vibio
Volumnio
Neneo. Essendo di umili origini anch'essi condividevano le gioie e i
crucci del
volgo, e come la maggior parte degli abitanti dell'Urbe sentivano che
in città
mancava un mercato. O meglio, quello c'era, ma era l'organizzazione a
non
esserci. La fiera si teneva infatti ogni anno in posti diversi, tanto
che una
volta i sacerdoti dei templi di Giano e di Zeus, rispettivamente Flavio
Virio
(soprannominato Fastidio dalla folla) e Quinto Elvio (chiamato Musico
per via
della sua passione per la cetra, il cui suono veniva surclassato dal
chiasso
della folla), avevano cacciato decine di mercanti dall'entrata dei loro
santuari.
Faustillo
e Neneo cominciarono in segreto a studiare la conformazione dei colli
romani, e
trovarono il posto adatto per ergere una struttura permanente nella
stretta
valle tra i colli Palatino e Campidoglio. I lavori iniziarono quasi
alla fine
del loro mandato, e terminarono l'anno successivo, quando i consoli
Osto
Pisenzio e Quinto Ostilio Massimo inaugurarono il Foro Boario, ovvero
il primo
dei fori romani. Venne chiamato così per via del fatto che
prima della
costruzione del Foro non era infrequente trovarvi a pascolare le mucche.
Nel
583 i consoli Nonio Caprenio Senzio e Sesto Licinio Ausonio diedero
l'ordine di
cominciare a far ampliare Roma verso nord, poiché molti
senatori non potevano
accettare il fatto che il Foro si trovasse al di fuori del pomerio,
ovvero il
confine sacro della città. Tali lavori terminarono una
decina d'anni più tardi,
e diedero inizio al sempre maggiore ampliamento dell'Urbe.
Nello
stesso anno morì anche il pontefice massimo Spurio Castino.
Furono proclamati
tre giorni di lutto in città, e al suo posto venne eletto
l'anziano Aulo
Titinio Santo. Le spoglie di Castino vennero tumulate nel Campidoglio,
e se ne
persero presto le tracce.
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Capitolo 26 *** Magnis rebus ***
Nonostante
tutto il trambusto iniziale, nessun latino aveva preso provvedimenti
contro
Roma dopo la caduta di Gabii, anche
se adesso i rappresentanti del resto della Lega erano più
cauti e guardinghi
quando dovevano trattare con la repubblica. I governanti, come
già detto in
precedenza, erano consapevoli del pericolo costituito dall'Urbe, ma la
loro
ostinazione a non unirsi li portò alla rovina.
Una
prova si ebbe già nel 582 a.C.,
quando il nuovo magister militum
Appio Aufidio Ceriale propose in senato di espandersi ai danni ti Tibur, una città latina vicina
che si
stava espandendo rapidamente. Tibur
era, in ordine di grandezza e popolazione, la seconda città
del Lazio dopo Alba
Longa, e la sua sconfitta sarebbe servita a stabilire una volta per
tutte chi
comandava in quella zona. I consoli Oppio Vipstanio Casca e Tito
Vitruvio
Mucone acconsentirono, e tutto il 582 venne impiegato a preparare
l'esercito. Vennero
mobilitate tutte e
cinque le
legioni, poiché Tibur
non era un
avversario da sottovalutare, e nel 581 a.C.
partì l'invasine.
Ma
Teopropida, il re di Tibur, aveva
intuito quello che stava per succedere, per cui anche lui aveva
già fatto mobilitare
le truppe da lungo tempo, e non aveva intenzione di lasciar fare ai
romani la
prima mossa. Attraverso una delazione Teopropida venne a sapere che le
truppe
romane avrebbero marciato contro la sua città risalendo il
fiume Aniene, e
passò giorni interi a studiare la strategia per fermare le
truppe consolari
aiutato dal generale Severino Lepido.
Alla
fine prese una decisione. Era un piano ardito, ma coronabile dal
successo. Per
arrivare a Tibur i soldati romani
sarebbero stati costretti a passare all'interno delle paludi di Oppidum, poiché se volevano
mantenere
l'effetto sorpresa (comunque già svanito) ci avrebbero messo
troppo tempo
aggirandole.
L'esercito
tiburtino contava dodicimila uomini circa sotto il comando del generale
Severino Lepido, e quello romano più o meno lo equivaleva
(la Legio I era rimasta indietro
per
problemi logistici e partì con alcuni giorni di ritardo).
Teopropida mise
undicimila uomini all'interno della palude, in modo che combattessero i
romani,
mentre fece nascondere il restante migliaio all'esterno con il compito
di
trucidare gli eventuali fuggiaschi nemici. Teopropida voleva annientare
l'esercito romano, non solo sconfiggerlo.
Ma
quello che non aveva previsto era che avrebbe perso. La tattica del
generale
Severino Lepido era quella del cosiddetto "mordi e fuggi". Lui
puntava a sfiancare le truppe romane, con rapide sortite, furti di
cibo, rumori
notturni (in modo da togliere il sonno ai soldati romani) e finte
diserzioni
(in realtà uccidevano soldati romani e poi li portavano via
facendo credere che
avessero disertato). Questa tattica poteva anche funzionare, ma venne
tirata
troppo per le lunghe.
