Senza titolo, l'infanzia di Shade

di K u r a m a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sangue, sangue sui vesti, sulla pelle; sangue sul cuore. ***
Capitolo 2: *** Indifferenza, disprezzo e rifiuto per un nipote mai conosciuto. ***
Capitolo 3: *** Come le margherite nei campi, come i girasoli che cercano il sole. ***



Capitolo 1
*** Sangue, sangue sui vesti, sulla pelle; sangue sul cuore. ***


Sangue, sangue sui vesti, sulla pelle; sangue sul cuore.

 

Era una sera come tante altre, una giornata passata nelle illusioni che un bambino vive inconsapevole, che trascorreva sorridendo, scaldato dalle braccia della madre che lo abbracciava ogni qual volta voleva le coccole, baciato sul capo dal padre che gli sorrideva felice infondendogli calore e sicurezza.

Quella era la giornata di un bambino qualunque, una Domenica passata in famiglia tra il calore e il riso, tra gli scherzi, il solletico e i pasticci in cucina.

Era una giornata di primavera, la città come sempre era tinta dalle sue innumerevoli luci, tutto era rumore, la quiete non esisteva.

Il suono dei pneumatici sull'asfalto, il suono lontano delle sirene che sottostavano alla legge dell'effetto Doppler, il rumore dei piatti che sbattevano negli appartamenti accanto e la melodia triste del sax che veniva suonato nell'edificio di fronte.

Tutto era normale, perfetto per quel bambino biondo di otto anni che sedeva a tavola e mangiava le sue patatine fritte intinte nel ketchup piccante, sporcandosi la bocca che gli veniva puntualmente ripulita da sua madre, mentre suo padre mangiava tranquillo e annuiva al concitato racconto di suo figlio che stava riassumendo tutta la sua piccola giornata.

Guardata dall'esterno quella scena era simile a quella di un quadro: il bambino che rideva, gli occhi verdi brillanti, la bocca sporca, la madre protesa verso di lui, un tovagliolo in mano, gli occhi socchiusi e il sorriso dolce, i capelli a caschetto biondi che ormai non soleva più tingere di nero e che aveva lasciato crescere un poco, abbandonando il taglio a caschetto. Il padre stava, invece, seduto a capotavola, le mani intrecciate e posate sotto il mento, mentre gli occhi blu erano rivolti uno al bambino e l'altro alla moglie con un sorriso dovuto a quella tenera scena intima e familiare.

Era proprio come una tela ad olio, fatta di pennellate veloci, rapide ed impressioniste, ma attente e calcolate come quelle di Raffaello e i colori di Tiziano.

Era un dipinto incantevole, che trasmetteva calore, serenità, una vita che avrebbe fatto invidia a tutti, poiché sembrava quasi inafferrabile, infinita e bellissima; intoccabile perfino dal destino, ma esso era sempre dietro le porte, nessuna eccezione.

Di solito soleva trasformarsi in un ragno, entrare di casa in casa, appropriandosi di un angolo nascosto della stanza più luminosa e di giorno in giorno osservava la sua sorella vita scorrere e lui, da fratello birbante quale era, si divertiva assai spesso a farle scherzi, aiutando la cugina morte nei suoi malvagi intenti, mentre il loro padre, il tempo, semplicemente continuava a camminare con quel suo cappello a bombetta nero, il suo abito elegante e antico, nella mano destra il bastone che soleva far ticchettare lungo la strada.

A volte la vita riusciva a non incappare nei tranelli del fratello, ma altre volte quel ragno tesseva le fila così bene da non potergli sfuggire mai e tra le mura di quell'appartamento ne aveva tessuta una fatta d'argento.

Ci aveva messo anni e tanta cura, l'aveva costruita con una dovizia mai avuta. Voleva palesarsi con grande stile e da tempo gustava il gusto della vittoria mentre la notte si calava dal suo modesto e celato angolino e zampettava di stanza in stanza ad osservare gli abitanti di quella piccola casa che erano del tutto ignari della sua presenza, ma quel giorno, quella Domenica, era finalmente venuta e tutto stava per iniziare.

Lui era finalmente pronto a bussare.

-Shade è ora di andare a dormire.- disse amorevole Lucy, spegnendo la televisione che il bambino stava guardando, interrompendo a metà così la storia del re leone, proprio nel punto in cui stavano cantando la canzone preferita del bambino: il cerchio della vita.

