Per il bene della scienza

di Experiment 513
(/viewuser.php?uid=770593)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa: una luce fioca ***
Capitolo 2: *** Cella n. 01 ***
Capitolo 3: *** 1. Incidente ***
Capitolo 4: *** 2. Risveglio ***
Capitolo 5: *** Cella n. 07 ***
Capitolo 6: *** 3. La lepre ***



Capitolo 1
*** Premessa: una luce fioca ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

 

 

PREMESSA:

“una luce fioca”

 

 

 

 

Cédric continuava a fissarlo, incredulo.

    «Mi stai dicendo che le anime sono entità distinte e separate dal nostro corpo?»

    «Esattamente» rispose l’uomo in bianco. «Ciò che guardi la mattina allo specchio non è che un involucro, un semplice contenitore.»

    Il ragazzo trovava un che di disgustoso nel modo in cui Weiß semplificava la vita umana.

    «Un involucro. Capito.» L’albino punto gli occhi chiari in quelli azzurri, intensi, di Cédric. Quel giovane era talmente problematico... «Tu come fai a sapere tutte queste cose?»

    Weiß si concesse un sorriso, una curva leggera delle labbra pallide che esprimeva un misterioso ed indecifrabile sentimento di tenerezza misto a divertimento. Qualunque cosa fosse Cédric non l’aveva apprezzato.

    «”Onnisciente non sono, ma di cose ne so”» recitò con tono cantilenante.

    Cédric attese una spiegazione.

    «Lo dice spesso quel lurido essere di mio fratello» chiarì, sospirando nel costatare ancora una volta quanta ignoranza incombeva in quella giovane mente.

    «E quando il mio corpo…»

    «Il tuo involucro» sottolineò Weiß.

    «E quando il mio involucro morirà… cosa ne sarà di me? Della mia anima, intendo.»

    «Quella continuerà a vivere. È per questo che sto cercando di dissuaderti dalla decisione che hai preso.»

    «Quindi è immortale?» Cédric ne sembrava entusiasta, la prospettiva di vivere per sempre lo allettava parecchio. Come un dio.

    «No» sentenziò l’albino con tono severo, distruggendo le fantasie del più giovane. «Anche l’anima è destinata a morire, a spegnersi come una luce fioca che esaurisce la propria fonte di energia. Si potrebbe paragonare ad una stella, se lo desideri. In ogni caso vive molto più a lungo di un viscido contenitore di carne.»

    «Anche tu hai un viscido contenitore di carne

    Weiß sorrise, un sorriso diverso dal precedente: questo era malizioso, allegro, il sorriso di qualcuno che conosce un segreto delizioso.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

══════════════════════════════════════════════════

 

”Onnisciente non sono, ma di cose ne so”: citazione del Faust, detta

da Mephistopheles.

Weiß è ciò che noi chiamiamo “dio” e si appella a “Mephisto” come

suo fratello (nda).

 

---

 

Avevo già pubblicato questa storia tempo fa, ma ho deciso di

riscriverla da capo e perfezionarla, dunque eccomi qui!

Spero sia di vostro gradimento, perché tengo moltissimo a questo

racconto e vorrei con tutto il cuore riuscire a far un buon lavoro.

Ammetto di aver quasi paura nel pubblicarla e non sono molto

convinto che la mia sia stata una buona idea: non ho ancora

concluso questa storia, è in fase di lavorazione, motivo per cui volevo

tenerla “segreta” finché non fosse stata ultimata e io fossi stato

soddisfatto del risultato, tuttavia speravo che - ricevendo qualche

recensione - fossi più motivato a continuarla e magari qualcuno di

voi potrebbe perfino darmi degli spunti interessanti o delle critiche

per render migliore il mio lavoro.

 

 

                                                     Christopher

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Cella n. 01 ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

Cella n. 01

Paziente: Q.

Sesso: M

Condizioni fisiche: Buone

Condizioni mentali: Stabili

Comportamento: Collaborativo

Categoria: Studio della genetica

Esperimento no. 462

 

[Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione Avanzata]

 

 

 

 

I passi si facevano sempre più vicini. Sentiva perfino il rumore metallico delle catene, così fastidiosamente familiare da fargli venire il voltastomaco.

    Il giovane, colto da un attacco di panico, si guardò intorno alla ricerca di un posto dove nascondersi; gattonò silenziosamente verso l’angolo più buio della stanza, rannicchiandosi su sé stesso nella speranza che questo bastasse a fuorviare il medico. Sapeva che non sarebbe servito a nulla.

