L'impero di Shalira di Horror_Vacui (/viewuser.php?uid=4218)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Crisi ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Risveglio ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Distacco ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Alleanza ***
Capitolo 1 *** Capitolo I - Crisi ***
L'IMPERO
DI SHALIRA
LIBRO
PRIMO
Capitolo
I - Crisi
Era
un pomeriggio di marzo, Gourry Gabriev se ne stava steso su di un
pregiato drappo di broccato zephiliano, una mano sotto la testa e
l'altra ad accarezzare la chioma vermiglia della maga assopita tra le
sue braccia. Le fronde della quercia si muovevano lente sopra le loro
teste, sospinte appena dalla brezza che portava con sé
l'odore dei ciliegi in fiore.
Erano
già passati due anni dalla cacciata di Dark Star, più di tre dalla Caduta, ma il ricordo di quei giorni disperati non accennava
a sbiadire, era, anzi, così vivido da impedirgli di passare
notti tranquille.
Il
ragazzo sospirò, stringendo più forte il corpo
esile sopra di sé.
Il
legame con Lina, già forte ai tempi della guerra, era
divenuto ormai indissolubile, non poteva pensare di viverle lontano; ma
alto era il prezzo da pagare per poter rimanere al fianco della maga
più ricercata del continente: presto sarebbe giunto il
momento di saldare il conto e lui era debole, incapace di difendere
persino se stesso senza la sua vecchia arma.
Quando
si era diffusa la notizia che Lina Inverse e Gourry Gabriev erano i
responsabili diretti della dissoluzione della Barriera, loro erano
già nei territori di Vrabazard al seguito di Philia, ma non
avevano idea di quel che in patria aveva iniziato a muoversi. Di
ritorno, infatti, non ci fu nessun comitato di accoglienza per gli eroi
vittoriosi, ma una taglia stratosferica sulle loro teste.
Non
esisteva posto in cui fosse possibile vivere senza dover combattere:
che si trattasse di una banda di criminali o dell'oste, tutti erano
disposti ad ucciderli e rivendere i loro corpi alle guardie imperiali
di Elmekia.
A
salvarli, però, ancora una volta era stata la principessa di
Saillune, Amelia, che li aveva invitati a corte come suoi ospiti,
rendendo nulla la taglia all'interno della capitale della magia bianca.
Non
avevano idea di quanto tempo sarebbe passato prima di poter uscire di
nuovo da Saillune senza rischiare di essere attaccati. E
così i giorni cominciarono a succedersi, tutti uguali, tra
un ricevimento e l'altro, senza preoccupazioni e senza
responsabilità.
La
loro vita prese a scorrere scandita da piccole abitudini, piccoli
rituali giornalieri privi di colore.
Dopo
pranzo erano soliti passare il resto del pomeriggio nel parco che
circondava il castello, alla ricerca di un posticino in cui riposare,
quasi fossero ancora viandanti.
Quel
giorno avevano scelto l'albero secolare che si ergeva, solitario, al
centro di un'ampia distesa di gramigna.
Erano
lontani da cameriere e maggiordomi, da uomini e donne di corte... o
così credevano.
Dal
boschetto di faggi che circondava quella piccola oasi solitaria, emerse
un giovane valletto.
«Lina...»
sussurrò Gourry «Lina, arriva qualcuno.»
Stiracchiandosi
con fare felino, la maga si limitò ad emettere qualche suono
di protesta, senza dar troppo peso all'avvertimento del compagno.
«Non
mi interessa, mandalo via!» si lamentò coprendosi
la faccia con le mani.
Nel
frattempo il valletto, un ragazzo di almeno quindici anni, si era
avvicinato a passo svelto.
«Lord
Gabriev, Lady Inverse» balbettò sulle spine
«ho un messaggio da recapitare»
All'ennesimo
strattone dello spadaccino, Lina sollevò la testa e
guardò il paggio di traverso.
«Un
messaggio?» si esibì in un sonoro sbadiglio.
Il
paggio non rispose. Le buone maniere prevedevano che le conversazioni
avvenissero faccia a faccia, come segno di rispetto verso il proprio
interlocutore. La maga emise un verso di irritazione, ma, in un fruscio
di seta verde e taffetà, si mise in piedi aiutata da Gourry.
«Ebbene?
Chi ti manda?» lo fronteggiò.
Il
ragazzo tirò giù i bordi del farsetto e prese un
bel respiro «Sono qui per ricordarvi il vostro quotidiano
appuntamento presso il Salotto Blu» finì con un
grosso sospiro di sollievo.
«Tutto
qui?» lo squadrò con sufficienza.
«Sei
libero di andare, ragazzo» la voce calda e rassicurante di
Gourry giunse gentile alle orecchie del giovane, che, senza farselo
ripetere, fuggì a gambe levate attraverso gli alberi dalle
foglie rosse.
Lina
si voltò verso il compagno ancora seduto sotto la quercia e
lui ricambiò lo sguardo, divertito.
«Ed
ecco lo spadaccino dall'armatura scintillante, pronto a soccorrere i
deboli e gli oppressi!» sollevò le braccia in aria
per rimarcare il concetto. Era ormai abituata allo sdegno della
servitù e aveva imparato ad usarlo a suo vantaggio, anzi,
terrorizzare paggi e cameriere rientrava tra i suoi passatempi
preferiti.
«Era
proprio necessario? Credevo che ormai ti fossi annoiata.» le
regalò un altro sorriso radioso. Gourry era buono. Non
sapeva come altro definirlo! Sempre gentile, pronto ad aiutare il
prossimo... a sopportare lei.
«Sì,
lo era eccome! E poi, è tutta colpa tua!» disse
sedendogli accanto.
«Colpa
mia?!» lui si finse offeso, ma nel frattempo l'aveva
già attirata a sé.
Una
folata di vento più forte delle altre separò le
fronde dell'albero e un raggio di sole gli illuminò il viso
e i capelli biondo grano. Non ricordava il momento esatto in cui aveva
iniziato a guardarlo con occhi diversi, notando particolari
insignificanti, come quel piccolo neo appena sotto l'orecchio o le
fossette agli angoli della bocca quando rideva. Amava le sfumature
dorate dei suoi capelli, la morbidezza di quello sguardo azzurro cielo
e quelle labbra dolci come il miele.
Amava
stuzzicarlo, vedere fino a che punto avrebbe retto quel guscio di
pazienza che lo avvolgeva. Quando si sarebbe stancato di lei e dei suoi
capricci?
«Esatto!
Avresti potuto salvarlo, lasciandomi riposare in santa pace»
gli pizzicò il fianco, ma lui non sembrò
curarsene.
«E
perdermi tutto il divertimento? Sai che non potrei mai farlo»
ammiccò posandole un tenero bacio sulla guancia. Poteva
amarla davvero così tanto da sopportare qualsiasi suo gesto?
«Oh,
sì certo! La servitù è terrorizzata da
me,
una tenera e indifesa fanciulla!» assunse il solito tono
melodrammatico, portandosi una mano alla fronte con fare svenevole.
«Ma
smettila» le diede un buffetto sul naso «tenera e
indifesa? Non puoi credere davvero a ciò che dici»
rise di gusto, stendendosi di nuovo, con il viso rivolto verso il tetto
di foglie sovrastanti.
Il
ragazzo aveva già perso l'aria gioviale in un sospiro e le
fu facile percepirne l'inquietudine, la vide attraversargli il petto e
giungere fino agli occhi. Gli si stese vicino, adagiando il proprio
petto contro il suo, in attesa di sentire l'intreccio ritmico dei loro
battiti.
«Qualcosa
non va?» chiese la maga un po' preoccupata.
La
guardò con la coda dell'occhio «No, è
tutto a posto.»
Era
così bella in quel momento, con i capelli sciolti sulle
spalle e le guance rosse che spiccavano sulla pelle chiara.
Sentì il macigno sul petto diventare più pesante,
mentre il pensiero di perderla si faceva strada nella sua mente.
«Credo
sia ora di andare, lady
Inverse»
si alzò per non essere bersagliato da domande scomode.
«Credo
lei debba liberarsi delle foglie che le invadono la chioma, lord
Gabriev»
La
vide sorridere, emanava una luce di brillante vitalità , e
si sentì di nuovo felice. Era nel posto giusto al momento
giusto, in uno stato di grazia e piena soddisfazione.
Non
poteva durare per sempre, no?
Il
Salotto Blu si trovava all'interno degli appartamenti della principessa
ed era usato per ricevere ospiti ed amici intimi, lontano da occhi
indiscreti.
Era
di medie dimensioni, luminoso grazie alle numerose finestre, di cui
quattro decorate con vetri colorati e gemme preziose sui toni del
turchese. Le pareti erano coperte da pannelli di legno chiaro,
intervallati da lucenti stucchi dorati che si allungavano fin sul
soffitto, intrecciandosi in complicati arabeschi attorno agli imponenti
lampadari di cristallo e lapislazzuli.
Su
di un elegante divano bianco, la principessa Amelia sedeva in modo
composto ed aggraziato. Il vestito di pesante taffetà avorio
le impediva di muoversi liberamente e, d'altronde, ormai l'abitudine
aveva modificato i suoi modi di fare, ingabbiando la sua genuina
spontaneità in una prigione di seta e balze. I capelli, neri
e lucidi come piume di corvo, erano raccolti in un'acconciatura formata
da una serie complicata di trecce e boccoli, riuniti sul capo e tenuti
fermi dalla sottile corona tempestata di diamanti e zaffiri. Le spalle,
lasciate nude dall'abito, davano mostra di un colorito pallido e di una
magrezza che non erano mai appartenuti alla gioiosa principessa.
«Amelia,
cerca di capire! Non posso continuare ad assecondare i tuoi
capricci!»
Zelgadis
Greywords sedeva poco distante, stringendo tra le mani uno dei tanti
manoscritti di magia bianca della biblioteca privata della principessa.
Non riusciva però a concentrarsi troppo sulla lettura,
quando accanto a lui c'era quella piccola meringa dagli occhi blu. La sua
piccola meringa. L'amava più di quanto gli fosse consentito,
a tal punto da percepire il cambiamento che, lento ed inesorabile,
stava scavando a fondo nell'animo della futura regina. Il mondo stava
cambiando, come le nuvole a marzo, e loro assieme a lui. La scintilla
negli occhi di Amelia si stava spegnendo e lui temeva che presto anche
quel lumino avrebbe lasciato posto ad una cupa tristezza.
«Ma
padre, perché?!»
«Basta!
Non una parola di più. Stiamo chiedendo enormi sacrifici ai
nostri sudditi. Molti giovani uomini sono stati chiamati alle armi e
rischiano la vita per noi! La principessa darà il buon
esempio. Il nostro regno diverrà più
forte...»
«Zelgadis...»
lo chiamò con indolenza. «Perché sei
così lontano?» tese le mani nella sua direzione.
Conosceva
bene il significato di quel gesto, era il segno che potevano buttare
giù le maschere, distruggersi a vicenda e sentire i cocci
cadere a terra, anche se raccoglierli diventava sempre più
difficile.
Lui
era una chimera, umano solo per un terzo, demone e golem per gli altri
due, non apparteneva a nessuna casata di alto lignaggio, mentre lei un
giorno avrebbe preso il posto del padre sul trono di Saillune. Non
avevano futuro. Non insieme.
Si
limitavano a vivere il presente a denti stretti e pugni serrati, pronti
a ricevere il colpo di grazia, pronti ad andare in frantumi per sempre.
Mise
da parte il volume polveroso e prese posto accanto a quei grandi occhi
blu, pronto a perdersi in un mare di merletti color crema. Lei,
però, voleva altro. Si appoggiò delicata sul suo
petto di pietra e, puntellandosi con le mani tra i cuscini, si sedette
sulle sue gambe abbracciandolo forte.
Preoccupato
da quella reazione, le avvolse le braccia intorno alle spalle
«Amelia...?»
«Sposerò
un principe di sangue di Elmekia. Mio padre abdicherà, io
diventerò regina di Saillune e il mio regno
stringerà un'alleanza militare con l'impero.»
disse secca, mentre a lui le parole morivano in gola.
Sentì
l'impatto e poi lo schianto. Poteva un'esplosione fare così
poco rumore?
Caddero
in un silenzio assordante, in cui i battiti dei loro cuori si
mischiavano ai ticchettii degli orologi e all'oscillare del pendolo
d'oro.
Il
tempo non si era fermato, nonostante tutto.
«Quando?»
chiese, liberato da ogni traccia di vitalità.
«Le
frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati
della Penisola devono fare causa comune contro le
avversità.»
«Presto.
Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli
stati della Penisola devono fare causa comune contro le
avversità.» ripeté meccanicamente le
parole che il padre le aveva rivolto solo poche ore prima.
Sentì
il calore abbandonarlo mentre lei si scostava per guardarlo in volto,
ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalla finestra di fronte.
«Credevo
che l'incontro con tuo padre fosse andato bene...» la rabbia
stava per esplodere nell'atto finale di quel triste melodramma.
«Non
volevo parlartene di fronte alla corte... ma, ti prego, Zelgadis,
guardami!» gli afferrò il viso con entrambe le
mani, ma lui scosse la testa, troppo testardo, troppo orgoglioso per
mostrarle le proprie macerie.
«Ti
prego...» sfiatò in un sibilo come se quello fosse
l'ultimo respiro.
Si
era spenta.
La
fiammella di vita, che fino a poche ore prima animava quegli occhi, era
ormai morta, uccisa da lacrime sgorgate con la forza di un fiume in
piena: ma la collera non si lasciò impietosire.
Con
un colpo di reni, Zelgadis si rimise in piedi. Non era da lui esibirsi
in reazioni esagerate e, anche in quel momento, mantenne la stoica
calma che lo contraddistingueva.
«E
adesso cosa mi resta?» le rivolse un sorriso amaro, sempre
con lo sguardo rivolto verso una delle finestre azzurre. «Il
mio posto non è più qui...»
«Rimani...
Zelgadis, rimani con me» fu la preghiera disperata che gli
rivolse tra le lacrime.
Le
gote arrossate, le labbra torturate dai morsi del senso di colpa e i
capelli che cominciavano a slegarsi. Si sentì un verme
viscido, perché vederla in quello stato, per lui e insieme a
lui, lo riempì per un attimo di soddisfazione.
«Cosa
mi stai chiedendo, principessa?»
sputò l'ultima parola come fosse veleno, ma non si
lasciò sopraffare dalla rabbia che gli ribolliva dentro.
In
un unico slancio Amelia gli avvolse le braccia attorno al collo, mentre
la complicata acconciatura cedeva nel tintinnio dei fermagli caduti.
«Ti
amo...» ripeté più volte straziata
contro la sua spalla, bagnando la stoffa che copriva la pelle di pietra.
Zelgadis
non poteva permettersi il lusso di crollare con lei, doveva lasciarla
andare e temeva di non avere le forze necessarie. Serrò le
mani attorno alle braccia esili della ragazza nel tentativo di
spingerla via, ma lei gli rimase avvinghiata come edera al traliccio.
