Il signore degli inferi

di DonnieTZ
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ratto ***
Capitolo 2: *** Il melograno ***
Capitolo 3: *** Sei mesi vicini ***
Capitolo 4: *** L'amore, la morte e la madre ***
Capitolo 5: *** Allontanarsi ***
Capitolo 6: *** All'inferno ***



Capitolo 1
*** Il ratto ***


 
1 - Il Ratto
 
Mio padre è seduto dietro la scrivania, le mani incrociate sulla superficie liscia e lucida. Alle sue spalle riposano libri dall’aspetto raffinato, qualche premio, foto con persone che penso dovrebbero significare meno di me, ma che ai suoi occhi valgono tutto. Valgono troppo.
Davanti a lui c’è un uomo che non riconosco, né posso vedere bene. Scorgo solo i capelli, tanto pallidi da sembrare bianchi, che ricadono disciplinati dietro la nuca. Resto a osservare quella scena per un attimo, colta da una tensione acuta e inspiegabile.
«Scusate» mormoro, intimidita.
«Dovresti bussare» risponde secco mio padre.
Ha ragione e taccio, torcendomi le mani per quell'evidente mancanza. Lo sconosciuto si volta appena e io abbasso gli occhi, fissandoli sulla pelle ormai arrossata delle mie dita. Non posso davvero vederlo, ma sento il suo esame scivolarmi addosso come acqua gelida. Solo quando sento il rumore scricchiolante della pelle della sedia – segno che l'uomo è tornato alla sua posizione originaria – rialzo il viso.
«Ormai sei qui, cosa vuoi?»
«Lisa vorrebbe… lei vuole andare a fare shopping» sussurro, inceppandomi nel tentativo di parlare in modo chiaro.
«E perché ci sei tu qui?»
«Per i soldi» ammetto.
Non ho idea del motivo per cui sono diventata un messaggero, non capisco né voglio capire. Mi vergogno per questa frase, in modo profondo e terribile. Sento l'imbarazzo strizzarmi i polmoni con la sua insistenza calda, lo sento aspirare l'aria insieme a ogni pensiero razionale. Vorrei scappare, vorrei solo uscire da questa stanza asfissiante e cupa per rifugiarmi in camera, al sicuro dalla delusione di mio padre e dallo sconosciuto che vi sta assistendo.
«Puoi dire a mia moglie che non le darò un centesimo. Ora vai.»
Si conclude così quell'inutile discussione. Non mi guardo indietro a quell’ordine, preferendo chiudermi velocemente la porta alle spalle. Fuori, Lisa mi guarda in attesa, il bicchiere stretto fra le mani e un braccio avvolto attorno al corpo scheletrico. Il vestito le pende addosso come stoffa bagnata su un mucchio d'ossa e il sapore acido della paura mi invade la bocca a quella visione.
«Allora, Serena?» domanda, scandendo il mio nome come un insulto.
«Ha detto che non ti darà un centesimo» provo a dirle, ignorando la sua espressione irritata.
«Ma tu hai detto che erano per te, vero?»
«Io…»
«Quanto puoi essere stupida?» sibila, senza farsi sentire oltre la porta. «E quanto puoi essere brutta? Dio… e dire che tuo padre non fa altro che parlarmi di quanto tua madre fosse bella.»
Con queste ultime considerazioni ancora fra le labbra, sparisce per il corridoio, traballando sui tacchi. Il timore lascia spazio a una consueta sensazione, un morso acuto e penetrante, un dolore pungente. Fame. La sento esplodere nella pancia, ma mi impongo calma, razionalità, logica. Non devo cedere all’enorme vuoto che mi si apre in corpo, non posso mangiare, non se voglio essere come mia madre.
Sto per avviarmi sul parquet immacolato, quando la porta dello studio si apre. Per un istante temo sia mio padre e sono pronta a scivolare via con le poche forze che mi restano, invece è l’uomo misterioso.
Ha la pelle chiara come il muro contro cui si staglia, occhi azzurri, pallidi, acquosi, e ciglia candide. Sembra una strana divinità, ma è solo albino, realizzo con più calma. Dopo un istante mi rendo conto di fissarlo in modo davvero maleducato e abbasso nuovamente lo sguardo sul pavimento.
La mia stanza è l'unico angolo di pace, quando mi ci rinchiudo dentro con sollievo.
 
♦⸎♦
 
È uno strano rumore quello che mi sveglia durante una notte agitata. Le lenzuola appiccicate alla pelle mi ricordano un sudario, così le scosto con gesto deciso e lascio che il freddo della stanza si infranga sulle mie gambe nude. È tutto troppo buio, troppo scuro, troppo impenetrabile. Mi avvio veloce verso l’interruttore, con la paura stretta addosso, sbattendo contro qualcosa che mi graffia la gamba. Una volta che la luce scoppia nella stanza tutto mi sembra in ordine. Non riesco neanche a capire cosa mi abbia svegliata.
Poi lo sento.
Nuovamente.
Un gemito.
Il rumore che mi ha svegliata non era parte dei miei incubi, ma della realtà della casa.
Mio padre è in viaggio da una settimana, un lavoro importante di cui non ho capito il senso, e io non dovrei neanche essere a casa. Avrei dovuto dormire da un’amica, ma l'idea di fermarmi a cena da qualcuno che potrebbe notare il mio digiuno mi ha nauseata. Ho inventato una scusa e sono tornata a casa nel pomeriggio, dopo scuola, trovandola vuota e stranamente pacifica. Ho sentito rientrare Lisa tardi, ma non ho voluto imporle la mia compagnia per salutarla, preferendo restare in camera a fingere di non esserci. Per la prima volta dopo molto tempo, l'enorme casa si è dimostrata utile.
Adesso, però, l'assenza di mio padre diventa incredibilmente spaventosa.
Un gemito impercettibile segue il precedente.
Qualche altro rumore ovattato mi tende sull'attenti.
Che Lisa abbia portato a casa un amante? Forse dovrei solo tornare a letto, mi dico.
Eppure c’è qualcosa di inquietante in quel rumore, qualcosa di sinistro, di strisciante. Qualcosa di malsano che non vuole abbandonare il mio istinto. Forse è solo la notte a rendere tutto più macabro.
Sono quasi voltata, rivolta nuovamente alle lenzuola che mi aspettano, quando qualcosa si infrange in un fragore di vetro. Il suono spezza il silenzio facendomi sobbalzare.
Immobile, paralizzata dal terrore per qualche istante – tutto sangue gelido nelle vene e fiato trattenuto –, finisco per decidermi, aprire la porta e correre verso la stanza dei miei.
Busso agitata, immersa nel buio del corridoio che non ho illuminato per la fretta.
«Lisa?» chiedo, titubante.
Uno strano suono attutito si interrompe immediatamente, come sorpreso dalla mia voce.
«Lisa, tutto bene?»
Niente, nessun assenso, nessuna risposta.
Premo sulla maniglia e la porta si apre lentamente al mio tocco. Cigola, violando il silenzio.
«Lisa?» ripeto, avanzando nella camera per accendere la luce.
Quando lo faccio e tutto si illumina, capisco che Lisa non può rispondermi. Che non potrà mai più. Che non c’è risposta che si possa dare dal regno dei morti.
È riversa sul letto, con il braccio che penzola nel vuoto e sembra quasi indicare una lampada infranta in miliardi di pezzi sul pavimento. Il suo viso mi guarda di uno sguardo vitreo e spalancato, arrossato in modo inquietante. La lingua è fuori dalla bocca, in una smorfia grottesca, i segni sul collo sono strisce irritate e scarlatte.
Un grido esce dai miei polmoni senza che possa controllarlo.
In un istante vengo afferrata alle spalle. Mi agito, scalcio, non capisco cosa stia succedendo e cado al suolo, sbattendo con forza la testa. Una marea di puntini galleggiano davanti ai miei occhi, subito seguiti dal dolore pulsante nel punto in cui la superficie dura del pavimento ha incontrato la mia tempia. Non riesco ancora a mettere a fuoco ciò che ho davanti, ma un peso mi schiaccia al suolo e un’ombra nera si tende verso la mia faccia.
«Non dovresti essere qui» scandisce una voce profonda, un timbro che sembra uscire dalle oscurità dell’oltretomba.
Cerco di urlare aiuto, cerco di dimenarmi, ma nessuno dei miei tentativi va a buon fine. Sono stordita e non ho idea di cosa stia accadendo. Per la prima volta della mia vita, nonostante io stia morendo un poco ogni giorno, ho davvero paura di andarmene, di smettere di vivere, anche se la mia vita non è mai stata più di una pacata sopravvivenza.
«Ora io ho un problema.»
La voce che mi parla è estremamente calma e mi increspa la pelle di brividi. Finalmente, i miei occhi decidono di collaborare e posso vedere l’uomo che mi sta parlando: ha un cappuccio tirato sul capo, ma riconoscerei i suoi tratti fra milioni di sconosciuti.
L’albino.
«Capisci cosa sto dicendo?» chiede.
Scuoto la testa in segno di diniego. Non capisco nulla, né di quello che cerca di dirmi, né di quello che è appena successo. Tento nuovamente di alzarmi, ma resto immobile, al suolo, schiacciata sotto il peso del suo corpo.
«Che dovrei fare con te?» domanda – forse più a se stesso – con tono concentrato.
La testa imprime scosse dolorose al cervello, il corpo non collabora nei suoi tremori incontrollabili, tutto è così insensato e terrificante.
«Io…» ingoio la paura e provo nuovamente a formulare una frase, «io non parlerò con nessuno.»
«Ma sei qui e lei è morta. Ti domanderanno e tu risponderai, come tutti. Questo è un problema per me, lo capisci?»
Le sue domande sembrano rivolte a una bambina particolarmente lenta, ostinata nel suo non voler capire qualcosa di elementare, così annuisco senza sapere neanche perché. Sono pietrificata dalla paura, sono annichilita dal terrore, voglio solo chiudermi nella mia stanza, portare indietro il tempo, voglio soltanto…
Alla fine l'oscurità vince su tutto, calando sui miei occhi, risucchiandomi, pesante e impietosa.


