Bonfire Heart - Una famiglia perfetta

di kirlia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bittersweet ***
Capitolo 2: *** Jealousy ***
Capitolo 3: *** I can't be Tamed ***
Capitolo 4: *** All of Me ***
Capitolo 5: *** I wish You were Here ***



Capitolo 1
*** Bittersweet ***


Bonfire Heart

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Capitolo 1 – Bittersweet
 
If I tell you 
Will you listen? 
Will you stay? 
Will you be here forever? 
Never go away? 

Never thought things would change 
Hold me tight 
Please don't say again 
That you have to go 

Bittersweet.


{Miles Edgeworth}

«…Franziska!»
I miei occhi grigi si spalancarono improvvisamente e, incuranti della luce che si aggrediva, si guardarono subito intorno, alla ricerca di una cosa che desideravano ardentemente vedere.
Un salottino dal tono verde chiaro mi circondava, ed io ero seduto sul divanetto proprio di fronte al caminetto spento. Dei fiori di uno squillante arancione acceso davano un tocco di vivacità alla camera. Indossavo ancora la mia giacca color magenta scuro.
Ma non erano quelle le tonalità che il mio sguardo stava cercando con tanta ansietà. Per un attimo il mio cuore perse un battito, mentre il dubbio si insinuava dentro di me, poi finalmente un lampo di colore azzurro cielo attrasse la mia attenzione, e fu subito seguito da un senso di sollievo.
Annika era seduta sul tappeto del salotto, e cercava di insegnare a camminare a due zampe al suo povero cucciolo sfortunato. In quel momento si era voltata verso di me, e le sue guance si erano tinte di un chiaro rosa confetto.
«Ti sei svegliato, Onkel! Tante Frannie non c’è, è andata a comprare delle cose» commentò la bambina, non prima di avermi lanciato un’occhiata curiosa, probabilmente per il tono un po’ disperato con cui avevo chiamato la zia.
Mi rilassai con un sospiro che non mi ero accorto di stare trattenendo.
Un sogno. Era stato solo un sogno.
Le mie due “ragazze” erano ancora lì, non se n’erano andate! Era solo stato un incubo terribile partorito dalla mia mente a causa di quei pensieri preoccupanti che continuavano a tormentarmi.
Era stato talmente reale, talmente vero fino ad ogni minimo dettaglio…! La loro partenza e i loro sguardi mi avevano spezzato il cuore.
Per un attimo riuscii quasi a rilassarmi e mi dissi che ero fin troppo paranoico, ma questa falsa sicurezza durò solo per pochi minuti. Sì, quello che avevo vissuto era solo un incubo, ma l’avvertimento di Franziska non l’avevo sognato: aveva davvero l’intenzione di partire al più presto.
E io? Come avrei fatto senza di lei?
Adesso, dopo quella visione che avevo avuto appisolandomi sul divano del salotto, mi ero reso conto che non potevo davvero lasciarmi sfuggire Frannie e Annie.
La consapevolezza che avrei dovuto fare di tutto per tenerle qui negli Stati Uniti cresceva dentro di me, e la mia mente cominciò ad elaborare piani e strategie di tutti i generi per allontanare la partenza.
Contrattempo, ci voleva un contrattempo. Non sapevo ancora di che tipo, ma l’avrei trovato in fretta.
I ricordi di quella partenza che era solo frutto della mia immaginazione – almeno per il momento – mi scorrevano ancora davanti agli occhi, e per poco non mi facevano piangere. Sì, un uomo adulto come me era capace di piangere, per le sue due cose più preziose.
A quel pensiero, il mio sguardo corse di nuovo alla bambina davanti a me, che nel frattempo aveva lasciato perdere il tentativo di ammaestrare Phoenix. Lei mi guardò di nuovo con i suoi occhi color cielo così simili a quelli di Franziska e mi sorrise dolcemente.
Ripensai che parte del sogno comprendeva la mia conversazione con Annie, nella quale mi aveva rivelato la sua voglia di restare qui in America insieme a me e alla zia, e mi chiesi se questo suo desiderio fosse vero o solo parte delle mie fantasie. Avrei dovuto chiederlo alla diretta interessata.
Risposi al suo sorriso, per poi decidere di farle una proposta.
«Annika, che ne pensi di andare al parco a far fare una passeggiata a Pess e Phoenix?»

I due cuccioli correvano eccitati nel grande prato verde, e io facevo persino fatica ad inseguirli con lo sguardo. Sembravano talmente sereni, mentre giocavano insieme, finalmente liberi dai loro guinzagli e in grado di esplorare il giardino!
Mi chiesi se anche io potevo essere spensierato come loro, se in un attimo tutti i miei problemi fossero svaniti e avessi avuto la possibilità di lasciarmi andare a…
No. Non potevo lasciar vagare la mia mente tra questi pensieri talmente superficiali, non quando la partenza di Franziska incombeva su di me come un temporale sul punto di scatenarsi in tutta la sua furia.
Avevo indossato una pesante giacca nera, sopra il mio solito completo, così calda e imbottita che chiunque mi avesse visto, probabilmente, si sarebbe chiesto se stessi per fare una gita in montagna. In effetti non c’era molto freddo, ma la sensazione di gelo dentro di me era così profonda da farmi chiedere se non mi sentissi bene. Ero ancora convalescente, ma la ferita alla spalla non pulsava più di quel dolore accecante che avevo sentito fino a poco tempo prima: sembrava essere stata sostituita da un dolore più profondo, più angosciante. Era come se qualcuno mi avesse inferto una stilettata al cuore. Non si trattava di una ferita fisica, ma sopportarla era molto più difficile.
«Onkel Miles, sei molto pensieroso. Cosa c’è che non va?» sussurrò la bambina accanto a me, mentre mi stringeva la mano con le sue piccole dita gentili e mi guardava curiosa.
Annika aveva un particolare istinto nel capire quando stava succedendo qualcosa di strano, e sentivo che con lei avrei proprio potuto dire di tutto. Avrei potuto persino confessarle la mia… attrazione… per Franziska? No, forse non quella. Ma solo perché si trattava di una bambina ancora troppo piccola per capire le dinamiche degli adulti, anche se possedeva una tale consapevolezza da sembrare molto più grande dell’età che dimostrava.
Prima di risponderle, la aiutai a sedersi su una panchina un po’ troppo alta per lei, dove poi mi sedetti a mia volta. Solo allora decisi di cominciare.
«Annie, sapevi che tua zia ha intenzione di riportarti in Germania?» le chiesi, ignorando di proposito la domanda che mi aveva fatto. Raccontarle tutto ciò che mi passava per la mente in quel momento sarebbe stato piuttosto arduo, per non parlare del fatto che io stesso non sapevo cosa mi stesse succedendo.
La piccola sbarrò gli occhi, poi scosse la testa facendo il broncio. Non potei evitare un’espressione contrariata: avevo già capito che Frannie avesse fatto quella scelta contro il parere della bambina, ma pensavo che almeno gliene avesse parlato. Invece era all’oscuro di tutto.
«Nein! Io non voglio tornare in Deutschland!» gemette sconsolata, incrociando le braccia e mantenendo un’espressione corrucciata che indicava che non era affatto d’accordo.
Non la interruppi quando continuò con le sue spiegazioni.
«Io voglio restare qui con te, Onkel! Con te e la Tante. Sie Bitte [Per favore], perché non posso restare? Non ci vuoi più con te?» mi chiese con uno sguardo a cui non si poteva proprio dire di no. E fu in quel momento che me ne resi conto: Franziska non ne aveva parlato con la nipote proprio per la sua capacità fuori dal comune di convincere tutti a fare quello che voleva!
Me n’ero reso conto la prima volta quando la bambina aveva praticamente costretto Larry, con un solo sguardo color cielo e la forza di volontà, a tenere con sé i nostri cani durante quel processo in cui la zia era stata accusata dell’omicidio nella sorella, Angelika von Karma. L’avevo poi vista usarlo ancora altre volte, sempre con buoni risultati. Che fosse un potere sovrannaturale? Non era nella mia natura crederlo, ma dopo tutto ciò che avevo visto, tra cui evocazioni di morti da parte di alcune sensitive, non sapevo più a cosa credere.
Che lo fosse o no, funzionava, e fu proprio in quel momento che mi resi conto di avere a portata di mano il contrattempo che stavo cercando.
Annika sarebbe stata la chiave per convincerla, se non ad annullare, almeno a posticipare la partenza di quella che avevo considerato per molto tempo la mia “sorellina”.
«Ma certo che vi voglio con me, Mädchen [bambina]» sussurrai, con un sorriso e una carezza ai bellissimi capelli pallidi, talmente somiglianti a quelli di lei «Non vorrei che andaste mai via. Ma Frannie sembra un po’ preoccupata per qualcosa, e vorrebbe andarsene. Forse potresti chiederle di restare…?» conclusi, calcando molto sull’ultima frase.
Sapevo che si sarebbe resa conto subito di quello che le stavo chiedendo di fare in realtà e, quasi a volermelo confermare, lei sorrise subito, con una scintilla di furbizia negli occhi. Bene, sembrava proprio che avessimo un accordo.
«Ma certo, le parlerò io!» affermò, per poi slanciarsi verso di me e stringermi in un dolce abbraccio.
Oh, era proprio questo quello di cui parlavo: come potevo allontanarmi da quest’affetto così disinteressato, dalla serenità che riusciva a darmi questa piccina con un solo sorriso?
E in questo includevo ovviamente anche Franziska: per quanto fosse rigida e scostante, sapevo esattamente quali sentimenti provasse verso di me, e non mi sarei mai deciso a lasciarla andare. Non ora che finalmente ci eravamo ritrovati, dopo tanti anni di separazione in cui ci eravamo dedicati soltanto ai nostri compiti di procuratori.
Mentre la stavo ancora stringendo tra le braccia, scorsi qualcosa di un rosso fiammante molto familiare in fondo alla mia visuale.
La mia auto strava attraversando la strada che costeggiava il parco, e riuscivo a scorgere la piccola figura di Frannie che guidava e si dirigeva verso casa.
Non avevo una vista acutissima, ma riuscii a notare l’espressione tetra sul suo viso, e si trattava di qualcosa che avevo visto molto raramente: solo la morte di suo padre e quella di sua sorella avevano avuto l’onore di essere delle occasioni in cui il suo bellissimo volto di porcellana si era distorto ad assumere quell’aspetto. Un brivido mi scosse. Cos’era successo di talmente terribile da ridurla in quello stato?
Annika, nel frattempo, aveva sciolto l’abbraccio, e si era voltata a seguire il mio sguardo. Ma probabilmente aveva soltanto riconosciuto la mia auto, perché disse:«Sì! Tante Frannie sta tornando a casa. Sbrighiamoci, dobbiamo raggiungerla!»
Sembrava molto emozionata, forse a causa di quel piano che avevamo stretto tacitamente. Richiamò a gran voce i due cuccioli, che nel frattempo avevano scavato un’enorme buca in mezzo ai cespugli. Scossi la testa, dimenticandomi per un attimo di quello che avevo visto, poi feci nota mentale di chiedere al detective Gumshoe di venire a riparare quel danno. Non che lo trattassi come faceva un certo procuratore dotato di frusta, ma a volte anche io mi avvalevo del suo aiuto, grazie al potere dato dalla mia posizione.
Quando quei due diavoletti tornarono e riuscimmo a rimetterli al guinzaglio, il mio pensiero tornò alla preoccupazione che avevo visto nel volto di Franziska, e non riuscii a non mordicchiarmi nervosamente il labbro inferiore. Cosa succedeva di così grave? Di cosa non ero evidentemente al corrente?
«Annie, potresti ripetermi perché Frannie era uscita, prima?» le chiesi, ammettendo di non averla ascoltata quando me l’aveva detto. Ero ancora un po’ troppo scosso dall’idea che ciò che avevo vissuto era stato solo un sogno, in quel momento.
La piccola mi guardò con uno sguardo interrogativo, ma rispose.
«Mi ha detto che era andata a comprare delle cose…» lasciò un po’ la frase a metà, per indicare che non aveva idea di cosa dovesse esattamente fare la zia.
Comprare delle cose. Aveva proprio l’aria di essere una scusa, ma non avrei saputo dire cosa nascondeva in realtà.

Arrivati a casa, lasciammo liberi i cuccioli – anche se definire Pess un cucciolo era solo un modo carino di minimizzare la sua taglia – prima di renderci conto che appena avrebbero visto Franziska…
Beh, quando ce ne accorgemmo, era troppo tardi.
Phoenix era solo un piccolo spitz tedesco, e nemmeno troppo entusiasta della presenza della donna in casa: cercava sempre di evitarla, soprattutto per le occhiatacce che lei tendeva sempre a lanciargli. Per quanto riguardava il grosso labrador, invece, la storia era totalmente differente.
Pess sembrava adorare Franziska, probabilmente proprio perché lei lo detestava, e cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione e farsi voler bene da lei. Non si era proprio reso conto che si trattava di una missione praticamente impossibile.
Questo strano desiderio del cane, però, tendeva a risultare piuttosto comico in alcune occasioni, e questa era una di quelle.
Frannie aveva fatto la sua comparsa in corridoio appena ci aveva sentiti entrare, uscendo dallo studio. Ebbi solo un attimo per chiedermi cosa ci facesse in quella stanza, visto che non ci erano stati assegnati casi da studiare, prima che succedesse. Pess si diresse verso di lei praticamente galoppando, per poi saltarle addosso, e io non riuscii ad impedire che le leccasse il volto come se fosse uno di quei dolci che gli piacevano tanto.
«Miles! Wegnehmen dieses Tier von mir! Dies ist zum Kotzen! [Toglimi questo animale di dosso! Che schifo!]» cercò di dire la mia… ehm… “sorellina”, che tra la saliva del cane e il suo peso, non riusciva a cacciarlo via.
Annika rideva divertita dalla scena, senza riuscire a fare alcunché per richiamare indietro il labrador, e io mi lasciai sfuggire una risatina sommessa. Era veramente buffo vedere Franziska von Karma, il Genio, in certe situazioni. La rendeva molto più umana di quanto fosse per quasi tutto il resto del tempo di fronte al mondo, ed era in questi momenti che mi rendevo conto di quanto fossi legato a lei: non quando cercavamo di risolvere un caso insieme, non quando ci salutavamo freddamente in ufficio, ma in queste scene di vita quotidiana che proprio non volevo perdere.
Non volevo perderla, non adesso che ci eravamo ritrovati.
Stavo per ricominciare a pensare a piani per non farla partire, tra cui quello di manomettere l’aereo che doveva prendere, quando la bambina mi riportò alla realtà, tirandomi per una manica.
«Onkel Miles, forse dovresti aiutare la Tante. Potrebbe arrabbiarsi…» commentò, con un piccolo risolino che tentò di nascondere con la mano.
Oh, giusto. Franziska mi avrebbe di certo frustato a morte se non l’avessi aiutata entro i prossimi tre secondi.
Presi Pess per il collare e lo allontanai da lei, per poi carezzargli il muso e chiuderlo gentilmente nello studio, ricordandomi ovviamente di liberarlo al più presto. Non avrei potuto sostituire di nuovo i mobili di quella stanza, che avevo appena comprato.
«Dovresti tenere più a bada quel tuo Hund [cane], herr Miles Edgeworth» disse nervosamente la vittima del mio cane, rassettandosi la camicetta bianca e tentando di darsi un contegno. Sembrava essere stata sorpresa da un tifone: i corti capelli color del cielo erano scompigliati da una brezza inesistente, le gote, solitamente candide, tinte da un leggero rossore – probabilmente per l’imbarazzo dell’accaduto – e lucide per le “coccole” del mio cane… nel complesso era splendida.
Solo una nota stonava nella sua bellezza: gli occhi. Franziska aveva degli occhi stupendi, di una tonalità talmente delicata! Ma in quel momento non riuscivano a trasmettere altro che un’agonia che sembrava torturarla dentro, e io non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Probabilmente doveva essere legato a quella sua uscita improvvisa di cui non sapevo nulla, e le avrei chiesto al più presto spiegazioni.

