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Chi mi conosce saprà
che di solito le note le metto sempre alla fine del capitolo, ma in questa
particolare occasione ho pensato fosse meglio fare qualche precisazione
doverosa.
Questa breve storia,
qui divisa per ragioni di lunghezza in cinque capitoli, la si può considerare
una via di mezzo tra uno spin-off e uno sliceof life della mia storia TalesOfCelestis.
In essa ho voluto
raccontare uno spaccato di Kyrador, la città dove sono
ambientate buona parte delle vicende della trama principale. Anzi, per essere
più precisi ho voluto raccontare la città stessa tramite i suoi luoghi più
simbolici ed importanti, ma anche le sue contraddizioni, le sue molte facce e i
suoi stessi abitanti, incarnando il tutto nelle vicende quotidiane di 5 diverse
persone.
Per poter leggere
questa storia non è necessario conoscere la vicenda principale, volendo anzi
che costituisca una sorta di “presentazione” al vero TalesOfCelestis, ma sono
sufficienti poche brevi informazioni, che comunque saranno via via enunciate nel corso della vicenda.
Ecco, penso di aver
detto tutto.
Vi lascio alla
lettura. Perdonate la lunghezza forse eccessiva, ma ho cercato di tagliare il
più possibile.
A presto!^_^
Carlos Olivera
Chi cerca di realizzare
il paradiso in terra,
sta in effetti
preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.
(Paul Claudel)
1
Sorgeva il sole su Kyrador, sulla più bella
città di Celestis.
Per i suoi tre milioni di abitanti iniziava una
nuova giornata. Una giornata come tante altre, con i suoi ritmi, i suoi eventi
quotidiani, la sua routine.
Ally detestava svegliarsi al
mattino, e ogni volta ci volevano le cannonate per riuscire a farle sollevare
la testa dal cuscino.
Sua madre dovette chiamarla quattro volte dalla
cucina prima di ricevere una confusa risposta d’assenso, e puntuale come ogni
mattina si ripeté il rituale della corsa dei cento metri. L’autobus per la
scuola elementare passava alle otto e undici precise, e perderlo voleva dire
arrivare in ritardo quasi di sicuro, con inevitabile nota di biasimo.
«Sono in ritardo!» esclamò la bambina rischiando di
capitombolare dalle scale.
Giusto il tempo di un bicchiere di succo, una fetta
di pane, un bacio a mamma e papà e Ally era in
strada.
«Bene, dovrei farcela.» disse tra sé correndo verso
la fermata.
Così, una volta tanto, poté permettersi di
rallentare il passo, e di godersi almeno un po’ la quiete della prima mattinata
in quel pacifico e ameno quartiere residenziale, lontano dai grattacieli e dai
palazzoni del centro, una tranquilla via costellata di amene casette a due
piani con giardino, staccionata e anche qualche piscina.
Il caldo non era eccessivo, benché fosse ormai quasi
estate; una piacevole brezza giunta dalle montagne aveva spazzato via la bruma
della prima alba, pulendo l’aria e riempiendola allo stesso tempo di una
delicata fragranza di pino, che andando a mescolarsi con la salsedine portata
dal mare generava un aroma che avrebbe ridato energia anche al più incallito
dei pigroni.
Laggiù, in lontananza, si intravedeva il centro
della città, bellissimo, arroccato sulla sua collina come un’acropoli,
puntellato di grattacieli e scintillante di bianco.
Solo in quel momento Ally
si ricordò cosa vi fosse in programma quel giorno. Era lì che lei e la sua
classe erano diretti, al museo nazionale delle scienze e della storia, e di
colpo le venne voglia di correre nuovamente, tanto la eccitava il pensiero di
ciò che avrebbe visto.
Con il cuore che batteva forte per l’attesa Ally giunse alla fermata dell’autobus trovandovi tutti i
suoi amici, tutti impazienti come lei. Meracle, la
sua compagna di banco, era al settimo cielo; la scienza e la storia antica di Celestis erano la sua grande passione, e anche se ormai
conosceva a memoria il museo dove erano ospitati i resti delle prime navi
coloniali giunte sul pianeta quasi quattrocento anni prima ad ogni nuova visita
c’era sempre qualcosa da scoprire.
E poi il museo era così bello.
Chi lo aveva costruito aveva voluto farlo somigliare
ad una culla, un lettino rovesciato dalla forma vagamente pentagonale che
custodiva i ricordi della prima infanzia di tutti coloro che vivevano non solo
in quella città, ma nel mondo intero.
«Vedrai, ti piacerà un sacco.» disse Meracle all’amica appena ebbero preso i propri soliti posti
a bordo del pulmino «Dentro è così maestoso, e così straordinario. Pensa, ci
sono persino alcuni resti delle prime navi coloniali, e persino una
ricostruzione in scala interamente visitabile».
Meracle era andata avanti
a decantare le meraviglie del museo dal giorno in cui si era saputo della gita,
e ormai aveva finito per contagiare anche Ally, che
non vedeva l’ora di poter vedere tutte quelle magnificenze con i suoi occhi.
Abbandonato il tranquillo quartiere residenziale in cui le due
ragazzine vivevano con molti loro compagni l’autobus imboccò la
circonvallazione sopraelevata che come un anello cingeva il centro cittadino,
accogliendo le innumerevoli arterie stradali che arrivavano sia da altre parti
della città sia dall’esterno.
Da lassù, molti palazzi che prima sembravano enormi
ora apparivano piccini piccini, fili d’erba sopra cui
camminare che spuntavano da un pregevole giardino di strade più basse, parchi e
giardini, popolato di persone, animali e altre innumerevoli forme di vita.
Sembrava quasi di volare, tanto la strada arrivava
in alto, e per lei fu un po’ come provare quell’emozione per la prima volta,
anche se solo con gli occhi della fantasia.
Volare era un privilegio riservato a pochi.
Troppo poche le tratte sufficientemente lunghe da
rendere necessario l’uso di un aeromobile.
Come minimo bisognava fare un salto di due o tre
nazioni, altrimenti lo spazio era insufficiente per le manovre effettuate dagli
aerei, che prima salivano velocissimi fin quasi a lambire lo spazio profondo e
subito dopo riscendevano verso il basso, dritti verso la destinazione. Agli
occhi di chi stava a bordo sembrava di non essersi neanche mossi, ma in realtà
erano state percorse diverse migliaia di chilometri, impossibili da percepire
nitidamente, il che, a detta di chi l’aveva provata, rendeva solo l’esperienza
più entusiasmante e fuori dall’ordinario.
Coi treni, quelle rapide frecce che percorrevano da
un capo all’altro ogni punto del pianeta tracciando un’intricata ma molto
ordinata rete di rotaie, si arrivava dappertutto, e in tempi brevissimi. Niente
di paragonabile ai vecchi treni terrestri, che a leggere le cronache e gli archivi
al confronto dovevano sembrare tante tartarughe appesantite dal loro guscio.
Delle aeronavi da crociera poi, un viaggio che si
faceva una volta nella vita e che restava nell’anima, neanche a parlarne. Tanto
quelle che viaggiavano attraverso i continenti quanto quelle che esploravano lo
spazio avevano costi proibitivi, e solo i più ricchi potevano permettersi più
di una crociera.
Molti dei loro genitori lo avevano provato, magari
in occasione della luna di miele, sfruttando gli sconti riservati ai novelli
sposi, e forse anche per questo molte delle compagne di scuola di Ally non vedevano l’ora di sposarsi: volevano a tutti i
costi provare quelle emozioni meravigliose.
Vedere l’oceano stellare, oppure Celestis
dall’alto, fin oltre le nuvole, era qualcosa che sfidava la loro immaginazione
al di là ogni limite, cosa assai difficile per una mente come la loro, che con
le meraviglie del loro tempo conviveva praticamente tutto il giorno tutti i
giorni.
Purtroppo, il centro cittadino era tutt’altra cosa,
essendo anche mattina presto.
Lasciata la circonvallazione all’uscita quattordici,
l’autobus si ritrovò ben presto imbottigliato in un colossale ingorgo.
«Piccolo contrattempo.» disse la maestra Maifang affacciandosi dal sedile con quel suo sorriso un
po’ infantile «Ma non temete, arriveremo comunque in anticipo. Intanto, per far
passare il tempo, perché non riproviamo il coro per la recita della settimana
prossima?».
Quasi subito Ally si
chiamò da parte.
C’erano troppe cose da vedere per avere tempo e
voglia di cantare.
I palazzi attorno a lei, se un attimo prima le erano
sembrati minuscoli, ora invece facevano sembrare lei solo una formichina, un
essere piccino di fronte all’imponenza degli edifici più alti di tutta la città.
Ogni grattacielo era più alto di quello accanto, in
una sorta di scala armoniosa che di tetto in tetto arrivava fino alla Marble Tower, la mitica sede centrale dell’Agenzia, il cuore del
centro cittadino come di tutta Kyrador, anzi, del
mondo intero.
Di tutti gli edifici era sicuramente il più bello,
con quella sua forma richiamante una lancia conficcata a testa in su nel
terreno, quello scintillio omogeneo di vetro traslucido, quelle pareti bianco
brillante che le davano il nome, e in cima quel possente stemma in oro e krylium, grande da solo come la casa di Ally,
che come un gigantesco occhio sembrava voler sorvegliare ogni cosa,
silenziosamente ma senza fallo.
Per puro caso l’autobus era stato costretto a fermarsi proprio ai
piedi del Sunset Building, probabilmente il solo
edificio del centro cittadino capace di rivaleggiare in grazia e bellezza con
la Marble Tower.
Grazie al soffitto trasparente del veicolo Ally poté ammirarne appieno l’eleganza, la linea slanciata
che si protendeva verso l’alto descrivendo una curva su uno dei suoi lati, tale
da farlo sembrare, a paragone dei molti palazzi rigidi e squadrati che lo
circondavano, un cavallo bianco in una mandria nera.
Sulla cima, terminante in una curva pronunciata, si
allungava da quest’ultima una larga piattaforma circolare, sorretta da quattro
possenti colonne diagonali, che altro non era se non il leggendario SunsetCafé, un locale tra i più
esclusivi di tutta la città.
Tutte le mattine, al sorgere del sole, la cupola
vitrea che solitamente lo avvolgeva veniva abbassata, dando modo ai commensali
di poter godere della spettacolare vista dei primi raggi di luce che sbucando
da oltre le montagne si incuneavano tra i palazzi per arrivare fino a lì,
creando un effetto come a specchio che sfruttando le vetrate e i lucernari
degli edifici circostanti inondava il locale di un bagliore quasi
sovrannaturale.
Era un ambiente riservato a pochi, dove anche solo
consumare una bibita poteva arrivare a costare lo stipendio di una giornata,
figuriamoci farlo accomodati ad uno dei piacevolissimi divani di morbido
tessuto rivolti verso il mare o a qualcuno degli eleganti tavoli circolari in
legno scuro coperti da tovaglie di pura seta bianche come le nuvole.
Il caffè era particolarmente frequentato alla
mattina presto, dato il gran numero di uffici e sedi diplomatiche che
popolavano tanto i palazzi circostanti quanto lo stesso Sunset
Building, che oltre alle sedi centrali di molte importanti aziende ospitava
anche l’ambasciata di Fhirland.
Lo stesso ambasciatore Klose
era solito recarvisi quasi ogni mattina con la moglie e i due figli.
L’ambasciatore, un uomo che si era fatto a solo,
aveva cercato di inculcare il culto del duro lavoro in entrambi i suoi figli,
ma se il maggiore Christofer aveva recepito il
messaggio, ed era ormai ad un passo dal diventare un suo collaboratore, la
minore Pam era per lui una inesauribile riserva di
preoccupazioni.
Benché fosse già all’ultimo anno di liceo, quella
ragazza non aveva mai lavorato un giorno della sua vita, e spesso, troppo spesso
per un uomo nella sua posizione, si era messa nei guai con i suoi
atteggiamenti.
Tra i due era uno scontro continuo, e quando andava
bene si ignoravano a vicenda, come quella mattina.
L’ambasciatore si sentiva in parte responsabile per
quella situazione. Pam era nata in un momento in cui
la sua carriera stava subendo una rapida svolta, che lo avrebbe portato da
anonimo politico di provincia a figura di spicco del proprio Paese a livello
internazionale, e per riuscire ad arrivare a quel punto si era trovato
costretto a trascurare spesso la famiglia.
Per Christofer non era
stato un problema, abituato com’era a vivere lontano da casa per frequentare
prima il collegio e poi l’accademia di magia, ma Pam
doveva aver avvertito molto questa mancanza, che ora sfogava comportandosi in
modo impulsivo e talvolta immaturo.
«Forse è il caso che ti sbrighi.» la rimproverò
l’ambasciatore vedendo che Pam esitava a finire la
colazione «O farai tardi anche questa mattina.»
«Hai così tanta fretta di liberarti di me?» sibilò
la ragazza chiudendo svogliatamente la finestra per messaggi olografica del
comunicatore montato sul suo orologio.
«Io non farei lo spiritoso, signorina. Fra due mesi
ci saranno gli esami, e sai meglio di me che se non li passi potrai scordarti
l’ammissione all’accademia di magia.»
«Dai quasi per scontato che io voglia frequentarla.
Non ti viene neanche in mente che potrei avere altre ambizioni?»
«Per esempio? Andare a ragazzi e locali notturni?
Sono stanco di doverti venire a prendere nelle stazioni
di polizia, signorina. O passi gli esami, e con un voto che non sia la solita
sufficienza, o ti avverto che per te le cose potrebbero farsi davvero
complicate.
Spero di essere stato chiaro».
Pam rispose all’ultimatum
alzandosi stizzita dal tavolo facendo quasi cadere la sedia.
«Come vuoi.» disse recuperando la giacca e lo zaino
«Tanto è la tua specialità. Valutare la gente solo in base a quanto ti
gratifica. Stupida io a pensare che con me fosse diverso perché sono tua
figlia.»
«Non osare rivolgerti a me con questo tono. Pam!» ma ormai la ragazza se n’era già andata.
Pam lasciò il Sunset
Building incamminandosi nel traffico cittadino.
La giornata si preannunciava soleggiata, e così
molti avevano lasciato a casa la macchina ripiegando sui mezzi pubblici, e
anche se questo non impediva al centro di essere comunque congestionato dal
traffico il caos sui marciapiedi era se possibile anche migliore.
I palazzi erano così alti che a meno di non avere il
sole a picco le strade, soprattutto la mattina presto, erano perennemente
avvolte nell’ombra, e anche se i combustibili fossili o inquinanti erano ormai
un ricordo ci pensava l’aria viziata per la troppa gente ad appesantire
l’atmosfera.
Alle volte quella parte della città riusciva ad
essere davvero invivibile.
Un po’ discostate rispetto al centro cittadino vero
e proprio si innalzavano tre colline non troppo alte, i soli avvallamenti di
quel territorio dominato invece da vasti appezzamenti pianeggianti che
scivolavano placidamente verso il mare, e in cima ad una di queste vi era la
Scuola Superiore Alloway, così chiamata in memoria
del comandante della Nave Coloniale Aurora che aveva toccato terra proprio nel
luogo in cui sarebbe sorta un giorno Kyrador.
Non era particolarmente ripida, ma ciò nonostante
doverla risalire tutte le mattine o quasi era uno dei tanti motivi per i quali Pam aveva sempre detestato quella scuola, e poco importava
che Angin Street, il grande viale pedonale che da una
strada laterale del centro sbucava proprio davanti ai cancelli dell’istituto,
fosse tra i più apprezzati della città.
Ciottoli bianchi e rossi coprivano il selciato,
descrivendo piacevoli motivi geometrici, due file di aiuole disposte l’una di
fronte all’altra ospitavano bassi alberelli, e ai piedi dei molti lampioni
trovavano spazio confortevoli panchine per riposare o godersi la tranquillità.
Vetrine di negozi, pasticcerie e altri locali
adornavano il tutto, rendendo Angin Street una delle
mete favorite di turisti e vacanzieri, ma anche semplicemente di abitanti alla
ricerca di un luogo dove trascorrere il tempo libero.
Pam era seriamente
intenzionata ad andare a scuola, se non altro per evitare nuove noiose
discussioni con suo padre, ma il caso volle che proprio ad un passo dai
cancelli incontrò Shirley e Marie, le due sole persone che potesse davvero
definire amiche, le quali a loro volta quella mattina avevano molta poca voglia
di entrare in classe.
A quel punto la ragazza prese la sua decisione.
«Al diavolo tutto.» sbottò dando un calcio alla
elegante cancellata «Andiamo a farci un giro, ci state?»
«Vuoi marinare la scuola anche oggi?» domando Marie,
che per quanto insofferente al protocollo e alla noiosa routine scolastica come
Shirley teneva non poco al proprio futuro
«Perché, voi no? Personalmente oggi tutto mi fa gola
tranne ascoltare l’ennesima lezione di storia.»
«Hai litigato di nuovo con tuo padre?» le chiese
Shirley
«Non mi và di parlarne. Allora, siete con me o no?».
Le due ragazze esitarono un momento, ma poi come al
solito si lasciarono convincere e seguirono la loro amica nel suo ennesimo
colpo di testa.
Mentre scendevano lungo la strada che avevano appena
percorso nel senso opposto, le loro strade si incrociarono con quella di uno
dei più curiosi e strani personaggi che la città avesse mai offerto; calzoni
bianchi, camicia bluette a quadretti, panciotto imbottito color cuoio,
portamento leggermente curvo ma ugualmente elegante, mani dietro la schiena ed
espressione gentile, affabile, resa ancor più apprezzabile da una non troppo
rada chioma argentata.
Lo chiamavano Signor Loyde,
come un personaggio di una popolare serie per bambini cui assomigliava, visto
che, tra quelli che lo conoscevano o avevano sentito parlare di lui, nessuno
sapeva il suo vero nome.
Lui passeggiava. Passeggiava sempre.
Da una parte all’altra, passeggiava per Kyrador come un qualsiasi visitatore occasionale, posando
con fare a metà tra l’assorto e il contemplativo brevi sguardi su ogni cosa
catturasse la sua attenzione, dai numeri sui tombini alle tende delle finestre.