Questo gonfiò le guance e poi scese dal divano per correre dal padre che aveva appena finito di farsi il bagno e infilarsi il pigiama.

-Papà! Papà!- lo chiamò aggrappandosi ai pantaloni di flanella -La mamma è cattiva!- esordì.

L'uomo dai capelli rossi e corti guardò la moglie interrogativo e questa sbuffò alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa.

-E che avrebbe fatto per essere cattiva?- chiese paziente, passando la mano grande e confortevole tra quei morbidi e ondulati capelli biondi che rimembravano i capelli di un angelo.

-Non ha finito di far cantare il cerchio della vita!- si lamentò -A me e a Golia piace.-.

-Golia?- chiese il padre prendendolo in braccio -Il tuo amico immaginario?- chiese divertito, pensando quando anche lui da bambino ne aveva avuto uno.

Shade scosse la testa energeticamente. -No, Golia è una fata! Anche se le piace mordere.- storcette il naso.

A quell'affermazione il silenzio calò nella stanza, greve.

-Ed è qui ora?- chiese la madre avvicinandosi con urgenza al bambino. I suoi occhi blu come il mare profondo che brillavano di pura preoccupazione.

Il piccolo Shade scosse la testa e poi sbadigliò. -E' andata via poco fa, ha detto che era stanca.- disse, accoccolandosi tra le braccia calde del rosso, posando il capo su quella spalla dura, larga e piacevolmente confortante.

Lucy sorrise nervosa, mentre con l'uomo si scambiavano uno sguardo di intesa.

-Andiamo a dormire ora Shade, sei stanco e domani è una giornata impegnativa.- disse con voce profonda questo, portandolo nella sua camera e poggiandolo sul materasso, tra le coperte fredde, ma che ben presto si sarebbero scaldate.

-Vuoi che ti legga una favola?- chiese Lucy, cercando di tenere a bada il battito impazzito del suo cuore e le lacrime che volevano scendere, ma il piccolo bambino si era ormai addormentato con una strana e profonda maligna risata nelle orecchie che gli arrivò come un molesto eco.

I due adulti gli sussurrarono la buona notte e dopo aver baciato il suo capo e accarezzato i suoi capelli, silenziosi se ne erano andati lasciandolo a riposare tranquillo, mentre i loro animi erano inquieti.

-Non è al sicuro qui, Jack.- sussurrò la donna, una volta che ebbe richiuso la porta.

Il rosso la strinse dolcemente, facendo posare ella contro il suo petto. La strinse forte, come se non vi fosse più un domani, come se avesse uno strano presentimento all'interno del suo cuore che gli stava urlando qualcosa di terribile.

-E' speciale, devi solo accettarlo.- la coccolò l'uomo, posando il mento tra quei capelli biondi, ma meno soffici di quelli di Shade che ignaro di ogni cosa stava dormendo beato.

-Non è solo questo... quelle creature.- singhiozzò piano e Jack iniziò a cullarla. Sapeva cosa la preoccupava e allo stesso tempo anche lui era in ansia anche se quel bambino non era il suo figlio biologico.

Era vero, non condividevano lo stesso sangue, gli stessi geni; Shade non avrebbe mai preso i suoi tratti, ma... era suo figlio e tanto bastava.

Lo aveva cresciuto, gli aveva voluto bene come se fosse suo e mai niente avrebbe cambiato questa verità; che gli fosse umano, angelo, demone, vampiro o qualsiasi altra cosa. Shade era prole sua e di Lucy, la donna che amava da anni, che aveva corteggiato e che aveva conquistato con fatica.

-Andrà tutto bene. E' un bambino in gamba.- tentò di tranquillizzarla, costringendola a guardarla, prendendole il mento con l'indice e il pollice, sorridendole coraggioso, cercando di infonderle sicurezza.

-Dov'è la mia Lucy?- chiese Jack, baciandole gli zigomi e asciugandole le lacrime -Dov'è quella donna fiera che ama le avventure e che non proverebbe paura nemmeno di fronte a un toro inferocito?-

Lei sorrise appena e si alzò sulle punte per posare un casto bacio sulle morbide e calde labbra del marito.

-Non lo so, quando si tratta di Shade mi sento inutile ed inerme.- sussurrò, tornando a poggiarsi contro quell'ampio petto che ormai era la sua casa, il suo più grande rifugio in cui sapeva avrebbe sempre trovato conforto.

-Forse dovrei tentare di contattarlo, forse Michele potrebbe aiutarlo.- provò, ma a tale prospettiva Jack la prese in braccio sorprendendola.