La serata passò senza nessun avvenimento particolare: cenammo quasi in silenzio, a causa del malumore della ragazza che ci aveva contagiato tutti. Persino la piccola Annie non sembrava avere voglia di parlare, per non attirare su di sé le occhiate angosciate della zia, che sembrava non riuscire a smettere di sospirare.
Fu compito mio, per quella sera, accompagnare la bambina a dormire, e lo feci in fretta, sperando che avrei finalmente avuto un po’ di tempo per parlare con Franziska.
La trovai in salotto, raggomitolata in un angolo del divanetto dalla stoffa verde chiaro. La camera era completamente buia, rischiarata soltanto dalla luce di una lampada che creava ombre lunghe e oscure intorno a lei. Sembrava essere immersa nei suoi pensieri, tanto era assente, ma mi resi conto solo avvicinandomi che in realtà stava piangendo sommessamente.
Mi avvicinai cautamente, ma non in silenzio. Non volevo prenderla di sorpresa, ma non si voltò verso di  me nemmeno una volta, segno che non si era accorta della mia presenza.
Temendo di spaventarla, la chiamai dolcemente.
«Frannie…? Cosa c’è che non va…?» mi sedetti accanto a lei, senza invadere troppo il suo spazio. Sapevo che non le piaceva stare troppo vicina alle altre persone, e non volevo irritarla.
Lei continuò a fissare un punto imprecisato davanti a sé, come se non mi avesse ancora notato, e questo mi spaventò. Cos’era successo di tanto grave da preoccupare a tal punto Franziska?
«Frannie…?» ripetei cautamente, ma più ad alta voce, per attirare la sua attenzione. Mi avvicinai di qualche centimetro a lei, notando finalmente nell’oscurità che stringeva qualcosa tra le mani. Sembrava un documento. Cercai lentamente di prenderlo per poterne leggere il contenuto, ma la sua presa era ben salda su quel foglio.
Finalmente sembrò accorgersi di me e si voltò. La poca luce della stanza si rifletteva nei suoi occhi color cielo, in quel momento terribilmente lucidi di pianto. Mi si strinse il cuore a vederla in quello stato: ultimamente aveva avuto seri motivi per sentirsi disperata, motivi che avrebbero distrutto persino la salute mentale di molte persone. Ma lei era stata forte, capace di sopportare tutto e di superare quei traumi, lentamente.
E adesso la vedevo di nuovo così.
In un impeto di coraggio, spinto da un istinto che non credevo di possedere e da un’ondata di quello che credevo di poter definire “affetto” verso di lei, la abbracciai.
Stretta per darle forza.
Dolcemente per consolarla.
A lungo per tenerla vicina a me più tempo possibile.
La sentii irrigidirsi, all’inizio, come se non si aspettasse questo contatto e non le fosse gradito. Per un attimo ebbi paura di aver sbagliato tutto, mi dissi che avrei dovuto lasciarla al suo dolore, aspettando che si riprendesse e avesse la forza di parlarne. Poi però lei sospirò, lasciando andare un respiro che sembrava essere stato trattenuto in gola per molto tempo, e con esso arrivarono i singhiozzi.
Si strinse a me il più possibile, come se fossi la sua sola ancora di salvezza, come se non potesse contare su nessun altro. Come se si fidasse solo di me.
« È… terribile, Miles…» cominciò sussurrando, piangendo sul mio petto e stringendosi ancora di più.
Io le carezzai i capelli, che in quella penombra sembravano aver assunto quasi il mio stesso colore, quello dei nuvoloni d’inverno. La sentii subito piangere più forte, come se quella consolazione le facesse quasi male.
«Cos’è successo? Sono sicuro che non sia tanto grave da farti piangere, Frannie. Niente dovrebbe esserlo» chiesi di nuovo, sussurrando quasi piano quanto lei. Non ero sicuro del perché stessi sussurrando: in fondo la camera dove Annika stava dormendo era dall’altra parte della casa, e non ci avrebbe sentito nemmeno se avessimo parlato con un tono normale di voce. Però, non volevo turbare ulteriormente Franziska, che sembrava così fragile e indifesa in quel momento.
«Hanno rifiutato… per loro sono una delinquente. Sai, per la storia del testamento… non accetteranno l’affidamento di Annie…» disse, con le parole intervallate da singhiozzi e sospiri pesanti e ansiosi.
Oh no. Come avevo fatto a non capirlo subito? Eppure mi ero reso conto immediatamente che doveva trattarsi di qualcosa di così tragico da paragonarlo alla morte di suo padre e di Angelika. Dovevo immaginare che il problema fosse legato alla bambina: Annika era diventata la persona più importante nella vita della mia “sorellina” nello stesso momento in cui l’aveva incontrata. Era stato come un colpo di fulmine per lei, conoscere questa nipote. Una parente che finalmente non la odiava per la sua imperfezione e tutti gli errori che aveva commesso, una creatura legata a lei dal sangue che la ammirava e le voleva bene come nessun altro.
Non potevo non ammettere di essere quasi invidioso del modo in cui i suoi occhi si illuminavano davanti alla piccola, del modo in cui il sorriso spuntava spontaneo sulle sue labbra di fronte a lei. Non succedeva con nessun altro, nemmeno con me.
E adesso volevano portargliela via. Come avrebbe fatto?
E io? Io sarei sopravvissuto all’assenza di Annika?
«Ma perché, Frannie? Credevo che non avessero emesso una condanna per quella modifica» le chiesi, non perché volessi cambiare argomento, ma perché, curiosamente, non ero stato informato di nulla.
Non sapevo che Franziska fosse stata giudicata, ma adesso che ci riflettevo ricordavo che, quando le avevo chiesto della sua liberazione, all’ospedale, aveva risposto piuttosto vagamente e in modo nervoso. Mi aveva nascosto che era stata sanzionata e a causa di questo, ora non le era più concesso di occuparsi della bambina.
«Io… non posso vivere… senza di lei, Miles! Come posso lasciare… che me la portino via?» gemette, per poi nascondere ancora il viso nella mia spalla. I suoi singhiozzi erano sempre più forti e disperati, e io non sapevo proprio cosa fare per calmarla.
Eppure una volta mi dissi che mi sarei sempre occupato di lei, che non avrei lasciato che soffrisse ancora. Aveva già sopportato troppo dolore nella sua breve vita.
Ma cosa potevo fare per lei, in questo caso? Come potevo fare in modo che Annie rimanesse con lei e con me?
Con me…
In quell’istante ebbi l’idea giusta. Avrebbe risolto tutto: l’affidamento di Annika, il contrattempo per la partenza di Franziska!
Ebbi solo un attimo di esitazione, giusto il tempo di riflettere su ciò che la mia decisione avrebbe comportato nella mia vita. Ma cosa c’era di preoccupante, in effetti? Volevo già che la piccola rimanesse con me, insieme a quella ragazza che ora piangeva sul mio petto. In quel modo avrei solamente reso permanente il mio desiderio.
Frannie. Lei avrebbe capito che la mia era solo una tattica per poterle tenere strette a me?
Ma in fondo non c’era niente di sbagliato: gliel’avrei confessato a tempo debito, soltanto quando fossi stato sicuro che non mi si sarebbe rivoltata contro per quel mio gesto, soltanto quando avessi saputo che mi avrebbe perdonato. E nel frattempo avremmo vissuto insieme.
Mi allontanai da lei soltanto lievemente, giusto il tempo di farle incrociare i suoi occhi tristi con i miei, ormai determinati. Mentre pronunciavo quelle parole, sentivo che avevo fatto la scelta giusta.
«Franziska, sarò io ad adottare Annika.» 


Angolo di Kirlia: 
Ed eccomi di nuovo qui, per presentarvi la nuova storia! 
Come potete vedere - parlo ovviamente ai poveri sventurati che leggono per la prima volta le mie favolette - questo non è altro che un sequel di un'altra fiction, che potete ritrovare facilmente utilizzando il comando "serie" lì in alto. 
Per tutti gli altri, NON UCCIDETEMI! So che mi considererete sicuramente crudele per lo scherzetto fattovi nell'epilogo, e sono pronta ad trovare nella mia posta lettere di protesta XD 
Per quanto riguarda la trama: cosa ne pensate? Spero vi piaccia *-* 
Bene, mi sembra che come primo capitolo abbia già detto abbastanza. Aspetto i vostri commenti! 
Un bacione!
Kirlia <3

 

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Capitolo 2
*** Jealousy ***


Capitolo 2 – Jealousy
 
Oh how wrong can you be?
Oh to fall in love
Was my very first mistake
How was I to know
I was far too much in love to see?
Oh jealousy look at me now
Jealousy you got me somehow
You gave me no warning
Took me by surprise
Jealousy you led me on
You couldn't lose you couldn't fail
You had suspicion on my trail

Jealousy.



Miles adottò Annika il giorno dopo avermelo annunciato, senza alcun ripensamento.
La sua proposta – anche se l’avrei definita più una decisione – mi aveva in parte stupito. Sapevo che lui provava un profondo affetto nei confronti della mia nipotina e che il legame che si era formato fra loro sfiorava quasi quello di un padre con una figlia, ma non avrei mai immaginato che avesse sul serio valutato l’idea di diventare il suo tutore. Si trattava di una responsabilità molto grande, per un giovane come lui. Insomma, anche se io avevo sette anni in meno rispetto a lui, ero giustificata dal fatto di essere imparentata con Annie. Lui, al contrario, si stava prendendo carico di una bambina non sua consanguinea, ma addirittura nipote del suo peggiore nemico, l’uomo che gli aveva tolto suo padre… cioè mio padre.
Aveva pensato a tutte le conseguenze delle sue azioni? Aveva pensato a cosa significava davvero prendersi cura di una bambina come lei? In fondo, lui non aveva nemmeno una compagna con cui condividere il ruolo di genitore.
Ma ci sei tu, Franziska. E tu resterai sempre accanto a loro! mi disse una voce mentale, forse la mia coscienza.
Sospirai, rendendomi conto che non avrei più avuto la possibilità di allontanarmi da lui, da quel momento in poi: non avrebbe mai accettato che io portassi con me Annika in Germania, non adesso che era sotto la sua tutela. E io non potevo più vivere distante dalla mia nipotina.
L’unica soluzione possibile era quindi quella che più avevo temuto: saremmo rimasti a vivere tutti insieme, come un’unica famiglia felice.
Tutto ciò almeno finché Miles non si fosse sposato, decidendo di andare a vivere con la sua ragazza – il solo pensiero di questa ipotetica donna mi rivoltava lo stomaco, ma non ero certa del perché – e portandomi via la mia bambina. E allora sapevo già che ruolo mi sarebbe stato concesso. Sarei stata semplicemente la zia che veniva ogni tanto a fare visita ai nipoti, portando dei regali dalla Germania, dove di certo mi sarei trasferita.
Come al solito, cercavo sempre di scappare via dai problemi e dalle situazioni spiacevoli in cui mi trovavo. E l’avrei fatto anche in quell’occasione, come una sciocca.
Scossi la testa, cercando di ignorare tutte quelle fantasie e quei pensieri malsani, e tornando ad ascoltare le parole del funzionario che si stava occupando di far firmare le ultime carte al mio… “fratellino”.
L’uomo, quando ci aveva visto entrare, aveva alzato un sopracciglio, osservandoci dalla testa ai piedi, e ci aveva lanciato un’occhiata piena di scherno. Avevo subito capito che i motivi di quello sguardo potevano essere solo due: i nostri abiti “ottocenteschi” – come li definivano loro, io li avrei semplicemente chiamati “raffinati” – o la nostra età. Per quanto fossimo dei procuratori affermati e per quanto odiassi essere considerata un’adolescente cresciuta troppo in fretta, la nostra giovinezza era evidente, e poteva incuriosire, data la natura di quell’incontro.
Comunque, ovviamente quello sguardo mi infastidì, e ricordai a me stessa che quel giorno avrei messo fine all’assenza di una bella frusta nuova stretta nelle mie mani. Non ne potevo più di essere indifesa, e Annika doveva pur abituarsi a quella parte della mia natura.
«... Ecco. Deve solo firmare qui e abbiamo finito, signor Edgeworth.» aveva commentato il notaio, indicando con la penna un punto del foglio. Miles si sporse a scrivere il suo nome in bella grafia sotto il “contratto” che affermava che da quell’istante la mia nipotina era affidata a lui. Posò la penna e si voltò a sorridere ad Annika.
La bambina sembrava aver compreso perfettamente quello che stava succedendo, da impeccabile von Karma quale era, e gli rivolse a sua volta un sorriso tranquillo. Io, dal mio canto, ero finalmente sollevata: non dovevo più preoccuparmi che la mia piccola fosse affidata ad uno sciocco sconosciuto che non l’avrebbe di certo trattata come si conviene, e tutto sommato ero felice che Miles l’avesse presa con sé. Se dovevo scegliere uno sciocco fra tutti quelli che popolavano questo sciocco mondo, di certo quello sarebbe stato il mio “fratellino”.
«Possiamo andare, Franziska.» disse ancora lui, e io mi ridestai dai miei pensieri, notando di essere l’unica rimasta seduta sulla poltrona di fronte alla scrivania del funzionario. Oh, non dovevo essermi accorta che l’incontro era finito, tanto ero presa dalle mie congetture.
«Certo» risposi freddamente, prendendo una manina piccola e soffice di Annie nella mia, dalle dita lunghe e affusolate «Andiamo, Nichte
Mi alzai e raggiunsi la porta, dove Miles mi attendeva.
«Dopo di te» mi fece gesto di passare per prima, in modo molto cavalleresco, e la bambina accanto a me soffocò una risatina. La osservai, vedendo che le sue guance erano arrossite, e mi chiesi cosa stesse pensando che l’avesse emozionata tanto. Che si trattasse della sciocca galanteria di quello che lei chiamava Onkel? Non volevo saperlo.
Con un’occhiata truce attraversai la porta, sussurrando verso l’uomo accanto a me solo una parola.
«… Narr. [Sciocco]»

«Sono tanto tanto felice che ora tu sei il mio Vati [papà], Onkel Miles!» commentò eccitata Annika, appena uscimmo nel corridoio del tribunale dove ci trovavamo, prendendo con la mano libera una di quelle dello zio. Il suo entusiasmo era quasi palpabile, e riusciva a contagiare persino me, che di solito preferivo mantenere la mia maschera di fredda calma. Mi sfuggii, infatti, un sorriso sincero.
«”Che tu sia”, Mädchen . Per favore, cerca di stare attenta alle tue parole» commentai, senza però essere troppo rigida nei suoi confronti. In fondo, non volevo che la bambina pensasse che io fossi severa come sua madre. A proposito di questo, prima o poi le avrei chiesto qualche informazione in più su Angelika, e anche su suo padre: non sapevo niente di quella mia sorella che non avevo mai davvero conosciuto, e mi sarebbe piaciuto conoscere qualcosa in più sul suo carattere e sulla sua storia. Ma avrei aspettato il momento opportuno, non volendola ferire. Ricordai, con un sospiro, che in fondo non era passato ancora molto tempo dalla tragedia della sua morte.
«…Comunque, puoi continuare a chiamarmi “Onkel”. Il tuo papà resterà sempre il tuo papà» si intromise nel discorso Miles, con uno sguardo piuttosto indecifrabile.
Che cosa stava pensando, in quell’istante? Quali ricordi riaffioravano nella sua mente, mentre adottava la piccola? Stava forse pensando… a quando mio padre adottò lui?
Non avevo alcuna idea di come fossero andate le cose, ai tempi della sua adozione. Io avevo soltanto due anni, a quei tempi, e pur essendo una bambina geniale fin da allora, non riuscivo a ricordare bene le dinamiche del mio primo incontro con lui: insomma, lo conoscevo  da quanto riuscissi a ricordare. Aveva sempre fatto parte della mia famiglia.
«Va bene, Onkel. L’importante è che adesso resteremo tutti insieme!» disse a voce alta e in modo totalmente estasiato la bambina.
Poi fece una cosa che mi sorprese: congiunse le sue mani per fare incontrare la mia e quella di Miles. La sola sensazione di calore che mi trasmise quel contatto mi fece ritrarre e voltare dall’altra parte, imbarazzata. Non sapevo perché avevo reagito in quel modo, o forse non volevo ricordare. Non volevo riportare alla mente quello che avevo vissuto solo la sera prima, la piacevole emozione che avevo provato quando lui mi aveva abbracciata.
Mi aveva fatta sentire protetta, mi aveva fatta sentire al sicuro come nessun altro era capace di fare. La sua sola presenza aveva fatto sì che tutti i miei problemi svanissero. Avevo sentito una strana sensazione nello stomaco, e mi ero chiesta persino se si trattasse di uno stormo di farfalle. Io mi ero sentita bene, tra quelle braccia, così bene da non volerne più fare a meno.
Ma questo era sbagliato, vero? Era quello che mi era stato sempre proibito. Non avrei dovuto desiderare un altro abbraccio. Non avrei dovuto desiderare altre attenzioni… eppure le bramavo così tanto!
«Cosa c’è, Tante Frannie? Qualcosa non va?» chiese Annika, e incrociando i suoi occhi vidi la tristezza riaffiorare di nuovo. Mi sentii morire: se non l’avessi accontentata, avrei distrutto il suo momento di pura felicità.
E io? Perché io dovevo andare contro il mio stesso istinto di rendermi felice? In fondo, non c’era niente di male a tenere il proprio “fratellino” per mano. A meno che io non lo considerassi più tale… Era così?
«No, cara, va tutto bene» risposi, stampandomi un bel sorriso lieto in faccia.
Avrei dovuto fingere davanti a lei. Non potevo dimostrare quanto i sentimenti fossero in contrasto dentro di me in quel momento. Però avrei potuto sviarla con uno stratagemma, magari invitandola a fare qualcosa che le potesse piacere.
Continuando a sorridere, mi inchinai davanti a lei.
«Che ne diresti di andare a prendere un gelato tutti insieme? Dovremmo festeggiare!» le proposi, cercando di sembrare più entusiasta di quanto fossi in realtà. Il contatto tra me e l’uomo che in quel momento non avevo nemmeno il coraggio di fissare negli occhi mi aveva destabilizzata, e aveva spento la scintilla di genuina felicità che stavo provando quella mattina. Non perché non mi fosse piaciuto – anzi, credevo che fosse stato anche troppo piacevole! – ma perché proprio non sapevo cosa pensare riguardo… No. Basta, Franziska von Karma. Concentrati su tua nipote.
La piccola sembrò riflettere per un attimo, con un’espressione corrucciata che la faceva sembrare ancora più carina di quanto fosse normalmente.
«Es ist okay. Ma possiamo invitare anche Pearly?» chiese dopo un attimo, illuminandosi.
Sentii Miles soffocare una risata e non potei evitare di guardarlo con aria interrogativa. Lui subito tornò al suo sguardo calmo e pacato come al solito, prima di prendere il cellulare dalla tasca.
«Ma certo che possiamo, Annie. Chiamo Wright e gli chiedo di raggiungerci lì, va bene?» disse lui, prima di digitare il numero del suo cosiddetto “vecchio amico” e voltarsi per parlare con lui.
Non capivo proprio perché Annika avesse voglia di passare del tempo con quella sciocchina di fräulein Pearl Fey: credevo che l’influenza che esercitasse sulla mia nipotina fosse nefasta, e me ne ero resa conto ancor di più quando le avevo trovate a guardare quelle immagini così violente in televisione. Herr Phoenix Wright era davvero così sciocco da permettere a delle bambine innocenti di guardare dei samurai scontrarsi e farsi del male?
Ma se era desiderio della piccina incontrare la sensitiva, glielo avrei permesso. In fondo, un breve incontro con lei non poteva essere poi così terribile. E c’era da considerare anche il fatto che adesso che Annika era sotto la protezione del mio… “fratellino”, avrebbe dovuto farsi dei nuovi amici qui negli Stati Uniti. A proposito di questo, avrei dovuto parlare con Miles di quale scuola avesse intenzione di far frequentare alla bambina: si vedeva già che si trattava di un piccolo genio, e non volevo che fosse sottovalutata da una sciocca scuola pubblica.
«… Bene. Wright ha detto che ha appena finito una causa, e che è nella sala udienze numero tre, cioè al piano di sopra. Vogliamo andare?» ci invitò lui, dopo aver chiuso la chiamata, porgendo una mano. Per un attimo, soltanto uno, mi chiesi se la stesse porgendo a me, che ero ancora inginocchiata all’altezza di Annie, poi scacciai l’idea infastidita e mi alzai da sola, traballando sui tacchi a spillo prima di riprendere l’equilibrio.
Notai il suo sguardo leggermente frustato, mentre prendeva la piccola mano della bambina e si dirigeva al piano superiore, dove quell’avvocato ci aspettava. Alzai il mento, il modo orgoglioso, e li seguii in silenzio.