    L’ombra di una figura alta, maschile, si stanziava al di là della parete di vetro; l’uomo aprì la cella e per un attimo Q. vide le luci del corridoio riflettersi sulle lenti dei suoi occhiali. Lo stava guardando. Si accorse subito della sua presenza, come se qualcuno lo avesse avvisato preventivamente che il giovane avrebbe cercato di sfuggirgli accovacciandosi in quel preciso angolo della camera. Gli si avvicinò lentamente, facendo ondeggiare la catena e il camice in contemporanea, quindi gli bendò gli occhi e gli legò le mani, stringendogli una corda intorno ai polsi. Q. non oppose la benché minima resistenza, nonostante fosse in preda al panico. Desiderava solo fuggire – come tutti gli ospiti di quel tetro edificio, d’altro canto –, ma quel posto era talmente grande da impedirgli di conoscere (o solamente ipotizzare) dove fossero collocate le uscite, né quante stanze ci fossero in totale. Non aveva mai messo piede fuori di lì, eppure, dopo tutti quegli anni, non aveva avuto la possibilità di esplorare quell’immenso laboratorio che sarebbe stata la sua dimora e la sua tomba. Era nato in cella e sarebbe morto lì, dietro quelle stesse sbarre: questa era la triste e crudele realtà, l’amara consapevolezza che avvelenava i suoi giorni.

    L’uomo in camice prese un'estremità della catena e l’attaccò al collare di metallo che Q. indossava dalla nascita, per poi incamminarsi verso le scale che collegavano le celle al piano inferiore. Il giovane era scalzo e gli sanguinavano i piedi, così lasciò una scia che segnava tutti i suoi spostamenti, come Hänsel e Gretel con le molliche di pane, ma molto più sicuro: nessun uccellino avrebbe potuto divorare le macchie di sangue sul linoleum grigio. Per evitare che sporcasse le rampe di scale, l’uomo in camice fece la saggia scelta di utilizzare un ascensore per raggiungere il terzo piano. Dopo aver attraversato un corridoio interminabile, giunsero in una stanza immensa e piena di luci. Una dozzina di medici e scienziati provenienti da tutto il mondo, e con le mani perfettamente sterilizzate, attendeva il loro arrivo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 1. Incidente ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

1.      Incidente

            Giugno 2013

 

 

 

 

Qual è il pericolo maggiore per un automobilista? I pedoni e gli altri automobilisti, ovviamente. Potrai essere un mago al volante, il migliore tra tutti, ma se un ragazzino, di notte, attraversa la strada all’improvviso - come un gattino impaurito, sbucando da chissà dove -, non hai molto da fare se non cercare di evitarlo. Ed è quello che cercò di fare Albrecht, schiacciando il mocassino lucido sul pedale del freno. Le gomme stridettero e la parte anteriore della macchina sbandò sulla destra. Frenare non sarebbe bastato per evitare di investire il ragazzo, la distanza tra i due non era sufficiente da permettere alla macchina di fermarsi entro un margine di tempo prudenziale, così fu costretto a sterzare, facendo ruotare inevitabilmente la vettura su sé stessa; l’automobile dietro di lui arrivava a gran velocità e colpì la sua auto di striscio, ma abbastanza da scansarla sulla carreggiata che andava nella direzione opposta.

    L’autista del camion era assonnato, in procinto di addormentarsi sul volante se non fosse stato per il rumore assordante del clacson; sgranò gli occhi, cercando di fermare l’automezzo. Pochi secondi dopo avvenne l’impatto e la vettura di Albrecht, si ribaltò su se stessa, accartocciando in un involucro di lamiera e metallo lui, i suoi tre figli e sua moglie.

    Il ragazzino era riuscito ad attraversare, raggiungendo l’altro capo del marciapiede incolume.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 2. Risveglio ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

 

2.     Risveglio

            Novembre 2013

 

 

 

 

Sento della musica. Ho come l’impressione che non l’abbiano mai spenta da quando mi sono addormentato. E questa puzza, quest’odore pungente di disinfettante e candeggina, mi sta dando il voltastomaco – no, forse la nausea è dovuta ad altro. Sento il corpo intorpidito e la testa mi duole come se il cuore mi pulsasse dentro la scatola cranica.

    Tum-tum, tum-tum…

    Apro gli occhi. Mi bruciano. Cerco di avvicinare una mano al viso per stropicciarli ma fatico a muovermi, talmente tanto che a stento riesco a voltare il capo per guardami intorno. Distinguo a stento i contorni dei mobili, ma non ci sono dubbi, sono in un ospedale. Cosa ci faccio qui?

    Un macchinario grigio alla mia sinistra segna i battiti cardiaci; tossisco più volte e cerco di liberarmi della maschera d’ossigeno. In questo stesso istante scatta un allarme, diffondendo nella stanza uno stridio che mi costringe a tapparmi le orecchie. La testa!, la mia povera testa, che dolore!