«Amelia,
sai bene che non ha importanza, ma non posso che
ringraziarti» le mani si mossero a carezzare le ciocche
scure, con lentezza, per imprimere nella memoria il ricordo di quei
fili di seta.
«Grazie
di avermi amato.» le sussurrò posandole un bacio
sulla fronte.
Stava
lottando contro se stesso per trattenere molte, troppe emozioni. Quando
incontrò di nuovo quei grandi occhi blu non
riuscì a trattenere l'impulso vitale,
quasi quanto l'atto di respirare, e lasciò che scivolasse
via dai vincoli che gli aveva imposto.
Non
fu un bacio, fu uno scontro di labbra e tormenti, violento come le onde
che si abbattono sugli scogli durante una tempesta, il simbolo del loro
completo annientamento.
Un
gentile bussare alla porta spezzò l'incantesimo ed entrambi
si voltarono nella direzione di quel rumore molesto. Amelia
provò a ritrovare un po' di contengo, aggiustò le
pieghe del vestito, asciugò le lacrime come meglio poteva ma
senza allontanarsi da lui, quasi avesse paura che le sfuggisse.
A
lei non importava sapere chi ci fosse al di là della soglia,
ma voleva che andasse via.
Zelgadis,
invece, aveva approfittato di quel momento di distrazione per
allontanarla. Le diede un ultimo sguardo, un'ultima carezza sul volto
raffreddato dalle lacrime, poi le voltò le spalle diretto
verso la porta.
Un
urlo prolungato, un suono atavico e disperato, si levò dalla
principessa che, caduta sulle ginocchia, stringeva e tirava i capelli
fino a strapparli.
Gourry
irruppe nella stanza «Zelgadis, che hai combinato?»
chiese istintivamente dopo una breve occhiata.
«Un
disastro.» fu la laconica risposta.
•••
Le
fiamme del caminetto danzavano leggiadre sui ceppi, diffondendo un
lieve chiarore nell'oscurità della stanza. Zelgadis sedeva
su una poltroncina accanto al fuoco, ma il gelo che gli aveva fermato
il cuore era impossibile da sciogliere. Si passò una mano
tra le ciocche color malva e sospirò.
La
maledizione che gli era stata inflitta non aveva modificato solo il suo
aspetto, ma anche la sua essenza. Aveva acquisito strabilianti
vantaggi, dalla pelle resistente come roccia alla vista acuta di un
falco, ma aveva anche perso molto. Avrebbe voluto versare lacrime vere,
ma la verità era che non poteva. Non era disperato, era
anestetizzato. Immobile nel suo dolore, incapace di esprimerlo se non
in gelide parole prive di profondità.
Sospirò
ancora. Meglio
così...
Non
avrebbe sopportato il peso della vulnerabilità di fronte ad
un rifiuto così netto. Non c'erano nervi scoperti da
recidere, né compassione che lo rendesse ancora
più patetico.
Toc.
Toc. Toc.
Tre
poderosi colpi alla porta lo avvertirono della presenza di qualcuno.
Non si scompose. Se anche fosse entrato un troll brandendo una mazza
chiodata lo avrebbe lasciato fare.
«Greywords»
una voce rauca, cavernosa, lo chiamò, ma lui non aveva
alcuna voglia di rispondere. Chiunque fosse avrebbe dovuto
aspettare almeno fino all'alba, lui non aveva intenzione di lasciare il
castello quella notte come un criminale o, peggio, come un giocattolo
rotto da buttar via prima che la bambina
se ne accorga.
La
porta, però, nonostante fosse chiusa a chiave, venne
scardinata senza troppe cerimonie. L'energumeno al di là di
essa la trattenne per la maniglia prima che cadesse, come fosse un
foglio di carta, appoggiandola alla parete interna della stanza: si
trattava di un compito che richiedeva la massima riservatezza.
Zelgadis,
le gambe accavallate e il viso mollemente poggiato sul dorso della mano
destra, diede una rapida occhiata all'ospite inatteso con la stessa
noncuranza con cui avrebbe osservato uno scarafaggio. L'avrebbe
riconosciuto anche in mezzo ad una folla, se non altro per la puzza e
il portamento da scimmione: Davin Gulgran, galoppino del Comandante
della guardia reale.
Occhi
da topo, piccoli e scuri brillavano di luce sinistra, appena coperti da
una folta massa di capelli neri e lisci, unti da far ribrezzo, mentre
una cicatrice diagonale attraversava il viso, passando per la bocca in
una smorfia abominevole.
L'armatura
di ferro e cuoio non scintillava come le altre, era ruvida e opaca, le
ammaccature ne testimoniavano l'usura e i numerosi colpi presi; una
spada di grandi dimensioni pendeva sul fianco graffiando contro il
pavimento, ma lui non sembrava curarsene. Probabilmente non era di una
spada affilata che aveva bisogno per portare a termine i suoi
incarichi. Sporchi incarichi.
«Gulgran,
vorrei dire che è un piacere vederti, ma il tuo aroma
floreale è così intenso...»
lasciò cadere la frase. L'uomo aggrottò le
sopracciglia, disorientato.
«Ah,
non ti sforzare.» alzò gli occhi al cielo
lasciando andare la testa all'indietro sulla poltrona.
«Greywords»
ripeté Gulgran con lo stesso tono da orco
«cammina, senza fare storie» si fece da parte
indicando con il braccio il vano della porta.
Zelgadis
si alzò con gesti misurati, aveva perso la voglia di
scherzare e il suo sguardo si fece serio. Avrebbe lasciato davvero
Saillune, ma non avrebbe saputo dire se con le proprie gambe.
I
corridoi del castello erano ampi e illuminati dalla luna. I pavimenti
erano costituiti da lastroni di pietra bianca, intervallati da marmi su
cui era inciso lo stemma della casata reale, unito a cerchi
anti-demone, che al suo passaggio si illuminavano di una fioca luce
azzurrina.
Non
sapeva dove stava andando ma, data la presenza di quel malfattore,
cominciava ad intuire il perché. Il cortile interno? Il
boschetto di faggi? Oppure nei sotterranei? Dove si sarebbero
sbarazzati di lui?
Avevano
raggiunto un'ala del castello che non aveva mai esplorato. Si accorse
del cambiamento perché centinaia di luci si levarono dai
lastroni che componevano il pavimento su cui si trovava, rilasciando
una scarica che si diffuse violenta dai piedi alla ginocchia. Avrebbe
voluto gridare per il dolore, ma perdere anche
la dignità era fuori discussione.
Gulgran
si voltò indietro a guardarlo, con la torcia ancora in mano
a rischiarare la via.
«Incantesimi
contro i demoni come te.» ghignò maligno
«Ma tu lo sai, vero?»
«Ora
basta,» disse «dimmi dove stiamo andando»
strinse gli occhi in due fessure.
«Andando?
Siamo arrivati. Io ho finito.» fu la risposta seccata, poi
girò i tacchi abbandonandolo lì.
Zelgadis
rimase immobile, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e l'indice
ancora alzato mentre la schiena di Gulgran spariva dietro l'angolo.
Troppo
distratto dal dolore agli arti inferiori non si era accorto di trovarsi
di fronte ad una massiccia porta di legno scuro, su cui erano dipinti
molti altri incantesimi protettivi, che si intrecciavano in linee
bianche e dorate coprendola quasi del tutto.
Perfetto.
Cosa faccio? Busso rischiando le dita o attendo un segno celeste?
Era
sul punto di tornare indietro, ma il peso di una grossa mano sulla
spalla lo fece desistere.
Due
enormi baffoni scuri fu la prima cosa che vide, mentre un nome si
materializzò nella sua mente: Philionel El di Saillune.
Come
la figlia, anche il re aveva perso il sorriso genuino, mentre la
speranza che un tempo albergava in quegli occhi scuri aveva lasciato il
posto ad un'opprimente preoccupazione.
Aprì
la porta senza dire una parola e lo spinse dentro gentilmente,
richiudendola dietro di sé. La sala, in cui ipotizzava di
trovarsi, doveva essere priva di finestre perché il buio non
era rischiarato neppure dalla luce lunare, ma non ebbe troppo tempo per
chiedersi il perché: Philionel schioccò le dita e
due lunghe serie di torce iniziarono ad illuminarsi, veloci, una dietro
l'altra, mettendo in mostra quello che sembrava essere l'ennesimo
corridoio.
«Vieni
con me» disse il re con tono rassicurante, ma a Zelgadis
quella situazione piaceva sempre meno. Tuttavia, non si trovava nella
posizione di poter rifiutare, perciò seguì
Philionel... e capì.
Su
entrambe le pareti si susseguivano quadri raffiguranti uomini e donne a
grandezza naturale, sotto ad ognuno di essi c'era una targa d'oro
incisa a caratteri scuri.
«Zelgadis»
richiamò la sua attenzione «sai dove ci
troviamo?»
«Credo
di sì...» rispose incerto, non riuscendo a
staccare gli occhi dalla prima massiccia cornice dorata.
«Questa,
figliolo, è la Corte degli Antenati. Un luogo sacro per
questo regno, in cui solo i re e le regine che hanno agito nel nome
della giustizia e in difesa del proprio popolo hanno il diritto di
stare.» spalancò le braccia con il petto gonfio di
orgoglio.
«Philionel,
ho già parlato con Amelia e...»
«Figliolo,
lasciami finire.» lo interruppe con aria grave, tornando a
camminare.
«Lui
è Bartholomaeus IV» si fermò di fronte
ad un ritratto di un uomo dai lunghi capelli scuri. Le spesse
sopracciglia coprivano quasi del tutto gli occhi e la lunga barba
giungeva fino a metà busto, tenuta insieme da un nastrino
dorato che alle luci delle torce sembrò brillare come fosse
vero.
«Era
re quando Saillune venne distrutta dai demoni, difese fino all'ultimo
respiro i suoi sudditi. Suo figlio» indicò il
quadro accanto «Re Gerion II, la ricostruì
così come oggi noi la vediamo.»
Proseguirono
oltre e per molti metri non dissero nulla, finché non
giunsero all'ultimo quadro.
La
cornice era di foggia meno antica, più sottile, costituita
da un unico blocco in cui vi erano intagliate rose e foglioline in modo
così minuzioso da sembrare vere.
All'interno
vi era raffigurata una donna: una cascata di riccioli castani scendeva
su di una spalla, il ricco abito di rosso tessuto traslucido avvolgeva
la figura con eleganza. Un sorriso spavaldo le incurvava la bocca,
diverso dai volti seriosi che aveva visto fino a quel momento
raffigurati, mentre gli occhi, grandi e blu come l'oceano, sfidavano
l'osservatore.
«Elismarie
III di Remington, duchessa di Kalmaart. Mia moglie.»
pronunciò in un soffio angosciato le ultime due parole.
«Venne brutalmente uccisa, mentre tentava di salvare la vita
alla nostra primogenita, Gracia.»
«Gracia?»
la sorpresa aveva colpito Zelgadis in pieno petto con la forza di un
calcio «Credevo che Amelia fosse...»
«E
lo è, al momento.» il tono triste zittì
il ragazzo. «Amelia è l'erede al trono di Saillune
e...» riprese poi in tono accorato il re.
«E
io sono una chimera.» lo interruppe bruscamente «Lo
so, Philionel. E non intendo esservi d'intralcio, quindi se
è ciò che vuoi lascerò il regno... ma
non subito.» era determinato a far valere almeno le proprie
ragioni «Ho bisogno di qualche tempo per organizzare il
viaggio, per trovare un obiettivo e una meta. Dopo di che me ne
andrò per sempre. Amelia non sentirà
più parlare di Zelgadis Greywords, è una
promessa.»
Dolore
e fatica. Con quelle parole aveva siglato la propria condanna a morte
senza battere ciglio, come se la questione non lo riguardasse.
Dolore
e angoscia. Il senso di vuoto, da quel momento, come unico compagno di
vita.
Il
volto del re, nel frattempo, aveva perso l'espressione accigliata, le
spalle si erano sollevate e nel complesso sembrava che il grosso peso
che gli curvava la schiena fosse scomparso del tutto.
«Ero
sicuro che avresti capito.» sorrise, ma stava mentendo a se
stesso. «Avrai uno studio tutto per te, tutti i libri del
castello a tua disposizione, così come le informazioni
provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono certo che troverai la tua
strada ragazzo!» gli mise di nuovo la mano sulla spalla
stringendo appena, con fare quasi paterno.
Una
condanna all'esilio permanente sarebbe stata più giusta
e sincera... ma forse Philionel non vuole davvero finire in questa
stanza. Si
disse Zelgadis, ricambiando il sorriso falso e stucchevole del re.
*Ho creato i personaggi di Davin Gulgran, Bartholomaeus IV, Gerion II, Elismarie III così come la casata Remington. Siete pregati di non prendere nulla senza pemesso
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Capitolo 2 *** Capitolo II - Risveglio ***
Capitolo
II - Risveglio
Sulle
gelide vette dei Monti Kataart imperversava una violenta tempesta. La
neve cadeva fitta, ma prima di toccar terra veniva spazzata via dal
vento che flaggellava la valle desolata.
Scolpito
in un unico blocco di ghiaccio, il solitario castello dell'ultimo
Dark Lord si ergeva sulla più alta parete rocciosa di quella
sterminata distesa di nulla.
I
fulmini squarciavano il cielo, illuminando per pochi attimi le alte
guglie, le torri circolari e l'imponente mastio centrale, mentre il
fragore rieccheggiava all'interno delle stanze vuote.
Nel
grande salone, seduto sul massiccio trono trasparente, c'era Dynast
Graushella.
Il
Re dei Ghiacci aveva ben poco di cui gioire da quando la Barriera era
stata distrutta.
Il
dominio dei demoni si stava avviando verso un rapido declino, ben
presto l'uomo avrebbe smesso di temere gli esseri immortali, di
adorarli e offrire loro sacrifici.
E,
dunque, che fine avrebbero fatto i demoni?
Il
mare del Caos li avrebbe inghiottiti e di loro non sarebbe rimasto
neppure un ricordo.
Gli
umani sembravano intenzionati ad abbandonare i territori della
Penisola per sfuggire alle Tenebre, ma lui non lo avrebbe permesso.
O
così aveva creduto.
Amareggiato
all'idea di una sconfitta così netta, di un destino
più che
ineluttabile, solo un anno prima Dynast aveva preso una decisione: se
l'oblio era il futuro che lo attendeva, se ne sarebbe andato alle
proprie condizioni, portando con sé quegli inutili esseri di
carne
ed ossa.
In
poco più di un mese i monti Kataart e gran parte dei
territori
circostanti erano stati ricoperti da centinaia di metri di neve,
sotto cui erano stati sepolti sogni e speranze di migliaia di
persone.
Tuttavia
lo sforzo necessario al mantenimento della gigantesca perturbazione
era gravoso persino per il Lord, tanto che il più piccolo
spostamento sul piano astrale sarebbe equivalso a giorni di tregua
per gli umani; non aveva potuto far altro che rimanere immobile come
una statua, gli occhi aperti ma la mente altrove, a scandagliare e
cibarsi del dolore degl'esseri materiali,
incurante della brina candida che avvolgeva quella che un tempo era
la sua armatura più scintillante.