«Ecco Maya e herr Nick!» esultò emozionata Annika, lasciando la mano del suo nuovo tutore e correndo verso le due figure conosciute. Mi sorprendeva il modo affettuoso in cui trattasse tutti… e allo stesso tempo mi indisponeva: doveva capire come trattare gli sciocchi di questa nazione, o mi avrebbe messo in imbarazzo. Però non mi piaceva l’idea di farle una predica. Insomma, dovevo trovare un modo di farle capire gentilmente come doveva comportarsi, ci avrei pensato su.
«Ma… dov’è Pearly?» chiese ancora la bambina, scrutando in giro alla ricerca della sua “amica”.
Io, nel frattempo, mi ero affiancata a Miles, e non mi era sfuggita l’occhiata di sottecchi che mi aveva lanciato. Ultimamente mi sentivo particolarmente osservata da lui, ma non riuscivo a capire bene cosa volesse da me. Volevo chiedergli che problemi avesse, ma avrei aspettato che fossimo soli, e non davanti a quei due sciocchi che ora salutavano la mia piccola. Anzi, ad essere sinceri, la piccola di Miles. Questo ne faceva la nostra piccola…?
«Ecco… Pearls lei al momento…» cominciò Phoenix Wright, indicando poi una donna poco lontana, che si avvicinò sentendosi chiamata.
La donna in questione indossava abiti un po’ troppo piccoli per la sua taglia. Lanciando un’occhiata alle gambe scoperte e al decolleté mi resi conto che erano decisamente troppo striminziti per lei. Mi sentii subito infastidita dalla presenza di questa signora, che si mostrava in giro in queste condizioni. Insomma! C’erano ragazzini dappertutto, ed era certo una bella distrazione anche per gli uomini che andavano in giro per i corridoi.
L’ultimo pensiero mi fece voltare di scatto verso Miles che, come sospettavo, non riusciva a non far cadere lo sguardo su tutta quella bella merce in esposizione. Un istinto che non credevo nemmeno di possedere mi spinse quasi a coprirgli gli occhi con una mano, pur di non lasciargli fissare quella donna. Che, a proposito, indossava, per quanto in piccolo, gli stessi abiti di Maya Fey.
Un’idea strana e che, allo stesso tempo, mi trasmetteva una sensazione spiacevole e particolare, mi colse all’improvviso.
Ero forse… gelosa?
Non potevo esserlo, giusto? In fondo lui per me doveva essere solo un “fratellino” e in quanto tale non dovevo essere nervosa per la presenza di questa donna. Allora perché volevo prenderla a frustate come non avevo mai fatto con nessuno, finché quel corpo che teneva tanto a mostrare non si fosse ridotto in cenere?
Presa da una rabbia che non riuscivo a contenere, conficcai un tacco nel piede di Miles, cercando di distogliere la sua attenzione da tutta quella… indecenza.
«Nngh... F-Franziska!» gemette lui, trattenendo a stento un gemito di dolore. Io incrociai le braccia, con aria superiore, ignorandolo completamente e cercando di capire chi fosse la signora che, mi accorgevo solo ora, portava la stessa acconciatura di Pearl Fey.
«Salve, non credo di conoscerla. Io sono Franziska von Karma, il Prodigio della Procura» dissi, senza un accenno di emozione nella voce e senza porgerle la mano in segno di saluto. Restai totalmente immobile, scrutandola con ostilità.
La donna di fronte a me inclinò il capo con un sorriso del tutto tranquillo, come se non si fosse resa conto delle occhiatacce che le lanciavo o ne fosse totalmente immune. Sfacciata.
«Non abbiamo mai avuto l’occasione di parlare. Io sono Mia Fey» rispose lei, e tutto mi fu chiaro. Ma certo! Come avevo fatto a non riconoscerla? Eppure di certo l’avevo vista più volte al banco della difesa, quando mi ero scontrata in tribunale contro herr Phoenix Wright, e io stessa ricordavo di aver mostrato alla corte una foto in cui appariva la stessa persona, evocata da Maya.
Perché sì, di questo adesso ero certa, frau Mia Fey era solo uno spirito, in quel momento nel corpo della piccola Pearl.
Ma… la mia memoria non aveva mai vacillato così, prima d’ora. Come mai non mi ero resa subito conto di chi fosse? Forse ero così accecata dal fatto che Miles la fissasse che non mi ero resa conto del possessore di quel corpo indecente?
No, non poteva davvero essere così. No, vero?
«Onkel, la mia Mutti mi diceva che è maleducato fissare troppo le persone. E poi la Tante potrebbe offendersi» commentò all’improvviso Annika, di cui mi ero dimenticata per un attimo, guardando lo zio nel modo più accusatorio che avessi visto nei suoi occhi celesti da quando la conoscevo.
Speravo di aver sentito male. Aveva forse detto che io potevo offendermi? Chissà, forse aveva strane idee sul rapporto tra me e Miles, però era la prima volta che lo dava a vedere.
Feci nota mentale di ricordarmi di farle un discorso anche su questo, una volta che fossi stata da sola con lei: non credere che il fatto che chiamasse me Tante e Miles Onkel significasse qualcosa tra noi. Non ci poteva essere niente tra noi, escluso un civile rapporto di “quasi parentela”, giusto?
«Ma io non…» cominciò a rispondere il diretto interessato, per poi accorgersi che tutti lo stavano fissando con uno sguardo ambiguo, e rimanere in silenzio. Sembrava che stesse quasi dicendo qualcosa per discolparsi, come se avesse preso sul serio il rimprovero. La cosa mi incuriosì molto, ma non dissi nulla: quello non era il posto, né la compagnia adatta per discutere certe cose.
Phoenix Wright tossicchiò cercando di ignorare la strana tensione che si era creata, mentre Mia Fey diceva le sue ultime parole.
«Bene. Credo che alla vostra bambina interessi vedere Pearl, quindi è ora che io mi congeda» salutò lo spirito della donna, per poi svanire, come avevo visto fare in occasione dell’attacco di mio padre.
Al posto di lei, comparve l’esile corpicino della sensitiva, ben coperto dai vestiti. La fräulein sembrò per un attimo sorpresa di vedere tutta quella gente intorno a sé, poi notò mia nipote nella folla.
«Annie! Che ci fai qui?» strillò, abbracciandola forte. Per un attimo mi chiesi se rischiava di strozzarla con quella stretta così ferrea… Ma forse il mio timore nasceva dal fatto che non adorassi essere toccata, e evitavo qualsiasi contatto umano.
Anche se, certo, l’abbraccio e le carezze che ieri Miles mi aveva riservato mi erano sembrate talmente dolci e gradite! No, perché pensavo a queste cose? Non era il momento. Anzi nessun momento era quello adatto per pensarci.
«Oggi Onkel Miles mi ha ufficialmente adottata! Non è meraviglioso?» rispose emozionata Annika, e riuscii persino a vedere i suoi occhi brillare. Ero contenta di sapere che non considerava il suo affidamento un episodio infelice, che anzi desiderava raccontarlo a tutti come un lieto evento. Non ero certa che per il mio “fratellino” fosse stato lo stesso, quando aveva saputo di essere stato preso in adozione dalla famiglia von Karma. Potevamo essere anche perfetti, ma non eravamo il luogo giusto per crescere un bambino, e io lo sapevo bene… Anche se faticavo ad ammetterlo.
«Ma davvero...» commentò con una nota ironica quello sciocco avvocato di fronte a noi, che probabilmente non si aspettava che Miles si prendesse questa responsabilità «Credevo che sarebbe stata Franziska ad occuparsi della bambina» aggiunse poi, incrociando il mio sguardo di ghiaccio.
Io gli lanciai l’occhiata più cattiva che riuscii a creare, rispondendo poi con amarezza «Sappi che è tutta colpa tua, herr Phoenix Wright. Se avessi fatto bene il tuo lavoro non sarei stata accusata di aver manomesso quel testamento!»
Lui mi guardò un po’ con un’aria di scuse, passandosi una mano tra i capelli a punta che si ritrovava. Il mio “fratellino”, a quanto pare, non poté evitare di intervenire.
«Ma si trattava della verità, Frannie. La verità è la cosa più importante» commentò, lasciando per la prima volta in quella giornata che i suoi occhi grigi come tempeste incrociassero i miei. Sapevo che voleva di nuovo farmi il solito discorsetto sull’importanza dei nostri valori in quanto procuratori, ma non glielo avrei permesso. E poi, quello sciocco soprannome! Potevo anche passarci sopra quando eravamo da soli, o in presenza di Annika, ma non davanti al mio peggior nemico!
«Herr Miles Edgeworth! La perfezione è la cosa più importante, e il discorso è chiuso.» risposi, per poi voltarmi verso la mia nipotina e cambiare totalmente tono.
La mia voce passò da fredda e scostante a serena e piuttosto dolce quando, con un mezzo sorriso, le parlai.
«Che ne dici di andare, prima che si faccia tardi, Nichte?» le carezzai i capelli di quella tonalità tanto simile alla mia. La piccola annuì e, prendendo per mano Pearl, la trascinò via verso l’uscita del tribunale.
Io passai davanti ai tre spettatori di quella scena, senza dire una parola, e le seguii, appena prima di sentire la voce stupita di Maya Fey commentare.
«È pazzesco come riesca a cambiare atteggiamento in un attimo, Nick. Che sia bipolare?»


{Annika von Karma}

Quello era decisamente il giorno più bello della mia vita!
Finalmente Onkel Miles si era deciso ad adottarmi, e questo aveva risolto tutti i problemi: io e la Tante non saremmo tornate in Germania per molto tempo, forse mai più! Potevamo vivere tutti insieme e dopo tanto tempo avrei avuto di nuovo un Vati [papà].
Il mio papà era morto quando io ero molto piccola, e non mi ricordavo quasi niente di lui. Ne conservavo ancora una foto, ma non mi tornavano alla memoria dei momenti passati con lui, delle carezze, delle parole dolci…
Questo mi dispiaceva tanto, ma adesso c’era Onkel Miles con me. Lui mi aveva detto che avrei dovuto continuare a chiamarlo zio, e questo mi aveva fatto capire che ci teneva che io non mi dimenticassi mai dei miei veri genitori, ma per me era molto di più: era quel Vati che non avevo mai avuto.
Anche la Tante, per me stava diventando molto importante. Lei era strana: cambiava umore continuamente, e aveva sempre voglia di apparire scontrosa e fredda verso di tutti, ma io sapevo che non era così. Lei era buona, e mi voleva tanto bene. Voleva bene anche all’Onkel, ma non lo dimostrava spesso.
Però io sarei riuscita a farle cambiare idea, ne ero sicura! Avevo notato fin da subito il modo così dooolce in cui a volte si guardavano, quando l’altro era distratto e non si accorgeva di nulla, e sapevo che in realtà loro si volevano bene nel modo in cui si vogliono bene i grandi. Peccato che loro non se ne accorgessero! Ma sarei stata io, con un valido aiuto, a farlo capire loro.
Eravamo nella grande auto rossa dello zio, e io e Pearly stavamo chiacchierando.
«… E poi ho evocato la Mistica Mia, per aiutare il signor Nick a vincere!» aveva sentenziato lei, raccontandomi le vicende di quella giornata. La macchina era troppo silenziosa per parlare di certi piani che avevo con la mia amichetta, ma avrei avuto tempo anche per quello.
Tante Frannie, a quanto pareva, stava ascoltando il racconto, perché intervenne.
«Ah! Herr Phoenix Wright... Servirsi di una bambina per vincere un processo. Che sciocchezza!» commentò dal sedile del passeggero, dove si trovava. Lo zio aveva insistito per guidare, anche se lei le aveva consigliato di lasciare stare, visto che la ferita non era ancora guarita. Era stata così gentile! Ma lui non aveva sentito storie e aveva preso il posto del guidatore.
«Tu sei solo invidiosa perché non l’ha fatto durante la tua causa, Frannie.» commentò allora Maya, sporgendosi in avanti e lanciando un’occhiata sarcastica a mia zia. Anche se non capivo ancora bene questi Amerikaner, non mi era sfuggita l’inflessione di voce che aveva usato la sensitiva nel pronunciare il suo nome. Che la stesse prendendo in giro?
Mi resi conto di aver indovinato, quando la mia parente mugugnò nervosamente «È tutta colpa tua, herr Miles Edgeworth.»
Subito sentii provenire una risata sommessa, dal punto in cui si trovava il guidatore. Oh, era questo che mi piaceva di loro: anche se la zia continuava a punzecchiarlo con offese di tutti i generi, Onkel Miles non se la prendeva mai. Era sempre disposto a perdonare il carattere un po’ difficile di lei… Ecco perché erano una coppia perfetta!

Arrivati alla gelateria, mi resi conto di non aver mai visto tanti gelati diversi come quelli.
C’erano proprio tutti i gusti del mondo, anche i più stravaganti! Non sapevo proprio quale scegliere.
Mi avvicinai il più possibile al vetro che mi divideva da tutti quei colori, stando ben attenta a non appoggiarci sopra il naso: sapevo che alla zia non piaceva quando mi comportavo in modo imperfetto. Era un po’ come la mia Mutti, e sapevo più o meno cosa fare per non farla arrabbiare.
Pearly invece si appiccicò sopra la faccia.
«Quanti gusti! Cosa potrei fare assaggiare alla Mistica Maya e al signor Nick? Ci vorrebbe qualcosa che abbia a che fare con il loro “amico speciale”…» cominciò a guardare tutti i gelati, e pensavo che ne stesse leggendo le etichette, visto il modo in cui era concentrata.
Io nel frattempo stavo valutando se valesse la pena di usare la sua stessa strategia, ma, in fondo, non avevo bisogno di utilizzare questi metodi tanto futili: per quel giorno, Tante e Onkel avevano già fatto molti passi avanti, secondo me.
Mi ero accorta subito della gelosia che si impossessava della zia quando aveva visto frau Mia. Era normale però: a nessuno farebbe piacere vedere il proprio amore guardare un’altra ragazza, infatti avevo subito rimproverato lo zio, e lui aveva cercato di scusarsi. Questo mi confermava che l’unica ragazza del suo cuore era la sua Frannie. Oh, com’era bello! Era come vivere in una favola!
«Ehi, Annie?» chiese la mia amica, avvicinandosi a me «Potresti dirmi che gusto è quello?» mi indicò un gelato rosa, molto indicato per rappresentare l’amore in effetti.
Mi chiesi perché non leggesse semplicemente il cartellino sopra il contenitore, quando lei mi confessò «Non so ancora leggere bene.»
Non… era un po’ troppo grande per non saper leggere? Io avevo imparato l’inglese praticamente in cinque giorni!
Beh, non mi soffermai su questo dettaglio per non metterla a disagio, e lessi l’etichetta.
«Dice “F-R-A-G-O-L-A”. Fragola. Non conosco questa parola, cosa vuol dire?» chiesi, tirando per una manica lo zio, che era il più vicino a me. In effetti lui portava una giacca più o meno dello stesso colore del gelato, solo un po’ più scuro.
«Sarebbe “Erdbeere”, Annika» commentò lui, sovrappensiero, mentre lanciava un’occhiata di nascosto alla Tante, che a sua volta guardava curiosa la vasta scelta di gelati. Probabilmente nemmeno lei ne aveva mai assaggiati tanti in vita sua, e doveva essere indecisa. Sorrisi, attirando l’attenzione di Pearly con un cenno, e facendole notare lo sguardo così bello che Onkel Miles lanciava alla zia.
No, decisamente oggi mi avevano dimostrato abbastanza bene i loro sentimenti reciproci.


Angolo dell'autrice: 
Ed ecco qui il nuovo secondo capitolo, un po' più leggero degli altri. Diciamo che non accade niente di straordinario, ma vi avevo già anticipato la presenza di alcune scene del genere. Sano e puro fluff? Ma con un pizzico di gelosia che non guasta. Cosa ne pensate? 
Franziska vi è sembrata OOC, nei suoi comportamenti? E tutti gli altri? Ho sempre il terrore di andare fuori dal personaggio, quando mi occupo delle comparse secondarie. Sì, se ve lo state chiedendo: per me Phoenix Wright è solo una comparsa o.o 
Finalmente il secondo POV di Annika, come l'avete trovata? Credo sempre di farle fare pensieri troppo "adulti" per lei, ma non so XD 
Per oggi vi lascio una vignetta e... Attenzione! Essa contiene uno spoiler su qualcosa che succederà tra un paio (non saprei dire quanti, di preciso) capitoli! 

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E con questo, vi saluto! Spero di leggere presto i vostri commenti e, perché no?, anche di nuovi. 
Un bacione! 
Kirlia <3

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Capitolo 3
*** I can't be Tamed ***


Capitolo 3 – I can’t be Tamed
 
For those who don't know me, I can get a bit crazy 
Have to get my way, ya, 24 hours a day 
'Cause I'm hot like that 
Every guy everywhere just gives me mad attention 
Like I'm under inspection, I always get the 10s 
'Cause I'm built like that 

I can't be tamed, I can't be saved 
I can't be blamed, I can't, can't 
I can't be tamed, I can't be changed 
I can't be saved, I can't be (can't be) 
I can't be tamed 

I can’t be tamed.