Dopo
due settimane Severino si decise ad ingaggiare una vera e propria
battaglia,
convinto di aver esasperato i romani. Ma essi più che
sfiancati erano furiosi
per quella tattica di guerra, e combatterono allo stesso livello, se
non
superiore, di quando erano in forma. Nonostante ciò
l'esercito romano rischiò
veramente di soccombere, e lo stesso magister
militum Ceriale venne quasi ucciso. A sistemare le cose venne
la prima
legione, comandata personalmente dai consoli Servio Minucio Ciprio e
Secondo
Vassenio Liviano (il comandante, Gaio Lucio Luciano, gli aveva ben
volentieri
lasciato il comando dopo essere stato esonerato dalla carica per i
cosiddetti
problemi logistici [si pensa che fosse stato pagato da Teopropida per
boicottare la campagna romana]), che dopo aver sbaragliato i tiburtini
all'esterno non faticò a dare manforte ai romani dentro la
palude. Quella che
nelle intenzioni di Teopropida doveva essere una trappola per i romani
si
rivelò un'arma a doppio taglio: molti tiburtini in fuga
misero il piede in
fallo ed annegarono nelle infide acque malsane di Oppidum.
Lo stesso generale Severino ebbe questo destino.
Tibur
si arrese senza opporre resistenza, e ai vincitori venne offerta prima
un'ovazione e poi il trionfo (l'unico a non partecipare fu Ceriale, che
tecnicamente non aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria, e
per questo
se la prese a male). Per evidenziare il carattere magnifico di quella
conquista
non vennero nemmeno fatti schiavi, anche per la felicità di
Ceciliano, che
encomiò pubblicamente i consoli per cotale decisione (in
realtà i prigionieri
erano talmente pochi che non sarebbe convenuto farli schiavi, per cui
vennero
tutti rilasciati).
Note dell'autore
A causa dei cosiddetti "problemi logistici" da oggi non pubblico
più di sera ma di pomeriggio. Scusate anche il ritardo.
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Capitolo 27 *** Therraemotus ***
La
conquista di Tibur
confermò tutte le paure latine. La tensione, da Alba Longa
sino ai territori degli Equi e dei Volsi, era palpabile, e sarebbe
bastata una
minima provocazione a scatenare una guerra. I consoli del 580 a.C.
(Potito Fabio Lezzio
e Tiberio Cicereio Fabiano) provarono a riallacciare i rapporti
diplomatici con
i latini, invano. Ad abbattere il loro morale arrivò anche
la notizia della
morte di Aulo Titinio Santo, considerato come quasi il beniamino della
repubblica e sua immagine vivente. Con il passare dei secoli il
pontefice
massimo, oltre alle sue funzioni normali, si assunse anche questa.
A
sistemare la situazione ci pensò Manio Minucio Treno,
divenuto pontefice
massimo al posto di Aulo. Organizzò un incontro con i vari
capi delle città latine,
ed in particolare dopo aver parlato con il re di Alba Longa Olimpio
Gracco
seppe giungere a compromessi. Roma, essendo reduce da ben due guerre,
doveva
ancora aspettare per poter fare la prima mossa, così Olimpio
decise di
approfittarne, e chiese all'Urbe un contributo annuo alla Lega Latina
per
provare che la sua fiducia fosse ben riposta. Con l'approvazione dei
due
consoli (Gallio Fulcinio Flaviano e Vibio Falerio Abito) Treno
suggellò tale
promessa con il sangue, si dice.
Il
578 fu per Roma un anno drammatico. Poco tempo dopo l'elezione dei
consoli, un
terremoto sconvolse i territori della Lega Latina settentrionale e
della
repubblica, devastando in particolare Roma e Tusculum.
Le vittime furono numerose, "molte migliaia",
come scritto negli annales, sia tra
i
romani che tra i latini. Molti edifici crollarono, e il palazzo del
senato
collassò su sé stesso proprio mentre vi era una
seduta. Il console Tarquinio
Prisco rimase ucciso e il suo collega Vopisco Fulvio Fugino gravemente
ferito.
Scoppiarono anche numerosi incendi, andando ad incrementare il numero
delle
vittime.
Anche
in altre città della repubblica ci furono danni, i
più gravi dei quali a
Vergata, molto vicina all'epicentro, ma Roma era messa molto peggio. Al
posto
di Prisco venne fatto suffectum Titinio
Lucio, il quale non perse tempo a coordinare la ripresa: gli incendi
vennero
domati in fretta, e le macerie degli edifici vennero usate per ergere
molte
pire funerarie sulle quali bruciare le vittime (i palazzi erano fatti
interamente di legno al tempo). Il giovane figlio di Prisco, Spurio
Tarquinio,
venne affidato temporaneamente al vecchio generale Iuniano, e il
console fu
seppellito con tutti gli onori.
