Destino

di Gru
(/viewuser.php?uid=768781)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mamma ***
Capitolo 2: *** Opportunità ***
Capitolo 3: *** Correre ***
Capitolo 4: *** Qualcosa in più delle farfalle ***
Capitolo 5: *** Pace ***
Capitolo 6: *** Mezzi ***
Capitolo 7: *** Grazie (I) ***
Capitolo 8: *** Grazie (II) ***



Capitolo 1
*** Mamma ***


Età: 8 anni


Il placido silenzio pomeridiano del rifugio venne infranto dall’improvviso vociare della televisione. Donatello, immerso profondamente dalla nuova lettura procuratagli dal maestro Splinter appena il giorno prima, corrugò la fronte verde oliva, infastidito. Quello era il momento della giornata che preferiva: dopo aver pranzato, spossati dagli allenamenti del mattino, i quattro fratelli erano liberi di dedicarsi a ciò che preferivano. Questo sarebbe stato un problema per il piccolo mutante mascherato di viola, amante della tranquillità e dei centellinati attimi di quiete assaporabili in quel particolare momento del giorno, quando per qualche inspiegabile motivo nel rifugio non iniziavano a rimbombare le urla che Raph e Leo si scambiavano quasi quotidianamente, il primo in tono rissoso e accusatorio, il secondo frustrato e irritato; per sua fortuna però, la severa regola vigente era quella di mantenere un discreto silenzio, durante il quale il Sensei si dedicava alla meditazione, a volte indispensabile per mantenere la calma all’interno di quella bizzarra famiglia.
Il risultato era quello di una serena quiete, scandita dai leggeri tonfi provenienti dal dojo dove sempre più spesso Leonardo praticava allenamenti extra, spesso seguito dal maestro Splinter, e lo scalpiccio concitato dei piedini di Michelangelo, che non conoscevano riposo almeno fino alla sera.
Donatello dovette rinunciare ad arrivare alla fine del capitolo sette del suo sgualcito testo di biologia trovato tra i rifiuti, che abbandonò sulla scrivania sbuffando quando sentì il volume della tv alzarsi. Spinse indietro la sedia con i talloni (era l’unico dei suoi fratelli che riusciva a toccare il pavimento con tutto il piede) facendo più rumore di quanto volesse e si diresse verso il soggiorno improvvisato al centro della loro casa. Dando le spalle al divano poteva vedere la luce dell’apparecchio oscurarsi di tanto in tanto per un secondo in un impegnato zapping da parte del misterioso possessore del telecomando, di cui comunque non faticava a indovinare l’identità. Raggiunse il divano e si sporse a braccia incrociate da dietro lo schienale per trovarsi faccia a faccia con due occhioni azzurri spalancati in un ampio sorriso lentigginoso che lo guardavano al contrario. 
“Mikey, ti spiace abbassare il volume?”
“Ma Donnieeeeee, sono così annoiato!” fece il bambino tirandosi le brevi code della maschera con esagerata disperazione “Leo è nel dojo, Raph si è chiuso in camera con tutti i giornalini e non ha voluto giocare con me quando gliel’ho chiesto -mi sono anche ricordato di bussare questa volta!- e…” si interruppe approfittandone per riprendere fiato e allargò gli occhi “Stai tu con me, Donnie? Ti prego, ti prego, ti prego! Non sapevo che fare e ho acceso la tv, il maestro ci  ha finalmente dato il permesso di guardarla quando non c’è, e così ho pensato…”
“Okay, resto io!” esclamò esasperato ma con un mezzo sorriso l‘interpellato, facendo il giro del divano e lasciandosi cadere accanto al logorroico fratello “ma poi devo tornare di là” aggiunse subito, prima che l’attenzione di quest’ultimo si spostasse su altro.
Mikey sorrise soddisfatto facendo allegramente spazio al viola: non aveva neanche dovuto sfoderare il suo irresistibile sguardo inteneritore.
Donatello notò che l’interesse del suo fratellino verso il canale da scegliere era notevolmente diminuito da quando era venuto a fargli compagnia: ora Michelangelo stava chiacchierando senza sosta su qualunque cosa gli passasse per la testolina, entusiasta di avere compagnia. Mentre i suoi fratelli iniziavano a sentire l’esigenza di ritagliare degli spazi per sé stessi, il “piccolo” della famiglia non riusciva ancora a rinunciare alla totale condivisione che caratterizzava da sempre il loro rapporto.
Donnie, intanto, si era estraniato completamente dall’allegro monologo del fratello; gli capitava spesso ultimamente, cosa che gli era valsa una serie di commenti di scherno soprattutto da parte di Raph, che trovava immensamente soddisfacente battergli forte le mani davanti agli occhi persi nel vuoto. Fissava lo schermo, riflettendo su quale sarebbe stato il momento più adatto per interrompere Mikey, che se la stava cavando benissimo anche senza nessuno che lo seguisse, e tornare  al suo libro, e non si rese neanche conto di quando aveva cominciato a prestare attenzione alle immagini che  si riflettevano luminose sul suo viso. Il volto in lacrime di un bambino era seminascosto nell’incavo del collo di una donna dai lunghi capelli scuri che le incorniciavano i lineamenti dolci mentre, inginocchiata sul pavimento per raggiungere la statura del figlio, circondava con le braccia le spalle di questo, nel tentativo di calmare i suoi singhiozzi incontrollati. “…e poi mi… mi ha spinto a terra e ha d-detto che sono solo un m-moccioso e…” la voce del bambino si spezzo e affondò di nuovo il viso rigato dalle lacrime tra le braccia della madre, che iniziò a sussurragli parole di conforto all’orecchio strofinandogli la guancia sulla testa.
Donatello, incantato, seguiva ogni gesto  della donna con le labbra dischiuse a mostrare lo spazietto tra i denti superiori. Osservò quasi senza respirare l’intera scena, notando con la coda dell’occhio che la schiena del bambino stava smettendo di tremare, senza mai staccare gli occhi da lei.

Avevano avuto il primo contatto col mondo al di sopra dei tombini come nessun bambino meriterebbe: attraverso le immagini sbiadite di un vecchio televisore. Splinter aveva già raccontato loro qualcosa -doveva pur spiegare da dove venisse quella luce che in determinate ore del giorno illuminava il pavimento del dojo, e il perche non potessero averne di più che un piccolo fascio- ma aveva aspettato ad affrontare alcuni argomenti, troppo grandi e dolorosi per quattro piccoli mutanti. 
Tuttavia sapeva cosa sarebbe successo quando avrebbero avuto la possibilità  di vedere. Certo, non sarebbe stato come entrare davvero a contatto con la vita della superficie -non lo sarebbe stato affatto- ma sarebbe stato qualcosa di sconvolgente, che avrebbe cambiato la loro visione delle cose per sempre. Sapeva che avrebbe scatenato una serie di domande, fantasie e pensieri non sempre felici nei suoi figli, e che sarebbe stato compito suo portarli a conoscenza della verità, tanto bella e nuova quanto irraggiungibile per una famiglia di creature che non sarebbero dovute esistere. Ma sapeva anche quanto questo fosse necessario. Avevano il diritto di sapere, nei dovuti tempi, tutto quello che riguardava il mondo in cui vivevano, o sarebbe stato il primo a escluderli da esso. 
Così, con questa responsabilità sulle spalle, l’uomo-ratto aveva trascinato fino al rifugio il vecchio televisore abbandonato dalla discarica e sotto gli sguardi curiosi dei suoi bambini aveva aggiunto un altro pezzo di casa  ad una stazione della metropolitana in disuso. Non aveva mai approvato molto quel genere di distrazioni, ma aveva capito benissimo che trasferendosi nel mondo occidentale avrebbe dovuto abituarsi a uno stile di vita diverso da quello che aveva appreso nella propria educazione. Senza contare che era l’unica via sicura per soddisfare la curiosità crescente dei quattro piccoli mutanti.

Tra i suoi fratelli, Donatello si era pian piano distinto per la matura razionalità con cui affrontava ogni aspetto della vita. Non aveva potuto evitare, naturalmente, di provare rammarico verso il divieto non formalizzato se non da suo padre di poter esplorare quell’immensa parte di natura che non voleva appartenergli e a cui non sembrava appartenere, lui che aveva sempre provato quella meravigliosa eccitazione davanti ad una nuova scoperta, ad una risposta svelata. La sua afflizione era quella di non poter toccare e sperimentare quel mondo fatto di luce e di cose nuove e bellissime, afflizione che non era condivisa dalla sua famiglia, o almeno non nello stesso modo o con la stessa intensità; allo stesso modo, non riusciva a condividere pienamente la passione di Michelangelo per la musica, quella di Raffaello per la lotta o quella di Leonardo per le eroiche storie di fantascienza. A volte, mentre coglieva i loro commenti quando tardava ad andare a cenare per finire “solo un’altra pagina” o faceva domande a cui nemmeno Splinter riusciva a rispondere, si sentiva strano.  Come… solo.
La donna sullo schermo, mentre si scostava un po’ dal bambino per alzargli il mento tremolante e asciugargli le lacrime con il pollice, lo fece pensare inspiegabilmente a quella strana sensazione, che riaffiorò per pochi istanti. C’era qualcosa di sconosciuto in quegli occhi, ma non sconosciuto come il processo di fotosintesi clorofilliana dei fiori del suo libro o la metamorfosi dei bruchi che aveva visto nelle illustrazioni: era qualcosa di inaspettato, illogico, che inaspettatamente e illogicamente si fece spazio con tenero impeto nell’impegnatissima mente di Donatello. Per un momento, un breve e inafferrabile momento, al di là dell’affetto dei suoi fratelli e dello sconfinato amore di suo padre, al di là di ogni ragionamento logico e razionale, il suo cuore desiderò qualcosa che con la semplice forza di un sorriso  lo facesse sentire di nuovo intero, che sciogliesse quel piccolo nodo di incomprensione che di tanto in tanto sentiva nel piastrone; che si sedesse con lui alla scrivania e dimostrasse così che dopotutto era davvero interessante sapere il nome di ogni parte della struttura del guscio di una tartaruga normale, ed era molto utile, ed era bello, così bello…
Non si accorse neanche di essersi messo una mano sulla stessa guancia dove il bambino che ora sorrideva aveva quella di sua madre.
Una voce profonda e pacata lo riscosse dai suoi pensieri. “Forse è il caso di portare Michelangelo nel suo letto.” Donatello si girò con ancora la bocca semiaperta, non del tutto presente, verso l’imponente figura in piedi dietro lo schienale del divano. Suo padre lo guardava con la consueta espressione serena, ma i suoi occhi, più simili a quelli del viola che a quelli degli altri suoi figli, lo scrutavano più intensamente del solito, come alla ricerca di una preoccupazione che aveva captato ancora prima di incrociare il suo sguardo.
Donnie si girò verso il fratello, confuso: il chiacchierone si era addormentato con la bocca ancora aperta, rannicchiato con la testa vicino alla sua gamba. Solo allora sentì il vero silenzio che era calato nella stanza. 
“Una cosa davvero incredibile” constatò il Sensei, sorridendo in direzione del figlio nel mondo dei sogni “Dev’essere l’inverno che arriva”.
Donatello si voltò di nuovo verso il mutante più anziano. Suo padre dimostrava il suo affetto a lui e ai suoi fratelli in modo poco plateale, aiutandoli nelle difficoltà ma facendo in modo che imparassero a cavarsela da soli, incoraggiandoli senza permettere che sottovalutassero un pericolo. 
Sapeva essere severo e intransigente sul rispetto delle regole, ma non aveva mai esitato a perdonare una volta certo che l’errore fosse stato compreso. Era un uomo di poche parole, ma sempre spese saggiamente, e che spesso lasciavano  il posto a quelle dei suoi figli, che lasciava sfogare quando ne avevano bisogno.
Ascoltava molto, suo padre. Anche quando non c’erano parole. E nonostante non avessero mai potuto permettersi tutto, aveva dato ore di sonno, fatica e impegno costante nell’assicurare loro tutto quello che poteva, compresa anche la felicità,  che non era mai mancata in una famiglia così unita, dopotutto. 
Quegli occhi castano-rossicci puntati su di lui furono quasi una conferma per il ratto: senza smettere di guardarlo gli diede una leggera carezza sulla guancia, su quella guancia, e non potè fare a meno di sorridere  vedendo l’espressione improvvisamente luminosa del suo piccolo genio.

Donatello non ricordò mai più di quel viso visto alla televisione, nè tanto meno di quella sensazione di rammarico e assenza che aveva provato. Non sentiva la mancanza di niente all’interno della sua famiglia, che lo amava e che amava, era perfetta così, con gli ammonimenti di Splinter, le urla di Raph, i pasticci di Mikey e le paternali di Leo. Assolutamente perfetta.






Angolo spaesato dell'autore
...che è un'autrice, ma autore mi piace di più. Allora... 
Sono terrorizzata. E' la mia prima fanfiction, frutto di riflessioni parecchio tragiche. Non posso farne a meno.
Non mi è piaciuto l'eccesso di protagonismo che ho dato ai media, ma stavo cercando di immaginarmi il primo incontro delle tartarughe con il mondo esterno, e come la pensasse Splinter.
Quando invece immagino i loro pensieri su un secondo genitore, li vedo più che altro incuriositi, ma non particolarmente bisognosi di un'altra situazione familiare. Sapete quando si sente il bisogno di qualcosa, anche se non si è completamente sicuri di averne bisogno? Spesso è una sensazione passeggera, ma che ci fa riflettere.
Se percaso foste arrivati a leggere fin qui, e vi venisse inspiegabilmente voglia di commentare qualcosa (tutto in linea ipotetica, s'intende...), allora... siate spietati. C'è da cassarmi? Cassatemi. Senza rimpianti. Sfogate su di me le vostre frustrazioni. No problem!;) 
Critiche e consigli sono ben accetti. Ciao!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Opportunità ***


Età: 6 anni

“Ridammelo, Mikey!”
“Ma è mio!”
“Non è vero, l’ho toccato prima io!”
“Smettila, Raph…”
“Non fare il Sensei, Leo. Era dalla mia parte!”