Già
dopo pochi mesi il piano aveva cominciato a mostrare le prime falle.
L'impegno
profuso dal Dark Lord non bastava mai, così che quella che
minacciava di essere la prima glaciazione globale non riuscì
a
superare i territori a sud del regno di Dils o del ducato di
Kalmaart.
Quando
prese coscienza del fallimento era ormai troppo stanco, non solo di
agire ma anche di pensare. Aveva perso la voglia di lottare e niente
lo interessava più.
Giaceva
da allora nella stessa posizione, con la mente assopita, incurante
persino del proprio destino.
In
una folata di vento e cristalli di neve, Sherra si
materializzò ai
piedi della lunga scalinata che portava al trono.
«Mio
signore» disse esibendosi in un profondo inchino, ma l'eco
della sua voce fu l'unica risposta che ottenne.
«Le
porto notizie dalla Wolf Pack Island.»
continuò imperterrita, come se lui potesse vederla e
sentirla.
Sherra
sollevò lo sguardo dal pavimento, davanti a sé
c'era la lunga
scalinata che portava al trono.
Ricordava
ancora il tempo in cui il trono era posto in un'altra sala,
più
piccola e decorata, ricordava le sculture di marmo e i bassorilievi
delle pareti, il soffitto a cassoni di ghiaccio incastonati di gemme
preziose e racchiusi in gabbie d'argento.
La
nuova sala era grande, immensa, il risultato di una grossa esplosione
che aveva distrutto il centro del castello, ed era spoglia di
qualsiasi orpello potesse distrarre l'attenzione dall'attrazione
principale.
Più
di mille anni prima, in piena guerra, su quelle montagne demoni e
draghi ancestrali si erano affrontati in una dura battaglia. Il lord
comandante della legione dei draghi era riuscito a penetrare nella
dimora di Dynast, schiantandosi in picchiata dall'alto, e lì
era
morto, ucciso dal Demone della Guerra.
Quel
corpo ingombrante era diventato il suo più grande trofeo e
Dynast
aveva scelto di porre su di esso il proprio trono.
Sherra
guardò ancora una volta gli occhi viola che sembravano
scrutarla
attraverso il ghiaccio e poi, con un sospiro, salì i gradini
lisci e
lucidi e si inginocchio davanti al proprio creatore,
poggiando
la testa sulle sue gambe. Un tempo le avrebbe carezzato i capelli e
infuso un po' della sua energia vitale, ma quella mano imprigionata
dall'armatura ricadeva morta sul bracciolo. La prese tra le sue,
sfilò il guanto e ne baciò il palmo.
«Mio
signore, ti supplico, svegliati.» sussurrò
«qualcosa si sta
muovendo e le dark lady si stanno preparando ad accogliere il nuovo
fermento, ma hanno bisogno della tua guida e della tua forza.»
Lo
guardò amareggiata: piccole stalattiti luccicanti si erano
formate
sul suo viso e tutto il corpo era ricoperto da sottile polvere
ghiacciata.
Doveva
agire, perché il suo Lord non fosse semplice spettatore
degli
avvenimenti che si profilavano all'orizzonte.
«Regni,
imperi e ducati, tutti gli stati della penisola stanno stringendo
nuove alleanze e molto presto faranno causa comune. La minaccia viene
da Est, dai territori oltre la ex Barriera... vuole davvero
permettere a loro di prendere il suo
posto?» gli sibilò
all'orecchio.
Rimase
in attesa.
L'elmo,
blu notte come il resto dell'armatura, ricordava le fauci spalancate
di una bestia feroce, con i denti aguzzi ad incorniciare il viso
etereo, mentre un vistoso e morbido pennacchio scuro ricadeva di
lato.
Occhi
d'argento si mossero, catturando come diamanti la fioca luce dei
lampi, e la brina tra le ciglia cadde in gocce sulle guance diafane.
La testa scattò nella sua direzione.
«Chi?»
disse con voce roca, ma Sherra era troppo sconvolta per poter
rispondere. Indietreggiò di qualche passo mentre Dynast, non
ancora
nel pieno delle sue facoltà, la seguiva con lo sguardo.
«Chi
osa!?» l'urlo rabbioso eccheggiò potente e quasi
la fece cadere.
Il
Signore della guerra era tornato.
Si
mise in piedi imperioso, mentre il ghiaccio che si era accumulato
nelle pieghe dell'armatura si spaccava scricchiolando sinistro.
Si
guardò intorno, come se si trovasse in quel luogo per la
prima
volta, aprì e richiuse più volte le mani
rimirandole stupito.
«Mio
Lord,» Sherra chinò la testa, riprendendo il
controllo di sé «sono
lieta di accogliere la sua decisione di...» provò
a dire, ma il
demone superiore non sembrava aver voglia di ascoltare.
«Sherra!
Sono debole e vulnerabile. Dammi la tua
energia.» tuonò
stendendo le braccia davanti a sé.
«Sì,
mio signore.» Sherra si prostrò ai suoi piedi.
Dynast
tolse anche l'altro guanto e posò le mani bianche e fredde
su quelle
della propria sottoposta. Assorbì quel tanto che bastava a
non
ucciderla, poi la richiamò sull'attenti.
«Chi
sono loro?» chiese autoritario.
«Shalarith,
signore. Sono elfi e abitano una delle regioni più remote
dei
territori ad Est del deserto...»
«Conosco
gli Sharalith!» la interruppe «Ma come possono
essere un mio
problema quei dannati mangia-bacche di montagna?»
«Dieci
anni fa hanno iniziato una guerra di conquista su due fronti,
soggiogando gli altri regni senza troppe
difficoltà.»
«Da
quel che ricordo erano un pacifico popolo nomade dei Monti Shyril,
senza grandi poteri, diviso in tribù» disse
pensieroso,
scrollandosi la brina dal viso «Cos'altro hai scoperto
durante la
mia assenza?» il suo tono e i suoi movimenti risultavano
ancora
meccanici e privi di vita, come quelli di un manichino controllato
dall'alto.
«Non
molto. Non posso allontanarmi troppo dalla Penisola, mentre le
informazioni fornite dagli umani sono spesso confuse o irrilevanti.
Tuttavia...» il generale si morse le labbra per impedirsi di
continuare.
«Cosa?»
l'eco di quella domanda si confuse nel ruggito dei tuoni.
«Solo
mie teorie, nulla di import...» provò a
giustificarsi, ma lui le
afferrò il viso con una mano, stringendo tra l'indice e il
pollice
le guance pallide.
«Non
ci devono essere segreti tra di noi, Sherra. Ogni tuo pensiero mi
appartiene.» una scintilla di folle possessività
illuminò lo
sguardo del Lord.
«Bene,
ora parla.» disse compiaciuto, ma Sherra lo fissò
risentita.
«Non
era una gentile richiesta.» aggiunse tagliente. L'orgoglio
era un
lusso non concesso al generale.
«Perché
espandersi verso Est?» disse dopo attimi di esitazione
«Ci pensi.
Tutti sanno che Utror è una landa desolata e, da quanto ho
avuto
modo di scoprire, si crede lo sia tutt'ora.»
«Avranno
voluto mettere alla prova il loro esercito affrontando le deboli
tribù utrorie.»
«Sì,
forse...» incrociò le braccia al petto
«Ma c'è dell'altro.»
guardò inquieta al di là della grande vetrata,
verso le cime dei
monti avvolte nell'oscurità.
Dynast
tolse l'elmo, liberando i corti capelli corvini, e riprese posto sul
trono di ghiaccio: Sherra aveva tutta la sua attenzione.
«Da
più di un secolo non è possibile valicarne i
confini, gli Shalarith
lo hanno proibito. La scusa ufficiale è che quelle terre
siano
divenute troppo pericolose e, in effetti, gli umani raccontano storie
terribili a riguardo.»
«Dunque,
se ho ben capito, ad Utror si troverebbe la fonte del miracoloso
potere shaliriano?» la guardò poco convinto.
«Questo
è ciò che penso, mio signore.» si
inchinò di nuovo.
«Sono
rimasto seduto qui, perché stanco di questo mondo, sicuro
che un
giorno sarebbe stato dissolto nel nulla anche senza il mio apporto.
Cosa dovrebbe convincermi a riprendere la guerra?» la
guardò di
traverso «Rispondimi, Sherra!»
«S-signore»
la sua sicurezza vacillò «non credo di poter
rispondere a questa
domanda. Ma posso dirle che gli esseri umani migliorano ogni giorno
che passa. Sono vittime della loro cupidigia, desiderosi di
accaparrare quante più ricchezze possibili. Hanno vita breve
e nulla
imparano dall'esperienza.»
«Hai
ragione... ma non basta!» alzò il tono di voce
«sei venuta qui a
disturbare il mio sonno, ad implorarmi di tornare, controvertendo un
mio preciso ordine!» con un balzo le fu davanti e le
afferrò la
lunga treccia cerulea, strattonandola con forza verso il basso.
«Cosa
ti ha spinto?» le sussurrò a pochi centimetri dal
viso «chi
ti ha spinto?»
Negli
occhi impauriti della sua sottoposta non c'era traccia di
comprensione, non aveva le risposte che lui stava cercando.
«Signore,
le sono fedele, lo sarò sempre!» il suo
sguardò lampeggiò di
convinzione.
«Non
si tratta di fedeltà...» lasciò la
presa e si allontanò,
iniziando un cammino circolare e senza posa.
Entità
incorporee cui la pietà era sconosciuta, disperazione e odio
come
unica fonte di sostentamento e una totale abnegazione nei confronti
dei loro creatori, ecco cosa erano i demoni.
Prima
di Sherra altri generali e altri monaci avevano servito con dedizione
il dark lord del Nord, ma dopo la Guerra dell'Avvento Demoniaco lei
era l'unico generale rimasto al servizio di Dynast.
Il
loro legame si era drammaticamente rinforzato e la morte o il
tradimento di Sherra sarebbero equivalsi alla disfatta del demone del
ghiaccio.
«Dove
sei stata fin'ora?» la scrutò astioso.
«Al
servizio della Greater Beast.»
«Bene.»
riprese a camminare «torna alla Wolf Pack Island. Di' a Zelas
che
voglio indire una riunione. E che avverta quella sconsiderata di
Dolphin, voglio anche lei qui.» disse con voce neutra.
Sherra
non riusciva più a decifrare i cambi di umore del suo Lord,
perciò
si limitò ad annuire e poi svanire in un vortice di
cristalli.
*
La
Wolf Pack Island, la dimora di Zelas Metallium, era un isolotto di
origine vulcanica situato al largo del Mare dei Demoni, proprio di
fronte al Deserto della Distruzione.
Sherra
giunse sulle coste di sabbia nera mentre l'alba illuminava con i suoi
raggi bluastri le calde acque fangose, da cui si innalzavano fumi
spettrali.
Un
potente maleficio le impediva di materializzarsi al di là
della
linea su cui le onde si infrangevano, così si
fece strada tra gli affilati scogli di ossidiana e proseguì
oltre, superando una fitta di rete di mangrovie e
inoltrandosi
all'interno della foresta.
Il
calore asfissiante la avviluppò nelle sue spire, mentre
l'insopportabile ronzio di milioni di insetti le riempiva la testa.
Non c'era traccia di sentieri praticabili, la densa vegetazione
tropicale inghiottiva tutto rapidamente, e lei era costretta a creare
una nuova via ogni volta come fosse stata la prima.
Pochi
deboli sprazzi di luce filtravano dalla cupola di rami intrecciati,
rischiarando i profili degli arbusti sottostanti: felci, ibiscus,
orchidee e centinaia di altre piante, nutrite dal ricco terreno
vulcanico e dal potere oscuro della dark lady. Ogni cosa,
dal
tronco degli alberi ai più piccoli insetti, era pregno di
veleno.
Nessun essere umano ne sarebbe uscito vivo.
Con
colpi secchi di spada strappò via il muro di foglie e fiori.
Aveva
percorso parecchi metri, quando si rese conto di non essere
più
sola. Si fermò, ripose Dulgofa nel fodero e restò
in attesa.
Il
punto della foresta in cui si trovava era immerso nella penombra e fu
tra alcune foglie di felce che vide due punti rossi e luminescenti.
Le foglie si mosserò e qualche rametto si spezzò.
Un
sospiro assordante si propagò nell'aria assieme a nebbia
densa e
bianca. Un altro sospiro e la nebbia prese a vorticare davanti e
intorno a Sherra, plasmata da un vento inesistente fino a
trasformarsi in un maestoso pavone bianco.
Jarlath,
il Custode dell'isola, un demone inferiore capace di assumere diverse
forme animali e che Zelas usava per tenere lontani i visitatori
indesiderati e indicare la via agli ospiti attesi.
«Sono
Sherra, primo generale del Demone della Guerra. Esprimo il desiderio
di raggiungere la dimora di Lady Zelas Metallium.» disse con
voce
solenne mostrando i palmi aperti.
Jarlath
piegò la testa e il soffice ciuffo emise un suono simile a
quello di
tanti piccoli campanelli, poi sollevò la ruota di piume
candide, che
risplendettero di luce propria nella semioscurità, e si
appiattì al
terreno in un profondo inchino.
"Ti
stavo aspettando." sentì il sussurro entrarle in
testa
delicato come una carezza.
Il
Custode le diede le spalle e si avviò nel cuore della
foresta e lei
lo seguì. La vegetazione si ritraeva al passaggio del pavone
e
nessun animale ebbe il coraggio di intralciare il suo cammino... ma
non quello di Sherra.
Avrebbe
volentieri scagliato una palla di fuoco, ma neanche quello era
consentito. Afferrò ancora la spada con stizza e
iniziò a devastare
la vegetazione di fronte a sé. Strappò foglie,
interi rami,
rimanendo di tanto in tanto incastrata tra le liane o inciampando
sulle radici sporgenti di qualche albero secolare. Sentiva la rabbia
montare dentro di sé.
Dopo
mesi al suo servizio, mi tratta ancora come un'intrusa qualunque!
Odiava
muoversi come una semplice mortale e riteneva un affronto non poter
raggiungere agevolmente la Greater Beast, una mancanza di fiducia
inaccettabile, persino per un demone.
Jarlath
la accompagnò per tutto il tragitto fino a quando non si
dissolse in
fumo come acqua che evapora al sole.
Sherra
si guardò intorno alla ricerca del palazzo, ma non c'era
proprio
nulla, solo altra vegetazione. Le vie di accesso erano tante e ben
nascoste e raramente capitava di usare la stessa per due volte di
fila.
In
un moto di rabbia divelse un esile tamarindo, scagliandolo contro
delle palme poco distanti, e proprio lì, tra i tronchi
frastagliati,
intravide ciò che cercava.
Era
una piccola radura, coperta
da un grosso strato di foglie putrefatte, al cui centro si ergeva
solitaria una millenaria magnolia. I rami si innalzavano al cielo in
una ragnatela carica di fiori bianchi e profumati.
