Hellbound di Futeki (/viewuser.php?uid=163249)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Gathered chronicles ***
Capitolo 2: *** Il potere dell'acqua ***
Capitolo 3: *** L'inizio del viaggio ***
Capitolo 4: *** Operon ***
Capitolo 5: *** Agente operativo ***
Capitolo 6: *** Different powers ***
Capitolo 7: *** Test ***
Capitolo 8: *** Paure nascoste ***
Capitolo 9: *** Verità ***
Capitolo 10: *** Hellbound ***
Capitolo 11: *** Gioco di squadra ***
Capitolo 12: *** Simulazione ***
Capitolo 13: *** L'arte del sopravvivere ***
Capitolo 14: *** Amor ch’a nullo amato amar perdona ***
Capitolo 15: *** Meeting ***
Capitolo 16: *** Scintille ***
Capitolo 17: *** La tana del lupo ***
Capitolo 18: *** Piano B ***
Capitolo 19: *** Ritorno alla base ***
Capitolo 20: *** Infiltrato ***
Capitolo 21: *** Epilogo - Come una scintilla ***
Capitolo 1 *** Prologo - Gathered chronicles ***
A Legar e Angelica,
perché ci vuole coraggio
a credere in chi
non crede neanche in se stesso.
Grazie.
PROLOGO
Gathered chronicles
Come diceva Orson Welles,
per avere materiale sempre nuovo basta affidarsi alla
cronaca.
(Dario Fo)
16
aprile 2010
MIAMI –
Panico nel pomeriggio di ieri sulla ventiduesima per un incendio sviluppatosi
all’interno di un’abitazione occupata da due coniugi e il loro figlio. A dare
l’allarme sono stati i vicini di casa della famiglia che hanno visto
fuoriuscire molto fumo da una finestra. Sul posto si sono recati immediatamente
i Vigili del Fuoco che hanno provveduto a domare le fiamme evitando che le
stesse si propagassero ad un’altra abitazione confinante con quella occupata
dalla famiglia. Nell’incendio sono morti sia i coniugi Hudson che il loro
secondogenito Harry. Salvo, invece, il primo figlio degli Hudson, che al
momento dell’incidente si trovava a casa di un amico. Ancora non chiara la
causa dell’incendio a seguito del quale tre vite sono state spezzate e l’abitazione
è rimasta distrutta. Sul posto si sono recati anche le forze dell’ordine. Secondo
alcune voci non confermate, l’opinione degli inquirenti è che si sia trattato
di un incendio doloso e che il primo nella lista degli indagati sia proprio il
primogenito degli Hudson, scampato miracolosamente all’incendio.
(dal Miami
Herald, giornale di Miami)
18
settembre 2010
STONINGTON
– Un ragazzo è morto la notte scorsa per un incidente stradale avvenuto sulla
provinciale Alpha. Il decesso è avvenuto per lo scontro frontale con l'auto
guidata da un conducente risultato ubriaco. La vittima è Ryan Chandler,
diciassettenne di Stonington, che era alla guida di un’utilitaria. La sua auto
si è scontrata con un Doblò che, stando a una prima ricostruzione, era in fase
di sorpasso. La vittima all’arrivo dei soccorritori era incastrata fra le
lamiere con gli arti praticamente tagliati a causa del violento impatto. Quando
è stato estratto dal veicolo dai vigili del fuoco per lui non c'era già più
nulla da fare. Salva invece la sorella della vittima, che viaggiava con lui
seduta sul sedile passeggero. Illesi anche il conducente dell'altro mezzo e i
due passeggeri che erano con lui nell’auto. Su tutti e tre gli uomini è stato
effettuato il test dell'alcol che ha dato esito positivo. Il conducente è stato
denunciato per guida in stato di ebbrezza e conseguente omicidio.
(dall’Intelligencer,
giornale di Stonington)
09
ottobre 2010
STONINGTON
– Trovati i cadaveri di tre uomini in un vicolo adiacente alla Deninson Avenue.
I corpi sono stati scoperti ieri mattina da un inquilino del palazzo che
affaccia sul vicolo, che ha prontamente chiamato la polizia e un’ambulanza,
sebbene per i tre non ci fosse più niente da fare. Pare che i tre uomini siano
gli stessi coinvolti nell’incidente stradale di un mese fa nel quale ha perso
la vita Ryan Chandler, un giovane diciassettenne. Nonostante la denuncia per
guida in stato di ebbrezza, il conducente è scampato al carcere per
insufficienza di prove, mentre per gli altri due, che si trovavano in auto con
lui, sono cadute le accuse in quanto non erano essi stessi alla guida del
veicolo. Il dettaglio più strano dell’intera vicenda è la causa della morte:
secondo l’autopsia, i tre uomini sarebbero morti soffocati da una grande
quantità d’acqua; eppure nelle vicinanze della Deninson non ci sono corsi
d’acqua, né sono state rilevate tracce che indichino che i cadaveri siano stati
spostati. Ieri notte Stonington è stata colpita da un violento acquazzone, ma è
assolutamente impossibile pensare che possa essere stato la vera causa del decesso.
Le indagini sembrano essere a un punto morto e la verità su cosa sia accaduto
l’altra notte in quel vicolo resta avvolta nel mistero.
(dall’Intelligencer,
giornale di Stonington)
N.d.A.:
Il
prologo, come dice il titolo, è una raccolta di articoli di giornale
apparentemente scollegati tra loro, ma che troveranno il loro posto all’interno
della vicenda man mano che la storia andrà avanti.
Per
questo capitolo e per tutti i successivi, ringrazio Legar per la sua
insostituibile opera di beta-reading e Lights per il meraviglioso banner.
E,
soprattutto, grazie a chiunque sceglierà di dare un’opportunità a questa storia
in cui ho riversato una parte importante del mio cuore.
Futeki
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Capitolo 2 *** Il potere dell'acqua ***
UNO
Il potere
dell’acqua
L'acqua
addirittura era il più grande simbolo taoista dopo il Drago.
Essa
rappresenta la forza nella debolezza, la fluidità, l'adattabilità,
la
freschezza di giudizio, la persuasione cortese e l'assenza di passioni.
(Jean Campbell
Cooper)
28
ottobre 2011
Quella
mattina la professoressa di biologia entrò in classe con un sorriso maligno
stampato sul viso. Sapevo perfettamente cosa stava per succedere, per questo
iniziai a tentare di ingraziarmi le divinità di varie religioni per ottenere il
loro supporto.
Avevo
appena finito di dire a Tin, la mia migliore amica, che il giorno prima non ero
riuscita a studiare biologia, quando mi ritrovai davanti agli occhi un foglio
che ero convinta sarebbe rimasto bianco. Test a sorpresa.
L’unica
materia che mi dava problemi a scuola era biologia. Tutti quegli incroci tra
piantine di piselli, malattie ereditarie e cani dal pelo raro mi facevano
girare la testa. Proprio per questo motivo, mi impegnavo a studiarla più di
ogni altra materia. Ma la sera prima ero stata troppo presa da un film in TV
per preoccuparmi di studiare biologia. E quell’unica volta in cui mi ero
permessa di guardare la televisione comodamente distesa sul divano del salotto
piuttosto che studiare, il fato si era messo contro di me e aveva malignamente
suggerito a quella serpe della mia prof di preparare un test a sorpresa.
La
maggior parte delle persone normali, nella mia situazione, avrebbe tentato di
copiare qualcosa dal compagno di banco, ma la mia spropositata sfortuna aveva
fatto sì che la professoressa si mettesse a sorvegliare la classe – neanche
fossimo una banda di criminali intenti a organizzare un attacco terroristico –
proprio accanto a me. E io mi ritrovavo come un topolino in trappola, bloccata
tra il muro e la serpe.
La mia
unica possibilità sarebbe stata quella di captare qualche informazione dalla
ragazza seduta davanti a me, - un genio, praticamente! –, se non fosse stato
che lei aveva delle spalle semplicemente enormi e non riuscivo a
intravedere neanche un angolino del suo foglio.
Fu a
quel punto che ebbi un’idea folle.
Socchiusi
gli occhi e cercai di concentrarmi il più possibile. Dopo qualche secondo,
puntai lo sguardo sulla nuca di Jenny e guardai attraverso la sua
schiena.
Passai
la mezz’ora rimanente a copiare ogni singola risposta e al suono della
campanella che segnava la fine dell’ora avevo i crampi alla mano ma un compito
di biologia decente sul banco.
In ogni
caso, se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe sicuramente stata
una pessima giornata, ne ero sicura. Il mal di testa che si affacciava spietato
dopo il compito ne era un evidente preavviso.
In
realtà, più che un preavviso era una conseguenza dello sforzo a cui mi ero
sottoposta per guardare attraverso la mia compagna. I miei comunissimi
occhi verdi non erano poi tanto comuni. Concentrandomi a sufficienza, riuscivo
a vedere attraverso le cose e ad ampliare il mio raggio visivo. Con un po’ di
sforzo, potevo ottenere una mira perfetta e realizzare il punteggio massimo
nelle ore di educazione fisica, quando dovevamo centrare dei birilli lanciando
piccoli cerchietti di plastica.
Questa
mia strana abilità, che mi aveva appena salvato da un’insufficienza grave in
biologia, aveva un paio di piccoli ma fastidiosi effetti collaterali: i miei
occhi passavano dal consueto verde bottiglia a un acceso rosso cremisi – il che
li rendeva un tantino appariscenti – e lo sforzo mi provocava terribili mal di
testa.
Sfruttare
questa abilità quando ero a scuola metteva a rischio il mio segreto, ma quando
si trattava di evitare un brutto voto in biologia, ogni mezzo era lecito.
«Kaitlyn,
com’è andato il test?», mi chiese Tin, saltandomi addosso.
Purtroppo,
la mia migliore amica era, al contrario di me, una ragazza parecchio estroversa.
Nonostante io detestassi le esagerate dimostrazioni d’affetto evitai di
sciogliermi dall’abbraccio.
«Bene»,
risposi semplicemente, «a te?»
Non
fece in tempo a rispondermi che Jordan s’intromise nella nostra discussione:
«Io non ho saputo rispondere neanche alla metà delle domande», grugnì il nostro
amico.
Jordan
era un diciottenne alto, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Lui e Tin erano
i miei migliori amici e le uniche persone di cui mi fidassi veramente.
Nonostante ciò, nessuno dei due conosceva la verità su di me.
«Tu
come diavolo hai fatto a rispondere senza aver studiato?», mi chiese
imbronciato.
Bella
domanda. Quasi mi venne da ridere a guardare la sua espressione, ma mi limitai
a scrollare le spalle e rispondere che ricordavo qualcosa sull’argomento.
«Sempre
fortunata, lei», sbottò.
«La
fortuna è cieca», replicai. Io no, invece.
«Io
penso di essere stata brava», disse Tin interrompendo il nostro battibecco, ma
ottenne in risposta soltanto uno sbuffo da parte di Jordan.
«E
quando mai tu non sei stata brava?», disse Jordan ancora acido.
Tin era
un piccolo genio. La mia migliore amica sembrava una specie di folletto: alta
neanche un metro e sessanta, era magrolina e iperattiva. Aveva una zazzera di
capelli ricci e ribelli e due enormi occhi scuri sempre pieni di curiosità. Lei
e Jordan litigavano spesso, ma si volevano molto bene sin da bambini. Io invece
ero la nuova arrivata, quella che circa un anno prima si era trasferita dal
Connecticut e che contava solo due amici nell’intera città di New York. Col mio
caratteraccio chiuso e ben poco disposto al dialogo, non avrei legato con
nessuno se Tin non avesse insistito tanto nel voler essermi amica.
Fortunatamente, lei era piuttosto testarda, per questo non ero più il lupo
solitario che ero stata appena arrivata, ma facevo addirittura parte di un
piccolo branco composto da tre tipi strani. Comunque, la più strana ero io.
Non ci
fu un momento preciso in cui me ne resi conto: avevo sempre saputo di essere
diversa. Io potevo manipolare l’acqua con la forza del pensiero. Potevo farne qualunque
cosa. Tanto per fare un esempio, una volta allagai accidentalmente il
giardino della mia vecchia casa cercando di annaffiare le piante usando la mia
abilità. L’assurdità di quel mio potere mi aveva sempre spinta a tenere il
segreto, perfino con mia madre. Volevo essere normale, se non addirittura
mimetizzarmi con l’ambiente circostante, e una caratteristica così strana non
era per niente d’aiuto. Ma in ogni caso, quella cosa faceva parte di me e io
l’avevo sempre accettata come tale. Per quanto riguardava la vista speciale, si
trattava di una stranezza più recente, che risaliva appena a un anno prima. Una
mattina mi svegliai con un fortissimo mal di testa e guardandomi allo specchio
mi accorsi che i miei occhi erano diventati rossi. Dopo qualche minuto di
panico, riuscii finalmente a farli tornare al consueto verde bottiglia. In poco
tempo mi resi conto di riuscire a controllare quella vista particolare e a
vedere attraverso gli oggetti.
All’uscita
da scuola, Tin e Jordan tornarono a casa insieme, mentre io, che abitavo da
tutt’altra parte, ero costretta ogni giorno a percorrere la strada da scuola a
casa mia completamente da sola. Al primo incrocio, una macchina si fermò per
lasciarmi attraversare la strada, ma mentre ero sulle strisce pedonali ripartì
per poi fermarsi a pochi centimetri da me. Mi voltai con l’intenzione di
fulminare con lo sguardo quell’idiota del conducente, ma mi bloccai rendendomi
conto che si trattava di Paul, un ragazzo che era molto più che un semplice
idiota: era un colossale errore di Madre Natura.
Fu
Jordan a presentarmelo. Mi disse che era innegabilmente attratto da me e che
avrebbe voluto una possibilità. Io non ero propriamente d’accordo sul fatto che
fosse una buona idea uscire con lui, ma Jordan e Tin mi convinsero a provare.
A prima
vista potevo sembrare cinica e fredda, ma non ero completamente insensibile:
anch’io ero in grado di affezionarmi alle persone e Tin e Jordan ne erano la
prova. Purtroppo, però, nonostante i miei sforzi, proprio non riuscii a provare
empatia nei confronti di quel troglodita.
Una
volta appurato che il suo unico interesse era quello di palparmi con le sue
disgustose mani per tutto il tempo, lo mollai facendogli un discorso ben poco
gentile, e a quanto pareva lui non aveva mai digerito la cosa.
Mi
trattenni dal mostrargli il dito medio in risposta al suo scherzo di pessimo
gusto – preferii pensare che si trattasse di uno scherzo, piuttosto che
considerare l’ipotesi che volesse davvero investirmi – e proseguii per la mia
strada.
Appena
arrivai a casa, mia madre aprì la porta prima ancora che io suonassi il
campanello. Conoscendola, era probabile che avesse passato l’ultima mezz’ora ad
aspettare il mio ritorno sbirciando dallo spioncino.
Mia
madre era una donna di mezza età con la fissazione per lo yoga che lavorava in
un ristorante fuori città. Non le somigliavo per niente: lei era bassina, con
gli occhi neri e un sorriso a trentadue denti sempre stampato sul viso.
Fisicamente parlando, era normale che io non le somigliassi, visto che ero
stata adottata alla nascita. Non avevo mai conosciuto i miei genitori
biologici, né ne avevo mai sentito l’esigenza, visto che avevo sempre
considerato Samantha la mia vera madre. Comunque sapevo che la mia madre
biologica era morta di parto. Il mio padre adottivo, invece, lasciò mia madre
quando avevo solo due anni, abbandonandola per un’amante di cui lei non aveva
mai sospettato l’esistenza. Casa mia sembrerebbe essere troppo grande per noi
due da sole, ma la verità era che quando si trattava di mia madre, sentirsi
soli era praticamente impossibile. E per me, che ero una maniaca della quiete
derivata dalla solitudine, questo era un disagio enorme. Per certi versi, mia
madre somigliava molto a Tin: sempre allegra ed estroversa, non stava ferma un
minuto e non si lasciava ostacolare da niente e nessuno. Probabilmente era per
questo che lei e la mia amica andavano tanto d’accordo.
Io e
mia madre non litigavamo mai, il che poteva sembrare strano per un’adolescente
e una madre single, ma probabilmente tanta quiete derivava dal fatto che io
quasi non parlavo. Ero sempre stata un tipo di poche parole, ma mia madre mi
ripeteva continuamente che avrei dovuto raccontarle di più quello che facevo,
la mia vita scolastica, le mie amicizie, i ragazzi con cui uscivo – ma quali
ragazzi? – e così via. Io, dal canto mio, mi limitavo a scrollare le spalle.
Soltanto una volta, per porre fine alle sue lamentele, le raccontai di Tin, di
quanto fosse stata simpatica con me, che ero la nuova arrivata. Mia madre fu
talmente entusiasta che la sera stessa la invitò a cena da noi. Lei e la mia
amica erano talmente in sintonia tra loro che non potei fare a meno di notare
che Tin sembrava sua figlia molto più di me.
Nel
pomeriggio, Tin m’inviò un SMS invitandomi da lei per fare i compiti. Salutai
velocemente mia madre e uscii di casa con lo zaino sulle spalle. La strada era
silenziosa e tranquilla, quindi camminai lentamente per trattenermi il più
possibile in quella sorta di paradiso terrestre.
Tuttavia,
la mia contemplazione del silenzio venne interrotta da un ringhio basso e
profondo, che mi costrinse a spostare lo sguardo alla mia destra. Un enorme
cane nero si avvicinava lentamente a me, puntando i suoi terrificanti piccoli
occhi sul mio viso.
I cani,
come gli occhi rossi, erano arrivati un anno prima.
Quella
volta, mentre camminavo per strada, un solitario cane nero iniziò a seguirmi.
Era decisamente ben più spaventoso di un normale cane randagio: era
completamente nero, fatta eccezione per gli occhi rosso fuoco, identici ai
miei, e aveva uno sguardo tutt’altro che rassicurante. Nel vederlo, accelerai
il passo per tentare di seminarlo, ma il panico m’impedì di proseguire quando
vidi un’automobile passare attraverso quella creatura come se fosse un
fantasma. In un primo momento, pensai a un’allucinazione e quindi cercai di
convincermi che non poteva davvero farmi del male. Eppure, nonostante io
continuassi a sbattere le palpebre e rilassare la mente, quel mostro era ancora
lì. Non ebbi il tempo di riflettere troppo, visto che il cane scattò
improvvisamente verso di me. Si avventò su di me con le fauci spalancate e io
riuscii per miracolo a schivarlo. Il cane finì contro un idrante posto sul
marciapiede, distruggendolo completamente. Una colonna d’acqua schizzò verso
l’alto e in quel momento mi resi realmente conto che quel cane poteva e voleva
farmi del male. Non riuscii a evitare anche il secondo assalto e il cane mi
azzannò un braccio. Il dolore era lancinante, la vista mi si offuscò e lanciai
un grido. D’istinto, mi concentrai sull’acqua attorno a me e la raccolsi tutta,
comprimendola in una sfera che scagliai contro l’animale. Non avevo mai usato
il mio potere come un’arma, ma in quel momento seppi che potevo difendermi
grazie alla mia abilità. Il cane rimase a terra – dovevo averlo colpito più
forte di quanto credessi – e io lo fissai per qualche secondo. Era davvero
enorme. La testa mi pulsava, il braccio andava a fuoco e il sangue sgorgava
dalla ferita imbrattando il marciapiede. Improvvisamente, l’enorme cane
fantasma svanì, ma il profondo solco sul mio braccio era ancora lì. Andai al
pronto soccorso senza dire nulla a mia madre e inventai una storia per
giustificare la mia ferita. Nascosi la fasciatura sotto la manica e tornai a
casa come se non fosse successo nulla. La cicatrice di quel primo incontro era
ancora lì, a ricordarmi continuamente quello che era successo.
E quel
pomeriggio mi pizzicava il braccio, come per rimandarmi a quel momento, per
avvertirmi che stava per succedere di nuovo.
Quello
non fu l’unico incontro. Dopo quel giorno, per altre cinque volte quei cani si
erano fatti vivi. Ogni volta ce n’era uno in più rispetto alla precedente. Il
mese prima erano in sei, quindi quella volta me ne aspettavo sette. Oltre ad
aumentare sempre in numero, i tempi tra una visita e l’altra si accorciavano.
Oltre
al primo cane, grazie alla mia vista speciale, ne individuai altri quattro. Il
primo mi si avvicinò lentamente, riducendo la distanza tra noi a pochi metri.
Un altro, altrettanto vicino, arrivò dalla direzione opposta, mentre altri due
erano poco più distanti. L’ultimo si tenne a più di quindici metri da me.
All’appello ne mancavano due, che non riuscivo a vedere. La distanza che mi
separava dai cani presenti era fin troppo breve, quindi mi preparai a difendermi
chiamando a raccolta tutta l’acqua che mi circondava. Per fortuna, il giorno
prima aveva piovuto parecchio, quindi la strada brulicava di pozzanghere. Non
potevo creare l’acqua dal nulla, ma solo controllarla, quindi avevo bisogno che
fosse già presente molta acqua nelle vicinanze. La pioggia autunnale faceva al
caso mio.
Scagliai
l’acqua con forza verso il primo cane e quello venne sbalzato via. Ciò provocò,
però, una reazione degli altri che si lanciarono minacciosi verso di me. In
pochi balzi i più vicini mi raggiunsero. Potevo colpirne soltanto uno alla
volta, quindi mentre abbattevo il primo, l’altro ebbe il tempo di graffiarmi la
gamba. Ferita e dolorante, colpii anche l’altro con una forza tale, che quello
volò via e svanì prima ancora di toccare terra. Mi affrettai a colpire gli
altri due prima che fossero troppo vicini da approfittare del vantaggio
numerico. Solo dopo che anche l’ultimo fu scomparso mi resi conto della
trappola in cui ero caduta. Gli ultimi due cani fantasma, quelli che inizialmente
non ero riuscita a individuare, si erano avvicinati a me indisturbati e ora
erano a un metro da me, uno per lato. Immediatamente, mi circondai di un anello
d’acqua protettivo, che i cani non osarono nemmeno sfiorare. Se avessi colpito
uno dei due, l’altro ne avrebbe approfittato per uccidermi. Eravamo in una
situazione di stallo, attendendo che qualcuno facesse la prima mossa, ma era
chiaro che non potevo mantenere per sempre il mio scudo protettivo – mi sarebbe
costato troppa fatica –, mentre quei cani non avevano niente di meglio da fare
che dare la caccia a me. Oltretutto, se fosse passato qualcuno, avrebbe visto
soltanto una ragazza ferita al centro della strada, inspiegabilmente circondata
da un anello di acqua sospesa nell’aria. Non potevo permettermi di dover dare
spiegazioni a qualcuno, ma non sapevo come uscire viva da quella situazione. I
miei occhi erano ancora rossi e pronti a cogliere ogni minimo movimento, per
questo mi accorsi subito del coltello lanciato alle mie spalle, ma i miei riflessi
non furono abbastanza pronti per muovermi in tempo. L’arma mi passò accanto al
viso e andò a conficcarsi nell’addome di uno dei cani: non era diretta a me, ma
ai miei avversari. Colsi l’occasione per colpire l’altro cane con tutta la
forza che mi restava e mi liberai definitivamente anche dell’ultima bestia.
Immediatamente, però, mi voltai a fronteggiare la nuova minaccia.
Un
ragazzo alto e biondo se ne stava fermo sulla strada a qualche metro da me, con
una mano nella tasca della felpa verde e l’altra che teneva distrattamente un
coltello uguale a quello che poco prima aveva trafitto il cane. Per un po’
rimase a fissarmi spavaldo, poi non riuscì più a trattenere un sorriso.
Allargai l’anello d’acqua intorno a me per tenerlo a distanza, ma lui sembrò
quasi divertito dal mio gesto.
«Non
potrai farmi male con quella», disse indicando la mia debole protezione.
Aveva
una voce tranquilla, non sembrava uno che voleva aggredire una ragazza sola in
mezzo alla strada. Ma dopotutto, aveva appena ucciso un cane che non avrebbe
neanche dovuto poter vedere, teneva in mano un coltello come se niente fosse e
non aveva battuto ciglio nel vedere un anello d’acqua fluttuarmi intorno.
«Scommettiamo?»,
riuscii a sembrare sicura di me, nonostante fossi in realtà abbastanza
spaventata da quello sconosciuto.
Il suo
sorriso si allargò. «Non sarei così sleale da scommettere quando so già di aver
vinto. Più che altro, dovresti essermi riconoscente. Suppongo di averti appena
salvato la vita.»
«Me la
sarei cavata.»
«Come
no!», replicò lui con una punta di fastidio.
«Chi
sei?», chiesi, visto che non sembrava avere intenzione di aggiungere altro.
«Mi
chiamo Alex, piacere di conoscerti», disse con un ampio sorriso. Io non
risposi.
«“Piacere
mio, io sono Kaitlyn”. Ecco un esempio di ciò che potresti dire tu.»
Futeki
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Capitolo 3 *** L'inizio del viaggio ***
DUE
L’inizio
del viaggio
A chi
mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo
che so
bene quel che fuggo, ma non quel che cerco.
(Michel
De Montaigne)
«Come
fai a conoscere il mio nome?»
«Ti
cercavo, quindi sono informato», rispose, «anche se forse sarebbe stato meglio
arrivare qualche tempo fa. Sette sono tanti.»
Ci misi
un po’ a capire che si riferiva ai cani. Doveva saperne parecchio. «Che cosa
vuoi da me?»
«Portarti
alla tua vera casa», disse sorridendo. «Ma per il momento, mi limiterò a
riaccompagnarti alla tua casa attuale.»
Non
avevo la minima intenzione di mostrargli dove abitavo, ma Alex si diresse senza
dire nulla verso casa mia. Lo seguii in silenzio e quando lui si fermò davanti
alla porta, rimasi leggermente sorpresa. «Come sapevi che abito qui? Mi hai
spiata?»
«No. Te
l’ho detto, ti cercavo. Mi hanno dato un indirizzo per venire a recuperarti.»
«Recuperarmi?»
«Sì, ti
riporto a casa. Ma prima, parleremo con tua madre, così potrai salutarla.
Dopodiché, ti porterò da Johanna e lei ti spiegherà ogni cosa.»
«Hai
mai pensato che potrei rifiutarmi di venire con te? Cosa intendi fare,
rapirmi?»
«Oh,
no. Parleremo con tua madre in modo che sia lei a convincerti a venire con me.»
Era
forse impazzito? Non avevo intenzione di farlo entrare in casa, ma prima ancora
che Alex bussasse, mia madre aprì la porta.
«Ciao,
Samantha. Mi aspettavi?», la salutò cordialmente Alex.
«Purtroppo
sì, caro. Vieni dentro», rispose mia madre. Caro? A quel punto mi pareva
abbastanza chiaro che io fossi l’unica a non sapere cosa stesse succedendo.
«Kaitlyn,
tesoro, cosa hai fatto alla gamba?», mi chiese mia madre preoccupata. Mi ero
quasi dimenticata della ferita provocatami dal cane, anche se quella continuava
a pulsare.
«Sono
caduta», mentii. Nessuno mi avrebbe mai creduto, eppure mia madre inarcò un
sopracciglio e mi spedì in bagno a disinfettarmi. Mi lasciò in bagno da sola
per qualche secondo per parlare indisturbata con Alex nell’altra stanza. Dal
bagno non potevo sentire granché, ma mi parve di afferrare qualcosa tipo “è
arrivato il momento” e “mi dispiace per Ryan”.
Sentendo
pronunciare quel nome mi si strinse lo stomaco. Ryan.
Non
volli più sentire altro. Mi fasciai la ferita e andai in camera mia a cambiarmi
i jeans strappati, poi tornai in soggiorno sperando che qualcuno avesse la
decenza di spiegarmi cosa stava succedendo.
Mia
madre mi guardò con aria un po’ triste, poi si decise a parlare. «Hai sempre
saputo di essere stata adottata», esordì. «Io non ho mai conosciuto la tua vera
madre, ma una donna, Johanna, chiese a me e a tuo padre di adottarti e
crescerti come fossi nostra figlia. Noi lo abbiamo fatto, o almeno io ci ho
provato, ma sapevamo che sarebbe arrivato il momento in cui saresti dovuta
andare via.»
Mi
irrigidii. A quanto pareva, nessuno era interessato a conoscere la mia
opinione.
«Tu sei
speciale», proseguì, «e io e tuo padre l’abbiamo sempre saputo»
«Chi è
questa Johanna? E dov’è che devo andare?»
«Johanna
è la coordinatrice delle attività di un’unità governativa americana chiamata Operon.
So che il nome è abbastanza ridicolo, ma è così da parecchi anni e non possiamo
farci niente», intervenne Alex. «Io ne faccio parte. E anche tu.»
«Io non
faccio parte di niente», replicai, ma fui costretta a tacere quando fu mia
madre a contraddirmi.
«Sì,
invece. Sei un membro dell’Operon da quando sei nata, per via di ciò che sai
fare. Quando tua madre, la tua vera madre, era al nono mese di
gravidanza ebbe delle complicazioni. Tu non saresti nata se loro non ti
avessero aiutato. Quello che sai fare è una conseguenza del loro intervento,
intervento che ti ha salvato la vita. Non ti costringeranno ad andare con loro,
ma si tratta del tuo Paese e di fatto non hai altra scelta che andare.» Gli
occhi le si velarono di lacrime.
Mi
rivolsi a Alex nel tono più gentile che mi riusciva di usare: «Puoi uscire, per
favore?»
Alex
annuì e si diresse verso la porta, ma sapevo che sarebbe rimasto lì fuori ad
aspettarmi.
Mi
decisi a parlare. «Mamma, a te importa di me?»
Un
lampo di tristezza attraversò il volto di mia madre e per la prima volta,
mostrò davvero l’età che aveva. «Certo che m’importa di te. Io ti voglio bene,
Kaitlyn.»
«E
allora perché vuoi che io vada via?»
«Non
essere stupida, è ovvio che preferirei che tu restassi con me. Ma ci sono tante
cose che non puoi controllare di te stessa e io non posso aiutarti. Loro invece
sì. Ho fatto una promessa a tuo nome, quando ti hanno affidata a me: ho
promesso che avresti servito il nostro Paese in cambio del loro aiuto. Non sono
persone cattive, credimi. Conosco Alex, ho conosciuto Johanna. Non sono persone
cattive», ripeté. «Vai con loro, prenditi cura di te stessa e torna da me tutte
le volte che ne avrai l’opportunità.»
Se mia
madre si fidava di quelle persone, allora lo avrei fatto anch’io. Ma rimasi
comunque ferita dal fatto che mi stesse mandando via. C’erano risposte che
dovevo avere e loro avrebbero potuto darmele. Inoltre, andare via mi sembrava
la scelta più saggia: i cani fantasma continuavano a perseguitarmi e se mi
avessero trovata quando ero insieme a mia madre, non avrei saputo come
difenderla. Sarei andata con Alex chissà dove e sarei entrata in quell’assurda
organizzazione col nome di Operon.
Mi
avviai verso la porta e la spalancai, rivolgendomi più freddamente di quanto
volessi a Alex, che nel frattempo si era acceso una sigaretta. «Che vuoi che
faccia?»
«Dovresti
venire con me alla base dell’Operon e restarci per un po’. Ci saranno altri
ragazzi come te, personale esperto in grado di dirti come utilizzare i tuoi
poteri e verrai addestrata per diventare un membro della nostra
organizzazione.»
«Ci
sto», replicai senza pensarci ancora. «Quando partiamo?»
«Adesso.
Puoi portare qualcosa con te, se vuoi, ma lì troverai comunque tutto ciò di cui
hai bisogno.»
«Faccio
in un attimo.» Mi precipitai nella mia stanza e afferrai uno zainetto. Mentre
ci infilavo dentro poche cose, cercai di non pensare a quello che stavo
facendo. L’ultimo scontro con i cani sarebbe finito male se non fosse stato per
Alex; se non avessi fatto qualcosa avrei potuto seriamente rischiare la mia
vita, oltre che quella di chi mi stava vicino.
Tornai
all’ingresso e vidi che non era cambiato nulla negli ultimi cinque minuti. Alex
aspettava sulla soglia di casa e mia madre se ne stava seduta su una sedia con
espressione afflitta. La abbracciai.
«Non
preoccuparti, ci sentiremo spesso e verrò a trovarti presto», le promisi, anche
se in realtà non sapevo se ne avrei avuta l’opportunità.
♦
«È
stato abbastanza veloce», commentò Alex mentre girava le chiavi nel quadro
della sua auto.
Ero
seduta sul sedile passeggero e avevo spalancato il finestrino per godere della
piacevole sensazione del vento sul viso. «Di che parli?»
«Di
solito ci vuole molto più tempo a convincere un ragazzo a venire con noi, anche
quando i genitori gli spiegano che è la cosa migliore.»
Non
commentai e cambiai discorso. «Hai visto quello che so fare», dissi, «c’è
qualcun altro che sa controllare l’acqua come me?»
«Sì»,
rispose Alex tenendo gli occhi fissi sulla strada. «Io.»
Rimasi
sbalordita. Il ragazzo seduto accanto a me – che non mi sembrava più tanto
giovane, dopo averlo osservato per bene – mi provocò immediatamente una sorta
di disagio. «È per questo che mi hai detto che non posso farti del male con
l’acqua?», chiesi ricordando le sue parole di appena un’ora prima.
«Molto
perspicace.»
«Quanti
altri sanno farlo?»
«Manipolare
l’acqua, dici? Soltanto io e te. Ma ci sono altri ragazzi con poteri
particolari.»
«Per
esempio?»
«Ti
spiegheranno tutto quando saremo arrivati, io non sono la persona adatta per
rispondere a queste domande.»
«Allora
perché hanno mandato proprio te a prendermi?», chiesi.
«È così
da sempre. Credo sia perché sono stato nella tua stessa situazione e
teoricamente io dovrei sapere cosa dirti in ogni circostanza, visto che abbiamo
un po’ di cose in comune», concluse riferendosi al nostro potere.
«Come
mai so fare queste cose?», chiesi ancora una volta.
E di
nuovo, Alex non rispose: «Ti spiegherà tutto Johanna.»
«Chi è
questa Johanna?»
«La
coordinatrice delle operazioni nelle quali siete impiegati voi. Non posso dirti
altro finché non saremo certi di non essere ascoltati.»
Mi
zittii. Fuori dal finestrino, New York cominciò a scorrere rapida al nostro
passaggio, fino a che non scomparve definitivamente. Mi venne in mente di
chiedere dov’erano diretti, ma probabilmente Alex non mi avrebbe risposto,
quindi lasciai perdere.
Lottai
per un po’ contro la stanchezza, ma il motore dell’auto faceva le fusa e
cominciai a sentire gli occhi pesanti. Passammo attraverso molte città, la
maggior parte delle quali mi erano sconosciute e infine cedetti al sonno mentre
entravamo nel New Jersey. Sognai che i cani venivano di nuovo a prendermi, ma
stavolta Alex era dalla loro parte e sogghignava mentre io stavo per essere
uccisa; e il ticchettio di un orologio invisibile scandiva i secondi che mi
restavano da vivere. Tic tac, tic tac. Sempre più
veloce. Tic tac, tic tac, tic tac.
Mi
svegliai di colpo e realizzai che il ticchettio proveniva dalle gocce di
pioggia che battevano sul vetro dell’auto. Il mio finestrino era stato chiuso,
sicuramente da Alex, per impedire che mi bagnassi.
«Ti sei
svegliata, finalmente», disse Alex al mio fianco. «Credevo che ne avessi ancora
per molto.»
Sbadigliai
e mi ricomposi, evitando con cura di pensare alla pioggia. Non mi piacevano i
temporali. «Quanto manca?», chiesi. Un “non molto” appena accennato, fu l’unica
risposta che ottenni.
«Sai
che parli nel sonno?», disse invece Alex.
Certo
che lo sapevo. «Io non parlo nel sonno», replicai debolmente.
«Hai
ragione, non parli, urli. E verso la fine hai gridato qualcosa a proposito di
un orologio.»
«Perché
non mi hai svegliato?», chiesi.
«Pensavo
ti facesse bene dormire un po’.»
Avrei
voluto dirgli di svegliarmi, se fosse capitato di nuovo. Che se urlavo nel
sonno era per colpa degli incubi. Ma non dissi nulla.
«Che
altro ho detto?», chiesi invece.
«Niente
di importante.»
Era
ovvio che stesse mentendo. Stavo per replicare quando un cartello un po’
scolorito sul ciglio della strada mi mandò completamente in confusione.
Benvenuti
nel Wisconsin
Guardai
l’orologio. Avevo dormito per sette ore di fila! Feci un rapido calcolo e mi
resi conto che erano comunque troppo poche per percorrere gli oltre mille
chilometri che separavano New York dal Wisconsin.
Alex mi
lanciò un’occhiata e intuì la natura dei miei pensieri. «Hai dormito tanto
perché sei ferita e hai perso parecchio sangue. Quando arriveremo ti porterò da
chi saprà aiutarti.»
«Come
facciamo ad essere già nel Wisconsin?»
«Non
siamo obbligati a rispettare i limiti di velocità», spiegò.
Ero
ancora confusa. «Sì, ma devi aver tenuto una velocità media di…». Ci pensai un
attimo. «Quanto, centoventi chilometri orari?»
«Centotrenta»,
disse Alex annuendo. «Te la cavi in matematica.»
Tacqui,
avendo intuito che aveva una gran fretta di raggiungere la sua meta.
«Hai
fame?», chiese lui gentilmente. «Appena posso mi fermo.»
Scossi
la testa. Nonostante il mio stomaco brontolasse già da prima di partire, non
avevo voglia di mangiare e pensai che se non ci fossimo fermati, Alex avrebbe
avuto il tempo di proseguire a una velocità più accettabile. «Puoi rallentare
un po’? Con la pioggia è pericoloso correre.»
Mentre
pronunciavo quelle parole, mi resi conto di quanto suonasse ridicolo chiedergli
di rallentare per la pioggia. Probabilmente, con tutta quell’acqua intorno, lui
si sentiva ancora più sicuro.
In quel
momento, il rombo di un tuono squarciò l’aria e io m’irrigidii istintivamente.
«Hai
paura dei tuoni?», chiese preoccupato.
Scossi
la testa, ma era inutile negare. Avevo paura di qualsiasi cosa avesse a che
fare con l’elettricità. Non solo dei fulmini, ma anche delle cose più semplici,
come mettere in corrente il tostapane, o spostare l’antenna della televisione.
Non l’avevo mai detto a nessuno, nemmeno a mia madre. Chiunque sarebbe
scoppiato a ridere sentendo una cosa del genere.
«Io
sì», confessò Alex. «È normale, noi abbiamo l’acqua nel DNA. Ci basta poco per
morire fulminati, è una paura assolutamente razionale. Devi solo imparare a
combatterla. Una volta arrivati ti aiuteranno. Con me lo hanno fatto.»
Non
risposi, ma mi sentii un po’ più tranquilla. Gli ero molto grata per quello che
aveva detto e anche se non avevo pronunciato nessun ringraziamento a voce alta,
speravo che lui avrebbe capito. Ero contenta che avessero mandato proprio lui a
prendermi: era vero, Alex sapeva cosa dire per rassicurarmi.
Ci
fermammo nei pressi di quello che sembrava un eliporto. Davanti a noi, un
elicottero nero lucido sembrava pronto al decollo. Aveva smesso di piovere, per
fortuna, ma ero convinta che saremmo saliti a bordo di quel dannato elicottero
anche nel bel mezzo di un tornado.
Alex
aveva rinnovato la sua offerta di farmi mangiare qualcosa, ma al mio secondo
rifiuto mi fece salire a bordo dell’inquietante veicolo. Mi trovai seduta tra
Alex e il finestrino, e passai tutte e due le ore di volo guardando il
paesaggio che scorreva sotto di me. Volare non mi disturbava, ma in quel caso
ero un tantino preoccupata per il pilota. Doveva essere sulla cinquantina, era
grosso e portava un paio di occhiali a mezzaluna che mi ricordavano quelli di
Albus Silente nel film di Harry Potter. Le somiglianze, però, si limitavano
agli occhiali. Era sembrato sicuro di sé quando si era messo alla guida, ma
l’elicottero incappava sempre in correnti d’aria e sobbalzava continuamente.
Quando
esposi le mie perplessità a Alex, lui si limitò a dare la colpa all’altezza
troppo elevata che dovevamo mantenere per motivi di sicurezza, ma neanche lui
pareva troppo convinto.