    Vorrei girarmi sul fianco, ma sento le giunture dolermi. Il mio corpo è pesantissimo, non riesco a muovermi, eppure – mi guardo da sopra il lenzuolo bianco – sembro così piccolo e mingherlino. Sento gli occhi inumidirsi di lacrime e prima che possa asciugarle qualcuno apre la porta. Un individuo di sesso ambiguo, dai capelli corvini e i grandi occhi grigi, rimane ad osservandomi sulla soglia con espressione allibita. Sembra una statua greca, una di quelle che rappresentano giovani dèi, o eroi, con le fattezze morbide e le membra acerbe tipiche degli adolescenti. È come se non fosse mai cresciuto e avesse mantenuto il volto efebo che caratterizza i ragazzi. Si capisce che ha una trentina d’anni, ma la sua pelle liscia dice il contrario. Sembra un diciottenne e quel camice bianco lo fa sembrare ancora più longilineo. Vedo le sue labbra muoversi ma non sento ciò che dice; oltre questo, nessuna reazione, rimane lì, a guardarmi con un’espressione tra l’impaurito e il sorpreso. Mi domando se il mio volto abbia qualcosa che non va e cerco di tastarmi la pelle alla ricerca di sangue o chissà cos’altro. Sono così stanco e dolorante che non riesco a capire se ho veramente alzato la mano per toccarmi il viso o se lo sto solo immaginando. È come se fossi in trance, un limbo tra sogno e realtà. Ecco, forse sto solo sognando.

    «Syans?!» esclama il medico, avvicinandosi frettolosamente al lettino ospedaliero. «Syans, mi senti?»

    Syans? Sta parlando con me?

    Nel dubbio, annuisco lentamente… o almeno credo di averlo fatto. Ho una concezione confusa dei miei movimenti, come se mente e corpo non fossero sintonizzati correttamente.

    Poco dopo arrivano altri due uomini in camice: un orientale molto basso, dagli occhi assurdamente chiari, e un occidentale alto e longilineo, dai capelli lunghi color mogano. 

    Statua Greca viene messo da parte, allontanato dagli altri due medici che si avvicinano al mio letto con aria entusiasta e sorpresa al contempo, guardandomi come se fossi… un mostro o forse un dio sceso in terra.

    «Dobbiamo fargli il test» ordina l’orientale; il dottore dai capelli lunghi annuisce. «Vikutoru-san*,» riprende, autoritario «porta la barella. Sbrigati.»

    Capelli Lunghi sorride, ha quasi le lacrime agli occhi. “Syans, oh, Syans!” continua a sussurrare con voce rotta dall’emozione.

    «Presto, Ishii-san**, aiutami a metterlo sulla barella» ordina ancora l’orientale, che sembra avere in mano la situazione. Dev’essere il primario del reparto, penso.

    «Dobbiamo anestetizzarlo» propone l’occidentale.

    «Potrebbe essere un rischio, non abbiamo la certezza che si risvegli. Potrebbe non sopravvivere alla notte. Potrebbe non sopravvivere alle prossime due ore.»

    Cosa? Di cosa state… Cosa mi sta succedendo?!

    L’orientale e Capelli Lunghi mi portano fuori dalla stanza, mentre Statua Greca mi guarda con compassione attraverso il vetro. Mi fa “ciao ciao” con la mano, poi sparisco nel corridoio.

 

 

 

***

 

 

 

Vedeva sfocato, i contorni irregolari e i dettagli che slittavano via dalla sua portata. Sentiva il rumore delle ruote delle barella e il chiacchiericcio dei due medici: non riusciva a percepire le parole, ma distingueva chiaramente il tono preoccupato di uno e quello emozionato dell’altro.

    Il corridoio sembrava interminabile, un infinito susseguirsi di porte a vetro tutte uguali tra loro. L’aria ancora impregnata di disinfettante, quell’odore disgustoso tipico degli ospedali. Odore di malati.

    Si sentiva stordito, ma più il tempo passava più recuperava coscienza di sé e di ciò che lo circondava.

    Dopo svariati minuti che non seppe quantificare, giunse in una sala ampia a luminosa, piena di macchinari che non aveva mai visto in vita sua. Gli prelevarono un campione di sangue, gli fecero una TAC e un’altra dozzina di esami dalla dubbia utilità e per tutto quel tempo la sensazione di stordimento non fece che diminuire, tuttavia le orecchie gli facevano male e non riusciva a coordinare correttamente i movimenti, tant’è che faticava perfino a parlare: più volte tentò di richiamare l’attenzione dei medici, ma l’unica cosa che riuscì ad articolare furono versi sommessi e privi di significato.

