Sacrificio mancato

di Uff_san
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buon compleanno ***
Capitolo 2: *** Ombre ***



Capitolo 1
*** Buon compleanno ***


Autore: Uff_san, nel tempo libero Kanon di Gemini
Genere:
Introspettivo
Rating:
Verde
In proposito:
Kanon, ancora una volta. Una versione inconsueta ma forse non impossibile di come potrebbero essere effettivamente andate le cose.
Disclaimer:
I personaggi non mi appartengono e sono di Masami Kurumada
Cose:
La storia non è completa, stavolta. Secondo i piani dovrebbe essere composta di tre capitoli, ognuno dal punto di vista di uno dei tre protagonisti. Due, Kanon e Saga, compariranno immediatamente nel primo capito. Il terzo, Aioros, farà la sua comparsa nel prossimo. Ringrazio tutta Wonderland che mi ha consigliato, ispirato e spronato. In particolare (come al solito) ringrazio Ele, uno Specter che mi è molto caro.



La giornata uggiosa sembrava irridere l’estate imminente;
le gocce di pioggia, noncuranti della vita e dell’animo dei presenti, cadevano all’esterno della casa, mute ed insieme rumorose.
-Buon compleanno, fratello.
Lo sguardo del ragazzo seduto di fronte alla finestra restò immutato, fisso contro il vetro che si appannava leggermente mentre i lampi illuminavano il mondo, altrimenti oscuro.
-Pensi che riuscirai a parlarmi di nuovo, prima o poi?
Non vi fu risposta.

-Puoi mostrarmela?
Quasi sorpreso dallo spezzarsi del silenzio, il ragazzo, ch’era ormai diventato uomo, impiegò qualche istante per afferrare il senso della domanda.
-No. Sai che mi è proibito indossarla prima di domani, quando m’insedierò alla Terza Casa.
L’altro, il ragazzo rimasto tale, sbuffò lievemente.
-Regole.- Mormorò sottovoce, tornando a fissare il vetro e ritrovando il medesimo sguardo assente di poco prima.

Era da molto tempo che Kanon non tollerava più quelle maledette regole. Allenarsi, pregare, tornare ad allenarsi, studiare i misteri.
Era devoto ad Atena molto più che a se stesso. Qualunque cosa facesse, in qualunque modo si evolvesse, accanto a lui c’era sempre suo fratello.
Saga.
Amava Saga quasi quanto la sua dèa e si trovava costretto a combatterlo ogni giorno perché non esisteva che un’armatura a cui erano però destinati in due. Una singola armatura per un’anima divisa in due entità separate.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passava, aveva in mente solo Atena, suo fratello ed infine il Fato. Il Fato invincibile ed impassibile, a cui ogni dio deve inchinarsi e che egli scorgeva sotto ogni piega del mondo.
Non era uno sprovveduto, Kanon. Riusciva ad intravedere il futuro.
Ogni volta che manipolava le dimensioni, ogni volta che mandava in polvere quei miliardi di mondi racchiusi in un singolo atomo, egli scorgeva il nome del fratello scolpito ad auree lettere nel futuro del Santuario.
E a che pro, continuare, allora?
Osservava il fratello allenarsi, lo osservava nei gesti che migliaia di volte anche lui aveva compiuto. Osservava i suoi occhi, la luce nelle sue iridi, e sapeva.
Sapeva che anch’egli riusciva a vedere il proprio nome perché nei suoi occhi ne aveva scorto il riflesso.
E sapeva inoltre che era per questo che ogni sera Saga gli si avvicinava e lo abbracciava.
Per questo che ogni giorno lo consolava e lo proteggeva.
Perché anche i suoi erano occhi che possedevano già conoscenza degli eventi a venire. Sapevano che Kanon sarebbe stato solo uno scarto, e dei più inutili.
Un Santo incompiuto è un uomo mancato: un eterno ragazzo che muore ogni giorno invischiato sempre di più nel fallimento del proprio esistere.
Nel vedere il riflesso negli occhi di Saga, in quel preciso attimo, cominciò ad odiare. Un giorno come tanti la routine del proprio futuro fallimento improvvisamente ruppe gli argini e cominciò ad avvelenargli lo spirito.
Dapprima fu sorpreso del nuovo sentimento che in lui si veniva a formare.
La vista gli si annebbiò leggermente, cadde in ginocchio e si sentì montare dal furore; ma bastò l’avvicinarsi del fratello preoccupato perché questi fosse ricacciato indietro, come se mai fosse sopraggiunto.
E la cosa più strana che riusciva a ricordare era l’emozione che il momento gli dava, poiché mai l’amore che aveva provato per lui era stato così intenso e allo stesso tempo disperato come in quel singolo, infinito istante.
Ci vollero anni perché il veleno cominciasse a dare segni tangibili nel suo apparire e perché instillasse nel suo animo la propria definitiva vittoria.

