Dall'Ombra e dal Crepuscolo

di Hika86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La morte di Arathorn ***
Capitolo 2: *** Estel ***
Capitolo 3: *** Una nuova famiglia ***
Capitolo 4: *** L'incontro ***
Capitolo 5: *** Limiti e diversità ***
Capitolo 6: *** Un'occasione alla Speranza ***
Capitolo 7: *** Fine dei giochi ***



Capitolo 1
*** La morte di Arathorn ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Spostava i cuscini freneticamente per distribuirli lungo tutta la sua metà del letto e non poteva fare a meno di ridere soddisfatto quando riusciva a rubare un guanciale a sua madre, che stava facendo la stessa cosa nella sua metà di materasso: lei aveva le braccia più lunghe forse, ma lui era più rapido, più scaltro, più furbo. Avrebbe vinto!
«Siamo pronti capitano!» strillò quando si sentì sicuro dietro la sua morbida trincea
«Io no! Aspetta, aspetta!» esclamò la madre
«Catapulte!» continuò imperterrito. Afferrò un cuscino dalla sua costruzione, prese la mira e lo lanciò verso la donna. La colpì ad una spalla.
«Ah! Ci colpiscono! Ci colpiscono!» fece lei tenendosi l'immaginaria ferita con una mano. «Dobbiamo contrattaccare o non vinceremo mai!»
«Ricaricate la catapulta!» insistette, e cominciò a saggiare con le mani il cuscino migliore.
Dopo un breve bussare, la porta venne aperta e una donna fece un passo avanti sull'uscio. «Mia Signora» accennò
«Ooooh su» sospirava la donna seduta al centro del letto, si allungava con il collo oltre la trincea di cuscini del figlio, rannicchiato dietro di essa. Mandava piccoli lamenti. «Non puoi fare l'offeso se per una volta ti ho colpito io»
«Mia Signora» insistette quella e finalmente la donna alzò lo sguardo. «Mia Signora, i raminghi sono tornati e i figli di Elrond di Gran Burrone chiedono di parlare con voi»
«Oh, falli entrare forza» annuì scendendo dal letto e sistemandosi le vesti, anche se non con eccessiva rapidità. «Non ci formalizziamo, vero?» chiese verso il bambino tra i cuscini
«Ci sono Elan e Roi?» domandò il piccolo alzando la testa.
In quel momento due Elfi comparvero sulla porta, lasciata aperta dalla donna che era andata a richiamarli. Erano alti e belli come solo i rappresentanti della loro razza potevano essere. Avevano i capelli scuri, lasciati sciolti da ogni acconciatura, eccetto una singola treccia che andava da una tempia fino alla nuca, ognuno su un lato diverso del capo. Vestivano di grigio e verde scuro, ma il fango e l'usura avevano sbiadito i colori originali che avrebbero potuto essere più accesi. Di solito c'era una luce immobile e remota nei loro occhi, ma quando la donna alzò lo sguardo su di loro, la prima cosa che notò fu proprio la luminosità più fiacca del loro sguardo e l'incertezza che ne traspariva.
«Elladan ar Elrohir Elrondion, le nathlam hí» salutò la donna, alzandosi in piedi ed inchinandosi ai due Elfi
«Dama Gilraen» risposero semplicemente, educati ma sempre sbrigativi
«Sono proprio Elan e Roi!» esclamò il bambino tutto contento.
I due gli sorrisero dolcemente. «Possiamo parlare con voi?» domandò Elrhoir. Spostando lo sguardo sulla donna il sorriso svanì e tornò a tradire preoccupazione
«E' urgente» aggiunse Elladan
«Non penso che...» fece per dire, allungando la mano verso il figlio, ma i due Elfi si scambiarono uno sguardo agitato
«An ngell nîn» insistettero facendo un passo indietro, come già pronti a lasciare la stanza.
La donna annuì e si rivolse al bambino. «Mi aspetti qui Aragorn?» domandò chinandosi verso di lui. «I nostri ospiti sono venuti da molto lontano e non sarebbe carino farli attendere. Dopo giocheremo ancora, mentre loro si riposeranno dal viaggio. Va bene?».
Il piccolo annuì obbediente e agitò la mano verso i due amici Elfi. Loro ricambiarono con un sorriso affettuoso e un piccolo inchino, quindi uscirono. Gilraen passò ancora una volta la mano sulle gonne, spostò i capelli su una spalla e, prima di andarsene, lanciò al figlio un bacio.
Rimasto solo, il bambino si guardò intorno, come improvvisamente resosi conto che non era rimasto nessuno o come se cercasse qualcosa da fare. Dopo un minuto passato a fissare cuscini, letto, tappeti e mobili, si risolse a mettere l'angolo di un cuscino in bocca e fissare la porta, bagnando la federa di saliva, però, dopo uno o due minuti di attesa, si stufò di quel passatempo. Gli venne in mente che, se Elladan ed Elrohir erano lì, anche suo padre poteva essere tornato a casa!
Mise da parte il cuscino e scese dal letto. La porta era chiusa, segno che la madre non avrebbe voluto che lui uscisse dalla capanna, ma il piccolo Aragorn non se ne curò più di tanto: spinse a fatica uno sgabello vicino alla porta, vi salì e allungò la mano alla maniglia. Non è che fosse ancora troppo basso per arrivarci, ma bisognava girare il pomello e la serratura era un po' dura: in punta di piedi faceva fatica a muoverlo, mentre da lassù poteva aprirlo senza troppa fatica.
La chiusura scattò e la porta si aprì leggermente verso l'interno. Saltò giù dallo sgabello e, sporgendosi oltre l'uscio, controllò che nessuno stesse guardando verso di lui, nell'accampamento. Molte persone bisbigliavano tra loro, altre guardavano verso la grande capanna del Re quindi nessuno si curava della sua, così strisciò nello spiraglio per uscire. Rimase rasente il muro e decise di andare a vedere prima nell'armeria e nelle stalle: forse suo padre era lì con gli altri raminghi del Nord. Desiderava tanto sentire la sua risata roca e profonda, respirare l'odore del muschio e dell'erba che impregnava i suoi vestiti e domandare l'origine di ogni graffio: una frana sul passo di una montagna, una mischia con gli Orchi, una rapida fuga su di un tronco.
Aveva appena fatto il giro della loro capanna quando sentì un urlo venire dalle sue spalle. Un urlo carico di disperazione, breve, subito soffocato. Si girò e guardò la luce del sole, velato dalle nuvole, illuminare debolmente l'erba del percorso che aveva appena fatto intorno alle pareti di legno della capanna. Doveva tornare indietro? Era stata la voce della madre, ne era sicuro, e per qualche secondo si trovò combattuto tra il desiderio di vedere il padre e l'allarme che quel grido gli aveva messo nel suo piccolo cuore, ma alla fine si risolse a tornare sui suoi passi: se la mamma fosse stata male, il papà sarebbe arrivato, quindi che senso aveva faticare a cercarlo, se poi sarebbe arrivato anche lui alla capanna del Re?
Tornò indietro e attraversò lo spiazzo tra le capanne con la sua corsetta goffa e zigzagante, sotto gli occhi degli altri abitanti dell'accampamento, finché non raggiunse l'entrata di pesante stoffa che dava alla sala in cui di solito il Re riceveva gli ospiti o teneva feste; lì la sua famiglia mangiava e l'accampamento intero passava le serate invernali, raccolto ad ascoltare storie. Vide la madre inginocchiata a terra, piegata su se stessa e con il viso coperto dalle mani, davanti allo scranno in legno intagliato su cui si sedeva di solito il padre. La donna si nascondeva agli occhi degli altri e cercava di soffocare i singhiozzi.
«Mamma?» sussurrò piano, ma né lei, né le due donne vicine, nè alcuni dei raminghi presenti lo sentirono. Elrohir invece girò lo sguardo e in una manciata di secondi lo vide, un fagottino vestito di seta azzurra, semi-nascosto dietro la stoffa consunta dell'entrata. Elladan era chino su Gilraen, le teneva una mano sull'avambraccio e versava con lei delle silenziose lacrime. Il gemello si voltò verso di loro e dovette rivelare la presenza di Aragorn, perché sia l'altro Elfo che la donna sollevarono lo sguardo e lo guardarono.
Il bambino, così fissato, si rese conto di aver cominciato a piangere a sua volta; piccole calde lacrime avevano cominciato ad uscirgli dagli occhi e a rotolargli giù dalle guance: non poteva vedere sua madre in quello stato, come schiacciata da un'improvvisa tristezza, che le piegava le ginocchia e la costringeva a chinare il capo. «Mamma» ripeté e Gilraen allungò un braccio facendo una smorfia di tristezza nel tentativo di fermare le lacrime per almeno un minuto
«Aragorn, piccolo, perché sei uscito?» domandò con la voce rotta dal pianto
«Perché ti ho sentito piangere» rispose. Non era la verità, ma non mentì consapevolmente: in quel momento non pensò alla differenza tra l'essere uscito dalla capanna e l'essere andato fin lì; si sentiva solo riempire di una strana tristezza che non riusciva a capire, ma sua madre piangeva e vederla così, stringeva anche il suo cuore in una morsa di dolore.
«Vieni. Vieni qui» lo incitò muovendo la mano del braccio che ancora non aveva abbassato. Il bambino la raggiunse con la sua corsetta impacciata e si nascose tra le sue braccia. Perché sua madre piangeva? E perché non lo consolava dicendogli di non piangere? Senza scuse per smettere, Aragorn continuò, bagnando il lino della veste della madre.
La donna si concesse solo un paio di minuti per tenere il figlio tra le braccia, dedicandosi a sentire il calore del suo piccolo corpo contro il proprio senza dire nulla; poi si passò il dorso della mano sugli occhi e guardò gli Elfi. «Amici miei, vi farò trovare una capanna dove riposare dopo il lungo viaggio»
«Non pensateci» rispose Elladan scuotendo il capo. «Parleremo noi ai raminghi, voi prendete vostro figlio e passate del tempo insieme. Tranquillizzatelo»
«No» rispose scuotendo il capo. Le lacrime avevano smesso di scendere e il suo sguardo si era fatto duro. «Siete nostri ospiti e non mancherò di trattarvi col giusto riguardo. Inoltre non posso nascondermi al mio popolo: loro devono sapere e lo sapranno da me» spiegò. I due Elfi si portarono la mano destra al cuore e chinarono il capo, accettando quella decisione, poi Gilraen sorrise loro, mentre passava una mano tra i capelli di Aragorn che singhiozzava debolmente al suo petto. «Tolitholir aen na nin?» domandò in tono più dolce.
I gemelli si scambiarono un'occhiata dopodiché annuirono, sorridendo a loro volta. «Certo che verremmo con voi, mia Signora» rispose Elrohir, quindi entrambi si spostarono di lato, lasciandole libero il cammino fino all'uscita della capanna.
«Tesoro» disse Gilraen, prendendo il figlio per le spalle e allontanandolo dolcemente da sé. «Voglio che mi ascolti bene ora, e che faccia quel che ti dico» Aragorn la guardò, con gli occhi pieni di lacrime, e annuì debolmente. «Ti ricordi Ethelmar, l'amico di tuo padre? E' andato con i raminghi una volta e poi non è più tornato. Ecco, Arathorn lo ha seguito: anche lui non tornerà a casa»
«Non tornerà?» domandò il bambino confuso. «Andiamo noi da lui?»
«No, non possiamo» gli rispose reprimendo delle nuove lacrime. «Vedi quello... quello dov'è ora è un posto che si può raggiungere solo quando si hanno compiuto gesta eroiche, come ha fatto lui. Ora ascoltami bene, Aragorn: i nostri amici, quelli di tuo padre e il suo popolo, contano su di noi. Su di me e su di te, capisci?» domandò passandogli i polpastrelli sulle guance per accarezzarlo e asciugargli il viso. «Sarà come quando tu conosci un gioco e devi spiegarlo agli altri. Come quando hai un piano per arrivare a prendere un frutto su un ramo lontano e devi dire agli altri come si può fare: se non ti mostri sicuro, gli altri non ti ascoltano, vero?» chiese ancora, e dopo avergli asciugato gli occhi e il viso, gli sistemò i capelli scompigliati e i vestiti spiegazzati. Il bambino annuì. «Quando tuo padre parte, tutti vengono da me a chiedere consiglio, giusto? D'ora in poi sarà così sempre e più tu diventerai grande, più le persone chiederanno anche a te. I nostri amici avranno bisogno di noi e noi, per loro, dobbiamo essere forti, non dobbiamo piangere troppo, va bene? Perché ora dobbiamo mostrare loro cosa fare e come fare, mi segui?» e il figlio annuì ancora. «Non piangere con loro. Se vorrai farlo, potrai venire da me: ci nasconderemo da qualche parte e piangeremo un po'»
«Puoi venire anche da noi, piccolo Re» aggiunse Elrohir
«Non lo diremo a nessuno» Elladan gli fece l'occhiolino.
Le donne che si trovavano nella tenda portarono due mantelli, uno per Gilraen e uno per Aragorn. Li indossarono, quindi la regina dei Dúnedain uscì dalla tenda del Re. La gente dell'accampamento già sapeva ciò che era successo, perché i raminghi non erano rimasti in silenzio -o meglio, nessuno aveva parlato molto, certo, solo che quella notizia non poteva essere taciuta- ma tutti la guardarono, trattenendo il respiro. Volevano sapere se era vero e volevano che fosse lei a dirlo. Si erano raccolti davanti alla tenda, senza che fossero stati chiamati, ma la notizia era corsa e li aveva uniti lì.
«I raminghi sono tornati a noi con una terribile notizia» annunciò la donna ad alta voce. Teneva Aragorn per mano, stringendogliela saldamente, perché lui sapesse che lei era presente e al suo fianco, per potergli trasmettere un po' di coraggio. «Arathorn, figlio di Arador, è morto» annunciò infine, riuscendo a mantenere la voce ferma, con suo stesso stupore.

In seguito non riuscì a ricordare esattamente cosa disse. Sul popolo davanti a lei sarebbe potuta cadere la disperazione, ma doveva essere riuscita a tirar fuori delle parole convincenti e un discorso energico. I figli di Elrond dovevano averla aiutata nell'impresa. Nella sua memoria era rimasta impressa la forza che la loro presenza le aveva dato.
I gemelli elfici quella sera avevano di certo toccato il cuore di tutti, intonando un canto per il defunto quindicesimo Capitano dei Raminghi del Nord. A lungo avevano alzato le loro voci chiare e profonde, in un coro vibrante dal suono avvolgente, come avrebbero potuto fare solo due voci identiche, che pure cantavano diversamente. A differenza di molte canzoni elfiche molto varie ed elaborate, Elladan ed Elrohir avevano intonato un canto che per lunghi minuti aveva continuato con la stessa rima, per poi cambiarla e continuare con la seconda ancora a lungo e avanti così per molto tempo.
Il canto fu tanto lungo che Gilraen non riuscì mai a ricordarlo tutto. Nella sua mente rimase solo l'ultima parte ascoltata.

Oh, Arathorn! Oggi va a te il nostro pensiero.
Ramingo instancabile e uomo sincero,
In lui scorreva un sangue nobile invero.
Era un Re incrollabile dal cipiglio severo
Tutto osservava, come dall'alto un'aquila in volo leggero.
Per noi un Capitano, pur senza un destriero,
Ma che batteva instancabile ogni grigio sentiero:
Orecchie tese a cogliere ogni rumore straniero,
Spada alla mano, come ogni abile guerriero.
Troppo presto ci hai lasciato davvero
E grave è la notizia che porterà il messaggero,
Ma alle aule di Mandos potrai arrivare fiero
Ché su questa terra non sei stato solo passeggero
Ed hai lasciato Speranza e un futuro vero.

Oh, Arathorn! Oggi vanno a te i nostri sentimenti.
Non vi saranno, come per i Re, grandi festeggiamenti
Perchè la tua dipartita ci lascia sgomenti
E non v'è gioia nel cuore, ma solo tristi lamenti.
Che ne sarà del futuro? Che ne sarà delle tue genti?
I Dúnedain seguiranno i tuoi insegnamenti?
Combatteranno l'Oscurità? Difenderanno gli innocenti?
Solo il tempo ci dirà il futuro corso degli eventi,
Ma c'è la Speranza di grandi cambiamenti.
La tua Speranza sarà protetta dai grandi potenti:
L'anello di Finrod, dagli smeraldi splendenti,
Porterà con onore ed i Frammenti
Riunirà in una spada che noi riforgeremo pazienti.
Il Re risorgerà ed allora a te penseremo, di nuovo sorridenti.

Cantavano il vero. Non vi fu un un funerale celebrato a lungo, come si sarebbe potuto fare per un grande Re che avesse vissuto la sua vita compiendo grandi gesta rendendo felice un regno intero: Arathorn II era morto troppo giovane e, seppur valoroso e di indubbio coraggio, lasciava i discendenti di Númenor in una situazione gravosa, non c'era poi molto da festeggiare. Nonostante ciò, dopo le parole di quel giorno, tutti guardarono al piccolo Aragorn con speranza e, seppur angosciati dalla perdita del loro Re, erano pronti a prendere atto di quella perdita e di ciò che avrebbe significato: la mancanza di un capitano dava ai raminghi e al popolo tutto meno forza, proprio nel momento in cui, era chiaro, il nemico stava spendendo molte delle sue forze per spezzare la discendenza di Elendil e trovare l'erede di Isildur. Ogni villaggio avrebbe dovuto cominciare a spostarsi per sfuggire alle incursioni degli Orchi e i raminghi avrebbero dovuto organizzarsi da soli. Cominciavano anni ancora più duri dei precedenti.
Alcune settimane dopo quell'annuncio, quando anche nel loro villaggio era stato annunciato che avrebbero cominciato a prepararsi alla partenza, Gilraen era nella sua capanna con Aragorn steso sul letto, ormai addormentato. Un piede nudo spuntava dalla coperta dopo il suo ultimo rigirarsi sul materasso, e la donna sollevò le pellicce che lo coprivano, per spingerlo di nuovo al caldo, con un sorriso.
«Mia signora» disse una voce, dopo che si sentì bussare alla porta in legno
«Sì, avanti» rispose risistemando le coperte e mettendo da parte i fogli che aveva in mano.
I due figli di Elrond entrarono silenziosi nella capanna e le si inchinarono. «Ci avete fatto chiamare?»
«Accomodatevi, amici miei» disse loro, indicando due sgabelli. «E scusate ancora la povertà delle nostre dimore. Non è ciò che vorrei offrire a dei nobili Elfi, ma non ho di meglio».
La Regina sedeva sul letto stesso, lasciando agli ospiti le uniche comodità della capanna, e non aveva mai toccato il modesto trono di legno intagliato, nella tenda del Re. «Mia signora, voi sapete che sono molti anni che viaggiamo e combattiamo con i Raminghi del Nord» spiegò Elladan
«Benchè vestiti comodi e morbidi cuscini non siano da disdegnare, non siamo così avvezzi al lusso come potreste pensare» concluse Elrohir, sedendosi con un movimento aggraziato sullo sgabello
«Avete riflettuto sulle parole di nostro padre?» domandò il primo, accomodandosi a sua volta, ma non senza prima accostare di più lo sgabello alla donna. «Saremo lieti di essere la vostra scorta»
«Ci ho pensato» annuì. «E ho deciso di accettare» abbassò lo sguardo sul figlio e gli accarezzò i capelli scuri, lasciandosi sfuggire un altro sorriso. Ormai Gilraen la Bella aveva smesso di sorridere. Non che piangesse tutto il tempo, anzi il suo popolo non poteva dire di averla mai vista farlo, ma il dolore gravava sul suo viso anche senza bisogno di mostrare lacrime: aveva perso colorito, l'espressione si era incupita ed era spesso seria e preoccupata. Solo la vista del figlio le donava di nuovo un'espressione serena e sembrava distenderle le linee del viso in un sorriso dolce e caldo.
«Ogni decisione è stata presa. Ho ascoltato le parole dei raminghi e sono stati loro stessi a convincermi: Aragorn è l'ultimo erede di Isildur ancora in vita, non possiamo permettere che il nemico lo trovi; sebbene molti del nostro popolo vorrebbero vederlo crescere tra di loro e molti grandi raminghi temano che possa non diventare la guida che sperano se vivrà tanto lontano da quelli come lui. Noi dobbiamo proteggerlo e loro lo sanno, perciò mi hanno spinto ad accettare l'offerta di Elrond, Signore di Imladris»
«Da innumerevoli anni i discendenti di Isildur trascorrono parte della loro vita nella casa di nostro padre. I vostri raminghi non hanno da temere, Aragorn crescerà in uno dei luoghi migliori della Terra di Mezzo dove imparerà a combattere e ad essere un Capitano, ma potrà anche apprendere alcune arti elfiche e parte della saggezza del nostro popolo» spiegò Elrohir
«Saremo per lui maestri, consiglieri e amici, come lo eravamo per suo padre, il Sire Arathorn» annuì Elladan. «E voi potrete trovare un po' di pace nella casa di Elrond, mia signora. I vostri raminghi sono uomini valorosi e noi saremo con loro, quando non ci troverete ad Imladris»
«Bene allora» annuì Gilraen. «Non diremo a nessuno dove siamo diretti, se non a pochi fidati, e faremo metter in giro da loro voci diverse, nel caso qualche parola dovesse arrivare ad orecchie sbagliate».

Così venne decisa la partenza. Avrebbero atteso che il villaggio fosse pronto a mettersi in marcia, ricominciando quella vita da esuli che, sotto la sicura guida di Arathorn, avevano sperato di poter abbandonare; poi, una volta in viaggio, avrebbero accompagnato la carovana solo fino alle montagne e nella notte si sarebbero allontanati. Sarebbero stati solo in quattro, senza scorta, per viaggiare più rapidi e per dare meno nell'occhio.
Quella notte, quando il cavallo raggiunse la vetta dell'altura più vicina, Gilraen guardò indietro: i fuochi dell'accampamento ardevano pigramente per illuminare appena alcuni angoli vicini alle sentinelle. Salutare i genitori, probabilmente per non rivederli mai più, era stata una grande pena per lei. Nel giro di pochi mesi si era ritrovata a dover dire addio a tutte le persone più care che aveva. Il suo stesso figlio, che fino a poco tempo prima era stato circondato da un padre e da nonni affettuosi, ora poteva contare solo sulla madre, ed era certo troppo piccolo per capire cosa stava perdendo. Si era domandata spesso se quello poteva essere considerato un vantaggio o meno.
«Namarië» sentì pronunciare nell'oscurità.
Abbassò lo sguardo e vide la debole luce della Luna che rischiarava gli occhi aperti del figlio, sul cavallo con lei. «Cosa dici, Aragorn?» domandò piano
«E' una parola che papà ogni tanto usava per salutare qualcuno che andava via» spiegò il bambino. «Ha un suono triste e mi è venuta in mente ora».
Lei lo accarezzò sulla testa e annuì. Era un bambino sveglio ed era sbagliato pensare che non capisse la situazione: non la comprendeva come l'avrebbe compresa un adulto, ma percepiva gli stati d'animo di quelli intorno a lui, il calore dei gesti e i silenzi delle parole non dette. «Sì. Namarië» sussurrò a sua volta. Quindi volse le spalle alle luci dell'accampamento e seguì i gemelli per il pendio che scendeva dalla parte opposta dell'altura.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«Benvenuti Elladan ed Elrohir, figli di Elrond»
«Per favore»
«Verreste con me?»
«Addio»
• La canzone di Arathorn è originale (siate clementi).
• Per l'ambientazione del capitolo mi sono ispirata a Born of Hope, un meraviglioso fanfilm che racconta la storia di Gilraen e Arathorn, fino alla morte di quest'ultimo quando Aragorn ha 2 anni. Se avete un'oretta di tempo vi consiglio di guardarlo (lo trovate anche con i sub italiani su YouTube).


Solo un paio di avvertenze:
1) Di base non mi sto inventando nulla, questa ff vuole solo essere il racconto più nel dettaglio, di quelle poche pagine che descrivono la storia di Aragorn e Arwen (nell'Appendice A del libro) arrivando solo a quando Arwen si innamorerà a sua volta. Ci sarà però qualche piccola deviazione dal racconto originale, che vedrete già nel prossimo capitolo: se la cosa vi sta bene spero leggerete anche i prossimi capitoli, se invece siete dei puristi fino nel midollo lasciate stare ;)
2) Non ho studiato, non sto studiando e non penso studierò l'elfico, ma faccio qualche piccolo sforzo guardando siti e pdf di grammatica per mettere una o due frasi di modo da dare un sapore più reale al racconto. Se ne sapete più di me, vi invito a scrivermi un messaggio per correggermi :)
Credo sia tutto...

