I Love You, Kyrador

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***
Capitolo 4: *** Parte IV ***
Capitolo 5: *** Parte V ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Chi mi conosce saprà che di solito le note le metto sempre alla fine del capitolo, ma in questa particolare occasione ho pensato fosse meglio fare qualche precisazione doverosa.

Questa breve storia, qui divisa per ragioni di lunghezza in cinque capitoli, la si può considerare una via di mezzo tra uno spin-off e uno slice of life della mia storia Tales Of Celestis.

In essa ho voluto raccontare uno spaccato di Kyrador, la città dove sono ambientate buona parte delle vicende della trama principale. Anzi, per essere più precisi ho voluto raccontare la città stessa tramite i suoi luoghi più simbolici ed importanti, ma anche le sue contraddizioni, le sue molte facce e i suoi stessi abitanti, incarnando il tutto nelle vicende quotidiane di 5 diverse persone.

Per poter leggere questa storia non è necessario conoscere la vicenda principale, volendo anzi che costituisca una sorta di “presentazione” al vero Tales Of Celestis, ma sono sufficienti poche brevi informazioni, che comunque saranno via via enunciate nel corso della vicenda.

Ecco, penso di aver detto tutto.

Vi lascio alla lettura. Perdonate la lunghezza forse eccessiva, ma ho cercato di tagliare il più possibile.

A presto!^_^

Carlos Olivera





 

 

 

Chi cerca di realizzare il paradiso in terra,

sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.

(Paul Claudel)

 

 

1

 

 

Sorgeva il sole su Kyrador, sulla più bella città di Celestis.

Per i suoi tre milioni di abitanti iniziava una nuova giornata. Una giornata come tante altre, con i suoi ritmi, i suoi eventi quotidiani, la sua routine.

Ally detestava svegliarsi al mattino, e ogni volta ci volevano le cannonate per riuscire a farle sollevare la testa dal cuscino.

Sua madre dovette chiamarla quattro volte dalla cucina prima di ricevere una confusa risposta d’assenso, e puntuale come ogni mattina si ripeté il rituale della corsa dei cento metri. L’autobus per la scuola elementare passava alle otto e undici precise, e perderlo voleva dire arrivare in ritardo quasi di sicuro, con inevitabile nota di biasimo.

«Sono in ritardo!» esclamò la bambina rischiando di capitombolare dalle scale.

Giusto il tempo di un bicchiere di succo, una fetta di pane, un bacio a mamma e papà e Ally era in strada.

«Bene, dovrei farcela.» disse tra sé correndo verso la fermata.

Così, una volta tanto, poté permettersi di rallentare il passo, e di godersi almeno un po’ la quiete della prima mattinata in quel pacifico e ameno quartiere residenziale, lontano dai grattacieli e dai palazzoni del centro, una tranquilla via costellata di amene casette a due piani con giardino, staccionata e anche qualche piscina.

Il caldo non era eccessivo, benché fosse ormai quasi estate; una piacevole brezza giunta dalle montagne aveva spazzato via la bruma della prima alba, pulendo l’aria e riempiendola allo stesso tempo di una delicata fragranza di pino, che andando a mescolarsi con la salsedine portata dal mare generava un aroma che avrebbe ridato energia anche al più incallito dei pigroni.

Laggiù, in lontananza, si intravedeva il centro della città, bellissimo, arroccato sulla sua collina come un’acropoli, puntellato di grattacieli e scintillante di bianco.

Solo in quel momento Ally si ricordò cosa vi fosse in programma quel giorno. Era lì che lei e la sua classe erano diretti, al museo nazionale delle scienze e della storia, e di colpo le venne voglia di correre nuovamente, tanto la eccitava il pensiero di ciò che avrebbe visto.

Con il cuore che batteva forte per l’attesa Ally giunse alla fermata dell’autobus trovandovi tutti i suoi amici, tutti impazienti come lei. Meracle, la sua compagna di banco, era al settimo cielo; la scienza e la storia antica di Celestis erano la sua grande passione, e anche se ormai conosceva a memoria il museo dove erano ospitati i resti delle prime navi coloniali giunte sul pianeta quasi quattrocento anni prima ad ogni nuova visita c’era sempre qualcosa da scoprire.

E poi il museo era così bello.

Chi lo aveva costruito aveva voluto farlo somigliare ad una culla, un lettino rovesciato dalla forma vagamente pentagonale che custodiva i ricordi della prima infanzia di tutti coloro che vivevano non solo in quella città, ma nel mondo intero.

«Vedrai, ti piacerà un sacco.» disse Meracle all’amica appena ebbero preso i propri soliti posti a bordo del pulmino «Dentro è così maestoso, e così straordinario. Pensa, ci sono persino alcuni resti delle prime navi coloniali, e persino una ricostruzione in scala interamente visitabile».

Meracle era andata avanti a decantare le meraviglie del museo dal giorno in cui si era saputo della gita, e ormai aveva finito per contagiare anche Ally, che non vedeva l’ora di poter vedere tutte quelle magnificenze con i suoi occhi.

 

Abbandonato il tranquillo quartiere residenziale in cui le due ragazzine vivevano con molti loro compagni l’autobus imboccò la circonvallazione sopraelevata che come un anello cingeva il centro cittadino, accogliendo le innumerevoli arterie stradali che arrivavano sia da altre parti della città sia dall’esterno.

Da lassù, molti palazzi che prima sembravano enormi ora apparivano piccini piccini, fili d’erba sopra cui camminare che spuntavano da un pregevole giardino di strade più basse, parchi e giardini, popolato di persone, animali e altre innumerevoli forme di vita.

Sembrava quasi di volare, tanto la strada arrivava in alto, e per lei fu un po’ come provare quell’emozione per la prima volta, anche se solo con gli occhi della fantasia.

Volare era un privilegio riservato a pochi.

Troppo poche le tratte sufficientemente lunghe da rendere necessario l’uso di un aeromobile.

Come minimo bisognava fare un salto di due o tre nazioni, altrimenti lo spazio era insufficiente per le manovre effettuate dagli aerei, che prima salivano velocissimi fin quasi a lambire lo spazio profondo e subito dopo riscendevano verso il basso, dritti verso la destinazione. Agli occhi di chi stava a bordo sembrava di non essersi neanche mossi, ma in realtà erano state percorse diverse migliaia di chilometri, impossibili da percepire nitidamente, il che, a detta di chi l’aveva provata, rendeva solo l’esperienza più entusiasmante e fuori dall’ordinario.

Coi treni, quelle rapide frecce che percorrevano da un capo all’altro ogni punto del pianeta tracciando un’intricata ma molto ordinata rete di rotaie, si arrivava dappertutto, e in tempi brevissimi. Niente di paragonabile ai vecchi treni terrestri, che a leggere le cronache e gli archivi al confronto dovevano sembrare tante tartarughe appesantite dal loro guscio.

Delle aeronavi da crociera poi, un viaggio che si faceva una volta nella vita e che restava nell’anima, neanche a parlarne. Tanto quelle che viaggiavano attraverso i continenti quanto quelle che esploravano lo spazio avevano costi proibitivi, e solo i più ricchi potevano permettersi più di una crociera.

Molti dei loro genitori lo avevano provato, magari in occasione della luna di miele, sfruttando gli sconti riservati ai novelli sposi, e forse anche per questo molte delle compagne di scuola di Ally non vedevano l’ora di sposarsi: volevano a tutti i costi provare quelle emozioni meravigliose.

Vedere l’oceano stellare, oppure Celestis dall’alto, fin oltre le nuvole, era qualcosa che sfidava la loro immaginazione al di là ogni limite, cosa assai difficile per una mente come la loro, che con le meraviglie del loro tempo conviveva praticamente tutto il giorno tutti i giorni.

Purtroppo, il centro cittadino era tutt’altra cosa, essendo anche mattina presto.

Lasciata la circonvallazione all’uscita quattordici, l’autobus si ritrovò ben presto imbottigliato in un colossale ingorgo.

«Piccolo contrattempo.» disse la maestra Maifang affacciandosi dal sedile con quel suo sorriso un po’ infantile «Ma non temete, arriveremo comunque in anticipo. Intanto, per far passare il tempo, perché non riproviamo il coro per la recita della settimana prossima?».

Quasi subito Ally si chiamò da parte.

C’erano troppe cose da vedere per avere tempo e voglia di cantare.

I palazzi attorno a lei, se un attimo prima le erano sembrati minuscoli, ora invece facevano sembrare lei solo una formichina, un essere piccino di fronte all’imponenza degli edifici più alti di tutta la città.

Ogni grattacielo era più alto di quello accanto, in una sorta di scala armoniosa che di tetto in tetto arrivava fino alla Marble Tower, la mitica sede centrale dell’Agenzia, il cuore del centro cittadino come di tutta Kyrador, anzi, del mondo intero.

Di tutti gli edifici era sicuramente il più bello, con quella sua forma richiamante una lancia conficcata a testa in su nel terreno, quello scintillio omogeneo di vetro traslucido, quelle pareti bianco brillante che le davano il nome, e in cima quel possente stemma in oro e krylium, grande da solo come la casa di Ally, che come un gigantesco occhio sembrava voler sorvegliare ogni cosa, silenziosamente ma senza fallo.

 

Per puro caso l’autobus era stato costretto a fermarsi proprio ai piedi del Sunset Building, probabilmente il solo edificio del centro cittadino capace di rivaleggiare in grazia e bellezza con la Marble Tower.

Grazie al soffitto trasparente del veicolo Ally poté ammirarne appieno l’eleganza, la linea slanciata che si protendeva verso l’alto descrivendo una curva su uno dei suoi lati, tale da farlo sembrare, a paragone dei molti palazzi rigidi e squadrati che lo circondavano, un cavallo bianco in una mandria nera.

Sulla cima, terminante in una curva pronunciata, si allungava da quest’ultima una larga piattaforma circolare, sorretta da quattro possenti colonne diagonali, che altro non era se non il leggendario Sunset Café, un locale tra i più esclusivi di tutta la città.

Tutte le mattine, al sorgere del sole, la cupola vitrea che solitamente lo avvolgeva veniva abbassata, dando modo ai commensali di poter godere della spettacolare vista dei primi raggi di luce che sbucando da oltre le montagne si incuneavano tra i palazzi per arrivare fino a lì, creando un effetto come a specchio che sfruttando le vetrate e i lucernari degli edifici circostanti inondava il locale di un bagliore quasi sovrannaturale.

Era un ambiente riservato a pochi, dove anche solo consumare una bibita poteva arrivare a costare lo stipendio di una giornata, figuriamoci farlo accomodati ad uno dei piacevolissimi divani di morbido tessuto rivolti verso il mare o a qualcuno degli eleganti tavoli circolari in legno scuro coperti da tovaglie di pura seta bianche come le nuvole.

Il caffè era particolarmente frequentato alla mattina presto, dato il gran numero di uffici e sedi diplomatiche che popolavano tanto i palazzi circostanti quanto lo stesso Sunset Building, che oltre alle sedi centrali di molte importanti aziende ospitava anche l’ambasciata di Fhirland.

Lo stesso ambasciatore Klose era solito recarvisi quasi ogni mattina con la moglie e i due figli.

L’ambasciatore, un uomo che si era fatto a solo, aveva cercato di inculcare il culto del duro lavoro in entrambi i suoi figli, ma se il maggiore Christofer aveva recepito il messaggio, ed era ormai ad un passo dal diventare un suo collaboratore, la minore Pam era per lui una inesauribile riserva di preoccupazioni.

Benché fosse già all’ultimo anno di liceo, quella ragazza non aveva mai lavorato un giorno della sua vita, e spesso, troppo spesso per un uomo nella sua posizione, si era messa nei guai con i suoi atteggiamenti.

Tra i due era uno scontro continuo, e quando andava bene si ignoravano a vicenda, come quella mattina.

L’ambasciatore si sentiva in parte responsabile per quella situazione. Pam era nata in un momento in cui la sua carriera stava subendo una rapida svolta, che lo avrebbe portato da anonimo politico di provincia a figura di spicco del proprio Paese a livello internazionale, e per riuscire ad arrivare a quel punto si era trovato costretto a trascurare spesso la famiglia.

Per Christofer non era stato un problema, abituato com’era a vivere lontano da casa per frequentare prima il collegio e poi l’accademia di magia, ma Pam doveva aver avvertito molto questa mancanza, che ora sfogava comportandosi in modo impulsivo e talvolta immaturo.

«Forse è il caso che ti sbrighi.» la rimproverò l’ambasciatore vedendo che Pam esitava a finire la colazione «O farai tardi anche questa mattina.»

«Hai così tanta fretta di liberarti di me?» sibilò la ragazza chiudendo svogliatamente la finestra per messaggi olografica del comunicatore montato sul suo orologio.

«Io non farei lo spiritoso, signorina. Fra due mesi ci saranno gli esami, e sai meglio di me che se non li passi potrai scordarti l’ammissione all’accademia di magia.»

«Dai quasi per scontato che io voglia frequentarla. Non ti viene neanche in mente che potrei avere altre ambizioni?»

«Per esempio? Andare a ragazzi e locali notturni?

Sono stanco di doverti venire a prendere nelle stazioni di polizia, signorina. O passi gli esami, e con un voto che non sia la solita sufficienza, o ti avverto che per te le cose potrebbero farsi davvero complicate.

Spero di essere stato chiaro».

Pam rispose all’ultimatum alzandosi stizzita dal tavolo facendo quasi cadere la sedia.

«Come vuoi.» disse recuperando la giacca e lo zaino «Tanto è la tua specialità. Valutare la gente solo in base a quanto ti gratifica. Stupida io a pensare che con me fosse diverso perché sono tua figlia.»

«Non osare rivolgerti a me con questo tono. Pam!» ma ormai la ragazza se n’era già andata.

 

Pam lasciò il Sunset Building incamminandosi nel traffico cittadino.

La giornata si preannunciava soleggiata, e così molti avevano lasciato a casa la macchina ripiegando sui mezzi pubblici, e anche se questo non impediva al centro di essere comunque congestionato dal traffico il caos sui marciapiedi era se possibile anche migliore.

I palazzi erano così alti che a meno di non avere il sole a picco le strade, soprattutto la mattina presto, erano perennemente avvolte nell’ombra, e anche se i combustibili fossili o inquinanti erano ormai un ricordo ci pensava l’aria viziata per la troppa gente ad appesantire l’atmosfera.

Alle volte quella parte della città riusciva ad essere davvero invivibile.

Un po’ discostate rispetto al centro cittadino vero e proprio si innalzavano tre colline non troppo alte, i soli avvallamenti di quel territorio dominato invece da vasti appezzamenti pianeggianti che scivolavano placidamente verso il mare, e in cima ad una di queste vi era la Scuola Superiore Alloway, così chiamata in memoria del comandante della Nave Coloniale Aurora che aveva toccato terra proprio nel luogo in cui sarebbe sorta un giorno Kyrador.

Non era particolarmente ripida, ma ciò nonostante doverla risalire tutte le mattine o quasi era uno dei tanti motivi per i quali Pam aveva sempre detestato quella scuola, e poco importava che Angin Street, il grande viale pedonale che da una strada laterale del centro sbucava proprio davanti ai cancelli dell’istituto, fosse tra i più apprezzati della città.

Ciottoli bianchi e rossi coprivano il selciato, descrivendo piacevoli motivi geometrici, due file di aiuole disposte l’una di fronte all’altra ospitavano bassi alberelli, e ai piedi dei molti lampioni trovavano spazio confortevoli panchine per riposare o godersi la tranquillità.

Vetrine di negozi, pasticcerie e altri locali adornavano il tutto, rendendo Angin Street una delle mete favorite di turisti e vacanzieri, ma anche semplicemente di abitanti alla ricerca di un luogo dove trascorrere il tempo libero.

Pam era seriamente intenzionata ad andare a scuola, se non altro per evitare nuove noiose discussioni con suo padre, ma il caso volle che proprio ad un passo dai cancelli incontrò Shirley e Marie, le due sole persone che potesse davvero definire amiche, le quali a loro volta quella mattina avevano molta poca voglia di entrare in classe.

A quel punto la ragazza prese la sua decisione.

«Al diavolo tutto.» sbottò dando un calcio alla elegante cancellata «Andiamo a farci un giro, ci state?»

«Vuoi marinare la scuola anche oggi?» domando Marie, che per quanto insofferente al protocollo e alla noiosa routine scolastica come Shirley teneva non poco al proprio futuro

«Perché, voi no? Personalmente oggi tutto mi fa gola tranne ascoltare l’ennesima lezione di storia.»

«Hai litigato di nuovo con tuo padre?» le chiese Shirley

«Non mi và di parlarne. Allora, siete con me o no?».

Le due ragazze esitarono un momento, ma poi come al solito si lasciarono convincere e seguirono la loro amica nel suo ennesimo colpo di testa.

Mentre scendevano lungo la strada che avevano appena percorso nel senso opposto, le loro strade si incrociarono con quella di uno dei più curiosi e strani personaggi che la città avesse mai offerto; calzoni bianchi, camicia bluette a quadretti, panciotto imbottito color cuoio, portamento leggermente curvo ma ugualmente elegante, mani dietro la schiena ed espressione gentile, affabile, resa ancor più apprezzabile da una non troppo rada chioma argentata.

Lo chiamavano Signor Loyde, come un personaggio di una popolare serie per bambini cui assomigliava, visto che, tra quelli che lo conoscevano o avevano sentito parlare di lui, nessuno sapeva il suo vero nome.

Lui passeggiava. Passeggiava sempre.

