Hellbound

di Futeki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Gathered chronicles ***
Capitolo 2: *** Il potere dell'acqua ***
Capitolo 3: *** L'inizio del viaggio ***
Capitolo 4: *** Operon ***
Capitolo 5: *** Agente operativo ***
Capitolo 6: *** Different powers ***
Capitolo 7: *** Test ***
Capitolo 8: *** Paure nascoste ***
Capitolo 9: *** Verità ***
Capitolo 10: *** Hellbound ***
Capitolo 11: *** Gioco di squadra ***
Capitolo 12: *** Simulazione ***
Capitolo 13: *** L'arte del sopravvivere ***
Capitolo 14: *** Amor ch’a nullo amato amar perdona ***
Capitolo 15: *** Meeting ***
Capitolo 16: *** Scintille ***
Capitolo 17: *** La tana del lupo ***
Capitolo 18: *** Piano B ***
Capitolo 19: *** Ritorno alla base ***
Capitolo 20: *** Infiltrato ***
Capitolo 21: *** Epilogo - Come una scintilla ***



Capitolo 1
*** Prologo - Gathered chronicles ***


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A Legar e Angelica,

perché ci vuole coraggio

a credere in chi

non crede neanche in se stesso.

Grazie.

 

 

 

 

PROLOGO

Gathered chronicles

 

 

 

Come diceva Orson Welles,

per avere materiale sempre nuovo basta affidarsi alla cronaca.

(Dario Fo)

 

 

 

 

16 aprile 2010

MIAMI – Panico nel pomeriggio di ieri sulla ventiduesima per un incendio sviluppatosi all’interno di un’abitazione occupata da due coniugi e il loro figlio. A dare l’allarme sono stati i vicini di casa della famiglia che hanno visto fuoriuscire molto fumo da una finestra. Sul posto si sono recati immediatamente i Vigili del Fuoco che hanno provveduto a domare le fiamme evitando che le stesse si propagassero ad un’altra abitazione confinante con quella occupata dalla famiglia. Nell’incendio sono morti sia i coniugi Hudson che il loro secondogenito Harry. Salvo, invece, il primo figlio degli Hudson, che al momento dell’incidente si trovava a casa di un amico. Ancora non chiara la causa dell’incendio a seguito del quale tre vite sono state spezzate e l’abitazione è rimasta distrutta. Sul posto si sono recati anche le forze dell’ordine. Secondo alcune voci non confermate, l’opinione degli inquirenti è che si sia trattato di un incendio doloso e che il primo nella lista degli indagati sia proprio il primogenito degli Hudson, scampato miracolosamente all’incendio.

(dal Miami Herald, giornale di Miami)

 

 

18 settembre 2010

STONINGTON – Un ragazzo è morto la notte scorsa per un incidente stradale avvenuto sulla provinciale Alpha. Il decesso è avvenuto per lo scontro frontale con l'auto guidata da un conducente risultato ubriaco. La vittima è Ryan Chandler, diciassettenne di Stonington, che era alla guida di un’utilitaria. La sua auto si è scontrata con un Doblò che, stando a una prima ricostruzione, era in fase di sorpasso. La vittima all’arrivo dei soccorritori era incastrata fra le lamiere con gli arti praticamente tagliati a causa del violento impatto. Quando è stato estratto dal veicolo dai vigili del fuoco per lui non c'era già più nulla da fare. Salva invece la sorella della vittima, che viaggiava con lui seduta sul sedile passeggero. Illesi anche il conducente dell'altro mezzo e i due passeggeri che erano con lui nell’auto. Su tutti e tre gli uomini è stato effettuato il test dell'alcol che ha dato esito positivo. Il conducente è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza e conseguente omicidio.

(dall’Intelligencer, giornale di Stonington)

 

 

 

09 ottobre 2010

STONINGTON – Trovati i cadaveri di tre uomini in un vicolo adiacente alla Deninson Avenue. I corpi sono stati scoperti ieri mattina da un inquilino del palazzo che affaccia sul vicolo, che ha prontamente chiamato la polizia e un’ambulanza, sebbene per i tre non ci fosse più niente da fare. Pare che i tre uomini siano gli stessi coinvolti nell’incidente stradale di un mese fa nel quale ha perso la vita Ryan Chandler, un giovane diciassettenne. Nonostante la denuncia per guida in stato di ebbrezza, il conducente è scampato al carcere per insufficienza di prove, mentre per gli altri due, che si trovavano in auto con lui, sono cadute le accuse in quanto non erano essi stessi alla guida del veicolo. Il dettaglio più strano dell’intera vicenda è la causa della morte: secondo l’autopsia, i tre uomini sarebbero morti soffocati da una grande quantità d’acqua; eppure nelle vicinanze della Deninson non ci sono corsi d’acqua, né sono state rilevate tracce che indichino che i cadaveri siano stati spostati. Ieri notte Stonington è stata colpita da un violento acquazzone, ma è assolutamente impossibile pensare che possa essere stato la vera causa del decesso. Le indagini sembrano essere a un punto morto e la verità su cosa sia accaduto l’altra notte in quel vicolo resta avvolta nel mistero.

(dall’Intelligencer, giornale di Stonington)

 

 

 

 

 

N.d.A.: Il prologo, come dice il titolo, è una raccolta di articoli di giornale apparentemente scollegati tra loro, ma che troveranno il loro posto all’interno della vicenda man mano che la storia andrà avanti.

Per questo capitolo e per tutti i successivi, ringrazio Legar per la sua insostituibile opera di beta-reading e Lights per il meraviglioso banner.

E, soprattutto, grazie a chiunque sceglierà di dare un’opportunità a questa storia in cui ho riversato una parte importante del mio cuore.

Futeki

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Capitolo 2
*** Il potere dell'acqua ***


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UNO

Il potere dell’acqua

 

 

 

L'acqua addirittura era il più grande simbolo taoista dopo il Drago.

Essa rappresenta la forza nella debolezza, la fluidità, l'adattabilità,

la freschezza di giudizio, la persuasione cortese e l'assenza di passioni.

(Jean Campbell Cooper)

 

 

 

 

28 ottobre 2011

Quella mattina la professoressa di biologia entrò in classe con un sorriso maligno stampato sul viso. Sapevo perfettamente cosa stava per succedere, per questo iniziai a tentare di ingraziarmi le divinità di varie religioni per ottenere il loro supporto.

Avevo appena finito di dire a Tin, la mia migliore amica, che il giorno prima non ero riuscita a studiare biologia, quando mi ritrovai davanti agli occhi un foglio che ero convinta sarebbe rimasto bianco. Test a sorpresa.

L’unica materia che mi dava problemi a scuola era biologia. Tutti quegli incroci tra piantine di piselli, malattie ereditarie e cani dal pelo raro mi facevano girare la testa. Proprio per questo motivo, mi impegnavo a studiarla più di ogni altra materia. Ma la sera prima ero stata troppo presa da un film in TV per preoccuparmi di studiare biologia. E quell’unica volta in cui mi ero permessa di guardare la televisione comodamente distesa sul divano del salotto piuttosto che studiare, il fato si era messo contro di me e aveva malignamente suggerito a quella serpe della mia prof di preparare un test a sorpresa.

La maggior parte delle persone normali, nella mia situazione, avrebbe tentato di copiare qualcosa dal compagno di banco, ma la mia spropositata sfortuna aveva fatto sì che la professoressa si mettesse a sorvegliare la classe – neanche fossimo una banda di criminali intenti a organizzare un attacco terroristico – proprio accanto a me. E io mi ritrovavo come un topolino in trappola, bloccata tra il muro e la serpe.

La mia unica possibilità sarebbe stata quella di captare qualche informazione dalla ragazza seduta davanti a me, - un genio, praticamente! –, se non fosse stato che lei aveva delle spalle semplicemente enormi e non riuscivo a intravedere neanche un angolino del suo foglio.

Fu a quel punto che ebbi un’idea folle.

Socchiusi gli occhi e cercai di concentrarmi il più possibile. Dopo qualche secondo, puntai lo sguardo sulla nuca di Jenny e guardai attraverso la sua schiena.

Passai la mezz’ora rimanente a copiare ogni singola risposta e al suono della campanella che segnava la fine dell’ora avevo i crampi alla mano ma un compito di biologia decente sul banco.

In ogni caso, se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe sicuramente stata una pessima giornata, ne ero sicura. Il mal di testa che si affacciava spietato dopo il compito ne era un evidente preavviso.

In realtà, più che un preavviso era una conseguenza dello sforzo a cui mi ero sottoposta per guardare attraverso la mia compagna. I miei comunissimi occhi verdi non erano poi tanto comuni. Concentrandomi a sufficienza, riuscivo a vedere attraverso le cose e ad ampliare il mio raggio visivo. Con un po’ di sforzo, potevo ottenere una mira perfetta e realizzare il punteggio massimo nelle ore di educazione fisica, quando dovevamo centrare dei birilli lanciando piccoli cerchietti di plastica.

Questa mia strana abilità, che mi aveva appena salvato da un’insufficienza grave in biologia, aveva un paio di piccoli ma fastidiosi effetti collaterali: i miei occhi passavano dal consueto verde bottiglia a un acceso rosso cremisi – il che li rendeva un tantino appariscenti – e lo sforzo mi provocava terribili mal di testa.

Sfruttare questa abilità quando ero a scuola metteva a rischio il mio segreto, ma quando si trattava di evitare un brutto voto in biologia, ogni mezzo era lecito.

«Kaitlyn, com’è andato il test?», mi chiese Tin, saltandomi addosso.

Purtroppo, la mia migliore amica era, al contrario di me, una ragazza parecchio estroversa. Nonostante io detestassi le esagerate dimostrazioni d’affetto evitai di sciogliermi dall’abbraccio.

«Bene», risposi semplicemente, «a te?»

Non fece in tempo a rispondermi che Jordan s’intromise nella nostra discussione: «Io non ho saputo rispondere neanche alla metà delle domande», grugnì il nostro amico.

Jordan era un diciottenne alto, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Lui e Tin erano i miei migliori amici e le uniche persone di cui mi fidassi veramente. Nonostante ciò, nessuno dei due conosceva la verità su di me.

«Tu come diavolo hai fatto a rispondere senza aver studiato?», mi chiese imbronciato.

Bella domanda. Quasi mi venne da ridere a guardare la sua espressione, ma mi limitai a scrollare le spalle e rispondere che ricordavo qualcosa sull’argomento.

«Sempre fortunata, lei», sbottò.

«La fortuna è cieca», replicai. Io no, invece.

«Io penso di essere stata brava», disse Tin interrompendo il nostro battibecco, ma ottenne in risposta soltanto uno sbuffo da parte di Jordan.

«E quando mai tu non sei stata brava?», disse Jordan ancora acido.

Tin era un piccolo genio. La mia migliore amica sembrava una specie di folletto: alta neanche un metro e sessanta, era magrolina e iperattiva. Aveva una zazzera di capelli ricci e ribelli e due enormi occhi scuri sempre pieni di curiosità. Lei e Jordan litigavano spesso, ma si volevano molto bene sin da bambini. Io invece ero la nuova arrivata, quella che circa un anno prima si era trasferita dal Connecticut e che contava solo due amici nell’intera città di New York. Col mio caratteraccio chiuso e ben poco disposto al dialogo, non avrei legato con nessuno se Tin non avesse insistito tanto nel voler essermi amica. Fortunatamente, lei era piuttosto testarda, per questo non ero più il lupo solitario che ero stata appena arrivata, ma facevo addirittura parte di un piccolo branco composto da tre tipi strani. Comunque, la più strana ero io.

Non ci fu un momento preciso in cui me ne resi conto: avevo sempre saputo di essere diversa. Io potevo manipolare l’acqua con la forza del pensiero. Potevo farne qualunque cosa. Tanto per fare un esempio, una volta allagai accidentalmente il giardino della mia vecchia casa cercando di annaffiare le piante usando la mia abilità. L’assurdità di quel mio potere mi aveva sempre spinta a tenere il segreto, perfino con mia madre. Volevo essere normale, se non addirittura mimetizzarmi con l’ambiente circostante, e una caratteristica così strana non era per niente d’aiuto. Ma in ogni caso, quella cosa faceva parte di me e io l’avevo sempre accettata come tale. Per quanto riguardava la vista speciale, si trattava di una stranezza più recente, che risaliva appena a un anno prima. Una mattina mi svegliai con un fortissimo mal di testa e guardandomi allo specchio mi accorsi che i miei occhi erano diventati rossi. Dopo qualche minuto di panico, riuscii finalmente a farli tornare al consueto verde bottiglia. In poco tempo mi resi conto di riuscire a controllare quella vista particolare e a vedere attraverso gli oggetti.

All’uscita da scuola, Tin e Jordan tornarono a casa insieme, mentre io, che abitavo da tutt’altra parte,  ero costretta ogni giorno a percorrere la strada da scuola a casa mia completamente da sola. Al primo incrocio, una macchina si fermò per lasciarmi attraversare la strada, ma mentre ero sulle strisce pedonali ripartì per poi fermarsi a pochi centimetri da me. Mi voltai con l’intenzione di fulminare con lo sguardo quell’idiota del conducente, ma mi bloccai rendendomi conto che si trattava di Paul, un ragazzo che era molto più che un semplice idiota: era un colossale errore di Madre Natura.

Fu Jordan a presentarmelo. Mi disse che era innegabilmente attratto da me e che avrebbe voluto una possibilità. Io non ero propriamente d’accordo sul fatto che fosse una buona idea uscire con lui, ma Jordan e Tin mi convinsero a provare.

A prima vista potevo sembrare cinica e fredda, ma non ero completamente insensibile: anch’io ero in grado di affezionarmi alle persone e Tin e Jordan ne erano la prova. Purtroppo, però, nonostante i miei sforzi, proprio non riuscii a provare empatia nei confronti di quel troglodita.

Una volta appurato che il suo unico interesse era quello di palparmi con le sue disgustose mani per tutto il tempo, lo mollai facendogli un discorso ben poco gentile, e a quanto pareva lui non aveva mai digerito la cosa.

Mi trattenni dal mostrargli il dito medio in risposta al suo scherzo di pessimo gusto – preferii pensare che si trattasse di uno scherzo, piuttosto che considerare l’ipotesi che volesse davvero investirmi – e proseguii per la mia strada.

Appena arrivai a casa, mia madre aprì la porta prima ancora che io suonassi il campanello. Conoscendola, era probabile che avesse passato l’ultima mezz’ora ad aspettare il mio ritorno sbirciando dallo spioncino.

Mia madre era una donna di mezza età con la fissazione per lo yoga che lavorava in un ristorante fuori città. Non le somigliavo per niente: lei era bassina, con gli occhi neri e un sorriso a trentadue denti sempre stampato sul viso. Fisicamente parlando, era normale che io non le somigliassi, visto che ero stata adottata alla nascita. Non avevo mai conosciuto i miei genitori biologici, né ne avevo mai sentito l’esigenza, visto che avevo sempre considerato Samantha la mia vera madre. Comunque sapevo che la mia madre biologica era morta di parto. Il mio padre adottivo, invece, lasciò mia madre quando avevo solo due anni, abbandonandola per un’amante di cui lei non aveva mai sospettato l’esistenza. Casa mia sembrerebbe essere troppo grande per noi due da sole, ma la verità era che quando si trattava di mia madre, sentirsi soli era praticamente impossibile. E per me, che ero una maniaca della quiete derivata dalla solitudine, questo era un disagio enorme. Per certi versi, mia madre somigliava molto a Tin: sempre allegra ed estroversa, non stava ferma un minuto e non si lasciava ostacolare da niente e nessuno. Probabilmente era per questo che lei e la mia amica andavano tanto d’accordo.

Io e mia madre non litigavamo mai, il che poteva sembrare strano per un’adolescente e una madre single, ma probabilmente tanta quiete derivava dal fatto che io quasi non parlavo. Ero sempre stata un tipo di poche parole, ma mia madre mi ripeteva continuamente che avrei dovuto raccontarle di più quello che facevo, la mia vita scolastica, le mie amicizie, i ragazzi con cui uscivo – ma quali ragazzi? – e così via. Io, dal canto mio, mi limitavo a scrollare le spalle. Soltanto una volta, per porre fine alle sue lamentele, le raccontai di Tin, di quanto fosse stata simpatica con me, che ero la nuova arrivata. Mia madre fu talmente entusiasta che la sera stessa la invitò a cena da noi. Lei e la mia amica erano talmente in sintonia tra loro che non potei fare a meno di notare che Tin sembrava sua figlia molto più di me.

Nel pomeriggio, Tin m’inviò un SMS invitandomi da lei per fare i compiti. Salutai velocemente mia madre e uscii di casa con lo zaino sulle spalle. La strada era silenziosa e tranquilla, quindi camminai lentamente per trattenermi il più possibile in quella sorta di paradiso terrestre.

Tuttavia, la mia contemplazione del silenzio venne interrotta da un ringhio basso e profondo, che mi costrinse a spostare lo sguardo alla mia destra. Un enorme cane nero si avvicinava lentamente a me, puntando i suoi terrificanti piccoli occhi sul mio viso.

I cani, come gli occhi rossi, erano arrivati un anno prima.

Quella volta, mentre camminavo per strada, un solitario cane nero iniziò a seguirmi. Era decisamente ben più spaventoso di un normale cane randagio: era completamente nero, fatta eccezione per gli occhi rosso fuoco, identici ai miei, e aveva uno sguardo tutt’altro che rassicurante. Nel vederlo, accelerai il passo per tentare di seminarlo, ma il panico m’impedì di proseguire quando vidi un’automobile passare attraverso quella creatura come se fosse un fantasma. In un primo momento, pensai a un’allucinazione e quindi cercai di convincermi che non poteva davvero farmi del male. Eppure, nonostante io continuassi a sbattere le palpebre e rilassare la mente, quel mostro era ancora lì. Non ebbi il tempo di riflettere troppo, visto che il cane scattò improvvisamente verso di me. Si avventò su di me con le fauci spalancate e io riuscii per miracolo a schivarlo. Il cane finì contro un idrante posto sul marciapiede, distruggendolo completamente. Una colonna d’acqua schizzò verso l’alto e in quel momento mi resi realmente conto che quel cane poteva e voleva farmi del male. Non riuscii a evitare anche il secondo assalto e il cane mi azzannò un braccio. Il dolore era lancinante, la vista mi si offuscò e lanciai un grido. D’istinto, mi concentrai sull’acqua attorno a me e la raccolsi tutta, comprimendola in una sfera che scagliai contro l’animale. Non avevo mai usato il mio potere come un’arma, ma in quel momento seppi che potevo difendermi grazie alla mia abilità. Il cane rimase a terra – dovevo averlo colpito più forte di quanto credessi – e io lo fissai per qualche secondo. Era davvero enorme. La testa mi pulsava, il braccio andava a fuoco e il sangue sgorgava dalla ferita imbrattando il marciapiede. Improvvisamente, l’enorme cane fantasma svanì, ma il profondo solco sul mio braccio era ancora lì. Andai al pronto soccorso senza dire nulla a mia madre e inventai una storia per giustificare la mia ferita. Nascosi la fasciatura sotto la manica e tornai a casa come se non fosse successo nulla. La cicatrice di quel primo incontro era ancora lì, a ricordarmi continuamente quello che era successo.

E quel pomeriggio mi pizzicava il braccio, come per rimandarmi a quel momento, per avvertirmi che stava per succedere di nuovo.

Quello non fu l’unico incontro. Dopo quel giorno, per altre cinque volte quei cani si erano fatti vivi. Ogni volta ce n’era uno in più rispetto alla precedente. Il mese prima erano in sei, quindi quella volta me ne aspettavo sette. Oltre ad aumentare sempre in numero, i tempi tra una visita e l’altra si accorciavano.

Oltre al primo cane, grazie alla mia vista speciale, ne individuai altri quattro. Il primo mi si avvicinò lentamente, riducendo la distanza tra noi a pochi metri. Un altro, altrettanto vicino, arrivò dalla direzione opposta, mentre altri due erano poco più distanti. L’ultimo si tenne a più di quindici metri da me. All’appello ne mancavano due, che non riuscivo a vedere. La distanza che mi separava dai cani presenti era fin troppo breve, quindi mi preparai a difendermi chiamando a raccolta tutta l’acqua che mi circondava. Per fortuna, il giorno prima aveva piovuto parecchio, quindi la strada brulicava di pozzanghere. Non potevo creare l’acqua dal nulla, ma solo controllarla, quindi avevo bisogno che fosse già presente molta acqua nelle vicinanze. La pioggia autunnale faceva al caso mio.

Scagliai l’acqua con forza verso il primo cane e quello venne sbalzato via. Ciò provocò, però, una reazione degli altri che si lanciarono minacciosi verso di me. In pochi balzi i più vicini mi raggiunsero. Potevo colpirne soltanto uno alla volta, quindi mentre abbattevo il primo, l’altro ebbe il tempo di graffiarmi la gamba. Ferita e dolorante, colpii anche l’altro con una forza tale, che quello volò via e svanì prima ancora di toccare terra. Mi affrettai a colpire gli altri due prima che fossero troppo vicini da approfittare del vantaggio numerico. Solo dopo che anche l’ultimo fu scomparso mi resi conto della trappola in cui ero caduta. Gli ultimi due cani fantasma, quelli che inizialmente non ero riuscita a individuare, si erano avvicinati a me indisturbati e ora erano a un metro da me, uno per lato. Immediatamente, mi circondai di un anello d’acqua protettivo, che i cani non osarono nemmeno sfiorare. Se avessi colpito uno dei due, l’altro ne avrebbe approfittato per uccidermi. Eravamo in una situazione di stallo, attendendo che qualcuno facesse la prima mossa, ma era chiaro che non potevo mantenere per sempre il mio scudo protettivo – mi sarebbe costato troppa fatica –, mentre quei cani non avevano niente di meglio da fare che dare la caccia a me. Oltretutto, se fosse passato qualcuno, avrebbe visto soltanto una ragazza ferita al centro della strada, inspiegabilmente circondata da un anello di acqua sospesa nell’aria. Non potevo permettermi di dover dare spiegazioni a qualcuno, ma non sapevo come uscire viva da quella situazione. I miei occhi erano ancora rossi e pronti a cogliere ogni minimo movimento, per questo mi accorsi subito del coltello lanciato alle mie spalle, ma i miei riflessi non furono abbastanza pronti per muovermi in tempo. L’arma mi passò accanto al viso e andò a conficcarsi nell’addome di uno dei cani: non era diretta a me, ma ai miei avversari. Colsi l’occasione per colpire l’altro cane con tutta la forza che mi restava e mi liberai definitivamente anche dell’ultima bestia. Immediatamente, però, mi voltai a fronteggiare la nuova minaccia.

Un ragazzo alto e biondo se ne stava fermo sulla strada a qualche metro da me, con una mano nella tasca della felpa verde e l’altra che teneva distrattamente un coltello uguale a quello che poco prima aveva trafitto il cane. Per un po’ rimase a fissarmi spavaldo, poi non riuscì più a trattenere un sorriso. Allargai l’anello d’acqua intorno a me per tenerlo a distanza, ma lui sembrò quasi divertito dal mio gesto.

«Non potrai farmi male con quella», disse indicando la mia debole protezione.

Aveva una voce tranquilla, non sembrava uno che voleva aggredire una ragazza sola in mezzo alla strada. Ma dopotutto, aveva appena ucciso un cane che non avrebbe neanche dovuto poter vedere, teneva in mano un coltello come se niente fosse e non aveva battuto ciglio nel vedere un anello d’acqua fluttuarmi intorno.

«Scommettiamo?», riuscii a sembrare sicura di me, nonostante fossi in realtà abbastanza spaventata da quello sconosciuto.

Il suo sorriso si allargò. «Non sarei così sleale da scommettere quando so già di aver vinto. Più che altro, dovresti essermi riconoscente. Suppongo di averti appena salvato la vita.»

«Me la sarei cavata.»

«Come no!», replicò lui con una punta di fastidio.

«Chi sei?», chiesi, visto che non sembrava avere intenzione di aggiungere altro.

«Mi chiamo Alex, piacere di conoscerti», disse con un ampio sorriso. Io non risposi.

«“Piacere mio, io sono Kaitlyn”. Ecco un esempio di ciò che potresti dire tu.»

 

 

 


Futeki

 

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Capitolo 3
*** L'inizio del viaggio ***


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DUE

L’inizio del viaggio

 

 

 

A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo

che so bene quel che fuggo, ma non quel che cerco.

(Michel De Montaigne)

 

 

 

 

«Come fai a conoscere il mio nome?»

«Ti cercavo, quindi sono informato», rispose, «anche se forse sarebbe stato meglio arrivare qualche tempo fa. Sette sono tanti.»

Ci misi un po’ a capire che si riferiva ai cani. Doveva saperne parecchio. «Che cosa vuoi da me?»

«Portarti alla tua vera casa», disse sorridendo. «Ma per il momento, mi limiterò a riaccompagnarti alla tua casa attuale.»

Non avevo la minima intenzione di mostrargli dove abitavo, ma Alex si diresse senza dire nulla verso casa mia. Lo seguii in silenzio e quando lui si fermò davanti alla porta, rimasi leggermente sorpresa. «Come sapevi che abito qui? Mi hai spiata?»

«No. Te l’ho detto, ti cercavo. Mi hanno dato un indirizzo per venire a recuperarti.»

«Recuperarmi?»

«Sì, ti riporto a casa. Ma prima, parleremo con tua madre, così potrai salutarla. Dopodiché, ti porterò da Johanna e lei ti spiegherà ogni cosa.»

«Hai mai pensato che potrei rifiutarmi di venire con te? Cosa intendi fare, rapirmi?»

«Oh, no. Parleremo con tua madre in modo che sia lei a convincerti a venire con me.»

Era forse impazzito? Non avevo intenzione di farlo entrare in casa, ma prima ancora che Alex bussasse, mia madre aprì la porta.

«Ciao, Samantha. Mi aspettavi?», la salutò cordialmente Alex.

«Purtroppo sì, caro. Vieni dentro», rispose mia madre. Caro? A quel punto mi pareva abbastanza chiaro che io fossi l’unica a non sapere cosa stesse succedendo.

«Kaitlyn, tesoro, cosa hai fatto alla gamba?», mi chiese mia madre preoccupata. Mi ero quasi dimenticata della ferita provocatami dal cane, anche se quella continuava a pulsare.

«Sono caduta», mentii. Nessuno mi avrebbe mai creduto, eppure mia madre inarcò un sopracciglio e mi spedì in bagno a disinfettarmi. Mi lasciò in bagno da sola per qualche secondo per parlare indisturbata con Alex nell’altra stanza. Dal bagno non potevo sentire granché, ma mi parve di afferrare qualcosa tipo “è arrivato il momento” e “mi dispiace per Ryan”.

Sentendo pronunciare quel nome mi si strinse lo stomaco. Ryan.

Non volli più sentire altro. Mi fasciai la ferita e andai in camera mia a cambiarmi i jeans strappati, poi tornai in soggiorno sperando che qualcuno avesse la decenza di spiegarmi cosa stava succedendo.

Mia madre mi guardò con aria un po’ triste, poi si decise a parlare. «Hai sempre saputo di essere stata adottata», esordì. «Io non ho mai conosciuto la tua vera madre, ma una donna, Johanna, chiese a me e a tuo padre di adottarti e crescerti come fossi nostra figlia. Noi lo abbiamo fatto, o almeno io ci ho provato, ma sapevamo che sarebbe arrivato il momento in cui saresti dovuta andare via.»

Mi irrigidii. A quanto pareva, nessuno era interessato a conoscere la mia opinione.

«Tu sei speciale», proseguì, «e io e tuo padre l’abbiamo sempre saputo»

«Chi è questa Johanna? E dov’è che devo andare?»

«Johanna è la coordinatrice delle attività di un’unità governativa americana chiamata Operon. So che il nome è abbastanza ridicolo, ma è così da parecchi anni e non possiamo farci niente», intervenne Alex. «Io ne faccio parte. E anche tu.»

«Io non faccio parte di niente», replicai, ma fui costretta a tacere quando fu mia madre a contraddirmi.

«Sì, invece. Sei un membro dell’Operon da quando sei nata, per via di ciò che sai fare. Quando tua madre, la tua vera madre, era al nono mese di gravidanza ebbe delle complicazioni. Tu non saresti nata se loro non ti avessero aiutato. Quello che sai fare è una conseguenza del loro intervento, intervento che ti ha salvato la vita. Non ti costringeranno ad andare con loro, ma si tratta del tuo Paese e di fatto non hai altra scelta che andare.» Gli occhi le si velarono di lacrime.

Mi rivolsi a Alex nel tono più gentile che mi riusciva di usare: «Puoi uscire, per favore?»

Alex annuì e si diresse verso la porta, ma sapevo che sarebbe rimasto lì fuori ad aspettarmi.

Mi decisi a parlare. «Mamma, a te importa di me?»

Un lampo di tristezza attraversò il volto di mia madre e per la prima volta, mostrò davvero l’età che aveva. «Certo che m’importa di te. Io ti voglio bene, Kaitlyn.»

«E allora perché vuoi che io vada via?»

«Non essere stupida, è ovvio che preferirei che tu restassi con me. Ma ci sono tante cose che non puoi controllare di te stessa e io non posso aiutarti. Loro invece sì. Ho fatto una promessa a tuo nome, quando ti hanno affidata a me: ho promesso che avresti servito il nostro Paese in cambio del loro aiuto. Non sono persone cattive, credimi. Conosco Alex, ho conosciuto Johanna. Non sono persone cattive», ripeté. «Vai con loro, prenditi cura di te stessa e torna da me tutte le volte che ne avrai l’opportunità.»

Se mia madre si fidava di quelle persone, allora lo avrei fatto anch’io. Ma rimasi comunque ferita dal fatto che mi stesse mandando via. C’erano risposte che dovevo avere e loro avrebbero potuto darmele. Inoltre, andare via mi sembrava la scelta più saggia: i cani fantasma continuavano a perseguitarmi e se mi avessero trovata quando ero insieme a mia madre, non avrei saputo come difenderla. Sarei andata con Alex chissà dove e sarei entrata in quell’assurda organizzazione col nome di Operon.

Mi avviai verso la porta e la spalancai, rivolgendomi più freddamente di quanto volessi a Alex, che nel frattempo si era acceso una sigaretta. «Che vuoi che faccia?»

«Dovresti venire con me alla base dell’Operon e restarci per un po’. Ci saranno altri ragazzi come te, personale esperto in grado di dirti come utilizzare i tuoi poteri e verrai addestrata per diventare un membro della nostra organizzazione.»

«Ci sto», replicai senza pensarci ancora. «Quando partiamo?»

«Adesso. Puoi portare qualcosa con te, se vuoi, ma lì troverai comunque tutto ciò di cui hai bisogno.»

«Faccio in un attimo.» Mi precipitai nella mia stanza e afferrai uno zainetto. Mentre ci infilavo dentro poche cose, cercai di non pensare a quello che stavo facendo. L’ultimo scontro con i cani sarebbe finito male se non fosse stato per Alex; se non avessi fatto qualcosa avrei potuto seriamente rischiare la mia vita, oltre che quella di chi mi stava vicino.

Tornai all’ingresso e vidi che non era cambiato nulla negli ultimi cinque minuti. Alex aspettava sulla soglia di casa e mia madre se ne stava seduta su una sedia con espressione afflitta. La abbracciai.

«Non preoccuparti, ci sentiremo spesso e verrò a trovarti presto», le promisi, anche se in realtà non sapevo se ne avrei avuta l’opportunità.

 

 

«È stato abbastanza veloce», commentò Alex mentre girava le chiavi nel quadro della sua auto.

Ero seduta sul sedile passeggero e avevo spalancato il finestrino per godere della piacevole sensazione del vento sul viso. «Di che parli?»

«Di solito ci vuole molto più tempo a convincere un ragazzo a venire con noi, anche quando i genitori gli spiegano che è la cosa migliore.»

Non commentai e cambiai discorso. «Hai visto quello che so fare», dissi, «c’è qualcun altro che sa controllare l’acqua come me?»

«Sì», rispose Alex tenendo gli occhi fissi sulla strada. «Io.»

Rimasi sbalordita. Il ragazzo seduto accanto a me – che non mi sembrava più tanto giovane, dopo averlo osservato per bene – mi provocò immediatamente una sorta di disagio. «È per questo che mi hai detto che non posso farti del male con l’acqua?», chiesi ricordando le sue parole di appena un’ora prima.

«Molto perspicace.»

«Quanti altri sanno farlo?»

«Manipolare l’acqua, dici? Soltanto io e te. Ma ci sono altri ragazzi con poteri particolari.»

«Per esempio?»

«Ti spiegheranno tutto quando saremo arrivati, io non sono la persona adatta per rispondere a queste domande.»

«Allora perché hanno mandato proprio te a prendermi?», chiesi.

«È così da sempre. Credo sia perché sono stato nella tua stessa situazione e teoricamente io dovrei sapere cosa dirti in ogni circostanza, visto che abbiamo un po’ di cose in comune», concluse riferendosi al nostro potere.

«Come mai so fare queste cose?», chiesi ancora una volta.

E di nuovo, Alex non rispose: «Ti spiegherà tutto Johanna.»

«Chi è questa Johanna?»

«La coordinatrice delle operazioni nelle quali siete impiegati voi. Non posso dirti altro finché non saremo certi di non essere ascoltati.»

Mi zittii. Fuori dal finestrino, New York cominciò a scorrere rapida al nostro passaggio, fino a che non scomparve definitivamente. Mi venne in mente di chiedere dov’erano diretti, ma probabilmente Alex non mi avrebbe risposto, quindi lasciai perdere.

Lottai per un po’ contro la stanchezza, ma il motore dell’auto faceva le fusa e cominciai a sentire gli occhi pesanti. Passammo attraverso molte città, la maggior parte delle quali mi erano sconosciute e infine cedetti al sonno mentre entravamo nel New Jersey. Sognai che i cani venivano di nuovo a prendermi, ma stavolta Alex era dalla loro parte e sogghignava mentre io stavo per essere uccisa; e il ticchettio di un orologio invisibile scandiva i secondi che mi restavano da vivere. Tic tac, tic tac. Sempre più veloce. Tic tac, tic tac, tic tac.

Mi svegliai di colpo e realizzai che il ticchettio proveniva dalle gocce di pioggia che battevano sul vetro dell’auto. Il mio finestrino era stato chiuso, sicuramente da Alex, per impedire che mi bagnassi.

«Ti sei svegliata, finalmente», disse Alex al mio fianco. «Credevo che ne avessi ancora per molto.»

Sbadigliai e mi ricomposi, evitando con cura di pensare alla pioggia. Non mi piacevano i temporali. «Quanto manca?», chiesi. Un “non molto” appena accennato, fu l’unica risposta che ottenni.

«Sai che parli nel sonno?», disse invece Alex.

Certo che lo sapevo. «Io non parlo nel sonno», replicai debolmente.

«Hai ragione, non parli, urli. E verso la fine hai gridato qualcosa a proposito di un orologio.»

«Perché non mi hai svegliato?», chiesi.

«Pensavo ti facesse bene dormire un po’.»

Avrei voluto dirgli di svegliarmi, se fosse capitato di nuovo. Che se urlavo nel sonno era per colpa degli incubi. Ma non dissi nulla.

«Che altro ho detto?», chiesi invece.

«Niente di importante.»

Era ovvio che stesse mentendo. Stavo per replicare quando un cartello un po’ scolorito sul ciglio della strada mi mandò completamente in confusione.

Benvenuti nel Wisconsin

Guardai l’orologio. Avevo dormito per sette ore di fila! Feci un rapido calcolo e mi resi conto che erano comunque troppo poche per percorrere gli oltre mille chilometri che separavano New York dal Wisconsin.

Alex mi lanciò un’occhiata e intuì la natura dei miei pensieri. «Hai dormito tanto perché sei ferita e hai perso parecchio sangue. Quando arriveremo ti porterò da chi saprà aiutarti.»

«Come facciamo ad essere già nel Wisconsin?»

«Non siamo obbligati a rispettare i limiti di velocità», spiegò.

Ero ancora confusa. «Sì, ma devi aver tenuto una velocità media di…». Ci pensai un attimo. «Quanto, centoventi chilometri orari?»

«Centotrenta», disse Alex annuendo. «Te la cavi in matematica.»

Tacqui, avendo intuito che aveva una gran fretta di raggiungere la sua meta.

«Hai fame?», chiese lui gentilmente. «Appena posso mi fermo.»

Scossi la testa. Nonostante il mio stomaco brontolasse già da prima di partire, non avevo voglia di mangiare e pensai che se non ci fossimo fermati, Alex avrebbe avuto il tempo di proseguire a una velocità più accettabile. «Puoi rallentare un po’? Con la pioggia è pericoloso correre.»

Mentre pronunciavo quelle parole, mi resi conto di quanto suonasse ridicolo chiedergli di rallentare per la pioggia. Probabilmente, con tutta quell’acqua intorno, lui si sentiva ancora più sicuro.

In quel momento, il rombo di un tuono squarciò l’aria e io m’irrigidii istintivamente.

«Hai paura dei tuoni?», chiese preoccupato.

Scossi la testa, ma era inutile negare. Avevo paura di qualsiasi cosa avesse a che fare con l’elettricità. Non solo dei fulmini, ma anche delle cose più semplici, come mettere in corrente il tostapane, o spostare l’antenna della televisione. Non l’avevo mai detto a nessuno, nemmeno a mia madre. Chiunque sarebbe scoppiato a ridere sentendo una cosa del genere.

«Io sì», confessò Alex. «È normale, noi abbiamo l’acqua nel DNA. Ci basta poco per morire fulminati, è una paura assolutamente razionale. Devi solo imparare a combatterla. Una volta arrivati ti aiuteranno. Con me lo hanno fatto.»

Non risposi, ma mi sentii un po’ più tranquilla. Gli ero molto grata per quello che aveva detto e anche se non avevo pronunciato nessun ringraziamento a voce alta, speravo che lui avrebbe capito. Ero contenta che avessero mandato proprio lui a prendermi: era vero, Alex sapeva cosa dire per rassicurarmi.

Ci fermammo nei pressi di quello che sembrava un eliporto. Davanti a noi, un elicottero nero lucido sembrava pronto al decollo. Aveva smesso di piovere, per fortuna, ma ero convinta che saremmo saliti a bordo di quel dannato elicottero anche nel bel mezzo di un tornado.

Alex aveva rinnovato la sua offerta di farmi mangiare qualcosa, ma al mio secondo rifiuto mi fece salire a bordo dell’inquietante veicolo. Mi trovai seduta tra Alex e il finestrino, e passai tutte e due le ore di volo guardando il paesaggio che scorreva sotto di me. Volare non mi disturbava, ma in quel caso ero un tantino preoccupata per il pilota. Doveva essere sulla cinquantina, era grosso e portava un paio di occhiali a mezzaluna che mi ricordavano quelli di Albus Silente nel film di Harry Potter. Le somiglianze, però, si limitavano agli occhiali. Era sembrato sicuro di sé quando si era messo alla guida, ma l’elicottero incappava sempre in correnti d’aria e sobbalzava continuamente.

Quando esposi le mie perplessità a Alex, lui si limitò a dare la colpa all’altezza troppo elevata che  dovevamo mantenere per motivi di sicurezza, ma neanche lui pareva troppo convinto.

 

 

 

 

N.d.A.: In questo capitolo iniziamo a conoscere Alex e intravediamo il rapporto complicato che c’è tra Kaitlyn e sua madre. Kaitlyn è un’adolescente con poteri strani e se gli adolescenti sono già normalmente contorti, lei è sicuramente ancora più complessa a livello emotivo.