{Miles Edgeworth}

«Mein Gott! Questa casa è bellissima, Onkel Miles! Possiamo venire ad abitare qui?» strillò un’emozionata Annika, quando il grande portone di ferro si aprì, rivelando il grandioso ingresso di quella villa.
Sì, finalmente avevo deciso di trasferirmi: adesso che le cose con le mie due “ragazze” sembravano andare per il verso giusto, non c’era più alcun motivo per restare in quell’appartamento così piccolo e angusto. Tutti necessitavamo un po’ di spazio in più, avevamo bisogno di un ambiente più confortevole, una casa che fosse abbastanza grande da ospitare un’intera famiglia.
Sospirai felice, ricordando a me stesso che non sentivo la piacevole sensazione di appartenere ad una vera famiglia da molti, moltissimi anni. Certo, Franziska era sempre stata importante per me, ma l’influenza di una figura inquietante come Manfred von Karma aveva sempre impedito che si istaurasse una vera atmosfera famigliare, quando vivevo alla magione con loro.
In quel momento, tutto era diverso: c’era una certa serenità quasi palpabile, nelle risate gioiose della bambina che avevo adottato solo da pochi giorni, nell’abbaiare festoso di Pess e Phoenix quando tornavamo a casa, persino nelle occhiate di sufficienza che la mia… “sorellina” mi lanciava. Tutto contribuiva a rendere la mia vita più luminosa, come non lo era mai stata.
«Annika, non sporgerti troppo dal finestrino.» disse Franziska. La sua voce tagliente era addolcita da una nota di tenerezza, nei confronti della nipote, persino quando la rimproverava.
Questo suo comportamento mi piaceva e allo stesso tempo mi dispiaceva: sarebbe stato carino che lei si fosse rivolta a tutti in quel modo, ma, soprattutto, avrei voluto che parlasse a me con questo tono. Sapevo, comunque, che era impossibile. Frannie era fatta così, e in fondo a me piaceva proprio per quello. Oh, forse non avrei dovuto dire così…
«Ja, Tante Frannie. Quando posso scendere dall’auto?» chiese allora la piccola, senza riuscire a stare ben ferma sul suo sedile. Fortunatamente, la cintura allacciata le impediva di muoversi troppo.
«Fra poco. Lascia solo che parcheggi» commentai tranquillamente, prima di prendere posto accanto ad un’auto grigia e spegnere il motore. A quel punto la bambina si catapultò fuori, correndo verso l’ingresso della bella villa dai colori chiari circondata dal verde.
Era davvero un bel posto dove vivere, ed immaginavo che piacesse molto anche alle mie coinquiline: per quanto non avesse esattamente il gusto classico a cui erano abituate, sembrava davvero sontuoso. Si trovava nel quartiere più ricco della città, dove una volta anche io avevo una casa, almeno prima che decidessi che io e Pess, da soli, non avevamo bisogno di tanto spazio. Tornare a viverci sarebbe stato strano, ma adesso avevo molta più compagnia.
«Allora… cosa ne pensi?» chiesi pacatamente alla ragazza accanto a me, che scrutava intensamente l’edificio con quegli occhi azzurro cielo. Sembrava che la stesse quasi analizzando, probabilmente alla ricerca di un difetto da indicarmi. Non avrebbe mai ammesso che le avessi proposto una casa “perfetta”.
«Mi sembra… passabile, herr Miles Edgeworth.» rispose, come avevo previsto. Non voleva che mi sentissi soddisfatto della mia scelta, e questo mi fece sorridere. Sapevo che in realtà la casa le piaceva, per quanto non volesse dirmelo direttamente.
A proposito, aveva ricominciato a chiamarmi per nome e cognome da quando, un paio di giorni fa, l’avevo chiamata affettuosamente “Frannie” davanti a Wright e alle sue assistenti. Ero certo che non si fosse poi offesa così tanto, ma era brava a tenere il broncio a lungo. Io, in ogni caso, riuscivo ad ignorare questi suoi dispetti da ormai tanti anni, quindi non era un problema. Mi divertivano questi suoi giochetti infantili… mi ricordavano i momenti della nostra infanzia insieme.
Senza aggiungere altro, si diresse verso l’ingresso della casa, dove Annika ci aspettava. Sembrava impaziente di vedere questa possibile dimora. Ne avevamo girate parecchie, ma nessuno era sembrata abbastanza perfetta per le mie due von Karma. Quest’ultima, pensai con sollievo, sembrava almeno essere gradita alla piccola.
«Entriamo, entriamo! Deve essere bellissima!» ci prese ognuno per una mano, tirandoci all’interno, dove altre persone stavano osservando l’immobile.
Una donna, probabilmente la responsabile dell’agenzia con cui avevo fissato un appuntamento al telefono, venne ad accoglierci. Indossava una giacca blu con sopra un tesserino che citava “Amanda”.
«Oh, voi dovete essere i signori Edgeworth. Avete proprio una bella bambina!» commentò amabilmente, carezzando una guancia di Annie che, infastidita, si nascose dietro di noi. Credevo che fosse più coraggiosa e adulta, ma, in alcuni momenti, tornava ad essere semplicemente una piccola di soli sette anni.
Ma non era questa l’osservazione più importante da fare. La signora ci aveva scambiato per una coppia con una figlia e questo… beh… era piuttosto imbarazzante. Non che Franziska non fosse stata una bella donna da presentare come moglie – non potevo fingere di ignorare l’attrazione che provavo per lei – ma non credevo che questo errore le fosse gradito. La vidi infatti irrigidirsi, come se si fosse pietrificata sul posto. Incrociai il suo sguardo e notai che era impallidita e poi arrossita.
Tutto ciò era strano da parte sua: l’avrei immaginata frustare a morte l’agente immobiliare o, vista l’assenza della frusta, mi sarei aspettato che le urlasse contro che lei era una von Karma. Invece rimase in silenzio, come se non riuscisse ad opporsi. Cosa le succedeva? Quello non era un atteggiamento normale, per lei.
«Si… si sbaglia. Loro sono mia sorella e mia fi… ehm, nipote.» tossicchiai nervosamente. Avevo chiarito subito ad Annika che ero suo zio, e non suo padre, e quasi la chiamavo figlia? Beh, era difficile decidere quale appellativo darle. Come era complicato, a dire il vero, definire “sorella” Frannie. Forse, in fondo, sarebbe stato meglio fare credere alla signora che si trattasse della mia compagna.
«Oh! Mi scusi, signore. Credevo che…» si interruppe, guardandoci come se notasse qualcosa che a noi sfuggiva, poi continuò «Beh! Meglio cominciare il giro della casa, che ne dite? Da questa parte!»
Ci indicò il percorso e noi la seguimmo.
 
La signora Amanda sembrava piuttosto allegra, troppo allegra, mentre ci mostrava i “fantastici” fornelli e la “mitica” vasca da bagno. Dava persino sui nervi.
Mi massaggiai le tempie, mentre la ascoltavo sproloquiare sulla “stupefacente” tonalità di giallo di cui era tinta la stanza che sarebbe stata utile come studio – o come stanza dei cani, come aveva fatto notare Annie. Lanciai un’occhiata stranita alla persona accanto a me.
Franziska, cosa davvero sorprendente, molto più degli oggetti di quell’immobile, non diceva una parola. Eppure sapevo quanto odiava gli individui del genere, troppo emozionati e felici per delle sciocchezze. Di solito, li avrebbe fissati con odio, stringendosi elegantemente la manica della camicetta con la mano guantata, e la sua fronte chiara sarebbe stata incrinata da rughe di impazienza. Quel giorno invece sembrava essere in un altro mondo, distante, pensierosa.
Per un attimo il terrore si fece strada dentro di me, mentre ricordavo che l’ultima volta che l’avevo vista così aveva preso la decisione di partire, lasciandomi da solo.
No, non stavolta. Non poteva prendere una decisione del genere, perché non le avrei permesso di portare via la bambina e, senza di lei, non si sarebbe mossa di un millimetro. Ma, allora, cosa stava pensando?
«Frann… Cioè, Franziska? Cosa c’è? Se questa casa non ti piace, possiamo pure andare...» le dissi, con un tono vagamente preoccupato. Non era da lei comportarsi così, e in un attimo di coraggio – o non sapevo come altro definirlo – le poggiai una mano su un braccio.
«N-Nein!» rispose, vagamente sorpresa, scostandomi. Che fosse così distratta da non accorgersi quasi della mia presenza? Sapevo che, quando rispondeva improvvisamente in tedesco, erano i suoi sentimenti a prendere il sopravvento e a parlare per lei.
«… No, Miles. Ero sovrappensiero. Ritengo che questa casa sia perf… adatta a noi.» la sentii rispondere, con una voce ancora vagamente tremante. Aveva cercato di riprendere la sua solita calma, ma non c’era del tutto riuscita. Riuscivo a capirlo anche dal fatto che fosse tornata a chiamarmi semplicemente per nome, per un probabile errore.
Era da quando avevamo varcato quella soglia che non diceva una parola: che si fosse davvero offesa per l’insinuazione di quell’agente immobiliare? Non mi sembrava da lei, eppure era l’unica soluzione che mi veniva in mente.
Ignorai quei pensieri che continuavano a tormentarmi e tornai a sorridere leggermente. Dovevo essere positivo, e non rimuginare su supposizioni che probabilmente non avevano niente di vero: Franziska stava meditando soltanto su quale stanza avrebbe scelto come sua camera da letto, ne ero certo.
«Mi piace, mi piace! Onkel, Tante, possiamo trasferirci subito qui?» commentò Annika che, a sua volta, era rimasta silenziosa per tutto il tempo.
Annuii e sospirai di sollievo. Finalmente l’avevamo trovata! Avevamo scelto la casa giusta per noi, e tutto sarebbe andato per il meglio.

{???}

Sospirai per l’ennesima volta, dopo aver preso un sorso dalla mia tazza di tè fumante.
Un altro giorno chiusa lì dentro. Chissà quanti ne erano passati?
Troppi, in ogni caso.
Ma non avevo altra scelta.
E in quel momento mi ritrovavo seduta su quella poltrona troppo scomoda per una personalità importante come me, a rimuginare sui miei errori. I miei errori, che non erano di certo quelli che tutti immaginavano.
In realtà, non facevo altro che sprofondare nel senso di colpa, ripensando a tutti quei piani talmente ben articolati, talmente perfetti da essere andati in fumo.
Buchi nell’acqua, uno dopo l’altro.
All’inizio, quando ero stata chiusa dentro quel luogo così scuro e angusto, pensavo di aver perso la mia prima ed unica occasione di togliere di mezzo quella ragazzina. Avevo passato i giorni a rimproverarmi come una stupida: quello era il momento in cui avrei dovuto farla fuori! Quella sarebbe stata la sua fine e la mia rivalsa!
Il mio cognome sarebbe stato riabilitato, la mia famiglia sarebbe di nuovo stata sulle bocca di tutti per le nostre straordinarie capacità!
E avevo mandato tutto all’aria per il semplice errore di essermi affidata alle persone sbagliate, di aver contato sul fatto che sarebbero bastate poche prove ad incriminarla.
Mi ero sbagliata, perché la fortuna sembrava essere sempre a suo favore.
Tante volte avevo pensato di trovare un altro modo per eliminare la sua minaccia, per fare il modo che il nome di P…
«Signora?» mi interruppe un agente, aprendo la porta della mia stanza.
Il filo dei pensieri che andavo costruendo fu spezzato dalla sua voce, così dura e fastidiosa. Non sapevano proprio come rivolgersi ad una persona del mio calibro.
«Mi dica…» risposi sorridendo, falsa come sempre, e prendendo poi un altro sorso del mio tè, che si andava raffreddando. Lo posai sul tavolino lì accanto a me.
«C’è una telefonata per lei, e sembra essere molto urgente» mi informò l’uomo in divisa, invitandomi poi a seguirlo fuori dalla camera.
Mi alzai stancamente, come se persino stare seduta tutto il giorno fosse faticoso.
E in effetti era così, specialmente per una persona che dovrebbe essere piena di impegni come me.
Mi decisi a seguirlo, anche se non pensavo che la persona dall’altra parte della cornetta mi avrebbe offerto una possibilità che non credevo più di avere.
Questa volta non avrei fatto errori, questa volta l’avrei eliminata.


{Franziska von Karma}

Non ero esattamente felice della situazione.
C’era qualcosa che non andava, in tutta quella recita di me, Miles e Annika come una “famiglia felice”, ma non riuscivo a capire cosa. Forse si trattava del semplice fatto che noi, in realtà, eravamo solo degli individui che si sono costretti a vivere insieme per ironia della sorte? O forse… Forse la verità era che sembrava che ai miei “coinquilini” non dispiacesse affatto tutto ciò?
Perché, in effetti, loro apparivano tremendamente tranquilli e felici di quello che stava succedendo. Io, invece, continuavo a riflettere su una soluzione diversa, qualcosa che non comprendesse il mio “fratellino” nel pacchetto.
Non che lo odiassi: anche se spesso avevo affermato il contrario, persino lui sapeva, nel profondo, che i miei sentimenti per lui non comprendevano affatto l’odio. Ma io ero una von Karma, e volevo rimanere fredda e impassibile agli occhi degli altri. Una famiglia così gioiosamente legata, come ci stavamo dimostrando, non era proprio il modo migliore di dimostrarmi una perfetta seguace della perfezione.
Decisi, quindi, che per far riemergere la Franziska di una volta, di certo mancava un accessorio essenziale.
«Dove stai andando… Franziska?» chiese Miles, mentre mi accingevo ad indossare il cappottino nero e invitavo la mia nipotina a fare lo stesso.
Quella mattina avevo deciso finalmente di uscire a fare “spese”, ma Annika aveva insistito nell’accompagnarmi. All’inizio ero stata totalmente in disaccordo con lei, e avevo pensato di trovare una scusa per lasciarla a casa insieme al nuovo tutore, ma poi mi era venuta in mente un’idea.
La piccola era così fragile ed indifesa, un po’ come me alla sua età, quindi perché non aiutarla a diventare una donna forte e indipendente?
Di lì a poco l’avrei iscritta a scuola, e Miles insisteva nel fatto che dovesse trattarsi di una scuola pubblica. Inutile dire che io non ero affatto d’accordo, ma purtroppo, lui ci teneva sempre a ricordarmi di avere la tutela di Annie, e con essa la facoltà di decidere per lei.
Bene. Se proprio aveva voglia di mandarla in mezzo ad un branco di sciocchi bambini americani per niente educati, la bambina avrebbe avuto bisogno di difendersi.
«Onkel Miles! La Tante mi porta a comprare una frusta tutta per me! Non è fantamitico?» commentò emozionata la piccola.
Io la guardai con una punta di rimprovero, totalmente smorzata dal mio sorriso affettuoso.
Beh sì, mi ero ritrovata a sorridere spesso da quando lei era con me: era proprio per questo che avevo bisogno della mia migliore amica frusta. E ne avrei presa anche una piccina per lei, in fondo aveva già l’età per poterla utilizzare al meglio.
«Si dice “fantastico”, Nichte. Ti chiedo di non ripetere queste sciocche parole prive di senso che di certo sono stati herr Phoenix Wright e la sua combriccola ad insegnarti» le dissi, mentre la aiutavo ad indossare un bel cappellino bianco. Quella mattina faceva piuttosto freddo, e non volevo che si raffreddasse. Il solo pensiero che potesse sentirsi poco bene mi faceva andare nel panico, visto che non sapevo come prendermi cura di un’eventuale bambina ammalata.
«C-cosa? No, non sono per niente d’accordo con tutto ciò» ribatté Miles, come ovviamente mi aspettavo avrebbe fatto, alzandosi dalla poltrona dove stava leggendo e venendo nella nostra direzione.
Mi alzai ritrovandomi faccia a faccia con lui. Beh, non esattamente, visto che lui era un po’ troppo alto per me. In quel momento, poi, si ergeva in tutta la sua altezza solo per farmi sembrare più bassa, ma non mi avrebbe fatto desistere con il suo atteggiamento.
«Non mi importa se non sei d’accordo, herr Miles Edgeworth. Annika ha bisogno di sapersi difendere dal mondo esterno, e io le insegnerò a farlo» risposi io, mettendo le mani guantate sui fianchi e guardandolo in modo ostile.
Lui sembrò vacillare per un momento, e questo mi diede modo di sorridere. Anche lui si rendeva conto che la piccola sarebbe stata troppo esposta ai pericoli della vita reale, e che aveva bisogno di un’arma.
«M-ma… ci sono altri modi! Come suo tutore, non ti permetto di regalarle una frusta» riprese il controllo lui, incrociando le braccia e guardandomi con aria di rimprovero.
Ma come si permetteva di parlarmi in quel modo?! Credeva forse che fossi una mogliettina che poteva controllare come più gli pareva?
Ecco cosa non mi piaceva di tutta questa situazione “familiare”. Se lui credeva di poter essere il capo, non aveva capito proprio niente!
Strinsi una mano sul fianco, desiderando di avere a disposizione proprio quella frusta che stavo andando a comprare, e mi resi conto che dovevo reagire alla svelta e riprendermi il mio posto.
«E come sua zia, non mi importa niente del tuo parere! Ha bisogno di quell’oggetto per farsi valere, cosa vuoi saperne tu?» strillai, un po’ troppo coinvolta da quella discussione. Avrei dovuto prenderla con più calma, ma in quel momento mi ero totalmente innervosita.
Lui non era proprio nessuno per dirmi quello che potevo e che non potevo fare!
La mia reazione lo stupì, riuscii a vederlo dai suoi occhi. Non si aspettava che me la prendessi tanto, forse, e arretrò di un passo. Che le mie parole l’avessero davvero colpito?
Il suo sguardo si spostò sulla piccola figura accanto a me, e io non potei fare a meno di seguirlo.
Annika ci guardava, tenendo le piccole mani davanti alle labbra rosee aperte in una piccola “O” sorpresa. I suoi occhi color mare erano lucidi di lacrime e le guance arrossate. La sua espressione era chiara: non si aspettava assolutamente di vederci litigare, non così aggressivamente, almeno.
Deglutii sommessamente e cercai di ricompormi. Avevo fatto di tutto per non fare notare questa parte di me alla piccola, e improvvisamente perdevo il controllo per un motivo così sciocco. Come avevo potuto? E se adesso non si fidasse più di me…?
Il mio sguardo tornò a Miles, stavolta allarmato dalla situazione, e lui si rese subito conto di ciò che volevo dirgli solo guardandomi. Sospirò e si passò una mano tra i capelli argentei, prima di sorridere leggermente.
«Avete ragione, scusate se sono stato così reticente…» cominciò lui, e io rimasi paralizzata.
Ero io quella che avrebbe dovuto scusarsi. Ero stata io ad alzare la voce in quel modo per niente appropriato, mostrandomi alla bambina come una donna decisa a fare di testa propria. Aggressiva.
E invece era lui quello che si stava scusando?
«Miles, io…» cercai di dire, anche se per me era sempre un duro colpo ammettere di aver sbagliato. Lui alzò una mano, per bloccare quel flusso di parole che stentavano ad uscire dalla mia bocca.
«Lo so. Alla piccola non farà male conoscere un buon modo per difendersi. E sono sicuro che troveremo un accordo.» rispose alla frase che non ero riuscita a concludere.
Improvvisamente mi stava dando ragione, e lo stava facendo su una cosa che avrebbe sempre considerato inaccettabile. Qual era la sua strategia? Perché non riuscivo a capire cosa gli stesse passando per la mente?
Poi mi resi conto.
Lui non voleva, come me, che noi apparissimo ad Annika come due tutori che si urlavano contro per colpa sua. Per la bambina, sarebbe stato terribile pensare che noi due litigassimo per faccende che la riguardavano, sarebbe stato come ammettere che la sua presenza aveva distrutto la nostra serenità.
Sapevamo entrambi che Annie era piuttosto intelligente, e se sarebbe giunta a questa conclusione chissà cosa avrebbe fatto...! Non volevo nemmeno immaginare le possibilità: poteva fuggire di casa, essere investita da un camion… No. Non dovevo nemmeno pensare a quest’eventualità.
Sorrisi, cercando di ricacciare indietro tutta la rabbia che era scaturita da quel conflitto, e risposi.
«Sapevo che avresti capito, Miles. Ti andrebbe di venire con noi?» lo invitai, sogghignando improvvisamente.
Forse avrebbe avuto un attacco isterico vedendo scegliere alla bambina la sua frusta personale. Sarebbe stato piuttosto divertente da vedere, visto che lui non si scomponeva mai.
Il mio “fratellino” impallidì, poi annuì.
E, per fortuna, vidi Annika sorridere.