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Capitolo 2
*** Estel ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Era chiaro ad un primo sguardo perchè venisse chiamato Imladris. Nella lingua degli Elfi significava "valle profonda", e lo era. Molto, molto profonda.
Gilraen alzò lo sguardo, cercando con gli occhi i picchi delle montagne rocciose che salivano in verticale dal lato destro del sentiero che stava percorrendo con il cavallo. Sembrava una parete liscia di pietra scura, impossibile da scalare, eppure vedeva alcuni rami d'alberi e cespugli che probabilmente crescevano su sporgenze o su spericolati ed improvvisi davanzali di terra. La pietra chiara della parete di sinistra si era tinta dell'arancio del tramonto e in quella luce poteva vedere che le piante del luogo avevano il colore dell'autunno inoltrato, giallo chiaro, ocra e marrone scuro. Ovunque in alto, lunghe strisce di spuma bianca cadevano nel vuoto e sembravano dissolversi nell'aria fredda molti piedi al di sotto. Eppure il fiume che scorreva sul fondo di quel profondo burrone gorgogliava vitale, quindi una cascata più imponente d'altre doveva per forza alimentarlo.
Il sentiero che seguivano cominciò a salire, diventando un percorso stretto tra la parete di roccia e il vuoto che si faceva sempre più terrificante man mano che andavano avanti. La strada era larga giusto lo spazio del cavallo ed eventualmente una persona a piedi al suo fianco. Gilraen si costringeva a tenere gli occhi fissi davanti a sè: ancora non aveva paura, ma se avesse tentato di guardare, la sua sicurezza avrebbe potuto cominciare a vacillare; fortunatamente Aragorn sonnecchiava, tenuto stretto al suo petto da una fascia che le si incrociava due volte dietro la schiena.
Dopo molti minuti di cauta salita, finalmente il sentiero fece una curva, seguendo le sporgenze della roccia, e dietro l'angolo si aprì uno spazio ampio tra le due pareti di pietra. La prima cosa che Gilraen percepì di Imladris fu il rumore dell'acqua: il rombo della grande cascata che scendeva dai picchi sulla sinistra e il soffio delle cascatelle minori. Poi più avanti vide un lungo arco di pietra, piegato sulla cascata nel punto in cui la gola si restringeva di nuovo: era un camminamento sospeso nel nulla, per qualunque nemico senza ali sarebbe stato ben difficile arrivare alla Casa di Elrond in forze.
«Aragorn? Aragorn, svegliati» richiamò il figlio dandogli un bacio sulla fronte. «Siamo arrivati».
Il piccolo respirò profondamente ed aprì gli occhi piano, riabituandosi alla luce. «Siamo arrivati?» domandò, forse per conferma, o forse perchè nello svegliarsi non aveva ascoltato le parole della madre.
«Sì, guarda. Questo è Imladris, la casa del signore Elrond, uno degli Elfi più antichi e saggi della Terra di Mezzo» gli spiegò slacciando la fasciatura che lo teneva assicurato a sé. Una volta libero infatti, il bambino poté girare il capo e ammirare la luce morente del giorno che illuminava i tetti e gli archi di quella casa degli Elfi. Il loro colore era difficile da determinare. Al tramonto, Gilraen avrebbe detto che avevano i colori dell'autunno come gli alberi intorno, ma ora che la luce moriva e le ombre grigie e azzurre avanzavano, anche la costruzione elfica sembrava cambiare tonalità: i tetti erano verde scuro e gli archi e le scale grigio chiari come le cascate d'acqua nella notte.
Il piccolo gruppo -con Elladan in testa, Elrohir in retroguardia e Gilraen e Aragorn in mezzo- passò sulla lunga striscia di pietra levigata del ponte, ora larga almeno il doppio del sentiero seguito fino a quel momento. Gli zoccoli sembravano risuonare per tutta la gola. Passarono in mezzo a due identiche statue di guerrieri elfici, ciascuno con una lancia tra le mani e l'armatura finemente intagliata nella pietra. Appena dopo, si apriva un largo spiazzo di roccia lavorata come il ponte, come se fosse stato un unico pezzo di montagna plasmato dagli Elfi ed adattato. Elladan smontò e prese Aragorn tra le braccia, per farlo scendere, mentre il gemello aiutava la donna a smontare a sua volta.
«Elda è casa tua?» domandò il bambino all'Elfo guardandosi intorno con gli occhi sgranati
«Sì, mio giovane amico. Questa è la casa di Elrond il Mezzelfo, e diventerà anche la tua casa» gli rispose Elladan
«Mia? Tutta questa?» chiese facendo un ampio gesto col braccino, per indicare tutte le costruzioni, gli alberi e le cascate, oltre alla gola e ai picchi innevati al di sopra. «Ma è troppo grande».
I due Elfi risero divertiti. «Aragorn, non sarai il solo: qui vivono tante persone»
«Anche voi?» domandò. «Quindi posso venire a trovarvi?»
«Certo, dovrai solo uscire dalla tua stanza e venire da noi» spiegò Elrohir. «E immagino che ora vogliate entrarvi, sarete stanchi per il lungo viaggio»
«Dobbiamo almeno salutare il padrone di casa: non ho le forze di trattenermi in lunghe chiacchiere, ma è il minimo che io possa fare» replicò Gilraen tenendosi con una mano al cavallo. Non era più abituata a viaggi lunghi, ed avevano cavalcato per quasi due settimane.
«Mia signora, nostro padre sa che...» Elladan cercò di farla ragionare, parlando con dolcezza, ma non ci fu verso.
«Sono dovuta fuggire come una ladra dalla mia stessa gente e l'ho accettato per la salvezza di mio figlio, ma qui, ad Imladris, dove ci è offerta protezione, non entrerò come una vagabonda qualsiasi» si impuntò. Il fatto che si tenesse al cavallo e che il suo viso portasse tutti i segni della spossatezza fisica e del dolore mentale, non avrebbe aiutato a far valere le sue convinzioni; ma trovava ancora forza negli insegnamenti che le erano stati dati e nell'amore per il marito, che aveva sempre parlato del Signore di Gran Burrone come del più nobile e fedele degli Elfi.
«Non scomodatevi a convincerla: le donne dei Dúnedain non sono creature qualsiasi» una voce limpida risuonò nell'aria al di sopra dello spiazzo di pietra. Quando alzarono lo sguardo, un Elfo alto e bruno stava in piedi in cima all'unica scalinata che portava verso il complesso di costruzioni. «Certo hanno la fermezza tipica di ogni femmina, ma la nobiltà del loro sangue, le difficoltà e i pericoli di cui fanno esperienza, le rendono più ferme di una roccia» aggiunse scendendo i gradini con un sorriso che si faceva sempre più ampio sul suo viso. «Le nathlam hí, Gilraen vain» concluse arrivando allo spiazzo di pietra, mettendosi una mano sul cuore e chinando il capo.
La donna abbassò subito gli occhi e fece un profondo inchino, staccandosi dal cavallo. «Le fael, Elrond en Imladris» rispose con un filo di voce. Si sentiva inadeguata, disordinata e troppo sporca per avere il coraggio di guardare negli occhi un Elfo tanto nobile.
Aragorn si era disinteressato a tutto ciò che era accaduto ed invece si era guardato intorno meravigliato. In quel momento fissava dal basso le altissime statue dei guerrieri elfici, con la bocca aperta, forse aspettandosi un movimento da un momento all'altro.
«Sono lieto che abbiate accettato il mio aiuto» continuò Elrond nella sua lingua, cominciando a camminare verso il bambino. «Avevo già espresso il mio desiderio di avere qui il bambino, ad Arathorn, ma ammetto che riformulare questa richiesta per farla a voi è stato più difficile: il mio buon amico mi ha spesso raccontato di quanto siate forte e orgogliosa» spiegò parlando alla donna, ma passando oltre per raggiungere Aragorn. Piegò le ginocchia per mettersi al suo livello e alzò lo sguardo verso l'alto, per guardare nella sua stessa direzione. «E ho temuto che la mia proposta venisse fraintesa con un gesto di pietà, e quindi rifiutata».
Gilraen si girò piano, per seguire i movimenti di Elrond e lo guardò accucciato a terra, vicino a suo figlio. Già, chi non avrebbe avuto pietà della regina dal cuore spezzato -regina di un popolo nomade, senza una guida- e di un piccolo rimasto orfano a soli due anni, senza una figura paterna con la quale confrontarsi e sulla quale plasmare se stesso? Anche lei avrebbe avuto pietà di se stessa, ma proprio per quello non l'avrebbe mai accettata da nessuno: non era mai dipesa da suo marito, non poteva prendere il suo posto, certo, ma non significava che senza di lui non valesse niente o non sapesse fare nulla. Non poteva guidare i Dúnedain, ma sua era quella vita e suo il figlio che le era rimasto, quindi suo il compito di crescerlo al meglio. però Elrond il Mezzelfo si era pronunciato sul prendere Aragorn con sé già prima della morte di Arathorn, ed ormai erano diverse generazioni che l'educazione ad Imladris degli eredi di Isildur era diventata una tradizione. Questi pensieri e le altre sagge parole dette dai Raminghi del suo popolo l'avevano convinta, ed il padrone di casa sembrava guardarsi bene dal rischiare di farla sentire debole, in fuga, mendicante o in cerca di un riparo.
«Sono guardiani?» domandò il bambino quando l'Elfo fu vicino
«Sì, hanno l'armatura dei guerrieri di Imladris e proteggono questo posto» rispose il signore elfico, parlando ora nella stessa lingua del suo interlocutore
«Voglio essere come loro, mi piacciono!» disse allungando una mano paffuta a toccare un piede della statua, allungandosi sul piedistallo
«Sono Elfi, Isildurhîl, non potrai mai essere come loro» gli spiegò mettendo la propria mano sulla sua.
Aragorn arricciò il labbro e aggrottò le sopracciglia, ferito da quelle parole, poi Elrond gli prese le dita per allontanarle dalla statua: temeva che l'avrebbe rovinata? Ma lui era bravo, faceva sempre attenzione! Però l'Elfo gli strinse piano la piccola mano, coprendola con le sue e non era una stretta affettuosa, nè per rimproverarlo: sembrava una pressione fatta per trasmettergli qualcosa, forse coraggio? Lui spesso si stringeva alla sua mamma per farle sapere che per lei c'era, che non doveva essere triste o avere paura.
«Tu puoi essere molto di più di un semplice guerriero» gli rivelò infine l'Elfo con un sorriso leggero.
A quelle parole il bambino gli guardò prima un occhio e poi l'altro, osservando infine il suo viso. Non sembrava nè più giovane, nè più vecchio di Elladan ed Elrohir, ma in quello sguardo avvertiva una profonda calma, quale ne aveva vista solo nei più saggi e anziani con cui aveva vissuto fino a quel momento. Doveva avere tante storie da raccontare quell'Elfo, probabilmente conosceva più cose di tutti gli anziani del suo villaggio messi insieme. Era interessante, sì, e poi gli piaceva il suo modo di parlare! Deciso questo, Aragorn annuì leggermente con il capo e accettò volentieri di essere preso per mano e condotto verso le scale, quando questi si alzò in piedi e fece per portarlo con sé.
«Elrohir, occupati dei cavalli. Elladan, aiutami ad accompagnare i nuovi arrivati alle loro stanze, vuoi?»
«Certamente» annuì il figlio che si volse quindi verso Gilraen, porgendole il braccio. «Posso farvi strada, mia signora?» chiese gentilmente, assecondando il padre che misurava le parole usate, di modo da non far sentire la donna come un'intrusa o un fastidio.

La loro stanza non dava sulla gola, ma sugli alti picchi alle spalle del complesso di costruzioni che costituivano la vasta casa di Elrond. Lì il rombo della cascata era più lontano e si sentiva il vento fischiare tra i pini sempreverdi che crescevano sulla parete dalla vetta più alta di tutte.
Avevano un balconcino che dava sul vuoto, ma una decina di metri più sotto c'erano scale e piccoli padiglioni che seguivano l'andamento delle rocce. Lontano dagli edifici centrali, con le loro larghe scale e i lunghi corridoi, quelli erano gli unici camminamenti sicuri per passare da una costruzione all'altra, a meno che non si volesse stare aggrappati alle rocce. Alla stanza si arrivava tramite una scala di pietra tra le rocce, al suo termine c'era un'ampia terrazza dal parapetto e le arcate finemente decorate e sulla destra c'era la porta che permetteva di entrare nell'edificio. Nell'ingresso c'erano comode seggiole, cuscini e un piccolo braciere nel mezzo, poi tre porte davano su altrettante stanze e la loro era quella di destra. C'erano due letti, uno scrittoio, una toeletta e altre seggiole e cuscini vicini alle finestre che davano sul balcone. Erano lontani dal nucleo principale delle case, avendo così più tranquillità, ma non erano troppo distanti e, seppur in alto, dal balcone era possibile vedere la parte finale del sentiero e il ponte che dava l'accesso ad Imladris.
Cominciò la loro vita in quella nuova casa e non lo fece nel migliore dei modi perché presto Aragorn manifestò un grave problema. Durante il giorno, aveva preso l'abitudine di girare ovunque per Gran Burrone, esplorando tutti gli angoli possibili. Quando li incrociava sui camminamenti o nelle stanze, guardava gli Elfi e gli altri ospiti della casa con curiosità e con timore, ma non sembrava rimanere in un posto per più di qualche minuto perché subito scendeva qualche scala o oltrepassava altre porte, irrequieto. Di giorno era sfuggente, insomma, e la sera, sempre ad orari diversi, compariva nella Sala del Fuoco con del cibo in mano o una scodella, si sedeva di fianco alla madre ed ascoltava l'oratore principale: ogni tanto gli Elfi cantavano, altre volte qualcuno raccontava una storia di migliaia di anni prima. Ci si sarebbe chiesto a che scopo ascoltasse, dato che i racconti erano esposti in elfico la maggior parte delle volte e lui non aveva la capacità di comprenderli; ma in verità il bambino si addormentava dopo circa quaranta minuti, e la madre lo portava via quando anche lei era stanca; le sere in cui non era presente, Aragorn si metteva timidamente vicino ad Elrond, magari alle sue spalle, in un angolino, e lì rimaneva dormiente finché gli Elfi non concludevano e allora qualcuno lo portava nella sua camera. In questo modo, nessuno seppe mai dire con esattezza quando o come fosse cominciato, ma dopo qualche tempo tutti si resero conto che il bambino aveva smesso di parlare e si era chiuso nel silenzio più totale. Gilraen cercò di chiedere al figlio cos'avesse, ma Aragorn si mostrò poco loquace e lei non capiva se stesse eludendo le sue domande o se effettivamente non si rendesse conto di quel suo rifiuto a comunicare con chiunque all'infuori di lei. Alle domande altrui, poi, rispondeva raramente e quando lo faceva, era solo con un movimento del capo, quindi era difficile parlargli e capirlo, a meno che non gli venisse chiesto qualcosa che richiedesse un "sì" o un "no" come risposta.
Circa un mese dopo l'arrivo a Imladris di madre e figlio, durante una pacifica serata, Elrond si alzò dal suo scranno nella Sala del Fuoco e si avvicinò a Gilraen e Aragorn, ancora sveglio. Chiese loro di seguirlo e lasciarono il salone indisturbati. Li portò lungo un sentiero, attraversando i giardini intorno all'edificio principale, fino ad arrivare alla terrazza che dava sulla gola. Decine di metri più in basso scorreva il Bruinen.
«Vi siete ambientati in questo luogo? Spesso ai nostri visitatori questo posto sembra labirintico» esordì usando la lingua comune ed accennando ad una panchina di pietra
«Sì, mio signore» annuì Gilraen. «La tua casa è magnifica e la pace che vi si respira è guaritrice» aggiunse ad occhi bassi, seguendolo e sedendosi al suo fianco sulla pietra bianca levigata
«Concedetevi tempo» disse invece l'Elfo. Si scambiarono un'occhiata e lui accennò un sorriso. «Avete una lingua gentile, Gilraen, ma leggo nei vostri occhi che ancora non siete guarita. Non sono passati che pochi mesi ed è giusto che sentiate ancora vivo il dolore per la vostra perdita» prese entrambe le mani della donna nelle proprie. «La tristezza è ancora molto vicina anche per me» spiegò stringendole le dita
«Mio Signore Elrond...» riuscì solo a sussurrare, prima di chiudere gli occhi nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime. Non voleva piangere in quel momento, non davanti al figlio che aveva smesso di parlare: chissà che il silenzio di Aragorn non fosse una reazione conseguente al vedere come la disperazione aveva straziato la madre in quei mesi. Doveva essere forte, lo doveva fare per lui. «Ora mi preoccupa molto la situazione di mio figlio»
«Ancora non ha ripreso a parlare. Non siete riuscita a sapere nulla da lui?» domandò l'Elfo e, lasciando le mani di Gilraen, guardò Aragorn che si era sporto con la testa al di là del parapetto della terrazza e cercava con lo sguardo la linea chiara del fiume, nella profonda notte della gola.
«Vorrei parlarvi di lui stasera» esordì la donna. «Da anni il Nemico cerca di scoprire se vi siano altri eredi di Isildur ed ha già trovato Arador, tre anni fa, e Arathorn adesso. Ho accettato di portare qui mio figlio perché ho sentito che non era più sicuro per lui rimanere tra la sua gente indifeso com'è, e vi sono grata di averci accolto così generosamente, ma avrete notato che i nostri contatti con la vostra gente e i vostri ospiti in queste settimane sono stati molto limitati»
«L'ho notato» annuì Elrond. «A parte il nostro piccolo muto» accennò ad Aragorn. «Ho notato che voi stessa parlate molto poco»
«Non vorrei essere fraintesa, e sono felice di potermi spiegare stasera. Non ho taciuto per malumore o maleducazione. Vedete, ho riflettuto e ho osservato molto questo luogo: Imladris è sicura, non ho più dubbi, ma alcuni in questa casa vanno e vengono e le parole affidate ad altri, quando lasciano questo luogo, non sono più sotto il vostro controllo: quel che viene detto nella Casa di Elrond, può essere ripetuto altrove, e se il nemico dovesse anche solo sospettare che Aragorn, figlio di Arathorn ed erede di Isildur, sia vivo...»
«Intendete vivere qui chiudendovi nel silenzio anche voi?» chiese alla donna. Un'improvvisa nota di preoccupazione incrinò il tono della sua voce, ma gli occhi di Gilraen ardevano di certezza: la morte del marito, la preparazione per la fuga e il silenzio di Aragorn dovevano aver provato molto il suo spirito, ma ogni madre trovava la forza di lottare per i propri figli.
«No, mio Signore, voglio solo scegliere le parole con più cautela. Non sopporterei di perderlo come è successo con mio marito, perciò ho pensato che la soluzione è che l'esistenza di Aragorn venga dimenticata, che il suo stesso nome non venga più pronunciato e che non si parli di lui come dell'erede di Isildur» disse accennando con il capo al bambino.
Elrond la guardò a lungo negli occhi: il destino di suo figlio poteva essere grande ed importante, ma a nulla sarebbero valsi i loro sforzi se non lo avessero protetto finché non poteva farlo da solo; lei non si sarebbe nascosta e basta, avrebbe lottato per quel figlio e per la speranza che rappresentava. «Aragorn» lo richiamò l'Elfo. Il piccolo gattonò all'indietro, quindi si alzò e raggiunse i due adulti. Senza dire nulla, guardò la madre e poi l'Elfo che lo aveva chiamato. Aveva gli occhi vispi, ancora non velati di stanchezza: quale che fosse il motivo per cui rimaneva in silenzio, non era la perdita del padre, nè il dolore che la madre tentava di celare. Quel bambino era lì, con loro, osservava e ascoltava, con la mente perfettamente conscia del momento presente. «Da oggi in poi il tuo nome sarà Estel» disse allora Elrond, mettendogli una mano sul capo
«Estel... speranza» sussurrò la donna guardando il figlio con un misto di timore ed affetto
«Perché egli è l'ultimo della sua stirpe ed è l'unica speranza rimasta agli Uomini del Nord e, sospetto, agli Uomini della Terra di Mezzo» spiegò. «Per desiderio della Dama Gilraen e per la sua stessa salvezza, il suo vero nome sarà dimenticato fino al giorno in cui, invece di metterlo in pericolo, lo porterà sulla strada tracciata per lui» l'Elfo raddrizzò leggermente la schiena e guardò entrambi. «I Dúnedain diminuiscono, i Raminghi avranno anni difficili senza una guida e certo non potranno occuparsi di formarne una, quindi ci occuperemo noi di lui, in tutto. La mia casa ha sempre aiutato a formare i Capitani dei Dúnedain e la sua stirpe ha sempre vissuto qui per un certo periodo, ma Estel non ha altri che possano guidarlo, nè un luogo in cui tornare, perciò Imladris sarà la sua casa ed io cercherò di essere per lui come un padre».
Gilraen deglutì a fatica e chinò il capo profondamente. «Le fael» mormorò commossa.
Improvvisamente sentì che il suo cuore si era fatto un po' più leggero, come se parte della sua preoccupazione fosse stata cancellata; ma sapeva che non era stata affatto eliminata, era solo stata ceduta ad Elrond, e nessuno dei due prevedeva ancora cosa ne sarebbe venuto.

Per Gilraen cominciò un periodo di guarigione. La donna era chiaramente distrutta dalla perdita di Arathorn e dolore, preoccupazione e fatica l'avevano piegata nei mesi successivi a quella morte; la quiete della casa di Elrond, il cibo degli Elfi e le loro parole, ebbero un effetto curativo su di lei, anche se lento e graduale. Trovò nel padrone di casa un paziente ascoltatore e lui ed i suoi figli -quando non erano in viaggio- accettavano sempre di buon grado di parlarle di suo marito: com'era stato quando aveva vissuto lì? Quali cose erano successe quando era partito per questa o quella missione? Le dame elfiche erano una presenza femminile molto piacevole e riuscirono pian piano a darle vesti e monili che le dessero un aspetto più luminoso, regale ma dignitoso, come si confaceva alla Regina dei Dúnedain. Con la grande pazienza della loro razza, le fecero accettare quei doni senza che si sentisse in dovere di ricambiare o che scambiasse i loro amorevoli regali come elemosina.
Anche il misterioso silenzio di Aragorn finì, e accadde cinque mesi dopo il suo arrivo alla casa di Elrond, quando l'inverno ormai si era fatto rigido e le acque del Bruinen erano più pacifiche che nel resto dell'anno, per il ghiaccio che diminuiva la quantità d'acqua che scorreva nel suo letto.
Accadde che una mattina il bimbo si era diretto alla biblioteca a piedi scalzi e con la veste da notte: si era svegliato molto presto e aveva cominciato a seguire il volo di uno scricciolo dalla propria stanza, giù per le scale, lungo un corridoio e poi ancora, da una stanza all'altra. Era entrato nella sala guardando verso le finestre per vedere la direzione dell'uccellino e sul davanzale aveva trovato seduto uno degli Elfi che abitavano in quella stessa casa. Questi aveva alzato lo sguardo dal libro che stava leggendo e aveva sorriso non appena lo aveva riconosciuto. «Gi suilon, Estel» lo aveva salutato chiudendo il libro, ma tenendo un dito tra le pagine.
Il bambino aveva alzato una mano davanti alla fronte per proteggersi dai raggi del sole che entravano dalla finestra e riconoscere la figura in controluce, quindi il viso gli si era rischiarato e con un inchino aveva risposto. «Le suilon, Glorfindel»
«Cosa fai?» aveva domandato ancora questi, in elfico
«Seguo un uccello» aveva spiegato Aragorn avvicinandosi a piccoli passi e alzando gli occhi allo spicchio di cielo visibile dalla finestra. «Hai... avete visto un uccellino?»
«Al mattino sono tanti gli uccelli che si svegliano nei loro nidi come noi. All'alba, quando il sole compare da dietro quel picco» aveva cominciato a spiegare indicandogli una montagna. «Gli uccelli si sono già svegliati e quando vedono la luce, prendono il volo. Puoi vedere quelli più grandi fare ampi cerchi vicini alle vette più alte. Mentre i più piccoli vanno da un albero all'altro, qui in basso»
«Il mio era piccolo» aveva spiegato il bambino. «Ha una.... ha la casa nella mia stanza» gli aveva detto correggendo ancora il suo elfico, quindi gli si era avvicinato tanto da sfiorargli il polpaccio con una mano, mentre con l'alta aveva indicato in alto, alla porzione di tetto che sporgeva dal muro, all'esterno dell'edificio. «Ha la casa lì»
«"Nido"» gli aveva detto Glorfindel. Chiudendo il libro, era sceso dal davanzale. «La casa degli uccelli si chiama "nido". Sarà andato a cercare del cibo. E tu hai mangiato, Estel?»
«No, la mamma sta dormendo. Vogl... vorrei? Voglio» aveva tentennato abbassando lo sguardo. «Voglio mangiare con lei» avevo concluso infine
«Quindi la stavi aspettando? Bene, lasciamo il tuo uccellino cercare il suo cibo: per te è tardi, Dama Gilraen sarà sveglia di certo e tu potrai mangiare con lei» aveva proposto, mettendo il libro su uno degli ampi tavoli della biblioteca. Aveva recuperato il proprio mantello da una panca e se l'era messo sulle spalle, pronto ad accompagnare il bambino. «Estel, sono i vestiti per dormire quelli?» aveva poi chiesto aggrottando le sopracciglia
«Dormire?»
«I vestiti» aveva annuito Glorfindel passando la punta delle dita sulla veste leggera. «E' arrivato l'inverno ormai. Se fa freddo, devi coprirti di più, ma ora starai sotto il mantello con me. Tu però promettimi che domani seguirai gli uccellini dopo esserti vestito». Aragorn si era morso le labbra e aveva spostato gli occhi dall'Elfo alla finestra, dubbioso. «Prima ti vesti» aveva ripetuto allora l'Elfo, indicandosi la casacca e il mantello. «Dopo segui gli uccelli»
«Ah, sì» aveva annuito il bambino che sembrò aver capito.
Senza chiedersi se avesse compreso anche la prima raccomandazione, Glorfindel lo aveva preso sotto le ascelle per sollevarlo e prendenderlo in braccio, poi aveva girato il mantello intorno ad entrambi e aveva riso divertito quando il piccolo aveva tirato fuori una mano per accarezzare il morbido bordo di pelliccia, con gli occhi colmi di stupore.
Poco dopo, Elfo e bambino entravano nella Sala di Elrond: era solita essere usata per feste e banchetti, ma in giornate più tranquille veniva allestita per i pasti degli ospiti. Gilraen stava parlando con Elrond e si girò quando riconobbe la vocina squillante del figlio che ormai non sentiva da mesi. Con lei, anche il padrone di casa si voltò ed entrambi poterono ascoltare meravigliati la fine del racconto di Glorfindel sui kirinki, più volte interrotto dalle domande del bambino. In elfico!
Questi, infine, posò a terra Aragorn e lo lasciò lanciarsi famelico sulla colazione. Quando Gilraen chinò il capo al suo avvicinarsi, ebbe appena il tempo di cominciare a formulare una frase che esprimesse la sua profonda gratitudine per aver ridato voce al bambino, che lui la fermò. «Non ho compiuto alcun miracolo, se è a questo che pensate» spiegò. «L'ho incontrato stamattina che inseguiva lo scricciolo che ha il nido sotto la vostra grondaia. L'ho salutato e lui ha risposto, così ho semplicemente continuato a parlare»
«Ora è chiaro» annuì Elrond con un sorriso divertito. «Il bambino si è trovato improvvisamente immerso in un mondo in cui la maggior parte di noi parla normalmente la lingua degli Elfi, una lingua che fino a poco prima aveva sentito solo sporadicamente»
«Si sarà sentito disorientato» sembrò riflettere Glorfindel, abbassando lo sguardo su Aragorn
«Noi non potevamo immaginare, dato che abbiamo visto le lingue nascere e diversificarsi, imparandole allo stesso tempo. Estel aveva smesso di comunicare, ma non per questo aveva smesso di ascoltare» spiegò ancora il signore di Imladris, vedendo Gilraen rincuorarsi nel capire cosa fosse successo. «Nel silenzio, ogni sua attenzione si era concentrata a dedurre, comprendere e assorbire frasi, parole e significati di una lingua sconosciuta»
«Forse stamattina si è finalmente sentito pronto per riprendere a parlare» concluse Glorfindel che, preso dalla gioia dell'aver visto con i suoi occhi una giovane mente apprendere la sua lingua, gli si affiancò riprendendo a parlargli. Era ancora una comunicazione semplice, con pochi vocaboli familiari e schemi di frasi ripetuti, ma il piccolo era chiaramente predisposto ad imparare l'elfico per arrivare a parlarlo come uno di loro.
«Come hanno imparato gli altri Eredi di Isildur?» domandò Gilraen
«Qualcuno è stato portato qui che era in fasce, altri da più grandi e già parlavano discretamente. Anche tu, Gilraen, non te le cavi male, poichè tutta la stirpe dei Dúnedain parla e usa correntemente la nostra lingua, seppur non per le comunicazioni principali» spiegò Elrond e guardò il bambino con un sorriso molto dolce, ascoltando i suoni incerti, eppure a lui tanto cari, che uscivano dalle sue labbra.
Così cominciava veramente la vita ad Imladris dell'ultimo erede d'Isildur, ma il nome di Aragorn e le sue origini vennero messi da parte e per molti anni il bambino venne presentato come Estel, figlio di un valoroso Ramingo del Nord, ed egli stesso dimenticò di aver passato i primi due anni con un altro nome e rimase all'oscuro della sua discendenza per molto tempo.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«Benvenuta, Gilraen la Bella»
«Ti ringrazio, Elrond di Imladris»
«Erede di Isildur»
«Grazie»
«Salve, Estel» (nella forma colloquiale) «Salve, Glorfindel» (più formale)
• Come riferimento per Gran Burrone ho usato prima di tutto le mappe di Karen Fonstad nel "Atlante della Terra di Mezzo" e poi la rappresentazione visiva dataci nella trilogia e nel primo film de Lo Hobbit (le statue e lo spazio circolare)
• La situazione vissuta da Aragorn è la cosiddetta "Fase del silenzio", realmente esistente e spiegata in tutti i libri di pedagogia e di glottodidattica. Bambini e adolescenti che si trovano improvvisamente immersi in un ambiente in cui viene parlata una lingua a loro sconosciuta attraversano questa fase che può durare da pochi giorni fino a 7 mesi e dipende da molti fattori, tra cui anche l'indole. Inq uesto caso ho preferito farla durare molto non solo perchè ho l'idea che l'indole di Aragorn-bambino sia un po' chiusa, ma anche perchè così ha elaborato più lingua e io non devo scrivere dei dialoghi troppo balbettanti...
• I kirinki sono una specie di uccello che viveva sull'isola di Númenor


Sto disperatamente cercando di contenermi. Tendo ad essere prolissa e la cosa non mi dispiace, anzi, mi diverte moltissimo, ma penso anche che lunghezza non sia per forza sinonimo di qualità. Ci sono riuscita, ma fino ad un certo punto, infatti, nonostante avessi detto che i piccoli cambiamenti alla trama sarebbero arrivati già da questo capitolo, in realtà non sono arrivati! Avrebbero dovuto, ma l'idea del silenzio di Aragorn mi ha ispirato la scena di Glorfindel che ha preso una forma consistente, e così rimando l'entrata in scena di Arwen al prossimo capitolo.
♥ Voglio ringraziare tyelemmaiwe e melianar per i commenti carinissimi, ma anche e soprattutto per la gentile disponibilità e i garbati (olte che stimolanti) consigli.

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Capitolo 3
*** Una nuova famiglia ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Pur se inconsapevole della sua discendenza, Aragorn doveva essere educato come lo erano stati tutti gli eredi di Isildur e forse la sua speciale situazione di esilio, rese quell'educazione più particolare di quella ricevuta da altri prima di lui. Il futuro Re di Gondor doveva saper combattere ed avere eccellenti cultura e conoscenze della Storia. Tutto questo poteva essere dato all'interno di Gran Burrone, pur se ogni cosa sarebbe arrivata a tempo debito, ma c'erano altri campi in cui gli Elfi non potevano fare molto. Se nemmeno nella vita di Aragorn si fosse presentata l'occasione per reclamare il trono, egli sarebbe comunque dovuto diventare il Capitano dei Dúnedain e per esserlo ci volevano qualità e abilità che avrebbe dovuto apprendere dai suoi simili e, in parte, cercare dentro di sé; inoltre c'era il carattere, la forza d'animo, la bontà e la predisposizione ad essere un buon capitano. O re. Tutto questo non si insegnava, ma le persone intorno a lui potevano solo sperare di essere degli esempi e di dare così al suo cuore la giusta direzione.