Da una parte all’altra, passeggiava per Kyrador come un qualsiasi visitatore occasionale, posando con fare a metà tra l’assorto e il contemplativo brevi sguardi su ogni cosa catturasse la sua attenzione, dai numeri sui tombini alle tende delle finestre.

Ogni tanto si fermava, indifferente al traffico di una strada o all’andirivieni ininterrotto di un marciapiede, focalizzando tutte le sue attenzione su un particolare qualsiasi, fosse esso l’architettura di un palazzo o la particolare impronta del volto di una statua, quindi si rimetteva in cammino, alla ricerca di qualche altro posto da esplorare.

Non vi era luogo della città che non conoscesse; conosceva ogni via, ogni strada, ogni palazzo. Era come una guida turistica vivente di Kyrador. E per chi aveva voglia e tempo di ascoltarlo, si rivelava ogni volta un inesauribile pozzo di storie, aneddoti, e qualunque altra cosa riguardasse sia la storia gloriosa sia l’esistenza quotidiana della città più bella del mondo.

Con il tempo, sempre più persone avevano avuto modo di conoscerlo, e alcune gli erano diventate persino amiche; persino una piccola emittente cittadina si era interessata a lui, dedicandogli un servizio intitolato Il Signor Kyrador, ma nonostante ciò la sua figura rimaneva avvolta da un che di misterioso.

Secondo alcuni era un agente della MAB in pensione, secondo altri un ex poliziotto, secondo altri ancora un’artista, forse originario di un altro Paese, giunto come tanti altri in città ed innamoratosene a tal punto di averla eletta a propria nuova casa e di aver fatto della sua scoperta una personale ragione di vita.

A chi gli aveva chiesto lumi sul suo passato, o su cosa avesse fatto nella vita, la risposta, accompagnata da un sorriso gentile, era stata sempre la stessa.

«Un po’ tutto e un po’ niente.»

Stessa cosa per chi gli aveva domandato quanti anni avesse, cui rispondeva sempre con un vago “Abbastanza.” senza capo né coda.

Non era la prima volta che le ragazze lo incontravano, visto che non era raro vederlo passeggiare su e giù per Angin Street, con l’occhio solo parzialmente catturato dallo splendore delle vetrine, ma mentre Shirley e Marie non si negarono al suo gentile saluto quando questi le vide approssimarsi Pam, al contrario, si mostrò leggermente seccata, anche se cercò di non darlo a vedere.

«Buongiorno signorine.» disse portando malamente l’indice destro alla fronte, quasi a scimmiottare un saluto militare

«Buongiorno, signor Loyde.» rispose Marie «Era da molto tempo che non la incontravamo.»

«Effettivamente. Ma era da un po’ che non mi ricapitava di transitare da queste parti.»

Poi, la sua attenzione fu catturata dal nastro che cingeva delicatamente il colletto delle uniformi scolastiche delle tre ragazze, la cui eleganza ben si confaceva al prestigio di una scuola illustre come l’accademia Alloway.

«Il colore è cambiato» disse dopo aver osservato per molti secondi quello di Pam, suscitando oltretutto nella ragazza un misto di imbarazzo e repulsione. «Prima era un rosso più delicato, come il petalo di una rosa. Ora invece sembra di qualche gradazione più scuro. Direi un color vino.»

«Non le sfugge proprio niente, Signor Loyde» sorrise Shirley. «In realtà è perché abbiamo fatto il cambio di stagione. L’altro nastro è dell’uniforme invernale.»

«Ah, capisco. Sapete, una volta le ragazze della vostra scuola portavano una uniforme diversa.

Mi ricordo di averla vista la prima volta proprio qui, in una mattina di primavera.

Era molto bella. Color grigio perla. Con un colletto bianco, e un nastro blu. E le ragazze avevano tutte una cartellina di pelle marrone. Erano così eleganti. Sembravano già donne mature e madri di famiglia. Come voi del resto.

D’altronde, trovo che esaltare la femminilità e l’eleganza sia il pregio maggiore delle uniformi scolastiche.»

«Ragazze, avete finito di fare salotto?» domandò spazientita Pam.

«Scusatemi, mi sono dilungato troppo. Mi ha fatto piacere incontrarvi, signorine. Spero di rivedervi presto.»

«Arrivederci, Signor Loyde

Mentre si allontanavano Pam si volse a guardare nuovamente a guardarlo, incrociandone brevemente lo sguardo fino a che l’anziano, rivolto un ultimo saluto, non le diede le spalle riprendendo a sua volta la propria strada.

«Si può sapere che ci trovate in quel vecchio?» domandò notando, non senza stupore, le guance rosse delle due amiche

«Beh, è molto affascinante, devi ammetterlo» disse Marie quasi a volersi giustificare.

«Avrà settant’anni come minimo.»

«Sarà anche anziano, ma sa come adulare le persone» rispose Shirley con sguardo sognante. «E ogni volta che lo guardo negl’occhi, mi sento così strana. È come se tutto il mio corpo tremasse all’improvviso.»

«Dite un po’ non sarete mica gerontofile

«Piuttosto, l’uniforme di cui ha parlato» disse ancora Marie. «Se non sbaglio veniva usata durante i primi anni di esistenza della nostra scuola, quasi centocinquant’anni fa. Come fa a dire di averla vista?»

«Mi sembra ovvio che non ci sta tanto con la testa» tagliò corto Pam. «Ci sono le vecchie foto nell’atrio principale, e si sarà convinto di averle viste di persona.

E ora, se non vi spiace, gradirei parlare d’altro.»

 

Pam e le sue amiche girovagarono qualche ora per le strade attorno alla scuola, per poi decidere, sul fare di mezzogiorno, si spostarsi nella grande zona commerciale nei pressi della via di Saint Augustine, dove al termine dello shopping si sarebbero concesse una lunga e molto rilassante passeggiata pomeridiana, magari condita da un cocktail in uno degli innumerevoli caffè che costeggiavano ogni angolo della via del relax e del divertimento più famosa di Kyrador, secondo sola all’altrettanto bella, ma indubbiamente meno caratteristica, Angin Street.

Non si trattava di un vero e proprio centro commerciale, ma piuttosto di una cittadella, racchiusa entro una immaginaria cinta muraria formata dalle pareti posteriori degli edifici che componevano la cinta esterna, con vari ingressi, un chiostro centrale all’aperto e tre piani di negozi, sia generici che specializzati dove si poteva trovare di tutto, dai prodotti per l’igiene alle autovetture.

Forse non era il più grande di Kyrador, ma di sicuro era il meglio frequentato, soprattutto per la presenza di molti marchi prestigiosi.

Era una specie di tempio dell’opulenza, dove tutto era a portata di mano, ma senza dimenticare il buon gusto e la ricerca del bello che pervadeva buona parte della città.

Oltre ai negozi, ai ristoranti e ad altri esercizi la cittadella ospitava anche un vasto giardino, un parco giochi per i bambini, una palestra attrezzata e in ultimo, nei sotterranei, persino una vasta piscina, ritrovo favorito di molti giovani e impiegati al ritorno dall’ufficio.

Il giardino al centro della struttura ai piedi della torre principale era attrezzato anche di panchine e divanetti, ed era ad uno di questi che era seduto, con una cert’aria ansiosa, Vick Owen, un piccolo truffatore che si era già fatto conoscere dalla polizia ma a cui la comprovata affidabilità come informatore aveva sempre permesso di evitare la galera.

Aveva appuntamento con un compratore, qualcuno al quale piazzare a buon prezzo del materiale molto importante di cui era entrato in possesso recentemente che avrebbe provocato una vera e propria esplosione nei centri di potere della città e permesso a lui di vivere di rendita per il resto della sua vita.

Per lui, cresciuto lontano dal lusso e dallo sfarzo dei distretti centrali, era come aver trovato l’eldorado, e poco importava se si trattasse di qualcosa con indubbi risvolti pericolosi, data l’importanza delle informazioni.

Non era stato facile trovare qualcuno in grado di credergli, e di fornirgli nel contempo sufficienti garanzie per tutelarsi prima, durante e dopo la transazione, ma alla fine era riuscito a raggiungere un accordo con il procuratore distrettuale Griffith, che gli aveva promesso un generoso compenso e una nuova identità con cui trasferirsi in un’altra nazione.

Tuttavia, qualcosa lo turbava.

Benché si trovasse nel luogo convenuto l’ora stabilita per l’incontro con il suo compratore era passata già da qualche minuto, e ora cominciava ad essere nervoso.

Spazientito telefonò al procuratore nel suo ufficio, e grande fu il suo stupore quando, aprendo la finestra di comunicazione, vide comparire non lui, ma quella che doveva essere la sua segretaria, una ragazzina castana in uniforme dall’aria innocente e semplice.

«Si può sapere dov’è finito il procuratore?» brontolò

«Sono spiacente.» rispose l’angelo in divisa «Il procuratore non c’è. È ad una colazione con il giudice Birmington

«Come sarebbe a dire a colazione con il giudice!? Avevamo appuntamento al centro commerciale di Saint Augustine venti minuti fa.»

«Veramente, il procuratore aveva detto di avere un appuntamento questa mattina prima dell’incontro col giudice, ma prima di andare via mi ha comunicato di averlo cancellato.»

Vick cadde dalle nuvole, ma da uomo della strada quale era non impiegò molto per capire cosa stava succedendo.

Ovviamente non poteva saperlo, ma la verità era che il procuratore, la sera prima, aveva ricevuto un messaggio, apparentemente proprio da parte di Vick, in cui lui annunciava di aver trovato un compratore migliore e di avere per questo rinunciato all’affare.

Nel momento in cui vide sopraggiungere da dietro un edificio un enigmatico figuro, tarchiato, quasi calvo e in occhiali da sole, che vistolo prese a camminare nella sua direzione con passo deciso Vick capì che qualcosa era andato decisamente per il verso sbagliato, e come se avesse avuto il diavolo alle costole si alzò e se la diede a gambe, rapido ma senza correre, per non creare scompiglio e potersi confondere tra la folla.

Il cuore gli batteva in petto, mentre sentiva quella presenza minacciosa farsi sempre più vicina, e cercando per quanto possibile di mantenersi calmo.

Nel frattempo Pam, Marie e Shirley avevano visitato le boutique, i negozi di cosmetici e anche l’autosalone, fantasticando del momento in cui avrebbero finalmente posseduto una macchina tutta loro, e dando a fondo a tutto quanto avevano nel portafogli.

Erano appena uscite dall’autosalone quando Pam venne urtata accidentalmente Vick, che troppo spaventato ed assorto nei suoi pensieri quasi non si accorse di nulla proseguendo per la sua strada.

«E sta attento, cafone!» sbraitò la ragazza all’indirizzo dello sconosciuto con la giacca da baseball.

Più vicina si fece l’uscita più Vick aumentò il proprio passo, che varcato l’arco d’ingresso divenne vera e propria corsa.

Anche l’inseguitore si mise a correre, ma sfortunatamente per lui quando raggiunse il parcheggio Vick era già risalito sulla sua carretta e se n’era andato, veloce come la folgore.

Tuttavia, pur essendosi momentaneamente salvato, Vick si sentiva comunque in trappola. Ciò che era successo era la prova che le persone alle quali le sue informazioni potevano nuocere non poco lo avevano scoperto, e si erano mosse per impedirgli di parlare.

Non sapeva cosa pensare, o cosa fare.

Una cosa la sapeva: aveva bisogno di aiuto. E decise di chiederlo all’ultima persona che un truffatore incallito poteva considerare amica.

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Capitolo 2
*** Parte II ***


2

 

 

Il detective di polizia Sean Neeson sentì squillare il proprio telefono nel preciso istante in cui era sul punto di consumare il pranzo che si era portato da casa.

Per un poliziotto di quartiere assegnato alla stazione principale del nono distretto, la più orrenda e malfamata fogna a cielo aperto della città, la vita poteva essere già un inferno, e a casa la situazione non era certo migliore.

Alle soglie della cinquantina il detective era da poco uscito da una lunga causa di divorzio che gli era costata l’affidamento dei figli, e anche se in quel particolare momento il lavoro era tutta la sua vita quando anche quell’unico, piccolo piacere che era il cibo gli veniva a mancare era segno che la giornata aveva davvero preso la piega sbagliata.

Sbuffando aprì la finestra di comunicazione, e come vide comparire il volto di Vick la sua pelle nera si fece per un attimo bianca come il latte.

«Owen!?» disse incredulo «Come hai avuto questo numero?»

«Sean, tu devi aiutarmi.» rispose lui senza togliere gli occhi dalla strada o le mani dal volante

«Che vuoi stavolta? Sei finito di nuovo nei guai?»

«Ho per le mani qualcosa di grosso, Sean. Di molto grosso. E ho bisogno che tu mi aiuti.»

«Ah sì?» rispose sardonico Sean «Come quella volta che hai piazzato quel ciarpame alla polizia criminale spacciandole per prove di un caso irrisolto?»

«Sean, tu non capisci! Avevo appuntamento col procuratore militare, e invece mi hanno mandato un sicario! Ho un assassino alle costole, chiaro?».

Di fronte alla veemenza rabbiosa del giovane truffatore il poliziotto cominciò a convincerci che stesse dicendo la verità.

«In che cosa ti sei cacciato?»

«Te l’ho detto, qualcosa di grosso. Di molto grosso. Abbastanza da spingere chi rischio di mandare all’aria a togliermi di mezzo, non importa come. Tu devi aiutarmi!

Vediamoci al museo della scienza e ti spiegherò tutto».

Sean ci pensò un momento, e guardatosi attorno per esser certo di non avere addosso occhi indiscreti si avvicinò ancora di più allo schermo abbassando ulteriormente la voce.

«Senti, ora sono in servizio. Ti raggiungo appena riesco a liberarmi.»

«Sean, io rischio di restarci secco, lo capisci?» sbraitò Vick sempre più spaventato

«Un’ora, Vick. Un’ora al massimo e sono da te».

Una chiamata del commissario per una riunione interruppe in quella la conversazione.

«Ora devo andare Vick. Ricorda, tra un’ora al museo.»

«D’accordo.» rispose rassegnato il giovane «Tra un’ora».

 

Il museo della storia e della scienza in centro a Kyrador poteva pure essere un tempio della meraviglia e delle infinite potenzialità del genio dell’essere umano, ma per chi come Jason era costretto a lavorarci era solo una enorme, immensa costruzione che ogni giorno doveva essere tirata a lucido da cima a fondo.

Jason era solo uno dei tanti giovani arrivati dalla campagna in cerca di fortuna nella città più avanti del mondo. Gli avevano sempre detto che Kyrador era la terra delle opportunità, dove servivano solo caparbietà e determinazione, il luogo dove chiunque poteva emergere e diventare qualcuno, e lui dal canto suo aveva un chiodo fisso: il chandra.

Oltre al fatto che, come molti giovani della sua generazione, era sempre stato affascinato dallo sport più popolare di tutti, quello che bramava davvero erano i soldi, la fama, il prestigio che ricopriva letteralmente tutti i grandi campioni, a cominciare dalla indiscussa stella del momento, la bella e letale Octavia.

E poi le ragazze. I chandristi maschi erano una macchina attira prede come poche altre. Non che Jason avesse problemi sotto questo aspetto, con quegli occhi azzurri e quel visetto gentile che gli avevano fruttato conquiste a palate, ma un po’ di sana abbondanza era sempre gradita.

Le speranze e l’ottimismo erano a mille il giorno in cui aveva messo piede in città, invece dopo due anni tutto quello che era riuscito ad ottenere era un precariato part-time da pochi spiccioli come tuttofare al museo, e questo solo grazie all’intercessione del suo compagno di stanza che gli aveva trovato quell’impiego, altrimenti sarebbe stato disoccupato.

Accettare la realtà era stata dura, ed il pensiero di poter un giorno dimostrare le proprie potenzialità realizzandosi come sognava era l’unica cosa che gli aveva permesso di andare avanti, ingoiando quella situazione per lui umiliante. Eppure, dopo tutto quel tempo, qualcosa in lui sembrava essersi spento, quasi come se la solita routine quotidiana fatta di pavimenti da lucidare, pattumiere da svuotare e bagni da pulire avesse iniziato a prendere il sopravvento, spegnendo poco per volta il suo ardore giovanile e tramutandolo in rassegnata e quotidiana monotonia.

I giorni passavano, e così i mesi, e l’occasione non gli si era ancora presentata, al punto che, passato il momento iniziale, aveva quasi smesso di affannarsi a cercarla, lasciando scorrere placidamente le giornate divise tra il lavoro, qualche storia passeggera e tante serate spese con gli amici e i colleghi a sbronzarsi in qualche bar.

A conti fatti, quella per lui era solo una giornata come le altre.

Una giornata in cui niente sarebbe successo, e tutto sarebbe rimasto come prima.

 

Mettendo piede per la prima volta nel museo della storia e della scienza, Ally capì come mai Meracle ne avesse sempre parlato con tanto entusiasmo.

Varcato il monumentale ingresso a forma di tunnel, realizzato sì da rassomigliare ad una sorta di galleria del tempo, la bambina e tutti i suoi compagni si ritrovarono immersi in un mondo tra realtà e fantasia.

Non soltanto il frutto di quattro secoli di storia di Celestis, ma anche antiche testimonianze del passato e della lunga epopea dell’Uomo sul suo pianeta natale erano ospitate nelle innumerevoli sale che riempivano i cinque piani dell’edificio.

L’atrio principale aveva la forma di un tronco di piramide rovesciato, ed il lato che guardava all’esterno era interamente ricoperto di vetro, che unito all’assenza di edifici particolarmente alti nelle immediate vicinanze grazie all’ampio cortile permetteva al sole di inondarlo di luce.