Splinter rilasciò un lungo sospiro ad occhi chiusi. Stava aprendo una lattina di minestra in scatola nella cucina male illuminata della tana, mentre alle sue spalle i quattro bambini aspettavano la cena seduti su delle pile di cuscini poste sui quattro sgabelli intorno al tavolo. Lanciò un’occhiata verso l’ennesimo litigio: Raffaello ora si stava sporgendo pericolosamente verso Michelangelo, che con uno sguardo vagamente preoccupato stringeva un cucchiaio nelle manine, con una mano allungata verso di lui e l’altra sulla faccia di Leonardo, il quale lo aveva arpionato per il guscio cercando di trattenerlo. 
“Raffaello, rimettiti al tuo posto. Il tuo cucchiaio è lì alla tua destra, vedi?” 
Il piccolo mutante, richiamato dal padre, smise di dimenarsi e, dopo aver esitato solo un secondo sotto il suo sguardo severo, si riaccasciò pesantemente sullo sgabello, afferrò con astio la posata e incrociò le braccia sbuffando ma senza osare alzare gli occhi. Splinter ebbe la sensazione che quel cucchiaio non fosse affatto sfuggito al figlio mascherato di rosso, ma preferì lasciare da parte quel pensiero, almeno per il momento: iniziava a percepire un leggero mal di testa, e il mutante non desiderava altro che mettere a letto i bambini e dedicarsi a qualche ora di salutare meditazione. 
Il silenzio che era calato nella cucina fu interrotto dalla vocina esitante di Michelangelo. “Raphie… se vuoi lo prendo io, quello…”
Benchè impegnato nel versare la minestra in una piccola pentola per metterla a scaldare, anche dando le spalle alla scena Splinter riuscì a  immaginare l’occhiataccia da parte dell’interpellato e il tono della risposta che l’avrebbe seguita. “No!” sputò infatti seccamente Raffaello al fratellino che, mortificato, abbassò la testa senza dire più nulla.
Massaggiandosi con le dita lo spazio in mezzo agli occhi, Hamato Yoshi dovette ricorrere a tutta la concentrazione che gli era rimasta per non lasciarsi sfuggire un altro sospiro. Era incredibile come a volte il figlio più irruento e precocemente testardo si impuntasse senza alcun apparente motivo su questioni così poco rilevanti, ma che solo in quel particolare momento sembravano acquistare un’importanza vitale. La cosa lo preoccupava soprattutto perché temeva di non riuscire ad aiutarlo: se solo avesse capito cosa lo rendeva più irrequieto dei suoi fratelli, cosa mutava il suo umore così rapidamente da confondere chi gli stava intorno… Ma Raffaello era decisamente il meno incline a confessioni che potessero rivelare anche solo una piccola parte di quella nube di pensieri che oscurava sempre più spesso il suo sguardo verde smeraldo.
“Non essere cattivo con Mikey” mormorò Donatello, che aveva  cercato di rendersi il meno possibile partecipe alla discussione, ma che vedendo l’espressione afflitta di quest’ultimo si era arrischiato ad intervenire. 
“Ha cominciato lui! E’ stato lui, quello cattivo” scattò subito Raffaello, fulminandolo con uno sguardo che celava in mezzo all’ira anche una nota di risentimento. Ad un tratto però, come se si fosse ricordato di qualcosa, la sua espressione sfumò in un ghigno, e si rivolse nuovamente a Michelangelo: “Sai cosa succede alle tartarughe cattive, Mikey?” fece con un sorrisino molto poco innocente che fece stringere il fratellino al cucchiaio con più forza, come faceva con il lembo della veste del padre quando attraversavano insieme una stanza buia. 
Raffaello, soddisfatto della reazione, continuò: “Quando vanno a dormire, gli umani scendono nei tombini ed entrano in silenzio nella loro stanza…”
Splinter rischiò di rovesciare la minestra sul piano cottura. Con il gesto sospeso a mezz’aria e la bocca aperta dalla sorpresa, le parole pronunciate ingenuamente del figlio lo colpirono con violenza e inaspettatamente; voleva girarsi e impedirgli di continuare a spaventare i suoi fratelli con quelle storie, avrebbe dovuto farlo da subito, ma quella sera era particolarmente stanco, e il suo mancato intervento, lo sapeva, sarebbe costato a tutti. Quello che non sapeva, era che il discorso di Raffaello  avrebbe scioccato più lui dei suoi bambini.

Da quando aveva portato con se nelle fogne le quattro tartarughe mutate, lo smarrimento per il rapido succedersi di eventi sempre più strani e spaventosi era stato subito sostituito dalla determinata volontà di proteggere quelle fragili creature, e da quando queste avevano raggiunto una sufficiente maturazione si era sempre premurato a questo scopo di metterle in guardia da ogni possibile pericolo, il principale dei quali, come aveva amaramente intuito, era rappresentato dal mondo a cui aveva appena smesso di appartenere. 
Ma forse, nell’ossessione di preservare i suoi figli da quella minaccia, era arrivato persino a scordarsi delle sue origini. Certo, dopo la sua mutazione aveva ulteriormente preso coscienza - come se non le avesse già sperimentate negli ultimi tempi -  sia della brutalità che dell’indifferenza della specie umana: all’orrore per la facilità e l’assenza di scrupolo con cui colui che considerava un fratello aveva distrutto tutto ciò che amava, tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere, si era sommato il ribrezzo per la noncuranza che gli uomini avevano nei confronti dei beni che avevano e che davano talmente per scontati da abbandonare tra i rifiuti.
Tuttavia in Splinter c’era ancora un’evanescente consapevolezza di appartenere a quel genere di individui di cui iniziava a vergognarsi, e ne accettava le responsabilità. Ma aveva appena capito che i suoi figli avevano assimilato un’immagine mostruosa della sua razza di provenienza, e sentì un’ondata di tristezza e senso di colpa invadergli il petto. Sapeva che se gli esseri umani fossero venuti a conoscenza dell’esistenza della sua attuale famiglia avrebbero pensato di essa la stessa cosa, l’avrebbero considerata come lo stesso gruppo di mostri di cui ora Raffaello si stava servendo per atterrire suo fratello. Ma avendo vissuto in un corpo e in una mentalità umana a lungo, era in grado (e si sentiva in dovere, da un certo punto di vista) di calarsi nei panni di una persona appartenente alla “normalità”, che pensa di rientrare nei parametri del giusto solo perché non conosce altre realtà. Poteva farlo: era un uomo saggio, ma soprattutto era un uomo.
“…e quando meno se lo aspettano le afferrano per i piedi e…”
“Basta così”. Il tono  fermo e secco del padre fece sobbalzare le quattro tartarughe, intrappolate fino a quel momento nella muta tensione creata dal racconto di Raffaello. Michelangelo, appena sollevato dall’interruzione, smise di trattenere il fiato e cercò con foga gli occhi del padre. “Papà, se lo è inventato, non è vero? Digli che non è vero!” implorò con gli occhi grandi che cercavano un suo cenno per tranquillizzarsi, una rassicurazione per se stesso più che una contraddizione al fratello. 
Splinter sospirò, con un groppo in gola. “Raffaello, non devi spaventare i tuoi fratelli con queste storie. Sì Michelangelo, era solo un’invenzione, puoi dormire tranquillo” rispose infine cercando di mantenere un’espressione per lo meno controllata. Poteva vedere anche le spalle degli altri due figli rilassarsi, nonostante loro non avessero osato chiedere la stessa conferma. 
Stava per tornare alla cena, quando colse la vocina di Raffaello, più esitante dopo la recente sgridata. “Ma tu hai detto che gli umani sono pericolosi.”.
Il mal di testa si era trasformato in una serie di fitte ritmiche e costanti che si propagavano fastidiosamente nel cranio. L’uomo-ratto esitò per un attimo e si volse di nuovo verso i figli, ma non si sedette subito. Temeva che se si fosse abbassato al loro livello non sarebbe riuscito a mantenere il controllo e la razionalità di fronte alla curiosità che stava nascendo sui loro visi.
“E’ vero, Raffaello, gli umani possono essere un pericolo per noi, ma questo perché non ci conoscono, e non sappiamo cosa potrebbero… pensare vedendoci.”
“Siamo così diversi da loro?” chiese piano Leonardo. Splinter si sorprese nel vedere l’espressione seria e matura di suo figlio, un’espressione che si poneva in contrasto con la sua età e con la spensieratezza che avrebbe dovuto caratterizzarla. Il suo bambino, che viveva da cinque anni con quattro mutanti tra binari e tunnel fognari, aveva comunque capito di appartenere ad una minoranza, la più piccola e sconosciuta, e per questo la più incompresa.
Si sedette finalmente intorno al tavolo con loro, e li osservò con calma, prendendo tempo. Come poteva spiegare loro che non avevano niente in meno di quelle misteriose creature della superficie a cui invece mancava la capacità di giudicare non superficialmente senza metterli in pericolo? Come sarebbe riuscito ad infondere ai suoi figli la stessa stima che provava nei loro confronti senza illuderli di poterla trovare anche altrove? “Figli miei, tutti siamo condizionati dall’aspetto delle cose. Vi ricordate quando avete assaggiato per la prima vota il riso? La forma di quei piccoli chicchi era diversa da quella delle cose che avevate mangiato prima, tanto che non eravate molto sicuri di volerli provare. Spesso si teme ciò che non si conosce, è nell’istinto di ogni essere vivente.”
Michelangelo aveva ascoltato ogni parola come i suoi fratelli e alla fine il suo viso aveva assunto un’espressione sollevata, il solito sorriso entusiasta aveva preso il posto del cipiglio confuso. “Ma noi non siamo pericolosi! E se… e se lo spiegassimo? Potremmo dire loro che siamo bravi, eh papà? Veniamo fuori sotto una grande coperta e… e poi diciamo che… no, anzi, scriviamo un bigliettino! Scriviamo un biglietto e lo spingiamo verso il primo umano che passa, così lui capirà e lo dirà agli altri umani, e potremmo uscire! Eh papà?”
Hamato Yoshi non si era mai sentito così vecchio. Avrebbe preferito un mal di testa cento volte peggiore di quello che lo stava già massacrando piuttosto che vedere puntato su di lui quello sguardo così carico di aspettativa in speranzosa attesa di una risposta che non gli avrebbe potuto dare, lo avrebbe preferito a quella odiosa sensazione di angoscia che lo induceva al desiderio ancor più intollerabile di fuggire e liberarsi dalle catene della responsabilità.
Non ce la faceva. Non riusciva a guardare suo figlio negli occhi, lui che era stato preparato a ben altre sfide, all’apparenza più ardue. Lo sguardo corse sugli altri bambini: Donatello seguiva l’evoluzione del discorso in silenzio con il suo cucchiaio il bocca e aspettando la risposta del padre, Leonardo taceva con la testa bassa, disorientato dal silenzio del saggio ratto, mentre Raffaello aveva appoggiato il mento sulle braccia incrociate sul tavolo, come se si aspettasse già che le speranze del fratellino venissero infrante da un momento all’altro, senza però osare intervenire come era solito fare per contestare i fratelli. Forse in fondo sperava anche lui di sbagliarsi.
 Tornò a guardare quest’ultimo, la cui fiducia non aveva regredito di un passo, e si costrinse a sorridergli. “Forse per ora è meglio aspettare” disse con il consueto tono pacato della voce nel tentativo di non sconvolgere troppo le sue aspettative, senza avere il coraggio di cancellarle del tutto, senza avere il coraggio di tradire la sua fiducia nel mondo. Vide il suo sorriso cedere per un attimo alla delusione, per poi tornare sul suo volto solo più attenuato di prima dopo il buffetto riparatore del padre.

Consumarono la cena in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Dopo aver portato diligentemente le loro ciotole al lavabo, i bambini furono accompagnati da Splinter alla loro cameretta. Michelangelo non fece le solite storie per andare a dormire. Nessuno di loro parlò molto, in effetti, ma quando Splinter passo davanti alla porta socchiusa dopo aver riordinato la cucina, diretto alla sua stanza, notò che due dei suoi figli erano ancora svegli: Michelangelo, girato su un fianco, giocava distrattamente con le linee del piastrone di Raffaello, il quale invece gli permetteva di usare come cuscino il suo braccio, mentre passava ritmicamente e con delicatezza la mano sul guscio del fratello. Ancora una volta nessuno dei due sembrava aver bisogno di parlare, ma entrambi parevano un po’ più sereni.

Disteso sul suo futon, fissando il soffitto e incapace di chiudere gli occhi, Hamato Yoshi si chiedeva se il mondo sarebbe mai stato capace di guadagnarsi il perdono dei suoi figli.