Grazie a chi sta seguendo la storia, non solo a chi l’ha recensita ma anche a chi l’ha inserita nelle seguite/ricordate/preferite. Spero vi piaccia!

Futeki

 

 

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Capitolo 4
*** Operon ***


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TRE

Operon

 

 

 

L'amicizia è una presenza che non ti evita di sentirti solo,

ma rende il viaggio più leggero.

(David Trueba)

 

 

 

 

Atterrammo finalmente in Oregon e salimmo subito a bordo di un’altra auto. Alex mi spiegò che quella che avevamo usato quella mattina era a noleggio e che questa invece era fornita dall’Operon.

«Non potevamo andare direttamente lì con l’elicottero?», chiesi ingenuamente.

«No, dobbiamo far perdere le nostre tracce», rispose lui.

«Quanti ragazzi portate all’Operon?»

«Otto ogni quindici anni. Quest’anno però ne manca uno. Ryan». M’incupii. «Mi dispiace, non volevo intristirti.»

«E avete un elicottero per ognuno di noi?», proseguii cambiando argomento.

Alex rise. «No, ma i ragazzi che abitano più lontano adottano mezzi di trasporto più veloci. Dovete essere tutti lì entro stasera.»

«E dov’è “lì”?»

Mi riservò un’occhiataccia.

«Almeno dimmi in che Stato è!»

«Washington.»

Per la prima volta, pensai a ciò che mi aspettava: sarei entrata a far parte di un’agenzia governativa segreta chiamata Operon, la cui base si trovava a più di tremilaquattrocento chilometri da casa mia, in pratica, dall’altra parte del paese.

«Cosa si aspettano da me?», chiesi.

«Lo saprai quando arriveremo.»

Ovviamente, non speravo davvero in una risposta. Avevo capito che Alex non mi avrebbe detto nulla fino a che non fossimo arrivati alla base. Esausta per il viaggio, mi concessi un’altra ora di sonno, stavolta senza incubi, e al mio risveglio era già calato il buio, anche se erano solo le sei del pomeriggio.

Alex sembrava stanco, anche se non si era mai lamentato, ma sapevo che guidare per tutto quel tempo doveva essere stato estenuante. Sembrava sul punto di addormentarsi al volante, quindi cercai di distrarlo un po’ facendogli qualche domanda a cui lui poteva rispondere.

«Alex, tu di dove sei?», chiesi.

«Sono nato e cresciuto in Arkansas fino a diciassette anni, quando Jonathan è venuto a prendermi per portarmi all’Operon, proprio come ho fatto io con te.»

«Chi è Jonathan?», chiesi, ma mi pentii immediatamente della domanda, quando vidi l’espressione triste sul volto di Alex.

«Era un membro dell’Operon. Anche lui sapeva manipolare l’acqua. È morto l’anno scorso.»

«Mi dispiace», dissi, cercando poi di cambiare argomento. «La tua famiglia vive ancora in Arkansas?»

«Sì. Di tanto in tanto vado a trovarli. Ho anche una sorella, che ha avuto da poco un bambino.» Sorrise nel pronunciare quelle parole.

«Ti mancano, vero?»

«Sì. Ed è per questo che non dovrei parlartene: c’è il rischio che tu cambi idea e decida di tornartene a casa.»

«Come pensi che possa tornare? A piedi?»

Sorrise come se non trovasse assurda l’idea. «Il rischio che tu non voglia collaborare c’è.»

«No, invece, non c’è», lo contraddissi. «Non potevo restare lì.»

Lui non disse nulla. «Come va la gamba?», chiese invece qualche minuto dopo.

«Bene», mentii. Mi faceva male, ma preferivo non pensarci. Non era la prima volta che restavo ferita in uno scontro con quei cani, quindi sapevo che la ferita necessitava di un bel po’ di tempo per guarire.

Per cambiare argomento, gli feci altre domande di poca importanza. Lui mi raccontò di come una volta aveva spaventato a morte un gatto facendogli schizzare in faccia l’acqua di una pozzanghera dalla quale stava bevendo e io di quando avevo allagato il giardino di casa mia.

Ridemmo insieme e la tensione nell’aria sembrò svanire del tutto. Alex, con il suo bell’aspetto e la sua allegria contagiosa, mi ispirava sicurezza.

«Quanti anni hai?», chiesi infine. Gli avrei dato venticinque, ventisei anni al massimo, quindi fui sorpresa di sentirmi rispondere trentadue.

«Ogni quindici anni nascono otto ragazzi speciali che vengono chiamati Generazione Alfa. Raggiunti i quindici anni di età, prendono il nome di Generazione Beta e vengono al mondo altri otto ragazzi che costituiscono la nuova Generazione Alfa e così via», spiegò lui.

«Quindi io faccio parte dell’attuale Generazione Beta?»

«Esattamente.»

«Questo significa che ci sono altri otto bambini nel mondo, di appena due anni, che hanno poteri particolari?»

«Sì. Inoltre, attualmente esistono cinque membri della mia Generazione, la Generazione Gamma, quattro della Generazione Delta e soltanto uno della Generazione Epsilon.»

«Ho capito», risposi, astenendomi dal commentare il fatto che finalmente Alex mi stava spiegando qualcosa, per non rischiare che smettesse di parlare.

«E abbiamo tutti poteri diversi?»

«Sì. Derivano da una sorta di mutazione genetica. Hai presente il film X-man?», chiese. Annuii. Persone con poteri speciali causati dalla progressiva evoluzione del genere umano. «Più o meno è lo stesso, solo che la mutazione è causata artificialmente.»

Attesi in silenzio che continuasse.

«Ci sono tre tipi di mutazioni: quelle del controllo fisico, quelle del controllo chimico e quelle del controllo psichico.»

«E…?», chiesi, visto che si era fermato all’improvviso.

«E saprai tutto non appena saremo arrivati.»

Rimasi delusa da quella risposta, ma i miei propositi di tenergli il broncio crollarono quando mi venne in mente qualcosa che volevo assolutamente sapere.

«Tutti hanno gli occhi che diventano rossi?», domandai.

Alex strinse le mani sul volante. «No, non tutti.»

Intuii che non sarebbe andato oltre, quindi attesi in silenzio che arrivassimo a destinazione.

Guardando fuori dal finestrino, riconobbi Seattle da alcune fotografie che aveva visto in passato. Ma nessuna immagine era neanche lontanamente paragonabile alla bellezza di quella città.

I palazzi si stagliavano alti nel cielo notturno, e la città brillava delle luci dei lampioni, dei negozi e degli appartamenti. Tante persone popolavano le strade, sia a piedi, sia in macchina; intravidi una donna e un bambino che camminavano sul marciapiede tenendosi per mano. Le automobili sfrecciavano silenziose sulla strada e le insegne luminose contribuivano a rendere meravigliosa l’atmosfera di quella città.

Dopo aver proseguito per un po’ verso il centro, Alex parcheggiò l’auto nei pressi di una piazza, spense il motore e con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia esclamò: «Siamo arrivati.»

Ero sbalordita. Mi ero aspettata di arrivare in un posto sconosciuto e solitario e invece Alex  mi aveva portata in una delle città più popolate degli Stati Uniti.

«Vuoi dire che l’Operon si trova qui? Sotto gli occhi di tutti?», dissi con un tono di voce un po’ troppo alto.

«Sì e no.»

Sollevai le sopracciglia e lui spiegò meglio ciò che intendeva: «Si trova qui, ma è sottoterra.»

Rimasi senza parole. Seguii Alex fino a una libreria ancora aperta e lui mi spinse dentro. Non c’era quasi nessuno, a parte una signora seduta al bancone, beatamente immersa nella lettura di un libro dalla copertina rosa.

«Oh, ciao Alex», lo salutò e rivolse anche a me un cenno di saluto.

«Ciao Marisa. Lei è Kaitlyn, una nuova arrivata.» La salutai con un sorriso.

«Siamo di fretta, ci si rivede», disse spingendomi verso un punto più nascosto della libreria. Spostò uno scaffale e tirò fuori una chiave dalla tasca. Aprì la porta che era apparsa dietro lo scaffale ed entrammo. Alex tirò una catenella che pendeva dal soffitto e una debole luce illuminò una galleria che proseguiva in discesa. Ci chiudemmo la porta alle spalle e percorremmo la galleria.

«Chi era quella donna?», chiesi quando ci fummo addentrati nella galleria.

«Una dei Guardiani. Sono cittadini comuni che hanno però il compito di sorvegliare gli ingressi alla base.»

«Quanti ingressi ci sono?»

«Non lo so con esattezza. Io ne conosco quattro, ma credo siano più di venti.»

Arrivammo finalmente a una spessa porta metallica chiusa. Sulla parte superiore c’era una frase in latino incisa nel metallo:

Ubi multa lux est, umbra ubscurior est.

«Dove c’è molta luce l’ombra è più scura», tradusse Alex dopo aver notato che stavo fissando l’incisione. «C’è una frase del genere su ogni ingresso. A mio parere, questa è la più bella.»

Dove avrebbe dovuto trovarsi la serratura c’era invece una tastiera numerica e Alex digitò velocemente una sequenza che non riuscii neanche a vedere. Poi premette il pollice su quello che doveva essere uno scanner per impronte digitali. La porta si aprì con uno scatto ed entrammo finalmente nella base dell’Operon.

Sulla parete di destra, brillava una O di dimensioni spropositate dipinta sul muro con una vernice rossa. La stanza su cui affacciava la porta era una specie di soggiorno, con divani di pelle blu, un tappeto e uno schermo gigante con una serie di macchinari collegati ad esso, tra i quali distinsi un computer.

Su uno dei divani c’erano seduti due ragazzi, un maschio e una femmina, che mi osservavano a bocca aperta. La ragazza aveva lunghi capelli biondi e occhi verdi, il ragazzo capelli scuri e occhi azzurri. Una donna più grande, in piedi con addosso una divisa nera, mi scrutava da dietro un paio di occhiali. Altri due ragazzi identici tra loro, sicuramente gemelli, mi guardavano con espressione divertita dal divano opposto.

Avrei tanto voluto sapere cosa avevo di così strano da spingerli a fissarmi in quel modo.

Alex mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «Benvenuta nell’Operon, agente Kaitlyn.»

La donna con gli occhiali si presentò. Lei era la famosa Johanna, coordinatrice operativa dell’Operon. Mi fece accomodare sul divano accanto ai gemelli e ci invitò a rimandare le presentazioni a un secondo momento, visto che in pochi secondi sarebbero arrivati gli ultimi due ragazzi e lei avrebbe dato inizio alla presentazione dell’Operon e del suo programma. Mi sentivo confusa e un po’ a disagio. Johanna mi dava l’impressione di una donna precisa ed efficiente e gli altri ragazzi sembravano tutti sicuri di sé, nonostante l’occhiata strana che i due seduti sul divano opposto mi avevano riservato. Come predetto da Johanna, immediatamente arrivò un ragazzo dall’aria tranquilla affiancato da un uomo che classificai come appartenente alla stessa Generazione di Alex. Il ragazzo prese posto accanto alla ragazza bionda che si rivolse immediatamente a Johanna con voce pacata. «Manca solo Jessica», disse lanciandomi un’occhiata.

«Dov’è?», chiese Alex alla ragazza.

«In bagno, dovrebbe arrivare a momen…»

Fu interrotta dall’ingresso di una ragazza nella stanza. Aveva lunghi capelli scuri che scendevano lisci sulla schiena e grandi occhi marroni. Di statura media, era nel complesso una bella ragazza. Ciò che mi lasciò a bocca aperta era che la ragazza che era appena entrata, era identica a me.

 

 

 

 

N.d.A.: Le distanze tra i vari Stati americani e i tempi di percorrenza sono rispettati il più possibile, mentre la libreria, ovviamente, è inventata – anche se potrebbe tranquillamente esserci una libreria nel centro di Seattle!

Grazie a chi sta seguendo la storia, anche da Facebook.

Futeki

 

 

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Capitolo 5
*** Agente operativo ***


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QUATTRO

Agente operativo

 

 

 

Nessuna domanda è più difficile di quella la cui risposta è ovvia.

 (George Bernard Shaw)

 

 

 

 

La nuova arrivata mi fissò per qualche secondo, poi andò a sedersi sul divano opposto al mio. I gemelli seduti accanto a me ridevano per la situazione. Mi voltai verso Alex in cerca di risposte, ma ottenni solo una scrollata di spalle.

«Chi sei tu?», chiesi alla ragazza in tono educato, visto che lei non sembrava minimamente sorpresa di trovarsi di fronte il suo doppio.

«Mi chiamo Jessica, sono tua sorella gemella. Siamo state date in adozione a due famiglie diverse.»

La spiegazione era così semplice da risultare inverosimile. Non avevo mai pensato all’ipotesi che avessi potuto avere fratelli o sorelle, ancor meno che avessi una gemella. La cosa non mi piaceva per niente.

Johanna mi lasciò qualche istante per riprendermi dallo shock della scoperta e poi iniziò a parlare. Archiviai mentalmente la novità e iniziai ad ascoltarla, conscia che finalmente avrei potuto capire qualcosa.

«Salve ragazzi, io sono Johanna Masters. Spero che avrete tutti modo di conoscervi al meglio; da oggi sarete una squadra, una squadra speciale dell’Operon. Come sicuramente saprete», riprese lei, «dopo la seconda guerra mondiale venne a crearsi, intorno al 1947, una contrapposizione tra due blocchi internazionali, generalmente categorizzati come Oriente e Occidente. Del blocco occidentale facevano parte gli Stati Uniti d’America, gli alleati della NATO e alcuni Paesi alleati, mentre il blocco orientale, più comunemente noto come blocco comunista, comprendeva l’Unione Sovietica e gli alleati del Patto di Varsavia.»

Lo schermo di fronte a lei si illuminò e mostrò una mappa del mondo nella quale erano rappresentati in blu i membri del blocco occidentale e in rosso quelli del blocco orientale.

Mi resi conto che quella sorta di presentazione era quasi una lezione di storia e ringraziai mentalmente le mie conoscenze storiche, altrimenti non sarei mai riuscita a seguire Johanna al ritmo con cui esponeva i fatti.

«Questa situazione di contrapposizione, che non arrivò mai a un vero e proprio scontro diretto, prese il nome di Guerra Fredda e vide come principali protagonisti Stati Uniti e Russia, rispettivamente considerati il centro del blocco occidentale e del blocco sovietico. Poiché la possibilità di entrambe le parti di utilizzare armi nucleari avrebbe facilmente potuto distruggere l’intero pianeta, il conflitto si sviluppò su campi diversi da quello militare, quali il campo ideologico, psicologico e tecnologico. La parte più critica e pericolosa del conflitto si ebbe tra gli anni cinquanta e settanta, ma già dagli anni ottanta entrambi i blocchi avviarono un lento processo di disarmo; la fine della Guerra Fredda si fa coincidere convenzionalmente con la caduta del Muro di Berlino nel 1989.» Lo schermo si spense e Johanna smise di parlare con voce meccanica.

«Quello che la maggior parte della gente non sa», proseguì, «è che la Guerra Fredda in realtà non è mai finita. Tra Stati Uniti e Russia aleggia ancora un clima di tensione. Siamo continuamente in lotta con loro per contrasti politici, concorrenza nel commercio e nel progresso scientifico-tecnologico. Ormai nessuno si rende conto che questa guerra non ha senso, quindi ciascuna delle due parti continua ad attaccare silenziosamente l’altra per evitare di doversi solamente difendere. L’Operon è un corpo separato del Governo americano; è nostro dovere mantenere il segreto sulle operazioni che si svolgono intorno a questa unità. Voi ragazzi siete stati automaticamente arruolati per le vostre caratteristiche genetiche. Scoprirete che non sono molti gli agenti dell’Operon, proprio perché nella scelta degli arruolamenti si punta più sulla qualità degli agenti scelti che non sul numero. Il mio compito è gestire e organizzare le attività dell’Operon.» Si fermò un secondo, forse in attesa di domande, ma poiché nessuno parlò, lei proseguì nella spiegazione. Lo schermo si illuminò di nuovo mostrando immagini di quelle che sembravano coltivazioni di fiori che non avevo mai visto prima.

«Questi che vedete, sono fiori particolari chiamati albi. Alcuni dei nostri scienziati hanno rinvenuto dei campioni in Sudamerica, dove vecchie popolazioni locali li coltivavano per le loro proprietà curative. Grazie agli studi effettuati sul polline di questi fiori, si è scoperto che hanno la caratteristica di accelerare il processo di duplicazione della cellula umana. Alla duplicazione dei cromosomi, però, il DNA subisce delle modifiche tali che le nuove cellule risultano mutate.»

Ora lo schermo mostrava una duplicazione cellulare ripresa al microscopio. Finché si era trattato di storia avevo capito tutto, ma una volta passati alla biologia, le mie conoscenze in merito erano declinate pericolosamente, fin quasi a non farmi capire più niente.

«Dovete sapere che le vostre madri – le vostre madri biologiche, intendo», disse rivolgendoci uno sguardo serio, «avevano tutte una cosa in comune: avrebbero perso i propri figli durante la gravidanza. A loro è stato offerto da alcuni nostri agenti specializzati, di salvare i propri bambini lasciandosi iniettare un composto a base di polline di albi. I loro figli, però, sarebbero nati con caratteristiche speciali e, una volta raggiunti i diciassette anni, sarebbero dovuti entrare a far parte dell’Operon come agenti. Infatti ora voi siete qui.» Fece un’altra pausa per spegnere lo schermo che tornò grigio.

«Purtroppo le quantità di fiori coltivabili sono molto limitate e perché gli albi siano pronti occorrono ben quindici anni. Per questo nel migliore dei casi riusciamo ad arruolare soltanto otto ragazzi ogni Generazione. In questo momento, voi siete la Generazione Beta, mentre la Generazione Alfa è costituita dai bambini che ora hanno due anni che abbiamo salvato alla nascita.» Si lanciò quindi nella spiegazione sulle Generazioni che Alex mi aveva dato in macchina. Notai che alcuni ragazzi cercavano seriamente di comprendere il complesso meccanismo delle Generazioni, mentre altri mostravano chiaramente di sapere già di cosa si parlasse; probabilmente i loro accompagnatori avevano vuotato il sacco come aveva fatto Alex. Johanna concluse la spiegazione sulle Generazioni annunciando che un membro della Generazione Beta era morto qualche mese prima. Mi si strinse lo stomaco nell’apprendere che stava parlando di Ryan. Poi passò a spiegare qual era il nostro compito nell’Operon.

«Voi siete agenti da campo, cioè quelli che, una volta addestrati e ben preparati, prenderanno parte dal vivo alle missioni dell’Operon. Già da domani, inizierete una fase di preparazione grazie all’aiuto dei componenti della Generazione Gamma, che già avete conosciuto visto che sono venuti a prendervi a casa. Imparerete non solo a gestire il vostro potere, ma anche a maneggiare armi di vario tipo. Questo non è un gioco», disse poi con voce tetra, «è una guerra. E la guerra è dura e può comportare delle perdite. Dovrete essere forti per sopravvivere.»

Il discorso suonava un po’ cupo, ma capii che diceva sul serio.

«Ma per stasera», riprese Johanna in tono più morbido, «rilassatevi. Avete affrontato tutti un lungo viaggio. I vostri accompagnatori vi mostreranno le vostre stanze, dove potrete sistemarvi e rinfrescarvi un po’. Dopodiché, in sala mensa verrà servita una speciale cena di benvenuto, durante la quale avrete modo di conoscervi e parlare. Vi lascio alle vostre cose, a più tardi.» Così dicendo, Johanna uscì dalla stanza, lasciandoci soli. Immediatamente, due ragazze e un ragazzo – probabilmente della Generazione di Alex – entrarono nella stanza e dissero qualcosa ai ragazzi, che si alzarono in piedi.

Anche Alex mi si avvicinò e mi condusse fuori dalla stanza, ma mentre tutti gli altri svoltarono a sinistra lungo un immenso corridoio, Alex mi fece cenno di seguirlo nella direzione opposta.  Arrivammo davanti a una porta sulla quale spiccava a caratteri giganti la scritta “INFERMERIA” e Alex bussò. Senza aspettare una risposta entrò nella stanza e una donna sulla quarantina seduta dietro a una scrivania alzò gli occhi da un mucchio di carte.

«Ciao Lucy», la salutò Alex. «Lei è Kaitlyn, della Generazione Beta.»

Lucy sembrava sul punto di rimproverarlo per averla disturbata, ma quando mi vide sul suo viso spuntò un enorme sorriso. «La ragazza dell’acqua», disse. «Come mai sei qui?»

Aprii bocca per rispondere, ma Alex mi anticipò spiegandole che mi ero fatta male alla gamba e avevo perso molto sangue. Non disse nulla riguardo al modo in cui mi ero ferita. Lucy mi fece sedere su un lettino e mi controllò la ferita. Alla vista dei tre tagli, uno sguardo consapevole illuminò il suo volto. «Questi sono…»

«Sì», rispose Alex. «Non dirlo a nessuno, però. Non è ancora il momento.» Lucy annuì e cominciò a disinfettare la ferita. Quando ebbe finito poggiò una mano esattamente sopra il taglio centrale, quello più profondo. Sussultai automaticamente ma rimasi sorpresa nell’accorgermi che invece di sentire dolore, al suo tocco sembravo stare meglio. Dopo qualche secondo, Lucy mi medicò la ferita e mi aiutò a scendere dal lettino con un sorriso.

«Grazie», dissi rendendomi conto che era la prima parola che pronunciavo davanti a quella donna così gentile.

«Di niente cara. Se dovesse farti male vieni pure da me, ti darò qualcosa per calmare il dolore.»

Annuii e ringraziai nuovamente. 

Uscimmo dall’infermeria e ringraziai anche Alex per avermi accompagnata lì. Mi condusse poi in un’ala della base dove – secondo le sue spiegazioni – c’erano le stanze degli agenti operativi. Cercai di memorizzare la strada fino a un corridoio su cui affacciavano numerose porte su cui c’erano diversi numeri, come se fossero stanze di un albergo. Alex mi lasciò davanti al numero 7 e proseguì per il lungo corridoio, affermando che la sua stanza era la numero 21. Aprii la porta ed entrai nella mia camera. Su un tavolino accanto alla porta c’era una piccola chiave che portava il numero 7. La stanza era enorme, con un bel letto posizionato contro il muro, una scrivania, e una porta che conduceva a un bagno privato. Essendo sottoterra, però, non c’erano finestre. Stimai che l’intera stanza dovesse essere grande il triplo di quella che avevo a casa mia, a New York. Lasciai lo zainetto sulla scrivania e mi stesi sul letto. Chiusi gli occhi per qualche secondo, cercando di fare il punto della situazione. Più o meno, avevo capito tutto quello che Johanna aveva detto. La Guerra Fredda, la mutazione eccetera. Però sospettavo che la maggior parte delle cose che aveva detto servissero solo a rispondere alle domande che io e gli altri ragazzi ci ponevamo da un po’. Il messaggio principale di quella presentazione era che l’Operon era un’agenzia governativa in guerra e che loro erano i soldati. Ripensai per qualche secondo a quella che era la mia sorella gemella e decisi che mi sarei comportata in modo assolutamente normale. Non era poi così strano il fatto che avessi una gemella. La nostra madre naturale era morta di parto e noi eravamo state affidate a due famiglie diverse.

Andai a farmi una doccia e infilai un paio di jeans puliti e una semplice maglietta che trovai nell’armadio. I vestiti erano tutti della mia misura. Cercai di ignorare la vocina nella mia testa che mi suggeriva che era parecchio inquietante che quella gente conoscesse anche la taglia dei miei pantaloni.

Mi asciugai i capelli e per un momento pensai di legarli. Alla fine cambiai idea, ricordandomi che erano l’unico elemento che mi distingueva da Jessica: io avevo i capelli ricci, mentre quelli di mia sorella – mi costrinsi a definirla così – se pur dello stesso colore, erano perfettamente lisci.

Svuotai il contenuto dello zainetto in un cassetto e non avendo più modo di ritardare uscii dalla stanza.

Dalla porta della stanza di fronte alla mia, la numero 8, stavano uscendo i due gemelli. Uno armeggiava con la chiave nel tentativo di chiudere la porta, mentre l’altro se ne stava col broncio e le braccia incrociate sul petto. Quello che stava chiudendo la porta si girò e mise la chiave in tasca. In quel momento, si accorse di me e mi sorrise.

«Ciao. Io sono Robb e questo è mio fratello Kevin.», disse tendendomi la mano.

Con un secondo di ritardo, capii che dovevo stringerla. «Kaitlyn», mi presentai.

Robb si voltò a guardare il fratello che se ne stava ancora appoggiato al muro tutto imbronciato. «Andiamo, almeno sii educato!», lo esortò. In risposta lui girò la testa dall’altra parte.

«Scusalo», disse Robb. «Di solito non è così maleducato. È arrabbiato perché non ho voluto vestirmi come lui. Secondo lui, così è facile che ci distinguano.»

«Non vuoi che vi distinguano?», chiesi a Kevin. Io avevo fatto il possibile perché mi distinguessero da Jessica.

«Al contrario», rispose lui sorprendendomi. «Vorrei che gli altri si sforzassero di trovare le differenze tra noi e non si basassero semplicemente su come siamo vestiti.»

Risi di quell’affermazione e della sua espressione imbronciata. «Hai ragione», dissi. «Io posso prometterti che proverò a distinguervi.»

Kevin parve rianimarsi.

«Però per i primi tempi forse è meglio che mi diate una mano», aggiunsi. «Magari vestendovi in modo diverso.»

Kevin annuì e Robb parve lanciarmi uno sguardo di ringraziamento.

Mi chiesi se gli altri avrebbero potuto confondermi con Jessica. Avevo notato alcune differenze nella forma del naso e delle labbra, ma in fondo per me era naturale. Comunque fui contenta di aver tenuto i capelli sciolti.

Mi venne in mente che non avevo idea di dove si trovasse la sala mensa e Alex non mi aveva detto nulla.

«Ragazzi, voi sapete dove dobbiamo andare per la cena?», chiesi rivolta ai gemelli.

«Sì», rispose Robb.

«Chris ce l’ha spiegato», proseguì Kevin. Chris doveva essere il loro accompagnatore.

«Vieni con noi», concluse Robb.

Non potei fare a meno di notare che completavano l’uno le frasi dell’altro. Sorrisi di quel dettaglio.

Chissà se se ne rendevano conto.

 

 

 

 

N.d.A.: La ricostruzione storica sulla guerra fredda è  in parte veritiera e in parte inventata. Il fiore citato è anch’esso inventato.

Grazie a chi sta seguendo la storia, anche da Facebook.

Futeki

 

 

 

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Capitolo 6
*** Different powers ***


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CINQUE

Different powers

 

 

 

Il potere è con te. Se gli darai forma, ti darà forza.

 (Kingdom Hearts)

 

 

 

 

La sala mensa era un enorme spazio vagamente somigliante a una sala ristorante. C’erano una decina di lunghi tavoli, ciascuno con otto posti. Al tavolo centrale c’erano seduti Jessica, la ragazza bionda e il ragazzo con gli occhi azzurri. Erano seduti tutti e tre dallo stesso lato del tavolo, quindi i gemelli si sedettero di fronte a loro e io li imitai, sedendomi accanto a Kevin. La ragazza bionda stava parlando con Jessica, ma quando noi prendemmo posto si interruppe e si presentò.

«Io sono Cassidy», disse, «ma tutti mi chiamano Cass. Non siamo riuscite a presentarci prima, visto che Johanna aveva fretta.»

«Kaitlyn», risposi semplicemente io abbozzando un sorriso. Sembrava una ragazza simpatica e a prima vista avrei detto che mi piaceva. Ispirava tranquillità ed equilibrio.

«Io sono Tom», disse invece il ragazzo con gli occhi azzurri seduto accanto a Cass. «Tanto piacere.»

Sorrisi in risposta e stavolta fu un sorriso ancora più sincero. Quel Tom aveva un’aria molto pacata. M’incupii al pensiero che lì fossero tutti così gentili, mentre io apparivo fredda e distaccata.

«Allora, come hai preso la scoperta di avere una sorella gemella?», disse Cassidy, perdendo qualche punto nella mia classifica di gradimento.

«Cass», la rimproverò Jessica. «Lasciala stare.»

«Io ancora non riesco a crederci», replicò Cassidy. «Mamma avrebbe dovuto dirtelo.»

Notando la mia espressione confusa, Jessica si affrettò a spiegare. «Sono stata adottata dalla famiglia di Cass. Purtroppo però sono venuta a conoscenza della tua esistenza giusto dieci minuti prima che tu entrassi nella Operon.»

Pensai a quanto fosse stato ancora più strano trovarsi il proprio doppio semplicemente di fronte, ma non lo dissi ad alta voce. «In effetti fa un po’ uno strano effetto. Però superato lo shock iniziale, la cosa sembra quasi divertente. Ho sempre desiderato una sorella», dissi per fare conversazione, anche se non era vero.

«Oh be’, io ho già questa rompiscatole», disse sorridendo Jessica, indicando con un cenno la ragazza al suo fianco. «Ma è davvero fico scoprire di avere una gemella.»

Robb rise piano. «Chris, il nostro accompagnatore, ha chiamato la nostra Generazione la Generazione dei gemelli. Credo che anche nella Generazione precedente ci fosse una coppia di gemelli, ma erano un maschio e una femmina.»

«Noi invece abbiamo ben due coppie di gemelli omozigoti», disse Kevin. «È…»

«Fico», concluse Robb. E di nuovo dovetti trattenere una risata nel constatare che si completavano le frasi a vicenda.

«Tu da dove vieni, Kaitlyn?», chiese Cass, evidentemente incuriosita dalla gemella della sua sorellastra.

«Ho vissuto nel Connecticut fino a un anno fa, poi mi sono trasferita a New York», risposi.

«Wow!», esplose Cass. «Devi aver fatto un lungo viaggio!» In effetti, adesso che me lo faceva notare, mi sentivo parecchio stanca per il viaggio, nonostante avessi dormito in tutto quasi nove ore.

«Voi invece?», chiesi.

«Da Sheridan, una piccola città del Wyoming», rispose Jessica.

«Io vengo dal Kansas», annunciò Tom.

«E noi dall’Arizona», concluse Robb. «Direi che eravamo sparpagliati un po’ ovunque.»

«Già», convenne Cass.

«Io invece vengo dalla Florida.» Una voce proveniente dalle mie spalle mi fece sobbalzare. Dietro di me era spuntato all’improvviso il ragazzo che era arrivato per ultimo alla presentazione. I capelli neri e arruffati, ma ciò che davvero mi colpì furono i suoi occhi. Erano di un nero tanto profondo che non si riusciva a distinguere l’iride dalla pupilla. Un folle pensiero mi attraversò la mente e immaginai che aspetto avrebbe avuto se avesse avuto gli occhi rossi. Scacciai immediatamente l’idea.

«Scusate il ritardo», disse il nuovo arrivato.

«Il gruppo è al completo, finalmente», dichiarò Robb.

«Io sono Sam», si presentò il ragazzo.

Mentre stavo ancora fissando i suoi occhi, chiedendomi se con la mia vista speciale sarei riuscita a distinguere l’iride, mi resi conto che tutti gli altri si erano già presentati. «Kaitlyn», farfugliai.

Sam mi sorrise e prese posto accanto a Tom, mettendosi proprio di fronte a me.

Proprio in quel momento, alcuni camerieri entrarono e cominciarono a servire la cena. Mi sforzai di non fissarlo più.

«Allora, ragazzi», esordì Kevin, «quali sono i vostri poteri?»

Era una domanda che mi mise un po’ a disagio, ma nessun altro a parte me parve infastidito.

«Io so controllare i campi magnetici», disse Tom. «Posso modificare la polarità degli oggetti fino a farli attrarre come fossero calamite. Naturalmente, con gli oggetti già fortemente polari è più facile.»

«Wow», esclamò di nuovo Cass.

«Io non ci ho capito un tubo», confessò Kevin.

Tom ridacchiò. «Posso far attaccare gli oggetti tra loro come calamite. Però mi riesce particolarmente facile con gli oggetti che sono già un po’ magnetici.»

«Ah, ecco. E perché prima non l’hai detto così?», borbottò Kevin. Risero tutti. «Io invece so controllare l’aria. Non abbastanza da creare uragani, certo, ma posso far alzare un leggero venticello o far volare gli oggetti più leggeri.»

«Forte», disse Jessica. «Il tuo potere è più simile al mio, rispetto a quello di Tom. Anch’io controllo un elemento: il fuoco. Posso accendere il fuoco e manipolarlo.» Buffo, visto che sua sorella invece controllava l’acqua.

Robb sbuffò. «Il mio potere è un po’ più difficile da spiegare. Io posso controllare il flusso energetico all’interno del corpo umano.»

«Flusso energetico?», chiese Tom.

Robb annuì. «Provate a immaginare: ogni singola cellula del nostro corpo produce energia, che viene poi destinata a varie funzioni a seconda delle necessità. Io sono in grado di influenzare in minima parte la produzione di energia e di controllare a mio piacere il flusso energetico all’interno del corpo. Per esempio, posso direzionare diversamente il flusso di energia destinato alle gambe in modo che resti nel busto. In questo modo, i muscoli delle gambe non ricevono carburante e non sono più in grado di muoversi.»

«Sembra un dono molto potente», osservò Jessica.

«Ovviamente non sono così forte da mantenere a lungo il controllo. Io stesso consumo molta energia quando lo faccio, quindi mi stanco in fretta.»

«E non potresti, che ne so, prelevare l’energia di qualcun altro?», chiese Cass.

«No. L’energia che possiede un corpo è quella e io non posso cambiarla.»

«L’energia non si crea né si distrugge», borbottai tra me e me e fui sorpresa del sorriso che le rivolse Robb. «Esatto», disse lui, palesemente contento che qualcuno lo avesse capito.

Arrossii. Per distogliere l’attenzione da me, feci un’altra domanda. «Puoi anche guarire le ferite?»

Robb rimase a bocca aperta. «Be’, sì. Come fai a saperlo?»

Scrollai le spalle. Lo avevo visto fare a Lucy. «Se puoi controllare il flusso energetico, ho supposto che fossi anche in grado di velocizzare il processo di rigenerazione dei tessuti.»

«Molto perspicace», disse lui. «E c’è dell’altro. Io posso amplificare i vostri poteri.»

Rimasero tutti a bocca aperta. Solo Kevin, che stava mangiucchiando un gamberetto non mostrò alcun segno di sorpresa.

«Fantastico», commentò Tom sconvolto.

«Tu che sai fare, Sam?», chiese Cass dopo che tutti si furono ripresi dallo stupore.

«So creare campi elettrici. In pratica, creo e controllo l’elettricità.»

Repressi un brivido. Lui era esattamente il tipo da cui mi sarei tenuta alla larga.

«E c’è altro», aggiunse prima che Cass dicesse qualcosa. «So valutare la conducibilità elettrica delle cose e delle persone.»

«Traduzione per i comuni mortali?», chiese Kevin.

«Sono in grado di stabilire se un corpo è adatto o meno a trasmettere energia elettrica.» Stavolta non riuscii a trattenermi e rabbrividii.

«Per esempio?» chiese Kevin.

«Per esempio confrontiamo il rame con la plastica. Tutti sanno dire che il rame è un conduttore migliore della plastica. Io però lo percepisco. E so farlo anche con le persone.»

«Cosa intendi?», chiese Robb.

«Di solito gli esseri umani hanno tutti la stessa conducibilità. Noi però siamo un po’ diversi. Nel tuo caso, Robb, percepisco chiaramente che tu potresti amplificare in minima parte un’eventuale scarica elettrica. Jessica, Tom e Kevin, invece, hanno la stessa conducibilità delle persone comuni. Cassidy invece è un caso particolare», disse, e poi rivolgendosi a lei: «Tu attutisci il flusso elettrico, è come se assorbissi l’elettricità e la scaricassi.»

Cassidy annuì. «Probabilmente è merito del mio potere», disse. «Io so controllare la terra, che è un isolante.»

«Giusto», convenne Sam.  Non mi era sfuggito che non aveva fatto il mio nome.

Sam mi guardò, come se mi avesse letto nel pensiero. «Tu invece sei diversa.» E ti pareva.

«Credo che alla minima scossa potresti sentirti male. Sei come un enorme amplificatore di energia elettrica. Come anche il ragazzo con la maglia rossa seduto al tavolo dietro di noi.»

Percorsi con lo sguardo la breve distanza che ci separava dall’altro tavolo, pur avendo già intuito di chi parlasse. Alex era l’unico con una maglia rossa, a quel tavolo. Sospirai.

«Anche in questo caso c’entra il mio potere, direi.»

Sam inarcò un sopracciglio. «Tu sei come Alex, controlli l’acqua.»

 «Sì», risposi, sorpresa che conoscesse Alex. «Io controllo l’acqua. Non posso crearla, né farla sparire. Ma posso chiamare a raccolta ogni singola goccia nei paraggi, tenerla sospesa in aria e addirittura darle una forma.»

«Fico!» Kevin non riuscì a trattenersi. «Fa’ vedere», disse spingendo verso di me un bicchiere pieno d’acqua. Non me lo feci ripetere due volte; avevo bisogno di scaricare un po’ dell’energia repressa che avevo dentro. Senza neanche sollevare la mano, mi limitai a fissare l’acqua che, obbediente, sgusciò fuori dal bicchiere. Si sollevò e cominciò a roteare in cerchio, fino a formare un disco, che si appiattì e di estese sempre di più, fino a scindersi di nuovo in tante minuscole goccioline. Tutti mi osservavano estasiati. Raccolsi di nuovo l’acqua, ma quando stavo per darle una forma particolare, quella parve opporsi. Poteva significare solo una cosa. I miei occhi corsero a Alex e i nostri sguardi si incrociarono. Alex scosse la testa in un silenzioso messaggio. Riposi l’acqua nel bicchiere.

«È stato fantastico!», esclamò Kevin.

«Sì, sei davvero brava!», commentò Cass.

Anche una donna del tavolo di Alex si congratulò. «Hai talento», disse. «Alex non era neanche lontanamente capace di fare queste cose, quando arrivò qui la prima volta.» Qualcuno al suo tavolo rise e anche il mio accompagnatore si concesse un sorriso. Eppure  mi aveva fermata. Decisi che gli avrei chiesto spiegazioni in un secondo momento.

Provai a concentrarmi sulla cena, ma mi resi conto di aver semplicemente rigirato la forchetta nel piatto senza mangiare nulla. Era dalla sera prima che non mangiavo qualcosa, ma mi si era improvvisamente chiuso lo stomaco. Scostai il piatto in preda alla nausea.

«Non mangi?», chiese Cass preoccupata.

«Ho mangiato durante il viaggio e ora non ho fame», mentii. La cena trascorse tranquilla. I gemelli parlarono un po’ della loro famiglia: avevano una sorella e un fratello minori che erano due piccole pesti. La serata trascorse in fretta e piacevolmente e alla fine tornammo tutti nelle nostre stanze. Scoprii di avere accanto Tom, a sinistra, e Jessica e Cass, che condividevano la stanza, a destra. La stanza di Sam era di fronte, accanto a quella dei gemelli. Anch’io entrai nella stanza e aspettai qualche secondo con l’orecchio sulla porta, per verificare che non si sentissero più rumori provenienti dal corridoio. Mi concentrai e usai la vista speciale per guardare attraverso il muro. I miei occhi diventarono rossi e il mal di testa si affievolì immediatamente. Il corridoio era deserto, quindi uscii. Proseguii fino alle ultime porte, fino a raggiungere quella con il numero 21. Una volta arrivata, non ero più tanto sicura di voler bussare, né avevo idea di cosa dire. Comunque, la porta si aprì senza che avessi avuto il tempo di riflettere e Alex apparve sulla soglia.

