L'impero di Shalira

di Horror_Vacui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Crisi ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Risveglio ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Distacco ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Alleanza ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Crisi ***


L'IMPERO DI SHALIRA

LIBRO PRIMO


Capitolo I - Crisi

Era un pomeriggio di marzo, Gourry Gabriev se ne stava steso su di un pregiato drappo di broccato zephiliano, una mano sotto la testa e l'altra ad accarezzare la chioma vermiglia della maga assopita tra le sue braccia. Le fronde della quercia si muovevano lente sopra le loro teste, sospinte appena dalla brezza che portava con sé l'odore dei ciliegi in fiore.

Erano già passati due anni dalla cacciata di Dark Star, più di tre dalla Caduta, ma il ricordo di quei giorni disperati non accennava a sbiadire, era, anzi, così vivido da impedirgli di passare notti tranquille.

Il ragazzo sospirò, stringendo più forte il corpo esile sopra di sé.

Il legame con Lina, già forte ai tempi della guerra, era divenuto ormai indissolubile, non poteva pensare di viverle lontano; ma alto era il prezzo da pagare per poter rimanere al fianco della maga più ricercata del continente: presto sarebbe giunto il momento di saldare il conto e lui era debole, incapace di difendere persino se stesso senza la sua vecchia arma.

Quando si era diffusa la notizia che Lina Inverse e Gourry Gabriev erano i responsabili diretti della dissoluzione della Barriera, loro erano già nei territori di Vrabazard al seguito di Philia, ma non avevano idea di quel che in patria aveva iniziato a muoversi. Di ritorno, infatti, non ci fu nessun comitato di accoglienza per gli eroi vittoriosi, ma una taglia stratosferica sulle loro teste.

Non esisteva posto in cui fosse possibile vivere senza dover combattere: che si trattasse di una banda di criminali o dell'oste, tutti erano disposti ad ucciderli e rivendere i loro corpi alle guardie imperiali di Elmekia.

A salvarli, però, ancora una volta era stata la principessa di Saillune, Amelia, che li aveva invitati a corte come suoi ospiti, rendendo nulla la taglia all'interno della capitale della magia bianca.

Non avevano idea di quanto tempo sarebbe passato prima di poter uscire di nuovo da Saillune senza rischiare di essere attaccati. E così i giorni cominciarono a succedersi, tutti uguali, tra un ricevimento e l'altro, senza preoccupazioni e senza responsabilità.

La loro vita prese a scorrere scandita da piccole abitudini, piccoli rituali giornalieri privi di colore.

Dopo pranzo erano soliti passare il resto del pomeriggio nel parco che circondava il castello, alla ricerca di un posticino in cui riposare, quasi fossero ancora viandanti.

Quel giorno avevano scelto l'albero secolare che si ergeva, solitario, al centro di un'ampia distesa di gramigna.

Erano lontani da cameriere e maggiordomi, da uomini e donne di corte... o così credevano.

Dal boschetto di faggi che circondava quella piccola oasi solitaria, emerse un giovane valletto.

«Lina...» sussurrò Gourry «Lina, arriva qualcuno.»

Stiracchiandosi con fare felino, la maga si limitò ad emettere qualche suono di protesta, senza dar troppo peso all'avvertimento del compagno.

«Non mi interessa, mandalo via!» si lamentò coprendosi la faccia con le mani.

Nel frattempo il valletto, un ragazzo di almeno quindici anni, si era avvicinato a passo svelto.

«Lord Gabriev, Lady Inverse» balbettò sulle spine «ho un messaggio da recapitare»

All'ennesimo strattone dello spadaccino, Lina sollevò la testa e guardò il paggio di traverso.

«Un messaggio?» si esibì in un sonoro sbadiglio.

Il paggio non rispose. Le buone maniere prevedevano che le conversazioni avvenissero faccia a faccia, come segno di rispetto verso il proprio interlocutore. La maga emise un verso di irritazione, ma, in un fruscio di seta verde e taffetà, si mise in piedi aiutata da Gourry.

«Ebbene? Chi ti manda?» lo fronteggiò.

Il ragazzo tirò giù i bordi del farsetto e prese un bel respiro «Sono qui per ricordarvi il vostro quotidiano appuntamento presso il Salotto Blu» finì con un grosso sospiro di sollievo.

«Tutto qui?» lo squadrò con sufficienza.

«Sei libero di andare, ragazzo» la voce calda e rassicurante di Gourry giunse gentile alle orecchie del giovane, che, senza farselo ripetere, fuggì a gambe levate attraverso gli alberi dalle foglie rosse.

Lina si voltò verso il compagno ancora seduto sotto la quercia e lui ricambiò lo sguardo, divertito.

«Ed ecco lo spadaccino dall'armatura scintillante, pronto a soccorrere i deboli e gli oppressi!» sollevò le braccia in aria per rimarcare il concetto. Era ormai abituata allo sdegno della servitù e aveva imparato ad usarlo a suo vantaggio, anzi, terrorizzare paggi e cameriere rientrava tra i suoi passatempi preferiti.

«Era proprio necessario? Credevo che ormai ti fossi annoiata.» le regalò un altro sorriso radioso. Gourry era buono. Non sapeva come altro definirlo! Sempre gentile, pronto ad aiutare il prossimo... a sopportare lei.

«Sì, lo era eccome! E poi, è tutta colpa tua!» disse sedendogli accanto.

«Colpa mia?!» lui si finse offeso, ma nel frattempo l'aveva già attirata a sé.

Una folata di vento più forte delle altre separò le fronde dell'albero e un raggio di sole gli illuminò il viso e i capelli biondo grano. Non ricordava il momento esatto in cui aveva iniziato a guardarlo con occhi diversi, notando particolari insignificanti, come quel piccolo neo appena sotto l'orecchio o le fossette agli angoli della bocca quando rideva. Amava le sfumature dorate dei suoi capelli, la morbidezza di quello sguardo azzurro cielo e quelle labbra dolci come il miele.

Amava stuzzicarlo, vedere fino a che punto avrebbe retto quel guscio di pazienza che lo avvolgeva. Quando si sarebbe stancato di lei e dei suoi capricci?

«Esatto! Avresti potuto salvarlo, lasciandomi riposare in santa pace» gli pizzicò il fianco, ma lui non sembrò curarsene.

«E perdermi tutto il divertimento? Sai che non potrei mai farlo» ammiccò posandole un tenero bacio sulla guancia. Poteva amarla davvero così tanto da sopportare qualsiasi suo gesto?

«Oh, sì certo! La servitù è terrorizzata da me, una tenera e indifesa fanciulla!» assunse il solito tono melodrammatico, portandosi una mano alla fronte con fare svenevole.

«Ma smettila» le diede un buffetto sul naso «tenera e indifesa? Non puoi credere davvero a ciò che dici» rise di gusto, stendendosi di nuovo, con il viso rivolto verso il tetto di foglie sovrastanti.

Il ragazzo aveva già perso l'aria gioviale in un sospiro e le fu facile percepirne l'inquietudine, la vide attraversargli il petto e giungere fino agli occhi. Gli si stese vicino, adagiando il proprio petto contro il suo, in attesa di sentire l'intreccio ritmico dei loro battiti.

«Qualcosa non va?» chiese la maga un po' preoccupata.

La guardò con la coda dell'occhio «No, è tutto a posto.»