 
Ciao!
Questa storia è arrivata seconda a un contest che mi ha davvero ispirata... spero sia divertente leggerla quanto per me è stato scriverla. Come dice l'introduzione è ispirata al mito di Ade e Persefone. Ho cercato di comprendere nella storia le parti più salienti e “fantasiose” del mito.
EDIT: la storia è revisionata e un epub gratuito può essere scaricato dal mio sito (nel caso vogliate leggerla senza essere online)!
Fatemi sapere!
A presto...
DonnieTZ

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Capitolo 2
*** Il melograno ***


 
2 - Il Melograno
 
Riprendo conoscenza e vomito. Sono rannicchiata sul fondo di una doccia, mentre scrosciante acqua gelida mi colpisce il viso. Un cane abbaia da qualche parte, ma è un rumore confuso di sottofondo. Il gelo mi penetra sotto i vestiti, nelle ossa, ma è in qualche modo piacevole. Mi lascio sciacquare via di dosso la paura e il dubbio, poi, con mano tremante, chiudo il getto.
Non so dove sono, né ricordo chiaramente cosa sia successo.
Senza preavviso, il vetro della doccia scorre e si spalanca.
«Sei sveglia.»
L'albino troneggia su di me con un asciugamano in pugno e l'aria seria; ai suoi piedi un enorme pitbull bianco sembra impaziente di fare la mia conoscenza. Davanti a quest'immagine, la realizzazione, la paura, l'insicurezza mi assalgono e resto immobile, infreddolita e tremante. Speravo, in qualche parte profonda della mia mente, fosse solo un incubo. Speravo di essere semplicemente impazzita una volta per tutte. Una serie di pensieri si rincorrono: non so se uscirò viva da questa storia, non so come fuggire, non so come salvarmi. È il pitbull a interrompere la mia disperazione silenziosa, allungandosi verso la mia faccia per leccarmi con gioiosa ostinazione.
«Cerbero!» lo richiama il suo padrone.
Dopo qualche altra festa, il cane decide finalmente di allontanarsi e io tento di mettermi in piedi, anche se le gambe mi reggono appena. L'albino mi avvolge nell'asciugamano, trattenendomi allo stesso tempo perché io non cada.
Ci sono troppe domande a premere nella mente – dove siamo? chi sei? cosa vuoi? – e la prima ad uscire non è più importante delle altre.
«Cosa... cosa succederà ora?» domando.
Cosa mi farai?
Non sembra cattivo alla luce del bagno, non sembra violento mentre si assicura che il telo mi copra, eppure continuo a rivedere dietro le palpebre il viso morto di Lisa, le sue mani inermi, i suoi occhi vitrei. Forse la sua non è una violenza evidente, una cattiveria facile da riconoscere quando non ha l'obiettivo di uccidere. E, a questi pensieri, non so cosa mi faccia più paura.
«Ho parlato con tuo padre.»
A quelle semplici parole comprendo qualcosa che avrei dovuto comprendere subito. Nonostante il panico, la confusione e l'orrore, doveva essermi ovvio e mi sento una stupida. Mio padre e quest'uomo sono d'accordo. È stato mio padre, probabilmente, a ordinargli di assassinare Lisa.
L'orrore di questa realizzazione mi nausea ancora di più, stringendo lo stomaco in una morsa.
«Gli ho chiesto un risarcimento, per il rischio che ho corso con la tua presenza in casa. Quando si premunirà di farmelo avere, ti farò tornare da lui.»
Risarcimento. Un altro modo per dire riscatto. Mi viene da piangere, ma ricaccio indietro le lacrime nel tentativo di essere più razionale di quanto non sia stata fino a questo momento.
Non posso dar voce al dubbio che mi sta lentamente mangiando l'anima: pagherà? Mio padre mi ha sempre guardato come si guarda un ricordo doloroso tornato dal passato per tormentarlo. Come un'ombra che gli ricorda cos'ha perso. Eppure sono sua figlia, non posso dubitare di questo legame, non devo. Pagherà, mi dico, certo che pagherà.
«Lui... lui la voleva morta?»
L'albino non mi risponde e la sua espressione si indurisce impercettibilmente. Mi guida fuori dal bagno, mentre la mente si affolla di pensieri confusi.
Perché non divorziare? Ripenso a Lisa, tento di immaginare cos'avrebbe fatto davanti a una richiesta di separazione. Avrebbe arraffato quanto più possibile, avrebbe preteso e non avrebbe avuto torto, dopo tutto quel tempo passato a essere confrontata con una donna sparita nel nulla molti anni prima. Mio padre, però, non l'ha vista così. E ora Lisa è morta.
«Questa sarà la tua stanza finché resterai. Farà freddo, la notte. Ti ho lasciato qualche mio maglione. Non credo starai qui molto, comunque. Ti verrò a prendere per mangiare. Comportati bene e non darmi problemi, sai cosa sono capace di fare e non vorrei complicare la situazione.»
Le sue frasi sono brevi, la sua minaccia chiara e, non avessi visto così tanto, forse mi farebbe ancora più paura. Ma ho già guardato in faccia i miei incubi e mi sento come anestetizzata. Non sono lì, in quella stanza estranea, con un assassino. Non sono io. Mentre le sue parole mi scivolano addosso, osservo la piccola finestra.
Forse potrei...
«È inchiodata» dice caustico l'uomo, seguendo il mio sguardo.
Mio padre pagherà, ne sono certa.
Perché non dovrebbe?
Pagherà, vero?
 