Si
avvicinò con calma, rimettendo l'arma nel fodero. I piedi
affondavano nello strato di fogliame marcescente come fosse
marmellata, mentre miriadi di insetti si muovevano frenetici
tutt'intorno.
L'odore
acre la disgustò, ma nonostante tutto lei doveva avanzare.
Poggiò
una mano sulla liscia corteccia, in alto, nel punto in cui due pieghe
si intersecavano in un complesso disegno, raffigurante il volto di un
lupo circondato da ali piumate, e recitò una preghiera
nell'arcaica
lingua demoniaca.
Il
marchio di Zelas brillò di una luce rossastra, che si
allargò lenta
al resto dell'albero come sangue che sgorga da una ferita. Quando
raggiunse il terreno il portale potè dirsi aperto e, senza
indugiare
oltre, Sherra lo varcò con passo sicuro.
La
via per raggiungere il palazzo era uno stretto cunicolo sotterraneo,
privo di qualsiasi fonte di luce e attraversato dalle radici della
vegetazione sovrastante.
Si
aspettava una temperatura più bassa vista la
profondità, ma
sembrava che quell'isola ribollisse senza tregua come immersa in un
calderone.
Uscita
dal tunnel era di nuovo all'aria aperta, ma al posto di alberi e
piante dai fiori variopinti, si ritrovò di fronte alla
dimora della
Greater Beast.
Il
palazzo era stato scolpito in un'unica grande colata di ossidiana e
rifulgeva sinistro alla luce del sole di metà mattina.
Ai
lati dell'entrata, due enormi statue di basalto scuro raffiguranti
lupi in posizione d'attacco, con le fauci spalancate e le zampe
anteriori protese in avanti. Il portone, alto almeno tre metri, era
di ebano scurissimo e i pezzi di ossidiana, che si affiancavano alla
chiodatura, lucidi come pupille infernali. Sherra invocò di
nuovo il
nome di Zelas e quello si aprì cigolando sui cardini.
L'interno,
nonostante le numerose finestre, risultava lugubre e inquietante come
una caverna.
A
decorare le pareti, armi, tra cui archi, faretre piene di frecce,
spade e pugnali racchiusi in teche di vetro, maschere contorte da
smorfie di dolore, arazzi e dipinti raffiguranti scene di caccia,
miti sulla creazione dell'universo e lei, Zelas, in ogni sua forma.
Niente
a che vedere con l'austerità del castello del Nord.
Percorse
diversi corridoi, come in un labirinto che ormai conosceva bene,
finché non si ritrovò di fronte ad un portale
alto e rettangolare,
due lastre di oro prive di ornamento, piatte come uno specchio,
appena separate da una sottile linea centrale.
Con
un'unghia affilata incise una runa demoniaca sulla mano sinistra e
quando la pose sul metallo freddo, questo s'increspò e
sciolse come
fosse liquido, tornando alla propria forma dopo che lo ebbe
attraversato.
Al
di là di esso Sherra trovò un atrio circolare,
spoglio e privo di
aperture. Dal soffitto pendeva un grande lampadario fatto di
cristalli bianchi e trasparenti, in netto contrasto con il resto
dell'ambiente. Emanava un'intensa luce dorata che si rifletteva sulle
superfici traslucide delle pareti e del pavimento, dando
l'impressione di essere dentro un cilindro di vetro colorato.
Uniche
vie d'uscita da quella sala a tinte gialle erano due porte, poste
alla fine di due diverse rampe di scale.
Sherra
sapeva già che entrambe conducevano ovunque Zelas volesse:
nelle
celle sotterranee, tra le fauci di un lesser demon, nel suo letto,
difficile stabilirlo con certezza.
Con
la speranza di essere ricevuta, sospinse l'ennesima porta... e
trattenne un sospiro di sollievo.
Stesa
di traverso sul suo trono fatto di ossa annerite, arricchito da un
numero impressionante di piume colorate di diverse razze di uccelli,
c'era Zelas Metallium.
L'abito
chiaro si adagiava elegante sulla pelle ambrata, mettendo in risalto
il corpo flessuoso e la bionda chioma ribelle, tenuta a bada da
monili e trecce sparse.
In
un tintinnio di braccialetti e cavigliere, la Greater Beast si mise
seduta, mentre un ghigno le deformava il volto.
«Sherra,
mia cara!» aprì le braccia ad accoglierla.
«Avverto qualcosa di
nuovo in te. Di sicuro porti buone notizie»
allargò il ghigno in un
sorriso cattivo.
«Lord
Dynast si è risvegliato» rispose con voce piatta.
Non si inchinò,
perché era un gesto che riservava al suo unico signore, ma
Zelas non
parve gradire e un bagliore rossastro le accese lo sguardo.
«Sapevo
che avresti sciolto quel ghiacciolo!»
Sherra
ignorò l'insulto «Sono qui per invitarla a
presenziare...»
«Non
mi dire!» esclamò interrompendola
«L'ennesima riunione alla
ghiacciaia?»
Ghiacciaia?!
Dovette
trattenersi dal
rispondere a tono.
«Sì,
una riunione al castello di Lord Dynast.»
disse con tono
pungente e, se Zelas lo notò, non lo diede a vedere.
«Fammi
indovinare. Discuteremo di strategie militari, creazione di eserciti
e bla bla...» lasciò cadere il discorso annoiata.
«Non è il mio
metodo, dovrebbe saperlo ormai.»
«Con
tutto il rispetto, non credo che il suo metodo sia
sufficiente
questa volta.» si morse la lingua subito dopo averlo detto.
Zelas
strinse i braccioli del trono, fino a spezzare i femori e le tibie di
cui erano costituiti.
I
suoi occhi divennero scarlatti, mentre il sorriso grazioso si
tramutava in un ringhio bestiale.
Balzò
in piedi e due enormi ali ambrate cartilaginee si dispiegarono,
tendendosi al massimo della loro apertura. Com'era finita in quella
situazione? Da messaggera a vittima inerme... se ne fosse uscita viva
la punizione che la attendeva sarebbe stata terribile.
Il pensiero di Sherra corse alla spada, pur sapendo di non avere
possibilità.
Il demone superiore alzò un mano e un vortice
concentrico iniziò a formarsi tra gli artigli.
Sherra
ebbe il tempo di abbassarsi e rotolare a destra; il maleficio
colpì
il pavimento, che si disintegrò in una nube di polvere
nera... ma
non era ancora finita.
Zelas
si sollevò in aria, battendo le ali come un avvoltoio, e
ruggì
fecendo tremare le pareti del palazzo, poi
le si scagliò contro in picchiata, artigliandole le spalle.
La forza
dell'impatto fu tale da scaraventarla a terra e aprire una voragine.
Zelas
era ancora sopra di lei, la bocca aperta, da cui spuntavano tre file
di denti aguzzi, gli occhi rossi privi di pupilla e le ali spalancate
ad oscurarle la visuale. L'armatura da generale non aveva retto bene
come sperava e non aveva impedito che venisse ferita anche sul piano
astrale.
Era
pronta a ricevere il colpo di grazia, quando dei passi ticchettarono
sull'ossidiana della sala.
Gli
occhi di Zelas ritrovarono la propria forma e la lady rivolse uno
sguardo stranito al nuovo ospite. Sherra era paralizzata dal dolore
alle spalle squarciate, ma riuscì comunque ad avvertire la
presenza
di Xellos alle sue spalle, che si inginocchiò proprio
sull'orlo del
cratere e prese a giocare con la treccia cerulea del generale; ne
avvolse la ciocca finale tra le dita e poi si sporse in avanti.
«Mia
Lady, di questi tempi mettersi gli uni contro gli altri non potrebbe
portare alcun vantaggio.»
La
voce calda e profonda del demone parve agire come un potente
sedativo. Le ali si ritrassero piano fino a scomparire del tutto e,
mentre l'ultimo ringhio cupo rimbombava tra le pareti, Zelas riprese
la propria avvenente forma. Si rimise in piedi, sovrastandola, e
premette un piede nudo sullo sterno del generale.
«Sono
desolata, lady Metallium.» si affrettò a dire
Sherra.
Xellos
aveva davvero ragione e lei era stata una sciocca, ma era certa che
Dynast, una volta scoperto il terribile passo falso, non avrebbe
lasciato correre. E non era la sola.
«Non
la passerai liscia, generale. Non dopo che mio fratello
saprà della
tua insolenza» spalancò gli occhi con un sorriso
trionfante.
«Altre
direttive del ghiacciolino?» chiese poi, come se nulla fosse
accaduto.
«Avvertire
lady Dolphin.» rispose a denti stretti, incapace di alzarsi.
Era
certa che i danni subiti non fossero gravi, ma che il demone
superiore la tenesse lì inchiodata per personale
compiacimento.
«Xellos»
lo chiamò con tono imperioso, come se lui non si trovasse
lì «va'
ad avvertire la piccola sirenetta! Che la smetta di gingillarsi con i
marinai mortali, abbiamo cose importanti di cui discutere.»
fece una
smorfia disgustata, facendogli segno di andare con la mano
ingioiellata.
«E
quanto a te» si rivolse a Sherra «non ti voglio
sulla mia isola,
che ci fai ancora qui?»
Un
altro gesto di Zelas e si ritrovò sbalzata fuori,
letteralmente.
Ripercorse a ritroso i corridoi, aprendo tutte le porte con la
schiena, incapace di riprendere il controllo di sé persino
sul piano
astrale.
L'umore
della dark lady si rifletteva sulle condizioni climatiche della Wolf
Pack Island e l'ira che aveva quasi rischiato di ucciderla aveva
scatenato anche un violento nubifragio.
La
pioggia scrosciante aveva trasformato il terreno in fango vischioso,
su cui Sherra atterrò sgraziata. Con un verso iroso si
alzò e si
guardò intorno: era solo uscita dal palazzo.
Provò a
smaterializzarsi, ma non funzionò.
Il
vento la schiaffeggiava e la pioggia bollente e urticante le impediva
quasi di aprire gli occhi. Inoltre quelle temperature la
indebolivano, ma lei non aveva molta scelta, così si
voltò
sconsolata a guardare la foresta e con uno sbuffo si preparò
ad
affrontarne, di nuovo, le insidie.
Note:
1.
Nell'opera originale i mazoku e gli shinzoku rappresentano
rispettivamente male e bene, i primi si battono per il ritorno al
caos primordiale, i secondi per impedire che questo accada.
Io ho
dato un'interpretazione diversa del conflitto e avrete modo di
scoprirla leggendo ;)
2.
Probabilmente questo capitolo e tutti gli altri che
pubblicherò
saranno ulteriormente revisionati. Al momento sono impaziente di
farvi conoscere la storia che mi frulla in testa!
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto, se vi va lasciate una recensione e
fatemi sapere cosa ne pensate ^^
|
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Capitolo 3 *** Capitolo III - Distacco ***
cap 3 - distacco
Capitolo
III - Distacco
La
flebile luce del mattino filtrava attraverso le tende di pizzo,
colpendo il viso pallido coronato da lunghe ciocche corvine. I segni
scuri sotto gli occhi e la fronte aggrottata rivelavano la sofferenza
che si celava dietro le palpebre chiuse.
La principessa Amelia
giaceva nel suo letto come una bambola di porcellana, dai cui occhi non
smetteva di sgorgare dolore in calde gocce salate.
I medici avevano rilasciato
un comunicato ufficiale, in cui veniva annunciato che la futura regina,
troppo preoccupata per le sorti del suo regno, si era indebolita e
ammalata, ma che sarebbe presto guarita grazie al loro tempestivo
intervento.
Lina sospirò
sprofondando nella poltrona. Era una delle poche persone fidate a
conoscere la verità sulla crisi isterica di Amelia, così
era rimasta al suo fianco per impedire a qualche curioso di
ficcanasare. Non aveva però pensato all'aspetto pratico della
faccenda. L'abito le stringeva le costole in una morsa d'acciaio e,
nonostante i vari tentativi, non era riuscita ad allentare le stringhe
del corpetto che rischiavano di ucciderla.
Non sopportava neppure il
pizzo che si allargava dalle maniche dell'abito, penzolando molle
giù per l'avambraccio. Lo tirò su, provando a strapparlo
via, ma una fitta alla mano le impedì di continuare.
Osservò la zona dolente e si accorse del livido violaceo che,
come un braccialetto, le avvolgeva il polso e parte del dorso della
mano.
Zelgadis.
Non lo vedeva da quel
famigerato pomeriggio e non sapeva neppure dove si trovasse. Aveva
provato a fermarlo, ma lui l'aveva scacciata via come un insetto
molesto.
Come avesse ascoltato i
suoi pensieri, la principessa si mosse, mentre un lamento sommesso le
gorgogliava nel petto. Il nome dell'amato, ripetuto più volte in
deboli sussurri, iniziò a perdere senso e significato, un
insieme di sillabe sconnesse che si rincorrevano febbrili.
Un singulto strozzato, due pugni battuti sul letto e un lungo sospiro: Amelia aveva aperto gli occhi.
La vide fissare apatica il soffitto attraverso le palpebre gonfie, le braccia aperte in segno di resa.
Non era da Lina lasciarsi
andare a plateali manifestazioni d'affetto e, tuttavia, sentiva di
voler fare qualcosa per l'amica, ma le parole erano solo erbaccia in un
giardino bruciato.
Si limitò allora a stendersi accanto alla principessa, quasi con la paura di romperla.
Amelia sembrò
rendersi conto solo in quel momento della presenza della maga, la
guardò inerte e poi la sua attenzione venne catturata dai
riflessi infuocati dei capelli scarlatti. Ne afferrò una ciocca
con indolenza e prese a rimirarla come fosse una pietra preziosa.
«Da quanto tempo mi trovo qui?» chiese in un sussurro rauco.
«Ieri
pomeriggio» Lina si sforzò di eliminare ogni traccia di
emozione dalla propria voce, ma era difficile dimostrare pura
solidarietà senza sporcarla con altri sentimenti.
«E tu invece?» rigirò la ciocca rossa tra le dita «sei stata sempre con me?»
«Sì,
certo.» Lina accennò un sorriso per spezzare la tensione,
ma la principessa non colse l'occasione.
«Mi dispiace,
non avresti dovuto...» la guardò di traverso «...hai
fatto la veglia ad un cadavere.» le lacrime avevano lasciato il
posto ad una cupa rassegnazione.
Lina non
trovò la forza per contraddirla o rassicurarla e quel muto
assenso la incoraggiò a proseguire «La felicità non
mi appartiene più, da oggi e per sempre» sospirò,
lo sguardo ancora fisso al soffitto e il volto sempre più
scavato, come se ogni parola la consumasse.
Le strinse la mano, come faceva sua sorella quando da piccola le capitava di avere degli incubi.
Aveva sconfitto demoni
superiori, affrontato la morte a viso scoperto, vincendo ogni partita.
Eppure non c'era niente che potesse fare per andare contro le decisioni
di un misero essere umano.
•
«Sollevi le
braccia... ecco, così. Ora trattenga il respiro... Dana! Forza,
non startene lì impalata! Afferra un nastro e tira!»
La cerimonia di
vestizione della principessa era un rituale mattutino a cui ogni
cameriera di corte aspirava di poter assistere e partecipare.
