Hamlet Vittoriano

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** St Jerome ***
Capitolo 2: *** Il nostro Diavolo ***
Capitolo 3: *** Barrymore offre un te' ***
Capitolo 4: *** Questa sera alle 20.30 ***
Capitolo 5: *** L'ordine delle cose ***



Capitolo 1
*** St Jerome ***


Prologo - St Jerome



HAMLET VITTORIANO

"I could be bounded in a nutshell, and count myself a king of infinite space."

Amleto: atto II, scena II





[Si ringrazi la GiudiciA per i bellissimi banner] Mi rendo conto che è da parecchio che non pubblico qualcosa, per cui mi sono messa al lavoro e ho sfornato questa breve storia. Si tratta di cinque capitoletti in tutto, prologo ed epilogo compresi. Avrei voluto ampliare un poco, ma ho preferito limitarmi per comodità. Quest'originale si è guadagnata il primo posto nel Contest "Sangue e Pazzia", indetto da Yuko Chan. Grazie.
E devo ammetterlo, è la prima volta che tratto il genere. Nonostante tutto, considerazioni critiche positive o negative saranno sempre ben accette. Per scrivere di questa vicenda, ho dovuto fare qualche ricerca circa l'ambientazione e i costumi; se tra di voi c'è  un appassionato e profondo conoscitore dell'Inghilterra di fine Ottocento, chiedo scusa per eventuali discrepanze.
Infine, ultima cosa. I cosiddetti "easter eggs" sono degli elementi per lo più nascosti, dichiaramente impliciti. Ebbene, questa storia è un giallo, credo. E forse, dico, forse ho sparso qualcosa fra le righe. Indizi, fili di Arianna. A voi la scelta se indagare o meno. Per quanto mi riguarda, alla fine svelerò tutte le piccole curiosità e coincidenze che mi sono divertita a nascondere.
Buona lettura <3



* * *


PROLOGO:
ST JEROME



    «Padre, ho peccato.»
    Nel confessionale, padre Wilfred si riscosse. Benché annunciate dal debole scricchiolio dell’inginocchiatoio, quelle parole l’avevano colto di sorpresa. Fino a pochi istanti prima credeva che più nessuno avrebbe messo piede in quell’umile chiesa poco lontana da Londra: il sole aveva già cominciato ad abbassarsi dietro il piccolo campanile di St Jerome, lasciando così che le prime ombre del tramonto si allungassero sulle vie come tante mani di demoni, e, poteva giurarci, i diffidenti abitanti di quell’angolo di mondo si affrettavano a chiudere i loro negozi e a rientrare svelti a casa. L’avrebbe fatto anche lui, se solo la sua intenzione non fosse stata schiaffata sul nascere da quel penitente dell’ultimo minuto. Strinse un poco il crocifisso che teneva in grembo e, nella semioscurità del confessionale, girò lo sguardo.
    La voce era arrivata da destra. A parlare era stato un uomo, di cui poteva indovinare solo il colore dei capelli, di una tonalità scura come caffè macinato. La grata di legno che li divideva lasciava intravedere troppo poco, com’era giusto che fosse. Padre Wilfred aveva imparato a convivere con il fitto schema delle pareti dei confessionali e già da anni aveva smesso di cercare d’indovinare chi s’inginocchiava dall’altra parte. I penitenti, si diceva spesso, avevano poi tutti lo stesso volto; quello di una creatura umana che si poneva anima e corpo nelle mani di Dio.
    «In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti», recitò, in tono stanco ma benevolo. Il tono di un padre paziente, quarantatre anni sulle spalle, in eterno dialogo con Nostro Signore. «Confessa i tuoi peccati, figliolo, e il nostro buon Dio poserà la sua mano clemente su di te.»
    «Ho ucciso un mio fratello», venne dall’altra parte. E poi, dopo ancora un momento, stavolta con la voce distorta da un brivido: «Ho ucciso un uomo, padre.»
    Il parroco si sentì formicolare la base della nuca e le sue dita, in cui era morbidamente adagiato il crocifisso, si strinsero con più fermezza, obbedendo al fremito che gli aveva passato la coscienza da parte a parte. L’impressione era quella di un gelo ora tangibile, affilato come spilli di ferro. Vero, la clemenza era destinata a chiunque, ma mai, mai aveva creduto che un giorno avrebbe ascoltato una confessione simile. Fuori, oltre la grata, il penitente aprì di nuovo bocca.
    «Padre. Mi avete sentito?»
    Ora c’era un velo di supplica, in quella voce. Pareva la domanda di un ragazzino spaurito che, dopo una marachella, si consegna a testa bassa sotto gli occhi torvi e accigliati del genitore. Il paragone costò a padre Wilfred la stessa, inquietante sensazione di un’unghia che percorreva sinuosa la sua spina dorsale, gioendo del brividi che s’infilavano rapidi nelle ossa. Oh Dio, pensò. Buon Dio.
    «Vi prego», si sentì dall’altra parte, dietro la griglia di legno, dietro quel contorto gioco di asticelle che nascondeva il suo volto. Era quasi un pigolio, ora, come se le labbra gli tremassero in modo incontrollabile. Labbra forse umide, sotto guance umide, sotto occhi umidi. «Oh, vi prego. Io posso spiegarvi. Il Diavolo si è servito della mia mano. Vi prego, padre, vi scongiuro. Salvatemi.»
    Gli assassini non entravano nelle chiese. Non passavano tra le panche, non s’inginocchiavano con cristiana sofferenza accanto ad un confessionale occupato. Soprattutto, i veri assassini non si pentivano. Eppure era ciò che quell’uomo stava facendo, mormorando la sua peccaminosa mancanza in un luogo tanto sacro e caro a Dio. Wilfred, immobile nella penombra come una criminale braccato, deglutì cercando di fare meno rumore possibile e girò di nuovo gli occhi quando scorse, attraverso i piccoli fori squadrati, che l’uomo si era mosso.
    «Lasciatemi vedere il vostro volto», stava dicendo. «Lasciatemi vedere gli occhi dell’uomo a cui dovrò la mia salvezza. Se solo usciste... se solo io potessi vedervi, potremmo sedere insieme. Potrei mostrarvi perché questa mano è stata maledetta», e il parroco vide, sollevata contro la griglia, la mano di cui parlava. Tremava convulsamente contro il legno, tanto che i brividi riuscivano a scuotere le dita. Dita lunghe, affusolate. Le dita di un artista. «Oh, vi prego. Uscite, padre. Uscite e salvatemi. Io voglio essere salvato.»
    La mano si era mossa. Era scivolata oltre la griglia, fuori dal suo campo visivo, diretta alla piccola maniglia intarsiata del confessionale. Quella sola constatazione bastò a schizzare adrenalina e panico nelle vene di padre Wilfred, che sembrò riscuotersi di colpo.
    «Non aprite, per Dio! Non aprite!»
    «Siate generoso», diceva l’uomo. Ora singhiozzava. La sua mano non c’era più, già scivolata alla porticina. «Siate caritatevole. Uscite. Salvatemi.»
    «Non...!» Il sangue gli era salito alle tempie. Pulsava dolosamente. Fece per precipitarsi contro la porticina, tentò di afferrare e bloccare la maniglia dall’interno.
    Troppo tardi.







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Capitolo 2
*** Il nostro Diavolo ***


SECONDO







CAPITOLO PRIMO:
IL NOSTRO DIAVOLO




(Cinque giorni prima)

