Bonds - Legami

di Clira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sorprese indesiderate ***
Capitolo 2: *** Cominciano i guai ***
Capitolo 3: *** Chi si cela dietro le rose ***
Capitolo 4: *** Lezioni e cadute ***
Capitolo 5: *** La cena ***
Capitolo 6: *** Tempesta ***
Capitolo 7: *** Tra spuntini e chiacchiere notturne ***
Capitolo 8: *** A cuore aperto ***
Capitolo 9: *** Da un disastro a un altro disastro ***
Capitolo 10: *** Punto di non ritorno ***
Capitolo 11: *** Dipartita ***
Capitolo 12: *** Alla baita ***
Capitolo 13: *** La fine di una storia ***
Capitolo 14: *** Il testamento ***
Capitolo 15: *** Coinquiline ***
Capitolo 16: *** Ti amo ***
Capitolo 17: *** La famiglia Williams ***
Capitolo 18: *** In fuga ***
Capitolo 19: *** Tutti i nodi vengono al pettine ***
Capitolo 20: *** Complicazioni ***
Capitolo 21: *** Il giorno di Natale ***
Capitolo 22: *** La verità ***
Capitolo 23: *** Gite a sorpresa ***
Capitolo 24: *** New York ***
Capitolo 25: *** Liberazione totale ***
Capitolo 26: *** Danielle ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Sorprese indesiderate ***



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Pro  


CAPITOLO 1: SORPRESE INDESIDERATE

 

Dannati insetti.

Era solo inizio aprile e già, a causa di quei maledetti cosi, mi ritrovavo punture di zanzare in posti estremamente fastidiosi, tipo i lati delle mani o le dita dei piedi.

 Sbuffai, continuando a grattarmi come in preda all’orticaria e in quel momento il mio telefono vibrò. Lessi quel nome sul display del telefono e un sorriso mi si aprì sul volto: Chris.

Mi infilai subito nel mio ufficio per rispondere, prima che passasse qualcuno e mi vedesse.

«Pronto?».

«Ehi, Chelsea, pausa pranzo insieme oggi?».

La sua voce allegra mi metteva sempre di buon umore e a quelle parole, il mio cuore iniziò a scalpitare.

«Certo! Ci vediamo a mezzogiorno giù in atrio, ok?».

«Perfetto! A dopo… ».

E attaccai. Avevo un sorriso ebete che mi andava da orecchio a orecchio  e non vedevo l’ora che arrivasse mezzogiorno nonostante fossero appena le nove.

Io e Christian ci eravamo conosciuti quando io, da neo-diplomata che ero, avevo cominciato a lavorare per quella clinica privata, quasi due anni prima.

Non avevo alcuna competenza medica, ma mi occupavo di fissare i vari appuntamenti ai diversi specialisti che lavoravano al mio piano e gestivo alcune basilari funzioni amministrative.

Il liceo che avevo frequentato, mi aveva dato delle ottime basi di economia e diritto, perciò le referenze, oltre ai vari stage che avevo fatto, erano bastate.

La clinica prendeva il terzo ed il quarto piano di un grosso edificio in una zona centrale della città e onestamente, per i miei ventun anni compiuti da poco, pagavano bene; non ero ancora del tutto indipendente, ma in un paio di mesi, se avessi voluto, avrei potuto cercarmi qualcosa per conto mio.

Christian aveva ventiquattro anni e svolgeva il mio stesso compito, ma al piano inferiore; ci eravamo conosciuti nella caffetteria al piano terra, più o meno dopo un mese che avevo iniziato a lavorare lì.

Eravamo subito diventati amici, anche se la prima cosa che mi aveva colpita di lui era stato l’aspetto fisico: alto e slanciato, capelli biondi un po’ lunghi, occhi azzurri. E poi io avevo sempre avuto un debole per gli uomini con i capelli lunghi.

Me ne stavo seduta al bancone con una tazza di caffè in mano, immersa nei miei pensieri, quando lui, vestito costantemente con jeans e T-shirt, mi si era seduto vicino, borbottando tra sé qualcosa a proposito di un’infermiera stronza.

Ci eravamo presentati e, siccome da cosa nasce cosa, entrambi quel giorno eravamo tornati in ritardo dalla pausa perché ci eravamo persi a parlare.

Non so esattamente quando Chris fosse diventato per me qualcosa di più che un semplice amico e confidente, fatto sta che un giorno, non appena lo vidi, il mio cuore cominciò ad accelerare come prima non mi capitava.

Lui ed io ci divertivamo moltissimo insieme; in pratica eravamo i segretari dello studio e sapevamo tutto di tutti. Dai medici alle infermiere, ogni loro più oscuro segreto, per noi non era tale perché tutti ci parlavano. Ormai, Chris era diventato il mio migliore amico.

Quando ero al liceo non avevo mai avuto né amici né un ragazzo perché ero troppo impegnata ad eccellere in tutto ciò che facevo, proprio come mia sorella, che i miei genitori veneravano. Shereen era praticamente perfetta in ogni cosa che faceva e quindi da me, mamma e papà pretendevano altrettanto.

Così, tra i voti esorbitanti, i premi nelle gare di nuoto, il club di scacchi, le lezioni di piano con il nonno e tutto il resto, non avevo mai avuto il tempo di crearmi una vita sociale.

Ma ora sapevo cosa si provava ad avere qualcuno con cui parlare e divertirsi, qualcuno con cui sfogarsi; qualcuno che… non importava cosa potessi dirgli sul mio conto: lui non mi avrebbe giudicata.

L’unico con cui parlavo a ruota libera prima di incontrare Chris era stato mio nonno, il padre di mia madre.

Mia sorella era troppo impegnata con la sua vita e presa dalla nostra competizione silenziosa per potersi interessare a ciò che capitava a me.

Solo in una cosa ero riuscita meglio di lei: la musica.

Il nonno, che era stato il mio unico,  grande maestro ed io gli ero legata come se fosse un padre e al contempo un migliore amico, mi aveva insegnato moltissimo.

A tre anni mi aveva messa sullo sgabello di un pianoforte e mi aveva insegnato a leggere la musica prima ancora che imparassi a leggere l’inglese.

La musica era una parte importantissima della mia vita ed era una cosa che io e nonno Daniel avevamo in comune; era solo nostra. Non era riuscito a trasmetterla alla mamma né a mia sorella e quando vide che mi piaceva, trascorse più tempo con me che con chiunque altro, nonostante mia madre lo rimproverasse spesso perché diceva che così toglievo tempo allo studio.

Col tempo però, anche lei si era arresa al fatto che fosse un peccato sprecare questo mio talento e così, aveva smesso di combattere.

Ad ogni modo, con Chris riuscivo a parlare di ogni cosa ancor più che con mio nonno e anche lui in me vedeva un riferimento.

Una sera, ricevetti un suo sms in cui mi chiedeva se avessi voglia di andare al cinema con lui.

Accettai subito di buon grado, ma una volta che arrivammo lì, scoprimmo che per problemi tecnici, quella sera avrebbero mandato solo un orrendo film splatter.

Alla fine decidemmo di guardarlo ugualmente, anche perché fuori pioveva a dirotto. Beh, senza alcun dubbio quella fu una delle serate più memorabili della mia vita.

Il sangue spruzzava ovunque e c’erano scene davvero raccapriccianti, ma al contempo portate talmente all’esagerazione, che passammo più di metà film a ridere come due idioti, facendo voltare molte teste contrariate verso di noi.

Ad un certo punto del film, Chris posò una mano sulla mia ed io mi irrigidii improvvisamente. Lo guardai; lui mi stava sorridendo e a quel punto ricambiai la stretta.

A fine serata mi riaccompagnò alla macchina; ognuno era venuto con la sua. Tra l’altro non aveva ancora smesso di piovere e nessuno dei due aveva l’ombrello, quindi corremmo, ma arrivammo alla mia auto bagnati da capo a piedi.

«Grazie per la serata, sono stata bene», gli dissi con un gran sorriso, che lui ricambiò.

«Grazie a te; sei l’unica ragazza che abbia mai conosciuto a non essere scappata via quando si parlava di film splatter».

Risi, contenta di quella serata.

Ad un tratto lui si sporse dal mio lato e… mi baciò.

Quello era in assoluto il mio primo bacio.

Non fu come si vede nei film o si legge nei libri. Non fu lento e appassionato, ma neanche veloce. Non era nemmeno un bacio come quello che tutte le ragazze sognano la prima volta: romantico sotto tutti i punti di vista, magari durante una cena al lume di candela o sullo sfondo di una serata piena di stelle e con un panorama da togliere il fiato.

Anzi, eravamo completamente zuppi, l’umidità ci aveva increspato i capelli e reso la pelle appiccicosa, ma a suo modo comunque fu bello. Unico.

Poi Chris si staccò e sussurrò al mio orecchio: «Scusa se ti ho bagnato la macchina».

Detto questo sparì, con ancora sulle labbra un sorriso ed io il suo sapore sulle mie.

Il giorno seguente non andai al lavoro perché era il mio giorno libero e quello successivo fu il suo, quindi non ci vedemmo. Non si fece sentire e quando ci rincontrammo, avevamo lo stesso rapporto amichevole di prima;  nessuno dei due accennò a ciò che era accaduto quella sera nella mia macchina.

Probabilmente entrambi lo stavamo ancora metabolizzando.

Fatto sta che il tempo trascorse ed entrambi continuammo a non parlarne.

Stavamo sempre insieme alla pausa pranzo e alla pausa caffè, tanto che tutti lì in studio ci consideravano una coppia, ma… cosa eravamo in realtà?

Un giorno, tornando nel mio ufficio, mi ritrovai sulla scrivania un bellissimo mazzo di rose bianche, i miei fiori preferiti.

Ero stupita, non mi pareva di aver mai detto a Chris delle rose e quando cercai il mittente, trovai un biglietto scritto con una calligrafia familiare; diceva:

Vorrei averti qui vicina per sentire il tuo respiro, per capire se sei vera o un sogno… un bel sogno…”.

Ma ciò che mi stupì di più fu la firma: “M.”

Chi diavolo era M?

Proprio in quel momento, entrò Chris, jeans e maglietta come al solito.

Guardò prima me, poi le rose, poi di nuovo me, senza capire ed improvvisamente i suoi lineamenti, di solito così distesi, si fecero duri.

Si avvicinò, leggendo il biglietto che avevo in mano.

«Chi è M?».

«Non ne ho idea, onestamente», risposi con assoluta sincerità.

«Ah, davvero? A lui però manca il tuo respiro, a quanto pare», disse con tono sprezzante. «Certo, potevi anche dirmelo se ti vedevi con qualcun altro», continuò poi.

Detto questo si voltò e fece per andarsene.

«Chris!» lo richiamai bloccandolo per un polso.

I muscoli del suo braccio si irrigidirono, ma, con uno strattone, si liberò e uscì dal mio ufficio, lasciandomi solo una gran confusione in testa e un vuoto nel petto.

 

Tre mesi più tardi…

Il caldo nell’ufficio era soffocante; avrei dovuto comprare un ventilatore da mettere lì, altrimenti non sarei arrivata a fine stagione, ma sarei morta asfissiata uno di quei giorni.

La mia scrivania era sommersa da scartoffie e dalle due enormi agende degli appuntamenti, il telefono non la finiva più di squillare ed il sudore mi gocciolava lungo la schiena. Non ero un bello spettacolo in quel momento.

Erano trascorsi  ormai tre mesi da quel giorno nel mio ufficio quando avevo avuto quella discussione con Chris e non lo vedevo più se non durante le pause, ma non ci sedevamo più insieme come facevamo prima.

Una giorno, Emily, un’infermiera del mio piano venne a sedersi con me e mi chiese: «Ehi, ma tu e Christian del piano di sotto vi siete lasciati?».

Sul mio volto si aprì un sorriso amaro.

«Non siamo mai stati insieme. È una cosa un po’ complicata».

Lei parve imbarazzata.

«Oh, ehm, mi dispiace… è che vi vedevo sempre  insieme… ».

«Già… ».

A quel punto, per non lasciare quel silenzio ad aleggiare tra noi due, Emily cominciò a parlare della tale dottoressa che era stata invitata ad un convegno, a Washington, di luminari nel campo della genetica, ed io le fui grata per quello.

Una settimana dopo, finalmente, arrivò il mio turno di andare in ferie. Avrei avuto un mese intero perché a Natale non mi ero presa niente.

Sapevo che anche Chris aveva adottato la mia stessa strategia: lavorando sotto Natale eravamo stati pagati di più ed ora sarei stata in vacanza fino al dieci di agosto.

Una pausa mi sarebbe servita e poi tra una settimana saremmo partiti tutti quanti per andare a Santa Barbara a trovare il nonno, che dopo la morte di nonna Allie, viveva in quella grande casa tutto solo.

Parlare con lui mi avrebbe fatto bene, così come anche non vedere Chris per un po’.

Tornai dal lavoro alle sette di sera e trovai i miei genitori tutti indaffarati a fare avanti e indietro tra la cucina e la sala da pranzo.

Buster, il grosso pastore bernese che mi avevano regalato quando avevo compiuto diciannove anni, se ne andava scodinzolando per tutto il giardino.

«Ehi, che succede?», chiesi a mia madre.

«Tua sorella porta a cena il suo nuovo fidanzato stasera».

«Nuovo? Perché? Si è lasciata con Jared?».

«Jared? Sì, da un pezzo, ormai! Saranno almeno due mesi che vede questo  ragazzo».

«Oh, ok… ».

«È un’occasione particolare? Devo mettermi qualcosa di elegante? Anche perché in tal caso mi servirebbe una doccia».

«Va bene, vai pure allora».

Detto questo, mamma filò nuovamente in cucina ed io al piano di sopra, in bagno.

Ormai non tenevo più il conto dei ragazzi di Shereen.

Ero sfinita, non avevo proprio voglia di prendere parte a quella cena; avrei soltanto voluto buttarmi a letto con Buster sdraiato sul tappeto e dormire fino a domattina.

Invece però, mi infilai nel box doccia, e aprii l’acqua regolandola in modo che diventasse tiepida.

Poi passai tra i capelli shampoo e balsamo al cocco e mi lavai il corpo con un bagnoschiuma all’orchidea.

Ero tutta profumata quando uscii dalla cabina e misi i piedi sul tappeto di erba sintetica, che mi solleticò la pelle.

Adesso ero molto più rilassata.

Mi asciugai i capelli con calma e indossai l’abito blu che avevo preparato su una sedia vicino alla vasca da bagno.

Lasciai i capelli sciolti sulle spalle e li fermai con un cerchietto argentato.

Dal piano inferiore sentivo voci concitate; mia sorella e la sua nuova conquista dovevano essere arrivati.

Scesi le scale a passo leggero e andai in salotto.

Buster, che era entrato in casa, mi fu subito dietro, colpendomi affettuosamente  la coscia nuda con il suo naso umido. Lo accarezzai sulla testa e poi arrivò mia sorella, con un sorriso raggiante.

«Sorellina, c’è qualcuno che ti devo presentare… tesoro!», chiamò con tono mieloso e assolutamente falso.

Sorellina? Tesoro?”, e da quando Shereen si rivolgeva a qualcuno così?

Una sagoma magra e slanciata uscì dalla sala da pranzo e quando me lo ritrovai di fronte, il mio cuore si fermò.

Era Chris.

A quanto pareva però, non ero l’unica ad essere costernata perché anche lui si era raggelato sul posto.

«Chelsea?», sussurrò.

Grazie al cielo in quel momento Buster era proprio dietro di me perché altrimenti sarei caduta per terra.

Mia sorella si staccò da lui e puntò i suoi occhi indagatori verso di me. Proprio allora anche i miei genitori arrivarono dalla cucina.

«Voi due vi conoscete?», chiese Shereen in tono freddo.

«Noi… », ma le parole mi morirono in gola ed io mi sentii un enorme blocco di ghiaccio nel petto.

«Lavoriamo insieme», completò lui per me.

Lei non sembrava particolarmente sorpresa, come invece lo erano mamma e papà.

«Davvero?», chiese mia madre.

L’unica cosa che io riuscii a fare però fu annuire e dirigermi su per le scale, diretta in camera mia.

Dovevo andarmene da lì. Dovevo andarmene subito altrimenti sarei impazzita del tutto.

Dove sarei andata, ancora non lo sapevo, ma ora non potevo di certo restare.

Presi una valigia dal mio armadio ed iniziai a riempirla con vestiti, computer, qualche libro, soldi; tutto gettato alla rinfusa e, quando fu piena da scoppiare, la chiusi di scatto.

«Cosa stai facendo?».

Quella voce mi fece sobbalzare e in quell’istante mi venne da piangere, ma non potevo farlo.

Ricacciai indietro le lacrime e mi voltai, trovandomi faccia a faccia con l’unica persona che non avrei voluto vedere in quel momento.

«Scusa, non volevo spaventarti».

Guardai Chris, dicendomi mentalmente di non scoppiare in lacrime.

«Devo solo… devo andarmene via per un po’».

Parlai con la voce più sicura che riuscii a trovare.

«Chelsea… ». Allungò un braccio verso di me, ma mi ritrassi velocemente.

Qualcosa nei suoi occhi in quel momento mi spezzò il cuore.

«Christian!», dal piano inferiore udimmo la voce di mia sorella.

«Shereen ti sta cercando, penso che sia il caso che tu vada».

«Chelsea», ripeté lui e nella sua voce, il dolore adesso era ben percepibile.

«Vattene e dì ai miei genitori che scendo tra poco».

Il mio tono rabbioso lo fece irrigidire, così mi voltò le spalle ed uscì dalla stanza, sussurrando qualcosa che alle mie orecchie suonò come un “Non mi aveva mai detto di avere una sorella…”

In effetti non c’era da sorprendersi.

Probabilmente se Shereen lo avesse fatto, lui avrebbe intuito che, forse, avendo lo stesso cognome, eravamo imparentate.

Mio Dio, mi sembrava tutto un brutto incubo.

Non poteva essere. No. Non era possibile che il mio Chris ora stesse con quell’arpia di mia sorella.

Un altro trofeo sul suo scaffale.

Il mio respiro iniziò a farsi affannoso, cercai di elaborare ciò che era appena successo, ma proprio non ci riuscivo.

Mi sedetti sul letto ed inspirai a fondo.

In quel momento Buster entrò in camera mia a passo leggero e mi posò la sua testa sulle ginocchia, scodinzolando preoccupato.

Mi guardò con quei suoi occhioni grandi e scuri che ora sembravano incredibilmente tristi.

Capiva che c’era qualcosa che non andava in me.

«Stammi vicino», gli sussurrai.

E detto questo mi alzai e scesi al piano di sotto con il mio fedele amico a vegliare su di me.

«Tesoro, stai bene? Sei pallida», disse mio padre.

«Sì, io… scusate, sono in quel periodo del mese, in realtà non ho molta fame», mentii, almeno in parte. Che non avevo fame era vero, ma non avevo il ciclo; volevo solo andarmene da lì.

«Oh, preferisci andare a sdraiarti in camera?», proseguì la mamma.

«Ma io e Christian siamo appena arrivati!», protestò Shereen.

Come al solito cercava di portare l’attenzione su di sé.

«Lo so, tesoro, ma tua sorella non si sente bene», disse mia madre in tono fermo.

Ero quasi commossa; mamma non prendeva quasi mai le mie difese se c’era di mezzo mia sorella.

Incrociai lo sguardo di Chris, sembrava che mi stesse silenziosamente supplicando di restare.

«Sì, credo sia meglio».

Fu come vederlo accasciarsi sulla sedia, ma lo notai solo io. Lo notai solo io perché ero quella che lo conosceva meglio in quella stanza, probabilmente anche meglio di Shereen.

Buster mi scodinzolava dietro, sempre in pena per me e quando arrivai in camera, mi spogliai, indossai il pigiama, spostai per terra la valigia che avevo frettolosamente preparato poco prima, e mi buttai a letto, facendo salire il mio cane, che si sdraiò vicino a me.

Di solito non lo facevo mai, ma quella sera avevo davvero bisogno di qualcuno.

Mi sembrava di essere come drogata. Sotto shock.

Infilai nelle orecchie le cuffie dell’mp3 per non sentire le voci dal piano di sotto e iniziai ad ascoltare della musica. La musica era il mio rifugio.

 Abbracciai Buster e mi lasciai sfuggire qualche lacrima, che andò a bagnare il pelo morbido e lucente del mio cane.

Poco a poco, scivolai nel sonno.

Venni svegliata da qualcosa che mi scostava i capelli dal viso: era mio padre.

«Scusa tesoro, non volevo svegliarti».

«È finita la cena?».

Lui annuì.

«Christian sembra davvero un bravo ragazzo», disse papà.

Non sapeva che così non faceva altro che accrescere il mio dolore.

«Era preoccupato per te, vorrebbe vederti, ha detto che siete molto amici, mi sorprendo che non ti abbia detto che si vedeva con tua sorella».

«Prima della cena mi ha detto che Shereen non gli aveva nemmeno detto di avere una sorella».

Papà scosse il capo.

«Sai com’è fatta… vuole sempre i riflettori puntati su di sé, non te la prendere, amore».

«Papà?».

«Sì?».

«Posso partire domattina?».

«Cosa?».

«Io… io vorrei andare dal nonno già domattina».

In circostanze normali avrebbe detto di no, o per lo meno avrebbe fatto qualche domanda per approfondire la cosa, ma quelle non erano circostanze normali, perché la disperazione nella mia voce era perfettamente udibile.

«Va bene, tesoro».

«Grazie. Parto appena mi sveglio, non c’è bisogno che voi vi alziate e porto anche Buster, sarete già in quattro e con le valige la settimana prossima e poi Shereen lo odia. E anche a lui, lei non sta molto simpatica».

Lui accennò un piccolo sorriso e si chinò a darmi un bacio sulla fronte. «Adesso dormi, cerca di riposare».

Quando uscì dalla mia stanza notai che non avevo più le cuffie nelle orecchie; era riuscito a togliermele senza svegliarmi.

Avevo la mente confusa, non riuscivo a formulare un pensiero logico e poco dopo, mi addormentai nuovamente.

 

Note dell’Autrice:

Ho provato a scrivere più di una volta questo capitolo perché non mi convinceva, alla fine questo è ciò che è venuto fuori.

Diciamo che è piuttosto introduttivo, la trama viene accennata a grandi linee, ma Chris e Chelsea faranno presto a complicare le cose sempre di più!

Fatemi sapere cosa ne pensate intanto; dal prossimo capitolo cominceranno a delinearsi meglio sia la trama, sia i caratteri dei vari personaggi e verrà introdotto anche un personaggio piuttosto importante.

Un ringraziamento speciale va a Yuko majo per lo splendido banner!

Vi lascio il link del mio profilo Facebook, aggiungetemi se siete interessati!

Clira Efp

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Capitolo 2
*** Cominciano i guai ***



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2  

CAPITOLO 2: COMINCIANO I GUAI

 

La mattina seguente mi svegliai presto e partii in silenzio, mentre tutti ancora stavano dormendo.

Affrontare mia sorella sarebbe stato snervante e probabilmente avremmo finito per litigare. Affrontare Chris sarebbe stato doloroso e angosciante e non era escluso che comunque potessi avere una discussione anche con lui.

Ero frustrata e delusa e mentre portavo Buster in macchina, non riuscivo a pensare ad altro che alla faccia di Chris la sera prima quando ero scesa per la cena. Agghiacciato era il termine più appropriato, ma il dolore nei suoi occhi era comunque ben leggibile quando era salito in camera mia.

Perché? Perché doveva succedere tutto quello?

Buster avvertiva tutto il mio nervosismo e agiva di conseguenza, infatti continuava a muoversi sempre in allerta sui sedili posteriori.

Non pensavo ad altro che ad arrivare dal nonno; volevo parlargli e sentirmi confortata da lui.

Quando arrivai, lo trovai ad aspettarmi sulla soglia di casa, la sagoma massiccia come sempre.

Spensi il motore  della macchina e uscii di corsa, lasciando un Buster piuttosto contrariato ad agitarsi chiuso in auto.

Il nonno mi accolse in un abbraccio solido e sicuro. Quanto mi era mancato. E quanto ne avevo bisogno.

«Come stai, bambina mia?».

«Bene», mentii.

Ma c’era qualcosa che non andava e lui se ne accorse immediatamente. Non ero mai stata brava a mentirgli.

«Vai a sistemarti e poi raccontami tutto. Io intanto chiamo tua madre per dirle che sei arrivata. Sei nella stanza grande».

Feci un’espressione sbalordita.

«Davvero?».

In tutta risposta lui mi fece l’occhiolino.

Così presi Buster e i miei bagagli e mi avviai in casa.

La camera da letto che mi aveva preparato era la più grande della casa e mi era sempre piaciuta tantissimo. Di solito ci stavano mamma e papà.

Era ampia e luminosa, da una parete a vetri si vedeva l’oceano e tutto il pavimento era ricoperto da uno spesso e morbidissimo tappeto bianco.

Il bianco ed il rosso erano i colori dominanti e la struttura del letto era in mogano lucido.

Vicino alla parete a vetri c’era una sedia a dondolo e in un angolo della stanza una sorta di grossa cuccia a forma di cesto fatta di soffici cuscini.

Ero sicura che Buster l’avrebbe apprezzata molto.

Ma la cosa migliore era la cabina armadio: era veramente enorme, io a casa non ne avevo una e quella era semplicemente… magnifica. L’adoravo.

Quando finii di sistemare ordinatamente i miei vestiti, andai in giardino, il nonno mi aspettava sotto un gazebo insieme alla colazione, anche se ormai erano le dieci e mezza.

«Tua madre ti saluta, Chelsea».

«Ha detto qualcosa riguardo a Shereen?».

«Ha detto che ha dato i numeri, ma questa parte mi aveva detto di non riferirtela».

Risi bonariamente; nonno Dan non sarebbe mai cambiato.

«Allora, tesoro… adesso mi dici che cosa succede?».

Quella fu la fine. Iniziai a parlare a raffica di tutto: di Chris, di come ci eravamo conosciuti, del nostro forte legame immediato, di quella sorta di abbozzo di relazione che c’era stato e di come entrambi, in seguito, avevamo ignorato la cosa. Fino ad arrivare alle rose, al fatto che non avevo la minima idea di chi avesse potuto mandarmele, al nostro allontanamento ed infine alla sera precedente, quando me lo ero ritrovato davanti vestito di tutto punto in giacca e cravatta. Era stato così strano, lui che di solito indossava sempre maglietta e jeans.

Alla fine il nonno disse: «Mi dispiace tanto, Chelsea. Ne hai parlato con Shereen?».

«No, ovviamente! Te lo immagini? Mi ucciderebbe!».

«E con Christian?».

«Neanche. Penso che abbia provato a parlarmene ieri, quando è salito in camera mia, ma l’ho più o meno buttato fuori. Mi ha detto che Shereen non gli aveva neanche del fatto di avere una sorella».

«Già, sai com’è fatta… ».

«Una stronza egocentrica? Sì, lo so».

Lui mi guardò di traverso.

«Farò finta che tu abbia detto che le piace stare al centro dell’attenzione».

«Sì. Diciamo così».

Il resto della giornata trascorse piacevolmente; non parlammo più né di Chris né di Shereen. Passai il pomeriggio a bordo piscina a prendere il sole e a leggere; era da troppo tempo che non mi concedevo una vacanza che fosse degna di essere chiamata tale.

Buster era felice con tutto quello spazio e correva allegro per il giardino facendomi sorridere.

Nei giorni seguenti mi dedicai a ciò che accomunava me ed il nonno: la musica.

Fu come se suonando e cantando riuscissi a liberare quello che mi angustiava e, almeno parzialmente,  ritrovai un po’ di serenità.

Quando trascorse una settimana, una mattina sentii il campanello suonare.

Erano le nove ed il nonno era impegnato nel suo studio di sopra, così andai io ad aprire.

Mi ritrovai davanti un ragazzo che aveva qualcosa di vagamente familiare, anche se non riuscivo a capire cosa.

Capelli neri un po’ lunghi, ma sistemati alla perfezione, occhi azzurrissimi, alto; ma meno di Chris, e qualcosa in quel viso mi ricordava…

«Ryan?!», chiesi spiazzata.

«Chelsea? Oh mio Dio, sei davvero tu?».

Ryan Kenyon era il figlio dei vicini del nonno; ci conoscevamo da sempre, solo che erano anni che non mi capitava di incontrarlo.

«Wow… come ci siamo fatti alti… », dissi sorridendo.

Lui rise.

«Beh, devo dire che anche tu sei cresciuta».

«Vieni dentro?».

«Certo, grazie».

«Cercavi il nonno?».

«Sì, insomma… lui si era offerto di insegnare a mio fratello minore a suonare il pianoforte e quindi volevamo chiedergli se adesso aveva tempo».

«Per queste cose io ho sempre tempo!», rispose il vocione di mio nonno, proveniente da dietro di noi.

«Ma anche Chelsea sarebbe una grande insegnante».

«Tu suoni?», mi chiese allora Ryan.

«Lei è stata la mia migliore studentessa. Bene, dunque, avete un piano a casa tua? O tuo fratello può venire qui? Sai, dovrebbe arrivare mia figlia con il resto della famiglia oggi, quindi è meglio che io resti a casa».

«Certo, nessun problema! Vado subito a chiamare Benjamin. Ehm… Chelsea, ti va di venire con me? Così intanto chiacchieriamo un po’».

«Certo».

La casa dei Kenyon non distava molto, arrivammo in poco più di un minuto.

«Quanti anni ha adesso Ben?» gli chiesi.

«Dodici. E ha davvero un bel caratterino».

Risi.

Qualche secondo dopo uscì di casa un ragazzino scalpitante che ci superò senza neanche degnarci di uno sguardo e corse verso casa del nonno.

«Ignoralo, è proprio di questo che parlavo».

«Nessun problema, tranquillo», risposi sorridendo.

«Allora, che dici… ti va di fare una passeggiata? Ti offro un gelato».

«D’accordo, però passiamo un momento da casa, così avviso il nonno».

Detto fatto, dopo cinque minuti ci stavamo avviando verso il lungomare, pieno di piccoli bar e gelaterie.

Ryan, che aveva la stessa età di Chris, mi raccontò che adesso stava facendo uno stage in uno studio legale dopo aver studiato legge per quattro anni al college ed io gli parlai un po’ di me.

Ad un tratto, mentre gli stavo raccontando del mio lavoro nella clinica privata, lui si bloccò improvvisamente.

«Ryan? Ehi? Ci sei?», chiesi passandogli una mano davanti agli occhi.

Seguendo il suo sguardo, vidi che stava fissando una bella ragazza dai capelli biondi e kilometri di gambe.

«Ehi, e quella chi è?», gli chiesi con un sorriso malizioso.

Lui parve riscuotersi improvvisamente.

«Quella? Quella chi? Non c’è nessuno!».

«Ma per favore! La super bionda che stavi guardando! Dai, dimmi qualcosa, almeno come si chiama! Chi è?».

«Dannazione, era così palese?».

«Diciamo che la bava alla bocca ti ha tradito», lo presi in giro.

«Oh, divertente, Gaver, davvero».

«E da quando tu mi chiami per cognome?».

«Da quando tu ti fai gli affari miei», rispose lui a tono, ma sempre con fare scherzoso.

«Va beh, comunque… chi è?».

Ryan sbuffò.

«Si chiama Gale, lavora nella clinica veterinaria dall’altra parte della strada dell’edificio in cui lavoro io. Abbiamo una specie di mensa aziendale che è comune ad entrambi gli edifici».

Stavo per dirgli di starle alla larga. Che gli incontri nelle mense potevano solo finire male e che un giorno lei gli avrebbe spezzato il cuore mettendosi con suo fratello. Poi ricordai che suo fratello aveva solo dodici anni e che quindi la cosa era piuttosto improbabile, a meno che la ragazza non volesse essere arrestata per pedofilia.

«E vi siete mai parlati?», dissi invece.

«Qualche volta, ma niente di che».

«E che cosa aspetti allora a parlarle?», chiesi prima di ordinare un gelato al cocco.

«Beh, io… ».

«Ryan, sei un ragazzo grande e grosso. Secondo me dovresti davvero provare a chiederle di uscire».

«Dici?».

«Mettiamola così: se dice di sì, evviva per te; se dice di no, almeno ti metti il cuore in pace ed espandi i tuoi orizzonti».

Il ragazzo mi sorrise.

«Beh, grazie del consiglio allora».

«Quando vuoi».

Pagò lui il gelato e non ci fu verso di dargli i miei soldi, poi ci fermammo a fare una passeggiata lungo la spiaggia, con il gelato in una mano e le scarpe nell’altra.

«E tu cosa mi dici della tua vita sentimentale?».

Ahi. Cosa potevo dirgli? Non sapevo neanch’io quale fosse la mia vita sentimentale in quel momento.

«È piuttosto complicata attualmente».

«E ti va di parlarne?».

«Mmm, non prenderla sul personale, Ryan, ma ora come ora, preferirei di no».

«Nessun problema, tranquilla».

Finimmo in silenzio il nostro gelato e poi lui mi riaccompagnò a casa.

Ero talmente sovrappensiero che quando arrivammo, non notai nemmeno la familiare auto parcheggiata vicino alla mia.

Infilai le chiavi nella serratura e girai.

Fu quando sentii le voci che mi irrigidii come se mi avessero rovesciato addosso un secchio di cubetti di ghiaccio. E Ryan se ne accorse immediatamente.

«Chelsea, che succede?».

Ma non sapevo cosa rispondergli.

Ormai però era troppo tardi perché la porta del salotto si era aperta e ne era uscito mio padre.

«Chelsea, ciao tesoro!», mi salutò venendo ad abbracciarmi.

«Salve, signor Gaver», disse poi il mio accompagnatore.

«Ryan Kenyon? Sei davvero tu? Beh, venite dentro, su ragazzi».

Io cercai di fare retro marcia trascinando Ryan con me, il quale mi guardò come se fossi pazza e al contempo con espressione preoccupata; ma non riuscii a portarlo via da lì e fui costretta ad entrare nella stanza.

Mia madre era seduta su un divanetto bianco a due posti, mentre Shereen e Chris ne occupavano uno a tre poco distante. Chris indossava di nuovo un completo elegante. Dio, era così strano vederlo così! Si stava trasformando in uno dei soliti cliché di Shereen. Sembrava quasi che riuscisse a plasmarli secondo i suoi gradimenti e questo era disgustoso. Io lo vedevo come un privarli della propria personalità ed era una cosa che odiavo.

Lo sguardo di mia sorella era chiaro: guerra aperta. A quanto pare non aveva gradito il fatto che, primo, alla sua cena di arrivo non avevo preso parte. Secondo, che mi ero defilata di nascosto il giorno dopo.

Lo sguardo di Chris invece era piuttosto frastornato. Continuava a guardare prima me, poi Ryan e viceversa ed io non sapevo cosa diavolo fare.

In quel momento arrivò mio nonno.

«Tuo fratello arriva subito, Ryan».

Lui sorrise e dopo dieci secondi, arrivò fulmineamente Ben, che salutò tutti e poi andò via tanto in fretta, che Ryan dovette inseguirlo, urlandomi un: «Ci sentiamo presto, Chelsea!»

Quando la porta si fu chiusa calò il silenzio.

La stanza sembrava essersi fatta improvvisamente fredda.

Presi un respiro profondo. Dannazione ed io cosa potevo dire adesso?.

Erano tutti seduti e mi fissavano, mentre io ero in piedi e sentivo come se fossi nuda lì davanti a loro.

«Com’è andata la settimana,  Chelsea?», mi chiese con delicatezza mia madre, mentre invece gli occhi di Shereen continuavano a fiammeggiare e Chris sembrava costantemente in tensione.

«Tutto bene. Io… avevo bisogno di rilassarmi».

«E ti sei rilassata con Ryan Kenyon?», chiese mia sorella in tono sprezzante.

«Shereen! Non parlare così a tua sorella», la riprese mio padre.

Feci un salto perché lui di rado alzava la voce, tanto che lei divenne rossa in volto, cosa che accadeva ancor più di rado.

«Se proprio lo vuoi sapere abbiamo solo fatto una passeggiata e comunque, anche se ci fossimo rilassati, non sarebbero ugualmente affari tuoi!», mi alterai.

A quelle parole vidi Chris irrigidirsi, ma non ci feci troppo caso perché mi voltai e corsi di sopra, furiosa.

Il nonno aveva due pianoforti in casa: uno era nel salotto dove adesso erano loro; l’altro era di sopra, in una stanza in fondo al corridoio. Fu lì che mi avviai, dando sfogo alla mia rabbia attraverso la musica classica.

Ad un tratto sentii una mano posarsi sulla mia spalla e mi voltai di colpo; non mi ero accorta dell’arrivo di mia madre.

«Scusa, non volevo spaventarti».

«Mia sorella è arrabbiata?».

«Sì, abbastanza».

«Come al solito. Secondo me le verrà un esaurimento nervoso a quarant’anni se continua a tirare su il finimondo per ogni cosa».

«Beh, devi ammettere che le hai risposto piuttosto male stavolta».

«Mamma, se sei qui per farmi la predica su Santa Shereen… ».

«Sono qui per dirti che Christian è rimasto alquanto sconvolto».

Rimasi interdetta.

«Cosa c’entra Chris?».

«Lui ti vuole davvero bene, Chelsea. Ha parlato di te per quasi tutta la settimana e questo ha fatto arrabbiare ancor di più tua sorella. Per questo ora se la prende per ogni minima cosa».

Mamma fece una pausa e poi continuò: «Devo chiedertelo, amore… c’è qualcosa tra te e Christian?».

«Mamma!».

«O c’è stato qualcosa?».

Ora il mio tono si fece meno scandalizzato rispetto a poco prima.

Abbassai gli occhi e la guardai di sottecchi.

«Sì. Più o meno».

«Oh, Chelsea… ».

«Mamma, io che cosa ne potevo sapere?! Conosco Chris da prima che lui anche la incontrasse quella…! Mia sorella…».

«Provi ancora qualcosa per lui, vero?».

Gli occhi mi si riempirono di lacrime.

«È così evidente?».

«Tesoro, devi dimenticarlo. Lo dico per te».

«Dimenticarlo? Mamma, lui passerà con noi tutto il resto dell’estate e poi ci vedremo al lavoro tutti i giorni. Perché pensi che abbia voluto partire subito appena loro sono arrivati? È per questo che me ne sono voluta andare!».

Gli occhi di mia madre erano incredibilmente 

tristi.

«Vieni qui», disse. E mi abbracciò.

Mi aggrappai a lei e la strinsi forte.

Non potevo farcela.

Sarebbe stata troppo dura adesso.

Quando mi calmai la lasciai andare e respirai a fondo un paio di volte, poi con un sorriso, la mamma mi disse: «Allora… suoni qualcosa per me?».

Le sorrisi e ricominciai a suonare.

Lei mi tenne le mani sulle spalle per tutto il tempo; erano anni che non ce ne stavamo un po’ così io e lei da sole e in quel modo, pensai che avrei potuto trascorrere ore intere.

Quando finii la sonata al chiaro di luna di Beethoven, mia madre si chinò a darmi un bacio sulla testa e poi uscì dalla stanza.

Io chiusi il pianoforte e vi posai sopra le braccia, incrociandole, e  appoggiandovi la fronte. Quel brano era bellissimo, ma mi metteva sempre una tristezza incredibile, che, sommata a tutta quella situazione e al mio stato d’animo, non era esattamente una combinazione vincente.

Ad un tratto, sentii una mano posarsi sulla mia testa e accarezzarmi i capelli. Era una mano grande e affusolata, quindi la associai a mio padre, ma, quando notai che quel qualcuno si stava chinando a darmi un bacio tra i capelli, feci un salto sullo sgabello perché riconobbi il profumo e, decisamente, non era quello di mio padre.

Mi ero voltata così in fretta, che i nostri volti adesso si trovavano ad un centimetro di distanza.

«Chris, che cosa… che cosa stai facendo?», avevo il fiato corto e la mente confusa. «Sai che se dovesse entrare mia sorella ci ammazzerebbe entrambi?».

A quelle parole, lui si rabbuiò.

«Io… ti giuro che non lo sapevo, Chelsea… ».

«Lo so, ti credo, in fin dei conti non mi è poi così difficile credere che lei non ti abbia mai parlato di me. Nel mondo di Shereen esiste solo Shereen».

«Anche tu però non mi avevi mai parlato di lei».

«Certo! Perché per una sola, misera volta, avrei voluto che qualcuno mi vedesse per ciò che sono davvero! Senza che venisse a sapere della mia geniale sorella o dei miei genitori benestanti o di qualunque altra stupida cosa riguardante la mia famiglia. Volevo che per questa volta tu vedessi Chelsea. Non Chelsea Miranda Gaver. Solo Chelsea. E pensavo di esserci riuscita, ma a quando pare non è stato così, perché anche se non lo sapevi, hai comunque scelto il partito migliore».

Il mio tono era disperato e l’espressione di Chris sconvolta.

«Il partito migliore? Chelsea, ma ti rendi conto di cosa stai dicendo? Come se tu fossi… l’ultima ruota del carro!».

«Ma è quello che sono! È quello che sono sempre stata, Chris! Per tutti, tranne che per mio nonno».

I miei occhi adesso erano lucidi per le lacrime, ma erano più dovute alla rabbia e alla frustrazione, che alla delusione.

Il ragazzo mi si avvicinò e cercò di prendermi per le spalle, ma mi scansai.

«Non mi toccare», dissi in tono così acido e tagliente, che me ne sorpresi io stessa.

Nei suoi occhi passò un lampo e lui assunse un’espressione ferita.

«Tu non sei l’ultima ruota del carro, Chelsea. Non per me, non lo sei mai stata. È solo che… se tu mi avessi detto che avevi una sorella maggiore, sarei riuscito a capire che Shereen era tua sorella. Stesso cognome, stessa città, ma io ho sempre creduto che tu fossi figlia unica! Mi hai parlato spesso dei tuoi genitori e di tuo nonno, ma mai una volta di tua sorella. Non avrei mai pensato… non vi somigliate nemmeno». Il tono di Chris era profondamente amareggiato.

Era vero. Io, nonostante Shereen fosse più grande di me di sei anni, ero più alta di lei di quattro centimetri; entrambe avevamo capelli castani, ma i suoi erano più scuri dei miei; io avevo preso gli occhi azzurri di papà, mentre lei quelli scuri di mamma ed io avevo una carnagione molto chiara, mentre la sua era olivastra.

Non avevamo tanto in comune, se non il fatto di essere entrambe alte e magre e di condividere lo stesso cognome. Anche caratterialmente eravamo l’opposto.

Mi presi il volto tra le mani, coprendomi alla sua vista e scuotendo la testa. Avrei potuto evitare tutto quello se solo avessi detto a Chris dell’esistenza di Shereen.

Poi, percepii le mani fredde del ragazzo afferrarmi le braccia e attrarmi a sé con prudenza, come se avesse paura che da un momento all’altro potessi esplodere nuovamente in qualche attacco di rabbia.

«Non sei l’ultima ruota del carro, Chelsea, sono stato un idiota. Dovevo darti modo di spiegare dopo quella volta delle rose, io… di solito non sono così, non so che mi sia preso».

«Lo so io… eri geloso e non provare a negarlo perché ti conosco e ricordo il tono e lo sguardo che avevi quel giorno. E quella era gelosia».

Lui strinse la presa sulle mie braccia fino a farmi male, tanto che provai a divincolarmi, ma la stretta era ferrea.

«Chris! Chris, mi stai facendo male».

Solo in quel momento parve rendersene conto.

«Io… Chelsea… mi dispiace».

Lo fissai. Non era rimasta traccia del ragazzo che conoscevo io. Non era rimasta traccia del Chris allegro e spiritoso che avevo imparato a conoscere ed amare. Quello che avevo davanti sembrava solo una sua vecchia copia sbiadita e invecchiata.

«Chris, adesso lasciami… », gli dissi sciogliendomi dalla sua presa, che già aveva allentato.

Mi guardò con occhi addolorati, ma non potevo più sostenere quello sguardo, così lo superai senza voltarmi indietro e corsi fuori, puntando alla mia stanza.

Al piano inferiore sentivo la voce isterica di mia sorella che se la prendeva con il nonno perché lui aveva sistemato me nella stanza grande, così i miei genitori avevano preso la stanza degli ospiti con il letto matrimoniale e lei e Chris avrebbero dovuto dormire nella camera con i due letti singoli.

Ringraziai mentalmente mio nonno, ma avevo un groppo in gola terribile, tanto che per un momento mi parve di soffocare e cominciai a tossire, poi mi calmai proprio mentre mio padre accorreva per vedere se stessi morendo soffocata.

«Tesoro, tutto bene?».

Mi diedi un contegno, cercando di sviare la cosa, anche perché sentivo che altrimenti mi sarei messa a piangere.

«Mi è andata di traverso l’acqua», dissi indicando una bottiglietta di plastica verde mezza vuota posata sul comodino.

Lui ridacchiò.

«Cerca di stare più attenta, piccola autolesionista», detto questo girò sui tacchi e uscì dalla mia stanza.

Se non altro era riuscito a farmi sorridere.

Rimasi seduta sul letto qualche istante, poi vidi Chris  passare davanti alla porta aperta della mia stanza e per un momento i nostri sguardi si incrociarono. Un attimo dopo, Shereen entrò nel mio campo visivo, baciando appassionatamente Chris proprio davanti ai miei occhi e lanciandomi subito dopo uno sguardo ostile, prendendo per mano il ragazzo e trascinandolo giù per le scale.

Avevo voglia di urlare. Di afferrare oggetti e lanciarli in giro per la stanza, ma l’unica cosa che feci fu frugare nella borsa ed estrarre il mio cellulare mezzo scassato.

Scorsi con rapidità la rubrica e, arrivata al nome che mi interessava, premetti il tasto verde di chiamata.

La sua voce familiare mi rispose al primo squillo.

«Ehi! Ma si può sapere che cosa…?», ma non lo feci finire.

«Vieni a prendermi. Per favore, ti spiegherò tutto, ma… vieni a prendermi, Ryan».

 

Note dell’autrice:

Secondo capitolo! Le cose cominciano a complicarsi e la trama a delinearsi. Con questo capitolo, è stato introdotto Ryan, altro personaggio fondamentale nella storia, così come anche il nonno.

Come vi sembra? Io mi sono divertita a scriverlo.

Ah, i personaggi…

Chelsea Gaver – Melissa Benoist

Christian Williams – Jamie Campbell Bower

Shereen Gaver – Nina Dobrev

Ryan Kenyon – Matt Long

Gale Skyes – Claire Holt

 

Sono all’altezza delle vostre aspettative? ;-)

La foto di Ryan, anche se c'è la tizia di spalle, era l'unica che lo rendesse per come lo immagino io.

Vi lascio anche un estratto dal prossimo  capitolo e, come al solito il link del mio profilo Facebook.

DAL CAPITOLO 3:

“Aprii silenziosamente la porta e… mi trovai faccia a faccia con un Chris gocciolante e a petto nudo. Il mio cuore fece qualche capriola di troppo e dovetti conficcarmi le unghie nel palmo della mano per mantenere un barlume di lucidità.

«Chelsea, io… ».

«Doccia di mezzanotte?», chiesi cercando di mascherare il mio nervosismo, anche se ero certa che fosse piuttosto evidente.

Lui sembrava indeciso se sorridere o essere imbarazzato, poi, notando il mio fantomatico pigiama, si aprì in uno di quei sogghigni che mi facevano venire voglia di affondargli le dita nei capelli, attrarlo a me con tutta la forza che avevo  e baciarlo.”

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Capitolo 3
*** Chi si cela dietro le rose ***



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3  


CAPITOLO 3: CHI SI CELA DIETRO LE ROSE

 

Chiusi la porta della mia stanza per darmi un contegno prima dell’arrivo di Ryan e, quando tre minuti dopo udii suonare alla porta d’ingresso, mi fiondai al piano di sotto, davanti agli sguardi stupiti di mia madre, Shereen e Chris, defilandomi subito e prendendo anche il guinzaglio per il mio cane.

Poi, con un sommesso “sto uscendo”, mi chiusi la porta alle spalle.

Camminai con Ryan al mio fianco da una parte e Buster dall’altra, in religioso silenzio, finché non ci allontanammo sufficientemente dalla casa del nonno, poi, lui mi prese delicatamente per il polso e mi fece voltare.

«Chelsea… forse, anzi, probabilmente, questi non sono affari miei, ma… non mi piace vedere una donna in questo stato d’animo».

«Ah, ti piace soccorrere le donzelle in difficoltà?», chiesi cercando di minimizzare la cosa.

«Diciamo che è una mia vocazione, però mi pare che questa volta sia stata la donzella in questione a chiedere di essere soccorsa», mi rispose sorridendo.

Aveva un bel sorriso, notai.

«Credo di doverti una spiegazione… », proseguii. «Ma ti avverto… è una storia complicata e forse anche un po’ assurda».

«Beh, allora hai trovato la persona giusta… mi piacciono le cose complicate e assurde», disse facendomi l’occhiolino.

Accennai un sorriso e poi presi un respiro profondo.

«Non sei obbligata a parlarne se non vuoi, sai, Chelsea?».

«Non si tratta di volerlo o meno. È che… vorrei parlarne con qualcuno della mia età e l’unico a cui abbia raccontato tutta la storia per filo e per segno è mio nonno. A mia madre ho solo accennato qualcosa».

«Allora parla, io ti ascolto».

Camminammo a lungo mentre io cercavo di srotolare la matassa intricata che era stata la mia vita negli ultimi mesi. Quando finii, il sole aveva iniziato a calare e si potevano intravedere le prime sporadiche stelle.

Quello era il momento della giornata che più preferivo e con quel paesaggio come sfondo era ancor più incantevole.

Il sole spariva oltre il mare, lanciando striature gialle e arancioni in un cielo che cominciava a farsi scuro e dando un effetto fiabesco al paesaggio, alla spiaggia e all’oceano.

«Accidenti… ora capisco perché questa mattina non avevi voglia di parlarne… », disse Ryan quando finii il mio racconto.

«Già».

«Allora perché hai deciso di farlo adesso?».

Risi amaramente. «Perché non ho mai avuto un amico prima di Chris ed ora ho perso anche lui e… sai, vorrei che fosse tutto più facile. Sai i bambini? Loro trascorrono un minuto con un altro bambino e subito gli chiedono di essere il loro migliore amico. Quindi adesso ti farò una domanda stupida: vuoi essere mio amico, Ryan Nicholas Kenyon?».

Lui rise sinceramente, poi tornò a farsi serio.

«Sì, voglio essere tuo amico, Chelsea Miranda Gaver», disse porgendomi il braccio, come se mi stesse accompagnando ad un ballo. «E poi… se Gale mi dicesse di no, almeno potremmo stare da soli insieme», continuò lui.

Presi il suo braccio sorridendo, con il peso sullo stomaco che avevo avuto per tutta la settimana, un po’ alleggerito.

«Grazie, Ryan».

«Ora vuoi tornare a casa? Sta cominciando a farsi buio».

Annuii.

«Credo di non poter continuare ad evitare la mia famiglia per il resto della vita».

«Sì, forse non è il caso».

Ci riavviammo verso casa del nonno, tenendoci sotto braccio.

Quando arrivammo, Chris era lì fuori, sulla veranda, seduto su un dondolo, da solo. Non appena ci vide si irrigidì.

«Ci sentiamo presto, Chelsea», disse Ryan con una piccola stretta al mio polso. Poi, sporgendosi per darmi un bacio sulla guancia aggiunse: «E stai tranquilla, sei forte abbastanza per affrontare tutto questo».

«E noi staremo da soli insieme?».

«Staremo da soli insieme», mi fece eco con un sorriso.

Mi voltò le spalle e si allontanò nell’oscurità crescente.

Mi avviai lungo il vialetto sterrato  che percorreva il giardino portando alla casa e, una volta sulla veranda, mi ritrovai faccia a faccia con Chris.

«Lui è… ».

«Un amico», lo interruppi prima che potesse finire la frase.

«Chelsea… ».

«Non devo rendere conto a te delle mie azioni, Chris, quindi non chiedere». Lo superai ed entrai in casa; la tavola era apparecchiata e dalla cucina proveniva un odore che mi fece venire l’acquolina in bocca.

Mia madre era un genio ai fornelli, non per niente dirigeva una catena di ristoranti molto stimati. A venticinque anni, aveva cominciato a creare il suo impero, ed era principalmente da lei che veniva la nostra ricchezza.

Io in cucina  me la cavavo, ma non ero neanche paragonabile a mia madre, per non parlare poi di Shereen, che scambiava il coperchio di una pentola per uno specchio, ma in compenso eccelleva in molte altre cose.

Prima della cena, andai in camera mia a cambiarmi, e quando tornai di sotto, erano tutti lì, Chris compreso, seduti a tavola ad aspettarmi.

«Allora, tesoro… com’è andata oggi con Ryan?», chiese mio padre, versandosi del vino rosso nel bicchiere.

Ingoiai il vuoto, avrei preferito sviare il discorso.

«Bene, era da tempo che non ci vedevamo, è simpatico», dissi con un sorriso forzato.

«Sì, è proprio un bravo ragazzo; conosco bene suo padre, siamo andati al college insieme, a Boston. Anzi, devo proprio chiamarlo ora che siamo qui. Dovremmo organizzare una bella uscita insieme».

La conversazione stava prendendo una piega che non mi piaceva molto, dovevo affrettarmi a cambiare argomento.

«Non sapevo che avessi frequentato il college a Boston; è da tutt’altra parte!» esclamai.

«Non te l’ho mai detto? Ero sicuro di sì».

«Ce l’hai detto un’infinità di volte, papà, ma probabilmente Chelsea stava solo cercando di cambiare argomento perché quello di prima era piuttosto spinoso per i suoi gusti».

Le parole taglienti di mia sorella furono come una sferzata di vento gelido quando addosso non hai che un vestito di carta.

«Shereen, dovresti smetterla di comportarti così», le dissi solo.

«Così come? Io dico solo la verità, in fin dei conti… non è un segreto che i ragazzi per te siano un territorio inesplorato, hai passato tutta la tua adolescenza a cercare di essere migliore di me, senza riuscirci, per altro».

Il suo tono era candido, come se stesse parlando del tempo e nella stanza, mi sembrava che la temperatura fosse calata a picco.

«Shereen, smettila», disse mia madre, mentre un fastidioso nodo in gola minacciava di soffocarmi, ma la rabbia era ben superiore alla voglia di piangere e dovetti fare uno sforzo notevole per trattenermi dal piantarle la forchetta a fondo nella mano.

«Cosa c’è, mamma? Non sto dicendo nulla che già non si sappia già, in fin dei conti. C’era stato quel ragazzo alle superiori, ricordi Chelsea? Com’è che si chiamava, ti piaceva da impazzire… mi sfugge il nome. Ah, sì! Matthew!».

Matthew? Ma cosa cavolo stava dicendo quella sadica bastarda, adesso? Avevo avuto un compagno di classe al liceo, un certo Matthew Dalton, ma non mi piaceva affatto! Insomma… era un tipo del tutto strano, magro all’inverosimile, con uno sfogo di acne su tutto il viso e piuttosto asociale. Dovevo fargli da tutor in francese e biologia, ma mi aveva letteralmente fatto scappare. Da quel momento non gli avevo più parlato.

Capii solo guardando Chris, che si era improvvisamente irrigidito, a cosa mia sorella mi avesse portato. Matthew: M.

Le rose, il biglietto; Shereen aveva condotto il gioco per portarmi esattamente lì, dove voleva lei, e a quel punto compresi: era stata lei a mandare i fiori. Ecco perché la grafia mi sembrava tanto familiare; era la sua, ma in quel momento non ci avevo fatto caso e dopo quello che era accaduto con Chris, avevo buttato via fiori e biglietto.

A quel punto potei spiegarmi anche le rose bianche: non avevo mai detto al mio amico che quelli fossero i miei fiori preferiti; ma Shereen lo sapeva bene.

Strinsi forte i pugni attorno alle posate, tanto che le nocche divennero bianchissime e provai una fitta di dolore, ma non m’importava niente, se avessi potuto avrei volentieri infilzato una delle delicate mani di Shereen in quel momento, impalandola al tavolo.

Fu in quel momento che intervenne il nonno.

«Beh, tesoro, direi che tua sorella in una cosa è riuscita benissimo e a dir poco meglio di te. Anzi, in due cose a dire la verità. La prima è la musica e dubito che tu, essendo geniale sotto molti punti di vista, arrivi al livello in cui lei è arrivata e, come seconda cosa, ti ha superato anche come essere umano. Nell’avere tatto e rispetto nei confronti di chi le sta accanto, cosa che, mi sembra chiaro, tu debba ancora imparare».

Mia sorella parve punta sul vivo a quelle parole.

«Che tu abbia una preferenza nei suoi confronti è sempre stato chiaro», disse risentita.

«Shereen, adesso basta».

A sorpresa di tutti, quelle parole provennero da Chris.

Mia sorella lo guardò come se le avesse dato un pugno dritto nello stomaco, poi riprese: «Tu dovresti essere il mio ragazzo, Christian».

«E lo sono, ma conosco Chelsea da più tempo di quanto conosca te e lei è mia amica. È la mia migliore amica e non mi piace che la tratti così».

Ero stupita. Per un attimo, un minuscolo, fugace attimo, avevo rivisto il mio Chris dopo tanti mesi e questo mi riempì il cuore di gioia, che però venne estirpata nuovamente quando incrociai gli occhi astiosi di mia sorella. Lui mi aveva difesa.

«Ragazzi, vi piace la cena?», tentativo disperato di mia madre di riportare la conversazione su dei toni un po’ più soavi, ma ormai l’atmosfera era stata rovinata senza vie di ritorno.

«Deliziosa, signora Gaver», Chris era gentile come sempre, riuscì perfino a sorridere. Io ero certa che se solo ci avessi provato, mi si sarebbe stampata sul viso una smorfia orribile.

Per lo più finimmo di mangiare nel silenzio, salvo qualche scambio di battute sporadico, poi i miei genitori restarono in salotto a guardare un film, mentre il nonno, Chris e Shereen andarono a letto. Io uscii di casa per portare Buster a fare i suoi bisogni per la notte, ma soprattutto avevo bisogno di schiarirmi un po’ le idee, perché pensieri confusi e sentimenti contrastanti continuavano ad affollarsi dentro di me.

Con la mano libera dal guinzaglio, continuavo a ticchettare a ritmo regolare sulla mia gamba, come presa da un improvviso tic nervoso. Per calmarmi pensai a mia sorella che rimaneva incastrata con un tacco dentro a un tombino e questo servì parzialmente a restituirmi il sorriso. Forse avrei dovuto sentirmi in colpa per quel pensiero, ma l’unica cosa che riuscii a pensare era quell’immagine e io che guardavo da un angolino ridendo. Ok, forse cominciava a degenerare quella situazione, o forse era solo la mia mente che si avvicinava poco a poco alla follia.

Ad un tratto, mentre passeggiavo, sentii una voce chiamarmi.

«Ryan! Che cosa ci fai qui?».

«Io? Beh, stai camminando al buio da sola davanti casa mia… ».

Solo in quel momento mi resi conto di dove fossi e mi venne da ridere per tutta quella situazione, per non essermi nemmeno accorta di dove stessi andando e che, guarda caso, ero proprio arrivata davanti alla casa di Ryan.

«Non sono proprio da sola; ho con me la migliore guardia del corpo che si potrebbe desiderare», dissi accennando a Buster.

Lui sorrise. «Già».

«Tu eri affacciato a controllare cosa succede in strada come fanno i vecchietti?», lo presi in giro.

«Ti diverti a prenderti gioco di me, vero?».

«Mmm, forse un po’», dissi».

«E io cosa dovrei dire di te allora? Ti aggiri sospetta proprio sotto alla finestra della mia camera da letto a tarda ora. Potresti essere una stalker! Dopotutto è già la terza volta che ci incontriamo oggi. Non male, direi… non ci vediamo per anni e poi passiamo quasi un’intera giornata insieme».

Risi. Ryan sembrava sempre così spontaneo, come un ragazzino.

«Fammi vedere allora qual è la finestra della tua stanza, così magari posso venire ad importunarti alle tre del mattino lanciando legnetti contro il vetro come una vera stalker!».

Ryan scosse la testa divertito ed indicò una delle finestre al secondo piano.

«Eccola lì, ma ti avverto: ho il sonno pesante, ti servirà ben più di qualche bastoncino per svegliarmi».

«Lo terrò a mente».

«Chelsea, posso chiederti una cosa?».

«Certo».

«Cos’è successo stasera? Quando ti osservavo dalla finestra avevi una faccia strana… ».

«Non ti sfugge niente, vero?».

«Di rado», rispose sempre con quel suo sorriso.

«Si tratta di mia sorella… », e così gli raccontai tutto.

«Caspita… è una bella stronza», disse quando terminai.

«È mia sorella».

Ryan mi posò una mano sulla spalla.

«Non ci scegliamo noi i familiari, ma ci scegliamo gli amici e proprio oggi ti ho detto che sarò tuo amico. Conta su di me».

Sorrisi.

«Grazie, Ryan».

«Adesso è meglio se ti riporto a casa, altrimenti si chiederanno dove sei andata a finire. Ah, una cosa… preferirei che mi chiamassi quando devi portare fuori Buster, la sera. Di solito questa è una zona tranquilla, ma è stata aggredita una ragazza non molto tempo fa».

«Alla faccia della zona tranquilla».

«Non era mai successo, davvero, siamo rimasti tutti spiazzati. Mi chiamerai?».

«Ti chiamerò».

«Bene. Allora buonanotte, Chelsea, ci vediamo presto».

«Grazie di tutto. Buonanotte».

Detto questo, Ryan si allontanò.

Quando entrai in casa, i miei genitori stavano ancora guardando la televisione, un film d’azione di quelli che piacevano a mio padre; mamma ormai si era rassegnata alla cosa dopo tanti anni di matrimonio.

«Chelsea, era Ryan il ragazzo con cui stavi parlando?».

Dannazione, com’è che non gli sfuggiva mai niente? Io lo avevo sempre detto che secondo me in realtà lui era un agente segreto di alto livello e nascondeva la cosa dicendo di lavorare nel settore informatico.

«Sì, papà, era lui», risposi entrando nel salotto.

«Passate molto tempo insieme… ».

«Non direi, ci siamo appena incontrati… ».

«Esatto, e avete già trascorso quasi un giorno intero insieme», continuò con un sorrisetto che la diceva lunga.

«Papà, dove vorresti arrivare?».

«Da nessuna parte, tesoro, dico solo che… Ryan è un bravo ragazzo… ».

«Questo l’hai già detto oggi».

«Quindi ci vieni alla cena, no?».

«Quale cena?».

«Ma sì, ne ho parlato oggi! Ho chiamato suo padre, cena la prossima settimana. Noi e loro. Verranno anche il nonno, Sher e Chris».

“Che bellezza”, esultai molto ironicamente nella mia testa.

«Com’è quella storia che i padri dovrebbero essere molto gelosi delle proprie figlie? A me non sembri molto geloso... ».

«Beh tesoro, tu sei una bella ragazza ed è normale che i ragazzi si interessino a te; io sto solo… indirizzandoti verso chi potrebbe essere alla tua altezza».

Mi venne da ridere.

«Mmm… buonanotte, ok papà?».

«Notte, coniglietto».

“Coniglietto”?! Dio, era da quando avevo otto anni che non mi chiamava più così. Con la coda dell’occhio intravidi mia madre sorridere, poi mi avviai su per le scale, dirigendomi in quella che sarebbe stata la mia camera per il prossimo mese. Avevo sempre adorato trascorrere le vacanze dal nonno, ma… quell’estate sapevo già in partenza che sarebbe stata una permanenza molto lunga!

Buster era già sdraiato sulla sua nuova cuccia, comodo come un re e quando tirai fuori il mio pigiama da sotto il cuscino, che in realtà consisteva in una maglia rosa che mi arrivava fino a metà coscia e su cui c’era scritto “I love my grandpa”, lui mi sbadigliò in faccia, beatamente.

In origine quella maglietta era stata una camicia da notte lunga fino alle caviglie, ma ce l’avevo da più di dieci anni, quindi… adesso era ciò che era.

Mi svestii e in punta di piedi mi avviai fino al bagno. Dovevo passare davanti alla stanza di Shereen e Chris e non ci tenevo che uno dei due mi sentisse.

Aprii silenziosamente la porta e… mi trovai faccia a faccia con un Chris gocciolante e a petto nudo. Il mio cuore fece qualche capriola di troppo e dovetti conficcarmi le unghie nel palmo della mano per mantenere un barlume di lucidità.

«Chelsea, io… ».

«Doccia di mezzanotte?», chiesi cercando di mascherare il mio nervosismo, anche se ero certa che fosse piuttosto evidente.

Lui sembrava indeciso se sorridere o essere imbarazzato, poi, notando il mio fantomatico pigiama, si aprì in uno di quei sogghigni che mi facevano venire voglia di affondargli le dita nei capelli, attrarlo a me con tutta la forza che avevo  e baciarlo.

È vero, non avevo mai avuto un ragazzo, ma nonostante la Chelsea nella vita quotidiana fosse di carattere mite e condiscendente, ero quasi sicura che la versione di Chelsea in un’eventuale vita sentimentale sarebbe stata un tantino più… turbolenta.

Le parole di Chris mi riscossero dai miei pensieri: «Bel pigiamino comunque», disse con il chiaro intento di prendermi in giro.

«Simpatico, Willy».

Il suo cognome infatti era Williams e lui odiava quando lo chiamavo così, tanto che mi lanciò un’occhiata di fuoco.

«Hai qualcosa da ridire sul fatto che io voglia molto molto bene a mio nonno?».

«Oh no, non sia mai!», scherzò alzando le braccia in segno di resa.

«Ecco, mi sembrava».

Lui scosse la testa, divertito. Mio Dio, mi sembrava di essere tornata a sei mesi fa, quando il mio Chris era ancora il mio Chris. Quando era ancora il mio migliore amico e nutrivo delle speranze che potesse diventare qualcosa di più.

«Solo un consiglio, Chris… chiudi la porta a chiave la prossima volta che decidi di fare una doccia».

Ridacchiò.

«Lo terrò presente».

In quel momento sentimmo dei passi avvicinarsi in fretta e, ugualmente in fretta, Chris si allungò per spegnere la luce del bagno, spingermi  dietro la porta e schiacciarsi su di me, premendomi una mano sulla bocca.

In quel momento entrò mia sorella.

Bene. Se Shereen ci avesse scoperti in quel momento sarebbe stata la mia fine; la nostra fine. Se ci avesse trovati in quella posizione, a quell’ora, così svestiti, ci avrebbe scuoiati vivi entrambi.

Io sentivo il respiro di Chris dritto in faccia, la pelle calda del suo torace, ancora umida per la doccia, premeva contro la mia pelle scoperta del collo e del viso; mi sovrastava, era dieci centimetri più alto di me e, mentre una mano mi tappava la bocca, l’altra era  adagiata lungo il mio fianco, le sue dita sfioravano la mia coscia nuda.

Potevo sentire i nostri cuori battere forte, sentivo il suo pulsare contro di me, tanto che credetti che Shereen si sarebbe accorta di noi, ma per fortuna quando era entrata aveva lasciato la porta spalancata, così da fare in modo che ci nascondesse alla sua vista.

Accese la luce delle lampade sopra lo specchio; prese qualcosa dalla sua trousse sulla mensola, anche se non potevo vederla, la sentivo trafficare; poi spense di nuovo tutto e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

Restammo immobili in quella posizione per altri dieci secondi abbondanti, quasi senza respirare e ancora troppo terrorizzati dall’idea di un’altra eventuale incursione, poi, lentamente, Chris si staccò, respirando di nuovo a pieni polmoni.

«Oddio, c’è mancato davvero poco… », sussurrai nell’ombra.

Solo in quel momento mi resi conto che, nonostante mia sorella fosse andata via, io mi trovavo ancora in una stanza buia con un Chris mezzo nudo a pochi centimetri da me; potevo sentire il calore emanato dal suo corpo.

Mi sporsi per riaccendere a tentoni la luce, ma quando Chris capì cosa stavo cercando di fare, mi bloccò il polso.

«Che cosa stai facendo?», gli chiesi con il cuore in gola.

«C’è una cosa che voglio fare e non posso farla se tu mi fissi, Chelsea».

«Chris… », ma il resto della frase morì prima di venire fuori.

«No. Devo farlo perché altrimenti potrei impazzire e ti giuro che questa cosa resterà qui, tra le mura di questa stanza e che me la porterò nella tomba e se l’oscurità non mi aiuterà a farlo, allora non te ne parlerò mai più, ma almeno fammi provare, perché le tue proteste non fanno altro che farmi sentire peggio».

Chiusi la bocca e ingoiai il vuoto, immaginando benissimo cosa stesse per succedere e sentendomi un verme ed una traditrice perché lo volevo davvero; lo volevo più di ogni altra cosa al mondo, nonostante lui stesse con mia sorella.

Le braccia di Chris mi circondarono la vita e mi attrassero a lui; colmando la distanza che ci separava e facendo aderire i nostri corpi.

La fronte del ragazzo si posò sulla mia ed io potei sentire il suo respiro affannoso e caldo sulla mia pelle.

Le labbra di lui percorsero la mia guancia fino ad arrivare all’angolo della mia bocca e a quel punto… mi scostai bruscamente, allontanandomi dal suo corpo fremente.

«Non lo possiamo fare, Chris; questo… questo è sbagliato, tu stai con mia sorella».

Mi sorpresi nel sentire una tale freddezza nella mia voce, soprattutto perché dentro di me volevo soltanto morire.

Cercai a tentoni la porta e, quando trovai la maniglia, la abbassai e uscii il più in fretta possibile da quel dannato bagno, rifugiandomi nella sicurezza della mia stanza e infilandomi sotto le lenzuola di raso.

E quello era solo il primo giorno…

 

Note dell’autrice:

Eccoci qui con il terzo capitolo!          Beh, che dire… allora, il rapporto tra Chelsea e Ryan comincia a prendere una direzione un po’ più delineata, mentre, per quanto riguarda Chelsea e Chris, soprattutto Chris, vediamo che lui qualcosa, nei confronti di questa benedetta ragazza, comunque la prova.

Shereen: ebbene sì, è stata proprio lei a mandare le rose. Nel capitolo 11 verranno spiegate le ragioni della sua azione, ma nel frattempo di cose a cui pensare ne avrete, perché questi poveri ragazzi ne combineranno parecchie.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non ci siano errori di grammatica o battitura! In caso, perdonatemi.

A presto!

 

Solito link del mio profilo Facebook

Solito estratto dal prossimo capitolo ;-)

DAL CAPITOLO 4:

Mi risvegliai nuovamente, ma stavolta era completamente buio. Il corpo caldo di Ryan accanto al mio era scomparso, ma sentivo una mano stringere la mia.

«Ryan?», chiamai con un filo di voce.

«No. Sono Chris».

Di riflesso ritrassi la mano.

«Chelsea… che cos’hai? Perché non vuoi che ti tocchi?», la sua voce era stanca.”

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Capitolo 4
*** Lezioni e cadute ***



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Cap 4  

CAPITOLO 4: LEZIONI E CADUTE

 

Erano trascorsi due giorni da quella sera nel bagno e io e Chris non ci eravamo più parlati, o meglio… lui aveva provato a farlo, ma ogni volta ero stata scostante e trovavo una scusa per filarmela alla svelta.

Inoltre, evitavo accuratamente di restare in una stanza da sola con lui ed il clima in casa sembrava essersi un po’ acquietato con quel nostro allontanamento.

Shereen non era più tanto nervosa e mia madre era più distesa, mentre prima se io e mia sorella ci trovavamo nelle vicinanze l’una dell’altra, ci ronzava sempre intorno, come se fosse pronta a dividerci da un momento all’altro.

Inoltre, io e Ryan continuavamo a vederci regolarmente per la passeggiata serale di Buster e quando lui accompagnava suo fratello da noi per le lezioni di piano con il nonno, uscivamo finché i due non finivano, dopodiché mi riaccompagnava a casa.

Durante quelle nostre uscite mi chiedeva aggiornamenti su come andassero le cose a casa e, quando gli dissi dell’incontro ravvicinato con Chris nel bagno, rimase sbalordito.

«Quindi gli piaci! Insomma… è te che vuole».

«Non lo so, non direi. Voglio dire, non sono io quella che dorme insieme a lui, ed è con mia sorella che fa tremare le pareti quando fanno sesso», dissi con rabbia.

Ryan parve colto alla sprovvista.

«Oh… mi dispiace, non deve essere una cosa esattamente piacevole da sopportare».

«L’altra sera quando li ho sentiti ero sul punto di vomitare. Vorrei che la mia stanza fosse molto molto distante dalla loro, ma purtroppo sono attaccate».

«Resta il fatto che ha provato a baciarti».

Annuii.

«È un vero idiota, non ha neanche la più vaga idea di quanto mi stia facendo confondere».

«Che ci vuoi fare, Chel, siamo maschi, se non ci mettete davanti le cose e ce le spiegate come fareste a dei bambini, non le capiamo», disse con uno dei suoi soliti sorrisi raggianti.

Non sapevo se ridere o sbuffare a quell’affermazione, ma alla fine optai per la prima.

«Cosa dovrei fare quindi? Buttare nel cesso tutti i miei principi morali, spogliarmi davanti a lui e saltargli addosso, oppure autodistruggermi e dirgli chiaramente che per noi non c’è futuro? Dannazione, abbiamo avuto una possibilità… se non fosse stato per mia sorella, per quegli stramaledetti fiori! A quest’ora magari staremmo insieme e lui sarebbe qui con me, anziché con lei».

«Mi dispiace», disse posandomi una mano sulla spalla, sinceramente in pena per me.

«Beh… sono stata abbastanza al centro del discorso per oggi, quindi cosa ne dici di parlarmi di come vanno le cose con Gale adesso?».

Lui sorrise.

«Non c’è molto da dire… continuiamo a vederci in mensa a pranzo, parliamo più di prima, ma ancora restiamo sul vago, io non so… se stia con qualcuno o se è interessata a qualcuno in particolare».

«È proprio qui il tuo blocco! Dovresti chiederglielo, altrimenti diventerai paranoico, fidati, so cosa vuol dire».

«Già… vorrei che le cose fossero un po’ più facili per noi, ne stiamo passando abbastanza, no? O è chiedere troppo?».

«Tu potresti semplificarti un po’ le cose chiedendole di uscire, io… mi sa che sono fregata… ».

Ryan mi abbracciò e disse: «Le cose si sistemeranno, Chelsea… magari non come pensi tu, ma… vedrai, si sistemeranno… ».

«Vedremo».

«Lo sai che tuo padre ha chiamato il mio per organizzare una cena tutti insieme?».

«Ah, sì. La cena. Credo che sarà imbarazzante; ci saranno anche Shereen e Chris».

«Accidenti, pensavo ci saremmo stati solo noi e insomma… mio padre, mio fratello, i tuoi e tuo nonno».

«Purtroppo saremo al completo».

«Beh, sai cosa facciamo? Tu ti siedi accanto a me e se la situazione comincia a farsi strana, mi fai un segnale e trovo una scusa per portarti via».

«Un segnale, eh? Che dici se accoltello mia sorella?».

Lui emise un verso che era a metà tra uno sbuffo e una risata.

«Non penso sia il caso di lanciarmi un segnale così esplicito».

Sorrisi a mia volta.

«Già, forse quello sarebbe troppo».

«Per caso hanno già fissato la data della cena? Devo prepararmi psicologicamente».

«Mi pare che abbiano parlato della settimana prossima; stai tranquilla, ancora hai tempo per metabolizzare la cosa».

«Non ho veramente la minima voglia di fare questa cosa».

Lui si piazzò davanti a me e mi prese delicatamente per le spalle.

«Chelsea, non devi preoccuparti, ok? Devi cercare di fare finta che loro non esistano e lo so che non sarà facile ma… io sarò seduto vicino a te, te lo prometto e parleremo tutta la sera, solo io e te»

Gli presi una mano tra le mie, la sua era calda, le mie gelide.

«Stai bene? Sei ghiacciata!».

«Oh, tranquillo, non ci fare caso. Divento sempre fredda quando sono agitata».

«Sei sicura che sia normale? Insomma… ci sono quaranta gradi… ».

«Non preoccuparti, davvero, sto bene».

Ryan mi rivolse un’occhiata poco convinta e disse: «Forse è meglio se ti riporto a casa».

«No, per favore! Ci sono anche loro adesso».

«Allora magari puoi venire un po’ da me».

«Ne sei sicuro?».

«Certo, non c’è problema. Mio padre adesso non c’è».

«Va bene, allora ti ringrazio».

Prendemmo la via del ritorno e passammo davanti casa del nonno; in giardino vidi Shereen prendere il sole su una delle sdraio, mentre Chris doveva essere dentro la piscina. Non lo vedevo, ma potevo sentire la sua voce.

Mi fermai un momento lì davanti con sguardo triste, poi Ryan mi passò un braccio attorno alle spalle e mi sospinse avanti.

«Sarà dura passare così un altro mese».

«Cerca di non pensarci».

«Ci provo, ma… non pensarci è quasi impossibile quando te li trovi davanti tutto il giorno, mia sorella che fa sempre la stronza e lui che… non capisco cosa voglia davvero. A volte è estenuante».

Ryan estrasse dalla tasca dei jeans una chiave e la infilò nella serratura del portone d’ingresso, che si aprì senza il minimo rumore. Poi il ragazzo si scostò e mi fece segno di passare.

«Prego», disse allungando un braccio verso l’interno come un vero gentiluomo.

«Ti ringrazio», risposi sorridendo.

La casa di Ryan aveva un atrio ampio e luminoso, dal quale si poteva accedere al salotto, e poi alla cucina, dotata di elettrodomestici all’avanguardia e un lungo tavolo in legno di quercia scura.

 Tra queste due stanza passava un corridoio che portava a due studi, un bagno e una piccola libreria.

Salendo le scale invece si trovavano le stanze da letto del padre di Ryan, un altro bagno, la stanza degli ospiti e la camera da letto di Ben.

L’ultimo piano era interamente dedicato alla mansarda, nella quale dormiva il mio amico.

Era davvero grande, ma la cosa che mi sorprese di più fu…

«Un sacco da box? Hai un sacco da box appeso in camera?», chiesi con un sorriso.

«È utile, sai… mi serve per scaricare, ogni tanto… ».

Passai una mano sul cuoio rosso scuro del sacco.

«Ho sempre voluto averne uno da piccola e in questo periodo mi servirebbe più che mai».

«Beh, puoi venire qui quando vuoi, ti posso insegnare», mi rispose sorridendo.

«Perderesti davvero del tempo per insegnarmi a tirare di box?».

«Non perderei affatto del tempo, anzi, credo che sarebbe divertente. Inoltre ti insegnerei a difenderti e questo può sempre tornare utile, ricordalo».

«D’accordo».

«Bene, allora direi che… possiamo cominciare le nostre lezioni adesso e continuare ogni volta che porterò Ben da tuo nonno per suonare il pianoforte».

«Sì, ma… tuo padre paga mio nonno per insegnargli a suonare, credo che anch’io dovrei darti qualcosa».

«Chelsea, tu stai facendo già tanto per me, credimi. Non parlavo così con qualcuno dai tempi delle superiori».

«Davvero?».

«Già. L’ambiente legale non è esattamente uno dei migliori per stringere amicizia; si è sempre l’uno contro l’altro per la scalata alla fama e… era da un bel po’ che non avevo una vera amica, quindi, direi che mi stai già adeguatamente ricompensando».

«E tu perché hai cominciato?».

«A tirare di box?».

«Sì».

«Beh… quando avevo diciassette anni mia madre è morta».

«Oh. Ryan, senti mi dispiace, veramente, non voglio farti parlare di lei se… ».

«No, tranquilla. Non c’è problema. Insomma, lei si è ammalata e nel giro di un anno non c’era più e io… ho cominciato ad andare sulla cattiva strada».

«Tu? No, non è possibile! Sei sempre così… gentile».

Lui rise.

«Lo sono adesso, ma allora ero tutta un’altra persona».

«Non riesco proprio ad immaginarti in quel modo».

«Oh, sì, ero un piccolo teppista, mio padre era sconvolto per quello che era successo alla mamma e Ben aveva cinque anni. È stato un periodo piuttosto… turbolento. Poi, un giorno, ho incontrato Micheal, un ragazzo dieci anni più grande di me che era istruttore di box in una palestra in centro. Lui… diciamo che mi ha accolto, mi ha spronato ed è fondamentalmente grazie a lui che sono la persona che adesso hai davanti. Se mi avessi conosciuto allora, non avresti mai detto che sarei potuto diventare la persona che sono ora. Prima ero così… pieno di rabbia, pieno di impulsi, avevo voglia di spaccare tutto quello che mi passava tra le mani, la gente se mi vedeva camminare, cambiava strada».

«Wow… mi sembra davvero impossibile, sì».

«Beh, adesso non sono più quella persona e spero di non averti spaventato».

«Ci vuole ben altro per spaventarmi, Ryan Kenyon», gli dissi con un sorriso, che lui ricambiò.

«Bene, allora direi che possiamo cominciare i tuoi allenamenti, Chelsea».

Aprì il suo grande armadio a due ante e ne estrasse due classici guantoni rossi da box, poi mi aiutò ad infilarli.

«D’accordo, Gaver… si comincia!».

Dapprima mi fece solo vedere le mosse base, poi si mise dietro di me e, prendendomi le braccia, accompagnò i miei movimenti. Quando cominciai ad ingranare, mi lasciò fare da sola.

Passarono due ore prima che ci rendessimo conto che saremmo dovuti tornare a casa già da un’ora.

«Oh, mio Dio, Ryan! Sono le sette!», esclamai.

«Che cosa?!», così, ci fiondammo al piano di sotto e poi fuori di casa, correndo talmente veloci, che arrivammo a casa di mio nonno in trenta secondi.

Non appena varcai la soglia di casa, mia madre mi venne subito in contro.

«Chelsea! Ho provato a telefonarti mille volte e non hai risposto!».

«Mamma, scusami è che… abbiamo perso la cognizione del tempo, davvero e… credo di aver dimenticato il cellulare a casa di Ryan e… ».

Mi resi conto di aver detto una cosa sbagliata nel momento in cui il volto di mia madre cambiò espressione.

«Eri a casa di Ryan?».

A peggiorare le cose, in quell’istante fece il suo ingresso Chris, insieme a mia sorella, tutta in tiro.

«Sì, lui… insomma, mi insegnava a tirare di box».

L’espressione di mia madre, se possibile, si fece ancora più stupita.

«Tirare di box? Chelsea, non mi stai prendendo in giro, vero?».

«Mamma! Io non ti ho mai mentito e questo lo sai!».

Ora lei parve rilassarsi un po’.

«Va bene, ma credo che sia il caso che tu vada a fare una doccia adesso, signorina».

«Ok… ».

In quel momento arrivò Ben, che come al solito filò via a razzo, piuttosto scocciato  per il ritardo del fratello di quella sera.

«Ti riporto il cellulare stasera, d’accordo? Quando portiamo fuori Buster», prese parola Ryan.

Io annuii e lo salutai, un po’ imbarazzata.

Quando si richiuse la porta alle spalle, mia sorella disse con tono di scherno: «E da quand’è che tu tireresti di box? Mamma, guardala, è tutta sudata! Penso che abbia fatto ben altro, insieme a quel ragazzo!».

«Shereen!», la riprese lei.

Dannazione, perché diavolo quei discorsi venivano fuori sempre davanti a Chris?!

«Innanzitutto quel ragazzo ha un nome: si chiama Ryan e tu dovresti pensare agli affari tuoi, invece che interferire in questioni che non ti riguardano minimamente.  E lui mi stava davvero aiutando! Inoltre, se tu ti fossi accorta di me fin da quando ero piccola, invece che prestarmi attenzione solo ogni tanto quando ti serviva, avresti saputo che avrei sempre voluto un sacco da box. E ora con permesso, vado a fare una doccia».

Detto questo, mi avviai a passo spedito lungo la rampa di scale.

Shereen riusciva davvero a farmi arrabbiare quando ci si metteva, cioè sempre, in pratica.

Mi insaponai con vigore sotto la doccia, presa ancora dalla rabbia. Ero talmente nervosa che quando uscii dal box, misi male un piede e scivolai, essendo ancora tutta bagnata.

Lanciai un grido sommesso e caddi per terra con un tonfo sordo, poi mi avvolsi in un asciugamano, giusto per non rimanere proprio nuda sul pavimento del bagno e fu appena in tempo, perché Chris fece irruzione nella stanza.

Di solito chiudevo sempre a chiave la porta quando facevo la doccia, ma prima ero talmente arrabbiata che l’avevo semplicemente sbattuta, facendo tremare i muri.

«Oddio, Chelsea! Che cosa è successo? Stai bene?».

Cercai di avvolgermi ancora di più nel mio asciugamano, profondamente imbarazzata.

«Io… sì, sono solo scivolata».

Cercai di rimettermi in piedi aggrappandomi al lavandino, ma non appena posai per terra il piede che avevo messo male, la gamba cedette ed io rischiai di cadere un’altra volta, se non fosse stato per le braccia di Chris, che mi avvolsero prontamente.

«Dannazione, devi esserti storta una caviglia. Penso sia meglio portarti al pronto soccorso».

«No, non se ne parla proprio, aspetterei lì per una notte. Ci metto del ghiaccio e qualche pomata; un paio di giorni di riposo e passa tutto».

Chris mi guardò dubbioso e solo in quel momento parvi rendermi conto della situazione: se non fosse stato per quell’asciugamano che mi avvolgeva, ero praticamente nuda tra le sue braccia.

Il mio battito cardiaco cominciò ad accelerare e provai ad allontanarmi, ma il dolore alla caviglia, mi fece di nuovo accasciare sul corpo del ragazzo.

«Così non va affatto bene. Ti porto in camera, ok? Aggrappati a me».

«No. No, Chris, non posso, se Shereen ci vede… ».

«Shereen è uscita. E anche se fosse stata a casa, ti avrei portata in braccio comunque, anche a costo di sollevarti a forza. Ora per favore rendimi solo più semplice il lavoro».

Annuii, titubante, poi allacciai le braccia attorno al collo di Chris e mi lasciai prendere in braccio.

Lui mi alzò come se fossi una bambina, portandomi nella mia stanza. Poi mi depose sul letto con delicatezza.

«Fammi dare un’occhiata a quella caviglia».

Allungai la gamba e lui mi prese il piede facendo molta attenzione, osservandomi con occhio clinico.

«Comincia a gonfiarsi, è meglio che vada a prendere del ghiaccio, chiedo a tua madre».

«Va bene», risposi semplicemente.

Maledizione. Come potevo cacciarmi sempre nelle situazioni più assurde? Colsi al volo l’occasione per mettermi qualcosa addosso e poi cominciai a torturare il copriletto con le unghie. Dopo qualche minuto, Chris fu di ritorno con una borsa del ghiaccio.

«Tua madre mi ha detto di chiederti se ti va di mangiare stasera».

Io scossi la testa.

«No, grazie. Tra l’allenamento di oggi pomeriggio e  adesso questa caviglia, vorrei solo dormire. Chris, puoi farmi un favore?».

«Ma certo, Chelsea, dimmi… ».

«Alle nove dovrebbe passare Ryan per la solita passeggiata di Buster e per riportarmi il cellulare. Potresti… prendere tu il mio telefono e chiedergli se può portare lui fuori il cane?».

«Non c’è problema, ma lo posso fare anch’io se vuoi».

«Sei gentile, ma ormai Buster è abituato al solito giro e Ryan lo conosce, grazie per l’offerta».

Quella era la prima volta che gli parlavo così, senza nessuna agitazione, da quando avevo scoperto che si era messo con mia sorella. Probabilmente era anche a causa della stanchezza che avevo in corpo; avevo tutti i muscoli indolenziti a causa dell’allenamento di quel pomeriggio e la caviglia mi pulsava dolorosamente, anche se andava meglio da quando Chris ci aveva messo sopra il ghiaccio avvolto in un panno, per non farlo stare a diretto contatto con la pelle.

«Dov’è andata mia sorella?», gli chiesi dopo qualche minuto di silenzio.

«Mi ha detto che usciva con delle amiche».

«Oh, allora non tornerà almeno prima delle due o delle tre di mattina», dissi con voce sempre più assonnata.

«Va bene, io vado ad avvertire tua madre che per stasera non mangi».

«D’accordo».

Il buio mi avvolse pochi istanti dopo che Chris fu uscito dalla mia stanza.

Venni svegliata, non so quanto tempo dopo, da qualcosa che mi accarezzava i capelli.

Aprii gli occhi e…

«Ryan?», chiesi vedendo il volto del ragazzo poco distante dal mio.

«Ehi, Gaver, ma che combini?», mi chiese con il suo solito tono scherzoso.

Chris non era più nella stanza.

«Se stai cercando Chris è andato a farsi una doccia mentre qui ci sono io, anche se devo dire che non è sembrato molto contento quando ho chiesto ai tuoi genitori se potevo restare a farti un po’ di compagnia».

«Ma figurati».

«Pensi che ti stia mentendo? Non lo farei mai, Chelsea, anzi… devo dire che sembrava piuttosto geloso».

«Sei serio?».

«Mai stato più serio di così».

«Che ore sono, Ryan?», gli chiesi a un certo punto.

«Quasi le dieci e mezza, ma se volevi interrompere le nostre lezioni di box bastava dirlo; non c’era bisogno di slogarsi una caviglia per farlo».

Gli tirai un debole pugno sul braccio.

«Divertente».

Lui si mise a ridere.

«Ah, e ti ho portato il catorcio che chiami cellulare, è qui sul comodino, ok?».

«Grazi mille».

«Di niente».

«Ehi, non avrai mica intenzione di restare qui tutta la notte, vero?».

«La mia presenza ti infastidisce così tanto?».

«Al contrario, la tua presenza è familiare e rassicurante, ma non mi sembra giusto farti restare qui così tanto».

«La mia presenza è rassicurante, eh?».

«Sì».

«Mi fa piacere tenerti compagnia; comunque resterò qui finché non torna il bellimbusto».

«Ryan… », lo ripresi bonariamente.

«Ehi, tu sei una mia amica e stai soffrendo a causa sua e questo non mi sta bene per niente, quindi, potrai anche dire che è l’uomo della tua vita, ma io dico che deve darsi una regolata. Anche perché non può stare con tua sorella e allo stesso tempo essere geloso se solo mi avvicino a te e provare a baciarti al buio nel bagno. Dovrebbe decidersi».

Gli posai una mano sulla sua.

«Mi è mancato avere qualcuno dalla mia parte».

«Io ti difenderò sempre».

«Questo lo diceva anche Chris».

Lui per un momento mi fissò con sguardo triste, poi si alzò, si sdraiò sul letto accanto a me e mi abbracciò.

«Cerca di riaddormentarti, Chel».

Annuii e mi strinsi a lui, dopodiché mi addormentai un’altra volta.

Mi risvegliai nuovamente, ma stavolta era completamente buio. Il corpo caldo di Ryan accanto al mio era scomparso, ma sentivo una mano stringere la mia.

«Ryan?», chiamai con un filo di voce.

«No. Sono Chris».

Di riflesso ritrassi la mano.

«Chelsea… che cos’hai? Perché non vuoi che ti tocchi?», la sua voce era stanca.

«Chris, non credo che questo sia un discorso che dobbiamo affrontare».

«Perché?».

«Perché? E me lo chiedi? Tu… tu stai con mia sorella. Mia sorella, Chris! Quella che per dividerci, ha fatto di tutto e c’è riuscita!».

«Un momento, che cosa?».

Mi resi conto troppo tardi di averlo detto davvero.

«Chris, io… ».

«Non può essere stata lei, non lo avrebbe mai fatto».

«Tu dici? Quanto la conosci davvero, Chris? Pensi di conoscerla meglio di quanto la conosco io? Lei è mia sorella, siamo cresciute insieme e conosco ogni suo aspetto. Non che ce ne siano tanti in realtà, perché Shereen vede solo Shereen, ma può essere fredda e calcolatrice, credimi».

«Lo ha fatto davvero? Ti riferisci alle rose?».

«Il biglietto… la scrittura mi sembrava tanto familiare perché era la sua grafia, ne sono certa. Lo ha mandato lei».

Chris, che si era alzato dalla poltrona accanto al mio letto, ci ricadde pesantemente.

Seguirono vari minuti di silenzio, disturbati solo dal suono del nostro respiro.

«Non avrei dovuto dirtelo. Io non… », la voce mi si incrinò e Chris se ne accorse subito.

«Ehi. Chelsea?».

Non volevo piangere, non volevo davanti a lui, ma non riuscii a trattenermi questa volta e il petto mi fu scosso da violenti singhiozzi.

«Chelsea!».

In un momento Chris fu accanto a me sul letto, le sue braccia che mi avvolgevano strette.

Io appoggiai la testa contro la sua spalla e cercai di calmarmi, regolarizzando il respiro. Dio, mi sentivo così umiliata e volevo allontanarmi, ma allo stesso tempo avevo bisogno di sentirlo accanto a me.

Lui mi accarezzava la testa e la schiena, cercando  di calmarmi, ma più lo faceva, più avevo voglia di piangere.

Inoltre la caviglia aveva preso a fare un male d’inferno e questo non mi aiutava di sicuro.

La radiosveglia proiettava sul muro un orario: era quasi l’una di notte e Shereen probabilmente non sarebbe tornata prima di un’altra ora.

Quando mi calmai, Chris si voltò verso di me; era buio, ma scorgevo lo scintillio dei suoi occhi.

Mi posò le labbra sulla fronte, lasciandomi un bacio. A quel contatto rabbrividii, lui se ne accorse e mi strinse ancora più forte.

Volevo staccarmi , perché tutta quella situazione non faceva che crearmi ancora più sofferenza, quindi cercai di allontanarmi, ma lui rafforzò la presa e scese a darmi un bacio sulla tempia, poi sulla guancia.

Ogni contatto mi mandava una scarica elettrica lungo tutto il corpo, ma non poteva farlo, io non lo potevo sopportare, così, quando le sue labbra stavano per toccare le mie, mi diedi un tale spintone indietro, che per poco non finii fuori dal letto e solo il suo scatto repentino per afferrarmi mi impedì di cadere.

«Chelsea… ».

«Non puoi. Chris, per favore».

Ora la mia voce non era più incrinata, ma ferma. Irremovibile.

«Non puoi stare con mia sorella e cercare di baciarmi ogni volta che ci troviamo da soli in una stanza».

Il ragazzo mi strinse talmente tanto i polsi da farmi male.

«Io ho bisogno di farlo. Almeno una volta, Chelsea, lascia che ti baci, perché non riesco più a dormire, perché continuo a pensare a quella sera nella tua macchina e… non ce la faccio a togliermelo dalla testa».

«E se lo faccio? Se ti permetto di baciarmi… cosa credi che succederà? Poi vorrai farlo di nuovo e ancora e vorrai sempre di più e poi cosa mi chiederai? Di venire a letto con te? Tu sei il fidanzato di Shereen; non ti darò mai il permesso di baciarmi, perché, per quanto lei possa essere stata stronza con me… è mia sorella. Quindi credo proprio che sia il caso che tu ti tolga questa cosa dalla testa, Chris, perché, se continui così, non potrà finire bene. Né ora né mai. Vivi la tua vita, ma… se provi ancora a baciarmi… io non potrò più farne parte».

 

Note dell’Autrice:

E rieccomi! In questo capitolo abbiamo visto tanto Ryan e Chelsea, ma anche tanto Chris e Chelsea.

Insomma… cosa ne dite? Spero che il capitolo sia stato all’altezza delle vostre aspettative e che vi sia piaciuto!

A presto!

ESTRATTO DAL CAPITOLO 5:

Sentii la porta aprirsi, un paio di passi e poi il silenzio.

Io stavo sistemando una presa sotto la scrivania che non voleva saperne di andare, ero in una posizione piuttosto equivoca, inginocchiata per terra, visibile dalla vita in giù perché il resto era nascosto sotto la scrivania e quando mi voltai, trovai un Chris alquanto pietrificato sull’ingresso.

Mi alzai in piedi immediatamente, rischiando di sfondarmi il cranio contro il tavolo, ma riuscii ad evitarlo per un soffio, fortunatamente.

«Chris, che cosa… ma che diavolo ci fai qui?», la mia voce salì di un’ottava, lui mi fece cenno di stare zitta e si richiuse la porta della stanza alle spalle.

Cercai qualcosa da mettere per coprirmi; dire che ero in imbarazzo era un eufemismo”.

 

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Capitolo 5
*** La cena ***



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CAPITOLO 5: LA CENA

 

Dopo un paio di giorni di riposo, ghiaccio e pomate, la mia caviglia era nuovamente come prima; ero tornata alle mie passeggiate con Buster e Ryan e alle nostre lezioni di box.

A Ryan non avevo ancora raccontato nulla di quello che era accaduto con Chris la sera in cui mi ero fatta male; era sempre venuto a trovarmi a casa del nonno, ma non lo reputavo un posto sicuro per parlarne.

Così, quel pomeriggio, mentre ci avviavamo insieme verso casa sua per riprendere da dove avevamo lasciato, gli feci un breve resoconto di ciò che era accaduto.

«Stai scherzando?!».

«No, affatto. Io… non lo so, volevo tutto quello che lui stava cercando di fare, ma non potevo perché… ».

«Perché lui sta con tua sorella», mi interruppe Ryan. «Non ci posso credere, quel ragazzo non ha proprio nessun freno. Per caso devo venire a farti da guardia del corpo giorno e notte? O magari a dimostrargli che cosa ho imparato durante tanti anni di box… ».

«Vorrei solo che prendesse una decisione. Insomma… vuoi stare con mia sorella? Bene, stai con lei, basta che poi non vieni a cercarmi e se vuoi stare con me… beh, ora è troppo tardi, ci dovevi pensare prima».

«Sei stata brava a respingerlo, Chelsea. Sei stata forte e lui invece è uno stupido e anche debole».

«Non lo insultare, Ryan».

«Non lo insultare? Sono incazzato; come si permette di fare una cosa simile, dopo tutto il casino che ha combinato?!».

«Che tu sia arrabbiato ci sta, ma non perdere di vista il colpevole principale della cosa: mia sorella. Se lei non avesse mandato quelle rose, io probabilmente starei con Chris, adesso».

Lui annuì pesantemente.

«Per fortuna che mio fratello ha solo dodici anni».

Ridacchiai.

«Su, forza, maestro Yedi… cominciamo la nostra lezione».

Ryan rise, poi cominciammo.

Fu un bel pomeriggio, riuscii a non pensare a Chris e a Shereen; Ryan mi insegnò come “canalizzare” la mia rabbia e la mia frustrazione e, infine, riuscii anche ad assestare anche qualche bel colpo al sacco.

«Direi che non è male per cominciare», disse il ragazzo verso le sei meno un quarto.

«Ora però è meglio se cominciamo a riavviarci da tuo nonno, non è il caso di far passare troppo il tempo ed arrivare con un’ora di ritardo com’è successo l’ultima volta».

Uscimmo con calma, dirigendoci lentamente verso casa del nonno. I raggi del sole mi battevano sulla schiena, dandomi una sensazione piacevole e rilassante.

«Ehi, Chelsea?».

«Sì?».

«Dà un pugno a Christian se solo riprova a baciarti».

Sorrisi, ma lo sguardo di Ryan era serio.

«Tranquillo, lo terrò a bada».

«Penso che domani a quella cena le mani mi pruderanno parecchio».

«Ehi, promettimi che non farai niente di stupido».

«Come ti dicevo, ho imparato a controllare i miei impulsi, ma comunque… non lo farò, non preoccuparti».

Arrivati a casa, Ben uscì come al solito, rivolgendomi appena un cenno di saluto. Stavamo migliorando; di solito se ne andava via a gambe levate e con la testa bassa.

Abbracciai il nonno e lui mi disse che Shereen e i miei genitori erano al centro commerciale giù in città, mentre Chris aveva preferito rimanere a casa.

A quel punto mi avvicinai al pianoforte; era dal giorno in cui anche mamma e gli altri erano arrivati che non suonavo più.

Dapprima, feci scorrere le dita sui tasti dello strumento senza schiacciarli, poi mi sedetti allo sgabello e iniziai a suonare.

«Lying in my bed,  I hear the clock ticks and think of you.

Caught up in circles, confusion is nothing new.

Flash back warm night, almost left behind, suitcase of memories,

Time after sometime, you pictured me.

I’m walking too far ahead, you’re calling to me. I can’t hear what  you’ve said, you said: “Go slow, I fall behind”, the second hand unwinds.

If you’re lost you can look and you will find me time after time.

If you fall, I will catch you, I’ll be waiting

Time after time.

If you’re lost, you can look …».

«Chelsea… mi avevi detto che suonavi, ma non sapevo che cantassi… ».

Chris era arrivato alle mie spalle. Indossava una camicia azzurra con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un paio di pantaloni eleganti. Non mi ero ancora abituata a vederlo così.

«Vieni, siediti qui accanto a me», gli dissi facendo posto sullo sgabello imbottito.

Lui si avvicinò a passo lento e prese posto al mio fianco.

«Hai una voce davvero… wow».

Sorrisi.

«Ti ringrazio».

Seguì qualche attimo di silenzio teso, poi dissi: «Mi manca il ragazzo in jeans e maglietta».

A quelle parole lui si voltò a fissarmi sorpreso.

«Che cosa?».

«Tu, Chris. Eri il mio migliore amico e mi mancano le nostre chiacchierate e tutto quello che avevamo, ma adesso nulla potrà più tornare come prima».

Lui annuì, mi prese una mano e la posò sul pianoforte.

«Mi dici come fai?».

«A suonare?».

«Sì».

«Beh, le note sono solo sette», risposi soffiando sopra una ciocca di capelli che mi era finita davanti agli occhi.

Quando mi girai a guardarlo, lui mi fissava.

«Cosa c’è?».

«Anche a me manca quel ragazzo. Quando sono con Shereen devo stare attento a cosa dico, a cosa indosso; sta cercando in tutti i modi di convincermi a tagliare i capelli».

«Non lo fare», dissi di riflesso.