L'educatore principale di Aragorn fu Elrond.
Fino ai sette anni, il mezzo principale tramite il quale lo istruì, fu il racconto orale: l'Elfo a volte lo portava in biblioteca dove gli raccontava la storia di un dipinto alla parete o gli mostrava le illustrazioni dei libri, altre volte prendevano una mappa e andavano in giardino o in qualche stanza tranquilla, a seconda della stagione. Di solito Elrond cominciava con l'idea di raccontargli di un certo tema, ma poi Aragorn cominciava a chiedergli di questo o quel dettaglio e la "lezione" prendeva una piega diversa. Qualsiasi incentivo era ben accetto: a volte era l'Elfo a scegliere cosa mostrare al suo allievo, ma altre volte era lo stesso Aragorn che arrivava da lui: «Hanno cantato di navi ieri sera nel Salone del Fuoco. Cos'è una nave? Ne hai mai presa una? E cos'è la terra di Valinor?»; e da quelle domande cominciava il racconto.
Elrond poteva andare avanti a parlare per ore: solitamente rispondeva a tutte le domande che il bambino gli faceva, ma ogni tanto non si faceva distrarre e rimandava ogni domanda ad un'altra giornata. L'allievo lo ascoltava incantato (e a volte si dimenticava persino di mangiare!) e lo seguiva docile mentre passeggiavano su e giù per i camminamenti e i corridoi di Imladris, si accucciava tranquillo su una roccia se si fermavano vicino ad un ruscello o una cascatella, oppure si sedeva comodo sulle panchine del giardino, con i piedi che dondolavano nel vuoto.
Un pomeriggio la pioggia cadeva fitta su tutta la gola, il cielo aveva una tonalità cupa e, benché fosse giorno, la luce era così scarsa da far pensare che fosse già arrivata la sera. Un gruppetto di Elfi entrò nello studio di Elrond con l'espressione preoccupata e gli dissero che il bambino era entrato in biblioteca nel primo mattino e non ne era più uscito, nemmeno per pranzare. L'Elfo annuì pensieroso a quella notizia e sbrigò le faccende più incombenti prima di dedicarvisi. Lasciò lo studio prendendo un manto pesante e scese rapido le scale. Attraversò i corridoi e si calò il cappuccio sulla testa per passare rapido su uno dei camminamenti scoperti, fino ad entrare nella sala circolare della biblioteca. C'era un fuoco che ardeva scoppiettante in un angolo, e molte candele accese agli scrittoi, ma pochi erano quelli che leggevano in quel momento. Dopo aver cercato Aragorn con gli occhi, Elrond finalmente lo trovò seduto sui gradini che portavano al piano rialzato su cui stava una statua di squisita pietra levigata. Il bimbo stava con i piedi sugli scalini e il busto girato, in silenziosa contemplazione della gelida figura. Al suo fianco c'era un piatto di minestra ormai fredda.
«Estel, cosa fai?» domandò preoccupato, sedendoglisi vicino. Il bambino sembrò risvegliarsi e si girò a guardarlo. Aveva le mani gelide ed Elrond le prese tra le sue. «Non ti sei accorto che è venuto il brutto tempo?» gli chiese ancora, in elfico, accennando alla finestra.
Quel mattino il sole era sorto luminoso, ma a metà giornata il cielo si era rannuvolato e ormai era qualche ora che quella fitta pioggia cadeva. La Terra di Mezzo era alle porte della primavera e il clima era mite se c'era luce, ma se il tempo peggiorava tornava a fare freddo come se fosse ancora un po' inverno.
«Scusa, ma oggi ho guardato la statua e mi sono sentito strano. È sempre stata qui, vero? Però oggi mi ha fatto venire i brividi. Mi fa sentire triste» spiegò il bambino. «Ed è anche un po' inqui... ique» farfugliò abbassando gli occhi sulle loro mani intrecciate
«Inquietante» completò Elrond
«Sì. E volevo che mi raccontassi di lei, perciò sono rimasto» concluse
«Potevi venire a chiedermelo». Avrebbe voluto rimproverarlo per quel comportamento, ma non ebbe cuore di dirgli parole dure vedendo come sembrava rinfrancato dal calore che l'Elfo gli stava trasmettendo con le mani.
«Ma forse volevi parlare di altro» insistette Aragorn. «E io volevo convincerti a raccontarmi di questa statua»
«Sei uno sciocco» Elrond gli sorrise. Si sedette sui gradini al suo fianco e lo strinse a sé, sotto il proprio mantello. «Potete portare via questa minestra e farci avere un infuso caldo?» domandò agli Elfi che lo avevano avvisato di Aragorn e che lo avevano poi seguito fino in biblioteca
«Ho anche fame» aggiunse il bambino
«Allora portate anche qualcosa da mangiare, molto semplice però: altrimenti ti addormenterai a metà della nostra storia»
«Non è vero» borbottò Aragorn arrossendo.
Elrond rimase in silenzio mentre attendevano che quanto richiesto venisse portato, e così fece il suo allievo. Non era raro che, prima di cominciare un lungo racconto, l'Elfo si concedesse alcuni minuti di quiete.
Arrivò l'infuso, dal forte odore di more, e qualche biscotto con frutta secca, sui quali però il bambino non si avventò famelico nonostante la fame: osservò il maestro prendere la tazza tra le mani e appoggiare tutte le dita alla superficie calda, quindi lo imitò e lo stesso fece quando lo vide inspirare profondamente il profumo caldo dell'infuso. C'era qualcosa nel suo modo di fare di quel giorno che sembrava emanare una certa solennità, una sensazione che Aragorn non poteva spiegarsi, non ancora.
«Ti ricordi della caduta di Númenor e della storia di Elendil?» domandò Elrond dopo aver bevuto un sorso, e il bambino annuì. «Vedi, non è tanto la statua ad essere importante, quanto ciò che essa porta sul piatto: i frammenti di Narsil»
«Era la spada di Elendil, vero?» chiese Aragorn
«È stata forgiata prima della sua nascita, e forse è stata anche brandita da altri prima di lui, ma è vero che Elendil è stato il suo portatore più famoso. Fu un Uomo la cui fama era ampiamente meritata» aggiunse Elrond, socchiudendo gli occhi.
Il bambino era abituato anche a quel modo di fare del suo maestro: ogni tanto stringeva le palpebre, non come se si stesse sforzando di ricordare -non sembrava dover mai fare alcuno sforzo per farlo- ma più come se in quel modo riuscisse a rivedere lontani ricordi, come se li avesse davanti ai suoi occhi, in una visione annebbiata e confusa dalle ciglia.
«Non cambiamo discorso parlando di lui però» si azzardò a dirgli, cominciando a sgranocchiare un biscotto
«Hai ragione, e non lascerò che tu sia rimasto qui tutto intirizzito per nulla». l'Elfo si riscosse e sorrise, prendendo un altro sorso dell'infuso, poi cominciò a raccontare.
La pioggia cadeva fragorosa, picchiettando sulle foglie appena aperte o sulle gemme ancora chiuse, e il lontano rombo del Bruinen, ingrossato dal discioglimento dei ghiacci, riempiva la gola. Elrond raccontò del lunghissimo Assedio di Barad-dûr, di come la speranza di vittoria di fosse dissolta quando il Nemico in persona era uscito dalla sua fortezza a combattere e di come la spada si fosse spezzata. Seguì la storia del coraggio di Isildur, figlio di Elendil, nel raccoglierla da sotto il corpo senza vita del padre e di come avesse usato quella stessa lama contro il Nemico, decretando la vittoria finale dello scontro.
«Dopo prese con sé i frammenti, ma venne ucciso in un'imboscata e la reliquia venne raccolta dal suo scudiero, che li portò qui. La statua incornicia questa grande spada, dandole un posto d'onore, com'è giusto che sia» concluse Elrond prendendo il bambino in braccio per sollevarlo e gli mostrò i frammenti splendenti della spada.
«Isildur non aveva un figlio che potesse usarla?» chiese Aragorn. «Non si poteva riparare come le altre spade?»
«Aveva un figlio, certo: Valandil. E dopo di lui seguirono numerosi gli eredi di Isildur: la spada è di loro proprietà, noi la custodiamo e non possiamo decidere da soli di riforgiarla, perché non è nostra»
«E oggi non c'è nessuno che può venire a prenderla?» insistette, intristito. Alzò gli occhi alla statua, come dispiaciuto dal fatto che la poverina dovesse stare lì a portare quel peso ancora per tanto tempo.
L'Elfo non rispose subito, sistemò Aragorn su un braccio e lo fece appoggiare al proprio petto, quindi sospirò. «No, Estel. Non esiste più nessuno che possa ereditare le proprietà e i domini di Isildur»
«Ecco perché la statua è tanto triste» si spiegò Aragorn. «È rimasta sola a portare il peso della spada» sospirò e girò lo sguardo, come se non volesse più sapere nulla di quella storia.
Quella fu una delle prime volte in cui le storie di quelle giornate raccontarono qualcosa che riguardasse Aragorn da vicino. Successivamente Elrond non si lasciò cogliere impreparato dalle emozioni e dai pensieri e continuò i suoi racconti, negando con più fermezza l'esistenza di un discendente di Elendil.
Quando Aragorn compì sette anni, il tempo passato insieme diminuì, con grande dispiacere di entrambi. Quando l'Elfo glielo comunicò, il giorno di mezza estate del 2938 della Terza Era, il bambino non potè fare a meno di sentire le lacrime pizzicargli gli occhi. «Non devi fare così» gli disse quello che ormai era diventato un padre per lui. Erano seduti in un piccolo solarium, in cima ad uno dei camminamenti più lunghi di tutta Imladris, e lo guardava con un sorriso intenerito. Possibile che anche ad Elrond stesse tremando il labbro? O forse se lo stava sognando? «Hai ancora molto da imparare Estel, non sto dicendo quindi che i nostri incontri sono finiti, ma solo che sei grande. Perchè tu sei grande, non è vero?»
«Sì, signore» annuì ricacciando indietro le lacrime prima che si affacciassero senza possibilità di ritorno.
Elrond annuì: sapeva che quello era un argomento sensibile in quel periodo e quindi ottimo per farvi leva e convincerlo. «Vedi Estel, fino ad oggi hai imparato a farti domande ed io ho risposto, felice di vedere che hai sviluppato curiosità e la saggezza di domandarti sempre cosa ci sia dietro ad ogni scelta e ogni evento della Storia. Ecco invece cosa farai d'ora in poi: imparerai a trovare le risposte» gli spiegò aprendo il pesante libro che avevano sfogliato quel giorno. «I grandi allenano da soli la propria mente, rispondono alla sua sete di conoscenza e trovano da sé il cibo giusto per lei. Ormai sai leggere e sai scrivere e tutto questo potrai farlo da solo. Ma un passo alla volta, non ho detto che non ci vedremo più: anche nello studio individuale bisogna allenarsi ed io ti aiuterò».
La risposta soddisfò l'allievo, ma solo nei giorni successivi, perché sul momento Aragorn non riusciva a concepire dolore più grande dal dover imparare a muoversi da solo, senza Elrond, nel mare della conoscenza. Poi il tempo passò e il futuro capitano dei Dúnedain ebbe molte cose da imparare man mano che cresceva, nonostante ciò, il giovane ascoltava sempre i consigli di Elrond sulle migliori letture riguardo a questo o quell'argomento. Da come cercava e sfogliava i volumi, si poteva intuire che le parole dell'Elfo erano molto preziose per lui: così come da piccolo ascoltava con passione le sue storie, da grande leggeva con fervore ogni cosa lui nominasse. Finito il libro, poi, andava a raccontargli cosa aveva imparato e cosa ne pensava. Il tempo infine sarebbe passato, e il ragazzo si sarebbe fatto uomo, così che le lezioni non sarebbero più state a senso unico, ma un confronto di idee e punti di vista.

Un altro maestro, che pure non si era nominato tale, fu Lindir, uno dei menestrelli di Gran Burrone: quando il bambino rimaneva colpito da qualche storia di Elrond, la sera si avvicinava al musicante e gli chiedeva se esistesse una poesia o una canzone su quell'argomento. Oppure erano le stesse canzoni che la sera venivano suonate ad ispirare la mentre dell'allievo: il giorno dopo sarebbe corso a chiederne la storia al suo maestro, ma nel frattempo voleva assolutamente impararne la melodia e le parole.
Finché fu un bambino, Estel ebbe un timbro molto squillante e non se la cavò mai molto bene con le canzoni: si sforzava di usare quanta più voce possibile nella speranza di farsi sentire, ma non gli riusciva niente che gli Elfi ascoltassero con piacere. Quando passò la pubertà e si fece più grande, non rimase un cantante rinomato, ma era vero che quando sussurrava le canzoni era piacevole ascoltarlo: la sua voce profonda e leggermente graffiante dava alla melodia un senso di solennità, poco squillante, ma non per questo meno regale.
Una sera, quando aveva cinque anni, ascoltò con attenzione una melodia che aveva più volte sentito. Ormai conosceva bene la musica, ma si rese conto quel giorno di riuscire finalmente a capirne tutte le parole.

Lunghe eran le foglie e l'erba era fresca,
E le cicute ondeggiavano fiorite e belle.
Una luce brillava nella foresta,
Era tra le tenebre un luccicar di stelle.
Tinúviel ballava nella radura,
Di un flauto nascosto alla musica pura;
Una luce di stelle le inondava i capelli
E la splendida veste, oh Tinúviel!

Così cominciavano a cantare gli Elfi e le strofe successive si susseguirono nelle sue orecchie perfettamente comprensibili. Era come srotolare una pergamena: man mano che la carta si apre, le parole appaiono nero su bianco, così la canzone di Tinúviel quel giorno si svelò alle sue orecchie in ogni sua parola e significato. Provò una gioia tale che riuscì a stento a contenere. Aveva ormai cinque anni, ma strinse forte la stoffa della veste di sua madre, al suo fianco, e con un sorriso estasiato guardò Lindir che suonava e cantava: non immaginava nemmeno quando lo aveva reso felice quella sera!

Un maestro che, al contrario di Lindir, si era volontariamente eletto tale, fu Glorfindel.
Era rimasto così affascinato dall'aver assistito in prima persona all'apprendimento della sua lingua, che aveva deciso di dedicarsi all'educazione linguistica di Estel. Nei primi tempi lo spronò a parlare in elfico e gli spiegò parole e frasi che non erano chiare poi, dai cinque anni, si curò di insegnargli a scrivere e a leggere con l'alfabeto comune e con l'alfabeto Tengwar. I suoi insegnamenti non furono costanti come quelli di Elrond, ma in sua assenza lasciava sempre qualcosa da leggere o scrivere e Gilraen si occupava volentieri di controllare che Estel facesse quanto richiesto: ogni tanto era utile anche a lei ciò che suo figlio imparava e migliorò le sue conoscenze delle lingue elfiche.
Le lezioni di Glorfindel però si conclusero quando Estel compì sette anni: il bambino aveva sviluppato tutte le capacità possibili per la sua età ed il resto l'avrebbe naturalmente imparato man mano che fosse cresciuto. Finirono prima di quelle di Elrond ed il distacco fu meno triste, forse perché non erano state continuative e costanti come quelle del padre adottivo e poi il biondo Elfo, negli anni successivi, si ritrovò spesso ad affiancare i gemelli nelle loro particolari lezioni.

Gli ultimi importantissimi educatori, infatti, furono Elladan e Elrohir: maestri di scherma, tiro con l'arco, sopravvivenza e lotta per moltissimi anni, fino all'età adulta. Quando i gemelli non erano a casa, inoltre, Aragorn si allenava da solo o con altri Elfi, e anche gli ospiti di Elrond furono ben felici di aiutarlo negli allenamenti, dandogli i propri consigli e svelandogli qualche loro trucco.
Dai due ai cinque anni, i gemelli si limitarono a portare il bambino sulla torre di Imladris, di modo che imparasse a leggere gli umori del cielo nei suoi colori e nelle nuvole e ad interpretare la posizione delle stelle. In più gli affidarono un piccolo coltello: gli era severamente proibito usarlo contro le persone o per provare a combattere, poteva solo temperare dei legnetti o scheggiare dei ciocchi di legno, oltre a doverlo tenere pulito e affilato. Servì per educarlo ad avere la giusta cautela con le lame, così come a prendersene cura.
Dai cinque anni in poi gli venne costruito un piccolo arco e cominciò ad imparare a tirare, inoltre i gemelli iniziarono a portarlo con loro fuori da Imladris. I viaggi non erano mai molto lunghi, anche perché per la distanza che un adulto compiva in un giorno, al bambino ne necessitavano due o addirittura tre.
La loro prima uscita insieme fu un viaggio fino ad uno dei picchi della gola. Ad Aragorn venne dato da portare un piccolo bagaglio -con il coltello, la pietra per affilarlo e una coperta- l'arco e le frecce, mentre gli Elfi si armarono anche di spade, per sicurezza, e di altre coperte nelle quali nascosero delle provviste: al bambino venne detto che il cibo avrebbe dovuto procurarselo lungo il cammino altrimenti non avrebbero mangiato, ma le scorte erano state raccomandate da Gilraen che, anche se era un'uscita a scopo educativo, non poteva fare a meno di preoccuparsi pensando al figlio digiuno in mezzo alla natura.
Quella sera, arrivati sulla vetta, Aragorn si lasciò cadere sfinito sotto un pino. «Non ce la faccio più» sospirò con un lamento
«E sei fortunato, Estel: ormai siamo arrivati in cima!» rispose Elladan in elfico, ridendo allegramente; né lui né il fratello mostravano segni di stanchezza
«Ci hai fatto perdere la strada per due volte, altrimenti saremmo arrivati qui al tramonto» lo rimproverò Elrohir. «Ora ci mostrerai la cena?»
«Cena» mugugnò il bambino. «L'avevo dimenticata, eppure ora che ne parli ho improvvisamente fame. Perché l'hai nominata Elrohir?» domandò. Ormai era cresciuto e, oltre a parlare bene l'elfico, non storpiava più le parole. «Ma non aspettatevi miracoli: è la prima volta e poi è buio» li avvertì rialzandosi. Lasciò il fagotto sotto l'albero e si mise il coltello alla cintura, quindi si allontanò.
«Estel, rimani a portata di orecchio» lo raccomandò Elladan. «Pensiamo noi al fuoco vero?» chiese al fratello
«Ci siamo dimenticati di insegnarglielo?» fece lui, fingendosi sbalordito
«No, ma abbi pietà! È solo la prima volta che lo portiamo fuori ed è stanchissimo. Se porterà anche solo un piccione, il minimo che possiamo fare per premiarlo è fargli trovare lo spiedo già pronto»
«E sia, ma le prossime volte dovrà occuparsi di tutto» acconsentì Elrohir. Il gemello rise divertito. «Che c'è di tanto buffo?» domandò aggrottando le sopracciglia mentre radunava della legna secca raccolta sotto gli alberi vicini
«Sei un maestro troppo buono» gli spiegò
«Estel usa un altro aggettivo»
«"Severo", ma è perchè ancora non sa come sono i tuoi insegnamenti fuori dalla sicurezza di casa. E sospetto che nemmeno tu immaginassi come ti saresti comportato» spiegò il fratello cercando di far brillare una scintilla sul legno
«E come mi sto comportando?»
«Come un maestro troppo buono» ripeté Elladan. «Hai paura del fallimento del tuo allievo: temi che non mangi a sufficienza da trovare le forze per la discesa, temi che davanti a delle sconfitte lui si demoralizzi e non voglia più insistere. E tu invece vuoi che continui. Ti piace averlo come allievo»
«A chi non piacerebbe averlo? Non è certo uno studente qualsiasi» rispose Elrohir stringendosi nelle spalle e sedendosi davanti alla piccola fiamma che il fratello aveva finalmente acceso
«Silenzio, non fare allusioni» scosse il capo l'altro. «E non nascondere la tua gioia sminuendola: io ti so leggere, in ogni caso, e così facendo sembri solo un maestro ancora più buono» rise di nuovo e il gemello borbottò.
Infine Aragorn tornò, sudato e ansimante, al luogo dove i gemelli avevano acceso il fuoco. «Ci hai messo parecchio» fece notare Elladan, con una punta d'ansia. «Sei andato lontano, vero? Ho ascoltato i tuoi passi»
«Solo un pochino» disse lui, ma sapeva che era inutile mentire se l'Elfo l'aveva sentito
«Un coniglio!» esclamò Elrohir. «Non è una preda facile»
«Nemmeno sostanziosa» fece notare il gemello
«Noi non abbiamo bisogno di mangiare, per lui invece basterà» insistette l'altro
«Lo vedi? Troppo buono» lo rimbeccò allora Elladan, trattenendo l'ennesima risata.
Aragorn li fissò in silenzio durante quella rapida schermaglia, quindi abbandonò il coniglio vicino al fuoco. «Non l'ho fatto apposta» ammise lasciandosi cadere a terra col sedere. «Prima che venisse buio avevo visto delle tracce di questa forma» le disegnò con il coltello nella terra. «Erano grandi, speravo fosse un animale sufficiente per tutti e tre e ho seguito la pista tra gli alberi. Sono arrivato alla tana e l'ho anche visto nel buio!» spiegò eccitato, poi però il suo entusiasmo si spense. «Ma anche lui deve aver visto me: avevo scagliato la freccia che se n'era già andato. Solo il caso ha voluto che nel cespuglio infilzato dal colpo stesse un coniglio, ed eccolo qui infatti» concluse mugugnando. Evidentemente non era molto gratificato dal fatto di aver guadagnato involontariamente la cena.
Nella notte, mentre Estel dormiva, i gemelli confabularono tra loro, non potendo trattenere la meraviglia: il bambino non era stato addestrato a cercare le tracce, né a seguirle nel buio, eppure lo aveva fatto naturalmente. Certo, non sapeva riconoscerle ed era stato un grande rischio, perché avrebbe potuto involontariamente cacciare una bestia pericolosa, ma era una straordinaria capacità, tipica dei raminghi, che doveva arrivargli proprio dal sangue. Loro avrebbero potuto dargli una mano in quella materia, ma certo molto avrebbe fatto l'esperienza personale e un giorno sarebbe sicuramente diventato più bravo di loro in quello.
Fecero molte altre uscite, e più Aragorn crebbe, più la meta finale si allontanò da Imladris. A sette anni poté impugnare una spada da allenamento per cominciare ad imparare ad usarla in combattimento.
Un giorno le loro lezioni sarebbero finite, certo, quando ormai lui sarebbe stato giù grande, ma anche allora i tre non avrebbero mai smesso di viaggiare insieme per la Terra di Mezzo: l'amicizia con i due gemelli sarebbe diventata sempre più profonda con gli anni.


Arwen non è apparsa manco stavolta... non picchiatemi. Giuro, il prossimo è quello giusto!
Non sto facendo un torto al povero personaggio di Arwen. Mi spiego, ho scritto questo capitolo sui biglietti (fronte/retro) di trenitalia nel tragitto Venezia-Verona-Verona-Milano e inizialmente era molto diverso. Era effettivamente l'incontro fatidico, ma c'erano due cose che non quadravano.
Primo, continuavano a spuntare fuori rimandi, più succinti, a quel che avete letto qui, ossia a cosa rappresentino questi personaggi nella vita Aragorn. Soprattutto Elrond e i gemelli (che tra l'altro volevo caratterizzare spendendo qualche parola in più. So che avranno molto più spazio più avanti, ma un minimo anche adesso glielo dovevo). Rendere questa idea con piccoli rimandi non rendeva giustizia a quel che volevo descrivere e ho pensato che senza una dovuta spiegazione, più avanti, alcuni atteggiamenti potrebbero essere poco chiari (conosciamo tutti la storia, per carità, ma a volte a certe cose non pensiamo e questa ff è fatta proprio per approfondire).
Secondo, tutti questi rimandi spezzavano il racconto principale dell'incontro facendogli perdere un po' della magia che invece deve avere! Insomma era come se i co-protagonisti cercassero continuamente di invadere la scena dell'ingresso sul palco della protagonista. La rovina!
Quindi Ad ognuno il suo spazio, ma siccome buon parte dell'incontro fatidico è già stata scritta, possiamo star certi che alla prossima puntata si vedranno ;)

Ancora una volta grazie a tyelemmaiwe e melianar per i commenti e le osservazioni, e grazie anche a Magali_1982, che condivide con me la visione di Elrond.
Al prossimo capitolo: il momento è giunto!

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Capitolo 4
*** L'incontro ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Una sera, all'ora del tramonto, Estel uscì da Imladris senza farsi vedere e andò a passeggiare nei boschi circostanti. Era la primavera dei suoi sette anni, ne erano passati cinque da che era arrivato lì: non aveva nessun ricordo dei due anni passati all'accampamento dei Dúnedain, nessuno del viso di suo padre e, soprattutto, nessuno del fatto che qualcuno l'avesse mai chiamato con un nome diverso da "Estel".
Quel giorno il bosco era pieno di vita. Gli animali e gli uccellini tornavano verso le loro case portandosi dietro i loro piccoli, goffi e più lenti nei movimenti. Estel sentiva il frusciare delle foglie dei cespugli in cui ogni bestia si nascondeva quando lui passata, e ascoltava il canto degli uccelli che dicevano addio a quel giorno, la cui luce scendeva lentamente dietro le montagne. L'atmosfera era colorata d'oro e arancio e ogni angolo della foresta sembrava sfavillare della potenza degli ultimi raggi della giornata.
L'ambiente luminoso accrebbe la sua gioia: erano due anni che tirava con l'arco e aveva ricevuto molti complimenti per i suoi miglioramenti da parte di Elrond, l'unico padre di cui ricordasse e le cui lodi erano ancora come perle splendenti, raccolte nel mare della sua tranquillità e compostezza. Ma anche le parole di Elladan ed Elrohir erano importanti. Erano i suoi fratelli maggiori, da che ricordava, ed erano già due anni che lo portavano con loro per delle piccole spedizioni e lui ormai conosceva ogni tronco e radice dei dintorni della casa. Ecco perché quel giorno ci si avventurò da solo, pur senza andare molto lontano.
Si mise a canticchiare tra sé e sé, approfittando che nessuno lo avrebbe sentito anche se la sua canzone non fosse stata all’altezza di un canto elfico.
«Lì giunse Beren dal monte nebbioso. Tra le fronde e gli alberi disperso, dove l’elfico fiume scorre tumultuoso» cantò alzando gli occhi alle fronte degli alberi. Nel frattempo brandiva la sua spada da allenamento, una piccola arma in legno chiaro, con il pomello dell'elsa dipinto di colori sgargianti. «Camminò solitario ed in pensieri immerso» continuò notando la corsa di due scoiattoli: le onde che i loro corpi formavano insieme alle code erano quasi ipnotiche e lui si mise a correre tra gli alberi per seguirli, abbassando l'arma di legno. «E vide con gran meraviglia dalie dorate ricoprirle il manto, sulla lunga veste luce di stelle» continuò a cantare mentre correva. Nel guardare gli animali, improvvisamente notò sullo sfondo una macchia più scura: non poteva essere un animale, era troppo grande e animali così minacciosi non si avventuravano fino ai pressi della casa di Elrond; ma non era nemmeno una pianta, perché quello era un bosco di betulle e il colore che lui vedeva era più scuro della candida corteccia delle piante che lo circondavano. E poi c'erano anche dell'azzurro e dell'argento. «E bionde cascate sulle sue spalle» continuò inconsciamente a cantare, abbassando però il tono di voce, mentre i suoi occhi abbandonavano la corsa dei roditori e mettevano a fuoco l'insolita immagine.
Quando infine capì che quella più avanti era una persona, Estel si zittì e si fermò, trattenendo il respiro. Aveva forse compiuto il miracolo? Era riuscito, come i menestrelli elfici, a far comparire davanti a sé, le immagini di cui cantava? E se avesse smesso, sarebbe scomparsa?
Anche se parte di lui voleva continuare il canto per non farla sparire, l'altra metà voleva richiamare l'attenzione di quella figura. «Tinúviel! Tinúviel!» esclamò allora ad alta voce, come Beren aveva fatto molto tempo prima. Perché quella non poteva che essere la donna della canzone!
La giovane donna si voltò e gli sembrò proprio come si era sempre immaginato la bella Tinúviel: vestiva un manto azzurro dai riflessi argentati e i suoi capelli scuri ondeggiavano lunghi nel capriccioso vento primaverile, gli occhi grigi sembravano luminosi come le piccole gemme che le splendevano sulla fronte. Lo spavento che Estel vide nel suo sguardo quando la chiamò, scomparve non appena lei lo individuò tra gli alberi dove rimaneva ancora fermo, pietrificato dallo stupore e dalla bellezza della fanciulla.
«Chi sei? E perché mi chiami con quel nome?» domandò lei, finalmente parlando. La sua voce era dolce e sottile, come il mormorare di un giovane ruscello d'alta montagna o lo scricchiolare della neve sotto le zampe di un uccellino.
Il bambino sembrò riscosso da quelle parole e realizzò infine che quella davanti a lui era una persona vera e non la visione della sua canzone, né il frutto di un sogno ad occhi aperti. «Perché stavo cantando di lei e credevo davvero che tu fossi Lúthien Tinúviel» riuscì infine a rispondere, deglutendo a fatica. «Ma tu non sei lei» fece una pausa e la squadrò. «O sì?» aggiunse timidamente
«No, ma molti mi hanno detto di somigliarle» gli rispose e lo sguardo si fece grave per qualche secondo. «Ma tu chi sei?»
«Estel» rispose. Quando gli fece cenno di avvicinarsi, finalmente vinse l'immobilità che lo aveva colpito e passò tra le betulle fino a lei. «Ti sei persa?» domandò avvicinandosi
«No, Estel» rispose con un sorriso. «Sto tornando a casa. Tu invece cosa fai in giro per i boschi da solo?» chiese a sua volta
«Conosco bene questi boschi» spiegò impettito, non voleva sembrarle un bambino; eppure ognuna delle cose che aveva imparato a fare, e di cui si era vantato con sé stesso poco prima, gli sembrò d'improvviso insignificante davanti alla bellezza di quella fanciulla. «Vivo ad Imladris» spiegò infine, incapace di trovare tante parole
«Allora siamo amici, Estel» rise lei allegramente. «Io sono Arwen, figlia di Elrond. Sto tornando da mio padre dopo una lunga assenza, quindi vivremo ora sotto lo stesso tetto» gli spiegò.
Il vento si calmò e l'ultimo raggio di sole scomparve dietro le montagne. Il cielo si colorò dell'argento e del porpora del crepuscolo, ed un brivido corse su per la schiena di Estel: non capì se fosse per il fresco improvviso o perché in quella luce Arwen gli sembrò ancora più bella. La fanciulla allungò la mano verso di lui, mentre con l'altra stringeva al petto i bordi del manto. «È ora di andare, vogliamo avviarci insieme?» domandò volgendo i propri passi nella direzione in cui avrebbe trovato il ponte di pietra che dava l'accesso alla casa. Estel osservò quella mano candida ed indugiò. «Forse avevi altro da fare tra gli alberi, Estel di Imladris?» chiese allora lei, notando la titubanza del bambino
«No» rispose questi e le prese la mano.
Tenne il viso rivolto a terra per tutto il tragitto, cercando di nascondere il rossore che gli colorava le guance. Non voleva farsi riportare a casa come un bambinetto, ma non voleva nemmeno lasciar andare la presa, perché la pelle della donna era tiepida e morbida ed il suo cuore sembrava battere come mai prima d'ora.
Mentre salivano le scale dell'edificio principale della Casa di Elrond, Arwen parlò di nuovo. «Ho detto qualcosa che non va?» chiese guardandolo dall'alto. Estel si irrigidì, spalancò gli occhi e scosse il capo con vigore. Alcuni Elfi uscivano in quel momento dall'edificio, chiamando Arwen con un altro nome: Undómiel, Stella del Vespro. «Cosa ti succede?» insistette.
Il ragazzino sentì solo l'inizio di quella domanda, perché non sopportava più l'emozione: le lasciò rapidamente la mano e salì i gradini due a due, ignorando coloro che scendevano ora le scale per venir loro incontro.
 
