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di Shewrites220898
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1.1 ***
Capitolo 2: *** Parte 1.2 ***
Capitolo 3: *** Parte 2.1 ***
Capitolo 4: *** Parte 2.2 ***
Capitolo 5: *** Parte 3.1 ***
Capitolo 6: *** Parte 3.2 ***
Capitolo 7: *** Parte 3.3 ***
Capitolo 8: *** Parte 3.4 ***
Capitolo 9: *** Parte 3.5 ***
Capitolo 10: *** Parte 4.0 ***



Capitolo 1
*** Parte 1.1 ***


Parte 1.1

Ancora non ci posso credere che i miei genitori si siano degnati di regalarmi qualcosa di decente per Natale. Solitamente mi ritrovo sotto l’albero la classica carrellata di pigiami, servizi di tazzine da caffè (e io non bevo caffè) e, soprattutto, ciò che odio di più in assoluto: i calzini. Ora, io sono sempre stata una che tiene molto all’igiene e non mi è mai piaciuto sporcarmi, tuttavia, quando giro per casa a piedi nudi anche d’inverno, seguo tutto un altro criterio. Il fatto è che, mentre ascolto la musica, quando passo le ore al telefono con le amiche, e a volte anche mentre studio, mi viene spontaneo mettermi a camminare da una stanza all’altra dell’appartamento, e i calzini mi danno un senso di prigionia, di antilibertà dei piedi (lo ammetto, è un ragionamento malato e filosofico allo stesso tempo, ma la mia mente è capace di produrre soprattutto queste cose).
-Oh! Mio! Dio!- Scandivo bene le parole come fossi in trance, poi mi risvegliai e cominciai a sorridere: la mia bocca assunse una forma alquanto strana, per non dire sadica e inquietante. Dopotutto, è il mio metodo per esternare la gioia. Dovevo solo rendermi conto di avere davanti a me un autentico Mac (il famoso portatile della Apple che, a detta di molti, costa “i milioni”). Subito ho ringraziato mamma con un bacio sulla guancia e papà con un forte abbraccio. E mia sorella? Naah, di lei non mi importa. Ora ho un Mac tutto per me, quindi il resto può aspettare (sembro la pubblicità di una macchina di cui ora non ricordo il nome). Subito mi avviai in camera tutta pimpante col computer in mano, canticchiando e saltellando come una ragazzina euforica (o, per rendere meglio l’idea, come un canguro accaldato). Posai il mio “tesoro” sulla scrivania, togliendo di mezzo tutto quello che c’era sopra, compresa la macchina fotografica, che, fino a quel momento, era stata la mia “life companion” (=compagna di vita, ogni tanto mi prendono gli inglesismi). Delicatamente sollevai il monitor e, proprio mentre mi immaginavo la melodia di “2001: Odissea nello spazio”, questo si accese. Stavo sudando freddo, nonostante stesse addirittura grandinando.  Mi prenderete per una pazza computeromane (termine coniato direttamente dal mio vocabolario), ma fu un’esperienza sensoriale emotivamente forte, soprattutto per una come me, che si è messa a piangere vedendo le scene finali di “Star wars: la vendetta dei Sith”. A parte il quadro sentimentale legato all’accensione dell’apparecchio, dal punto di vista tecnologico, comparve su di esso una serie di numeri e una scritta, in inglese, color giallognolo: “Press f1 key”. Senza esitare premetti il tasto f1, non senza un po’ di fatica che impiegai per trovarlo, nel bel mezzo di quella tastiera piatta e omogenea. Subito dopo lo sfondo diventò azzurrino e comparve il simbolo del loading (caricamento, altro inglesismo). Quanto odio aspettare. Sono un tipo alquanto impaziente, in tutte le situazioni preferisco sempre scegliere la via più breve, senza dover stare lì a ciondolare e ad attendere qualcosa che, secondo me, non arriva mai (pessimismo leopardiano al culmine della sua applicazione). Mentre aspettavo, appunto, che il portatile si caricasse, decisi di mandare un video alla mia migliore amica, per annunciarle la “bella notizia” e, già che c’ero, per farle salire anche un po’ d’invidia.
-Chià, mi senti? Guarda un po’ qua! Hihihi, scommetto che stai rosicando come non mai! Beh, allora che dire? Buon Natale e scusa se ti ho disturbato. Attendo con ansia una tua risposta; mi raccomando, se ti regalano qualche maglietta sai già cosa fare, no? Nel caso non lo sapessi te lo consiglio io: prestarmela. Allora, adesso devo salutarti davvero, la piccola Macy mi aspetta! (Sottovoce) so che è da pazzi svitati dare un nome a un computer, ma ricordati, ogni volta che mi comporto in modo strano pensa all’episodio della parrucca, eheh! Ancora buon Natale, un bacio, e sappi che ti voglio taaaaanto bene! Ciau amore, muah!-
Dopo aver baciato la fotocamera del mio cellulare, premetti il tasto invio. Chiara non impiegò molto a rispondere, dopotutto, lei risponde sempre ai miei messaggi, soprattutto quando si tratta di messaggi vocali e video, perché dice che la mia voce la fa ridere (cosa ci trova di buffo, lo sa solo lei).
-Hei, pazzerella mia! Ma quanto mi manchi? E quanto ti manco io? Domande retoriche, ovviamente ahah. Allora? Che mi racconti? Ho appena visto il tuo video e, devo ammetterlo, mi girano. Eh sì, perché, a parte la piccola “Macy” e tutto ciò che si porta dietro, finora non ho ricevuto nulla di decente: solo una vestaglia morbidosa che già ho, un paio di ciabatte rosa, ma proprio ROSA, e tu sai quanto io odio le tonalità del rosa, e, per finire in bellezza, mia nonna ha avuto la bellissima idea di regalarmi uno stupidissimo, grassissimo, rompissimo, rumorosissimo criceto (Nota: Chiara non è esattamente un’amante degli animali, specie quelli piccoli e pulciosi, come ad esempio i criceti, i gatti e i porcellini d’India, dice che le danno fastidio e che sono pieni di germi). Ora puoi immaginare la mia felicità quando ho visto quel mostriciattolo fare capolino da dentro il pacco regalo. Scherzi a parte, ora vado a convincere mia madre a sbarazzarsi della bestia entro una settimana massimo, e all’oscuro di nonna. Ti saluto tanto tanto e ti auguro a mia volta un buonissimo Natale! Tivubì, muah!-
Non riuscii a trattenere una risata, non appena finii di vedere il video. Riesce sempre a farmi ridere, anche quando non è il momento migliore per farlo. Feci appena in tempo a vedere il video, che subito mi accorsi che finalmente Macy aveva deciso di funzionare. Mi misi a fare un balletto in mezzo alla stanza buia, e iniziai a cantare dalla felicità : -Because I’m happyyyyyyyyyy!-
Cantavo così forte che persino gli inquilini del quartiere vicino sarebbero stati capaci di sentire le mie urla isteriche. Tant’è vero che mia madre subito accorse, pensando che mi fossi fatta male (lei e le sue teorie catastrofiche).
-Niente mà, tutto a posto!
-Va bene amore, tra poco vieni di là con noi, apriamo il pandoro?
-Hai detto pandoro?! Dammi due minuti e sono subito da voi!
Dovete sapere che io sono una ragazza mooolto golosa e, modestamente, buongustaia, anche se sono molti i cibi che non amo, come ad esempio, strano ma vero, la pasta al sugo. Ma ora lasciamo perdere le mie abitudini alimentari, che sono del tutto irrilevanti davanti alla potenza emotiva e tecnologica di Macy. Il suo sfondo era azzurro chiaro, proprio come quello del caricamento, e le icone erano disposte in ordine, per file orizzontali, ognuna con il nome di ciò che conteneva. Beh, è il caso di dirlo, meglio di così non poteva andare. Rimasi a fissare il desktop per non so quanti minuti, quando sentii la voce irritata di mamma e i suoi passi da elefante che si dirigevano verso la mia camera.
-Vengo subito! Aspettatemi per il pandoro!-
Purtroppo per me, però, tre quarti del pandoro erano già “andati”. Che sfiga, proprio nel momento in cui avevo abbandonato Macy! Mi sono toccati gli avanzi. Tanto per cambiare, non appena finii di mangiare, mamma e papà mi levarono il piatto da sotto il naso e, subito dopo, presero la tovaglia e la sbatterono fuori al terrazzo. Il momento era giunto. Nonna e nonno si diressero verso la cucina a controllare la situazione e a pulire un po’ per terra, mia sorella ne approfittò per sfogliare il nuovo libro che le aveva regalato il suo ragazzo (eh sì, è stata più fortunata di me in amore). Lei ama e ha sempre amato la  lettura, e soprattutto la scrittura: tutti i santi giorni viene da me, da mamma o da papà (soprattutto da papà, che è laureato in lettere e di mestiere fa il direttore di biblioteca) e ci assilla con le sue idee per l’immediato futuro. Infatti, Bea sta all’ultimo anno di liceo e da grande vorrebbe tanto fare la scrittrice. Ora dico: va bene che tu abbia una passione, un sogno nel cassetto, quello che ti pare, ma perché devi venire a rompere a me? Okay, forse sembrerò un po’ esagerata, ma se la conosceste bene come me vi rendereste conto di con chi avete a che fare. Chiusa questa parentesi, torniamo a noi: nonna e nonno si sono messi sul balcone a farsi le coccole, mamy e papy sono andati giù nello scantinato a prendere l’occorrente, mia sorella è la solita imbambolata che sta lì a non far nulla, e io mi guardo intorno con aria rassegnata. In effetti, è sempre stata una tradizione di famiglia, ma io non l’ho mai veramente mandata giù, non fino in fondo almeno.
-Et voilà!-
Mia madre ricomparve dalla scalinata con in mano due bei mazzi di carte.
-Et voilà!-
Subito dopo comparve anche papà, con in mano una scatola grigia di plastica abbastanza ingombrante.
-Finalmente si comincia!-
-Yuppi ye- dissi io con flemma. Il mio entusiasmo e la mia voglia di giocare a mercante in fiera la sera della vigilia di Natale sono paragonabili a quando studio matematica in un pomeriggio di un sabato soleggiato. Con un abile gesto da marziale, mamma scaraventò le carte sul tavolo e si sedette a capotavola, dove, di solito, si siede il mercante. Papà si posizionò alla sua sinistra, e io, per non destare sospetti di distrazione, mi misi al capotavola opposto (anche se non era poi così lontano, mi permetteva comunque di dare ogni tanto un’occhiata al cellulare - o all’orologio per un rapido conto alla rovescia). Mamma cominciò a dare le carte e tirò fuori le fisches dalla scatola grigia. Dopo aver sistemato ognuno i propri mazzi e disposto le fisches al centro, a seconda dei premi, iniziammo il gioco. La singola partita durò (o almeno sembrò durare) circa una quarantina di minuti e alla fine, con la iella che mi ritrovo, non avevo neanche vinto. Decisi allora di consolarmi nel miglior modo possibile, ovvero andando a vedere come stava la mia Macy. Stava bene, in effetti, aveva messo il salvaschermo, non si era spenta e, una volta mosso il mouse, vidi che tutto era rimasto invariato. La prima cosa che faccio con un nuovo apparecchio elettronico, di solito, è tentare di connetterlo il prima possibile alla rete fissa. Mi ci volle una mezz’ora buona per portare a termine quest’operazione. In effetti, nonostante me la cavi abbastanza bene con il cellulare, io e i computer non andiamo molto d’accordo, per quanto riguarda il metodo di utilizzo (una volta ho provato a scaricare un programma per creare tabelle sul PC di casa e stavo quasi per mandare in cortocircuito l’intera rete elettrica del condominio). Comunque sia, dopo questa mission impossibile, mi misi a cercare qualcosina su Google, per vedere se il browser funzionava adeguatamente. Ero così eccitata del perfetto funzionamento di Macy, che quasi quasi mi mettevo a piangere. Poi andai su Youtube e provai a vedere qualche videoclip, per valutare la qualità dell’audio e dell’immagine: inutile dire che erano entrambe ottime. Feci un giro sui vari social network dove ho un profilo (Facebook, Ask, Instagram e qualcun altro) e mi divertii un po’ leggendo qualche post sul blog insegreto.it (una pagina web dove chi vuole può pubblicare un suo segreto, una sua confessione, una sua mania o semplicemente qualcosa di buffo o di strambo che gli è capitato). Infine, scaricai qualche gioco e qualche programma per musica e film, e mi divertii un po’ andando a curiosare tra i vari programmi già installati e tra quelli nuovi che avevo installato io. Dopo un bel po’ di giri di solitario, e dopo che miei occhi assunsero le sembianze di uno schermo, mi resi conto che avevo fatto le due e passa. Mia madre venne a chiamarmi arrabbiata e, dopo aver salutato i nonni, mi sgridò dicendo che avrei dovuto stare in compagnia, invece che farmi due occhiaie così davanti a quel monitor.
-Quel monitor? Quel monitor?!- Esclamai io, correndole dietro mentre si dirigeva in cucina per lavare i piatti.
-Quel monitor, mamma?!-
Mamma mi zittì con l’indice e mi mise nella mano destra una camomilla bollente, e nell’altra due o tre biscotti al cocco, i miei preferiti.
-Tieni, e ora non dire che ti toccano sempre gli avanzi-
Mi diede un bacio sulla guancia e mi augurò la buonanotte. Ricambiai e me ne tornai in camera, felice della “sorpresina” che mamma mi aveva riservato.
-Buonanotte Macy, a domani- Dissi spegnendo il Mac. Stranamente si spense con un colpo secco, e non gradualmente come tutti gli altri computer che ho sempre avuto. Dopo essermi fatta scappare una faccia perplessa riguardo a questo, mi infilai il pigiama, spensi il telefono, aprii il letto e mi distesi. Ah, finalmente il meritato risposo! Pian piano cominciai ad avere sonno e, nel giro di pochi minuti, mi addormentai profondamente.