♦⸎♦
 
Ho avvertito chiaramente il suono della serratura quando l'uomo mi ha lasciata sola e resto chiusa in camera per quelle che sembrano ore, sola con il vorticare dei pensieri nella mia testa. Fuori sta nuovamente calando la sera e presto sarà trascorso un giorno intero dalla morte di Lisa e dal mio rapimento. Sono passata attraverso talmente tante fasi che non le conto neanche più: ho ondeggiato fra il panico e l'inconsapevolezza per ore, ho pregato, ho sperato, ho perfino urlato e pianto. Altri momenti, invece, sono trascorsi più tranquilli, e in quegli istanti ho potuto guardare la stanza attorno a me. È piccola, avvolta da sottile carta da parati dai minuscoli fiorellini rosa, con alcuni lembi che ricadono penzolanti creando lunghe ombre spettrali. Il letto a baldacchino non ha più alcun tessuto a coprirlo e sembra lo scheletro esposto di qualche animale grottesco. Le lampade sui due comodini in legno scuro sono abat jour con la stoffa che richiama i fiori delle pareti. La porta del bagno interno è bianca e scrostata in parecchi punti, con lunghe schegge di legno pallido esposte e raschiate. La stanza di qualche bambina vissuta secoli indietro, forse, che adesso ha solo l'aria inquietante di un luogo abbandonato.
L'autunno picchia forte fuori dalla finestra quando l'oscurità è finalmente scesa. Mi avvolgo nel maglione scuro che l'albino mi ha lasciato. Odora di dopobarba e mi copre fino a sfiorare il ginocchio. Mentre l'ennesimo brivido mi avvolge e sto meditando di rintanarmi sotto le coperte, qualcuno bussa e qualcun altro gratta la superficie della porta. Io non rispondo; sono stremata, sconfitta, abbattuta.
La chiave gira e l'albino irrompe. Ha lo sguardo quasi... preoccupato.
«Stai male?»
Certo, la tempia pulsa di tanto in tanto, inviando ondate di dolore fisico. Ho avuto troppo a cui pensare nelle ore di solitudine, però, per preoccuparmi della botta e delle sue conseguenze.
«Scendi, è pronto.»
«Non ho fame» rispondo, il tono piatto.
Cerbero entra e salta sul letto. Mi prendo un attimo per osservare le sue feste così fuori luogo, che si palesano nello scodinzolare allegro della coda bianca. Tutto è così stupidamente bianco quando si tratta di quest'uomo.
«Sembra tu stia morendo di fame, vieni a mangiare.»
La frase mi colpisce come uno schiaffo. Sì, mi sto affamando. Da mesi, ormai. E la mia è una fame perenne, senza tregua, costante. Un vuoto che non desidero riempire in alcun modo, perché è il sintomo del mio piccolo successo. Quando riesco a non mangiare, la soddisfazione mi scorre dentro, rianimandomi appena.
«No» rispondo, mesta.
Si avvicina al letto e sembra più minaccioso di quanto mi sia parso fino a ora. Con il suo sguardo di ghiaccio mi perfora, penetrandomi l'anima, senza chiarire se si tratti di una minaccia o di un'accusa. Vorrei urlargli di smetterla, ma non ne ho la forza, né il coraggio. Vorrei dirgli che so bene quanto sia stupido, quanto le mie vittorie siano sconfitte, quanto sia ovvio che qualcosa non va, in me. Vorrei confessargli di essermi accorta solo il giorno prima di non voler morire, non davvero.
Invece sospiro. Non è il caso di fare capricci, così mi alzo per seguirlo, abbattuta, con Cerbero fra piedi che scodinzola felice. Il suo entusiasmo è così fuori luogo che il mio cervello sembra quasi rifiutarsi di registrarlo.
La scala scricchiolante conduce a un piccolo salotto con il camino dove il fuoco scoppietta e riscalda l'ambiente. Mi getto un'occhiata attorno e la casa sembra una baita montana un po' trascurata; posso vedere la cucina e il piccolo tavolo con i piatti e le stoviglie. Mi avvicino sentendo l'odore di carne ben cotta, ma mi assale più nausea che fame.
«Avanti» mi incita l'uomo, fermo.
Sospiro ancora e prendo posto, ma non riesco davvero a guardare nel mio piatto. Quando trovo la forza scopro che la mia bistecca è già stata tagliata e che mi potrò servire solo con il cucchiaio. Questo, ovviamente, se avessi intenzione di mangiare. L'uomo ha pensato a tutto, tranne alla mia piccola guerra personale. Lo osservo mangiare con calma, bere brandendo con decisione il bicchiere, come se non esistessi. Alla fine del pasto si alza, afferra il mio piatto e lo appoggia a terra, dove arriva un entusiasta Cerbero a finire dove io non ho neanche iniziato.
«Non mangi mai, è così?» domanda una volta che si è nuovamente seduto, continuando a fissare davanti a sé.
«Io...»
Mangio, in realtà, qualche volta. Quando mi sento troppo debole e la testa mi gira. Poche cose, studiate e ponderate, ben calibrate. Di certo non bistecche.
L'uomo afferra un melograno dalla fruttiera e lo spacca con suono secco, restando con le due metà fra le dita.
«Ora mangerai.»
La sua voce è dura e le sue parole sono un affondo. Mi impaurisce, facendo nascere brividi che increspano la mia pelle esposta. Non riesco a staccargli gli occhi di dosso, mentre mi mette davanti uno, due, tre, quattro, cinque, sei chicchi di melograno.
«Dai.»
Il suo è un ordine ed è così duro che non riesco a impedire al mio braccio di alzarsi e alle mie dita di afferrare un piccolo seme rosso. Lo infilo tra le labbra e mangio. Mangio per sei volte, lentamente. I sei chicchi sono scivolati giù, posso quasi sentirli galleggiare nel mio stomaco, affondare dentro di me come un patto, una promessa tacita.
«Brava» mi premia l'uomo.
Alzo gli occhi e finalmente lui mi guarda.
Brava.
Sembra stupido ma trovo una sola, singola risposta.
«Grazie» mormoro.
 
Ecco il secondo capitolo!
Sono contenta che il primo sia piaciuto ad alcune persone e le ringrazio infinitamente!!
Sarò contenta se vorrete farmi sapere cosa vi pare di questo, ma anche chi si limita a leggere le mie storielle in silenzio mi riempie di felicità!
Alla prossima...
EDIT: come detto nel primo capitolo, qui potete scaricare l'e-book gratuitamente!​
DonnieTZ

 
 
 

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Capitolo 3
*** Sei mesi vicini ***