La
distruzione era stata pressoché totale, per cui si dovette
ricostruire il tutto
da zero. Questa volta per gli edifici vennero impiegati, oltre al
legno, anche
pietra e calce naturale, ottenuta mescolando la sabbia delle rive del
Tevere
alla sua acqua. L'erario quasi si svuotò a causa di questo.
Un aiuto
fondamentale venne da Careiae,
ancora
alleata di Roma, che inviò numerosi aiuti all'Urbe nel
momento del bisogno.
Facendo ciò la città si guadagnò lo
status di socius perpetuus (alleato
perpetuo) di Roma.
Il
577 venne usato per riprendersi dalla tragedia, e i consoli Flavio
Carvilio
Victricio e Tiberio Edinio Geniale fecero effettuare un censimento
(censori
Arrunte Papinio Protacio e Sesto Stazio Frumenzio) per stabilire la
popolazione
post-terremoto. Da quasi ottantamila abitanti la popolazione era
diminuita di
quasi un quarto, ed erano deceduti un quinto degli schiavi.
Nel
576 venne preso un altro importante provvedimento. Quando l'edificio
del senato
era crollato due anni prima, quasi tutti i senatori erano rimasti
uccisi o
gravemente feriti. Per questo, per evitare che si potessero azzerare a
causa di
un tale disastro, il loro numero venne aumentato a cento da una
delibera dei
consoli Manio Norbanio Ulpio e Arrunte Rutilio.
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Capitolo 28 *** Finis autem quartum ***
La
classe IG si trovava all'ultimo piano dell'istituto scolastico Aulo
Caractoro,
proprio in fondo ad un lungo corridoio. Per arrivarvi (e per andarsene)
bisognava per forza passare davanti alla porta che dava sul tetto. Fu
proprio
mentre vi transitava davanti che Matteo Umbrio Senna notò
che era socchiusa.
Fece per serrarla, quando notò una figura in piedi dietro
alla ringhiera. Preso
dalla curiosità, uscì.
Il
figuro era quasi del tutto in ombra, complice anche il fatto che il
sole stava
calando. Nonostante questo riconobbe quasi subito l'esile contorno di
Sesto
Modio Tulla, uno dei suoi allievi. Rimase immobile per qualche secondo,
chiedendosi perché uno dei suoi ragazzi fosse lì.
Il tetto della scuola non era
certo un bell'ambiente. Sporco, polveroso, pieno d'escrementi di
uccello,
cocci, vetri rotti, bottiglie di plastica vuote, cartacce, cicche di
sigarette
e resti di cibo avariato: era così perché da anni
nessuno lo ripuliva. Il tetto
dava un'idea del degrado delle zone circostanti, che forse erano
conciate anche
peggio.
-
Sesto?
La
piccola figura parve riscuotersi da una sorta di apatia. Si
girò, e nonostante
Matteo non lo vedesse molto bene poté intuire che si era
impaurito. Del resto
non era consigliabile per uno studente andare in un posto come quello.
- Ma-magister...
-
Cosa fai qui, ragazzo?
-
Io... n-niente...
Era
palese che stava mentendo, eppure, oltre alla paura, sembrava che nel
suo tono
ci fosse anche... tristezza. "Molto strano" pensò Matteo
"Tutto
mi aspettavo meno che questo."
-
Sesto...
Il
ragazzo prese leggermente a tremare.
-
Sesto, non sono nato ieri. Non si viene qui per non fare "niente".
Avanti, dimmi perché sei qui.
Sesto
Tulla abbassò la testa, mise le mani dietro la schiena e
cominciò a strascicare
i piedi. Si vede che stava cercando di dire qualcosa, ma c'era qualcosa
che lo
convinceva a fare il contrario.
-
Il fatto è che... - si sforzò a cominciare.
-
Sì?
-
Il fatto è che volevo stare un po' da solo, e questo
è l'unico posto che so per
certo essere evitato dalla maggior parte della gente.
-
Non dovresti essere qui, e lo sai.
-
Sì, ma... nell'ultima settimana non credo di sentirmi molto
bene.
Matteo
si inquietò leggermente.
-
Cos'è che hai?
-
E' da quando è stato annunciato che l'imperatore avrebbe
abdicato che non sono
più lo stesso. Sento come se mi mancasse qualcosa.
-
Tutti siamo addolorati per la decisione dell'imperatore, ma...
-
Una volta, qualche anno fa - lo interruppe l'allievo - i miei genitori
mi
portarono a Roma, in occasione della sfilata della famiglia reale per
festeggiare
la fondazione della città. Noi eravamo proprio in prima
fila, e i reali ci
passarono vicinissimo. Quando vidi l'imperatore mi emozionai
moltissimo, e
cominciai a salutarlo con la mano. Lui mi vide e ricambiò il
gesto. Nonostante
mio fratello maggiore sostenga il contrario, sono sicuro che
l'imperatore
guardò e salutò proprio me. Quello fu il giorno
più bello della mia vita. E non
posso credere che la persona più importante dell'impero...
Matteo
pensò al discorso di Sesto. Era sensato in effetti.