Era così bella in quel momento, con i capelli sciolti sulle spalle e le guance rosse che spiccavano sulla pelle chiara. Sentì il macigno sul petto diventare più pesante, mentre il pensiero di perderla si faceva strada nella sua mente.

«Credo sia ora di andare, lady Inverse» si alzò per non essere bersagliato da domande scomode.

«Credo lei debba liberarsi delle foglie che le invadono la chioma, lord Gabriev»

La vide sorridere, emanava una luce di brillante vitalità , e si sentì di nuovo felice. Era nel posto giusto al momento giusto, in uno stato di grazia e piena soddisfazione.

Non poteva durare per sempre, no?

Il Salotto Blu si trovava all'interno degli appartamenti della principessa ed era usato per ricevere ospiti ed amici intimi, lontano da occhi indiscreti.

Era di medie dimensioni, luminoso grazie alle numerose finestre, di cui quattro decorate con vetri colorati e gemme preziose sui toni del turchese. Le pareti erano coperte da pannelli di legno chiaro, intervallati da lucenti stucchi dorati che si allungavano fin sul soffitto, intrecciandosi in complicati arabeschi attorno agli imponenti lampadari di cristallo e lapislazzuli.

Su di un elegante divano bianco, la principessa Amelia sedeva in modo composto ed aggraziato. Il vestito di pesante taffetà avorio le impediva di muoversi liberamente e, d'altronde, ormai l'abitudine aveva modificato i suoi modi di fare, ingabbiando la sua genuina spontaneità in una prigione di seta e balze. I capelli, neri e lucidi come piume di corvo, erano raccolti in un'acconciatura formata da una serie complicata di trecce e boccoli, riuniti sul capo e tenuti fermi dalla sottile corona tempestata di diamanti e zaffiri. Le spalle, lasciate nude dall'abito, davano mostra di un colorito pallido e di una magrezza che non erano mai appartenuti alla gioiosa principessa.

«Amelia, cerca di capire! Non posso continuare ad assecondare i tuoi capricci!»

Zelgadis Greywords sedeva poco distante, stringendo tra le mani uno dei tanti manoscritti di magia bianca della biblioteca privata della principessa. Non riusciva però a concentrarsi troppo sulla lettura, quando accanto a lui c'era quella piccola meringa dagli occhi blu. La sua piccola meringa. L'amava più di quanto gli fosse consentito, a tal punto da percepire il cambiamento che, lento ed inesorabile, stava scavando a fondo nell'animo della futura regina. Il mondo stava cambiando, come le nuvole a marzo, e loro assieme a lui. La scintilla negli occhi di Amelia si stava spegnendo e lui temeva che presto anche quel lumino avrebbe lasciato posto ad una cupa tristezza.

«Ma padre, perché?!»

«Basta! Non una parola di più. Stiamo chiedendo enormi sacrifici ai nostri sudditi. Molti giovani uomini sono stati chiamati alle armi e rischiano la vita per noi! La principessa darà il buon esempio. Il nostro regno diverrà più forte...»

«Zelgadis...» lo chiamò con indolenza. «Perché sei così lontano?» tese le mani nella sua direzione.

Conosceva bene il significato di quel gesto, era il segno che potevano buttare giù le maschere, distruggersi a vicenda e sentire i cocci cadere a terra, anche se raccoglierli diventava sempre più difficile.

Lui era una chimera, umano solo per un terzo, demone e golem per gli altri due, non apparteneva a nessuna casata di alto lignaggio, mentre lei un giorno avrebbe preso il posto del padre sul trono di Saillune. Non avevano futuro. Non insieme.

Si limitavano a vivere il presente a denti stretti e pugni serrati, pronti a ricevere il colpo di grazia, pronti ad andare in frantumi per sempre.

Mise da parte il volume polveroso e prese posto accanto a quei grandi occhi blu, pronto a perdersi in un mare di merletti color crema. Lei, però, voleva altro. Si appoggiò delicata sul suo petto di pietra e, puntellandosi con le mani tra i cuscini, si sedette sulle sue gambe abbracciandolo forte.

Preoccupato da quella reazione, le avvolse le braccia intorno alle spalle «Amelia...?»

«Sposerò un principe di sangue di Elmekia. Mio padre abdicherà, io diventerò regina di Saillune e il mio regno stringerà un'alleanza militare con l'impero.» disse secca, mentre a lui le parole morivano in gola.

Sentì l'impatto e poi lo schianto. Poteva un'esplosione fare così poco rumore?

Caddero in un silenzio assordante, in cui i battiti dei loro cuori si mischiavano ai ticchettii degli orologi e all'oscillare del pendolo d'oro.

Il tempo non si era fermato, nonostante tutto.

«Quando?» chiese, liberato da ogni traccia di vitalità.

«Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati della Penisola devono fare causa comune contro le avversità.»

«Presto. Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati della Penisola devono fare causa comune contro le avversità.» ripeté meccanicamente le parole che il padre le aveva rivolto solo poche ore prima.

Sentì il calore abbandonarlo mentre lei si scostava per guardarlo in volto, ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalla finestra di fronte.

«Credevo che l'incontro con tuo padre fosse andato bene...» la rabbia stava per esplodere nell'atto finale di quel triste melodramma.

«Non volevo parlartene di fronte alla corte... ma, ti prego, Zelgadis, guardami!» gli afferrò il viso con entrambe le mani, ma lui scosse la testa, troppo testardo, troppo orgoglioso per mostrarle le proprie macerie.

«Ti prego...» sfiatò in un sibilo come se quello fosse l'ultimo respiro.

Si era spenta.

La fiammella di vita, che fino a poche ore prima animava quegli occhi, era ormai morta, uccisa da lacrime sgorgate con la forza di un fiume in piena: ma la collera non si lasciò impietosire.

Con un colpo di reni, Zelgadis si rimise in piedi. Non era da lui esibirsi in reazioni esagerate e, anche in quel momento, mantenne la stoica calma che lo contraddistingueva.

«E adesso cosa mi resta?» le rivolse un sorriso amaro, sempre con lo sguardo rivolto verso una delle finestre azzurre. «Il mio posto non è più qui...»

«Rimani... Zelgadis, rimani con me» fu la preghiera disperata che gli rivolse tra le lacrime.

Le gote arrossate, le labbra torturate dai morsi del senso di colpa e i capelli che cominciavano a slegarsi. Si sentì un verme viscido, perché vederla in quello stato, per lui e insieme a lui, lo riempì per un attimo di soddisfazione.

«Cosa mi stai chiedendo, principessa?» sputò l'ultima parola come fosse veleno, ma non si lasciò sopraffare dalla rabbia che gli ribolliva dentro.

In un unico slancio Amelia gli avvolse le braccia attorno al collo, mentre la complicata acconciatura cedeva nel tintinnio dei fermagli caduti.

«Ti amo...» ripeté più volte straziata contro la sua spalla, bagnando la stoffa che copriva la pelle di pietra.

Zelgadis non poteva permettersi il lusso di crollare con lei, doveva lasciarla andare e temeva di non avere le forze necessarie. Serrò le mani attorno alle braccia esili della ragazza nel tentativo di spingerla via, ma lei gli rimase avvinghiata come edera al traliccio.

«Amelia, sai bene che non ha importanza, ma non posso che ringraziarti» le mani si mossero a carezzare le ciocche scure, con lentezza, per imprimere nella memoria il ricordo di quei fili di seta.