-E' nostro figlio, lui non c'entra più nulla.- disse serio, mentre la portava in soggiorno, sul divano bianco a forma di L.

-Sono sicura che ci sia un motivo dietro la sua scomparsa. Non se ne sarebbe mai andato altrimenti, lo conosco.- a quel commento il marito si ingelosì un poco e la adagiò sul letto sovrastandola.

-Beh, ora sei mia. Smettila di pensarci.- soffiò guardandola con quegli occhi color del cioccolato che erano seri e pieni di gelosia.

Lucy ridacchiò, intrecciando le sue braccia dietro il collo di lui. La tensione era come se si fosse completamente sciolta, andata via come se non fosse mai esistita.

-Sei geloso Jack?- chiese bonaria.

Lui le morse appena il collo.

-Ovviamente.- disse poi al suo orecchio.

Si sarebbero baciati in quel momento se le finestre non si fossero aperte a causa di un'improvvisa folata di vento, avrebbero fatto l'amore se le fiamme non avessero preso a divampare dal nulla, sarebbero rimasti tutta la notte a coccolarsi se quel demone dai lunghi capelli rossi, le ali simili a quelle di un drago a cui le estremità vi erano degli acuminati denti, non fosse entrato irruento nella loro abitazione richiamato dal destino, che da ragno si era trasformato in serpente.

I due adulti scattarono in piedi, stringendosi l'un l'altro; guardando con paura il nuovo venuto i cui occhi erano di un brillante argenteo, che grazie al fuoco sembravano rossi come il sangue.

La sua pelle era scura, sul volto aveva innumerevoli cicatrici, il suo corpo era muscoloso, tonico, quasi come se lo avesse gonfiato.

-Datemi il bambino e vivrete.- disse solo, mentre impugnava saldamente quella lunga spada che era madida di sangue freddo e incrostato.

Jack spostò la moglie dietro la sua schiena, guardò con il coraggio che non aveva il mostro.

-Porta via da qui Shade.- ordinò a Lucy in un sussurrò.

-Cosa?- chiese lei nel panico -No... tu? Non se ne parla!- disse testarda. Sapeva che non era il momento, sapeva che l'altro aveva ragione, ma non avrebbe sopportato la consapevolezza di ciò che sarebbe palesemente successo.

Non poteva sopportare di perdere per l'ennesima volta la persona che amava.

-Va!- disse duro il rosso -va.- ripeté con più dolcezza.

A quel punto, fece l'unica cosa che poteva fare: Jack si lanciò contro quell'uomo, conscio che sarebbe morto, che quelli sarebbero stati i suoi ultimi momenti di vita.

Piangendo Lucy si volse per poter raggiungere la stanza di Shade, ma ancora prima di poterlo fare sentì il singulto strozzato del marito e non poté che non voltarsi.

Quello fu un errore.

I suoi occhi blu, già pieni di lacrime mai avrebbero voluto vedere quella scena: il demone, che freddamente aveva infilzato da parte a parte il corpo dell'uomo, che era spirato, mentre il suo sangue copioso fuoriusciva dalla ferita, mentre quel mostro di freddezza si era proteso e aveva iniziato a cibarsi di quell'umano che per lui non era altro che cibo, fonte si sostentamento.

Urlò Lucy, portandosi le mani davanti alla bocca, indietreggiando tremante, mentre la stanza si faceva più calda e il fuoco divorava ogni cosa.

-Mamma?- chiese in un pigolio Shade che si era svegliato e impaurito voleva solo raggiungere i suoi genitori.

Lei si volte verso il bambino, il suo bambino; l'unica cosa che le era rimasta.

-Scappa.- disse flebile.

-Mamma?- ripeté il biondo avvicinandosi, mentre guardava con paura il fuoco che iniziò a farlo tossire.

-Scappa Shade!- disse Lucy alzandosi tremante, poiché caduta a terra.

Doveva salvarlo, doveva salvare almeno lui!

Il demone sentendo quel nome ghignò, lanciando tra le fiamme il corpo esanime e sfigurato di Jack.

Sporco di sangue camminò incurante delle fiamme, che si spostarono senza nemmeno sfiorarlo.

-Consegnamelo.- ordinò.

Lucy abbracciò il piccolo.