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Capitolo 2
*** Parte 1.2 ***


Caspita, quanto ho dormito! Stanotte sono decisamente crollata, tanto più che stamattina avevo ancora le occhiaie. Mamma, vedendo che alle undici ero ancora tra le braccia di Morfeo, venne in camera e aprì le tende.
-No, dai, ancora cinque minuti!- Mi lamentai io, coprendomi gli occhi con l’avambraccio e girandomi scocciata dall’altra parte.
-Ma oggi è il giorno di Natale, non puoi stare tutta la mattina a letto! Ricordati che a pranzo abbiamo …-
-Sì sì, lo so, i nonni … uff!-
Praticamente i nonni, specie durante le vacanze pasquali e natalizie, vivevano da noi, e a me questo fatto scocciava un po’. Uno, perché nonna rompe un sacco riguardo alle buone maniere ed è probabilmente la donna più ansiosa che abbia mai conosciuto in vita mia: ogni volta che esco, per esempio con gli amici, vuole che mi porti sempre dietro la carta d’identità, o comunque un qualsiasi foglietto che indichi il mio nome e cognome, così che in caso di perdita o di furto io sia rintracciabile. Una palla! Ma è possibile che a sedici anni una ragazza non può girare per la città senza portare un cartellino?! E’ vero che Roma è enorme e che le probabilità di perdersi non sono poche, ma, in primo luogo, abbi un po’ di fede, dopotutto non sono così stupida e, secondo, ho un discreto senso dell’orientamento, perciò “scialla” (così si dice dalle mie parti al posto di “nessun problema”). Tornando al discorso di prima, nonostante io voglia un mondo di bene ai miei nonni, non capisco perché debbano venirmi dietro così tanto, gli basti calcolare che tra due anni prenderò la patente, diventerò maggiorenne e finalmente potrò andare in giro per il mondo a fare tutte le foto che voglio. La fotografia è il mio hobby preferito: adoro cogliere l’attimo, immortalare un momento, vedere che tutto cambia, ma in realtà il ricordo rimane immutato. Ho questa passione da quando ero bambina, sin da piccola mi è sempre piaciuto stare con la fotocamera in mano e premere tasti a casaccio; fatto sta che, dopo aver imparato a maneggiare quell’arnese da autodidatta finalmente ho cominciato a diventare una sottospecie di fotografa: ad esempio, una volta una ragazza che conoscevo mi ha chiesto di farle un servizio fotografico e che mi avrebbe pagata. Da lì sono entrata, o almeno si fa per dire, nel mondo del business, e ho cominciato a racimolare un bel po’ di quattrini. In tre anni di duro lavoro sono riuscita a metter su un bel gruzzoletto, che vorrei spendere per il mio futuro. Infatti, ho intenzione di lavorare come fotografa libera e, se capita, aprire anche un mio studio dove esporrò i miei lavori più convincenti. Ma purtroppo i sogni non sempre si avverano. Tornando a noi, ero rimasta all’ansia di vita di mia nonna, che forse è il suo punto debole più catastrofico. Nonno invece è molto meno apprensivo, ma allo stesso modo è un tipo all’antica e molto ma molto severo: pensa sempre e solo al lavoro e, nel caso di me e mia sorella, alla scuola. Ogni volta che prendo un’insufficenza anche non grave, comincia a tirar fuori discorsi sul futuro, sul fatto che se non si studia non si guadagna bene eccetera, e, spesso e volentieri, a me questi discorsi annoiano. A parte il fatto che io sono sempre stata una studiosa, a differenza di quella sfaticata di mia sorella che invece è brava solo nelle materie umanistiche (e, con la sua stupidità, è andata a scegliere il linguistico), tutto sommato l’unica materia in cui non me la cavo più di tanto è il latino: non so voi, ma per me “cogito ergo sum” vuole dire “pizza e patatine” (e vi giuro che non è la fame). Detto questo, rimane il fatto che avremmo dovuto passare un altro lunghissimo pomeriggio in compagnia dei nonni, quindi mi è toccato alzarmi. Ora mi sembra d’obbligo parlare della mia pigrizia, anche se non è esattamente un argomento che reputo interessante: da piccola ho sempre fatto sport, mi piaceva un sacco andare a nuoto o a pallacanestro, che ho praticato per molti anni, arrivando addirittura al terzo turno (il penultimo, in pratica); negli ultimi anni, causa studio (o semplicemente non mi andava), mollai tutto all’improvviso e mi ritrovai con papà che mi criticava continuamente (lui è un grande sportivo) per aver lasciato basket, e mamma che insisteva con la danza, che personalmente odio (non so se si era già capito, ma sono un po’ “maschiaccio”). Fatto sta che, sia per tenermi in forma, sia per far contenti i miei, quest’anno ho cominciato zumba: una specie di aerobica mista a balli di gruppo, faticosissima, ma per fortuna ho trovato l’orario e i giorni perfetti (solo due volte a settimana, meglio di così!). Nonostante questo, però, a meno che non si tratti di una partita a basket o di un’escursione fotografica, l’unico tragitto che percorro è quello per andare dal letto alla sedia di scuola e dalla sedia di scuola al divano (fortuna che Chiara prende l’autobus con me all’andata e al ritorno, altrimenti non trovo neanche la motivazione per alzarmi). Il sabato e la domenica, invece, la motivazione è mamma che entra furtivamente dentro la mia camera e si mette a far confusione e ad aprire le tende senza che io le dica niente (odio quando si entra in camera mia senza il mio permesso, anche se si tratta di papà o mamma). Fatto sta che quel giorno, 25 Dicembre 2012, dopo essermi alzata, mi andai a stravaccare sulla sedia della cucina e mi misi a mangiare la prima cosa che trovai sul tavolo, ovvero i corn flakes (che solitamente non mangio, perché mi seccano la bocca). Ma non mi importava, avevo fame punto e basta. Subito dopo andai a lavarmi e dopo ancora arrivò il momento della scelta epocale della giornata: cosa mi metto oggi? Dopo minuti e minuti di ripensamenti vari, optai per una maglia a pipistrello nera e dei pantaloni giallo canarino, aderentissimi ma comodi. Dopo essermi sistemata e passato, come ogni mattina, minimo venti minuti davanti allo specchio, andai dritta dritta verso il salotto, col preciso intento di mettermi sul divano a leggere qualcosina, o a guardare la TV. Poi, improvvisamente mi ricordai: Macy! Corsi subito in camera e mi sedetti alla scrivania. Tirai un sospiro di sollievo e mi diedi una pacca sulla guancia, come per dire che sono stata un’emerita stupida a dimenticarmi del mio regalo preferito. Premetti immediatamente il pulsante di accensione e, proprio come la sera prima, il computer si accese repentinamente e si aprì direttamente sul desktop. Non sapevo ancora cosa fare, ma sicuramente avrei utilizzato il browser, quindi andai a cliccare due volte sull’icona di Google. Un minuto. Due minuti. Niente. Provai a cliccare una terza volta, ma ancora nessun risultato. Come ho già detto in precedenza, io sono molto impaziente e oltretutto non riuscivo a tollerare il fatto che un portatile che ha sì e no un giorno di vita non risponda già ai comandi. Premetti il tasto sinistro quattro, cinque, sei volte. Giuro, stavo per mandare tutto per aria. All’improvviso, però, qualcosa accadde: il computer si spense. Così, senza che io abbia fatto nulla. A quel punto stavo per mettermi a ridere: ma che razza di Mac è questo? Se funzionassero tutti così  la Apple non avrebbe fatto tanto successo. Stavo a metà tra le lacrime e le risate, quando comparve una scritta giallognola: “No signal”. E ti pareva! Con la sfiga che ho, ovviamente, il computer doveva rompersi proprio il secondo giorno, bene! A un tratto, mentre stavo per urlare e mandare a quel paese Steve Jobs, lo sfondo tornò nero. La mia faccia diventò perplessa e inquietata allo stesso tempo. Io sono un tipo abbastanza coraggioso, ogni volta che vedo un film horror con gli amici sono l’unica a non coprirsi gli occhi, e l’unica che al parco divertimenti ha voluto provare l’ebbrezza di partire da 0 a 160 chilometri orari in poco più di tre secondi (non per niente erano le montagne russe più veloci d’Europa). Nonostante questo, se c’è qualcosa che mi tiene almeno un po’ col fiato sospeso, sono le cose inaspettate, tutto ciò che un momento fa pensavi non sarebbe mai successo. Questa era una di quelle. In ogni caso, provai a premere un tasto, tanto per cambiare qualcosa, ma, come immaginavo, rimase tutto come prima. Premetti insistentemente il tasto A, finchè non mi stancai altamente. Ero stata tollerante fin troppo in quella tarda mattinata, era arrivato il momento di sfogarsi; diedi un pugno alla tastiera. Fu un pugno così forte che mi feci addirittura male da sola. Chiusi gli occhi e gemetti, per un attimo avevo temuto il peggio. Quando li riaprii, vidi qualcosa che mi lasciò senza parole. Sul monitor era comparsa un’altra scritta, giallognola, in inglese, che diceva “Ehi, Ti sei fatta male?”. Che sia una specie di scherzo? Sono una persona abbastanza scettica, dunque sirene, extraterrestri, Babbo Natale, non hanno mai avuto una grande influenza su di me. Ora ci manca solo una tastiera sensitiva! Rimasi lì a fissare la scritta per un lasso di tempo indeterminato, per poi storcere la bocca in un’espressione di stupore. Alla fin fine, dopo un lungo e contorto ragionamento, concordai con me stessa che avrei dovuto “rispondere”. Per fortuna, me la cavo bene a inglese, quindi risposi senza problemi:”Chi sei tu?”
Fui molto diretta perché volevo arrivare subito al sodo. Comparve una scritta arancione sotto la mia risposta, in corsivo, che diceva “H is typing…”. Perfetto, un altro mistero, e ora chi è (o cos’è) quest’H? Cosa sta a significare? Dopo una manciata di minuti, la risposta arrivò: “Mi chiamo Heather”. Wow, davvero esauriente come risposta; beh, almeno avevo capito chi era H. Arrivò un'altra risposta da parte di Heather: “Tu chi sei piuttosto?”
Riflettei un attimo se rispondere o no, dopotutto poteva anche essere un estraneo sotto mentite spoglie, o un semplice virus; in tal caso non avrei fatto altro che peggiorare le cose. Ma dato che ho la testa dura come il muro e quando inizio qualcosa devo portarla a termine fino alla fine, decisi lo stesso di scrivere:
“Mi chiamo Giulia” scrissi “sei forse una specie di virus o roba del genere?”
Devo ammettere di essere stata forse un po’ troppo diretta, ma, come ho già detto, sono parecchio testarda, e quindi ho preferito arrivare al dunque.
“Virus? Naah, tranquilla, non voglio darti fastidio, se è questo che intendi, anzi, se lo desideri me ne vado…”
“No, dai tranquilla, rimani. I miei amici sono tutti impegnati il giorno di Natale e non ho nessuno con cui parlare”
A quel punto la cosa non era più inquietante, ma piuttosto si era fatta alquanto curiosa e volevo vedere come si evolveva la faccenda.
“Direi che siamo pari, ahah, anch’io non ho niente da fare” scrisse lei. Sembrava fosse contenta. “Quanti anni hai?”
“Sedici, compiuti da poco, tu?”
“Lo stesso”
Però! Strano che Heather (qualunque cosa fosse) avesse la mia stessa età. Beh, tanto valeva, ormai, fare conoscenza.
“Allora Heather” scrissi io a quel punto “che mi racconti?”
“Mah, solite cose, mi sveglio, passo la giornata come capita e mi rimetto a dormire ahah. Poi per me, che sono molto pigra, il riposo è fondamentale!”
Appena lessi la parola “lazy” (=pigra) gli occhi mi si illuminarono. Siamo entrambe sedicenni ed entrambe pigre. Chissà se la “ragazza” dall’altra parte del computer aveva altre cose in comune con me.
“Beh, se la mettiamo così, io ho vinto il primo premio in pigrizia, ahah!”
“Ahahah, dubito che mi si possa battere!”
“Per il resto? Che mi dici di te?”
“Eh, che dire di me? Sono una ragazza abbastanza solare e spiritosa, e, se devo ammetterlo, sono davvero golosa: amo i dolci natalizi e soprattutto i biscotti al cocco e, pur essendo buongustaia, non mi piace la pasta al sugo.”
Gli occhi mi si spalancarono ancora di più: avevamo anche gli stessi gusti.
“Poi, dal punto di vista degli hobby, beh, adoro stare con gli altri, chiacchierare e, più di tutto, amo la fotografia!”
Non ci vedevo più dalla gioia. Nonostante Heather scrivesse in inglese e, di conseguenza, non vivesse nel mio paese, sentivo di avere davvero molto in comune con lei e quel dialogo scritto ne era la prova.
“Davvero ti piace la fotografia?” scrissi io raggiante “Ma io ti adoroo! Non dirmi che hai anche una sorella più grande che ti scassa sempre le scatole!?”
“No, sono figlia unica ahah!”
“Menomale, non sai che martirio!”
Devo ammettere che, nonostante l’alone di mistero che suscitava in me, Heather era davvero simpatica, oltre che spiritosa e gentile. Rimanemmo a parlare dalle undici e mezza fino a quando i nonni non bussarono alla porta. Quante risate che mi feci! E quanto si divertì lei! Ridemmo entrambe un sacco e ci conoscemmo così a fondo in sole due ore che sembrava ci conoscessimo da anni. Ne ero sicura, saremmo diventate grandi amiche. 

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Capitolo 3
*** Parte 2.1 ***