    Togliendosi il cappello, Jonathan Barrymore alzò gli occhi sulla facciata della palazzina. Il suo era uno sguardo particolare, di un insolito e non ben definito colore tra il verde e il nocciola. Per via dalla sottile insofferenza che pareva trasmettere, chiunque, almeno di prima battuta, avrebbe trovato la sua compagnia quasi sgradevole; buffo, se si teneva in conto che questa prima impressione si rivelava poi vera nella gran parte dei casi. In pochi avevano il coraggio di trovare simpatico un uomo come lui, dall’espressione quasi sempre accigliata e dai modi inspiegabilmente bruschi. Alcuni si spingevano persino a chiedersi come mai di mestiere facesse l’investigatore quando la sua faccia somigliava più a quella di un taciturno omicida seriale. Era una considerazione che passava sotto silenzio, ma che ben si leggeva nelle pupille di chi stava a guardarlo. Come in quel momento, quando si accorse che un giovane poliziotto aveva sceso i gradini che salivano all’ingresso e gli stava venendo incontro, timidamente, quasi con diffidenza. Osservandolo, notò le sue guance accese, gli occhi ansiosi e il suo respiro salire nell’aria umida sottoforma di condensa. Poi notò che era anche pallido e allora capì che al primo piano della palazzina c’era davvero qualcosa di interessante da vedere.
    Si avvicinò a sua volta, si scambiarono poche parole. Attorno, in quella strada di ciottoli solitamente affollata di carrozze e signore a passeggio, si era radunata una modesta folla di curiosi. Alcuni agenti erano impegnati a tenere alla larga una piccola pattuglia di giornalisti, pochi audaci che allungavano il collo per sbirciare verso la palazzina. Lavoravano per l’Inquisitor, indovinò Barrymore con una piccola vena di fastidio, gettando loro uno sguardo mentre saliva i gradini dietro al poliziotto. Era facile riconoscerli, con quella loro proverbiale impazienza e quei cravattini tagliati col righello. Anche per questo, per la voglia di sottrarsi alle loro domande, entrare e lasciarsi alle spalle l’umidità della strada fu oltremodo piacevole.
    L’interno non aveva nulla di eccezionale. Mentre saliva lo scalone dietro al giovane agente – Peter, si chiamava, e lo ricordò con la leggerezza di chi leggiucchia un appunto di poco conto -, si domandò perché mai un facoltoso uomo americano fosse approdato nel Vecchio Continente e si fosse sistemato in una palazzina così modesta. La vittima, gli avevano già detto, era un newyorkese. Lo domandò al poliziotto, che ora si infilava nel corridoio del primo piano, e lui si strinse nelle spalle:
    «Signore, state parlando di un americano.»
    La risposta aveva un suo perché. Si era alle porte del Ventesimo Secolo e gli americani, che fossero banchieri o pionieri dell’ingegneria e della finanza, si presentavano alle porte inglesi portandosi dietro le loro grandi idee da uomini migliori. Molti non si preoccupavano nemmeno di comprarsi una proprietà, così capitava che alloggiassero per qualche periodo in luoghi poco consoni al loro rispettabile grado di Invasori Col Dollaro. Era un’espressione che a Barrymore piaceva, tanto che finiva col sorridere ogni volta che ci pensava. Non fu così quel giorno, quando fece il suo ingresso nell’appartamento di Eugene T. Sullivan, cinquant’anni, modesto inventore arrivato solo due mesi prima da Brooklyn. Peter gli fece strada attraverso il salotto, dove altri agenti alzarono gli occhi su di loro con una sorta di calcolata insofferenza. Routine, sembravano dire i loro sguardi, eppure ogni espressione tradiva un sottile filo d’ansia, lo stesso grado di pallore che l’investigatore aveva scovato sulla faccia del suo docile accompagnatore.
    Peter si fermò di fianco all’arco che portava in una stanza adiacente. «L’abbiamo trovato così», disse. «Non abbiamo alzato un dito.»
    E una volta lì di fronte, Jonathan Barrymore capì perché. Reggeva ancora il capello in mano, ma se durante il tragitto aveva continuato a soppesarlo distrattamente, quasi convinto da un tic abitudinario, ora se ne dimenticò all’istante. Si fermò sulla soglia.
    Sì, interessante. Decisamente interessante.
    La stanza si era rivelata essere un ufficio, più lungo che largo. In linea con l’ingresso, a forse cinque o sei passi di distanza, si trovava la scrivania. Sullivan sedeva là dietro, riverso sull’alto schienale, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa inclinata su una spalla. Gli occhi azzurri sbarrati, la bocca semiaperta nel ghigno di un diavolo. Un colpo d’arma da fuoco gli aveva centrato la fronte e l’aveva passato da parte a parte, aprendo un ventaglio rosso sulla parete dietro di lui. Ma questo scenario poteva dirsi regolamentare se paragonato al resto. Con un brivido involontario, Barrymore rifletté che là dentro un geometra sarebbe stato più azzeccato di un investigatore.
    L’intera stanza, eccezion fatta per il soffitto, era stata incisa con pazienza chirurgica, sia in senso orizzontale che verticale. Le linee, nemmeno troppo sottili, percorrevano non solo le lucide assi di legno dei muri e il parquet, ma anche i mobili e la scrivania. Lo specchio aveva ricevuto lo stesso trattamento e la sua superficie era percorsa da fitti graffi che passavano oltre, scendevano e proseguivano poi sul pavimento, sempre dritti, sempre impeccabili. Laddove le incisioni incontravano la vittima, divenivano tagli da cui era sgorgato praticamente tutto il sangue che le vene di Sullivan contenevano. Era come se l’assassino, dopo avergli sparato quel colpo in testa, si fosse divertito a tracciare una griglia; come se avesse avuto la lucidità, la pazienza e il tempo di incidere ogni asse, ogni angolo, ogni cosa. Barrymore se lo vide, quell’uomo che aveva appena ucciso un altro uomo, mentre tracciava la prima incisione e pian piano si piegava, si inginocchiava per segnare anche l’angolo e poi cominciava a muoversi a carponi, all’indietro, segnando il pavimento con la stessa linea, senza mai staccare il suo strumento di lavoro finché non avesse raggiunto e inciso anche la parete opposta fin dove il suo braccio poteva alzarsi. Così per altre centinaia di righe, così anche sul corpo di quell’americano facoltoso sbarcato per presentare all’Inghilterra le sue invenzioni da Invasore Col Dollaro.
    No, non era divertente. Non c’era poi nulla di divertente nel pensiero che l’assassino aveva disegnato una griglia senza un motivo apparente. Tutta quella geometria era morbosa. Tutto, da quell’angolazione, pareva schiaffargli in faccia il gran sorriso di un uomo di spettacolo e il suo allegro: “Entrate, entrate! Questa sera ho preparato per voi uno spettacolo U-N-I-C-O!”. Barrymore si domandò se non fosse impallidito a sua volta come era stato per tutti gli agenti che ora parlottavano piano in salotto.
    Per quanto sulle prime non avesse avuto modo di farci caso, nell’ufficio non c’era solo Sullivan in compagnia della firma dell’assassino. Se ne accorse solo quando l’ispettore, che stava discutendo con due agenti vicino alla scrivania, notò la sua presenza e sventagliò la mano per liquidare i due giovanotti. Si avvicinò alla soglia a passo svelto.
    «Ce ne avete impiegato, di tempo, ad arrivare.»
    Jonathan spostò gli occhi su di lui. Non aveva mai provato troppa simpatia per quell’uomo basso e tarchiato, dalle movenze ben poco aggraziate, e lo consolava il fatto che il sentimento fosse corrisposto. A dire il vero, non era mai corso buon sangue fra lui e Paul McArthur.
    «Ispettore McArthur. In effetti mi domandavo perché mai mi aveste fatto chiamare.»
   «Solo per farvi dare un’occhiata.» Con una smorfia, McArthur allungò il braccio di fronte a sé come un prestigiatore che mostra il suo numero più audace. «E perché siete il migliore in casi come questi.»
    Barrymore lo osservò a sopracciglia alzate mentre cominciava a muoversi. L’ispettore, cogliendo il suo scetticismo e andandogli dietro, si schiarì la voce:
    «Intendevo, nei casi in cui abbiamo a che fare con un pazzo.»
    Qualcosa di quella geometria era cambiato. Ora che si era spostato dall’ingresso, le linee non parevano più così perfette. Eppure, più si spostava verso la scrivania, più la griglia sembrava riprendere qualcosa del suo iniziale fascino. Come se si stesse avvicinando all’angolatura migliore, a quella più giusta fra tutte. Al posto d’onore a teatro, pensò mentre riprendeva a soppesare il cappello.
    «Confido che gli americani non pretendano le indagini», disse spostando gli occhi attorno.
    «Se pensano di soffiarci il caso solo perché il poveretto è uno di loro, allora non conoscono Scotland Yard.»
    «Ci proveranno, fidatevi. Sono americani, quindi convinti che Dio sia americano a sua volta.» Barrymore si fermò su un fianco dalla scrivania. Il sangue sgorgato dai tagli sul corpo si era allargato a terra in un’ampia pozza lucida, riempiendo le incisioni che in quel punto segnavano il pavimento. Ora che si trovava lì, vide che la geometria della griglia aveva ritrovato la sua iniziale eloquenza. Per una breve frazione di secondo si sentì strizzare le viscere, complice la scomoda sensazione di essere proprio nel posto d’onore. Lì il palcoscenico era incredibilmente perfetto, più di quanto lo fosse se lo si osservava dall’ingresso. Non c’era una singola linea fuori posto. Era come guardare una superficie bidimensionale.
    «Eugene Thomas Sullivan era semplicemente un ospite della nostra bandiera», stava intanto replicando l’ispettore, il tono convinto da vivo patriottismo. «Quelli come lui sono sicuri che il secolo prossimo sarà americano. Peccato che, se anche fosse vero, manca ancora una decina d’anni al glorioso Novecento.»
    L’investigatore si voltò e dietro di sé trovò un piccolo armadio, le cui ante riprendevano lo schema della griglia. Un gioco del genere lo si poteva trovare su un paravento, oppure su un confessionale. Osservò il legno del mobile e lo trovò intatto. Nessuna incisione. Era l’unica cosa là dentro che non fosse stata segnata. Oh, mio caro aspirante geometra, pensò fra sé e sé. Questa me la dovrai spiegare.
    «Davvero credete che l’ambasciata americana si interesserà al caso?» chiese McArthur, con il tono di chi cambia argomento perché consapevole di aver annoiato l’interlocutore.
    Barrymore tornò a guardarlo e gli rifilò un breve sorriso. «Sapete cos’altro pensa un buon americano?»
    L’altro scosse il capo.
    «Che noi inglesi siamo buoni solo in materia di tè e patriottismo. Quindi dimostriamo che si sbagliano, mettiamoci al lavoro e scopriamo perché il nostro diavolo ha la passione per la geometria.» 
 

2

(Nel presente)