«Non… credevo che esistessero negozi specializzati nella vendita di fruste» commentò Miles, mentre osservavamo la vetrina dove erano esposti fruste e frustini di tutti i generi, colori e qualità.
Lo guardai di sottecchi, mentre stringevo ancora la manina di Annika che, come non avrei mai immaginato, osservava affascinata la merce. Sembrava che l’idea di possedere quell’arma le piacesse, forse perché l’avrebbe fatta sembrare ancora più simile alla zia?
«E dove pensavi che avessi preso la mia, in un sexy shop?» chiesi ironicamente, mentre spingevo la porta di ingresso ed entravo nel locale.
Non ebbi bisogno di voltarmi per sapere che era arrossito di imbarazzo, perché lo sentii dire, in tono molto nervoso «Franziska! Non davanti alla bambina!»
Ridacchiai leggermente, lusso che mi concedevo di rado, ma non così tanto ultimamente. Vivere insieme a lui e alla mia nipotina includeva scene abbastanza comiche in cui non si poteva far a meno di sorridere.
«Cos’è un secsi sciop, Tante Frannie?» chiese in quel momento Annie, tirandomi per la manica del cappotto. Io la guardai serenamente e poi additai l’uomo insieme a noi.
«Te lo spiegherà Onkel Miles quando sarai più grande, Nichte» risposi, per poi lanciare un’ultima occhiata divertita a lui, incrociando il suo sguardo di rimprovero.
Sì, mi piaceva creargli problemi. Era divertente vederlo reagire ogni tanto, visto che di solito se ne stava sempre così calmo e compassato!
Lui tossicchiò, poi sembrò essere sul punto di dirmi qualcosa, ma fu interrotto dall’arrivo del commesso del negozio, che sembrò vagamente stupito di vederci. Speravo solo che non ci avesse confuso con una “famiglia felice” come sembravano fare tutti ultimamente.
«Buongiorno. Mi dica, ha bisogno di qualcosa?» mi chiese in modo cortese.
Io lo degnai appena di un’occhiata, prima di lasciare che mi esponesse i migliori prodotti del suo negozio.

Erano passate delle ore, prima che il signore finisse di mostrarmi tutte le pregiate armi che teneva nel suo locale, e probabilmente avrei perso il conto se avessi deciso di numerare tutte le volte in cui mi aveva chiesto «In particolare, a che cosa le servirebbe questa frusta?»
Non che lo volessi uccidere, ma in quel momento se i miei occhi glaciali ne sarebbero stati capaci, probabilmente si sarebbe ritrovato sul pavimento senza vita. Che importava poi a lui? Non faceva parte del suo impiego sapere a cosa mi serviva la frusta.
Ah, nella mia amata Germania i commessi non erano così invadenti, e facevano il loro lavoro con professionalità e correttezza.
Questo tizio invece, sembrava ostinato a sapere che utilizzo volessi fare del mio acquisto, e lanciava strane occhiate a Miles. Mi chiedevo perché… e speravo per lui che non si fosse fatto strane idee!
«Vi lascio scegliere in privato, io vado un attimo in magazzino» commentò, con uno sguardo molto strano che passava da me al mio accompagnatore, poi si dileguò.
Sospirai, prima di passare a prendere in mano le varie fruste, per saggiarne la pesantezza e l’elasticità. Non tutte erano adatte a me: il manico doveva essere piuttosto piccolo, per fare in modo che potessi impugnarla bene, e la pelle utilizzata doveva essere di ottima qualità.
Non avrei accettato niente che non fosse la perfezione.
Annika stava provando un piccolo frustino azzurro – non sapevo con che colorante fosse stato tinto, ma prendeva una bella colorazione turchese – e colpiva l’aria con colpi potenti e decisi. Oh sì, era proprio mia nipote!
«Che ne dici di scegliere in fretta? Sono ore che siamo in questo negozio, e il venditore continua a guardarmi in modo strano» commentò nervosamente il mio “fratellino” avvicinandosi a me e cominciando a dare un’occhiata anche lui alla merce.
Io annuii, ma mi trovai in disaccordo con lui.
«Lo so, ma devi darmi tempo. Non posso rischiare di scegliere l’arma sbagliata. Ah, se ci fosse herr Sciattone qui lo potrei usare come cavia…» dissi in modo sognante, strappandogli un sorriso.
Lui però sembrò deciso a sbrigarsi con quella faccenda, e mi passò una lunga frusta nera, che alla luce del sole sembrava avere dei riflessi blu scuro. Anche questa doveva essere stata trattata, il che mi faceva dubitare vagamente della sua resistenza.
La presi in mano stringendone l’impugnatura e rimasi in silenzio. Sembrava essere perfetta per la mia piccola manina guantata, quasi più della mia fidata frusta rimasta in mano alla polizia dopo essere stata considerata arma del delitto.
Provai a farla schioccare, ed essa si inclinò elegantemente sotto il mio colpo, con una precisione assoluta. Passai un dito sulla pelle, che si rivelò liscia e resistente come l’acciaio, eppure totalmente elastica.
Mi ritrovai a sorridere entusiasta. Non avevo mai visto un’arma più perfetta!
«Sembra che la mia scelta ti sia piaciuta, Frannie. E guarda! È persino in tinta con quella di Annika» commentò Miles, indicandomi il frustino azzurro della bambina.
Non mi piaceva molto dare soddisfazioni a quel procuratore in rosso, ma in questo caso non potevo fare altrimenti. Era davvero perfetta.
«E visto che ho accettato di venire qui con voi, sarò io a regalarvi questi oggetti» aggiunse, per poi chiamare il commesso e pagare entrambe le fruste.
Non mi diede nemmeno tempo di replicare che io ero una donna indipendente e come tale avrei pagato da sola il mio acquisto, ma evitai di lamentarmi. Per oggi avevo già esagerato e, anche se odiavo ammetterlo, avrei dovuto continuare a recitare la scena della “famiglia felice”.
L’avrei fatto per Annika, che finalmente vedevo sorridere come prima. 


Angolo di Kirly: 
Okay, non uccidetemi. Il mio ritardo non ha scuse, assolutamente, soprattutto perché non sono stata assente da Efp. 
Solo che avevo vagamente perso l'ispirazione e mi ero data ad altre scritture. Mi capirete mai? ç_ç 
Vabbè, ignorando tutto ciò, torniamo al capitolo. 
Come avrete immaginato, la sfida che vi propongo oggi è indovinare chi è il personaggio misterioso che compare più o meno a metà capitolo! Chi sarà il misterioso "???"? Lo scoprirete solo continuando a seguire la fic *-* 
Altre cose da segnalare? Oh, si! Spero che avrete notato la caaara citazione di Hunger Games che non ho potuto evitare di utilizzare. Ci stava troppo, devo ammetterlo. 
Oggi non vi lascio immagini perché non riesco a far funzionare bene il pc... ma mi rifarò, promesso! 
Spero che vorrete dirmi cosa ne pensate! 

Un bacio e a presto, 
Kirlia <3 

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Capitolo 4
*** All of Me ***


Capitolo 4 – All of Me
 
[..] And I’m so dizzy, don’t know what hit me
But I’ll be alright
Cause all of me loves all of you
Love your curves and all your edges
All your perfect imperfections
Give your all to me, I’ll give my all to you
You’re my end and my beginning
Even when I lose, I’m winning
Cause I give you all of me
And you give me all of you, oh

All of me.
 

«E cosa farai se uno sciocco ti importuna durante la ricreazione, Nichte?» le chiesi per l’ennesima volta, mentre Miles si accingeva a parcheggiare sul ciglio della strada, proprio davanti alla scuola del quartiere che la mia piccola avrebbe frequentato da quel giorno.
Stavo ripassando per l’ultima volta la lista di regole che avevo dato ad Annika per ciò che doveva fare nelle situazioni che le si sarebbero presentate a scuola. Sì, beh, si trattava – purtroppo – di una scuola pubblica. Il mio “fratellino” aveva vinto su quello, ma visto che non avrei permesso che la mia nipotina si immischiasse a tutta quella marmaglia che frequentava quell’istituto, era giusto definire cosa era opportuno fare e cosa no se si fosse presentata una determinata situazione.
Sentii un piccolo sbuffo provenire dal sedile posteriore e quasi mi voltai per scoprire se si fosse davvero stufata di ripetere il programma. Poi la bambina recitò la frase come se fosse una filastrocca.
«Gli darò una bella frustata, Tante Frannie. Ma non credi che sia un po’ scortese?» mi chiese, e io ero pronta a dirle che no, non era scortese frustare, visto che i von Karma dovevano essere sempre rispettati da tutti, quando Miles si voltò verso di me fissandomi. Le sue mani erano ancora sul volante.
«Non dirmi che hai concesso ad Annie di portare la frusta a scuola. È il suo primo giorno di scuola, Franziska!» mi rimproverò il tutore, incatenandomi sul posto con quei suoi occhi che in quel momento sembravano dei nuvoloni d’inverno.
Quasi mi sentii in colpa, a causa della sua occhiata. Beh… quasi.
Alzai gli occhi al cielo e gli feci un cenno con la mano guantata, come se non dessi tanta importanza alla faccenda.
«Non fissarmi così, herr Miles Edgeworth. Annika deve potersi difendere, in caso di necessità.» risposi, incrociando poi le braccia e stringendo una manica della camicetta. Lo facevo sempre quando non volevo che una delle mie decisioni fosse messa in discussione.
E poi avevo già parlato di questa cosa con lui e mi era sembrato che si fosse arreso all’idea che la bambina avrebbe imparato ad utilizzare quell’arma.
«Quale necessità, esattamente? Sta solo andando a scuola…» rispose lui, scuotendo la testa e passandosi una mano fra i capelli argentei.
Oh! Odiavo quando faceva in questo modo. Mi trattava come se fossi una bambina viziata con cui era difficile rapportarsi, e solo perché non era capace di imporsi e di far valere la sua posizione. Non che volessi che lo facesse, ovviamente… volevo essere io a decidere il meglio per la Nichte.
Prima che potessi replicare per l’ennesima volta che non mi importava nulla della sua opinione, la campanella della scuola suonò, e molti bambini corsero verso l’entrata come una sottospecie di mandria di Schaf [pecore].
Riuscivo quasi a immaginare Annika, così piccina, sovrastata e spintonata da quel branco di sciocchi ragazzini americani. La sola idea mi faceva rabbrividire, anche se non capivo esattamente perché: io stessa mi ero trovata in quella situazione, da piccola, eppure ero riuscita a cavarmela perfettamente. Però continuavo ad essere preoccupata per la mia Nichte.
Mi mordicchiai il labbro, frustrata, mentre osservavo ancora il portone di quella scuola.
La bambina scelse proprio quell’istante per liberarsi della cintura di sicurezza e scendere dall’auto, seguita dal suo tutore, non prima che mi facesse cenno di scendere a mia volta.
«Bene, Annie. Ci vediamo fra un paio d’ore. Spero che tu passi una bella giornata» commentò Miles con un sorriso rassicurante, prima di carezzare i capelli color cielo della bambina, oggi fermati da un cerchietto blu.
Annika sorrise a sua volta, stringendo in mano il suo zainetto – elegante e raffinato, scelto ovviamente da me – e guardando poi in direzione della scuola.
«Bis später, Onkel Miles e Tante Frannie [A dopo]» rispose la bambina, stringendo in un abbraccio le gambe dell’uomo accanto a me e poi accingendosi a farlo anche con me.
Io mi abbassai per raggiungere il suo livello e poi la abbracciai stretta. Sentivo una strana sensazione alla gola e immaginai che qualsiasi cosa avessi tentato di dire sarebbe venuta fuori come un lamento strozzato, quindi restai in silenzio, godendomi la sensazione del dolce profumo della bambina che mi avvolgeva.
Ero quasi intenzionata a non mollarla, quando lei sciolse l’abbraccio e si voltò, non prima di averci salutato amabilmente con la mano, e si avviò quasi saltellando verso quella che sarebbe stata la sua nuova scuola.
E io continuai a fissarla finché la sua piccola chioma color cielo non sparì dentro l’edificio. Nemmeno dopo, in realtà, riuscii a fare un passo. Semplicemente rimasi lì, sospirando e stringendomi nelle spalle, come se un freddo glaciale mi avesse colpito proprio nello stesso istante in cui lei si era allontanata da me… e dire che la stavo quasi per perdere per sempre, se Miles non l’avesse adottata al posto mio.
Fu proprio lui, probabilmente notando che ero diventata una statua, ad avvicinarsi a me e a sussurrarmi alcune parole all’orecchio.
«Starà benissimo, Frannie. Sta’ tranquilla» disse, facendomi rabbrividire per il suo soffio caldo sul collo e poggiandomi una mano sulla spalla. A quel contatto mi scongelai immediatamente e feci un passo indietro per mettermi a distanza di sicurezza.
I miei occhi incontrarono i suoi solo per un istante: il suo sguardo sembrava tradire una certa delusione per il mio gesto, come se il fatto che io avessi rifiutato il suo conforto gli causasse un certo dolore. Cosa si aspettava? Anche se svariate volte mi aveva consolato per i miei drammi, non significava che dovesse farne un’abitudine!
Io non avevo bisogno di una spalla su cui piangere.
Con sguardo altezzoso mi voltai e mi avviai a passo veloce verso la lussuosa auto rossa fiammante del mio “fratellino”. Prossima fermata: la procura.