-Vivi.- gli sussurrò nell'orecchio, mentre con il suo stesso corpo proteggeva suo figlio da quella spada acuminata, morendo per amore; morendo come ogni madre avrebbe fatto per il proprio figlio, pregandogli di vivere, mentre il suo stesso sangue andava a sporcare il bambino che non capì.

-M... mamma?- tentennò, mentre questa tra un sorriso e le lacrime spirava.

Il demone rise sadico, feroce, mentre scostava il corpo della madre ormai privo di anima da lui.

Lo avrebbe ucciso, lo avrebbe dissanguato e anche lui sarebbe morto se in quel momento una violenta luce non fosse entrata, se non lo avesse protetto e portato via, ferendo a morte quel demone.

Ma Shade non vide nulla, poiché il buio delle tenebre lo aveva accolto prima; svenendo. Nelle orecchie la risata del destino.
 

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Di questa storia ho pronti solo i primi due capitoli, ma credo che infondo siano anche i più importanti.
Vedrò di scrivere il più in fretta possibile i restanti due o tre.
Il raiting è arancione, ma sinceramente non so se abbassarlo a giallo ( xD )

 

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Capitolo 2
*** Indifferenza, disprezzo e rifiuto per un nipote mai conosciuto. ***


Indifferenza, disprezzo e rifiuto per un nipote mai conosciuto.

 

Da quella notte non aveva più parlato, da quella notte aveva avuto paura di essere toccato.

Anche allora, mentre la macchina dell'assistente sociale sfrecciava sicura sulla strada che avrebbe portato Shade in un luogo che non era casa sua, che mai lo sarebbe stata e che ancor meno conosceva.

Il bambino non guardava neppure fuori dal finestrino, non vedeva i rigogliosi alberi piantati a schiera lungo la strada, non notava neppure i dolci giochi di luce che il sole creava passando attraverso le foglie; il suo sguardo verde era ormai sbiadito, un'ombra del tempo, e che guardava ormai perennemente solo le punte dei suoi piedi.

Alle sue orecchie non arrivava nessun suono. Non sentiva la radio che cantava una delle solite stucchevoli canzoni d'amore, non udiva le parole sussurrate da quegli uomini che lo avevano preso e portato via di casa, portandolo via da quella luce che profumava di zenzero e che lo aveva protetto per tutto il tempo dalle fiamme e non percepiva neppure il suono delle gomme, che accarezzavano l'asfalto o delle altre macchine che passavano vicina alla loro.

Tutto era muto, tutto era silenzio e Shade non vi era abituato, lo temeva, lo faceva piangere la notte quando le tenebre si mischiavano ai suoi sogni, rendendoli incubi, trasformandosi in fiamme, urla e risa.

Tremò il bambino, che iniziò a tormentarsi le mani, nascondendole poi nelle maniche del maglione; gli occhi che si riempivano di nuovo di lacrime, la sua pelle che ancora percepiva la presenza del sangue di Lucy su di sé e che lo faceva stare male, che gli dava l'impellente bisogno di strapparsela.

Non voleva sentire quella sensazione, non voleva ricordare, ma per lui era inevitabile farlo; era tutto ciò poteva fare, che la sua mente gli ricordava di fare.

-Va tutto bene Shade.- disse uno dei due assistenti, voltandosi verso di lui e porgendogli un fazzoletto che Shade non prese.

Non voleva toccare nessuno, che sarebbe successo se lo avesse fatto? Sarebbero morti come mamma e papà?

Quello sorrise comprensivo e senza neppure sfiorarlo glielo posò sulla gamba e poi si ritrasse subito, guardando davanti a sé, ma guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore, mentre il collega guidava tranquillamente.

Il bambino guardò quel pezzo di carta finemente piegato, tentennante lo prese e poi si soffiò il naso velocemente, per nasconderlo infine nella tasca della sua felpa.

Di sottecchi guardò l'uomo e con le labbra mimò un “grazie” e quello sorrise dolcemente, tornando poi a parlare col collega che consultava il suo fedele Tom Tom.

Shade tornò a guardare di nuovo ai suoi piedi, come se sulla punta delle sue piccole scarpe bianche vi potessero essere le risposte alle mille domande che gli affollavano la mente, come se lì, su quella linea curva, sulla quale aveva disegnato delle ali con un pennarello nero indelebile, vi potesse essere un mondo senza tutto quell'immenso dolore che portava dentro, che era fresco, palpabile, ai suoi occhi invalicabile.