Casa sua le era mancata enormemente. Nella città dei Galadhrim il tempo sembrava scorrere in maniera diversa e finché era rimasta nei suoi confini non aveva avuto nostalgia di casa, ma una volta fuori si era sentita combattuta tra il desiderio di rivedere la sua terra natale e quello di rimanere nello splendore e alla dolcezza di Caras Galathon. Ora che era tornata non rimpiangeva la scelta. Quando era entrata nella valle aveva avuto una specie di epifania, il rombo della cascata e il continuo suono dell'acqua le avevano stretto il cuore: la terra di sua madre era in un certo senso troppo silenziosa, la sua natura troppo tranquilla e placida e ad Arwen piacevano la forza incontenibile delle cascate e la musica inarrestabile del Bruinen, perché era nata con le loro voci nelle orecchie. Quella fu una colonna sonora che in quel momento le richiamò alla mente ogni ricordo dei giorni passati lì, nella casa di suo padre.
Era il crepuscolo, ma Imladris era avvolta in un'ombra scura per via degli alti picchi dietro i quali il sole tramontava: a quell'ora il cielo era azzurro pallido a ovest, eppure nella gola era già notte, tanto da non vedere più il fiume infondo, mentre sulle alture dove sorgeva la casa, le ombre avevano ormai conquistato quasi tutti gli angoli. Le torce erano accese: gli edifici si sarebbero confusi con la notte, ma le luci avrebbero scintillato nell'oscurità come un ricamo dorato su velluto nero.
Arwen fissava intensamente un fiore che si trovava all'altezza dei suoi occhi, toccandone con delicatezza le foglie, e si stava sforzando di non distogliere lo sguardo dai petali colorati altrimenti l’avrebbe abbassato alle foglie di felce che si trovavano nei vasi ai suoi piedi: c'erano due occhi che la fissavano nella semioscurità tra quelle piante e se li avesse guardati, chi era con lei avrebbe realizzato che lì con loro, nella serra, c'era un'altra presenza di cui nessuno sembrava sapere nulla eccetto lei.
Estel non si sarebbe detto un bambino particolarmente interessante, ma era comunque riuscito ad attirare l'attenzione di Arwen. Prima di tutto, il giorno del suo arrivo, Arwen era stata tanto assorta nell'ascolto dell'acqua e dei rumori di quelle familiari foreste, che si era spaventata quando aveva sentito improvvisamente una voce nel bosco. Che per di più chiamava il nome di Tinúviel! Era un richiamo curioso e certo chi lo pronunciava non poteva avere un cuore malvagio, né lei era in pericolo, eppure si era voltata con ancora un briciolo di paura nel cuore e i suoi occhi dovevano averle giocato un brutto scherzo: per un attimo, in un gioco di vento, foglie tremanti e luce del tramonto, le era sembrato di vedere con la coda dell'occhio la figura di un uomo incoronato; ma non appena aveva guardato esattamente nella sua direzione, non aveva visto altro che tronchi di betulla, cespugli e un ragazzino con una camiciola celeste e una spada di legno in mano. Da quale macchia della foresta la sua immaginazione aveva ricavato la figura di un uomo adulto con una corona? Quella curiosa visione le era rimasta impressa nella mente.
In secondo luogo, dal suo ritorno erano passate due settimane ed era stata consapevole fin dal primo giorno del fatto che una piccola ombra aveva cominciato a seguire i suoi passi, proprio come stava facendo in quel momento, nella serra. L'ancella e il Maestro di Cerimonie di Imladris che erano con lei non se n’erano accorti, ma questo non la sorprendeva: Estel si muoveva con cautela e aveva il passo silenzioso perché la stessa Arwen non riusciva mai a dire da quanto tempo lui fosse nascosto dietro un cespuglio o una colonna. Non era un Elfo, quindi prima o poi qualcosa lo tradiva, ma bisognava farvi attenzione o sapere di dover cercare con l'udito qualche rumore particolare. Di solito lei era distratta, concentrata su quel che faceva e solo dopo un po' di tempo si rendeva conto che il bambino era presente, ma quando il suo pedinamento fosse cominciato, questo non sapeva dirlo. Dopo qualche ora, quella presenza se ne andava per la sua strada, lasciandola di nuovo sola. Resasi conto di quell’atteggiamento, Arwen avrebbe potuto girarsi a fissare nella direzione del suo inseguitore, avrebbe potuto affrontarlo e intimargli di smetterla, e invece non aveva fatto niente. Aveva evitato persino di rivelare la sua presenza agli altri che erano stati con lei, come in quel momento, e nei giorni precedenti non aveva mai dato a vedere di essersi resa conto di essere seguita. Non trovava fastidioso quel pedinamento, forse perché il suo inseguitore era un bambino, o forse perché non sembrava avere strane intenzioni: quale che fosse il motivo che lo spingeva a comportarsi così, sembrava volerla semplicemente osservare e di ciò che vedeva o che le sentiva dire, non raccontava niente a nessuno.
«Avete scelto quale fiore volete?» domandò all'improvviso il Maestro di Cerimonie, interrompendo il discorso che aveva portato avanti fino a quel momento con l'ancella che era con loro.
Ad Arwen sembrò di risvegliarsi da pensieri profondi. «Il gelsomino» rispose, e distrattamente abbassò lo sguardo sulle felci. Non lo fece volontariamente, ma fu chiaro che non lo stava facendo per contemplare le foglie.
«Estel?» domandò l'ancella allarmata, sporgendosi per guardare dietro i vasi, scostando le piante con le mani. Gli occhi del bambino si staccarono da lei, fissarono verso gli altri Elfi e scomparvero nell'oscurità dietro le piante. Alcune foglie si mossero di scatto. «Estel perché sei qui? L'ora di cena è passata, devi torn...» fece per ricordargli l'ancella, ma si sentì un rumore di passi e un'ombra grigia uscì di corsa dalla porta a vetri della serra per poi scapicollarsi giù dalle scale
«Che modi» sospirò il Maestro di Cerimonie, scuotendo il capo
«Chi è quel ragazzo?» domandò Arwen. Si avvicinò alla porta a vetri e guardò la piccola figura del bambino scendere gli ultimi gradini con un salto per poi correre dentro il primo edificio. Aveva già chiesto qualche informazione su di lui quando aveva capito di essere seguita, ma in quelle due settimane aveva avuto da fare con suo padre e non aveva mai approfondito l'argomento.
«Estel? Mia Signora, ho sentito che il padre era uno dei Raminghi Dúnedain, morto difendendo l'ultimo discendente di Númenor quando il ragazzo aveva solo due anni» le spiegò la fanciulla con lei
«Vostro padre lo conosceva e quando ha saputo dell'accaduto ha concesso alla moglie e al figlio di rifugiarsi qui» spiegò l'altro Elfo
«Quanti anni ha?» chiese ancora spalancando del tutto la porta della serra, con delicatezza
«Sette, mia Signora»
«Vive qui da cinque anni» mormorò pensierosa
«Oh sì, e sono cinque anni che riceve la migliore istruzione che un figlio degli Uomini possa mai ricevere dagli Elfi nella Terza Era di questo mondo» annuì, quasi con orgoglio, il Maestro di Cerimonie. «Il nobile Glorfindel ho speso molto tempo con lui ed ora Estel scrive e parla fluentemente la lingua comune, così come l'elfico. Passa molte sere nella Sala del Fuoco ad ascoltare storie e canti, e molti di questi li conosce già benissimo. Il nostro stesso Signore Elrond gli ha fatto da istruttore»
«Dovreste vederli insieme» rise l'ancella. «Il bambino adora vostro padre come se fosse il proprio! Pende dalle sue labbra quando comincia a raccontargli una storia dei tempi antichi, e spera sempre di trovare la sua approvazione in ogni cosa che fa: quando i vostri fratelli gli hanno detto che era sufficientemente grande per cominciare le lezioni di spada è corso per tutta la Casa a cercare vostro padre per farglielo sapere!»
«Due lingue, arco e spada: in cinque anni» mormorò Arwen, come a se stessa. «Dite che ascolta le storie e i canti della sera, ma non l'ho mai visto nella Sala da quando sono arrivata» fece notare all'Elfo. Dopo la prima settimana di pedinamento aveva pensato di parlare con il ragazzo, perché era preoccupata che potesse esserci qualche problema e inoltre, anche se era un bambino come un altro, era comunque difficile non domandarsi chi fosse, dopo tutte quelle stranezze: così l'aveva cercato nella sala da pranzo alle ore dei pasti e non l'aveva mai trovato, poi l’aveva cercato nella Sala del Fuoco, ma anche lì non si era fatto vedere. I due che l’accompagnavano si resero conto che effettivamente erano due settimane che non si presentava. Era chiaro insomma che Estel non voleva farsi trovare, non da lei. Lo realizzò in quel momento, in cima alle scale che portavano alla serra, ed in quel momento stesso decise di desistere nella sua ricerca.
«Sua madre non è un Elfo e suo padre, mi dici, è un Ramingo» continuò a riflettere posando una mano sul vetro finemente lavorato della porta. «Allora perché ha un nome elfico? Come si chiama in realtà?» domandò
«"In realtà", mia Signora?» chiese l'ancella, confusa
«Non penso abbia altri nomi, è sempre stato chiamato così» rispose il Maestro di Cerimonie. «Da tutti, anche da sua madre».
Arwen socchiuse gli occhi e ad una folata si chiuse il mantello leggero sulle spalle, con un unico fluido movimento. «Estel, man le?» sussurrò al vento.
 
Come la figlia di Elrond sospettava, Aragorn aveva passato i giorni successivi al suo arrivo a seguire le lezioni e poi, nel tempo libero, a girare per Imladris alla sua ricerca. Ogni volta pensava che non l'avrebbe mai trovata, perché era troppo bella per essere reale: doveva essere per forza una sua invenzione o il frutto di un sogno ad occhi aperti! E invece eccola: un giorno era seduta a leggere su una panchina nei giardini, un altro passeggiava sui camminamenti intorno agli specchi d'acqua, là dove i fiumi si raccoglievano prima di formare le tante cascate che si gettavano nella gola. Rimaneva a guardarla nascosto dietro una colonna o dietro un cespuglio, con una lotta nel cuore tra la voglia di parlarle e il panico che la sola idea gli suscitava. Perché con lei non era facile come con altri? Arwen era figlia di Elrond e sorella di Elladan ed Elrohir e con loro non aveva mai avuto problemi!
Passò un mese a guardarla da lontano ed Aragorn aveva osservato a sufficienza la fanciulla per capire che aveva lo stesso modo di imporsi di suo padre, inflessibile, ma gentile; inoltre era gioviale allo stesso modo di Elladan e aveva la stessa premura che Elrohir era solito rivolgere agli altri: cauto e attento al riserbo e alla sensibilità altrui, ma non per questo le sue attenzioni risultavano meno gentili e calde. Persino agli occhi di un bambino di sette anni, Arwen sembrava in tutto e per tutto una loro parente. Però era riuscito a scoprire anche cose particolari di lei, che il resto della sua famiglia non aveva. Ella amava la natura come ogni Elfo, ma se i suoi fratelli ascoltavano le notizie lontane degli uccelli o osservavano i movimenti degli animali, captando informazioni da loro, lei sembrava ascoltarne i discorsi frivoli, i racconti di tutti i giorni. Preferiva il cinguettìo del pettirosso che aveva il nido nella foresta lì vicina, piuttosto che il canto dei lontani uccelli migratori e le loro novità dal Sud del mondo. E chiacchierava spesso anche con le persone di Imladris, mentre i gemelli non rimanevano mai per molto tempo, quindi Aragorn non li aveva visti spesso intrattenersi con gli ospiti. Solo Elrond, nonostante i molti impegni, faceva i dovuti onori di casa, ma era più difficile che avesse tempo da dedicare a delle frivole chiacchierate; Arwen invece si intratteneva molto con tutti, con gli Elfi della casa così come con i viaggiatori di passaggio, o con Gilraen! E il bambino non aveva mai il coraggio di chiedere alla madre di cosa avessero parlato.
 
Quello studio a distanza finì in un caldo pomeriggio estivo.
Estel indossava una camicia di lino rosso in cui aveva già sudato parecchio, e degli sdrucidi pantaloni scuri dello stesso tessuto. Le mani erano coperte da due guanti di pelle consumata per evitare che il sudore gli facesse mancare la presa sull'arco o sulla freccia incoccata. Da qualche tempo non tagliava i capelli che gli sfioravano le spalle e gli si erano in parte appiccicati al collo e alla fronte per via del sudore. Lasciò andare l'ennesima freccia e mancò del tutto il bersaglio: volò oltre un alto cespuglio con un fischio e un fruscio. Il ragazzo si morse il labbro inferiore e fece schioccare la lingua per il disappunto: il braccio gli tremava per la troppa fatica e il caldo di quell'ora lo intontiva, quindi non avrebbe fatto molti centri in quelle condizioni, eppure aveva promesso che entro quel mese ne avrebbe fatti almeno cinquanta consecutivi e non poteva esimersi dal fare pratica ogni giorno.
Lasciò a terra arco e faretra, quindi si diresse verso i cespugli. Frugò tra i rami e si abbassò a cercare tra le radici senza trovare nulla, così si addentrò nella macchia. C'erano tante foglie verde intenso, lucide sotto i raggi del caldo sole, i rami si piegavano sottili al suo passaggio, gli si impigliavano nei capelli o gli accarezzavano ruvidamente il viso. Alla fine, sbucò dall’altra parte dei cespugli senza aver trovato la freccia. Davanti a lui però si apriva una radura sconosciuta. Eppure erano anni che viveva lì, anzi, per quel che ricordava lui aveva sempre vissuto ad Imladris, possibile che ci fosse un angolo in cui non era ancora stato? L’erba era alta, poco curata e poco calpestata, e una decina di metri più avanti sorgeva un gazebo rotondo, nello stile tipico della casa di Elrond, ma più piccolo, con i gradini di pietra invasi dalle piante e da piccoli fiori che spuntavano nelle spaccature.
Guardando a terra, riconobbe che una parte dell’erba era stata schiacciata e la forma lunga e sottile, quasi invisibile, faceva pensare la freccia fosse arrivata lì. Raggiunse quel punto, si chinò e scostò gli steli, ma non c’era nulla. Qualcuno l’aveva presa? Nel momento stesso il cui lo pensò, sentì una punta acuminata spingere conto la sua guancia e un leggero peso sulla spalla.
«Cosa vedo? Un piccolo ramingo colto alla sprovvista» sussurrò una voce chiara e limpida come quella di un ruscello in primavera. Conosceva quel timbro e quel modo di parlare, lo aveva ascoltato per settimane dall’ombra e ora, in un attimo di distrazione, si era lasciato trovare. Dopo tutta la fatica che aveva fatto per sfuggire all’Elfa!
Fece per girare lo sguardo ma ricordò di avere la punta della freccia contro la guancia, quindi si fermò subito. «Suppongo sia tua» disse infine la fanciulla togliendo l’arma dalla sua spalla e conficcandola leggermente nella terra morbida. Estel si rimise in piedi e tenne lo sguardo basso, deviando gli occhi verso il gazebo. «Lo osservavi anche prima. Non l’avevi mai visto, vero?» domandò la donna, in risposta scosse semplicemente il capo. «Seguimi, te lo mostro».
Avrebbe preferito scappare perché da quando aveva capito che era lei alle sue spalle, il suo cuore aveva cominciato a battere all’impazzata e ora aveva le mani sudate. Però non poteva fuggire a quel modo, sarebbe stato oltremodo maleducato, e sua madre e suo padre, o colui che si era comportato come tale, non l’avevano educato a comportarsi così. C’era anche una parte di sé che non voleva andarsene affatto, ma era felice di essere finalmente insieme ad Arwen, di esserlo davvero e non da dietro un angolo. Insomma, seguì i passi dell’Elfa, a metà tra la gioia e il nervoso, fino ai gradini del gazebo. A quel punto si concesse di alzare lo sguardo per osservare intorno a sé quel luogo mai visto prima.
«Celebrían en Tiriant» disse Arwen allargando le braccia.
Lo Sguardo di Celebrían era un piccolo gazebo circolare, con tre gradini ad alzarlo dal livello del terreno. Le colonne in pietra chiara erano sottili e finemente scolpite, ma molte di quelle che guardavano verso il giardino e gli alberi di Imladris erano coperte e nascoste da un grosso glicine i cui rami si erano avvinghiati e attorcigliati alla pietra per sostenersi e continuare a crescere verso l’alto. L’albero era carico di fiori di un curioso color porpora che fiorivano a grappoli e pendevano verso il basso, leggermente cullati dal vento estivo. Manciate di petali cadevano ad ogni folata: alcuni si posavano sul pavimento di marmo bianco, altri volavano disperdendosi oltre le colonne sul lato opposto del cerchio del gazebo. Lì, senza alcuna ringhiera, lo Sguardo di Celebrían dava sul vuoto della gola che ospitava Imladris.
Estel rimase però col naso per aria, senza far caso allo strapiombo che si apriva a pochi passi da lui, perché gli era impossibile staccare lo sguardo dalla cupola sorretta dalle colonne del gazebo. Era in vetro sottile, finemente colorato e decorato. I raggi del sole facevano brillare i disegni e portavano il colore anche sul pavimento bianco e semplice. Era raffigurata una famiglia di sette Elfi: quattro avevano i capelli castani, tre erano biondi. Da una parte, sullo sfondo, erano rappresentate cascate d’acqua tra le rocce e alberi verdi, dall’altra, vicino ai tre Elfi biondi, erano disegnati grandi alberi gialli e un unico ruscello dalle acque azzurro tenue.
«Siediti con me, hai voglia?» chiese Arwen avvicinandosi all’unico lungo sedile di marmo bianco scolpito sotto il gazebo. Una metà era coperta di petali, l’altra no, segno che lei doveva essere stata seduta lì a lungo. Con una mano liberò la seconda metà perché ci si sedesse lui, così il bambino sentì di non poter rifiutare. Alle loro spalle le foglie del glicine frusciavano piano, mentre davanti si apriva la silenziosa gola di Imladris. Da lì non si vedeva nessuno degli altri edifici della casa di Elrond, e con la pianta a coprire il giardino alle loro spalle, sembrava di essere soli nell’ultimo baluardo di civiltà costruito sul tetto del mondo.
«C’è molto silenzio, vero? Persino la voce del Bruinen si sente a malapena da qui» gli fece notare la fanciulla. Estel abbassò lo sguardo verso il pavimento, per vedere che risultato dessero i raggi attraverso il vetro colorato, e notò che Arwen indossava lo stesso colore del glicine, con ricami viola scuro, lavanda e argento. «Questo posto è stato costruito da mio padre per mia madre. Ora però non ci viene più nessuno, anche perché non è facile trovarlo. Anche tu non ne eri a conoscenza vero? È stato abilmente celato: nessun sentiero del giardino porta a questo luogo, gli alberi e i cespugli sono stati lasciati crescere più selvaggiamente nello stesso modo in cui, ovunque ad Imladris, li si lascia poco curati là dove entro pochi metri il terreno finisce e la roccia sprofonda nella gola. E' come un segnale naturale: dietro la natura selvaggia c'è solo vuoto, di solito; per questo, normalmente, gli ospiti, e persino alcuni abitanti, pensano che dietro quella vegetazione non vi sia nulla a parte lo strapiombo. Così non vi si avventurano» finì la sua spiegazione e rimase in silenzio.
Estel si limitò ad osservare le sue mani dalla pelle candida e le dita lunghe e affusolate. «Tu non hai un padre, vero?» chiese Arwen. Il bambino scosse il capo. «Ti manca?».
Ci pensò un po’, poi scosse di nuovo il capo. «Non si può provare nostalgia di qualcosa che non si ricorda di aver avuto» spiegò infine. Erano le prime parole che le rivolgeva dopo il loro primo incontro, quasi più di un mese prima.
«Dici? Forse è così per gli Uomini» annuì. «Io ho conosciuto mia madre e a volte mi manca. Ma siccome non è morta, so che posso ancora incontrarla in questa vita, solo non in questa terra. Lo capisci?» ed Estel annuì
«Valinor» rispose.
All’improvviso sentì il peso dello sguardo di Arwen su di sé e sentì l’agitazione crescere, ma non aveva il coraggio di deglutire né di muovere alcun muscolo, in attesa che gli dicesse qualcosa per rimproverarlo del suo comportamento degli ultimi mesi, o con la paura che lo interrogasse a riguardo. Qualsiasi domanda sull’argomento, non trovava una risposta chiara nemmeno nei suoi pensieri.
«Estel» sussurrò la fanciulla, piegandosi in avanti a cercare i suoi occhi, ma lui abbassò ancora di più la testa guardando la propria camicia rossa. «Perché mi eviti, Estel? Ho fatto qualcosa che non va?» domandò con una nota di tristezza nella voce.
Il bambino si sentì confuso: era quella l’idea che si era fatta? Non poteva esserci niente di più sbagliato, ma come dirglielo? Come spiegarsi se non sapeva spiegare neanche a se stesso tutte quelle emozioni?
Alla fine strinse le mani a pugno, fece un profondo respiro e, raddrizzando la schiena, si decise a ricambiare lo sguardo della fanciulla. «È che sei la cosa più bella che io abbia mai visto» ammise infine, con gli occhi lucidi e le guance rosse come papaveri.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«Estel, chi sei?»


Eccoci qui, scusate il ritardo con cui posto il capitolo, ma mi sono trasferita dall'altra parte del mondo a partire da martedì e solo oggi mi è passato il jetlag, mentre sto ancora cercando di sistemare il mio spazio abitativo e le pratiche di immigrazione. Sono, come dire, un po' spaventata e un po' stanca. Ma finalmente questo pomeriggio sono riuscita a concludere di scrivere (nelle notti scorse ho semplicemente pensato alle scene) e mò, prima di dormire, vi posto il capitolo
Prima di lanciarmi banane e uova marce, scriverò almeno i miei pensieri su questo cambiamento nella storia di Aragorn e Arwen. Mi piaceva molto, anzi moltissimo, l'idea che si incontrassero la prima volta quando lui è ancora un bambino, ma amo molto, anzi moltissimo, anche l'originale di Tolkien, quindi nonostante i miei tocchi originali, vi assicuro che manterrò l'aderenza alla storia originale.
Intanto l'incontro l'ho tenuto più o meno identico: bosco di betulle, Aragorn che canta di Lutien e che chiama così Arwen, l'orgoglio che Aragorn sta sentendo in quel momento (anche se qui il motivo è diverso), lo stupore di entrambi, le prime parole.
Spero vivamente che nonostante la deviazione dalla storia originale, la fanfiction possa piacervi lo stesso e, lo ripeto, nonostante i cambiamenti, continueranno a tornare punto di aderenza all'originale fino a tornare definitivamente nella storia raccontata da Tolkien.

Ancora una volta ringrazio tyelemmaiwe, melianar, Magali_1982 e anche Venice93. Spero di non avervi deluso e se l'ho fatto, mi spiace molto. Magari ci incroceremo su altre ff ^^.