Stremato dalla tensione della serata più che dai terribili allenamenti di tutti quegli anni, infine Saga si arrese, piegato dallo sguardo immoto del fratello contro il vetro.
Dopo che ebbe aperto lo scrigno la luce dei lampi si acquietò improvvisamente, come timorosa, ed un’altra luce invase la stanza buia. La luce divina dell’armatura dorata. Due gemelli fissarono allora il simbolo e l’archetipo della propria esistenza.
Ed improvvisamente questi gli si rivelò, sconvolgendo con la sua mostruosa maestosità la visione che proiettava attorno a sé.
L’elmo, il brillante elmo d’oro, sembrava allo stesso tempo compiangere e sbeffeggiare entrambi; derideva l’uomo, derideva il ragazzo.
Kanon sentì rimescolarsi il sangue nelle vene come mai prima d’allora. Quell’armatura era la metà che sentiva mancante. Sentiva per essa la stessa sensazione che talvolta nel dormiveglia percepiva per il fratello, solo mille volte più fulgida, più accentuata. E soprattutto più concreta.
Lui sapeva, sapeva, che se solo l’avesse indossata tutto sarebbe cambiato. Avrebbe ritrovato la verità, la giustizia, la propria dèa.
Si sarebbe dimenticato del Fato e dell’odio, avrebbe scordato ogni singola stilla di malvagità che quegli anni avevano riversato in lui.
Allungò una mano e Saga non lo fermò. Forse perché abbacinato, forse perché stravolto; forse perché aveva all’improvviso avuto coscienza di cosa avrebbe significato quel gesto.
L’elmo bifronte fu soltanto sfiorato, ma ciò bastò. Questi lanciò un ultimo, brillante raggio di luce e si lanciò verso la fronte del ragazzo.
L’armatura smise improvvisamente di brillare, contravvenendo in apparenza alla propria natura.
Saga portò istintivamente lo sguardo verso l’ultima, flebile fonte di luce che ancora perdurava e rimase sconvolto.
Kanon, trasfiguratosi, restava ritto in piedi, immobile quanto lo può essere una statua.
E il suo volto… il suo volto ricordava in maniera impossibile, ma così perfetta, entrambe le facce dell’elmo.
Non riusciva a comprendere.

Il tempo ha la straordinaria capacità di dilatarsi a seconda dell’importanza del momento.
Un minuto diventa un anno, un secondo un eone, e tutto è subordinato alla maestosità che questi scopre nell’esistenza di quella manciata di istanti.
È una belva senziente, il tempo. La solennità non ha sempre l’importanza datagli dagli schemi convenzionali. E una lacrima o una risata qualsiasi perduta nel mondo può acquisire per esso più peso di qualsiasi altro avvenimento.
Fu quindi forse per capriccio che quella manciata di secondi dentro Kanon diventarono una vita intera. Il copricapo gli parlava. Gli parlava!
Innumerevoli voci turbinavano attorno a lui, ognuna latrice di caotici mondi distanti.
E di un’unica, insistente domanda.
Il mondo si fermò.

I due erano seduti uno accanto all’altro.
L’armatura era stata prontamente richiusa nel suo dorato scrigno e il cielo aveva ripreso la sua pioggia di lampi.
Saga si girò, e per un attimo ebbe un brivido nell’osservare il sorriso malvagio del gemello, mentre questi si accingeva a parlare:
-Buon compleanno… fratello.

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Capitolo 2
*** Ombre ***


Ombre


Aioros era stato convocato dal Pontefice. Non era la prima volta che ciò accadeva, ma non era mai successo che il Santo d’Oro fosse invitato nel tempio del sommo in via non ufficiale.
Non era stupido, Aioros. C’era qualcosa che non andava e ciò doveva restare segreto, perfino all’interno del Santuario.
Così, in silenzio, si diresse verso le sacre aule.
Al momento la Casa che proteggeva era l’ultimo baluardo di difesa per una eventuale invasione. Invasione del tutto impossibile, certo, ma lui prendeva il suo ruolo mortalmente sul serio.
La Decima, l’Undicesima e la Dodicesima Casa stavano attendendo i loro occupanti; c’erano voci sul fatto che essi avessero appena conquistato il proprio diritto e fossero in viaggio per giungere in Grecia: ecco perché egli non si allontanava mai. Certo, stava allenando suo fratello, ma lo faceva tra le mura del Santuario e sempre attento al suo compito principale.
Atena era per lui la luce del sole e il riflesso della luna.
Talvolta sembrava che bastasse invocare la sua presenza perché in cielo le nubi si diradassero; persino il volto del Santo di Sagitter pareva perennemente illuminato dalla luce sacra della sua dèa.
Per questo quella chiamata non gli piaceva affatto: un compito da tenere segreto avrebbe significato impegno, trascurare la protezione della Nona Casa.
L’ultimo baluardo di difesa per una eventuale invasione.
Scacciò però in fretta questo pensiero; il Pontefice, voce di Atena sulla Terra, lo aveva chiamato e se questi avesse richiesto un servigio ciò sarebbe stato solo in nome e a difesa della giustizia.
Rinfrancato dalla consapevolezza di stare svolgendo perciò il proprio dovere, giunse infine di fronte al tempio oltre le dodici Case.
Entrò in silenzio; non venne annunciato, ma sapeva di essere atteso: Shion, il Pontefice, sedeva immobile sul suo scranno, riflettendo chiaramente agli occhi del Santo la luce sacra di Atena Glaucopide.
Il Santo si inginocchiò rispettoso e la voce terrena di Atena cominciò a parlare.
Funerea.