    Il ragazzo si chiamava Cecil Goldwine. Era un cognome singolare, aveva riconosciuto padre Wilfred, e il giovane si era limitato ad un: “Lo so. Me lo dicono in molti”, mentre si asciugava gli occhi. Dimostrava forse trent’anni, magari qualcosa in meno, ma il sacerdote non aveva avuto intenzione di perdersi in un dettaglio di così poco conto, tanto che nemmeno glielo aveva domandato. Conoscere vita, morte e miracoli di quell’uomo che aveva spalancato il confessionale non gli era nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Una volta aperto il piccolo uscio, il ragazzo si era semplicemente accasciato lì di fronte, le mani morbosamente aggrappate alla maniglia e il capo incassato fra le spalle. Stava davvero singhiozzando e Wilfred, a quella vista, aveva buttato nell’angolo l’idea che quell’uomo volesse aggredirlo. Quasi si vergognò al pensiero che solo pochi istanti prima lo aveva creduto una vera minaccia. Goldwine non era affatto una minaccia. E come poteva esserlo, come, se non era nemmeno stato in grado di rimettersi in piedi da solo?
    Così il sacerdote si era accostato, l’aveva aiutato a sollevarsi, gli aveva parlato con calma. Perché non andiamo a sederci?, era parso chiedere con lo sguardo, mentre accompagnava il giovane verso la fila di panche. Sediamoci, raccontami. Dimmi come puoi avere ucciso, tu che piangi davanti al confessionale di una chiesa.
    Si accomodarono alla prima panca di fronte all’altare. Il giovane si passò le mani sul volto per asciugarsi le guance, con una rabbia quasi sofferente. Gli tremavano le dita e Wilfred credeva che sarebbero trascorsi dei minuti prima che smettessero. Così fu, perché smisero di fremere solo dopo i convenevoli e la storia che Cecil Goldwine voleva raccontare. Il prete lo lasciò fare, senza intervenire, consapevole che non erano domande quel che cercava, ma risposte. Perse la cognizione del tempo e il violetto che filtrava dalle vetrate bastò a dirgli che il sole era ormai tramontato del tutto quando Goldwine trasse le conclusioni:
    «Le cose sono andate così. Io ho ucciso quell’uomo senza alzare un dito contro di lui, senza nemmeno averlo mai conosciuto. Questa, padre... questa è la prova.» 
    Indossava un cappotto scuro, forse un poco bistrattato, ma capace lo stesso di una saggia e polverosa eleganza. Il giovane uomo ne scostò un lembo e tuffò una mano nella grossa tasca interna. Quando la allungò verso Wilfred, tra le lunghe dita stringeva un piccolo fascicolo spiegazzato.
    Il sacerdote lo prese e lo aprì, portandosi sotto agli occhi la prima pagina. Goldwine gli aveva detto che la sua unica colpa era stata quella di scrivere una piccola tragedia famigliare, perché era il teatro la sua professione, e che l’omicidio di cinque giorni prima, reso noto dalla stampa in gran parte dei suoi dettagli, riprendeva passo per passo quel che aveva scritto. Ebbene, ora che Wilfred aveva quei fogli sotto agli occhi, si rese conto che effettivamente le due cose, fatto fittizio e fatto reale, non si limitavano ad una casuale e trascurabile somiglianza. Ci aveva sperato, in coscienza, che quel giovane uomo di palcoscenico fosse semplicemente matto o paranoico, e invece doveva ricredersi. Aveva letto dell’assassinio di quell’americano, così come conosceva a grandi linee, come quasi tutti i londinesi, quel che gli agenti avevano trovato. Scotland Yard aveva probabilmente cercato di far passare sotto silenzio il particolare più inquietante, ovvero quelle fitte righe orizzontali e verticali che disegnavano una griglia sull’intera scena del crimine, ma la stampa inglese era stata più astuta e nessuno aveva potuto evitare una fuga di notizie.
    E in quel momento, raccogliendo con gli occhi alcuni tratti della scena in cui Miles – questo il nome dell’assassino nella tragedia – uccideva il fratello George Patrick, si accorse di come le due cose corressero l’una parallela all’altra, come un malato, inquietante gioco di specchi. Miles sparava in fronte al povero George mentre questi sedeva alla scrivania, e l’americano era stato trovato morto nello stesso frangente; Miles agiva per denaro, come un vampiro partorito da un mondo vicino ad capitalismo, e George era ricco e prossimo a investire il suo denaro in un affare che il fratello non appoggiava. Il povero Sullivan, trovato morto cinque giorni prima, di soldi ne aveva effettivamente a bizzeffe. Coincidenza? E un momento, Wilfred ricordava persino la foto sul giornale, che ritraeva lo studio in cui era stato trovato il cadavere. Senza la vittima, certo. “Di fronte alla scena: quel che hanno trovato gli agenti”, recitava il commento appena più in basso. Se lo ricordava ancora, come se immagine e frase costituissero un pacchetto unico. E quello studio era incredibilmente simile, anzi assolutamente uguale alla descrizione del luogo in cui il fittizio Miles sparava allo sfortunato George Patrick.
    Mancava la griglia, questo sì. Ma poco importava alla luce del fatto che, di fronte a quelle righe, padre Wilfred avvertì un’incomoda sensazione di nausea stringergli lo stomaco. Per un attimo si domandò perché un giovane di bell’aspetto come Cecil Goldwine, all’apparenza così discreto e di buone maniere nel suo cappotto da umile gentiluomo, avesse deciso di scrivere di un omicidio; poi si rese conto che il silenzio fra loro era durato troppo e alzò gli occhi, reggendo ancora il fascicolo fra le mani.
    «Mi avete detto di lavorare per il teatro», fu in grado di dire.
    «È così, padre.»
    «Mi avete anche detto che siete solo un aspirante attore, un aspirante poeta e un aspirante uomo di cultura.»
    Questa volta Goldwine non rispose. Nei suoi occhi grigioverdi vibrava un sottile filo di perplessità. Aveva capito dove il suo interlocutore voleva arrivare. Wilfred tradusse il suo silenzio come un’affermazione e continuò, con lo stesso tono di voce. L’atteggiamento di chi conta le monetine scoperte nella tasca di una giacca inutilizzata da tempo. Un due più due facile facile.
    «Siete anche un aspirante assassino?»
    «Io non ho ucciso quell’uomo», scattò il giovane con una punta di impazienza, sottolineando ogni parola. Se qualche minuto prima era caduto in ginocchio davanti al confessionale, in lacrime come un ragazzino rimasto orfano da meno di tre secondi, ora la sua espressione si era fatta di ferro. «Ve l’ho detto, padre: quella tragedia è pura fantasia. Volevo cimentarmi nel genere drammatico e così ho fatto. Non ho alzato un solo dito contro quell’americano. Quando ho letto la notizia sui giornali, ho seriamente meditato di tagliarmi la mano. Perché quell’inchiostro l’ho messo io, sulla carta, e il Diavolo si è servito di questa storia per trasformare la finzione in sangue vivo.»
    Padre Wilfred lo osservò per qualche attimo da sotto le folte sopracciglia brizzolate. Riconosceva che le vicende costituivano un’inquietante coincidenza, ma non voleva nemmeno credere che il Diavolo c’entrasse qualcosa. L’epoca degli esorcismi era passata. Era stata una fortuna che Cecil Goldwine avesse raccontato quella storia a lui, che tutto era fuorché un fanatico religioso, e non ad un altro confessore.   
    «Io voglio credervi, Goldwine.»
    «Credete che sia stato il Diavolo? Non può essere altrimenti, padre. Vi prego, voglio essere salvato.»
    Oh, a quanto pare abbiamo sì un fanatico, e non sono io, pensò Wilfred, con una vena di sarcasmo per cui subito chiese perdono a Nostro Signore.
    «No, figliolo. Non credo che il Diavolo abbia qualcosa a che fare con questa storia. Nemmeno credo che dobbiate rivolgervi a me», spiegò con pazienza.
    Goldwine lo guardò. Tempo pochi secondi e aveva capito a cosa il sacerdote si stesse riferendo. «Non ho nulla da dire agli uomini di Scotland Yard. Io non ho nemmeno mai conosciuto quell’americano.»
    «Siete sicuro che nessun altro abbia letto questa vostra... opera?», domandò padre Wilfred, facendo per restituirgli il fascicolo. Chiamare “opera” un gruppetto di cinque fogli mai messi in scena era forse troppo, ma sapeva quanto gli artisti fossero suscettibili. «Ho notato che il lavoro non è stato concluso.»
    «Decisi di interrompere la stesura. Per moralità, direi.» Cecil prese il fascicolo e abbandonò le mani tra le gambe, prendendosi una pausa. Non era più sulle difensive e la sua voce aveva acquisito una nota più disponibile e riflessiva. «A suggerirmi la storia di fondo è stato un mio amico. Gran parte dei dettagli, come la descrizione fisica dei protagonisti e il loro carattere, è invece farina del mio sacco. Per questo sento di essere complice di un delitto a cui non ho invece preso parte. Fisicamente Sullivan e George Patrick sono molto simili. E quell’ufficio... Dio, l’ufficio.»
    «Questo vostro amico...», cominciò Wilfred, posando i gomiti sulle ginocchia e allungandosi un poco verso di lui. «Questo vostro amico, Cecil... Come si chiama?»
    Quando Goldwine alzò gli occhi, vide che il sacerdote si era fatto più vicino. Lo osservava con pazienza e morbida discrezione, con la cautela che si mostra di fronte ad un diffidente cucciolo di lupo. Si rese conto a che conclusione sarebbe giunto e il pensiero gli infilò dita ghiacciate in fondo alla coscienza.
    «No», disse, e scoprì di avere paura. «È mio amico, padre. Non farebbe mai una cosa simile.»
    Wilfred se ne accorse e gli posò una mano sulla spalla. «Se volete essere salvato... Se volete salvarlo, allora dovete dirmelo. È la sola pista che potrebbe consegnare il colpevole alla giustizia, degli uomini e di Dio.»
    Cecil Goldwine non riuscì a sostenere il suo sguardo. Chinò di nuovo il capo e, alzando un poco il mento, sbirciò l’altare di fronte. Così luminoso benché fosse sera, così imponente benché fosse modesto, così giusto benché lui stesse per mettersi in bocca un amaro, difficile tradimento.