N.d.A.:
In
questo capitolo iniziamo a conoscere Alex e intravediamo il rapporto complicato
che c’è tra Kaitlyn e sua madre. Kaitlyn è un’adolescente con poteri strani e
se gli adolescenti sono già normalmente contorti, lei è sicuramente ancora più
complessa a livello emotivo.
Grazie
a chi sta seguendo la storia, non solo a chi l’ha recensita ma anche a chi l’ha
inserita nelle seguite/ricordate/preferite. Spero vi piaccia!
Futeki
|
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Capitolo 4 *** Operon ***
TRE
Operon
L'amicizia
è una presenza che non ti evita di sentirti solo,
ma
rende il viaggio più leggero.
(David
Trueba)
Atterrammo
finalmente in Oregon e salimmo subito a bordo di un’altra auto. Alex mi spiegò
che quella che avevamo usato quella mattina era a noleggio e che questa invece era
fornita dall’Operon.
«Non
potevamo andare direttamente lì con l’elicottero?», chiesi ingenuamente.
«No,
dobbiamo far perdere le nostre tracce», rispose lui.
«Quanti
ragazzi portate all’Operon?»
«Otto
ogni quindici anni. Quest’anno però ne manca uno. Ryan». M’incupii. «Mi
dispiace, non volevo intristirti.»
«E
avete un elicottero per ognuno di noi?», proseguii cambiando argomento.
Alex
rise. «No, ma i ragazzi che abitano più lontano adottano mezzi di trasporto più
veloci. Dovete essere tutti lì entro stasera.»
«E
dov’è “lì”?»
Mi
riservò un’occhiataccia.
«Almeno
dimmi in che Stato è!»
«Washington.»
Per la
prima volta, pensai a ciò che mi aspettava: sarei entrata a far parte di
un’agenzia governativa segreta chiamata Operon, la cui base si trovava a più di
tremilaquattrocento chilometri da casa mia, in pratica, dall’altra parte del
paese.
«Cosa
si aspettano da me?», chiesi.
«Lo
saprai quando arriveremo.»
Ovviamente,
non speravo davvero in una risposta. Avevo capito che Alex non mi avrebbe detto
nulla fino a che non fossimo arrivati alla base. Esausta per il viaggio, mi
concessi un’altra ora di sonno, stavolta senza incubi, e al mio risveglio era
già calato il buio, anche se erano solo le sei del pomeriggio.
Alex
sembrava stanco, anche se non si era mai lamentato, ma sapevo che guidare per
tutto quel tempo doveva essere stato estenuante. Sembrava sul punto di addormentarsi
al volante, quindi cercai di distrarlo un po’ facendogli qualche domanda a cui
lui poteva rispondere.
«Alex,
tu di dove sei?», chiesi.
«Sono
nato e cresciuto in Arkansas fino a diciassette anni, quando Jonathan è venuto
a prendermi per portarmi all’Operon, proprio come ho fatto io con te.»
«Chi è
Jonathan?», chiesi, ma mi pentii immediatamente della domanda, quando vidi
l’espressione triste sul volto di Alex.
«Era un
membro dell’Operon. Anche lui sapeva manipolare l’acqua. È morto l’anno
scorso.»
«Mi
dispiace», dissi, cercando poi di cambiare argomento. «La tua famiglia vive
ancora in Arkansas?»
«Sì. Di
tanto in tanto vado a trovarli. Ho anche una sorella, che ha avuto da poco un
bambino.» Sorrise nel pronunciare quelle parole.
«Ti
mancano, vero?»
«Sì. Ed
è per questo che non dovrei parlartene: c’è il rischio che tu cambi idea e
decida di tornartene a casa.»
«Come
pensi che possa tornare? A piedi?»
Sorrise
come se non trovasse assurda l’idea. «Il rischio che tu non voglia collaborare
c’è.»
«No,
invece, non c’è», lo contraddissi. «Non potevo restare lì.»
Lui non
disse nulla. «Come va la gamba?», chiese invece qualche minuto dopo.
«Bene»,
mentii. Mi faceva male, ma preferivo non pensarci. Non era la prima volta che restavo
ferita in uno scontro con quei cani, quindi sapevo che la ferita necessitava di
un bel po’ di tempo per guarire.
Per
cambiare argomento, gli feci altre domande di poca importanza. Lui mi raccontò
di come una volta aveva spaventato a morte un gatto facendogli schizzare in
faccia l’acqua di una pozzanghera dalla quale stava bevendo e io di quando
avevo allagato il giardino di casa mia.
Ridemmo
insieme e la tensione nell’aria sembrò svanire del tutto. Alex, con il suo
bell’aspetto e la sua allegria contagiosa, mi ispirava sicurezza.
«Quanti
anni hai?», chiesi infine. Gli avrei dato venticinque, ventisei anni al
massimo, quindi fui sorpresa di sentirmi rispondere trentadue.
«Ogni
quindici anni nascono otto ragazzi speciali che vengono chiamati Generazione
Alfa. Raggiunti i quindici anni di età, prendono il nome di Generazione Beta e
vengono al mondo altri otto ragazzi che costituiscono la nuova Generazione Alfa
e così via», spiegò lui.
«Quindi
io faccio parte dell’attuale Generazione Beta?»
«Esattamente.»
«Questo
significa che ci sono altri otto bambini nel mondo, di appena due anni, che
hanno poteri particolari?»
«Sì.
Inoltre, attualmente esistono cinque membri della mia Generazione, la
Generazione Gamma, quattro della Generazione Delta e soltanto uno della
Generazione Epsilon.»
«Ho capito»,
risposi, astenendomi dal commentare il fatto che finalmente Alex mi stava
spiegando qualcosa, per non rischiare che smettesse di parlare.
«E
abbiamo tutti poteri diversi?»
«Sì.
Derivano da una sorta di mutazione genetica. Hai presente il film X-man?»,
chiese. Annuii. Persone con poteri speciali causati dalla progressiva
evoluzione del genere umano. «Più o meno è lo stesso, solo che la mutazione è
causata artificialmente.»
Attesi
in silenzio che continuasse.
«Ci
sono tre tipi di mutazioni: quelle del controllo fisico, quelle del controllo
chimico e quelle del controllo psichico.»
«E…?»,
chiesi, visto che si era fermato all’improvviso.
«E
saprai tutto non appena saremo arrivati.»
Rimasi
delusa da quella risposta, ma i miei propositi di tenergli il broncio
crollarono quando mi venne in mente qualcosa che volevo assolutamente sapere.
«Tutti
hanno gli occhi che diventano rossi?», domandai.
Alex
strinse le mani sul volante. «No, non tutti.»
Intuii
che non sarebbe andato oltre, quindi attesi in silenzio che arrivassimo a
destinazione.
Guardando
fuori dal finestrino, riconobbi Seattle da alcune fotografie che aveva visto in
passato. Ma nessuna immagine era neanche lontanamente paragonabile alla
bellezza di quella città.
I
palazzi si stagliavano alti nel cielo notturno, e la città brillava delle luci
dei lampioni, dei negozi e degli appartamenti. Tante persone popolavano le
strade, sia a piedi, sia in macchina; intravidi una donna e un bambino che
camminavano sul marciapiede tenendosi per mano. Le automobili sfrecciavano
silenziose sulla strada e le insegne luminose contribuivano a rendere
meravigliosa l’atmosfera di quella città.
Dopo
aver proseguito per un po’ verso il centro, Alex parcheggiò l’auto nei pressi
di una piazza, spense il motore e con un sorriso a trentadue denti stampato in
faccia esclamò: «Siamo arrivati.»
Ero
sbalordita. Mi ero aspettata di arrivare in un posto sconosciuto e solitario e
invece Alex mi aveva portata in una delle città più popolate degli Stati
Uniti.
«Vuoi
dire che l’Operon si trova qui? Sotto gli occhi di tutti?», dissi con un tono
di voce un po’ troppo alto.
«Sì e
no.»
Sollevai
le sopracciglia e lui spiegò meglio ciò che intendeva: «Si trova qui, ma è
sottoterra.»
Rimasi
senza parole. Seguii Alex fino a una libreria ancora aperta e lui mi spinse
dentro. Non c’era quasi nessuno, a parte una signora seduta al bancone,
beatamente immersa nella lettura di un libro dalla copertina rosa.
«Oh,
ciao Alex», lo salutò e rivolse anche a me un cenno di saluto.
«Ciao
Marisa. Lei è Kaitlyn, una nuova arrivata.» La salutai con un sorriso.
«Siamo
di fretta, ci si rivede», disse spingendomi verso un punto più nascosto della
libreria. Spostò uno scaffale e tirò fuori una chiave dalla tasca. Aprì la
porta che era apparsa dietro lo scaffale ed entrammo. Alex tirò una catenella
che pendeva dal soffitto e una debole luce illuminò una galleria che proseguiva
in discesa. Ci chiudemmo la porta alle spalle e percorremmo la galleria.
«Chi
era quella donna?», chiesi quando ci fummo addentrati nella galleria.
«Una
dei Guardiani. Sono cittadini comuni che hanno però il compito di sorvegliare
gli ingressi alla base.»
«Quanti
ingressi ci sono?»
«Non lo
so con esattezza. Io ne conosco quattro, ma credo siano più di venti.»
Arrivammo
finalmente a una spessa porta metallica chiusa. Sulla parte superiore c’era una
frase in latino incisa nel metallo:
Ubi
multa lux est, umbra ubscurior est.
«Dove
c’è molta luce l’ombra è più scura», tradusse Alex dopo aver notato che stavo
fissando l’incisione. «C’è una frase del genere su ogni ingresso. A mio parere,
questa è la più bella.»
Dove
avrebbe dovuto trovarsi la serratura c’era invece una tastiera numerica e Alex
digitò velocemente una sequenza che non riuscii neanche a vedere. Poi premette
il pollice su quello che doveva essere uno scanner per impronte digitali. La porta
si aprì con uno scatto ed entrammo finalmente nella base dell’Operon.
Sulla
parete di destra, brillava una O di dimensioni spropositate dipinta sul muro
con una vernice rossa. La stanza su cui affacciava la porta era una specie di
soggiorno, con divani di pelle blu, un tappeto e uno schermo gigante con una
serie di macchinari collegati ad esso, tra i quali distinsi un computer.
Su uno
dei divani c’erano seduti due ragazzi, un maschio e una femmina, che mi
osservavano a bocca aperta. La ragazza aveva lunghi capelli biondi e occhi
verdi, il ragazzo capelli scuri e occhi azzurri. Una donna più grande, in piedi
con addosso una divisa nera, mi scrutava da dietro un paio di occhiali. Altri
due ragazzi identici tra loro, sicuramente gemelli, mi guardavano con
espressione divertita dal divano opposto.
Avrei
tanto voluto sapere cosa avevo di così strano da spingerli a fissarmi in quel
modo.
Alex mi
si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «Benvenuta nell’Operon, agente
Kaitlyn.»
La
donna con gli occhiali si presentò. Lei era la famosa Johanna, coordinatrice
operativa dell’Operon. Mi fece accomodare sul divano accanto ai gemelli e ci
invitò a rimandare le presentazioni a un secondo momento, visto che in pochi
secondi sarebbero arrivati gli ultimi due ragazzi e lei avrebbe dato inizio
alla presentazione dell’Operon e del suo programma. Mi sentivo confusa e un po’
a disagio. Johanna mi dava l’impressione di una donna precisa ed efficiente e
gli altri ragazzi sembravano tutti sicuri di sé, nonostante l’occhiata strana
che i due seduti sul divano opposto mi avevano riservato. Come predetto da
Johanna, immediatamente arrivò un ragazzo dall’aria tranquilla affiancato da un
uomo che classificai come appartenente alla stessa Generazione di Alex. Il
ragazzo prese posto accanto alla ragazza bionda che si rivolse immediatamente a
Johanna con voce pacata. «Manca solo Jessica», disse lanciandomi un’occhiata.
«Dov’è?»,
chiese Alex alla ragazza.
«In
bagno, dovrebbe arrivare a momen…»
Fu
interrotta dall’ingresso di una ragazza nella stanza. Aveva lunghi capelli
scuri che scendevano lisci sulla schiena e grandi occhi marroni. Di statura
media, era nel complesso una bella ragazza. Ciò che mi lasciò a bocca aperta
era che la ragazza che era appena entrata, era identica a me.
N.d.A.:
Le
distanze tra i vari Stati americani e i tempi di percorrenza sono rispettati il
più possibile, mentre la libreria, ovviamente, è inventata – anche se potrebbe
tranquillamente esserci una libreria nel centro di Seattle!
Grazie
a chi sta seguendo la storia, anche da Facebook.
Futeki
|
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Capitolo 5 *** Agente operativo ***
QUATTRO
Agente
operativo
Nessuna
domanda è più difficile di quella la cui risposta è ovvia.
(George
Bernard Shaw)
La
nuova arrivata mi fissò per qualche secondo, poi andò a sedersi sul divano
opposto al mio. I gemelli seduti accanto a me ridevano per la situazione. Mi
voltai verso Alex in cerca di risposte, ma ottenni solo una scrollata di
spalle.
«Chi
sei tu?», chiesi alla ragazza in tono educato, visto che lei non sembrava
minimamente sorpresa di trovarsi di fronte il suo doppio.
«Mi
chiamo Jessica, sono tua sorella gemella. Siamo state date in adozione a due
famiglie diverse.»
La
spiegazione era così semplice da risultare inverosimile. Non avevo mai pensato
all’ipotesi che avessi potuto avere fratelli o sorelle, ancor meno che avessi
una gemella. La cosa non mi piaceva per niente.
Johanna
mi lasciò qualche istante per riprendermi dallo shock della scoperta e poi
iniziò a parlare. Archiviai mentalmente la novità e iniziai ad ascoltarla,
conscia che finalmente avrei potuto capire qualcosa.
«Salve
ragazzi, io sono Johanna Masters. Spero che avrete tutti modo di conoscervi al
meglio; da oggi sarete una squadra, una squadra speciale dell’Operon. Come
sicuramente saprete», riprese lei, «dopo la seconda guerra mondiale venne a
crearsi, intorno al 1947, una contrapposizione tra due blocchi internazionali,
generalmente categorizzati come Oriente e Occidente. Del blocco occidentale
facevano parte gli Stati Uniti d’America, gli alleati della NATO e alcuni Paesi
alleati, mentre il blocco orientale, più comunemente noto come blocco
comunista, comprendeva l’Unione Sovietica e gli alleati del Patto di Varsavia.»
Lo
schermo di fronte a lei si illuminò e mostrò una mappa del mondo nella quale
erano rappresentati in blu i membri del blocco occidentale e in rosso quelli
del blocco orientale.
Mi resi
conto che quella sorta di presentazione era quasi una lezione di storia e
ringraziai mentalmente le mie conoscenze storiche, altrimenti non sarei mai
riuscita a seguire Johanna al ritmo con cui esponeva i fatti.
«Questa
situazione di contrapposizione, che non arrivò mai a un vero e proprio scontro
diretto, prese il nome di Guerra Fredda e vide come principali protagonisti
Stati Uniti e Russia, rispettivamente considerati il centro del blocco
occidentale e del blocco sovietico. Poiché la possibilità di entrambe le parti
di utilizzare armi nucleari avrebbe facilmente potuto distruggere l’intero pianeta,
il conflitto si sviluppò su campi diversi da quello militare, quali il campo
ideologico, psicologico e tecnologico. La parte più critica e pericolosa del
conflitto si ebbe tra gli anni cinquanta e settanta, ma già dagli anni ottanta
entrambi i blocchi avviarono un lento processo di disarmo; la fine della Guerra
Fredda si fa coincidere convenzionalmente con la caduta del Muro di Berlino nel
1989.» Lo schermo si spense e Johanna smise di parlare con voce meccanica.
«Quello
che la maggior parte della gente non sa», proseguì, «è che la Guerra Fredda in
realtà non è mai finita. Tra Stati Uniti e Russia aleggia ancora un clima di
tensione. Siamo continuamente in lotta con loro per contrasti politici,
concorrenza nel commercio e nel progresso scientifico-tecnologico. Ormai
nessuno si rende conto che questa guerra non ha senso, quindi ciascuna delle
due parti continua ad attaccare silenziosamente l’altra per evitare di doversi
solamente difendere. L’Operon è un corpo separato del Governo americano; è
nostro dovere mantenere il segreto sulle operazioni che si svolgono intorno a
questa unità. Voi ragazzi siete stati automaticamente arruolati per le vostre
caratteristiche genetiche. Scoprirete che non sono molti gli agenti dell’Operon,
proprio perché nella scelta degli arruolamenti si punta più sulla qualità degli
agenti scelti che non sul numero. Il mio compito è gestire e organizzare le
attività dell’Operon.» Si fermò un secondo, forse in attesa di domande, ma
poiché nessuno parlò, lei proseguì nella spiegazione. Lo schermo si illuminò di
nuovo mostrando immagini di quelle che sembravano coltivazioni di fiori che non
avevo mai visto prima.
«Questi
che vedete, sono fiori particolari chiamati albi. Alcuni dei nostri scienziati
hanno rinvenuto dei campioni in Sudamerica, dove vecchie popolazioni locali li
coltivavano per le loro proprietà curative. Grazie agli studi effettuati sul
polline di questi fiori, si è scoperto che hanno la caratteristica di
accelerare il processo di duplicazione della cellula umana. Alla duplicazione
dei cromosomi, però, il DNA subisce delle modifiche tali che le nuove cellule
risultano mutate.»
Ora lo
schermo mostrava una duplicazione cellulare ripresa al microscopio. Finché si
era trattato di storia avevo capito tutto, ma una volta passati alla biologia,
le mie conoscenze in merito erano declinate pericolosamente, fin quasi a non
farmi capire più niente.
«Dovete
sapere che le vostre madri – le vostre madri biologiche, intendo», disse
rivolgendoci uno sguardo serio, «avevano tutte una cosa in comune: avrebbero
perso i propri figli durante la gravidanza. A loro è stato offerto da alcuni
nostri agenti specializzati, di salvare i propri bambini lasciandosi iniettare
un composto a base di polline di albi. I loro figli, però, sarebbero nati con
caratteristiche speciali e, una volta raggiunti i diciassette anni, sarebbero dovuti
entrare a far parte dell’Operon come agenti. Infatti ora voi siete qui.» Fece
un’altra pausa per spegnere lo schermo che tornò grigio.
«Purtroppo
le quantità di fiori coltivabili sono molto limitate e perché gli albi siano
pronti occorrono ben quindici anni. Per questo nel migliore dei casi riusciamo
ad arruolare soltanto otto ragazzi ogni Generazione. In questo momento, voi
siete la Generazione Beta, mentre la Generazione Alfa è costituita dai bambini
che ora hanno due anni che abbiamo salvato alla nascita.» Si lanciò quindi
nella spiegazione sulle Generazioni che Alex mi aveva dato in macchina. Notai
che alcuni ragazzi cercavano seriamente di comprendere il complesso meccanismo
delle Generazioni, mentre altri mostravano chiaramente di sapere già di cosa si
parlasse; probabilmente i loro accompagnatori avevano vuotato il sacco come aveva
fatto Alex. Johanna concluse la spiegazione sulle Generazioni annunciando che
un membro della Generazione Beta era morto qualche mese prima. Mi si strinse lo
stomaco nell’apprendere che stava parlando di Ryan. Poi passò a spiegare qual
era il nostro compito nell’Operon.
«Voi
siete agenti da campo, cioè quelli che, una volta addestrati e ben preparati,
prenderanno parte dal vivo alle missioni dell’Operon. Già da domani, inizierete
una fase di preparazione grazie all’aiuto dei componenti della Generazione Gamma,
che già avete conosciuto visto che sono venuti a prendervi a casa. Imparerete
non solo a gestire il vostro potere, ma anche a maneggiare armi di vario tipo.
Questo non è un gioco», disse poi con voce tetra, «è una guerra. E la guerra è
dura e può comportare delle perdite. Dovrete essere forti per sopravvivere.»
Il
discorso suonava un po’ cupo, ma capii che diceva sul serio.
«Ma per
stasera», riprese Johanna in tono più morbido, «rilassatevi. Avete affrontato
tutti un lungo viaggio. I vostri accompagnatori vi mostreranno le vostre
stanze, dove potrete sistemarvi e rinfrescarvi un po’. Dopodiché, in sala mensa
verrà servita una speciale cena di benvenuto, durante la quale avrete modo di
conoscervi e parlare. Vi lascio alle vostre cose, a più tardi.» Così dicendo,
Johanna uscì dalla stanza, lasciandoci soli. Immediatamente, due ragazze e un
ragazzo – probabilmente della Generazione di Alex – entrarono nella stanza e
dissero qualcosa ai ragazzi, che si alzarono in piedi.
Anche Alex
mi si avvicinò e mi condusse fuori dalla stanza, ma mentre tutti gli altri
svoltarono a sinistra lungo un immenso corridoio, Alex mi fece cenno di
seguirlo nella direzione opposta. Arrivammo davanti a una porta sulla quale
spiccava a caratteri giganti la scritta “INFERMERIA” e Alex bussò. Senza
aspettare una risposta entrò nella stanza e una donna sulla quarantina seduta dietro
a una scrivania alzò gli occhi da un mucchio di carte.
«Ciao
Lucy», la salutò Alex. «Lei è Kaitlyn, della Generazione Beta.»
Lucy
sembrava sul punto di rimproverarlo per averla disturbata, ma quando mi vide
sul suo viso spuntò un enorme sorriso. «La ragazza dell’acqua», disse. «Come
mai sei qui?»
Aprii
bocca per rispondere, ma Alex mi anticipò spiegandole che mi ero fatta male
alla gamba e avevo perso molto sangue. Non disse nulla riguardo al modo in cui
mi ero ferita. Lucy mi fece sedere su un lettino e mi controllò la ferita. Alla
vista dei tre tagli, uno sguardo consapevole illuminò il suo volto. «Questi
sono…»
«Sì»,
rispose Alex. «Non dirlo a nessuno, però. Non è ancora il momento.» Lucy annuì
e cominciò a disinfettare la ferita. Quando ebbe finito poggiò una mano
esattamente sopra il taglio centrale, quello più profondo. Sussultai
automaticamente ma rimasi sorpresa nell’accorgermi che invece di sentire
dolore, al suo tocco sembravo stare meglio. Dopo qualche secondo, Lucy mi
medicò la ferita e mi aiutò a scendere dal lettino con un sorriso.
«Grazie»,
dissi rendendomi conto che era la prima parola che pronunciavo davanti a quella
donna così gentile.
«Di
niente cara. Se dovesse farti male vieni pure da me, ti darò qualcosa per
calmare il dolore.»
Annuii
e ringraziai nuovamente.
Uscimmo
dall’infermeria e ringraziai anche Alex per avermi accompagnata lì. Mi condusse
poi in un’ala della base dove – secondo le sue spiegazioni – c’erano le stanze
degli agenti operativi. Cercai di memorizzare la strada fino a un corridoio su
cui affacciavano numerose porte su cui c’erano diversi numeri, come se fossero
stanze di un albergo. Alex mi lasciò davanti al numero 7 e proseguì per il
lungo corridoio, affermando che la sua stanza era la numero 21. Aprii la porta
ed entrai nella mia camera. Su un tavolino accanto alla porta c’era una piccola
chiave che portava il numero 7. La stanza era enorme, con un bel letto
posizionato contro il muro, una scrivania, e una porta che conduceva a un bagno
privato. Essendo sottoterra, però, non c’erano finestre. Stimai che l’intera
stanza dovesse essere grande il triplo di quella che avevo a casa mia, a New
York. Lasciai lo zainetto sulla scrivania e mi stesi sul letto. Chiusi gli
occhi per qualche secondo, cercando di fare il punto della situazione. Più o
meno, avevo capito tutto quello che Johanna aveva detto. La Guerra Fredda, la
mutazione eccetera. Però sospettavo che la maggior parte delle cose che aveva
detto servissero solo a rispondere alle domande che io e gli altri ragazzi ci
ponevamo da un po’. Il messaggio principale di quella presentazione era che
l’Operon era un’agenzia governativa in guerra e che loro erano i soldati.
Ripensai per qualche secondo a quella che era la mia sorella gemella e decisi
che mi sarei comportata in modo assolutamente normale. Non era poi così strano
il fatto che avessi una gemella. La nostra madre naturale era morta di parto e
noi eravamo state affidate a due famiglie diverse.
Andai a
farmi una doccia e infilai un paio di jeans puliti e una semplice maglietta che
trovai nell’armadio. I vestiti erano tutti della mia misura. Cercai di ignorare
la vocina nella mia testa che mi suggeriva che era parecchio inquietante che
quella gente conoscesse anche la taglia dei miei pantaloni.
Mi
asciugai i capelli e per un momento pensai di legarli. Alla fine cambiai idea,
ricordandomi che erano l’unico elemento che mi distingueva da Jessica: io avevo
i capelli ricci, mentre quelli di mia sorella – mi costrinsi a definirla così –
se pur dello stesso colore, erano perfettamente lisci.
Svuotai
il contenuto dello zainetto in un cassetto e non avendo più modo di ritardare
uscii dalla stanza.
Dalla
porta della stanza di fronte alla mia, la numero 8, stavano uscendo i due
gemelli. Uno armeggiava con la chiave nel tentativo di chiudere la porta,
mentre l’altro se ne stava col broncio e le braccia incrociate sul petto.
Quello che stava chiudendo la porta si girò e mise la chiave in tasca. In quel
momento, si accorse di me e mi sorrise.
«Ciao.
Io sono Robb e questo è mio fratello Kevin.», disse tendendomi la mano.
Con un
secondo di ritardo, capii che dovevo stringerla. «Kaitlyn», mi presentai.
Robb si
voltò a guardare il fratello che se ne stava ancora appoggiato al muro tutto
imbronciato. «Andiamo, almeno sii educato!», lo esortò. In risposta lui girò la
testa dall’altra parte.
«Scusalo»,
disse Robb. «Di solito non è così maleducato. È arrabbiato perché non ho voluto
vestirmi come lui. Secondo lui, così è facile che ci distinguano.»
«Non
vuoi che vi distinguano?», chiesi a Kevin. Io avevo fatto il possibile perché
mi distinguessero da Jessica.
«Al
contrario», rispose lui sorprendendomi. «Vorrei che gli altri si sforzassero di
trovare le differenze tra noi e non si basassero semplicemente su come siamo
vestiti.»
Risi di
quell’affermazione e della sua espressione imbronciata. «Hai ragione», dissi.
«Io posso prometterti che proverò a distinguervi.»
Kevin
parve rianimarsi.
«Però
per i primi tempi forse è meglio che mi diate una mano», aggiunsi. «Magari
vestendovi in modo diverso.»
Kevin
annuì e Robb parve lanciarmi uno sguardo di ringraziamento.
Mi
chiesi se gli altri avrebbero potuto confondermi con Jessica. Avevo notato
alcune differenze nella forma del naso e delle labbra, ma in fondo per me era
naturale. Comunque fui contenta di aver tenuto i capelli sciolti.
Mi
venne in mente che non avevo idea di dove si trovasse la sala mensa e Alex non
mi aveva detto nulla.
«Ragazzi,
voi sapete dove dobbiamo andare per la cena?», chiesi rivolta ai gemelli.
«Sì»,
rispose Robb.
«Chris
ce l’ha spiegato», proseguì Kevin. Chris doveva essere il loro accompagnatore.
«Vieni
con noi», concluse Robb.
Non potei
fare a meno di notare che completavano l’uno le frasi dell’altro. Sorrisi di
quel dettaglio.
Chissà
se se ne rendevano conto.
N.d.A.:
La
ricostruzione storica sulla guerra fredda è in parte veritiera e in parte inventata.
Il fiore citato è anch’esso inventato.
Grazie
a chi sta seguendo la storia, anche da Facebook.
Futeki
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Capitolo 6 *** Different powers ***
CINQUE
Different
powers
Il
potere è con te. Se gli darai forma, ti darà forza.
(Kingdom
Hearts)
La sala
mensa era un enorme spazio vagamente somigliante a una sala ristorante. C’erano
una decina di lunghi tavoli, ciascuno con otto posti. Al tavolo centrale
c’erano seduti Jessica, la ragazza bionda e il ragazzo con gli occhi azzurri.
Erano seduti tutti e tre dallo stesso lato del tavolo, quindi i gemelli si
sedettero di fronte a loro e io li imitai, sedendomi accanto a Kevin. La
ragazza bionda stava parlando con Jessica, ma quando noi prendemmo posto si
interruppe e si presentò.
«Io
sono Cassidy», disse, «ma tutti mi chiamano Cass. Non siamo riuscite a
presentarci prima, visto che Johanna aveva fretta.»
«Kaitlyn»,
risposi semplicemente io abbozzando un sorriso. Sembrava una ragazza simpatica
e a prima vista avrei detto che mi piaceva. Ispirava tranquillità ed
equilibrio.
«Io
sono Tom», disse invece il ragazzo con gli occhi azzurri seduto accanto a Cass.
«Tanto piacere.»
Sorrisi
in risposta e stavolta fu un sorriso ancora più sincero. Quel Tom aveva un’aria
molto pacata. M’incupii al pensiero che lì fossero tutti così gentili, mentre
io apparivo fredda e distaccata.
«Allora,
come hai preso la scoperta di avere una sorella gemella?», disse Cassidy,
perdendo qualche punto nella mia classifica di gradimento.
«Cass»,
la rimproverò Jessica. «Lasciala stare.»
«Io
ancora non riesco a crederci», replicò Cassidy. «Mamma avrebbe dovuto dirtelo.»
Notando
la mia espressione confusa, Jessica si affrettò a spiegare. «Sono stata
adottata dalla famiglia di Cass. Purtroppo però sono venuta a conoscenza della
tua esistenza giusto dieci minuti prima che tu entrassi nella Operon.»
Pensai
a quanto fosse stato ancora più strano trovarsi il proprio doppio semplicemente
di fronte, ma non lo dissi ad alta voce. «In effetti fa un po’ uno strano
effetto. Però superato lo shock iniziale, la cosa sembra quasi divertente. Ho
sempre desiderato una sorella», dissi per fare conversazione, anche se non era
vero.
«Oh
be’, io ho già questa rompiscatole», disse sorridendo Jessica, indicando con un
cenno la ragazza al suo fianco. «Ma è davvero fico scoprire di avere una
gemella.»
Robb
rise piano. «Chris, il nostro accompagnatore, ha chiamato la nostra Generazione
la Generazione dei gemelli. Credo che anche nella Generazione precedente ci
fosse una coppia di gemelli, ma erano un maschio e una femmina.»
«Noi
invece abbiamo ben due coppie di gemelli omozigoti», disse Kevin. «È…»
«Fico»,
concluse Robb. E di nuovo dovetti trattenere una risata nel constatare che si
completavano le frasi a vicenda.
«Tu da
dove vieni, Kaitlyn?», chiese Cass, evidentemente incuriosita dalla gemella
della sua sorellastra.
«Ho
vissuto nel Connecticut fino a un anno fa, poi mi sono trasferita a New York»,
risposi.
«Wow!»,
esplose Cass. «Devi aver fatto un lungo viaggio!» In effetti, adesso che me lo
faceva notare, mi sentivo parecchio stanca per il viaggio, nonostante avessi
dormito in tutto quasi nove ore.
«Voi
invece?», chiesi.
«Da
Sheridan, una piccola città del Wyoming», rispose Jessica.
«Io
vengo dal Kansas», annunciò Tom.
«E noi
dall’Arizona», concluse Robb. «Direi che eravamo sparpagliati un po’ ovunque.»
«Già»,
convenne Cass.
«Io
invece vengo dalla Florida.» Una voce proveniente dalle mie spalle mi fece
sobbalzare. Dietro di me era spuntato all’improvviso il ragazzo che era
arrivato per ultimo alla presentazione. I capelli neri e arruffati, ma ciò che
davvero mi colpì furono i suoi occhi. Erano di un nero tanto profondo che non
si riusciva a distinguere l’iride dalla pupilla. Un folle pensiero mi
attraversò la mente e immaginai che aspetto avrebbe avuto se avesse avuto gli
occhi rossi. Scacciai immediatamente l’idea.
«Scusate
il ritardo», disse il nuovo arrivato.
«Il
gruppo è al completo, finalmente», dichiarò Robb.
«Io
sono Sam», si presentò il ragazzo.
Mentre
stavo ancora fissando i suoi occhi, chiedendomi se con la mia vista speciale
sarei riuscita a distinguere l’iride, mi resi conto che tutti gli altri si
erano già presentati. «Kaitlyn», farfugliai.
Sam mi
sorrise e prese posto accanto a Tom, mettendosi proprio di fronte a me.
Proprio
in quel momento, alcuni camerieri entrarono e cominciarono a servire la cena.
Mi sforzai di non fissarlo più.
«Allora,
ragazzi», esordì Kevin, «quali sono i vostri poteri?»
Era una
domanda che mi mise un po’ a disagio, ma nessun altro a parte me parve
infastidito.
«Io so
controllare i campi magnetici», disse Tom. «Posso modificare la polarità degli
oggetti fino a farli attrarre come fossero calamite. Naturalmente, con gli
oggetti già fortemente polari è più facile.»
«Wow»,
esclamò di nuovo Cass.
«Io non
ci ho capito un tubo», confessò Kevin.
Tom
ridacchiò. «Posso far attaccare gli oggetti tra loro come calamite. Però mi
riesce particolarmente facile con gli oggetti che sono già un po’ magnetici.»
«Ah,
ecco. E perché prima non l’hai detto così?», borbottò Kevin. Risero tutti. «Io
invece so controllare l’aria. Non abbastanza da creare uragani, certo, ma posso
far alzare un leggero venticello o far volare gli oggetti più leggeri.»
«Forte»,
disse Jessica. «Il tuo potere è più simile al mio, rispetto a quello di Tom.
Anch’io controllo un elemento: il fuoco. Posso accendere il fuoco e
manipolarlo.» Buffo, visto che sua sorella invece controllava l’acqua.
Robb
sbuffò. «Il mio potere è un po’ più difficile da spiegare. Io posso controllare
il flusso energetico all’interno del corpo umano.»
«Flusso
energetico?», chiese Tom.
Robb
annuì. «Provate a immaginare: ogni singola cellula del nostro corpo produce
energia, che viene poi destinata a varie funzioni a seconda delle necessità. Io
sono in grado di influenzare in minima parte la produzione di energia e di
controllare a mio piacere il flusso energetico all’interno del corpo. Per
esempio, posso direzionare diversamente il flusso di energia destinato alle
gambe in modo che resti nel busto. In questo modo, i muscoli delle gambe non
ricevono carburante e non sono più in grado di muoversi.»
«Sembra
un dono molto potente», osservò Jessica.
«Ovviamente
non sono così forte da mantenere a lungo il controllo. Io stesso consumo molta
energia quando lo faccio, quindi mi stanco in fretta.»
«E non
potresti, che ne so, prelevare l’energia di qualcun altro?», chiese Cass.
«No.
L’energia che possiede un corpo è quella e io non posso cambiarla.»
«L’energia
non si crea né si distrugge», borbottai tra me e me e fui sorpresa del sorriso
che le rivolse Robb. «Esatto», disse lui, palesemente contento che qualcuno lo
avesse capito.
Arrossii.
Per distogliere l’attenzione da me, feci un’altra domanda. «Puoi anche guarire
le ferite?»
Robb
rimase a bocca aperta. «Be’, sì. Come fai a saperlo?»
Scrollai
le spalle. Lo avevo visto fare a Lucy. «Se puoi controllare il flusso
energetico, ho supposto che fossi anche in grado di velocizzare il processo di
rigenerazione dei tessuti.»
«Molto
perspicace», disse lui. «E c’è dell’altro. Io posso amplificare i vostri
poteri.»
Rimasero
tutti a bocca aperta. Solo Kevin, che stava mangiucchiando un gamberetto non
mostrò alcun segno di sorpresa.
«Fantastico»,
commentò Tom sconvolto.
«Tu che
sai fare, Sam?», chiese Cass dopo che tutti si furono ripresi dallo stupore.
«So
creare campi elettrici. In pratica, creo e controllo l’elettricità.»
Repressi
un brivido. Lui era esattamente il tipo da cui mi sarei tenuta alla larga.
«E c’è
altro», aggiunse prima che Cass dicesse qualcosa. «So valutare la conducibilità
elettrica delle cose e delle persone.»
«Traduzione
per i comuni mortali?», chiese Kevin.
«Sono
in grado di stabilire se un corpo è adatto o meno a trasmettere energia
elettrica.» Stavolta non riuscii a trattenermi e rabbrividii.
«Per
esempio?» chiese Kevin.
«Per
esempio confrontiamo il rame con la plastica. Tutti sanno dire che il rame è un
conduttore migliore della plastica. Io però lo percepisco. E so farlo anche con
le persone.»
«Cosa
intendi?», chiese Robb.
«Di
solito gli esseri umani hanno tutti la stessa conducibilità. Noi però siamo un
po’ diversi. Nel tuo caso, Robb, percepisco chiaramente che tu potresti
amplificare in minima parte un’eventuale scarica elettrica. Jessica, Tom e Kevin,
invece, hanno la stessa conducibilità delle persone comuni. Cassidy invece è un
caso particolare», disse, e poi rivolgendosi a lei: «Tu attutisci il flusso
elettrico, è come se assorbissi l’elettricità e la scaricassi.»
Cassidy
annuì. «Probabilmente è merito del mio potere», disse. «Io so controllare la
terra, che è un isolante.»
«Giusto»,
convenne Sam. Non mi era sfuggito che non aveva fatto il mio nome.
Sam mi
guardò, come se mi avesse letto nel pensiero. «Tu invece sei diversa.» E ti
pareva.
«Credo
che alla minima scossa potresti sentirti male. Sei come un enorme amplificatore
di energia elettrica. Come anche il ragazzo con la maglia rossa seduto al
tavolo dietro di noi.»
Percorsi
con lo sguardo la breve distanza che ci separava dall’altro tavolo, pur avendo
già intuito di chi parlasse. Alex era l’unico con una maglia rossa, a quel
tavolo. Sospirai.
«Anche
in questo caso c’entra il mio potere, direi.»
Sam
inarcò un sopracciglio. «Tu sei come Alex, controlli l’acqua.»
«Sì»,
risposi, sorpresa che conoscesse Alex. «Io controllo l’acqua. Non posso
crearla, né farla sparire. Ma posso chiamare a raccolta ogni singola goccia nei
paraggi, tenerla sospesa in aria e addirittura darle una forma.»
«Fico!»
Kevin non riuscì a trattenersi. «Fa’ vedere», disse spingendo verso di me un
bicchiere pieno d’acqua. Non me lo feci ripetere due volte; avevo bisogno di
scaricare un po’ dell’energia repressa che avevo dentro. Senza neanche
sollevare la mano, mi limitai a fissare l’acqua che, obbediente, sgusciò fuori
dal bicchiere. Si sollevò e cominciò a roteare in cerchio, fino a formare un
disco, che si appiattì e di estese sempre di più, fino a scindersi di nuovo in
tante minuscole goccioline. Tutti mi osservavano estasiati. Raccolsi di nuovo
l’acqua, ma quando stavo per darle una forma particolare, quella parve opporsi.
Poteva significare solo una cosa. I miei occhi corsero a Alex e i nostri
sguardi si incrociarono. Alex scosse la testa in un silenzioso messaggio.
Riposi l’acqua nel bicchiere.
«È
stato fantastico!», esclamò Kevin.
«Sì,
sei davvero brava!», commentò Cass.
Anche
una donna del tavolo di Alex si congratulò. «Hai talento», disse. «Alex non era
neanche lontanamente capace di fare queste cose, quando arrivò qui la prima
volta.» Qualcuno al suo tavolo rise e anche il mio accompagnatore si concesse
un sorriso. Eppure mi aveva fermata. Decisi che gli avrei chiesto spiegazioni
in un secondo momento.
Provai
a concentrarmi sulla cena, ma mi resi conto di aver semplicemente rigirato la
forchetta nel piatto senza mangiare nulla. Era dalla sera prima che non
mangiavo qualcosa, ma mi si era improvvisamente chiuso lo stomaco. Scostai il
piatto in preda alla nausea.
«Non
mangi?», chiese Cass preoccupata.