Io adoravo i suoi capelli. Gli arrivavano poco più sopra delle spalle e ricadevano in morbide ciocche dorate. Ero sempre stata attratta dagli uomini con i capelli un po’ lunghi e non avrei mai voluto che li tagliasse.

«Non lo farò, su questo sarò irremovibile», disse sorridendo. «Ti va di suonare un altro po’? Sei davvero brava… ».

Sorrisi. «Certo».

Trascorse un’altra ora, Chris rimase seduto accanto a me e poi i miei genitori e Shereen, tornarono.

«Vai, se ti trova qui con me ti uccide».

Andò via lasciandomi una carezza sulla spalla e il vuoto dove, fino ad un momento prima, c’era stato il suo corpo.

Quella  serata passò tranquilla, come sempre vidi Ryan e portammo Buster a fare il solito giro.

«Come va con Gale?», chiesi al mio amico.

«È in ferie da ieri e io le comincerò domani, quindi per un po’ non ci vedremo».

«Oh, cavolo… e allora come farai a chiederle se vede qualcuno?».

«Chelsea; non posso andare da una persona che non conosco nemmeno e chiederle di uscire con me».

«Perché no?», chiesi con finto sguardo innocente.

«“Perché no?” Perché scapperebbe via a gambe levate, ecco perché no!».

Sbuffai.

«Se non provi non saprai e innanzitutto dovresti cominciare  a parlarle… seriamente, intendo… ».

«Facciamo un patto: io le parlerò, quando tu metterai bene in chiaro le cose con Chris».

«Ma non sarebbe affatto la stessa cosa! Insomma… io e Chris eravamo migliori amici, prima di tutto il casino che è successo e se lo mettessi davanti ad una scelta… lo perderei. Definitivamente».

«Quindi preferisci fare da spettatrice mentre lui sta con tua sorella e allo stesso tempo ci prova con te? E ammettiamo, per un momento, che un giorno tu ceda: cosa pensi che accadrà a quel punto?».

«Non cederò».

«Davvero? E saresti capace di garantirlo? Fino ad ora hai resistito, lui ci ha provato due volte e lo hai respinto, sei stata brava, ma… quanto ancora reagirai? Lui ti sta offrendo qualcosa che tu vuoi; che va contro i tuoi valori morali, ma che comunque vuoi. E quanto ancora sarai capace di dire di no a qualcosa che, in fondo, desideri così ardentemente? Perché lui ti piace, Chelsea, ma se non metti in chiaro le cose, finirete col farvi male. E non sto parlando solo di te e di lui; sto parlando della tua intera famiglia. Come credi che la prenderanno i tuoi genitori e forse anche tuo nonno?», Ryan parlava con impeto, e, quando arrivò a quelle parole, mi colpirono come uno schiaffo in pieno viso.

Rimasi senza fiato per un istante, poi mi voltai e mi allontanai velocemente.

«Chelsea!», mi richiamò lui. Mi corse dietro e, dato che era molto più allenato e molto più veloce di me, mi raggiunse in pochi istanti.

«Che cosa c’è?».

«Perché accidenti sei scappata? Non volevo… rimproverarti. So che ti piace; quello che volevo farti capire è che… le cose sarebbero strane se voi due vi metteste insieme dopo che lui è stato con tua sorella».

«Questo lo so, ma… sembravi piuttosto arrabbiato mentre parlavi».

Lui sembrò colpito da quella mia affermazione, come se non se ne fosse reso conto.

«Mi dispiace, non volevo… darti quell’impressione. A volte escono ancora certe parti di me senza che me ne accorga io stesso, ma una volta ero molto peggio di così. Scusami».

Gli sorrisi debolmente.

«Ok… ».

«Dai, ti riporto a casa».

«Ryan?».

«Sì?».

«Domani sera, alla cena… ».

«Basta, non ci pensare. Ti ho già detto che ci siederemo vicini e parleremo tutta la sera solo noi due, ignorando tua sorella e Christian, d’accordo?».

«Va bene».

«E dormirai tranquilla, stanotte? Niente notte in bianco per l’agitazione, vero?».

«Ci proverò».

«Non mi piace un semplice “ci proverò”. Prometti che dormirai, donna. Non vorrai mica arrivare domani sera con due occhiaie spaventose e l’aspetto di uno zombie, vero?».

«Wow, certo che sei davvero bravo a trovare le parole giuste tu, eh?».

«È solo un modo per spronarti, mia cara».

«Beh, allora sappi che i tuoi modi fanno schifo».

Lui scoppiò a ridere e quando arrivammo davanti alla casa del nonno, disse: «Ora vai subito a letto, signorina, ci vediamo domani sera» e, con un occhiolino, mi voltò le spalle, riprendendo la strada di casa sua.

Per fortuna quella notte riuscii a dormire, ma il giorno seguente passò in un lampo data la tensione nervosa che avevo in corpo.

La sera arrivò troppo in fretta, mi feci una doccia per rilassarmi, però non servì a molto. Per di più non avevo visto Ryan neanche una volta e questo mi metteva ancora più ansia perché lui avrebbe saputo cosa dire per calmarmi. Invece niente, me ne stavo rigida come una scopa fuori dalla doccia, completamente nuda davanti allo specchio.

Solo quando sentii bussare alla porta mi riscossi e mi avvolsi in un asciugamano.

«Sì?».

«Tesoro, ce la fai a prepararti in mezz’ora? Dobbiamo arrivare un po’ prima», era mio padre.

«Sì, certo! Mi asciugo i capelli e mi vesto!», urlai di rimando.

Infilai la spina del phon nella presa della corrente e lo accesi, puntando l’aria calda dritta sulla mia testa.

Che fossi nervosa era chiaro; si vedeva dai movimenti a scatti del mio polso e dai muscoli del collo tesi come granito.

Inspirai a fondo più volte, buttando fuori l’aria e quando i miei capelli furono asciutti, mi rimirai allo specchio.

Ok, nonostante la doccia non avevo la cera migliore del mondo, ma con trucco, vestito e sistemando un po’ i capelli, avevo un largo margine di miglioramento.

Indossai un tubino nero di raso che mi arrivava fino alle ginocchia, un paio di decolté in vernice del medesimo colore, degli orecchini pendenti e una collana con un ciondolo in madreperla a forma di cuore.

Come trucco optai per una matita nera sotto gli occhi, il classico mascara e un filo di matita color bronzo leggermente glitterata sulle palpebre. Sulle labbra misi un rossetto rosso ciliegia.

Infine, completai l’opera fermando i capelli in un alto chignon.

Il ristorante in cui avevamo prenotato era uno dei migliori della città e sicuramente uno dei più eleganti, quindi bisognava vestirsi in un certo modo.

Quando fui pronta scesi al piano di sotto; per adesso c’erano soltanto il nonno e papà.

«Mio Dio, Chlesea sei bellissima», disse il nonno.

Sorrisi. «Grazie».

«Sei un incanto, piccola», aggiunse mio padre.

«A che ora dobbiamo essere al ristorante?».

«La prenotazione è alle otto, tra venti minuti, ma i Kenyon dovrebbero arrivare… », e guardò l’orologio «… adesso».

Dopo qualche istante arrivarono mia madre e Chris e, quando mi fu davanti, nel suo completo elegante, mi fissò con uno sguardo che mi fece venir voglia di essere da tutt’altra parte.

«Sei… fantastica».

Mi mossi a disagio, mia madre, inquadrando la situazione, mi venne vicino, circondandomi la vita con un braccio. Poi mi allontanò da lui, verso la porta, intavolando una conversazione per far credere a Chris che fosse una cosa assolutamente casuale. La ringraziai mentalmente per il suo tatto; mamma era sempre strepitosa in queste cose.

Infine, fece il suo ingresso mia sorella, in cima alle scale.

I capelli lucenti risplendevano sotto la luce del lampadario, sciolti sulla schiena. La pelle era abbronzata dopo una settimana passata a prendere il sole tutto il giorno e il viso perfettamente truccato.

Indossava un vestito di lamé dorato che mostrava una parte di carnagione scoperta e, quando arrivò infondo alle scale, ci rivolse un sorriso smagliante, prendendo poi per mano Chris che, dal canto suo, la guardò a bocca aperta ed io percepii la mano di mia madre stringersi sul mio fianco.

Proprio in quel momento, si sentì suonare alla porta.

Mio nonno aprì ed io potei intravedere un uomo alto e massiccio che somigliava incredibilmente a Ryan: suo padre. Al suo fianco c’era Ben, il figlio minore, ma… dov’era Ryan? Non vedendolo cominciai ad agitarmi.

L’uomo si illuminò quando vide mio padre e i due si abbracciarono di slancio.

«Alex!», esclamò mio padre.

«Henry… mio Dio, da quanto tempo», rispose lui.

«Ehi, ma… manca un componente, dov’è Ryan?».

«Fuori, ci aspetta in macchina. Pensavo che magari i ragazzi possono andare con lui, mentre io e Ben veniamo con voi».

Il ragazzino non sembrava molto entusiasta.

«Posso… andare io con loro se Ben vuole stare con suo fratello, non c’è problema!», mi offrii speranzosa, forse a voce un po’ più alta del necessario.

«Oh, ma figurati, non ce n’è alcun bisogno», rispose l’uomo, gioviale.

Annuii, poi ci avviammo fuori.

Intravidi Ryan fermo in una macchina scura a motore spento e mi avviai in quella direzione, seguita da Shereen e Chris.

Aprii lo sportello del passeggero dei sedili anteriori, mentre loro si attardarono un momento fuori dalla macchina.

Quando mi sedetti accanto a lui, Ryan mi fissò con tanto d’occhi.

«Chelsea, oddio… wow».

A quel punto loro entrarono, per fortuna non avevano assistito alla scena del mio amico. Anche lui era molto elegante, completamente in nero: giacca, camicia, pantaloni e scarpe.

Io scoppiai a ridere quando chiusero gli sportelli e dissi: «Ok, credo che lo prenderò come un complimento».

«Lo era, anche se la formulazione lasciava un po’ a desiderare».

Poi, si voltò verso i due ospiti e disse: «Credo che questo sia il momento di fare le presentazioni ufficiali. Io sono Ryan».

«Christian», rispose lui afferrando la mano che il ragazzo gli porgeva.

«Ciao, Shereen», disse poi rivolto a mia sorella. Lei gli rivolse un sorriso luminoso, ma non disse nulla.

«Bene, direi che si parte».

Così, mise in moto l’auto e ci avviammo per la strada.

Impiegammo dieci minuti per arrivare al ristorante e nel parcheggio, Ryan riuscì ad infilarsi agilmente in un posto vuoto tra un’utilitaria rossa e una grossa Volvo grigio metallizzata.

«Eccoci arrivati», disse spegnendo il motore.

Scendemmo dall’auto e poco dopo fummo raggiunti dagli altri.

Ben andò subito a rifugiarsi vicino al fratello e Ryan gli mise una mano sulla spalla. Non mi ero mai accorta del legame tra i due, ma sembrava che Ryan provasse il costante impulso di frapporsi tra il fratellino e qualunque altra cosa o persona che potesse minacciarlo.

Era bello vederli insieme; era una cosa che Shereen non aveva mai fatto per me e probabilmente questo atteggiamento iperprotettivo nei confronti di Ben, era in parte spiegato dalla scomparsa della madre.

Entrammo nel locale e un cameriere vestito di tutto punto ci accompagnò al nostro tavolo.

Come promesso, Ryan si sedette al mio fianco e Ben prese posto accanto a lui dall’altro lato mentre, nel posto libero vicino a me… si sedette Chris.

La  serata cominciava bene.

Il cameriere prese le ordinazioni, poi si allontanò e noi cominciammo a parlare.

Alexander, il padre di Ryan e Ben, era un uomo molto simpatico ed il legame con mio padre risultava evidente fin da subito. Scoprii che i due erano stati coinquilini ai tempi del college, quindi avevano un’intesa pressoché perfetta e tennero banco tutta la sera; tra battute e chiacchiere non si smetteva mai di ridere.

Solo mia sorella sembrava piuttosto annoiata, ma lei aveva perennemente quell’aria di superiorità con cui fissava tutti.

Ad un tratto, nel bel mezzo della cena, a Chris scivolò il tovagliolo dalle ginocchia e si chinò per raccoglierlo. Peccato che nel farlo sfiorò, con la punta delle dita, la mia caviglia ed io mi irrigidii sulla sedia, trattenendomi a stento dal fare un salto. Certo, non sapevo se quel contatto fosse stato volontario o casuale, ma bastò a provocarmi una scarica elettrica lungo tutta la colonna vertebrale.

Ryan se ne accorse e guardò Chris con occhi che non promettevano nulla di buono. Io cercai la sua mano e la strinsi; quello era il segnale di cui avevamo parlato; non potevo stare lì un secondo di più.

Mi alzai e dissi: «Vado in bagno».

«Sì, anch’io», continuò Ryan.

Nessuno parve farci particolarmente attenzione, a parte mia sorella e Chris, che ci fissarono con aria stupita.

Mi allontanai velocemente dal tavolo con il mio amico che mi seguiva a ruota e, arrivati nei pressi del bagno, Ryan mi bloccò per un polso chiedendomi: «Ehi, è tutto a posto? Vuoi che ci parli io?».

«No, io… ma lo hai visto? Davanti a mia sorella! Sta impazzendo del tutto!».

«Ho visto solo che ti irrigidivi, non so cos’abbia fatto lui. Che cosa ha fatto, Chelsea?».

Mi morsi un labbro, ora non sapevo se dirglielo.

«Lui mi ha… per prendere il tovagliolo, sotto il tavolo… mi ha accarezzato la caviglia. Cioè… non proprio accarezzato. Ryan, sto andando fuori di testa».

Il mio amico sgranò gli occhi.

«È completamente impazzito? Sa che tua sorella lo avrebbe ammazzato con le sue mani se solo  se ne fosse  accorta?».

Annuii gravemente.

«Vuoi tornare al tavolo?».

«No, ovviamente, ma non posso neanche non farlo; darebbe troppo nell’occhio».

«D’accordo, allora… potresti fare cambio di posto con Ben, magari».

«Sì, e come lo spieghiamo? No, lascia stare, direi che non è proprio il caso».

«Va bene, ma se solo prova di nuovo a fare una cosa del genere… », ma non scoprii mai cosa sarebbe successo se Chris avesse riprovato a fare una cosa del genere, perché le parole gli morirono in gola, lui impallidì e cambiò totalmente espressione.

«Ryan? Ryan, che cos’hai?», gli chiesi preoccupata.

Seguendo la traiettoria del suo sguardo, però, capii perfettamente.

«Oh, no… », sussurrai.

Gli occhi del mio amico erano fissi nell’altra sala rispetto alla nostra, precisamente ad un tavolo in disparte, dove un uomo che ci dava le spalle, stava baciando appassionatamente una bellissima donna che ricambiava con trasporto il suo bacio.

Quella donna era Gale, splendida in un abito blu notte.

Gli presi una mano, dimenticandomi completamente del gesto di Chris di poco prima.

«Ryan?».

«Torniamo al tavolo».

Lo fissai un altro attimo, in pensiero, poi lo ascoltai e percorsi la strada inversa rispetto a poco prima.

Il volto di Ryan aveva perso ogni traccia di colore ed io potevo capirlo, maledizione, e mi dispiaceva da morire per lui.

Per tutto il resto della serata non feci altro che lanciargli occhiate preoccupate; avrei soltanto voluto che potesse dimenticare ciò che aveva appena visto.

Non feci altro che parlare con lui per tutto il tempo durante la cena, ignorando completamente Chris e le frecciatine velenose di Shereen; volevo soltanto che stesse meglio, così mi misi a raccontare tutti gli aneddoti più esilaranti e imbarazzanti della mia vita, cose che mai mi erano uscite dalla bocca, che nel momento stesso in cui erano capitate, avevo deciso che mi sarei portata nella tomba. Ryan però aveva fatto tanto per me in quella settimana, quindi provai anche quello per farlo ridere e, per fortuna, funzionò.

«Sei uscita di casa avvolta solo in un asciugamano e sei rimasta chiusa fuori?!».

«Sì, e non hai nemmeno la più vaga idea di quanto sia stato imbarazzante, quindi se parli dovrò ucciderti. E non ricordarlo a mio padre; dovetti aspettare che tornasse a casa e se dovessi tirarlo fuori adesso, potrebbe raccontarlo a tutti».

A quelle mie parole, Ryan scoppiò a ridere.

«Chi lo avrebbe mai detto? La perfetta Chelsea Gaver non è poi così perfetta, a quanto pare».

Ridacchiai.

«Non ho mai affermato di essere perfetta, infatti».

In quel momento sentii Chris schiarirsi la voce alle mie spalle e mi voltai verso di lui.

«Hai bisogno di qualcosa, Chris?».

«Sì, io… vorrei parlarti».

Mi scambiai uno sguardo di allerta con Ryan, poi tornai a fissare Chris e infine guardai mia sorella.

«Non è il caso, davvero. Non ora, almeno».

Le mani di lui, rilassate sulle sue gambe, si chiusero a pugno convulsamente e serrò anche la mascella.

«Chris, non ho detto che non parleremo, solo che… questo nono è precisamente il momento più opportuno».

Lui annuì, mentre la cena andava avanti.

Parlai con Ryan per il resto della serata, qualche volta anche Ben fece qualche piccola incursione nella nostra conversazione. Era un ragazzino decisamente sveglio, se si riusciva ad andare un po’ più a fondo di quella sua corazza dura.

Ad un certo punto della serata, quando ormai eravamo quasi arrivati al dessert, notai Gale camminare mano nella mano con quell’uomo che io e Ryan avevamo visto prima e, per fare in modo che il mio amico non li vedesse, mi parai davanti a lui poggiando un braccio sullo schienale della sedia e reggendomi la testa con la mano, in quella che da piccola chiamavo “una posa da sirena”.

In realtà avevo poco di una sirena, infatti attirai solo lo sguardo stranito di Ryan e Ben e potevo sentire anche gli occhi di Chris puntati su di me; avvertivo un forte formicolio alla nuca.

«Tutto bene, Chelsea?», mi chiese Ryan con sguardo divertito.

«Io… sì! Ho solo male al collo», mentii spudoratamente.

Lui ridacchiò.

«Sei andata in paranoia tutto il giorno ed ora ti sono venuti i muscoli di granito, vero?».

Risi nervosamente.

«Mi hai beccata».

Ryan scosse la testa e aggiunse: «Magari alla nostra prossima lezione di box potrò insegnarti anche qualche tecnica di massaggio efficace per sciogliere i muscoli».

Sorrisi.

«Sì, credo che non sia male come idea».

Lanciai una veloce occhiata alle mie spalle e, notando che Gale e il suo accompagnatore erano spariti, potei riassumere una postura più adeguata.

Ok, non vedevo l’ora che quella dannata serata finisse; le cose cominciavano davvero a farsi imbarazzanti.

Restammo al locale ancora mezz’ora; ormai era mezzanotte quando i miei genitori e il signor Kenyon decisero che era arrivato il momento di rincasare ed il sonno stava iniziando a farsi sentire.

Risalii nel posto del passeggero accanto a Ryan e allacciai la cintura di sicurezza.

Stavolta non parlai con il mio amico, ero davvero stanca e l’abitacolo si fece silenzioso anche quando salirono Chris e Shereen.

La cena ci aveva insonnoliti tutti e l’unico sveglio sembrava proprio Ryan; non potevo dire con certezza se lo fosse per il fatto che doveva guidare oppure perché le immagini di Gale che baciava quell’uomo fossero ancora impresse nella sua mente.

Lo guardai con preoccupazione, ma lui mi rivolse un sorriso, leggendomi perfettamente nel pensiero.

«Tranquilla, Chel… sto bene».

Chris e Shereen, dietro di noi, ci guardarono senza capire, poi Ryan mise in moto l’auto e uscì dal parcheggio, riportandoci a casa.

Quando arrivammo, scese dalla macchina con noi, girò dal mio lato e mi abbracciò.

«Grazie», si limitò solo a dire, sotto gli sguardi ancora perplessi di mia sorella e del suo fidanzato.

«Senti, lo posso portare fuori io Buster, adesso, tu va a dormire, ok?».

«Tranquillo, ora lo porta mio padre, gli fa fare un giro più corto di quello che facciamo noi, altrimenti ci impiegheresti un’altra ora».

«Sei sicura?».

«Assolutamente, va’ a casa e riposati. E grazie per averci fatto da autista».

Lui sorrise.

«Allora a domani».

«A domani».

Detto questo rientrai in casa, seguita da Chris e Shereen.

Era stata una serata impegnativa, senza alcun dubbio.

Quando rientrammo, Buster mi corse incontro, alzandosi sulle zampe posteriori e arrivando quasi alla mia altezza.

«Lo porto fuori io, Chelsea, tu vai a dormire, sei stanca», disse mio padre.

Annuii e mi avviai verso il bagno per struccarmi.

Quando arrivai in camera, indossai una canottiera rossa con un orso polare che faceva yoga e con un’aureola di stelle che al buio erano fosforescenti. Avevo anche gli slip abbinati.

Ad un certo punto sentii bussare alla porta.

«Avanti», dissi senza preoccuparmi minimamente di chi potesse essere, convinta che fosse mia madre.

Sentii la porta aprirsi, un paio di passi e poi il silenzio.

Io stavo sistemando una presa sotto la scrivania che non voleva saperne di andare, ero in una posizione piuttosto equivoca, inginocchiata per terra, visibile dalla vita in giù perché il resto era nascosto sotto la scrivania e quando mi voltai, trovai un Chris alquanto pietrificato sull’ingresso.

Mi alzai in piedi immediatamente, rischiando di sfondarmi il cranio contro il tavolo, ma riuscii ad evitarlo per un soffio, fortunatamente.

«Chris, che cosa… ma che diavolo ci fai qui?», la mia voce salì di un’ottava, lui mi fece cenno di stare zitta e si richiuse la porta della stanza alle spalle.

Cercai qualcosa da mettere per coprirmi; dire che ero in imbarazzo era un eufemismo, ma purtroppo avevo messo a lavare la vestaglia quella mattina, insieme al pigiama precedente con la scritta “I love my grandpa”.

«Che cavolo ci fai qui?», chiesi abbassando la voce e stringendomi le braccia al petto per sembrare almeno un po’ pudica.

Chris sembrava nervoso. Continuava a camminare su e giù per la stanza, lanciandomi di tanto in tanto sguardi che erano un misto tra il rabbioso e il desiderio.

«Chris, ora basta. Parla e facciamola finita».

Si fermò e mi puntò gli occhi addosso.

«Stai con quel ragazzo? Ryan?».

Lo fissai, interdetta.

«No, non sto con Ryan e anche se fosse, questi non sarebbero affari tuoi».

«Chelsea», il suo tono era di ammonimento.

«No, Chris, non ci provare neanche».

«A fare cosa?».

«A fissarmi così… con quello sguardo, come se fossi arrabbiato e allo stesso tempo come se stessi per saltarmi addosso!».

«Innanzitutto abbassa la voce perché se Shereen sente una sola parola ci fa fuori entrambi e secondo punto, io sto per saltarti addosso».

Lo disse con un tono che non gli avevo mai sentito, quasi ringhiando; era come se un Chris che non avevo mai visto né conosciuto, stesse venendo fuori di colpo. Era quasi… selvaggio.

«Chris… scordatelo».

«Perché? Cosa farai? Ti metterai a gridare? Mi prenderai a schiaffi? O magari risponderai a tutto quello che ti farò?».

«Tu non mi farai niente, quindi non c’è bisogno che io faccia nessuna di quelle tre cose».

«Ne sei sicura? Sei qui, Chelsea, davanti a me, più nuda che altro, scommetto che non hai niente sotto quella canottiera e tra parentesi, complimenti per la scelta dei pigiami, sono tutti molto… originali. Comunque ora mi dici che pretendi, dopo quello che c’è stato tra di noi, che io rimanga assolutamente impassibile?».

«Quello che c’è stato tra noi? Un bacio, Chris! Solo un bacio e lo sai perché? Perché tu non ti sei degnato non solo di credermi, ma addirittura di ascoltarmi! Era questo che pretendevo. Che il mio migliore amico mi ascoltasse, ma no, non mi hai nemmeno dato questa possibilità, te ne sei andato e ti sei messo con mia sorella. Quindi cosa vuoi da me, adesso? Vuoi baciarmi? Vuoi del sesso? Come hai detto tu, sono qui, praticamente nuda davanti a te. Sei molto più forte di quanto non lo sia io, puoi prendermi in questo preciso istante e fare ciò che vuoi, perché anche io lo voglio e tu lo sai. Ma come ci sentiremo dopo? Pensa a questo, Chris».

Lui fremette e la cosa fu palese, di riflesso a me venne da fare lo stesso e mi strinsi ancor di più le braccia al petto.

Chris se ne stava lì davanti a me, ancora vestito con i suoi pantaloni neri eleganti e la camicia bianca. Era sexy e su questo non si poteva discutere.

«È meglio che tu te ne vada».

Si voltò, posando una mano sulla maniglia della porta, tanto che i miei muscoli si rilassarono, ma cambiò idea e tornò sui suoi passi, colmando la distanza che ci separava in un istante.

Con un braccio mi circondò la vita e l’altra mano si posò dietro la mia nuca, bloccandola.

Il suo respiro era corto, così come anche il mio; io ero consapevole di avere gli occhi sgranati.

Con le braccia feci forza sul suo petto per cercare di allontanarlo, ma non riuscii neanche a smuoverlo. Era alto e… forte.

Dopo un paio di tentativi rinunciai, abbandonando le braccia contro il suo torace. Lui aveva il mento sopra la mia testa e, beh, non mi ero mai stretta a qualcuno in quel modo.

Poi, improvvisamente, le parole di Ryan mi tornarono in mente:  Quanto ancora sarai capace di dire di no a qualcosa che, in fondo, desideri così ardentemente?”, e mi allontanai di scatto, come se mi fossi improvvisamente bruciata.

«Il tuo problema Chris, è che non vuoi prendere una decisione. Magari io ti piaccio, ma ti piace anche mia sorella, in qualche strano modo e ora sei troppo codardo per fare una scelta!».

I suoi occhi lampeggiarono di una rabbia che non gli avevo mai visto prima di allora.

«Codardo, io? Chelsea, magari quel giorno non ti avrò fatto parlare, ma tu hai avuto un bel po’ di tempo per mettere le cose in chiaro prima, se avessi voluto. Dalla sera di quello stupido film al giorno delle rose, tu non hai mai nemmeno provato a parlarne; hai totalmente ignorato la cosa, quindi cosa dovevo pensare? Ho pensato che non fossi interessata a me in quel senso! Dopotutto sono stato io a baciarti, un segnale te l’ho lanciato, mentre il tuo segnale? L’ho aspettato, l’ho aspettato per settimane perché non ti volevo stare addosso, non ti volevo forzare perché eri la mia migliore amica e se forzarti avrebbe significato perderti del tutto, allora non ero disposto a farlo, quindi ho aspettato. Per niente. E poi è arrivata Shereen».

«E tu a quanto pare non ci hai messo due secondi a cadere nella sua trappola».

«Ma certo Chelsea, rigiratela come vuoi, se pensi che la cosa possa farti stare meglio, ma in realtà io so che lo stai facendo perché sei rimasta scottata dal mio discorso. Perché sai che è vero. A questo dunque come rispondi? Cominci a sentirti in colpa? Cominci ad ammettere il fatto che la colpa di questa cosa non è interamente mia?».

Era vero, le sue parole mi avevano turbata profondamente e, quando succedeva una cosa del genere, io tendevo ad adottare il comportamento di un animale ferito: aggredire.

«Fuori. Fuori dalla mia stanza; vattene via, vattene al diavolo, non m’interessa».

«Sì, volentieri».

Detto questo si voltò e sparì dalla mia camera da letto, sbattendo la porta.

 

Note dell’Autrice:

Rieccomi qui! Allora, direi che questo capitolo è stato abbastanza intenso, ma… ancora non è nulla; dal prossimo entreremo nel vivo della storia e da lì credetemi che succederà una disgrazia dietro l’altra! XP

Ok, basta anticipazioni.

Passiamo al capitolo… i rapporti si evolvono e la situazione si complica. Chris si fa più insistente e Ryan si scalda facilmente a causa del suo comportamento, mentre Chelsea prova a resistere al primo e tranquillizzare il secondo.

Spero di non aver deluso le vostre aspettative e che continuerete a seguirmi! E, come sempre, fatemi sapere che cosa ne pensate.

Ah, se vi interessa, la canzone che Chelsea cantava quando è arrivato Chris, era “Time after Time”. Mi sembrava appropriata XD

 

ESTRATTO DAL CAPITOLO 6:

«Pronto?!», urlai in tono disperato.

«Chelsea! Che cosa succede?».

Era Chris e a quel punto scoppiai in lacrime.

«Chelsea! Oddio, Chelsea calmati. Calmati e dimmi che cosa è successo. Dove sei?».

Cercava di stare calmo, ma anche lui sembrava alquanto sconvolto.

«N… non lo so dove sono!».

 

Vi lascio anche i link dei genitori di Chelsea e Shereen, per come li ho immaginati io e, come al solito il profilo Facebook.
E per concludere, un ringraziamento a tutte le persone che hanno inserito la mia storia tra le seguite, preferite o quant'altro e a coloro che recensiscono.
Al prossimo capitolo!


Koral McDiamond - Lesley Fera

Henry Gaver - Liam Neeson

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Capitolo 6
*** Tempesta ***



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6  


CAPITOLO 6: TEMPESTA

 

La mattina dopo, ai notiziari, avvisarono di una perturbazione consistente che ci avrebbe colpiti a breve.

«Strano, qui non piove mai in questo periodo dell’anno», affermò il nonno mentre eravamo tutti seduti in cucina per la colazione.

«Ma sì, sarà solo un temporale passeggero, nulla di cui preoccuparsi», prese parola mamma.

Io ero ancora mezzo addormentata e non facevo minimamente caso alla loro conversazione, imburrandomi una fetta di pane con aria assonnata.

«Per oggi avete programmi, ragazzi?».

Mia sorella scosse la testa, liquidando la domanda di mio padre con un gesto della mano. Come diavolo faceva quella ragazza ad essere sempre tanto perfetta, con i capelli già sistemati come se fosse appena uscita da parrucchiere, di prima mattina? I miei erano tutti scarmigliati, come se mi fossi rotolata sul letto per tutta la notte.

Sbuffai e poi risposi a mio padre dicendo che nel pomeriggio sarei dovuta andare al centro commerciale in città.

«Sei sicura, tesoro? Insomma… hanno detto che arriva un tempesta… ».

«Tranquillo nonno, vado in macchina, starò bene», gli risposi rassicurante.

Quella mattina io e Chris non ci guardammo nemmeno; dopo ciò che era successo la sera precedente, era a dir poco imbarazzante. Gli avevo davvero offerto… me stessa? Avevo davvero confessato di voler andare a letto con lui?

Dio, sì, lo avevo fatto.

Poco prima di pranzo telefonai a Ryan per raccontargli tutto e la sua risposta mi sorprese non poco.

«Forse dovresti farlo veramente, Chelsea… ».

«Che cosa?!».

«Voglio dire… io non ho seguito il tuo consiglio; non ho parlato neanche una volta con Gale e adesso sta con un altro ed io non riesco a smettere di chiedermi se ti avessi ascoltato, le cose sarebbero andate diversamente?».

«In una settimana? No, Ryan, le cose probabilmente non sarebbero andate diversamente. Tra l’altro… magari Gale stava con quell’uomo già da prima».

«Come puoi dire una cosa del genere? Insomma, la tua situazione è stata stravolta per quanto? Un minuto? Se Chris fosse arrivato un minuto prima quel giorno non avrebbe trovato le rose, se fosse arrivato un minuto prima forse avreste affrontato l’argomento, quindi come puoi dire proprio tu che una settimana non avrebbe fatto differenza? In una settimana succedono tante cose, Chelsea».

Beccata. Aveva ragione lui e mi dispiaceva da morire sentirlo così rassegnato.

«Senti Ryan, io oggi pomeriggio vado al centro commerciale, che ne diresti di venire con me?».

«Mi piacerebbe, ma non posso. Ho promesso a Ben che sarei stato con lui tutto il giorno dato che adesso sono in ferie, ma grazie lo stesso per l’offerta».

«Va bene, non fa niente».

«Ma Chelsea, non hanno dato un’allerta meteo? Sei proprio sicura di voler uscire?».

«Dopo tutto quello che è successo ieri sera con Chris? Più sto lontana da casa, meglio è».

Lui emise un verso a metà tra uno sbuffo e una risata.

«Ok, ma stai attenta».

Ora fu il mio turno di ridere.

«Sembri mio nonno, Ryan».

«Cosa ci posso fare se mi preoccupo per te e ti voglio bene?».

Quelle parole mi lasciarono di sasso e non risposi.

«Chelsea? Ci sei ancora?».

«Io… sì».

«Perché ti sei zittita?».

«Perché… insomma, a parte mio nonno, non me lo aveva mai detto nessuno».

«Neanche i tuoi genitori?».

«Non così, non apertamente, almeno».

«Oh».

«Beh, adesso è meglio che vada, il pranzo sarà pronto tra poco. Ci vediamo stasera per la passeggiata di Buster?».

«Volentieri, se questo posto non sarà spazzato via della tempesta e tu… ».

«Ed io starò attenta, papà, te lo prometto».

A quelle parole lo sentii ridere, poi ci salutammo e riattaccai.

Il pranzo fu pronto in pochi minuti, quindi scesi al piano di sotto e presi il mio solito posto tra il nonno e Shereen.

«Shereen, oggi io e papà siamo stati invitati a casa di Martha e Jake, te li ricordi? I Ferland… ».

«I vostri amici, sì, me li ricordo… qual è il problema?».

«Oh, non c’è nessun problema, solo… volete venire anche tu e Chris o preferite restare a casa?».

Mia sorella guardò per un momento il suo fidanzato, poi scosse la testa.

«Restiamo a casa tranquilli, magari guardiamo un film», disse lei accarezzando il braccio del ragazzo più volte.

L’avrei volentieri presa a pugni.

Presi un respiro profondo guardando altrove, poi infilzai con rabbia un pezzo di lasagna, lo misi in bocca e mandai giù tutto senza nemmeno masticare.

La carne e il formaggio caldi mi ustionarono la gola, facendomi venire le lacrime agli occhi e quasi soffocandomi, tanto che mia madre, seduta proprio di fronte a me, mi guardò preoccupata.

«Tutto bene, tesoro?».

Trangugiai un intero bicchiere di acqua frizzante, talmente frizzante che anche quella mi fece lacrimare gli occhi.

Usai i capelli per coprirmi alla vista di Chris, seduto a capotavola alla mia sinistra, mentre il nonno, vicino a me, era seduto a capotavola dal lato destro.

«Sto bene», biascicai non appena ebbi ritrovato un minimo di voce.

Mio padre mi guardò dubbioso, poi iniziammo a parlare tutti del più e del meno.

Dopo il pasto, andai a fare una passeggiata con Buster; meno stavo a casa meglio era.

Ero così stanca di tutta quella situazione. Ero contenta all’inizio dell’estate sapendo che avrei passato un po’ di tempo lontana di Chris ed ora eccolo che me lo ritrovavo davanti ogni giorno, con mia sorella sempre appiccicata a lui come una ventosa.

Camminai a lungo con Buster, poi, quando il vento si fece troppo forte, decisi di tornare a casa.

Avevo tutti i capelli spettinati, si vedeva proprio che una tempesta era in agguato.

Lasciai a casa il mio cane e presi la macchina, dopo aver avvisato mamma e papà che stavo uscendo; loro avevano appuntamento più tardi con Martha e Jake.

A causa del forte vento e della pioggia che cominciava a cadere, impiegai quasi mezz’ora per arrivare al centro commerciale e poi scesi nel posteggio sotterraneo. Se stava arrivando un vero temporale, preferivo avere la macchina al coperto.

Forse avrei dovuto pensarci prima, ma un pomeriggio di vecchio e sano shopping poteva davvero farmi bene, anche se significava prendere un po’ di pioggia e guidare a passo di lumaca.

Ad ogni modo, quando giunsi tra i negozi, dimenticai dell’allerta meteo e di tutto il resto; mi si illuminarono gli occhi e cominciai soltanto a girare come se non avessi mai visto un centro commerciale prima di allora.

In effetti era da un pezzo che non mettevo più piede in un negozio, ma tra il lavoro e tutto il resto, avevo quasi dimenticato come ci si sentiva ad andare a fare acquisti. Era… semplicemente liberatorio.

Così, con un umore decisamente migliorato, iniziai ad entrare ed uscire dai negozi, via via sempre più carica di buste.

Comprai abiti, magliette, un paio di jeans super attillati e ancora leggins e un paio di sandali con un motivo rosso scamosciato sul dorso del piede che erano la fine del mondo.

Poi, immancabilmente, passai in libreria perché anche quella era una mia grande passione, quasi come la musica, che però nel mio cuore occupava un posto con quell’ “in più” inspiegabile che mi faceva alzare da terra di qualche centimetro quando mi ci abbandonavo.

Beh, in realtà quando cantavo e suonavo, mi sentivo completamente in un altro mondo,  era semplicemente meraviglioso: la mia valvola di sfogo.

Mio nonno, oltre la musica, mi aveva insegnato ad amare anche i grandi classici della letteratura, sia americana sia straniera, così acquistai un libro intitolato “Il Maestro e Margherita”, di un certo Michail Bulgakov.

Quando fui sufficientemente soddisfatta dei miei acquisti, conclusi in bellezza con un frullato di frutta fresca preso in un bar nel centro commerciale, ormai avevo quasi speso un mese di stipendio e a quel punto mi decisi a tornare alla macchina.

Posai le compere  nel bagagliaio sistemando tutto impeccabilmente, in modo che ogni cosa si incastrasse con un’altra e, quando guardai l’orologio, mi stupii nel vedere che erano le sei passate: erano trascorse più di tre ore da quando ero partita da casa.

Mi affrettai a salire in auto, misi in moto e uscii dal parcheggio.

Non l’avessi mai fatto.

Non appena fui all’aperto, mi trovai davanti ad uno di quegli scenari che avrebbero fatto invidia al più catastrofista dei registi di film apocalittici oppure a qualche buffone che prediceva fini del mondo maya svariate volte l’anno.

Lampi, fulmini, vento che fischiava neanche fosse una sirena, una pioggia spaventosa e tuoni da far tremare i finestrini della mia auto. Fu questa la scena fuori dal centro commerciale.

In un primo momento restai raggelata, inchiodata sul sedile della mia auto. Forse era meglio restare lì ancora per un po’, ma se la tempesta fosse peggiorata? No, dovevo tornare a casa, anche a costo di guidare a dieci all’ora.

Così mi feci coraggio e premetti leggermente il pedale dell’acceleratore. Quando mi ritrovai apertamente sotto la pioggia, non vidi nulla, dunque azionai i tergicristalli al massimo.

Mio Dio, odiavo guidare con quel tempo, ma sarei tornata a casa, anche se ci avessi impiegato due ore.

La situazione per strada era pessima; si era formato un ingorgo spaventoso a causa di un incidente e le auto procedevano a passo d’uomo.

Accesi la radio per distrarmi un po’, avevo sempre avuto una sorta di fobia dei temporali e, come se non bastasse, fui presa da una sorta di tic nervoso, come quello che avevo avuto la sera in cui avevo portato fuori Buster, incontrando poi Ryan, dato che mi ero ritrovata a passeggiare sotto casa sua.

Tamburellavo nervosamente sul volante dell’auto, con lo scrosciante rumore della pioggia che copriva ogni altro suono, perfino la radio.

Cominciai davvero ad essere presa dal panico quando restai immobile in auto senza muovermi avanti di un centimetro. Detestavo stare ferma in un mezzo di trasporto, indipendentemente da qualunque esso fosse.

Arrivai al punto di spegnere il motore e, solo dopo dieci minuti abbondanti, riaccesi la macchina e mi mossi.

Non vedevo l’ora di arrivare a casa, ormai non mancava molto; ero partita dal centro commerciale da quarantacinque minuti mentre, in condizioni meteorologiche normali, ci avrei impiegato soltanto un quarto d’ora per tornare.

Ciò che accadde dopo fu veloce: la strada praticamente liquida sotto le ruote, un’auto che arrivava nel senso opposto ad una velocità non adatta per quelle condizioni, io che sterzavo improvvisamente per evitarla.

Poi tutto fu inghiottito dalle tenebre.

Quando mi risvegliai, qualcosa non andava. Non sapevo quanto tempo fosse passato, forse minuti o forse ore, ad ogni modo la pioggia non aveva minimamente accennato a diminuire ed io, mi resi conto, ero in un’auto capovolta  da qualche parte fuori strada.

Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi, magari dentro un fosso, mi arrivava troppo sangue alla testa e la gamba destra mi provocava un dolore terribile ogni volta che cercavo di muoverla. Era rimasta incastrata sotto lo sterzo.

Mi imposi di stare calma, ma la verità era che stavo per avere un attacco di panico e non capivo se stavo per vomitare o per svenire e la prima opzione sarebbe stata piuttosto problematica dato che mi trovavo a testa in giù.

Ad un tratto, un rumore mi restituì un lampo di lucidità: la suoneria del mio cellulare.

Avevo ancora la cintura agganciata, ma se l’avessi slacciata avrei battuto la testa sul tettuccio dell’auto e tutto il peso si sarebbe concentrato sul collo, quindi evitai di sganciarla e cercai a tentoni di recuperare la mia borsa, finita sui sedili posteriori.

Dopo qualche tentativo riuscii ad afferrarla, estrassi a fatica il cellulare e premetti il tasto verde di chiamata non guardando nemmeno il nome sul display.

«Pronto?!», urlai in tono disperato.

«Chelsea! Che cosa succede?».

Era Chris e a quel punto scoppiai in lacrime.

«Chelsea! Oddio, Chelsea calmati. Calmati e dimmi che cosa è successo. Dove sei?».

Cercava di stare calmo, ma anche lui sembrava alquanto sconvolto.

«N… non lo so dove sono. Chris, sono uscita di strada. Una macchina stava per venirmi addosso e io ho sterzato e sono uscita di strada, ma non so dove sono. Non so per quanto tempo sono rimasta svenuta, ma l’auto è capovolta e io ho una gamba incastrata. Chris… ti prego, aiutami».

Non ero mai stata tanto terrorizzata in tutta la mia vita, quindi non mi curai nemmeno di darmi un minimo di contegno, cosa che, in altre circostanze, avrei fatto sicuramente.

Dall’altro capo del telefono, sentii il respiro di Chris farsi corto.

«Chelsea, ascoltami adesso, ok? Dimmi l’ultimo posto che ricordi prima di finire fuori strada, ce la fai? Ti ricordi qualcosa che mi aiuti a capire dove sei?».

Quella domanda mi mandò nuovamente in panico e ripresi a piangere. Dio, mi sarei presa a schiaffi da sola se la situazione non fosse stata già abbastanza critica; non mi era mai successo di lasciarmi andare in un modo del genere, ma ero di sicuro sotto shock. Presi un respiro profondo, dovevo concentrarmi.

«Non mi mancava molto per arrivare, avevo già passato il ponte e il supermercato; in un paio di minuti sarei stata a casa».

«Va bene, Chelsea. Quindi eri dopo il supermercato e… il negozio che vende articoli da surf? Quello lo avevi già superato?».

Mi sforzai di ricordare, ma era tutto molto confuso.

«No, io… non credo», ma a quel punto la chiamata  si interruppe. «Chris!», chiamai, ma non venne alcuna risposta dal ragazzo.

Le linee dovevano essere sovraccariche, per questo la telefonata si era chiusa.

Cominciai ad agitarmi come impazzita; nessuno mi avrebbe trovata se non fosse arrivato lui e, stando così le cose, non potevo neanche avvertire un’autoambulanza.

Cercai di districare la mia gamba da sotto il volante e, quando pensai che non sarei mai uscita viva da lì, finalmente la liberai, anche se il dolore fu tremendo.

Cominciai a suonare il clacson come una pazza, e forse lo stavo diventando davvero, ma almeno così avevo qualche speranza che la gente mi sentisse. Sfortunatamente, avevo come l’impressione che il rumore della tempesta avrebbe comunque coperto tutto il resto.

Ad un tratto, tutta l’adrenalina che avevo in corpo parve abbandonarmi ed io mi ritrovai improvvisamente priva di forze, scivolando nuovamente  nel buio.

Rumori attutiti. Lievi ticchettii. Era tutto quello che percepivo o… era nella mia mente?

Il dolore alla testa era forte, così come anche in tutto il resto del corpo, d’altra parte.

Ma mentre il mondo che mi circondava, sprofondava e si fondeva nel buio e nel fragore della tempesta che imperversava fuori dalla mia auto ribaltata, improvvisamente, un fascio di luce bianca e accecante, mi esplose davanti agli occhi.

In un attimo, mi trovai catapultata indietro nel tempo e nello spazio, non sapendo se fosse un ricordo, o se la mia mente stesse elaborando  tutto perché, in fondo, era ciò che desideravo in quel momento.

Chris era di fronte a me, jeans e maglietta proprio come avevo imparato a conoscerlo e ad amarlo prima di quell’estate. Sorrideva.

Ed era un sorriso sincero e meraviglioso; spensierato, esattamente come una volta. Adesso non sorrideva più, non così almeno.

Quel sorriso era scomparso proprio come il legame che ci aveva uniti in quegli ultimi due anni. Che cos’avevo fatto? Perché tutto sembrava andare avanti così con tanta facilità, anche se ogni cosa in cui credevo, andava in pezzi?

Era come essere a terra e, ogni volta che provavo a rialzarmi, ricevevo l’ennesimo calcio allo stomaco che mi faceva crollare.

Quando riaprii gli occhi, fu perché sentivo dei rumori insistenti da qualche parte vicino a me.

Le mie palpebre si alzarono lentamente e controvoglia e, quando misi  a fuoco ciò che avevo intorno, il volto di Chris si stagliò fuori dal finestrino, distorto a causa della pioggia incessante.

Ero confusa e avevo la vista annebbiata, ma quando vidi il ragazzo inginocchiato fuori dalla mia auto, la mia mente ricordò l’accaduto.

Con la mano destra riuscii ad arrivare al bottone per sbloccare l’apertura dell’auto, così lui poté aprire lo sportello.

«Chelsea! Oh… oh, mio Dio. Chelsea, adesso ti tiro fuori, ok? Ti tiro fuori e ti porto in ospedale».

Annuii debolmente in direzione del ragazzo, che mi pareva incredibilmente pallido.

«Chris… », lo chiamai.

Lui mi guardò, atterrito. Non gli avevo mai visto una simile espressione dipinta sul viso. Né quando aveva visto i fiori nel mio ufficio, né quando ci eravamo trovati faccia a faccia quella prima sera a casa dei miei genitori.

«Dimmi, Chelsea».

«Ho… ho distrutto la macchina… ».

La sua espressione in quel momento fu talmente sorpresa, che se avessi potuto mi sarei messa a ridere, ma ero troppo debole anche solo per fare quello.

Posò una delle sue mani affusolate sul mio volto e mi accarezzò.

«Stai tranquilla, ti tiro fuori da qui, adesso».

Aveva la mano inzuppata e, quando mi chiesi come mai, mi diedi mentalmente della stupida perché lui era corso da me sotto la pioggia per cercare di trovarmi.

Aveva letteralmente corso perché il nonno non aveva la macchina e i miei avevano preso la loro per andare dai Ferland, mentre io avevo usato la mia per arrivare al centro commerciale.

Sentii Chris sporgersi all’interno dell’abitacolo, si posizionò dietro di me per quanto poteva e poi sganciò la cintura , di modo che, quando caddi verso il basso, arrivai contro di lui anziché contro il tettuccio dell’auto ribaltata.

Il ragazzo mi trascinò all’esterno con sé, premurandosi di prendere anche la mia borsa, poi mi prese in braccio con quella stessa facilità di quando mi ero slogata la caviglia uscendo dalla doccia, e si rialzò, portandomi con sé.

Avevo la testa così pesante.

«Chelsea… Chelsea, non addormentarti, ok? Resta qui con me… ».

«Pensavo che queste cose le dicessero solo nei film… », mugolai come se stessi parlando a nessuno in particolare.

Ma lui non rise e anzi, sembrava veramente preoccupato.

La pioggia ormai aveva completamente inzuppato anche me, ma stava diminuendo.

Ad ogni modo, non rimasi tanto a rifletterci su perché, d’un tratto, persi i sensi per la terza volta, allontanandomi dal mondo.

Stavolta, quando mi risvegliai, ero sdraiata su qualcosa di più morbido, anche se non esattamente comodo.

Attorno a me sentivo strani suoni e, quando aprii gli occhi, notai  dei macchinari, aste per flebo e, sul letto accanto al mio, c’era un uomo con gli occhi chiusi.

Dovevo essere al pronto soccorso dell’ospedale, ma di Chris nemmeno l’ombra, quindi non potevo aver sognato.

Schiacciai il pulsante di chiamata e, in meno di un minuto, un’infermiera fu da me.

«Buonasera, finalmente ti sei svegliata», disse lei in tono gentile.

Non doveva essere molto più vecchia di me.  Era minuta, probabilmente se fossi stata in piedi al suo fianco, mi sarebbe arrivata alle spalle e aveva una massa di capelli rossi e ricci. Il viso pallido tradiva una certa stanchezza.

«Che cosa è successo?».

«Il tuo fidanzato qui fuori ci ha raccontato che sei finita fuori strada; era molto preoccupato. Sei stata fortunata che ti abbia trovato in tempo, sai?  Vuoi che lo faccia entrare?».

Il mio fidanzato? Ma chi, Chris?

Non mi feci troppe domande ed annuii.

L’infermiera dapprima tirò la tenda del separé posizionato tra me ed il paziente al mio fianco, poi uscì. La testa mi pulsava dolorosamente e, quando provai a toccarla, notai che avevo un grosso cerotto che mi copriva parte della fronte.

La porta si aprì nuovamente dopo qualche istante e subito fece il suo ingresso Chris, pallido come mai lo avevo visto prima d’ora.

Senza proferir parola, occupò lo sgabello di fianco al mio letto e si coprì la faccia con entrambe le mani.

«Chris… che cosa succede? Stai male?».

Il ragazzo sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi.

«Mi stai chiedendo se io sto male, Chelsea?».

«Beh, non hai una bella cera», cercai di sdrammatizzare, ma lui non accennò neanche vagamente ad un sorriso.

Lentamente, voltò tutto il corpo verso di me e mi prese il viso tra le mani, con estrema  delicatezza, come se avesse il timore che il minimo contatto potesse ferirmi ulteriormente. Come se fossi fatta di vetro.

«Chelsea, hai idea di… ?», ma si interruppe, non trovando le parole.

«Hai idea di che cosa ho pensato quando mi hai risposto al telefono? E di quando si è interrotta la chiamata? Hai idea di quali pensieri mi passassero per la mente mentre correvo a cercarti sotto la tempesta? Hai idea di cosa ho pensato quando ti ho trovata nella macchina capovolta con gli occhi chiusi? E hai idea di cosa io abbia potuto immaginare quando sei svenuta e ti sei accasciata tra le mie braccia mentre ti portavo qui sotto la pioggia?».

Chris parlò come se ogni singola sillaba gli provocasse un dolore fisico insopportabile ed io non potei fare a meno di provare pena per lui.

Debolmente, allungai un braccio fino a prendere la sua mano con la mia e lo sentii incredibilmente caldo a contatto con la mia pelle gelida, tanto che lui si alzò, aprì un armadio e ne estrasse un’altra coperta che posò delicatamente su di me, poi tornò di nuovo a prendere la mia mano.

«Quando ti ho telefonato, Shereen era in bagno e tuo nonno suonava il pianoforte al piano di sopra. Sono uscito senza dire niente, di corsa, ma ho lasciato un biglietto e dovrebbero aver avvisato i tuoi genitori. Le linee telefoniche sono ancora interrotte a tratti, quindi non sono riuscito a mettermi in contatto con qualcuno di loro, ma vedrai… arriveranno presto».

Gli strinsi più forte la mano e Chris si avvicinò a me, tanto da posare la sua fronte sulla mia.

«Dio, Chelsea se solo… se tu non ce l’avessi fatta… ».

«Sssh… », sussurrai. «Chris, tu mi hai appena salvato la vita».

Gli posai una mano sulla guancia leggermente incavata e lo accarezzai più volte. Lui se la strinse ancora di più al volto e chiuse gli occhi, abbandonandosi contro la mia mano. Poi, lentamente, cominciò ad avvicinarsi a me, fino a che i nostri nasi si sfiorarono e, quando le nostre labbra si erano quasi incontrate, la porta si aprì, facendoci sobbalzare e l’infermiera annunciò che i miei genitori stavano arrivando.

Io e Chris ci staccammo improvvisamente e fu appena in tempo, perché gli uragani  mamma e papà fecero irruzione con la stessa delicatezza della tempesta che aveva causato tanti disordini ed incidenti quel pomeriggio.

«Amore mio!», esclamò mio padre mentre Chris si faceva da parte e la mamma, pallida come mai l’avevo vista, si portava una mano alla bocca.

Fui abbracciata da entrambi i miei genitori e poi mamma corse ad abbracciare anche Chris.

«Io… Christian, non so davvero come ringraziarti», cominciò papà. «Se non fosse stato per te, probabilmente Chelsea non se la sarebbe cavata così con poco, quindi… grazie, davvero».

I due uomini si strinsero la mano. Papà, magro come non mi sembrava fino al pranzo di quel giorno, vestito di tutto punto e Chris, con ancora i vestiti bagnati attaccati addosso e tutti sporchi di fango, a causa di quando si era inginocchiato sul prato per tirarmi fuori dall’auto. Era una visione alquanto particolare.

Mamma invece prese il posto che fino a poco prima aveva occupato il mio amico e mi abbracciò forte, continuando ad accarezzarmi i capelli e a darmi baci sulla fronte, laddove non era coperta dal cerotto.

«Grazie, Christian», disse anche lei con le lacrime agli occhi.

Ok, quella era una cosa mai vista prima: mia madre sull’orlo di una crisi di pianto. Non l’avevo vista piangere nemmeno al funerale di sua madre, nonna Allie e avevo sempre attribuito questo alla sua forza e alla sua determinazione. Ma vederla così, adesso, stretta a me e senza la minima intenzione di lasciarmi andare, fece commuovere anche me, tanto che affondai il volto nell’incavo del suo collo, scossa da lievi tremori.

C’era da dire che solitamente nemmeno io ero una che si abbandonava alle crisi isteriche, ma dovevo ammettere che quella settimana mi stava succedendo piuttosto spesso ed era una cosa che odiavo con tutto il mio cuore. In mia difesa c’era da dire che non avevo mai avuto tanta paura in tutta la mia vita.

La mamma mi strinse ancor di più a sé e anche papà mi abbracciò dall’altro lato,  mentre io, a tentoni perché ero ancora nascosta contro mia madre, allungavo un braccio alle sue spalle per cercare la mano di Chris, che lui afferrò immediatamente e prese ad accarezzare con mano ferma.

Avrei tanto voluto vedere la sua espressione in quel momento, ma al contempo non volevo affatto che lui mi vedesse in quelle condizioni.

Quando mi calmai, ritrassi la mano e mi sciolsi a fatica dall’abbraccio dei miei genitori, mi sentivo un po’ più forte rispetto a quando mi ero svegliata su quel letto.

Dopo circa dieci minuti, arrivò un medico seguito da un’infermiera.

Mi disse che dagli esami del sangue che mi avevano fatto e dalla tac che avevano eseguito mentre ero ancora priva di sensi, non era risultato niente di anomalo. Avevo una contusione sulla gamba destra laddove ero rimasta incastrata sotto lo sterzo, ma non era nulla di preoccupante, però dovevo ripassare tra un paio di giorni per un controllo. Mi avrebbero dimessa subito, anche perché la tempesta aveva causato numerosi feriti e servivano i posti letto.

Sorrisi e ringraziai il dottore, felice di tornare di nuovo a casa mia senza dover rimanere in ospedale.

Così, mi fecero sedere su una sedia a rotelle, con la quale mi portarono fuori dalla struttura, e, una volta giunti alla macchina, Chris mi prese nuovamente in braccio, caricandomi all’interno.

La pioggia non era ancora cessata, ma decisamente era diminuita rispetto a quando ero uscita dal centro commerciale.

Chris mi tenne stretta durante il tragitto; ero semisdraiata su tutta la lunghezza dei sedili posteriori, con la schiena e la testa posate contro di lui.

Ero praticamente in dormiveglia quando arrivammo a casa.

Percepii gli sportelli aprirsi, il mio corpo che veniva sollevato neanche fosse gommapiuma, la porta di casa che si apriva ed improvvisamente fu come ricevere una secchiata di acqua gelida addosso.

Spalancai gli occhi e mi irrigidii, tanto che Chris rimase immobile a guardarmi preoccupato e gli sussurrai in modo che solo lui potesse sentire: «Mettimi giù subito, se Shereen… », ma lui m’interruppe scuotendo vigorosamente il capo.

«No, Chelsea. Non lo farò. Non stavolta», e rafforzò ulteriormente la presa attorno al mio corpo.

Stranamente, in casa non trovammo nessuno; solo un biglietto scritto nella familiare grafia del nonno in cui diceva che lui e Shereen erano andati con Ryan a recuperare le mie cose dalla macchina, che era stata portata via con il carro attrezzi.

Quando Chris mi portò in camera, inspiegabilmente, riuscì a disfare il letto con un braccio mentre con l’altro reggeva ancora me e, dopodiché, mi infilò sotto le coperte.

Il contatto del materasso freddo laddove fino a poco prima c’era stato il corpo di Chris, mi provocò un brivido, ed io mi rannicchiai portando le ginocchia al petto e circondandole con le braccia.

A quel punto, il ragazzo si sdraiò al mio fianco, anche se comunque rimase sopra le coperte.

Io posai la testa contro il suo torace, che si gonfiava e si sgonfiava regolarmente a ritmo del suo respiro e, così facendo, mi addormentai.

Venni risvegliata  da un sussurro nelle mie orecchie.

Non sapevo che ora fosse, l’unica cosa di cui mi rendevo conto era quella voce.

«Chelsea… ehi, hai visite».

Era stato Chris a parlare e quando riaprii gli occhi, inizialmente venni ferita dalla luce della lampada, poi, man mano che la mia vista si abituava, misi a fuoco la sagoma di Ryan.

«Ehi… », mi salutò lui. Stava sorridendo debolmente, ma si vedeva benissimo quanto fosse strano. Finto.

A fatica mi misi a sedere sul letto.

«Ryan, ma tu cosa ci fai qui? Non dovresti essere a casa a dormire? Sono le… che ore sono?», chiesi guardando Chris.

Lui emise una mezza risata e guardò l’orologio che portava attorno al polso.

«Mezzanotte e mezza».

«Mezzanotte e mezza? E tu sei qui?».

«Non me ne sarei mai andato se prima non avessi controllato di persona  come stavi. E ho riportato tutti i tuoi acquisti. A tal proposito, mia cara… la prossima volta per caso hai intenzione di comprarti tutto il centro commerciale? Perché sai… da quanto ho visto ci mancava davvero poco».

A quelle parole, Chris scoppiò a ridere, mentre io misi un broncio infantile che contagiò anche la risata di Ryan.

«Quando voi due avrete finito di prendermi in giro, sappiate che vi odio. E poi da quando siete diventati migliori amici? Quasi quasi vi preferivo quando vi guardavate male».

«Tu non ci odi. E poi ti ho salvato la vita adesso, no?».

«Ed ora hai intenzione di rinfacciarmelo ad ogni occasione?».

«Questo dipende da te», disse dandomi un leggero buffetto sul naso.

Incrociai le braccia al petto, inarcando un sopracciglio e guardandoli con aria di superiorità. Cominciavo a sentirmi già meglio, non sapevo bene se fosse perché stessi migliorando fisicamente oppure perché la loro presenza… semplicemente mi rendeva contenta.

«Chelsea, ora non te la prendere, ma mi ripeti che cosa ti avevo detto al telefono il pomeriggio, prima che uscissi?».

«Mi avevi detto di stare attenta».

«Esattamente.»

«Infatti sono stata attenta. Io ero quasi arrivata a casa, mi mancava poco e guidavo pianissimo, ma che cosa ci posso fare se una macchina ha invaso la mia corsia e mi ha quasi investita? Vorrà dire che la prossima volta resterò ferma lasciando che mi venga addosso».

Ora i due si incupirono, irrigidendosi improvvisamente.

«La prossima volta?», chiese Chris in tono gutturale. «Non ci sarà nessuna prossima volta, a costo di rubarti la patente e portarti in giro di persona».

Lo guardai con aria di sfida.

«Addirittura? Vogliamo scommettere?».

Ryan scosse la testa.

«Sono contento di vedere che stai meglio, Chelsea».

Sorrisi sinceramente.

Era bello stare così con due delle persone a cui tenevo di più in assoluto, per non parlare del fatto che con Chris le cose sembravano tornate alla normalità.

«Ora vado, ragazzi e… Chelsea… i tuoi… acquisti sono al piano di sotto».

Il modo in cui calcò sulla parola “acquisti” fece nuovamente ridere Chris, che si prese un bel pugno da parte mia.

«Ahi!», disse quello, scandalizzato.

Ryan invece sorrise. «Quella è la mia scuola, ragazzi» disse, orgoglioso.

«Beh, alla prossima lezione puoi anche insegnarle a tirarsi fuori da una macchina da sola se questo è il ringraziamento per averle salvato la vita», disse lui, massaggiandosi il bicipite indolenzito.

Stavolta fu il mio turno di ridere.

Restammo in silenzio per qualche secondo, poi fui io a parlare: «È davvero passato solo un giorno dalla cena? Perché a me sembrano anni».

Ryan ridacchiò, ma Chris si fece serio.

«Se parli obiettivamente sì, è stato solo un giorno, ma se parliamo per metafore… oggi mi hai fatto perdere dieci anni di vita, Chelsea Miranda Gaver».

Posai una mano sulla sua e poi Ryan prese parola.

«Vado davvero, adesso… buonanotte ragazzi».

«Notte», rispondemmo io e Chris contemporaneamente.

Quando Ryan si richiuse la porta alle spalle, mi voltai verso il mio amico e dissi: «Ora è il caso che vada anche tu».

«Scusa?».

«Probabilmente mia sorella ti sta aspettando nella stanza accanto ed è meglio che tu vada».

«Sei sicura? Insomma… potresti avere bisogno di qualcosa... ».

«Vai, Chris, davvero. Devi andare».

«D’accordo, ma chiamami se ti serve qualunque cosa».

E, con un ultimo bacio sulla fronte, si alzò dal mio letto e andò via.

 

 

Note dell’autrice:

Eccoci qui con il sesto capitolo. Allora, che dire… innanzitutto spero che vi sia piaciuto e che il finale non sia parso troppo smielato e via così.

Poi… Ryan e Chris: la situazione si è un po’ ribaltata: la sera prima si guardano in cagnesco e la sera dopo si comportano da super amiconi.
Questo perché entrambi hanno rischiato di perdere una persona a cui tutti e due tengono molto, quindi decidono di seppellire l’ascia di guerra (anche se non so per quanto) e di lasciarsi momentaneamente i rancori alle spalle.

Detto questo passo e chiudo, aspetto con ansia i vostri commenti; un abbraccio da parte mia e un bacio da Chris (o Ryan, chi preferite voi!) XD

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DAL CAPITOLO 7:

"Cercammo di essere silenziosi, ma la mia gamba provata dal pomeriggio precedente faceva un po’ di capricci e Chris continuava a minacciarmi con frasi tipo “Vuoi svegliare tutto il vicinato?” oppure “Tra un po’ quella gamba te la  amputo del tutto”, ricevendo puntualmente delle mie occhiate degne del serial killer più spietato nella storia del mondo.

Il vero problema però furono le scale.

Dovetti saltellare su una gamba sola neanche fossi il soldatino di piombo e due volte con il mio peso rischiai di sbilanciare anche Chris, che dovette reggersi al corrimano delle scale e stringermi più forte per fare in modo di  non farci rotolare a terra entrambi e a quel punto sì, che avremmo svegliato tutti."

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Capitolo 7
*** Tra spuntini e chiacchiere notturne ***



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8



CAPITOLO 7: TRA SPUNTINI E CHIACCHIERE NOTTURNE

 

Quando mi svegliai era ancora notte fonda. Guardai l’ora proiettata sul muro dalla radiosveglia, mancava poco alle tre del mattino, quindi erano passate appena due ore da quando Chris era andato a letto.

La testa mi pulsava fastidiosamente  e anche la gamba faceva piuttosto male.

Cercai di alzarmi dal letto, ma subito fui colta da forti capogiri.

“E che cazzo!”, pensai arrabbiata. Mi ero davvero stancata di fare la ragazza per bene e sempre posata se tutto quello che ottenevo era una fregatura in piena regola da mia sorella e un bell’incidente d’auto che mi era quasi costato la vita. In quel momento sentivo davvero il bisogno di dare la colpa di ogni cosa che andasse male nella mia vita a qualcosa o a qualcuno.

Restai un paio di minuti con gli occhi chiusi, respirando a fondo seduta sul letto e con i piedi per terra. Contai fino a dieci svariate volte, ma questo non mi aiutò molto, anzi, forse ottenni soltanto l’effetto di innervosirmi ulteriormente.

Ecco, in quel momento avrei davvero avuto bisogno di un bel sacco da box da prendere a calci e  a pugni, ma poi, ricordando le mie condizioni fisiche, convenni che anche se lo avessi avuto, non era decisamente il caso di usarlo. Con quel dolore alla gamba, poi.

Forse la musica mi avrebbe aiutato, anzi, sicuramente, ma erano comunque le tre di mattina e non era il caso di svegliare l’intero vicinato, anche se si trattava di Mozart. E, anche se fosse stato giorno, arrivare al pianoforte, era un atto che implicava il mio culo che si alzava da quel letto e non ero ancora certa di essere in grado di riuscirci.

Mentre chiamavo mentalmente a raccolta tutti i santi del cielo per non perdere la pazienza, sentii un rumore e mi voltai. Buster se ne stava lì nella sua cuccia, alle mie spalle, ma era sveglio e i suoi occhi scuri e scintillanti erano puntati dritti su di me. Mi stava sorvegliando, perché era quello che aveva sempre fatto. Fin da quando era solo un cucciolo, ci eravamo presi cura l’uno dell’altra e volevo bene a lui come ne volevo a pochissime altre persone.

Buster era la mia ancora di salvezza quando il nonno era lontano e non avevo nessun altro su cui poter contare, a casa. La prima sera che mi ero ritrovata faccia a faccia con Chris, era stato il mio cane a  preoccuparsi per me e mi era rimasto accanto per tutta la sera, anche mentre ero disperata.

Allungai una mano nella sua direzione e lo chiamai.

«Ehi, Buster… vieni qui, bello».

E lui lo fece. Si alzò e venne verso di me, con un leggero mugolio inquieto, posando la testa sulle mie ginocchia, come aveva fatto la famosa sera della cena a casa di mamma e papà. La sera prima che io e lui arrivassimo dal nonno. La sera in cui tutto era cominciato.

Lo accarezzai dietro le orecchie, ma un’altra dolorosa fitta parve spaccarmi in due la testa ed io mi portai una mano alla fronte, gemendo.

Buster si allontanò guaendo piano e poi tornò subito da me, dandomi lievi pacche con il muso sulle ginocchia.

Volevo andare a prendere un antidolorifico, più che altro ne avevo davvero bisogno, ma la scatola dei medicinali era al piano di sotto e, una cosa che avevo imparato, era che gli antidolorifici andavano sempre presi a stomaco pieno.

L’idea di mangiare non mi allettava neanche un po’, ma dovevo sforzarmi, altrimenti mi sarei tenuta il dolore.

Lasciai passare un’altra manciata di minuti, poi riprovai ad alzarmi e… niente, dannazione. La testa mi girava troppo e la gamba non era messa tanto meglio.

«Buster… andresti a chiamare Chris?».

Così, il mio cane uscì dalla stanza.

Non volevo arrivare a tanto, avrei preferito non svegliare il mio amico, che già aveva fatto molto per me quel giorno, ma il dolore era veramente forte e non riuscivo neanche a stare in piedi da sola.

Qualche istante dopo, un Chris preoccupato e a torso nudo arrivò nella mia stanza seguito da Buster. Il mio cuore, già provato dalla lunga giornata, perse un battito; in pratica il ragazzo indossava soltanto un paio di pantaloni lunghi di una tuta grigia e un paio di calzini neri.

«Chelsea, che succede?».

«Io… scusami, Chris, non ti avrei svegliato, ma dovrei scendere al piano di sotto e sicuramente i miei genitori e mio nonno si sarebbero spaventati a morte se avessi chiamato loro».

«Ma per favore, hai fatto bene a chiamare me. Ora ti porto giù».

Io indossavo un paio di pantaloncini bianchi corti e una canotta con la scritta “Stasera faccio la brava (forse)”.

Qualcuno doveva avermi cambiata dopo che Ryan e Chris erano andati via; probabilmente mia madre.

Quando lesse la scritta, Chris si mise a ridere.

«Complimenti per il pigiama, Chelsea. Per il compleanno ti regalerò una maglietta con una freccia che ti indica e una scritta che dice: “Chelsea Gaver, la regina dei pigiami imbarazzanti”».

«E non hai ancora visto quelli invernali… », dissi con un sorrisetto.

«I pigiami invernali? Mmm… non so se sono pronto per quelli».

«Beh, c’è quello rosa con la mucca con sciarpa e cappello che sorride, quello rosso con la renna che guida la slitta trainata da una mandria di Babbo Natale stizziti, quello nero con il pupazzo di neve assassino e… ».

«Ok, Chelsea, davvero, il mio cuore ed il mio senso dell’estetica non potrebbero reggere oltre», disse lui con un largo sorriso.

«Ad ogni modo, anche il tuo di pigiama non è male e per Natale invece io potrei regalarti una maglia con una freccia che ti indica e una scritta che dice: “Christian Williams, il re dei pigiami inesistenti».

«Touché», disse lui ridendo. «Sai, sono contento che tu non abbia perso il tuo senso dell’umorismo, Gaver».

«Non potrei mai perdere il mio senso dell’umorismo. Ed ora aiutami a tirarmi su, prima che ci sia bisogno di chiamare il carro attrezzi. Però non mi prendere in braccio, voglio farcela da sola. Più o meno. Tu mi devi dare l’aiuto minimo e indispensabile. Cammino sulle mie gambe fino a che non sarò in coma o in una bara».

Per un attimo il ragazzo mi lanciò uno sguardo torvo. Ci pensai dopo che, dato ciò che era accaduto appena il giorno prima, quella era stata un’infelice scelta di parole. Poi Chris mi passò un braccio attorno alla vita ed io, aggrappandomi a lui, riuscii ad alzarmi in piedi.

Quel contatto di pelle contro pelle mi provocò una scarica di brividi lungo la colonna vertebrale.

«Uh… ».

«Che succede? Tutto bene? Ti posso prendere in braccio Chelsea, non è un problema».

«Ti ringrazio Chris, ma ce la faccio, tranquillo e... accidenti, che botta», dissi esaminando meglio la mia gamba destra, quella che era rimasta incastrata sotto il volante e che avevo strattonato quasi fino a strapparmi.

«Dove?», chiese lui allarmato. Poi, seguì la direzione del mio sguardo, fissando la contusione che era rimasta, gli occhi sgranati.

In pratica, avevo tutta la parte superiore della coscia di un colore che andava dal blu al viola.

«Chelsea, dovrei davvero portarti in braccio», disse non riuscendo a staccare gli occhi dall’ematoma.

«No. Voglio… voglio farcela sulle mie gambe. Almeno fammi provare, ok? Per favore… ».

Alle mie parole, il suo sguardo si addolcì.

«D’accordo. Sei abbastanza stabile?».

«Sì».

«Perfetto. Andiamo, allora».

Cercammo di essere silenziosi, ma la mia gamba provata dal pomeriggio precedente faceva un po’ di capricci e Chris continuava a minacciarmi con frasi tipo “Vuoi svegliare tutto il vicinato?” oppure “Tra un po’ quella gamba te la  amputo del tutto”, ricevendo puntualmente delle mie occhiate degne del serial killer più spietato nella storia del mondo.

Il vero problema però furono le scale.

Dovetti saltellare su una gamba sola neanche fossi il soldatino di piombo e due volte con il mio peso rischiai di sbilanciare anche Chris, che dovette reggersi al corrimano delle scale e stringermi più forte per fare in modo di  non farci rotolare a terra entrambi e a quel punto sì, che avremmo svegliato tutti.

Arrivati a metà rampa, lui, con il fiatone e varie gocce di sudore ad imperlargli le tempie e il collo, mi guardò dritto negli occhi e disse: «Non me ne volere, ma sei proprio un disastro» e, detto questo, mi sollevò, prendendomi in braccio.

Con la gamba sana cercai di scalciare, ma alla fine mi arresi e mi limitai a guardarlo male mettendo di nuovo il solito broncio, una mano sul fianco e aggrottando la fronte.

Arrivati in cucina, mi depose su una sedia e, guardandomi disse: «Oddio ti prego, non mi fissare così, questa è la tua versione squilibrata».

Spalancai la bocca, ferita.

«Io squilibrata? Se solo tu avessi avuto un po’ di pazienza!».

«Ne ho avuta di pazienza, ma ho dovuto accelerare un po’ le cose se non avevi intenzione di svegliare tutta la casa».

«Ma per favore… eri tu quello che non era capace di tenermi», continuai ostinata.

«Mia cara, io credo di aver ampiamente dato prova di saper reggere discretamente il tuo peso; eri tu che continuavi a sbilanciarmi».

«Discretamente? Ma sentilo, il damerino».

Adesso naturalmente lo stavo prendendo in giro e lui lo sapeva, tanto che ci mettemmo a ridere entrambi.

«Ok, allora… io saltello a prendere degli antidolorifici, tu basta che mi tiri fuori qualcosa da mangiare».

«Sicura che non vuoi che ti accompagni?».

«Sicura. Sono nella stanza accanto, non ci metterò molto» “Spero…”, aggiunsi mentalmente.

Così, mi alzai dalla sedia e, con andatura alquanto malferma, mi diressi fuori dalla cucina.

Alle mie spalle, udii Chris ridere e dovetti trattenermi dal voltarmi e lanciargli un’altra occhiataccia.

La scatola dei medicinali si trovava nel bagno, che era la stanza proprio accanto alla cucina, quindi per fortuna non dovetti percorrere molta strada.

Insieme agli antidolorifici, intanto che c’ero, presi anche un protettore gastrico. In caso avessi mangiato poco e la protezione del cibo non bastasse, potevo fare affidamento anche su quello.

Quando ebbi tutto, sempre con andatura malferma, tornai in cucina.

«Accidenti… ti avevo chiesto di tirare fuori qualcosa da mangiare, non di svaligiare l’intera dispensa», dissi a Chris, dato tutto quello che aveva preparato in tavola.

«La colazione è il pasto più importante della giornata, no? E queste sono tutte le cose che ti piacciono di più. Ho solo… voluto darti un’ampia possibilità di scelta», disse lui con un sorriso.

«Sì, lo vedo. E poi non sarebbe proprio una colazione».

«Zitta. Ora vieni qui, mangia e non fare storie».

Gli feci una linguaccia, ma poi obbedii, prendendo il cartone del latte e riempiendo una tazza.

«Vuoi che te lo scaldi?».

Lo guardai male. «In estate?».

Lui mi fissò con un’espressione in stile “E che c’è di male?”, ma lo liquidai ridacchiando e aggiungendo una quantità inverosimile di cereali bianchi e scaglie di cioccolato.

Trangugiai tutto con gusto, in effetti era dal frullato al centro commerciale che non mettevo più qualcosa nello stomaco e quello spuntino delle tre di mattina mi ci voleva proprio.

Mentre mangiavo, Chris rimetteva a posto le altre cose ed io lo osservavo.

I muscoli della schiena e delle braccia si tendevano ad ogni movimento e nel suo corpo non c’era nulla che non andasse.

«Cosa guardi?», mi chiese quando si voltò.

Merda.

Mi aveva beccata.

«Niente, ehm… hai già messo via i plumcakes?».

«No, sono lì, a sinistra», disse indicandomi una scatola.

Afferrai subito il pacco e ne estrassi uno, scartando la confezione di plastica.

«Fame?», chiese lui con un sorriso.

«Abbastanza», ammisi, portandomi una mano davanti alla bocca piena.

Parlammo a lungo e come non facevamo da tempo, lì, nella semi oscurità della cucina di mio nonno, e fu bello. Mi ero dimenticata cosa volesse dire avere di nuovo al mio fianco il mio migliore amico perché, per quanto mi piacesse Ryan e gli volessi bene, non era la stessa cosa che parlare con il vecchio Chris, quello che ormai raramente tornava a farsi vedere.

Riempii la tazza di latte un’altra volta e ci inzuppai dentro altri plumcakes, imitata dal ragazzo. In realtà mi era sorto il sospetto che nemmeno lui avesse mangiato la sera precedente ed effettivamente, se i ruoli fossero stati invertiti, anche a me si sarebbe chiuso lo stomaco.

«Che dici, torniamo a letto?», chiese quando ci fummo spazzolati metà confezione di plumcakes.

Sorrisi sinceramente.

«D’accordo».

Chris buttò tutti gli incarti di plastica nella spazzatura, rimise a posto il latte in frigo e posò la tazza vuota nel lavandino mentre io mi rialzavo.

Se non altro mi sentivo un po’ più forte rispetto a prima.

«E adesso mi permetterai di portarti in braccio?».

«Solo sulle scale», concessi.

Lui sbuffò divertito e insieme ci avviammo fuori dalla cucina.

Quando arrivammo alla base delle scale, mi prese in braccio e in pochi secondi fummo in cima.

«Sarebbe molto più semplice se ti lasciassi dare una mano», disse abbassando notevolmente la voce, dato che eravamo arrivati al piano delle camere da letto.

«Mi sto facendo aiutare, ma il mio corpo non deve disabituarsi al movimento, altrimenti quando sarò completamente guarita, mi verrà il fiatone a fare una semplice rampa di scale».

Chris annuì, sconfitto e mi posò nuovamente per terra.

«Ok, allora andiamo, Calamity Jane».

«Spiritoso».

La fatica rispetto all’andata fu minore e in un minuto fummo in camera mia, anche se in condizioni normali ci avrei messo pochi secondi.

Lì, Chris mi aiutò nuovamente a mettermi sotto le coperte e si sedette accanto a me.

«Come va?», mi chiese.

«Bene, grazie. Ma ti prego, già basteranno i miei genitori a chiedermi ogni due secondi come sto; non iniziare anche tu».

Lui rise.

«Agli ordini, Miss Gaver».

Sbuffai.

«Fila via, adesso, prima che mia sorella si accorga di qualcosa».

«Chelsea, dimmi una cosa… », il tono di Chris si era improvvisamente fatto serio.

«Cosa?».

«Shereen ti mette davvero così in soggezione?».

Ok, tra tutte le domande che poteva farmi, quella decisamente non me l’aspettavo.

«Cosa?».

«Voglio dire, anche prima, quando ti ho riportata a casa dall’ospedale… ti sei resa conto che eravamo arrivati e tu eri in braccio a me e subito… ti sei irrigidita perché Shereen poteva vederci. Insomma… lei ti fa davvero questo effetto?».

Chinai il capo e mi morsi il labbro inferiore.

«Non mi aspetto che tu capisca, Chris. Di rado mi hai parlato dei tuoi fratelli, ma da quanto ho capito, andate tutti d’accordo. Insomma… noi hai mai dovuto dimostrare niente a nessuno. Ma in una famiglia come la mia, in cui tutti prima di te sono stati qualcuno di importante, è… praticamente impossibile distinguersi in qualcosa e Shereen… lei è così perfetta in ogni cosa che fa. Non ha mai fatto un errore, ed è bellissima e sempre… non mi vengono in mente altri aggettivi se non perfetta».

Ci fissammo negli occhi, io con le lenzuola tirate fino alla vita, con la schiena poggiata contro la testiera del letto e Chris, seduto  sul bordo, con la testa voltata da un lato per guardarmi.

«Nessuno è perfetto, Chelsea, men che mai Shereen. Specialmente se ha davvero fatto quello che mi hai detto  con le rose per… allontanarci. Non posso ancora credere che l’abbia fatto, ma non credo neanche che tu racconteresti una bugia simile. Se lo ha fatto, allora questo vuol dire sbagliare. E poi sei intelligente e sei… bellissima e superi di gran lunga tua sorella nella musica. Cos’altro potresti volere di più nella tua vita?».

Quelle due lettere mi rimasero impigliate sulla punta della lingua ed io non ebbi neanche lontanamente il coraggio di sputarle fuori.

Scossi la testa e alzai le spalle.

«Magari qualcosa di un po’ meno complicato», dissi invece, lasciando diversi sottointesi.

Chris sospirò e si alzò dal letto.

«Ora dormi, calamita per le disgrazie, e cerca di riposare».

Gli lanciai contro un cuscino, che lui prese con facilità senza il minimo sforzo e lo mise nuovamente sotto la mia testa con fare gentile.

«Sogni d’oro».

Detto questo, si chinò a darmi un bacio sulla guancia e uscì dalla mia camera da letto, lasciandomi con i miei pensieri e i miei dilemmi da risolvere.

Quel ragazzo mi rendeva tutto dannatamente difficile.

Prima di sistemarmi meglio sotto le coperte, presi uno degli antidolorifici e lo buttai giù con una sorsata d’acqua, poi mi sdraiai completamente e cercai di dormire.

Il sonno però  venne a tratti e per la maggior parte del tempo non riuscii affatto a riposare.

Non facevo altro che sognare macchine che volavano fuori strada e che venivano distrutte e, quando mi svegliai per l’ennesima volta con il fiato grosso per l’angoscia, mi alzai dal letto e mi avviai in bagno.

Ci arrivai con fatica, ma orgogliosa del fatto di esserci riuscita da sola e, quando feci per tornare in camera, mi ritrovai nuovamente Chris davanti alla porta della stanza. Adesso però non era più a petto nudo; indossava una maglietta nera con le mezze maniche.

«Ehi, sono le sei, che cosa ci fai qui?», gli chiesi stupita.

«Ti sei agitata da quando sono andato via fino ad ora, vero?».

Va bene, era inquietante.

«Come fai a saperlo?».

«Nemmeno io riuscivo a dormire».

«Tu? Non mi hai mai dato l’impressione di uno che soffre d’insonnia».

«Infatti non è così. Di solito».

«Oh, ehm… e oggi cosa c’è di diverso?», chiesi portando tutto il peso sulla gamba sana e poggiandomi al muro.

Subito Chris si sporse verso di me e mi riportò in camera, aiutandomi a camminare.

«Cosa c’è di diverso? Sei seria?».

Lo guardai senza capire.

«Tu che mi sei quasi morta tra le braccia, ecco cosa c’è di diverso. Non riesco a togliermi quell’immagine dalla mente, non lo capisci, Chelsea?».

Sospirai pesantemente e mi piazzai davanti a lui.

«Ora guardami».

Fu il suo turno di fissarmi senza capire.

«Solo… guardami. Guardami e dimmi quello che vedi, ok?».

«In che senso?».

«Tu vedi me ed io sono qui, Chris, davanti ai tuoi occhi e andrà tutto bene, d’accordo? Io sto bene, tu mi hai salvato la vita. Se sono qui… è grazie a te. E non ti devi preoccupare di cosa succederà perché io sto bene», scandii chiaramente. «Ed ora ripetilo anche tu».

«Tu stai bene».

«Esatto. Sono solo un po’ ammaccata, ma ogni tanto può capitare».

Lui annuì.

«Ora mi rimetto a letto, va bene?».

«Sì, ma io resto».

«Che cosa?».

«Non riesco a dormire perché non ti vedo, non vedo se hai bisogno di qualcosa. Permettimi di restare qui, ti prometto che farò il bravo».

Lanciai uno sguardo alla porta chiusa della mia stanza; erano le sei e un quarto, ormai.

«Va bene».

Mi sdraiai sotto le coperte e lui invece si sistemò…

«Che diavolo ci fai per terra, scusa?».

«Non voglio darti fastidio».

«Ma non essere ridicolo, vieni sul letto».

Abbozzò un sorriso e si posizionò alle mie spalle.

«Ormai è giorno, quindi non ti dico buonanotte, ma… il concetto è quello», mi disse.

Io mi voltai verso di lui, ritrovandomi inchiodata a quei suoi profondi occhi azzurri. Per un lunghissimo istante restammo così, a guardarci, poi avvicinai  il mio corpo a l suo e lo abbracciai.

Chris non se lo aspettava, perché in un primo momento lo sentii irrigidirsi, ma dopo un momento si rilassò e rispose al mio abbraccio.

Finalmente, riuscii ad addormentarmi senza incubi in cui venivo schiacciata da auto e nessuno poteva sentire le mie grida.

 

Note dell’Autrice:

Eccomi qui con il settimo capitolo! Perdonatemi se vi ho fatto aspettare, ma sono stata un po’ impegnata la settimana scorsa.

Passiamo alla storia… beh, diciamo che questo è stato più che altro un “capitolo di passaggio”.

All’inizio non lo avevo nemmeno pensato; avevo programmato di far svegliare Chelsea direttamente la mattina successiva e invece… una cosa tira l’altra e io sono prolissa XD

Comunque spero vi sia piaciuto, io a scriverlo mi sono divertita e... in parte si è intravisto il rapporto dei vecchi Chelsea e Chris, quando ancora il loro legame non era stato intaccato da nessuno.

Le recensioni sono gradite!

 

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DAL CAPITOLO 8:

“Camminai portando il peso sulla gamba sana fino alla piscina, in cui Chris stava tagliando l’acqua con movimenti precisi e possenti delle braccia.

Sorrise quando si accorse di me.

«Ehi, come va?».

Piegai in su gli angoli delle labbra, sforzandomi di apparire convincente. Lui si accorse di quanto fosse falso quel mio gesto, lo capii da come mi guardò, perché avevo imparato a conoscerlo bene e mi ero sempre vantata, durante la nostra amicizia, di quanto a fondo riuscissi a capirlo. Ma per fortuna ebbe il buon senso ed il tatto di non domandarmi cosa fosse successo.

Probabilmente in altre circostanze me lo avrebbe chiesto senza tanti giri di parole e infine mi avrebbe fatto sputare la verità a suon di minacce come era solito fare scherzosamente, però quella volta rimase in silenzio.

Mi sedetti sul bordo della piscina, immergendo le gambe nell’acqua dal ginocchio in giù e lui fece altrettanto, prendendo posto al mio fianco”.

Fatemi sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 8
*** A cuore aperto ***



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cap8  




CAPITOLO 8: A CUORE APERTO

 

Venni svegliata da qualcosa che mi scuoteva delicatamente una spalla e, quando aprii gli occhi, ancora profondamente assonnata, mi ritrovai davanti mia madre.

Aveva uno sguardo strano e, solo quando realizzai meglio la situazione, capii il perché: Chris era ancora lì al mio fianco. Durante quelle poche ore di sonno mi ero voltata, ora gli davo le spalle e lui mi stringeva la vita con un braccio.

Rimasi raggelata.

«Come ti senti, tesoro?», mi chiese la mamma.

Io cercai di liberarmi dalla presa del ragazzo, imbarazzata come poche altre volte lo ero stata nella mia vita, ma lui non voleva saperne di lasciarmi andare e, continuando a contorcermi in quel modo, avrei finito per svegliarlo.

«Mamma, io… ».

«Chelsea, dimmi come ti senti. Parleremo dopo di questo».

Il suo tono era risoluto.

«Io… abbastanza bene, sono un po’ scombussolata. Sono riuscita a dormire solo mentre Chris è rimasto qui, erano le sei, circa. Che ore sono adesso?».

«Quasi le nove; ho mandato Shereen fuori con tuo padre, le ho detto che Chris era sotto la doccia quando lei è uscita».

Mi aveva coperta ed io mi sentivo tremendamente in colpa.

«Mamma… ».

«Ieri ho rischiato di perderti, Chelsea. Ho rischiato di perdere mia figlia e se non fosse stato per lui… », e indicò Chris, ancora profondamente addormentato al mio fianco, «… tu ora non saresti qui. Ci saranno sicuramente molte cose da chiarire in tutta questa situazione, ma di certo il momento non è adesso. Adesso voglio che cerchi di dormire come minimo un’altra ora; papà e Shereen non saranno a casa prima di pranzo», detto questo, mi posò un bacio sulla fronte e uscì dalla mia stanza.

Dio, quella situazione si faceva sempre più intricata ogni giorno che passava e così non facevo altro che mettermi nei guai di ora in ora.

Mi voltai nuovamente verso Chris, che continuava a dormire tranquillo. Il suo petto si alzava e abbassava regolarmente, seguendo il suo respiro.

Era così bello mentre dormiva. Avrei voluto accarezzargli il viso, passargli una mano tra i capelli e baciarlo, ma non era decisamente il caso anche se, dovevo ammetterlo, i nostri volti erano così vicini… e poi forse lui non se ne sarebbe neanche accorto.

“NO!”, dovetti urlare nella mia testa per impedirmi di farlo. Non potevo continuare in questo modo. Decisamente non andava bene.

Poco a poco, riuscii a sciogliermi dall’abbraccio del ragazzo. Anche se mia madre aveva appena detto che dovevo dormire per almeno un’altra ora, non riuscii davvero a stare ferma a letto un istante di più, neanche se c’era Chris al mio fianco.

Mi tirai a sedere sul letto, ancora con un po’ di fatica, però riuscii ad arrivare alla cabina armadio e prendere una maglietta azzurra, sostituendola a quell’imbarazzante canottiera con la scritta che mia madre mi aveva infilato la sera prima.

Buster era sempre lì, sdraiato sulla sua cesta e quando mi vide in giro per la stanza, arrivò subito scodinzolando.

Mi sedetti sul pavimento e lui si distese al mio fianco, sempre agitando la coda e decisamente più allegro di come lo avevo visto quella notte.

Probabilmente era perché vedeva che anch’io stavo meglio.

Lo accarezzai sulla testa, felice del fatto di averlo lì. Lui era stato il miglior regalo di compleanno di sempre.

Sulla scrivania, accanto a me, era posata una copia del libro “Orgoglio e pregiudizio”, uno dei miei classici preferiti, così mi allungai per prenderlo e iniziai a sfogliare le pagine.

Ero totalmente immersa nella lettura quando sentii la voce preoccupata di Chris, chiamarmi.

«Sono qui, non sono scappata», gli risposi divertita, vedendo che si agitava nel letto data la mia assenza.

Lui si voltò di scatto.

«Chelsea! Che cosa… che cosa ci fai lì per terra? Stai bene?».

«Sì, non ti preoccupare, stavo solo leggendo. Hai dormito bene?».

Si guardò intorno stralunato, come se si fosse appena reso conto che si trovava ancora in camera mia e la sua espressione fu talmente buffa che scoppiai a ridere.

«Bene, splendido, sono felice del fatto che ridi di me».

«Scusa, ma la tua faccia è stata strepitosa».

Lui scosse la testa sorridendo, poi s’irrigidì.

«E Shereen?».

«Mia madre l’ha mandata fuori con papà, stamattina. Le ha detto che tu eri sotto la doccia».

«Tua madre lo sa?».

«Ci ha trovati, prima», dissi imbarazzata.

Lui si portò una mano alla fronte.

«Oh, mio Dio».

«Sai, Chris, non ti avevo mai visto così… drammaticamente teatrale».

«Mi prendi in giro? Tua madre ci ha trovati a letto insieme e si presuppone che io dovrei essere il fidanzato di tua sorella!».

Il modo in cui disse la parola “fidanzato”, mi diede sui nervi.

«Ci ha trovati solo mentre dormivamo nello stesso letto, Chris, tu sopra le coperte, per altro. Sta tranquillo; le cose… si sistemeranno». Il  mio tono però si era raffreddato di parecchio.

«Chelsea… ».

«Dovresti andare a farti quella doccia adesso, Chris. E io ho bisogno di un bagno dato che non penso riuscirei a stare in equilibrio su una gamba sola per tutto il tempo».

Lui scese dal letto e mi si avvicinò. «Lascia che ti aiuti ad alzarti».

«Grazie, ma… posso farcela anche da sola», dissi rifiutando la mano che mi offriva.

Sospirò e, con un ultimo sguardo, Chris uscì dalla mia stanza.

Maledizione. Quando sembrava che le cose migliorassero, arrivava sempre il momento in cui discutevamo e a quel punto lo cacciavo fuori arrabbiata. Perché poi, non lo sapevo.

Sentivo solo il sangue ribollirmi nelle vene fin quasi a bruciare.

Le cose non dovevano andare così, ma se avessi iniziato a pensare a tutti i “se” ed i “ma” di quell’assurda situazione, non ne sarei mai uscita.

Mi presi la testa tra le mani e, dimenticandomi della botta a seguito dell’incidente e del cerotto, mi feci anche male.

Bene, avrei voluto pensare “peggio di così non si può”, ma non osai farlo per timore che qualcosa di peggio accadesse sul serio e c’erano tante altre cose che avrebbero potuto andare storte.

Mi tirai in piedi, un po’ più agilmente di prima, presi della biancheria e dei vestiti puliti e mi avviai verso il bagno con la vasca. Probabilmente mi avrebbe fatto bene.

Il medico il giorno prima mi aveva detto di controllare la ferita e pulirla eventualmente, ma quando mi tolsi il cerotto, constatai che era messa molto meglio di quanto mi sarei aspettata.

In effetti non avevo più quei fastidiosi giramenti di testa che mi avevano perseguitato per tutta la notte.

O meglio, li avevo, ma… erano molto più sporadici e leggeri.

Riempii la vasca di acqua tiepida e mi ci immersi fino al collo.

Quel bagno ebbe subito un effetto rigenerante su tutto il mio corpo ed io mi lasciai andare, cullata dal profumo del bagnoschiuma alla vaniglia e dalla piacevole temperatura dell’acqua.

L’ultimo confuso pensiero che mi passò per la mente, era che avevo di nuovo dimenticato di chiudere a chiave la porta.

Qualcosa mi strappò con irruenza dal mio dolce dormiveglia,  scuotendomi poco delicatamente, tanto che aprii gli occhi di scatto, con un mezzo infarto e terrorizzata a morte.

Mi trovai davanti un Chris pietrificato, con le braccia immerse nella vasca fino alle spalle.

«Che diavolo stai facendo?!» gridai rendendomi conto di essere nuda, coperta solo dalla schiuma che il sapone aveva creato.

«Io?! Pensavo che ti fossi sentita male e fossi svenuta!».

«Dio mio! Chris, devi uscire, non puoi stare qui!».

Il ragazzo parve rinsavire e, resosi conto che mi stava ancora avvolgendo la schiena nuda con le braccia, le fece scivolare lentamente via dal mio corpo.

«Scusami, ma… la prossima volta cerca di non addormentarti più in una vasca, soprattutto se hai avuto un incidente meno di ventiquattr’ore prima», mi rispose in tono duro come mai lo avevo sentito prima.

Detto questo, uscì con aria che era un misto tra l’arrabbiato e l’imbarazzato e le braccia ancora gocciolanti.

Piegai la gamba sana e mi portai una mano bagnata alla testa.

Non si poteva continuare così.

Eravamo lì da quanto? Due settimane? Meno, probabilmente e le cose peggioravano di giorno in giorno.

Dovevo farmi un bel viaggio a New York, quell’estate; era sempre stato il mio sogno, ma non vedere il nonno per un altro anno mi dispiaceva troppo.

Rimasi nella vasca altri due minuti e poi uscii traballando.

Mi ci volle decisamente più tempo del solito per asciugarmi e sistemare i capelli; alla fine trovai la soluzione di restare seduta sul bordo della vasca perché rimanere ferma in piedi per più di cinque minuti consecutivi, già cominciava a darmi piuttosto fastidio.

Non appena uscii dal bagno, mi ritrovai davanti mio nonno, più bianco in faccia di un lenzuolo.

«Nonno! Cosa succede? Ti senti male?».

Mi si avvicinò a grandi passi e mi abbracciò forte.

«Come stai, bambina mia?».

Oh. Dovevo immaginarmelo che fosse preoccupato per me; dopotutto non era neanche riuscito a vedermi il giorno prima.

Gli sorrisi dolcemente, posando un bacio sulla sua guancia.

«Stai tranquillo, sto bene».

«Ieri, quando… », ma lo interruppi.

«Nonno ascoltami, ok? Sto bene e non vado da nessuna parte».

Era più o meno lo stesso discorso che avevo fatto a Chris quella notte, anche se in versione più ridotta.

«Chris ti ha salvato la vita?».

«Sì, mi ha trovata lui».

Nonno Dan sospirò.

«Sia benedetto quel ragazzo».

Ora sorrisi; non avevo mai sentito il nonno benedire qualcuno e quelle parole…  mi fecero un effetto piuttosto strano.

«Papà e Shereen sono tornati?».

«Non ancora, ma tua madre vuole parlarti. È nella stanza del pianoforte».

Mi trattenni dall’ingoiare il vuoto e sospirai. Era giunto il momento della nostra chiacchierata, dunque.

«Sì, vado subito».

«Io sono di sotto se ti serve qualcosa e Chris sta facendo un bagno in piscina».

«Ok».

Da una parte era un bene parlarne in quel momento con la mamma; nessuno avrebbe potuto sentire il nostro discorso adesso, ma d’altro canto, avevo il cuore che continuava a martellarmi in petto come una trivella impazzita. Ad ogni modo, quella mattina ci aveva trovati a dormire nello stesso letto, abbracciati ed era normale che volesse delle spiegazioni, ora.

Mi incamminai a passo lento e instabile lungo il corridoio, fino ad arrivare alla stanza del pianoforte.

Mia madre era lì, seduta sul una sedia di legno e mi fece cenno di accomodarmi sullo sgabello imbottito del pianoforte.

Per un paio di secondi ci fissammo, immerse in un silenzio così innaturale per noi due, che mi fece venire la pelle d’oca. Stavo irrimediabilmente incasinando tutta la mia famiglia con l’arrivo di Chris e tutto quello che era successo.

Mamma portava sempre una collana da quando avessi memoria io. Era una catenina in argento con un ciondolo a forma di sole e in quel momento, il ciondolo si alzava e si abbassava regolarmente a ritmo del suo respiro, mentre lei ci giocherellava, forse inconsciamente. Di solito lo faceva quando era agitata.

Fui io ad interrompere quel silenzio opprimente.

«Lo so che ti ho delusa, mamma. Ma è difficile spiegare cosa… cosa provo. Per Chris».

Lei fermò il movimento nervoso delle sue mani, nel quale riconobbi me stessa quando anch’io avevo qualche preoccupazione, ma prese saldamente il ciondolo tra le dita e lo strinse forte.

«Delusa? Perché pensi di avermi delusa?».

Deglutii a vuoto.

«Me lo vuoi far dire davvero? Perché io… io… ».

«Tu lo ami?».

«Non lo so. Mamma, prima di lui io non ho mai avuto un ragazzo e questo tu lo sai. Ma oltre a questo fatto in sé; io non avevo neanche mai avuto un interesse. Non ero come Shereen, che dimostrava palesemente le sue attenzioni per qualcuno se le piaceva, io… ero troppo impegnata a cercare di essere brava in ogni minima cosa pur di essere alla sua altezza. Alla vostra altezza. All’altezza del nome che porto».

Feci una pausa mentre mia madre mi fissava con sguardo imperturbabile.

«E poi è arrivato Chris. All’inizio eravamo solo amici e mi andava bene; era il mio migliore amico e lo adoravo, adoravo il nostro rapporto ed il fatto che con lui potessi essere me stessa, però poi è successo qualcosa. E non so cosa sia stato, non so cosa mi abbia fatto scattare, ma… quel qualcosa è scattato. Siamo usciti una volta, mamma. Una sola volta, abbiamo visto un film al cinema e lui mi ha baciato ed io ero felice. Davvero felice per una volta nella mia vita. Il resto della storia lo conosci: abbiamo ignorato la cosa e poi sono arrivate le rose che Shereen ha mandato e… ».

«Aspetta un momento», mi interruppe bruscamente.

Mi resi conto solo in quel momento di aver detto la cosa sbagliata: mia madre non lo sapeva che fosse stata lei.

«Cosa vuol dire “le rose che Shereen ha mandato”?».

Sospirai e le raccontai il resto della storia.

Quando finii, lei parve accasciarsi sulla sedia.

Lei che di solito era sempre così posata e dal polso di ferro, che non si lasciava scoraggiare da nulla.

«E in tutto questo… Chris cosa prova per te? E per lei?».

Risi amaramente.

«Mamma, so a stento cosa provo io nei suoi confronti, quindi non chiedermi cosa prova lui nei confronti miei e di Shereen, perché è una domanda alla quale non posso rispondere».

Gli occhi scuri e penetranti di mia madre si posarono dritti nei miei.

«Hai mai notato questa collana, Chelsea?», chiese lei ad un tratto, prendendo tra due dita il ciondolo a forma di sole con il quale stava giocherellando fino a poco prima.

«Certo, ce l’hai da sempre. Perché mi hai fatto questa domanda?».

Mamma sorrise dolcemente, un sorriso che mai le avevo visto prima di allora.

«“Da sempre” detto da te è proprio il termine adatto».

La guardai senza capire; non si era mai comportata in modo così strano.

«In che senso?».

«Amore mio… io e tuo padre non lo abbiamo mai detto a nessuno e ci siamo giurati a vicenda che non ne avremmo parlato mai più e questo è un giuramento che ora sto infrangendo».

Ok, la cosa cominciava a farmi sentire sulle spine ed io mi mossi inquieta sullo sgabello morbido.

«Quando tu nascesti, ebbi dei problemi. Problemi gravi di salute, ci furono complicazioni durante il parto e… dovetti fare una scelta».

«Che tipo di scelta?».

«Noi dovremmo essere in cinque, tesoro… ».

Aveva sganciato una bomba, una bomba della quale inizialmente non avevo inteso la potenza.

Poi, lentamente, metabolizzai le sue parole.

«Io… avrei avuto… ».