    «Marcel August Redmayne», mormorò. «Si chiama Marcel.»



* * *


Non sono solita soffermarmi alla fine di ogni capitolo, forse perché son dell'idea che a destare curiosità debba essere il capitolo in sé, non certo il parere che un autore mette in coda ad ognuno. Per cui vi lascio alle vostre "indagini", miei cari :3
Essendo la prima volta che tratto il genere, come già scritto, mi farebbe però piacere ricevere dei commenti, positivi o negativi che siano. Alla prossima!

Dew_






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Capitolo 3
*** Barrymore offre un te' ***


Capitolo Secondo - Barrymore offre un te'





CAPITOLO SECONDO:
BARRYMORE OFFRE UN TE’
 

    Attirare l’attenzione non era certo il proposito di padre Wilfred. Aveva però da riconoscere che non era troppo usuale vedere un uomo di chiesa percorrere il portico di fronte alla caserma di Williamsburg Street, motivo per cui passò senza tanti convenevoli tra gli sguardi di quegli agenti fermi a chiacchierare tra una colonna e l’altra. Una volta nell’ingresso, il via vai delle persone che affollavano la saletta gli concesse un poco di tregua. Non che fosse agorafobico, ma doveva pur esistere una ragione che l’aveva spinto a chiudersi in preghiera con un confortante e onnipresente amico immaginario. Suo padre amava definirla “inadeguatezza sociale”. Il minimo dell’impegno, considerando che di professione era stato un avvocato sfortunato in modo quasi mistico.
    Ora che si trovava fra quattro mura, realizzò davvero quanto fuori l’umidità fosse ghiacciata. Lì alla luce del vecchio lampadario che illuminava le ombre frettolose di chi passava, l’aria dava almeno una parvenza di calore. Gli passò accanto una piccola donna con un fazzoletto premuto sulla bocca e sul naso, a passi così svelti che a malapena Wilfred si accorse che stava singhiozzando. Non riuscì a ritrovarla quando si volse per cercarla fra chi entrava e chi usciva dalla porta a due ante.
    «Posso aiutarvi, padre?»
    A porgergli la domanda era stato un agente più ragazzo che uomo. Si era avvicinato in silenzio, incuriosito dalla tonaca, e attendeva la risposta con altrettanta aspettativa.
    «Cerco un investigatore che lavora per questo distretto. Barrymore. Sono qui per il caso dell’americano». “L’americano”. Nome e cognome erano facoltativi, considerato che in quei giorni la cronaca londinese non parlava di altro. Per questo, quando l’agente lo osservò con una nota di perplessità, Wilfred capì che non era stato quello a stampargli in faccia quell’espressione. «Ho delle informazioni», aggiunse quindi, improvvisamente imbarazzato. «Informazioni importanti.»
    Il suo giovane interlocutore gli riservò un ultimo sguardo prima di fargli un cenno e invitarlo a seguirlo. «Da questa parte.»
    Ecco un altro motivo per cui Wilfred preferiva i confessionali. Gli costava una punta di sollievo sapere che altri non potevano osservare le sue espressioni e che soprattutto lui non poteva vedere quelle altrui. Quello che invece vide sul volto dell’agente prima che si voltasse fu un filo di sospetto, la diffidenza tipica e macinata di un Bobby1 qualsiasi che portava divisa, mantellina e cappello a cilindro. Preferì non commentare, seguirlo in silenzio attraverso la folla fino a salire un paio di gradini che portavano agli uffici.
    Le caserme erano forse i luoghi più affollati di quel quartiere. Uscire dalla calca di gente e salire su quel pianerottolo destinato a pochi eletti – questo almeno nelle sue interpretazioni inevitabilmente sacerdotali – gli valsero la sensazione di avere il collare bianco un poco più allentato. Si infilarono in un corridoio sottile, dalle pareti scrostate alle basi, in cui passavano a malapena due persone affiancate. C’era qualche foglio a terra, ma l’agente sembrava non farci caso. Si fermò due volte, una per chiedere ad un collega di passaggio se Barrymore era nell’ufficio, l’altra per bussare e poi scostare l’uscio della loro meta.
    La stanzetta era piuttosto stretta, arredata del minimo indispensabile, ma giusta per l’uomo che alzò gli occhi da dietro la scrivania. Nell’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono, Wilfred decise che Jonathan Barrymore non gli piaceva; poi si ricordò che i preconcetti non erano moralmente giusti e dedicò una silenziosa penitenza al suo Credo. La realtà era che anche l’investigatore sembrò avere lo stesso parere sul conto di quell’inatteso ed inusuale ospite: le sue pupille si mossero guardinghe lungo la sua figura docile, inquadrando gli elementi che lo etichettavano come prete, poi ascoltò l’agente. Infine, il verdetto:
    «Per l’americano. Va bene, Peter. Lasciaci.»
    Peter era piuttosto magro per la sua statura. Per questo non ebbe problemi a scivolare dietro a Wilfred il necessario per aprire di nuovo la porta ed uscire senza che il sacerdote avesse bisogno di muovere anche solo un muscolo.
    «Perdonate il silenzio di poco fa», disse a quel punto l’investigatore, alzandosi solo quando l’uscio fu di nuovo chiuso. Il suo sorriso aveva un che di professionale, tanto da parere a suo modo sgradevole. «Ho una certa esperienza, ma ammetto che è la prima volta che un uomo di chiesa chiede di parlarmi per un omicidio. Avvicinatevi, prego. E sedete, sedete pure qui di fronte.»
    Wilfred lo assecondò, stringendo la mano che Barrymore gli allungò da dietro il tavolo: «Padre Wilfred, di St. Jerome.»
    «Ah, quella chiesa deliziosa», fu il commento disinteressato dell’altro mentre si riaccomodava e metteva da parte alcuni fogli. «Mia sorella ha desiderato sposarsi proprio lì.»
    Il sacerdote stirò un sorriso reso poco convincente da una punta d’ansia. Barrymore, vuoi per carattere, vuoi per mestiere, se ne accorse:
    «Conoscevate Sullivan?»
    «No. Non ho certo conoscenze così influenti: il mio compito è quello di raccogliere le confessioni dei figli di Nostro Signore. Proprio per una di queste sono qui.»
    «Credevo che esistesse l’obbligo del silenzio, in questi casi.» Il tono dell’investigatore tradì un velo di sarcasmo.
    «Esiste, e per questo non farò il nome di chi mi ha confessato quanto vi voglio dire.»
    «Riguarda il caso?»
    «È il caso, investigatore Barrymore.»
    Se prima quell’uomo gli ispirava un malcelato disinteresse, ora si accorse d’aver ottenuto tutta la sua attenzione. Barrymore lo osservò in silenzio, gli occhi verde nocciola sicuramente più espressivi. Fu allora che padre Wilfred prese le redini del discorso e gli raccontò quanto accaduto il giorno prima, omettendo come preannunciato l’identità di chi gliene aveva parlato e descrivendogli la versione secondo cui l’omicidio di Sullivan avesse inspiegabilmente preso vita da un’opera teatrale peraltro mai messa in scena.
    «Marcel Redmayne», concluse. «Questo è il ragazzo che pare aver aiutato il mio anonimo a stendere la tragedia.»
    L’investigatore se n’era rimasto tutto il tempo con un gomito sul tavolo, dedicando il suo interesse sia a Wilfred che alla penna stilografica che mordicchiava con inconsapevole passione. La sua postura, se pochi minuti prima si sarebbe detta corretta e quasi signorile, si era ora rilassata in un portamento un po’ più grezzo. Afflosciata su un fianco, forse. Con tutta probabilità, se sono le voglie terrene a fare di un uomo l’ombra di se stesso, Barrymore doveva imputare all’ardore per il mistero il suo cambiamento da rigido professionista a provinciale a trascurato inetto. La suspense lo incollò al silenzio per ancora qualche momento, prima che si riscuotesse d’improvviso e si rimettesse ben comodo contro lo schienale.
    «Non avete con voi una copia di questo... di quest’opera?» fu la prima domanda che gli salì alle labbra.
    «No. Il mio anonimo non ha voluto lasciarmela.»
    «Ma sapeva che voi sareste venuto a raccontare tutto quanto. Avete letto sul giornale che ero io ad occuparmi del caso ed avete quindi chiesto di me.»
    Non era una domanda.
    «Esatto», confermò padre Wilfred, sentendosi nello scomodo ruolo dell’imputato.
    «E lui ve lo ha permesso?»
    «Sì. Mi ha detto che non si sarebbe mai presentato qui di persona. È convinto di aver ucciso lui quell’uomo, pertanto teme di essere arrestato.»
    Barrymore alzò le sopracciglia in un rapido gesto di assenso che parve a modo suo piuttosto sarcastico. «Già. Giustificabile.»
    «Per questo mi ha domandato di chiedervi se esiste la possibilità di combinare un incontro in altra sede, così che lui possa dirvi quello che sa e quello che ha scritto. Senza essere trattato da omicida, ovvio.»
    «Dove non ci siano agenti».
    «Sì.»
    «Dove non ci siano, allarghiamo, manette.»
    «È così».
    «Di modo da essere, diciamo, solo io, voi e lui.»
    Stavolta padre Wilfred annuì. L’investigatore lo scrutò con la fronte corrucciata, in mano la penna tormentata fino a poco prima. Se la rigirava fra le dita, perplesso, sostenendo lo sguardo del sacerdote e masticando saliva con un movimento quasi impercettibile. Non era da protocollo condurre interrogatori privati senza che la cosa fosse resa pubblica al dipartimento; l’ispettore McArthur di certo non avrebbe gradito. Si trovò a ripensare a quanto aveva appena sentito, alla coincidenza dei dettagli, al brivido che gli era passato sotto la pelle quando si era accorto di quanto quel mistero lo prendesse... e solo dopo un pugno di secondi appoggiò sulla scrivania la mano aperta, così d’improvviso che la penna schioccò sonoramente quando colpì il legno grattato. Quindi diede l’annuncio in tono deciso, neanche avesse appena scelto il nuovo colore della tappezzeria di casa dopo una lunga e difficoltosa riflessione.
«Vi offrirò un tè. Domani, a casa mia», disse. E così fece.