Ogni tanto si fermava, indifferente al traffico di
una strada o all’andirivieni ininterrotto di un marciapiede, focalizzando tutte
le sue attenzione su un particolare qualsiasi, fosse esso l’architettura di un
palazzo o la particolare impronta del volto di una statua, quindi si rimetteva
in cammino, alla ricerca di qualche altro posto da esplorare.
Non vi era luogo della città che non conoscesse;
conosceva ogni via, ogni strada, ogni palazzo. Era come una guida turistica
vivente di Kyrador. E per chi aveva voglia e tempo di
ascoltarlo, si rivelava ogni volta un inesauribile pozzo di storie, aneddoti, e
qualunque altra cosa riguardasse sia la storia gloriosa sia l’esistenza
quotidiana della città più bella del mondo.
Con il tempo, sempre più persone avevano avuto modo
di conoscerlo, e alcune gli erano diventate persino amiche; persino una piccola
emittente cittadina si era interessata a lui, dedicandogli un servizio
intitolato Il Signor Kyrador,
ma nonostante ciò la sua figura rimaneva avvolta da un che di misterioso.
Secondo alcuni era un agente della MAB in pensione,
secondo altri un ex poliziotto, secondo altri ancora un’artista, forse
originario di un altro Paese, giunto come tanti altri in città ed
innamoratosene a tal punto di averla eletta a propria nuova casa e di aver
fatto della sua scoperta una personale ragione di vita.
A chi gli aveva chiesto lumi sul suo passato, o su
cosa avesse fatto nella vita, la risposta, accompagnata da un sorriso gentile,
era stata sempre la stessa.
«Un po’ tutto e un po’ niente.»
Stessa cosa per chi gli aveva domandato quanti anni
avesse, cui rispondeva sempre con un vago “Abbastanza.”
senza capo né coda.
Non era la prima volta che le ragazze lo
incontravano, visto che non era raro vederlo passeggiare su e giù per Angin Street, con l’occhio solo parzialmente catturato
dallo splendore delle vetrine, ma mentre Shirley e Marie non si negarono al suo
gentile saluto quando questi le vide approssimarsi Pam,
al contrario, si mostrò leggermente seccata, anche se cercò di non darlo a
vedere.
«Buongiorno signorine.» disse portando malamente
l’indice destro alla fronte, quasi a scimmiottare un saluto militare
«Buongiorno, signor Loyde.»
rispose Marie «Era da molto tempo che non la incontravamo.»
«Effettivamente. Ma era da un po’ che non mi
ricapitava di transitare da queste parti.»
Poi, la sua attenzione fu catturata dal nastro che
cingeva delicatamente il colletto delle uniformi scolastiche delle tre ragazze,
la cui eleganza ben si confaceva al prestigio di una scuola illustre come
l’accademia Alloway.
«Il colore è cambiato» disse dopo aver osservato per
molti secondi quello di Pam, suscitando oltretutto
nella ragazza un misto di imbarazzo e repulsione. «Prima era un rosso più
delicato, come il petalo di una rosa. Ora invece sembra di qualche gradazione
più scuro. Direi un color vino.»
«Non le sfugge proprio niente, Signor Loyde» sorrise Shirley. «In realtà è perché abbiamo fatto
il cambio di stagione. L’altro nastro è dell’uniforme invernale.»
«Ah, capisco. Sapete, una volta le ragazze della
vostra scuola portavano una uniforme diversa.
Mi ricordo di averla vista la prima volta proprio
qui, in una mattina di primavera.
Era molto bella. Color grigio perla. Con un colletto
bianco, e un nastro blu. E le ragazze avevano tutte una cartellina di pelle
marrone. Erano così eleganti. Sembravano già donne mature e madri di famiglia.
Come voi del resto.
D’altronde, trovo che esaltare la femminilità e
l’eleganza sia il pregio maggiore delle uniformi scolastiche.»
«Ragazze, avete finito di fare salotto?» domandò
spazientita Pam.
«Scusatemi, mi sono dilungato troppo. Mi ha fatto
piacere incontrarvi, signorine. Spero di rivedervi presto.»
«Arrivederci, Signor Loyde.»
Mentre si allontanavano Pam
si volse a guardare nuovamente a guardarlo, incrociandone brevemente lo sguardo
fino a che l’anziano, rivolto un ultimo saluto, non le diede le spalle
riprendendo a sua volta la propria strada.
«Si può sapere che ci trovate in quel vecchio?»
domandò notando, non senza stupore, le guance rosse delle due amiche
«Beh, è molto affascinante, devi ammetterlo» disse
Marie quasi a volersi giustificare.
«Avrà settant’anni come minimo.»
«Sarà anche anziano, ma sa come adulare le persone»
rispose Shirley con sguardo sognante. «E ogni volta che lo guardo negl’occhi,
mi sento così strana. È come se tutto il mio corpo tremasse all’improvviso.»
«Dite un po’ non sarete mica gerontofile?»
«Piuttosto, l’uniforme di cui ha parlato» disse ancora
Marie. «Se non sbaglio veniva usata durante i primi anni di esistenza della
nostra scuola, quasi centocinquant’anni fa. Come fa a
dire di averla vista?»
«Mi sembra ovvio che non ci sta tanto con la testa»
tagliò corto Pam. «Ci sono le vecchie foto nell’atrio
principale, e si sarà convinto di averle viste di persona.
E ora, se non vi spiace, gradirei parlare d’altro.»
Pam e le sue amiche girovagarono qualche ora
per le strade attorno alla scuola, per poi decidere, sul fare di mezzogiorno,
si spostarsi nella grande zona commerciale nei pressi della via di Saint Augustine, dove al termine dello shopping si sarebbero
concesse una lunga e molto rilassante passeggiata pomeridiana, magari condita
da un cocktail in uno degli innumerevoli caffè che costeggiavano ogni angolo
della via del relax e del divertimento più famosa di Kyrador,
secondo sola all’altrettanto bella, ma indubbiamente meno caratteristica, Angin Street.
Non si trattava di un vero e proprio centro
commerciale, ma piuttosto di una cittadella, racchiusa entro una immaginaria
cinta muraria formata dalle pareti posteriori degli edifici che componevano la
cinta esterna, con vari ingressi, un chiostro centrale all’aperto e tre piani
di negozi, sia generici che specializzati dove si poteva trovare di tutto, dai
prodotti per l’igiene alle autovetture.
Forse non era il più grande di Kyrador,
ma di sicuro era il meglio frequentato, soprattutto per la presenza di molti
marchi prestigiosi.
Era una specie di tempio dell’opulenza, dove tutto
era a portata di mano, ma senza dimenticare il buon gusto e la ricerca del
bello che pervadeva buona parte della città.
Oltre ai negozi, ai ristoranti e ad altri esercizi
la cittadella ospitava anche un vasto giardino, un parco giochi per i bambini,
una palestra attrezzata e in ultimo, nei sotterranei, persino una vasta
piscina, ritrovo favorito di molti giovani e impiegati al ritorno dall’ufficio.
Il giardino al centro della struttura ai piedi della
torre principale era attrezzato anche di panchine e divanetti, ed era ad uno di
questi che era seduto, con una cert’aria ansiosa, Vick
Owen, un piccolo truffatore che si era già fatto conoscere dalla polizia ma a
cui la comprovata affidabilità come informatore aveva sempre permesso di
evitare la galera.
Aveva appuntamento con un compratore, qualcuno al
quale piazzare a buon prezzo del materiale molto importante di cui era entrato
in possesso recentemente che avrebbe provocato una vera e propria esplosione
nei centri di potere della città e permesso a lui di vivere di rendita per il
resto della sua vita.
Per lui, cresciuto lontano dal lusso e dallo sfarzo
dei distretti centrali, era come aver trovato l’eldorado, e poco importava se
si trattasse di qualcosa con indubbi risvolti pericolosi, data l’importanza
delle informazioni.
Non era stato facile trovare qualcuno in grado di
credergli, e di fornirgli nel contempo sufficienti garanzie per tutelarsi
prima, durante e dopo la transazione, ma alla fine era riuscito a raggiungere
un accordo con il procuratore distrettuale Griffith, che gli aveva promesso un
generoso compenso e una nuova identità con cui trasferirsi in un’altra nazione.
Tuttavia, qualcosa lo turbava.
Benché si trovasse nel luogo convenuto l’ora
stabilita per l’incontro con il suo compratore era passata già da qualche
minuto, e ora cominciava ad essere nervoso.
Spazientito telefonò al procuratore nel suo ufficio,
e grande fu il suo stupore quando, aprendo la finestra di comunicazione, vide
comparire non lui, ma quella che doveva essere la sua segretaria, una ragazzina
castana in uniforme dall’aria innocente e semplice.
«Si può sapere dov’è finito il procuratore?»
brontolò
«Sono spiacente.» rispose l’angelo in divisa «Il
procuratore non c’è. È ad una colazione con il giudice Birmington.»
«Come sarebbe a dire a colazione con il giudice!?
Avevamo appuntamento al centro commerciale di Saint Augustine
venti minuti fa.»
«Veramente, il procuratore aveva detto di avere un
appuntamento questa mattina prima dell’incontro col giudice, ma prima di andare
via mi ha comunicato di averlo cancellato.»
Vick cadde dalle nuvole,
ma da uomo della strada quale era non impiegò molto per capire cosa stava
succedendo.
Ovviamente non poteva saperlo, ma la verità era che
il procuratore, la sera prima, aveva ricevuto un messaggio, apparentemente
proprio da parte di Vick, in cui lui annunciava di
aver trovato un compratore migliore e di avere per questo rinunciato
all’affare.
Nel momento in cui vide sopraggiungere da dietro un
edificio un enigmatico figuro, tarchiato, quasi calvo e in occhiali da sole,
che vistolo prese a camminare nella sua direzione con passo deciso Vick capì che qualcosa era andato decisamente per il verso
sbagliato, e come se avesse avuto il diavolo alle costole si alzò e se la diede
a gambe, rapido ma senza correre, per non creare scompiglio e potersi
confondere tra la folla.
Il cuore gli batteva in petto, mentre sentiva quella
presenza minacciosa farsi sempre più vicina, e cercando per quanto possibile di
mantenersi calmo.
Nel frattempo Pam, Marie e
Shirley avevano visitato le boutique, i negozi di cosmetici e anche
l’autosalone, fantasticando del momento in cui avrebbero finalmente posseduto
una macchina tutta loro, e dando a fondo a tutto quanto avevano nel portafogli.
Erano appena uscite dall’autosalone quando Pam venne urtata accidentalmente Vick,
che troppo spaventato ed assorto nei suoi pensieri quasi non si accorse di
nulla proseguendo per la sua strada.
«E sta attento, cafone!» sbraitò la ragazza
all’indirizzo dello sconosciuto con la giacca da baseball.
Più vicina si fece l’uscita più Vick
aumentò il proprio passo, che varcato l’arco d’ingresso divenne vera e propria
corsa.
Anche l’inseguitore si mise a correre, ma
sfortunatamente per lui quando raggiunse il parcheggio Vick
era già risalito sulla sua carretta e se n’era andato, veloce come la folgore.
Tuttavia, pur essendosi momentaneamente salvato, Vick si sentiva comunque in trappola. Ciò che era successo
era la prova che le persone alle quali le sue informazioni potevano nuocere non
poco lo avevano scoperto, e si erano mosse per impedirgli di parlare.
Non sapeva cosa pensare, o cosa fare.
Una cosa la sapeva: aveva bisogno di aiuto. E decise
di chiederlo all’ultima persona che un truffatore incallito poteva considerare
amica.
Il detective di polizia Sean Neeson sentì
squillare il proprio telefono nel preciso istante in cui era sul punto di
consumare il pranzo che si era portato da casa.
Per un poliziotto di quartiere assegnato alla
stazione principale del nono distretto, la più orrenda e malfamata fogna a
cielo aperto della città, la vita poteva essere già un inferno, e a casa la
situazione non era certo migliore.
Alle soglie della cinquantina il detective era da
poco uscito da una lunga causa di divorzio che gli era costata l’affidamento
dei figli, e anche se in quel particolare momento il lavoro era tutta la sua
vita quando anche quell’unico, piccolo piacere che era il cibo gli veniva a
mancare era segno che la giornata aveva davvero preso la piega sbagliata.
Sbuffando aprì la finestra di comunicazione, e come
vide comparire il volto di Vick la sua pelle nera si
fece per un attimo bianca come il latte.
«Owen!?» disse incredulo «Come hai avuto questo
numero?»
«Sean, tu devi aiutarmi.» rispose lui senza togliere
gli occhi dalla strada o le mani dal volante
«Che vuoi stavolta? Sei finito di nuovo nei guai?»
«Ho per le mani qualcosa di grosso, Sean. Di molto
grosso. E ho bisogno che tu mi aiuti.»
«Ah sì?» rispose sardonico Sean «Come quella volta
che hai piazzato quel ciarpame alla polizia criminale spacciandole per prove di
un caso irrisolto?»
«Sean, tu non capisci! Avevo appuntamento col
procuratore militare, e invece mi hanno mandato un sicario! Ho un assassino
alle costole, chiaro?».
Di fronte alla veemenza rabbiosa del giovane
truffatore il poliziotto cominciò a convincerci che stesse dicendo la verità.
«In che cosa ti sei cacciato?»
«Te l’ho detto, qualcosa di grosso. Di molto grosso.
Abbastanza da spingere chi rischio di mandare all’aria a togliermi di mezzo,
non importa come. Tu devi aiutarmi!
Vediamoci al museo della scienza e ti spiegherò
tutto».
Sean ci pensò un momento, e guardatosi attorno per
esser certo di non avere addosso occhi indiscreti si avvicinò ancora di più
allo schermo abbassando ulteriormente la voce.
«Senti, ora sono in servizio. Ti raggiungo appena
riesco a liberarmi.»
«Sean, io rischio di restarci secco, lo capisci?»
sbraitò Vick sempre più spaventato
«Un’ora, Vick. Un’ora al
massimo e sono da te».
Una chiamata del commissario per una riunione
interruppe in quella la conversazione.
«Ora devo andare Vick.
Ricorda, tra un’ora al museo.»
«D’accordo.» rispose rassegnato il giovane «Tra
un’ora».
Il museo della storia e della scienza in centro a Kyrador
poteva pure essere un tempio della meraviglia e delle infinite potenzialità del
genio dell’essere umano, ma per chi come Jason era costretto a lavorarci era
solo una enorme, immensa costruzione che ogni giorno doveva essere tirata a
lucido da cima a fondo.
Jason era solo uno dei tanti giovani arrivati dalla
campagna in cerca di fortuna nella città più avanti del mondo. Gli avevano
sempre detto che Kyrador era la terra delle
opportunità, dove servivano solo caparbietà e determinazione, il luogo dove
chiunque poteva emergere e diventare qualcuno, e lui dal canto suo aveva un
chiodo fisso: il chandra.
Oltre al fatto che, come molti giovani della sua
generazione, era sempre stato affascinato dallo sport più popolare di tutti,
quello che bramava davvero erano i soldi, la fama, il prestigio che ricopriva
letteralmente tutti i grandi campioni, a cominciare dalla indiscussa stella del
momento, la bella e letale Octavia.
E poi le ragazze. I chandristi
maschi erano una macchina attira prede come poche altre. Non che Jason avesse
problemi sotto questo aspetto, con quegli occhi azzurri e quel visetto gentile
che gli avevano fruttato conquiste a palate, ma un po’ di sana abbondanza era
sempre gradita.
Le speranze e l’ottimismo erano a mille il giorno in
cui aveva messo piede in città, invece dopo due anni tutto quello che era
riuscito ad ottenere era un precariato part-time da pochi spiccioli come
tuttofare al museo, e questo solo grazie all’intercessione del suo compagno di
stanza che gli aveva trovato quell’impiego, altrimenti sarebbe stato
disoccupato.
Accettare la realtà era stata dura, ed il pensiero
di poter un giorno dimostrare le proprie potenzialità realizzandosi come
sognava era l’unica cosa che gli aveva permesso di andare avanti, ingoiando
quella situazione per lui umiliante. Eppure, dopo tutto quel tempo, qualcosa in
lui sembrava essersi spento, quasi come se la solita routine quotidiana fatta
di pavimenti da lucidare, pattumiere da svuotare e bagni da pulire avesse
iniziato a prendere il sopravvento, spegnendo poco per volta il suo ardore
giovanile e tramutandolo in rassegnata e quotidiana monotonia.
I giorni passavano, e così i mesi, e l’occasione non
gli si era ancora presentata, al punto che, passato il momento iniziale, aveva
quasi smesso di affannarsi a cercarla, lasciando scorrere placidamente le
giornate divise tra il lavoro, qualche storia passeggera e tante serate spese
con gli amici e i colleghi a sbronzarsi in qualche bar.
A conti fatti, quella per lui era solo una giornata
come le altre.
Una giornata in cui niente sarebbe successo, e tutto
sarebbe rimasto come prima.
Mettendo piede per la prima volta nel museo della storia e della
scienza, Ally capì come mai Meracle
ne avesse sempre parlato con tanto entusiasmo.
Varcato il monumentale ingresso a forma di tunnel,
realizzato sì da rassomigliare ad una sorta di galleria del tempo, la bambina e
tutti i suoi compagni si ritrovarono immersi in un mondo tra realtà e fantasia.
Non soltanto il frutto di quattro secoli di storia
di Celestis, ma anche antiche testimonianze del
passato e della lunga epopea dell’Uomo sul suo pianeta natale erano ospitate
nelle innumerevoli sale che riempivano i cinque piani dell’edificio.
L’atrio principale aveva la forma di un tronco di
piramide rovesciato, ed il lato che guardava all’esterno era interamente
ricoperto di vetro, che unito all’assenza di edifici particolarmente alti nelle
immediate vicinanze grazie all’ampio cortile permetteva al sole di inondarlo di
luce.