Tre mesi dopo

-Che fai di bello, tesoro?-
-Mah, niente di che, giro un po’ sul web-
Mamma ha preso la cattiva abitudine di venire a controllarmi mentre sto al PC, e soprattutto quando mi scrivo con la mia cara amica Heather. Oramai io e lei siamo diventate due gocce d’acqua e, anche se non ci siamo mai viste né abbiamo mai sentito l’una la voce dell’altra, la corrispondenza scritta è continuata alla grande: tutte le mattine prima di andare a scuola, tutti i pomeriggi, tutte le sere e, ogni tanto, anche di notte, aprivo subito Macy e aspettavo che lei si connettesse. Di solito non ci voleva tanto. Oramai Heather sapeva che io odiavo aspettare (anche lei era piuttosto impaziente ed è una delle altre mille cose che avevamo in comune) e, ogni volta che avvertiva il segnale, riusciva, come ha sempre fatto, a mandare in cortocircuito il PC e quindi a scrivermi. Non so perché faceva sempre così, ma, a quanto mi diceva lei, era l’unica modalità possibile che aveva per connettersi. In effetti, non poche erano le stranezze che la riguardavano: nonostante il bene enorme che ci volevamo, io personalmente continuavo a pensare che lei fosse ancora alquanto misteriosa con me: ad esempio, non parla mai, e dico mai, della sua famiglia. In questi tre mesi non sono mai riuscita a sapere chi e come sono i suoi genitori, sempre se ne ha, eppure, quando ci scriviamo, ci diciamo di tutto di più. Sempre più frequenti erano le risate, scaturite ora da una battuta intelligente, ora da un discorso stupido (la nostra ultima conversazione, che risale a ieri sera, verteva sulla riproduzione degli elefanti). Questo riguardo al mio rapporto con Heather e Macy, che oramai sono diventate due entità diverse: Macy è il vero e proprio “apparecchio tecnologico”, che mi permette di comunicare con la mia amica; Heather, invece, è nota nei miei pensieri come “la ragazza che è dall’altra parte del monitor”, oppure, come la chiamavo io in chat, “elefantessa fumata” (lasciamo perdere l’etimologia di questo bizzarro soprannome). Riguardo alle cose in famiglia, direi che tutto filava abbastanza bene: mia sorella Beatrice si stava preparando con impegno alla maturità, stava tutto il giorno sui libri e, tanto per cambiare, continuava a rompermi dicendo che non trovava nessuno a cui ripetere le lezioni. Papà continuava il suo allenamento per la maratona del 2013, praticamente viveva fuori casa, e quando tornava si spaparanzava sul sofà e si metteva a dormire (russa come un trombone, quindi potete ben immaginare la reazione familiare e soprattutto la mia). Nonna e nonno erano la classica coppia di vecchietti che si ama profondamente, ma che litiga di continuo sulle più strambe banalità: nonno è in un periodo di “presa a bene” (così si dice a Roma per dire che una persona si sente gentile nei confronti degli altri), a causa dell’impegno di papà nella corsa, di Bea nella preparazione della tesina e di me nello studio (era un periodo in cui prendevo bei voti in quasi tutte le materie). Dal punto di vista sociale, direi che, a parte lo strettissimo legame che avevo instaurato con Heather, non andava tutto liscio come l’olio. Io e Chiara continuavamo a parlare spesso, forse un po’ meno di prima, ma comunque ci trovavamo in sintonia. Gli altri amici del gruppo in cui mi trovavo, al contrario, hanno assunto un atteggiamento che mi ha deluso profondamente. Un mio amico, un giorno, mi prese da parte e, con gli altri del mio gruppo a seguito (Chiara esclusa), mi portò in un posto isolato nel giardino della scuola, dicendomi che doveva parlarmi di una questione importante.
-Senti, Giulia … noi volevamo dirti una cosa: il fatto è che, vedi … negli ultimi tempi ti sei distaccata da noi, diciamo …-
-In che senso mi sono distaccata da voi? Spiegati-
-Beh, ci siamo accorti che ultimamente stiamo di meno insieme, parliamo di meno, usciamo di meno e, in generale, ci sentiamo di meno. Ecco, a noi dispiace molto che tu ti stia allontanando, però volevamo parlarti proprio del perché ti stai allontanando-
-E sarebbe?-
-Sarebbe quel tuo computer, Macy, come lo chiami tu … forse non ti sei resa conto che, da quando te l’hanno regalato, hai cominciato a diventare superficiale nei nostri riguardi. Noi pensiamo che tu abbia una sorta di “dipendenza” da quel coso, ma non in senso stretto, tranquilla, era soltanto una nostra impressione, una spiegazione razionale a quello che sta succedendo-
-Non credo di capire … -
-Il punto è che, in parole povere, non sei più con noi. Sei assente. Stai sempre fissa su quel monitor, non parli d’altro, non pensi ad altro. Noi siamo tuoi amici e ci preoccupiamo per te (a quel punto tutti gli altri annuirono dietro a lui), perciò vogliamo aiutarti, e soprattutto capire cos’hai, cosa ti sta succedendo. Ti vogliamo bene e ci dispiacerebbe che quest’amicizia possa finire male-
Mi arrabbiai un po’ dopo aver sentito quelle frasi e non aspettai un secondo di più a dire ciò che pensavo: -Ragazzi, io vorrei che si chiarisse una cosa: la mia vita non è un computer, né lo sarà mai. E’ vero, magari sono solo un po’ eccitata per questa faccenda del Mac, ma addirittura dipendente! Non esageriamo, dai! Sapete bene che non vi abbandonerei per nulla al mondo, e se a volte non rispondo alle chiamate o ai messaggi non sempre è a causa di quel motivo. In definitiva, secondo me non avete capito un piffero e per quanto riguarda “quello che mi sta succedendo”, sappiate che non mi sta succedendo niente di male, anzi niente di niente, perciò per favore, non criticate la mia vita e cercate di venire incontro anche alle mie esigenze!-
-Beh, se è così che la pensi … forse hai bisogno di un po’ di tempo per rimuginare sui tuoi problemi-
-Ve l’ho già detto, io non ho problemi! Chiaro!? Sto benissimo, non ho alcuna dipendenza e sono del tutto sana, anzi, vi dirò di più, se non fosse per quel “coso”, come lo chiamate voi, a questo punto la mia vita sarebbe stata molto più spiacevole!-
-Okay, va bene, arrivederci allora! Scusa eh, se abbiamo provato ad aiutarti, scusa se abbiamo almeno tentato di risolvere un problema e soprattutto scusa se siamo tuoi amici! O meglio, eravamo!-
-Bene!-
-Bene!-
Detto questo, non ci siamo più parlati da due mesi a questa parte (l’episodio che ho riferito è successo circa un mese dopo l’arrivo di Macy, quindi due mesi fa). Ho trovato il loro comportamento profondamente immaturo e da stupidi: il loro ragionamento su di me non è affatto logico, dopotutto non sanno di Heather (se lo avessero saputo sarebbero diventati gelosi, soprattutto Chiara, che è la gelosia fatta persona, quindi ho preferito non dirglielo, perché poi lo avrebbero detto a lei e lei non mi avrebbe più parlato). Mi è dispiaciuto perdere la loro amicizia, ma in questo momento, devo ammetterlo, il supporto e la compagnia di Heather sono del tutto fondamentali e, per il motivo che ho spiegato prima, se gli avessi detto che ho un’amica virtuale, mi avrebbero “mollata” ugualmente, o comunque avrei finito per litigarci sempre a causa della gelosia. Chiara fu l’unica ad essermi rimasta fedele ed io apprezzai molto questo gesto, anche perché non si fece idee strane su di me e sul mio modo di pensare e continuò a sostenermi come amica: lei non mi ha mai lasciata e penso che mai lo farà. E’ troppo buona e docile per farlo. Comunque sia, lei e Heather bastavano a rendere la mia vita ancora decente sul piano sociale. Proprio durante un pomeriggio di pioggia, in cui mia sorella studiava, papà dormiva e mamma non aveva niente di meglio da fare se non gironzolare per casa, raccontai a Heather tutta la storia.
-Mi dispiace tanto, Giulietta (così mi chiamava lei, non è carino?) … quindi hai perso tutti i tuoi amici per colpa mia?-
-Cosa?! Ma come ti viene in mente una cosa del genere?! No, no e poi no! Non devi assumerti la colpa di questo casino che è successo, non devi affatto preoccuparti. Sono loro che si sono comportati da bambini e hanno pensato cose assurde su di me, facendomi perdere la fiducia in loro.-
-Sicura? Se creo così tanti problemi tanto vale che io mi tolga di mezzo …-
-Ma no, Heather! Rimani, ti prego, sei l’unica vera amica che ho!-
-Come sei gentile! Anche tu per me sei importante-
Erano le undici di sera e il giorno dopo mi sarei dovuta alzare presto per andare a scuola. Solitamente “presto” vuol dire verso le sei o sei e un quarto, ma per mia madre il “presto” non riguarda solo la mattina, ma anche la sera (nel senso che sarei dovuta andare a letto presto; in effetti non ha tutti i torti, ma in quel momento Heather era più importante). Continuammo a parlare per un’altra mezz’ora buona, finchè disgraziatamente (e tra un po’ capirete il perché di questo “disgraziatamente”) mia madre venne svegliata dal ticchettio delle dita sulla tastiera e accorse subito in camera per la ramanzina. Appena entrò in camera (senza permesso, come sempre), accese subito il lampadario e si diresse verso di me, che ancora non mi ero accorta di niente. Appena la vidi riflessa sul monitor, misi subito in stand-by il PC e mi voltai verso di lei.
-Mamma! Che sorpresa! Che ci fai qui?-
-Sai com’è, ci vivo!- Rispose lei scocciata.
-Ah, giusto!- dissi io e mi girai di nuovo verso il computer, con lo scopo di sbloccarlo e continuare la conversazione (non volevo far attendere troppo Heather). Proprio mentre stavo per ricominciare a scrivere, mia madre mi prese il braccio e mi fermò, dicendo:
-Sono le undici e mezza passate e domani hai scuola, non vorrai fare tardi!-
-Tranquilla mà, non farò tardi, ho già impostato la sveglia!-
Come se fosse mai servito a qualcosa. Mia madre sapeva benissimo che le sveglie, di qualsiasi tipo esse siano (a meno che non sia lei stessa la sveglia), non hanno alcun effetto su di me.
-Sveglia? Tu? Dai, non prendermi in giro, chiudi quell’affare e vai a letto!-
Non avevo per niente sonno e, inoltre, c’era Heather dall’altra parte del monitor che aspettava una risposta, non potevo attaccarle in faccia così. Cominciai a fare dei versi di protesta, come per dire che volevo stare ancora un po’ al computer e che presto sarei andata a letto.
-Almeno dimmi cosa stai facendo da tutte queste ore!-
“Ecco, sono nella merda” pensai quando mia madre mi strappò dalle mani il computer per leggere ciò che appariva scritto sul monitor. Osservò con perplessità tutto ciò che io e la mia amica ci eravamo scritte, che vergogna! Inoltre, lei conosce molto bene l’inglese, quindi non fu affatto un problema per lei tradurre tutto ciò che mostrava il PC. Subito dopo aver dato una lunga occhiata alla “situazione”, si rivolse a me e chiese:
-Allora, chi è questa H?-
-E’ … ehm … è …- a quel punto non potevo più mentire –E’ una ragazza che ho conosciuto sul web e con cui chatto da circa tre mesi. Ci troviamo bene insieme, siamo molto affiatate e parliamo del più e del meno … abbiamo la stessa età e …-
Con questo “periodone” cercavo di rispondere anticipatamente a tutte le domande che mi sarei dovuta sorbire a seguito.
-Ah … beh … - mia madre assunse un’aria tranquilla e pacifica tutto a un tratto e questo mi stupì molto -Perché non me l’hai detto subito?
-Perché … beh … ecco …-
Non sapevo che dire, ero allibita e allo stesso tempo esterrefatta dalla reazione tranquilla che ha avuto mamma (lei di solito si innervosisce davanti a queste cose, soprattutto se sono cose che fanno male alla salute, come appunto stare troppo tempo davanti al computer).
-Tranquilla- mi disse poi baciandomi la guancia –L’importante è che questa tua amica non ti distragga dallo studio e che adesso tu la saluti e vada a dormire, perché è tardi!-
- … va bene … - Dissi io rassegnata. Dopotutto, non avrei potuto replicare in alcun modo. Dopo aver salutato mamma, ripresi in mano il computer e scrissi a Heather ciò che era appena successo.
-Ah, capisco … - disse lei –allora cercherò di non crearti più problemi.-
-Tu non mi creerai mai problemi!-
-Sicura?
-Certo che sono sicura! Lascia perdere i comportamenti bizzarri di mia madre, quando arriva a una certa ora sembra che si sia fatta chissà quante canne-
-Ahahah! Dai, ora è meglio che tu vada, buonanotte Giulietta-
-Buonanotte elefantona fumata-
-Ti voglio bene-
-Anch’io. Tanto-

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Capitolo 4
*** Parte 2.2 ***