 
2


 
    «Ho fatto qualche ricerca», dichiarò ad un tratto Barrymore, mettendo da parte la tazzina.
    Il grande orologio a pendolo segnava le cinque e mezza del pomeriggio. Sembrava spiarli tutti e tre, complice il quadrante che sbucava da dietro il paravento come la testa di una civetta. Il salotto aveva una cert’aria di intimità, tanto che un’ora prima, entrando, Cecil Goldwine l’aveva definito una “scatola di cioccolatini”. La moglie del padrone di casa, più giovane del  marito di forse una decina d’anni, aveva invitato lui e padre Wilfred ad accomodarsi prima di filare a passi svelti verso la cucina, là dove una domestica si era affacciata sbirciando con curiosità gli ospiti. I convenevoli erano durati relativamente poco e il dialogo si era ancorato alla questione principale solo quando il tè fu servito e le donne sparite nell’altro salotto in fondo al corridoio.  
    L’investigatore aveva dato testimonianza di provare una certa antipatia per Goldwine mentre lo ascoltava e leggeva qualche riga della tragedia, e il sacerdote non aveva impiegato troppo a capire che in realtà si trattava di una particolare forma di commiserazione. Eppure, dietro quella sua espressione contrita tanto da parere indisposta, era facile cogliere anche un’ombra di reale interesse. Barrymore sedeva di fronte a loro, in una poltrona di cuoio verde dall’aspetto vecchio ma rispettabile, e si era limitato ad annuire qualche volta, ad occhi bassi sui fogli, mentre Cecil gli raccontava la vicenda. Così padre Wilfred, sentendosi un poco di troppo, aveva cominciato a guardarsi attorno per studiare il salotto di quella modesta casa su Cornwell Hill, finché non aveva inquadrato la piccola targa appesa sul muro, giusto sopra al grammofono.
    «La vostra famiglia è molto religiosa?», gli venne da domandare.
    Barrymore alzò gli occhi su di lui mentre, chino su un lato della poltrona, sfilava un paio di fascicoli dalla valigetta nera appoggiata lì accanto. Colse lo sguardo del sacerdote e ne seguì la traiettoria. «Dite per quella targa?»
    «“Laddove accadono enormi disastri naturali, con spargimento gratuito di sangue e sofferenza, dio si rivela inconfondibilmente in tutta la sua solida inesistenza”. Suggestivo.»
    «Siamo religiosi al punto giusto», si giustificò l’investigatore con leggerezza. «Se voi là ci vedete religione, padre, io ci vedo un dato di fatto. Trovo quella frase scientifica quanto voi la trovate mistica. Non che questo caso sia un vero e proprio disastro, ma Dio non era certo accanto all’americano quando qualcuno gli ha sparato in fronte.»
    «Io la trovo poetica», se ne uscì Cecil. Reggeva la tazzina di tè con entrambe le mani e sedeva ritto sulla schiena, neanche avesse timore di accomodarsi sullo schienale del divano.
    Barrymore roteò gli occhi in un gesto d’impazienza e si posò in grembo i fascicoli che si era adoperato per pescare dalla valigetta. «Interpretazioni. Credo che, in una stanza così piccola, un investigatore, un uomo di chiesa e uno pseudo letterato non potrebbero mai andare d’accordo.»
    Padre Wilfred scoccò un’occhiata di supporto a Goldwine, che gli indirizzò di rimando un’espressione colpevole.  
    «Marcel Redmayne non mi è nuovo», riprese il padrone di casa, in tono improvvisamente pratico. «Quando ieri vi ho sentito pronunciare il suo nome, padre, ho subito capito d’averlo già sentito. Redmayne aveva nove anni quando assistette all’omicidio di suo padre. A compiere il gesto fu lo zio paterno, ovvero il fratello della vittima. Ragioni economiche.» Allungò loro un articolo dell’Inquisitor, spiegazzato ai lati, e il sacerdote, compreso che Cecil non avrebbe mosso un muscolo, si chinò in avanti il necessario per prenderlo. «Non lavorai io al caso, ovviamente», continuò Barrymore. «Si parla in fondo di una ventina d’anni fa. Non posso mostrarvi i rapporti del dipartimento, ma non è reato passarvi il ritaglio di giornale in cui se ne parla. Ebbene, quell’americano e il padre di Redmayne sono morti nello stesso frangente: seduti alla scrivania, un colpo d’arma da fuoco in fronte.»
    «Può essere una coincidenza», osò padre Wilfred, passando l’articolo a Goldwine.
    «Può esserlo, ma non se si tiene in conto che proprio Marcel Redmayne ha scelto gran parte dei particolari di quell’opera. A quanto ho capito, ha scelto la storia, le scenografie, la dinamica dell’acmè della tragedia, ovvero dell’omicidio, e anche i rapporti fra i due protagonisti: Miles e George Patrick sono fratelli, così come vent’anni fa è stato un fratello ad uccidere il fratello. Quel diavolo ha lasciato a Goldwine la stesura e non ha apprezzato che il lavoro sia stato interrotto», concluse, prendendo di nuovo la tazzina dal tavolino al centro. «In questa faccenda, Goldwine è solo un mezzo.»
    «Mi aveva detto che sarei stato in grado di trattare il genere.» Un brivido di inquietudine passò nella voce di Cecil. Teneva gli occhi bassi, fissi sul ritaglio che aveva in mano. «Mi diceva che sarei stato capace di rendere l’idea.»
    «Per questo vi ha lasciato stendere quell’opera», confermò Barrymore dopo un sorso di tè. «Perché vedeva in voi del talento, quello che evidentemente lui non aveva per descrivere con passione quella tragedia. E non ha preso bene il fatto che voi abbiate deciso di interrompere la stesura dopo aver scritto dell’omicidio del povero George Patrick, così ha scelto di mettere tutto in scena. Di nuovo, dopo vent’anni. La sua mente deve essersi fermata a quel trauma.»
    «Ciò non spiega perché abbia ucciso proprio quell’americano. Non spiega nemmeno perché l’ufficio di quell’uomo sia identico a quello descritto nell’opera.»
    «Evidentemente il nostro diavolo si occupa davvero di una forma di geometria, Wilfred. Deve aver aiutato Sullivan ad arredare il suo piccolo appartamento, così ha avuto la libertà di scegliere come disporre i mobili e di ricreare la sua scenografia, approfittandone per renderla molto simile all’ufficio in cui suo padre è stato ucciso.»
    Goldwine alzò lo sguardo sull’investigatore, improvvisamente consapevole. «So che Marcel è amico di una vedova che gestisce un negozio di mobili. Diana Powell, si chiama.»
    Con la naturalezza e agilità proprie del mestiere, l’investigatore sfilò dal taschino una penna e segnò il nome sull’angolo di uno dei fogli. Padre     Wilfred si chiese quale fosse la magia che facesse della penna in tasca il cliché di ogni buon londinese.
    «Deve affidare a lui qualche consegna. Sarebbe logico», rifletté Barrymore in un secondo momento, osservando quel che aveva appena scritto come se volesse arpionare con lo sguardo un indizio in più. «In fondo una donna non può permettersi di spostare mobili pesanti con facilità. Sulla base di quanto ora so, l’unica sfortuna di quell’americano è stata quella di aver comprato in quel negozio e di condividere qualche somiglianza con la descrizione fisica del George Patrick della tragedia. Redmayne deve averlo visto come un segno del destino, la possibilità di mettere in scena il suo atto preferito dopo che voi, Goldwine, avevate rifiutato di terminare la stesura. Forse Sullivan ha persino messo gli occhi su un mobile con un motivo a griglia. È probabile che il momento in cui l’americano ha varcato la soglia del negozio sia valso al nostro uomo il riaffiorare del trauma.»
    «La griglia?», chiese il sacerdote. «Come spiegate le incisioni che avete trovato nell’ufficio di Sullivan? Nella tragedia non si fa riferimento ad un particolare così malato.»
    «Nemmeno nel caso Redmayne, se per questo.» In silenzio, l’investigatore batté la penna sul foglio prima di rimetterla a posto e alzare lo sguardo. «Eppure si può spiegare. Il figlio di Redmayne assistette all’assassinio del padre da dentro un piccolo armadio. Vi si nascose per gioco poco prima che entrassero sia il genitore che lo zio. E le ante di quell’armadio...», e indicò il paravento accanto all’ingresso, il cui motivo era identico a quello di una fitta recinzione. A quello dei lati del confessionale, pensò padre Wilfred. «...Quelle ante erano esattamente così: con un motivo a griglia.»
    «Marcel vide quella scena... da dietro una griglia?», domandò Cecil. «Vide l’omicidio da dietro quelle ante e per questo lo ricorda segnato da righe che gli impedivano a tratti la vista. Ha inciso ogni cosa perché lui ricordava la scena a quel modo.»
    Barrymore annuì una sola volta, un gesto profondo a mo’ di ironiche congratulazioni, aprendo le mani neanche si aspettasse che dai palmi volassero in alto due colombi sbucati dal nulla: «Voilà. E questo spiega perché nell’ufficio vi era un armadio con ante a griglia che non presentava nemmeno un’incisione: era l’unica cosa fuori dal suo campo visivo fatto di linee.»
    Goldwine lasciò il ritaglio sul tavolo. Gli tremavano le mani.
    «Un fatto di cronaca di vent’anni fa che si fa opera teatrale prima di essere rappresentato di nuovo. E non su un palcoscenico, ma per davvero. Con la stampa come pubblico.» commentò l’investigatore, con l’angolo della labbra sottili piegato in una sorta di sorriso. «Pare un circolo vizioso, un gioco di specchi. Una maledizione. Spero vivamente che nessun altro metta nero su bianco questa vicenda; non sia mai che potrebbe accadere di nuovo.»
    «L’Amleto. Shakespeare.»
    A parlare era stato Cecil. Padre Wilfred e Barrymore gli riservarono un’occhiata interrogativa, a metà strada fra perplessità e richiesta di spiegazione.
    «Claudio uccise il re suo fratello per usurpare il trono, sposando poi la vedova», si affrettò il giovane uomo, con nella voce l’ansia di chi teme di essere contraddetto. «Lo spettro del defunto sovrano raccontò al figlio Amleto le circostanze della sua morte, e il giovane, per smascherare lo zio, mise in scena un’opera in cui si rappresentava l’assassinio. Ma certo», aggiunse dopo un momento, parlando più a se stesso che agli altri. «Marcel ha visto suo zio uccidere suo padre, così come Miles e George Patrick, nella tragedia che voleva che stendessi, sono fratelli. In Shakespeare, Claudio uccise il re per ambizione, così come lo zio del mio amico e Miles hanno ucciso per lo stesso motivo, ma in termini adattati a questo secolo: hanno ucciso non per un trono, ma per denaro. Abbiamo a che fare con un Amleto vittoriano.»
    Ci fu silenzio per qualche momento. Barrymore, notò padre Wilfred, lo osservava con una nota di cauta diffidenza. Non sapeva se fosse per quell’ “abbiamo” o per l’inaspettato quanto originale paragone con l’opera di Shakespeare. Inevitabile, alla mente gli sovvenne il celebre soliloquio che il principe di Danimarca tiene con il teschio. Essere o non essere, pensò, e con un fremito si accorse che il caso dell’americano si era davvero mostrato al contempo realtà di cronaca e finzione teatrale.
    «Vi posso concedere l’Amleto», pronunciò poi l’investigatore, quasi sillabando. Sembrava, più che geloso del suo ruolo, solo intontito. «Dovete però spiegarmi da quando il caso Sullivan è anche di vostra competenza.»
    «Da quando ci avete invitato, Barrymore», intervenne padre Wilfred. Ora sorrideva appena. «Non avreste mai scoperto questo occasionale legame fra teatro e cronaca nera se non fosse stato grazie a noi. Pertanto, non avreste nemmeno mai scovato il nome dell’assassino.»
    Barrymore accavallò le gambe e picchiettò le dita sul ginocchio. «Marcel Redmayne non era battezzato, all’epoca dei fatti: si scoprì che il suo nome non era segnato in nessuna parrocchia. Sua madre morì quando lui era ancora un neonato e il padre decise di lasciare a lui la scelta di abbracciare la Chiesa o meno, quando sarebbe stato abbastanza grande. Eppure dovette dargli pur un nome, per legge, così lo chiamò Marcel August. È possibile che la famiglia che lo prese in adozione lo abbia invece fatto battezzare, forse con un altro nome e cognome. Quindi Marcel potrebbe non essere più... Marcel.»
    «Un anno fa, quando lo conobbi, mi si presentò con quel nome», disse Goldwine.
    «Be’, è possibile che vi abbia mentito, se davvero ora non si chiama più così. Supponevo. Allo stesso modo, dato che il vostro Marcel ha rappresentato alla lettera l’assassinio di suo padre, è possibile che decida di chiudere la storia così come la chiuse suo zio. Il trauma infantile che l’ha spinto ad uccidere un estraneo potrebbe portarlo a terminare la vicenda con la stessa dinamica dell’omicidio cui assistette. La tragedia che vi ha chiesto di scrivere, Goldwine, è priva di finale, quindi deduco che non vi abbia raccontato come sono andati i fatti.»
    «Che fine fece lo zio?», chiese a quel punto padre Wilfred. Poi, consapevole che la situazione richiedeva delle specifiche: «Lo zio di Redmayne, intendo. Fu arrestato?»
    «No.» Barrymore si piegò in avanti, riprese il ritaglio di giornale, rimasto per troppo tempo sul tavolino, e lo infilò con una certa fretta fra i fogli che teneva ancora in grembo. «Sparì dalla circolazione e sette giorni dopo si rifece vivo in un teatro non troppo lontano da qui, l’Harnold. Salì sul palco prima dello spettacolo e si sparò in bocca.»
    Lo raccontò con tranquillità, un po’ come si tratta un resoconto di poca importanza. Poi, accorgendosi del silenzio che era calato di fronte, spostò gli occhi su Wilfred e Cecil. Ora maneggiava i fogli più lentamente, mentre metteva gli angoli a posto, ordinando la pila di documenti. «Goldwine», pronunciò, la voce improvvisamente cauta, dichiaratamente sospettosa. «...Goldwine, avete più rivisto Redmayne?»
    «No.»
    «Avete più avuto notizie di lui?»
    «Vi ho detto di no.»
    «Sono passati sette giorni dall’omicidio di Sullivan. Questa sera si terrà una rappresentazione, all’Harnold.»
    La voce di Barrymore era ferma, ma tradì un brivido. Padre Wilfred prese un sospiro, alzò gli occhi al soffitto. «Buon Dio», mormorò.
    Buon Dio.



*  * *

1  A partire dal 1821, si definivano “Bobby” gli agenti di polizia. Il nomignolo deriva da Robert Peel, al tempo ministro degli interni, che fece approvare l’istituzione della polizia metropolitana. La sede di questo nuovo organo era situata al numero 4 di Whitehall, in un palazzo che dava su un cortile chiamato, appunto, Scotland Yard.

Non ho un buon rapporto con Nvu, il programma che utilizzo per caricare i capitoli in formato html, ma questo deve essersi notato, date le differenze di "formato" fra un capitolo e l'altro. Mi scuso quindi se la cosa potrebbe creare un certo fastidio per chi segue la storia. In attesa di capire come organizzare le pagine una volta per tutte (?),

Dew_








   

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Capitolo 4
*** Questa sera alle 20.30 ***


Capitolo terzo - Questa sera alle 20.30




 