«Una gemella. Una gemella che si sarebbe chiamata Sunshine, che è un nome particolare, ma i nomi un po’ strani sono tipici della nostra famiglia e poi tuo padre lo avrebbe tanto voluto. Fu proprio lui a regalarmi quel ciondolo, il giorno dopo la tua nascita. “Così… ”, mi disse “… le nostre tre figlie saranno sempre con noi”».

Dal groppo in gola che avevo, uscì una specie di rantolo strozzato.

«Perché mi stai dicendo tutto questo adesso?».

«Perché ieri ho rischiato di perdere anche te e ti sto vedendo così triste, Chelsea. La competizione con Shereen e tutto quello che hai fatto nella tua vita… non era quello che avrei voluto per te. Tu avresti avuto un legame indissolubile con tua sorella: Sunshine. Purtroppo non è andata così, ma… tesoro, tu non capisci che sei già meravigliosa e non potrai mai essere perfetta perché nessuno lo è, come non lo è Shereen. Ed ora voglio dirti l’ultima cosa: pensa bene a ciò che vuoi e scopri cosa provi per Chris perché quello che ti voglio far capire è che… una volta che prendi una decisione, Chelsea… non si torna più indietro».

Fece per alzarsi e uscire dalla stanza, ma la bloccai.

«Mamma?».

«Sì?».

«Te ne sei mai pentita?».

«Di cosa?».

«Beh, della decisione che hai preso… ».

«Ne ho persa una, Chelsea… ma non vi ho perse entrambe. L’importante è stato questo».

Detto questo, abbassò la maniglia e uscì dalla stanza.

Io rimasi ferma nella stessa posizione nella quale mi aveva lasciata per altri due minuti abbondanti, come se quell’informazione stesse facendo girare nel mio cervello ingranaggi che fino ad ora erano rimasti immobili.

Lentamente, mi alzai dallo sgabello e scesi di sotto a cercare Chris, perché questa era una cosa di cui avrei sicuramente parlato con lui se solo… se solo non si fosse venuta a creare quella situazione così dannatamente complicata.

Ma se non ne avessi parlato con lui non ne avrei parlato con nessun altro. Ryan… eravamo amici sì, ma una cosa del genere era troppo grande per la nostra amicizia. Dopotutto… erano in fin dei conti solo due settimane che avevamo cominciato a vederci.

Camminai portando il peso sulla gamba sana fino alla piscina, in cui Chris stava tagliando l’acqua con movimenti precisi e possenti delle braccia.

Sorrise quando si accorse di me.

«Ehi, come va?».

Piegai in su gli angoli delle labbra, sforzandomi di apparire convincente. Lui si accorse di quanto fosse falso quel mio gesto, lo capii da come mi guardò, perché avevo imparato a conoscerlo bene e mi ero sempre vantata, durante la nostra amicizia, di quanto a fondo riuscissi a capirlo. Ma per fortuna ebbe il buon senso ed il tatto di non domandarmi cosa fosse successo.

Probabilmente in altre circostanze me lo avrebbe chiesto senza tanti giri di parole e infine mi avrebbe fatto sputare la verità a suon di minacce come era solito fare scherzosamente, però quella volta rimase in silenzio.

Mi sedetti sul bordo della piscina, immergendo le gambe nell’acqua dal ginocchio in giù e lui fece altrettanto, prendendo posto al mio fianco.

«È un periodo difficile, Chelsea… va bene se ogni tanto ti viene voglia di piangere».

Lo guardai a bocca aperta.

«Come… ?».

«Ci capiamo al volo noi due. O te lo sei dimenticato?».

Abbassai lo sguardo perché se avessi incrociato il suo, ero certa che i miei occhi si sarebbero riempiti di lacrime e non volevo che accadesse. Avrei voluto così tanto raccontargli di ciò di cui mi aveva parlato mia madre, ma… se lo avessi fatto, questo probabilmente ci avrebbe spinti ad avvicinarci sempre di  più e non era il caso.

Avevamo bisogno entrambi di un po’ di stabilità nel momento in cui ci trovavamo adesso e, avvicinarsi ulteriormente, avrebbe solo dato il risultato di confonderci ancora di più.

«No, Chris. Non l’ho dimenticato».

«Bene. Non farlo mai».

Con una mano bagnata, passò delicatamente sulla pelle violacea della mia gamba, lasciando delle strisce d’acqua che si asciugarono in poco tempo data la temperatura esterna.

«Quanto fa male da uno a dieci?».

«Adesso? No, finché sto seduta non fa male, direi un quattro. Quando cammino è un’altra storia, più o meno il doppio».

Chris sospirò.

«Quando è fissata la visita di controllo?».

«Tra un paio di giorni. Starò bene, vedrai».

«Lo so. Lo so che sei forte, Chelsea… ».

Sorrisi appena.

«Torno dentro, adesso».

«Va bene, io sto qui ancora un po’, a dopo».

Così, sempre con quella mia buffa andatura, rientrai in casa.

Papà e Shereen arrivarono circa un’ora dopo.

Quando mi vide, mio padre venne subito ad abbracciarmi.

«Ehi, tesoro mio… come ti senti oggi?».

«Meglio, molto meglio rispetto a ieri, grazie».

Parlai in cucina con i miei genitori per cinque minuti circa, poi salii in camera mia, impiegandoci molto di più, dato che ora non c’era nessuno a sostenermi.

Quando arrivai, mi sedetti sul letto, con il respiro affannoso.

Ad un tratto, udii una voce che mi fece alzare lo sguardo.

«Chelsea… ».

«Ehi, ciao Shereen, come va?».

«Dimmelo tu. Come ti senti?».

La guardai stupefatta: mia sorella mi stava davvero chiedendo come stavo? Lei che non si era mai interessata a me e che non aveva fatto altro per tutta la vita che mettermi i bastoni tra le ruote in ogni minima cosa?

Quando notò che la mia risposta tardava ad arrivare, aggiunse: «Chelsea, senti… lo so che tra noi ci sono sempre stati degli attriti, ma tu hai avuto un incidente ieri e hai rischiato di… hai  rischiato… », ma sembrava che mia sorella non riuscisse a finire la frase.

Possibile? Lei che per me era praticamente una conoscente? Che non le era mai importato nulla di quello che mi succedeva?

Le misi una mano sulla sua.

«Ora sto bene, ok? Non ci pensare più, il peggio è passato».

Lei sorrise debolmente.

«L’ho sempre saputo che tra noi due eri tu quella più forte, anche se non mi piaceva ammetterlo. E se andrai in giro a dire a qualcuno che l’ho detto, lo negherò fino alla morte».

Risi nervosamente.

«Resterà tra noi, ma… grazie».

«Beh, ora io torno di sotto. Ci vediamo a pranzo».

«Ok, a più tardi».

Quando mia sorella si richiuse la porta alle spalle, mi ricordai che per vivere era fondamentale respirare, cosa che avevo smesso di fare da qualche secondo.

Stavano succedendo troppe cose e troppo in fretta in quei due giorni: l’incidente, la rivelazione di mia madre ed ora il comportamento del tutto anormale di Shereen.

Mi presi la testa tra le mani, quasi a voler bloccare quel flusso infinito di pensieri e tornai a sdraiarmi sul letto.

Nonostante tutto, ero ancora sfinita, specialmente dopo che la mamma mi aveva svegliata quella mattina mentre Chris era ancora al mio fianco. Da quel momento non ero più riuscita a prendere sonno, anche se lei mi aveva detto di dormire un’altra ora.

Mi distesi sopra le coperte e chiusi gli occhi, inspirando a pieni polmoni il profumo di Chris rimasto impregnato nel cuscino.

Ero del tutto rilassata quando la vibrazione del telefono mi fece trasalire.

A tentoni, cercai il cellulare sul cuscino e risposi senza guardare il display.

«Chelsea? Ti ho svegliata?».

La sua voce era inconfondibile.

«No, tranquillo, Ryan. Mi ero solo sdraiata a letto un momento».

«Oh, ehm… scusa. Se vuoi ti lascio dormire».

«Non c’è problema. Dimmi… », risposi in tono affabile.

«Ben oggi ha una partita fuori città e mio padre lo ha accompagnato, quindi… ti farebbe piacere se venissi a pranzo da voi? Papà in teoria ha già parlato con tuo nonno e tuo padre, ma sai… chiedo anche a te… ».

«Ma certo, non devi mica chiedermi il permesso! Vieni pure, a me fa piacere».

«Bene. Tu dimmi… come ti senti?», ora il ragazzo sembrava essersi fatto più serio.

«Io sto meglio, molto meglio. Oddio… è stata una notte un po’ movimentata, ma questo è secondario».

«Movimentata in che senso? Sicura che sia tutto a posto?».

«Certo, io sto bene, non ti preoccupare. Quando arrivi ti spiego tutto».

«Ovvio che mi spieghi tutto; hai il dovere di farlo».

Ridacchiai.

«Il dovere? Addirittura?».

«Ci puoi giurare, Gaver».

«Sei irrecuperabile», dissi scuotendo il capo con un sorriso, anche se lui non poteva vedermi.

«Ora cerca di riprendere da dove ti ho interrotto e prova a riposare un po’, noi ci vediamo dopo».

«D’accordo. A più tardi, Ryan».

«Ciao, Chelsea».

Detto questo, chiusi la chiamata e sprofondai nuovamente la testa sul cuscino.

Finalmente, a quel punto le mie palpebre si abbassarono ed io riuscii ad addormentarmi di nuovo.

Quando riaprii gli occhi era passata un’ora e mezza, ma io mi sentivo già molto meglio e, sentendo un particolare profumo in camera mia, mi voltai di scatto e trovai un vassoio con il pranzo sulla scrivania.

Ci impiegai un momento per collegare il fatto che ormai erano le due di pomeriggio e tutti dovevano già aver pranzato. Quindi, mi catapultai giù dal letto, ma non avevo fatto i conti con la mia gamba che, com’era prevedibile, cedette ed io finii quasi spiaccicata per terra. Per fortuna, la mia caduta fu evitata da una poltrona rossa alla quale riuscii ad aggrapparmi.

Mi sentivo proprio un’idiota.

A piccoli passi, alla fine riuscii ad arrivare al piano di sotto e mi avviai in cucina, dalla quale sentivo provenire voci concitate che, quando feci il mio ingresso, si zittirono all’istante.

Subito, Ryan si alzò dalla sedia e venne ad abbracciarmi.

«Ehi, come stai? E… accidenti, che botta», disse quando vide la mia gsmba viola.

Io gli feci una linguaccia.

«Sto bene. Voglio dire… meglio. Perché non mi avete chiamata per il pranzo?».

«Hai bisogno di più riposo possibile, tesoro», disse il nonno.

«Non volevamo svegliarti», continuò mia madre con un sorriso.

«Hai mangiato almeno un po’?», stavolta fu il turno di Chris, che fino a quel momento se n’era stato a fissarmi a braccia conserte, scrutandomi con occhio clinico.

«Veramente no. Quando mi sono resa conto dell’orario mi sono fiondata fuori dal letto rischiando di diventare un tutt’uno con la parete. O magari  di farci un buco con la mia forma come si vede nei cartoni animati».

Sui volti dei presenti si dipinsero delle espressioni che andavano dallo stupito al divertito al rassegnato.

Qualcuno, tipo mio padre e mio nonno, scosse la testa.

«Non cambierai mai», disse papà.

«Allora vado a prenderti le cose dalla stanza, così mangi un po’, adesso», prese parola Ryan.

Annuii.

«Grazie».

Se avessi dovuto rifare quelle scale una volta in salita e l’altra in discesa, di fila, penso che sarei arrivata giù per loro di cena; soprattutto se avessi avuto il vassoio in mano.

Comunque non mangiai molto quando Ryan fu di ritorno con il mio pranzo; era come se avessi lo stomaco chiuso, ma ero certa che fosse dovuto allo scombussolamento dell’incidente.

Per il resto, la giornata trascorse pacificamente, fui coccolata da tutti. I miei genitori non mi perdevano di vista un momento; il nonno veniva a chiedermi come stessi ogni cinque minuti e Ryan e Chris cercavano di fare battute per farmi ridere. Sembrava che fossero improvvisamente diventati migliori amici.

Anche Buster mi teneva d’occhio costantemente.

L’unica un po’ più distaccata era mia sorella, ma d’altro canto… Shereen era pur sempre Shereen e già aveva fatto una cosa decisamente non da lei venendo a parlarmi quella mattina, dicendo tutte le cose che mi aveva detto.

Anche i giorni seguenti in linea di massima trascorsero allo stesso modo; la mia gamba migliorava ed io mi sentivo sempre più forte di giorno in giorno.

Cinque giorni dopo l’incidente, ebbi la visita di controllo. Ormai sulla gamba avevo solo un ematoma giallognolo che non faceva più male, ed il medico confermò che tutto stava proseguendo nel migliore dei modi.

Passò qualche altro giorno, ed a quel punto avevo recuperato la perfetta funzionalità del mio corpo. Stavo suonando il pianoforte nel salotto, mentre i miei genitori erano seduti vicini sul divano, Chris su una poltrona poco distante a leggere un libro e il nonno aspettava Ben per la loro consueta lezione pomeridiana del martedì.

Guardai l’orologio e notai che Ben era in ritardo di dieci minuti, cosa del tutto strana, dato che lui e Ryan erano sempre puntuali.

Ad un tratto, il mio cellulare prese a suonare.

Risposi al telefono, ma quando sentii le parole di Ryan, percepii il sangue defluirmi velocemente dal viso e dalle mani, mi girò la testa e guardai frastornata attorno a me. I volti del nonno, dei miei genitori e di Chris, erano puntati su di me, preoccupati.

«Tesoro, cosa succede?», chiese mia madre.

Ma tutto ciò che io riuscii a fare, fu correre nel vialetto, salire nella macchina dei miei genitori, dato che ormai la mia era distrutta, e partire ad una velocità da ritiro della patente in direzione dell’ospedale

 

Note dell’Autrice:

Preparatevi, perché questo è il primo di una lunga serie di capitoli che finiranno più o meno così XD

Comunque spero che vi sia piaciuto, io non ero molto convinta mentre lo scrivevo, perciò ho bisogno di sapere cosa ne pensate voi.

Stasera ho poco tempo, devo fuggire, però spero che abbiate apprezzato!

Come sempre, vi lascio un estratto dal prossimo capitolo e il link del mio profilo Facebook. Fatemi sapere!

 

DAL CAPITOLO 9:

"«Ehi! Perché tiri in ballo me, adesso?», esclamai fingendomi stizzita e generando le  risate tra i due ragazzi.

«Ah, non fare quella faccia, Chelsea, sai che ho ragione».

«E poi hai forse insinuato che io abbia la testa dura, Ryan?».

A quel punto prese parola Chris: «Oh, lui lo ha solo insinuato, ma io posso assolutamente confermarlo».

Gli lanciai un’occhiata omicida.

«Voi due mi state sempre meno simpatici quando cominciate a coalizzarvi contro di me; non vi sopporto proprio!».

«Ma smettila, non fare la bambina permalosa».

«Bambina permalosa? Chris, dì solo un’altra parola e ti farò pentire di essere venuto con noi quest’estate».

Ma lui, anziché spaventato, sembrava sempre più divertito.

«Avanti ora, torniamo dentro, razza di ingrati che non siete altro»."

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Capitolo 9
*** Da un disastro a un altro disastro ***



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Capitolo 9  




CAPITOLO 9: DA UN DISASTRO A UN ALTRO DISASTRO

 

Guidavo senza pensare alla strada che mi scorreva veloce davanti; guidavo con le parole di Ryan che mi rimbombavano in testa e con il solo pensiero di arrivare in ospedale.

Com’era potuta succedere una cosa del genere?

Quando arrivai, infilai la macchina in un posteggio vuoto e corsi verso l’ingresso del pronto soccorso, trovando lì il mio amico, con un’aria stravolta e pallido in viso come non lo avevo mai visto.

«Ryan!», lo chiamai.

Lui parve riscuotersi improvvisamente da un sogno e mi fissò con aria assente; poi, sembrò mettermi davvero a fuoco.

«Chelsea… sei venuta… ».

«Ma certo che sono venuta… come stai? Come sta Ben? Dov’è ora? E vostro padre?».

Sembravo un fiume in piena, lo capii dall’occhiata che mi lanciò lui, quindi presi un respiro profondo e parlai in tono calmo.

«Scusami. Vieni, ti offro qualcosa da bere e tu mi racconti cos’è successo, ti va?».

In circostanze normali, Ryan non si sarebbe mai lasciato offrire neanche un bicchiere d’acqua, da me. Il concetto di cavalleria era troppo radicato in lui, ma, quella volta, in quella situazione, il ragazzo annuì.

Percorremmo la strada che dal pronto soccorso portava al bar dell’ospedale accompagnati soltanto dal suono dei nostri respiri e, quando fummo seduti ad un tavolo, io con una tazza di caffè tra le mani, e Ryan con un succo di mirtillo, decidi di rompere quel silenzio.

«Allora… dimmi tutto».

«Io… io non so che cosa sia successo. Ben era a casa di un suo amico, c’era  tutta la sua classe. Hanno fatto una grigliata, era organizzata da tempo e… ad un certo punto il padre del ragazzino da cui stavano… non lo so bene come sia andata, c’era una tanica di alcol, lo aveva fatto tante volte, ma qualcosa è andato storto e… ha preso a fuoco».

«Il padre del bambino?».

Ero scioccata e mi sentivo una stupida perché sapevo di avere un’espressione ridicola stampata in volto, ma non riuscivo a farne a meno.

Come diavolo era potuto succedere?!

«E… e Ben?».

«Ben era lì vicino, gli ha preso a fuoco la maglietta. Per fortuna la sorella maggiore del suo amico è infermiera ed è riuscita a spegnere le fiamme ad entrambi ed intervenire come poteva. L’ambulanza è stata chiamata immediatamente e insomma… adesso siamo qui. Solo poco fa mi sono ricordato che oggi Ben avrebbe dovuto avere lezione di piano con tuo nonno».

«È meglio che gli telefoni, adesso; sono uscita di casa di corsa, senza dare alcuna spiegazione».

«Va bene».

Detto questo mi allontanai e composi il numero di casa del nonno.

Il suo vocione familiare mi rispose dopo qualche squillo e, frettolosamente, gli raccontai che cosa era successo.

«D’accordo, bambina; Ryan ha bisogno di qualcosa?».

«No, sembra di no. È come se improvvisamente fosse… distante, ma credo che sia normale».

Lo sentii annuire all’altro capo del telefono.

«Tuo padre sta arrivando in taxi, vuole vedere come sta Alexander. Lui è lì adesso?».

«Ora no, ma deve essere qui da qualche parte».

«Va bene. Allora tienici aggiornati, tesoro, mi raccomando».

«Lo farò», e detto questo riattaccai.

Quando tornai da Ryan, lo trovai che stava parlando con suo padre.

«Signor Kenyon!», lo salutai abbracciandolo.

«Ciao, Chelsea. Grazie mille di essere venuta, davvero, sono contento che ci sia qualcuno che tenga compagnia a Ryan».

«Ma si figuri. Mio padre sta arrivando, vuole vederla. Ci sono novità su Ben?».

«Non sta bene, ma poteva andargli peggio. Non appena sarà stabilizzato lo porteranno in un altro ospedale con un grosso centro per ustionati, così come il padre del suo amico. Io andrò con lui, mentre Ryan resterà qui».

«Da solo? Puoi venire a stare da noi, se ti va. Un modo lo troveremo… ».

«Grazie dell’offerta, ma preferisco rimanere a casa, non ti preoccupare per me, io me la caverò».

«Se per te non è un problema, Chelsea… magari potresti stare tu a casa  nostra per un po’; preferirei che ci fosse qualcuno a tenerlo d’occhio», disse il signor Kenyon rivolgendomi un sorriso tirato.

«Ne parlerò con i miei, ma non credo che ci saranno problemi».

«Ti ringrazio; per me vorrebbe dire molto».

Proprio in quel momento arrivò mio padre, che andò subito ad abbracciare il suo vecchio amico.

Io presi da parte Ryan e insieme ci allontanammo dai nostri rispettivi padri.

«Davvero Chelsea, puoi anche stare a casa se vuoi, non occorre che tu ti trasferisca da me; capisco se vuoi rimanere da tuo nonno».

«Io voglio assicurarmi che tu stia bene; ed ora non fare storie, è chiaro?».

Lui mi guardò e poi si mise a ridere.

«Agli ordini, capo».

Trascorremmo in ospedale tutto il pomeriggio; poi un medico venne a comunicare  al signor Kenyon che Ben era fuori pericolo ed era in condizioni migliori rispetto a quanto avessero inizialmente previsto, ma che doveva comunque essere trasferito al centro ustionati.

Tirammo tutti un sospiro di sollievo nel sapere che Ben se la sarebbe cavata e mi sembrò come se Ryan perdesse le sue forze tutto ad un tratto.

Probabilmente la tensione e l’adrenalina gli avevano consentito di rimanere così vigile per tutto il giorno, ma adesso che avevamo avuto notizie certe, l’energia sembrava averlo abbandonato. Lo capii dal modo in cui si resse a me non appena il dottore si fu allontanato e dal suo sguardo improvvisamente stanco.

«Adesso ti porto a casa, Ryan».

«Mi faresti un gran favore, cara. Ho parlato con tuo padre e ha detto che va bene se per qualche giorno resti a casa nostra per fare compagnia a mio figlio. Sei di grande aiuto», mi ringraziò il signor Kenyon.

«Lo faccio volentieri, non si preoccupi».

«E dammi del tu, per favore, altrimenti mi sento vecchio».

Gli sorrisi.

«Va bene, adesso noi andiamo».

E detto questo, io e Ryan ci avviammo verso l’uscita.

Durante il tragitto in macchina, il mio amico rimase con gli occhi chiusi tutto il tempo, senza proferir parola. Capii che si era addormentato quando arrivammo davanti casa del nonno.

Svegliarlo non mi sembrava giusto dato la giornata che aveva appena passato, quindi lo lasciai dormire lì, ed io restai in macchina con lui, a leggere un libro.

Ne tenevo sempre uno nella borsa, non si poteva mai sapere.

Dopo mezz’ora mi voltai a guardarlo: una ciocca ribelle di capelli gli era scivolata davanti agli occhi, ma il suo volto sembrava così rilassato.

Gli sistemai i capelli dietro l’orecchio e lui si mosse appena, senza però svegliarsi.

Ad un tratto, quando avevo ripreso a leggere il mio libro, qualcuno bussò al finestrino, dal mio lato, ed io sobbalzai.

Guardai fuori, era Chris.

Scesi dall’auto senza fare rumore e socchiusi lo sportello.

«Ciao», dissi piano al ragazzo.

«Ehi… come sta Ben? Ho saputo da tua madre».

«Il dottore dice che è stato fortunato; poteva andargli peggio, ma dovrà essere trasferito in un centro specializzato per grandi ustionati».

Chris annuì gravemente.

«Mi dispiace molto; Ben sembra un ragazzino così sveglio».

«Già. È ingiusto che succedano queste cose».

«Quando sei scappata via in quel modo, oggi, mi sono preoccupato».

«Avrei dovuto avvertirvi prima, lo so, ma l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era Ben e… e raggiungere Ryan».

«Capisco. Sai, nemmeno io ti ho parlato molto spesso della mia famiglia e non so quanto tu sappia, ma ho diversi fratelli e so cosa voglia dire preoccuparsi per loro».

«Davvero? Già, ora che me lo fai notare… so davvero poco riguardo alla tua famiglia. Ti sei sempre riferito a loro con espressioni del tipo “i miei genitori”, oppure “i miei fratelli”, ma non so molto altro… ».

Chris sorrise.

«Cosa ne dici se te ne parlo un po’? Possiamo sederci sulla veranda, così puoi tenere d’occhio Ryan anche da lì».

Sorrisi.

«Va bene».

Così, Chris ed io ci sedemmo sulla panca della veranda e fu come tornare all’anno precedente; senza nessuna imbarazzante barriera a dividerci.

«Allora, Chelsea… cosa vuoi sapere?».

«Mmm… beh, prima hai detto di avere diversi fratelli… quanti siete?».

«Io sono il terzo di sei».

Sentii comparire sul mio volto un’espressione stupita, e Chris si mise a ridere.

«Siete in sei?!».

«Già. Tre maschi e tre femmine. Ho una sorella maggiore, poi un fratello, dopo ci sono io; un’altra sorella, un fratello e l’ultima sorella: Holly, ha quattro anni e lei è davvero… è meravigliosa, la adoro. Per questo dico che so cosa si prova a preoccuparsi. Qualche mese fa si è rotta un braccio e quasi solo per quello stavo andando in paranoia. Vuoi vedere una sua foto?».

«Sì!», esclamai contenta.

Lui prese il suo cellulare dalla tasca dei jeans e premette un po’ di tasti fino ad arrivare alla galleria, poi mi porse il telefono ed io rimasi letteralmente a bocca aperta.

Il display del cellulare era occupato dall’immagine di una bambina bionda dai capelli mossi e due occhi azzurri ed era semplicemente… bellissima.

«Wow, Chris, lei è davvero… ».

«È splendida, vero?».

Il suo sorriso mi bastò per capire quanto amasse quella bambina e quanto il loro legame fosse forte.

«Quando sono a casa, lei viene sempre da me, dice che sono il più buono di tutti», raccontò continuando a sorridere.

«Devi mancarle molto».

«Ci sentiamo ogni sera e mi chiede di continuo quando sarò a casa. Anche lei mi manca».

Sorrisi e feci anche con lui lo stesso gesto di spostargli i capelli dal viso come prima avevo fatto con Ryan.

Per un attimo, Chris si irrigidì, ma dopo qualche istante si rilassò di nuovo.

«E i tuoi altri fratelli?», chiesi per spostare l’attenzione.

Quel cenno mi era venuto spontaneo e per un momento avevo dimenticato che io e Chris in realtà dovevamo tenerci ad una distanza di sicurezza per evitare sciocchezze di ogni sorta.

«Megan è la maggiore, ha cinque anni in più di me; poi c’è Adam, che ha fatto ventisette anni a marzo e dopo ci sono io. Jenna, ha ventidue anni, la tua età. Poi viene Peter, che ne ha diciassette e infine Holly, che ne ha solo quattro. Inutile dire che è la principessa di casa, sempre coccolata da tutti».

Risi.

«Caspita… deve essere bello essere così in tanti».

«Abbiamo un legame molto forte, tutti quanti. Quando Megan si è sposata, in realtà ero geloso, volevo tenerla a casa, ma quando ho capito che lui era un ragazzo a posto, ha avuto la mia benedizione. Per noi è importante il parere degli altri, all’interno della famiglia. Tra di noi, si intende, in fatto di eventuali fidanzamenti in famiglia. Contiamo l’uno sull’altro e nonostante tutte le liti, com’è anche giusto che sia tra fratelli, ci siamo sempre appoggiati. E quando una cosa non andava ne abbiamo discusso apertamente e senza neanche preoccuparci più di tanto di utilizzare dei… filtri, diciamo così».

«Della serie… insultiamoci apertamente, perché comunque ci vogliamo tanto bene?».

Chris si mise a ridere.

«Sì, più o meno una cosa del genere».

«Wow, deve essere bello avere tante persone su cui fare affidamento. Nella mia famiglia non è mai stato così», dissi chinando la testa e dondolando un po’ le gambe avanti e indietro.

Lui posò una mano sulla mia e stavolta fu il mio turno di irrigidirmi.

«Tu avevi me». Il tono con cui parlò e l’intensità del suo sguardo mi lasciarono senza parole. Fu come se delle vampate di fuoco puro mi attraversassero il corpo dall’interno.

«Sì, hai detto bene: avevo te».

«Pensi che le cose tra di noi potranno mai tornare come una volta? Potrò mai riavere la mia migliore amica? La mia Chelsea? Perché ogni volta che ti vedo, soprattutto quando sei con Ryan… mi sento montare qualcosa dentro e… non lo so, mi manchi. E non come mi manca mia sorella».

Trattenni il respiro. Cosa potevo rispondere ad una domanda simile?

«Chris, io… io non credo che le cose tra noi due potranno mai tornare davvero com’erano una volta. Forse… forse potremmo provare a salvare il salvabile, ma principalmente… prima eravamo noi due e la nostra amicizia. Ci sono state delle incomprensioni, sì, cose di poco conto, ma adesso non siamo più solo noi due. Adesso ci sono altri a cui rendere conto».

Il ragazzo parve sgonfiarsi.

«Vorrei che le cose fossero andate diversamente»

«Diversamente? Ad esempio?».

«Vuoi farmelo dire veramente, Chelsea? Perché non mi sembrerebbe corretto».

Annuii. «Lo so. Quel periodo manca anche a me».

Tra di noi aleggiò un silenzio teso per diversi istanti, poi vidi dei movimenti all’interno della macchina dei miei genitori.

«Ryan si è svegliato».

E senza attendere risposta da Chris, superai con un salto i tre scalini della veranda e corsi verso l’auto, aprendo lo sportello del passeggero.

«Ehi, come va?», chiesi guardando il ragazzo, che in quel momento stava allungando le braccia sopra la testa per stiracchiarsi.

«Bene, mi sento meglio. Ho dormito molto?».

«Un’oretta. Mi dispiace averti fatto dormire in macchina, ma non volevo svegliarti, avevo paura che poi non riuscissi ad addormentarti di nuovo».

«Tranquilla, anzi, ti ringrazio».

«Scendi adesso, sono sicura che mia madre e mio nonno vorranno chiederti come stai e torchiarti per convincerti a rimanere a cena da noi».

Il mio amico rise di gusto e questo mi fece davvero piacere.

Quando mi voltai, notai che Chris era in piedi  sui gradini della veranda, le braccia conserte e i muscoli dei bicipiti bene in evidenza. Cercai di focalizzare la mia attenzione su qualsiasi altra cosa.

«Ciao», gli disse quando lo raggiungemmo.

«Ehi, come va?», gli chiese Ryan.

«Io sto bene, grazie. Ho saputo di tuo fratello, mi dispiace. Chelsea però dice che sta meglio di quanto si aspettassero i medici; è un bene».

Il moro sorrise.

«Sì, Ben ha una testa troppo dura per potersi fare male davvero. Un po’ come questa qui, no? Che la settimana scorsa ci ha fatto prendere un bello spavento… ».

«Ehi! Perché tiri in ballo me, adesso?», esclamai fingendomi stizzita e generando le  risate tra i due ragazzi.

«Ah, non fare quella faccia, Chelsea, sai che ho ragione».

«E poi hai forse insinuato che io abbia la testa dura?»

A quel punto prese parola Chris: «Oh, lui lo ha solo insinuato, ma io posso assolutamente confermarlo».

Gli lanciai un’occhiata omicida.

«Voi due mi state sempre meno simpatici quando cominciate a coalizzarvi contro di me; non vi sopporto proprio!».

«Ma smettila, non fare la bambina permalosa».

«Bambina permalosa? Chris, dì solo un’altra parola e ti farò pentire di essere venuto con noi quest’estate».

Ma lui, anziché spaventato, sembrava sempre più divertito.

«Avanti ora, torniamo dentro, razza di ingrati che non siete altro».

Quando varcammo la soglia della porta d’ingresso, subito mia madre ci venne incontro seguita da mio nonno e, come avevo previsto, cominciarono a riempire Ryan di domande. Alla fine, naturalmente, lui fu costretto ad accettare il loro invito a rimanere a cena ed io fui contenta di averlo vicino. In qualche modo la sua presenza era rassicurante, come se, finché c’era lui, io non avrei rischiato di combinare casini con Chris.

Quando anche mio padre tornò a casa, ormai erano le otto di sera passate.

Ryan gli si avvicinò subito per chiedergli se ci fossero novità e lui rispose soltanto che suo fratello era stato trasferito e suo padre era andato con lui; gli avrebbe telefonato una volta arrivati nella nuova struttura, ma nessuno aveva detto quanto avrebbe dovuto rimanerci.

Il mio amico annuì pesantemente e io gli posai una mano sulla spalla, per rassicurarlo del fatto che tutto sarebbe andato bene.

La cena trascorse tranquillamente, persino Shereen si dimostrò gentile nei confronti di Ryan e questo mi sollevò parecchio.

A fine serata io ed il mio amico, come al solito, portammo Buster a fare la consueta passeggiata serale e, una volta tornati a casa, salii in camera mia per preparare il borsone con le cose che avrei portato andando a stare da Ryan, anche se in fin dei conti avrei abitato solo ad un minuto e mezzo da lì per un periodo.

Mentre stavo sistemando i vestiti, udii la voce di Chris alle mie spalle.

«Perché fai la borsa? Te ne vai?».

Lui mi sembrò allarmato.

«Sì, io… vado a stare da Ryan per un po’; me lo ha chiesto suo padre», aggiunsi sulla difensiva quando notai l’espressione dipinta sul volto del ragazzo.

«Scusa?».

«Hai capito benissimo, Chris, non fare quella faccia».

Chris, che fino a quel momento era rimasto fermo sulla porta, percorse a grandi passi la distanza tra noi due, fermandosi a meno di un metro da me.

«Non andare», disse solo.

«Non fare così, sarà per qualche giorno, lui ha bisogno di me, adesso».

«E anch’io».

«Chris! Non essere egoista. E geloso. È una cosa che odio e poi non dovrei nemmeno perdere tempo a parlare con te di queste cose; tu non sei… », stavo per dire “nessuno”, ma mi frenai giusto in tempo perché sarei stata troppo dura a dire una cosa del genere e poi avrei mentito spudoratamente, perché lui per me contava molto.

Quindi completai la frase dicendo: «… il mio fidanzato» e anche quelle parole parvero colpirlo come uno schiaffo in piena faccia, a giudicare dall’espressione che si aprì sul suo volto.

«Chelsea… ».

«No. Devo andare», conclusi chiudendo con un movimento brusco la zip del borsone.

Detto questo, lo superai alla svelta senza voltarmi indietro e scesi velocemente le scale, con i lunghi capelli castani che mi svolazzavano davanti alla faccia.

Ryan era in piedi all’ingresso, che parlava con mio padre.

«Sei pronta, tesoro? Bene, allora vi lascio andare e tu, Ryan, cerca di riposare. Hai avuto una giornata intensa».

Il ragazzo sorrise, io abbracciai mio padre, la mamma e il nonno, arrivati in quel momento dalla cucina, e me ne andai con Ryan, richiudendomi la porta alle spalle.

Quando arrivammo, casa Kenyon era buia e silenziosa.

Ryan accese subito la luce dell’atrio e mi sorrise.

«La stanza degli ospiti è al primo piano, ma nel frattempo se vuoi andare in bagno a darti una rinfrescata, io comincio a portare su il borsone».

Ed ecco che tornava nuovamente a galla il lato cavalleresco di Ryan.

«Ti ringrazio», dissi sorridendo.

Avevo imparato a conoscere piuttosto bene quella casa nelle ultime settimane, dato che ci andavo ogni volta che Ryan portava Ben dal nonno per le solite lezioni di piano. C’era da dire che grazie a Ryan, ero decisamente migliorata nella box.

Entrai nel bagno e mi infilai sotto la doccia; mi sentivo ancora addosso l’odore dell’ospedale.

Il getto d’acqua tiepida ebbe subito un effetto rilassante sui miei muscoli tesi.

Quando terminai, mi avvolsi un asciugamano attorno al corpo e… mi resi conto di non aver preso dal borsone dei vestiti puliti.

Alzai gli occhi al cielo, rassegnata. Era stata davvero una lunga giornata.

Aprii la porta quel tanto da far passare uno spiraglio di luce e chiamai il mio amico.

«Chelsea,  ti serve qualcosa?», mi chiese quando arrivò.

«Sì, il mio borsone», risposi con aria innocente.

Lui parve capire la situazione e scoppiò a ridere.

«Sei un caso clinico».

«Sta’ zitto, rompiscatole», dissi lanciandogli dietro un pettine trovato sulla mensola.

Sentii la sua risata riecheggiare mentre si allontanava ed io sbuffai divertita, stretta nell’asciugamano.

Il ragazzo fu di ritorno dopo qualche istante con il mio borsone.

«Ecco a te».

«Molto gentile», e detto questo gli sbattei la porta in faccia, con il sorriso ancora sulle labbra.

Scelsi dei vestiti a caso e li infilai.

Indossavo un paio di pantaloncini verde chiaro e una canottiera dello stesso colore.

Raccolsi i capelli in una lunga coda di cavallo e uscii, portando con me la borsa.

«Sembri pronta per andare a fare jogging», mi fece notare Ryan, poi aggiunse: «E lo sai che il verde ti dona particolarmente?».

«Davvero? È il mio colore preferito».

«Che ne diresti di andare davvero a fare jogging, domani mattina? Una volta andavo sempre, la mattina presto, ma da quando ho cominciato a lavorare ho quasi smesso».

«Per me va bene, tanto ormai la gamba è guarita del tutto; possiamo ricominciare anche con le lezioni di box».

«Perfetto; allora domani sveglia presto. Secondo me è il momento migliore per andare e poi è il momento della giornata che preferisco di più. Su allora, fila a letto!».

«Sì, signore».

Feci come Ryan aveva detto, e subito mi infilai sotto le lenzuola, ero davvero stanca.

Presi sonno nel giro di qualche minuto, cosa del tutto strana per me, dal momento che era da quando andavo alle medie che soffrivo d’insonnia.

La mattina seguente fui svegliata da un leggero tocco sul viso.

«Buongiorno», disse Ryan quando riaprii gli occhi.

«Ciao. Che ore sono?».

«Le sei e mezza. Sembravi piuttosto agitata nel sonno, per questo ti ho svegliata; di solito non sono un sadico».

Ridacchiai.

«Davvero ero agitata?».

«Sì. Ti muovevi tutta e continuavi a borbottare qualcosa che non ho capito. Ti ricordi niente?».

«No», risposi con un grande sbadiglio.

«Allora… dato che ormai sei sveglia, ti va di andare a fare quella corsetta? La spiaggia è meravigliosa a quest’ora», disse lui sorridendo.

Io mossi il capo per fare cenno di sì, mentre mi stiracchiavo, facendolo ridere.

«Allora su, alzati, andiamo», mi sollecitò prendendomi le mani e tirandomi fuori dal letto.

Andai in bagno a darmi una sistemata e poi scesi in cucina a fare colazione.

Ryan aveva riscaldato delle brioches e messo in tavola un cartone di latte e una caraffa di succo di albicocca. Al centro dal tavolo era aperta una grossa scatola di latta piena di biscotti.

«Serviti pure», mi disse con un sorriso.

Indossava dei pantaloni sportivi che gli arrivavano fino al ginocchio, una canottiera piuttosto larga e scarpe da ginnastica.

Quando le notai, ricordai improvvisamente che io dovevo passare a casa a prendere le mie.

Arrivammo a casa del nonno dopo un quarto d’ora; Ryan si fermò all’ingresso ed io salii piano fino in camera mia, cercando di non fare rumore.

Presi le mie scarpe da ginnastica dalla cabina armadio e diedi una veloce occhiata a Buster, profondamente addormentato nella sua cuccia.

Lo avrei portato a fare una passeggiata una volta tornata dalla corsa con Ryan.

Feci la strada inversa per tornare al piano inferiore e, passando davanti alla stanza occupata da Chris e Shereen, notai che avevano unito i letti singoli. Adesso dormivano vicini, Chris a pancia in su e la testa voltata verso la porta, verso di me, mentre mia sorella gli passava un braccio attorno al torace , con la testa posata nell’incavo della sua spalla.

In quel momento sentii il mio stomaco stringersi in una morsa d’acciaio.

Spostai nuovamente lo sguardo sul volto di Chris e… notai che mi stava fissando.

Il cuore mi balzò in gola e per un solo istante i nostri sguardi rimasero incatenati l’uno all’altra, come se una forza magnetica ci stesse impedendo di fare altrimenti, poi, scossi piano la testa e scesi al piano di sotto, dove Ryan mi stava ancora aspettando.

«Andiamo», dissi semplicemente.

Quella corsa mi fece bene; come se all’improvviso, dopo tanto tempo, riuscissi a liberare la mente da ogni ansia e pensiero avuto in quegli ultimi mesi.

Fu bello.

Ryan era davvero un’ottima compagnia, sapeva come non far morire mai la conversazione ed era sempre brillante.

«Ho sentito mio padre, questa mattina, ha detto che cercherà un appartamento per un periodo vicino alla struttura in cui è ricoverato Ben, i tempi di ripresa saranno piuttosto lunghi. Mi ha chiesto se voglio andare anch’io; mio fratello ha chiesto di me», disse ad un tratto, facendosi serio.

Io lo guardai.

«Dovresti davvero andare. Ben ha bisogno di te».

«Già. Penso di farlo, almeno finché non dovrò tornare al lavoro e sto comunque valutando di prendere un periodo di permesso. Tu starai bene?».

«Ryan, io starò qui soltanto poche altre settimane e ad ogni modo non è per me che ti devi preoccupare. Stai con tuo fratello; la tua priorità adesso è lui. E per la cronaca… penso che un periodo lontano da qui farà bene anche a te. Hai bisogno di staccare».

«Anche tu avevi bisogno di staccare da casa tua e venire qui, ma non mi sembra che per te le cose si siano semplificate, anzi… ».

«Ma solo perché il motivo per cui io avevo bisogno di staccare, mi ha seguita fin qui. Andrà bene, Ryan, vedrai».

«Prometti che ci sentiremo tutti i giorni e che, se avrai bisogno di una mano, mi telefonerai».

«Promesso», risposi sorridendo.

«Bene. Allora credo proprio che andrò».

«Certo che andrai».

Ryan ridacchiò e poi disse: «Sono le otto, ti va un bel gelato?».

Il tono con cui parlò, mi fece ridere.

«Com’è che pensi sempre al cibo tu?».

«Dicono sia una delle gioie della vita, no?».

Scossi la testa, divertita.

«Vada per il gelato».

Il camioncino dei gelati era fermo sulla strada per tornare a casa, quindi riprendemmo la via del ritorno con calma, sempre parlando di tutto ciò che ci veniva in mente.

Come al solito, mi offrii di pagare, ma il mio amico mi fulminò con lo sguardo non appena accennai soltanto a mettere una mano in tasca per prendere le monete che tenevo sfuse per ogni evenienza, quindi la ritrassi con espressione rassegnata e scossi la testa.

«Mi permetterai mai di offrirti qualcosa in cambio di tutto quello che tu fai per me?».

«Chelsea, ma tu ti rendi conto di esserti trasferita a casa mia per starmi accanto in un momento come questo? Io… tu adesso mi vedi non molto diverso dal solito, ma ti assicuro, che se tu non ci fossi, io andrei in paranoia. Costantemente. Inizierei a pensare a tutto ciò che potrebbe andare storto nella situazione di Ben e non sono sicuro del fatto che riuscirei a venirne fuori. Credimi… tu mi ripaghi. Ogni singolo istante».

La sua voce aveva un’intensità che non gli avevo mai sentito prima di allora.

«Beh, allora diciamo che in realtà a me non costa niente. Mi piace aiutare gli altri e prendermi cura di loro, se e quando posso».

Ryan sorrise.

«Credo sia proprio questo che ti rende così speciale».

«Su, torniamo a casa adesso».

Passando davanti alla casa del nonno, lanciai un’occhiata in giardino e scorsi Chris osservarci dalla veranda.

Lo salutai con la mano, un po’ imbarazzata, lui ricambiò il gesto nella nostra direzione, con sguardo piuttosto… assente. Ryan ed io però superammo velocemente la villa e tornammo a casa Kenyon.

Il resto della mattinata trascorse tranquillamente, mentre nel pomeriggio andammo dal nonno ed io portai fuori Buster.

Alla fine quella mattina ci aveva pensato papà, quindi io non lo avevo più fatto e mi era dispiaciuto allontanarmi dal mio cane, al quale ero molto affezionata.

Tra una cosa e l’altra, si fece sera molto presto; Ryan era tornato a casa sua più o meno da un’oretta ormai ed eravamo rimasti d’accordo che sarebbe passato a prendermi a breve per la passeggiata serale di Buster, poi saremmo tornati da lui.

Il ragazzo però si stava attardando ad arrivare ed il mio cane era sempre più irrequieto, così decisi di cominciare ad uscire.

Quella sera però, il mio fidato compagno a quattro zampe aveva davvero qualcosa che non andava. Continuava ad agitarsi e guardare intorno nervosamente,  voltando la testa a scatti da una parte all’altra e io non capivo cosa gli prendesse; non si era mai comportato in modo tanto strano. Era come se sentisse qualcosa, un pericolo. Ad un certo punto, diede un tale strattone al guinzaglio che lo strappò via dalle mie mani e cominciò a correre nella direzione opposta.

Quando mi voltai però, capii perché il mio cane fosse tanto agitato: laggiù, in fondo alla strada c’era Ryan, insieme ad un’altra persona.

Una persona che gli puntava una pistola alla testa.

Il mio cervello si mise in moto con un secondo di ritardo, quando il mio cane balzò in direzione dell’aggressore e lo sparo risuonò nell’aria.

 

Note dell’Autrice:

Ebbene… vi avevo avvertito che d’ora in avanti, la conclusione dei capitoli sarà sempre un po’ brutale.

Intanto facciamo il punto: alla fine era Ben, quello in ospedale, ho preso spunto da un incidente che è capitato al ragazzo di una mia amica, a lui è successa la stessa cosa, anche se sembra assurdo, ma ora è tutto a posto.

Tornando alla storia, anche il minore dei Kenyon pare non sia così grave come sembra.

Così, mentre la tensione tra Chelsea e Chris aumenta a causa del provvisorio trasferimento di lei a casa dell’amico, un tizio esce la pistola e comincia a sparare in giro.

È stato ferito qualcuno? Eh, chi lo sa.

Sì, sono sadica.

Vi lascio con l’estratto dal prossimo capitolo, il mio profilo Facebook e l'immagine della piccola Williams, per chi fosse curioso. Fatemi sapere cosa ne pensate sia di lei, che del capitolo!  XD

Buona serata a tutti! 

Holly Williams - Kylie Rogers

 

DAL CAPITOLO 10:

«Non capisci che quando ti succede qualcosa di male io vorrei solo proteggerti? Non capisci che, ogni volta che mi tocchi, non faccio che pensare a quella sera in macchina? Alle tue labbra sulle mie. Non capisci che, quando mi guardi, sì, proprio come stai facendo adesso, non vorrei altro che sentirti tra le mie braccia?».

Restai in silenzio, pietrificata a quelle parole, come granito.

«Chelsea… ».

La luce nei suoi occhi mi fece ammutolire e il cuore mi balzò in petto. Avevo imparato a conoscerlo, mi ero sempre detta che lui per me era un libro aperto, ma ora… ora non sapevo cosa aspettarmi.

«Quando ti ho conosciuta, avevo paura di parlarti. Quando ti ho parlato, avevo paura di baciarti. Quando ti ho baciata, avevo paura di amarti. E ora che ti amo… ti ho persa ancor prima di poterti amare davvero».”


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Capitolo 10
*** Punto di non ritorno ***



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10




CAPITOLO 10: PUNTO DI NON RITORNO

 

Il colpo mi fece rizzare i peli sulle braccia e sulla nuca e per un momento fermai la mia corsa, che non mi ero neanche resa conto di aver cominciato.

Fu quando sentii il tonfo prodotto da qualcosa di pesante che cadeva a terra, che mi rianimai e ripartii spedita.

Avevo visto che cosa era stato, ma non lo volevo credere, perché faceva troppo male.

Mi slanciai contro l’aggressore, che ancora teneva ben stretta in mano la pistola, nel momento in cui la porta di casa del nonno si aprì sbattendo e lui e mio padre uscivano di gran carriera.

«CHELSEA!», sentii gridare papà, ma tutto ciò che feci fu atterrare sulla schiena dell’uomo che aveva sparato e premergli un punto sulle spalle particolarmente doloroso tra pollice, indice e medio.

Me lo aveva insegnato Ryan in una delle sue lezioni: in quella zona passava un nervo, di cui in quel momento non ricordavo il nome, e, quando lo strinsi, l’aggressore urlò, piegandosi in avanti e sbattendomi a terra.

Rotolai dolorosamente sull’asfalto, graffiandomi braccia e spalle, ma tornai alla carica.

Con la coda dell’occhio vidi il nonno, mio padre e Chris correre nella nostra direzione, mentre mamma e Shereen erano ferme sulla porta, come pietrificate.

Una volta che fui in piedi, caricai un calcio all’aggressore, dritto nel plesso solare, sotto lo sterno. Un altro punto estremamente doloroso e che, se colpito con forza, ti lasciava senza fiato per qualche secondo.

Per fortuna la potenza che impiegai bastò, perché lui si piegò nuovamente, ritraendosi di qualche passo e lasciando cadere la pistola.

Ciò che accadde dopo fu veloce: Ryan si frappose tra me e quell’uomo, assestandogli un pugno in pieno viso; Chris lo bloccò per le spalle tenendogli le mani dietro la schiena; mio padre raccolse la pistola da terra e gliela puntò contro, mentre il nonno aveva già il telefono in mano per chiamare la polizia.

Sentivo i quattro uomini parlare, ma non ascoltavo una parola perché, quando mi voltai, mi ritrovai davanti il mio Buster riverso in una pozza del suo stesso sangue. Quando quell’uomo aveva sparato, aveva colpito lui, che si era messo in mezzo un attimo prima che il proiettile perforasse il cranio di Ryan.

Mi inginocchiai vicino al mio cane, che respirava sempre più velocemente e cercai la fonte dell’emorragia, che non era facile da trovare in mezzo a tutto quel pelo.

Percepii due mani posarsi sulle mie spalle e la voce di mia madre mentre diceva qualcosa che non riuscii a capire, poi Shereen entrò nel mio campo visivo, vicino alla testa di Buster e, con mia sorpresa, cominciò ad accarezzarla, mentre gli sussurrava frasi del tipo: “Stai tranquillo, andrà tutto bene”.

In quei due anni, mia sorella non lo aveva mai neanche toccato, ed ora era lì a fare questo per lui.

Buster gemeva e si lamentava e quando lo sentii guaire dolorosamente, qualcosa nel mio cuore parve spezzarsi, mentre io fui scossa da un singhiozzo.

Avevo trovato il foro d’ingresso del proiettile ed ora stavo facendo una certa pressione con un lenzuolo che mia madre aveva portato in fretta e furia.

Sentii le sirene della polizia avvicinarsi; non sapevo quanto tempo fosse passato, a me sembrò un’eternità. Stavamo perdendo del tempo prezioso.

Poi, ad un tratto, sentii una voce femminile alle mie spalle, una voce che non avevo mai udito prima.

«Chelsea, lo so che non vuoi lasciarlo andare, ma devo portarlo con me, lo posso aiutare».

Mi voltai.

Insieme alla volante delle forze dell’ordine era arrivato un altro veicolo, che non avevo mai visto prima.

Guardai chi aveva parlato e, in un primo momento non la riconobbi, poi mi tornò in mente…

«Gale… ».

«Sì. Ryan ha telefonato alla clinica e mi ha detto che cosa è successo. Siamo partiti subito, ma ora dobbiamo portarlo con noi; non c’è tempo da perdere».

Lasciare la presa sul mio cane mi provocò quasi un dolore fisico, ma due braccia si avvolsero attorno ai miei fianchi e mi tirarono in piedi.

«Chelsea, vedrai, andrà tutto bene… », era stato Ryan.

«Mi metto in contatto con voi non appena avrò notizie certe», disse poi Gale.

Aveva un sorriso gentile, ed era davvero molto bella.

Annuii, affranta, e rimasi a guardare mentre il veicolo portava via il mio cane.

La polizia volle parlare con tutti noi, specialmente con me e Ryan, quindi, passo dopo passo, ripercorremmo quei terribili minuti, che in realtà a me erano sembrati ore.

Quando furono soddisfatti delle nostre testimonianze, andarono via, dicendo che ci avrebbero contattati in caso di evenienza.

Poi, finalmente, potemmo ritornare a casa.

Mi sentivo la testa pesante come piombo; mamma e papà avevano insistito affinché sia io che Ryan restassimo a dormire a casa del nonno e nessuno dei due ebbe  né ragioni né  la forza per opporsi.

Mamma preparò il divano letto nello studio per Ryan, ed io ebbi appena la forza per cambiarmi i vestiti sporchi del sangue di Buster.

Stavo per infilarmi sotto le coperte, quando sentii un braccio avvolgermi la vita. Mi voltai lentamente, trovandomi faccia a faccia con Chris.

«Chelsea, dovresti andare in bagno, prima di dormire… sei tutta graffiata e sporca di sangue. Su, vieni con me».

Posai la testa contro la spalla del ragazzo e mi lasciai guidare fino al bagno più vicino.

Lui mi fece sedere su una sedia di fianco al lavandino e aprì l’acqua, regolandola in modo che uscisse piacevolmente fresca.

Estrasse da un armadietto un morbido asciugamano e, mentre io posavo la testa sul muro alle mie spalle, lui lo bagnò sotto il getto d’acqua.

Tamponò con delicatezza prima un braccio, poi l’altro, e infine le spalle, laddove mi ero graffiata rotolando giù dalla schiena dell’uomo che aveva aggredito me e Ryan.

Avevo la mente offuscata e  mi limitavo ad osservare Chris mentre portava avanti la sua opera di “ristrutturazione”, continuando a fissare bene nella mia mente ogni minimo particolare del suo volto in quel momento.

La pelle ambrata del viso, ora che era abbronzato, la piccola ruga che gli si era formata in mezzo agli occhi dopo aver corrugato la fronte, le ciglia lunghe con riflessi dorati, la curva decisa della mascella, gli zigomi alti e spigolosi.

Era come una statua greca e… semplicemente meraviglioso, almeno ai miei occhi.

«Chris… che cos’hai?», gli chiesi vedendo che le sue labbra si tendevano in un’unica linea sottile.

Lui fermò la sua mano e fissò gli occhi nei miei.

«Che cos’ho. Me lo stai davvero chiedendo».

Il suo tono in quel momento era duro come la sua espressione e orrendamente beffardo. Non lo avevo mai sentito così.

«Sì, te lo sto davvero chiedendo, perché la tua faccia non mi piace neanche un po’ in questo momento».

Chris rise, ma era una risata falsa, orribile e il suo sorriso si tramutò in una smorfia.

«La settimana scorsa hai rischiato di morire in un incidente. Un’ora fa per poco non ti sparavano. Ti ostini a non capire, Chelsea? Ti ostini a non capire che il mio cuore non può sopportare di più? Te ne rendi conto, vero? Di quanto… di quanto… », ma le sue parole morirono ancor prima di essere pronunciate, strozzate da un rantolo che gli provenne dal fondo della gola.

Gli presi le mani, ora un po’ più lucida mentalmente.

«Non capisci che quando ti succede qualcosa di male io vorrei solo proteggerti? Non capisci che, ogni volta che mi tocchi, non faccio che pensare a quella sera in macchina? Alle tue labbra sulle mie. Non capisci che, quando mi guardi, sì, proprio come stai facendo adesso, non vorrei altro che sentirti tra le mie braccia?».

Restai in silenzio, pietrificata a quelle parole, come granito.

«Chelsea… ».

La luce nei suoi occhi mi fece ammutolire e il cuore mi balzò in petto. Avevo imparato a conoscerlo, mi ero sempre detta che lui per me era un libro aperto, ma ora… ora non sapevo cosa aspettarmi.

«Quando ti ho conosciuta, avevo paura di parlarti. Quando ti ho parlato, avevo paura di baciarti. Quando ti ho baciata, avevo paura di amarti. E ora che ti amo… ti ho persa ancor prima di poterti amare davvero».

Silenzio.

Silenzio.

Silenzio.

Un silenzio assordante regnava nella stanza, in quel piccolo, minuscolo angolo di mondo che era il bagno di mio nonno.

Chris lo aveva detto. Lo aveva appena detto. Aveva detto che mi amava.

E allora qual era il problema? Perché non riuscivo a dire una sola parola? Probabilmente perché mia sorella dormiva nella stanza di fronte proprio in quel momento.

«Chris… », deglutii a vuoto. La mia sensazione in quel momento era quella di precipitare in un grande e immenso nulla, in caduta libera verso una meta che chissà dove ci avrebbe portati.

Lasciai le mani del ragazzo e iniziai a tormentarmi le mie.

«Tu… lo stai dicendo soltanto perché questa sera hai preso un grosso spavento e hai pensato che potessi morire, ma in realtà… ».

Ma lui si alzò di scatto facendo stridere la sedia sul pavimento, mi afferrò per le spalle e mi tirò in piedi, senza neanche preoccuparsi di essere delicato, tanto che uno dei graffi che mi ero fatta, riprese a sanguinare.

«Vuoi stare zitta?! Credi di sapere meglio di me cosa provo? Beh, non lo sai!».

«Chris, per favore, parla piano!», lo pregai.

D’accordo, adesso ero completamente sveglia; come se tutto ciò che era accaduto quella sera non fosse mai successo. Perfino la preoccupazione per Buster sembrò attenuarsi un poco.

«Tu, Chelsea, non hai la minima idea di che cosa si provi a sentirsi costantemente spaccati in due. Corpo e mente, cuore e testa. Quello che io voglio realmente, è in lotta continua contro ciò che sarebbe giusto volere. Io sto con Shereen, quindi sarebbe giusto volere lei, amarla come ogni donna meriterebbe da un uomo che si rispetti, ma lei… », e qui fece una pausa, guardandomi con intensità.

«… lei non è te, Chelsea».

Per diversi secondi aleggiò un silenzio teso, poi Chris si mise le mani tra i capelli, scuotendo la testa.

«Sto per esplodere, Chelsea, quindi, se c’è un momento giusto per andarsene, è questo. Vattene via da qui perché non risponderò più delle mie azioni, nel giro di pochi istanti».

Per un momento rimasi a fissarlo, basita, poi mi voltai ed uscii dalla stanza, richiudendomi la porta alle spalle.

Non ero mai stata tanto sveglia in vita mia; il cuore mi batteva all’impazzata e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era il volto di Chris in quegli ultimi istanti. Era acceso da una luce febbrile, una luce che non gli avevo mai visto prima di allora.

Ero quasi arrivata in camera mia, quando, improvvisamente, cambiai idea e tornai indietro, avviandomi verso lo studio in cui, proprio in quel momento, dormiva Ryan.

Aprii la porta e mi infilai sotto le coperte con lui, senza riflettere, perché mi conoscevo e sapevo che, se ci avessi pensato troppo, non avrei mai avuto il coraggio di farlo.

«Ryan… », lo chiamai, ma lui emise solo una specie di mugugno e si girò dall’altra parte, voltandomi le spalle.

Allora gli posai una mano sulla spalla e lo scossi lievemente.

«Ryan… ?», riprovai.

Il ragazzo si girò di scatto, facendomi venire un mezzo infarto.

«Chelsea! Scusami, non ti volevo spaventare, è solo che… cosa ci fai qui? Stai bene? Mi fai preoccupare».

In un primo momento ridacchiai, poi divenni seria. «Io sto bene, sì, ma… avevo bisogno di parlare con qualcuno».

Lui si sollevò leggermente, alzandosi su un braccio e reggendosi la testa con una mano.

«Parla, ti ascolto. Chelsea, non hai davvero una bella cera; puoi restare a dormire qui questa notte, per favore? Sai, per un periodo della mia vita ho avuto degli incubi, incubi tremendi ed era ancora più tremendo svegliarsi al buio nella notte e non trovare nessuno a tenermi la mano. L’unica che avrei voluto vicina in quei momenti era mia madre, ma era proprio a causa della sua morte, che stavo attraversando quel brutto periodo. E tu ne hai passate tante in queste settimane, non voglio che ti succeda la stessa cosa e se proprio deve capitare… voglio esserti vicino per tenerti la mano, nel caso in cui dovessi averne bisogno».

Sorrisi alle sue parole e gli posai una mano sulla spalla.

«Grazie, Ryan».

«E a cosa servono gli amici? Ma dimmi, ora… di cosa volevi parlarmi?».

Passo dopo passo, gli raccontai che cos’era accaduto nel bagno.

«Oh, Chelsea… le cose tra di voi si stanno complicando sempre di più ogni giorno che passa. Devi parlargli chiaramente, devi dirgli che prenda una decisione ed io capisco che per lui non sia facile, ma in questo modo, anche se involontariamente, non fa altro che ferire te, ferire Shereen e ferire sé stesso».

Annuii.

«Lo so, ma non posso costringerlo a fare qualcosa; lui è tanto confuso quanto me, se non di più».

«Chelsea, io capisco quanto tu sia legata a lui, davvero, ma giustificarlo per ogni cosa che fa non va bene perché fondamentalmente ciò che sta facendo… è sbagliato».

Sospirai.

«Lo so».

«Ora, lascia da parte Chris per un momento, e dimmi come stai».

«Cosa intendi?».

«Intendo che questa non è stata esattamente una di quelle serate che la gente comune segna sul calendario per ricordare».

Lo guardai dritto negli occhi e, solo in quel momento, ebbi l’impressione di metabolizzare ciò che era successo e la preoccupazione per Buster tornò a farsi opprimente, stringendomi la gola fin quasi a farmi mancare l’aria.

«Io… Ryan… », ma la voce mi si incrinò e tutto ciò che desiderai, fu avere il mio cane vicino, come aveva fatto negli ultimi due anni, venendo a consolarmi nei momenti più neri.

Il mio amico mi strinse a sé.

«Lo, so, Chelsea. Lo so. Vedrai, Gale riuscirà a curarlo; Buster è forte. Lui… ti rendi conto del fatto che mi ha salvato la vita? Si è messo tra me e un proiettile».

Si dimostra fedele nei confronti di chi lo è con lui e che gli dimostra affetto. E tu lo hai fatto, in queste settimane».

Il ragazzo sorrise.

«È un cane veramente speciale».

«Lo è davvero».

«Dicono che gli animali somiglino molto ai loro padroni».

«Beh, allora non è il mio caso… ».

«Io invece penso proprio di sì. Tu… tu hai quella luce interiore, Chelsea, che irradia anche gli altri che ti stanno intorno».

«Una luce interiore, eh? Mi sa che hai sbattuto la testa quando quel tipo ti ha atterrato, stasera».

Lui mi pizzicò un fianco, come al volermi fare il solletico.

«Dormi, scimmietta guerriera, ne hai bisogno».

Sorrisi sinceramente, gli voltai le spalle e caddi quasi immediatamente in un sonno profondo.

La mattina dopo, quando mi svegliai, il mio primo pensiero andò a Buster e subito l’ansia tornò ad attanagliarmi.

Come stava? Non sapevo nemmeno se… se lui… avesse superato la notte e, in caso negativo, per me sarebbe stato un colpo durissimo da accettare.

Il secondo pensiero fu per Chris, quando la sera prima nel bagno, aveva detto di amarmi.

Non ero ancora del tutto certa se fosse stata un’allucinazione o se fosse accaduto davvero; in ogni caso, ora la mia priorità non era lui.

Mi voltai; Ryan era lì al mio fianco, profondamente addormentato a pancia in su. I capelli gli ricadevano scompostamente  sul viso, come il giorno prima, in macchina. Sembrava essere passata un’eternità.

Mi stiracchiai a lungo e sgusciai fuori dal letto, senza fare rumore per non svegliare il mio amico.

Tornai  nella mia stanza e, non appena arrivai, vi trovai dentro Chris, seduto sul bordo del mio letto.

Indossava dei pantaloni blu di una tuta e una canottiera bianca.

«Chris… ».

«Ciao. Dov’eri?».

Ma dalla sua espressione avevo già capito che sapeva perfettamente dov’ero stata per tutta la notte.

«Nello studio», risposi asciutta.

«Con Ryan?».

«Non volevo stare da sola questa notte».

Il cuore mi batteva forte, ma perché diavolo mi stavo sentendo in colpa, adesso? Non era da me che era partita tutta quell’assurda situazione, senza contare il fatto che tra me e Ryan non c’era proprio niente. E se anche ci fosse stato, questi non sarebbero stati affari di Chris, io non dovevo assolutamente avere rimorsi.

Il ragazzo, fermo di fronte a me, mi osservò attentamente e fu come vedere un’incrinatura su uno specchio.

«Sai Chelsea, avevi ragione ieri sera… io… ti ho detto quelle cose perché un tizio aveva appena provato ad ucciderti, quindi… non ti preoccupare, non ti dirò mai più che ti amo».

Fu come se il mio cuore fosse avvolto da un blocco di ghiaccio sul quale si stessero formando velocemente migliaia di crepe. E poi tutto andò in frantumi.

Sperai di non aver dato a vedere ciò che in realtà stava accadendo dentro di me e deglutii a vuoto.

«Bene, allora… immagino che adesso sarà più semplice per tutti, il resto della permanenza qui».

A quelle parole, mi parve che lo sguardo di Chris s’indurì più di quanto già non fosse.

In quel momento, Ryan fece il suo ingresso e notai dall’occhiata che mi lanciò, che doveva aver percepito l’atmosfera glaciale tra me e il ragazzo.

«Mi ha chiamato Gale… Buster ce l’ha fatta. Non è del tutto fuori pericolo, ma… lei e lo staff che si è occupato di lui questa notte sono cautamente ottimisti. Ha detto che puoi andare a trovarlo, se ti va».

Quella notizia servì a scaldarmi il sangue nel corpo, almeno per qualche momento. Un sorriso sincero, mi comparve sul volto e fu come dimenticare tutto il resto.

Mi precipitai in bagno, indossando qualcosa di più consono e uscii in tutta fretta, con Ryan che mi seguiva a ruota.

Guidò lui, incitato dai miei continui: “Non puoi andare più veloce?” e “Oh, Ryan, Buster non morirà!”.

Quando arrivammo nella clinica in cui lavorava Gale, mi fiondai dentro senza farmi troppi problemi e subito la ragazza ci venne incontro.

«Allora, sta bene?».

Lei sorrise.

«Bene è una parola grossa; dovrà stare qui per un po’, ma… resiste, credo proprio che ce la farà»

In un impeto di gioia e sollievo la abbracciai; finalmente qualcosa andava bene in quelle ultime settimane.

«Grazie, io… davvero. Grazie».

«È il mio lavoro», rispose con il solito sorriso gentile.

La ragazza fece per allontanarsi, dopo aver indugiato per qualche istante ad osservare Ryan e, non appena ci diede le spalle, tirai una gomitata al mio amico.

Lui mi guardò sgranando gli occhi.

«Che accidenti ti prende?».

Con gli occhi gli indicai Gale, sussurrando un animato “Vai!”. Al che, il ragazzo, dopo essere rimasto a fissarmi per qualche secondo, si avviò verso la bionda con passo titubante.

Io invece, seguii una ragazza con una divisa azzurra che mi portò in una stanza, in cui Buster, piuttosto mal ridotto, era sdraiato con diversi tubi attorno a sé.

Mi si strinse il cuore a vederlo in quel modo; lui che aveva sempre avuto l’argento vivo addosso.

Gli andai vicino e presi ad accarezzargli la testa.

«Ehi, ciao, piccolino», sussurrai.

Al suono della mia voce parve rianimarsi, tanto che riaprì gli occhi ed emise un verso contento dal fondo della gola.

Avevo voglia di abbracciarlo forte, ma in quel momento non era proprio il caso.

Restai con lui, in piedi al suo fianco per un tempo indefinito, poi Ryan entrò nella stanza. Inizialmente anche lui fu tutto preso da Buster; in fondo era a lui quello a cui il mio cane aveva salvato la vita.

«Grazie, Buster… non sarei qui senza di te», disse mentre gli grattava dietro le orecchie, cosa che lui parve apprezzare molto.

«Ryan, scusa… con tutto ciò che è accaduto in questi due giorni non te l’ho nemmeno più chiesto… come sta tuo fratello?».

Il ragazzo s’incupì.

«Ho sentito mio padre stamattina; ha detto che Ben, ora come ora, potrebbe essere esposto a molte infezioni, le ustioni sono brutte, ci vorrà tempo, ma è comunque meglio di quanto i medici si fossero aspettati in un primo momento. Papà ha trovato un appartamento».

«Devi andare. Lo sai, vero? Ora la tua famiglia ha bisogno di te: tuo padre, ma soprattutto tuo fratello. Stai con loro e… stacca un po’ la spina da qui, potrà solo farti bene. Me lo prometti?».

«Sì. Partirò domani mattina».

«Perfetto. E prometti che mi terrai sempre aggiornata sulle condizioni di Ben, d’accordo?».

«Certo. Tanto tu mi hai promesso che ci sentiremo tutti i giorni… », rispose lui ritrovando il suo solito sorriso.

In quel momento entrò Gale.

«Ragazzi, adesso dovreste andare. Ma se volete potete tornare dalle cinque alle sei, oggi pomeriggio e domani agli stessi orari».

Annuii.

«Ti ringrazio. Se non fosse stato per te… ».

«Ringrazia Ryan.  È stato lui a chiamare tempestivamente. In certe situazioni, tipo questa, la tempistica è fondamentale».

Sorrisi alla ragazza e poi a Ryan.

«Devo ringraziarvi entrambi».

Accarezzai altri due minuti Buster e poi, il mio amico ed io tornammo alla macchina.

Ora sentivo come se parte del peso che mi opprimeva il petto fino a quella mattina, fosse improvvisamente sparito e, per tutto il viaggio in macchina non feci altro che sorridere.

Quando arrivammo a casa, subito mio padre ci venne incontro. Da quando lui e la mamma mi avevano regalato Buster, anche papà ci si era affezionato molto.

«Come sta?», mi chiese ansioso.

«Ce la farà», risposi sorridendo.

Fu come vederlo ringiovanire di qualche anno, poi mi abbracciò.

«Sono così contento, amore».

Quando la notizia delle condizioni del mio cane si diffuse a tutti, in casa, sembrò esserci un’atmosfera più allegra; anche Shereen sembrava piuttosto di buon umore.

«Proprio ora che cominciavo a tollerare quel sacco di pulci, dovevano sparargli… », aveva detto, facendo ridere tutti noi.

Scossi la testa e guardai Chris, arrivato insieme al nonno qualche minuto prima. Sorrideva, ma era come se un’ombra appena percettibile aleggiasse sul suo viso, di solito così sereno.

Dopo pranzo tornai in camera mia e sprofondai sul materasso.

Era vero ciò che mi avevano detto tutti: l’incidente, ora questo… ne stavo passando abbastanza ultimamente ed ora ero così stanca…

Mi addormentai senza nemmeno rendermi conto della mano che mi accarezzava braccia e spalle.

 

Note dell’autrice:

Innanzitutto voglio scusarmi per l’immane ritardo, ma… sono stata ricoverata in ospedale per una settimana e poi… tante cose da fare; così ho avuto il tempo di aggiornare solo adesso.

Tornando a noi… eccoci qui con il decimo capitolo. Buster non è morto, l’ho graziato per stavolta, ma solo perché nei prossimi capitoli uno dei personaggi tirerà le cuoia, quindi… meglio non ucciderli tutti XD

Per il resto, ormai Chris è arrivato ad un punto di esasperazione tale da dire a Chelsea di amarla… e lei se ne va. Perché diciamocelo… TUTTE  se ne andrebbero via trovandosi davanti uno del genere che prova in tutti i modi a farle capire quanto la ama.

Vedrete, vedrete nei prossimi capitoli; questi due ne combineranno ancora tante! ;-)

 

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Capitolo 11
*** Dipartita ***



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11



CAPITOLO 11: DIPARTITA

 

«Ti chiamo appena arrivo, promesso».

Mi sporsi verso Ryan, seduto sul bordo del mio letto, e lo strinsi forte.

«Bravo. E mi raccomando… guida piano e non farti sparare addosso da nessuno, siamo intesi?».

«Sempre simpatica tu, non è vero?».

Gli rivolsi un sorriso angelico, con la mia migliore espressione da brava ragazza.

«Starò attento, lo prometto».

«Su, ti accompagno di sotto».

Così, il mio amico ed io ci avviammo al piano inferiore.

Subito, arrivarono papà, mamma e il nonno.

«Ryan, se tu o tuo padre doveste avere bisogno, mi raccomando… non esitate a chiamare», disse papà dandogli una pacca sulla spalla.

Lui sorrise gentilmente.

«Grazie, signor Gaver».

«E chiamami Henry».

«D’accordo. Beh, allora adesso vado. Salutatemi Shereen e Christian».

«Oh, certo. Credo che siano andati a fare una passeggiata sulla spiaggia, ma non appena torneranno, te li saluteremo».

Il ragazzo mi rivolse l’ultimo sorriso e poi si voltò, richiudendosi la porta alle spalle.

Controllai dalla finestra finché la sua auto non ebbe svoltato alla fine della strada, poi sospirai, stringendomi le braccia al petto.

La verità era che Ryan, da quando eravamo lì, aveva costituito un punto saldo per me, nonostante ci conoscessimo davvero da così poco e, in quelle settimane, aveva rappresentato una sorta di ancora di salvezza.

Durante la famosa cena tra le nostre famiglie, era stato di fondamentale importanza ed ora… non avrei più avuto con chi parlare liberamente. Con quei pensieri che mi si affollavano in testa, anche l’assenza di Buster si faceva molto più opprimente.

Per cercare di distrarmi, andai al pianoforte al piano di sopra e cominciai a suonare. Una volta che iniziavo, non mi rendevo conto di niente, tanto che feci un salto sullo sgabello quando, ad un tratto, sentii una mano posarsi leggera sulla mia spalla.

«Ciao, Chris… ».

«Potrei restare ad ascoltarti suonare per ore intere, sai?».

Sorrisi.

«Già, io… è grazie al nonno che ho scoperto questa mia passione».

«Più che passione, direi che è un talento».

«È l’unica cosa che mi permette di scappare».

«Scappare da dove?».

«Dal mondo intero. Dalle persone».

«Anche da me?».

«Chris, senti… ».

«No. Senti tu… io ho bisogno di sapere che la mia presenza non ti fa soffrire. Perché in caso contrario, me ne andrò».

Lo guardai con aria stupita.

«Che cosa, scusa?».

«Hai capito bene, Chelsea. Io… io non lo so. Viviamo sotto lo stesso tetto da tre settimane ormai, ancora un’altra e poi torneremo alle nostre vecchie vite e forse ci lasceremo alle spalle queste assurde vacanze, ma io ricorderò. Io ricorderò ogni singolo istante quando ci incontreremo nei corridoi, in atrio o alla mensa. Ricorderò la tua voce, la musica e la paura. Ricorderò com’è restare senza fiato. Ricorderò il tuo aspetto appena ti svegli la mattina e i tuoi pigiami improponibili. Ricorderò l’odore della tua pelle dopo una doccia e la luce nei tuoi occhi. Ricorderò la ruga che ti si forma in mezzo agli occhi mentre ti concentri su qualcosa e il modo buffo che hai di toglierti i capelli dalla faccia soffiandoci sopra. E per me sarà impossibile dimenticare queste settimane. Ma se tu lo vuoi, io farò finta di dimenticare e noi riprenderemo i nostri rapporti professionali senza che ciò che è accaduto qui turbi il nostro lavoro».

Mio Dio… lo avevo spinto a tutto quello, dunque. Ad arrendersi, cosa che non era decisamente da Chris.

L’impulso di afferrarlo, attrarlo a me e baciarlo era forte, mi prudevano le mani per il desiderio, e dovetti affondarmi le unghie nei palmi per trattenermi.

Invece dissi: «Chris, per una volta… per una volta… dimmi che cosa vuoi tu e non pensare a me».

«Chelsea, come puoi chiedermi di non pensare a te? Tu sei… tu sei tutto. E sai cosa voglio, come sai, e so anch’io, che non è possibile. Perché se fosse per me; Dio, Chelsea, tu non sai nemmeno cosa io ho fatto con te nella mia mente. Tu non potresti nemmeno immaginartelo».

Deglutii a vuoto e cominciarono a tremarmi le ginocchia; per fortuna almeno ero seduta.

«Chris… », gemetti prendendogli il volto con entrambe le mani.

Lui chiuse gli occhi e posò le sue mani sulle mie stringendole forte.

«Chelsea, ti prego non farlo. Non dire il mio nome con quel tono e non mi toccare perché io, davvero, non so più cosa sto facendo e cosa potrei fare. Non sai quanto siano eccitanti e dolorose quelle fantasie e se mi stai così vicina, io potrei farle avverare tutte, qui, seduta stante. Mi dici di pensare a me? Quello che voglio io, proprio ora, è baciarti. Baciarti fino a non avere più fiato, baciarti fino a morire. Perché quello che ho dentro è un desiderio che brucia qualunque cosa. Qualunque forma di raziocinio e prudenza. Perciò stai lontana da me, altrimenti potrei prenderti e… farti mia. Ora. Ora e fino ad ucciderci entrambi».

Sapevo che avrei dovuto dire qualcosa. O fare qualcosa. La cosa migliore sarebbe stata allontanare le mie mani dal suo volto, alzarmi da lì e correre fuori da quella stanza, ma era come se fossi inchiodata a quello sgabello.

Riuscii a stento a staccare le mani dal suo corpo, ma continuai  a fissarlo con intensità, mentre lui ricambiava quello sguardo con occhi accesi da una passione rovente.

Stavolta fu lui ad alzarsi di scatto, osservarmi per un’altra manciata di secondi e poi lasciare la stanza a grandi passi.

Quando fu uscito, fu come tornare improvvisamente a respirare e cercai di incamerare nei polmoni quanta più aria possibile.

Non potevo più avere dubbi a quel punto su quanto forte fosse il sentimento che legava me e Chris. Tanto forte quanto lo era il nostro senso di principio morale e forse, tanto forte quanto la nostra stupidità.

Magari lui pensava che, col tempo, avrebbe potuto sostituire me con Shereen, nel suo cuore.

Ed egoisticamente, io sperai di no.

Sperai ancora in un futuro con lui, anche se, per questo, mi odiai.

Come potevo desiderare, in quella misura, un ragazzo già impegnato; il ragazzo di mia sorella?!

Mi appoggiai al pianoforte e respirai a fondo. Avrei soltanto voluto che le cose fossero un po’ meno complicate e desiderai riavere al mio fianco Ryan. Per poter parlare con lui. Per potermi sfogare. E mi resi conto, di nuovo, di essere una persona estremamente egoista.

Perché Ryan stava andando esattamente nel posto in cui avrebbe dovuto stare, ossia con la sua famiglia. Con suo fratello; con suo padre. Perché loro avevano bisogno di lui.

Con lentezza, mi alzai dallo sgabello e mi avviai verso la porta, lasciando, tra quelle quattro mura, la testimonianza di ciò che era appena accaduto tra me e Chris. Le parole e i sottointesi annessi e connessi.

Scesi le scale e andai a cercare il nonno.

Era sera ormai, il sole stava cedendo il posto alla luna e alle stelle, mentre il cielo passava da un arancione acceso a un impossibile blu che si rifletteva sul mare, fondendo insieme cielo e terra. Il senso d’infinito mi travolse, come se non ci fosse più un orizzonte.

Sentivo le voci dei miei genitori dal piano di sopra, mentre Shereen era sotto la doccia e Chris in cucina a bere un bicchiere d’acqua.

La televisione nel salotto era accesa e la testa del nonno, un po’ inclinata di lato, faceva capolino dal bordo del divano.

Mi dava le spalle ed io gli accarezzai una guancia con tocco lieve, lasciandogli un bacio sui capelli bianchi.

Feci il giro del divano, sedendomi accanto a lui, che teneva gli occhi chiusi; probabilmente addormentato davanti alla televisione come tante altre volte era successo.

Ma questa volta c’era una differenza, un dettaglio all’apparenza così insignificante, ma che per me fu uno shock.

Perché, posando la testa sul torace di mio nonno, come avevo fatto un’infinità di altre volte fin da quando ero piccolissima; ora, non sentii più il battito del suo cuore.

Mi allontanai con un grido e un attimo dopo sentii il rumore di un vetro in frantumi. Non capivo se fosse stato qualcosa dentro di me a spezzarsi, ma quando sentii l’imprecazione di Chris dall’altra stanza, collegai il fatto che il bicchiere da cui stava bevendo, doveva essergli caduto dalle mani non appena aveva sentito il mio grido.

Mi avvicinai nuovamente al nonno e cominciai a scuoterlo, chiamandolo disperatamente, ma era tutto inutile.

Qualcosa mi bagnava la faccia e mi accorsi di stare piangendo solo dopo che cercai di asciugarmi le lacrime per capire che cosa fosse.

Poi, Chris  entrò correndo nella stanza, preoccupato da quelle mie urla.

Per un momento, rimase immobile, come se neanche lui si capacitasse di ciò che stava succedendo, poi, muovendosi con un’innaturale lentezza, si avvicinò a me, circondandomi i fianchi con le braccia muscolose e sollevandomi di peso per allontanarmi da quello che, ormai, era solo ciò che era stato mio nonno.

«No! Lasciami! LASCIAMI!», gridai continuando a prenderlo a pugni, graffiarlo e scalciare.

Mai, nella mia vita, ero stata tanto fuori di me.

Durante l’incidente avevo conservato un barlume di lucidità che mi aveva permesso di spiegare a Chris cosa fosse successo e anche la sera prima, durante la sparatoria, ero rimasta fredda e distaccata in modo da mettere in pratica gli insegnamenti di Ryan.

Ma ora… adesso era come se qualcosa di più grande e impensabile di tutto ciò che era accaduto fino a quel momento, mi travolgesse con la stessa potenza di una valanga. Ghiaccio puro. Ed io stavo morendo, ne ero certa.

I polmoni mi scoppiavano ed io non riuscivo a respirare, né a smettere di gridare e a nulla servivano le parole di Chris.

Francamente, non lo stavo nemmeno ascoltando. Avrei soltanto voluto sprofondare e non svegliarmi più, raggiungere il nonno, perché era sempre stato il mio unico porto sicuro. Un faro nella mia vita.

“Quando si è giovani, amore mio, si crede di essere padroni del tempo, ma un vecchio come me, ne è solo lo schiavo”, mi aveva detto il nonno qualche anno prima. Solo ora riuscivo a capire davvero il significato di quelle parole.

Qualche istante dopo, i miei genitori entrarono di corsa nella stanza, allarmati da tutto il trambusto che stavo creando e, quando si resero conto della situazione, per un momento, mamma si aggrappò al braccio di papà e lui la sostenne, con sguardo addolorato.

E mentre nel cielo, infinito e infuocato, il Sole, lasciava la Terra per un altro giorno; un sole più grande, lasciava il mio cuore per sempre.

Quando realizzai quel pensiero, mi abbandonai, smettendo di lottare contro Chris e accasciandomi sul suo corpo. Mi sentivo completamente svuotata.

Il nonno non c’era più. Com’era possibile una cosa del genere?

Non riuscivo a respirare e cominciai ad emettere dei suoni strozzati dal fondo della gola. Percepii le braccia di Chris stringermi più forte e poi lui che sussurrava: «Chelsea, ti prego calmati. Respira. Respira».

Mio padre si voltò verso di noi, stringendo ancora mamma tra le braccia, e disse: «Christian, per favore, portala di sopra».

Per un momento ebbi ancora l’impulso di ribellarmi, ma a questo punto non ne vedevo il senso.

Lasciai che Chris mi sollevasse da terra e, con passo lento, si riavviò lungo le scale, con me che tremavo contro il suo corpo.

Dal bagno proveniva il rumore del phon, probabilmente Shereen non aveva sentito nulla di ciò che era appena successo.

Quando Chris mi depose sul letto, mi rannicchiai su me stessa e chiusi gli occhi. Come se così potessi lasciare fuori il mondo intero, ma dopo un momento, sentii una delle mani del ragazzo posarsi sul mio braccio e la sua voce chiamarmi.

«Chelsea… ?».

Non risposi e mi voltai dall’altra parte.

Lui sospirò pesantemente e cominciò ad accarezzarmi i capelli.

«Chelsea, mi dispiace davvero tanto».

A quelle parole mi rigirai verso di lui e notai che aveva gli occhi lucidi. Per me fu uno shock vederlo così. Lui che aveva sempre il sorriso sulle labbra.

Lentamente, allungai un braccio sul letto fino a prendere la sua mano, che strinse subito.

Restammo così, senza parlare, semplicemente guardandoci e accarezzano l’uno la mano dell’altra.

Sentii la porta del bagno aprirsi in corridoio, collegando il fatto che Shereen doveva essere pronta. E che ancora non sapeva nulla.

Guardai Chris.

«Dovresti andare».

Lui indugiò ancora un momento con lo sguardo su di me, poi, con calma, si alzò dal letto, lasciandomi l’ultima carezza sulla guancia, e infine uscì dalla stanza.

Quando si fu richiuso la porta alle spalle, mi infilai sotto le coperte coprendomi completamente e scoppiando nuovamente in lacrime. Non capii quanto tempo ci volle, ma riuscii a calmarmi e quando smisi di piangere, avevo un mal di testa che avrebbe potuto spaccarmi in due il cranio. Il minimo movimento del capo mi provocava un dolore lancinante.

Infine, riuscii ad addormentarmi.

Quando mi svegliai, Chris era sdraiato sotto le coperte vicino a me e mi osservava.

Fuori era buio, ormai e sperai che la penombra potesse nascondere il mio aspetto terribile.

Lui, con delicatezza, spostò una ciocca di capelli dai miei occhi, scendendo poi ad accarezzarmi la guancia e il collo.

«Cosa ci fai qui?», chiesi con tono incerto.

«I tuoi genitori non ci sono e Shereen… mi ha detto che tu avresti avuto molto più bisogno di qualcuno di cui ti fidi».

Rimasi sorpresa da quelle parole, ma mi limitai ad annuire.

Mi portai le ginocchia al petto e le circondai con le braccia, sentendo nuovamente le lacrime premere contro le palpebre, che serrai per cercare di trattenermi dal piangere di nuovo.

«Chelsea, no… », il suo tono era così pieno di preoccupazione, che anche senza vederlo in faccia avrei potuto immaginare quale fosse la sua espressione.

Sentii le sue braccia avvolgermi e attrarmi a sé ed io vi sprofondai, senza più pensare a nulla.

Fu la vibrazione insistente del mio telefono a ridestarmi da quello stato di torpore misto a disperazione.

Allungai una mano verso il comodino e afferrai l’apparecchio.

Sul display, mi apparve il nome di Ryan.

Schiacciai il pulsante verde e risposi.

«Pronto?».

«Chelsea! Finalmente, è tutta la sera che ti chiamo… ma cosa succede? Hai una voce… ».

Non potevo dirgli che il nonno… che lui non c’era più; conoscendo Ryan, sarebbe anche stato capace di riprendere la macchina e tornare qui.

Presi un respiro profondo e risposi: «Niente, Ryan, tranquillo. Io… ho un gran mal di testa. Tu sei arrivato? Come sta tuo fratello?», cercai subito di sviare l’argomento e notai lo sguardo carico di apprensione di Chris.

«In questo centro è molto seguito, sono tutti ottimisti, ma ci vorrà un po’ di tempo prima che possa riprendersi completamente. Probabilmente gli resteranno delle cicatrici».

«Beh, ma in futuro gli torneranno utili; le ragazze sono affascinate dai ragazzi misteriosi con delle cicatrici», mi sforzai di suonare allegra, ma percepii io stessa la falsità di quel mio tono.

Per fortuna, Ryan ebbe abbastanza tatto da ignorare la cosa ed emise una risata.

«E lì che si dice? Tutto bene?».

Come potevo avere la forza di mentirgli spudoratamente in quel modo?

Anche Chris parve piuttosto allarmato dalla domanda. Eravamo così vicini che di sicuro stava sentendo tutta la conversazione.

«Qui va».

«Sei alquanto monosillabica, stasera. Chelsea, sicura che vada tutto bene?».

Volevo solo mettermi ad urlare e Chris parve capirlo dalla mia espressione, perché mi strinse più forte.

«Non ti preoccupare, Ryan, te l’ho detto; è solo questo dannato mal di testa».

«Va bene, allora ti lascio andare, sennò ti farà ancora peggio stare al telefono. Ti chiamo domani, Chelsea».

«Certo. Buonanotte, Ryan».

«Notte, Chel… ».

E riagganciai.

Per qualche minuto, la stanza rimase immersa nel silenzio, solo i battiti dei nostri cuori sembravano rompere quella calma inquietante, poi, Chris chiese: «Perché non gli hai detto niente?».

Sospirai.

«Ryan è appena arrivato. Suo padre e suo fratello hanno bisogno di lui e… non è il caso che venga turbato da altri pensieri».

«E poi dici a me che dovrei smettere di preoccuparmi per gli altri? Chelsea, tu… ».

«Sssh… », lo interruppi. «… resta solo con me».

E lui lo fece.

Mi strinse a sé e continuò ad accarezzarmi i capelli e la schiena fino a che non fui di nuovo preda del sonno.

Erano le tre di mattina quando mi svegliai nuovamente. Chris era addormentato al mio fianco, con un braccio ad avvolgermi la vita; il petto che si alzava e si abbassava regolarmente al ritmo del suo respiro.

Era così bello vederlo in quel modo. Sereno, rilassato; come se le ultime settimane fossero state soltanto un brutto sogno.

Gli accarezzai piano il volto, senza svegliarlo, ma il pensiero del nonno tornò a farsi opprimente ed io rimasi agghiacciata da quella nuova realtà in cui non avrei più potuto rivolgergli la parola.

Mi coprii il volto con le mani, sentendo già i palmi bagnati dalle lacrime e, senza rifletterci, mi alzai dal letto, mi vestii velocemente con le prime cose che trovai e corsi fuori.

Fuori dalla mia stanza, lungo il corridoio, giù per le scale, in giardino e infine in strada. In quel momento, l’unica cosa di cui avevo bisogno, era correre.

La strada era deserta fino al punto da apparire inquietante, ed il silenzio totale.

Corsi fino a non avere più fiato; accanto a me sfrecciavano case, auto parcheggiate ordinatamente nei vialetti, bar, chioschi e gelaterie chiusi. E alla mia sinistra, costante, che si stendeva a perdita d’occhio… l’oceano.

Così deviai, andando in quella direzione. Corsi sulla spiaggia, fino ad arrivare nel punto in cui la sabbia veniva bagnata dall’acqua, che formava piccole increspature sulla riva, si infrangeva sulla battigia e poi tornava indietro, infinita.

Caddi lì, in ginocchio, stremata. I muscoli indolenziti, il respiro irregolare e il cuore che batteva all’impazzata, dovendo anche lavorare di più, ora che un pezzo di esso se n’era andato per sempre.

Affondai le mani nella sabbia bagnata quasi con rabbia e poi strinsi forte, respirando a fondo e cercai di calmarmi. In qualche modo mi aiutò, ma questo non impedì ai miei pensieri di vagare, tornando a quel fatidico giorno in cui il nonno mi aveva presa in braccio, da piccola, mettendomi poi seduta sopra lo sgabello del pianoforte. In quel momento, tutto era cominciato.

Mi sdraiai sulla sabbia scura e umida, con l’acqua che mi lambiva il corpo, facendomi rabbrividire. Era estate, è vero, ma erano comunque le quattro di mattina.

Restai lì, senza preoccuparmi minimamente del mio aspetto orribile. Dovevo avere due occhi spaventosamente gonfi, ero inzuppata d’acqua salmastra e i miei capelli erano diventati una specie di pasta tra sabbia e mare.

Non riuscii ad addormentarmi, ma caddi in una specie di trance in cui i miei pensieri vagavano scollegati tra di loro come una matassa disordinata.

Poi, poco a poco, all’orizzonte in lontananza, si stagliò la figura del sole. Stava albeggiando.

Il cielo assunse delle tinte rosa ed i riflessi del sole e del cielo s’infransero sull’oceano, ora calmo e liscio come una tavola.

Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal suono delle onde calme e dal dolce tepore che quel panorama mozzafiato mi stava regalando.

Questo, finché qualcuno non mi afferrò bruscamente per le spalle, tirandomi a sedere. E, per l’ennesima volta, mi ritrovai faccia a faccia con Chris.

«Chelsea! Ma cosa diavolo fai?».

Lo guardai senza capire.

«Io… io mi ero svegliato una volta verso le tre e mezza e, non vedendoti, ho creduto che fossi in bagno e mi sono riaddormentato, ma alle sei mi sono svegliato di nuovo e tu ancora non eri tornata e… ero preoccupato! Sono le sei e mezza del mattino, Chelsea!».

«Ho sentito solo il bisogno di uscire… », mi giustificai, atona.

«Il bisogno di uscire? Alle tre di notte? E non ti è passato neanche per l’anticamera del cervello di avvertirmi? Tra l’altro, avevi intenzione di uscire per prenderti una bronco polmonite? Perché succederà, se continui a stare qui».

Ridacchiai, ma senza allegria.

«Io non prendo mai un raffreddore».

Chris mi osservò con sguardo piuttosto stralunato, poi disse: «Beh, hai bisogno di una doccia e di riposo. Ora andiamo, prima che i tuoi genitori si accorgano della tua improvvisa sparizione».

Mi aiutò a rimettermi in piedi, con sguardo torvo.

«Sei tutta bagnata e hai la pelle gelida. Sbrighiamoci a tornare».

Ebbe il buon senso di non accennare ai miei capelli stravolti perché, anche se non potevo vederli, sapevo perfettamente in che stato dovessero essere.

In meno di dieci minuti fummo a casa e Chris mi disse di andare a prendere qualche vestito pulito mentre lui mi preparava la vasca da bagno. Così, io obbedii e quando tornai in bagno, disse: «Ora infilati immediatamente nella doccia e restaci dentro finché non ti sarai ripulita per bene dalla sabbia, poi entra nella vasca e riscaldati».

«Ok, papà», lo presi in giro.

Lui mi lanciò una delle sue occhiate assassine ed uscì dalla stanza.

Ero davvero stanca, la testa pulsava fastidiosamente, ma feci ciò che Chris aveva detto; entrai nella doccia e, quando ebbi eliminato ogni granello di sabbia dal mio corpo e dai miei capelli, passai nella vasca da bagno. L’acqua era piacevolmente tiepida ed io mi rilassai, coccolandomi con il bagnoschiuma.

Quando la temperatura si raffreddò; uscii e mi avvolsi in un accappatoio leggero. Non potevo asciugarmi i capelli con il phon a quell’ora di mattina, così li tamponai per qualche minuto con un asciugamano ed uscii dal bagno.

Ero quasi arrivata alla porta della mia camera, quando fui presa dall’impulso più grande di dirigermi verso una delle ultime stanze del corridoio.

Sulla soglia, esitai un momento prima di spingere la porta e ritrovarmi in quella che era stata la camera da letto dei miei nonni materni. Mi si formò un groppo in gola, ma mi decisi ad entrare, muovendomi a piccoli passi.

Quella stanza era intrisa dell’odore che avevo sempre associato al nonno: sapeva di acqua di colonia, di mare e di casa. Sapeva di morbido e di ricordi e quei pensieri dolorosi spinsero di nuovo le lacrime in superficie. Mi buttai sul letto, respirando a pieni polmoni l’odore del nonno e abbracciando il suo cuscino, disperata. Disperata perché non avrei mai più potuto sentire quell’odore su di lui, non l’avrei abbracciato mai più, non gli avrei parlato mai più.

Quando sentii la porta aprirsi, non mi preoccupai nemmeno di guardare chi fosse.

Una mano leggera si posò sulla mia spalla, ma io continuai a piangere senza voltarmi.

«Chelsea, basta. Fare così è inutile, lo so che fa male; fa male anche a me».

Mi girai.

Mia sorella se ne stava lì, seduta su quel letto con occhi incredibilmente tristi.

«Lo so che gli volevi bene, ma lui ora non c’è più».

Mi tirai a sedere e abbracciai di slancio Shereen, senza rifletterci. Per un momento, lei rimase rigida, poi si sciolse e rispose al mio abbraccio. Penso che quella fosse la prima volta in cui ci abbracciavamo in quel modo.

«Non so come fare senza di lui… ».

Mia sorella sospirò.

«Se io fossi stata più presente nella tua vita, forse le cose non sarebbero andate così, forse avresti avuto più bisogno di me che di lui. Il nonno ti voleva un gran bene ed io invece non gli ho mai dimostrato abbastanza affetto, per questo lui preferiva passare giornate intere con te invece che stare con tutti noi. E io ti ho odiata anche per questo, perché sono egocentrica ed egoista e ho sempre voluto ogni attenzione su di me. Da quando però, la mia sorellina ha cominciato ad essere il centro del mondo per il nonno, non so come né perché, ma qualcosa dentro di me è scattato. Chelsea, c’è una cosa che ti devo dire… ».

La osservai stupita. Quella era di certo una delle conversazioni più lunghe che affrontavo con mia sorella da anni. E lei sembrava davvero triste e dispiaciuta.

«Ero così arrabbiata e insicura che… sono stata io a fare in modo che tu e Christian vi allontanaste e… mi sono messa con lui solo per tenerlo lontano da te, perché ero gelosa».

A quel punto la fissai, sgranando gli occhi.

«Che cosa…? Shereen… ».

«Fammi finire», m’interruppe. «Ho detto che è iniziata così, io… riesco ad essere davvero crudele, alle volte. Gioco con i sentimenti delle persone, me ne rendo conto e so di ferirle, ma tuttavia non chiedo scusa e non me ne pento. E poi è arrivato Christian e lui… è bello, è dolce, è simpatico. Ma mi sono messa con lui per tenerlo lontano da mia sorella, perché io dovevo avere tutto e lei, tu, niente. All’inizio era così. Ma poi mi sono innamorata di lui», e qui fece una pausa, in cui un silenzio teso aleggiò tra di noi.

«Poi è arrivata la sera della cena, a casa, e lui ti ha vista e… insomma, è cambiato. E non ho fatto altro che notarlo, sempre di più, ogni giorno che passa, di quanto lui tenga a te, di come ti guarda, di come ti tratta, da come si comporta quando tu sei nella stessa stanza. Lui è te che vuole e l’unica cosa corretta che io abbia mai fatto in questi anni nei tuoi confronti, è stata mandarlo da te stanotte».

Non sapevo cosa dire; quella versione di mia sorella era così nuova, che mi lasciò senza parole.

«Shereen, io non… tu non devi… ».

«Io invece devo, perché continuare questa messa in scena, non è giusto nei confronti di nessuno di noi».

La stanza restò muta per altri trenta secondi, poi mia sorella riprese parola: «Adesso torno a letto e tu… pensa solo a ciò che ho detto».

Quando mia sorella fu uscita dalla stanza, affondai nuovamente la testa nel cuscino, abbracciandolo di nuovo.

Lì, mi riaddormentai, con mille pensieri che mi frullavano in testa.

Riaprii gli occhi sentendo qualcosa accarezzarmi una mano.

«Chris… ».

«Pensavo che ti fossi annegata nella vasca da bagno, quando non sei più tornata in camera e, non trovandoti nemmeno lì, ho creduto che fossi scappata di nuovo. Poi ho incontrato Shereen e mi ha detto che eri qui. Vi siete parlate?».

Non potevo certo raccontargli di tutte le cose che mi aveva detto mia sorella, così cercai di sviare il discorso.

«Sì, abbiamo parlato del nonno… », in effetti, non era una bugia.

«E ti va di parlarne anche con me?».

Scrollai leggermente le spalle.

«Che senso ha? Ti ho parlato di lui così tanto negli ultimi due anni, che non saprei cos’altro dire… mi manca già ora e mi mancherà sempre. Da quando ero piccola, lui è stato l’unica figura costante per me, il porto sicuro, ma questo già lo sai. Però adesso  non c’è più ed io non saprei cos’altro dire. Posso parlare attraverso la musica, è la sola cosa che mi permetterebbe di esprimere un sentimento schiacciante come quello che provo adesso».

«Allora suona. Ti va di suonare per me? Per lui… ».

Sorrisi. «Certo».

Ormai erano quasi le nove di mattina e mamma e papà erano già in piedi, quindi non dovetti preoccuparmi del fatto che avrei potuto svegliarli.

Suonai a lungo, senza pensare, passando da Beethoven a Mozart, da Debussy a Chopin e l’unica cosa di cui mi rendevo conto, erano i tasti sotto le mie dita e il suono che producevo.

Mi fermai all’improvviso, come se avessi finito l’energia e le idee. Il mio “flusso di coscienza musicale”, era stato interrotto.

Ero solo stanca e mi accasciai sullo strumento.

«Va bene così, Chelsea. Ora devi mangiare qualcosa, e poi magari ti rimetti a letto ancora un po’».

«Non sono malata e non ho fame», il mio tono era amaro.

Chris mi accarezzò la schiena.

«Comunque, sia il tuo corpo che la tua mente, nelle ultime settimane sono stati sottoposti a diversi traumi, quindi dovresti riposare. In quanto al cibo non si può trattare: devi mangiare».

Il suo tono era irremovibile.

«Gesù, sembri davvero mio padre».

«Niente storie, su, andiamo».

Chris era deciso, ma sempre gentile.

Obbedii, anche perché sospettavo che se mi fossi rifiutata; il ragazzo mi avrebbe portata di peso in cucina costringendomi a mangiare.

Mamma stava armeggiando tra i fornelli, mentre papà leggeva il giornale seduto al tavolo.

Quando entrai nella stanza, entrambi mi osservarono con sguardo preoccupato.

«Sto bene, tranquilli».

Mia madre lasciò lì tutto quanto e venne ad abbracciarmi.

«Ti voglio bene, tesoro».

«Ti voglio bene anche io, mamma».

Papà sorrise.

«Ciao, coniglietto».

Gli feci una linguaccia, ma poi andai a dargli un bacio sulla guancia.

Parlammo poco del più e del meno, non accennando a ciò che era successo la sera prima. Mamma aveva gli occhi cerchiati ed io avrei voluto consolarla in qualche modo, ma sapevo che probabilmente avrei finito col piangere, quindi lasciai perdere.

Mangiai poco, giusto qualche pezzo staccato da una brioche e un sorso di succo all’arancia, poi tornai in camera con Chris, che non fece commenti sulla scarsità del mio pasto.

«Vuoi che resti ancora un po’ con te?», mi chiese lui.

Annuii, infilandomi sotto le lenzuola e il ragazzo mi imitò, stendendosi al mio fianco.

Per qualche minuto restammo semplicemente a fissarci, respirando piano, poi Chris allungò le braccia e mi avvolse la vita per attrarmi a sé.

«Riposa, Chelsea… io sarò qui quando ti sveglierai. Non vado da nessuna parte».