 
3 - Sei Mesi Vicini
 
Ogni giorno scorre via uguale: mi sveglio, mi lavo, infilo una maglietta e un maglione sulla pelle nuda e attendo. Mi ha portato qualche vecchio libro, qualche foglio, una corta matita. In realtà aspetto solo i pasti, quando posso scendere e guardare oltre le finestre il panorama che la prima sera, a persiane chiuse, non ho potuto assaporare. Montagne con le vette già spruzzate di bianco, pini alti il cui profumo arriva fino in casa e Cerbero che corre fuori, inseguendo chissà cosa. Non sembra esserci altra civiltà, nei dintorni.
Sono tenuta costantemente d'occhio, quando non sono chiusa in camera. Ogni mia mossa, ogni mia occhiata, ogni gesto e, soprattutto, ogni boccone che arriva alle mie labbra. All'inizio si è trattato di pasti magri, facili da gestire, che si sono poi trasformati in vere e proprie porzioni. L'uomo che mi tiene prigioniera, pare quasi imboccarmi con i suoi occhi fissi su di me e, piano, sto riuscendo a mangiare sul serio. Sembra diventata una strana missione, la sua, e cedergli il potere di decidere cosa fare di me ha sollevato dalle mie spalle un peso che conoscevo a memoria, ma non avevo mai realizzato esistere. Di tanto in tanto mi capita di vomitare, ma lui mi sente e corre dentro la mia stanza, con i soliti movimenti calmi e decisi, squadrandomi con freddezza.
«Tutto bene?» la sua domanda.
Un'alzata di spalle la mia risposta.
Intanto il tempo passa. Settimane, poi mesi. Una sola, costante domanda: mio padre pagherà? Con lo sbiadire dei giorni, però, un'altra le si sostituisce: voglio che mio padre paghi?
Certo, a livello razionale desidero tornare alla mia stanza, alla mia vita, alle poche e superficiali amicizie, alla solitudine, alla tristezza, all'abbandono...
No, non voglio.
Voglio.
Non voglio.
A volte mi sembra quasi la mia testa stia per scoppiare, mentre nelle tempie pulsa solo confusione.
L'albino è una presenza assidua, ma silenziosa. Parliamo poco, forse niente, e le sue frasi brevi mi tengono poca compagnia. Cerbero, al contrario, sembra davvero affezionarsi a me, con la sua festosa spontaneità e il suo veloce scodinzolare.
Qui, senza il giudizio esterno, senza la vita vera a pretendere io sia all'altezza, vestita di abiti larghi, mi sento in un comodo limbo. Non posso decidere nulla, non posso fare niente, non posso sbagliare davvero. Questo posto dovrebbe sembrarmi l'inferno e invece non mi sono mai sentita tanto accudita, non mi sono mai sentita così... in pace. Senza pressioni, senza giudizi, senza obblighi. Di tanto in tanto penso a mio padre, o a Lisa, e allora piango o mi sveglio nel bel mezzo della notte, sudata sotto la moltitudine di coperte.
Come questa notte, quando un urlo lancinante mi esce dalle labbra e vengo svegliata dalla mia stessa voce, confusa e spaventata. L'incubo riguardava proprio Lisa, i suoi occhi vitrei, pallidi e assenti in cui sono affondata fino a riemergere per accorgermi che erano i miei, fino a realizzare che il cadavere ero io.
La luce si accende e subito l'albino è nella stanza, con Cerbero alle spalle.
«Che succede?» domanda, affannato.
Non l'ho mai visto davvero preoccupato – se non per qualche lampo nei suoi occhi, una scia di emozione dentro le iridi pallide –, mai lo è stato come in questo momento.
«Io... ho solo avuto un incubo» riesco a spiegare, con la voce ancora tremante e rauca.
Le sue spalle avvolte dalla maglietta grigia si rilassano appena, svelando una ritrovata tranquillità che mi stupisce sia stata persa del tutto.
Si avvicina e si siede sul bordo del letto.
«Tuo padre non ha chiamato» ammette, senza che il suo tono di voce sia colorato da pietà o tenerezza.
«Immaginavo» rispondo, mettendomi seduta.
«È questo a preoccuparti?» continua a chiedere.
Ci penso, lo faccio sul serio, tentando di trovare una vera risposta, un'affermazione accettabile, invece mi esce solo la verità.
«No» ammetto.
«Cosa, allora?»
Fissa dritto davanti a sé con un'ostinazione che ormai mi è familiare. Cerbero sale sul letto e lui appoggia la sua mano sulla sua testa, carezzandolo pigramente.
«Lisa» dico.
Emette un piccolo suono di comprensione.
Restiamo in silenzio, poi, mentre il cane passa dalle sue attenzioni alle mie. Non voglio restare sola, perché l'incubo è ancora vivido e pare aleggiare nell'aria, appiccicarsi alla mia pelle, strisciarmi addosso.
«Ti pagano per uccidere?» domando, all'improvviso.
Probabilmente è una domanda sciocca – pericolosa, perfino – dal momento che posso benissimo immaginare la risposta, eppure voglio sapere con certezza, voglio conoscere, capire.
«A volte.»
«Perché hai chiesto altri soldi a mio padre? Insomma perché non mi hai semplicemente...»
Abbasso lo sguardo e mi ritrovo a giocare con il bordo della coperta, nervosa. Il sogno ritorna alla mia mente, ma cerco di ricacciarlo indietro.
«Ho valutato le conseguenze possibili. Se ti avessi uccisa avrei corso più rischi, tutto qui.»
«Tutto qui» gli faccio eco.
Finalmente si volta e i suoi occhi incontrano i miei. Qualcosa di simile all'agitazione mi serpeggia dentro. La stessa assurda sensazione che ho avuto da piccola, sulle montagne russe, appena iniziata la discesa. Un vuoto di stomaco e di pensieri, una leggera paura, accompagnata dalla certezza di essere al sicuro.
«Buonanotte, Serena» conclude alzandosi.
«Tu sai il mio nome, ma io non so il tuo.»
«E non lo saprai» dice quando ormai è sulla porta. «Lascio Cerbero qui, magari ti farà bene.»
 
♦⸎♦
 
Mi risvegliano le umide leccate del cane. Probabilmente è tardi, vista la luce che entra dalla finestra, ma non mi sento molto riposata. Tutti i pensieri delle settimane precedenti mi hanno tenuta sveglia a lungo e non riesco a dare ordine a questa confusa nube di se e ma. Ho smesso di chiedermi che fine abbia fatto mio padre, non voglio sapere quanto tenga a me, perché non si sia fatto avanti per riportarmi a casa. Non voglio pensare alla morte o a cosa potrebbe accadermi se lui non dovesse mai pagare. Quello che mi ossessiona davvero, infatti, è la strana sensazione di questa notte. L'uomo pallido che entra nella stanza e invade i miei pensieri. Il suo sguardo, la sua preoccupazione e ciò che si è smosso dentro di me. Più ci penso e più sembra stupido e folle, ma se mi soffermo sull'idea mi rendo conto di qualcosa di terribile: è l'unica persona che si sia mai preoccupata per me.
L'unica.
In tutta la mia vita.
Sono consapevole, in una parte ammutolita dei miei pensieri, che si tratti di un meccanismo di difesa, di qualche assurdo ingranaggio che si inceppa quando puoi vedere solo una persona per giorni, settimane, mesi, ma non ho la forza di razionalizzare.
«Ok, ho capito, Cerbero, mi alzo.»
Scosto le coperte e mi dirigo spedita al bagno. Sotto la doccia cerco di non rimuginare troppo e in pochi minuti sono pronta. Quando esco, già avvolta in uno dei grossi maglioni che mi sembrano ormai una seconda pelle, quasi mi scontro con l'albino.
È in piedi, in mezzo alla stanza.
«Colazione» mi informa, lapidario.
Non rispondo, limitandomi a seguirlo silenziosa. Perfino il suo fidato amico a quattro zampe sembra cogliere l'inspiegabile tensione che ci circonda.
Sediamo a tavola e mi prendo i soliti minuti necessari per scendere a patti con l'idea di mangiare. Lui non mi guarda, neanche per sbaglio.
«Se non dovesse pagare cosa ne farai, di me?» domando, prima di mordere la fetta di pane cosparsa di marmellata, masticando a forza.
Fa fuoriuscire l'aria dalle narici in uno strano sospiro, quasi esasperato. Non che le emozioni siano davvero manifeste sul suo viso, ma ho imparato a coglierne i piccoli segnali.
«Cosa vuoi che dica?» chiede, mantenendo sempre la stessa controllata calma.
Alzo le spalle anche se lui non può vedermi.
«Penserò a quest'eventualità fra qualche giorno» confessa, alla fine.
La prima vampata di gelo riguarda la paura, subito seguita da una quieta rassegnazione.
«Stai davvero pensando di... di...» cerco un termine adeguato che non suoni terribile, senza riuscirci.
Di uccidermi?
«No» risponde.
Lo fa in modo troppo veloce, troppo deciso, troppo assoluto. Tanto che qualsiasi sensazione mi si sia agitata dentro finisce per implodere. Tanto che è costretto finalmente ad affondare i suoi occhi gelidi nei miei per capire se ho colto il significato della sua risposta, per capire quanto sia stato irreparabile pronunciare quella sillaba.
E sul mio viso dev'esserci scritto tutto. Dev'esserci dipinto troppo.
«Finisci di mangiare» conclude, tornando a fissare il vuoto.
 