Significava dedicarsi a stoffe pregiate e gioielli preziosi smettendo
per sempre di occuparsi della manutenzione del castello: nessuna mano
rozza, infatti, aveva il permesso di toccare la famiglia reale.
«Dana! Ti ho
detto di tirare, non di spezzarle il busto!» strepitò una
delle più anziane verso una giovane cameriera rossa in volto.
In tutto quel caos
di stoffe e merletti, la principessa era una marionetta dal volto
imperturbabile, seguiva le direttive in silenzio e senza entusiasmo. Si
muoveva con lentezza, persino le palpebre si alzavano e abbassavano
fiacche sugli occhi di zaffiro. Eppure si sentiva una bomba pronta ad
esplodere, riusciva quasi a percepire l'energia soffocata anelante lo
scoppio, che premeva contro le pareti del proprio essere come una fiera
dietro le sbarre.
Il rito si era concluso,
Amelia era perfettamente impacchettata in seta e pizzo blu cobalto, i
capelli raccolti in una delle solite complesse acconciature e il volto
serafico truccato a dovere per mascherare le occhiaie.
Era una vittima
sacrificale, un'offerta al dio della guerra, e presto sarebbe stata
reclamata. A lei, però, non importava: non avrebbe scansato il
pugnale, ma aiutato l'assassino a prendere la mira.
La paladina della giustizia era un guscio vuoto di sogni infranti e i cocci del suo cuore erano polvere nel vento.
«Sua Altezza, è bella come un angelo!» esclamò l'anziana domestica che dava le direttive. Amelia rispose con un sorriso appena accennato e con un gesto della mano invitò tutte ad abbandonare la stanza.
La disperazione l'aveva fatta prigioniera, ma il tempo aveva continuato a scorrere inesorabile.
Quarantasei erano i membri della Dieta imperiale.
Quarantasei era il numero delle province dell'impero.
Quarantasei erano i giorni
che intercorrevano tra la firma dell'accordo matrimoniale e il giorno
in cui lo sposo avrebbe fatto visita alla sposa.
Elmekia era un impero
fondato sulla numerologia esoterica, ad ogni numero era assegnato un
preciso valore simbolico da cui non si poteva prescindere. Il
quarantasei era un numero sacro e inviolabile, di auspicio per la buona
riuscita di un evento.
Amelia aveva vissuto quei
giorni con angoscia, segnandoli sul calendario con la stessa
solennità di un condannato a morte.
«Sarà
grossolano e volgare, del tutto privo di classe o bellezza. Ho
già conosciuto molti nobili di Elmekia... dei veri barbari
misogini, incapaci di prendere una decisione prima di aver consultato
il sacerdote.» disse trattenendo le lacrime «Ma io
sarò la regina di Saillune e potrò imporgli le mie
usanze, giusto?» rivolse a Lina un sorriso che però non
fece in tempo a raggiungere gli occhi.
L'amica si
alzò, con un gesto ormai abituale lisciò le pieghe del
vestito avorio, e si avvicinò alla principessa.
«Certo!» le sorrise intrecciando le mani alle sue.
«La donne più forti e combattive nella storia della
Penisola appartenevano tutte alla casata Remington, non lo
dimenticare.» le carezzò una guancia con fare materno
«Tua madre era forte e fiera e tu, che sei sua figlia, non sarai
da meno!»
«Hai ragione. Abbiamo vinto molte battaglie...» disse incerta.
«Esatto!» le afferrò entrambe le mani «ora andiamo, la corte aspetta
solo te.» disse aiutandola a mettersi in piedi.
Amelia sapeva che
quel finto entusiasmo era solo un mero palliativo, ma vi si
abbandonò, troppo stanca per combattere ancora una volta contro
sé stessa.
•
Rilesse la stessa pagina
per l'ennesima volta, senza mettere a fuoco il vero significato del
testo, negli ultimi tempi gli capitava spesso e provava sempre lo
stesso fastidioso senso di smarrimento.
Immergersi nella lettura
significava non pensare, perdere la concentrazione, invece,
rituffarsi nel mare di melma che era diventata la sua vita.
Aspirò una densa
boccata di fumo dalla piccola pipa e si lasciò andare contro lo
schienale della poltrona. La stanza era spaziosa, al centro vi era il
lungo tavolo di legno massiccio al quale era seduto; vicino alla
finestra un letto singolo e dal lato opposto una libreria, riempita con
vari libri selezionati dalle molte biblioteche del castello; in
generale, l'arredamento poteva dirsi più da servitore che da
ospite, ma a lui andava bene.
Il fatto che lo studio
improvvisato si trovasse in una torre lontana dal cuore pulsante della
reggia lo faceva sentire al sicuro, da Amelia e da se stesso.
Stava osservando le volute
argentee risalire fino alla lampada, quando la porta venne spalancata e
richiusa con violenza, tanto che poté sentirla tremare sui
cardini.
Le tende erano tirate e
l'unica luce della stanza bastava a malapena ad illuminare il tavolo da
lavoro, ma nell'oscurità riuscì a distinguere il profilo
di un abito femminile.
Una bagliore giallognolo si
irradiò dalla porta a tutte le pareti, in una ragnatela di raggi
luminescenti che scomparvero nel giro di pochi attimi.
La figura allora si mosse, ma aveva il fiato corto e lui la riconobbe ancor prima di averla vista.
La gonna di organza blu
catturò il debole chiarore della stanza, mentre i piccoli
fermagli d'argento tintinnavano ad ogni passo. Zelgadis osservò
rapito la linea del collo sottile come un giunco, ma non ebbe il
coraggio di incontrare il suo sguardo per paura di trovarvi odio e
rancore.
«Che ci fai qui?» chiese e il suo tono risultò più brusco di quanto volesse davvero.
«Volevo vederti...» la voce della principessa tremò come la fiamma di una candela.
Zelgadis mise da
parte la pipa e si alzò «E perché mai?» disse
senza guardarla, con i palmi aperti poggiati sul tavolo, come se stesse
studiando la cartina geografica davanti a sé.
Ti ignorerò e tu, troppo ferita nell'orgoglio per restare, te ne andrai...
Un'altra sarebbe
fuggita via da quel gelo, ma lei era Amelia ed era sempre stata
disposta ad affrontare la bufera pur di stare con lui. Si
avvicinò al tavolo e pose le piccole mani bianche su quelle
ruvide di pietra.
Quel breve contatto gli
chiuse la gola e quasi si sentì soffocare e risucchiare nel buio
della stanza, mentre il cuore rimbalzava come una palla impazzita nel
torace. Si permise di sostenere lo sguardo della principessa, per
trasmetterle una gelida indifferenza, poi si allontanò esibendo
una smorfia nauseata, e con uno strappo deciso scostò le pesanti
tende rosse dalle finestre.
La luce del giorno
penetrò nello studio, così intensa da ferirgli gli occhi.
Avrebbe preferito darle le spalle e continuare a guardar fuori
piuttosto che fronteggiarla.
Sono solo una vile chimera. Aveva bisogno d'aria...
«Non
aprirla!» disse allarmata la principessa e lui non aveva
resistito alla tentazione di voltarsi nella sua direzione «Ho
fatto un incantesimo insonorizzante» si spiegò Amelia
arrossendo.
Il cuore gli si era spaccato e già cominciava a sanguinare, ma Zelgadis ghignò sprezzante.
«Il pericolo non le si addice, sua altezza» rise amareggiato «se scoprissero...»
«Non lo faranno! Lina mi coprirà, me l'ha promesso» lo interruppe decisa aggirando il tavolo.
Zelgadis si ritrasse ancora di più, mentre lei provava a colmare la distanza che li separava.
Amelia aggrottò le sopracciglia contrariata e sbuffò «Vigliacco!» disse battendo un piede per terra.
«Prego?»
spalancò gli occhi e la bocca, mentre un altro sentimento si
faceva largo tra la folla ed emergeva prepotente.
«Hai sentito bene! Sei diventato anche sordo?» Amelia stava ritrovando improvvisamente il suo cipiglio.
«Sei un
dannato vigliacco! Dove credi di andare?» alzò le braccia
ad indicare l'intera camera. «Vuoi scappare dalla finestra?
Accomodati! Non farai molta strada... ci sono arcieri appostati ad ogni
angolo della città, con l'ordine di colpire ogni animale,
persona o oggetto dall'aria sospetta!» il respiro in affanno e le
gote arrossate, la principessa aveva urlato con tutto il fiato che
aveva in corpo, stringendo i pugni e battendo di nuovo i piedi.
«Ti sei sfogata?» la guardò come si guarda una bambina sciocca e capricciosa.
Amelia non rispose,
rimase a fissarlo furiosa e poi, come una leonessa, sferrò
l'attacco a sorpresa. Si avventò contro di lui, nonostante il
peso del vestito e dei gioielli, con l'intenzione di schiaffeggiarlo,
ma il ragazzo era più veloce e prestante. Le bloccò
entrambe le mani dietro la schiena, tirando giù con forza le
braccia, senza curarsi dei lividi che la sua stretta di pietra avrebbe
potuto procurarle.
Aveva fatto di tutto per
tenerla lontana, per quarantasei giorni non era uscito da quella torre
solitaria se non per brevi passeggiate e saltuarie visite al parco, ma
quella improvvisa vicinanza aveva annullato ogni sforzo. Poteva sentire
il battito frenetico del suo cuore e il ritmico alzarsi del suo petto
contro di sé, era inebriato dal profumo di pesca e vaniglia e
rapito dai riflessi che il sole donava a quegli occhi blu come l'oceano.
Non sapeva cosa le passasse
per la testa, se i loro pensieri collimassero, ma il totale abbandono
che lesse nel suo sguardo e la resa che percepì attraverso il
tessuto, furono sufficienti a fargli perdere il controllo. Con poche
falcate la spinse contro la scrivania, mentre le loro labbra si
scontravano, ancora una volta in preda alla disperata passione. La
stoffa leggera del vestito e quella pesante delle sottovesti era troppa
e ingombrante, Zelgadis provò più volte a sollevarla
senza successo, ma il gemito frustrato della principessa lo convinse a
scegliere la via più drastica. Estrasse il pugnale dal fodero
che teneva sempre legato alla cintola e lacerò l'abito, uno
strato alla volta. Quando finalmente intravide le gambe candide, le
afferrò senza grazia e sollevò la ragazza fino a metterla
seduta. Amelia gettò la testa indietro, aggrappandosi alle
spalle solide, mentre il ragazzo iniziava la sua personale tortura.
Lei era lì, di nuovo
sua come se nemmeno un giorno fosse passato da quel fatidico
pomeriggio. Poteva toccarla, baciarla e morderla senza riguardi, poteva
di nuovo razziarle il respiro e lasciarsi strappare il cuore dal petto,
ma il pensiero che quella potesse essere l'ultima volta quasi lo
annientò.
Era stato stupido a credere
che la lontananza avrebbe spento la loro fiamma, perché era
bastata un'unica scintilla a farla divampare impetuosa.
Aveva la mente appannata,
mentre i battiti accelerati gli rimbombavano nelle orecchie
mischiandosi al rincorrersi dei loro respiri e al rumore degli oggetti
che cadevano giù. Nemmeno lo schianto della lampada
riuscì a distoglierli mentre si avviavano verso l'oblio, morendo
uno nella braccia dell'altra.
Amelia si strinse di
più al suo petto e lui poggiò il mento nell'incavo del
collo pallido, lasciandosi cullare dal ritmo crescente dei loro corpi,
i fianchi della ragazza come unico appiglio per non precipitare
nell'abisso.
La sentì tremare
sotto di sé e, nonostante nessuno potesse sentirli, si
affrettò a far suo l'ultimo sospiro, rubandolo alle labbra rosse
e gonfie in un estremo atto possessivo. La spinse contro il tavolo,
schiacciandola con il suo peso contro i fogli su cui prendeva appunti
da più di un mese.
Senza staccarsi,
prolungando la dolcezza di quel contatto, baciò i seni
imprigionati nel corsetto, risalì la linea del collo, le guance,
il naso e le palpebre chiuse. L'acconciatura era ormai un lontano
ricordo e lui bramava di poter affondare le dita tra le ciocche
corvine, così tolse i fermagli e con minuzia sciolse ogni
singola treccia, finché il manto dei capelli non ricoprì
il ripiano.
Amelia lo guardava con il volto disteso, carezzando ogni pietruzza sul suo viso e sul suo petto e sospirando di tanto in tanto.
Quella pace illusoria non era destinata a durare a lungo.
«Come lo spiegherai?» mormorò mordicchiandole il lobo di un orecchio.
«Cosa?» forse troppo confusa dall'inaspettata sequenza di eventi, la ragazza non sembrò capire.
Zelgadis
arretrò di un passo, avvertendo il freddo penetrare la scorza
dura della propria pelle e raggiungere le ossa. Quando la vide,
smarrita, coprirsi con vergogna, capì che l'incanto era finito,
dissolto da poche semplici parole.
«Non ho
bisogno di giustificarmi, se è questo che intendi» disse
piccata, castando un incantesimo riparatore sull'abito. «Io
sarò la regina e lui è soltanto l'ultimo di tre figli
maschi» la ascoltò stupito, non avendo mai sentito la sua
voce colorata di arroganza.
Era deciso a guardare oltre quella nuova maschera, l'avrebbe distrutta sul nascere.
«E quindi?» la imprigionò di nuovo tra lui e il legno liscio.
«E quindi si dovrà accontentare di un giocattolo di seconda mano» gli sussurrò a fior di labbra.
Il pensiero che
qualcun'altro l'avrebbe avuta, toccata e fatta sua lo riempì di
disgusto e sentì la bile salire a incendiargli la gola. Per
quanto lei potesse fingere cinismo, le lacrime la tradirono luccicando
inopportune sulle ciglia.
Zelgadis
indietreggiò ancora, lasciandosi andare contro la poltrona alle
sue spalle, lo sguardo perso nel vuoto e le mani avvinghiate ai capelli.
Amelia, che era
riuscita invece a mantenere un certo contengo, gli si
inginocchiò accanto posandogli le mani sulla gambe «Oggi
è il giorno...» si fermò per non piangere, ma
Zelgadis non aveva più bisogno di parole.
La avvolse in un
abbraccio che voleva essere rassicurante, non badando alla posizione
scomoda o all'eventualità di ferirla, incapace com'era di dosare
la sua forza.
«Ho paura» un soffio leggero che non gli sfuggì.
Amelia aveva paura e
lui non sarebbe stato lì a proteggerla dal barbaro elmekiano:
era questo il pensiero che lo tormentava. Non importavano i suoi
desideri e le sue volontà, il fatto di volerle stare
egoisticamente accanto era solo un aspetto secondario. Come poteva
accettare di saperla sola e indifesa nella gabbia della tigre?
«Non devi
averne» le disse aumentando la presa «Ovunque io
andrò, in qualunque angolo della Terra o del Mare del Caos, ti
amerò...» gli si incrinò la voce e fece una pausa
per ritrovarne il controllo «e tu, non sarai mai da sola
perché questo pensiero ti terrà per sempre
compagnia» deglutì a stento.