Ad altezze regolari e sempre più protese verso
l’esterno, quasi a formare una imponente scala rovesciata, si stagliavano i
terrazzamenti dei piani superiori, e ovunque era un trionfo del verde grazie
alle innumerevoli aiuole, siepi e persino dei piccoli giardini pensili
ridondanti di piante e fiori.
Completava il tutto uno dei pezzi più famosi del
museo, raffigurato anche nei suoi volantini e depliant turistici, la parte
terminale del muso della nave coloniale Aurora, posizionato in verticale al
centro dell’atrio con accanto una targa commemorativa recante la frase che si
diceva fosse stata pronunciata dal suo comandante nel momento in cui mise piede
a Celestis.
In questo luogo e in
questo giorno
Inizia il secondo
capitolo della storia dell’Umanità
Ally e gli altri furono rapidamente travolti
dalla meraviglia, e al termine del lungo giro in compagnia dei maestri si
dispersero a piccoli gruppi per tutti gli angoli di quella specie di castello
delle favole, ansiosi di rivedere la cosa che li aveva maggiormente colpiti.
Dal canto suo Ally sapeva
esattamente cosa voleva rivedere, e assieme a Meracle
si diresse verso i sotterranei, dove, all’interno di una sala grande in sé come
un intero piano dell’edificio sovrastante, faceva superba mostra di sé in tutta
la sua imponenza una autentica ricostruzione dell’Aurora in scala uno a due.
Cinquecento metri di incalcolabile sapere
scientifico, realizzato combinando le più moderne, per quei tempi, conoscenze
in campo aerospaziale con la più grande quantità di sapere magico mai messa
insieme, al fine di realizzare la prima nave interstellare nella storia
dell’umanità, capace di percorrere i sessanta anni luce che separavano la Terra
da Celestis in soli cento anni.
A prima vista la sua linea appariva slanciata e
solenne, con quella forma a punta di freccia, le quattro potenti turbine, i
pennoni, ora ripiegati lungo la fusoliera, che ospitavano le vele solari, il
gigantesco anello stabilizzatore per la simulazione della gravità, e infine,
ben impressa su entrambe le fiancate, la raffigurazione del globo terrestre,
magnifico, con segnato ben in evidenza il punto da cui la nave era partita, nel
cuore della steppa russa, il tutto sovrapposto dalle lettere UN, a testimoniare
il carattere internazionale della missione, votata anzitutto al progresso e
all’avvenire dell’umanità.
Unica nota stonata, almeno secondo il personale
parere di Ally, quel muso squadrato e leggermente
sgraziato, che a suo dire toglieva armonia al tutto, oltre a quella colorazione
così scura, ma, stando ai cartelli informativi, indispensabile per consentire
alla nave di assorbire dalle stelle quanta più energia, indispensabile per
consentire il lungo viaggio altrimenti impossibile.
Ally, Meracle
e non solo loro si erano sentite crollare il mondo addosso quando, passando da
lì durante il giro, avevano trovato l’interno della nave chiuso al pubblico per
dei lavori di manutenzione, e la delusione divenne se possibile ancora più
grande quando, ritornate nella speranza di avere maggior fortuna, trovarono
invece la situazione ancora invariata.
«Io non mi arrendo.» esclamò Meracle,
che con passo deciso si avviò verso l’addetto che stava pulendo la scaletta
d’ingresso alla nave, un ragazzo sui venticinque anni dall’aria tutto sommato
amichevole, e per questo disposto a fare un favore a due bambine delle
elementari.
Sulla targhetta dell’uniforme aveva scritto il suo
nome, Jason.
«Mi scusi.» disse Meracle
sfoggiando tutta l’innocenza e l’amorosità infantile di cui era capace «Non è
che potremmo visitare l’interno della nave?»
«Non si può, mi dispiace.» rispose gentilmente ma
fermamente Jason
«La prego. Io e la mia amica ci tenevamo così tanto.
Non staremo dentro molto, glielo prometto».
Jason parve esitare, indeciso sul da farsi, e dopo
qualche attimo si guardò furtivamente attorno per accertarsi che non vi fosse
in giro nessuno dei suoi colleghi.
«D’accordo.» mugugnò «Ma solo per dieci minuti.»
«La ringrazio, signore. Lei è stato molto gentile».
Ally per la verità si
vergognava come una ladra al pensiero di dover fare una cosa del genere, ma
come Jason aprì il portello chiuso a chiave permettendo loro di entrare lo
stupore e la meraviglia si sostituirono a tutto il resto, tacitando sul nascere
la voce della coscienza.
L’interno era incredibile ed entusiasmante almeno
quanto l’esterno, con tutti quei corridoi scintillanti di bianco, quelle luci
incastonate direttamente nelle pareti, e quell’incalcolabile numero di capsule
lunghe e strette all’interno delle quali avevano viaggiato i loro antenati nei
cento lunghi anni che avevano impiegato a raggiungere Celestis.
Ce n’era una ogni cinque o sei metri, ogni singola
stanza ne era piena, e se davvero quella ricostruzione era così accurata come
si diceva dovevano essere almeno mezzo milione, per la maggior parte
concentrate nella grande stiva all’ultimo livello della nave, quella però al
momento assolutamente off-limits per via dei lavori che avevano richiesto la
chiusura.
Le capsule sembravano delle enormi bottiglie,
cilindriche e per buona parte in vetro, e alcune erano aperte, sì da mostrare
il complesso sistema di meccanismi e apparecchiature necessarie al
sostentamento di chi vi aveva dimorato nell’interminabile viaggio tra le
stelle.
Secondo quanto riportavano le guide la maggior parte
dei coloni erano rimasti lì dentro per tutta la durata del volo. Solo
l’equipaggio della nave era stato periodicamente risvegliato, una volta ogni
cinque anni, giusto il tempo necessario per ricontrollare la nave e assicurarsi
che fosse tutto in ordine prima di tornare a dormire.
«I nostri antenati sono rimasti davvero cento anni
chiusi qui dentro?» chiese Ally fermandosi assieme
all’amica accanto ad una delle capsule aperte
«Beh, stavano dormendo. Per la precisione erano in
animazione sospesa. Il loro corpo è invecchiato molto lentamente, tanto che in
cento anni di viaggio loro, nel momento in cui sono usciti, ne avevano perso
solamente uno».
Ally non riuscì a
resistere alla tentazione e vi si infilò dentro.
«È piuttosto stretto.» commentò guardandosi attorno
«Non avevano bisogno di spazio, dopotutto. E poi
erano oltre un milione. Non sarà stato facile far entrare tutte queste persone
in una nave infondo così piccola, non sei d’accordo?».
Dall’interno si poteva comprendere meglio la
struttura di una di quelle capsule. C’erano cinghie per sorreggere il corpo,
respiratori, cannule per la somministrazione di sostanze nutritive e una
infinità di apparecchi per mantenere il corpo in vita e assicurarne la salute.
«Quasi non riesco a credere che avessero tutte
queste conoscenze scientifiche quattrocento anni fa.»
«È incredibile, non è vero?» disse Meracle «Chissà, forse quando saremo grandi faremo anche
noi un viaggio così, chiuse dentro una di queste capsule.
Io ho sempre sognato di potere un giorno vedere la
Terra.»
«Ma la signorina Maifang
dice che nonostante siano passati quattro secoli con le nostre attuali
conoscenze ci vorrebbero ancora quasi cento anni per fare ritorno sulla Terra.
Questo vorrebbe dire che al tuo ritorno su Celestis sarebbero trascorsi duecento anni. Non troveresti
niente di quello che hai lasciato.»
«Sì, forse hai ragione.» rispose l’amica soppesando
questa eventualità «Ma sarebbe comunque una bellissima esperienza, non trovi?».
Inavvertitamente, in quel momento, Meracle toccò il pulsante che azionava il portello della
capsula, e da un istante all’altro Ally si ritrovò
chiusa dentro.
«Ally!»
«Meracle, che cosa hai
fatto?» disse spaventata Ally colpendo la superficie
vitrea «Fammi uscire!»
«Ci sto provando!».
Purtroppo i due comandi che permettevano alla
capsula di riaprirsi sia dall’interno che dall’esterno erano in alto, troppo in
alto per due bambine delle elementari, ed il portello era troppo duro perché
fosse possibile aprirlo manualmente.
«Aspettami qui, vado a cercare quel signore delle
pulizie. Torno subito».
Ally quindi rimase sola, e
per quanto i suoi genitori le avessero insegnato a controllare la paura
quell’ambiente così stretto ed angusto la metteva incredibilmente a disagio.
Per non farsi prendere dal panico la bambina cercò
di pensare ad altro, guardandosi attorno nel tentativo di dare un senso agli
innumerevoli circuiti, spinotti e apparecchiature che affollavano quella specie
di congelatore capace, a quanto si diceva, di conservare un corpo a decine di
gradi sotto zero, fino a che, aguzzando bene la vista, le parve di scorgere
qualcosa, qualcosa di insolito, appoggiato sul pavimento della capsula e
seminascosto dalla copertura del pavimento sotto la quale era quasi interamente
nascosto.
A prima vista sembrava una scaglia, un pezzo di
rivestimento staccatosi a causa del tempo e dell’incuria, ma quando lo prese
fuori si accorse che invece si trattava di un qualche accessorio per computer.
Una scheda di memoria probabilmente, di quelle che
si potevano infilare in ogni apparecchio informatico.
Incuriosita provò ad infilarla nel comunicatore, ma
tutto quello che apparve nello schermo fu una lunga lista di nomi, date e altre
informazioni per lei senza senso.
«Lo avrà perso qualcuno?» si domandò.
Qualche minuto dopo Meracle
tornò accompagnata da Jason, che azionata l’apertura della capsula poté
finalmente liberare la bambina.
«Ve l’avevo detto che poteva essere pericoloso.» le
rimproverò il giovane dopo averle condotte all’esterno «Avanti ora, tornate dai
vostri compagni.»
«Ci scusi ancora.» disse educatamente Ally, poi entrambe tornarono verso l’atrio dove il resto si
era nel frattempo ricomposta nei pressi del negozio di souvenir.
Giusto il tempo di comprare dei regalini per i
propri genitori, e nello stesso momento in cui Ally e
Meracle uscivano dal museo per la medesima porta
girevole vi giunse invece il detective Neeson, che
guardatosi un momento intorno scorse infine Vick
piegato in due su di una panchina dell’atrio, un po’ defilata rispetto al
centro.
Era pallido come la morte, e dalla sua espressione
Sean intuì che vi fossero molte altre cose a turbarlo, oltre al sicario al
quale era appena sfuggito. Gli andò incontro, sedendosi accanto a lui.
«Sono venuto appena possibile. Allora, che è
successo?»
«Sono morto.» mugugnò Vick
come se non lo avesse sentito
«Che cosa?»
«Io lo sapevo. Lo sapevo che non dovevo farmi
coinvolgere in tutta questa storia.»
«In che razza di casini ti sei cacciato, si può
sapere?».
Vick restò a lungo in
silenzio, poi si decise a parlare.
«Se ci pensi è ironico. Un truffatore incallito, uno
che si è fatto tre anni di galera, chiede aiuto allo stesso sbirro che l’ha
fatto finire dietro le sbarre.»
«Sì certo, è tutto molto ironico.» tagliò corto Neeson «Ora però fuori il fiato.»
A quel punto Vick raccontò
ogni cosa. Disse che qualche tempo prima un impiegato che lavorava negli uffici
della polizia di stato aveva trovato le prove di molti casi di corruzione e
malaffare tra i vari distretti della città, soprattutto in quelli più poveri e
degradati, inclusi i nomi delle mele marce e i numeri dei conti dove erano stati
depositati i soldi sporchi.
Poi, si accorse dell’espressione del detective, e
rise sotto i denti.
«È esattamente lo stesso modo in cui l’ho guardato
io quando me ne ha parlato.
Ma quando mi ha fatto vedere parte del materiale che
aveva raccolto, la mia espressione è cambiata dal giorno alla notte.»
«Cioè… tu lo hai visto?
Hai visto quel materiale? Nel senso, hai visto cosa conteneva?»
«Non tutto. Solo una parte. Per riuscire ad
esaminarlo tutto ci vorrebbero mesi. Ma credimi, quel poco che ho visto mi ha sconvolto.
Ce n’è abbastanza per scoperchiare il vaso di pandora.»
«Che vuoi dire?»
«C’è tanta gente in quella lista. Gente che conta.
Dai vigilanti di quartiere ai prefetti di polizia. Persino tuoi colleghi a
quanto ho avuto modo di vedere.»
«Che intendi con miei colleghi!?» esclamò sorpreso
il detective
«Gente del tuo distretto. Persone che chiami
abitualmente amici, e che si sono intascati un sacco di soldi sporchi proprio
sotto il tuo naso».
Sean deglutì, mentre il sudore gli rigava le tempie
scure.
«Non posso crederci. Non riesco a concepirlo. I miei
amici.» quindi guardò nuovamente Vick «Ma ne sei
sicuro? Non è che quel tipo ha cercato di tirarti un bidone passandoti delle
false informazioni?»
«Se solo tu lo avessi visto, Sean. Io l’ho guardato
negl’occhi, e ci ho visto una maledetta paura. Mi sono svenato per venire
incontro alle sue richieste, e subito dopo aver preso i soldi quel tipo è
sparito».
Il detective guardò il pavimento, trovando a stento
la forza di deglutire.
«E queste prove… le hai
qui con te?»
«È questo il problema, Sean. Sono sparite.»
«Che cosa!?»
«Non ho scelto a caso questo posto per incontrarci.
Non mi sentivo al sicuro nel tenerle in casa, così le avevo nascoste qui.
Contavo di dirlo al procuratore quando ci fossimo incontrati. Il fatto è che
sono appena andato dove le avevo lasciate, e non ci sono più.»
«Come sarebbe a dire non ci sono più?» replicò un
po’ arrabbiato Sean «E poi, che razza di idea venire a nasconderlo proprio qui.
Non ti hanno mai detto che per questo museo passa ogni giorno un fiume di
gente?»
«Avevo scelto il nascondiglio molto bene.»
«Evidentemente non troppo.
Vuoi sapere cosa penso? Se la storia che mi hai
raccontato è vera, e ti avviso che ho ancora qualche dubbio in merito, le
persone che rischiavi di distruggere hanno trovato i documenti, li hanno
distrutti, e ora vogliono mettere a tacere te.»
«Forse.» rispose Vick
senza guardarlo «Ma non sanno che io ho un asso nella manica.»
«Un asso? Che asso?»
«Dovresti conoscermi. Lo sai che ho sempre un piano
di riserva. Ho fatto una copia di quei documenti e ho nascosto anche quelli in
un altro luogo.»
«E dove?»
«Non lontano da qui. Se mi sbrigo dovrei poterli
andare a prendere, e poi vorrei che li portassi al procuratore. Io non mi fido
più ad agire personalmente.»
«Non credo che sarebbe una buona idea.»
«Per quale motivo?»
«Pensaci bene. Chi ti dice che anche il procuratore
non sia coinvolto? Avevi appuntamento con lui, e invece ti ha mandato un
assassino. Forse c’era anche il suo nome su quella lista, o è collegato a
qualcuno di loro, e così ha voluto tutelarsi.»
«Però è strano. Perché esporsi tanto? Poteva
benissimo comprare le mie informazioni e poi distruggerle. A che pro cercare di
eliminarmi?»
«Morto te, muore lo scandalo. Mi sembra ovvio. Non
importa che tu sappia o meno il contenuto di quei documenti, il solo fatto di
volerli smerciare ti rende pericoloso. Non vogliono correre rischi.»
«E allora cosa dovrei fare?».
Sean ci pensò qualche momento.
«Hai detto che lo scandalo coinvolge solo Kyrador. Conosco delle persone. Persone fidate,
appartenenti ad altre prefetture. Gente al di sopra di ogni sospetto e
assolutamente incorruttibile. Potresti darle a loro.»
«Bada però, che non faccio sconti. Ora come ora quel
materiale è tutto quello che ho. Sono rimasto senza niente per ottenerlo, e
voglio ricavarci quanto basta per sistemarmi a vita.»
«Non sono un contabile, e il mio portafogli non è
abbastanza grande.» lo ammonì il detective «Ma queste persone sono gente
potente. Sono sicuro che ti pagheranno bene. Soprattutto perché la rovina
d’altri sarebbe la loro fortuna».
L’orologio tridimensionale che sovrastava ogni cosa
batté l’una del pomeriggio.
«Ora devo tornare in centrale.»
«Aspetta, e i documenti?»
«Non posso restare lontano per troppo tempo, e ci
vuole parecchio a ritornare. Tu recupera il materiale, io intanto farò qualche
telefonata.»
«D’accordo, dove ci incontriamo?»
«Molo sei.» disse il detective dopo una breve
riflessione «All’una di notte. Davanti alla statua dell’esploratore.»
«Un luogo simbolico.» sorrise Vick
«Per tutti e due.»
Staccato dal proprio turno, Jason si aggregò al suo gruppo di colleghi
per farsi il solito giro per il centro cittadino prima di tornare a casa.
Di solito capitava che andassero a bere qualcosa in
qualche locale nei dintorni del museo, ma quello si rivelò essere un giorno
speciale.
Pierre, il guardasala dell’ala nord, che era un
giocatore accanito, aveva centrato tre incontri su cinque nell’ultima giornata
del campionato di chandra, e si era messo in tasca
una discreta somma.
Così, per festeggiare, volle offrire al suo
quintetto di amici il raro piacere di una bibita nella caffetteria Petit Désir di Luminous Park, il parco
cittadino più grande della città, un immenso rettangolo di natura piacevolmente
adagiato nell’intricato groviglio di grattacieli a due isolati dal museo.
Di tutti i polmoni verdi di Kyrador
era sicuramente il più apprezzato, per molteplici motivi. In primis vi erano
naturalmente le dimensioni, quattro chilometri quadrati di polmone verde nel
cuore del distretto centrale; e poi vi erano i sentieri, i campi sportivi, gli
scintillanti specchi d’acqua, gli alberi alti e bassi raccolti in piccole
foreste e le interminabili distese d’erba.