    Alla fine si arrese. Lasciò che i medici facessero i loro accertamenti per poi condurlo in una grande stanza verde e luminosa, con un arredamento essenziale e sobrio. Gli consigliarono di riposare, raccomandandogli anche di tirare la cordicella rossa vicino al suo letto nel caso avesse avuto bisogno dell’assistenza di un infermiere: Viktor (che lui aveva soprannominato “Statua Greca”) sarebbe accorso immediatamente. Dopo avergli detto qualche parola di conforto, gli sorrisero entrambi contemporaneamente e uscirono silenziosamente dalla stanza, lasciandolo in balìa del silenzio ovattato e della puzza di disinfettante.

    Quei due medici gli parevano due bambini che trattenevano le risate dopo aver combinato una marachella. Si chiese se poteva fidarsi di loro, ma in realtà sapeva di non aver scelta. E rimase lì, solo, con tante domande e nessuna risposta.

 

«È fantastico, è fantastico!» esordì Saito, abbracciando calorosamente Albrecht in un improvviso ed inaspettato slancio di affetto; l’austriaco ricambiò tra le risate.

    Nessuno dei due poteva crederci e non si preoccuparono di placare il loro entusiasmo poiché ogni stanza di quell’edificio era insonorizzata.

    «È un miracolo, vecchio mio, ecco cos’è!» esclamò l’austriaco, lisciandosi i lunghi capelli color mogano.

    «Oh, no, no. È scienza. Medicina, lavoro, bravura, esperienza, tentativi, fortuna… Non un miracolo. Syans si è risvegliato perché noi siamo degli ottimi medici, ecco perché.»

    Si scambiarono un lungo sguardo d’intesa, uno sguardo che esprimeva più di mille parole, parole che non avevano bisogno di esser dette a voce perché entrambi sapevano cosa stesse pensando l’altro. Nonostante appartenessero a due culture differenti, due emisferi complementari, due mondi separati, il corso dei pensieri di Saito seguiva perfettamente quello di Albrecht, e viceversa. Ogni loro idea viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda. Non ebbero mai un incomprensione, un disguido o un malinteso. Sapevano esattamente cosa voleva l’altro e che tipo di approccio bisognava utilizzare per avere una discussione pacifica e un civile scambio di opinioni. Occasionalmente ebbero dei battibecchi più o meno accesi, ma solo per questioni di massima importanza. Come le cure di Syans. Inizialmente Albrecht aveva proposto di staccare la spina dei macchinari che lo tenevano in vita, ma nonostante i cinque mesi di coma Saito non si diede per vinto e convinse il collega ad attendere. L’orientale aveva un gran potere di persuasione e gli capitò spesso di spronare Albrecht a reagire, piuttosto che lasciarsi abbattere dalle intemperie della vita. La prima volta che lo convinse a rischiare risaliva a parecchi anni fa, durante quel terribile incidente che ancor’oggi disturba i sogni dell’austriaco. Fu così che diventarono amici. Da quel momento Albrecht si sentì sempre in debito nei confronti dell’orientale e, per ringraziarlo, tra le altre cose, sostenne sempre le sue idee anche quando non era totalmente sicuro delle conseguenze.

    «Dobbiamo brindare» propose il moro con un tono che pareva un ordine, mentre si avviava con passo fiero verso l’ascensore.

    «Saito…

    Albrecht, immobile, era rimasto vicino la porta. Non aveva mosso un passo.

    «Sì, Ishii-san

    «Grazie.»

    Il giapponese gli regalò uno dei suoi rari sorrisi sinceri e solo allora l’austriaco lo raggiunse, quasi commosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

══════════════════════════════════════════════════

 

* Vikutoru-kun: I giapponesi hanno un alfabeto diverso dal nostro,

motivo per cui fanno fatica nel pronunciare diverse parole straniere.

Vi risparmio i dettagli. In ogni caso “Viktor” lo pronuncerebbero

come qualcosa simile a “Vikutoru”. Il -san, invece, è un suffisso

onorifico giapponese: san: utilizzato per indicare il rispetto nei

confronti di qualcuno, come un collega di lavoro, un proprio

superiore oppure uno sconosciuto a cui ci si rivolge in maniera

educata, ma può essere utilizzato anche con persone con le quali

non si ha un rapporto amichevole per pura formalità”.

 

** Ishii-san: Può darsi che più avanti venga specificato, ma nel

dubbio lo faccio ora. Inizialmente Saito chiamava Albrecht

per nome, ma veniva fuori qualcosa simile a “Aruburekuto”,

motivo per cui l’austriaco prendeva in giro l’orientale o si

lasciava sfuggire risatine inappropriate ogni qual volta che il

collega lo chiamava. Alla fine, quando la loro amicizia diventò più

intima, Saito decise di dargli un soprannome  giapponese per

risparmiarsi questa tortura. “Ishii” era il cognome di Shiro Ishii,

“un medico, microbiologo e generale giapponese che guidò il

programma di armamento biologico dell'Impero giapponese al

comando di un'unità militare di ricerca chiamata Unità 731,

responsabile di sperimentazione umana e crimini di guerra”.