CAPITOLO TERZO:
QUESTA SERA ALLE 20.30



 
    Diana Powell li fece entrare anche se si stava affaccendando per chiudere. Il “negozio”, così come lo aveva chiamato Goldwine, era in realtà una saletta polverosa che in vetrina esponeva solo una variegata fantasia di cianfrusaglie. I mobili veri e propri si trovavano da tutt’altra parte, in un’ex fabbrica di cotone distante quattro o cinque isolati.
    «Molti cotonifici hanno chiuso, ora che ci sono le macchine a sostituire parte della manodopera», spiegò la donna con un sorriso amorevole, osservando Barrymore e Cecil da dietro il bancone. «Mio marito comprò quella struttura e vi sistemò i mobili. Ogni volta che da me si presenta qualcuno interessato a vederli, organizzo un appuntamento: in questo modo si indirizzano le scelte del cliente, posso capire cosa sta cercando e quanto vuole spendere. Quel ragazzo di cui mi avete chiesto mi aiuta a gestirne alcuni, e a lui ho affidato proprio il signor Sullivan. Che Dio l’abbia in pace. Non sempre Marcel ha però il tempo per aiutarmi, per quanto mi farebbe comodo.»
    Mentre parlava, gli occhi di Goldwine erano caduti sulle mensole che davano alla vetrina e, tra una coppia di lampade da una parte e un portagioie dall’altra, avevano inquadrato un pannello di legno a cui erano assicurati, in fila perfetta, alcune lame dall’aspetto poco piacevole. Diede di gomito a Barrymore, in un gesto appena percettibile. Non era uscito da casa sua dopo il tè con l’intenzione di arrecargli fastidi, dal momento che, prima di decidere per quella visita alla Powell, l’investigatore era stata chiaro: voleva che venisse con lui solo perché sarebbe stato in grado di riconoscere Redmayne nel caso in cui l’avesse visto, non certo per farsi aiutare nel suo mestiere. Eppure, quando Barrymore seguì il suo cenno e vide a sua volta quella collezione di lame, il primo istinto non fu quello di ammonirlo con un’occhiataccia, ma di voltarsi verso la donna e chiederle perché esponesse dei coltelli.
    «Non si tratta di argenteria, signore: sono coltelli per intagliare i mobili. Strumenti di lavoro
    Il tono di Diana Powell era paziente mentre spiegava che vendeva quelle lame solo a chi certificava di occuparsi di mobilia per professione.
    Intagliare. Quel verbo rimase artigliato nella mente di Barrymore anche quando tornarono fuori. Lungo la strada acciottolata si affrettavano quei londinesi desiderosi di raggiungere casa prima dell’acquazzone. L’aria era impregnata di fredda umidità e, tra la nebbia ora bassa dietro cui il sole era già tramontato, i lampioni di ferro rilucevano come aloni dipinti da un pittore impressionista. L’investigatore e Goldwine camminarono per un tratto in silenzio, due ombre fra le tante, i colletti dei soprabiti tenuti alti per concedere almeno un anello di calore. Si sarebbe potuto scambiarli per una stramba coppia di amici, uno più alto e l’altro più basso, uno dal passo sicuro e l’altro dalla camminata spiccia e confusa, quasi a saltelli. Annunciata da uno zoccolio e da una dondolante lanterna a gas, una carrozza sbucò fra i banchi di foschia e passò oltre di loro, infilandosi di nuovo nella nebbia come un vascello fantasma.
    «La donna ha detto che non sempre il vostro amico ha tempo per aiutarla. Redmayne non vi ha mai detto cosa fa di mestiere o dove abita? Avete una sua fotografia?», domandò ad un tratto Barrymore, con l’atteggiamento disinteressato di chi sta meditando da interi minuti se porre o meno una domanda.
    «No, non siamo in stretta confidenza. Mi ha sempre e solo detto che occasionalmente aiuta Diana Powell.»
    «Lei non gli dà un salario per i suoi favori, quindi quell’uomo deve avere un altro lavoro.» Fra di loro ci fu un attimo di silenzio. Attorno, anche se in lontananza, si udivano il cigolio di qualche carrozza di passaggio e lo scalpitio di qualche passo non loro.        «Quanto a quelle lame, deve aver utilizzato qualcosa di simile per il suo lavoro nell’ufficio dell’americano. Da quel negozio avrebbe potuto sottrarre qualsiasi lama d’intaglio.»
    «E la pistola?»
    «Non è difficile trovare un rivenditore d’armi anche a prezzi stracciati. Fidatevi, Goldwine: ne ho arrestati parecchi, di quei personaggi.»
    Cecil gliela diede per vinta, benché fosse facile capire che non aveva ancora realizzato la seconda vita del suo fidato amico Marcel Redmayne. Si sentiva tremare le ossa al solo pensiero che per tutti quei mesi aveva frequentato un folle, che per tutto quel tempo aveva avuto accanto un uomo dal passato così controverso. Che, specifichiamo, gli aveva spudoratamente mentito quando invece da parte sua c’era stata sincera ammirazione. Scotland Yard non sarebbe mai venuta a capo di quella storia senza lui e padre Wilfred, ma certo era che avrebbe volentieri preferito rimanere estraneo ai fatti.
    «Non è detto che Redmayne si presenti all’Harnold, stasera», riprese Barrymore. «Ho però buoni motivi per credere che potrebbe farlo, considerata la follia di cui si è dimostrato capace una settimana fa. Sono consapevole che potrebbero esistere altre strade e che gli indizi sono, per così dire, piuttosto fantasiosi... ma non sarà un male se questa sera, fra il pubblico, ci saranno anche alcuni agenti in borghese. In fondo, alla faccia della settimana di  indagini, abbiamo trovato una sola pista, ovvero quella su cui voi e padre Wilfred ci avete portato. Tentar non nuoce. Verrete con me, Goldwine: se davvero il vostro amico ha intenzione di spararsi in bocca come fece a suo tempo lo zio, sarà fondamentale riconoscerlo prima che metta in scena il suo personalissimo ultimo atto. Anche il Marcel che conoscevate adora il teatro, non è vero?»
    La domanda fu quasi inaspettata. Cecil continuò a camminare, ma stavolta osservò l’investigatore per un attimo, direttamente, gli occhi verdi un poco dubbiosi. «Sì. O almeno è quanto mi raccontò. Anche io credo che Marcel sarà là, stasera.»
    «Padre Wilfred, prima che ci congedassimo fuori casa mia, ha detto che Redmayne ci sarà perché è anche lui un figlio di Dio, e Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale. Io dico che ci sarà perché nella mia ottica è solo il riflesso del suo trauma e perché, nel mio mestiere, la follia è il più facile ed immediato dei moventi. E voi, Goldwine? Voi perché ne siete sicuro?»
    «Può avermi mentito sulla sua identità», rispose Cecil, masticando l’indesiderato sapore dell’ansia, «ma non sul resto. Ci sarà perché è un artista; e gli artisti, Barrymore, quelli veri, quelli geniali, chiudono sempre in grandezza.»
 


2
 


    La curiosità della gente era un altro di quei motivi per cui padre Wilfred faceva volentieri a meno di rinunciare alla tonaca. Trovava invadenti gli sguardi di quelli che indugiavano per un momento sul collare bianco che faceva capolino dal risvolto della giacca, neanche avessero mai visto un sacerdote vestire un completo e concedersi una serata fuori casa.
    L’Harnold era un edificio modesto se paragonato agli altri teatri di Londra. Era uno dei più piccoli, l’unica struttura in quel zona della città che aveva un aspetto dichiaratamente classicistico. Wilfred non era abbastanza appassionato di arte per sapere che le quattro colonne nel portico d’ingresso erano di gusto dorico, ma la sensibilità gli permetteva ugualmente di farsi piacere quell’ambiente così diverso rispetto alle botteghe e ai fabbricati lì attorno. La sera, le lampade a gas affisse sul cornicione tracciavano una linea di luce polverosa in una strada altrimenti buia. Era, per usare una terminologia più alla mano, il punto di ritrovo per chiunque abitasse in quel grappolo di quartieri di periferia.
    Mancava ancora mezz’ora all’inizio dello spettacolo, eppure il pubblico si prospettava già folto. Entravano coppie giovani e anziane, signore con gonne pretenziose, che ispiravano una moda forse un po’ datata ma pur sempre capace di fascino, uomini in gran completi che, in attesa di poter entrare in sala, chiacchieravano con quella loro parlantina provinciale rigirandosi in mano accendini di rame. Wilfred si chiese quanti di loro fossero in realtà poliziotti in borghese. Lanciò uno sguardo al grande orologio sulla parete e, leggendo i numeri in cifre romane, si domandò dove fossero Jonathan Barrymore e Cecil Goldwine. Dopo il tè, l’investigatore gli aveva raccomandato di non presentarsi all’Harnold, dati i rischi della situazione. Era un consiglio su cui il sacerdote aveva chiuso un occhio, considerato che, in attesa di scovare fra la folla uno dei due, se ne stava un poco in disparte nel salone d’ingresso del teatro, giusto davanti al manifesto che riportava il titolo dello spettacolo di quella sera.
    Troppo concentrato a sbirciare i volti di chi entrava, non si accorse che effettivamente qualcuno di sua conoscenza passò lì vicino. Lo riconobbe solo di sfuggita, voltandosi in un secondo momento, per via della sua camminata. Prima che potesse ricordarsi il suo nome, si sentì però chiamare da una voce a metà strada fra sgomento e stupore:
    «Padre Wilfred!»
    Tornò a guardare di fronte a sé e scoprì che, fra i tre, alla fine a farsi vedere era stato lui. A parlare era stato Goldwine, ritagliato in un completo scuro un po’ inadatto a un personaggio sbadato come lui: i suoi riccioli color caffè macinato erano un po’ troppo spettinati per sposarsi bene con quel tentativo di eleganza. Accanto a lui c’era Barrymore, l’espressione già scocciata benché a prova contraria nessuno gli avesse fatto alcun torto. Forse.
    «Padre, non vi avevo detto di restare a casa, stasera?», domandò l’investigatore, pizzicando la tesa del cappello che teneva in mano.
    «Un sacerdote non può forse andare a teatro?»
    Era una risposta in parte non voluta, ma padre Wilfred vide che ad apprezzarla fu almeno Cecil, che strinse le labbra in un sorriso e abbassò il mento per evitare che Barrymore notasse quanto avesse trovato la cosa divertente.
    «Ho già il biglietto», aggiunse Wilfred, e sollevò la mano in cui lo aveva. «Quanti agenti avete sguinzagliato?»
    «Abbastanza. L’ispettore capo McArthur non è stato troppo felice di sapere che ho voluto scomodare alcuni dei suoi uomini per portarmeli a teatro. “A perdere tempo”, ha detto.»
    «Saranno armati?»
    «Certo, considerando che quasi per certo stasera succederà qualcosa. I controlli sono molto rigidi in qualsiasi teatro, e la stessa cosa vale per l’Harnold, per quanto piccolo. Una coppia di agenti perquisisce gran parte degli uomini che entrano», fece Barrymore. Nella luce calda della sala d’ingresso, il suo volto esprimeva un’incurante e blanda forma di cordialità. Incredibile ma vero, pensò il sacerdote, non senza una punta di cristiana ironia. «Solo chi ha un distintivo può permettersi di entrare armato. È però possibile che il nostro diavolo raggiri i controlli e riesca lo stesso ad entrare. Secondo le ricerche che stiamo portando avanti, l’unico Marcel Redmayne che ci risulta è un bambino di cinque anni. Credo quindi che abbia davvero cambiato nome, una volta adottato. Per questo voi, Goldwine, starete con me. Nel caso in cui lo vediate, ditemelo. Vi piace William Schwenck Gilbert
    Cecil sbirciò alle spalle di padre Wilfred. Il manifesto raffigurava un uomo, in alta divisa militare, che teneva una postura signorile e quasi militaresca benché fosse circondato da donne e uomini imploranti. “The Pirates of Penzance”, recitava il titolo; e, più sotto, “I am an orphan boy”. «Preferisco Wilde», affermò il giovane dopo un momento.
    «Avete portato con voi anche quel ragazzo?», domandò a quel punto padre Wilfred, rivolto a Barrymore. «Non ricordo il suo nome. Quello che mi accompagnò nel vostro ufficio.»
    «Peter? Peter Moore?» Barrymore diede un leggero schiaffo al cappello, come a volerlo spolverare, poi se lo calcò di nuovo in testa. «Certo che no, padre. Lui è ancora un cadetto. È un apprendista, deve farne di strada prima di potersi occupare di situazioni a così alto rischio.»
    Il sacerdote lo osservò per un momento, improvvisamente basito, prima di lanciare un’occhiata al piccolo corridoio che portava all’ingresso della sala. «L’ho visto», disse. «L’ho visto, Barrymore. È entrato poco prima che arrivaste voi.»
    Scattò un brivido, nel silenzio. Sulle prime Barrymore non si mosse, solo sostenne il suo sguardo con un cipiglio strano, in volto, lo sguardo di chi si accorge di aver fatto un errore imperdonabile, di chi realizza poco alla volta un orrore involontario e profondo. Quel ragazzo era cadetto da poco tempo, troppo poco perché lo conoscesse davvero, e poteva portare con sé un’arma senza destare sospetto. Non si dedicava alla giustizia a tempo pieno; poteva quindi permettersi di fare lavori saltuari, perché no?, come aiutare una povera donna con il suo negozio di mobili. L’ispettore McArthur l’aveva pescato da un’accademia e l’aveva messo alle sue dipendenze, per, come aveva detto, “abituarlo al mestiere”. Non conosceva quasi nulla del suo passato e del loro primo incontro ricordava solo una cosa. Solo la frase che, mentre si stringevano la mano, Peter Moore gli aveva detto con un timido sorriso sfilato sulle labbra. “I miei genitori adottivi desideravano tanto che vestissi l’uniforme”, aveva detto. “Lo desideravano davvero tanto, signore.”
«Moore», bisbigliò. E il secondo dopo si era già gettato nel corridoio, verso la sala.
 