Un vero angolo di paradiso, come lo definivano
alcuni, dove alla frenesia e al sovraffollamento dei sentieri principali
facevano eco angoli di quiete assoluta, dove l’unico suono che si poteva udire
era quello della natura.
Lo popolavano molti animali, in maggior parte
volatili, e nell’angolo rivolto a nord-ovest, verso la quinta strada, vi era
persino un piccolo zoo, quello stesso zoo che Ally e Meracle stavano ora visitando assieme ai loro compagni di
classe.
Cingeva il tutto una scintillante cancellata
metallica, i cui molteplici varchi d’ingresso, disposti ad intervalli regolari
lungo tutto il perimetro del parco, erano decorati con elaborati motivi
floreali, un arabesco inestricabile e sopraffino di piante, liane e foglie che
si intrecciavano tra di loro terminando in una tempesta di fiori.
L’acqua di molte fontane, compresa quella che stava
al centro della piazza dello zoo, scintillava come il diamante, merito del krylium contenuto al suo interno, altre buttavano getti dei
colori più diversi.
Di fronte ad una tale bellezza le due bambine non
riuscirono a non pensare a quanto la magia fosse davvero stupenda. Dopo che
aveva permesso agli esseri umani di navigare tra le stelle, era senza dubbio la
scienza che procedeva a passo più spedito. Ogni giorno c’era una scoperta
nuova, e non vi era campo nell’intero tessuto sociale di Celestis
in cui il suo utilizzo non fosse preponderante.
Governava tutto, era il motore attorno al quale
ruotava l’intera esistenza della razza umana. Una fonte di energia pulita,
inesauribile e di facile accesso, che non scarseggiava mai ed offriva un numero
di possibili applicazioni virtualmente infinito.
Poteva accendere una lampadina e far volare una nave
spaziale, attivare un computer come curare una malattia.
La magia era l’anima di Celestis,
così come lo era stata della Terra all’indomani della sua scoperta.
Era questo il sogno di coloro che erano arrivati fin
lì dal loro pianeta natale. Creare una civiltà nuova, utopica, benedetta da
questa energia così pura e perfetta, e in armonia con il mondo intero. E di
questo mirabile progetto Luminous Park, anzi,
l’intera Kyrador, era il più superbo dei traguardi.
Il Petit Désir era uno dei
suoi ritrovi più apprezzati di Luminous Park, e pur
non essendo al livello dell’inarrivabile CoerBleu, da alcuni definito il locale più esclusivo della
città, poteva offrire il piacere di una bibita e un dolcetto nella tranquillità
della natura, adagiato lungo una delle rive di Dream
Lake, il secondo specchio d’acqua del parco per estensione.
Il Dream Lake in
particolare era molto apprezzato dal gentil sesso, per le sue romantiche rive
puntellate di salici piangenti, i suoi sentieri che vi giravano attorno e i
suoi scorci paradisiaci, e non a caso i ragazzi lo avevano scelto. In un luogo
così c’era sempre qualche preda da adocchiare, se non altro per ravvivare la
serata e passare un piacevole intermezzo.
Tuttavia, quella sera le presenze femminili
stentavano, e in ogni caso Jason era troppo preso dai suoi pensieri e
frustrazioni, riacutizzatesi improvvisamente e senza una ragione precisa, per
avere voglia di intraprendere una delle sue solite battute di caccia.
Per quella volta era necessario che fossero le
ragazze ad andare da lui, ma per sua fortuna il caso volle che proprio in quel
momento transitasse da quelle parti una avvenente giovane di buona famiglia
alla ricerca di un po’ di eccitazione.
Ally si era persa a tal punto tra le
meraviglie dello zoo da smarrire completamente il senso del tempo, e complice
anche il fatto che si fosse allontanata per andare a vedere un’altra volta i
koala, quando finalmente si accorse di che ore fossero, si rese conto con
enorme sorpresa che il resto della classe se n’era già andato, dimenticandosi
di lei.
Da un momento all’altro la ragazzina si ritrovò da
sola, e, complice l’essersi dimenticata di ricaricare la batteria del
comunicatore, non aveva neanche modo di rintracciare i suoi compagni.
Provò a cercarli, avventurandosi imprudentemente tra i viali e i sentieri
dell’arboreto attiguo allo zoo, ma per quanto chiamasse ad alta voce nessuno
rispondeva, e nel momento in cui pensò di tornare all’ingresso dello zoo nella
speranza che venissero a cercarla, comprese di essersi persa.
Sconsolata, si sedette su di una panchina, senza
sapere come fare per cavarsi fuori da quell’impiccio.
Aveva paura di andare alla polizia, perché temeva di
essere sgridata in tutti i modi possibili - prima dagli agenti, poi dalla
maestra, e qualora lo avessero saputo anche dai suoi genitori - e quella
giornata era stata troppo bella per concluderla in modo così triste.
Poi, mentre cercava di pensare ad una soluzione, la
sua attenzione si spostò verso la statua che svettava dall’altro lato di quella
piccola e anonima stradina di sassi immersa tra gli alberi. Dallo stile
vagamente astratto, sembrava raffigurare tre persone, tra cui un bambino;
quest’ultimo era sorretto per i fianchi da una delle due, e teneva alto un
pezzo di legno, quasi fosse stato un prezioso trofeo, osservato con fare di
meraviglia dalla terza figura.
C’era un che di soprannaturale, quasi di mistico, in
quella rappresentazione, ed Ally, pur non potendone
leggere la targa, aveva la sensazione che si trattasse di qualcosa di
importante.
«Quella statua è dedicata ai coloni che costruirono
questa città.» disse d’improvviso una voce gentile.
Un anziano signore, molto distinto e simpatico, la
osservava coi suoi piccoli occhi azzurri, e incrociandone lo sguardo la
ragazzina sentì come tintinnare quel core ancora
immaturo che malgrado l’età già risplendeva dentro di lei.
«Qualcosa non va, signorina? Mi sembra triste.»
Lei non rispose, senza neppure sapere perché; era
come se la sua mente si fosse addormentata, perdendosi all’interno di quegli
occhi a prima vista così normali, ma al cui interno sembrava annidarsi un che
di ipnotico, capace di catturare e ammaliare chiunque li guardasse.
Il signore sedette all’altro capo della panchina,
portando a sua volta la propria attenzione verso la statua.
«Lo sai? Questo parco è il cuore della città. In un
certo senso, Kyrador è nata proprio qui.»
«Kyrador… è nata qui?»
«Prima ancora delle strade, dei palazzi e dei
tunnel, centinaia di anni fa, qui c’era solo un’immensa distesa di sassi e
sabbia affacciata sul mare.
I primi coloni all’inizio non avevano nulla: tutto
quello che si erano portati dalla Terra era inutilizzabile. Lo sai, vero?»
«Sì, l’ho imparato a scuola. Era per colpa delle
emissioni magiche.»
«Bravissima. Ogni pianeta produce un diverso tipo di
potere magico, e purtroppo allora gli antenati non lo sapevano. Così,
dapprincipio, furono costretti ad arrangiarsi con quello che trovavano. Nel
luogo dove adesso sorge questo bellissimo parco, un tempo c’era una grande e
rigogliosa foresta. Abbatterono gli alberi e ne fecero le loro prime case; poi,
quando le cose andarono meglio, quando il legno si tramutò in pietra, e la
pietra in acciaio, vollero lasciare questo posto com’era, per non dimenticare
mai gli ostacoli che, malgrado tutto, erano riusciti a superare. E costruirono
quel monumento, a ricordo e ringraziamento di quanto la foresta aveva fatto per
loro.»
L’anzianolevò quindi lo
sguardo sui grattacieli che svettavano come tanti frammenti di vetro proiettati
verso le nuvole, e Ally fece altrettanto.
«Osservare questa città è come guardare la storia
dell’Uomo dritta negl’occhi. Al suo interno c’è tutto: speranze, sogni,
aspettative, gioia, dolore. Ogni città racchiude dentro di sé la forza ed il
fulgore di chi l’ha costruita, ma Kyrador lo fa in un
modo speciale. Non custodisce solo i ricordi dei suoi abitanti, ma in un certo
senso quelli di tutta la gente di Celestis. È stata
la prima grande città ad essere edificata, e ancora oggi è considerata il
centro del mondo. Qui risplende una scintilla particolare. Non sei d’accordo,
piccola?»
La ragazzina annuì; continuava a percepire quella
strana sensazione, quella specie di tremolio al centro del petto.
«Io non so nulla di questa città. Ci abito, ma in
realtà è come se fino ad oggi fossi vissuta su un altro pianeta. Non era la
prima volta che venivo in centro, ma oggi, non so perché, è stato diverso. Ho
sentito per un tutto il tempo come qualcosa qui, sul cuore. Una specie di
calore. Se tocco un edificio, mi sembra quasi di sentirlo parlare. È come se Kyrador… come posso dire… come se
fosse viva.»
«Chi lo sa, forse è così.»
Ally alzò gli occhi
incredula, intercettando il sorriso quasi infantile dell’anziano signore.
«In fin dei conti, questa città è stata pensata per
essere a misura d’uomo. Un enorme corpo in cui i vari organi esistono in
funzione gli uni degli altri. Un’energia particolare scorre in questo corpo, e
ogni persona che nasce o vive al suo interno vi è in qualche modo legata. Si
può dire che Kyrador prenda per sé un pezzetto
dell’anima di tutti i suoi abitanti. E chissà, forse, unendo tutti questi
pezzetti, la città stessa in qualche modo ha ottenuto una sua anima.»
«Una sua… anima?» ripeté Ally guardando nuovamente la statua.
Il suono lontano di una campana riportò però la
bambina sulla terra, rammentandole la sua situazione.
«Accidenti, quanto è tardi! I miei compagni mi
staranno sicuramente cercando!»
«Ti sei persa?»
«Sì. E se non li ritrovo al più presto, dovrò
subirmi una ramanzina coi fiocchi!»
«Perché non lo chiedi alla città?» domandò gentile,
guadagnandosi un’altra occhiata sorpresa. «Se davvero questa città è viva, e
tutti coloro che vivono al suo interno sono legati a lei, Kyrador
potrà aiutarti sicuramente a ritrovare i tuoi compagni.»
«Ma… come posso fare?»
«Sei una maghetta, non è
vero?»
«Beh, sì… ma non ho ancora
nessuna conoscenza della magia.»
«Non importa. Chiudi gli occhi.»
«Come!?»
«Fidati di me.»
Non senza qualche timore la bambina obbedì, cercando
per quanto possibile di calmare i battiti del cuore.
«Lascia che il tuo core
diventi una cosa sola con la città» sentiva, mentre un tocco gentile le sfiorava
il centro della fronte. «Kyrador è tutta attorno a
te. Tu non vivi in questa città, ne fai parte. Siete collegati. Ora, diventate
una cosa sola!»
Per un istante tutto parve scomparire, poi Ally ebbe come la sensazione si precipitare per qualche
breve attimo nel vuoto, serrando più forte le palpebre per lo spavento. Ma
quando riaprì gli occhi, non riuscì a credere a ciò che vedeva.
Kyrador era lì, sotto di
lei.
Ma era anche sopra di lei, attorno a lei, dentro di
lei.
Anche il suo corpo era diverso; ovunque e in nessun
luogo, lì con lei e allo stesso tempo altrove. Dovunque guardasse le pareva di
vederlo: lì dove c’erano strade c’erano vene, i distretti erano i suoi organi,
il cielo i suoi occhi, e le innumerevoli persone che si muovevano
ininterrottamente in ogni direzione i suoi globuli rossi, le sue piastrine, i
suoi linfociti.
Era incredibile.
Lei non si trovava nella città: non più. Lei era la
città.
Avvertiva il solletico prodotto dal vento che faceva
ondeggiare le fronde degli alberi, il fastidio di un muro graffiato o
imbrattato da qualche vandalo, il dolore di un edificio che veniva abbattuto.
Lei e Kyrador erano una
cosa sola: i loro corpi, le loro anime, si erano uniti, mettendola in contatto
con una quantità indescrivibile di altre vite. Le bastava concentrarsi, e
poteva sentire ogni cosa: parole, dialoghi, ma anche pensieri, emozioni, e
idee.
Era come se le si fossero aperti gli occhi e le
orecchie su ogni singola anima che popolava la città.
Non solo.
La città stessa era ora alla sua mercé. Le bastava
pensare a un luogo, uno qualsiasi, e immediatamente questo le appariva davanti,
nitido e tangibile come vi si fosse trovata appresso, ma allo stesso tempo
etereo, impalpabile, quasi da poterlo smembrare e sezionare in innumerevoli
pezzi.
Non c’era cosa che non sapesse;o emozione che non provasse.
Per quell’unico istante, lei era tutto.
Kyrador era sua.
E dentro di sé sentiva una pace sconfinata; la pace
che solo l’assoluta sicurezza e senso di onniscienza potevano portare. Per un
attimo rischiò di perdersi in tutta quella sconfinata quiete, di lasciarsi
assorbire completamente dalla città e diventare un tutt’uno con essa.
«Non ti perdere» le sussurrò quella voce
nell’orecchio. «Tu sei tu. Non dimenticarlo.»
La bambina trasalì, sentendo ravvivarsi quella
fiamma d’animo che per un tempo all’apparenza interminabile aveva lasciato
scivolare nell’immenso oceano di Kyrador, e
ricordatasi del motivo che l’aveva condotta lì le fu sufficiente pensare ai
suoi amici per vederli, con quell’occhio che solo una visione celeste del mondo
poteva possedere, sparpagliati tutto attorno alla piazza circolare al centro
del parco e intenti a chiamarla a gran voce.
Vide anche Meracle, che la
chiamava più forte di tutti, e le venne quasi da ridere: non aveva mai notato
quanto la sua amica fosse buffa, con quel marchio violaceo che, al contrario di
molti suoi simili, si divertiva a lasciare bene in vista, tagliando i capelli
in modo che non coprissero la base del collo. E poi quel batuffolo peloso che
spuntava sbarazzino dal bordo dei pantaloni; diceva che le piaceva sentire il
vento che le accarezzava il pelo, che la faceva sentire felice, oltre a
ricordarle sempre chi era.
Ally non riuscì a
resistere alla tentazione, e quando la sua amica si trovò a passare accanto ad
un cespuglio basso due dei rametti, come animati di vita propria si strinsero
per qualche secondo dietro la sua schiena; niente di doloroso, ma se c’era una
cosa che detestava era che qualcuno la toccasse proprio lì.
«Chi è che mi tira la coda!» esclamò stupita e un
po’ arrabbiata, mentre Ally di contro si lasciò
andare a spassose risate che la povera vittima non poteva sentire.
Poi, Ally avvertì di nuovo
quella sensazione di risucchio, e prima che potesse rendersene conto era di
nuovo lì, seduta a quella panchina.
«Sono tornata…» disse
confusa, guardandosi le mani.
Ma la gioia e l’emozione che aveva provato, e che
ancora stava provando, erano indescrivibili.
«È stato incredibile! Fantastico! Non mi sono mai
sentita così!»
Poi però, girato lo sguardo per ringraziare quel
gentile signore e metterlo al corrente di tutte le magnifiche sensazioni che
aveva provato, si accorse di essere sola.
«Signore?» domandò cercandolo con gli occhi.
Ma era tutto inutile, quell’anziano così simpatico e
un po’ misterioso sembrava scomparso nel nulla.
«Peccato…»
Purtroppo il tempo incalzava, e lei non ne aveva
più. Raccolto il suo zaino, e volti un’ultima volta gli occhi tutto attorno a
sé nella speranza, disattesa, di vederlo, la bambina corse via per riunirsi ai
suoi compagni.
Dopo una intera giornata spesa tra shopping, passeggiate e
divertimenti vari, l’unica cosa che poteva rendere la giornata di Pam davvero speciale, aiutandola oltretutto a scordare
almeno per un po’ la ramanzina che suo padre le avrebbe sicuramente fatto al
ritorno a casa, era trovare il partner ideale con cui trascorrere una serata
indimenticabile.
Sia lei che le sue amiche avevano fatto conquiste
molteplici, ma dopo aver saputo di essere attualmente l’unica senza un compagno
fisso aveva deciso, anche per via di certe frasi di quelle due oche giulive, di
provare in ogni modo ad accompagnarsi al miglior maschio possibile, anche per
dimostrare a sé stessa di saperci ancora fare in quanto ad abilità di
seduzione.
Con una scusa condusse Shirley e Marie nei pressi
del Dream Lake, in assoluto la sua riserva di caccia
preferita, e non servirono che pochi minuti perché il suo nuovo, potenziale
cavaliere le comparisse davanti, seduto ad uno dei tavolini del bar assieme ad
altri buzzurri, dei mostri paragonati a lui.
«Accidenti.» disse Marie «Quello è bello sul serio».
Giusto il tempo di una rapida sistemata, e le tre
ragazze si accomodarono al tavolo accanto, in modo tale da poter essere
facilmente notate, come effettivamente accadde.
Shirley e Marie al momento erano impegnate, ma quel
giovane dai capelli paglierini e dagli occhi azzurri accendeva anche la loro
fantasia, così decisero di rendere la vita difficile alla loro amica facendone
una competizione a tre.
Il primo a cadere nella rete fu Lou,
un altro amico di Jason, abbastanza appariscente ma imbruttito da un mento un
po’ troppo squadrato, che fu rispedito al mittente dopo sole due frasi, quindi
ci provò Pierre, ottenendo però lo stesso risultato.
Vedendo che Jason esitava, limitandosi a guardarla
senza agire, Pam si decise a prendere l’iniziativa, e
quando tutte e tre si alzarono per andarsene finse di inciampare sulla sedia.
Fulmineo, e quasi d’istinto, Jason intervenne,
prendendola al volo.
«Grazie.» disse sfoggiando il suo sorriso più
seducente
«Non c’è di che».
Il resto fu mero ABC del corteggiamento. Jason aveva
voglia di distrarsi, Pam di una compagnia con cui
farsi bella tra i suoi amici nei locali notturni, e ognuno dei due in qualche
modo aveva fatto colpo sull’altra.