Ad altezze regolari e sempre più protese verso l’esterno, quasi a formare una imponente scala rovesciata, si stagliavano i terrazzamenti dei piani superiori, e ovunque era un trionfo del verde grazie alle innumerevoli aiuole, siepi e persino dei piccoli giardini pensili ridondanti di piante e fiori.

Completava il tutto uno dei pezzi più famosi del museo, raffigurato anche nei suoi volantini e depliant turistici, la parte terminale del muso della nave coloniale Aurora, posizionato in verticale al centro dell’atrio con accanto una targa commemorativa recante la frase che si diceva fosse stata pronunciata dal suo comandante nel momento in cui mise piede a Celestis.

 

In questo luogo e in questo giorno

Inizia il secondo capitolo della storia dell’Umanità

 

Ally e gli altri furono rapidamente travolti dalla meraviglia, e al termine del lungo giro in compagnia dei maestri si dispersero a piccoli gruppi per tutti gli angoli di quella specie di castello delle favole, ansiosi di rivedere la cosa che li aveva maggiormente colpiti.

Dal canto suo Ally sapeva esattamente cosa voleva rivedere, e assieme a Meracle si diresse verso i sotterranei, dove, all’interno di una sala grande in sé come un intero piano dell’edificio sovrastante, faceva superba mostra di sé in tutta la sua imponenza una autentica ricostruzione dell’Aurora in scala uno a due.

Cinquecento metri di incalcolabile sapere scientifico, realizzato combinando le più moderne, per quei tempi, conoscenze in campo aerospaziale con la più grande quantità di sapere magico mai messa insieme, al fine di realizzare la prima nave interstellare nella storia dell’umanità, capace di percorrere i sessanta anni luce che separavano la Terra da Celestis in soli cento anni.

A prima vista la sua linea appariva slanciata e solenne, con quella forma a punta di freccia, le quattro potenti turbine, i pennoni, ora ripiegati lungo la fusoliera, che ospitavano le vele solari, il gigantesco anello stabilizzatore per la simulazione della gravità, e infine, ben impressa su entrambe le fiancate, la raffigurazione del globo terrestre, magnifico, con segnato ben in evidenza il punto da cui la nave era partita, nel cuore della steppa russa, il tutto sovrapposto dalle lettere UN, a testimoniare il carattere internazionale della missione, votata anzitutto al progresso e all’avvenire dell’umanità.

Unica nota stonata, almeno secondo il personale parere di Ally, quel muso squadrato e leggermente sgraziato, che a suo dire toglieva armonia al tutto, oltre a quella colorazione così scura, ma, stando ai cartelli informativi, indispensabile per consentire alla nave di assorbire dalle stelle quanta più energia, indispensabile per consentire il lungo viaggio altrimenti impossibile.

Ally, Meracle e non solo loro si erano sentite crollare il mondo addosso quando, passando da lì durante il giro, avevano trovato l’interno della nave chiuso al pubblico per dei lavori di manutenzione, e la delusione divenne se possibile ancora più grande quando, ritornate nella speranza di avere maggior fortuna, trovarono invece la situazione ancora invariata.

«Io non mi arrendo.» esclamò Meracle, che con passo deciso si avviò verso l’addetto che stava pulendo la scaletta d’ingresso alla nave, un ragazzo sui venticinque anni dall’aria tutto sommato amichevole, e per questo disposto a fare un favore a due bambine delle elementari.

Sulla targhetta dell’uniforme aveva scritto il suo nome, Jason.

«Mi scusi.» disse Meracle sfoggiando tutta l’innocenza e l’amorosità infantile di cui era capace «Non è che potremmo visitare l’interno della nave?»

«Non si può, mi dispiace.» rispose gentilmente ma fermamente Jason

«La prego. Io e la mia amica ci tenevamo così tanto. Non staremo dentro molto, glielo prometto».

Jason parve esitare, indeciso sul da farsi, e dopo qualche attimo si guardò furtivamente attorno per accertarsi che non vi fosse in giro nessuno dei suoi colleghi.

«D’accordo.» mugugnò «Ma solo per dieci minuti.»

«La ringrazio, signore. Lei è stato molto gentile».

Ally per la verità si vergognava come una ladra al pensiero di dover fare una cosa del genere, ma come Jason aprì il portello chiuso a chiave permettendo loro di entrare lo stupore e la meraviglia si sostituirono a tutto il resto, tacitando sul nascere la voce della coscienza.

L’interno era incredibile ed entusiasmante almeno quanto l’esterno, con tutti quei corridoi scintillanti di bianco, quelle luci incastonate direttamente nelle pareti, e quell’incalcolabile numero di capsule lunghe e strette all’interno delle quali avevano viaggiato i loro antenati nei cento lunghi anni che avevano impiegato a raggiungere Celestis.

Ce n’era una ogni cinque o sei metri, ogni singola stanza ne era piena, e se davvero quella ricostruzione era così accurata come si diceva dovevano essere almeno mezzo milione, per la maggior parte concentrate nella grande stiva all’ultimo livello della nave, quella però al momento assolutamente off-limits per via dei lavori che avevano richiesto la chiusura.

Le capsule sembravano delle enormi bottiglie, cilindriche e per buona parte in vetro, e alcune erano aperte, sì da mostrare il complesso sistema di meccanismi e apparecchiature necessarie al sostentamento di chi vi aveva dimorato nell’interminabile viaggio tra le stelle.

Secondo quanto riportavano le guide la maggior parte dei coloni erano rimasti lì dentro per tutta la durata del volo. Solo l’equipaggio della nave era stato periodicamente risvegliato, una volta ogni cinque anni, giusto il tempo necessario per ricontrollare la nave e assicurarsi che fosse tutto in ordine prima di tornare a dormire.

«I nostri antenati sono rimasti davvero cento anni chiusi qui dentro?» chiese Ally fermandosi assieme all’amica accanto ad una delle capsule aperte

«Beh, stavano dormendo. Per la precisione erano in animazione sospesa. Il loro corpo è invecchiato molto lentamente, tanto che in cento anni di viaggio loro, nel momento in cui sono usciti, ne avevano perso solamente uno».

Ally non riuscì a resistere alla tentazione e vi si infilò dentro.

«È piuttosto stretto.» commentò guardandosi attorno

«Non avevano bisogno di spazio, dopotutto. E poi erano oltre un milione. Non sarà stato facile far entrare tutte queste persone in una nave infondo così piccola, non sei d’accordo?».

Dall’interno si poteva comprendere meglio la struttura di una di quelle capsule. C’erano cinghie per sorreggere il corpo, respiratori, cannule per la somministrazione di sostanze nutritive e una infinità di apparecchi per mantenere il corpo in vita e assicurarne la salute.

«Quasi non riesco a credere che avessero tutte queste conoscenze scientifiche quattrocento anni fa.»

«È incredibile, non è vero?» disse Meracle «Chissà, forse quando saremo grandi faremo anche noi un viaggio così, chiuse dentro una di queste capsule.

Io ho sempre sognato di potere un giorno vedere la Terra.»

«Ma la signorina Maifang dice che nonostante siano passati quattro secoli con le nostre attuali conoscenze ci vorrebbero ancora quasi cento anni per fare ritorno sulla Terra.

Questo vorrebbe dire che al tuo ritorno su Celestis sarebbero trascorsi duecento anni. Non troveresti niente di quello che hai lasciato.»

«Sì, forse hai ragione.» rispose l’amica soppesando questa eventualità «Ma sarebbe comunque una bellissima esperienza, non trovi?».

Inavvertitamente, in quel momento, Meracle toccò il pulsante che azionava il portello della capsula, e da un istante all’altro Ally si ritrovò chiusa dentro.

«Ally

«Meracle, che cosa hai fatto?» disse spaventata Ally colpendo la superficie vitrea «Fammi uscire!»

«Ci sto provando!».

Purtroppo i due comandi che permettevano alla capsula di riaprirsi sia dall’interno che dall’esterno erano in alto, troppo in alto per due bambine delle elementari, ed il portello era troppo duro perché fosse possibile aprirlo manualmente.

«Aspettami qui, vado a cercare quel signore delle pulizie. Torno subito».

Ally quindi rimase sola, e per quanto i suoi genitori le avessero insegnato a controllare la paura quell’ambiente così stretto ed angusto la metteva incredibilmente a disagio.

Per non farsi prendere dal panico la bambina cercò di pensare ad altro, guardandosi attorno nel tentativo di dare un senso agli innumerevoli circuiti, spinotti e apparecchiature che affollavano quella specie di congelatore capace, a quanto si diceva, di conservare un corpo a decine di gradi sotto zero, fino a che, aguzzando bene la vista, le parve di scorgere qualcosa, qualcosa di insolito, appoggiato sul pavimento della capsula e seminascosto dalla copertura del pavimento sotto la quale era quasi interamente nascosto.

A prima vista sembrava una scaglia, un pezzo di rivestimento staccatosi a causa del tempo e dell’incuria, ma quando lo prese fuori si accorse che invece si trattava di un qualche accessorio per computer.

Una scheda di memoria probabilmente, di quelle che si potevano infilare in ogni apparecchio informatico.

Incuriosita provò ad infilarla nel comunicatore, ma tutto quello che apparve nello schermo fu una lunga lista di nomi, date e altre informazioni per lei senza senso.

«Lo avrà perso qualcuno?» si domandò.

Qualche minuto dopo Meracle tornò accompagnata da Jason, che azionata l’apertura della capsula poté finalmente liberare la bambina.

«Ve l’avevo detto che poteva essere pericoloso.» le rimproverò il giovane dopo averle condotte all’esterno «Avanti ora, tornate dai vostri compagni.»

«Ci scusi ancora.» disse educatamente Ally, poi entrambe tornarono verso l’atrio dove il resto si era nel frattempo ricomposta nei pressi del negozio di souvenir.

Giusto il tempo di comprare dei regalini per i propri genitori, e nello stesso momento in cui Ally e Meracle uscivano dal museo per la medesima porta girevole vi giunse invece il detective Neeson, che guardatosi un momento intorno scorse infine Vick piegato in due su di una panchina dell’atrio, un po’ defilata rispetto al centro.

Era pallido come la morte, e dalla sua espressione Sean intuì che vi fossero molte altre cose a turbarlo, oltre al sicario al quale era appena sfuggito. Gli andò incontro, sedendosi accanto a lui.

«Sono venuto appena possibile. Allora, che è successo?»

«Sono morto.» mugugnò Vick come se non lo avesse sentito

«Che cosa?»

«Io lo sapevo. Lo sapevo che non dovevo farmi coinvolgere in tutta questa storia.»

«In che razza di casini ti sei cacciato, si può sapere?».

Vick restò a lungo in silenzio, poi si decise a parlare.

«Se ci pensi è ironico. Un truffatore incallito, uno che si è fatto tre anni di galera, chiede aiuto allo stesso sbirro che l’ha fatto finire dietro le sbarre.»

«Sì certo, è tutto molto ironico.» tagliò corto Neeson «Ora però fuori il fiato.»

A quel punto Vick raccontò ogni cosa. Disse che qualche tempo prima un impiegato che lavorava negli uffici della polizia di stato aveva trovato le prove di molti casi di corruzione e malaffare tra i vari distretti della città, soprattutto in quelli più poveri e degradati, inclusi i nomi delle mele marce e i numeri dei conti dove erano stati depositati i soldi sporchi.

Poi, si accorse dell’espressione del detective, e rise sotto i denti.

«È esattamente lo stesso modo in cui l’ho guardato io quando me ne ha parlato.

Ma quando mi ha fatto vedere parte del materiale che aveva raccolto, la mia espressione è cambiata dal giorno alla notte.»

«Cioè… tu lo hai visto? Hai visto quel materiale? Nel senso, hai visto cosa conteneva?»

«Non tutto. Solo una parte. Per riuscire ad esaminarlo tutto ci vorrebbero mesi. Ma credimi, quel poco che ho visto mi ha sconvolto. Ce n’è abbastanza per scoperchiare il vaso di pandora.»

«Che vuoi dire?»

«C’è tanta gente in quella lista. Gente che conta. Dai vigilanti di quartiere ai prefetti di polizia. Persino tuoi colleghi a quanto ho avuto modo di vedere.»

«Che intendi con miei colleghi!?» esclamò sorpreso il detective

«Gente del tuo distretto. Persone che chiami abitualmente amici, e che si sono intascati un sacco di soldi sporchi proprio sotto il tuo naso».

Sean deglutì, mentre il sudore gli rigava le tempie scure.

«Non posso crederci. Non riesco a concepirlo. I miei amici.» quindi guardò nuovamente Vick «Ma ne sei sicuro? Non è che quel tipo ha cercato di tirarti un bidone passandoti delle false informazioni?»

«Se solo tu lo avessi visto, Sean. Io l’ho guardato negl’occhi, e ci ho visto una maledetta paura. Mi sono svenato per venire incontro alle sue richieste, e subito dopo aver preso i soldi quel tipo è sparito».

Il detective guardò il pavimento, trovando a stento la forza di deglutire.

«E queste prove… le hai qui con te?»

«È questo il problema, Sean. Sono sparite.»

«Che cosa!?»

«Non ho scelto a caso questo posto per incontrarci. Non mi sentivo al sicuro nel tenerle in casa, così le avevo nascoste qui. Contavo di dirlo al procuratore quando ci fossimo incontrati. Il fatto è che sono appena andato dove le avevo lasciate, e non ci sono più.»

«Come sarebbe a dire non ci sono più?» replicò un po’ arrabbiato Sean «E poi, che razza di idea venire a nasconderlo proprio qui. Non ti hanno mai detto che per questo museo passa ogni giorno un fiume di gente?»

«Avevo scelto il nascondiglio molto bene.»

«Evidentemente non troppo.

Vuoi sapere cosa penso? Se la storia che mi hai raccontato è vera, e ti avviso che ho ancora qualche dubbio in merito, le persone che rischiavi di distruggere hanno trovato i documenti, li hanno distrutti, e ora vogliono mettere a tacere te.»

«Forse.» rispose Vick senza guardarlo «Ma non sanno che io ho un asso nella manica.»

«Un asso? Che asso?»

«Dovresti conoscermi. Lo sai che ho sempre un piano di riserva. Ho fatto una copia di quei documenti e ho nascosto anche quelli in un altro luogo.»

«E dove?»

«Non lontano da qui. Se mi sbrigo dovrei poterli andare a prendere, e poi vorrei che li portassi al procuratore. Io non mi fido più ad agire personalmente.»

«Non credo che sarebbe una buona idea.»

«Per quale motivo?»

«Pensaci bene. Chi ti dice che anche il procuratore non sia coinvolto? Avevi appuntamento con lui, e invece ti ha mandato un assassino. Forse c’era anche il suo nome su quella lista, o è collegato a qualcuno di loro, e così ha voluto tutelarsi.»

«Però è strano. Perché esporsi tanto? Poteva benissimo comprare le mie informazioni e poi distruggerle. A che pro cercare di eliminarmi?»

«Morto te, muore lo scandalo. Mi sembra ovvio. Non importa che tu sappia o meno il contenuto di quei documenti, il solo fatto di volerli smerciare ti rende pericoloso. Non vogliono correre rischi.»

«E allora cosa dovrei fare?».

Sean ci pensò qualche momento.

«Hai detto che lo scandalo coinvolge solo Kyrador. Conosco delle persone. Persone fidate, appartenenti ad altre prefetture. Gente al di sopra di ogni sospetto e assolutamente incorruttibile. Potresti darle a loro.»

«Bada però, che non faccio sconti. Ora come ora quel materiale è tutto quello che ho. Sono rimasto senza niente per ottenerlo, e voglio ricavarci quanto basta per sistemarmi a vita.»

«Non sono un contabile, e il mio portafogli non è abbastanza grande.» lo ammonì il detective «Ma queste persone sono gente potente. Sono sicuro che ti pagheranno bene. Soprattutto perché la rovina d’altri sarebbe la loro fortuna».

L’orologio tridimensionale che sovrastava ogni cosa batté l’una del pomeriggio.

«Ora devo tornare in centrale.»

«Aspetta, e i documenti?»

«Non posso restare lontano per troppo tempo, e ci vuole parecchio a ritornare. Tu recupera il materiale, io intanto farò qualche telefonata.»

«D’accordo, dove ci incontriamo?»

«Molo sei.» disse il detective dopo una breve riflessione «All’una di notte. Davanti alla statua dell’esploratore.»

«Un luogo simbolico.» sorrise Vick «Per tutti e due.»

«Vedi di non fare tardi. E guardati le spalle».

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Capitolo 3
*** Parte III ***


3

 

 

Staccato dal proprio turno, Jason si aggregò al suo gruppo di colleghi per farsi il solito giro per il centro cittadino prima di tornare a casa.

Di solito capitava che andassero a bere qualcosa in qualche locale nei dintorni del museo, ma quello si rivelò essere un giorno speciale.

Pierre, il guardasala dell’ala nord, che era un giocatore accanito, aveva centrato tre incontri su cinque nell’ultima giornata del campionato di chandra, e si era messo in tasca una discreta somma.

Così, per festeggiare, volle offrire al suo quintetto di amici il raro piacere di una bibita nella caffetteria Petit Désir di Luminous Park, il parco cittadino più grande della città, un immenso rettangolo di natura piacevolmente adagiato nell’intricato groviglio di grattacieli a due isolati dal museo.

Di tutti i polmoni verdi di Kyrador era sicuramente il più apprezzato, per molteplici motivi. In primis vi erano naturalmente le dimensioni, quattro chilometri quadrati di polmone verde nel cuore del distretto centrale; e poi vi erano i sentieri, i campi sportivi, gli scintillanti specchi d’acqua, gli alberi alti e bassi raccolti in piccole foreste e le interminabili distese d’erba.