Il ventisette Marzo 2013, ovvero la giornata dopo la scoperta di Heather da parte di mia madre è stata ufficialmente una giornata schifosa, per tutta una serie di motivi che ora non starò qui a elencare come fossero una lista della spesa. Partiamo invece dal principio: la sveglia che avevo messo la sera prima, ovviamente, fu del tutto inutile. Quindi mi alzai con un quarto d’ora di ritardo rispetto all’orario stabilito e dovetti letteralmente “correre”, perché io sono una che fa le cose con molta lentezza. Appena sveglia mi andai a lavare e vestire, afferrai al volo qualche biscotto, passai i soliti venti minuti allo specchio litigando con mia sorella per chi dovesse stare al centro, presi gli ultimi accorgimenti (come ad esempio il solito quaderno che per distrazione lascio a casa), misi lo zaino in spalla e mi avviai salutando tutti. La fermata dell’autobus è praticamente sotto casa, saranno duecento metri o anche meno. Chiara era lì immobile ad aspettarmi, con le cuffie sulle orecchie e l’iPod in mano. Decisi di farmi riconoscere, come al solito, quindi mi appostai dietro a un cespuglio di gelsomini vicino alla fermata: mi avvicinai quatta e, quando fu il momento giusto, sbucai fuori dal cespuglio con un balzo e un urlo sparato.
-Porca miseria, Giulia! Lo sai che non devi spaventarmi!
-Sì, lo so, ma mi diverto troppo a farlo ahahah!
Dopodichè scoppiammo a ridere entrambe, anche perché la gente che passava davanti a noi o aspettava l’autobus alla stessa fermata aveva cominciato a guardarci in maniera ambigua. Non ci volle molto tempo prima che il mezzo passò. Quel giorno pioveva, tanto per migliorare la situazione, e c’era anche traffico. Già da lì ho capito che la giornata non sarebbe stata granchè bella. Appena entrate a scuola, eravamo bagnate fradice, dato che non avevamo portato alcun ombrello. Ci sedemmo al nostro posto, penultimo banco della fila di destra, e aprimmo i quaderni di matematica, ovvero la materia che avremmo avuto in prima ora.
-Hai studiato le pagine per oggi?-Mi chiese Chiara, proprio nel momento esatto in cui la prof entrò in classe. Tutti ci mettemmo in piedi e, al cenno dell’insegnate, ci sedemmo di nuovo. La tensione regnava sovrana all’interno della classe, specie quando erano tempi di interrogazioni.
-Allora ragazzi … - La professoressa fece l’appello in quattro e quattr’otto, segnò gli assenti sul registro elettronico e si alzò in piedi con fare pensieroso.
-Vediamo un po’ chi possiamo sentire oggi … -
Io e Chiara ci guardammo e deglutimmo in simultanea; sentivo i battiti del cuore aumentare sempre di più, sempre di più, sempre di più. Solo allora mi resi conto che il giorno prima non avevo studiato nulla; ero stata tutto il tempo a parlare con Heather.
-Dunque … Dari Giulia! Vuoi venire tu?-
Appena sentii pronunciare il mio cognome e nome deglutii una seconda volta e ricevetti una piccola gomitata di incoraggiamento da parte di Chiara.
-Ehm, veramente io … -
Avrei voluto giustificarmi dicendo alla professoressa che non avevo studiato per motivi personali, ma a quanto pare non voleva sentire ragioni.
-La mia era un domanda retorica, eheh! Su, vieni alla lavagna!-
Bene, ero nella merda un’altra volta! Non solo mi rovinerò la media (matematica è la materia in cui vado meglio di tutte), ma anche il mio rapporto con la prof: io e lei siamo sempre andate d’accordo, ogni tanto parlavamo anche e, soprattutto, lei stravedeva per me, poiché ero la più brava della classe nelle sue materie. Un altro motivo per cui esitai ad alzarmi dalla sedia furono i miei amici, o meglio, i miei ex amici, che mi fissavano come tutti gli altri (purtroppo siamo trenta in classe), ma in modo più insistente, più competitivo rispetto agli altri. Tutto questo mi dava alquanto fastidio. Alla fine, dopo aver preso un respiro profondo e aver ributtato fuori l’aria, decisi di alzarmi dalla sedia e mi diressi verso la lavagna come se dovessi andare al patibolo. Avevo braccia e gambe tremolanti e feci una grandissima fatica a impugnare il pennarello come si deve.
-Allora Giulia … - La prof muoveva su e giù la penna con la mano destra, in attesa di formulare una domanda –cosa mi sai dire della legge di annullamento del prodotto?-
La mia espressione diventò spaesata, confusa, anche perchè, oltre a non aver studiato, provai a spiccicare qualche parola lì sul momento, ma dalla ma gola non uscì alcun suono, o almeno, così sembrava. Per quanto potessi sforzarmi di parlare, la mia voce era flebile, fin troppo, praticamente stavo facendo scena muta.
-Beh, se non lo sai, allora, scrivi il quadrato di un binomio alla lavagna-
La cosa che amavo della prof di matematica era il fatto che lei stessa concedeva sempre una seconda chance, in modo tale da assicurarsi che l’interrogato, nel mio caso l’interrogata, sappia almeno gli argomenti inerenti al capitolo studiato. Tolsi il tappo dal pennarello e diressi pian piano la punta verso la lavagna. Purtroppo per me, la mia mano tremava ancora e, con uno sforzo sovrumano, il minimo che riuscii a scrivere, o meglio, a delineare, fu una lineetta zigzagata.
-Vai a posto, Giulia-
Me ne andai a posto scocciata e triste allo stesso tempo, mentre la prof aggiornava la situazione sul registro elettronico.
-Mi stupisco che una ragazza brava come te non abbia studiato! Mi dispiace, ma il massimo che ti posso dare è due-
Appena tornata a posto, Chiara mi accarezzò la spalla e mi guardò con apprensione. Non stavo per mettermi a piangere, ma più che altro ero preoccupata per cosa avrebbero detto i miei: loro sono dei tipi alquanto esigenti e non tollerano che la “secchiona” della famiglia possa prendere un voto così grave. Uscii da scuola completamente nera, praticamente correvo e neanche mi resi conto di non aver preso l’autobus. Chiara mi venne dietro lungo tutto il tragitto, dicendo:-
-Non preoccuparti, Giu, vedrai che recupererai!-
Io ero al massimo dell’esasperazione, quindi le risposi: -Senti, oramai non me ne importa più niente, non ho studiato? Cavoli miei! Recupererò ok, ma per ora ho solo bisogno di stare sola-
-Va bene … se hai bisogno però chiamami, okay?-
Sorrisi, e sorrise anche lei.
-Okay-
Ci abbracciammo e ci salutammo (nel frattempo eravamo arrivate ognuna a casa propria, dato che abitavamo nella stessa via). Una volta entrata in casa, mia madre e mio padre si accorsero subito che c’era qualcosa che non andava, dato che il mio umore pessimo si vedeva da chilometri e chilometri di distanza. Mi sedetti a tavola, nonostante non avessi affatto voglia di mangiare.
-Ehi, che fai? Non mangi?- Chiese mamma chinandosi su di me, mentre papà era seduto di fronte a me e mi guardava in modo interrogativo.
-Non ho fame oggi- Dissi io, alzandomi e dirigendomi verso camera mia. Volevo parlare con Heather, sfogarmi, mi serviva il suo sostegno morale, avevo bisogno di lei. Ovviamente non le avrei detto nulla del fatto che non avevo studiato a causa sua, ma mi sarei inventata una scusa, proprio come avevo intenzione di fare in classe con la prof. Mamma, come da suo solito, incominciò a seguirmi e mi prese per il braccio:
-Ehi, è successo qualcosa?-
-Tranquilla mà, tutto a posto- Dissi io, cercando di immaginare una via di fuga.
-Beh, dalla tua faccia non si direbbe … -
Come sempre, mamma capiva tutto al volo e, una volta lasciatami, andammo a sederci entrambe sul mio letto.
-Che succede, piccola mia?-
-Beh, ecco, mi ha interrogato la prof di matematica e … -
-E … ? Com’è andata?-
Non volevo farmi mettere in castigo, né in punizione, anche perché mia madre, come ho già detto è piuttosto severa riguardo a queste cose, ma preferii comunque non mentire, perché se l’avessi fatto e lei per caso l’avesse scoperto, sarei stata ancor più fottuta di quanto non lo fossi già.
-Ehm, non tanto bene … -
-Cioè?-
Ovviamente non le raccontai tutto per filo e per segno, anzi, cercai di giustificarmi dicendole che aveva fatto domande su argomenti vecchi, che non avevo avuto tempo di ripassare il pomeriggio prima. Come immaginavo, non ci credette.
-Pff, come se tu avessi studiato ieri! Non credere di prendermi in giro, sei stata tutto il tempo al computer a chattare con quella tua amica!-
Però, perspicace.
-Ma mamma, tu non capisci! Ti giuro che ho avuto motivazioni valide per non studiare!-
-Ah sì? Motivazioni valide per prendere due in una materia in cui di solito prendi dieci? Sul serio, io non ti riconosco più, Giulia, sei cambiata radicalmente in questi tre mesi!-
Quel discorso mi ricordò moltissimo le parole che mi dissero i miei amici circa due mesi fa, e mi fece altrettanto arrabbiare. Subito le risposi:
-Ma perché pensate tutti che io sia cambiata?! Ora solo perché ho preso una semplice insufficienza del tutto recuperabile in matematica, improvvisamente sono diventata strana anche per te?! Ora basta, non ce la faccio più, tutti a criticarmi e a pretendere di sapere come mi sento! Basta, davvero, basta! Lasciatemi in pace!-
Ero arrabbiatissima, ce l’avevo con i miei amici, con mia madre e con il mondo intero. Mi sentivo sola, non avevo nessuno, se non Heather, che era sempre pronta ad ascoltarmi nei momenti difficili, nonostante non ci fosse contatto visivo né sonoro tra di noi.
-Ma si può sapere che ti prende?! Come ti permetti di rispondere così a tua madre?! Sai che ti dico? Fa quello che vuoi, passa il resto delle tue giornate davanti al computer a parlare con una persona che non sai nemmeno se esiste! Continua a trascorrere le tue giornate nell’isolamento totale! Pensi che i tuoi amici siano tutti impazziti da un momento all’altro?! Pensi che non abbiano ragione?! Fossi in te, io mi farei un bell’esame di coscienza: stai perdendo tutto, Giulia, tutto! Per cosa? Per un semplice apparecchio tecnologico! Per una stupida dipendenza!
A quel punto mi innervosii di brutto e cominciai a non controllarmi più. Mamma stava quasi piangendo, aveva gli occhi rossi. Ma non mi importava, urlai comunque:
-La sai una cosa, mamma?! Io voglio molto più bene a Heather che ai miei amici! La sento molto più vicina a me di molte altre persone “reali”, come ad esempio te!-
A quel punto, una lacrima scese lenta sul viso di mia madre, che singhiozzò e tirò su il naso, cercando di distogliere lo sguardo da me e dalla mia rabbia. Non ero per niente d’accordo con lei,e ancor meno piacevole per me è stato il fatto che si fosse coalizzata con i miei amici per “farmi rendere conto” di questa mia “dipendenza”, che in realtà non esiste. In quel momento odiavo tutto e tutti, avevo detto finalmente quello che pensavo e, una volta finito il litigio, mi buttai sul letto a fissare il soffitto, pensando a cosa avrei dovuto fare. Di parlarne con Heather non era il caso, perché altrimenti lei si sarebbe attribuita tutta la colpa e mi avrebbe abbandonata. E io non volevo che questo accadesse. Le avrei detto semplicemente che mamma si era leggermente arrabbiata per la lieve insufficienza che avevo preso in storia e che il giorno prima, di pomeriggio, non avevo studiato perché non stavo tanto bene fisicamente (il che non è del tutto falso, perché verso le tre ho avuto un po’ di mal di pancia e di emicrania). Quella sera, io e mamma non parlammo affatto, e questa storia andò avanti per molti altri giorni. L’unico motivo per cui parlavamo erano le comunicazioni familiari o comunque sia, i nostri erano discorsi relativi a cose pratiche, come ad esempio le faccende domestiche o cosa comprare al supermercato. Ci vollero molti altri mesi perché le cose si aggiustassero. E, in ogni caso, non si aggiustarono mai del tutto.

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Capitolo 5
*** Parte 3.1 ***


Un mese dopo

Matematica, storia, scienze, italiano, praticamente tutte erano le materie in cui mi ritrovai l’insufficienza alla fine di Aprile. Passavo interi pomeriggi e intere serate in compagnia di Macy, e quindi di Heather, e questo mi distraeva del tutto dallo studio, ma non solo. Non pensavo ad altro, non facevo altro, ero completamente succube del mio rapporto con lei, del nostro strettissimo legame. Ogni volta che uscivo, ogni volta che tornavo a casa da un impegno, da un’uscita, la mia mente aveva un chiodo fisso: sempre la solita, enorme ossessione. Non recuperai affatto il mio rapporto con mamma, oramai la parola tra di noi era rara e, quelle poche volte in cui le rivolgevo un minimo sguardo o un minimo accenno di attenzione, era solo per supplicarla di lasciarmi in pace dopo una sgridata, o dopo una semplice esortazione a ricominciare, anche se un po’ per volta, ad applicarmi, nello studio come nella vita. Non volevo sentire ragioni. Avevo una sola e unica priorità, e quella priorità era Heather. Non mi importava cosa gli altri pensassero di me, non mi interessava più nulla ormai. Ero diventata un robot, un essere irragionevole e senza emozioni, proprio come un computer. La mia vita si era ridotta a un monitor, ad uno schermo piatto, senza dimensioni e senza realtà. Nient’altro. Non vedevi più nient’altro, i miei occhi erano diventati due circuiti andati in corto; improvvisamente, la mia esistenza è stata messa in stand-by, la mia ragione e la mia sensibilità sono state sovrastate da un virus letale, le immagini e i ricordi sono stati coperti da un salvaschermo color nero, con scritte giallognole e un solo, grande padrone, un microchip che manovrava il mio essere: il suo nome era Heather. La mia famiglia era disperata. I miei nonni non volevano vedermi, gli si sarebbe spezzato il cuore se mi avessero visto in quello stato, ma comunque sostenevano il resto della mia famiglia a distanza. Mia madre non poteva credere a ciò che vedeva, per lei come per gli altri era impossibile accettare che, in un mese, le cose possano cambiare così radicalmente. Per quanto riguarda mio padre e mia sorella, il primo passava le giornate accanto a mamma, per starle vicino e consolarla, perché lei non poteva farcela da sola. Come è sempre stato, poi, si impegnava a trovare quel qualcosa, quell’antidoto che mi avrebbe salvata dall’oblio, da quella rete in cui ero caduta e dalla quale non riuscivo più a liberarmi. Stava tutto il giorno seduto sul divano, vedendomi così aveva perso anche lui la voglia di vivere e di fare ciò che amava. Mia sorella non voleva affatto darlo a vedere di fronte a me, né tantomeno davanti a mamma o a papà, ma piangeva, piangeva quasi sempre, perché aveva perso una persona che amava più di sé stessa, una persona che in quel momento non c’era, era assente, come se non fosse più sulla terra, come se fosse morta. Quella persona ero io. Chiara smise di parlarmi, circa due settimane prima, voleva che stessi da sola, solo così avrei potuto capire, solo così avrei inteso appieno ciò che mi stava capitando. Si sbagliava. Mai come in quel momento avevo bisogno di qualcuno accanto, di una persona che mi stesse vicina e che fosse realmente qui. Purtroppo, però, fui io a non rendermene conto. Heather era la mia unica ragione di vita e chiunque provasse ad avversarla, a darle la colpa del mio comportamento, a portarla via da me, mi abbandonava al mio destino. O meglio, ero io stessa a respingere tutti coloro che anche solo osavano pensare a lei come la causa di tutto. Lei era la mia vita, la mia identità, eravamo diventate una cosa sola. Ero incapace di guardarmi intorno, di rendermi conto della realtà che mi circondava. Il mio cervello era diventato un tutt’uno con il suo, pensavamo all’unisono, agivamo all’unisono e non riuscivamo più a separarci l’una dall’altra. Mi chiedevo se, dall’altra parte, anche lei stesse male come stavo io. Ma ne dubitavo, pensavo che lei avesse avuto intorno a sé persone più comprensive. Nel frattempo, io ero diventata dipendente da lei. Ciò che i miei amici e la mia famiglia avevano a lungo temuto, era al fine accaduto. Ma io non me ne accorgevo. Pensavo di stare bene, mi sentivo euforica, felice, energica, ma in realtà stavo morendo. Mi stavo trasformando in qualcosa che non ero io, non più almeno. La mia umanità era morta, o meglio, era sul punto di abbandonare per sempre questo mondo. Erano quei momenti in cui mi fondevo con una macchina, quegli attimi in cui io e Heather ci scrivevamo, erano solo quelli i momenti in cui mi sentivo viva. Mi sentivo viva, infatti. Ma non lo ero. In realtà, me ne stavo andando, piano piano. Lentamente stavo lasciando il mio mondo così com’era, così come lentamente stavo facendo morire dentro le persone che mi stavano attorno e che cercavano di aiutarmi ad uscire da questa trappola. I miei amici mi guardavano, ma non aprivano bocca. Nell’intervallo, mi passavano davanti, camminavano a due passi da me, e mi fissavano, come fossi pazza. Ma io non mi consideravo pazza, no. Ero del tutto sana, sia mentalmente che fisicamente, ero solo una persona normale, una comune ragazza sedicenne che aveva trovato una vera amica, qualcuno che capisse il mio carattere, che fosse come me in tutto e per tutto. Ero convinta di aver trovato quest’amica in Heather. Ma, nonostante tutto, anch’io mi sbagliavo. Non ero affatto consapevole che fosse proprio lei la causa di tutto; non potevo immaginare che lei stessa potesse farmi del male. Anche qui, mi sbagliavo. Sono coloro che amiamo di più a distruggerci.
La mia era diventata una famiglia triste e piena di rimorsi, di disperazione, impotente di fronte alla realtà dei fatti. Non potevano sopportare di vedermi in quello stato. Di vedermi mentre li lasciavo a poco a poco; non volevano guardarmi morire. Non volevano che io mi lasciassi andare, correndo incontro a un destino che non era il mio, umanamente parlando, ma era quello di una macchina che si era appropriata di me, che aveva consumato la mia vita riducendola all’osso. Me ne accorsi troppo tardi.