«Ho
mangiato durante il viaggio e ora non ho fame», mentii. La cena trascorse
tranquilla. I gemelli parlarono un po’ della loro famiglia: avevano una sorella
e un fratello minori che erano due piccole pesti. La serata trascorse in fretta
e piacevolmente e alla fine tornammo tutti nelle nostre stanze. Scoprii di
avere accanto Tom, a sinistra, e Jessica e Cass, che condividevano la stanza, a
destra. La stanza di Sam era di fronte, accanto a quella dei gemelli. Anch’io
entrai nella stanza e aspettai qualche secondo con l’orecchio sulla porta, per
verificare che non si sentissero più rumori provenienti dal corridoio. Mi
concentrai e usai la vista speciale per guardare attraverso il muro. I miei
occhi diventarono rossi e il mal di testa si affievolì immediatamente. Il
corridoio era deserto, quindi uscii. Proseguii fino alle ultime porte, fino a
raggiungere quella con il numero 21. Una volta arrivata, non ero più tanto
sicura di voler bussare, né avevo idea di cosa dire. Comunque, la porta si aprì
senza che avessi avuto il tempo di riflettere e Alex apparve sulla soglia.
«Ciao»,
disse. «Vuoi entrare?»
Annuii
ed entrai nella stanza. Lui era ancora vestito e a giudicare dall’asciugamano
poggiato sul letto stava per andare a farsi la doccia. «Non voglio
disturbarti», dissi. «Volevo solo sapere…»
«Perché
ti ho impedito di continuare a manipolare l’acqua», concluse lui per me.
Sospirò. «È molto semplice. I tuoi poteri sono più sviluppati di quelli degli
altri per lo stesso motivo per cui i tuoi occhi diventano rossi e dei cagnacci
cercano continuamente di ucciderti. E questo gli altri non devono saperlo.»
Futeki
|
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Capitolo 7 *** Test ***
SEI
Test
Se tu
dai veramente il massimo e soltanto tu lo sai veramente,
allora
avrai successo e non conta se vinci o se perdi.
(John
R. Wooden)
Quella
notte non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a rigirarmi nel letto pensando
alle parole di Alex. Mi aveva detto di mantenere il segreto sugli occhi rossi e
sugli attacchi che avevo subito da parte dei cani fantasma e di mantenere un
profilo basso evitando di usare al massimo i miei poteri. Non ero riuscita a
ottenere una spiegazione, quindi avevo deciso semplicemente di fidarmi di Alex
e di fare come mi aveva suggerito.
«Dovrò
tenerlo sempre nascosto a tutti?», avevo chiesto.
«No,
arriverà il momento in cui dovrai dirlo. Per la sicurezza tua e dei tuoi
amici», aveva risposto lui.
«Cioè
quando?»
«Lo
capirai da sola.» Un’altra risposta criptica.
Una
volta mi era capitato di trovarmi quegli enormi cani fantasma in casa. Per
fortuna, mia madre non c’era e io me l’ero cavata con qualche graffio. Ma se
fosse successo adesso, sarebbe stato difficile sbarazzarsi di otto cani senza
svegliare nessuno.
Quando
mi resi conto che per quella notte non sarei riuscita a chiudere occhio, mi
alzai e riempii la vasca da bagno. Rimasi a mollo per un po’ e cominciai a
giocherellare con l’acqua. Usare troppo poco o troppo spesso i miei poteri mi
rendeva instabile. Dovevo usare il mio potere abbastanza spesso, altrimenti
l’energia accumulata mi avrebbe procurato forti emicranie. In ogni caso, essere
immersa nell’acqua mi faceva sentire immensamente bene.
Quando
qualcuno venne a bussare alla mia porta per svegliarmi ero già pronta.
Nonostante avessi trascorso una notte in bianco, il mio aspetto non era poi
così terribile. Merito del riposino in auto.
Mi
guardai allo specchio. Non c’era minima traccia di occhiaie. Anche i capelli
erano perfettamente in ordine. Esaurite le cose da fare, uscii nel corridoio
deserto e mi diressi verso la sala mensa per fare colazione.
Per
fortuna riuscii a trovare la strada: avevo una fame da lupi, quindi non era
proprio il caso di perdermi. Quando entrai nella stanza da pranzo non c’era
quasi nessuno. La sera prima, soltanto due dei molti tavoli erano occupati,
rispettivamente dal mio gruppo e da quello di Alex, la Generazione Gamma.
Quella mattina, al mio tavolo non c’era nessuno, mentre a quello di Alex
stavano seduti due uomini e una donna, la stessa che il giorno prima mi aveva
detto di avere talento. Aveva lunghi capelli rossi e sedeva al tavolo dandomi
le spalle, ma quando gli altri due mi videro entrare e mi salutarono con un
cenno, anche lei si voltò, rivolgendomi un amichevole sorriso. Alex non c’era.
Ricambiai il saluto e andai a sedermi al mio tavolo, occupando il posto della
sera prima. Aspettai per un po’ che i miei compagni arrivassero, poi però la
fame ebbe la meglio e cominciai a mangiare. La tavola era apparecchiata con
cibi e bevande di ogni genere, quindi divorai un toast e lo mandai giù con una
generosa sorsata di succo d’arancia. Nel frattempo, Alex e un’altra ragazza
della sua Generazione avevano raggiunto il loro tavolo. Alex mi aveva detto che
all’Operon c’erano soltanto cinque membri della sua generazione. Li contai:
c’erano tutti. Alex mi salutò con la mano e io gli sorrisi. In quel momento,
Jessica, Cass e Tom entrarono nella sala.
«Scusa
il ritardo», disse Cass salutandomi. «Abbiamo perso un po’ di tempo a svegliare
questo dormiglione.» Lanciò un’occhiata divertita a Tom.
«Ciao»,
disse lui imbarazzato. Anche Jessica mi salutò sorridendo. La loro allegria mi
mise immediatamente di buon umore.
«Scusatemi,
ma non sono riuscita a resistere», dissi indicando il mio piatto, che ancora
conteneva i resti della colazione.
«Figurati!
A quanto pare anche gli altri sono in ritardo», osservò Tom. Proprio in quel
momento, la porta si aprì e i gemelli entrarono nella sala. Uno dei due era
decisamente più allegro dell’altro, ma non sapevo dire quale, visto che non
riuscivo a distinguerli.
«Buongiorno»,
disse il gemello allegro. Se avessi dovuto tirare a indovinare, avrei detto che
si trattava di Kevin. «Scusate il ritardo.»
«Già,
scusate il ritardo, ma sono stato costretto a perdere un quarto d’ora per
convincere mio fratello a vestirci in modo diverso.»
«Senza
successo», disse il gemello allegro indicando le loro magliette identiche. Era
decisamente Kevin.
«Ehm,
chi dei due è Robb?», chiese imbarazzata Cass. Uno sguardo di puro terrore le
si stampò in viso quando entrambi risposero all’unisono: «Io.»
«Lui è
Kevin», dissi indicando quello che avevo riconosciuto come Kevin. Mi aspettavo
come minimo che Kevin si arrabbiasse per avergli rovinato il gioco, ma lui mi
gettò le braccia al collo e mi abbracciò, felice che io l’avessi riconosciuto.
Perfino Robb, che fino a quel momento era rimasto imbronciato, sorrise alla
vista di tanta gioia. Anch’io sorrisi. «Te l’avevo detto che prima o poi ti
avrei riconosciuto.»
Visto
che non c’era traccia di Sam, iniziarono tutti a mangiare. Quando finalmente
anche lui comparve, era decisamente tardi. Disse di non avere fame. Alex e i
suoi compagni si alzarono dal proprio tavolo e si avvicinarono a noi,
dichiarando che era ora di andare perché ci aspettava “una giornata lunga e
impegnativa”. Li seguimmo e, dopo tante svolte tra i corridoi e parecchie rampe
di scale in discesa – non sarei mai riuscita a ricordare la strada –, arrivammo
in una stanza dove ci aspettava Johanna. Mi chiesi sinceramente se avesse
dormito, quella notte.
«Salve,
ragazzi», disse lei.
«Buongiorno
Master», risposero in coro i membri della Generazione Gamma.
Johanna
sospirò. «Vi prego non cominciate a chiamarmi così anche voi», implorò i
ragazzi più giovani. Qualcuno ridacchiò.
Il vero
cognome di Johanna era Masters, ma in riferimento al suo ruolo di capo
dell’Operon molti la chiamavano semplicemente Master.
«Dunque»,
iniziò lei, «oggi è il giorno dei test iniziali. Misureremo individualmente le
vostre capacità, per stabilire quanto sapete gestire il vostro potere. Ma
prima, dovete capire al meglio di cosa sono capaci gli altri. Sono sicura che
conosciate già alla perfezione il vostro potere, ma è importante conoscere
anche quello dei vostri compagni di squadra», concluse lei. Vedendo che nessuno
diceva nulla, proseguì: «Ci sono tre tipi di poteri, classificati in base al
tipo di controllo: fisico, chimico e psichico. I poteri del controllo fisico
sono quelli che si basano sul controllo di materia esistente, come la terra»,
disse guardando Cass, «l’acqua», guardò me, «e l’aria», concluse puntando lo
sguardo su Kevin. Mi chiesi se riuscisse a distinguere Robb e Kevin o avesse
tirato a indovinare: almeno io e Jessica avevamo i capelli diversi, mentre i
gemelli erano assolutamente identici.
«Questi
poteri consistono nella manipolazione fisica delle sostanze – appunto terra,
acqua e aria – e voi ragazzi non potete assolutamente creare l’elemento che vi
corrisponde. Se, per esempio, Cassidy si trovasse su un aereo in volo e fosse
quindi troppo lontana dalla terra per controllarla, i suoi poteri non avrebbero
il minimo effetto. Al contrario, il controllo chimico si basa sulla capacità di
innescare reazioni chimiche. Potete accendere un fuoco», disse indicando
Jessica, «generare corrente elettrica», spostò lo sguardo su Sam, «o creare
campi magnetici», e indicò Tom, «ma solo se disponete dei reagenti chimici. Mi
spiego meglio: Jessica è in grado di accendere un fuoco praticamente ovunque,
visto che l’ossigeno è un ottimo combustibile, ma se per assurdo si trovasse in
una stanza senz’aria, non potrebbe esercitare il suo potere; né Kevin potrebbe
aiutarla, visto che lui stesso non può creare aria, ma soltanto manipolare
quella che ha a sua disposizione», disse riagganciandosi al discorso
precedente. «Mi seguite?»
Annuimmo
tutti senza parlare, per non disturbare l’atmosfera che si creava ogni volta
che Johanna iniziava una spiegazione. Perfino i “grandi” ascoltavano rapiti,
nonostante avessero già sentito quelle cose chissà quante volte.
«La
classe di poteri più complicata è quella del controllo psichico. Questo tipo di
controllo agisce direttamente sugli esseri viventi, influenzandone il corpo o
la mente. Si distinguono due tipi di mutazioni: la mutazione del Guaritore e
quella del Telepate. I Guaritori, come te, Robb, possono influire sul corpo
umano controllandone il flusso di energia.» Tutti annuimmo, dimostrando di aver
capito di cosa parlasse. La spiegazione di Robb del giorno prima era stata
molto chiara. «I Telepati, invece, possono leggere nella mente delle persone e,
ad alti livelli, influenzarne i pensieri. Ma, sfortunatamente, il Telepate
della vostra generazione, non è più tra noi», concluse Johanna guardandomi e
tutti seguirono il suo sguardo, senza capire perché si rivolgesse a me. Io feci
finta di nulla, ma sapevo che parlava di Ryan.
Quando
Johanna annunciò l’inizio dei test, tutti si erano già dimenticati del
Telepate.
Il
primo fu Tom. Una donna del gruppo di Alex gli mostrò cosa fare: aveva a
disposizione due pezzi di metallo con polarità opposta, che quindi si
attraevano, e altri due che invece si respingevano. Lui doveva separare i primi
due e unire gli altri.
Tom si
concentrò. Stava in piedi davanti a un tavolo, sul quale erano adagiati i
quattro pezzi di ferro. Per un po’, provò a separare quelli uniti, ma si arrese
presto e passò a quelli separati. Passarono cinque, dieci minuti. Tutti tacevano.
La fronte di Tom era imperlata di sudore, nonostante fino a quel momento non
fosse successo nulla. Ma Tom sapeva quello che faceva. Aveva i muscoli delle
braccia contratti per lo sforzo e le mani protese verso il metallo. Proprio
quando parve rilassarsi, qualcosa scattò e i due pezzi di metallo sfrecciarono
uno in direzione dell’altro, unendosi con un rumore secco.
«Ottimo
lavoro, Tom», disse la donna.
«Grazie,
Amanda.» Cercai di memorizzare il suo nome. Siccome era con Tom, ero quasi
certa che avesse il suo stesso potere.
«Sì,
sei stato davvero bravo», concluse Johanna scrivendo qualcosa su una cartellina
arancione. «Ora riposati, sarai sfinito.»
Era
bastato davvero un piccolo esercizio per stancarlo. Il suo potere doveva essere
ben più complesso di quanto pensassi. Eppure anche Kevin incontrò difficoltà
con il suo test. Per terra c’erano tanti fogli di carta e lui doveva
semplicemente sollevarli usando il suo potere di manipolare l’aria. Sembrava un
gioco da ragazzi, ma non era poi così semplice. Kevin sollevò immediatamente
alcuni fogli, ma quando provava a concentrarsi sugli altri, questi gli
sfuggivano, svolazzando nuovamente verso il pavimento. Dopo vari tentativi,
riuscì a sollevarli tutti contemporaneamente, ma solo di pochi centimetri e
solo per qualche secondo.
Alla
fine, Johanna fece un cenno d’assenso e scrisse qualcosa sulla solita
cartellina. L’accompagnatore di Kevin strizzò un occhio come per rassicurarlo.
Doveva essere Chris, era stato lui a inventare il nomignolo Generazione dei
gemelli, almeno secondo Robb.
Dopo il
fratello, toccò proprio a Robb. Il suo test fu abbastanza strano da vedere.
Consisteva nel manipolare il flusso energetico di Johanna secondo le sue
istruzioni. Chris teneva una mano appoggiata alla spalla di Robb e l’altra delicatamente
a contatto con il braccio di Johanna. Compresi che il suo potere doveva essere
lo stesso di Robb. Non avevo idea di come stesse andando il test, ma dopo un
po’, Johanna gli disse che poteva riposarsi e Chris lasciò cadere le braccia
lungo i fianchi. Robb sembrava sfinito, ma soddisfatto. Anche a lui Chris
riservò un occhiolino.
La
prova di Jessica era molto simile a quella di Kevin. Anche per lei c’erano
diversi fogli di carta sparsi sul pavimento, ma stavolta erano umidi. Lei
doveva dar fuoco a tutti i fogli contemporaneamente. La sua accompagnatrice era
la donna con i capelli rossi che la sera prima si era complimentata con me per
il giochetto con l’acqua e quella mattina mi aveva salutata. Era abbastanza
distante da Jessica e se ne stava appoggiata a una parete sulla quale spiccava
un grande pulsante rosso, sovrastato dalla scritta Allarme antincendio.
C’era una possibilità che Jessica perdesse il controllo e facesse davvero
scoppiare un incendio, ma il sorriso che la donna rivolse a Jessica rassicurò
anche me. Un paio di volte, Jessica provocò una fiammata incontrollata,
suscitando così la reazione di Sara – così si chiamava la sua accompagnatrice –
e l’aggrottarsi della fronte di Johanna. Quando alla fine riuscì a dare fuoco a
tutti i fogli, Johanna sorrise e Sara si complimentò con lei.
Era il
mio turno. Per terra era stata versata dell’acqua e di fronte a me si ergeva
imponente un tabellone, dietro al quale una gigantesca molla funzionava come un
dinamometro. Johanna mi spiegò che dovevo raccogliere più acqua che potevo e
spingere con forza il tabellone. In base a quanto riuscivo a comprimere la
molla, lei poteva misurare il mio potenziale. Alex mi mostrò come fare.
Sollevando una mano, tutta l’acqua presente sul pavimento si raccolse davanti a
lui e ondeggiò per qualche secondo. Poi la scagliò con tutta la forza che aveva
verso il tabellone, che scattò all’indietro spinto dalla forza dell’acqua. La
molla si compresse al massimo.
«Naturalmente,
tu spingi quanto puoi senza preoccuparti di far arrivare il tabellone fino in
fondo. Nessuno pretende che tu ce la faccia», disse Alex lanciandomi
un’occhiata eloquente. Capii che non voleva che spingessi il tabellone fino in
fondo. Iniziai a raccogliere l’acqua, facendo attenzione a lasciarne un po’ per
terra, come se raccoglierla tutta fosse troppo difficile per me. Pazientai
qualche istante, poi spinsi con poca forza il tabellone, che scattò
all’indietro. La molla si compresse un bel po’, ma non al massimo, come era
successo con Alex. Lui annuì soddisfatto. Guardai Johanna. Anche lei annuì e mi
disse di riposarmi un po’. Mi finsi stanca, anche se non lo ero affatto e mi
sedetti per terra accanto a Jessica. Dopo di me toccò a Cass, che avrebbe
dovuto ripetere lo stesso esercizio usando però la terra. Riuscì a comprimere
la molla molto meno di quanto avevo fatto io e alla fine era esausta. Poi venne
il turno di Sam. Mi resi conto che entro pochi secondi la stanza sarebbe stata
carica di elettricità e andai nel panico. Alex intercettò il mio sguardo e intuì
i miei pensieri. Mi portò fuori con la scusa che sembravo pallida per lo sforzo
e Johanna lo lasciò fare senza troppe domande. Probabilmente anche lei era a
conoscenza dell’avversione che io e Alex avevamo per l’elettricità.
Futeki
|
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Capitolo 8 *** Paure nascoste ***
SETTE
Paure
nascoste
Conoscere
le nostre paure è il miglior metodo
per
occuparsi delle paure degli altri.
(Carl
Gustav Jung)
«Grazie
per avermi portato fuori», dissi a un silenzioso Alex. Lui mi rispose con un
cenno. «Allora, sono stata brava?», chiesi, ben sapendo che lui avrebbe capito
a cosa mi riferivo.
«Sì»,
rispose Alex semplicemente. Sembrava triste.
«Tutto
bene?»
Lui
evitò la domanda e sospirò. «Immagino di doverti delle spiegazioni.»
Non
dissi nulla. In effetti volevo davvero sapere perché lui mi aveva detto di non
mostrare ciò che sapevo fare, ma dopotutto avevo deciso di fidarmi di lui. Una
folata di vento ci investì e rabbrividii.
Sopra
l’Operon, che si estendeva per parecchi metri sotto terra, si ergeva un palazzo
di tre piani che serviva come copertura. Alcune stanze erano adibite a lavori
specifici, ma Alex non aveva saputo spiegarmi di più. Ci trovavamo su un ampio
balcone al primo piano, con la scusa di farmi prendere un po’ d’aria in seguito
al “faticoso” test a cui ero stata sottoposta.
«Non mi
devi niente. Mi hai dato un consiglio e io ho deciso di seguirlo. Avrei anche
potuto non farlo», risposi. Alex sembrava non avere per niente voglia di darmi
spiegazioni.
Lui mi
ignorò e iniziò a parlare. «C’era una ragazza, Callie, che era la Telepate
della nostra Generazione. Quando arrivò all’Operon aveva appena ucciso un uomo.
I poteri dei Telepati sono instabili, basta poco a farli esplodere, e Callie
aveva involontariamente fritto il cervello del suo psicologo. Era sola e
impaurita, e i suoi genitori credevano che fosse pazza. In seguito a quello che
le era successo, i suoi occhi diventarono rossi e cominciò a essere
perseguitata dai cani fantasma. Al suo arrivo, Johanna e alcuni membri
dell’attuale Generazione Delta la presero in custodia e a noialtri fu detto che
lei aveva bisogno di un’istruzione speciale perché aveva ucciso una persona.
Naturalmente puoi immaginare la nostra reazione. Credevamo fosse un’assassina,
che potesse fare del male anche a noi. Callie ebbe molte difficoltà a integrarsi
nel gruppo. Ma io e lei diventammo subito amici e Callie mi confidò quanto si
sentisse sola e triste tra noi, quanto si sentisse a disagio e poco accettata.
Volevo solo risparmiarti la sofferenza, che ha provato lei, anche se molto
probabilmente tu avresti affrontato la cosa in modo diverso.»
Non
sapevo cosa dire. Mi ero aspettata tutto tranne questo. Da quando era arrivata,
tutti erano stati gentili con me. Probabilmente però, se mi fossi trovata in
quella situazione avrei fatto la fine di Callie. Deglutii. «Grazie», dissi ad
Alex.
Lui mi
sorrise. «Adesso sta a te scegliere. Ti consiglio di dire la verità a Johanna,
prima o poi. Il momento più adatto puoi sceglierlo da sola, so che sarà una
buona scelta.»
Annuii,
ringraziandolo mentalmente per la fiducia.
«Io non
sono un’assassina», dissi di getto. «Ho gli occhi rossi e ho fatto degli errori
in passato, ma non sono un’assassina.»
«Lo so,
Kaitlyn», rispose Alex. «Nessuno di noi lo è.»
♦
Quando
tornammo giù, i test erano conclusi e Johanna stava esponendo il programma dei
giorni successivi. Uno dei soliti schermi era illuminato ed elencava una serie
di attività che erano sicuramente fuori dal comune. Tra quelle più strane
c’erano lezioni di Aikido – che era un’arte marziale –, Esercitazioni
di tiro al poligono e Simulazioni di scontro ravvicinato; ma
comparivano anche attività come Corso di storia europea o Sviluppo
del potere individuale. Avevo idea che sarebbe stato molto peggio di una
scuola comune.
Quella
mattina iniziammo imparando a smontare e rimontare una pistola. I nostri
insegnanti erano quattro uomini molto pazienti e di tanto in tanto anche Alex e
il suo gruppo davano una mano. Tom fu il primo a riuscire a rimontare l’arma
senza aiuto e anche io imparai in fretta. Cass sembrava essere in difficoltà,
quando Sara le si avvicinò e le mostrò dove sbagliava. Nonostante fosse stata
una lezione abbastanza inusuale – chi avrebbe mai insegnato a dei ragazzini a
montare una pistola? –, la mattinata trascorse tranquilla e a ora di pranzo
eravamo tutti affamati ma contenti di aver imparato qualcosa.
A
tavola scherzammo e ridemmo a crepapelle e fui contenta di non aver detto
niente dei miei occhi e dei cani fantasma. Johanna ci concesse un pomeriggio
libero, visto che quella mattina avevamo eseguito i test, perciò ne
approfittammo per fare un giro in città. Seattle era davvero bellissima.
Nonostante fosse pomeriggio, c’era poca gente per strada e nell’aria c’era un
forte odore di salsedine. Vagammo un po’ per la città, poi ci rifugiammo in un
parco, sdraiandoci sull’erba sotto gli ultimi raggi di sole della giornata.
«Ho
un’idea», annunciò improvvisamente Cass. «Che ne dite di fare un gioco? Così,
tanto per conoscerci meglio.»
«Che
tipo di gioco?», chiese Kevin, allegro alla prospettiva di qualcosa di divertente.
«Ognuno
di noi prova a indovinare di cosa hanno paura gli altri. Per esempio:
indovinate di cosa ho paura io.»
Decisamente,
io detestavo quel gioco. Ma evidentemente agli altri piaceva. Iniziarono tutti
a proporre le più comuni fobie: paura degli insetti, dei ragni, del buio.
Jessica pose fine alle loro congetture dichiarando: «Ha paura di volare.
Detesta gli aerei e qualsiasi cosa la porti lontano da terra.»
Cass si
imbronciò. «Non vale, tu lo sapevi già!»
Tutti
scoppiarono a ridere. «Avrei dovuto pensarci», disse Robby. «Dopotutto, tu
controlli la terra.»
Mi
riscossi a quell’affermazione. Forse non era poi così strano che avessi paura
dell’elettricità.
«Indovinate
di cosa ho paura io», esclamò Kevin.
«Sei
claustrofobico», decretò Sam.
Kevin
rimase a bocca aperta. «Giusto.» Sam sorrise e scrollò le spalle, poi mi
rivolse un’occhiata. Aveva capito qual era la mia paura. Evidentemente, Sam
aveva intuito la relazione tra paura e potere di ciascuno di noi.
Com’era
prevedibile, venne fuori che Jessica aveva paura del mare agitato. Robby e Tom
non avevano paure specifiche come gli altri, probabilmente perché non c’era
nessun tipo di paura riconducibile al loro potere.
M’irritai
nel constatare quanto profondamente fossero radicate in noi quelle mutazioni che
avevamo subito alla nascita. Anche Sam dichiarò di non avere paura di qualcosa
in particolare, quindi pensai di potermela cavare dicendo la stessa cosa; ma
un’occhiataccia di Sam mi impedì di mentire. Riflettei alla svelta cercando di
capire di cosa avessi paura oltre all’elettricità, così avrei potuto dire la
verità senza confessare quella mia insensata e imbarazzante debolezza.
Di cosa
ho paura? Dei cani fantasma, fu quello il mio primo pensiero.
Decisi,
allora, di distorcere un po’ la verità. «È inutile che proviate a indovinare, è
abbastanza difficile. Io ho paura delle cose che non si vedono, quelle che non
si possono controllare.» L’avevo detto con una tristezza tale che calò il
silenzio. «Oh, andiamo, stavo scherzando», dissi alzandomi. Non avevo
intenzione di rovinare l’umore allegro di quella giornata. Vagammo ancora un
po’ per Seattle, poi, una volta esausti, tornammo alla base passando per la
libreria.
Ci
rifugiammo nelle nostre stanze per prepararci per la cena; una volta pronta,
uscii dalla camera, ma decisi di fare una piccola deviazione. Percorsi i
corridoi per quasi mezz’ora, senza trovare ciò che cercavo. Alla fine, mi
arresi e usai i miei occhi speciali per guardare attraverso i muri. Finalmente,
raggiunsi l’infermeria. Bussai alla porta e una voce dall’interno mi disse di
entrare.
Lucy
era in piedi di fronte a un armadietto pieno di medicinali e sembrava intenta a
cercare qualcosa. Quando entrai, mi rivolse un caloroso sorriso e mi salutò
gentilmente.
«Come
va la gamba, tesoro?», chiese.
«Molto
meglio, grazie. Ma temo che non sia ancora guarita del tutto. Ha ripreso a
farmi male.»
«Vieni,
fammi dare un’occhiata.» Mi sedetti sul lettino e Lucy rimosse la fasciatura
che aveva fatto il giorno prima. La gamba era gonfia e i segni erano arrossati.
Era la ferita più grave che i cani fantasma mi avessero mai provocato. Lucy la
studiò un po’, poi la disinfettò e la fasciò di nuovo con garze pulite.
«Grazie
mille», dissi.
«Oh,
non devi assolutamente ringraziarmi, faccio il mio dovere.» Lucy mi rivolse un
sorriso raggiante. «Se c’è qualche altra cosa che posso fare per te, non
esitare a chiedere.»
«In
effetti ci sarebbe», dissi sovrappensiero. «Non avresti per caso qualcosa che
possa aiutarmi a dormire? Tipo, non so, un sonnifero?»
«Oh,
certo», rispose Lucy tirando fuori dall’armadietto una piccola scatola
arancione. Me la lanciò e la presi al volo. «Due di quelle prima di andare a
letto e avrai un sonno lungo e senza sogni. Ma mi raccomando», aggiunse poi con
espressione triste. «Non prenderle quando aspetti i cani fantasma. Se ti
trovassero immersa in un sonno profondo potrebbe essere pericoloso. Dico solo…
non farti trovare impreparata, ecco.»
Mi
impietrii sentendole pronunciare quelle parole. Lei sapeva, era ovvio. Annuii e
ringraziai ancora una volta, poi uscii dall’infermeria. Passai per la mia
stanza per lasciare la scatoletta sul comodino, poi mi avviai verso la sala
mensa. Ero in ritardo per la cena. Quando arrivai al tavolo, infatti, gli altri
stavano già mangiando e mi guardarono con aria colpevole. Alzai le mani. «È
colpa mia, ho fatto tardi.»
«Visto
che non sono l’unico ritardatario?», disse Tom rivolgendosi a Cass. Lei si
limitò a ridere. Anche io risi; Tom sembrava irradiare allegria. Mi sedetti a
tavola e mangiucchiai qualcosa. Sentivo che iniziavo a conoscere meglio gli
altri, ora che avevo passato un po’ di tempo con loro. Cass era sempre molto
vivace, al contrario di Jessica, che era più tranquilla. Tom faceva venir
voglia di sorridere anche solo guardandolo. Kevin e Robby erano divertenti e
spontanei e perfino Sam, che mi incuteva timore per via del suo potere, era
sempre gentile. Mi chiesi per la prima volta come apparissi agli occhi degli
altri.
Dopo
cena, tornai nella mia stanza e riflettei per un po’ sulla questione del
sonnifero ricevuto da Lucy. Da un lato, le sue parole mi avevano scossa e
temevo davvero che potessero arrivare i cani fantasma mentre ero profondamente
immersa nel sonno. Dall’altro, ero davvero esausta e non avevo voglia di
lottare contro gli incubi che da un po’ di tempo mi assillavano tutte le notti.
Alla fine, mi arresi al desiderio di un lungo sonno tranquillo, presi il
sonnifero e andai a dormire.
Quando
la mattina dopo aprii gli occhi, quasi non riuscivo a credere alla piacevole
sensazione di tranquillità che provavo. Ero perfettamente riposata, cosa che
non mi accadeva da un po’. Mi stiracchiai e mi misi in piedi. Dopo la solita
doccia, mi vestii e mi diressi verso la sala mensa, incontrando Cass e Jessica
lungo i corridoi. A colazione, tutti si chiedevano che cosa avremmo fatto
quella mattina. Kevin era convinto che avremmo iniziato con le arti marziali –
l’idea gli piaceva parecchio – mentre Cass sosteneva che la cosa più utile
sarebbe stata imparare a usare un’arma. Mi dichiarai neutrale, per non
suscitare la rabbia di nessuno dei due miei amici, ma in segreto sostenevo
Cass. Mi sarebbe piaciuta un’esercitazione al poligono. Alla fine, rimasero
entrambi delusi quando ci venne spiegato che ci saremmo allenati con i nostri
accompagnatori per controllare al meglio il nostro potere. L’idea mi piaceva,
visto che questo significava che avrei trascorso la mattinata con Alex. Lui e
il suo gruppo accompagnarono noi ragazzi attraverso il dedalo di corridoi fino
a un enorme ascensore. Entrammo tutti insieme e la donna dai capelli corvini –
Amanda, ricordai, l’accompagnatrice di Tom – spiegò che in quel momento ci
trovavamo al Livello 0, il piano base dell’Operon che si trovava già
sottoterra. Sopra di noi, i piani del palazzo erano numerati normalmente come
Piano 1, Piano 2 e Piano 3, mentre i livelli sotterranei erano numerati al
contrario: man mano che si scendeva, si passava dal Livello 1 al Livello 2 e
così via.
Arrivammo
al Livello 3, chiamato anche Livello di addestramento, come spiegò Alex,
proprio perché le varie stanze di quel piano erano specializzate per i vari
tipi di addestramento. A quel punto ci separammo e io seguii Alex all’interno
di una stanza non troppo grande al centro della quale c’era una piccola
piscina. Alex mi spiegò che secondo il programma di addestramento, quel giorno
avrei dovuto imparare a raccogliere più acqua possibile e a migliorarne il
controllo.
«Devi
essere in grado di farne qualsiasi cosa», spiegò Alex. «La prendi e la
controlli. Oggi lavoreremo per migliorare il tuo controllo delle grandi masse
d’acqua. Poi nei prossimi giorni ci occuperemo della potenza.»
Annuii
e mi preparai a svolgere i miei esercizi. Senza troppi problemi, riuscii a
raccogliere tutta l’acqua della piscina e la tenni per un po’ sospesa in aria.
Cominciai a farla roteare su se stessa per acquisirne meglio il controllo e poi
tentai di darle una forma sferica. Era la prima volta che controllavo tanta
acqua tutta insieme, ma non era troppo difficile. Alex sembrava molto
soddisfatto del mio lavoro. Cominciò a darmi istruzioni e dirmi come manipolare
l’acqua. Seguendo ciò che lui mi chiedeva di fare, divisi l’acqua in quattro
sfere più piccole e poi diedi a ognuna una forma diversa. Alex rise nel
constatare che ero già perfettamente in grado di svolgere quegli esercizi,
quindi mi propose un allenamento più costruttivo.
«Cioè?»,
chiesi, non riuscendo a immaginare cosa volesse farmi fare.
Alex sorrise. «Vieni, ti insegno a sparare.»
Futeki
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Capitolo 9 *** Verità ***
OTTO
Verità
Chiunque
voglia sinceramente la verità
è
sempre spaventosamente forte.
(Fëdor
Dostoevskij)
Il
poligono si trovava poco distante dalla stanza in cui ci eravamo allenati
prima. Mi rigirai per un po’ la pistola tra le mani, indecisa sulla mano con
cui avrei dovuto impugnarla. Non ero completamente mancina, ma molte cose mi riuscivano
meglio con la sinistra.
I miei
dubbi svanirono quando, tenendo la pistola nella mano sinistra, Alex mi si
avvicinò ed esclamò contento: «Ottimo, anche io sono mancino.»
Mise la
sua mano sopra la mia per mostrarmi a che altezza tenere la pistola. Quando
premetti il grilletto fui sorpresa di trovarlo estremamente poco resistente. Il
colpo partì con una forza tale che la pistola rimbalzò all’indietro, poi il
proiettile si conficcò nel bersaglio, anche se era ancora abbastanza lontano
dal centro. Come inizio, però, non era affatto male.
«Buono»,
disse Alex. «Ma devi concentrarti di più sulla mira. Tieni il braccio fermo, o
rischi che la pistola ti finisca in faccia.»
Sparai
di nuovo, questa volta concentrandomi sul cerchio giallo al centro del
bersaglio. Ci andai vicino.
«Meglio.
Ma se ti concentri puoi fare di più.»
Stavolta,
mi isolai per un secondo da tutto il resto, prima di sparare. Valutai la
distanza che mi separava dal bersaglio, l’altezza del mio braccio, la potenza
del colpo. Poi, senza attendere oltre, sparai di nuovo. E centrai il bersaglio.
Sparai ancora. Centro. E ancora, e ancora. Centro, centro di nuovo.
«Bravissima»,
disse Alex. «Ma devi imparare a sfruttare la tua mira perfetta», disse mettendomi
un dito sulla fronte, «senza che i tuoi occhi diventino rossi.»
Non mi
ero neanche resa conto che i miei occhi fossero cambiati. Mi concentrai per
farli tornare alla normalità.
«Non
devo usare gli occhi rossi?», chiesi.
Alex
scosse la testa. «Si chiama Vista di fuoco. Ma è un nome un tantino teatrale,
quindi io la chiamo Vista e basta. Puoi sfruttarla quanto vuoi, direi che è
abbastanza utile, ma devi fare in modo che i tuoi occhi non diventino rossi. Se
ti concentri, puoi farcela.»
«Ma
perché? Insomma, le persone neanche se ne accorgono!» Non feci in tempo a
sentire la risposta di Alex, che Tom e Amanda, la sua accompagnatrice,
entrarono nella sala del poligono.
«Ci era
parso di sentire sparare», disse Amanda con voce gentile. «Ero sicura che fossi
tu.» Lanciò uno sguardo a Alex. «Allora ho pensato: perché non insegnare ai
nostri giovani ragazzi il nostro simpatico esercizio? Dopotutto è un’idea che
merita di essere tramandata alle giovani generazioni.»
Una
scintilla divertita balenò negli occhi di Alex. «Ottima idea. Facciamo prima
una dimostrazione pratica?» Alex prese la pistola e si posizionò al mio posto.
Amanda si mise al suo fianco, dando le spalle alla parete laterale per puntare
lo sguardo sull’arma.
«Ciao
Kaitlyn», mi salutò Tom con un sorriso. Gli rivolsi un cenno amichevole.
Alex
sparò tre colpi in rapida successione e tutte e tre le volte centrò il
bersaglio. Il mio sguardo corse ai suoi occhi, aspettandomi quasi di vederli
rossi, ma ovviamente non era così. La bravura di Alex era semplicemente da
attribuire ad anni e anni di duro allenamento.
«Sei
sempre eccezionale», commentò Amanda. «Ora facciamo vedere l’esercizio», disse
sollevando una mano. Alex sparò di nuovo, ma questa volta il proiettile mancò
completamente il bersaglio. Sorrise soddisfatto e mi passò la pistola.
«Ecco
cosa dovete fare: tu, Kaitlyn, sparerai una serie di colpi, sforzandoti di
centrare il bersaglio. Tu, invece», disse rivolgendosi a Tom, «devi fare in
modo che lei non ci riesca deviando il proiettile prima che raggiunga il
bersaglio.»
«Ho
capito», disse Tom. «A sentirlo e a guardare voi sembra facile», aggiunse senza
troppa convinzione.
«Un’ultima
cosa», disse Alex lanciandomi qualcosa. «Mettili, non si sa mai.» Erano
occhiali protettivi arancioni, perfetti per nascondere gli occhi rossi. E bravo
Alex.
Li
infilai e mi preparai a sparare. Sparai un paio di colpi di prova e Amanda si
congratulò con me: «Hai una bella mira», disse sorpresa.
Tom
prese posto accanto a me, dove prima stava Amanda e sollevò la mano proprio
come aveva fatto lei.
A un
suo cenno, sparai e il proiettile raggiunse il centro del bersaglio senza
problemi.
«Riproviamo»,
disse Tom. Annuii.
Due ore
e mezza dopo, eravamo ancora nella stessa posizione. Io mi sforzavo di usare la
Vista mantenendo i miei occhi al loro stato naturale, mentre Tom si sforzava di
deviare il proiettile. Mi faceva male il braccio, ma non osai lamentarmi, visto
quanto sembrava stanco Tom.
Alla
fine, lui crollò a terra esausto. «Sono sfinito», annunciò. «Ho bisogno di una
pausa.
Amanda
scosse il capo. «Ce l’avevi quasi fatta. Il campo magnetico è buono, devi solo
intensificare la forza.»
Tom non
disse nulla. Si rimise in piedi e mi fece cenno di sparare ancora. Un altro
centro.
«Ancora»,
disse lui. «Per favore.»
Vedevo
la sua determinazione, ma capivo anche che stanco com’era non sarebbe mai
riuscito a completare quell’esercizio. Di proposito, allora, sparai un altro colpo,
che mancò di un paio di centimetri il centro.
«Molto
bene», disse Amanda che evidentemente credeva che fosse stato Tom a deviare il
colpo. «Direi che per oggi può bastare. Andate a riposarvi un po’, è quasi ora
di pranzo.»
Annuimmo.
Alex mi diede una pacca amichevole sulla spalla e poi uscì seguito da Amanda.
Tom sospirò, ma non disse nulla. ci dirigemmo insieme verso le nostre stanze e
quando Amanda e Alex furono abbastanza lontani da non poterci sentire, Tom
finalmente parlò. «Grazie per avermi aiutato», disse con la sua voce gentile.
«Figurati.
Anch’io ho fatto un po’ di esercizio. È stato un piacere», risposi.
«Non mi
riferivo all’esercitazione in generale. Ti ho ringraziato per aver sbagliato di
proposito l’ultimo colpo per far sembrare che io avessi deviato il proiettile»,
specificò lui.
«Io non
ho fatto proprio niente. Probabilmente non ti sei neanche accorto di avercela
fatta.»
«No,
invece. Sei stata tu», insisté.
«Forse
ho sbagliato io il colpo. Ma non l’ho fatto di proposito.»
«Non ci
credo. E non ci credi neanche tu. Comunque non importa, ci vediamo a pranzo»,
disse dirigendosi verso la sua stanza. Entrai nella mia camera leggermente
irritata. Non gli avrei mai confessato di averlo aiutato, non era da me. Mi
vestii in fretta e andai a pranzo.
Quel
pomeriggio avevamo la nostra prima lezione di storia europea. Mi era sempre
piaciuta la storia, quindi ero abbastanza entusiasta all’idea di studiare
qualcosa che mi era già familiare, ma quasi nessun altro la pensava come me. Ci
sedemmo intorno a un tavolo in una piccola stanza del Livello 3, dove un uomo
calvo e con gli occhiali ci stava aspettando. Si presentò come il signor
Turner, il nostro insegnante di storia. Chiacchierò per qualche minuto
sull’utilità di conoscere gli eventi del passato, soprattutto quelli che
facevano riferimento alla Russia, paese contro il quale eravamo in guerra, e
alla fine ci diede qualche notizia sul programma di storia che avremmo svolto.
Ci consegnò dei fogli con delle domande a cui rispondere per testare il nostro
grado di preparazione.
«Il
gioco di squadra è importantissimo nel vostro lavoro e spesso è la soluzione ad
ogni problema. Ma le domande che vi ho consegnato sono tutte diverse», disse
con soddisfazione. «Quindi non cercate di copiare le risposte dai vostri compagni.»