«Ciao», disse. «Vuoi entrare?»

Annuii ed entrai nella stanza. Lui era ancora vestito e a giudicare dall’asciugamano poggiato sul letto stava per andare a farsi la doccia. «Non voglio disturbarti», dissi. «Volevo solo sapere…»

«Perché ti ho impedito di continuare a manipolare l’acqua», concluse lui per me. Sospirò. «È molto semplice. I tuoi poteri sono più sviluppati di quelli degli altri per lo stesso motivo per cui i tuoi occhi diventano rossi e dei cagnacci cercano continuamente di ucciderti. E questo gli altri non devono saperlo.»

 

 

 


Futeki

 

 

 

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Capitolo 7
*** Test ***


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SEI

Test

 

 

 

Se tu dai veramente il massimo e soltanto tu lo sai veramente,

allora avrai successo e non conta se vinci o se perdi.

(John R. Wooden)

 

 

 

 

Quella notte non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a rigirarmi nel letto pensando alle parole di Alex. Mi aveva detto di mantenere il segreto sugli occhi rossi e sugli attacchi che avevo subito da parte dei cani fantasma e di mantenere un profilo basso evitando di usare al massimo i miei poteri. Non ero riuscita a ottenere una spiegazione, quindi avevo deciso semplicemente di fidarmi di Alex e di fare come mi aveva suggerito.

«Dovrò tenerlo sempre nascosto a tutti?», avevo chiesto.

«No, arriverà il momento in cui dovrai dirlo. Per la sicurezza tua e dei tuoi amici», aveva risposto lui.

«Cioè quando?»

«Lo capirai da sola.» Un’altra risposta criptica.

Una volta mi era capitato di trovarmi quegli enormi cani fantasma in casa. Per fortuna, mia madre non c’era e io me l’ero cavata con qualche graffio. Ma se fosse successo adesso, sarebbe stato difficile sbarazzarsi di otto cani senza svegliare nessuno.

Quando mi resi conto che per quella notte non sarei riuscita a chiudere occhio, mi alzai e riempii la vasca da bagno. Rimasi a mollo per un po’ e cominciai a giocherellare con l’acqua. Usare troppo poco o troppo spesso i miei poteri mi rendeva instabile. Dovevo usare il mio potere abbastanza spesso, altrimenti l’energia accumulata mi avrebbe procurato forti emicranie. In ogni caso, essere immersa nell’acqua mi faceva sentire immensamente bene.

Quando qualcuno venne a bussare alla mia porta per svegliarmi ero già pronta. Nonostante avessi trascorso una notte in bianco, il mio aspetto non era poi così terribile. Merito del riposino in auto.

Mi guardai allo specchio. Non c’era minima traccia di occhiaie. Anche i capelli erano perfettamente in ordine. Esaurite le cose da fare, uscii nel corridoio deserto e mi diressi verso la sala mensa per fare colazione.

Per fortuna riuscii a trovare la strada: avevo una fame da lupi, quindi non era proprio il caso di perdermi. Quando entrai nella stanza da pranzo non c’era quasi nessuno. La sera prima, soltanto due dei molti tavoli erano occupati, rispettivamente dal mio gruppo e da quello di Alex, la Generazione Gamma. Quella mattina, al mio tavolo non c’era nessuno, mentre a quello di Alex stavano seduti due uomini e una donna, la stessa che il giorno prima mi aveva detto di avere talento. Aveva lunghi capelli rossi e sedeva al tavolo dandomi le spalle, ma quando gli altri due mi videro entrare e mi salutarono con un cenno, anche lei si voltò, rivolgendomi un amichevole sorriso. Alex non c’era. Ricambiai il saluto e andai a sedermi al mio tavolo, occupando il posto della sera prima. Aspettai per un po’ che i miei compagni arrivassero, poi però la fame ebbe la meglio e cominciai a mangiare. La tavola era apparecchiata con cibi e bevande di ogni genere, quindi divorai un toast e lo mandai giù con una generosa sorsata di succo d’arancia. Nel frattempo, Alex e un’altra ragazza della sua Generazione avevano raggiunto il loro tavolo. Alex mi aveva detto che all’Operon c’erano soltanto cinque membri della sua generazione. Li contai: c’erano tutti. Alex mi salutò con la mano e io gli sorrisi. In quel momento, Jessica, Cass e Tom entrarono nella sala.

«Scusa il ritardo», disse Cass salutandomi. «Abbiamo perso un po’ di tempo a svegliare questo dormiglione.» Lanciò un’occhiata divertita a Tom.

«Ciao», disse lui imbarazzato. Anche Jessica mi salutò sorridendo. La loro allegria mi mise immediatamente di buon umore.

«Scusatemi, ma non sono riuscita a resistere», dissi indicando il mio piatto, che ancora conteneva i resti della colazione.

«Figurati! A quanto pare anche gli altri sono in ritardo», osservò Tom. Proprio in quel momento, la porta si aprì e i gemelli entrarono nella sala. Uno dei due era decisamente più allegro dell’altro, ma non sapevo dire quale, visto che non riuscivo a distinguerli.

«Buongiorno», disse il gemello allegro. Se avessi dovuto tirare a indovinare, avrei detto che si trattava di Kevin. «Scusate il ritardo.»

«Già, scusate il ritardo, ma sono stato costretto a perdere un quarto d’ora per convincere mio fratello a vestirci in modo diverso.»

«Senza successo», disse il gemello allegro indicando le loro magliette identiche. Era decisamente Kevin.

«Ehm, chi dei due è Robb?», chiese imbarazzata Cass. Uno sguardo di puro terrore le si stampò in viso quando entrambi risposero all’unisono: «Io.»

«Lui è Kevin», dissi indicando quello che avevo riconosciuto come Kevin. Mi aspettavo come minimo che Kevin si arrabbiasse per avergli rovinato il gioco, ma lui mi gettò le braccia al collo e mi abbracciò, felice che io l’avessi riconosciuto. Perfino Robb, che fino a quel momento era rimasto imbronciato, sorrise alla vista di tanta gioia. Anch’io sorrisi. «Te l’avevo detto che prima o poi ti avrei riconosciuto.»

Visto che non c’era traccia di Sam, iniziarono tutti a mangiare. Quando finalmente anche lui comparve, era decisamente tardi. Disse di non avere fame. Alex e i suoi compagni si alzarono dal proprio tavolo e si avvicinarono a noi, dichiarando che era ora di andare perché ci aspettava “una giornata lunga e impegnativa”. Li seguimmo e, dopo tante svolte tra i corridoi e parecchie rampe di scale in discesa – non sarei mai riuscita a ricordare la strada –, arrivammo in una stanza dove ci aspettava Johanna. Mi chiesi sinceramente se avesse dormito, quella notte.

«Salve, ragazzi», disse lei.

«Buongiorno Master», risposero in coro i membri della Generazione Gamma.

Johanna sospirò. «Vi prego non cominciate a chiamarmi così anche voi», implorò i ragazzi più giovani. Qualcuno ridacchiò.

Il vero cognome di Johanna era Masters, ma in riferimento al suo ruolo di capo dell’Operon molti la chiamavano semplicemente Master.

«Dunque», iniziò lei, «oggi è il giorno dei test iniziali. Misureremo individualmente le vostre capacità, per stabilire quanto sapete gestire il vostro potere. Ma prima, dovete capire al meglio di cosa sono capaci gli altri. Sono sicura che conosciate già alla perfezione il vostro potere, ma è importante conoscere anche quello dei vostri compagni di squadra», concluse lei. Vedendo che nessuno diceva nulla, proseguì: «Ci sono tre tipi di poteri, classificati in base al tipo di controllo: fisico, chimico e psichico. I poteri del controllo fisico sono quelli che si basano sul controllo di materia esistente, come la terra», disse guardando Cass, «l’acqua», guardò me, «e l’aria», concluse puntando lo sguardo su Kevin. Mi chiesi se riuscisse a distinguere Robb e Kevin o avesse tirato a indovinare: almeno io e Jessica avevamo i capelli diversi, mentre i gemelli erano assolutamente identici.

«Questi poteri consistono nella manipolazione fisica delle sostanze – appunto terra, acqua e aria – e voi ragazzi non potete assolutamente creare l’elemento che vi corrisponde. Se, per esempio, Cassidy si trovasse su un aereo in volo e fosse quindi troppo lontana dalla terra per controllarla, i suoi poteri non avrebbero il minimo effetto. Al contrario, il controllo chimico si basa sulla capacità di innescare reazioni chimiche. Potete accendere un fuoco», disse indicando Jessica, «generare corrente elettrica», spostò lo sguardo su Sam, «o creare campi magnetici», e indicò Tom, «ma solo se disponete dei reagenti chimici. Mi spiego meglio: Jessica è in grado di accendere un fuoco praticamente ovunque, visto che l’ossigeno è un ottimo combustibile, ma se per assurdo si trovasse in una stanza senz’aria, non potrebbe esercitare il suo potere; né Kevin potrebbe aiutarla, visto che lui stesso non può creare aria, ma soltanto manipolare quella che ha a sua disposizione», disse riagganciandosi al discorso precedente. «Mi seguite?»

Annuimmo tutti senza parlare, per non disturbare l’atmosfera che si creava ogni volta che Johanna iniziava una spiegazione. Perfino i “grandi” ascoltavano rapiti, nonostante avessero già sentito quelle cose chissà quante volte.

«La classe di poteri più complicata è quella del controllo psichico. Questo tipo di controllo agisce direttamente sugli esseri viventi, influenzandone il corpo o la mente. Si distinguono due tipi di mutazioni: la mutazione del Guaritore e quella del Telepate. I Guaritori, come te, Robb, possono influire sul corpo umano controllandone il flusso di energia.» Tutti annuimmo, dimostrando di aver capito di cosa parlasse. La spiegazione di Robb del giorno prima era stata molto chiara. «I Telepati, invece, possono leggere nella mente delle persone e, ad alti livelli, influenzarne i pensieri. Ma, sfortunatamente, il Telepate della vostra generazione, non è più tra noi», concluse Johanna guardandomi e tutti seguirono il suo sguardo, senza capire perché si rivolgesse a me. Io feci finta di nulla, ma sapevo che parlava di Ryan.

Quando Johanna annunciò l’inizio dei test, tutti si erano già dimenticati del Telepate.

Il primo fu Tom. Una donna del gruppo di Alex gli mostrò cosa fare: aveva a disposizione due pezzi di metallo con polarità opposta, che quindi si attraevano, e altri due che invece si respingevano. Lui doveva separare i primi due e unire gli altri.

Tom si concentrò. Stava in piedi davanti a un tavolo, sul quale erano adagiati i quattro pezzi di ferro. Per un po’, provò a separare quelli uniti, ma si arrese presto e passò a quelli separati. Passarono cinque, dieci minuti. Tutti tacevano. La fronte di Tom era imperlata di sudore, nonostante fino a quel momento non fosse successo nulla. Ma Tom sapeva quello che faceva. Aveva i muscoli delle braccia contratti per lo sforzo e le mani protese verso il metallo. Proprio quando parve rilassarsi, qualcosa scattò e i due pezzi di metallo sfrecciarono uno in direzione dell’altro, unendosi con un rumore secco.

«Ottimo lavoro, Tom», disse la donna.

«Grazie, Amanda.» Cercai di memorizzare il suo nome. Siccome era con Tom, ero quasi certa che avesse il suo stesso potere.

«Sì, sei stato davvero bravo», concluse Johanna scrivendo qualcosa su una cartellina arancione. «Ora riposati, sarai sfinito.»

Era bastato davvero un piccolo esercizio per stancarlo. Il suo potere doveva essere ben più complesso di quanto pensassi. Eppure anche Kevin incontrò difficoltà con il suo test. Per terra c’erano tanti fogli di carta e lui doveva semplicemente sollevarli usando il suo potere di manipolare l’aria. Sembrava un gioco da ragazzi, ma non era poi così semplice. Kevin sollevò immediatamente alcuni fogli, ma quando provava a concentrarsi sugli altri, questi gli sfuggivano, svolazzando nuovamente verso il pavimento. Dopo vari tentativi, riuscì a sollevarli tutti contemporaneamente, ma solo di pochi centimetri e solo per qualche secondo.

Alla fine, Johanna fece un cenno d’assenso e scrisse qualcosa sulla solita cartellina. L’accompagnatore di Kevin strizzò un occhio come per rassicurarlo. Doveva essere Chris, era stato lui a inventare il nomignolo Generazione dei gemelli, almeno secondo Robb.

Dopo il fratello, toccò proprio a Robb. Il suo test fu abbastanza strano da vedere. Consisteva nel manipolare il flusso energetico di Johanna secondo le sue istruzioni. Chris teneva una mano appoggiata alla spalla di Robb e l’altra delicatamente a contatto con il braccio di Johanna. Compresi che il suo potere doveva essere lo stesso di Robb. Non avevo idea di come stesse andando il test, ma dopo un po’, Johanna gli disse che poteva riposarsi e Chris lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Robb sembrava sfinito, ma soddisfatto. Anche a lui Chris riservò un occhiolino.

La prova di Jessica era molto simile a quella di Kevin. Anche per lei c’erano diversi fogli di carta sparsi sul pavimento, ma stavolta erano umidi. Lei doveva dar fuoco a tutti i fogli contemporaneamente. La sua accompagnatrice era la donna con i capelli rossi che la sera prima si era complimentata con me per il giochetto con l’acqua e quella mattina mi aveva salutata. Era abbastanza distante da Jessica e se ne stava appoggiata a una parete sulla quale spiccava un grande pulsante rosso, sovrastato dalla scritta Allarme antincendio. C’era una possibilità che Jessica perdesse il controllo e facesse davvero scoppiare un incendio, ma il sorriso che la donna rivolse a Jessica rassicurò anche me. Un paio di volte, Jessica provocò una fiammata incontrollata, suscitando così la reazione di Sara – così si chiamava la sua accompagnatrice – e l’aggrottarsi della fronte di Johanna. Quando alla fine riuscì a dare fuoco a tutti i fogli, Johanna sorrise e Sara si complimentò con lei.

Era il mio turno. Per terra era stata versata dell’acqua e di fronte a me si ergeva imponente un tabellone, dietro al quale una gigantesca molla funzionava come un dinamometro. Johanna mi spiegò che dovevo raccogliere più acqua che potevo e spingere con forza il tabellone. In base a quanto riuscivo a comprimere la molla, lei poteva misurare il mio potenziale. Alex mi mostrò come fare. Sollevando una mano, tutta l’acqua presente sul pavimento si raccolse davanti a lui e ondeggiò per qualche secondo. Poi la scagliò con tutta la forza che aveva verso il tabellone, che scattò all’indietro spinto dalla forza dell’acqua. La molla si compresse al massimo.

«Naturalmente, tu spingi quanto puoi senza preoccuparti di far arrivare il tabellone fino in fondo. Nessuno pretende che tu ce la faccia», disse Alex lanciandomi un’occhiata eloquente. Capii che non voleva che spingessi il tabellone fino in fondo. Iniziai a raccogliere l’acqua, facendo attenzione a lasciarne un po’ per terra, come se raccoglierla tutta fosse troppo difficile per me. Pazientai qualche istante, poi spinsi con poca forza il tabellone, che scattò all’indietro. La molla si compresse un bel po’, ma non al massimo, come era successo con Alex. Lui annuì soddisfatto. Guardai Johanna. Anche lei annuì e mi disse di riposarmi un po’. Mi finsi stanca, anche se non lo ero affatto e mi sedetti per terra accanto a Jessica. Dopo di me toccò a Cass, che avrebbe dovuto ripetere lo stesso esercizio usando però la terra. Riuscì a comprimere la molla molto meno di quanto avevo fatto io e alla fine era esausta. Poi venne il turno di Sam. Mi resi conto che entro pochi secondi la stanza sarebbe stata carica di elettricità e andai nel panico. Alex intercettò il mio sguardo e intuì i miei pensieri. Mi portò fuori con la scusa che sembravo pallida per lo sforzo e Johanna lo lasciò fare senza troppe domande. Probabilmente anche lei era a conoscenza dell’avversione che io e Alex avevamo per l’elettricità.

 

 

 

 

Futeki

 

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Capitolo 8
*** Paure nascoste ***


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SETTE

Paure nascoste

 

 

 

Conoscere le nostre paure è il miglior metodo

per occuparsi delle paure degli altri.

(Carl Gustav Jung)

 

 

 

 

«Grazie per avermi portato fuori», dissi a un silenzioso Alex. Lui mi rispose con un cenno. «Allora, sono stata brava?», chiesi, ben sapendo che lui avrebbe capito a cosa mi riferivo.

«Sì», rispose Alex semplicemente. Sembrava triste.

«Tutto bene?»

Lui evitò la domanda e sospirò. «Immagino di doverti delle spiegazioni.»

Non dissi nulla. In effetti volevo davvero sapere perché lui mi aveva detto di non mostrare ciò che sapevo fare, ma dopotutto avevo deciso di fidarmi di lui. Una folata di vento ci investì e rabbrividii.

Sopra l’Operon, che si estendeva per parecchi metri sotto terra, si ergeva un palazzo di tre piani che serviva come copertura. Alcune stanze erano adibite a lavori specifici, ma Alex non aveva saputo spiegarmi di più. Ci trovavamo su un ampio balcone al primo piano, con la scusa di farmi prendere un po’ d’aria in seguito al “faticoso” test a cui ero stata sottoposta.

«Non mi devi niente. Mi hai dato un consiglio e io ho deciso di seguirlo. Avrei anche potuto non farlo», risposi. Alex sembrava non avere per niente voglia di darmi spiegazioni.

Lui mi ignorò e iniziò a parlare. «C’era una ragazza, Callie, che era la Telepate della nostra Generazione. Quando arrivò all’Operon aveva appena ucciso un uomo. I poteri dei Telepati sono instabili, basta poco a farli esplodere, e Callie aveva involontariamente fritto il cervello del suo psicologo. Era sola e impaurita, e i suoi genitori credevano che fosse pazza. In seguito a quello che le era successo, i suoi occhi diventarono rossi e cominciò a essere perseguitata dai cani fantasma. Al suo arrivo, Johanna e alcuni membri dell’attuale Generazione Delta la presero in custodia e a noialtri fu detto che lei aveva bisogno di un’istruzione speciale perché aveva ucciso una persona. Naturalmente puoi immaginare la nostra reazione. Credevamo fosse un’assassina, che potesse fare del male anche a noi. Callie ebbe molte difficoltà a integrarsi nel gruppo. Ma io e lei diventammo subito amici e Callie mi confidò quanto si sentisse sola e triste tra noi, quanto si sentisse a disagio e poco accettata. Volevo solo risparmiarti la sofferenza, che ha provato lei, anche se molto probabilmente tu avresti affrontato la cosa in modo diverso.»

Non sapevo cosa dire. Mi ero aspettata tutto tranne questo. Da quando era arrivata, tutti erano stati gentili con me. Probabilmente però, se mi fossi trovata in quella situazione avrei fatto la fine di Callie. Deglutii. «Grazie», dissi ad Alex.

Lui mi sorrise. «Adesso sta a te scegliere. Ti consiglio di dire la verità a Johanna, prima o poi. Il momento più adatto puoi sceglierlo da sola, so che sarà una buona scelta.»

Annuii, ringraziandolo mentalmente per la fiducia.

«Io non sono un’assassina», dissi di getto. «Ho gli occhi rossi e ho fatto degli errori in passato, ma non sono un’assassina.»

«Lo so, Kaitlyn», rispose Alex. «Nessuno di noi lo è.»

 

 

Quando tornammo giù, i test erano conclusi e Johanna stava esponendo il programma dei giorni successivi. Uno dei soliti schermi era illuminato ed elencava una serie di attività che erano sicuramente fuori dal comune. Tra quelle più strane c’erano lezioni di Aikido – che era un’arte marziale –, Esercitazioni di tiro al poligono e Simulazioni di scontro ravvicinato; ma comparivano anche attività come Corso di storia europea o Sviluppo del potere individuale. Avevo idea che sarebbe stato molto peggio di una scuola comune.

Quella mattina iniziammo imparando a smontare e rimontare una pistola. I nostri insegnanti erano quattro uomini molto pazienti e di tanto in tanto anche Alex e il suo gruppo davano una mano. Tom fu il primo a riuscire a rimontare l’arma senza aiuto e anche io imparai in fretta. Cass sembrava essere in difficoltà, quando Sara le si avvicinò e le mostrò dove sbagliava. Nonostante fosse stata una lezione abbastanza inusuale – chi avrebbe mai insegnato a dei ragazzini a montare una pistola? –, la mattinata trascorse tranquilla e a ora di pranzo eravamo tutti affamati ma contenti di aver imparato qualcosa.

A tavola scherzammo e ridemmo a crepapelle e fui contenta di non aver detto niente dei miei occhi e dei cani fantasma. Johanna ci concesse un pomeriggio libero, visto che quella mattina avevamo eseguito i test, perciò ne approfittammo per fare un giro in città. Seattle era davvero bellissima. Nonostante fosse pomeriggio, c’era poca gente per strada e nell’aria c’era un forte odore di salsedine. Vagammo un po’ per la città, poi ci rifugiammo in un parco, sdraiandoci sull’erba sotto gli ultimi raggi di sole della giornata.

«Ho un’idea», annunciò improvvisamente Cass. «Che ne dite di fare un gioco? Così, tanto per conoscerci meglio.»

«Che tipo di gioco?», chiese Kevin, allegro alla prospettiva di qualcosa di divertente.

«Ognuno di noi prova a indovinare di cosa hanno paura gli altri. Per esempio: indovinate di cosa ho paura io.»

Decisamente, io detestavo quel gioco. Ma evidentemente agli altri piaceva. Iniziarono tutti a proporre le più comuni fobie: paura degli insetti, dei ragni, del buio. Jessica pose fine alle loro congetture dichiarando: «Ha paura di volare. Detesta gli aerei e qualsiasi cosa la porti lontano da terra.»

Cass si imbronciò. «Non vale, tu lo sapevi già!»

Tutti scoppiarono a ridere. «Avrei dovuto pensarci», disse Robby. «Dopotutto, tu controlli la terra.»

Mi riscossi a quell’affermazione. Forse non era poi così strano che avessi paura dell’elettricità.

«Indovinate di cosa ho paura io», esclamò Kevin.

«Sei claustrofobico», decretò Sam.

Kevin rimase a bocca aperta. «Giusto.» Sam sorrise e scrollò le spalle, poi mi rivolse un’occhiata. Aveva capito qual era la mia paura. Evidentemente, Sam aveva intuito la relazione tra paura e potere di ciascuno di noi.

Com’era prevedibile, venne fuori che Jessica aveva paura del mare agitato. Robby e Tom non avevano paure specifiche come gli altri, probabilmente perché non c’era nessun tipo di paura riconducibile al loro potere.

M’irritai nel constatare quanto profondamente fossero radicate in noi quelle mutazioni che avevamo subito alla nascita. Anche Sam dichiarò di non avere paura di qualcosa in particolare, quindi pensai di potermela cavare dicendo la stessa cosa; ma un’occhiataccia di Sam mi impedì di mentire. Riflettei alla svelta cercando di capire di cosa avessi paura oltre all’elettricità, così avrei potuto dire la verità senza confessare quella mia insensata e imbarazzante debolezza.

Di cosa ho paura? Dei cani fantasma, fu quello il mio primo pensiero.

Decisi, allora, di distorcere un po’ la verità. «È inutile che proviate a indovinare, è abbastanza difficile. Io ho paura delle cose che non si vedono, quelle che non si possono controllare.» L’avevo detto con una tristezza tale che calò il silenzio. «Oh, andiamo, stavo scherzando», dissi alzandomi. Non avevo intenzione di rovinare l’umore allegro di quella giornata. Vagammo ancora un po’ per Seattle, poi, una volta esausti, tornammo alla base passando per la libreria.

Ci rifugiammo nelle nostre stanze per prepararci per la cena; una volta pronta, uscii dalla camera, ma decisi di fare una piccola deviazione. Percorsi i corridoi per quasi mezz’ora, senza trovare ciò che cercavo. Alla fine, mi arresi e usai i miei occhi speciali per guardare attraverso i muri. Finalmente, raggiunsi l’infermeria. Bussai alla porta e una voce dall’interno mi disse di entrare.

Lucy era in piedi di fronte a un armadietto pieno di medicinali e sembrava intenta a cercare qualcosa. Quando entrai, mi rivolse un caloroso sorriso e mi salutò gentilmente.

«Come va la gamba, tesoro?», chiese.

«Molto meglio, grazie. Ma temo che non sia ancora guarita del tutto. Ha ripreso a farmi male.»

«Vieni, fammi dare un’occhiata.» Mi sedetti sul lettino e Lucy rimosse la fasciatura che aveva fatto il giorno prima. La gamba era gonfia e i segni erano arrossati. Era la ferita più grave che i cani fantasma mi avessero mai provocato. Lucy la studiò un po’, poi la disinfettò e la fasciò di nuovo con garze pulite.

«Grazie mille», dissi.

«Oh, non devi assolutamente ringraziarmi, faccio il mio dovere.» Lucy mi rivolse un sorriso raggiante. «Se c’è qualche altra cosa che posso fare per te, non esitare a chiedere.»

«In effetti ci sarebbe», dissi sovrappensiero. «Non avresti per caso qualcosa che possa aiutarmi a dormire? Tipo, non so, un sonnifero?»

«Oh, certo», rispose Lucy tirando fuori dall’armadietto una piccola scatola arancione. Me la lanciò e la presi al volo. «Due di quelle prima di andare a letto e avrai un sonno lungo e senza sogni. Ma mi raccomando», aggiunse poi con espressione triste. «Non prenderle quando aspetti i cani fantasma. Se ti trovassero immersa in un sonno profondo potrebbe essere pericoloso. Dico solo… non farti trovare impreparata, ecco.»

Mi impietrii sentendole pronunciare quelle parole. Lei sapeva, era ovvio. Annuii e ringraziai ancora una volta, poi uscii dall’infermeria. Passai per la mia stanza per lasciare la scatoletta sul comodino, poi mi avviai verso la sala mensa. Ero in ritardo per la cena. Quando arrivai al tavolo, infatti, gli altri stavano già mangiando e mi guardarono con aria colpevole. Alzai le mani. «È colpa mia, ho fatto tardi.»

«Visto che non sono l’unico ritardatario?», disse Tom rivolgendosi a Cass. Lei si limitò a ridere. Anche io risi; Tom sembrava irradiare allegria. Mi sedetti a tavola e mangiucchiai qualcosa. Sentivo che iniziavo a conoscere meglio gli altri, ora che avevo passato un po’ di tempo con loro. Cass era sempre molto vivace, al contrario di Jessica, che era più tranquilla. Tom faceva venir voglia di sorridere anche solo guardandolo. Kevin e Robby erano divertenti e spontanei e perfino Sam, che mi incuteva timore per via del suo potere, era sempre gentile. Mi chiesi per la prima volta come apparissi agli occhi degli altri.

Dopo cena, tornai nella mia stanza e riflettei per un po’ sulla questione del sonnifero ricevuto da Lucy. Da un lato, le sue parole mi avevano scossa e temevo davvero che potessero arrivare i cani fantasma mentre ero profondamente immersa nel sonno. Dall’altro, ero davvero esausta e non avevo voglia di lottare contro gli incubi che da un po’ di tempo mi assillavano tutte le notti. Alla fine, mi arresi al desiderio di un lungo sonno tranquillo, presi il sonnifero e andai a dormire.

Quando la mattina dopo aprii gli occhi, quasi non riuscivo a credere alla piacevole sensazione di tranquillità che provavo. Ero perfettamente riposata, cosa che non mi accadeva da un po’. Mi stiracchiai e mi misi in piedi. Dopo la solita doccia, mi vestii e mi diressi verso la sala mensa, incontrando Cass e Jessica lungo i corridoi. A colazione, tutti si chiedevano che cosa avremmo fatto quella mattina. Kevin era convinto che avremmo iniziato con le arti marziali – l’idea gli piaceva parecchio – mentre Cass sosteneva che la cosa più utile sarebbe stata imparare a usare un’arma. Mi dichiarai neutrale, per non suscitare la rabbia di nessuno dei due miei amici, ma in segreto sostenevo Cass. Mi sarebbe piaciuta un’esercitazione al poligono. Alla fine, rimasero entrambi delusi quando ci venne spiegato che ci saremmo allenati con i nostri accompagnatori per controllare al meglio il nostro potere. L’idea mi piaceva, visto che questo significava che avrei trascorso la mattinata con Alex. Lui e il suo gruppo accompagnarono noi ragazzi attraverso il dedalo di corridoi fino a un enorme ascensore. Entrammo tutti insieme e la donna dai capelli  corvini – Amanda, ricordai, l’accompagnatrice di Tom – spiegò che in quel momento ci trovavamo al Livello 0, il piano base dell’Operon che si trovava già sottoterra. Sopra di noi, i piani del palazzo erano numerati normalmente come Piano 1, Piano 2 e Piano 3, mentre i livelli sotterranei erano numerati al contrario: man mano che si scendeva, si passava dal Livello 1 al Livello 2 e così via.

Arrivammo al Livello 3, chiamato anche Livello di addestramento, come spiegò Alex, proprio perché le varie stanze di quel piano erano specializzate per i vari tipi di addestramento. A quel punto ci separammo e io seguii Alex all’interno di una stanza non troppo grande al centro della quale c’era una piccola piscina. Alex mi spiegò che secondo il programma di addestramento, quel giorno avrei dovuto imparare a raccogliere più acqua possibile e a migliorarne il controllo.

«Devi essere in grado di farne qualsiasi cosa», spiegò Alex. «La prendi e la controlli. Oggi lavoreremo per migliorare il tuo controllo delle grandi masse d’acqua. Poi nei prossimi giorni ci occuperemo della potenza.»

Annuii e mi preparai a svolgere i miei esercizi. Senza troppi problemi, riuscii a raccogliere tutta l’acqua della piscina e la tenni per un po’ sospesa in aria. Cominciai a farla roteare su se stessa per acquisirne meglio il controllo e poi tentai di darle una forma sferica. Era la prima volta che controllavo tanta acqua tutta insieme, ma non era troppo difficile. Alex sembrava molto soddisfatto del mio lavoro. Cominciò a darmi istruzioni e dirmi come manipolare l’acqua. Seguendo ciò che lui mi chiedeva di fare, divisi l’acqua in quattro sfere più piccole e poi diedi a ognuna una forma diversa. Alex rise nel constatare che ero già perfettamente in grado di svolgere quegli esercizi, quindi mi propose un allenamento più costruttivo.

«Cioè?», chiesi, non riuscendo a immaginare cosa volesse farmi fare.

Alex sorrise. «Vieni, ti insegno a sparare.»

 

 

 

 

Futeki

 

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Capitolo 9
*** Verità ***


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OTTO

Verità

 

 

 

Chiunque voglia sinceramente la verità

è sempre spaventosamente forte.

(Fëdor Dostoevskij)

 

 

 

 

Il poligono si trovava poco distante dalla stanza in cui ci eravamo allenati prima. Mi rigirai per un po’ la pistola tra le mani, indecisa sulla mano con cui avrei dovuto impugnarla. Non ero completamente mancina, ma molte cose mi riuscivano meglio con la sinistra.

I miei dubbi svanirono quando, tenendo la pistola nella mano sinistra, Alex mi si avvicinò ed esclamò contento: «Ottimo, anche io sono mancino.»

Mise la sua mano sopra la mia per mostrarmi a che altezza tenere la pistola. Quando premetti il grilletto fui sorpresa di trovarlo estremamente poco resistente. Il colpo partì con una forza tale che la pistola rimbalzò all’indietro, poi il proiettile si conficcò nel bersaglio, anche se era ancora abbastanza lontano dal centro. Come inizio, però, non era affatto male.

«Buono», disse Alex. «Ma devi concentrarti di più sulla mira. Tieni il braccio fermo, o rischi che la pistola ti finisca in faccia.»

Sparai di nuovo, questa volta concentrandomi sul cerchio giallo al centro del bersaglio. Ci andai vicino.

«Meglio. Ma se ti concentri puoi fare di più.»

Stavolta, mi isolai per un secondo da tutto il resto, prima di sparare. Valutai la distanza che mi separava dal bersaglio, l’altezza del mio braccio, la potenza del colpo. Poi, senza attendere oltre, sparai di nuovo. E centrai il bersaglio. Sparai ancora. Centro. E ancora, e ancora. Centro, centro di nuovo.

«Bravissima», disse Alex. «Ma devi imparare a sfruttare la tua mira perfetta», disse mettendomi un dito sulla fronte, «senza che i tuoi occhi diventino rossi.»

Non mi ero neanche resa conto che i miei occhi fossero cambiati. Mi concentrai per farli tornare alla normalità.

«Non devo usare gli occhi rossi?», chiesi.

Alex scosse la testa. «Si chiama Vista di fuoco. Ma è un nome un tantino teatrale, quindi io la chiamo Vista e basta. Puoi sfruttarla quanto vuoi, direi che è abbastanza utile, ma devi fare in modo che i tuoi occhi non diventino rossi. Se ti concentri, puoi farcela.»

«Ma perché? Insomma, le persone neanche se ne accorgono!» Non feci in tempo a sentire la risposta di Alex, che Tom e Amanda, la sua accompagnatrice, entrarono nella sala del poligono.

«Ci era parso di sentire sparare», disse Amanda con voce gentile. «Ero sicura che fossi tu.» Lanciò uno sguardo a Alex. «Allora ho pensato: perché non insegnare ai nostri giovani ragazzi il nostro simpatico esercizio? Dopotutto è un’idea che merita di essere tramandata alle giovani generazioni.»

Una scintilla divertita balenò negli occhi di Alex. «Ottima idea. Facciamo prima una dimostrazione pratica?» Alex prese la pistola e si posizionò al mio posto. Amanda si mise al suo fianco, dando le spalle alla parete laterale per puntare lo sguardo sull’arma.

«Ciao Kaitlyn», mi salutò Tom con un sorriso. Gli rivolsi un cenno amichevole.

Alex sparò tre colpi in rapida successione e tutte e tre le volte centrò il bersaglio. Il mio sguardo corse ai suoi occhi, aspettandomi quasi di vederli rossi, ma ovviamente non era così. La bravura di Alex era semplicemente da attribuire ad anni e anni di duro allenamento.

«Sei sempre eccezionale», commentò Amanda. «Ora facciamo vedere l’esercizio», disse sollevando una mano. Alex sparò di nuovo, ma questa volta il proiettile mancò completamente il bersaglio. Sorrise soddisfatto e mi passò la pistola.

«Ecco cosa dovete fare: tu, Kaitlyn, sparerai una serie di colpi, sforzandoti di centrare il bersaglio. Tu, invece», disse rivolgendosi a Tom, «devi fare in modo che lei non ci riesca deviando il proiettile prima che raggiunga il bersaglio.»

«Ho capito», disse Tom. «A sentirlo e a guardare voi sembra facile», aggiunse senza troppa convinzione.

«Un’ultima cosa», disse Alex lanciandomi qualcosa. «Mettili, non si sa mai.» Erano occhiali protettivi arancioni, perfetti per nascondere gli occhi rossi. E bravo Alex.

Li infilai e mi preparai a sparare. Sparai un paio di colpi di prova e Amanda si congratulò con me: «Hai una bella mira», disse sorpresa.

Tom prese posto accanto a me, dove prima stava Amanda e sollevò la mano proprio come aveva fatto lei.

A un suo cenno, sparai e il proiettile raggiunse il centro del bersaglio senza problemi.

«Riproviamo», disse Tom. Annuii.

Due ore e mezza dopo, eravamo ancora nella stessa posizione. Io mi sforzavo di usare la Vista mantenendo i miei occhi al loro stato naturale, mentre Tom si sforzava di deviare il proiettile. Mi faceva male il braccio, ma non osai lamentarmi, visto quanto sembrava stanco Tom.

Alla fine, lui crollò a terra esausto. «Sono sfinito», annunciò. «Ho bisogno di una pausa.

Amanda scosse il capo. «Ce l’avevi quasi fatta. Il campo magnetico è buono, devi solo intensificare la forza.»

Tom non disse nulla. Si rimise in piedi e mi fece cenno di sparare ancora. Un altro centro.

«Ancora», disse lui. «Per favore.»

Vedevo la sua determinazione, ma capivo anche che stanco com’era non sarebbe mai riuscito a completare quell’esercizio. Di proposito, allora, sparai un altro colpo, che mancò di un paio di centimetri il centro.

«Molto bene», disse Amanda che evidentemente credeva che fosse stato Tom a deviare il colpo. «Direi che per oggi può bastare. Andate a riposarvi un po’, è quasi ora di pranzo.»

Annuimmo. Alex mi diede una pacca amichevole sulla spalla e poi uscì seguito da Amanda. Tom sospirò, ma non disse nulla. ci dirigemmo insieme verso le nostre stanze e quando Amanda e Alex furono abbastanza lontani da non poterci sentire, Tom finalmente parlò. «Grazie per avermi aiutato», disse con la sua voce gentile.

«Figurati. Anch’io ho fatto un po’ di esercizio. È stato un piacere», risposi.

«Non mi riferivo all’esercitazione in generale. Ti ho ringraziato per aver sbagliato di proposito l’ultimo colpo per far sembrare che io avessi deviato il proiettile», specificò lui.

«Io non ho fatto proprio niente. Probabilmente non ti sei neanche accorto di avercela fatta.»

«No, invece. Sei stata tu», insisté.

«Forse ho sbagliato io il colpo. Ma non l’ho fatto di proposito.»

«Non ci credo. E non ci credi neanche tu. Comunque non importa, ci vediamo a pranzo», disse dirigendosi verso la sua stanza. Entrai nella mia camera leggermente irritata. Non gli avrei mai confessato di averlo aiutato, non era da me. Mi vestii in fretta e andai a pranzo.

Quel pomeriggio avevamo la nostra prima lezione di storia europea. Mi era sempre piaciuta la storia,  quindi ero abbastanza entusiasta all’idea di studiare qualcosa che mi era già familiare, ma quasi nessun altro la pensava come me. Ci sedemmo intorno a un tavolo in una piccola stanza del Livello 3, dove un uomo calvo e con gli occhiali ci stava aspettando. Si presentò come il signor Turner, il nostro insegnante di storia. Chiacchierò per qualche minuto sull’utilità di conoscere gli eventi del passato, soprattutto quelli che facevano riferimento alla Russia, paese contro il quale eravamo in guerra, e alla fine ci diede qualche notizia sul programma di storia che avremmo svolto. Ci consegnò dei fogli con delle domande a cui rispondere per testare il nostro grado di preparazione.

«Il gioco di squadra è importantissimo nel vostro lavoro e spesso è la soluzione ad ogni problema. Ma le domande  che vi ho consegnato sono tutte diverse», disse con soddisfazione. «Quindi non cercate di copiare le risposte dai vostri compagni.» Con un sorriso, poi, ci congedò. Diedi una rapida occhiata alle domande sul foglio e mi resi conto di non conoscere più della metà delle risposte.