L’ho scelto durante una ricerca per trovare nuovi spunti da

utilizzare nella storia.

 

 

                                                     Christopher

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cella n. 07 ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

Cella n. 07

Paziente: Alek Larsson

Sesso: M

Condizioni fisiche: Accettabili

Condizioni mentali: Mediocri

Comportamento: Neutro, rassegnato

Categoria: Clonazione tramite androide

Esperimento n. 522

 

[Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione Avanzata]

 

 

 

 

Gli bruciavano gli occhi. C’era troppa luce e la lacrimazione dei suoi occhi era ormai insufficiente. Quando sarebbe venuto il medico ad inumidirglieli con il medicinale? Maledizione. Come se non bastasse era mezzogiorno e il sole sembrava essersi posizionato sopra la sua cella per fargli un dispetto. Di certo il tetto di vetro non aveva aiutato affatto, anzi, se possibile, aveva peggiorato la situazione, creando un effetto serra devastante. Finestre non ce n’erano, solo alcuni buchi sul soffitto, come un topolino in una scatola bucherellata per non farlo morire soffocato. A discapito di ciò l’aria era stagnante e quel caldo torbido lo faceva sentire più debole di quanto non fosse in realtà.

    Era disteso sulla sua branda, ma la luce gli impediva di dormire, costringendolo a rigirarsi in cerca di una posizione più comoda che facilitasse il suo tentativo di riposarsi. Fortunatamente l’intero edificio era avvolto nel silenzio, eccetto per delle urla sporadiche e dei lamenti occasionali che venivano sedati ancor prima che potessero diventare insopportabili.  Le cause di maggior confusione erano W., che si trovava nella cella adiacente alla sua, e Il Mostriciattolo, uno degli esperimenti che non aveva mai avuto il piacere di conoscere ma che era riuscito ugualmente a conquistare un posto speciale nella memoria di Alek grazie alle sue continue e strazianti grida di terrore. Anche Alek, le prime volte, aveva ceduto al dolore, urlando così forte da non avere più voce per i quindici giorni successivi; a discapito di quanto potesse immaginare, col tempo perfino lui aveva imparato ad abituarsi, ad omologarsi agli altri veterani di quel luogo infestato da disinfettante e medici dalla mente contorta. Il dolore era diventato solo una parola, un’espressione di uso comune per chiunque non conoscesse Ápeiron, un ignoto Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione Avanzata. Il dolore faceva parte di lui, ormai, come un prolungamento di un braccio o di una gamba. Era intriso nel suo animo ed era diventato sempre più ovattato; fastidioso e mai insopportabile.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 3. La lepre ***


 

── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

 

3.     La lepre

            Novembre 2013

 

 

 

 

Sono trascorsi pochi giorni dal mio risveglio, eppure mi sento benissimo, come se fossi rinato. È una sensazione fantastica, come un buon bagno caldo dopo una giornata stressante.

    Viktor è molto simpatico e, quando ha un po’ di tempo libero, viene sempre a farmi compagnia. A volte mi parla di Klaus, il suo fidanzato. Gli manca tantissimo, si vede dal suo sguardo: osserva fuori dalla finestra con aria persa e per un attimo mi sembra che nei suoi occhi ci sia qualcosa di torbido. Si pietrifica, rannicchiato sulla schiena e sembra così piccolo e indifeso da suscitarmi un’infinita tenerezza. Poi torna quello di sempre, si volta verso di me e mi sorride, scompigliandomi i capelli, e riprende a parlarmi di medicina,  chimica, fisica… È un ottimo insegnante. Ha provato a spiegarmi anche qualcosa di inglese e francese, ma le lingue straniere proprio non riescono ad entrarmi in testa!

    “Hai una mente scientifica, ecco perché!”, dice sempre così, Viktor, ma credo lo faccia solo per non scoraggiarmi.

    C’è qualcosa di strano, in lui, come se portasse una maschera. Mi tiene all’oscuro di qualcosa, lo sento. A volte aggira il discorso, svicola, non risponde alle domande che gli pongo. Temo che lo faccia con tutti, in realtà. Ho come la sensazione, quando lo guardo, che si trattenga, che finga di essere ciò che non è. Non che menta – non a me, almeno – eppure con gli altri si comporta in modo evasivo, puramente professionale, come se fosse un robottino e nulla di più. Un pezzo del puzzle, non una persona. Solo… un dipendente come tanti altri.