Ed io mi abbandonai. Le braccia di Chris erano calde e solide, la sua mano mi accarezzava delicatamente i capelli ed il profumo di lui riempiva i miei polmoni.

Incastrai la testa nell’incavo del suo collo e lo sentii respirare a fondo.

Quando mi risvegliai, lui era ancora lì, con un braccio a cingere la mia schiena e con la mano libera ad accarezzarmi il collo.

«Ciao», mi salutò piano.

«Ciao… quanto ho dormito?».

«Tre ore. L’ora di pranzo è passata. Dobbiamo andare al piano di sotto; prima è venuta tua madre, mi ha detto di scendere quando ti svegliavi. Pare ci sia qualcosa che deve dire a tutti… ».

Lo guardai interrogativa.

«Non fare quella faccia, Chelsea, io ne so quanto te… ».

«Ok, allora andiamo».

Quando io e Chris arrivammo in cucina; mamma papà e Shereen erano già lì.

«Che succede?», chiesi.

«Ha telefonato il notaio, tesoro; a quanto pare, il nonno ha lasciato un testamento, che però verrà letto tra una settimana, perciò dovremmo fermarci qualche giorno in più del previsto. Inoltre… », e qui fece una pausa, «… io e papà avevamo pensato di andare in montagna per qualche giorno. Staccare un po’ farà bene a tutti noi, soprattutto a te. Il nonno non ha mai voluto un gran funerale; lui voleva semplicemente… essere sepolto vicino a nonna Allie, faremo una cosa intima, tra di noi. E poi partiremo per la montagna. Staremo via fino a domenica e lunedì verrà letto il testamento, dopodiché torneremo a casa. Per il vostro lavoro è un problema? Chris?».

Il ragazzo scosse la testa.

«No, ehm… io e Chelsea potremo prendere qualche giorno in più; in clinica non saranno così intransigenti se spiegheremo loro le ragioni. Chelsea, vuoi che ci parli io con Jefferson? Hai qualcuno che può sostituirti?».

Lo guardai ed annuii.

«Sì, io… posso chiedere a Justin; lui mi sostituirà».

«Perfetto, allora… posso anche sbrigarmela io, se vuoi».

Gli sorrisi.

«Mi faresti un favore».

«Non ti preoccupare, ci penso io».

Detto questo, mia madre riprese parola.

«Molto bene, allora è meglio che cominciate a prepararvi le borse da portare in montagna; partiamo domani pomeriggio, seppelliremo il nonno la mattina».

 

Note dell’Autrice:

Ed ecco qui l’undicesimo capitolo! Che cosa ve ne pare? Scriverlo è stato un parto, diciamo che… è molto intenso, carico di emozioni, il lato Chrelsea qui spicca molto.

A voi cosa ne è parso? Spero di ricevere qualche recensione perché per me sono IMPORTANTISSIME.

Detto questo, vi lascio con il solito estratto dal prossimo capitolo e il mio profilo FB.

Alla prossima!

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DAL CAPITOLO 12:

“Lui mi prese il volto tra le mani e posò la fronte contro la mia, stava tremando.

«Chris, cos’hai? Hai freddo? Aspetta, ti restituisco la giaccia».

Cercai di toglierla, ma lui mi bloccò.

«Non ho freddo, Chelsea. Sto tremando per lo sforzo di non baciarti e Dio solo sa quanto vorrei farlo. Non hai idea di quanto sia difficile per me trattenermi dal farlo».

Ebbi un fremito ed il mio respiro si fece corto. Posai a mia volta le mani sul collo di Chris, ma un singhiozzo mi spaccò il petto a metà”.


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Capitolo 12
*** Alla baita ***



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12  




CAPITOLO 12: ALLA BAITA

 

Nel tardo pomeriggio, andai nella clinica veterinaria in cui Buster era momentaneamente ricoverato e chiesi a Gale quanto ancora dovesse rimanere lì, data la nostra partenza imminente.

«Almeno un’altra settimana, se non di più. Lui è sopravvissuto, sì, ma c’è da ricordare che comunque ha subito un grave trauma e un intervento stressante. Parti senza problemi, ci aggiorniamo quando ritornerai. E… Chelsea?».

«Sì?».

«Mi dispiace per tuo nonno… davvero».

Le sorrisi debolmente. «Grazie. Prenditi cura del mio Buster».

«Lo farò senz’altro».

E così, uscii.

Gale era simpatica e davvero gentile e disponibile; ora capivo perché Ryan si fosse innamorato di lei. Avrei davvero voluto che i due potessero mettersi insieme, sarebbero stati una bella coppia.

Con quei pensieri tornai a casa, cenai poco e velocemente e poi andai a preparare zaino e vestiti per andare in montagna.

C’era un posto, a diverse ore di macchina da lì, in cui mamma e papà ci portavano da piccole.

Shereen odiava la montagna, ma a me piaceva , era isolata, tranquilla. Mi sentivo in pace, lì sarei riuscita a riprendermi da quelle settimane difficili, o almeno lo speravo.

Portai tutto al piano inferiore, lasciando le mie cose vicino alla porta d’ingresso, poi andai in bagno per prepararmi per andare a letto.

Avevo un gran torcicollo e dalla sera precedente un doloroso cerchio alla testa, ma sperai che dormendo senza più scappare in giro con il rischio di prendere una bronco polmonite, entrambe le cose potessero passarmi.

Tornai a letto e mi infilai sotto le coperte, raggomitolandomi su me stessa come un gatto, ma, quando chiusi gli occhi, sentii la porta alle mie spalle aprirsi e poco dopo una mano accarezzò il mio braccio.

«Ehi, sei sveglia?».

Mi voltai, per trovarmi davanti mio padre.

«Sono sveglia».

«Tesoro, come ti senti?».

«Diciamo che questa non è stata una di quelle vacanze che ricorderò con piacere».

Lui fece un mezzo sorriso.

«Immagino… », fece una pausa, poi riprese: «… ha chiamato Alex, il padre di Ryan, mentre tu eri alla clinica veterinaria... ».

«È successo qualcosa a Ben?», lo interruppi immediatamente, rizzandomi subito a sedere.

«No, no, Chelsea… tranquilla. Ben è in via di miglioramento, solo che… gli ho detto del nonno e penso proprio che lui lo dirà a Ryan. Voi vi sentite tutti i giorni, giusto?».

Annuii.

«Avevo detto a Ryan che andava tutto bene, ieri sera. Era appena arrivato, non volevo che si preoccupasse anche per me».

«Chelsea, tesoro, quel ragazzo è molto affezionato a te, dovresti parlargli sinceramente».

«Papà, è un’impressione mia, oppure è da quando sei arrivato che cerchi di farmi mettere insieme a Ryan?».

Lui si aprì in un sorriso amaro.

«Credi che non lo abbia capito? Credi che non veda come guardi Chris e come lui guarda te? Lo conosco quello sguardo, è lo stesso con cui io guardo tua madre. Lei è l’amore della mia vita e vedere te e Chris comportarvi in questo modo e soffrire in questo modo… fa male anche a me. Senti, Chelsea… io non voglio sapere gli affari tuoi, né quelli di Chris o di Shereen, ma… questa situazione è davvero assurda. Ho cercato di spingerti tra le braccia di Ryan sperando che tu potessi provare qualcosa per lui, ma… da quando siamo qui… non ho potuto fare altro che notare il modo in cui tu e Chris vi prendete cura l’uno dell’altra. E… non lo so, tesoro, ma voi tre avete ancora un’altra settimana da passare tutti sotto lo stesso tetto e io dico solo… sfruttatela questa settimana, Chelsea. Potrebbe essere l’ultima occasione per capire cosa volete e chiarirvi».

Restai ammutolita; di certo un discorso del genere da mio padre non me lo sarei mai aspettato.

«Ora cerca di dormire. Sogni d’oro, Chelsea… ».

«Buonanotte, papà… ».

Quando la porta si chiuse di nuovo, mi voltai su un fianco, dando le spalle all’ingresso, con gli occhi aperti e il cervello che lavorava freneticamente. Prima il discorso di Shereen di quella mattina. Aveva detto che inizialmente aveva mandato quelle rose e si era messa con Chris, solo per allontanarlo da me, ma poi si era veramente innamorata di lui.

Ora mio padre.

La testa mi scoppiava, avrei solo voluto addormentarmi e dormire per sempre, o magari, scoprire che al risveglio, tutti i miei problemi erano spariti. Ma in quel preciso momento, la mia vita era un vero casino e le mie preoccupazioni non sarebbero sparite semplicemente ignorandole.

Passai almeno un’ora rigirandomi nel letto, finché, mettendomi a sedere, mi caddero gli occhi sulla cuccia vuota di Buster. In quell’occasione, il mio fidato amico sarebbe stato di grande conforto, ma purtroppo, attualmente non era possibile. Innanzitutto dovevo pensare alla sua salute, perciò era un bene che fosse alla clinica con Gale.

Sgusciai fuori dal letto e andai a sedermi accanto alla cuccia, posandovi sopra una mano e sentendola stranamente fredda, poi alzai gli occhi al cielo e dissi: «Vorrei che fossi qui con me» non sapendo io stessa se mi riferissi a Buster o al nonno.

Mi scappò una lacrima, che asciugai in fretta e restai lì, in silenzio e con gli occhi chiusi, finché non sentii la suoneria del mio cellulare, così mi alzai da terra e presi il telefono dal comodino.

Come pensavo, era Ryan.

«Pronto?», risposi.

Silenzio. Solo un ronzio.

«Perché non mi hai detto niente ieri, Chelsea?», la voce del mio amico era cupa, dura.

«Perché temevo che saresti tornato qui, mentre il tuo posto adesso è là, con Ben. Con tuo padre».

«Stavo per tornare quando papà me lo ha detto, oggi. Poi mi ha anche detto che non organizzerete un vero e proprio funerale e che domani partirete per la montagna, dopo la sepoltura, solo per questo sono rimasto».

«Non ti avrei permesso di tornare».

«Non avresti avuto modo d’impedirmelo».

«Ryan, senti… ».

«No. Come stai, tu?».

«È una domanda che mi sono sentita fare spesso, ultimamente».

«Non cercare di sviare il discorso e rispondi».

«Male. O almeno non bene. Tuo fratello come sta?»

«Stai di nuovo cercando di cambiare argomento».

«Sì. Esatto, Ryan, sto cercando di cambiare argomento e questo perché la realtà dei fatti è troppo schiacciante. Non ce la faccio e tutti i miei punti di riferimento adesso sono spariti. Quindi cerco di cambiare argomento perché per me, è ancora troppo presto per parlarne».

Dall’altro capo del telefono, sentii Ryan sospirare.

«Ben sta migliorando, ma non so quanto tempo ancora io e mio padre dovremmo rimanere qui. Ad ogni modo, con te fuori città, credo che resterò qui fino alla fine delle ferie, poi tornerò a casa. Papà probabilmente dovrà fermarsi di più».

«Capisco».

«Sai, Ben mi ha chiesto di te, oggi. Devi piacergli molto».

Rimasi sorpresa a quell’affermazione; il fratello di Ryan era piuttosto chiuso, solitamente.

«Davvero? E cos’ha detto?».

«In realtà non ho capito molto bene, era sotto effetto di antidolorifici, ma ha detto qualcosa sul fatto che di ragazze come te ce ne sono poche e che dovrei darmi una svegliata».

Risi sinceramente e, in quel momento, ebbi l’impressione che fosse trascorsa un’eternità dall’ultima volta che lo avevo fatto.

«Eccoti qua, ti ho fatta ridere».

«No, ti correggo: Ben mi ha fatto ridere».

«Accidenti, è vero. Allora dovrò trovare un modo per farlo perché non mi farò battere da un ragazzino».

Ridacchiai di nuovo.

«Adesso dormi, Chelsea, ci sentiamo domani, ok?».

«Certo, io… non so se ci sarà campo in montagna, ma ti scrivo appena partiamo. Buonanotte, Ryan».

«Notte… ».

Chiusi la chiamata e spensi il telefono, cercando finalmente di dormire.

Egoisticamente, sperai che Chris entrasse nuovamente dalla porta della mia stanza e che si fermasse a dormire anche stanotte, ma non fu così e, dopo mezz’ora passata a captare ogni minimo rumore proveniente dal corridoio, mi addormentai.

La mattina seguente, il mal di testa non era affatto passato, anzi, era peggiorato ed era arrivato anche un gran senso di nausea.

Per me era sempre stato così: quando qualcosa mi preoccupava molto, avevo la nausea tutte le mattine e mi si chiudeva lo stomaco.

Tra poche ore avremmo seppellito mio nonno, quindi immaginai che il mio malessere fosse dovuto a quello.

Mi alzai dal letto sentendomi la testa incredibilmente pesante e mi avviai in bagno velocemente. Avevo imparato a conoscere quei sintomi durante i lunghi anni di scuola o prima di una competizione, ma ormai era un pezzo che non mi capitava più di vomitare  a causa del nervosismo.

Buttai fuori tutto ciò che avevo in corpo, anche se non era molto, e, quando uscii dal bagno, mi ritrovai davanti Chris.

Splendido.

«Chelsea, cosa succede? Stai male?».

«Lascia perdere, non ti preoccupare. Mi succede sempre quando sono agitata».

Il ragazzo mi guardò con tanto d’occhi; forse non era stata la più saggia scelta di parole.

«Posso venire a tenerti compagnia per un po’, se vuoi. Finché non ti riaddormenti, è ancora presto, dovresti dormire».

«E tu perché eri sveglio?».

Chris mi osservò, studiandomi.

«Volevo soltanto andare in bagno e poi ho visto entrare te e… c’è qualcosa che posso fare per aiutarti?».

Scossi la testa.

«No. Ora è meglio se torni a letto, Chris… ».

«Ma… ».

«Va solo a letto, ok? Fammi questo favore. So che vorresti fare di più, ma non puoi. È il mio dolore; è una cosa con cui me la devo vedere da sola».

La tristezza nei suoi occhi in quel momento era chiara.

Gli misi una mano sul polso, cercando di addolcire il tono. Non ero stata particolarmente cortese, poco prima.

«Non ce l’ho con te, Chris, anzi, tu mi sei stato vicino, sempre. Ma, come dire… adesso ho bisogno di stare un po’ da sola e tu… è meglio che stia con Shereen».

Mi riavviai verso la mia stanza, allontanandomi dal ragazzo, ma lui mi raggiunse in poche, grandi falcate e mi strinse forte a sé.

In un primo momento mi irrigidii, poi mi lasciai andare.

Le sue braccia ormai erano diventate così familiari, che dubitavo sarei riuscita a farne a meno una volta finite quelle folli vacanze.

Lo guardai e lui ricambiò lo sguardo con intensità, poi, mi staccai dal suo corpo, a fatica, e tornai nella mia camera.

Lì presi sonno nuovamente, senza più quel senso di nausea addosso, ora stavo meglio. Mi addormentai, con in testa la risata del nonno.

 

«Chelsea, devi svegliarti».

Quelle parole sembravano rimbombare nella mia mente, come se, chi mi stesse parlando, si trovasse ad anni luce da lì.

Poco a poco, misi a fuoco mia madre.

«Tesoro, è meglio se cominci a prepararti per la sepoltura. Papà e Christian hanno già caricato la macchina, partiremo subito dopo».

Annuii, biascicando qualcosa d’incomprensibile, poi uscii a forza dal letto.

Sbadigliai sonoramente e cominciai a vestirmi.

Quando fui presentabile e i miei capelli non sembrarono più la foresta amazzonica, uscii dalla stanza.

Stavo per avviarmi lungo le scale per scendere al piano inferiore, quando, come fossi attratta da una calamita, cominciai a camminare verso la stanza con il pianoforte in fondo al corridoio.

Passai leggera le dita sui tasti, senza schiacciarli, poi, presi la fodera verde dello strumento, la adagiai sopra e chiusi il pianoforte.

Quel gesto ebbe qualcosa di… definitivo.

Scesi di sotto, dove tutti mi stavano aspettando, e feci la stessa cosa con il pianoforte che si trovava in salotto.

Quando mi voltai verso gli altri, mi accorsi che ognuno di loro mi stava fissando.

«Dobbiamo andare, adesso», dissi in tono risoluto.

La sepoltura fu molto semplice: una bara che veniva calata sempre di più nella terra e con essa, io sentivo penetrarmi il gelo nelle ossa; le lacrime di mia madre stretta contro papà, le lacrime di Shereen stretta contro Chris e poi c’ero io, in piedi, rigida come una statua, composta come mai lo ero stata prima di allora. Testa alta e l’espressione dura più del granito, bianca in volto.

Sentivo gli occhi di mio padre e di Chris puntati su di me, ma non m’importava niente, il mio unico obiettivo in quel momento era arrivare alla fine della funzione senza far trapelare nulla della tempesta che irrompeva nel mio cuore proprio in quel momento.

Quando la bara ebbe toccato il fondo della buca,  sentii un gran tonfo, ma in realtà, quello avvenne soltanto dentro di me.

Respirai a fondo una, due, tre volte, chiusi gli occhi e li riaprii dopo qualche istante, quando una mano esile si appoggiò sulla mia spalla. Shereen.

Sembrava davvero triste e fragile come non l’avevo mai vista.

Chris ci osservava con aria preoccupata e stupita quando vide che mia sorella mi abbracciava.

Io ricambiai il suo abbraccio e le accarezzai i capelli.

Aveva fatto tutto quello che aveva fatto e spesso anch’io non mi ero comportata bene con lei, ma era pur sempre mia sorella.

Quando quell’agonia ebbe fine, ci avviammo tutti alla macchina, nel silenzio più totale, e partimmo per la montagna.

Mio padre guidava, mamma era seduta sul sedile del passeggero e dietro, Chris stava al centro con me e Shereen ai suoi lati.

Trafficai all’interno della borsa e tirai fuori il mio mp3. Senza non avrei potuto vivere e in quel momento, la musica era tutto ciò di cui avevo bisogno e l’unica in cui avrei potuto trovare conforto.

Guardai fuori dal finestrino, poi, improvvisamente, mi ricordai di Ryan ed estrassi il mio telefono malandato dalla tasca dei jeans.

Già era vecchio, ma da dopo l’incidente, era un miracolo che funzionasse ancora.

Scrissi un breve sms al mio amico, dicendo che la cerimonia era finita e che adesso stavamo partendo per la montagna.

Quando il messaggio fu inviato, tornai a concentrarmi sul paesaggio che sfrecciava fuori dal finestrino. L’oceano si stendeva ovunque; sarebbe stato un lungo viaggio per arrivare in montagna e non ci saremmo sbrigati prima di sera.

Avevo la pancia che brontolava per la fame, d’altra parte era comprensibile dato che, tutto ciò che avevo nello stomaco, lo avevo vomitato quella mattina.

Ad un tratto, fui colta da un improvviso attacco di sonno e, in poco tempo, mi addormentai con la fronte posata contro il finestrino.

Quando mi svegliai, notai che fuori c’era meno luce ed io non sentivo più la pressione del braccio di Chris contro il mio.

Mi voltai, l’auto era completamente vuota.

In un primo momento cominciai ad agitarmi, poi notai che la macchina era ferma ad una stazione di servizio e che quindi, probabilmente, gli altri erano dentro oppure in bagno.

Qualche istante dopo, infatti, Chris entrò con due grossi bicchieri di caffè in mano.

«Eccoti finalmente, ti sei svegliata. Hai dormito per tutto il viaggio… ».

«Manca ancora molto?».

«Un paio d’ore, ma nessuno di noi ha osato svegliarti, abbiamo concordato tutti sul fatto che ti serve un po’ di sano riposo. Però ti ho portato il caffè, se vuoi. Come piace a te: macchiato, un sacco di schiuma e pieno di zucchero», disse con un gran sorriso.

Sorrisi a mia volta.

«Grazie, è proprio quello che mi ci vuole per uscire da questa specie di stato comatoso».

«Non è che poi non dormi più, vero? Altrimenti i tuoi mi ammazzano».

Ora risi apertamente.

«No, tranquillo. Potrai vivere ancora un po’».

«Oh, bene, la cosa mi conforta».

Scossi la testa, divertita e poi presi il bicchiere di carta che Chris mi porgeva e iniziai a bere, con l’effetto della caffeina che cominciava a scorrermi nelle vene.

 

Sorseggiai il mio caffè senza fretta, mentre il mio amico beveva il suo, ma restammo in silenzio, in quell’atmosfera quasi irreale, così calma come non lo era da settimane.

«Chris?», lo chiamai ad un certo punto.

«Sì?».

«Come stai?».

Il ragazzo tirò leggermente indietro la testa, corrugando la fronte.

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire… che tutti vi siete preoccupati per me in questo periodo e insomma… adesso vorrei sapere come stai tu. Perché nemmeno per te immagino che sia stato un periodo molto felice».

«Io… io credo di aver avuto periodi migliori. Ma se tu stai bene, se tutti voi state bene… allora sto bene anch’io».

In quel momento, il suo cellulare prese a squillare.

Chris guardò il display e sorrise.

«Ehi, cucciolotta… come stai?».

Fui decisamente sorpresa nell’udire quelle parole. Mai avevo sentito Chris rivolgersi a qualcuno in quel modo e, tra l’altro, aveva usato un tono estremamente dolce.

«Mi manchi anche tu, Holly, ma ti prometto che sarò a casa presto, ormai manca soltanto una settimana».

Holly? Quel nome mi suonava familiare e poi mi tornò in mente: era sua sorella, la più piccola, quella che aveva solo quattro anni.

Parlarono qualche altro minuto, poi Chris riattaccò con un sorriso.

«È una bambina molto dolce, vero?».

«Holly… è veramente straordinaria».

Parlammo del più e del meno finché non arrivarono anche tutti gli altri e, a quel punto, ripartimmo.

Il viaggio proseguì tranquillo, io mi riaddormentai dopo un po’ e quando mi svegliai eravamo arrivati.

Ci fermammo nella solita baita in cui andavamo quando io e Shereen eravamo piccole e mettere piede lì dentro fu come fare un tuffo nel passato.

«Quanto pensate di fermarvi?», chiese Edward, il proprietario, a mio padre.

«Qualche giorno, fino alla fine della settimana. Ci sono problemi?».

«Questo dipende da voi, dicono che ci sia un bel temporale in arrivo».

Mi irrigidii immediatamente. Da quando avevo avuto l’incidente, avevo sviluppato una sorta di fobia nei confronti della pioggia, senza contare che ero sempre in ansia quando stava per arrivare un temporale.

Questo a mia madre non sfuggì, lo capii dallo sguardo preoccupato che mi lanciò notando la mia espressione.

«Tranquilla, tesoro», disse dandomi una lieve stretta al polso.

Salimmo al piano superiore, nella stanza che ci avevano assegnato e cominciammo a sistemare i nostri bagagli.

Si trattava di due stanze comunicanti; in ognuna c’era un letto matrimoniale e, in una, anche un letto singolo per me.

Inizialmente, io avrei dovuto dormire lì con mamma e papà, ma poi Shereen si lamentò del fatto che nell’altra camera c’era troppo freddo, quindi lei e Chris si trasferirono nella stanza con me.

Perfetto, tanto per non farsi mancare mai niente.

Rassegnata, mi chiusi in bagno e infilai il pigiama che, nonostante fosse leggero, aveva le maniche lunghe.

Per fortuna consisteva in un semplice completo bianco con dei bordini azzurri sui polsi e sulle caviglie e non in qualcosa di imbarazzante come al solito.

Non avevo per niente fame, mia madre cercò di convincermi in tutti i modi, ma fui irremovibile e, mentre loro andavano a cena, io m’infilai subito sotto le coperte.

Presi il cellulare per mandare un messaggio a Ryan anche se avevo il forte sospetto che lì non prendesse e, in effetti, quando lo accesi, constatai che non c’era neanche una tacca di campo.

Sospirando, posai il dispositivo sul comodino, mi raccolsi i capelli in una lunga coda e mi tirai le coperte fin sotto il mento.

Era incredibile l’escursione termica e, nonostante fossimo ad agosto, sembrava quasi che fuori fosse inverno.

Come al solito, presi l’mp3 e lo accesi. La musica mi aiutava sempre a calmare la mente e conciliare il sonno.

Mi lasciai cullare da note dolci, finché non sprofondai nel sonno.

Sentii indistintamente rumori nella stanza quando mia sorella e Chris tornarono dalla cena e cominciarono a prepararsi per andare a dormire, ma io non mi svegliai del tutto.

Quando riaprii gli occhi, ormai si capiva che era giorno, anche se il cielo fuori dalla finestra era piuttosto nuvoloso.

Mi voltai, vedendo Chris e Shereen dormire sul letto matrimoniale, lui sdraiato supino, mentre lei gli passava un braccio attorno al torace, posandogli la testa sulla spalla.

A quella vista mi si contrasse lo stomaco.

Mi misi in piedi tendendo bene i muscoli della schiena e delle braccia e guardai fuori dalla finestra. Il paesaggio familiare della montagna era in qualche modo confortante perché rimasto immutato in tanti anni, mi ricordava la mia infanzia.

Forse, quella baita, era l’unica cosa a non essere cambiata in tanti anni, per questo provavo quella sensazione di sicurezza, quasi di nostalgia.

In tre settimane, erano state stravolte molte più cose che in molto altro tempo.

Andai in bagno, indossai una tuta e legai i capelli in una treccia che lasciai pendere su una spalla, poi, mi sedetti su una poltrona vicino alla finestra e restai a osservare fuori.

Era ancora presto, erano solo le sette di mattina e io avrei voluto che il tempo si fermasse, ero stanca.

Vidi le alture che avevo imparato a conoscere da bambina, gli alberi che anni addietro mi erano sembrati così enormi; perfino l’altalena su cui mio padre mi spingeva da piccola. Ora il colore era sbiadito e le catene un po’ arrugginite, ma era sempre la stessa.

«Chelsea?», la voce ancora assonnata di Chris mi riscosse dai miei pensieri.

«Buongiorno», risposi con un sorriso.

«Da quanto sei in piedi? È ancora presto… ».

«Non mi sono svegliata da molto, ma… non riuscivo più a dormire».

Facendo attenzione a non svegliare Shereen, Chris, sgusciò fuori dal letto, prese alcuni vestiti e andò in bagno a cambiarsi.

Ne uscì dopo qualche minuto e mi osservò attentamente.

«Hai voglia di venire un po’ giù? Così possiamo parlare liberamente».

Mi alzai dalla poltrona puntando le mani sui braccioli e facendo peso, poi lo seguii.

Fuori dalla baita, l’aria del mattino era pungente ed io mi strinsi di più nella felpa. Chris, che aveva portato con sé la giacca, me la mise sulle spalle con un sorriso gentile.

«Grazie».

Passeggiammo in silenzio per qualche minuto, finché non mi decisi a rompere quell’atmosfera quasi surreale.

«Allora… di cosa volevi parlare?».

Chris sospirò.

«Vorrei che tu riuscissi a dormire».

Lo guardai stupita.

«Ed era di questo che volevi parlare? Del fatto che dormo poco?».

«Sono preoccupato. Dormire poco fa male e, scusa la schiettezza, ma ultimamente non ti vedo molto bene. Per non parlare poi di tutti i traumi che hai subito in queste settimane; sia fisici che psicologici».

«Ma ci sono anche volte in cui dormo bene. Chris, non ti devi agitare così tanto, d’accordo?».

«Perché ho come l’impressione che le uniche volte che riesci a dormire una notte intera e senza fare incubi è quando io dormo con te?».

Con quella domanda, il ragazzo mi prese in contropiede.

«Chris, io… ».

«Non ho smesso di pensarci, Chelsea… ».

«A cosa ti riferisci?», domandai senza capire.

«La sera in cui ti sei slogata la caviglia uscendo dalla doccia, io… ho provato a baciarti sul tuo letto e tu mi hai detto di vivere la mia vita senza continuare a provarci con te, altrimenti tu non avresti più fatto parte. E mi sono spaventato. Perché non riesco più a vedere la mia vita senza di te e non riesco a starti lontano e penso che vorrei lasciare Shereen, ma non posso e soprattutto non adesso perché vostro nonno è appena scomparso e se lo facessi sarei un vero stronzo. E probabilmente lo sono perché sto con una ragazza, ma in realtà è sua sorella che amo. E capisco che così sto facendo soffrire tutti, però non riesco a venirne fuori, nonostante tutto. Vorrei che ci fossi tu nel letto a dormire con me, vorrei che fossi tu quella che posso tenere per mano senza preoccuparmi di essere giudicato, vorrei poteri stringere e baciare in ogni momento, ma non posso. E ad ogni giorno che passa, io non penso ad altro che alle tue labbra e al tuo corpo e ai tuoi occhi. Continuo ad immaginare le tue mani sul mio petto, mentre ci abbracciamo su un letto così stretti da toglierci il fiato. Non lo possiamo fare, Chelsea e siamo stati noi a creare   questa situazione. Non passa giorno che rimpianga quei due minuti nel tuo ufficio e tutto quello che ci siamo detti. Avevi ragione tu, la sera della cena: eri la mia migliore amica e non ti ho nemmeno dato la possibilità di spiegare».

Per un momento rimasi pietrificata.

«Avevi ragione anche tu… mi hai lasciato tanto spazio ed io non ho mai fatto niente in tutto quel tempo. Ed ora è troppo tardi».

L’espressione di dolore, rimpianto e rassegnazione che gli passò sul volto in quel momento fu disarmante, tanto che ebbi la sensazione mi mancasse il terreno sotto i piedi.

Gli posai una mano sulla guancia, guardandolo con aria triste e lui mi attrasse a sé con impeto, stringendomi forte.

«Dio, Chelsea… se solo potessi cambiare le cose… ».

«Non possiamo», dissi con gli occhi chiusi, per arginare le lacrime. Non volevo farmi vedere così, quindi  chiusi forte le palpebre e poi tornai a guardarlo in faccia.

«È troppo tardi».

«Lo so».

Lui mi prese il volto tra le mani e posò la fronte contro la mia, stava tremando.

«Chris, cos’hai? Hai freddo? Aspetta, ti restituisco la giaccia».

Cercai di toglierla, ma lui mi bloccò.

«Non ho freddo, Chelsea. Sto tremando per lo sforzo di non baciarti e Dio solo sa quanto vorrei farlo. Non hai idea di quanto sia difficile per me trattenermi dal farlo».

Ebbi un fremito ed il mio respiro si fece corto. Posai a mia volta le mani sul collo di Chris, ma un singhiozzo mi spaccò il petto a metà.

«Non piangere. Ti prego, Chelsea, non piangere. Vederti così… preferirei morire piuttosto, soprattutto sapendo che è colpa mia».

Affondai la testa contro il suo torace e lui mi alzò da terra in un abbraccio. Quando mi depose nuovamente a terra, alzai lo sguardo e lo fissai.

«È meglio se torniamo dentro, gli altri si saranno svegliati».

Così, con un ultimo sguardo carico di significato e di passione, tornammo nella nostra stanza.

 

Note dell’Autrice:

Ed eccomi qui con il dodicesimo capitolo. Spero lo abbiate apprezzato come gli altri; stasera non mi posso fermare, quindi… fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci risentiamo al prossimo capitolo!

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DAL CAPITOLO 13:

Mi alzai velocemente dal pavimento e frugai disperatamente nello zaino, finché non tirai fuori la familiare scatola bianca e rosa scuro.

Presi una compressa e la bottiglia d’acqua, poi mi riavviai verso il ragazzo e lo aiutai a mettersi seduto, sorreggendolo da dietro. A fatica, riuscì a buttare giù la medicina, poi si stese di nuovo.

«Chelsea… sdraiati accanto a me… per favore… ».

Era così stanco che dirgli di no sarebbe stato impossibile, così lo feci, infilandomi tra le coperte con lui.

Sentii il suo corpo bollente a contatto col mio e lui mi strinse forte, come a cercare il mio calore.

Restituii l’abbraccio, accarezzandogli i capelli e la schiena e Chris affondò la testa nell’incavo del mio collo. Era una strana immagine, lui, così alto e imponente, rannicchiato contro il mio corpo.

Lo strinsi forte, cercando di coprirlo per quanto potevo, ma lui era molto più grande di me. Continuai ad accarezzarlo e cullarlo fino a che non si addormentò tra le mie braccia e, dopo un po’, il sonno colse anche me”.

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Capitolo 13
*** La fine di una storia ***



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13  




CAPITOLO 13: LA FINE DI UNA STORIA

 

Quando tutti furono pronti, tornammo di sotto per fare colazione insieme.

Fu una mattinata piuttosto piacevole; Shereen rimase incollata a Chris in ogni momento, sembrava davvero giù di corda.

Nonostante tutto, avevo come l’impressione che la morte del nonno l’avesse colpita più duramente di quanto avesse lasciato credere e stare accanto a lui le dava conforto.

Mi sentii una traditrice per ciò che era accaduto tra me e Chris quella mattina e, come se non bastasse, lui aveva di nuovo detto di amarmi.

E anch’io lo amavo. Era più forte di me e, malgrado i miei sforzi, non riuscivo a non provare una fredda fitta di gelosia ogni volta che Shereen lo toccava e lo baciava.

Quella mattina, lui aveva detto che pensava di lasciarla e che per questo si sentiva un bastardo.

In realtà lo eravamo entrambi. Due egoisti che pensavano solo a sé stessi, ignorando i sentimenti degli altri.

Mi riscossi dai miei pensieri quando papà annunciò che quella mattina saremo andati al lago a qualche ora di cammino da lì, ma dovevamo muoverci velocemente, prima che arrivasse quella dannata tempesta. Il solo pensiero mi faceva rabbrividire.

Quella gita però mi fece bene, servì a distendermi i nervi.

Mangiammo in riva al lago un pranzo a sacco che ci eravamo preparati alla baita e fu un bel pomeriggio. Stranamente rilassato, come se tutti gli avvenimenti delle ultime settimane, lì non riuscissero a raggiungerci per tormentarci. L’unica ombra in tutta quella situazione, era il costante impulso di correre tra le braccia di Chris e dirgli che anch’io lo amavo, ma riuscii a trattenermi.

Ripartimmo un’ora dopo aver mangiato per tornare alla baita. C’erano volute diverse ore per arrivare ed era meglio andare il prima possibile se non avevamo intenzione di fare parte della strada al buio e magari con il temporale che imperversava.

Quel giorno però fu un falso allarme: il cielo era molto nuvoloso, ma non scese nemmeno una goccia d’acqua.

Quando fummo rientrati, eravamo così stanchi che ci buttammo tutti sul letto, mentre ci davamo i turni per fare una doccia.

Ero sdraiata sul mio letto singolo; Shereen stava facendo la doccia, quando, ad un tratto, una lancinante fitta alla gamba mi fece rizzare a sedere mancare il respiro.

«Chelsea!».

Chris mi fu accanto in un secondo, mentre io mi tenevo ancora la coscia destra.

«Chelsea, che cos’hai? Parla!».

Sentendo la sua voce alta, anche i miei genitori arrivarono preoccupati.

«Tesoro, cosa succede?», chiese la mamma inginocchiandosi vicino a me.

«È la gamba… il punto in cui mi sono fatta male nell’incidente».

«Maledizione, devi averla sforzata troppo. Ma ti ha più fatto male da quando hai fatto la visita di controllo?».

«Mi ha fatto male finché non è passato l’ematoma, ma poi non mi aveva più dato alcun fastidio».

I miei genitori si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«Probabilmente oggi hai camminato troppo, domani resterai qui, d’accordo?».

«Mentre voi siete fuori? E se arriva la tempesta?».

Mio padre mi mise una mano sulla spalla.

«Chelsea, lo so che i temporali ti hanno sempre spaventata e soprattutto da quando hai avuto l’incidente, ma stai tranquilla… qui sarai al sicuro».

«E voi, invece?».

«Anche noi, non aver paura… ».

Annuii, titubante, poi, poco a poco, il dolore si attenuò.

Ripresi a respirare regolarmente, mamma e papà rientrarono nella loro stanza e Chris tornò a sedersi sul suo letto, ma non mi perse di vista e parve piuttosto allarmato quando mi alzai in piedi.

«Cosa fai?».

«Forse nella borsa ho la pomata che mi avevano dato in ospedale per la gamba».

Frugai per dieci secondi nella confusione della mia borsa, finché non tirai fuori un tubetto mezzo ammaccato. Spalmai un po’ del suo contenuto sul punto dolorante e attesi che il farmaco facesse il suo effetto.

«Chelsea, riguardo a ciò che ti ho detto stamattina… »

«Non mi sembra il momento più adatto per parlarne, Chris. Non con Shereen e i miei genitori a soli pochi metri da noi».

Il ragazzo si alzò e venne a sedersi accanto a me, puntando i suoi occhi azzurri nei miei.

«Io ho bisogno di sapere cosa provi per me».

Risi. Una risata amara e incredula insieme.

«Non lo immagini? Dopo tutto quello che è successo… ancora non lo immagini?».

«Io so che è la seconda volta che dico di amarti e ogni volta che provo a fare qualcosa, tu mi allontani. Credo… di avere solo bisogno di sentirtelo dire».

«Non lo posso fare e tu lo sai, quindi non mi forzare, perché… potrei allontanarmi ancora di più e se mi allontano ancora… allora sì, che mi perderai».

Il ragazzo sospirò e mi guardò, accarezzandomi una guancia.

«Dirti che ti amo è l’unica cosa che mi trattiene dall’impazzire, ora come ora».

«E ogni volta che lo fai, riapri una ferita che, continuando così le cose, sanguinerà sempre», dissi abbassando lo sguardo.

«Shereen sarà pronta tra poco, io… ho bisogno di fare due passi… ».

«Con quella gamba? Chelsea, non mi sembra il caso… ».

«Starò qui intorno, non ti preoccupare».

Mi vestii con una tuta di pile invernale e andai al piano di sotto.

Ormai era sera e il freddo si faceva sentire.

Camminai stringendomi le braccia al petto; avevo preso con me uno zaino che portavo sempre in montagna, con un po’ di cibo, una bottiglia d’acqua, una torcia portatile e qualche farmaco.

Mio padre mi aveva sempre preso in giro per quel mio “kit di emergenza”, diceva che ero troppo paranoica, ma almeno averlo con me mi tranquillizzava.

Ero così immersa nei miei pensieri, che non mi resi neanche conto della pioggia che cominciava a cadere.

Non appena me ne accorsi, ripresi la strada della baita e, una volta arrivata, trovai i miei genitori tutti agitati nella nostra stanza.

«Chelsea!», esclamò mia madre, venendo ad abbracciarmi.

«Ehi, che cosa succede?».

«Chris e Shereen sono con te?».

«Con me? No, io ero solo andata a fare una passeggiata… loro non erano qui? Shereen stava facendo la doccia».

«Sì, ma poi hanno detto che andavano fuori anche loro e… non sono più tornati. Ha cominciato a piovere, sta arrivando il temporale!», esclamò mio padre, preoccupato.

«Oh, mio Dio, dobbiamo subito andare a cercarli, prima che il tempo peggiori!».

«No, la tua gamba è ancora… ».

«Al diavolo la mia gamba! Dobbiamo andare subito!».

«Chelsea… », ma non detti loro il tempo di finire la frase, che già mi ero catapultata lungo le scale e poi fuori, sotto la pioggia incessante.

Per un attimo, ebbi un flash del giorno dell’incidente e rimasi pietrificata sulla soglia, poi mi riscossi e uscii nel freddo della sera, con l’acqua che mi sbatteva addosso come se tanti piccoli spilli ghiacciati cercassero di penetrarmi nella carne.

Non c’era tempo da perdere, mi lanciai di corsa sul sentiero, chiamando i nomi di mia sorella e di Chris di tanto in tanto.

Solo dopo quello che mi parve un mucchio di tempo, sentii una lontana voce in risposta.

Mi precipitai verso quella direzione e, finalmente, trovai mia sorella, fradicia dalla testa ai piedi come ormai lo ero anch’io, tutta sporca di fango, tra l’altro.

«Shereen, stai bene?».

«Sì, ma… ho perso Chris!».

«Cosa?!».

«Non so come sia potuto succedere! Ad un certo punto mi sono girata e lui… non c’era più!».

«Ok, sta’ calma. Allora… ti ricordi più o meno dov’eri quando te ne sei accorta?».

«Di là… », disse indicando un punto alle mie spalle.

«Verso la radura».

«D’accordo, allora…  tu torna alla baita, ok? Resta lì e avverti mamma e papà, io vado a cercarlo, conosco questo posto meglio di te. Da qui ritrovi la strada per tornare indietro?».

«Sì. Chelsea, tieni questo», disse mettendomi in mano un grosso telefono che non avevo mai visto.

«È un satellitare, me lo hanno dato quando siamo usciti. Questo pulsante serve per comunicare con la baita, d’accordo?».

«Va bene. Adesso vai».

Lei mi abbracciò e per un momento restai rigida, anche se poi restituii il gesto.

«Stai attenta», mi disse poi.

«Sì, anche tu… ».

Infilai quel telefono nello zaino e aspettai che Shereen sparisse dalla mia vista, poi mi avviai di corsa nella direzione che mi aveva indicato.

La radura era vasta e completamente deserta, feci un giro intero così velocemente che ebbi la sensazione che i miei polmoni stessero per esplodere; battevo i denti per il freddo e nemmeno i miei vestiti pesanti ormai bastavano per isolarmi almeno un po’.

Chiamai Chris un’infinità di volte fino a farmi venire il mal di gola e cominciai davvero ad immaginare il peggio.

Non sapevo dove stessi andando; era talmente buio che avevo perso l’orientamento e, proprio mentre stavo per arrendermi, scorsi una sagoma familiare seduta per terra, la testa inclinata da una parte, i capelli completamente incollati al volto per la pioggia. Era Chris. Ed era assolutamente immobile.

Mi lanciai nella sua direzione e, come prima cosa, lo scossi per capire se fosse svenuto o meno.

«Chelsea… », disse lui con un filo di voce.

«Sì, Chris… sono io, sono qui. Riesci ad alzarti? Dobbiamo metterci a riparo dalla pioggia… ».

Mi feci passare un suo braccio sulle spalle e lo aiutai a rimettersi in piedi; dovevamo trovare un riparo alla svelta.

Nonostante il buio però, riuscii a capire dove ci trovavamo; ora che Chris era con me, tornai lucida abbastanza da ricordare che, non molto distante da lì, c’era un vecchio rifugio abbandonato, perciò cercai di prendere quella strada, anche se il peso del ragazzo mi rallentava notevolmente.

Dopo quella che mi parve un’eternità, vidi la struttura stagliarsi davanti a noi e, con un ultimo sforzo, ci arrivai.

Deposi Chris  sul pavimento all’ingresso, sembrava davvero stravolto ed era terribilmente pallido.

Mi guardai intorno: il camino non veniva acceso da tempo, ma, per fortuna, erano rimasti dei grossi ceppi di legno pronti per essere bruciati.

Fu la prima cosa che feci e, dopo cinque minuti, un fuoco allegro riscaldava il vecchio rifugio polveroso. Trovai anche delle coperte, così ne distesi alcune per terra e poi tornai da Chris, che si era messo a tremare tutto; doveva avere la febbre alta.

Lo aiutai a togliersi quei vestiti fradici d’acqua, fino a che rimase soltanto con i boxer. Spogliarlo mi fece un certo effetto e, quando fu il momento di sfilargli i pantaloni, improvvisamente mi bloccai.

«Come mai sei improvvisamente arrossita, Gaver?», mi domandò lui, in tono canzonatorio, ma sempre con la voce sottile.

«Sta zitto e sii un paziente collaborante», lo presi in giro, cercando di sviare il discorso.

Quando anche i pantaloni ebbero raggiunto il resto dei vestiti, presi un’altra delle coperte e cercai di asciugarlo per quanto possibile, dopodiché, lo aiutai a sdraiarsi sul mucchio che avevo preparato prima.

Gli distesi sopra l’ultima coperta rimasta e restai a fissarlo, preoccupata.

Potevo averlo visto triste, arrabbiato, o confuso… ma sempre in perfette condizioni fisiche, ora invece capivo quanto dovesse essersi spaventato lui tutte quelle volte in cui mi ero fatta male in quelle ultime settimane.

Gli spostai una ciocca di capelli bagnati dal volto e rabbrividii; mi ero preoccupata per lui, ma avevo dimenticato che anch’io ero fradicia dalla testa ai piedi.

«Chelsea, dovresti toglierti anche tu, quei vestiti», sussurrò lui, posando una mano sulla mia.

Annuii e cominciai a tirare giù la cerniera della felpa, titubante.

Restai in canottiera e presi un respiro profondo, imbarazzata. L’idea di stare da sola con lui in biancheria intima mi metteva piuttosto a disagio.

«Chelsea… non ti devi vergognare con me, d’accordo?».

Ecco, mi aveva letto nel pensiero, o meglio… la mia faccia parlava da sé.

Mi decisi a togliere i pantaloni e cercai di asciugarmi con la coperta già umida che avevo utilizzato per Chris.

Avevo sistemato il ragazzo davanti al fuoco, ma non troppo vicino per evitare di fargli salire ulteriormente la temperatura, già era bollente, anche se continuava a tremare dal freddo.

Mi sedetti sopra la coperta bagnata, in un angolino, circondandomi le ginocchia con le braccia.

«Vieni qui accanto al fuoco, altrimenti prendi freddo, hai ancora tutti i capelli bagnati», mi disse il ragazzo.

Così mi avvicinai, sedendomi poi vicino al camino.

Legai i capelli in una lunga coda, poi, mi ricordai del telefono che mi aveva dato Shereen e cercai di farlo funzionare per mettermi in contatto con la baita.

Al terzo tentativo finalmente ci riuscii, spiegai la situazione e loro mi dissero che la mattina dopo sarebbero venuti a prenderci. Ora come ora, con il buio e la tempesta, era impossibile.

Almeno ero tranquilla, adesso che mamma e papà sapevano che io e Chris eravamo al coperto.

Mi misi a stendere i vestiti su dei fili che passavano tutta la lunghezza della stanza, sperando di trovarli asciutti il giorno dopo anche se, nonostante il camino, ne dubitavo seriamente.

Chris si era finalmente addormentato, anche se ogni tanto era scosso da tremiti e, quando ebbi terminato, mi assopii anch’io, seduta accanto al mio amico.

Fui svegliata da qualcosa di caldo che mi toccava la gamba.

Mi guardai intorno, piuttosto intontita, prima di rendermi conto che erano le dita di Chris ad essere così calde. Il ragazzo era rosso in volto e tutto sudato.

«Chris!», esclamai spaventata.

Mi fissava con occhi vigili, sembrava più lucido rispetto a prima.

«Chelsea… ».

Nonostante tutto però, la sua voce era davvero debole, tanto che mi vennero quasi le lacrime agli occhi, poi, ricordai del mio zaino e, con un po’ di fortuna, dentro ci avrei trovato qualche tachipirina.

Erano solo le undici di sera; la notte era ancora lunga.

Mi alzai velocemente dal pavimento e frugai disperatamente nello zaino, finché non tirai fuori la familiare scatola bianca e rosa scuro.

Presi una compressa e la bottiglia d’acqua, poi mi riavviai verso il ragazzo e lo aiutai a mettersi seduto, sorreggendolo da dietro. A fatica, riuscì a buttare giù la medicina, poi si stese di nuovo.

«Chelsea… sdraiati accanto a me… per favore… ».

Era così stanco che dirgli di no sarebbe stato impossibile, così lo feci, infilandomi tra le coperte con lui.

Sentii il suo corpo bollente a contatto col mio e lui mi strinse forte, come a cercare il mio calore, nonostante il suo bastasse per entrambi.

Restituii l’abbraccio, accarezzandogli i capelli e la schiena e Chris affondò la testa nell’incavo del mio collo. Era una strana immagine, lui, così alto e imponente, rannicchiato contro il mio corpo.

Lo strinsi forte, cercando di coprirlo per quanto potevo, ma lui era molto più grande di me. Continuai ad accarezzarlo e cullarlo fino a che non si addormentò tra le mie braccia e, dopo un po’, il sonno colse anche me.

Mi risvegliai, qualche ora dopo, a causa dei forti tremori di Chris dovuti alla febbre, così mi alzai e presi un’altra tachipirina, aiutandolo a mandarla giù e tornando poi a distendermi accanto a lui.

Era madido di sudore, ma sembrava avesse sempre freddo, nonostante il suo corpo fosse caldissimo.

«Chelsea… », mi chiamò.

Sembrava proprio in preda al delirio.

«Sono qui, Chris. Sono qui e non me ne vado, stai tranquillo».

Ero sdraiata su un fianco e lo osservavo. Entrambi eravamo distesi su un fianco in modo da poterci guardare in faccia.

Ad un tratto, lui mi posò una mano sulla guancia e aprì bene gli occhi, non più solo socchiusi come prima. Forse le medicine cominciavano a fargli effetto, o almeno, così sperai.

«Cosa c’è, Chris?».

«Io ho bisogno di te… ».

«E infatti sono qui, stai tranquillo, non ti lascio da solo».

«No, tu non capisci», d’un tratto, il ragazzo sembrava essere più lucido rispetto a poco prima, nonostante il suo sforzo a mantenere un discorso logico fosse palese. «Io non mi riferisco ad ora, a questo preciso istante. Io ho sempre bisogno di te, Chelsea, perché… sei tu. La persona che amo, la persona che voglio: sei tu».

«Chris, è la febbre che ti fa parlare», dissi allontanandomi leggermente dal suo corpo, ma il ragazzo mi circondò la vita con entrambe le braccia e mi attrasse a sé, facendo aderire completamente il mio corpo al suo.

Quel contatto di pelle  contro pelle mi provocò una scarica elettrica lungo tutta la spina dorsale non indifferente.

«Chris, io non… ».

«Cosa? Io lo so, Chelsea… lo so che anche tu mi ami, ma non lo vuoi ammettere. Solo… dillo, perché poi ti libereresti di un peso, credimi».

Cominciai ad agitarmi, cercando di liberarmi dalla sua stretta, ma non ci riuscii. Nonostante Chris avesse la febbre alta, era comunque più forte di me.

«Smettila di fare così, Chelsea, stai facendo male ad entrambi».

«E se tu mi fai dire quelle parole, non capisci che faremo male a tutti?!», gridai con rabbia, tanto che il volto di Chris assunse un colorito terreo.

«Baciami», disse poi, cogliendomi completamente alla sprovvista.

«Scusa?».

«Hai capito bene: baciami, perché altrimenti ti giuro su qualunque cosa che lo farò io… e se io adesso ti bacio, Chelsea, non ti piacerà. Perché il desiderio è… mi sta bruciando dentro più di questa febbre e se io ora ti bacio e tu continuerai ad agitarti, lo farò contro la tua volontà e probabilmente ti farò male e questa è l’ultima cosa che voglio, ma lo farò. Ti assicuro che lo farò. Quindi ora baciami tu, per il bene di entrambi e per la mia sanità mentale… baciami, Chelsea… ».

«Per la tua sanità mentale? E non pensi a Shereen, che a quest’ora sarà preoccupata da morire? Non pensi ai miei genitori?».

«Sì, ci penso, ed è schiacciante, ma… quello che provo adesso è ancora più schiacciante, te lo assicuro. E peggiora ogni giorno che passa. Quindi ho bisogno della tua bocca sopra la mia. Ora».

Il cuore mi batteva all’impazzata, potevo vedere la pelle del mio petto battere con esso ed ero certa che Chris ne sentisse il rumore.

Mi accarezzò la guancia, ora dolcemente.

«Tranquilla, non c’è niente di male a lasciarsi andare, una volta tanto… ».

«Lasciarsi andare? Se io ora mi lascio andare, non sarà una cosa che si fermerà lì. Se mi lascio andare… io perderò il controllo, Chris».

«E allora perdiamo il controllo insieme».

Per un momento rimasi a fissarlo, basita, poi sorpresi me stessa e gli allacciai con impeto le braccia intorno al collo, colmando la distanza che ci separava e posando le mie labbra sulle sue.

In un primo momento, il ragazzo restò rigido come un blocco di marmo, poi rispose con trasporto al mio bacio, rafforzando la presa attorno ai miei fianchi, mentre io affondavo le dita tra i suoi capelli, cosa che avevo sempre desiderato fare.

Questa volta fu completamente diverso rispetto a quella prima sera in macchina: carico di passione, desiderio e… disperazione. Come se per tutto questo tempo fossimo stati separati da un’invisibile barriera che ci illudeva di poterci toccare, ma contro la quale continuavamo a sbattere, ferendoci ad ogni colpo.

Un lento stillicidio che ci aveva lentamente portati ai limiti della follia.

Chris mi strinse spasmodicamente a sé e mi sollevò fino a farmi stendere completamente sopra il suo corpo bollente per la febbre.

Nel farlo, emise una sorta di ringhio gutturale e selvaggio, che mai avevo sentito prima d’ora e che ebbe solo l’effetto di farmi avere ancora più voglia di lui.

Gli morsi il labbro inferiore e mi sembrò quasi impossibile che, fino a solo un’ora prima, il ragazzo fosse tanto debole. Adesso sembrava aver ritrovato tutta la sua forza.

Lui, dal canto suo, impiegò un solo istante a sfilarmi dalla testa la canottiera azzurra che portavo, cominciando a lasciare una scia di baci bollenti lungo il mio collo ed il petto.

«Dio, Chelsea… », ansimò all’altezza del mio cuore.

Avevo il respiro sempre più affannoso; con una mano strinsi forte un lembo della coperta e fu a quel punto che spensi totalmente il cervello; ora non m’importava davvero più di niente.

Il mio corpo e tutto ciò che Chris mi stava facendo provare: solo quello esisteva adesso.

Gemetti quando sentii lui armeggiare con i gancetti del mio reggiseno fino ad aprirli, liberandosi poi dell’indumento con un movimento fulmineo della mano.

Per me era la prima volta in assoluto, non avevo mai avuto una storia, figurarsi se mi ero mai spogliata davanti a qualcuno e seppi che lui lo capì dal mio repentino cambio d’atteggiamento, infatti mi ero improvvisamente irrigidita.

D’altra parte, Chris sapeva perfettamente che io non avevo mai avuto un ragazzo.

Lo fissai. Era rosso in volto, accaldato sia a causa della febbre sia a causa del nostro improvviso momento di passione ed un sottile strato di sudore gli imperlava la pelle.

I suoi occhi sembravano quasi liquidi per l’eccitazione ed io dovevo essere più o meno nelle stesse condizioni. Solo i ridicoli slip che indossavo mi separavano dall’essere completamente nuda tra le sue braccia.

«Chelsea… da qui devi decidere tu perché… già è tardi per fermarsi, ma se non lo fai ora… non ne sarò davvero più capace. So che tu non hai mai… non lo hai mai fatto e penso che queste non fossero certo le tue aspettative riguardo alla tua prima volta, ma…».

Il tono con cui parlò era roco, sensuale… dannatamente eccitante.

Lo zittii posandogli un dito sulle labbra e dissi: «Eri tu… l’unica aspettativa che avevo riguardo alla mia prima volta… eri tu, Chris».

Le mie parole parvero avere un certo effetto su di lui, perché lo sentii fremere contro il mio corpo e un istante dopo si era nuovamente avventato sulle mie labbra, famelico.

Poco dopo ribaltò la situazione, mettendosi sopra di me ed in pochi secondi ci liberammo anche degli ultimi indumenti rimasti addosso.

Mi strappò un gemito quando accarezzò il mio seno ed io inarcai la schiena, allacciandogli le gambe intorno alla vita.

Lui approfittò di quel momento per entrare in me… non lo negherò, fece un male d’inferno ed io mi strinsi convulsamente al suo corpo, mentre il ragazzo continuava ad accarezzarmi e baciare ogni centimetro della mia pelle nuda.

Però fu estremamente delicato e questo alleviò anche la tensione del momento, non facendomi pensare al dolore.

Mi lasciò una scia di baci sul collo mentre iniziava a spingere poco a poco dentro me, entrando sempre di più ad ogni colpo.

Assecondai i suoi movimenti con il bacino e quando lui cominciò a ricoprire il mio seno di baci, per me fu troppo e tutto insieme. Gli afferrai la testa e lo trascinai di nuovo su di me, per baciarlo con passione, mentre lui continuava con le sue spinte, che mano a mano si facevano sempre più decise e la presa attorno al mio corpo più serrata.

Ormai non avrei resistito ancora molto e neanche lui doveva essere molto lontano dal raggiungere il piacere, potevo vederlo nei suoi occhi. Si chinò sul mio petto, torturando con la lingua la punta del mio seno destro e fu a quel punto che non riuscii più a trattenermi. Inarcai la schiena, provando una sensazione così forte come mai mi sarei potuta immaginare, che mi lasciò del tutto senza fiato.

Lui venne in me poco dopo, lo sentii, e si contrasse sul mio corpo prima di crollare, sfinito dall’orgasmo e dalla febbre.

Rimase sopra di me, con la testa accanto alla mia, potevo benissimo sentire il suo respiro affannoso nel mio orecchio e lui non si mosse, non uscì da me e non disse una parola. Si limitava a respirare per cercare di ritrovare un ritmo regolare ed io gli accarezzai la schiena e i capelli, sconvolta.

Quanto avrei voluto fermare il tempo in quel momento.

Ma se, da una parte, tutto quello era ciò che volevo, dall’altra sentivo che era profondamente sbagliato, anche se cercai di soffocare con tutte le mie forze quella voce nella mia testa.

Quando ci staccammo l’uno dall’altra e lui uscì da me, per qualche minuto restammo abbracciati, in silenzio.

Mi tremavano le gambe e mi accucciai ancor di più contro il suo corpo.

Non avevo il coraggio di parlare; i sensi di colpa cominciarono ad aggredirmi stringendomi nella loro morsa e, tutto ciò che riuscii a dire solo dopo diversi minuti fu: «Che cosa abbiamo fatto, Chris?».

«Abbiamo fatto l’amore, perché noi ci amiamo. E so che tu hai paura di questo; io lo so. Come so anche che lo abbiamo fatto nel momento sbagliato perché ci sono tante questioni aperte, prima tra tutte Shereen, ma Chelsea… io non mi pento di averlo fatto. Mi sento in colpa, ma non me ne pento e lo rifarei. Lo rifarei perché non potrei mai fare altrimenti perché, non so cosa sia, non so cosa mi spinga a volerti e ad amarti in questo modo, ma l’unica cosa che io vedo nella mia vita, ora come ora, sei tu».

Seguirono diversi minuti di silenzio, nei quali tornammo ad indossare la nostra biancheria asciutta, poi, Chris disse: «Anzi, sai di cos’altro ho bisogno? Una di quelle tachipirine, perché credo che dopo tutto questo movimento, mi stia di nuovo salendo la febbre».

Mi alzai lentamente dal nostro nido di coperte ed estrassi la scatola di medicine dallo zaino, portando con me anche l’acqua.

Chris la ingoiò e mi osservò con sguardo penetrante.

«Conosco quello sguardo, e non mi piace. Stai per lanciarmi una bomba, o qualche accusa. Cosa c’è, Chelsea?».

«Noi… abbiamo sbagliato. Chris, non dovevamo farlo, noi… oh… oh, mio Dio… », cominciai a respirare affannosamente, portandomi una mano alla gola, come se non riuscissi ad inspirare ancora.

«Chelsea?!».

Il tono di Chris era allarmato e, nonostante il ragazzo fosse intontito dalla febbre, cercò di tirarsi in piedi e venire verso di me.

«No!», gridai. «Non ti avvicinare, non… », ma mi interruppi, il respiro spezzato, entrambe le mani portate alla gola.

«Chelsea… ti prego, calmati. Mi dispiace, mi dispiace tanto, ma ora per favore, respira!».

Vedevo quanto gli costasse lo sforzo di restare in piedi.

Aveva alzato le mani come in segno di resa, non mi avrebbe toccato finché non mi fossi calmata.

«Ti rendi conto di cosa abbiamo fatto?! Oh, mio Dio, Ryan aveva ragione. Aveva ragione ed io non l’ho ascoltato!».

«Che cosa c’entra Ryan, adesso? Chelsea, di che cosa stai parlando?!».

«Ryan me lo aveva detto, mi aveva messo in guardia riguardo a ciò che sarebbe potuto accadere, ma io non gli ho dato retta. Lui aveva detto che probabilmente prima o poi avrei ceduto ed ora… ora ho ceduto e noi lo abbiamo fatto e… ».

«Chelsea… », il tono di Chris era di supplica.

«Non mi toccare! Ti rendi conto? Noi… Chris, io non ce la posso più fare, non dobbiamo toccarci mai più, dobbiamo ridurre al minimo i contatti, tra pochi giorni… ritorneremo a casa e cercheremo di avere un rapporto solo professionale, è questa l’unica soluzione possibile».

Quelle parole parvero colpirlo come uno schiaffo, tanto che gli cedettero le gambe sotto al peso del suo corpo e cadde in ginocchio sulle coperte, lo sguardo vuoto.

Mi avvicinai nuovamente a lui e lo infilai nuovamente sotto le coperte.

«Resta lì… solo… resta lì fino a domattina e… cerca di dormire».

Il ragazzo mi lanciò un ultimo sguardo esasperato, prima di chiudere gli occhi.

A quel punto mi circondai le ginocchia con le braccia, mettendo la testa in mezzo alle gambe.

Ma cosa diavolo avevamo fatto? Cosa avevamo in mente? A quel punto cominciai ad essere divorata anche dalla preoccupazione, oltre che dal senso di colpa. Non avevamo usato alcun tipo di precauzione e cercai disperatamente di ricordare l’ultima volta che avevo avuto il ciclo, ma senza successo, purtroppo. In quel momento non ero lucida.

Inspirai a fondo, cercando di calmarmi.

Osservai Chris, sembrava profondamente addormentato ed ebbi il forte impulso di avvicinarmi a lui, ma invece mi ritrassi ancor di più contro il muro. Dovevo resistere e soprattutto, dovevo mantenere ciò che avevo detto: niente più contatti, solo rapporti professionali una volta usciti da lì.

Sperai solo che il sole sorgesse presto e che i soccorritori della baita arrivassero a prenderci il prima possibile; altre ore intrappolata in quel buco con Chris mi avrebbero fatta impazzire.

Presa da quei pensieri, scivolai a mia volta nel sonno; un sonno agitato e senza sogni.

Riaprii gli occhi di scatto, in seguito ad una mano pesante che mi scrollava la spalla.

Ci misi un attimo ad inquadrare la situazione: un gruppo di uomini si aggirava nel rifugio, con le divise del soccorso e alcuni di loro stavano già caricando Chris su una barella.

«Aspettate… aspettate, dove lo state portando?», chiesi con la voce ancora impastata dal sonno.

Mi alzai a tentoni, vedendo Chris che allungava un braccio nella mia direzione.

«Chelsea… ».

Gli presi la mano, mentre con l’altra accarezzai i suoi capelli dorati.

«Va tutto bene, tu starai bene».

«Verrai con me?».

Lanciai un’occhiata all’uomo che mi aveva svegliata, il quale mi restituì uno sguardo piuttosto eloquente.

«No, Chris. Tu ora andrai in ospedale, mentre io… ».

«Anche lei deve andare in ospedale, signorina, ma non c’è lo spazio di viaggiare tutti sull’elicottero».

«Io ho solo la febbre, non c’è bisogno di un elicottero», protestò Chris, ma l’altro sembrò ignorarlo.

«Non ti preoccupare, vedrai che ci rivedremo in ospedale, ok? I miei genitori e Shereen probabilmente saranno già lì».

«Chelsea, riguardo a stanotte… ».

«Basta», lo interruppi. «… questo non è il momento adatto per parlarne. Adesso cerca di stare sereno e riposa. Si prenderanno cura di te».

Lui sospirò, lanciandomi un ultimo sguardo, poi, restai ad osservare mentre i soccorsi lo portavano via.

Io raccolsi le poche cose che avevo lasciato dentro al rifugio, prima che una squadra si preoccupasse anche per me.

Durante il tragitto, nella mia mente passarono immagini confuse in quello che immaginavo fosse una sorta di dormiveglia farmacologico, mi avevano iniettato qualcosa ed ora avevo le palpebre così pesanti; avrei soltanto voluto addormentarmi profondamente.

In effetti, fu proprio ciò che accadde perché, quando riaprii gli occhi, ero sdraiata su un letto d’ospedale, con una flebo attaccata al mio braccio che mi pompava in vena dei liquidi.

Ero piuttosto intontita e, quando mi misi a sedere, vidi mio padre e mia madre seduti poco distante da lì, parlare fitto.

«Chelsea! Finalmente ti sei svegliata. Tesoro, eravamo così preoccupati… », esclamò mia madre.

«Quanto… quanto ho dormito?», chiesi con la voce impastata dal sonno.

«Due giorni. I medici hanno detto che ti serviva riposare».

«Che cosa?! Due giorni? Ma Chris? Dov’è? Come sta? Aveva la febbre così alta… ».

«Chelsea, Chelsea, stai calma. Chris sta bene, è sveglio ormai e ha preso un bello spavento anche lui quando gli abbiamo detto che non eri ancora sveglia».

«Ma io sto bene, non avevo nemmeno preso la febbre, lui invece stava bruciando».

«Questo è vero, ma a quanto pare, tu avevi molto più bisogno di dormire rispetto a lui».

«E dov’è adesso?».

«Vi terranno entrambi in osservazione, ma pensano di dimettervi domani sera».

«Ora… che ore sono? E dov’è Shereen?».

«È con Chris, in questo momento e adesso sono le nove di sera. I medici vogliono che andiamo via per la notte, passiamo solo a dire  a tua sorella che ti sei svegliata, d’accordo? Era preoccupata. Tu invece hai ancora bisogno di dormire, tesoro. Ci vediamo domani».

Detto questo, ognuno di loro mi lasciò un bacio sulla fronte e poi si chiusero la porta della mia stanza alle spalle.

Mi sdraiai sulla schiena e chiusi gli occhi, ero ancora intontita. Se questo dipendesse dalla mia mancanza di sonno, oppure dall’effetto dei farmaci,  non lo potevo  dire con certezza.

Mi ci volle poco per addormentarmi e, quando lo feci, sprofondai in un sonno tranquillo.

Fui nuovamente svegliata da una leggera pressione sulle mie labbra e, quando riaprii gli occhi, quasi urlai.

Chris era lì e mi stava baciando.

«Chelsea! Tranquilla, sono io e ti prego, non cominciare ad agitarti».

«Non cominciare ad agitarti? Cosa diavolo ti passa per la testa? Adesso entri anche nella mia stanza e mi baci?».

«Io… ero così preoccupato. Quando i tuoi genitori continuavano a dire che non ti svegliavi, ogni volta, mi sentivo sempre peggio ed io… insomma, avevo solo bisogno di vederti».

«E di baciarmi?».

«Quello non era premeditato, ma… è stato più forte di me».

«E hai eluso la sorveglianza delle infermiere per arrivare fino a qui?».

Lui parve indeciso su cosa dire e, alla fine, optò per il silenzio.

«Tu… Chris, tu come stai? Avevi la febbre davvero alta, mi sono spaventata».

Fece per accarezzarmi il viso, ma mi scansai e nei suoi occhi, passò un’espressione amara.

«Io sto bene. Qualche giorno di antibiotici e sarò come nuovo, ma Chelsea… non chiedermi di ignorare ciò che è successo tra di noi perché già una volta l’ho ignorato e sappiamo bene com’è andata a finire. Da lì è iniziato il nostro incubo, quindi, adesso, noi ne dovremo parlare».

«Adesso? Chris, adesso sono le tre del mattino e noi siamo in ospedale; avremo modo di parlarne quando torneremo a casa».

«Non è vero. Non lo faremo perché quando torneremo a casa tu sarai troppo impegnata ad evitarmi e ci saranno i tuoi genitori e Shereen sempre nelle vicinanze. Ed io sono il primo a dire che sarebbe decisamente inopportuno. Il momento giusto è adesso, se tu non sei troppo stanca».

Sospirai pesantemente.

«Cosa vuoi che ti dica? Di cosa esattamente, vuoi parlare? Di come tu ed io abbiamo tradito la fiducia dei miei genitori e di mia sorella? Di come ce ne siamo fregati di lei e abbiamo fatto l’amore? Di quanto bello sia stato per me e di come mi senta una persona orribile ad ammetterlo?».

«Allora… cosa pensi di fare, Chelsea? A questo punto… che cosa dovremmo fare?».

«Quello che penso, Chris… è che, dopo che saremo tornati a casa… non ci rivedremo mai più».

 

 

Note dell’Autrice:

Lo so, come al solito sono in ritardo con gli aggiornamenti, ma sono successe taaante cose in questo periodo e ho iniziato anche un’altra storia, quindi… sono un po’ incasinata.

Dalla settimana prossima spero di essere più presente, lunedì ho un esame all’università, dopo di che cercherò di essere più puntuale nella pubblicazione.

Andando al capitolo… ehm… non so bene cosa dire; penso che questo sia il capitolo cruciale di tutta la storia.

Qui si conclude la prima parte e dal prossimo partirà la seconda.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate perché per me è davvero importante!

Un saluto a tutti!!

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DAL CAPITOLO 14:

Solo quando mi accorsi che nella stanza era calato il silenzio più assoluto, tornai alla realtà, accorgendomi con ansia che tutti stavano osservando me.

«È lei?», mi chiese l’uomo, e per me fu come cadere dalle nuvole.

«Scusi?».

«Chelsea Miranda Gaver… ».

«Sì, sono io… ».

Il mio nervosismo cominciò a crescere, soprattutto notando le espressioni dei presenti.

«Ebbene, suo nonno ha lasciato a sua madre metà del patrimonio, mentre l’altra metà sarà spartita tra lei e sua sorella… Shereen, dico bene?», mia sorella annuì allo sguardo del notaio.

«Il signor McDiamond però ha intestato a lei la sua casa, signorina Gaver».

Mi sentii sbiancare.

«Che cosa? Intende questa casa?».

«È esatto, sì. Proprio questa casa»”.

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Capitolo 14
*** Il testamento ***



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14  



CAPITOLO 14: IL TESTAMENTO

 

Stavamo ormai tornando a casa; erano passati due giorni da quando io e Chris eravamo stati dimessi dall’ospedale e, l’indomani mattina, ci sarebbe stata la lettura del testamento del nonno.

Mano a mano che ci allontanavamo dalla baita, tornava la ricezione del cellulare e quindi riuscii a mettermi in contatto con Ryan.

Preferii non dirgli subito cosa fosse accaduto in quei giorni; era meglio parlarne di presenza e poi discutere di certi argomenti via sms, non era proprio il massimo.

Trascorsi parte del tragitto in macchina con il telefono in mano, a parlare con il mio amico, mentre mi accorgevo di strane occhiate che Chris continuava a lanciarmi sempre più spesso.

Stavolta era stata Shereen a sedersi in mezzo, dividendo me e Chris e questa era decisamente una buona cosa. Meno gli stavo vicina, meglio era.

La batteria del mio cellulare mi abbandonò dopo qualche ora; già il telefono era vecchio e, considerando che fosse sopravvissuto all’incidente, era un miracolo che ancora funzionasse.

Quando quello si scaricò, infilai le cuffie nelle orecchie e mi abbandonai con la testa contro la superficie fredda e dura del finestrino, cercando di dormire.

Ero ormai assopita quando, non so né come né perché, mi tornò alla mente Buster.

Andare alla clinica in cui lavorava Gale per vedere in che condizioni fosse il mio cane, era la prima cosa che avrei dovuto fare non appena fossi tornata.

Nell’abitacolo della macchina era calato uno strano silenzio; i miei genitori non parlavano, Shereen era stretta ad un braccio di Chris, con la testa posata sulla spalla del ragazzo, ma neanche lei proferiva parola, riguardo a lui… sembrava fosse diventato di pietra.

Incrociai il suo sguardo quando mi voltai a guardarlo e nei suoi occhi azzurri, in quel momento, ci lessi la disperazione.

Dopo quelle mie ultime parole la notte in ospedale, Chris era rimasto assolutamente spiazzato. Aveva cercato di controbattere, di farmi ragionare, di trovare un compromesso, ma ero stata irremovibile e, da allora, non ci eravamo più rivolti la parola.

Mamma e papà dovevano aver intuito qualcosa perché dal giorno seguente non avevo più minimamente accennato al ragazzo e, il fatto che, quando ci rivedemmo, lo ignorai totalmente, non fece che accrescere i loro dubbi a riguardo.

D’altra parte, io feci finta di non accorgermi della loro perplessità e, se potevo, facevo finta di non accorgermi anche di Chris.

Tutto questo mi provocava una fitta al petto ogni dannata volta che incrociavo il suo sguardo, ma, alla fine, era meglio così.

Quel viaggio di ritorno fu lento e snervante, non vedevo l’ora di poter finalmente tornare a casa e, quando alla fine ci fummo, scesi dall’auto ancor prima che mio padre spegnesse il motore.

Aspettai che aprisse il bagagliaio per prendere le mie cose e poi filai al piano di sopra alla velocità della luce.

Presi dalla cabina armadio un vestito bianco che mi arrivava a metà coscia, con delle sottili bretelle e andai a farmi una doccia.

Dovevo fare presto, altrimenti non sarei riuscita a far visita anche a Buster.

«Chelsea, dove stai andando?», chiese mia madre quando passai davanti alla cucina a gran velocità.

«Vado a vedere come sta Buster».

«Ceni a casa, stasera?».

Mi fermai.

«No, io… mangiate pure senza di me, non aspettatemi», così dicendo, andai verso la porta d’ingresso e mi avviai alla clinica, sentendo ancora gli occhi di tutti puntati su di me.

Presi l’auto di mamma e papà e in cinque minuti arrivai.

Subito incontrai Gale, che mi accolse con un gran sorriso.

«Chelsea! Sei tornata dalla vacanza in montagna?».

“E non immagini neanche che vacanza” pensai tra me.

«Sì, proprio poco fa e sono subito venuta qui. Non volevo arrivare troppo tardi. Allora… come sta il mio Buster?», mi informai subito.

Se possibile, il sorriso della ragazza si allargò ulteriormente.

«Ne sarai sorpresa».

Seguii la ragazza lungo un corridoio e poi, lei aprì la porta, lasciandomi entrare per prima.

Prima che potessi rendermene conto, Buster mi si lanciò addosso, festoso come solo poche altre volte lo avevo visto prima e con una tale forza che quasi mi fece cadere per terra.

«Buster!».

Lui scodinzolava allegramente, continuando a fissarmi con quei suoi occhioni scuri e felici.

Mi chinai ad abbracciarlo e accarezzarlo.

«Ieri abbiamo tolto i punti, quindi… puoi portarlo a  casa già oggi, se vuoi».

«Davvero?».

«Certo».

Presa dall’impeto, strinsi anche Gale in un abbraccio, al quale lei rispose contenta e disse: «Sai, solo poche volte ho visto un rapporto del genere tra cane e padrone. Lui ti è veramente fedele».

«È stato il mio migliore amico in più di un’occasione negli ultimi due anni», le risposi continuando ad accarezzare la testa del mio cane.

«Molto bene, allora… direi che potete tornare a casa».

Ringraziai la ragazza un’ultima volta e poi, con Buster che mi seguiva come un’ombra, tornai alla macchina e lo feci salire.

Ero così contenta che, almeno per quei minuti, riuscii a dimenticare tutto ciò che era successo nelle ultime settimane.

«Vedi di non farti sparare mai più tu, intesi?», dissi rivolta al mio cane, guardandolo dallo specchietto retrovisore.

Non avevo voglia di tornare a casa, ma non avevo neanche fame, così, decisi di fare una deviazione e mi fermai alla spiaggia.

Io e Buster scendemmo dall’auto e poi, presi il cellulare e chiamai Ryan. Volevo dirgli che finalmente, il mio cane era a casa.

«Chelsea! Finalmente risento la tua voce; come stai?».

«Stranamente bene, e lo sai perché?».

«Dimmi… ».

«Sono tornata dalla montagna e sono andata da Gale… Buster è a casa!».

«Davvero? Oh, grazie al cielo! Finalmente… ».

Come se lo avesse sentito, il mio cane abbaiò.

«Eccolo qui. Sai, dovrò riempirlo di cibo e coccole, quando tornerò. Mi ha salvato la vita».

«E tu quando tornerai?».

«Domani. Ormai le ferie sono quasi finite e devo mettere a posto un po’ di cose, prima di riprendere il lavoro».

«Domani ci sarà la lettura del testamento del nonno e poi, noi torneremo a casa».

«Subito?».

Il tono del mio amico, sembrò piuttosto triste.

«No, tra due giorni. Domani sera ci vediamo, ok? E… senti, Ryan… in montagna è successa una cosa. Non ho voluto dirtelo prima perché è una questione delicata, ma… ne parliamo domani. Penso di dovertela dire guardandoti negli occhi».

«Chelsea, solo una  cosa: tu stai bene?».

Sorrisi alla preoccupazione del mio amico.

«Sì. Io sto bene».

Lo sentii sospirare.

«D’accordo. Allora noi due ci vediamo domani e… cerca di non combinare altri guai nel frattempo».

Se avesse potuto vedermi, gli avrei fatto una linguaccia, adesso invece mi limitai a dire: «Divertente, Kenyon».

«Lo so, Gaver. Adesso vado a finire di preparare le valige, a domani».

«Aspetta, Ryan!».

«Cosa c’è?».

Presi un respiro.

«Come sta Ben?».

«Sempre meglio, ma dovrà restare qui ancora per un mese, almeno».

«Me lo saluterai, vero?».

«Certamente. Buonanotte, Chelsea… ».

«Notte, Ryan».

Detto questo, riattaccai.

Buster, che si aggirava lì intorno, fu richiamato dal mio gesto di tornare e, insieme, ci riavviammo alla macchina.

Quando fummo a casa, aprii piano la porta, sentendo già delle voci provenire dalla cucina e la voce di mio padre dire:

«Chelsea, sei a casa?».

«Sì, sono io».

«Allora, come sta… Buster?».

Papà era uscito dalla cucina, ed il mio cane gli fu subito addosso, contento di rivedere anche lui.

Per un momento, tutti si lasciarono andare in esclamazioni sorprese e allegre, anche Shereen addirittura, poi l’atmosfera si acquietò  e Buster mi tornò vicino, dando un colpetto con il suo naso freddo sulla mia coscia nuda.

Lo accarezzai dietro le orecchie e guardai mio padre.

«Direi che sta bene».

«Sono contento, tesoro».

«Non dirlo a me».

Ci fu un momento di pausa, poi ripresi: «Adesso noi andiamo a letto; buonanotte a tutti».

«Notte».

Finalmente, quando mi misi a letto quella sera, la cuccia del mio cane era di nuovo occupata ed io riuscii a dormire serenamente dopo tanto tempo.

La mattina seguente, venni svegliata dalla mamma, che disse: «Tesoro, devi cominciare a prepararti. Il notaio arriverà tra poco».

Annuii, assonnata. Sarebbe stata un’altra difficile mattinata.

Non capivo il motivo per cui dovessi essere presente anch’io; il nonno probabilmente aveva lasciato tutto alla mamma e la casa sarebbe stata venduta, anche se, adesso, quel pensiero mi fece provare una fitta allo stomaco.

Non volevo vendere la casa, avevo tanti ricordi lì, soprattutto di quell’ultima estate e… semplicemente non avevo nessuna voglia che degli estranei entrassero in casa e la cambiassero completamente.

Inspirai a fondo e mi detti una sistemata, pettinando i capelli scompigliati e indossando un vestito nero che mi arrivava al ginocchio.

Di sotto, tutti erano riuniti in cucina in religioso silenzio.

Mordicchiai una brioche, ma ne mangiai solo la metà; nonostante la sera prima non avessi cenato, comunque non avevo fame.

Solo una volta incrociai lo sguardo di Chris, che sembrava studiarmi come a voler intercettare ogni minimo cambiamento della mia espressione, ma subito mi affrettai a spostare gli occhi altrove.

Quando il campanello suonò, mamma andò ad aprire, facendo entrare nell’atrio un ragazzo più giovane di quanto avessi immaginato, avrà avuto trent’anni al massimo.

Io mi sarei aspettata un signore di mezza età con giacca e cravatta, mentre colui che avevo davanti, indossava una semplice camicia bianca e un paio di jeans. In mano teneva una valigetta di pelle nera, ma il suo sguardo era serio e professionale.

«Buongiorno», ci salutò.

Noi ricambiammo, poi ci accomodammo tutti in salotto.

L’uomo ci fece qualche domanda, prima di aprire la sua valigetta e tirarne fuori delle carte.

«Dunque… sono qui per il testamento del signor Daniel Richard McDiamond».

«Esatto», rispose mamma.

Da quel momento non seguii molto il discorso; il notai parlava, mia madre annuiva e, solo quando mi accorsi che nella stanza era calato il silenzio più assoluto, tornai alla realtà, accorgendomi con ansia che tutti stavano osservando me.

«È lei?», mi chiese l’uomo, e per me fu come cadere dalle nuvole.

«Scusi?».

«Chelsea Miranda Gaver… ».

«Sì, sono io… ».

Il mio nervosismo cominciò a crescere, soprattutto notando le espressioni dei presenti.

«Ebbene, suo nonno ha lasciato a sua madre metà del patrimonio, mentre l’altra metà sarà spartita tra lei e sua sorella… Shereen, dico bene?», mia sorella annuì allo sguardo del notaio.

«Il signor McDiamond però ha intestato a lei la sua casa, signorina Gaver».

Mi sentii sbiancare.

«Che cosa? Intende questa casa?».

«È esatto, sì. Proprio questa casa».

Guardai mia madre e lei mise una mano sulla mia.

«Va bene così, Chelsea. Questo è ciò che avrebbe voluto lui».

Non ebbi nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo e mi limitai a firmare i documenti che l’uomo mi porgeva.

«Questo è quanto, per qualunque chiarimento sarò a vostra completa disposizione. Ecco il mio biglietto da visita».

Lo presi in mano e lessi il nome: Hunter O’Connor.

Mi soffermai a guardare quell’uomo un momento, prima di rispondere con un sommesso “grazie”.

Era alto e muscoloso, capelli biondi tagliati corti e due occhi azzurro cielo.

Lui mi fissò a sua volta, forse un istante di troppo, poi uscì di casa, sempre con la sua valigetta in mano.

Quando la porta si richiuse, per un momento calò un silenzio di tomba, poi capii: il nonno aveva fatto tutto quello per allontanarmi da casa, da Chris e da tutta quell’assurda situazione.

Realizzai in quell’istante che, il giorno seguente, io non sarei tornata a casa con la mia famiglia.

Nessuno aprì bocca riguardo a ciò che era accaduto, perfino mia sorella sembrava tranquilla e, per fortuna, a spezzare quello strano silenzio teso e imbarazzato, fu di nuovo il suono del campanello.

Aprii la porta  e mi ritrovai davanti un Ryan alquanto sorpreso di vedersi tutti noi in piedi nell’atrio.

«Chelsea!», mi salutò venendo ad abbracciarmi.

«Andiamo un po’ fuori, ok? Ti va?».

«Certo. Salve, a tutti».

I miei genitori lo salutarono con un sorriso, poi io presi il mio amico per il polso e lo trascinai via.

Arrivammo sulla spiaggia nel mutismo più assoluto, poi mi lasciai cadere sulla sabbia in prossimità dell’oceano.

«Chelsea… vuoi dirmi cosa cavolo succede? Perché eravate tutti lì in piedi quando sono arrivato? Sai, comincio a pensare che tutti voi siete strani».

Cercò di farmi ridere, ma tutto ciò che mi uscì di getto, fu: «Il nonno mi ha lasciato la casa e in montagna ho fatto sesso con Chris».

Ora il mio amico si fece improvvisamente serio.

«Che cosa?!».

Non lo urlò, come invece mi sarei aspettata, ma il suo tono era sommesso, mortalmente serio.

«Il nonno mi ha… ».

«No», m’interruppe. «… mi riferivo alla seconda parte della frase».

«Non… non l’avevo programmato, Ryan. È successo e basta».

«Chelsea, questa è la scusa più stupida che abbia mai sentito. Certe cose, come il fare sesso, non possono “succedere e basta”».

Mi presi il volto tra le mani, esasperata.

«È successo un casino. Ero andata a fare una passeggiata ed è scoppiato un temporale. Quando sono tornata alla baita, mamma e papà hanno detto che anche Chris e Shereen erano fuori, ma che non riuscivano a trovarli, così sono andata a cercarli e ho trovato mia sorella. Mi ha detto che aveva perso Chris, così lei è tornata alla baita ed io sono andata a cercarlo. Quando l’ho trovato era mezzo svenuto, completamente fradicio per la pioggia e il posto più vicino, era un rifugio non molto distante da lì. Lui aveva la febbre alta, gli ho tolto i vestiti bagnati, io mi sono tolta i miei, siamo rimasti in biancheria e… Chris mi ha detto di avvicinarmi perché aveva freddo, così l’ho fatto, ma… », m’interruppi.

«“Ma” cosa?», incalzò Ryan.

«Ma poi mi ha detto di baciarlo».

«E tu lo hai… lo hai semplicemente fatto?», l’espressione del mio amico era veramente sorpresa.

«Non l’ho semplicemente fatto. Ha detto che se non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto lui, anche a costo di farlo contro la mia volontà e… ».

«Che cosa?!».

Mi resi conto troppo tardi di non aver usato la migliore scelta di parole.

«Ryan, Ryan, cerca di calmarti».

«Calmarmi?! Ci mancava solo che ti violentasse, a quel punto!».

«Ryan! Questo, lui non lo avrebbe mai fatto! È vero, mi ha praticamente costretta a baciarlo, ma prima di… beh, insomma… prima di fare l’amore, mi ha dato la possibilità di fermarmi. Quella di continuare è stata una scelta mia».

Lui sospirò.

«Chelsea… perché diavolo lo hai fatto?».

«Perché io lo amo, Ryan. Io lo amo».

Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce, e che forse lo ammettevo perfino a me stessa, ma il bisogno di farlo, ormai era pressante e una volta pronunciate quelle parole, mi sentii meglio.

Lui mi guardò con una strana espressione negli occhi, poi mi abbracciò ed io non riuscii più a trattenere le lacrime.

«Va tutto bene, Chelsea, tranquilla. Adesso andrà tutto bene».

Raccontai a Ryan di ciò che era accaduto nei giorni seguenti e della notte in ospedale, di cosa avevo detto a Chris e del fatto che da quel momento non ci fossimo più parlati.

«Resterai qui con me, allora, d’accordo? La nostra segretaria, allo studio, è andata in pensione e cercano una sostituta. Non ti occuperai più di medicina, ma di legge, ma alla fine… il lavoro non è poi tanto diverso. Quando riprendo a lavorare, lo dirò al capo e ti farò sapere, d’accordo? Puoi farti mandare le referenze?».

«Certo, anche se… dovrò comunque tornare per firmare i documenti delle dimissioni. E… grazie, Ryan».

«Di niente, Chel. Sarà bello averti qui a tempo pieno».

Sorrisi al mio amico.

«Credo di averne bisogno. Allontanarmi da quella vita, da Chris e… anche dalla mia famiglia. Mi farà bene».

Ryan mi abbracciò, poi tornammo sulla strada di casa.

Quando arrivammo sulla porta, presi il mio amico per mano.

«Resta a cena. Ho bisogno di averti vicino quando lo dirò a loro».

«Va bene, Chelsea».

Detto questo, aprii la porta.

Dalla cucina cominciavano già ad arrivare gli odori della cena.

Non mi ero neanche resa conto di quanto il tempo fosse passato velocemente; Ryan ed io eravamo rimasti fuori tutto il pomeriggio.

«Mamma, Ryan può restare a mangiare?».

«Ma certo, avevamo già apparecchiato anche per lui».

Quando la cena fu pronta, ci sedemmo tutti attorno al tavolo, il cuore mi batteva forte per il discorso che avrei dovuto affrontare a breve.

«Chelsea, devi ancora preparare le valige per il ritorno, ricordati che domani si parte presto. Per la casa troveremo una soluzione, non ti preoccupare».

A tirare fuori l’argomento, fu la mamma.

Io guardai Ryan, accanto a me, che, da sotto il tavolo, mi diede una leggera stretta alla gamba come incoraggiamento.

«Veramente… io avrei già trovato una soluzione… », cominciai titubante.

Gli occhi di mamma e papà si posarono su di me.

«E sarebbe?».

Ingoiai a vuoto.

«Io resto».

Per un momento, nella stanza non si udì volare una mosca e notai, come a rallentatore, che adesso anche Chris si era voltato  a guardarmi, come se si stesse per preparare alle mie prossime parole.

«Come, scusa?».

«Hai capito, mamma: io resto qui. La casa è mia ora, e non ho nessuna intenzione di venderla. Ryan mi ha già detto che nello studio legale in cui lavora, c’è un posto vacante; il lavoro è molto simile a quello che facevo… alla clinica medica», e lì guardai Chris, che mi osservava, incredibilmente pallido.

«Ho deciso, mamma. Mi trasferisco qui».

Lei annuì, pesantemente e si scambiò uno sguardo con mio padre.

«Se credi che questa sia la cosa migliore, Chelsea… allora va bene».

«Sì, io… credo che sia l’unica soluzione».

Detto questo, continuai a mangiare il roastbeef nel mio piatto, con il cuore che ancora martellava nel petto.

Dopo quella conversazione, l’atmosfera a tavola si fece più tesa e, quando finimmo di mangiare, Ryan mi chiese se avevo voglia di andare da lui a guardare un film.

Proprio in quel momento arrivò Buster, che saltò letteralmente in braccio al mio amico, che cadde per terra sotto il peso del mio cane e gli fece una gran festa.

Ryan, ridendo, si rialzò e lo accarezzò.

«Può venire anche lui, se vuoi».

«Ti ringrazio per l’offerta, ma lui ancora deve riposare, quindi resta a casa».

«Già, hai ragione. Comunque, d’ora in avanti ne avremo di tempo da passare insieme, noi tre», rispose Ryan.

Proprio in quel momento passò Chris, che lanciò un’occhiata di fuoco al ragazzo.

«Direi che è meglio se andiamo!», intervenni notando la situazione.

«Va bene».

E così dicendo, salutammo tutti e uscimmo diretti a casa di Ryan.

«Allora… su che genere di film sei orientata stasera?».

«Cosa mi proponi?».

«Vediamo… Star Wars, Il Signore degli Anelli, The Nightmare Before Christmas, Moulin Rouge… Moulin Rouge?! Perché diavolo ce l’ho in casa, quel film?!».

«È bellissimo! Tuttavia opto per “The Nightmare Before Christmas. Se solo potessi, sposerei Tim Burton».

«Ti piace Tim Burton?».

«Scherzi? È il mio regista preferito!».

«Vedo una lunga serie di collaborazioni tra noi due, in futuro!».

«Adesso abbiamo tempo».

Lui rise.

«Molto bene, allora vai con Tim Burton».

Mise il dvd nel lettore e fece partire il film.

Quando giunse al termine, Ryan era ormai esasperato dal mio continuo canticchiare le canzoni del film.

«Ricordami di non guardare mai più un film musicale insieme  a te».

«Oh, avanti, è stato divertente!».

«Sì, certo».

Gli tirai una cuscinata e lui si mise a ridere.

«Adesso muoviti, ti riaccompagno a casa».

 «Agli ordini».

Ridemmo e scherzammo fino ad arrivare; era bello riavere Ryan ed era ancora più bello sapere che avrei potuto vederlo tutti i giorni, d’ora in avanti.

«Allora… i tuoi a che ora partono, domani? Vengo a salutarli… »

«Oh, non ti disturbare, loro andranno via presto, verso le sette».

«A quell’ora vado a fare jogging la mattina, passerò».

«D’accordo», risposi sorridendo. «A domani, allora».

«Notte, Chelsea» e, detto questo, si sporse a darmi un bacio sulla guancia.

Non lo aveva mai fatto prima di allora.

Entrai in casa, le luci del salotto erano spente e dall’interno non proveniva alcun rumore; probabilmente tutti erano già a letto, data la partenza del giorno successivo.

Salii piano le scale che portavano alla mia camera e vi entrai, richiudendomi la porta alle spalle.

«Non lo fare».

La voce di Chris mi spaventò a tal punto che quasi mi venne un attacco cardiaco.

Quando mi voltai, lui era lì, sdraiato sul mio letto.

«Cosa… che cosa ci fai qui?».

Lui ignorò la mia domanda.

«Torna a casa, Chelsea».

«Ora basta. Ora è troppo. Tu devi lasciarmi andare, lo capisci questo?».

«No».

Il tono del ragazzo era perentorio.

«Beh, devi trovare il modo di fartene una ragione perché voi domani partirete ed io non tornerò».

Era finito il momento delle innocenti chiacchierate, dei momenti rubati, dei baci nell’ombra e delle confessioni notturne.

Era giunta l’ora della durezza, dovevo fargli capire che per noi non c’era alcun futuro, nonostante questo facesse tanto male a me quanto a lui.

«Questa è casa mia, adesso. Qui c’è la mia vita e tu… Chris, tu non ne farai più parte».

Il ragazzo sbarrò gli occhi.

«Chelsea… non puoi dire sul serio… ».

Mosse alcuni passi verso di me, ma io mi ritrassi e lui si arrestò.

«Non sono mai stata tanto seria in tutta la mia vita. Queste settimane sono state… così difficili, così esasperanti».

Feriscilo e lui se ne andrà”, pensai tra me.

«Non posso più vivere in questo modo, Chris. Hai pensato a cosa accadrebbe in futuro?».

«Io so che voglio stare con te».

«Ma non si può avere tutto dalla vita. Però hai Shereen e lei ti ama. Mi sono fatta accecare dalla rabbia accumulata negli anni, non volevo vedere, ma lei ti ama davvero. E non puoi lasciarla perché, se lo fai, non rimarrà più niente. Se lasci mia sorella… noi avremo distrutto tutto, Chris e non posso permettere che questo accada. Devi andartene. Devi uscire da questa stanza e tornare dalla tua famiglia. E dalla mia. Prima lo capirai, meglio sarà per tutti: non funzionerà mai tra di noi».

Quelle ultime parole, parvero colpirlo come un pugno in pieno stomaco, tanto che, per qualche momento, il ragazzo parve frastornato.

«Chelsea… ».

«Basta, Christian».

Pronunciare quelle parole fu per me un dolore fisico, ma a quanto pareva, anche per lui perché sbiancò del tutto.

Non lo avevo mai chiamato con il suo nome intero, come invece Shereen faceva sempre.

«Fattene una ragione. Ed ora vattene dalla mia stanza».

Come un automa, il ragazzo fece qualche passo indietro, cercando a tentoni la maniglia della porta.

Uscì, dandomi le spalle e, la sua schiena, fu l’ultima immagine che ebbi di lui.

 

 

Note dell’Autrice:

Chiedere perdono per il ritardo epico ha senso? Probabilmente no, ma vi chiedo ugualmente scusa.

Mettiamola così: avete presente le serie tv? Ecco, diciamo che con il capitolo 13 si è conclusa la prima stagione e da qui inizia la seconda, dopo la pausa invernale ^^ *cerca inutilmente di arrampicarsi sugli specchi*.

Ad ogni modo… bando alle ciance e spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto.

Attendo i vostri pareri con impazienza!

 

DAL CAPITOLO 15:

«Ora questa è casa mia, Chris e non c’è niente che tu possa dire o fare per farmi tornare indietro. Adesso, cortesemente, mettimi in contatto con Jefferson».

Dall’altra parte del telefono, lo sentii respirare forte.

«Ci rivedremo mai, Chelsea?».

«Sì, probabilmente al tuo matrimonio con mia sorella», quelle parole mi uscirono fuori come veleno, tanto che rimasi sorpresa di me stessa e quasi pensai che Chris avesse messo giù, perché all’altro capo del telefono, non si sentiva volare una mosca.

«Non è divertente, Chelsea».

Adesso la sua voce era mortalmente seria.

«Già… lo so».

Lo sentii trafficare con qualcosa lì e poi un leggero bip-bip. Mi aveva messa in attesa.

Mi lasciai andare con le spalle contro la parete, poi, dopo diversi secondi, sentii la familiare voce di Jefferson , tonante come sempre.

«GAVER!».

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Coinquiline ***



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15  



CAPITOLO 15: COINQUILINE

 

Ormai ero da sola in quella grande casa.

La mia famiglia e Chris erano partiti da circa un’ora e, da quel momento, non avevo fatto altro che aggirarmi come uno zombie da una stanza all’altra della casa, senza avere uno scopo ben preciso.

Ryan era passato da me quando tutti gli altri erano andati via, ma poi era tornato a casa per prepararsi. Doveva uscire per sbrigare certe faccende per conto di suo padre, data la sua assenza. Mi aveva chiesto di andare con lui, ma avevo declinato con tatto l’offerta, dicendo di essere stanca a causa dello scarso riposo quella notte.

Ed in effetti era vero: non avevo chiuso occhio, o forse lo avevo fatto, ma comunque non abbastanza.

Ero molto stanca e mi sentivo vuota; ripensare a ciò che avevo detto a Chris la sera precedente, mi faceva sentire un disastro e non sapevo come sarei potuta uscirne.

Mentre affogavo la confusione nella mia testa, in una vaschetta di gelato alla vaniglia, sentii il telefono di casa squillare.

Andai a rispondere e, riconoscendo la voce dall’altra parte del telefono, rimasi sorpresa.

«Gale? Cosa… va tutto bene?».

«Io… Chelsea, senti… lo so che in fin dei conti, noi due non ci conosciamo benissimo, ma non è che… potrei venire da te? Tipo… adesso?».

Mi guardai: in quel momento indossavo un pigiama costituito da canottiera e pantaloncini, bianco a righe rosse e azzurre e sopra una leggera vestaglia giallo pallido che mi arrivava fino a metà coscia.

Inoltre, tenevo ancora in mano il cucchiaio del gelato.

Come al solito, ero ridicola.

«Certo, vieni pure… ti aspetto».

Salii in camera mia, dandomi un contegno, poi tornai in cucina  e sistemai tutto ciò che avevo lasciato fuori posto.

Poco dopo, sentii suonare il campanello.

Andai ad aprire; Gale indossava un grande cappello di paglia e degli occhiali da sole che le coprivano metà del volto, ma capii subito che qualcosa non andava.

«Gale… che cosa… ?», ma a quel punto la ragazza si tolse gli occhiali, ed io fui decisamente impreparata a ciò che mi ritrovai davanti.

La ragazza, davanti a me, aveva la faccia gonfia e un occhio nero.

Sgranai gli occhi.

«Gale… !».

«Posso entrare?».

Mi scostai dall’ingresso.

«Certo».

La feci accomodare in salotto. Adesso almeno ero un po’ più sveglia e meno intontita dal sonno e dal mio senso di vuoto.

«Aspetta qui, Gale, ti porto del ghiaccio».

La ragazza annuì e io andai in cucina.

Mi sentivo totalmente inutile e farle domande su cosa fosse accaduto, mi sembrava fuori luogo.

Tornai in salotto con il ghiaccio; la bionda mi aspettava seduta compostamente.

Mi ringraziò ed io mi sedetti di fronte a lei, sperando che facesse la prima mossa; non volevo apparire curiosa o invadente.

«Avrei dovuto dare retta ai miei genitori… », disse invece.

«Che cosa?».

«Io sono dell’Alabama. Mi sono trasferita qui per lavoro, è vero… ma soprattutto per un uomo. Un uomo dal quale i miei genitori mi avevano messo in guardia ed ora… Dio, guardami».

«Se vuoi ci posso pensare io; dopotutto… Ryan mi ha insegnato un paio di mosse e sono riuscita addirittura a mettere a tappeto un pazzo armato di pistola».

Questo non era del tutto vero; se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Ryan, Chris e mio padre, probabilmente sarei stata spacciata, a quest’ora, ma evitai di aggiungerlo e cercai di far sorridere la ragazza.

«Ryan… già, lui è sempre così gentile con me… ».

«Sì, lui… è fatto così. È gentile con tutti».

Gale sorrise, una mano che teneva la borsa del ghiaccio sul suo occhio nero.

«Tu… vivevi con quell’uomo, Gale?».

Lei annuì gravemente.

«Non conosco molte altre persone, in clinica… sì, ho degli amici, ma… niente di che… i tuoi genitori dove sono? E il tuo ragazzo e tua sorella?».

Rimasi agghiacciata a quelle parole.

«Il mio ragazzo?».

«Sì, il biondo alto».

Mi venne quasi da ridere. Io per prima avevo affibbiato a Chris un sacco di nomignoli, ma “il biondo alto”, non mi era ancora venuto in mente.

Guardai Gale.

«Ehm… temo tu abbia frainteso. Il biondo alto, è il fidanzato di mia sorella. Si chiama Chris. E comunque… loro sono partiti questa mattina. Il nonno ha lasciato a me la casa, quindi… beh, ho deciso di restare».

Dal poco che riuscivo a scorgere del volto della ragazza, sembrava sorpresa.

«Davvero?».

Non capii se si stesse riferendo alla mia permanenza lì, oppure al fatto che Chris fosse il fidanzato di Shereen e non il mio.

«Già. Quindi, dato che adesso sono qui da sola e che questa casa è più grande di quanto mi piaccia ammettere, dovendoci abitare da sola… che cosa ne dici di trasferirti qui? Perché sia chiaro: magari è vero che noi due non ci conosciamo benissimo, ma se pensi che ti lasci tornare in una casa con lo stronzo che ti ha ridotta così, beh, allora sei fuori strada».

Gale mi sorrise, luminosa.

«Mi permetteresti davvero di stare qui?».

«Certo! Di stanze vuote ormai ce ne sono in abbondanza». Lo dissi con una punta di amarezza nella voce e lei lo capì.

«Chelsea… scusa se sono così diretta, ma… non avrei mai detto che il biondo alto, Chris, fosse il fidanzato di tua sorella. Insomma… io credo di averlo visto solo quella sera in cui hanno sparato a Buster, ma… il modo in cui ti guardava, il modo in cui ti girava attorno… non è il modo in cui ti guarda il fidanzato di tua sorella. È il modo in cui ti guarda il tuo uomo che ha appena rischiato di perderti».

Osservai  la ragazza, stupita.

«Caspita… non ci hai messo molto a fare due più due».

«Non c’era niente da capire, basta avere due occhi e il resto viene da sé».