«Mi sembra di essere tornata al liceo», si lamentò Cass mentre aspettavamo l’ascensore. Ridacchiai, ma in cuor mio anche io iniziavo a preoccuparmi.

Dopo cena, crollai a letto sfinita. Ogni volta che usavo la Vista o i miei poteri spendevo molte energie, al punto che quella sera ero stanca morta.

La mattina dopo, un uomo simpatico sulla trentina ci spiegò che quella mattina si sarebbe tenuta la nostra prima lezione di aikido. Il nostro insegnante, il maestro Foster, continuava a definire l’aikido “una disciplina che conduce all'unione ed all'armonia con l'energia vitale e lo spirito dell'Universo”, ma solo quando non era troppo impegnato a rimproverarci per una posizione scorretta. Sembrava particolarmente soddisfatto di Jessica, visto che continuava a elogiare i suoi movimenti. Io invece non ero per niente brava. A fine lezione, ero esausta e spazientita.

Quel pomeriggio, andammo tutti insieme al poligono per imparare a usare una pistola. Come insegnanti, c’erano Alex, l’accompagnatore di Sam – l’unico della sua Generazione di cui ancora non conoscevo il nome – e una donna che non aveva mai visto prima. Mentre gli altri ricevevano le prime istruzioni su come impugnare una pistola, io cercai di passare inosservata e mi misi a sedere vicino alla postazione di Tom. Era piuttosto bravo. Non fece sempre centro come avevo fatto io il giorno prima, ma lui non aveva la Vista. In ogni caso, non mancò mai il bersaglio. Alex mi vide rannicchiata a terra, ma non disse nulla. Alle cinque, come sempre, le lezioni terminarono e noi ragazzi fummo rispediti nelle nostre stanze. Nell’ascensore, Kevin e Jessica stavano parlando del questionario di storia e mi resi conto che neanche loro erano sufficientemente preparati per rispondere a quelle domande.

Dissi anch’io che conoscevo solo una minima parte delle risposte e che per il resto non sapevo proprio come fare.

Prima di cena, presi l’ascensore e salii al primo piano per prendere un po’ d’aria. Era abbastanza strano restare continuamente sotto terra. Tornai sul balcone dove Alex mi aveva portata due giorni prima e ci trovai Tom.

«Ehi», mi salutò lui.

«Ciao.»

«Senti, scusami per ieri, sono stato troppo duro con te. Avevo i nervi a fior di pelle per aver usato tanto il mio potere», disse lui.

«Figurati, non c’è problema. Ti capisco benissimo», risposi.

Lui mi sorrise e aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu interrotto da un motivetto allegro proveniente dalla sua tasca. Tom estrasse il cellulare dai jeans, diede una rapida occhiata allo schermo e poi mi rivolse uno sguardo di scuse. «Devo proprio rispondere», disse.

«Fai pure, non c’è problema», dissi sorridendo. In quel momento realizzai di non avere più il mio cellulare. Avrei dovuto telefonare a mia madre appena possibile e magari anche a Tin, visto che non l’avevo neanche salutata prima di andar via. Nei giorni successivi avrei cercato di procurarmi un cellulare. Nel frattempo, Tom aveva finito di parlare al telefono ma continuava a osservare il piccolo apparecchio argentato che aveva in mano con aria preoccupata.

«Non mi abituerò mai a usare questo affare», dichiarò. A una mia espressione confusa, riprese a parlare. «Me l’hanno dato qui all’Operon, il mio cellulare lo hanno preso in custodia per motivi di sicurezza. Credo che abbiano anche smagnetizzato la sim.», disse con un sospiro. «Però posso soltanto chiamare i miei genitori o ricevere chiamate da loro, oppure chiamare la base.»

«Sembra abbastanza limitato», osservai.

«Già», aggiunse lui. «Ma è meglio di niente. E poi mio fratello ha già combinato qualcosa per potermi chiamare. Era lui, poco fa. Mi ha chiamato dal suo cellulare, cosa che non dovrebbe essere possibile, eppure ci riesce. Ha provato a spiegarmi come ha fatto, ma io non ci ho capito nulla, quindi mi sono limitato a seguire le sue istruzioni per dargli accesso al mio telefono e farglielo sbloccare. In famiglia è lui il genio, credo che abbiano preso il fratello sbagliato.» Scoppiai a ridere e anche Tom fece un grande sorriso.

«A te non hanno preso il cellulare?», chiese lui.

«Sono venuta senza. E non ne ho ancora chiesto uno», risposi semplicemente.

«La tua famiglia sarà preoccupata», osservò Tom.

Scrollai le spalle. «A te va tutto bene? Sembravi agitato.»

Tom sospirò. «Io ho due fratelli, uno più grande, il genio, e uno più piccolo, Kit, che si caccia sempre nei guai. Stamattina, quando ho chiamato mia madre, non ha voluto passarmi Kit dicendo che era in bagno, ma io ho capito dalla sua voce che qualcosa non andava. Così ho chiesto spiegazioni a Will, il mio fratello maggiore, che mi ha detto che mi avrebbe richiamato quando non ci fosse stata nostra madre. Adesso mi ha spiegato che Kit è in ospedale, si è fatto male cadendo dallo skateboard. Mia madre non voleva dirmelo per non farmi preoccupare», disse con voce triste.

«Mi dispiace. Come sta adesso?», chiesi; da come ne parlava, era evidente che Tom era molto legato ai suoi fratelli. Non riuscii a respingere l’ondata di tristezza che mi travolse pensando a Ryan.

«Ora sta bene, non era niente di grave. Però avrei voluto saperlo, sono abbastanza grande da poter gestire questo genere di cose», rispose lui.

Annuii. «A volte però la verità non è piacevole.»

«Piacevole o no, preferirei sempre sapere le cose come stanno. Non voglio che siano gli altri a decidere per me.»

Riflettei un secondo e poi mi dichiarai d’accordo. «Allora io ti dirò sempre la verità», dissi, ma me ne pentii immediatamente, rendendomi conto che mentivo ogni volta che non dicevo ai miei compagni dei cani fantasma.

Tom mi regalò un immenso sorriso. «Lo stesso vale per me.»

Non potei fare a meno di sorridere a mia volta.

«Allora dimmi, è vero che hai sbagliato di proposito l’ultimo colpo, ieri al poligono?», chiese lui scherzosamente.

Scoppiai a ridere.

 

 

 

 

Futeki

 

 

 

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Capitolo 10
*** Hellbound ***


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NOVE

Hellbound

 

 

 

Sulla via per l'inferno c'è sempre un sacco di gente,

ma è comunque una via che si percorre in solitudine.

(Charles Bukowski)

 

 

 

 

Nel sogno avevo la visuale coperta dalla nebbia. Vagavo per un campo abbandonato alla ricerca di qualcosa. Mi venne in mente che se avessi usato la Vista avrei potuto vedere attraverso la foschia. Chiusi gli occhi e mi concentrai. Quando sentii che stavano diventando rossi li riaprii. Proprio di fronte a me c’era un enorme cane fantasma, alto quanto me. I suoi occhi cremisi erano identici ai miei. Spalancò le fauci e si lanciò verso di me.

Mi svegliai di soprassalto. Avevo la fronte imperlata di sudore. Andai nel bagno a sciacquarmi il viso e mi resi conto che se non mi fossi tranquillizzata un po’ non sarei mai riuscita a riprendere sonno. Visto che non avevo altre idee, decisi di fare un giro per la base.

Scesi fino al Livello 3, sperando di ritrovare qualcuna delle stanze in cui ero già stata. Passai di fronte al poligono, ma sapevo di non potermi mettere a sparare a quell’ora senza rischiare di svegliare qualcuno. I corridoi del Livello 3 erano deserti, ma al Livello 2 c’erano alcune sale operative piene di persone che lavoravano giorno e notte.

Arrivai a una porta su cui spiccava la scritta “BIBLIOTECA”, scritta a caratteri dorati, come quella dell’infermeria. Spinsi la porta ed entrai in una stanza enorme, piena di scaffali alti almeno tre metri e pieni di libri. Cercai di leggere alcuni titoli e mi resi conto che erano quasi tutti di autori europei. Su un tavolino lì vicino c’era un libro dalla copertina verde, che era stato sfogliato parecchie volte, a giudicare dallo spessore che aveva assunto.

Lessi il titolo un po’ scolorito: L’Inferno di Dante Alighieri. Nonostante la mia grande passione per la lettura, non amavo lo studio della letteratura scolastica; tuttavia, conoscevo Dante Alighieri e la sua opera, sebbene non l’avessi mai studiata approfonditamente.

Mentre sfogliavo le prime pagine, un ringhio basso e profondo attirò la mia attenzione. Prima ancora che mi voltassi, i miei occhi infuocati avevano percepito che il cane alla mia destra stava tentando di colpirmi con una zampata. Mi difesi con il libro, poi mi voltai e corsi a perdifiato fuori dalla biblioteca.

I cani mi inseguirono attraverso i corridoi mentre io cercavo di ritrovare la stanza in cui mi ero allenata con Alex. Non riuscendo a trovarla, mi accontentai dell’ampia stanza dove avevamo svolto i test e mi diressi verso l’allarme antincendio. Premetti il pulsante rosso con più forza del necessario. Mentre una sirena iniziava a suonare dal soffitto iniziò a scendere dell’acqua, pronta a spegnere un fuoco che in realtà non c’era. Ne approfittai e feci fuori tre cani. Altri due spuntarono poi dal corridoio, dirigendosi verso di me con una furia tale che pensai che sarebbe bastato un loro colpo per uccidermi. Fortunatamente, c’era abbastanza acqua da eliminarli entrambi.

Affannata e zuppa, mi voltai verso l’ingresso. Invece di un altro enorme cane, nella stanza entrò Sam.

Mi fissò con un sopracciglio inarcato e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. «Ce ne dobbiamo andare da qui», disse. «Se scoprono che hai attivato tu l’allarme finirai nei guai.»

Io non risposi, né mi mossi, quindi lui si avvicinò a me, mi prese gentilmente per un braccio e mi trascinò fuori.

Mentre mi trascinava su per le scale riflettei sulla situazione. Forse non aveva visto nulla, forse non avrebbe fatto domande. Magari avrei ancora potuto mantenere il mio segreto. Avrei potuto dire che non avevo sonno e avevo fatto un giro per la base e che per sbaglio avevo premuto l’allarme antincendio mentre cercavo l’interruttore della luce. La prima parte della storia era vera. Mi accorsi che Sam mi stava spingendo in camera sua invece di portarmi nella mia. Non dissi nulla, conscia che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in lacrime.

Mi fece sedere sul suo letto, come se fossi una bambina di cinque anni in stato di shock. Il che probabilmente era proprio quello che sembravo.

La sua stanza era molto simile alla mia, ma più personalizzata. C’erano un paio di poster sulle pareti e alcuni CD sparpagliati sulla scrivania. Sam prese una sedia e si mise a sedere di fronte a me. Seguendo il suo sguardo, mi accorsi che tenevo ancora il libro stretto tra le mani e lo lasciai cadere sul letto. Lui mi fissò preoccupato, poi finalmente parlò: «Sei ferita?»

Scossi la testa. Poi ricordai la storia di copertura. «Stavo cercando… per sbaglio ho premuto…»

«Lascia stare Kait, so cosa è successo, vivo qui da molto più tempo di tutti voi. Non cercare di rifilarmi bugie.»

«Non era una bugia! Stavo solo…»

«Ho sentito dei rumori che suggerivano una lotta.»

«No, ti sbagli», insistei. Ma prima che potessi continuare, Sam prese il libro e lo girò. Sul retro della copertina, tre enormi segni erano rimasti dopo che mi ero protetta con il libro dagli artigli del cane. Mi guardò come se quella fosse una prova sufficiente a convincermi che lui sapeva come stavano realmente le cose. Forse era davvero così.

«Ti hanno attaccato i cani fantasma», disse. Non era una domanda.

Non risposi, quindi lui prese il mio silenzio per una conferma.

«Da quanto tempo ti cercano?», mi chiese.

Non avevo più motivo di mentire, era ovvio che lui sapeva. «Un anno circa.»

«Caspita!», esclamò lui. «E non l’hai detto a nessuno? Johanna, Alex?»

«Solo Alex lo sa», risposi.

«E ti ha consigliato di non dirlo a nessuno, suppongo.»

«Aveva torto?», chiesi con aria di sfida.

«Solo in parte. Conoscendo la verità, Johanna avrebbe fatto in modo che imparassi a difenderti. Comunque non importa. Se te la sei cavata finora vuol dire che sai quello che fai.»

«Voleva essere un complimento?»

«Solo una constatazione», replicò lui. «Sai perché ti cercano, vero?»

«Suppongo che vogliano uccidermi. Finora hanno tentato in tutti modi di farlo e ci sono quasi riusciti.»

«Sì, vogliono ucciderti. La vera domanda è: perché? Cos’hai fatto per meritarlo?»

Non risposi. Sam mi guardò per qualche istante, poi sospirò. «Sono arrivato qui un anno e mezzo fa. Johanna mi ha salvato la vita. Ero stato condannato a morte per pluriomicidio con aggravanti.»

Sobbalzai. Lui mi guardò in tralice. «Non sono un assassino» disse. Sembrava sincero. Nemmeno io ero un assassina, anche se poteva sembrare il contrario.

«Lo sai che in Florida se vieni condannato a morte puoi scegliere in che modo morire?», disse divertito. «Avevo scelto la sedia elettrica.»

Mi scappò un sorriso. Per lui che controllava l’elettricità doveva essere un momento piacevole, più che una condanna a morte.

«Quando Johanna mi portò qui, credeva davvero che avessi ucciso qualcuno. Pensava che avessi la Vista e che i cani fantasma mi cercassero. Ci misi due mesi per convincerla che non era così. Alex mi aiutò a farle aprire gli occhi. I miei genitori e mio fratello Harry sono morti in un incendio che ha distrutto casa mia. Io ero a casa di un amico. Avevo litigato con i miei quel pomeriggio, quindi avevo preferito andarmene. Le ultime parole che ho detto alla mia famiglia non sono esattamente belle da ricordare.»

«Mi dispiace», dissi sinceramente.

«La cosa peggiore fu che mi considerarono colpevole. Non so quali incompetenti fecero le indagini, ma siccome secondo loro avevo un movente, non fu difficile convincere il giudice della mia colpevolezza. Alex ricordò a Johanna che se avessi ucciso qualcuno con il mio potere e poi dato fuoco alla casa per nascondere le tracce avrei dovuto avere i cani alle calcagna, mentre per oltre due mesi non se n’era fatto vivo nessuno.»

Ascoltai in silenzio la sua storia e capii che doveva averne passate tante anche lui. Io però, al contrario di Sam, non ero così innocente. Decisi che si meritava la verità. Glielo dovevo perché nonostante tutto, lui mi aveva aiutato.

«Kaitlyn», mi anticipò lui. «Qual è la tua storia? Se hai quegli occhi significa soltanto una cosa.»

Non volevo che lo dicesse, ma non feci nulla per impedirgli di pronunciare le parole che seguirono: «Hai ucciso qualcuno.»

«Sì», risposi. «Ma non giudicarmi male.»

«Non lo sto facendo, voglio prima conoscere la tua storia. So cosa si prova a dare l’impressione sbagliata.»

Annuii. «Sai che sono stata adottata. Mia madre è morta dando alla luce me e Jessica e di mio padre si sono perse le tracce. Sono stata affidata a un’altra famiglia, come Jessica. I genitori biologici di Cass hanno adottato anche lei, ritrovandosi così due bambine speciali. Anche io fui adottata da una famiglia in cui c’era già uno di noi. Ryan era mio fratello ed era un Telepate. Siamo cresciuti come se fossimo davvero gemelli, perché anche se io ero stata adottata, vivevamo in simbiosi, condividendo tutto, perfino il compleanno.»

«Siamo nati tutti il 24 dicembre del 1993», disse Sam.

Io annuii. «Il 18 settembre dell’anno scorso eravamo seduti in macchina, lui alla guida io al suo fianco. Fu un incidente terribile. Il conducente dell’altra macchina era ubriaco e ci venne addosso. Io mi salvai e mio fratello no. Nessuno si spiegò come. I tre nell’altra macchina ne uscirono illesi. Furono arrestati, ma mio fratello intanto non c’era più. Un mese dopo erano di nuovo tutti e tre a piede libero. Li incontrai in un vicolo buio in un giorno di pioggia. Persi il controllo. Senza rendermene conto li uccisi. Lasciai lì i cadaveri e tornai a casa. La mattina dopo avevo gli occhi rossi e i cani fantasma alle calcagna.»

Conclusi il mio racconto con un’involontaria nota di drammaticità. Sam non disse nulla.

«Pensi che io sia un’assassina?», gli chiesi senza temere la risposta. Mi ero resa conto che forse non mi importava così tanto la sua opinione. Non ero pentita di aver ucciso quegli uomini, anche se non lo avevo fatto di proposito. Ryan non c’era più. E io ero sola.

«Tecnicamente lo sei», rispose semplicemente. Sussultai nel sentire quelle parole così dirette. «Ma se vuoi sapere se la mia opinione di te è cambiata», aggiunse poi, «allora la risposta è no.»

«E qual è l’opinione che hai di me?», chiesi.

«Sei una ragazza che ha sofferto molto. Hai fatto degli sbagli, come tutte gli esseri umani. Ma sei comunque una brava persona. Sai cosa è giusto e cosa è sbagliato.»

«Cosa te lo fa pensare? Mi conosci appena», replicai infastidita.

Lui sorrise. «Intuito. Ma il tempo mi darà ragione. Avremo modo di conoscerci bene, credimi.»

«Ah davvero?», dissi in tono di sfida.

Lui non fece in tempo a rispondermi che lo spostai di lato facendolo cadere dalla sedia. Un altro cane fantasma si era materializzato dietro di lui. Giù al Livello 3 ne avevo fatti fuori cinque, quindi ne restavano altri tre.

Rovesciai una bottiglia d’acqua che trovai sul comodino e mi procurai un’arma. L’acqua era poca per ucciderli tutti e tre, ma abbastanza per tenerli a bada per qualche minuto.

«Bagnali!», ordinò Sam. «Non colpirli, bagnali e basta!»

Certa che avesse un piano, decisi di fidarmi di lui, anche perché non avevo molte altre alternative. Scagliai l’acqua sul muso dei tre cani fantasma ottenendo solo di farli infuriare di più. Prima che potessero colpirmi, però, una scarica elettrica sferzò l’aria davanti a me, lasciandomi pietrificata. Riuscii a vedere le scintille nell’aria un attimo prima che i cani scomparissero.

Ero salva, ma il pensiero di essere stata così vicina a una scarica di corrente mi aveva terrorizzata.

Quando Sam si avvicinò a me arretrai spaventata, finendo distesa sul letto.

«Calmati Kait. Non ti farò del male.»

«Smettila di chiamarmi così», risposi acida mentre mi rialzavo.

«Così come?»

«Kait. Lo faceva mio fratello. Soltanto lui.»

«Scusami.» Sembrava sinceramente dispiaciuto.

Sospirai. Che stavo facendo? Non era colpa sua se io avevo paura del suo potere. Anzi, lui mi aveva appena salvato la vita. «Mi dispiace», dissi. «È che sono terrorizzata dal tuo potere. Ma tu questo lo sai già.»

Annuì. «Anche Alex e Luke hanno lo stesso problema.»

«Luke?», domandai.

«Il mio accompagnatore», spiegò. «È il membro della Generazione Gamma che ha il mio stesso potere. Ed è il migliore amico di Alex. Lui ha superato la sua paura. Puoi farlo anche tu; non devi avere paura di me.»

Stava cercando di rassicurarmi, ma io non ero comunque tranquilla. Tirai fuori il sorriso più convincente che riuscii a ottenere e mi misi a sedere sul suo letto. Lu si sedette accanto a me. Lentamente mi si avvicinò e mi toccò il braccio con la mano. Sobbalzai.

«Stai tranquilla», disse lui. Non sentivo nient’altro che il suo tocco. Niente elettricità. Fui comunque scossa da un brivido e lui si staccò da me. Sembrava parecchio dispiaciuto. Volevo che capisse che non era colpa sua se io ero così spaventata, ma non dissi nulla, perché niente avrebbe cambiato la situazione. Cercai di alleggerire l’atmosfera cambiando discorso.

«Nel periodo in cui sei stato qui, quando noi non c’eravamo, hai iniziato comunque una specie di addestramento?», chiesi sinceramente curiosa.

«Sì. Fondamentalmente teorico. Mi hanno insegnato tutto quello che c’è da sapere su vari tipi di armi e sono stato in una centrale operativa per un po’. Manovrare le operazioni degli agenti da una sala piena di computer è decisamente più affascinante che stare sul campo. Poi mi hanno insegnato tutto quello che c’è da sapere sugli Hellhounds e come evitare che vengano a cercare anche me.»

«Hellhounds?»

«I cani fantasma. Hanno nomi diversi a seconda delle leggende in cui compaiono. Padfoot nello Yorkshire, Black Shucks nell’Anglia Orientale, Skriker, oppure Gytrash nel Lancashire. Anche le popolazioni che abitavano la zona in cui sono stati trovati gli albi, i fiori il cui polline ha fatto mutare il nostro DNA, circolavano queste leggende. Enormi cani neri con gli occhi infuocati – Hellhounds, appunto – che davano la caccia agli Hellbounds per condurli all’inferno. Si diceva che quando un uomo uccideva un altro uomo, la sua anima veniva legata all’inferno, diventando così un Hellbound. I mastini infernali avevano quindi il compito di ucciderlo affinché la sua anima andasse all’inferno com’era giusto che fosse.»

Rabbrividii. Assassini, inferno, mastini infernali. Quelle storie non erano per niente piacevoli da sentire, soprattutto se pensavo che potessero riferirsi a quelli come me. Non avevo mai creduto a una vita dopo la morte, né all’esistenza di inferno e paradiso, ma adesso mi veniva davvero da chiedermi cosa mi riservasse il futuro. «Io sono una Hellbound», dissi per dimostrare di aver capito. Sam s’irrigidì, forse si stava pentendo di avermi raccontato quella leggenda.

«Tecnicamente sì. Ma quelle sono solo storie», disse con un rassicurante sorriso.

Cambiò argomento e mi raccontò del periodo che aveva trascorso all’Operon lavorando nella centrale operativa. Una volta ci fu un blackout durante una missione in cui tutti gli agenti della Generazione Gamma erano fuori base e alla centrale ci fu il caos. Sam aprì il portello del generatore, ci infilò una mano dentro e improvvisamente tornò la corrente. La missione non finì in tragedia grazie a lui e alla base costruirono un secondo generatore per le emergenze. Un’altra volta, invece, quando aveva il raffreddore, con uno starnuto fece andare in corto circuito un computer della centrale.

Risi di cuore. «Sul serio? Immagino che abbiano iniziato tutti a ridere a crepapelle.»

Annuì. «Fino a che non arrivò Johanna. A quel punto tutti, me compreso, ci zittimmo, preoccupati per la sua reazione. Quando iniziò a ridere anche lei la tensione si sciolse definitivamente.»

«Che tipo è?»

«Chi? Johanna?» Annuii. «È una brava persona. Sembra severa, ma in realtà è solo molto precisa. Ci tiene ad assicurarsi che tutto proceda per il meglio nell’interesse di noi agenti e del nostro Paese.»

Sorrisi. «Mi fa piacere sentirtelo dire.»

Parlando con Sam mi rilassai, fin quasi a dimenticarmi dell’attacco che avevo subito quella notte. Andammo avanti così per parecchio tempo, fino a quando, colta da un’improvvisa stanchezza, mi addormentai sul suo letto.

Quando la mattina mi svegliai avevo un bel sorriso stampato sulle labbra e mi sentivo ben riposata. Prima ancora di aprire gli occhi mi resi conto di dove mi trovassi. Mi alzai di scatto e mi provocai un capogiro. Con lo sguardo, cercai Sam nella stanza, ma lui non c’era. «Sam?»

«Buongiorno, dormigliona», mi rispose la sua voce. Proveniva dal bagno, la porta era socchiusa. Sentivo anche l’acqua della doccia che scorreva, ma non con l’udito: la percepivo.

«Sono sotto la doccia, dammi dieci minuti e sono da te», proseguì lui.

«Ci vediamo dopo a colazione», risposi. «Vado in camera mia a lavarmi e vestirmi.»

«Come vuoi», rispose lui.

Prima che ebbi modo di salutarlo qualcuno bussò alla porta. «Sam, ci sei? Apri, devo parlarti.» Era Johanna. Fui presa dal panico. Se Johanna mi avesse trovato lì avrebbe sicuramente capito che avevo dormito in camera di Sam e non mi andava che si facesse strane idee.

«Sto entrando con il passepartout», dichiarò lei. Cercai un posto per nascondermi, ma il letto era troppo basso perché mi ci potessi infilare sotto e l’armadio troppo piccolo per me. Entrai nel bagno e mi chiusi la porta alle spalle. Sam mi guardò sorpreso e io gli misi una mano sulla bocca per impedirgli di proferire parola, mentre cercavo di non guardare troppo il suo corpo nudo.

«Sam?» La voce di Johanna proveniva dalla sua stanza.

Gli tolsi la mano dalla bocca per permettergli di rispondere.

«Sono sotto la doccia», disse lui, senza smettere di guardarmi negli occhi.

«Sai niente dell’allarme antincendio che è scattato giù al Livello 3 stanotte?», chiese Johanna. Era per questo che era andata da lui.

«No», rispose Sam semplicemente.

«Sai che non devi mentirmi», disse lei. Pensava che Sam c’entrasse qualcosa.

«Lo so, per questo non lo faccio», rispose Sam. «Non sono stato io.»

«D’accordo», rispose Johanna. «Ti credo.» In fondo le aveva detto la verità. «Ti lascio alle tue cose, ci vediamo più tardi.»

Quando Johanna se ne fu andata, attesi comunque qualche secondo prima di abbandonarmi a un sospiro.

«Se volevi vedermi nudo bastava chiedere», dichiarò Sam.

Le sue parole furono il colpo di grazia. A quella già imbarazzante situazione si aggiungeva la sua sfrontatezza.

«Non volevo farmi trovare qui», spiegai semplicemente.

«E nascondersi sotto il letto ti sembrava troppo poco allettante?»

«Non c’era abbastanza spazio.»

«Non dirmi che ci hai pensato sul serio! Io stavo scherzando!»

«Te l’ho detto, non volevo farmi trovare qui», ripetei.

«Adesso che Johanna passerà nella tua stanza e non ti troverà si farà comunque delle domande.»

«Dirò che ero in infermeria», risposi. «Lucy mi coprirà.»

«Conosci Lucy?», si sorprese Sam. «Sei una ragazza piena di risorse.»

Lo ignorai e guardai attraverso la parete con la mia Vista speciale per accertarmi che Johanna non fosse più nei corridoi.

«È davvero inquietante», disse osservando i miei occhi rossi. Notai che nel frattempo si era coperto con un asciugamano.

«Effettivamente il rosso cremisi è un colore abbastanza inquietante», risposi dandogli ragione.

«In realtà mi riferivo al fatto che puoi guardare attraverso le cose», replicò.

Scrollai le spalle e uscii dal bagno. Lui mi seguì, bagnando il pavimento con le gocce che gli scendevano dai capelli. Osservò con aria irritata il disastro che stava combinando. Mossi una mano e alzai l’acqua dal pavimento, facendo sparire la macchia che si era formata a terra. Lui sorrise a mo’ di ringraziamento.

«Ci vediamo a colazione», dissi uscendo.

«Kaitlyn, aspetta», mi fermò lui. Mi lanciò un libro, che afferrai un istante prima che mi colpisse in piena fronte. Era il libro che avevo preso quella notte in biblioteca.  «Leggilo, ti piacerà. Potresti trovare interessante la parte su Cerbero.»

«Non mancherò», risposi. «Ci vediamo dopo.»

 

 

 

 

N.d.A.: Finalmente è spiegato il titolo della storia. Hellbound in inglese significa, letteralmente, legato (bound) all’inferno (hell), e quindi dannato. Hellhound, invece – che sembra una parola molto simile, ma una h fa la differenza, guai a chi dice che non serve a niente! – significa mastino (hound) dell’inferno (hell), e quindi mastino infernale o comunemente noto come cane fantasma. In riferimento a quest’ultimo, i vari nomi che Sam gli attribuisce provengono realmente da leggende locali: Padfoot nello Yorkshire, Black Shucks nell’Anglia Orientale, Skriker, oppure Gytrash nel Lancashire. L’ispirazione per queste creature è il cane Cerbero dell’Inferno di Dante.

Grazie a chi continua a seguire le mie storie, in particolare a Magicwolf02 che non si perde mai nessuno dei miei aggiornamenti: grazie di cuore!

Futeki

 

 

 

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Capitolo 11
*** Gioco di squadra ***


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DIECI

Gioco di squadra

 

 

 

Ritrovarsi insieme è un inizio, restare insieme è un progresso,

ma riuscire a lavorare insieme è un successo

(Henry Ford)

 

 

 

 

Per tutta la mattinata cercai di evitare Sam. Dopo una veloce colazione iniziammo gli allenamenti individuali e io fui ben lieta di andarmene con Alex nella stanza con la vasca piena d’acqua. Facemmo insieme un sacco di esercizi, molto più complessi di quelli previsti dal programma di Johanna. Non gli parlai dell’attacco di quella notte, né di come avevo saputo delle leggende da Sam. Dopo gli allenamenti individuali ci ritrovammo tutti al poligono. Io e Tom provammo a ripetere l’esercizio. Dopo parecchi tentativi, Tom riuscì a deviare il proiettile. Dovetti faticare un po’ per convincerlo che non avevo sbagliato di proposito.

«Allora hai sbagliato involontariamente», disse lui. «Non è merito mio.»

«Stai scherzando?», replicai. «È impossibile che io abbia mancato completamente il bersaglio.»

«Può succedere», disse Tom.

«Ma non è appena successo a me. Non ho sbagliato.»

Alex e Amanda ridacchiarono. Anche gli altri ragazzi si riunirono attorno a noi per capire di cosa stessimo discutendo.

«Se Kaitlyn dice di essere sicura allora io credo che sia merito tuo, Tom», intervenne Cassidy. «Lei è bravissima, non le ho mai visto mancare il bersaglio.»

«Sentito? Dovresti starla a sentire», dissi ringraziando mentalmente Cass.

«Secondo me invece sei troppo sicura di te», s’intromise Sam.

«Cosa vorresti dire?»

«Che sei brava», disse lui, «ma non quanto credi.»

«Uh, qua c’è aria di sfida», disse scherzosamente Alex.

«Per me va benissimo», dissi guardando Sam dritto negli occhi. Gli sorrisi. «Vuoi sfidarmi?»

«Sei colpi. Chi fa più centri vince», rispose lui.

«Andata. Lo sai che posso batterti anche a occhi chiusi», dissi esagerando.

«Io non credo proprio. Ma se ne sei sicura e lo preferisci possiamo bendarci.»

«La sfida si fa interessante», intervenne Alex.

«Alex, due ragazzi che sono qui da una settimana non possono prendere in mano una pistola mentre sono bendati», replicò Amanda.

«Sam è qui da molto più di una settimana e Kaitlyn è un talento naturale. Lasciamoli fare.»

Iniziai io. Alex mi coprì gli occhi con una benda nera, ma con la Vista riuscivo comunque a vedere il bersaglio attraverso la fitta trama di cotone nero. Ero già di fronte al bersaglio, quindi mi bastò alzare il braccio e sparare. Sparai cinque colpi in rapida successione e centrai il bersaglio esattamente nel mezzo. Anche se gli altri non potevano vederlo, io notai che un proiettile addirittura finì su uno già conficcato nella sagoma, facendolo a metà. Attesi un po’ prima di sparare l’ultimo colpo per dare un po’ di teatralità alla scena e poi finalmente conclusi con il sesto centro.

Quando mi tolsi la benda osservai soddisfatta la mia opera. Gli altri erano impietriti e nessuno disse una parola. Sam aveva un sopracciglio sollevato e Alex sogghignava.

«Ho già vinto, no?», chiesi a Sam.

«Posso ancora pareggiare», disse lui con un raggiante sorriso.

«Stai scherzando, spero.»

«Lasciami provare.»

Si mise di fronte al bersaglio e si fece bendare. Abbassò la sicura della pistola e si preparò a sparare. Anche lui sparava con la mano sinistra.

Sei centri.

Senza esitare, senza pensare, senza preoccuparsi.

Pensai per un momento che avesse la Vista anche lui, ma lo esclusi.

Si tolse la benda e non guardò nemmeno il bersaglio per vedere quanti centri aveva fatto. Era perfettamente consapevole della situazione.

Mi sorrise. «Direi che è un pareggio.»

Alex scoppiò a ridere, mentre tutti gli altri non dissero nulla.

«Dobbiamo andare, è ora di pranzo», disse Alex per smuoverci.

Mentre uscivamo dal poligono mi voltai verso Sam. «Non hai la Vista anche tu, vero?»

«No, Kait. Sono riuscito a fare quello che ho fatto perché mi sono allenato per più di un anno.» S’incupì. «Scusa.»

Scossi la testa. «Perché ti scusi? Non dovresti. Non hai usato capacità “aggiuntive”, quindi in teoria meriti di più tu la vittoria.»

«Non mi sono scusato per questo, ma per averti chiamato Kait.»

«Ah», dissi semplicemente. «Senti Sam, lascia stare. Puoi chiamarmi come ti pare, quando l’ho detto…»

«No, io lo capisco, non ti piace che qualcuno che non sia tuo fratello ti chiami così. Va bene, non c’è problema.»

Non risposi.

«Allora la considero una vittoria, quella di oggi», disse sorridendo.

«Voglio una rivincita, allora!»

Sorridemmo entrambi.

«Kaitlyn, hai iniziato a completare il questionario di storia?», mi chiese Cass, affiancandosi a me e Sam.

«No, l’avevo completamente dimenticato», risposi.

«Io e Jessica iniziamo oggi a farlo insieme. Anche se le domande sono diverse due cervelli sono meglio di uno, no? Vuoi unirti a noi?», propose.

«Cassidy!», sbottò Jessica.

«Che c’è?»

«Kaitlyn stava parlando con Sam» disse, come se fosse ovvio.

Sam nel frattempo si era allontanato e stava parlando con Alex. Qualunque cosa intendesse Jessica, Cassidy capì. «Oh. Mi dispiace, non volevo.»

«Ma di che state parlando?», mi decisi a chiedere.

«Non volevo disturbarti», spiegò Cass. «Mentre stavi con Sam, intendo.»

Oh oh. Ma cosa aveva capito?! «Ma figurati, sentiti libera di interrompere qualunque cosa pensi che ci sia mentre in realtà non c’è.»

Cassidy mi guardò con espressione confusa.

«Lascia stare.»

Uno dei gemelli s’intromise nella conversazione. «Anche io e Kevin faremo il questionario insieme. Credo sia impossibile farcela da soli.»

«Sono d’accordo», disse Tom. «Chi è che vuole farlo con me?», chiese.

Guardai le ragazze e Cassidy annuì capendo al volo le mie intenzioni. «Io al momento sono sola», risposi. «Se ti fa piacere possiamo farlo insieme.»

Tom sorrise raggiante. «Certo! Vieni tu da me?»

Annuii. Ci mettemmo d’accordo sull’orario e poi andammo a pranzo.

Quel pomeriggio non avevamo molto da fare, quindi dopo una doccia e un po’ di tempo passato a leggere “L’Inferno”, bussai alla porta della camera di Tom.

Ci mettemmo subito al lavoro e Tom confessò di non aver ancora neanche letto le domande.

Ben presto mi resi conto di quanto fosse preparato: il test era difficile, ma lui sapeva rispondere anche alle domande più complicate. Arrivati alla terza pagina del mio questionario – avevamo deciso di fare insieme prima il mio e poi il suo – trovammo un elenco di eventi storici importanti. Per ciascuno di essi bisognava scrivere la data in cui era avvenuto.

«Rivoluzione francese», dissi leggendo ad alta voce.

«1789», rispose Tom senza esitare.

«Battaglia di Maratona.»

«490.»

«Stampa del primo libro grazie a Gutenberg.»

«1450.»

«Congresso di Vienna.»

«1815, anche se in realtà era già iniziato a fine 1814.»

«Terzo matrimonio di Isabella di Castiglia.»

Tom mi guardò confuso. «Non mi risulta che ci sia stato un terzo matrimonio. Dopo aver sposato Ferdinando II d’Aragona…»

«Stavo scherzando», mi affrettai a fermarlo. «Ti piace la storia a quanto pare.»

«Molto», rispose semplicemente lui.

In quel momento qualcuno bussò alla porta. Tom si alzò dalla sedia per andare ad aprire e io mi sporsi per vedere di chi si trattasse. Era Sam.

Mi venne in mente in quel momento che probabilmente lui non aveva nessuno con cui fare il test di storia, quindi per un attimo pensai che fosse il caso di invitarlo a restare con noi.

Ma prima ancora che potessi aprire bocca lui se ne andò e Tom si voltò a guardarmi lasciando la porta aperta.

«Andiamo in camera sua, sono tutti lì», spiegò. «Credo proprio che dovremmo fare il test tutti insieme.»

Annuii e mi alzai dalla sedia prendendo i fogli dalla scrivania.

La porta della camera di Sam era spalancata, quindi entrammo senza bussare. Dentro c’erano tutti. Qualcuno era seduto sul letto, qualcuno sulle due sedie della camera. Cassidy invece era seduta sul pavimento.

«So che la stanza non è grandissima, ma dobbiamo arrangiarci. È importante che facciamo questa cosa tutti insieme», esordì Sam.

Una volta entrati anche io e Tom, chiudemmo la porta e Sam iniziò a spiegare. «I test sono diversi per ognuno di noi, ma le domande sono fondamentalmente le stesse, anche se in ordine diverso oppure scritte in modo differente. All’Operon non ci insegneranno la storia, non ci serve per quello che dobbiamo fare noi. Il questionario è soltanto un test per mettere alla prova il nostro gioco di squadra, per verificare se siamo disposti anche ad andare contro l’ordine di non aiutarci e la difficoltà delle domande diverse, pur di restare uniti. Ed è quello che dobbiamo provare. Facciamo il test tutti insieme e diamo le stesse risposte, che siano giuste o sbagliate.»

Il ragionamento di Sam filava.

Era improbabile che si trattasse davvero soltanto di un test di storia, visto che non serviva a molto per il nostro “lavoro”.

Ci mettemmo all’opera e facemmo una breve pausa solo per andare a cena. Dopo tornammo tutti in camera di Sam e finalmente, dopo ore di duro lavoro, finimmo tutti i questionari.

Restammo lì ancora per un po’ a chiacchierare del più e del meno. Scoprii che Kevin era un eccezionale giocatore di basket e che Cassidy scriveva poesie nel tempo libero. Mi resi anche conto di quanto io e Jessica fossimo diverse in fatto di gusti musicali: Cass era sua sorella molto più di quanto lo fossi io.

Quando iniziò a farsi tardi iniziarono tutti a tornare nelle proprie stanze: prima Cass e Jessica, poi Tom. Quando alla fine se ne andarono anche i gemelli, mi resi conto che forse era il caso di andare a dormire.

Stavo per dirlo a Sam, quando lui mi infilò un’auricolare in un orecchio, cogliendomi di sorpresa.

«Ascolta questa canzone, è bellissima», mi disse.

Non la conoscevo, ma era la tipica canzone che è facile sentire come sottofondo a qualche pubblicità. Sembrava familiare eppure aveva un non so che di sorprendente. Come Sam.