Durante il tragitto dalla scuola al mio posto di lavoro – al quale tornavo dopo un’assenza giustificata solo dalla mia “sosta forzata” al centro di detenzione e dalla conseguente ferita di Miles – nell’abitacolo dell’automobile regnò un perfetto silenzio.
Il guidatore accanto a me aveva deciso di non proferire più parola, dopo la mia reazione al suo tentativo di conforto, e io non aveva assolutamente intenzione di cominciare una conversazione con lui. Non mi sentivo pronta ad affrontare l’argomento e l’assenza di Annika aveva come innalzato un muro invisibile fra di noi. In quel momento non eravamo più costretti a fingerci una “famiglia felice” ed era chiaro che a nessuno dei due interessasse continuare quella farsa.
O almeno, così credevo.
Lanciai un’occhiata curiosa al procuratore in rosso, notando che sembrava aver mantenuto la stessa espressione di prima: sembrava deluso e, anche se concentrato sulla strada, sembrava avesse la testa da un’altra parte. Speravo solo che non ci schiantassimo contro un albero a causa dei suoi sciocchi pensieri distratti… mi era già bastato il giorno in cui avevo fatto quell’orribile incubo per rischiare degli incidenti.
Ma perché era così triste?
Proprio quando cominciavo a chiedermi se avrei dovuto avere dei sensi di colpa per il mio gesto scontroso, Miles raggiunse la procura e prese posto nel suo settore del parcheggio sotterraneo.
Spense il motore e, in totale silenzio – un silenzio pieno di tensioni, a mio parere – aprì la portiera e uscì dall’auto. Io lo seguii, scrutandolo di sottecchi e chiedendomi cosa gli stesse succedendo, senza però avere il coraggio di dire nulla.
Facevo quasi fatica a stargli dietro, mentre camminava a passo svelto e raggiungeva la zona delle scale. Nell’atmosfera silenziosa del seminterrato, i tacchi dei miei stivali risuonavano con una fastidiosissima eco. In ogni caso, non gli chiesi in alcun modo di attendermi, perché a quanto pareva mi stava ignorando di proposito, e pur essendo curiosa, c’era allo stesso tempo una parte di me che non voleva sapere cosa stesse vorticando nella mente di lui. Temevo che quei suoi pensieri mi avrebbero in un certo senso ferita, ed era quella paura, oltre all’orgoglio, a mantenermi in perfetto silenzio.
Salimmo le scale come due perfetti sconosciuti, che sentivano la presenza l’uno dell’altro ma facevano finta di essere comunque soli, e ci ritrovammo nell’atrio del palazzo, dove diversi colleghi e agenti ci salutarono con la dovuta cortesia. Alcuni di loro si avvicinarono per darci il bentornato, al quale noi rispondemmo in modo garbato ma comunque scostante, come era consono nella nostra natura. Soprattutto nella mia, a dire il vero, in quanto Miles sembrava piuttosto amichevole nei confronti degli altri, più di quanto ero abituata a vedere di solito. A volte questi suoi comportamenti continuavano a colpirmi, per quanto ormai fossi consapevole del fatto che lui fosse cambiato molto dai tempi in cui era ancora un allievo di mio padre.
«Signor Edgeworth, signore! Vedo che è tornato, amico!» esordì herr Sciattone, spuntando dal nulla avvolto nel suo solito e trasandato impermeabile dal colore indefinito.
Prima che il mio “fratellino” avesse modo di rispondere al saluto, la mia nuova e splendente frusta si abbatté su quella che sarebbe stata la sua vittima preferita con un sonoro schiocco che mi sembrò melodioso ed estremamente perfetto.
«Ahio! Perché l’ha fatto, signorina von Karma?» chiese il diretto interessato in modo scioccamente piagnucolante, massaggiandosi la spalla colpita con uno sguardo da cane bastonato che non sortì alcun effetto nei miei confronti. Non cedevo sotto a quegli sguardi da debolucci.
«Perché è scortese dare il benvenuto a herr Miles Edgeworth e ignorare me, che sono appena tornata da un processo scatenato dalla tua incompetenza» spiegai, riferendomi ovviamente al fatto che se lui non mi avesse subito arrestato, quando mi aveva trovato nel mio ufficio di fronte al cadavere ancora caldo di mia sorella Angelika, tutto l’inconveniente delle ore passate nella fredda cella del centro di detenzione e del conseguente processo sarebbe stato evitato.
«Inoltre,» aggiunsi subito dopo, stringendo tra le dita il mio ultimo acquisto dalle sfumature blu come per saggiarne la resistenza «volevo provare la nuova frusta e tu sei lo sciocco perfetto.»
Vidi il detective rabbrividire di fronte al mio mezzo sorriso che esprimeva tutta la mia voglia di dare sfogo a tutte le mie preoccupazioni con dei bei colpi di frusta e fare un passo indietro, guardando poi il procuratore accanto a me come se cercasse protezione. Quello, però, si limitò a scuotere la testa come a voler dire di non poterlo aiutare in alcun modo, ed herr Sciattone fu costretto ad andare via senza più dire una parola, come un cane con la coda tra le gambe.
Dopo un attimo in cui entrambi lo seguimmo con lo sguardo, Miles ripartì di nuovo senza rivolgermi nemmeno un’occhiata, e si avviò – a differenza di tutti – verso le scale. Io allora alzai un sopracciglio, e mi mossi invece verso l’ascensore.
Bene! Se lui non intendeva parlarmi, perché avrei dovuto farlo io? In fondo Annika non c’era, quindi non c’era nessuna farsa da portare avanti. Se voleva starsene per conto suo e ignorarmi, anche io avrei fatto lo stesso! Non volevo seguirlo come una sciocca che aveva bisogno di certezze, che aveva bisogno di sentirsi dire che era importante anche quando mancava quel legame che era diventato per noi la bambina. No, assolutamente no. Non mi sentivo offesa né ferita. Giusto…?
Scuotendo la testa per togliermi dalla mente quel piccolo dubbio, premetti il pulsante per chiamare l’ascensore e attesi.
Il mio orecchio si tese automaticamente nella direzione che aveva preso il mio “fratellino”, mio malgrado, e poco dopo tempo, riuscii a sentire che parlava con qualcuno, forse un’inserviente, che lo informava che aveva appena passato lo straccio sulle scale e che quindi sarebbe stato preferibile prendere l’ascensore. Trattenni un sospiro, percependo poi i passi di lui che tornavano verso di me, e mi affrettai a voltare la testa per fissare insistentemente le porte d’acciaio che stavano per aprirsi. Non gli avrei dato occasione di pensare che io lo consideravo. Avrei fatto finta di non vederlo proprio come lui stava facendo con me.
Il calore del suo corpo fu quasi tangibile, la sua presenza quasi opprimente, ma non in modo negativo, quando si fermò accanto a me. Cercai di dargli un’occhiata con la coda dell’occhio, ma non ebbi modo di accorgermi se mi stava osservando.
Con un sonoro bing! il nostro “mezzo di trasporto” annunciò il suo arrivo, e appena le porte si aprirono io mi affrettai a sgusciare dentro, seguita dal passo molto indeciso di lui. Sapevo che a volte usava gli ascensori, anche se non ne era affatto contento, e supposi che quella situazione non doveva essere delle migliori per lui: chiuso in quella scatola di metallo insieme a una “sorellina” che per qualche motivo quel giorno non aveva voglia di considerare tale.
Quell’ultima osservazione mi fece arrossire di rabbia e frustrazione: perché mi trattava così? Era stato davvero il mio rifiuto di essere confortata a farlo diventare così taciturno? Insomma, lo sapeva benissimo che io ero una von Karma, e che in quanto tale rifuggivo più che potevo qualsiasi manifestazione di sentimento! O almeno era così che era mio dovere comportarmi… anche se ultimamente mi ero molto lasciata andare all’imperfezione.
Quando le porte si chiusero, fu quasi un segno. Non riuscii più a contenere i miei pensieri e mi ritrovai a esternarli con un certo vigore.
«Insomma, herr Miles Edgeworth! Che cosa ti prende? Perché mi tratti come se non esistessi?» dissi, a voce più alta del solito. Mi ero permessa quel lusso in quanto lì dentro nessuno si sarebbe accorto della caduta della mia maschera.
Lui, però, reagì semplicemente con un sospiro che rivelava tanti dubbi e pensieri inespressi, abbassando lo sguardo senza neanche volgersi verso di me.
«Und schau mich an, wahrend ich mit dir reden, du Narr! [E guardami mentre ti parlo, sciocco!]» aggiunsi quindi nella mia lingua madre, rivelando quindi l’importanza che aveva per me l’argomento e prendendo il suo mento con le dita guantate per costringerlo a ruotarlo e incontrare il mio viso.
I suoi occhi si posarono quindi sui miei, e sembrò quasi che quei nuvoloni grigi che promettevano terribili tempeste in arrivo riuscissero a contagiare il cielo sereno delle mie iridi con tutti i pensieri sconnessi che le attraversavano. Riuscii a intravedere frustrazione, desideri nascosti nel più intimo degli angoli della sua anima, tante parole che non era in grado di dirmi e che eppure erano lì, pronte a rivelarsi a me in tutte le loro sfumature.
Eppure non capii. Non potevo, perché pur conoscendo Miles praticamente da tutta la vita non avevo mai visto prima d’ora tutti queste emozioni trasparire da quegli occhi che erano solitamente indecifrabili per me.
Si umettò le labbra e mi guardò indeciso. Mi resi conto che sembrava essersi arreso all’evidenza di dovermi parlare, e io lo fissai attenta, pronta ad ascoltare delle parole che temevo mi avrebbero ferito.
«Io… Franziska, è che…» cominciò, ma non ebbi mai occasione di scoprire ciò che stava per dirmi in quel momento.
Proprio in quell’istante, infatti, le pareti d’acciaio dell’ascensore cominciarono a tremare, prima lentamente, poi sempre in modo più intenso, distorcendo le nostre figure e stridendo in modo quasi assordante. All’inizio non fui capace di capire cosa stava succedendo, perché pur avendo avuto varie esperienze di questo genere – anche nell’ultimo periodo, in effetti – mi era sempre capitato di essere all’esterno, o comunque in un luogo abbastanza ampio. Bastò però un’occhiata nella direzione di Miles per capire cosa fosse tutto ciò.
Lo vidi impallidire terribilmente, le labbra tremarono vagamente; il suo sguardo cercò il mio e quando lo trovò sembrò completamente svuotato da quelle emozioni che l’avevano caratterizzato fino a poco prima. Tutto ciò che riuscivo a vedere era il panico che si era impossessato di lui e una scintilla di assenza che mi fece pensare che stesse per svenire.
Un terremoto! E non uno qualunque… Una scossa proprio all’interno di un ascensore, che non era altro che il peggiore incubo del mio “fratellino”! Ricordavo ancora le notti in cui lo sentivo urlare nel sonno, quelle in cui decidevo di andare contro le regole di mio padre, che mi aveva sempre proibito di andare a trovare Miles nei suoi appartamenti, per intrufolarmi nella sua stanza. Non ero mai stata brava nei rapporti interpersonali, soprattutto nel consolare qualcuno, ma ricordavo ancora le volte in cui restavo con lui finché non si riaddormentava, distraendolo con qualche discorso senza senso che aveva il solo scopo di fargli dimenticare il brutto sogno.
Eppure, adesso, non credevo che una distrazione sarebbe stata abbastanza per fargli ignorare tutto ciò che gli stava accadendo intorno. Le pareti non smettevano di tremare, sentivo il pavimento oscillare leggermente sotto i tacchi dei miei stivali, ma l’unica cosa che riuscivo a guardare senza vacillare per un momento era lui, la cui espressione implorava che tutto finisse, che tutto quello non stesse succedendo.
Lo vidi perdere l’equilibrio e accasciarsi su un ginocchio, i ciuffi di capelli color argento nascondevano il suo viso e mi facevano temere che si stesse sentendo male.
«Miles!» chiamai allora, dimenticando qualsiasi contrasto, dubbio o sentimento inespresso che ci fosse fra noi.
Infischiandomene dei miei principi, mi accovacciai accanto a lui e presi il suo viso tra le mani, cercai di costringerlo a guardare solo me e a dimenticarsi del resto, dell’ambiente che non smetteva di agitarsi intorno a lui. Cercai di farlo focalizzare su qualcosa di più certo di un mondo che si lasciava andare a tutte quelle oscillazioni, qualcosa di più saldo e sicuro. Su di me.
«Miles, calmati. Alles ist gut… [Va tutto bene…]» sussurrai, cercando di mantenere la voce salda che gli serviva per rendersi conto che doveva riprendersi.
Quella scatola di metallo nella quale eravamo intrappolati, nel frattempo, aveva smesso di tremare. Eppure sapevo che non era finita, e mi bastava osservare il mio “fratellino” per saperlo: i suoi occhi fissavano un punto imprecisato a sinistra della mia spalla, e anche se non era svenuto, si trovava in uno stato che non poteva definirsi cosciente. Mormorava delle cose che quasi non riuscivo a percepire.
«No, no, questo non può succedere… Ho assistito alla morte di mio padre in questo ascensore… E… E…» sussurrava a bassa voce, ma le sue parole non avevano senso.
Capivo che collegasse questo avvenimento alla tragedia di suo padre, ma dopo aver scoperto che la sua morte non era stata causata da lui bensì da Manfred von Karma, mio padre, non doveva reagire in questo modo. Credevo che quel trauma fosse ormai stato superato, invece a quanto pareva non era così. Erano passati quasi due decenni, eppure mentre lo osservavo lo vedevo quasi rimpicciolirsi di fronte a me e tornare il bambino terrorizzato che pensava di aver ucciso l’uomo che lo aveva cresciuto.
«Miles, questo non è lo stesso ascensore. Ricordi? Qui siamo in Procura, quello invece era il Tribunale» spiegai, cercando di sembrare razionale e quindi riportarlo alla realtà.
Lui però, sembrò non capire ciò che avevo detto, pur avendo spostato la propria attenzione su di me, e strinse i miei polsi, attirandomi poi verso di lui. Li teneva stretti, fin troppo, ma mi trattenni dal farglielo notare e costrinsi le mie labbra a non storcersi in una smorfia dolorante. Volevo aiutarlo, non fargli pensare che stesse impazzendo – anche se una crisi del genere era piuttosto grave! – e volevo che si sentisse al sicuro.
«Succederà di nuovo? Perderò i miei cari a causa di questo luogo?» mi chiese, ma non sembrava che attendesse una risposta, e io rimasi in silenzio, sperando che riuscisse a calmarsi.
«Perderò te…?» sussurrò, a voce così bassa da essere quasi impercettibile, eppure con un tono allo stesso tempo così dolce e disperato da spezzare il mio cuore di ghiaccio.
La presa sui miei polsi si era nel frattempo affievolita, e io azzardai un movimento per liberare una mano e poi fare una cosa che fino a poco tempo prima non mi sarei mai e poi mai permessa di fare: carezzai la sua guancia e cancellai la singola lacrima che era sfuggita a quelle iridi di nuvole grigie. Avvicinai il mio viso al suo, studiando ogni singola sfaccettatura della sua espressione, senza rendermi davvero conto di cosa stessi facendo, mossa da qualcosa che era tutto tranne che la razionalità di cui mi ero poco prima vantata.
«Non mi perderai mai, Miles» risposi al suo quesito, e mi accorsi di stargli sorridendo in un modo così sincero, talmente gentile. Non era mai stato da me rivolgermi a lui con tanta emozione, eppure in quell’attimo era riuscito a superare tutte le barriere che erigevo intorno a me e a sfiorarmi l’anima.
Tutta quella sincerità però non servì a convincerlo. Anzi, più che calmarlo sembrò agitarlo ancor più, ma in un modo differente da prima. Non vedevo più in lui quella scintilla di irragionevolezza, lo scoprivo invece totalmente consapevole di ciò che stava per dire.
«Ma io ti sto già perdendo, Frannie! Ogni giorno che passa cerco di tenerti vicina a me, ma sento che il muro che ci separa diventa sempre più alto e spesso. Vorrei solo sapere cosa pensi. Eravamo così vicini, fino a poco tempo fa… Cos’è cambiato?» disse, e fu chiaro che quello fosse in qualche modo il seguito della discussione che stavamo per incominciare prima che il terremoto ci interrompesse.
La situazione però aveva fatto sì che io non fossi più arrabbiata, bensì preoccupata per lui e quindi più sensibile a qualsiasi cosa mi stava dicendo.
Ecco allora, perché era arrabbiato con me: si rendeva conto che lo stavo in qualche modo rifiutando, che stavo distruggendo persino il nostro rapporto quasi-fraterno! Avrei voluto tanto dirgli che gli volevo ancora bene – anche se mi costava molto ripeterlo ad alta voce – e che mi dispiaceva di avergli riservato quel trattamento.
Ma lui non poteva sapere… No. Non poteva venire a conoscenza del fatto che avevo fatto di tutto, persino tentato di sfuggirgli trasferendomi in Germania, per evitare di dover ammettere dei sentimenti che non riuscivo ancora a comprendere appieno, ma che sapevo essere profondamente imperfetti, e quindi inadatti a me. Non potevo dirgli che evitavo di sfiorarlo perché bastava quello ormai a farmi battere il cuore così forte che credevo potesse uscirmi dal petto.
Non potevo accettare di essermi invaghita di mio fratello! Era sbagliato e per quanto mio padre avesse errato in molti suoi insegnamenti, ritenevo ancora che quello legato all’amore fosse ancora valido.
Aprii la bocca, senza sapere esattamente cosa avrei detto, ma prima che potessi parlare lui mi interruppe di nuovo, con decisione.
«No, non devi dirlo. So di essere in errore, so di averti confusa» cominciò, ma in realtà fu solo in quel momento che riuscì a confondermi. A cosa si riferiva? La colpa di tutto ciò era solo mia, perché allora lui aveva tanto l’aria di doversi scusare?
«Miles, ma cosa…?» cominciai, sperando che si spiegasse.
Lui mi fissò, travolgendomi ancora con quel suo sguardo pieno di emozioni che non riuscivo a interpretare, benché fossero lì pronte ad essere lette, e poi disse qualcosa che mai e poi mai mi sarei aspettata di sentire.
«Mi ero ripromesso di nascondertelo, di sopprimere in qualche modo – qualsiasi! – quello che provavo. Perché so che è sbagliato. Eppure tutto deve essermi sfuggito di mano, anche se non me ne ero reso conto almeno finché tu non hai preso a chiuderti in te stessa, a non farmi più partecipe dei tuoi pensieri» dichiarò, e io sentii una sorta di peso liberarsi dal mio cuore, lo sentii volare dentro di me come una farfalla finalmente libera di esprimersi. Se cominciavo davvero a comprendere le allusioni che stava facendo, tutto quello che avevo temuto fino a quel momento non aveva motivo di esistere.
Ma era tutto vero?
«Franziska, sai che non sono mai stato bravo con le parole quando si parla di queste cose. Sono sempre stato piuttosto restio per natura ad aprirmi agli altri» continuò, e io volevo dirgli che non importava, che l’avrei ascoltato comunque, qualsiasi fosse stata la maniera in cui avrebbe espresso quello che voleva dirmi.
Avevo paura, io, Franziska von Karma, il Genio della Procura, di stare fraintendendo tutto, di stare associando un significato diverso alle parole che mi stava dicendo, uno legato ai sentimenti che provavo e che desideravo fossero ricambiati. Ecco perché non riuscivo a dirgli nulla, non riuscivo a incoraggiarlo né a zittirlo, perché in quel momento ero soltanto travolta da mille pensieri.
Rimasi quindi a fissarlo, senza sapere quale fosse la mia espressione, e attesi.
Attesi un discorso che fu molto più rapido di quanto mi aspettassi, perché quello che lui riuscii a dire furono solo poche parole.
«Scusami, sono soltanto un egoista.»
Non ebbi modo di chiedergli nulla, perché in un attimo le sue labbra sfiorarono le mie.
Non fu un bacio casto, ma nemmeno pieno di passione come quello di alcuni film che avevo visto. Fu un bacio travolgente e dettato dall’urgenza di poter esprimere qualcosa che a parole era impossibile affermare per persone come noi.
Le sue labbra erano morbide e calde e, benché io non avessi mai baciato nessuno prima di allora, mi resi conto che combaciavano perfettamente con le mie, come se fossero state modellate di proposito da un’entità superiore per adattarsi alla forma delle mie. Come se da sempre fossimo destinati a questo, e fossero state solo le circostanze a mantenerci separati fino a quel momento.
Fu più di un incontro di corpi, fu come se le nostre anime si fossero finalmente incontrate e si stessero fondendo – in un abbraccio di azzurro cielo e grigio nuvole – in un unico spirito nuovo che ci racchiudeva entrambi.
E io? Come avevo reagito io?
Non avevo mai avuto un’esperienza del genere, eppure sembrò che il mio corpo sapesse esattamente cosa fare e non aspettasse altro. Provai solo un vago senso di esitazione all’inizio, ma poi le mie braccia trovarono la giusta posizione sulle sue spalle, attirandolo più vicino a me. La sensazione delle sue mani sui miei fianchi mi metteva i brividi, ma non mi spaventava.
C’era qualcosa di più perfetto di noi due, insieme?

Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, quanto l’incanto si ruppe con uno scossone, e l’ascensore ripartii, aprendosi subito dopo sul piano degli uffici che intendevamo raggiungere in principio.
Eravamo ancora abbracciati l’uno all’altra, e quando i miei occhi raggiunsero l’esterno e l’espressione stupita di alcuni vigili del fuoco e agenti che si erano affrettati a salvarci, quasi mi stupii di essermi dimenticata di essere stata chiusa in un ascensore per un periodo di tempo imprecisato, e che avrei rischiato di perdere la vita, se non ci fossero stati quegli uomini.
Avevo tentato di restringere il mondo di Miles a quelle quattro mura d’acciaio per fargli dimenticare le sue paure, ma la verità era che per un attimo ero stata io a scordarmi che il mondo non era solo lì, e che c’era molto altro intorno che avrebbe potuto avere da ridire su quello che avevo appena fatto.
Ecco perché mi rialzai immediatamente, come spinta da una molla invisibile, e uscii da quelle mura anguste con grandi falcate, ignorando il mio “fratellino”, il cui sguardo confuso sentivo perforarmi la schiena, e il resto della gente lì intorno, che mi rivolgeva uno sguardo decisamente interrogativo.
Avevo già messo una mano guantata sul pomello della porta che recitava “Procuratore von Karma”, quando il peso di una mano sulla spalla richiamò la mia attenzione.
«Frannie? Che succede?» chiese la voce titubante di Miles, che di certo aveva tutto il diritto di avere delle risposte sul mio comportamento di poco fa.
Eppure, non avevo delle spiegazioni da dargli, ma solo una certezza. Quella che tra noi due non poteva esserci niente. Io non potevo amare. Non potevo farlo per il bene di Miles e per quello di Annika, non potevo farlo perché ero stata cresciuta per non provare sentimenti, non potevo farlo perché… beh, non ne ero certa. Forse perché avevo paura.
Senza guardarlo negli occhi, né voltare il viso verso di lui, dissi solo alcune parole che avrebbero chiuso definitivamente la questione.
«Non farlo mai più, herr Miles Edgeworth.» 



Ehm... *si nasconde* 
Ehm, salve. Sì, sono io, Kirlia, quella che non aggiorna questa fanfiction da un anno. 
Mi dispiace tantissimo di essere sparita, e non assicuro che non lo rifarò, perché purtroppo sono enormemente impegnata e non riesco a stare sempre dietro a tutte le mie occupazioni. Inoltre avevo perso l'ispirazione per questa storia, per quanto continui ad adorare sempre e per sempre i miei cari Miles e Frannie. 
Insooomma, eccomi tornata con un nuovo capitolo che è uscito proprio come lo immaginavo un anno fa! *-* Ci è voluto un po' - beh, è dal 2012 che questa storia è iniziata e dobbiamo dire che Miles si è trattenuto parecchio - ma finalmente questi due si sono scambiati un tanto agognato bacio! Inoltre, ci voleva un bel capitolo importante, dopo il precedente in cui non era successo niente di eccezionale, e sono felice di averlo scritto. 
Ovviamente, devo ringraziare Sian per il ritorno della mia ispirazione, visto che in questi giorni si è tanto prodigata nel recensire tutti i capitoli di questa serie. Grazie, cara! E se vuoi tradurre in un tedesco vero tutte le frasi di questi qui, puoi farlo, hai tutta la mia approvazione! 
Inoltre, vi lascio questo bellissimo disegno che una volta Rurue mi aveva fatto, e che non avevo mai avuto modo di postare e che si riferisce a uno degli scorsi capitoli: 

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Grazie anche a te, tesoro <3 
Beh, che dirvi? Per quanto sia passato tantissimo tempo, spero che tornerete a commentare questa storia, come sempre ci terrei tantissimo perché rimane una delle mie preferite. 
E ho inoltre una domanda per voi: essendo passato del tempo, secondo voi il mio stile di scrittura è cambiato? E sono riuscita sempre a rendere i personaggi o li ho mandati OOC? Ditemi, vi prego XD 
E niente, vi saluto e spero di tornare presto per il quinto capitolo, visto che Frannie qui non sembra aver ancora accettato di essere la futura signora Edgeworth. 
Un bacio, 
Kirlia <3

 

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Capitolo 5
*** I wish You were Here ***


Capitolo 5 – I wish You were Here
I can be tough
I can be strong
But with you, It’s not like that at all
Theres a girl who gives a shit
Behind this wall
You just walk through it

I wish you were here.
 

{Katherine Payne}

«Francamente, signorina Payne, non capisco perché dovrei accettare di farmi carico di tutto ciò» rispose la persona dall’altra parte del telefono, dopo il silenzio che si era protratto per alcuni minuti e che mi aveva fatto pensare che non avesse ascoltato una parola di tutto quello che le avevo detto.
Alzai gli occhi al cielo e mi sistemai meglio i piccoli occhiali lucidi sul naso, scocciata. Perché dovevo essere circondata da una massa di incompetenti?
«Cosa intende dire?» chiesi, cercando di apparire quantomeno cortese nei suoi confronti. Mi ribolliva il sangue nelle vene e avrei solo voluto ordinare di fare ciò che volevo, semplicemente perché era così che dovevano andare le cose. Tuttavia non potevo, non se volevo il suo appoggio.
Ecco perché mi trattenevo, mi rimangiavo tutte le imprecazioni. Ero ormai diventata brava in questo: non era passato molto tempo da quando ero diventata procuratore, e mi ero ritrovata in questi uffici dove il mio nome era oggetto di derisione da parte di tutti i colleghi.
Ah! La figlia di Winston Payne, il peggior legale che Los Angeles abbia mai avuto dall’inizio dei tempi…!
Avevo sopportato i sorrisi falsi e i bisbigli dietro le spalle per anni, prima di riuscire a raggiungere il mio nuovo stato di procuratore capo. E non era stato facile nemmeno ottenere quella carica, visto che c’erano molti colleghi con più esperienza e più anni di servizio, eppure ci ero riuscita grazie a una manovra poco legale che nessuno aveva mai scoperto. Nessuno si era fatto domande, e io avevo ottenuto il mio ruolo.
Credevo che quello sarebbe stato abbastanza per rendermi felice e per ristabilire il buon nome della mia famiglia, invece non era cambiato nulla. La gente continuava a ignorarmi, a ignorare la mia autorità, rivolgendo il proprio rispetto verso altri procuratori, il cui nome era stato infangato più di una volta… Nomi come von Karma.
Quella ragazzina vantava ben quattro anni di esperienza più di me – pur essendo più giovane – ed era considerata il Prodigio della Procura, pur essendo stata più volte battuta in tribunale. Persino la vergogna dell’omicidio compiuto da suo padre non era riuscita a cancellare il timore e rispetto che incuteva su tutti, persino l’accusa di aver ucciso sua sorella non era stata abbastanza!
Quella dannata von Karma riusciva sempre a camminare a testa alta, e nessuno le aveva mai contestato niente! Io, invece, che non avevo mai commesso un errore da quando avevo preso il mio distintivo di pubblico ministero, rimanevo sempre agli occhi di tutti una Payne. Niente di eccezionale, insomma. Nessuno che meritasse un po’ di considerazione.
«Intendo, cara, che non ci guadagno niente a fare quello che mi chiede. Inoltre, ci vorrebbe del tempo, e sa benissimo che non ne ho» spiegò il mio interlocutore, con una voce falsamente gentile che riusciva quasi a battere la mia, distogliendomi dai miei pensieri.
Bene, nessuno faceva niente per niente, e lo capivo, anche se stavo discutendo con qualcuno che di certo non aveva qualcosa da perdere. Voleva che dal mio piano uscisse fuori una fetta di torta anche per lei. Anche se tutto ciò non aveva niente a che vedere con me.
Sorrisi. In fondo sarebbe stato facile accontentarla: dovevo solo farle credere che ci sarebbe stato un guadagno anche per lei e avrebbe lavorato per me. Mi bastava darle quella speranza.
«Posso salvarla. Posso fare in modo che la legge non venga applicata su di lei» spiegai, anche se in realtà non potevo proprio fare nulla per evitare la sua condanna. Andava ben oltre le mie capacità e per quanto avessi molti “amici” in quell’ambito, non potevano aiutarmi.
«Non mi basta. Voglio la certezza che lei faccia qualcosa per…» aveva cominciato a rispondermi la persona oltre il telefono, me non riuscii più a sentire le sue parole, quando la porta del mio ufficio si spalancò con un boato e una figura dalla stazza enorme irruppe nella stanza.
Il Detective Gumshoe arrivò di fronte alla mia scrivania con ampie falcate e il respiro affannato, come se avesse fatto a piedi e di corsa tutte le scale dell’edificio fino ad arrivare qui.
Lo guardai alzando un sopracciglio, senza comprendere il perché di quell’improvvisa visita, e congedai la persona con cui stavo parlando con delle brevi scuse, spiegando che l’avrei ricontattata io appena avrei potuto.
Chiusa la telefonata, mi volsi di nuovo verso il detective, che nel frattempo sembrava essersi un po’ calmato e si era riaggiustato l’impermeabile malconcio sulle spalle.
«Ebbene?» chiesi, guardandolo e aspettandomi un rapporto su qualsiasi cosa avesse intenzione di dirmi.
Lui mi guardò stupito, come se non sapessi qualcosa che invece avrei dovuto sapere, e poi mi fece un sorriso soddisfatto, mettendosi sull’attenti e facendomi il saluto militare.
«Signora procuratore capo! Il blocco all’ascensore è stato risolto e i procuratori intrappolati dentro sono stati salvati» spiegò lui.
Cosa? Io non ero assolutamente stata avvisata di tutto ciò! Dovevo essere io lì dentro a dare le direttive su cosa si doveva o non doveva fare, e soprattutto dovevo sapere se c’era qualche disagio e quando era necessario chiamare una squadra di soccorso.
Avrei dovuto immaginare che la scossa di terremoto che c’era stata poco prima che cominciassi a discutere al telefono avesse causato qualche malfunzionamento all’interno del palazzo, ma visto che nessuno mi aveva fatto notare dei problemi avevo sperato che tutto fosse andato bene. In fondo, l’edificio della procura era piuttosto robusto, lì in piedi da anni.
Invece a quanto pareva c’era stato un blocco nell’ascensore, e persino alcune persone intrappolate! La prima cosa che mi era venuta in mente, a dirla tutta, era stato di chiedere chi fosse stato l’incompetente che aveva pensato di poter giocare a fare il capo, chiamando i soccorsi. Ma, cercando di apparire calma e gentile, decisi di interessarmi di coloro che avevano rischiato di morire asfissiati dentro una scatola d’acciaio a pochi metri dal mio ufficio.
«Oh? C’era qualcuno bloccato dentro l’ascensore?» chiesi quindi, con voce sorpresa.
Chissà chi poteva essere: magari quel neo laureato che se ne andava in giro per i corridoi a suonare la chitarra elettrica quasi fosse sul palcoscenico, o forse un agente come tanti che svolgeva le sue mansioni lì.
«Sì, signora. C’erano il signor Edgeworth e la signorina von Karma» rispose il Detective, e tutta la svogliatezza con la quale lo stavo ascoltando si trasformò prima in reale stupore, poi in irritazione.
Di tutta la gente che poteva restare bloccata in un luogo isolato e piccolo, perché proprio quei due procuratori?
Sarei stata semplicemente preoccupata se fosse accaduto qualcosa a Miles Edgeworth – a quanto ne sapevo grazie alle chiacchiere dei colleghi, gli ascensori non gli piacevano affatto a causa di trascorsi giovanili – però, se c’era di mezzo quella von Karma, di certo la situazione non poteva essere così semplice.
Stavo per aprire bocca per informarmi sul loro stato attuale, quando vidi Gumshoe sogghignare e successivamente mettersi una mano accanto alla bocca, quasi a non volersi fare vedere mentre mi confidava un segreto.
«E a dire la verità, li abbiamo trovati… Lo sa no? Avvinghiati» aggiunse, alzando poi le sopracciglia quasi a voler fare intendere il doppio senso molto evidente nelle sue parole.
La matita che mi stavo rigirando tra le mani, in quel momento si spezzò con un sonoro schiocco.
Cosa aveva appena detto?! Il procuratore Edgeworth e quella von Karma… Avvinghiati… E soli in uno spazio angusto per un periodo di tempo non esattamente determinato?!
Oh no! Non l’avrei permesso!
Questa cosa doveva essere stroncata sul nascere, e per farlo non c’era niente di meglio di un bel diversivo coi fiocchi.


{Miles Edgeworth}

Ero rimasto davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Franziska per alcuni interminabili secondi, prima di accorgermi che i vari agenti e vigili del fuoco in corridoio mi stavano ancora guardando con curiosità. Avevo cercato quindi di darmi un certo contegno e, ravviandomi i capelli che si erano scompigliati vagamente, mi ero diretto verso il mio ufficio in fondo al corridoio e mi ero rifugiato lì dentro.
Solo in quel momento, con la schiena poggiata sulla parete fredda e lo sguardo rivolto al vuoto, in direzione della finestra oscurata dalle spesse tende rosse, mi ero reso conto di quanto fossi sembrato sciocco ai suoi occhi.
Come avevo potuto? Come aveva fatto il mio istinto a superare i miei principi e i miei propositi?
Mi ero ripromesso che mai e poi mai avrei ammesso al mondo l’attrazione che provavo verso quella che doveva essere semplicemente la mia “sorellina”, che mai avrei rischiato di rovinare la nostra relazione – da poco risorta e fattasi sempre più forte – per dare sfogo ai miei sentimenti verso di lei. E invece, ero stato così fragile da non riuscire più a trattenere i miei pensieri e non solo le avevo praticamente dichiarato tutto ciò che provavo, ma mi ero spinto talmente in là da baciarla!
Sentivo ancora il suo sapore sulle labbra, dolce e intenso, e non potevo non dire che fosse la cosa più bella che avessi mai provato. Di certo mi ero ritrovato spesso, ultimamente, a fantasticare su come sarebbe stato un possibile bacio tra di noi – rimproverandomi sempre di evitare questi pensieri, che mi facevano solo del male – ma non ero mai riuscito a immaginare la vera sensazione delle sue vere e morbide labbra sulle mie. Aveva superato qualsiasi mia aspettativa, trasformando un momento di panico e angoscia in uno dei più belli mai provati nella mia vita.
Questa emozione in quel momento, però, si mescolava a un senso di colpa tale da distruggermi dentro.
Quanto mi sarebbe costato quell’errore? Quanto avrebbe sconvolto il nuovo equilibrio nelle nostre vite che mi ero così impegnato a creare?
Avevo già visto la reazione di Franziska: era fuggita via da me, sconvolta e probabilmente confusa da un gesto che per lei era inaspettato. Probabilmente in quel momento stava riflettendo attentamente su cosa fare.
Non potevo non immaginare quanto doveva essere complicato per lei: non solo aveva ricevuto un bacio, una dimostrazione d’affetto che le era stata espressamente proibita dal padre da sempre, ma l’aveva ricevuto da una figura che doveva essere fraterna. Come avevo potuto…? Dovevo aver distrutto ogni certezza della sua vita, con un singolo gesto.
Inoltre, pur essendo vero che io e lei eravamo stati distanti per molti anni, non l’avevo mai vista in compagnia di qualche ragazzo. Che le avessi persino rubato il primo bacio? Non me lo avrebbe mai perdonato, e lo sapevo.
Di certo stava già programmando di fare le valigie quella sera stessa per ripartire per la Germania, lasciandomi qui in balia dei miei complessi e della solitudine.
E Annika? Cosa sarebbe successo ad Annie? Che fine avrebbe fatto la nostra bambina quando lei avrebbe deciso di andarsene via?
Era vero che era sotto la mia custodia, ma era anche chiaro che la colpa di questa rottura fosse tutta mia. L’avrebbe portata via, e io gliel’avrei lasciato fare, perché sapevo di essere in torto e probabilmente era la giusta punizione per quello che avevo fatto. E dire che mi ero impegnato così tanto per trattenerle qui in America entrambe, persino adottando la piccola, solo perché non potevo più vivere senza di loro al mio fianco!
Franziska non aveva mai avuto torto, quando mi aveva dato dello sciocco
Scossi la testa, come per liberarmi di tutti quei miei problemi che comunque non avevano intenzione di sparire, e mi sedetti davanti alla scrivania, decidendo che per il momento era meglio occuparmi del lavoro.
… Però non riuscii a leggere nemmeno una parola di tutto quello che c’era scritto sui fogli di fronte a me. Se anche avessi tentato per tutto il giorno di occuparmi di quell’indagine, non sarei mai riuscito a togliermi dalla mente tutto quello che era successo.
Avevo ricordi un po’ disconnessi della prima parte del nostro discorso, quando il terremoto ci aveva colpiti e io ero completamente andato nel panico a causa della mia fobia. Ricordavo che al volto di Frannie si era più volte sovrapposto il ricordo – sempre terribile – di quell’incubo che era stata la mia infanzia, del momento in cui avevo perso mio padre e avevo persino dubitato di me stesso, credendo di averlo ucciso con le mie mani. Ricordavo di averle detto che avevo paura di perderla come avevo perso lui, e la sua mano gentile sulla mia guancia.
Mi aveva sorriso come spesso faceva con Annie, in quel modo che tanto le invidiavo. Non si era rivolta mai a me con tale dolcezza, nemmeno quando ero stato malato in ospedale e si era occupata di me. Eppure, in quel momento, dovevo essergli sembrato talmente fragile da permettere che lei si liberasse del tutto della sua maschera di perfezione per me.
Per me, mi ripetei, l’aveva fatto per me. Ma non dovevo rallegrarmi di questa convinzione: mi aveva trattato come qualunque amica, o sorella, avrebbe fatto con il proprio fratello. Non c’era stato in lei altro tipo di sentimento che quello, ed era inutile sperare in qualcosa di più.
Mi rigirai una penna dorata tra le mani, fissandola senza vederla davvero, continuando a riflettere su un dettaglio che mi sfuggiva.
Era vero che molti dei miei ricordi erano ancora confusi, in quanto mi ero sentito destabilizzato e non ero del tutto cosciente di ciò che avevo fatto, ma… Forse era la mia mente a giocarmi degli scherzi, ma ricordavo che lei aveva risposto a quel bacio.
L’aveva fatto? Non mi sembrava che si fosse sottratta, anzi. In realtà sul mio corpo era ancora impressa la sensazione delle sue braccia che mi stringevano, delle sue labbra che si muovevano sulle mie con una tale timidezza da renderla persino più dolce, per poi farsi più sicure e approfondire il bacio.
Era forse la mia speranza di avere ancora una possibilità con lei ad aver distorto quello che rammentavo o era la realtà? Non avrei saputo dirlo. Ma il dubbio mi attanagliava, e con esso la certezza che se avessi ancora atteso a lungo l’avrei persa per sempre.
Per questo decisi che era meglio parlare a quattr’occhi con lei, spiegarle i miei motivi, e convincerla a non abbandonarmi proprio adesso, a non privarmi della sua presenza e di quella di Annika. E magari… Avrei scoperto se l’eventualità che Frannie provasse qualcosa per me era fondata o solo frutto della mia fantasia.
Dovevo farlo in quel momento, non c’era più necessità di attendere.