«Magari uno di questi giorni ti racconterò… tanto d’ora in poi ne avremo di tempo, per parlare. Intanto però, sarei più tranquilla se andassimo in ospedale».

«Io… Chelsea, non so se… ».

«Per favore, Gale… potresti avere qualche commozione cerebrale… ».

La bionda sospirò.

«Va bene, andiamo».

«Dobbiamo prendere la tua auto, però. Io ho distrutto la mia nell’incidente e, ora che ci penso, devo comprarne una nuova».

Andammo in ospedale, in cui un’équipe di medici ed infermieri si prese cura della mia nuova coinquilina, inoltre, lì trovammo un agente di polizia e lui ci invitò a sporgere denuncia.

Uscimmo a tarda sera e, quando tornai a casa, trovai un Ryan inquieto che si aggirava sulla veranda di casa mia.

«Chelsea, finalmente! Cosa diavolo… oh, mio Dio… Gale? Che cosa ti è successo?».

La ragazza era piuttosto imbarazzata e, dal canto mio, non sapevo come avrei potuto tirarla fuori da quella situazione.

Entrammo in casa tutti e tre, accomodandoci in salotto, poi, sentii il telefono fisso squillare e andai a rispondere, lasciando i due a parlare sul divano.

La voce che sentii all’altro capo del telefono, apparteneva a mia madre.

«Chelsea! Che cosa è successo? Sono ore che ti chiamiamo al cellulare e continua a dire di essere spento! Il telefono di casa ha squillato a vuoto dalle tre di pomeriggio!».

Maledizione. Con tutto ciò che era successo, mi ero dimenticata di avvertire mia madre. Però era strano che il mio cellulare si fosse già scaricato, quella mattina la batteria era piena.

«Scusa, mamma, io… ero fuori con un’amica e il telefono comincio ad avere il sospetto che sia completamente andato».

«Un’amica? Quale amica?», chiese lei, stupita.

«Gale, te la ricordi? La ragazza della clinica veterinaria. Diciamo che ha avuto una brutta giornata».

«Sei sicura che non ci sia niente, sotto? Mi stai dicendo la verità?».

«Mamma, ti ho mai mentito? Non cominciare a diventare paranoica solo perché adesso vivo qui».

«A tal proposito… sei proprio sicura di voler restare a Santa Barbara da sola, Chelsea? Puoi… sempre tornare a casa… ti rivorremmo tutti, qui».

«Mamma… no. Lo sai, conosci la situazione e… non ce la faccio, non adesso almeno. E non voglio vendere la casa del nonno; lui l’ha lasciata a me e un motivo ci sarà».

La sentii sospirare.

«Va bene, bambina. Compra un cellulare nuovo appena puoi, mi raccomando».

«Sai che non lo farò, non se devo uscire da sola per comprarlo… lo dimenticherò».

«Vorrà dire che te lo ricorderò ogni giorno».

«Se proprio ne sei convinta… ».

Lei rise, poi ci salutammo ed io tornai nell’altra stanza con Ryan e Gale. Anche Buster era arrivato nel frattempo e si stava facendo coccolare dai miei amici. Che ruffiano.

Sorrisi a quella scena, poi presi posto accanto a Ryan.

«Era Mamma Tigre?», mi chiese il moro.

«Proprio lei, è andata nel panico perché non ho risposto per tutto il giorno. Credo che il mio cellulare sia completamente andato».

«Sia lodato il cielo; Chelsea Gaver adesso potrà comprare qualcosa che appartenga al ventunesimo secolo e non al 1800», mi prese in giro lui.

«Divertente, ma non ci conterei; innanzitutto mi serve una macchina».

«Beh, per quello posso accompagnarti io: adesso che vivrò qui, mi sembra il minimo».

L’espressione di Ryan in quel momento fu incomparabile.

«Aspetta un momento… tu ti trasferisci qui?».

«Già, sono stata io a proporglielo. Questa mattina, quando è venuta da me. Adesso questa casa ha troppe stanze vuote per i miei gusti e non l’avrei mai fatta tornare dove stava prima».

«A tal proposito… dov’è che posso trovare quel tipo in modo da spaccargli la faccia?».

Gale lo guardò con aria preoccupata.

«Calmati, Terminator e resta qui, se non vuoi finire nei guai», cercai di acquietare il mio amico.

«Finire nei guai non m’interessa. Tu, Chelsea, sai che potrei davvero farlo».

«Io so che il tuo vecchio te lo avrebbe fatto sicuramente. Ora non più».

«Scusate, di che cosa state parlando?».

Gale era chiaramente confusa.

«Oh, niente di che. Da ragazzo, Ryan ha semplicemente passato un brutto periodo in cui aveva voglia di andare in giro a spezzare le gambe a chiunque, ma ormai è tornato sulla retta via», spiegai con un sorriso angelico.

«Quasi», mi corresse lui. «Sono ancora perfettamente in grado di incazzarmi come si deve e questa sarebbe una di quelle situazioni in cui farlo non sarebbe sbagliato».

Scossi la testa, divertita.

Dopotutto… non sapevo se sarebbe mai cambiato davvero.

Trascorremmo una serata piacevole; Ryan rimase da noi per la cena e poi guardammo un film stravaccati tutti insieme sul divano.

Dopotutto… mi sarei davvero potuta abituare a quella situazione: io, Ryan e Gale e magari, con il fatto che adesso la ragazza si sarebbe trasferita da me, loro avrebbero potuto avvicinarsi e il loro rapporto approfondirsi e poi… chissà.

Preparai per Gale la stanza in cui, fino alla sera precedente, avevano dormito i miei genitori e poi salutai Ryan, che nel frattempo era rimasto in salotto con lei.

Dovevo cercare di lasciarli soli il più possibile.

Certo, dubitavo che la mia nuova coinquilina avesse voglia di iniziare subito una relazione con tutto ciò che era successo, ma col tempo, magari sarebbe nato qualcosa.

Lo sperai, per lo meno; vedevo i due molto bene insieme e poi, dopo tutto quello che Ryan aveva passato quell’estate, avrei davvero voluto che tra i due nascesse qualcosa.

Quando tornai da loro, stavano amabilmente chiacchierando, poi, Gale si volse verso di me e disse, guardano il pianoforte: «È davvero un bellissimo strumento, mi sarebbe piaciuto molto imparare a suonarlo. Ryan mi ha detto che tu sei molto brava».

«Già, insomma… lo ero. Io non suono più».

Nel momento stesso in cui lo dissi, fu come se quelle parole provenissero da qualcun altro e rimasi tanto sorpresa quanto Ryan, che mi osservava con le sopracciglia inarcate, ma non disse niente.

Gale si limitò a fare un sorriso di circostanza, forse imbarazzata, come se si stesse domandando se non avesse fatto male a chiedere.

Sorrisi, per cercare di allentare quell’atmosfera e dissi: «Beh, la tua stanza è pronta. È la quarta porta a destra, hai il bagno in camera».

«Ti ringrazio», disse sorridendo. Poi riprese: «Io vado allora, grazie per l’ospitalità e per la serata». Dopodiché si rivolse a Ryan, forse un po’ timidamente.

«E grazie anche a te. Ci vediamo presto, allora… ehm… notte».

«Buonanotte, Gale… », disse lui con uno strano sorriso.

Aspettammo di non sentire più i passi della ragazza, poi Ryan mi prese per un braccio, dicendo: «Cosa vuol dire che non suoni più?».

«Ryan, io… l’ultima volta che ho toccato un pianoforte è stato per chiuderlo, il giorno della sepoltura del nonno. Quel piano non veniva chiuso da secoli ed io… ecco, non so se lo riaprirò mai più, ci sono tante cose. Tante cose che sono successe quest’estate e che ho scoperto e poi il nonno e Sunshine e… ».

«Cosa? Ma di chi stai parlando? Chi è Sunshine?».

Mi resi conto tardi delle parole che mi erano uscite dalla bocca.

«Sunshine… è una lunga storia».

Lui si mise a braccia conserte, riprendendo posto sul divano.

«Io ho tempo. Torno dopodomani dalle ferie».

Forse era davvero arrivato il momento di parlarne e Ryan sarebbe stato la persona giusta.

Così, con pazienza, gli raccontai della confessione di mia madre. Non lo avevo detto a nessuno, neanche a Chris, ma farlo… fu liberatorio. Condividere quel peso mi alleviò, almeno in parte, il dolore che provavo nel petto.

Alla fine, il mio amico mi guardò con occhi cupi.

«Mi dispiace, Chel… ».

Cercai di sorridere.

«Non fa niente. Non è possibile che ti manchi qualcuno che non hai mai conosciuto, no?».

Ma la sua espressione diceva ben altro.

Lasciammo cadere l’argomento, restando nel silenzio per un paio di minuti.

«Adesso vado a casa, ma… se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi».

«E se tu vuoi restare a dormire, qui ci sono altre due stanze vuote, basta chiedere».

«Ti ringrazio, ma devo badare alla mia casa».

Sospirai.

«D’accordo, io ci ho provato».

Lui sorrise.

«Buonanotte, Chelsea…  ».

«Notte, Ryan».

Così ci abbracciammo e poi il ragazzo andò via.

Chiusi a chiave la porta e mi diressi al piano di sopra.

Entrai nel bagno e crollai sulla sedia accanto al lavandino.

Quel bagno, quella sedia, quella parte di muro dietro la porta d’ingresso: tutto, in quella stanza, mi riportava alla mente Chris, ed era schiacciante.

L’indomani avrei telefonato alla clinica privata per prendere appuntamento con il mio capo, per firmare le dimissioni. Sarei dovuta andare lì e sperai soltanto di non incontrare il ragazzo.

Sarebbe stato tutto troppo doloroso.

Mi lavai i denti con calma e poi tornai in camera mia. Anche quella era piena dei suoi ricordi, di quell’estate, di noi.

Era ufficiale, lì sarei impazzita.

Scossi la testa, esasperata e presi il libro che avevo sul comodino: “La Casa sull’Abisso”.

Era una sorta di thriller che avevo comprato da poco, sperai che la lettura fosse avvincente e che mi tenesse sufficientemente impegnata.

Quando sentii il sonno cominciare ad insinuarsi in me, colsi al volo l’occasione, spensi la luce e mi addormentai nel giro di qualche minuto.

 

L’indomani mattina, quando mi svegliai, sentii provenire dei rumori dal piano di sotto.

Mi ci volle qualche istante per ricordare che adesso con me abitava anche Gale. Guardai alla mia destra: Buster era nella sua cuccia che dormiva beato ed io sorrisi.

Lui, Gale e Ryan mi avrebbero impedito di struggermi troppo per la situazione con Chris e tutto ciò che ne derivava.

Scesi al piano di sotto, salutando la bionda che in quel momento stava armeggiando tra i fornelli, e mi avvicinai al telefono nell’ingresso.

Composi a memoria il numero della clinica in cui lavoravo e, dopo qualche squillo, mi rispose una voce familiare. Impiegai un attimo di troppo per capire che si trattava di Chris.

«Chelsea!».

Subito, restai raggelata e notai la strana occhiata che mi lanciò Gale, che dalla cucina poteva vedere la postazione del telefono.

«Ciao», il mio tono era piatto, ma… teso.

«Senti, Chris… dovrei parlare con Jefferson… ».

Jeff Jefferson era il direttore della clinica ed io avevo sempre pensato che i suoi genitori dovessero avere uno spiccato black humor per dare al proprio figlio un nome simile.

«Chelsea, ti prego, ascolta… ».

«No, senti… ho davvero bisogno di parlargli e poi… che cosa ci fai nel mio ufficio? Adesso lavori al quarto piano?».

«No, io… Justin, il tuo sostituto si è ammalato. E siccome oggi è una giornata davvero infernale, mi hanno chiesto di venire qui».

«Hai avuto un bel rientro, insomma… », il nervosismo nella mia voce si poteva percepire benissimo.

«No. Per niente. E qui dovresti esserci tu. Torna a casa, Chelsea».

Sospirai pesantemente.

«Ora questa è casa mia, Chris e non c’è niente che tu possa dire o fare per farmi tornare indietro. Adesso, cortesemente, mettimi in contatto con Jefferson».

Dall’altra parte del telefono, lo sentii respirare forte.

«Ci rivedremo mai, Chelsea?».

«Sì, probabilmente al tuo matrimonio con mia sorella», quelle parole mi uscirono fuori come veleno, tanto che rimasi sorpresa di me stessa e quasi pensai che Chris avesse messo giù, perché all’altro capo del telefono, non si sentiva volare una mosca.

«Non è divertente, Chelsea».

Adesso la sua voce era mortalmente seria.

«Già… lo so».

Lo sentii trafficare con qualcosa lì e poi un leggero bip-bip. Mi aveva messa in attesa.

Mi lasciai andare con le spalle contro la parete, poi, dopo diversi secondi, sentii la familiare voce di Jefferson , tonante come sempre.

«GAVER!».

Dovetti allontanare la cornetta dall’orecchio e quasi mi venne un infarto.

«Dimmi che Williams stava scherzando, quando ha detto che non hai la minima intenzione di tornare!».

Quell’uomo era piuttosto melodrammatico.

«No, signore, ho davvero deciso di restare qui», cercai di utilizzare un tono il più conciliante possibile.

«Gaver… io capisco che Santa Barbara sia meravigliosa, ma adesso devi tornare a casa, questa clinica ha bisogno di te. Williams è molto bravo, ma non si può dividere in due e voi eravate i capi saldi di questo dannato posto!».

Ed eccolo che partiva con le sviolinate.

«È vero, Christian è bravo, ma anche Justin lo sarà se gli dà una possibilità».

Lui sospirò, sconfitto. Sapeva che non sarei tornata.

«Molto bene, allora. Se questa è la tua ultima decisione, puoi venire a firmare le tue dimissioni questo venerdì. Gaver… io spero veramente che tu cambi idea».

«Io sono davvero lusingata dalla sua lealtà nei miei confronti, ma… temo resterò qui, signor Jefferson».

E, dopo un ultimo saluto piuttosto sconsolato, l’uomo riattaccò.

Mi voltai nuovamente verso la cucina, dove Gale stava mettendo in tavola dei pancackes dal profumo delizioso e mi avviai lì.

«Oh beh… se prepari una colazione del genere, decisamente non mi pentirò di averti presa in casa».

Lei sorrise.

«Piuttosto… quello al telefono, il primo… era Il Biondo Alto?».

Scossi la testa, divertita.

«Già, era lui».

«Il fidanzato di tua sorella, eh? Che cerca di convincerti a tornare indietro in tutti i modi? Non me la dai a bere neanche per un secondo».

«È una storia molto lunga e complicata, Gale».

«Beh, sono solo le dieci di mattina e noi abbiamo intere giornate davanti, per parlarne».

La osservai. Provare a convincerla a desistere, sarebbe stato inutile, così, iniziai il mio racconto.

«Oh, cavolo. È peggio di vent’anni di “Beautiful”, tutti insieme».

Il verso che mi uscì, era a metà tra uno sbuffo e una risata.

«Lo so, Gale, credimi. Lo so».

«Ma sei sicura di non voler tornare? Insomma… Chris ti ama! Te lo ha detto mille volte».

«Cos’è, adesso ti metti anche a fare il tifo, nemmeno fossimo la coppia di una serie tv?».

«Beh, fidati… se fosse una serie tv, non me ne perderei una puntata!».

Scossi la testa.

«Chelsea, a te serve uscire. Sei stata chiusa in casa tutta la vita e ora… insomma, non hai avuto una bella estate, dovresti provare a vedere qualcuno, secondo me».

«Vedere qualcuno? Intendi un uomo, vero?».

«Esatto».

«Ma non ci penso neanche».

«Perché?!».

«Non ho fatto altro che soffrire, da quando mi sono interessata a qualcuno!»

«E soffrivi mentre facevate sesso nel rifugio?».

«Gale!».

«Non fare la finta scandalizzata con me, non ci casco».

Sbuffai, quella ragazza era davvero impossibile.

Era così avere un’amica?

Certo, non si poteva certo dire che il nostro rapporto fosse così saldo, ma c’erano delle buone basi e poi da quel momento, io e Gale avremo vissuto insieme.

«Cosa vuoi che ti dica?».

«Voglio solo che tu sia sincera. Con te stessa, soprattutto: sei stata bene? Quella notte con Chris… ?».

Fu con riluttanza che infine risposi: «Sì, che sono stata bene, ma… lui… è il ragazzo di mia sorella».

«Una sorella che ti ha apertamente detto di essersi messa con lui per allontanarlo da te».

«E anche una sorella che mi ha apertamente detto di essersi davvero innamorata di lui, dopo che… ».

«Ferma qui, hai detto bene: dopo».

«Ma che importanza vuoi che abbia? Loro stanno insieme, punto e basta e Chris non la lascerà di certo adesso per correre da me».

«Non ho mai conosciuto nessuno con una vita sentimentale più complicata della tua, Chelsea Gaver».

«Già… nemmeno io».

«E allora cosa credi di fare adesso?».

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire… te ne rimarrai rintanata in casa senza vedere un uomo per tutto il resto dei tuoi giorni?».

«Questa è un’ipotesi».

«Oh, ma per favore! Anche io che sono appena stata picchiata da uno squallido idiota, so che prima o poi vedrò qualcun altro».

«Tipo Ryan?», colsi la palla al balzo.

«Aspetta, che?».

«Tu e Ryan… non credere che non abbia notato come vi guardavate ieri sera».

La bionda arrossì lievemente.

«Oh, ma piantala! E poi era di te che stavamo parlando!».

«Per questo ero così decisa a cambiare argomento».

In quel momento squillò di nuovo il telefono.

«Non credere di salvarti, io sarò qui quando tornerai».

«È una minaccia?»

«Assolutamente no, solo un’informazione», disse lei in tono angelico.

Andai a rispondere, scuotendo la testa.

«Pronto?».

«Ciao, tesoro!».

«Ciao, papà».

«Non essere così entusiasta di sentirmi, mi raccomando».

«Non è che non sia contenta, ma ho come l’impressione che tu e mamma stiate diventando paranoici».

«Forse», rimase sul vago.

«C’è qualcosa in particolare che volevi dirmi?».

«Come mai tutta questa fretta? Devi uscire?».

«No, ma… c’è Gale».

Non avevo ancora avuto occasione di dire a mamma e papà che la ragazza si era trasferita qui.

«Oh, beh, allora sarò breve: Chris ci ha detto che oggi hai chiamato in clinica».

«Già… ».

«E… ?».

«“E”, cosa?».

«Hai preso appuntamento per firmare le dimissioni?».

«Esatto. Vado in clinica venerdì mattina e se non lo facessi sapere a Chris, te ne sarei grata».

«Chelsea… ».

«C’è altro?», lo interruppi prima che potesse farmi qualche altra domanda imbarazzante.

«Resta… solo per il fine settimana, magari. Ma resta un po’  a casa, ok?».

Sospirai. Per me non era mai stato facile dire di no a mio padre.

«Ci penserò», conclusi infine.

Un compromesso dovevo pur trovarlo. Poi avrei avuto due giorni di tempo per trovare qualche scusa; ormai era mercoledì.

Tornai in cucina, dove Gale si stava dando da fare per preparare il pranzo.

Incredibile come quella mattinata fosse trascorsa velocemente a causa del racconto ultradettagliato degli ultimi due anni della mia vita che avevo fornito alla mia coinquilina.

«Che dice tuo padre?».

«Mi ha chiesto di restare per il fine settimana. Francamente spero di trovare una scusa per rifiutare. Come un’apocalisse».

La ragazza mi fissò di traverso.

«Come siamo teatralmente drammatici».

«Tu ora sai tutto… cosa faresti nella mia stessa situazione?».

«Direi al Biondo Alto quello che provo per lui».

«Ma ti prego. Mai fu detta stronzata più grande».

Gale rise.

«Per me è difficile immedesimarmi nella tua vita, è un vero casino. Però io credo che ci siano questioni in sospeso tra di voi e… Chelsea, tu sei sicura di non essere incinta, vero?».

A quelle parole sbiancai.

«Perché?».

«Beh, se non avete usato alcun tipo di precauzione, ed è questa la vera stronzata a parer mio, come fai ad essere così tranquilla?».

«Non sono tranquilla per niente. Anche perché in effetti… ho un ritardo», a quelle parole, la bionda spalancò leggermente la bocca.

«E non sei ancora andata a comprare un test?!».

«Spero che ignorando la cosa non succeda niente».

«TU SEI FUORI DI TESTA! Come puoi ignorare una cosa tanto grande?! Oggi ti accompagno in farmacia».

«No!».

«No?!».

«Senti, Gale… è probabile che io non riesca a trovare una scusa per non fermarmi dai miei questo fine settimana, il che vuol dire che dovrò restare e se… se è come penso che sia, se quel maledetto test mi dà un risultato positivo… come pensi che riuscirei a guardarli ancora in faccia? A guardare in faccia Chris, perché credo proprio che lo vedrò; ma soprattutto a guardare in faccia Shereen», feci un momento di pausa, poi continuai: «E poi, comunque è troppo presto, è successo appena una settimana fa, a questo punto un test non sarebbe attendibile. Bisogna aspettare».

Lei sospirò.

«Ora, andiamo per ipotesi, ma… se quel test dovesse davvero darti un risultato positivo?».

«Beh… a quel punto penso proprio che andrò a comprare una scala e una corda».

 

Note dell’Autrice:

Salve a tutti! Per farmi perdonare per il ritardo immenso del capitolo precedente, questa settimana ho aggiornato ben due volte!

Penso che dalla settimana prossima riprenderò gli aggiornamenti settimanali ogni mercoledì, comunque intanto concentriamoci su questo capitolo.

L’ho fatto finire con il dubbio che si insinua dentro Chelsea e Gale ed ora chissà… fidatevi che di cose prima di scoprire la verità ne succederanno!

Ora vi lascio e… ci risentiamo al prossimo capitolo!

DAL CAPITOLO 16:

«Voglio sentirti», m’interruppe. «Anche se mi odi, anche se non mi vuoi più… ».

«Che cosa? Io non ti odio!».

«Davvero? Beh, pare che tu non ci abbia pensato due volte prima di firmare quei maledetti documenti».

«Senti… ».

«E poi voglio sapere che stai bene. Sai, dopo tutto quello che ti è successo in un solo mese, per me è difficile lasciarti andare tranquillamente, sapendo che potrebbe accaderti qualunque cosa. Ed ora, come se non bastasse, sono lontano. E non posso… non saprò se hai bisogno di essere tirata fuori da un’auto, salvata da un pazzo o evitare che ti prenda una polmonite sulla spiaggia alle sei del mattino. Questo mi spaventa, Chelsea. Non sapere se ti è successo qualcosa mi spaventa».

Provai a dire qualcosa, ma lui non mi lasciò parlare.

«Hai deciso di restare a Santa Barbara e credo che principalmente la colpa di questa scelta sia mia. Perché se, mesi fa, le cose fossero andate diversamente, a quest’ora tu saresti chiusa nel tuo studio a lavorare fino allo sfinimento, al piano di sopra. Noi due avremmo passato insieme la pausa pranzo e poi saremmo tornati a casa e avrei fatto l’amore con te per tutta la notte, facendoti provare cose che neanche immagini. Perché non so cosa tu credi sia stata quella notte in montagna, ma non ero neanche vagamente al pieno delle mie forze»”.

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Capitolo 16
*** Ti amo ***



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c16  




CAPITOLO 16: “TI AMO”

 

E così, era giunto il fatidico venerdì mattina.

Gale si era resa disponibile a prestarmi la sua auto, così, partii di buon mattino, lasciando Buster alle cure della mia amica.

La strada era piuttosto sgombra a quell’ora, perciò non ebbi alcun intoppo durante il tragitto e, in poco più di due ore, mi ritrovai davanti all’imponente edificio così familiare.

Mettendoci piede dentro, mi parve tutta un’altra vita.

Ciò che prima, per me, era semplice routine, adesso era una dimensione distante anni luce.

Gli uffici amministrativi erano al terzo piano, quindi, sperai che Chris stesse ancora sostituendo Justin al piano di sopra, non ero affatto pronta ad incontrarlo.

Fui così veloce nel passare davanti all’ufficio del mio amico, che non ebbi neanche il tempo di controllare se lui fosse dentro o meno.

Bussai alla porta in fondo al corridoio, dove sapevo che avrei trovato Jefferson, e udii la sua voce invitarmi ad entrare.

«Ciao, Gaver», mi salutò l’uomo con aria tetra. «Non ci hai ripensato, vero?».

«No, signore», dissi leggermente intimorita.

Lui si coprì il volto con le mani.

«E io ora dove la trovo un’altra come te?».

Spostai il peso da una gamba all’altra, a disagio.

«Lì ci sono i documenti delle tue dimissioni», disse indicando un plico di fogli sistemato ad un angolo del tavolo.

Presi una penna dalla mia borsa e mi avvicinai titubante.

Quando ebbi firmato ognuna di quelle carte, mi allontanai dalla scrivania, guardando negli occhi Jeff Jefferson.

«Per quello che vale, Gaver… sei la migliore segretaria con la quale abbia mai lavorato».

Mi sentii arrossire e cominciarono a venirmi anche i sensi di colpa.

«La ringrazio, signor Jefferson».

«Buona fortuna, a Santa Barbara per… qualunque cosa andrai a fare».

Con un ultimo cenno di ringraziamento, salutai l’uomo ed uscii a passo lento dal suo ufficio.

Avevo la testa altrove e non feci attenzione a ciò che accadeva intorno a me, altrimenti avrei sicuramente notato la porta che si apriva alla mia destra, ma soprattutto, chine uscì.

«Chelsea… ».

Chris era poco dietro di me e, non appena lo vidi, cercai di affrettarmi per andare via, ma lui fu più veloce, mi afferrò per un polso e mi trascinò nel suo ufficio, sotto lo sguardo stupito di un infermiere che passava da lì in quel momento.

Una volta dentro, chiuse a chiave la porta, abbassò le tapparelle e posò le spalle sullo stipite, tanto per assicurarsi che non potessi avere alcuna via di fuga. O meglio… le finestre sarebbero state un’alternativa, ma forse non era proprio consigliabile dato che buttarsi da tre piani in gonna e tacchi alti non era esattamente un’idea geniale.

«Adesso scappi anche, appena mi vedi?».

Iniziai a tamburellarmi la gamba con le dita, il mio solito tic nervoso, ma tenni lo sguardo fisso nel suo.

«Cosa vuoi che ti dica, Chris?».

«Che tornerai».

«Non lo farò e prima lo accetterai, meglio sarà».

«Ho provato a chiamarti».

«Il mio telefono è rotto».

«Lo so, tua madre me lo ha detto. Quindi te ne ho comprato uno nuovo, sapendo che tu ti saresti dimenticata di farlo».

Detto questo mi porse una scatola.

«Non lo posso accettare, Chris», dissi senza scompormi.

«Sì, certo», il suo tono era piuttosto scocciato.

Si avvicinò a me e  infilò a forza il telefono nella mia borsa. Io non opposi resistenza, sapevo che sarebbe stato inutile.

«Non ho osato prendere un touch screen, data la tua avversione per la tecnologia, è già carico ed è tutto impostato, basta che aggiungi la tua scheda. Questo dovresti riuscire a farlo».

Sospirai.

«Perché, Chris?».

«A cosa ti riferisci, esattamente?».

«Questo… il telefono… tutt… ».

«Voglio sentirti», m’interruppe. «Anche se mi odi, anche se non mi vuoi più… ».

«Che cosa? Io non ti odio!».

«Davvero? Beh, pare che tu non ci abbia pensato due volte prima di firmare quei maledetti documenti».

«Senti… ».

«E poi voglio sapere che stai bene. Sai, dopo tutto quello che ti è successo in un solo mese, per me è difficile lasciarti andare tranquillamente, sapendo che potrebbe accaderti qualunque cosa. Ed ora, come se non bastasse, sono lontano. E non posso… non saprò se hai bisogno di essere tirata fuori da un’auto, salvata da un pazzo o evitare che ti prenda una polmonite sulla spiaggia alle sei del mattino. Questo mi spaventa, Chelsea. Non sapere se ti è successo qualcosa mi spaventa».

Provai a dire qualcosa, ma lui non mi lasciò parlare.

«Hai deciso di restare a Santa Barbara e credo che principalmente la colpa di questa scelta sia mia. Perché se, mesi fa, le cose fossero andate diversamente, a quest’ora tu saresti chiusa nel tuo studio a lavorare fino allo sfinimento, al piano di sopra. Noi due avremmo passato insieme la pausa pranzo e poi saremmo tornati a casa e avrei fatto l’amore con te per tutta la notte, facendoti provare cose che neanche immagini. Perché non so cosa tu credi sia stata quella notte in montagna, ma non ero neanche vagamente al pieno delle mie forze».

Restai pietrificata. Non poteva dirmi certe cose, lui… mi avrebbe uccisa.

Cercai di mettere insieme una frase di senso compiuto.

«Chris, se le cose fossero andate diversamente, mesi fa, credo che tutta questa estate non sarebbe mai esistita».

«Forse sì. Forse sarei ugualmente venuto a Santa Barbara, ma lo avrei fatto con te e non con Shereen. Le cose sarebbero andate in modo molto diverso, Chelsea».

Si staccò dalla porta e cominciò ad avvicinarsi a me.

Io indossavo una camicia rossa di raso, con le maniche a sbuffo che mi coprivano appena le spalle, una gonna nera a vita alta, lunga da sopra l’ombelico fino a metà coscia e un paio di decolté nere di vernice con i tacchi a spillo.

Chris si fermò a pochi centimetri dal mio volto e mi accarezzò una guancia con il dorso della mano.

«Sei così bella».

Chiusi gli occhi a quel contatto ed ebbi voglia di mettergli una mano sul collo, attrarlo a me e baciarlo, ma resistei. Dovetti farlo.

Quando riaprii gli occhi, vidi che mi stava osservando come mai aveva fatto prima, neanche mentre facevamo l’amore nel rifugio in montagna.

«Perché mi fissi in quel modo?».

«Perché non voglio dimenticare niente di te, Chelsea».

«Hai paura di potermi dimenticare?», gli chiesi guardandolo con intensità.

Lui mi restituì lo sguardo.

«No. Non potrei mai dimenticarti… ».

Mi accarezzò la guancia con il pollice e, mentre lo faceva, notai che si avvicinava al mio volto sempre di più.

Ma che diavolo stavamo facendo?

Sapevo che avrei dovuto fermarlo, che avrei dovuto impedirglielo, che lo avevo addirittura promesso a me stessa, ma a quale scopo?

Io e Chris non ci saremo più visti e, per tutta la durata di quella conversazione, avevo sentito in bocca il sapore amaro dell’addio.

Avevo ormai appurato di essere una persona orribile, peggio del fare l’amore con lui non poteva esserci niente e dato che quello ormai lo avevo fatto, un ultimo bacio non avrebbe fatto la differenza.

Ero ancora combattuta sul da farsi; se sottrarmi o meno a quel bacio, ma ormai la bocca di Chris era sulla mia.

Non mi spostai e anzi, presi il colletto della sua camicia e lo attrassi a me per sentire ancora di più la morbidezza e il calore delle sue labbra sulle mie.

Il ragazzo era lento, dolce, come se volesse essere sicuro che non mi allontanassi da lui, prima di approfondire il bacio. Poi, dischiuse le labbra e, delicatamente, iniziò ad esplorare la mia bocca con la lingua ed io risposi con trasporto.

Sentii le sue mani correre ai bordi della mia camicia, cominciando a sfilarla da sotto la gonna, finché non riuscì a toglierla, facendola passare dalla testa. Abbassò la cerniera della gonna, che cadde sul pavimento, e mi prese in braccio, facendomi sedere sulla scrivania.

Sotto la gonna indossavo un paio di culottes nere in pizzo e, non appena Chris le vide, sgranò gli occhi.

«Tu mi vuoi morto».

«Sta zitto e baciami».

Non se lo fece ripetere due volte e tornò sulla mia bocca, famelico.

«Chelsea?».

«Sì?», ansimai.

«Ho bisogno di sentirtelo dire, almeno una volta e poi non sarà mai più. Ma una volta, lo devi dire».

Sapevo a cosa si stesse riferendo; voleva che gli dicessi quanto lo amavo.

«Perché, Chris? Perché vuoi ferirci così tanto?», chiesi mentre passava una mano sul mio reggiseno, ed io fremetti contro il suo corpo caldo.

«Perché voglio ricordarlo. Perché ho bisogno di questo ricordo come l’aria che respiro».

«Ti amo», mi uscì di getto e Chris si fermò dal baciarmi il collo, puntando gli occhi nei miei.

«Dillo di nuovo».

Aveva la camicia nera completamente aperta, gli occhi illuminati dall’eccitazione e i capelli assolutamente spettinati.

Ressi il suo sguardo e gli posai una mano sul petto, all’altezza del cuore e lui mi accarezzò lievemente il ventre , ma con desiderio.

«Io ti amo, Christian Devon Williams».

Per altri cinque secondi, mi guardò fisso, poi si rituffò sulle mie labbra, facendomi stendere completamente sulla scrivania.

Afferrò con forza le mie culottes, sfilandole ed io non opposi resistenza. Lo volevo, era inutile, lo volevo, ma quello che fece mi sorprese, tanto che mi strappò un gemito.

Perché Chris si era chinato a baciare la mia coscia e proseguì in una scia di baci fino ad arrivare in mezzo alle gambe.

«Chris!», ansimai, ma velocemente, la sua mano mi tappò la bocca e lui tornò a fissarmi.

«Non gridare, Chelsea… ricordati che siamo nel mio ufficio».

«E allora tu non farmi questo… », avevo la voce rotta dal mio respiro accelerato.

Sentii appena la sua voce mormorare: «Troppo tardi… », perché un momento dopo, sentii le sue labbra e la sua lingua torturare la parte più intima di me.

Una sua mano era sempre a tapparmi la bocca, mentre una delle mie stava stringendo forte i suoi capelli, tanto che temetti di strapparglieli, ma a lui sembrava non importasse mentre era letteralmente immerso dentro di me.

Con l’altra mano, afferrai la sua spalla e mi resi conto solo vagamente di averlo stretto così convulsamente da affondargli le unghie nella carne.

Quando raggiunsi il piacere, fu ancora più sconvolgente della prima volta e strinsi le ciocche bionde di Chris con forza.

Poi il ragazzo arretrò lentamente, staccandosi da me, ma continuando ad osservarmi con occhi ardenti.

Lui mi baciò l’ombelico, l’addome piatto, il seno, sul quale indugiò qualche minuto, spostando il reggiseno e infine tornò sulla mia bocca ed io sentii il mio sapore sulle sue labbra.

«Sei buona… sei dolce… », sussurrò roco, contro il mio orecchio.

«Basta, Chris. Se lo dici ancora… io potrei non lasciarti mai più».

Lui era sconvolto: capelli completamente in disordine, camicia aperta e stropicciata ed un evidente rigonfiamento all’altezza del cavallo dei pantaloni.

Io ero ancora sdraiata sulla sua scrivania, praticamente nuda, ansante e accaldata.

«E allora non farlo, non te ne andare. Quello che abbiamo appena fatto dovrebbe farti capire quanto ti amo, perché… perché… », ma s’interruppe, mentre io mi alzavo e cominciavo a rivestirmi.

«Perché, Chris?».

«Perché non lo avevo fatto prima d’oggi. Mai. Nemmeno a Shereen», quella confessione mi lasciò spiazzata ed io ammutolii.

Chris, ancora con la camicia aperta, mi stava dando una mano a tirare di nuovo su la cerniera della gonna, quando sentimmo bussare alla porta e il cuore ci balzò in gola.

«Chris?».

Era una voce maschile che io non riconobbi, ma lui  a quanto pare sì, perché d’un tratto sbiancò.

«Chi è?», sussurrai.

«È Adam: mio fratello maggiore».

Sgranai gli occhi e, mentre lui in fretta e furia si riabbottonava la camicia, io diedi un contegno ai miei capelli, infilai gli occhiali che tenevo in un astuccio dentro la borsa e mi misi alla sua scrivania, fingendo di interessarmi a qualcuna delle cartelle mediche sparse sul piano.

Avevamo proprio combinato un bel disastro lì sopra.

Quando il ragazzo aprì la porta, sentii la voce, ora più chiara, di suo fratello dire: «Oh, finalmente ti sei degnato di aprire, si può sapere cosa diavolo stavi comb… », ma s’interruppe, probabilmente vedendo me, che in quel momento stavo leggendo una diagnosi di insufficienza epatica come se ne andasse della mia vita.

«Buongiorno», mi salutò lui e, solo in quel momento, mi decisi ad alzare lo sguardo, come se prima non mi fossi assolutamente accorta di nulla.

Non riuscii bene a definire il colore dei suoi occhi; era un misto tra grigio, verde e castano, mentre i capelli erano tra il castano e il biondo.

Non somigliava molto a Chris, però aveva la stessa struttura fisica del fratello: slanciato, asciutto e muscoloso, ma non troppo.

«Buongiorno», dissi cercando di risultare il più naturale possibile.

«Io sono Adam, il fratello di Chris. Lavorate insieme?», chiese, porgendomi una mano.

«Io sono Chelsea, lavoro al piano di sopra, ma… Chris mi ha chiamata per un ultimo consulto».

«Ultimo?», mi fece eco.

«Sì, io… mi trasferisco, quindi… oggi ero venuta semplicemente a firmare le dimissioni, ma mentre andavo via, mi ha… soltanto chiesto un’opinione riguardo ad un caso», cercai di inventarmi una balla credibile.

«Oh, capisco… beh, è proprio un peccato che tu vada via, Chelsea. Mi sarebbe piaciuto molto… approfondire la nostra conoscenza. Purtroppo il mio fratellino non è un chiacchierone e non mi aveva mai detto di lavorare con una ragazza così bella, altrimenti mi sarei fatto venire qualche male improvviso».

Se gli sguardi avessero potuto uccidere, ora Adam sarebbe morto a giudicare dall’occhiata che Chris gli lanciò alle sue spalle.

Sorrisi per cercare di attenuare la  tensione.

«Temo che tu sia arrivato troppo tardi, se posso, ripartirò oggi stesso».

«E dove andrai, di bello?».

«Santa Barbara».

«Però… Chris ha passato un mese a Santa Barbara, ha detto che è rimasto molto colpito».

Dio, era così imbarazzante.

«Magari una volta verrò a trovarti, così potrò constatare io stesso», il sorriso dell’uomo era luminoso.

«Adam. Adesso basta».

Lo sguardo ammonitore di Chris fu sufficiente a far tacere il fratello.

«D’accordo, calmati, fratellino. Non volevo essere invadente».

Il mio amico sospirò.

«Come mai sei qui?».

«Mamma voleva che ti avvisassi che stasera abbiamo ospiti a cena, quindi… fatti bello», disse con disarmante naturalezza.

«Ospiti? E chi?».

«Se ho origliato bene la chiamata tra mamma e papà, credo che mamma abbia organizzato una cena con la tua fidanzata. E famiglia».

Mi sentii sbiancare e mi tremarono le ginocchia.

Per fortuna, Adam in quel momento stava guardando Chris e non lo vide, ma il ragazzo, impallidito anche lui, lo notò, guardandomi preoccupato.

«D’accordo, adesso è meglio che tu vada, Adam».

«Ma come? Mi liquidi così?».

«C’è gente che deve lavorare, qui».

«Te l’hanno mai detto che hai proprio un caratteraccio?».

Ma un’altra occhiata omicida del fratello minore lo fece mettere sulla difensiva.

«D’accordo, d’accordo, me ne vado. È stato un vero piacere conoscerti, Chelsea», detto questo, mi baciò il dorso della mano con fare galante e andò via, sparendo oltre la porta.

Ebbi quasi la sensazione di sprofondare e, solo la voce di Chris, mi riportò alla realtà.

«Chelsea?».

Lo osservai, non vedendolo veramente.

«Dovrò venire anch’io. Lo so che i miei genitori mi costringeranno a venire».

Lui fu subito da me, stringendomi forte.

«Mi dispiace. E mi dispiace per mio fratello, non pensare male di lui, è un bravo ragazzo, ma spesso si comporta come un vero idiota, nonostante abbia quasi ventotto anni».

«Credimi… tuo fratello non è la prima preoccupazione che ho al momento».

Detto questo, mi sciolsi dall’abbraccio del ragazzo con un milione di pensieri che mi frullavano in testa.

 

Note dell’Autrice:

Ebbene, questo capitolo vi confesso che non era calcolato, infatti è anche piuttosto corto rispetto agli altri. (Un po’ come il capitolo 7).

Inizialmente, l’idea era di dedicare un breve momento a Chelsea e Chris nell’ufficio di quest’ultimo e passare direttamente alla cena, ma poi… niente, da cosa nasce cosa e mi sono messa a scrivere (ho finito quasi alle quattro di mattina).

Spero che vi sia piaciuto, io mi sono sentita un po’ in imbarazzo mentre scrivevo e mi sono fatta duemila paranoie sul fatto di essermi spinta un po’ troppo oltre con la descrizione del loro momento di passione. Non vorrei mai che magari sfociasse nel rating rosso.

Ad ogni modo, abbiamo visto che Chelsea è finalmente riuscita a dire quelle due parole a Chris, probabilmente perché convinta del fatto che non dovrà vedere il ragazzo mai più.

Povera cara, si illude anche XD

Qui, inoltre, abbiamo introdotto un nuovo personaggio: Adam, uno dei membri della numerosa famiglia Williams. Cosa ne pensate di lui? Che impressione vi ha fatto a pelle? Vi anticipo che nei prossimi capitoli, sarà un personaggio di grande importanza!

Mi raccomando, in questo capitolo più che mai ho bisogno di sapere che cosa ne pensate!

A presto!

Adam Williams – Sam Claflin

 

DAL CAPITOLO 17:

“Lo sentii sospirare forte e si avvicinò, ma lo bloccai.

«Non credo che sia una buona idea, Chris».

«Chelsea, per favore. Non ti posso… più toccare, adesso?».

«Sarebbe veramente meglio di no. Tutte le decisioni che abbiamo preso fino ad ora, Chris, sono state le decisioni sbagliate. Ora voglio cominciare a fare le scelte giuste».

Lo capii dal suo sguardo.

Capii dal suo sguardo che lui sapeva cosa stavo per dire. Capii dal suo sguardo… che sapeva che stavo per distruggerlo.”

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Capitolo 17
*** La famiglia Williams ***



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cap 17  







CAPITOLO 17: LA FAMIGLIA WILLIAMS

 

Durante il tragitto dalla clinica alla casa dei miei, non feci che pensare ad una scusa da imbastire per evitare la cena di quella sera a casa della famiglia di Chris.

Soprattutto dopo ciò che era appena successo tra me ed il ragazzo, il nostro… momento di passione in quell’ufficio, il fatto che gli avevo finalmente detto di amarlo.

Come potevo guardare negli occhi Shereen e i miei genitori? Come potevo guardare negli occhi Adam e gli altri fratelli di Chris?

Cercai di calmarmi, dovevo riprendere il controllo.

Avevo bisogno di Ryan, in quel momento, o anche di Gale, ma non mi ero portata dietro la maledetta scheda del mio telefono e quindi non sapevo come contattarli.

Una chiamata con il fisso di casa era fuori questione, troppa gente intorno.

Mi distrassi dal pensarci quando arrivai in quella che per anni avevo chiamato “casa”, spensi il motore dell’auto di Gale e suonai al campanello.

Venne ad aprirmi mio padre, sorridente come un bambino quando mi vide.

«Ciao, tesoro!».

«Papà», lo abbracciai di rimando.

Lui mi fece entrare e, poco dopo, arrivò mia madre.

«Ciao, Chelsea».

Le sorrisi e abbracciai anche lei.

Quel posto era identico, dall’ultima volta che ero stata lì, ma mi sembrava tutto così diverso, come se non riconoscessi più di esserci cresciuta. Adesso in quella casa mi sentivo un’estranea.

Mi guardai intorno, di Shereen non c’era traccia.

Come se mi avesse letto nel pensiero, mamma disse: «Tua sorella è fuori con alcune sue amiche. Credo siano andate a fare shopping per stasera. Sai, abbiamo ricevuto un invito a cena e… ».

Eccola lì. Mia madre stava prendendo il giro largo per arrivare al succo della questione.

«Mamma», la fermai subito.

Lei mi osservò, così come anche papà. Non avevo mai interrotto nessuno di loro, mentre mi parlava.

«Lo so già. Voglio dire… la cena a casa di Chris, sì, lo so. E la risposta è no».

«Come fai a saperlo?», chiese lei, stupita e sospettosa al contempo.

«Perché ero alla clinica, nell’ufficio di Chris quando è arrivato suo fratello e ce lo ha detto».

«Suo fratello? Io credevo che avesse solo una sorella piccola… quella che lo chiamava ogni sera».

Risi.

«Oh, no, credimi… questa sera resterete sorpresi dallo scoprire quanto numerosa sia quella famiglia».

«Cosa intendi dire?».

«Stasera vedrete».

«No. Stasera vedremo. La signora Williams è stata perentoria: la loro famiglia al completo e  la nostra famiglia al completo. So che sarà difficile per te, Chelsea… ma questa sera verrai con noi».

«E se avessi già dei programmi?» tentai.

«Ne hai?».

Maledizione. Perché mia madre non si limitava a cedere e basta?

Sbuffai.

«Potrei».

«A questo punto, lo ritengo un no».

Papà sorrise, un po’ incerto. Aveva sempre preferito tenersi al di fuori di questi scontri tra donne.

Maschi codardi.

«Mamma, non ho neanche niente da mettere!». Tutti gli abiti decenti che avevo, li avevo portati a Santa Barbara.

«Non serve altro, così sei bellissima!».

A questo punto era chiaro, non avrei mai ottenuto niente.

Con la scusa di volermi stendere un po’, andai in quella che era stata la mia camera da letto, passando prima in cucina per rubare il cordless e, una volta al sicuro tra le mura della mia stanza, composi a memoria il numero del cellulare di Ryan.

«Ehi, Chelsea! Da dove chiami?».

«Casa dei miei. Senti, Ryan… ti devo dire una cosa».

Il suo tono si fece subito serio.

«Che cosa è successo?».

A grandi linee, gli spiegai di ciò che era accaduto quella mattina, ovviamente saltando il minuscolo dettaglio di me seminuda sulla scrivania di Chris; certe cose era meglio non dirle, però gli parlai di suo fratello e dell’invito a cena.

«Oh, maledizione».

«È esattamente quello che ho pensato io».

«Che si fa? Vengo a prenderti, lasciando un biglietto di riscatto ai tuoi? Insceniamo un rapimento?».

«Calmo, James Bond, non mi sembra il caso di arrivare a tanto».

«E allora cosa facciamo? Intendi semplicemente partecipare a quella cena? Chelsea, io ammiro il tuo coraggio, ma tu sei a livelli epici di autolesionismo».

«Non è che abbia esattamente sventolato gli striscioni dall’entusiasmo, quando il fratello di Chris ci ha dato la lieta novella, qualche ora fa… ».

«Sì, posso immaginare… ».

«E poi sai una cosa? Mi ha comprato un cellulare!».

«Ma chi, Chris?».

«Sì! Giuro che all’inizio ero così incazzata, che stavo per lanciarglielo contro».

«E perché te lo ha preso?».

«Mia madre deve avergli detto che il mio si è rotto e lui sa meglio di chiunque altro che io e la tecnologia siamo su due lunghezze d’onda completamente diverse».

«Non dovevi accettarlo, Chelsea».

«Infatti, ma lui me l’ha infilato a forza nella borsa. A quel punto non ho neanche reagito, tanto sapevo perfettamente come sarebbe andata a finire. Non mi avrebbe fatto uscire dal suo ufficio senza quel dannato telefono».

Lo sentii sospirare.

«E stasera? Quali sono le previsioni metereologiche?».

«Venti glaciali» dissi atona.

«Proprio come sospettavo. Avanti, prometti che cercherai di essere il più serena possibile e che mi scriverai non appena la cena sarà finita».

«Ryan? La mia sim adesso è a Santa Barbara».

«Oh. Giusto. Beh, allora chiamami appena arrivi domani ed io sarò subito da te».

«D’accordo».

«E non farti venire attacchi di panico… o istinti omicida».

«Dici che non è il caso?».

«Sì, dico che non è il caso».

«Dannazione».

Ridemmo entrambi, poi dissi: «Ok Ryan, adesso è meglio che vada. Devo... prepararmi psicologicamente».

«Va bene e mi raccomando… cerca di stare calma».

«Ci proverò».

Detto questo, riattaccai.

Per tutto il pomeriggio, non feci altro che camminare su e giù per la mia stanza, ero così nervosa che avrei potuto rompere qualunque cosa avessi preso in mano, così, ad un tratto, andai in garage a prendere una valigia e iniziai a riempirla.

I vestiti che avevo a Santa Barbara non mi sarebbero certo bastati ora che mi ero trasferita lì stabilmente.

Quando il bagaglio fu pieno da scoppiare, non sapevo più in che altro modo potessi occupare il tempo, allora indossai un costume da bagno e andai a stendermi sulla sdraio a bordo piscina, con un buon libro tra le mani.

Lessi per un’ora e poi decisi di fare un bagno; se si fosse fatto troppo tardi, poi non avrei più avuto il tempo di prepararmi.

Shereen non era ancora arrivata quando tornai in casa per farmi una doccia, così mi rilassai sotto il getto piacevolmente tiepido dell’acqua, insaponandomi bene con un bagnoschiuma all’olio di Argan.

Mi lavai accuratamente, asciugai i capelli che ricaddero in morbide onde lucenti sulla mia schiena e fermai due ciocche dietro la testa con un fermaglio a forma di fiore.

Poi mi truccai leggermente con un filo di matita nera sotto gli occhi e un velo di ombretto color bronzo sulle palpebre. Infine colorai le labbra con un rossetto rosso cupo.

«Tesoro, sei splendida», disse mio padre non appena mi vide.

«Grazie».

In quel momento arrivò Shereen, incantevole in un abito blu notte  che le arrivava fino al ginocchio, i capelli raccolti in una treccia laterale e un paio di sandali dello stesso colore dell’abito.

«E anche tu, Shereen».

Mia sorella fece un sorriso di circostanza, ma il suo nervosismo era palese.

Che lei fosse nervosa, per me era una novità assoluta. Di solito manteneva un distacco totale da ogni situazione. Gli unici momenti in cui l’avevo vista vacillare, erano stati i giorni successivi alla morte del nonno.

Scacciai quel pensiero con una fitta a stringermi il petto e, quando arrivò anche mamma, uscimmo tutti di casa.

Il viaggio di andata fu silenzioso e teso e, quando il navigatore satellitare ci informò che avevamo raggiunto la meta, scendemmo per lasciare che papà si infilasse in un parcheggio tra due macchine.

Ero nervosa, il cuore mi batteva forte, neanche fossi io a dovermi presentare alla famiglia Williams come la fidanzata di Chris.

Fu proprio il ragazzo a venire ad aprirci, teso almeno quanto noi. Potevo vederlo dalla sua postura rigida.

Dall’interno della casa proveniva un vociare concitato e si capiva subito che dovesse esserci un gran movimento, lì.

Chris si dileguò dopo aver preso le nostre borse, dicendo che doveva andare un momento da sua madre e a quel punto, mia madre si voltò a guardare Shereen.

«Ma quante persone ci sono in questa casa?», chiese a bassa voce; ma mia sorella, pallida, non seppe cosa risponderle.

A quel punto, mamma guardò me.

«Chelsea?».

«Chris ha cinque fratelli. Cioè… due fratelli e tre sorelle».

Shereen a quel punto sgranò gli occhi, ma non disse niente. Sembrava che avesse momentaneamente perso l’uso della parola.

Il fatto che io ne sapessi più di mia sorella sul conto della famiglia di Chris, mi diede da pensare e mi fece anche un certo effetto.

Ad ogni modo, non ebbi troppo tempo per riflettere su questo, perché un uomo e una donna sui cinquant’anni ci vennero incontro.

«Buonasera!», ci salutò allegra lei, ed io restai pietrificata… Chris era praticamente la versione al maschile e più giovane di quella donna.

Il ragazzo ci raggiunse subito e ci fecero accomodare in un salotto che sembrava dovesse contenere più persone di quante avrebbe potuto.

Le nostre famiglie si scambiarono i convenevoli di rito, le dovute presentazioni e poi, la mamma diede alla madre di Chris il dolce che aveva preparato per la serata. Lo aveva rifatto tre volte prima di esserne convinta al cento per cento.

Lei era fatta così: tutto doveva essere assolutamente perfetto, soprattutto per un’occasione del genere.

Assistere a tutta quella scena, mi fece male; anche solo guardare Chris mi faceva male, ma avrei resistito. Dovevo farlo. Cosa che comunque non risultava semplice dato che, ogni volta che mi guardavo intorno, trovavo gli occhi del ragazzo fissi su di me e le immagini di quella mattina nel suo ufficio mi tornavano alla mente. Fu quasi come risentire le sue mani sul mio corpo ed io avvampai, apparentemente senza motivo.

Fu un sollievo quando nella stanza cominciarono ad arrivare i suoi fratelli e le sue sorelle.

I primi ad entrare furono un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano.

Lui, biondo e dagli occhi chiari, doveva essere di certo un Williams, mentre lei presumevo fosse la sua fidanzata.

Ci avevo visto giusto perché Chris disse: «Lui è mio fratello Peter, lei invece è Julie, la sua ragazza» i due dovevano essere ancora alle superiori, probabilmente.

Dopo di loro, arrivarono Megan e Jethro, rispettivamente la prima figlia e suo marito, seguiti da Jenna, che aveva la mia stessa età ed infine arrivò Holly, che subito andò da mia sorella e le disse: «Ciao! Tu sei Chelsea? Mio fratello mi ha parlato tanto di te!».

La temperatura nella stanza calò a picco fino a raggiungere livelli glaciali.

Chris sbiancò, io m’irrigidii, così come anche Shereen ed i miei genitori.

«Holly, lei e Shereen, la mia fidanzata, mentre lei è Chelsea: la mia amica».

L’espressione di Holly, a quelle parole, parve confusa.

«Ma… ».

«Holly, perché non vai a lavarti le mani, tesoro? Tra poco si mangia… », intervenne Jenna, salvando la situazione e prendendo per mano la bambina.

Le due uscirono dalla stanza, lasciandosi alle spalle un silenzio teso, che fu interrotto da Megan, che disse: «Allora… Santa Barbara, giusto? Chris ha detto che è davvero un bel posto. Dovremmo andarci anche noi, vero Jethro?», sorrise rivolta al marito, che ricambiò lo sguardo.

«Assolutamente, dovremmo proprio fare un viaggio».

Prendemmo posto attorno al tavolo e l’atmosfera parve rilassarsi, così iniziammo a parlare del più e del meno. La madre di Chris faceva un po’ di via vai dalla cucina e mia madre si offrì di darle una mano, o meglio… glielo impose. Quella donna non riusciva proprio a stare ferma, soprattutto quando era nervosa.

L’avevo vista giocherellare con il ciondolo a forma di sole, poco prima.

Accanto a me però notai un posto vuoto e, solo in quel momento, mi resi conto dell’assenza di Adam.

Chris era dall’altra parte del tavolo, un po’ distante da me, quindi non potei nemmeno chiedergli nulla.

«Manca ancora uno dei nostri figli, ma arriverà presto, è rimasto bloccato in ufficio per questioni urgenti» sentii la voce di Constance Williams, la madre di Chris, provenire dalle mie spalle.

Doveva aver notato che guardavo confusa il piatto vuoto di Adam.

«Oh, potevamo aspettarlo» disse a quel punto mio padre, seduto a capotavola.

«Non c’è nessun problema, sarà qui a momenti» rispose Traver, il padre di Chris, all’altro capo del tavolo.

Infatti, non avevamo ancora finito l’antipasto quando sentimmo la porta d’ingresso aprirsi e la familiare voce di Adam, esclamare: «Sono a casa!».

Mi balzò il cuore in petto; era come se avessi realizzato solo in quel momento che il fratello maggiore di Chris dovesse sedersi al mio fianco e, come se avessimo una connessione mentale, anche il mio amico alzò gli occhi preoccupato, guardando verso di me.

Io ero di spalle alla porta e non vidi Adam entrare.

Prima il ragazzo si avvicinò a mio padre, stringendogli la mano e poi fece la stessa cosa con mia sorella e mia madre.

Quando fu il mio turno, alzai gli occhi a guardarlo e vidi immediatamente la sorpresa nella sua espressione.

«Chelsea?».

Ora il vociare allegro intorno alla tavola si era spento e tutti ci stavano osservando.

Maledizione.

«Ciao, Adam».

«Tu… ? Che cosa ci fai qui?».

«Ricordi stamattina quando hai detto a Chris… “cena stasera con la tua fidanzata e famiglia”?».

«Sì… »

«Beh, eccomi qua… sono compresa nel pacchetto famiglia».

«Oh, io… avevo capito che saresti ripartita oggi per Santa Barbara, subito dopo aver lasciato la clinica».

«Infatti il mio programma era quello, ma poi… dato l’invito a cena, mia madre ha preferito che restassi».

Non volevo sembrare scortese, anche se probabilmente avevo appena dato quell’impressione.

«Un momento… voi due vi conoscete già? Questa mattina? Ma di cosa state parlando, Adam?», era stato il signor Williams a prendere parola.

«Niente, papà, stamattina… quando mi avete chiesto di avvertire Chris della cena, ho incontrato Chelsea nel suo ufficio. Loro lavorano insieme. Anzi… lavoravano insieme», si corresse.

Le espressioni della maggior parte dei presenti erano molto sorprese; possibile che Chris non avesse mai parlato loro del fatto che lavoravamo insieme? O forse era più probabile che gli avesse tenuto nascosto che io ero la sorella della sua fidanzata. Questa ipotesi mi sembrava più valida.

«Al passato? C’è qualcosa che devi dirci, Chris?», il tono del padre era inquisitorio, così intervenni subito in difesa del mio amico.

«No, no, signor Williams, si tratta di me. Sì, insomma… sono io, ho dato le dimissioni stamattina. Chris… è davvero bravo».

Il ragazzo abbozzò un sorriso nervoso.

«Non quanto te, pare… Jefferson mi ha quasi preso a insulti quando gli ho detto che ti saresti trasferita a Santa Barbara in modo permanente».

La tensione intorno al tavolo si attenuò.

«Stai scherzando?».

«Oh, no… mi ha afferrato per le spalle, gridando di convincerti a non farlo, anche a costo… », ma parve subito pentirsi di quelle parole, così cercai di andare in suo soccorso.

«Io te lo avevo sempre detto che quel tizio era un po’ troppo melodrammatico, ma tu non mi ascolti mai… », dissi in tono canzonatorio.

Per fortuna ero riuscita a distrarre la situazione da quell’imbarazzante momento in cui Chris aveva tentennato, chissà che cosa gli aveva detto quel pazzo di Jefferson.

Notai però la strana occhiata di Adam. Dannazione, probabilmente a lui non era sfuggito quel mio salvataggio all’ultimo secondo e anche Chris se ne accorse, perché mi lanciò uno sguardo significativo.

Finsi di non accorgermi di nulla e ripresi a mangiare; nel frattempo era arrivata la pasta, ma io ero così occupata a tenere sotto controllo tutta quella situazione, che non mi rendevo nemmeno conto di cosa stessi mangiando.

Ad un tratto, sentii la voce di Adam a pochi centimetri da me.

«E così… quando riparti per Santa Barbara?».

Mi venne la pelle d’oca quando, voltandomi, mi ritrovai il volto dell’uomo a pochi centimetri dal mio.

In quel momento, Chris stava parlando con Jenna, ma non appena notò la scena, il sorriso gli si congelò sulle labbra e l’espressione s’indurì.

«Ehm… domani, a questo punto. Credo proprio che ripartirò domani mattina».

«Tra l’altro, tesoro, adesso che mi ci fai pensare… », intervenne mia madre  in quel momento, e io decisi che le avrei costruito un monumento perché Adam si scostò, tornando ad una distanza di sicurezza.

«Ho notato l’auto con cui sei arrivata e… ne hai già presa una nuova? Insomma, la tua… ».

Ok, forse non avrei eretto nessuna statua; riportarmi alla mente il giorno dell’incidente, mi fece rabbrividire e notai che adesso anche Shereen si era interessata, tanto che disse: «Mamma… non mi sembra il momento di parlare dell’incidente... ».

Se avessi potuto, le avrei dato un bacio, ma attorno alla tavola, scese uno strano silenzio.

«La macchina è di Gale, mi ha prestato la sua».

Poi, notando le espressioni attonite della famiglia Williams, spiegai brevemente: «Ho avuto un piccolo incidente, quest’estate. Niente di che», minimizzai.

Sentii Chris emettere una risata falsa, nervosa e tutti ci voltammo a guardarlo.

«Niente di che, sì… se non si considera che sei quasi morta».

«Christian!», lo riprese sua madre.

Il cuore mi batteva forte ed io mi morsi il labbro inferiore.

«Se non è successo, è grazie a te».

Mi ero fatta audace, guardandolo dritto negli occhi e lui sostenne il mio sguardo, come a sfidarmi.

Dio, perché adesso ci comportavamo così?

A quel punto, il signor Williams cercò di riportare la conversazione su toni un po’ più leggeri, con il solo risultato di peggiorare ulteriormente la situazione, anche se inconsapevolmente.

«E così, Chelsea, hai deciso di restare a vivere con tuo nonno?».

Persi un battito e dal fondo della gola mi uscì un rumore strozzato.

«PAPÀ!», esclamò Chris, improvvisamente allarmato.

Ed io capii che dovevo allontanarmi da lì e subito.

«Scusatemi», mormorai un attimo prima di alzarmi dal tavolo e lasciare la stanza.

Nell’andarmene, avevo notato gli occhi lucidi di mia madre e lo sguardo affranto di mio padre.

Sentii solo in lontananza la voce di Chris esclamare: «Chelsea, aspetta!», prima di uscire dalla porta sul retro.

Mi ritrovai su una piccola veranda che dava su un giardinetto.

I pensieri mi si affollavano in testa ed io mi strinsi le tempie per cercare di dominarli, o sarei impazzita. I ricordi del mese appena trascorso, si stavano riversando tutti insieme dentro di me, ed era troppo. Troppo e tutto insieme.

«Chelsea… ».

La voce di Chris alle mie spalle, mi fece tornare in me.

«Io… scusami. Fai le mie scuse a tuo padre, ti prego».

«No, è lui che si scusa con te. Mi dispiace, è che… se avessi potuto, avrei impedito questa cena. Avrei dovuto dire ai miei tutto ciò che è successo, ma… il tuo incidente, il tizio con la pistola, tuo nonno, la montagna… si sarebbero spaventati a morte».

Il ragazzo parlava lentamente.

«Lo so. Se le situazioni fossero state invertite, probabilmente io avrei agito allo stesso modo».

Lo sentii sospirare forte e si avvicinò, ma lo bloccai.

«Non credo che sia una buona idea, Chris».

«Chelsea, per favore. Non ti posso… più toccare, adesso?».

«Sarebbe veramente meglio di no. Tutte le decisioni che abbiamo preso fino ad ora, Chris, sono state le decisioni sbagliate. Ora voglio cominciare a fare le scelte giuste».

Lo capii dal suo sguardo.

Capii dal suo sguardo che lui sapeva cosa stavo per dire. Capii dal suo sguardo… che sapeva che stavo per distruggerlo.

«Noi non dovremo vederci mai più, Chris. Non mi devi scrivere, né telefonare. Non devi chiedere a mia sorella o ai miei genitori alcuna notizia su di me. Vivi la tua vita e dimenticami, perché non c’è alcun futuro».

L’espressione del ragazzo era immobile come pietra e come pietra era grigio il suo colorito. Ora veniva la parte più dura e dovevo anche mentirgli. Ero una persona orribile e avrei mentito al mio migliore amico, alla persona di cui ero innamorata.

«Io mi sono pentita di tutto quello che abbiamo fatto insieme, Chris e per liberarmi di questo peso, non posso avere a che fare con te ogni giorno».

I suoi occhi erano vuoti.

A fatica, riuscì solo a dire: «Un peso? È questo che sono per te, Chelsea?».

Deglutii a vuoto.

«Sì».

Colsi un verso appena percettibile del ragazzo, come un suono strozzato, ma mille volte peggio e mi si formò un groppo in gola.

Non era finita lì, dovevo concludere per fare davvero in modo che non potesse più credere di avere la minima possibilità.

Le ultime bugie, quelle più grandi.

«Stamattina ti ho detto che ti amo, ma… non è vero, Chris. Non so perché l’ho detto, credo che sia stato solo l’impeto del momento e non avremmo assolutamente dovuto farlo», non riuscivo a guardarlo in faccia, mi sentivo morire ad ogni parola.

«E poi… », mi venne il colpo di genio finale, come per chiudere in bellezza.

«… ricordi il notaio del testamento del nonno? Beh, lui… mi ha chiesto di uscire ed io ho accettato».

Ora avevo finito.

Attesi una reazione di Chris, che non tardò ad arrivare, anche se non nel modo in cui mi aspettavo.

Fissò i suoi occhi, adesso glaciali, nei miei e disse: «Dimmelo in faccia, Chelsea. Guardami negli occhi e dimmi che non mi ami, perché fidati… stamattina sembravi credibile quando mi hai detto tutto il contrario».

Nel parlare, il ragazzo mosse qualche passo verso di me.

“L’ultimo sforzo, Chelsea… fai soltanto l’ultimo sforzo” pensai tra me.

Guardai quel ragazzo, che amavo, ma che adesso stentavo a riconoscere, e dissi: «Non ti amo, Chris. E puoi anche tenerti questo».

Detto ciò, estrassi il telefono che il ragazzo mi aveva portato quella mattina, mettendoglielo in mano.

Non potevo tenere un cellulare che mi aveva regalato lui; sarebbe stato troppo penoso.

A quel punto tornai dentro, sperando di averlo convinto.

Non appena misi piede nella sala da pranzo calò il silenzio e il padre di Chris mi venne incontro.

«Ti chiedo scusa, Chelsea. Mi… dispiace davvero molto».

Sorrisi.

«Non si preoccupi, non fa niente».

Ripresi posto al fianco di Adam, il quale chiese: «Mio fratello?».

«Penso che arriverà tra poco».

Il mio tono era freddo come il ghiaccio e Adam lo notò.

Intorno alla tavola era tornata la confusione, la cena proseguiva e, quando Chris rientrò, solo io e Adam notammo il pallore del ragazzo e il suo sguardo mortalmente serio.

«Vado a prendere il dolce che ha portato, signora Gaver… Chelsea… vuoi venire con me?».

Rimasi stupita dalle parole dell’uomo al mio fianco, almeno tanto quanto Chris, che lo osservò inarcando le sopracciglia.

«Sì, certo… », dissi con una certa riluttanza.

Lo seguii fino alla cucina, ma, quando ebbi varcato la soglia, lui si richiuse la porta alle spalle.

«Che cosa succede, Adam?».

«Perché non me lo dici tu, che cosa succede…?».

Cercai di sviare l’argomento, ma lui non me lo permise.

«Sai, magari ti ho fatto l’impressione di essere un vero idiota, oggi, ma a mio fratello voglio bene, nonostante mi verrebbe da ucciderlo con le mie mani, alle volte. E lo conosco a fondo, anche se lui si è sempre confidato più con Meg e Jenna, che con me. Lo conosco abbastanza da capire quando sta facendo qualcosa che vorrebbe, ma non può, ad esempio stamattina».

A quelle parole raggelai.

«Solo quando vi siete guardati stasera però, ho collegato che tu dovevi essere la Chelsea di cui l’ho sentito parlare una volta con Jenna. Non ricordo molto di quel discorso, forse stava raccontando di una serata al cinema, ma ricordo di avergli sentito dire che si era innamorato di te, quella sera. Per questo, quando ha annunciato di partire per un mese con la sua ragazza, sono rimasto sorpreso di sentire il nome “Shereen”, e seppi che qualcosa non era andato per il verso giusto. Non so come funzionino le cose nella tua famiglia, Chelsea, ma qui ci copriamo; quando si è in tanti, diventa quasi un istinto di sopravvivenza. Per questo, stamattina, ho ignorato il fatto di averlo trovato con la camicia ridotta in condizioni pessime, abbottonata mezza storta e i pantaloni che sembrava stessero per scoppiare dall’erezione che aveva».

A quelle parole trattenni il respiro, e lui mi guardò con un mezzo sorriso.

«Posso dire la parola “erezione”, o ti scandalizzi?», il suo sorriso era furbo.

Adesso mi stava prendendo in giro. Ero confusa; un attimo prima era come se mi stesse facendo la predica sulla sacralità della famiglia, l’attimo dopo cercava di mettermi in imbarazzo.

Quando vide che non avevo nessuna intenzione di parlare, o forse io stessa avevo perso l’utilizzo della parola, ero piuttosto provata in quel momento, aggiunse: «Chelsea… io non ti giudico, davvero. So cosa vuol dire essere traditi dalla persona di cui ti fidi, ma so anche cosa vuol dire tradire. E in ogni caso ti senti a pezzi, se hai un briciolo di coscienza. Io non so cosa sia successo tra te e mio fratello, ma quella specie di cadavere che prima è entrato di là, non è lui».

Fece una pausa, probabilmente aspettandosi che dicessi qualcosa, ma in quel momento mi sentivo davvero… stupida, cosa che mai era capitata prima, in vita mia.

«La storia tra me e tuo fratello è troppo complicata perché io riesca a spiegartela tutta adesso. Ci vorrebbero come minimo delle ore».

«E allora penso proprio che verrò davvero a fare quel viaggio a Santa Barbara».

Rimasi attonita. Si stava autoinvitando da me, per caso?

«Adam, io non credo che sia una buona idea».

«Io proteggo la mia famiglia, Chelsea. E, essendo così forte il tuo legame con Chris, perché lo è, ed io lo vedo, anche tu fai parte della famiglia. Non perché sei la sorella di Shereen, ma perché tra te e lui c’è quel qualcosa. E puoi cercare di negarlo quanto vuoi, ma… ».

«Non lo nego. È vero, un legame c’è, ed è forte. O almeno lo era, credo di averlo distrutto circa mezzora fa. Per questo lui aveva quella faccia. Ho spezzato quel legame per impedire, sia a me, che a lui, di fare una cosa tanto stupida. Gli ho spezzato il cuore».

«Amarsi è stupido, secondo te?».

«Quello che abbiamo fatto, il momento in cui lo abbiamo fatto… è questa la cosa stupida».

Lui sospirò, ma fummo interrotti dall’aprirsi della porta e Chris entrò in cucina, la sua espressione era furente.

«Per caso il dolce ve lo state mangiando voi due?».

Io m’irrigidii, ma l’espressione di Adam rimase distesa; sembrava che niente potesse turbare quell’uomo.

«No, ci eravamo solo fermati a fare due chiacchiere, fratellino».

«Sì, certo… beh… di là stiamo aspettando», detto questo si richiuse la porta alle spalle e tornò da dove era venuto.

«Meglio tornare, prima che mi ammazzi», disse Adam a quel punto.

Tornammo nell’altra stanza con il dessert in mano ed io sperai soltanto di tornare a casa il prima possibile; quella cena era stata troppo… carica di emozioni, per quanto mi riguardava.

Ad un tratto, la piccola Holly, che era uscita dalla stanza per non so quale ragione, tornò dentro dicendo: «Mamma… c’è un tizio strano nel vialetto».

«Un tizio strano?».

Il signor Williams si alzò subito in piedi, così come anche Adam, Chris e mio padre.

«Chelsea, che cosa stai facendo?», chiese mio padre vedendo che anch’io mi ero alzata.

Alle parole della sorellina di Chris, infatti, avevo improvvisamente avuto una orribile sensazione, un presentimento. Come se fosse appena accaduto qualcosa di cosmicamente sbagliato ed il mio cuore cominciò a battere forte nel petto.

Chris mi si piazzò davanti, ma lo scansai, avviandomi verso la porta e, quando l’aprii, seguita da tutti quegli uomini, vidi una sagoma che vagava per la strada, come senza meta, senza scopo.

Avrei distinto quei capelli neri ovunque.

«RYAN!», sentendo la mia voce il ragazzo si voltò, ma rimase fermo, immobile sul posto. Era orribilmente pallido.

In quel momento, arrivò mio padre.

Essendo il migliore amico del signor Kenyon, si era decisamente preoccupato sentendomi gridare il suo nome, ma ormai tutta la famiglia di Chris era praticamente radunata sulla porta.

Corsi in strada, verso il mio amico, che non capivo come accidenti fosse arrivato, dato che non c’era ombra della sua macchina, e lo scossi con vigore.

«Ryan! Ryan, dimmi che cosa è successo!».

Mi sentii afferrare un braccio e la voce di Chris che diceva: «Chelsea, piantala! Non vedi che è sotto shock? Megan!».

La sorella maggiore venne avanti, ora molto seria, mentre Peter e Julie riportavano in casa Holly.

Intanto, mia madre ci aveva raggiunti, mettendo una mano sulla spalla di Ryan e accarezzandogli piano i capelli. Restai sbalordita; mamma non era mai stata una persona molto espansiva e le uniche a cui aveva mai riservato quel gesto, eravamo io e Shereen.

«È decisamente sotto shock» confermò Megan. A giudicare dal suo tono risoluto doveva essere un medico.

Poi Ryan mi afferrò un polso.

«Devi tornare, Chelsea, subito», il suo tono era flebile, ma fermo. I miei genitori lo avevano fatto sedere su un muretto, così mi piegai alla sua stessa altezza per parlargli.

Avevo il cuore che mi martellava fortissimo nel petto, sembrava quasi che dovesse scoppiare.

Tutto, quella sera, stava andando maledettamente male.

«Ryan… ce la fai a dirmi che cosa è successo?».

Chris era ancora alle mie spalle, rigido, e poco dopo si avvicinò Shereen, stringendogli un braccio, ma quella fu l’unica volta in cui non m’importò niente.

«Torna a casa, è… », ma si bloccò. Infilò una mano in tasca e ne tirò fuori un orologio. Era un oggetto familiare, molto delicato, sicuramente femminile, con un cinturino in oro bianco e… completamente ricoperto di sangue.

Tutti, intorno a Ryan, trattennero il respiro per diversi istanti, perfino Megan si portò una mano alla bocca e suo marito le venne subito vicino.

Poi ricordai dove avevo visto quell’orologio: era di Gale. E lui seppe, dalla mia espressione, che avevo capito.

«È stato quell’uomo, Chelsea… quello da cui lei è scappata. Non so come abbia fatto, non so come abbia saputo che lei viveva da te, ma… l’ha trovata. È entrato in casa oggi pomeriggio e… Chelsea… Gale sta morendo».

 

 

Note dell’Autrice:

Eccomi qui con il capitolo 17! Direi che è stato abbastanza movimentato, ma, cosa ancora più importante, abbiamo fatto la conoscenza della famiglia di Chris che, da questo momento in avanti, avrà un ruolo molto importante.

Nel prossimo capitolo si saprà la sorte di Gale e verrà spiegata ogni cosa!

Vi lascio con l’estratto dal prossimo capitolo e con la famiglia Williams!

 

DAL CAPITOLO 18:

Chris puntò i suoi occhi chiari dritti nei miei.

«Davvero? Non saprei… ».

Fece una pausa, poi riprese. «E perché mi avresti mentito?».

«Non è ovvio, Chris? Per farti demordere da qualunque tuo intento. Quindi ora devi capire: torna a casa, non pensare a me e vivi la tua vita con mia sorella».

«In modo che tu potrai vivere la tua con mio fratello?».

A quelle parole rimasi esterrefatta.

«Che cosa, scusa?!».

 

Traver Williams – Stephen Collins

 

Constance Williams – Patricia Wetting

 

Megan Williams – Katherine Heigl

 

Adam Williams – Sam Claflin

 

Jenna Williams – Kaley Cuoco

 

Peter Williams – Louis Hunter

 

Holly Williams – Kylie Rogers

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Capitolo 18
*** In fuga ***



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18  






CAPITOLO 18: IN FUGA

 

Fu un secondo, solo un secondo.

Ryan parlò, rivelandomi quell’orribile verità ed il mio corpo agì prima di quanto potessi rendermi conto.

Strappai di mano a mio padre le chiavi della macchina che aveva estratto dalla tasca e iniziai a correre verso il veicolo.

«Chelsea!».

Fu più un grido, che un richiamo e non capii se fosse stato mio padre, Chris oppure Adam, o magari tutti e tre insieme.

In mezzo c’era stata una voce femminile, probabilmente mia madre, come forse anche Shereen. Non m’importava, perché ero già arrivata alla macchina, l’avevo messa in moto e stavo uscendo dal parcheggio. Sfrecciai nella strada sgombra, passando di fianco al marciapiede su cui erano tutti radunati, ma ignorai i cenni di mio padre, le urla di mia madre e la corsa di Chris, che provò a seguire la macchina per qualche metro, ma ero talmente veloce che il ragazzo si fermò quasi subito, dopo aver colpito con una mano la fiancata dell’auto, mentre sfrecciavo loro vicino.

Ryan era rimasto fermo immobile, davanti agli occhi avevo ancora il suo sguardo  spento.

Perché lui aveva perso sua madre.

Aveva quasi perso suo fratello.

Non poteva perdere la donna che amava.

Come poteva, il mondo, funzionare così maledettamente al contrario?!

Cambiavo marcia velocemente e non davo la precedenza agli stop; se la polizia mi avesse fermata, mi avrebbero ritirato la patente. Continuando a quella velocità però, mi sarei schiantata contro un muro molto prima.

Non m’importava neanche di quello.

Dovevo arrivare a casa, dovevo arrivare dalla mia amica, dalla mia coinquilina. Da lei che in quei giorni mi aveva aiutato a non pensare a Chris, che mi aveva detto di trovare un uomo con cui uscire e dimenticare il ragazzo che non potevo avere.

Lei aveva bisogno di me e Ryan aveva bisogno che andassi da lei.

Duecento all’ora, il motore della BMW di mio padre ruggiva.

Le poche macchine che incontrai, sterzarono bruscamente al mio passaggio ed io mi presi non so quale insulto dai loro proprietari.

Il cuore continuava a martellare nel petto; avevo lasciato a casa una Gale sorridente, con la faccia ancora gonfia dalla prima lite, ma in via di guarigione.

Lo avevamo denunciato, quel bastardo; perché non gli avevano fatto niente?

Come avrei trovato la mia amica, una volta tornata a Santa Barbara? Ma soprattutto… l’avrei ritrovata?

Non ci volli nemmeno pensare e spinsi il piede ancora più a fondo sull’acceleratore. Dannati tacchi.

Il paesaggio sfrecciava fuori dal finestrino ad una velocità tale che non riuscivo nemmeno a capire dove diamine fossi, ma non riuscivo a rallentare. Dovevo andare veloce, dovevo arrivare presto perché altrimenti temevo che sarebbe stato troppo tardi.

“Forza, forza, forza!”, era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare.

Ad un tratto premetti qualche bottone e si aprì il tettuccio della macchina, facendo svolazzare i miei capelli in tutte le direzioni.

Non rallentai fino a trovarmi davanti il familiare paesaggio di Santa Barbara, ormai ero quasi arrivata.

Guardai l’orologio sul computer di bordo: erano le due di mattina.

Entrando nel parcheggio dell’ospedale, notai un’ambulanza che partiva a sirene spiegate.

“Non c’è mai fine”, fu l’unica cosa a cui riuscii a pensare.

Spensi il motore dell’auto e richiusi il tettuccio.

Camminai fino ad entrare nel grande ospedale che ormai conoscevo bene e m’informai su dove fosse la mia amica.

Terapia intensiva. Uno dei reparti peggiori, a parer mio.

Almeno era viva.

Quando arrivai nel reparto, un’infermiera mi venne incontro con aria ammonitrice.

«Signorina, è molto tardi! Non si possono ricevere visite a quest’ora».

«Per favore, la mia amica è stata ricoverata qui in giornata e io l’ho appena saputo. Sono arrivata adesso da Phoenix».

«Chi è “la sua amica”, intanto?».

In quel momento, tutta la mia stanchezza si fece sentire.

«Si chiama Gale. Gale Sykes, è stata aggredita».

Ora l’espressione dell’infermiera si fece più comprensiva.

«Lei per caso è Chelsea Gaver?».

La guardai, confusa.

«Sì, sono io… come fa a… ».

«Nel portafoglio della sua amica abbiamo trovato un biglietto che la indicava come suo contatto d’emergenza. Abbiamo provato a chiamarla tutto il pomeriggio, ma diceva che il suo telefono era spento».

Sospirai.

«Il mio telefono è rotto».

«Venga pure, la sua amica è di qua».

Seguii l’infermiera; il rumore dei miei tacchi sembrava un colpo di cannone in quel silenzio assordante.

Quando entrammo nella stanza, restai paralizzata.

Gale era collegata a macchine e tubi e ad un respiratore.

«Come sta?», le chiesi temendo la risposta.

L’infermiera sospirò.

«È presto per dirlo. Dobbiamo vedere come reagisce ai farmaci, ha riportato diverse fratture, domani verrà a visitarla un medico ortopedico e poi è da valutare. Se tutto procede bene, se si sveglierà, in qualche mese uscirà da qui, ma in un caso come il suo è estremamente improbabile che non insorgano complicanze».

Se si sveglierà”.

Quelle parole continuarono a rimbombarmi in testa, ma le scacciai.

«Complicanze di che genere?».

«L’ipotesi peggiore sarebbe se i reni avessero riportato lesioni importanti. Dovremo tenerla monitorata e, nel caso si verifichi un’insufficienza renale, allora sarà messa in lista d’attesa per un trapianto».

Per due anni avevo lavorato in una clinica medica, sapevo cosa avrebbe comportato tutta quella situazione e i tempi d’attesa potevano essere davvero lunghi.

«Grazie», le dissi soltanto.

Entrai nella stanza e richiusi la porta alle mie spalle.

Mi avvicinai al letto della mia amica e le accarezzai il volto appena sfiorandolo.

Avevo paura di farle male solo a starle vicino.

Presi la poltrona accanto al letto e la posizionai in modo da potermici poggiare sopra.

Con una mano afferrai quella di Gale  e poi misi la testa tra le braccia.

Così, mi addormentai.

Venni svegliata la mattina dopo da una lieve pressione sulla mia spalla e, voltandomi, mi trovai davanti un uomo in camice bianco con un sorriso gentile.

«Buongiorno», mi salutò lui.

«Buongiorno», il mio tono era assonnato e, in più, dovevo avere un aspetto orribile.

«Potrebbe accomodarsi fuori qualche minuto? Vorrei visitare la sua amica».

«Certo».

Avevo fame, così approfittai del momento per scendere nella caffetteria dell’ospedale, solo che, appena arrivai lì e sentii l’odore del cibo, fui presa da una nausea terribile e mi portai una mano alla bocca.

In quel momento notai uno strano movimento diversi metri davanti a me e, alzano lo sguardo, vidi mio padre, Chris, Adam, Megan e il signor Williams alzarsi da un tavolo.

Oh, Cristo.

«Chelsea!», mi abbracciò mio padre.

«Papà, cosa ci fate qui tutti voi?», ci allontanammo dall’ambiente rumoroso del bar perché diverse teste avevano cominciato a voltarsi verso di noi e, quando fummo distanti, fu Chris a prendere parola.

«Cosa ci facciamo qui? Ti rendi conto di cosa hai fatto ieri sera?! Chelsea, ti potevi ammazzare!».

Notai appena che aveva una mano fasciata. La stessa mano che la sera prima aveva sbattuto sullo sportello dell’auto nel tentativo di fermarmi. Il senso di colpa cominciò a insinuarsi dentro di me.

Il suo tono era così alto, che comunque attirò l’attenzione di un gruppo di medici che in quel momento passavano da lì.

«Ok, Incredibile Hulk, ti si stanno gonfiando le vene sul collo, è meglio se vieni  fuori con me e ti calmi un po’, eh?», disse Adam prendendo il fratello minore per una spalla e trascinandolo via.

Per un momento, calò un silenzio teso, poi mio padre disse: «Non siamo riusciti a far fare a Ryan un discorso sensato, Chelsea. Ora… potresti raccontarci tutto?».

«Ma Ryan dov’è?».

«È a casa sua, adesso. Siamo tornati con due macchine, questa notte; Traver e Adam sono stati così gentili da accompagnarci, dal momento che tu mi hai rubato l’auto», disse con un tono così serio che mai gli avevo sentito prima di allora.

«Lo avete lasciato da solo?!».

«No, Chelsea. Tua madre e Shereen sono con lui. Ora, per favore, raccontaci tutto».

Ci sedemmo fuori, nel parco e Adam e Chris ci raggiunsero poco dopo; Chris respirava come se avesse appena corso. Doveva aver fatto una bella sfuriata.

Così, iniziai il mio racconto.

«È cominciato tutto la mattina in cui voi ve ne siete andati. Gale è venuta a casa e… ».

«Questa Gale», m’interruppe subito mio padre, «… è la ragazza che ha curato Buster?».

«Sì, papà, è lei. Insomma, è venuta a casa e… era stata picchiata dal suo convivente. Allora le ho offerto di trasferirsi da me perché non le avrei mai permesso di tornare in quella casa, ma a quanto pare… lui l’ha trovata lo stesso».

Mio padre chiuse gli occhi e respirò a fondo.

«Chelsea… ti rendi conto di cosa sarebbe potuto succedere se tu in quel momento fossi stata in casa?».

In realtà no, non ci avevo pensato e vidi anche Chris irrigidirsi.

«No, papà, francamente… non ci ho pensato minimamente».

Non avevo mai visto papà tanto sconvolto. Mi prese la testa tra le mani e, guardandomi negli occhi, disse: «Io ho già rischiato di perderti due volte solo nelle ultime settimane, Chelsea. Prima l’incidente, poi quel pazzo armato che ha aggredito te e Ryan».

«Aspetta, cosa?», era stato Adam a parlare, ma Chris lo zittì con un’occhiataccia.

«Senza contare il fatto che una figlia, io l’ho già persa, Chelsea. La tua gemella. Sunshine».

A quelle parole, tutti impallidirono. Neanche Chris ne sapeva niente; ma d’altro canto… anch’io ne ero a conoscenza da poche settimane.

Gli presi una mano e la tenni stretta fra le mie.

«Lo so, ma ti prometto che non perderai anche me, papà», detto questo lo abbracciai.

Chiusi gli occhi e poi mi sciolsi dalla sua stretta.

«Ora è meglio se torno in terapia intensiva, il medico era appena passato per visitare Gale, vorrei sapere come sta. E credo di dover avvertire i suoi genitori, tra l’altro».

«Questo lo posso fare io», si offrì Megan.

«Sono un medico che lavora in rianimazione, Chelsea, sono abituata a dire alla gente cose che non vorrebbe sentire».

«Mi faresti un grande favore, davvero, ma devo prima trovare il suo cellulare».

«È strano che non sia stato l’ospedale a chiamarli», osservò il signor Williams.

«L’infermiera della notte, ha detto solo che nel suo portafogli hanno trovato un biglietto che mi indicava come suo contatto di emergenza, probabilmente perché lei è dell’Alabama».

«Va bene, allora… vado a sentire il medico e poi andiamo a casa, devo togliermi queste dannate scarpe».

Erano praticamente due giorni che camminavo su quei tacchi e i miei piedi e le mie caviglie cominciavano a risentirne.

«D’accordo».

Megan fu molto gentile, mi accompagnò di sopra e parlò lei stessa con il medico.

Comunque, non c’era ancora nulla di certo, molto sarebbe dipeso da come le cose si sarebbero evolute nei prossimi due giorni.

Durante il tragitto fino a casa, io salii in macchina con Adam, mio padre e Chris, mentre Megan andò con suo padre.

Chris era seduto davanti insieme a suo fratello, mentre, sui sedili posteriori, papà mi accarezzava la testa, sussurrando parole che io non capivo perché troppo intontita dal sonno.

Notai a stento Chris che si voltava e la sua mano sana a prendere la mia.

Ricambiai la stretta, debolmente e gli sorrisi.

Mimai un “grazie” con la bocca e lui rafforzò la presa sulla mia mano.

Vidi dallo specchietto retrovisore gli occhi di Adam che osservavano le nostre dita intrecciate e in un primo momento mi sentii in imbarazzo, poi mandai tutto al diavolo. Come se già non avesse capito…

Entrare nella casa del nonno fu uno shock, dal momento in cui si era trasformata in una specie di teatro dell’orrore.

Sbiancai e mi sentii mancare le forze; dovevo avere un calo di pressione, mi succedeva spesso ultimamente.

Chris notò il mio movimento, come se stessi per svenire da un momento all’altro e subito mi posò una mano alla base della schiena per sorreggermi.

«Chelsea?».

«È tutto a posto, Chris. Tranquillo».

«Non è tutto a posto. Hai l’aria di una che sta per svenire o per vomitare».

Gli lanciai uno sguardo obliquo e scossi la testa in segno negativo.

«Ho solo bisogno di riposo e di togliermi questi stupidi tacchi».

Detto questo, mi avviai in camera mia, presi qualche vestito e poi… «Buster!», esclamai.

Tornai di corsa nell’ingresso e chiesi a mio padre: «Dov’è Buster?!».

«Tranquilla, Chelsea, lo abbiamo portato da Ryan. Buster sta bene».

Sospirai.

Non avevo mai pensato a lui da quando avevo saputo di Gale.

Tornai su, mi cambiai con un paio di pantaloncini e una canottiera nera e poi cercai il cellulare di Gale.

Lo trovai in cucina, sul pavimento e per fortuna funzionava ancora.

Scrissi il numero salvato sotto “Mamma”, su un pezzo di carta e lo porsi a Megan.

«Ecco qua».

Lei mi sorrise gentilmente.

«Grazie».

«No. Grazie a te. Grazie a tutti voi, in realtà e… mi dispiace tanto… ho trasformato la vostra cena in un incubo, mi dispiace».

Con mia sorpresa, il signor Williams mi abbracciò.

«Non lo dire nemmeno, Chelsea. Dispiace a  noi per tutto quello che è successo».

Sospirai, poi ci avviammo fuori, verso casa di Ryan.

Quando arrivai, Buster era in giardino e subito corse verso di me, saltandomi addosso e facendomi quasi perdere l’equilibrio; fu Chris a impedirmi di cadere, mettendomi di nuovo una mano sulla schiena.

Di solito ero abituata a reggere il peso del mio cane, ma adesso avevo i riflessi lenti ed ero sfinita.

Mia madre venne ad abbracciarmi subito e Shereen mi chiese come stessi.

Mi informai sulle condizioni di Ryan, e loro mi dissero che non aveva più fatto un discorso sensato da quando ero scappata via, la sera prima.

Andai nella camera del mio amico e lo trovai sdraiato sul letto, gli occhi chiusi. Forse stava dormendo.

Feci per voltarmi ed andare via, quando lo sentii chiamarmi.

«Chelsea?».

Mi girai di nuovo e gli sorrisi.

In quel momento arrivarono i miei genitori, Adam e Chris.

«Gale è morta?», mi chiese atono.

Subito gli andai vicino e lo abbracciai.

«No, Ryan. No. Gale è viva».

Lo sentii sospirare di sollievo e mi strinse forte, facendomi mancare il respiro.

«Cerca di dormire adesso, d’accordo?».

Il ragazzo annuì.

«Dovresti dormire anche tu, Chelsea. Sei proprio pallida… ».

A sorpresa, quelle parole vennero da Adam.

Feci cenno di sì con il capo e mi sistemai meglio sul letto del mio amico.

Ci addormentammo così, vicini e tremendamente stanchi.

Quando mi svegliai, Ryan era ancora immobile nella posizione in cui lo avevo trovato; il suo petto si alzava e si abbassava regolarmente, così, decisi di tornare a casa mia, indossare qualcosa di più consono che un paio di pantaloncini e tornare in ospedale per controllare come stesse Gale.

Casa Kenyon era silenziosa, strano, chissà dov’erano andati tutti gli altri. Probabilmente i parenti di Chris erano tornati a casa, pensai.

L’unico che trovai fu Buster, che mi venne vicino tutto contento. Gli accarezzai la testa, dietro le orecchie e poi tornai a casa.

Fu lì che trovai la mia famiglia, Chris e i suoi, intenti a ripulire la cucina dal sangue di Gale.

«Chelsea!».

La prima ad accorgersi di me, fu Megan e subito gli altri arrivarono in atrio.

«Ciao», li salutai.

«Cosa fai qui, tesoro?», chiese mia madre.

«Mi cambio e vado in ospedale».

«Sei sicura? Credo che dovresti riposare».

Sorrisi.

«No, mamma. Sto bene, davvero, ho dormito praticamente tutto il pomeriggio. Prendo solo… cavolo, papà, ho lasciato la tua macchina in ospedale, visto che stamattina sono tornata con voi… ».

«Allora ti accompagno», si offrì subito Adam.

«Mi sembra di aver approfittato anche troppo di voi».

«Ma figurati. Vado a prendere la macchina a casa di Ryan, nel frattempo, tu preparati».

«D’accordo, grazie allora».

Quando tornai al piano inferiore, tutti erano tornati a pulire la casa, compresa Shereen, cosa che non aveva mai fatto e a quel punto, le chiesi un favore: «Shereen, senti… potresti tornare da Ryan? Vorrei che avesse vicino qualcuno che conosce, quando si sveglia».

Lei sorrise, un sorriso vero, quindi per lei molto raro.

«Ma certo».

«Grazie. Chris, hai voglia di andare anche tu?».

Il ragazzo mi guardò sorpreso.

«Sicura? Magari posso venire in ospedale con te… ».

«Ti ringrazio, ma… Ryan adesso ha più bisogno di quanto ne abbia io. E poi ci sarà tuo fratello con me».

Lui annuì, poi si avviò fuori con mia sorella ed io uscii per aspettare che Adam tornasse a prendermi.

Quando arrivò, salii nella sua auto; ero imbarazzata per tutto ciò che era successo dalla cena della sera precedente fino ad ora, così fu lui a rompere quel silenzio.

«Cosa c’è, Chelsea?».

«Niente, io… mi dispiace per tutto quello che è successo da ieri sera fino ad ora».

«Non è stata colpa tua».

«Non mi riferisco solo a dopo l’arrivo di Ryan. Insomma… anche prima… ho reso la cena di tua madre un completo disastro».

«Oh, no, mia madre ha detto che le piaci».

«Che cosa?».

«Ti assicuro che sono state parole sue. L’unico momento in cui credo abbia avuto un po’ di tentennamenti, è stato quando Chris si è messo al tuo inseguimento dopo che sei fuggita in auto. Lì si è spaventata a morte, ma penso che per il resto tu le sia piaciuta. Sicuramente hai colpito Jenna; lei ha detto che sei forte».

Ero davvero stupita, poi Adam continuò.

«Sai, lei è un po’ la ribelle della famiglia; credo abbia ammirato il tuo lanciarti in strada per correre dalla tua amica. Holly invece ha detto che sei strana. Che sei simpatica, ma strana».

Mi misi a ridere.

«Le ho sentite stamattina, e… sai… dopo che ti sei data alla fuga, è successo un po’ un trambusto a casa».

Sospirai. Non sapevo se volevo sentire il resto, ma Adam mi anticipò.

«Beh, tu sei scappata; a tua madre stava per venire un collasso e tuo padre sarebbe stato capace di demolire qualunque cosa in quel momento. È stata Shereen a dire a Chris che seguirti in macchina sarebbe stato meglio».

«Shereen?».

«Già. Io… non so esattamente quale rapporto ci sia tra te e tua sorella, ma… lei ti vuole bene, Chelsea. Forse in un modo un po’ strano, ma ti vuole bene».

Adam accelerò per superare un’auto e fui colta di nuovo da un senso di nausea. Dovevo assolutamente mangiare qualcosa, altrimenti non mi sarei retta in piedi.

«Stai bene? Sei un po’ pallida… », osservò l’uomo.

«Dovrei mangiare. Ti dispiace se ci fermiamo al bar dell’ospedale?».

«No, per niente. Insomma… le uniche a restare calme, in tutta quella situazione ieri sera, erano tua sorella e Megan. Chris stava completamente dando i numeri; sospetto che stesse iniziando a pensare cosa scrivere nel tuo elogio funebre», continuò con un mezzo sorriso molto simile a quello del fratello.

«Il fatto che il tuo amico, Ryan, non fosse in grado di fare un discorso sensato, poi, non aiutava di certo. Non riuscivamo a capire che diavolo fosse successo, così, alla fine, abbiamo ascoltato tua sorella e siamo partiti per venire a Santa Barbara».

«E come mai siete venuti anche tu e Megan?».

«Beh, essendo un medico, Megan ha ritenuto che fosse meglio per accertarsi delle condizioni della tua amica, mentre io dovevo guidare l’altra macchina, dal momento che Chris non era nelle condizioni per prendere la sua. Ad ogni modo, credo che sarei venuto ugualmente; come dicevo ieri sera… proteggo la famiglia ed ora anche tu ne fai parte. Ma ti prego, Chelsea… non partire più facendo la matta, ok?».

Risi.

«Ma sentilo! Ci siamo conosciuti tipo… ieri? E già mi chiami matta».

«Non è colpa mia, hai fatto tutto da sola».

Scossi la testa, divertita e in quel momento, Adam entrò nel parcheggio dell’ospedale; la macchina di mio padre era ancora lì dove l’avevo lasciata.

«Cos’è successo poi? Ieri sera, intendo… ».

«Beh, siamo partiti quando la situazione si è fatta un po’ più tranquilla, anche se Chris continuava a prendermi a insulti perché stavamo solo perdendo tempo. Sa essere un vero rompipalle, alle volte. Comunque… siamo partiti e siamo arrivati qui a Santa Barbara verso le quattro di mattina. Dopodiché abbiamo portato Ryan a casa e siamo stati da lui fino alle sette; io e Chris siamo rimasti svegli mentre tutti gli altri hanno riposato un po’. La mattina, in ospedale, naturalmente non ci hanno detto nulla su dove si trovasse Gale, dal momento in cui non sapevamo nemmeno il suo cognome, perciò… abbiamo aspettato e a quel punto, tu ci hai trovati al bar».

«Ho capito. Beh, vuoi venire su dopo mangiato?».

«Io… in realtà non amo molto gli ospedali, ma ti aspetto qui, se per te non è un problema».

«Nessun problema, non ti preoccupare».

Ordinai un toast alla cassa e lo finii in due minuti, ero davvero affamata e poi mi sentii subito meglio; anche la nausea si attenuò.

Dopo qualche minuto, mi avviai verso il reparto di terapia intensiva.

Stavolta però, davanti la porta della stanza di Gale, trovai due poliziotti.

«Buongiorno», li salutai.

Loro ricambiarono, ma sembravano piuttosto intenzionati a non lasciarmi passare.

«Dovrei entrare… ».

«Lei chi è, signorina?».

A quel punto, venne in mio soccorso lo stesso medico di quella mattina, che disse loro che io ero il contatto d’emergenza di Gale.

«Perché la polizia?», chiesi al dottore quando fui entrata nella stanza.

«Perché in questo momento, al piano di sotto, è ricoverato anche l’aggressore di Gale».

«Che cosa?!».

«Sì, è stato trovato ieri sera… ha raccontato che un cane lo ha aggredito nella casa in cui ha trovato la ragazza».

Sbiancai.

«Un cane?».

«Sì».

Buster.

«Probabilmente è stato lui a fare la differenza tra la vita e la morte, per la sua amica. E poi dicono che gli animali sono stupidi… ».

«Già… ».

«La signorina Sykes deve avere un cane molto fedele».

«È mio, in realtà. Gale lo ha… curato, qualche settimana fa, quindi immagino che sia stato lui a difenderla».

L’espressione del medico era stupita.

«Beh… io darei una medaglia al valore, al suo cane».

“Anch’io”, pensai in quel momento.

Prima aveva salvato la vita di Ryan. Ora quella di Gale. Buster era davvero il mio eroe.

Mi riscossi dai miei pensieri e chiesi: «Riguardo a lei… ci sono novità, miglioramenti?».

«I parametri vitali sono migliorati, ma il coma… non saprei dirle, signorina. L’ortopedico dice che le fratture non sono preoccupanti, anche se sono molte. Qualche mese e dovrebbe tornare come nuova. Inutile dire che quelle sono il problema minore, con tutte le complicanze in cui può incorrere. Gli organi sono provati».

«E i reni?».

«Per dirlo è ancora presto».

Presi una mano della mia amica e le accarezzai i capelli.

«Lei è forte. Ce la farà».

Non sapevo se in quel momento stessi cercando di convincere più me stessa che qualcun altro.

Restai con Gale ancora un po’ e, quando tornai al bar, trovai Adam a bere un caffè leggendo la pagina sportiva di un giornale.

Quando mi vide, si alzò in piedi.

«Come sta la tua amica?».

«Il dottore dice che è ancora troppo presto per parlare, anche se i parametri stanno migliorando».

Adam sospirò. «Vedrai, starà bene».

«Lo spero tanto», risposi.

A quel punto estrassi le chiavi della macchina di mio padre e mia avviai in quella direzione.

«Ci vediamo a casa?».

«Certo».

Quando arrivammo, erano tutti lì, anche Ryan, che adesso sembrava più lucido e venne subito ad abbracciarmi.

«Come sta?», mi chiese.

«Resiste».

Lo presi per mano e ci sedemmo sul divano.

Erano tutti lì, compreso Buster e, quando lo vidi, lo abbracciai d’impeto.

«Chelsea, che cosa fai?», chiese mia madre, sorpresa da quel mio gesto.

«Il dottore mi ha detto che l’uomo che ha aggredito Gale, è stato ferito da un cane, qui, a casa, mentre le faceva… tutto quello che le ha fatto. E ha detto che se non fosse stato per quel cane, probabilmente Gale sarebbe morta. Ryan, ora non sei più l’unico a cui Buster ha salvato la vita, quest’estate».

Tutti erano decisamente sbalorditi e anche Ryan venne ad abbracciarlo subito.

«Chelsea, sappi che costruirò un monumento al tuo cane».

«È proprio il nostro eroe, eh?», disse mio padre accarezzandogli la testa mentre lui, dal canto suo, se ne stava lì tutto impettito a prendersi coccole adorazioni da ognuno dei presenti.