L'imperatore governava su
sette miliardi di persone, eppure tra tutte quelle che c'erano aveva
salutato
proprio Sesto. E il ragazzo non doveva averla presa bene quando Placo
aveva
deciso di abdicare. In fondo lo capiva, con la fine di Placo tramontava
un sogno.
-
Ti posso capire, Sesto. Ma non credo che sia questo il posto adatto per
stare
da soli a pensare. - dicendo così Matteo gli posò
una mano sulla spalla - E poi
mica muore! Si vede che si è stancato di tutti quei
cerimoniali. Animo! Prima
che Placo muoia ce ne vorrà di tempo. Va adesso, i tuoi
genitori si staranno
preoccupando.
Sesto
Modio Tulla corse immediatamente verso l'uscita, fermandosi
però sulla soglia.
Si girò verso l'insegnante, e gridò:- Grazie magister! - . Ripartì
immediatamente, scomparendo nell'istituto.
Matteo sorrise. "Ah, i bambini e i loro problemi. Dovrò
fargli entrare in
testa che Placo non è stato l'unico ad abdicare".
Note dell'autore
Ah, i problemi logistici, continuano ad assillarmi ritardando la
stesura della storia. Adesso che inizia di nuovo la scuola non so se
riuscirò a mantenere il ritmo.
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Capitolo 29 *** EXTRA - Roma all'estero nel VI secolo a.C. ***
La
prima menzione di Roma nelle cronache greche venne fatta dallo storico
Archita
di Corinto nel suo Popolazioni della
Magna Grecia, all'inizio del VI secolo a.C. Archita aveva
raccolto numerose
notizie sull'Urbe (che fossero voci o testimonianze veritiere non
è mai stato
chiarito) e le aveva inserite tra le descrizioni delle popolazioni
della Magna
Grecia. All'inizio intendeva fare solo una descrizione delle
città del sud
Italia, come Taranto, Siracusa e affini, ma poi finì per
includere anche i
popoli nomadi a nord, la Lega Latina e quindi Roma. Stando a quanto gli
fu
riferito Archita dipinse un'immagine abbastanza positiva della
repubblica.
Purtroppo il manoscritto è andato perso e ne siamo a
conoscenza solo grazie a
resoconti successivi.
Il
discepolo di Archita, Liburnio, decise di recarsi in viaggio in Italia.
L'escursione durò una decina d'anni, e il greco
visitò le principali città
greco-italiane (in ordine Taranto, Sibari, Crotone, Locri, Messina, Paestum, Neapolis
e Cumae) e si
diresse poi a nord, visitando Laurentum,
Alba Longa, Lavinium e infine Roma.
Arrivò in un momento critico per l'Urbe, poiché
erano passati pochi mesi dal
grande terremoto che sconvolse la città ed ancora quasi
nulla era stato
ricostruito.
Nel
suo resoconto Dramma Laziale,
Liburnio
descrive così Roma: "[...] cumuli di macerie sono costanti
ai lati delle
strade, e gli abitanti vagano come fantasmi dallo sguardo spento [...]
nobili e
popolani sono al pari livello, si struggono allo stesso modo e piangono
sulle
loro proprietà distrutte dalla furia della Madre Gea. Quale
loro affronto sarà
stato tanto grave da spingere la Madre Terra a punirli così?
[...]".
Solo
pochi frammenti sono pervenuti ai giorni nostri, ma rendono l'idea
della
situazione romana all'epoca. L'opinione greca ne fu molto colpita,
tanto che il
tragediografo Adirte di Megara trasse una tragedia dal pensiero che sia
stata
Gea stessa a punire i romani. L'opera d'arte, intitolata La
furia di Gea, ottenne presto numerosi riconoscimenti non solo
a
Megara, ma anche ad Atene e a Corinto. In particolare venne
rappresentata ai
giochi olimpici del 552 a.C.,
tanto era divenuta popolare. Era soprattutto apprezzata la scena in cui
Liburnio discute con la musa Calliope del motivo per cui Gea sia stata
così
crudele con Roma. Ancora oggi tale scena è un esempio di
profondità artistica.
Molti
greci furono colpiti dalla cruenza con cui veniva descritta la
situazione
romana, per cui partirono di loro spontanea volontà verso il
Lazio con
l'intenzione di aiutare i romani a risollevarsi. Secondo il loro
pensiero
"bisognava aiutare i fratelli", visto che più o meno i
romani
discendevano da migranti greci approdati sui lidi del Lazio nel XII
secolo a.C.
Questo fenomeno contribuì in modo fondamentale nella ripresa
di Roma. Molti greci
si stabilirono lì una volta che ebbero finito di dare una
mano.
Al
di fuori dell'Italia e della Grecia Roma a quei tempi era poco
conosciuta. Ai
Fenici giunsero poche informazioni, ed ancora di meno agli Egizi. I
Cartaginesi, nonostante la vicinanza, ne sentirono a malapena parlare,
mentre
le città siciliane, calabresi e pugliesi videro un grande
afflusso di gente
verso l'Urbe. Nessuno poteva immaginare che quella città
sconvolta dalle scosse
sismiche si sarebbe presto (forse non tanto presto, ma prima o poi vi
sarebbe
arrivata) ritrovata con il ruolo di "signora e padrona del mondo".