NOTE  DUBBIOSE DELL'AUTORE:
...che teme che un secondo capitolo più o meno sulla stessa linea del primo (tanti pensieri e poca azione: ok che è una raccolta introspettiva, ma...) possa annoiare un po'. Se tutto va bene la prossima dovrebbe essere un po' più movimentata. Certo, c'è anche la possibilità che diventiamo tutti vecchi e incapaci di intendere e di volere (figurarsi di leggere una fanfiction.. anche se... mumble mumble...) prima del prossimo aggiornamento. La causa? Sempre la stessa... -.-
Grazie ancora a chi mi ha seguito fin'ora, sia a chi ha lasciato una recensione (che gioia... sigh...) e sia a chi non lo ha fatto, che ha comunque contribuito ad una buona causa: accrescere il livello di esaltazione di una persona già molto esaltata per quattro recensioni può portare a conseguenze pericolose... u.u
Un bacio a tutti quanti!
Gru

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Correre ***


Età: 12 anni



L’astronave sfrecciava velocissima, schivando con precisione gli asteroidi e le mille luci pulsanti che costellavano lo spazio circostante e sparivano rapidamente dietro le pareti convesse della navicella. 
Leo perse quasi di vista i comandi rimanendo a bocca aperta davanti a quello spettacolo di colori e luminescenze al di là dello schermo anteriore. Sapeva di stare andando più veloce di quanto l’astronave L’Intrepido fosse solita muoversi, ma d’altronde quella era una missione di emergenza, e non avevano avuto scelta. Nonostante l’urgenza della situazione, però, non riusciva a controllare il fremente entusiasmo che lo animava mentre armeggiava tra una serie di pulsanti colorati che si illuminavano ad intermittenza e levette di dimensioni diverse seduto al suo posto di comando.
“Ottimo lavoro, Soldato!”
Leonardo si voltò in direzione della nota voce. Alle sue spalle, il Capitano Ryan lo scrutava con la consueta espressione sicura di sé che sapeva infondere coraggio in tutto l’equipaggio. 
Il complimento lo agitò abbastanza da doversi sforzare per mantenere un atteggiamento neutro: conosceva bene il metodo che aveva il Capitano per ripristinare il controllo di sé dei membri della sua squadra.
Ryan si rivolse di nuovo a lui: “Leo, svegliati!”
L’astronave e tutto l’equipaggio erano scomparsi.
“LEO!”
“Fa’ piano, Mikey! Vuoi che si svegli anche il maestro Splinter?”
“Ma cosa sta biascicando?”
Leonardo si sentì scuotere rudemente una spalla, e aprì gli occhi sobbalzando. Sul lato del letto verso il quale era girato due facce occupavano nella penombra il suo campo visivo. Istintivamente allontanò di scatto la testa, cercando di mettere a fuoco.
Raffaello e Michelangelo lo stavano guardando aspettando che si svegliasse completamente, con un’espressione vagamente elettrizzata. 
“Ma che…” fece confuso, notando oltre le loro teste la terza figura di Donatello, in piedi sulla porta, mentre teneva una torcia accesa puntata sul pavimento e lanciava occhiate ansiose all‘esterno della stanza. Indossavano tutti e tre le loro maschere, e per un attimo Leo si chiese se non fosse già mattina. Scattò a sedere: “Che ore sono? Sono in ritardo per l’allenamento?”
“Lascia perdere l’allenamento” rispose Raph “Donnie, vieni qui”.
“Sono le due del mattino!” trillò Mikey saltellando sul posto, visibilmente su di giri.
“Vuoi fare silenzio, testa di legno?” bisbigliò Raph tirando al fratello uno scappellotto dietro alla nuca.
“Mi spiegate cosa accidenti sta…”
“E’ stata un’idea di Raph!” esplose Donatello avvicinandosi al letto dopo aver dato un’ultima occhiata al corridoio “Io gli ho detto che ci saremmo messi nei guai, il maestro Splinter non ha mai voluto, lo scoprirà e ci punirà!”
Raffaello alzò gli occhi al cielo “Donnie, non sarà pericoloso, vuoi capirlo?”. Poi finalmente si rivolse a Leonardo con un sorriso entusiasta “Vogliamo uscire dal rifugio!”

“E vi aspettate che sia d’accordo?”. Leonardo in realtà era rivolto solo a Raffaello, in piedi davanti a lui con le braccia incrociate. Gli altri due fratelli si erano spostati su un lato della stanza, avendo captato l’imminente discussione, per niente inclini a mettersi in mezzo.
La tartaruga in rosso, da parte sua, non aveva alcuna intenzione di cedere. “Sarà solo un giretto, non ci allontaneremo più di tanto. Percorreremo il tunnel che imbocca Sensei quando esce a fare rifornimento di cibo, poi potremmo esplorare una delle sue diramazioni, niente di che. Andiamo, chi vuoi che ci veda! Torneremo presto.”
Sì, certo. Leo sapeva come sarebbe finita. Avrebbero esagerato, la situazione sarebbe sfuggita loro di mano, e si sarebbero cacciati tutti in un guaio. Ma questa volta sarebbe successo al di fuori delle mura sicure della loro casa, e le conseguenze sarebbero state ancora peggiori.
“Non possiamo, Raph”.
Mikey abbassò lo sguardo, deluso. Donatello non osò far trasparire alcuna reazione continuando a far spostare il cerchio di luce della torcia sul pavimento della camera.
L’espressione di Raffaello si indurì. “Beh, non ce lo puoi impedire. Noi ci andremo con o senza di te: tu resta pure qui a fare la brava tartaruga, magari per fare la spia al maestro, eh?”
Leonardo strinse i pugni, ma sapeva che il fratello cercava di provocarlo: non glielo avrebbe permesso. “Accidenti, Raph, sai benissimo che lo dico per voi! Se il maestro Splinter ce lo ha sempre vietato ci sono delle buone ragioni… Perché non rifletti prima di prendere iniziative avventate?”
“Perché invece tu non impari a rischiare per qualcosa? Non dirmi che non vuoi sapere cosa c’è fuori da questo posto, che preferisci startene chiuso rinchiuso qui dentro ancora per chissà quanti anni! Lo so che Sensei lo fa per noi” aggiunse quando il fratello fece per ribattere “ma io non sto più nel guscio, Leo. Voglio vedere. E anche tu lo vuoi.”
Leo si sentiva addosso tre sguardi in attesa, mentre un desiderio compresso in un angolo della sua mente si faceva largo tra i pensieri razionali ingigantendosi e sussurrandogli all’orecchio preghiere imploranti.

Corsero.
Dopo aver attraversato il rifugio servendosi di tutti gli insegnamenti di Splinter per fare meno rumore possibile (“Donnie, non puntarmela in faccia, illumina per terra!”) erano arrivati allo sbocco su un binario morto. Prima di oltrepassare il confine del rifugio in tutto ciò che quell’atto avrebbe rappresentato, si erano guardati emozionati e col fiato grosso dalla paura e dal desiderio. Solo il mutante con la maschera blu si era girato un’ultima volta indietro, tormentato dal senso di colpa e dall’incapacità di resistere a quella pericolosa debolezza.
Avevano guardato con la torcia fin dove potevano nel tunnel abbandonato, constatando che procedesse in linea retta per un bel pezzo. E poi corsero.
All’inizio il passo era incerto e titubante, in quel territorio sconosciuto e pieno di possibili insidie, così familiare come ambiente ma al contempo così freddo e silenzioso. Avevano iniziato a correre ma sempre con diffidenza, timorosi di fare rumore o di imbattersi in una minaccia comparsa all’improvviso.
Ma poi il coraggio e l’entusiasmo si erano sostituiti alla paura e avevano aumentato la velocità.
Corsero, come non avevano mai potuto correre, senza dover fermarsi e tornare indietro a causa di una parete, sentendo l’aria sulla faccia e le code delle maschere sventolare senza mai ricadere sul collo. Andarono sempre più veloci, la gioia che cresceva ad ogni respiro.
Raffaello, che si era messo in testa al gruppo fin dall’inizio dell’esplorazione, annaspava più felice che mai, con la testa alta a godersi il vento inesistente in quel luogo sotterraneo; Michelangelo, subito dietro di lui, rideva come un matto, incurante della discrezione, e sembrava quasi in procinto di tirare fuori la lingua: sarebbe stato meglio di qualunque finestrino abbassato in autostrada, ne era sicuro. 
Donatello andava più piano dei suoi fratelli, perdendosi con lo sguardo su qualunque particolare che riusciva a cogliere della galleria male illuminata, la bocca socchiusa dallo stupore per quel che stavano finalmente facendo e gli occhi spalancati intenti a non perdersi neanche un istante di quel viaggio meraviglioso. Fu infatti superato in fretta da Leonardo, il quale non poteva credere al quel che stessero facendo né tanto meno al fatto che poco tempo prima stesse per negarsi quell’esperienza.
Leo corse senza barriere, senza porsi nemmeno un problema. Senza rimorsi né dubbi. Si dimenticò di tutto e di tutti, dimenticò la disciplina e l’obbedienza, dimenticò la responsabilità.
Dimenticò il pericolo.
Rallentarono, finalmente, e si fermarono ansimando, piegati in due e appoggiati sulle ginocchia. Raph si riprese per primo e si rialzò guardandosi intorno. Gli spiragli tra le mattonelle gocciolavano di tanto in tanto per l’umidità e le luci tremule illuminavano il tunnel di un riflesso verdastro e cupo, ma l’atmosfera lievemente spettrale non smorzò la curiosità dei ragazzi. Poco più avanti si apriva un’altra galleria meno ampia e più corta, dal momento che sul fondo si intravedeva una fioca fonte di luce. “Ascoltate” sussurrò Mikey avvicinandosi all’entrata di questa ma fermandosi poi per assicurarsi che i fratelli fossero dietro di lui. 
Tutti e quattro si sporsero verso l’interno: dal fondo arrivavano dei suoni attutiti e seguiti da un’impercettibile eco, suoni che sembravano vagamente familiari senza essere mai stati ascoltati davvero. 
Donatello trattenne il respiro. “E’…” 
“Una strada!” soffiò Raffaello, folgorato dalla scoperta.
Dopo qualche secondo di esitazione, in cui gli sguardi erano stati involontariamente rivolti verso Leonardo, il quale però non sembrava più sicuro dell’iniziativa di loro, avanzarono circospetti ed eccitati verso la fonte della luce e del rumore. Era un’apertura nel muro che chiudeva il tunnel a forma di semicerchio, chiusa da una grata di sbarre verticali e posta sul livello del marciapiede, quindi alta circa quanto loro.
Quando arrivarono presero un respiro tremante e si alzarono in punta di piedi (tutti tranne Donatello, che raggiungeva tranquillamente quell’altezza) per sbirciare tra le fredde sbarre di metallo.
Non era propriamente una strada: il marciapiede era piccolo e cosparso di pozzanghere nelle quali si rifletteva la luce tremula dell’unico lampione; sembrava più un vicolo, delimitato dalla parte opposta da un edificio sgangherato e coperto da graffiti.
Dimenticarono quasi di respirare, fermi in un unico, lungo istante pieno di mondo, un mondo molto più grande e vario dell’angolo in cui vivevano loro anche soltanto a partire da quel vicolo buio e angusto. Sollevandosi ancora un po’, poi, potevano vedere uno scorcio della strada principale a cui si collegava la diramazione, da dove veniva quel miscuglio omogeneo di suoni di auto, di voci e forse anche di musica. 
Mentre guardavano, avidi di particolari, alcune voci si fecero più distinte, più alte, e prima che i quattro mutanti se ne accorgessero, un gruppo di uomini entrò nel vicolo.

Non ebbero neanche il tempo di reagire. L’improvvisa comparsa degli esseri umani li impietrì sul posto e, benchè i quattro piccoli cuori avessero iniziato battere all’impazzata, non riuscirono a muovere un muscolo, raggelati dal terrore e incapaci di distogliere gli occhi dalle alte figure, storditi dalla loro improvvisa concretezza. 
Erano in tre, e stavano ridendo sguaiatamente, aggrappandosi l’uno all’altro e facendo tintinnare qualcosa che tenevano in mano e che scintillava appena con la scarsa illuminazione.
Quella luce, però, non era abbastanza fioca da impedire quello che successe subito dopo. All’improvviso il viso di uno degli uomini barcollanti e che emanavano un odore sconosciuto e pungente si volse nella direzione delle tartarughe, movimento che fece sussultare, seppur minimamente, queste ultime. 
Con un bagliore, lo sguardo sbiadito dell’essere umano sembrò riacquistare un po’ di lucidità mentre questo smetteva di ridacchiare e si fermava per un attimo cercando goffamente di mettere a fuoco quel piccolo spostamento che era riuscito ad attirare la sua attenzione.

Il tempo ricominciò a scorrere, questa volta più velocemente, e scattarono. Prima di rendersene conto correvano di nuovo, ripercorrendo in un lampo la piccola galleria e imboccando il binario principale scivolando sulle mattonelle umide durante la curva. Corsero scompostamente e col cuore in gola senza badare ai polmoni in fiamme, urtandosi di tanto in tanto tra di loro, il ritmo del battito cardiaco che faceva a gara con quello del sinistro rimbombare dei passi veloci.
Un secondo prima di superare l’ingresso della tana nella fretta di fuggire frenarono bruscamente e si catapultarono dentro. 
Rimasero lì, al centro dell’ampia stanza centrale, ad ansimare con le espressioni ancora terrorizzate puntate l’una sull’altra. Michelangelo tremava aggrappato al braccio di Donatello, e quest’ultimo, dopo aver guardato entrambi gli altri due fratelli ed essersi assicurato che le ginocchia reggessero, passò un braccio sulle sue spalle e insieme si diressero verso le camere.
Leo e Raph li guardarono allontanarsi, senza saper dire né fare niente. Il mutante con la maschera blu si volse a guardare il fratello, che fissava un punto sul pavimento in lontananza, in stato catatonico. “Raph…?” fece rauco.
Raffaello si riscosse, e intercettando l’occhiata preoccupata del fratello abbassò di nuovo gli occhi irrigidendosi: “Non è successo niente” mormorò avviandosi a grandi passi in camera sua.

Solo nella penombra, Leonardo cercò di capire cosa fosse successo, e i sensi di colpa lo assalirono. 
Avrebbe potuto impedirlo. Avrebbe potuto obbedire al Sensei.
Ma era successo una sola volta…

Una sola volta sarebbe bastata.

Il panico gli mozzò il fiato, e chiuse gli occhi.