Mangiammo insieme, con il cuore un po’ più leggero e, la mattina seguente, Megan, Adam e il signor Williams, ripartirono.

Adam mi disse che sarebbe tornato a trovarmi nel giro di qualche settimana e mi lasciò il suo numero di telefono, facendomi promettere che gli avrei chiamato non appena avessi riavuto un cellulare.

 

Passarono un paio di giorni, sembrava fosse tornato tutto alla normalità e i miei genitori, Chris e Shereen si preparavano a ripartire, quando, una sera, Chris entrò nella mia stanza, mentre cercavo su internet maggiori informazioni riguardo ai trapianti di rene.

«Chelsea, non cominciare a fare la paranoica», disse lui chiudendo il mio portatile.

Sospirai, lasciandomi andare contro lo schienale della sedia.

«Non riesco a non pensarci. Anzi, se vuoi la verità, è l’unica cosa a cui riesco a pensare».

Il ragazzo mi prese per le spalle e qualcosa dentro di me si agitò.

In quei giorni ero stata troppo presa da quell’assurda situazione tanto da non badarci nemmeno a Chris, ma ora i miei sentimenti nei suoi confronti, iniziavano a farsi sentire di nuovo.

«Devi stare tranquilla, ok? Promettimi che non ti farai venire ansie inutili e che se avrai bisogno di qualcosa mi chiamerai, d’accordo?».

Sospirai.

«Ti chiamerò».

«Ora… vuoi prenderlo o no il cellulare che ti ho comprato?»

Ancora con quel dannato cellulare?! Avevo sottovalutato il ragazzo; non era uno che si arrendeva tanto in fretta.

Così cedetti.

«Dammi quel maledetto coso, almeno starai tranquillo», dissi aprendo una mano davanti a me.

Lui tirò fuori la piccola scatola e me la porse.

«Sappi che comunque non starò tranquillo. E, tanto per la cronaca… dov’è il tuo fantomatico notaio palestrato?».

Gli lanciai uno sguardo di traverso e mandai tutto al diavolo.

«Era una balla».

Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso.

«Tu non dici balle, Chelsea… ».

«A quanto pare non mi conosci poi così bene come credi… ».

Chris puntò i suoi occhi chiari dritti nei miei.

«Davvero? Non saprei… ».

Fece una pausa, poi riprese. «E perché mi avresti mentito?».

«Non è ovvio, Chris? Per farti demordere da qualunque tuo intento. Quindi ora devi capire: torna a casa, non pensare a me e vivi la tua vita con mia sorella».

«In modo che tu potrai vivere la tua con mio fratello?».

A quelle parole rimasi esterrefatta.

«Che cosa, scusa?!».

Lui rise nervosamente.

«Credi che sia stupido, Chelsea? Credi che non abbia notato il modo in cui vi guardavate in questi giorni? O almeno… di come lui guardava te. Fin dalla mattina in cui ti ha vista nel mio ufficio, in clinica».

«Senti, Chris… io non so cosa tu pensi di aver visto, ma… Adam non è interessato a me nel modo in cui credi tu».

Il ragazzo incrociò le braccia al petto.

«Ma davvero? E in quale altro modo dovrebbe essere interessato a te? Perché tu hai ventidue anni e sei bella, intelligente e sexy. E lui ne ha ventisette ed è affascinante, brillante e non vedo in quale modo potrebbe essere interessato a te, se non quello».

Non potevo certo dirgli che suo fratello in meno di due secondi aveva capito tutto.

«Lui… ha detto che mi reputa parte della famiglia e… protegge la famiglia, quindi anche me. Come potrebbe farlo con te, con Megan o con Holly. Quindi non cominciare a farti strane idee».

Chris sembrava stupito.

«Ad ogni modo… io farò quello che mi hai chiesto, Chelsea: non ti scriverò, non mi farò sentire, ma… se succede qualcosa, voglio che sia tu ad avvisarmi, è chiaro?».

«Se la metti in questo modo… spero di non doverti sentire».

Chris scosse la testa. Sorrideva, ma era un sorriso privo della minima gioia.

«Buonanotte, Chris», dissi poi, guardando altrove.

«Buonanotte, Chelsea… ».

Detto questo, il ragazzo mi lasciò un bacio sulla guancia e sparì dalla mia camera.

 

Le settimane trascorsero e la situazione a Santa Barbara era sempre tranquilla.

Io avevo avuto il lavoro di cui Ryan mi aveva parlato, ognuno era tornato alla propria vita e tutti i giorni, il mio amico ed io, andavamo a trovare Gale in ospedale, che tuttavia non si svegliava.

Ryan stava davvero cominciando a perdere le speranze e io pensavo a come avrei potuto risollevarlo, quando, un giorno; Ben e suo padre tornarono dal centro in cui, in tutti quei mesi, suo fratello era rimasto ricoverato dopo il brutto incidente al barbecue di quell’estate.

Questo per lui fu di grande conforto e, una sera, mentre ero a casa da sola a prepararmi la cena, sentii suonare alla porta.

Erano le otto e mezza, strano…

Quando aprii, mi trovai davanti Alexander Kenyon.

«Buonasera», lo salutai un po’ stupita.

«Ciao, Chelsea… ».

«Vuole entrare?».

«Oh, no. Ero solo venuto a dirti… grazie. Grazie per tutto quello che hai fatto per Ryan in questi mesi, per come ti sei presa cura di lui, nonostante tu abbia avuto un lutto importante, in famiglia… ti sei sempre preoccupata per mio figlio».

Sorrisi.

«Io voglio bene a Ryan».

«E lui ne vuole a te. Te ne vuole davvero tanto».

Il signor Kenyon mi abbracciò, poi, andò via ed io tornai alla mia cena.

Non avevo molta fame, quella sera.

In realtà era da tempo che avevo perso l’appetito; forse per tutto quello che stava succedendo, lo stress accumulato, la situazione tesa che c’era stata in quei mesi, ma ero dimagrita e stavo sballando anche i ritmi del sonno.

Mi addormentavo tardi e mi svegliavo presto, come risultato, la mattina avevo sempre dolorosi cerchi alla testa e nausea ricorrente.

Sospirai.

Consumai la mia cena in silenzio, ero nervosa.

Nervosa perché dovevo fare una cosa che sapevo avrei dovuto fare da tempo.

Una cosa che, in quelle settimane, avevo ignorato, sperando che così facendo, non accadesse ciò che temevo.

Non lo potevo più fare, ignorarlo non avrebbe cambiato la verità dei fatti e… prima mi sarei tolta quel pensiero, meglio sarebbe stato.

Almeno, anche se avessi avuto la risposta di cui più avevo paura; una volta avuto conferma o meno, avrei potuto agire di conseguenza.

Mi alzai da tavola lasciando tutto in disordine e mi avviai in camera mia.

Mi avvicinai al cassetto del mio comodino e tirai fuori una familiare scatola di carta che, non appena avevo comprato, non avevo più avuto il coraggio di guardare e l’avevo lasciata lì.

Andai in bagno, cominciando già a respirare affannosamente e aprii il test di gravidanza con mano tremante.

Seguii le istruzioni ed attesi; sulla confezione c’era scritto che avrebbe dato il risultato dopo due minuti.

Una volta fatto, lo appoggia sul lavandino ed aspettai.

Uno, due, tre, quattro…

 

Note dell’Autrice:

E così finisce anche il capitolo 18. Questo direi che è stato un po’ di transito, viene spiegato cosa è successo a Gale, ma ancora non si sa nulla di preciso.

Fatemi sapere cosa ne pensate e… al prossimo capitolo!

 

DAL CAPITOLO 19:

I suoi occhi erano tristi come non li avevo ancora visti in quei mesi.

Mi prese una mano tra le sue e, guardandomi intensamente, disse: «Chelsea, qualche volta, quando senti di non potercela fare da sola, non per forza ti devi allontanare. Qualche volta, chiedere aiuto va bene. Qualche volta, si ha solo  bisogno di qualcuno che accetti di venire con te, anche quando la via che stai prendendo, è completamente sbagliata».

«Ryan… », la mia voce si spezzò. «Non te lo posso permettere. Tu non capisci. Non capisci che anche i miei genitori, che hanno sempre voluto tenermi il più possibile vicino a loro, dopo ciò che è successo a Sunshine, hanno accettato di lasciarmi qui? Non ti rendi conto che anche loro hanno preferito allontanarsi da me? Io  non sono più la figlia che hanno cresciuto».”

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Capitolo 19
*** Tutti i nodi vengono al pettine ***



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cap 19  



CAPITOLO 19: TUTTI I NODI VENGONO AL PETTINE

 

Due mesi dopo…

 

La mole di lavoro, lì all’ufficio legale in cui lavorava Ryan, sembrava non avere mai fine. Il telefono non accennava mai a smettere di squillare un minuto e le pratiche sulla mia scrivania sembravano solo aumentare.

A fine giornata ero distrutta e quando Ryan passò per dirmi che ormai era ora di chiusura, ringraziai tutti i santi del cielo.

«Sai di non avere per niente una bella cera, vero Chelsea?».

«Grazie», lo fulminai con un’occhiataccia.

«Non lo dico per offenderti; dico che forse dovresti prenderti qualche giorno di riposo».

«Ma ti prego… sono l’ultima arrivata, non mi daranno mai dei giorni di riposo».

«E non ti puoi mettere in malattia?».

«No, non sono malata, ho solo bisogno di dormire e poi tra poco ci sarà il Ringraziamento, quindi l’ufficio starà chiuso per una settimana. Sopravvivrò fino ad allora».

Il mio amico mi sorrise.

«Come vuoi».

Salimmo nella macchina di Ryan e tornammo a casa.

Più di un mese prima, mio padre mi aveva riportato l’auto di Gale che avevo lasciato lì la sera in cui avevo saputo cos’era successo alla mia amica, e da quel momento usavo la sua, dandomi il cambio con Ryan quando andavamo al lavoro.

«Vuoi venire a cena da noi stasera?».

«No, grazie. Penso di mangiare qualcosa di veloce e poi vado a fare un bel bagno. Mi sarà davvero di aiuto».

«D’accordo. Allora a domani, Chel… », disse il mio amico, sporgendosi a darmi un bacio sulla guancia.

«A domani».

Una volta a casa, chiamai i miei genitori. Dato che loro avevano preso a farlo ogni giorno, le settimane dopo essere tornati a casa per la seconda volta, ci eravamo accordati su tre giorni alla settimana.

Quando riagganciai, andai in cucina e mangiai un’insalata con il rumore della tv in sottofondo; era rilassante e, non appena finii di lavare i piatti, andai al piano di sopra per fare quel bagno.

Mi spogliai con calma, con tutti i muscoli delle spalle e del collo indolenziti e, quando mi immersi nell’acqua tiepida, fu un sollievo.

Rimasi nella vasca per almeno un’ora, insaponandomi il corpo con delicatezza, facendomi cullare dalle piccole increspature dell’acqua che si creavano ad ogni mio movimento.

Così facendo, mi assopii.

Quando mi risvegliai, l’acqua era fredda e provai subito un senso di fastidio. Maledizione, non dovevo addormentarmi, ma ero così stanca da non rendermene neanche conto.

Sgusciai fuori dalla vasca, infreddolita e subito mi avvolsi in un accappatoio morbido. Andava meglio, così andava meglio.

Mi passai una mano sulla pancia, accarezzandola per cercare di scaldarla, non volevo prendere freddo. Poi mi fermai ad osservare.

Non si vedeva ancora niente, il mio ventre era piatto, ma presto sarebbe cominciato a notarsi qualcosa; ormai ero a metà del terzo mese di gravidanza.

Fare quel test e scoprirlo era stato un vero shock; quando avevo visto il risultato, mi ero portata una mano alla bocca inspirando forte. Ero andata completamente nel panico.

Poi mi ero calmata e avevo cominciato a vagliare tutte le opzioni che avevo.

Abortire sarebbe stato fuori discussione, non lo avrei fatto. Darlo in adozione… può darsi, ma conoscendomi, una volta arrivata a quel punto, non ne avrei avuto il coraggio dopo averlo avuto nove mesi dentro di me.

E così eccomi qui: ventidue anni, vivevo da sola in una grande casa ed ero single e incinta.

Ovviamente, i miei genitori erano totalmente all’oscuro della cosa, considerando che il padre di mio figlio era il fidanzato di mia sorella, ma, tuttavia, non avevo avuto il coraggio di dirlo a nessun altro.

Né a Ryan, né a Adam, che mi telefonava quattro sere a settimana.

Dirlo a lui non era decisamente il caso, visto che era il fratello di Chris e non volevo che fosse costretto a mentirgli.

Inoltre, mi sentivo già abbastanza spregevole così.

L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era come tenerlo nascosto, ma cosa avrei fatto, quando il mio bambino sarebbe nato?

Fui presa da un altro attacco di nausea, ma mi imposi di resistere.

Ero dimagrita molto in quei primi mesi; la mia dottoressa aveva detto che era normale, ma dovevo tenermi sotto controllo perché mi stavo avvicinando a livelli pericolosi.

Ryan non diceva niente, anche se vedevo dal suo sguardo quanto fosse preoccupato ogni volta che mi guardava, tuttavia che cosa potevo dirgli?

“Ryan, sono incinta di Chris”?

No, non era il caso.

L’unica con la quale avevo affrontato l’argomento, mesi fa, era Gale e lei era la sola a cui non potevo dirlo.

Agitata, tornai nella mia stanza e mi lasciai andare tra le lenzuola; una mano posata sulla pancia e la mente agli occhi azzurri di Chris.

 

La settimana successiva, ero arrivata ad un tale livello di agitazione, che Ryan mi aveva praticamente costretta a prendere qualche giorno di ferie e lui con me e non c’era verso di togliermelo dai piedi. Si era praticamente trasferito da me in pianta stabile.

«Ora basta, Chelsea. Ho provato a non dirti nulla in tutti questi mesi, ma è chiaro che ci sia qualcosa che non va, perciò dimmi che cosa ti tormenta tanto».

Il cuore mi batteva a mille. Sapevo che mi sarei dovuta calmare, ma proprio non ci riuscivo.

«Io… io… », continuavo a balbettare come un’idiota, e a quel punto, Ryan mi prese le mani tra le sue e disse: «Chelsea… stai calma e respira, d’accordo?».

Quando tornai a respirare regolarmente, proseguì: «Ora… dimmi cosa è successo e non ti agitare».

Le lacrime cominciarono a premere insistenti contro gli occhi ed io dovetti abbassare le palpebre per non piangere.

«Sono incinta, Ryan».

A quelle parole, il ragazzo sbiancò.

«Stai scherzando. Dimmi che stai scherzando. Insomma… non si vede niente, ancora! E… il bambino è… di Chris?».

«No, in realtà è di un surfista che ho incontrato in spiaggia. Certo che è di Chris! Di chi altro vuoi che sia? Aspetto un figlio dal fidanzato di mia sorella! Sono… io sono una persona orribile!».

«Chelsea, no. Tu sei solo… spaventata ed è normale che lo sia. Senti… potremo dire ai tuoi che… che è mio».

Lo guardai ad  occhi sgranati.

«Ma sei completamente pazzo?! No, non ti permetterò di rovinarti la vita; tra l’altro te lo immagini se dovesse uscire un Chris in miniatura? No, Ryan. E poi, benedetto ragazzo, quando Gale si sveglierà, se non vi mettete insieme, io giuro che vi faccio fuori!».

Ora fu lui a guardarmi sorpreso e poi scoppiò a ridere, così come me.

Era da tanto che non ridevo più in quel modo.

«Ma allora… che cosa hai intenzione di fare?».

Proprio in quel momento, il mio telefono, il telefono che Chris mi aveva regalato, squillò.

«Pronto?».

Furono poche parole, che in quel momento mi resero una delle persone più felici della Terra ed alleviarono il peso che avevo sullo stomaco, almeno in parte.

«Davvero?!».

Guardai Ryan, felice e lui mi restituì lo sguardo, incuriosito.

«Arriviamo! Arriviamo subito».

«Chelsea, che cosa succede?».

«Gale si è svegliata».

Vidi chiaramente il mio amico ringiovanire di diversi anni, in quel momento e in meno di un minuto, già eravamo in macchina.

«Noi due comunque non abbiamo finito il discorso. Ricordalo».

«Cos’altro credi che ci sia da dire, Ryan?».

«Cos’altro? C’è molto di cui parlare, Chelsea… credimi».

«Io capisco che tu mi voglia aiutare e ti ringrazio e ti adoro per questo, ma… no, Ryan. Fingere che sia tuo è fuori questione. E poi… penserò cosa dire ai miei quando verrà il momento».

«Ossia? Quando ti ritroverai con il tuo bambino in braccio?».

Sospirai.

«Probabilmente sì».

«E non credi che per il Ringraziamento  i tuoi vorranno averti a casa? O a Natale? Chelsea, non manca molto ormai e tu credi di riuscire a tenerglielo nascosto?».

«Per il Ringraziamento starò qui e a Natale… sarò solo al quarto mese, conto di coprirlo in qualche modo».

«Tu sei fuori di testa; hai bisogno di loro, hai bisogno di tua madre! E hai bisogno di Chris».

«Hai idea di come mi guarderebbe mia madre se solo lo sapesse?!».

«Chelsea, permettimi di… ».

«No, Ryan», lo interruppi subito. «Io… io distruggo tutto quello che tocco; te ne rendi conto?»

«Ma di che diavolo stai parlando? Perché dici queste cose, adesso?!».

«Perché, Ryan… tutto ciò che quest’estate avrebbe potuto andare storto, è andato storto. E tutto quello che avrebbe potuto andare male, è andato peggio, ma a me non importa. A me non interessa perché, in fin dei conti, è andato come avrebbe dovuto. La mia famiglia è tornata a casa, Chris è tornato a casa con Shereen ed io sono rimasta qui. Con te. Con Gale. Con… questo bambino. E con il mio cuore infranto in mille pezzi. Ma da quella sera; da quella dannata sera in cui tutto ebbe inizio, quando mia sorella si presentò a casa con Chris, io lo sapevo che sarebbe andata  a finire male. Solo che… questo è anche peggio di ciò che mi aspettavo. C’è stata un’ulteriore complicazione».

Feci una pausa, poi ripresi:  «Quindi adesso che senso ha? Io posso parlare con te, ma nessuno potrà mai rimettere le cose a posto. Nessuno ha il potere di tornare indietro nel tempo. Perché se si potesse, tornerei alla sera in cui Chris mi chiese di uscire, quella prima volta, al cinema. Ed il giorno dopo io andrei da lui e gli direi che stare al suo fianco era tutto ciò che avrei potuto desiderare, ma non è andata così. Ed ora pagherò le conseguenze della mia codardia, rimpiangendo, ancora per chissà quanto tempo, quel giorno. Quest’estate lui mi ha fatto capire così tante volte ciò che provava per me… ed io l’ho respinto. Sempre. Mi ha detto che mi amava, e gli ho voltato le spalle. Mi ha baciata e ho ignorato la cosa attribuendo il suo comportamento alla febbre. Abbiamo fatto l’amore. Aspetto suo figlio. La verità è un’altra. La verità è che ho passato tutta la mia vita cercando di essere perfetta, ma l’unico risultato ottenuto è stato diventare autodistruttiva. Che poi, se fossi  stata l’unica ad essere scottata da questa storia, me ne sarei fregata, ma non è così. Io credo di avere rotto qualcosa, dentro Chris, qualcosa che faceva così parte di lui, che gli scorreva nel sangue. Era spontaneo, era dolce, era sensibile. L’ho spezzato. Non so più dirti in cosa posso averlo trasformato, io l’ho distrutto. Così come ho cambiato la mia famiglia. Il nonno era l’unico che, in situazione disperate, è sempre riuscito a riportarmi in salvo, sulla retta via, ma ora lui non c’è più e io sono una mina vagante, capace di annientare ogni cosa incontri sul mio cammino. Quindi ti prego, Ryan, corri, scappa, va’ via da qui prima che il veleno che mi è entrato dentro porti via anche le parti migliori di te».

I suoi occhi erano tristi come non li avevo ancora visti in quei mesi.

Mi prese una mano tra le sue e, guardandomi intensamente, disse: «Chelsea, qualche volta, quando senti di non potercela fare da sola, non per forza ti devi allontanare. Qualche volta, chiedere aiuto va bene. Qualche volta, si ha solo  bisogno di qualcuno che accetti di venire con te, anche quando la via che stai prendendo, è completamente sbagliata».

«Ryan… », la mia voce si spezzò. «Non te lo posso permettere. Tu non capisci. Non capisci che anche i miei genitori, che hanno sempre voluto tenermi il più possibile vicino a loro, dopo ciò che è successo a Sunshine, hanno accettato di lasciarmi qui? Non ti rendi conto che anche loro hanno preferito allontanarsi da me? Io  non sono più la figlia che hanno cresciuto».

«Ma ti senti? Capisci cosa stai dicendo? I tuoi genitori ti hanno permesso di restare in California perché sapevano che era ciò di cui avevi bisogno. Come all’inizio dell’estate, quando tuo padre ti ha permesso di partire con una settimana di anticipo perché si è reso conto che era ciò che ti serviva in quel momento. Credimi, Chelsea… è così. Perché mi ha fatto promettere che ti avrei tenuta d’occhio e  che mi sarei preso cura di te. E tu non  vuoi che manchi alla parola che gli ho dato, vero?».

Scossi lievemente la testa.

«Ciò non toglie che potrei distruggere anche te, Ryan… ».

«Vorrà dire che correrò il rischio».

Lo abbracciai forte.

«Come farò? Come farò adesso, con questo bambino?».

«Non come farai, Chelsea… come faremo. Perché tu mi hai dato un aiuto enorme da quando Ben ha avuto l’incidente. E poi Gale. E ti sei sempre fatta in quattro, per me. Quindi non pensare neanche per un momento che io adesso ti lasci sola. Ma secondo me… dovresti dirlo ai tuoi genitori e a Chris».

Impallidii.

«No, sei impazzito?»; non riuscivo nemmeno a pensarci.

«Chelsea… stiamo parlando di tuo figlio… ma anche del suo. E ha il diritto di essere informato».

Deglutii a vuoto.

«Lui non mi ha mai scritto, sai? Né scritto, né telefonato e questo perché glielo avevo fatto promettere. Ma anche lui mi ha fatto promettere una cosa: voleva che gli scrivessi se fosse successo qualcosa».

«E direi che qualcosa è successo».

«Ma Shereen… », le parole mi morirono in gola e mi lasciai andare, sconfitta, contro il sedile dell’auto, ora ferma nel parcheggio dell’ospedale. «Non lo so, Ryan. Ora come ora, so che l’unica cosa giusta da fare, è andare da Gale».

Lui annuì, così scendemmo dall’auto e ci avviammo all’interno della struttura.

Quando  arrivammo nella camera  di Gale, lei era lì, sveglia e con un debole sorriso sulle labbra.

«Ciao, ragazzi».

Entrambi la abbracciammo con cautela; era così bello poterle parlare di nuovo.

Non restammo molto, lei era ancora debole e l’infermiera non ci aveva raccomandato altro che non farla stancare, quindi andammo via dopo appena un’ora.

Come al solito, anche quella sera Ryan restò da me per cena; mi costrinse a mangiare una vagonata di verdure e non fece che farmi domande sulla gravidanza, se stessi prendendo vitamine o integratori particolari e via dicendo.

«Sei diventato un ginecologo, adesso?».

«Mi preoccupo solo per il mio nipotino».

Risi, posandomi automaticamente una mano sul ventre.

Era un gesto che non mi accorgevo nemmeno di fare, da quando avevo scoperto di essere incinta.

«Il tuo nipotino? Mmm…  “zio Ryan”… sì, devo ammettere che suona bene».

Lui sorrise.

«Quando hai la prossima ecografia?».

«Ne faccio una ogni inizio mese, la prossima sarà il sei dicembre e… forse saprò il sesso».

«Davvero?», il sorriso del mio amico andava da orecchio a orecchio.

«Già».

A quel punto mi abbracciò.

«Ti va se ti accompagno?».

«Ryan, davvero, tu dovresti stare con Gale. Io posso farcela da sola».

«Dov’è finito tutto il discorso che ti ho fatto prima, riguardo al “chiedere aiuto va bene”?».

Risi.

«Allora ok, immagino che non riuscirò a farti desistere».

«No, infatti».

Proprio in quel momento squillò il mio cellulare.

«Dev’essere Adam».

«A proposito di lui… francamente mi sembra un po’ strano che ti chiami più spesso di quanto fanno i tuoi genitori».

Spiegargli il mio rapporto con Adam sarebbe stato complicato.

Era una cosa… particolare, come se fosse davvero un fratello, per me. Voleva veramente sapere se stessi bene.

Liquidai la domanda del mio amico con un gesto della mano e risposi.

«Pronto? Ciao, Adam!».

«Grandi notizie!», esclamò subito lui.

«Che genere di notizie?».

«Per il Ringraziamento, ho deciso di venire a trovarti».

Il mio cuore perse un battito.

Oh, cazzo.

E io cosa diavolo potevo fare, adesso? Non sarebbe stato facile nascondergli la mia gravidanza, se fosse rimasto da me ventiquattro ore su ventiquattro.

Insomma… le nausee mattutine, le vitamine che prendevo, il mio bisogno di andare in bagno ogni dieci minuti!

«Chelsea… ci sei?».

«Sì, ehm, io… sei proprio sicuro di voler venire qui per il Ringraziamento? Insomma… è una festa da passare con la famiglia… ».

«Mi sono spiegato male… starò a casa, quel giorno, ma poi ho un’intera settimana di ferie. Ti avevo promesso che sarei venuto a trovarti ancora mesi fa e poi a causa del lavoro non ce l’ho più fatta, quindi… per te andrebbe bene?».

No, che non andrebbe bene!

Ma non potevo certo dirglielo, così mi limitai ad acconsentire.

«Naturalmente, sei il benvenuto».

Il suo tono si fece ancora più allegro.

«Perfetto! Allora ci vediamo tra una settimana!».

«Sicuramente… a presto, Adam!».

E riagganciai.

«Maledizione».

«Verrà qui?».

«Già», dissi mordendomi il labbro inferiore.

«Cosa pensi di fare?».

«Nasconderlo a tutti i costi e tu mi dovrai aiutare!».

«Non credo che sarà un’ardua impresa; sei così magra che la pancia ti si vede pochissimo».

«La dottoressa ha detto che è normale, soprattutto data la mia costituzione fisica, ma una volta entrata nel quarto mese, la pancia comincia a esplodere».

«Mmm… che brutta espressione che hai usato. Comunque d’accordo, ma ricorda la mia opinione: secondo me dovresti dirlo. A Chris, prima che a suo fratello».

«Non se ne parla. Chris lascerebbe mia sorella in meno di due secondi per correre qui».

«Beh, è suo figlio».

«E noi siamo due traditori che hanno fatto solo un grosso sbaglio».

«Un grosso sbaglio? Lo definiresti così, il tuo bambino?».

«No, ovviamente! Io già lo amo, ma il modo… è stato sbagliato. Chris era la persona sbagliata, il momento era sbagliato, anche la situazione!».

Ryan sospirò.

«Va bene, ma adesso calmati, ok?».

Annuii.

«Vedrai… troveremo il modo».

 

Quella settimana passò troppo in fretta per i miei, gusti; Ryan mi aveva accompagnata a prendere dei vestiti con cui riuscissi a coprire la lieve prominenza che cominciava a notarsi sul mio ventre e, il giorno del Ringraziamento, lo passai in ospedale con lui e Gale.

Non c’era altro posto in cui sarei dovuta essere in quel momento. Lì, loro erano le persone che più contavano per me, adesso.

«Ragazzi, io non so davvero come ringraziarvi per essere qui, ora», disse Gale, che ormai stava cominciando a recuperare le forze.

«Ma figurati».

«Però promettetemi una cosa: quando uscirò da qui, andremo a fare una scorpacciata di sushi nel ristorante orientale in centro. È uno dei miei posti preferiti ed è da troppo tempo che non mangio cibo decente».

Sorrisi nervosamente.

«Magari ci andrete tu e Ryan… ».

«E tu perché no? Mi avevi detto che ti piaceva!».

«Infatti mi piace».

«Quindi  dov’è il problema?».

«È che… niente, Gale, adesso non posso mangiare sushi».

«Non… puoi?».

Ryan fissò i suoi occhi nei miei.

«Chelsea, non appena sarà dimessa, tornerà a casa con te, è inutile che provi a nasconderglielo».

«Nascondermi cosa? Si può sapere di cosa state parlando?», chiese la ragazza, mettendosi a sedere più dritta sul letto.

Sospirai.

«Ricordi quella conversazione che avevamo avuto riguardo a me e Chris… in montagna… niente precauzioni?».

«Oh, mio Dio, sei incinta!», esclamò lei portandosi una mano alla bocca.

«Beccata».

«Oh, cavolo… questa sì, che è una notizia».

Gale cominciò con la sua raffica di domande, ma tutto sommato… fu una bella giornata e la trascorsi senza essere assalita dai miei soliti drammi personali, perché quelle due persone meravigliose non mi diedero il tempo di pensarci.

Una volta tornata a casa, dissi a Ryan che ormai poteva anche tornare da suo padre; non avevo bisogno di essere tenuta sotto controllo ventiquattr’ore su ventiquattro e poi… dovevo cominciare a preparare la stanza per Adam, dato che sarebbe arrivato il giorno dopo.

«Va bene, Chelsea, ma se hai bisogno di qualcosa… voglio che tu me lo dica».

«Certo, stai tranquillo».

E così, dopo quasi due settimane, il mio amico tornò a casa.

Ero di nuovo sola.

Andai al piano di sopra e mi misi a disfare il letto in cui Ryan era stato in quei dieci giorni, per prepararlo per il nuovo ospite.

Quando terminai ero stanca, come se avessi fatto chissà quale lavoro pesante.

Sarebbe stata davvero dura nascondere la verità al fratello di Chris; soprattutto dal momento che, avevo già constatato; aveva un ottimo intuito.

Tornai al piano di sotto ed inserii una chiavetta al televisore.

Attaccai Hunger Games, che solo al cinema avevo visto due volte, e m’immedesimai nella parte.

Adoravo veramente quel film.

Poi pensai che avrei avuto il bambino per l’uscita del film successivo, perciò andare al cinema non sarebbe esattamente stato semplice.

Con quei pensieri, guardai quelle ultime scene e poi me ne tornai in camera mia per andare a dormire.

Quella notte, feci dei sogni agitati. 

Note dell'Autrice: 

Scusate, nel pubblicare avevo completamente dimenticato tutta questa parte XD

Ad ogni modo... finalmente Chelsea ha scoperto la verità e chiaramente sta andando nel panico più totale, anche perché non è assolutamente disposta a dare la notizia a Chris. 

Ryan cerca di farle cambiare idea, promettendole comunque di stare al suo fianco, ma... vi dico solo che di cose ne succederanno parecchie. Vi lascio con l'anticipazione del prossimo capitolo!

A presto!

Dal capitolo 20:

"Cominciai a tirare fuori il pacco della pasta; dell’insalata e una pentola, ma, quando presi l’insalatiera, ebbi un forte capogiro e un crampo all’addome.

Mi spaventai a tal punto che l’insalatiera mi cadde di mano, frantumandosi al suolo.

«Chelsea?! Che cos’è successo?», la voce di Adam, proveniente dal salotto, era preoccupata.

Un’altra fitta, mi piegai in due, il respiro mozzato.

«ADAM!», gridai premendomi una mano sul ventre.

Lo sentii arrivare di corsa e, quando quasi sfondò la porta della cucina, impallidì.

«CHELSEA! Chelsea, che cos’hai?!».

L’uomo sembrava veramente spaventato.

Un altro crampo, ma stavolta urlai, tenendomi sempre la pancia.

«Adam… Adam, mi devi portare subito in ospedale… ».

Sgranò gli occhi e mi prese in braccio con la stessa facilità con cui faceva Chris.

«Chelsea, dimmi che cosa ti sta succedendo, ti prego!».

Ma tutto ciò che feci, fu rovesciare la testa all’indietro e poi fui avvolta dalle tenebre."


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Capitolo 20
*** Complicazioni ***



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20  




CAPITOLO 20: COMPLICAZIONI

 

Mi svegliai pensando ancora al sogno di quella notte; guardare troppi film e serie televisive mi faceva strani effetti.

Indossai una vestaglia di raso bianca sopra il mio pigiama di cotone e scesi in cucina per la colazione.

Mangiai una banana e due fette biscottate con la marmellata bevendo un succo di frutta. Da quando avevo scoperto di essere incinta, facevo molta più attenzione a cosa mangiavo; la mia dottoressa, poi, mi aveva dato una sorta di “tabella di marcia” da seguire. E io l’avevo attaccata sul frigo, per comodità.

Riordinai la cucina e poi tornai su per mettermi qualcosa di più appropriato che il mio ridicolo pigiama con il pupazzo di neve assassino.

Indossai una maglia nera in ciniglia stretta ai fianchi, ma morbida sopra, insieme ai pantaloni abbinati: uno dei miei acquisti strategici per coprire la pancia.

Quando sentii suonare alla porta d’ingresso, andai subito ad aprire.

«Chelsea!».

Adam sembrava davvero raggiante.

«Ciao, Adam!».

Ci abbracciammo, io dovetti stare attenta a non schiacciarmi troppo contro di lui per non fargli sentire la piccola protuberanza del mio ventre, poi lo feci accomodare, dicendogli di lasciare la valigia all’ingresso e che l’avremmo sistemata più tardi.

«Posso offrirti qualcosa da bere?».

«Un caffè, grazie», rispose lui con un sorriso.

Dannazione… tra tutte le cose che potevano esserci… proprio il caffè?

Solo l’odore mi dava una nausea terribile. Per me era stata una rinuncia tremenda perché, prima della gravidanza, io vivevo di caffè.

«Certo, arrivo subito».

«Vengo in cucina».

«Perché non vai in bagno invece? Sarà stato un po’ stancante il viaggio, vai a rinfrescarti mentre io lo preparo».

«D’accordo, grazie».

Almeno, se avessi avuto la nausea, non avrebbe visto la mia reazione all’odore della bevanda.

Infatti, proprio come pensavo, non appena il profumo cominciò a diffondersi, mi girò la testa e fui presa da fastidiosi conati di vomito, che mi sforzai di reprimere.

Proprio in quel momento, rientrò Adam, che si accorse subito del mio malessere.

«Chelsea!», mi corse vicino, circondandomi le spalle con un braccio.

Aveva esattamente lo stesso modo di preoccuparsi di Chris; sotto quel punto di vista, i due erano identici.

«Sto bene, scusami… ».

«Non è vero che stai bene. Me ne sono accorto appena ho messo piede in casa. Sei pallida come un lenzuolo e sei anche dimagrita. Che cosa ti succede?».

Mi fece sedere su una sedia attorno al tavolo, guardandomi apprensivo.

«Niente, sto solo… è un periodo che non mi sento molto bene».

«E… sai perché succede? Sei stata dal medico?».

«Sì, mi ha… mi ha dato delle vitamine, degli integratori… passerà, vedrai».

Almeno in questo modo avevo trovato una spiegazione per tutto quello che prendevo in questo periodo. Avrei solo dovuto coprire la scritta “Vitamine prenatali”.

L’uomo non era molto convinto da quella mia spiegazione, ma lasciò correre ed io gli fui grata per quello.

«E dimmi… la tua amica? Quella Gale… come sta?», cambiò poi argomento lui.

«Meglio, lei… si è svegliata la settimana scorsa».

«Caspita… è stata in coma abbastanza a lungo».

«Sì, è vero, però si riprende in fretta  e siamo tutti positivi al riguardo. Ringraziando Dio, non ci sarà bisogno di nessun trapianto. L’unica cosa è che forse dovranno asportarle parte della milza, ma se la caverà».

«Ryan invece come sta?».

Sorrisi.

«Bene, lui… nelle ultime due settimane si era trasferito qui, quasi… ».

«Oh, pensavo che a lui piacesse Gale… c’è qualcosa tra di voi?»

«No, no, assolutamente no. Siamo solo amici. Come mai tutte queste domande, Adam? Non è che Chris ti ha ingaggiato per farmi il terzo grado, vero?».

«No, in realtà mio fratello non mi parla da quando ho detto che sarei venuto a trovarti. Non credo che l’abbia presa molto bene».

«Che cosa?!».

«Già, lui è… è strano, ultimamente».

Avevo ripromesso a me stessa che non gli avrei chiesto niente, riguardo a Chris, ma… ora che Adam mi diceva quelle cose… non potevo semplicemente ignorarlo.

«Strano in che senso?».

«Beh, quando è a casa se ne sta sempre chiuso in camera sua, parla poco, mentre prima non la smetteva mai e… caccia via anche Jenna, quando prova a parlargli. Inoltre mi pare che tra lui e Shereen, i rapporti siano un po’ freddi».

Deglutii a vuoto.

Mi accarezzavo il ventre con movimenti delicati e circolari della mano, assorta nei miei pensieri, quando Adam mi riportò alla realtà.

«Ti fa male la pancia, Chelsea?».

Subito m’immobilizzai.

«Oh, io… no! No, no, tranquillo».

«Sai, credo che dovresti parlare con Chris, chiamarlo. Quella famosa sera della cena a casa nostra, mi dicesti che avevi distrutto il vostro legame, ma… io non credo. Io credo che qualcosa come il vostro rapporto… non possa essere distrutto così. Ho visto mio fratello con il cellulare in mano un mucchio di volte, a fissare il display e poi lo metteva via ogni volta. Io penso che fosse indeciso sul chiamarti o meno e non lo ha mai fatto. Tuttavia… credo abbia bisogno di te; nonostante tutto… eri la sua migliore amica, prima ancora di tutto ciò che è accaduto tra di voi».

«Sì, ma… hai detto bene, Adam: ero la sua migliore amica».

Restammo in cucina a parlare per tutta la mattina e, nel pomeriggio, andammo nel cinema del centro commerciale a vedere un film. Una commedia carina, qualcosa di leggero in quel periodo mi serviva.

Soprattutto adesso, che Adam mi aveva dato un sacco di cose a cui pensare: Chris, il suo rapporto incrinato con mia sorella, lo strano comportamento del ragazzo ultimamente. Non mi piaceva; ciò che avevo detto a Ryan era vero: lo avevo spezzato.

Adam insisté per andare fuori a cena e, non appena provai a pagare, mi fulminò con un’occhiata degna del più crudele dei serial killer.

Mangiare era stato uno sforzo tremendo per me, e ancor di più lo era stato tenermi tutto dentro, ma ci riuscii fortunatamente e, verso le dieci,  eravamo di nuovo a casa.

Adam mi aveva raccontato di come le cose andassero a casa; disse che aveva visto i miei e che sembravano un po’ tesi per la situazione tra mia sorella e Chris.

Perché non mi avevano mai detto niente durante tutte le loro telefonate?

«Io ho provato a parlare con mio fratello, ma è sempre stato sul vago e… da quando poi ho detto che sarei venuto a trovarti… niente, è stato come se non esistessi».

«Mi dispiace tanto, Adam».

«Non è colpa tua; è lui che si deve mettere  a posto quella testa. Se vuole te… si deve dare una svegliata perché non credo che sarai disponibile ad aspettarlo per tutto il resto della vita».

Sospirai amaramente.

«Io e Chris abbiamo il legame più forte che possa unire due persone».

Mi resi conto di quelle parole, nel momento successivo che mi uscirono dalla bocca e trasalii.

Adam mi osservò incuriosito.

«Di cosa parli, Chelsea?».

«Oh, niente, è che… », mi stavo palesemente arrampicando sugli specchi.

Grazie al cielo, in quel momento suonò il campanello.

Salvata da Ryan; lo avrei fatto santo, quel ragazzo.

«Chi è a quest’ora?», mi chiese Adam, guardando l’orologio.

«È Ryan, mi ha portato fuori Buster».

Aprii la porta, facendo entrare il mio amico ed il mio cane.

Ryan mi abbracciò, poi tese la mano per stringere quella di Adam, che l’afferrò.

«È andata bene la serata, ragazzi?».

«Tranquilla; Adam mi ha portato fuori e non ha voluto che pagassi niente».

«Mi sembra giusto», convenne Ryan.

«Questo ragazzo mi piace», sorrise Adam.

«Ah, già… mi ero dimenticata che sto parlando con quello che non mi lascia nemmeno pagare un gelato».

I due si misero a ridere e la mia espressione si fece rassegnata.

«Lasciamo stare, io me ne vado a letto, se voi due volete guardare un film o fare altro, fate come se foste a casa vostra. Tanto ormai tu sei pratico, Ryan».

Abbracciai entrambi e poi andai al piano di sopra, seguita da Buster, che, da quando ero incinta, non mi perdeva d’occhio un istante.

L’intelligenza del mio cane non smetteva mai di stupirmi.

Infilai il pigiama e mi misi sotto le coperte, ero veramente stanca.

Sapevo già, ovviamente, che quando si è incinta ci si stanca in fretta, ma così era davvero ai limiti del ridicolo.

Dal piano di sotto, sentivo le voci allegre di Adam e Ryan e in qualche modo… mi sentii rassicurata.

Fui preda del sonno dopo pochi minuti.

Il giorno seguente, rimasi fuori con Adam tutto il tempo; fu stancante, ma bello, parlammo molto.

«Il tuo sogno più grande?», mi chiese la sera, quando ormai eravamo tornati a casa.

Ci pensai su un po’, poi risposi.

«New York. Non ci sono mai stata, ma il mio sogno più grande sarebbe visitarla. Da bambina sognavo di andare alla Julliard. Dovevo andarci quest’estate, a New York intendo, ma poi… mi dispiaceva non vedere il nonno e… », il cuore mi si strinse in una morsa dolorosa.

«… grazie a Dio non ci sono andata, altrimenti non avrei più avuto la possibilità di vederlo e… non me lo sarei mai perdonato».

Mi chiesi in che modo sarebbe cambiata la mia vita se fossi andata a New York, mesi prima.

Non avrei avuto l’incidente, non avrei rischiato di morire ammazzata da un pazzo, non sarebbe successo ciò che era accaduto con Chris e… probabilmente adesso non sarei stata incinta.

«Chelsea? Ci sei?», la voce di Adam mi riportò alla realtà.

«Scusa, hai… hai detto qualcosa?».

Lui rise.

«Dov’eri andata?».

Risi, forse un po’ amaramente.

«In un posto che Chris chiama “Immagilandia”».

L’uomo mi sorrise.

«Alquanto appropriato».

«Già», dissi passandomi nuovamente la mano sul ventre.

«Chris mi ha detto che eri molto affezionata a tuo nonno».

Il solo sentirlo nominare, mi fece quasi venire le lacrime agli occhi.

Maledetti ormoni.

«Sì, è vero. Perderlo è stato un brutto colpo, ma tuo fratello mi è stato di grande aiuto».

«Sì, diciamo… che a Chris piace soccorrere la gente; ma di questo te ne sarai accorta da sola».

«Decisamente sì».

Ci fu una pausa, durante la quale bevvi un paio di sorsi dalla tazza che tenevo tra le mani.

Era una tisana che avevo preso in erboristeria; me l’aveva consigliata la mia dottoressa. A Adam avevo preparato un normale thè caldo.

«Chelsea, sei sicura di stare proprio bene? Non lo so, ma… ho come l’impressione che ci sia qualcos’altro… ».

In un altro momento mi sarei agitata per quella sua osservazione, ma adesso ero troppo stanca perfino per innervosirmi.

«Sto bene; sono solo molto stanca a causa del lavoro ultimamente, ma non ti preoccupare».

«Allora ti lascio andare a dormire, ci vediamo domani. Buonanotte».

«Buonanotte, Adam».

Il giorno seguente piovve a dirotto, quindi restammo a casa. Venne anche Ryan e per lo più diventammo un tutt’uno con il divano, guardando film o programmi spazzatura.

La mattina dopo invece uscii con Adam, che ormai sarebbe ripartito tra due giorni,  e restammo nel parco in centro fino all’ora di pranzo.

Fu una mattinata tranquilla, anche se vedere tutti quei bambini, mi fece venire un po’ di inquietudine.

Le domande cominciarono ad assalirmi, i dubbi, le preoccupazioni si riversarono dentro di me, dilaganti.

Sarei stata capace di crescere mio figlio da sola? Certo, avrei avuto Ryan, ma… sarebbe stato difficile, molto difficile.

Per di più, dalla sera precedente non mi sentivo proprio benissimo e, come al solito, Adam se ne accorse.

«Chelsea, credo sia meglio se torniamo a casa, sei molto pallida».

Annuii senza protestare e seguii il mio amico in silenzio. Quel giorno non mi sentivo affatto bene.

Quando arrivammo a casa, mi misi seduta in salotto con lui e osservai il pianoforte, un pianoforte che ormai non toccavo da mesi, così come anche quello che c’era al piano superiore.

«Mio fratello mi ha detto che suoni e canti divinamente».

Sorrisi debolmente.

«Suonavo», lo corressi.

«Non lo fai più?».

Scossi la testa in segno negativo.

«È davvero un peccato, mi sarebbe piaciuto molto, sentirti».

La verità era che, dal giorno in cui avevamo seppellito il nonno, non avevo suonato mai più.

«Forse un giorno», restai sul vago. «Ora vado a preparare il pranzo… ti va qualcosa in particolare?», chiesi guardandolo negli occhi.

«Quello che vuoi; io non sono schizzinoso» disse facendomi l’occhiolino.

Gli sorrisi e poi mi avviai in cucina.

Dio, mi sentivo così pesante, quel giorno, così stanca.

Cominciai a tirare fuori il pacco della pasta; dell’insalata e una pentola, ma, quando presi l’insalatiera, ebbi un forte capogiro e un crampo all’addome.

Mi spaventai a tal punto che l’insalatiera mi cadde di mano, frantumandosi al suolo.

«Chelsea?! Che cos’è successo?», la voce di Adam, proveniente dal salotto, era preoccupata.

Un’altra fitta, mi piegai in due, il respiro mozzato.

«ADAM!», gridai premendomi una mano sul ventre.

Lo sentii arrivare di corsa e, quando quasi sfondò la porta della cucina, impallidì.

«CHELSEA! Chelsea, che cos’hai?!».

L’uomo sembrava veramente spaventato.

Un altro crampo, ma stavolta urlai, tenendomi sempre la pancia.

«Adam… Adam, mi devi portare subito in ospedale… ».

Sgranò gli occhi e mi prese in braccio con la stessa facilità con cui faceva Chris.

«Chelsea, dimmi che cosa ti sta succedendo, ti prego!».

Ma tutto ciò che feci, fu rovesciare la testa all’indietro e poi fui avvolta dalle tenebre.

 

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiata su un letto d’ospedale, con affianco un monitor che emetteva dei fastidiosi bip-bip più spesso di quanto la mia testa potesse sopportare.

Mi guardai attorno; Adam mi dava le spalle, osservando il panorama fuori dalla finestra a braccia conserte.

Istintivamente, mi portai una mano al ventre e lo sentii lievemente gonfio come prima.

«Adam…?», chiamai con voce debole.

L’uomo si voltò di scatto e mi venne vicino.

«Chelsea… oddio, stai… stai bene?», mi chiese accarezzandomi i capelli.

Feci cenno di sì con la testa, poi però l’espressione di lui si fece molto più seria.

«Adesso vuoi dirmi, per favore, perché diavolo mi hai tenuto all’oscuro di una notizia del genere?! Perché non mi hai detto che aspettavi un bambino? Ti ho portata fuori ogni giorno, ti ho fatta stancare; Chelsea! Hai rischiato di morire!».

«Cosa vuol dire… aspettavo?», cominciai subito ad agitarmi e gli occhi mi si riempirono di lacrime, al che, Adam mi venne vicino, prendendomi una mano.

«No, no, Chelsea, tranquilla. Non hai perso il bambino, lui sta bene».

Tirai un sospiro di sollievo e qualche lacrima scappò dai miei occhi, ma mi affrettai ad asciugarla.

Mi accarezzai ripetutamente il ventre, cercando di calmarmi.

Stavamo bene, era tutto a posto. Stavamo bene e nient’altro contava.

«Chelsea, ti rendi conto che mi sono spaventato a morte? Credevo che stessi per morire lì, tra le mie braccia».

Ebbi come un déjà-vu di Chris che mi diceva una cosa del genere dopo il mio incidente d’auto. Certo che ero proprio un disastro.

«Mi dispiace, Adam, io… ero spaventata».

«Io volevo chiamare i tuoi genitori, Chelsea; stavo per farlo».

A quell’idea rabbrividii.

«Poi però qualcosa mi ha trattenuto e adesso, voglio che tu mi dica la verità. Il bambino che aspetti… è di mio fratello, vero?».

Deglutii, volevo trovare una via di fuga da questa situazione; ma stavolta… niente avrebbe potuto salvarmi dal rispondere a quella domanda.

Mi limitai ad annuire soltanto, con le lacrime che tornarono a farsi risentire.

Non potevo piangere; non volevo farlo. Non lo avevo fatto nemmeno quando avevo scoperto di essere incinta, quando ero disperata nei momenti più neri e di certo non potevo farlo adesso.

Ma Adam era lì ed era così rassicurante la sua presenza, che avrei soltanto voluto sprofondare in un mare di lacrime ed essere confortata, ma non lo permisi a me stessa.

«Promettimi che non lo dirai a nessuno».

«Cosa, scusa?».

«Giuramelo, Adam!».

«Chelsea… mentire a mio fratello facendo finta di non essermi accorto dei sentimenti che prova per la sorella della sua fidanzata, è un conto. Mentirgli tenendogli nascosto che diventerà padre dalla donna che, chiaramente, lui ama, è tutta un’altra storia! Quando lo scoprirà, se dovesse venire a sapere che io già sapevo tutto, mi ammazzerà con le sue mani! Specialmente dal momento in cui tu hai rischiato di perdere il bambino e di morire a tua volta».

«Adam… non spetta a te, dirglielo».

«Mettiamo che io non lo faccia… tu mi prometti che glielo dirai?».

Guardai da tutt’altra parte.

«Non lo so, Adam; io non lo so! È tutto troppo grande, è più grande di me ed io… io sono così terrorizzata!».

«Terrorizzata? Chelsea, tu sei incinta! Si presuppone che questo, per una donna, dovrebbe essere uno dei periodi più felici nella sua vita, ma tu non riesci a stare calma e forse, se lo dicessi ai tuoi, le cose andrebbero meglio».

«No, ai miei non se ne parla neanche. Te l’immagini la reazione di Shereen?».

«Francamente? Non me ne importa nulla. Detto tra noi, mi sei sempre piaciuta più di lei e, ad ogni modo, non credo che tra lei e mio fratello durerà ancora molto. Sono veramente ai ferri corti e ho come l’impressione che, quando alla loro storia verrà messo un punto; Chris correrà da te».

«Non lo farebbe, non così in fretta».

«Lo farebbe, se sapesse che la donna che ama aspetta suo figlio. Chelsea… lì dentro hai mio nipote ed io mi prenderò cura di lui e di te, naturalmente. E Chris può aver fatto tanti casini, ma si merita di essere informato».

«Dopo Natale, d’accordo?».

«Cosa?! Ma a Natale manca ancora un mese!».

«Ti prometto che dopo Natale glielo dirò».

Adam sospirò.

«E va bene, Chelsea… hai vinto tu. Ma mi dici come diavolo faccio io a partire, adesso? Come faccio a partire e lasciare qui la mia famiglia? Lasciare te e mio nipote. Come potrò guardarmi allo specchio ogni mattina e sapere che cosa ho lasciato qui?».

Gli posai una mano sulla sua.

«Stai tranquillo. Ti prometto che mi farò sentire ogni giorno, che ti darò notizie e che ti informerò sulle visite mediche».

«E mi dirai se c’è qualcosa che non va?».

«Sì».

«E intanto chi si prenderà cura di te?».

«Io… ».

La voce proveniva dalle spalle di Adam.

Lui si voltò; io non avevo bisogno di guardare per sapere chi avesse parlato.

«Ryan… ».

Il ragazzo mi abbracciò forte.

«Almeno vedo che hai avuto il buon senso di dirlo a qualcuno… ».

«Io mi prenderò cura di loro, Adam , te lo garantisco. Il che vuol dire… », ora il suo sguardo era fisso su di me. «… che mi trasferirò di nuovo a casa tua. E che tu prenderai un’aspettativa per motivi di salute. E non farai storie», m’interruppe vedendo che stavo per controbattere.

«L’ho detto e ribadisco: tu mi piaci sempre di più, Ryan», disse Adam ed il ragazzo sorrise.

Se si fossero alleati, io non avrei avuto alcuna chance.

«D’accordo. Tanto casa mia ha molte stanze vuote».

Dovetti restare in ospedale quel giorno e tutto il seguente.

Il dottore non fece che raccomandarmi di stare più tranquilla ed evitare inutili agitazioni, poi fui finalmente dimessa, l’ultimo giorno prima della partenza di Adam.

Quando tornai a casa, i due mi misero subito a riposo forzato, stendendomi sul divano e restarono con me tutta la giornata, cercando di farmi ridere.

Li guardai: ero davvero fortunata ad avere due amici così e mi rattristai per la partenza imminente di Adam; in fin dei conti… era stata una bella settimana.

Mi stiracchiai, alzandomi per andare in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, ma Ryan mi si parò davanti, ordinandomi di stare ferma e che sarebbe andato lui.

«Senti, Ryan… dovrò anche stare a riposo, ma non puoi impedirmi di fare due passi  nella mia maledetta casa perché, se solo al terzo mese smetto di muovermi, quando arriverò all’ultimo avrò un culo come quello di una balena e non riuscirò a fare nemmeno le scale».

Quelle parole fecero ridere i miei  due amici e il moro si fece da parte, lasciandomi passare.

Verso metà pomeriggio, Adam andò via, facendomi promettere un centinaio di volte di tenerlo informato giorno dopo giorno.

«Adam, adesso basta, te l’ho già detto. Tra un paio di giorni ho la prossima ecografia e Ryan mi accompagnerà, poi ti farò sapere cosa dice la dottoressa, d’accordo? Smettila di fare il paranoico».

«Sai com’è… è il mio primo nipote, sono un po’ apprensivo».

Lo abbracciai.

«Andrà tutto bene, vedrai. Per le vacanze di Natale tornerò a casa, quindi… magari ci vediamo, ok?».

«Su questo non ci sono dubbi».

Detto questo, il mio amico uscì di casa e andò via.

«Siamo di nuovo io e te, eh, Gaver?», disse Ryan, circondandomi la vita con un braccio.

«Pare di sì».

«E anche quella sorta di pulcino che hai dentro».

Sorrisi dolcemente e lo abbracciai.

«Sono davvero contenta che tu sia qui, Ryan. Ma tuo padre non si farà domande sul fatto che ti trasferisci qui a settimane alterne?».

«No, mio padre è tranquillo, non si impiccerà. E poi, fino a quando non nascerà il pulcino, starò qui in pianta stabile».

«Aspetta, ma… se lui è il pulcino… io chi dovrei essere?».

«Una gallina?».

Lo fulminai con un’occhiataccia e gli tirai un pugno sul braccio.

«Ahi! Ok… tu sei Mamma Chioccia. E sei anche un po’ scorbutica».

 

Il tempo passò velocemente; Ryan mi accompagnò a fare quell’ecografia e, per fortuna,  sembrava essere tutto a posto. Quello che era accaduto la settimana prima, doveva essere stato solo un episodio di forte stress.

Le settimane si susseguirono una dopo l’altra; Gale dovette tornare sotto i ferri, ma, se tutto fosse andato come avrebbe dovuto, dopo le vacanze di Natale, sarebbe stata dimessa.

Ryan insistette molto per venire a Phoenix con me per le feste, ma fui irremovibile.

«Non se ne parla. Tu devi passare il Natale con tuo padre, Ben e Gale e a casa io avrò Adam. Ci sentiremo ogni giorno, Ryan, ma il tuo posto, adesso, è qui».

«Il mio posto è dove posso prendermi cura di te e… Chelsea, lasciami venire».

«No. Io starò bene; ficcatelo in quella testa».

«Ti stancherai a guidare da qui a Phoenix».

«Se mi stanco, mi fermerò per strada, te lo prometto».

Ryan sospirò, sconfitto.

«Non ti sopporto quando fai così».

Sorrisi.

«Su, mancano ancora due settimane a Natale, vedrai che andrà tutto bene».

 

Quelle due settimane volarono via come il vento, arrivò la vigilia di Natale, giorno della mia partenza e ormai era impossibile non notare la mia pancia. Certo, ero solo ai primi mesi, però quel rigonfiamento del mio ventre, ormai era chiaro.

In valigia avevo tutti vestiti morbidi che avrebbero coperto le mie nuove curve; Ryan mi aveva assicurato che non avrebbero capito il mio stato.

Inoltre, avevo ripreso peso e le nausee ormai erano quasi sparite, certo, avrei dovuto fare i conti con il pranzo di Natale di mamma.

Di solito invitava sempre il fratello di mio padre e rispettiva famiglia; era l’unica occasione in cui ci vedevamo, durante l’anno e sperai che tutto filasse liscio.

Salutai Ryan, a cui dovetti promettere di scrivergli una volta arrivata a destinazione e poi partii.

Avevo lasciato Buster a casa, il mio amico si sarebbe preso cura di lui.

Quando i familiari edifici di Phoenix cominciarono a stagliarsi davanti ai miei occhi, telefonai alla mamma per dirle che ero quasi arrivata.

«Ciao, amore!», venne a salutarmi mio padre non appena mi vide.

Mi abbracciò forte ed io persi un battito, terrorizzata dal fatto che avrebbe potuto sentire la mia pancia, ma per fortuna non accadde.

Entrai in casa e salutai mia madre e Shereen, che, stranamente, non sembrava raggiante come al suo solito.

Non indagai molto; in quel momento il mio unico obiettivo era arrivare in camera mia e scrivere a Ryan, prima che andasse in paranoia.

Quando arrivò la sua risposta, iniziai a sistemare i vestiti. Mi ero stancata addirittura a portare la valigia su per le scale; ero proprio spompata in quel periodo.

Ad un tratto, mentre riponevo le ultime cose, sentii bussare alla porta.

«Avanti».

«Ciao, tesoro».

«Mamma… va tutto bene?».

«Sì, io… volevo chiederti una cosa, anche se da una parte non mi sembra molto corretto… ».

Lasciai stare i vestiti e mi sedetti sulla sedia della mia scrivania.

«Dimmi… ».

«Sai… la situazione tra Christian e Shereen non è tra le migliori al momento e… volevo sapere se tu ne sapessi qualcosa. Se per caso Christian… sì, insomma… se voi due ne avete parlato».

Scossi la testa.

«Io e Chris non ci sentiamo da quando siete ripartiti, dopo… dopo Gale… ».

L’espressione sul volto di mia madre si fece sorpresa.

«Dici davvero?».

«Sì, noi… non abbiamo più parlato».

Lei mi prese una mano e qualcosa dentro di me si agitò.

Avrei voluto abbracciarla. Avrei solo… voluto abbracciarla e poterle dire tutto, ma non potevo. Non era giusto, non era il momento.

«Mi dispiace, piccola… so quanto fossi legata a lui».

“E quanto lo sono adesso più che mai”, aggiunsi mentalmente.

«Non fa niente, mamma».

Ma la verità era un’altra.

La verità era che, se avessi potuto, sarei corsa da lui in quel preciso istante, gli avrei detto che mi mancava e che lo rivolevo nella mia vita.

Nella nostra vita.

Non potevo farlo.

Presi un profondo respiro e sorrisi a mia madre.

«Va bene così».

 

Quella sera restammo tutti tranquilli a casa; non avevamo mai dato un gran peso alla vigilia e non ci eravamo mai fatti dei regali, a parte quando io e Shereen eravamo piccole.

La mattina seguente, dal piano di sotto, sentivo già provenire i tipici odori del pranzo di Natale di mamma, solo che adesso mi sembrava tutto amplificato e, per qualche minuto, la nausea tornò.

Dovevo essere forte.

Dovevo resistere.

Ormai erano le nove e mezza; i parenti di papà sarebbero arrivati verso le undici ed io andai a farmi una doccia, prima.

Preparai un abito nero e morbido che copriva perfettamente la mia pancia, dopodiché, rimasi un’ora nel bagno, cullata dall’acqua calda.

Quando fui pronta, scesi al piano di sotto e… la tavola era apparecchiata per un numero di persone decisamente superiore al solito.

«Perché quella faccia, tesoro? Che succede?», mi chiese mio padre.

«Io… pensavo che fossimo solo noi e gli zii, come al solito… ».

«Oh, tua sorella non ti ha detto niente?».

No, mia sorella non mi aveva neanche detto “ciao”, da quando ero arrivata, in realtà.

«Cosa avrebbe dovuto dirmi?».

Ma sapevo già la risposta.

«Verranno qui anche Christian e tutta la sua famiglia».

Note dell’Autrice:

E rieccomi con il capitolo 20! Direi che di cose ne sono successe e inoltre il rapporto tra Chelsea e Adam si è evoluto parecchio, avendo lui scoperto la verità sulla gravidanza di Chelsea.

Da qui in poi di cose ne succederanno, quindi… alla prossima!

DAL CAPITOLO 21:

“Quando mi risvegliai, ero letteralmente avvinghiata al torace ampio di Chris, che si alzava e si abbassava regolarmente ad ogni suo respiro.

«Ti sei svegliata… », disse piano.

«Quanto ho dormito?».

«Non molto; mancano dieci minuti a mezzanotte».

«Perché non sei giù con gli altri?».

«Perché è questo l’unico posto in cui dovrei essere adesso».

A quelle parole, anche se involontariamente, mi strinsi di più a lui e Chris mi accarezzò i capelli.

«Credo di averti lasciato molto spazio, Chelsea, ma non mi hai mai richiamato».

Sospirai.

«Questo lo so».

«E perché non lo hai mai fatto? L’ultima volta che… “ci siamo dati spazio”, non è finita molto bene, mi sembra».

«Già, tu che ti metti con mia sorella, se non ricordo male».

«Una cosa del genere», il suo tono era distaccato.”

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Capitolo 21
*** Il giorno di Natale ***



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21  


CAPITOLO 21: IL GIORNO DI NATALE

 

Ero nei guai.

In grossi guai.

Non potevo rivedere Chris, non potevo, non ce l’avrei fatta. Soprattutto dopo tutti quei mesi di totale assenza dalla mia vita; nonostante una parte di lui fosse letteralmente così dentro di me.

Sbiancai e l’unica risposta che riuscii a dare a mio padre fu: «Oh».

Andai immediatamente al piano di sopra, presi il cellulare e chiamai Ryan.

«Buon Natale!», mi rispose la sua voce allegra dopo qualche squillo.

Buon Natale?! Buon Natale?! No, quello sarebbe stato un disastro di proporzioni epiche.

«Ryan!».

«Ehi, che cosa succede? Stai bene, vero Chelsea?!», lui sembrava piuttosto spaventato.

«No! Cioè… sì, nel senso che interessa a te. Io… non ho problemi, ma ho appena scoperto che Chris e tutta la sua famiglia verranno da noi per il pranzo».

«Merda. Houston, abbiamo un problema».

Rimasi interdetta e mi misi a ridere alle parole del mio amico.

«Tu sei fuori di testa».

«Almeno ti faccio ridere».

Sospirai.

«Ryan, io… io non so se ce la faccio. Non posso averlo davanti agli occhi per tutto il giorno e… non dirgli niente della gravidanza. Non ce la faccio, io… io…».

«Chelsea, ehi, adesso calmati e respira, d’accordo? Hai detto che verrà tutta la sua famiglia, quindi ci sarà anche Adam e lui ti aiuterà, ne sono certo. Ma per favore, non ti agitare, ok? Non ti fa bene, abbiamo visto che cos’è successo l’ultima volta».

Annuii, cercando di calmarmi e in quel momento il campanello della porta d’ingresso suonò.

Mi affacciai dalla finestra, vedendo la famiglia di Chris riunita fuori.

«Oh, maledizione. Sono loro, sono arrivati».

«Va bene, allora vai. Ma Chelsea… non farti prendere dal panico. Sei stata così forte in questi mesi, sono fiero di te, quindi… non lasciare che la paura abbia la meglio; affrontala come hai sempre fatto».

Sorrisi alle parole del mio amico.

«Grazie Ryan e… buon Natale anche a te».

Lo sentii ridere piano all’altro capo del telefono, poi riagganciai.

Mi sedetti sul letto e presi qualche respiro profondo. Quanto avrei voluto avere Buster lì con me in quel momento. Ma lui non c’era ed io non potevo indugiare un minuto di più, perché le voci al piano di sotto si fecero concitate.

Chiusi gli occhi e presi qualche respiro profondo, accarezzandomi il ventre, poi mi alzai dal letto e scesi al piano inferiore.

La prima che si accorse di me fu la piccola Holly, che si sbracciò per salutarmi e strillò con la sua vocetta acuta di quattro anni: «Ciao, Chelsea!».

Molte teste si voltarono verso di me, ed io avrei soltanto voluto sparire nel terreno, ma mi aprii nel sorriso migliore che riuscii a tirare fuori e salutai tutti.

 Sapevo che Chris mi stava fissando, sentivo il suo sguardo su di me, ma non osai osservarlo apertamente, quindi risposi all’abbraccio dei suoi genitori, che in quel momento vennero verso di me e a quello di Adam, che, non facendosi notare, sussurrò al mio orecchio: «Ho saputo solo stamattina dell’invito di tua madre, altrimenti ti avrei avvertita».

Sorrisi, più realisticamente possibile.

«Tranquillo».

Non appena Adam si scostò, mi trovai davanti Chris e a quel punto non guardarlo fu impossibile.

Mi sovrastava, i soliti dieci centimetri più alto di me, ma… sembrava stranamente invecchiato.

Adam osservò la scena, come pronto a intervenire in ogni momento.

«Ti trovo bene, Chelsea».

Il suono della sua voce, che non udivo da mesi, mi fece sentire le farfalle nello stomaco.

«Ti ringrazio. Tu, invece… sembri un po’ stanco».

Lui fece un sorriso amaro.

«Sai com’è… il lavoro è più pesante, soprattutto adesso che la migliore se n’è andata».

Cosa cavolo potevo dirgli a quel punto?

Lanciai uno sguardo ad Adam, che subito venne in mio soccorso.

«Allora… che dite se ci sediamo?».

Chris gli rivolse una strana occhiata ed io sperai soltanto che non ce l’avesse ancora con lui per essere venuto a trovarmi.

Quando arrivò Shereen, poi, parve che l’atmosfera si raffreddasse ulteriormente, ma lei andò a sedersi vicino al fidanzato, intrecciando le dita alle sue.

Sentii una fredda fitta nel petto e fui ben felice di alzarmi quando suonarono di nuovo alla porta.

«Ciao, zio!», salutai l’uomo che somigliava così tanto a mio padre.

Dopo di lui entrarono mia zia e i loro due figli; la maggiore accompagnata dal marito e dal loro bambino di tre anni: Chuck.

Quando tutti si furono presentati, il piccolo Chuck venne da me, allungando le braccia verso l’alto.

«Chel-sea», mi chiamò.

«Hai imparato a pronunciare il mio nome, finalmente!», lo presi in giro facendo ridere tutti.

«In braccio!», esclamò.

Dannazione. La mia dottoressa non mi aveva raccomandato altro che non sollevare pesi e già mi ero messa alla prova con la valigia, il giorno prima.

Mi feci tesa e notai anche lo sguardo allarmato di Adam, poi, decisi di sedermi e a quel punto lo presi in braccio, cercando sempre di tenerlo a debita distanza dalla mia pancia.

«Però… qualcuno qui si sta facendo pesante».

Lui sorrise, tutto compiaciuto, e Jackson, il marito di mia cugina, disse: «Tu gli fai davvero uno strano effetto. A casa è una peste tutto il giorno, ma appena ti vede si calma subito».

Risi e il bambino mi abbracciò.

Parlammo un po’ del più e del meno, l’atmosfera si distese e genitori di Chris mi chiesero come stesse Gale e come mi trovassi a Santa Barbara.

«Benissimo, davvero. Anche al lavoro è un bell’ambiente e poi… è praticamente lo stesso che prima avevo in clinica; solo che ora, invece delle cartelle mediche, ho le pratiche legali».

«Chris dice che alla clinica si sente la tua mancanza. Che il vostro capo non fa che dare di matto tutti i giorni», quelle parole, provenienti dal padre del ragazzo, mi stupirono, ed io guardai Chris.

«Jefferson? Davvero?».

Lui sorrise, tagliando un pezzo di arrosto.

«Già, è davvero intrattabile. Non si può dire niente che comincia a dare i numeri. Inizio a sospettare che, se non torni, verrà a cercarti».

Risi.

«Temo di deluderlo, allora».

Dopo quell’arrosto, io ero veramente piena da scoppiare; sentivo che se avessi messo in bocca solo un’altra forchettata di cibo, sarei di nuovo stata presa da una nausea feroce.

«Vino?», mi chiese Peter, il fratello minore di Chris, seduto al mio fianco.

«No, ti ringrazio, sono a posto così».

«Ma tesoro, l’ho preso apposta per te perché so che è l’unico che ti piace!», esclamò mio padre.

Cominciai ad agitarmi e anche Adam mi lanciò uno sguardo attento.

«Veramente papà, non credo che riuscirei a mandare giù qualcos’altro».

Detto questo mi alzai per la milionesima volta per andare in bagno.

Sperai soltanto che i presenti non si accorgessero della cosa, o che almeno… non si facessero domande al riguardo.

Quando misi nuovamente piede in sala da pranzo, prima che potessi sedermi, mia madre disse: «Chelsea, potresti andare a prendere il pesce? Stai attenta, la teglia è molto pesante».

Splendido.

A quel punto si alzò Adam.

«Ti do una mano, allora!», esclamò.

Ed io lo ringraziai mentalmente.

Non ebbi neanche il coraggio di vedere le espressioni del resto dei presenti, quindi mi voltai, diretta alla cucina.

«Tua madre ha cucinato per un esercito», disse Adam, con un sorriso.

«Beh, lei lo fa per lavoro. E, Adam… grazie, stai cercando di coprirmi in tutti i modi».

«Ma figurati. Piuttosto… non ho ancora avuto occasione di chiederlo… come state tu e il mio nipotino?».

«Stiamo bene. Io e… la tua nipotina».

Lui mi guardò, meravigliato.

«È una femmina?!».

«È una femmina», confermai.

Il sorriso dell’uomo era luminoso e lui mi abbracciò.

«Mio Dio, è… è meraviglioso».

Proprio in quel momento la porta si aprì e noi due ci facemmo di nuovo seri. Era Jenna.

«Ciao, Jen», la salutò il fratello.

«Ciao», disse lei con un sorriso che la diceva lunga. Che non pensasse che… io e Adam? Oh no, non era il caso, decisamente.

«Chelsea, tua madre chiede se puoi portare anche l’insalata».

«Certo, la preparo subito!», esclamai.

«Sai, io e te non abbiamo mai avuto la possibilità di parlare e questo mi dispiace», continuò poi la ragazza, appoggiandosi contro il bancone della cucina.

«Jen…?», disse Adam.

«Oh, stai zitto tu, voglio parlare con Chelsea».

La situazione si faceva sempre più imbarazzante.

«E c’è qualcosa in particolare di cui vorresti parlare?».

«Sì, mio fratello. Non del marpione qui presente, ma di Chris… ».

«Il marpione?», le fece eco Adam, ma la sorella lo ignorò.

«Sai, nell’ultimo anno e mezzo, Chris non ha fatto altro che parlarmi di te; dalla mattina alla sera, era snervante, mi veniva da appenderlo ad un albero ogni volta che entrava in camera mia. Poi più niente, così, all’improvviso. E dopo qualche mese, se n’è spuntato fuori con Shereen, che, non offenderti, io non la conosco benissimo, ma mi sembra un po’ arpia».

«Jenna!», la riprese Adam, ma lei continuò a non dargli ascolto.

«Quindi la domanda che da quel momento mi ha tormentata, è stata “E cosa diavolo è successo a Chelsea”? Poi ti ho conosciuta, quella sera a cena a casa nostra e, credimi, sono rimasta alquanto scioccata quando ho scoperto che eravate sorelle. Dopodiché siete ripartiti tutti e, da quando Chris è tornato… il vuoto. Con me parla pochissimo, odia Adam da quando è venuto a trovarti a Santa Barbara e con Shereen le cose sono in rotta di collisione».

Ci fu una pausa imbarazzata, quando, ad un tratto, sentii come un colpo al mio ventre ed esclamai un acuto: «Ahi!», portandomi una mano alla pancia.

Jenna rimase interdetta, Adam impallidì e fu subito al mio fianco.

«Chelsea!».

Ma poi capii.

Non era stato un dolore, un crampo come quelli che avevo avuto l’ultima volta.

Quello era un calcio.

Sorrisi ad Adam, dimenticandomi completamente che Jenna fosse lì.

«Mi ha dato un calcio; si sta muovendo!».

A quel punto, anche l’espressione contratta sul volto dell’uomo si distese e posò una mano sul mio ventre.

«Oddio… ma sentila… ».

«ASPETTATE!», di nuovo, la voce di Jenna a riportarci alla realtà. Ora non era più appoggiata al bancone.

«Cosa diavolo significa tutto questo? Chelsea, non sarai mica… ».

«Sì, Jenna, Chelsea è incinta. È incinta di tua nipote, di nostra nipote».

«Un momento… che cosa?!».

«Senti, dobbiamo andare a portare queste cose a tavola, altrimenti si chiederanno dove siamo andati a finire, ma appena terminato il pranzo, ti racconteremo tutto».

«No, io voglio sapere adesso

«Jen… non è il momento».

Convincemmo la ragazza ad aspettare, poi tornammo in sala da pranzo.

Io non riuscivo a togliermi la mano dal ventre e almeno, dopo una mangiata del genere, potevo farlo senza dare nell’occhio.

Mia figlia si stava muovendo ed era una sensazione così… strana, forte e bella, che quasi mi sentivo scoppiare.

Passammo a tavola altre due ore, poi, quando il pranzo finalmente volse al termine, Jenna si alzò di scatto dalla tavola e prese me e Adam, quasi trascinandoci al piano di sopra.

Giusto per non dare nell’occhio.

Non avevo mai conosciuto qualcuno con la stessa vitalità di quella ragazza.

Guidai i due in camera mia e, una volta lì, chiusi la porta.

«Ebbene?».

Con calma, poco alla volta, raccontai ad entrambi ciò che era accaduto quell’estate. Impiegai più di un’ora.

«Cristo santo», fu l’unico commento di Jenna. «Con tutto quello che mi sono potuta immaginare in questi mesi…  non mi sarei mai aspettata una storia del genere e… quindi adesso qui dentro c’è la mia nipotina?», chiese inginocchiandosi di fianco al letto, su cui ero seduta, e mettendomi una mano sul ventre.

«Già».

«Allora… beh, insomma, che si fa adesso? Chris lo deve sapere!».

«No, sei matta!? Ti sembra il momento di dirglielo, adesso?».

«Chelsea, se aspetti il momento giusto per dirglielo, allora aspetterai per tutta la vita, perché quel momento non arriverà mai! La situazione è troppo complicata, tua sorella gli sta addosso di continuo».

«È questo il punto: lui sta con mia sorella».

«Ma ti prego».

«Jenna!».

«No, Adam, tu non puoi sapere. Ero io quella con cui Chris parlava, ero io quella a cui è venuto a rompere le palle giorno e notte non facendo altro che parlarmi di Chelsea. Lui ti ama. Lui. Ti. Ama. E lo deve sapere. Sei già al quarto mese, quasi al quinto! Quanto ancora vuoi aspettare, prima di parlargli?».

Sospirai, una mano sempre ad accarezzarmi il ventre.

«Ho promesso anche ad Adam che glielo avrei detto. Ma dopo le feste».

Jenna sbuffò forte e si lasciò cadere su una sedia.

«D’accordo».

Tornammo al piano inferiore e Chris ci lanciò una strana occhiata non appena rimettemmo piede nella stanza.

I suoi occhi mi facevano ancora quell’effetto, facendomi battere il cuore più velocemente. Inconsciamente, sperai che nostra figlia ereditasse i suoi occhi.

Distolsi in fretta lo sguardo; Chuck stava richiedendo le mie attenzioni.

Il resto della giornata passò tranquillamente e, a sera, tutti andarono via.

 

I giorni trascorsero, arrivò il trentuno dicembre; io sarei ripartita il giorno dopo Capodanno.

Quella sera, Chris e famiglia erano di nuovo invitati da noi, ma io non mi sentivo bene, stavolta.

La testa mi faceva tanto male da non riuscire neanche a muoverla, ma grazie al cielo non erano problemi con mia figlia.

Rimasi a letto, le voci dal piano inferiore giungevano a me in modo indistinto e lontano. Solo dopo un po’, venni distolta da quel mio stato di torpore da una voce vagamente familiare.

«Adam… »; Jenna era poco dietro di lui.

«Ehi, cosa succede? È la bambina?», chiese prendendomi una mano. Il suo sguardo era apprensivo, come quello di Jenna, che si sedette alle mie spalle e cominciò ad accarezzarmi la schiena, io ero distesa su un fianco.

«No, la bambina sta bene. Solo mal di testa, non vi preoccupate».

«E… è normale?».

«Qualche volta mi vengono attacchi simili, non cominciate a fare gli zii paranoici».

I due sorrisero, restando un altro po’ con me.

«Come mai non siete giù?».

«La cena è finita, adesso si aspetta la mezzanotte. Chelsea, ti avverto che potrei rapire tua madre; a cucinare… è divina. Se fossi io sua figlia, sarei grassa almeno tre volte te», disse Jenna, facendomi ridere.

«Aspetta a parlare; tra un paio di mesi sì, che sarò grassa».

«Ma grassa a fin di bene».

Parlammo ancora un po’, finché non sentimmo una voce proveniente dalla porta e a quel punto restai raggelata.

Chris era lì.

Deglutii a vuoto mentre entrava nella mia stanza e anche Adam e Jenna si facevano seri.

Aveva qualcosa in mano, una scodella, che posò sul mio comodino.

«Posso restare un po’ da solo con lei?», chiese ai fratelli.

Loro sembrarono un po’ allarmati, così come lo ero io, ma non riuscirono a trovare una scusa per rifiutarsi, quindi uscirono, richiudendosi la porta alle spalle.

Il cuore mi batteva forte; erano mesi, ormai, che non restavo più da sola con Chris e sperai che il ragazzo non si accorgesse di nulla.

Lui si sedette sul letto accanto a me, spostandomi poi delle ciocche di capelli che mi ricadevano disordinatamente sul viso.

A quel contatto chiusi gli occhi e respirai a fondo, poi lo guardai: indossava un paio di jeans scuri e un maglione nero a collo alto.

Da quanto non lo vedevo più con i jeans? Davvero un sacco di tempo. Più lo osservavo, più non riuscivo a smettere di pensare a quanto fosse bello, a quanto mi era mancato e poi… mi tornò in mente quel giorno nel suo ufficio e non potei fare a meno di arrossire.

«Cosa c’è, Chelsea?».

«Niente, io… niente».

Chris sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli biondi.

«Ti fa male la testa?».

«Un po’».

“Un po’ ”, era un eufemismo e Chris lo sapeva.

«Non c’è bisogno che fai la stoica con me, Chelsea, ti conosco. Avanti, vieni qui».

Mi prese da sotto le ascelle e mi tirò un po’ più su sul letto.

Non me lo aspettavo e mi strinsi forte le coperte sulla pancia, per fare in modo che non si accorgesse di nulla.

«Cerca di rilassarti, ok?», Chris si tolse le scarpe, sdraiandosi sul letto accanto a me, ma restando sopra le coperte, poi, prese un elastico per capelli dal mio comodino e li legò in una lunga coda.

«Cosa fai, Chris?».

«Non ti avevo appena detto di rilassarti?».

Sbuffai divertita; sapevo che quando faceva così, parlargli era inutile.

Il ragazzo a quel punto, riprese la scodella che prima aveva appoggiato accanto a me e se la posò sull’addome piatto. Dentro c’erano dell’acqua e una pezza.

«Ora chiudi gli occhi e rilassati… davvero, stavolta».

Obbedii e, dopo qualche istante, sentii il contatto della pezza bagnata sul mio viso. Non rabbrividii, né mi scostai: la temperatura dell’acqua era tiepida, piacevole a contatto con la pelle ed io mi abbandonai ancor di più contro il corpo solido e confortante di Chris. Sarei rimasta così per sempre.

Ad un tratto, un altro calcio della bambina mi fece sussultare, e la mano di Chris si fermò.

«Tutto bene?».

«Tranquillo, solo… una piccola fitta alla pancia», mentii, ancora ad occhi chiusi.

«Vuoi che chieda a tua madre di prepararti un thè caldo?».

Lo amavo. Dio, quanto lo amavo; lui e il suo modo di preoccuparsi e prendersi cura di me.

«Magari dopo», volevo che restasse al mio fianco, in quel momento.

La bambina continuò a scalciare, piena di vitalità.

“Sì, amore, questo qui è il tuo papà”, pensai senza neanche rendermene conto.

Mi feci cullare da quelle sensazioni e dalla dolcezza che Chris metteva in ogni suo gesto nei miei confronti, finché, talmente rilassata com’ero, mi addormentai, facendo cadere tutte le mie barriere.

Quando mi risvegliai, ero letteralmente avvinghiata al torace ampio di Chris, che si alzava e si abbassava regolarmente ad ogni suo respiro.

«Ti sei svegliata… », disse piano.

«Quanto ho dormito?».

«Non molto; mancano dieci minuti a mezzanotte».

«Perché non sei giù con gli altri?».

«Perché è questo l’unico posto in cui dovrei essere adesso».

A quelle parole, anche se involontariamente, mi strinsi di più a lui e Chris mi accarezzò i capelli.

«Credo di averti lasciato molto spazio, Chelsea, ma non mi hai mai richiamato».

Sospirai.

«Questo lo so».

«E perché non lo hai mai fatto? L’ultima volta che… “ci siamo dati spazio”, non è finita molto bene, mi sembra».

«Già, tu che ti metti con mia sorella, se non ricordo male».

«Una cosa del genere», il suo tono era distaccato. «Allora?».

«Allora cosa?».

«Perché non mi hai mai scritto neanche un maledetto messaggio?».

«Volevo farlo. Volevo chiamarti, davvero, soprattutto dopo che Adam è venuto a trovarmi, ma… ».

«A tal proposito… », m’interruppe. « … cosa c’è tra te e mio fratello?».

Ora mi sciolsi dal suo abbraccio e mi allontanai, per guardarlo bene in faccia.

«Non c’è niente tra me e lui, Chris».

«Davvero? Perché ogni volta che ti vede, si illumina come se fosse in presenza della madonna».

Gli presi una mano e lui, quasi automaticamente, racchiuse la mia  tra le sue.

«Adam è gentile con me, ma… non c’è niente, siamo amici. Si comporta come se fosse anche un po’ il mio fratello maggiore».

Lo sguardo di Chris ora parve stupito.

«Dici davvero?».

«Dico davvero».

Proprio in quel momento, si sentì bussare alla porta e, poco dopo, Jenna fece capolino.

«È quasi mezzanotte… vieni giù, Chris?».

Lui sbuffò, cominciando a rialzarsi.

«Arrivo».

Poi guardò me.

«Avverto tua madre per quel thè; tu è meglio se resti qui, sei ancora pallida».

«Grazie».

Mi sorrise un’ultima volta, prima di uscire dalla stanza e Jenna mi si avvicinò.

«Cos’altro ti serve per capire quanto ti ama? Davvero… con tua sorella non si è mai neanche lontanamente preoccupato così».

«Lo so».

La bionda mi osservò attentamente, poi spostò gli occhi sulla mia pancia.

«Si è accorto di qualcosa?».

«No, per fortuna».

«Per fortuna? Io spero che glielo dirai presto perché io e Adam possiamo darti una mano, ma… tu hai bisogno di lui e lui ha bisogno di te. E vostra figlia ha bisogno di voi due insieme. Chelsea, io l’ho visto, stasera: Chris sa come prendersi cura di te, forse lo sa meglio di chiunque altro. E ti ama».

«Glielo dirò. Adesso torna giù dagli altri».

Jenna annuì, poi uscì dalla mia stanza.

Ed io risprofondai nel sonno.

 

Note dell’Autrice:

Ed eccomi qui con il ventunesimo capitolo! Scusate l’attesa, ma ero in vacanza dai nonni e lì non avevo internet per aggiornare.

Comunque! Ora sono qui e sono tornati anche Chelsea e Chris in un capitolo che li ha visti molto uniti, finalmente dopo tanto tempo. Inoltre abbiamo scoperto che Chelsea aspetta una bambina ed ora anche Jenna è a conoscenza del suo segreto.

Anche la sorella di Chris ora, oltre Adam, sarà un personaggio molto presente e importante e, dal prossimo capitolo, le cose cominceranno a cambiare.

Con questo, vi lascio con l’anticipazione del prossimo capitolo, sperando che questo vi sia piaciuto.

Alla prossima!

DAL CAPITOLO 22:

“Guardai il mio telefono, poggiato su uno dei banconi. Sapevo cos’avrei dovuto fare. Cosa dovevo fare, ma non ci riuscivo.

Presi l’apparecchio e composi il numero di Chris a memoria, automaticamente, così velocemente da non lasciarmi il tempo di pensare a ciò che stavo facendo.

La voce inconfondibile del ragazzo, mi rispose al secondo squillo.

«Chelsea… », sembrava davvero sorpreso.

«Ehi, Chris… ».

«Va tutto bene? Sembri strana».

Come sempre, non potevo tenergli nascosto niente.

Presi un respiro profondo.

«No. Cioè… sì, ma… dovresti venire, Chris. Dovresti tornare a Santa Barbara. Io… devo davvero dirti una cosa».

La voce del ragazzo si fece allarmata.

«Chelsea… tu stai bene, vero?».

Sorrisi.

«Io sto bene, ma… un paio di mesi fa non lo sono stata, sono dovuta rimanere in ospedale per due giorni».

«Che cosa?! Quanti mesi fa, Chelsea? Perché non me lo hai detto?».

«È stato prima di Natale e comunque… adesso sto bene, ho solo bisogno che tu venga qui. Puoi farlo?».

«Sono già in macchina»”.

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Capitolo 22
*** La verità ***



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22  





CAPITOLO 22: LA VERITÀ

 

Dopo due giorni, ero nuovamente in partenza per tornare a Santa Barbara.

Adam e Jenna non avevano fatto altro che riempirmi di raccomandazioni riguardo alla mia bambina e anche a Chris, ma d’altra parte… come potevo dar loro torto? Erano fratelli e lo vedevano così abbattuto; per loro era importante che fosse felice. Tutti i Williams erano molto uniti.

Probabilmente Shereen era uno dei pochi esemplari che se ne fregava altamente se succedeva qualcosa alla propria sorella minore.

“Non essere cattiva”, ricordai a me stessa.

Dopotutto si era preoccupata quell’estate, ogni volta che avevo rischiato di farmi male e anche quando il nonno era morto.

Quella volta, addirittura, aveva detto a Chris di restare con me. Un atto di straordinario altruismo, per i suoi standard.

Riguardo al ragazzo… non lo avevo più visto dalla sera dell’ultimo dell’anno e sinceramente, ora come ora, ero troppo impegnata a pensare come e quando avrei potuto dirgli della gravidanza.

Per telefono mi sembrava così… squallido, ma se gli avessi chiesto di raggiungermi a Santa Barbara, lui avrebbe mollato tutto per venire, anche se fosse stato al lavoro.

Guidai piano, con calma; mi sembrava fosse passato molto più tempo da quando ero partita, altro che una settimana appena.

Non appena arrivai, telefonai ai miei genitori e subito Ryan mi venne incontro.

Ci eravamo sentiti tutta la settimana, lo avevo sempre tenuto aggiornato.

«Ciao», mi salutò lui, abbracciandomi.

«Come va? Come sono andate queste feste?».

«Tutto tranquillo. Ben ormai è tornato come nuovo, tranne qualche cicatrice qua e là».

«Sono contenta. Ricordo il giorno in cui mi hai chiamata, come se fosse ieri».

«Già, quella è stata… davvero una brutta giornata».

Annuii.

«E le mie ragazze invece come stanno?», chiese poi con un sorriso, accennando alla mia pancia, che, di giorno in giorno, si faceva sempre più evidente.

Ero con Ryan il giorno dell’ecografia, in cui la dottoressa mi aveva detto che stavo aspettando una bambina e… era stato un bene che ci fosse almeno lui, anche se all’inizio era stato imbarazzante. La dottoressa pensava che fosse Ryan il padre e spiegarle la situazione sarebbe stato piuttosto complicato.

Il mio amico comunque, si era emozionato con me quando la dottoressa aveva detto “Femmina”.

«Le tue ragazze stanno bene», tornai alla realtà.

«E questa è l’unica cosa che conta. Ti porto su la valigia, dammi pure».

Lo ringraziai e appesi la mia giacca all’ingresso.

Buster fu da me dopo una manciata di secondi, contento di vedermi come sempre.

Mi sedetti sul divano e lui mi seguì, poggiando poi la sua testa sulla mia gamba.

Ryan tornò dopo un minuto e prese posto accanto a me.

«Sai la novità?», dissi sorridendo.

«Quale novità?».

Gli presi una mano e la posai sul mio ventre.

Ryan spalancò gli occhi per la sorpresa.

«Si muove! Dio, senti come si muove!», il suo sorriso andava da orecchio a orecchio e io risi a vederlo così.

Era bello; stavo cominciando a vivere la mia gravidanza un po’ più serenamente.

Entrambe le mani di Ryan in quel momento erano posate sulla mia pancia e il ragazzo non sembrava volesse staccarsi, quindi lo lasciai fare, non mi dava fastidio.

«Ho promesso ad Adam e Jenna di dirlo a Chris».

«Jenna? Aspetta, chi è Jenna?».

«La quarta Williams».

«Altra sorella di Chris?».

«Sì. Lei… lo ha scoperto. Era insieme a me e Adam quando questa qui a cominciato a scalciare e dimenarsi», dissi accarezzandomi nuovamente il ventre.

«Ormai sei quasi al quinto mese, Chelsea… credo anch’io che sia il caso di informarlo».

«Lui è stato così dolce con me, Ryan… ».

«La sera dell’ultimo dell’anno?».

«Esatto».

«Sì, me lo avevi accennato. Lui… non ha provato a baciarti o a fare altro?».

«No, non lo ha fatto».

«Sai cosa vuol dire questo, vero, Chelsea?».

Lo guardai senza capire, poi Ryan continuò.

«Lui è pronto. È cresciuto, ha capito, è diventato un uomo. Se fosse rimasto lo stesso della scorsa estate, lo stesso che ha provato a baciarti ogni volta che se ne presentava l’occasione, lo avrebbe fatto anche stavolta. Quale migliore occasione? Tu eri completamente abbandonata a lui e senza la forza di reagire,  a causa di quel mal di testa. Lui si è preso cura di te senza secondi fini, perché ti ama. Perché per Chris è la cosa giusta da fare, metterti al primo posto, prima di tutto, anche di sé stesso. E lo ha dimostrato. Lui ora è pronto per te. È pronto per voi», concluse con una lieve carezza al mio ventre gonfio.

Abbracciai il mio amico.

«È che… non so come fare e lui… sta ancora con mia sorella, dopotutto».

«Vedrai… le cose si sistemeranno».

 

Due settimane dopo, finalmente, Gale tornò a casa e fu stupendo.

Vedevo il modo in cui Ryan si comportava con lei, come se fosse il suo centro e la mia amica si perdeva ad osservarlo neanche fosse una sorta di dio sceso in Terra.

Il loro rapporto si era rafforzato a dismisura in quei mesi del ricovero di Gale, e riguardo all’uomo che l’aveva aggredita: il suo ex convivente, avevamo saputo che adesso era in carcere e non sarebbe uscito ancora per un bel po’.

Passare le giornate con i miei due amici e Buster, divenne ben presto una routine alla quale difficilmente avrei rinunciato; eravamo tutti così uniti.

Inoltre, Jenna e Adam mi telefonavano spesso, informandosi su di me e su mia figlia e continuando a domandarmi quando lo avrei detto a Chris.

Tornai al lavoro, contro il parere di Ryan, ma lo feci. Dovevo assolutamente avere qualcosa da fare, altrimenti sarei rimasta tutto il giorno a casa a pensare a Chris, quindi il lavoro era un’ottima distrazione.

Certo, essendo quasi al sesto mese di gravidanza, tra poco avrei ugualmente dovuto mettermi in maternità, ma finché potevo, ne avrei approfittato.

Una sera, mentre io, Gale e Ryan stavamo cenando, il telefono squillò; probabilmente i miei genitori, dato che quello era uno dei loro giorni.

«Pronto?».

La voce di mia madre, all’altro capo dell’apparecchio, confermò le mie aspettative.

«Ciao, tesoro. Come stai?».

«Tutto bene, mamma. Tu piuttosto… hai una voce strana… ».

Lei sospirò.

«Sì, è che… tua sorella e Christian si sono lasciati».

Il mio cuore perse un battito.

«Cosa?».

«Due settimane fa, circa. Shereen non esce quasi più dalla sua stanza e… ho sentito anche Constance. Mi ha detto che Christian non fa che lavorare, continuando così non reggerà ancora molto. Chelsea… a tua sorella ci pensiamo io e tuo padre, ma… credo che Christian abbia bisogno di te».

E io avevo bisogno di lui.

«Lo chiamerò. Domani gli telefonerò, te lo prometto».

Parlammo qualche altro minuto, poi riattaccai e tornai in cucina.

Perché diavolo Jenna e Adam non mi avevano detto niente?!

«Notizie da Phoenix?», mi chiese Ryan con un sorriso.

«Chris e Shereen si sono lasciati».

Momento di silenzio generale, poi Gale prese parola.

«Sai cosa vuol dire questo, vero, Chelsea?».

«Gli telefonerò domani, gli dirò di venire qui. È ora che sappia».

Ryan mi prese una mano.

«È la scelta giusta, Chel. Per lui, per te e per la bambina. Lo sai, vero?».

Annuii.

«Ok, donne, vediamo di risollevare l’atmosfera perché le vostre facce non mi piacciono, in questo momento», poi Ryan si rivolse alla mia pancia, mettendoci una mano sopra: «A parte tu, tesoro, tu sei sempre splendida».

«Dovrei essere gelosa?», chiese Gale, ma anche lei sorrideva vistosamente.

«Assolutamente no. Comunque… domani nessuno di noi deve andare a lavorare, quindi… vi va di fare qualcosa in particolare?».

«Film!», esclamammo io e Gale all’unisono.

«Ok, ma stasera scelgo io!».

«Noi siamo in maggioranza!».

«Sì, e aumentate a dismisura, quindi credo di avere come minimo il diritto di scegliere un film. Almeno ho Buster dalla mia parte».

«No, lui mi è devoto, farà sempre cosa dico io», lo presi in giro.

«Intanto sono io quello a cui ha salvato la vita».

«Beh, non sei il solo, dolcezza», lo riprese Gale.

Scossi la testa a quel battibecco.

«Ebbene… che film vorresti vedere, Ryan?».

«“Il Signore degli Anelli”. Facciamo una maratona. Della versione integrale».

«Ma sei matto?! Finiremo domani mattina e saremo dei cadaveri tutto il giorno! Già io lo sono di mio… ».

«Oh, avanti, Chel!».

«D’accordo, ma sei un rompiscatole».

«Mi sarei ucciso prima di guardare un altro cartone della Disney o “Orgoglio e Pregiudizio” per la millesima volta».

Io gli feci una linguaccia, Gale gli tirò un cuscino.

Mi sdraiai sul divano a due posti, mentre Gale e Ryan rimasero abbracciati su quello a tre, poi, il mio amico fece partire “La Compagnia dell’Anello”.

Amavo quella saga, lo guardavo ogni volta che lo davano in tv, così come anche Harry Potter.

Erano i film con cui ero cresciuta e avrebbero sempre avuto un posto speciale dentro di me.

Nonostante tutto però, “La Compagnia dell’Anello”, era quello che mi appassionava meno fra i tre e, aggiungendoci anche la mia stanchezza attuale, presi sonno durante l’attacco a Collevento e mi risvegliai quando la compagnia giunse a Moria.

Lanciai uno sguardo alle mie spalle: Ryan e Gale erano ancora abbracciati stretti; lui concentrato sul film, lei anche, ma sorrideva, circondandogli il torace con un braccio.

Era bello vederli insieme e vedere lei sorridere, dopo tutto ciò che avevano passato.

Inizialmente avevo preparato per Gale la stanza in cui quell’estate avevano dormito Chris e Shereen, quella con i due letti singoli, ma poi, la ragazza si era trasferita con Ryan ed io ero contenta.

Il mio telefono vibrò per l’arrivo di un sms. Era Adam.

Com’è andata la giornata? Tu e la mia nipotina state bene?”.

Impiegai un momento a rispondere.

Stiamo bene; adesso lo zio Ryan le sta facendo conoscere Il Signore degli Anelli. Stasera mia madre mi ha telefonato, perché non mi hai detto che Chris e Shereen si sono lasciati da due settimane?”.

La risposta del ragazzo, tardò un po’ ad arrivare.

Non sapevo se farlo o meno. Jenna insisteva perché te lo dicessi, ma pensavo che dovessi saperlo da qualcuno della tua famiglia o da Chris”.

Tu sei qualcuno della mia famiglia. Ascolta di più tua sorella, la prossima volta”.

Sarà fatto, mamma tigre. Tu quando hai intenzione di dirlo a Chris? Perché le vacanze di Natale sono passate da un pezzo, ormai”.

Lo chiamerò domani, promesso”.

Era ora. Comunque sai che alla tua bambina arriva un cuginetto? O cuginetta, ancora non si sa… Megan è incinta!”.

È fantastico! Sono contenta, Adam”.

Già, anche lei è al settimo cielo. Ma credo che ai miei genitori verrà un infarto, quando scopriranno  che il primo a renderli nonni sarà Chris”.

Sorrisi, leggendo quel messaggio.

«Chi è, Chelsea?», chiese Ryan a un certo punto.

«Adam. Dice che Megan è incinta».

«Davvero?! Credo che sia la famiglia più numerosa che abbia mai conosciuto; io se fossi in te starei attento, altrimenti potresti ritrovarti con una squadra di football prima dei trent’anni. Comunque salutami Adam».

«Sì, anche a me», aggiunse Gale.

In effetti potrebbe essere un bel colpo. Non oso immaginare la reazione dei miei genitori. Comunque Ryan e Gale ti salutano e Ryan diche che con voi Williams devo stare attenta, se non voglio ritrovarmi con dieci figli a trent’anni”.

Sì, in effetti siamo una famiglia molto produttiva, anche se Meg è sposata da cinque anni e questa è la sua prima gravidanza. Ricambia i saluti”.

«Adam ricambia», dissi rivolta ai due alle mie spalle.

La tua giornata com’è andata?”.

Tranquilla, lavoro, come al solito. Peccato che tu non sia qui, avresti potuto dare una mano a Meg, per la gravidanza”.

Credo che vostra madre sia molto più esperta di me in questo campo. E poi ti devo ricordare che io non ho vissuto proprio al meglio i miei primi mesi?”.

No, anzi, è decisamente meglio che non me lo ricordi. Stavo per avere un attacco cardiaco, quella volta”.

Come sei melodrammatico”.

Melodrammatico? Ero terrorizzato. Ora fila a letto e fai riposare mia nipote”.

Oh, lei è già da un po’ che dorme, altrimenti si farebbe sentire. Buonanotte, Adam”.

Notte, Chelsea. E mi raccomando, domani… chiama mio fratello e non farti prendere dal panico”.

Ci proverò, ma non garantisco. Buonanotte”.

Posai il telefono sul tavolinetto sul tappeto e ripresi a guardare il film.

Eravamo arrivati alla parte in cui la compagnia incontra Galadriel dopo la presunta morte di Gandalf.

A quel punto però, mi riaddormentai e, quando riaprii gli occhi, era già partito “Le Due Torri”; erano le due di mattina, ormai.

Mi alzai dal divano; avevo sete e dovevo andare in bagno.

«Tutto bene, Chelsea?», mi chiese Ryan, stringendo a sé un’addormentata Gale.

«Sì, tranquillo, vado un momento in bagno».

Quando fui di ritorno, il mio amico mi sorrise e, sullo schermo, Legolas, Aragorn e Gimli cavalcavano su Rohan.

Mi risistemai sul divano, abbracciando un cuscino e resistetti ancora un po’, prima di crollare di nuovo e risvegliarmi all’inizio della battaglia delle Due Torri.

Quella la guardai tutta perché forse, era il mio pezzo preferito di tutta la trilogia.

Del terzo film riuscii a vedere soltanto la guerra di Minas Tirith e lo scontro finale.

Quando riaprii gli occhi, il sole ormai cominciava a fare capolino.

Guardando alle mie spalle, vidi Gale e Ryan addormentati sul divano, poi notai la coperta che avevo addosso; doveva averla messa Ryan mentre dormivo.

Ero ancora stanca ed erano le sei e mezza di mattina, quindi dormii un altro po’ e, stavolta, mi risvegliai alle nove.

I miei amici erano ancora lì, mentre Buster era fuori in giardino, lo vedevo dalla finestra.

Così mi alzai ed andai  a preparare la colazione.

Bevvi un bicchiere di spremuta d’arancia e mangiai una mela.

Guardai il mio telefono, poggiato su uno dei banconi. Sapevo cos’avrei dovuto fare. Cosa dovevo fare, ma non ci riuscivo.

Presi l’apparecchio e composi il numero di Chris a memoria, automaticamente, così velocemente da non lasciarmi il tempo di pensare a ciò che stavo facendo.

La voce inconfondibile del ragazzo, mi rispose al secondo squillo.

«Chelsea… », sembrava davvero sorpreso.

«Ehi, Chris… ».

«Va tutto bene? Sembri strana».

Come sempre, non potevo tenergli nascosto niente.

Presi un respiro profondo.

«No. Cioè… sì, ma… dovresti venire, Chris. Dovresti tornare a Santa Barbara. Io… devo davvero dirti una cosa».

La voce del ragazzo si fece allarmata.

«Chelsea… tu stai bene, vero?».