Con un sorriso, poi, ci congedò. Diedi una rapida occhiata alle domande sul
foglio e mi resi conto di non conoscere più della metà delle risposte.
«Mi
sembra di essere tornata al liceo», si lamentò Cass mentre aspettavamo
l’ascensore. Ridacchiai, ma in cuor mio anche io iniziavo a preoccuparmi.
Dopo
cena, crollai a letto sfinita. Ogni volta che usavo la Vista o i miei poteri
spendevo molte energie, al punto che quella sera ero stanca morta.
La
mattina dopo, un uomo simpatico sulla trentina ci spiegò che quella mattina si
sarebbe tenuta la nostra prima lezione di aikido. Il nostro insegnante, il
maestro Foster, continuava a definire l’aikido “una disciplina che conduce
all'unione ed all'armonia con l'energia vitale e lo spirito dell'Universo”, ma
solo quando non era troppo impegnato a rimproverarci per una posizione
scorretta. Sembrava particolarmente soddisfatto di Jessica, visto che
continuava a elogiare i suoi movimenti. Io invece non ero per niente brava. A
fine lezione, ero esausta e spazientita.
Quel
pomeriggio, andammo tutti insieme al poligono per imparare a usare una pistola.
Come insegnanti, c’erano Alex, l’accompagnatore di Sam – l’unico della sua
Generazione di cui ancora non conoscevo il nome – e una donna che non aveva mai
visto prima. Mentre gli altri ricevevano le prime istruzioni su come impugnare
una pistola, io cercai di passare inosservata e mi misi a sedere vicino alla
postazione di Tom. Era piuttosto bravo. Non fece sempre centro come avevo fatto
io il giorno prima, ma lui non aveva la Vista. In ogni caso, non mancò mai il
bersaglio. Alex mi vide rannicchiata a terra, ma non disse nulla. Alle cinque,
come sempre, le lezioni terminarono e noi ragazzi fummo rispediti nelle nostre
stanze. Nell’ascensore, Kevin e Jessica stavano parlando del questionario di
storia e mi resi conto che neanche loro erano sufficientemente preparati per
rispondere a quelle domande.
Dissi
anch’io che conoscevo solo una minima parte delle risposte e che per il resto
non sapevo proprio come fare.
Prima
di cena, presi l’ascensore e salii al primo piano per prendere un po’ d’aria.
Era abbastanza strano restare continuamente sotto terra. Tornai sul balcone
dove Alex mi aveva portata due giorni prima e ci trovai Tom.
«Ehi»,
mi salutò lui.
«Ciao.»
«Senti,
scusami per ieri, sono stato troppo duro con te. Avevo i nervi a fior di pelle
per aver usato tanto il mio potere», disse lui.
«Figurati,
non c’è problema. Ti capisco benissimo», risposi.
Lui mi
sorrise e aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu interrotto da un motivetto
allegro proveniente dalla sua tasca. Tom estrasse il cellulare dai jeans, diede
una rapida occhiata allo schermo e poi mi rivolse uno sguardo di scuse. «Devo
proprio rispondere», disse.
«Fai
pure, non c’è problema», dissi sorridendo. In quel momento realizzai di non
avere più il mio cellulare. Avrei dovuto telefonare a mia madre appena
possibile e magari anche a Tin, visto che non l’avevo neanche salutata prima di
andar via. Nei giorni successivi avrei cercato di procurarmi un cellulare. Nel
frattempo, Tom aveva finito di parlare al telefono ma continuava a osservare il
piccolo apparecchio argentato che aveva in mano con aria preoccupata.
«Non mi
abituerò mai a usare questo affare», dichiarò. A una mia espressione confusa,
riprese a parlare. «Me l’hanno dato qui all’Operon, il mio cellulare lo hanno
preso in custodia per motivi di sicurezza. Credo che abbiano anche
smagnetizzato la sim.», disse con un sospiro. «Però posso soltanto chiamare i
miei genitori o ricevere chiamate da loro, oppure chiamare la base.»
«Sembra
abbastanza limitato», osservai.
«Già»,
aggiunse lui. «Ma è meglio di niente. E poi mio fratello ha già combinato
qualcosa per potermi chiamare. Era lui, poco fa. Mi ha chiamato dal suo
cellulare, cosa che non dovrebbe essere possibile, eppure ci riesce. Ha provato
a spiegarmi come ha fatto, ma io non ci ho capito nulla, quindi mi sono
limitato a seguire le sue istruzioni per dargli accesso al mio telefono e
farglielo sbloccare. In famiglia è lui il genio, credo che abbiano preso il
fratello sbagliato.» Scoppiai a ridere e anche Tom fece un grande sorriso.
«A te
non hanno preso il cellulare?», chiese lui.
«Sono
venuta senza. E non ne ho ancora chiesto uno», risposi semplicemente.
«La tua
famiglia sarà preoccupata», osservò Tom.
Scrollai
le spalle. «A te va tutto bene? Sembravi agitato.»
Tom
sospirò. «Io ho due fratelli, uno più grande, il genio, e uno più piccolo, Kit,
che si caccia sempre nei guai. Stamattina, quando ho chiamato mia madre, non ha
voluto passarmi Kit dicendo che era in bagno, ma io ho capito dalla sua voce
che qualcosa non andava. Così ho chiesto spiegazioni a Will, il mio fratello maggiore,
che mi ha detto che mi avrebbe richiamato quando non ci fosse stata nostra
madre. Adesso mi ha spiegato che Kit è in ospedale, si è fatto male cadendo
dallo skateboard. Mia madre non voleva dirmelo per non farmi preoccupare»,
disse con voce triste.
«Mi
dispiace. Come sta adesso?», chiesi; da come ne parlava, era evidente che Tom
era molto legato ai suoi fratelli. Non riuscii a respingere l’ondata di
tristezza che mi travolse pensando a Ryan.
«Ora
sta bene, non era niente di grave. Però avrei voluto saperlo, sono abbastanza
grande da poter gestire questo genere di cose», rispose lui.
Annuii.
«A volte però la verità non è piacevole.»
«Piacevole
o no, preferirei sempre sapere le cose come stanno. Non voglio che siano gli
altri a decidere per me.»
Riflettei
un secondo e poi mi dichiarai d’accordo. «Allora io ti dirò sempre la verità»,
dissi, ma me ne pentii immediatamente, rendendomi conto che mentivo ogni volta
che non dicevo ai miei compagni dei cani fantasma.
Tom mi
regalò un immenso sorriso. «Lo stesso vale per me.»
Non potei
fare a meno di sorridere a mia volta.
«Allora
dimmi, è vero che hai sbagliato di proposito l’ultimo colpo, ieri al
poligono?», chiese lui scherzosamente.
Scoppiai a ridere.
Futeki
|
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Capitolo 10 *** Hellbound ***
NOVE
Hellbound
Sulla
via per l'inferno c'è sempre un sacco di gente,
ma è
comunque una via che si percorre in solitudine.
(Charles
Bukowski)
Nel
sogno avevo la visuale coperta dalla nebbia. Vagavo per un campo abbandonato
alla ricerca di qualcosa. Mi venne in mente che se avessi usato la Vista avrei
potuto vedere attraverso la foschia. Chiusi gli occhi e mi concentrai. Quando
sentii che stavano diventando rossi li riaprii. Proprio di fronte a me c’era un
enorme cane fantasma, alto quanto me. I suoi occhi cremisi erano identici ai
miei. Spalancò le fauci e si lanciò verso di me.
Mi
svegliai di soprassalto. Avevo la fronte imperlata di sudore. Andai nel bagno a
sciacquarmi il viso e mi resi conto che se non mi fossi tranquillizzata un po’
non sarei mai riuscita a riprendere sonno. Visto che non avevo altre idee,
decisi di fare un giro per la base.
Scesi
fino al Livello 3, sperando di ritrovare qualcuna delle stanze in cui ero già
stata. Passai di fronte al poligono, ma sapevo di non potermi mettere a sparare
a quell’ora senza rischiare di svegliare qualcuno. I corridoi del Livello 3
erano deserti, ma al Livello 2 c’erano alcune sale operative piene di persone
che lavoravano giorno e notte.
Arrivai
a una porta su cui spiccava la scritta “BIBLIOTECA”, scritta a caratteri
dorati, come quella dell’infermeria. Spinsi la porta ed entrai in una stanza
enorme, piena di scaffali alti almeno tre metri e pieni di libri. Cercai di
leggere alcuni titoli e mi resi conto che erano quasi tutti di autori europei.
Su un tavolino lì vicino c’era un libro dalla copertina verde, che era stato
sfogliato parecchie volte, a giudicare dallo spessore che aveva assunto.
Lessi il
titolo un po’ scolorito: L’Inferno di Dante Alighieri. Nonostante la mia
grande passione per la lettura, non amavo lo studio della letteratura
scolastica; tuttavia, conoscevo Dante Alighieri e la sua opera, sebbene non
l’avessi mai studiata approfonditamente.
Mentre
sfogliavo le prime pagine, un ringhio basso e profondo attirò la mia
attenzione. Prima ancora che mi voltassi, i miei occhi infuocati avevano
percepito che il cane alla mia destra stava tentando di colpirmi con una
zampata. Mi difesi con il libro, poi mi voltai e corsi a perdifiato fuori dalla
biblioteca.
I cani
mi inseguirono attraverso i corridoi mentre io cercavo di ritrovare la stanza
in cui mi ero allenata con Alex. Non riuscendo a trovarla, mi accontentai
dell’ampia stanza dove avevamo svolto i test e mi diressi verso l’allarme
antincendio. Premetti il pulsante rosso con più forza del necessario. Mentre
una sirena iniziava a suonare dal soffitto iniziò a scendere dell’acqua, pronta
a spegnere un fuoco che in realtà non c’era. Ne approfittai e feci fuori tre
cani. Altri due spuntarono poi dal corridoio, dirigendosi verso di me con una
furia tale che pensai che sarebbe bastato un loro colpo per uccidermi.
Fortunatamente, c’era abbastanza acqua da eliminarli entrambi.
Affannata
e zuppa, mi voltai verso l’ingresso. Invece di un altro enorme cane, nella
stanza entrò Sam.
Mi
fissò con un sopracciglio inarcato e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la
richiuse. «Ce ne dobbiamo andare da qui», disse. «Se scoprono che hai attivato
tu l’allarme finirai nei guai.»
Io non
risposi, né mi mossi, quindi lui si avvicinò a me, mi prese gentilmente per un
braccio e mi trascinò fuori.
Mentre
mi trascinava su per le scale riflettei sulla situazione. Forse non aveva visto
nulla, forse non avrebbe fatto domande. Magari avrei ancora potuto mantenere il
mio segreto. Avrei potuto dire che non avevo sonno e avevo fatto un giro per la
base e che per sbaglio avevo premuto l’allarme antincendio mentre cercavo
l’interruttore della luce. La prima parte della storia era vera. Mi accorsi che
Sam mi stava spingendo in camera sua invece di portarmi nella mia. Non dissi
nulla, conscia che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in lacrime.
Mi fece
sedere sul suo letto, come se fossi una bambina di cinque anni in stato di
shock. Il che probabilmente era proprio quello che sembravo.
La sua
stanza era molto simile alla mia, ma più personalizzata. C’erano un paio di
poster sulle pareti e alcuni CD sparpagliati sulla scrivania. Sam prese una
sedia e si mise a sedere di fronte a me. Seguendo il suo sguardo, mi accorsi
che tenevo ancora il libro stretto tra le mani e lo lasciai cadere sul letto.
Lui mi fissò preoccupato, poi finalmente parlò: «Sei ferita?»
Scossi
la testa. Poi ricordai la storia di copertura. «Stavo cercando… per sbaglio ho
premuto…»
«Lascia
stare Kait, so cosa è successo, vivo qui da molto più tempo di tutti voi. Non
cercare di rifilarmi bugie.»
«Non
era una bugia! Stavo solo…»
«Ho
sentito dei rumori che suggerivano una lotta.»
«No, ti
sbagli», insistei. Ma prima che potessi continuare, Sam prese il libro e lo
girò. Sul retro della copertina, tre enormi segni erano rimasti dopo che mi ero
protetta con il libro dagli artigli del cane. Mi guardò come se quella fosse
una prova sufficiente a convincermi che lui sapeva come stavano realmente le
cose. Forse era davvero così.
«Ti
hanno attaccato i cani fantasma», disse. Non era una domanda.
Non
risposi, quindi lui prese il mio silenzio per una conferma.
«Da
quanto tempo ti cercano?», mi chiese.
Non
avevo più motivo di mentire, era ovvio che lui sapeva. «Un anno circa.»
«Caspita!»,
esclamò lui. «E non l’hai detto a nessuno? Johanna, Alex?»
«Solo
Alex lo sa», risposi.
«E ti
ha consigliato di non dirlo a nessuno, suppongo.»
«Aveva
torto?», chiesi con aria di sfida.
«Solo
in parte. Conoscendo la verità, Johanna avrebbe fatto in modo che imparassi a
difenderti. Comunque non importa. Se te la sei cavata finora vuol dire che sai
quello che fai.»
«Voleva
essere un complimento?»
«Solo
una constatazione», replicò lui. «Sai perché ti cercano, vero?»
«Suppongo
che vogliano uccidermi. Finora hanno tentato in tutti modi di farlo e ci sono
quasi riusciti.»
«Sì,
vogliono ucciderti. La vera domanda è: perché? Cos’hai fatto per meritarlo?»
Non
risposi. Sam mi guardò per qualche istante, poi sospirò. «Sono arrivato qui un
anno e mezzo fa. Johanna mi ha salvato la vita. Ero stato condannato a morte
per pluriomicidio con aggravanti.»
Sobbalzai.
Lui mi guardò in tralice. «Non sono un assassino» disse. Sembrava sincero.
Nemmeno io ero un assassina, anche se poteva sembrare il contrario.
«Lo sai
che in Florida se vieni condannato a morte puoi scegliere in che modo morire?»,
disse divertito. «Avevo scelto la sedia elettrica.»
Mi
scappò un sorriso. Per lui che controllava l’elettricità doveva essere un momento
piacevole, più che una condanna a morte.
«Quando
Johanna mi portò qui, credeva davvero che avessi ucciso qualcuno. Pensava che
avessi la Vista e che i cani fantasma mi cercassero. Ci misi due mesi per
convincerla che non era così. Alex mi aiutò a farle aprire gli occhi. I miei
genitori e mio fratello Harry sono morti in un incendio che ha distrutto casa
mia. Io ero a casa di un amico. Avevo litigato con i miei quel pomeriggio,
quindi avevo preferito andarmene. Le ultime parole che ho detto alla mia famiglia
non sono esattamente belle da ricordare.»
«Mi
dispiace», dissi sinceramente.
«La
cosa peggiore fu che mi considerarono colpevole. Non so quali incompetenti
fecero le indagini, ma siccome secondo loro avevo un movente, non fu difficile
convincere il giudice della mia colpevolezza. Alex ricordò a Johanna che se
avessi ucciso qualcuno con il mio potere e poi dato fuoco alla casa per
nascondere le tracce avrei dovuto avere i cani alle calcagna, mentre per oltre
due mesi non se n’era fatto vivo nessuno.»
Ascoltai
in silenzio la sua storia e capii che doveva averne passate tante anche lui. Io
però, al contrario di Sam, non ero così innocente. Decisi che si meritava la
verità. Glielo dovevo perché nonostante tutto, lui mi aveva aiutato.
«Kaitlyn»,
mi anticipò lui. «Qual è la tua storia? Se hai quegli occhi significa soltanto
una cosa.»
Non
volevo che lo dicesse, ma non feci nulla per impedirgli di pronunciare le
parole che seguirono: «Hai ucciso qualcuno.»
«Sì»,
risposi. «Ma non giudicarmi male.»
«Non lo
sto facendo, voglio prima conoscere la tua storia. So cosa si prova a dare
l’impressione sbagliata.»
Annuii.
«Sai che sono stata adottata. Mia madre è morta dando alla luce me e Jessica e
di mio padre si sono perse le tracce. Sono stata affidata a un’altra famiglia,
come Jessica. I genitori biologici di Cass hanno adottato anche lei,
ritrovandosi così due bambine speciali. Anche io fui adottata da una famiglia
in cui c’era già uno di noi. Ryan era mio fratello ed era un Telepate. Siamo
cresciuti come se fossimo davvero gemelli, perché anche se io ero stata
adottata, vivevamo in simbiosi, condividendo tutto, perfino il compleanno.»
«Siamo
nati tutti il 24 dicembre del 1993», disse Sam.
Io
annuii. «Il 18 settembre dell’anno scorso eravamo seduti in macchina, lui alla
guida io al suo fianco. Fu un incidente terribile. Il conducente dell’altra
macchina era ubriaco e ci venne addosso. Io mi salvai e mio fratello no.
Nessuno si spiegò come. I tre nell’altra macchina ne uscirono illesi. Furono
arrestati, ma mio fratello intanto non c’era più. Un mese dopo erano di nuovo
tutti e tre a piede libero. Li incontrai in un vicolo buio in un giorno di
pioggia. Persi il controllo. Senza rendermene conto li uccisi. Lasciai lì i
cadaveri e tornai a casa. La mattina dopo avevo gli occhi rossi e i cani
fantasma alle calcagna.»
Conclusi
il mio racconto con un’involontaria nota di drammaticità. Sam non disse nulla.
«Pensi
che io sia un’assassina?», gli chiesi senza temere la risposta. Mi ero resa
conto che forse non mi importava così tanto la sua opinione. Non ero pentita di
aver ucciso quegli uomini, anche se non lo avevo fatto di proposito. Ryan non
c’era più. E io ero sola.
«Tecnicamente
lo sei», rispose semplicemente. Sussultai nel sentire quelle parole così
dirette. «Ma se vuoi sapere se la mia opinione di te è cambiata», aggiunse poi,
«allora la risposta è no.»
«E qual
è l’opinione che hai di me?», chiesi.
«Sei
una ragazza che ha sofferto molto. Hai fatto degli sbagli, come tutte gli
esseri umani. Ma sei comunque una brava persona. Sai cosa è giusto e cosa è
sbagliato.»
«Cosa
te lo fa pensare? Mi conosci appena», replicai infastidita.
Lui
sorrise. «Intuito. Ma il tempo mi darà ragione. Avremo modo di conoscerci bene,
credimi.»
«Ah
davvero?», dissi in tono di sfida.
Lui non
fece in tempo a rispondermi che lo spostai di lato facendolo cadere dalla
sedia. Un altro cane fantasma si era materializzato dietro di lui. Giù al
Livello 3 ne avevo fatti fuori cinque, quindi ne restavano altri tre.
Rovesciai
una bottiglia d’acqua che trovai sul comodino e mi procurai un’arma. L’acqua
era poca per ucciderli tutti e tre, ma abbastanza per tenerli a bada per
qualche minuto.
«Bagnali!»,
ordinò Sam. «Non colpirli, bagnali e basta!»
Certa
che avesse un piano, decisi di fidarmi di lui, anche perché non avevo molte
altre alternative. Scagliai l’acqua sul muso dei tre cani fantasma ottenendo
solo di farli infuriare di più. Prima che potessero colpirmi, però, una scarica
elettrica sferzò l’aria davanti a me, lasciandomi pietrificata. Riuscii a
vedere le scintille nell’aria un attimo prima che i cani scomparissero.
Ero
salva, ma il pensiero di essere stata così vicina a una scarica di corrente mi
aveva terrorizzata.
Quando
Sam si avvicinò a me arretrai spaventata, finendo distesa sul letto.
«Calmati
Kait. Non ti farò del male.»
«Smettila
di chiamarmi così», risposi acida mentre mi rialzavo.
«Così
come?»
«Kait.
Lo faceva mio fratello. Soltanto lui.»
«Scusami.»
Sembrava sinceramente dispiaciuto.
Sospirai.
Che stavo facendo? Non era colpa sua se io avevo paura del suo potere. Anzi,
lui mi aveva appena salvato la vita. «Mi dispiace», dissi. «È che sono
terrorizzata dal tuo potere. Ma tu questo lo sai già.»
Annuì.
«Anche Alex e Luke hanno lo stesso problema.»
«Luke?»,
domandai.
«Il mio
accompagnatore», spiegò. «È il membro della Generazione Gamma che ha il mio
stesso potere. Ed è il migliore amico di Alex. Lui ha superato la sua paura.
Puoi farlo anche tu; non devi avere paura di me.»
Stava
cercando di rassicurarmi, ma io non ero comunque tranquilla. Tirai fuori il
sorriso più convincente che riuscii a ottenere e mi misi a sedere sul suo
letto. Lu si sedette accanto a me. Lentamente mi si avvicinò e mi toccò il
braccio con la mano. Sobbalzai.
«Stai
tranquilla», disse lui. Non sentivo nient’altro che il suo tocco. Niente elettricità.
Fui comunque scossa da un brivido e lui si staccò da me. Sembrava parecchio
dispiaciuto. Volevo che capisse che non era colpa sua se io ero così
spaventata, ma non dissi nulla, perché niente avrebbe cambiato la situazione.
Cercai di alleggerire l’atmosfera cambiando discorso.
«Nel
periodo in cui sei stato qui, quando noi non c’eravamo, hai iniziato comunque
una specie di addestramento?», chiesi sinceramente curiosa.
«Sì.
Fondamentalmente teorico. Mi hanno insegnato tutto quello che c’è da sapere su
vari tipi di armi e sono stato in una centrale operativa per un po’. Manovrare
le operazioni degli agenti da una sala piena di computer è decisamente più
affascinante che stare sul campo. Poi mi hanno insegnato tutto quello che c’è
da sapere sugli Hellhounds e come evitare che vengano a cercare anche me.»
«Hellhounds?»
«I cani
fantasma. Hanno nomi diversi a seconda delle leggende in cui compaiono. Padfoot
nello Yorkshire, Black Shucks nell’Anglia Orientale, Skriker, oppure Gytrash
nel Lancashire. Anche le popolazioni che abitavano la zona in cui sono stati
trovati gli albi, i fiori il cui polline ha fatto mutare il nostro DNA,
circolavano queste leggende. Enormi cani neri con gli occhi infuocati –
Hellhounds, appunto – che davano la caccia agli Hellbounds per condurli
all’inferno. Si diceva che quando un uomo uccideva un altro uomo, la sua anima
veniva legata all’inferno, diventando così un Hellbound. I mastini infernali
avevano quindi il compito di ucciderlo affinché la sua anima andasse
all’inferno com’era giusto che fosse.»
Rabbrividii.
Assassini, inferno, mastini infernali. Quelle storie non erano per
niente piacevoli da sentire, soprattutto se pensavo che potessero riferirsi a
quelli come me. Non avevo mai creduto a una vita dopo la morte, né all’esistenza
di inferno e paradiso, ma adesso mi veniva davvero da chiedermi cosa mi
riservasse il futuro. «Io sono una Hellbound», dissi per dimostrare di aver
capito. Sam s’irrigidì, forse si stava pentendo di avermi raccontato quella
leggenda.
«Tecnicamente
sì. Ma quelle sono solo storie», disse con un rassicurante sorriso.
Cambiò
argomento e mi raccontò del periodo che aveva trascorso all’Operon lavorando
nella centrale operativa. Una volta ci fu un blackout durante una missione in
cui tutti gli agenti della Generazione Gamma erano fuori base e alla centrale
ci fu il caos. Sam aprì il portello del generatore, ci infilò una mano dentro e
improvvisamente tornò la corrente. La missione non finì in tragedia grazie a
lui e alla base costruirono un secondo generatore per le emergenze. Un’altra
volta, invece, quando aveva il raffreddore, con uno starnuto fece andare in
corto circuito un computer della centrale.
Risi di
cuore. «Sul serio? Immagino che abbiano iniziato tutti a ridere a crepapelle.»
Annuì.
«Fino a che non arrivò Johanna. A quel punto tutti, me compreso, ci zittimmo,
preoccupati per la sua reazione. Quando iniziò a ridere anche lei la tensione
si sciolse definitivamente.»
«Che
tipo è?»
«Chi?
Johanna?» Annuii. «È una brava persona. Sembra severa, ma in realtà è solo
molto precisa. Ci tiene ad assicurarsi che tutto proceda per il meglio
nell’interesse di noi agenti e del nostro Paese.»
Sorrisi.
«Mi fa piacere sentirtelo dire.»
Parlando
con Sam mi rilassai, fin quasi a dimenticarmi dell’attacco che avevo subito
quella notte. Andammo avanti così per parecchio tempo, fino a quando, colta da
un’improvvisa stanchezza, mi addormentai sul suo letto.
Quando
la mattina mi svegliai avevo un bel sorriso stampato sulle labbra e mi sentivo
ben riposata. Prima ancora di aprire gli occhi mi resi conto di dove mi
trovassi. Mi alzai di scatto e mi provocai un capogiro. Con lo sguardo, cercai
Sam nella stanza, ma lui non c’era. «Sam?»
«Buongiorno,
dormigliona», mi rispose la sua voce. Proveniva dal bagno, la porta era
socchiusa. Sentivo anche l’acqua della doccia che scorreva, ma non con l’udito:
la percepivo.
«Sono
sotto la doccia, dammi dieci minuti e sono da te», proseguì lui.
«Ci
vediamo dopo a colazione», risposi. «Vado in camera mia a lavarmi e vestirmi.»
«Come
vuoi», rispose lui.
Prima
che ebbi modo di salutarlo qualcuno bussò alla porta. «Sam, ci sei? Apri, devo
parlarti.» Era Johanna. Fui presa dal panico. Se Johanna mi avesse trovato lì
avrebbe sicuramente capito che avevo dormito in camera di Sam e non mi andava
che si facesse strane idee.
«Sto
entrando con il passepartout», dichiarò lei. Cercai un posto per nascondermi,
ma il letto era troppo basso perché mi ci potessi infilare sotto e l’armadio
troppo piccolo per me. Entrai nel bagno e mi chiusi la porta alle spalle. Sam
mi guardò sorpreso e io gli misi una mano sulla bocca per impedirgli di
proferire parola, mentre cercavo di non guardare troppo il suo corpo nudo.
«Sam?»
La voce di Johanna proveniva dalla sua stanza.
Gli
tolsi la mano dalla bocca per permettergli di rispondere.
«Sono
sotto la doccia», disse lui, senza smettere di guardarmi negli occhi.
«Sai
niente dell’allarme antincendio che è scattato giù al Livello 3 stanotte?»,
chiese Johanna. Era per questo che era andata da lui.
«No»,
rispose Sam semplicemente.
«Sai
che non devi mentirmi», disse lei. Pensava che Sam c’entrasse qualcosa.
«Lo so,
per questo non lo faccio», rispose Sam. «Non sono stato io.»
«D’accordo»,
rispose Johanna. «Ti credo.» In fondo le aveva detto la verità. «Ti lascio alle
tue cose, ci vediamo più tardi.»
Quando
Johanna se ne fu andata, attesi comunque qualche secondo prima di abbandonarmi
a un sospiro.
«Se
volevi vedermi nudo bastava chiedere», dichiarò Sam.
Le sue
parole furono il colpo di grazia. A quella già imbarazzante situazione si aggiungeva
la sua sfrontatezza.
«Non
volevo farmi trovare qui», spiegai semplicemente.
«E
nascondersi sotto il letto ti sembrava troppo poco allettante?»
«Non
c’era abbastanza spazio.»
«Non
dirmi che ci hai pensato sul serio! Io stavo scherzando!»
«Te
l’ho detto, non volevo farmi trovare qui», ripetei.
«Adesso
che Johanna passerà nella tua stanza e non ti troverà si farà comunque delle
domande.»
«Dirò
che ero in infermeria», risposi. «Lucy mi coprirà.»
«Conosci
Lucy?», si sorprese Sam. «Sei una ragazza piena di risorse.»
Lo
ignorai e guardai attraverso la parete con la mia Vista speciale per accertarmi
che Johanna non fosse più nei corridoi.
«È
davvero inquietante», disse osservando i miei occhi rossi. Notai che nel
frattempo si era coperto con un asciugamano.
«Effettivamente
il rosso cremisi è un colore abbastanza inquietante», risposi dandogli ragione.
«In
realtà mi riferivo al fatto che puoi guardare attraverso le cose», replicò.
Scrollai
le spalle e uscii dal bagno. Lui mi seguì, bagnando il pavimento con le gocce
che gli scendevano dai capelli. Osservò con aria irritata il disastro che stava
combinando. Mossi una mano e alzai l’acqua dal pavimento, facendo sparire la
macchia che si era formata a terra. Lui sorrise a mo’ di ringraziamento.
«Ci
vediamo a colazione», dissi uscendo.
«Kaitlyn,
aspetta», mi fermò lui. Mi lanciò un libro, che afferrai un istante prima che
mi colpisse in piena fronte. Era il libro che avevo preso quella notte in
biblioteca. «Leggilo, ti piacerà. Potresti trovare interessante la parte su
Cerbero.»
«Non
mancherò», risposi. «Ci vediamo dopo.»
N.d.A.:
Finalmente
è spiegato il titolo della storia. Hellbound in inglese significa,
letteralmente, legato (bound) all’inferno (hell), e quindi
dannato. Hellhound, invece – che sembra una parola molto simile, ma una h
fa la differenza, guai a chi dice che non serve a niente! – significa mastino (hound)
dell’inferno (hell), e quindi mastino infernale o comunemente noto come
cane fantasma. In riferimento a quest’ultimo, i vari nomi che Sam gli
attribuisce provengono realmente da leggende locali: Padfoot
nello Yorkshire, Black Shucks nell’Anglia Orientale, Skriker, oppure Gytrash
nel Lancashire. L’ispirazione per queste creature è il cane Cerbero dell’Inferno
di Dante.
Grazie
a chi continua a seguire le mie storie, in particolare a Magicwolf02 che non si
perde mai nessuno dei miei aggiornamenti: grazie di cuore!
Futeki
|
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Capitolo 11 *** Gioco di squadra ***
DIECI
Gioco di
squadra
Ritrovarsi
insieme è un inizio, restare insieme è un progresso,
ma
riuscire a lavorare insieme è un successo
(Henry
Ford)
Per
tutta la mattinata cercai di evitare Sam. Dopo una veloce colazione iniziammo
gli allenamenti individuali e io fui ben lieta di andarmene con Alex nella
stanza con la vasca piena d’acqua. Facemmo insieme un sacco di esercizi, molto
più complessi di quelli previsti dal programma di Johanna. Non gli parlai
dell’attacco di quella notte, né di come avevo saputo delle leggende da Sam.
Dopo gli allenamenti individuali ci ritrovammo tutti al poligono. Io e Tom
provammo a ripetere l’esercizio. Dopo parecchi tentativi, Tom riuscì a deviare
il proiettile. Dovetti faticare un po’ per convincerlo che non avevo sbagliato
di proposito.
«Allora
hai sbagliato involontariamente», disse lui. «Non è merito mio.»
«Stai
scherzando?», replicai. «È impossibile che io abbia mancato completamente il
bersaglio.»
«Può succedere»,
disse Tom.
«Ma non
è appena successo a me. Non ho sbagliato.»
Alex e
Amanda ridacchiarono. Anche gli altri ragazzi si riunirono attorno a noi per
capire di cosa stessimo discutendo.
«Se
Kaitlyn dice di essere sicura allora io credo che sia merito tuo, Tom»,
intervenne Cassidy. «Lei è bravissima, non le ho mai visto mancare il
bersaglio.»
«Sentito?
Dovresti starla a sentire», dissi ringraziando mentalmente Cass.
«Secondo
me invece sei troppo sicura di te», s’intromise Sam.
«Cosa
vorresti dire?»
«Che
sei brava», disse lui, «ma non quanto credi.»
«Uh,
qua c’è aria di sfida», disse scherzosamente Alex.
«Per me
va benissimo», dissi guardando Sam dritto negli occhi. Gli sorrisi. «Vuoi
sfidarmi?»
«Sei
colpi. Chi fa più centri vince», rispose lui.
«Andata.
Lo sai che posso batterti anche a occhi chiusi», dissi esagerando.
«Io non
credo proprio. Ma se ne sei sicura e lo preferisci possiamo bendarci.»
«La
sfida si fa interessante», intervenne Alex.
«Alex,
due ragazzi che sono qui da una settimana non possono prendere in mano una
pistola mentre sono bendati», replicò Amanda.
«Sam è
qui da molto più di una settimana e Kaitlyn è un talento naturale. Lasciamoli
fare.»
Iniziai
io. Alex mi coprì gli occhi con una benda nera, ma con la Vista riuscivo
comunque a vedere il bersaglio attraverso la fitta trama di cotone nero. Ero
già di fronte al bersaglio, quindi mi bastò alzare il braccio e sparare. Sparai
cinque colpi in rapida successione e centrai il bersaglio esattamente nel
mezzo. Anche se gli altri non potevano vederlo, io notai che un proiettile
addirittura finì su uno già conficcato nella sagoma, facendolo a metà. Attesi
un po’ prima di sparare l’ultimo colpo per dare un po’ di teatralità alla scena
e poi finalmente conclusi con il sesto centro.
Quando
mi tolsi la benda osservai soddisfatta la mia opera. Gli altri erano impietriti
e nessuno disse una parola. Sam aveva un sopracciglio sollevato e Alex
sogghignava.
«Ho già
vinto, no?», chiesi a Sam.
«Posso
ancora pareggiare», disse lui con un raggiante sorriso.
«Stai
scherzando, spero.»
«Lasciami
provare.»
Si mise
di fronte al bersaglio e si fece bendare. Abbassò la sicura della pistola e si
preparò a sparare. Anche lui sparava con la mano sinistra.
Sei
centri.
Senza
esitare, senza pensare, senza preoccuparsi.
Pensai
per un momento che avesse la Vista anche lui, ma lo esclusi.
Si
tolse la benda e non guardò nemmeno il bersaglio per vedere quanti centri aveva
fatto. Era perfettamente consapevole della situazione.
Mi
sorrise. «Direi che è un pareggio.»
Alex
scoppiò a ridere, mentre tutti gli altri non dissero nulla.
«Dobbiamo
andare, è ora di pranzo», disse Alex per smuoverci.
Mentre
uscivamo dal poligono mi voltai verso Sam. «Non hai la Vista anche tu, vero?»
«No,
Kait. Sono riuscito a fare quello che ho fatto perché mi sono allenato per più
di un anno.» S’incupì. «Scusa.»
Scossi
la testa. «Perché ti scusi? Non dovresti. Non hai usato capacità “aggiuntive”,
quindi in teoria meriti di più tu la vittoria.»
«Non mi
sono scusato per questo, ma per averti chiamato Kait.»
«Ah»,
dissi semplicemente. «Senti Sam, lascia stare. Puoi chiamarmi come ti pare,
quando l’ho detto…»
«No, io
lo capisco, non ti piace che qualcuno che non sia tuo fratello ti chiami così.
Va bene, non c’è problema.»
Non
risposi.
«Allora
la considero una vittoria, quella di oggi», disse sorridendo.
«Voglio
una rivincita, allora!»
Sorridemmo
entrambi.
«Kaitlyn,
hai iniziato a completare il questionario di storia?», mi chiese Cass,
affiancandosi a me e Sam.
«No,
l’avevo completamente dimenticato», risposi.
«Io e
Jessica iniziamo oggi a farlo insieme. Anche se le domande sono diverse due
cervelli sono meglio di uno, no? Vuoi unirti a noi?», propose.
«Cassidy!»,
sbottò Jessica.
«Che
c’è?»
«Kaitlyn
stava parlando con Sam» disse, come se fosse ovvio.
Sam nel
frattempo si era allontanato e stava parlando con Alex. Qualunque cosa
intendesse Jessica, Cassidy capì. «Oh. Mi dispiace, non volevo.»
«Ma di
che state parlando?», mi decisi a chiedere.
«Non
volevo disturbarti», spiegò Cass. «Mentre stavi con Sam, intendo.»
Oh oh. Ma cosa
aveva capito?! «Ma figurati, sentiti libera di interrompere qualunque
cosa pensi che ci sia mentre in realtà non c’è.»
Cassidy
mi guardò con espressione confusa.
«Lascia
stare.»
Uno dei
gemelli s’intromise nella conversazione. «Anche io e Kevin faremo il
questionario insieme. Credo sia impossibile farcela da soli.»
«Sono
d’accordo», disse Tom. «Chi è che vuole farlo con me?», chiese.
Guardai
le ragazze e Cassidy annuì capendo al volo le mie intenzioni. «Io al momento
sono sola», risposi. «Se ti fa piacere possiamo farlo insieme.»
Tom
sorrise raggiante. «Certo! Vieni tu da me?»
Annuii.
Ci mettemmo d’accordo sull’orario e poi andammo a pranzo.
Quel
pomeriggio non avevamo molto da fare, quindi dopo una doccia e un po’ di tempo
passato a leggere “L’Inferno”, bussai alla porta della camera di Tom.
Ci
mettemmo subito al lavoro e Tom confessò di non aver ancora neanche letto le
domande.
Ben
presto mi resi conto di quanto fosse preparato: il test era difficile, ma lui
sapeva rispondere anche alle domande più complicate. Arrivati alla terza pagina
del mio questionario – avevamo deciso di fare insieme prima il mio e poi il suo
– trovammo un elenco di eventi storici importanti. Per ciascuno di essi
bisognava scrivere la data in cui era avvenuto.
«Rivoluzione
francese», dissi leggendo ad alta voce.
«1789»,
rispose Tom senza esitare.
«Battaglia
di Maratona.»
«490.»
«Stampa
del primo libro grazie a Gutenberg.»
«1450.»
«Congresso
di Vienna.»
«1815,
anche se in realtà era già iniziato a fine 1814.»
«Terzo
matrimonio di Isabella di Castiglia.»
Tom mi
guardò confuso. «Non mi risulta che ci sia stato un terzo matrimonio. Dopo aver
sposato Ferdinando II d’Aragona…»
«Stavo
scherzando», mi affrettai a fermarlo. «Ti piace la storia a quanto pare.»
«Molto»,
rispose semplicemente lui.
In quel
momento qualcuno bussò alla porta. Tom si alzò dalla sedia per andare ad aprire
e io mi sporsi per vedere di chi si trattasse. Era Sam.
Mi
venne in mente in quel momento che probabilmente lui non aveva nessuno con cui
fare il test di storia, quindi per un attimo pensai che fosse il caso di
invitarlo a restare con noi.
Ma
prima ancora che potessi aprire bocca lui se ne andò e Tom si voltò a guardarmi
lasciando la porta aperta.
«Andiamo
in camera sua, sono tutti lì», spiegò. «Credo proprio che dovremmo fare il test
tutti insieme.»
Annuii
e mi alzai dalla sedia prendendo i fogli dalla scrivania.
La
porta della camera di Sam era spalancata, quindi entrammo senza bussare. Dentro
c’erano tutti. Qualcuno era seduto sul letto, qualcuno sulle due sedie della
camera. Cassidy invece era seduta sul pavimento.
«So che
la stanza non è grandissima, ma dobbiamo arrangiarci. È importante che facciamo
questa cosa tutti insieme», esordì Sam.
Una
volta entrati anche io e Tom, chiudemmo la porta e Sam iniziò a spiegare. «I
test sono diversi per ognuno di noi, ma le domande sono fondamentalmente le
stesse, anche se in ordine diverso oppure scritte in modo differente.
All’Operon non ci insegneranno la storia, non ci serve per quello che dobbiamo fare
noi. Il questionario è soltanto un test per mettere alla prova il nostro gioco
di squadra, per verificare se siamo disposti anche ad andare contro l’ordine di
non aiutarci e la difficoltà delle domande diverse, pur di restare uniti. Ed è
quello che dobbiamo provare. Facciamo il test tutti insieme e diamo le stesse
risposte, che siano giuste o sbagliate.»
Il
ragionamento di Sam filava.
Era
improbabile che si trattasse davvero soltanto di un test di storia, visto che
non serviva a molto per il nostro “lavoro”.
Ci
mettemmo all’opera e facemmo una breve pausa solo per andare a cena. Dopo
tornammo tutti in camera di Sam e finalmente, dopo ore di duro lavoro, finimmo
tutti i questionari.
Restammo
lì ancora per un po’ a chiacchierare del più e del meno. Scoprii che Kevin era
un eccezionale giocatore di basket e che Cassidy scriveva poesie nel tempo
libero. Mi resi anche conto di quanto io e Jessica fossimo diverse in fatto di
gusti musicali: Cass era sua sorella molto più di quanto lo fossi io.
Quando
iniziò a farsi tardi iniziarono tutti a tornare nelle proprie stanze: prima
Cass e Jessica, poi Tom. Quando alla fine se ne andarono anche i gemelli, mi
resi conto che forse era il caso di andare a dormire.