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Capitolo 6
*** Parte 3.2 ***


-Salve, sono la professoressa di matematica di Giulia, potrei parlare con vostra figlia?-
Era il primo Maggio, giorno del compleanno di mia sorella, e i miei sarebbero dovuti uscire per concedersi un giorno di relax (con tutto lo stress che gli causavo era il massimo che potevano fare), mentre Bea sarebbe andata al cinema col suo ragazzo (che ha continuato a starle accanto nonostante il brutto periodo che stava vivendo) e con alcuni suoi amici. Vista la mia opposizione ad andare con i miei, sempre a causa dello stesso motivo, loro tre sarebbero andati ognuno dove voleva, mentre io sarei rimasta a casa a fare l’unica cosa che ero in grado di fare: parlare con Heather. In poco più di una settimana la dipendenza era aumentata, quella macchina mi stava distruggendo sempre di più. Avevo smesso di mangiare, di uscire di casa, di parlare e persino di andare a scuola. Non volevo più vivere in quel modo, ma neanche in quel mondo. Mi ero lasciata andare, ogni mia capacità cognitiva era visivamente compromessa. Proprio quel giorno, mentre i miei si stavano avviando per uscire, la prof di matematica suonò alla porta di casa mia. Era preoccupata per me, per quello che stavo vivendo. Dopotutto, come avevo già accennato, il nostro legame era sempre stato amichevole e confidenziale. Ricordo che una volta, in primo, mi ero fidanzata con un ragazzo, che dopo un mese mi lasciò per un'altra. Passai giorni e giorni tra le lacrime, finchè una volta, in classe, durante l’intervallo, lei mi fece un discorso sulle delusioni adolescenziali e sul fatto che io ero una ragazza forte e che meritava di più. Da quel giorno abbiamo cominciato ad entrare in sintonia l’una con l’altra, finchè non diventammo reciprocamente la mia insegnante preferita e la sua alunna preferita. Ogni volta che mi accadeva qualcosa di spiacevole, ma anche di piacevole, lei era una delle prime a saperlo e, soprattutto, a darmi i consigli giusti. In quel momento più che mai, anche se non me ne accorgevo, avevo bisogno di una persona come lei al mio fianco. Fu lei a capirlo per me, e quel giorno, primo Maggio 2013, decise di darmi l’aiuto fondamentale, il più utile consiglio che mi abbia mai potuto dare, perciò non esitò letteralmente a venirmi incontro.
-Certo che può parlarle! Prego, faccia come se fosse a casa sua!- Rispose mia madre con fare gentile. Cercava di fingere un sorriso, ma non ci riusciva. Era troppo sconvolta.
-La informo, però, che Giulia non parla più con nessuno, ha perso letteralmente l’uso della parole e … -
Mia madre abbassò lo sguardo lentamente, poi guardò papà e scoppiò in lacrime. La professoressa andò verso di lei e le carezzò la spalla, mentre papà la abbracciava. Mia madre non ha mai saputo controllare le sue emozioni e tuttora ha i suoi sbalzi d’umore, ma in quel momento non aveva tutti i torti. Dopo essersi liberata dall’abbraccio affettuoso di papà strinse forte le mani dell’insegnante e lei ricambiò, lasciandosi scappare un rigolino di lacrima che le scese sulla guancia destra. Mamma si asciugò le lacrime con un fazzoletto, poi disse sottovoce, probabilmente per non farsi sentire da me:
-La prego … mi aiuti! Io non so più cosa fare! Mia figlia ha smesso di vivere!-
La professoressa guardò mia madre negli occhi e scoppiò in un pianto silenzioso, ma intriso di dolore e tristezza. Abbracciò forte mia madre e le disse:
-Stia tranquilla … sua figlia è forte, vedrà che presto tornerà da voi-
-Grazie. La ringrazio. La ringrazio per esserci sempre stata. So che Giulia in questo momento non è in grado di dirle quello che pensa, ma sicuramente lei la ammira tantissimo e la ringrazia. Nel profondo, sono sicura, che la ringrazia.-
Le ultime lacrime di mia madre furono quelle più difficili. L’insegnante la guardò in modo apprensivo e le disse:
-Sua figlia ce la farà. Sono sicura che tornerà presto.-
Dopo gli ultimi saluti, finalmente la prof entrò in casa e i miei uscirono, abbracciati l’un l’altro. Per fortuna, mamma aveva smesso di piangere, così lei e papà si sarebbero goduti il resto della giornata in tranquillità; dopotutto era quello che volevano. Io ero seduta alla scrivania e tenevo gli occhi sgranati sul monitor, aspettando che Heather si connettesse e mi scrivesse. Stranamente, proprio quel giorno ci mise tantissimo a rispondere, dando il tempo alla mia prof di parlarmi come si deve. Anche se non ascoltavo, la parte umana più interna di me, quella che non era ancora morta e di cui proprio lei parlava poco prima con mia madre, aveva recepito qualcosa; un segnale, uno stimolo, qualcosa era arrivato, non importava cosa, l’importante era che finalmente, recepivo qualcosa di esterno. In ogni caso, la prof prese uno sgabello (casa mia non è enorme, trovò subito la cucina) e lo piazzò accanto a me. Si sedette e mi guardò.
-Beh … allora, Giulietta? Che mi racconti di bello?-
Ho sempre amato il suo tono sarcastico, la sua tendenza a nascondere le cose brutte quando ce n’è bisogno. Peccato che, in quel caso, non ebbe risposta. Infatti, rimasi immobile, a fissare il desktop, con le gambe unite e atrofizzate, la braccia posate in parallelo sul tavolo, come ammanettate, e come se volessero abbracciare il computer da entrambi i lati. La mia bocca continuava ad essere chiusa, da essa non usciva alcun suono.
-Sai, questa scena mi ricorda qualcosa … - Continuò lei, cercando di estorcermi qualcosa, ma senza alcun risultato. Faceva riferimento evidentemente all’interrogazione di un mese prima, l’unica nella sua materia in cui ho preso un voto inferiore all’otto.
-Hei, che succede? Il computer ti ha mangiato la lingua?- Chiese ancora, provando a farmi ridere.
-Beh, io direi di staccarci un po’ da quel coso, non credi?-
Niente.
-Allora se la mettiamo così … -
Si alzò piano dallo sgabello, lo allontanò e si avvicinò a me. Chinandosi, mi prese la mano e faticosamente mi fece alzare. Non rispondevo più ai comandi, era più forte di me. Ora anche le mie capacità motorie erano compromesse. Subito dopo, mi prese entrambe le mani e, mettendosi di fronte a me, mi fece da guida attraverso il corridoio e mi portò fino al salotto. Poi mi fece sedere sul divano e mi disse:
-Aspetta qui, vado a prendere una cosa-
In seguito la vidi che passava il dito tra gli scaffali della libreria, con aria concentrata. Probabilmente stava cercando quel qualcosa di cui aveva parlato prima. Dopo un’approfondita ricerca (la libreria di casa mia è praticamente enorme), finalmente trovò quello che cercava. Osservai da lontano che si trattava di un album di fotografie. Fotografie. Ricordi. Attimi di vita.
-Trovato! E ora … - la prof si sedette accanto a me sul divano e comincio a schiarirsi la voce, come fanno le mamme quando devono raccontare una storia al loro bambino. Poi, con un leggero spostamento della mano, aprì l’album. Notai che vi era una scritta, nella parte superiore della copertina interna: “Ciao a tuti, sono Giulia e da grande vollio fare la fotografa! Vollio tanto bene a mamma e papa, ciao ciao!”. Il fatto che avessi scritto “tuti” con una sola “t”, “vollio” invece di “voglio” e “papà” senza accento faceva capire subito l’età che avevo. Infatti, nella parte inferiore, era segnata una data: 22 Agosto 2005. Fu il giorno del mio settimo compleanno. Quelle erano le foto che scattai durante la mia festa. C’erano tutti i miei amici. C’era anche mia sorella, che aveva già nove anni e a cui io davo sempre fastidio (mentre ora invece è il contrario). C’era mamma. C’era papà. I nonni. C’erano tutti, ma proprio tutti. Solo allora mi resi conto che la gente che mi voleva bene era tanta. Ma a quanto pare non bastò. La prof, in ogni caso, cominciò a sfogliare l’album, cogliendo gli attimi più significativi di quel ricordo, di quel pezzo di vita ormai andato, ma che è rimasto grazie alla fotografia. Ad ogni foto, lei aggiungeva una frase, una didascalia, qualcosa che mi aiutasse a focalizzare meglio quel ricordo. Ad esempio, la prima foto che mi fece vedere fu una mia immagine, una foto scattata da mio padre: nella foto c’ero io che spegnevo le candeline della torta. Mi aveva presa proprio nel momento esatto in cui soffiavo, perciò la foto era venuta anche bene, perché rendeva ottimamente l’idea del soffio e del fuoco che si spegneva. Poi mi mostrò una foto mia e di Chiara (io e lei ci conosciamo da quando siamo nate, in pratica, e da allora siamo sempre state amiche): eravamo abbracciate e sorridevamo. Indossava un abitino rosa scuro (e pensare che lei odia il rosa) e aveva gli incisivi sporgenti, come quelli di un coniglio. E’ vero che non avevo più la forza di far nulla, eppure, in quel pomeriggio, qualcosa in me era scattato. Qualcosa di positivo. Avevo ritrovato qualcosa, pian piano, forse, la strada della “guarigione” si stava mostrando davanti ai miei occhi. Non l’avevo ancora imboccata, ma ci ero vicina. Guardare le fotografie mi aiutò tantissimo e, per fortuna, ci fu qualcuno che lo capì. Nulla può sopravvivere alla morte, ma i ricordi sì. Subito dopo aver finito di guardare le foto più significative dell’album, la professoressa mi prese per mano, mi aiutò ad alzarmi e, nello stesso modo in cui mi portò in salotto, mi ricondusse in camera, davanti al monitor, su cui cominciava a lampeggiare una lucina giallognola. La prof rimase con me finchè i miei genitori non tornarono a casa. Fui molto contenta del fatto che mia madre tornò a casa ridendo, anche se in quel momento, per ovvie ragioni, non lo diedi affatto a vedere.
-Allora, com’è andata? Vi siete divertiti fuori?-
-Sì sì! Molto! Grazie a lei che ha badato a Giulia mentre non c’eravamo, se non fosse stato per la sua gentilezza e la sua disponibilità, noi … -
-Voi dovete soltanto pensare a voi. In questo momento Giulia ha soltanto bisogno di essere capita.-
-Cioè, dovremmo darle corda?- Si intromise mio padre, sconvolto.
-Non proprio darle corda- continuò l’insegnante senza esitare –ma concederle una specie di periodo di fermo-
-In che senso, scusi? Non faremmo meglio a toglierle il computer?-
-No, assolutamente, ve lo sconsiglio del tutto, dato che potrebbe far cadere vostra figlia ancor più in depressione di quanto già non sia. Inoltre, è probabile che, magari, questa sia una cosa passeggera, che forse con il tempo se ne andrà-
-Ma noi che faremo nel frattempo? Non possiamo lasciare che nostra figlia muoia!- Esclamò mia madre preoccupata.
-Giulia se la caverà, vedrete- Disse lei convinta -sto solo dicendo che, probabilmente, se si prova a starle di meno col fiato sul collo, forse vostra figlia rinverrà. Dopotutto, non potete fare altro, o mi sbaglio?-
-No … -  Disse mamma abbassando la testa come per rassegnarsi all’evidenza.
-Beh … no- Disse a ruota mio padre.
-Tentar non nuoce, no?-
Mia madre e mio padre si guardarono allibiti. Loro si sono sempre fidati ciecamente della prof e di certo non si sarebbero tirati indietro stavolta. Proprio stavolta che non avevano un’altra possibilità.
-E’ la vostra unica scelta- Disse infatti la professoressa, guardando mia madre dritto negli occhi –o proviamo, o la perdiamo. Rifletteteci.-
Ci rifletterono. Lo promisero. Lo fecero. E, alla fine, ci provarono. 

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Capitolo 7
*** Parte 3.3 ***