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Capitolo 5
*** Limiti e diversità ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Un attimo prima andava tutto bene. Era stanco, era nervoso, ma non c’era nulla che non andasse. Poi aveva abbassato la guardia per pochissimi istanti e il suo avversario era riuscito ad assestargli un colpo.
«Tutto bene ragazzo?» chiese questi vedendogli sanguinare la fronte
«Sì, sì» si limitò a rispondere Aragorn. Era tutto ciò che gli veniva in mente in quel momento: aveva delle striature bianche nel suo campo visivo, gli fischiava l’orecchio sinistro ed era intontito.
L'uomo era un viaggiatore di cui non sapeva molto. Da Imladris andavano e venivano alcuni Nani, pochissimi, alcune figure misteriose che non conosceva e che avevano affari principalmente con Elrond, poi Uomini girovaghi o messaggeri e alcuni Elfi. Il suo avversario era uno dei tanti, ma gli era sembrato un tipo interessante il giorno prima, a cena: era allegro e chiacchierone, ma sempre attento alle proprie maniere e alle parole da usare. Prima di entrare nella Sala del Fuoco, Aragorn l’aveva avvicinato e gli aveva chiesto di aiutarlo nel suo allenamento il mattino dopo.
«Vado a metterci qualcosa sopra e andrà a posto» riuscì finalmente ad aggiungere. Strinse tra loro le labbra, cercando di nascondere il proprio disappunto per quella brusca conclusione e per ciò che rischiava di seguire.
«Mi spiace, non pensavo di colpirti, era una mossa così facile da prevedere...» cercò di scusarsi
«E' colpa mia» annuì Aragorn interrompendolo. «Ho perso la concentrazione, sono un po' stanco»
«E' vero, sono parecchie ore che andiamo avanti. Sei un ragazzino che si tiene allenato, vero? Ma è meglio se ci fermiamo» annuì l'uomo con un sorriso, mettendogli una mano sulla testa. «Sicuro di stare bene? Vuoi che chiami qualcuno?»
«No, so dove andare. Grazie per oggi» il bambino fece un inchino, quindi mise la spada di legno nella cintura e si allontanò rapidamente, prima che l’uomo pensasse di chiedere sul serio a qualche Elfo: nessuno avrebbe dovuto vederlo o sapere di quella ferita, nessuno.
Una volta allontanatosi a sufficienza, sbuffò storcendo il naso: poteva dare la colpa solo a se stesso per quell’errore e lo detestava, perché si era creato con le sue mani un problema che altrimenti non ci sarebbe mai stato. Peggio! I problemi erano due. Prima di tutto, gli Elfi di Imladris trovavano da soli le occasioni per prenderlo in giro, quindi non avevano bisogno di altri incentivi per ridere alle sue spalle, cosa che invece lui aveva appena fatto: se l’avessero scoperto, avrebbero poi chiesto al suo avversario di raccontare l’accaduto e avrebbero capito subito la verità, ossia che gli era parso di vedere una figura che poteva essere Arwen avvicinarsi dai camminamenti che portavano allo spiazzo erboso degli allenamenti, così aveva spostato lo sguardo per accertarsene e non solo non era lei, ma si era anche preso una bella botta alla fronte. Aver almeno evitato di fare quella pessima figura davanti alla fanciulla era una ben magra consolazione. Il secondo problema, invece, era che quel giorno avrebbe avuto tutto il pomeriggio libero e aveva i suoi progetti per occuparlo, ma se avessero scoperto la ferita si sarebbero tutti preoccupati e il suo prezioso tempo libero sarebbe stato speso in modo diverso.
Girato un angolo, finalmente riuscì a pensare con più chiarezza e cominciò a ragionare su come evitare l’uno e l’altro di quei problemi. Prima di tutto prese un fazzoletto dalla tasca con la mano che si era già sporcata di sangue, di modo da avere almeno la sinistra ancora pulita. Se lo premette sulla tempia e sull'occhio, chiuso per via del sangue denso che gli era sceso sulla palpebra. Fermandosi per un momento, si tolse il laccio dai passanti di una scarpa, se lo passò intorno alla testa e fece un nodo ben stretto per assicurare il fazzoletto contro la ferita, quindi prese un camminamento secondario per andare verso la biblioteca avendo finalmente entrambe le mani libere. Entrò di soppiatto, controllando che non ci fosse nessuno, mentre si puliva la mano sui vestiti. Arrivato allo scaffale che gli interessava, prese uno sgabello, ci salì e afferrò un libro sui ripiani più alti avendo cura di toccarlo solo con la sinistra, ma fece appena in tempo a tirarlo via dal ripiano che sentì delle voci.
«Nâ glin bein» dicevano. «Non gelir e linnar». Era Lindir.
Aragorn saltò subito giù dallo sgabello e si accucciò a terra: non avrebbe dovuto esserci nessuno a quell'ora! Era sicuramente già pronta la tavola per gli ospiti arrivati il giorno prima e gli Elfi avrebbero dovuto essere a mangiare con loro o almeno a tener loro compagnia. Arricciò il naso e trattenne uno sbuffo scocciato. Il numero di libri che riempiva fittamente gli scaffali lo nascondeva all'ingresso, ma non gli permetteva nemmeno di vedere quanti fossero i disertori del pranzo, così chiuse gli occhi. Nel buio dietro le palpebre, la sua attenzione si concentrò sull’udito, ed in pochi secondi ogni più piccolo rumore venne chiaramente percepito dalla sua mente. Escluse così ogni cosa che non fossero le voci dei guastafeste nella biblioteca: frusciare di alberi, rombo di cascata, gorgogliare di ruscello, scricchiolio di legno, ronzio d’insetti, cinguettio, cigolare di porta; ed infine le voci degli Elfi divennero chiare. Erano in tre, più Lindir, ed erano ancora vicini all’ingresso.
Riaprì gli occhi, controllò di non aver lasciato tracce rosse in giro e si tolse le scarpe: non aveva tempo di legarle tra loro con il laccio rimasto e appendersele al collo, quindi le nascose mettendole al posto del libro che aveva tolto, di modo che gli altri volumi non pendessero di lato, nella speranza che nessuno notasse la mancanza. Rimanendo chinato, nonostante non fosse cresciuto ancora tantissimo, si diresse alla finestra sul lato opposto della sala rispetto agli Elfi, ci si arrampicò con i gomiti e la scavalcò evitando di appoggiare la mano sporca da qualsiasi parte. Una volta fuori rimase sotto il davanzale aspettando di sentire l'esclamazione di qualcuno che l'avesse visto fuggire, ma non accadde. In punta di piedi raggiunse la fine del camminamento laterale alla biblioteca, scese gli scalini e infine si mise a correre tenendo il libro sotto il braccio, saldo tra le dita pulite: gli Elfi non l'avevano sentito! Ce l'aveva fatta!
La sua meta era Bar-en-Neledhlas, la Casa del Trifoglio, chiamata così perché la forma dell’edificio ricordava quella pianta. Era uno degli ambienti più importanti della casa di Elrond, anche se era conosciuto a pochi: le abilità curative dell’Elfo erano frutto di capacità elfiche, ma anche di una profonda conoscenza delle erbe e dei loro utilizzi e quello era il luogo dove le piante usate per scopi medici venivano raccolte e trattate. Un’unica scala tortuosa tra le rocce portava all’ingresso: il pavimento era in marmo opaco bianco e aveva intarsi in pietra verde lucente a disegnare un rigoglioso fogliame, le sottili colonne chiare erano intagliate a ricordare le figure di alberi, diversi l’uno dall’altro. Tutto intorno c'erano solo rocce, che nascondevano il posto a molti degli altri ambienti della Casa, e pochi alberi sempreverdi che faticosamente sputavano dalla fredda pietra.
Ognuna delle tre sale circolari aveva uno stile e un uso differente. La prima aveva una cupola in vetro opaco e dal soffitto pendevano vasi di pianticelle dalle diverse forme e sfumature, alle pareti stavano altre piante ancora, posate su mobili di ferro battuto intrecciato e colorato di bianco a forma di scalinata: ogni gradino era occupato da numerosi vasi profumati. Lì erano conservate tutte le piante medicamentose che venivano curate appositamente in un luogo diverso dalla grande serra di Imladris.
La seconda sala conteneva un focolare di pietra al centro e una lunga catena pendeva dal soffitto a sorreggere un largo cerchio in ferro: lì erano appesi numerosi ganci tramite i quali poter mettere sul fuoco altrettanti pentolini, calderoni e paioli per preparare infusi e decotti. Lungo le pareti c'erano dispense con tutti gli utensili per la cottura, piatti, pestelli, ciotole, coltelli, cucchiai e gli strumenti per la coltura delle piante e la cura del fuoco, oltre ad una catasta di legna sempre pronta all'uso.
La terza stanza era quella che dava verso il resto di Imladris: più che una veduta della casa però, da lì era possibile ammirare la gola da un’altezza superiore, intuendo nell’insieme la sua forma, come una grossa spaccatura tra le rocce. C'erano due letti dalle lenzuola fresche e cuscini morbidi, alcune seggiole e un mobile che conteneva la biancheria e tutto il necessario per la prima cura di una ferita: bende, garze, ago, filo e altro. Un piccolo e tenace pino di montagna vi cresceva di fianco e grazie ad esso si percepiva sempre odore di resina in quella camera.
Aragorn arrivò con il fiato corto nella quarta stanza, che era quella a cui portava la scala d'accesso. Nessuna delle altre tre aveva porte, ma davano tutte su quella parte centrale, spoglia come fosse solo un luogo di passaggio, ma che nascondeva un segreto prezioso. Il bambino aprì dei cassetti e prese delle garze e un panno con la mano pulita, quindi si avviò al tavolo della sala centrale. Era sorretto da massicce gambe di pietra intagliata in maniera del tutto differente dal resto dell'ambiente: infatti sapeva che quel supporto era stato un dono dei Nani, ricevuto moltissimi anni fa, e mostrava quindi la foggia tipica dei loro lavori: squadrata, precisa, solida e massiccia. La struttura celava il fatto che il pavimento sotto il tavolo fosse del tutto mancante.
Il ragazzo posò le garze poi prese il panno e si stese in terra allungando la mano nello spazio vuoto e scuro. Lui era ancora piccolo e doveva far passare tutto il braccio oltre il bordo, ma la pozza non si trovava poi molto sotto il livello del pavimento. L'acqua arrivava da uno dei picchi più alti della gola, il suo percorso doveva essere tutto sotterraneo perché anche se la fonte della pozza gocciolava, invece di zampillare, essa non si esauriva mai, nemmeno nel cuore dell'inverno quando ogni altra cosa ghiacciava: le dure rocce di montagna la proteggevano ed essa scorreva purissima tra le loro crepe. Scendendo verso il basso, arrivava a quella pozza che era l'unico punto di raccolta scoperto, e sotto di esso altre rocce lasciavano filtrare il liquido goccia per goccia; quindi a meno che non si sapesse già dell'esistenza della fonte, non c'erano ruscelli o cascate a rivelarne l’esistenza e il tavolo massiccio la copriva.
Aragorn rabbrividì al contatto, lasciò che il panno si bagnasse e ritrasse il braccio: il liquido era talmente gelato che faceva quasi male quando bagnava la pelle sana, ma se lo si usava per le ferite allora era miracoloso. Quando il bambino posò la stoffa imbevuta sulla fronte, gli diede sollievo immediato dal bruciore e dal dolore. In quel momento sentì i suoi pensieri schiarirsi del tutto, come un cielo le cui nuvole vengano spazzate via improvvisamente. A quel punto, si rese conto che nonostante quel piccolo inconveniente della ferita, era andato tutto bene e aveva risolto entrambi i suoi problemi: era arrivato lì senza essere visto -si sarebbe preparato un impacco e la ferita sarebbe guarita lasciando poche tracce che avrebbe nascosto arruffando i capelli nei giorni seguenti- e si sarebbe dedicato al suo progetto pomeridiano, ossia la lettura del libro. Certo, sarebbe stato su uno di quei letti invece che in camera propria, ma anche lì non lo avrebbero facilmente disturbato e vi si sarebbe potuto dedicare in santa pace.
«Estel» si sentì improvvisamente richiamare. Il bambino rimase seduto immobile sul pavimento e trattenne il fiato. Fortunatamente si trovava dalla parte opposta del tavolo rispetto alle scale, ma le garze e il volume che vi aveva posato sopra lo avrebbero comunque tradito. «Iston nâch si» alla frase seguì un sospiro. «E' successo qualcosa? Non dirò niente a nessuno, quindi lascia che ti dia una mano»
«Non è grave» rispose mettendosi in piedi e guardando vero l'entrata. Arwen indossava un vestito estivo di seta color porpora, cucito all'altezza dello sterno a del lino rosa pesca con piccoli ricami di gardenie gialle e oro. Quella seconda stoffa dal colore più chiaro le copriva spalle e braccia, dandole più luminosità al viso.
Aragorn afferrò il bordo del tavolo con le dita e la fissò pensieroso. Sì, lei poteva sapere di quella ferita. Lei non aveva mai riso.
A quel punto la fanciulla alzò un braccio, sventolando gli scarponcini del bambino. «Guarda cosa ha trovato Glorfindel in biblioteca» ridacchiò divertita
«Pensavo fossero ben nascosti» spiegò sgranando gli occhi
«Per te, forse. Non hai pensato che l’altezza che tu raggiungi con uno sgabello, per lui è dritta davanti a sè». Estel seguì i suoi movimenti con gli occhi, rimanendo dietro al tavolo, senza dire nulla. Lei lasciò le scarpe vicine all'arcata d'ingresso e gli si avvicinò. «Posso dare un'occhiata?» chiese accennando con lo sguardo al taglio sulla fronte.
Il bambino continuò a fissarla, mordicchiandosi le nocche delle dita. Vedendo il risultato della sua sbadataggine lo avrebbe consolato oppure lo avrebbe sgridato? Alla fine annuì: tanto Arwen non si arrabbiava mai. A quel cenno, la fanciulla fece il giro del tavolo, lo prese in braccio e lo sollevò per metterlo a sedere sul bordo, di modo da potergli guardare bene la ferita. «Sai quanto era preoccupato?» gli chiese
«Per il libro?» domandò Estel alzando la testa per mostrarle la ferita
«Ma cosa dici, sciocchino? Per te» gli rispose schiacciandogli il naso con l'indice. «Ti era colato del sangue sulle scarpe e ha pensato... ah, avevi ragione, non è grave»
«Visto? Posso occuparmene da solo. Mi passi dell'athelas?» chiese il bambino indicando la sala dei vasi
«Impari in fretta, vero?» sorrise lei, quindi si girò e prese gli strumenti per recidere qualche foglia della pianta. «Mio Padre dice che ogni tanto l'hai aiutato, ma non pensavo sapessi anche i nomi delle piante»
«Non me l'ha insegnato lui, l'ho letto in un libro» spiegò arrossendo: i complimenti di Arwen erano sempre ben accetti come quelli di Elrond, però i suoi lo imbarazzavano. «E' un'erba con moltissime proprietà anche se ha un aspetto molto comune. Può curare ferite semplici, ma è anche un portento in casi seriamente gravi» le disse, ricordando le parole del libro
«Io ti cerco disperato per tutta Imladris e tu sei qui a fare lezioni di botanica?» chiese Glorfindel arrivando in quel momento in cima alle scale.
Estel però dava le spalle all’entrata e per un attimo ebbe di nuovo paura che un Elfo qualsiasi lo avesse scoperto proprio quando pensava di aver scampato il pericolo. Oltre al danno la beffa! Pensò che sarebbe stato preso in giro -di nuovo- ma quando si fu girato ed ebbe visto il biondo, tirò un sospiro di sollievo e si rilassò visibilmente: nemmeno Glorfindel aveva mai riso di lui.
«Scusami per lo spavento» fece il bambino chinando il capo e mettendo una mano sul libro. «Ho fatto attenzione a non sporcarlo però»
«Bene, non è grave» rispose l'Elfo incrociando le braccia con un gran sorriso sul viso
«Come fai a dirlo? Non hai nemmeno visto il taglio» ribatté Arwen allungando infine le foglie ad Estel
«Se la sua prima preoccupazione è lasciare intatto un libro, direi che sta benissimo» spiegò quello, facendo spallucce. «Ah, athelas?» domandò respirando a pieni polmoni il profumo leggero e rilassante che rilasciò la pianta quando il bambino la stropicciò tra le dita.
«Volevo curarmi e leggere qui nel frattempo: sono d'accordo con uno dei Nani nostri ospiti che mi farà da avversario per l'allenamento del tramonto, quindi volevo sbrigarmi» spiegò mettendo le foglie in bocca e cominciando a masticarle
«Cosa volevi leggere tanto da rischiare di venire scoperto?» domandò Arwen incuriosita
«"Quenta Tuoro ar Atalante Ondolindeo"» rispose Glorfindel, sapeva quale fosse il volume rimpiazzato dalle scarpe anche senza averlo guardato. «Di nuovo» aggiunse
«Mi piace» si scusò Estel raccogliendo tra le dita la pianta masticata
«Mettile nella garza, ci penso io a farle aderire alla ferita: tu nemmeno la vedi» spiegò la fanciulla coprendo la mano con il tessuto pulito. «Perché non ti fai raccontare la storia da Glorfindel? La sa meglio di tutti: lui c'era!» gli chiese, mentre il bambino faceva come gli era stato detto. «Hai tempo?»
«Dipende da quale storia vuole sentire» rispose l'Elfo chinando il capo in segno di assenso.
Il viso del piccolo seduto sul tavolo improvvisamente si illuminò di un'idea nuova. «C’è un secondo volume, ma quel tomo è ancora troppo pesante per me: prenderlo da uno scaffale così alto è impossibile, così so solo fino a quando Tuor e Idril hanno un figlio» spiegò Estel alzando la testa quando Arwen gli mise un dito sotto il mento per alzargli il capo e vedere bene la ferita. «Se c'eri, puoi raccontarmelo e non hai bisogno del libro».
Il principe Elfico non rispose immediatamente. Raccolse in silenzio le scarpe lasciate vicine all'ingresso e le portò sul tavolo per rimettere il laccio che era stato tolto. «Quella è una storia lunga, Estel» disse prendendo il panno ancora umido e passandolo sugli scarponcini per togliere le macchie di sangue. «Non hai pensato che se non riesci a sollevare quel libro è anche perché potrebbe non essere una lettura adatta a te? Non ancora, per lo meno».
Estel aspettò che Arwen finisse di medicarlo, intanto si concesse un’attenta riflessione su quelle parole. Conosceva molte storie sul figlio dell’Uomo e della fanciulla, principessa di Gondolin, ma di loro due in quelle storie quasi non si accennava. Che fine avevano fatto? E nessuna era ambientata in quella città. Il titolo gli permetteva di presumere cosa fosse accaduto, ma come? Senza il secondo volume non avrebbe saputo quale fosse la verità. Inoltre, chiunque avesse raccontato storie collegate, sembrava aver evitato appositamente qualsiasi accenno che lo incuriosisse ulteriormente su quella lettura. Era voluto?
«Tu sai quando potrò leggerlo?» chiese a medicazione completata
«Lo saprai prima di me penso» gli rispose Glorfindel sorridendo. «Dovrai solo provare e ci riuscirai»
«Va bene» annuì accettando quel rifiuto. «Allora intanto, mi spiace, ma puoi tenerti le mie scarpe: io leggerò quello che posso» spiegò arricciando il labbro inferiore e saltando giù dal tavolo. Si avviò alla terza stanza, ma prima di salire su uno dei letti puliti si girò. «Leggi con me?» chiese spostando gli occhi grigi in quelli di Arwen
«Vuoi che stia con te?» gli chiese lei con un sorriso quasi divertito
«Sì, voglio leggere con te la storia di Tuor e Idril» annuì arrossendo. Nonostante tutto era andato meglio di quanto previsto!

Le stagioni si succedevano e Aragorn cresceva a vista d’occhio. Ma solo a lui sembrava che essere bambini stesse durando troppo. Per tutti quegli anni aveva osservato gli Elfi della Casa di Elrond partire un mese e tornare un altro: Elladan, Elrohir, Glorfindel e tanti altri; mentre lui continuava ad essere un bambino e ad essere lasciato indietro. Al massimo gli era stato concesso di stare via per quattro giorni e tre notti con i gemelli, ma erano sempre rimasti all’interno della gola; così guardava quei valorosi guerrieri partire e si chiedeva quando sarebbe arrivato il suo momento oppure si chiedeva perché non crescesse più velocemente. Un giorno di Marzo si era allontanato da tutti e si era portato una mantella, deciso a stare via anche se si fosse messo a piovere, com’era infatti successo. Si era sistemato sotto un grosso tiglio; l’albero cresceva sulla cima di una salita oltre la quale la discesa era una parete di roccia alta circa 3 metri. Sotto passava l’unico sentiero che serpeggiava sulla parete della gola di Imladris e che portava all’ingresso della casa. Già altre volte aveva fissato le partenze da lassù, perché si trovava più in alto di un adulto a cavallo di almeno un metro e se rimaneva fermo e silenzioso, nessuno si accorgeva della sua presenza e del suo malinconico sbirciare; inoltre era fuori dalla Casa, quindi difficilmente qualcuno lo disturbava. Quel giorno partiva una grossa compagnia di Elfi, diretti ai Porti Grigi. Avrebbero lasciato Imladris poco prima del tramonto, ma per Aragorn quello era un giorno orribile, quindi si era messo sotto il tiglio dopo aver fatto la colazione e non intendeva tornare indietro fino a sera.
Fermo sotto la pioggerellina della mattina, aveva finito con il prendere sonno e passare il tempo con la testa ciondolante sul petto, poi il tepore del sole alla fine del brutto tempo gli aveva conciliato ancora di più il sonno e si era definitivamente addormentato. Si svegliò a metà pomeriggio, quando la sua mente capì di aver sentito un rumore di zoccoli avvicinarsi e poi fermarsi poco distanti da lui. La luce dietro le palpebre gli diceva che non era il tramonto, quindi non poteva essere la compagnia che aspettava e quando emerse dal sonno non seppe dire con quanto ritardo avesse preso coscienza dei rumori rispetto a quando questi fossero realmente avvenuti. Si piegò in avanti per guardare in basso, sul sentiero, dopo che il sonno lo aveva sbilanciato all’indietro contro il tronco del tiglio. Una figura dagli abiti dismessi e grigi lo fissava tenendo lo sguardo alzato verso di lui. Era troppo in alto per rientrare nel campo visivo di qualcuno a cavallo, e fino a poco prima Aragorn stava dormendo, immobile, quindi come aveva fatto lo sconosciuto ad accorgersi della sua presenza?
«Benvenuto» gli disse senza riuscire a trovare parole migliori per via dello stupore
«Oh sì, lo sono sempre» rispose subito quello, quindi diede un colpo con i talloni al cavallo e continuò per la sua strada. Aragorn si stropicciò gli occhi sbadigliando e fissò lo sconosciuto allontanarsi: doveva essere uno degli ospiti strani di Elrond.
Si alzò in piedi per sgranchire le gambe e diete una scrollata alla mantella per togliere la pioggia, ma se la rimise subito sulle spalle: la primavera non era ancora arrivata a giudicare dal fresco che sentiva nonostante il sole. Fatto questo alzò le braccia verso l’alto e respirò profondamente per allungare bene il corpo prima di rimettersi seduto: avrebbe aspettato, come aveva già deciso, perché non aveva voglia di allenarsi, né di leggere, anzi, in realtà non voleva rischiare di avere a che fare con nessuno quel giorno. Era proprio di pessimo umore.
Le ore passarono, il gruppo di Elfi che partiva quel giorno lasciò Imladris poco prima del tramonto e lui li guardò sfilare sotto di sé, rimanendo il silenzio. Avevano pochi fagotti e delle lanterne accese dal fuoco della Casa che avrebbero portato con sé fino ai Porti Grigi. Li osservò con tristezza, sapendo che stavano partendo per non tornare, al contrario degli esploratori che aveva spiato altre volte. Desiderava tanto andare via con loro, avrebbe significato essere diventato grande! Guardando però quella compagnia silenziosa, si rese conto che non riusciva a pensare di non rivedere più sua madre, Elrond e Arwen: se lasciava da parte i sogni di gloria e di viaggi in luoghi sconosciuti, gli rimaneva solo il pensiero di ciò che invece si lasciava alle spalle; e l’idea della separazione gli faceva bruciare gli occhi.
Si sfregò le palpebre con il dorso della mano e cercò freneticamente qualche altro pensiero a cui dedicarsi, perché il corso che stavano prendendo le sue emozioni non gli piaceva: lo faceva reagire proprio come un bambino!
«Sei ancora qui?» domandò una voce. Il sole era scomparso dietro le montagne e il cielo dietro i picchi sembrava riflettere la luce di un incendio. Aragorn si girò percependo come chiunque stesse parlando non fosse sul sentiero, ma sulla salita erbosa che portava all’altura del tiglio. Riconobbe la sagoma nel buio della salita: aveva lo stesso incedere di una di quelle personalità misteriose che passavano da Imladris e di cui lui non sapeva niente perché queste parlavano e incontravano solo Elrond e pochi altri, ma appena arrivò sull’altura e venne illuminato dalle ultime luci del tramonto, Aragorn capì che era stesso individuo salutato quel pomeriggio. In quel momento le due immagini si fusero in una sola e lui ebbe un’idea complessiva di quella persona che fino al giorno prima era stata solo un’ombra nello studio del padrone di Imladris.
«Sai che ti stanno cercando?» domandò questi raggiungendo infine le radici dell’albero.
Era la prima volta che vedeva chiaramente le fattezze di quel visitatore misterioso. Era un vecchio dalla barba grigia, stesso colore degli abiti logori e del mantello, si appoggiava ad un bastone nodoso, ma nonostante l’aria anziana e la schiena un po’ curva, non sembrava aver realmente bisogno di un sostegno per camminare: non aveva nemmeno il fiatone dopo quella salita.
«Non importa, tanto non vado da nessuna parte. Lo sanno bene» rispose chinando il capo in un cenno di saluto.
Il vecchio sospirò profondamente, quindi fece schioccare la lingua contro il palato. «Senti, ti spiace se siedo un po’ qui con te? Ho voglia di fumare, ma gli Elfi non sono una gran compagnia in questo genere di attività».
Aragorn si limitò a farsi da parte, come cenno per far capire che poteva accomodarsi. Si strinse sotto il mantello, sentendo il fresco della sera cominciare a farsi più pungente, e osservò i movimenti del vecchio che si sistemava tra le radici al suo fianco. Fissò le mani rugose che aprivano dei pacchettini e preparavano una lunga pipa in legno intagliato e decorato molto semplicemente, e non poté trattenere un’esclamazione di stupore quando gli sembrò di vedere una fiammellina comparire dal nulla dalle dita dello sconosciuto. L’erba secca messa dentro l’oggetto si accese, mentre questi ridacchiò e se lo portò alle labbra.
«Non hai mai visto una pipa, ragazzo?» chiese questi
«Sì, ma nessuno fa come avete fatto voi» rispose con gli occhi spalancati
«Non ce ne sono tanti come me e non passano dalla casa di Elrond, forse è per questo» continuò a ridacchiare sommessamente, poi inspirò profondamente e cominciò a rilasciare il fumo nell’aria, sotto forma di piccoli cerchi bianchi. «Mi hanno detto che è il tuo compleanno oggi, di solito i bambini non festeggiano in maniera più allegra?»
«Oh sì, ma tanto potrò festeggiare come un bambino anche l’anno prossimo» rispose con una punta d’amarezza nella voce. Si strinse nelle spalle e tornò a guardare le montagne in lontananza. Lo sconosciuto aveva toccato il tasto dolente di quella giornata, il motivo per cui era arrabbiato e per cui non voleva incontrare nessuno: era il suo compleanno.
«Non sei contento di fare gli anni?» chiese il vecchio prendendo un’altra boccata dalla pipa
«A cosa serve festeggiare se non cambierà nulla? Oggi ho otto anni, ma tutto sarà uguale a ieri, quando ne avevo sette» spiegò arricciando il labbro, con rabbia e disappunto.
«Non ti piace essere piccolo, eh?» osservò l’anziano
«Per niente» rispose Aragorn, lapidario.
La verità era che quel nervosismo era dovuto ad un malinteso che durava da molti anni: gli Elfi ridevano, o sorridevano di lui, ma quello che lui pensava fosse il motivo era ben diverso da quello reale.
In generale, avvertiva che ci fosse una differenza tra Elfi e Uomini, ma rifletterci attentamente non rientrava nelle sue priorità e quindi fin dal primo momento non gli era sembrato sbagliato o strano provare qualcosa per Arwen. Quando si era reso conto che gli abitanti di Imladris trovavano buffo che lui fosse innamorato, pensò quindi che fosse perché era solo un bambino. Alcuni si erano limitati a sorridere divertiti, mentre qualche giovane fanciulla aveva ridacchiato con maggiore evidenza e questo lo aveva demoralizzato: perché dovevano farlo sentire ancora più in imbarazzo, quando un qualsiasi gesto carino verso di lei gli costava già moltissimo? Magari passava i giorni a domandarsi se raccogliere quei fiori, se portarle qualcosa in regalo dalla sua spedizione successiva, se intagliare e regalarle un oggetto o anche se era il caso di dirle questo o quel complimento. Quando si convinceva spendeva le notti a pianificare come fare e cosa fare esattamente, ed infine gli toccava fare degli enormi sforzi per tirare fuori tutto il coraggio possibile per completare ognuna di queste sue piccole missioni. Quelle risate lo avvilivano perché sembravano sminuire i suoi gesti: era consapevole di essere ancora un bambino, ma non vedeva perché quello che provava avrebbe dovuto valere di meno solo per quello.
La verità però era ben diversa. Agli Elfi era stato subito chiaro quello che Estel provava, e non perché lo avesse manifestato in modo particolarmente sfacciato. Semplicemente, non dandosi pena della reale differenza tra sé ed Arwen -l’essere Uomo ed Elfo- Aragorn non aveva mai pensato di dover fare attenzione al proprio comportamento: spesso il bambino le aveva portato qualche regalo –un fiore, delle coroncine di erbe profumate intrecciate, degli oggettini semplici di legno intagliato grossolanamente- e non si era curato di consegnarglieli in privato. Il suo atteggiamento era privo di malizia e nello stesso modo adorante con cui aveva cercato Elrond in quegli anni, ora cercava anche sua figlia. Proprio per quella specie di purezza, gli Elfi di Imladris erano rimasti estasiati da quella situazione: il piccolo Estel con una cotta per la bella immortale Arwen Undómiel era una delle cose più tenere che avessero mai visto! Siccome nessuno lo prendeva sul serio, si divertivano a prenderlo bonariamente in giro, giusto per vederlo arrossire, arrabbiarsi e mettere il broncio.
Così era nato il malinteso: loro prendevano con leggerezza la situazione, consapevoli della differenza abissale che rendeva impossibile quell’unione, mentre Aragorn era serio, pur con la serietà di un bambino, e pensava che il problema fosse solo l’età. E lo sarebbe stato ad otto anni come a sette.
«Ci sono tanti bambini come te, lo sai? Anche a loro non piace essere piccoli, vogliono crescere in fretta» disse lo sconosciuto quando l’erba ebbe finito di bruciare nella pipa. «Quando diventano ragazzi hanno fretta di essere adulti, senza credere possibile che gli adulti vorrebbero tornare ragazzi e rimpiangano l’età dell’infanzia. Ma è così: il piccolo vuole essere grande e il grande vuole tornare piccolo. Poi diventi vecchio e ti rendi conto dell’assurdità di tutto questo» scosse leggermente il capo. «Essere bambini ha anche i suoi vantaggi, vero?» chiese, ed Aragorn annuì. «Ma si pensa solo agli svantaggi. Lo stesso è per gli adulti: una volta diventati tali, si possono fare molte cose che prima non si potevano fare e altre che dopo non saranno possibili, ma si passa il tempo a pensare a quanto sarebbe bello tornare indietro. Solo una volta vecchi si capisce quanto siano vane tutte queste speranze e di come esse abbiano portato solo a non godere di nulla di ciò che in quel momento si poteva avere e che ormai non tornerà» sospirò e mise via la pipa lentamente.
Ormai si era fatto buio e si vedeva poco nell’oscurità, così Aragorn percepì più forte del normale il profumo del tabacco appena bruciato e di quello ancora fresco nella sacchetta alla cintura dello sconosciuto. Il vento gelido invernale si infilò tra le pieghe del mantello e lo fece rabbrividire. Avrebbe voluto un abbraccio e realizzò che gli sarebbe bastato chiedere per averlo, ma un giorno non sarebbe più stato così. Ripensò all’idea triste di partire e abbandonare delle persone care e capì la verità di quelle parole: il bambino che voleva crescere, vedeva il bello dell’avventura e la speranza di essere adulto per poter essere considerato di più da Arwen e dagli altri Elfi, ma rischiava di perdersi tutto quello che invece Arwen poteva dargli in quel momento, proprio perché era piccolo.
«Cercherò di vivere di più come un bambino» riuscì solo a dire abbassando lo sguardo. «Mi chiamo Estel»
«Io sono Gandalf il Grigio, un amico di Elrond. Ci siamo visti ogni tanto in questi anni, ma non siamo mai stati presentati, Estel» il vecchio sorrise nell’oscurità
«So chi siete: uno stregone!» esclamò all’improvviso. Conosceva quel nome, anche se fino a poco prima non sapeva che fosse quell’uomo a portarlo.
«Bene, la mia fama mi precede. È sempre una soddisfazione» ridacchiò sommessamente
«Se domani facessi una festa» disse il piccolo lasciando in sospeso la frase, con un'inflessione di speranza e supplica nella voce
«Sarei ben felice di esserci» rispose Gandalf con voce morbida.