Un vero angolo di paradiso, come lo definivano alcuni, dove alla frenesia e al sovraffollamento dei sentieri principali facevano eco angoli di quiete assoluta, dove l’unico suono che si poteva udire era quello della natura.

Lo popolavano molti animali, in maggior parte volatili, e nell’angolo rivolto a nord-ovest, verso la quinta strada, vi era persino un piccolo zoo, quello stesso zoo che Ally e Meracle stavano ora visitando assieme ai loro compagni di classe.

Cingeva il tutto una scintillante cancellata metallica, i cui molteplici varchi d’ingresso, disposti ad intervalli regolari lungo tutto il perimetro del parco, erano decorati con elaborati motivi floreali, un arabesco inestricabile e sopraffino di piante, liane e foglie che si intrecciavano tra di loro terminando in una tempesta di fiori.

L’acqua di molte fontane, compresa quella che stava al centro della piazza dello zoo, scintillava come il diamante, merito del krylium contenuto al suo interno, altre buttavano getti dei colori più diversi.

Di fronte ad una tale bellezza le due bambine non riuscirono a non pensare a quanto la magia fosse davvero stupenda. Dopo che aveva permesso agli esseri umani di navigare tra le stelle, era senza dubbio la scienza che procedeva a passo più spedito. Ogni giorno c’era una scoperta nuova, e non vi era campo nell’intero tessuto sociale di Celestis in cui il suo utilizzo non fosse preponderante.

Governava tutto, era il motore attorno al quale ruotava l’intera esistenza della razza umana. Una fonte di energia pulita, inesauribile e di facile accesso, che non scarseggiava mai ed offriva un numero di possibili applicazioni virtualmente infinito.

Poteva accendere una lampadina e far volare una nave spaziale, attivare un computer come curare una malattia.

La magia era l’anima di Celestis, così come lo era stata della Terra all’indomani della sua scoperta.

Era questo il sogno di coloro che erano arrivati fin lì dal loro pianeta natale. Creare una civiltà nuova, utopica, benedetta da questa energia così pura e perfetta, e in armonia con il mondo intero. E di questo mirabile progetto Luminous Park, anzi, l’intera Kyrador, era il più superbo dei traguardi.

Il Petit Désir era uno dei suoi ritrovi più apprezzati di Luminous Park, e pur non essendo al livello dell’inarrivabile Coer Bleu, da alcuni definito il locale più esclusivo della città, poteva offrire il piacere di una bibita e un dolcetto nella tranquillità della natura, adagiato lungo una delle rive di Dream Lake, il secondo specchio d’acqua del parco per estensione.

Il Dream Lake in particolare era molto apprezzato dal gentil sesso, per le sue romantiche rive puntellate di salici piangenti, i suoi sentieri che vi giravano attorno e i suoi scorci paradisiaci, e non a caso i ragazzi lo avevano scelto. In un luogo così c’era sempre qualche preda da adocchiare, se non altro per ravvivare la serata e passare un piacevole intermezzo.

Tuttavia, quella sera le presenze femminili stentavano, e in ogni caso Jason era troppo preso dai suoi pensieri e frustrazioni, riacutizzatesi improvvisamente e senza una ragione precisa, per avere voglia di intraprendere una delle sue solite battute di caccia.

Per quella volta era necessario che fossero le ragazze ad andare da lui, ma per sua fortuna il caso volle che proprio in quel momento transitasse da quelle parti una avvenente giovane di buona famiglia alla ricerca di un po’ di eccitazione.

 

Ally si era persa a tal punto tra le meraviglie dello zoo da smarrire completamente il senso del tempo, e complice anche il fatto che si fosse allontanata per andare a vedere un’altra volta i koala, quando finalmente si accorse di che ore fossero, si rese conto con enorme sorpresa che il resto della classe se n’era già andato, dimenticandosi di lei.

Da un momento all’altro la ragazzina si ritrovò da sola, e, complice l’essersi dimenticata di ricaricare la batteria del comunicatore, non aveva neanche modo di rintracciare i suoi compagni. Provò a cercarli, avventurandosi imprudentemente tra i viali e i sentieri dell’arboreto attiguo allo zoo, ma per quanto chiamasse ad alta voce nessuno rispondeva, e nel momento in cui pensò di tornare all’ingresso dello zoo nella speranza che venissero a cercarla, comprese di essersi persa.

Sconsolata, si sedette su di una panchina, senza sapere come fare per cavarsi fuori da quell’impiccio.

Aveva paura di andare alla polizia, perché temeva di essere sgridata in tutti i modi possibili - prima dagli agenti, poi dalla maestra, e qualora lo avessero saputo anche dai suoi genitori - e quella giornata era stata troppo bella per concluderla in modo così triste.

Poi, mentre cercava di pensare ad una soluzione, la sua attenzione si spostò verso la statua che svettava dall’altro lato di quella piccola e anonima stradina di sassi immersa tra gli alberi. Dallo stile vagamente astratto, sembrava raffigurare tre persone, tra cui un bambino; quest’ultimo era sorretto per i fianchi da una delle due, e teneva alto un pezzo di legno, quasi fosse stato un prezioso trofeo, osservato con fare di meraviglia dalla terza figura.

C’era un che di soprannaturale, quasi di mistico, in quella rappresentazione, ed Ally, pur non potendone leggere la targa, aveva la sensazione che si trattasse di qualcosa di importante.

«Quella statua è dedicata ai coloni che costruirono questa città.» disse d’improvviso una voce gentile.

Un anziano signore, molto distinto e simpatico, la osservava coi suoi piccoli occhi azzurri, e incrociandone lo sguardo la ragazzina sentì come tintinnare quel core ancora immaturo che malgrado l’età già risplendeva dentro di lei.

«Qualcosa non va, signorina? Mi sembra triste.»

Lei non rispose, senza neppure sapere perché; era come se la sua mente si fosse addormentata, perdendosi all’interno di quegli occhi a prima vista così normali, ma al cui interno sembrava annidarsi un che di ipnotico, capace di catturare e ammaliare chiunque li guardasse.

Il signore sedette all’altro capo della panchina, portando a sua volta la propria attenzione verso la statua.

«Lo sai? Questo parco è il cuore della città. In un certo senso, Kyrador è nata proprio qui.»

«Kyrador… è nata qui?»

«Prima ancora delle strade, dei palazzi e dei tunnel, centinaia di anni fa, qui c’era solo un’immensa distesa di sassi e sabbia affacciata sul mare.

I primi coloni all’inizio non avevano nulla: tutto quello che si erano portati dalla Terra era inutilizzabile. Lo sai, vero?»

«Sì, l’ho imparato a scuola. Era per colpa delle emissioni magiche.»

«Bravissima. Ogni pianeta produce un diverso tipo di potere magico, e purtroppo allora gli antenati non lo sapevano. Così, dapprincipio, furono costretti ad arrangiarsi con quello che trovavano. Nel luogo dove adesso sorge questo bellissimo parco, un tempo c’era una grande e rigogliosa foresta. Abbatterono gli alberi e ne fecero le loro prime case; poi, quando le cose andarono meglio, quando il legno si tramutò in pietra, e la pietra in acciaio, vollero lasciare questo posto com’era, per non dimenticare mai gli ostacoli che, malgrado tutto, erano riusciti a superare. E costruirono quel monumento, a ricordo e ringraziamento di quanto la foresta aveva fatto per loro.»

L’anzianolevò quindi lo sguardo sui grattacieli che svettavano come tanti frammenti di vetro proiettati verso le nuvole, e Ally fece altrettanto.

«Osservare questa città è come guardare la storia dell’Uomo dritta negl’occhi. Al suo interno c’è tutto: speranze, sogni, aspettative, gioia, dolore. Ogni città racchiude dentro di sé la forza ed il fulgore di chi l’ha costruita, ma Kyrador lo fa in un modo speciale. Non custodisce solo i ricordi dei suoi abitanti, ma in un certo senso quelli di tutta la gente di Celestis. È stata la prima grande città ad essere edificata, e ancora oggi è considerata il centro del mondo. Qui risplende una scintilla particolare. Non sei d’accordo, piccola?»

La ragazzina annuì; continuava a percepire quella strana sensazione, quella specie di tremolio al centro del petto.

«Io non so nulla di questa città. Ci abito, ma in realtà è come se fino ad oggi fossi vissuta su un altro pianeta. Non era la prima volta che venivo in centro, ma oggi, non so perché, è stato diverso. Ho sentito per un tutto il tempo come qualcosa qui, sul cuore. Una specie di calore. Se tocco un edificio, mi sembra quasi di sentirlo parlare. È come se Kyrador… come posso dire… come se fosse viva.»

«Chi lo sa, forse è così.»

Ally alzò gli occhi incredula, intercettando il sorriso quasi infantile dell’anziano signore.

«In fin dei conti, questa città è stata pensata per essere a misura d’uomo. Un enorme corpo in cui i vari organi esistono in funzione gli uni degli altri. Un’energia particolare scorre in questo corpo, e ogni persona che nasce o vive al suo interno vi è in qualche modo legata. Si può dire che Kyrador prenda per sé un pezzetto dell’anima di tutti i suoi abitanti. E chissà, forse, unendo tutti questi pezzetti, la città stessa in qualche modo ha ottenuto una sua anima.»

«Una sua… anima?» ripeté Ally guardando nuovamente la statua.

Il suono lontano di una campana riportò però la bambina sulla terra, rammentandole la sua situazione.

«Accidenti, quanto è tardi! I miei compagni mi staranno sicuramente cercando!»

«Ti sei persa?»

«Sì. E se non li ritrovo al più presto, dovrò subirmi una ramanzina coi fiocchi!»

«Perché non lo chiedi alla città?» domandò gentile, guadagnandosi un’altra occhiata sorpresa. «Se davvero questa città è viva, e tutti coloro che vivono al suo interno sono legati a lei, Kyrador potrà aiutarti sicuramente a ritrovare i tuoi compagni.»

«Ma… come posso fare?»

«Sei una maghetta, non è vero?»

«Beh, sì… ma non ho ancora nessuna conoscenza della magia.»

«Non importa. Chiudi gli occhi.»

«Come!?»

«Fidati di me.»

Non senza qualche timore la bambina obbedì, cercando per quanto possibile di calmare i battiti del cuore.

«Lascia che il tuo core diventi una cosa sola con la città» sentiva, mentre un tocco gentile le sfiorava il centro della fronte. «Kyrador è tutta attorno a te. Tu non vivi in questa città, ne fai parte. Siete collegati. Ora, diventate una cosa sola!»

Per un istante tutto parve scomparire, poi Ally ebbe come la sensazione si precipitare per qualche breve attimo nel vuoto, serrando più forte le palpebre per lo spavento. Ma quando riaprì gli occhi, non riuscì a credere a ciò che vedeva.

Kyrador era lì, sotto di lei.

Ma era anche sopra di lei, attorno a lei, dentro di lei.

Anche il suo corpo era diverso; ovunque e in nessun luogo, lì con lei e allo stesso tempo altrove. Dovunque guardasse le pareva di vederlo: lì dove c’erano strade c’erano vene, i distretti erano i suoi organi, il cielo i suoi occhi, e le innumerevoli persone che si muovevano ininterrottamente in ogni direzione i suoi globuli rossi, le sue piastrine, i suoi linfociti.

Era incredibile.

Lei non si trovava nella città: non più. Lei era la città.

Avvertiva il solletico prodotto dal vento che faceva ondeggiare le fronde degli alberi, il fastidio di un muro graffiato o imbrattato da qualche vandalo, il dolore di un edificio che veniva abbattuto.

Lei e Kyrador erano una cosa sola: i loro corpi, le loro anime, si erano uniti, mettendola in contatto con una quantità indescrivibile di altre vite. Le bastava concentrarsi, e poteva sentire ogni cosa: parole, dialoghi, ma anche pensieri, emozioni, e idee.

Era come se le si fossero aperti gli occhi e le orecchie su ogni singola anima che popolava la città.

Non solo.

La città stessa era ora alla sua mercé. Le bastava pensare a un luogo, uno qualsiasi, e immediatamente questo le appariva davanti, nitido e tangibile come vi si fosse trovata appresso, ma allo stesso tempo etereo, impalpabile, quasi da poterlo smembrare e sezionare in innumerevoli pezzi.

Non c’era cosa che non sapesse;  o emozione che non provasse.

Per quell’unico istante, lei era tutto.

Kyrador era sua.

E dentro di sé sentiva una pace sconfinata; la pace che solo l’assoluta sicurezza e senso di onniscienza potevano portare. Per un attimo rischiò di perdersi in tutta quella sconfinata quiete, di lasciarsi assorbire completamente dalla città e diventare un tutt’uno con essa.

«Non ti perdere» le sussurrò quella voce nell’orecchio. «Tu sei tu. Non dimenticarlo.»

La bambina trasalì, sentendo ravvivarsi quella fiamma d’animo che per un tempo all’apparenza interminabile aveva lasciato scivolare nell’immenso oceano di Kyrador, e ricordatasi del motivo che l’aveva condotta lì le fu sufficiente pensare ai suoi amici per vederli, con quell’occhio che solo una visione celeste del mondo poteva possedere, sparpagliati tutto attorno alla piazza circolare al centro del parco e intenti a chiamarla a gran voce.

Vide anche Meracle, che la chiamava più forte di tutti, e le venne quasi da ridere: non aveva mai notato quanto la sua amica fosse buffa, con quel marchio violaceo che, al contrario di molti suoi simili, si divertiva a lasciare bene in vista, tagliando i capelli in modo che non coprissero la base del collo. E poi quel batuffolo peloso che spuntava sbarazzino dal bordo dei pantaloni; diceva che le piaceva sentire il vento che le accarezzava il pelo, che la faceva sentire felice, oltre a ricordarle sempre chi era.

Ally non riuscì a resistere alla tentazione, e quando la sua amica si trovò a passare accanto ad un cespuglio basso due dei rametti, come animati di vita propria si strinsero per qualche secondo dietro la sua schiena; niente di doloroso, ma se c’era una cosa che detestava era che qualcuno la toccasse proprio lì.

«Chi è che mi tira la coda!» esclamò stupita e un po’ arrabbiata, mentre Ally di contro si lasciò andare a spassose risate che la povera vittima non poteva sentire.

Poi, Ally avvertì di nuovo quella sensazione di risucchio, e prima che potesse rendersene conto era di nuovo lì, seduta a quella panchina.

«Sono tornata…» disse confusa, guardandosi le mani.

Ma la gioia e l’emozione che aveva provato, e che ancora stava provando, erano indescrivibili.

«È stato incredibile! Fantastico! Non mi sono mai sentita così!»

Poi però, girato lo sguardo per ringraziare quel gentile signore e metterlo al corrente di tutte le magnifiche sensazioni che aveva provato, si accorse di essere sola.

«Signore?» domandò cercandolo con gli occhi.

Ma era tutto inutile, quell’anziano così simpatico e un po’ misterioso sembrava scomparso nel nulla.

«Peccato…»

Purtroppo il tempo incalzava, e lei non ne aveva più. Raccolto il suo zaino, e volti un’ultima volta gli occhi tutto attorno a sé nella speranza, disattesa, di vederlo, la bambina corse via per riunirsi ai suoi compagni.

 

Dopo una intera giornata spesa tra shopping, passeggiate e divertimenti vari, l’unica cosa che poteva rendere la giornata di Pam davvero speciale, aiutandola oltretutto a scordare almeno per un po’ la ramanzina che suo padre le avrebbe sicuramente fatto al ritorno a casa, era trovare il partner ideale con cui trascorrere una serata indimenticabile.

Sia lei che le sue amiche avevano fatto conquiste molteplici, ma dopo aver saputo di essere attualmente l’unica senza un compagno fisso aveva deciso, anche per via di certe frasi di quelle due oche giulive, di provare in ogni modo ad accompagnarsi al miglior maschio possibile, anche per dimostrare a sé stessa di saperci ancora fare in quanto ad abilità di seduzione.

Con una scusa condusse Shirley e Marie nei pressi del Dream Lake, in assoluto la sua riserva di caccia preferita, e non servirono che pochi minuti perché il suo nuovo, potenziale cavaliere le comparisse davanti, seduto ad uno dei tavolini del bar assieme ad altri buzzurri, dei mostri paragonati a lui.

«Accidenti.» disse Marie «Quello è bello sul serio».

Giusto il tempo di una rapida sistemata, e le tre ragazze si accomodarono al tavolo accanto, in modo tale da poter essere facilmente notate, come effettivamente accadde.

Shirley e Marie al momento erano impegnate, ma quel giovane dai capelli paglierini e dagli occhi azzurri accendeva anche la loro fantasia, così decisero di rendere la vita difficile alla loro amica facendone una competizione a tre.

Il primo a cadere nella rete fu Lou, un altro amico di Jason, abbastanza appariscente ma imbruttito da un mento un po’ troppo squadrato, che fu rispedito al mittente dopo sole due frasi, quindi ci provò Pierre, ottenendo però lo stesso risultato.

Vedendo che Jason esitava, limitandosi a guardarla senza agire, Pam si decise a prendere l’iniziativa, e quando tutte e tre si alzarono per andarsene finse di inciampare sulla sedia.

Fulmineo, e quasi d’istinto, Jason intervenne, prendendola al volo.

«Grazie.» disse sfoggiando il suo sorriso più seducente

«Non c’è di che».

Il resto fu mero ABC del corteggiamento. Jason aveva voglia di distrarsi, Pam di una compagnia con cui farsi bella tra i suoi amici nei locali notturni, e ognuno dei due in qualche modo aveva fatto colpo sull’altra.