Stavo
per dirlo a Sam, quando lui mi infilò un’auricolare in un orecchio, cogliendomi
di sorpresa.
«Ascolta
questa canzone, è bellissima», mi disse.
Non la
conoscevo, ma era la tipica canzone che è facile sentire come sottofondo a
qualche pubblicità. Sembrava familiare eppure aveva un non so che di
sorprendente. Come Sam.
E fu
mentre ascoltavo quella canzone, con gli occhi puntati sul suo viso, che
immaginai per la prima volta di baciarlo.
Scossi
la testa per scacciare quel pensiero e per evitare che Sam notasse che stavo
arrossendo mi stesi sul letto.
Lui,
che fino a quel momento era stato seduto affianco a me con l’mp3 in una mano,
mi imitò e si stese, legato a me dal filo degli auricolari.
«Ti
piace?», mi chiese.
Annuii.
Eravamo vicinissimi.
La
canzone successiva partì e lui non si mosse. Rimanemmo in quella posizione ad
ascoltare musica per un bel po’.
Quando
la mattina dopo mi svegliai non avevo più l’auricolare e un cuscino era
comparso sotto la mia testa. L’avevo fatto di nuovo, mi ero di nuovo
addormentata in camera di Sam.
Mi
alzai di scatto e Sam – in piedi di fronte a me – si voltò a guardarmi,
sorpreso dal movimento improvviso.
«Buongiorno
dormigliona. Il mio letto ormai è troppo grande senza di te.»
«Perché
non mi hai svegliato?!», chiesi infuriata.
«Dormivi
così bene! Non ne ho avuto il coraggio!»
«Come
fai a svegliarti sempre prima di me? Ma dormi la notte?», chiesi stupidamente.
Sam
rise. «Forse sei tu che dormi più profondamente del solito in camera mia, per
questo ti svegli più tardi.»
Sbuffai.
Presi il mio questionario dalla scrivania e mi avviai verso la porta.
«Non
capisco perché ti fai così tanti problemi», disse Sam.
«Neanche
io», risposi sinceramente. «Ci vediamo dopo a colazione.»
N.d.A.:
Con
questo e il capitolo precedente siamo entrati nel vivo della storia. Dal
prossimo capitolo, l’azione prenderà il sopravvento e i ragazzi ne saranno
parte fondamentale.
Per
quanto riguarda la canzone che Sam fa ascoltare a Kaitlyn, quando ho scritto
quella parte, nella mia mente c’era Love the way you lie di Eminem e
Rihanna, uscita proprio nel 2010, ovvero l’anno prima rispetto al presente di
Kaitlyn e Sam. A seguire, sull’ipod di Sam – e sul mio – c’erano Rolling in
the deep (Adele) e The Time (Black Eyed Peas), uscite entrambe come
singoli nel 2010 e come tracce dei loro rispettivi album 21 e The
beginning nel 2011.
Grazie
a chi segue ancora la storia.
Futeki
|
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Capitolo 12 *** Simulazione ***
UNDICI
Simulazione
Lo
spirito di squadra è la chiave del successo.
(Julio
Velasco)
Dopo
aver consegnato i test al signor Turner, scendemmo al Livello 3 dove Johanna ci
aveva convocato. Ci spiegò che i questionari erano soltanto un pretesto per mettere
alla prova il nostro gioco di squadra, come aveva detto Sam il giorno prima.
Iniziò inoltre un lungo discorso sull’importanza della collaborazione tra noi.
«Ed è
per questo», concluse «che opererete sempre in coppia o in tre durante le
vostre missioni. I gruppi verranno formati in base ai vostri poteri e alle
affinità che già mostrate. Per questo motivo, Kevin e Robb lavoreranno insieme
visto il loro legame, così come Cassidy e Jessica, alle quali si aggiungerà
Tom. Infine, il terzo gruppo sarà formato da Kaitlyn e Sam.»
Non mi
dispiaceva lavorare con Sam: lui conosceva già il mio segreto, quindi non
dovevo preoccuparmi di nasconderlo più del necessario.
Il lato
peggiore della situazione era che dovevamo imparare a combinare i nostri
poteri. Io dovevo usare l’acqua come canale conduttore per la sua elettricità.
Siccome trovavo la cosa terrificante, perdevo spesso la concentrazione facendo
finire l’acqua sul pavimento. Nell’esercizio ci aiutavano Luke e Alex, ma
mentre il primo pensava che io non riuscissi perfettamente a causa della mia
inesperienza, Alex sapeva bene qual era il mio problema.
«Devi
concentrarti», mi disse in disparte. «Trasforma la tua paura in determinazione.
Tu puoi controllarla. Il flusso di corrente non va da nessuna parte
senza il tuo canale. Tu controlli l’acqua, quindi tu controlli il flusso
elettrico. Decidi tu dove farlo andare. Controllalo. Non lasciarti dominare
dalla paura.»
Chiusi
gli occhi. Non avevo bisogno di guardare per percepire l’acqua intorno a me. La
sentivo ribollire per l’elettricità. La manipolai come avevo sempre fatto,
rendendomi conto che anche quando lo sfioravo, il flusso di corrente non mi
faceva alcun male. Fino a quel momento avevo cercato di distaccarmene, ma
adesso sapevo che dovevo controllarlo attraverso l’acqua.
A fine
allenamento ero stanchissima, ma soddisfatta.
Nel
pomeriggio scesi al Livello 2 per chiedere un cellulare. Alex mi aveva mandato
a cercare un certo Spike, dicendomi che lo avrei trovato sicuramente seduto
davanti a un monitor nella prima stanza a sinistra del Livello 2.
Fu
così. Nella stanza c’era solamente un enorme schermo, con altri più piccoli sui
lati. Lui era seduto su una sedia girevole da ufficio e ticchettava sulle varie
tastiere a una velocità impressionante.
«Ehm,
tu sei Spike?», chiesi per attirare la sua attenzione.
«Tra
due minuti, quando avrò finito, sarò chi vuoi tu. Adesso però fa come se non ci
fossi», mi rispose brusco.
Mi
dispiaceva averlo disturbato, ma avevo assolutamente bisogno di un cellulare.
Due
minuti dopo, come promesso, Spike si girò verso di me, facendo ruotare la
sedia.
«Ah, di
nuovo tu», disse sorridendo.
«Penso
che tu ti confonda con mia sorella, Jessica», dissi. «Io sono Kaitlyn, non ci
siamo mai visti prima d’ora.»
«Oh,
giusto», disse lui. «La Generazione dei gemelli.»
Annuii.
«Mi servirebbe un cellulare.»
«Mi
piaci. Sei diretta e non mi fai perdere tempo. E non ti sei arrabbiata quando
ti ho risposto male prima. Ah, a proposito! Scusa per quello, ero impegnato.»
«Figurati»,
risposi.
«Eravamo sotto attacco. Un attacco informatico,
intendo.»
«Cosa?», urlai allarmata. «Dobbiamo avvertire Johanna!»
«Non è assolutamente il caso. Subiamo attacchi di questo
genere decine di volte alla settimana, è tutto sotto controllo.»
«Ah», mi tranquillizzai.
«Adesso
procuriamoci un cellulare», disse lui.
Rovistò
in un cassetto e ne tirò fuori un piccolo cellulare argentato di un modello che
non avevo mai visto. Lo collegò a un computer attraverso un cavo e trafficò un
po’ con la tastiera. Si aprirono diverse schermate blu su uno dei monitor più
piccoli, ma non riuscivo a capire cosa stesse facendo.
«Bene,
adesso devi darmi il numero di casa tua e del cellulare di un tuo genitore.
Saranno gli unici due numeri che potrai chiamare e da cui potrai ricevere
telefonate.»
«Se
volessi chiamare una mia amica non potrei farlo?», chiesi pensando a Tin.
«No,
per una questione di sicurezza.»
«Credevo
che si trattasse di una linea sicura.»
«Lo è.
Non è per via delle intercettazioni che non puoi chiamare. Non possiamo
rischiare che tu parli a qualcuno di questo posto.»
«Non
sono una bambina, so che non posso parlarne.»
«Mi
dispiace, le regole sono chiare.»
«Spike…
ti prego!»
«Kaitlyn…
non posso fare nulla!», disse imitando la mia voce. «Ma se tu fossi furba
abbastanza sapresti trovare una soluzione da sola. Adesso dammi il numero di
casa tua e un numero di cellulare.»
Sorrisi.
Mi stava suggerendo di dargli il numero di cellulare della mia amica, invece di
quello di mia madre, che avrei chiamato sul telefono di casa.
Dopo
avergli dato i numeri presi il cellulare e lo ringraziai. Salii immediatamente
all’esterno, cercando di raggiungere il balcone al primo piano, dove avevo
visto Tom telefonare alla sua famiglia.
Chiamai
mia madre, che mi rimproverò di non averle telefonato prima. Mi disse che stava
bene e che le mancavo. Le dissi che lì erano tutti gentili e le parlai di
Jessica. Lei mi giurò di non aver mai avuto idea che avessi una gemella. Le
chiesi che scusa avesse inventato per la mia improvvisa sparizione e la salutai
con la promessa di richiamarla appena possibile. Dopodiché chiamai anche Tin,
confermando la storia di mia madre secondo cui mi avevano accettato in una
scuola prestigiosa in un altro stato. Le parlai degli altri ragazzi,
tralasciando il dettaglio dei loro poteri, e le dissi che mi trovavo bene,
anche se sentivo la sua mancanza. La salutai e le dissi che l’avrei chiamata
durante la pausa pranzo a scuola, uno di quei giorni, così avrei potuto
salutare anche Jordan. Lei mi suggerì di telefonare direttamente a lui, ma inventai
una scusa poco credibile e le dissi che dovevo proprio andare.
Sentire
mia madre e Tin mi aveva fatto piacere, mi aveva ricordato che da qualche parte
c’era ancora qualcuno che mi aspettava.
Nei
giorni seguenti proseguimmo con il programma di allenamento. Imparammo tutti a
sparare, a controllare al meglio il nostro potere e migliorammo nel
combattimento corpo a corpo.
Ci
insegnarono ad usare degli auricolari per comunicare tra di noi e con la base
durante le operazioni e Spike ci spiegò sommariamente come funzionavano le reti
protette dell’Operon e ci insegnò i vari codici d’accesso delle varie entrate.
♦
Un paio
di mesi dopo, Johanna ci ritenne pronti ad affrontare la nostra prima
simulazione.
Al di
sotto del Livello 3 esisteva un altro piano, il Livello 4, o simulatore, di cui
nessuno di noi – compreso Sam, che era lì da più tempo – era a conoscenza.
Eravamo tutti riuniti nell’anticamera, davanti a una grossa porta d’acciaio,
attraverso la quale si entrava nello spazio dedicato alla nostra simulazione.
Johanna ci spiegò che per organizzare tutto aveva impiegato quasi un mese.
La
prova consisteva nell’entrare in un’area protetta da porte blindate, codici
d’accesso e trappole, per poi trovare la sala operativa, copiare i dati
dell’intero sistema di computer e uscire da lì in meno di due ore.
Non
sembrava per niente facile e Johanna ci spiegò che per riuscire nell’impresa
avevamo soltanto due possibilità: lavorare tutti insieme e puntare sul gioco di
squadra o dividerci in gruppi per fare più in fretta e affidarci alla
collaborazione di coppia.
Johanna
e gli altri ci avrebbero osservato dalla sala operativa del Livello 2 attraverso
una serie di telecamere. Inoltre, avremmo avuto dei sensori attaccati ai polsi
e alle caviglie affinché Spike potesse controllare se venivamo colpiti durante
l’operazione dai colpi sparati a salve all’interno del simulatore.
Esaurite
le spiegazioni, entrammo. Poiché non disponevamo di auricolari, decidemmo di
non separarci.
La
stanza in cui ci trovavamo era completamente vuota e affacciava su un lungo
corridoio, che costituiva il nostro primo ostacolo. Non sapendo dove andare e
non volendo separarci, dovevamo decidere che direzione intraprendere.
«Ho
un’idea», disse Sam. «Noi dobbiamo trovare una stanza piena di computer, quindi
si suppone che brulichi di corrente elettrica. Potrei provare a sentire dove si
trova la più grande concentrazione di elettricità in questo posto.»
L’idea
sembrava buona, quindi fummo tutti d’accordo. Con l’aiuto di Robb che amplificò
i suoi poteri mettendogli entrambe le mani sulle spalle, Sam chiuse gli occhi e
tentò di individuare la sala operativa.
«Trovata»,
esclamò. «Andiamo a sinistra.»
Seguimmo
le sue istruzioni per un po’ e passammo attraverso parecchie stanze tutte
uguali. Se non fosse stato per Sam e il suo “sesto senso”, non saremmo mai
riusciti a orientarci.
Sembrava
tutto estremamente facile e procedevamo spediti, quando mi venne in mente che
avrei potuto controllare con la mia Vista l’eventuale presenza di ostacoli. Era
buio, quindi nessuno notò il cambiamento di colore dei miei occhi. Attraverso
le pareti vidi in lontananza la stanza verso cui ci stavamo dirigendo: Sam ci
stava portando nella direzione giusta. Notai anche, però, un leggero
cambiamento nel pavimento della stanza in cui stavamo per entrare: sotto alcune
mattonelle c’erano dei sensori di movimento, che sicuramente non avrebbero
portato a nulla di buono.
Non
sapevo come spiegare agli altri della trappola verso cui ci stavamo dirigendo
senza rivelare il segreto dei miei occhi. Mentre riflettevo, Sam e Robb, che
aprivano la fila, erano già entrati nella stanza.
«Fermatevi!»,
gridai, ma era già troppo tardi. Robb aveva messo un piede su un sensore
invisibile e da un punto imprecisato della stanza partì uno sparo. Ovviamente
si trattava di un colpo a salve, quindi nessuno rimase ferito.
«Non
muovetevi», disse Sam. «Kaitlyn, tu li vedi, non è vero?», mi disse
bisbigliando.
Annuii.
«Sono sensori di movimento. Ma non ho intenzione di dire agli altri che riesco
a vederli», dissi risoluta.
«Vuoi
farci uccidere?»
«Non
moriremo davvero.»
«Di’ a
me dove sono. Fingerò di percepirli.»
«È
impossibile che tu li senta. Non sono elettronici, ma meccanici.»
«Io e
te lo sappiamo, ma gli altri no, giusto?»
Indicai
a Sam la posizione dei sensori e lui disse agli altri che si trattava di
sensori di movimento elettrici che riusciva a percepire. Lo seguimmo procedendo
a zig-zag per la stanza e finalmente fummo fuori pericolo. Nel corridoio
successivo non c’erano luci, quindi eravamo completamente al buio. Jessica si
sforzò di creare una piccola fiammella e di mantenerla costante per illuminare
il percorso.
Arrivammo
finalmente alla sala operativa, ma per entrare ci restava da superare una porta
blindata con doppia serratura.
Sam
neutralizzò facilmente lo scanner di impronte digitali, ma restava ancora una
serratura da aprire con una chiave di cui non disponevamo.
L’unica
possibilità di entrare era che Tom facesse scattare la serratura usando il suo
potere.
Rimase
per un po’ chinato di fronte alla porta, creando un forte campo magnetico.
Quando finalmente la serratura scattò, tirammo tutti un grande sospiro di
sollievo.
Quando
entrammo eravamo tutti più tranquilli. Cass si occupò di copiare tutti i file
del computer principale su un disco e dopo un quarto d’ora eravamo pronti ad
andare via.
«Dobbiamo
trovare il modo di uscire», fece notare Sam.
Adesso
che non avevamo più la sua guida, non sapevamo che strada percorrere per uscire
da lì senza perderci per i corridoi.
Mentre
riflettevamo sulla situazione, un ringhio profondo mi fece sobbalzare.
Negli
ultimi due mesi gli attacchi dei cani si erano intensificati. Per fortuna però,
ero sempre stata da sola o con Sam, Alex e Luke, che ormai conosceva il mio
segreto. Il resto del gruppo, però, non sapeva nulla.
Adesso
però avrei dovuto spiegare tutto.
«Sam»,
chiamai allarmata. «Aiutami!»
Sam
vide il panico nei miei occhi rossi, che brillavano alla debole luce dei
monitor della stanza.
«Non ho
acqua!», urlai disperata. Gli altri si guardavano tra di loro senza capire cosa
stesse succedendo.
«Calmati
Kaitlyn. Dove sono?», chiese Sam con voce controllata.
«Tutti
e tredici davanti a me, non vedi?», dissi.
«No, io
non li vedo, non ho i tuoi occhi», disse lui.
«Ma che
stai dicendo?»
«Non li
vedo. Ci riesco solo quando li bagni con dell’acqua, allora in quel caso vedo
la loro forma.»
Provai
a riflettere per un istante su quello che stava dicendo, ma avevo la mente
annebbiata dalla paura.
«Jessica,
devi dare fuoco a questo posto», dichiarò Sam.
«Cosa?»,
chiese lei. «Sam, ma che diavolo sta succedendo? Cos’ha Kaitlyn?»
«Te lo
spiego dopo. Dobbiamo uscire tutti e tu devi dare fuoco alla stanza.»
«Non ce
la farò mai a tenere viva una fiamma abbastanza a lungo per far attecchire il
fuoco e scatenare un incendio», replicò lei.
«Ti
aiuto io», disse Robb.
«E
anche io», intervenne Kevin. «Il vento alimenta la fiamma», spiegò.
«L’importante
è che facciate in fretta!», urlai disperata.
Sam mi
trascinò fuori mentre Jessica iniziava a dare fuoco alla stanza, con Robb da un
lato e Kevin dall’altro.
In
pochi attimi, tutto fu in preda alle fiamme.
N.d.A.:
Per
quanto riguarda la citazione all’inizio del capitolo, si tratta di una frase
pronunciata da Julio Velasco, allenatore di pallavolo argentino, che è stato commissario
tecnico della Nazionale italiana maschile dal 1989 al 1996, e della Nazionale
italiana femminile dal 1997 al 1998. Ottenne grandi successi soprattutto con la
Nazionale maschile nei primi anni novanta, con quella che è stata chiamata
generazione di fenomeni, e proprio in occasione di un intervista successiva a
una delle sue vittorie, dichiarò che la chiave del successo, secondo lui, era
lo spirito di squadra.
Futeki
|
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Capitolo 13 *** L'arte del sopravvivere ***
DODICI
L’arte del
sopravvivere
La vita non è un gioco. È sopravvivenza.
(Mike Tyson)
Tom
sigillò la stanza facendo scattare di nuovo la serratura.
Mi
tranquillizzai al pensiero che i cani erano bruciati in quella stanza. Adesso
però, avrei dovuto spiegare ai miei amici ciò che era appena successo, visto che
loro non riuscivano neanche a vedere i cani fantasma. Sapevo che le persone
comuni non potevano vederli, ma fino a quel momento avevo pensato che tutti
noi, che avevamo poteri speciali, avessimo questa capacità. Ma siccome Sam non
poteva, compresi finalmente che solo chi aveva la Vista, solo gli Hellbound
riuscivano a vedere i cani fantasma. Alex li vedeva, di questo ero sicura.
Gliene avrei parlato in un secondo momento. Adesso dovevo affrontare i miei
amici, dir loro la verità e sperare che non cambiassero opinione su di me.
«Kaitlyn»,
disse Jessica con voce gentile, «che sta succedendo?»
Presi
un bel respiro e spiegai loro dei cani fantasma, delle loro visite sempre più
frequenti e dei loro tentativi di uccidermi. Dissi loro della mia Vista, capace
di vedere attraverso le cose e di individuare gli invisibili Hellhounds.
Mostrai loro gli occhi rossi.
Cass
sussultò, Robb e Kevin rimasero affascinati. Tom e Jessica non dissero nulla.
«Tutto
questo è accaduto per colpa mia», spiegai. «Perché io ho ucciso delle persone.»
Cassidy
sussultò di nuovo, ma prima che potesse dire qualunque cosa mi affrettai a
spiegare.
«Fu un
incidente. Pioveva dirotto e l’odio che provavo nei confronti di quegli uomini
mi ha fatto perdere il controllo. Li ho soffocati con l’acqua», spiegai con un
velo di tristezza sul viso.
«Avevo
un fratello, Ryan, proprio come Cassidy è una sorella per te», dissi
rivolgendomi a Jessica. «Era un Telepate. Lui riusciva a leggermi nel pensiero,
ma già da molto tempo prima che si manifestassero i suoi poteri. Il nostro era
un legame speciale. Ci sostenevamo a vicenda, lui era tutto per me. Ho sempre
saputo di essere stata adottata e questo mi ha sempre portato a distaccarmi da
mia madre, perché sapevo che non era la mia madre biologica. Ma con Ryan era
diverso. Con lui sentivo di avere un legame reale. Avevamo lo stesso
DNA, lo sapevamo. Lui era la mia famiglia, io lo amavo più di chiunque altro al
mondo. Una sera, mentre tornavamo da una festa, facemmo un incidente d’auto.
Gli uomini alla guida dell’altra macchina erano ubriachi. Ryan morì quella sera
e io mi salvai. Eravamo seduti uno affianco all’altra, lui al posto di guida e
io alla sua destra, ma soltanto lui perse la vita. Io invece ero viva. Lui non
c’era più e io ero viva», mi sforzai di trattenere le lacrime. «Anche se in
realtà una parte di me se n’è andata con lui.»
«Mi
dispiace», disse Cassidy sinceramente dispiaciuta.
«È una
storia terribile», convenne Kevin. Robb non disse una parola, ma aveva lo
sguardo colmo di dolore. Forse qualcuno di loro stava immaginando cosa si prova
a perdere un fratello.
Tra
loro soltanto Sam lo sapeva. Mi voltai per cercarlo con lo sguardo, ma lui era
già al mio fianco. Mi strinse un braccio e io gli fui immensamente grata.
«Per
questo quando incontrai quegli uomini persi il controllo. Avevano ucciso mio
fratello e non erano neanche in prigione. Non avrei voluto farlo, sapevo che
ucciderli non mi avrebbe restituito Ryan. Lui avrebbe voluto che li perdonassi.
Ma io non sono forte quanto lui. Li lasciai per terra credendo che fossero
soltanto svenuti, ma la mattina dopo lessi sul giornale che erano stati trovati
morti. Mi dispiace avervi mentito», dissi guardando ognuno di loro negli occhi,
«ma non volevo che pensaste male di me. Io non sono un’assassina.»
«Lo
sappiamo, Kaitlyn», disse Tom. «Non c’è neanche bisogno di dirlo.»
«Tu sei
una di noi», disse Robb.
«E sei
anche nostra amica», intervenne Kevin.
«Niente
potrebbe farci cambiare opinione su di te. Sappiamo che persona sei», disse
Jessica, «e io sono davvero contenta che tu sia mia sorella.»
Le
sorrisi riconoscente. «Grazie.»
«Kaitlyn,
io ti conosco da poco», disse Cass, «ma so esattamente chi sei. Non sei diversa
da tua sorella e io le voglio un gran bene. Non sei una cattiva persona, non
sei un’assassina. Non dirlo mai più, neanche per sogno.»
«Grazie
per la comprensione, ragazzi», dissi sinceramente contenta.
«Adesso
cerchiamo un modo per uscire di qui», disse Robb.
«Il
tempo sta per scadere», aggiunse Kevin.
«Io
un’idea ce l’avrei», dissi sorridendo.
Usai la
Vista per guardare attraverso le pareti e in breve tempo raggiungemmo l’uscita.
Tom forzò ancora una volta la serratura e finalmente uscimmo dal simulatore.
Ad
attenderci all’uscita c’era Colton, un tecnico dell’Operon. Si complimentò con
noi per l’esito positivo della simulazione e ci condusse al Livello 2, dove
Johanna ci aspettava assieme ad Alex, Luke, Chris, Amanda e Sara. Oltre a loro,
nella sala operativa c’erano Spike e una decina di altri tecnici, tra cui
Leslie, una simpaticissima ragazza reclutata dall’Operon per le sue abilità
informatiche. Quando entrammo, lei e Johanna stavano parlando sottovoce, ma si
zittirono improvvisamente quando si accorsero del nostro arrivo.
Dando
una rapida occhiata alla stanza, mi resi conto dell’atmosfera strana che aleggiava
tra i presenti: Alex se ne stava appoggiato a una parete con le braccia
incrociate sul petto e un’espressione dura impressa sul viso; Luke, invece, era
al suo fianco e sembrava più tranquillo, nonostante avesse anche lui un’aria
piuttosto seria. Amanda e Sara stavano guardando con molto interesse qualcosa
sul computer di uno dei tecnici, mentre Chris era vicino a Spike, che a sua
volta stava seduto davanti a un computer.
Johanna
ci venne incontro e mentre si avvicinava a noi cercai di decifrare la sua
espressione. A differenza degli altri, però, Johanna aveva l’abilità di non
lasciar trasparire nulla dal suo viso, tant’è vero che appariva semplicemente
seria come al solito.
«Complimenti
ragazzi», disse, «avete completato con successo la simulazione. Non siete stati
perfetti, ma è normale, visto che era la prima volta. Spike, mostra loro i
filmati.»
Ci
avvicinammo tutti a Spike, che iniziò immediatamente a spiegare: «Durante la
simulazione avete commesso alcuni errori che cercheremo di correggere. Innanzitutto,
Robb risulta essere ferito a causa di un colpo sparato durante la simulazione
quando avete attivato una delle trappole meccaniche. Quel tipo di sensore non
può essere rilevato da Sam, che percepisce soltanto quelli elettrici, quindi
devi essere tu, Kevin, ad accorgerti di questo tipo di trappole.»
«Io
sono Robb», disse pacatamente il gemello sbagliato.
Kevin
si rivolse a Spike: «Come posso percepirli io? Io controllo l’aria,
nient’altro.»
«E ti
sembra poco?», replicò Spike. «Sotto la pavimentazione c’era un sottile strato
vuoto che serviva a far rientrare le mattonelle non appena qualcuno ci avesse
messo un piede sopra. Pertanto, al di sotto del pavimento c’erano vari spazi
pieni d’aria che tu avresti potuto percepire. Dovrai esercitarti a farlo.»
Kevin
annuì.
«Quindi
come ha fatto Sam a sapere dove si trovavano i sensori?», chiese giustamente
Jessica, avendo capito che di trattava di sensori meccanici.
«Li ho
visti io», intervenni troncando la discussione.
Spike
proseguì nella spiegazione. «Un altro errore è stato il modo che avete scelto
per orientarvi all’interno del simulatore. L’idea di seguire Sam, che poteva
percepire l’elettricità proveniente da una sala computer, non è male, ma dovete
tener presente che possono esserci comunque più stanze con quelle
caratteristiche. Questo tipo di problema si può generalmente aggirare studiando
in anticipo la mappatura del luogo in questione. Ma nel caso in cui non siate a
conoscenza della planimetria, dovete saper uscire da qualunque posto, almeno
cercando di ritornare sui vostri passi. Ci sono vari modi per marcare la strada
percorsa. Il più semplice e immediato è accendere un fuoco», disse guardando
Jessica. «In questo modo, l’aria rimane segnata dal passaggio della
fiamma, che riduce l’ossigeno. In questo modo, sia Kevin che Robb sono in grado
di ritrovare la strada.»
«Io che
c’entro?», chiese Robb.
«Il
fuoco è energia!», esclamò Spike. «Se ti impegni puoi rilevare tracce
energetiche nell’aria.»
«Queste
sono soltanto teorie di uno che ha studiato la fisica, ma non ha assolutamente
idea di cosa significhi avere questo tipo di poteri», intervenne Chris
lanciando un’occhiata divertita a Spike. «Tranquillo, Robb, nessuno si aspetta
che tu riesca a fare una cosa simile. Io neanche ci riesco e mi esercito da molto
più tempo di te. Kevin, invece per te è possibile e con un po’ di esercizio ci
riuscirai sicuramente», aggiunse con fare incoraggiante.
I due
gemelli annuirono.
«Un
altro errore piuttosto grave», intervenne Spike riprendendo il controllo della
conversazione, «è stato perdere tempo fuori dalla sala operativa. Siete rimasti
lì per circa un quarto d’ora, tempo più che sufficiente perché arrivasse
qualcuno e vi scoprisse. Comunque», aggiunse infine, «mi complimento per
l’ottimo lavoro di squadra, soprattutto quello dimostrato nel bruciare la sala
operativa. I vostri poteri sono di per sé un grande dono, ma combinarli insieme
li rende incredibilmente potenti. Ci vogliono parecchio allenamento, un
accurato studio della fisica e della chimica e anche un po’ di fantasia per
riuscire al meglio in ogni situazione. Nel complesso, la prova è stata
abbastanza buona.»
Riuscii
a leggere la soddisfazione sui volti dei miei compagni, ma io non avevo potuto
fare a meno di notare che Spike non aveva neanche accennato al fuori programma
dei cani fantasma.
Sapevo
che era arrivato il momento di dire a Johanna la verità, perché dopo quello che
era successo nel simulatore non avrei più potuto mantenere il segreto.
Lanciai
un’occhiata ad Alex dall’altra parte della stanza: non si era mosso di un
millimetro durante il discorso di Spike, ma stavolta il suo sguardo era puntato
su di me, anziché sulla parete di fronte a lui. Sembrava preoccupato.
Johanna
intercettò i nostri sguardi e mi anticipò. Si schiarì la voce per attirare
l’attenzione di tutti e poi iniziò a parlare con il suo solito tono controllato
e serio.
«Da qui
siamo riusciti a seguire tutta la simulazione», disse. «compreso quello che è
successo nella sala operativa. Le creature che vi hanno attaccato e che voi non
potete vedere si chiamano Hellhounds, sono dei cani fantasma. Ma questo lo
sapete già, visto che Kaitlyn ve l’ha spiegato. Abbiamo seguito tutta la
spiegazione e ci siamo resi conto che sei molto informata sull’argomento»,
aggiunse rivolgendosi a me. Non sapendo cosa dire, annuii semplicemente.
«Normalmente»
proseguì Johanna, «quando uno di voi diventa un Hellbound ce ne accorgiamo
immediatamente: i suoi poteri aumentano a dismisura, gli occhi diventano rosso
cremisi e le visite degli Hellhounds rendono il tutto parecchio difficile da
nascondere. Inutile dire che disapprovo il tuo ostinato tentativo di tenermi
all’oscuro di tutto, ma posso capire perché lo hai fatto, anche se ciò non è
una giustificazione.»
Annuii
di nuovo.
«Colgo
l’occasione per mettervi al corrente dei rischi che i vostri poteri
comportano», disse rivolgendosi ai miei compagni. «Uccidere qualcuno usando i
vostri poteri, vi farà diventare Hellbounds. La leggenda relativa a questa
storia sembra semplicemente l’invenzione di qualcuno con troppa fantasia, ma
avete avuto modo di vedere che in realtà c’è un fondo di verità, a cui non
siamo riusciti a dare una spiegazione scientifica. Si potrebbe pensare a una
sorta di allucinazione, ma non è così. Non so se esista o meno l’inferno, ma so
per certo, che quei cani, fantasmi o no, possono davvero uccidere. Perciò è mio
dovere mettervi al corrente di questa situazione; state attenti a come usate i
vostri poteri», dichiarò. «Nonostante ciò, se mai doveste uccidere qualcuno
usando armi comuni, non vi accadrebbe niente.»
Visto
che i miei compagni rabbrividirono o sussultarono nel sentirle pronunciare
quelle parole, Johanna si affrettò a spiegare: «Ragazzi, non potete continuare
a considerare quest’ipotesi troppo lontana dalla vostra realtà. Ormai siete in
guerra. Che sia per autodifesa, per prevenzione o per ordini superiori, prima o
poi vi capiterà di uccidere qualcuno. E la cosa non deve assolutamente
lasciarvi spiazzati. Imparate ad affrontare ogni cosa con razionalità e
riflettete sempre prima di agire. Non lasciatevi dominare dalle emozioni in
nessun caso. Questa è l’arte del sopravvivere, a se stessi e agli altri.»
Le sue
parole confermarono le teorie che avevo formulato dopo il suo discorso del
primo giorno: eravamo in guerra.
Dopo
averci dato le ultime informazioni, Johanna ci congedò lasciandoci liberi per
il resto della giornata. Prima che potessi uscire dalla stanza, però, mi
trattenne per parlarmi in privato.
«Kaitlyn,
io purtroppo non posso aiutarti molto. Però, sulla base di informazioni
raccolte in tanti anni di lavoro, posso darti qualche aiuto: per prima cosa,
sappi che le uniche armi che possono ferire gli Hellhounds sono il tuo potere e
l’argento. Le armi da fuoco non hanno effetto. Abbiamo una scorta di pugnali in
argento al Livello 1, potrai servirtene liberamente. Ti consiglio di portarne
sempre almeno un paio con te.»
«Grazie»,
dissi sinceramente.
«Inoltre,
mi farebbe piacere se ogni tanto mi comunicassi un resoconto sulla situazione;
tredici sono tanti e io voglio essere al corrente della frequenza con cui si
presentano. Nel caso in cui dovessi restare ferita, sai dov’è l’infermeria»,
concluse lanciando un’occhiata ad Alex, che nel frattempo si era avvicinato a
noi.
«Grazie»,
ripetei nuovamente.
Johanna
mi sorrise e io feci per uscire dalla stanza con Alex al fianco.
«Ah,
Kaitlyn, un’ultima cosa», disse Johanna richiamando la mia attenzione e
facendomi voltare. «Mi dispiace per tuo fratello. Sapevamo che aveva avuto un
incidente, ma non conoscevamo i dettagli.»
Non
dissi nulla e mi voltai di nuovo per andare via. Alex uscì dalla stanza insieme
a me, ma aspettò che fossimo abbastanza lontani da Johanna prima di parlare.
«Mi
dispiace per la situazione in cui ti sei trovata. Ti avevo suggerito di tenere
il segreto solo perché pensavo che fosse la cosa migliore», disse.
«Lo
capisco e sono d’accordo con te. Non mi sono pentita di non aver detto prima la
verità.»
Alex mi
sorrise riconoscente.
«Alex,
anche tu sei un Hellbound?», chiesi conoscendo già la risposta.
«Sì»,
confermò lui. «Ricordi quando ti ho parlato di Callie?» Annuii. Callie era la
Telepate della sua generazione, una Hellbound come noi. «Morì durante una
missione di protezione in Russia. Dovevamo scortare alcune personalità di
spicco della nostra nazione, ma fummo attaccati dai Servizi Segreti russi, che
più che alle persone che dovevamo proteggere, puntavano a noi. Sapevano che
eravamo le armi segrete della nostra nazione, erano a conoscenza dei nostri
poteri. Ci tesero un’imboscata. Tre dei nostri morirono quel giorno, tra cui
Callie. Ricordo ancora la scena come se fosse ieri: lei era distesa a terra,
aveva perso i sensi; io ero poco distante da lei, con una gamba rotta e senza
armi. Vidi un uomo puntare una pistola contro di lei e cercai di fermarlo con
l’unica arma che avevo. Ma era troppo tardi: quando quell’uomo soffocò, il
colpo era già partito. Non riuscii a salvarla.»
Aveva
parlato con voce fredda e controllata, ma guardandolo negli occhi si riusciva a
vedere tutto il dolore che cercava di nascondere. «Tu l’amavi, non è vero?»
Alex
annuì. «Johanna non approvava. Diceva che in un mestiere come il nostro,
innamorarsi di un compagno di squadra può essere la nostra rovina. Non aveva
tutti i torti, ma io non potevo farci nulla, lei era l’unica. Forse potrai non
capirmi o non condividere la mia opinione, ma io non mi pento di aver provato a
salvarla. Per lei avrei attraversato l’inferno senza pensarci due volte.»
Deglutii
rendendomi conto che probabilmente quello che stava dicendo si sarebbe
avverato. «Lo capisco», dissi. «Sì, anche io lo avrei fatto», conclusi pensando
a Ryan.
Quando
ami qualcuno, non c’è molto che non faresti per lui. E l’inferno non fa per
niente paura se confrontato con l’ipotesi della sua assenza.
Alex mi
accompagnò al Livello 1 e mi mostrò dove procurarmi i pugnali d’argento,
dopodiché lo salutai e mi diressi verso la mia stanza.
Dopo
una doccia veloce, mi stesi sul letto con le braccia spalancate e presi a
fissare attentamente il soffitto.
Avevo
la giornata libera, ma non sapevo come impiegare il mio tempo.
Non
avevo fame, così non andai a pranzo e mi dedicai alla lettura del libro che
avevo preso in biblioteca molto tempo prima, ma che non avevo mai iniziato a
leggere.
L’opera
narrava il viaggio dello scrittore, Dante, attraverso l’Inferno. Il libro era
caratterizzato da alcune note a piè pagina che riportavano alcuni passi
importanti in italiano e ne fornivano la spiegazione. Dopo le prime pagine,
iniziai ad appassionarmi seriamente alla storia, tanto che lottai fino allo
stremo contro la stanchezza e cedetti solo alla fine del quarto canto.
Futeki
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Capitolo 14 *** Amor ch’a nullo amato amar perdona ***
TREDICI
Amor ch’a
nullo amato amar perdona
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
(Dante Alighieri)
Mi
svegliai quando qualcuno bussò alla porta della mia camera. Era Sam. Ricordai
di non aver chiuso a chiave la porta della stanza e con la voce ancora
impastata dal sonno gli dissi di entrare.
Quando
mi vide seduta a gambe incrociate sul letto, tutta infreddolita e con l’aria
scompigliata di chi si è appena svegliato, scoppiò a ridere.
«Mi ero
addormentata», spiegai stiracchiando le braccia.
«Hai
fame? Non sei venuta a pranzo», osservò.
Mi
concentrai sul mio stomaco per verificare se mi fosse venuta fame, ma dopo
un'attenta analisi scossi la testa.
Sam mi
sorrise e si sedette sul letto accanto a me. «È stata una giornata
impegnativa», disse. Concordai. «Come ti senti?»
«Frastornata»,
risposi. «Ma credo sia dovuto al pisolino pomeridiano.»
«Bene.»
A quel
punto, mi resi conto che probabilmente credeva che fossi scossa a causa di quello
che era successo nel simulatore. Non mi aveva visto a pranzo e doveva aver
pensato che fossi un po' giù di morale. «Grazie per essere venuto», dissi
improvvisamente.
Lui
sorrise. «Lo stai leggendo», disse notando il libro sul mio letto.
«Sì, mi
piace.»
«Anche
a me è piaciuto molto. L'ho letto qualche mese fa, quando voialtri non eravate
ancora arrivati all'Operon. È interessante. Alcuni personaggi hanno storie
davvero particolari», disse.
«Per
esempio?», chiesi.
«Per
esempio Paolo e Francesca, due innamorati condannati alla dannazione nel girone
dei lussuriosi.»
«Che
canto è?»
«Quinto.»
«Io
sono al quarto. Mi hai decisamente incuriosita.»
«Amor,
ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come
vedi, ancor non m'abbandona», citò in italiano. Non capii neanche una
parola.
«Che
significa?», chiesi.
«Lo
scoprirai da sola», rispose sorridendo. «Hai
programmi per il pomeriggio?»
«No.
Proposte?»
«Cassidy
suggeriva di uscire a farci un giro. Ti va?», propose.
Annuii.
«Allora
ci vediamo più tardi, vado a farmi una doccia», disse alzandosi dal mio letto.
«Va
bene, a dopo.»
Uscì
dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Mi ritrovai di nuovo sola e
pensai per un istante che avrei preferito che Sam restasse con me.
Negli
ultimi mesi io e Sam avevamo legato molto. Trascorrevamo molto tempo insieme,
soprattutto perché eravamo partner – così ci aveva definito Johanna – in
ogni missione, quindi ci allenavamo spesso insieme.
Inoltre,
fino ad oggi Sam era stato l’unico a conoscenza del mio segreto. Nonostante
detestassi ammetterlo, mi ero particolarmente affezionata a lui.
Ripresi
a leggere il mio libro. Arrivai finalmente alla storia dei due innamorati,
Paolo e Francesca. I due, erano stati cognati in vita, poiché Francesca era
sposata con Gianciotto, fratello di Paolo. Francesca spiega a Dante come la
loro relazione aveva avuto inizio: leggendo un libro che narrava l'amore tra
Lancillotto e Ginevra, i due furono travolti da un’improvvisa passione che li
portò a baciarsi. Fu proprio il loro amore che li condusse entrambi alla morte
per mano del marito di Francesca.
Sebbene
la storia fosse molto triste, l’enfasi con cui Francesca raccontava del suo
amore proibito mi commosse.