Angolo
dell'autore
Salve! Dopo giorni di assenza sono tornato! Spero abbiate apprezzato
questo extra. Ecco, a causa di impegni vari la serie è
temporaneamente sospesa, mi devo mettere in pari con alcune cose e devo
schiarirmi le idee. Ma tranquilli, prima o poi riprenderò.
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Capitolo 30 *** Recuperatione ***
Nonostante
fossero già passati tre anni da quel maledetto terremoto,
l'Urbe ancora
faticava a riprendersi. Le violenze dilagavano, l'esercito era in
fermento e si
vocifera che alcune città tramassero per ribellarsi. Inoltre
alcune tribù
nomadi stavano scendendo da nord e minacciavano i confini
settentrionali del
paese. Serviva qualcuno di forte, che fosse capace di sistemare tutto,
o che
almeno ci provasse. Le descrizioni di Liburnio d'altronde sembravano
non
lasciare quasi speranze per la Città Eterna, ma qualcosa
successe veramente.
Nel
575
a.C.
i consoli Larzio Allezio e Gallo Petilio Surio decisero di dare una
svolta
radicale alla situazione in cui versava la repubblica.
Per
prima cosa sedarono l'esercito, facendo sostituire il debole magister militum Marco Papirio Lucano
dal ben più serio Marco Umbrenio Nerva, comandante della Legio I. Egli lasciò al
comando della prima legione il suo secondo
Massimo Plozio Natalino, e si recò di persona dai soldati
dell'esercito, tutti
radunati poco lontano da Roma. Con un abile discorso, riportato
successivamente
dallo storiografo Sornazio, Nerva seppe calmare gli uomini e riportare
l'esercito dalla sua parte.
In
meno di due settimane fu risolto anche il problema delle violenze nella
capitale. Fu imposto quello che oggi chiameremmo coprifuoco, all'epoca
noto
come incessus circolationem. Fu
allora effettuata una seduta straordinaria nel senato, dove si discusse
sul da
farsi.
A
sud c'era Acropolis, la città greca conquistata pochi anni
prima, che era
diventata incandescente subito dopo la notizia del terremoto di Roma, e
stava
premendo sempre di più per riottenere l'indipendenza. Da
nord invece stavano
scendendo i Pioraci, una popolazione appenninica proveniente forse
dalla
Pianura Padana. Essi potevano contare su circa diecimila
unità, di cui la metà
erano combattenti o comunque guerrieri, che all'epoca era tantissimo.
Erano
queste le due principali minacce.
Dopo
molte ore si ebbe un piano: l'esercito sarebbe stato diviso in due per
affrontare simultaneamente le minacce. Ritenendo i Pioraci
più pericolosi
rispetto agli Acropolesi, a sottomettere i greci vennero inviate la
quarta e la
quinta legione, con a capo il console Surio. Egli assediò
Acropolis, che
capitolò dopo poco tempo a causa della mancanza di provviste.
Più
arduo si rivelò invece sconfiggere i Pioraci. La
popolazione, dopo varie
scorribande in Sabinia, penetrò nella repubblica
saccheggiando Crustumerium e
mettendo sotto assedio Nomentum. La
prima, seconda e terza
legione (al comando di Allezio e Nerva) si recarono in soccorso delle
città
settentrionali, riuscendo a riconquistare Crustumerium
e a ricacciare a nord gli invasori da Nomentum.
A
causa della fine dell'anno i consoli furono costretti a rientrare a
Roma per le
elezioni, ma raccomandarono ai successori Pomponio Trebellio e Osto
Cocceio
Eumenio. In quel periodo ricorreva anche il centenario della fondazione
della
repubblica, ma per ovvie ragioni le festività furono
accantonate.
I
nuovi consoli diedero presto segnali positivi. I Pioraci stavano
infatti accennando
a rientrare nella repubblica, così i due decisero di
anticiparli. Si
attestarono con l'esercito sulla collina di Virnum,
un piccolo rilievo da cui si poteva dominare la Pianura Sabina
meridionale. I
guerrieri pioraci, non avendo nozioni di strategia, attaccarono senza
pensare,
e vennero presto sconfitti e massacrati.
Trebellio
ed Eumenio rientrarono a Roma come eroi, e assieme ai loro predecessori
sfilarono in trionfo (seppur in maniera modesta). Subito i due si
misero al
lavoro per cominciare veramente la ripresa dello stato. Impiegarono il
resto
del loro mandato a progettare il modo per risollevare le sorti della
nazione, e
tale piano fu iniziato dai successori Decio Tullio Bibulo e Arrunte
Socellio
Pelagio.
Note dell'autore
E' successo il miracolo, ho trovato un buco di tempo per scrivere
questo capitoletto. Non fraintendete, è solo uno sprazzo,
non credo che ancora riprenderò a scrivere questa storia
qui. Lo faccio solo per non far dimenticare (sia a me che a voi) che
esiste e che è ancora in corso.