«E poi» sospirò «io e Gourry abbiamo parlato di recente. Gli ho chiesto un... favore.»
Amelia fu colpita da
quelle parole, tanto da staccarsi per poterlo guardare «Che
favore?» sgranò gli occhi «Aspetta! Vuoi dire che si
è...» le parole le morirono tra i denti.
«Non ancora,
ma probabilmente lo farà a breve e lui è in debito con
me» disse grave. «Ma non credere che lo farà solo
per questo. Aveva i suoi secondi fini quando ha accettato e, se lo
conosci bene, sai già a cosa mi riferisco.»
La principessa
aggrottò la fronte, sforzandosi di liberare la mente dalla
confusione per pensare con lucidità ai motivi che avevano spinto
l'amico ad un tale sacrificio.
«La spada!»
esclamò di colpo «Alle guardie reali forniamo spade con
lamina in vantablack.» continuò scioccata dalla sua stessa
scoperta.
Chiedere a Gourry
quel favore gli era costato molte notti insonni, sapeva già che
avrebbe accettato senza riserve e per questo il senso di colpa lo aveva
divorato fin da subito.
Il fatto che l'amico fosse
alla ricerca di un'arma lo aveva in un certo senso rassicurato, anche
se continuava a sentire una nota stonata ronzare come una mosca nella
sua mente.
«E Lina...» provò a dire Amelia, ma lui la interruppe all'istante prendendole il volto tra le mani.
«Lei non deve sapere niente! È una questione che non ci riguarda.»
«Ma Zel, cerca di capire, lei è mia amica e io non...» provò a divincolarsi senza successo.
«Lui ha
accettato, sa a cosa deve andare incontro, e se Lina venisse a saperlo
prima di sicuro si metterebbe in mezzo» aveva messo da parte ogni
scrupolo per proteggerla, non le avrebbe permesso di mandare tutto a
monte.
«Come
potrò guardarla in faccia senza sentirmi in colpa?» aveva
ripreso a piangere come una bambina. I pesi sul suo cuore erano
diventati una catasta di pietre che non riusciva più a tenere in
equilibrio tra le braccia.
Zelgadis stava per
risponderle ma il suono intenso e prolungato di un corno reale irruppe
nella stanza facendo tremare i vetri delle finestre.
Amelia lo guardò smarrita e lui a sua volta si sentì crollare il pavimento sotto i piedi.
«Sono arrivati» squittì la principessa portandosi le mani alla bocca.
Qualcuno
bussò alla porta dello studio con veemenza. Il sangue
defluì dalle guance della principessa e un brivido di puro
terrore le percorse la schiena al pensiero della fine che avrebbe fatto
Zelgadis se l'avessero trovata lì.
Si affrettò a
raccogliere i fermagli d'argento e a rassettare il vestito come meglio
poteva, mentre Zelgadis urlava di non essere presentabile in quel
momento. Peccato che l'incantesimo scagliato dalla principessa fosse
ancora attivo, così l'ospite inatteso forzò la serratura
con un colpo secco.
«Scusate,
scusate, scusate. Spero di non aver interrotto nulla!» Lina si
fece largo a braccia alzate e occhi chiusi all'interno della stanza.
«Puoi aprire gli occhi!» la rimproverò esasperato il ragazzo.
«Meglio
così, non è ora di farvi trovare nudi! Gli elmekiani sono
sulla via di Saillune e il loro arrivo è previsto per questa
sera.»
Amelia tirò
un sospiro di sollievo e allentò la presa sui fermagli che
già avevano iniziato a lasciare segni rossi sui palmi.
«Quindi la cerimonia non si terrà questa notte?» chiese rinfrancata.
«No, gli elmekiani celebrano riti notturni solo per compiere azioni offensive o cose del genere.»
«E tu come fai
a conoscere così tanti dettagli?» le domandò
scettico Zelgadis «Anzi no, non dirmelo. Hai minacciato un
valletto?»
«La cuoca» ammise rimirandosi le unghie con aria soddisfatta.
«Mi sembra giusto.»
«Ora però non c'è più tempo... Amelia, ti aspetto fuori, fai in fretta.»
Alla fine era giunto
il fatidico momento del distacco. Le avrebbe detto addio per sempre e
di lei non gli sarebbe rimasto nient'altro che una manciata di ricordi,
troppo miseri per potergli riempire il buco nel petto.
Erano uno di fronte
all'altra a guardarsi, per imprimere nella mente dettagli all'apparenza
insignificanti. Di lei avrebbe conservato il profumo dolce di
gelsomino, le pagliuzze verdi che gli capitava di intravedere quando si
trovavano in penombra, la morbidezza della sua pelle e la risata
argentina che nasceva spontanea quando era allegra e felice.
La abbracciò con
gentilezza, inspirando il profumo dei capelli scuri e lucenti, e la
baciò senza fretta, per poter assaporare per l'ultima volta il
suo sapore, affidandole l'ultimo pezzo del proprio cuore.
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Capitolo 4 *** Capitolo IV - Alleanza ***
CAPITOLO
IV – ALLEANZA
La
capitale era in fermento da quando
avevano avuto inizio i preparativi per accogliere il futuro re
consorte.
Le mura della via che lo avrebbe
condotto al castello erano state ricoperte di fiori freschi, migliaia
di lanterne di carta erano pronte ad accendersi per illuminare il
passaggio della scorta e sulla strada si estendeva un lunghissimo
tappeto vermiglio. I migliori musici era giunti da tutto il regno per
intonare canti in onore della principessa e nelle piazze i popolani
si erano già riuniti fin dal mattino per celebrare riti di
buon
auspicio.
Il sole stava morendo all'orizzonte e
il cielo si tingeva con i colori freddi della notte, quando
ventisette carrozze arrivarono alle porte della città. Erano
lucide,
scure, ricche di intarsi e decorazioni a foglia color oro che
splendettero agli ultimi raggi di luce rossastra, mentre le ruote
scarlatte si muovevano veloci sul terreno sconnesso e polveroso.
Centootto frisoni neri trainavano le
vetture, affiancate da decine di cavalieri in groppa a cavalli
candidi. Lo stemma della famiglia Thormond, un cervo su sfondo rosso
circondato da quattro iris, troneggiava alto sugli stendardi,
ricamato in oro e seta.
L'accesso alla capitale era sbarrato e
tenuto in sicurezza da un incantesimo difensivo e decine di soldati
armati. Quando i trombettieri che precedevano il corteo iniziarono a
far squillare i loro strumenti, un fante sailluniano si sporse dal
parapetto di una delle torrette.
«Altolà! Chi osa bussare alle porte
della gloriosa Saillune?» recitò la formula di
rito.
«Sua Altezza, futuro re di Saillune!»
fu la risposta solenne del Primo Cavaliere della scorta.
«Che
Ceiphied lo abbia in gloria!» disse il fante e poi, con
l'aiuto di
una fiaccola, accese il grande braciere posto sul tetto della
torretta. Quando tutti i bracieri delle altre torri arsero della
stessa luce azzurra, l'incantesimo di difesa si palesò
vibrando come
un'opalescente bolla di sapone e sfrigolò mentre un varco
veniva
aperto per lasciar passare gli ospiti elmekiani.
Le
grandi porte di alabastro, fatte costruire da re Joffridus III poco
prima della sua dipartita, si aprirono lentamente e, quando il corteo
se le lasciò alle spalle, un'esplosione di petali di iris
blu e
viola decretò l'inizio dei lunghi festeggiamenti per le
nozze della
principessa.
Il castello di Saillune era situato al
centro dell'esagono che racchiudeva la città in un cerchio
di magia
bianca. Non era circondato da fossati, né da alte mura, ma
da ettari
di terreno, un immenso parco disseminato di boschetti e ricoperto da
uno sottile prato verde smeraldo.
Su ogni lato dell'esagono vi era solo
un arco di pietra, alto decine di metri e fregiato dall'antico
disegno dell'emblema della famiglia reale, che si intersecava con
rune anti-demone.
Molte leggende gravitavano attorno a
quegli archi misteriosi ed era convinzione comune che chiunque avesse
osato oltrepassarle senza il permesso del re sarebbe morto divorato
dalle fiamme.
Quella sera risplendevano di un debole
bagliore celeste, mentre centinaia di lucciole svolazzavano nell'aria
notturna, rilucendo come stelle in un cielo limpido.
La
fila di carrozze, protetta dall'invito ufficiale del sovrano,
varcò
indisturbata l'ingresso al parco.
All'interno
di una di queste, il principe Jaden stava mollemente adagiato su
sette cuscini di seta e broccato viola, un braccio dietro la testa e
una gamba penzoloni.
Seduto
davanti a lui vi era il vecchio Nirwald, uno dei più fidati
consiglieri dell'imperatore che, tronfio nella sua ricca tunica, si
puntellava al fondo della vettura con il bastone da passeggio.
«Una
degna accoglienza, non trova?» disse l'anziano indicando la
folla
fuori dal finestrino.
Il
principe si mise a sedere con un colpo di reni e riavviò
indietro i
folti capelli castani, del tutto indifferente alle parole di Nirwald.
«Sua
Altezza, ha per caso dimenticato le buone maniere durante il
viaggio?» stizzito l'anziano batté il bastone tre
volte sul
pavimento della carrozza.
«Sì,
degna di uno stupido contadino» rispose allora annoiato il
principe,
richiudendo con un gesto seccato le tende «Accolto da un
branco di
popolani e costretto a rimanere in isolamento fino a domani
mattina!»
«La
tradizione prevede che lei si mostri per la prima volta durante la
cerimonia nuziale, se ne faccia una ragione. E, in ogni caso, non si
preoccupi per domani, ho visto uno stormo di rondini allontanarsi dal
regno. Un buon auspicio.» disse pacato Nirwald lisciandosi la
lunga
barba bianca.
«Non
m'importa, il mio posto non sarà mai qui.»
sussurrò tra i denti,
ma ciononostante quelle parole non sfuggirono al Gran Maestro dei
Segni, che lo colpì con il bastone sulle ginocchia.
«Bada
a cosa fai, vecchio! Io sono...»
«Lei
è uno sciocco!» gli puntò contro un
dito nodoso «Le è stata
offerta un'occasione più unica che rara e non ha fatto altro
che
piagnucolare come una donnicciola!»
«Quale
occasione? Restare segregato all'interno delle mura nemiche a
rivestire un ruolo privo di importanza, mentre i miei fratelli
combattono fianco a fianco per difendere Elmekia? Il mio posto
è
nell'esercito imperiale, tra i miei uomini, a difendere i
confini.»
«No!»
la voce avvizzita del Gran Maestro risuonò roca
«Crede davvero che
Saillune sia ancora il nemico?! Due volte sciocco! Forze oscure si
agitano al di là del Deserto della Distruzione e non
possiamo farci
trovare divisi e impreparati.»
«Lo
so bene, conosco le notizie giunte da Digranes.»
«E
allora saprà che non abbiamo più molto tempo a
disposizione.»
sospirò poggiando la schiena contro il sedile imbottito.
«Sì,
ma questo compito spetterebbe a Lantyn.» disse con il volto
contorto
da una smorfia di rabbia e i pugni stretti sulle ginocchia
«Non è
giusto. Tu lo sapevi, perché non hai detto niente quando mio
padre
ha fatto il mio nome al Consiglio?»
«Lo
sapevano tutti, ma suo fratello non è mai stato adatto a
ricoprire
tale ruolo. Troppo impulsivo e rozzo, avrebbe fatto un disastro
dietro l'altro portando alla rovina il nostro più grande
alleato.»
«Come
fai ad esserne certo?»
«L'ho
visto nel fuoco,» si rabbuiò «Saillune
immersa nel caos demoniaco,
l'impero di Elmekia attaccato su due fronti e costretto a cedere ai
nuovi conquistatori.» fece una pausa, come se quella
rivelazione gli
fosse costata un certo sforzo.
«Non
è stato suo padre a proporla, sono stato io. Saillune ha
bisogno di
un sovrano saggio e lei è l'unico tra i suoi fratelli a
possedere
tutte le qualità necessarie affinché il regno
rimanga al sicuro.»
Jaden
ammutolì, incapace di reagire a quell'amara rivelazione, e
restò a
guardare il volto placido del suo Maestro, la sua guida, l'uomo che
lo aveva allevato e istruito fin dalla più tenera
età.
«Sua
Altezza, non si senta offeso né tradito. Ho agito nel suo
interesse,
lei è destinato alla grandezza.»
«Hai
visto anche questo nel fuoco o in uno dei tuoi sogni, oppure magari
dentro le viscere di una rondine morta?»
«Lo
vedo nei suoi occhi e tanto mi basta.»
Il
principe sospirò «Come dovrei comportarmi? Si dice
che la
principessa non sia più illibata da tempo, dunque
dovrò
accontentarmi dello scarto di una vile chimera demoniaca. E tra
quelle mura vivono indisturbati i Traditori...» storse le
labbra
disgustato.
«Re
Philionel in persona ha promesso di bandire la chimera dal regno.
Quanto ai Traditori, le consiglio di non agire di impulso, sia
paziente.»
I
cavalli rallentarono la loro andatura finché la carrozza non
si
fermò con uno strattone. Il cocchiere aprì lo
sportello e l'aria
pungente della sera entrò nell'abitacolo facendo
rabbrividire il
principe.
Nirwald,
invece, scese giù aiutandosi con il bastone «Ah,
che splendida
serata!» esclamò all'improvviso entusiasta, come
se niente fosse
accaduto.
Jaden
indossò il proprio mantello foderato di pelliccia e mise per
la
prima volta piede sul suolo sailluniano. L'odore degli iris era
ancora nell'aria, ma era quasi del tutto sovrastato da quello
dolciastro dei gelsomini che si arrampicavano sui pilastri e le
colonne del porticato davanti a cui si era arrestata la marcia del
corteo.
*
Profumo
di rose e d'incenso si spandeva
nell'aria fredda del tempio di Saillune. La chiara luce del mattino
penetrava dalle feritoie laterali e dal rosone centrale posto dietro
l'altare. Uno scudo circondato dalle spire di un serpente bianco,
sovrastato da una corona dorata e affiancato da due ali candide - lo
stemma della casata reale -, era raffigurato su ogni colonna di
alabastro.
Il pavimento di marmo chiaro era attraversato da linee
curve che un occhio attento avrebbe riconosciuto come la runa sacra a
Ceiphied.
Una serie di suoni gutturali e cavernosi, ripetuti con
costanza dalle voci profonde dei monaci, risuonava potente tra le
pareti vuote, mentre le vestali di Ragadria pregavano Ceiphied
offrendo doni sull'altare, presso cui era eretta una statua del dio
drago, fatta di oro bianco e zaffiri.
Gli sposi sarebbero entrati dalle porte
laterali e, dopo aver attraversato due corridoi affiancati da piccole
colonne di granito grigio, si sarebbero incontrati per la prima volta
in quel luogo freddo e poco accogliente.