Amor
ch’a nullo amato amar perdona.
Trovai
una nota a piè pagina che spiegava come, in questo passo, il poeta intendesse
dire che questo amore obbliga chi è amato ad amare a sua volta.
Riflettei
sul significato della frase; era una visione molto ottimistica della realtà:
dal punto di vista di chi ama, significherebbe avere la certezza di essere
amati in cambio.
Chiusi
il libro di scatto quando mi resi conto che mi stava spingendo verso
riflessioni che non volevo davvero fare.
Non
avevo mai pensato troppo all’amore. Ne avevo letto parecchio nei libri, ma
l’avevo sempre considerato un concetto astratto e ben lontano da me. Per di
più, l’unica volta che avevo provato a uscire con un ragazzo (su suggerimento
di Jordan) le cose erano andate decisamente male.
Per
ammazzare il tempo, feci un’altra doccia e mi costrinsi a lottare contro i miei
ricci ribelli.
♦
Quella
sera, a Seattle faceva davvero freddo. Abituati alle miti temperature della
base dell’Operon, il gelo della città ci colse di sorpresa. Eravamo sotto
Natale, quindi le strade erano addobbate con ogni sorta di lucine colorate. Il
clima festivo ci mise immediatamente di buon umore. Vagammo per le strade
affollate per un bel po’, finché non ci ritrovammo distesi sull’erba di quello
stesso parco in cui due mesi prima avevamo trascorso il pomeriggio a parlare
delle nostre paure.
Da
allora erano cambiate molte cose. Adesso ci conoscevamo molto meglio, non
eravamo più reclute di una stessa squadra, ma una vera e propria famiglia. Mi
guardai intorno e mi resi conto di aver trovato qualcosa di veramente
meraviglioso: un gruppo di cui facevo davvero parte. Tin e Jordan erano i miei
migliori amici, ma nonostante provassi per loro un profondo affetto, non mi ero
mai sentita veramente a mio agio a New York. Io e mia madre ci eravamo
trasferite lì per sfuggire ai ricordi di Ryan che riempivano la nostra vecchia
casa a Stonington, nel Connecticut, ma ricominciare daccapo era stato davvero
difficile. Io, d’altra parte, non ero mai stata brava a farmi degli amici.
Mentre
facevo queste riflessioni guardando il cielo notturno privo di stelle, iniziò a
nevicare. Mi misi a sedere sull’erba fredda e guardai i miei amici. Sorrisi.
Una
mano calda sfiorò la mia guancia fredda e mi fece sobbalzare. Mi voltai e vidi
Sam con la mano aperta davanti a me, intento a mostrarmi qualcosa. Un piccolo
fiocco di neve si stava sciogliendo sul suo dito.
«Forse
dovremmo andare». Lo disse sottovoce, ma gli altri lo sentirono comunque e
furono d’accordo. Sam si mise in piedi e mi porse una mano per aiutarmi ad
alzarmi. La afferrai e notai quanto fosse calda nonostante le basse
temperature. Forse lui era così: aveva sempre un po’ di calore in sé,
abbastanza da darne agli altri anche quando faceva freddo.
Rientrammo
alla base passando per un ingresso occultato in un piccolo negozio
d’abbigliamento. Mentre gli altri si dirigevano verso le proprie stanze,
annunciai che io sarei salita al Piano 1 per telefonare a mia madre.
Le
raccontai le ultime novità, compresa la simulazione, ma non le spiegai nulla
riguardo ai cani fantasma. Dopo mezz’ora di conversazione, riagganciai e
chiamai Tin. Le dissi che mi mancava e le parlai un po’ dei miei amici.
«Non
dimenticarti di me!», disse lei ironizzando, ma con una punta di reale gelosia
nella voce.
«Certo
che no, sta’ tranquilla.»
«Kaitlyn,
devo dirti una cosa importante.»
«Dimmi»,
dissi preoccupata.
«Io e
Jordan... ecco, noi... stiamo insieme.»
«COSA?!»
«Non
sei d'accordo? So che può sembrare strano, ma negli ultimi tempi sono cambiate
tante cose. Tu non c'eri e noi abbiamo iniziato a uscire da soli e il nostro
rapporto ha iniziato a evolversi...»
«Frena
un attimo, Tin! Va bene! Va più che bene! Sono solo... sorpresa, ecco. Non me
l'aspettavo.» Non era propriamente vero: ricordai che la prima volta che li
avevo visti insieme avevo pensato che fossero fidanzati. Ma con il passare del
tempo mi ero abituata all'idea che fossero soltanto buoni amici e la notizia
che la mia migliore amica mi aveva appena dato mi aveva colto alla sprovvista.
«Davvero
va bene?»
«Certo!
Se siete felici non può che farmi piacere.»
«Sono
contenta che approvi», disse Tin, «Ne avevo davvero bisogno.»
Non
riuscii a capire perché Tin tenesse tanto alla mia approvazione, ma immaginai
di trovarmi nella sua situazione: anche io mi sarei comportata come lei. «Siete
due persone meravigliose», dissi, «e io non potrei essere più contenta.»
Mi
raccontò della prima volta che si erano baciati e di quando erano andati
insieme a una festa di compleanno, proprio come coppia. La mia amica sembrava
davvero felice, quindi la lasciai parlare il più possibile, aggiungendo solo
qualche commento entusiasta al momento giusto.
«Tu,
invece? Hai conosciuto qualche ragazzo interessante?», chiese improvvisamente.
Ero del
tutto impreparata a rispondere a quel tipo di domanda. «Io? Ma no, che dici!»
«Ma sì,
dai! Per esempio quel ragazzo con cui hai parecchie lezioni, il tuo compagno di
laboratorio… com’è che si chiamava? Sean?»
«Sam.»
Per Tin, lui era il mio compagno di laboratorio e frequentavamo insieme molti
corsi.
«Proprio
lui! Me ne parli poco, ma quando lo fai hai sempre un tono di voce particolare.»
«È una
tua impressione», protestai. Nel frattempo, mi accorsi che Alex era arrivato
sul balcone dove stavo chiacchierando con la mia amica.
«Johanna
vi vuole tutti riuniti al Livello 2 tra dieci minuti», mi disse bisbigliando.
Annuii.
«…e poi
non me la racconti giusta. Degli altri mi hai raccontato i più insignificanti
dettagli, ma di lui… niente!», continuava a dire Tin.
«Tin,
adesso devo proprio andare. Ti richiamo appena posso.»
«Non
credere di poterla scampare così. Ne riparleremo.»
«Certo»,
sospirai. «Buonanotte.»
«Buonanotte
Kaitlyn. Ti voglio bene.»
«Anch’io
te ne voglio.» Riagganciai.
Dieci
minuti dopo, ero al Livello 2 insieme agli altri. C’erano anche Spike, Colton,
Leslie e tutti i membri della Generazione Gamma. Johanna ci aveva riuniti lì
perché aveva un importante annuncio da fare.
«Ben
presto, voi ragazzi della Generazione Beta, affronterete la vostra prima
missione», disse entusiasta. Noi ci guardammo a vicenda, un po’ preoccupati ma
allo stesso tempo eccitati dall’opportunità di poter finalmente scendere in
campo dopo tanto addestramento.
«Si
tratta di una missione di protezione a basso rischio: dovrete accompagnare un
uomo per noi molto importante a un party ed evitare che gli accada qualcosa di
spiacevole. Parteciperete alla missione voi sette, i più giovani, dato che i
rischi che qualcosa vada storto sono molto bassi e vi ritengo comunque
sufficientemente preparati ad affrontare la vostra prima missione.»
Sorrisi
a quell’affermazione. Eravamo più che pronti.
«Il 23
dicembre, si svolgerà un meeting riservato a tema scientifico a San Francisco.
In un locale privato si terrà un party d’intrattenimento per tutti gli ospiti.
Un paio d’ore dopo l’inizio del party, i partecipanti invitati al meeting si
ritireranno in una stanza al piano superiore del locale. Uno degli invitati è
il professor Yates e il vostro compito è quello di scortarlo al meeting.»
«Chi è
il professor Yates?», chiese Jessica anticipandoci tutti.
«È lo
scienziato dell’Operon che si occupa dello studio degli albi, i fiori da cui si
ricava il polline che costituisce la sostanza fondamentale per provocare le
vostre mutazioni genetiche», rispose Johanna.
«I
nostri poteri», dedusse Kevin.
Johanna
annuì. «Yates è il più grande esperto nel suo settore ed è una risorsa preziosa
non solo per noi, ma anche per una divisione russa di spionaggio che è a
conoscenza dei nostri esperimenti genetici e da anni cerca di appropriarsene.
In teoria, il meeting, in quanto riservato, dovrebbe essere sicuro e non
dovreste avere problemi. Ma in caso contrario dovrete essere pronti a
intervenire.»
Annuimmo
tutti.
«Quando
si parte?», disse entusiasta Tom.
«Domani»,
disse Sam. «Il 23 dicembre è domani.»
«Già.
Perciò andate a dormire adesso, domani sarà una lunga giornata!», disse
Johanna.
Ci
voltammo e uscimmo dalla stanza chiudendoci la porta alle spalle. Cercai Sam
con lo sguardo per chiedergli qualche dettaglio in più su missioni di questo
genere, ma lui mi anticipò posandomi un dito sulle labbra e facendomi segno di
tacere. Nel frattempo, i nostri amici ci avevano già distanziato un bel po’.
Attraverso la porta da cui eravamo appena usciti, si sentivano delle voci.
«Johanna,
io non credo che sia il caso.» Era Alex.
«Smettila
di protestare e da’ loro un po’ di fiducia», replicò Johanna.
«Questa
missione è un’incognita. Certo, non avranno problemi se davvero la notizia del
meeting non è trapelata, ma tu stai dando per scontato che non accadrà nulla.
Se davvero dovessero presentarsi degli agenti russi sul posto, cosa credi che
potranno fare sette ragazzi alle prime armi?». Era sinceramente preoccupato.
«Non
accadrà nulla», replicò lei. «Non è neanche poi così lontano. I ragazzi se la
caveranno da soli per una notte.»
«Stai
cambiando discorso.»
«Master,
quello che dice Alex non è del tutto sbagliato», intervenne un’altra voce. Era
Luke. «Se davvero gli agenti russi cercassero di rapire il professore, i
ragazzi non riuscirebbero a proteggerlo a dovere.»
«Ma
questo non succederà, perché la notizia del meeting è rimasta segreta», replicò
lei con una grande convinzione.
«E per
quanto riguarda la talpa?», disse Alex.
Ci fu
qualche attimo di silenzio. «La stiamo cercando», disse poi Leslie, «ma finora
abbiamo ottenuto scarsi risultati.»
«Pensi
che non siamo al sicuro?», disse Johanna. Le sue convinzioni iniziavano a
vacillare.
«È un
dato di fatto.»
«Alex,
se davvero credi che i ragazzi possano essere in pericolo, allora non posso
lasciarli andare. Sono io che prendo le decisioni in questo posto, ma ho sempre
accettato di buon grado ogni tipo di consiglio e senza la tua fiducia non me la
sento di mandarli in missione da soli. Però voi della Generazione Gamma siete
impegnati in un’altra missione domani sera e Yates non accetterà mai di
rinunciare al meeting. Che dovrei fare, secondo te?»
«Legarlo
al letto mi sembra una buona soluzione.»
«Alex,
dico sul serio.»
«Non lo
so, Johanna. Ma non puoi mandare quei ragazzi allo sbaraglio.»
«Andrò
anch’io con loro», intervenne Spike. «Posso coordinare l’operazione da lì,
anziché dalla base. Leslie prenderà il mio posto qui.»
«Mi
sembra una proposta ragionevole», acconsentì Johanna.
«Vado
anch’io», disse un’altra voce. «Potrei guidare io l’elicottero, ho il
brevetto.»
«Per me
va più che bene», acconsentì Johanna. «Allora Colton guiderà l’elicottero e
Spike dirigerà le operazioni sul posto. Leslie invece resterà alla base. Per
quanto riguarda la vostra missione», disse rivolgendosi probabilmente a Luke e
Alex, «dovremmo trovare un altro tecnico che coordini le operazioni dalla
base.»
«Perfetto»,
disse Alex.
«Sei
più tranquillo?», gli chiese Johanna.
Non
udimmo risposta, forse Alex aveva semplicemente annuito, oppure, più
probabilmente, non aveva risposto affatto. Sentimmo dei passi avvicinarsi alla
porta e Sam mi trascinò via prima che qualcuno potesse uscire da quella stanza
e beccarci a origliare.
«Pensi
davvero che ci sia un traditore all’Operon?», chiesi a Sam quando fummo
abbastanza lontani.
«Sì»,
rispose lui. «Li hai sentiti anche tu. Cercano una talpa. E Alex a quanto pare
è parecchio preoccupato a riguardo», aggiunse pensieroso.
Non
sapevo cos’altro dire. Che ci fosse davvero una talpa all’interno della base
poteva essere un grande rischio per noi, ma non vedevo cosa potessimo fare noi
dalla nostra impotente posizione di neo-agenti.
«È
inutile rimuginarci troppo», disse Sam come se mi avesse letto nel pensiero.
«Andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata.»
Mi
lasciò davanti alla mia stanza e mi salutò con un bacio sulla guancia.
«Buonanotte Kaitlyn», disse. Io arrossii.
«Buonanotte»,
dissi poi mentre si allontanava, lieta che il buio avesse celato il mio
imbarazzo.
N.d.A.:
Il
titolo del capitolo è, ovviamente, un riferimento allo stesso passo dell’Inferno
di Dante citato dai personaggi. Inoltre, per una piacevole coincidenza, mi
trovo a pubblicare questo capitolo carico di atmosfera natalizia proprio sotto
Natale, per cui colgo l’occasione per augurare a tutti buone feste!
Futeki
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Capitolo 15 *** Meeting ***
QUATTORDICI
Meeting
Il primo bacio è un furto.
(Ramón Gómez de la Serna)
«Stai
scherzando? Io quei cosi non li metto.»
Ero
perfettamente consapevole che agli occhi di Madame Korinne dovevo sembrare una
bambina capricciosa, ma le scarpe che mi aveva proposto erano decisamente
troppo alte per me.
«Ma Mademoiselle!
Sarà una festa di lusso, devi presentarti in modo adeguato per non dare
nell'occhio!», replicò la stilista con il suo forte accento francese.
«Darò
sicuramente nell'occhio se inciampo in mezzo alla sala», dissi acida. «E poi
sono in missione, devo essere pronta a qualunque cosa e quelle scarpe mi
impedirebbero di correre.»
Dopo
una lunga riunione per discutere dei dettagli della missione, Johanna aveva
accompagnato me, Cassidy, Tom e Sam al Piano 3, che in realtà consisteva in
un'enorme boutique piena di vestiti di ogni genere. La stilista, Madame
Korinne, era una donna sulla quarantina, di origini francesi e si occupava
dell'abbigliamento degli agenti.
Quattro
di noi, a coppie, avrebbero partecipato al party sotto copertura, mentre gli
altri tre avrebbero controllato l'esterno. Io e Sam eravamo la prima coppia,
Cassidy e Tom l'altra.
Madame
Korinne si era divertita moltissimo a far provare a Cassidy decine di vestiti,
finché non ne aveva scelto uno verde smeraldo che le donava moltissimo. Aveva
completato l'abbigliamento con un paio di scarpe della stessa tonalità di verde
e gioielli in oro che richiamavano il colore dei capelli di Cass. Era
splendida.
Mentre
Madame Korinne si adoperava per trovare il vestito perfetto per Cass, io ero
rimasta seduta in disparte a guardarle divertirsi, ma finito con lei, decise
di dedicarsi a me.
Io
però, non ero altrettanto semplice da gestire. Avevo provato almeno una dozzina
di vestiti, ma mi sembravano tutti troppo scollati o troppo corti o troppo...
non da me. Alla fine avevo optato per un vestito blu scuro che mi sembrava
abbastanza adatto. Era molto semplice, senza spalline e non esageratamente
corto. Le scarpe abbinate, però, erano decisamente troppo alte per me.
«Niente
proteste, Mademoiselle. Metterai queste scarpe, j'ai décidé»,
decretò Madame Korinne.
Prima
che potessi protestare, nella stanza entrò Sam. Indossava dei semplici jeans e
una camicia nera molto elegante, che gli conferiva un'aria decisamente sexy.
Approfittai
del suo arrivo per distogliere l'attenzione da me: «Siamo pronti?», gli chiesi.
Lui
annuì sorridendo. Sembrava particolarmente allegro. «Sì, stiamo per partire.»
Per
lui, come per noi, si trattava della sua prima missione, ma Sam, a differenza
di noialtri, aveva atteso molto più a lungo prima di poter scendere in campo.
Era logico che fosse emozionato.
«Très
bien, allora sbrigati a indossare le tue scarpe, Mademoiselle»,
intervenne Madame Korinne. Era impossibile averla vinta con lei.
♦
Sull’elicottero eravamo in undici. Oltre a noi sette,
c’erano Colton, alla guida del velivolo, Spike, impegnato a ticchettare sulla
tastiera di un computer portatile, Trevor, un tecnico che ci accompagnava
nell’operazione, e il professor Yates. Il professore, che non aveva detto
neanche una parola durante il viaggio, mi era sembrato una persona scostante e
burbera, ma in un secondo momento mi resi conto che era semplicemente assorto
nei suoi pensieri. In realtà, dal sorriso enorme che mi rivolse quando gli
raccolsi da terra una penna che gli era caduta, dedussi che doveva essere
davvero una persona gentile. «Grazie mille, signorina», mi aveva detto.
Trascorsi gran parte del viaggio a riflettere su
ciò che avrei dovuto fare quella sera. La missione era semplice, sarebbe filato
tutto liscio, ma non ero comunque tranquilla.
Nonostante le scarpe decisamente poco pratiche,
nel vestito mi sentivo perfettamente a mio agio. Per la prima volta da quando
Ryan se n'era andato, mi sentivo davvero bella. Lui me lo diceva sempre: "Sei
bellissima, Kait, non dubitarne mai". Non mi interessava se fosse la
verità o meno, ma sentirglielo dire mi riempiva di gioia, ed ero così raggiante
che qualunque ragazza sarebbe stata bellissima con un sorriso del genere
costantemente stampato sul viso.
Sam mi distolse dai miei pensieri su Ryan
dandomi un colpetto sulla spalla. Fece un cenno con il mento in direzione del
finestrino, invitandomi a guardare fuori. San Francisco di notte era davvero
spettacolare e vederla dall'alto la rendeva ancor più mozzafiato.
«Ci siamo», disse Colton con una punta di entusiasmo nella
voce. «Arrivo a San Francisco registrato per le ore ventuno e diciannove»,
disse con voce chiara, rivolgendosi a un tecnico della base, parlando
attraverso il microfono collegato alle cuffie che indossava dall'inizio del
viaggio.
«Siamo pronti all'atterraggio. Via libera per la pista?»,
domandò, probabilmente a Leslie.
Dopo aver ottenuto il permesso di atterrare, Colton guidò
l'elicottero verso un palazzo altissimo, dotato di pista d'atterraggio sul
terrazzo. La discesa fu lenta e tranquilla e alla fine atterrammo morbidamente
sul soffitto del palazzo.
Kevin, Robb e Jessica scesero per primi insieme a Trevor,
Colton rimase seduto alla guida dell'elicottero. Neanche Spike si mosse. Fece
cenno a me, Sam, Tom e Cass di scendere, poi riportò la sua attenzione sul
computer che aveva sulle ginocchia. Rimanemmo tutti a fissarlo per qualche
secondo, finché lui non alzò la testa e si rivolse a noi con espressione
compiaciuta. «Siete dentro», disse sorridendo. «Per entrare serve un documento
di identità e che il vostro nome compaia sulla lista degli invitati», spiegò.
«Questi sono i vostri documenti», disse porgendo a ognuno di noi un documento
di identità falso, «e per quanto riguarda la lista, ci ho pensato io: ho
inserito i vostri nomi falsi all'interno dell'elenco degli invitati.»
Sorrisi tranquilla: Spike era davvero il migliore nel suo
campo.
Memorizzammo i nostri nuovi nomi e ci avviammo giù per il
palazzo, scendendo per la scala antincendio. Il party si teneva nel palazzo
accanto. All'ingresso, due uomini vestiti completamente di nero controllavano
su un dispositivo elettronico la lista degli invitati man mano che questi
ultimi entravano nel locale.
Quando arrivò il nostro turno, Sam disse sia il suo nome che
il mio, lasciandomi solo il compito di mostrare il mio documento. Gliene fui
grata, considerando che sicuramente la mia voce non sarebbe stata ferma e
sicura come lo era stata la sua.
Una volta dentro mi tranquillizzai. Era filato tutto liscio
e in mezzo alla folla non avremmo sicuramente dato nell'occhio. La sala era
enorme e consisteva in un ampio spazio centrale (la pista da ballo,
probabilmente) e tanti lunghissimi tavoli da rinfresco addossati alle pareti.
In un angolo, c'erano alcune poltrone e dei divani, sui quali stavano seduti
alcuni uomini che chiacchieravano animatamente fumando sigari, il cui odore
pungente arrivava fino a me.
Dopo qualche minuto vidi entrare il professore nella sala,
seguito da Cass e Tom. Non ci avvicinammo a loro, né facemmo alcunché che
potesse rivelare che ci conoscessimo. Era fondamentale fingere di non avere
nulla a che fare con il professore.
«Posso portarti qualcosa da bere?», disse Sam. Mi resi conto
che stavo fissando troppo insistentemente il professore e anche il mio partner
probabilmente se n'era accorto.
«Certo», dissi noncurante. Sam mi sorrise e si allontanò. Mi
pentii di aver acconsentito, visto che ora mi trovavo sola al centro di una
sala piena di sconosciuti. La gente intorno a me chiacchierava, si salutava,
rideva, mentre qualcuno, probabilmente del personale addetto, armeggiava vicino
a un enorme impianto stereo. Mi guardai più attentamente intorno, cercando di
individuare gli scienziati che avrebbero preso parte al meeting. Se non avessi
visto già i loro volti sullo schermo della sala operativa quella stessa
mattina, non sarei mai riuscita a riconoscerli. Il professore stava conversando
allegramente con un altro scienziato e in quel momento mi resi conto che per la
prima volta da quando l'avevo incontrato, non aveva la testa fra le nuvole. In
quel momento arrivò Sam, che mi distolse dai miei pensieri sul professore.
«Champagne», disse sollevando uno dei bicchieri che aveva in
mano. «Purtroppo è una festa di lusso, quindi niente coca-cola», disse
sorridendo.
«Meglio così», sorrisi anch'io.
Sorseggiai il mio champagne cercando di iniziare una
conversazione con Sam, per non dare troppo nell'occhio stando in silenzio fermi
al centro della sala.
«Stasera sei davvero elegante», dissi con poca fantasia. «Il
nero ti dona particolarmente.» Era vero: il nero richiamava il colore profondo
dei suoi occhi, rendendoli ancora più impenetrabili. Mi sforzai ancora di
distinguere l'iride dalla pupilla, ma senza successo.
«Grazie», rispose lui, «ma sono io a dovermi complimentare
con te. Sei splendida.»
Lo disse con talmente tanta naturalezza che arrossii. In
quel momento bruciai dal desiderio di sapere cosa pensasse di me in realtà.
«Vado a prendere altro champagne», dissi rapidamente, poi
gli diedi le spalle e sparii tra la folla cercando di dissimulare il mio
imbarazzo.
Una volta giunta al tavolo dove erano servite le bibite, mi
soffermai per un istante ad ammirare l'enorme quantità di liquidi diversi che
c'erano su quel lungo tavolo. Nonostante la grande varietà di bibite, l'odore
che proveniva da quel tavolo era dolce e inebriante.
«Posso offrirti da bere?», mi chiese una voce alle mie
spalle. Mi voltai lentamente e mi trovai faccia a faccia con un uomo sulla
trentina, alto e molto curato nell'aspetto. Se avessi rifiutato la sua offerta
sarebbe potuto sembrare sospetto: che altro può fare una ragazza a una festa
del genere se non bere e parlare con la gente che incontra?
«Volentieri», risposi con il sorriso più sincero che
riuscissi a ottenere.
L'uomo sorrise. Si avvicinò al tavolo e iniziò a versare
qualcosa in un bicchiere vuoto. «Tutte le bibite servite stasera sono di ottima
qualità, ma nessuna batte questo meraviglioso champagne.»
«Grazie», dissi prendendo il bicchiere che mi stava
porgendo. Ne riempì uno anche per sé, poi lo avvicinò al mio per farli
tintinnare in un silenzioso brindisi.
«Come ti chiami?», mi chiese.
«Clara», dissi utilizzando l'identità di copertura.
«Io sono Mike», disse lui. «Quanti anni hai?»
Iniziava a fare troppe domande. «Ventuno», mentii ancora.
Bevvi una generosa sorsata di champagne. Era lo stesso che mi aveva preso Sam.
Lui non mi disse la sua età. «E sei qui con qualcuno?»
«Sì», risposi cogliendo l'opportunità.«Anzi, probabilmente
mi starà aspettando. Farei meglio ad andare», dissi rapidamente. «Grazie
ancora», aggiunsi sollevando il bicchiere.
Senza aspettare una risposta, mi voltai e sparii tra la
folla. Mi resi conto che la cosa migliore da fare sarebbe stata tornare da Sam
il prima possibile, considerando che avevamo l'ordine di non separarci mai.
Presi al volo altri due bicchieri di champagne e quando finalmente ritrovai il
mio partner, gli dissi che avevo trovato folla al tavolo delle bibite, senza
raccontargli di Mike.
«Non andartene più», mi disse, «restiamo uniti.»
Annuii. Guardai l'orologio: le dieci e cinquantasei. «Tra
poco si riuniranno per il meeting», dissi.
«Dovremmo cercarlo», disse lui. «Teniamolo d'occhio fino a
che non sarà entrato nella sala al piano di sopra.»
Individuammo il professore tra la folla e lo seguimmo
tenendoci a distanza. Nel frattempo, bevvi il mio bicchiere di champagne e
anche quello di Sam, che aveva detto di non volerne più.
«Non starai esagerando?», mi chiese perplesso. Non sapeva
che avevo bevuto anche il bicchiere che mi aveva offerto Mike. «No», risposi
tranquilla.
«Bere senza ubriacarti fa parte dei tuoi poteri?», disse
prendendomi in giro.
In risposta, gli feci una linguaccia, mostrando la maturità
di una bimba di sei anni. Sam scoppiò a ridere.
«Guarda, stanno uscendo», disse poi indicando una porta da
cui stavano uscendo il professore e gli altri scienziati e ricercatori invitati
al party. Per la prima volta dall'inizio della festa, vidi Cassidy e Tom. Erano
non troppo lontani dal professore e si tenevano per mano.
«Tutto in ordine», disse. Sembrava parlasse con me, ma io
sapevo che in realtà aveva acceso il microfono in dotazione all'auricolare che
portava sull'orecchio destro, nascosto tra i capelli. «Procedete alla seconda
parte.»
La seconda parte del piano, prevedeva che Jessica, Kevin e
Robb, che fino a quel momento erano stati in tutte le stanze del piano
superiore a piazzare microfoni e videocamere, uscissero fuori e controllassero
il perimetro. A quel punto, tenere d'occhio il professore era compito di
Trevor, che aspettava fuori al locale con un computer collegato a quelle stesse
microspie. Anche Spike dall'elicottero stava monitorando la situazione. A quel
punto, a me e Sam non restava altro da fare che aspettare.
«Vuoi ballare?», propose Sam con un enorme sorriso. Mi resi
conto che la musica era diventata quasi assordante e le persone intorno a noi
avevano iniziato a ballare.
Io non volevo, ma come potevo rifiutare? «Certo.»
Mi avvicinò delicatamente a sé, poggiando le mani sui miei
fianchi; io gli cinsi il collo con le braccia.
In quel momento mi resi conto di quello che stavo facendo e
avvampai. «Lasciamo perdere», dissi staccandomi da lui.
«Perché? Dai, ci divertiamo! È un'occasione più unica che
rara», mi disse tenendomi per un braccio. Le guance mi bruciavano e mi girava
un po' la testa. Avrei preferito uscire all'aria aperta, ma come potevo non
cogliere l'opportunità di ballare con lui?
Un'occasione più unica che rara, aveva
detto Sam. Lui si riferiva alla serata in generale, dove avremmo potuto
divertirci per un po'. Io mi riferivo all'opportunità di stare un po' da sola
con lui.
Lasciai che mi abbracciasse e lo strinsi a mia volta.
Appoggiai la testa sulla sua spalla. Non sentivo la musica, non riuscivo a
distinguere il ritmo a cui si muovevano le persone attorno a me. Tutto ciò che
vedevo e sentivo era Sam. Il suo profumo, il suo calore, i suoi movimenti.
«Sei fortunata che ci sia solo io qui con te», disse lui.
Era verissimo. Mi sentivo fortunata. Per la prima volta da
quando Ryan non c'era più mi sentivo completa, come se l'enorme ferita lasciata
dalla sua scomparsa avesse smesso di pulsare per un po', come se mi avesse
concesso una tregua.
«Se ci fosse stato qualcun altro», aggiunse lui, «saresti
finita nei guai.»
Non capii. Sollevai la testa e lo guardai negli occhi con
aria interrogativa, ma il movimento fu troppo brusco, quindi mi si appannò la
vista.
«Dato che sei ubriaca alla tua prima missione», concluse.
«Io non sono ubriaca», risposi di getto, ma se lo fossi
stata, me ne sarei resa conto? Non credo.
Mi concentrai su me stessa e mi resi conto che stavo sudando
e mi sentivo parecchio confusa. Era colpa dell'alcool oppure era semplicemente
dovuto all'effetto che Sam ha su di me? Lo guardai. Che fossi ubriaca o meno,
non c'era dubbio che per lui provavo più di quanto volessi ammettere.
Lui sorrise. «Sì, sei ubriaca.»
Quando sorrideva in modo così sincero, il sorriso gli si
estendeva agli occhi, dandogli una luce nuova. Il sorriso sfumò lentamente
quando si rese conto che lo stavo osservando. Aveva gli occhi fissi nei miei.
Lo baciai.
In quel momento, un lampo di lucidità mi fece rendere conto
che ero davvero ubriaca. Ma non mi pentii di quel bacio. Lo volevo, lo
desideravo ardentemente. Lui mi scostò delicatamente. Ci misi qualche secondo a
rendermi conto che mi aveva respinto.
«Kaitlyn...», iniziò lui con espressione dispiaciuta, ma io
già non lo ascoltavo. C'erano troppe cose che non riuscivo a vedere con
chiarezza. L'avevo baciato o no? Le mie labbra avevano sfiorato le sue o lui mi
aveva fermato prima che potessi sentire il suo sapore?
Un enorme senso di vuoto mi travolse. Mi salirono le lacrime
agli occhi. Quello che provai fu un misto tra frustrazione, dispiacere e
delusione. Mi vergognai di averci provato, ma ancora non me ne pentii.
«Kaitlyn», ripeté lui con più decisione. Voleva che lo
guardassi negli occhi. Non lo feci.
«Vado a prendere una boccata d'aria», dissi staccandomi da
lui. Sam provò a seguirmi, ma io mi mossi rapidamente nella folla, nonostante
mi sembrasse di cadere ad ogni passo. Quando arrivai fuori, la mia mente aveva
già ripreso a funzionare almeno in parte. Sapevo ciò che era successo, ero in
grado di distinguere i miei pensieri dalla realtà. Feci un profondo respiro. Mi
diedi della stupida per essermi ubriacata durante la mia prima missione.
Sam mi raggiunse fuori. «Stai bene?»
Che domanda stupida. «Sì», mentii.
«Guarda che lo capisco quando mi dici una bugia.»
Lo guardai intensamente. Cosa vuoi che ti dica?,
pensai con tristezza.
Come se mi avesse letto nel pensiero, anche Sam si intristì.
In quel momento, udimmo due spari. L'auricolare di Sam si
attivò e Spike prese a parlare dall'altra parte del microfono con voce talmente
alta che perfino io potevo sentirlo.
«Emergenza al piano uno», decretò Spike. «Due ricercatori
sono stati feriti, abbiamo individuato alcuni agenti russi.»
Mi alzai di scatto e io e Sam tornammo all'interno del
locale di corsa. Molte teste si voltarono verso di noi, ma a quel punto la
discrezione passava in secondo piano.
«Hanno armi da fuoco, sono almeno in cinque», disse Spike
fornendoci dettagli. Sam mi ripeteva le sue istruzioni. Salimmo di corsa al
piano superiore e facemmo irruzione nella sala dove si era tenuta la
conferenza. Quasi tutti gli scienziati erano a terra in stato di incoscienza.
Due di loro perdevano sangue. Il professor Yates non c'era. Dietro di noi
arrivarono Cassidy e Tom.
«Devono essere già usciti», dedusse Tom.
«Sono all'esterno», confermò la voce di Spike attraverso
l'auricolare di Sam. Uscimmo di corsa dall'edificio, io e Cassidy ci togliemmo
le scarpe per essere più libere di correre. Madame Korinne non sarebbe stata
affatto contenta della nostra decisione.
Una volta fuori, individuammo tre SUV neri con i finestrini
oscurati che partivano contemporaneamente dal parcheggio sul retro del palazzo.
«In uno c'è il professore, gli altri due sono diversivi»,
suppose Sam. Incontrammo Jessica, Kevin e Robb, che erano stati attirati
dall'altra parte del parcheggio con una piccola esplosione provocata
probabilmente per distogliere l'attenzione dai SUV.
«Dobbiamo seguirli tutti e tre?», chiese Cassidy.
«Siamo a piedi», le ricordò Sam.
«In realtà abbiamo un elicottero», suggerì Kevin.
«Dobbiamo solo capire qual è il SUV giusto», concluse Robb.
«No», disse Sam, «se anche riuscissimo ad individuare il SUV
in cui tengono il professore non possiamo di certo seguirli. Devono avere un
jet o un elicottero che li aspetta da qualche parte per lasciare questo Stato.»
«Allora dobbiamo muoverci», insisté Tom.
«Ritirata», esclamò la voce di Spike dall'auricolare. Aveva
attivato il vivavoce.
«Cosa?!», esclamarono quattro voci all'unisono. Tom, Cassidy
e i gemelli, non avevano intenzione di abbandonare la missione.
«Mi avete sentito. Ritirata.»
«Non possiamo andarcene così. Dobbiamo salvare il
professore!», protestò Tom.
«No, dovete raggiungere il tetto di questo palazzo e salire
sull'elicottero senza costringermi a venirvi a prendere per le orecchie.»
«Andiamo», concluse Jessica. «È meglio starlo a sentire.»
«No!», protestò Kevin. «Dobbiamo muoverci.»
«Siamo disarmati! E inesperti», fece notare Sam.
«QUI SONO IO CHE COMANDO, QUINDI SALITE IMMEDIATAMENTE SU
QUESTO MALEDETTO ELICOTTERO.» Spike sembrava parecchio arrabbiato.
«Andiamo», ripeté Jessica.
Salimmo
scoraggiati su per le scale antincendio e raggiungemmo l'elicottero. Spike ci
aspettava ticchettando nervosamente sul computer. Colton era già alla guida e
Trevor comunicava la situazione alla base. Appena fummo saliti sull'elicottero,
Spike chiuse rumorosamente il portellone e Colton accese i motori. Durante il
viaggio di ritorno, rimanemmo tutti in silenzio, ognuno assorto nei propri
pensieri. Io non riuscivo a concentrarmi su ciò che era successo al professore,
continuavo a rivedere nella mia mente me che cercavo di baciare Sam e lui che
mi respingeva. Alla fine, stremata dalla stanchezza, dai pensieri opprimenti e
dai residui dell'alcool, cedetti al sonno.
N.d.A.:
Per
quanto riguarda il personaggio di Madame Korinne, ho volutamente scritto in
francese alcune parole dei suoi dialoghi perché nella mia mente appare proprio
così: irrimediabilmente francese. Mentre mademoiselle è la comunissima
traduzione francese per “signorina”, l’espressione j'ai
décidé, molto meno comune, significa “ho deciso”, mentre très
bien si traduce con “molto bene”.
Grazie
a tutti coloro che seguono la storia, in particolare a La
Ragazza Senza_Nome per aver inventato i nomi per le ship tra i
personaggi della mia storia: Samlyn (Kaitlyn+Sam) e Kaitlex (Kaitlyn+Alex).
Futeki
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Capitolo 16 *** Scintille ***
QUINDICI
Scintille
L'amore non è una scintilla effimera,
nata dall'incontro di due desideri,
è una fiamma eterna sprigionata
dalla fusione di due destini.
(Gustave Thibon)
Alla
base regnava il caos. Johanna correva da una parte all'altra della sala operativa
dando ordini e istruzioni, Leslie lavorava contemporaneamente su tre computer.
Tutti si muovevano in modo frenetico, come se non ci fosse un secondo da
perdere. Alex e gli altri non c'erano, probabilmente erano ancora in missione.
Un tecnico di cui non conoscevo il nome ci fece alcune domande per ottenere
qualche dettaglio in più: il tipo di SUV, l'ora precisa in cui abbiamo sentito
gli spari, la durata del meeting fino a che l'irruzione da parte dei Russi non
l'aveva interrotto.
Quando tornammo alla sala operativa principale, Spike e
Leslie stavano discutendo.
«Non avete nemmeno provato a seguirli!», protestò Leslie.
«Non abbiamo informazioni sufficienti!»
«Eravamo disarmati! Non potevo metterli in pericolo.»
«Disarmati? Ma stai scherzando? Quei ragazzi hanno
dei poteri impareggiabili! Altrimenti perché avremmo mandato loro anziché
ragazzi qualunque!»
«Non possono usare i loro poteri come armi, Leslie. Non sono
pronti. Nessuno di loro è in grado di ferire un nemico senza correre il rischio
di ucciderlo. E sai cosa succede a chi uccide con quei poteri.» Repressi un
brivido.
«Adesso basta», intervenne Johanna. «Quel che è stato è
stato. Spike aveva indubbiamente buone ragioni per ordinare la ritirata. Adesso
dobbiamo concentrarci sulla prossima mossa: riprenderci il professore.»
«Cosa proponi?», chiese Sam, rivolgendosi a Johanna con
molta più confidenza del solito.
«Un'irruzione nella base nemica.»
«Stai scherzando, spero», protestò Spike.
«Niente affatto. Aspetteremo il rientro degli altri, poi
studieremo un buon piano. Dopodomani notte entreremo nella base russa,
troveremo il professore e lo porteremo via da lì. Non si aspetteranno che
reagiamo così in fretta, saranno impreparati. Noi, al contrario, studieremo
bene il terreno di scontro, analizzando per bene le planimetrie dell'edificio.»
«Quindi noi sappiamo dov'è la base russa?», chiesi un po'
sorpresa.
«Sì, e abbiamo anche le piante dei vari piani.»
«E come abbiamo ottenuto queste informazioni?», chiesi
ancora.
«Avevamo degli infiltrati e ce le siamo procurate qualche
tempo fa», tagliò corto Johanna. «Adesso andate a dormire, domani ci aspetta
una lunga giornata di lavoro.»
Annuimmo e uscimmo dalla sala operativa. Mentre tornavamo
nelle nostre stanze, qualcuno espresse il proprio parere sull'iniziativa presa
da Johanna. Kevin e Robb erano d'accordo a fare irruzione nella base russa.
Cassidy sosteneva che era necessaria una buona preparazione. Jessica non disse
nulla e Sam si limitava ad annuire di tanto in tanto. Tom si avvicinò a me.
«Stai bene?», mi chiese. «Sembri stravolta.»
«Sono solo stanca», lo rassicurai con un sorriso, «è
successo tutto molto in fretta.»
Tom annuì. «È stata una serata impegnativa.»
Mi pentii immediatamente di avergli mentito. Qualche tempo
prima, gli avevo promesso che gli avrei sempre detto la verità. Lui c'era
sempre stato per me, era davvero un ottimo amico. Ma non mi andava di dirgli la
verità.
«Comunque sappi che per qualsiasi cosa puoi parlare con me.
Io ti ascolterò sempre quando ne avrai bisogno», disse. Sapeva che non gli
avevo detto la verità, ma non mi stava forzando a parlare.
«Grazie Tom», gli dissi sinceramente riconoscente,
«davvero.»
«Ragazzi, dobbiamo parlare.» La voce di Sam fece voltare
tutti verso di lui. «Ci vediamo nella mia stanza tra un'ora.» Tutti annuirono.
Cercai di immaginare di cosa volesse parlare, ma non ci
riuscii. Mi avviai verso la mia stanza, ma Sam mi bloccò tirandomi per un
braccio.