Per lui era come la siepe di Leopardi, quella punta bianca, solcata dal nero colore, portava all'immaginazione, ma anche al ricordo e per lui, per Shade, non vi era alcun mare in cui poter dolcemente naufragare.

-Siamo quasi, arrivati.- disse l'uomo che guidava, entrando all'interno di un vialetto che portò a una casa grande, immensa; una vera e propria villetta dipinta di azzurro, il tetto il tetto bianco, piena di enormi finestre, circondava da un giardino ben curato, pieno di siepi e di rose.

L'assistente sociale parcheggiò e si slacciò la cintura prima di uscire all'unisono con l'altro.

Shade rimase invece fermo, pietrificato. Non voleva scendere, non voleva vedere quella che avevano definito la sua nonna; lui non l'aveva mai conosciuta, la madre nemmeno mai gliene aveva solo accennato l'esistenza.

-Shade, devi venire con noi.- lo informò pazientemente lo stesso uomo del fazzoletto che aprì la portiera e si protese per staccargli la cintura, ma a quel gesto il biondo strabuzzò gli occhi e celere si liberò e come un animale in gabbia, braccato, strisciò nell'angolo più lontano della macchina e tremando guardò quell'uomo terrorizzato, aspettandosi che da un momento all'altro potesse morire, perché lui era maledetto, perché lui era sopravvissuto, perché lui era vivo e invece i suoi genitori erano morti per proteggerlo, a causa di quel mostro che glieli aveva portato via senza alcun motivo apparente, ma che era sicuro fosse a causa sua. Tutto era causa sua, se lui non fosse mai nato la sua mamma e il suo papà sarebbero stati vivi.

Pianse di nuovo, mentre il suo cuore correva, correva, a voler sfondare il petto, perché quello era il suo destino: battere, battere e ancora battere, senza fermarsi mai, in una corsa che non sapeva dove lo avrebbe portato, una che il destino aveva finemente tessuto e di cui gli aveva solo fatto gustare l'antipasto.

-Sei troppo gentile, Jace.- lo rimbeccò l'altro uomo, facendo il giro della macchina e aprendo la portiera a cui era addossato il bambino e prendendolo.

Questo iniziò a mugolare e a tentare di liberarsi.

Non dovevano toccarlo, sarebbero morti! O questo almeno era il pensiero di quel piccolo, che iniziò a scalciare terrorizzato, che arrivò persino a mordere la mao di quello che lo stava tenendo, che mollò la presa.

Caduto a terra Shade prese a correre, forse poteva scappare, andarsene dove nessuno lo avrebbe trovato, dove avrebbe potuto morire o sentire di nuovo quel dolce profumo di zenzero che lo aveva sempre accompagnato ogni notte, che lo rilassava, ce gli dava la sensazione di amore e calore e che gli avrebbe tolto qualunque dolore.

-Dannato moccioso, mi ha morso!- si lamentò l'uomo privo di qualsiasi tatto, mentre Jace lo fulminava e seguiva il bambino, che era inciampato poco lontano e stava singhiozzando sull'erba.

Gli si avvicinò cauto, inginocchiandosi davanti a lui e protese una mano e lo accarezzò senza toccarlo, sfiorarlo.

-Shade va tutto bene. Non ti toccherà nessuno se non vuoi.- gli promise e il biondo per la prima volta da giorni lo guardò.

Guardò quel viso gentile, quegli occhi che brillavano di comprensione e pena colorati da quel verde pastello, pigmentato da qualche screzio marrone.

Osservò quei corti capelli castano scuro, quel completo elegante fatto di giacca e cravatta, ma che grazie a quel sorriso non faceva paura a quel povero bambino traumatizzato che avrebbe voluto buttarglisi tra le braccia, ma che aveva paura.

L'adulto sembrò capire e si auto abbracciò. -Ti voglio abbracciare anche io.- sorrise e Shade timidamente imitò quel gesto.

-Sei davvero dolce.- disse l'assistente sociale alzandosi e ripulendosi dai fili d'erba che si erano attaccati ai suoi pantaloni.

-Ora andiamo dalla nonna? Ci proviamo?- chiese.

Shade lo guardò dal basso, era così alto, come il suo papà.

Rivide Jack in quel giovane ragazzo che aveva un nome così simile e al ricordo del padre tremò e tornò a piangere, ma si alzò comunque, tentennate, barcollando un poco a causa delle gambe che gli tremavano, del petto che gli doleva e sembrava incapace di respirare, di raccogliere ossigeno.

