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«Mi stai dicendo che le anime sono entità
distinte e separate dal nostro corpo?»
«Esattamente» rispose l’uomo in bianco.
«Ciò che guardi la mattina allo specchio non è che un involucro, un semplice
contenitore.»
Il ragazzo trovava un che di disgustoso nel
modo in cui Weiß semplificava la vita umana.
«Un involucro. Capito.» L’albino punto gli
occhi chiari in quelli azzurri, intensi, di Cédric.
Quel giovane era talmente problematico... «Tu come fai a sapere tutte queste
cose?»
Weiß si concesse un sorriso, una curva
leggera delle labbra pallide che esprimeva un misterioso ed indecifrabile
sentimento di tenerezza misto a divertimento. Qualunque cosa fosse Cédric non l’aveva apprezzato.
«”Onnisciente non sono, ma di cose ne so”»
recitò con tono cantilenante.
Cédric attese una
spiegazione.
«Lo dice spesso quel lurido essere di mio
fratello» chiarì, sospirando nel costatare ancora una volta quanta ignoranza
incombeva in quella giovane mente.
«E quando il mio corpo…»
«Il tuo involucro» sottolineò Weiß.
«E quando il mio involucromorirà… cosa ne sarà di me? Della mia anima, intendo.»
«Quella continuerà a vivere. È per questo che sto cercando di
dissuaderti dalla decisione che hai preso.»
«Quindi è immortale?» Cédric
ne sembrava entusiasta, la prospettiva di vivere per sempre lo allettava
parecchio. Come un dio.
«No» sentenziò l’albino con tono severo,
distruggendo le fantasie del più giovane. «Anche l’anima è destinata a morire,
a spegnersi come una luce fioca che esaurisce la propria fonte di energia. Si
potrebbe paragonare ad una stella, se lo desideri. In ogni caso vive molto più
a lungo di un viscido contenitore di carne.»
«Anche tu hai un viscido contenitore di
carne.»
Weiß sorrise, un sorriso diverso dal
precedente: questo era malizioso, allegro, il sorriso di qualcuno che conosce
un segreto delizioso.
[Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione
Avanzata]
I passi si facevano sempre più vicini. Sentiva perfino
il rumore metallico delle catene, così fastidiosamente familiare da fargli
venire il voltastomaco.
Il giovane, colto da un
attacco di panico, si guardò intorno alla ricerca di un posto dove nascondersi;
gattonò silenziosamente verso l’angolo più buio della stanza, rannicchiandosi
su sé stesso nella speranza che questo bastasse a fuorviare il medico. Sapeva
che non sarebbe servito a nulla.
L’ombra di una figura alta,
maschile, si stanziava al di là della parete di vetro; l’uomo aprì la cella e
per un attimo Q. vide le luci del corridoio riflettersi sulle lenti dei suoi
occhiali. Lo stava guardando. Si accorse subito della sua presenza, come se
qualcuno lo avesse avvisato preventivamente che il giovane avrebbe cercato di
sfuggirgli accovacciandosi in quel preciso angolo della camera. Gli si avvicinò
lentamente, facendo ondeggiare la catena e il camice in contemporanea, quindi
gli bendò gli occhi e gli legò le mani, stringendogli una corda intorno ai
polsi. Q. non oppose la benché minima resistenza, nonostante fosse in preda al
panico. Desiderava solo fuggire – come tutti gli ospiti di quel tetro edificio,
d’altro canto –, ma quel posto era talmente grande da impedirgli di conoscere
(o solamente ipotizzare) dove fossero collocate le uscite, né quante stanze ci
fossero in totale. Non aveva mai messo piede fuori di lì, eppure, dopo tutti
quegli anni, non aveva avuto la possibilità di esplorare quell’immenso
laboratorio che sarebbe stata la sua dimora e la sua tomba. Era nato in cella e
sarebbe morto lì, dietro quelle stesse sbarre: questa era la triste e crudele
realtà, l’amara consapevolezza che avvelenava i suoi giorni.