 

 

***

 

 

«Mi domando perché non ti ho ancora licenziato!» sbraitò l’orientale, agitando le braccia con aria inferocita. «Ah, giusto» riprese sarcastico, alzando l’indice con aria risoluta. «NON POSSO

    Innervosito, contrariato e stressato, Saito adagiò la schiena contro la poltrona girevole in pelle, poggiando la fronte sul palmo della mano con aria teatralmente stremata. Sospirò un paio di volte sotto lo sguardo impassibile del sottoposto, voltandosi poi verso la vetrata che ricopriva l’intera parete. Non sapeva più cosa fare con Viktor, quell’uomo era… così anarchico! Tenerlo a bada era un’impresa. Giusto Albrecht sapeva aggirare nel giusto modo i suoi sotterfugi, stava quasi riuscendo a farselo amico, ma lui non riusciva ad avvicinarsi neanche di un centimetro che Viktor era pronto a morderlo e strappargli la mano. Indomabile. Quando l’aveva assunto pensava di poterlo plasmare, di sottometterlo con facilità al suo volere – dopotutto era talmente giovane ed ingenuo! – e invece no, si era sbagliato, Viktor riusciva sempre ad ostacolarlo, a mettergli i bastoni tra le ruote: non ascoltava gli ordini, faceva di testa sua, combinava guai, comprometteva il lavoro altrui, non rispettava i suoi superiori… E tutto questo per cosa? Per i suoi princìpi del cazzo!

    Eppure non si era pentito di averlo preso con sé, Viktor era dotato di una mente geniale, un’intelligenza brillante e un talento sprecato, un talento che Saito avrebbe voluto sfruttare ma che il giovane gli impediva di alimentare e migliorare. Prima o poi sarebbe riuscito a modellarlo, quel ragazzino arrogante. Chi si credeva di essere? Saito sarebbe riuscito, con un po’ di tempo e l’aiuto essenziale del suo fidato amico e collega Albrecht, a modellare la mente e la coscienza di Viktor.

    «Perché non fai fare una passeggiata a Syans? Oggi è una bella giornata, guarda com’è sereno il cielo…» Il tono di voce era mutato completamente, ora era più pacato e gentile, ma l’espressione del moro non si addolcì, rimanendo disgustata ed infastidita dalla presenza dell’orientale.

    «Certo, lo faccio immediatamente.»

    Saito odiava quel tono servile, sapeva che significava tutt’altro e questo lo infastidiva. Come proprietario dell’intero edificio voleva essere rispettato, invece Viktor lo trattava alla stregua di un coetaneo. Un comportamento imperdonabile, soprattutto per un giapponese.

Il giovane uscì e nello stesso istante entrò Albrecht, con un camice bianco e la lunga chioma color mogano legata con una coda di cavallo. Si sistemò gli occhiali e aggrottò la fronte, passando lo sguardo prima sull’uscio e poi sul collega.

    «Cos’ha combinato questa volta?» chiese scherzosamente, prendendo posto sul divanetto in pelle che affiancava una libreria in metallo.

    «Voleva dare ad Alek qualche giorno di permesso. Come se fosse una cosa possibile, capisci?!»

    Albrecht non disse nulla, volgendo lo sguardo ambrato verso l’ampia vetrata.

    «Non capisco cosa gli passi per la testa. Vuole forse farci fallire? Conoscendolo… probabilmente è davvero così!»

    «Non ti scaldare» sussurrò cauto l’austriaco, che ora gli era vicino, con una mano sottile ed affusolata poggiata sulla piccola spalla del collega. Un sorrisetto ambiguo gli incurvava le labbra.

    «Cosa devo fare con lui, Ishii-san? Non riesco a farlo ragionare.»

    «Gli parlerò io, non preoccuparti.»

    Calò il silenzio per svariati minuti. Loro rimasero immobili come statue, persi nei loro pensieri. La stanza, così come tutte le altre, era insonorizzata e l’unico suono udibile in quelle quattro mura erano i loro respiri sincronizzati. Poi il bruno ruppe quell’atmosfera eterea con un rumoroso sospiro, consapevole di non dover dare voce ai suoi pensieri ma deciso a non rimandare oltre.

    «Saito» esordì; l’orientale sapeva che quel tono era fonte di guai, poiché l’amico era solito utilizzarlo – inconsciamente o meno – quando era nervoso e insicuro. Saito si voltò verso di lui, sistemandosi gli occhiali. Quando i loro sguardi si incrociarono e gli occhi chiari dell’orientale si specchiarono in quelli ambrati dell’altro, Albrecht riprese con maggior sicurezza: «Voglio parlare con Syans, ormai sono passati cinque giorni ed è giusto che lui sappia. Voglio dirglielo, Saito.» non si interruppe neanche per prendere fiato, sapendo che un attimo di esitazione sarebbe stato fatale. Vedendo l’espressione perplessa dell’altro aggiunse in tono più acido: «Te lo sto comunicando perché siamo amici e mi sembra giusto che tu lo sappia, non per chiedere il tuo permesso. Lo farò a prescindere dalla tua risposta.»