«Grazie di avermi amato.» le sussurrò posandole un bacio sulla fronte.

Stava lottando contro se stesso per trattenere molte, troppe emozioni. Quando incontrò di nuovo quei grandi occhi blu non riuscì a trattenere l'impulso vitale, quasi quanto l'atto di respirare, e lasciò che scivolasse via dai vincoli che gli aveva imposto.

Non fu un bacio, fu uno scontro di labbra e tormenti, violento come le onde che si abbattono sugli scogli durante una tempesta, il simbolo del loro completo annientamento.

Un gentile bussare alla porta spezzò l'incantesimo ed entrambi si voltarono nella direzione di quel rumore molesto. Amelia provò a ritrovare un po' di contengo, aggiustò le pieghe del vestito, asciugò le lacrime come meglio poteva ma senza allontanarsi da lui, quasi avesse paura che le sfuggisse.

A lei non importava sapere chi ci fosse al di là della soglia, ma voleva che andasse via.

Zelgadis, invece, aveva approfittato di quel momento di distrazione per allontanarla. Le diede un ultimo sguardo, un'ultima carezza sul volto raffreddato dalle lacrime, poi le voltò le spalle diretto verso la porta.

Un urlo prolungato, un suono atavico e disperato, si levò dalla principessa che, caduta sulle ginocchia, stringeva e tirava i capelli fino a strapparli.

Gourry irruppe nella stanza «Zelgadis, che hai combinato?» chiese istintivamente dopo una breve occhiata.

«Un disastro.» fu la laconica risposta.

•••

Le fiamme del caminetto danzavano leggiadre sui ceppi, diffondendo un lieve chiarore nell'oscurità della stanza. Zelgadis sedeva su una poltroncina accanto al fuoco, ma il gelo che gli aveva fermato il cuore era impossibile da sciogliere. Si passò una mano tra le ciocche color malva e sospirò.

La maledizione che gli era stata inflitta non aveva modificato solo il suo aspetto, ma anche la sua essenza. Aveva acquisito strabilianti vantaggi, dalla pelle resistente come roccia alla vista acuta di un falco, ma aveva anche perso molto. Avrebbe voluto versare lacrime vere, ma la verità era che non poteva. Non era disperato, era anestetizzato. Immobile nel suo dolore, incapace di esprimerlo se non in gelide parole prive di profondità.

Sospirò ancora. Meglio così...

Non avrebbe sopportato il peso della vulnerabilità di fronte ad un rifiuto così netto. Non c'erano nervi scoperti da recidere, né compassione che lo rendesse ancora più patetico.

Toc. Toc. Toc.

Tre poderosi colpi alla porta lo avvertirono della presenza di qualcuno. Non si scompose. Se anche fosse entrato un troll brandendo una mazza chiodata lo avrebbe lasciato fare.

«Greywords» una voce rauca, cavernosa, lo chiamò, ma lui non aveva alcuna voglia di rispondere. Chiunque fosse avrebbe dovuto aspettare almeno fino all'alba, lui non aveva intenzione di lasciare il castello quella notte come un criminale o, peggio, come un giocattolo rotto da buttar via prima che la bambina se ne accorga.

La porta, però, nonostante fosse chiusa a chiave, venne scardinata senza troppe cerimonie. L'energumeno al di là di essa la trattenne per la maniglia prima che cadesse, come fosse un foglio di carta, appoggiandola alla parete interna della stanza: si trattava di un compito che richiedeva la massima riservatezza.

Zelgadis, le gambe accavallate e il viso mollemente poggiato sul dorso della mano destra, diede una rapida occhiata all'ospite inatteso con la stessa noncuranza con cui avrebbe osservato uno scarafaggio. L'avrebbe riconosciuto anche in mezzo ad una folla, se non altro per la puzza e il portamento da scimmione: Davin Gulgran, galoppino del Comandante della guardia reale.

Occhi da topo, piccoli e scuri brillavano di luce sinistra, appena coperti da una folta massa di capelli neri e lisci, unti da far ribrezzo, mentre una cicatrice diagonale attraversava il viso, passando per la bocca in una smorfia abominevole.

L'armatura di ferro e cuoio non scintillava come le altre, era ruvida e opaca, le ammaccature ne testimoniavano l'usura e i numerosi colpi presi; una spada di grandi dimensioni pendeva sul fianco graffiando contro il pavimento, ma lui non sembrava curarsene. Probabilmente non era di una spada affilata che aveva bisogno per portare a termine i suoi incarichi. Sporchi incarichi.

«Gulgran, vorrei dire che è un piacere vederti, ma il tuo aroma floreale è così intenso...» lasciò cadere la frase. L'uomo aggrottò le sopracciglia, disorientato.

«Ah, non ti sforzare.» alzò gli occhi al cielo lasciando andare la testa all'indietro sulla poltrona.

«Greywords» ripeté Gulgran con lo stesso tono da orco «cammina, senza fare storie» si fece da parte indicando con il braccio il vano della porta.

Zelgadis si alzò con gesti misurati, aveva perso la voglia di scherzare e il suo sguardo si fece serio. Avrebbe lasciato davvero Saillune, ma non avrebbe saputo dire se con le proprie gambe.

I corridoi del castello erano ampi e illuminati dalla luna. I pavimenti erano costituiti da lastroni di pietra bianca, intervallati da marmi su cui era inciso lo stemma della casata reale, unito a cerchi anti-demone, che al suo passaggio si illuminavano di una fioca luce azzurrina.

Non sapeva dove stava andando ma, data la presenza di quel malfattore, cominciava ad intuire il perché. Il cortile interno? Il boschetto di faggi? Oppure nei sotterranei? Dove si sarebbero sbarazzati di lui?

Avevano raggiunto un'ala del castello che non aveva mai esplorato. Si accorse del cambiamento perché centinaia di luci si levarono dai lastroni che componevano il pavimento su cui si trovava, rilasciando una scarica che si diffuse violenta dai piedi alla ginocchia. Avrebbe voluto gridare per il dolore, ma perdere anche la dignità era fuori discussione.

Gulgran si voltò indietro a guardarlo, con la torcia ancora in mano a rischiarare la via.

«Incantesimi contro i demoni come te.» ghignò maligno «Ma tu lo sai, vero?»

«Ora basta,» disse «dimmi dove stiamo andando» strinse gli occhi in due fessure.

«Andando? Siamo arrivati. Io ho finito.» fu la risposta seccata, poi girò i tacchi abbandonandolo lì.

Zelgadis rimase immobile, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e l'indice ancora alzato mentre la schiena di Gulgran spariva dietro l'angolo.

Troppo distratto dal dolore agli arti inferiori non si era accorto di trovarsi di fronte ad una massiccia porta di legno scuro, su cui erano dipinti molti altri incantesimi protettivi, che si intrecciavano in linee bianche e dorate coprendola quasi del tutto.

Perfetto. Cosa faccio? Busso rischiando le dita o attendo un segno celeste?

Era sul punto di tornare indietro, ma il peso di una grossa mano sulla spalla lo fece desistere.

Due enormi baffoni scuri fu la prima cosa che vide, mentre un nome si materializzò nella sua mente: Philionel El di Saillune.

Come la figlia, anche il re aveva perso il sorriso genuino, mentre la speranza che un tempo albergava in quegli occhi scuri aveva lasciato il posto ad un'opprimente preoccupazione.