L’autunno dei nove anni di Aragorn si preannunciava più freddo di altri. Un giorno venne annunciato che i gemelli sarebbero partiti per un periodo molto lungo: più di un anno. Da quando Aragorn era arrivato ad Imladris non erano mai stati via per così tanto tempo e la tristezza del bambino sembrava un abisso profondo e sconfinato. Non riusciva a darsi pace all’idea di non vedere Elladan ad Elrohir per quasi sedici mesi. Il giorno stabilito per la partenza il bambino era andato alle stalle per salutarli, ma lo aveva fatto con il cuore pesante: non gli sembrava che ci potesse essere nulla che lo consolasse da quella separazione.
«Prendete la via sud, è più sicura» diceva Elrond, mentre i figli sistemavano gli ultimi bagagli sulle cavalcature all’interno delle stalle di Imladris. Estel era fermo sulla soglia delle stalle, con Arwen che lo teneva per mano. «Non arrivano molte notizie dal nord delle Montagne, meglio starne lontani» continuava a raccomandare il padre
«Forse dovremmo passarci proprio per questo» propose Elrohir. «E’ ora di sapere qualcosa».
Gli Elfi erano difficili da decifrare, ma erano tanti anni che viveva con loro: Elrond, Elladan ed Elrohir lo avevano visto crescere, ma anche lui li aveva osservati. Grazie a quello gli era meno difficile leggere le loro espressioni, così gli fu subito chiaro che quella partenza non era uguale alle altre. C’era apprensione nei loro occhi, molti pensieri dovevano aver portato a quella decisione, eppure non li vedeva tristi. Qualcosa si stava muovendo, ma cosa?
«No» si oppose il padre. «Non servirebbe. Sarete di ritorno tra due primavere, non ha senso. Ma anche se doveste tornare prima, non sarebbero comunque notizie fresche. Inutile rischiare»
«Ma...» fece per ribattere l’altro ed Elladan gli mise una mano sulla spalla, stringendogliela leggermente.
«Ci mancherai Estel» disse questi per cambiare discorso, tirando le redini del cavallo ed avviandosi verso l’uscita dove stava il bambino. «Prometti di continuare ad allenarti? Magari quando torneremo, infine, ripartiremo con te al nostro fianco»
«Lo farò. Quando ci rivedremo sarò tanto cresciuto e tanto bravo che non mi riconoscerete più» annuì lui stringendo tra loro le labbra per trattenere le lacrime. Sapeva che quel viaggio li avrebbe portati a nord a cercare quel che rimaneva di quelli come lui: i Raminghi come suo padre. Non sapeva bene perché lo facessero, né sentiva particolare affetto per quelle persone, se ancora esistevano; non aveva ricordo di loro e per lui Elladan ed Elrohir avevano più importanza di qualsiasi altro popolo della Terra di Mezzo perché erano i suoi fratelli maggiori ed i suoi insegnanti, parte della sua famiglia, l’unica che ricordasse di aver avuto.
«Ci conto, sai?» ridacchiò Elladan scompigliandogli i capelli castani
«Arwen, accompagna Estel in biblioteca, oggi starò con lui» spiegò Elrond con voce affettuosa. «Ma non prima di aver salutato i miei figli come si deve: io e Gilraen li scorteremo al ponte» aggiunse guardando verso la donna rimasta in disparte. Estel guardò la fanciulla con lui annuire e salutare i fratelli dando a ciascuno un bacio sulla guancia, augurando loro buona fortuna, quindi, anche se con reticenza, la seguì e si allontanarono insieme.
«Avviamoci per non destare sospetti, ma non troppo in fretta: ci sono alcune cose da dirci prima della partenza che è bene che nessun altro ascolti» consigliò Elrond accennando al sentiero.
Quando il figlio scomparve dietro un angolo, Gilraen si mise al fianco del Signore di Imladris, raddrizzando la schiena e guardando i due Elfi pronti a partire. Generalmente era una donna dall’aria pacifica e molto semplice, mantenendosi fedele al copione di segretezza scelto anni prima, ma in quel momento erano presenti le uniche persone che sapessero dell’esistenza dell’ultimo Erede di Isildur e inconsciamente rivelava la sua vera natura e la forza di spirito che possedeva: la limpidezza del suo sguardo era quella della madre di un Re, di una discendente degli antichi abitanti di Numenor.
«State partendo con una missione ben precisa, per quello vi ho detto di non passare a Nord: i passi delle Montagne Nebbiose possono aspettare» spiegò l’Elfo avviandosi
«Prima di tutto, trovate la mia gente» sussurrò Gilraen. Il gruppo uscì dalle stalle e imboccò il sentiero di terra ed erba che portava al piazzale in pietra dell’ingresso, in mezzo a giovani querce colorate d’autunno. «Sono almeno due anni che non abbiamo notizie da parte di nessun Ramingo»
«Ed è arrivato il momento di cominciare a tastare il terreno, capire quanti guerrieri sono rimasti e cosa si sa dell’Erede: se c’è speranza, se sono convinti veramente che sia morto e cosa succederebbe se tornasse. Non è forse vero, padre?» domandò Elrohir. «Pensi che il momento per Aragorn di uscire da Imladris si stia avvicinando?»
«Estel» lo corresse Gilraen. «Sarà Estel ad uscire da questa casa, così come spero che sia ancora Estel a tornare»
«Non gli direte nulla?» chiesero i gemelli, stupiti. Il suono dei ruscelletti e delle cascatelle vicine al sentiero si era fatto più lieve: lì poteva essere cominciato da poco l’autunno, ma sui picchi delle Montagne Nebbiose l’inverno congelava ogni cosa man mano che il tempo passava. La partenza dei gemelli avveniva prima che i passaggi venissero chiusi del tutto dalla neve frettolosa di quell’anno.
«Una cosa alla volta» fece Elrond, allargando le braccia. «Prima di tutto parliamo di questo “tastare il terreno”. Sì, fatelo, ma con prudenza. Indagate quanta forza sia rimasta nei Raminghi, come siano organizzati ora, cosa stiano facendo e state con loro in questi mesi, dandogli tutto l’aiuto possibile. Dategli speranza, se non ne hanno, ma non fate mai ipotesi sull’Erede di Númenor: dovranno continuare a pensare che non vi sia più nessuno di quella stirpe ancora per lungo tempo» spiegò mentre la strada piegava in una discesa, sotto un arco di pietra. «E qui arriviamo alla vostra seconda domanda: no, non gli diremo nulla, o almeno non ancora. Ne abbiamo discusso a lungo in questi ultimi mesi» spiegò accennando con il capo alla donna con loro. «E abbiamo concluso che non è nostra intenzione dirgli la verità finché non sarà maturo abbastanza per accettarla. Non mentiremo per sempre all’Erede sulla sua vera natura, non è in nostro potere e non penso che il suo sia un destino di ignoranza, ma la nostra intenzione è di metterlo al corrente di ogni cosa solo quando sarà pronto e degno di portare il nome che gli è stato dato alla nascita» concluse quando gli zoccoli dei due cavalli cominciarono a fare rumore contro la roccia del piazzale
«Lo farete ancora vivere come un bambino qualsiasi nonostante sia un Re?» domandò Elladan infastidito
«Non è un Re» lo interruppe Elrohir. «Non ancora. E comunque potrebbe non esserlo mai»
«Lo sarà invece, e noi saremo con lui quando avverrà» ribatté il fratello
«Sono felice di sapere che quando sarà grande avrà al suo fianco degli amici fedeli come voi» sorrise Gilraen. «Ma dite bene, potrebbe non diventare mai Re. E a prescindere da questo, un buon Re deve sapere essere umile e deve comprendere i suoi sudditi: se vivesse viziato, con l’idea di avere un giorno un regno da comandare a suo piacimento, allora tanto varrebbe non fargli mai sapere della sua discendenza»
«Ad ogni modo, non sta vivendo come un bambino qualsiasi» li corresse Elrond, facendo loro segno di salire in sella. «E’ stato e sarà ancora istruito dagli Elfi perché sia un Uomo saggio e sapiente in futuro, perché sappia giudicare cosa è giusto e cosa è sbagliato in base ad una propria salda morale. Nessun bambino degli Uomini ha questo privilegio».
I gemelli montarono sui cavalli che cominciarono a camminare in tondo nello spiazzo, quindi annuirono chinando il capo davanti ai giudizi del padre e della donna.
«Fate buon viaggio» salutò Gilraen
«Conto su di voi» aggiunse l’Elfo. «E attenderò il vostro ritorno» aggiunse mentre un lieve sorriso emerse dalle pieghe severe e preoccupate della sua espressione. Elladan ed Elrohir salutarono a loro volta, facendo risuonare le loro voci limpide sulle pareti di roccia vicine all’ingresso di Imladris, quindi oltrepassarono le statue dei due guerrieri e, raggiunto il solido sentiero di montagna, si avviarono al galoppo.
Elrond e Gilraen li fissarono mentre scendevano rapidi verso il fondo della gola, poi la donna si strinse nelle spalle ad un soffio del vento e l’Elfo le mise le mani sulle braccia. «Vedrai che li troveranno» sussurrò senza staccare gli occhi dai figli sempre più lontani.
La donna non disse nulla, poi, dopo un minuto di silenzio, annuì. «Saprà il suo vero nome» pronunciò infine. «Lo saprà quando quello che abbiamo usato in questi anni si sarà rivelato realtà: se potrà essere la nostra Speranza, allora non avremo più bisogno di continuare ad invocarla ogni volta che lo vediamo, perché essa avrà infine risposto».

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«E' un bel canto. Sono felice che lo cantino»
«Estel, so che sei qui»
"Il Racconto di Tuor e la Caduta di Gondolin" (Quenya)
• La Casa del Trifoglio e l'esistenza di quel libro sono una mia invenzione (la caduta è contenuta nel secondo volume, chiaramente Aragorn sa cosa succede, ma solo a grandi linee)


Finalmente posso postare! Chiedo scusa per l'immenso ritardo. La vita che sto facendo da questa parte del globo mi impegna in maniera estenuante e se voglio scrivere devo prendermi con la forza il tempo necessario.
Questo capitolo non è stato facile da scrivere, perchè in un primo momento iniziava in maniera totalmente differente (Elrond cercava di farsi avanti a gomitate) ed era previsto un salto temporale; poi però mi sono resa conto che questa cosa non mi piaceva. Ovviamente non voglio stare ferma troppi capitoli sull'infanzia di Aragorn: anche se è tenerissimo, penso siamo tutte/i ansiose/i di vederlo crescere; ma non mi piaceva lasciare un gap terrificante tra lo scorso capitolo, con l'incontro, e questo, in cui sarebbe finito con l'avere già 11 anni! Un capitolo per scandire gli anni che passano e raccontare il rapporto durante l'infanzia posso concedermelo direi.
Per chi attende Gilraen: fidatevi, qui è ricomparsa un attimo, ma nei prossimi tornerà. Non la abbandono!!

Devo assolutamente cominciare con il ringraziare tyelemmaiwe e melianar per il supporto elfico che mi hanno dato. Tutte le frasi e le parole in elfico che trovate sono frutto del loro preziosissimo lavoro, quindi se sono carinissime e suonano bene con la storia, è a loro che dovete fare i complimenti!
Ringrazio anche Venice93, Magali_1982, fiamma di anor, Kikyou e Cinthia988 (ovviamente anche tyelemmaiwe e melianar) per le gentili recensioni allo scorso capitolo: grazie per aver speso qualche minuto del vostro tempo per farmi sapere come lo avete trovato, lo apprezzo veramente moltissimo e in parte mi fa sentire che i miei sforzi per trovare tempo di scrivere non siano fini a se stessi. Grazie ancora!!

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Capitolo 6
*** Un'occasione alla Speranza ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Non era sempre vissuto ad Imladris e la sua Casa, anche se bella, a volte gli diventava stretta: le stesse rocce, gli stessi fiumiciattoli, lo stesso rombo incessante d'acqua, padiglioni, scale e stanze che conosceva perfettamente; a volte Elrond non riusciva a rimanerci, memore dei grandi spazi dei regni in cui aveva vissuto, delle lunghe cavalcate fatte anni addietro su e giù per montagne e colline, quando lui e il mondo erano più giovani. Quando accadeva, prendeva con sé una decina di Elfi, indossava l'armatura, sellava il cavallo e quasi scappava, allontanandosi quanto a lungo poteva permettersi.
Così Elrond, il Signore di Imladris, quell'autunno non rimase in casa: la Terra di Mezzo era tranquilla da qualche tempo, nessuna preoccupazione che richiedesse intervento immediato, e inoltre la stagione era una delle più belle, quindi aveva deciso di assecondare quel bisogno di fuga. Era partito quando le foglie degli alberi oltre il ponte d'accesso erano ancora verde acceso, sferzate solo da un venticello più fresco del solito, ma tornava alcuni mesi dopo, quando i rami degli alberi erano quasi tutti spogli, l'erba ingiallita era coperta da foglie marroni accartocciate e scricchiolanti. Passò tra le due statue di guerrieri elfici e chiuse gli occhi, respirando profondamente. L'odore di terra bagnata e pioggia era forte e quasi pungente.
«Mara entulda, herunya!» salutarono alcuni Elfi scendendo le scale. Il lungo e squillante suono del corno del suo seguito aveva annunciato il rientro del padrone di casa e loro erano accorsi, eppure Elrond li guardò con lo sguardo velato di tristezza: era partito con il cuore pieno di impazienza e tornava che era pieno di una stanca pesantezza, invece che di soddisfazione; ma era così ogni volta che faceva quelle fughe, perché quando usciva rivedeva l'Eriador e quella era ancora una vista penosa per lui. Probabilmente lo sarebbe stata per sempre, perché gli Elfi non dimenticano, nè lo fa la Terra: quel luogo dove un tempo viveva gente della sua stessa specie, era ora una landa desolata e silenziosa e quel silenzio nelle sue orecchie era al contrario il rumore più feroce. Il colpo inflitto dal Nemico era stato devastante, gli Elfi morti erano stati un numero terribile e gli altri sopravvissuti erano dovuti fuggire davanti alla crudeltà dell'attacco. E non erano più tornati, come la bellezza di quei luoghi.
«Siamo tornati!» esclamò in risposta, attendendo che il cavallo rallentasse la sua corsa nello spiazzo. Sollevò una mano guantata in saluto e finalmente sorrise.
«Mara entulda, Elerondo!» si sentì rispondere da una voce alta e chiara. In cima alla scalinata Glorfindel guardava verso di lui con un lieve sorriso a piegargli le labbra. Aveva i capelli sciolti, la chioma era domata sulla nuca da una fitta rete di piccole trecce che si intersecavano tra loro fino ad unirsi in una unica più grande che finiva tra le scapole, nonostante normalmente le ciocche gli arrivassero lisce fino ai fianchi.
«Mara tuvina, nildonya!» gli disse Elrond con un largo sorriso, quindi smontò agilmente da cavallo, facendo appena rumore con gli stivali di cuoio morbido contro la dura pietra del piazzale d'ingresso.
Forse Imladris aveva una volontà propria. Si stringeva addosso al suo signore per soffocarlo e spingerlo ad uscire, ma solo per poi fargli capire quanto meravigliosa e unica fosse quella casa. Gli Elfi dell’Eriador, quegli stessi Elfi, erano lì a salutarlo con un sorriso e ogni suono di quel luogo riacquistava un senso: il rombo delle cascate, il continuo gorgogliare dei rivoletti d'acqua, il cinguettio degli uccelli che numerosi facevano volentieri nido tra i rami degli alberi di quell'oasi; quella era vita, una cosa ormai rara nelle terre fuori dalla gola, e la Casa di Elrond era stata una speranza.
Ci erano voluti alcuni anni per costruire Gran Burrone e per farla diventare come ora molti viaggiatori conoscevano nella Terra di Mezzo: un'Ultima Casa Accogliente. Indubbiamente, il posto era stato trovato in un momento di pericolo, quando urgeva un luogo riparato dove ripiegare, minacciati dalle forze del Nemico, ma col tempo gli Elfi che erano rimasti lì avevano costruito seguendo l'andamento delle rocce e delle alture, rispettando il piegarsi dei rami e il cammino dei corsi d'acqua o le pozze quasi immobili che si aprivano poi nel vuoto del crepaccio. Infine gli interessi, le speranze e l'amore di Elrond per la conoscenza e lo scambio, avevano plasmato ciò che quel luogo era e rappresentava al di là dei suoi edifici di legno e pietra: uno spazio di ristoro, di studio, di sapienza. Sollevando lo sguardo sugli edifici, sui rami più alti e infine sul cielo terso del primo giorno d'inverno, Elrond ricordò perché quella era casa sua.
«Date da mangiare ai nostri compagni, ci hanno servito fedelmente» raccomandò agli Elfi porgendo le redini del proprio destriero e accarezzandogli il muso dolcemente. Gli sussurrò parole di ringraziamento, quindi aspettò che la sua compagnia fosse smontata. Mentre camminava tra loro, presi a sganciare i fagotti e le armi dalle selle, li ringraziò uno ad uno, scambiò alcune ultime parole e infine diede il permesso di andare alle proprie stanze e riposarsi dopo la lunga stagione passata fuori casa. Per ultimo salì le scale dove Glorfindel lo attendeva paziente.
«Com'è stato l'autunno?» gli domandò quando si trovava sugli ultimi gradini
«Colorato e tranquillo» rispose il biondo Elfo chinando il capo verso di lui quando lo ebbe finalmente raggiunto
«Grazie per aver tenuto Imladris per me, spero non sia stato faticoso» disse Elrond mettendogli una mano sulla spalla, segno per poteva raddrizzarsi
«Non è successo nulla, mio Signore, tanto che nessuno ricorderà mai che il padrone di casa sia stato via per un'intera stagione» spiegò l'altro accennando ad avviarsi verso i primi edifici. «Abbiamo notizie di Elladan ed Elrohir, e sono buone. É stato Mithrandir a portarcene alcune»
«Ah, il buon Mithrandir. Che affari lo portavano da queste parti?» lo interruppe, incuriosito
«Conosci lo Stregone, dice poco dei suoi affari e io certo mi guardo bene dal domandare, ma mi è sembrato di capire che avesse tra le mani una faccenda riguardante i Nani». Glorfindel lasciò il passo all'amico stanco dal lungo viaggio mentre passavano sotto le strette arcate di legno finemente scolpito, ritrovandosi così nel padiglione d'ingresso ad Imladris. Dalla sua pianta circolare partivano corridoi, ponticelli e camminamenti verso gli altri edifici della Casa.
«I Nani?» domandò Elrond corrugando la fronte. «Hai ragione, meglio non porsi domande» concordò ridendo allegramente
«Ada!».
Una voce sottile dal tono gentile e squillante di gioia raggiunse le sue orecchie. Quando Elrond guardò con attenzione nella sala, vide Arwen giungere di corsa da uno dei ponticelli che venivano da Nord. Senza dirle nulla, allargò le braccia e la strinse a sé quando finalmente lei lo ebbe raggiunto. La figlia profumava sempre del vento fresco della sera, quell'aria che soffiava via l'afa del giorno, le fatiche, le preoccupazioni e, sì, anche le gioie, lasciando spazio solo per una profonda calma. Il padre si ritrovava sempre a sospirare rilassato quando l'aveva vicina dopo tanto tempo di lontananza.
«Come stai? É andato bene il viaggio?» domandò lei dopo la prima stretta affettuosa. Si allontanò un poco per osservargli attentamente il viso. «Ti sei tagliato?» fece passandogli una mano sulla tempia
«Non è nulla di grave» le rispose prendendole le dita tra le sue. «Le terre intorno alla nostra casa sono tranquille, ci siamo solo avvicinati un po' alle montagne a Nord»
«Orchi?» domandò Glorfindel, rimasto in disparte durante l'unione tra padre e figlia
«Sì, ma ripeto: niente di grave, né la ferita, né l'attacco» insistette Elrond. Non era una bugia, ma non era nemmeno tutta la verità.
Ormai erano molti anni che Elrond non scendeva in campo a combattere, quindi i pochi momenti di scontro che aveva erano gli sporadici incontri con gli Orchi che eventualmente scendevano dalle Montagne Nebbiose per disperdersi nelle valli e sui pendii della zona intorno ad Imladris. Nei loro confronti però Elrond non combatteva più con il disprezzo che ogni Elfo provava per quelle creature: in lui si era sviluppato un odio più profondo che nello scontro gli infiammava il cuore spingendolo a combattere quasi con ferocia. Era il ricordo della moglie, di come era stata ritrovata dopo la prigionia in mano a quelle creature, e di come, anche dopo aver guarito le ferite, non si fosse mai ripresa del tutto. A scontro concluso quella frenesia fluiva via dalla sua mentre e lui si ritrovava spossato e dolorante nell'animo. Una tristezza profonda gli ricordava come, nella speranza di riavere indietro il suo amore di un tempo, avesse fatto costruire appositamente un piccolo gazebo allo scopo di donare alla sua amata la solitudine e la pace di cui tanto sembrava aver bisogno, cercando nel frattempo di ricordarle anche della famiglia che attendeva il suo vero ritorno, ritraendola nel vetro della cupola: c’erano dei figli che rivolevano la loro madre, un marito che aveva bisogno della moglie e dei genitori che temevano di non rivedere più la figlia tornare presente nello spirito e nella mente.
«Immagino che vorrai riposare, padre, ma temo sarai costretto a rimandare: c'è una cosa che penso vorrai vedere» spiegò Arwen con un sorriso divertito
«Non tenermi sulle spine allora, andiamo» Elrond sorrise a sua volta alla figlia
«Faccio controllare che la tua camera sia in ordine?» domandò Glorfindel. «Non sapevamo quando saresti tornato, né, di conseguenza, quando preparare tutto per il tuo ritorno»
«Penso ci abbiano già pensato altri ad avvertire, tu non preoccuparti: non sei certo il mio scudiero»
«No» rispose il biondo Elfo guardandolo negli occhi. Sulle labbra aveva un "ma" non espresso ed il padrone di casa lo fissò negli occhi celesti per qualche secondo, senza sbattere le palpebre.
«Allora, sì, ti prego» cedette infine Elrond. Questi sembrò soddisfatto e con un inchino a lui e ad Arwen, si allontanò.
Il Nobile Glorfindel voleva essere gentile, come chiunque avrebbe fatto se avesse saputo quali preoccupazioni si agitavano nel cuore di un amico, soprattutto se erano quelle che affliggevano Elrond ognuna delle rarissime volte in cui si allontanava da Imladris. E il biondo Elfo doveva averli indovinati quando aveva nominato gli Orchi.
Il padrone di casa seguì la figlia lungo i camminamenti e i ponticelli, ascoltandola raccontare di come la stagione aveva colorato Imladris e delle notizie dei suoi abitanti, sia bipedi che quadrupedi; questo finché non arrivarono dove Arwen desiderava. Alcune stanze per gli ospiti, attualmente vuote, si affacciavano sul prato che veniva usato per l'addestramento. Gli edifici erano di pietra e legno, lasciati del loro colore naturale per meglio mimetizzarsi con la natura, solo il pavimento del camminamento che passava davanti alle porte delle camere era un mosaico di sfumature blu e azzurre. Il punto dove si trovavano era ad un livello più alto rispetto al terreno del prato di almeno un metro e per raggiungerlo c’erano alcuni larghi gradini che scendevano a semicerchio verso l’erba. Erano ognuno di una diversa tonalità di verde acqua, così che dal colore dell’acqua dei pavimenti dell’edificio, si avesse l’impressione di scendere una scala di tonalità per raggiungere il verde naturale del prato. Peccato che essendo inverno, lo spiazzo fosse coperto solo da erba ingiallita. A pochi passi dalla fine dei gradini, Estel e Elrohir davano loro le spalle, rivolti verso il bersaglio dall'altra parte del prato.
Elrond guardò la schiena del giovane che non era suo figlio, ma che era inevitabilmente arrivato ad amare come tale. Gli sembrò cresciuto dall'ultima volta che lo aveva visto, anche di spalle. Si era di nuovo tagliato i capelli da solo, l'irregolarità della parte finale delle ciocche era evidente, e lui si lasciò sfuggire un sorriso rassegnato quando notò quel particolare. Lo osservò tendere l'arco con un movimento fluido, poi i muscoli delle braccia si irrigidirono e la testa si piegò leggermente, avvicinandosi alle piume della freccia, per prendere la mira. Lo guardò rimanere immobile con le gambe leggermente divaricate per almeno una ventina di secondi, poi il ragazzino lasciò la presa e il colpo partì.
«Duecentonovantanove!» esclamò Elladan entusiasta quando il bersaglio venne colpito al centro. Fece per avvicinarsi al bersaglio.
«Lasciala!» esclamò il ragazzino che aveva rapidamente incoccato una nuova freccia. L'Elfo fece in tempo a fermare i suoi passi e a girarsi a guardarlo con aria interrogativa che il colpo era già partito: poco calcolato, istintivo. Le due frecce erano al centro del bersaglio una vicina all'altra. «Trecento» osservò il giovane abbassando le braccia e rilassando i muscoli. «Era per voi!» esclamò quindi voltandosi e alzando lo sguardo su Elrond, rimasto sul primo scalino. C’era un sorriso raggiante sul viso del ragazzo quando i suoi occhi scuri incontrarono i suoi. Il Signore di Imladris, altruista e affabile con tutti, notò con egoistica e personale soddisfazione che il ragazzo aveva guardato lui per primo: per Estel, Elrond era ancora più importante di chiunque. Infatti lasciò l’arco e si affrettò a raggiungerlo con una breve corsa. «Bentornato a casa» lo salutò
«É stato un autunno impegnativo se questo è il suo risultato» disse l’Elfo. «Non avrai trascurato i libri per l'arco, vero Estel?» domandò, fintamente inquisitorio, mettendogli le mani sulle spalle. Impossibile che il ragazzo non avesse letto i volumi che gli aveva consigliato prima della partenza, anzi, si sarebbe meravigliato se non ne avesse letti persino di più: anche se cresceva, le storie continuavano a piacergli molto.
«Abbiamo dovuto nascondergli i libri certe volte» scherzò Elladan, venendo verso di loro con le due frecce in mano
«Ho trovato un libro bellissimo in biblioteca, dopo posso fartelo vedere?» chiese il ragazzino con gli occhi luminosi d’entusiasmo. In poco meno di mezzo anno avrebbe compiuto 11 anni e fino a quel momento lo aveva visto crescere di quasi cinque centimetri ogni anno: ormai non gli veniva più da chinarsi per parlargli e non doveva più stendere il braccio per posargli una mano sulla spalla.
«Certo che sì, i libri mi sono proprio mancati in questi mesi» rispose sorridendogli
«In questo sembra proprio figlio tuo » osservò Arwen scuotendo il capo.
Estel ed Elrond si scambiarono una lunga occhiata d’intesa, senza mai interrompere il contatto visivo: un lieve sorriso sulle loro labbra sembrava dire più di quanto avrebbero potuto esprimere a parole. Quello non era suo figlio, ma era orgoglioso di come aveva contribuito a crescere quel giovane. E allo stesso modo, quello non era suo padre, ma per Aragorn era come se lo fosse perché non c’era stato nessun altro ad occupare quel posto.
«Se invece i miei figli sono qui» disse infine Elrond facendo scivolare via le mani dalle spalle del ragazzo. «Significa che sono andati per la loro missione e sono tornati prima del dovuto. Avrete qualcosa da raccontarmi immagino»
«É così. Attendevamo il tuo ritorno, padre» annuì Elrohir
«Ma possiamo aspettare: vorrai toglierti di dosso l’armatura e metterti qualcosa di più comodo immagino» sorrise Elladan, arrivando alle spalle di Aragorn e appoggiandosi con entrambi i gomiti alla sua testa
«Giustissimo» annuì l’Elfo. «Continuate pure il vostro allenamento finché c’è luce, avremo tempo per parlare stanotte»
«E il libro?» insistette Aragorn. Quando Elrond lo guardò, notò che il ragazzo aveva parlato a lui, ma i suoi occhi stavano tornando a fissarlo, non erano rimasti a guardarlo: mentre aveva parlato con i gemelli, era stato distratto da altro.
«Ho detto “stanotte”. Noi due invece avremo tempo “stasera”» concesse con un sorriso. «Mi accompagni?» chiese allora rivolgendosi ad Arwen, che era rimasta silenziosa e tranquilla ad un passo di distanza da lui
«Più che volentieri, padre» rispose prendendolo sotto il braccio che lui le offerse
«Non dirgli niente però» sussurrò Aragorn alla fanciulla
«Ho le labbra cucite, promesso» gli rispose posando l’indice sulla bocca e facendogli l’occhiolino.
Padre e figlia si allontanarono mentre i tre che rimanevano facevano un inchino per salutarli.