«Avresti voglia di fare due passi?» si decise infine
a domandare Jason sotto gli sguardi inviperiti dei suoi amici
«Perché no?» rispose lei vedendosi guardare allo
stesso modo da Shirley e Marie.
A quel punto, se ne andarono insieme.
Vick scese dalla macchina senza neanche
spegnere il motore, e correndo come più non poteva varcò il cancello del parco
che dava verso Victoria Avenue, infilandosi tra i viottoli ghiaiosi.
Quella zona era particolarmente frequentata dai
bambini, sia per la presenza del vicino zoo sia per i numerosi parchi giochi e
campetti sportivi. Vick aveva pensato, non a torto,
che nessuno avrebbe mai cercato documenti così importanti in un posto simile,
ma stavolta era certo di avere scelto il nascondiglio molto bene.
Aveva voluto prendere quella seconda misura di
precauzione per tutelarsi in caso d’imprevisto, e mai come in quel momento fu
sicuro di aver fatto la cosa giusta, anche se si era trattato di spendere un
sacco di tempo a copiare e trasferire tutto il materiale.
Non temeva la curiosità dei bambini, perché anche se
da quelle parti ce n’erano a palate neanche loro sarebbero stati capaci di
trovare il nascondiglio.
Oltre ai classici giochi da cortile, dagli scivoli,
alle altalene, ai cavallini, quella zona di Luminous
Park ospitava anche delle giostre, tra cui un incantevole carosello a due piani
traboccante di cavalli bianchi, tazze, carrozze e ogni altro mezzo capace di
accendere la fantasia dei bambini, mentre per i più grandi vi erano i campi
sportivi per praticare ogni genere di attività, dalla corsa al calcio fino al
nuoto, grazie alla piscina al coperto assolutamente gratuita ed aperta a tutti.
Ed era proprio alla piscina che era diretto.
Varcata la porta, e cercando di non dare
nell’occhio, si avviò lungo il corridoio vetrato che girava attornoalle vasche, quindi infilò la scala interrata
che scendeva nella zona delle pompe, e una volta accertatosi che non vi era
nessuno penetrò nella stanza.
Con il cuore che batteva all’impazzata rimosse una
piastrella malmessa, ed i suoi occhi si accesero di sollievo come si posarono
sulla piccola scheda di memoria appiccicata sulla faccia sottostante del
quadrato di ceramica.
La prese, stringendola e baciandola come fosse stata
la sua anima.
Avrebbe potuto nascondere il materiale in qualche
altro posto a prima vista più sicuro, ma sapeva fin troppo bene che per le
persone i cui nomi erano riportati su quei documenti non vi era cassetta di
sicurezza che non potesse essere aperta o caveau impossibile da raggiungere.
Per un attimo aveva temuto di essere stato colto in
controtempo, ma l’aver trovato la copia di riserva era la prova che, nonostante
tutto, era ancora lui il più furbo.
Ora si trattava solo di aspettare. E poi,
finalmente, si sarebbe tolto quel peso dalla coscienza una volta per tutte.
Alla luce splendente del sole seguì, con l’avanzare del tempo, il
rosso opaco del tramonto.
Un’altra giornata volgeva al termine, un altro
giorno di glorie e splendori per la Città dei Nove Distretti, e molti di coloro
che avevano contribuito nel loro piccolo a preservarne ed assicurarne la
grandezza fecero ritorno alle loro case.
Ally non ricordava di aver
mai vissuto nella sua vita un giorno così bello.
Era partita da casa convinta che sarebbe stata una
giornata come le altre, ma era tornata con l’animo ancora carico di emozioni
per le indescrivibili meraviglie che aveva veduto.
Non si era mai allontanata molto dal suo quartiere
prima di allora, e l’aver visto per la prima volta il centro di Kyrador l’aveva spinta a domandarsi come fosse possibile
che quella su cui aveva posato gli occhi per tutto il giorno fosse la stessa
città in cui era sempre vissuta fin dalla nascita.
Meracle aveva ragione su
tutto; questo le era venuto da pensare mentre, con un pizzico di amarezza,
l’autobus imboccava l’ultimo tratto di strada prima di depositarla davanti
casa.
Non era tanto il museo, stupendo sicuramente, ma la
stessa città, la stessa Kyrador ad essere qualcosa di
quasi inconcepibile, un trionfo della meraviglia capace di accendere i sogni
non solo dei bambini, ma semplicemente di chiunque cedesse al suo richiamo.
Quel viaggio onirico in un mondo così vicino, e allo
stesso tempo così lontano, aveva fatto nascere in lei, improvviso e divampante,
un desiderio. Voleva farne parte.
Voleva diventare parte di quella realtà, lasciarsi
trasportare dalla sua meraviglia, dalle sue innumerevoli bellezze.
Non solo.
Lei voleva plasmarla. Voleva avere nelle sue mani un
po’ di quello splendore, e contribuire a farlo crescere ancora di più.
Aveva il petto gonfio per l’orgoglio nel momento in
cui, scesa dall’autobus, salutò tutti dandosi appuntamento per il giorno dopo a
scuola. Finalmente anche lei, come molte sue amiche, aveva le idee un po’ più chiare
sul suo futuro.
Anzi, chiarissime.
Forse sua madre lo sapeva. Sapeva che sua figlia
sarebbe tornata a casa con il morale alle stelle e felice come non mai, e a
degno coronamento di una giornata da ricordare sotto ogni aspetto le aveva
voluto riservare un’ultima sorpresa.
Fu così che, dopo essersi cambiata ed essere scesa
per la cena, la bambina trovò ad attenderla tutti i suoi piatti preferiti, dal
pane biscottato con pezzetti di pomodoro alla torta di frutta fresca di
pasticceria, appena portata a casa dal papà al rientro dal lavoro.
«È stato bellissimo» continuò a ripetere per tutta
la cena. «Il museo è pieno di cose meravigliose. C’erano le foto della Terra, e
le macchine di una volta, con quei motori a carburante, e le prime case
costruite su Celestis, e i vestiti, e poi la
ricostruzione della nave. Era grande così. E dentro è ancora più stupenda, con
tutte quelle capsule, e i comandi, e i computer.
E poi il centro della città, con tutti quei palazzi.
Sembravano così piccoli visti da lontano, ma poi ho visto che erano enormi. E
poi il parco, con le fontane tutte colorate, e lo zoo pieno di animali. Ho
visto i panda, e le scimmie. Le scimmie sono così buffe. Facevano le
linguacce.»
«Insomma, ti sei divertita» le disse sorridendo Lee,
suo padre
«Moltissimo, papà. È stato il giorno più fantasticoso della mia vita».
Quindi, durante il dessert, annunciò la sua
decisione.
«Quando sarò grande, farò anch’io qualcosa di
importante per questa città. Voglio rendere Kyrador
ancora più magnifica.»
«Davvero?» le disse ancora Lee «E cosa vorresti
fare? L’architetto?»
«Il sindaco» rispose Ally
gonfiando il petto.
Lee e sua moglie Sandy si guardarono un attimo
perplessi, poi risero divertiti.
«Uffa. Non sto scherzando» protestò considerandola
una presa in giro
«L’ambizione non ti manca» sorrise Sandy togliendole
un batuffolo di crema dalla guancia. «Ma di certo il sindaco non si sporca
mangiando il dolce, non credi? Dovrai impegnarti molto per riuscirci.»
«E mi impegnerò, mamma. Lo prometto. Sarò il più
grande sindaco della storia di Kyrador».
A volte Ally sapeva essere
davvero buffa.
Aveva una fantasia sfrenata, ma aveva preso dal
padre una inossidabile forza di volontà. Ogni volta che si metteva in testa
qualcosa non aveva mai rinunciato neanche andandoci a sbattere contro, e c’era
da scommettere che anche stavolta sarebbe stato così.
«E ora forza, signorina sindaco» le disse il padre.
«A lavarsi per bene e a fare i compiti.»
«Sì, papà».
Riposti i piatti nel lavandino la bambina si avviò
verso il bagno canticchiando la canzoncina della pubblicità del museo, seguita
con gli occhi dai suoi genitori.
«Che ragazzina esuberante» osservò Lee quando furono
rimasti soli
«E piena di vita. Mi ricorda qualcuno quando aveva
la sua età.»
«A me invece ricorda te quando ci siamo sposati».
Sandy rise, e Lee, sfilatosi gli occhiali, le passò
dolcemente una mano tra i lunghi capelli neri, spingendola delicatamente verso
di sé.
Si guardarono, scambiandosi poi un dolcissimo bacio.
«Non ti dispiace neanche un po’?» le sussurrò
all’orecchio
«Di che cosa?»
«Per sposare me, hai rinunciato al tuo avvenire. Sei
laureata, avevi una carriera davanti a te, eppure…».
Lei gli mise dolcemente un dito sulle labbra, e
sorridendo lo baciò sulla fronte.
«Ho un marito stupendo e una figlia che è il sogno
di ogni genitore. Cos’altro potrei volere?»
«Anche se tuo marito è costretto a trascorrere fino
a un quarto dell’anno lontano dalla sua famiglia?» sorrise lui stringendole la
mano
«È la vita di un impiegato del Ministero della
Difesa».
Di nuovo si baciarono, dopo che Lee si fu tolto le
lenti rettangolari da vista che una leggera miopia lo costringeva a portare.
«Abbi solo un po’ di pazienza, amore mio. Fujitaka vuole correre per le presidenziali l’anno
prossimo. Se riuscirà a vincere, indipendentemente da chi sceglierà come
ministro sarà la mia occasione per un salto di qualità.»
«È per questo che dico che Ally
ti somiglia così tanto.» sorrise Sandy.
Al calare del sole, il quartiere di Finsword
si tramutava in una distesa ininterrotta di luci, una immensa pista da ballo
all’aperto che attirava giovani da tutta la città.
Quattro strade pedonali pullulanti di locali
notturni, discoteche, sale giochi e altri luoghi di ritrovo.
Vi si arrivava facilmente grazie alla monorotaia che
girava tutto intorno al centro, e ogni sera era festa scatenata fino alle prime
luci dell’alba.
Oltre ai divertimenti e agli svaghi Finsword era anche una rinomata via dello shopping,
specializzata in elettronica e tecnologia del divertimento. Quasi tutte le sale
giochi che vi si trovavano erano anche dei negozi specializzati, e molte famose
squadre di chandra avevano i propri uffici di
rappresentanza in qualcuno dei numerosi palazzi che svettavano ai bordi delle
strade.
Sia Jason che Pam erano
degli habitué di quel quartiere, anche se per ragioni differenti. Pur se
schiacciato dalla routine quotidiana e dall’incapacità di riuscire ad imporsi,
Jason non aveva perso la sua passione per il chandra
e per i videogiochi in generale, e di quando in quando gli capitava anche di
fare qualche puntata in una delle molte case da gioco sparse per tutta la zona.
Quanto a Pam, secondo lei non c’era miglior posto
dove andare a caccia di ragazzi, anche se i suoi interessi vertevano più su
sale da ballo e discoteche.
Teoricamente non le sarebbe stato permesso di
entrare in uno qualsiasi di quei locali data l’età, ma con la sua posizione e i
suoi soldi non era difficile passare sopra le normali regole, e ormai quasi
tutti i buttafuori di Finsword la conoscevano e la
lasciavano entrare senza fare domande.
Per qualche motivo Jason e Pam
si sentivano affini.
La ragazza in particolare, superato il momento di
normale superficialità, aveva iniziato a trovarsi bene con quel giovane
proletario. Prima d’ora aveva sempre frequentato ricchi figli di papà boriosi e
insopportabili, oppure talmente imbranati da risultare quasi fastidiosi, ma
quella era la prima volta che si trovava ad accompagnarsi con un ragazzo di
così umili origini.
Eppure, nonostante tutto, Jason si stava rivelando
una persona tutta d’un pezzo, forte ed orgoglioso, fiero oltremodo della sua
condizione e non disposto a farsi mettere i piedi in testa da nessuno.
Proprio come lei.
Forse era per questo che lo aveva scelto. Forse,
dopotutto, poteva addirittura essere quello giusto.
«Quindi, sei la figlia di un ambasciatore!?» disse
Jason scoprendo l’identità della sua misteriosa spasimante
«Ti prego, non parlarmi di mio padre. Siamo come due
estranei. Per piacergli dovrei essere come mio fratello. Insomma, dovrei essere
uguale a lui.
Se non sei una cima in tutto sei un incapace, e se
sei un incapace non vali due minuti del suo tempo. Non ricordo una sola volta
in cui mi abbia detto una cosa gentile o mi abbia sorriso.»
«Ti capisco. Anche con il mio vecchio le cose non
vanno troppo bene.»
«Davvero? Per il mio stesso motivo?».
Jason esitò, stringendo le labbra, e una strana luce
gli si accese negli occhi.
Era incredibile. Non aveva mai parlato di questa
cosa con nessuno, eppure per poco non ne parlava con una ragazza che conosceva
da meno di mezza giornata.
Comprendendo di aver chiesto più di quanto fosse
lecito Pam, a differenza del solito, scelse di non
fare la parte della curiosona inopportuna e rinunciò ad ulteriori indagini.
«Allora?» disse di botto Jason come a voler
stemperare la tensione «Andiamo a divertirci?»
«Perché no? Cosa proponi?»
«Lo vedrai».
Nel caso di Jason il divertimento si chiamava Ultimate Arena, la più
grande sala di videogiochi della città, oltre che la più all’avanguardia.
C’era tutto quello che un appassionato come lui
potesse chiedere, perfino delle riproduzioni di vecchi cabinati in uso sulla
Terra realizzati estrapolando i dati raccolti nelle banche informazioni delle
navi coloniali.
In un mondo in cui la realtà virtuale aveva
raggiunto livelli quasi inimmaginabili, con interi mondi ricreati al computer
dove era possibile fare qualsiasi cosa ed essere chiunque, quel genere di sale
giochi erano una sorta di ponte tra il passato e il futuro, dove assaporare
l’atmosfera ed il brivido dei vecchi videogiochi e nel contempo tenersi
informati sulle ultime novità.
Fiore all’occhiello dell’Ultimate Arena era la più
avveniristica piattaforma da Cube, la moda del
momento tra i giovani e i giovanissimi, una sofisticata realtà aumentata dove
era possibile misurarsi l’uno contro l’altro in combattimenti all’ultimo sangue
pilotando un proprio avatar mosso con la forza del pensiero e dei muscoli
assieme.
Non era il chandra, ma era
di sicuro la cosa che più gli assomigliava, e a differenza di quello sport per
super-ricchi o iscritti alle palestre era disponibile a tutti con un semplice
gettone di gioco da due kylis.
Pam si sentì un po’
spaesata nel trovarsi di fronte a tutta quella strana gente, assatanati maniaci
dei videogiochi che sbavavano dietro a tutte le novità, ma l’avere vicino Jason
la tranquillizzata. Non che non fosse abituata a trovarsi a che fare con dei
tipi strani, anzi ne conosceva molti, e anche peggiori di quelli che le stavano
attorno in quel momento. Era più che altro l’ambiente a trasmetterle un che di
estraneo, di fuori dagli schemi.
Jason la portò alla piattaforma di Cube nella zona centrale, dove era in corso l’incontro tra
un giocatore occasionale e quello che aveva tutta l’aria di essere un esperto,
un biondino pressappoco della stessa età di Jason parecchio spaccone che faceva
il bello mettendosi in mostra e sfoggiando il suo vasto repertorio di
esperienza.
Era talmente bravo che fece dello sfidante poco più
di un sacco da allenamento, massacrandolo senza dargli il tempo di reagire, e
quando, ebbro di vittoria, prese a tessere le proprie lodi compatendo i poveri
incapaci che osavano sfidarlo Jason, che per queste cose non era un agnellino,
ci vide rosso.
«E và bene, spaccone!» sbottò salendo sulla pedana.
«Ora ti raddrizzo io».
Il biondino cercò di dissuaderlo, se non altro per
evitare quella che secondo lui era una sfida persa in partenza, ma Jason nel
mentre aveva già indossato i guanti e i parastinchi necessari a muovere il suo
avatar.
«Come vuoi. Io ti ho avvisato».
Per un attimo Jason intravide un che di famigliare
nel volto del biondino, ma questi pensieri si dissolsero nel nulla appena si
vide comparire in forma virtuale al centro dell’arena, in guardia e pronto a
combattere.
Giocare a Cube richiedeva
tecnica ed abilità, ma anche una buona coordinazione tra la mente il corpo,
poiché i movimenti erano comandati con il pensiero, mentre gli attacchi
bisognava eseguirli manualmente.
Lo sfidante dimostrò una volta di più di essere un
tipo pericoloso, portando attacchi precisi e aggressivi, di quelli che ci si
aspetterebbe da qualcuno abituato a menare le mani.
Tutto attorno gli spettatori urlavano sovreccitati,
e per un istante anche Pam si ritrovò a fare il tifo,
se non altro per rendere credibile il fatto di voler apparire come la sua
fidanzata.
Jason incassò a lungo, quasi stesse cercando di
prendere le misure all’avversario, quindi, da un momento all’altro, passò al
contrattacco cogliendo tutti di sorpresa. Il biondo, preso alla sprovvista, si
chiuse in difesa, ma Jason lo scardinò come una vecchia serratura, e apertosi
un varco prese a piazzare un colpo dietro l’altro.
Tra gli spettatori le urla di incitamento lasciarono
spazio allo stupore, atterriti com’erano dalla rapidità e dalla potenza di
Jason.
Dopo poco lo scontro si riequilibrò, ma ormai Jason
aveva intuito il modo di combattere del suo avversario e, seppur debilitato dai
molti colpi subiti, riuscì infine ad assestare l’affondo conclusivo con una
combinazione doppio diretto, calcio laterale e diretto allo zigomo che spedì il
biondino al tappeto azzerando i suoi punti vita.
Nella sala giochi fu il delirio, e Jason, sceso
dalla pedana, venne quasi portato in trionfo.