E fu mentre ascoltavo quella canzone, con gli occhi puntati sul suo viso, che immaginai per la prima volta di baciarlo.

Scossi la testa per scacciare quel pensiero e per evitare che Sam notasse che stavo arrossendo mi stesi sul letto.

Lui, che fino a quel momento era stato seduto affianco a me con l’mp3 in una mano, mi imitò e si stese, legato a me dal filo degli auricolari.

«Ti piace?», mi chiese.

Annuii. Eravamo vicinissimi.

La canzone successiva partì e lui non si mosse. Rimanemmo in quella posizione ad ascoltare musica per un bel po’.

Quando la mattina dopo mi svegliai non avevo più l’auricolare e un cuscino era comparso sotto la mia testa. L’avevo fatto di nuovo, mi ero di nuovo addormentata in camera di Sam.

Mi alzai di scatto e Sam – in piedi di fronte a me – si voltò a guardarmi, sorpreso dal movimento improvviso.

«Buongiorno dormigliona. Il mio letto ormai è troppo grande senza di te.»

«Perché non mi hai svegliato?!», chiesi infuriata.

«Dormivi così bene! Non ne ho avuto il coraggio!»

«Come fai a svegliarti sempre prima di me? Ma dormi la notte?», chiesi stupidamente.

Sam rise. «Forse sei tu che dormi più profondamente del solito in camera mia, per questo ti svegli più tardi.»

Sbuffai. Presi il mio questionario dalla scrivania e mi avviai verso la porta.

«Non capisco perché ti fai così tanti problemi», disse Sam.

«Neanche io», risposi sinceramente. «Ci vediamo dopo a colazione.»

 

 

 

 

N.d.A.: Con questo e il capitolo precedente siamo entrati nel vivo della storia. Dal prossimo capitolo, l’azione prenderà il sopravvento e i ragazzi ne saranno parte fondamentale.

Per quanto riguarda la canzone che Sam fa ascoltare a Kaitlyn, quando ho scritto quella parte, nella mia mente c’era Love the way you lie di Eminem e Rihanna, uscita proprio nel 2010, ovvero l’anno prima rispetto al presente di Kaitlyn e Sam. A seguire, sull’ipod di Sam – e sul mio – c’erano Rolling in the deep (Adele) e The Time (Black Eyed Peas), uscite entrambe come singoli nel 2010 e come tracce dei loro rispettivi album 21 e The beginning nel 2011.

Grazie a chi segue ancora la storia.

Futeki

 

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Capitolo 12
*** Simulazione ***


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UNDICI

Simulazione

 

 

 

Lo spirito di squadra è la chiave del successo.

(Julio Velasco)

 

 

 

 

Dopo aver consegnato i test al signor Turner, scendemmo al Livello 3 dove Johanna ci aveva convocato. Ci spiegò che i questionari erano soltanto un pretesto per mettere alla prova il nostro gioco di squadra, come aveva detto Sam il giorno prima. Iniziò inoltre un lungo discorso sull’importanza della collaborazione tra noi.

«Ed è per questo», concluse «che opererete sempre in coppia o in tre durante le vostre missioni. I gruppi verranno formati in base ai vostri poteri e alle affinità che già mostrate. Per questo motivo, Kevin e Robb lavoreranno insieme visto il loro legame, così come Cassidy e Jessica, alle quali si aggiungerà Tom. Infine, il terzo gruppo sarà formato da Kaitlyn e Sam.»

Non mi dispiaceva lavorare con Sam: lui conosceva già il mio segreto, quindi non dovevo preoccuparmi di nasconderlo più del necessario.

Il lato peggiore della situazione era che dovevamo imparare a combinare i nostri poteri. Io dovevo usare l’acqua come canale conduttore per la sua elettricità. Siccome trovavo la cosa terrificante, perdevo spesso la concentrazione facendo finire l’acqua sul pavimento. Nell’esercizio ci aiutavano Luke e Alex, ma mentre il primo pensava che io non riuscissi perfettamente a causa della mia inesperienza, Alex sapeva bene qual era il mio problema.

«Devi concentrarti», mi disse in disparte. «Trasforma la tua paura in determinazione. Tu puoi controllarla. Il flusso di corrente non va da nessuna parte senza il tuo canale. Tu controlli l’acqua, quindi tu controlli il flusso elettrico. Decidi tu dove farlo andare. Controllalo. Non lasciarti dominare dalla paura.»

Chiusi gli occhi. Non avevo bisogno di guardare per percepire l’acqua intorno a me. La sentivo ribollire per l’elettricità. La manipolai come avevo sempre fatto, rendendomi conto che anche quando lo sfioravo, il flusso di corrente non mi faceva alcun male. Fino a quel momento avevo cercato di distaccarmene, ma adesso sapevo che dovevo controllarlo attraverso l’acqua.

A fine allenamento ero stanchissima, ma soddisfatta.

Nel pomeriggio scesi al Livello 2 per chiedere un cellulare. Alex mi aveva mandato a cercare un certo Spike, dicendomi che lo avrei trovato sicuramente seduto davanti a un monitor nella prima stanza a sinistra del Livello 2.

Fu così. Nella stanza c’era solamente un enorme schermo, con altri più piccoli sui lati. Lui era seduto su una sedia girevole da ufficio e ticchettava sulle varie tastiere a una velocità impressionante.

«Ehm, tu sei Spike?», chiesi per attirare la sua attenzione.

«Tra due minuti, quando avrò finito, sarò chi vuoi tu. Adesso però fa come se non ci fossi», mi rispose brusco.

Mi dispiaceva averlo disturbato, ma avevo assolutamente bisogno di un cellulare.

Due minuti dopo, come promesso, Spike si girò verso di me, facendo ruotare la sedia.

«Ah, di nuovo tu», disse sorridendo.

«Penso che tu ti confonda con mia sorella, Jessica», dissi. «Io sono Kaitlyn, non ci siamo mai visti prima d’ora.»

«Oh, giusto», disse lui. «La Generazione dei gemelli.»

Annuii. «Mi servirebbe un cellulare.»

«Mi piaci. Sei diretta e non mi fai perdere tempo. E non ti sei arrabbiata quando ti ho risposto male prima. Ah, a proposito! Scusa per quello, ero impegnato.»

«Figurati», risposi.

«Eravamo sotto attacco. Un attacco informatico, intendo.»

«Cosa?», urlai allarmata. «Dobbiamo avvertire Johanna!»

«Non è assolutamente il caso. Subiamo attacchi di questo genere decine di volte alla settimana, è tutto sotto controllo.»

«Ah», mi tranquillizzai.

«Adesso procuriamoci un cellulare», disse lui.

Rovistò in un cassetto e ne tirò fuori un piccolo cellulare argentato di un modello che non avevo mai visto. Lo collegò a un computer attraverso un cavo e trafficò un po’ con la tastiera. Si aprirono diverse schermate blu su uno dei monitor più piccoli, ma non riuscivo a capire cosa stesse facendo.

«Bene, adesso devi darmi il numero di casa tua e del cellulare di un tuo genitore. Saranno gli unici due numeri che potrai chiamare e da cui potrai ricevere telefonate.»

«Se volessi chiamare una mia amica non potrei farlo?», chiesi pensando a Tin.

«No, per una questione di sicurezza.»

«Credevo che si trattasse di una linea sicura.»

«Lo è. Non è per via delle intercettazioni che non puoi chiamare. Non possiamo rischiare che tu parli a qualcuno di questo posto.»

«Non sono una bambina, so che non posso parlarne.»

«Mi dispiace, le regole sono chiare.»

«Spike… ti prego!»

«Kaitlyn… non posso fare nulla!», disse imitando la mia voce. «Ma se tu fossi furba abbastanza sapresti trovare una soluzione da sola. Adesso dammi il numero di casa tua e un numero di cellulare.»

Sorrisi. Mi stava suggerendo di dargli il numero di cellulare della mia amica, invece di quello di mia madre, che avrei chiamato sul telefono di casa.

Dopo avergli dato i numeri presi il cellulare e lo ringraziai. Salii immediatamente all’esterno, cercando di raggiungere il balcone al primo piano, dove avevo visto Tom telefonare alla sua famiglia.

Chiamai mia madre, che mi rimproverò di non averle telefonato prima. Mi disse che stava bene e che le mancavo. Le dissi che lì erano tutti gentili e le parlai di Jessica. Lei mi giurò di non aver mai avuto idea che avessi una gemella. Le chiesi che scusa avesse inventato per la mia improvvisa sparizione e la salutai con la promessa di richiamarla appena possibile. Dopodiché chiamai anche Tin, confermando la storia di mia madre secondo cui mi avevano accettato in una scuola prestigiosa in un altro stato. Le parlai degli altri ragazzi, tralasciando il dettaglio dei loro poteri, e le dissi che mi trovavo bene, anche se sentivo la sua mancanza. La salutai e le dissi che l’avrei chiamata durante la pausa pranzo a scuola, uno di quei giorni, così avrei potuto salutare anche Jordan. Lei mi suggerì di telefonare direttamente a lui, ma inventai una scusa poco credibile e le dissi che dovevo proprio andare.

Sentire mia madre e Tin mi aveva fatto piacere, mi aveva ricordato che da qualche parte c’era ancora qualcuno che mi aspettava.

Nei giorni seguenti proseguimmo con il programma di allenamento. Imparammo tutti a sparare, a controllare al meglio il nostro potere e migliorammo nel combattimento corpo a corpo.

Ci insegnarono ad usare degli auricolari per comunicare tra di noi e con la base durante le operazioni e Spike ci spiegò sommariamente come funzionavano le reti protette dell’Operon e ci insegnò i vari codici d’accesso delle varie entrate.

 

 

Un paio di mesi dopo, Johanna ci ritenne pronti ad affrontare la nostra prima simulazione.

Al di sotto del Livello 3 esisteva un altro piano, il Livello 4, o simulatore, di cui nessuno di noi – compreso Sam, che era lì da più tempo – era a conoscenza. Eravamo tutti riuniti nell’anticamera, davanti a una grossa porta d’acciaio, attraverso la quale si entrava nello spazio dedicato alla nostra simulazione. Johanna ci spiegò che per organizzare tutto aveva impiegato quasi un mese.

La prova consisteva nell’entrare in un’area protetta da porte blindate, codici d’accesso e trappole, per poi trovare la sala operativa, copiare i dati dell’intero sistema di computer e uscire da lì in meno di due ore.

Non sembrava per niente facile e Johanna ci spiegò che per riuscire nell’impresa avevamo soltanto due possibilità: lavorare tutti insieme e puntare sul gioco di squadra o dividerci in gruppi per fare più in fretta e affidarci alla collaborazione di coppia.

Johanna e gli altri ci avrebbero osservato dalla sala operativa del Livello 2 attraverso una serie di telecamere. Inoltre, avremmo avuto dei sensori attaccati ai polsi e alle caviglie affinché Spike potesse controllare se venivamo colpiti durante l’operazione dai colpi sparati a salve all’interno del simulatore.

Esaurite le spiegazioni, entrammo. Poiché non disponevamo di auricolari, decidemmo di non separarci.

La stanza in cui ci trovavamo era completamente vuota e affacciava su un lungo corridoio, che costituiva il nostro primo ostacolo. Non sapendo dove andare e non volendo separarci, dovevamo decidere che direzione intraprendere.

«Ho un’idea», disse Sam. «Noi dobbiamo trovare una stanza piena di computer, quindi si suppone che brulichi di corrente elettrica. Potrei provare a sentire dove si trova la più grande concentrazione di elettricità in questo posto.»

L’idea sembrava buona, quindi fummo tutti d’accordo. Con l’aiuto di Robb che amplificò i suoi poteri mettendogli entrambe le mani sulle spalle, Sam chiuse gli occhi e tentò di individuare la sala operativa.

«Trovata», esclamò. «Andiamo a sinistra.»

Seguimmo le sue istruzioni per un po’ e passammo attraverso parecchie stanze tutte uguali. Se non fosse stato per Sam e il suo “sesto senso”, non saremmo mai riusciti a orientarci.

Sembrava tutto estremamente facile e procedevamo spediti, quando mi venne in mente che avrei potuto controllare con la mia Vista l’eventuale presenza di ostacoli. Era buio, quindi nessuno notò il cambiamento di colore dei miei occhi. Attraverso le pareti vidi in lontananza la stanza verso cui ci stavamo dirigendo: Sam ci stava portando nella direzione giusta. Notai anche, però, un leggero cambiamento nel pavimento della stanza in cui stavamo per entrare: sotto alcune mattonelle c’erano dei sensori di movimento, che sicuramente non avrebbero portato a nulla di buono.

Non sapevo come spiegare agli altri della trappola verso cui ci stavamo dirigendo senza rivelare il segreto dei miei occhi. Mentre riflettevo, Sam e Robb, che aprivano la fila, erano già entrati nella stanza.

«Fermatevi!», gridai, ma era già troppo tardi. Robb aveva messo un piede su un sensore invisibile e da un punto imprecisato della stanza partì uno sparo. Ovviamente si trattava di un colpo a salve, quindi nessuno rimase ferito.

«Non muovetevi», disse Sam. «Kaitlyn, tu li vedi, non è vero?», mi disse bisbigliando.

Annuii. «Sono sensori di movimento. Ma non ho intenzione di dire agli altri che riesco a vederli», dissi risoluta.

«Vuoi farci uccidere?»

«Non moriremo davvero.»

«Di’ a me dove sono. Fingerò di percepirli.»

«È impossibile che tu li senta. Non sono elettronici, ma meccanici.»

«Io e te lo sappiamo, ma gli altri no, giusto?»

Indicai a Sam la posizione dei sensori e lui disse agli altri che si trattava di sensori di movimento elettrici che riusciva a percepire. Lo seguimmo procedendo a zig-zag per la stanza e finalmente fummo fuori pericolo. Nel corridoio successivo non c’erano luci, quindi eravamo completamente al buio. Jessica si sforzò di creare una piccola fiammella e di mantenerla costante per illuminare il percorso.

Arrivammo finalmente alla sala operativa, ma per entrare ci restava da superare una porta blindata con doppia serratura.

Sam neutralizzò facilmente lo scanner di impronte digitali, ma restava ancora una serratura da aprire con una chiave di cui non disponevamo.

L’unica possibilità di entrare era che Tom facesse scattare la serratura usando il suo potere.

Rimase per un po’ chinato di fronte alla porta, creando un forte campo magnetico. Quando finalmente la serratura scattò, tirammo tutti un grande sospiro di sollievo.

Quando entrammo eravamo tutti più tranquilli. Cass si occupò di copiare tutti i file del computer principale su un disco e dopo un quarto d’ora eravamo pronti ad andare via.

«Dobbiamo trovare il modo di uscire», fece notare Sam.

Adesso che non avevamo più la sua guida, non sapevamo che strada percorrere per uscire da lì senza perderci per i corridoi.

Mentre riflettevamo sulla situazione, un ringhio profondo mi fece sobbalzare.

Negli ultimi due mesi gli attacchi dei cani si erano intensificati. Per fortuna però, ero sempre stata da sola o con Sam, Alex e Luke, che ormai conosceva il mio segreto. Il resto del gruppo, però, non sapeva nulla.

Adesso però avrei dovuto spiegare tutto.

«Sam», chiamai allarmata. «Aiutami!»

Sam vide il panico nei miei occhi rossi, che brillavano alla debole luce dei monitor della stanza.

«Non ho acqua!», urlai disperata. Gli altri si guardavano tra di loro senza capire cosa stesse succedendo.

«Calmati Kaitlyn. Dove sono?», chiese Sam con voce controllata.

«Tutti e tredici davanti a me, non vedi?», dissi.

«No, io non li vedo, non ho i tuoi occhi», disse lui.

«Ma che stai dicendo?»

«Non li vedo. Ci riesco solo quando li bagni con dell’acqua, allora in quel caso vedo la loro forma.»

Provai a riflettere per un istante su quello che stava dicendo, ma avevo la mente annebbiata dalla paura.

«Jessica, devi dare fuoco a questo posto», dichiarò Sam.

«Cosa?», chiese lei. «Sam, ma che diavolo sta succedendo? Cos’ha Kaitlyn?»

«Te lo spiego dopo. Dobbiamo uscire tutti e tu devi dare fuoco alla stanza.»

«Non ce la farò mai a tenere viva una fiamma abbastanza a lungo per far attecchire il fuoco e scatenare un incendio», replicò lei.

«Ti aiuto io», disse Robb.

«E anche io», intervenne Kevin. «Il vento alimenta la fiamma», spiegò.

«L’importante è che facciate in fretta!», urlai disperata.

Sam mi trascinò fuori mentre Jessica iniziava a dare fuoco alla stanza, con Robb da un lato e Kevin dall’altro.

In pochi attimi, tutto fu in preda alle fiamme.

 

 

 

 

N.d.A.: Per quanto riguarda la citazione all’inizio del capitolo, si tratta di una frase pronunciata da Julio Velasco, allenatore di pallavolo argentino, che è stato commissario tecnico della Nazionale italiana maschile dal 1989 al 1996, e della Nazionale italiana femminile dal 1997 al 1998. Ottenne grandi successi soprattutto con la Nazionale maschile nei primi anni novanta, con quella che è stata chiamata generazione di fenomeni, e proprio in occasione di un intervista successiva a una delle sue vittorie, dichiarò che la chiave del successo, secondo lui, era lo spirito di squadra.

Futeki

 

 

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Capitolo 13
*** L'arte del sopravvivere ***


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DODICI

L’arte del sopravvivere

 

 

 

La vita non è un gioco. È sopravvivenza.
(Mike Tyson)

 

 

 

 

Tom sigillò la stanza facendo scattare di nuovo la serratura.

Mi tranquillizzai al pensiero che i cani erano bruciati in quella stanza. Adesso però, avrei dovuto spiegare ai miei amici ciò che era appena successo, visto che loro non riuscivano neanche a vedere i cani fantasma. Sapevo che le persone comuni non potevano vederli, ma fino a quel momento avevo pensato che tutti noi, che avevamo poteri speciali, avessimo questa capacità. Ma siccome Sam non poteva, compresi finalmente che solo chi aveva la Vista, solo gli Hellbound riuscivano a vedere i cani fantasma. Alex li vedeva, di questo ero sicura. Gliene avrei parlato in un secondo momento. Adesso dovevo affrontare i miei amici, dir loro la verità e sperare che non cambiassero opinione su di me.

«Kaitlyn», disse Jessica con voce gentile, «che sta succedendo?»

Presi un bel respiro e spiegai loro dei cani fantasma, delle loro visite sempre più frequenti e dei loro tentativi di uccidermi. Dissi loro della mia Vista, capace di vedere attraverso le cose e di individuare gli invisibili Hellhounds. Mostrai loro gli occhi rossi.

Cass sussultò, Robb e Kevin rimasero affascinati. Tom e Jessica non dissero nulla.

«Tutto questo è accaduto per colpa mia», spiegai. «Perché io ho ucciso delle persone.»

Cassidy sussultò di nuovo, ma prima che potesse dire qualunque cosa mi affrettai a spiegare.

«Fu un incidente. Pioveva dirotto e l’odio che provavo nei confronti di quegli uomini mi ha fatto perdere il controllo. Li ho soffocati con l’acqua», spiegai con un velo di tristezza sul viso.

«Avevo un fratello, Ryan, proprio come Cassidy è una sorella per te», dissi rivolgendomi a Jessica. «Era un Telepate. Lui riusciva a leggermi nel pensiero, ma già da molto tempo prima che si manifestassero i suoi poteri. Il nostro era un legame speciale. Ci sostenevamo a vicenda, lui era tutto per me. Ho sempre saputo di essere stata adottata e questo mi ha sempre portato a distaccarmi da mia madre, perché sapevo che non era la mia madre biologica. Ma con Ryan era diverso. Con lui sentivo di avere un legame reale. Avevamo lo stesso DNA, lo sapevamo. Lui era la mia famiglia, io lo amavo più di chiunque altro al mondo. Una sera, mentre tornavamo da una festa, facemmo un incidente d’auto. Gli uomini alla guida dell’altra macchina erano ubriachi. Ryan morì quella sera e io mi salvai. Eravamo seduti uno affianco all’altra, lui al posto di guida e io alla sua destra, ma soltanto lui perse la vita. Io invece ero viva. Lui non c’era più e io ero viva», mi sforzai di trattenere le lacrime. «Anche se in realtà una parte di me se n’è andata con lui.»

«Mi dispiace», disse Cassidy sinceramente dispiaciuta.

«È una storia terribile», convenne Kevin. Robb non disse una parola, ma aveva lo sguardo colmo di dolore. Forse qualcuno di loro stava immaginando cosa si prova a perdere un fratello.

Tra loro soltanto Sam lo sapeva. Mi voltai per cercarlo con lo sguardo, ma lui era già al mio fianco. Mi strinse un braccio e io gli fui immensamente grata.

«Per questo quando incontrai quegli uomini persi il controllo. Avevano ucciso mio fratello e non erano neanche in prigione. Non avrei voluto farlo, sapevo che ucciderli non mi avrebbe restituito Ryan. Lui avrebbe voluto che li perdonassi. Ma io non sono forte quanto lui. Li lasciai per terra credendo che fossero soltanto svenuti, ma la mattina dopo lessi sul giornale che erano stati trovati morti. Mi dispiace avervi mentito», dissi guardando ognuno di loro negli occhi, «ma non volevo che pensaste male di me. Io non sono un’assassina.»

«Lo sappiamo, Kaitlyn», disse Tom. «Non c’è neanche bisogno di dirlo.»

«Tu sei una di noi», disse Robb.

«E sei anche nostra amica», intervenne Kevin.

«Niente potrebbe farci cambiare opinione su di te. Sappiamo che persona sei», disse Jessica, «e io sono davvero contenta che tu sia mia sorella.»

Le sorrisi riconoscente. «Grazie.»

«Kaitlyn, io ti conosco da poco», disse Cass, «ma so esattamente chi sei. Non sei diversa da tua sorella e io le voglio un gran bene. Non sei una cattiva persona, non sei un’assassina. Non dirlo mai più, neanche per sogno.»

«Grazie per la comprensione, ragazzi», dissi sinceramente contenta.

«Adesso cerchiamo un modo per uscire di qui», disse Robb.

«Il tempo sta per scadere», aggiunse Kevin.

«Io un’idea ce l’avrei», dissi sorridendo.

Usai la Vista per guardare attraverso le pareti e in breve tempo raggiungemmo l’uscita. Tom forzò ancora una volta la serratura e finalmente uscimmo dal simulatore.

Ad attenderci all’uscita c’era Colton, un tecnico dell’Operon. Si complimentò con noi per l’esito positivo della simulazione e ci condusse al Livello 2, dove Johanna ci aspettava assieme ad Alex, Luke, Chris, Amanda e Sara. Oltre a loro, nella sala operativa c’erano Spike e una decina di altri tecnici, tra cui Leslie, una simpaticissima ragazza reclutata dall’Operon per le sue abilità informatiche. Quando entrammo, lei e Johanna stavano parlando sottovoce, ma si zittirono improvvisamente quando si accorsero del nostro arrivo.

Dando una rapida occhiata alla stanza, mi resi conto dell’atmosfera strana che aleggiava tra i presenti: Alex se ne stava appoggiato a una parete con le braccia incrociate sul petto e un’espressione dura impressa sul viso; Luke, invece, era al suo fianco e sembrava più tranquillo, nonostante avesse anche lui un’aria piuttosto seria. Amanda e Sara stavano guardando con molto interesse qualcosa sul computer di uno dei tecnici, mentre Chris era vicino a Spike, che a sua volta stava seduto davanti a un computer.

Johanna ci venne incontro e mentre si avvicinava a noi cercai di decifrare la sua espressione. A differenza degli altri, però, Johanna aveva l’abilità di non lasciar trasparire nulla dal suo viso, tant’è vero che appariva semplicemente seria come al solito.

«Complimenti ragazzi», disse, «avete completato con successo la simulazione. Non siete stati perfetti, ma è normale, visto che era la prima volta. Spike, mostra loro i filmati.»

Ci avvicinammo tutti a Spike, che iniziò immediatamente a spiegare: «Durante la simulazione avete commesso alcuni errori che cercheremo di correggere. Innanzitutto, Robb risulta essere ferito a causa di un colpo sparato durante la simulazione quando avete attivato una delle trappole meccaniche. Quel tipo di sensore non può essere rilevato da Sam, che percepisce soltanto quelli elettrici, quindi devi essere tu, Kevin, ad accorgerti di questo tipo di trappole.»

«Io sono Robb», disse pacatamente il gemello sbagliato.

Kevin si rivolse a Spike: «Come posso percepirli io? Io controllo l’aria, nient’altro.»

«E ti sembra poco?», replicò Spike. «Sotto la pavimentazione c’era un sottile strato vuoto che serviva a far rientrare le mattonelle non appena qualcuno ci avesse messo un piede sopra. Pertanto, al di sotto del pavimento c’erano vari spazi pieni d’aria che tu avresti potuto percepire. Dovrai esercitarti a farlo.»

Kevin annuì.

«Quindi come ha fatto Sam a sapere dove si trovavano i sensori?», chiese giustamente Jessica, avendo capito che di trattava di sensori meccanici.

«Li ho visti io», intervenni troncando la discussione.

Spike proseguì nella spiegazione. «Un altro errore è stato il modo che avete scelto per orientarvi all’interno del simulatore. L’idea di seguire Sam, che poteva percepire l’elettricità proveniente da una sala computer, non è male, ma dovete tener presente che possono esserci comunque più stanze con quelle caratteristiche. Questo tipo di problema si può generalmente aggirare studiando in anticipo la mappatura del luogo in questione. Ma nel caso in cui non siate a conoscenza della planimetria, dovete saper uscire da qualunque posto, almeno cercando di ritornare sui vostri passi. Ci sono vari modi per marcare la strada percorsa. Il più semplice e immediato è accendere un fuoco», disse guardando Jessica. «In questo modo, l’aria rimane segnata dal passaggio della fiamma, che riduce l’ossigeno. In questo modo, sia Kevin che Robb sono in grado di ritrovare la strada.»

«Io che c’entro?», chiese Robb.

«Il fuoco è energia!», esclamò Spike. «Se ti impegni puoi rilevare tracce energetiche nell’aria.»

«Queste sono soltanto teorie di uno che ha studiato la fisica, ma non ha assolutamente idea di cosa significhi avere questo tipo di poteri», intervenne Chris lanciando un’occhiata divertita a Spike. «Tranquillo, Robb, nessuno si aspetta che tu riesca a fare una cosa simile. Io neanche ci riesco e mi esercito da molto più tempo di te. Kevin, invece per te è possibile e con un po’ di esercizio ci riuscirai sicuramente», aggiunse con fare incoraggiante.

I due gemelli annuirono.

«Un altro errore piuttosto grave», intervenne Spike riprendendo il controllo della conversazione, «è stato perdere tempo fuori dalla sala operativa. Siete rimasti lì per circa un quarto d’ora, tempo più che sufficiente perché arrivasse qualcuno e vi scoprisse. Comunque», aggiunse infine, «mi complimento per l’ottimo lavoro di squadra, soprattutto quello dimostrato nel bruciare la sala operativa. I vostri poteri sono di per sé un grande dono, ma combinarli insieme li rende incredibilmente potenti. Ci vogliono parecchio allenamento, un accurato studio della fisica e della chimica e anche un po’ di fantasia per riuscire al meglio in ogni situazione. Nel complesso, la prova è stata abbastanza buona.»

Riuscii a leggere la soddisfazione sui volti dei miei compagni, ma io non avevo potuto fare a meno di notare che Spike non aveva neanche accennato al fuori programma dei cani fantasma.

Sapevo che era arrivato il momento di dire a Johanna la verità, perché dopo quello che era successo nel simulatore non avrei più potuto mantenere il segreto.

Lanciai un’occhiata ad Alex dall’altra parte della stanza: non si era mosso di un millimetro durante il discorso di Spike, ma stavolta il suo sguardo era puntato su di me, anziché sulla parete di fronte a lui. Sembrava preoccupato.

Johanna intercettò i nostri sguardi e mi anticipò. Si schiarì la voce per attirare l’attenzione di tutti e poi iniziò a parlare con il suo solito tono controllato e serio.

«Da qui siamo riusciti a seguire tutta la simulazione», disse. «compreso quello che è successo nella sala operativa. Le creature che vi hanno attaccato e che voi non potete vedere si chiamano Hellhounds, sono dei cani fantasma. Ma questo lo sapete già, visto che Kaitlyn ve l’ha spiegato. Abbiamo seguito tutta la spiegazione e ci siamo resi conto che sei molto informata sull’argomento», aggiunse rivolgendosi a me. Non sapendo cosa dire, annuii semplicemente.

«Normalmente» proseguì Johanna, «quando uno di voi diventa un Hellbound ce ne accorgiamo immediatamente: i suoi poteri aumentano a dismisura, gli occhi diventano rosso cremisi e le visite degli Hellhounds rendono il tutto parecchio difficile da nascondere. Inutile dire che disapprovo il tuo ostinato tentativo di tenermi all’oscuro di tutto, ma posso capire perché lo hai fatto, anche se ciò non è una giustificazione.»

Annuii di nuovo.

«Colgo l’occasione per mettervi al corrente dei rischi che i vostri poteri comportano», disse rivolgendosi ai miei compagni. «Uccidere qualcuno usando i vostri poteri, vi farà diventare Hellbounds. La leggenda relativa a questa storia sembra semplicemente l’invenzione di qualcuno con troppa fantasia, ma avete avuto modo di vedere che in realtà c’è un fondo di verità, a cui non siamo riusciti a dare una spiegazione scientifica. Si potrebbe pensare a una sorta di allucinazione, ma non è così. Non so se esista o meno l’inferno, ma so per certo, che quei cani, fantasmi o no, possono davvero uccidere. Perciò è mio dovere mettervi al corrente di questa situazione; state attenti a come usate i vostri poteri», dichiarò. «Nonostante ciò, se mai doveste uccidere qualcuno usando armi comuni, non vi accadrebbe niente.»

Visto che i miei compagni rabbrividirono o sussultarono nel sentirle pronunciare quelle parole, Johanna si affrettò a spiegare: «Ragazzi, non potete continuare a considerare quest’ipotesi troppo lontana dalla vostra realtà. Ormai siete in guerra. Che sia per autodifesa, per prevenzione o per ordini superiori, prima o poi vi capiterà di uccidere qualcuno. E la cosa non deve assolutamente lasciarvi spiazzati. Imparate ad affrontare ogni cosa con razionalità e riflettete sempre prima di agire. Non lasciatevi dominare dalle emozioni in nessun caso. Questa è l’arte del sopravvivere, a se stessi e agli altri.»

Le sue parole confermarono le teorie che avevo formulato dopo il suo discorso del primo giorno: eravamo in guerra.

Dopo averci dato le ultime informazioni, Johanna ci congedò lasciandoci liberi per il resto della giornata. Prima che potessi uscire dalla stanza, però, mi trattenne per parlarmi in privato.

«Kaitlyn, io purtroppo non posso aiutarti molto. Però, sulla base di informazioni raccolte in tanti anni di lavoro, posso darti qualche aiuto: per prima cosa, sappi che le uniche armi che possono ferire gli Hellhounds sono il tuo potere e l’argento. Le armi da fuoco non hanno effetto. Abbiamo una scorta di pugnali in argento al Livello 1, potrai servirtene liberamente. Ti consiglio di portarne sempre almeno un paio con te.»

«Grazie», dissi sinceramente.

«Inoltre, mi farebbe piacere se ogni tanto mi comunicassi un resoconto sulla situazione; tredici sono tanti e io voglio essere al corrente della frequenza con cui si presentano. Nel caso in cui dovessi restare ferita, sai dov’è l’infermeria», concluse lanciando un’occhiata ad Alex, che nel frattempo si era avvicinato a noi.

«Grazie», ripetei nuovamente.

Johanna mi sorrise e io feci per uscire dalla stanza con Alex al fianco.

«Ah, Kaitlyn, un’ultima cosa», disse Johanna richiamando la mia attenzione e facendomi voltare. «Mi dispiace per tuo fratello. Sapevamo che aveva avuto un incidente, ma non conoscevamo i dettagli.»

Non dissi nulla e mi voltai di nuovo per andare via. Alex uscì dalla stanza insieme a me, ma aspettò che fossimo abbastanza lontani da Johanna prima di parlare.

«Mi dispiace per la situazione in cui ti sei trovata. Ti avevo suggerito di tenere il segreto solo perché pensavo che fosse la cosa migliore», disse.

«Lo capisco e sono d’accordo con te. Non mi sono pentita di non aver detto prima la verità.»

Alex mi sorrise riconoscente.

«Alex, anche tu sei un Hellbound?», chiesi conoscendo già la risposta.

«Sì», confermò lui. «Ricordi quando ti ho parlato di Callie?» Annuii. Callie era la Telepate della sua generazione, una Hellbound come noi. «Morì durante una missione di protezione in Russia. Dovevamo scortare alcune personalità di spicco della nostra nazione, ma fummo attaccati dai Servizi Segreti russi, che più che alle persone che dovevamo proteggere, puntavano a noi. Sapevano che eravamo le armi segrete della nostra nazione, erano a conoscenza dei nostri poteri. Ci tesero un’imboscata. Tre dei nostri morirono quel giorno, tra cui Callie. Ricordo ancora la scena come se fosse ieri: lei era distesa a terra, aveva perso i sensi; io ero poco distante da lei, con una gamba rotta e senza armi. Vidi un uomo puntare una pistola contro di lei e cercai di fermarlo con l’unica arma che avevo. Ma era troppo tardi: quando quell’uomo soffocò, il colpo era già partito. Non riuscii a salvarla.»

Aveva parlato con voce fredda e controllata, ma guardandolo negli occhi si riusciva a vedere tutto il dolore che cercava di nascondere. «Tu l’amavi, non è vero?»

Alex annuì. «Johanna non approvava. Diceva che in un mestiere come il nostro, innamorarsi di un compagno di squadra può essere la nostra rovina. Non aveva tutti i torti, ma io non potevo farci nulla, lei era l’unica. Forse potrai non capirmi o non condividere la mia opinione, ma io non mi pento di aver provato a salvarla. Per lei avrei attraversato l’inferno senza pensarci due volte.»

Deglutii rendendomi conto che probabilmente quello che stava dicendo si sarebbe avverato. «Lo capisco», dissi. «Sì, anche io lo avrei fatto», conclusi pensando a Ryan.

Quando ami qualcuno, non c’è molto che non faresti per lui. E l’inferno non fa per niente paura se confrontato con l’ipotesi della sua assenza.

Alex mi accompagnò al Livello 1 e mi mostrò dove procurarmi i pugnali d’argento, dopodiché lo salutai e mi diressi verso la mia stanza.

Dopo una doccia veloce, mi stesi sul letto con le braccia spalancate e presi a fissare attentamente il soffitto.

Avevo la giornata libera, ma non sapevo come impiegare il mio tempo.

Non avevo fame, così non andai a pranzo e mi dedicai alla lettura del libro che avevo preso in biblioteca molto tempo prima, ma che non avevo mai iniziato a leggere.

L’opera narrava il viaggio dello scrittore, Dante, attraverso l’Inferno. Il libro era caratterizzato da alcune note a piè pagina che riportavano alcuni passi importanti in italiano e ne fornivano la spiegazione. Dopo le prime pagine, iniziai ad appassionarmi seriamente alla storia, tanto che lottai fino allo stremo contro la stanchezza e cedetti solo alla fine del quarto canto.

 

 

 

 

Futeki

 

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Capitolo 14
*** Amor ch’a nullo amato amar perdona ***


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TREDICI

Amor ch’a nullo amato amar perdona

 

 

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona.

(Dante Alighieri)

 

 

Mi svegliai quando qualcuno bussò alla porta della mia camera. Era Sam. Ricordai di non aver chiuso a chiave la porta della stanza e con la voce ancora impastata dal sonno gli dissi di entrare.

Quando mi vide seduta a gambe incrociate sul letto, tutta infreddolita e con l’aria scompigliata di chi si è appena svegliato, scoppiò a ridere.

«Mi ero addormentata», spiegai stiracchiando le braccia.

«Hai fame? Non sei venuta a pranzo», osservò.

Mi concentrai sul mio stomaco per verificare se mi fosse venuta fame, ma dopo un'attenta analisi scossi la testa.

Sam mi sorrise e si sedette sul letto accanto a me. «È stata una giornata impegnativa», disse. Concordai. «Come ti senti?»

«Frastornata», risposi. «Ma credo sia dovuto al pisolino pomeridiano.»

«Bene.»

A quel punto, mi resi conto che probabilmente credeva che fossi scossa a causa di quello che era successo nel simulatore. Non mi aveva visto a pranzo e doveva aver pensato che fossi un po' giù di morale. «Grazie per essere venuto», dissi improvvisamente.

Lui sorrise. «Lo stai leggendo», disse notando il libro sul mio letto.

«Sì, mi piace.»

«Anche a me è piaciuto molto. L'ho letto qualche mese fa, quando voialtri non eravate ancora arrivati all'Operon. È interessante. Alcuni personaggi hanno storie davvero particolari», disse.

«Per esempio?», chiesi.

«Per esempio Paolo e Francesca, due innamorati condannati alla dannazione nel girone dei lussuriosi.»

«Che canto è?»

«Quinto.»

«Io sono al quarto. Mi hai decisamente incuriosita.»

«Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona», citò in italiano. Non capii neanche una parola.

«Che significa?», chiesi.

«Lo scoprirai da sola», rispose sorridendo. «Hai programmi per il pomeriggio?»

«No. Proposte?»

«Cassidy suggeriva di uscire a farci un giro. Ti va?», propose.

Annuii.

«Allora ci vediamo più tardi, vado a farmi una doccia», disse alzandosi dal mio letto.

«Va bene, a dopo.»

Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Mi ritrovai di nuovo sola e pensai per un istante che avrei preferito che Sam restasse con me.

Negli ultimi mesi io e Sam avevamo legato molto. Trascorrevamo molto tempo insieme, soprattutto perché eravamo partner – così ci aveva definito Johanna – in ogni missione, quindi ci allenavamo spesso insieme.

Inoltre, fino ad oggi Sam era stato l’unico a conoscenza del mio segreto. Nonostante detestassi ammetterlo, mi ero particolarmente affezionata a lui.

Ripresi a leggere il mio libro. Arrivai finalmente alla storia dei due innamorati, Paolo e Francesca. I due, erano stati cognati in vita, poiché Francesca era sposata con Gianciotto, fratello di Paolo. Francesca spiega a Dante come la loro relazione aveva avuto inizio: leggendo un libro che narrava l'amore tra Lancillotto e Ginevra, i due furono travolti da un’improvvisa passione che li portò a baciarsi. Fu proprio il loro amore che li condusse entrambi alla morte per mano del marito di Francesca.

Sebbene la storia fosse molto triste, l’enfasi con cui Francesca raccontava del suo amore proibito mi commosse.

Amor ch’a nullo amato amar perdona.

Trovai una nota a piè pagina che spiegava come, in questo passo, il poeta intendesse dire che questo amore obbliga chi è amato ad amare a sua volta.

Riflettei sul significato della frase; era una visione molto ottimistica della realtà: dal punto di vista di chi ama, significherebbe avere la certezza di essere amati in cambio.

Chiusi il libro di scatto quando mi resi conto che mi stava spingendo verso riflessioni che non volevo davvero fare.