    Tipico di lui. Saito non poté fare a meno di sorridere.

    «Certo, lo capisco» si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. «Hai ragione, è meglio dirglielo ora, ma non strafare con le informazioni» e lo guardò severo, per  controllare che avesse capito, «a piccoli passi, mi raccomando. Pian piano saprà tutto. La verità, tutta in una volta, può essere fatale.»

    «Mi sembra un ragionevole compromesso.»

 

 

Mentre Viktor gli teneva la mano piccola e morbida, Syans percorreva con passo traballante il bordo della fontana.

    «Se lo sapesse, Saito mi ucciderebbe!» disse il moro tra le risa e il rosso si unì a lui.

    «Non farmi ridere,» lo rimproverò Syans scherzosamente, grattandosi una guancia lentigginosa, «altrimenti perderò l’equilibrio!»

    «Va bene, dopotutto sei sotto la mia custodia, ora, quindi è meglio evitare incidenti.»

    Dopo un paio di giri – la fontana era molto grande, con un diametro di circa sei metri – il ragazzino scese con un balzo, si tolse le scarpe e si godette la sensazione dei fili d’erba che gli solleticavano la pianta del piede. Ridacchiò, voltandosi a guardare Viktor in cerca di approvazione. Il giovane sorrise e si sedette sul bordo della fontana, guardandolo con aria intenerita. Syans si mise a correre veloce, tra gli alberi e gli arbusti, distendendo le braccia come se fossero le ali di un aereo. Quando tornò vicino la fontana era madido di sudore, le guance imporporate e i capelli gonfi e crespi pieni di foglie gialle. Viktor rise nel vederlo conciato in quel modo, ma i muscoli del suo viso si contorsero velocemente in un’espressione triste e sconsolata. Vederlo così vivo, così felice, gli ricordava come quella stessa gioia gli fosse stata sottratta anni prima. Chinò lo sguardo sul prato, avvilito: vicino ai suoi piedi una lunghissima fila di formiche nere stava trasportando delle briciole di pane.

    Anche il rosso, per riprender fiato, si sedette sul bordo della fontana. C’era una grande quantità di pesci, rane e tartarughe, lì dentro, e trattenne l’infantile istinto di provare ad acchiapparli per poi farne chissà cosa. Stava per riprendere la sua corsa quando si soffermò a specchiarsi nell’acqua non troppo limpida della fontana. Non ricordava più nulla. Guardava i suoi capelli scombinati, senza forma, come la chioma di un leone, i suoi grandi occhi verdi, il suo visetto da bambino, le sue orecchie piccole e il suo nasino all’insù e non riusciva a riconoscersi. Vedeva un estraneo. Si toccò la faccia come per assicurarsi che fosse davvero lui quello che vedeva riflesso nella superficie dell’acqua. Non ricordava più nulla. Il suo nome, i suoi genitori (ammesso che ne avesse), la sua storia, la sua casa… Ancora nessuno lo aveva degnato di una spiegazione, nonostante le sue innumerevoli domande. Perfino Viktor, suo malgrado, era stato costretto al silenzio. Non riusciva a capacitarsene. Se avevano insistito per non dirgli nulla probabilmente la verità era talmente shockante da poterlo traumatizzare e compromettere la sua incolumità, per questo preferivano tenerlo all’oscuro di tutto. Non era riuscito a trovare un’altra motivazione.

 

 

Albrecht e Saito camminavano uno di fianco all’altro, inseparabili. Alcuni colleghi rabbrividivano al loro passaggio, temendo di essere sgridati dall’orientale, il più severo ed esigente tra i due. L’unica cosa che temevano di Albrecht, invece, era l’aria perennemente ambigua: non si capiva mai cosa pensasse veramente ed era capace di licenziarti con la stessa voce amorevole che avrebbe usato per chiederti come stavi. Il suo sorriso era affabile, non mutava mai, alcuni erano convinti che avesse una paralisi facciale, ma quando il buonumore lo abbandonava, e il sorriso comunque permaneva, gli occhi sembravano due braci ardenti pronte a darti fuoco da un momento all’altro. Questo, solitamente, era l’unico modo per scoprire le sue vere intenzioni: leggere il suo sguardo.

    Prima che i due coproprietari dell’edificio raggiungessero l’uscita si sentirono chiamare da Nolan, un giovane australiano dalla mente geniale che in poco tempo era diventato il migliore nel suo settore.

    «Ho terminato il mio progetto!» annunciò soddisfatto e un bagliore di entusiasmo illuminò i suoi occhi.