Ottimo lavoro, Soldato…






ANGOLO PREOCCUPATO DELL'AUTRICE:
Esattamente, ho deciso di dire "pane" al pane e "autrice" all'autrice. Perchè rinnegare lo spirito femminista che c'è in me (?)?
Per chi non conosca la serie del 2012 (io non conosco molto le altre, ma penso che questa cosa non ci sia), il Capitano Ryan e il suo equipaggio fanno parte della serie televisiva di fantascienza preferita di Leo, almeno nella prima stagione, ma penso che Ryan resti il suo eroe fino alla fine dei suoi giorni... Non giudichiamolo: non siamo forse tutti qui riuniti per lo stesso motivo? u.u
Mi dispiace di aver influenzato un po' troppo il futuro delle tartarughe con questa avventura, volevo mantenermi nella narrazione di episodi marginali, in slice of life, appunto... spero che non vi dispiaccia troppo, ma se così non fosse fatemelo sapere! 
Con questa drabble ho "osato" un po', e ho il terrore che non mi sia uscita molto bene... devo lavorare sul campo dell'azione...
Buone notizie! Ho imparato ad usare l'html del sito, e ne approfitto per ringraziare l'artefice di tale insegnamento, una mia carissima amica che tra l'altro mi ha anche introdotta nel magico mondo delle fanfiction (no, dai, adesso non odiatela!)... so che stai leggendo, accidenti a te...
Fatemi anche sapere se i dialoghi e i flussi di coscienza sono idonei alle età che ho dato man mano ai personaggi, eh!
Boh, penso di aver finito... so di aver dimenticato qualcosa, ma amen... Ciao!!
Gru


 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Qualcosa in più delle farfalle ***


Età: 15 anni



Prese un respiro profondo, distendendo e piegando le dita un paio di volte. Poi, una volta sciolte velocemente anche le spalle con qualche movimento rotatorio dei muscoli, caricò l’affondo, il primo di una raffica continua e quasi instancabile, e colpì.

Il manichino malconcio si accartocciò verso l’interno all’impatto e, senza avere il tempo di riaccasciarsi mollemente, sorretto solo da una corda intorno al collo, venne investito da una serie compatta di pugni diretti in quelli che sarebbero stati i punti più strategici, se le nocche non avessero trovato solo sabbia da imbottitura.
I grugniti attutiti di Raffaello crearono il tenue sottofondo di un ordinario pomeriggio al rifugio, in cui ogni Hamato era preso dalle proprie occupazioni prima della ronda notturna (e della pizza, come avrebbe certamente precisato Mikey). Dalla cucina arrivava un vago profumo di dolci, segno che Michelangelo si stava dedicando alla creazione di chissà cosa e chissà quanto commestibile, considerando lo stile fin troppo creativo del fratello, nonostante l’odore non promettesse troppo male; non molto distante, a intervalli irregolari, il ticchettio di dita contro la tastiera di un computer.

Ognuna di quelle percezioni venne allontanata. In quel momento, non esisteva altro che l’avversario, il tempo scandito dai tonfi curiosamente morbidi in contrasto con la violenza delle percosse.
Non era volontario, gli esercizi di concentrazione e controllo dei movimenti li lasciava a Leo: per Raffaello avere la mente leggera e sgombra significava lasciarla libera, abbandonarsi all’istinto. Si lasciava trascinare dai soli sensi, affidava le redini del suo corpo all’adrenalina, annullava ogni repressione e faceva fluire ciascun pensiero o sensazione attraverso le braccia e le gambe, per poi scaricarlo da sé sul bersaglio per mezzo della sola, cruda, irrefrenabile forza.
E non capiva come lo stare seduto immobile a gambe incrociate gli avrebbe potuto dare lo stesso inebriante risultato.

Si fermò solo dopo qualche minuto di affondi continui, per riprendere fiato. Con la coda dell’occhio sbirciò in direzione del divano: April era concentrata sul libro aperto sulle gambe accavallate, con la fronte corrugata e una ciocca ribelle di capelli attorcigliata intorno a un dito, mentre dalla parte opposta Donatello fissava lo schermo del portatile che teneva in grembo facendo scorrere lentamente la pagina corrente. La presenza della ragazza al rifugio era ormai abituale, anche se sempre molto gradita, e i ragazzi si comportavano con sempre maggiore naturalezza in sua presenza, lasciandole il proprio spazio e facendola sentire ogni volta come a casa sua, cosa praticamente vera, dato che la giovane apprendista kunoichi passava la maggior parte del suo tempo libero in loro compagnia. 

Solo Donatello non poteva evitare di modificare le sue abitudini: quando April veniva a far loro visita, era molto più facile trovarlo fuori dal quel suo laboratorio a gravitare intorno alla sua presenza, e quando l’amica si fermava a studiare o per aggiornare il sito di avvistamenti che aveva allestito per avere notizie sugli spostamenti dei Kraang, immancabilmente il mutante in viola si trovava nella stessa stanza, lavorando sul portatile ad una distanza matematicamente calcolata e con spesso malcelata indifferenza.

Entrambi erano troppo immersi in qualunque cosa stessero facendo per essere disturbati dalla sua presenza, e Raffaello riprese in ogni caso a colpire il manichino.
“Donnie, puoi aiutarmi?”
‘Domanda stupida’ pensò il ninja mascherato di rosso cogliendo la richiesta a metà di un calcio allo sterno, non riuscendo a impedirsi di alzare gli occhi al cielo dopo aver scorto suo fratello voltarsi immediatamente in direzione della ragazza come se non avesse aspettato altro da tutto il pomeriggio. 
“Certo. Qual è il problema?” rispose prontamente questo mettendo da parte il portatile e avvicinandosi all’altro lato del divano per chinarsi con lei sul libro.
“C’è questa formula, proprio non mi quadra…”
Raffaello si sorprese ad osservare la scena, mentre il fratello iniziava a gesticolare ormai preso da una delle sue infinite spiegazioni che si tradusse come al solito in un indistinto ronzio nella sua testa, pieno di paroloni sconosciuti e incomprensibili. April annuiva raramente, senza staccare lo sguardo dal libro.
Per qualche motivo, l’immagine gli trasmise una strana sensazione. Strana forse solo perché inaspettata in quel particolare frangente: sembrava rievocata da un passato ormai un po’ confuso. Vagamente familiare, sì. 
Non gli piaceva, in ogni caso. Lo aveva distratto.

Cercò di rinvigorire i pugni, ma non riusciva a distogliere completamente l’attenzione dai due, e più guardava Donatello parlare con la solita espressione appassionata di numeri e calcoli, più si incupiva senza capire il perché. Notò di nuovo lo sguardo di April sul libro. E quello di suo fratello, fisso negli occhi di lei.

Distolse lo sguardo immediatamente. Non riusciva a sopportarlo. Provò improvvisamente il desiderio immotivato che la ragazza rivolgesse la sua attenzione a Donnie come quest’ultimo le stava dedicando tutta la propria, che scollasse gli occhi da quel maledetto libro e che incrociasse quelli del fratello, che almeno gli facesse un cenno, o un sorriso, sempre che non fosse di troppo disturbo…
Si bloccò con i pugni a mezz’aria, scioccato dai suoi stessi pensieri. Ma che accidenti gli prendeva? 
Si guardò intorno, quasi temendo che qualcuno si fosse accorto dei suoi sproloqui mentali, e finse di sistemare il gancio del manichino, cercando di riordinare le idee.

Sapeva che non poteva incoraggiare niente del genere. Né voleva, in realtà, perché semplicemente non era possibile, non rientrava nel loro genere di vita, nella quale non ci sarebbe mai stato posto per una di queste… bah, cose, ecco. 

Aveva capito da tempo che non c’era spazio per questo tipo di fantasie, per desideri troppo audaci nel loro mondo. Aveva incassato il colpo, come faceva tutti i giorni quel suo manichino malconcio, come avevano fatto i suoi fratelli con gli anni, e conviveva con quella consapevolezza senza darle ormai troppo peso; sapeva dove fosse la linea del limite, aveva seguito il suo tracciato molte volte, talvolta osando sfiorarla, ma tornando sempre al punto di partenza, girando in tondo in quella gabbia invisibile e facendo finta di poter camminare all’infinito, e pensava davvero che bastasse, credendo che fosse lo stesso per i suoi fratelli.

Un giorno però aveva scoperto di essersi sbagliato. Era successo forse qualche mese prima, non ricordava… 
Guardava un film scelto a caso, stravaccato con Mikey sul divano al ritorno di una ronda durante una serata morta. Era una trama banale, la solita coppia incasinata di adolescenti: dopo l’ennesimo litigio - lei era un’isterica con una voce irritante, lui un semplice rammollito - quei due avevano smesso di urlarsi addosso e senza nessun preavviso si erano lanciati l’uno contro in una bacio appassionato, così, come se non fosse successo niente. 
Raffaello a quel punto aveva sbuffato, simulando un teatrale attacco di nausea, e si era voltato verso il fratello con la battuta sarcastica già pronta… che gli era morta in gola accorgendosi dell’espressione rapita di Michelangelo. 
Stava fissando lo schermo con gli occhi socchiusi, profondamente concentrato, mentre studiava le immagini in silenzio. Quando poi aveva inclinato la testa, quasi per registrare meglio ogni movimento dei due attori, ogni carezza, Raffaello aveva voltato di scatto la testa tornando a fissare la tivù, gli occhi spalancati dalla sorpresa e dall’imbarazzo, come avesse visto qualcosa di privato, segreto. 
Non era riuscito a dimenticare quella serata, gli tornava in mente decisamente troppo spesso. Forse perché era il suo fratellino, il giocherellone, che si divertiva ancora a fare scherzi infantili e che riusciva ad ammorbidire persino lui con quella sua dannata espressione da cucciolo, forse era per quello che la cosa lo aveva scioccato così tanto. O forse, più in generale, non aveva mai immaginato seriamente uno dei  suoi fratelli in simili circostanze.
Neanche quando era arrivata April, in effetti. Non aveva dato nessuna speranza ai tentativi di Donnie, si limitava ad osservarlo rendersi ridicolo davanti a “la ragazza più bella che avesse mai visto in vita sua” - questo, ne era sicuro, non lo avrebbe mai capito -, e magari tirarlo fuori appena in tempo dalle situazioni più imbarazzanti. Un giorno, suo fratello si era buttato da solo in un covo dei nemici per riportare ad April suo padre, per vederla sorridere, per vederla sorridergli, dopo che lui aveva deriso i suoi tentativi di fare colpo sulla ragazza.
Il cuore è un muscolo delicato. Lo capiva sempre troppo tardi.

Ci aveva messo troppo tempo ad accettare le regole, e per cosa? Per vedere l’essere più disciplinato e con la testa sulle spalle  che conosceva trasformarsi nel giocattolo di una pericolosa nemica da un giorno all’altro? Ma che stava succedendo? A cosa era servito essere addestrati per anni in preparazione alle sfide più ardue per poi venire sottomessi in un letterale battito di ciglia?

“Donnie, non c’è bisogno che tu faccia tutto l’esercizio al posto mio” sentì ridere April, e si voltò per vedere suo fratello arrossire furiosamente e balbettare delle scuse mentre si allontanava un  po’ da lei con la testa china per l’imbarazzo.

All’improvviso il volto incuriosito di Michelangelo davanti alla tivù, quello di Leonardo mentre gli assicurava di avere tutto sotto controllo e quello di Donatello, addolorato, dopo che April gli aveva urlato di non volerlo più vedere si sovrapposero davanti ai suoi occhi, e la sua rabbia prese finalmente una direzione.

Quella vita, la loro intera esistenza, era una presa in giro. Solo una fottutissima presa in giro, mentre sventolava sotto al loro naso occasioni che non avrebbero mai potuto cogliere, cercando sempre il modo più crudele per disilluderli, rigettandoli in pasto a una realtà che non avrebbe potuto dare loro niente di più che un mucchio di stupide farfalle a corrodere loro lo stomaco.
E se c’era una cosa che non poteva sopportare, era vedere l’ennesima delusione riflessa negli occhi dei suoi fratelli, né la prima né l’ultima. Era stanco di dover infrangere ogni loro singola speranza in attesa che smettessero di alimentarle, che cedessero alla consapevolezza che il mondo non poteva né voleva adeguarsi a loro, e che quindi si arrendessero, una volta per tutte, perché prima sarebbe successo, meno avrebbero sofferto.

Il manichino era a terra, crollato sotto un unico, furioso colpo in una posa assurda e scomposta. I pugni erano ancora stretti, i muscoli tesi, il respiro affannoso. 

Odiava l’impotenza. E desiderava con tutto se stesso poter proteggere la sua famiglia da qualunque cosa, anche da se stesso quando era il primo a ferirla con la sua mania di parlare senza riflettere, anche da tutte le  illusioni e delusioni in cui inciampava e sarebbe inciampata negli anni a venire.
Ma sembrava così difficile, tanto come restare a guardare, e non voleva accettare il fatto che non ci sarebbe sempre riuscito.