«Avresti voglia di fare due passi?» si decise infine a domandare Jason sotto gli sguardi inviperiti dei suoi amici

«Perché no?» rispose lei vedendosi guardare allo stesso modo da Shirley e Marie.

A quel punto, se ne andarono insieme.

 

Vick scese dalla macchina senza neanche spegnere il motore, e correndo come più non poteva varcò il cancello del parco che dava verso Victoria Avenue, infilandosi tra i viottoli ghiaiosi.

Quella zona era particolarmente frequentata dai bambini, sia per la presenza del vicino zoo sia per i numerosi parchi giochi e campetti sportivi. Vick aveva pensato, non a torto, che nessuno avrebbe mai cercato documenti così importanti in un posto simile, ma stavolta era certo di avere scelto il nascondiglio molto bene.

Aveva voluto prendere quella seconda misura di precauzione per tutelarsi in caso d’imprevisto, e mai come in quel momento fu sicuro di aver fatto la cosa giusta, anche se si era trattato di spendere un sacco di tempo a copiare e trasferire tutto il materiale.

Non temeva la curiosità dei bambini, perché anche se da quelle parti ce n’erano a palate neanche loro sarebbero stati capaci di trovare il nascondiglio.

Oltre ai classici giochi da cortile, dagli scivoli, alle altalene, ai cavallini, quella zona di Luminous Park ospitava anche delle giostre, tra cui un incantevole carosello a due piani traboccante di cavalli bianchi, tazze, carrozze e ogni altro mezzo capace di accendere la fantasia dei bambini, mentre per i più grandi vi erano i campi sportivi per praticare ogni genere di attività, dalla corsa al calcio fino al nuoto, grazie alla piscina al coperto assolutamente gratuita ed aperta a tutti.

Ed era proprio alla piscina che era diretto.

Varcata la porta, e cercando di non dare nell’occhio, si avviò lungo il corridoio vetrato che girava attorno  alle vasche, quindi infilò la scala interrata che scendeva nella zona delle pompe, e una volta accertatosi che non vi era nessuno penetrò nella stanza.

Con il cuore che batteva all’impazzata rimosse una piastrella malmessa, ed i suoi occhi si accesero di sollievo come si posarono sulla piccola scheda di memoria appiccicata sulla faccia sottostante del quadrato di ceramica.

La prese, stringendola e baciandola come fosse stata la sua anima.

Avrebbe potuto nascondere il materiale in qualche altro posto a prima vista più sicuro, ma sapeva fin troppo bene che per le persone i cui nomi erano riportati su quei documenti non vi era cassetta di sicurezza che non potesse essere aperta o caveau impossibile da raggiungere.

Per un attimo aveva temuto di essere stato colto in controtempo, ma l’aver trovato la copia di riserva era la prova che, nonostante tutto, era ancora lui il più furbo.

Ora si trattava solo di aspettare. E poi, finalmente, si sarebbe tolto quel peso dalla coscienza una volta per tutte.

 

Alla luce splendente del sole seguì, con l’avanzare del tempo, il rosso opaco del tramonto.

Un’altra giornata volgeva al termine, un altro giorno di glorie e splendori per la Città dei Nove Distretti, e molti di coloro che avevano contribuito nel loro piccolo a preservarne ed assicurarne la grandezza fecero ritorno alle loro case.

Ally non ricordava di aver mai vissuto nella sua vita un giorno così bello.

Era partita da casa convinta che sarebbe stata una giornata come le altre, ma era tornata con l’animo ancora carico di emozioni per le indescrivibili meraviglie che aveva veduto.

Non si era mai allontanata molto dal suo quartiere prima di allora, e l’aver visto per la prima volta il centro di Kyrador l’aveva spinta a domandarsi come fosse possibile che quella su cui aveva posato gli occhi per tutto il giorno fosse la stessa città in cui era sempre vissuta fin dalla nascita.

Meracle aveva ragione su tutto; questo le era venuto da pensare mentre, con un pizzico di amarezza, l’autobus imboccava l’ultimo tratto di strada prima di depositarla davanti casa.

Non era tanto il museo, stupendo sicuramente, ma la stessa città, la stessa Kyrador ad essere qualcosa di quasi inconcepibile, un trionfo della meraviglia capace di accendere i sogni non solo dei bambini, ma semplicemente di chiunque cedesse al suo richiamo.

Quel viaggio onirico in un mondo così vicino, e allo stesso tempo così lontano, aveva fatto nascere in lei, improvviso e divampante, un desiderio. Voleva farne parte.

Voleva diventare parte di quella realtà, lasciarsi trasportare dalla sua meraviglia, dalle sue innumerevoli bellezze.

Non solo.

Lei voleva plasmarla. Voleva avere nelle sue mani un po’ di quello splendore, e contribuire a farlo crescere ancora di più.

Aveva il petto gonfio per l’orgoglio nel momento in cui, scesa dall’autobus, salutò tutti dandosi appuntamento per il giorno dopo a scuola. Finalmente anche lei, come molte sue amiche, aveva le idee un po’ più chiare sul suo futuro.

Anzi, chiarissime.

Forse sua madre lo sapeva. Sapeva che sua figlia sarebbe tornata a casa con il morale alle stelle e felice come non mai, e a degno coronamento di una giornata da ricordare sotto ogni aspetto le aveva voluto riservare un’ultima sorpresa.

Fu così che, dopo essersi cambiata ed essere scesa per la cena, la bambina trovò ad attenderla tutti i suoi piatti preferiti, dal pane biscottato con pezzetti di pomodoro alla torta di frutta fresca di pasticceria, appena portata a casa dal papà al rientro dal lavoro.

«È stato bellissimo» continuò a ripetere per tutta la cena. «Il museo è pieno di cose meravigliose. C’erano le foto della Terra, e le macchine di una volta, con quei motori a carburante, e le prime case costruite su Celestis, e i vestiti, e poi la ricostruzione della nave. Era grande così. E dentro è ancora più stupenda, con tutte quelle capsule, e i comandi, e i computer.

E poi il centro della città, con tutti quei palazzi. Sembravano così piccoli visti da lontano, ma poi ho visto che erano enormi. E poi il parco, con le fontane tutte colorate, e lo zoo pieno di animali. Ho visto i panda, e le scimmie. Le scimmie sono così buffe. Facevano le linguacce.»

«Insomma, ti sei divertita» le disse sorridendo Lee, suo padre

«Moltissimo, papà. È stato il giorno più fantasticoso della mia vita».

Quindi, durante il dessert, annunciò la sua decisione.

«Quando sarò grande, farò anch’io qualcosa di importante per questa città. Voglio rendere Kyrador ancora più magnifica.»

«Davvero?» le disse ancora Lee «E cosa vorresti fare? L’architetto?»

«Il sindaco» rispose Ally gonfiando il petto.

Lee e sua moglie Sandy si guardarono un attimo perplessi, poi risero divertiti.

«Uffa. Non sto scherzando» protestò considerandola una presa in giro

«L’ambizione non ti manca» sorrise Sandy togliendole un batuffolo di crema dalla guancia. «Ma di certo il sindaco non si sporca mangiando il dolce, non credi? Dovrai impegnarti molto per riuscirci.»

«E mi impegnerò, mamma. Lo prometto. Sarò il più grande sindaco della storia di Kyrador».

A volte Ally sapeva essere davvero buffa.

Aveva una fantasia sfrenata, ma aveva preso dal padre una inossidabile forza di volontà. Ogni volta che si metteva in testa qualcosa non aveva mai rinunciato neanche andandoci a sbattere contro, e c’era da scommettere che anche stavolta sarebbe stato così.

«E ora forza, signorina sindaco» le disse il padre. «A lavarsi per bene e a fare i compiti.»

«Sì, papà».

Riposti i piatti nel lavandino la bambina si avviò verso il bagno canticchiando la canzoncina della pubblicità del museo, seguita con gli occhi dai suoi genitori.

«Che ragazzina esuberante» osservò Lee quando furono rimasti soli

«E piena di vita. Mi ricorda qualcuno quando aveva la sua età.»

«A me invece ricorda te quando ci siamo sposati».

Sandy rise, e Lee, sfilatosi gli occhiali, le passò dolcemente una mano tra i lunghi capelli neri, spingendola delicatamente verso di sé.

Si guardarono, scambiandosi poi un dolcissimo bacio.

«Non ti dispiace neanche un po’?» le sussurrò all’orecchio

«Di che cosa?»

«Per sposare me, hai rinunciato al tuo avvenire. Sei laureata, avevi una carriera davanti a te, eppure…».

Lei gli mise dolcemente un dito sulle labbra, e sorridendo lo baciò sulla fronte.

«Ho un marito stupendo e una figlia che è il sogno di ogni genitore. Cos’altro potrei volere?»

«Anche se tuo marito è costretto a trascorrere fino a un quarto dell’anno lontano dalla sua famiglia?» sorrise lui stringendole la mano

«È la vita di un impiegato del Ministero della Difesa».

Di nuovo si baciarono, dopo che Lee si fu tolto le lenti rettangolari da vista che una leggera miopia lo costringeva a portare.

«Abbi solo un po’ di pazienza, amore mio. Fujitaka vuole correre per le presidenziali l’anno prossimo. Se riuscirà a vincere, indipendentemente da chi sceglierà come ministro sarà la mia occasione per un salto di qualità.»

«È per questo che dico che Ally ti somiglia così tanto.» sorrise Sandy.

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Capitolo 4
*** Parte IV ***


4

 

 

Al calare del sole, il quartiere di Finsword si tramutava in una distesa ininterrotta di luci, una immensa pista da ballo all’aperto che attirava giovani da tutta la città.

Quattro strade pedonali pullulanti di locali notturni, discoteche, sale giochi e altri luoghi di ritrovo.

Vi si arrivava facilmente grazie alla monorotaia che girava tutto intorno al centro, e ogni sera era festa scatenata fino alle prime luci dell’alba.

Oltre ai divertimenti e agli svaghi Finsword era anche una rinomata via dello shopping, specializzata in elettronica e tecnologia del divertimento. Quasi tutte le sale giochi che vi si trovavano erano anche dei negozi specializzati, e molte famose squadre di chandra avevano i propri uffici di rappresentanza in qualcuno dei numerosi palazzi che svettavano ai bordi delle strade.

Sia Jason che Pam erano degli habitué di quel quartiere, anche se per ragioni differenti. Pur se schiacciato dalla routine quotidiana e dall’incapacità di riuscire ad imporsi, Jason non aveva perso la sua passione per il chandra e per i videogiochi in generale, e di quando in quando gli capitava anche di fare qualche puntata in una delle molte case da gioco sparse per tutta la zona. Quanto a Pam, secondo lei non c’era miglior posto dove andare a caccia di ragazzi, anche se i suoi interessi vertevano più su sale da ballo e discoteche.

Teoricamente non le sarebbe stato permesso di entrare in uno qualsiasi di quei locali data l’età, ma con la sua posizione e i suoi soldi non era difficile passare sopra le normali regole, e ormai quasi tutti i buttafuori di Finsword la conoscevano e la lasciavano entrare senza fare domande.

Per qualche motivo Jason e Pam si sentivano affini.

La ragazza in particolare, superato il momento di normale superficialità, aveva iniziato a trovarsi bene con quel giovane proletario. Prima d’ora aveva sempre frequentato ricchi figli di papà boriosi e insopportabili, oppure talmente imbranati da risultare quasi fastidiosi, ma quella era la prima volta che si trovava ad accompagnarsi con un ragazzo di così umili origini.

Eppure, nonostante tutto, Jason si stava rivelando una persona tutta d’un pezzo, forte ed orgoglioso, fiero oltremodo della sua condizione e non disposto a farsi mettere i piedi in testa da nessuno.

Proprio come lei.

Forse era per questo che lo aveva scelto. Forse, dopotutto, poteva addirittura essere quello giusto.

«Quindi, sei la figlia di un ambasciatore!?» disse Jason scoprendo l’identità della sua misteriosa spasimante

«Ti prego, non parlarmi di mio padre. Siamo come due estranei. Per piacergli dovrei essere come mio fratello. Insomma, dovrei essere uguale a lui.

Se non sei una cima in tutto sei un incapace, e se sei un incapace non vali due minuti del suo tempo. Non ricordo una sola volta in cui mi abbia detto una cosa gentile o mi abbia sorriso.»

«Ti capisco. Anche con il mio vecchio le cose non vanno troppo bene.»

«Davvero? Per il mio stesso motivo?».

Jason esitò, stringendo le labbra, e una strana luce gli si accese negli occhi.

Era incredibile. Non aveva mai parlato di questa cosa con nessuno, eppure per poco non ne parlava con una ragazza che conosceva da meno di mezza giornata.

Comprendendo di aver chiesto più di quanto fosse lecito Pam, a differenza del solito, scelse di non fare la parte della curiosona inopportuna e rinunciò ad ulteriori indagini.

«Allora?» disse di botto Jason come a voler stemperare la tensione «Andiamo a divertirci?»

«Perché no? Cosa proponi?»

«Lo vedrai».

 

Nel caso di Jason il divertimento si chiamava Ultimate Arena, la più grande sala di videogiochi della città, oltre che la più all’avanguardia.

C’era tutto quello che un appassionato come lui potesse chiedere, perfino delle riproduzioni di vecchi cabinati in uso sulla Terra realizzati estrapolando i dati raccolti nelle banche informazioni delle navi coloniali.

In un mondo in cui la realtà virtuale aveva raggiunto livelli quasi inimmaginabili, con interi mondi ricreati al computer dove era possibile fare qualsiasi cosa ed essere chiunque, quel genere di sale giochi erano una sorta di ponte tra il passato e il futuro, dove assaporare l’atmosfera ed il brivido dei vecchi videogiochi e nel contempo tenersi informati sulle ultime novità.

Fiore all’occhiello dell’Ultimate Arena era la più avveniristica piattaforma da Cube, la moda del momento tra i giovani e i giovanissimi, una sofisticata realtà aumentata dove era possibile misurarsi l’uno contro l’altro in combattimenti all’ultimo sangue pilotando un proprio avatar mosso con la forza del pensiero e dei muscoli assieme.

Non era il chandra, ma era di sicuro la cosa che più gli assomigliava, e a differenza di quello sport per super-ricchi o iscritti alle palestre era disponibile a tutti con un semplice gettone di gioco da due kylis.

Pam si sentì un po’ spaesata nel trovarsi di fronte a tutta quella strana gente, assatanati maniaci dei videogiochi che sbavavano dietro a tutte le novità, ma l’avere vicino Jason la tranquillizzata. Non che non fosse abituata a trovarsi a che fare con dei tipi strani, anzi ne conosceva molti, e anche peggiori di quelli che le stavano attorno in quel momento. Era più che altro l’ambiente a trasmetterle un che di estraneo, di fuori dagli schemi.

Jason la portò alla piattaforma di Cube nella zona centrale, dove era in corso l’incontro tra un giocatore occasionale e quello che aveva tutta l’aria di essere un esperto, un biondino pressappoco della stessa età di Jason parecchio spaccone che faceva il bello mettendosi in mostra e sfoggiando il suo vasto repertorio di esperienza.

Era talmente bravo che fece dello sfidante poco più di un sacco da allenamento, massacrandolo senza dargli il tempo di reagire, e quando, ebbro di vittoria, prese a tessere le proprie lodi compatendo i poveri incapaci che osavano sfidarlo Jason, che per queste cose non era un agnellino, ci vide rosso.

«E và bene, spaccone!» sbottò salendo sulla pedana. «Ora ti raddrizzo io».

Il biondino cercò di dissuaderlo, se non altro per evitare quella che secondo lui era una sfida persa in partenza, ma Jason nel mentre aveva già indossato i guanti e i parastinchi necessari a muovere il suo avatar.

«Come vuoi. Io ti ho avvisato».

Per un attimo Jason intravide un che di famigliare nel volto del biondino, ma questi pensieri si dissolsero nel nulla appena si vide comparire in forma virtuale al centro dell’arena, in guardia e pronto a combattere.

Giocare a Cube richiedeva tecnica ed abilità, ma anche una buona coordinazione tra la mente il corpo, poiché i movimenti erano comandati con il pensiero, mentre gli attacchi bisognava eseguirli manualmente.

Lo sfidante dimostrò una volta di più di essere un tipo pericoloso, portando attacchi precisi e aggressivi, di quelli che ci si aspetterebbe da qualcuno abituato a menare le mani.

Tutto attorno gli spettatori urlavano sovreccitati, e per un istante anche Pam si ritrovò a fare il tifo, se non altro per rendere credibile il fatto di voler apparire come la sua fidanzata.

Jason incassò a lungo, quasi stesse cercando di prendere le misure all’avversario, quindi, da un momento all’altro, passò al contrattacco cogliendo tutti di sorpresa. Il biondo, preso alla sprovvista, si chiuse in difesa, ma Jason lo scardinò come una vecchia serratura, e apertosi un varco prese a piazzare un colpo dietro l’altro.

Tra gli spettatori le urla di incitamento lasciarono spazio allo stupore, atterriti com’erano dalla rapidità e dalla potenza di Jason.

Dopo poco lo scontro si riequilibrò, ma ormai Jason aveva intuito il modo di combattere del suo avversario e, seppur debilitato dai molti colpi subiti, riuscì infine ad assestare l’affondo conclusivo con una combinazione doppio diretto, calcio laterale e diretto allo zigomo che spedì il biondino al tappeto azzerando i suoi punti vita.

Nella sala giochi fu il delirio, e Jason, sceso dalla pedana, venne quasi portato in trionfo.