Da settimane non si
parlava d'altro che del matrimonio tra Philionel ed Elismarie, lei
era scoppiata a ridere alla vista dello sposo e il momento di
imbarazzo era stato talmente grande da far svenire il sacerdote.
Erano tutti in attesa di un nuovo succulento aneddoto di cui
discutere negli anni a venire.
Lina fremeva sul posto.
«Se
sento un'altra malignità giuro che faccio saltare tutti in
aria»
sussurrò a Gourry.
Lo
spadaccino annuì, lo sguardo serio e fisso davanti a
sé, la
mandibola serrata e le mani incrociate in grembo. Lo osservò
di
sottecchi e si sentì spaesata. Il completo di broccato blu e
oro, le
calze di seta, il panciotto e le scarpe di raso con tacco, il
cappello a tesa larga decorato da piume bianche, una spada leggera
appesa al fianco e i capelli biondi raccolti da un nastro di velluto
nero: quello non era il Gourry che conosceva, eppure lui era ancora
lì, sepolto sotto strati di oggetti costosi.
Lei non era da meno,
agghindata come una dama di corte, il lungo vestito color crema, con
la gonna ingombrante e il corpetto stretto da farle mancare il
respiro. Abbassò gli occhi sulla scollatura, dove una
pesante
collana di diamanti scintillava catturando la luce dei ceri accesi,
la toccò con la mano coperta dal guanto. Quando era
accaduto? Quando
lei e Gourry avevano smesso di sentirsi dei semplici viaggiatori di
passaggio?
Si erano assuefatti al lusso, alle stoffe costose e
alle pietre preziose, ai cibi pregiati e ai comodi salotti di corte,
ma quella non era la loro vita e mai lo sarebbe stata.
Ci aveva
pensato tutte le notti negli ultimi quarantasei giorni e, quel
pensiero, che le aveva rosicchiato il cervello, si fece più
forte e
vivido.
Amelia avrebbe sposato un principe di Elmekia, dunque
c'era una remota possibilità che quell'unione avrebbe
sancito il
ritiro ufficiale della taglia che gravava sulle loro teste.
Si
era sentita sporca e meschina a causa del sollievo che quell'idea
riusciva a darle ogni volta che le attraversava la mente. Amelia li
aveva accolti come fratelli, si era impegnata per far sì che
la
taglia venisse annullata entro i confini del proprio regno. Non
avrebbe potuto abbandonarla al suo destino, privandola di veri amici
su cui fare affidamento, ed era certa che Gourry non si sarebbe mai
tirato indietro.
Provò
il desiderio di correre fuori, all'aperto, dove il sole nasceva
all'orizzonte e l'aria era fresca e sapeva di rugiada, ma un
cambiamento repentino le fece dimenticare i suoi piani di fuga.
Il
tono del mantra divenne più concitato e si
sollevò di parecchie
note, mentre le vestali, finito il rito delle offerte, si
inginocchiarono accanto all'ara con le mani sollevate al cielo e gli
occhi chiusi, unendosi alla preghiera dei monaci in un coro di voci
angeliche.
La principessa, futura regina di Saillune fece il suo
ingresso nel tempio. L'abito bianco di pizzo e chiffon, tempestato di
minuscoli diamanti, accompagnato da un lungo e ampio strascico,
sembrò risplendere di luce propria. Un velo pesante, dello
stesso
colore, le celava il viso e le oscurava la vista.
A distanza di
pochi minuti anche le porte sulla destra si spalancarono e,
finalmente, Jaden della casata Thormond entrò nel tempio e,
con
passo cadenzato, si avvicinò alla sposa. Si esibì
in un profondo
inchino e la liberò dalla coltre che sembrava imprigionarla.
Stava
accadendo, la parola fine stava per essere scritta sulle pagine della
sua vita passata.
Lo aveva pensato per tutta la notte, l'ultima da
nubile, l'ultima da semplice principessa.
Aveva trascorso
l'adolescenza nella speranza che sua sorella maggiore Gracia fosse
sopravvissuta e che, con un ingresso trionfale in città,
l'avrebbe
esonerata dalla carica di regina.
Ormai,
però, era troppo tardi per i ripensamenti.
Era
un marionetta spinta sul palcoscenico per recitare l'atto conclusivo
della sua personale tragedia.
Fece un respiro profondo, mentre le
porte della sua stanza venivano spalancate e uno stuolo di cameriere
entrava disponendosi su due file ai lati del baldacchino.
Tradizioni
antiche quasi quanto il regno stesso a cui non avrebbe potuto
sottrarsi prevedevano rituali e gesti ben precisi. Innanzitutto non
le era concesso proferir parola, poiché le prime di quel
giorno
erano destinate alla cerimonia nuziale.
Le cameriere l'aiutarono
ad alzarsi e poi la denudarono gettando la vestaglia nel fuoco: gli
indumenti da nubile avrebbero fatto tutti la stessa fine.
Davanti
al camino acceso l'attendeva una vasca riempita di acqua calda e
petali di giglio, simbolo di purezza e castità. Si immerse
in quel
dolce tepore e provò a liberare la mente mentre quattro mani
le
strofinavano tutto il corpo. Era credenza diffusa che il profumo di
rose rosse risvegliasse l'amore nel cuore delle donne e desiderio in
quello degli uomini, perciò dopo il bagno alcune cameriere
si
prodigarono cospargendola di olio essenziale.
Guardò
il cielo fuori dalla vetrata, l'aurora si stava risvegliando, e in
quell'istante due piccoli passeri si posarono sul davanzale della
finestra per il tempo di un battito di ciglia.
Il viso di
Zelgadis, le sue mani che le accarezzavano i capelli, il suono caldo
di quella voce tanto amata... i ricordi la investirono come un fiume
in piena in cui rischiò di annegare.
Si appoggiò al ripiano
della toeletta con entrambe le mani e premette la fronte sulle
nocche. Un solo triste singulto le salì in gola ed esplose
prima che
lei riuscisse a contenerlo.
Tutte le cameriere si allontanarono
veloci, in simultanea, ne avvertì i passetti leggeri sul
parquet.
Voltò la testa di lato e vide la sua immagine riflessa
nel grande specchio posto in fondo alla stanza.
Il primo
particolare a risaltare, nella sua drammatica evidenza, fu la pelle
bianca e tesa sulle scapole, che si aprivano all'indietro come ali
pronte a spiccare il volo. Solo allora si rese conto di indossare
nient'altro che delle calze.
«P-principessa Amelia... Sua
maestà, è ora» il tocco gentile di una
delle domestiche la
convinse a mettersi in piedi.
Le
squadrò, una ad una, quelle donne semplici e felici di
trovarsi lì
con lei, di potersi beare dei vestiti e dei gioielli che mai avrebbe
sognato di poter indossare.
La invidiavano? La ammiravano? La
disprezzavano?
Forse.
Quel
che però non avrebbero mai sospettato era che lei le invidiava,
perché avevano la libertà di scelta, le ammirava,
perché
svolgevano le loro mansioni con solerzia e senza patemi e le
disprezzava, perché sapeva che nel
profondo del loro cuore
avrebbero voluto essere al suo posto.
Con
passi lenti ed eleganti si diresse al centro della camera, stese le
braccia e si preparò ad accogliere l'abito di Elismarie III
di
Remington, cucito dalle sarte di Kalmaart e portato all'epoca con
fierezza dalla regina, nonostante il divieto di possedere oggetti
estranei a Saillune.
Elismarie
era stata una donna coraggiosa e volitiva, capace di far valere le
proprie ragioni persino di fronte a tradizioni così antiche.
Lei,
invece, era rimasta imbrigliata nei rigidi schemi aristocratici e, la
delusione alla scoperta di essere così distante da sua
madre, era
stato solo l'ultimo di una serie di colpi bassi che il destino aveva
deciso di infliggerle.
Quando si era messa in viaggio con Lina si
era sentita così simile alle Remington che quasi il petto le
era
esploso di orgoglio, ma a cosa era servito? La pecorella smarrita era
infine tornata all'ovile.
Non si mosse mentre tre domestiche
lavoravano svelte alla sua acconciatura, tirando le ciocche corvine
all'indietro e intrecciandole in complicate forme sulla nuca. Era
come se ogni parte del corpo avesse smesso di funzionare, come se il
sangue avesse smesso di fluire nelle vene.
Infine, con altre tre
donne corpulente che la reggevano per le braccia e le spalle,
indossò
le scarpe aiutata da una piccola servetta che non aveva mai visto. La
bambina, una volta ultimato il lavoro, le si piantò davanti,
la
guardò estasiata e un ampio sorriso nacque spontaneo sul
viso
paffuto.
Era pronta.
Si
rimirò allo specchio un'ultima volta, prima che un pesante
velo di
taffetà le venisse appuntato sulla cima dell'elaborato
chignon, dove
in seguito avrebbe trovato posto la corona.
Era
pronta?
«Sua
Altezza, il nostro lavoro è terminato. Resti qui in attesa
delle
ancelle. Ah, e mi raccomando, si ricordi di non parlare con nessuno,
per nessun motivo! Oggi le sue prime parole saranno riservate al
principe! Intesi?» Amelia impossibilitata a parlare o a
muovere la
testa, si limitò ad un gesto della mano con cui
congedò tutte le
cameriere.
Era
sola.
Uno cigolio
metallico e il rumore di passi pesanti alle sue spalle. Si
voltò
indietro ma la vista le era preclusa dal velo.
Era
sola?
Dita ruvide e
fredde sulle spalle e respiro caldo sul collo, un piccolo bacio venne
depositato sulla pelle nuda della schiena. Amelia non reagì,
avrebbe
riconosciuto quel tocco tra mille.
«Amelia...» mormorò senza
staccare la mani dalle sue spalle.
Il cuore le mancò un battito e
fu costretta a portarsi una mano al petto per contenere il dolore.
Si
era infine deciso a scappare via con lei? Loro due per sempre
insieme, fuggiaschi uniti nella vita e fino alla morte.
Allungò una
mano per toccarlo, ma lui la scansò.
Non poteva parlare, non
poteva toccarlo, non poteva vederlo, non poteva piangere... non
riusciva a respirare.
«Amelia,
perdonami se puoi...»
Come una folata di vento distrugge un
castello di carte, così Zelgadis aveva frantumato le sue
speranze.
Non voleva portarla via da quella stanza, ma abbandonarla per sempre.
Sospirò affranta, mentre il dolore al petto la spezzava a
metà.
«...e promettimi una cosa, una soltanto, poi
uscirò dalla
tua vita.»
Quella frase era la
pugnalata al petto che stava aspettando, il pensiero sepolto nei
recessi della mente che aveva preso forma in poche amare parole.
«Sii
forte come una Remington.» sussurrò con fermezza.
Sii forte
come una Remington.
Sapeva
pizzicare le corde giuste del suo cuore, lo aveva sempre fatto,
perché loro due, in fondo, erano anime complementari e, a
dispetto
degli eventi che li avrebbero travolti, nulla avrebbe potuto cambiare
quella costante.
Sarebbe stata forte, per sé stessa, per
Zelgadis, per suo padre e per i suoi sudditi.
Sarebbe stata forte
perché non aveva altra scelta.
Il gelo che la avvolse
quando la chimera si allontanò, sparendo per sempre dietro
la porta
segreta della sua stanza, si diffuse presto fino alle ossa e, per la
prima volta in vita sua, si sentì davvero sola.
*
Il
sole si era appena affacciato all'orizzonte e la sua luce penetrava
dal rosone centrale, spandendosi in raggi colorati all'interno del
tempio, quando il velo fu sollevato e lei vide per la prima volta il
suo viso. Aveva incontrato molti uomini provenienti
da Elmekia
per via di missioni diplomatiche, perlopiù anziani tozzi e
nerboruti, privi di tatto, le cui mani callose stringevano quelle
altrui con forza e superbia. L'uomo – il ragazzo –
che invece si
trovò davanti non doveva essere più grande di
Gourry, era molto più
alto di lei e la guardava serio attraverso le lunghe ciglia scure. La
sua pelle era chiara, ma baciata dal sole, e i folti capelli castani
ricadevano in ciocche disordinate sul viso affilato.
Indossava gli
abiti semplici e austeri di Elmekia, fatti di lana e leggero bisso, e
un sontuoso mantello di ermellino, foderato di velluto rosso e legato
alle spalle attraverso cinture di cuoio incrociate sul petto. Il suo
volto era chiuso in un rigido e pacato distacco, ma Amelia temeva che
dietro quella maschera si nascondesse il carattere turbolento di cui
la famiglia Thormond si era sempre vantata. Il principe Jaden, ignaro
dei suoi pensieri, si esibì in un elegante inchino e
baciò l'anello
a forma di serpente che le circondava tutte le dita della mano
destra, poi si rimise in piedi e una vestale unì le loro
mani,
avvolgendole con una corolla di fiori bianchi.
I
monaci smisero allora di recitare il mantra, lasciando il posto al
canto angelico delle vestali, la cui melodia si spanse leggera come
vento primaverile.
Re
Philionel e il consigliere Nirwald si avvicinarono agli sposi
poggiando ognuno una mano sulle spalle dei loro rispettivi protetti.
Il
sacerdote, un uomo così antico da non avere età,
vestito di una
semplice tonaca candida e con il volto dipinto da rune azzurre, si
avvicinò ai futuri sposi e pose le proprie mani sulle loro.
«Ceiphied, signore del Bene, invochiamo la tua
benevolenza.»
disse con un tono di voce basso, ma potente, che spezzò il
silenzio
tombale in cui l'intero tempio era piombato.
«Ceiphied,
signore della Luce, davanti al Sacro Altare noi chiediamo la tua
benedizione.» prese la corolla e la gettò dentro
una piccola
fiaccola che una vestale gli porgeva. Non appena i fiori ne toccarono
il fondo d'argento, una fiamma rossa come il sangue si
sprigionò e,
allora, il sacerdote la prese e la diede ad Amelia.
«Chi
sei tu?»
«Sono
Amelia Wil Remington Tesla, principessa di Saillune, futura regina e
protettrice dell'Alleanza.»
«Qual
è il tuo desiderio?»
A
quelle parole, ebbe un sussulto e sentì la lingua
pietrificarsi tra
i denti. Voleva davvero la pace per il proprio popolo e se la via per
arrivarci passava per quel matrimonio, allora non avrebbe mentito
davanti al Dio Drago.
«Desidero
sposare il qui presente Jaden Anselet Iordanus IV Thormond, principe
di Elmekia.» disse e poi passò la fiaccola a Jaden.
Il
sacerdote ripeté le stesse domande, ma il principe rispose
con la
fermezza di cui lei non era stata capace, senza smettere di guardarla
negli occhi.
«Io,
Wirtonious, in nome di Ceiphied, dichiaro questa coppia unita nel
sacro vincolo coniugale. Possa la vostra unione essere guidata dalla
Sacra Luce divina e possa la vostra progenie essere numerosa. Il
passato è alle vostre spalle, mentre il futuro splende
radioso di
fronte a voi.»