L’uomo in camice prese
un'estremità della catena e l’attaccò al collare di metallo che Q. indossava
dalla nascita, per poi incamminarsi verso le scale che collegavano le celle al
piano inferiore. Il giovane era scalzo e gli sanguinavano i piedi, così lasciò
una scia che segnava tutti i suoi spostamenti, come Hänsel e Gretel con le molliche di pane, ma molto più
sicuro: nessun uccellino avrebbe potuto divorare le macchie di sangue sul
linoleum grigio. Per evitare che sporcasse le rampe di scale, l’uomo in camice
fece la saggia scelta di utilizzare un ascensore per raggiungere il terzo
piano. Dopo aver attraversato un corridoio interminabile, giunsero in una
stanza immensa e piena di luci. Una dozzina di medici e scienziati provenienti
da tutto il mondo, e con le mani perfettamente sterilizzate, attendeva il loro
arrivo.
Qual è il pericolo maggiore per un automobilista?
I pedoni e gli altri automobilisti, ovviamente. Potrai essere un mago al
volante, il migliore tra tutti, ma se un ragazzino, di notte, attraversa la
strada all’improvviso - come un gattino impaurito, sbucando da chissà dove -,
non hai molto da fare se non cercare di evitarlo. Ed è quello che cercò di fare
Albrecht, schiacciando il mocassino lucido sul pedale
del freno. Le gomme stridettero e la parte anteriore della macchina sbandò
sulla destra. Frenare non sarebbe bastato per evitare di investire il ragazzo,
la distanza tra i due non era sufficiente da permettere alla macchina di
fermarsi entro un margine di tempo prudenziale, così fu costretto a sterzare,
facendo ruotare inevitabilmente la vettura su sé stessa; l’automobile dietro di
lui arrivava a gran velocità e colpì la sua auto di striscio, ma abbastanza da
scansarla sulla carreggiata che andava nella direzione opposta.
L’autista del camion era assonnato, in procinto di addormentarsi sul volante
se non fosse stato per il rumore assordante del clacson; sgranò gli occhi,
cercando di fermare l’automezzo. Pochi secondi dopo avvenne l’impatto e la
vettura di Albrecht, si ribaltò su se stessa,
accartocciando in un involucro di lamiera e metallo lui, i suoi tre figli e sua
moglie.
Il ragazzino era riuscito ad attraversare, raggiungendo l’altro capo del
marciapiede incolume.
Sento della musica. Ho come l’impressione che
non l’abbiano mai spenta da quando mi sono addormentato. E questa puzza,
quest’odore pungente di disinfettante e candeggina, mi sta dando il
voltastomaco – no, forse la nausea è dovuta ad altro. Sento il corpo intorpidito
e la testa mi duole come se il cuore mi pulsasse dentro la scatola cranica.
Tum-tum, tum-tum…
Apro gli occhi. Mi bruciano. Cerco di
avvicinare una mano al viso per stropicciarli ma fatico a muovermi, talmente
tanto che a stento riesco a voltare il capo per guardami intorno. Distinguo a
stento i contorni dei mobili, ma non ci sono dubbi, sono in un ospedale. Cosa
ci faccio qui?
Un macchinario grigio alla mia sinistra
segna i battiti cardiaci; tossisco più volte e cerco di liberarmi della
maschera d’ossigeno. In questo stesso istante scatta un allarme, diffondendo
nella stanza uno stridio che mi costringe a tapparmi le orecchie. La testa!, la
mia povera testa, che dolore!
Vorrei girarmi sul fianco, ma sento le
giunture dolermi. Il mio corpo è pesantissimo, non riesco a muovermi, eppure –
mi guardo da sopra il lenzuolo bianco – sembro così piccolo e mingherlino.
Sento gli occhi inumidirsi di lacrime e prima che possa asciugarle qualcuno
apre la porta. Un individuo di sesso ambiguo, dai capelli corvini e i grandi
occhi grigi, rimane ad osservandomi sulla soglia con espressione allibita.
Sembra una statua greca, una di quelle che rappresentano giovani dèi, o eroi,
con le fattezze morbide e le membra acerbe tipiche degli adolescenti. È come se
non fosse mai cresciuto e avesse mantenuto il volto efebo che caratterizza i
ragazzi. Si capisce che ha una trentina d’anni, ma la sua pelle liscia dice il
contrario. Sembra un diciottenne e quel camice bianco lo fa sembrare ancora più
longilineo. Vedo le sue labbra muoversi ma non sento ciò che dice; oltre
questo, nessuna reazione, rimane lì, a guardarmi con un’espressione tra
l’impaurito e il sorpreso. Mi domando se il mio volto abbia qualcosa che non va
e cerco di tastarmi la pelle alla ricerca di sangue o chissà cos’altro. Sono
così stanco e dolorante che non riesco a capire se ho veramente alzato la mano
per toccarmi il viso o se lo sto solo immaginando. È come se fossi in trance,
un limbo tra sogno e realtà. Ecco, forse sto solo sognando.