Aioros si stava muovendo lentamente per tornare alla propria Casa.
I suoi occhi, di solito tanto brillanti, erano ora coperti da un’ombra che mai prima d’allora si era affacciata sul suo spirito.
Ripensava a quanto gli era stato detto e rivelato e cercava di capire perché il destino avesse scelto proprio lui per tale compito.
Uno degli onori più grandi dati ai Santi d’Oro era quello di essere a parte dei più intimi segreti dell’ordine cosmico, ed era per questo che egli non aveva chiesto di parlare con la dèa in prima persona: sapeva che si stava per incarnare e che il suo spirito parlava ora per bocca del solo Santuario.
Osservò la statua di Atena che si stagliava in lontananza, coprendo parzialmente il sole ormai morente che si stava inabissando dietro il Tempio.
Per la prima volta la vista di quella sacra effige non gli diede conforto né ispirazione.

Il giovane si ritrovava a riflettere. Il volto una volta conosciuto si confondeva ora con l’ignoto d’una persona per lui foreste, rivelatagli poche ore prima.
Ripensava a Saga, al loro primo incontro. All’apparire tanto divino che lo aveva colpito in quel modo così intenso.
Ed improvvisamente ebbe una grande compassione per il gemello che mai aveva conosciuto.
Un sentimento tanto semplice sorse dai recessi del suo petto per poi colmarlo: Compassione.
Fino a quel momento Aioros non aveva intuito cosa volesse dire gettare ombra (o forse luce) ovunque andasse per il semplice motivo di esistere. Ma ormai, in quelli che si rivelarono più tardi essere gli ultimi fatali mesi del Santo, egli vide alfine suo fratello minore per quel che era, chiedendosi se questi si sarebbe mai lasciato alle spalle il nome che idolatrava, il nome di Sagitter, per trovare un vero compimento in Atena.
E la consapevolezza di cosa dovesse significare vivere adombrato da Saga –Saga il dio, Saga che era adorato dal popolo, Saga al cui passo la folla si apriva- era qualcosa di troppo intenso perché il cuore di Aioros riuscisse a non venirne scosso, dopo essere stato inoltre così provato dalle rivelazioni fattegli.

“Santo di Gemini!”
Lo spettacolo era iniziato, nonostante ciò si scontrasse con ogni più intima fibra di Aioros. E nel momento in cui questi proseguiva col recitare scoprì come fare per sottomettersi alla menzogna e come la fede potesse essere più forte di qualunque altro sentimento. In tutto ciò, infatti, egli aveva fede in Atena.
Ma il dolore, il dolore che sentiva in petto per ogni istante di falsità espresso, per ogni parola non verace, per ogni sorriso ostentato, era reale.
Mai più.
E fu forse per questa consapevolezza piuttosto che per impossibilità che un giorno futuro, lontano più di tredici anni, non comparve con altri Santi per recitare una nuova menzogna davanti al Tempio.
Ma c’era qualcosa che non riusciva a definire con chiarezza in questo gioco di falsità. Qualcosa che non aveva contemplato e che nel momento in cui ne prese coscienza lo colpì come un maglio.
“Nobile Saga, sono arrivato. Non avrai cominciato senza di me, spero.”
“Certo che no, amico mio.”
Aioros era stato ingannato dalla sua stessa menzogna.

Mentre il suo animo, ogni giorno, lottava per non piegarsi alla grettezza che sentiva di commettere, allo stesso tempo il fascino che Saga esercitava su di lui non tardò a radicarsi sempre più in profondità. Il fascino si trasformò in rispetto, e da lì il passo verso una sincera, spassionata amicizia, fu molto breve per Aioros.
Così il Santo si ritrovò ad interpretare una parte molto strana, in cui fingeva di essere ciò che in realtà era davvero.
Per qualche tempo fu tutto davvero confuso: il Bene e il Male per Aioros erano sempre state due entità distinte, separate e facilmente riconoscibili. Ed egli, ovunque andasse e qualsiasi cosa facesse, sentiva di essere espressione vivente della prima di esse, incarnazione della giustizia rappresentata dalla sua dèa. Quando infine gli fu tutto chiaro e riconobbe la verità che trasudava dal suo comportamento, ciò non lo fece sentire meglio, in quanto il senso di colpa veniva raddoppiato dalla consapevolezza di quanto importante fosse per lui la persona ingannata.
E lo strazio che provò qualche mese dopo al riconoscimento della verità, inaspettata quanto terribile, fu per questo tanto più dilaniante.

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