Non solo aveva vinto, ma, come avrebbe saputo solo in seguito, aveva interrotto un predominio, quello del biondino, che durava da tre settimane, dall’ultima volta cioè che era stato in quella sala giochi.

Svincolatosi dalle strette di mano e pacche sulle spalle tornò da Pam, che lo attendeva con uno strano sorriso stampato sul volto.

«Piaciuto lo spettacolo?»

«Sai picchiare. Ti sei allenato per strada?»

«Più o meno. Mio zio Timothy gestisce una palestra, e io entravo gratis.»

«Ad essere sincera, non ti facevo così pericoloso.»

«È un complimento?» domandò divertito Jason.

Pam ridacchiò, poi nei suoi occhi si accese una luce che tuttavia inquietò Jason, un bagliore stranamente famigliare.

«Adesso però, ti ci porto io in un bel posto.

Vedrai che ti piacerà».

 

Anche in un mondo in cui le navi spaziale erano una prassi il commercio navale, e più in generale le rotte marine, avevano ancora un ruolo di enorme importanza nell’economia di tutte le nazioni di Celestis.

Una nave ed il relativo carburante, che nel suo caso era la pura e semplice energia solare, costava assai meno di un’aeronave che consumava il doppio o un’astronave coi suoi propulsori al krylium, soldi che compensavano le tre settimane che di media occorrevano per raggiungere le due estremità del globo seguendo le correnti.

La nave coloniale Aurora, nel suo arrivare sul pianeta, aveva toccato terra in una zona pianeggiante a ridosso di un ampio golfo, e attorno al golfo si era sviluppata Kyrador, inglobandolo al suo interno ed al tempo stesso usandolo come scudo contro le violente mareggiate dell’oceano occidentale.

Al centro di quell’enorme specchio d’acqua stava Harris Island, un tempo cuore delle attività portuali mercantili, collegata alla terraferma dal Rainbow Bridge.

L’isola aveva una forma vagamente circolare, con una leggera sporgenza verso est in direzione della città, ed era su questa punta che svettava la cosiddetta Statua dell’Esploratore.

Il soggetto reale raffigurato in quel blocco di marmo alto poco più di sei metri era ignoto, anche se qualcuno diceva fosse colui che per primo suggerì di edificare una città in quel luogo; forse per questo era edificato con un sestante ed un compasso assicurati alla cintura, mentre stringeva con una mano l’estremità della roccia accanto alla quale sostava e teneva l’altra alzata verso il cielo, quasi a voler salutare Kyrador, o tutti coloro che, per forza di cose, dovevano passargli davanti per circumnavigare l’isola e raggiungere il mare aperto.

Secondo una leggenda diffusa tra i pescatori e gli operai del porto il molo sei che stava ai piedi della statua era stato per lungo tempo teatro di eventi tristi e luttuosi, ed aveva pertanto assunto la nomea di luogo maledetto.

Vuoi per dare credito alla diceria, vuoi per la posizione scomoda, erano parecchi anni che nessuno si serviva più di quel molo, come di tutta l’isola del resto, che fatta eccezione per la statua era lasciata nella più totale incuria assieme ai suoi capannoni di supporto, diventati ritrovo di sbandati, tossicomani e altra gente poco raccomandabile.

Per Vick era un luogo carico di ricordi, ironici e vergognosi al tempo stesso.

Lì, proprio lì, qualche anno prima era stato sul punto di concludere l’affare più lucrativo della sua carriera, e lì un maledetto poliziotto ostinato era riuscito a beccarlo, dando una svolta imprevedibile e definitiva alla sua vita.

In un certo senso era da lì che tutto era partito. Se quel giorno non fosse stato arrestato sarebbe rimasto un faccendiere e un truffatore, invece che redimersi in piccola parte e diventare un informatore.

Ora tutto quello che voleva era levarsi quel peso dal cuore il prima possibile, e presentatosi al luogo dell’appuntamento con largo anticipo si era messo in febbrile attesa, seduto sul bordo della statua con un occhio rivolto ad ogni più piccolo segnale di pericolo e l’altro alla scheda di memoria che continuava a rigirarsi nervosamente tra le dita.

Ancora poco e tutto sarebbe finalmente finito.

All’una in punto, una macchina sopraggiunse da dietro un capannone. Vick ebbe un sussulto, ma si tranquillizzò subito riconoscendo il modello e la targa, ed alzatosi andò incontro al nuovo venuto.

«Hai spaccato il secondo.» disse cercando nella luce dei fari il volto del suo migliore amico

«Scusa, traffico.» rispose ironico Sean nello spegnere il motore.

Si avvicinarono, restando viso a viso, e per qualche attimo nessuno dei due fu in grado di dire niente, presi com’erano dal rimembrare i ricordi che quel posto risvegliava.

«È stato qui, vero?» si disse Sean

«Esatto. Per te sarò stato solo un martedì, ma per me è stato il giorno che ha sconvolto la mia vita. In tutti i sensi.»

«A volte sei troppo imprudente. È questo il tuo difetto. Del resto non saresti finito in questo casino se non fossi stato così affamato di soldi.»

«Ehi, è il mio lavoro».

A quel punto, passati i convenevoli, fu il momento di andare al sodo.

«Ce l’hai?».

Vick rispose con un cenno del capo, e sollevato il braccio mostrò la scheda di memoria stretta nel palmo della mano.

«Prenditi questa roba. Io non ne voglio più sapere».

L’ispettore esitò un momento, come preoccupato, poi recuperò la scheda, inserendola nel suo comunicatore. L’espressione che comparve nei suoi occhi nel leggere quei nomi e quelle informazioni fu indice evidente del suo sconcerto.

«Te l’avevo detto.» disse Vick quasi con ironia

«Allora non stavi esagerando.»

«È roba pericolosa. Molto pericolosa. Dammi retta, liberatene quanto prima. Più presto questa storia sarà finita, meno persone rischieranno di rimetterci la pelle».

Un tuono riecheggiò in lontananza, e alcuni fulmini presero ad illuminare il cielo notturno giungendo dal mare.

«Sta per piovere.» disse Vick guardando verso l’alto

«Così pare.» rispose Sean come soprapensiero. «Ma toglimi una curiosità. Dove avevi nascosto i documenti originali?»

«Nella riproduzione dell’Aurora. C’erano dei lavori di manutenzione in corso, e ho pensato che fosse il posto ideale. Avevo anche trovato un ottimo nascondiglio. Ma evidentemente qualche inserviente deve averlo trovato».

Dal cielo, Vick portò i suoi occhi verso l’oceano.

«Beh, poco importa. Per quanto mi riguarda, ora è tutto finito».

La mano di Sean che stringeva ancora la scheda di memoria scivolò all’interno della giacca.

«Hai ragione».

Uno schioppo, poco più di un sussurro, risuonò nell’aria, parzialmente oscurato dal fragore lontano di un secondo tuono.

Vick sgranò gli occhi, la bocca piegata in un’espressione incredula, e portatosi una mano all’altezza del ventre, guardandola la vide imbrattata di rosso.

Le gambe gli si fecero di colpo pesanti, incapaci di sostenerlo, e lui cadde esanime sull’asfalto umido e sporco. Avrebbe voluto parlare, ma il sangue gli era già arrivato in bocca, e ne uscì solo un rantolo senza senso.

Pistola di suo padre alla mano, Sean fece qualche passo avanti, e di nuovo i due si guardarono negl’occhi.

«Mi dispiace, amico mio. Non volevo che finisse così».

Di nuovo Vick cercò di parlare, e di nuovo gli riuscì solo di tossire sangue, mentre sentiva la propria fiamma esaurirsi sempre di più.

«Del resto, te l’ho appena detto. Sei troppo avido».

Seguirono altri due colpi, un secondo al petto ed uno alla testa, e Vick il truffatore lasciò il mondo mortale.

Aveva troppo da perdere.

Questo pensava Sean gettando in mare la pistola e la scheda, dopo aver dato ad entrambe un ultimo sguardo.

Nel farlo gli cadde l’occhio verso il centro della città, quel lontano paradiso scintillante di splendore, e come ogni volta montò in lui la rabbia.

Quella massa di ipocriti e di illusi credeva di vivere in un sogno, un’utopia, ma la verità era che nulla era davvero cambiato in quei quattro secoli, e probabilmente non sarebbe cambiato mai.

Da che mondo era mondo, alla ricchezza e al benessere era destino facessero da contraltare malaffare e miseria.

E l’unico modo per impedire a quel sogno, quel miraggio di perfezione al quale tutti bene o male disperatamente si aggrappavano, di infrangersi come un cristallo, era tenere il male sotto controllo, anche talvolta a costo di sporcarsi le mani.

E cosa dire poi delle leggi?

Davvero quegli ubriachi di splendore erano convinti che le leggi dei primi distretti valessero anche negli ultimi?

La legge, e questo Sean l’aveva imparato ormai da tempo, era di quanto più imperfetto vi fosse al mondo, forse anche più di quel sogno senza sostanza chiamato Kyrador. L’unico modo per farla rispettare, o per far credere a tutti che lo fosse, era adattarla all’evenienza, cercando compromessi e chiudendo occhi, perché altrimenti il rischio era di estendere il cancro che già da tempo aveva fatto marcire gli arti inferiori anche alle parti ancora sane, o che sane volevano fingere di essere.

Ma infondo cosa importava a quelli del centro di quello che succedeva al di fuori del loro piccolo mondo splendente?

Non avevano la minima idea di cosa fosse il mondo, il mondo vero, e se volevano continuare a vivere nel castello delle favole affari loro. Ma che poi non venissero a fare della facile retorica ostentando un moralismo borghese che era la summa dell’ipocrisia.

O almeno, questo era ciò che Sean si sforzava di pensare.

Non voleva credere di essere entrato nel vaso di pandora per mera speculazione, per trovare i soldi necessari a pagare spese legali mai saldate e il mantenimento dei propri figli. Voleva pensare di essere solo una pedina, un insignificante elemento di quel gigantesco organismo che per non sporcare parte della propria purezza lasciava pure marcire tutto ciò che era di secondaria importanza, purché continuasse a funzionare.

Afferrato il corpo di Vick per le gambe lo trascinò fin sul bordo del molo, quindi, rivolto ai palazzi in lontananza un nuovo sguardo carico d’odio, lo spinse di sotto, restando ad osservarlo mentre rapidamente si allontanava scomparendo nel buio.

Ci avrebbero pensato le correnti notturne a spingerlo al largo, o più probabilmente sarebbe finito polverizzato negli idrogetti di qualche nave cisterna, come non fosse mai esistito.

Come il corpo fu avvolto completamente nell’oscurità Sean tornò sui propri passi, risalì in macchina e se ne andò.

 

Jason era convinto che Pam volesse portarlo in qualche discoteca o club di lusso del primo distretto, quel genere di posti che a meno di non avere gli stemmi nobiliari cuciti addosso non li si poteva neanche guardare, per questo rimase comprensibilmente basito quando invece la ragazza, seduta sul sellino posteriore della sua moto da corsa di seconda mano, gli chiese invece di imboccare l’uscita della circonvallazione che andava verso la zona del porto, neanche troppo lontano da dove il ragazzo viveva.

La relativa vicinanza ai distretti principali non impediva a quella zona, che pure era dalla parte opposta della città rispetto alla periferia propriamente detta, di tramutarsi la notte in un vero letamaio, patria incontrastata di ogni possibile attività illegale.

«Ecco, ci siamo» disse Pam indicando un localaccio di terz’ordine lungo Teresian Street.

Le facce che popolavano il marciapiede attorno all’ingresso erano di per sé minacciose e poco raccomandabili, eppure Pam vi si avvicinò come niente fosse, salutandone addirittura alcuni che ricambiarono con battutacce e commenti spinti sul suo essere così affascinante e sensuale.

Jason non era tipo da farsi spaventare, ma provò un senso di forte disagio nel passare accanto a quegli energumeni che odoravano di malaffare lontano un miglio, e il disagio aumentò ancora di più appena Pam lo condusse all’interno.

L’odore di fumo toglieva il respiro, e non era certo fumo di tabacco, quel viziaccio che dopo quattro secoli di stentata evoluzione in molti su Celestis non erano ancora riusciti a togliersi. Jason rimase senza parole dalla naturalità con la quale Pam si muoveva lì dentro; aveva intuito che fosse una ragazza “difficile”, abituata a frequentare luoghi che non si immaginerebbero per gente del suo status, ma non pensava potesse esserlo a tal punto.

Dapprincipio cercò di non pensarci, accettando il superalcolico che lei insistette per offrirgli, e assordato dalla musica lanciata a tutto volume provò a gettarsi nella mischia.

Tutto era così strano, così fuori dal mondo.

Da un istante all’altro il giovane si ritrovò da solo in mezzo a tutti quegli estranei, assatanati urlanti con gli occhi fuori dalle orbite da quanto parevano storditi, e anche lui ad un certo punto sentì di stare perdendo i contatti con la realtà.

Tra la musica, quel fumo nauseabondo e tutto il resto, Jason si sentì come risucchiare, mentre la testa prendeva a girargli ed a fargli un gran male. I volti delle persone tutto intorno, ai suoi occhi, diventavano sempre più sfocati, maschere spaventose dai contorni indistinguibili, e così anche l’ambiente, con tutte quelle luci intermittenti, quegli psichedelici giochi con il laser e quel pavimento reso così scivoloso dai litri di alcolici finitici sopra.

La gola e il naso gli bruciavano da impazzire, faticava a respirare, ed il suo tentativo di ballare al ritmo di quella sottospecie di musica si tramutò sempre più in un ondeggiare senza senso, come di un ubriaco.

Jason non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Avrebbe voluto andarsene, ma una parte di lui sembrava come inebriata da quella sensazione tenendolo inchiodato lì, incapace di pensare lucidamente.

Pam nel frattempo era sparita, scomparsa in quel dedalo di facce come un fantasma, nello stesso modo in cui il pensiero stesso di lei lentamente iniziava come a scomparire dalla mente di Jason.

Di colpo, un’immagine si accese come un lampo nella mente del ragazzo, accompagnata da una serie indistinguibile di suoni, rumori e voci.

Un bicchiere infranto, un corpo a terra, una sirena spiegata, due volti urlanti, e il grido straziante di un pianto disperato.

Fu come essere colpiti da una scarica di teaser.

In un istante Jason riacquistò la lucidità, e tutto gli parve chiaro.

Ora riconosceva quel fumo. Quell’olezzo maledetto. Si era sforzato a tal punto di dimenticare ogni cosa che aveva finito per scordarsi anche quell’odore.

Furiosamente prese a cercare Pam. Forse, o probabilmente era quello che voleva credere, quella ragazza non aveva idea del posto in cui era finita, e doveva allontanarla assolutamente prima che succedesse qualcosa di irreparabile.

«Levatevi!» urlò aprendosi la strada tra gli altri clienti. «Pam, dove sei? Dobbiamo andarcene di qui alla svelta!».

A forza di spintoni, e dopo aver esplorato ogni centimetro di quel localaccio sovraffollato, finalmente la trovò, seduta ad uno dei tavoli più appartati della sala assieme ad un tipaccio che definire minaccioso era riduttivo, con al collo un pendente con l’effige del culto di Ela, e ad altri ragazzi più o meno della sua età.

Ciò che vide lo lasciò sconvolto, anche se una parte di lui probabilmente si aspettava di trovare una scena del genere.

Di tutti i giovani raggruppati attorno a quel tavolo solo Pam pareva conservare un briciolo di lucidità, per quanto anche lei avesse ormai lo sguardo parzialmente offuscato dalla robaccia che stava sniffando.

Fra i vari modi in cui la lilith poteva essere assunta, la forma in polvere da sniffare o fumare mescolata al tabacco era notoriamente considerata la più innocua, ma questo non le impediva di essere una dispensatrice di morte prima che di sballo.

Quando Pam, accortosi di lui, si voltò a guardalo, Jason rimase atterrito nel vedere cosa erano diventati i suoi occhi.

«Jason.» disse togliendosi dalla punta del naso alcune tracce di polvere blu. «Sei arrivato giusto in tempo. Vuoi favorire?»

«Che stai facendo?» ringhiò il ragazzo a denti stretti

«Non lo vedi tu stesso? Avanti, ho pagato anche per te. Non fare complimenti. Il mio amico Thojir ha la roba migliore della città».

Pam fece per tirare su la sua quarta riga di polvere, e a quel punto Jason si sentì esplodere dentro.

«Adesso basta!» urlò avventandosi su di lei e strappandole la canna di mano

«Che fai, idiota!?» replicò lei con gli occhi sbarrati.

Lo spacciatore, vedendo Jason gettare via con un colpo di mano tutta la polvere accumulata sul tavolo, andò su di giri ringhiando come una tigre, ma Pam riuscì fortunatamente a calmarlo prima che ne nascesse una situazione dai risvolti potenzialmente tragici.

«Lascia stare, pago io» disse, per poi tornare a guardare Jason. «Si può sapere che ti prende?»

«A me!? A te cosa prende! Stai lontana da quella merda. Hai deciso di morire?»

«E fai tante storie per un po’ di polvere? È roba innocua, tagliata milioni di volte. Ce ne vorrebbe un autotreno per riuscire anche solo a sentirne l’odore.»

«Ah davvero? Forse allora sono io quello sballato, perché secondo me questo posto puzza da far vomitare, e tu stai già uscendo di testa. Vieni subito via prima che ti si frigga il cervello».

Jason fece per prenderla per un polso, ma lei si divincolò serrando i denti.

«Tu pensa agli affari tuoi! Ma chi ti credi di essere? Io faccio quello che mi pare!»