“Raph?”
Sussultò voltandosi verso Michelangelo, che lo guardava interrogativo con un vassoio di biscotti fumanti in mano e una candida striatura di farina sulla maschera arancione. 
Rimase per qualche secondo a guardarlo, mentre l’ondata di amarezza che lo aveva travolto poco prima si ritirava lentamente lasciandolo un po’ stordito. Sbattendo le palpebre, posò lo sguardo sul vassoio: “E’ quasi ora di cena, Mikey”.
Quest’ultimo guardò a sua volta i suoi dolcetti informi e alzò le spalle: “Beh, ho trovato una nuova ricetta con le gocce di cioccolato, volevo provarla subito” spiegò, per poi tornare ad osservare il fratello con aria sospettosa. Prima che potesse aggiungere altro però, Raffaello prese in fretta un biscotto e gli passò rudemente un braccio intorno al collo stringendolo brevemente “Non sembrano male” disse soltanto cacciandosi in bocca il dolce.
“Ehi! Fa’ attenzione, così me li fai cadere tutti!” protestò Mikey sorridendo di nuovo e spingendo via il fratello con la mano libera.
“Ah, non mi permetterei mai… Quanti chili di zucchero hai messo questa volta?”
“Uffa, Raph, abbi fiducia!”
“Come vuoi tu, Mikey…”
“Cosa?”
“Niente…”






ANGOLO RITARDATARIO DELL'AUTRICE:
Sì, perchè ho decisamente esagerato. Non odiatemi, pensavo veramente di poter sfruttare le vacanze di Natale per aggiornare... Tanti compiti e tanti parenti, mi dispiace. A proposito, ehm... Buone vacanze a tutti. MI sono dimenticata la scorsa volta. Ora potete odiarmi tranquillamente.
Cercherò di non aggiungere anche tutto ciò che ho dimenticato di scrivere nello scorso Angolo dell'autrice (ciao, sono Gru, e sono una maniaca di premesse e postmesse) e passo a questa drabble: non sono per niente sicura. Sul serio, provare a scrivere in terza persona ma dal punto di vista di quel testone di Raph non è molto semplice, e sono sicura di aver toppato in qualche punto... Ricordate: se aveste voglia di farmi sapere va vostra... nessuna pietà.
Per la reazione di Raffaello allo sbaciucchiamento improvviso potrei essermi ispirata ad una certa tizia che dopo i sessanta secondi di effusioni costanti inizia a fare commenti vaghi sulla maglietta di lei, sulla pettinatura di lui, sul paesaggio sullo sfondo... Sono una persona vergognosa...
Ho seguito (un po' in ritardo) un consiglio e ho messo un po' più di spazi tra i paragrafi, sono curiosa di sapere se ho reso la lettura più scorrevole.
Dato che mi avete montato la testa nelle scorse recensioni, non ho potuto fare a meno di dare una sbirciatina, e ho scoperto di essere stata inserita in qualche lista... Sono piuttosto sconvolta, vi ringrazio moltissimo!!
Per finire, purtoppo il titolo di oggi non è di una sola parola come gli altri, ma sto rispettando una specie di regola, qualcuno mi ha detto di averlo capito... Sono troppo tragica, non c'è niente da fare u.u
Penso di aver finito... credo... Un bacione a tutti!
Gru
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Pace ***


Età: 3 anni



Il dolore sarebbe dovuto essere insostenibile, eppure il tormento non cessava mai.
Non vedeva nulla, non sentiva nient’altro. I sensi erano completamente concentrati sul fuoco gelido che lo stava divorando, talmente incontenibile da pretendere l’attenzione di ogni percezione con la violenza più brutale che avesse mai subìto. Riusciva a sentirlo muovere dentro di se - o era fuori? - mentre gli scuoteva le ossa e premeva sui tendini, gli sembrava quasi di udire lo sfrigolìo ardente che artigliava la carne e saliva su per gli arti, appropriandosi di tutto ciò che trovava, mordendo e martoriando, ma senza distruggere completamente nulla, rendendo interminabile la tortura.

Disteso o in piedi. Immerso nell’acqua ghiacciata o esposto alle fiamme. Un minuto o delle ore. Aveva perso completamente la cognizione di se stesso e del resto del mondo, e quando - quando? - il dolore smise di attanagliargli completamente la mente, il primo pensiero che riuscì a liberare fu indirizzato a questa prima realizzazione. Dopo un altro interminabile arco di tempo riuscì a fare appello a tutta la lucidità che aveva lentamente riconquistato per cercare, scavando faticosamente nella sua memoria confusa, di ritrovare il momento in cui era precipitato in quel tunnel di disumana sofferenza. Perché senza dubbio - era finalmente riuscito a concepire il pensiero - c’era stato un tempo, benché lontano anni luce, in cui il suo corpo era stato libero da quell’inferno. Doveva capire cosa fosse accaduto.

La sensazione gli attraversò la mente rapida e irruenta come un treno in corsa, e un’improvvisa urgenza rischiarò il buio denso e soffocante in cui era immerso. Non sapeva se i suoi occhi si fossero effettivamente aperti solo in quel momento quando tornò a vedere. C’era ancora tanto nero, tutto emanava ostilità, ma il suo sguardo non riusciva a mettere a fuoco niente in particolare. Aveva paura di muoversi, sapeva che il dolore era solo in agguato, ritiratosi temporaneamente in un punto del petto, attenuato ma non abbastanza da non lasciarne il ricordo, come una minaccia spietata e sottile, e sapeva perché. Sapeva cosa doveva fare, ma questo non diminuiva il suo terrore.

Sentiva di essere vicino. 
Ricordò con orrore e smarrimento come la sua giornata si fosse trasformata in un vortice di ignoto e oscurità prima che fosse riuscito a rendersene conto, anche se ancora non capiva quanto tempo prima fosse successo. Sembrava che avesse tirato più del lecito un lembo sporgente di una carta da parati dai motivi innocui e di aver scoperto qualcosa di oscena malignità appena sotto di essa, qualcosa che non avrebbe mai dovuto vedere la luce del sole e che fino a poco tempo prima aveva fatto sì che le sue stesse membra si muovessero fuori dal proprio controllo.
Ma c’era ancora qualcosa che dimenticava, un altro particolare di cui non riusciva a scorgere che una vaga sagoma nella nebbia della sua memoria, era una cosa…
No, non era una.
Non era solo.


Tremando, rotolò affannosamente sul suolo duro e inospitale che non riuscì a riconoscere finché non si trovò disteso sull’addome, e si guardò intorno con ansia crescente. Nonostante le tenebre avessero ingoiato la maggior parte di ciò che lo circondava, trovò ciò che stava cercando, senza stupirsi di averlo riconosciuto.
Uno di loro, rigido in una posizione innaturale, aveva gli occhi serrati e un’espressione dolorante che gli deformava il volto leggermente allungato sul davanti. Teneva la piccola testa calva incassata nelle spalle e inclinata all’indietro, la bocca spalancata in un grido silenzioso.
Un’altra creatura giaceva alla sua destra, scossa da violenti tremiti e convulsioni, ricominciando ad ansimare ogni volta che i respiri che si le incagliavano in gola con un suono rasposo.
Riusciva a vederne altre due poco più avanti: una di queste, distesa mollemente con il lato anteriore del corpo e quello destro del volto aderenti al terreno, tentava con fatica dei deboli movimenti degli arti, mentre l’altra, riversa su un fianco rivelando la superficie geometricamente decorata e solo parzialmente graffiata di una corazza, non si muoveva affatto.

Non riusciva a capire se quella sfumatura verdastra che macchiava la sua vista ancora debole provenisse dalla luminescenza che emanava la sostanza densa e ustionante da cui si era appena alzato o dalla pelle dei quattro piccoli esseri che giacevano ai suoi piedi.
I suoi piedi…
Barcollò e cadde all’indietro, chiudendo gli occhi e respirando a fondo. Non voleva scoprire nient’altro oltre a ciò che la sua mente stravolta dal dolore aveva ipotizzato mentre il fuoco che lo stava divorando scemava lentamente e che adesso poteva constatare su se stesso. Voleva rimanere fermo sull’asfalto freddo e illudersi di essere scomparso, anche se era un desiderio poco onorevole, perché qualunque cosa gli avessero fatto, qualsiasi maledizione si fosse abbattuta sul suo corpo, era troppo da sopportare se sommato a quel che aveva già sopportato e che avrebbe dovuto sopportare per il resto della vita.
Mentre rimaneva immobile a terra, riuscì a percepire sempre più chiaramente un altro mutamento, più sottile, meno esterno. Quando i suoni si fecero più intensi e distinti e un odore di rancido e di pioggia gli attaccò con forza crescente l’olfatto, spalancò gli occhi irrigidendosi per l’improvviso timore di altre presenze, e sbatté le palpebre più volte: anche la sua vista sembrava essersi modificata, gli sembrava di guardare attraverso una lente, i contorni delle cose più precisi, i colori più nitidi.
Un grido soffocato lo fece sobbalzare, e tentò di alzarsi in piedi incespicando. Il suono proveniva da una delle creature, che come lui cominciavano a riemergere da quel tormento: sembrava quasi un vagito, spezzato e acuto, sicuramente umano.


Il dolore esplose di nuovo, prorompendo dal suo petto preceduto da quel sibilo ardente che lo accompagnava sempre, e oscurando ogni cosa.
Quando tornò a vedere, era al rifugio. Il silenzio era talmente denso da impedirgli di muoversi dal pavimento dell’ingresso su cui era inginocchiato. Nessuna luce, nessuna presenza. 
Era tutto finito. Era al sicuro, lo erano tutti e cinque. Era tutto finito - per favore, basta…
Con un tuffo al cuore, udì di nuovo lo sfrigolìo farsi sempre più intenso, e la sua visuale venne invasa da figure bianche con il volto coperto che si riversarono nella stanza, sempre di più, occupando ogni angolo della sua casa, soffocandolo. Delle mani fredde lo afferrarono, strattonandolo e strappandogli ciuffi di pelliccia, e ciò che vide prima di essere completamente sopraffatto non potè non fare più male. 
Raffaello si dimenava furiosamente con il corpo avvolto da una decina di quelle mani guantate, cercando di raggiungere Leonardo, che era già stato spinto a terra e circondato, mentre Donatello veniva trascinato via per le braccia, la testa abbandonata all’indietro.
Si sentì premere a terra, con le braccia ancora intrappolate in quelle gelide morse dietro la schiena. Doveva salvarli, avrebbe lottato fine alla fine per quest’ultimo scopo. Alzò a fatica la testa e si ritrovò faccia a faccia con uno di loro. Riusciva a vedere il suo volto: dei duri lineamenti orientali contornavano gli occhi di un assassino.
‘Se non sei morto sotto la mia lama, morirai così, un’altra volta’
Quando sentì qualcosa di piccolo e aguzzo pungergli il collo e affondare nella carne, chiese perdono per ogni sbaglio che aveva commesso e che lo aveva portato a quella condanna. Non era riuscito a salvare la sua prima famiglia, non ci sarebbe riuscito neanche adesso, e non avrebbe mai avuto pace per questo.

Poco prima che la vista iniziasse ad offuscarsi, oltre quel groviglio di arti e di corpi, vide un’ultima luce. Poco lontano, seminascosti nella penombra, due occhi spalancati dal terrore in un viso inondato di lacrime. Michelangelo era rimasto inginocchiato per terra, non visto se non da suo padre, mentre stringeva a sé un logoro orsacchiotto di peluche e tratteneva le urla davanti a quella scena raccapricciante.
Lottando per rimanere conoscente ancora qualche secondo, incrociò lo sguardo del figlio e, sperando di non attirare l’attenzione di nessun altro, mormorò: “Non muoverti… shhh… watashi wa anata o aishi, watashi no musuko*


Si svegliò come al solito, con il battito cardiaco accelerato, il sudore che gli impregnava il pelo e la paura di richiudere gli occhi.
Ciò che lo spaventava di più di quell’incubo che ricorreva da un paio d’anni a quella parte era la sensazione di debolezza e impotenza che gli trasmetteva tutte le notti e che si prolungava al risveglio, quando si rendeva conto che la maggior parte di ciò che aveva visto e sentito era accaduto realmente, e che il resto sarebbe potuto essere altrettanto reale.
Si alzò di scatto e barcollò verso l’altra camera. 
Guardare i suoi figli dormire era l’unica cosa che sapesse tranquillizzarlo dopo una notte di tormento, assicurarsi che stessero bene e che fossero lì con lui, al sicuro. Si erano addormentati come capitava quasi tutte le volte da quando non dormivano più nella sua stanza, l’uno addossato all’altro, stretti in un unico e saldo abbraccio, i respiri che si accavallavano. 
Rimase in piedi sulla porta, in silenzio, abbracciandoli con lo sguardo e fingendo che bastasse per proteggerli, poi se ne andò.


*Ti voglio bene, figlio mio




ANGOLO INCASINATO DELL'AUTRICE:
...che si diverte a sguazzare sadicamente nell'angst.
Dunque, quali sono le paranoie di oggi? Ah, già:
Mi chiedo se non fosse tutto un po' troppo confuso al di fuori della mia testa. Senza nulla togliervi, davvero, è di me che non mi fido. Certo, doveva essere un po' disorientante, ma nei limiti dell'umano, ecco... Il giorno in cui imparerò almeno un po' a valutarmi oggettivamente la pianterò di tormentarvi con le mie lagne e vi lascerò leggere in santa pace. Perdono.
Spesso non riesco a controllare la lunghezza dei capitoli, e faccio ancora molta confusione tra drabble, one shot e flashfic, quindi se sto sbagliando qualche termine fatemelo presente :)
Ultima cosa... ho fatto l'esperimento del giapponese. Ora... immagino di aver sbagliato qualcosa, è molto probabile nonostante abbia provato e riprovato, quindi insultatemi liberamente T.T
Ok, ho finito. Ora c'è la mia parte preferita, quella in cui ringrazio tutti quelli che visualizzano-leggono-seguono-preferiscono (PREFERISCONO??) questa mia creatura, graziegraziegrazie......
Un bacio grande
Gru

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Mezzi ***



ATTENZIONE!! POSSIBILE OOC!! MANTENETE LA CALMA E DIRIGETEVI VERSO LE USCITE DI SICU-okay, la smetto.


Età: 5 anni




“Signore? E’ ancora in linea?”
“Sì… sì, ci sono.”

Splinter si passò una mano sul volto inspirando, mentre con l’altra teneva nervosamente il telefono cellulare premuto contro la base dell’orecchio.
“Signore, ho bisogno che lei mi descriva tutti i sintomi.”
Si voltò di nuovo verso il lettino sfatto alle sue spalle, dove giacevano diverse coperte scolorite stese una sull’altra, sotto le quali si ergeva una piccola protuberanza che si sollevava e riabbassava quasi impercettibilmente ad un ritmo appena più veloce di qualche ora prima.
Sollevò con delicatezza alcuni lembi di tessuto, che rivelarono la testolina di una piccola tartaruga mutante.
Sembrava addormentata, benchè la fronte fosse lievemente contratta in un’espressione non del tutto rilassata, e respirava con la bocca aperta, mentre l’aria usciva dalla gola accompagnata da un suono rauco.