L'inverno si preannunciava rigido: a meno di un mese dal suo inizio, la neve era caduta anche più in basso. Alcuni dei passi più alti per raggiungere la valle erano chiusi, il che significava che molti amici e alleati non sarebbero passati di lì per quella stagione. Imladris passò così un inverno di pace profonda, ma occhi guardavano l’orizzonte, oltre il quale si stendeva il mondo, con crescente angoscia.
Una sera, la musica si diffondeva dalla Sala del Fuoco, fino alla lunga balconata sul lato est. Gilraen era avvolta in un pesante mantello di lana color crema e una sciarpa di fine seta elfica le proteggeva il collo. Era celeste, mentre dal sottile cerchio argentato che le circondava la testa scendevano sottili catene di lunghezza diversa, ognuna terminante di una goccia di azzurro e brillante topazio. I capelli biondi erano stretti in un’unica treccia piegata sulla spalla per scenderle poi sul petto fino all’altezza dei fianchi.
«Non ti diverti stasera?» chiese una voce dal tono gentile.
Gilraen girò lo sguardo e chinò il capo, ma non voltò il corpo intero. «I menestrelli stanno dando nuovamente una prova della loro bravura. Non sono loro il problema» rispose piano, quindi tornò a guardare il lontano orizzonte buio, in cui distingueva solo lontani picchi avvolti dalla neve
«Hai ancora tempo, non angustiarti fin da subito» fece Elrond con apprensione, mettendosi al suo fianco. Al contrario di lei, non aveva bisogno di coprirsi nonostante il freddo.
«Tempo? Quanto tempo pensi che abbiamo?» domandò la donna abbassando la voce. Erano rarissime le volte in cui gli si rivolgeva a quel modo e in quegli anni, il più delle volte, era stato solo in occasione di un unico discorso. «Aragorn compirà undici anni tra pochi mesi. I tuoi figli sono tornati prima riportando notizie del mio popolo tristi e preoccupanti: sono divisi, dispersi, senza una guida, senza alcuna speranza» elencò tremando leggermente, ma non di freddo. «Non sopporto l’idea di saperli in queste condizioni e vorrei fare per loro qualcosa, subito, dovesse richiedermi di scalare le montagne con la neve fino al collo. Ma io non ho questo potere, chi ce l’ha è mio figlio, e se a mente fredda vorrei che lui fosse presto la guida di cui il mio popolo ha bisogno, come madre preferirei venire torturata dal nemico per anni, piuttosto che saperlo fuori da questo luogo sicuro»
«Non dire così Gilraen, non lo dire» interruppe l’Elfo mettendole una mano sulla spalla. «Non lo dire».
La donna abbassò gli occhi sulla mano dell’Elfo, poi chinò il capo, brevemente.
I gemelli erano rientrati una stagione prima del previsto, stando via solo un anno, invece di rientrare come previsto all’undicesimo compleanno di Aragorn. La situazione dei Raminghi era problematica e altri eventi stavano accadendo nei regni di Rohan e Gondor. In generale la situazione nella Terra di Mezzo era di relativa calma, ma anche Gandalf, passato quando Elrond era assente, aveva lasciato detto di ricordargli che quelle fatte finora erano solo supposizioni: non potevano sapere se il Nemico fosse stato realmente sconfitto, lui infondo al proprio cuore sentiva che c’era la possibilità che non lo fosse.
Era comunque arrivato il momento per Aragorn di lasciare il nido tranquillo di Imladris. Quello che poteva imparare di teorico tra quelle mura gli era stato insegnato, ma c’erano tante conoscenze raggiungibili solo una volta fuori da lì: scritti conservati in altre città, canzoni e storie che non appartenevano agli Elfi, trucchi che solo l’esperienza insegnava, emozioni che avrebbe provato solo sul campo e davanti alle quali avrebbe dovuto essere messo alla prova infine, se volevano capire che tipo di persona sarebbe stato in futuro. Se c’era Speranza, era ora di scoprirla.
Gilraen sapeva tutto questo, lei stessa insieme ad Elrond aveva costruito quel discorso e quelle convinzioni battuta dopo battuta, durante il primo mese d’inverno dal ritorno dell’Elfo alla sua casa; ma non bastavano delle sagge parole a lenire il dolore di una madre.
«Puoi capirmi? Lui è mio figlio» mormorò mettendo le proprie dita su quelle dell’Elfo. «Ed è figlio di Arathorn. É l’unico che ho» riuscì a dire prima che le lacrime le spezzassero il respiro, togliendole la possibilità di aggiungere altro. E se fosse successo qualcosa? Qualsiasi cosa. Se suo figlio non fosse più tornato a casa? Se fosse morto in uno sconto qualsiasi? Se fosse morto per un semplice incidente? La Speranza sarebbe svanita e lei sarebbe rimasta sola al mondo, senza più un marito e senza un figlio da abbracciare. Le sembrava ancora troppo piccolo per lasciarlo andare, come un pulcino che ancora non avesse fatto altro che saltelli e dovesse invece provare a fare il suo primo vero volo fuori dal nido.
Elrond la avvicinò a sé e lasciò che piangesse sulla sua spalla, soffocando i singhiozzi sulla seta color bronzo del suo vestito. Cosa poteva mai dirle? Aveva figli anche lui, ma si rendeva conto che era diverso. Lui era un padre, Gilraen invece aveva dato alla luce il suo stesso figlio e questa cosa aveva sempre reso le figure materne e il loro legame con i figli più speciali. Per quello non poteva immaginare cosa dovesse provare all’idea di separarsi da Aragorn. Inoltre lui ne aveva tre; ovviamente non erano intercambiabili perché ognuno era speciale e insostituibile, ma se mai qualcuno l’avesse lasciato, certo ci sarebbero stati gli altri al suo fianco. E poi erano Elfi: meno fragili, meno volubili, e non erano eredi di uno dei più grandi regni della Terra di Mezzo. Gilraen invece era rimasta da sola in quel mondo: il marito era stato ucciso, non poteva più tornare dai genitori o mettersi in contatto con loro e ora il figlio, piccolo, fragile e fonte di grandi aspettative, se ne andava. No, non poteva immaginare il suo dolore.
Eppure lo comprendeva almeno in parte, perché Aragorn era ormai come un figlio per lui, e anche da parte sua non era facile accettare l’idea che uscisse da Imladris e mettesse piede in un mondo pericoloso, pieno di scontri. Lui stesso non amava la guerra: se era necessario combatteva e lo aveva fatto dimostrandosi tra i più valorosi degli Elfi della Terra di Mezzo, ma nel profondo amava la tranquillità, lo studio, la musica della natura. Se fosse stato possibile, avrebbe tenuto lì con lui il ragazzino per sempre perché, tra l’altro, si era reso conto del vuoto profondo che la partenza di Aragorn avrebbe lasciato nella sua vita. Da quando Celebrian l’aveva lasciato, Elrond si era sentito solo, così solo e triste, con i figli sempre in viaggio e Arwen nel Bosco d’Oro; ma quel ragazzino sembrava averli riuniti. Prima aveva riempito le sue giornate, e lui gli si era dedicato con gioia e passione, poi aveva trattenuto più spesso i gemelli, e ora anche Arwen gli si era affezionata.
Gli doveva qualcosa, forse, ma poteva ripagarlo solo con la possibilità di sapere l’importante verità che lui e Gilraen conoscevano. E quella possibilità era fuori da quella gola.

Il primo Marzo dell’anno 3001 della Terza Era, un gridolino di gioia riempì la biblioteca di Imladris e poco dopo, Aragorn entrava nella Sala del Fuoco tenendo tra le braccia un grosso e pesante volume. In quel momento Glorfindel stava ravvivando le fiamme tenendo gli occhi fissi su di esse e il ragazzo a sua volta fissava il biondo Elfo, stringendo il libro rilegato in pelle, odorandone il profumo di vecchia carta sottile e inchiostro secco.
Il giorno prima il fabbro di Imladris aveva finito di forgiare la sua prima vera spada, dono di Elladan ed Elrohir per il suo undicesimo compleanno, e bisognava solo aspettare il giorno dopo perché fosse pronta per essere impugnata. Avrebbe dovuto essere felice, invece all’improvviso Aragorn si era sentito nervoso: quella era un’arma vera, non era di legno e non era una lama smussata da allenamento. Qualcuno si sarebbe ferito, forse sarebbe morto, su quella lama. A quell’idea aveva sentito il cuore sprofondare e la notte non aveva dormito, temendo il momento in cui avrebbe ricevuto l’arma.
La mattina del suo compleanno aveva osservato la lama lucente cercando di mantenere un’aria compassata e tranquilla e si era unito ai complimenti dei gemelli, ma quando l’aveva sollevata gli era sembrata un peso insopportabile. L’ignoto che attendeva quella spada gli fece tornare in mente un'altra cosa da lui ignorata e che gli aveva sempre fatto provare un po’ di angoscia: il secondo volume di una storia di cui non sapeva la fine; così aveva infilato la spada nel fodero, declinando l’invito dei gemelli a provarla subito, e si era avviato verso la biblioteca, non senza un certo timore reverenziale. Anche chiusa nel fodero, l’arma gli era sembrata pesare molto al suo fianco, e quando aveva allungato le braccia verso l’alto e aveva sollevato il libro, il confronto tra i due oggetti gli era sembrato abissale: certo il tomo era ingombrante, ma era un peso che poteva sopportare, molto più di quello della spada.
«Te l’avevo detto che l’avresti saputo prima di me» disse Glorfindel risvegliandolo dai suoi pensieri
«Gerich lu?» domandò Estel con un filo di voce.
L’Elfo alzò lo sguardo dalle fiamme: le lingue di fuoco mandavano riflessi arancioni sui suoi lunghi capelli biondi e sulla tunica bianca e gialla. Gli fece un debole sorriso, ma lo sguardo sembrava a tratti spento, oppresso da pensieri foschi, e a tratti appena brillante di un misto di nostalgia, soddisfazione e tristezza. Infine fece un unico cenno pulito, annuendo con il capo, come se fosse infine arrivato ad una risposta a lungo ponderata con attenzione. Sì sollevò da terra per guardare il ragazzo nella penombra. «Darthannech far».
Il racconto ebbe luogo in quella stessa sala. Arwen si era unita a loro appena le era stato possibile, dopo che un Elfo mandato da Estel le aveva fatto sapere quel che sarebbe successo e che il ragazzo avrebbe voluto presente anche lei.
Quando vide i due seduti vicino al fuoco, nella semioscurità della sala dovuta al relativo buio che c’era fuori per colpa del tempo piovoso, non poté fare a meno di chiedersi come si fosse creata quella situazione: Estel era riuscito a prendere il libro ed esso era lì, chiuso e appoggiato nello spazio tra loro, eppure, invece di leggerlo, aveva chiesto che gli venisse raccontato e il Nobile Glorfindel aveva accettato. Li osservò e ripensò ai quattro anni in cui lei era stata presente ad Imladris: l’Elfo non aveva mai trattato Estel come un bambino, anche quando lo era stato, ma gli portava rispetto e provava affetto per lui, emozioni entrambe profonde e perfettamente ricambiate. Non doveva essere stato solo un maestro, ma doveva essere cominciato qualcosa quel mattino di sole in cui Estel aveva cominciato a parlare. Ora c’era un legame saldo e profondo che segnava ogni sguardo e ogni discorso tra loro e Arwen ancora non si capacitava di come quel ragazzino arrivasse a farsi amare da tutti quelli che avevano a che fare con lui. Persino lei che non aveva mai avuto a che fare con i bambini non gli aveva potuto resistere, e avere a che fare con lui era stato bello. Anche consapevole di quel che gli Elfi dicevano ad Imladris, ma non aveva mai avuto cuore di respingere Estel: a che scopo rifiutare i sentimenti genuini di un bambino? Crescendo sarebbe cambiato e avrebbe compreso il reale significato della parola “amore”, ma fino ad allora, al suo: "Ti voglio bene"; lei aveva sempre risposto: "Anche io, piccolo Estel"; senza pensare che ci fosse niente di male.
Con discrezione, si sedette al fianco del ragazzino che ormai le arrivava al gomito e portava una spada vera al fianco, non più la piccola spada di legno con cui lo aveva visto la prima volta; ogni tanto le prese la mano, rimanendo concentrato ad ascoltare la storia della battaglia e della fine della meravigliosa città elfica di Gondolin e lei ricambiò quel tocco, prestando a sua volta più attenzione alle parole di Glorfindel che a quel gesto.
Il termine del racconto arrivò ore dopo, a notte fonda. Senza che se ne rendessero conto era passato un giorno, Estel non aveva mangiato, se non un piccolo spuntino portato da qualcuno nella Sala, e la pioggia era infine cessata quando gli Elfi della storia ormai fuggivano per i sentieri rocciosi delle montagne. Glorfindel aveva evitato accuratamente di raccontare delle proprie gesta nei dettagli ed Estel non aveva fatto domande, ma Arwen non capì se il ragazzo avesse intuito qualcosa o fosse semplicemente troppo preso dalla paura e dalla tristezza del racconto per rendersene conto, o per ricordarsi di farle. Infine, nel buio della notte invernale, lo accompagnò in stanza, ancora tenendolo per mano, mentre avanzava ondeggiando, ubriaco di sonno e stanchezza.
«Guarda che il fabbro vuole che domani provi la spada per vedere se va bene, quindi cerca di riposare come si deve» si raccomandò quando arrivarono alla veranda antistante l’edificio che ospitava le stanze di Estel e Gilraen. A quel punto lo sentì stringerle più forte la mano. «Estel?».
Quando abbassò lo sguardo per vederlo in viso, si accorse che stava piangendo. «É per la storia?» chiese, e lui annuì con il capo senza dire nulla, anche se con un po’ di esitazione. « É accaduto moltissimo tempo fa. Sono successe tante cose da allora, anche belle. Se Gondolin esistesse ancora, il mondo oggi sarebbe diverso, e dato che il nemico ha sempre avuto molto potere, non è detto che non sarebbe potuto succede anche qualcosa di peggio» cercò di spiegargli mettendogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio
«Non avrei dovuto chiederlo a Glorfindel, vero?» domandò lui. «Ormai ho capito che la responsabilità di togliere la vita a qualcuno è qualcosa con cui dovrò fare i conti, e questo mi spaventa, per quello ho preferito sentire una storia piuttosto che tenere in mano quell’eventualità. Ma ora capisco anche che essere responsabili della vita di tante persone deve essere ancora meno facile. Lui è sopravvissuto a tanta gente con questa responsabilità: sarà stato difficile ed io gli ho chiesto di ricordarlo» sembrò riflettere, e Arwen evitò di correggere la sua supposizione, ma lo fissò con stupore. I suoi occhi erano limpidi e luminosi, come il cielo estivo alle primissime luci dell'alba, quando il mondo ancora dorme: non era uno sguardo normale, non poteva esserlo, l'alba di quegli occhi nascondeva un potenziale che in quel ragazzo era ancora dormiente, ma c'era. Era sicura che ci fosse, non poteva essere un Uomo qualsiasi. Persino mentre parlava, improvvisamente aveva sentito un timbro strano in quella voce a lei familiare. Un’inflessione di saggezza e di autorità, come se avesse parlato con una forza a cui era difficile resistere.
«Sicuramente è stato felice di raccontarti tutto di persona, anche se è un ricordo doloroso» gli rispose infine
«Non dobbiamo dimenticare il passato, se vogliamo curarci del futuro. Per questo l’ha fatto?»
«Può darsi» annuì la fanciulla, sorridendo a quelle parole. Le aveva pensate da solo o le aveva lette da qualche parte? «Ora vai a riposare, intesi?» gli ricordò lasciandogli un leggero bacio sulla fronte
«Sì, buonanotte» rispose lui arrossendo, quindi fece un piccolo inchino ed entrò in casa. Lei sorrise a quella reazione e sollevò gli occhi al cielo stellato domandandosi quale futuro attendesse quel ragazzino.

Fuori dalla finestra era possibile vedere la più grande delle cascate della gola. Un’immensa quantità d’acqua azzurra scendeva fluida e compatta dalle rocce prima dello strapiombo: cominciava come un’unica entità che poi si disperdeva nell’aria in tante gocce man mano che scendeva verso il basso, e ogni goccia sembrava duplicare, triplicare la grandezza della cascata stessa. C’era uno scroscio continuo dal punto in cui l’acqua cominciava a cadere, ma il lontano rombo udibile anche da lassù, era quello del punto d’arrivo, dove le gocce ritrovavano unità all’impatto con il fiume nel punto più basso della gola.
Elrond osservava quel moto continuo seduto alla propria scrivania, con la penna a mezza’aria, come fosse in attesa di un’ispirazione per continuare a scrivere. In realtà l’unica cosa che aspettava era l’arrivo di una persona, solo che la potenza delle cascate della gola in cui aveva costruito Imladris lo lasciava sempre stupefatto ed era capace di ipnotizzarlo: a volte passava ore ad osservare l’acqua senza fare nulla, mentre gli arcobaleni che si formavano nelle gocce in caduta cambiavano, si dissolvevano e si ricreavano.
In una doppia curva di colori, ebbe una visione. C’era un giovane sconosciuto su un cavallo, aveva i capelli castani lunghi, gli occhi chiari e indossava un’armatura ammaccata ma ancora in buone condizioni. Stava entrando nel piazzale di pietra di Imladris con l’aria stanca di chi ha viaggiato a lungo senza sosta, ma con una sorta di urgenza nello sguardo e nei movimenti. Era solo e aveva l’avambraccio destro fasciato alla meno peggio con della stoffa blu sbiadito. Quando girò gli occhi nella sua direzione gli sorrise con stupore, eppure Elrond provò una strana ed improvvisa angoscia.
«Mi hai fatto chiamare?» domandò una voce.
La visione scomparve all’istante e l’Elfo chiuse gli occhi, spostando il capo all’indietro, concedendosi qualche secondo di pausa dietro il buio delle palpebre. Non aveva idea di chi fosse l’uomo che aveva appena visto, né riusciva a spiegarsi la sensazione leggermente spiacevole che aveva avuto prima di venirne distratto.
«Sì» rispose infine quando riaprì gli occhi. Posò la penna nel calamaio e chiuse la boccetta dall’inchiostro, quindi si girò sulla sedia e si alzò. «Sì, ho bisogno di parlarti» disse ancora. Incrociò le dita delle mani in grembo e squadrò il ragazzino davanti a sé per un breve secondo, quindi gli fece un caldo sorriso e piegò il capo di lato. «Tanti auguri, anche se in ritardo».
Aragorn scosse il capo. «Grazie, ma il ritardo è colpa mia: ieri sono stato occupato tutto il giorno»
«Ho notato, per quello non ti ho disturbato. Andiamo sulla terrazza, ti va?» lo invitò l’Elfo accennandogli all’arco in legno ricoperto di edera che dava al solarium privato del suo studio. Salì i due gradini che dividevano a metà la stanza dello studio, quindi uscì all’aria aperta: oltre il parapetto si poteva vedere lo spiazzo di terra battuta al quale si accedeva dall’entrata in pietra: chi non era atteso ad Imladris o doveva venire scortato con urgenza o in segreto, si fermava sempre nel piazzale di roccia dopo il ponte, mentre le partenze e gli arrivi dei gruppi attesi, cominciavano o finivano lì. Non era prudente che lo studio del padrone di casa fosse esposto apertamente al primo ingresso, ma il secondo e più riparato era quando ci si sarebbe invece aspettati da chi era giusto che controllasse cosa succedeva in casa propria.
«Elrohir mi ha detto che non hai voluto provare subito la spada» gli disse indicando con gli occhi l’arma che portava nel fodero appeso al fianco sinistro
«Spero che non pensi che non la apprezzi. Sono anni che aspetto di averne una e mi ha reso felice» spiegò il ragazzino, ma all’Elfo fu subito chiaro che c’era dell’altro. C’era un’inflessione in quella voce che gli diceva che la felicità non era stata la prima emozione che aveva provato.
«E cos’altro ti ha reso?» domandò quindi, appoggiando le mani al parapetto e respirando profondamente nel far spaziare lo sguardo sulle cime degli alberi
«Credo “preoccupato”?» rispose in tono di domanda, come se fosse insicuro della parola usata per descrivere che cosa aveva provato. Il ragazzo si mise al suo fianco, ma tenne lo sguardo basso. «Ora che ho la possibilità di possedere una vera spada, mi rendo conto che tra il desiderare di averne una e l’averla, diventando potenzialmente in grado di ferire qualcuno a morte, ecco, c’è un abisso. E io credo, penso… insomma, ho paura» spiegò confuso. «Quando l’ho presa in mano ho realizzato un sogno, ma sono anche improvvisamente saltato sopra quell’abisso»
«Quello che divide il gioco dei bambini, dal letale gesto degli adulti» annuì Elrond. «Ma sei pronto per affrontarlo. Il fatto stesso che ti spaventi, significa che lo sei»
«Cosa vuol dire?» domandò Aragorn alzando lo sguardo, ancora più confuso
«Che se tu non avessi paura di quel che puoi fare con quella spada, rischieresti di diventare un guerriero senza alcuno scrupolo» spiegò chiudendo gli occhi. Per un attimo un brivido gli corse su per la schiena, sentiva un sorriso di soddisfazione arrivargli dal cuore: quell’animo gentile e quella mente acuta si erano formati anche grazie a lui e al sentire quelle parole si era sentito orgoglioso come un vero padre; ma non poteva permettersi quell’espressione in quel momento. Era un momento serio e tale doveva mostrarsi. Riaprì gli occhi per abbassarli sul ragazzino. «Quello che provi, invece, ti aiuterà ad usare giudizio: la morte è un dono difficile da elargire e non deve essere dispensato con facilità. Se saprai usare saggezza in questo, allora sarai un buon cavaliere e magari, in futuro, un bravo capitano: di quelli che gli uomini vorrebbero avere al loro fianco in battaglia, di quelli che le persone sarebbero pronte a seguire in ogni sfida, grazie alla fiducia che ispirano» concluse con un sorriso posato
«Bel discorso» annuì il ragazzino arricciando il labbro inferiore. «Ma non penso avrò mai modo di affiancare qualcuno in grandi battaglie, né di chiedere a delle persone di seguirmi» gli spiegò con un sorrisino. Non era amaro: Aragorn pensava sul serio che avrebbe sempre vissuto come un Elfo, lì, ad Imladris, conoscendo le battaglie solo tramite l’inchiostro e la carta.
Elrond fece un profondo respiro: era arrivato il momento. «Dimmi, Estel, che cosa hai imparato qui?» domandò cambiando solo apparentemente il discorso
«Cosa ho imparato?» ripeté lui, preso in contropiede. «Le lingue elfiche, le storia… anche se non tutta. Forse non basterebbe la vita di un uomo: la Terra di Mezzo esiste da millenni»
«Forse se ci si dedicasse solo a quella, potrebbe bastare la vita di uomo. Chissà, nessuno ci ha mai provato» si concesse di divagare dondolando leggermente il capo, a destra e a sinistra, pensieroso
«Poi ho imparato i nomi delle erbe, a curare delle ferite. Mi hanno insegnato a lanciare coltelli, ad intagliare il legno, a tirare con l’arco, a cavalcare e ad usare la spada» continuò ad elencare Aragorn, ora tenendo il conto sulle dita. «Penso ci sia altro, ma perché lo chiedi?»
«Perché è sufficiente» rispose annuendo. «Penso che sia sufficiente, ed è quasi tutto quello che puoi imparare qui ad Imladris» aggiunse Elrond, quindi staccò le mani dal parapetto e raddrizzò la schiena, girando l’intero corpo verso il ragazzino alla sua destra. Nel guardarlo, giovane e fragile, gli tornarono in mente le parole di Gilraen, mesi prima: e se fosse morto prima ancora di poter dimostrare un po’ di valore? Che senso avrebbe avuto crescerlo e sperare in lui se non fosse mai tornato vivo da loro? Ma lui sentiva che sarebbe tornato: probabilmente per allora non sarebbe più stato l’Aragorn che conoscevano, quell’esperienza l’avrebbe cambiato, ma il ragazzo non avrebbe lasciato la sua vita nel viaggio che lo aspettava, quello no. Pur certo di questo, le parole faticavano a salirgli dalla gola. Nove anni prima non avrebbe nemmeno immaginato che avrebbe provato quella sensazione, ma era così.
«Tra una settimana Elladan ed Elrohir partiranno di nuovo e stavolta non torneranno per alcuni anni» cominciò a dire
«Di nuovo? Che significa “per alcuni anni”? Per quanto?» lo interruppe Aragorn subito allarmato. «Proprio ora?».
L’Elfo lo zittì sollevando una mano nello spazio tra loro due e piegando il capo di lato. «Non è stato deciso quando torneranno di preciso e la cosa non ti riguarda: tu hai un percorso da fare e non deve essere per forza sempre legato a loro» gli disse con severità. Elrond stesso si meravigliò di quel tono: non era così che voleva dargli quell’annuncio, non era quella la voce che rifletteva il suo stato d’animo; eppure si ritrovò a continuare ad usare un’inflessione dura e a rimanere fermo in ogni movimento. «Però almeno il suo inizio lo sarà, questo è certo. Lo hai sperato per molti anni e stavolta partirai con loro, quindi fai quello che ritieni di dover fare, prepara ciò che devi preparare e saluta chi ti sta a cuore: credo che mancherai per molti anni» disse infine, tutto d’un fiato. Gli sembrò di aver tirato fuori quelle parole con fatica.
Aragorn lo fissò impassibile per qualche attimo, il tempo di recepire il vero significato di quelle parole, quindi sgranò gli occhi. «Sul serio?» domandò con un filo di voce. Gli tremava e aveva stretto i pugni. Elrond lo notò e non poté fare a meno di esserne divertito: era l’incontenibile sincerità di un bambino, e forse avrebbe fatto bene anche lui a mostrarne almeno un pochino. Si concesse una risata. Era calda, sincera, divertita, come lo scoppiettare delle prime lingue di fuoco sulla legna secca appena accesa.
«Potrei mai scherzare su questo?» gli disse allora alzando la mano e scompigliandogli i capelli. Il bambino esclamò di gioia. «Grazie! Grazie, grazie, grazie!» strillò saltellando eccitato. «Questo è…» balbettò senza trovare le parole. Si era arrossato in viso e teneva le mani ferme a mezz’aria mentre cercava le parole. «É... grazie!» esclamò ancora, e senza aggiungere nient’altro corse via dalla terrazza, via dallo studio, ad avvisare qualcuno dei suoi amici, ad avvisare Arwen, o sua madre.
Elrond guardò la sua figura di schiena mente si allontanava e ascoltò i suoi passi quando non lo poté più vedere. Calmò la sua stessa risata e infine alzò lo sguardo al cielo azzurro e vasto, socchiudendo gli occhi alla luce forte del sole della prima primavera. «Vai fuori, Aragorn. Quello che finora hai visto tra le pagine dei libri era il mondo di ieri» sussurrò, ora che era inequivocabilmente solo. «Scopri il mondo di oggi, scrivilo tu stesso. Se gli uomini ti seguiranno, se la gente ti vorrà bene, questo dipenderà da ciò che farai là fuori, figlio mio». Fece un ultimo respiro profondo e lasciò la terrazza, tornando alle sue carte.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
«Ben tornato, mio signore!»
«Ben tornato, Elrond!»
«Ben trovato, amico mio!»
«Hai tempo? »
«Hai aspettato abbastanza»
• La Storia di Gondolin è raccontata in forma più o meno definitiva nel Silmarillion (mai completato da Tolkien, quindi chissà). Ma potete leggerne in italiano anche nei Racconti Incompiuti e perduti (altri accenni sono nei libri mai tradotti di History of Middle Earth)
• La spada regalata in questo capitolo è pura invenzione. L'Aragorn che leggiamo nei libri ha sempre Narsil, consegnatagli con l'Anello di Barahir quando gli viene comunicata la sua vera identitò. Ma sappiamo anche che Aragorn è uno dei migliori spadaccini della Terra di Mezzo, quindi prima della rivelazione avrà pur usato qualcosa per diventare il guerriero che è!


Per una volta posso dire di non essere in ritardo col capitolo XD Come ho già detto nello scorso, in realtà quello cominciava in modo diverso ed era già stato scritto in buona parte quando ho poi deciso di cambiarlo. Quella "buona parte" erano almeno 5 pagine di word (sulle 10 finali) che sono poi diventate l'inizio di questo capitolo. Quindi in parte era già bello che scritto e il grosso ritardo dello scorso capitolo coinvolgeva anche questo (quindi sono in ritardo comunque?).
Tra una cosa e l'altra, non è passato molto tempo in questi capitoli: 9 da quando è morto Arathorn e sono arrivati ad Imladris, 4 da quando Aragorn ha incontrato Arwen e 2 da quando ha fatto conoscenza con Gandalf per la prima volta. In 4 anni (dai 7 agli 11) si può dire che un bambino cambi molto, ma anche poco: molto fisicamente, ma mentalmente non tantissimo, più che altro penso che cambi il modo di mostrare ciò che prova (i bambini provano poca vergogna e dicono le cose come stanno più spesso degli adulti senza trattenersi, no?). In questa ottica, spero che si noti un minimo di crescita tramite alcuni dei suoi atteggiamenti, dato che in una fanfiction non si può notare visivamente, e poi ho cercato di rendere Aragorn più discreto con Arwen: il loro rapporto traspare solo in piccoli dettagli (sguardi, frasi, pensieri), quindi forse chi si aspettava un tenerissimo baby-Aragorn super in-love con Arwen sarà rimasto deluso. Del resto è un bambino alle porte dell'adolescenza: più che l'amore, sono "le cose da maschi" da interessarlo ed è l'approvazione degli altri uomini che cerca, perchè sono la sua figura paterna, quella alla quale fa riferimento.
Però è arrivato il momento di lasciare Imladris e di far crescere il nostro futuro re (aaaaazimpegnaaaaaa *urlo nella savana*). Inutile dire che mi si spezza il cuore ad abbandonare l'ambiente di Imladris, dato che è il mio preferito, ma è anche vero che voglio veder diventare adulto il nostro eroe. E comunque c'è ancora un capitolo da fare prima di mettere definitivamente piede fuori di casa per quelli che (Tolkien ci ha fatto sapere) saranno i prossimi 9 anni della vita di Aragorn.
Anche questa volta, le frasi dall'elfico sono gentilmente studiate, costruite e completate con grande fatica grazie al lavoro congiunto delle gentilissime tyelemmaiwe e melianar *scrocio di applausi*

Oltre a loro, ringrazio anche Magali_1982 e Venice93 per i commenti seri e ponderati o pazzoidi ed entusiastici che siano ^_*

Mi permetto di aggiungere una piccola cosa che non c'entra (ma un po' sì) con la ff. Questo mese su tumblr si è concluso il Tolkien read-along internazionale del Signore degli Anelli, cominciato in Gennaio. Se siete interessate/i, da fine Luglio a metà Novembre ci sarà il Tolkien read-along del Silmarillion e tutti sono invitati a partecipare. Potete leggere il libro in inglese o in italiano, come preferite. Se non l'avete mai letto può essere una buona occasione per farlo e affrontare una lettura che può essere non semplice, in maniera molto divertente. Beh, c'è chi legge e guarda cosa fanno gli altri, e basta, ma c'è chi legge e partecipa e crea delle cose stupende (una ragazza ha creato il cerchietto/simil-corona di Elrond e me ne sono innamorata!). Fateci un pensiero e se vi incuriosisce trovate QUI ogni spiegazione e QUI un piccolo trailer fatto dalla persona che organizza il tutto ;)

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Capitolo 7
*** Fine dei giochi ***