«E ciò implica finire al cimitero? O in un centro per tossici? Ci sono stato in uno di quei posti, e puoi credermi. Non sono esattamente come la tua bella villa di Fhirland

«Sei solo un ragazzino senza palle. Basta un po’ di polvere per metterti tutta questa paura? Allora ti avevo decisamente sopravvalutato».

Per un istante Jason sentì di stare perdendo il controllo, poi un’immagine gli passò nuovamente davanti agli occhi, sovrapponendo al volto di Pam quello di una persona a lui famigliare.

«Lo sai perché io e mio padre non ci parliamo più?» disse guardandola con un misto di rabbia e comprensione. «Perché ogni volta che ci incontriamo non facciamo altro che accusarci a vicenda della morte di mio fratello. Aveva sedici anni quando è stato chiuso nel centro di recupero, e neanche diciassette quando gli hanno dovuto sparare dopo che aveva quasi sbranato una dottoressa.

La lilith e molte altre porcherie gli avevano consumato il cervello, e l’ultima volta che l’ho visto non sembrava neanche più un essere umano.

Vuoi diventare così? Vuoi finire come lui?».

Di fronte ad un racconto così macabro Pam esitò, restando lunghi secondi con la bocca spalancata e gli occhi socchiusi, ma poi, nell’istante in cui Jason cercò di prenderle nuovamente la mano, la pazzia si impadronì nuovamente di lei.

«Non osare toccarmi! Chi ti credi di essere per farmi la predica? Io faccio della mia vita quello che mi pare! Perché voi non volete capirlo? È la mia vita! La mia! E non permetto a nessuno di decidere per me! Nessuno deve decidere per me! Né mio padre! Né mia madre! Né tu!».

Pam parve calmarsi, ma era solo apparenza. Quando guardò nuovamente Jason, nei suoi occhi vi erano una pazzia ed un astio quasi inconcepibili.

«Tu» ribadì. «Che non sei altro che uno schifoso lavavetri. Un disgraziato che pulisce bagni e lava pavimenti inseguendo un sogno che sa che non si avvererà mai».

Suo padre, per quanto avessero spinto al limite le loro litigate molte volte, non aveva alzato le mani su di lei neanche una volta, per questo prima di quel momento Pam non aveva mai conosciuto il dolore di uno schiaffo.

Fu una cosa innocua, per quanto potesse essere innocuo il manrovescio di un ragazzo che non si era mai trattenuto nel distribuire pugni alla prima occasione, eppure persino Jason rimase un momento stupido per la fermezza delicata che era riuscito ad infondere in quel colpo.

Pam restò di sasso, ma ancora una volta la droga ebbe il sopravvento quasi subito, e lei giratasi sputò in faccia al ragazzo guardandolo adirata. Eppure, i suoi occhi parevano lacrimare mentre lo faceva.

«Vattene. Non voglio più vederti. Tu sei come lui».

In altri tempi Jason non avrebbe mai perdonato una simile offesa, ma stavolta la belva orgogliosa che era lui non riuscì a destarsi.

«Fa quel che vuoi» mugugnò pulendosi con la maglietta. «Ma non contare su di me. Col cavolo che io ci passo un’altra volta per tutto questo. Hai ragione, la vita è tua. E se vuoi gettarla alle ortiche non sarò io a fermarti».

Detto questo Jason se ne andò, risoluto e senza fermarsi, ma con una strana sensazione nel petto che non smise di tormentarlo mentre si incamminava lungo il marciapiede allontanandosi nella notte.

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Capitolo 5
*** Parte V ***


5

 

 

Rimasta sola, perché così si sentiva, Pam soffocò sul nascere le lacrime ributtandosi nella lilith.

Sniffò, sniffò e sniffò ancora, nel disperato tentativo di far uscire tutti quei pensieri dalla testa, tutti quei sensi di colpa.

Dopo aver svuotato il portamonete pagò con tutto quello che aveva, dal fermacapelli al braccialetto d’oro ricevuto per il suo ultimo compleanno, l’ennesimo tentativo del padre di accattivarsi i suoi favori con regali costosi.

Teoricamente Thojir aveva con sé abbastanza stupefacenti da far collassare metà dei presenti, ma non voleva trovarsi tra le mani una strafatta che gli crollava davanti agli occhi o peggio, e all’ennesima richiesta delirante di Pam di mettere nuovamente mano alla sua scorta rispose con un rifiuto.

«Direi che per stasera ne hai sniffata anche troppa. Torna domani e te ne darò ancora.»

«Come sarebbe domani? Io la voglio adesso!».

Pam era talmente fuori di sé che cercò persino di strappare il sacchetto dalle mani di Thojir, il quale non aveva la stessa gentilezza di Jason e rispose con un tremendo ceffone che scaraventò la ragazza a terra.

«Vattene, prima che perda la pazienza».

La poveretta si rialzò a fatica, sia per la violenza del colpo che per i paurosi giramenti di testa che ormai non le davano tregua, e barcollando si diresse a fatica verso l’uscita, guardata con un misto di incredulità e disgusto da coloro cui andò inavvertitamente addosso nel suo incedere stentato.

Una volta fuori si incamminò senza meta per le strade buie, sotto una pioggia scrosciante, senza sapere dove andare o cosa fare, mentre ai capogiri si erano nel frattempo andati a sommare violenti spasmi, tosse e conati che a stento riusciva a controllare.

Sembrava ubriaca da come andava da una parte e dall’altra, incapace di procedere lungo una linea retta.

Tutto le girava intorno, tutto era in movimento, e non riusciva a pensare lucidamente, annebbiata com’era dai fumi della lilith.

Forse quella roba, pensò con uno scampolo di lucidità, non era così di buona qualità come credeva.

O forse, e qui la colse la paura, questa volta aveva davvero esagerato.

Crogiolatasi da sempre nella certezza di poter sopportare tutto grazie alla sua attitudine alla magia, non aveva mai dato peso alle chiacchiere e ai timori di chi aveva tentato di rammentarle i pericoli della lilith, confidando nelle aride cifre delle statistiche che ripetevano ogni volta come fosse quasi impossibile, per un’aspirante stregone, andare incontro ai ben noti e spaventosi effetti collaterali della polvere blu.

E invece, ora, si sentiva male come non lo era mai stata, il corpo intero sembrava essersi trasformato in un enorme puntaspilli conficcato in ogni parte, ed ogni passo, ogni respiro, ogni sbattere di ciglia era un’agonia.

Come se non bastasse la vista, già provata dall’acqua che cadeva ininterrottamente dal cielo, le si era appannata, al punto da renderle quasi impossibile distinguere nitidamente ciò che aveva attorno, il che le aveva impedito di rendersi conto di essere giunta, nel suo peregrinare senza meta né ragione, nei pressi della superstrada.

Data l’ora, in girò non c’era quasi più nessuno.

Una coppietta di liceali si stava avviando in tutta fretta verso la fermata della metro al riparo di un ombrello, ed entrambi restarono paralizzati per lo stupore quando si videro venire incontro quella ragazza fradicia e ridotta ad uno straccio, i lunghi capelli arruffati e gocciolanti, il naso rosso come spellato e la bocca coperta di escrescenze disgustose che, mescolate all’acqua, avevano formato una sorta di schiuma densa e bianca.

«Aiutatemi…» mormorò agonizzante protendendo un braccio verso di loro.

Dapprincipio non seppero cosa fare, ma quando si avvidero che l’arto era ricoperto da grosse e molto minacciose scaglie simili a enormi croste color roccia si spaventarono al punto di correre via nella direzione da cui erano venuti, intimando al mostro di stare lontano.

Sentendosi chiamare mostro Pam avvertì un nuovo, ulteriore colpo al cuore, ed inginocchiatasi a terra vomitò quello che per molti minuti era riuscita a tenere dentro, ma solo quando vide essa stessa le croste di cui non solo il braccio, ma tutto il suo corpo era ricoperto l’orrore si impadronì di lei.

Stava succedendo.

Quei due ragazzi non avevano esagerato chiamandola mostro.

Era esattamente quello che stava diventando.

Lo sarebbe diventata, senza dubbio.

Si sarebbe trasformata in una di quelle orride creature che aveva visto molte volte alla televisione, bestie animali che attaccavano e uccidevano chiunque prima di venire a loro volta abbattute.

Urlò, urlò con tutta la sua voce, e sull’orlo della pazzia prese a correre in ogni direzione, senza logica, mugolando versi incomprensibili mescolati a grida strazianti, mentre cercava a forza di graffi di strapparsi di dosso quelle scaglie, che pur avendo smesso di crescere le provocavano più dolore di una distesa di piastre arroventate.

Ben presto, la paura prese il sopravvento, rendendola sorda a qualunque altra cosa, compresa una luce abbagliante che da un istante all’altro le comparve davanti accecando quanto restava dei suoi occhi.

 

Sean non riusciva ancora a concepire quello che aveva fatto, e invece di dirigersi verso casa come avrebbe voluto aveva finito per svoltare all’incrocio sbagliato, trovandosi a girovagare senza meta per le strade che costeggiavano il porto.

Il senso di tutto ciò gli sfuggiva ancora, e benché cercasse con tutto sé stesso di convincersi che quello che aveva fatto era servito a salvare la sua vita e la sua carriera quella era la prima volta che uccidere qualcuno gli provocava un simile turbamento d’animo.

Di certo non c’entrava il sentimento.

Anche se quel truffatore forse aveva finito per pensare il contrario, lui non aveva mai considerato Vick un amico, ma solo un tipo equivoco del quale fidarsi al bisogno, un male necessario insomma.

Ma se era davvero così, se l’amicizia non ci aveva niente a che fare, non riusciva a spiegarsi da dove venisse tutto quel rimorso.

Probabilmente la causa era alla radice.

Si era sempre reputato una persona onesta, e fino a pochi anni prima mai si sarebbe visto nelle fila dei corrotti, di quelli che prendevano soldi dalle corporazioni criminali o dai trafficanti per tenere le strade di periferia pulite e le attività criminali lontane dalla luce del sole in cambio di un occhio di riguardo davanti alla legge.

Nelle periferie tutto aveva un prezzo, inclusa la sicurezza, e lui aveva accettato di prendere la sua parte.

In fin dei conti era un discorso molto semplice. Quello che non si poteva contrastare lo si comprava, e chi si faceva comprare a sua volta comprava la certezza dell’immunità. Era come un cerchio senza fine, e una volta entratici si poteva uscirne solo con la prigione, o dentro una bara.

Bisognava farci l’abitudine ed accettarlo, e se solo Vick lo avesse capito, invece di correre dietro ai soldi come al solito, forse sarebbe rimasto vivo.

Il giorno dopo sarebbe tornato al museo, e con un po’ di fortuna avrebbe trovato anche la scheda originale nelle mani di qualche inserviente. Una volta distruttala tutto sarebbe finito, e la vita avrebbe ripreso a scorrere per il suo corso naturale.

Fatta pace con la coscienza, almeno per un po’, l’ispettore si risolse ad andarsene a casa, ma d’improvviso, dal nulla, una figura gli comparve davanti alla macchina emergendo dal muro di pioggia e costringendolo ad una improvvisa sterzata

Riuscì a fermarsi solo dopo essersi giocato il parafango contro la ringhiera che delimitava il marciapiede, e sceso dalla macchina si affrettò a sincerarsi delle condizioni di quell’aspirante suicida.

Ciò che vide lo lasciò sgomento.

A terra, riversa agonizzante sull’asfalto bagnato, c’era una ragazza, ben vestita ma in uno stato pietoso, il corpo ricoperto di orrendi crostoni, la bocca impiastrata di vomito e gli occhi completamente rigirati all’indietro.

Non l’aveva certamente investita, ma ciò non toglieva che stesse comunque molto male.

Una drogata sicuramente, merce neanche troppo rara in quella parte della città, ma di sicuro non una qualsiasi a giudicare dai costosi indumenti che portava.

Il problema erano quelle croste.

Sean si inginocchiò davanti a lei, passandovi sopra il suo comunicatore per fare un rapido check-up dall’esito impietoso, ma non drammatico come pensava. Era viva, ma la mutazione era già incominciata, e a meno di non fare qualcosa subito sarebbe stata irreversibile.

Per un attimo l’agente fu combattuto su cosa fare, perché sapeva che avvertendo i soccorsi gli avrebbero sicuramente chiesto di spiegare cosa ci facesse in un posto simile nel cuore della notte, ma poi la sua coscienza di poliziotto ebbe il sopravvento, e senza ulteriori esitazioni si mise in contatto con la centrale più vicina.

«Sono l’agente Sean Neeson. Quarta postazione, nono distretto. Serve subito un’ambulanza con unità disintossicante all’incrocio tra Caledonia Avenue e la quarta strada. Abbiamo un nove-uno in fase embrionale.»

«Qui centrale operativa» rispose una voce dall’altra parte. «I soccorsi arriveranno in cinque minuti».

 

L’ambasciatore Klose aveva atteso sua figlia fino ad oltre mezzanotte prima di risolversi ad andarsene a letto, mugugnando che quella sarebbe stata l’ultima bravata di Pam per un bel po’ di tempo.

Una telefonata tirò giù dal letto lui e la moglie nel cuore della notte, e per un attimo il cuore dell’uomo si fermò in petto quando riconobbe all’altro capo della linea la voce del suo amico dottor Borisov, primario di chirurgia del Columbus Hospital.

Per fortuna, tra le varie cose che Pam si era venduta per comprare la polvere non vi era il suo tesserino di riconoscimento dell’ambasciata, altrimenti sarebbe finita in qualche ospedale di quart’ordine, invece che nella migliore struttura sanitaria della città.

L’ambasciatore e sua moglie corsero come pazzi a bordo del primo taxi che riuscirono a trovare, e una volta all’ospedale vi trovarono anche Christofer, avvertito a sua volta durante una festa di addio al celibato di un amico.

«Dov’è tua sorella?» domandò Klose con un’espressione che suo figlio e sua moglie non gli avevano mai visto quando l’oggetto della discussione era sua figlia Pam

«È ancora in sala operatoria».

Grazie al cielo le condizioni di Pam erano apparse meno gravi di quanto inizialmente pensato, e al termine di un lungo intervento di disintossicazione era stata dichiarata fuori pericolo.

Purtroppo però, le buone notizie finivano qui, e ce ne si accorse nel momento in cui, ripresa conoscenza, Pam non riuscì a riconoscere né sua madre né suo fratello, dimostrando oltretutto un livello cognitivo e comportamentale più simile a quello di una bambina che di una diciottenne.

Il dottor Borisov prese da parte l’ambasciatore chiamandolo fuori dalla stanza.

«La droga non ha intaccato l’M-Code, ma dei danni li ha comunque fatti.»

«Di che stai parlando, Ivan?»

«Per poterla salvare, siamo stati costretti ad eseguire un drenaggio massiccio, ma le particelle nocive nel frattempo hanno danneggiato la corteccia cerebrale. È probabile che non ricorderà nulla di quanto accaduto, ma questo sarà il minimo.»

«Che vuoi dire?» domandò l’ambasciatore

«Ho già avuto a che fare con contaminazioni di questo tipo. Penso di poter escludere danni cerebrali significativi, ma abbiamo rilevato una sorta di regressione cognitiva provocata dai danni alle attività cerebrali.

È come se il suo cervello fosse tornato indietro ad un’età infantile».

L’ambasciatore si passò una mano sul volto, e volse un momento lo sguardo verso la parete vetrata che separava la stanza dal corridoio. Pam era ancora sul letto, assieme a Chistofer e a sua madre, intenta a colorare un album regalatole da alcune infermiere.

«E sarà…» mormorò con un filo di voce. «Irreversibile?»

«È del tutto soggettivo. Certo, la sua predisposizione alla magia fa propendere per l’ottimismo. La sua mente potrebbe tornare quella di prima da un momento all’altro. Oppure potrebbe ricominciare tutto daccapo, e con un po’ di pazienta età del corpo e della mente potrebbero tornare in pari.» quindi il dottore sospirò, facendosi scuro in volto «O potrebbe restare così a vita».

Di nuovo, l’ambasciatore guardò in basso, sull’orlo delle lacrime.

Solo in quel momento comprese veramente la portata dell’errore che aveva commesso, e maledì la sua incapacità come capofamiglia e come padre.

Aveva sbagliato tutto con quella ragazza, e ora entrambi ne pagavano le conseguenze.

Ma ormai piangere sul latte versato era inutile. Il passato non si poteva cambiare, neanche con tutta la magia ed il sapere del mondo. Tutto quello che poteva fare era cercare di recuperare il tempo e la figlia perduti, anche a costo di sacrificare molte altre cose, incluso il suo lavoro.

«Grazie.» disse cercando di farsi forza «Sei sempre un amico».

Cercando di guardare al futuro con più ottimismo possibile l’ambasciatore entrò nella stanza, offrendosi di dare il cambio alla moglie e al figlio nel tenere d’occhio Pam mentre loro andavano a prendere un caffè, quindi, rimasto solo con la figlia, andò a sedersi al suo fianco vicino al letto.

Guardandola sorridere, sentì qualcosa svegliarsi nel suo cuore.

L’ultima volta che l’aveva vista ridere e divertirsi in quel modo non riusciva neanche più a ricordarla; forse perché era passato troppo tempo, o forse perché non se n’era mai accorto.

«Signore, le piace?» domandò la ragazza mostrando al padre il giardino fiorito che aveva appena finito di colorare.

Lui sorrise, guardandola dolcemente e passandole una mano nei capelli.

«È bellissimo».

 

Jason si ritrovò ad un certo punto a camminare da solo per le strade di Kyrador, al buio, con la pioggia che cadeva incessantemente infradiciandogli i capelli ed appiccicandogli i vestiti alla pelle.