 
Ringrazio tutti quelli che sono passati per lasciare una traccia nei capitoli precedenti, chi legge, segue, preferisce...
Grazie mille!
Spero continui a piacervi e spero vorrete farmi sapere cosa ne pensate! 
A presto! 
EDIT: come sempre (mi ripeto, lo so), se volete continuare la lettura offline, sul mio sito potete scaricare la storia agggratis.
DonnieTZ
 

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Capitolo 4
*** L'amore, la morte e la madre ***


 
 
4 - L'Amore, La Morte, La Madre
 
Faccio un veloce calcolo, mentre leggo alla luce della lampada e fuori nevica. Sei mesi, circa. Sei lunghi mesi. Riecheggiano nella mia mente le sue parole: penserò a quest'eventualità fra qualche giorno.
Una bugia? Sono passati molti, troppi giorni da quella frase e ancora non so quale sarà il mio destino. Tutto questo inizia in qualche modo a snervarmi e non aiutano le sensazioni che non riesco a spiegarmi. La sua vicinanza, la sua presenza ingombrante, i suoi sguardi.
Quegli sguardi.
Sempre attenti a non esistere, a non sfiorarmi, ma inspiegabilmente profondi. Le rare volte che i suoi occhi si sono incastrati ai miei hanno fatto nascere solo vuoto all'altezza delllo stomaco. Una strana fame che con il cibo non ha nulla a che fare.
Sono così presa da questi pensieri che quasi urlo per lo spavento quando bussa alla porta. Quando ha iniziato a farlo?
«Avanti.»
Entra deciso come sempre e non mi getta la minima occhiata.
«Devi leggere una cosa» dice.
Si avvicina e noto finalmente la pagina di giornale che stringe in pugno. È un singolo foglio, un ritaglio, e lo trattengo fra le mani che tremano per il freddo.
«Cos'è?»
«Leggi.»
Lo faccio, lasciando scorrere gli occhi fra i caratteri minuti. E più leggo più sono sconvolta, più capisco e più mi sorprendo. No, non può essere vero. Assolutamente e categoricamente. Non è possibile.
«Mio padre è...»
«Mi dispiace» sussurra.
La sua voce è così flebile che posso udirla appena, ma la sento e mi distrugge. La sensazione che in queste settimane si è annidata in me sembra esplodere in milioni di pezzi.
Mio padre è morto. Eppure la sua morte non è l'unica notizia sconvolgente. Con le lacrime che pizzicano gli occhi, proseguo la lettura.
«Mia madre? Lei è... lei è viva? Sta bene? Mi sta cercando?»
«A quanto pare, sì.»
L'articolo parla della morte di Lisa e del mio presunto e sospetto rapimento, delle indagini che si sono soffermate su mio padre, del fatto come il suo cuore non abbia retto. Parla del passato, rivela gli sforzi del grande magnate dell'industria per tenere la moglie lontano dalla figlia di cui non si hanno notizie. La stessa donna testimonia dei tentativi di mettersi in contatto con la giovane in passato, tutti ostacolati dall'uomo. Parla delle sue paure, del suo senso di colpa. Alla fine fa un appello a chiunque possa sapere qualcosa della ragazza.
Di me.
Mia madre è viva.
Mentre mio padre...
Alzo gli occhi verso l'albino e le lacrime rotolano giù dalle mie guance. Mi sento strana, scollegata, sconnessa. L'unica cosa che mi ancora alla realtà è lo sguardo di quest'uomo. Il signore dell'inferno, il re dei morti.
«Nessuno pagherà» comprendo, alla fine.
«No» ammette.
«Morirò?» chiedo nuovamente, come l'ultima volta.
Si siede sul bordo del letto e si prende la testa fra le mani. È un gesto così esplicito che fatico ad associarlo alla sua persona. Mi asciugo le lacrime con il palmo, ingoiando i singhiozzi, per sporgermi a prendere una delle sue mani.
È calda, liscia, e non si scosta dal contatto con la mia.
Lentamente, come se entrambi fossimo solo pallide imitazioni di esseri umani, si volta a fissarmi. Ricambio quello sguardo inspiegabile, colmo di oscurità che non riesco a capire. Appoggia la mano sulla mia guancia, delicatamente, riscaldandola dove l'umidità delle lacrime l'ha raffreddata.
Poi, com'è iniziato, tutto si interrompe. Si sposta, come ustionato, e si avvia alla porta.
«Hai freddo. Vieni di sotto» ordina, categorico.
Improvvisamente realizzo tutto quello che mi è accaduto e mi crolla addosso il mondo. Inizio a piangere senza riuscire a fermarmi. Prima silenziose lacrime che scivolano dagli occhi senza che io possa fare nulla, poi singhiozzi che mi scuotono e un leggero lamento che mi esce dalle labbra. Un dolore sordo all'altezza del petto. Insistente, implacabile. Le immagini di Lisa, di mio padre, delle foto di mia madre strette nel cranio.
Ho gli occhi tanto colmi di lacrime da non riuscire a vedere bene l'albino che mi solleva dal letto e mi porta fuori dalla stanza. Mi aggrappo, affondando le dita nella carne delle sue spalle, appoggiando la testa alla sua maglietta, affogando nel suo profumo di pulito, di limpido, di gelo.
Scende le scale come se pesassi nulla. Tutto è immerso in un buio irreale, se non per il caminetto e una piccola lampada. Respiro a fondo, nonostante i singhiozzi, cercando di calmarmi, e mi volto leggermente per osservare Cerbero che riposa sul divano, una coperta e un libro distrattamente posati accanto a lui.
L'uomo mi appoggia sulla superficie morbida e Cerbero si sveglia. Ancora assonnato, appoggia il muso sulle mie gambe e accarezzarlo sembra avere un effetto rilassante su tutto il mio essere. L'albino si siede al mio fianco.
«Va un po' meglio?»
«Io... io credo di sì.»
«Devo riflettere.»