Aprì la porta senza dire una parola e lo spinse dentro gentilmente, richiudendola dietro di sé. La sala, in cui ipotizzava di trovarsi, doveva essere priva di finestre perché il buio non era rischiarato neppure dalla luce lunare, ma non ebbe troppo tempo per chiedersi il perché: Philionel schioccò le dita e due lunghe serie di torce iniziarono ad illuminarsi, veloci, una dietro l'altra, mettendo in mostra quello che sembrava essere l'ennesimo corridoio.

«Vieni con me» disse il re con tono rassicurante, ma a Zelgadis quella situazione piaceva sempre meno. Tuttavia, non si trovava nella posizione di poter rifiutare, perciò seguì Philionel... e capì.

Su entrambe le pareti si susseguivano quadri raffiguranti uomini e donne a grandezza naturale, sotto ad ognuno di essi c'era una targa d'oro incisa a caratteri scuri.

«Zelgadis» richiamò la sua attenzione «sai dove ci troviamo?»

«Credo di sì...» rispose incerto, non riuscendo a staccare gli occhi dalla prima massiccia cornice dorata.

«Questa, figliolo, è la Corte degli Antenati. Un luogo sacro per questo regno, in cui solo i re e le regine che hanno agito nel nome della giustizia e in difesa del proprio popolo hanno il diritto di stare.» spalancò le braccia con il petto gonfio di orgoglio.

«Philionel, ho già parlato con Amelia e...»

«Figliolo, lasciami finire.» lo interruppe con aria grave, tornando a camminare.

«Lui è Bartholomaeus IV» si fermò di fronte ad un ritratto di un uomo dai lunghi capelli scuri. Le spesse sopracciglia coprivano quasi del tutto gli occhi e la lunga barba giungeva fino a metà busto, tenuta insieme da un nastrino dorato che alle luci delle torce sembrò brillare come fosse vero.

«Era re quando Saillune venne distrutta dai demoni, difese fino all'ultimo respiro i suoi sudditi. Suo figlio» indicò il quadro accanto «Re Gerion II, la ricostruì così come oggi noi la vediamo.»

Proseguirono oltre e per molti metri non dissero nulla, finché non giunsero all'ultimo quadro.

La cornice era di foggia meno antica, più sottile, costituita da un unico blocco in cui vi erano intagliate rose e foglioline in modo così minuzioso da sembrare vere.

All'interno vi era raffigurata una donna: una cascata di riccioli castani scendeva su di una spalla, il ricco abito di rosso tessuto traslucido avvolgeva la figura con eleganza. Un sorriso spavaldo le incurvava la bocca, diverso dai volti seriosi che aveva visto fino a quel momento raffigurati, mentre gli occhi, grandi e blu come l'oceano, sfidavano l'osservatore.

«Elismarie III di Remington, duchessa di Kalmaart. Mia moglie.» pronunciò in un soffio angosciato le ultime due parole. «Venne brutalmente uccisa, mentre tentava di salvare la vita alla nostra primogenita, Gracia.»

«Gracia?» la sorpresa aveva colpito Zelgadis in pieno petto con la forza di un calcio «Credevo che Amelia fosse...»

«E lo è, al momento.» il tono triste zittì il ragazzo. «Amelia è l'erede al trono di Saillune e...» riprese poi in tono accorato il re.

«E io sono una chimera.» lo interruppe bruscamente «Lo so, Philionel. E non intendo esservi d'intralcio, quindi se è ciò che vuoi lascerò il regno... ma non subito.» era determinato a far valere almeno le proprie ragioni «Ho bisogno di qualche tempo per organizzare il viaggio, per trovare un obiettivo e una meta. Dopo di che me ne andrò per sempre. Amelia non sentirà più parlare di Zelgadis Greywords, è una promessa.»

Dolore e fatica. Con quelle parole aveva siglato la propria condanna a morte senza battere ciglio, come se la questione non lo riguardasse.

Dolore e angoscia. Il senso di vuoto, da quel momento, come unico compagno di vita.

Il volto del re, nel frattempo, aveva perso l'espressione accigliata, le spalle si erano sollevate e nel complesso sembrava che il grosso peso che gli curvava la schiena fosse scomparso del tutto.

«Ero sicuro che avresti capito.» sorrise, ma stava mentendo a se stesso. «Avrai uno studio tutto per te, tutti i libri del castello a tua disposizione, così come le informazioni provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono certo che troverai la tua strada ragazzo!» gli mise di nuovo la mano sulla spalla stringendo appena, con fare quasi paterno.

Una condanna all'esilio permanente sarebbe stata più giusta e sincera... ma forse Philionel non vuole davvero finire in questa stanza. Si disse Zelgadis, ricambiando il sorriso falso e stucchevole del re.


*Ho creato i personaggi di Davin Gulgran, Bartholomaeus IV, Gerion II, Elismarie III così come la casata Remington. Siete pregati di non prendere nulla senza pemesso

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Risveglio ***


Capitolo II - Risveglio

Sulle gelide vette dei Monti Kataart imperversava una violenta tempesta. La neve cadeva fitta, ma prima di toccar terra veniva spazzata via dal vento che flaggellava la valle desolata.
Scolpito in un unico blocco di ghiaccio, il solitario castello dell'ultimo Dark Lord si ergeva sulla più alta parete rocciosa di quella sterminata distesa di nulla.
I fulmini squarciavano il cielo, illuminando per pochi attimi le alte guglie, le torri circolari e l'imponente mastio centrale, mentre il fragore rieccheggiava all'interno delle stanze vuote.
Nel grande salone, seduto sul massiccio trono trasparente, c'era Dynast Graushella.
Il Re dei Ghiacci aveva ben poco di cui gioire da quando la Barriera era stata distrutta.
Il dominio dei demoni si stava avviando verso un rapido declino, ben presto l'uomo avrebbe smesso di temere gli esseri immortali, di adorarli e offrire loro sacrifici.
E, dunque, che fine avrebbero fatto i demoni?
Il mare del Caos li avrebbe inghiottiti e di loro non sarebbe rimasto neppure un ricordo.
Gli umani sembravano intenzionati ad abbandonare i territori della Penisola per sfuggire alle Tenebre, ma lui non lo avrebbe permesso.

O così aveva creduto.

Amareggiato all'idea di una sconfitta così netta, di un destino più che ineluttabile, solo un anno prima Dynast aveva preso una decisione: se l'oblio era il futuro che lo attendeva, se ne sarebbe andato alle proprie condizioni, portando con sé quegli inutili esseri di carne ed ossa.
In poco più di un mese i monti Kataart e gran parte dei territori circostanti erano stati ricoperti da centinaia di metri di neve, sotto cui erano stati sepolti sogni e speranze di migliaia di persone.
Tuttavia lo sforzo necessario al mantenimento della gigantesca perturbazione era gravoso persino per il Lord, tanto che il più piccolo spostamento sul piano astrale sarebbe equivalso a giorni di tregua per gli umani; non aveva potuto far altro che rimanere immobile come una statua, gli occhi aperti ma la mente altrove, a scandagliare e cibarsi del dolore degl'esseri materiali, incurante della brina candida che avvolgeva quella che un tempo era la sua armatura più scintillante.

Già dopo pochi mesi il piano aveva cominciato a mostrare le prime falle.