Forse aveva passato la misura.

Se n’era andato perché non voleva rivivere quanto già successo tre anni prima a suo fratello, ma a ben pensarci in fin dei conti non aveva fatto altro che scappare, di nuovo.

Quando gli scrosci divennero troppo forti, il giovane andò a rifugiarsi al riparo del casotto di una fermata d’autobus, abbandonandosi sulla panchina di attesa con la mente da tutt’altra parte.

Pam aveva i suoi difetti, ma alla fine era solo una ragazza senza certezze schiacciata da qualcosa più grande di lei, che come Alex aveva cercato altrove quel rifugio che la famiglia non aveva saputo essere.

D’altra parte, però, Jason sentiva di non avere la forza per passarci un’altra volta, senza contare che non riusciva a spiegarsi come mai una ragazza conosciuta solo poche ore prima potesse dargli un tale tormento d’animo.

A capo chino, gli occhi piantati sul pavimento sporco e bagnato, contava con la mente le gocce che scivolando giù dai capelli bagnati ticchettavano per terra alla luce fioca di una lampada, mentre davanti lui, lungo la strada deserta, di tanto in tanto transitava qualche autobus; alcuni si fermavano, facendo scendere uno o due passeggeri, che preoccupati solo di tornare a casa quanto prima passavano accanto al giovane senza quasi accorgersi di lui.

«È raro incontrare qualcuno a quest’ora e a questa fermata.» sentì dire ad un certo punto

Il ragazzo alzò gli occhi: dinnanzi all’ingresso aperto del box era comparso un anziano signore, abiti semplici e sguardo gentile, più o meno riparato dalla pioggia sotto un ombrello che doveva sicuramente aver conosciuto tempi migliori.

«Aspetti un autobus?» domandò sedendosi accanto a lui

Lui non rispose, guadagnandosi un’occhiata perplessa, ma comunque amichevole.

«Questi temporali di fine primavera sono una vera seccatura. Ricordo che una volta, molti anni fa, ce ne furono tantissimi, uno dietro l’altro e tutti molto violenti, tanto che il fiume tracimò e la parte bassa della città si ritrovò sommersa per due interi giorni.

Le strade erano piene di gente che spalava, e c’era fango dappertutto. Persino la piazza dell’orologio era stata distrutta.»

Jason piegò le labbra in una espressione di rassegnazione mista a divertimento.

Sicuramente si riferiva alla Grande Alluvione del centosessantatre che aveva cancellato un intero quartiere costringendo le autorità a deviare sia il corso che la foce del fiume Rytumouth lontano dal centro della città, ma quel vecchio gli aveva dato subito l’idea di non starci tanto con la testa.

«Anche lei però mi sembra un po’ troppo anziano per girare di notte e con un simile tempaccio. Non ha paura che le venga qualche malanno?»

«Ragazzo mio, queste mie vecchie ossa ne hanno passate così tante che non sarà certo un po’ di pioggia ad incrinarle.»

Ma Jason aveva ben poca voglia di parlare, ed il suo improvvisato interlocutore non faticò ad accorgersene.

«C’è qualcosa che non va, figliolo?»

«Probabilmente nulla che lei possa capire. Con tutto il rispetto.»

«Mettimi alla prova. Potrei sorprenderti. Del resto, se c’è qualcosa che ci tormenta è sciocco tenerselo dentro.»

Jason non aveva la benché minima idea di chi fosse quel vecchio con l’espressione ebete, chiacchierone e anche un po’ invadente, eppure non riuscì a resistere all’impulso di parlare, riversando in poche parole tutta l’inquietudine e il senso di impotenza che in qualche modo si era sempre portato nell’animo, e che gli eventi di quella sera avevano in fondo solo contribuito a far riaffiorare.

L’anziano ascoltò, senza proferire parola, quasi il suo intento fosse appunto solo quello di dare al giovane un’occasione per sfogarsi.

«E me ne sono andato» concluse infine Jason. «Non ce la facevo a passarci un’altra volta. Non dopo quello che è accaduto a mio fratello.

Io capisco Pam, anche se non posso dire di sapere sul serio quello che sta passando, ma d’altra parte l’idea di dover rivivere un’altra volta quel tormento mi fa tremare le gambe.»

«Io purtroppo non posso dire di conoscere le persone come conosco questa città,» disse l’anziano dopo un lungo silenzio. «Ma in fin dei conti, Kyrador, come qualunque altra opera architettonica piccola o grande, è frutto del lavoro dell’uomo.

Quindi, in qualche modo, è come se ne rispecchiasse la personalità.

Ci sono tante luci, ma anche tante ombre. La maggior parte delle persone che vivono circondate dalla luce vogliono credere che la loro realtà sia universale, e scelgono di ignorare il buio che si annida oltre la siepe delle loro convinzioni.

Forse hanno paura, o forse non vogliono distruggere quel sogno di quiete in cui vivono, anche a costo di sapere, nel profondo del cuore, che si tratta appunto solo di un’illusione.

Ma di una cosa sono certo. Non lo fanno per cattiveria, né per cinismo.»

«La città… sarebbe come le persone!?» disse stupito Jason

«Una città è forse la cosa materiale più vicina alla natura della mente umana. Ci sono gioie, dolori, sogni, incubi, speranze, illusioni. L’Uomo è speciale perché è poliedrico, e racchiude al suo interno entrambe le facce dell’esistenza. L’infinita complessità della sua mente può portarlo a raggiungere i più incredibili traguardi come spingerlo alle azioni più abominevoli.»

L’anziano alzò gli occhi ad osservare le gocce di pioggia che tamburellavano sulla superficie trasparente del casotto.

«Chi vive nella luce ha paura di guardare l’oscurità, soprattutto se l’ha già conosciuta. Ma è solo accettando e comprendendo il dualismo insito in ogni cosa che si può arrivare ad avere piena coscienza dell’infinita complessità dell’essere umano, ed eventualmente anche le ragioni che talvolta lo portano ad agire in modo sbagliato» quindi il vecchio intercettò lo sguardo di Jason, trafiggendogli l’animo. «Senza contare che chi ha il coraggio di guardare nel buio quasi sempre è anche colui che riesce a combatterlo.»

Jason sussultò, spalancando leggermente la bocca.

«Avere la forza di guardare nel buio con la convinzione di poter aiutare chi si trova al suo interno e vorrebbe uscirne, anche se non lo sa.

Questa è la maggior prova di forza che un essere umano possa dimostrare.»

Quelle parole risuonavano come le trombe del giudizio, martellando la mente di Jake senza tregua.

Forse quel vecchio svitato aveva ragione: forse cercare di salvare Pam, o quantomeno starle vicino, era l’unico modo per mettere a tacere quella coscienza che lo tormentava ogni qualvolta ripensava a suo fratello.

Ma non c’era solo quello a turbarlo, e l’anziano ne sembrava consapevole.

«Il fatto è che non posso fare a meno di pensare che quella ragazzina viziata in fin dei conti ha ragione.

Io sono solo un fallito. Ho fallito con mio fratello, ho fallito venendo in questa città. Ho fallito in ogni cosa.

E ora sono ridotto così. Mi trascino ogni singolo giorno come un cane bastonato aspettando la sera, in un circolo vizioso che si ripete all’infinito.

E dire che quando sono arrivato qui mi sentivo così carico, così pieno di energia e di aspirazioni.

Mi avevano detto che qui a Kyrador tutti i sogni potevano diventare realtà, ma il mio è andato a sbattere contro il muro di pietra della realtà.

Mi domando se persino in un mondo come questo valga ancora la pena di sognare.»

«Credimi, ne vale la pena. Soprattutto qui.»

Di nuovo, il giovane trasalì.

«Lo hai detto tu. Questa è la terra dei sogni. Piccole o grandi, semplici o sterminate, tutte le ambizioni in questo luogo hanno il potere di mutarsi in realtà.

E a chiunque dimostri di possedere la forza e la determinazione necessarie per andare avanti affrontando ogni sorta di avversità, Kyrador concede sempre l’occasione di realizzare i propri sogni. Il tutto è saperla cogliere quando si presenta.»

«Il problema è proprio questo. Non sono più sicuro di avere la forza per lottare.»

«Allora, neanche Kyrador di aiuterà. Lei premia solo chi persevera e non si arrende, o anche solo chi nonostante tutto ha ancora la forza di credere nella sua magia. Perché a seconda che si combatta con più o meno forza, è il fatto stesso di credere in lei a generare la magia.»

Jason girò lentamente la testa, ed i due si guardarono nuovamente negli occhi.

«Credi, ragazzo. Credi in te stesso e credi in Kyrador. E lei ti premierà.»

In quel momento un altro autobus si fermò davanti al casotto, lasciando scendere una coppietta di ritorno da una serata di piacere.

«È la tua linea?» domandò il vecchio senza guardare né Jason né il mezzo

«Sì…» rispose il ragazzo con un filo di voce

In realtà non sapeva neppure di che linea si trattasse, ma un attimo dopo era comunque a bordo, seduto in ultima fila; il tormento che gli si agitava in petto era tutt’altro che scomparso, eppure in qualche modo sembrava essersi alleggerito, benché quel turbinio di emozioni e pensieri riuscisse ancora a togliergli concentrazione rendendolo incapace di pensare lucidamente.

Stette ad osservare il volto, sorridente ed insieme severo, di quello strambo vecchio fino a che l’autobus non si fu rimesso in moto, e fatta meno di una decina di metri, volle girarsi un’ultima volta, ma fattolo si avvide, non senza una certa sorpresa, che nel casotto non c’era più nessuno, a parte un vecchio ombrello chiuso malamente che grondava acqua appoggiato sulla panchina.

 

Lee fu costretto a svegliarsi molto presto, prima ancora del sorgere del sole, per l’ennesimo viaggio di lavoro.

Fu sorpreso di non trovare Sandy al suo fianco, ma lo fu ancora di più quando, uscito dalla doccia, la incontrò in cucina, intenta a preparare la colazione e un cestino da viaggio.

«Che ci fai in piedi a quest’ora?»

«Ho pensato di farti una sorpresa. Dopotutto sarà un viaggio lungo, e la roba che propinano nei vagoni ristoranti è una tale porcheria».

Lee sorrise. Ogni volta che la guardava rimaneva sorpreso da quanto la amasse. Stare lontano da lei e dalla sua adorabile figlia era un tormento, e pregava che prima o poi venisse per lui il momento di raggiungere quel traguardo che inseguiva da così tanto tempo.

Mentre aspettava che le uova finissero di cuocere si sedette, e per caso l’occhio gli cadde su di una scheda di memoria appoggiata in un angolo del tavolo.

«E questa?»

«Già, mi sono dimenticata di dirtelo ieri sera. Ally l’ha trovata ieri durante la gita. Qualcuno deve averla persa, e andando via lei si è dimenticata di consegnarla a qualcuno. Oggi la accompagno a scuola e poi passerò a restituirla».

Più per curiosità che per altro Lee provò ad inserirla nel suo comunicatore, ma come fiumi di nomi, numeri ed immagini presero a scorrere davanti ai suoi occhi la sua espressione si caricò di stupore, unito ad un senso di sdegnata incredulità.

«Oh, mio Dio…» mormorò esterrefatto.

«Che succede?» gli chiese stranita la moglie

«Dove hai detto che l’ha trovato?»

«Al museo. Dentro la replica della nave coloniale».

Lee non si fidava interamente di nessuno al ministero della giustizia o nel corpo di polizia cittadino, e ciò che aveva appena visto fece calare ancora di più il suo livello di stima nei confronti di quella gente, così chiamò l’unica persona che conosceva che sapeva essere al di sopra di ogni sospetto in quanto a rettitudine.

«Procuratore Griffith? Scusi l’ora inappropriata, ma avrei bisogno di parlarle. È molto urgente».

 

Jason non riusciva a togliersi dalla testa le parole del vecchio, che a distanza di ore continuavano a risuonargli nelle orecchie.

L’autobus dove era salito lo aveva scaricato a due miglia da casa, distanza che alla fine aveva percorso a piedi, lo sguardo piantato a terra e l’espressione spenta.

Non era sicuro di poter davvero cambiare il destino che Kyrador non sembrava volerlo aiutare a cambiare, ma almeno per quanto riguardava Pam una decisione l’aveva presa.

Si convinse a ritrovarla.

Almeno lei non voleva perderla. Voleva fare qualcosa di giusto nella sua vita.

Con questo pensiero in testa si risolse infine a tornare verso casa, un appartamentino piccolo e umile al secondo piano di una palazzina che stava quasi sotto il Rainbow Bridge.

Aveva giusto il tempo di farsi una veloce dormita prima di prendere servizio al museo, e finito il turno sarebbe andato a cercare Pam all’ambasciata di Fhirland nel tentativo di farla ragionare, e convincerla a smettere con quell’esistenza pericolosa.

Stava quasi per infilare la chiave nella serratura, quando un rumore di sassi calpestati gli fece girare lo sguardo, e grande fu il suo stupore quando vide camminare nella sua direzione il biondino che aveva umiliato alla sala giochi, sorridente e sicuro di sé come qualcuno che sente di avere tutto sotto controllo.

«Ce ne hai messo di tempo. Lo sai quante ore sono che ti aspetto?»

«Che vuoi?» domandò il ragazzo, che non aveva né tempo né voglia di intavolare una discussione, o peggio ancora una rissa

«Ho chiesto di te alla sala giochi, e mi hanno detto dove abitavi. Jason, giusto?»

«Mi spiace, non concedo autografi. Ripassa più tardi.»

«Molto spiritoso. Cos’è, ti è bastato vincere un incontro per crederti chissà chi? Quello per me era solo riscaldamento.»

«Se hai finito, vorrei andare a letto. A differenza di te, io ho un lavoro, e mi piacerebbe andarci con qualche ora di sonno sulle spalle.»

«Incredibile. Ancora non mi hai riconosciuto?»

«Cosa!?»

Il biondino sorrise di nuovo, quindi mise una mano nel taschino del gilè, prendendone fuori un articolo di giornale scaricato sul suo comunicatore che mostrò a Jason, il quale solo a quel punto riconobbe la persona che aveva davanti.

«Owen Clark» esclamò ad occhi sbarrati. «Il capitano dei Vivid

«Alla buon’ora. È dura trovare qualcuno che non mi riconosca appena mi vede. Il lato spiacevole dell’essere i campioni regionali in carica della categoria a squadre.»

«Sfortunatamente» rispose Jason abbozzando un sorriso imbarazzato. «Io tifavo per quegli altri».

Owen rise alla battuta, per poi farsi serio.

«Sei in gamba. Mi sei piaciuto per come combatti. Sei sfrontato e imprevedibile. Non hai paura di prendere di petto chi ti è apparentemente superiore, una qualità rara nel chandra professionistico.

L’anno prossimo i Vivid parteciperanno alle selezioni nazionali per le olimpiadi di Eyban del 355, ma immagino che lo saprai già. Contavamo di andarci tutti insieme, ma il caso ha voluto che due dei nostri non abbiano saputo resistere al richiamo dei combattimenti in solitaria».

Quindi, fu il momento della proposta che Jason aveva atteso tutta la vita.

«Ora alla squadra mancano un tiratore scelto e un combattente. Il tiratore credo di averlo già trovato, mentre per il combattente, mi domandavo se fossi interessato».

Jason sentì un nodo allo stomaco, e le chiavi gli scivolarono di mano.

«Bene inteso, non sarà facile. Ci sono altri quattro potenziali sostituti, e solo alla vigilia delle selezioni sceglieremo il fortunato. Dovrai sudartelo questo posto, ma se continuerai a mostrare le stesse qualità di ieri sera, confido che avrai buone possibilità di entrare in squadra».

Era come un sogno. Non poteva crederci.

Allora, non era solo una favola.

Quella città aveva davvero il potere di fare avverare i sogni. Era davvero la terra in cui tutto era concesso, dove chiunque poteva arrivare al traguardo tanto sognato.

L’aveva denigrata, rimproverata, rinnegata per tutte le delusioni che gli aveva dato, ma ora che finalmente aveva fatto cadere su di lui la sua benedizione, Jason la sentì come la cosa più bella del mondo.

Il suo inferno fattosi paradiso.

Una violenta esplosione di energia deflagrò dentro di lui, e senza sapere perché si mise a correre, seguito con gli occhi da un sorridente Owen, che allo stesso modo aveva conosciuto Kyrador prima come un inferno, e poi, con il tempo, come un paradiso, e che quindi poteva capire i sentimenti sbocciati davanti ai suoi occhi nel cuore di quel ragazzo.

Jason corse, corse come non mai, inerpicandosi su per il viadotto e quindi lungo Rainbow Bridge, alla ricerca di un modo per fare uscire tutta quella energia che minacciava di scoppiargli nelle vene. Ogni altro pensiero era sparito, pensava solo a correre.

Nel mentre, il sole iniziava la sua ascesa nel cielo, benedicendo Kyrador con la sua luce e dando inizio ad un nuovo giorno per la più bella città di Celestis, la terra dove i sogni diventano realtà, e dove tutto può succedere.

Raggiunta Harris Island Jason continuò a correre, sempre più veloce, e raggiunta la statua dell’esploratore vi si arrampicò come un ragno, giusto in tempo per veder comparire la prima fetta di sole da dietro l’imponente cintura dei palazzi del centro, quell’eremo di felicità e di perfetta utopia che per lungo tempo aveva osservato da lontano, ma che ora di colpo gli pareva un po’ più vicino, alla sua portata.

«Io ti amo, Kyrador!» urlò a pieni polmoni.

 

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