Sistemò le coperte in modo che non ostacolassero il respiro del piccolo. “Suda molto ma… credo abbia freddo.”
“Rabbrividisce?”
“Sì. Ma l’ho coperto, e…”
Il mutante udì la donna dall’altra parte della linea sospirare. “Ha fatto bene ad assicurarsi che stia al caldo: deve espellere liquidi. Più tardi lo scopra per far evaporare il sudore, così da eliminare un po’ di calore. La temperatura è salita nelle ultime ore?”
“La…”
“La temperatura, signore. L’ha misurata da poco?
Splinter deglutì.
“Pronto?”
La voce sembrava sempre più irritata, e l’uomo-ratto sentì l’ansia crescere dentro di sé. Si guardò in torno, quasi alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse a prendere il controllo della situazione, ma in quella spoglia stanzetta era solo, con un problema da risolvere ma senza i mezzi né le conoscenze per farlo. 
Sapeva ancora troppo poco di bambini, pensò amaramente, ma si proibì di soffermare la propria mente sul fatto che non avesse avuto il tempo di apprendere di più. Doveva rimanere concentrato. Chiuse gli occhi.

Quello raggomitolato nel lettino affianco non era un bambino della superficie, ed era molto probabile che il suo organismo non funzionasse esattamente come per uno di loro. Il pensiero non lo aveva abbandonato da qualche giorno prima, quando si era reso conto con orrore di non aver mai pensato a questo genere di eventualità.
Aveva mentalmente imprecato contro se stesso per quella mancanza. Era già un vero e proprio miracolo il fatto che nessuno dei suoi figli avesse ancora contratto una malattia fino a quel momento, visto l’ambiente in cui li stava allevando. Ma ogni volta che pensava che, tutto sommato, stesse facendo un buon lavoro, sorgeva una nuova complicazione, più impegnativa della precedente. 
Nel momento in cui, accorrendo ai richiami dei bambini che urlavano che il loro fratellino non riusciva ad alzarsi dal divano, aveva visto suo figlio tremare rannicchiato tra i cuscini, non aveva mai trovato così difficile mantenere la calma per trovare una soluzione che non arrivava.

“ Signore, le ho chiesto…”
“No. Non di recente.”
Riaprì gli occhi, la voce un po’ più ferma, e cercò di prepararsi per le conseguenze della sua risposta.
Un altro sospiro irritato.
“E’ necessario che verifichi la temperatura del bambino ogni due o tre ore a seconda dell’ultima misurazione” fece infatti la donna con un tono di voce più professionale e monocorde.
“Non credo di averne la possibilità”, rispose Splinter, preoccupato. ‘E’ necessario’ significava che sarebbe stato un rischio non farlo? Un rischio per la già precaria salute del figlio? Non sapeva se ci fossero altri metodi per misurare la temperatura corporea, magari meno precisi… Ma la donna avrebbe voluto una risposta dettagliata, e non poteva mentirgli rischiando di dare informazioni troppo vaghe, aveva bisogno di aiuto…
Si ricordò che le informazioni precise erano ciò che non poteva assolutamente fornire, e fu colto da una nuova ondata di ansia, sempre più intensa.

Si premette le tempie con la mano libera. Doveva rimanere concentrato, doveva…
“Non ha un termometro in casa? Digitale, o anche a mercurio*?”
Scetticismo. Impazienza.
“No, io… E’ importante?”
La sua voce non era più ferma, stava perdendo il controllo, di nuovo. Il mutante non si accorse nemmeno di aver iniziato a muoversi freneticamente per la stanza. L’orecchio era bollente a causa della forza con cui vi premeva contro il cellulare abbandonato.
Rubato. Splinter scosse la testa, cercando di impedirsi di rivedere le immagini di se stesso, nascosto nell’ombra come un criminale, mentre stringeva tra le mani l’apparecchio e sentiva l’odiosa sensazione che lo accompagnava sempre nel tragitto di ritorno al rifugio quando portava con sé qualcosa che non aveva trovato tra gli scarti dei supermercati o tra i rifiuti,  che la sua famiglia gli aveva insegnato a chiamare disonore.
Si disse, come tutte quelle volte, che non aveva alcuna importanza davanti ai bisogni dei suoi figli.
“Come le ho appena detto, deve misurare…”
“Non esiste un altro modo per farlo?” sbottò.

Calò un breve silenzio, spezzato solo dal respiro pesante che proveniva dal letto e dal lieve ronzio che produceva il telefonino. Poi la voce riprese a parlare, più lentamente, e con un’evidente variazione del tono.
“Mi ascolti. E’ una comune febbre da influenza infantile, non c’è alcun motivo di preoccuparsi se si seguono i metodi corretti per curarla, d’accordo?”
Compassione. Cautela.
Splinter sospirò, la vergogna per il proprio comportamento che faceva capolino tra il nervosismo.
“Sì.”
“Molto bene. Ora mi stia a sentire: può acquistare un termometro in qualunque farmacia…”
“In questo momento non mi è possibile.”
“Signore, è…”
“La prego.”
Sentì il bisogno di sedersi ai piedi del letto, così si lascio cadere sul materasso prima di ricordarsi di non svegliare il bambino. Un respiro più profondo degli altri e un lieve mugolìo lo fecero inveire mentalmente contro la sua disattenzione.
La donna al centralino parlò di nuovo dopo un altro silenzio in cui Splinter preferì non chiedersi se e cosa avesse iniziato a pensare a proposito di quella situazione. “D’accordo.”
Sembrò riflettere per qualche secondo. “Provi a contare i battiti cardiaci. Sono lievemente più precisi dei respiri, ma comunque approssimativi. La frequenza cardiaca di suo figlio dovrebbe rientrare tra gli ottanta e i cento battiti al minuto, ad ogni dieci battiti in eccesso corrisponde circa un grado in più rispetto alla temperatura corporea normale.”

Il mutante non smise di fissare la parete della camera di fronte a lui. Le parole gli rimbombavano nella testa, pesanti come macigni. 
La voce era pacata, come se la sua proprietaria fosse convinta che quelle parole gli avrebbero infuso un po’ di sollievo dalla preoccupazione.
Dovrebbe rientrare. Temperatura corporea normale.
Normale.

“Può aspettare, per favore?”
“Ma certo. Cerchi di mantenere la calma, va bene?”
Splinter non le rispose e appoggiò lentamente il telefono sul materasso.
Si alzò avvicinandosi alla pila di coperte, e delicatamente infilò tra queste ultime una mano, in cerca del braccio del figlio.
Un lamento. “Shhh…” fece l’uomo-ratto accarezzando la guancia del mutante più piccolo e constatando che la pelle bruciava sempre di più.
Vinse la debole resistenza del piccolo e fece affiorare una manina fino al polso. Cercò tastando con il pollice il punto in cui le pulsazioni erano più evidenti, controllò l’orario sul cellulare e iniziò a contare.



“Si lamenta. Si sta lamentando nel sonno.”
“E’ normale, ha la febbre alta. Ora faccia quello che le ho chiesto, per favore.”
Splinter le chiese nuovamente di rimanere in linea, e la donna acconsentì. Il mutante cercò di ignorare il fatto che quella centralinista lo stesse trattando come se fosse lui, il paziente.
Quando spalancò la porta della stanza, nella fretta, quasi inciampò in una piccola figura sul pavimento.
“Leonardo, perché non sei a letto?”
Il bambino-tartaruga lo guardava con gli occhi blu cobalto spalancati, seduto sul pavimento. Splinter lesse nel suo sguardo il riflesso della propria ansia.
Leonardo abbassò gli occhi, torcendosi le mani. “Noi… io… volevamo sapere…” 
“Michelangelo non sta tanto bene. Come ieri.”
Il bambino aprì di nuovo la bocca, ma il padre lo precedette, sbrigativo. “Per favore, Leonardo, torna nella tua stanza, cerca di dormire” fece, superandolo in direzione della cucina, senza controllare che il figlio lo avesse ascoltato.

La grossa ciotola che aveva preso dalla credenza rischiò di cadergli più volte mentre la aspettava che si riempisse per metà di acqua, rovesciandosela sulle mani. Diede un’occhiata veloce per controllare che la telefonata non si fosse interrotta, e si accorse che la batteria si stava esaurendo. La bacinella si inclinò un’altra volta. 
Mentre tornava verso la camera il più velocemente possibile dopo aver preso anche un panno pulito, lasciandosi dietro una scia di goccioline sul pavimento, sbuffò irritato alla vista di due dei suoi figli davanti alla porta. Leonardo e Donatello parlottavano a bassa voce; il primo sembrava ancora più preoccupato, e sobbalzò alla vista del padre che si avvicinava a grandi passi. Prima che potesse giustificarsi, Donatello si volto verso Splinter ed esclamò: “Papà, Leo ha detto che Mikey sta ancora male! Quell’acqua è per lui?” aggiunse notando la bacinella improvvisata tra le braccia del padre. 
“Donatello, torna a dormire, e in silenzio. Avevo detto a tuo fratello di…” 
“Quello cos’è, papà?” chiese il più curioso tra i suoi figli, non potendosi trattenere vedendo, l’apparecchio luminoso che Splinter cercava di non far bagnare tenendolo con le dita libere.
Si sentì un brusio proveniente dal cellulare, e il terrore che la linea fosse stata interrotta prese il sopravvento. “Voglio che torniate immediatamente a letto, e senza una parola di più. Subito.” Senza attendere repliche, Splinter oltrepassò i due bambini, spinse con la spalla la porta e la richiuse con più forza di quanto volesse. 
Sospirò, stanco, e si voltò verso il letto nell’atto di portarsi di nuovo il cellulare all’orecchio.
Fu come se una mano fredda lo avesse afferrato per la gola. La bacinella gli scivolò dalle mani.

“No! Non lo tenga!”
“Ma si farà del male! Lui… gli occhi…”
“Lo so, ma non lo blocchi. Come respira?”
“Michelangelo…”
“Ascolti me: come respira?”
Gli occhi vermigli dell’uomo-ratto vagavano impazziti sul corpo del figlio che aveva liberato dalle coperte, una mano a pochi centimetri da esso, senza osare più toccarlo, senza sapere cosa fare. Il panico aveva strappato brutalmente le redini della sua mente all’ansia, e faticava a sentire qualunque cosa non fosse il terribile suono dell’aria che attraversava la gola del figlio ma che sembrava non bastare. Il piccolo mutante aveva irrigidito il corpo e inarcato la schiena per quanto possibile a causa del guscio. Sotto lo sguardo impotente del padre, gli arti avevano iniziato ad irrigidirsi a scatti, e forti scossoni aggredivano le spalle e il collo. 
Splinter dimenticò di dover rispondere e di saperlo fare.
“Se fatica a respirare lo giri su un fianco. Mi sente?”
Il mutante, ancora chino sul letto, spinto dall’urgenza ma esitante per la paura, iniziò a far leva con un braccio sotto il guscio. “Non si è ancora fermato!”
“Durerà ancora qualche minuto. Intanto…”
“Mi dica come posso farlo stare meglio, io…”
“Lo spogli.”
Splinter si bloccò.
“Si fidi, da scoperto dovrebbe iniziare a calmarsi.”
La testa gli formicolava. “E’… Lui è già scoperto.”
“E’ sicuro che…?”
“Sì”
La voce esitò. “Deve raffreddarsi ancora. Ha preparato le spugnature?”
Si girò lentamente verso la pozza di acqua fredda che gli aveva ormai raggiunto i piedi. Stava ancora sostenendo il corpo teso di Michelangelo.
Qualcuno bussò piano alla porta. “Papà? Posso… posso entrare? Spike voleva chiederti come sta Mikey…” Non riuscì a rispondere.

Il silenzio parve preoccupare la donna, che sembrava però aver compreso che la situazione non era esattamente normale.
“Senta, le invio un’ambulanza. Mi detti solo il suo indirizzo, i paramedici le forniranno  medicinali ed istruzioni; si occuperanno del bambino, d’accordo?”
“Non può darmi lei le istruzioni?” Il sussurro si perse nella stanza.
“Avrà comunque bisogno di essere visitato.”
Un altro silenzio.
“Signore, sua moglie è in casa?”
Il telefono batté contro la superficie bagnata e si spense.




*Chissà se sono l'unica ad avere ancora il termometro a mercurio...


ANGOLO COLPEVOLE DELL'AUTRICE:
*tenta di fuggire ma un occhio di bue la immobilizza sul posto*
*sorride a trentadue denti, in cerca di pietà*
*non ne trova*
Ehm, ciao.
Vorrei potervi dire che gli alieni hanno prelevato il mio pc impedendomi di aggiornare o qualcosa del genere, ma, come immaginerete, non sarebbe vero. Chiedo umilmente perdono, ho avuto il periodo di vuoto assoluto, infatti questa one-shot (perchè SI', ho finalmente corretto il termine, ma il bello è che avevo letto la definizione di drabble&co, ma... non so che dirvi) è un po' forzata. Era un'idea che non sapevo bene come sviluppare, ed è uscita in un modo che non mi soddisfa. Boh. Mi direte voi, se ne avrete voglia...:)
Dunque... *controlla la scaletta* Ah, ecco, due cose tecniche:
Sapere la temperatura corporea è importante per decidere come curare la malattia. Questione di assunzione di antipiretici e altro, ma la nostra "crocerossina" non poteva sapere che la cosa non fosse così semplice... Questa gente che risponde al telefono per consigli medici e aiuti vari esiste veramente, a proposito.
Alcuni bambini possono soffrire di convulsioni febbrili, quando la febbre si alza troppo. Passano dopo alcuni minuti, e nella maggiorissima(?) parte dei casi non lasciano danni permanenti. Quindi ho immaginato che Mikey si sia ripreso tranquillamente... il padre un po' meno...
Così ho immaginato la prima complicazione fisica dei ragazzi, dopo la quale immagino che Splinter abbia preso precauzioni maggiori. Spero di non essere caduta nell'OOC, 'sta roba non mi convince proprio (DAVVERO, lo penso veramente, non lo dico solo per stressarvi!:')).
Ultima cosa: questo era il penultimo aggiornamento di "Destino". Forse questa raccolta è un po' breve, spero non scocci nessuno. Ma ogni cosa è destinata a finire! *si liscia la barba fregata a Splinter* U.U
Chiedo ancora scusa per il ritardo e per l'eccessiva lunghezza della one-shot (eh sì, e che cavolo... u.u), e ringrazio tutti coloro che visualizzano, leggono, recensiscono e tutte quelle belle cose ^^
Ciaociao!
Gru

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Grazie (I) ***


Mini-note pre... cosa: Lo so, lo so, c'è ancora scritto "in corso". Niente paura, ho solo diviso a metà la shot per evitare che vi addormentiate comodità. 
Questa one-shot non tiene conto degli eventi della terza stagione, o almeno di alcuni di essi, dato che anche la sua autrice li ignora. Eh.