Lo osservo, attenta, senza smettere di far scorrere il corto pelo morbido di Cerbero fra le dita.
«Non ci sono molte scelte» constato, mesta, dopo aver stabilizzato il respiro.
Lui mi avvolge la coperta sulle spalle, ma non indugia in alcun contatto, preferendo concentrarsi sul mantenere acceso il fuoco.
«No, non ce ne sono.»
Parla anche lui dopo lunghi minuti di silenzio e un brivido di vero terrore mi striscia lungo la spina dorsale. Forse, alla fine di tutto questo, morirò. Forse mi ucciderà. E io sono così sciocca da sentirmi come mi sento quando lui è con me, da credere di avere un qualche piccolo effetto su di lui come lui ne ha su di me. Come ho sempre fatto, finisco per inseguire legami che non esistono.
Un pensiero, piccolo ma intenso, inizia a farsi spazio nella mia mente: ho avuto i miei campi elisi. Per sei mesi quest'inferno mi è parso il paradiso e forse dovrei solo dire grazie e abbracciare la morte. Nessun rimpianto, nessun rancore. Una vita fatta di un padre distante, una madre che credevo perduta per sempre, una matrigna che non ha fatto altro che odiarmi.
«È la fine, allora» concludo.
Non risponde. Si alza e torna su per le scale, lasciandomi con Cerbero e la sua presenza calda sulle gambe. Non restiamo separati a lungo, però. Presto è nuovamente al mio fianco. In un pugno stringe il foglio di giornale stropicciato, nell'altro un cordless dall'aria antiquata.
«C'è un numero» dice, senza dare spiegazione alcuna.
«Un numero?»
«Un numero da contattare in caso si avessero tue notizie» spiega, finalmente.
Sono comunque confusa e aspetto mi dica cosa devo fare come neanche Cerbero farebbe mai con il suo padrone. Lui mi porge il telefono continuando a evitare il mio sguardo. Si limita a snocciolare un indirizzo che immagino sia del luogo dove ci troviamo.
«Ho già composto il numero, devi solo chiamare.»
Si alza nuovamente e si siede vicino a una delle finestre, sbirciando il paesaggio attraverso le persiane. Come a accorgersi del turbamento del suo padrone Cerbero abbandona le mie gambe per farsi coccolare da lui.
«Non capisco» ammetto.
«Mi sembra semplice, Serena. Chiama.»
«Ma...»
«Chiama» ordina, perentorio.
Obbedisco e porto l'apparecchio all'orecchio, attendendo una risposta.
«Numero speciale per...»
«Sono io» taglio corto.
«Io?» domandano dall'altra parte.
«Serena. Quella che state cercando. Vorrei parlare con mia... mia madre» riesco a dire.
Sento agitazione dall'altra parte della cornetta, trambusto, qualche domanda sussurrata, alcuni sospetti sulla mia onestà. Alla fine è una donna a parlare.
«Pronto?» chiede.
«Sono Serena e vorrei parlare con mia madre» ripeto.
«Eccomi» risponde la voce dopo qualche secondo, mantenendo una certa freddezza.
«Sono davvero Serena, credimi. Volevo dirti dove mi trovo e... volevo...» qualche lacrima mi scorre sulle guance, mentre cerco di dire qualcosa di sensato.
«Serena? Sei davvero tu? Che cosa è successo? Dove sei?»
Ripeto l'indirizzo che mi è stato detto poco prima e, nel farlo, il mio sguardo cade sull'uomo alla finestra. Mi sta osservando. Scruta nel mio animo, a fondo, possedendomi con le sue iridi di ghiaccio.
«...nessuno mi ha fatto del male. Avevo bisogno di staccare da tutto e da tutti e ho chiesto al mio ragazzo di ospitarmi per un po'.»
È una bugia e forse la scopriranno, ma il mio sguardo continua a essere incatenato a quello dell'uomo e non posso rivelare che è l'assassino di Lisa, non posso dire che è il mio rapitore. Non ce la faccio. Sul volto dell'albino si dipinge autentico stupore, genuina sorpresa.
«Dobbiamo raccontarci molto, Serena. Non credevo di poterti mai parlare, di poterti mai vedere! Mi dispiace di non essere stata abbastanza forte in questi anni, di aver avuto paura, io... Quando tornerai?»
«Non lo so con certezza.»
«Puoi farti accompagnare? Anche solo per un incontro. Se hai bisogno verrò a prenderti, o manderò qualcuno se sei più a tuo agio. Ero così preoccupata, lo siamo stati tutti! Dopo quello che è successo alla seconda moglie di tuo padre credevamo fosse capitato qualcosa di brutto anche... abbiamo scoperto che eri sparita solo dopo la morte di tuo padre. Ha detto che eri da alcuni amici, ma non riuscivamo a contattarti in nessun modo.»
«Mi dispiace di averti fatto preoccupare. Qui sono un po' fuori dal mondo e non sapevo che qualcuno mi stesse cercando» spiego, la mente confusa, le parole che escono come se non fossi io a pronunciarle.
«Manderò qualcuno a prenderti domani, ti andrebbe bene?»
Riesco finalmente a sciogliere i miei occhi da quelli dell'uomo e mi domando se lo rivedrò mai dopo questi sei mesi assieme.
«Certo.»
Attacco prima che la donna, la sconosciuta che ho scoperto essere mia madre, possa dirmi altro. Mi sento strana. È tutto assurdo, tutto sbagliato, tutto così incontrollabile. Sembra quasi io sia in balia di una tempesta senza la possibilità di restare aggrappata a nulla. Sento il peso della realtà tornarmi sulle spalle, schiacciarmi, pretendere.
«Perché lo hai fatto? Perché non hai detto la verità?»
La sua voce è rigida, meccanica, mentre si alza e si avvicina.
«Lo sai perché» mormoro.
È un'ombra gigantesca, si frappone fra me e il camino, oscurandomi. La sua mano raggiunge il mio viso e lo alza, perché possa guardarlo.
E, piano, si china su di me.