Sorrisi.

«Io sto bene, ma… un paio di mesi fa non lo sono stata, sono dovuta rimanere in ospedale per due giorni».

«Che cosa?! Quanti mesi fa, Chelsea? Perché non me lo hai detto?».

«È stato prima di Natale e comunque… adesso sto bene, ho solo bisogno che tu venga qui. Puoi farlo?».

«Sono già in macchina».

Il mio Chris.

«D’accordo, però… guida piano, va bene? Non correre per arrivare più in fretta, io ti aspetto qui a casa e… adesso sto bene, quindi non ti preoccupare».

«Sì».

«Non dire “sì”, con quel tono, promettimi che guidi piano».

«Chelsea… sembri mia madre».

Nella sua voce, c’era una nota divertita.

«Promettilo».

«Te lo prometto».

«Allora… a dopo, Chris».

«A dopo, Chelsea».

Così, riattaccai.

Lo avevo fatto. Lo avevo fatto, lo avevo chiamato ed ora lui stava arrivando.

Andai a farmi una doccia e, quando tornai al piano di sotto, trovai Ryan e Gale in cucina intenti a parlare.

«Buongiorno, ragazzi».

«Buongiorno. Tutto bene stamattina?».

Annuii.

«Ho telefonato a Chris; lui… sta arrivando».

Ryan venne ad abbracciarmi.

«È la cosa giusta».

Proprio in quel momento, il mio telefono squillò. Stavolta era una chiamata di Jenna.

«Pronto?».

«Ehi, è un’ora che provo a chiamarti!».

«Scusa, stavo facendo una doccia».

«Oh, meno male, pensavo ti fosse successo qualcosa. Comunque… io e Adam abbiamo visto Chris uscire di casa a velocità supersonica, dimmi che è stato per una buona ragione e che lui sta venendo da te».

«Sta venendo da me, sì, l’ho chiamato. Ce l’ho fatta».

«Era ora! Bene, sorella, facci sapere come va, anche se credo non vedrò mio fratello a casa tanto presto, vero?».

«Vedremo».

«Tsk. Tra l’altro, quello stronzo, è uscito di casa senza neanche dire un “ciao”; penso che alla mamma verrà un colpo».

«Sì, Adam ieri sera mi ha fatto un discorso simile».

«Le passerà; l’importante è che tu dica la verità a mio fratello e che tra di voi, le cose si sistemino, il resto può aspettare».

«Grazie, sai, Jenna?».

«Per cosa?».

«Tutto quello che hai fatto in questi mesi, il tuo supporto».

«Ma ti pare? Sei una di famiglia, no?».

Sorrisi.

«Già, a questo punto direi di sì».

«Scrivimi appena hai tempo, ok?».

«Non mancherò. Buona giornata».

«Anche a te e… stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene, mio fratello ti ama».

«Lo so».

Dopodiché, riagganciai.

In quel momento fui presa da un senso di irrequietezza tale, che sentii di dover assolutamente fare qualcosa.

«Chelsea… Chelsea, calmati per favore, ok? Vedrai che andrà tutto bene, tranquilla», cercò di rassicurarmi Ryan.

«Non ci riesco. Lo so che dovrei, ma non ci riesco! E mi sono appena resa conto di non aver pronto niente per la bambina! Ma che razza di madre sono?! Non ho una culla, non ho un passeggino, non ho nemmeno un seggiolino per la macchina! Ora che ci penso… non ho neanche una macchina… oddio, sono un disastro!».

Ryan e Gale si scambiarono uno sguardo complice, poi la ragazza mi prese per i polsi e, delicatamente, mi fece sedere su una sedia.

«Chelsea… respira, d’accordo?».

«Ma… ».

«No, niente “ma”, respira e basta».

Obbedii alla mia amica e lo feci un paio di volte, poi il mio respiro si fece più regolare.

«Va meglio?», mi chiese Gale.

Annuii.

«D’accordo».

«Cosa faccio, adesso? Non riesco semplicemente  a stare ferma ed aspettare che arrivi Chris; sento che potrei impazzire».

«Che cosa vuoi fare allora, Chelsea?», intervenne Ryan.

«Voglio uscire e… cominciare a comprare qualcosa per la bambina… ».

«Sai che queste sono cose che dovresti fare con Chris, vero?».

«Sì, ma… se ora resto in casa, potrei scoppiare».

Il moro guardò l’orologio.

«Ok, ma… lui sarà qui tra poco più di un’ora, non possiamo stare via molto».

«Andrà bene».

Così, uscimmo e Ryan guidò fino in centro. Lì c’era un enorme negozio di articoli per neonati e mi ci persi quasi. Alla fine dell’ora, non avevo comprato niente ed era giunto il momento di tornare a casa.

«Non ho concluso nulla».

«Sono cose che farai insieme a lui quando arriverà e vi parlerete. Chelsea… andrà bene. Starete bene. È vostra figlia e Chris si prenderà cura di voi».

Arrivammo a casa, ormai non doveva mancare molto all’arrivo del ragazzo ed il mio cuore batteva sempre più forte.

«Chelsea… io e Gale usciamo, credo che quando sarà qui, tu e Chris dobbiate stare da soli, intanto… c’è Buster».

Annuii ed abbracciai i miei due amici.

Non sapevo veramente come avrei fatto senza di loro, in quei mesi.

Quando rimasi sola, andai a prendere una felpa larga abbastanza da coprire il mio ventre di sei mesi.

Non potevo certo andare ad aprire la porta con quella pancia così visibile. Dovevo arrivarci poco a poco, con calma, preparando Chris.

Quando sentii suonare il campanello, mi balzò il cuore in gola e andai ad aprire.

Lui era lì, bello come sempre, forse un po’ sciupato in viso, i capelli dorati che risplendevano e gli occhi azzurri, sempre accesi.

«Chelsea… ».

«Ciao, Chris», mi scostai dalla porta per lasciarlo entrare e Buster arrivò subito, festoso, non appena lo vide.

Il ragazzo lo accarezzò lievemente dietro le orecchie e poi mi seguì in salotto, dove ci accomodammo sul divano.

«Posso portarti qualcosa?».

«No, io… sto bene così. Voglio solo che tu mi racconti la verità. Tutta, la verità, stavolta».

Mi morsi il labbro inferiore quasi a sangue, abbassando gli occhi e cominciando a tamburellare con le dita, come ero solita fare quando ero nervosa.

Una delle mani di Chris mi prese con delicatezza il mento e mi costrinse a rialzare lo sguardo.

«Chelsea… guardami. Sono io, sono sempre il tuo Chris, non comportarti così con me. Lo vedo che c’è qualcosa che ti tormenta, l’ho visto a Natale e la sera dell’ultimo dell’anno. Io ti conosco e so quando c’è qualcosa che vuoi dirmi, ma hai paura di farlo. Non avere paura, per favore, non potrei mai fare niente contro di te».

Lo sapevo. Dio, come lo sapevo e, nonostante questo, non riuscivo a proferir parola. Era come se avessi un peso opprimente che mi schiacciava il petto  e mi venne voglia di piangere.

Gli presi le mani tra le mie.

«Chris… », il mio tono era incrinato e lui se ne accorse subito.

«Chelsea, no… non piangere, ti prego. Dimmi solo… dimmi solo che cosa c’è che non va ed io ti aiuterò. Ti starò vicino, qualunque sia questa cosa, dimmi solo… dimmi solo se tu stai bene. Perché sei stata ricoverata in ospedale per due giorni, mesi fa?».

Fissai i miei occhi nei suoi.

«Te l’ho detto, io sto bene, ma… abbiamo fatto un vero casino».

«Noi? Chelsea, io sono così confuso, non capisco».

Era arrivato il momento, glielo dovevo dire, ma invece che farlo a parole, passai ai fatti, perché non sarei mai riuscita a trovare le parole giuste.

«Chris… ti prego, non ti spaventare, adesso».

«Spaventare? Di cosa mi dovrei spaventare?».

Lo afferrai per i polsi e gli posai le mani sulla mia pancia che, nonostante fosse nascosta dalla felpa, si poteva sentire benissimo.

Chris impallidì e sbarrò gli occhi, poi ritrasse le mani.

«Chelsea, tu… tu sei… ».

Ma il resto della frase gli rimase impigliato in gola.

«Aspetto un bambino, Chris. Sì».

Lui sembrava aver perso l’uso della parola e dopo un attimo, la bambina mi assestò uno dei suoi calci potenti.

Gemetti e mi posai una mano sul ventre. Chris mi prese un polso, preoccupato.

«Tranquillo, è… mi ha solo dato un calcio».

Era incredibile come la mia bambina si agitasse quando Chris era nelle vicinanze.

«Chelsea, io ti giuro che non sto capendo niente. Tu sei incinta! Era per questo che non volevi più vedermi? Cos’è…? Non sapevi come dirmelo, immagino; Ryan, insomma… ».

«Ryan?», gli feci eco e lui si bloccò.

«Chris, io sono incinta di sei mesi. Quand’era sei mesi fa?».

Il ragazzo parve pensarci un momento e poi impallidì.

«Agosto».

«Esatto. Agosto».

«Il… », lui deglutì.

«Il rifugio in montagna? La notte in cui avevo la febbre?».

Lentamente, mossi la testa in un cenno affermativo e poi, adagio, una mano di Chris, tornò a posarsi delicata sul mio ventre, che la bambina colpì con un altro calcio e, per un istante lui si ritrasse di nuovo.

«Era… ».

«Sì. Ed è tua figlia, Chris».

«Figlia?», ripeté lui.

«Esatto. È una bambina».

Chris mi prese in braccio con impeto  e mi strinse a sé.

«Ma perché, Chelsea? Perché non mi hai detto niente?».

«Ero così spaventata», dissi stringendomi ancor di più al suo corpo caldo e familiare.

Il ragazzo mi baciò la testa e, finalmente, dopo tanti mesi, scoppiai in un pianto liberatorio che, fino a quel momento, mi ero negata.

Ora Chris era con me e, tra le sue braccia, potevo farlo.

Lui mi cullò, accarezzandomi, mentre io ero scossa da violenti singhiozzi e stringevo spasmodicamente la sua giacca di pelle.

Restammo a lungo in quella posizione, finché io non riuscii a calmarmi, poi il ragazzo si allontanò un po’ da me, giusto quanto bastava per guardarmi in faccia.

«E cos’è successo? Perché sei finita in ospedale?».

Mi asciugai il volto dalle lacrime, puntando i miei occhi arrossati nei suoi.

«Troppo stress; ero solo al terzo mese, Ryan lo sapeva da poco e… grazie al cielo, in quel momento Adam era qui, altrimenti non sarei riuscita ad arrivare in ospedale».

«Aspetta, cosa? Adam lo sapeva?».

«Lo ha scoperto quel giorno. In realtà non volevo dirlo neanche a lui; non volevo che fosse costretto a mentirti e, da dopo le vacanze di Natale, non ha fatto altro che tartassarmi per convincermi a dirtelo. Insieme a Jenna. Sanno essere davvero insistenti, quando vogliono».

«Anche Jenna lo sapeva?».

«Sì, lei… lo ha scoperto il giorno di Natale. Ero con lei e Adam, quando la bambina ha cominciato a muoversi».

Chris mi strinse di nuovo.

«Dovevi dirmelo, Chelsea. Se fosse successo qualcosa a te o… o a nostra figlia, io non me lo sarei mai perdonato».

Per un attimo, a quelle parole mi bloccai.

«Chelsea… stai bene?».

«Dillo di nuovo».

«Cosa? Che mi sarei ammazzato se ti fosse successo qualcosa?».

«No, stupido», dissi dandogli un colpetto sul braccio. «Nostra figlia».

A quel punto, Chris sorrise e cominciò ad accarezzarmi dolcemente il ventre.

«Nostra figlia».

Gli posai una mano sulla guancia e lui avvicinò il volto al mio, fino a che le nostre labbra non si incrociarono.

E fu meraviglioso. Quella fu la prima volta, dopo quella sera al cinema, in cui non mi sentii in colpa a baciarlo. Non mi sentii in colpa ad affondargli le mani tra i capelli né ad essere toccata da lui.

La mia bambina si dimenava dentro di me, quasi come se sentisse tutto e riconoscesse che Chris, finalmente dopo tanto tempo, era lì.

Mi venne da ridere e mi staccai dalle sue labbra.

«Cosa c’è?».

«Guarda».

Mi alzai la maglia, scoprendo la pancia, e fu sbalorditivo vedere la minuscola manina della piccola, quasi stampata sul mio addome. Era come se stesse salutando.

Chris rise, una risata che mai gli avevo sentito. Lui era… era felice. E mi amava e amava nostra figlia.

Nient’altro contava.

«Hai già pensato a come vorresti chiamarla?», mi chiese Chris a un certo punto.

«In realtà no. Era una cosa a cui non riuscivo a pensare… da sola».

Il ragazzo mi strinse di nuovo.

«Dovevi dirmelo, Chelsea… avrai passato dei mesi d’inferno».

«Non importa cosa ho passato. Adesso importa solo che tu sia qui».

 

 

Note dell’Autrice:

Eccomi qui con il nuovo capitolo! Ci ho messo un po’, ma grazie al cielo c’è una persona buona che veglia su di me e mi ricorda di aggiornare, quindi è lei che dovreste ringraziare XD

Riguardo al capitolo… beh, spero tanto che vi sia piaciuto, alla fine Chelsea si è decisa a chiamare Chris e a raccontargli la verità.

Non ne avete davvero idea, ma riguardo a tutto ciò che ha a che fare con la gravidanza della ragazza, c’erano così tante opzioni in ballo che davvero… decidere tra tutto non è stato semplice.

Tutta la storia sarebbe potuta andare a finire in modo completamente diverso. Ad ogni modo, ora siamo qui, ma tante altre cose dovranno accadere prima della fine.

Ora vi lascio con l’anticipazione del prossimo capitolo e… a presto!

 

DAL CAPITOLO 23:

“Detto questo mi alzai sulle punte dei piedi per baciarlo e lui mi strinse a sé.

In quel momento Ryan uscì dal bagno.

«Ragazzi, vi prego! Avete una stanza da letto, qualche metro più avanti».

Ridemmo entrambi a quelle parole e ci staccammo.

Poco dopo, sentii mia figlia scalciare vivacemente e mi posai una mano sulla pancia, sempre con il sorriso sulle labbra”.

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Capitolo 23
*** Gite a sorpresa ***



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23  



CAPITOLO 23: GITE A SORPRESA

 

Quando Ryan e Gale tornarono a casa, trovarono me e Chris sdraiati sul divano a guardare un film.

Chris era disteso dietro di me, con entrambe le mani posate sul mio ventre ed io non mi sentivo così in pace da mesi.

«Era ora», disse Ryan non appena ci vide.

Chris si guardò alle spalle, sorridendo al mio amico, poi ci alzammo entrambi.

«Grazie, Ryan… per aver vegliato su di loro. Ora è compito mio prendermi cura della mia famiglia».

Quelle parole di Chris, mi scaldarono il cuore.

I due si strinsero la mano, poi ci furono le presentazioni ufficiali con Gale, che il ragazzo aveva visto di sfuggita solo una volta, la sera in cui Buster era stato ferito.

Cenammo tutti insieme e, quando finalmente trovai un momento, scrissi a Jenna per raccontarle come fosse andata.

Sia lodato, stavo cominciando a pensare che foste tutti morti, dato che non mi avevi più scritto. Adam aveva già le valige pronte per partire. Sarà uno zio paranoico e stressante”.

Non potei che ridere a quel messaggio.

Digli pure di non preoccuparsi, è andato tutto bene”.

Mio fratello è svenuto? Dannazione, avrei voluto vedere la sua faccia, quando glielo hai detto”.

Era alquanto sconvolto, ma immagino che sia normale. Adesso stiamo bene. Davvero.”.

Questo mi fa piacere. Immagino che non rivedrò Chris molto presto, vero? Tra l’altro non si è portato via niente, quando è partito”.

Sì, immagino non credesse che sarebbe rimasto. Comunque non ne abbiamo ancora parlato, di cosa… sì, insomma… di cosa faremo”.

State lì e siate felici per un po’, ok? Penso che ne abbiate passate già abbastanza”.

Sì, ma Chris ha il lavoro alla clinica e poi dovrete pur dare qualche spiegazione ai vostri genitori”.

Ok, sì, questo forse potrebbe rappresentare un problema”.

Ne parlo con Chris e ti farò sapere. Jenna… io ti ringrazio per tutto… davvero”.

Niente di cui ringraziare; dovere. Adesso vedi di trattare bene la mia nipotina e dì a mio fratello che appena torna gli spacco la faccia perché non mi ha nemmeno salutata, prima di andare via”.

Così non so quanta voglia gli metti di tornare a Phoenix. Comunque lo farò. Salutami Adam”.

Poi, tornai in salotto insieme agli altri.

«Tua sorella ce l’ha con te per non averla salutata, quando sei partito», informai Chris.

«Mia sorella ce l’ha sempre con me; l’unica che mi vuole bene in quella famiglia è Holly», disse lui, ironico.

Gli presi una mano e lui sorrise. Era tornato il mio Chris.

«Sapete, è quasi una visione vedervi insieme… dopo tutto quello che è successo quest’estate… », disse Ryan dopo un po’.

«Non parlarmi di quest’estate… è stata la peggiore di tutta la mia vita», rispose Chris.

«Davvero?», gli chiesi guardandolo negli occhi.

«Chelsea, tu hai rischiato di morire. Due volte. Non è esattamente uno dei periodi migliori della mia vita».

«Lo so, ma… è anche vero che è stata importante».

«Su questo non ci sono dubbi. Ora basta chiacchiere però, tu devi riposare».

«Cosa?! Ma sono solo le nove di sera!», protestai.

«Non discutere con me, signorina, c’è mia figlia lì dentro», disse indicando il mio ventre.

Io sbuffai sonoramente, poi mi rivolsi a Ryan.

«È un vero rompiscatole, non potremo più fare le nostre serate cinema».

Il mio amico alzò le spalle.

«È il suo dovere».

«Vedi? Lui è dalla mia parte; sante parole, Ryan».

«Grazie tante, Ryan… », lo fulminai con un’occhiataccia.

In risposta, lui mi sorrise, poi Chris mi condusse in camera mia, sempre tenendomi per mano.

Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle e poi mi guardò intensamente.

«Ormai credevo che non avrei mai più potuto farlo… ».

«Che cosa?».

«Tenerti per mano, baciarti, dirti che ti amo… era così tanto tempo che non lo facevo».

«Ora possiamo».

Lui mi affondò una mano tra i capelli, baciandomi con passione, ed io gli allacciai le braccia intorno al collo.

Ci lasciammo trasportare dai sentimenti, fino a che, non seppi neanche come, mi ritrovai in slip e canottiera sul letto, sotto di lui, che era rimasto con solo i jeans.

A quel punto si fermò.

«Cosa c’è?», gli chiesi.

«Non ho intenzione di andare oltre fino alla nascita della bambina».

«Come, scusa?».

Sul suo volto, si dipinse un’espressione divertita.

«Cos’è? Tutto ad un tratto sei diventata una pervertita?».

Arrossii.

«No, ma… oh, insomma!».

Adesso Chris rise apertamente.

«Chelsea… la gravidanza per te non è stata facile, hai avuto dei problemi ed io non voglio correre rischi inutili. Aspetteremo e vedrai… ne varrà la pena».

«Sappi che molto probabilmente, dopo aver partorito, non avrò la minima voglia di fare sesso».

Lui si chinò a baciarmi la punta del naso.

«Questo lo vedremo», disse in tono malizioso.

Ci sistemammo sotto le coperte ed io gli circondai il torace con le braccia.

«Chris?».

«Sì?».

«Sono davvero felice che tu sia qui. Avevo bisogno di te. Avevamo bisogno di te».

Il ragazzo mi strinse forte.

«Sono qui adesso, amore… non ti preoccupare».

Mi allontanai per guardarlo in faccia.

«Come mi hai chiamato, scusa?».

«Amore. E conta che io sia qui ora, ma Chelsea… la prossima volta… ti converrà dirmelo subito perché mi sono perso quasi tutta la tua gravidanza e… non voglio più perdermi niente».

«Frena, papà, tu stai già pensando ai prossimi?», gli chiesi tornando ad abbracciarlo.

«Perché no? Dopotutto… sono cresciuto in una famiglia numerosa… ».

Sospirai.

«Ryan mi aveva messa in guardia».

«E da cosa, di preciso?».

«Dalla famiglia numerosa. Ha detto che prima dei trent’anni, ci troveremo con una squadra di football».

«Beh… potremmo sempre divertirci a provare».

Risi, schioccandogli un bacio sulle labbra.

«Chris… ci sono tante cose di cui dobbiamo ancora parlare però, lo sai, vero?».

Lui annuì.

«Sì, ma non stasera. Stasera voglio che sia così. Voglio abbracciarti, voglio i tuoi baci; voglio sentire nostra figlia scalciare. Nient’altro».

A quelle parole, affondai la testa nell’incavo del suo collo, lasciandogli un bacio sulla clavicola nuda e lui sospirò.

«Ti amo, Chelsea Gaver».

«Ti amo anch’io, Chris Williams».

«Non hai ancora preso niente per la bambina?».

«Oggi ci ho provato, prima del tuo arrivo, ma… non ci riuscivo. Sono cose che dovremmo fare insieme».

«Sono contento che tu abbia aspettato».

Sorrisi.

«Già… anch’io».

Restammo lì, abbracciati, a parlare di tutto e di niente, di nostra figlia, immaginando come sarebbe stata.

Secondo Chris sarebbe stata identica  a me, io invece pensavo che avrebbe preso i miei capelli, ma il colore degli occhi e i lineamenti del viso da lui.

E fu bello. Fu meraviglioso, per una volta, non preoccuparsi del domani. Perché  domani, Chris sarebbe stato al mio fianco e avremo affrontato il futuro insieme.

Quando riaprii gli occhi, la mattina seguente, trovai il ragazzo a fissarmi.

«Ehi… che cosa succede?».

«Niente, ti guardavo soltanto».

«È inquietante, sai? La gente che mi osserva mentre dormo».

Lui sorrise.

«Io non sono inquietante. Io sono… perdutamente innamorato della madre di mia figlia».

«Ma davvero?».

«Potrei mai mentirti?».

«Mmm, non lo so… avrei bisogno di una prova… ».

Non se lo fece ripetere due volte e si chinò su di me per baciarmi con trasporto.

«Era abbastanza valida come prova?».

«Per questa volta ti sei salvato».

«Oh, meno male. Avanti, adesso… andiamo a fare colazione».

Gale e Ryan probabilmente non si erano ancora svegliati perché la cucina era deserta e silenziosa.

«Di cosa hai voglia, Chel?».

«Latte e cereali, stamattina».

Chris tirò fuori tutto e aveva già il caffè in mano per lui, quando si bloccò, guardandomi.

«Che cosa c’è?», gli chiesi.

«Mia mamma quando era incinta di Holly, vomitava al solo sentire l’odore del caffè. A te dà fastidio?».

Gli sorrisi, si preoccupava per ogni cosa.

«Non più, ormai».

«Vedi? Se ci fossi stato fin dall’inizio, lo avrei saputo. Avrei davvero voluto esserci, Chelsea. I primi mesi saranno stati i più duri».

«Ehi, sono passati, d’accordo? Non ci pensare più e concentriamoci sul presente».

Chris mi si avvicinò, dandomi un bacio.

«Va bene».

Restammo qualche minuto in silenzio, poi lo guardai.

«Chris… che cosa è successo con Shereen?».

I lineamenti del ragazzo si fecero duri.

«Niente, noi… è complicato, Chelsea».

«Prova a renderlo semplice. Non voglio un discorso dettagliato».

«Te la faccio semplice? Ok, allora diciamo che… tua sorella ci ha presi in giro entrambi e, in realtà, quando ci siamo messi insieme, lei stava ancora con il suo ex fidanzato».

«Jared?!».

«Sì».

«Ma… perché lo avrebbe fatto?!».

«Per allontanarci, suppongo, mentre lei continuava a divertirsi. Avevi ragione tu; io non l’avrei reputata capace di una cosa del genere, ma… avrei dovuto darti retta».

Ero sconvolta. Eppure mi aveva detto che sì, all’inizio lo aveva fatto per gioco, ma poi si era davvero innamorata di Chris.

«So a cosa stai pensando», lui mi riportò alla realtà. «E forse mi ha amato, sì, ma poi ha capito che era successo qualcosa tra di noi. È tornata da Jared, in ottobre credo, e loro sono finiti di nuovo a letto insieme. Me lo ha detto poco prima di Natale; abbiamo cercato di salvare il salvabile, ma poi… è stato troppo, perfino per me. E io non facevo che pensare a te, Chelsea. Sarei tornato. Anche se tu non mi avessi chiamato, ieri… io alla fine sarei tornato qui. Ed è stato un bene che mi abbia chiamato tu, perché se fossi arrivato più avanti e tu mi avessi aperto con un pancione di otto mesi, sarei impazzito prima di sapere che la bambina era mia».

«Di chi altro avrebbe potuto essere, Chris? Sai come sono fatta. Non ho mai avuto un ragazzo in ventun anni e… non mi ero mai concessa a nessuno. Prima di te. E tu saresti stato l’unico con cui avrei potuto farlo. Non ho mai desiderato nessun altro».

«Quindi tra te e Adam è davvero solo un rapporto fraterno?».

Nella sua voce c’era ancora una punta di apprensione ed io gli presi una mano sorridendo.

«Sì, Chris. Te lo giuro».

Lui si sporse a baciarmi, poi spostai di nuovo la conversazione sull’argomento precedente: «Riguardo a Shereen… mia madre ha detto che praticamente non esce più dalla sua stanza… non capisco».

«Sono… abbastanza sicuro del fatto che i tuoi genitori non sappiano niente di Shereen e Jared. Immagino che lei stia solo recitando la sua parte, come ha sempre fatto».

Allungai una mano sul tavolo fino a prendere la sua.

«Mi dispiace, Chris… ».

«Ti dispiace?! Mentre tu eri sotto stress e ti occupavi di nostra figlia; io stavo cercando di recuperare un rapporto, chiaramente destinato a fallire, con una donna che nemmeno mi amava!».

«Lei ti ha amato. In qualche strano modo… ma ti ha amato».

Chris fece il giro del tavolo e venne ad abbracciarmi.

«Tu cerchi di vedere il buono ovunque, vero, Chelsea?».

«È mia sorella. Per quanto orribili possano essere state le sue azioni… lei è mia sorella».

Lui mi diede un bacio tra i capelli, accarezzandomi il ventre.

«Come sta la nostra bambina, oggi?».

«Una rompiscatole… come suo padre. Non fa altro che scalciare di continuo».

Chris sorrise.

«Cosa dici se oggi cominciamo a comprarle qualcosa? Dobbiamo ancora decidere… tutto, praticamente».

«Ora lo posso fare, se ci sei tu».

Restammo in cucina a parlare ancora un po’, poi, dato che sembrava che Ryan e Gale non avessero alcuna intenzione di uscire dalla loro camera da letto, andammo via lasciando un biglietto sul tavolo.

Quella mattina fu… bellissima e verso l’ora di pranzo, tornammo a casa pieni di borse; la culla che avevamo ordinato sarebbe arrivata la settimana dopo.

Al posto del nostro biglietto, Ryan ne aveva lasciato un altro con scritto che lui e Gale quel giorno, sarebbero stati a pranzo dal padre del mio amico.

Mi chiesi come stesse andando; in fin dei conti… era la prima volta che Ryan portava Gale a casa sua.

Provai a cucinare qualcosa, ma Chris me lo impedì ed insisté per fare tutto lui.

«Ecco, lo sapevo, è finita: niente più serate cinema ed ora mi vieti anche di cucinare in casa mia. Il prossimo passo sarà quello di non farmi alzare più dal letto, vero?».

Chris rise.

«Potrebbe essere, ma non per i motivi che credi tu», disse con un sorriso furbo.

«Ma come? Non eri tu quello che ieri sera diceva “non mi spingerò oltre fino alla nascita della bambina”?», imitai il suo tono di voce.

Lui scosse la testa, divertito, poi tornò a fissarmi.

«Io ho detto niente sesso, non niente coccole».

«Oh, capisco… », dissi arrivandogli alle spalle e abbracciandolo da dietro. «E che tipo di coccole sarebbero le tue?».

«Lo vedrai».

Sorrisi e mi alzai sulla punta dei piedi per baciargli il collo, poi tornai a sedermi ed aspettai che lui finisse di preparare.

Quando portò i piatti in tavola, per un po’ mangiammo in silenzio, poi i miei pensieri cominciarono a vagare.

Iniziai a pensare a mia sorella e  a tutto quello che aveva fatto, sia a me, sia a Chris. Pensai ai miei genitori e a come avrebbero preso la mia gravidanza; le imperfezioni nella mia famiglia non erano mai state viste di buon occhio.

Immaginai a cosa avrebbero pensato i genitori di Chris scoprendo di noi e della bambina e, in un attimo, mi passò l’appetito ed io cominciai ad essere tormentata da troppi pensieri che mi opprimevano il petto.

«Chelsea? Chelsea, che cos’hai?».

Mi voltai. Chris era al mio fianco e mi guardava preoccupato. Non mi ero neanche accorta di aver lasciato cadere la forchetta sul piatto.

Lo osservai, come tornando improvvisamente alla realtà.

«Io… scusa, non ti volevo far preoccupare».

«Preoccuparmi per te, per voi, è la mia priorità, adesso. Dimmi a cosa stavi pensando».

Sospirai. Non avrei mai potuto tenergli nascosto nulla.

«Pensavo a cosa diranno le nostre famiglie di… di noi. Di lei», dissi posandomi una mano sul ventre.

«La mia famiglia già ti adora e adoreranno anche la bambina. Amore, non ti devi preoccupare, d’accordo?».

«Ma sarà strano! Tu stavi con mia sorella e… noi abbiamo concepito nostra figlia mentre stavate ancora insieme. Shereen non si sarà comportata bene, ma questo… ».

«Chelsea… Chelsea, guardami, ok? Andrà bene, loro capiranno e ameranno nostra figlia così come noi la amiamo».

«E la mia famiglia, Chris? Perché non sono così sicura che anche loro capiranno».

«Abbi più fiducia in loro, Chelsea. I tuoi genitori darebbero la vita per te, ed io l’ho visto quest’estate. Parleremo con loro, ok? E lo faremo presto, te lo prometto».

Annuii e mi sporsi a baciarlo. Quel suo modo di rassicurarmi, funzionava sempre ed io… non sapevo davvero come avevo fatto a resistere tutti quei mesi senza di lui.

«Senti, Chelsea… io devo tornare a Phoenix per sistemare delle cose al lavoro; se non altro per prendermi un periodo di permesso e poi vedremo come andranno le cose, ma penso che trasferirmi qui, in definitiva, sia la cosa migliore. Però devo parlare con Jefferson e… aspettiamo di capire cosa è meglio fare. Io dovrei rientrare domani a lavorare, quindi è il caso di avvertirlo».

Sospirai e feci un cenno di assenso con il capo.

«Ti amo e prometto che sarò a casa prima di stasera».

Sorrisi.

«Ti amo anch’io. Guida piano e dimmi quando arrivi».

«Certo, amore mio», fece una pausa, poi riprese: «È davvero da troppo tempo che desideravo chiamarti così. Che desideravo toccarti come prima potevo solo immaginare nella mia mente e sentendomi anche in colpa. Chelsea… », il ragazzo mi avvolse le braccia attorno alla vita e mi diede un bacio sulla fronte.

«… sei tutto quello che ho sempre desiderato. Tu e nostra figlia… ora ho veramente tutto».

E a quelle parole, mi tornarono le lacrime agli occhi. Di nuovo, maledissi i miei stupidi ormoni, rispondendo all’abbraccio dell’uomo che amavo.

«Allora ci sentiamo più tardi».

«Certo. Tu rilassati e non ti preoccupare di nulla. Stai con Ryan e Gale, fai una passeggiata con Buster e pensa solo a nostra figlia».

Sorrisi, stringendomi forte a lui.

«D’accordo, lo farò».

Detto questo, Chris andò di sopra, indossò la sua giacca  e riprese la strada per Phoenix.

Dal momento in cui Ryan e Gale sembravano in una sorta di stato catatonico a letto, presi il guinzaglio di Buster e uscii a fare una passeggiata con lui, il quale sembrò apprezzare molto la cosa.

Mentre ero fuori, mi sentii leggera come non mi capitava più da molti mesi; da prima di quell’estate, in effetti.

Il mio cane era visibilmente di buon umore ed io camminavo sorridendo.

Quando tornai a casa, i miei due amici erano in salotto a guardare la tv.

«Ehi, Chelsea!», mi salutò Ryan, allegro come sempre.

«Ciao, ragazzi».

«Dov’è Chris?», chiese Gale.

«È tornato a Phoenix. Deve sistemare delle cose al lavoro; parlare con il nostro capo e vedere la cosa migliore da fare, adesso che pensa di trasferirsi qui stabilmente».

Ryan sorrise.

«Cosa c’è?».

«Sono veramente felice, Chelsea… per te. Tu lo ami così tanto. Non abbiamo fatto altro che parlarne per tutta l’estate ed ora… ora finalmente lui è qui con te e che ti ama è evidente. Te lo meriti. Sai, credo che io e Gale dovremmo andarcene. Ne abbiamo parlato stamattina… ».

«Che cosa?! Perché?», chiesi, presa alla sprovvista da quella notizia.

«Perché ora Chris è qui e presto avrete una bambina», prese parola Gale. «Voi avrete bisogno dei vostri spazi, della vostra casa e noi qui siamo di troppo, in un momento simile».

«Gale, Ryan, voi siete i miei migliori amici; non sarete mai di troppo!».

Entrambi sorrisero.

«Non ce ne andremo subito, ma… succederà. Poco prima della nascita della bambina».

Sospirai ed abbracciai i miei due amici.

«Lo sapete che vi voglio bene, vero? E che se non fosse stato per voi, probabilmente non sarei mai riuscita ad affrontare i primi mesi della mia gravidanza… ».

«Ti vogliamo bene anche noi, Chelsea, ma… tu ce l’avresti fatta. Ora forse credi di no, ma… sei molto più forte di quanto pensi. Te la saresti cavata anche senza di noi».

«Già… più che altro… probabilmente saremmo stati noi a non cavarcela se tu non ci avessi aiutato», disse Ryan ed io non potei non sorridere.

Proprio in quel momento, il mio telefono squillò.

«Ciao, Jenna», risposi vedendo il nome sul display.

«Ciao, sorella! Prima cosa: come stai?».

«Oh, qui va tutto bene, è tranquillo».

«E mio fratello? Si è ripreso dalla notizia shock?», mi chiese con una punta di divertimento nella voce.

«Sì, lui è… veramente fantastico. Ora sta tornando a Phoenix, deve parlare con Jefferson, il nostro capo. Penso che passerà anche a casa da voi, ma non lo so… non mi ha detto niente».

«Se non passa, lo faccio fuori».

«No, ti prego! L’ho appena ritrovato e poi… non vorrai mica lasciare tua nipote orfana di padre… ».

«Oh, al diavolo; Adam potrebbe benissimo fare le sue veci».

«Sarò eternamente grata a Adam, ma… non può sostituire Chris. Lo amo come non ho mai amato nessun altro in vita mia».

«Finalmente te lo sento dire!».

«Avevi dubbi? Anche se non me lo avevi mai sentito dire?».

«No, nessun dubbio, ma… adesso è tutta un’altra cosa».

Sorrisi.

«Grazie veramente di tutto, Jenna».

«Di niente, Chelsea».

«Ci sentiamo presto e abbraccia Adam da parte mia».

«Lo farò. Ciao, mamma».

Ridacchiai sentendo l’ultima parola della ragazza e, circa venti minuti dopo, ricevetti un messaggio da Chris in cui mi diceva di essere arrivato alla clinica.

Per tutto il resto del pomeriggio non feci che parlare con i miei due amici e, verso le sette, Chris fu di nuovo a casa.

«Ehi, allora… cosa ti ha detto Jefferson?».

«Era piuttosto disperato. Ha detto che se non ci sposiamo, verrà a cercarci di persona perché, cito testualmente “è inammissibile perdere i migliori dell’ufficio senza una ragione valida, quindi, Williams, vedi di fare in modo che ne sia valsa la pena”».

A quelle parole scoppiai a ridere, così come anche Ryan e Gale.

«Quell’uomo è davvero impossibile», commentai scuotendo la testa.

Chris mi sorride.

«E sei anche passato da casa tua?».

«Sì, ma ho trovato solo Jenna, Pete e Holly. Adam e mio padre erano al lavoro e Megan era a fare compere con mia madre per il bambino».

«Non per immischiarmi nella vostra vita, ragazzi, ma… Chelsea, lo dovresti fare anche tu. Dirlo a tua madre, intendo… ormai… è il momento. Lo hai detto a Chris, lo sanno Adam e Jenna… e lo deve sapere anche la tua famiglia… e la tua, Chris. Il resto della tua».

Annuii.

«Lo so».

Chris mi prese una mano.

«Andrà tutto bene, vedrai».

«Ma, Chris… i tuoi genitori sanno che sei qui?».

«In realtà… Jenna e Adam hanno detto loro che starò fuori di casa per un po’. Ma… niente di preciso. Chiamerò mia madre stasera. È il caso che cominci ad accennarle qualcosa su noi due, prima che sappia della gravidanza, altrimenti sì, che le verrà un colpo. Lei pensa che il primo nipotino arriverà solo tra sette  mesi, mentre lei… », e qui mi posò una mano sul ventre, «… sarà qui appena tra poco più di due».

Sorrisi e lui mi diede un bacio sulla fronte.

Dopo cena, ci mettemmo tutti in salotto a guardare un film, ma, verso le nove Chris si allontanò per chiamare sua madre ed io lo seguii.

Riuscii solo a cogliere qualche stralcio di quella conversazione.

«Mamma, non cominciare ad agitarti, io sto bene. Lo so, per il lavoro ho già risolto, sono tornato oggi e ho parlato con Jefferson. Sono tornato a casa, ma tu eri fuori con Megan! Ho trovato solo Jenna, Pete e Holly. No, mamma… senti, lascia stare Jenna e Adam, non metteteli sotto torchio tu e papà, è una cosa di cui dovrete parlare con me. Certo che tornerò, verrò con Chelsea tra qualche settimana. No, la prossima non posso, sto… sto organizzando una cosa».

A quelle parole rimasi perplessa.

Cosa significava “sto organizzando una cosa”? Che genere di cosa?

Ma poi tornai a concentrarmi sulla conversazione.

«Sì, proprio quella Chelsea, la sorella di Shereen. Mamma… calmati, d’accordo, prendi aria, ricordati che ogni tanto si deve respirare. Non faccio lo spiritoso, dico solo che capisco che tu abbia tante domande, ma ne parleremo di persona quando torneremo a Phoenix. Non credo, ora Santa Barbara è casa di Chelsea, qui ci sono i nostri amici e… penso che staremo qui, ma certo, verremo anche a trovarvi».

Fece una pausa, poi riprese.

«È una situazione piuttosto complicata, ma ti spiegherò tutto. Mamma, no. Lascia Koral ed Henry fuori da questa storia perché per adesso nemmeno loro ne sanno qualcosa; Chelsea ed io ne parleremo anche con loro quando sarà il momento. D’accordo, allora ti prometto che arriveremo tra due settimane. Ti ho detto prima che la prossima non posso. Sì, mamma. Certo che io sto bene, credimi che non sono mai stato meglio in tutta la mia vita. Ok, paranoica che non sei altro, mi faccio sentire io. Ti voglio bene, ma stai calma. Ciao».

Così, dopo qualche istante, Chris uscì dalla stanza.

«Hai origliato tutto, vero?».

Sorrisi.

«Sì».

Lui scosse la testa divertito.

«Quindi?».

«Quindi cosa?».

«Non vuoi sapere che cosa ha detto mia madre?».

«Forse. Ok, sì» dissi quando lo vidi alzare un sopracciglio, dubbioso.

«Beh, le ho fatto capire abbastanza che tra di noi c’è qualcosa».

«Sì, ho sentito frasi del tipo “la vita di Chelsea ora è qui e qui ci sono i nostri amici”».

Lui sorrise.

«Beh, è vero».

«Seriamente? E i nostri amici sarebbero Ryan e Gale?».

«Chi altro?».

«Non lo so, è che… mi sembra strano che tu ora definisca Ryan un tuo amico, dopo che non avete fatto altro che guardarvi male per tutta l’estate».

Chris rise.

«Lui si è preso cura di te. E di nostra figlia, nei mesi in cui io non c’ero. Non potrò mai sdebitarmi nei suoi confronti, per questo».

«Il concetto di altruismo è troppo radicato in quel ragazzo perché lui abbia potuto pensare, anche per un solo momento, che tu possa essere in debito con lui. Credo sia stata una cosa che ha fatto più che altro per principio morale».

«E non dimenticare che ti voglio un bene dell’anima», disse la voce di Ryan proveniente dalle mie spalle.

Sorrisi alle parole del ragazzo, che poco dopo riprese parola.

«Inoltre io ho aiutato te tanto quanto tu hai aiutato me. Prima durante l’estate, poi per mio fratello e infine per Gale. Se non avessi avuto te e la bambina, a cui pensare, credo che sarei impazzito da agosto fino a quando Gale non è stata dimessa».

Lo osservai e il mio volto si rilassò.

«Allora diciamo che ci siamo aiutati a vicenda».

«Diciamo così».

Poco dopo il ragazzo entrò nel bagno ed io rimasi nuovamente sul pianerottolo con Chris.

«Dunque la nostra vita e i nostri amici sono qui», ripetei guardandolo dritto negli occhi.

«Esattamente».

«E riguardo a quella cosa che hai detto a tua madre riguardo al fatto che la settimana prossima non possiamo andare a Phoenix?».

«Oh, quella, sì… beh, vedi Chelsea, quella è una cosa che sto organizzando per te».

A quelle parole sgranai gli occhi.

«Che cosa?!».

«Sì, ed anzi… è meglio che cominci a preparare le valige perché potremmo andare in aereo, ma con te in queste condizioni non mi fido molto e in macchina ci vorranno due giorni per arrivare».

«Non puoi tirare il sasso e poi nascondere la mano! Dimmi dove hai intenzione di andare».

«Ma non ci penso neanche. Fai le valige, porta qualcosa di pesante e non ti lamentare o fare domande».

«Ma!».

Lui mi baciò, mettendomi a tacere.

«Chris… ».

Un altro bacio.

«Vuoi piantarla di… ».

Ma le mie parole vennero nuovamente soffocate dalle sue labbra sulle mie.

«Baciarmi», conclusi, anche se ormai la mia forza di volontà cominciava a vacillare.

«Non smetterò mai di baciarti, Chelsea. E le tue domande sono inutili, perché tanto non ti risponderò».

Sospirai forte.

«Antipatico».

«Sì, non lo nego», disse con un sorriso così strafottente, che mi venne voglia di prenderlo a schiaffi... o anche di baciarlo.

Ora, comunque, lo avrei anche potuto fare, se solo avessi voluto.

«Adesso muoviti, vai a fare le valige; partiamo domani dopo cena».

«Dopo cena?».

«Sì. Così troviamo meno traffico e tu dormi tranquilla. A me piace guidare la notte».

Gli accarezzai una guancia e lui chiuse gli occhi a quel contatto.

«Qualcosa di pesante, allora?».

«Sì, questo almeno è il mio consiglio».

«D’accordo».

Detto questo mi alzai sulle punte dei piedi per baciarlo e lui mi strinse a sé.

In quel momento Ryan uscì dal bagno.

«Ragazzi, vi prego! Avete una stanza da letto, qualche metro più avanti».

Ridemmo entrambi a quelle parole e ci staccammo.

Poco dopo, sentii mia figlia scalciare vivacemente e mi posai una mano sulla pancia, sempre con il sorriso sulle labbra.

 

Note dell’Autrice:

Sono tornata e scusate l’attesa!

Leggendo le vostre recensioni, ho visto che in più di uno temevate che succedesse qualcos’altro che impedisse la felicità di Chelsea e Chris XD

Ormai sapete che con me non c’è da stare tranquilli, ma non vi preoccupate… PER ADESSO, avranno un po’ di pace.

Detto ciò, vi lascio con l’anticipazione del prossimo capitolo e… alla prossima!

 

DAL CAPITOLO 24:

“Quella domanda mi lasciò sorpresa.

«Certo che sto bene. E tu, invece?».

La sentii sospirare.

«Anche io, tesoro. Solo… adesso cerca di chiarirti con Christian, va bene?».

«Lo abbiamo già fatto, mamma».

«Davvero? Avete chiarito… ogni cosa?».

Ma di cosa stava parlando?

«Che cosa intendi?».

«Solo che è una situazione complicata, la vostra. E, per una volta, io vorrei vederti felice, Chelsea. Veramente felice».

«Lo sono, mamma».

«Avrei soltanto voluto che tu me ne parlassi, tesoro… ».”

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Capitolo 24
*** New York ***



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24  





CAPITOLO 24: NEW YORK

 

Il giorno seguente, informammo Gale e Ryan della nostra imminente partenza e loro rimasero sorpresi quanto me quando Chris me lo aveva comunicato.

«E dove andrete?».

«Non lo so, il signore qui presente si rifiuta di fornirmi informazioni più dettagliate», dissi indicando Chris con una mano.

«Te l’ho detto: è una sorpresa e smettila di fare storie. Credimi… ti piacerà».

Sorrisi, come anche Gale e Ryan.

«Sarete di ritorno tra una settimana, allora?».

«Beh, Chelsea è ufficialmente in maternità ed io… attualmente non ho un lavoro, comincerò a cercare qualcosa quando torneremo, intanto ho dei soldi da parte, perciò non è un problema di cui mi preoccuperei al momento».

«I soldi sono davvero l’ultimo dei nostri pensieri visto che anche io ho i miei risparmi e l’eredità del nonno».

«Quindi non c’è alcun problema, no?».

«No».

«Perfetto, allora… andate e divertitevi. E vedete di trattare bene mia nipote», disse Ryan con un gran sorriso.

«Su questo non avere dubbi», lo rassicurò Chris.

«Ryan, ci pensi tu a Buster, questa settimana?».

«Ma certo, non farti alcun problema; tanto ormai siamo diventati grandi amici».

Sorrisi.

«D’accordo, allora direi che è meglio se vado a sistemare le ultime cose».

La giornata trascorse velocemente e, quando arrivò la sera, mangiammo prima del solito e poi Chris caricò la sua macchina.

«Bene ragazzi, allora… fate buon viaggio e… guida piano, Chris, mi raccomando».

«Tranquillo, Ryan. Ci vediamo tra una settimana».

«Certo».

Abbracciai i miei due amici e accarezzai la testa di Buster, che era arrivato scodinzolando.

Dopodiché, io e Chris salimmo in macchina e lui accese il motore.

«Allora… », cominciai non appena il ragazzo ebbe svoltato l’angolo della strada, «… non hai proprio intenzione di dirmi dove mi stai portando?», ritentai.

Lui mi rivolse un sorriso angelico.

«Assolutamente no».

Poi tornò a guardare la strada ed io sbuffai sonoramente.

«Oh, avanti, Chris! Lo sai che non mi piacciono le sorprese».

«Questo solo perché sei una paranoica maniaca del controllo e ti innervosisce non sapere cosa farai da qui ai prossimi cinque secondi», mi riprese lui con un sorriso sornione.

Gli lanciai un’occhiataccia e lui rise apertamente.

«Ti odio».

«Non è vero; tu sei perdutamente innamorata di me».

«Beh, potrei ripensarci».

«Davvero? Io dico di no… », continuò, in tono canzonatorio.

«Ok, mi arrendo».

«Non avresti avuto molte alternative, mia cara».

Gli feci una linguaccia e tornai a osservare fuori dal finestrino. L’oceano sembrava veramente sconfinato, visto in quella prospettiva.

«Ieri, quando parlavi con tua madre… hai detto che non sei mai stato meglio in vita tua».

Lui mi rivolse uno sguardo fugace, ma adesso, rispetto a poco prima, era serio.

«Quindi la tua domanda sarebbe… ?».

«Dicevi davvero?».

Ora la sua espressione era sorpresa.

«No. Non avrei dovuto usare il termine “meglio”; avrei dovuto dire “felice”. Hai forse qualche dubbio al riguardo, Chelsea? Credi che io non voglia te o nostra figlia? Io vi amo, per voi darei la mia vita. Tesoro, io sono felice. Forse per la prima volta in tutta la mia vita, sono veramente felice. Ho tutto ciò che un uomo potrebbe desiderare e… tu e la bambina, da questo momento in poi, siete e sarete sempre la mia priorità».

Per un attimo, mi vennero quasi le lacrime agli occhi e lui mi prese una mano.

«Quante volte dovrai sentirmi dire che ti amo, prima di crederci?».

Sorrisi.

«Tu, solo… continua a dirlo… ».

«Se potessi, adesso ti bacerei».

«Vorrà dire che lo farai quando arriveremo».

«Ci puoi giurare, donna».

Parlammo ancora a lungo; viaggiare di notte per me fu un’esperienza nuova, ma… mi piacque da morire, soprattutto con Chris al mio fianco.

«Adesso prova a dormire un po’, Chelsea, è quasi mezzanotte».

«Non vuoi che guidi un po’ io?».

«Non adesso, magari domani. Ora voglio che ti riposi».

Gli accarezzai una guancia, poi mi voltai dall’altra parte e chiusi gli occhi, cercando di rilassarmi.

Era incredibile come, quando Chris era con me, non faticassi a calmare i nervi e prendere sonno subito mentre, quando lui non c’era, spesso e volentieri passassi intere nottate senza chiudere occhio.

 

Quando riaprii gli occhi, il sole era alto e l’auto ferma ad una stazione di servizio.

Guardai l’orologio, erano le sette di mattina e Chris era seduto al mio fianco, dormiva anche lui.

Probabilmente ad un certo punto aveva risentito troppo della stanchezza; io non mi ero accorta di nulla.

Scesi dall’auto, ero tutta indolenzita, così mi stiracchiai, poi entrai nel bar, ordinai un caffè nero per Chris e due brioches.

Non appena rientrai in macchina, il ragazzo si svegliò al solo sentire l’odore del caffè.

«Buongiorno», mi salutò stiracchiandosi.

«Ciao», dissi sporgendomi a baciarlo.

Sarei rimasta così per sempre, se solo avessi potuto.

La bambina, dentro di me, si agitò e scalciò ed io mi portai una mano alla pancia, cercando di tranquillizzarla.

«Ti ho preso il caffè», dissi avvicinandogli il bicchiere di carta.

«Grazie», rispose lui sorridendo.

Consumammo la nostra colazione fuori dall’auto, poi ci rimettemmo in viaggio.

Verso l’ora di pranzo, facemmo cambio e guidai io per un po’, seguendo le indicazioni di Chris, che si ostinava a non dirmi dove mi stesse portando ed io potei orientarmi solo grazie ai cartelli, capendo che stavamo attraversando orizzontalmente tutto il Paese.

«Chelsea, smettila di cercare di capire. Saprai dove stiamo andando quando arriveremo».

«Non ti sopporto quando fai così».

«Tu invece sei adorabile quando cominci a irritarti».

Sbuffai, poi Chris disse: «Su, accosta, adesso guido io. Saremo a destinazione prima di cena, se non troviamo traffico».

Il pomeriggio passò piuttosto velocemente e, verso sera, finalmente capii dove Chris mi aveva portata.

«New York!», esclamai entusiasta. «Mi hai portata a New York!».

«Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto».

In uno slancio lo abbracciai e lui rise.

«Cerca di non farmi perdere il controllo della macchina, amore mio».

Risi a mia volta, divorando con gli occhi ogni angolo di quella città che da sempre, avevo voluto visitare. Poi mi tornò in mente una cosa.

«Un momento… per caso hai parlato con tuo fratello?».

«Intendi Adam? Io… no, veramente no. Di cosa avrei dovuto parlargli?».

«Beh, quando è venuto a trovarmi, per il Ringraziamento, mi ha chiesto quale fosse il mio sogno più grande e io… avevo risposto questo: New York».

Chris sorrise.

«No, Chelsea, non ho parlato con Adam, ma credimi... ricordo ognuna delle nostre conversazioni e ricordo di quando mi dicesti che, visitare New York e andare alla Julliard, era uno dei tuoi desideri più grandi. Inoltre, se non ricordo male, dovevi venirci proprio la scorsa estate, giusto?».

«Sì, io… avrei dovuto».

«Allora meno male che non è stato così».

«Meno male?».

«Beh, mettiamola in questo modo: se quest’estate tu fossi venuta a New York, a quest’ora non avremmo avuto lei», disse posandomi una mano sul ventre, ed io sorrisi.

«So che è stato il momento sbagliato, la situazione sbagliata e insomma… tutto era sbagliato. Ma da un insieme di fattori sbagliati, è nata una cosa giusta».

Non riuscii più a trattenermi e mi sporsi a baciarlo.

«Ti amo, Chris».

«Ti amo anch’io, ma se continui a saltarmi addosso, lascerò andare il volante per baciarti e finiremo contro un palo. Da stasera avremo una camera d’albergo a disposizione, abbi un altro po’ di pazienza», disse sorridendomi.

«Se proprio devo».

Lui ridacchiò.

Arrivammo davanti ad un imponente albergo verso le sette di sera; Chris scaricò le valige dalla macchina e lasciammo i nostri documenti alla reception prima di salire in camera.

La stanza era veramente bellissima: spaziosa, luminosa, i muri erano dipinti di azzurro pallido e il letto era veramente enorme.

Non appena entrammo, Chris lasciò cadere le valige sul pavimento, si richiuse la porta alle spalle e mi cinse la vita con impeto, facendo aderire la mia schiena al muro. Poi mi baciò con passione.

«Era tutto il giorno che volevo farlo», mormorò contro le mie labbra e, l’attimo seguente, fui io ad attrarlo a me.

Era una cosa che mai avrei immaginato sarebbe potuta accadere a me: quel desiderio così passionale, la voglia che avevo di Chris, il bisogno, quasi, di sentire il suo corpo sul mio, dentro, al mio.

Ma questo lui non lo avrebbe permesso e me lo aveva detto chiaro e tondo nonostante il desiderio fosse così bruciante.

Abbassai la cerniera della sua giacca di pelle e la buttai in qualche angolo della stanza, poi lui fece lo stesso con la mia.

In breve, il ragazzo si ritrovò con i soli boxer addosso ed io in slip e canottiera, sdraiati sul letto, continuando a baciarci come se quello, fosse l’unico modo che avevamo per restare in vita.

Dopo qualche altro minuto, Chris mi sfilò anche la canottiera e, in un primo momento, mi bloccai.

«Cosa succede, Chelsea?», mi chiese portando il peso del suo corpo su un braccio e sollevandosi a guardarmi.

«Niente, è che… », non finii la frase e mi posai una mano sul ventre.

Chris sorrise.

«Pensi di piacermi di meno perché sei incinta? Amore, io… credimi, non ho mai visto nulla che si possa avvicinare alla perfezione più di te in questo momento».

Abbozzai un sorriso, poi lui tornò ad avventarsi su di me.

Ci baciammo a lungo, continuando ad accarezzarci e senza staccare i nostri corpi uno dall’altro e, quando Chris fece sparire anche il mio reggiseno, fui attraversata da un milione di brividi lungo la schiena, gemendo.

«Non pensare mai più di non piacermi, Chelsea… sei… sei bellissima».

Disse lui con la voce rotta dall’eccitazione e le labbra sul mio collo.

Passammo così altri trenta minuti, prima che i nostri stomaci cominciassero a reclamare cibo.

«È meglio andare, torneremo qui subito dopo cena, ok? Hai bisogno di dormire in un vero letto», disse lui porgendomi una mano ed aiutandomi ad alzarmi.

In una città come New York, non ci fu alcun problema a trovare un ristorante.

Era un posto assolutamente chiassoso, pieno di gente, così come anche lungo la strada il flusso di persone pareva ininterrotto.

In conclusione “la città che non dorme mai”, era proprio il nome più azzeccato.

«Sei contenta di essere a New York?», mi chiese ad un tratto Chris, quando ormai eravamo arrivati al dolce.

«Contenta?! Vuoi scherzare? È esattamente quello che ho sempre desiderato e con te è anche meglio».

Lui sorrise e allungò una mano sul tavolo fino a prendere la mia.

«Tu, invece, sei tutto quello che io, ho sempre desiderato».

Dopo cena, passeggiammo a lungo per le strade di New York.

Le luci, i colori, la musica… il traffico nonostante la tarda ora… era tutto esattamente come lo avevo sempre immaginato e sentire la mano calda di Chris nella mia per tutto il tempo, rese perfetta quella serata.

Tornammo in albergo verso le undici di sera; ero stanca, ma volevo ancora parlare con lui, avrei voluto non perdermi nemmeno un istante.

Invece, estrassi dalla borsa il mio cellulare e scrissi a Ryan, rivelandogli finalmente la nostra misteriosa meta.

Prima che potessi ricevere la sua risposta, però, Chris mi sollevò tra le sue braccia e mi fece distendere su quel letto così inverosimilmente comodo.

Mi guardò negli occhi per qualche istante ed io nei suoi, di occhi, rischiai quasi di perdermi, poi posò le sue labbra sulle mie.

Quando cominciai a sbottonargli la camicia, però, lui mi bloccò.

«Cosa c’è?», gli chiesi, contrariata.

Chris sfoderò il suo solito ghigno.

«Adesso, non essere gelosa, ma voglio dedicarmi un po’ a mia figlia».

Io inarcai le sopracciglia, sorpresa.

«D’accordo, allora fa’ pure».

A quel punto, il ragazzo scoprì la mia pancia e, dapprima, si limitò ad accarezzarla. Poi, alle carezze sostituì i baci ed io mi rilassai contro la testiera del letto, passando le dita tra i suoi capelli biondi.

Mi addormentai così, con l’uomo che amavo e, che sapevo, non avrebbe rinunciato a me e a nostra figlia per nulla al mondo.

 

Il giorno seguente, restammo fuori per tutto il tempo. L’intera mattinata camminammo lungo Central Park; era davvero… enorme, ma fu bellissimo.

Ad un tratto, poco prima di pranzo, eravamo seduti su una panchina, quando Chris disse: «Sai, ho pensato ad un nome per la bambina… ».

Io lo osservai sorridendo.

«E quale sarebbe?».

«Danielle. Per ricordare tuo nonno».

Posai la testa contro la sua spalla, chiudendo gli occhi e commossa per l’idea che Chris aveva avuto.

«Danielle Williams. Suona bene, no?».

«Suona decisamente bene».

«Mi piace».

Proprio in quel momento, la bambina scalciò forte ed io mi portai una mano in grembo.

«E a giudicare dall’energia, piace anche a lei».

Chris rise, mi strinse a sé e mi diede un bacio tra i capelli, dopodiché ci alzammo e riprendemmo la nostra passeggiata.

Pranzammo nel ristorante dell’albergo ed il pomeriggio uscimmo di nuovo e andammo a visitare uno dei più grandi musei di arte moderna di tutta New York.

Inutile dire che lì dentro sarei anche stata capace di perdermi e, all’ora di chiusura, forse non ne avevamo visto neanche metà.

La sera ci fermammo a mangiare in un locale lungo la strada per tornare in albergo; per fortuna eravamo venuti in macchina, altrimenti visitare quell’enorme città sarebbe stato più problematico.

«Hai passato una bella giornata?».

«Sì, decisamente».

Ad un tratto, però, il mio telefono prese a squillare.

«Oh, accidenti, è mia madre. Cosa le dico, adesso?».

Chris sorrise.

«Dille la verità; dille che sei con me, vedrai che andrà tutto bene. E poi… così comincerai a prepararla alla bomba che lanceremo la settimana prossima quando torneremo a Phoenix».

Annuii e premetti il tasto verde per rispondere.

«Ciao, mamma».

«Tesoro! Ho chiamato a casa, ma mi ha risposto Ryan; ha detto che sei fuori città per un po’».

«Ehm, sì, è vero».

Come sempre quando ero nervosa, cominciai a tamburellare con le dita sul tavolo,  Chris se ne accorse subito e mi accarezzò il dorso  della mano.

«Dove sei, allora? E cos’è tutto questo rumore?».

«Sono fuori a cena, in un ristorante a… a New York».

«New York?! Chelsea, mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?».

Sospirai.

«Ti ricordi quando mi hai telefonato l’altra sera, e mi hai detto di chiamare Chris?».

Ora, il ragazzo, di fronte a me, inarcò le sopracciglia con espressione sorpresa.

«Sì, ma… questo che cosa c’entra?».

«Ecco, lui è venuto a Santa Barbara, il giorno dopo e, insomma… ora è qui con me. A New York. Torneremo  tra qualche giorno».

Per qualche istante, regnò un silenzio assoluto, tanto che credetti fosse caduta la linea.

«Mamma? Ci sei ancora?».

«Sì, Chelsea, io… tu stai bene?».

Quella domanda mi lasciò sorpresa.

«Certo che sto bene. E tu, invece?».

La sentii sospirare.

«Anche io, tesoro. Solo… adesso cerca di chiarirti con Christian, va bene?».

«Lo abbiamo già fatto, mamma».

«Davvero? Avete chiarito… ogni cosa?».

Ma di cosa stava parlando?

«Che cosa intendi?».

«Solo che è una situazione complicata, la vostra. E, per una volta, io vorrei vederti felice, Chelsea. Veramente felice».

«Lo sono, mamma».

«Avrei soltanto voluto che tu me ne parlassi, tesoro… ».

«Di cosa?».

Lei sospirò nuovamente.

«Ne parleremo quando tornerete. Ieri mi ha chiamato Constance; ha detto che aveva sentito Christian e che la settimana prossima verrete qui, per parlare con tutti noi».

Lanciai uno sguardo allarmato a Chris e lui mi prese una mano.

«Sì, è vero… ».

«E allora va bene così, Chelsea, parleremo di tutto quando tornerete a Phoenix».

«Va bene. Buonanotte, mamma».

«Buonanotte, tesoro».

Così, riagganciai.

«Che cosa succede?», mi chiese subito Chris.

«Non lo so. Mamma mi ha detto che tua madre l’ha chiamata per dirle non so bene cosa sul fatto che tu fossi a Santa Barbara con me e che saremmo tornati a Phoenix, la settimana prossima».

«E meno male che le avevo detto di non dire niente ai tuoi… », rispose lui, rassegnato.

«Sai com’è… madri… ».

«Stai dicendo che diventerai così anche tu?».

Sorrisi alle sue parole.

«Ovvio che mi preoccuperò per nostra figlia».

«Tu ti preoccuperai, io non le permetterò di uscire di casa prima di aver compiuto almeno trent’anni».

«Oh, cielo… mi sa che dovrò farle da complice, allora… ».

Chris sorrise, scuotendo la testa.

«Su, torniamo in albergo adesso. È tardi».

Così, dopo venti minuti, eravamo già sdraiati sotto le coperte del nostro letto.

 

I giorni passarono velocemente, fin troppo velocemente, per i miei gusti. Una giornata, Chris mi permise di dedicarla interamente allo shopping, sia per me, sia per la bambina. Inutile dire che quella sera, tornammo in albergo straripanti di buste. Lo shopping a New York, era tutta un’altra cosa.

L’ultimo giorno, il ragazzo mi portò a visitare il campus della Julliard, mentre per la sera, aveva comprato i biglietti di un concerto che la scuola aveva organizzato.

Fu veramente meraviglioso ed io ne restai incantata.

Quando tornammo in albergo, lo strinsi forte.

«Grazie, Chris. Per il concerto; per tutta questa settimana… io… grazie, davvero».

Lui mi baciò la fronte.

«Lo sai che per te farei di tutto, vero?».

«Lo so».

Ci infilammo sotto le coperte, poi Chris si voltò verso di me  e disse: «Sai, ho notato una cosa, mentre eravamo a casa».

«Che cosa?».

«Il pianoforte… è ancora chiuso. Chelsea… è rimasto chiuso da quando… ?».

«Dal giorno della sepoltura del nonno. Non ho più suonato. Io… non ci riesco».

Lui sospirò e mi accarezzò una guancia.

«Credo che dovresti ricominciare. Credo che dovresti farlo per te, per tuo nonno e… per lei», così dicendo, mi posò una mano in grembo.

«Io… Chris, non so se ne sono ancora capace».

«Io penso di sì. E penso che dovresti davvero farlo. Era una cosa che, prima di tutto, ti faceva bene, riuscivi a sfogarti. E amavi. Forse, se avessi suonato, avresti superato meglio i primi mesi della gravidanza».

«Può darsi, Chris, ma… non lo so… il nonno mi ha insegnato tutto e… ».

«E tu insegnerai tutto a Danielle. Perché è questo che lui vorrebbe. Lui ti voleva bene, Chelsea e la musica… era ciò che ha sempre cercato di trasmettere a voi. Con te ce l’ha fatta e vorrebbe che ora fossi tu a continuare».

Strinsi forte la mano di Chris e, con le lacrime agli occhi, dissi: «Lui mi manca così tanto».

Il ragazzo mi circondò la vita, cullandomi fra le sue braccia.

«Lo so, amore mio».

Mi sfuggì un singhiozzo, ma poi mi imposi di calmarmi e tornai a fissare i miei occhi in quelli di Chris.

Gli presi il volto tra le mani e lo attirai a me per baciarlo.

Lui rispose con dolcezza, dapprima, poi mi mordicchiò leggermente il labbro inferiore, facendomi ridere.

«Non mordermi; sei diventato un vampiro?».

«Mmm, potrei. Tu sei buona».

Di colpo mi venne una vampata di calore.

«Sai, è la stessa cosa che hai detto quel giorno nel tuo ufficio, dopo che… ».

«Dopo che ti avevo spogliata sulla mia scrivania».

Lo guardai di sottecchi.

«Esatto».

«Il lavoro non mi è mai piaciuto così tanto come quel giorno».

Gli tirai un pugno sul braccio.

«Sei proprio un… », ma lui mi sovrastò, facendo sempre attenzione a non premere sul mio corpo.

«Sì? Che  cosa sono?».

Detto questo scese a posarmi un bacio sulle labbra.

«Un cretino».

Un bacio sul collo.

«E… ».

Un bacio sulla clavicola.

«Ti amo».

Un bacio sul petto.

In qualche modo, era riuscito a sbottonare la camicia che portavo senza che nemmeno me ne rendessi conto ed ora, accarezzava il mio seno con la punta delle dita, massaggiando laddove la mia pelle non era coperta dalla biancheria intima.

«Chris», sospirai, mentre lui era troppo impegnato a baciarmi il collo.

Dopo un po’, le sue carezze si fecero più audaci e lui scese per torturare il mio seno con la bocca, cominciando a lasciare dei piccoli baci, che, nel giro di un minuto, diventarono un contatto molto più passionale.

Lo strinsi a me e lui continuò quella sua dolce tortura. Dannazione, gli ormoni della gravidanza mi rendevano molto più sensibile a quel genere di effusioni.

Lui insinuò una mano sotto la mia gonna ed iniziò ad accarezzarmi l’interno coscia, finché, dopo qualche minuto, si staccò bruscamente, ansante, rotolando di schiena sul letto e fissando gli occhi nei miei.

«Chelsea… non hai idea di cosa vorrei farti in questo momento, ma temo che non  riuscirei a trattenermi oltre».

Per un attimo ricambiai il suo sguardo, poi, mi venne un’idea. Un’idea tanto folle che non sapevo nemmeno come mi era potuta venire in mente.

Mi misi in ginocchio sul letto e lo osservai con sguardo furbo; il mio viso trenta centimetri sopra il suo.

«Amore… perché mi stai guardando così?».

«Così come?», chiesi in tono falsamente ingenuo.

«Come se fossi un dolce… ».

Sorrisi, mi stavo facendo scaltra.

«Interessante metafora. Aspetta, fammi assaggiare».

Detto questo, mi chinai a baciarlo.

Prima le labbra, poi indugiai qualche minuto sul suo collo e Chris emise dei sospiri, forse involontariamente. Ma vederlo così mi dava coraggio e mi spinsi sempre più oltre.

Scesi sul petto, sull’addome piatto e, infine, cominciai a sbottonargli i jeans.

A quel punto, lui aprì gli occhi di scatto, mettendosi a sedere.

«Chelsea… che cosa hai intenzione di fare? Perché tra poco potrei non essere più responsabile delle mie azioni… ».

«Bene… allora lo sarò io per entrambi», dissi lanciandogli un’occhiata che la diceva lunga.

«Chelsea, l’ultima volta non siamo stati molto responsabili… benché non me ne penta».

«Qual è il problema? Tanto non rimango mica incinta… ».

Lui mi guardò dapprima con sguardo sorpreso, poi scoppiò a ridere.

«Dio… tu mi manderai al manicomio», disse passandosi una mano tra i capelli.

Ridacchiai, poi, a sorpresa, feci cadere la mia gonna, mi tolsi completamente la camicia e porsi una mano a Chris.

«Che cosa hai in mente?», mi chiese  lui, visibilmente sorpreso.

«Poche storie e vieni con me».

Lui afferrò la mia mano ed io lo condussi in bagno.

«Chelsea… ».

«Sssh», sussurrai contro le sue labbra, e lui rispose al mio bacio.

Aprii il box della doccia e regolai il getto in modo che uscisse tiepida.

«Tesoro… », riprovò lui, ma io lo baciai di nuovo, mentre stavolta gli sfilavo definitivamente i pantaloni.

Non sapevo proprio da dove, improvvisamente, arrivasse tutta quell’audacia, cosa che, prima di allora, non avevo idea che facesse parte di me.

Probabilmente era Chris a farmi quell’effetto; con lui era come… essere partiti dal cinquantesimo appuntamento. Non avevamo dovuto affrontare l’imbarazzante fase del conoscersi e ora tutto mi appariva chiaro davanti agli occhi: quello che avevo sempre desiderato, ciò che avevo sempre aspettato… era sempre stato a portata di mano.

Lo spinsi contro la porta chiusa del bagno, mentre lui si lasciava andare a baci, carezze e sospiri e, quando il vapore della doccia cominciò a spandersi nella stanza, lo trascinai dentro con me.

«Chelsea… mi stai davvero mettendo a dura prova… », ansimò lui sulla mia spalla. La sua voce era come ovattata dall’acqua, dai nostri respiri affannosi e dall’eccitazione.

«Il fatto che tu non voglia fare l’amore fino alla nascita della bambina… non significa che io non possa dedicarmi a te… », risposi baciandogli il collo e spostando i suoi capelli bagnati che cominciavano ad appiccicarsi alla pelle.

In quel momento, quei pozzi di un indescrivibile azzurro che erano gli occhi di Chris, si fissarono nei miei, ed io mi avventai nuovamente sulle sue labbra, come se fossero un richiamo troppo forte per resistergli.

«Chelsea… Dio, quanta pazienza che ci vuole con te… ».

Risi sommessamente a quella frase e in un attimo feci sparire anche i suoi boxer.

Lo guardai attentamente per dieci secondi e lui osservò me, per captare ogni mia singola reazione.

«Dunque?», mi chiese quando tornai a guardarlo in faccia.

«Dunque cosa?».

«Cosa decreta, vostro onore?», mi prese in giro lui.

«Mmm… l’imputato… è assolto da tutte le accuse e… se dovessi dare un voto… non ce ne sarebbe uno abbastanza alto. Ma per adesso… possiamo accontentarci di un dieci», gli baciai il collo.

«Per la lode… dovremmo aspettare i prossimi mesi».

Lo sentii ridere contro il mio orecchio, ma si zittì immediatamente quando, in modo assolutamente volontario, sfiorai con la mano l’eccitazione tra le sue gambe.

«Ora… posso dedicarmi un po’ a te».

Dopodiché, mi avventai nuovamente su di lui.

 

Uscimmo dalla doccia stravolti e accaldati, consapevoli di aver consumato, probabilmente, tutta la riserva di acqua calda di quell’albergo.

Eravamo entrati in bagno che erano le undici e mezza ed ora era quasi l’una.

Ci buttammo sul letto esausti e felici e, prima di spegnere la luce, Chris si voltò verso di me e disse: «Tu… non hai la minima idea di cosa succederà dopo la nascita della bambina».

Risi e mi strinsi a lui.

«Allora non vedo l’ora di scoprirlo».

Mi sollevai a dargli un ultimo bacio, prima di crollare sfinita contro il suo petto e addormentarmi come un sasso.

 

Due giorni dopo, ormai eravamo quasi arrivati a Santa Barbara, quando, il telefono di Chris prese a squillare, mentre il ragazzo stava guidando.

Lui lo tirò fuori dalla tasca e guardò il display, poi me lo porse dicendo: «È Adam, puoi rispondere tu, per favore? Non vorrei distrarmi… ».

Afferrai l’oggetto con un sorriso e risposi al cellulare.

«Ciao, Adam!», dissi allegramente.

Ma la voce del ragazzo, non era affatto allegra e, quando sentii le sue parole, mi portai una mano alla bocca.

Chris mi guardò preoccupato e mi prese una mano.

«Chelsea, che cosa c’è?», mi chiese apprensivo, ma io ascoltavo le parole di Adam.

 «Sì, certo che arriviamo. E… Adam? Stai tranquillo, andrà tutto bene, vedrai. Certo, glielo dico io», detto questo, chiusi la chiamata.

«Cosa, Chelsea? Cosa mi devi dire?».

Mi voltai a guardarlo, non sapendo come fare a trovare le parole per dargli una notizia del genere.

«È meglio se accosti l’auto, Chris… ».

Lui obbedì, poi mi fissò intensamente.

«Chelsea… è successo qualcosa ad Adam? Io… non gli parlo praticamente dal Ringraziamento; sono stato un vero stronzo con lui in questi mesi e… ».

«Chris… Adam sta bene».

«E allora cosa… ?».

Gli posai una mano sulla guancia.

«Si tratta di tuo padre… ha avuto un arresto cardiaco».

 

 

Note dell’Autrice:

Ok, lo so che in questo momento mi state odiando. In questo capitolo c’era troppo miele, quindi ho deciso che doveva succedere un altro disastro, per riequilibrare un po’ la situazione XD

All’inizio in realtà non doveva essere il signor Williams, ma il padre di Chelsea, però… lei ne ha passate troppe in famiglia. Allora, un’altra opzione che mi era venuta in mente, era un incidente di Adam, ma amo troppo quel personaggio per fargli del male. Dunque, alla fine la pagliuzza più corta è toccata al povero Traver.

Ebbene, nel prossimo capitolo sapremo se è ancora vivo o se ha tirato le cuoia anche lui, intanto fatemi sapere se questo capitolo vi è piaciuto.

Io ho trovato Chelsea e Chris estremamente dolciosi, scusate il termine, e mi sono divertita da matti a scrivere la scena in cui Chelsea fa perdere la testa a Chris.

Anche lei, ha tirato fuori una parte del suo carattere che non sapeva di avere.

Bene, a questo punto vi saluto, scusandomi come al solito per l’immane ritardo e sperando di non farvi attendere così tanto anche per il prossimo…

A presto!

 

DAL CAPITOLO 25:

“«Christian Devon Williams!», esclamò con impeto e Chris, al mio fianco, s’irrigidì.

Jenna venne avanti.

«Scusate, ragazzi, Adam ha cantato».

Adam ci rivolse uno sguardo di scuse.

«Sa essere davvero convincente, quando vuole», borbottò lui, burbero.

«Tu farai meglio a non parlare; ce ne sarà anche per te e per tua sorella».

«Che cosa?! E io che c’entro?», si mise sulla difensiva Jenna.

«Tu lo sapevi e non hai detto niente. Per mesi».

Detto ciò, Constance Williams si voltò nuovamente a guardare il terzo dei suoi figli, con aria a dir poco minacciosa.”

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Capitolo 25
*** Liberazione totale ***



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25  





CAPITOLO 25: LIBERAZIONE TOTALE

 

Il volto di Chris, in quel momento, era una maschera di dolore, ed io gli presi subito le mani tra le mie.

«Chris, tesoro, non pensare subito al peggio; Adam ha detto che è vivo, d’accordo? Tuo padre è vivo, ma dobbiamo tornare subito a Phoenix».

Lui annuì e mise nuovamente in moto la macchina.

«No, Chris, guido io adesso, d’accordo? Tu non sei nelle condizioni. Ormai manca poco per arrivare a casa e da qui conosco la strada. Avanti, scendi dall’auto e facciamo cambio di posto».

Lui obbedì senza fiatare, era impallidito improvvisamente.

Prima di ripartire, mandai un breve messaggio a Ryan dicendo che saremmo tornati direttamente a Phoenix. Non avevo tempo di spiegargli cos’era successo, dunque, scrissi solo che c’era stato un problema con la famiglia di Chris e che dovevamo andare subito lì. Ci saremmo sentiti di nuovo una volta arrivati.

Per la maggior parte del viaggio, il ragazzo non disse una parola, ma rimase muto e impassibile sul sedile, ad osservare fuori dal finestrino.

Una delle sue mani, però, restò posata tutto il tempo sulla mia gamba, e ogni tanto io la accarezzavo.

Inizialmente il cuore mi batteva forte, ma poi mi ero costretta a calmarmi. In primis, se fossi stata agitata, sarei stata meno lucida e, guidando, non potevo permetterlo. In secondo luogo, la tensione faceva male alla bambina.

Con il pensiero, avrei solo voluto andare al padre di Chris, a quell’uomo che era stato così gentile con me, che aveva accompagnato a Santa Barbara i miei genitori anche quando io ero scappata rovinando la loro cena, ma mi imposi di concentrarmi solo sulla strada.

Arrivammo nell’ospedale  di Phoenix, che ormai era pomeriggio inoltrato.

Salimmo fino al reparto di cardiologia e lì, trovammo l’intera famiglia Williams, tanto che quasi mi sentii in soggezione.

La madre di Chris ci venne subito incontro, pallida come un lenzuolo, ed il ragazzo la strinse forte a sé.

«Tranquilla, mamma, vedrai che ce la farà», lo sentii dire.

Capii che avrei dovuto lasciarli soli, così mi feci avanti. Jenna era di spalle, appoggiata ad Adam, che le cingeva la vita, dunque mi avvicinai a loro e posai una mano sulla schiena di ciascuno.

Quando si voltarono, passò una strana espressione nei loro occhi. Sembrava dolore misto a sollievo e, dopo un momento, i due mi abbracciarono.

«Ciao, ragazzi».

Jenna aveva gli occhi rossi e gonfi, Adam sembrava solo terribilmente stanco.

Al momento, indossavo una giacca pesante, quindi nessuno dei familiari di Chris si era reso ancora conto che fossi incinta, a parte i due che già ne erano a conoscenza.

Megan e suo marito Jethro erano seduti poco distante da lì, così come anche Peter, che teneva sulle ginocchia un’addormentata Holly e Julie, che teneva tra le sue una mano del fidanzato.

«Siamo qui da ore, ma nessuno è venuto ancora a dirci niente. Papà è stato operato stamattina, ci hanno solo detto che l’intervento è riuscito e da quel momento non ne abbiamo più saputo nulla», disse Jenna, con le lacrime che di nuovo tornavano a premerle sugli occhi.

Adam l’abbracciò e poi prese una delle mie mani.

«Stamattina? Siete qui da così tante ore? Perché non ci avete avvertiti subito? Avreste dovuto chiamare i miei genitori, almeno».

Adesso i due mi guardarono straniti.

«I tuoi genitori? E perché?».

«Non lo sapete? Mio zio è primario della cardiochirurgia».

A quelle parole, tutti gli occhi dei presenti si puntarono su di me.

«Aspettate qui, suono il campanello e mi faccio aprire. Parlerò con mio zio e vi faccio sapere».

La madre di Chris, ancora stretta a lui, mi ringraziò e, dopo trenta secondi, camminavo già a passo svelto lungo la corsia del reparto.

Arrivai davanti al suo studio e bussai.

«Avanti», mi rispose la familiare voce di zio Andrew.

«Chelsea? Tesoro, che cosa ci fai qui? Sei così pallida, ti senti bene?».

«Zio, ti devo chiedere una cosa… ».

«Ma certo, siediti pure».

Lo feci, poi lui prese parola.

«Dunque?».

«Si tratta di Traver Williams, un paziente che ha subito un intervento questa mattina».

«Il signor Williams, certo, io… un momento… Williams         ! Oh, cielo, ecco dove ci eravamo già incontrati! Dannazione, il giorno di Natale; avrei dovuto ricordarmelo. Certo, l’ho operato io, l’intervento è andato bene, ma ora dobbiamo aspettare che si svegli».

«Non è che potresti parlare con la famiglia? Sai, Christian, il mio fidanzato e… », non mi resi neanche conto di quelle parole.

«Un momento… ma non era il ragazzo di tua sorella?».

M’irrigidii e cercai di sviare il discorso.

«È una storia lunga, ti prometto che ti spiegherò tutto, ma ora, per favore, parla con loro, sono davvero spaventati».

«Ma certo, tesoro, vieni con me».

Seguii zio Andrew ripercorrendo la strada inversa a quella che avevo fatto poco prima e, dopo un minuto, ci ritrovammo nuovamente davanti alla famiglia Williams.

Subito, Constance si fece avanti con aria preoccupata, così come tutti gli altri.

Mio zio sorrise gentilmente. Si scusò per non aver potuto parlare con loro prima e disse che l’intervento era andato bene.

«Ora dobbiamo vedere come il suo cuore reagirà e come reagirà ai farmaci. Si sveglierà nelle prossime ore, lo abbiamo tenuto sedato fino ad ora per permettere al suo corpo di riequilibrarsi prima del risveglio, almeno per quanto possibile. Gli interventi al cuore sono sempre molto delicati, ma siamo tutti cautamente ottimisti, signora, vedrà che suo marito si riprenderà presto. Nella peggiore delle ipotesi, dovrà subire un altro intervento per installare un pacemaker, ma è ancora presto per dirlo, d’accordo? Intanto non si preoccupi e aspettiamo che si risvegli».

La signora Williams si portò entrambe le mani al cuore con le lacrime agli occhi e la tensione tra i presenti si attenuò.

Chris strinse forte a sé sua madre, Jenna si passò le mani tra i capelli sorridendo e la stanchezza sul volto di Adam, sparì, almeno in parte.

Poi mio zio si rivolse nuovamente a me.

«Chelsea, potresti tornare dentro un momento?».

Io corrugai le sopracciglia.

«Perché, c’è qualche problema?».

Lui mi guardò con occhio clinico.

«Sei un po’ troppo pallida, vorrei chiedere alle infermiere di farti qualche esame al sangue, potresti avere qualche forma di anemia».

Subito il mio cuore perse qualche battito e anche gli altri tornarono a farsi seri.

 Chris lasciò la presa su sua madre e mi cinse la vita con un braccio.

«Chelsea, quando hai fatto gli ultimi esami?».

«Il mese scorso, ma era tutto a posto… ».

«Chelsea, c’è… c’è qualcosa che devi dirmi, per caso?», disse zio Andrew, incrociando le braccia al petto.

«Andiamo dentro», tagliai corto.

Lo seguii, con Chris alle mie spalle, fino a che non ci ritrovammo nuovamente nel suo studio.

«Allora?».

Mi scambiai uno sguardo fugace con Chris, poi mi decisi a parlare.

«Zio… mentirti sarebbe inutile, soprattutto se vuoi farmi questi esami al sangue. Sono incinta, il bambino è di Chris. Anzi… la bambina».

Mio zio sospirò.

«Proprio come immaginavo».

Rivolse uno sguardo truce al ragazzo, che si fece nuovamente bianco in volto, e poi proseguì, parlando con me.

«Hai fatto tutti i controlli, vero, Chelsea?».

«Sì, e fino al mese scorso, i valori erano tutti a posto».

«In che mese sei, tesoro?».

«Entro nel settimo la settimana prossima; fra dieci giorni ho appuntamento con la mia ginecologa per l’ecografia».

«Mmm… Chelsea, facciamo questi esami del sangue, appena portano i risultati ci do un’occhiata e poi ti mando in ginecologia. Sei davvero troppo pallida».

«Zio… che cosa potrebbe succedere nel peggiore dei casi?».

Lui mi sorrise, gentile.

«Non fasciarti la testa prima di romperla, Chelsea. In ogni caso non ti preoccupare; di qualunque cosa si tratti, la risolveremo».

Si alzò dalla sedia e disse: «Venite con me, accomodatevi in uno degli ambulatori, io chiamo un’infermiera».

Facemmo come aveva detto e, quando fummo nell’ambulatorio, Chris mi guardò, serio.

«Chelsea, vedrai che andrà tutto bene».

Deglutii e andai a rifugiarmi tra le sue braccia, poi mio zio rientrò ed io mi staccai da lui, imbarazzata.

«Tu ami mia nipote?», chiese al ragazzo, rivolgendogli la parola per la prima volta.

«Sì, signore».

«E ti prenderai cura di lei e della bambina?».

«Zio, non c’è bisogno di… », ma mi interruppi allo sguardo che mi lanciò.

«Lo farò», rispose allora Chris.

Grazie al cielo, in quel momento entrò l’infermiera, interrompendo l’interrogatorio di mio zio.

La ragazza era giovane, aveva un sorriso amichevole e ci salutò subito.

Impiegò un minuto, prelevando sei provette di sangue tutte di colori e lunghezze diverse.

«È meglio se resti sdraiata sul lettino per una decina di minuti, Chelsea, potresti avere un calo di pressione. Anzi, aspetta che te la misuro».

Mio zio armeggiò per qualche istante, poi mi strinse il bracciale e cominciò a gonfiarlo.

Dopo un paio di secondi, lo lasciò sfiatare  e sospirò.

«Come immaginavo, hai la pressione bassa. Chelsea, ora non cominciare ad agitarti; è una cosa molto frequente in gravidanza, vedrai che non sarà nulla di importante. Ora andate, vi richiamerò quando saranno pronti i risultati».

Chris mi prese per mano, poi, quando tornammo fuori, sua madre ci venne incontro come una furia.

«Christian Devon Williams!», esclamò con impeto e Chris, al mio fianco, s’irrigidì.

Jenna venne avanti.

«Scusate, ragazzi, Adam ha cantato».

Adam ci rivolse uno sguardo di scuse.

«Sa essere davvero convincente, quando vuole», borbottò lui, burbero.

«Tu farai meglio a non parlare; ce ne sarà anche per te e per tua sorella».

«Che cosa?! E io che c’entro?», si mise sulla difensiva Jenna.

«Tu lo sapevi e non hai detto niente. Per mesi».

Detto ciò, Constance Williams si voltò nuovamente a guardare il terzo dei suoi figli, con aria a dir poco minacciosa.

Compresi il ragazzo, che ora, cercava di guardare in tutte le direzioni tranne sua madre, davanti a sé.

Allora decisi di intervenire.

«Signora Williams, davvero, è colpa mia, Chris lo sa soltanto da due settimane e… Adam e Jenna non hanno fatto altro che ripetermi, per mesi, di informarlo, ma io ho sempre cercato di rinviare la cosa. Per favore, non dia la colpa a loro».

L’espressione della donna parve addolcirsi un po’.

«Cara, devi aver passato dei mesi infernali, ora lascia che tutti noi ci prendiamo cura di te».

Non mi aspettavo di certo una reazione simile, ma, alla fine, lo scoglio più grande, adesso, era dirlo a mia madre.

«No, davvero, lei ha suo marito a cui pensare adesso e io… starò bene».

Proprio in quel momento, uscì mio zio.

«I risultati sono arrivati, tesoro».

Si guardò attorno un momento e poi disse: «Posso parlare davanti a loro? O preferisci tornare nel mio studio?».

Annuii, tanto sapevo che, anche se fossi entrata, mi avrebbero comunque fatto vuotare il sacco, una volta fuori.

«Allora, come sospettavo… hai una forma di anemia, che in gravidanza, è più che comune. Il primo lato positivo, è che basta che prendi delle compresse di ferro e potrai tenere a bada la situazione. Il secondo lato positivo è che probabilmente, dopo la nascita della bambina, tornerai come prima».

«È una bambina?», chiese la madre di Chris, sorridendo.

Feci cenno di sì con il capo, poi tornai a guardare mio zio, che riprese parola.

«Io comunque ho chiamato in ginecologia e ti aspettano. Voglio essere assolutamente sicuro che vada tutto bene, ti faranno un’ecografia di controllo, anche se tra qualche giorno dovresti averne un’altra. Ora vai e quando ti diranno qualcosa, fammi sapere».

Inarcai le sopracciglia, guardandolo.

«Cosa c’è?», mi chiese lui.

«Penso che papà si preoccuperebbe di meno».

Mio zio sbuffò.

«A tal proposito… i tuoi lo sanno… vero?».

Ma quando vide che la mia risposta tardava ad arrivare… «Chelsea! Non dirmi che dopo sette mesi di gravidanza, loro non ne sanno ancora niente!».

«Zio, fino a due settimane fa nemmeno Chris ne sapeva niente… ».

«Che cosa?!».

«È una storia lunga, prometto che ti spiegherò tutto, non appena ci sarà l’occasione e comunque, siamo venuti qui anche per dirlo a mamma e papà».

«Mmm… sarà meglio».

«Adesso allora vado in ginecologia».

«A dopo, tesoro».

«A dopo».

Così, con Chris mi avviai verso il reparto di ginecologia, che si trovava al quarto piano.

L’infermiera ci fece passare subito; immagino che questo dipendesse dall’influenza di mio zio e lì, la dottoressa ci disse che era tutto a posto e che il battito di nostra figlia era forte.

Sollevati, tornammo in cardiologia e subito, fummo assaliti da due ansiosi Adam e Jenna.

«Allora?».

A quel punto, anche tutti gli altri Williams ci vennero vicino.

«La bambina sta benone», disse Chris, sorridendo.

Sua madre ci abbracciò entrambi, poi chiese: «E avete già pensato ad un nome?».

«Sì. Pensavamo a Danielle. Mio nonno si chiamava Daniel e… io ero molto legata a lui. L’idea è stata di Chris», dissi accarezzando un braccio del ragazzo.

Sua madre gli rivolse un sorriso, che lui ricambiò.

Era incredibile quanto si assomigliassero.

«Ora è meglio che vada ad informare mio zio, altrimenti andrà in paranoia».

Proprio in quel momento, un’infermiera uscì e, rivolta alla signora Williams, disse: «Può entrare, signora; suo marito si è svegliato».

Subito, tutti si rianimarono.

Dapprima, nella stanza entrò soltanto Constance, poi gli altri, a piccoli gruppi. Intanto io mi diressi nello studio dello zio.

«Allora… hai fatto la visita?».

«L’ho fatta. La dottoressa ha detto che non c’è nessun problema e che il cuore della bambina è forte. Zio?».

«Sì?».

«Io lo amo. Chris, intendo. La situazione è davvero più complicata di quanto possa sembrare, ma io lo amo e lui ama me e ama nostra figlia. A te sembrerà strano, dato che lo hai conosciuto come il fidanzato di mia sorella e che ora, io aspetto un bambino da lui da quando loro ancora stavano insieme, ma… ».

«Chelsea. Se tu sei felice, per me va bene. E il giorno di Natale, non credo di avergli rivolto la parola, ma ho visto fin da quel giorno quanto lui tenesse a te. Solo che adesso mi sta portando via mia nipote, quindi è ovvio che sia geloso».

Lo abbracciai.

«Io sarò sempre tua nipote».

«Lo so, amore. Ecco, intanto prendi queste: sono per l’anemia, è ferro. Quando le avrai finite, torna da me, te ne darò altre».

«Grazie, zio».

Così, uscii dallo studio e tornai dagli altri. Cominciavo davvero a risentire della stanchezza, adesso.

Non appena fui sufficientemente vicina a Chris, mi tuffai tra le sue braccia e chiusi gli occhi.

Adam e Jenna ci vennero vicini e mi accarezzarono la schiena, poi si avvicinò anche Megan. Ormai cominciava a vedersi anche il suo di grembo in evidenza per la gravidanza.

«Chris; lei è esausta. Portala a casa, d’accordo? Non si deve stancare».

Il fratello le posò brevemente una mano sulla spalla, poi, ci incamminammo insieme verso il piano terra dell’ospedale.

Durante il viaggio in macchina riuscii a resistere, ma, una volta che fummo arrivati in casa Williams e che Chris mi fece sdraiare su un letto, sprofondai completamente nel sonno.

 

Quando riaprii gli occhi, guardai l’orologio: era mezzanotte e mezza.

Tirai fuori il cellulare e trovai cinque messaggi di Ryan, in cui non faceva che chiedermi che fine avessimo fatto.

Decisi di chiamarlo.

«Chelsea!», mi rispose la familiare voce del mio amico, preoccupata. «Oh, grazie al cielo; ma si può sapere che fine avete fatto? Che problemi ci sono stati con la famiglia di Chris?».

Gli spiegai brevemente la situazione, poi Ryan disse: «Oh, accidenti… mi dispiace tanto, Chelsea, saluta Chris da parte mia e di Gale; digli che gli siamo vicini».

Sorrisi.

«Certo, Ryan, lo farò sicuramente. Lì va tutto bene?».

«Tutto come al solito, sì. Buster sente la tua mancanza».

Sorrisi a quelle parole.

«Te lo ha detto lui?», lo presi in giro.

«No. L’ho intuito dal modo in cui ti cerca in giro per tutta la casa e da come passa ore ai piedi del tuo letto con gli occhi tristi».

Mi si strinse il cuore a sentire quelle parole.

«Fagli tante coccole da parte mia, Ryan; con la situazione che c’è qui adesso… non so quando saremo di ritorno… ».

Lo sentii annuire.

«Certo; ora l’importante è che pensiate al padre di Chris. Adesso però dormi, Chelsea, è tardi, devi riposare».

«Va bene. Buonanotte, Ryan».

E, detto questo, riattaccai.

Mi guardai intorno; la stanza in cui mi trovavo era semplice, essenziale: un letto, due comodini ai suoi lati, un armadio, una scrivania con un’abat-jour e una piccola libreria. Nulla era fuori posto.

Sicuramente era la stanza di Chris.

Uscii per ritrovarmi in corridoio, il silenzio era totale.

Scesi al piano di sotto, il salotto era vuoto, così come anche la cucina.

Poi, mi parve di sentire dei mormorii sommessi e mi avviai in quella direzione.

Capii da dove provenissero, così aprii una porta, ritrovandomi sulla familiare veranda che dava al cortiletto interno. C’ero già stata con Chris, la sera della disastrosa cena tra le nostre famiglie, mesi prima.

Fu lì che trovai proprio il ragazzo, mentre parlava con i due fratelli.

Non appena mi vide, subito scattò in piedi e mi venne in contro.

«Amore, va tutto bene?», chiese preoccupato, abbracciandomi.

Affondai la testa nell’incavo del suo collo e annuii.

«Mi sono svegliata».

Lui mi strinse ancor di più a sé, sfregandomi la schiena con una mano.

«Non dovresti stare qui fuori vestita così leggera, prenderai freddo».

«Aspettate, vado a prendere una coperta», si offrì Peter, il minore dei tre ragazzi Williams.

Fu di ritorno dopo un minuto, con un grosso plaid nel quale Chris mi avvolse.

«Grazie», dissi rivolta a suo fratello.

Lui sorrise. «La mia nipotina deve stare al caldo, no?».

«Certo».

Peter era forse quello con cui avevo interagito di meno, tra tutti i familiari di Chris; sembrava uno che preferiva starsene piuttosto sulle sue.

 Poi notai Adam, o meglio… notai il suo sguardo.

«Ehi, va tutto bene?».

L’uomo parve riscuotersi.

«Non ti preoccupare, un po’ di stanchezza. Sono contento che tu sia qui, sai Chelsea? Sono contento che tu lo abbia finalmente detto a Chris».

«Grazie, Adam. Non sai quanto anch’io sia sollevata».

«Già, avrebbe dovuto dirmelo ancora prima di fare il test. Gliel’ho ripetuto un milione di volte».

«Ragazzi, volete lasciarla un po’ in pace? Era spaventata, ora te l’ha detto e siamo tutti contenti, ok? Fatela respirare».

A sorpresa, quelle parole erano venute da Peter.

Adam scosse la testa sorridendo.

«Temo di aver raggiunto il mio limite massimo, ragazzi, se non vado a dormire, crollo qui per terra. Buonanotte a tutti», disse poco dopo Adam, sporgendosi a darmi un bacio sulla guancia.

«Buonanotte».

«Sì, mi sa che vado anch’io. A domani».

«Notte, Pete», lo salutò Chris.

Restammo solo io e lui, sedendoci su una panca di legno tirato a lucido, stretti in un abbraccio, sotto il cielo notturno.

Il silenzio era interrotto solo dall’impercettibile suono dei nostri respiri; per il resto, non si sentiva passare neanche un’automobile lontana.

Mi ero quasi assopita, sulla spalla di lui, quando ad un tratto, la porta si aprì e ne uscì la piccola Holly.

Indossava una camicia da notte bianca a maniche lunghe che le arrivava fino alle caviglie. Sembrava uno spiritello.

«Holly, tesoro… che cosa ci fai qui?», le chiese Chris, prendendola in braccio e stringendola a sé per scaldarla.

Io aprii la coperta e feci cenno al ragazzo di posare la sorellina sulle mie ginocchia, in modo che potessi avvolgere anche lei nella coperta con me.

A quel contatto, le piccole braccia della bambina, si allacciarono al mio torace e lei mi posò la testa sul petto. Poi si rivolse al fratello.

«Andrai via, adesso che arriverà la bambina?».

Lo sguardo di Chris si fece estremamente dolce.

«Sì, cucciolotta, ma tu potrai venire a trovarmi sempre; sarò solo a qualche ora da qui, non ti devi preoccupare. Ci sentiremo ogni giorno».

Ma Holly sembrava triste.

«E mi vorrai bene come prima?».

Il fratello le accarezzò i capelli, scoccandole un bacio sulla fronte.

«Holly, non devi nemmeno fartele domande del genere. Io ti amerò sempre. E tu vorrai bene alla mia bambina? Perché, quando sarà grande, lei avrà bisogno di sua zia».

Lei annuì, sorridendo timidamente.

«Io le voglio bene».

A quel punto voltò la testa verso di me e fissò i suoi occhioni chiari nei miei.

«E tu vorrai bene a mio fratello, vero?».

La strinsi a me ancora di più.

«Io lo amo tantissimo, Holly. Non ti devi preoccupare di questo».

Lei mi abbracciò.

«Posso sentire la bambina?».

Sorrisi.

«Ecco, metti una mano qui. Adesso però sta dormendo, quindi non si muove. Domani potrai sentirla meglio».

«Potete accompagnarmi a letto? Non riuscivo più a dormire».

«Ma certo».

Detto questo ci alzammo, Chris prese in braccio Holly e tornammo in casa.

Era tutto silenzioso come lo avevamo lasciato.

«Vieni, andiamo nella stanza di Megan, mi è venuta un’idea», disse il ragazzo.

Mi condusse in una stanza che aveva un letto matrimoniale, così, depose la sorellina al centro del letto e mi fece segno di sdraiarmi ad uno dei suoi lati, mentre lui occupò l’altro.

Holly abbracciò Chris, mentre lui riusciva a circondare sia me che lei, ed io feci lo stesso.

Ci addormentammo così, esausti e vicini, come se fossimo già una vera famiglia.

 

Il giorno seguente, quando riaprii gli occhi, eravamo tutti e tre, esattamente nella stessa posizione.

Mi alzai dal letto, ora più riposata rispetto alla sera prima e, quando notai l’ora, mi sorpresi nel constatare che erano le undici di mattina.

Quando uscii in corridoio, Jenna mi venne in contro.

«Eravate proprio un bel quadretto di famiglia, voi tre… », disse con un sorriso che la diceva lunga.

«Ci hai visti?», chiesi, forse leggermente imbarazzata.

«Vi ha trovati Adam. E poi Pete. E mia madre. E io vi ho fatto una foto perché eravate troppo carini. Vuoi vederla?».

Adesso ero quasi sicura di essere paonazza.

«Che cosa?!».

«Oh, avanti. Presto avrete davvero una bambina, quindi di che ti preoccupi?».

Scossi la testa, rassegnata. Jenna era… era semplicemente Jenna e le volevo bene così.

«Non c’è nessun altro in casa?».

«No, sono tutti in ospedale».

«Come sta vostro padre?».

«Migliora. Chelsea, devi chiamare i tuoi genitori. Lo sai, vero?».

Annuii.

«Lo so. Aspetterò che si svegli Chris. È una cosa che dovremmo fare insieme, credo».

«Immagino di sì».

Andammo in salotto e parlammo ancora per un po’ quando, finalmente, il ragazzo fece il suo ingresso, tenendo Holly per mano.

Sorrisi dolcemente quando entrarono e la bambina venne ad abbracciarmi.

La strinsi a me, piano, poi Chris disse: «Hai fatto colazione, Chelsea?».

Annuii e a quel punto lui sembrò farsi un po’ teso.

«Bene. Andiamo, allora».

«Dove? Vuoi andare a trovare tuo padre?».

Chris scosse la testa.

«No. Voglio andare a trovare il tuo, di padre. E tua madre. È giunto il momento di informare anche loro».

Mi sentii impallidire, poi Jenna si alzò, prendendo Holly con sé, mi posò una mano sulla spalla e mi rivolse un cenno incoraggiante.

A quel punto, Chris tese una delle sue mani verso di me.

«Andrà tutto bene, vedrai».

Riluttante, presi la sua mano e mi alzai. Mi sentivo improvvisamente pesantissima, come se le mie gambe fossero diventate di piombo. O come se lo fosse diventata Danielle.

Chris intercettò il mio sguardo e lo capì al volo. Si piazzò di fronte a me e mi prese il volto tra le mani.

«Chelsea… non ti preoccupare, ti prego. Io ti starò sempre vicino».

«E se mio padre cercasse di ucciderti?».

Lui sorrise divertito.

«Affronterò tutte le conseguenze delle mie azioni, amore. E poi non credo che tuo padre cercherà di uccidermi. Se sono sopravvissuto a tuo zio, posso fare qualsiasi cosa», disse con sguardo ironico.

«Sì, questo è vero».

Detto questo, lui mi cinse la vita con un braccio, salutammo Holly e Jenna e ci avviammo verso l’auto, parcheggiata nel vialetto.