Età: 20 anni



Il sole non era ancora riuscito a superare le schiere dei grattacieli più alti, ma era sicuramente sorto. Si nascondeva dietro uno di quei giganti grigi e squadrati, tingendo i suoi bordi di una luce che non gli apparteneva, così in contrasto con la sua fredda e artificiale austerità. 
L’aria fredda della notte ci avrebbe messo qualche ora a raggiungere una temperatura sopportabile per i flussi sempre più densi di newyorkesi che si riversavano nelle strade, brulicanti correnti multicolore che affollavano marciapiedi e metropolitane dei suoni e delle parole che avevano risparmiato durante la notte alla Città che non dormiva mai, ma che si trasformava in continuazione, cambiando faccia da un’ora all’altra della giornata, da un quartiere altolocato ad uno infestato di randagi e delinquenti.
Anche se, in realtà, di quell’ultima specie ve ne erano un po’ ovunque: tatuati o lastricati d’oro, non c’era mai stata alcuna differenza. Forse, ecco, quella dei ricconi che organizzavano dietro le quinte i più spregevoli atti di criminalità era la tipologia peggiore. Creature disgustose che sfoggiavano ogni tipo di raffinatezza ottenuta mediante crudeltà inconcepibili senza provare la minima vergogna, che osavano mostrarsi alla luce del sole dopo essere diventati autori delle azioni più disumane.
Disumane…
“Amico, è ora di andare.”

Raffaello non distolse lo sguardo dall’alba che non vedeva. Accanto a lui sentì Casey alzarsi dal cornicione del tetto e iniziare a dissimulare le tracce del loro passaggio. 
Alzò finalmente gli occhi sull‘amico, il volto attraversato da un sorrisetto sarcastico “Da quando hai iniziato a fare la mammina?”
Il ragazzo gli rivolse un’occhiataccia, abbandonando stancamente lungo i fianchi le braccia che conservavano ormai poco dell’immatura esilità di un tempo. 
“Ehi, senti, non è colpa mia. Oggi nessuno decide niente” protestò chinandosi per raccogliere la vecchia mazza da hockey, unico cimelio a cui non aveva rinunciato neanche dopo anni di addestramento professionale con i ragazzi: a detta sua, dava ancora delle magistrali randellate sui denti. “Il capo ci vuole  subito a portata di mano” aggiunse borbottando, con un cipiglio contrariato.
Alla vista dell’espressione sottomessa del compagno di ronda, Raph sghignazzò spudoratamente, ignorando l’irritato pugno sul braccio che ne seguì.
“Sì, certo, ridi pure, non sarai tu a venire spedito in giro per la città dalla Rossa per le scorte dell’ultimo minuto.”
“Meglio tu che io.”
“Stronzo.”
Raffaello sorrise voltandosi nuovamente verso la strada sottostante. Era il secondo giovedì di novembre.

“Intendi proprio qui… al rifugio?” 
April si era sistemata una ciocca di capelli dietro l’orecchio, evitando per un momento i quattro sguardi interrogativi puntati su di lei. 
“Beh… sì, se per voi va bene” aveva ripreso con un sorriso incerto, spostando nervosamente gli occhi su ognuno di loro, come se stesse cercando di valutare le reazioni. 
Non avendo ottenuto risposta, si era affrettata a spiegare: “Naturalmente non siete obbligati, voglio dire, so che il Giorno del Ringraziamento non rientra nelle vostre tradizioni, ma forse quest’anno potrei riuscire a convincere mia zia a non far partecipare me e mio padre ad ogni pranzo che organizza per la minima occasione speciale… Sapete, da quando…” si era mossa sul posto, strofinandosi un braccio “…da quando papà è tornato definitivamente a casa chiama quasi cinque volte a settimana. Credo che lui accetterà comunque il suo invito, non vuole farla preoccupare, ma mi ha assicurato che sosterrà la mia causa” aveva concluso con un altro piccolo sorriso. “Sempre che vi faccia piacere” aveva aggiunto  premurosamente. 
“E perché mai non dovrebbe?” aveva trillato immediatamente Mikey, stritolandola in un abbraccio entusiasta. “Possiamo, non è vero, Leo?” si era informato voltandosi verso il fratello e trascinando la ragazza che teneva ancora stretta con sé.
“Sono certo che il maestro Splinter ne sarà felice” aveva sorriso in risposta l’interpellato, con una scintilla di curiosità nello sguardo, mentre l’amica aspettava di essere liberata dalla piovra verde.
“Come mai quest’idea?” le aveva chiesto Donatello, mentre Michelangelo si avviava trotterellando in cucina iniziando già ad elencare idee per il grande pranzo. “Le fogne non sono esattamente la location più ambita.”
“E’ stato un anno sereno. Non ho mai ringraziato abbastanza per questo” aveva risposto April enigmatica.


Era vero. Non avevano mai acquisito quella particolare tradizione americana, e non l’avevano mai sentita propria neanche dopo averla scoperta. 
Naturalmente Mikey era elettrizzato per il nuovo evento, che avrebbe riunito tutta la famiglia e che gli aveva dato l’occasione di liberare il suo genio culinario, che, a quanto pareva, era continuamente ostacolato dai “palati ignoranti” dei suoi fratelli. Non parlava d’altro da quando Splinter aveva acconsentito all’iniziativa di April, ringraziandola per aver voluto coinvolgerli in quella usanza, rinunciando a passare la giornata con la sua famiglia. Ricordò che la ragazza aveva scosso la testa, sorridendo tra sé e sé.
“Non ho rinunciato a niente, Sensei.”

Per quanto gli riguardava, quella era una giornata come tante altre. Aveva stuzzicato Donatello per essersi offerto come addetto al trasporto delle famose “scorte” per il pranzo - se si fosse sposato qualcuno, quel giorno, ci sarebbe stata meno agitazione -, alzando gli occhi al cielo ogni volta che Michelangelo, a qualunque ora del giorno, chiamava April per farle approvare ogni sua nuova idea per quella salsa e quell’altra insalata: quella era stata la sua partecipazione. 

Osservava i giganteschi tacchini lucidi di grasso al centro di tavolate infinite, in case dai pavimenti splendenti e i sorrisi ampi, e neanche una volta aveva considerato tutto questo come qualcosa di familiare, qualcosa che gli appartenesse. Non era una questione di sfarzo, o abbondanza, non gli interessava nulla di tutto ciò: semplicemente, per cosa avrebbe dovuto ringraziare?
Il mondo era sempre pieno di persone che pugnalavano alle spalle gli amici e che portavano loro via ciò a cui tenevano di più.  Innocenti continuavano a venire aggrediti, i risparmi di una vita portati via.
Vivevano sotto i piedi delle persone. La moglie del loro Sensei era stata uccisa e sua figlia lo credeva ancora il suo assassino. Per le persone che aiutavano tutte le notti, per i loro concittadini, non avevano un nome né un volto. 
E a chi avrebbe dovuto essere grato, in ogni caso? A Dio? 
Raffaello sbuffò una risata carica di rancore. Certo. Quegli dèi talmente misericordiosi da lasciare che le loro creature venissero considerate contro natura e isolate dagli altri suoi figli.
Che discorsi.
“Che hai da ridere?”
Raph si alzò di scatto, recuperando i Sai. “Se potessi vederti sempre in faccia, rideresti anche tu.”
“Uh, devo aver interrotto un gran pensiero profondo…”
“Andiamo, testa di guscio.”
Resistette al primo raggio del sole che aveva raggiunto i suoi occhi, le pupille sovrastate delle iridi verdi temporaneamente rischiarate dalla foschia dei pensieri, poi  distolse lo sguardo e corse con Casey verso casa.


“E adesso cosa dovrebbe significare ‘quanto basta’?”
Il tono spazientito del fratello fece ridacchiare silenziosamente Michelangelo. Distolse l’attenzione dal magnifico purè di patate dolci a cui stava dando vita e si voltò verso la figura di Leonardo, china sul foglio in cui April aveva loro elencato tutti i procedimenti per fare il ripieno del dolce che lei e Mikey avevano scelto. 
A Michelangelo ricordò un  pinguino nel Sahara. Aveva educatamente mascherato il sottile scetticismo dietro un sorriso grato quando, quella mattina, aveva trovato il fratello sulla porta della cucina che lo guardava affaccendarsi intorno ai fornelli, per poi chiedergli timidamente se avrebbe avuto bisogno di una mano per il pranzo.
Al che Mikey si era dovuto mordere l’interno delle guance a sangue perché la sua espressione non offendesse l’audace offerta del leader. Aveva comunque accettato volentieri, affidandogli le mansioni più semplici e macchinose, un po’ per pietà, un po’ per tenere lontani eventuali incidenti domestici.
Non che dubitasse dell’impegno di Leonardo: come immaginava, i compiti che necessitavano di precisione e metodo erano quelli in cui riusciva meglio - mai vista una zucca pulita meglio, davvero, anche se forse non era necessario soppesare il carico di un cucchiaio di farina per dieci minuti. Quello che mancava a Leo, era il senso della praticità.
“Qual è il problema?”
“Il sale. Quanto basta per chi?

Una volta sorpassati i tornelli, Casey si lasciò cadere di peso sul divano logoro, ignorando i cuscini che crollarono a terra all’impatto. 
“Se la Rossa arriva nei prossimi venti minuti, Raph, tu non mi hai visto.”
“Stai invecchiando, amico.” mormorò l’interpellato avviandosi in cucina in cerca di qualcosa su cui mettere le mani senza ricevere le mestolate stizzite di Michelangelo (“Cercate di sopravvivere con gli avanzi della cena per i prossimi due giorni, tutta quella roba mi serve”).
“Ti ho sentito.”

Dalla cucina, però, giungevano ben due voci che discutevano.
“Devi assaggiare l’impasto, Leo. E comunque di solito si intende qualche pizzico.”
“April avrebbe potuto essere più precisa.”
“Infila quel dito nella ciotola e basta.”
“Siete adorabili” commentò Raffaello dopo essersi concesso qualche istante della scena che gli si era parata davanti. “Mikey, non avevi proprio un grembiule anche per Fearless?”
Quest’ultimo gli lanciò un’occhiata fulminante, mentre l’altro alzava gli occhi al cielo, sistemandosi inconsciamente il tessuto sul piastrone.
“È utile, Raph.”
“Sembri un idiota, Mikey.”
“Immagino che abbiate fatto di nuovo l’alba” li interruppe Leonardo, smettendo di litigare con la pasta arancione sul tavolo e inchiodandolo con lo sguardo. Ora Raffaello non potè non immaginarselo con un grembiulino rosa e le mani sui fianchi.
“Già” rispose senza degnarlo di uno sguardo, mentre attraversava la stanza e spalancava il frigo ficcandoci la testa dentro. Sentì il profondo sbuffo spazientito del leader, e cercò di prepararsi psicologicamente per una ramanzina alle sette del mattino, cosa non facile, considerando che non aveva ancora trovato nulla di violabile da mettere sotto i denti. Ma se quel pomposo di suo fratello si fosse di nuovo messo in mezzo, reclamando la sua autorità più del lecito, non avrebbe potuto lasciar correre. Non era più un ragazzino, non aveva alcun diritto di-
“Bene.”
E Michelangelo, per la seconda volta, trascurò il suo purè per assistere agli sviluppi della conversazione da cui aveva preferito tirarsi fuori. Una mano smise bruscamente di rovistare nel frigo, e la testa di Raffaello fece capolino da sopra l’anta.
“E questo cosa vorrebbe dire?”
“Esattamente quello che ho detto” replicò Leonardo, ricominciando a mescolare la zucca con appena un po’ di forza in più rispetto a prima. “Non ti ripeterò che è pericoloso rientrare con troppa luce, e che dovresti avvisare quando hai intenzione di fare tardi.”
Raffaello alzò un sopracciglio. “Lo hai appena fatto.”
“No, ti sbagli” ribatté tranquillo il mutante in blu. 
Gli altri due fratelli si scambiarono un’occhiata sospettosa, e nessuno fiatò più per qualche istante.
“D’accordo.” Raffaello uscì dalla cucina con un trancio di pizza fredda. 
Era già un passo in avanti.