 

Ciao!! Come state??
Un grazie speciale a chi si è fermato a leggere, un GRAZIE enorme a chi si è fermato a recensire!
A presto!!
EDIT: come sempre, qui potete scaricare l'e-book gratuitamente!
DonnieTZ

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Capitolo 5
*** Allontanarsi ***


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5 - Allontanarsi
 
È un bacio delicato, leggero, titubante. Sembra quasi abbia paura io mi spezzi e forse mi sta davvero succedendo. Forse, al tocco delle sue labbra, tutto il mio essere si è disperso per la stanza. Forse non tornerò mai più intera.
Percepisco tutto. Il modo in cui la sua mano trattiene il mio viso, il leggero sfiorare della sua lingua, il suo profumo, il suo corpo che si china sul mio, la mia schiena tesa per arrivare a lui, il caldo che si diffonde dal caminetto accarezzando la mia pelle. Ogni singola sensazione mi sembra amplificata.
Il mio cuore, poi, batte tanto forte che temo lui possa sentirlo.
Quando interrompe il bacio, quasi mi accascio sul divano, in una stanchezza che non è fisica o mentale ma solo emotiva. Il suo pollice mi accarezza piano la guancia e il suo sguardo non si separa dal mio.
«Non voglio andarmene.»
Le parole mi escono fuori prima che io possa fare qualcosa per fermale. Sono istintive e sono, per mia sfortuna, la pura e semplice verità. Una verità distorta, malata, tinta di tutti i motivi per cui non dovrebbe esistere.
«Non voglio tu vada» la sua risposta.
Mi stupisce, eppure sono certa anche questa sia la verità, per quanto scomoda o terribile, per quanto inaspettata e impossibile. Davanti a tutto questo, cosa dovremmo fare?
«Mi dispiace» dico.
«Non hai colpe» bisbiglia, avvicinando nuovamente le nostre bocche.
Ed è più esigente, più profondo. Scava in angoli nascosti della mia anima, marchiandomi. Con questo bacio so che non sarò più io a uscire da questa casa, so che sarà impossibile non cambiare, so che il pensiero di lui occuperà tutto ciò che sono.
Si china appena di più, sento le sue braccia attorno al corpo, calde, che scendono, afferrandomi con forza fino a sollevarmi dal divano. Mi aggrappo alle sue spalle, mentre lui si avvia lento verso le scale. Supera la porta della mia stanza e ne apre una poco lontano, per adagiarmi sul letto che la occupa, prima di accendere una lampada. Tutto è impregnato del suo odore, tanto che resto inebriata per un istante. Vorrei poterlo avere sempre addosso, sulla pelle.
«Non so il tuo nome» ricordo a un tratto, fissandolo.
È così vicino che posso davvero vedere ogni sfumatura delle sue iridi, ogni minuscola piega delle sue labbra, ogni sottile ciocca bianca che gli ricade sulla fronte.
«Adelbert» rivela dopo qualche attimo di silenzio.
Percepisco finalmente il perché della strana nota nella sua voce, un accento mascherato, il vago ricordo di un'origine.
Il desiderio di averlo si mescola a quello di sapere tutto di lui ed è così forte che spinge nuovamente le mie labbra sulle sue, come a unire con i nostri corpi anche le nostre menti. Stiamo sbagliando. Io, ad assecondare il desiderio che potrebbe essere nato solo dalla reclusione, e lui con me. Perché sono in suo potere, sono a sua disposizione. Una parte di me sa tutto questo, il resto di me lo ignora.
Scivola con le dita sotto i vestiti troppo larghi che indosso, mi accarezza, mi sfiora, mi stringe. Mi spoglia. Il freddo pizzica nella penombra della stanza e mi sento comunque troppo esposta, troppo imperfetta, così sgraziata. Il suo peso su di me mi ripara, però, e presto voglio sentire la sua pelle sulla mia, dimenticandomi del resto. Sfilo la maglietta e accarezzo ogni centimetro di lui, ogni tratto di epidermide. Le sue dita mi cercano e mi trovano, facendo uscire sottili gemiti dalle mie labbra. Le mie mani fanno lo stesso con lui, fino a che i nostri corpi non si uniscono per davvero e lo sento dentro in ogni modo possibile: nella carne, nell'animo, nella mente. Con quei suoi occhi mi esplora alla ricerca di un assenso che ho dato più volte, ma che vuole nuovamente. Scontro ancora la mia bocca sulla sua, perché ci voglio uniti, una sola cosa, un solo essere, una singola entità. Non abbiamo cautele, razionalità, senso di ciò che sia giusto e di ciò che non lo sia. Ed è tutto così sbagliato...
Si muove piano, con la stessa delicatezza con cui mi ha sempre trattata, affondando la mano fra i miei capelli, lasciandomi addosso una scia di piccoli baci e di sospiri leggeri. Il ritmo aumenta lentamente, impercettibilmente, finché non sono io a chiedere di più, spingendolo contro di me con le mani, andandogli incontro con il corpo. Finalmente si abbandona e insegue il suo piacere senza preoccuparsi per me, per quello che può accadermi, per ciò che sto pensando.
Quando ci separiamo, sfiniti e sconvolti da questo inaspettato coinvolgimento, le lacrime stanno già rigando le mie guance. E non importa quanto forte mi stringa, non importano le parole che mi sussurra all'orecchio, nulla ha valore, neanche l'idea che conoscerò finalmente mia madre.
Voglio solo restare qui, con lui, lasciargli fra le mani il peso intero della mia vita perché ne faccia quello che vuole.
 
♦⸎♦
 
Il mattino dopo, il letto è freddo e sono da sola a annegare fra le coperte. Lui non c'è, ma su una sedia poco lontana ci sono alcuni vestiti nuovi. Immagino li abbia comprati per me e mi dirigo in bagno per lavarmi e indossarli.
Non impiego più di venti minuti e sono già diretta in cucina, guidata dal profumo della colazione. L'idea di mangiare torna ad appesantirmi lo stomaco, ma mi siedo, cauta.
Adelbert è appoggiato al ripiano, con le braccia incrociate al petto e Cerbero ai piedi che affonda il viso nella ciotola.
«Buongiorno» mormoro.
Mi rivolge un sorriso malinconico e accennato che mi colpisce in pieno petto.
«Ha chiamato tua madre. È in viaggio» mi informa sedendosi. «Stai bene?» chiede poi.
«Come?» domando, perplessa, portando la tazza alle labbra.
«Incontrerai tua madre.»
Ci penso. All'idea sento uno strano senso di oppressione all'altezza dei polmoni. Eppure la mia mente è altrove, è con lui, è per lui. Non riesco a pensare ad altro se non alle sensazioni che mi ha fatto provare, al desiderio di restare.
Abbasso gli occhi, concentrandomi sulla colazione. Non voglio legga sul mio viso tutto quello che sento, non voglio mi giudichi una sciocca e, più di ogni altra cosa, non voglio sapere cosa prova lui. Mi deve bastare la notte passata, devo farne tesoro, custodirla nella mente, lasciare che la realtà non la schiacci, annientandola.
La sua mano scorre sul tavolo e si posa piano sulla mia.
«Tornerò a casa» dice, scrutandomi. «A Berlino ho una casa.»
«Perché me lo stai dicendo?» domando, imponendo alle lacrime di tornarsene da dove sono venute.
«Quello che ti ho fatto, ieri sera, non doveva succedere. Dovresti raccontarlo a qualcuno e dire dove sarò io, per quando mi verranno a cercare. Ho fatto tante cose sbagliate e non me ne sono mai pentito, ma quello... non avrei dovuto.»
Ritira la mano, ma mi ci aggrappo con le unghie.
«L'ho voluto io.»
«Non sei e non eri nella condizione di prendere decisioni, Serena. Ti ho tenuta qui, questi mesi, e la tua vita è dipesa da me. Tutto è dipeso da me.»
«Credi io non lo sappia? Credi non sappia quanto sia sbagliato? Credi non capisca cosa stia succedendo? Non sono stupida!» dico, alzando la voce, sfogando la rabbia.
Non vorrei urlare, non vorrei sputargli contro tutta la mia frustrazione, ma mi fa sentire subito meglio. Non credo di aver mai davvero gridato tutto il mio disappunto a nessuno e ora capisco quanto questo mi abbia logorato. Qualcuno suona al campanello e mi immobilizzo.
Lui fa un profondo sospiro prima di parlare.
«Vai» dice soltanto.
Mi chino ad accarezzare Cerbero con un enorme groppo in gola che mi impedisce di respirare.
«Addio» gli mormoro.
Non posso guardare Adelbert. Non posso né voglio. Devo solo andarmene senza voltarmi indietro.

 

Opsh, chi si era dimenticata di aggiornare? Proprio io. 
Anche perché è già tutta scritta, quindi...
Spero vi piaccia... in ogni caso grazie anche solo per averla letta!!
Al prossimo (ed ultimo) capitolo!! 
EDIT: per scaricare l'ebook gratis basta andare qui, come siiiiempre.
DonnieTZ

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Capitolo 6
*** All'inferno ***