Non avevo mai pensato troppo all’amore. Ne avevo letto parecchio nei libri, ma l’avevo sempre considerato un concetto astratto e ben lontano da me. Per di più, l’unica volta che avevo provato a uscire con un ragazzo (su suggerimento di Jordan) le cose erano andate decisamente male.

Per ammazzare il tempo, feci un’altra doccia e mi costrinsi a lottare contro i miei ricci ribelli.

 

 

Quella sera, a Seattle faceva davvero freddo. Abituati alle miti temperature della base dell’Operon, il gelo della città ci colse di sorpresa. Eravamo sotto Natale, quindi le strade erano addobbate con ogni sorta di lucine colorate. Il clima festivo ci mise immediatamente di buon umore. Vagammo per le strade affollate per un bel po’, finché non ci ritrovammo distesi sull’erba di quello stesso parco in cui due mesi prima avevamo trascorso il pomeriggio a parlare delle nostre paure.

Da allora erano cambiate molte cose. Adesso ci conoscevamo molto meglio, non eravamo più reclute di una stessa squadra, ma una vera e propria famiglia. Mi guardai intorno e mi resi conto di aver trovato qualcosa di veramente meraviglioso: un gruppo di cui facevo davvero parte. Tin e Jordan erano i miei migliori amici, ma nonostante provassi per loro un profondo affetto, non mi ero mai sentita veramente a mio agio a New York. Io e mia madre ci eravamo trasferite lì per sfuggire ai ricordi di Ryan che riempivano la nostra vecchia casa a Stonington, nel Connecticut, ma ricominciare daccapo era stato davvero difficile. Io, d’altra parte, non ero mai stata brava a farmi degli amici.

Mentre facevo queste riflessioni guardando il cielo notturno privo di stelle, iniziò a nevicare. Mi misi a sedere sull’erba fredda e guardai i miei amici. Sorrisi.

Una mano calda sfiorò la mia guancia fredda e mi fece sobbalzare. Mi voltai e vidi Sam con la mano aperta davanti a me, intento a mostrarmi qualcosa. Un piccolo fiocco di neve si stava sciogliendo sul suo dito.

«Forse dovremmo andare». Lo disse sottovoce, ma gli altri lo sentirono comunque e furono d’accordo. Sam si mise in piedi e mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi. La afferrai e notai quanto fosse calda nonostante le basse temperature. Forse lui era così: aveva sempre un po’ di calore in sé, abbastanza da darne agli altri anche quando faceva freddo.

Rientrammo alla base passando per un ingresso occultato in un piccolo negozio d’abbigliamento. Mentre gli altri si dirigevano verso le proprie stanze, annunciai che io sarei salita al Piano 1 per telefonare a mia madre.

Le raccontai le ultime novità, compresa la simulazione, ma non le spiegai nulla riguardo ai cani fantasma. Dopo mezz’ora di conversazione, riagganciai e chiamai Tin. Le dissi che mi mancava e le parlai un po’ dei miei amici.

«Non dimenticarti di me!», disse lei ironizzando, ma con una punta di reale gelosia nella voce.

«Certo che no, sta’ tranquilla.»

«Kaitlyn, devo dirti una cosa importante.»

«Dimmi», dissi preoccupata.

«Io e Jordan... ecco, noi... stiamo insieme.»

«COSA?!»

«Non sei d'accordo? So che può sembrare strano, ma negli ultimi tempi sono cambiate tante cose. Tu non c'eri e noi abbiamo iniziato a uscire da soli e il nostro rapporto ha iniziato a evolversi...»

«Frena un attimo, Tin! Va bene! Va più che bene! Sono solo... sorpresa, ecco. Non me l'aspettavo.» Non era propriamente vero: ricordai che la prima volta che li avevo visti insieme avevo pensato che fossero fidanzati. Ma con il passare del tempo mi ero abituata all'idea che fossero soltanto buoni amici e la notizia che la mia migliore amica mi aveva appena dato mi aveva colto alla sprovvista.

«Davvero va bene?»

«Certo! Se siete felici non può che farmi piacere.»

«Sono contenta che approvi», disse Tin, «Ne avevo davvero bisogno.»

Non riuscii a capire perché Tin tenesse tanto alla mia approvazione, ma immaginai di trovarmi nella sua situazione: anche io mi sarei comportata come lei. «Siete due persone meravigliose», dissi, «e io non potrei essere più contenta.»

Mi raccontò della prima volta che si erano baciati e di quando erano andati insieme a una festa di compleanno, proprio come coppia. La mia amica sembrava davvero felice, quindi la lasciai parlare il più possibile, aggiungendo solo qualche commento entusiasta al momento giusto.

«Tu, invece? Hai conosciuto qualche ragazzo interessante?», chiese improvvisamente.

Ero del tutto impreparata a rispondere a quel tipo di domanda. «Io? Ma no, che dici!»

«Ma sì, dai! Per esempio quel ragazzo con cui hai parecchie lezioni, il tuo compagno di laboratorio… com’è che si chiamava? Sean?»

«Sam.» Per Tin, lui era il mio compagno di laboratorio e frequentavamo insieme molti corsi.

«Proprio lui! Me ne parli poco, ma quando lo fai hai sempre un tono di voce particolare.»

«È una tua impressione», protestai. Nel frattempo, mi accorsi che Alex era arrivato sul balcone dove stavo chiacchierando con la mia amica.

«Johanna vi vuole tutti riuniti al Livello 2 tra dieci minuti», mi disse bisbigliando. Annuii.

«…e poi non me la racconti giusta. Degli altri mi hai raccontato i più insignificanti dettagli, ma di lui… niente!», continuava a dire Tin.

«Tin, adesso devo proprio andare. Ti richiamo appena posso.»

«Non credere di poterla scampare così. Ne riparleremo.»

«Certo», sospirai. «Buonanotte.»

«Buonanotte Kaitlyn. Ti voglio bene.»

«Anch’io te ne voglio.» Riagganciai.

Dieci minuti dopo, ero al Livello 2 insieme agli altri. C’erano anche Spike, Colton, Leslie e tutti i membri della Generazione Gamma. Johanna ci aveva riuniti lì perché aveva un importante annuncio da fare.

«Ben presto, voi ragazzi della Generazione Beta, affronterete la vostra prima missione», disse entusiasta. Noi ci guardammo a vicenda, un po’ preoccupati ma allo stesso tempo eccitati dall’opportunità di poter finalmente scendere in campo dopo tanto addestramento.

«Si tratta di una missione di protezione a basso rischio: dovrete accompagnare un uomo per noi molto importante a un party ed evitare che gli accada qualcosa di spiacevole. Parteciperete alla missione voi sette, i più giovani, dato che i rischi che qualcosa vada storto sono molto bassi e vi ritengo comunque sufficientemente preparati ad affrontare la vostra prima missione.»

Sorrisi a quell’affermazione. Eravamo più che pronti.

«Il 23 dicembre, si svolgerà un meeting riservato a tema scientifico a San Francisco. In un locale privato si terrà un party d’intrattenimento per tutti gli ospiti. Un paio d’ore dopo l’inizio del party, i partecipanti invitati al meeting si ritireranno in una stanza al piano superiore del locale. Uno degli invitati è il professor Yates e il vostro compito è quello di scortarlo al meeting.»

«Chi è il professor Yates?», chiese Jessica anticipandoci tutti.

«È lo scienziato dell’Operon che si occupa dello studio degli albi, i fiori da cui si ricava il polline che costituisce la sostanza fondamentale per provocare le vostre mutazioni genetiche», rispose Johanna.

«I nostri poteri», dedusse Kevin.

Johanna annuì. «Yates è il più grande esperto nel suo settore ed è una risorsa preziosa non solo per noi, ma anche per una divisione russa di spionaggio che è a conoscenza dei nostri esperimenti genetici e da anni cerca di appropriarsene. In teoria, il meeting, in quanto riservato, dovrebbe essere sicuro e non dovreste avere problemi. Ma in caso contrario dovrete essere pronti a intervenire.»

Annuimmo tutti.

«Quando si parte?», disse entusiasta Tom.

«Domani», disse Sam. «Il 23 dicembre è domani.»

«Già. Perciò andate a dormire adesso, domani sarà una lunga giornata!», disse Johanna.

Ci voltammo e uscimmo dalla stanza chiudendoci la porta alle spalle. Cercai Sam con lo sguardo per chiedergli qualche dettaglio in più su missioni di questo genere, ma lui mi anticipò posandomi un dito sulle labbra e facendomi segno di tacere. Nel frattempo, i nostri amici ci avevano già distanziato un bel po’. Attraverso la porta da cui eravamo appena usciti, si sentivano delle voci.

«Johanna, io non credo che sia il caso.» Era Alex.

«Smettila di protestare e da’ loro un po’ di fiducia», replicò Johanna.

«Questa missione è un’incognita. Certo, non avranno problemi se davvero la notizia del meeting non è trapelata, ma tu stai dando per scontato che non accadrà nulla. Se davvero dovessero presentarsi degli agenti russi sul posto, cosa credi che potranno fare sette ragazzi alle prime armi?». Era sinceramente preoccupato.

«Non accadrà nulla», replicò lei. «Non è neanche poi così lontano. I ragazzi se la caveranno da soli per una notte.»

«Stai cambiando discorso.»

«Master, quello che dice Alex non è del tutto sbagliato», intervenne un’altra voce. Era Luke. «Se davvero gli agenti russi cercassero di rapire il professore, i ragazzi non riuscirebbero a proteggerlo a dovere.»

«Ma questo non succederà, perché la notizia del meeting è rimasta segreta», replicò lei con una grande convinzione.

«E per quanto riguarda la talpa?», disse Alex.

Ci fu qualche attimo di silenzio. «La stiamo cercando», disse poi Leslie, «ma finora abbiamo ottenuto scarsi risultati.»

«Pensi che non siamo al sicuro?», disse Johanna. Le sue convinzioni iniziavano a vacillare.

«È un dato di fatto.»

«Alex, se davvero credi che i ragazzi possano essere in pericolo, allora non posso lasciarli andare. Sono io che prendo le decisioni in questo posto, ma ho sempre accettato di buon grado ogni tipo di consiglio e senza la tua fiducia non me la sento di mandarli in missione da soli. Però voi della Generazione Gamma siete impegnati in un’altra missione domani sera e Yates non accetterà mai di rinunciare al meeting. Che dovrei fare, secondo te?»

«Legarlo al letto mi sembra una buona soluzione.»

«Alex, dico sul serio.»

«Non lo so, Johanna. Ma non puoi mandare quei ragazzi allo sbaraglio.»

«Andrò anch’io con loro», intervenne Spike. «Posso coordinare l’operazione da lì, anziché dalla base. Leslie prenderà il mio posto qui.»

«Mi sembra una proposta ragionevole», acconsentì Johanna.

«Vado anch’io», disse un’altra voce. «Potrei guidare io l’elicottero, ho il brevetto.»

«Per me va più che bene», acconsentì Johanna. «Allora Colton guiderà l’elicottero e Spike dirigerà le operazioni sul posto. Leslie invece resterà alla base. Per quanto riguarda la vostra missione», disse rivolgendosi probabilmente a Luke e Alex, «dovremmo trovare un altro tecnico che coordini le operazioni dalla base.»

«Perfetto», disse Alex.

«Sei più tranquillo?», gli chiese Johanna.

Non udimmo risposta, forse Alex aveva semplicemente annuito, oppure, più probabilmente, non aveva risposto affatto. Sentimmo dei passi avvicinarsi alla porta e Sam mi trascinò via prima che qualcuno potesse uscire da quella stanza e beccarci a origliare.

«Pensi davvero che ci sia un traditore all’Operon?», chiesi a Sam quando fummo abbastanza lontani.

«Sì», rispose lui. «Li hai sentiti anche tu. Cercano una talpa. E Alex a quanto pare è parecchio preoccupato a riguardo», aggiunse pensieroso.

Non sapevo cos’altro dire. Che ci fosse davvero una talpa all’interno della base poteva essere un grande rischio per noi, ma non vedevo cosa potessimo fare noi dalla nostra impotente posizione di neo-agenti.

«È inutile rimuginarci troppo», disse Sam come se mi avesse letto nel pensiero. «Andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata.»

Mi lasciò davanti alla mia stanza e mi salutò con un bacio sulla guancia. «Buonanotte Kaitlyn», disse. Io arrossii.

«Buonanotte», dissi poi mentre si allontanava, lieta che il buio avesse celato il mio imbarazzo.

 

 

 

 

N.d.A.: Il titolo del capitolo è, ovviamente, un riferimento allo stesso passo dell’Inferno di Dante citato dai personaggi. Inoltre, per una piacevole coincidenza, mi trovo a pubblicare questo capitolo carico di atmosfera natalizia proprio sotto Natale, per cui colgo l’occasione per augurare a tutti buone feste!

Futeki

 

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Capitolo 15
*** Meeting ***


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QUATTORDICI

Meeting

 

 

 

Il primo bacio è un furto.

(Ramón Gómez de la Serna)

 

 

 

 

«Stai scherzando? Io quei cosi non li metto.»

Ero perfettamente consapevole che agli occhi di Madame Korinne dovevo sembrare una bambina capricciosa, ma le scarpe che mi aveva proposto erano decisamente troppo alte per me.

«Ma Mademoiselle! Sarà una festa di lusso, devi presentarti in modo adeguato per non dare nell'occhio!», replicò la stilista con il suo forte accento francese.

«Darò sicuramente nell'occhio se inciampo in mezzo alla sala», dissi acida. «E poi sono in missione, devo essere pronta a qualunque cosa e quelle scarpe mi impedirebbero di correre.»

Dopo una lunga riunione per discutere dei dettagli della missione, Johanna aveva accompagnato me, Cassidy, Tom e Sam al Piano 3, che in realtà consisteva in un'enorme boutique piena di vestiti di ogni genere. La stilista, Madame Korinne, era una donna sulla quarantina, di origini francesi e si occupava dell'abbigliamento degli agenti.

Quattro di noi, a coppie, avrebbero partecipato al party sotto copertura, mentre gli altri tre avrebbero controllato l'esterno. Io e Sam eravamo la prima coppia, Cassidy e Tom l'altra.

Madame Korinne si era divertita moltissimo a far provare a Cassidy decine di vestiti, finché non ne aveva scelto uno verde smeraldo che le donava moltissimo. Aveva completato l'abbigliamento con un paio di scarpe della stessa tonalità di verde e gioielli in oro che richiamavano il colore dei capelli di Cass. Era splendida.

Mentre Madame Korinne si adoperava per trovare il vestito perfetto per Cass, io ero rimasta seduta in disparte  a guardarle divertirsi, ma finito con lei, decise di dedicarsi a me.

Io però, non ero altrettanto semplice da gestire. Avevo provato almeno una dozzina di vestiti, ma mi sembravano tutti troppo scollati o troppo corti o troppo... non da me. Alla fine avevo optato per un vestito blu scuro che mi sembrava abbastanza adatto. Era molto semplice, senza spalline e non esageratamente corto. Le scarpe abbinate, però, erano decisamente troppo alte per me.

«Niente proteste, Mademoiselle. Metterai queste scarpe, j'ai décidé», decretò Madame Korinne.

Prima che potessi protestare, nella stanza entrò Sam. Indossava dei semplici jeans e una camicia nera molto elegante, che gli conferiva un'aria decisamente sexy.

Approfittai del suo arrivo per distogliere l'attenzione da me: «Siamo pronti?», gli chiesi.

Lui annuì sorridendo. Sembrava particolarmente allegro. «Sì, stiamo per partire.»

Per lui, come per noi, si trattava della sua prima missione, ma Sam, a differenza di noialtri, aveva atteso molto più a lungo prima di poter scendere in campo. Era logico che fosse emozionato.

«Très bien, allora sbrigati a indossare le tue scarpe, Mademoiselle», intervenne Madame Korinne. Era impossibile averla vinta con lei.

 

 

Sull’elicottero eravamo in undici. Oltre a noi sette, c’erano Colton, alla guida del velivolo, Spike, impegnato a ticchettare sulla tastiera di un computer portatile, Trevor, un tecnico che ci accompagnava nell’operazione, e il professor Yates. Il professore, che non aveva detto neanche una parola durante il viaggio, mi era sembrato una persona scostante e burbera, ma in un secondo momento mi resi conto che era semplicemente assorto nei suoi pensieri. In realtà, dal sorriso enorme che mi rivolse quando gli raccolsi da terra una penna che gli era caduta, dedussi che doveva essere davvero una persona gentile. «Grazie mille, signorina», mi aveva detto.

Trascorsi gran parte del viaggio a riflettere su ciò che avrei dovuto fare quella sera. La missione era semplice, sarebbe filato tutto liscio, ma non ero comunque tranquilla.

Nonostante le scarpe decisamente poco pratiche, nel vestito mi sentivo perfettamente a mio agio. Per la prima volta da quando Ryan se n'era andato, mi sentivo davvero bella. Lui me lo diceva sempre: "Sei bellissima, Kait, non dubitarne mai". Non mi interessava se fosse la verità o meno, ma sentirglielo dire mi riempiva di gioia, ed ero così raggiante che qualunque ragazza sarebbe stata bellissima con un sorriso del genere costantemente stampato sul viso.

Sam mi distolse dai miei pensieri su Ryan dandomi un colpetto sulla spalla. Fece un cenno con il mento in direzione del finestrino, invitandomi a guardare fuori. San Francisco di notte era davvero spettacolare e vederla dall'alto la rendeva ancor più mozzafiato.

«Ci siamo», disse Colton con una punta di entusiasmo nella voce. «Arrivo a San Francisco registrato per le ore ventuno e diciannove», disse con voce chiara, rivolgendosi a un tecnico della base, parlando attraverso il microfono collegato alle cuffie che indossava dall'inizio del viaggio.

«Siamo pronti all'atterraggio. Via libera per la pista?», domandò, probabilmente a Leslie.

Dopo aver ottenuto il permesso di atterrare, Colton guidò l'elicottero verso un palazzo altissimo, dotato di pista d'atterraggio sul terrazzo. La discesa fu lenta e tranquilla e alla fine atterrammo morbidamente sul soffitto del palazzo.

Kevin, Robb e Jessica scesero per primi insieme a Trevor, Colton rimase seduto alla guida dell'elicottero. Neanche Spike si mosse. Fece cenno a me, Sam, Tom e Cass di scendere, poi riportò la sua attenzione sul computer che aveva sulle ginocchia. Rimanemmo tutti a fissarlo per qualche secondo, finché lui non alzò la testa e si rivolse a noi con espressione compiaciuta. «Siete dentro», disse sorridendo. «Per entrare serve un documento di identità e che il vostro nome compaia sulla lista degli invitati», spiegò. «Questi sono i vostri documenti», disse porgendo a ognuno di noi un documento di identità falso, «e per quanto riguarda la lista, ci ho pensato io: ho inserito i vostri nomi falsi all'interno dell'elenco degli invitati.»

Sorrisi tranquilla: Spike era davvero il migliore nel suo campo.

Memorizzammo i nostri nuovi nomi e ci avviammo giù per il palazzo, scendendo per la scala antincendio. Il party si teneva nel palazzo accanto. All'ingresso, due uomini vestiti completamente di nero controllavano su un dispositivo elettronico la lista degli invitati man mano che questi ultimi entravano nel locale.

Quando arrivò il nostro turno, Sam disse sia il suo nome che il mio, lasciandomi solo il compito di mostrare il mio documento. Gliene fui grata, considerando che sicuramente la mia voce non sarebbe stata ferma e sicura come lo era stata la sua.

Una volta dentro mi tranquillizzai. Era filato tutto liscio e in mezzo alla folla non avremmo sicuramente dato nell'occhio. La sala era enorme e consisteva in un ampio spazio centrale (la pista da ballo, probabilmente) e tanti lunghissimi tavoli da rinfresco addossati alle pareti. In un angolo, c'erano alcune poltrone e dei divani, sui quali stavano seduti alcuni uomini che chiacchieravano animatamente fumando sigari, il cui odore pungente arrivava fino a me.

Dopo qualche minuto vidi entrare il professore nella sala, seguito da Cass e Tom. Non ci avvicinammo a loro, né facemmo alcunché che potesse rivelare che ci conoscessimo. Era fondamentale fingere di non avere nulla a che fare con il professore.

«Posso portarti qualcosa da bere?», disse Sam. Mi resi conto che stavo fissando troppo insistentemente il professore e anche il mio partner probabilmente se n'era accorto.

«Certo», dissi noncurante. Sam mi sorrise e si allontanò. Mi pentii di aver acconsentito, visto che ora mi trovavo sola al centro di una sala piena di sconosciuti. La gente intorno a me chiacchierava, si salutava, rideva, mentre qualcuno, probabilmente del personale addetto, armeggiava vicino a un enorme impianto stereo. Mi guardai più attentamente intorno, cercando di individuare gli scienziati che avrebbero preso parte al meeting. Se non avessi visto già i loro volti sullo schermo della sala operativa quella stessa mattina, non sarei mai riuscita a riconoscerli. Il professore stava conversando allegramente con un altro scienziato e in quel momento mi resi conto che per la prima volta da quando l'avevo incontrato, non aveva la testa fra le nuvole. In quel momento arrivò Sam, che mi distolse dai miei pensieri sul professore.

«Champagne», disse sollevando uno dei bicchieri che aveva in mano. «Purtroppo è una festa di lusso, quindi niente coca-cola», disse sorridendo.

«Meglio così», sorrisi anch'io.

Sorseggiai il mio champagne cercando di iniziare una conversazione con Sam, per non dare troppo nell'occhio stando in silenzio fermi al centro della sala.

«Stasera sei davvero elegante», dissi con poca fantasia. «Il nero ti dona particolarmente.» Era vero: il nero richiamava il colore profondo dei suoi occhi, rendendoli ancora più impenetrabili. Mi sforzai ancora di distinguere l'iride dalla pupilla, ma senza successo.

«Grazie», rispose lui, «ma sono io a dovermi complimentare con te. Sei splendida.»

Lo disse con talmente tanta naturalezza che arrossii. In quel momento bruciai dal desiderio di sapere cosa pensasse di me in realtà.

«Vado a prendere altro champagne», dissi rapidamente, poi gli diedi le spalle e sparii tra la folla cercando di dissimulare il mio imbarazzo.

Una volta giunta al tavolo dove erano servite le bibite, mi soffermai per un istante ad ammirare l'enorme quantità di liquidi diversi che c'erano su quel lungo tavolo. Nonostante la grande varietà di bibite, l'odore che proveniva da quel tavolo era dolce e inebriante.

«Posso offrirti da bere?», mi chiese una voce alle mie spalle. Mi voltai lentamente e mi trovai faccia a faccia con un uomo sulla trentina, alto e molto curato nell'aspetto. Se avessi rifiutato la sua offerta sarebbe potuto sembrare sospetto: che altro può fare una ragazza a una festa del genere se non bere e parlare con la gente che incontra?

«Volentieri», risposi con il sorriso più sincero che riuscissi a ottenere.

L'uomo sorrise. Si avvicinò al tavolo e iniziò a versare qualcosa in un bicchiere vuoto. «Tutte le bibite servite stasera sono di ottima qualità, ma nessuna batte questo meraviglioso champagne.»

«Grazie», dissi prendendo il bicchiere che mi stava porgendo. Ne riempì uno anche per sé, poi lo avvicinò al mio per farli tintinnare in un silenzioso brindisi.

«Come ti chiami?», mi chiese.

«Clara», dissi utilizzando l'identità di copertura.

«Io sono Mike», disse lui. «Quanti anni hai?»

Iniziava a fare troppe domande. «Ventuno», mentii ancora. Bevvi una generosa sorsata di champagne. Era lo stesso che mi aveva preso Sam.

Lui non mi disse la sua età. «E sei qui con qualcuno?»

«Sì», risposi cogliendo l'opportunità.«Anzi, probabilmente mi starà aspettando. Farei meglio ad andare», dissi rapidamente. «Grazie ancora», aggiunsi sollevando il bicchiere.

Senza aspettare una risposta, mi voltai e sparii tra la folla. Mi resi conto che la cosa migliore da fare sarebbe stata tornare da Sam il prima possibile, considerando che avevamo l'ordine di non separarci mai. Presi al volo altri due bicchieri di champagne e quando finalmente ritrovai il mio partner, gli dissi che avevo trovato folla al tavolo delle bibite, senza raccontargli di Mike.

«Non andartene più», mi disse, «restiamo uniti.»

Annuii. Guardai l'orologio: le dieci e cinquantasei. «Tra poco si riuniranno per il meeting», dissi.

«Dovremmo cercarlo», disse lui. «Teniamolo d'occhio fino a che non sarà entrato nella sala al piano di sopra.»

Individuammo il professore tra la folla e lo seguimmo tenendoci a distanza. Nel frattempo, bevvi il mio bicchiere di champagne e anche quello di Sam, che aveva detto di non volerne più.

«Non starai esagerando?», mi chiese perplesso. Non sapeva che avevo bevuto anche il bicchiere che mi aveva offerto Mike. «No», risposi tranquilla.

«Bere senza ubriacarti fa parte dei tuoi poteri?», disse prendendomi in giro.

In risposta, gli feci una linguaccia, mostrando la maturità di una bimba di sei anni. Sam scoppiò a ridere.

«Guarda, stanno uscendo», disse poi indicando una porta da cui stavano uscendo il professore e gli altri scienziati e ricercatori invitati al party. Per la prima volta dall'inizio della festa, vidi Cassidy e Tom. Erano non troppo lontani dal professore e si tenevano per mano.

«Tutto in ordine», disse. Sembrava parlasse con me, ma io sapevo che in realtà aveva acceso il microfono in dotazione all'auricolare che portava sull'orecchio destro, nascosto tra i capelli. «Procedete alla seconda parte.»

La seconda parte del piano, prevedeva che Jessica, Kevin e Robb, che fino a quel momento erano stati in tutte le stanze del piano superiore a piazzare microfoni e videocamere, uscissero fuori e controllassero il perimetro. A quel punto, tenere d'occhio il professore era compito di Trevor, che aspettava fuori al locale con un computer collegato a quelle stesse microspie. Anche Spike dall'elicottero stava monitorando la situazione. A quel punto, a me e Sam non restava altro da fare che aspettare.

«Vuoi ballare?», propose Sam con un enorme sorriso. Mi resi conto che la musica era diventata quasi assordante e le persone intorno a noi avevano iniziato a ballare.

Io non volevo, ma come potevo rifiutare? «Certo.»

Mi avvicinò delicatamente a sé, poggiando le mani sui miei fianchi; io gli cinsi il collo con le braccia.

In quel momento mi resi conto di quello che stavo facendo e avvampai. «Lasciamo perdere», dissi staccandomi da lui.

«Perché? Dai, ci divertiamo! È un'occasione più unica che rara», mi disse tenendomi per un braccio. Le guance mi bruciavano e mi girava un po' la testa. Avrei preferito uscire all'aria aperta, ma come potevo non cogliere l'opportunità di ballare con lui?

Un'occasione più unica che rara, aveva detto Sam. Lui si riferiva alla serata in generale, dove avremmo potuto divertirci per un po'. Io mi riferivo all'opportunità di stare un po' da sola con lui.

Lasciai che mi abbracciasse e lo strinsi a mia volta. Appoggiai la testa sulla sua spalla. Non sentivo la musica, non riuscivo a distinguere il ritmo a cui si muovevano le persone attorno a me. Tutto ciò che vedevo e sentivo era Sam. Il suo profumo, il suo calore, i suoi movimenti.

«Sei fortunata che ci sia solo io qui con te», disse lui.

Era verissimo. Mi sentivo fortunata. Per la prima volta da quando Ryan non c'era più mi sentivo completa, come se l'enorme ferita lasciata dalla sua scomparsa avesse smesso di pulsare per un po', come se mi avesse concesso una tregua.

«Se ci fosse stato qualcun altro», aggiunse lui, «saresti finita nei guai.»

Non capii. Sollevai la testa e lo guardai negli occhi con aria interrogativa, ma il movimento fu troppo brusco, quindi mi si appannò la vista.

«Dato che sei ubriaca alla tua prima missione», concluse.

«Io non sono ubriaca», risposi di getto, ma se lo fossi stata, me ne sarei resa conto? Non credo.

Mi concentrai su me stessa e mi resi conto che stavo sudando e mi sentivo parecchio confusa. Era colpa dell'alcool oppure era semplicemente dovuto all'effetto che Sam ha su di me? Lo guardai. Che fossi ubriaca o meno, non c'era dubbio che per lui provavo più di quanto volessi ammettere.

Lui sorrise. «Sì, sei ubriaca.»

Quando sorrideva in modo così sincero, il sorriso gli si estendeva agli occhi, dandogli una luce nuova. Il sorriso sfumò lentamente quando si rese conto che lo stavo osservando. Aveva gli occhi fissi nei miei.

Lo baciai.

In quel momento, un lampo di lucidità mi fece rendere conto che ero davvero ubriaca. Ma non mi pentii di quel bacio. Lo volevo, lo desideravo ardentemente. Lui mi scostò delicatamente. Ci misi qualche secondo a rendermi conto che mi aveva respinto.

«Kaitlyn...», iniziò lui con espressione dispiaciuta, ma io già non lo ascoltavo. C'erano troppe cose che non riuscivo a vedere con chiarezza. L'avevo baciato o no? Le mie labbra avevano sfiorato le sue o lui mi aveva fermato prima che potessi sentire il suo sapore?

Un enorme senso di vuoto mi travolse. Mi salirono le lacrime agli occhi. Quello che provai fu un misto tra frustrazione, dispiacere e delusione. Mi vergognai di averci provato, ma ancora non me ne pentii.

«Kaitlyn», ripeté lui con più decisione. Voleva che lo guardassi negli occhi. Non lo feci.

«Vado a prendere una boccata d'aria», dissi staccandomi da lui. Sam provò a seguirmi, ma io mi mossi rapidamente nella folla, nonostante mi sembrasse di cadere ad ogni passo. Quando arrivai fuori, la mia mente aveva già ripreso a funzionare almeno in parte. Sapevo ciò che era successo, ero in grado di distinguere i miei pensieri dalla realtà. Feci un profondo respiro. Mi diedi della stupida per essermi ubriacata durante la mia prima missione.

Sam mi raggiunse fuori. «Stai bene?»

Che domanda stupida. «Sì», mentii.

«Guarda che lo capisco quando mi dici una bugia.»

Lo guardai intensamente. Cosa vuoi che ti dica?, pensai con tristezza.

Come se mi avesse letto nel pensiero, anche Sam si intristì.

In quel momento, udimmo due spari. L'auricolare di Sam si attivò e Spike prese a parlare dall'altra parte del microfono con voce talmente alta che perfino io potevo sentirlo.

«Emergenza al piano uno», decretò Spike. «Due ricercatori sono stati feriti, abbiamo individuato alcuni agenti russi.»

Mi alzai di scatto e io e Sam tornammo all'interno del locale di corsa. Molte teste si voltarono verso di noi, ma a quel punto la discrezione passava in secondo piano.

«Hanno armi da fuoco, sono almeno in cinque», disse Spike fornendoci dettagli. Sam mi ripeteva le sue istruzioni. Salimmo di corsa al piano superiore e facemmo irruzione nella sala dove si era tenuta la conferenza. Quasi tutti gli scienziati erano a terra in stato di incoscienza. Due di loro perdevano sangue. Il professor Yates non c'era. Dietro di noi arrivarono Cassidy e Tom.

«Devono essere già usciti», dedusse Tom.

«Sono all'esterno», confermò la voce di Spike attraverso l'auricolare di Sam. Uscimmo di corsa dall'edificio, io e Cassidy ci togliemmo le scarpe per essere più libere di correre. Madame Korinne non sarebbe stata affatto contenta della nostra decisione.

Una volta fuori, individuammo tre SUV neri con i finestrini oscurati che partivano contemporaneamente dal parcheggio sul retro del palazzo.

«In uno c'è il professore, gli altri due sono diversivi», suppose Sam. Incontrammo Jessica, Kevin e Robb, che erano stati attirati dall'altra parte del parcheggio con una piccola esplosione provocata probabilmente per distogliere l'attenzione dai SUV.

«Dobbiamo seguirli tutti e tre?», chiese Cassidy.

«Siamo a piedi», le ricordò Sam.

«In realtà abbiamo un elicottero», suggerì Kevin.

«Dobbiamo solo capire qual è il SUV giusto», concluse Robb.

«No», disse Sam, «se anche riuscissimo ad individuare il SUV in cui tengono il professore non possiamo di certo seguirli. Devono avere un jet o un elicottero che li aspetta da qualche parte per lasciare questo Stato.»

«Allora dobbiamo muoverci», insisté Tom.

«Ritirata», esclamò la voce di Spike dall'auricolare. Aveva attivato il vivavoce.

«Cosa?!», esclamarono quattro voci all'unisono. Tom, Cassidy e i gemelli, non avevano intenzione di abbandonare la missione.

«Mi avete sentito. Ritirata.»

«Non possiamo andarcene così. Dobbiamo salvare il professore!», protestò Tom.

«No, dovete raggiungere il tetto di questo palazzo e salire sull'elicottero senza costringermi a venirvi a prendere per le orecchie.»

«Andiamo», concluse Jessica. «È meglio starlo a sentire.»

«No!», protestò Kevin. «Dobbiamo muoverci.»

«Siamo disarmati! E inesperti», fece notare Sam.

«QUI SONO IO CHE COMANDO, QUINDI SALITE IMMEDIATAMENTE SU QUESTO MALEDETTO ELICOTTERO.» Spike sembrava parecchio arrabbiato.

«Andiamo», ripeté Jessica.

Salimmo scoraggiati su per le scale antincendio e raggiungemmo l'elicottero. Spike ci aspettava ticchettando nervosamente sul computer. Colton era già alla guida e Trevor comunicava la situazione alla base. Appena fummo saliti sull'elicottero, Spike chiuse rumorosamente il portellone e Colton accese i motori. Durante il viaggio di ritorno, rimanemmo tutti in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Io non riuscivo a concentrarmi su ciò che era successo al professore, continuavo a rivedere nella mia mente me che cercavo di baciare Sam e lui che mi respingeva. Alla fine, stremata dalla stanchezza, dai pensieri opprimenti e dai residui dell'alcool, cedetti al sonno.

 

 

 

 

N.d.A.: Per quanto riguarda il personaggio di Madame Korinne, ho volutamente scritto in francese alcune parole dei suoi dialoghi perché nella mia mente appare proprio così: irrimediabilmente francese. Mentre mademoiselle è la comunissima traduzione francese per “signorina”, l’espressione j'ai décidé, molto meno comune, significa “ho deciso”, mentre très bien si traduce con “molto bene”.

Grazie a tutti coloro che seguono la storia, in particolare a La Ragazza Senza_Nome per aver inventato i nomi per le ship tra i personaggi della mia storia: Samlyn (Kaitlyn+Sam) e Kaitlex (Kaitlyn+Alex).

Futeki

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Capitolo 16
*** Scintille ***


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QUINDICI

Scintille

 

 

 

L'amore non è una scintilla effimera,

nata dall'incontro di due desideri,

è una fiamma eterna sprigionata

dalla fusione di due destini.

(Gustave Thibon)

 

 

 

 

Alla base regnava il caos. Johanna correva da una parte all'altra della sala operativa dando ordini e istruzioni, Leslie lavorava contemporaneamente su tre computer. Tutti si muovevano in modo frenetico, come se non ci fosse un secondo da perdere. Alex e gli altri non c'erano, probabilmente erano ancora in missione. Un tecnico di cui non conoscevo il nome ci fece alcune domande per ottenere qualche dettaglio in più: il tipo di SUV, l'ora precisa in cui abbiamo sentito gli spari, la durata del meeting fino a che l'irruzione da parte dei Russi non l'aveva interrotto.

Quando tornammo alla sala operativa principale, Spike e Leslie stavano discutendo.

«Non avete nemmeno provato a seguirli!», protestò Leslie. «Non abbiamo informazioni sufficienti!»

«Eravamo disarmati! Non potevo metterli in pericolo.»

«Disarmati? Ma stai scherzando? Quei ragazzi hanno dei poteri impareggiabili! Altrimenti perché avremmo mandato loro anziché ragazzi qualunque!»

«Non possono usare i loro poteri come armi, Leslie. Non sono pronti. Nessuno di loro è in grado di ferire un nemico senza correre il rischio di ucciderlo. E sai cosa succede a chi uccide con quei poteri.» Repressi un brivido.

«Adesso basta», intervenne Johanna. «Quel che è stato è stato. Spike aveva indubbiamente buone ragioni per ordinare la ritirata. Adesso dobbiamo concentrarci sulla prossima mossa: riprenderci il professore.»

«Cosa proponi?», chiese Sam, rivolgendosi a Johanna con molta più confidenza del solito.

«Un'irruzione nella base nemica.»

«Stai scherzando, spero», protestò Spike.

«Niente affatto. Aspetteremo il rientro degli altri, poi studieremo un buon piano. Dopodomani notte entreremo nella base russa, troveremo il professore e lo porteremo via da lì. Non si aspetteranno che reagiamo così in fretta, saranno impreparati. Noi, al contrario, studieremo bene il terreno di scontro, analizzando per bene le planimetrie dell'edificio.»

«Quindi noi sappiamo dov'è la base russa?», chiesi un po' sorpresa.

«Sì, e abbiamo anche le piante dei vari piani.»

«E come abbiamo ottenuto queste informazioni?», chiesi ancora.

«Avevamo degli infiltrati e ce le siamo procurate qualche tempo fa», tagliò corto Johanna. «Adesso andate a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro.»

Annuimmo e uscimmo dalla sala operativa. Mentre tornavamo nelle nostre stanze, qualcuno espresse il proprio parere sull'iniziativa presa da Johanna. Kevin e Robb erano d'accordo a fare irruzione nella base russa. Cassidy sosteneva che era necessaria una buona preparazione. Jessica non disse nulla e Sam si limitava ad annuire di tanto in tanto. Tom si avvicinò a me.

«Stai bene?», mi chiese. «Sembri stravolta.»

«Sono solo stanca», lo rassicurai con un sorriso, «è successo tutto molto in fretta.»

Tom annuì. «È stata una serata impegnativa.»

Mi pentii immediatamente di avergli mentito. Qualche tempo prima, gli avevo promesso che gli avrei sempre detto la verità. Lui c'era sempre stato per me, era davvero un ottimo amico. Ma non mi andava di dirgli la verità.

«Comunque sappi che per qualsiasi cosa puoi parlare con me. Io ti ascolterò sempre quando ne avrai bisogno», disse. Sapeva che non gli avevo detto la verità, ma non mi stava forzando a parlare.

«Grazie Tom», gli dissi sinceramente riconoscente, «davvero.»

«Ragazzi, dobbiamo parlare.» La voce di Sam fece voltare tutti verso di lui. «Ci vediamo nella mia stanza tra un'ora.» Tutti annuirono.

Cercai di immaginare di cosa volesse parlare, ma non ci riuscii. Mi avviai verso la mia stanza, ma Sam mi bloccò tirandomi per un braccio.

«Sei arrabbiata?», mi chiese.

Mi sorprese. Mi resi conto che forse potevo avergli dato quell'impressione, ma in realtà non ero arrabbiata con lui. Ce l'avevo con me stessa. Scossi la testa.

«Mi dispiace», continuò, «so di averti ferito, ma non potevo lasciartelo fare. Eri ubriaca, avresti potuto pentirtene.»

«Adesso mi stai facendo arrabbiare», dissi con voce fredda. «Assumiti le tue responsabilità. Se non vuoi va bene, lo posso capire, ma sarà una tua scelta, non qualcosa che dipende da me. Io so cosa voglio.»