«Syans?!» esclama
il medico, avvicinandosi frettolosamente al lettino ospedaliero. «Syans, mi senti?»
Syans? Sta
parlando con me?
Nel dubbio, annuisco lentamente…
o almeno credo di averlo fatto. Ho una concezione confusa dei miei movimenti,
come se mente e corpo non fossero sintonizzati correttamente.
Poco dopo arrivano altri due uomini in
camice: un orientale molto basso, dagli occhi assurdamente chiari, e un
occidentale alto e longilineo, dai capelli lunghi color mogano.
Statua Greca viene messo da parte,
allontanato dagli altri due medici che si avvicinano al mio letto con aria
entusiasta e sorpresa al contempo, guardandomi come se fossi…
un mostro o forse un dio sceso in terra.
«Dobbiamo fargli il test» ordina
l’orientale; il dottore dai capelli lunghi annuisce. «Vikutoru-san*,» riprende,
autoritario «porta la barella. Sbrigati.»
Capelli Lunghi sorride, ha quasi le lacrime
agli occhi. “Syans, oh, Syans!”
continua a sussurrare con voce rotta dall’emozione.
«Presto, Ishii-san**, aiutami a metterlo
sulla barella» ordina ancora l’orientale, che sembra avere in mano la
situazione. Dev’essere il primario del reparto,
penso.
«Dobbiamo anestetizzarlo» propone
l’occidentale.
«Potrebbe essere un rischio, non abbiamo la
certezza che si risvegli. Potrebbe non sopravvivere alla notte. Potrebbe non
sopravvivere alle prossime due ore.»
Cosa? Di cosa state…
Cosa mi sta succedendo?!
L’orientale e Capelli Lunghi mi portano
fuori dalla stanza, mentre Statua Greca mi guarda con compassione attraverso il
vetro. Mi fa “ciao ciao” con la mano, poi sparisco nel corridoio.
***
Vedeva sfocato, i contorni irregolari e i dettagli che slittavano via
dalla sua portata. Sentiva il rumore delle ruote delle barella e il
chiacchiericcio dei due medici: non riusciva a percepire le parole, ma
distingueva chiaramente il tono preoccupato di uno e quello emozionato
dell’altro.
Il corridoio sembrava
interminabile, un infinito susseguirsi di porte a vetro tutte uguali tra loro. L’aria
ancora impregnata di disinfettante, quell’odore disgustoso tipico degli
ospedali. Odore di malati.
Si sentiva stordito, ma più
il tempo passava più recuperava coscienza di sé e di ciò che lo circondava.
Dopo svariati minuti che non
seppe quantificare, giunse in una sala ampia a luminosa, piena di macchinari
che non aveva mai visto in vita sua. Gli prelevarono un campione di sangue, gli
fecero una TAC e un’altra dozzina di esami dalla dubbia utilità e per tutto
quel tempo la sensazione di stordimento non fece che diminuire, tuttavia le
orecchie gli facevano male e non riusciva a coordinare correttamente i
movimenti, tant’è che faticava perfino a parlare: più volte tentò di richiamare
l’attenzione dei medici, ma l’unica cosa che riuscì ad articolare furono versi
sommessi e privi di significato.
Alla fine si arrese. Lasciò
che i medici facessero i loro accertamenti per poi condurlo in una grande
stanza verde e luminosa, con un arredamento essenziale e sobrio. Gli
consigliarono di riposare, raccomandandogli anche di tirare la cordicella rossa
vicino al suo letto nel caso avesse avuto bisogno dell’assistenza di un
infermiere: Viktor (che lui aveva soprannominato “Statua Greca”) sarebbe
accorso immediatamente. Dopo avergli detto qualche parola di conforto, gli
sorrisero entrambi contemporaneamente e uscirono silenziosamente dalla stanza,
lasciandolo in balìa del silenzio ovattato e della puzza di disinfettante.