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Capitolo 31 *** Major reformat ***
Bibulo
e Pelagio per prima cosa posero rimedio ad una stupida dimenticanza dei
loro
predecessori. I consoli precedenti si erano infatti dimenticati di
assegnare
una base alla quinta legione senza un apparente motivo (forse
all'inizio furono
delle inezie burocratice e in seguito il caos causato dal terremoto a
far
dimenticare questa faccenda). Vi posero rimedio insediandola ad Antemnae.
Subito
dopo si diede il via ai lavori di ricostruzione della città.
Questa volta fu sì
usato il legno, ma misto ad una buona dose di pietra. Gli architetti a
cui si
erano rivolti i senatori avevano infatti capito che la pietra era molto
più
resistente del legno, e per questo venne impiegata. Era però
assente la calce,
che venne introdotta solamente mezzo secolo più tardi. A
quel tempo le
costruzioni stavano in piedi grazie ad un complicato ma ingegnoso
sistema di
pesi e contrappesi fatto appositamente in modo da sfruttare la
gravità. Ciò era
però svantaggioso in caso di pioggia o forte vento come si
vedrà, ma in assenza
di modi migliori si adottò questo.
I
consoli per il 572 a.C.,
Mamerco Ceionio Felicissimo e Clelio Trenico introdussero un'altra
importante
riforma. Fin dal consolato di Gaio Tremera, avvenuto ormai quasi un
secolo
prima, a Roma e dintorni si usava come monetazione l'aes
rude, ovvero grossi pezzi non lavorati di materiale (oro
argento e ferro, ma molto più frequentemente bronzo).
Ma
col passare del tempo tale sistema si era rivelato ingombrante e
difficile da
applicare, in quanto difficilmente si poteva correttamente stabilire il
valore
effettivo di un singolo pezzo di metallo. Trebellio ed Eumenio nel loro
piano
avevano cercato di porre rimedio anche a questo.
Il
progetto prevedeva la fusione di tutti i pezzi di aes
rude, per poi ricavarne dei sottili e piccoli dischi, tutti
di
eguale dimensione e peso. Era stata presa a modello una moneta etrusca
importata da un mercante, e grazie a ciò nacque la prima
moneta romana, ovvero
l'aes grave.
Purtroppo
a noi sono pervenuti pochi esemplari di aes
grave, ma da quei modelli ci si è potuta fare
un'idea di come fossero le
altre monete. Pesavano all'incirca 100 g
(un po' pesanti in effetti), e valevano
tutte come "1". Recentemente sono stati rinvenuti degli esemplari di
semiasse risalenti a quell'epoca, dimostrando l'esistenza del primo
sottomultiplo economico. Il semiasse valeva appunto mezzo asse e pesava
30 g.
La
prima riforma monetaria statale venne completata l'anno successivo, e i
consoli
Appio Canzio Montano e Settimo Sepunio Musico gestirono personalmente
la
redistribuzione del nuovo conio. A dispetto della mole di lavoro il
compito non
risultò difficile, e già l'anno successivo
l'economia poté ripartire. Grazie
alla riforma monetaria venne aumentato il numero delle monete e allo
stesso
tempo il loro valore, a causa del leggero miscuglio del bronzo con
l'argento.
Nel
570 venne prese altre due importanti decisioni: l'impiegamento della
totalità
dell'erario e la difesa delle frontiere. I consoli Celio Pertace e
Mettio
Minucio Protacio rischiarono molto per queste scelte, ma vennero
ripagati, ed
anche molto.
La
ricostruzione di Roma era ormai stata quasi
ultimata, e per questo Pertace e Protacio decisero di impiegare i fondi
rimanenti nella ricostruzione e nell'ampliamento delle altre
città danneggiate
dal terremoto. I fondi si diressero principalmente verso Vergata,
Bibacola e Gabii, le tre
località maggiormente
colpite.
All'inizio
i due governatori vennero presi per pazzi. Fino a quel momento le
città al di
fuori di Roma erano state lasciate abbastanza a sé stesse, e
nessuno vedeva
l'utilità di ampliarle. Pertace e Protacio ebbero
però l'intuizione vincente.
Capirono infatti che ciò sarebbe stato utile a far ripartire
l'economia, in
quanto avrebbe stimolato il commercio con l'esterno. E così
fu, dato che i
mercanti della Lega Latina ricercavano molto le merci romane in quanto
più
pregiate delle loro. Bisogna anche pensare che un'ondata di gente greca
(quegli
stessi greci che avevano letto la tragedia di Archita, scritta nel 575)
arrivò
proprio in quel periodo e contribuì ai lavori facendoli
finire nel tempo record
- per l'epoca - di un anno. Si ebbe così anche un aumento
demografico con una
conseguente ripresa dalle vittime causate dal terremoto.
I
consoli inoltre decisero di porre la repubblica sulla difensiva, ovvero
rinunciare
a conquiste nell'immediato futuro in modo da far rafforzare l'apparato
statale.
L'esercito venne ugualmente mantenuto alle stesse dimensioni.
Note dell'autore
E
rieccomi qui, con un altro capitolo. Avevo detto che non ne avrei fatti
più, e invece ecco qua. Sono una contraddizione vivente.