3



    Quasi tutti i posti a sedere erano occupati. Sbucando dall’altro lato del corridoio tanto di corsa da rischiare di urtare una signora dall’aspetto vezzoso, Cecil temette di aver perso Barrymore di vista. La saletta non era sterminata e chi non era già accomodato si attardava lungo i passaggi per fare quattro chiacchiere, ostruendogli la vista. Padre Wilfred, il fiato un po’ più corto del suo, lo raggiunse un secondo dopo.
    «Lo vedete? Per Dio, trovatelo.»
    Il ragazzo dovette alzarsi sulle punte dei piedi e scrutare i dintorni a mento alto prima di individuare il cappello di chi cercava. Penultimo settore a destra, verso la metà. A una trentina di metri dal palco. Non perse tempo ad annunciarlo, perché ripartì di corsa infilandosi non troppo gentilmente in un gruppetto di uomini in frac. Il sacerdote gli filò dietro, mormorando qualche scusa di cortesia a testa bassa.
    L’investigatore se li vide venire addosso mezzo minuto dopo. Attorno a sé aveva radunato alcuni dei poliziotti in borghese, e altri ancora, notando l’improvviso movimento dei colleghi, si chiamavano a vicenda. Alcuni fra il pubblico, i più vicini a loro, li osservavano con curiosità, con gli sguardi velati da un filo d’ansia e di mal sopportazione. Evidentemente si stavano chiedendo perché mai quegli uomini facessero così tanta confusione.
    «Voi», si precipitò Barrymore, vedendoli arrivare. Scostò senza complimenti uno dei suoi in borghese e si parò di fronte a loro. «Uscite. Tutti e due.»
    «Uscire?» Cecil non riusciva a credere a quel che aveva appena sentito. Per un attimo pensò che l’animato e allegro mormorio all’interno del teatro gli avesse confuso le idee. «Marcel è un mio amico. Forse posso convincerlo a non farlo; forse posso...»
    «Non potete proprio nulla. Non è un vostro amico, nemmeno porta più quel nome. Alcuni agenti lo stanno già cercando fra la folla. Se è davvero l’agente Moore, sa di quest’operazione. Può aver origliato il mio incontro con padre Wilfred, può sapere del vostro coinvolgimento e per questa ragione potrebbe persino volervi morti entrambi.»
    «Barrymore...»
    «Non adesso, non anche voi, padre.»
    «...Barrymore, sul palco!», lo ignorò Wilfred, gettando l’indice alle sue spalle.
    Allora l’investigatore si voltò, e con lui tutti gli agenti. Come se gli sguardi si fossero seguiti a effetto domino in una corsa rovinosa e fulminea. Anche alcuni fra il pubblico avevano alzato gli occhi, con una curiosità quasi divertita. Ignara.
    «Signore e signori!», declamò il giovane che si era issato sul palcoscenico. In piedi al centro, teneva le braccia spalancate e il suo sorriso, lì sotto le luci della ribalta londinese, riluceva della geniale eloquenza di un direttore d’orchestra. Alle sue parole, gran parte dei presenti fece silenzio e lo osservò con aspettativa. Un atteggiamento leggero, forse deliziato da quella che aveva tutto l’aspetto di un’improvvisazione. «Signore e signori, il mio nome è Peter Moore e questa sera ho preparato per voi uno spettacolo U-N-I-C-O!»
    L’attimo dopo aveva infilato la mano all’interno della giacca e ne aveva estratto una pistola. Il volto sempre vittorioso, sempre fiero, come se dal pubblico si aspettasse rose e applausi.
   Quel che invece seguì fu improvviso e selvaggio panico. Le donne strillarono quasi all’unisono, correndo verso le uscite; alcune, insieme ai mariti o ai compagni, si buttarono dietro i posti a sedere, impacciate nelle loro gonne per le grandi occasioni. D’istinto, padre Wilfred aveva afferrato Goldwine per un braccio prima che questi potesse correre lungo il passaggio fra i sedili. Barrymore si mosse e sfilò la pistola, spianandola contro il palco, e lo stesso fecero i suoi con un ritardo di un secondo.
    «Moore!», gridò sopra tutti, le mani ferme sul calcio dell’arma.
    Peter Moore, vent’anni prima Marcel August Redmayne, sembrò non sentirlo. Si era già portato la canna della pistola in bocca.
    Il colpo partì dopo un altro battito di ciglia.



        * * * 


Ho passato una settimana molto intensa in Veneto causa vacanza a casa di un'amica. Spero quindi non sorprenda il motivo per questi miei ritardi nell'aggiornamento. In ogni caso, prossimamente pubblicherò l'epilogo, con tanto di elenco riguardo le "coincidenze" tematiche e non che ho sparpagliato a mo' di indizi e spunti di riflessione.
Ancora una volta, mi scuso per essere di così poche parole (?). Non sono troppo abituata a commentare ciò che scrivo, lo ritengo un po' forzato - così ancora una volta lascio i commenti a voi, se ne avrete <3.

Dew_







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Capitolo 5
*** L'ordine delle cose ***


Epilogo - L'ordine delle cose






EPILOGO:

L’ORDINE DELLE COSE

 

    Mio padre adorava quella scrivania, forse perché la prese con un anticipo di poche settimane dalla morte della mamma. Il sorriso di lei mi sfiorò le mente mentre abbassavo il coltello d’intaglio segnando anche quella superficie, lentamente, con chirurgica freddezza. Ignoravo che i mobili di quella scenografia non appartenevano all’uomo che ricordavo. Da dove mi trovavo, lì su un lato del tavolo da lavoro, la linea che saliva sulla parete di fronte a me era in perfetta parità con quella che incidevo.
    Sullivan sedeva lì dietro, le braccia abbandonate sui fianchi e il capo reclinato su una spalla. I suoi occhi sgranati esprimevano l’immobilità di una bambola di pezza. Si era presentato due mesi prima dalla Powell, sfilandosi il cappello mentre entrava e sfoggiando nel contempo quel grande e pieno sorriso degno di ogni americano.
“Buongiorno”, aveva detto, la pronuncia masticata quanto bastava per farmi capire che non era di Londra. E io l’avevo guardato, avevo visto la terribile somiglianza con George Patrick. Cecil non voleva continuare a scrivere, benché io glielo chiedessi con insistenza. Diceva che era tutto troppo violento, che sembrava un’accusa a chi il denaro lo ha ma non vuole spartirlo. Non potevo dirgli che leggere quella storia su carta avrebbe potuto salvare me dal mio bisogno di espressione. Se solo l’avesse conclusa, non mi sarei mai ridotto a questa soluzione.
    Adoravo lo zio. Era sempre stato così gentile con me, così presente, benché non fosse ricco, benché non avesse moglie e figli. Non mi aveva mai detto della profonda invidia che provava per papà, che aveva tutto quel che lui desiderava: denaro, famiglia, stabilità. Solo crescendo avevo capito che gli aveva sparato in fronte perché era un debole e altro non poteva fare. Ricordavo ancora il momento in cui era entrato con papà, quello in cui avevano preso a discutere. E poi la pistola gli era comparsa in mano, così, e gli aveva sparato, un colpo solo, dritto in testa, e un ventaglio rosso era esploso sulla parete dietro a mio padre e io avevo visto tutto, vedevo dietro la griglia delle ante. Allora mi ero raggomitolato in un angolo senza fare rumore, le braccia attorno al corpo, e c’era un singulto, in gola, un nodo di fuoco che mandai giù a forza, con tanta rabbia da farmi male.

    Fu allora che cominciai a chiedermi cosa si muove dietro alle righe di una trama a griglia. Ci si guarda attraverso, ad un motivo del genere, ma non sai cosa c’è là dietro i contorni scuri dei quadrati o dei rombi. Forse il mondo smette di esistere? Forse, dietro le linee che ti impediscono la vista, la realtà è grigia, vuota, e continua a scorrere solo negli spazi che riesci a vedere? Mentre estraeva la pistola, lo zio era così irreale, tante erano le righe che lo scomponevano. E così era papà, così pure l’ufficio, così tutto quel che era lì dentro con loro.

    Il coltello lavorò bene anche sull’americano. Fu un poco più difficile mantenere quella geometria, fare in modo che le linee sulle pareti e sui mobili combaciassero, ma ce la feci. Impiegai tutto il pomeriggio, non avevo fretta. Nessun altro occupava la palazzina e c’erano ben poche possibilità che qualcuno avesse udito il colpo.

    La famiglia che mi aveva adottato desiderava davvero che diventassi un poliziotto. Mi avevano battezzato, mi avevano costretto a portare il loro cognome, ma quel che provavo per loro era affetto sincero. Mi avevano portato via da quel ricordo, per qualche anno avevo persino creduto di aver scordato quella griglia scura e il delitto che dietro si era consumato. Cecil Goldwine era stato un incontro non programmato; ci conoscemmo a teatro, perché a lui piaceva così come piaceva a me. Adorava Shakespeare e Oscar Wilde. Poi scoprii che scriveva, che sognava la stessa carriera, e allora gli avevo consigliato una tragedia. L’idea gli piacque, all’inizio.

    Tagliai e incisi fino a sera. Benché mi fossi dovuto spostare per tracciare ogni linea, sapevo che la griglia era perfetta da una sola angolazione. Avevo lavorato con solo quell’immagine in testa e ora mi meritavo il posto d’onore. Così mi spostai su un lato della scrivania, lì davanti all’armadio in cui anni prima mi ero nascosto, e vidi che le righe parlavano, esprimevano una rigida e frastornante eloquenza. Quella geometria, se in un primo momento mi disse che era stato bravo, che lo ero stato davvero, un secondo più tardi mi artigliò la coscienza con le gelide dita dello sconforto.

    Forse così si era sentito lo zio. Dio, avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo innocente, quasi per certo con una famiglia, con tanto denaro. Avevo ucciso, ma questa volta sapevo che forse qualcuno aveva visto qualcosa. Dentro all’armadio, quel guscio di noce. Mi pulii la mano insanguinata sui pantaloni prima di voltarmi e portarla sulla maniglia di legno. Poi, dopo un respiro, lo aprii. Là dentro non c’era nessuno. Non esisteva più quel bambino che si era raggomitolato sul fondo con, nella gola, un grido strozzato e un conato di pianto. Fu più forte di me.

    Rimasi a guardare l’interno buio per un altro pugno di secondi, poi richiusi l’anta, mi voltai, mi lasciai scivolare a terra, la schiena contro l’armadio e le ginocchia piegate.

    «
Papà», biascicai. La voce flebile, vulnerabile. In una mano reggevo il coltello imbrattato di schegge di legno e sangue. Piangevo.

    Nel momento in cui poggiai la nuca contro l’armadio e chiusi gli occhi, scoprii che la griglia che mi aveva tormentato non c’era più. Ora, nel buio, riuscivo a vedere tutto quanto.

 

2.