Quei due medici gli parevano
due bambini che trattenevano le risate dopo aver combinato una marachella. Si
chiese se poteva fidarsi di loro, ma in realtà sapeva di non aver scelta. E
rimase lì, solo, con tante domande e nessuna risposta.
«È fantastico, è fantastico!» esordì Saito,
abbracciando calorosamente Albrecht in un improvviso
ed inaspettato slancio di affetto; l’austriaco ricambiò tra le risate.
Nessuno dei due poteva
crederci e non si preoccuparono di placare il loro entusiasmo poiché ogni
stanza di quell’edificio era insonorizzata.
«È un miracolo, vecchio mio,
ecco cos’è!» esclamò l’austriaco, lisciandosi i lunghi capelli color mogano.
«Oh, no, no. È scienza.
Medicina, lavoro, bravura, esperienza, tentativi, fortuna…
Non un miracolo. Syans si è risvegliato perché noi
siamo degli ottimi medici, ecco perché.»
Si scambiarono un lungo
sguardo d’intesa, uno sguardo che esprimeva più di mille parole, parole che non
avevano bisogno di esser dette a voce perché entrambi sapevano cosa stesse
pensando l’altro. Nonostante appartenessero a due culture differenti, due emisferi
complementari, due mondi separati, il corso dei pensieri di Saito
seguiva perfettamente quello di Albrecht, e
viceversa. Ogni loro idea viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda. Non ebbero
mai un incomprensione, un disguido o un malinteso. Sapevano esattamente cosa
voleva l’altro e che tipo di approccio bisognava utilizzare per avere una
discussione pacifica e un civile scambio di opinioni. Occasionalmente ebbero
dei battibecchi più o meno accesi, ma solo per questioni di massima importanza.
Come le cure di Syans. Inizialmente Albrecht aveva proposto di staccare la spina dei macchinari
che lo tenevano in vita, ma nonostante i cinque mesi di coma Saito non si diede per vinto e convinse il collega ad
attendere. L’orientale aveva un gran potere di persuasione e gli capitò spesso
di spronare Albrecht a reagire, piuttosto che
lasciarsi abbattere dalle intemperie della vita. La prima volta che lo convinse
a rischiare risaliva a parecchi anni fa, durante quel terribile incidente che
ancor’oggi disturba i sogni dell’austriaco. Fu così che diventarono amici. Da
quel momento Albrecht si sentì sempre in debito nei
confronti dell’orientale e, per ringraziarlo, tra le altre cose, sostenne
sempre le sue idee anche quando non era totalmente sicuro delle conseguenze.
«Dobbiamo brindare» propose
il moro con un tono che pareva un ordine, mentre si avviava con passo fiero
verso l’ascensore.
«Saito…?»
Albrecht,
immobile, era rimasto vicino la porta. Non aveva mosso un passo.
«Sì, Ishii-san?»
«Grazie.»
Il giapponese gli regalò uno
dei suoi rari sorrisi sinceri e solo allora l’austriaco lo raggiunse, quasi
commosso.
[Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione
Avanzata]
Gli bruciavano gli occhi. C’era troppa luce e la
lacrimazione dei suoi occhi era ormai insufficiente. Quando sarebbe venuto il
medico ad inumidirglieli con il medicinale? Maledizione. Come se non bastasse
era mezzogiorno e il sole sembrava essersi posizionato sopra la sua cella per
fargli un dispetto. Di certo il tetto di vetro non aveva aiutato affatto, anzi,
se possibile, aveva peggiorato la situazione, creando un effetto serra
devastante. Finestre non ce n’erano, solo alcuni buchi sul soffitto, come un
topolino in una scatola bucherellata per non farlo morire soffocato. A
discapito di ciò l’aria era stagnante e quel caldo torbido lo faceva sentire
più debole di quanto non fosse in realtà.
Era disteso sulla sua branda,
ma la luce gli impediva di dormire, costringendolo a rigirarsi in cerca di una
posizione più comoda che facilitasse il suo tentativo di riposarsi.