«Sei arrabbiata?», mi chiese.
Mi sorprese. Mi resi conto che forse potevo avergli dato
quell'impressione, ma in realtà non ero arrabbiata con lui. Ce l'avevo con me
stessa. Scossi la testa.
«Mi dispiace», continuò, «so di averti ferito, ma non potevo
lasciartelo fare. Eri ubriaca, avresti potuto pentirtene.»
«Adesso mi stai facendo arrabbiare», dissi con voce fredda.
«Assumiti le tue responsabilità. Se non vuoi va bene, lo posso capire, ma sarà
una tua scelta, non qualcosa che dipende da me. Io so cosa voglio.»
«Kaitlyn...», iniziò.
«Non provare a negare, Sam!», gli impedii di proseguire. «Mi
sbaglio? Provalo. Baciami adesso.»
Sam restò interdetto. Non disse nulla, non si mosse. «Ci
vediamo tra un'ora nella tua stanza», dissi. Poi entrai in camera mia e mi
chiusi la porta alle spalle.
Una volta dentro, avvertii la solita sensazione che provavo
quando gli occhi mi diventavano rossi e per un istante la mia vista si
amplificò. Poi chiusi gli occhi e feci un profondo respiro.
Una parte di me, avrebbe voluto che mi baciasse e mi
dimostrasse che mi stavo sbagliando. Un'altra parte, quella più realista e
dura, sapeva che non mi sbagliavo affatto. Sam non provava per me quello che io
provavo per lui. Era chiaro.
Decisi che avrei smesso di piangermi addosso e mi rifugiai
sotto un rassicurante getto d'acqua gelata. Giocai per un po' con il mio potere
per sfogare l'energia accumulata e impedire che mi tornasse il mal di testa.
Era quasi l'alba e tralasciando il pisolino che avevo fatto sull'elicottero,
non avevo dormito affatto. Esattamente un'ora dopo ero pronta per andare da
Sam. Feci un profondo respiro e uscii dalla stanza. Quando bussai alla porta
della camera di Sam, gli altri erano già tutti dentro. Qualcuno era seduto sul
letto, qualcuno sul pavimento, come quando avevamo fatto il questionario di
storia tutti insieme. Evidentemente, stavano aspettando me per cominciare, poiché
quando entrai io, chiudendomi la porta alle spalle, Sam iniziò a parlare.
«Vi ho fatti venire qui perché ritengo importante che
sappiate che qui all'Operon c'è una talpa», disse andando immediatamente dritto
al punto.
«Una talpa?», chiesero Tom e Cassidy all'unisono.
«Un infiltrato russo», spiegò Sam.
«Johanna lo sa?», chiese Jessica.
«E tu invece come lo sai?», domandò Kevin.
«Sia Johanna che i membri della Generazione Gamma, che
alcuni tecnici lo sanno. Io e Kaitlyn li abbiamo sentiti parlarne ieri sera,
mentre programmavano la missione.»
Tutti si voltarono verso di me.
«Stanotte siamo stati traditi», proseguì Sam. «Erano
soltanto in cinque, quindi dovevano sapere già che a proteggere il professore
c'eravamo solo noi ragazzi inesperti. Le persone che conoscevano i dettagli
della missione, oltre a noi sette, sono poche: Spike, Colton, Trevor, Leslie,
Johanna e i membri della Generazione Gamma. La talpa deve essere uno di loro.»
Tutti si zittirono. Le persone nominate da Sam erano coloro
di cui ci fidavamo di più e che rivestivano posizioni importanti all'interno
dell'Operon. La situazione era piuttosto grave.
«È inutile cercare di capire di chi si tratti, noi non
possiamo fare nulla», concluse Sam. «Ve l'ho detto perché credo sia giusto che
lo sappiate. Non possiamo fidarci di nessuno e su ogni mossa dobbiamo
riflettere attentamente, per non finire in qualche guaio.»
Tutti assentirono.
Restammo per un po' a chiacchierare nella camera di Sam,
poi, sconfitti dal sonno, se ne andarono tutti. Rimasti soli io e Sam, l'aria
si caricò di un pesante imbarazzo.
«È meglio che vada», dissi alzandomi dal letto. Misi una
mano sulla maniglia, ma alle mie spalle Sam allungò un braccio e tenne chiusa
la porta. Rimasi bloccata tra la porta e Sam.
«Aspetta», disse. Mi voltai verso di lui.
Avrei voluto dire qualcosa, chiedergli perché non mi
guardava negli occhi, dirgli che mi dispiaceva, che ce l'avevo con me stessa,
non con lui. Volevo dirgli che avevo il cuore in gola, il respiro accelerato, i
pensieri confusi, che lui mi faceva sentire completa.
Ma non dissi nulla.
Mi baciò.
Per la prima volta, sentii davvero il suo sapore, percepii
la sua presenza in modo completo, lo sentii mio.
Riversai in quel bacio tutto l'affetto che ero capace di
dare, lo strinsi a me e gli infilai le mani nei capelli come desideravo di fare
da tanto tempo. Le sue labbra erano morbide contro le mie, la sua mano destra
mi accarezzava la guancia con tenerezza, mentre l'altra era poggiata sulla mia
schiena e giocherellava con le punte dei miei capelli.
Sotto le palpebre chiuse, sentii gli occhi diventare rossi
di desiderio.
Improvvisamente però, una scarica elettrica mi raggiunse
attraverso il suo corpo. Mi scostai di scatto, terrorizzata dalla sensazione
orribile che avevo appena provato prendendo la corrente.
Sam mi guardò con un'espressione addolorata. «Mi dispiace»,
disse, «non sono riuscito a controllarmi.»
Ero sconvolta. «Che diavolo è successo?», domandai in preda
al panico.
«Il mio potere non è come il tuo. Tu devi concentrarti per
controllare l'acqua, io invece irradio elettricità in modo del tutto spontaneo.
Devo concentrarmi per interrompere il flusso elettrico quando tocco qualcuno.
Per questo ti ho respinto, stasera. Avevo paura che ti spaventassi troppo e
decidessi di starmi lontano.»
Effettivamente, per un secondo fui tentata di uscire da
quella stanza e non avvicinarmi mai più a Sam. Ma l'idea era andata in frantumi
nell'esatto istante in cui avevo incrociato il suo sguardo dispiaciuto.
«Be', sono ancora viva, no?», dissi con scarsa convinzione.
Sam annuì. «Non ti farei mai seriamente del male. Sono solo
piccole scariche che fanno a malapena il solletico. Però tu sei particolarmente
sensibile all'elettricità, quindi ti spaventi.»
«Forse potrei imparare a non avere più così tanta paura»,
dissi pensando ad Alex. Lui c'era riuscito.
«O io potrei imparare a controllarmi meglio», disse lui.
«In ogni caso credo sia una questione di esercizio.»
Lui sorrise alla mia affermazione. «Senza dubbio.»
Mi riavvicinai a lui e gli toccai la guancia con un dito.
«Niente scossa», dissi premendo tutto il palmo contro il suo viso.
Lui sorrise e mise una mano sulla mia. «Niente scossa»,
confermò. «Non andartene», disse poi. «Resta con me stanotte.» Annuii.
Ci stendemmo sul letto e mi accoccolai sulla sua spalla. Lui
mi cinse con un braccio e mi strinse a sé con fare protettivo. Si voltò su un
fianco in modo da avermi di fronte e io gli diedi un rapido bacio sulle labbra.
Lui fu colto di sorpresa, poi sorrise.
«Sei bellissima», mi disse. Pensai a quando me lo diceva Ryan.
Con Sam era diverso. Nella sua voce potevo percepire una nota di desiderio, lui
mi voleva almeno quanto io volevo lui.
«Kaitlyn?», mi chiamò dopo un po'.
«Mmh?»
«Buon compleanno.» Era il 24 dicembre, il compleanno di
tutti noi della Generazione Beta. Non festeggiavo il mio compleanno da quando
Ryan non c'era più, visto che prima lo festeggiavamo insieme.
«Grazie. Buon compleanno anche a te», dissi a metà tra la
veglia e il sonno.
Ci addormentammo così, io contro il suo petto, lui con un
braccio intorno a me e le labbra posate sulla mia fronte.
Fu Alex a svegliarci bussando alla porta. Sam andò ad aprire
e Alex si sporse dentro per vedere dietro di lui. Incrociò il mio sguardo e
fece un cenno di saluto.
«Allora sei qui», disse, «non riuscivo a trovarti.»
«Ciao, Alex», lo salutai con la voce ancora impastata dal
sonno.
«Ragazzi, cercate di sbrigarvi. Abbiamo appuntamento tra
dieci minuti in sala operativa. Passo un attimo nella mia stanza e poi torno da
voi. Per allora fareste meglio ad essere pronti. A proposito», disse, «buon
compleanno.»
«Grazie», rispondemmo in coro io e Sam. Poi Alex uscì dalla
stanza e sparì nel corridoio.
«Doccia?», dissi a Sam.
Lui scosse la testa. «Non l'ho ancora fatta, dormivo
anch'io. Se vuoi andare prima tu ti lascio la precedenza», disse gettandosi sul
letto. Non l'avevo mai visto così stanco.
«No, forse è meglio se vado in camera mia a lavarmi, così
faremo prima.»
«Come vuoi», disse lui con la testa nel cuscino.
«Tu però non riaddormentarti», gli dissi.
«Agli ordini», replicò lui.
Gli schioccai un bacio sulla guancia e lui sorrise e riaprì
gli occhi. «A dopo», disse.
Lui e Alex bussarono alla porta della mia stanza esattamente
dieci minuti dopo. Finii di legarmi i capelli in corridoio e mi chiusi la porta
alle spalle.
«Quando sei tornato?», chiesi ad Alex.
«Stamattina intorno alle sette», disse lui. Erano le undici,
quindi forse anche lui era riuscito a dormire un po' quella mattina.
«Alex, cosa pensi di questa missione?», chiese Sam.
Lui e Alex si scambiarono una lunga occhiata. «È
necessaria», disse Alex, «ma va organizzata bene.» Sam annuì.
Arrivammo in sala operativa e trovammo gli altri già lì.
Mancavano soltanto Chris, Kevin e Robb. Quasi tutti avevano tra le mani una
tazza alta e scura e quando Leslie ci vide entrare, ne porse una a ognuno di
noi. Era caffè.
Poco dopo, entrarono nella stanza i gemelli e Chris e quando
si furono sistemati anche loro, Johanna iniziò a parlare.
«Come già tutti saprete, ieri notte il professor Yetes è
stato rapito da alcuni agenti russi. Dobbiamo riportarlo qui e per farlo
abbiamo bisogno della collaborazione di ognuno di voi. Organizzeremo
un'irruzione nella base dei Servizi Segreti russi. La loro base, a differenza
della nostra, non è sottoterra, ma si trova al centro di un ampio spazio deserto.
Arrivare lì con un jet significherebbe farci scoprire immediatamente, quindi il
jet atterrerà a distanza di sicurezza dalla base e poi proseguirete in auto.
Entrerete da una porta sul retro che, secondo le informazioni che abbiamo
raccolto, dovrebbe essere sufficientemente semplice da forzare con i vostri
poteri. I posti in cui è più probabile che sia tenuto il professore sono tre:
il livello sotterraneo – l'unico della base –, le stanze personali al terzo
piano, oppure le stanze in cui tengono i prigionieri, al quinto piano. L'ordine
primario è quello di non separarvi mai.»
Alcuni annuirono.
Dopo le prime spiegazioni, passammo all'analisi dei
dettagli. Studiammo a lungo la pianta dell'edificio, indossammo tutti un
auricolare e progettammo l'intera missione. Ci fermammo soltanto per pranzare e
poi nel tardo pomeriggio ci esercitammo al poligono. Quella sera ci mandarono a
letto presto, per farci riposare.
Chiesi a Sam di venire a dormire nella mia stanza.
«A dormire?», chiese lui malizioso, inarcando un sopracciglio.
«Sì», risposi con aria innocente. Poi tornai seria. «Ho una
brutta sensazione.»
Lui capì che dicevo sul serio e annuì. Venne nella mia
stanza dopo essersi fatto una doccia e ci stendemmo sul letto uno accanto
all'altra.
«Potrebbe essere rischioso», dissi dando finalmente voce
alle mie perplessità. «È solo la nostra seconda missione e già andiamo allo
sbaraglio nella tana del lupo.»
«Hai ragione, è molto rischioso. Dobbiamo muoverci con
cautela», disse lui. «Ma ti prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per
proteggerti. Non lascerò che ti accada nulla di male.»
Sorrisi. «Grazie», dissi, «ma non ho bisogno di essere
protetta. So cavarmela.»
«Lo
so», disse lui. «Lo so perfettamente.»
N.d.A.:
Per
questo capitolo occorre fare una menzione speciale a Magicwolf02, che ha previsto
e aspettato con pazienza le “scintille” tra Kaitlyn e Sam: grazie per aver
seguito la mia storia con tanta passione.
Futeki
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Capitolo 17 *** La tana del lupo ***
SEDICI
La tana del
lupo
Non lasciare che sia il tuo nemico
a scegliere il campo di battaglia.
(Sun-Tzu)
La mattina dopo andammo tutti in armeria per scegliere le
nostre armi. Scelsi una Glock 17, da portare insieme a un'altra pistola che ci
aveva dato precedentemente Trevor.
Decollammo con un jet da Seattle alle tre del pomeriggio,
pronti ad affrontare un lungo viaggio. Saremmo arrivati a notte fonda, in modo
da fare irruzione nella base mentre, presumibilmente, la maggior parte degli
agenti dormiva.
Durante il viaggio dormimmo per recuperare energie, poi
ripassammo i dettagli della missione.
«Io dirigerò l'operazione», spiegò Alex. Era stato
incaricato di gestire la missione dal campo. «Sarò l'unico costantemente
collegato alla base. Per il resto, sarà attivo il collegamento auricolare tra
noi agenti. Ci divideremo per cercare il professore. Siamo dodici, quindi
formeremo tre squadre da quattro. Un gruppo andrà al piano sotterraneo, uno
alle stanze personali e un'altro alle stanze dei prigionieri.»
«Pensavo che non dovessimo dividerci», fece notare Tom.
«Gli ordini sono cambiati. Se restassimo tutti insieme
verremo sicuramente scoperti in poco tempo. Un gruppo di dodici persone non
passa inosservato», spiegò tranquillamente Alex. «Il primo gruppo sarà composto
da Sara, Kaitlyn, Sam e Tom e sarà diretto verso il sotterraneo. Sara sarà il
capogruppo.»
Noi quattro annuimmo. Eravamo tre della nostra Generazione e
soltanto Sara della Generazione Gamma.
«Il secondo gruppo», proseguì Alex, «sarà composto da Luke,
Chris, Jessica e Cassidy, con Luke come capogruppo. Voi controllerete le stanze
personali.»
Due della Generazione Gamma e due della Beta.
«Il terzo e ultimo gruppo sarà composto da me, Amanda, Robby
e Kevin. Noi controlleremo le stanze dei prigionieri e io sarò il capogruppo.»
Notai che aveva equilibrato il più possibile i gruppi per
non lasciare noi ragazzi inesperti da soli. In più, aveva fatto in modo che in
ogni gruppo ci fosse la più ampia varietà possibile di poteri, non mettendo
insieme persone con gli stessi poteri. Alex era uno stratega nato.
«Ci sono domande?», chiese poi. Nessuno ne aveva, quindi
aspettammo pazientemente di arrivare a destinazione.
♦
Come previsto, la porta si aprì dopo qualche tentativo di
forzatura. Eravamo riusciti ad arrivare senza farci vedere lasciando le auto a
distanza dalla base e percorrendo l'ultimo tratto a piedi. Una volta dentro, ci
separammo immediatamente. Ricordando la pianta dell'edificio, io, Sam, Tom e
Sara ci dirigemmo verso la rampa di scale che portava al piano sotterraneo.
Proseguimmo per un lungo tratto di corridoio. Era deserto.
L'ambiente era molto simile a quello dell'Operon: le pareti erano verniciate di
un azzurro molto pallido e i corridoi erano stretti. Non c'erano finestre,
visto che eravamo sottoterra. Arrivammo di fronte a due porte. Secondo le
nostre informazioni, a quel punto avrebbe dovuto esserci una sola porta, dietro
la quale avremmo trovato il laboratorio di ricerca. Invece, le porte erano due.
«Che facciamo adesso?», chiese Tom a Sara, il nostro
capogruppo.
«Ci dividiamo», rispose lei. «Io e Tom andiamo a sinistra,
voi due, invece, prendete la porta a destra», disse rivolgendosi a me e Sam.
Annuimmo.
«Se trovate qualcosa contattateci via auricolare», disse Sara.
«Lo stesso vale per voi», rispose Sam.
Ci separammo. Dietro la porta di destra, c'era un piccolo
corridoio che terminava in un arco che faceva da ingresso ad un enorme
laboratorio. C'erano decine di banchi pieni di strumenti di ricerca, dai
microscopi alle provette. Addossata a una parete della stanza, c'era anche una
sedia accanto alla quale c'erano molti macchinari medici. Riconobbi il monitor
che teneva sotto controllo il battito cardiaco.
Anche il laboratorio era deserto. L'assenza totale di
personale all'interno della base mi rese parecchio sospettosa. In quel momento,
udii un rumore. Era una specie di tintinnio, un rumore metallico molto debole.
Sam si stava aggirando tra i banchi per dare un'occhiata
all'attrezzatura, quindi mi mossi da sola in direzione del rumore. Notai una
piccola rientranza nel muro nell'angolo più lontano della stanza, quindi mi
avvicinai. In quel punto della stanza la parete si interrompeva lasciando una
piccola area di un metro quadrato, delimitato anteriormente da una decina di
sbarre metalliche. Era una gabbia. All'interno, una bambina dai lunghi capelli
castani stava seduta appoggiata alla parete e batteva un sassolino vicino alle
sbarre, producendo il rumore che avevo sentito. Fu sorpresa di vedermi.
«Sam», chiamai a gran voce. «Vieni qui.»
«Che succede?», chiese lui arrivando alle mie spalle. Quando
vide la bambina s'irrigidì.
«Dobbiamo tirarla fuori di qui.»
Sam annuì. Posò una mano sulla serratura elettronica della
gabbia pronto ad aprirla.
«Spostati», dissi alla bambina. Lei indietreggiò.
Con una piccola pressione, la serratura elettronica andò in
tilt. Aprimmo la porta e tirammo fuori la bambina.
In quel momento, i nostri auricolari si attivarono. Era
Chris.
«Ci serve aiuto al terzo piano!», urlò. «Ci sono almeno una
decina di agenti che ci stanno cercando. Ci aspettavano, siamo stati traditi.»
Alex prese il controllo della situazione. «Primo gruppo, ci
siete?»
«Sì», rispondemmo all'unisono noi quattro, anche se al
momento eravamo separati.
«Ci sono problemi? Anche voi siete in difficoltà?»
«No, da noi è tutto in ordine, ma al momento siamo separati.
Le porte in fondo al corridoio erano due, quindi non abbiamo potuto proseguire
tutti insieme», spiegò Sara.
«Bene, ricongiungetevi e uscite immediatamente
dall'edificio», rispose Alex. «Chris, io e il mio gruppo stiamo arrivando.
Attirateli vicino alle scale, così possiamo prenderli alle spalle.»
«Ricevuto», rispose Chris.
Presi in braccio la bambina e uscii dal laboratorio con Sam
al fianco. Nel corridoio incontrammo Sara e Tom che vedendoci in tre rimasero
sorpresi. Uscimmo dalla base senza incontrare nessuno; probabilmente, tutti gli
agenti erano al piano superiore per tendere un agguato ai nostri compagni.
Attendemmo per qualche secondo fuori alla porta da cui
eravamo entrati, pronti a intervenire in caso di necessità, con le orecchie
tese per cercare di capire cosa stava succedendo attraverso i rumori che
provenivano dagli auricolari. Mi parve di sentire uno sparo. Poi due. Tre.
Fui colta dal panico. Strinsi la mano della bambina,
probabilmente con troppa forza.
Dopo alcuni interminabili minuti, da quella stessa porta
uscirono gli altri. Tirai un sospiro di sollievo, ma guardandoli in viso capii
che c'era qualcosa che non andava.
Li contai. Erano in sei. Cassidy piangeva.
«Alex», dissi, «dov'è mia sorella?»
Mi resi conto che era la prima volta che la definivo così.
«Dov'è Amanda?», chiesi ancora.
Alex mi guardò in silenzio. Tom al mio fianco emise un
gemito: lui teneva ad Amanda quanto io tenevo ad Alex.
Jessica.
«Non ora», disse Alex. «Dobbiamo raggiungere il jet.»
A quel punto era chiaro che loro due non sarebbero mai
uscite da quell'edificio.
In quel momento, qualcuno provò ad aprire la porta
dall'interno. Alex si gettò di peso sull'ingresso per bloccare la porta e Sara
mise velocemente una mano sulla serratura. Si sentì un forte odore di bruciato,
poi Alex e Sara si spostarono rivelando una porta bloccata da serratura fusa.
Iniziammo a correre senza perdere altro tempo. Non ci
voltammo. Con la coda nell'occhio vidi Tom che piangeva. Quando salimmo sulle
auto, nessuno disse una parola. Eravamo fuori pericolo, ma nessuno sospirò di
sollievo.
Alex mi chiese della bambina e io mi limitai a rispondere
che la tenevano prigioniera e l'avevamo liberata.
Arrivati al jet, Colton e Trevor non fecero domande. Alex
abbozzò qualche rapida spiegazione su ciò che era successo e poi si chiuse in
un profondo silenzio.
Vidi Cassidy piangere tra le braccia di Tom e compresi per
la prima volta che quei due avevano un legame davvero profondo. Pensai a
Jessica. Perderla riaprì la ferita che mi aveva lasciato la morte di Ryan.
Nonostante considerassi Ryan il mio vero fratello, mi sentivo comunque legata a
lei. Cercai Sam tra gli altri; lui intercettò il mio sguardo e mi raggiunse, mi
strinse forte a sé e io poggiai la testa sulla sua spalla.
La bambina si addormentò su un sedile e dormì per tutto il
viaggio. Io cercai di imitarla, ma senza successo. Rimasi accanto a Sam
cercando di respingere l'ondata di dolore che minacciava di investirmi.
Rientrammo alla base da un ingresso che non conoscevo. Dopo
qualche secondo ci venne incontro Johanna. Colton e Trevor l'avevano aggiornata
attraverso Spike su ciò che era successo.
Mezz'ora dopo, eravamo tutti in una sala operativa a
discutere del fallimento della missione.
«Ci aspettavano, siamo stati traditi», disse Alex. «Di
nuovo.»
«Perché vi siete separati?», chiese Johanna.
«Per fortuna l'abbiamo fatto!», intervenne Tom. «Se Alex non
avesse avuto quest'idea saremmo tutti morti. Non ci hanno individuato subito perché
eravamo separati e quando un gruppo dei nostri è stato attaccato, un'altro
gruppo ha potuto cogliere i nostri nemici alle spalle. Poteva succedere un
disastro.»
«Dobbiamo individuare la talpa», disse Johanna. «E in
fretta.»
«Ci stiamo lavorando», disse Leslie.
«Posso aiutarti a restringere il campo», disse Alex.
«Nessuno di noi agenti operativi è la talpa. Abbiamo tutti rischiato di essere
uccisi, visto che gli agenti russi sparavano senza neanche guardarci in
faccia.»
«Giusto», disse Leslie ancora perplessa.
«Ma comunque non c'è bisogno di cercare ancora», disse Alex.
«Io e Luke abbiamo un piano B.»
«Davvero?», chiese Leslie.
«Davvero», confermò Luke. «E la prima fase del piano B è
appena cominciata.»
Mentre pronunciava quelle parole, le luci tremolarono un
paio di volte, poi si spensero del tutto. Tutti i computer si oscurarono e io
mi avvicinai d'istinto a Sam. Lui mi strinse.
Si accesero le luci di emergenza.
«Che sta succedendo?», chiese Johanna.
«Stiamo impedendo alla talpa di comunicare con i Servizi
Segreti russi», spiegò Alex.
«Non credo di aver capito», disse Leslie.
«Ho causato un blackout totale per impedire ogni tipo di
comunicazione. Non funzionano neanche più i cellulari, perché ho creato
un'interferenza per le linee telefoniche», decretò Luke.
«Sei d'accordo, vero?», chiese Alex a Johanna.
«Certo», rispose lei. «Mi sembra una buona idea. Quale
sarebbe la seconda parte del piano?»
«È molto semplice: partiamo per la Russia.»
«Di nuovo?», protestò Kevin.
«È una follia. Non siamo pronti, l'abbiamo visto stasera»,
disse Robb.
«Questa missione è troppo rischiosa, ci faremo ammazzare
tutti», concluse Kevin.
«Non se ci prepariamo meglio. Andremo lì con un obiettivo
diverso, ci organizzeremo in modo migliore. E cosa più importante», concluse
Alex, «sarà inaspettato.»
«Ti ascoltiamo», disse Chris.
«Abbiamo tre obiettivi per questa missione; il primo è
recuperare il professore», disse.
Annuimmo tutti.
«Il secondo», proseguì, «è trovare e portare in salvo i
bambini.»
«Quali bambini?», chiese Chris.
«Hai visto la bambina che ha portato qui Kaitlyn, no? Lucy
l'ha visitata, è malata. È chiaro che quei bastardi stanno facendo degli
esperimenti sui bambini.»
Rabbrividii. L'idea non mi aveva neanche sfiorato.
«E qual è il terzo obiettivo?», chiese Sara.
Alex
sorrise, ma fu Luke a rispondere: «È molto semplice: distruggeremo la base
nemica.»
Futeki
|
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Capitolo 18 *** Piano B ***
DICIASSETTE
Piano B
La prova fondamentale del
valore di un leader
è che si lasci dietro, in altri
uomini, la convinzione
e la volontà di proseguire la
sua opera.
(Walter Lippmann)
«Kak
tvaja zavut?», chiese Sam in perfetto russo rivolgendosi alla bambina. Come
ti chiami?
La bambina non rispose.
«È inutile che parli in russo. Lei è americana», gli dissi.
«Come fai a dirlo?»
«Quando hai aperto la gabbia usando il tuo potere, io le ho
detto di spostarsi e lei lo ha fatto», spiegai. «Ho ragione?», chiesi
rivolgendomi a lei.
Annuì.
«Come ti chiami?»
«Michaela», disse con voce flebile. Era la prima parola che
le sentivo pronunciare. «Ma la mia mamma mi chiamava Mitchie.» S'intristì nel
nominare la madre.
«Io mi chiamo Kaitlyn», dissi, «ma mio fratello mi chiamava
Kait. Puoi chiamarmi così se ti va.»
Lei annuì. «E tu puoi chiamarmi Mitchie.»
«Va bene Mitchie. Puoi dirmi quanti anni hai?»
«Dieci.»
«E come sei finita lì?»
Lei rabbrividì, ma iniziò a raccontare: «Degli uomini
entrarono in casa mia e sparsero benzina ovunque. I miei genitori dormivano e
io non riuscivo a urlare per chiamare aiuto, visto che mi avevano tappato la
bocca. Mi hanno trascinato fuori, poi hanno appiccato il fuoco.»
Trovavo assurdo che una ragazzina così piccola avesse visto
cose del genere. Una rabbia incredibile mi pervase e giurai a me stessa che
avrei distrutto quel posto maledetto.
«Mitchie, devi dirmi un'altra cosa, poi ti lascerò stare»,
le dissi.
Lei annuì con aria seria, pronta a rispondermi. Aveva gli
occhi grigi e un'espressione davvero intelligente. Decisi che avrei protetto
quella bambina ad ogni costo.
«Tengono altri bambini lì?»
«Sì, eravamo sempre in tre. Ogni tanto venivano a prendere
uno di noi e quello non tornava più indietro. Quando capitava, portavano un
altro bambino. Qualche settimana fa vennero a prendere me; da quel momento,
sono sempre stata nel laboratorio in cui mi avete trovato.» Rabbrividì. «Non
voglio tornarci mai più. Fanno cose orribili in quel posto.»
«Dove, Mitchie? Dove stavi prima di essere portata in quel
laboratorio?»
«Stavamo tutti e tre in una stanza al terzo piano.»
«Grazie, Mitchie», dissi. «Ti prometto che mi prenderò cura
di te. Farò in modo che tu stia bene.»
Lei annuì.
Uscii dalla stanza e Sam mi seguì. Notai che per tutto il
tempo in cui avevo parlato con Mitchie lui non aveva detto una parola.
«Sei stata brava», disse lui, «ti sei guadagnata la sua
fiducia.»
Annuii, ma non capivo dove voleva arrivare.
«Tu fai sempre così», disse, «quando tieni a qualcuno,
mostri il lato migliore di te, conquisti le persone e la loro fiducia.»
«L'ho fatto anche con te?», chiesi.
«Sì», rispose lui. «Perché tieni a me.»
«È vero», assentii.
«Bene», replicò lui, «perché anch'io tengo a te, in una
maniera che non puoi neanche immaginare. Se per te non fosse stato lo stesso,
avrei avuto un bel problema.»
Sorrisi. Anche io avevo provato quella sensazione quando
credevo che Sam non provasse per me ciò che io provavo per lui.
«Stai tranquillo», dissi. Gli diedi un rapido bacio e lui si
rilassò.
«Dove stiamo andando?», mi chiese, ma ormai eravamo già a
destinazione ed ebbe una risposta chiara quando bussai alla porta
dell'infermeria.
Lucy ci fece entrare.
«Ciao tesoro», mi disse, «come stai? Ciao anche a te, Sam.»
Sam ricambiò il saluto.
«Sto bene Lucy, grazie. Ma non sono qui per me.»
«Vuoi sapere della bambina, immagino.»
«Sì. Cos'ha? Che significa che è malata?»
«L'hanno usata come cavia per degli esperimenti genetici
simili ai nostri», spiegò.
«Simili ai nostri? Che significa?»
«Anche l'Operon ha fatto degli esperimenti per verificare
l'efficacia degli albi, lo sai?»
Inorridii. «Quando questa storia sarà finita, tornerò a casa
mia e porterò quella bambina con me», dichiarai.
«Kaitlyn, quella bambina morirà in poco tempo», disse Lucy.
«Non puoi fare nulla per aiutarla?», chiesi disperata.
«Ci sto provando, ma è più difficile del previsto.»
Sospirai. «Fai del tuo meglio. Ci vediamo, Lucy, tienimi
aggiornata.»
«Certo.»
Io e Sam tornammo nella sala operativa per comunicare ad
Alex le informazioni che avevamo ricevuto da Mitchie.
Alex ascoltò ciò che avevamo da dire, poi chiuse la porta
della stanza. All'interno c'eravamo solo io, lui, Sam e Luke.
«Ragazzi, c'è una cosa che non vi ho detto», disse, «salvare
il professore in realtà non è uno degli obiettivi. Il professore è morto. Si è
suicidato nella sua stanza.»
«Che stai dicendo?», dissi. Mi aveva sconvolto.
«È la verità, ho sentito alcuni agenti che ne parlavano.»
«Allora perché torniamo lì?», chiese Sam.
«Per distruggere quel posto infernale», risposi io.
«Anche. Ma soprattutto perché dobbiamo procurarci dei
dischetti. Ci serve l'elenco degli agenti russi, così sapremo chi di loro è
infiltrato qui all'Operon.»
«Vuoi la certezza? Io sono sicuro che un'idea già ce l'hai»,
disse Sam.
«Anche la certezza ce l'ho già. Mi servono le prove.»
«Va bene. Faremo in modo di procurarci quell'elenco.»
«Ragazzi, secondo voi la missione è troppo rischiosa?» Per
la prima volta, udii un accenno di dubbio nella voce di Alex.
La missione era effettivamente rischiosa, ma confidavo
nell'abilità strategica di Alex.
«Dobbiamo farlo», dissi, «e possiamo riuscirci.»
Alex sembrò rincuorato. «Va bene, allora andate a
riposarvi.»
♦
«Vuoi davvero portare la bambina a casa con te, quando sarà
tutto finito?», mi chiese Sam quella sera. Eravamo a letto, ma nessuno dei due
riusciva a dormire.
«Sì. Mia madre capirà. Anzi, credo proprio che ne sarà
contenta. Ha sempre voluto un'altra figlia.»
«E tornerai a casa anche tu?»
«Sì.»
«A volte vorrei avere anch'io qualcosa a cui tornare.»
Rimasi in silenzio.
«Anche se in realtà qui mi sento praticamente a casa», disse
sorridendo.
Sapevo che non era la verità. «Troveremo una soluzione»,
dissi. «Te lo prometto.»
In risposta, Sam mi baciò. Ci addormentammo.
♦
Dodici ore dopo eravamo di nuovo sul jet. Organizzare la
missione senza l'aiuto della tecnologia si era rivelato davvero complesso, ma
grazie all'impeccabile lavoro di Alex, tutto era stato preparato nei minimi
dettagli.
Luke era rimasto alla base per mantenere il blackout e
tenere sotto controllo tutti coloro che erano rimasti lì.
Sul jet eravamo soltanto in nove. Alla guida dell'elicottero
c'era Chris, così da non coinvolgere nella missione qualcuno che non fosse un
agente operativo. Lasciammo il jet a distanza, come la volta precedente, e ci
avvicinammo alla base nemica con le auto. Entrammo nella base da un'altra
porta, perché Alex riteneva che ci sarebbe voluto troppo tempo per aprire
quella che avevamo bloccato l'ultima volta.
Io, Sam e Cassidy avevamo il compito di recuperare i
bambini, quindi salimmo al terzo piano per cercarli.
Incontrammo due agenti russi in corridoio. Cassidy gli si
parò davanti e loro rimasero spiazzati per un istante, il tempo sufficiente per
permettere a me e Sam di colpirli alle spalle. Quando arrivammo al terzo piano,
in tutto l'edificio risuonò un allarme. Eravamo stati scoperti. Tre agenti ci
videro e puntarono loro pistole contro di noi. Noi tirammo fuori le nostre.
Avrei sparato per la prima volta a un essere umano. Ricordai le parole di
Johanna, quando aveva parlato dell'arte del sopravvivere: imparate ad
affrontare ogni cosa con razionalità e riflettete sempre prima di agire. Non
lasciatevi dominare dalle emozioni in nessun caso.
Puntai la Glock contro un agente nemico. Sparai tre colpi,
lui crollò a terra.
Credevo che dopo aver sparato a qualcuno per la prima volta,
poi sarebbe stato più semplice. Un po' come farci l'abitudine, visto che si è
in guerra. E invece non era così. Ogni colpo era come se fosse il primo, uccideva
un nemico e feriva un po' anche me.
Quando ci fummo liberati dei nemici, io e Cassidy
controllammo in tutte le stanze per cercare i bambini, mentre Sam controllava
che non stesse arrivando nessuno. Quando li trovammo erano così spaventati
dagli spari che avevano sentito, da non voler venire con noi.
«Abbiamo portato in salvo anche Mitchie», dissi loro
cercando di convincerli a fidarsi di noi. «Sappiamo che qui vi fanno del male,
noi vogliamo solo aiutarvi.»
Un ragazzino con i capelli scuri e gli occhi neri si alzò in
piedi. Mi ricordava moltissimo Sam. Si rivolse agli altri due, un bambino (a
occhio avrei detto che fosse il più piccolo di tutti), e una bambina. «Andiamo
con loro», disse. «I nemici dei nostri nemici sono nostri amici», citò. «E poi
credo sia difficile che possano portarci in un posto peggiore di questo.»
Gli altri due si lasciarono convincere e vennero con noi.
Ringraziai il bambino per la fiducia che mi aveva dato e lui mi sorrise,
mostrando due bellissime fossette.
In quel momento, il mio auricolare si attivò: era Tom.
«Io e Sara siamo soli al quinto piano, ci servono rinforzi.
Abbiamo addosso più di sette agenti.»
Mi mossi immediatamente. Dissi a Cassidy di uscire al più
presto dalla base insieme ai bambini, poi raggiunsi Sam e insieme salimmo al
quinto piano. Il corridoio era un inferno. C'erano state parecchie sparatorie,
come testimoniavano alcuni proiettili conficcati nelle pareti e degli agenti
sanguinanti a terra. Per fortuna, nessuno di loro era dei nostri. Io e Sam
uccidemmo tre nemici prima di ricongiungerci con Tom e Sara.
«Restiamo noi con lui», dissi a Sara, «lo aiutiamo a
completare il suo lavoro qui. Tu inizia a scendere giù e fa' la tua parte.»
Sara annuì e andò via, mentre noi la coprivamo.
Un agente seminascosto dietro a una parete cercò di tenderci
un agguato, ma con la mia Vista lo individuai immediatamente. Fui più veloce.
Cadde a terra morto.
Andammo avanti così per qualche altro minuto, finché non ci
ritrovammo da soli nel corridoio.
«Quante te ne mancano?», chiese Sam a Tom.
«Soltanto una», rispose lui alzando una piccola scatola
argentata. Avevamo deciso di piazzare alcune bombe in vari punti strategici
dell'edificio. L'esplosione di alcune bombe, avrebbe provocato una reazione a
catena e quindi la distruzione dell'edificio. A ciò, avevamo unito l'utilizzo
del fuoco di Sara: avevamo sparso per tutto il perimetro interno della base un
liquido infiammabile grazie al quale Sara avrebbe appiccato un incendio per
impedire ai nemici la fuga.
Riponemmo le armi e iniziammo a cercare la stanza in cui,
secondo i piani, avremmo dovuto piazzare l'ultima bomba. Non appena fu
sistemata, udimmo uno sparo. Mi voltai verso la fonte e mi ritrovai una pistola
puntata contro. Il colpo che quell'agente aveva già sparato, aveva colpito la
gamba di Tom, che si era accasciato a terra.
Fui colta dal panico e non riuscii più a ragionare. Avevo
riposto la Glock, quindi non avrei mai fatto in tempo a estrarla prima che lui
mi sparasse. Si stava avvicinando. Quando fu a un passo da me, vidi che era
soltanto un ragazzo poco più grande di me. Mi chiesi per l’ennesima volta che
scopo avesse quella guerra.
Sam mi si parò davanti, frapponendosi tra me e la pistola.
«Vuoi morire per la tua ragazza?», gli chiese l'agente
nemico in un inglese pronunciato male.
Sam non rispose. Anche lui era disarmato.
Il russo gli puntò la pistola sulla fronte. Sam gli afferrò
il polso. Successe tutto in un attimo. Pensai che Sam lo avrebbe convinto a
mettere giù la pistola, a lasciar perdere. E invece, con la mia Vista, vidi
chiaramente che l'agente faceva pressione sul grilletto per sparare. Sentii
l'aria vibrare e lo vidi spalancare gli occhi. Lasciò cadere la pistola a
terra, poi cadde lui stesso all'indietro. Era morto fulminato.
Guardai Sam. I suoi occhi diventarono rossi per un istante
talmente breve che pensai di averlo immaginato. Affannava. Lo strinsi forte,
poi mi voltai verso Tom.
Perdeva molto sangue, ma era cosciente. Respirava a fatica.
«Dobbiamo andare via di qui», gli dissi. «Robb saprà come
aiutarti.»
Tom scosse la testa. «Vi rallenterei», disse. «Andate senza
di me.»
«Non dire sciocchezze!», replicai. «Ce la fai a camminare se
ti appoggi a me?»
«Me l'hai promesso. Mi hai promesso che mi avresti sempre
detto la verità. Quindi rispondi a questa domanda: se mi portaste con voi, non
sarebbe rischioso?»
«Sì», dissi. «Sarà rischioso per noi e per te. E ci
rallenterai. Ma io qui non ti lascio.»
Io e Sam lo aiutammo ad alzarsi e lo sostenemmo da entrambi
i lati mentre lui cercava di muovere qualche passo. Fortunatamente, nel
corridoio del secondo piano incontrammo Robb e Kevin. Provai a contattare Alex.
Agli altri aveva detto che sarebbe andato a cercare lui stesso il professore,
ma io e Sam sapevamo che in realtà cercava l'elenco degli agenti russi per
scoprire chi fosse infiltrato nella nostra base. Alex non rispose.
«Vado a cercare Alex», dissi agli altri. «Prendetevi cura
voi di Tom.»
«Perché?», mi chiese Kevin.
«Non mi risponde. Aveva detto che sarebbe andato di persona
a cercare il professore e che se lo avesse trovato ce lo avrebbe comunicato via
auricolare.» Lanciai un'occhiata eloquente a Sam. Lui annuì. Soltanto io e lui
sapevamo cosa stava cercando in realtà.