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Capitolo 32 *** Muri mole et mysterious mortes ***
Nel
rispetto della politica difensiva adottata dai predecessori, i consoli
Quinto
Nepio Candido e Fausto Gratidio Bolano, eletti per il 569 a.C.,
presero una
decisione che in futuro si sarebbe rivelata più che utile.
Fino
a quel momento Roma si era espansa abbastanza al di fuori del pomerium creato da Romolo, ma
sorprendentemente, in quasi due secoli di storia, non si era mai munita
di una
cinta di mura. Era stata sempre una scelta azzardata, presa
poiché i re prima e
i consoli poi ritenevano sicuro il territorio romano.
Bolano
e Candido invece non avevano questa sicurezza, e temevano per il
futuro.
Nonostante la reticenza generale della popolazione romana, i due
riuscirono a
far approvare in senato un progetto per la costruzione di mura attorno
alla
città. Nelle loro intenzioni esse dovevano cingere anche i
quartieri più
recenti, ovvero quelli costruiti dopo il terremoto, e dovevano essere
lunga in
totale circa quindicimila passi (il "passo" romano venne utilizzato
per lungo tempo come unità di misura nella repubblica, ed un
passo valeva
all'incirca quaranta centimetri. Quindi quindicimila passi
corrispondevano a
circa sei chilometri, che per l'epoca era tantissimo).
Ai
due consoli si opposero i senatori dell'ala più
conservatrice, come
l'ex-console Ciprio oppure il rinomato senatore Decio Floridio Spendio.
Famoso
fu il discorso di quest'ultimo, conosciuto come De
tutum Spendie, riportato dallo storico Sornazio nel suo libro
Historice Dicta, per sostenere la
sicurezza del territorio romano, che però non
servì a fermare i consoli.
I
lavori furono fatti iniziare l'anno successivo, e famoso è
un episodio ad essi
legato. Spendio, furioso per l'inutilità delle sue parole,
si era recato da un
indovino, il quale aveva predetto che se i consoli non avessero
partecipato ai
lavori di costruzione le mura sarebbero state destinate a crollare
presto. I
consoli Nonio Tiziano Camerio e Numerio Nemetorio Memore, consigliati
dal
pontefice massimo Manio Minucio Treno, presero parte ai lavori posando
rispettivamente l'uno la prima pietra e l'altro l'ultima. La loro
risposta alla
provocazione di Spendio fu talmente memorabile che il commediografo
Plauto vi
scrisse una commedia sopra, Due pietre
per due consoli, molto popolare alla fine del II secolo a.C.
Nel
567
a.C.,
mentre i lavori per il completamento delle mura erano ancora in corso,
i
consoli Lucio Ceionio Cerinto e Celio Gratidio Nostro decisero di
rinnovare
l'alleanza con Careiae, dove si
incontrarono con il lucumone Arsenna. Egli espresse l'amicizia della
città
verso il popolo romano, e garantì assistenza in caso di
bisogno. La stessa cosa
fecero i consoli romani.
Nel
566 furono completate le mura della capitale, e in una grande cerimonia
presieduta dai consoli Servio Flavinio Edicio e Oppio Livio Sirico
l'ex-console
Memore posò l'ultima pietra del cantiere nell'unico spazio
vuoto rimasto. Il
senatore Spendio non partecipò a tale evento per ovvi motivi.
Il
565 venne ricordato come "l'anno dei grandi addii". In quel periodo
infatti spirarono in rapida successione tre importanti
autorità: in ordine di
dipartita Massimo Plozio Natalino (comandante della Legio
I), Manio Minucio Treno (pontifex
maximus) e Spurio Salonio Rufrio (magister
militum) che pure avrebbe dovuto terminare il mandato a
breve. La
coincidenza di tali eventi spinse i consoli Osto Nevio Geminiano e
Numerio
Vitellio Rutiliano ad organizzare una grande cerimonia d'addio ai tre.
Poco
dopo vennero eletti come comandante della prima legione Flavio Sertorio
Viridio, come pontefice massimo Tiberio Cicereio Fabiano e come capo
dell'esercito Vibio Ottavio Cervidio.
Già
il fatto che tre prominenti personalità statali fossero
morte in rapida
successione poteva far intuire qualcosa, ma nel momento in cui anche i
due
consoli perirono in circostanze poco chiare il complotto lo si poteva
vedere
chiaramente. Non era così forse per i due consoli suffecti, ovvero Barrio Celeste e Oppio
Pomponio Tremero, i quali
si limitarono a bollare come annus
horribilis quel periodo di strane morti. Ma i visionari
avevano ragione, in
quanto c'era davvero qualcuno a manovrare dei fili.
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Capitolo 33 *** Melinie ***
Fortunatamente
mancava poco alla fine dell'anno, e i successivi consoli Proculo
Olcinio
Spartico e Canuzio Valgo, erano coscienti della gravità
della situazione e
dichiararono lo stato d'emergenza (eas
res tumultum). Non vennero però prese eccessive
misure di sicurezza. E ciò
si rivelò una scelta sbagliata.