Fortunatamente l’intero edificio era avvolto nel silenzio, eccetto per delle
urla sporadiche e dei lamenti occasionali che venivano sedati ancor prima che
potessero diventare insopportabili.Le
cause di maggior confusione erano W., che si trovava nella cella adiacente alla
sua, e Il Mostriciattolo, uno degli esperimenti che non aveva mai avuto il
piacere di conoscere ma che era riuscito ugualmente a conquistare un posto
speciale nella memoria di Alek grazie alle sue
continue e strazianti grida di terrore. Anche Alek,
le prime volte, aveva ceduto al dolore, urlando così forte da non avere più
voce per i quindici giorni successivi; a discapito di quanto potesse
immaginare, col tempo perfino lui aveva imparato ad abituarsi, ad omologarsi
agli altri veterani di quel luogo infestato da disinfettante e medici dalla
mente contorta. Il dolore era diventato solo una parola, un’espressione di uso
comune per chiunque non conoscesse Ápeiron, un ignoto
Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione Avanzata. Il dolore faceva parte di
lui, ormai, come un prolungamento di un braccio o di una gamba. Era intriso nel
suo animo ed era diventato sempre più ovattato; fastidioso e mai
insopportabile.
Sono trascorsi pochi giorni
dal mio risveglio, eppure mi sento benissimo, come se fossi rinato. È una
sensazione fantastica, come un buon bagno caldo dopo una giornata stressante.
Viktor è molto simpatico e, quando ha un
po’ di tempo libero, viene sempre a farmi compagnia. A volte mi parla di Klaus,
il suo fidanzato. Gli manca tantissimo, si vede dal suo sguardo: osserva fuori
dalla finestra con aria persa e per un attimo mi sembra che nei suoi occhi ci
sia qualcosa di torbido. Si pietrifica, rannicchiato sulla schiena e sembra
così piccolo e indifeso da suscitarmi un’infinita tenerezza. Poi torna quello
di sempre, si volta verso di me e mi sorride, scompigliandomi i capelli, e riprende
a parlarmi di medicina,chimica, fisica… È un ottimo insegnante. Ha provato a spiegarmi
anche qualcosa di inglese e francese, ma le lingue straniere proprio non riescono
ad entrarmi in testa!
“Hai una mente scientifica, ecco perché!”,
dice sempre così, Viktor, ma credo lo faccia solo per non scoraggiarmi.
C’è qualcosa di strano, in lui, come se
portasse una maschera. Mi tiene all’oscuro di qualcosa, lo sento. A volte
aggira il discorso, svicola, non risponde alle domande che gli pongo. Temo che
lo faccia con tutti, in realtà. Ho come la sensazione, quando lo guardo, che si
trattenga, che finga di essere ciò che non è. Non che menta – non a me, almeno
– eppure con gli altri si comporta in modo evasivo, puramente professionale,
come se fosse un robottino e nulla di più. Un pezzo
del puzzle, non una persona. Solo… un dipendente come
tanti altri.
***
«Mi domando perché non ti ho ancora licenziato!» sbraitò l’orientale,
agitando le braccia con aria inferocita. «Ah, giusto» riprese sarcastico,
alzando l’indice con aria risoluta. «NON POSSO!»
Innervosito, contrariato e
stressato, Saito adagiò la schiena contro la poltrona
girevole in pelle, poggiando la fronte sul palmo della mano con aria
teatralmente stremata. Sospirò un paio di volte sotto lo sguardo impassibile
del sottoposto, voltandosi poi verso la vetrata che ricopriva l’intera parete.
Non sapeva più cosa fare con Viktor, quell’uomo era…
così anarchico! Tenerlo a bada era un’impresa. Giusto Albrecht
sapeva aggirare nel giusto modo i suoi sotterfugi, stava quasi riuscendo a
farselo amico, ma lui non riusciva ad avvicinarsi neanche di un centimetro che
Viktor era pronto a morderlo e strappargli la mano. Indomabile. Quando l’aveva
assunto pensava di poterlo plasmare, di sottometterlo con facilità al suo
volere – dopotutto era talmente giovane ed ingenuo! – e invece no, si era
sbagliato, Viktor riusciva sempre ad ostacolarlo, a mettergli i bastoni tra le
ruote: non ascoltava gli ordini, faceva di testa sua, combinava guai, comprometteva
il lavoro altrui, non rispettava i suoi superiori… E
tutto questo per cosa? Per i suoi princìpi del cazzo!