Avvertì
la mano calda e rassicurante del padre premere leggermente sulla sua
spalla e poi lasciarla andare. Lui era lì, ma non ci sarebbe
stato
per sempre, mentre l'avvenire che l'attendeva era di fronte a
sé, in
quella maschera di determinazione elmekiana. Si sentì persa
mentre
il sacerdote le prendeva la mano sinistra e ne marchiava l'anulare
con il sacro fuoco, incidendo le iniziali di suo marito. Poche
lettere che bruciarono la pelle bianca facendola sanguinare. Lo
stesso fece poi con la mano di Jaden e infine entrambi fecero un
inchino alla statua di Ceiphied, mentre la corte applaudiva felice.
Era
successo, aveva sposato un estraneo.
Il
banchetto in onore degli sposi si era protratto fino a sera, tra
centinaia di gustose portate e balli al centro della grande sala
centrale. Amelia e Jaden era rimasti seduti accanto al trono del re,
rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra, per quasi tutto
il tempo dopo aver aperto le danze. Non si erano scambiati neppure
una parola, in compenso molti si erano avvicinati per congratularsi,
ma, mentre Amelia si era sentita in dovere di elargire sorrisi e
parole di gratitudine, Jaden era rimasto chiuso nel suo silenzio,
limitandosi a pochi e misurati cenni del capo, così che gli
sguardi
che i cortigiani le rivolgevano si erano fatti via via sempre
più
compassionevoli.
I
giorni di viaggio e tutte le avventure che aveva vissuto sembravano
appartenere ad un'altra vita, una vita non sua, come fossero ricordi
rubati a qualcuno. Lei e Zelgadis si erano amati davvero o era stato
tutto uno splendido sogno? Guardò il dito marchiato per
l'ennesima
volta mentre Jaden accoglieva altri cortigiani con il volto rigido e
serio. Lui era suo marito, il padre dei suoi figli, il re che
l'avrebbe accompagnata alla guida del regno, il resto non contava
più.
Ormai si era fatto tardi, la corte era sazia e stanca e lei
non era da meno, tanto che era ricorsa più volte al recovery
per
dare riposo alla schiena e alle gambe stanche di tenere la stessa
posizione. La stessa cosa aveva dovuto fare il vecchio Nirwald al
principe.
Re
Philionel si fece largo tra la folla e salì i gradini per
sedersi
sul trono. Le trombe squillarono per avvertire i sudditi riuniti a
corte, ciò significava che la festa era giunta al termine.
Amelia
guardò il padre e le sembrò all'improvviso
più vecchio, più
stanco e fragile, diverso dalla figura granitica a cui era abituata.
L'alleanza con Elmekia avrebbe dovuto farli sentire al sicuro, eppure
lo sguardo a tratti ostile del principe diceva tutt'altro e, forse,
non erano mai stati vulnerabili come il quel momento.
Da soli o
in coppia i nobili ospiti si misero in fila per salutare con un
inchino i reali di Saillune. Li contò come i passi per
arrivare al
precipizio e, quando l'ultimo cavaliere se ne andò,
lasciandoli da
soli in quella immensa sala vuota, Amelia sentì il pavimento
cedere
sotto le suole delle sue deliziose scarpette di seta. Trenta guardie
arrivarono per scortarli nei loro alloggi, ma era certa che i dieci
energumeni che avrebbero accompagnato Jaden non fossero lì
per
proteggerlo.
La
camera da letto nuziale non aveva una porta principale, ma due
laterali che portavano ad altrettante anticamere prive di finestre,
dove gli sposi potevano farsi aiutare nell'atto delle svestizione
prima di incontrarsi in totale solitudine.
Le ancelle erano state
molto più svelte di quanto avesse sperato, ma non
abbastanza.
Varcata la soglia trovò il principe seduto sulla poltrona di
fronte
al caminetto acceso, le gambe accavallate e nella mano destra un
calice di vino. Era alto e magro, non aveva i movimenti affettati
tipici degli aristocratici di corte, né quelli rozzi che si
sarebbe
aspettata, ma ogni gesto esprimeva la grazia del controllo e
dell'equilibrio. Fece roteare il vino nel bicchiere e lo bevve tutto
in un lungo sorso.
«Mia
signora, perché resti nascosta nell'ombra?» le
chiese senza
scomporsi.
«Io
non ho bisogno di celarmi alla tua vista, non qui, non nel mio
castello. Tu, piuttosto, ritieni consono ricevere la tua sposa in tal
modo?» si avvicinò al futuro compagno con il
portamento regale che
teneva durante gli incontri ufficiali: lei era la vera regina e
avrebbe rimarcato il concetto finché avesse avuto fiato in
corpo.
«Chiedo scusa, mia signora, gli elmekiani
non
conoscono le buone maniere. O magari il problema è un
altro.»
disse, la voce roca e gli occhi astiosi. Si sentì sollevata
e
spaventata al tempo stesso nello scoprire che, dietro quel gelido
distacco si celava profonda ostilità. Finse di ignorare
l'ultima
frase, ma Jaden non aveva ancora finito.
«La
mia pelle sarà sicuramente troppo tenera per te, tu sei
abituata
alla dura roccia» la guardò con la coda
dell'occhio continuando a
bere. Amelia colpì forte la mano del principe gettando sul
tappeto
la coppa d'oro e tutto il suo contenuto.
«Sciocco!
Come osi fare questo genere di insinuazioni? Siamo sposati, abbiamo
giurato di fronte a Ceiphied, queste lettere incise sulle nostre dita
significano che dobbiamo mettere da parte il nostro odio!»
disse,
incapace di contenersi, e si maledì quando lui si
alzò per
fronteggiarla.
Jaden
le afferrò la mano sinistra e ne baciò l'anulare
segnato, poi
sospirò.
«Io non ti odio, mia signora. L'odio richiede
interesse, l'interesse un sentimento, ma la realtà
è che mi sei
indifferente come lo è il vento che spira fuori dalla
finestra. Ciò
che provo adesso è amore per la mia terra e nostalgia per la
vita
che mi ero scelto,» disse slacciando con noncuranza i nastri
che le
chiudevano la vestaglia «ma, se questo è il mio
compito, il mio
destino, lo porterò a termine.» la
guardò dritto negli occhi
sciogliendo l'ultimo nodo.
Amelia ebbe un sussulto quando il
tessuto leggero della veste scivolò via dalle spalle,
cadendo ai
suoi piedi: trovarsi in una strada gremita di persone l'avrebbe fatta
sentire meno nuda e indifesa. Jaden la esplorò con
indolenza,
carezzando e baciando ogni centimetro di pelle chiara, dal collo alle
braccia, i seni, e infine si fermò sul ventre, con l'indice
tracciò
un tre sotto l'ombelico e si inginocchiò per baciare il
numero
immaginario. Sapeva che quello era solo l'ennesimo rituale
superstizioso di fertilità, ma quel gesto la fece sentire
marchiata,
più di quanto non avesse fatto il sacerdote con il Sacro
Fuoco.
«Anch'io avevo deciso il mio percorso, il mio futuro
sembrava già scritto, fin quando non ho sentito pronunciare
per la
prima volta il tuo nome.» disse provando a fermarlo.
Jaden
si tolse la camicia e la costrinse a toccare il petto glabro,
guidandola fino alle spalle. Amelia avvertì i muscoli tesi
sotto la
pelle morbida e calda, una sensazione nuova che la fece
indietreggiare. Si allontanò di qualche passo e gli diede le
spalle
per nascondere il rossore, di rabbia e d'imbarazzo, che le stava
colorando le guance.
«Che
succede?» le chiese con il fiato corto.
«Dobbiamo
consumare il
prima possibile,
per sancire in modo definitivo il matrimonio e l'alleanza.»
disse lei con freddezza, restando immobile.
«E
allora?»
E allora quel che
stavano facendo non aveva niente a che vedere con il dovere!
Avrebbe voluto urlarglielo in faccia, magari dopo averlo preso a
pugni, perdendo tutta la dignità regale che aveva ostentato
per
tutto il giorno.
Lo sentì sospirare mentre si sfilava gli ultimi
indumenti. Era convinta che l'esperienza con Zelgadis l'avesse resa
abbastanza sicura da riuscire a sopportare la presenza di un altro
uomo, ma in realtà la paura le serrò le viscere
quando Jaden lasciò
cadere i pantaloni a terra. Le si avvicinò cauto e Amelia
avvertì
di nuovo il suo respiro sul collo e fra i capelli.
«So
a cosa stai pensando, principessa. Nessuno dei due stanotte
avrà ciò
che vuole, io una moglie vergine e tu uno sposo di pietra, ma non
deve essere per forza un'esperienza degradante.»
Amelia
rilassò le spalle e voltò la testa per guardarlo
in viso, era
rassegnato quasi quanto lo era lei. Lo prese per mano e lo condusse
al sontuoso talamo, scostò le pallide lenzuola di seta e vi
si stese
supina. Jaden si inginocchiò sul materasso di fronte a lei,
aprendole le gambe con delicatezza. Amelia allora chiuse gli occhi e
appoggiò la guancia sul cuscino, l'unico pensiero ad
occuparle la
mente era quel numero che lui le aveva tracciato sulla pancia: se
avesse funzionato non avrebbe dovuto ripetere più
quell'esperienza
per almeno un anno. Zelgadis e tutti i ricordi a lui legati, invece,
non avevano alcun nesso con quel che stava per accadere, nessun gesto
meccanico ripetuto all'infinito avrebbe mai potuto sostituire i
momenti che avevano passato insieme, nessuna gioia sarebbe stata
tanto grande da riempirle il cuore con la medesima intensità.
«Ti
prego girati, sembra che tu stia per ricevere un fendente
mortale»
le disse e, senza darle il tempo di reagire, l'afferrò per i
fianchi
mettendola in posizione prona.
Era giunto infine il momento,
Amelia serrò di nuovo le palpebre stringendo le lenzuola tra
le
mani, ma non versò una lacrima come aveva promesso a se
stessa. Come
aveva promesso tacitamente a Zelgadis.
Jaden fu svelto e allo
stesso tempo gentile, quando ebbe finito non disse nulla,
concedendole lo spazio di cui aveva bisogno. Dai rumori lei
intuì
che avesse ripreso posto sulla poltrona davanti al fuoco.
Avrebbe
voluto restare raggomitolata sotto le coperte per il resto dei propri
giorni, ma poi si ricordò di un importante problema da
risolvere
prima che fosse troppo tardi.
Scattò seduta e d'istinto guardò
le lenzuola: immacolate. Gli unici a conoscere la verità
erano suo
padre, l'imperatore, Jaden e il consigliere Nirwald. Purtroppo,
però,
la Prova Purpurea sarebbe stata esposta a tutta la corte e al seguito
del principe a conferma dell'atto,
ma
cosa avrebbero esposto se non c'era nulla da esporre?
Rinunciò
all'idea di agire da sola senza consultare il principe, prima
avrebbero iniziato a collaborare meglio sarebbe stato per
entrambi.
«Principe?»
disse incerta, schiarendosi la voce. Non lo aveva ancora chiamato per
nome e, nonostante il triste amplesso, o meglio, proprio
per il triste amplesso non sapeva fino a che punto fossero diventati
intimi. Per quanto fosse possibile in un solo giorno.
«Stai
bene?» chiese lui ignorando lo strano appellativo e
indossando la
camicia.
«Sì, certo» rispose con fierezza, a
testa alta
nonostante lui non potesse vederla.
«Domattina la corte vorrà
vedere la...»
«Ah, già! Quasi dimenticavo la prova
purpurea»
disse estraendo qualcosa dalla tasca dei pantaloni abbandonati sul
pavimento.
Quando vide luccicare una lama affilata, Amelia si
preparò a lanciare una fireball distruttiva come solo quelle
di Lina
potevano essere, mentre nel frattempo Jaden sedeva sul letto accanto
a lei.
«Basteranno poche gocce e la faccenda sarà
risolta»
disse rigirando il pugnale fra le mani con maestria.
«Fai da sola
o vuoi che ci pensi io?»
Amelia non rispose ma afferrò il
coltello, pronta a lacerarsi il palmo della mano sinistra.
«Ferma!
Che diamine ti salta in mente?! Ho detto poche gocce e vanno fatte
cadere nel punto giusto!» sbuffò riappropriandosi
dell'arma «Dammi
la mano.»
Esitò per qualche momento, mentre lui la osservava
impaziente e allo stesso tempo incurante del fatto che fosse ancora
nuda, poi gli porse la mano e lui praticò un minuscolo foro
sulla
punta dell'indice badando a far gocciolare il sangue al centro del
letto.
«Bene, è abbastanza, fai una delle tue
magie.»
«Tu
non...»
«Sono un uomo d'azione, preferisco il rumore del metallo
allo sfrigolio di qualche incantesimo attira-demoni»
«Gli
incantesimi non attirano i demoni» disse perplessa mentre
rimarginava la piccola ferita.
«Non tutti, certo. Gran parte di
essi li evocano e questo non porta mai a niente di buono, dovresti
saperlo ormai.»
Dietro quella frase, dietro lo sguardo penetrante
che le rivolse, si nascondevano molti sottintesi, tutti riguardanti
le sue avventure con Lina, un argomento che presto avrebbero dovuto
affrontare.
«Da come ne parli sembra che tu sia in grado di
praticare la magia»
«Esatto, ma non ho mai voluto imparare
nemmeno quelle più semplici» si
stiracchiò lasciandosi poi cadere
sul materasso, la mani dietro la testa e le gambe penzoloni. Era come
se si fosse liberato da un grosso peso e, forse, era proprio
ciò che
era accaduto.
«Quel che dici non ha senso, un recovery in
battaglia può salvare la vita a te o ai tuoi
compagni»
«Io la
vedo così: esiste un disegno per ognuno di noi, se
arriverà il
momento di morire non voglio ricorrere a innaturali stratagemmi per
evitare che il mio destino si compia.» la guardò
attraverso le
folte ciglia scure.
«So che ti sembreranno sciocchezze dette da
un elmekiano superstizioso, ma non ci troveremmo qui in questo
momento se qualcuno non avesse abusato della magia, se avesse
lasciato agire il fato.»
«Già, saremmo sepolti sotto molti
metri di terra e macerie.» si alzò stizzita ma lui
la trattenne per
il lenzuolo che aveva avvolto intorno al corpo.
«Come puoi
dirlo?» di nuovo quello sguardo, di nuovo quegli occhi neri
come la
pece che cercavano risposte.
«Io c'ero e se non fosse stato per
quell'abuso di magia, come ti piace chiamarlo, non esisterebbero
più
regni o imperi da proteggere, solo morte e caos.» Jaden
serrò le
labbra e non rispose.
«Se è vero che arriverà la guerra da
est,
la magia è l'unico vantaggio che abbiamo.»
«Oppure la nostra
rovina.» disse lapidario lasciandola andare.
Il loro tempo era
quasi scaduto, presto sarebbero arrivate le ancelle a prelevare la
famigerata Prova, così entrambi si ritirarono nelle loro
anticamere.
Proprio mentre varcava la soglia Amelia sentì svanire
il senso di oppressione che aveva gravato per giorni sul suo petto.
Aveva navigato nelle torbide acque dell'incertezza, era giunta
finalmente a riva.
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