 

    Non era inusuale che i treni fossero in ritardo. Cecil ne aveva presi pochi in vita sua, ma quelle esperienze gli erano bastate per scendere a patti con il destino. Così si era arreso e si era sistemato sul suo bagaglio, gomiti sulle ginocchia e pugni sotto al mento, ignorando i sedili liberi che tappezzavano la banchina.
    Per un istante il silenzio di quegli attimi lo riportò indietro, a due settimane prima, quando Marcel era uscito di scena come desiderava. No, non Marcel, si corresse. Peter, Peter Moore. C’era stata una frazione di nulla prima dello sparo e per un momento aveva creduto che a premere il grilletto fosse stato Barrymore. Non se ne sarebbe nemmeno sorpreso: l’abito non fa il monaco, e quell’investigatore, immaginava, doveva razionare la pazienza come polvere d’oro. Non poteva dire di conoscerlo, ma la breve collaborazione con lui gli aveva fatto capire che quell’uomo la fermezza la tarava con un metaforico contagocce. Gli sarebbe quindi parso ragionevole che fosse stato lui a sparare per primo, vuoi per intenzione vera e propria, vuoi perché l’indice gli si era irrigidito d’istinto.
    Invece no. Barrymore non aveva mosso un muscolo e la pistola di Moore aveva tuonato per prima. Lì nell’aria a tratti affannata di quella piccola stazione di periferia, Cecil si ricordò di come l’esplosione si era infranta sulle pareti, su fino alla cupola, prima di sbriciolarsi verso il basso in invisibili schegge di vetro. Gli erano ronzate le orecchie, una volta, violentemente. L’eco l’aveva reso sordo alle grida che si erano alzate quasi in contemporanea, neanche la sala del teatro fosse diventata una cerchia di anime infernali.
    Inferno e Paradiso. Essere e non essere. Si mosse un poco, quasi a disagio, frugando nel taschino della giacca per estrarre un vecchio orologio. Il sole del mezzogiorno era alto e incise un fastidioso riflesso bianco sul vetro del quadrante. Aveva deciso di lasciare Londra e tornarsene a Finnsbury per un periodo, là dove abitavano i suoi genitori. Era un villaggio piacevole, lontano dalle fabbriche, dal viavai delle carrozze e dagli interessi dei gran signori.
    Una mano si posò sulla sua spalla tanto improvvisamente da farlo sobbalzare. Fu quando si girò e vide un volto amico che sul suo viso si allungò un sorriso in bilico fra imbarazzo e sollievo.
    «Padre Wilfred.»
    «Goldwine. Il vostro bagaglio è tanto comodo da farvi evitare la panchine?»
    C’era qualcosa di ironico, in quella domanda. Cecil vi spese un sospiro divertito mentre si alzava. Qualche giorno prima lo aveva informato della sua partenza. Sarebbe stato bello poterlo salutare, aveva detto. Effettivamente il suo confessore la pensava allo stesso modo.
    «Veramente, padre, avevo avvisato anche il signor Barrymore, ma vedo che non è con voi.»
    «Si tratta di una di quelle persone che si capiscono con un colpo d’occhio. Vi è grato per la collaborazione nel caso Sullivan, ma non lo ammetterà. L’ha affermato lui stesso quando sono passato a casa sua per commentare l’articolo in cui si parlava del suicidio di Moore. “Prima d’ora non avevo mai sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson. Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”. Ha detto proprio così.»
    Cecil si strinse nelle spalle con un sorriso a labbra strette. Volgendo uno sguardo in lontananza, lungo i binari, scorse le luci del treno in arrivo. Due signore e un giovanotto che erano seduti sulle panchine cominciarono a raccogliere le loro cose.
    «Stavo ripensando al teschio», disse, a nessuno in particolare. «È poi innegabile che ognuno ne ha uno in mano. Come Amleto, credo. E ci parla, ci parla giorno e notte, coscientemente e non, mentre lui ti guarda e tu cerchi di capire se dentro le sue orbite vuote ci sia o meno la ragione della tua esistenza. È questo un gioco di sguardi che dura tutta la vita. Penso che quel ragazzo sia esistito più come Marcel Redmayne che come Peter Moore. Penso che le sue domande si siano fermate quando ha visto suo padre morire, e che da allora ha smesso di chiedere, di pretendere spiegazioni, di conoscersi. Davanti al suo teschio non è cresciuto, è sempre rimasto un bambino raggomitolato nell’angolo di un armadio. Così è morto in uno spazio buio e angusto, dietro una beffarda trama a griglia.»
    «Non dovete farvene una colpa, Goldwine. Sono dell’idea che l’avrebbe fatto anche se voi aveste terminato di scrivere quel che voleva leggere.»

    I freni del treni fischiarono con prepotenza. Erano piuttosto lontani dai binari, ma il penetrante odore di ferro, vapore e calore si spinse fino a loro.
    «Quella di cui vi occupate è una grande forma di espressione», riprese padre Wilfred non appena il rumore calò di tono, «ma non credo avrebbe salvato Moore dai suoi propositi. Penso si tratti di psicologia. Ci sono cose che l’arte non può cambiare.»
    «Questa è la parte in cui mi dite che dove l’arte non riesce, interviene Dio?» Goldwine, notando che il sacerdote aveva colto e apprezzato il velo d’ironia con cui aveva posto la domanda, sventagliò la mano in un gesto leggero, sorridendo appena. «Non fa nulla, lasciate stare.»
    Si chinò per raccogliere il bagaglio e se lo caricò su una spalla. Dovette impegnarsi un poco, dedusse Wilfred, dal momento che le sue braccia erano sottili ed eleganti. Si avviarono entrambi verso il treno, che nel frattempo si era fermato sbottando nervosamente come un vecchio viaggiatore. Da uno dei vagoni era saltato sulla banchina un controllore, fischietto al collo e cappellino rigido in testa. Si fece avanti al piccolo trotto per aiutare le due signore con i bagagli.
    «Lo zio di Moore ha ucciso il fratello per denaro», disse a quel punto Cecil, muovendosi con passo tranquillo. «Moore ha fatto lo stesso, almeno in chiave simbolica, con Sullivan. Non ha agito per crudeltà, padre; si è espresso per volontà del trauma.»
    «Purtroppo questo ha fatto di lui un ragazzo che ha tolto la vita ad un innocente.» Padre Wilfred si fermò al suo fianco, davanti alla porta di uno dei vagoni. «Questa è la lettura che riesce più facile alla giustizia umana. Ma quella divina, Goldwine... quella divina saprà salvarlo. Il desiderio per il denaro è destinato è diventare uno spietato modello di vampirismo, in futuro più che mai; per denaro, fratello toglie a fratello e amico toglie ad amico. È sempre stato così e ora, alle porte di questo tanto atteso Novecento, si aggirano già i vampiri del nuovo secolo.»
    «Come sempre, padre, le vostre parole sanno di profezia», se ne uscì il ragazzo, con un sorriso a suo modo divertito. Gli tese la mano, gli occhi leggermente stretti per via del sole che, riflettendosi sul treno, gli pizzicava fastidiosamente le pupille. «Arrivederci, dunque. Conto di tornare, quando me la sentirò. Portate un saluto alla vostra bella St. Jerome.»
    Il sacerdote accettò la stretta di buon grado, avvolgendo le dita forti attorno a quel palmo così giovane e leggero. «Possa Dio seguirvi, Cecil. Sarete sempre il benvenuto.»
    Le labbra di Cecil Goldwine si sollevarono per metà, complice un involontario istinto d’affetto e gratitudine. Salì sul vagone poco dopo avergli lasciato la mano e non si voltò quando, già accomodato accanto al finestrino, sentì le porte richiudersi. Era un treno piuttosto piccolo, niente scomparti, solo due file di sedili per ogni lato. Lasciò il bagaglio per terra, in un angolo, prima di togliersi il cappello e poggiarselo in grembo, sistemando la nuca sul poggiatesta. Seduto a quel modo, il pomo d’Adamo disegnava un profilo spigoloso e insolito sul suo collo snello. Aveva già recuperato il biglietto, ma dubitava che il controllore sarebbe passato prima di venti o trenta minuti di viaggio.
    Davanti a lui, accanto a quella che poteva essere sua madre, sedeva un bambino di forse cinque, sei anni. Se ne rese davvero conto solo quando il treno si mosse, scivolando sui binari con la dolcezza di un’amante prima di buttare nell’aria un appassionato soffio di vapore. Era rimasto a guardarlo per un momento, con l’attenzione estatica di ogni bimbo, come se in lui avesse riconosciuto qualcuno. Le sue piccole gambe ciondolavano teneramente dal sedile e le sue labbra erano schiuse in un’espressione di infantile ingenuità.
    «Ciao», gli disse.
    Goldwine gli sorrise con paziente benevolenza. Si sentiva improvvisamente stanco. Stanco e sollevato. «Ciao, piccolo.» Quasi sentì la sua stessa voce come un mormorio.
    Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale, aveva detto padre Wilfred. E Barrymore, caro, brusco Barrymore, aveva annunciato a Cecil che effettivamente qualcuno che portava il nome del suo amico c’era davvero. Ebbene, quel bambino che sedeva su quel treno al suo posto era eccome. Ce l’aveva piazzato Dio, o la scienza, o l’arte.
    Il suo nome era Marcel Redmayne.
 



 

* * *



Questa storia è stata, ripeto, un esperimento bello e buono, anzi non evito di confermare che si è trattata di una sfida vera e propria. Non sono esperta del genere, ma tutto sommato mi sono divertita a vedere i fatti e i personaggi svilupparsi da sé; soprattutto, me la sono spassata disseminando indizi.
Vi lascio quindi una lista di tutte quelle piccole "coincidenze" che ho voluto seminare qua e là.

- St. Jerome [chiesa di padre Wilfred]: nella traduzione italiana è "Gerolamo" o "Girolamo". Si tratta del Santo protettore degli orfani; in effetti, Peter Moore è orfano.
- Jonathan Barrymore: ho scelto questo nome per richiamare John Barrymore. A lui si deve la storica interpretazione di Hamlet, a Londra, nel 1924. Dal momento che la storia richiama esplicitamente e in più passi l'Amleto almeno nel messaggio, ho trovato carino proporre questo parallelismo.
- Eugene T. Sullivan: questo collegamento è stato casuale. La coincidenza ha sbalordito anche me xD Avevo già scelto il suo cognome e quando mi sono informata circa la tragedia di Shakespeare, ho scoperto che Barry Sullivan, attore, interpretò a sua volta Hamlet, sempre a Londra, ma nel 1852.
- "The Pirates of Penzance" [opera in scena nel penultimo capitolo]: opera comica in due atti, realmente esistente. Riguardo questa mia scelta, ci sono due appunti da fare; per prima cosa, un altro Sullivan, questa volta Arthur Sullivan, fu uno dei compositori che si occuparono della musica. Per seconda cosa, il manifesto per come l'ho descritto è esistito davvero, così come la frase, "I am an orphan boy", che accompagna il titolo. Il poster è datato 1880. In ogni caso, la citazione è un altro espediente per far cadere l'attenzione sul tema degli orfani - e quindi, ancora una volta, sul colpevole del delitto.

Credo di aver scritto tutto. Dico "credo" perché ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa - ma se anche fosse, questi quattro punti riassumono le coincidenze più importanti, quelle di primo impatto. E sì, ho dovuto fare qualche ricerca per poter seminare nei capitoli queste informazioni, ma mi sono divertita anche a fare questo. C'è qualcosa di più vivo nelle storie che ti convincono alla curiosità di saperne di più, e scrivere questo racconto mi ha in effetti insegnato qualcosa.
Ringrazio chi si fermerà <3
Dew_

 




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