Eppure non si era pentito di
averlo preso con sé, Viktor era dotato di una mente geniale, un’intelligenza
brillante e un talento sprecato, un talento che Saito
avrebbe voluto sfruttare ma che il giovane gli impediva di alimentare e
migliorare. Prima o poi sarebbe riuscito a modellarlo, quel ragazzino
arrogante. Chi si credeva di essere? Saito sarebbe
riuscito, con un po’ di tempo e l’aiuto essenziale del suo fidato amico e
collega Albrecht, a modellare la mente e la coscienza
di Viktor.
«Perché non fai fare una
passeggiata a Syans? Oggi è una bella giornata,
guarda com’è sereno il cielo…» Il tono di voce era
mutato completamente, ora era più pacato e gentile, ma l’espressione del moro
non si addolcì, rimanendo disgustata ed infastidita dalla presenza
dell’orientale.
«Certo, lo faccio
immediatamente.»
Saito
odiava quel tono servile, sapeva che significava tutt’altro e questo lo infastidiva.
Come proprietario dell’intero edificio voleva essere rispettato, invece Viktor
lo trattava alla stregua di un coetaneo. Un comportamento imperdonabile,
soprattutto per un giapponese.
Il giovane uscì e nello stesso istante entrò Albrecht,
con un camice bianco e la lunga chioma color mogano legata con una coda di
cavallo. Si sistemò gli occhiali e aggrottò la fronte, passando lo sguardo
prima sull’uscio e poi sul collega.
«Cos’ha combinato questa
volta?» chiese scherzosamente, prendendo posto sul divanetto in pelle che
affiancava una libreria in metallo.
«Voleva dare ad Alek qualche giorno di permesso. Come se fosse una cosa
possibile, capisci?!»
Albrecht
non disse nulla, volgendo lo sguardo ambrato verso l’ampia vetrata.
«Non capisco cosa gli passi
per la testa. Vuole forse farci fallire? Conoscendolo…
probabilmente è davvero così!»
«Non ti scaldare» sussurrò
cauto l’austriaco, che ora gli era vicino, con una mano sottile ed affusolata
poggiata sulla piccola spalla del collega. Un sorrisetto ambiguo gli incurvava
le labbra.
«Cosa devo fare con lui, Ishii-san? Non riesco a farlo ragionare.»
«Gli parlerò io, non
preoccuparti.»
Calò il silenzio per svariati
minuti. Loro rimasero immobili come statue, persi nei loro pensieri. La stanza,
così come tutte le altre, era insonorizzata e l’unico suono udibile in quelle
quattro mura erano i loro respiri sincronizzati. Poi il bruno ruppe
quell’atmosfera eterea con un rumoroso sospiro, consapevole di non dover dare
voce ai suoi pensieri ma deciso a non rimandare oltre.
«Saito»
esordì; l’orientale sapeva che quel tono era fonte di guai, poiché l’amico era
solito utilizzarlo – inconsciamente o meno – quando era nervoso e insicuro. Saito si voltò verso di lui, sistemandosi gli occhiali.
Quando i loro sguardi si incrociarono e gli occhi chiari dell’orientale si
specchiarono in quelli ambrati dell’altro, Albrecht
riprese con maggior sicurezza: «Voglio parlare con Syans,
ormai sono passati cinque giorni ed è giusto che lui sappia. Voglio dirglielo, Saito.» non si interruppe neanche per prendere fiato,
sapendo che un attimo di esitazione sarebbe stato fatale. Vedendo l’espressione
perplessa dell’altro aggiunse in tono più acido: «Te lo sto comunicando perché
siamo amici e mi sembra giusto che tu lo sappia, non per chiedere il tuo
permesso. Lo farò a prescindere dalla tua risposta.»
Tipico di lui. Saito non poté fare a meno di sorridere.
«Certo, lo capisco» si alzò e
gli diede una pacca sulla spalla. «Hai ragione, è meglio dirglielo ora, ma non
strafare con le informazioni» e lo guardò severo, percontrollare che avesse capito, «a piccoli
passi, mi raccomando. Pian piano saprà tutto. La verità, tutta in una volta,
può essere fatale.»
«Mi sembra un ragionevole
compromesso.»
Mentre Viktor gli teneva la mano piccola e morbida, Syans
percorreva con passo traballante il bordo della fontana.
«Se lo sapesse, Saito mi ucciderebbe!» disse il moro tra le risa e il rosso
si unì a lui.
«Non farmi ridere,» lo
rimproverò Syans scherzosamente, grattandosi una
guancia lentigginosa, «altrimenti perderò l’equilibrio!»