    «Ottimo lavoro» rispose Saito con sincera approvazione: Nolan era uno dei pochi che era riuscito ad ingraziarsi lo scorbutico orientale. «Passeremo a dargli un’occhiata quando avremo terminato le nostre incombenze, tu occupati di altro nel frattempo.»

    «Okay, sensei*» Nolan si divertiva ad usare termini giapponesi e probabilmente questo faceva piacere al suo superiore, un motivo in più per continuare a farlo.

    Albrecht lo liquidò definitivamente con un cenno della mano, avviandosi poi verso il giardino, un posto immenso, pieno di alberi e arbusti, ma anche fiori ed ortaggi. Alcuni spazi erano recintati, accessibili solo ad una parte del personale, ma altri erano aperti a chiunque, in modo che medici e pazienti potessero uscire di tanto in tanto per prendere una boccata d’aria.

    L’austriaco si guardò intorno, alla ricerca di Syans. Non gli ci volle molto per individuarlo: era vicino alla grande fontana, in compagnia di Viktor. Il rosso fu tentato di corrergli incontro, ma l’aura poco rassicurante di Saito gli fece cambiare idea. C’era qualcosa di inquietante nel suo sguardo gelido e quel suo sorrisetto trasudava una fastidiosa perfidia. Syans lo trovava terribilmente antipatico, non riusciva a fidarsi di lui, per questo si sentì sollevato nel vedere che era accompagnato dal medico con i capelli lunghi.

    «Ciao, Syans» esordì Albrecht, sfoggiando un sorriso più cordiale del solito. «Come ti senti?»

    L’uomo si sedette sul bordo della fontana, vicino al ragazzino; l’orientale rimase in piedi e Viktor meditò se alzarsi o rimanere lì. Questi ultimi si scambiarono uno sguardo feroce.

    «Sto molto bene, grazie. Ho una gran fame!»

    «Come va il braccio? Ti fa ancora male?»

    Il ragazzo piegò diverse volte il braccio destro, poi lo alzò verso il cielo limpido. «No, non più. A volte sento come se scricchiolasse, però non è doloroso.»

    «Tranquillo, passerà. È un buon segno che tu abbia fame. Ti va di pranzare insieme a me?»

    «Certo» una pausa, lo sguardo sgattaiolò per un momento verso Saito, come per assicurarsi di poter parlare. Albrecht lo notò, ma non seppe se infastidirsi o lasciar correre. «Può venire anche Viktor?» Era l’unico di cui si fidasse, non voleva rimanere da solo con qualcun altro.

    «Preferirei di no. Magari dopo.»

    Il ragazzo non osò ribattere sentendo quel tono deciso, limitandosi piuttosto ad annuire.

    «Bene.»

    Albrecht gli circondò le piccole spalle con un braccio e lo riaccompagnò all’interno dell’edificio. Le loro voci si persero in lontananza e quando Viktor si alzò erano diventati due puntini irraggiungibili in un immenso prato verde. Una brezza fresca agitava le foglie degli alberi e alcuni uccelli cantavano spensierati; quel giardino era un piccolo angolo di paradiso, pieno di farfalle e altri animali.

    Un cespuglio si agitò e due orecchie lunghe e grigie spuntarono da un lato. Una lepre. Saito batté forte un piede sul terreno per farla correre via. L’animale sfrecciò lontano da loro, ma quello scatto la fece notare da una volpe, appostata non poco lontano, che le tenne un agguato riuscendo ad afferrare la lepre dal collo; serrò i denti per esser certa di aver ucciso la sua preda, che per qualche secondo si dimenò tra le sue fauci, poi l’animale dalla folta pelliccia rossa si ritirò tra i cespugli. Saito sorrise.

    Viktor rimase a fissare il punto in cui la volpe aveva azzannato la lepre con gli occhi sgranati. La prima volta che accadde una cosa del genere ne rimase traumatizzato, ma dopo tutte le cose orribili alle quali era stato costretto ad assistere uno spettacolo del genere non lo colpiva come avrebbe fatto anni fa. Stava cominciando ad abituarsi alla sofferenza. Sospirò e chiuse un attimo gli occhi per scacciare quell’orribile scena, quando riaprì le palpebre diede le spalle all’uomo e si avviò verso l’entrata dell’edificio, ripercorrendo i passi di Albrecht e Syans, che ormai erano spariti oltre le porte di metallo. Saito lo afferrò bruscamente da un braccio prima che potesse andarsene: il tedesco, che era più alto di lui di nove centimetri, si finse impassibile, guardandolo dall’alto verso il basso.

    «Quando stasera terminerai il tuo turno, fai un salto nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.»

    «Certo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

══════════════════════════════════════════════════

 

* sensei: professore/maestro/dottore.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2921865