Non parlammo molto durante il tragitto fino a casa mia e, quando arrivammo, io ero visibilmente nervosa.

Chris mi prese per mano e, prima di suonare il campanello, mi baciò a lungo.

Venne ad aprirci mia madre, palesemente sorpresa non appena ci vide.

«Chelsea, tesoro… Christian? Cosa ci fate qui? Va tutto bene?».

«Possiamo entrare, mamma?», le chiesi cercando di sviare l’argomento.

«Ma certo, venite pure… », disse facendosi da parte.

Il mio cuore martellava così forte nel petto che temevo si fermasse da un momento all’altro.

Papà arrivò poco dopo e, tutti e quattro, ci sedemmo in salotto.

Io mi guardai intorno, nervosa.

«Tua sorella non è qui, Chelsea… se è lei che stai cercando», disse mia madre, come leggendomi nel pensiero.

Poi fu papà a prendere parola.

«Ragazzi… volete dirci che cosa sta succedendo, per favore? Solo… siate sinceri e noi vi appoggeremo, qualunque cosa sia».

Io e Chris ci lanciammo uno sguardo fugace, poi lui mi strinse una mano ed io presi un respiro profondo, come a prepararmi psicologicamente al discorso che avrei dovuto fare.

Seguì un momento di silenzio teso, poi fu Chris a prendere parola.

«Noi avremo un bambino».

Lo disse con disarmante schiettezza, senza mezzi termini, né  giri di parole, tanto che per un momento io trattenni il respiro.

«Anzi, una bambina più precisamente. Lo so che abbiamo sbagliato a non dirvelo prima, ma… la situazione era piuttosto complicata».

Mamma e papà sospirarono, ma in definitiva erano tranquilli. Una reazione che, sostanzialmente, non mi sarei mai aspettata da loro.

«Noi lo sapevamo già», fu mia madre a parlare.

«Un momento… che cosa?!».

«Chelsea, tesoro… sono stata incinta due volte e ti conosco da ventidue anni. Senza contare che tu sei la persona più trasparente del mondo, difficilmente riesci a tenermi nascosto qualcosa. L’ho capito a Natale, ma ti ho dato tempo perché era giusto così. Solo che… perché non ce ne avete parlato prima, ragazzi? Sapete bene che di noi avreste potuto fidarvi».

Quelle parole mi lasciarono spiazzata. Un discorso del genere da mia madre non me lo sarei aspettato proprio.

Mi scambiai uno sguardo quasi colpevole con Chris, lui era in evidente disagio.

«È stata colpa mia, mamma. Lui non lo sapeva… ho deciso di chiamarlo la sera in cui mi dicesti che insomma… », e qui guardai il ragazzo, « … la sera in cui ho saputo che tu e Shereen vi eravate lasciati. Ti ho avvertito il giorno dopo e tu mi hai raggiunta subito».

Chris mi prese una mano.

«Te l’ho detto, Chelsea: anche se tu non mi avessi chiamato, prima o poi sarei tornato a Santa Barbara. Non avrei potuto fare altrimenti».

«Quindi Chelsea non lo avevi detto neanche a lui?», il tono di mia madre era sorpreso ed io abbassai lo sguardo, in imbarazzo.

«Di quanto sei, tesoro?», prese poi parola mio padre.

«La settimana prossima entro nel settimo mese».

«Sette mesi senza dirlo a nessuno sono tanti, Chelsea».

«Ryan lo sapeva. E anche Gale. E due dei fratelli di Chris. Tutti loro mi sono stati davvero di grande aiuto».

«Sì, ma nessuno di loro era il padre della tua bambina».

«Signora Gaver, va bene così. Non parliamo di quello che è stato, ora dobbiamo solo concentrarci sul presente e sull’arrivo di Danielle. Il resto aspetterà».

«Danielle?», chiese mia madre, stupita.

«In memoria del nonno. Lo ha scelto Chris», risposi prontamente.

Mamma osservò il ragazzo con un misto di dolcezza e gratitudine.

«È un bel gesto, Chris».

Lui sorrise.

«In qualche modo… mi ero affezionato anch’io a suo padre, signora. E vedere Chelsea così legata a lui, mi ha fatto capire che non c’erano alternative valide. Questa è stata la scelta giusta».

Quanto avrei voluto baciarlo in quel momento, ma forse lì davanti ai miei genitori non era esattamente il caso…

Chris mi prese una mano ed io sorrisi, poi, guardandolo dissi: «Ora che tutto è chiarito anche con loro, se vuoi possiamo andare in ospedale».

Subito i miei genitori si fecero allarmati.

«In ospedale? Perché?».

Con tutto quel trambusto, loro non avevano ancora scoperto del padre di Chris.

Fu proprio il ragazzo a prendere parola.

«Si tratta di mio padre, lui… ha avuto un infarto, ma adesso è stabile. Lo ha operato suo fratello, signor Gaver e io non lo ringrazierò mai abbastanza».

Subito mamma si portò una mano alla bocca, mentre papà lo guardò con espressione stupita.

«Veniamo in ospedale con voi, allora. Perché non ce lo avete detto subito?».

«Siamo venuti qui principalmente per dirvi la verità su nostra figlia… ed era su di lei che dovevamo concentrarci».

Accarezzai il volto di Chris e lui mi prese la mano, dopodiché uscimmo di casa e prendemmo la macchina per andare in ospedale. Mamma e papà ci seguirono con la loro auto.

Quando arrivammo al reparto di cardiologia, trovammo lì l’intera famiglia Williams e, quando Constance vide mia madre, venne ad abbracciarla.

«Koral, Henry… che bello vedervi».

«I ragazzi sono venuti a parlarci stamattina. Ci hanno detto della bambina e poi di Traver… come sta?».

La signora Williams sorrise.

«Ora meglio, grazie al cielo. Ero così spaventata, ma i medici hanno assicurato che tornerà come nuovo. Ce la farà».

I miei genitori si aprirono in un sorriso sincero, così come anche me e Chris.

Ero  così contenta del fatto che suo padre ora fosse in via di miglioramento e, dentro di me, sentii Danielle scalpitare, tanto che mi portai una mano al ventre sorridendo e lo accarezzai, come per calmarla.

«Tutto bene?» mi chiese subito Chris.

«Sì. Sta scalciando».

Il ragazzo posò una mano sul mio grembo e sorrise a sua volta.

«La mia bambina».

«La nostra bambina».

«Ehi, voi due… mi state facendo venire il diabete».

Ci voltammo per trovarci faccia a faccia con Adam, il solito sorriso sornione  stampato sul viso.

«Piantala» lo riprese bonariamente Chris.

Il fratello maggiore sospirò divertito.

«E la mia bella nipotina come sta?».

«Sta bene. E poi come fai a dire che è bella?»

«Beh, questo perché spero prenda dalla mamma. Se prende da suo padre invece temo che non sarà molto carina».

«Stronzo» rispose Chris con disarmante naturalezza.

Io alzai gli occhi al cielo, esasperata e mi avvicinai a Jenna, intenta a parlare con un ragazzo che non avevo mai visto vicino ai distributori automatici a un lato della scala.

«Ehi, Chelsea!» disse lei venendo ad abbracciarmi.

«Ciao, Jen».

Ci avvicinammo di nuovo al ragazzo. Era alto almeno un metro e ottanta, capelli castani, così come gli occhi e carnagione scurita dal sole.

«Max, lei è Chelsea: la fidanzata di mio fratello Chris».

«Chelsea e… ?» chiese lui accennando al mio pancione, ormai ben visibile.

«Chelsea e Danielle. Tanto piacere» dissi prendendo la mano che il ragazzo mi porgeva e stringendola.

«Come ha detto lei, io sono Max e… beh, congratulazioni».

«Grazie».

Poi Jenna tornò a rivolgersi al ragazzo: «Grazie per essere passato, Max. Sai… per mio padre… ».

«Di nulla. E poi… sono passato anche per vedere come stavi tu».

La mia amica spostò gli occhi altrove, come se fosse in imbarazzo e sorrise.

«Bene, ehm… allora ci vediamo in giro… ».

«Certo. Torna presto, mi raccomando».

E detto questo, il ragazzo si allontanò.

«E quello chi è?» chiesi prendendo sotto braccio la mia amica, una volta che Max si fu allontanato.

«Quello è Max».

«Sì, Jenna… fin qui c’ero arrivata».

«Beh, lui… ma nessuno, è solo un mio compagno di corso».

«Tu studi?».

«Sì. Biologia».

«Caspita! Non ne avevo idea… ».

Le parole di Jenna mi fecero tornare in mente uno stralcio di conversazione che avevo avuto con Chris durante “l’età d’oro” della nostra amicizia, quando ancora lui per me era solo il mio migliore amico e tra di noi non c’era alcuna complicazione.

Il ragazzo mi aveva detto di essere stato l’unico tra i suoi fratelli a non aver frequentato il college a causa delle grosse spese economiche che esso comportava, così aveva deciso di trovare subito un lavoro per aiutare i suoi genitori per la retta universitaria della sorella minore.

Mi voltai a guardarlo: stava ancora parlando con Adam, sembrava che i due stessero scherzando tra di loro e quando si accorse che lo fissavo, mi salutò con la mano, facendo voltare dalla mia parte anche il fratello, che mi sorrise.

Era veramente bello vederli così.

La voce di Jenna mi fece riscuotere da quei pensieri.

«Stai pensando al fatto che Chris si è bruciato un’opportunità a causa mia?».

«Cosa?» le chiesi senza capire.

«Il college. Lui è l’unico di noi a non esserci andato. Megan ha studiato prima biologia per poi intraprendere medicina, Adam economia e lui per fare in modo che io potessi andarci, si è messo a lavorare. Quando Meg e Adam sono andati, papà ancora lavorava, poi è andato in pensione e mamma è sempre rimasta a casa a badare a noi. Insomma… sei figli sono tanti e costano tanto e con il college costano ancora di più. Chris avrebbe potuto entrare con una borsa di studio, un college lo voleva per una squadra di nuoto. Lui ha rifiutato per mettersi a lavorare e fare in modo che io potessi frequentare biologia. È sempre stato il mio sogno, fin da quando ero piccola e Chris… è il fratello maggiore che ogni bambina vorrebbe. Vedi Holly, lei lo adora e lo adoro anch’io, gli devo tutto. Lui ha sempre dato il massimo per noi e c’è sempre stato. E il fatto che ora non sarà più a casa, che andrà a stare lontano… un po’ mi spaventa. Lui è il mio punto fisso fin dall’infanzia. Certo, ci sono Meg e Adam, ma per quanto bene possa voler loro… non è la stessa cosa. Meg diciamo che è sempre stata molto concentrata e determinata a ottenere ciò che voleva. Anche per sposarsi ha aspettato e pianificato tutto nei minimi particolari, tanto che Jethro ormai aveva quasi perso le speranze. Adam… è fantastico, ma anche lui è molto concentrato sul lavoro, nonostante possa fare tutt’altra impressione, a primo impatto. Chris invece è uno che, per aiutare la famiglia, troverebbe il modo di volare da un capo all’altro del mondo in ventiquattro ore. E, come hai potuto constatare, quando tu hai avuto bisogno, è partito di corsa».

Quella sua confessione mi fece senza dubbio un forte effetto. Jenna aveva lasciato trapelare l’ansia nella sua voce. Come se avesse paura di perdere il fratello.

«Jenna, non stiamo andando in un altro continente, saremo semplicemente a qualche ora di macchina da qui».

«Già, ma… sembra proprio un altro continente essendo abituata ad averlo a due porte di distanza».

La abbracciai forte, cercando di tranquillizzarla.

Jenna era sempre stata forte e inossidabile. Vederla così adesso mi lasciava… quasi turbata.

La tenni stretta a me per qualche minuto, poi lei si staccò gentilmente.

«Potrai venire a trovarci quando vuoi, lo sai, Jenna».

Lei annuì e mi sorrise.

«Bene. Allora su, andiamo adesso. Andiamo a vedere come sta tuo padre».

 

Note dell’Autrice:

Nuovo capitolo, e ormai uno tra gli ultimi. Ci saranno soltanto il prossimo e poi l’epilogo. Si concluderà così l’epopea di Chris e Chelsea.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e mi scuso per non aver risposto alle recensioni del capitolo precedente, ma sono davvero piena d’impegni in questo periodo, chiedo venia.

Come volevasi dimostrare, scappo a studiare, vi lascio con l’estratto dal prossimo capitolo. Buona serata a tutti!

DAL CAPITOLO 26:

In tarda mattinata arrivarono i miei genitori, una valanga di preoccupazione e, con mia enorme sorpresa, con loro c’era anche Shereen. Non vedevo mia sorella da mesi e adesso… beh, mi fece un certo effetto, soprattutto dal momento in cui venne ad abbracciare prima me, poi Chris, con sincera preoccupazione.

«Vedi di non farmela mai più una cosa del genere, d’accordo?» disse mia sorella, con occhi pieni di ansia.

Le presi una mano tra le mie e lei la strinse forte con entrambe le sue. Mia madre si era seduta sul bordo del mio letto dopo avermi tenuta stretta e mio padre era su una sedia vicina, che continuava ad accarezzarmi i capelli e la schiena.

Dopo un po’ fu Chris a prendere parola. «Volete conoscere vostra nipote?».

I tre sorrisero e lo seguirono fuori dalla stanza. Non restai sola per molto però, perché prima che tornassero, la porta della mia stanza si aprì, facendo entrare mamma e papà Williams, seguiti a ruota da due esagitati Adam e Jenna”.

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Capitolo 26
*** Danielle ***



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26  





CAPITOLO 26:

 

Le giornate si susseguirono velocemente, il signor Williams recuperava in fretta e, dopo una settimana dal nostro arrivo, venne dimesso.

Constance volle organizzare una cena tutti insieme visto che, tra l’altro, io e Chris il giorno successivo saremmo ripartiti per Santa Barbara.

Alla cena invitarono anche i miei genitori e Shereen che, in pratica, non avevo visto da quando ero tornata a Phoenix.

Io e Chris eravamo sempre rimasti a dormire in casa Williams e quelle poche volte che eravamo andati dai miei genitori, Shereen era sempre fuori. Grazie al cielo, anche quella sera lei non ci sarebbe stata. Mamma aveva detto che era alla festa di laurea di una sua vecchia compagna del liceo.

La cena sarebbe stata davvero imbarazzante se anche mia sorella ne avesse preso parte.

In definitiva però fu una bella serata. Parlammo del più e del meno e l’atmosfera intorno alla tavola, fu sempre allegra e spensierata.

Io ero seduta tra Chris e Jenna e, dall’altro lato della ragazza, c’era Max: il compagno di corso che avevo incontrato all’ospedale la settimana prima.

Che tra i due ci fosse qualcosa era palese e ne fui davvero contenta perché Jenna se lo meritava e Max sembrava davvero un tipo a posto. Era veramente simpatico e non fece altro che tenere banco con Chris e Adam per tutta la sera.

Verso fine serata mia madre mi chiese di andare a prendere il dessert che aveva preparato, così mi avviai in cucina e, dopo qualche istante, Adam mi raggiunse.

«Ehi, mammina!» mi salutò l’uomo.

Io scossi la testa divertita e ricambiai il saluto.

«Sai, mi dispiace che tu e Chris domani ripartirete; ormai mi ero abituato ad avervi tra i piedi».

«Tra i piedi?» gli feci eco fingendomi stizzita.

Lui mi rivolse il suo solito sorriso strafottente e a me venne voglia di tirargli una fetta di dolce in faccia.

«Ammettilo che sentirai tantissimo la nostra mancanza».

«Nah, Chris è un rompipalle e ce l’ho avuto intorno per tutta la vita, mi mancherete di più tu e la mia nipotina».

«Ah, certo. Dai, aiutami con questo, prima che si chiedano se ci stiamo spazzolando noi il dolce di mia madre».

«Agli ordini, capo».

Risi e poi  ci avviammo nuovamente nella sala da pranzo, dove gli altri continuavano a chiacchierare amabilmente.

Quando ripresi posto, Chris mi posò un bacio sulla guancia ed io mi voltai a guardarlo.

Lui sorrideva. Aveva quel sorriso di cui mi ero innamorata all’inizio e che, per troppo tempo, non avevo più visto sul suo viso. Mio Dio, quanto mi era mancato.

«Cosa c’è, Chris?» sussurrai nascondendomi dietro la cascata dei miei capelli castani e guardandolo negli occhi.

«Niente, io… io ti amo. Ti amo più della mia vita e più di qualsiasi altra cosa al mondo. E anche mesi fa, quando già ti amavo, non credevo che avrei potuto farlo di più, mentre ora… mi sembra che l’amore che provo per te aumenti ogni giorno di più, Chelsea. E non potrei mai rinunciarci, né vivere senza di te. Non voglio mai più passare un solo giorno lontano da te e da nostra figlia».

Quelle parole mi lasciarono senza fiato. Avrei voluto baciarlo, anzi… in realtà avrei voluto fare molto più che baciarlo, ma eravamo seduti ad un tavolo pieno di gente con le nostre famiglie e forse non era proprio il caso.

Gli sorrisi e gli accarezzai il volto, cercando di trasmettere, in quel gesto, tutto l’amore che provavo per lui, ma in realtà non vedevo l’ora di restare da sola con Chris.

Non appena la cena giunse al termine, i miei genitori e Max  andarono via; Julie, la ragazza di Pete, invece, sarebbe rimasta a dormire e anche Megan e Jethro ripresero la strada di casa.

Salutai calorosamente i miei genitori, dato che il giorno dopo saremmo ripartiti, così li strinsi forte e diedi loro un bacio, promettendo che avrei chiamato non appena saremmo arrivati a Santa Barbara.

«Ti voglio tanto bene, tesoro mio… » mi sussurrò mio padre un attimo prima di uscire dalla porta di casa Williams.

«Anch’io, papà» sussurrai.

Quando si allontanò fu come se sentissi un vuoto e, senza che nemmeno me ne potessi rendere conto, il ricordo del nonno e del suo calore si fece più vivo che mai. Il dolore mi assalì di nuovo intrappolandomi in una morsa gelida e le immagini di quella sera mi passarono davanti agli occhi.

Io che lo baciavo sulla testa e mi avvicinavo a lui, posandogli il viso sul petto senza sentire il battito del suo cuore. Le mie grida, le braccia di Chris che mi stringevano forte, cercando di farmi allontanare dal suo guscio vuoto.

Istintivamente, cercai il ragazzo, gli occhi pieni di lacrime, ma nella stanza non c’era. Avevo bisogno di lui in quel momento; era l’unico che sarebbe riuscito a calmarmi.

Cercando di non mostrare il mio viso a Jenna e Pete, poco distanti da me, uscii dalla sala da pranzo e vidi Chris in cima alle scale che parlava con Adam.

Salii la rampa cercando di fare il più in fretta possibile, tanto che quando i due ragazzi mi videro, mi osservarono preoccupati. Non potevano vedere i miei occhi pieni di lacrime perché stavo guardando in basso, ma Chris mi intimò di non correre lungo le scale altrimenti potevo rischiare di cadere. Ignorandolo, mi precipitai tra le sue braccia, stringendomi forte al suo petto.

«Chelsea! Che cosa succede? Che hai?».

Automaticamente, le braccia del ragazzo si chiusero attorno a me, restituendomi l’abbraccio in cui lo avevo intrappolato.

Incastrai la testa nell’incavo tra la sua spalla e il suo viso, respirando a pieni polmoni il suo odore che avevo imparato ad amare e che aveva sempre un effetto calmante su di me.

Chris probabilmente sentì le mie lacrime sulla sua pelle perché la sua voce si fece spaventata.

«Perché stai piangendo? Amore, dimmi cosa succede, ti prego!».

In quel momento, percepii anche le mani di Adam posarsi sulla mia schiena e accarezzarmi, cercando di tranquillizzarmi.

«Chelsea… per favore, così ci fai preoccupare… » tentò il maggiore dei fratelli Williams.

«Io… scusatemi, saranno questi stupidi ormoni della gravidanza… Chris… mi manca il nonno… » sussurrai disperata.

Sentii il ragazzo sospirare e mi strinse maggiormente a sé.

«Lo so, amore mio… lo so. Sai cosa? Manca anche a me… ».

Quelle parole ebbero l’effetto di bloccare le mie lacrime ed io sollevai timidamente lo sguardo fino ad incontrare gli occhi azzurri di lui.

«Davvero?».

Chris annuì.

«Sì. Tuo nonno era un uomo davvero straordinario».

Ora più calma, posai la testa contro il petto di Chris e ascoltai il suo cuore battere regolarmente, le mani di Adam ora si erano allontanate ed io chiusi gli occhi mentre il ragazzo che amavo mi accarezzava i capelli con dolcezza.

«Su, tesoro… andiamo in camera, hai bisogno di riposare, sarai stanca… ».

«Chris, sono incinta, non malata».

Anche se non riuscivo a vederlo, ero certa che lui stesse sorridendo tra i miei capelli.

«Questo vuol dire che devi riposare il doppio».

Sbuffai, rassegnata, e dopo aver salutato Adam, mi diressi con Chris nella nostra stanza da letto… beh… in realtà nella stanza da letto che una volta era stata di Megan.

Mi spogliai, indossando il pigiama, dopodiché m’infilai sotto le coperte.

«Come mai ti è tornato in mente tuo nonno, poco fa?» mi chiese Chris, sdraiandosi al mio fianco e spegnendo la luce dell’abat-jour.

«Non lo so... è stato quando ho salutato mio padre. Ho sentito come un vuoto e poi ho pensato a lui… ».

«Ci sono qui io, amore mio. E mi prenderò sempre cura di te, di voi» disse posandomi una mano sul ventre gonfio.

«Lo so. Avrei solo voluto… avrei voluto che lui potesse conoscerla» risposi, chinando lo sguardo nel buio della stanza.

«Lui veglierà sempre sulla nostra bambina. In qualunque posto si trovi adesso, si assicurerà che non le capiti mai nulla di male».

Le lacrime tornarono a farsi strada nei miei occhi nel sentire quelle parole, ma stavolta le respinsi, non permettendo loro di traboccare.

«Ti amo, Chris».

«Anch’io ti amo, tesoro».

E rassicurata dal calore del suo corpo accanto al mio, mi addormentai tra le sue braccia.

La mattina seguente ce la prendemmo comoda, facemmo colazione con calma e salutammo la famiglia di Chris, poi il ragazzo riprese la sua auto e si mise alla guida.

Chiamai Ryan per dirgli che saremmo rientrati nel pomeriggio e lui si disse entusiasta del nostro ritorno, mentre dallo specchietto retrovisore riuscivo ancora a scorgere la sagoma di Adam sul ciglio della strada.

Mi sarebbe mancato. Mi sarebbero mancati tutti loro, ma d’altra parte ero anche felice di tornare a Santa Barbara e riabbracciare Gale e Ryan. I miei amici mi erano mancati terribilmente.

Il viaggio trascorse rapido e senza intoppi e nel giro di qualche ora fummo a casa.

Il panorama assolato e luminoso della California si stendeva familiare e splendido come sempre davanti ai miei occhi.

Guardai Chris sorridendo e lui lo fece di rimando, prendendomi una mano e portandola alle sue labbra, lasciando un lieve bacio.

Arrivammo poco prima delle tre del pomeriggio e, prima ancora di mettere piede in casa, sentii dall’altra parte della porta l’abbaiare festoso di Buster.

Feci scattare la serratura e subito la sagoma scura del mio cane mi si fiondò addosso, ma Chris si parò subito tra noi perché probabilmente l’impeto del mio amico a quattro zampe mi avrebbe fatto cadere a terra.

Il ragazzo riuscì a mantenere l’equilibro e contenne Buster, che allegro gli scodinzolava intorno.

«Buster!» esclamai felice, chinandomi per accarezzarlo.

«Sembra che qualcuno qui sia molto contento di rivederti… » commentò Chris.

Proprio in quel momento udimmo le voci familiari di Ryan e Gale.

«Ehi, ragazzi!».

A turno ci salutammo, io strinsi forte Ryan.

«Chelsea… sei raggiante» disse il mio amico, una volta che ci fummo sciolti dal nostro abbraccio.

I due uomini portarono di sopra le valige mentre io e Gale ci accomodavamo nel salotto, cominciando a chiacchierare.

Portare mia figlia in grembo era un sensazione meravigliosa, ma… cielo, mi sentivo così gonfia e pesante. Ero lenta nei movimenti e quasi sempre stanca, anche se continuavo a prendere le pastiglie di ferro per combattere l’anemia e  cercavo di dare a vedere quella mia stanchezza il meno possibile.

Gale continuava a sorridere e aveva una luce negli occhi che la faceva quasi splendere di luce propria. Le cose con Ryan dovevano andare veramente bene e questo mi riempì di felicità. Sia lei che il mio amico uscivano da periodi difficili ed ora… vederli così innamorati faceva battere il cuore anche a me.

Quando Chris e Ryan tornarono giù si accomodarono al nostro fianco ed io strinsi una mano di Chris, sorridendo. Gale fece lo stesso con Ryan.

I due si informarono sulle condizioni di salute del signor Williams e tirarono un sospiro di sollievo quando confermammo che ormai Traver era quasi completamente guarito.

Mandai un breve messaggio a mia madre ed uno a Adam, giusto per informarli che eravamo arrivati a Santa Barbara. Avrei telefonato loro più tardi.

Parlammo molto, tutti e quattro insieme, ma notai che qualcosa era cambiato. Qualcosa negli sguardi che si scambiavano Gale e Ryan. Lanciai un’occhiata alla mano sinistra della mia amica, controllando se avesse qualche nuovo anello che fino a poche settimane prima non c’era, ma non vidi nulla.

Ad un certo punto Ryan prese parola.

«Ragazzi… passare le giornate con voi è bellissimo e sarebbe fantastico stare qui tutti insieme, ma… credo sia arrivato il momento per me e Gale di trovarci un posto per conto nostro. In fin dei conti Danielle sta per arrivare e inoltre… » s’interruppe.

«Inoltre cosa?» incalzò Chris.

Fu allora che capii ciò che mi sembrava fosse cambiato da quando noi due eravamo andati via e il mio cuore perse un battito.

Dopotutto… una donna incinta capisce sempre quando un’altra è nelle sue stesse condizioni.

Fu Gale a prendere parola.

«Abbiamo scoperto da pochi giorni di aspettare anche noi un bambino… ».

L’espressione stupita di Chris fu impagabile, io invece mi aprii in un sorriso ed abbracciai i miei amici, felici. Mio dio, era una notizia meravigliosa!

Dopo le congratulazioni generali, fui io a parlare.

«Quando dovrebbe nascere?».

«A inizio dicembre. Avrà la stessa età di Danielle, cresceranno insieme, Chelsea!».

Sorrisi, radiosa.

Mi sentii rassicurata dalla notizia che la mia bambina avrebbe sempre avuto qualcuno accanto. Che si trattasse di un maschietto o di una bimba, sarebbero stati importanti l’uno per l’altra proprio come Ryan lo era per me.

A pranzo furono i due uomini a cucinare. Già il mio amico era apprensivo a livelli quasi insopportabili ai primi mesi della mia gravidanza, ma ora che si trattava di Gale era ai limiti dell’oppressivo.

Così, io e la bionda restammo comodamente sedute sul divano a chiacchierare di tutto e di niente, con Buster sdraiato ai miei piedi che ogni tanto lanciava occhiate allegre a me e a lei, ma per lo più sonnecchiava.

A sera telefonai sia a mia madre che a Adam e li rassicurai sul fatto che il viaggio fosse andato bene e che io stavo bene.

Quando Chris ed io entrammo nella nostra camera, trovammo montata vicino al letto la bellissima culla che avevamo scelto insieme prima di partire per New York.

«Ryan!» chiamai e lui arrivò dopo pochi istanti.

«Che succede, Chelsea?».

«Sei stato tu, vero?».

«Colpevole. Avanti, prendetelo come un mio regalo per voi. E poi devo esercitarmi, no?».

«Grazie, Ryan» rispose Chris, con un gran sorriso.

Entrai in camera, il ragazzo poco dietro di me si richiuse la porta alle spalle.

Mi avvicinai lentamente alla culla e la sfiorai appena con la punta delle dita, come se temessi che al minimo tocco avesse potuto rovinarsi.

Non riuscii ad impedirmi di correre con la fantasia ed immaginai la piccola dolce creatura che da lì a poco vi avrebbe trascorso le notti, non più dentro di me per quanto averla sempre nel mio grembo mi rendesse la persona più felice del mondo.

Non vedevo l’ora di conoscere la mia piccola Danielle e dagli occhi appassionati di Chris, al mio fianco, compresi che anche lui stava pensando esattamente le stesse cose.

«Sarà la nostra principessa e l’ameremo con tutto il cuore».

Annuii e mi alzai in punta di piedi per baciarlo. Lui mi circondò la vita con le braccia e rispose dapprima dolcemente, poi con più trasporto, esplorando la mia bocca con la lingua, in un gioco a cui non ci stancavamo mai di giocare.

Quando ci staccammo, entrambi col respiro affannoso, Chris posò la fronte contro la mia.

«Ti amo, Chelsea. Ti amo più della mia vita. E amo Danielle più della mia vita».

«Anch’io, Chris».

Lui sorrise e dopo qualche minuto ci infilammo sotto le coperte, abbracciati l’uno all’altra.

 

Il tempo trascorse più velocemente di quanto riuscissi a rendermi conto; io e Chris avevamo sempre da fare e spendemmo la maggior parte delle nostre giornate in giro per negozi che vendevano articoli per neonati. Dal momento che per i primi sei mesi io non avevo praticamente pensato a nulla, ci trovammo a fare all’ultimo ogni cosa.

Ryan e Gale si erano trasferiti nella casa di lui, mentre il signor Kenyon e Ben si erano trovati un appartamento più piccolo. Era stato proprio il padre di Ryan ad avanzare quella proposta, dicendo che a lui ed al figlio minore, tutto quello spazio non serviva. Ben non si era lamentato e la prospettiva di diventare zio, anche se aveva appena compiuto solo dodici anni, aveva contribuito ad addolcirlo e a ridonargli quel sorriso che aveva perso alla morte della madre.

Così, io entrai nel mio ottavo mese di gravidanza, ormai era il venticinque aprile e la mia bambina sarebbe dovuta nascere esattamente tra un mese. Avremmo festeggiato il compleanno in date vicine, dato che il mio era il quindici maggio e la scadenza della gravidanza era prevista per il venticinque di quel mese, ma a volte la mia piccola scalciava così tanto che avevo come l’impressione che volesse uscire prima a tutti i costi.

Chris diceva che una volta cresciuta avremmo dovuto tenerla d’occhio, prima che si ritrovasse uno stuolo di corteggiatori che lui e lo zio Adam avrebbero dovuto provvedere a mandare via a calci.

Ridevo sempre ogni volta in cui Chris diceva quel genere di cose. Sarebbe stato davvero un papà apprensivo, ma meraviglioso.

Così, la giornata passò in fretta. Di comune accordo, avevamo deciso che i primi mesi, la culla di Danielle sarebbe rimasta nella nostra stanza, ma poi l’avremmo spostata in quella attigua.

 Ormai tutto era pronto, in un solo mese eravamo riusciti a fare veramente tanto e la casa era a prova di bambino, con tutto ciò che ci sarebbe servito.

Andammo a letto stanchi quella sera ed io mi addormentai subito.

 

Qualche ora dopo, fu una fitta a svegliarmi. Era da qualche giorno che mi succedeva, ma avevo evitato di dirlo a Chris per paura che andasse nel panico. Mi posai una mano sul ventre, ma poi, sentii qualcosa di caldo e viscoso colarmi lungo le gambe e, improvvisamente, scattai a sedere sul letto, terrorizzata. Accesi la luce dell’abat-jour e, con orrore, notai la pozza di sangue che andava allargandosi sempre di più tra le lenzuola.

Il cuore mi balzò in gola ed io scossi Chris, che, nonostante tutto, aveva continuato a dormire.

«Chris!», lo chiamai, scrollandogli una spalla.

Lui aprì gli occhi, ancora mezzo addormentato.

«Chelsea, che cosa succede?», la sua voce era assonnata, forse non si era reso ancora conto della situazione.

«C’è qualcosa che non va con la bambina».

Immediatamente, saltò fuori dal letto e, vedendo il sangue tra le mie gambe, impallidì.

«Ti porto in ospedale, d’accordo?», gli feci cenno di sì con la testa, le lacrime cominciarono a premere contro le palpebre, ma le respinsi.

Dopo un minuto eravamo già in macchina; Chris sfrecciava veloce lungo la strada deserta; erano appena le due di mattina.

Io mi tenevo il ventre, che mandava fitte atroci sempre più spesso.

«Chris… ah! Chris, la sto perdendo», dissi con la voce rotta dalla paura e dal dolore.

Se possibile, lui sbiancò ulteriormente e la sua mascella s’irrigidì.

«No. No, amore mio, cerca di non farti sopraffare e fai dei respiri profondi, ok? Nostra figlia starà bene, vedrai. Lei è forte… proprio come sua madre».

Annuii pesantemente e, dopo qualche minuto, Chris entrò nel parcheggio dell’ospedale, dal lato del pronto soccorso.

Subito, un’équipe ci venne incontro e mi portarono dentro con una sedia a rotelle.

Ciò che accadde dopo, fu veloce e confuso.

Riuscii solo a captare le parole “distacco della placenta” e “cesareo” e ancora, “sala operatoria”, ma cominciavo a perdere le forze e non ce la feci a mettere insieme tutto il discorso.

Un medico uscì per parlare con Chris, il quale dovette rimanere fuori ed io cominciai ad agitarmi perché lo volevo lì con me.

Quando il dottore rientrò, fece un cenno affermativo agli altri, così, venni trasportata in quella che presupponevo essere una sala operatoria.

Avevo le palpebre pesanti, il dolore al ventre si era attenuato, ma mi sentivo incredibilmente stanca.

Medici e infermieri si affannavano intorno a me e, ad un tratto, sentii una puntura al mio braccio, vidi un’infermiera iniettarmi qualcosa in vena e poi tutto cadde nell’oscurità.

 

Quando riaprii gli occhi, l’addome mi faceva un male lancinante e tutto attorno a me era un intrico di tubi e macchinari.

Non c’era nessun altro nella stanza.

Suonai il campanello al mio fianco e, qualche istante dopo, un pallido Ryan, entrò dalla porta.

«Ryan?», chiesi piuttosto sorpresa di vedere lì il mio amico.

Il suo sguardo era cupo.

«Ryan… perché hai quella faccia? Che cosa è successo? Dov’è Chris? Dov’è Danielle?».

Lui mi accarezzò i capelli e mi diede un bacio sulla fronte.

«Chris è in terapia intensiva neonatale, con Danielle» quelle parole mi spaventarono a morte e Ryan lo capì dal mio sguardo, perché aggiunse in fretta: «È piccola, dato che è nata prematura di un mese, ma in definitiva non ci sono danni, è forte. Dovrà solo stare nell’incubatrice per un po’, ma Chelsea… è andata bene, lei sta bene. Ce la farà».

Tirai un respiro di sollievo e mi lasciai sfuggire qualche lacrima.

«Allora perché hai quell’espressione?».

«Ti rendi conto che hai rischiato di morire? Non sapevamo se ti saresti svegliata, Chelsea. Chris è… è spaventato a morte».

«Allora vai da lui, Ryan».

«Ma… », m’interruppe il ragazzo.

«Subito».

Lui annuì.

«Va’ da lui e digli che mi sono svegliata, per favore».

Ryan uscì e subito entrò Gale.

«Gale! Ma cosa ci fai qui?».

La mia voce era flebile, ero ancora debole e mi portai una mano all’addome dolorante, non più gonfio come prima. Distrattamente guardai l’orologio. Erano le nove di mattina del ventisei aprile… e mia figlia era nata.

La mia amica mi venne subito vicino e, con estrema delicatezza, mi abbracciò.

«Chelsea… eravamo così preoccupati».

Restituii lievemente il suo abbraccio, accarezzandole i capelli biondi.

«Grazie per essere qui, ma adesso devi andare a casa, aspetti un bambino, devi riposare».

«Niente storie, io sto bene e non mi muovo da qui».

Dopo un istante, la porta si aprì facendo entrare un pallido Chris, seguito da Ryan. Non appena mi vide, il ragazzo dapprima chiuse gli occhi, poi si avvicinò a me, baciandomi prima la fronte, dopo entrambe le guance e infine, lievemente, le labbra.

«Chelsea… » sussurrò sempre ad occhi chiusi contro i miei capelli.

Gale e Ryan uscirono dopo un sommesso: «Noi andiamo da Danielle».

Chris li ringraziò, io annuii. Fu il massimo che riuscii a fare.

Accarezzai i capelli biondi di Chris e lo guardai negli occhi. Sembrava così stanco.

«Chelsea se ti fosse successo qualcosa… se fosse successo qualcosa a te o a nostra figlia… ».

«Come sta?» chiesi preoccupata e vidi Chris rilassarsi leggermente.

«Starà bene. Ora è così piccola che avrei paura a prenderla in braccio, ma i dottori hanno detto che è normale nei prematuri, ne capitano spesso e il suo caso non è grave. Eri tu quella per cui tutti eravamo preoccupati. I medici dicevano che se non ti fossi svegliata entro due giorni tu… insomma, avresti potuto… » ma le parole gli morirono in gola ed io gli accarezzai il viso per tranquillizzarlo.

«Sto bene, Chris… sto bene. Dovevo tornare da te e da nostra figlia».

Gli occhi di Chris si riempirono di lacrime ed io lo attrassi a me per posargli un bacio sulla fronte, poi lui respirò a fondo.

«Ho chiamato i tuoi, un’ora fa. Stanno arrivando».

Annuii.

«E hai avvertito la tua famiglia?».

«Non ancora».

«Fallo, è giusto che lo sappiano».

Il ragazzo fece un cenno di assenso e fu solo quando un medico entrò nella mia stanza per visitarmi che uscì per chiamare i suoi.

L’uomo disse che non avevo riportato gravi danni, ma sarei dovuta rimanere in ospedale come minimo per una settimana, mentre mia figlia nell’incubatrice per un altro mese.

«Posso vederla?» chiesi speranzosa.

«Mi dispiace, signorina Gaver… non si può alzare come minimo per tre giorni».

«Ma se mi mettessi su una sedia a rotelle… ».

«Mi dispiace… » ripeté di nuovo lui, interrompendomi. «… ora come ora non è possibile, per lei non è sicuro. Vedremo come starà nei prossimi giorni».

Sospirai, abbattuta. Non mi avrebbero neanche lasciato vedere mia figlia.

Quando il medico uscì, Chris rientrò e, vedendomi così triste, fu subito al mio fianco.

«Chelsea, amore, che cosa succede? Che ha detto il medico?».

«Non mi lasciano vedere Danielle, Chris. Non mi fanno vedere la mia bambina… ».

Lui mi accarezzò i capelli, comprensivo.

«Avevo ragione io… ».

Lo osservai, senza capire, così lui proseguì.

«Ricordi quando tornai a Santa Barbara, il giorno in cui mi dicesti di aspettarla? La sera ci mettemmo a fantasticare su come sarebbe stata e… avevo ragione io. È tale e quale a te. È meravigliosa, piccola e dolce, ma anche forte. Esattamente come la sua mamma».

Gli strinsi le braccia attorno al collo, inspirando forte il suo profumo rassicurante.

«Vedrai, tesoro… andrà tutto bene… » disse accarezzandomi la schiena.

«Presto torneremo a casa e la nostra bambina starà bene. Staremo tutti bene».

In tarda mattinata arrivarono i miei genitori, una valanga di preoccupazione e, con mia enorme sorpresa, con loro c’era anche Shereen. Non vedevo mia sorella da mesi e adesso… beh, mi fece un certo effetto, soprattutto dal momento in cui venne ad abbracciare prima me, poi Chris, con sincera preoccupazione.

«Vedi di non farmela mai più una cosa del genere, d’accordo?» disse mia sorella, con occhi pieni di ansia.

Le presi una mano tra le mie e lei la strinse forte con entrambe le sue. Mia madre si era seduta sul bordo del mio letto dopo avermi tenuta stretta e mio padre era su una sedia vicina, che continuava ad accarezzarmi i capelli e la schiena.

Dopo un po’ fu Chris a prendere parola. «Volete conoscere vostra nipote?».

I tre sorrisero e lo seguirono fuori dalla stanza. Non restai sola per molto però, perché prima che tornassero, la porta della mia stanza si aprì, facendo entrare mamma e papà Williams, seguiti a ruota da due esagitati Adam e Jenna.

«Chelsea, tesoro!» mi abbracciò immediatamente Constance.

A turno ognuno di loro venne a salutarmi e, brevemente, spiegai loro i fatti di quella notte.

Alle mie parole impallidirono tutti, ma quello che mi sorprese di più fu Adam, che si nascose il volto tra le mani.

«Adam…?» lo chiamai, ma lui non si mosse da quella posizione.

Jenna gli poggiò una mano sulla spalla e poi puntò i suoi occhi su di me.

«Era solo preoccupato. Lo eravamo tutti, ha solo bisogno di un momento. Adam, su, andiamo a conoscere Danielle… » disse la bionda, prendendolo per un braccio.

Quando i due uscirono, a turno entrò il resto della famiglia Williams per accertarsi delle mie condizioni.

Cominciavo a sentirmi stanca e, prima che la mia famiglia e Chris tornassero nella stanza, mi addormentai con la mano di Constance che mi accarezzava i capelli e quella di Traver posata sulla mia.

 

La settimana trascorse con una lentezza esasperante e fu solo al giorno della dimissione che mi lasciarono vedere mia figlia. Camminavo tenendo stretto il braccio di Chris e lui mi sosteneva, solido al mio fianco e sempre pronto a reggermi ad ogni accenno di incertezza da parte mia.

Ammetto che i miei movimenti non erano più agili e scattanti come prima, ma dopotutto era normale, no? Il medico mi aveva assicurato che sarei tornata presto come nuova e io lo speravo, perché non vedevo l’ora di tenere in braccio la mia piccola e dolce bambina.

Arrivammo in terapia intensiva neonatale e non ci fu bisogno che Chris mi indicasse l’incubatrice di Danielle, perché la riconobbi non appena posai gli occhi su di lei e dall’emozione quasi mi cedettero le gambe, tanto che Chris si posizionò alle mie spalle, rafforzando la presa intorno al mio corpo.

«È bellissima» sussurrai.

«Lo so. Proprio come sua madre» detto questo mi baciò una tempia.

Guardandomi intorno, notai come fossimo stati fortunati, perché in terapia intensiva neonatale si trovavano bambini con problemi ben più gravi, tanto che Danielle sembrava quella messa meglio, tra tutti. Altre tre settimane e avremmo potuto riportarla a casa, ci avevano rassicurato i dottori.

Mia figlia sembrava già più grande rispetto alle foto che Chris mi aveva fatto vedere di lei all’inizio della settimana precedente e lui, che l’aveva vista con i suoi occhi fin dall’inizio, me lo confermò.

«Vuoi toccarla?» mi chiese con un sorriso ed io spalancai gli occhi, sorpresa.

«Posso farlo?».

«Certo, vieni con me».

Mi condusse in una stanzetta in cui mi fece indossare un lungo camice rosa sopra ai vestiti e dei copriscarpe azzurri, poi lui fece lo stesso. Mi disse di legarmi i capelli e poi entrambi ci lavammo bene le mani, dopodiché, entrammo nel reparto.

C’erano altri genitori che guardavano i loro figli, che avevano una mano posata sull’incubatrice e altri che li toccavano attraverso un’apertura a lato di essa.

Mi sedei accanto alla mia bambina e, piano, infilai una mano dentro quella apertura circolare.

«Fai pianissimo, Chelsea… » mi disse Chris, mettendomi una mano sulla spalla.

Guardai da vicino la mia bambina. Teneva gli occhi chiusi, Chris diceva che non li aveva mai aperti, ma era vero… lei somigliava a me.

Non appena il mio dito sfiorò la sua manina semiaperta, la piccola aprì gli occhi, rivelando quell’azzurro cielo che contemplavo ogni volta che mi guardavo allo specchio.

«Oh, mio Dio!» esclamai e anche Chris sembrò paralizzato sul posto.

«Ti stava aspettando, Chelsea… lei stava aspettando solo te. Sa che sei sua madre e che la ami più di qualsiasi altra cosa al mondo».

Avvertii una leggera incrinatura nella sua voce.

Alzai la testa fino ad incontrare i suoi occhi chiari e  lui si chinò a baciarmi.

«Andrà tutto bene… staremo bene» sussurrò lieve, contro le mie labbra.

 

Quattro mesi dopo…

Il pianto di Danielle mi ridestò improvvisamente.

«Chris… » chiamai debolmente il ragazzo che dormiva al mio fianco.

Lui emise uno strano verso a metà tra un mugugno e un sospiro.

«Danielle è sveglia» ripresi.

«Ho sentito… ».

«Non avevi detto che non avresti voluto perderti neanche un momento della sua vita? Questo è uno di quei momenti… » dissi ancora assonnata, picchiettandogli la schiena per indurlo a scendere dal letto.

Chris si alzò sbadigliando, uscendo dalla stanza. Mi sentivo sempre in colpa svegliandolo, ma mi ero alzata appena un’ora prima per allattarla e avrei dovuto rifarlo tra due ore, ero distrutta.

Sentii il pianto della mia bambina placarsi, Chris le faceva sempre quell’effetto. Era come se Danielle percepisse l’amore incondizionato che veniva da suo padre e questo bastava per tranquillizzarla.

Sorrisi senza neanche rendermene conto e, dopo un momento, risprofondai nel sonno.

 

Le settimane si susseguirono velocemente l’una dopo l’altra, da quando era nata  mia figlia era come se il tempo scorresse più velocemente e questo da un lato mi spaventava. Prima che fossi riuscita a rendermene conto, probabilmente Danielle sarebbe diventata un’esuberante adolescente piena di corteggiatori proprio come aveva detto Chris. A inizio settembre ricevemmo una telefonata da Jethro, il marito di Megan, per informarci che la donna aveva partorito quella notte una bambina che avevano chiamato Sarah.

Chris andò a trovarla, ma io non me la sentii di spostare già Danielle per un viaggio di quattro ore, così restai a casa con la bambina e lui tornò dopo pochi giorni, portandomi i saluti di tutti e le foto della nuova cuginetta di mia figlia: Sarah aveva i capelli biondi della madre e gli occhi azzurri del padre.

 

Una mattina, risvegliandomi, sentii che c’era qualcosa di diverso, qualcosa che non andava e, immediatamente, mi rizzai a sedere sul letto.

Silenzio.

«Chris… », ma il mio compagno si limitò a mugugnare, voltandosi dall’altro lato.

«Chris!» chiamai allora con più decisione.

«Sono sveglio, sono sveglio… che succede?» fece peso sui gomiti, alzandosi leggermente e guardandomi con aria ancora confusa e intontita dal sonno.

«Ascolta… » dissi allarmata.

Lui lo fece, ma parve ancora più disorientato di prima.

«Cosa dovrei ascoltare? Non si sente niente… ».

«Esatto… Danielle non piange».

Immediatamente, il ragazzo parve sveglissimo e sgranò gli occhi, un istante dopo eravamo già balzati giù dal letto, dirigendoci a passo svelto verso la stanza in cui avevamo sistemato la culla della bambina.

Io indossavo solo una misera canottiera bianca leggera, data ancora l’alta temperatura californiana e un paio di culottes dello stesso colore. Chris invece era in boxer.

Fui io la prima ad arrivare alla culla e, non appena vi guardai dentro credetti che mi sarebbe venuto un infarto, perché la trovai vuota.

«Chris… » dissi con voce strozzata, afferrando forte un braccio del ragazzo per non perdere l’equilibrio.

Lui mi sostenne, ma un secondo dopo ci eravamo già separati, guardando furiosamente per tutta la stanza. Ma era impossibile… Danielle non aveva neanche sei mesi e non poteva di certo essere scesa dalla culla da sola! Non camminava e di sicuro avremmo sentito il tonfo se fosse caduta.

«Chris, deve essere entrato qualcuno!» esclamai in preda all’agitazione.

Scendemmo le scale di corsa, diretti alla porta per vedere se ci fosse qualche segno di effrazione, ma ciò che trovammo una volta arrivati in salotto fu ben  diverso. Adam e Jenna se ne stavano lì, felici come non mai con nostra figlia tra le braccia, che lanciava gridolini di gioia alle facce buffe dello zio.

«Ma che diavolo…?!» tuonò Chris. Sembrava veramente arrabbiato.

«Ehi, fratellino!» lo salutò Adam.

«Danielle!» esclamai io, correndo verso mia figlia e prendendola dalle braccia dell’uomo.

«Siete impazziti?! Entrare così in casa e prendere la bambina! Chelsea ed io abbiamo quasi avuto un attacco di cuore, stavo per chiamare la polizia! Avreste almeno potuto avvertirci del vostro arrivo o almeno restare nella sua camera, così vi avremmo visti subito senza morire di paura!».

Chris mi si avvicinò, abbracciando me e Danielle, mentre gli altri due Williams avevano un’aria piuttosto colpevole.

Riempii la mia bambina di baci; lei sembrava molto divertita dalla situazione, come se il suo papà stesse giocando a fare il grosso con lo zio.

«Si può sapere come accidenti avete fatto ad entrare?».

«Oh, quando sono stato qui per il Ringraziamento, lo scorso anno, Chelsea mi ha fatto vedere dove stava la chiave di riserva, in giardino».

Chris sbuffò, osservandomi.

«Ricordami che dobbiamo cambiare posto».

Non appena le acque si furono calmate, in fin dei conti fui contenta di rivedere i due, anche se in quel momento avrei voluto ucciderli. D’altra parte… era da poco dopo la nascita di mia figlia che non li vedevo.

Solo quando il mio cervello tornò a ragionare mi resi conto della condizione di semi-nudità in cui mi trovavo davanti ai miei quasi cognati. E anche Chris si rese conto della cosa perché, guardando minaccioso il fratello maggiore, esclamò: «Ehi! Smettila di fissarla con quegli occhi da pesce lesso. Chelsea, vai a metterti qualcosa addosso, per favore» disse facendomi scudo con il suo corpo.

Lo adoravo quando faceva il geloso, anche se solo con suo fratello che mai avrebbe fatto qualcosa per dividerci dopo tutto ciò che c’era voluto per farci stare insieme.

«Sì, fratellino, anche tu ti prego, altrimenti potresti bloccare la crescita a mia nipote» rispose prontamente Adam, con il solito ghigno strafottente.

Chris lo fulminò con un’occhiataccia, ma insieme ci avviammo al piano superiore per  vestirci. D’altra parte… la notte appena trascorsa era stata piuttosto… movimentata sotto le lenzuola e di certo non ci era passato minimamente per la testa di infilarci il pigiama, subito dopo. Su una cosa però dovevo dare ragione a Chris: era valsa la pena di aspettare e fare l’amore con lui adesso era come farlo sempre per la prima volta. Era nuovo e passionale ed io ero certa che lo avrei amato per tutta la vita, che non avrei mai avuto abbastanza di lui.

Una volta in camera da letto, posai Danielle sul materasso e, come se Chris mi avesse letto nel pensiero, mi osservò con aria… affamata. In un istante me lo ritrovai addosso, le labbra sulle mie e le mani sotto la canottiera, mentre accarezzavano la mia pelle con movimenti audaci.

«Chris… non davanti alla bambina!» cercai di dire, ma quando mi strinse mani intorno al seno, aumentato di più di una taglia dopo la gravidanza, non riuscii a fare silenzio e gemetti, inarcandomi contro di lui.

«Chelsea, giuro che se i miei fratelli adesso non fossero qui ti spoglierei del tutto e ti butterei sul letto. Dopo aver riportato Danielle nella sua camera ovviamente, perché lei non può vedere queste cose e di certo non le farà prima di aver compiuto come minimo trentacinque anni».

Risi, felice.

«Nostra figlia non avrà certo vita facile con te, vero?».

Proprio in quel momento, il mio telefono prese a squillare ed io mi staccai dal ragazzo, che protestò contrariato.

«Ciao, Ryan!» risposi allegra.

Parlai per qualche minuto con il mio amico e restammo d’accordo di andare a fare colazione insieme, avremmo chiesto anche a Jenna e Adam, ovviamente.

Così, dopo un’ora eravamo tutti presentabili e Danielle aveva appena mangiato, di modo che non si mettesse a strillare in mezzo alle caotiche strade di Santa Barbara.

Ryan e Gale furono contenti di rivedere i due fratelli Williams e loro s’informarono sulla gravidanza della mia amica, la quale avrebbe ormai partorito entro pochi mesi. E, a tal proposito, era in arrivo un piccolo Kenyon. Sì, un maschietto, che i due avrebbero chiamato Nicholas: il secondo nome di Ryan.

E lui e Danielle sarebbero cresciuti insieme e avrebbero avuto quel legame che c’era tra me e Ryan, ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altra.

Fu una bellissima mattinata, restammo tutti insieme e parlammo di tutto e di niente. Era meraviglioso stare esattamente nel posto in cui volevo con le persone che più amavo al mondo.

Guardai Chris e sorrisi, lui intercettò i miei occhi e mi prese una mano tra le sue.

«Ti amo… » sussurrai in modo che solo lui potesse sentire.

«Ti amo anch’io, Chelsea… ».

E andava bene così. D’ora in poi… tutto sarebbe andato bene.

 

Note dell’Autrice:

E rieccomi qui… stavolta ho aggiornato prima!

Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, come perfettamente nel mio stile, non poteva non succedere l’ultima disgrazia, ma si è risolta bene e la piccola Danielle è sana e salva. La scena del brusco risveglio di Chelsea è stata scritta molti e molti mesi fa ed ora eccola qui.

Ad ogni modo mi auguro di non aver deluso le aspettative di qualcuno, ormai manca solo l’epilogo, che ho scritto durante tutta questa settimana. Me la sono presa comoda perché non volevo che ne uscisse una cosa affrettata e buttata lì.

Diciamo che tutto è andato al suo posto, ma non anticipo altro.

Con questo, passo e chiudo, lasciando come sempre l’estratto dal prossimo capitolo e colgo l’occasione per fare tanti tanti tanti tanti auguri di buon compleanno ad una mia carissima amica che oggi compie gli anni e che, da quando ci siamo conosciute, ha sempre dato grande supporto a me e alle mie storie.

Ti ringrazio per tutto ciò che fai e che continui a darmi.

Ok… dopo questo momento catartico, ecco a voi l’estratto dall’epilogo.

A presto!

 

DALL’EPILOGO:

“Nessuno mi prestò particolare attenzione ed io presi posto allo sgabello squadrato del pianoforte e alzai il ripiano che copriva i tasti.

Fu come tornare indietro nel tempo e in un istante rividi ogni momento: il giorno in cui mio nonno mi fece sedere sulle sue ginocchia mentre lui, con l’infinita pazienza che ci vuole per spiegare la musica ad una bambina di cinque anni, mi indirizzava verso quel mondo magico e meraviglioso.

Rividi i pomeriggi passati  china su quei tasti suonando dolci melodie di grandi compositori passati. Rividi il mio primo saggio e nonno Daniel che si alzava in piedi una volta finito il mio pezzo per applaudire prima ancora dei miei genitori, dicendo a persone estranee sedute vicino a lui che quella “bambina prodigio”, come amava definirmi, era sua nipote.

Ogni singolo momento fu come riviverlo in quell’esatto istante ed io fui presa da un’improvvisa ispirazione”.

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Capitolo 27
*** Epilogo ***



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Epilogo  






EPILOGO:

 

«Chelsea, tesoro! Sei pronta?».

Sentii la voce di Chris provenire dal piano inferiore, così terminai di mettere il mascara e risposi: «Arrivo, ho quasi finito! Hai caricato la macchina?».

«La macchina è pronta e sono pronti anche Danielle e Buster. Forza, abbiamo un viaggio di quattro ore che ci aspetta!».

Frettolosamente, terminai l’operazione trucco e afferrai la piccola borsa nera poggiata sul letto, dopodiché scesi le scale fino ad arrivare all’ingresso, in cui Chris mi attendeva con la nostra bambina tra le braccia.

«Te l’ho mai detto quanto mi fai impazzire quando indossi abiti rossi?» mi disse il ragazzo.

Riuscivo perfettamente a capire dalla luce che aveva negli occhi quanto in quel momento avesse voglia di lasciare nostra figlia nel girello, stracciarmi il vestito e portarmi al piano di sopra, ma proprio non poteva farlo. Eravamo appena in tempo per la tabella di marcia.

«Muoviti, altrimenti arriveremo in ritardo. Sai quanto mia madre si irrita quando cucina e il cibo si fredda se qualcuno fa tardi».

«Ma tu sei sexy» protestò lui.

«Vuoi vedertela con le ire di mia madre?».

«Mmm… no».

«Esatto. Su, andiamo».

Detto questo uscimmo di casa e una volta nel vialetto incontrammo Ryan e Gale che si preparavano per andare a fare una passeggiata con il piccolo Nicholas, prima di recarsi al pranzo di Natale a casa dei genitori di Gale, al quale erano invitati anche  il signor Kenyon e Ben.

«Ehi, ragazzi! Buon Natale!» ci salutò Ryan, agitando un braccio sopra la testa.

«Buon Natale a voi!» ricambiai attraversando la strada per abbracciare i miei amici.

«In partenza per Phoenix?» chiese Gale, sorridendo e tenendo ben salda l’impugnatura del passeggino di Nicholas.

«Già. Di preciso i tuoi genitori dove stanno adesso, Gale?».

«Si sono trasferiti dall’Alabama a Los Angeles. Da quando è nato Nicholas, sai com’è… sono del tutto impazziti per il nipotino e non potevano stargli lontano».

«Oh, ti capisco benissimo. Anche i miei hanno attraversato una fase simile dopo la nascita di Danielle. Adesso però dobbiamo andare ragazzi, altrimenti faremo tardi».

«Certo, vi lasciamo. Buone feste!».

«Anche a voi!»

Ecco, adesso eravamo sicuramente in ritardo.

Grazie al cielo in autostrada non trovammo traffico dato che i giorni critici per gli spostamenti erano già passati. Il venticinque dicembre ormai tutti erano arrivati a destinazione, perciò Chris poté  guadagnare del tempo e alla fine riuscimmo a giungere giusto in tempo a casa dei miei genitori.

Non scaricammo la macchina dal momento che poi saremmo rimasti a dormire dai genitori di lui, ma pranzi e cene si sarebbero tenuti a casa di mamma e papà, per ovvi motivi dato che mamma non avrebbe mai lasciato che un pranzo importante si tenesse al di fuori della sua casa.

Quell’anno ci sarebbe stata anche mia sorella. Avevo saputo che si era lasciata con Jared, stavolta definitivamente, così sarebbe rimasta con noi. C’era qualcosa di diverso in Shereen, era cambiata, e lo aveva fatto in meglio.

Era più dolce, più comprensiva, più… umana. Aveva abbandonato il suo modo di fare altezzoso ed ora potevo dire di avere davvero una sorella che potesse essere definita tale. Mi telefonava spesso, non aveva rancori nei confronti miei o di Chris e soprattutto amava incondizionatamente Danielle.

Quando suonammo, Chris teneva il passeggino con nostra figlia e il guinzaglio di Buster, mentre io portavo le borse con i regali.

Venne ad aprirci mia madre, raggiante, e subito ci invitò ad entrare.

E io che pensavo di essere in ritardo, per fortuna erano solo arrivati i miei zii, quell’anno da soli perché la figlia maggiore, già madre del piccolo Chuck, ora aspettava un altro bambino, mentre il minore si era appena sposato ed ora era in luna di miele in Europa.

Mio zio mi abbracciò felice e strinse la mano di Chris, che ormai sembrava aver accettato nonostante la diffidenza iniziale.

Papà invece arrivò dalla cucina poco dopo e, dopo averci salutato, prese in braccio una Danielle scalpitante che continuava a lanciare urletti contenti.

Quella bambina era una vera gioia. Il giorno dopo avrebbe compiuto otto mesi ed io mi sorpresi a pensare quanto velocemente fosse passato il tempo. Il giorno prima la vedevo chiusa in un’incubatrice, mentre il giorno dopo aveva ormai quasi un anno.

Mi sarebbe scivolata via dalle mani prima di quanto potessi mai rendermene conto.

Danielle passò dalle braccia di mio padre a quelle di mia madre, per poi andare ai miei zii. Tutti la coccolavano come una principessa.

Qualche minuto dopo arrivò Shereen, splendida come sempre in un abito blu scuro, scendendo le scale che portavano al piano di sopra e venne subito ad abbracciare prima me e poi Chris.

«Vi trovo bene, ragazzi» disse con un sorriso sincero.

Inizialmente avevo creduto che quel suo cambio d’atteggiamento fosse tutta una farsa, ma poi mi diedi dell’idiota e mi sentii cattiva ad essere tanto restia nel credere al vero cambiamento di mia sorella.

Forse era stato per l’estate precedente, per le svariate volte in cui avevo rischiato di morire. Forse aveva capito che il legame che univa me e Chris era unico e imprescindibile, che ci amavamo senza riserve e incondizionatamente. Forse era stato il fatto di avermi quasi persa nuovamente alla nascita di Danielle, o magari l’arrivo stesso di mia figlia, ma ciò che davvero m’importava era che adesso avevo davvero una sorella.

Dopo aver chiacchierato con noi per qualche minuto, si avvicinò a mia zia, che stava tenendo Danielle in braccio e la prese un po’, dandole un bacio delicato sulla guancia chiara e liscia. La pelle di quella bambina era incredibile: era così bianca e morbida che sembrava una bambola di porcellana.

Poi Shereen le strofinò velocemente il naso contro il viso, facendole il solletico e la piccola iniziò a ridere come una matta.

Chiesi a mia madre se avesse bisogno di una mano mentre gli altri si accomodavano nel salotto, così io la seguii in cucina mentre tutti erano troppo impegnati a spupazzarsi mia figlia.

«Ti vedo radiosa, amore mio».

«Lo sono, mamma. Non sono mai stata così felice in tutta la mia vita».

«E tu non hai neanche la vaga idea di quanto queste parole rendano felice me. Hai avuto due anni davvero duri e… poterti guardare adesso così… appagata, realizzata e soprattutto amata, mi riempie il cuore di gioia».

«Amata… lo sono veramente. Chris mi ama più di qualunque cosa al mondo e Danielle si illumina ogni volta che mi vede e che vede lui. Credevo che non avrei mai potuto provare così tanto amore in una vita sola».

Mia madre sorrise, posandomi una mano sulla guancia, poi iniziammo a portare in tavola aperitivi e quant’altro.

Dopo un po’ sentimmo di nuovo il campanello suonare, stavolta doveva per forza essere la famiglia Williams. Mio padre andò ad aprire e infatti udii le voci familiari dei genitori di Chris e dei suoi fratelli provenire dall’ingresso.

Sentii il trambusto iniziale e i movimenti per spostarsi fino alla sala da pranzo. Lì aumentarono le esclamazioni festose, probabilmente a causa di Danielle e infatti dopo qualche istante udii diverse voci esclamare il suo nome.

Mi figlia stava venendo su un po’ troppo viziata e coccolata, ma che giudizi potevo dare proprio io che ero la prima a tenermela stretta e baciarla ad ogni occasione? Poi ci riflettei… ok, non proprio la prima; Chris era peggio di me: Danielle era davvero la sua principessa e lui non riusciva fisicamente a starle distante troppo a lungo, era più forte di lui, come se ne avvertisse il bisogno.

«Vai di là a salutare la famiglia di Chris, tesoro, qui ci penso io, arrivo tra un minuto».

Avevo notato come da qualche mese anche mia madre avesse iniziato a chiamarlo Chris e non più Christian.

Così mi avviai in salotto muovendomi agilmente nonostante le scarpe che indossavo. Erano un paio di decolté nere, scamosciate con dodici centimetri di tacco a spillo e il plateau per sostenere la parte davanti. Avevano un cinturino sottile che allacciava la caviglia e la fibbia dorata.

L’abito invece era rosso, in tipico stile natalizio, aderente, fasciava perfettamente le mie forme e arrivava poco sopra il ginocchio.

«Chelsea!» esclamò Jenna correndomi incontro. Fu la prima ad accorgersi di me e mi abbracciò con impeto.

«Jenna… che bello rivederti» la strinsi forte.

La ragazza mi era mancata veramente molto.

«Sorella… si può sapere come puoi avere un fisico così dopo aver partorito?» mi chiese lei, con un’occhiata che sondò il mio corpo dall’alto in basso.

I genitori di Chris vennero ad abbracciarmi subito dopo, mentre Danielle li guardava contenta, ancora tra le braccia di mia sorella e, un attimo dopo, fu subito presa da nonna Constance. Dopo un momento arrivò la piccola Holly, che mi abbracciò forte e io la sollevai tra le braccia, dandole un bacio sulla guancia morbida.

Pete e Adam furono gli ultimi che salutai; Megan e Jethro non erano riusciti a venire perché la piccola Sarah aveva l’influenza  e non se l’erano sentita di spostarla.

«Chelsea… che bello rivederti… » disse Adam, abbracciandomi forte.

«Già, sono contenta anch’io. Come stai?».

«Me la passo bene, sì, non c’è male. Inutile chiederlo a te perché… beh, sei bellissima e il tuo sorriso dice tutto».

«Non è che ci stai provando con lei, vero? Perché sarai anche mio fratello, ma questo non mi impedirebbe di spezzarti le braccia» disse Chris, arrivando e cingendomi la vita con le braccia.

Quando eravamo tutti insieme, queste scene erano all’ordine del giorno.

Adam sorrise.

«Sto al mio posto, fratellino, sta’ tranquillo».

Dopo un po’, Danielle cominciò a lamentarsi, segno che aveva fame, così la presi dalle braccia del nonno paterno per portarla su in quella che per tanti anni era stata la mia camera da letto.

Era ancora piccola per svezzarla, ma avrei cominciato a provarci tra l’ottavo e il nono mese.

Guardai la mia bambina cercando di trasmetterle tutto l’amore possibile e lei mi sorrise, osservandomi con quei suoi occhioni azzurri e gioiosi.

Dopo un po’, Chris portò su il passeggino e la prese in braccio, camminando avanti e indietro per la stanza per cercare di farla addormentare.

Nel frattempo io tornai al piano inferiore e mi unii agli altri per mangiare, che ormai avevano cominciato.

«Si è addormentata?» chiese mia madre, seduta qualche posto alla mia destra.

«Ci sta pensando Chris» risposi sorridendo.

Dopo un paio di minuti, il ragazzo ci raggiunse.

«Possiamo stare tranquilli per le prossime due ore» disse prendendo posto al mio fianco e stringendomi leggermente una mano.

Il pranzo trascorse tra chiacchiere e risate, era da tempo che non mi sentivo così felice e completa, ma sentivo ancora come se mancasse qualcosa, un altro minuscolo dettaglio.

Lanciai un’occhiata alla mia sinistra e capii: lì c’era il pianoforte su cui mi ero esercitata per interi anni della mia vita, quello strumento aveva un gran valore per me.

Tra i discorsi che ognuno stava portando avanti in piccoli gruppi mi alzai. Chris stava parlando con Adam e Jenna, Holly chiacchierava con Pete e Shereen, mentre i miei genitori parlavano con quelli di Chris e con gli zii.

Nessuno mi prestò particolare attenzione ed io presi posto allo sgabello squadrato del pianoforte e alzai il ripiano che copriva i tasti.

Fu come tornare indietro nel tempo e in un istante rividi ogni momento: il giorno in cui mio nonno mi fece sedere sulle sue ginocchia mentre lui, con l’infinita pazienza che ci vuole per spiegare la musica ad una bambina di cinque anni, mi indirizzava verso quel mondo magico e meraviglioso.

Rividi i pomeriggi passati  china su quei tasti suonando dolci melodie di grandi compositori passati. Rividi il mio primo saggio e nonno Daniel che si alzava in piedi una volta finito il mio pezzo per applaudire prima ancora dei miei genitori, dicendo a persone estranee sedute vicino a lui che quella “bambina prodigio”, come amava definirmi, era sua nipote.

Ogni singolo momento fu come riviverlo in quell’esatto istante ed io fui presa da un’improvvisa ispirazione.

Pensai a mia figlia. Pensai a ciò che provavo guardandola e tenendola tra le braccia. Pensai alle emozioni che ogni suo sorriso e risata mi donavano.

 Pensai a quanto l’amavo.

Le mie dita cominciarono a muoversi veloci sui tasti. Quei tasti bianchi e neri e non potei non pensare ad una citazione  tratta da uno dei miei film preferiti: “La leggenda del pianista sull’oceano”.

Ora tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro, sei tu che sei infinto... e dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace, in questo posso vivere”.

E io ci avevo vissuto. Ci avevo vissuto con tutta la mia anima, per anni la musica era stata la mia massima espressione e questo io lo dovevo a mio nonno.

Il suo volto gioviale mi passò davanti agli occhi; i suoi baci, le sue carezze, le sue grandi mani esperte che insegnavano alle mie, più imprecise e meno sicure, l’arte della musica.

Mi sentii annullata, quella melodia ben presto divenne una preghiera straziante, ma al contempo piena di vita, fino ad innalzarsi al cielo, alle nuvole, alle stelle.

Fu un messaggio. Un messaggio che speravo nonno Daniel avrebbe recepito, capendo che io non lo avevo abbandonato. Che non lo avevo mai dimenticato e mai lo avrei fatto. E mia figlia lo avrebbe conosciuto attraverso me e attraverso la musica e avrebbe saputo il perché del suo nome.

Daniel Richard McDiamond non sarebbe mai stato dimenticato. Quel nome avrebbe sempre avuto un’importanza fondamentale  nella mia storia e in quella della mia famiglia. Perché io avrei raccontato di lui e Danielle ne avrebbe parlato ai suoi figli con altrettanta passione.

Presa dai miei pensieri, non mi resi conto del silenzio che regnava tutto attorno a me. La stanza era ammutolita improvvisamente, ma io continuavo a suonare e suonare e suonare. Nient’altro importava.

Quelle note sgorgavano dal mio cuore come il sangue che viene pompato in tutto il resto del corpo e non mi fermai. Non mi fermai finché la mia energia non si esaurì. Era la mia prima composizione originale ed era come se fosse sempre stata impressa nella mia mente, aspettando pazientemente che si presentasse l’occasione di uscire con impeto, attraverso le mie dita.

Respirando piano, mi voltai lentamente verso il resto della sala, erano tutti in piedi.

Papà stringeva la mamma da dietro, cingendole la vita con le braccia mentre lei, ad occhi chiusi, se ne stava appoggiata contro il suo torace. I genitori di Chris mi guardavano, tenendosi per mano. Adam e Jenna erano l’uno vicino all’altra, gli sguardi attoniti, mentre Holly era tenuta per la mano sinistra da Pete e per la destra da Shereen. I miei zii mi osservavano ammutoliti, gli sguardi persi.

E poi c’era Chris. Chris che mi fissava con occhi pieni di amore e passione. Chris che mi stava dicendo in silenzio quanto mi amasse. Chris… felice come solo poche altre volte lo avevo visto nella mia vita. Chris che… venne verso di me, fino a trovarsi a pochi centimetri dal mio volto.

«Buster… » chiamò voltandosi verso il nostro cane che, placidamente, ci si avvicinò e Chris si chinò leggermente fino a sfilare qualcosa che sembrava legato sul suo collare.

Rimasi pietrificata quando capii che l’oggetto in questione era una piccola scatola di velluto blu scuro ed il ragazzo s’inginocchiò di fronte a me.

Il silenzio divenne ancora più totale.

«Chelsea… » iniziò con voce tremante, ed il mio cuore perse un battito. «Io ti amo. Amo te più di quanto abbia mai amato chiunque altro su questa Terra e in questa vita. Tu sei la mia roccia, la mia confidente e la mia migliore amica. La mia amante e la mia amata. E ora che con noi c’è Danielle non c’è altro che io possa volere, perché tu mi hai già donato tutto. Solo una cosa, Chelsea. Solo l’ultima cosa: diventa mia moglie. Diventa mia moglie e passa il resto della tua vita al mio fianco».

Non riuscivo più a capire niente. Chris era lì di fronte a me, con la scatoletta blu aperta davanti ai miei occhi a rivelare un meraviglioso anello di fidanzamento, esattamente uguale ad uno che avevo visto da piccola insieme a mia madre e mia sorella. Da quel momento avevo sempre pensato che, semmai mi fossi sposata, avrei voluto proprio quell’anello. E Chris ora lo teneva tra le mani, esattamente come il suo cuore, che in quel momento mi stava offrendo.

Mi portai le mani alla bocca, gli occhi lucidi per la commozione. Non me lo aspettavo davvero.

Emozionata, feci solo cenno affermativo con la testa, incapace di parlare, e Chris mi prese la mano sinistra per infilare l’anello al mio anulare.

Un momento dopo si alzò di nuovo in piedi e mi strinse a sé, baciandomi, incurante del fatto che le nostre famiglie al completo ci stessero osservando.

In quel momento la tensione attorno a noi si sciolse e tutti si aprirono chi in applausi e chi in esclamazioni festose.

Restai stretta al mio fidanzato per minuti interi, con le braccia allacciate al suo collo e la testa nascosta nell’incavo della sua spalla, mentre lui mi accarezzava schiena e capelli, sussurrandomi quanto mi amasse.

Ci fu il momento delle congratulazioni generali e per almeno dieci minuti io capii poco di ciò che stava succedendo intorno a me. I miei genitori e i miei zii mi abbracciarono forte, poi fu la volta di Jenna, che mi strinse con una forza di cui non l’avrei creduta capace e dopo vennero i genitori di Chris, Shereen, Pete e Holly e infine Adam.

Lo strano sguardo negli occhi di quest’ultimo mi colpì. Sembrava così felice, ma mi parve di scorgere anche un velo di malinconia in lui.

«Ora sarai finalmente mia sorella a tutti gli effetti… » disse abbracciandomi.

 Annuii e un momento dopo fui risucchiata di nuovo in un vortice che non lasciava scampo.

Quando la situazione si fu acquietata, tornammo tutti a sederci, Chris mi fece accomodare sulle sue gambe, prendendo posto sul divano.

«Tesoro… » cominciò mia madre «… quel brano… quello che hai suonato… cos’era? Non lo avevo mai sentito prima».

«Neanch’io» risposi, spiazzando tutti. «Io… ho pensato a Danielle e poi al nonno e… la musica è arrivata. La musica mi è arrivata da dentro e mi ha guidata».

«Stai dicendo che l’hai composta sul momento?» prese parola zio Andrew.

«Perché tutti così sorpresi? Io ho sempre pensato che mia sorella fosse un genio… anche se non l’ho mai detto» quelle parole, a sorpresa, vennero da Shereen e tutti la guardammo. Lei, semplicemente, si limitò a fare spallucce. «Non chiedetemi di ripeterlo perché non lo farò», aggiunse poi, facendoci ridere tutti.

Un momento dopo osservai l’anello attorno al mio dito e guardai Chris.

«Chris come facevi… come potevi sapere che ho sempre desiderato un anello proprio come questo?».

Il ragazzo sorrise. «Ho avuto un piccolo aiuto» disse guardando poi in direzione di mia sorella e tutti passammo lo sguardo dall’uno all’altra, stupiti.

«Sarai anche un genio, sorellina, ma lo sono anch’io. E in più ho anche una memoria fotografica, nonostante ne sia passato di tempo da quel giorno nella gioielleria in centro».

Senza nemmeno pensarci, mi alzai dalle ginocchia di Chris e di slancio abbracciai mia sorella.

In un primo momento lei restò rigida, non se lo aspettava, poi ricambiò il gesto.

«Grazie» sussurrai.

«Ne hai passate tante a causa mia… mi sembra sia giunto il momento di cominciare a rimediare» rispose in modo che solo io potessi sentire.

 Stavo per riprendere posto sulle gambe del mio futuro marito quando udimmo il pianto di Danielle provenire dal piano superiore, così mi avviai lungo le scale.

La piccola si stava agitando tutta, ma non appena mi vide parve calmarsi.

«Ehi, amore mio… tranquilla, la mamma è qui» dissi prendendola tra le braccia e cullandola per calmarla. «La mia bambina dolce… » sussurrai dandole un bacio sulla fronte.

Danielle si acquietò subito, poi tornai giù con lei.

Chris venne immediatamente verso di noi, facendo una lieve carezza sul viso di nostra figlia, bianco e liscio come il marmo.

Sapevo che tutti scalpitavano per tenerla un po’ tra le braccia, ma prima me la strinsi al cuore per qualche minuto, guardandola negli occhi, poi la deposi delicatamente tra le braccia dello zio Adam, che la cullò osservandola pieno d’amore.

Era anche merito suo se oggi mia figlia era lì. Se non fosse stato per il suo tempestivo intervento, l’anno prima, a quest’ora avrei potuto perderla.

Le ore trascorsero velocemente, aprimmo i regali e poi ci salutammo, riprendendo ognuno la strada di casa.

Io, Chris e Danielle saremmo rimasti fino al giorno di capodanno, poi saremmo ripartiti per tornare a Santa Barbara.

Quella sera nessuno mangiò, eravamo ancora troppo pieni a causa del pranzo, così restammo a chiacchierare tutti insieme nel salotto di casa Williams, mentre una placida Danielle se ne stava tranquilla tra le braccia del padre, giocherellando con i bottoni della sua camicia e lui la riempiva di baci e coccole.

A mezzanotte nutrii nuovamente la bambina, poi ce ne andammo tutti a letto. Constance mi aveva rimediato una culla di quando i suoi figli erano piccoli e per quei pochi giorni sarebbe andata bene.

«Adesso te lo posso togliere il vestito?» sussurrò Chris al mio orecchio, quando la casa divenne silenziosa e nostra figlia si fu addormentata.

«Chris, Danielle dorme a mezzo metro da noi!» lo ripresi, anche se la scia di baci bollenti che il ragazzo aveva iniziato a lasciarmi lungo il collo fece vacillare la mia volontà non poi così ferrea.

«Ha preso il sonno pesante da me, sotto questo punto di vista non è così simile a sua madre come nell’aspetto fisico» disse baciandomi la clavicola e cominciando a tirare giù la zip del mio abito.

Se c’era una cosa a cui non riuscivo a resistere oltre agli occhioni dolci della mia bambina, quelli erano proprio i baci di Chris e non riuscii a trattenermi dall’affondare le mani tra i suoi capelli, attrarlo a me e baciarlo con impeto.

Lui emise un basso gemito dal fondo della gola e lasciò scivolare il  vestito lungo il mio corpo, che ben presto si trovò schiacciato tra lui e il muro, coperto solo dalla lingerie in pizzo nero che indossavo.

Il ragazzo mi osservò, bramoso.

«Chelsea, non puoi indossare questo genere di cose e dirmi di no» disse contro le mie labbra.

Dopo un attimo, le sue mani corsero lungo i miei fianchi nudi ed io gli sbottonai velocemente la camicia bianca, sfilandola dalle sue braccia muscolose.

In un minuto eravamo già sotto le coperte, completamente senza vestiti e cercando di fare meno rumore possibile dal momento in cui Danielle dormiva a pochi passi da noi.

Le labbra di Chris scesero lungo il mio collo, continuando verso il petto e allora gli presi il volto tra le mani, trascinandolo nuovamente sulla mia bocca.

«Chris… lo so che lo vuoi, ma non possiamo farlo mentre Danielle è qui accanto e per di più nella casa dei tuoi genitori. Quando torneremo a Santa Barbara la piccola dormirà nella sua camera e noi avremo i nostri spazi».

Lo sentii sbuffare insoddisfatto e potei immaginare benissimo  l’espressione del suo viso, anche se era completamente buio.

«Dannazione… » sussurrò ed io ridacchiai.

Certo che stare nudi sotto le lenzuola e non potersi toccare, almeno non nel senso in cui avrei voluto in quel momento, era davvero frustrante.

Prima di stringermi a lui, m’infilai una camicia da notte. Il contatto pelle contro pelle sarebbe stato troppo per entrambi.

Restammo abbracciati in silenzio, finché non presi parola.

«Chris?» bisbigliai piano.

«Sì?».

«Te lo ricordi l’anno scorso? Io ero incinta e ancora tu non ne sapevi nulla».

«Lo ricordo bene quel Natale. Ho preferito questo mille volte di più. Quel giorno ero così… abbattuto, triste e arrabbiato insieme. E geloso».

«Geloso?» chiesi sorpresa.

«Sì. Di Adam. So che vi volete bene e adesso so che la cosa si ferma lì, ma c’è stato davvero un periodo in cui pensavo che tra voi due ci fosse qualcosa di più».

Alzai un braccio fino al suo viso e lo accarezzai lievemente.

«Io amo te. Ho sempre amato solo te. È vero, voglio bene a tuo fratello… è un po’ come se fosse anche il mio».

«Presto lo sarà».

Disse scendendo a prendere la mia mano sinistra e sfiorando l’anello che portavo al dito.

Avvicinai il mio volto al suo e lo baciai.

«Avevi messo l’anello addosso a Buster… » dissi divertita.

«Volevo renderlo partecipe. Temevo che altrimenti potesse sentirsi escluso, sai com’è… è un po’ permaloso. E poi… fa parte della famiglia anche lui, no?».

«Assolutamente» risposi con un sorriso.

Passò qualche altro minuto nel silenzio più totale, si sentiva solo in lontananza il lieve russare del signor Williams, poi stavolta fu Chris a parlare.

«Oggi hai suonato. Hai suonato di nuovo, Chelsea. Io… non ti avevo mai sentita suonare così. Era dal giorno… ».

«Era dal giorno della sepoltura del nonno che non aprivo un pianoforte. Sì».

«Come mai oggi?».

«Non lo so. Forse per compensare il dolore di quel giorno, doveva esserci una gioia altrettanto grande».

Lui mi strinse più forte.

«Allora dovevi sentirti veramente disperata perché quella musica… Dio mio, Chelsea, non avevo mai sentito nulla di più meraviglioso».

«Ero disperata. Non avevo mai sentito una disperazione tanto grande nella mia vita».

«Avrei voluto starti più vicino, quel giorno».

«Lo so».

La quiete tornò nella stanza e questa volta rimase tale.

 

I giorni passarono velocemente, arrivò l’ultimo dell’anno, in cui ci ritrovammo tutti insieme, stavolta anche Megan e la sua famiglia. Così, conobbi di persona la piccola Sarah. Era una vera meraviglia con quegli occhioni azzurri del padre e i capelli biondi della madre.

Io, Chris, Danielle e Buster ripartimmo il giorno dopo capodanno, con i mille pensieri per organizzare il matrimonio.

Avremmo dovuto dirlo a Ryan e Gale e poi… beh, c’erano da decidere un mucchio di cose, ma io ero felice. Non ero mai stata tanto felice in tutta la mia vita.

 

I mesi trascorsero così velocemente che solo mia figlia, che cresceva a vista d’occhio, riusciva a ricordarmelo.

I preparativi per le nozze mi avevano completamente risucchiata e tra location, fiori, catering e ricerca dell’abito, non avevo mai un attimo di tregua.

Appena dopo il suo compleanno, Danielle mosse i suoi primi passi, mentre io ero seduta al tavolo in salotto a sfogliare riviste su riviste con Gale che teneva in braccio il piccolo Nicholas e, quando mi resi conto che si era alzata in piedi da sola, strillai i nomi di Chris e Ryan, nell’altra stanza, che accorsero preoccupati.

Restammo tutti a fissarla col fiato sospeso, vedendola avanzare in modo buffo,  barcollando fino a che non si fermò vicino al divano e si sedette di nuovo a terra, ancora traballante.

Chris la alzò tra le braccia sorridendo, riempiendola di baci.

«La mia bambina… » disse con occhi accesi di gioia e orgoglio.

Passò di volata anche il mio compleanno e, in men che non si dica, arrivò il trenta giugno, giorno delle nozze.

Le  nostre famiglie erano arrivate da Phoenix il giorno prima e, in un modo o nell’altro, eravamo riusciti a sistemarci tutti, anche se i miei e Shereen erano andati a stare a casa di Ryan e Gale. Jenna non ne volle sapere e, la notte prima del gran giorno, spedì da loro anche Chris, che fece il cambio con mia sorella, che venne da me senza mollare mia figlia neanche per un momento.

Mi sorprendevo ogni volta nel constatare l’amore che Shereen provava nei confronti di Danielle, ma era sincero, lo capivo dalla luce nei suoi occhi.

La mattina delle nozze ero così agitata che nemmeno i dolci sorrisi della mia bambina riuscivano a calmarmi. Volevo solo Chris al mio fianco, ma non avrei potuto vederlo fino al momento in cui ci saremmo incontrati sull’altare.

Feci una doccia rilassante e poi mia sorella, Megan, Jenna e Gale si occuparono di trucco e capelli e fu per miracolo che riuscii a resistere fino alla fine del trattamento. Avrei voluto schizzare dall’altra parte della strada, irrompere in casa di Ryan e Gale e nascondermi tra le braccia del mio futuro marito, prendere mia figlia e scappare a Las Vegas per sposarci lì lontano da tutto e tutti, ma non potevo certo farlo.

La fase successiva sarebbe stato il vestito. L’abito era semplice, fin da piccola lo avevo sempre immaginato così, non volevo nulla di troppo elaborato. Aveva due spalline strette all’attaccatura del tessuto che copriva il seno che si allargavano di qualche centimetro sulle spalle, il corpetto leggermente a pieghe e si stringeva in vita, mentre la gonna ricadeva morbida. Nulla di ampio, niente strascico e niente velo.

I capelli erano stati acconciati in boccoli morbidi, con qualche piccolo fermaglio bianco di qua e di là, a trattenere delle ciocche, ma comunque ricadevano lucenti sulla schiena.

Sulle palpebre, Jenna aveva steso un ombretto rosa, accentuando l’effetto e il colore con una matita verde sotto gli occhi, il mascara nero e il rossetto poi erano immancabili.

«Tesoro, sei un incanto… » disse mia madre non appena mi vide.

Sorrisi tesa e lei venne ad abbracciarmi. Nella stanza in quel momento c’eravamo solo io e lei.

Papà doveva essere di sotto, Gale era tornata da Ryan, così come i genitori di Chris, per controllare lo stato del figlio e le ragazze che fino a prima si erano occupate di me, adesso erano uscite dalla mia camera da letto.

«Sono così nervosa… ».

«Lo so, Chelsea ed è giusto che tu lo sia».

«E se inciampo?» chiesi preoccupata.

Mia madre rise leggermente.

«Tuo padre non lo permetterà. Ora su, tesoro, dobbiamo cominciare ad avviarci» e detto questo, mi posò un lieve baciò sulla guancia e mi offrì il braccio per camminare al suo fianco.

Lo afferrai e, muovendomi a piccoli passi, scesi le scale che portavano all’ingresso, dove tutti ci stavano aspettando.

Mio padre, vicino alla porta, stava parlando con Adam, quando improvvisamente si bloccò vedendomi.

«Oh, santo cielo… » sussurrò.

Non appena anche Adam mi scorse, per un momento restò a fissarmi a bocca aperta.

«Chelsea sei… stupenda» prese parola papà.

Io mi limitai a rivolgere un sorriso sia a lui che a Adam, che sembrava non fosse ancora riuscito a recuperare l’uso della parola.

Mi voltai verso mia sorella, che teneva in braccio Danielle e protesi le braccia verso di lei.

«Ti prego, fammi tenere un po’ mia figlia. In questo momento è la  sola che sia in grado di calmarmi».

Sorridendo, Shereen mi porse la bambina ed io la presi con delicatezza, stringendomela al cuore.

«Ciao, amore mio… » sussurrai, posandole un bacio sui radi capelli ramati e soffici come una nuvola.

Restai un po’ così ferma, inspirando il suo profumo, fino a che mia madre suggerì di avviarci alla macchina, ormai era quasi ora.

Il breve tragitto da casa mia alla chiesa mi parve mostruosamente lungo, ero certa che sarei impazzita se non fossimo arrivati presto.

Danielle se ne stava quieta tra le mie braccia, giocherellando con il ciondolo della mia collana ed emettendo di tanto in tanto gridolini contenti. Per l’occasione indossava un vestito azzurro pastello che metteva in risalto i suoi occhioni chiari.

Una volta giunti a destinazione, finalmente, scesi dall’auto e misi la mia bambina tra le braccia della nonna, mentre tutti gli altri, a parte mio padre, entravano in chiesa per raggiungere gli altri invitati.

L’uomo si mise di fronte a me e mi prese per le spalle.

«Sei pronta, tesoro?».

«Sono pronta».

«Bene. Andiamo allora».

«Solo… non farmi cadere, ok papà?» lui sorrise divertito ed io vidi una luce gioiosa e malinconica al contempo in quei suoi occhi chiari. Chiari come i miei. Chiari come quelli di Danielle. Lei aveva i suoi occhi.

Ci incamminammo verso l’ingresso della chiesa e, quando la marcia nuziale cominciò, attendemmo che prima entrasse la piccola Holly, che con un cestino in vimini,  sparse petali di rosa per tutta la navata, arrivando fino all’altare e prendendo posto poi vicino ai genitori. Dopo di lei entrarono le mie tre damigelle: Jenna, Gale e Shereen, nei loro abiti color lavanda.

“Respira, Chelsea… respira” continuavo a ripetermi ad occhi chiusi.

«Tesoro… è il momento» la voce di mio padre mi riportò alla realtà.

Riaprii gli occhi di scatto e mi strinsi maggiormente al suo braccio.

Non appena voltato l’angolo, mi ritrovai di fronte tutti gli invitati e per un attimo m’irrigidii. Poi lo vidi.

Vidi Chris, lì, a diversi metri da me, con un sorriso estasiato sulle labbra e tutte le mie preoccupazioni improvvisamente sparirono. Si volatilizzarono come se non fossero mai esistite ed io sorrisi di rimando.

Stretta a mio padre, attraversai la navata senza accorgermi del fatto che tutti gli invitati si fossero alzati e mi stessero guardando con aria incantata. L’unica cosa di cui riuscii a rendermi conto erano gli occhi azzurri di Chris e il suo sorriso meraviglioso che in quel momento mi stava dicendo quanto mi amasse e quanto a lungo avesse aspettato quel momento.

Radiosa, raggiunsi finalmente il mio sposo, posizionandomi al suo fianco, senza nemmeno accorgermi delle espressioni di Ryan, Adam e Pete alle sue spalle: i suoi testimoni.

La cerimonia proseguì senza intoppi e quando il prete disse: «Ora può baciare la sposa», Chris mi strinse a sé con impeto e tutta la chiesa si lasciò andare in applausi e congratulazioni.

La giornata fu indimenticabile. Dopo la cerimonia ci spostammo al ristorante e lì fu una risata dietro l’altra fra cibo, danze e discorsi dei testimoni.

A sera tornammo a casa distrutti, le nostre famiglie sarebbero ripartite il giorno seguente e poi noi saremmo andati in luna di miele in Australia, per due settimane.

Sarebbe stata una vacanza straordinaria, Danielle naturalmente sarebbe venuta con noi, mentre avremo lasciato Buster alle cure di Gale e Ryan.

 

«Amore!».

Chris si sbracciava per salutare me e Danielle, mentre noi lo guardavamo dalla spiaggia bianca. Mio marito nuotava come un delfino nell’Oceano Indiano, a Broome, in Australia.

La nostra luna di miele, purtroppo stava per giungere al termine. Erano state due settimane incredibili. Ogni posto che avevamo visto era magnifico e mai nella mia vita avrei potuto immaginare di visitare luoghi simili.

«Guarda, Danielle! Dì ciao a papà» dissi prendendo la sua piccola manina bianca e muovendola verso Chris in un cenno di saluto.

Il ragazzo nuotò verso la riva e uscì da quelle acque cristalline, venendo verso di me e prendendo in braccio nostra figlia.

Lei rise felice, era pazza di suo padre, proprio come lo ero io. Chris le dedicava tutte le attenzioni che ogni bambina potrebbe desiderare.

«Pa… pà!» esclamò la piccola, mentre mio marito la sommergeva di baci.

“Papà” era stata la sua prima parola, l’aveva detta appena pochi giorni prima e a Chris quasi era andato di traverso il cibo che stava mangiando.

«Brava, Danielle! Chi sono io?».

«Papà!» ripeté lei, ora con più sicurezza.

Sorridendo, ci avviammo tutti e tre verso il mare aperto. Chris cercava di insegnare a nuotare a nostra figlia, ma io protestavo: lei era ancora troppo piccola, avevo paura che bevesse o che andasse sott’acqua.

Mio marito continuava a dirmi che ero troppo apprensiva. Lui adorava nuotare, aveva imparato da piccolissimo ed era sempre stata una sua grande passione. Ricordai un discorso fatto con Jenna più di un anno prima, quando Traver aveva avuto un attacco cardiaco e lei mi confessò che Chris aveva avuto l’opportunità di frequentare il college grazie ad una borsa di studio per la squadra di nuoto, ma aveva rifiutato per mettersi a lavorare e contribuire a pagarle il college.

Solo ora che lo vedevo nuotare libero nell’Oceano riuscivo a capire appieno il suo talento, così come potevo capire la sua passione che voleva trasmettere a nostra figlia.

Così, rassegnata, mi fidai di lui, certa del fatto che non avrebbe mai messo in pericolo Danielle e lo lasciai fare. Io intanto nuotavo languida in quell’acqua così azzurra da sembrare quasi irreale, immergendomi e facendo vorticare i miei lunghi capelli attorno a me.

Solo dopo un po’ udii le parole che Chris stava rivolgendo a nostra figlia: «Guarda, Danielle… guarda la mamma. Guarda quanto è bella. Tu diventerai proprio come lei, amore mio».

Mi volta, sorridendo, e mi avvicinai a lui per baciarlo. Fu un bacio umido e salato a causa dell’acqua, ma fu meraviglioso come sempre. Quei gesti che scambiavo con Chris… avevano ogni volta qualcosa di nuovo e di elettrizzante.

Dopo un po’ tornammo sulla spiaggia e, mentre io ero sdraiata a pancia in giù a prendere il sole, continuavo ad osservare mio marito e nostra figlia mentre costruivano strani castelli di sabbia. Era una visione perfetta.

Tutto, in quel momento, fu perfetto.

 

«Mammina!».

La vocetta squillante di mia figlia mi distrasse dal libro che stavo leggendo.

«Cosa c’è, tesoro?».

«Sono le tre, devi aiutarmi!» continuò lei, ostinata.

Sorrisi.

Avrebbe potuto essere il giorno del giudizio, ma anche se lo fosse stato, mia figlia alle tre spaccate del pomeriggio, sarebbe venuta a reclamarmi per cominciare la nostra lezione di pianoforte.

Osservai la mia bambina: i capelli lisci e ramati scendevano quasi fino a metà della sua schiena esile, formando leggeri boccoli verso le punte, gli occhi di un azzurro brillante, sempre acceso, che mi ricordava ogni volta il mare della California che tanto amavo e che ormai solo in estate potevo vedere.

Ci eravamo trasferiti da Santa Barbara a New York quando Danielle aveva poco meno di due anni. Era stata una scelta sofferta, amavo la vecchia casa nella quale avevo vissuto per gli ultimi anni e in cui avevo trascorso ogni estate della mia vita insieme al nonno. Inoltre, adesso potevo vedere di rado Ryan e Gale e la cosa mi faceva stare male, ma Chris… beh, lui aveva fatto per me una cosa per cui lo avrei amato per il resto della vita.

Mio marito, infatti, mi aveva registrato a mia insaputa mentre suonavo il pezzo che avevo composto per Danielle un giorno che lo stavo suonando al pianoforte del salone, dopodiché aveva mandato il cd alla Julliard School, che proprio in quel periodo stava cercando un’insegnante di pianoforte dopo il pensionamento della precedente e loro mi avevano accettata. Erano rimasti a dir poco stupiti nel vedere quanto fossi giovane una volta che mi presentai per il colloquio. Inutile dire quanto fossi agitata quel giorno.

Ebbene, dopo una serie di colloqui e altri esami, mi avevano assunta, così ci eravamo trasferiti a New York tutti e cinque. Sei, contando Buster.

Eh sì, poco dopo il rientro dalla nostra luna di miele, avevo scoperto di essere di nuovo in dolce attesa e… beh, avevo avuto due gemelli, entrambi maschi: Devon e Stephen, che adesso avevano ormai due anni e mezzo.

A Chris era venuto un colpo quando glielo avevo detto, ma subito dopo mi aveva abbracciata forte, riempiendomi di baci.

Era stato iperprotettivo dall’inizio alla fine della gravidanza, temeva che potessi avere complicazioni com’era successo per Danielle, ma, con i gemelli, non ebbi nemmeno problemi di anemia come invece era successo per la nostra primogenita.

Quando i bambini erano nati era stata una gioia per tutti. Le nostre famiglie erano venute a trovarci, anche se non riuscimmo a sistemare tutti in casa nostra. D’altra parte… tra il mio lavoro alla Julliard, l’eredità del nonno, i soldi che sia io sia mio marito avevamo messo da parte e il nuovo impiego di Chris, i soldi certo non ci mancavano. Proprio riguardo mio marito, un college piuttosto prestigioso lo aveva chiamato come allenatore per la squadra di nuoto, quindi anche lui infine era riuscito a fare ciò che più amava.

Eravamo felici. Eravamo veramente felici e ogni estate tornavamo a Santa Barbara: luogo in cui tutto aveva avuto inizio e dal quale non sarei mai riuscita a separarmi totalmente.

Inoltre rivedere Ryan e Gale era sempre bellissimo. Nicholas ormai aveva cinque anni proprio come Danielle, anche se era più piccolo di qualche mese e poi c’era Sharon, la secondogenita, che i due avevano chiamato come la madre scomparsa di Ryan.

Nella mia vita nulla era andato come avevo progettato, ma la realtà che stavo vivendo andava oltre ogni mia più rosea aspettativa e, nonostante i miei ventisette anni, potevo tranquillamente dire di aver già ottenuto tutto dalla vita: un marito meraviglioso che mi amava più di chiunque altro al mondo, tre figli che adoravo e che mi adoravano, una bella casa e una carriera appagante che mi permetteva di fare ciò che amavo.

Ripensai a quanto disastrosamente fosse iniziata l’estate che, ormai diversi anni prima, aveva segnato per sempre la mia vita e a come tutto ciò si fosse evoluto. Mio Dio, chi mai avrebbe potuto dirlo?

Osservai mio marito giocare con i nostri figli per qualche istante, poi raggiunsi Danielle al pianoforte. Se mio nonno chiamava me bambina prodigio, non oso immaginare cosa avrebbe detto di lei. Mia figlia si era seduta sullo sgabello di quello strumento a tre anni e da allora non lo aveva più lasciato.

Io le avevo spiegato la teoria, ma nella pratica di certo non aveva bisogno di aiuti perché era semplicemente strepitosa. Adoravo sentirla suonare, vedere le sue piccole dita muoversi con una rapidità impossibile per una bambina di soli cinque anni, eppure era così.

Danielle aveva il dono della musica dentro di sé, lei la sentiva. La sentiva nascere dentro il suo cuore e crescere in ogni singolo suono nell’ambiente esterno. Ogni cosa per lei veniva trasformata in musica, dal campanello di casa, al fruscio delle pagine di uno dei suoi libri che tanto amava leggere,  al traffico cittadino di una New York che non dorme mai.

Accarezzai i capelli della mia bambina e l’ascoltai suonare, dandole qualche piccolo suggerimento di tanto in tanto.

Passò un’ora senza che lei s’interrompesse, poi staccò le mani dallo strumento e mi fissò intensamente con quei suoi occhi chiari e determinati.

«Mammina?».

«Sì, amore?».

«Promettimi che tu e papà sarete sempre felici e continuerete a volere bene a me, Devon e Steph».

Rimasi sorpresa da quelle parole e spalancai gli occhi.

«Ma certo, tesoro mio, perché dici questo?».

«Perché io vi voglio tanto bene».

Strinsi forte la mia dolce, meravigliosa bambina e le posai un bacio tra i capelli.

«Te lo prometto, piccola».

«Adesso suoni la mia canzone?».

Sorrisi alla sua richiesta e mi sistemai meglio sullo sgabello, mentre lei si spostava leggermente di lato.

Era da tempo che non suonavo quel brano, ma Danielle sapeva che fosse per lei, Chris le aveva raccontato tutto.

In realtà erano ben poche le cose che lui non le avesse detto; mio marito era completamente perso per nostra figlia, non riusciva a resistere ai suoi meravigliosi occhioni azzurri e alla sua vocina trillante e delicata come candidi petali di rosa.

Non c’era nulla che l’uomo non avrebbe fatto per lei.

Quando sentii dei passi alle mie spalle, capii che mio marito era arrivato insieme ai gemelli. Non poteva fare a meno di avvicinarsi quando suonavo quel brano; lo aveva completamente stregato.

Così suonai. Suonai e suonai ancora, mettendoci tutta me stessa.

La musica era arte. L’arte era bellezza. Ricordai una celebre frase tratta da uno dei miei libri preferiti: “L’Idiota” di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”.

Io non sapevo se la bellezza avrebbe mai salvato il mondo, ma di una cosa ero certa: la bellezza, intesa in quel senso, aveva sicuramente salvato la mia vita.

 

 

Note dell’Autrice:

Saaalve a tutti! Eh sì, infine è arrivato il momento dell’epilogo, in cui tutto è tornato al suo posto: un matrimonio felice, una famiglia felice e che si ama. Chris e Chelsea hanno finalmente avuto il loro lieto fine e ci mancava soltanto il classico “E vissero tutti felici e contenti”.

Ebbene, spero che la conclusione vi sia piaciuta, credetemi, è stata combattutissima, c’erano cinque diversi finali che ho preso in considerazione e ognuno avrebbe completamente stravolto la storia.

Mi auguro che comunque vi sia piaciuto e vorrei ringraziare ognuno di voi per aver accompagnato i due protagonisti nel loro viaggio, nonostante tutto e specialmente nonostante i miei continui ritardi nell’aggiornamento XD

Ad ogni modo, veramente… grazie di cuore a tutti per avermi seguita fin qui, sia da lettori silenziosi sia da recensori.

Chelsea e Chris vi salutano e vi ringraziano insieme  a me…

Buona serata a tutti!

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