Non solo aveva vinto, ma, come avrebbe saputo solo
in seguito, aveva interrotto un predominio, quello del biondino, che durava da
tre settimane, dall’ultima volta cioè che era stato in quella sala giochi.
Svincolatosi dalle strette di mano e pacche sulle
spalle tornò da Pam, che lo attendeva con uno strano
sorriso stampato sul volto.
«Piaciuto lo spettacolo?»
«Sai picchiare. Ti sei allenato per strada?»
«Più o meno. Mio zio Timothy gestisce una palestra,
e io entravo gratis.»
«Ad essere sincera, non ti facevo così pericoloso.»
«È un complimento?» domandò divertito Jason.
Pam ridacchiò, poi nei
suoi occhi si accese una luce che tuttavia inquietò Jason, un bagliore
stranamente famigliare.
«Adesso però, ti ci porto io in un bel posto.
Vedrai che ti piacerà».
Anche in un mondo in cui le navi spaziale erano una prassi il
commercio navale, e più in generale le rotte marine, avevano ancora un ruolo di
enorme importanza nell’economia di tutte le nazioni di Celestis.
Una nave ed il relativo carburante, che nel suo caso
era la pura e semplice energia solare, costava assai meno di un’aeronave che
consumava il doppio o un’astronave coi suoi propulsori al krylium,
soldi che compensavano le tre settimane che di media occorrevano per
raggiungere le due estremità del globo seguendo le correnti.
La nave coloniale Aurora, nel suo arrivare sul
pianeta, aveva toccato terra in una zona pianeggiante a ridosso di un ampio
golfo, e attorno al golfo si era sviluppata Kyrador,
inglobandolo al suo interno ed al tempo stesso usandolo come scudo contro le
violente mareggiate dell’oceano occidentale.
Al centro di quell’enorme specchio d’acqua stava
Harris Island, un tempo cuore delle attività portuali mercantili, collegata
alla terraferma dal Rainbow Bridge.
L’isola aveva una forma vagamente circolare, con una
leggera sporgenza verso est in direzione della città, ed era su questa punta
che svettava la cosiddetta Statua dell’Esploratore.
Il soggetto reale raffigurato in quel blocco di
marmo alto poco più di sei metri era ignoto, anche se qualcuno diceva fosse
colui che per primo suggerì di edificare una città in quel luogo; forse per
questo era edificato con un sestante ed un compasso assicurati alla cintura,
mentre stringeva con una mano l’estremità della roccia accanto alla quale
sostava e teneva l’altra alzata verso il cielo, quasi a voler salutare Kyrador, o tutti coloro che, per forza di cose, dovevano
passargli davanti per circumnavigare l’isola e raggiungere il mare aperto.
Secondo una leggenda diffusa tra i pescatori e gli
operai del porto il molo sei che stava ai piedi della statua era stato per lungo
tempo teatro di eventi tristi e luttuosi, ed aveva pertanto assunto la nomea di
luogo maledetto.
Vuoi per dare credito alla diceria, vuoi per la
posizione scomoda, erano parecchi anni che nessuno si serviva più di quel molo,
come di tutta l’isola del resto, che fatta eccezione per la statua era lasciata
nella più totale incuria assieme ai suoi capannoni di supporto, diventati
ritrovo di sbandati, tossicomani e altra gente poco raccomandabile.
Per Vick era un luogo
carico di ricordi, ironici e vergognosi al tempo stesso.
Lì, proprio lì, qualche anno prima era stato sul
punto di concludere l’affare più lucrativo della sua carriera, e lì un
maledetto poliziotto ostinato era riuscito a beccarlo, dando una svolta
imprevedibile e definitiva alla sua vita.
In un certo senso era da lì che tutto era partito.
Se quel giorno non fosse stato arrestato sarebbe rimasto un faccendiere e un
truffatore, invece che redimersi in piccola parte e diventare un informatore.
Ora tutto quello che voleva era levarsi quel peso
dal cuore il prima possibile, e presentatosi al luogo dell’appuntamento con
largo anticipo si era messo in febbrile attesa, seduto sul bordo della statua
con un occhio rivolto ad ogni più piccolo segnale di pericolo e l’altro alla
scheda di memoria che continuava a rigirarsi nervosamente tra le dita.
Ancora poco e tutto sarebbe finalmente finito.
All’una in punto, una macchina sopraggiunse da
dietro un capannone. Vick ebbe un sussulto, ma si
tranquillizzò subito riconoscendo il modello e la targa, ed alzatosi andò
incontro al nuovo venuto.
«Hai spaccato il secondo.» disse cercando nella luce
dei fari il volto del suo migliore amico
«Scusa, traffico.» rispose ironico Sean nello
spegnere il motore.
Si avvicinarono, restando viso a viso, e per qualche
attimo nessuno dei due fu in grado di dire niente, presi com’erano dal
rimembrare i ricordi che quel posto risvegliava.
«È stato qui, vero?» si disse Sean
«Esatto. Per te sarò stato solo un martedì, ma per
me è stato il giorno che ha sconvolto la mia vita. In tutti i sensi.»
«A volte sei troppo imprudente. È questo il tuo
difetto. Del resto non saresti finito in questo casino se non fossi stato così
affamato di soldi.»
«Ehi, è il mio lavoro».
A quel punto, passati i convenevoli, fu il momento
di andare al sodo.
«Ce l’hai?».
Vick rispose con un cenno
del capo, e sollevato il braccio mostrò la scheda di memoria stretta nel palmo
della mano.
«Prenditi questa roba. Io non ne voglio più sapere».
L’ispettore esitò un momento, come preoccupato, poi
recuperò la scheda, inserendola nel suo comunicatore. L’espressione che
comparve nei suoi occhi nel leggere quei nomi e quelle informazioni fu indice
evidente del suo sconcerto.
«Te l’avevo detto.» disse Vick
quasi con ironia
«Allora non stavi esagerando.»
«È roba pericolosa. Molto pericolosa. Dammi retta,
liberatene quanto prima. Più presto questa storia sarà finita, meno persone
rischieranno di rimetterci la pelle».
Un tuono riecheggiò in lontananza, e alcuni fulmini
presero ad illuminare il cielo notturno giungendo dal mare.
«Sta per piovere.» disse Vick
guardando verso l’alto
«Così pare.» rispose Sean come soprapensiero. «Ma toglimi
una curiosità. Dove avevi nascosto i documenti originali?»
«Nella riproduzione dell’Aurora. C’erano dei lavori
di manutenzione in corso, e ho pensato che fosse il posto ideale. Avevo anche
trovato un ottimo nascondiglio. Ma evidentemente qualche inserviente deve
averlo trovato».
Dal cielo, Vick portò i
suoi occhi verso l’oceano.
«Beh, poco importa. Per quanto mi riguarda, ora è
tutto finito».
La mano di Sean che stringeva ancora la scheda di
memoria scivolò all’interno della giacca.
«Hai ragione».
Uno schioppo, poco più di un sussurro, risuonò
nell’aria, parzialmente oscurato dal fragore lontano di un secondo tuono.
Vick sgranò gli occhi, la
bocca piegata in un’espressione incredula, e portatosi una mano all’altezza del
ventre, guardandola la vide imbrattata di rosso.
Le gambe gli si fecero di colpo pesanti, incapaci di
sostenerlo, e lui cadde esanime sull’asfalto umido e sporco. Avrebbe voluto
parlare, ma il sangue gli era già arrivato in bocca, e ne uscì solo un rantolo
senza senso.
Pistola di suo padre alla mano, Sean fece qualche
passo avanti, e di nuovo i due si guardarono negl’occhi.
«Mi dispiace, amico mio. Non volevo che finisse
così».
Di nuovo Vick cercò di
parlare, e di nuovo gli riuscì solo di tossire sangue, mentre sentiva la
propria fiamma esaurirsi sempre di più.
«Del resto, te l’ho appena detto. Sei troppo avido».
Seguirono altri due colpi, un secondo al petto ed
uno alla testa, e Vick il truffatore lasciò il mondo
mortale.
Aveva troppo da perdere.
Questo pensava Sean gettando in mare la pistola e la
scheda, dopo aver dato ad entrambe un ultimo sguardo.
Nel farlo gli cadde l’occhio verso il centro della
città, quel lontano paradiso scintillante di splendore, e come ogni volta montò
in lui la rabbia.
Quella massa di ipocriti e di illusi credeva di
vivere in un sogno, un’utopia, ma la verità era che nulla era davvero cambiato
in quei quattro secoli, e probabilmente non sarebbe cambiato mai.
Da che mondo era mondo, alla ricchezza e al
benessere era destino facessero da contraltare malaffare e miseria.
E l’unico modo per impedire a quel sogno, quel
miraggio di perfezione al quale tutti bene o male disperatamente si
aggrappavano, di infrangersi come un cristallo, era tenere il male sotto
controllo, anche talvolta a costo di sporcarsi le mani.
E cosa dire poi delle leggi?
Davvero quegli ubriachi di splendore erano convinti
che le leggi dei primi distretti valessero anche negli ultimi?
La legge, e questo Sean l’aveva imparato ormai da
tempo, era di quanto più imperfetto vi fosse al mondo, forse anche più di quel
sogno senza sostanza chiamato Kyrador. L’unico modo
per farla rispettare, o per far credere a tutti che lo fosse, era adattarla
all’evenienza, cercando compromessi e chiudendo occhi, perché altrimenti il
rischio era di estendere il cancro che già da tempo aveva fatto marcire gli
arti inferiori anche alle parti ancora sane, o che sane volevano fingere di
essere.
Ma infondo cosa importava a quelli del centro di
quello che succedeva al di fuori del loro piccolo mondo splendente?
Non avevano la minima idea di cosa fosse il mondo,
il mondo vero, e se volevano continuare a vivere nel castello delle favole
affari loro. Ma che poi non venissero a fare della facile retorica ostentando
un moralismo borghese che era la summa dell’ipocrisia.
O almeno, questo era ciò che Sean si sforzava di
pensare.
Non voleva credere di essere entrato nel vaso di
pandora per mera speculazione, per trovare i soldi necessari a pagare spese
legali mai saldate e il mantenimento dei propri figli. Voleva pensare di essere
solo una pedina, un insignificante elemento di quel gigantesco organismo che
per non sporcare parte della propria purezza lasciava pure marcire tutto ciò
che era di secondaria importanza, purché continuasse a funzionare.
Afferrato il corpo di Vick
per le gambe lo trascinò fin sul bordo del molo, quindi, rivolto ai palazzi in
lontananza un nuovo sguardo carico d’odio, lo spinse di sotto, restando ad
osservarlo mentre rapidamente si allontanava scomparendo nel buio.
Ci avrebbero pensato le correnti notturne a
spingerlo al largo, o più probabilmente sarebbe finito polverizzato negli
idrogetti di qualche nave cisterna, come non fosse mai esistito.
Come il corpo fu avvolto completamente nell’oscurità
Sean tornò sui propri passi, risalì in macchina e se ne andò.
Jason era convinto che Pam volesse portarlo
in qualche discoteca o club di lusso del primo distretto, quel genere di posti
che a meno di non avere gli stemmi nobiliari cuciti addosso non li si poteva
neanche guardare, per questo rimase comprensibilmente basito quando invece la
ragazza, seduta sul sellino posteriore della sua moto da corsa di seconda mano,
gli chiese invece di imboccare l’uscita della circonvallazione che andava verso
la zona del porto, neanche troppo lontano da dove il ragazzo viveva.
La relativa vicinanza ai distretti principali non
impediva a quella zona, che pure era dalla parte opposta della città rispetto
alla periferia propriamente detta, di tramutarsi la notte in un vero letamaio,
patria incontrastata di ogni possibile attività illegale.
«Ecco, ci siamo» disse Pam
indicando un localaccio di terz’ordine lungo Teresian
Street.
Le facce che popolavano il marciapiede attorno
all’ingresso erano di per sé minacciose e poco raccomandabili, eppure Pam vi si avvicinò come niente fosse, salutandone
addirittura alcuni che ricambiarono con battutacce e commenti spinti sul suo
essere così affascinante e sensuale.
Jason non era tipo da farsi spaventare, ma provò un
senso di forte disagio nel passare accanto a quegli energumeni che odoravano di
malaffare lontano un miglio, e il disagio aumentò ancora di più appena Pam lo condusse all’interno.
L’odore di fumo toglieva il respiro, e non era certo
fumo di tabacco, quel viziaccio che dopo quattro secoli di stentata evoluzione
in molti su Celestis non erano ancora riusciti a
togliersi. Jason rimase senza parole dalla naturalità con la quale Pam si muoveva lì dentro; aveva intuito che fosse una
ragazza “difficile”, abituata a frequentare luoghi che non si immaginerebbero
per gente del suo status, ma non pensava potesse esserlo a tal punto.
Dapprincipio cercò di non pensarci, accettando il
superalcolico che lei insistette per offrirgli, e assordato dalla musica
lanciata a tutto volume provò a gettarsi nella mischia.
Tutto era così strano, così fuori dal mondo.
Da un istante all’altro il giovane si ritrovò da
solo in mezzo a tutti quegli estranei, assatanati urlanti con gli occhi fuori
dalle orbite da quanto parevano storditi, e anche lui ad un certo punto sentì
di stare perdendo i contatti con la realtà.
Tra la musica, quel fumo nauseabondo e tutto il
resto, Jason si sentì come risucchiare, mentre la testa prendeva a girargli ed
a fargli un gran male. I volti delle persone tutto intorno, ai suoi occhi,
diventavano sempre più sfocati, maschere spaventose dai contorni
indistinguibili, e così anche l’ambiente, con tutte quelle luci intermittenti,
quegli psichedelici giochi con il laser e quel pavimento reso così scivoloso
dai litri di alcolici finitici sopra.
La gola e il naso gli bruciavano da impazzire,
faticava a respirare, ed il suo tentativo di ballare al ritmo di quella
sottospecie di musica si tramutò sempre più in un ondeggiare senza senso, come
di un ubriaco.
Jason non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
Avrebbe voluto andarsene, ma una parte di lui sembrava come inebriata da quella
sensazione tenendolo inchiodato lì, incapace di pensare lucidamente.
Pam nel frattempo era
sparita, scomparsa in quel dedalo di facce come un fantasma, nello stesso modo
in cui il pensiero stesso di lei lentamente iniziava come a scomparire dalla
mente di Jason.
Di colpo, un’immagine si accese come un lampo nella
mente del ragazzo, accompagnata da una serie indistinguibile di suoni, rumori e
voci.
Un bicchiere infranto, un corpo a terra, una sirena
spiegata, due volti urlanti, e il grido straziante di un pianto disperato.
Fu come essere colpiti da una scarica di teaser.
In un istante Jason riacquistò la lucidità, e tutto
gli parve chiaro.
Ora riconosceva quel fumo. Quell’olezzo maledetto.
Si era sforzato a tal punto di dimenticare ogni cosa che aveva finito per
scordarsi anche quell’odore.
Furiosamente prese a cercare Pam.
Forse, o probabilmente era quello che voleva credere, quella ragazza non aveva
idea del posto in cui era finita, e doveva allontanarla assolutamente prima che
succedesse qualcosa di irreparabile.
«Levatevi!» urlò aprendosi la strada tra gli altri
clienti. «Pam, dove sei? Dobbiamo andarcene di qui
alla svelta!».
A forza di spintoni, e dopo aver esplorato ogni
centimetro di quel localaccio sovraffollato, finalmente la trovò, seduta ad uno
dei tavoli più appartati della sala assieme ad un tipaccio che definire
minaccioso era riduttivo, con al collo un pendente con l’effige del culto di
Ela, e ad altri ragazzi più o meno della sua età.
Ciò che vide lo lasciò sconvolto, anche se una parte
di lui probabilmente si aspettava di trovare una scena del genere.
Di tutti i giovani raggruppati attorno a quel tavolo
solo Pam pareva conservare un briciolo di lucidità,
per quanto anche lei avesse ormai lo sguardo parzialmente offuscato dalla
robaccia che stava sniffando.
Fra i vari modi in cui la lilith
poteva essere assunta, la forma in polvere da sniffare o fumare mescolata al
tabacco era notoriamente considerata la più innocua, ma questo non le impediva
di essere una dispensatrice di morte prima che di sballo.
Quando Pam, accortosi di
lui, si voltò a guardalo, Jason rimase atterrito nel vedere cosa erano
diventati i suoi occhi.
«Jason.» disse togliendosi dalla punta del naso
alcune tracce di polvere blu. «Sei arrivato giusto in tempo. Vuoi favorire?»
«Che stai facendo?» ringhiò il ragazzo a denti
stretti
«Non lo vedi tu stesso? Avanti, ho pagato anche per
te. Non fare complimenti. Il mio amico Thojir ha la
roba migliore della città».
Pam fece per tirare su la
sua quarta riga di polvere, e a quel punto Jason si sentì esplodere dentro.
«Adesso basta!» urlò avventandosi su di lei e
strappandole la canna di mano
«Che fai, idiota!?» replicò lei con gli occhi
sbarrati.
Lo spacciatore, vedendo Jason gettare via con un
colpo di mano tutta la polvere accumulata sul tavolo, andò su di giri
ringhiando come una tigre, ma Pam riuscì fortunatamente
a calmarlo prima che ne nascesse una situazione dai risvolti potenzialmente
tragici.
«Lascia stare, pago io» disse, per poi tornare a
guardare Jason. «Si può sapere che ti prende?»
«A me!? A te cosa prende! Stai lontana da quella
merda. Hai deciso di morire?»
«E fai tante storie per un po’ di polvere? È roba
innocua, tagliata milioni di volte. Ce ne vorrebbe un autotreno per riuscire
anche solo a sentirne l’odore.»
«Ah davvero? Forse allora sono io quello sballato,
perché secondo me questo posto puzza da far vomitare, e tu stai già uscendo di
testa. Vieni subito via prima che ti si frigga il cervello».
Jason fece per prenderla per un polso, ma lei si
divincolò serrando i denti.
«Tu pensa agli affari tuoi! Ma chi ti credi di
essere? Io faccio quello che mi pare!»