 
6 – All'Inferno
 
Sono passati mesi. Lunghi mesi difficili fatti di terapia e della necessaria riappacificazione con me stessa e con mia madre.
All'inizio è stato difficile guardare negli occhi un'estranea e tentare di considerarla diversamente, di vederne l'affetto e l'amore. Abbiamo parlato a lungo, ci siamo avvicinate anche grazie a un uomo che non ha fatto altro che allontanarci. Perché le sottili crudeltà di mio padre sono state le stesse, verso di lei e verso di me, tanto che della bella donna che ho sempre immaginato non resta che un essere fragile, ingrigito dalla vita. Non posso perdonarla per non aver lottato, ma non posso biasimarla per essere fuggita lontano e aver acconsentito – per le minacce e le ritorsioni – a non contattarmi. Si sta sforzando per recuperare il tempo perso, e mi sto sforzando anche io.
La mia storia sulla fuga con il mio ragazzo non l'ha mai convinta, né ha convinto gli agenti, ma ho continuato a ripeterla e ripeterla, fino quasi a crederci. Così le persone hanno dimenticato e sono andate avanti. La sera della morte di Lisa non c'ero, almeno secondo i loro verbali e la mia testimonianza. Invece di andare da un'amica a dormire, sono scappata con un uomo per non dover vedere mio padre mai più. Per questo non ho saputo nulla, per questo ero all'oscuro. Una storia non abbastanza solida da essere a prova di credibilità, ma solida abbastanza da reggere alle lievi pressioni delle domande.
Quando sono venuti a prendermi, Adelbert è stato costretto a dare fondamenta alla mia bugia, mentre lo osservavo dalla macchina che mi avrebbe riportato alla realtà. Ho avuto il terrore confessasse tutto, ma quella scelta – la prima di tante, in questa nuova vita – l'ha affidata al mio controllo. Da quel momento non ho più saputo nulla di lui.
Cerco di convincermi ogni giorno che qualsiasi cosa io abbia provato fosse il frutto malsano della mia condizione, ma mi manca ogni minuto, di ogni ora, di ogni settimana. Mi è mancato per tutti questi lunghi sei mesi da quell'ultimo sguardo.
Ho una madre, ora, e mi aggrappo a un equilibrio precario che non sembra essere abbastanza.
Un equilibrio che si palesa in giornate normali in cui, come ora, esco di casa – un bacio sulla guancia di mia madre, a cui non sembro abituarmi – e mi avvio verso la fermata dell'autobus poco distante. A tratti, come ogni volta, mi sembra quasi di percepire la presenza di Adelbert da qualche parte, alle mie spalle. Una speranza sciocca, a cui mi impongo di non dare forza, che mi sforzo di annientare.
Eppure non resisto, come ogni singola mattina: devo sbirciare, devo avere la conferma che lui non c'è e che non ci sarà mai, che non esiste se non nei miei ricordi. Così getto una rapida occhiata, mantenendo il passo, continuando a dirigermi verso la fermata.
Ed è quasi doloroso quando vedo un'auto che non conosco e che procede lentamente, è quasi un incubo dai tratti del sogno. Perché in macchina sembra esserci proprio lui.
Sono costretta a infilarmi in un vicolo, appoggiandomi al muro per prendere fiato.
Sto impazzendo?
Ho paura?
Sono felice?
L'ho immaginato?
Impiego lunghi secondi a respirare, ma riesco a controllarmi. Se è davvero lui devo parlargli, devo incontrarlo. Nonostante il tremore vago delle mani, nonostante la morale, la sicurezza, la ragione. Esco dal mio nascondiglio, mi guardo attorno e lo trovo: è davvero lui. Fuori dall'auto, che si guarda attorno, contrariato.
«Lo sapevo» dico, dopo essermi avvicinata alle sue spalle.
È sempre lui, proprio come lo ricordavo, ma è qui, ed è terribilmente reale, con la sua pelle pallide e i chiari occhi penetranti. Dopo giorni passati a sperare, finalmente...
«Non dovevi partire per non tornare? O vuoi così tanto che ti denunci da metterti a pedinarmi pur di ottenere il tuo scopo?» le parole mi escono fuori, naturali come respirare.
Lo sto accusando, sì, perché ho imparato a dare voce alle mie frustrazioni, a esprimere i miei turbamenti.
E mi è mancato tanto da fare male.
«Volevo assicurarmi stessi bene» ribatte, appoggiandosi alla macchina e incrociando le braccia.
«Sto bene» lo rassicuro, senza fare niente per nascondere l'asprezza della mia voce.
«Lo vedo. Sembra tu stia mangiando» valuta, squadrandomi.
«È così» rispondo. «Sto frequentando un centro e sto lentamente migliorando. Anche se non è delicato farlo notare.»
«Non sono delicato.»
«No, non lo sei» concordo io.
«Con tua madre?» domanda.
Mi rilasso appena, consapevole dell'inevitabilità di questa discussione e del fatto che voglio averla, che voglio sentire la sua voce ruvida, che voglio berlo con gli occhi per ricordare ogni istante passato con lui. Sistemo la tracolla e mi avvicino al suo fianco, posandomi alla macchina.
«Stiamo ancora imparando a conoscerci, ma è una brava persona. Ha preso una casa qui, così possiamo vivere insieme e posso frequentare i corsi. È... è tutto come l'ho sempre voluto.»
«Tutto?» domanda, neutro.
«Quasi» mi ritrovo a rispondere. «Ho una piccola ossessione, ma sto lavorando anche a quello.»
«Posso aiutarti in qualche modo?» chiede, voltandosi appena per guardarmi.
«Non è del tuo aiuto che ho bisogno. Dovresti essere il mio carnefice e comportarti come tale, invece di confondermi. Così mi passerebbe, questa stupida ossessione.»
Abbozza un sorriso che diventa sempre più ampio e io lo guardo da sotto in su, piegando la testa di lato, perplessa.
«Sono contento che tu stia bene, Serena» dichiara, quasi sollevato.
Mi sente diversa perché sono diversa. Mi concedo rabbia e frustrazione e accettazione e perdono. Mi sono concessa di cambiare, da quando ci siamo detti addio, fino al punto di accettare che lo voglio e che non mi importa di tutto il resto, per quanto sia sbagliato.
«L'università ha approvato la mia richiesta e andrò a studiare all'estero per un semestre» confesso, tutto d'un fiato, per vedere l'effetto che può avere su di lui questa decisione.
Resta qualche istante interdetto da questa rivelazione, forse perché non coglie il nesso.
«A Berlino» aggiungo.
E poi inizio a spiegare, quasi confessando una colpa terribile, esponendomi troppo, con troppe parole.
«Ti avrei trovato, in qualche modo. In tutto questo tempo non ho mai smesso di fare ricerche su di te con i soldi che mio padre mi ha lasciato. Non sarebbe dovuto risultare difficile e invece ho impiegato tantissimo per scoprire qualcosa. Tutto grazie a quella baita...»
«Non sono giusto per te. Non sono una brava persona» mi interrompe, serio.
«Non ho bisogno che tu sia una brava persona. E quello che è giusto per me lo decido io» rispondo, risoluta, alzando un po' il mento come a sfidarlo a dire il contrario.
Invece mi bacia, delicato a attendo, circondandomi il viso con una mano.
«Sei mesi» mormora.
Lascio andare un suono d'assenso. Autunno e inverno da passare insieme, di nuovo. Se devo andare all'inferno, tanto vale farlo con lui che lo conosce bene.
 
Ciao!!
Eccolo qui, il finale. 
Spero vi siate divertite(i) a leggerla...
Come sempre ringrazio chi l'ha letta e mi ha sostenuta nella pubblicazione. Prima di tutto Shinkari per aver indetto il contest, poi Danila e Graceavery per il loro continuo, costante e fantastico "esserci", qualsiasi cosa io scriva... 
Grazie a chiunque abbia lasciato una recensione, abbia seguito/preferito/ricordato la storia! Siete speciali!


EDIT: la storia, così revisionata, ha cambiato completamente finale. Prima il POV era quello di Adelbert, ma rileggendola ho trovato stonasse con il resto. Ci sono più riferimenti al processo di "guarigione" di Serena e si sottolinea meglio il suo cambiamento. Se notate delle discrepanze nelle recensioni, questi cambiamenti sono il motivo principale. Anche se la storia è arrivata seconda con il vecchio finale, volevo mi rispecchiasse e fosse rivista a puntino, ecco. 
Come sempre, se desiderate averla nel vostro reader o altro, la trovate qui gratuitamente. 

DonnieTZ

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