L'impegno profuso dal Dark Lord non bastava mai, così che quella che minacciava di essere la prima glaciazione globale non riuscì a superare i territori a sud del regno di Dils o del ducato di Kalmaart.
Quando prese coscienza del fallimento era ormai troppo stanco, non solo di agire ma anche di pensare. Aveva perso la voglia di lottare e niente lo interessava più.
Giaceva da allora nella stessa posizione, con la mente assopita, incurante persino del proprio destino.

In una folata di vento e cristalli di neve, Sherra si materializzò ai piedi della lunga scalinata che portava al trono.

«Mio signore» disse esibendosi in un profondo inchino, ma l'eco della sua voce fu l'unica risposta che ottenne.

«Le porto notizie dalla Wolf Pack Island.» continuò imperterrita, come se lui potesse vederla e sentirla.
Sherra sollevò lo sguardo dal pavimento, davanti a sé c'era la lunga scalinata che portava al trono.
Ricordava ancora il tempo in cui il trono era posto in un'altra sala, più piccola e decorata, ricordava le sculture di marmo e i bassorilievi delle pareti, il soffitto a cassoni di ghiaccio incastonati di gemme preziose e racchiusi in gabbie d'argento.
La nuova sala era grande, immensa, il risultato di una grossa esplosione che aveva distrutto il centro del castello, ed era spoglia di qualsiasi orpello potesse distrarre l'attenzione dall'attrazione principale.
Più di mille anni prima, in piena guerra, su quelle montagne demoni e draghi ancestrali si erano affrontati in una dura battaglia. Il lord comandante della legione dei draghi era riuscito a penetrare nella dimora di Dynast, schiantandosi in picchiata dall'alto, e lì era morto, ucciso dal Demone della Guerra.
Quel corpo ingombrante era diventato il suo più grande trofeo e Dynast aveva scelto di porre su di esso il proprio trono.
Sherra guardò ancora una volta gli occhi viola che sembravano scrutarla attraverso il ghiaccio e poi, con un sospiro, salì i gradini lisci e lucidi
e si inginocchio davanti al proprio creatore, poggiando la testa sulle sue gambe. Un tempo le avrebbe carezzato i capelli e infuso un po' della sua energia vitale, ma quella mano imprigionata dall'armatura ricadeva morta sul bracciolo. La prese tra le sue, sfilò il guanto e ne baciò il palmo.

«Mio signore, ti supplico, svegliati.» sussurrò «qualcosa si sta muovendo e le dark lady si stanno preparando ad accogliere il nuovo fermento, ma hanno bisogno della tua guida e della tua forza.»

Lo guardò amareggiata: piccole stalattiti luccicanti si erano formate sul suo viso e tutto il corpo era ricoperto da sottile polvere ghiacciata.
Doveva agire, perché il suo Lord non fosse semplice spettatore degli avvenimenti che si profilavano all'orizzonte.
«Regni, imperi e ducati, tutti gli stati della penisola stanno stringendo nuove alleanze e molto presto faranno causa comune. La minaccia viene da Est, dai territori oltre la ex Barriera... vuole davvero permettere a loro di prendere il suo posto?» gli sibilò all'orecchio.
Rimase in attesa.
L'elmo, blu notte come il resto dell'armatura, ricordava le fauci spalancate di una bestia feroce, con i denti aguzzi ad incorniciare il viso etereo, mentre un vistoso e morbido pennacchio scuro ricadeva di lato.
Occhi d'argento si mossero, catturando come diamanti la fioca luce dei lampi, e la brina tra le ciglia cadde in gocce sulle guance diafane. La testa scattò nella sua direzione.

«Chi?» disse con voce roca, ma Sherra era troppo sconvolta per poter rispondere. Indietreggiò di qualche passo mentre Dynast, non ancora nel pieno delle sue facoltà, la seguiva con lo sguardo.

«Chi osa!?» l'urlo rabbioso eccheggiò potente e quasi la fece cadere.

Il Signore della guerra era tornato.

Si mise in piedi imperioso, mentre il ghiaccio che si era accumulato nelle pieghe dell'armatura si spaccava scricchiolando sinistro.
Si guardò intorno, come se si trovasse in quel luogo per la prima volta, aprì e richiuse più volte le mani rimirandole stupito.

«Mio Lord,» Sherra chinò la testa, riprendendo il controllo di sé «sono lieta di accogliere la sua decisione di...» provò a dire, ma il demone superiore non sembrava aver voglia di ascoltare.

«Sherra! Sono debole e vulnerabile. Dammi la tua energia.» tuonò stendendo le braccia davanti a sé.

«Sì, mio signore.» Sherra si prostrò ai suoi piedi.

Dynast tolse anche l'altro guanto e posò le mani bianche e fredde su quelle della propria sottoposta. Assorbì quel tanto che bastava a non ucciderla, poi la richiamò sull'attenti.

«Chi sono loro?» chiese autoritario.

«Shalarith, signore. Sono elfi e abitano una delle regioni più remote dei territori ad Est del deserto...»

«Conosco gli Sharalith!» la interruppe «Ma come possono essere un mio problema quei dannati mangia-bacche di montagna?»

«Dieci anni fa hanno iniziato una guerra di conquista su due fronti, soggiogando gli altri regni senza troppe difficoltà.»

«Da quel che ricordo erano un pacifico popolo nomade dei Monti Shyril, senza grandi poteri, diviso in tribù» disse pensieroso, scrollandosi la brina dal viso «Cos'altro hai scoperto durante la mia assenza?» il suo tono e i suoi movimenti risultavano ancora meccanici e privi di vita, come quelli di un manichino controllato dall'alto.

«Non molto. Non posso allontanarmi troppo dalla Penisola, mentre le informazioni fornite dagli umani sono spesso confuse o irrilevanti. Tuttavia...» il generale si morse le labbra per impedirsi di continuare.

«Cosa?» l'eco di quella domanda si confuse nel ruggito dei tuoni.

«Solo mie teorie, nulla di import...» provò a giustificarsi, ma lui le afferrò il viso con una mano, stringendo tra l'indice e il pollice le guance pallide.

«Non ci devono essere segreti tra di noi, Sherra. Ogni tuo pensiero mi appartiene.» una scintilla di folle possessività illuminò lo sguardo del Lord.

«Bene, ora parla.» disse compiaciuto, ma Sherra lo fissò risentita.

«Non era una gentile richiesta.» aggiunse tagliente. L'orgoglio era un lusso non concesso al generale.

«Perché espandersi verso Est?» disse dopo attimi di esitazione «Ci pensi. Tutti sanno che Utror è una landa desolata e, da quanto ho avuto modo di scoprire, si crede lo sia tutt'ora.»

«Avranno voluto mettere alla prova il loro esercito affrontando le deboli tribù utrorie.»

«Sì, forse...» incrociò le braccia al petto «Ma c'è dell'altro.» guardò inquieta al di là della grande vetrata, verso le cime dei monti avvolte nell'oscurità.
Dynast tolse l'elmo, liberando i corti capelli corvini, e riprese posto sul trono di ghiaccio: Sherra aveva tutta la sua attenzione.

«Da più di un secolo non è possibile valicarne i confini, gli Shalarith lo hanno proibito. La scusa ufficiale è che quelle terre siano divenute troppo pericolose e, in effetti, gli umani raccontano storie terribili a riguardo.»

«Dunque, se ho ben capito, ad Utror si troverebbe la fonte del miracoloso potere shaliriano?» la guardò poco convinto.