Salii al quarto piano, dove c'erano le sale operative. Il
corridoio era molto diverso da quello degli altri piani: era più largo e le
porte che vi affacciavano sopra erano tutte ad arco. Passai di fronte a una
stanza diversa dalle altre, che somigliava molto a una stanza degli
interrogatori di una stazione di polizia, visto che aveva una parete completamente
in vetro e si poteva guardare all'interno.
Appena superata quella stanza, qualcuno sbucò fuori dalla
porta ad arco della stanza alla mia destra e mi spinse nella stanza di fronte,
quella alla mia sinistra. Era Alex.
Mi fece segno di tacere. Nel vedere che stava bene, sospirai
di sollievo.
«Ehi, tu!», disse una voce proveniente dal corridoio. «So
che sei lì! Vieni fuori!»
Alex caricò la pistola, poi mi fece un occhiolino e,
muovendo solo le labbra, mi disse di restare nascosta dov'ero. Poi uscì dal nostro
nascondiglio. Io mi abbassai e sporsi un po' la testa per vedere cosa
succedeva. Alex e un agente russo stavano uno di fronte all'altro nel
corridoio, a tre passi di distanza, con le pistole puntate l'uno al petto
dell'altro.
Ciò che mi sconvolse, però, fu l'agente russo. Lo conoscevo.
Era Mike, l’uomo che mi aveva offerto da bere al party di
San Francisco. Era un agente nemico.
«Come funziona?», disse lui in un inglese perfetto. «Chi
spara per primo sopravvive, l'altro muore?», disse prendendosi gioco di Alex.
«No», rispose. «Io sopravvivo e tu muori.»
Sparò, ma dalla pistola non venne fuori alcun proiettile. Si era inceppata.
Mike disarmò Alex colpendolo al polso con la canna della pistola.
«Che siete venuti a fare qui?», chiese Mike, la pistola
ancora puntata contro Alex. «Il vostro professore è morto, sono certo che lo
sapete. Ma allora perché siete rimasti?»
«Da me non avrai nessuna risposta, quindi tanto vale che mi
uccidi subito», replicò Alex con voce ferma.
«Entra», disse Mike ad Alex indicando la stanza con la
parete di vetro.
Alex, in netta posizione di svantaggio entrò nella stanza.
Fu in quel momento che uscii dal mio nascondiglio. Mike mi dava le spalle e io
gli puntai la pistola alla nuca.
«Getta l'arma a terra», gli dissi. Lui lo fece. Gli permisi
di voltarsi in modo da avermi di fronte.
«Chi non muore si rivede», disse lui.
«Appena in tempo», dissi io, «perché tu stai per morire.»
Lui sorrise. «Tiralo fuori di lì», dissi indicando Alex con
un cenno della testa.
«Non posso», rispose lui con tutta calma. «Questa stanza è
una cassaforte.»
«Spiegati meglio.»
«Si può chiudere sia dall'esterno che dall'interno senza
problemi, ma per aprirla serve l'impronta digitale del capo oltre che una
chiave.»
«Dov'è il vostro capo?», chiesi.
«Probabilmente all'inferno, se credi in queste cose.»
«È morto?»
«Lo avete ucciso voi.»
Mentre parlavamo, Alex cadde in ginocchio all'interno della
stanza.
«Ah, a proposito», disse Mike. «La cassaforte assorbe tutto
l'ossigeno al suo interno come forma di protezione. Tra tre minuti, là dentro
non ci sarà più aria.»
«Alex», dissi, «che devo fare?»
Lui mi rispose muovendo solo le labbra. Dietro di te.
Mi voltai. Mike aveva ripreso la pistola da terra. Gli
sparai senza fermarmi a riflettere.
Cadde morto a terra, con l'ombra di un ghigno ancora
impressa sul volto.
«Alex!», urlai.
«Ho poco tempo», disse lui con voce flebile, «devi starmi a
sentire.»
«Ti prego...»
«Entra in una sala operativa e cerca sotto le scrivanie un
piccolo cassetto argentato. Il codice che apre il cassetto è una sequenza di
quattro numeri consecutivi. Dentro troverai dei dischetti di backup delle
informazioni. Sopra ci saranno anche gli elenchi degli agenti. Torna con quelli
alla base, ma assicurati che nessuno veda quei dischetti mentre sei sola.
Convoca tutti gli agenti in una sala operativa e apri quei dischetti davanti a
tutti. Così sarete tutti contro la talpa.»
«Alex...»
«Per quanto riguarda i cani, ricordati che non devi
affrontarli da sola, perché prima o poi non ce la farai. Chiedi aiuto a Luke, è
un Hellbound anche lui. Ti aiuterà a difenderti, così come tu potresti aiutare
lui. Anzi, ascoltami Kait», disse. «Non affrontare niente da sola. Al
mondo esistono persone di cui ti puoi fidare, quindi smettila di cercare di
combattere le tue guerre da sola.»
Annuii. Lui tossì.
«Quando starò per morire, arriveranno i cani. Per quell'ora
tu devi essertene già andata. Fammi un favore, fai sapere a mia sorella che le
voglio bene, anche se non glielo dico mai. E di' a Luke che ce l'abbiamo fatta.
Lui capirà.»
«Non lasciarmi sola», dissi egoisticamente.
«Fosse per me, non ti lascerei mai sola», disse lui. «Ma
sta' tranquilla, ci sono persone che si prenderanno cura di te ancora meglio di
quanto abbia fatto io.»
«Alex...»
«Ti voglio bene, Kaitlyn. Sei stata come una sorella minore
per me. Grazie di tutto.»
«Grazie a te», dissi. La mia voce fu coperta da un ringhio.
«Corri», disse Alex, con il suo ultimo filo di voce.
Corsi.
N.d.A.:
Eccoci
arrivati al capitolo che più mi ha fatto soffrire. Mi vedo costretta a spendere
due parole su Alex, a cui, nonostante sia un personaggio di fantasia, mi ero
affezionata davvero molto. Chi scrive sa cosa s’intende quando si dice che
certi personaggi nascono da un autore e poi diventano talmente indipendenti da
scrivere da soli le loro storie. È così che mi sono sentita con Alex. Mi piange
il cuore per avergli riservato questa sorte, ma il suo personaggio ha compiuto
un grande percorso. Alex è arrivato all’Operon che era solo un ragazzino
spaventato dai suoi poteri e dai poteri degli altri, si è innamorato di una
Hellbound e per lei, per provare a salvare lei, è diventato un Hellbound lui
stesso, senza neanche riuscire nel tentativo disperato di salvarle la vita.
Alex è cresciuto in un ambiente di guerra, dove ha scoperto che lottare per ciò
che è giusto dà un nuovo scopo alla vita. E questo lo ha insegnato a Kaitlyn,
le ha insegnato a lottare e a fidarsi degli altri, le ha insegnato a
riconoscere chi sarà sempre al suo fianco nella battaglia contro ciò che è
sbagliato. E con questo suo lascito, Alex ha completato il suo percorso. La sua
morte lo ha lasciato senza rimpianti, perché lui sa di aver fatto tutto il
possibile e ha passato il testimone a Kaitlyn, a cui lui stesso ha insegnato
tutto ciò che riteneva importante. Nel capitolo successivo, Luke spiegherà
proprio questo a Kaitlyn, le farà capire che Alex ha vissuto proprio come
desiderava fare. “La prova fondamentale del valore di un leader è che si
lasci dietro, in altri uomini, la convinzione e la volontà di proseguire la sua
opera.” Questa era la frase di Walter Lippmann con cui ho aperto questo
capitolo ed è chiaro ora che era ad Alex che facevo riferimento.
Qualcuno
ha ipotizzato che Alex potesse essere la talpa ed è giusto pensarlo. Lui si è
mosso così tanto all’interno di questi giochi di potere da rimanerne
irrimediabilmente invischiato, ma non avrebbe mai fatto del male ai suoi
compagni, per nulla al mondo.
Grazie
per aver seguito la storia fin qui e per aver sopportato queste interminabili
note, che sentivo dovute a un personaggio a cui tenevo molto.
Continuate
pure con le supposizioni su chi possa essere la talpa, perché siamo vicini alla
fine!
Futeki
|
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Capitolo 19 *** Ritorno alla base ***
DICIOTTO
Ritorno
alla base
Combattere se stesso è la
guerra più difficile;
vincere se stesso è la vittoria
più bella.
(Verlag Sven von Loga)
Entrai in una sala operativa e cercai sotto tutte le
scrivanie il cassetto argentato. Lo trovai. Iniziai a provare tutte le sequenze
possibili. Uno, due, tre, quattro. Due, tre, quattro, cinque. Tre, quattro,
cinque, sei. La serratura scattò. Presi tutti i dischetti che trovai
all'interno e mi avviai fuori. Corsi per tutto il corridoio, per le scale e
ancora per il corridoio del piano terra. Non mi preoccupai di stare attenta a
eventuali nemici. Non mi interessava. Mi sentivo congelata, come se non potessi
più essere colpita da niente.
Uscii dalla base. Alcuni dei miei compagni erano lì. Non
chiesi dove fossero gli altri.
Sam c'era e mi abbracciò forte senza che io gli dicessi
nulla.
«Alex?», mi chiese qualcuno. Scossi la testa.
Sara diede fuoco alla scia di liquido infiammabile che
partiva da quella porta e arrivava a tutte le uscite. Sam sciolse l'abbraccio e
diede una mano a Robb. Chiuse gli occhi. Una bomba esplose. Poi un'altra. E
un'altra ancora. Ci allontanammo. Le esplosioni provocarono altre esplosioni.
Ci voltammo e corremmo via.
Quando arrivammo alle auto, scoprii che i compagni che
mancavano erano già lì. A parte Alex, nessuno di noi era rimasto indietro.
Cassidy era accanto a una macchina insieme ai bambini.
Quando la vide, Sam si irrigidì.
«Harry», bisbigliò. Non stava guardando Cassidy, ma il
bambino con gli occhi neri.
«Sam!», urlò il bambino. Corse verso di lui e gli saltò
letteralmente tra le braccia. Sam lo strinse talmente forte che pensai che gli
avrebbe fatto male. Piangevano entrambi.
Fu in quel momento che collegai tutto. Pensai a Mitchie e
alla sua casa data alle fiamme mentre i suoi genitori dormivano. Pensai alla
storia di Sam e a come qualcuno avesse cercato di incastrare l'unico sopravvissuto
all'incendio. Quel bambino era il fratellino di Sam, rapito da casa sua allo
stesso modo in cui era stata rapita Mitchie.
Sfiorai il braccio di Sam e gli sorrisi.
Anche Tom stava meglio. Lui, Robb, Kevin, Cassidy e i
bambini erano tornati alle macchine prima ancora che noialtri uscissimo dalla
base. Robb aveva pulito la ferita di Tom e aveva estratto il proiettile. Ormai
non sanguinava più.
Salii su una macchina, certa che da un momento all'altro le
mie gambe avrebbero ceduto. Mi girava la testa. Avevo nascosto i dischetti
sotto la maglia e la plastica delle copertine mi solleticava la schiena.
Appoggiai la testa al finestrino.
Qualcuno guidò fino al jet, qualcun altro mi disse che
dovevo scendere dalla macchina e salire a bordo del velivolo e io lo feci
meccanicamente. Quando finalmente restai da sola, seduta su un sedile del jet,
mi addormentai.
Al mio risveglio, trovai Sam accanto a me. Mi sentii
rincuorata.
Raccontai cosa era successo ad Alex. Spiegai che avevo già
incontrato Mike al party e lui ci aveva detto che il professore era morto. Non
dissi nulla dei dischetti, né riportai a qualcuno le ultime parole di Alex. Ne
avrei parlato soltanto con Luke e gli avrei chiesto di aiutarmi a contattare la
sorella di Alex.
Quando rientrammo alla base, la trovammo ancora in pieno
blackout. Quando ci videro entrare, tutti furono sollevati. Qualcuno,
probabilmente, aveva pensato che non ce l'avremmo fatta, mentre qualcun altro,
sicuramente, lo sperava. La talpa era ancora lì, bisognava scoprire chi fosse.
«Finalmente è finita», disse Spike, «è finita per davvero.
Ce l'abbiamo fatta.»
Poi notò l'assenza di Alex e si zittì. Fu Luke a porre la
fatidica domanda: «Dov'è Alex?»
Scossi la testa e lo guardai dritto negli occhi. Speravo che
capisse che era morto dopo aver raggiunto l'obiettivo, che era stato un eroe,
come sempre, fino alla fine.
Cercò di dire qualcosa, ma la voce gli morì in gola. Si mise
una mano sulla bocca e per la prima volta vidi nel suo sguardo quanto profondo
fosse il legame che avevano. Le luci si riaccesero per un istante, poi si
spensero di nuovo. Sembrava quasi di percepire il dolore di Luke come una
scarica di corrente che attraversava l'aria, una scossa che avrebbe fatto
rabbrividire chiunque.
Ci riunimmo in una sala operativa per stilare un rapporto
completo della missione. Luke riattaccò la corrente e ci mettemmo
immediatamente a lavoro. Nessuno nominò più Alex. Nella sala operativa
mancavano soltanto Robb e Tom, che erano andati in infermeria per cercare di
curare la gamba di Tom.
Lavorammo per un paio d'ore ininterrottamente, poi Johanna
ci mandò a riposarci. Io andai da Luke, mentre Sam andò dal fratellino che
aveva appena ritrovato. Quando avevamo spiegato a Johanna dei bambini, lei
aveva immediatamente dato disposizioni perché fossero sistemati al meglio. Lucy
li controllò e decretò che erano ancora perfettamente sani e che nessuno aveva
fatto loro ciò che invece era stato fatto a Mitchie.
Quando bussai alla porta della camera di Luke, lui mi disse
di entrare senza venire ad aprire la porta. Era disteso sul suo letto
completamente al buio, con un braccio posato sugli occhi.
«Ciao Kaitlyn», mi disse senza guardarmi. Probabilmente,
grazie al suo potere riusciva a percepire la mia presenza visto che ero un ottimo
conduttore di elettricità. L'ultimo rimasto, visto che Alex non c'era più.
«Ciao Luke.» Avrei voluto chiedergli come stava, ma mi
sembrava una domanda stupida, quindi arrivai dritta al punto. «Alex mi ha
chiesto di dirti una cosa, prima di...» Non riuscii a completare la frase.
«So già cosa voleva che tu mi dicessi», rispose. «Che ne
dici, provo a indovinare?»
Annuii. Poi ricordai che non poteva vedermi. «Sì», risposi.
«Ti ha detto "Kaitlyn, dì a Luke che ce l'abbiamo
fatta"», disse imitandone anche il tono di voce. Lo sentii sorridere
mentre pronunciava quelle parole.
«Sì», confermai.
«Cosa pensi che significhi?», mi disse. «Prova a
indovinare.»
«Non lo so, credevo si riferisse alla missione. Sono
riuscita a prendere la lista degli agenti russi, presto sapremo chi è la
talpa.»
«Bene», rispose lui, «ma non è questo che intendeva.»
«E allora cosa voleva dire?»
«Quando arrivammo all'Operon, Alex mi detestava per via del
mio potere. Quando Johanna gli assegnò me come partner, lui si arrabbiò
parecchio. Poi però diventammo amici. Successe quando per la prima volta,
invece di guardare soltanto al mio potere, cercò di capire che tipo di persona
fossi. Parlammo una notte intera e lui mi raccontò delle sue speranze per il
futuro. "Qui i miei poteri possono essere impiegati a fin di bene",
mi disse, "questo è ciò a cui punto nella mia vita; prima di morire,
voglio raggiungere un obiettivo: voglio fare qualcosa di utile per le persone a
cui voglio bene, voglio salvare la gente."»
Sorrisi nel sentirgli pronunciare quelle parole. Erano
tipiche di Alex.
«Io gli dissi che ero d'accordo. Gli dissi che quello
sarebbe stato il mio obiettivo e che mi avrebbe fatto piacere raggiungerlo
insieme a lui. Da quel giorno diventammo inseparabili.»
«Ora ho capito cosa voleva dire», dissi io. «Aveva ragione,
ce l'avete fatta.»
«Sì», disse lui.
«Mi ha chiesto anche di dire a sua sorella che le voleva
bene, anche se non glielo diceva mai.»
«Provvederò a farglielo sapere.»
«Grazie.»
Feci per andarmene, ma lui mi fermò. «Ti ha detto che sono
un Hellbound anch'io?»
Mi voltai. «Sì», dissi.
«E che altro ti ha detto?», chiese alzandosi dal letto.
«Che non devo combattere le mie guerre da sola.»
«Anch'io la penso così, Kaitlyn. Sappi che per qualunque
cosa puoi contare sul mio aiuto.»
«Grazie.»
«Adesso occupiamoci della talpa», disse lui.
«Prima voglio passare a trovare Tom in infermeria.»
Annuì. «Ti accompagno.»
Quando arrivammo, l'infermeria era piena di gente. Robb e
Lucy andavano avanti e indietro per la stanza, gli altri erano tutti attorno a
un lettino.
Mi voltai. Tom era dall'altra parte della stanza e dormiva
beatamente nonostante il caos. Mi avvicinai per cercare di capire chi ci fosse
sul lettino attorno al quale c'era tutta quella gente. Sam mi prese per mano un
secondo prima che guardassi.
Mitchie era pallida e aveva le convulsioni. Lucy stava
usando tutto il proprio potere per cercare di salvarla, ma era chiaro che non
ci stava riuscendo. Improvvisamente però le convulsioni cessarono. Mitchie
rimase immobile con gli occhi chiusi. Se non avessi sentito il suo debole
battito cardiaco grazie al monitor accanto al lettino, avrei creduto che fosse
morta.
Lucy disse a tutti noi di andare via: non avremmo potuto
fare nulla e saremo stati d'intralcio. Mi voltai per andarmene anch'io, ma lei
mi chiamò e mi disse di restare.
«Le restano un paio d'ore di vita», disse. «Scegli tu se
restare con lei o andare via.»
La freddezza con cui disse quelle parole mi sconvolse.
Decisi di restare. Mi misi a sedere accanto a lei sperando che si risvegliasse,
anche solo per qualche secondo. Avrei voluto scusarmi per non aver mantenuto la
promessa che le avevo fatto.
Dopo qualche minuto mi resi conto che non si sarebbe svegliata,
allora iniziai a parlare come se potesse sentirmi.
«Mi dispiace di non aver mantenuto la promessa che ti ho
fatto», dissi, «non sono riuscita a salvarti. Però posso assicurarti che non
verranno rapiti più bambini, non da parte loro, almeno. Ho fatto quello che
potevo, magari per questo potresti essere fiera di me. Anche i tuoi amici sono
salvi, lo sai?»
Attesi come se mi aspettassi una risposta. Ma lei giaceva
immobile e silenziosa su quel lettino. Volevo andare via, volevo scappare da
lì, ma non potevo. Non l'avrei lasciata sola in quel momento. Restai con lei
tenendole la mano finché il battito cardiaco non si arrestò. Non feci nulla
quando accadde. Restai lì, come se non fosse cambiato niente, anche se qualcosa
dentro di me si era spezzato.
Dopo un po', Lucy arrivò e mi disse di andare via. Lo feci
in silenzio. Passai davanti a Tom, che era sveglio. Chissà da quanto tempo mi
stava ascoltando. Lo salutai e gli chiesi se stesse bene. Lui annuì. Gli
augurai la buonanotte e tornai in camera mia. Una volta di fronte alla porta,
decisi che quella notte non sarei rimasta da sola, non volevo. Bussai alla
porta di Sam, ma dall'interno non rispose nessuno. Aprii ed entrai, ma Sam non
era lì. Sul suo letto c'era Harry, che dormiva beatamente, lontano da tutte le
cose brutte che accadono al mondo.
Tornai in camera mia e fui sorpresa di trovarvi Sam
all'interno. Mi aspettava. Non disse nulla e mi strinse forte.
«Dobbiamo andare in sala operativa», disse. «Luke ci aspetta
lì per vedere cosa c'è su quei dischetti.»
La talpa. Me n'ero completamente dimenticata.
Annuii e mi feci forza.
La sala operativa era completamente piena. Tutti gli agenti,
i tecnici e anche qualcuno della sicurezza erano stati riuniti lì. Luke era
seduto su una scrivania, con un computer poggiato sulle gambe. Entrai e chiusi
a chiave la porta dietro di me. Molte teste si voltarono a guardarmi, ma io non
ci feci caso. Passai a Luke i dischetti e poi tornai in fondo alla stanza.
«Durante l'ultima missione», iniziò a spiegare lui, «siamo
riusciti a recuperare delle informazioni preziose. Come voi ben sapete,
riteniamo che all’interno dell’Operon ci sia un infiltrato russo, una talpa.»
Tra le persone all’interno della sala si levò un mormorio.
«È arrivato il momento di scoprire di chi si tratta. Grazie
a una giovane agente, siamo in possesso della lista di tutti gli agenti
registrati nei Servizi Segreti russi e abbiamo ragione di credere che il
nominativo di uno dei nostri comparirà tra questi file.»
Luke infilò il dischetto nel computer. Il monitor gigante
alle sue spalle si accese.
Comparve il primo volto, io tirai fuori la pistola.
Su quei dischetti c’erano centinaia di schede riguardanti
ogni singolo agente. Luke scorse la lista un nome alla volta, facendo comparire
i volti di tantissimi agenti russi sul monitor.
Caricai la pistola.
Al passaggio di alcuni volti sullo schermo, qualcuno
bisbigliò, qualcun altro imprecò. Erano i nostri nemici giurati, molti di loro
avevano ucciso i nostri compagni.
Erano tutti impegnati a fissare lo schermo, perciò nessuno
fece caso a me che mi facevo largo tra la folla con un’arma carica in mano.
La puntai alla testa di Johanna giusto un attimo prima che
il suo volto comparisse sul monitor.
“Johanna
Master, agente operativo. Infiltrata all’Operon.”
N.d.A.:
Finalmente
si è scoperto chi è la talpa: Johanna. Era stata lei a mandare i ragazzi a
proteggere il professore, sostenendo che avrebbero tranquillamente potuto
farcela, era stata lei a ordinare loro di restare tutti uniti quando sarebbero
entrati nella base russa. Lei stessa si era arrabbiata quando i ragazzi, su
suggerimento di Alex, si erano divisi in gruppi. Alex aveva già capito che c’era
lei dietro a tutto, per questo lui e Luke avevano escogitato il trucco del
blackout.
Non so
fino a che punto i lettori se lo aspettassero o meno, ma la mia idea era quella
di seminare degli indizi e allo stesso tempo fare una rivelazione sconvolgente,
in ogni caso grazie a tutti coloro che hanno provato a fare supposizioni o a
indovinare: la passione con cui avete seguito la storia fin qui mi rende
felicissima.
Con
questo capitolo (il terzultimo) si chiude anche il cerchio degli articoli di
giornale del prologo: il primo si riferiva proprio alla storia di Sam e del suo
fratellino, pubblicato sul Miami Herald – Sam infatti viene dalla Florida, dove
i condannati a morte possono scegliere come morire e lui, appunto, aveva scelto
la sedia elettrica; il secondo e il terzo articolo, pubblicati sul giornale di
Stonington, dove Kaitlyn viveva assieme alla madre e al fratello Ryan prima di
trasferirsi, raccontano proprio l’incidente che lei ha avuto con il fratello e
il successivo omicidio involontario degli uomini responsabili della morte di
Ryan.
Grazie
a tutti coloro che hanno seguito la storia fin qui. Buone feste!
Futeki
|
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Capitolo 20 *** Infiltrato ***
DICIANNOVE
Infiltrato
I soldati hanno più da temere
il loro capo
che il nemico.
(Michel de Montaigne)
Nella sala operativa scoppiò il caos. Qualcuno bloccò le
mani di Johanna dietro la schiena, qualcun altro mi trascinò via perché non
avevo comunque abbassato la pistola.
Avrei voluto riversare tutta la mia rabbia e la mia
frustrazione su di lei, dare a lei la colpa di ciò che era accaduto alle
persone a cui tenevo.
Era colpa sua se ben due missioni erano fallite e avevamo
subito delle perdite. Era colpa sua se quella guerra non era mai arrivata a una
svolta.
Avrei dovuto capire subito che era stata lei.
Ci aveva mandati in missione di protezione con il professore
senza il supporto dei più grandi, ci aveva spinti ad invadere la base nemica
ordinandoci di restare tutti uniti, cosa che ci avrebbe fatti uccidere
sicuramente. Ci aveva dato informazioni sbagliate sulla base nemica, aveva
comunicato ai nostri nemici ogni nostro spostamento e ogni progresso che
compivamo giorno dopo giorno.
Alex lo sapeva, ma aveva bisogno di prove. E per
procurarsele aveva perso la vita.
Come Mitchie, come Jessica.
Come Ryan.
Arrivai a pensare una cosa terribile, ma un istante prima di
essere presa dal panico, mi liberai dalla presa di chi mi teneva ferma e mi
diressi verso Johanna.
«Dimmi che mi sbaglio», le ringhiai contro. Tutti si
zittirono. «Dimmi che mi sbaglio e voi non avete niente a che fare con la morte
dei Telepati.»
«Stai delirando», rispose lei.
«Dimmi che mi sbaglio!»
«Non abbiamo ucciso noi il tuo amato fratellino», disse lei.
«L’incidente ci ha risparmiato la fatica. Altrimenti avremmo dovuto occuparcene
come abbiamo fatto per la Generazione precedente.»
Stavo per dargli un pungo in faccia, quando Luke mi
anticipò. Mi bloccò con la mano a mezz’aria, ma guardava lei, non me.
«Non dire una parola in più, o ti giuro che ti farò patire
tutto ciò che hanno subito Alex e Callie.»
Lo disse con un’espressione talmente minacciosa che
rabbrividii. Le luci tremolarono, Johanna tacque. La portarono via. Da quello
che capii dalle chiacchiere che afferrai, qualcuno aveva telefonato al
Presidente, comunicandogli la situazione.
Sentii che le mie gambe stavano per cedere, quando mi
ritrovai Sam alle spalle. Mi abbracciò e fui lieta del suo sostegno, sia fisico
che morale.
Arrivarono alcuni agenti dell’FBI, ai quali raccontammo più
volte ogni singolo dettaglio dell’accaduto, testimoniando personalmente uno ad
uno.
Quando la situazione sembrò stabilizzarsi, io e Sam andammo
in camera mia per tentare di riposare un po’. Fu soltanto quando mi stesi sul
mio letto che mi resi conto che era davvero finita. Fissando il soffitto chiaro
della mia stanza, mi venne in mente che non avevo idea di cosa sarebbe successo
all’Operon. Forse l’avrebbero chiuso, forse avrebbero nominato un nuovo capo.
«Tu che farai?», chiesi a Sam sapendo che lui avrebbe
intuito a cosa mi riferissi.
Lui si stese accanto a me e sperai che dicesse che sarebbe
rimasto con me in ogni caso, anche se sapevo che non sarebbe stato giusto. Se
davvero volevamo restare insieme, dovevamo scegliere di percorrere una strada
che andasse bene per entrambi.
«Non lo so, credo che dipenderà dal destino dell’Operon.
Forse resterò qui, non ho altri posti a cui tornare», disse lui.
«Puoi tornare a casa con me», suggerii.
«Non sarebbe davvero un ritorno. Se lascerò l’Operon, dovrò
iniziare una nuova vita, dovrò prendermi cura di Harry da solo. Non dimenticare
che per lo Stato noi siamo entrambi morti», disse.
«Volevo tornare a casa mia insieme a Mitchie», dissi,
«volevo prendermi cura di lei. Ma forse non ne sarei stata in grado.»
«Te la saresti cavata alla grande», replicò lui.
«Ci sono altri bambini che avranno bisogno di noi, tra un
po’», dissi pensando alla Generazione Alfa, bambini di circa tre anni che nel
giro di poco tempo avrebbero sviluppato i nostri stessi poteri, l’ultima
Generazione dell’Operon.
«Troveremo il modo di aiutarli senza strapparli alle loro
famiglie», disse Sam. «Andremo noi da loro, di tanto in tanto, e insegneremo
loro a controllare il proprio potere per evitare incidenti. Non gli insegneremo
a combattere. Sarà diverso.»
Fui d’accordo. Restammo per un po’ in silenzio, poi le
parole mi uscirono dalla bocca senza che avessi il tempo di fermarle.
«Sam, tu pensi che io abbia sempre cercato di combattere le
mie guerre da sola?», chiesi.
Lui parve confuso. «Tu ti sei sempre sentita sola,
anche quando in realtà c’erano persone attorno a te pronte a offrirti il loro
supporto. Tu respingi gli altri, un po’ perché credi di farcela anche senza di
loro, un po’ perché non credi di meritare il loro aiuto.»
«Ed è così?»
«No. Da sola non ce la farai. E meriti tutto l’aiuto e
l’affetto di questo mondo. Devi solo lasciare che gli altri vedano quella parte
di te che ti ostini a nascondere.»
«Non c’è niente di me che nascondo. Io sono così: fredda,
piatta. Non c’è niente di interessante in me.»
«Non è vero, questa è soltanto una tua convinzione. Tu sei
una persona meravigliosa e il fatto che tu non te ne renda conto ti impedisce
di mostrarlo liberamente agli altri. Sopprimi le tue emozioni, belle o brutte
che siano, non hai mai lasciato trasparire nulla del genere.»
«Questo non è vero…»
«Vuoi un esempio pratico? Kaitlyn, tu non piangi mai. E non
perché sei forte, anche se indubbiamente lo sei, sei la ragazza più forte che
conosca. Tu non piangi mai perché nonostante tu abbia provato più dolore di
quanto un essere umano possa sopportare, non hai mai pensato che sfogarti e
accettare il supporto degli altri potesse essere d’aiuto.»
Era vero, me ne resi conto in quel momento. Dalla morte di Ryan,
non avevo mai versato una lacrima. Tante volte ero stata sul punto piangere, ma
dai miei occhi non era mai venuto fuori nient’altro che determinazione.
Tutto il dolore che nell’ultimo anno avevo cercato di
comprimere dentro di me esplose all’improvviso, travolgendomi e lasciandomi
senza fiato.
Chiusi gli occhi e Sam mi strinse forte.
Pensai a Ryan, a quanto mi mancasse; ad Alex e alla sua
amata Callie, all’aiuto che lui mi aveva dato, al dolore che aveva provato
anche lui e alla sua reazione così diversa dalla mia.
Pensai a mia madre e al nostro rapporto tutt’altro che
facile, pensai che doveva aver sofferto anche lei per la morte di Ryan. Pensai
che mi amava quanto amava il suo vero figlio e io non le avevo mai mostrato
gratitudine per questo.
Pensai a Tin e a Jordan e a quanto mi sostenessero e mi
supportassero anche a centinaia di chilometri di distanza, nonostante le bugie
che ero stata costretta a dire, nonostante sapessero che io non avevo mai detto
la verità.
Pensai a Jessica, la sorella che non avevo avuto
l’opportunità di conoscere a fondo, e a Cassidy, che stava soffrendo quanto io
avevo sofferto per Ryan.
Pensai a Luke, che aveva perso il suo migliore amico, alla
sorella di Alex, alla mamma di Cassidy e Jessica. Pensai ad Amanda, che aveva
perso la vita in missione e a tutti gli agenti che erano morti in quel modo
terribile.
Pensai a Johanna e un po’ mi fece pena, perché una persona
che aveva causato tanto dolore non poteva avere altro che sofferenza nel suo
cuore.
Pensai a Mitchie e a tutti i bambini che avevano sofferto
per una guerra senza senso. Pensai a Harry e alla sua famiglia, che ormai non
c’era più.
Pensai a Sam, accusato di aver sterminato la sua famiglia e
condannato a morte, lui che mi amava così tanto da condannare la sua anima alla
dannazione per salvarmi la vita.
Piansi. Tirai fuori tutto il mio dolore. Sam mi tenne
stretta e mi cullò per un po’, fino a che non mi finirono le lacrime. Piansi
per il dolore, per la tristezza, per la rabbia. Piansi per paura di ciò che
sarebbe successo.
Poi mi riscossi. Sapevo che c’erano persone con me che mi
avrebbero sostenuto sempre. Non avrei più combattuto le mie guerre da sola.
Nel silenzio della stanza, baciai Sam con più trasporto del
solito. Era come se avessi ripreso a sentire tutte le emozioni in
maniera più profonda, senza filtri, senza barriere di protezione. Ero senza
difese, volevo donargli tutta me stessa. Quel bacio aveva il sapore delle mie
lacrime.
«Ti amo», gli dissi. Fu pronunciando quelle parole che mi
resi conto di quanto fossero vere.
«Ti amo anch’io», rispose lui. Fu quasi un sollievo avere
quell’ulteriore conferma.
«Combatteremo insieme», dissi senza riferirmi a niente in
particolare.
«Fino alla fine», rispose lui.
«Fino
alla fine.»
N.d.A.:
Ed
eccoci finalmente all’ultimo capitolo vero e proprio, il prossimo sarà
l’epilogo. Nel caso in cui fosse poco chiaro, vorrei spiegare perché Kaitlyn
pensa per un momento che Johanna sia responsabile della morte di Ryan. Per
avere un infiltrato nell’Operon, gli agenti russi hanno sempre dovuto fare il
possibile per uccidere i Telepati di ogni generazione, in modo che i loro
infiltrati (in particolare Johanna) non venissero scoperti; ed è proprio quello
che è successo a Callie, la Telepate di cui era innamorato Alex, ma non a Ryan:
nel suo caso fu davvero un incidente.
Con
questo capitolo, si chiude il percorso di crescita di Kaitlyn che, finalmente,
si lascia andare alle sue emozioni, affidandosi completamente alle persone che
la amano.
Grazie
a tutti per aver seguito la storia. Nelle N.d.A. dell’epilogo ringrazierò nel
dettaglio tutti coloro che mi hanno incoraggiata e supportata.
Alla
prossima!
Futeki
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Capitolo 21 *** Epilogo - Come una scintilla ***
EPILOGO
Come una
scintilla
Ci sono persone che tirano
fuori il peggio di te, altri tirano fuori il meglio, e poi ci sono quelli rari,
dai quali diventi dipendente, che tirano fuori solo il più. Di tutto. Ti fanno sentire
così vivo che li seguiresti dritto all’inferno, solo per drogarti ancora una
volta di loro.
(Karen M. Moning)
Cinque
anni dopo, New York.
Aprii gli occhi infastidita dalla debole luce del sole.
Harry aveva aperto le tende della mia camera, con l’intento di svegliarci.
«In piedi, dormiglioni! Oggi è il 24 dicembre.»
Mi trattenni dall’uccidere all’istante Harry, che aveva
osato buttarmi giù dal letto a quell’ora del mattino, solo perché mi ricordai
del tradizionale pranzo a casa Chandler che organizzavamo ormai da qualche anno
il giorno della vigilia di Natale.
Sam accanto a me si mise a sedere sul letto, stropicciandosi
gli occhi. Sembrava un bimbo in preda al sonno. Non potei fare a meno di
sorridere. Lo baciai. «Buon compleanno», gli dissi.
«Buon compleanno, amore», rispose lui ancora assonnato.
Mi tirai su e mi diressi in cucina ancora in pigiama.
«Tesoro, va’ a prepararti, Tin e Jordan saranno qui a
momenti con le loro famiglie. Tu e Sam dovete andare a ritirare la torta in
pasticceria, al più presto. Oh, buongiorno anche a te, caro», disse mentre Sam
entrava nella stanza.
«Buongiorno», rispose debolmente lui.
«Harry, aiutami con i bicchieri, sono sicura che ne manchi
qualcuno!»
«Ho già controllato due volte, sta’ tranquilla, ci sono
tutti», rispose lui pazientemente dall’altra stanza.
«Ah, Sam, credo si sia fulminata la lampadina del bagno,
puoi occupartene tu, per favore?»
«Ma certo.»
«Ti ringrazio. Adesso andate e rendetevi presentabili. Oh,
ragazzi?», ci chiamò per l’ennesima volta. Ci girammo verso di lei. «Buon
compleanno.»
Sorrisi. «Grazie, mamma.»
«Grazie Samantha», rispose Sam.
Un’ora più tardi, Tin e Jordan erano arrivati a casa nostra,
lasciandoci a malapena il tempo di sostituire la lampadina del bagno.
I miei migliori amici, che ormai stavano insieme già da un
pezzo, trascorrevano da anni a casa nostra la vigilia di Natale, festeggiando
con noi anche il compleanno mio e quello di Sam.
Avevamo raccontato a mia madre e a loro due tutta la verità
sull’Operon e su quello che era successo nei mesi in cui eravamo stati lì. Sam
aveva raccontato la sua storia e lui ed Harry erano venuti a vivere a casa
nostra. Avere Harry, aveva reso mia madre più felice e tranquilla: per lei era
stato quasi come riavere il suo Ryan.
Abbracciai la mia migliore amica e salutai educatamente i
suoi genitori, quando varcarono la soglia di casa. Jordan arrivò dietro di loro
con la sua famiglia.
«Come vi sentite adesso che siete un anno più vecchi,
ragazzi?», ci chiese il padre di Jordan come faceva ogni anno.
«Come ieri», rispondemmo all’unisono io e Sam, suscitando le
risate di tutti i presenti.
Afferrai un cappotto e mi precipitai verso la porta di casa,
trascinando Sam dietro di me. «Ci vediamo dopo», dissi lasciando mia madre a
fare gli onori di casa. «Andiamo a ritirare la torta.»
L’aria di New York era gelida, mi abbottonai il cappotto e
Sam mi strinse la mano. Sorrisi felice, guardando la mia città, la mano stretta
in quella del ragazzo che amavo. La mia famiglia mi aspettava a casa, pronta a
festeggiare il mio compleanno.
«Un po’ mi manca Seattle, però», disse Sam a sorpresa.
L’Operon non esisteva più da anni. Gli agenti erano tornati
alle loro famiglie e la base era stata chiusa ufficialmente. Di tanto in tanto,
facevamo qualche visita ai nostri vecchi amici e ai bambini che stavano
iniziando a manifestare i propri poteri.
«Manca un po’ anche a me», dissi, pensando a Cassidy, Tom e
i gemelli.
«Se potessi tornare indietro, lo rifaresti?»
Sapevo cosa mi stava chiedendo, avevo capito. Sarei andata
all’Operon, se avessi avuto la possibilità di scegliere con il senno di poi?
Avrei compiuto le stesse scelte che avevo fatto da quel 28 ottobre in cui Alex
mi era improvvisamente comparso davanti mentre affrontavo i cani?
Non ne ero sicura. Nella mia mente s’insinuò il dubbio, ma
fu scacciato immediatamente da una consapevolezza che mi colpì come una
scintilla.
«Sì», risposi con sicurezza. «Sì, lo rifarei. Tutto quello
che è successo mi ha reso esattamente quella che sono ora», dissi. «E poi ho
conosciuto te.»
Sam sorrise e mi baciò.
Non li sentimmo avvicinarsi. I cani fantasma si
materializzarono improvvisamente davanti a noi.
Negli ultimi cinque anni, io e Sam li avevamo affrontati
sempre insieme, come avevano fatto Luke e Alex.
«C’è qualcosa che non va», disse Sam. «Sono in troppi.»
Effettivamente, di fronte a noi c’erano tantissimi cani
fantasma. A occhio erano più di un centinaio, il doppio di quanti ne
aspettavamo.
«Noi li abbiamo sempre affrontati insieme», dissi. «Anche
loro hanno unito le forze.»
«Sono qui per entrambi», comprese lui.
Annuii. Gli strinsi forte la mano.
«Sei pronta?», mi chiese.
«Sì.»
«Fino alla morte.»
«Fino
alla morte», confermai. «E forse anche dopo.»
N.d.A.:
Grazie
a tutti coloro che hanno seguito la storia fin qui, in particolare Magicwolf02
e La Ragazza Senza_Nome, che hanno recensito con tanto impegno ogni singolo
capitolo. Grazie anche a Juliette96 e tutti coloro che hanno inserito la mia
storia tra le seguite/preferite/ricordate.
Qualcuno
ha chiesto se ho intenzione di scrivere un seguito, ma per il momento posso
solo dirvi che non è tra i progetti del mio immediato futuro. In ogni caso, il
finale è sufficientemente aperto da permettermi di scrivere qualche one shot
ambientata dopo questa storia, il che, prima o poi, potrebbe succedere, anche se
non lo assicuro.
Ancora
grazie a tutti e buon anno nuovo a tutti, con un augurio di tanta serenità in
particolare agli EFPiani.
Un
bacione, alla prossima!
Futeki
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