Non aveva fatto in tempo a mettere il naso fuori dalla stanza, che udì il rumore sferragliante dello Shell Raiser farsi più vicino. Con tutta l’intenzione di defilarsi nella sua stanza, lanciò un’occhiata veloce al divano. “Fare il morto non ti salverà”  fece in direzione di Casey, che si stava appiattendo contro l’imbottitura senza osare respirare. 
“Sta’ zitto.”  Alla voce ovattata dell’amico seguì il fracasso dei freni del vagone della metro. 
“Siamo arrivati!” salutò allegramente April, scendendo con cautela dal mezzo di trasporto, la testa nascosta dietro a quello che sembrava un vassoio carico di qualcosa di pesante e commestibile, dato l’odore, imballato con cura nella stagnola.
Dalle porte scorrevoli comparve anche Donatello, portando fuori due buste rigonfie di bibite e tenendo contemporaneamente d’occhio il carico sotto cui barcollava la ragazza.
Gli acuti eccitati di Michelangelo, che si era precipitato fuori dal suo regno, invasero il rifugio. “Quello è…?”
“Esatto!” sorrise compiaciuta April, facendo spuntare il viso da un lato del pacchetto. “Casey, alzati da lì e aiutami a portare questo in cucina.”
Il mutante in rosso decise che era il momento di scomparire prima di essere ‘catturato’ anche lui dalle direttive del generale O’Neil.
“Raffaello.”
Quest’ultimo sospirò, fermandosi nuovamente. Si voltò di malavoglia. “’Giorno, Sensei.”

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Grazie (II) ***


Grazie (II parte)


Splinter lo osservava, appoggiato con entrambe le mani al bastone di giada. I suoi occhi, contornati ormai da alcuni peli bianchi, così come la punta delle orecchie e la pelle vicino al naso, non avevano mai smesso, con il passare degli anni, di scrutarlo in quel modo, come se si facesse ogni volta strada dentro di lui, come se riuscisse a vedere tutto ciò che voleva nascondere agli altri e a se stesso, tutto ciò che lo spaventava e da cui cercava di tenere lontano tutti perché… perché avrebbe fatto paura.
 Sapeva solo che sotto quegli occhi che potevano vedere tutto si sentiva colpevole e vittima, giudicato e compreso. Era sempre quel “sì e no” che non capiva, che buttava all’aria tutto ciò che riusciva a mettere in ordine con fatica e rigidità, ma che allo stesso tempo lo teneva stretto e lo guidava attraverso quel gran vortice rabbia, incomprensione e inquietudine.

“Sembrano tutti molto occupati” commentò il mutante più anziano voltandosi in direzione delle voci concitate che si alternavano dalla zona al di sotto dei pochi gradini. 
Raffaello si grattò il collo, non sapendo dove guardare. “Già.”
Passarono alcuni istanti in cui il ragazzo-tartaruga valutò la possibilità di sgattaiolare via disinvoltamente.
“Leonardo ha detto che non c’eri, a colazione.”
Ecco. Perfetto. 
“Ero con Casey.”
Splinter annuì, pensieroso. “La ronda è andata bene?”
“Sì.”
Raffaello si voltò a guardare distrattamente Casey e Donatello che scaricavano vari pacchetti e buste dallo Shell Raiser. Il primo si stava rivolgendo con un ghigno divertito stampato sul volto a suo fratello, il quale si limitava ad alzare gli occhi al cielo e a superarlo a testa bassa verso la cucina, da cui si udiva il vociare indaffarato e le risate occasionali degli altri.
Non si girò a ricambiare l’occhiata di suo padre che si sentiva addosso.
“C’è qualcosa che ti turba, figlio mio? È successo qualcosa?”
Raffaello trattenne un sospiro. “No, Sensei.”
Splinter sapeva benissimo che quello era tutto ciò che avrebbe avuto da suo figlio, e che si sarebbe dovuto accontentare di leggere quel che taciuto nei suoi silenzi e nei suoi gesti. Per questo si sorprese di sentirlo continuare.
“C’era un gruppo di uomini” riferì atono il ninja mascherato di rosso “Non siamo riusciti a fermarli prima che scappassero.” Contrasse una mascella. “Avevano accerchiato una ragazza, in un vicolo. Erano già…” Basta. “…a buon punto.”
Guardò finalmente suo padre, e quest’ultimo pensò a quanto quell’espressione somigliasse a quella della piccola tartaruga mutante che abbassava lo sguardo stringendo i pugni dopo essere stato sgridato, o che litigava con i suoi fratelli per un gioco, che dava così tanta importanza ad una vittoria e ad una sconfitta, che si scontrava a mani nude contro le ingiustizie e che si rassegnava solo dopo essere stato schiacciato completamente, ignorando e seppellendo le ferite sotto un sarcasmo disilluso.
Raffaello, dal canto suo, non sapeva perché avesse raccontato tutto ciò. Era semplicemente uscito dalla sua bocca, sollevandosi dal suo stomaco. Non per questo, in ogni caso, bruciava di meno.
“Il solito, insomma.”
Si pentì ulteriormente quando vide l’espressione addolorata del padre puntata su di lui. Lo interruppe prima che potesse dire qualcosa - non poteva proprio vedere quegli occhi.
“Penso di dover, uhm, andare ad aiutare gli altri.”
E, senza voltarsi, Raph disse addio alle prospettive di fuga e si avviò verso gli schiamazzi.


April tossicchiò, rompendo il pesante silenzio d’attesa calato intorno alla tavola finalmente imbandita. 
“Okay, allora… dovremmo tenerci per mano.”
Alzò gli occhi per sbirciare le reazioni dei presenti.
Michelangelo afferrò tranquillamente la mano di Splinter e quella di Raffaello, che scambiò con Casey un’occhiata dubbiosa. Quest’ultimo e Leonardo allungarono imbarazzati il braccio l’uno verso l’altro lato del tavolo. 
Dopo un paio di sbuffi e sussurri di protesta, tra cui quello di Casey, che non aveva mancato di offrire la mano a Raph facendo sfarfallare le ciglia, per poi guadagnarsi un calcio sotto il tavolo, ci fu di nuovo silenzio.
La ragazza prese un respiro profondo e strinse grata la mano che Donatello le aveva offerto senza scomporsi. Rispose al sorriso incoraggiante del Sensei seduto accanto a lei a capotavola.
“Innanzitutto, vi ringrazio per avermi permesso di organizzare questo pranzo. Vi ho monopolizzato la settimana, eh?” sorrise nervosamente. Nessuno rispose. Si sistemò leggermente sulla sedia e riprese:
“Sapete già che mio padre è tornato a lavorare ormai da un po’. Lo vedo nei fine settimana, e a volte pranziamo insieme, quando i corsi me lo permettono. Dice che avrebbe dovuto impedirmi di scegliere un’università così vicina, che non si è mai vista una figlia che passa tutto questo  tempo libero con suo padre.” 
Sbuffò una risata al ricordo, abbassando lo sguardo. “La verità è che non posso farne a meno. Mi piace cucinare con lui, guardare un film insieme la sera. Mi piace svegliarmi e sentirlo russare nella stanza accanto. A chiunque questa sembrerebbe la normalità” April non aveva smesso di sorridere, ma la sua espressione era cambiata in qualcosa che non apparteneva al viso di una donna così giovane. “ma non lo è. Non per forza, non per me.” 

In qualche modo, il silenzio era ancora più intenso di prima. Raffaello si ritrovò a dover costringersi ad abbassare gli occhi, di tanto in tanto. Si accorse di non essere l’unico nella stessa situazione, ma poi April riprese a parlare e le sue mani a sudare contro quelle altrui.

“Di normalità, come la intenderebbe chiunque, non ce n’è da anni nella mia vita. Ho scoperto che le cose possono cambiare da un momento all’altro, senza alcun  tipo di preavviso, o di segnale. Possono cambiare nel bel mezzo di una passeggiata con tuo padre, e non hai neanche bisogno di essere distratta per essere colta di sorpresa. Ho scoperto che possono cambiare in peggio, e che non c’è mai una fine, a questo peggio.

“Ci sono stati lunghi, interminabili momenti in cui ho pensato di non essere mai stata così sola in vita mia. C’era sempre stato mio padre, i miei amici, la mia routine. È incredibile quanto ci si possa sentire abbandonati senza le proprie certezze” commentò con una leggerezza di cui tutti diffidarono. “Ogni cosa cambia aspetto, ed è uno spettacolo da cui vorresti scappare, ma contemporaneamente non riesci a staccargli gli occhi di dosso. E non c’era nessuno a cui potessi davvero chiedere aiuto, non in una situazione del genere.”
La ragazza batté le palpebre un paio di volte. “Non ce n’è stato bisogno.”

“Un’altra cosa che ho imparato, è che non possiamo fare tutto da soli. Cercando di dimostrare a me stessa che sarei stata in grado di cavarmela, credo di aver iniziato ad allontanare molti di coloro che erano rimasti. Gli eventi mi stavano separando dal mondo, o almeno da ciò che conoscevo di esso, e io mi lasciavo trascinare. Ho scoperto che c’è sempre stata, anche quando mi rifiutavo di vederla, una mano tesa verso di me.”

Ora il suo sguardo si posava su ognuno dei presenti, e Raffaello dovette evitarlo accuratamente. Voleva smettere di ascoltare, ma allo stesso tempo lasciava malsanamente fluire quelle parole attraverso la sua mente, dove bruciarono a tradimento.

“Più tardi, col tempo - molto tempo - ho imparato altre cose ancora: ad esempio…” Un sorriso le si allargò lentamente negli occhi “…che una serata a base di pizza e schifezze può alleggerire il ricordo di una pessima giornata. Che le risate possono essere contagiose, e che, se casa tua è troppo vuota, l’essersi lasciati portare al cinema dagli amici non è una cosa per cui sentirsi in colpa.
“Ho imparato che c’è sempre un po’ di luce, da qualche parte, davanti ai nostri occhi. Anche se vederla è tremendamente difficile, quasi quanto credere che ci sia veramente; anche se le voltiamo le spalle, preferendo gettare le armi e sperare solo che non faccia ancora più male.”
Esitò. “L’ho vista anch’io, alla fine. In realtà, era lì da quando è iniziato tutto, ma se alla fine sono riuscita a scorgerla, probabilmente è perché era davvero grande.”

Tutti sembravano essersi stretti intorno a lei, sporgendosi inconsciamente nella sua direzione. Negli occhi liquidi di April, questo confermava le sue parole.
“Io… speravo di poter ringraziare per questo. Ho avuto… ho sempre avuto qualcuno che ha preso un po’ di peso su di sé, che ha tentato di distrarmi anche senza poter sapere, almeno all’inizio, da cosa.”
Sorrise a Casey, che le rispose ammiccando. 
“Mi sono state fatte promesse, mi è stato offerto tutto, con ogni mezzo. Mi è stato perdonato tutto”, e la mano di Donatello si mosse in quella della ragazza, che però la tenne ferma aumentando leggermente la presa “quando le cose non sembravano volersi aggiustare ed ero troppo stanca per rimanere a guardare.

“Mi è stato dato un posto dove nascondermi, un modo per difendermi, per essere più forte. E ho potuto vedere con i miei occhi questa forza, che non ha niente, niente a che vedere con gli allenamenti, o con le lotte. Stava nel convivere con tutte le aspettative deluse, con tutta la fatica, i problemi, le cadute, sapendo che tutto ciò di cui si ha bisogno per resistere sta combattendo accanto a te.”

Raffaello ricominciò a respirare quando, alzando di scatto gli occhi, quasi rispondendo ad un richiamo, incontrò immediatamente quelli del padre, che sorrideva solo per lui. O forse quando sentì la stretta di Michelangelo, che non potè non ricambiare. O quando vide la mano di April e quella di suo fratello intrecciarsi ancora più saldamente, al di là di tutto il rumore ed il dolore sopra le loro teste, al di là del passato e del futuro, e di un destino che nessuno di loro avrebbe dovuto affrontare da solo.

“Oggi ho un padre che festeggia il Giorno del Ringraziamento con la sua famiglia, nella città che amo, e sono qui. Proprio dove vorrei essere. Mi sembrano buoni motivi per cui ringraziare.”

 E forse lo erano davvero.
“Raph, se poi te la sentissi di mollarmi la mano, mi passeresti quei salatini?”
Decisamente.




ANGOLO GRATO DELL’AUTRICE:
(C’è qualcosa di sbagliato in questi Angoli dell’autrice. Credo che sia il termine “Angolo”.)
Lieta di annunciarvi che questa volta non ci saranno lunghe puntualizzazioni, almeno alla fine vi lascio in pace.
Spero solo che i personaggi non siano risultati OOC e che il tema di questo “episodio” non vi sia sembrato banale.
Che vi dicevo? Niente precisazioni… *fischietta*
Tornando seri (?), mi auguro che questo finale sia stato all’altezza di quella gente meravigliosa che fa cose meravigliose quali leggere, recensire, sopportare i miei scleri, e via scrivendo.
Quindi, è ora che anche io ringrazi qualcuno:
Un grazie gigante a Ayumi Edogawa, cartoonkeeper8, chitta97, Helen91, HellenBach, LaraPink777, Longriffiths, The_Warrior_of_The_Storm e Zoey Charlotte Baston (avrò sicuramente dimenticato qualcuno o fatto confusione con i nomi cambiati, perché altrimenti non sarei io, quindi chiedo perdono in anticipo). Siete stati tutti gentilissimi, con i consigli e le rassicurazioni, vi ringrazio di cuore.
Un ringraziamento particolare alla mia Dean, paziente incitatrice di pulcini fifoni.
Penso che ora mi dedicherò per prima cosa alla correzione delle one-shot precedenti, dato che ogni volta che, per paranoia, le rileggo, spunta fuori un nuovo errore, che bello…
(Ho fatto una scoperta che mi ha traumatizzata: a quanto pare le “e” maiuscole accentate esistono, e NON SI DEVE USARE l’apostrofo. Detta così, in effetti, la storia dell’apostrofo è stupida, ma io so per certo che qualcuno ha inquinato la mia innocente (?) mente infantile con questa sporca menzogna (??): ebbene, io troverò quel qualcuno, e costui pagherà per questo. Ecco.)
Detto questo, e constatando che mi sono di nuovo dilungata, vi mando un abbraccio mastodontico. Ci si vede in giro… :*
Gru











Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2903183