«Questo è ciò che penso, mio signore.» si inchinò di nuovo.

«Sono rimasto seduto qui, perché stanco di questo mondo, sicuro che un giorno sarebbe stato dissolto nel nulla anche senza il mio apporto. Cosa dovrebbe convincermi a riprendere la guerra?» la guardò di traverso «Rispondimi, Sherra!»

«S-signore» la sua sicurezza vacillò «non credo di poter rispondere a questa domanda. Ma posso dirle che gli esseri umani migliorano ogni giorno che passa. Sono vittime della loro cupidigia, desiderosi di accaparrare quante più ricchezze possibili. Hanno vita breve e nulla imparano dall'esperienza.»

«Hai ragione... ma non basta!» alzò il tono di voce «sei venuta qui a disturbare il mio sonno, ad implorarmi di tornare, controvertendo un mio preciso ordine!» con un balzo le fu davanti e le afferrò la lunga treccia cerulea, strattonandola con forza verso il basso.

«Cosa ti ha spinto?» le sussurrò a pochi centimetri dal viso «chi ti ha spinto?»
Negli occhi impauriti della sua sottoposta non c'era traccia di comprensione, non aveva le risposte che lui stava cercando.

«Signore, le sono fedele, lo sarò sempre!» il suo sguardò lampeggiò di convinzione.

«Non si tratta di fedeltà...» lasciò la presa e si allontanò, iniziando un cammino circolare e senza posa.

Entità incorporee cui la pietà era sconosciuta, disperazione e odio come unica fonte di sostentamento e una totale abnegazione nei confronti dei loro creatori, ecco cosa erano i demoni.
Prima di Sherra altri generali e altri monaci avevano servito con dedizione il dark lord del Nord, ma dopo la Guerra dell'Avvento Demoniaco lei era l'unico generale rimasto al servizio di Dynast.
Il loro legame si era drammaticamente rinforzato e la morte o il tradimento di Sherra sarebbero equivalsi alla disfatta del demone del ghiaccio.

«Dove sei stata fin'ora?» la scrutò astioso.

«Al servizio della Greater Beast.»

«Bene.» riprese a camminare «torna alla Wolf Pack Island. Di' a Zelas che voglio indire una riunione. E che avverta quella sconsiderata di Dolphin, voglio anche lei qui.» disse con voce neutra.
Sherra non riusciva più a decifrare i cambi di umore del suo Lord, perciò si limitò ad annuire e poi svanire in un vortice di cristalli. 

*


La Wolf Pack Island, la dimora di Zelas Metallium, era un isolotto di origine vulcanica situato al largo del Mare dei Demoni, proprio di fronte al Deserto della Distruzione.
Sherra giunse sulle coste di sabbia nera mentre l'alba illuminava con i suoi raggi bluastri le calde acque fangose, da cui si innalzavano fumi spettrali.
Un potente maleficio le impediva di materializzarsi al di là della linea su cui le onde si infrangevano, così si fece strada tra gli affilati scogli di ossidiana e proseguì oltre, superando una fitta di rete di mangrovie e inoltrandosi all'interno della foresta.
Il calore asfissiante la avviluppò nelle sue spire, mentre l'insopportabile ronzio di milioni di insetti le riempiva la testa. Non c'era traccia di sentieri praticabili, la densa vegetazione tropicale inghiottiva tutto rapidamente, e lei era costretta a creare una nuova via ogni volta come fosse stata la prima.
Pochi deboli sprazzi di luce filtravano dalla cupola di rami intrecciati, rischiarando i profili degli arbusti sottostanti: felci, ibiscus, orchidee e centinaia di altre piante, nutrite dal ricco terreno vulcanico e dal potere oscuro della dark lady. Ogni cosa, dal tronco degli alberi ai più piccoli insetti, era pregno di veleno. Nessun essere umano ne sarebbe uscito vivo.
Con colpi secchi di spada strappò via il muro di foglie e fiori. Aveva percorso parecchi metri, quando si rese conto di non essere più sola. Si fermò, ripose Dulgofa nel fodero e restò in attesa.
Il punto della foresta in cui si trovava era immerso nella penombra e fu tra alcune foglie di felce che vide due punti rossi e luminescenti. Le foglie si mosserò e qualche rametto si spezzò.
Un sospiro assordante si propagò nell'aria assieme a nebbia densa e bianca. Un altro sospiro e la nebbia prese a vorticare davanti e intorno a Sherra, plasmata da un vento inesistente fino a trasformarsi in un maestoso pavone bianco.
Jarlath, il Custode dell'isola, un demone inferiore capace di assumere diverse forme animali e che Zelas usava per tenere lontani i visitatori indesiderati e indicare la via agli ospiti attesi.

«Sono Sherra, primo generale del Demone della Guerra. Esprimo il desiderio di raggiungere la dimora di Lady Zelas Metallium.» disse con voce solenne mostrando i palmi aperti.

Jarlath piegò la testa e il soffice ciuffo emise un suono simile a quello di tanti piccoli campanelli, poi sollevò la ruota di piume candide, che risplendettero di luce propria nella semioscurità, e si appiattì al terreno in un profondo inchino.

"Ti stavo aspettando." sentì il sussurro entrarle in testa delicato come una carezza.

Il Custode le diede le spalle e si avviò nel cuore della foresta e lei lo seguì. La vegetazione si ritraeva al passaggio del pavone e nessun animale ebbe il coraggio di intralciare il suo cammino... ma non quello di Sherra.
Avrebbe volentieri scagliato una palla di fuoco, ma neanche quello era consentito. Afferrò ancora la spada con stizza e iniziò a devastare la vegetazione di fronte a sé. Strappò foglie, interi rami, rimanendo di tanto in tanto incastrata tra le liane o inciampando sulle radici sporgenti di qualche albero secolare. Sentiva la rabbia montare dentro di sé.

Dopo mesi al suo servizio, mi tratta ancora come un'intrusa qualunque!

Odiava muoversi come una semplice mortale e riteneva un affronto non poter raggiungere agevolmente la Greater Beast, una mancanza di fiducia inaccettabile, persino per un demone.
Jarlath la accompagnò per tutto il tragitto fino a quando non si dissolse in fumo come acqua che evapora al sole.

Sherra si guardò intorno alla ricerca del palazzo, ma non c'era proprio nulla, solo altra vegetazione. Le vie di accesso erano tante e ben nascoste e raramente capitava di usare la stessa per due volte di fila.
In un moto di rabbia divelse un esile tamarindo, scagliandolo contro delle palme poco distanti, e proprio lì, tra i tronchi frastagliati, intravide ciò che cercava.
Era una piccola radura, coperta da un grosso strato di foglie putrefatte, al cui centro si ergeva solitaria una millenaria magnolia. I rami si innalzavano al cielo in una ragnatela carica di fiori bianchi e profumati.
Si avvicinò con calma, rimettendo l'arma nel fodero. I piedi affondavano nello strato di fogliame marcescente come fosse marmellata, mentre miriadi di insetti si muovevano frenetici tutt'intorno.
L'odore acre la disgustò, ma nonostante tutto lei doveva avanzare.
Poggiò una mano sulla liscia corteccia, in alto, nel punto in cui due pieghe si intersecavano in un complesso disegno, raffigurante il volto di un lupo circondato da ali piumate, e recitò una preghiera nell'arcaica lingua demoniaca.
Il marchio di Zelas brillò di una luce rossastra, che si allargò lenta al resto dell'albero come sangue che sgorga da una ferita. Quando raggiunse il terreno il portale potè dirsi aperto e, senza indugiare oltre, Sherra lo varcò con passo sicuro.