«Va bene, dopotutto sei sotto
la mia custodia, ora, quindi è meglio evitare incidenti.»
Dopo un paio di giri – la
fontana era molto grande, con un diametro di circa sei metri – il ragazzino
scese con un balzo, si tolse le scarpe e si godette la sensazione dei fili
d’erba che gli solleticavano la pianta del piede. Ridacchiò, voltandosi a
guardare Viktor in cerca di approvazione. Il giovane sorrise e si sedette sul
bordo della fontana, guardandolo con aria intenerita. Syans
si mise a correre veloce, tra gli alberi e gli arbusti, distendendo le braccia
come se fossero le ali di un aereo. Quando tornò vicino la fontana era madido
di sudore, le guance imporporate e i capelli gonfi e crespi pieni di foglie
gialle. Viktor rise nel vederlo conciato in quel modo, ma i muscoli del suo
viso si contorsero velocemente in un’espressione triste e sconsolata. Vederlo
così vivo, così felice, gli ricordava come quella stessa gioia gli fosse
stata sottratta anni prima. Chinò lo sguardo sul prato, avvilito: vicino ai
suoi piedi una lunghissima fila di formiche nere stava trasportando delle
briciole di pane.
Anche il rosso, per riprender
fiato, si sedette sul bordo della fontana. C’era una grande quantità di pesci,
rane e tartarughe, lì dentro, e trattenne l’infantile istinto di provare ad
acchiapparli per poi farne chissà cosa. Stava per riprendere la sua corsa
quando si soffermò a specchiarsi nell’acqua non troppo limpida della fontana.
Non ricordava più nulla. Guardava i suoi capelli scombinati, senza forma, come
la chioma di un leone, i suoi grandi occhi verdi, il suo visetto da bambino, le
sue orecchie piccole e il suo nasino all’insù e non riusciva a riconoscersi.
Vedeva un estraneo. Si toccò la faccia come per assicurarsi che fosse davvero
lui quello che vedeva riflesso nella superficie dell’acqua. Non ricordava più
nulla. Il suo nome, i suoi genitori (ammesso che ne avesse), la sua storia, la
sua casa… Ancora nessuno lo aveva degnato di una
spiegazione, nonostante le sue innumerevoli domande. Perfino Viktor, suo
malgrado, era stato costretto al silenzio. Non riusciva a capacitarsene. Se
avevano insistito per non dirgli nulla probabilmente la verità era talmente
shockante da poterlo traumatizzare e compromettere la sua incolumità, per
questo preferivano tenerlo all’oscuro di tutto. Non era riuscito a trovare
un’altra motivazione.
Albrecht e Saito camminavano
uno di fianco all’altro, inseparabili. Alcuni colleghi rabbrividivano al loro
passaggio, temendo di essere sgridati dall’orientale, il più severo ed esigente
tra i due. L’unica cosa che temevano di Albrecht,
invece, era l’aria perennemente ambigua: non si capiva mai cosa pensasse
veramente ed era capace di licenziarti con la stessa voce amorevole che avrebbe
usato per chiederti come stavi. Il suo sorriso era affabile, non mutava mai,
alcuni erano convinti che avesse una paralisi facciale, ma quando il buonumore
lo abbandonava, e il sorriso comunque permaneva, gli occhi sembravano due braci
ardenti pronte a darti fuoco da un momento all’altro. Questo, solitamente, era
l’unico modo per scoprire le sue vere intenzioni: leggere il suo sguardo.
Prima che i due coproprietari dell’edificio raggiungessero l’uscita si
sentirono chiamare da Nolan, un giovane australiano
dalla mente geniale che in poco tempo era diventato il migliore nel suo
settore.
«Ho terminato il mio progetto!»
annunciò soddisfatto e un bagliore di entusiasmo illuminò i suoi occhi.
«Ottimo lavoro» rispose Saito con sincera approvazione: Nolan
era uno dei pochi che era riuscito ad ingraziarsi lo scorbutico orientale.
«Passeremo a dargli un’occhiata quando avremo terminato le nostre incombenze,
tu occupati di altro nel frattempo.»
«Okay, sensei*»
Nolan si divertiva ad usare termini giapponesi e probabilmente
questo faceva piacere al suo superiore, un motivo in più per continuare a
farlo.