«Kaitlyn...», iniziò.

«Non provare a negare, Sam!», gli impedii di proseguire. «Mi sbaglio? Provalo. Baciami adesso.»

Sam restò interdetto. Non disse nulla, non si mosse. «Ci vediamo tra un'ora nella tua stanza», dissi. Poi entrai in camera mia e mi chiusi la porta alle spalle.

Una volta dentro, avvertii la solita sensazione che provavo quando gli occhi mi diventavano rossi e per un istante la mia vista si amplificò. Poi chiusi gli occhi e feci un profondo respiro.

Una parte di me, avrebbe voluto che mi baciasse e mi dimostrasse che mi stavo sbagliando. Un'altra parte, quella più realista e dura, sapeva che non mi sbagliavo affatto. Sam non provava per me quello che io provavo per lui. Era chiaro.

Decisi che avrei smesso di piangermi addosso e mi rifugiai sotto un rassicurante getto d'acqua gelata. Giocai per un po' con il mio potere per sfogare l'energia accumulata e impedire che mi tornasse il mal di testa. Era quasi l'alba e tralasciando il pisolino che avevo fatto sull'elicottero, non avevo dormito affatto. Esattamente un'ora dopo ero pronta per andare da Sam. Feci un profondo respiro e uscii dalla stanza. Quando bussai alla porta della camera di Sam, gli altri erano già tutti dentro. Qualcuno era seduto sul letto, qualcuno sul pavimento, come quando avevamo fatto il questionario di storia tutti insieme. Evidentemente, stavano aspettando me per cominciare, poiché quando entrai io, chiudendomi la porta alle spalle, Sam iniziò a parlare.

«Vi ho fatti venire qui perché ritengo importante che sappiate che qui all'Operon c'è una talpa», disse andando immediatamente dritto al punto.

«Una talpa?», chiesero Tom e Cassidy all'unisono.

«Un infiltrato russo», spiegò Sam.

«Johanna lo sa?», chiese Jessica.

«E tu invece come lo sai?», domandò Kevin.

«Sia Johanna che i membri della Generazione Gamma, che alcuni tecnici lo sanno. Io e Kaitlyn li abbiamo sentiti parlarne ieri sera, mentre programmavano la missione.»

Tutti si voltarono verso di me.

«Stanotte siamo stati traditi», proseguì Sam. «Erano soltanto in cinque, quindi dovevano sapere già che a proteggere il professore c'eravamo solo noi ragazzi inesperti. Le persone che conoscevano i dettagli della missione, oltre a noi sette, sono poche: Spike, Colton, Trevor, Leslie, Johanna e i membri della Generazione Gamma. La talpa deve essere uno di loro.»

Tutti si zittirono. Le persone nominate da Sam erano coloro di cui ci fidavamo di più e che rivestivano posizioni importanti all'interno dell'Operon. La situazione era piuttosto grave.

«È inutile cercare di capire di chi si tratti, noi non possiamo fare nulla», concluse Sam. «Ve l'ho detto perché credo sia giusto che lo sappiate. Non possiamo fidarci di nessuno e su ogni mossa dobbiamo riflettere attentamente, per non finire in qualche guaio.»

Tutti assentirono.

Restammo per un po' a chiacchierare nella camera di Sam, poi, sconfitti dal sonno, se ne andarono tutti. Rimasti soli io e Sam, l'aria si caricò di un pesante imbarazzo.

«È meglio che vada», dissi alzandomi dal letto. Misi una mano sulla maniglia, ma alle mie spalle Sam allungò un braccio e tenne chiusa la porta. Rimasi bloccata tra la porta e Sam.

«Aspetta», disse. Mi voltai verso di lui.

Avrei voluto dire qualcosa, chiedergli perché non mi guardava negli occhi, dirgli che mi dispiaceva, che ce l'avevo con me stessa, non con lui. Volevo dirgli che avevo il cuore in gola, il respiro accelerato, i pensieri confusi, che lui mi faceva sentire completa.

Ma non dissi nulla.

Mi baciò.

Per la prima volta, sentii davvero il suo sapore, percepii la sua presenza in modo completo, lo sentii mio.

Riversai in quel bacio tutto l'affetto che ero capace di dare, lo strinsi a me e gli infilai le mani nei capelli come desideravo di fare da tanto tempo. Le sue labbra erano morbide contro le mie, la sua mano destra mi accarezzava la guancia con tenerezza, mentre l'altra era poggiata sulla mia schiena e giocherellava con le punte dei miei capelli.

Sotto le palpebre chiuse, sentii gli occhi diventare rossi di desiderio.

Improvvisamente però, una scarica elettrica mi raggiunse attraverso il suo corpo. Mi scostai di scatto, terrorizzata dalla sensazione orribile che avevo appena provato prendendo la corrente.

Sam mi guardò con un'espressione addolorata. «Mi dispiace», disse, «non sono riuscito a controllarmi.»

Ero sconvolta. «Che diavolo è successo?», domandai in preda al panico.

«Il mio potere non è come il tuo. Tu devi concentrarti per controllare l'acqua, io invece irradio elettricità in modo del tutto spontaneo. Devo concentrarmi per interrompere il flusso elettrico quando tocco qualcuno. Per questo ti ho respinto, stasera. Avevo paura che ti spaventassi troppo e decidessi di starmi lontano.»

Effettivamente, per un secondo fui tentata di uscire da quella stanza e non avvicinarmi mai più a Sam. Ma l'idea era andata in frantumi nell'esatto istante in cui avevo incrociato il suo sguardo dispiaciuto.

«Be', sono ancora viva, no?», dissi con scarsa convinzione.

Sam annuì. «Non ti farei mai seriamente del male. Sono solo piccole scariche che fanno a malapena il solletico. Però tu sei particolarmente sensibile all'elettricità, quindi ti spaventi.»

«Forse potrei imparare a non avere più così tanta paura», dissi pensando ad Alex. Lui c'era riuscito.

«O io potrei imparare a controllarmi meglio», disse lui.

«In ogni caso credo sia una questione di esercizio.»

Lui sorrise alla mia affermazione. «Senza dubbio.»

Mi riavvicinai a lui e gli toccai la guancia con un dito. «Niente scossa», dissi premendo tutto il palmo contro il suo viso.

Lui sorrise e mise una mano sulla mia. «Niente scossa», confermò. «Non andartene», disse poi. «Resta con me stanotte.» Annuii.

Ci stendemmo sul letto e mi accoccolai sulla sua spalla. Lui mi cinse con un braccio e mi strinse a sé con fare protettivo. Si voltò su un fianco in modo da avermi di fronte e io gli diedi un rapido bacio sulle labbra. Lui fu colto di sorpresa, poi sorrise.

«Sei bellissima», mi disse. Pensai a quando me lo diceva Ryan. Con Sam era diverso. Nella sua voce potevo percepire una nota di desiderio, lui mi voleva almeno quanto io volevo lui.

«Kaitlyn?», mi chiamò dopo un po'.

«Mmh?»

«Buon compleanno.» Era il 24 dicembre, il compleanno di tutti noi della Generazione Beta. Non festeggiavo il mio compleanno da quando Ryan non c'era più, visto che prima lo festeggiavamo insieme.

«Grazie. Buon compleanno anche a te», dissi a metà tra la veglia e il sonno.

Ci addormentammo così, io contro il suo petto, lui con un braccio intorno a me e le labbra posate sulla mia fronte.

Fu Alex a svegliarci bussando alla porta. Sam andò ad aprire e Alex si sporse dentro per vedere dietro di lui. Incrociò il mio sguardo e fece un cenno di saluto.

«Allora sei qui», disse, «non riuscivo a trovarti.»

«Ciao, Alex», lo salutai con la voce ancora impastata dal sonno.

«Ragazzi, cercate di sbrigarvi. Abbiamo appuntamento tra dieci minuti in sala operativa. Passo un attimo nella mia stanza e poi torno da voi. Per allora fareste meglio ad essere pronti. A proposito», disse, «buon compleanno.»

«Grazie», rispondemmo in coro io e Sam. Poi Alex uscì dalla stanza e sparì nel corridoio.

«Doccia?», dissi a Sam.

Lui scosse la testa. «Non l'ho ancora fatta, dormivo anch'io. Se vuoi andare prima tu ti lascio la precedenza», disse gettandosi sul letto. Non l'avevo mai visto così stanco.

«No, forse è meglio se vado in camera mia a lavarmi, così faremo prima.»

«Come vuoi», disse lui con la testa nel cuscino.

«Tu però non riaddormentarti», gli dissi.

«Agli ordini», replicò lui.

Gli schioccai un bacio sulla guancia e lui sorrise e riaprì gli occhi. «A dopo», disse.

Lui e Alex bussarono alla porta della mia stanza esattamente dieci minuti dopo. Finii di legarmi i capelli in corridoio e mi chiusi la porta alle spalle.

«Quando sei tornato?», chiesi ad Alex.

«Stamattina intorno alle sette», disse lui. Erano le undici, quindi forse anche lui era riuscito a dormire un po' quella mattina.

«Alex, cosa pensi di questa missione?», chiese Sam.

Lui e Alex si scambiarono una lunga occhiata. «È necessaria», disse Alex, «ma va organizzata bene.» Sam annuì.

Arrivammo in sala operativa e trovammo gli altri già lì. Mancavano soltanto Chris, Kevin e Robb. Quasi tutti avevano tra le mani una tazza alta e scura e quando Leslie ci vide entrare, ne porse una a ognuno di noi. Era caffè.

Poco dopo, entrarono nella stanza i gemelli e Chris e quando si furono sistemati anche loro, Johanna iniziò a parlare.

«Come già tutti saprete, ieri notte il professor Yetes è stato rapito da alcuni agenti russi. Dobbiamo riportarlo qui e per farlo abbiamo bisogno della collaborazione di ognuno di voi. Organizzeremo un'irruzione nella base dei Servizi Segreti russi. La loro base, a differenza della nostra, non è sottoterra, ma si trova al centro di un ampio spazio deserto. Arrivare lì con un jet significherebbe farci scoprire immediatamente, quindi il jet atterrerà a distanza di sicurezza dalla base e poi proseguirete in auto. Entrerete da una porta sul retro che, secondo le informazioni che abbiamo raccolto, dovrebbe essere sufficientemente semplice da forzare con i vostri poteri. I posti in cui è più probabile che sia tenuto il professore sono tre: il livello sotterraneo – l'unico della base –, le stanze personali al terzo piano, oppure le stanze in cui tengono i prigionieri, al quinto piano. L'ordine primario è quello di non separarvi mai.»

Alcuni annuirono.

Dopo le prime spiegazioni, passammo all'analisi dei dettagli. Studiammo a lungo la pianta dell'edificio, indossammo tutti un auricolare e progettammo l'intera missione. Ci fermammo soltanto per pranzare e poi nel tardo pomeriggio ci esercitammo al poligono. Quella sera ci mandarono a letto presto, per farci riposare.

Chiesi a Sam di venire a dormire nella mia stanza.

«A dormire?», chiese lui malizioso, inarcando un sopracciglio.

«Sì», risposi con aria innocente. Poi tornai seria. «Ho una brutta sensazione.»

Lui capì che dicevo sul serio e annuì. Venne nella mia stanza dopo essersi fatto una doccia e ci stendemmo sul letto uno accanto all'altra.

«Potrebbe essere rischioso», dissi dando finalmente voce alle mie perplessità. «È solo la nostra seconda missione e già andiamo allo sbaraglio nella tana del lupo.»

«Hai ragione, è molto rischioso. Dobbiamo muoverci con cautela», disse lui. «Ma ti prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per proteggerti. Non lascerò che ti accada nulla di male.»

Sorrisi. «Grazie», dissi, «ma non ho bisogno di essere protetta. So cavarmela.»

«Lo so», disse lui. «Lo so perfettamente.»

 

 

 

 

N.d.A.: Per questo capitolo occorre fare una menzione speciale a Magicwolf02, che ha previsto e aspettato con pazienza le “scintille” tra Kaitlyn e Sam: grazie per aver seguito la mia storia con tanta passione.

Futeki

 

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Capitolo 17
*** La tana del lupo ***


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SEDICI

La tana del lupo

 

 

 

Non lasciare che sia il tuo nemico

a scegliere il campo di battaglia.

(Sun-Tzu)

 

 

 

 

La mattina dopo andammo tutti in armeria per scegliere le nostre armi. Scelsi una Glock 17, da portare insieme a un'altra pistola che ci aveva dato precedentemente Trevor.

Decollammo con un jet da Seattle alle tre del pomeriggio, pronti ad affrontare un lungo viaggio. Saremmo arrivati a notte fonda, in modo da fare irruzione nella base mentre, presumibilmente, la maggior parte degli agenti dormiva.

Durante il viaggio dormimmo per recuperare energie, poi ripassammo i dettagli della missione.

«Io dirigerò l'operazione», spiegò Alex. Era stato incaricato di gestire la missione dal campo. «Sarò l'unico costantemente collegato alla base. Per il resto, sarà attivo il collegamento auricolare tra noi agenti. Ci divideremo per cercare il professore. Siamo dodici, quindi formeremo tre squadre da quattro. Un gruppo andrà al piano sotterraneo, uno alle stanze personali e un'altro alle stanze dei prigionieri.»

«Pensavo che non dovessimo dividerci», fece notare Tom.

«Gli ordini sono cambiati. Se restassimo tutti insieme verremo sicuramente scoperti in poco tempo. Un gruppo di dodici persone non passa inosservato», spiegò tranquillamente Alex. «Il primo gruppo sarà composto da Sara, Kaitlyn, Sam e Tom e sarà diretto verso il sotterraneo. Sara sarà il capogruppo.»

Noi quattro annuimmo. Eravamo tre della nostra Generazione e soltanto Sara della Generazione Gamma.

«Il secondo gruppo», proseguì Alex, «sarà composto da Luke, Chris, Jessica e Cassidy, con Luke come capogruppo. Voi controllerete le stanze personali.»

Due della Generazione Gamma e due della Beta.

«Il terzo e ultimo gruppo sarà composto da me, Amanda, Robby e Kevin. Noi controlleremo le stanze dei prigionieri e io sarò il capogruppo.»

Notai che aveva equilibrato il più possibile i gruppi per non lasciare noi ragazzi inesperti da soli. In più, aveva fatto in modo che in ogni gruppo ci fosse la più ampia varietà possibile di poteri, non mettendo insieme persone con gli stessi poteri. Alex era uno stratega nato.

«Ci sono domande?», chiese poi. Nessuno ne aveva, quindi aspettammo pazientemente di arrivare a destinazione.

 

 

Come previsto, la porta si aprì dopo qualche tentativo di forzatura. Eravamo riusciti ad arrivare senza farci vedere lasciando le auto a distanza dalla base e percorrendo l'ultimo tratto a piedi. Una volta dentro, ci separammo immediatamente. Ricordando la pianta dell'edificio, io, Sam, Tom e Sara ci dirigemmo verso la rampa di scale che portava al piano sotterraneo.

Proseguimmo per un lungo tratto di corridoio. Era deserto. L'ambiente era molto simile a quello dell'Operon: le pareti erano verniciate di un azzurro molto pallido e i corridoi erano stretti. Non c'erano finestre, visto che eravamo sottoterra. Arrivammo di fronte a due porte. Secondo le nostre informazioni, a quel punto avrebbe dovuto esserci una sola porta, dietro la quale avremmo trovato il laboratorio di ricerca. Invece, le porte erano due.

«Che facciamo adesso?», chiese Tom a Sara, il nostro capogruppo.

«Ci dividiamo», rispose lei. «Io e Tom andiamo a sinistra, voi due, invece, prendete la porta a destra», disse rivolgendosi a me e Sam. Annuimmo.

«Se trovate qualcosa contattateci via auricolare», disse Sara.

«Lo stesso vale per voi», rispose Sam.

Ci separammo. Dietro la porta di destra, c'era un piccolo corridoio che terminava in un arco che faceva da ingresso ad un enorme laboratorio. C'erano decine di banchi pieni di strumenti di ricerca, dai microscopi alle provette. Addossata a una parete della stanza, c'era anche una sedia accanto alla quale c'erano molti macchinari medici. Riconobbi il monitor che teneva sotto controllo il battito cardiaco.

Anche il laboratorio era deserto. L'assenza totale di personale all'interno della base mi rese parecchio sospettosa. In quel momento, udii un rumore. Era una specie di tintinnio, un rumore metallico molto debole.

Sam si stava aggirando tra i banchi per dare un'occhiata all'attrezzatura, quindi mi mossi da sola in direzione del rumore. Notai una piccola rientranza nel muro nell'angolo più lontano della stanza, quindi mi avvicinai. In quel punto della stanza la parete si interrompeva lasciando una piccola area di un metro quadrato, delimitato anteriormente da una decina di sbarre metalliche. Era una gabbia. All'interno, una bambina dai lunghi capelli castani stava seduta appoggiata alla parete e batteva un sassolino vicino alle sbarre, producendo il rumore che avevo sentito. Fu sorpresa di vedermi.

«Sam», chiamai a gran voce. «Vieni qui.»

«Che succede?», chiese lui arrivando alle mie spalle. Quando vide la bambina s'irrigidì.

«Dobbiamo tirarla fuori di qui.»

Sam annuì. Posò una mano sulla serratura elettronica della gabbia pronto ad aprirla.

«Spostati», dissi alla bambina. Lei indietreggiò.

Con una piccola pressione, la serratura elettronica andò in tilt. Aprimmo la porta e tirammo fuori la bambina.

In quel momento, i nostri auricolari si attivarono. Era Chris.

«Ci serve aiuto al terzo piano!», urlò. «Ci sono almeno una decina di agenti che ci stanno cercando. Ci aspettavano, siamo stati traditi.»

Alex prese il controllo della situazione. «Primo gruppo, ci siete?»

«Sì», rispondemmo all'unisono noi quattro, anche se al momento eravamo separati.

«Ci sono problemi? Anche voi siete in difficoltà?»

«No, da noi è tutto in ordine, ma al momento siamo separati. Le porte in fondo al corridoio erano due, quindi non abbiamo potuto proseguire tutti insieme», spiegò Sara.

«Bene, ricongiungetevi e uscite immediatamente dall'edificio», rispose Alex. «Chris, io e il mio gruppo stiamo arrivando. Attirateli vicino alle scale, così possiamo prenderli alle spalle.»

«Ricevuto», rispose Chris.

Presi in braccio la bambina e uscii dal laboratorio con Sam al fianco. Nel corridoio incontrammo Sara e Tom che vedendoci in tre rimasero sorpresi. Uscimmo dalla base senza incontrare nessuno; probabilmente, tutti gli agenti erano al piano superiore per tendere un agguato ai nostri compagni.

Attendemmo per qualche secondo fuori alla porta da cui eravamo entrati, pronti a intervenire in caso di necessità, con le orecchie tese per cercare di capire cosa stava succedendo attraverso i rumori che provenivano dagli auricolari. Mi parve di sentire uno sparo. Poi due. Tre.

Fui colta dal panico. Strinsi la mano della bambina, probabilmente con troppa forza.

Dopo alcuni interminabili minuti, da quella stessa porta uscirono gli altri. Tirai un sospiro di sollievo, ma guardandoli in viso capii che c'era qualcosa che non andava.

Li contai. Erano in sei. Cassidy piangeva.

«Alex», dissi, «dov'è mia sorella?»

Mi resi conto che era la prima volta che la definivo così.

«Dov'è Amanda?», chiesi ancora.

Alex mi guardò in silenzio. Tom al mio fianco emise un gemito: lui teneva ad Amanda quanto io tenevo ad Alex.

Jessica.

«Non ora», disse Alex. «Dobbiamo raggiungere il jet.»

A quel punto era chiaro che loro due non sarebbero mai uscite da quell'edificio.

In quel momento, qualcuno provò ad aprire la porta dall'interno. Alex si gettò di peso sull'ingresso per bloccare la porta e Sara mise velocemente una mano sulla serratura. Si sentì un forte odore di bruciato, poi Alex e Sara si spostarono rivelando una porta bloccata da serratura fusa.

Iniziammo a correre senza perdere altro tempo. Non ci voltammo. Con la coda nell'occhio vidi Tom che piangeva. Quando salimmo sulle auto, nessuno disse una parola. Eravamo fuori pericolo, ma nessuno sospirò di sollievo.

Alex mi chiese della bambina e io mi limitai a rispondere che la tenevano prigioniera e l'avevamo liberata.

Arrivati al jet, Colton e Trevor non fecero domande. Alex abbozzò qualche rapida spiegazione su ciò che era successo e poi si chiuse in un profondo silenzio.

Vidi Cassidy piangere tra le braccia di Tom e compresi per la prima volta che quei due avevano un legame davvero profondo. Pensai a Jessica. Perderla riaprì la ferita che mi aveva lasciato la morte di Ryan. Nonostante considerassi Ryan il mio vero fratello, mi sentivo comunque legata a lei. Cercai Sam tra gli altri; lui intercettò il mio sguardo e mi raggiunse, mi strinse forte a sé e io poggiai la testa sulla sua spalla.

La bambina si addormentò su un sedile e dormì per tutto il viaggio. Io cercai di imitarla, ma senza successo. Rimasi accanto a Sam cercando di respingere l'ondata di dolore che minacciava di investirmi.

Rientrammo alla base da un ingresso che non conoscevo. Dopo qualche secondo ci venne incontro Johanna. Colton e Trevor l'avevano aggiornata attraverso Spike su ciò che era successo.

Mezz'ora dopo, eravamo tutti in una sala operativa a discutere del fallimento della missione.

«Ci aspettavano, siamo stati traditi», disse Alex. «Di nuovo.»

«Perché vi siete separati?», chiese Johanna.

«Per fortuna l'abbiamo fatto!», intervenne Tom. «Se Alex non avesse avuto quest'idea saremmo tutti morti. Non ci hanno individuato subito perché eravamo separati e quando un gruppo dei nostri è stato attaccato, un'altro gruppo ha potuto cogliere i nostri nemici alle spalle. Poteva succedere un disastro.»

«Dobbiamo individuare la talpa», disse Johanna. «E in fretta.»

«Ci stiamo lavorando», disse Leslie.

«Posso aiutarti a restringere il campo», disse Alex. «Nessuno di noi agenti operativi è la talpa. Abbiamo tutti rischiato di essere uccisi, visto che gli agenti russi sparavano senza neanche guardarci in faccia.»

«Giusto», disse Leslie ancora perplessa.

«Ma comunque non c'è bisogno di cercare ancora», disse Alex. «Io e Luke abbiamo un piano B.»

«Davvero?», chiese Leslie.

«Davvero», confermò Luke. «E la prima fase del piano B è appena cominciata.»

Mentre pronunciava quelle parole, le luci tremolarono un paio di volte, poi si spensero del tutto. Tutti i computer si oscurarono e io mi avvicinai d'istinto a Sam. Lui mi strinse.

Si accesero le luci di emergenza.

«Che sta succedendo?», chiese Johanna.

«Stiamo impedendo alla talpa di comunicare con i Servizi Segreti russi», spiegò Alex.

«Non credo di aver capito», disse Leslie.

«Ho causato un blackout totale per impedire ogni tipo di comunicazione. Non funzionano neanche più i cellulari, perché ho creato un'interferenza per le linee telefoniche», decretò Luke.

«Sei d'accordo, vero?», chiese Alex a Johanna.

«Certo», rispose lei. «Mi sembra una buona idea. Quale sarebbe la seconda parte del piano?»

«È molto semplice: partiamo per la Russia.»

«Di nuovo?», protestò Kevin.

«È una follia. Non siamo pronti, l'abbiamo visto stasera», disse Robb.

«Questa missione è troppo rischiosa, ci faremo ammazzare tutti», concluse Kevin.

«Non se ci prepariamo meglio. Andremo lì con un obiettivo diverso, ci organizzeremo in modo migliore. E cosa più importante», concluse Alex, «sarà inaspettato.»

«Ti ascoltiamo», disse Chris.

«Abbiamo tre obiettivi per questa missione; il primo è recuperare il professore», disse.

Annuimmo tutti.

«Il secondo», proseguì, «è trovare e portare in salvo i bambini.»

«Quali bambini?», chiese Chris.

«Hai visto la bambina che ha portato qui Kaitlyn, no? Lucy l'ha visitata, è malata. È chiaro che quei bastardi stanno facendo degli esperimenti sui bambini.»

Rabbrividii. L'idea non mi aveva neanche sfiorato.

«E qual è il terzo obiettivo?», chiese Sara.

Alex sorrise, ma fu Luke a rispondere: «È molto semplice: distruggeremo la base nemica.»

 

 

 

 

Futeki

 

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Capitolo 18
*** Piano B ***


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DICIASSETTE

Piano B

 

 

 

La prova fondamentale del valore di un leader

è che si lasci dietro, in altri uomini, la convinzione

 e la volontà di proseguire la sua opera.

(Walter Lippmann)

 

 

 

 

«Kak tvaja zavut?», chiese Sam in perfetto russo rivolgendosi alla bambina. Come ti chiami?

La bambina non rispose.

«È inutile che parli in russo. Lei è americana», gli dissi.

«Come fai a dirlo?»

«Quando hai aperto la gabbia usando il tuo potere, io le ho detto di spostarsi e lei lo ha fatto», spiegai. «Ho ragione?», chiesi rivolgendomi a lei.

Annuì.

«Come ti chiami?»

«Michaela», disse con voce flebile. Era la prima parola che le sentivo pronunciare. «Ma la mia mamma mi chiamava Mitchie.» S'intristì nel nominare la madre.

«Io mi chiamo Kaitlyn», dissi, «ma mio fratello mi chiamava Kait. Puoi chiamarmi così se ti va.»

Lei annuì. «E tu puoi chiamarmi Mitchie.»

«Va bene Mitchie. Puoi dirmi quanti anni hai?»

«Dieci.»

«E come sei finita lì?»

Lei rabbrividì, ma iniziò a raccontare: «Degli uomini entrarono in casa mia e sparsero benzina ovunque. I miei genitori dormivano e io non riuscivo a urlare per chiamare aiuto, visto che mi avevano tappato la bocca. Mi hanno trascinato fuori, poi hanno appiccato il fuoco.»

Trovavo assurdo che una ragazzina così piccola avesse visto cose del genere. Una rabbia incredibile mi pervase e giurai a me stessa che avrei distrutto quel posto maledetto.

«Mitchie, devi dirmi un'altra cosa, poi ti lascerò stare», le dissi.

Lei annuì con aria seria, pronta a rispondermi. Aveva gli occhi grigi e un'espressione davvero intelligente. Decisi che avrei protetto quella bambina ad ogni costo.

«Tengono altri bambini lì?»

«Sì, eravamo sempre in tre. Ogni tanto venivano a prendere uno di noi e quello non tornava più indietro. Quando capitava, portavano un altro bambino. Qualche settimana fa vennero a prendere me; da quel momento, sono sempre stata nel laboratorio in cui mi avete trovato.» Rabbrividì. «Non voglio tornarci mai più. Fanno cose orribili in quel posto.»

«Dove, Mitchie? Dove stavi prima di essere portata in quel laboratorio?»

«Stavamo tutti e tre in una stanza al terzo piano.»

«Grazie, Mitchie», dissi. «Ti prometto che mi prenderò cura di te. Farò in modo che tu stia bene.»

Lei annuì.

Uscii dalla stanza e Sam mi seguì. Notai che per tutto il tempo in cui avevo parlato con Mitchie lui non aveva detto una parola.

«Sei stata brava», disse lui, «ti sei guadagnata la sua fiducia.»

Annuii, ma non capivo dove voleva arrivare.

«Tu fai sempre così», disse, «quando tieni a qualcuno, mostri il lato migliore di te, conquisti le persone e la loro fiducia.»

«L'ho fatto anche con te?», chiesi.

«Sì», rispose lui. «Perché tieni a me.»

«È vero», assentii.

«Bene», replicò lui, «perché anch'io tengo a te, in una maniera che non puoi neanche immaginare. Se per te non fosse stato lo stesso, avrei avuto un bel problema.»

Sorrisi. Anche io avevo provato quella sensazione quando credevo che Sam non provasse per me ciò che io provavo per lui.

«Stai tranquillo», dissi. Gli diedi un rapido bacio e lui si rilassò.

«Dove stiamo andando?», mi chiese, ma ormai eravamo già a destinazione ed ebbe una risposta chiara quando bussai alla porta dell'infermeria.

Lucy ci fece entrare.

«Ciao tesoro», mi disse, «come stai? Ciao anche a te, Sam.»

Sam ricambiò il saluto.

«Sto bene Lucy, grazie. Ma non sono qui per me.»

«Vuoi sapere della bambina, immagino.»

«Sì. Cos'ha? Che significa che è malata?»

«L'hanno usata come cavia per degli esperimenti genetici simili ai nostri», spiegò.

«Simili ai nostri? Che significa?»

«Anche l'Operon ha fatto degli esperimenti per verificare l'efficacia degli albi, lo sai?»

Inorridii. «Quando questa storia sarà finita, tornerò a casa mia e porterò quella bambina con me», dichiarai.

«Kaitlyn, quella bambina morirà in poco tempo», disse Lucy.

«Non puoi fare nulla per aiutarla?», chiesi disperata.

«Ci sto provando, ma è più difficile del previsto.»

Sospirai. «Fai del tuo meglio. Ci vediamo, Lucy, tienimi aggiornata.»

«Certo.»

Io e Sam tornammo nella sala operativa per comunicare ad Alex le informazioni che avevamo ricevuto da Mitchie.

Alex ascoltò ciò che avevamo da dire, poi chiuse la porta della stanza. All'interno c'eravamo solo io, lui, Sam e Luke.

«Ragazzi, c'è una cosa che non vi ho detto», disse, «salvare il professore in realtà non è uno degli obiettivi. Il professore è morto. Si è suicidato nella sua stanza.»

«Che stai dicendo?», dissi. Mi aveva sconvolto.

«È la verità, ho sentito alcuni agenti che ne parlavano.»

«Allora perché torniamo lì?», chiese Sam.

«Per distruggere quel posto infernale», risposi io.

«Anche. Ma soprattutto perché dobbiamo procurarci dei dischetti. Ci serve l'elenco degli agenti russi, così sapremo chi di loro è infiltrato qui all'Operon.»

«Vuoi la certezza? Io sono sicuro che un'idea già ce l'hai», disse Sam.

«Anche la certezza ce l'ho già. Mi servono le prove.»

«Va bene. Faremo in modo di procurarci quell'elenco.»

«Ragazzi, secondo voi la missione è troppo rischiosa?» Per la prima volta, udii un accenno di dubbio nella voce di Alex.

La missione era effettivamente rischiosa, ma confidavo nell'abilità strategica di Alex.

«Dobbiamo farlo», dissi, «e possiamo riuscirci.»

Alex sembrò rincuorato. «Va bene, allora andate a riposarvi.»

 

 

«Vuoi davvero portare la bambina a casa con te, quando sarà tutto finito?», mi chiese Sam quella sera. Eravamo a letto, ma nessuno dei due riusciva a dormire.

 «Sì. Mia madre capirà. Anzi, credo proprio che ne sarà contenta. Ha sempre voluto un'altra figlia.»

«E tornerai a casa anche tu?»

«Sì.»

«A volte vorrei avere anch'io qualcosa a cui tornare.»

Rimasi in silenzio.

«Anche se in realtà qui mi sento praticamente a casa», disse sorridendo.

Sapevo che non era la verità. «Troveremo una soluzione», dissi. «Te lo prometto.»

In risposta, Sam mi baciò. Ci addormentammo.

 

 

Dodici ore dopo eravamo di nuovo sul jet. Organizzare la missione senza l'aiuto della tecnologia si era rivelato davvero complesso, ma grazie all'impeccabile lavoro di Alex, tutto era stato preparato nei minimi dettagli.

Luke era rimasto alla base per mantenere il blackout e tenere sotto controllo tutti coloro che erano rimasti lì.

Sul jet eravamo soltanto in nove. Alla guida dell'elicottero c'era Chris, così da non coinvolgere nella missione qualcuno che non fosse un agente operativo. Lasciammo il jet a distanza, come la volta precedente, e ci avvicinammo alla base nemica con le auto. Entrammo nella base da un'altra porta, perché Alex riteneva che ci sarebbe voluto troppo tempo per aprire quella che avevamo bloccato l'ultima volta.

Io, Sam e Cassidy avevamo il compito di recuperare i bambini, quindi salimmo al terzo piano per cercarli.

Incontrammo due agenti russi in corridoio. Cassidy gli si parò davanti e loro rimasero spiazzati per un istante, il tempo sufficiente per permettere a me e Sam di colpirli alle spalle. Quando arrivammo al terzo piano, in tutto l'edificio risuonò un allarme. Eravamo stati scoperti. Tre agenti ci videro e puntarono loro pistole contro di noi. Noi tirammo fuori le nostre. Avrei sparato per la prima volta a un essere umano. Ricordai le parole di Johanna, quando aveva parlato dell'arte del sopravvivere: imparate ad affrontare ogni cosa con razionalità e riflettete sempre prima di agire. Non lasciatevi dominare dalle emozioni in nessun caso.

Puntai la Glock contro un agente nemico. Sparai tre colpi, lui crollò a terra.

Credevo che dopo aver sparato a qualcuno per la prima volta, poi sarebbe stato più semplice. Un po' come farci l'abitudine, visto che si è in guerra. E invece non era così. Ogni colpo era come se fosse il primo, uccideva un nemico e feriva un po' anche me.

Quando ci fummo liberati dei nemici, io e Cassidy controllammo in tutte le stanze per cercare i bambini, mentre Sam controllava che non stesse arrivando nessuno. Quando li trovammo erano così spaventati dagli spari che avevano sentito, da non voler venire con noi.

«Abbiamo portato in salvo anche Mitchie», dissi loro cercando di convincerli a fidarsi di noi. «Sappiamo che qui vi fanno del male, noi vogliamo solo aiutarvi.»

Un ragazzino con i capelli scuri e gli occhi neri si alzò in piedi. Mi ricordava moltissimo Sam. Si rivolse agli altri due, un bambino (a occhio avrei detto che fosse il più piccolo di tutti), e una bambina. «Andiamo con loro», disse. «I nemici dei nostri nemici sono nostri amici», citò. «E poi credo sia difficile che possano portarci in un posto peggiore di questo.»

Gli altri due si lasciarono convincere e vennero con noi. Ringraziai il bambino per la fiducia che mi aveva dato e lui mi sorrise, mostrando due bellissime fossette.

In quel momento, il mio auricolare si attivò: era Tom.

«Io e Sara siamo soli al quinto piano, ci servono rinforzi. Abbiamo addosso più di sette agenti.»

Mi mossi immediatamente. Dissi a Cassidy di uscire al più presto dalla base insieme ai bambini, poi raggiunsi Sam e insieme salimmo al quinto piano. Il corridoio era un inferno. C'erano state parecchie sparatorie, come testimoniavano alcuni proiettili conficcati nelle pareti e degli agenti sanguinanti a terra. Per fortuna, nessuno di loro era dei nostri. Io e Sam uccidemmo tre nemici prima di ricongiungerci con Tom e Sara.

«Restiamo noi con lui», dissi a Sara, «lo aiutiamo a completare il suo lavoro qui. Tu inizia a scendere giù e fa' la tua parte.»

Sara annuì e andò via, mentre noi la coprivamo.

Un agente seminascosto dietro a una parete cercò di tenderci un agguato, ma con la mia Vista lo individuai immediatamente. Fui più veloce. Cadde a terra morto.

Andammo avanti così per qualche altro minuto, finché non ci ritrovammo da soli nel corridoio.

«Quante te ne mancano?», chiese Sam a Tom.

«Soltanto una», rispose lui alzando una piccola scatola argentata. Avevamo deciso di piazzare alcune bombe in vari punti strategici dell'edificio. L'esplosione di alcune bombe, avrebbe provocato una reazione a catena e quindi la distruzione dell'edificio. A ciò, avevamo unito l'utilizzo del fuoco di Sara: avevamo sparso per tutto il perimetro interno della base un liquido infiammabile grazie al quale Sara avrebbe appiccato un incendio per impedire ai nemici la fuga.

Riponemmo le armi e iniziammo a cercare la stanza in cui, secondo i piani, avremmo dovuto piazzare l'ultima bomba. Non appena fu sistemata, udimmo uno sparo. Mi voltai verso la fonte e mi ritrovai una pistola puntata contro. Il colpo che quell'agente aveva già sparato, aveva colpito la gamba di Tom, che si era accasciato a terra.

Fui colta dal panico e non riuscii più a ragionare. Avevo riposto la Glock, quindi non avrei mai fatto in tempo a estrarla prima che lui mi sparasse. Si stava avvicinando. Quando fu a un passo da me, vidi che era soltanto un ragazzo poco più grande di me. Mi chiesi per l’ennesima volta che scopo avesse quella guerra.

Sam mi si parò davanti, frapponendosi tra me e la pistola.

«Vuoi morire per la tua ragazza?», gli chiese l'agente nemico in un inglese pronunciato male.

Sam non rispose. Anche lui era disarmato.

Il russo gli puntò la pistola sulla fronte. Sam gli afferrò il polso. Successe tutto in un attimo. Pensai che Sam lo avrebbe convinto a mettere giù la pistola, a lasciar perdere. E invece, con la mia Vista, vidi chiaramente che l'agente faceva pressione sul grilletto per sparare. Sentii l'aria vibrare e lo vidi spalancare gli occhi. Lasciò cadere la pistola a terra, poi cadde lui stesso all'indietro. Era morto fulminato.

Guardai Sam. I suoi occhi diventarono rossi per un istante talmente breve che pensai di averlo immaginato. Affannava. Lo strinsi forte, poi mi voltai verso Tom.

Perdeva molto sangue, ma era cosciente. Respirava a fatica.

«Dobbiamo andare via di qui», gli dissi. «Robb saprà come aiutarti.»

Tom scosse la testa. «Vi rallenterei», disse. «Andate senza di me.»

«Non dire sciocchezze!», replicai. «Ce la fai a camminare se ti appoggi a me?»

«Me l'hai promesso. Mi hai promesso che mi avresti sempre detto la verità. Quindi rispondi a questa domanda: se mi portaste con voi, non sarebbe rischioso?»

«Sì», dissi. «Sarà rischioso per noi e per te. E ci rallenterai. Ma io qui non ti lascio.»

Io e Sam lo aiutammo ad alzarsi e lo sostenemmo da entrambi i lati mentre lui cercava di muovere qualche passo. Fortunatamente, nel corridoio del secondo piano incontrammo Robb e Kevin. Provai a contattare Alex. Agli altri aveva detto che sarebbe andato a cercare lui stesso il professore, ma io e Sam sapevamo che in realtà cercava l'elenco degli agenti russi per scoprire chi fosse infiltrato nella nostra base. Alex non rispose.

«Vado a cercare Alex», dissi agli altri. «Prendetevi cura voi di Tom.»

«Perché?», mi chiese Kevin.

«Non mi risponde. Aveva detto che sarebbe andato di persona a cercare il professore e che se lo avesse trovato ce lo avrebbe comunicato via auricolare.» Lanciai un'occhiata eloquente a Sam. Lui annuì. Soltanto io e lui sapevamo cosa stava cercando in realtà.

Salii al quarto piano, dove c'erano le sale operative. Il corridoio era molto diverso da quello degli altri piani: era più largo e le porte che vi affacciavano sopra erano tutte ad arco. Passai di fronte a una stanza diversa dalle altre, che somigliava molto a una stanza degli interrogatori di una stazione di polizia, visto che aveva una parete completamente in vetro e si poteva guardare all'interno.