La via per raggiungere il palazzo era uno stretto cunicolo sotterraneo, privo di qualsiasi fonte di luce e attraversato dalle radici della vegetazione sovrastante.
Si aspettava una temperatura più bassa vista la profondità, ma sembrava che quell'isola ribollisse senza tregua come immersa in un calderone.
Uscita dal tunnel era di nuovo all'aria aperta, ma al posto di alberi e piante dai fiori variopinti, si ritrovò di fronte alla dimora della Greater Beast.

Il palazzo era stato scolpito in un'unica grande colata di ossidiana e rifulgeva sinistro alla luce del sole di metà mattina.
Ai lati dell'entrata, due enormi statue di basalto scuro raffiguranti lupi in posizione d'attacco, con le fauci spalancate e le zampe anteriori protese in avanti. Il portone, alto almeno tre metri, era di ebano scurissimo e i pezzi di ossidiana, che si affiancavano alla chiodatura, lucidi come pupille infernali. Sherra invocò di nuovo il nome di Zelas e quello si aprì cigolando sui cardini.
L'interno, nonostante le numerose finestre, risultava lugubre e inquietante come una caverna.
A decorare le pareti, armi, tra cui archi, faretre piene di frecce, spade e pugnali racchiusi in teche di vetro, maschere contorte da smorfie di dolore, arazzi e dipinti raffiguranti scene di caccia, miti sulla creazione dell'universo e lei, Zelas, in ogni sua forma.

Niente a che vedere con l'austerità del castello del Nord.

Percorse diversi corridoi, come in un labirinto che ormai conosceva bene, finché non si ritrovò di fronte ad un portale alto e rettangolare, due lastre di oro prive di ornamento, piatte come uno specchio, appena separate da una sottile linea centrale.
Con un'unghia affilata incise una runa demoniaca sulla mano sinistra e quando la pose sul metallo freddo, questo s'increspò e sciolse come fosse liquido, tornando alla propria forma dopo che lo ebbe attraversato.
Al di là di esso Sherra trovò un atrio circolare, spoglio e privo di aperture. Dal soffitto pendeva un grande lampadario fatto di cristalli bianchi e trasparenti, in netto contrasto con il resto dell'ambiente. Emanava un'intensa luce dorata che si rifletteva sulle superfici traslucide delle pareti e del pavimento, dando l'impressione di essere dentro un cilindro di vetro colorato.
Uniche vie d'uscita da quella sala a tinte gialle erano due porte, poste alla fine di due diverse rampe di scale.
Sherra sapeva già che entrambe conducevano ovunque Zelas volesse: nelle celle sotterranee, tra le fauci di un lesser demon, nel suo letto, difficile stabilirlo con certezza.
Con la speranza di essere ricevuta, sospinse l'ennesima porta... e trattenne un sospiro di sollievo.

Stesa di traverso sul suo trono fatto di ossa annerite, arricchito da un numero impressionante di piume colorate di diverse razze di uccelli, c'era Zelas Metallium.
L'abito chiaro si adagiava elegante sulla pelle ambrata, mettendo in risalto il corpo flessuoso e la bionda chioma ribelle, tenuta a bada da monili e trecce sparse.
In un tintinnio di braccialetti e cavigliere, la Greater Beast si mise seduta, mentre un ghigno le deformava il volto.

«Sherra, mia cara!» aprì le braccia ad accoglierla. «Avverto qualcosa di nuovo in te. Di sicuro porti buone notizie» allargò il ghigno in un sorriso cattivo.

«Lord Dynast si è risvegliato» rispose con voce piatta. Non si inchinò, perché era un gesto che riservava al suo unico signore, ma Zelas non parve gradire e un bagliore rossastro le accese lo sguardo.

«Sapevo che avresti sciolto quel ghiacciolo

Sherra ignorò l'insulto «Sono qui per invitarla a presenziare...»

«Non mi dire!» esclamò interrompendola «L'ennesima riunione alla ghiacciaia?»

Ghiacciaia?! Dovette trattenersi dal rispondere a tono.

«Sì, una riunione al castello di Lord Dynast.» disse con tono pungente e, se Zelas lo notò, non lo diede a vedere.

«Fammi indovinare. Discuteremo di strategie militari, creazione di eserciti e bla bla...» lasciò cadere il discorso annoiata. «Non è il mio metodo, dovrebbe saperlo ormai.»

«Con tutto il rispetto, non credo che il suo metodo sia sufficiente questa volta.» si morse la lingua subito dopo averlo detto.

Zelas strinse i braccioli del trono, fino a spezzare i femori e le tibie di cui erano costituiti. I suoi occhi divennero scarlatti, mentre il sorriso grazioso si tramutava in un ringhio bestiale.
Balzò in piedi e due enormi ali ambrate cartilaginee si dispiegarono, tendendosi al massimo della loro apertura. Com'era finita in quella situazione? Da messaggera a vittima inerme... se ne fosse uscita viva la punizione che la attendeva sarebbe stata terribile.
Il pensiero di Sherra corse alla spada, pur sapendo di non avere possibilità.
Il demone superiore alzò un mano e un vortice concentrico iniziò a formarsi tra gli artigli.
Sherra ebbe il tempo di abbassarsi e rotolare a destra; il maleficio colpì il pavimento, che si disintegrò in una nube di polvere nera... ma non era ancora finita.

Zelas si sollevò in aria, battendo le ali come un avvoltoio, e ruggì fecendo tremare le pareti del palazzo, poi le si scagliò contro in picchiata, artigliandole le spalle. La forza dell'impatto fu tale da scaraventarla a terra e aprire una voragine.
Zelas era ancora sopra di lei, la bocca aperta, da cui spuntavano tre file di denti aguzzi, gli occhi rossi privi di pupilla e le ali spalancate ad oscurarle la visuale. L'armatura da generale non aveva retto bene come sperava e non aveva impedito che venisse ferita anche sul piano astrale.

Era pronta a ricevere il colpo di grazia, quando dei passi ticchettarono sull'ossidiana della sala.

Gli occhi di Zelas ritrovarono la propria forma e la lady rivolse uno sguardo stranito al nuovo ospite. Sherra era paralizzata dal dolore alle spalle squarciate, ma riuscì comunque ad avvertire la presenza di Xellos alle sue spalle, che si inginocchiò proprio sull'orlo del cratere e prese a giocare con la treccia cerulea del generale; ne avvolse la ciocca finale tra le dita e poi si sporse in avanti.

«Mia Lady, di questi tempi mettersi gli uni contro gli altri non potrebbe portare alcun vantaggio.»

La voce calda e profonda del demone parve agire come un potente sedativo. Le ali si ritrassero piano fino a scomparire del tutto e, mentre l'ultimo ringhio cupo rimbombava tra le pareti, Zelas riprese la propria avvenente forma. Si rimise in piedi, sovrastandola, e premette un piede nudo sullo sterno del generale.

«Sono desolata, lady Metallium.» si affrettò a dire Sherra.

Xellos aveva davvero ragione e lei era stata una sciocca, ma era certa che Dynast, una volta scoperto il terribile passo falso, non avrebbe lasciato correre. E non era la sola.