Jace avrebbe voluto aiutarlo, ma sapeva che Shade doveva fare da solo, perché nessuno avrebbe potuto insegnargli a rialzarsi, era una cosa che solo lui poteva comprendere.

Una volta che fu in piedi si avvicinò all'assistente e gli strinse solo un dito con il suo.

Voleva fidarsi, voleva credere che non sarebbe morto, che sarebbe stato al suo fianco, che sarebbe vissuto cento anni.

L'illusione di un bambino che aveva perso tutto, che era entrato nei meccanicismi della vita troppo presto, che aveva incontrato la morte e che quasi lo aveva toccato.

Il castano non si sorprese di quel gesto e poi, senza aspettare il collega che era rimasto in silenzio a guardarli, si diresse con il biondo verso la porta di quella casa bella, ma che allo stesso tempo dava parvenza di freddezza.

Suonarono il campanello e attesero. Suonarono poi di nuovo e la porta finalmente si aprì.

A far comparsa un'anziana signora, i capelli legati in una crocchia perfetta, che non lasciava sfuggire un solo capello ingrigito a causa dell'età avanzata. Questa aveva profonde rughe sul volto, sulle mani, spessi occhiali gialli le cui stanghette erano legate a una piccola e sottile corda di perline, probabilmente finte, che andava a circondarle il collo; gli occhi erano fieri, di un blu così profondo che ricordavano il mare, gli stessi occhi che Lucy aveva ereditato.

-Desiderate?- chiese questa senza farli accomodare. La sua voce fredda, austera, frigida come la natura che parlava all'islandese.

-Siamo gli assistenti sociali, abbiamo portato vostro nipote.- sorrise Jace di circostanza. -Ne avevamo parlato al telefono, ricorda?-

Gli occhi della donna divennero ancora più freddi se possibile, quasi gelavano e Shade a quella vista, ebbe paura, nascondendosi dietro a quel ragazzo che sembrava essere l'unico a capirlo.

-Sono vecchia, non rimbambita.- sputò con astio, abbassando gli occhi poi sul nipote che tremò.

-Piuttosto è lei che credo non abbia capito: questo bambino del demonio non lo voglio.- quasi rise nel dire “bambino del demonio”, guardandolo negli occhi verdi.

-Signora è suo nipote, credevo che conoscendolo avrebbe cambiato idea.- esplicò Jace, stringendo di più il dito del piccolo per dargli forza, conforto.

Quella rise, maligna, malvagia.

-Non accolgo demoni in casa mia. E' solo colpa sua se la mia Lucy è morta! Colpa sua e di quel bastardo demone di suo padre.-

-Papà non era un bastardo!- urlò Shade tra le lacrime, parlando per la prima volta da giorni, piangendo.

Strinse i piccoli pugni e guardò coraggioso quella che avrebbe dovuto essere sua nonna, ma che ai suoi occhi non era altro che una di quelle strega cattive delle favole.

-Papà amava la mamma e lei amava me e lui!- strillò -Sei tu che non le volevi bene.-

La donna lo guardò sconcertata.

-Non rivolgermi la parola demone. Tu figlio del diavolo, serpente peccatore, che si è portato a letto mia figlia insinuandosi tra le sue gambe!-

Shade non ci vide più e assestò alla donna un calciò negli stinchi. Nessuno doveva parlare così dei suoi genitori, non di loro che erano morti per salvarlo.

Poteva essere vero, forse era un mostro, il demonio, la causa della loro morte, ma Lucy e Jack erano angeli, angeli che ora erano in cielo e vegliavano su di lui, che lo amavano ancora, che lo avevano pregato di vivere, di non arrendersi mai.

-Strega!- urlò, prima di correre via verso la macchina; questa volta senza inciampare.

Entrò in quell'abitacolo di ferro e si rannicchiò in posizione fetale sul sedile e iniziò a piangere.

Quel piccolo angelo tremava, desiderava solo la morte, la bramava, la chiedeva, ma non poteva accettarla.

Quel “vivi” ancora rimbombava nella sua testa come un eco, lo faceva singhiozzare ancor più violentemente, mentre con le braccia cercava un calore che non c'era, che mai avrebbe riavuto.

Dov'era Dio in tutto ciò? Dov'era quell'essere che avrebbe dovuto amare i propri discepoli?

Perché il dolore era essenziale? Qual era la sua funzione?

Domande su domande a cui un bambino di soli otto anni non poteva rispondere. Domande di esistenza, domande di tormento a cui neppure i più grandi filosofi sapevano rispondere.