Albrecht
lo liquidò definitivamente con un cenno della mano, avviandosi poi verso il
giardino, un posto immenso, pieno di alberi e arbusti, ma anche fiori ed
ortaggi. Alcuni spazi erano recintati, accessibili solo ad una parte del
personale, ma altri erano aperti a chiunque, in modo che medici e pazienti
potessero uscire di tanto in tanto per prendere una boccata d’aria.
L’austriaco si guardò
intorno, alla ricerca di Syans. Non gli ci volle molto
per individuarlo: era vicino alla grande fontana, in compagnia di Viktor. Il
rosso fu tentato di corrergli incontro, ma l’aura poco rassicurante di Saito gli fece cambiare idea. C’era qualcosa di inquietante
nel suo sguardo gelido e quel suo sorrisetto trasudava una fastidiosa perfidia.
Syans lo trovava terribilmente antipatico, non
riusciva a fidarsi di lui, per questo si sentì sollevato nel vedere che era
accompagnato dal medico con i capelli lunghi.
«Ciao, Syans»
esordì Albrecht, sfoggiando un sorriso più cordiale
del solito. «Come ti senti?»
L’uomo si sedette sul bordo
della fontana, vicino al ragazzino; l’orientale rimase in piedi e Viktor meditò
se alzarsi o rimanere lì. Questi ultimi si scambiarono uno sguardo feroce.
«Sto molto bene, grazie. Ho
una gran fame!»
«Come va il braccio? Ti fa
ancora male?»
Il ragazzo piegò diverse
volte il braccio destro, poi lo alzò verso il cielo limpido. «No, non più. A
volte sento come se scricchiolasse, però non è doloroso.»
«Tranquillo, passerà. È un
buon segno che tu abbia fame. Ti va di pranzare insieme a me?»
«Certo» una pausa, lo sguardo
sgattaiolò per un momento verso Saito, come per
assicurarsi di poter parlare. Albrecht lo notò, ma
non seppe se infastidirsi o lasciar correre. «Può venire anche Viktor?» Era
l’unico di cui si fidasse, non voleva rimanere da solo con qualcun altro.
«Preferirei di no. Magari
dopo.»
Il ragazzo non osò ribattere
sentendo quel tono deciso, limitandosi piuttosto ad annuire.
«Bene.»
Albrecht
gli circondò le piccole spalle con un braccio e lo riaccompagnò all’interno
dell’edificio. Le loro voci si persero in lontananza e quando Viktor si alzò
erano diventati due puntini irraggiungibili in un immenso prato verde. Una
brezza fresca agitava le foglie degli alberi e alcuni uccelli cantavano
spensierati; quel giardino era un piccolo angolo di paradiso, pieno di farfalle
e altri animali.
Un cespuglio si agitò e due
orecchie lunghe e grigie spuntarono da un lato. Una lepre. Saito
batté forte un piede sul terreno per farla correre via. L’animale sfrecciò
lontano da loro, ma quello scatto la fece notare da una volpe, appostata non
poco lontano, che le tenne un agguato riuscendo ad afferrare la lepre dal
collo; serrò i denti per esser certa di aver ucciso la sua preda, che per
qualche secondo si dimenò tra le sue fauci, poi l’animale dalla folta pelliccia
rossa si ritirò tra i cespugli. Saito sorrise.
Viktor rimase a fissare il punto
in cui la volpe aveva azzannato la lepre con gli occhi sgranati. La prima volta
che accadde una cosa del genere ne rimase traumatizzato, ma dopo tutte le cose
orribili alle quali era stato costretto ad assistere uno spettacolo del genere
non lo colpiva come avrebbe fatto anni fa. Stava cominciando ad abituarsi alla
sofferenza. Sospirò e chiuse un attimo gli occhi per scacciare quell’orribile
scena, quando riaprì le palpebre diede le spalle all’uomo e si avviò verso
l’entrata dell’edificio, ripercorrendo i passi di Albrecht
e Syans, che ormai erano spariti oltre le porte di
metallo. Saito lo afferrò bruscamente da un braccio prima
che potesse andarsene: il tedesco, che era più alto di lui di nove centimetri,
si finse impassibile, guardandolo dall’alto verso il basso.
«Quando stasera terminerai il
tuo turno, fai un salto nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.»