{Franziska von Karma}

Erano passati forse cinque minuti o forse delle ore, da quando avevo chiuso la porta in faccia al mio… “fratellino”? Non credevo mi fosse più permesso definirlo così.
Ero rimasta lì, al centro della stanza, a fissare quel pavimento dove una volta c’era stato un costoso tappeto, ma ora non c’era più nulla. Tutto era stato ripulito dalla morte di Angelika, il parquet era stato talmente strofinato per eliminare ogni traccia di sangue da aver perso il proprio colore, lasciando una macchia chiara proprio al centro della stanza.
Il mio pesciolino, Rot, era ancora vivo, anche se non avevo idea di chi si fosse occupato di lui mentre io ero… impegnata, diciamo, altrove.
Insomma, il mio ufficio era rimasto quasi uguale al modo in cui l’avevo lasciato circa dieci giorni prima, eppure non riuscivo a smettere di fissarlo. Non perché mi interessasse davvero osservarne i dettagli, ma perché in realtà la mia mente era rivolta a pensieri totalmente differenti.
Un bacio.
Avevo appena ricevuto il mio primo bacio. Non credevo sarebbe mai successo, in realtà, anche se una piccola parte di me era sempre stata curiosa di sapere cosa si provasse in uno scambio di emozioni simile, eppure era successo. Ed era stato proprio Miles Edgeworth a darmelo.
Quello stesso bambino che era arrivato una sera, durante una nevicata, in casa mia ed era diventato il mio fratello minore. Quello stesso ragazzo con cui ero cresciuta e mi ero confrontata per tutta la vita. Quello stesso uomo che era diventato pian piano la persona più importante della mia vita, facendosi strada nel mio cuore lentamente, senza che me ne accorgessi, se non quando era troppo tardi per tornare indietro.
Scoprii le mie dita a sfiorare leggermente le labbra, dove ancora riuscivo a sentire la sensazione di lui, quel profumo intenso di tè al gelsomino che lo contraddistingueva, il tornado di emozioni con il quale mi aveva investito solo poco tempo prima.
Era successo tutto così in fretta che quasi facevo fatica ad accettarlo. Eppure era accaduto, e la parte di me che ero sempre riuscita a tenere a bada per tutti quegli anni – quella piccola e sensibile Franziska che si annidava dentro di me – stava combattendo una battaglia ardua per vincere contro tutta la razionalità della mia maschera perfetta. Se da un lato, infatti, la mente mi diceva di continuare a seguire le regole che mio padre mi aveva imposto da anni, perché erano quelle che avevo seguito per tutta la vita e dovevano avere un fondo di verità, dall’altro il mio cuore urlava di cogliere l’occasione, di seguire l’istinto.
Insomma, Miles aveva ammesso di amarmi, magari non direttamente, ma le sue intenzioni erano chiare! La mia felicità, quella che avevo intravisto nei miei sogni e nei momenti di pericolo – come quando stavo per essere colpita dal proiettile di mio padre in tribunale – era a portata di mano, così vicina da poterla afferrare in un attimo e stringerla al petto, rendendola finalmente mia.
Eppure esitavo. Perché lo facevo?
Perché avevo paura. Paura che tutto si rivelasse una sciocchezza, paura che Miles si sarebbe stancato di me, mi avrebbe abbandonato o avrebbe fatto solamente finta di volermi bene come Manfred von Karma aveva fatto dal giorno della mia nascita.
E avevo paura di deludere me stessa, cedendo a qualcosa che avevo rifiutato per anni. Avevo paura di cambiare.
Un colpo alla porta mi distolse dai miei pensieri.
Mi ritrovai a raggiungerla in fretta e a poggiarmi su di essa, senza tuttavia aprirla, solo per sentire chi mi stesse cercando. Non avevo intenzione di parlare con nessuno, e volevo fare finta di non essere lì in quel momento, ma quando riuscii a percepire il respiro profondo della persona dall’altra parte capii subito di chi si trattava.
«Franziska… So che forse in questo momento non vuoi vedermi…» cominciò la voce sommessa di Miles, più esitante di quanto fosse di solito.
Sapeva esattamente che io ero lì dietro, volente o nolente pronta ad ascoltare le sue parole. Non avevo bisogno di rispondere per sapere che avrebbe continuato a parlare fino a quando lo avesse desiderato.
Il pomello della porta fece per girare, segno che lui si accingeva ad entrare, ma io lo bloccai dalla parte opposta. Non volevo ritrovarlo di fronte a me, avevo il timore che qualsiasi mia resistenza sarebbe crollata di fronte al suo sguardo plumbeo.
«Ti prego, lasciami entrare. Dobbiamo parlarne…» continuò lui, con voce più salda, probabilmente capendo che con un atteggiamento indeciso non sarebbe riuscito a fare breccia nel muro mentale e fisico che stavo cercando di erigere nei suoi confronti.
«N-Nein» dissi soltanto, con una voce che mi uscii un po’ strozzata, e subito mi maledissi per la mia imperfezione. Se volevo tentare di apparire convinta delle mie ragioni, avevo appena fallito. Era bastata quella parola, quell’unico no, a rivelare quanto tutta quella situazione mi destabilizzasse e mi rendesse completamente indifesa.
E, consapevole che anche lui l’avesse capito, mi decisi ad aprire la porta, ritrovandomelo di fronte, con uno sguardo un po’ stupito per il mio gesto. Probabilmente si aspettava che lo evitassi fino alla fine dei tempi, ma avevo deciso che forse era meglio mettere subito in chiaro le cose e risolvere al più presto quell’imbarazzante situazione.
Incrociai le braccia, fissandolo con un atteggiamento scontroso che però non riuscì molto nel suo intento, poi feci un passo indietro, come a volerlo invitare e allo stesso tempo a voler mettere una certa distanza tra di noi.
«Se non vuoi che l’intera procura spettegoli su di noi, ti consiglio di entrare in fretta, sciocco» dissi semplicemente.
Lo vidi guardarsi intorno, prima di fare un passo avanti velocemente e chiudersi la porta alle spalle, convinto anche lui di non volersi far vedere mentre si intrufolava nel mio ufficio. Bastavano già tutte le chiacchiere sul fatto che abitassimo insieme  ad alimentare i pettegolezzi, inoltre ero del parere che anche la scena in ascensore sarebbe stata all’ordine del giorno per le voci di corridoio.
«Bene. Adesso, herr Miles Edgeworth, spiegami il motivo della tua visita» dissi, dandogli le spalle per andare a prendere posto sulla poltrona dietro la mia scrivania. In questo modo lui avrebbe dovuto sedersi dall’altra parte e io avrei garantito un certo distacco tra di noi. In realtà non ero sicura che fosse quello che volevo, ma mentre valutavo le mie alternative volevo essere capace di pensare bene, e avevo paura che se lui mi avesse sfiorato avrebbe provocato in me delle reazioni incontrollabili come quella che avevo avuto in macchina solo pochi giorni fa.
Lui si sedette proprio dove mi aspettavo, guardandomi poi con uno sguardo profondo che era capace di farmi venire milioni di dubbi su quello che dovevo fare o non fare. La sua voce, inoltre, sembrava sicura, calma come sempre.
«Hai intenzione di trattarmi come uno dei tuoi agenti, Frannie?» mi chiese, fissandomi come se riuscisse a leggermi dentro l’anima. Chiunque avrebbe notato in lui la solita tranquillità che lo contraddistingueva, ma io riuscivo a leggere il breve tremito nei suoi occhi grigi, più cupi del solito, quasi le nuvole si stessero addensando in attesa di un temporale.
Mi agitai sulla sedia, sotto quello sguardo, ma riuscii a mantenere il controllo della mia espressione e corrucciai il volto, stringendo in mano la frusta come se fossi pronta a colpirlo.
«Smettila di chiamarmi in quel modo. Non siamo più dei Kinder [ragazzini]» dissi con voce tagliente, sperando così di fargli capire che ero piuttosto seria sulla faccenda.
Probabilmente mi conosceva troppo bene, e avrebbe capito che il mio comportamento dipendeva più da un meccanismo di difesa che da altro. Tornavo sempre ad essere soltanto una von Karma, quando mi sentivo in qualche modo minacciata, e quello era forse uno dei momenti in cui mi ero più nascosta dietro il muro che avevo eretto con tutto e tutti. Però non mi importava che lui lo sapesse, era già di conforto per me sapere di poterlo benissimo cacciare fuori dalla stanza a suon di frustate se quello che stava per dire non mi fosse piaciuto. Forse volevo semplicemente fuggire da qualcosa che non capivo, eppure non riuscivo a conciliare me stessa, ed era così che reagivo.
Lui sembrò ignorare il mio commento e sospirò, finalmente dimostrando di nuovo un po’ di preoccupazione e disagio per la situazione in cui ci trovavamo.
«Franziska, dobbiamo discutere di quello che è… Successo…» disse indeciso, mordicchiandosi il labbro inferiore come se si fosse pentito di quello che aveva fatto.
Chissà? Forse, se fosse tornato indietro, non avrebbe ripetuto quel gesto tanto inatteso quanto improvviso. Forse era stato un attimo di sconforto a spingerlo a baciarmi, ma in realtà non provava nulla di quello che aveva ammesso. Magari era stata la pressione di quel momento, lo stress che aveva causato, a spingerlo a comportarsi in un modo che non era da lui.
Volevo che fosse così? Non ne ero certa… Sarebbe stato più semplice se avesse detto qualcosa del genere, ma non potevo non ammettere che mi avrebbe ferito. Eppure una parte di me non voleva che quello che era successo fosse stato vero.
Dischiusi le labbra per parlare, ma non sapendo cosa dire, rimasi in silenzio. Ero imbarazzata, di certo tanto quanto lui, ma non sapevo proprio come gestire la cosa. Non ero pratica di sentimenti, figuriamoci di discutere di essi come se stessimo parlando del più e del meno.
«So che è stato tutto molto improvviso, che deve esserti sembrato assurdo. E capisco che tu non abbia mai pensato a una possibilità del genere fino a questo momento…» disse lui, lentamente, come stesse soppesando le parole una per una. E io mi resi subito conto che stava davvero prendendo in considerazione l’idea che io potessi accettare un suo interesse verso di me, che potessi in qualche modo valutare la cosa. Perché? Credeva davvero che ci fosse una possibilità con me, una von Karma? Una seguace della perfezione?
«Però, Franziska, quello che ho detto in quell’ascensore è vero: perdere te e Annika è la cosa che temo di più. E non voglio che quello che è accaduto ti faccia scappare via» concluse, allungandosi sulla scrivania in modo inconscio, cercando in tutti i modi di avvicinarsi a me.
Io mi ritrassi istintivamente, cercando di mantenere una distanza tra noi che ritenessi accettabile, e il mio gesto sembrò fargli notare che stava esagerando. Si rimise subito al suo posto e tossicchiò brevemente, come se stesse cercando di darsi un contegno. Possibile che non si fosse accorto di quello che stava facendo? In generale era sempre stato un gentiluomo, però sembrava proprio che in quell’occasione non fosse in grado di controllare il suo istinto di starmi vicino.
Questa osservazione mi fece palpitare il cuore: allora davvero provava qualcosa per me! E io ne ero felice. Ma questo era giusto? Papa non avrebbe mai accettato una cosa del genere…
«Di’ qualcosa, Sie bitte [per favore]» concluse lui, probabilmente incapace di dire altro o sperando che io potessi in qualche modo rispondergli. Aveva persino fatto appello alla mia lingua madre proprio per attirare la mia attenzione su di lui, e malgrado tutto c’era riuscito. Non che riuscissi a pensare ad altro in quel momento.
Io riflettei su quello che avrei potuto rispondere.
Miles sembrava terrorizzato dall’idea che potessi lasciare la Germania insieme ad Annika e abbandonarlo lì, e non era la prima volta che dimostrava il suo attaccamento nei nostri confronti e la sua intenzione di tenerci presso di sé per sempre. Credeva che sarei fuggita via, e in effetti non potevo dire di non aver tentato di rifarmi una vita nella mia vecchia nazione lontano da lui e da tutti gli sciocchi di questo paese.
Però… In quel momento la possibilità non mi aveva nemmeno sfiorato. Ero stata così occupata a chiedermi se quello che lui provava per me era vero da aver dimenticato le mie macchinazioni per evitare i sentimenti e le tentazioni che potevano portare. Mi ero concentrata solo su di lui e su quelle sensazioni che provavo ogni volta che lo sfioravo, chiedendomi quale interpretazioni avrei dovuto dare loro.
E neanche adesso che mi era stata suggerita quella via d’uscita, riuscivo davvero a prenderla in considerazione. La realtà era che io non volevo tornare in Germania. Per quanto avessi orribili ricordi, qui negli Stati Uniti, cominciavo ad abituarmi alla routine di questo posto, il mio spirito si era in qualche modo sentito a casa quando aveva messo piede qui, in quel giorno di pioggia, in attesa di raggiungere il centro di detenzione dove mio padre sarebbe stato giustiziato.
Alzai lo sguardo su di lui, indecisa. Cosa dovevo fare adesso?
Lui mi fissava con una vaga speranza che non potevo ignorare, inoltre immaginavo già Annika piangere a dirotto all’idea di abbandonare la nuova casa dove ci eravamo trasferiti per fare ritorno in Deutschland.
«Ho promesso che non mi avresti perso, e sarà così» cominciai, e lo vidi illuminarsi. Un sorriso minacciò di disegnarsi sulle mie labbra, vedendolo molto più sollevato di prima, però lo trattenni. Non avevo ancora concluso, e lui l’aveva capito.
«Ma…?» disse infatti, avvertendo l’inizio di quella frase insito nel tono della mia voce.
Io sospirai, rigirandomi la frusta tra le mani, non con l’intenzione di colpire, ma semplicemente per usarla come oggetto nel quale incanalare tutte le mie preoccupazioni di quel momento. Stavo facendo la cosa giusta?
«Ma quello che è successo in quell’ascensore rimarrà in quell’ascensore» conclusi, cercando col mio sguardo di fargli capire che era la mia decisione definitiva.
Lui alzò un sopracciglio a quelle mie parole, quasi non si aspettasse che io raggiungessi una conclusione del genere. Cosa si aspettava? Che gli mettessi le braccia al collo e lo baciassi, dicendogli magari “Miles, Ich liebe dich”? Quest’ultima immagine mentale mi fece avvampare, ed ero sicura di essere arrossita. Un momento, ma da dove mi venivano certe idee…?
«Vuoi che fingiamo che niente sia accaduto, Franziska? È davvero questo che vuoi?» mi chiese sottovoce, e con uno sguardo così cupo da farmi sospettare che dentro di sé fosse decisamente in subbuglio, per quanto all’esterno quel conflitto emergesse solo nel colore sempre più scuro delle sue iridi.
Io mi mordicchiai il labbro per un attimo, dimenticandomi di dover apparire completamente sicura di me, e abbassai lo sguardo. Era quello che volevo? Volevo scordare tutte le emozioni, tutto quel tornado di sensazioni che quel bacio mi aveva donato? Volevo davvero fare finta che tutto quello che era accaduto fosse stato soltanto frutto della mia immaginazione, un incubo o un sogno?
Non ero certa che la mia risposta fosse affermativa, eppure come sempre ascoltai la voce della ragione e dei von Karma, e la mia risposta fu quella che tutto il mondo si sarebbe aspettato da me.
«Sì, Miles. È quello che voglio.» 


Ed eccomi tornata! 
Visto quanto sono brava? Questa volta ci ho messo poco. D'altronde, era d'obbligo, considerato il modo in cui lo scorso capitolo si era concluso. 
Che dire? Mi sono impegnata a fondo per scavare dentro quelle menti contorte che sono Miles e Franziska, e spero - mi affido al vostro giudizio, come sempre - di essere riuscita a renderli al meglio. Non uccidete Frannie per aver deciso di far finta di niente. Non so se vi aspettavate che si arrivasse a una situazione del genere, ma sappiate che comunque si tratta di un punto di svolta per i nostri personaggi: per quanto vogliano "fingere" che tutto sia  come prima, non riusciranno ovviamente a dimenticare l'accaduto. 
Inoltre! Ecco un primo punto di vista della Payne, che come credo immaginavate avrà un ruolo molto più importante in questa nuova storia rispetto alla precedente. Che ne pensate di lei? Avete un'idea di quello che potrebbe fare per mettere i bastoni tra le ruote a Frannie? Sono curiosa ^_^ 
Infine, so che vi interessava sapere cosa sta succedendo ad Annika nel suo primo giorno di scuola, ma state pure tranquilli: il prossimo capitolo sarà in gran parte dedicato a lei e alle sue vicende. Vi voglio anche porre una domanda riguardo al suo "amichetto speciale" di scuola. Secondo voi deve essere imparentato con qualcuno di Ace Attorney? Avete dei suggerimenti? Io ho qualche idea in mente ma non sono ancora sicura... 
Beh, vi lascio questa vignetta che ho trovato e che mi fa ridere troppo ogni volta che la vedo XD 

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(Ovviamente Mei è Franziska, mentre Reiji è Miles, nel caso non lo sappiate!)
Non ho altro da dire, quindi vi lascio alla lettura e vi saluto. Alla prossima, un bacio enorme a tutti voi *_*
Kirlia <3

P.S.: Avete notato le due citazioni che ho fatto in questo capitolo? Vi sfido a trovarle: una è letteralmente una battuta, l'altra è più un "parallelismo"... E sono entrambi film Disney!

 

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