Pianse per minuti interi, pianse anche quando i due adulti tornarono in macchina e partirono, dicendogli qualcosa che lui non capì, che non sentì.

Male, male ovunque sentiva, mentre si sentiva mostro e non bambino.

Piccolo angelo dove stavi andando? Dove stavi cadendo?

A sorreggerlo, però, invisibile vi era una presenza che gli accarezzò i capelli, che spanse il suo odore dolce di biscotti allo zenzero ancora una volta, cullandolo fino a che il cuore non si quietò insieme ai pensieri, nel mondo di Morfeo.

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Capitolo 3
*** Come le margherite nei campi, come i girasoli che cercano il sole. ***


Come le margherite nei campi, come i girasoli che cercano il sole.

 

Erano passate ormai settimane da quel giorno, ma gli incubi non si erano mai fermati; si ripetevano ogni notte, sempre su se stessi, riavvolgendosi e correndo, come se nella sua testa fosse stata immessa una pellicola cinematografica che era destinata a ripetersi ancora e ancora, all’infinito.

Si svegliava tremando, raggomitolandosi su se stesso, all’interno di quelle ruvide coperte, unica cosa che gli era stata data una volta entrato in quell’edificio e che doveva tenersi stretta.

Jace gli aveva assicurato che si sarebbe trovato bene, ma a quanto pare aveva mentito o forse non sapeva cosa accadesse davvero all’interno di quella struttura; quanto la vita lì dentro fosse dura, tanto da ricevere solo una volta al giorno un pezzo di pane, da non poter dormire serenamente la notte senza la costante paura che qualcuno dei ragazzi più grandi potesse irrompere in una delle celle dei più piccoli e derubarli totalmente dei loro pochi averi.

Là dentro l’unica regola che vigeva era anche la più dura: quella della sopravvivenza; mangiare o essere mangiati.

Shade si era svegliato presto la mattina, aveva piegato per bene la sua coperta ruvida e poi era uscito da quella che non si poteva chiamare esattamente stanza, ma a cui non trovava un vero nome, facendo attenzione a non calpestare i bambini suoi coetanei che dormivano a terra.

Il sole non era ancora sorto, ma aveva imparato che a quell’ora del giorno (qualunque essa fosse, poiché non avendo alcun orologio non poteva determinarla) nessuno era di ronda dei corridoi; infatti, gli adulti erano tutti impegnati a dormire o a cucinare quello strano brodo che gli servivano la mattina in una misera scodella di terracotta sbeccata.

A Shade quell’atmosfera ricordava molto quella del libro di Oliver Twist, di Dickens, il libro preferito di suo padre.

A quel pensiero gli si strinse il cuore, mentre cercava di ricacciare indietro le lacrime e i ricordi. Doveva continuare a vivere, a camminare ed andare avanti; non poteva vivere per sempre nel passato, anche se si sentiva in colpa per essere sopravvissuto a loro.

Fu con quei pensieri troppo maturi per un bambino di soli otto anni, che giunse in un angolo deserto dell’orfanotrofio; un po’ decadente, marcio e pericoloso che sembrava dovesse crollare da un momento all’altro.

A tutti era stato proibito andare lì, ma Shade gradiva quel fragile luogo pieno di muschio e un po’ di edera rampicante che si era stabilita sui muri pieni di spifferi e leggermente crollati insieme alle travi marce di legno che si erano riversate a terra. Il biondo lì si sentiva al sicuro e, inoltre, sapeva che era anche il luogo perfetto per nascondere le sue cose perché quel piccolo angolo abbandonato faceva paura a tutti; a tutti tranne che a lui, che vedeva quel luogo come lo specchio della sua anima.

Era fragile, abbandonato e solo al mondo, trascurato; eppure, lì cresceva vita e anche dentro di lui vi era un seme che voleva sbocciare, un giorno, ma doveva solo aspettare che il sole colpisse la sua arida terra e che la pioggia lo baciasse con le sue gocce trasparenti e limpide, per aiutarlo a dar vita a quel fiore che nemmeno lui riusciva a comprendere di che colore potesse essere, ma sapeva che c’era e che lo aveva piantato la sua mamma e tutto ciò era abbastanza per lui. Lo avrebbe protetto a tutti i costi quel seme.