Una
notte di quintilio (antico nome del
mese di luglio) scoppiarono tre incendi simultanei nella capitale: uno
al
palazzo del Senato, uno all'antico tempio di Zeus Laziale, meta di
pellegrinaggio da tutta la repubblica, e un altro al tempio di Giano.
Fortunatamente
quello al Senato fu domato dopo poco, mentre quelli ai templi no.
All'alba il
fuoco al tempio di Zeus continuava a bruciare, mentre quello al tempio
di Giano
era stato domato a fatica.
L'ammontare
dei danni venne calcolato la settimana successiva. Al Senato i danni
erano
stati trascurabili, ma non negli altri luoghi. Il tempio di Giano era
stato
distrutto per più di metà, mentre quello di Zeus
era andato completamente in
fumo. La cifra per ricostruire il tutto ammontava a più di
ventimila aes gravi, tantissimo per
l'epoca.
Il
fatto che gli incendi erano stati dolosi era stato appurato fin da
subito.
Questo bastò perché utte le legioni venissero
mobilitate e poste a guardia
della capitale, mentre tutti i municipali ricevettero messaggi di
allarme che
invitavano a monitorare chiunque uscisse e chiunque entrasse nelle loro
città.
Ci si aspettava un attacco nemico da un momento all'altro, anche se non
si
sapeva bene da chi.
Questo
arrivò, ma non prima dell'anno successivo. Furono mesi di
paura, quelli che
intercorsero fra il 564 e il 563 a.C. La
popolazione aveva paura ad uscire di casa, e
pattuglie di soldati marciavano costantemente per le strade, giorno e
notte,
per controllare l'identità di eventuali vagabondi. Il panico
scoppiò quando
giunse la notizia di una battaglia.
Lo
stagno di Melinie si trovava a
qualche chilometro a sud di Caractae,
in una posizione intermedia tra la città e Roma. Quando
l'anno prima le legioni
erano state mobilitate, una coorte della Legio
III era rimasta in città per fare la guardia al
centro abitato. Era però
arrivato l'ordine di rientrare nella capitale da parte dei neoconsoli
Terzio
Grazio Petro e Appio Quintilio Minervale, i quali intendevano serrare
la
sorveglianza nell'Urbe.
Erano
state richiamate truppe anche dalle altre città sedi di
legione, fra le quali
anche la coorte di Antemnae guidata
dall'ufficiale Massimo Balvenzio Umile. Egli conosceva il comandante
della
coorte rimasta a Caractae, ovvero
Nono Marcio Melo. Per questo motivo si erano accordati per riunirsi a
circa un
chilometro dalla capitale per serrare i ranghi ed entrare insieme.
Questo
appuntamento era stato previsto per il pomeriggio del 14 settembre. La
mattina
del 15 non si era ancora visto nessun legionario appartenente alla Legio III. Umile, allarmato, decise di
mandare degli esploratori a controllare la posizione di Melo. Questi
tornarono
nel pomeriggio, e non poté credere alle proprie orecchie.
Mobilitò i propri
uomini e si mosse verso la direzione indicatagli dagli esploratori.
Quando
arrivò allo stagno di Melinae
gli si
presentò davanti un vero e proprio bagno di sangue. Romano.
L'accampamento di
Melo era stato distrutto, e l'erba era fradicia di sangue. Le acque
dello
stagno stesso erano rosse e piene di corpi galleggianti. Non era
sopravvissuto
della coorte di Nono Melo.
Umile
fece esaminare tutti i corpi prima di erigere una pira funeraria, e
tutti
risultarono avere il segno identificativo della Legio
III, ovvero un piccolo simbolo dell'aquila cucito sul
vestito. Ciò voleva dire che chi li aveva attaccati non
aveva subito perdite, e
ciò era ancora più disturbante.
Umile
si diresse subito verso Roma e avvertì tutti dell'accaduto.
Il console Petro
svenne quando gli venne comunicato ciò. Minervale, che
invece aveva più sangue
freddo, chiese di farsi portare sul luogo del massacro. Vi arrivarono a
tarda
sera, e, nonostante il parere sfavorevole di molti soldati, il console
decise
di accamparsi lì per esaminare tutto il mattino seguente.
Nella
notte si ripeté probabilmente lo stesso copione di quanto
era successo a Melo e
ai suoi uomini. I romani vennero attaccati da tutti i lati, e molti
vennero
massacrati. Melo e Minervale, svegliati dal clamore della battaglia,
mantennero
la calma e assieme ad un manipolo di uomini si concentrarono al centro
dell'accampamento rappresentato dal bivacco, armati di torce e di
lance. Quando
vennero anch'essi attaccati combatterono furiosamente, e seppero tenere
impegnati gli assalitori fino all'alba. Il sorgere del sole fece
dileguare gli
sconosciuti nemici, mentre i romani crollarono a terra esausti. Il
console
Minervale invece si mise a contemplare il corpo di un nemico appena
abbattuto.
Non indossava armatura, ma portava solo una spada ed uno scudo, sul
quale vi
era rappresentato il sole che sorge. Il simbolo di Alba Longa.
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