«E ciò implica finire al cimitero? O in un centro
per tossici? Ci sono stato in uno di quei posti, e puoi credermi. Non sono
esattamente come la tua bella villa di Fhirland.»
«Sei solo un ragazzino senza palle. Basta un po’ di
polvere per metterti tutta questa paura? Allora ti avevo decisamente
sopravvalutato».
Per un istante Jason sentì di stare perdendo il
controllo, poi un’immagine gli passò nuovamente davanti agli occhi,
sovrapponendo al volto di Pam quello di una persona a
lui famigliare.
«Lo sai perché io e mio padre non ci parliamo più?»
disse guardandola con un misto di rabbia e comprensione. «Perché ogni volta che
ci incontriamo non facciamo altro che accusarci a vicenda della morte di mio
fratello. Aveva sedici anni quando è stato chiuso nel centro di recupero, e
neanche diciassette quando gli hanno dovuto sparare dopo che aveva quasi
sbranato una dottoressa.
La lilith e molte altre
porcherie gli avevano consumato il cervello, e l’ultima volta che l’ho visto
non sembrava neanche più un essere umano.
Vuoi diventare così? Vuoi finire come lui?».
Di fronte ad un racconto così macabro Pam esitò, restando lunghi secondi con la bocca spalancata
e gli occhi socchiusi, ma poi, nell’istante in cui Jason cercò di prenderle
nuovamente la mano, la pazzia si impadronì nuovamente di lei.
«Non osare toccarmi! Chi ti credi di essere per
farmi la predica? Io faccio della mia vita quello che mi pare! Perché voi non
volete capirlo? È la mia vita! La mia! E non permetto a nessuno di decidere per
me! Nessuno deve decidere per me! Né mio padre! Né mia madre! Né tu!».
Pam parve calmarsi, ma era
solo apparenza. Quando guardò nuovamente Jason, nei suoi occhi vi erano una
pazzia ed un astio quasi inconcepibili.
«Tu» ribadì. «Che non sei altro che uno schifoso
lavavetri. Un disgraziato che pulisce bagni e lava pavimenti inseguendo un
sogno che sa che non si avvererà mai».
Suo padre, per quanto avessero spinto al limite le
loro litigate molte volte, non aveva alzato le mani su di lei neanche una
volta, per questo prima di quel momento Pam non aveva
mai conosciuto il dolore di uno schiaffo.
Fu una cosa innocua, per quanto potesse essere
innocuo il manrovescio di un ragazzo che non si era mai trattenuto nel
distribuire pugni alla prima occasione, eppure persino Jason rimase un momento
stupido per la fermezza delicata che era riuscito ad infondere in quel colpo.
Pam restò di sasso, ma
ancora una volta la droga ebbe il sopravvento quasi subito, e lei giratasi
sputò in faccia al ragazzo guardandolo adirata. Eppure, i suoi occhi parevano
lacrimare mentre lo faceva.
«Vattene. Non voglio più vederti. Tu sei come lui».
In altri tempi Jason non avrebbe mai perdonato una
simile offesa, ma stavolta la belva orgogliosa che era lui non riuscì a
destarsi.
«Fa quel che vuoi» mugugnò pulendosi con la
maglietta. «Ma non contare su di me. Col cavolo che io ci passo un’altra volta
per tutto questo. Hai ragione, la vita è tua. E se vuoi gettarla alle ortiche
non sarò io a fermarti».
Detto questo Jason se ne andò, risoluto e senza
fermarsi, ma con una strana sensazione nel petto che non smise di tormentarlo mentre
si incamminava lungo il marciapiede allontanandosi nella notte.
Rimasta sola, perché così si sentiva, Pam
soffocò sul nascere le lacrime ributtandosi nella lilith.
Sniffò, sniffò e sniffò ancora, nel disperato
tentativo di far uscire tutti quei pensieri dalla testa, tutti quei sensi di
colpa.
Dopo aver svuotato il portamonete pagò con tutto
quello che aveva, dal fermacapelli al braccialetto d’oro ricevuto per il suo
ultimo compleanno, l’ennesimo tentativo del padre di accattivarsi i suoi favori
con regali costosi.
Teoricamente Thojir aveva
con sé abbastanza stupefacenti da far collassare metà dei presenti, ma non
voleva trovarsi tra le mani una strafatta che gli crollava davanti agli occhi o
peggio, e all’ennesima richiesta delirante di Pam di
mettere nuovamente mano alla sua scorta rispose con un rifiuto.
«Direi che per stasera ne hai sniffata anche troppa.
Torna domani e te ne darò ancora.»
«Come sarebbe domani? Io la voglio adesso!».
Pam era talmente fuori di
sé che cercò persino di strappare il sacchetto dalle mani di Thojir, il quale non aveva la stessa gentilezza di Jason e
rispose con un tremendo ceffone che scaraventò la ragazza a terra.
«Vattene, prima che perda la pazienza».
La poveretta si rialzò a fatica, sia per la violenza
del colpo che per i paurosi giramenti di testa che ormai non le davano tregua,
e barcollando si diresse a fatica verso l’uscita, guardata con un misto di
incredulità e disgusto da coloro cui andò inavvertitamente addosso nel suo
incedere stentato.
Una volta fuori si incamminò senza meta per le
strade buie, sotto una pioggia scrosciante, senza sapere dove andare o cosa
fare, mentre ai capogiri si erano nel frattempo andati a sommare violenti
spasmi, tosse e conati che a stento riusciva a controllare.
Sembrava ubriaca da come andava da una parte e
dall’altra, incapace di procedere lungo una linea retta.
Tutto le girava intorno, tutto era in movimento, e
non riusciva a pensare lucidamente, annebbiata com’era dai fumi della lilith.
Forse quella roba, pensò con uno scampolo di
lucidità, non era così di buona qualità come credeva.
O forse, e qui la colse la paura, questa volta aveva
davvero esagerato.
Crogiolatasi da sempre nella certezza di poter
sopportare tutto grazie alla sua attitudine alla magia, non aveva mai dato peso
alle chiacchiere e ai timori di chi aveva tentato di rammentarle i pericoli
della lilith, confidando nelle aride cifre delle
statistiche che ripetevano ogni volta come fosse quasi impossibile, per
un’aspirante stregone, andare incontro ai ben noti e spaventosi effetti
collaterali della polvere blu.
E invece, ora, si sentiva male come non lo era mai
stata, il corpo intero sembrava essersi trasformato in un enorme puntaspilli
conficcato in ogni parte, ed ogni passo, ogni respiro, ogni sbattere di ciglia
era un’agonia.
Come se non bastasse la vista, già provata
dall’acqua che cadeva ininterrottamente dal cielo, le si era appannata, al
punto da renderle quasi impossibile distinguere nitidamente ciò che aveva
attorno, il che le aveva impedito di rendersi conto di essere giunta, nel suo
peregrinare senza meta né ragione, nei pressi della superstrada.
Data l’ora, in girò non c’era quasi più nessuno.
Una coppietta di liceali si stava avviando in tutta
fretta verso la fermata della metro al riparo di un ombrello, ed entrambi
restarono paralizzati per lo stupore quando si videro venire incontro quella
ragazza fradicia e ridotta ad uno straccio, i lunghi capelli arruffati e
gocciolanti, il naso rosso come spellato e la bocca coperta di escrescenze
disgustose che, mescolate all’acqua, avevano formato una sorta di schiuma densa
e bianca.
«Aiutatemi…» mormorò
agonizzante protendendo un braccio verso di loro.
Dapprincipio non seppero cosa fare, ma quando si
avvidero che l’arto era ricoperto da grosse e molto minacciose scaglie simili a
enormi croste color roccia si spaventarono al punto di correre via nella
direzione da cui erano venuti, intimando al mostro di stare lontano.
Sentendosi chiamare mostro Pam
avvertì un nuovo, ulteriore colpo al cuore, ed inginocchiatasi a terra vomitò
quello che per molti minuti era riuscita a tenere dentro, ma solo quando vide
essa stessa le croste di cui non solo il braccio, ma tutto il suo corpo era
ricoperto l’orrore si impadronì di lei.
Stava succedendo.
Quei due ragazzi non avevano esagerato chiamandola
mostro.
Era esattamente quello che stava diventando.
Lo sarebbe diventata, senza dubbio.
Si sarebbe trasformata in una di quelle orride
creature che aveva visto molte volte alla televisione, bestie animali che
attaccavano e uccidevano chiunque prima di venire a loro volta abbattute.
Urlò, urlò con tutta la sua voce, e sull’orlo della
pazzia prese a correre in ogni direzione, senza logica, mugolando versi
incomprensibili mescolati a grida strazianti, mentre cercava a forza di graffi
di strapparsi di dosso quelle scaglie, che pur avendo smesso di crescere le
provocavano più dolore di una distesa di piastre arroventate.
Ben presto, la paura prese il sopravvento,
rendendola sorda a qualunque altra cosa, compresa una luce abbagliante che da
un istante all’altro le comparve davanti accecando quanto restava dei suoi
occhi.
Sean non riusciva ancora a concepire quello che aveva fatto, e invece
di dirigersi verso casa come avrebbe voluto aveva finito per svoltare
all’incrocio sbagliato, trovandosi a girovagare senza meta per le strade che
costeggiavano il porto.
Il senso di tutto ciò gli sfuggiva ancora, e benché
cercasse con tutto sé stesso di convincersi che quello che aveva fatto era
servito a salvare la sua vita e la sua carriera quella era la prima volta che
uccidere qualcuno gli provocava un simile turbamento d’animo.
Di certo non c’entrava il sentimento.
Anche se quel truffatore forse aveva finito per
pensare il contrario, lui non aveva mai considerato Vick
un amico, ma solo un tipo equivoco del quale fidarsi al bisogno, un male
necessario insomma.
Ma se era davvero così, se l’amicizia non ci aveva
niente a che fare, non riusciva a spiegarsi da dove venisse tutto quel rimorso.
Probabilmente la causa era alla radice.
Si era sempre reputato una persona onesta, e fino a
pochi anni prima mai si sarebbe visto nelle fila dei corrotti, di quelli che
prendevano soldi dalle corporazioni criminali o dai trafficanti per tenere le
strade di periferia pulite e le attività criminali lontane dalla luce del sole
in cambio di un occhio di riguardo davanti alla legge.
Nelle periferie tutto aveva un prezzo, inclusa la
sicurezza, e lui aveva accettato di prendere la sua parte.
In fin dei conti era un discorso molto semplice.
Quello che non si poteva contrastare lo si comprava, e chi si faceva comprare a
sua volta comprava la certezza dell’immunità. Era come un cerchio senza fine, e
una volta entratici si poteva uscirne solo con la
prigione, o dentro una bara.
Bisognava farci l’abitudine ed accettarlo, e se solo
Vick lo avesse capito, invece di correre dietro ai
soldi come al solito, forse sarebbe rimasto vivo.
Il giorno dopo sarebbe tornato al museo, e con un
po’ di fortuna avrebbe trovato anche la scheda originale nelle mani di qualche
inserviente. Una volta distruttala tutto sarebbe finito, e la vita avrebbe
ripreso a scorrere per il suo corso naturale.
Fatta pace con la coscienza, almeno per un po’,
l’ispettore si risolse ad andarsene a casa, ma d’improvviso, dal nulla, una
figura gli comparve davanti alla macchina emergendo dal muro di pioggia e
costringendolo ad una improvvisa sterzata
Riuscì a fermarsi solo dopo essersi giocato il
parafango contro la ringhiera che delimitava il marciapiede, e sceso dalla
macchina si affrettò a sincerarsi delle condizioni di quell’aspirante suicida.
Ciò che vide lo lasciò sgomento.
A terra, riversa agonizzante sull’asfalto bagnato,
c’era una ragazza, ben vestita ma in uno stato pietoso, il corpo ricoperto di
orrendi crostoni, la bocca impiastrata di vomito e gli occhi completamente
rigirati all’indietro.
Non l’aveva certamente investita, ma ciò non
toglieva che stesse comunque molto male.
Una drogata sicuramente, merce neanche troppo rara
in quella parte della città, ma di sicuro non una qualsiasi a giudicare dai
costosi indumenti che portava.
Il problema erano quelle croste.
Sean si inginocchiò davanti a lei, passandovi sopra
il suo comunicatore per fare un rapido check-up dall’esito impietoso, ma non
drammatico come pensava. Era viva, ma la mutazione era già incominciata, e a
meno di non fare qualcosa subito sarebbe stata irreversibile.
Per un attimo l’agente fu combattuto su cosa fare,
perché sapeva che avvertendo i soccorsi gli avrebbero sicuramente chiesto di
spiegare cosa ci facesse in un posto simile nel cuore della notte, ma poi la
sua coscienza di poliziotto ebbe il sopravvento, e senza ulteriori esitazioni
si mise in contatto con la centrale più vicina.
«Sono l’agente Sean Neeson.
Quarta postazione, nono distretto. Serve subito un’ambulanza con unità
disintossicante all’incrocio tra Caledonia Avenue e la quarta strada. Abbiamo
un nove-uno in fase embrionale.»
«Qui centrale operativa» rispose una voce dall’altra
parte. «I soccorsi arriveranno in cinque minuti».
L’ambasciatore Klose aveva atteso sua figlia
fino ad oltre mezzanotte prima di risolversi ad andarsene a letto, mugugnando
che quella sarebbe stata l’ultima bravata di Pam per
un bel po’ di tempo.
Una telefonata tirò giù dal letto lui e la moglie
nel cuore della notte, e per un attimo il cuore dell’uomo si fermò in petto
quando riconobbe all’altro capo della linea la voce del suo amico dottor Borisov, primario di chirurgia del Columbus Hospital.
Per fortuna, tra le varie cose che Pam si era venduta per comprare la polvere non vi era il
suo tesserino di riconoscimento dell’ambasciata, altrimenti sarebbe finita in
qualche ospedale di quart’ordine, invece che nella migliore struttura sanitaria
della città.
L’ambasciatore e sua moglie corsero come pazzi a
bordo del primo taxi che riuscirono a trovare, e una volta all’ospedale vi
trovarono anche Christofer, avvertito a sua volta
durante una festa di addio al celibato di un amico.
«Dov’è tua sorella?» domandò Klose
con un’espressione che suo figlio e sua moglie non gli avevano mai visto quando
l’oggetto della discussione era sua figlia Pam
«È ancora in sala operatoria».
Grazie al cielo le condizioni di Pam
erano apparse meno gravi di quanto inizialmente pensato, e al termine di un
lungo intervento di disintossicazione era stata dichiarata fuori pericolo.
Purtroppo però, le buone notizie finivano qui, e ce
ne si accorse nel momento in cui, ripresa conoscenza, Pam
non riuscì a riconoscere né sua madre né suo fratello, dimostrando oltretutto
un livello cognitivo e comportamentale più simile a quello di una bambina che
di una diciottenne.
Il dottor Borisov prese da
parte l’ambasciatore chiamandolo fuori dalla stanza.
«La droga non ha intaccato l’M-Code, ma dei danni li
ha comunque fatti.»
«Di che stai parlando, Ivan?»
«Per poterla salvare, siamo stati costretti ad eseguire
un drenaggio massiccio, ma le particelle nocive nel frattempo hanno danneggiato
la corteccia cerebrale. È probabile che non ricorderà nulla di quanto accaduto,
ma questo sarà il minimo.»
«Che vuoi dire?» domandò l’ambasciatore
«Ho già avuto a che fare con contaminazioni di
questo tipo. Penso di poter escludere danni cerebrali significativi, ma abbiamo
rilevato una sorta di regressione cognitiva provocata dai danni alle attività
cerebrali.
È come se il suo cervello fosse tornato indietro ad
un’età infantile».
L’ambasciatore si passò una mano sul volto, e volse
un momento lo sguardo verso la parete vetrata che separava la stanza dal
corridoio. Pam era ancora sul letto, assieme a Chistofer e a sua madre, intenta a colorare un album
regalatole da alcune infermiere.
«E sarà…» mormorò con un
filo di voce. «Irreversibile?»
«È del tutto soggettivo. Certo, la sua
predisposizione alla magia fa propendere per l’ottimismo. La sua mente potrebbe
tornare quella di prima da un momento all’altro. Oppure potrebbe ricominciare
tutto daccapo, e con un po’ di pazienta età del corpo e della mente potrebbero
tornare in pari.» quindi il dottore sospirò, facendosi scuro in volto «O
potrebbe restare così a vita».
Di nuovo, l’ambasciatore guardò in basso, sull’orlo
delle lacrime.
Solo in quel momento comprese veramente la portata
dell’errore che aveva commesso, e maledì la sua incapacità come capofamiglia e
come padre.
Aveva sbagliato tutto con quella ragazza, e ora
entrambi ne pagavano le conseguenze.
Ma ormai piangere sul latte versato era inutile. Il
passato non si poteva cambiare, neanche con tutta la magia ed il sapere del
mondo. Tutto quello che poteva fare era cercare di recuperare il tempo e la
figlia perduti, anche a costo di sacrificare molte altre cose, incluso il suo lavoro.
«Grazie.» disse cercando di farsi forza «Sei sempre
un amico».
Cercando di guardare al futuro con più ottimismo
possibile l’ambasciatore entrò nella stanza, offrendosi di dare il cambio alla
moglie e al figlio nel tenere d’occhio Pam mentre
loro andavano a prendere un caffè, quindi, rimasto solo con la figlia, andò a
sedersi al suo fianco vicino al letto.
Guardandola sorridere, sentì qualcosa svegliarsi nel
suo cuore.
L’ultima volta che l’aveva vista ridere e divertirsi
in quel modo non riusciva neanche più a ricordarla; forse perché era passato
troppo tempo, o forse perché non se n’era mai accorto.
«Signore, le piace?» domandò la ragazza mostrando al
padre il giardino fiorito che aveva appena finito di colorare.
Lui sorrise, guardandola dolcemente e passandole una
mano nei capelli.
«È bellissimo».