Si avvicinò lì dove una volta doveva esserci una finestra, ma dove le imposte erano crollate ed era rimasta solo una un’incavatura di mattoni; un po’ come la finestra delle grotte di Catullo, dove il poeta aveva scritto i “mille basia” e dove i suoi genitori lo avevano portato una volta solo qualche anno prima.

Era rimasto incantato da quel lago blu, che sembrava non finire mai; per non parlare dei cigni e delle oche che nuotavano intorno alla riva e del gelato buonissimo che aveva assaggiato!

Singhiozzò appena e si stropicciò un occhio con la sua piccola mano, mentre ricordava i sorrisi di mamma e papà, che lo aiutavano a spezzare i pane da dare a quei volatili, oppure mentre gli facevano fare l’altalena in quel grande giardino immerso nel sole.

Gli mancavano tanto; avrebbe voluto riaverli accanto a lui, ma non importava quanto pregasse; ormai lo aveva capito, non sarebbero mai tornati.

-Perché piangi? – chiese una voce dolce, pulita, melodica di bambina, mentre all’improvviso un odore dolciastro di giglio si spanse nell’aria.

Shade si asciugò alla svelta gli occhi con la manica della sua maglietta e si voltò, sfoggiando un radioso e forzato sorriso.

-Non stavo piangendo. – rispose e poi osservò attentamente il suo interlocutore; aveva lunghi capelli rossi e ondulati, dello stesso colore del fuoco; tante piccole lentiggini più o meno accennate erano sparse su quel delicato viso candido, mentre la sua bocca era di un tenue color della pesca.

Non l’aveva mai vista, ma non appena vide quel timido sorriso spuntarle si sentì rassicurato, quasi come a casa; era gentile, come quello della sua mamma.

-Come ti chiami? – chiese questa, con le mani dietro la schiena e avanzando di qualche passo, senza far rumore e così elegantemente da sembrare che stesse danzando.

-Shade. – rispose, mentre lei si abbassava appena e portava il suo viso più vicino a quello del bambino, guardandolo curioso, mentre le labbra si erano assottigliate, prima di sbocciare in un altro gentile e tenero sorriso.

-Io sono Margaret. – trillò felice, tornando in posizione eretta e tendendogli la mano. Shade timidamente la strinse e poi si sentì avvolto in un piccolo bozzo di calore delicato. Da quanto tempo nessuno lo abbracciava? Gli erano sembrati anni, o forse secoli.

Il suo viso venne immediatamente solleticato da quei fili scarlatti, ma chiari come il colore delle carote; forse di un tenue ramato e si sentì come sdraiato in un campo di margherite e come un girasole alla ricerca del sole; si sentì leggero e allo stesso tempo udì una serratura aprirsi.

Ed eccole le lacrime trattenute, eccolo il dolore che aveva cercato di nascondere con i suoi bellissimi sorrisi che erano ineguagliabili, radiosi come stelle fredde che brillavano nel cielo, lontane, ma così luminose da essere più visibili in quel manto scuro che celava un mondo infinito e pieno di misteri che dovevano essere solo accolti e accarezzati dolcemente da qualcuno.

La bambina sorrise, mentre faceva passare le sue dita sottili tra quei morbidi capelli che all’epoca sapevano di muschio, miele e una punta di zenzero.

Restarono abbracciati per attimi interi, rinchiusi in quel bozzolo fatto di margherite e lacrime, mentre il sole iniziava a colorare il cielo dei suoi colori, in un attimo fuggente che non sarebbe durato mai più di qualche secondo.

Fu proprio in quel momento, quello dell’alba che Shade si distaccò e si asciugò gli occhi. Non voleva più piangere o farsi vedere debole, ma era grato a Margaret per avergli ricordato cosa fosse il calore; le accarezzò quindi il viso e le baciò innocentemente una guancia.

Quando si scostò sorrideva, la tristezza non se ne era andata, c’era ancora, ma era stata resa più dolce da quel pianto silenzioso e liberatorio che gli aveva sanato per qualche minuto l’anima.

Margaret sorrise di rimando, mentre anche lei posava un bacio su una di quelle morbide guance leggermente arrossate per l’imbarazzo; era la prima volta che il bambino riceveva un bacio da qualcuno che non fosse sua madre.

-Lo sai che il tuo sorriso è bellissimo? – squittì lei, trascinandolo poi alla finestra ed indicando il sole –E’ bello come l’alba! -.

Shade si fece leggermente ancora più rosso. –Grazie. – mormorò appena prima di posare i suoi occhi su quel paesaggio quasi incantato.

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