Almeno una volta è capitato a tutti di fissarsi su qualcosa, o di esserne dipendenti. Le fisime possono essere più o meno gravi e possono arrecare più o meno danni a seconda della loro intensità e di cosa riguardano. Per esempio, la dipendenza dal fumo. Nel caso, invece, di una fissazione per un cantante, un libro, o un film, ovviamente le cose cambiano. In molti sono succubi di queste “patologie”, in pochi sono quelli che ne muoiono. La mia storia, grazie al cielo, non è finita qui, ma quel giorno, quel tristissimo giorno, pensai davvero di farla finita. Come al solito, chattavo con Heather, fuori pioveva. Mamma e papà dormivano, erano circa le dieci di sera. Il cellulare, che era rimasto totalmente inutilizzato ma acceso, riceveva un sacco di messaggi: tutti i miei amici, i professori, i parenti stretti e persino Chiara; erano tutti preoccupati per me. Ma io non me ne curavo. Avevo un’unica ragione di vita, tutto il resto era completamente secondario. Ma da quel giorno le cose cambiarono. Mamma e papà seguirono il consiglio della prof, ovvero quello di lasciarmi “andare” per un po’, per poi vedere se la situazione sarebbe migliorata. Bea stava sempre in giro, un po’ per distrarsi, un po’ per studiare, dato che l’atmosfera a casa era troppo malinconica per i suoi gusti.
-Allora, che mi racconti?-
Heather si era collegata da poco e, solitamente, una delle prime domande che ci rivolgevamo l’un l’altra era questa. Dopo aver premuto il tasto d’invio, notai che l’insegna “H is typing” lampeggiava. Il che stava a significare che lei scriveva, e poi subito dopo cancellava. Era indecisa, e io mi facevo sempre più curiosa. D’altronde, le uniche emozioni che riuscivo a provare in quei momenti erano strettamente legate a lei e alla nostra amicizia. Cominciavo a sudare freddo, erano passati ben cinque minuti da quando le avevo inviato la mia domanda. Cinque lunghissimi minuti. Trecento secondi, che a me sembrarono un’eternità. Mi stupii di ciò che stava accadendo, Heather non aveva mai fatto così, non con me almeno. Lei ha sempre saputo cosa dire, ha sempre avuto la parola pronta e non è mai stata così insicura. Stavo per scriverle io, quando finalmente comparve la risposta, una scritta in inglese che diceva:
-Senti, Giulia, dobbiamo parlare-
Rimasi turbata e allo stesso tempo sconcertata da quella risposta; lo stesso fatto che non mi avesse chiamato Giulietta sottolineava il tono crudo e serio con cui la frase era arrivata fino a me. Ormai, col passare del tempo e con l’abitudine, avevo imparato addirittura a riconoscere le emozioni di Heather. Non sempre però, lei riusciva a comprendere le mie. In ogni caso, riuscii a captare una serietà assoluta in quelle parole, ma, dopo un attimo iniziale di panico, non mi preoccupai più di tanto. Cominciai ad analizzare pezzo per pezzo, elemento per elemento, l’intera frase, come se stessi traducendo una versione di latino per la scuola. Ci misi un dieci minuti buoni per rispondere finalmente alla mia amica, che, nel frattempo, attendeva una risposta.
-Di che si tratta?- Scrissi, senza entrare troppo nel dettaglio.
Di nuovo quell’indecisione, quella marcatissima insicurezza si era ripresentata; questa volta passò un quarto d’ora circa, e io attesi la risposta impazientemente e con gli occhi sgranati, che fissavano concentrati il monitor e in particolare la scritta che scompariva e ricompariva, come se giocasse a nascondino.
Era difficile accettare il fatto che la mia migliore amica, se non l’unica amica che mi era rimasta, avesse ancora qualcosa da nascondermi. Dopotutto, io le raccontavo tutto di me, nei limiti del possibile. Tutti i miei segreti, le mie esperienze passate, ciò che succedeva in casa. Lei stessa era sempre stata molto aperta con me, ci siamo sempre fidate ciecamente l’una dell’altra, sin dal primo giorno ci siamo rese conto entrambe di avere una grande affinità. In quel momento, però, sentivo che qualcosa stava minando fortemente questa sintonia che si era creata tra noi. Qualcosa non andava. E avevo ragione.
-Vorrei dirti una cosa- Scrisse finalmente lei. Purtroppo quella frase non mi tranquillizzò affatto, anzi, aumentò la mia ansia. Troppo generica. Troppo preoccupante la situazione. All’inizio non ero affatto frustrata, anzi, quando Heather mi scrisse la prima frase ero anche abbastanza curiosa, perché pensavo si trattasse di un suo segreto o di qualcosa di divertente. Non era così.
-Dimmi, sai che con me puoi parlare- le scrissi, dopo aver rimuginato un po’.
-Vedi, Giulia, non essere triste ma … -
A quel punto cominciai a preoccuparmi sul serio; per un attimo temetti il peggio, ovvero che fosse capitato qualcosa di brutto a Heather o ai suoi cari.
-Ma?-
-Ma … ecco, ci ho riflettuto tanto in questi giorni e spero che tu capisca la mia decisione … -
Ero col fiato sospeso come non mai, mi sentivo in tensione, ancora peggio di essere interrogata a scuola.
-Io … penso che sarebbe meglio, per noi, se non ci scrivessimo più … almeno per un po’-
Mi ero coperta il viso con una mano, subito dopo averla tolta, mi misi a ridere. Già. Scoppiai in una risata fragorosa, il che era strano, dato che, a quei tempi, ridevo di rado o, se ero contenta o divertita, non lo davo mai a vedere esteriormente.
-Okay, va bene … - Scrissi io, continuando a ridacchiare -E’ stato divertente Heather! Davvero tanto! Ti giuro, mi hai fatto prendere un colpo ahahah!-
Ho sempre fatto così. Quando una cosa mi ferisce profondamente tendo a nasconderla e a trasformarla in qualcosa di comico. O almeno, di sopportabile. E mi convinco in tutto e per tutto che quella sia la verità. Evito la sofferenza, le metto una maschera. Ma la maschera della felicità non sempre copre tutto il volto della tristezza.
-Giulia, non è uno scherzo-
Come al solito, Heather mi capì al volo, e ciò che scrisse bastò a farmi aprire gli occhi. Non provai a replicare, non sarebbe bastato a coprire la sofferenza. Mi limitai a chiederle:
-Ma … perché?-
Fui breve e sintetica, dopotutto era tutto quello che avrei voluto sapere. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.
-Perché, fidati, è meglio per entrambe-
-In che senso è meglio per entrambe? Spiegami Heather, ti prego!-
La disperazione cominciava ad insinuarsi in me, come un bruco in una mela. Ero distrutta fisicamente e non avevo intenzione di diventarlo anche mentalmente.
-Mi dispiace tanto Giulia- Continuò lei –Ma non abbiamo altra scelta, presto te ne renderai conto anche tu!-
Dopo aver letto la sua risposta, cominciai a calarmi pian piano dentro un pianto silenzioso, ma abbondante.
-Heather, non puoi abbandonarmi! Tu sei la mia vita! Io ti voglio troppo bene perché tu te ne vada! Risolveremo questa cosa, ne parleremo! Vedrai, troveremo un modo! Ma ti prego di non andartene, perché non ce la farei!-
Lentamente, si fecero sentire i singhiozzi, e le mie mani tremavano. Non dal freddo, né dalla paura. Semplicemente, si fecero accompagnatrici di lacrime e di sussurri, che, col passare del tempo, aumentarono, sia di rumore, che d’intensità. Mi misi a scorrere su tutta la conversazione, iniziata non nel migliore dei modi. Non potevo credere a ciò che Heather aveva scritto. Aveva promesso che non mi avrebbe mai abbandonata. Lo avevo promesso. E le promesse di mantengono, sempre. Ma nonostante questo, io non l’avrei lasciata, mai. E so che lei non avrebbe fatto lo stesso con me. Ci doveva essere per qualcosa, qualcosa che, per forza, l’avrebbe condotta a fare tutto questo. Non può aver deciso tutto così, di punto in bianco. Non era da lei. La conoscevo troppo bene per sapere che non avrebbe mai fatto una cosa simile, se non spinta dalle circostanze.
-Giulia, tu non sai quanto mi dispiace lasciarti! Io vorrei rimanere con te per sempre, e tu lo sai! Ma non posso! Tu non sai cosa sta succedendo! Ora devo andare … -
-No! Fermati, non farlo! Non posso vivere senza di te!-
Quando lessi la scritta “H has disconnected” non vidi più nulla. Tutto nero. Un buio totale che mi circondava, ovunque volgevo lo sguardo. Mi alzai in piedi, continuando a piangere e a singhiozzare; presi in mano il computer e lo gettai per terra. Con forza. Ero troppo triste e furiosa per rendermi conto di ciò che vivevo o facevo. Il tonfo fu così assordante, che subito accorsero i miei genitori dal salotto. Mia sorella era fuori casa, altrimenti sarebbe accorsa anche lei. I miei occhi erano terribilmente rossi, rigonfi di lacrime. Il viso era bagnato e stravolto dalla disperazione. Non feci in tempo a notare l’espressione spaventata dei miei, che subito mi portai le mani tra i capelli e mi inginocchiai, come stessi pregando. Cominciai a piangere rumorosamente, tanto che mamma e papà mi vennero incontro, si inginocchiarono vicino a me e mi accarezzarono la schiena, pronunciando parole di conforto.
-Su, su, andrà tutto bene- Disse mia madre, continuando ad accarezzarmi. Anche se non è stata presente alla scena cruciale, riuscii subito a capire dai suoi occhi che aveva già capito tutto. Ma io ero talmente triste, talmente depressa e talmente arrabbiata, che neanche ci feci caso. Mi dimenai e le urlai, alzandomi:
-Non toccarmi!-
Dopo essermi alzata, continuando a piangere e a tremare, riuscii ad avvertire la tristezza che si diffondeva nella stanza, che si intrufolava negli occhi di mia madre e che consumava la mia mente. Diedi un calcio fortissimo all’armadio, poi caddi a terra gridando.
-No! No! Nooooo!-
Mia madre si avvicinò di nuovo, mentre mio padre, disperato anche lui, fissava la scena, sperando di poter dare qualche aiuto. Ma non volevo sentire ragioni. Avevo perso la voglia di vivere, senza Heather ero persa, non sentivo più l’esigenza di esistere, di stare su questo mondo. Se mi fossi trovata su un grattacielo altissimo, sicuramente mi sarei buttata. Dopo essermi dimenata abbastanza, mi lasciai trasportare da lei, che mi prese in braccio e mi portò sul divano, in salotto; lo stesso divano sul quale la prof, qualche settimana prima, mi aveva mostrato le fotografie. Nulla era in grado, in quel moneto, di fermare le mie lacrime. Ero completamente distrutta e mi sentivo sola. Più sola che mai. Nonostante la vicinanza di mamma e papà, il vuoto che mi circondava era tale da non farmi avvertire alcuno stimolo esterno. L’unica cosa che volevo era che lei tornasse da me; non mi sembrava vero che mi avesse lasciato. Così, di punto in bianco, senza neanche specificare il perché. Avevo capito da subito che qualcosa non andava nel verso giusto, il mio intuito era sempre stato un passo avanti agli altri. Mia madre, quella sera, passò tutto il tempo a coccolarmi e a tenermi fra le sue braccia, neanche cenò per stare con me. Papà dovette sgridare mia sorella, che, per fortuna, rientrò in ritardo, così da non vedermi in quello stato pietoso. Quando tornò a casa mi ero già addormentata. Mamma continuò ad accarezzarmi i capelli e la nuca fino a tardi, non mi lasciò mai sola. Quando venne l’ora giusta, prese un plaid rosso fuoco, lo stesso che usavo da piccola, e me lo mise addosso, così avrei potuto stare calda e, soprattutto, smettere di tremare. Poi mi baciò sulla guancia e si avvicinò al mio orecchio, sussurrandomi la buonanotte. Raggiunse papà sull’uscio del salotto e, insieme, mi guardarono beati. Papà, con un braccio, avvolse mamma, e, sempre insieme, si diressero verso la camera da letto. Mentre mamma si preparava per la notte, papà accorse subito di là a spegnermi la luce; sapeva che non amo dormire con le luci accese. Da quella sera, molte cose cambiarono, ma sicuramente non cambiò l’amore per i miei genitori, che, anzi, crebbe inconsapevolmente. Dopotutto, non ce l’avrei fatta senza di loro. 

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Capitolo 8
*** Parte 3.4 ***