Jason si ritrovò ad un certo punto a camminare da solo per le strade
di Kyrador, al buio, con la pioggia che cadeva
incessantemente infradiciandogli i capelli ed appiccicandogli i vestiti alla
pelle.
Forse aveva passato la misura.
Se n’era andato perché non voleva rivivere quanto
già successo tre anni prima a suo fratello, ma a ben pensarci in fin dei conti
non aveva fatto altro che scappare, di nuovo.
Quando gli scrosci divennero troppo forti, il
giovane andò a rifugiarsi al riparo del casotto di una fermata d’autobus,
abbandonandosi sulla panchina di attesa con la mente da tutt’altra parte.
Pam aveva i suoi difetti,
ma alla fine era solo una ragazza senza certezze schiacciata da qualcosa più
grande di lei, che come Alex aveva cercato altrove quel rifugio che la famiglia
non aveva saputo essere.
D’altra parte, però, Jason sentiva di non avere la
forza per passarci un’altra volta, senza contare che non riusciva a spiegarsi
come mai una ragazza conosciuta solo poche ore prima potesse dargli un tale
tormento d’animo.
A capo chino, gli occhi piantati sul pavimento
sporco e bagnato, contava con la mente le gocce che scivolando giù dai capelli
bagnati ticchettavano per terra alla luce fioca di una lampada, mentre davanti
lui, lungo la strada deserta, di tanto in tanto transitava qualche autobus;
alcuni si fermavano, facendo scendere uno o due passeggeri, che preoccupati
solo di tornare a casa quanto prima passavano accanto al giovane senza quasi
accorgersi di lui.
«È raro incontrare qualcuno a quest’ora e a questa
fermata.» sentì dire ad un certo punto
Il ragazzo alzò gli occhi: dinnanzi all’ingresso
aperto del box era comparso un anziano signore, abiti semplici e sguardo
gentile, più o meno riparato dalla pioggia sotto un ombrello che doveva
sicuramente aver conosciuto tempi migliori.
«Aspetti un autobus?» domandò sedendosi accanto a
lui
Lui non rispose, guadagnandosi un’occhiata
perplessa, ma comunque amichevole.
«Questi temporali di fine primavera sono una vera
seccatura. Ricordo che una volta, molti anni fa, ce ne furono tantissimi, uno
dietro l’altro e tutti molto violenti, tanto che il fiume tracimò e la parte
bassa della città si ritrovò sommersa per due interi giorni.
Le strade erano piene di gente che spalava, e c’era
fango dappertutto. Persino la piazza dell’orologio era stata distrutta.»
Jason piegò le labbra in una espressione di
rassegnazione mista a divertimento.
Sicuramente si riferiva alla Grande Alluvione del
centosessantatre che aveva cancellato un intero quartiere costringendo le
autorità a deviare sia il corso che la foce del fiume Rytumouth
lontano dal centro della città, ma quel vecchio gli aveva dato subito l’idea di
non starci tanto con la testa.
«Anche lei però mi sembra un po’ troppo anziano per
girare di notte e con un simile tempaccio. Non ha paura che le venga qualche
malanno?»
«Ragazzo mio, queste mie vecchie ossa ne hanno
passate così tante che non sarà certo un po’ di pioggia ad incrinarle.»
Ma Jason aveva ben poca voglia di parlare, ed il suo
improvvisato interlocutore non faticò ad accorgersene.
«C’è qualcosa che non va, figliolo?»
«Probabilmente nulla che lei possa capire. Con tutto
il rispetto.»
«Mettimi alla prova. Potrei sorprenderti. Del resto,
se c’è qualcosa che ci tormenta è sciocco tenerselo dentro.»
Jason non aveva la benché minima idea di chi fosse
quel vecchio con l’espressione ebete, chiacchierone e anche un po’ invadente,
eppure non riuscì a resistere all’impulso di parlare, riversando in poche
parole tutta l’inquietudine e il senso di impotenza che in qualche modo si era
sempre portato nell’animo, e che gli eventi di quella sera avevano in fondo
solo contribuito a far riaffiorare.
L’anziano ascoltò, senza proferire parola, quasi il
suo intento fosse appunto solo quello di dare al giovane un’occasione per
sfogarsi.
«E me ne sono andato» concluse infine Jason. «Non ce
la facevo a passarci un’altra volta. Non dopo quello che è accaduto a mio
fratello.
Io capisco Pam, anche se
non posso dire di sapere sul serio quello che sta passando, ma d’altra parte
l’idea di dover rivivere un’altra volta quel tormento mi fa tremare le gambe.»
«Io purtroppo non posso dire di conoscere le persone
come conosco questa città,» disse l’anziano dopo un lungo silenzio. «Ma in fin
dei conti, Kyrador, come qualunque altra opera
architettonica piccola o grande, è frutto del lavoro dell’uomo.
Quindi, in qualche modo, è come se ne rispecchiasse
la personalità.
Ci sono tante luci, ma anche tante ombre. La maggior
parte delle persone che vivono circondate dalla luce vogliono credere che la
loro realtà sia universale, e scelgono di ignorare il buio che si annida oltre
la siepe delle loro convinzioni.
Forse hanno paura, o forse non vogliono distruggere
quel sogno di quiete in cui vivono, anche a costo di sapere, nel profondo del
cuore, che si tratta appunto solo di un’illusione.
Ma di una cosa sono certo. Non lo fanno per
cattiveria, né per cinismo.»
«La città… sarebbe come le
persone!?» disse stupito Jason
«Una città è forse la cosa materiale più vicina alla
natura della mente umana. Ci sono gioie, dolori, sogni, incubi, speranze,
illusioni. L’Uomo è speciale perché è poliedrico, e racchiude al suo interno
entrambe le facce dell’esistenza. L’infinita complessità della sua mente può
portarlo a raggiungere i più incredibili traguardi come spingerlo alle azioni
più abominevoli.»
L’anziano alzò gli occhi ad osservare le gocce di
pioggia che tamburellavano sulla superficie trasparente del casotto.
«Chi vive nella luce ha paura di guardare
l’oscurità, soprattutto se l’ha già conosciuta. Ma è solo accettando e comprendendo
il dualismo insito in ogni cosa che si può arrivare ad avere piena coscienza
dell’infinita complessità dell’essere umano, ed eventualmente anche le ragioni
che talvolta lo portano ad agire in modo sbagliato» quindi il vecchio
intercettò lo sguardo di Jason, trafiggendogli l’animo. «Senza contare che chi
ha il coraggio di guardare nel buio quasi sempre è anche colui che riesce a
combatterlo.»
Jason sussultò, spalancando leggermente la bocca.
«Avere la forza di guardare nel buio con la
convinzione di poter aiutare chi si trova al suo interno e vorrebbe uscirne,
anche se non lo sa.
Questa è la maggior prova di forza che un essere
umano possa dimostrare.»
Quelle parole risuonavano come le trombe del
giudizio, martellando la mente di Jake senza tregua.
Forse quel vecchio svitato aveva ragione: forse
cercare di salvare Pam, o quantomeno starle vicino,
era l’unico modo per mettere a tacere quella coscienza che lo tormentava ogni
qualvolta ripensava a suo fratello.
Ma non c’era solo quello a turbarlo, e l’anziano ne
sembrava consapevole.
«Il fatto è che non posso fare a meno di pensare che
quella ragazzina viziata in fin dei conti ha ragione.
Io sono solo un fallito. Ho fallito con mio
fratello, ho fallito venendo in questa città. Ho fallito in ogni cosa.
E ora sono ridotto così. Mi trascino ogni singolo
giorno come un cane bastonato aspettando la sera, in un circolo vizioso che si
ripete all’infinito.
E dire che quando sono arrivato qui mi sentivo così
carico, così pieno di energia e di aspirazioni.
Mi avevano detto che qui a Kyrador
tutti i sogni potevano diventare realtà, ma il mio è andato a sbattere contro
il muro di pietra della realtà.
Mi domando se persino in un mondo come questo valga
ancora la pena di sognare.»
«Credimi, ne vale la pena. Soprattutto qui.»
Di nuovo, il giovane trasalì.
«Lo hai detto tu. Questa è la terra dei sogni.
Piccole o grandi, semplici o sterminate, tutte le ambizioni in questo luogo
hanno il potere di mutarsi in realtà.
E a chiunque dimostri di possedere la forza e la
determinazione necessarie per andare avanti affrontando ogni sorta di
avversità, Kyrador concede sempre l’occasione di
realizzare i propri sogni. Il tutto è saperla cogliere quando si presenta.»
«Il problema è proprio questo. Non sono più sicuro
di avere la forza per lottare.»
«Allora, neanche Kyrador
di aiuterà. Lei premia solo chi persevera e non si arrende, o anche solo chi nonostante
tutto ha ancora la forza di credere nella sua magia. Perché a seconda che si
combatta con più o meno forza, è il fatto stesso di credere in lei a generare
la magia.»
Jason girò lentamente la testa, ed i due si
guardarono nuovamente negli occhi.
«Credi, ragazzo. Credi in te stesso e credi in Kyrador. E lei ti premierà.»
In quel momento un altro autobus si fermò davanti al
casotto, lasciando scendere una coppietta di ritorno da una serata di piacere.
«È la tua linea?» domandò il vecchio senza guardare
né Jason né il mezzo
«Sì…» rispose il ragazzo
con un filo di voce
In realtà non sapeva neppure di che linea si
trattasse, ma un attimo dopo era comunque a bordo, seduto in ultima fila; il
tormento che gli si agitava in petto era tutt’altro che scomparso, eppure in
qualche modo sembrava essersi alleggerito, benché quel turbinio di emozioni e
pensieri riuscisse ancora a togliergli concentrazione rendendolo incapace di
pensare lucidamente.
Stette ad osservare il volto, sorridente ed insieme
severo, di quello strambo vecchio fino a che l’autobus non si fu rimesso in
moto, e fatta meno di una decina di metri, volle girarsi un’ultima volta, ma fattolo
si avvide, non senza una certa sorpresa, che nel casotto non c’era più nessuno,
a parte un vecchio ombrello chiuso malamente che grondava acqua appoggiato
sulla panchina.
Lee fu costretto a svegliarsi molto presto, prima ancora del sorgere
del sole, per l’ennesimo viaggio di lavoro.
Fu sorpreso di non trovare Sandy al suo fianco, ma
lo fu ancora di più quando, uscito dalla doccia, la incontrò in cucina, intenta
a preparare la colazione e un cestino da viaggio.
«Che ci fai in piedi a quest’ora?»
«Ho pensato di farti una sorpresa. Dopotutto sarà un
viaggio lungo, e la roba che propinano nei vagoni ristoranti è una tale
porcheria».
Lee sorrise. Ogni volta che la guardava rimaneva
sorpreso da quanto la amasse. Stare lontano da lei e dalla sua adorabile figlia
era un tormento, e pregava che prima o poi venisse per lui il momento di
raggiungere quel traguardo che inseguiva da così tanto tempo.
Mentre aspettava che le uova finissero di cuocere si
sedette, e per caso l’occhio gli cadde su di una scheda di memoria appoggiata
in un angolo del tavolo.
«E questa?»
«Già, mi sono dimenticata di dirtelo ieri sera. Ally l’ha trovata ieri durante la gita. Qualcuno deve
averla persa, e andando via lei si è dimenticata di consegnarla a qualcuno.
Oggi la accompagno a scuola e poi passerò a restituirla».
Più per curiosità che per altro Lee provò ad
inserirla nel suo comunicatore, ma come fiumi di nomi, numeri ed immagini
presero a scorrere davanti ai suoi occhi la sua espressione si caricò di
stupore, unito ad un senso di sdegnata incredulità.
«Oh, mio Dio…» mormorò
esterrefatto.
«Che succede?» gli chiese stranita la moglie
«Dove hai detto che l’ha trovato?»
«Al museo. Dentro la replica della nave coloniale».
Lee non si fidava interamente di nessuno al
ministero della giustizia o nel corpo di polizia cittadino, e ciò che aveva
appena visto fece calare ancora di più il suo livello di stima nei confronti di
quella gente, così chiamò l’unica persona che conosceva che sapeva essere al di
sopra di ogni sospetto in quanto a rettitudine.
«Procuratore Griffith? Scusi l’ora inappropriata, ma
avrei bisogno di parlarle. È molto urgente».
Jason non riusciva a togliersi dalla testa le parole del vecchio, che
a distanza di ore continuavano a risuonargli nelle orecchie.
L’autobus dove era salito lo aveva scaricato a due
miglia da casa, distanza che alla fine aveva percorso a piedi, lo sguardo piantato
a terra e l’espressione spenta.
Non era sicuro di poter davvero cambiare il destino
che Kyrador non sembrava volerlo aiutare a cambiare,
ma almeno per quanto riguardava Pam una decisione
l’aveva presa.
Si convinse a ritrovarla.
Almeno lei non voleva perderla. Voleva fare qualcosa
di giusto nella sua vita.
Con questo pensiero in testa si risolse infine a
tornare verso casa, un appartamentino piccolo e umile al secondo piano di una
palazzina che stava quasi sotto il Rainbow Bridge.
Aveva giusto il tempo di farsi una veloce dormita
prima di prendere servizio al museo, e finito il turno sarebbe andato a cercare
Pam all’ambasciata di Fhirland
nel tentativo di farla ragionare, e convincerla a smettere con quell’esistenza
pericolosa.
Stava quasi per infilare la chiave nella serratura,
quando un rumore di sassi calpestati gli fece girare lo sguardo, e grande fu il
suo stupore quando vide camminare nella sua direzione il biondino che aveva
umiliato alla sala giochi, sorridente e sicuro di sé come qualcuno che sente di
avere tutto sotto controllo.
«Ce ne hai messo di tempo. Lo sai quante ore sono
che ti aspetto?»
«Che vuoi?» domandò il ragazzo, che non aveva né
tempo né voglia di intavolare una discussione, o peggio ancora una rissa
«Ho chiesto di te alla sala giochi, e mi hanno detto
dove abitavi. Jason, giusto?»
«Mi spiace, non concedo autografi. Ripassa più
tardi.»
«Molto spiritoso. Cos’è, ti è bastato vincere un
incontro per crederti chissà chi? Quello per me era solo riscaldamento.»
«Se hai finito, vorrei andare a letto. A differenza
di te, io ho un lavoro, e mi piacerebbe andarci con qualche ora di sonno sulle
spalle.»
«Incredibile. Ancora non mi hai riconosciuto?»
«Cosa!?»
Il biondino sorrise di nuovo, quindi mise una mano
nel taschino del gilè, prendendone fuori un articolo di giornale scaricato sul
suo comunicatore che mostrò a Jason, il quale solo a quel punto riconobbe la
persona che aveva davanti.
«Owen Clark» esclamò ad occhi sbarrati. «Il capitano
dei Vivid.»
«Alla buon’ora. È dura trovare qualcuno che non mi
riconosca appena mi vede. Il lato spiacevole dell’essere i campioni regionali
in carica della categoria a squadre.»
«Sfortunatamente» rispose Jason abbozzando un
sorriso imbarazzato. «Io tifavo per quegli altri».
Owen rise alla battuta, per poi farsi serio.
«Sei in gamba. Mi sei piaciuto per come combatti.
Sei sfrontato e imprevedibile. Non hai paura di prendere di petto chi ti è
apparentemente superiore, una qualità rara nel chandra
professionistico.
L’anno prossimo i Vivid
parteciperanno alle selezioni nazionali per le olimpiadi di Eyban
del 355, ma immagino che lo saprai già. Contavamo di andarci tutti insieme, ma
il caso ha voluto che due dei nostri non abbiano saputo resistere al richiamo
dei combattimenti in solitaria».
Quindi, fu il momento della proposta che Jason aveva
atteso tutta la vita.
«Ora alla squadra mancano un tiratore scelto e un
combattente. Il tiratore credo di averlo già trovato, mentre per il
combattente, mi domandavo se fossi interessato».
Jason sentì un nodo allo stomaco, e le chiavi gli
scivolarono di mano.
«Bene inteso, non sarà facile. Ci sono altri quattro
potenziali sostituti, e solo alla vigilia delle selezioni sceglieremo il
fortunato. Dovrai sudartelo questo posto, ma se continuerai a mostrare le
stesse qualità di ieri sera, confido che avrai buone possibilità di entrare in
squadra».
Era come un sogno. Non poteva crederci.
Allora, non era solo una favola.
Quella città aveva davvero il potere di fare avverare
i sogni. Era davvero la terra in cui tutto era concesso, dove chiunque poteva
arrivare al traguardo tanto sognato.
L’aveva denigrata, rimproverata, rinnegata per tutte
le delusioni che gli aveva dato, ma ora che finalmente aveva fatto cadere su di
lui la sua benedizione, Jason la sentì come la cosa più bella del mondo.
Il suo inferno fattosi paradiso.
Una violenta esplosione di energia deflagrò dentro
di lui, e senza sapere perché si mise a correre, seguito con gli occhi da un
sorridente Owen, che allo stesso modo aveva conosciuto Kyrador
prima come un inferno, e poi, con il tempo, come un paradiso, e che quindi
poteva capire i sentimenti sbocciati davanti ai suoi occhi nel cuore di quel
ragazzo.
Jason corse, corse come non mai, inerpicandosi su
per il viadotto e quindi lungo Rainbow Bridge, alla
ricerca di un modo per fare uscire tutta quella energia che minacciava di
scoppiargli nelle vene. Ogni altro pensiero era sparito, pensava solo a
correre.
Nel mentre, il sole iniziava la sua ascesa nel
cielo, benedicendo Kyrador con la sua luce e dando
inizio ad un nuovo giorno per la più bella città di Celestis,
la terra dove i sogni diventano realtà, e dove tutto può succedere.
Raggiunta Harris Island Jason continuò a correre,
sempre più veloce, e raggiunta la statua dell’esploratore vi si arrampicò come
un ragno, giusto in tempo per veder comparire la prima fetta di sole da dietro
l’imponente cintura dei palazzi del centro, quell’eremo di felicità e di
perfetta utopia che per lungo tempo aveva osservato da lontano, ma che ora di
colpo gli pareva un po’ più vicino, alla sua portata.