PLAYLIST PER LA LETTURA DEL CAPITOLO

Quando Elrond vide entrare Aragorn nella sala, notò subito il suo sguardo acceso di entusiasmo ed emozione, eppure vi lesse una preoccupazione di fondo. Poteva capirlo, era così anche per lui, perché erano mesi che non si vedevano solo loro due: si erano incrociati in giro per la Casa, alle cene e nella Sala del Fuoco, certo, ma per settimane Aragorn si era incontrato solo con i gemelli, per discutere del loro viaggio -anche se erano più loro che ne discutevano e il ragazzino che ascoltava- e quando non era stato con loro, aveva studiato le mappe che mostravano i luoghi dove sarebbero passati, le aveva ricopiate con grande pazienza e aveva letto racconti di viaggio che li riguardavano e si era informato sui popoli che vivevano in quelle terre e sulle loro tradizioni. Elrond gli aveva fornito tutto il materiale che aveva chiesto, ma più di questo non aveva fatto perché nella sua mente vi erano altre preoccupazioni, incombenze più gravi. Risultato: i loro soliti incontri erano finiti ormai alcuni mesi prima.
Era tardo pomeriggio dell’ultimo giorno che Aragorn avrebbe passato ad Imladris e finalmente l’Elfo lo sentì arrivare alle spalle. Si trovavano in un padiglione di pietra circolare, con una bellissima vista dall’alto della gola e un ruscello che scorreva sulla sinistra per poi lanciarsi nel vuoto in una piccola cascata. Sulla destra stava un tavolo in pietra chiara e alcuni scranni, ma Elrond era in piedi vicino ad una delle colonne dalla parte opposta del padiglione: oltre di esse c’erano dei gradini e un balcone di pietra senza alcuna protezione.
«Grazie» disse per congedare l’Elfo che aveva accompagnato il ragazzo. Questi si inchinò leggermente e tornò sui suoi passi, lasciando Aragorn da solo sulla soglia. «È tanto che non ci incontriamo» disse ancora il padrone di Imladris, continuando a guardare il panorama, rimanendo di fianco alla colonna deliziosamente scolpita. «Sai perché ti ho fatto chiamare?». Si girò infine, e fece un sorriso dei suoi: gentile, caldo, paterno. Allora vide lo sguardo di Aragorn per la prima volta e ne lesse le emozioni. Il ragazzo scosse il capo e strinse le labbra. Che sguardo pulito che aveva, ed Elrond provava affetto per quegli occhi luminosi: il viaggio lo avrebbe cambiato, era quella l’ultima volta che li avrebbe visti così puri?
«Domani parti e volevo consegnarti una cosa, vieni». Si avvicinò al tavolo in pietra dove si trovava un rotolo tenuto chiuso da un laccio. Una volta slegato e srotolato, si rivelava essere una striscia di pelle scamosciata marrone scuro: da una parte erano state cucite due file di piccole tasche lungo i due lati lunghi ed ognuna riportava una runa nanica, dall’altra parte invece, quella che si vedeva esternamente una volta chiuso, era liscia senza segni di cuciture.
«È per te» disse l’Elfo passando lentamente le dita sulle taschine gonfie. «Ogni runa è l’iniziale dell’erba conservata all’interno. Ho scelto io stesso quali mettere e mi sono preoccupato della loro conservazione e preparazione per il viaggio. Ti ho insegnato molte cose sulle erbe e le loro proprietà, ma certo altre ne imparerai nel tuo viaggio, quindi le quattro tasche finali sulla destra sono vuote e non hanno scritte. Quando deciderai cosa metterci, scalda la punta di un pugnale e premilo leggermente sulla pelle per scrivere la nuova runa»
«Perché questo regalo?» domandò Aragorn dopo aver osservato l’oggetto. Era straordinariamente semplice e rustico per essere il dono di un Signore degli Elfi come quello che aveva davanti.
«Dimmi cosa c’è scritto» ordinò, invece di rispondere. L’Elfo riarrotolò l’oggetto, rivelando che nella parte esterna la pelle era stata bruciata da una punta molto più sottile, tracciando una scritta in elfico, nel loro alfabeto sinuoso.
«Nar malyat colindar envinyamo» lesse il ragazzo
«Estel, in questo viaggio scoprirai te stesso: ti accorgerai dei tuoi limiti, ma anche delle qualità che possiedi. Tuo padre era un Ramingo, non un Uomo qualsiasi, e ci sono cose che solo i Raminghi possono fare, cose in cui né Elfi né Uomini possono sperare di competere. Tu sei come lui, ma finora sei stato in questa casa senza la possibilità di scoprire in cosa sei diverso da noi e qual è il tuo reale potenziale. Lo farai in questo viaggio» spiegò con un sorriso forzato e una lieve tensione negli occhi. «E di questo non posso che essere felice, ma…» aggiunse schiarendosi la voce. «Io voglio sperare che non ti dimenticherai di noi. Di me. Del tempo che abbiamo trascorso insieme».
Vide il giovane trattenere il fiato e tendere i muscoli intorno agli occhi, aggrottando le sopracciglia: stava cercando di trattenere le lacrime. «Come potrei?» esclamò dopo qualche secondo, con lo sguardo lucido, prendendo con uno scatto la mano di Elrond. «Mai!» insistette.
L’elfo sentì il respiro del giovane fermarsi e lo osservò deglutire a fatica. Se avesse detto altro, avrebbe sicuramente singhiozzato, quindi decise di non lasciare che un eventuale silenzio lo forzasse: gli strinse la mano a sua volta e parlò al posto suo. «Là fuori c’è un mondo grande da vedere, Estel. Avrai tante cose a cui pensare, tante scoperte da fare, luoghi da esplorare, persone da conoscere. Avrai la mente occupata in ben altri pensieri, ed ecco perché ti regalo questo, per farti tornare a me con la mente almeno ogni tanto» spiegò con un cenno del capo, tornando con gli occhi all’oggetto in pelle. «Viaggerete anche in luoghi pericolosi quindi dovrete dare poco nell’occhio, per quello ho voluto che fosse un oggetto molto semplice, ma ti sarà utile, e ti ricorderà di noi due».
Si sentì improvvisamente in colpa per aver usato tutto il suo tempo di quei giorni per occuparsi d’altro, senza aver mai trovato il modo di stare con il suo allievo, ma probabilmente non avrebbe potuto fare altrimenti e comunque ormai il tempo che era scivolato via non era più recuperabile.
«Mio signore» sentirono dire alle loro spalle. Il ragazzo lasciò la mano dell’Elfo e si passò il dorso della mano sugli occhi. «Saruman il Bianco è arrivato»
«Certo, fatelo venire, noi abbiamo finito» rispose Elrond, improvvisamente teso. Gli spiaceva dover passare quelle ultime ore ad occuparsi di faccende tanto importanti da mettere in ombra la partenza dell’Erede di Isildur, ma non poteva fare altrimenti. Mise il rotolo di pelle nelle mani di Aragorn con un sospiro. «Sono le tue ultime ore qui eppure non possiamo trascorrerle insieme, ho degli affari urgenti che non possono proprio aspettare»
«Non importa» il ragazzo scosse il capo. «So che sei impegnato. Il Signore di Imladris non è uno qualunque, ed io, ecco, io sono onorato di averti avuto come maestro» disse senza prendere fiato.
Ad Elrond venne naturale cercare di mantenere la compostezza, ma con Aragorn in quegli anni gli era capitato di non prestarci più molta attenzione davanti a lui e anche quella volta, involontariamente, si concesse di schiudere appena le labbra e aprire gli occhi, stupito da quelle parole. Non se le aspettava e la sorpresa le rese ancora più belle e care alle sue orecchie, ma prima che potesse dire qualcosa, il ragazzo dovette sentire di non poter sopportare oltre quel momento: era chiaramente l’istante in cui si stavano salutando definitivamente, la mattina dopo l’avrebbero fatto davanti a tutti e sarebbe stata più una formalità che qualcosa di sentito, mentre quello era il vero ultimo saluto tra il maestro e l’allievo. Non ce ne sarebbero stati altri. «Grazie del regalo. Non dimenticherò nulla, e quando tornerò mi dirai cosa ne pensi delle quattro erbe che avrò scelto» farfugliò questi infine, quando un rumore di passi che si avvicinavano lo distrassero dalla sua commozione. Elrond lo guardò chinare il capo, stringere il rotolo in pelle tra le mani e fuggire dal padiglione.
Così si era concluso il loro saluto. Elrond non aveva voluto pronunciare nessun “addio” o “arrivederci”; lui era stato un maestro e Aragorn il suo alunno e, nel rivedersi, gli avrebbe mostrato il suo lavoro e poi ne avrebbero discusso insieme come avevano fatto tante volte. Qualcosa nel suo cuore lo incoraggiava a pensare che sarebbe stato così.
«Nӑ hon?» chiese una voce sottile. Un frusciare di vesti appena percettibile seguì quelle parole. La luce del tramonto si intensificava, la figura a cui apparteneva la voce non era visibile, ancora in buona parte dietro la colonna vicino la quale Elrond si trovava prima che il ragazzo arrivasse, ma il modo in cui i raggi del sole scivolavano, accarezzando quel profilo in controluce, era unico e inconfondibile. L’Elfo non rispose, ma chinò leggermente il capo: aveva ancora infondo agli occhi l’immagine della schiena del ragazzo mentre scendeva a perdifiato le scale, per fuggire a quella separazione. «Se è questo l’effetto che ha su di te, renderà giustizia al suo nome: Estel»

Aragorn fuggì letteralmente dal padiglione, scendendo le scale quasi saltandole, incurante del pericolo di alcuni passaggi sospesi nel vuoto. Passò di fianco ad un Elfo e un’alta figura bianca che andavano invece nella direzione opposta, ma non li degnò né di uno sguardo, né di un saluto: in realtà si accorse di loro a malapena, come fossero stati un albero lungo il tragitto della sua fuga da emozioni troppo forti.
«Da quando girano bambini per Imladris?» domandò l’ospite in bianco, ma il ragazzo era già troppo lontano per sentire la risposta.
Finì le scale e si inoltrò a passo rapido per i corridoi degli edifici principali con il cuore che gli batteva a mille, ma non capiva se era per l’emozione appena provata, per la corsa o per l’idea che più persone avrebbe salutato, più la partenza sarebbe stata prossima.
Quei pensieri si interruppero quando, nello svoltare un angolo, finì con lo sbattere contro qualcuno che veniva dalla direzione opposta. Il colpo fu tanto forte che caddero entrambi a terra.
«Oooh, che bella botta!» esclamò questi dopo l’impatto, massaggiandosi il sedere. «Dove vai così di fretta? Tutto bene?».
Aragorn aveva battuto il gomito contro il muro e se lo massaggiò stringendo i denti. «Non è niente» rispose sollevando lo sguardo. In un primo momento pensò di trovarsi davanti ad un coetaneo perché erano più o meno grandi uguali, ma quando lo guardò si rese conto che il suo era l’aspetto di un adulto. Eppure non aveva la barba, quindi non poteva essere un nano. Non aveva mai visto nulla del genere, così il ragazzino rimase imbambolato a fissarlo.
«Sicuro? Non hai la faccia di uno molto convinto» rispose lo sconosciuto aggrottando le sopracciglia. «Ti do una mano, dai» aggiunse poi tendendogliela per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Stavo cercando la sala da pranzo, sai mica da che parte sta? Questo posto è un vero labirinto accidenti» spiegò mentre il ragazzino si rialzava con il suo aiuto. «Non che non mi piaccia, anzi, è bellissimo qui, ma se ci vivessi, farei meglio ad avere la camera di fianco alla cucina: non posso immaginare di camminare per mille corridoi prima di mangiare qualcosa, non so se mi capisci» concluse con un sorriso, quindi gli fece l’occhiolino.
«Bilbo!» una voce profonda tuonò dal fondo del corridoio. «Dove ti eri cacciato? Ci stiamo preparando, forza»
«Dwalin, oh, finalmente trovo qualcuno di voi!» esclamò lo sconosciuto girandosi. «Arrivo subito» gli disse. «Scusami ancora, eh! Buona serata» concluse tornando a guardare il ragazzo: agitò la mano in segno di saluto e trottò verso l’altro che invece era chiaramente un nano. Aragorn non trovò parole per rispondere: era stato travolto dal fiume di parole e ancora non riusciva a far pace con lo stupore che aveva provato nel primo momento in cui aveva realizzato la stranezza della creatura davanti a sé. Nel riprendersi, Aragorn realizzò che quello strano incontro, per quanto rapidissimo, gli aveva lasciato addosso una sensazione strana, meravigliosa e piacevole.

Non era ancora l’alba. La gola di Imladris era immersa nell’oscurità della notte e la natura era caduta in quel breve periodo di silenzio che segna la fine dei rumori notturni e il risveglio di quelli diurni. Solo il cielo che si stagliava appena dietro i picchi ad est si colorava lentamente di una tonalità più chiara risaltando la silhouette nera e spigolosa delle vette in controluce.
Avvolta in un mantello di velluto bianco, dai bordi in pelliccia argentata, Gilraen scendeva i gradini di Gran Burrone con al fianco il figlio. Era la primavera dell’anno 2940 della Terza Era e sette anni prima aveva perso il suo sposo e abbandonato la sua famiglia e il suo popolo. Ricordava che all’epoca aveva girato lo sguardo per la modesta sala di legno e pellicce che costituiva la stanza delle udienze del fuggitivo Erede di Isildur e aveva pensato che in vita sua non avrebbe provato un dolore più grande, perché pensava di star perdendo ogni cosa: l’amore, la famiglia, le persone care, la sua casa. Quel giorno invece, guardando i rami degli alberi al fianco dei gradini e dei camminamenti di Imladris; pietra levigata e legno intagliato finemente; mentre la notte ancora non si decideva ad abbandonare il cielo, si rese conto che quella notte di tanti anni prima si era sbagliata. Forse perché all’epoca era ancora una madre giovane e perché il suo amore e i suoi affetti non erano concentrati su una persona sola e ora tutto ciò che aveva di caro era concentrato nella figura di suo figlio Aragorn e il dolore della separazione era più sconvolgente di quello provato anni prima. O forse perché in quell’occasione era stata lei ad abbandonare qualcuno e si era quindi dovuta concentrare subito sul viaggio, mentre stavolta era lei a venire abbandonata. Scendeva i gradini con il ragazzino al suo fianco e provava tristezza persino nel constatare che lui era talmente cresciuto da non volerla più prendere per mano: era tutto preso a scendere le scale con aria seria , tenendo il fagotto sulla spalla con una mano e l’altra sull’elsa della spada che gli pendeva al fianco sinistro.
Il tempo era proprio volato.
Raggiunsero lo spiazzo dove erano attesi, lo slargo dal quale in quegli anni erano partiti tanti Elfi, dal quale tante spedizioni avevano salutato Imladris, e ora toccava al giovane Erede di Isildur. Quel giorno sembrava uno come tanti e a tutti doveva sembrare tale, anche al diretto interessato, ma c’era una manciata di persone nella Terra di Mezzo che sapeva quanto contava quel momento, che cercava di immaginare che tipo di mondo sarebbe stato quello che sarebbe cominciato una volta che il sole si fosse alzato in cielo. Gilraen guardò le tre persone con lei a conoscenza di quella verità: Elrond attendeva lei e suo figlio alla fine dei gradini, in una veste blu e grigia, un cerchio di fili d’argento gli girava intorno al capo, fermando una pietra larga e piatta color cobalto sulla sua fronte; i gemelli vestivano di marrone, con un mantello grigio, ed erano già in sella ai loro cavalli, Elladan teneva tra le mani le redini del giovane puledro destinato a portare Aragorn. Avevano tutti un viso molto serio e solenne e lei li ricambiò con la stessa occhiata, mettendo da parte i pensieri da madre angosciata: quel giorno doveva agire da regina, di modo che il principe cominciasse il viaggio che il destino aveva in serbo per lui.
«Estel, ti stavamo aspettando!». Una voce allegra ruppe il grave silenzio che si era creato e Arwen spuntò dalle spalle di suo padre, vestita di viola e porpora, con un grande sorriso sul viso e solo un vago accenno di tristezza negli occhi.
«Vuoi dire che sono in ritardo?» rispose il ragazzo affrettando il passo, scendendo più velocemente gli ultimi gradini. «Accidenti, ho dormito pochissimo e sono pronto da ieri sera, ma alla fine ho fatto tardi?» chiese ancora
«Ma no, ma no» rise lei andandogli incontro. «Ma forse i miei fratelli sono più agitati di te e quindi sono arrivati ancora prima. È buffo non credi? Sei tu che parti per la prima volta, non loro. Forza, giovane esploratore, fatti vedere!» gli disse mettendogli le dita sulla testa e premendo leggermente mentre ruotava il polso, invitandolo a fare un giro su se stesso.
Aragorn indossava dei pantaloni di pelle nera, una camicia di lino rosso scuro nascosta sotto una casacca nera tenuta chiusa dai lacci, degli stivali anch’essi neri e un mantello grigio, come i gemelli. Teneva la spada sul fianco sinistro e un pugnale sul destro.
«Non ho mai visto un Ramingo-recluta, ma secondo me ti somigliano!» esclamò la giovane
«Non prendermi in giro, ho pensato tanto a cosa mettermi per il viaggio»
«Ti assicuro che sono serissima».
Gilraen osservò i due giovani scambiarsi quelle battute con tanta spontaneità che non poté fare a meno di sorridere. Entrambi erano all’oscuro di molte cose, ma la loro allegria le fece ricordare che tutto quello era fatto per avere la speranza di una felicità maggiore, e il solo fatto di avere quell’occasione avrebbe dovuto essere un motivo di gioia anche per lei. «Allora? Non vorrai far aspettare ancora i tuoi amici spero» disse quindi ad alta voce, finendo di scendere i gradini e mettendosi a fianco di Elrond, infine sorridendo.
«No, no» scosse il capo lui. «Andiamo» annuì.
Gilraen lo vide mordersi il labbro inferiore e girarsi verso il cavallo, prima di ripensarci e correre un’ultima volta tra le sue braccia. Lei si chinò e lo strinse a sé. «Mi mancherai mamma» sussurrò lui nelle sue orecchie
«Anche tu, ma ricordati quello che ti ho detto ieri sera» rispose con un sorriso.
Madre e figlio si erano salutati a dovere prima di andare a dormire, volendo evitare il rischi di una scena strappalacrime davanti agli altri. Quella sera si erano fatti il bagno insieme, si erano lavati la schiena e i capelli a vicenda, chiacchierando e giocando nella vasca come se fossero ancora una mamma con il suo piccolo bambino, invece che una madre con un ragazzo pronto a partire da solo per il mondo. Una volta stanchi di tutto quel giocare, quando l’acqua si era ormai raffreddata, si erano avvolti in morbidi asciugamani e, spostata una poltrona vicino alla finestra, si erano accoccolati insieme a guardare le stelle. «Finché siamo sotto lo stesso cielo non saremo mai troppo lontani» aveva detto Gilraen, stringendolo a sé. «Cercala nel cielo e guardala: Eärendil e la sua luce. Io probabilmente la starò guardando come te, in quello stesso momento» gli aveva suggerito passando le mani tra le ciocche bagnate dei suoi capelli castani.
In quell’ultimo saluto il ragazzo ripeté in un sussurro le sue parole. «Finché siamo sotto lo stesso cielo non saremo mai troppo lontani». Quindi sciolse l’abbraccio e annuì con il capo, quindi andò verso il cavallo.

Non poteva fare a meno di provare una sorta di vaga inquietudine. Certo era raro portare in missione un ragazzino, ma pure pensando a questa variabile, Arwen non trovava una motivazione valida per tutta la preparazione che era stata fatta prima di quella partenza. Non si era mai interessata a quel genere di discorsi, quindi non era certo rimasta a sentire cosa si dicessero i capitani a riguardo, ma non aveva potuto fare a meno di notare i visi seri e il tono di voce più basso del padre e dei fratelli quando parlavano della questione. Tra l’altro era assai raro che Elladan ed Elrohir non dessero un possibile periodo di rientro: fin da quando erano piccoli, sapevano che lei era sempre un po’ preoccupata quando se ne andavano e che sentiva la loro mancanza, quindi quando avevano avuto l’età per partire da soli, avevano preso l’abitudine di dare alla loro sorellina una scadenza per la loro assenza, almeno indicativa. Stavolta non c’era stato nulla del genere e non sembravano nemmeno essersene preoccupati: se n’erano dimenticati? Lei lo credeva poco realistico, era più probabile che una data di rientro non esistesse, nemmeno indicativa, e questo non poteva che significare una cosa: guai. Ma quali, con un bambino alle costole? La stranezza della situazione insomma, anche se non la riguardava, non le era certo sfuggita.
Accarezzò i cavalli dei fratelli sussurrando loro parole di raccomandazione e di saluto, nella speranza che li portassero lungo cammini sicuri, che non li abbandonassero, che avessero il cuore saldo e i muscoli scattanti, pronti a qualsiasi fuga. Infine guardò gli occhi del giovane puledro che avrebbe cavalcato Estel e vi lesse eccitazione e purezza: non aveva idea di cosa lo aspettava fuori da quella casa, ma era certamente impaziente di mettersi a correre fuori da quella gola. Arwen sorrise e passò la mano sul muso dell’animale: tra padrone e cavalcatura ci sarebbe stata una grande sintonia, sembrava. Al giovane puledro non disse nulla, avrebbe avuto altri maestri, e tutto sommato di sentiva meno preoccupata per il giovane Uomo di quanto non lo fosse per i suoi fratelli. Forse non avrebbe dovuto esserlo dato che i secondi erano guerrieri provetti da anni, mentre il primo non aveva ancora affrontato un vero combattimento; eppure non poteva farne a meno: anche se voleva bene ad Estel e si rendeva conto dei pericoli che andava ad affrontare, la sua apprensione era più per Elladan ed Elrohir. Infondo erano la sua famiglia.
Quando sentì i passetti del ragazzo avvicinarsi, si girò per guardarlo e lo vide che si passava una mano sugli occhi cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli avevano reso lucido lo sguardo. «Non dirmi che ti metti a piangere, giovane Ramingo» disse allora la giovane a mezza voce. Forse non si preoccupava per lui perché era tanto giovane da sembrarle onnipotente: nulla e nessuno avrebbe mai fatto male ad un ragazzino tanto dolce e fragile. Aveva fiducia nella fortuna del suo piccolo amico.
«Tu non sei triste perché parto?» chiese Estel per evitare di parlare delle sue quasi-lacrime.
Lei piegò il capo da un lato riflettendo sulla risposta, poi fece un sorriso lieve. «Sì che lo sono, ma non voglio che l’ultimo ricordo che avrai di me sia una ricordo pieno di tristezza» confessò infine. «Se ti ricorderai di me, dopo tanti anni, voglio che l’immagine che avrai di me sia sorridente»
«Cosa significa “se”? Certo che mi ricorderò di te» borbottò Estel prendendo le redini del puledro e fissando il proprio fagotto alle cinghie della sella. «Non è possibile che me ne dimentichi»
«Non si può mai sapere» ribatté Arwen stringendosi nelle spalle. «Vivrai tante avventure e imparerai tante cose. Incontrerai tante persone, tante ragazze» precisò facendo un passo indietro. «E non è nemmeno detto che io sia qui il giorno in cui dovessi tornare»
«Magari sì, chi può dirlo?» insistette Estel salendo in sella e girando lo sguardo sui pochi altri Elfi presenti. Sul suo giovane viso fu subito chiara la delusione.
«Non è qui» sussurrò la fanciulla notando quell’occhiata. «È dovuto partire di fretta nel cuore della notte. Ci state lasciando tutti!»
«E non mi ha salutato?» chiese il ragazzo sorpreso
«La Terra di Mezzo è vasta, ma le nostre missioni sono collegate: è probabile che lo incontreremo un giorno su un sentiero, o che vedremo il suo fuoco brillare in una notte buia» si intromise Elrohir facendo muovere il cavallo per affiancarsi ad Estel. «E questo, Glorfindel lo sa bene. Avrà lasciato che tu dedicassi i tuoi saluti a chi difficilmente incontrerai di nuovo».
Arwen fissò il ragazzo annuire, non del tutto convinto, quindi gli Elfi presenti intonarono un canto di saluto alla partenza e i tre cavalieri fecero il loro saluto definitivo al Signore di Imladris. Questi rivolse loro le sue ultime parole di speranza sul viaggio, quindi le briglie vennero tirate e i cavalli si avviarono verso l’uscita: Elladan in testa, Estel al centro ed Elrohir per ultimo.
Prima che il puledro varcasse l’arco e imboccasse il sentiero per lo spiazzo di pietra dell’ingresso, il giovane si voltò un’ultima volta. Aveva gli occhi brillanti, ma quella luce non era data da delle imminenti lacrime, né da paura o rimpianto: era una luce di pura eccitazione, erano occhi carichi di aspettative, di speranze e di emozione. E quella sua ultima occhiata non fu per chi era stato suo padre pur non essendolo realmente, né per l’unico familiare rimastogli in vita. Arwen si scoprì stupita di constatare che quell’ultimo sguardo rivolto al passato, prima di lanciarsi al galoppo nel futuro, fu per lei.

Per lungo tempo dentro di sé si erano agitati sentimenti contrastanti: quella non era una partenza temporanea come già ne aveva fatte, e non sarebbe tornato dopo quattro giorni, né dopo una stagione o dopo un anno; si parlava di molti anni. L’aveva desiderata a lungo e poi aveva realizzato anche che molte delle persone con cui aveva sempre condiviso la sua vita non ne sarebbero più state parte per lunghissimo tempo, e forse non le avrebbe riviste prima di dieci anni. Questo pensiero lo aveva lacerato a lungo, facendogli evitare di parlare della partenza con Arwen, Glorfindel, sua madre ed Elrond: aveva temuto cos’avrebbero detto e non aveva voluto sentire parole con il sapore amaro della separazione.
Qualcuna l’aveva sentita lo stesso e quella mattina si era svegliato ancora diviso tra il voler passare intensamente quegli ultimi momenti con le persone che amava, salutandole con calore, e il non volerlo fare affatto, fuggendo subito sul cavallo, per il timore che la separazione fosse troppo struggente.
Alla fine non aveva fatto né l’una né l’altra cosa, ma più una via di mezzo. Quello che lo sorprese fu che, una volta girata la schiena a tutto e tutti, il suo cuore era diventato improvvisamente leggero.
Lui e i suoi compagni di viaggio trottarono a passo sostenuto lungo gli stretti sentieri della gola di Imladris. Varcarono il primo arco e attraversarono lo spiazzo di pietra. Sfilò di fianco alle due statue dei guerrieri elfici e improvvisamente, dopo tantissimi anni, gli riaffiorò alla mente un ricordo di quando era molto piccolo: guardava quelle stesse statue dal basso e le ammirava, ma Elrond gli aveva detto che non avrebbe mai potuto essere come loro. Superandole e imboccando il primo stretto sentiero, con il vento freddo dell’alba gli pungeva la pelle e lo costringeva a socchiudere gli occhi, ricordò anche un’altra cosa. “Non potrai mai essere come loro” aveva detto, ma poi aveva aggiunto: “Tu puoi essere molto di più di un semplice guerriero”. Non sapeva come mai quel ricordo gli tornasse alla mente solo in quel momento nonostante fosse passato più volte vicino a quelle statue negli anni passati, ma strinse le mani sulle briglie e respirò profondamente sentendosi un po’ più sicuro di sé, un po’ meno affranto e più coraggioso.
Avrebbe voluto galoppare in testa a quel piccolo trittico e lanciarsi di corsa fuori dalla gola, ma da quel momento in poi si rese conto che non stava più giocando, che non era più nella fase dell’allenamento. Si faceva sul serio e se in futuro avesse voluto rendere orgogliose le persone che aveva salutato quel giorno, se voleva rendere onore a suo padre, anche se il suo era un pensiero su cui non si era mai soffermato molto spesso, si doveva impegnare al massimo: ascoltare, stare alle regole, sopportare, non lamentarsi. Elladan ed Elrohir non erano più dei maestri, ma dei compagni più esperti: un suo errore e avrebbero potuto rimetterci anche loro.
In quella prima alba di cammino, proprio all’inizio del suo viaggio, Aragorn realizzò che combattere, sopravvivere, uccidere, non erano azioni che avrebbe svolto meglio pensando a proteggere se stesso, ma piuttosto pensando di farlo per gli altri: perché non corressero pericoli, perché potessero rivedersi. Si era messo in sella con l’infantile fantasia di arrivare un giorno a comandare un drappello di guerrieri coraggiosi, in qualità di loro valoroso capitano; ma usciva dalla gola di Imladris con il desiderio un giorno di stare al fianco di quei cavalieri e non alla loro testa, sperando di essere semplicemente un compagno degno di fiducia, quello che qualsiasi guerriero vorrebbe avere a guardargli le spalle.

Frasi dall'elfico e altre note al testo
Siano le tue mani portatrici di guarigione (la scritta sul regalo di Elrond)
È lui?
• Lo spazio in cui si incontrano Elrond e Aragorn è lo stesso che vediamo in Un'Avventura Inaspettata, dove si svolge il Bianco Consiglio


Il ritardo è imperdonabile. Abbiate pietà, la sottoscritta sta facendo una fatica enorme nel costruirsi una vita da zero in paese dove niente risulta facile (devo fare persino attenzione quando compro le uova, altrimenti finisco per comprare il tipo sbagliato… che nervi!). Questo periodo è pieno zeppo di studio, ma in seguito avrò un mese di vacanza ed è mia ferma intenzione darmi da fare con i capitoli, quindi, vi prego, non abbandonate il nostro Estel! Soprattutto non ora che viene il bello!
Un appunto. La quest di Erebor si svolge nel 2940 della Terza Era, quando Aragorn ha 11 anni e Bilbo 50, ma non sappiamo a quanti anni di preciso il ragazzo lascia Imladris per il primo viaggio, quindi mi son presa la libertà di decidere che i due avvenimenti coincidessero. Mi ha dato la possibilità di far fare al nostro adorabile Hobbit un cameo che mi ha divertito molto scrivere, ma poi ho pensato anche al film e ho voluto includere la scena del Bianco Consiglio che PJ ci ha mostrato. O meglio, ho narrato alcuni minuti prima che quella scena avvenga, dando occasioni di cameo anche ad altri personaggi.
Il capitolo è più breve dei precedenti, ma sinceramente non mi andava di dilungarmi troppo sui sentimenti dei personaggi, né di descrivere quelli di tutti quanti: sarebbe stato anche un po’ palloso da leggere. Già così ho il timore di essere stata noiosa, in realtà! Ma ci vuole un capitolo di stacco. Nel prossimo avremo il nostro eroe finalmente alle prese con il vero campo di battaglia, con la vera crescita da ragazzo a uomo. E Arwen? Penserà a lei?

I miei più sentiti ringraziamenti a quelle due sante donne che si prestano alla cura della parte in elfico dei capitoli: melianar e tyelemmaiwe; e a chi ha dedicato un po’ del suo tempo a lasciare una recensione scrivendomi i propri pensieri riguardanti lo scorso capitolo: Kikyou, Venice93, Magali_1982 e leila91; le critiche e le osservazioni aiutano sempre a migliorare e mi sostengono nonostante le difficoltà di tempo. Grazie!

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