Appena superata quella stanza, qualcuno sbucò fuori dalla porta ad arco della stanza alla mia destra e mi spinse nella stanza di fronte, quella alla mia sinistra. Era Alex.

Mi fece segno di tacere. Nel vedere che stava bene, sospirai di sollievo.

«Ehi, tu!», disse una voce proveniente dal corridoio. «So che sei lì! Vieni fuori!»

Alex caricò la pistola, poi mi fece un occhiolino e, muovendo solo le labbra, mi disse di restare nascosta dov'ero. Poi uscì dal nostro nascondiglio. Io mi abbassai e sporsi un po' la testa per vedere cosa succedeva. Alex e un agente russo stavano uno di fronte all'altro nel corridoio, a tre passi di distanza, con le pistole puntate l'uno al petto dell'altro.

Ciò che mi sconvolse, però, fu l'agente russo. Lo conoscevo.

Era Mike, l’uomo che mi aveva offerto da bere al party di San Francisco. Era un agente nemico.

«Come funziona?», disse lui in un inglese perfetto. «Chi spara per primo sopravvive, l'altro muore?», disse prendendosi gioco di Alex.

«No», rispose. «Io sopravvivo e tu muori.» Sparò, ma dalla pistola non venne fuori alcun proiettile. Si era inceppata. Mike disarmò Alex colpendolo al polso con la canna della pistola.

«Che siete venuti a fare qui?», chiese Mike, la pistola ancora puntata contro Alex. «Il vostro professore è morto, sono certo che lo sapete. Ma allora perché siete rimasti?»

«Da me non avrai nessuna risposta, quindi tanto vale che mi uccidi subito», replicò Alex con voce ferma.

«Entra», disse Mike ad Alex indicando la stanza con la parete di vetro.

Alex, in netta posizione di svantaggio entrò nella stanza. Fu in quel momento che uscii dal mio nascondiglio. Mike mi dava le spalle e io gli puntai la pistola alla nuca.

«Getta l'arma a terra», gli dissi. Lui lo fece. Gli permisi di voltarsi in modo da avermi di fronte.

«Chi non muore si rivede», disse lui.

«Appena in tempo», dissi io, «perché tu stai per morire.»

Lui sorrise. «Tiralo fuori di lì», dissi indicando Alex con un cenno della testa.

«Non posso», rispose lui con tutta calma. «Questa stanza è una cassaforte.»

«Spiegati meglio.»

«Si può chiudere sia dall'esterno che dall'interno senza problemi, ma per aprirla serve l'impronta digitale del capo oltre che una chiave.»

«Dov'è il vostro capo?», chiesi.

«Probabilmente all'inferno, se credi in queste cose.»

«È morto?»

«Lo avete ucciso voi.»

Mentre parlavamo, Alex cadde in ginocchio all'interno della stanza.

«Ah, a proposito», disse Mike. «La cassaforte assorbe tutto l'ossigeno al suo interno come forma di protezione. Tra tre minuti, là dentro non ci sarà più aria.»

«Alex», dissi, «che devo fare?»

Lui mi rispose muovendo solo le labbra. Dietro di te.

Mi voltai. Mike aveva ripreso la pistola da terra. Gli sparai senza fermarmi a riflettere.

Cadde morto a terra, con l'ombra di un ghigno ancora impressa sul volto.

«Alex!», urlai.

«Ho poco tempo», disse lui con voce flebile, «devi starmi a sentire.»

«Ti prego...»

«Entra in una sala operativa e cerca sotto le scrivanie un piccolo cassetto argentato. Il codice che apre il cassetto è una sequenza di quattro numeri consecutivi. Dentro troverai dei dischetti di backup delle informazioni. Sopra ci saranno anche gli elenchi degli agenti. Torna con quelli alla base, ma assicurati che nessuno veda quei dischetti mentre sei sola. Convoca tutti gli agenti in una sala operativa e apri quei dischetti davanti a tutti. Così sarete tutti contro la talpa.»

«Alex...»

«Per quanto riguarda i cani, ricordati che non devi affrontarli da sola, perché prima o poi non ce la farai. Chiedi aiuto a Luke, è un Hellbound anche lui. Ti aiuterà a difenderti, così come tu potresti aiutare lui. Anzi, ascoltami Kait», disse. «Non affrontare niente da sola. Al mondo esistono persone di cui ti puoi fidare, quindi smettila di cercare di combattere le tue guerre da sola.»

Annuii. Lui tossì.

«Quando starò per morire, arriveranno i cani. Per quell'ora tu devi essertene già andata. Fammi un favore, fai sapere a mia sorella che le voglio bene, anche se non glielo dico mai. E di' a Luke che ce l'abbiamo fatta. Lui capirà.»

«Non lasciarmi sola», dissi egoisticamente.

«Fosse per me, non ti lascerei mai sola», disse lui. «Ma sta' tranquilla, ci sono persone che si prenderanno cura di te ancora meglio di quanto abbia fatto io.»

«Alex...»

«Ti voglio bene, Kaitlyn. Sei stata come una sorella minore per me. Grazie di tutto.»

«Grazie a te», dissi. La mia voce fu coperta da un ringhio.

«Corri», disse Alex, con il suo ultimo filo di voce.

Corsi.

 

 

 

 

N.d.A.: Eccoci arrivati al capitolo che più mi ha fatto soffrire. Mi vedo costretta a spendere due parole su Alex, a cui, nonostante sia un personaggio di fantasia, mi ero affezionata davvero molto. Chi scrive sa cosa s’intende quando si dice che certi personaggi nascono da un autore e poi diventano talmente indipendenti da scrivere da soli le loro storie. È così che mi sono sentita con Alex. Mi piange il cuore per avergli riservato questa sorte, ma il suo personaggio ha compiuto un grande percorso. Alex è arrivato all’Operon che era solo un ragazzino spaventato dai suoi poteri e dai poteri degli altri, si è innamorato di una Hellbound e per lei, per provare a salvare lei, è diventato un Hellbound lui stesso, senza neanche riuscire nel tentativo disperato di salvarle la vita. Alex è cresciuto in un ambiente di guerra, dove ha scoperto che lottare per ciò che è giusto dà un nuovo scopo alla vita. E questo lo ha insegnato a Kaitlyn, le ha insegnato a lottare e a fidarsi degli altri, le ha insegnato a riconoscere chi sarà sempre al suo fianco nella battaglia contro ciò che è sbagliato. E con questo suo lascito, Alex ha completato il suo percorso. La sua morte lo ha lasciato senza rimpianti, perché lui sa di aver fatto tutto il possibile e ha passato il testimone a Kaitlyn, a cui lui stesso ha insegnato tutto ciò che riteneva importante. Nel capitolo successivo, Luke spiegherà proprio questo a Kaitlyn, le farà capire che Alex ha vissuto proprio come desiderava fare. “La prova fondamentale del valore di un leader è che si lasci dietro, in altri uomini, la convinzione e la volontà di proseguire la sua opera.” Questa era la frase di Walter Lippmann con cui ho aperto questo capitolo ed è chiaro ora che era ad Alex che facevo riferimento.

Qualcuno ha ipotizzato che Alex potesse essere la talpa ed è giusto pensarlo. Lui si è mosso così tanto all’interno di questi giochi di potere da rimanerne irrimediabilmente invischiato, ma non avrebbe mai fatto del male ai suoi compagni, per nulla al mondo.

Grazie per aver seguito la storia fin qui e per aver sopportato queste interminabili note, che sentivo dovute a un personaggio a cui tenevo molto.

Continuate pure con le supposizioni su chi possa essere la talpa, perché siamo vicini alla fine!

Futeki

 

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Capitolo 19
*** Ritorno alla base ***


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DICIOTTO

Ritorno alla base

 

 

 

Combattere se stesso è la guerra più difficile;

vincere se stesso è la vittoria più bella.
(Verlag Sven von Loga)

 

 

 

 

Entrai in una sala operativa e cercai sotto tutte le scrivanie il cassetto argentato. Lo trovai. Iniziai a provare tutte le sequenze possibili. Uno, due, tre, quattro. Due, tre, quattro, cinque. Tre, quattro, cinque, sei. La serratura scattò. Presi tutti i dischetti che trovai all'interno e mi avviai fuori. Corsi per tutto il corridoio, per le scale e ancora per il corridoio del piano terra. Non mi preoccupai di stare attenta a eventuali nemici. Non mi interessava. Mi sentivo congelata, come se non potessi più essere colpita da niente.

Uscii dalla base. Alcuni dei miei compagni erano lì. Non chiesi dove fossero gli altri.

Sam c'era e mi abbracciò forte senza che io gli dicessi nulla.

«Alex?», mi chiese qualcuno. Scossi la testa.

Sara diede fuoco alla scia di liquido infiammabile che partiva da quella porta e arrivava a tutte le uscite. Sam sciolse l'abbraccio e diede una mano a Robb. Chiuse gli occhi. Una bomba esplose. Poi un'altra. E un'altra ancora. Ci allontanammo. Le esplosioni provocarono altre esplosioni. Ci voltammo e corremmo via.

Quando arrivammo alle auto, scoprii che i compagni che mancavano erano già lì. A parte Alex, nessuno di noi era rimasto indietro.

Cassidy era accanto a una macchina insieme ai bambini. Quando la vide, Sam si irrigidì.

«Harry», bisbigliò. Non stava guardando Cassidy, ma il bambino con gli occhi neri.

«Sam!», urlò il bambino. Corse verso di lui e gli saltò letteralmente tra le braccia. Sam lo strinse talmente forte che pensai che gli avrebbe fatto male. Piangevano entrambi.

Fu in quel momento che collegai tutto. Pensai a Mitchie e alla sua casa data alle fiamme mentre i suoi genitori dormivano. Pensai alla storia di Sam e a come qualcuno avesse cercato di incastrare l'unico sopravvissuto all'incendio. Quel bambino era il fratellino di Sam, rapito da casa sua allo stesso modo in cui era stata rapita Mitchie.

Sfiorai il braccio di Sam e gli sorrisi.

Anche Tom stava meglio. Lui, Robb, Kevin, Cassidy e i bambini erano tornati alle macchine prima ancora che noialtri uscissimo dalla base. Robb aveva pulito la ferita di Tom e aveva estratto il proiettile. Ormai non sanguinava più.

Salii su una macchina, certa che da un momento all'altro le mie gambe avrebbero ceduto. Mi girava la testa. Avevo nascosto i dischetti sotto la maglia e la plastica delle copertine mi solleticava la schiena. Appoggiai la testa al finestrino.

Qualcuno guidò fino al jet, qualcun altro mi disse che dovevo scendere dalla macchina e salire a bordo del velivolo e io lo feci meccanicamente. Quando finalmente restai da sola, seduta su un sedile del jet, mi addormentai.

Al mio risveglio, trovai Sam accanto a me. Mi sentii rincuorata.

Raccontai cosa era successo ad Alex. Spiegai che avevo già incontrato Mike al party e lui ci aveva detto che il professore era morto. Non dissi nulla dei dischetti, né riportai a qualcuno le ultime parole di Alex. Ne avrei parlato soltanto con Luke e gli avrei chiesto di aiutarmi a contattare la sorella di Alex.

Quando rientrammo alla base, la trovammo ancora in pieno blackout. Quando ci videro entrare, tutti furono sollevati. Qualcuno, probabilmente, aveva pensato che non ce l'avremmo fatta, mentre qualcun altro, sicuramente, lo sperava. La talpa era ancora lì, bisognava scoprire chi fosse.

«Finalmente è finita», disse Spike, «è finita per davvero. Ce l'abbiamo fatta.»

Poi notò l'assenza di Alex e si zittì. Fu Luke a porre la fatidica domanda: «Dov'è Alex?»

Scossi la testa e lo guardai dritto negli occhi. Speravo che capisse che era morto dopo aver raggiunto l'obiettivo, che era stato un eroe, come sempre, fino alla fine.

Cercò di dire qualcosa, ma la voce gli morì in gola. Si mise una mano sulla bocca e per la prima volta vidi nel suo sguardo quanto profondo fosse il legame che avevano. Le luci si riaccesero per un istante, poi si spensero di nuovo. Sembrava quasi di percepire il dolore di Luke come una scarica di corrente che attraversava l'aria, una scossa che avrebbe fatto rabbrividire chiunque.

Ci riunimmo in una sala operativa per stilare un rapporto completo della missione. Luke riattaccò la corrente e ci mettemmo immediatamente a lavoro. Nessuno nominò più Alex. Nella sala operativa mancavano soltanto Robb e Tom, che erano andati in infermeria per cercare di curare la gamba di Tom.

Lavorammo per un paio d'ore ininterrottamente, poi Johanna ci mandò a riposarci. Io andai da Luke, mentre Sam andò dal fratellino che aveva appena ritrovato. Quando avevamo spiegato a Johanna dei bambini, lei aveva immediatamente dato disposizioni perché fossero sistemati al meglio. Lucy li controllò e decretò che erano ancora perfettamente sani e che nessuno aveva fatto loro ciò che invece era stato fatto a Mitchie.

Quando bussai alla porta della camera di Luke, lui mi disse di entrare senza venire ad aprire la porta. Era disteso sul suo letto completamente al buio, con un braccio posato sugli occhi.

«Ciao Kaitlyn», mi disse senza guardarmi. Probabilmente, grazie al suo potere riusciva a percepire la mia presenza visto che ero un ottimo conduttore di elettricità. L'ultimo rimasto, visto che Alex non c'era più.

«Ciao Luke.» Avrei voluto chiedergli come stava, ma mi sembrava una domanda stupida, quindi arrivai dritta al punto. «Alex mi ha chiesto di dirti una cosa, prima di...» Non riuscii a completare la frase.

«So già cosa voleva che tu mi dicessi», rispose. «Che ne dici, provo a indovinare?»

Annuii. Poi ricordai che non poteva vedermi. «Sì», risposi.

«Ti ha detto "Kaitlyn, dì a Luke che ce l'abbiamo fatta"», disse imitandone anche il tono di voce. Lo sentii sorridere mentre pronunciava quelle parole.

«Sì», confermai.

«Cosa pensi che significhi?», mi disse. «Prova a indovinare.»

«Non lo so, credevo si riferisse alla missione. Sono riuscita a prendere la lista degli agenti russi, presto sapremo chi è la talpa.»

«Bene», rispose lui, «ma non è questo che intendeva.»

«E allora cosa voleva dire?»

«Quando arrivammo all'Operon, Alex mi detestava per via del mio potere. Quando Johanna gli assegnò me come partner, lui si arrabbiò parecchio. Poi però diventammo amici. Successe quando per la prima volta, invece di guardare soltanto al mio potere, cercò di capire che tipo di persona fossi. Parlammo una notte intera e lui mi raccontò delle sue speranze per il futuro. "Qui i miei poteri possono essere impiegati a fin di bene", mi disse, "questo è ciò a cui punto nella mia vita; prima di morire, voglio raggiungere un obiettivo: voglio fare qualcosa di utile per le persone a cui voglio bene, voglio salvare la gente."»

Sorrisi nel sentirgli pronunciare quelle parole. Erano tipiche di Alex.

«Io gli dissi che ero d'accordo. Gli dissi che quello sarebbe stato il mio obiettivo e che mi avrebbe fatto piacere raggiungerlo insieme a lui. Da quel giorno diventammo inseparabili.»

«Ora ho capito cosa voleva dire», dissi io. «Aveva ragione, ce l'avete fatta.»

«Sì», disse lui.

«Mi ha chiesto anche di dire a sua sorella che le voleva bene, anche se non glielo diceva mai.»

«Provvederò a farglielo sapere.»

«Grazie.»

Feci per andarmene, ma lui mi fermò. «Ti ha detto che sono un Hellbound anch'io?»

Mi voltai. «Sì», dissi.

«E che altro ti ha detto?», chiese alzandosi dal letto.

«Che non devo combattere le mie guerre da sola.»

«Anch'io la penso così, Kaitlyn. Sappi che per qualunque cosa puoi contare sul mio aiuto.»

«Grazie.»

«Adesso occupiamoci della talpa», disse lui.

«Prima voglio passare a trovare Tom in infermeria.»

Annuì. «Ti accompagno.»

Quando arrivammo, l'infermeria era piena di gente. Robb e Lucy andavano avanti e indietro per la stanza, gli altri erano tutti attorno a un lettino.

Mi voltai. Tom era dall'altra parte della stanza e dormiva beatamente nonostante il caos. Mi avvicinai per cercare di capire chi ci fosse sul lettino attorno al quale c'era tutta quella gente. Sam mi prese per mano un secondo prima che guardassi.

Mitchie era pallida e aveva le convulsioni. Lucy stava usando tutto il proprio potere per cercare di salvarla, ma era chiaro che non ci stava riuscendo. Improvvisamente però le convulsioni cessarono. Mitchie rimase immobile con gli occhi chiusi. Se non avessi sentito il suo debole battito cardiaco grazie al monitor accanto al lettino, avrei creduto che fosse morta.

Lucy disse a tutti noi di andare via: non avremmo potuto fare nulla e saremo stati d'intralcio. Mi voltai per andarmene anch'io, ma lei mi chiamò e mi disse di restare.

«Le restano un paio d'ore di vita», disse. «Scegli tu se restare con lei o andare via.»

La freddezza con cui disse quelle parole mi sconvolse. Decisi di restare. Mi misi a sedere accanto a lei sperando che si risvegliasse, anche solo per qualche secondo. Avrei voluto scusarmi per non aver mantenuto la promessa che le avevo fatto.

Dopo qualche minuto mi resi conto che non si sarebbe svegliata, allora iniziai a parlare come se potesse sentirmi.

«Mi dispiace di non aver mantenuto la promessa che ti ho fatto», dissi, «non sono riuscita a salvarti. Però posso assicurarti che non verranno rapiti più bambini, non da parte loro, almeno. Ho fatto quello che potevo, magari per questo potresti essere fiera di me. Anche i tuoi amici sono salvi, lo sai?»

Attesi come se mi aspettassi una risposta. Ma lei giaceva immobile e silenziosa su quel lettino. Volevo andare via, volevo scappare da lì, ma non potevo. Non l'avrei lasciata sola in quel momento. Restai con lei tenendole la mano finché il battito cardiaco non si arrestò. Non feci nulla quando accadde. Restai lì, come se non fosse cambiato niente, anche se qualcosa dentro di me si era spezzato.

Dopo un po', Lucy arrivò e mi disse di andare via. Lo feci in silenzio. Passai davanti a Tom, che era sveglio. Chissà da quanto tempo mi stava ascoltando. Lo salutai e gli chiesi se stesse bene. Lui annuì. Gli augurai la buonanotte e tornai in camera mia. Una volta di fronte alla porta, decisi che quella notte non sarei rimasta da sola, non volevo. Bussai alla porta di Sam, ma dall'interno non rispose nessuno. Aprii ed entrai, ma Sam non era lì. Sul suo letto c'era Harry, che dormiva beatamente, lontano da tutte le cose brutte che accadono al mondo.

Tornai in camera mia e fui sorpresa di trovarvi Sam all'interno. Mi aspettava. Non disse nulla e mi strinse forte.

«Dobbiamo andare in sala operativa», disse. «Luke ci aspetta lì per vedere cosa c'è su quei dischetti.»

La talpa. Me n'ero completamente dimenticata.

Annuii e mi feci forza.

La sala operativa era completamente piena. Tutti gli agenti, i tecnici e anche qualcuno della sicurezza erano stati riuniti lì. Luke era seduto su una scrivania, con un computer poggiato sulle gambe. Entrai e chiusi a chiave la porta dietro di me. Molte teste si voltarono a guardarmi, ma io non ci feci caso. Passai a Luke i dischetti e poi tornai in fondo alla stanza.

«Durante l'ultima missione», iniziò a spiegare lui, «siamo riusciti a recuperare delle informazioni preziose. Come voi ben sapete, riteniamo che all’interno dell’Operon ci sia un infiltrato russo, una talpa.»

Tra le persone all’interno della sala si levò un mormorio.

«È arrivato il momento di scoprire di chi si tratta. Grazie a una giovane agente, siamo in possesso della lista di tutti gli agenti registrati nei Servizi Segreti russi e abbiamo ragione di credere che il nominativo di uno dei nostri comparirà tra questi file.»

Luke infilò il dischetto nel computer. Il monitor gigante alle sue spalle si accese.

Comparve il primo volto, io tirai fuori la pistola.

Su quei dischetti c’erano centinaia di schede riguardanti ogni singolo agente. Luke scorse la lista un nome alla volta, facendo comparire i volti di tantissimi agenti russi sul monitor.

Caricai la pistola.

Al passaggio di alcuni volti sullo schermo, qualcuno bisbigliò, qualcun altro imprecò. Erano i nostri nemici giurati, molti di loro avevano ucciso i nostri compagni.

Erano tutti impegnati a fissare lo schermo, perciò nessuno fece caso a me che mi facevo largo tra la folla con un’arma carica in mano.

La puntai alla testa di Johanna giusto un attimo prima che il suo volto comparisse sul monitor.

“Johanna Master, agente operativo. Infiltrata all’Operon.”

 

 

 

 

N.d.A.: Finalmente si è scoperto chi è la talpa: Johanna. Era stata lei a mandare i ragazzi a proteggere il professore, sostenendo che avrebbero tranquillamente potuto farcela, era stata lei a ordinare loro di restare tutti uniti quando sarebbero entrati nella base russa. Lei stessa si era arrabbiata quando i ragazzi, su suggerimento di Alex, si erano divisi in gruppi. Alex aveva già capito che c’era lei dietro a tutto, per questo lui e Luke avevano escogitato il trucco del blackout.

Non so fino a che punto i lettori se lo aspettassero o meno, ma la mia idea era quella di seminare degli indizi e allo stesso tempo fare una rivelazione sconvolgente, in ogni caso grazie a tutti coloro che hanno provato a fare supposizioni o a indovinare: la passione con cui avete seguito la storia fin qui mi rende felicissima.

Con questo capitolo (il terzultimo) si chiude anche il cerchio degli articoli di giornale del prologo: il primo si riferiva proprio alla storia di Sam e del suo fratellino, pubblicato sul Miami Herald – Sam infatti viene dalla Florida, dove i condannati a morte possono scegliere come morire e lui, appunto, aveva scelto la sedia elettrica; il secondo e il terzo articolo, pubblicati sul giornale di Stonington, dove Kaitlyn viveva assieme alla madre e al fratello Ryan prima di trasferirsi, raccontano proprio l’incidente che lei ha avuto con il fratello e il successivo omicidio involontario degli uomini responsabili della morte di Ryan.

Grazie a tutti coloro che hanno seguito la storia fin qui. Buone feste!

Futeki

 

 

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Capitolo 20
*** Infiltrato ***


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DICIANNOVE

Infiltrato

 

 

 

I soldati hanno più da temere il loro capo

che il nemico.

(Michel de Montaigne)

 

 

 

 

Nella sala operativa scoppiò il caos. Qualcuno bloccò le mani di Johanna dietro la schiena, qualcun altro mi trascinò via perché non avevo comunque abbassato la pistola.

Avrei voluto riversare tutta la mia rabbia e la mia frustrazione su di lei, dare a lei la colpa di ciò che era accaduto alle persone a cui tenevo.

Era colpa sua se ben due missioni erano fallite e avevamo subito delle perdite. Era colpa sua se quella guerra non era mai arrivata a una svolta.

Avrei dovuto capire subito che era stata lei.

Ci aveva mandati in missione di protezione con il professore senza il supporto dei più grandi, ci aveva spinti ad invadere la base nemica ordinandoci di restare tutti uniti, cosa che ci avrebbe fatti uccidere sicuramente. Ci aveva dato informazioni sbagliate sulla base nemica, aveva comunicato ai nostri nemici ogni nostro spostamento e ogni progresso che compivamo giorno dopo giorno.

Alex lo sapeva, ma aveva bisogno di prove. E per procurarsele aveva perso la vita.

Come Mitchie, come Jessica.

Come Ryan.

Arrivai a pensare una cosa terribile, ma un istante prima di essere presa dal panico, mi liberai dalla presa di chi mi teneva ferma e mi diressi verso Johanna.

«Dimmi che mi sbaglio», le ringhiai contro. Tutti si zittirono. «Dimmi che mi sbaglio e voi non avete niente a che fare con la morte dei Telepati.»

«Stai delirando», rispose lei.

«Dimmi che mi sbaglio!»

«Non abbiamo ucciso noi il tuo amato fratellino», disse lei. «L’incidente ci ha risparmiato la fatica. Altrimenti avremmo dovuto occuparcene come abbiamo fatto per la Generazione precedente.»

Stavo per dargli un pungo in faccia, quando Luke mi anticipò. Mi bloccò con la mano a mezz’aria, ma guardava lei, non me.

«Non dire una parola in più, o ti giuro che ti farò patire tutto ciò che hanno subito Alex e Callie.»

Lo disse con un’espressione talmente minacciosa che rabbrividii. Le luci tremolarono, Johanna tacque. La portarono via. Da quello che capii dalle chiacchiere che afferrai, qualcuno aveva telefonato al Presidente, comunicandogli la situazione.

Sentii che le mie gambe stavano per cedere, quando mi ritrovai Sam alle spalle. Mi abbracciò e fui lieta del suo sostegno, sia fisico che morale.

Arrivarono alcuni agenti dell’FBI, ai quali raccontammo più volte ogni singolo dettaglio dell’accaduto, testimoniando personalmente uno ad uno.

Quando la situazione sembrò stabilizzarsi, io e Sam andammo in camera mia per tentare di riposare un po’. Fu soltanto quando mi stesi sul mio letto che mi resi conto che era davvero finita. Fissando il soffitto chiaro della mia stanza, mi venne in mente che non avevo idea di cosa sarebbe successo all’Operon. Forse l’avrebbero chiuso, forse avrebbero nominato un nuovo capo.

«Tu che farai?», chiesi a Sam sapendo che lui avrebbe intuito a cosa mi riferissi.

Lui si stese accanto a me e sperai che dicesse che sarebbe rimasto con me in ogni caso, anche se sapevo che non sarebbe stato giusto. Se davvero volevamo restare insieme, dovevamo scegliere di percorrere una strada che andasse bene per entrambi.

«Non lo so, credo che dipenderà dal destino dell’Operon. Forse resterò qui, non ho altri posti a cui tornare», disse lui.

«Puoi tornare a casa con me», suggerii.

«Non sarebbe davvero un ritorno. Se lascerò l’Operon, dovrò iniziare una nuova vita, dovrò prendermi cura di Harry da solo. Non dimenticare che per lo Stato noi siamo entrambi morti», disse.

«Volevo tornare a casa mia insieme a Mitchie», dissi, «volevo prendermi cura di lei. Ma forse non ne sarei stata in grado.»

«Te la saresti cavata alla grande», replicò lui.

«Ci sono altri bambini che avranno bisogno di noi, tra un po’», dissi pensando alla Generazione Alfa, bambini di circa tre anni che nel giro di poco tempo avrebbero sviluppato i nostri stessi poteri, l’ultima Generazione dell’Operon.

«Troveremo il modo di aiutarli senza strapparli alle loro famiglie», disse Sam. «Andremo noi da loro, di tanto in tanto, e insegneremo loro a controllare il proprio potere per evitare incidenti. Non gli insegneremo a combattere. Sarà diverso.»

Fui d’accordo. Restammo per un po’ in silenzio, poi le parole mi uscirono dalla bocca senza che avessi il tempo di fermarle.

«Sam, tu pensi che io abbia sempre cercato di combattere le mie guerre da sola?», chiesi.

Lui parve confuso. «Tu ti sei sempre sentita sola, anche quando in realtà c’erano persone attorno a te pronte a offrirti il loro supporto. Tu respingi gli altri, un po’ perché credi di farcela anche senza di loro, un po’ perché non credi di meritare il loro aiuto.»

«Ed è così?»

«No. Da sola non ce la farai. E meriti tutto l’aiuto e l’affetto di questo mondo. Devi solo lasciare che gli altri vedano quella parte di te che ti ostini a nascondere.»

«Non c’è niente di me che nascondo. Io sono così: fredda, piatta. Non c’è niente di interessante in me.»

«Non è vero, questa è soltanto una tua convinzione. Tu sei una persona meravigliosa e il fatto che tu non te ne renda conto ti impedisce di mostrarlo liberamente agli altri. Sopprimi le tue emozioni, belle o brutte che siano, non hai mai lasciato trasparire nulla del genere.»

«Questo non è vero…»

«Vuoi un esempio pratico? Kaitlyn, tu non piangi mai. E non perché sei forte, anche se indubbiamente lo sei, sei la ragazza più forte che conosca. Tu non piangi mai perché nonostante tu abbia provato più dolore di quanto un essere umano possa sopportare, non hai mai pensato che sfogarti e accettare il supporto degli altri potesse essere d’aiuto.»

Era vero, me ne resi conto in quel momento. Dalla morte di Ryan, non avevo mai versato una lacrima. Tante volte ero stata sul punto piangere, ma dai miei occhi non era mai venuto fuori nient’altro che determinazione.

Tutto il dolore che nell’ultimo anno avevo cercato di comprimere dentro di me esplose all’improvviso, travolgendomi e lasciandomi senza fiato.

Chiusi gli occhi e Sam mi strinse forte.

Pensai a Ryan, a quanto mi mancasse; ad Alex e alla sua amata Callie, all’aiuto che lui mi aveva dato, al dolore che aveva provato anche lui e alla sua reazione così diversa dalla mia.

Pensai a mia madre e al nostro rapporto tutt’altro che facile, pensai che doveva aver sofferto anche lei per la morte di Ryan. Pensai che mi amava quanto amava il suo vero figlio e io non le avevo mai mostrato gratitudine per questo.

Pensai a Tin e a Jordan e a quanto mi sostenessero e mi supportassero anche a centinaia di chilometri di distanza, nonostante le bugie che ero stata costretta a dire, nonostante sapessero che io non avevo mai detto la verità.

Pensai a Jessica, la sorella che non avevo avuto l’opportunità di conoscere a fondo, e a Cassidy, che stava soffrendo quanto io avevo sofferto per Ryan.

Pensai a Luke, che aveva perso il suo migliore amico, alla sorella di Alex, alla mamma di Cassidy e Jessica. Pensai ad Amanda, che aveva perso la vita in missione e a tutti gli agenti che erano morti in quel modo terribile.

Pensai a Johanna e un po’ mi fece pena, perché una persona che aveva causato tanto dolore non poteva avere altro che sofferenza nel suo cuore.

Pensai a Mitchie e a tutti i bambini che avevano sofferto per una guerra senza senso. Pensai a Harry e alla sua famiglia, che ormai non c’era più.

Pensai a Sam, accusato di aver sterminato la sua famiglia e condannato a morte, lui che mi amava così tanto da condannare la sua anima alla dannazione per salvarmi la vita.

Piansi. Tirai fuori tutto il mio dolore. Sam mi tenne stretta e mi cullò per un po’, fino a che non mi finirono le lacrime. Piansi per il dolore, per la tristezza, per la rabbia. Piansi per paura di ciò che sarebbe successo.

Poi mi riscossi. Sapevo che c’erano persone con me che mi avrebbero sostenuto sempre. Non avrei più combattuto le mie guerre da sola.

Nel silenzio della stanza, baciai Sam con più trasporto del solito. Era come se avessi ripreso a sentire tutte le emozioni in maniera più profonda, senza filtri, senza barriere di protezione. Ero senza difese, volevo donargli tutta me stessa. Quel bacio aveva il sapore delle mie lacrime.

«Ti amo», gli dissi. Fu pronunciando quelle parole che mi resi conto di quanto fossero vere.

«Ti amo anch’io», rispose lui. Fu quasi un sollievo avere quell’ulteriore conferma.

«Combatteremo insieme», dissi senza riferirmi a niente in particolare.

«Fino alla fine», rispose lui.

«Fino alla fine.»

 

 

 

 

N.d.A.: Ed eccoci finalmente all’ultimo capitolo vero e proprio, il prossimo sarà l’epilogo. Nel caso in cui fosse poco chiaro, vorrei spiegare perché Kaitlyn pensa per un momento che Johanna sia responsabile della morte di Ryan. Per avere un infiltrato nell’Operon, gli agenti russi hanno sempre dovuto fare il possibile per uccidere i Telepati di ogni generazione, in modo che i loro infiltrati (in particolare Johanna) non venissero scoperti; ed è proprio quello che è successo a Callie, la Telepate di cui era innamorato Alex, ma non a Ryan: nel suo caso fu davvero un incidente.

Con questo capitolo, si chiude il percorso di crescita di Kaitlyn che, finalmente, si lascia andare alle sue emozioni, affidandosi completamente alle persone che la amano.

Grazie a tutti per aver seguito la storia. Nelle N.d.A. dell’epilogo ringrazierò nel dettaglio tutti coloro che mi hanno incoraggiata e supportata.

Alla prossima!

Futeki

 

 

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Capitolo 21
*** Epilogo - Come una scintilla ***


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EPILOGO

Come una scintilla

 

 

Ci sono persone che tirano fuori il peggio di te, altri tirano fuori il meglio, e poi ci sono quelli rari, dai quali diventi dipendente, che tirano fuori solo il più. Di tutto. Ti fanno sentire così vivo che li seguiresti dritto all’inferno, solo per drogarti ancora una volta di loro.

(Karen M. Moning)

 

 

 

 

Cinque anni dopo, New York.

Aprii gli occhi infastidita dalla debole luce del sole. Harry aveva aperto le tende della mia camera, con l’intento di svegliarci.

«In piedi, dormiglioni! Oggi è il 24 dicembre.»

Mi trattenni dall’uccidere all’istante Harry, che aveva osato buttarmi giù dal letto a quell’ora del mattino, solo perché mi ricordai del tradizionale pranzo a casa Chandler che organizzavamo ormai da qualche anno il giorno della vigilia di Natale.

Sam accanto a me si mise a sedere sul letto, stropicciandosi gli occhi. Sembrava un bimbo in preda al sonno. Non potei fare a meno di sorridere. Lo baciai. «Buon compleanno», gli dissi.

«Buon compleanno, amore», rispose lui ancora assonnato.

Mi tirai su e mi diressi in cucina ancora in pigiama.

«Tesoro, va’ a prepararti, Tin e Jordan saranno qui a momenti con le loro famiglie. Tu e Sam dovete andare a ritirare la torta in pasticceria, al più presto. Oh, buongiorno anche a te, caro», disse mentre Sam entrava nella stanza.

«Buongiorno», rispose debolmente lui.

«Harry, aiutami con i bicchieri, sono sicura che ne manchi qualcuno!»

«Ho già controllato due volte, sta’ tranquilla, ci sono tutti», rispose lui pazientemente dall’altra stanza.

«Ah, Sam, credo si sia fulminata la lampadina del bagno, puoi occupartene tu, per favore?»

«Ma certo.»

«Ti ringrazio. Adesso andate e rendetevi presentabili. Oh, ragazzi?», ci chiamò per l’ennesima volta. Ci girammo verso di lei. «Buon compleanno.»

Sorrisi. «Grazie, mamma.»

«Grazie Samantha», rispose Sam.

Un’ora più tardi, Tin e Jordan erano arrivati a casa nostra, lasciandoci a malapena il tempo di sostituire la lampadina del bagno.

I miei migliori amici, che ormai stavano insieme già da un pezzo, trascorrevano da anni a casa nostra la vigilia di Natale, festeggiando con noi anche il compleanno mio e quello di Sam.

Avevamo raccontato a mia madre e a loro due tutta la verità sull’Operon e su quello che era successo nei mesi in cui eravamo stati lì. Sam aveva raccontato la sua storia e lui ed Harry erano venuti a vivere a casa nostra. Avere Harry, aveva reso mia madre più felice e tranquilla: per lei era stato quasi come riavere il suo Ryan.

Abbracciai la mia migliore amica e salutai educatamente i suoi genitori, quando varcarono la soglia di casa. Jordan arrivò dietro di loro con la sua famiglia.

«Come vi sentite adesso che siete un anno più vecchi, ragazzi?», ci chiese il padre di Jordan come faceva ogni anno.

«Come ieri», rispondemmo all’unisono io e Sam, suscitando le risate di tutti i presenti.

Afferrai un cappotto e mi precipitai verso la porta di casa, trascinando Sam dietro di me. «Ci vediamo dopo», dissi lasciando mia madre a fare gli onori di casa. «Andiamo a ritirare la torta.»

L’aria di New York era gelida, mi abbottonai il cappotto e Sam mi strinse la mano. Sorrisi felice, guardando la mia città, la mano stretta in quella del ragazzo che amavo. La mia famiglia mi aspettava a casa, pronta a festeggiare il mio compleanno.

«Un po’ mi manca Seattle, però», disse Sam a sorpresa.

L’Operon non esisteva più da anni. Gli agenti erano tornati alle loro famiglie e la base era stata chiusa ufficialmente. Di tanto in tanto, facevamo qualche visita ai nostri vecchi amici e ai bambini che stavano iniziando a manifestare i propri poteri.

«Manca un po’ anche a me», dissi, pensando a Cassidy, Tom e i gemelli.

«Se potessi tornare indietro, lo rifaresti?»

Sapevo cosa mi stava chiedendo, avevo capito. Sarei andata all’Operon, se avessi avuto la possibilità di scegliere con il senno di poi? Avrei compiuto le stesse scelte che avevo fatto da quel 28 ottobre in cui Alex mi era improvvisamente comparso davanti mentre affrontavo i cani?

Non ne ero sicura. Nella mia mente s’insinuò il dubbio, ma fu scacciato immediatamente da una consapevolezza che mi colpì come una scintilla.

«Sì», risposi con sicurezza. «Sì, lo rifarei. Tutto quello che è successo mi ha reso esattamente quella che sono ora», dissi. «E poi ho conosciuto te.»

Sam sorrise e mi baciò.

Non li sentimmo avvicinarsi. I cani fantasma si materializzarono improvvisamente davanti a noi.

Negli ultimi cinque anni, io e Sam li avevamo affrontati sempre insieme, come avevano fatto Luke e Alex.

«C’è qualcosa che non va», disse Sam. «Sono in troppi.»

Effettivamente, di fronte a noi c’erano tantissimi cani fantasma. A occhio erano più di un centinaio, il doppio di quanti ne aspettavamo.

«Noi li abbiamo sempre affrontati insieme», dissi. «Anche loro hanno unito le forze.»

«Sono qui per entrambi», comprese lui.

Annuii. Gli strinsi forte la mano.

«Sei pronta?», mi chiese.

«Sì.»

«Fino alla morte.»

«Fino alla morte», confermai. «E forse anche dopo.»

 

 

 

 

N.d.A.: Grazie a tutti coloro che hanno seguito la storia fin qui, in particolare Magicwolf02 e La Ragazza Senza_Nome, che hanno recensito con tanto impegno ogni singolo capitolo. Grazie anche a Juliette96 e tutti coloro che hanno inserito la mia storia tra le seguite/preferite/ricordate.

Qualcuno ha chiesto se ho intenzione di scrivere un seguito, ma per il momento posso solo dirvi che non è tra i progetti del mio immediato futuro. In ogni caso, il finale è sufficientemente aperto da permettermi di scrivere qualche one shot ambientata dopo questa storia, il che, prima o poi, potrebbe succedere, anche se non lo assicuro.

Ancora grazie a tutti e buon anno nuovo a tutti, con un augurio di tanta serenità in particolare agli EFPiani.

Un bacione, alla prossima!

Futeki

 

 

 

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