Il tempo non si può fermare. E’ qualcosa di immenso e immutabile, che apre la nostra mente a infiniti pensieri. Ma ci sono attimi, in cui pensi davvero che il tempo si sia fermato. Come quando la prof comincia a spiegare matematica ad esempio. Oppure quando guardi un documentario sui pinguini. Le cose che non ci piacciono fanno sembrare il tempo qualcosa di statico. A volte anche troppo. Erano passati ben due mesi da quel giorno. Quel tragico evento che mi recluse nella solitudine più totale. Passavo le giornate a fissare la parete di fronte a me, senza né muovermi, né parlare, senza esprimere alcuna emozione. D’altronde, non volevo neanche provare a reagire. Sapevo che sarebbe stato del tutto inutile. Reagire non avrebbe cambiato le cose; non mi avrebbe ridato Heather. In quei momenti, la domanda che mi veniva spontanea era perché. Perché mi aveva lasciata? Perché? Non cercai affatto di darmi delle risposte, visto che, anche in questo caso, non avrei risolto nulla. Svegliati Giulia. Ormai è andata. E non la rivedrai mai più. Ma non posso dimenticarla. Lei vive in me ormai. E io sarò per sempre legata a lei. Devi smetterla invece. Devi aprire gli occhi e arrenderti, lei non tornerà mai. No, non è vero, lei tornerà. Non importa cosa sia successo o cosa stia succedendo, ma lei tornerà. Me lo sento. Era come se la mia mente facesse a botte con sé stessa: una parte di me voleva lasciar perdere, voleva arrendersi davanti all’evidenza; l’altra vuole lottare, vuole continuare a cercare una via di fuga, qualcosa che possa riportarmi all’equilibrio assurdo che mi ero creata. E, alla fine, questa parte prevalse. Era uno scuro venerdì, quel giorno, ed ero a casa da sola. Mamma era andata a fare dei servizi per la macchina, mentre papà era al lavoro. Bea era uscita, come suo solito. Io, seduta alla scrivania, con il computer davanti agli occhi, spento. Le mani sulla testa e i gomiti appoggiati sul tavolo. Le gambe in parallelo, così magre da far impressione, immobili. Lo sguardo era perso nel vuoto, l’unica cosa che mi sentivo in dovere di fare in quel momento era respirare. Fuori era nuvolo, la finestra che dava sulla mia camera lasciava intravedere qualche lieve raggio di sole che filtrava attraverso le nubi, ma, per il resto, buio totale. Le luci erano tutte spente e la camera era del tutto in ordine. Dopotutto, era da molto che non utilizzavo il resto degli oggetti che possedevo. Ad un certo punto, poco prima che i miei uscissero, iniziai a pensare. Pensai a Heather. A cose le fosse successo di tanto grave da indurla a lasciarmi così. D’un tratto, ebbi un colpo di genio: gli occhi vitrei persi nel vuoto mi si illuminarono. Mi ero resa conto solo in quel momento che la soluzione, nitida e chiara, era lì, davanti ai miei occhi. Non avevo intenzione di scrivere a Heather, anche perché ci avevo già provato molte volte da quando successe quel che era successo, e ogni volta che ci provavo lei stessa non rispondeva. Perciò, cominciai ad accendere il computer, senza esitare neanche un po’. Dato che era da molto che non lo utilizzavo, ci mise un bel po’ ad accendersi. Io rimanevo lì davanti, con gli occhi spalancati in attesa che comparisse lo sfondo azzurro del desktop. Proprio in quel momento mi ricordai di quando mi regalarono Macy: che Natale assurdo, pensai, passare tutta la sera davanti a un PC, addirittura dargli un nome. Mentre mi perdevo in questi e molti altri pensieri, mi accorsi che il computer aveva finalmente deciso di accendersi. Nel frattempo, però, io ero ancora in ansia. Anche perché non ero del tutto sicuro di quello che facevo e, soprattutto, se ciò avesse funzionato. Premetti il tasto sinistro sull’icona di Internet. Purtroppo per me, ci misi un bel po’ di tempo per aprire Google, perché il wi-fi si era completamente scollegato. Dopo circa un mesetto che non usavo più il Mac, ovviamente, doveva “riprendersi”. “Forza! Dai! Funziona!” pensavo, aggrottando le sopracciglia e osservando il simbolo del loading che continuava a rotare in circolo, senza alcun risultato. Quando ormai la speranza sembrava perduta, finalmente si aprì la finestra. “E vai! Così mi piaci!” pensai, ed esternai questo pensiero con un sorrisetto. Cavolo, da quanto non sorridevo! Il massimo del divertimento, a quei tempi, erano i miei “ahahah” digitati durante le conversazioni con Heather. Dovevo ammetterlo, mi mancava divertirmi. Mi mancava parlare e scherzare, mi mancava comunicare. E forse non solo quello. In ogni caso, appena si aprì la scheda, subito cominciai a picchiettare sulla tastiera, inserendo nel riquadro di ricerca il nome di Heather. Ma, come al solito, non va mai tutto liscio. Infatti, proprio in quel momento, mi ero completamente dimenticata il suo cognome. “Bene! E ora?” pensai nuovamente, tra un sospiro e l’altro. Dopo aver constatato che mi serviva un po’ di tempo per pensarci su, mi alzai e iniziai a camminare lentamente per la stanza, in cerca di qualcosa che potesse aiutarmi. Fu molto difficile riuscire a giungere alla conclusione, anche perché, durante la nostra corrispondenza, io e la mia amica ci chiamavamo sempre con soprannomi, che, spesso, erano anche molto strani, e, comunque, il cognome è sempre stata una cosa del tutto secondaria. Dopo averci pensato a lungo, arrivò il lampo di genio, la tipica lampadina che si illuminò tutto d’un tratto.
-Hill!- Urlai tornandomi a sedere di scatto e continuando a digitare. Ero così felice, che addirittura tornai a parlare (o, meglio, a urlare). Scrissi “Heather Hill” nel riquadro di ricerca e, dopo aver sospirato per l’ennesima volta, premetti invio. Sotto la voce che avevo inserito, c’erano circa trecentomila risultati, e quasi tutti relativi ad un profilo facebook; dopotutto, come mi disse lei stessa, Heather Hill era un nome molto diffuso in Gran Bretagna. Spesso e volentieri, c’erano cose che non avevano nulla a che fare con quello che avevo scritto e, a un certo punto, mi ritrovai addirittura su un sito per culturisti, ma lasciamo perdere. Tornando a noi, passai l’intero pomeriggio, dalle due circa fino alle sette di sera, a cercare qualcosa che mi potesse interessare. Passai in rassegna tutti i risultati in circolazione, visitai tutti i siti, i blog, qualsiasi cosa che avesse potuto darmi notizie su di lei. Erano le sette e un quarto, quando constatai che Heather non aveva alcun profilo, su nessun sito, nessun social network e nessun blog o forum che sia. Ero disperata, non sapevo più che fare. Verso le sette e mezza, dopo essermi calata nello sconforto più totale, mi mancavano circa tre pagine, che passai in rassegna velocemente, senza neanche fare troppa attenzione. Dopo essere arrivata all’ultima pagina, che praticamente non calcolai affatto, tirai un lungo sbadiglio. Cominciai a fissare la porta d’ingresso, chiedendomi come mai i miei e mia sorella fossero ancora fuori, dato che sarebbero dovuti già rientrare da un pezzo. Sospirai qualche altra volta, poi mi girai verso il computer ed esaminai scocciata gli ultimi tre risultati dell’ultima pagina, niente di che: un profilo facebook, un blog di una certa Heather Woods e … ehi, aspetta un attimo! Stropicciai gli occhi, sbadigliai di nuovo e mi avvicinai con la sedia al monitor. Sgranai lo sguardo al massimo e cliccai sull’articolo di giornale che, evidentemente, avrebbe potuto interessarmi. Il fatto che fosse scritto in inglese, che ci fosse il nome Heather Hill scritto esattamente come l’avevo scritto io, cosa che finora era stata del tutto rara, mi convinse ad aprire l’articolo in quattro e quattr’otto. Era una pagina di un giornale inglese del 2001 semisconosciuto, forse locale, che riguardava i fatti di cronaca:
YORK: RAGAZZA MUORE MISTERIOSAMENTE IN CASA, I MEDICI: “NON SAPPIAMO LA CAUSA”.
Siamo a York, città storica del nostro paese, ma non per questo intrisa di mistero e di delitti. L’ultimo caso che è giunto a noi riguarda la giovane Heather Hill, sedicenne, di famiglia benestante e cittadina britannica. La ragazza è stata ritrovata lo scorso venerdì in casa sua, seduta alla scrivania. L’allarme arriva dai genitori che, in lacrime, hanno chiamato l’ospedale più vicino. Sono gli stessi medici ad effettuare un esame sul corpo di Heather; i campioni di DNA prelevati escludono ogni traccia di omicidio o di suicidio. L’assenza di sangue conferma l’indagine. Le ipotesi sulla morte della ragazza sono molteplici. Tutto comincia in un quieto pomeriggio d’inverno. Siamo a York, la nostra città, più precisamente in zona universitaria. La ragazza stava tranquillamente scrivendo al computer con una sua amica, come riferito dai genitori. Il decesso è avvenuto verso le sette e mezza di sera, orario in cui la famiglia stava cenando. Heather, figlia unica, molto studiosa, amava la sua città, la sua famiglia e i suoi amici, fu ritrovata in camera, dopo la cena, che terminò alle otto, in stato catatonico. Secondo l’indagine medica condotta, le cause non possono essere dovute a radiazioni o a fattori tecnologici, poiché i computer non emettono alcun tipo di onde capaci di produrre tali reazioni. Questa tesi è, dunque, esclusa. In concomitanza con il commissariato, è stata esaminata l’ipotesi di una morte per depressione, ma, analizzando meglio l’aspetto sociale ed economico della ragazza, questa teoria passa anch’essa in secondo piano. Dalle analisi cliniche effettuate in vita non si riesce a trarre una conclusione, poiché Heather era del tutto sana, priva di ogni forma di anemia, tumore o quant’altro. In conclusione, le cause di morte della ragazza rimangono del tutto misteriose; scienziati, medici e molti altri esperti si stanno interrogando su cosa possa essere stato a provocare una morte così singolare. Certo è che il cuore della ragazza ha smesso di battere quasi immediatamente; le gambe e le braccia, posate sulla scrivania, erano atrofizzate e del tutto prive di muscoli, segno che la ragazza era ferma in quella posizione da tanto tempo. Gli occhi erano aperti e mostravano forme gravi di ittero. Heather manca tanto a tutti i noi, e siamo sicuri di fare il possibile per sapere come mai ci ha lasciato a questa tenera età. Mancherà tanto a tutti noi, riposi in pace.
Lessi tutto l’articolo con attenzione. Rimasi del tutto sconcertata appena finii; non riuscivo a credere a ciò che avevo appena letto, non riuscivo a realizzare che Heather fosse morta. “Non è possibile, deve essere un’altra ragazza” pensai. Ma non ci volle molto a capire che quell’articolo parlava proprio di lei. Continuai a leggerlo almeno altre quattro volte, poi mi alzai di nuovo e mi misi a camminare per la stanza, ancora più sconvolta di prima. Tutto d’un tratto, avevo capito ogni cosa. La verità nuda e cruda era davanti a me, e si mostrava in tutta la sua lucentezza. Heather era morta. Tanto tempo fa. Non esisteva più. Non fisicamente almeno. Ero esterrefatta e subito associai ciò che le successe alla mia situazione: avevo finalmente compreso ciò che stava accadendo. Ma certo! Come ho fatto a essere così stupida? Come ho fatto a non accorgermene prima? Quanto sono stata immatura e ingenua, non riuscivo a crederci. Scuotevo la testa e subito, riguardando l’articolo, le lacrime cominciarono a rigarmi il volto. Non potevo sopportare che la verità fosse così crudele, non potevo sopportare che Heather non fosse più qualcuno. Ma, soprattutto, riuscii finalmente a capire incontro a quale destino stavo andando. Avevo rischiato di morire, di fare la sua stessa fine. E non volevo. Non volevo lasciare tutto e tutti così, non in questo modo, non ora. Smisi immediatamente di piangere e cominciai a pensare. Tanti erano i punti interrogativi che offuscavano la mia mente in quel preciso attimo. Tremavo. Per tutto quel tempo, per tutti quei mesi, avevo parlato con una persona morta. Che sia stato una specie di scherzo? No, non poteva esserlo, dopotutto il giornale era un documento del tutto ufficiale e bastava per farmi rendere conto dei fatti. Tutto ciò che finora era stato detto dai miei amici e dai miei parenti era giusto: avevano ragione ed io, stupida come sono, me ne resi conto solo allora.
-Stupida! Stupida! Stupida!- Mi dissi dandomi delle forti pacche sulla testa. Tirai un sospiro profondo di sconforto. Non potevo ancora credere di essermi salvata giusto in tempo. La morte aveva bussato alla mia porta e io avevo la serratura rotta. Ho rischiato veramente tanto e, per fortuna, me ne accorsi al momento giusto. Ora che ero “guarita” dalla mia “sindrome”, restava soltanto una cosa da scoprire: qual’era il legame tra Heather e il computer? Perché lei mi scrive tramite questo mezzo e non con la classica “lettera dall’aldilà”? Ero veramente confusa, non sapevo veramente cosa fare. Rimuginai a lungo su cosa avesse potuto aiutarmi a risolvere i miei dubbi e, alla fine, qualcosa uscì fuori: l’unico modo per scoprire qualcosa su Heather era, semplicemente chiederglielo. Certo, sarebbe stato complicato ricevere una risposta dopo quello che lei mi aveva detto l’ultima volta, ma io ci avrei provato ugualmente. Dopotutto, volevo sapere perché mi aveva scritto, perché proprio a me; volevo sapere perché aveva scelto di far morire proprio me, perché in questo modo. Avrei voluto fare tutto al momento, ma ero troppo turbata per continuare a pensare. L’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento era ritornare a vivere. Tornare ad avere una vita vera. Tornare ad essere una persona umana, una persona ragionevole, e, soprattutto, una ragazza come tutte. Proprio mentre cominciai ad accennare un lieve sorriso relativo a questo, sentii la chiave scricchiolare nel buco della serratura. Mamma e papà erano tornati. Appena aperta la porta, i miei genitori entrarono in casa e io, felicissima, gli corsi incontro e, senza neanche fargli accorgere, li abbracciai entrambi, sorridendo. Quel sorriso che se n’era andato da mesi. E che ora era ritornato. Vidi la gioia negli occhi di mia madre, e la felicità nell’espressione di mio padre. Fui contenta di vederli così, finalmente allegri e senza pensieri. E, sicuramente, loro furono contenti di vedere la loro figlia rinascere.
-Perdonatemi!- dissi –Vi prometto che non lo farò mai più! Non vi farò mai più soffrire così, lo giuro!-
Li strinsi forte, come se non li vedessi da un’eternità. Loro ricambiarono l’abbraccio e, prendendoli per mano, ci dirigemmo in cucina, per preparare insieme la cena, come facevamo di solito. Eravamo tornati a vivere.

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Capitolo 9
*** Parte 3.5 ***


Fortunatamente, riuscii a non perdere l’anno: tornai a scuola il giorno dopo e riuscii a recuperare quasi tutte le materie in poco tempo mettendomi sotto con lo studio. Mi portai il debito a latino e storia, ma, d’altronde, cosa pretendevo? Avevo fatto un numero di assenze tali da meritarmi addirittura la bocciatura; ma, per fortuna, i buoni voti del primo quadrimestre e l’impegno durante i primi anni hanno fatto sì che le cose restassero in parte invariate. Ci volle un po’ di più, invece, per ristabilire il rapporto con i miei amici del gruppo: appena tornai a scuola furono tutti molto carini con me, mi salutarono, mi abbracciarono, mi chiesero come stavo e, subito, mi scusai con loro per non avergli dato retta; ricominciammo pian piano a rientrare in confidenza, anche perché ero molto impegnata con lo studio. Chiara si mise a piangere appena mi vide varcare la soglia della classe: mi corse incontro e mi travolse con un caloroso abbraccio.
-Mi sei mancata- Mi disse. Anche a me lei era mancata. Ma, soprattutto, mi era mancata la vita. Le professoresse e in particolar modo quella di matematica furono tutte molto contente di riavere la “prima della classe” con loro a lezione e furono davvero solidali e comprensive riguardo quello che mi era capitato (dopotutto la prof non sapeva di Heather, tutti, tranne i miei, pensavano che io avessi avuto una semplice “dipendenza” dal network). I nonni furono più che felici di vedermi così e mi riempirono di complimenti e di abbracci. Tornai a fare foto, tornai a mangiare i biscotti al cocco che mi piacciono tanto, a litigare con Bea, a spaventare Chiara alla fermata del bus. Insomma, avevo ritrovato la voglia di esistere che mi era mancata per tanto tempo. Filava tutto liscio come l’olio, ma … eh, già, perché c’è sempre il solito “ma”. In realtà, più che un “ma”, era un “perché”. E, dato che io voglio sempre arrivare al sodo e sono piuttosto curiosa, decisi di risolvere questo “perché” il più presto possibile: volevo capire qual’era il motivo per cui una ragazza, morta tanti anni fa, mi abbia scritto su un Mac e perché mi abbia rovinato in quel modo. Ero piuttosto arrabbiata quando pensavo a queste cose: dopotutto, è stato come se mi avesse ucciso. Ma poi, in seguito, è stata lei stessa, dicendomi di non scriverle più, a farmi “rinascere”. Volevo far luce sulla vicenda e capire una volta per tutte cosa stava succedendo. Era estate, precisamente i primi di Luglio, quando decisi, finalmente, di tirar fuori il Mac dalla sua custodia. In casa eravamo io e mamma, che oramai sapeva tutto, anche perché le avevo raccontato per filo e per segno ciò che era successo e ciò che avevo scoperto (io e lei abbiamo sempre parlato del più e del meno). Era un pomeriggio soleggiato, quando presi coraggio e aprii il computer. Mi sedetti alla scrivania, lasciandomi scappare un leggero brivido: la stessa scrivania sulla quale, per tanti mesi, giaceva il mio cadavere. Presi un respiro profondo e premetti il tasto di accensione. Non appena il monitor diede segni di vita non esitai un attimo a premere sulla tastiera:
-Rispondi- Scrissi –Rispondi, Heather! Non scappare, vigliacca! Devi dirmi qualcosa!
Come al solito, preferisco sempre giungere al dunque, e devo ammettere che ero piuttosto infuriata. Notai che Heather non rispose, anzi, passarono ben cinque minuti buoni prima che fui costretta a scrivere un’altra volta:
-E’ inutile che ti nascondi! Vieni fuori!
Ancora nulla. Ero esasperata al limite, volevo sapere, volevo capire perché. Perché voleva uccidermi. Lei che aveva promesso di amarmi per sempre, di rimanere per sempre. Bugiarda.
Il monitor del PC, dopo un quarto d’ora rimase esattamente come prima, quel colorito bluastro che lo corrispondeva. Aspettai. Volevo una risposta in quel preciso istante, non avrei atteso un altro giorno, o un’altra ora. Ero impaziente, e desiderosa di vendetta. Contro chi mi voleva morta, contro chi mi ha portato via da tutto e da tutti.
-Giulia, tu non capisci-
Non potevo crederci: finalmente il monitor cominciò a scurirsi, per poi diventare di colpo nero. L’unica scritta che vi si distingueva era quella giallognola dei messaggi di Heather. Mi scrisse che non capivo, che non avrei capito e che sarebbe stato troppo doloroso per me capire. Ma io volevo capire. Era l’unica cosa che volevo in quel momento.
-No, tu non capisci Heather! Io voglio sapere il perché ero morta! Voglio sapere perché mi hai mentito! Perché tu sei morta! Perché proprio io? Perché mi hai fatto questo?-
-Soffriresti se te lo dicessi-
Oramai non mi importava più niente, avevo sofferto abbastanza. Avrei insistito fino a quando non avrei ottenuto ciò che volevo.
-Heather, dimmelo! Ti prego! Ho bisogno di capire! Fallo per me! Per la mia famiglia! So che anche tu hai avuto dei genitori una volta … non avresti voluto vederli soffrire, vero?-
Pensai che, con quelle parole, Heather si fosse ricreduta e avrebbe finalmente rivelato la verità. E avevo ragione. La conoscevo troppo bene per non sapere che l’avrebbe fatto.
-Ascoltami bene, perché non posso ripeterlo una seconda volta-
Mandai un pollice in alto, segno di approvazione.
-Sono in trappola, Giulia. Sono morta, e tu lo sai. Vivo in questo mondo di tristezza e di persuasione, vivo vedendo morire altre persone, vivo per farle morire-
Si fermò lì.
-Continua- Scrissi, sconvolta.
-Questo non è un computer come gli altri Giulia, questo è un malvagio, è un’entità tecnologica maligna che si è nutrita di me, che ha mangiato la mia anima, ha distrutto la mia umanità e mi ha uccisa. Giulia, tu ti sei salvata appena in tempo, saresti stata la sua prossima preda-
Ero completamente esterrefatta da ciò che leggevo: ero incredula di fronte al fatto di avere davanti a me un’entità che si nutre di persone e della loro umanità. Ma, a quel punto, non potevo fare altro se non credere alle parole di Heather.
-Io ho fatto ciò che potevo, ti ho aiutata, ma il mio compito era diverso: io dovevo ucciderti, Giulia! Dovevo portarti qui, in questo mondo, così avresti preso il mio posto e avresti continuato la successione, ma non l’ho fatto. Tengo troppo a te per vederti morire-
A quel punto, cominciai a piangere. Tremavo e non scrivevo bene, ma riuscii ad inviare un messaggio:
-Heather, io … io voglio aiutarti, voglio salvarti, ti voglio qui in questo mondo, viva!-
-Giulia, non c’è più nulla da fare ormai. E’ lui, si è impadronito di me, non posso fare più niente! Tra poco non mi permetterà più neanche di scriverti, poiché lo sto menzionando!-
Le lacrime continuavano a scendere, veloci, mentre tremavo sempre di più. Ero grata ad Heather, perché era stata lei a salvarmi: se non mi avesse respinto, io non sarei mai rinvenuta e, se sono ancora qui, lo devo in tutto e per tutto a lei. Volevo assolutamente ricambiarle il favore.
-Non dire così! Ci deve essere qualcosa che ti può salvare! Pensa, Heather, pensa! Ti prego!-
Mi alzai in piedi e unii le mani, come se stessi recitando una preghiera, continuando a piangere e a tremare come non mai. Passarono secondi, minuti, più di un minuto. Come lei stessa aveva previsto, cominciarono a farsi sentire le prime interferenze.
-No … per favore, no!- Dissi scuotendo il capo. Non in quel momento. Non ora che Heather aveva trovato una via di fuga per liberarsi da “lui”. Proprio nel momento prima che le interferenze si facessero più marcate, il messaggio arrivò. Riuscii a leggerlo. Le interferenze erano forti. Seconda riga. Le interferenza sono fortissime. Terza riga. Più che fortissime, Quarta riga. Il computer si spense. Quinta riga. Ero riuscita a leggere tutto il messaggio, ma non le ultime parole. Non ebbi neanche occasione di dirle addio. E lei non ne ebbe alcuna per dirlo a me. Ero tristissima e, se proprio in quel momento le lacrime si erano alleviate, ricominciarono, più forti di prima. La disperazione era tanta, lo sgomento di più, dopo quello che avevo scoperto. Essere la vittima di un’entità maligna. Essere morta. Essere riuscita a vincere contro “lui” ed essere rinata. Aver vissuto ciò che ho vissuto. I ricordi, i fatti. Era tutto assurdo. Troppo. Così tanto che a pensarci mi vengono i brividi. Non pensavo più, non ragionavo più. Passai l’intera serata in camera a rimuginare su cosa avrei dovuto fare, non senza l’aiuto di mamma. Fu lei a raggiungermi, mentre mi ero sistemata per terra, con un cuscino e una coperta sul tappeto, a mo’ di letto. Prese anche lei un cuscino e un plaid e, senza esitare, si stese accanto a me. Cominciammo a parlare. Avevo ancora gli occhi rossi. Le raccontai tutto, per filo e per segno. Lei mi capì. Come sempre.
-E ora cosa intendi fare?- Mi chiese a un tratto. In effetti, non avevo affatto pensato alle ultime parole che Heather mi scrisse. Ci pensai solo in quel momento.
-Mamma- dissi guardandola in faccia.
-Dimmi amore-
-Te la senti di aiutarmi a fare una cosa?- le chiesi.
-Io ti aiuterò sempre, sappilo. Per qualsiasi cosa, io sono qui.-
Mi prese la mano e la racchiuse tra le sue, riscaldandola. Finalmente, il sorriso era tornato sulle mie labbra. Non del tutto, ma era tornato.
Il giorno dopo, infatti, io e mamma ci recammo insieme al Centro di smaltimento rifiuti, vicino alla discarica. Portammo il Mac con noi. Lo mettemmo nel portabagagli, per evitare di guardarlo, in quanto fonte di troppa tristezza. Il tragitto sembrò più lungo di quanto non lo fu in realtà, e arrivammo giusto in tempo per la chiusura del centro.
Ancora non potevo credere che finalmente avremmo liberato Heather. Mamma scese dall’auto e prese la busta con dentro il Mac. Subito dopo scesi anch’io e, insieme, andammo allo sportello d’entrata, dove c’era un uomo tozzo e basso, che ci accolse con un “buongiorno” e ci chiese:
-Bene, bene, cosa abbiamo qui?-
Mamma non disse una parola; si limitò a porgere all’uomo la busta di plastica rigida.
-Mmmh, un bel Mac! Nuovo di zecca, a giudicare dalle intarsiature, ultimo modello direi!-
Il signore prese in mano il computer e ridiede la busta a mia madre, che la ripiegò e la mise in borsa; poi l’uomo fece un’analisi accurata del Mac, illustrandoci, come se non lo sapessimo, i vari usi e funzioni e dicendo quanto siamo stupidi a buttar via un “gioiellino” del genere.
-Siete proprio sicure che lo volete scaricare qui?- Chiese infine, facendo una faccia come per dire che eravamo due pazze. Io e mamma ci guardammo negli occhi, sospirando.
-Se proprio non lo volete, ragazze mie- Continuò l’uomo, abbassando la voce -potrei prendermelo io, eheh!-
A quel punto, mi feci avanti:
-No! Non è il caso signore! E’, è … completamente difettoso, n-non è affatto affidabile!- Dissi scuotendo la testa per convincerlo.
-Va bene, se proprio insisti … - disse, alzando le mani in alto -Innanzitutto, dovete staccare il monitor dalla tastiera-
-Fai tu?- Chiese mamma guardandomi con aria interrogativa. Sospirai. Avrei dovuto rompere il computer.
-Va bene- dissi. Presi in mano il Mac e, con tutta la forza che avevo lo spezzai in due, separando lo schermo dai tasti. Probabilmente fu solo un’illusione, ma mi parve di sentire un urlo. Anzi, non proprio un urlo. Delle risate. Risate di una ragazza.
-Perfetto! E ora, mettiamolo al suo posto!- Disse il signore, prendendo il monitor con una mano e la tastiera con l’altra e mettendoli l’uno sul mobiletto dietro di lui e l’altro in un cassetto di alluminio. Incredibile, no? Ciò che ti ha distrutto ti ha anche salvato. Beh, possono esserci varie versioni della storia, da qui a questa parte, ma io ho raccontato la mia. La storia di una ragazza come tutte, Giulia, che ne ha vissute tante. E tante ancora ne ha da vivere. Perché è questo che vuole fare lei: vivere. In quel preciso istante, in cui il signore abbandonò la postazione, per consegnare la tastiera agli addetti, tornò il sorriso di tanti mesi fa. Non avrei saputo dire, tuttora, da cosa fu dato quel sorriso, ma una cosa è certa: tuttora, lo so. Heather era finalmente libera. Io ero finalmente libera. Eravamo entrambe libere, dopo tanto tempo. Dopotutto, ce lo meritavamo. Il suo addio non fu sufficiente, ma, in quel momento, in quell’attimo, riuscii finalmente a capire cosa ci fosse stato scritto in quella quinta riga. Il monitor giaceva, come fosse morto, sul mobile. Ma una cosa. Una cosa sola lo rendeva vivo. Una scritta giallognola in inglese, piccola e disturbata dalle interferenze, che riuscii a scorgere mentre mia madre mi abbracciò, dando le spalle alla postazione. Mi stringeva forte, come se fossi tornata da un lungo viaggio. Io guardavo fisso davanti a me, gli occhi puntati sullo schermo. Cosa c’era scritto sul monitor? “Thank you”.

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Capitolo 10
*** Parte 4.0 ***




Mi stringeva forte, come se fossi tornata da un lungo viaggio. Io guardavo fisso davanti a me, gli occhi puntati sullo schermo. Cosa c’era scritto sul monitor? “Thank you”.
Metto finalmente il punto a questa lunghissima storia.
-Uff, che fatica!- Dico, mentre lascio acceso il PC e mi dirigo verso il bagno. Perfetto, mi è venuto un altro callo. Subito prendo la pomata e ne spalmo un po’ sul pollice destro, facendo attenzione a non premere. Torno direttamente in studio e mi siedo alla scrivania, davanti al computer, che, nel frattempo, aveva messo il salvaschermo, ovvero uno slide con le foto della mia famiglia. Tutti i nostri viaggi, le feste, la nostra vita. Essa passava su uno schermo, senza mai fermarsi. Mentre sono assorta in questo e in molti altri pensieri, sento una voce, o meglio, un urlo, provenire dalla stanza di Emma. Accorro immediatamente, spaventata, e trovo mia figlia sul tappeto, cosparso di bambole e perline colorate. Accanto a lei, mio figlio, che le fa il solletico.
-Mamma, mamma! Però Edoardo mi dà fastidio!- Dice lei continuando a gridare e a ridere. Emma è una bambina adorabile, non avrei chiesto una figlia migliore: obbedisce sempre alle regole, rispetta le buone maniere e, nonostante faccia ancora la prima elementare, le maestre sono molto fiere di lei. Sorrido e decido di richiamare all’ordine la situazione:
-Eddy- dico a mio figlio, che subito smette di punzecchiare Emma e mi guarda con aria interrogativa –cosa ti ho detto ieri? Che non devi … -
-Non devo dare fastidio alla sorellina, sì, lo so, lo so … - Dice scocciato, completando la frase. Si alza e viene verso di me. Mi abbasso e lo guardo negli occhi.
-Bravo il mio ometto!- Esclamo io, dopodiché gli bacio la fronte e lo prendo in braccio.
-Oplà! E ora andiamo in camera e lasciamo Emma con le sue amiche bambole, mentre noi costruiamo una bella astronave con i lego!-
Gli occhi di Edoardo si illuminano e sorride.
-Sììì, sììì, astronaveee!- Urla, alzando il pugno come fa Superman. Proprio mentre porto in camera il piccolo, sento qualcuno bussare alla porta.
-E’ arrivato papà!- Esclama Emma, lasciando e le bambole e precipitandosi vicino all’entrata.
-Ehi, principessa!- Dice mio marito abbracciando la bambina. Faccio scendere anche Eddy dalle mie braccia e lo faccio correre ad abbracciare il padre, che lo solleva e gli fa fare un giro vorticoso in aria, facendolo ridere di gusto.
-Alla buon ora, eh?- dico io, avvicinandomi a lui e dandogli un bacio.
Emma, che non è ancora tornata in camera, ci guarda con una faccia schifata e dice:
-Bleah! Mamma, per favore!-
Interviene mio marito, che, piegandosi, le dice: -Sono già le otto, principessina mia, che ne pensi di far cenare le tue bambole!-
Emma si porta l’indice alla bocca e, dopo aver aspettato un po’ per rispondere, dice:
-Mmm, hai ragione papà! Non mangiano da stamattina!-
-Esatto! Avranno fame non credi? Su, vai! Che dopo toccherà anche a noi mangiare, eheh!-
Dopo aver “liquidato” i bambini, finalmente io e mio marito possiamo parlare. Dopotutto, durante la giornata non abbiamo quasi mai occasione di vederci, se non fosse per la sera e la mattina, ovvero gli unici momenti in cui lui si trova a casa.
-Allora, come mai questo ritardo?- Chiedo, dandogli un altro bacio e aiutandolo a togliersi il giaccone.
-Mi hanno commissionato un lavoro urgente, questi sono giorni di fuoco per il ministero- Dice lui sospirando –Piuttosto, come va con il tuo libro? Finito?-
-Ho appena finito, sei arrivato giusto in tempo per leggere il mio nuovo capolavoro! Eheh!-
Modestia a parte, comincio a dirigermi verso la scrivania, prendendo il PC e portandolo in salotto, più precisamente poggiandolo sul divano. Mio marito mi guarda e si siede accanto a me.
-E, dimmi, come hai pensato di intitolarlo?-
-Sai che non lo so, Valerio? Volevo chiederti un parere riguardo a questo-
Mio marito mi mette un braccio intorno alle spalle e dice:
-Pero! Che metodo strano di scrivere un racconto!
Ridiamo. Soprattutto io.
-Conosci il mio metodo, ahah! Il titolo lo scelgo sempre dopo- Dico io, continuando a ridere e togliendo il PC dallo stand-by. Valerio, mio marito, adora prendermi in giro riguardo al mio lavoro e, in effetti, non ha tutti i torti: passo tutta la mattina, tutto il pomeriggio e, a volte, anche la notte a scrivere. Nonostante riesca a occuparmi dei miei bambini in modo eccellente, riesco benissimo a conciliare il lavoro con la vita di tutti i giorni, e per questo lui mi definisce come una “mamma tuttofare”. Ogni volta che scrivo un libro, chiedo sempre a lui un parere per il titolo, che scelgo sempre rigorosamente alla fine; questo non solo perché mi fido di lui, ma perché da giovane anche lui amava scrivere (ci siamo conosciuti alla facoltà di lettere) ed era sua abitudine scegliere prima il titolo, e poi creare attorno ad esso un racconto o una poesia. Inoltre, qualsiasi cosa scrivesse, gli riusciva sempre bene. Purtroppo, però, il suo sogno non si avverò e fu costretto ad accettare un posto di lavoro al Ministero della Giustizia come impiegato. Poi arrivò il matrimonio, la nascita di Emma e dopo ancora quella di Edoardo, che ora ha cinque anni. E furono i giorni più belli della mia vita. In ogni caso, siamo sul divano e stiamo decidendo il titolo del mio nuovo racconto.
-Che ne pensi di “Beatrice la mamma tuttofare e le sue manie di scrittrice a tempo pieno”?-
Mi metto subito a ridere e lui fa lo stesso.
-Dai, sul serio! E’ importante!- Dico io, dandogli una pacca sulla spalla, poi ricomincio a ridere
-E poi non posso dargli questo titolo, ahah! Dovresti aiutarmi invece di fare il buffone!-
Mio marito mi guarda sorridendo e dice, continuando a prendermi in giro: -Giusto, hai ragione, dopotutto ho davanti a me la “regina del genere fantascientifico per ragazzi”!-
Continuo a ridere.
-Dai, piantala!- Dico io, riprendendo tutto a un tratto la serietà.
-Beh, dovrei leggerlo allora, per capire meglio di cosa si tratta-
-Prego- Lo invito io, porgendogli in mano il PC. Dopo averlo sbloccato, si schiarisce la voce e incomincia a leggere. Poso la testa sulla sua spalla e seguo con attenzione la lettura.
Ancora non ci posso credere che i miei genitori si siano degnati di regalarmi qualcosa di decente per Natale. Solitamente …

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