«Non la passerai liscia, generale. Non dopo che mio fratello saprà della tua insolenza» spalancò gli occhi con un sorriso trionfante.

«Altre direttive del ghiacciolino?» chiese poi, come se nulla fosse accaduto.

«Avvertire lady Dolphin.» rispose a denti stretti, incapace di alzarsi.

Era certa che i danni subiti non fossero gravi, ma che il demone superiore la tenesse lì inchiodata per personale compiacimento.

«Xellos» lo chiamò con tono imperioso, come se lui non si trovasse lì «va' ad avvertire la piccola sirenetta! Che la smetta di gingillarsi con i marinai mortali, abbiamo cose importanti di cui discutere.» fece una smorfia disgustata, facendogli segno di andare con la mano ingioiellata.

«E quanto a te» si rivolse a Sherra «non ti voglio sulla mia isola, che ci fai ancora qui?»

Un altro gesto di Zelas e si ritrovò sbalzata fuori, letteralmente. Ripercorse a ritroso i corridoi, aprendo tutte le porte con la schiena, incapace di riprendere il controllo di sé persino sul piano astrale.

L'umore della dark lady si rifletteva sulle condizioni climatiche della Wolf Pack Island e l'ira che aveva quasi rischiato di ucciderla aveva scatenato anche un violento nubifragio.
La pioggia scrosciante aveva trasformato il terreno in fango vischioso, su cui Sherra atterrò sgraziata. Con un verso iroso si alzò e si guardò intorno: era solo uscita dal palazzo. Provò a smaterializzarsi, ma non funzionò.
Il vento la schiaffeggiava e la pioggia bollente e urticante le impediva quasi di aprire gli occhi. Inoltre quelle temperature la indebolivano, ma lei non aveva molta scelta, così si voltò sconsolata a guardare la foresta e con uno sbuffo si preparò ad affrontarne, di nuovo, le insidie.



Note:
1. Nell'opera originale i mazoku e gli shinzoku rappresentano rispettivamente male e bene, i primi si battono per il ritorno al caos primordiale, i secondi per impedire che questo accada.
Io ho dato un'interpretazione diversa del conflitto e avrete modo di scoprirla leggendo ;)

2. Probabilmente questo capitolo e tutti gli altri che pubblicherò saranno ulteriormente revisionati. Al momento sono impaziente di farvi conoscere la storia che mi frulla in testa!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, se vi va lasciate una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate ^^






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Capitolo 3
*** Capitolo III - Distacco ***


cap 3 - distacco

Capitolo III - Distacco

La flebile luce del mattino filtrava attraverso le tende di pizzo, colpendo il viso pallido coronato da lunghe ciocche corvine. I segni scuri sotto gli occhi e la fronte aggrottata rivelavano la sofferenza che si celava dietro le palpebre chiuse.

La principessa Amelia giaceva nel suo letto come una bambola di porcellana, dai cui occhi non smetteva di sgorgare dolore in calde gocce salate.
I medici avevano rilasciato un comunicato ufficiale, in cui veniva annunciato che la futura regina, troppo preoccupata per le sorti del suo regno, si era indebolita e ammalata, ma che sarebbe presto guarita grazie al loro tempestivo intervento.
Lina sospirò sprofondando nella poltrona. Era una delle poche persone fidate a conoscere la verità sulla crisi isterica di Amelia, così era rimasta al suo fianco per impedire a qualche curioso di ficcanasare. Non aveva però pensato all'aspetto pratico della faccenda. L'abito le stringeva le costole in una morsa d'acciaio e, nonostante i vari tentativi, non era riuscita ad allentare le stringhe del corpetto che rischiavano di ucciderla.
Non sopportava neppure il pizzo che si allargava dalle maniche dell'abito, penzolando molle giù per l'avambraccio. Lo tirò su, provando a strapparlo via, ma una fitta alla mano le impedì di continuare. Osservò la zona dolente e si accorse del livido violaceo che, come un braccialetto, le avvolgeva il polso e parte del dorso della mano.
Zelgadis.
Non lo vedeva da quel famigerato pomeriggio e non sapeva neppure dove si trovasse. Aveva provato a fermarlo, ma lui l'aveva scacciata via come un insetto molesto.
Come avesse ascoltato i suoi pensieri, la principessa si mosse, mentre un lamento sommesso le gorgogliava nel petto. Il nome dell'amato, ripetuto più volte in deboli sussurri, iniziò a perdere senso e significato, un insieme di sillabe sconnesse che si rincorrevano febbrili.
Un singulto strozzato, due pugni battuti sul letto e un lungo sospiro: Amelia aveva aperto gli occhi.
La vide fissare apatica il soffitto attraverso le palpebre gonfie, le braccia aperte in segno di resa.
Non era da Lina lasciarsi andare a plateali manifestazioni d'affetto e, tuttavia, sentiva di voler fare qualcosa per l'amica, ma le parole erano solo erbaccia in un giardino bruciato.
Si limitò allora a stendersi accanto alla principessa, quasi con la paura di romperla.
Amelia sembrò rendersi conto solo in quel momento della presenza della maga, la guardò inerte e poi la sua attenzione venne catturata dai riflessi infuocati dei capelli scarlatti. Ne afferrò una ciocca con indolenza e prese a rimirarla come fosse una pietra preziosa.

«Da quanto tempo mi trovo qui?» chiese in un sussurro rauco.
«Ieri pomeriggio» Lina si sforzò di eliminare ogni traccia di emozione dalla propria voce, ma era difficile dimostrare pura solidarietà senza sporcarla con altri sentimenti.
«E tu invece?» rigirò la ciocca rossa tra le dita «sei stata sempre con me?»
«Sì, certo.» Lina accennò un sorriso per spezzare la tensione, ma la principessa non colse l'occasione.
«Mi dispiace, non avresti dovuto...» la guardò di traverso «...hai fatto la veglia ad un cadavere.» le lacrime avevano lasciato il posto ad una cupa rassegnazione.
Lina non trovò la forza per contraddirla o rassicurarla e quel muto assenso la incoraggiò a proseguire «La felicità non mi appartiene più, da oggi e per sempre» sospirò, lo sguardo ancora fisso al soffitto e il volto sempre più scavato, come se ogni parola la consumasse.
Le strinse la mano, come faceva sua sorella quando da piccola le capitava di avere degli incubi.
Aveva sconfitto demoni superiori, affrontato la morte a viso scoperto, vincendo ogni partita. Eppure non c'era niente che potesse fare per andare contro le decisioni di un misero essere umano.



«Sollevi le braccia... ecco, così. Ora trattenga il respiro... Dana! Forza, non startene lì impalata! Afferra un nastro e tira!»
La cerimonia di vestizione della principessa era un rituale mattutino a cui ogni cameriera di corte aspirava di poter assistere e partecipare. Significava dedicarsi a stoffe pregiate e gioielli preziosi smettendo per sempre di occuparsi della manutenzione del castello: nessuna mano rozza, infatti,  aveva il permesso di toccare la famiglia reale.
«Dana! Ti ho detto di tirare, non di spezzarle il busto!» strepitò una delle più anziane verso una giovane cameriera rossa in volto.
In tutto quel caos di stoffe e merletti, la principessa era una marionetta dal volto imperturbabile, seguiva le direttive in silenzio e senza entusiasmo. Si muoveva con lentezza, persino le palpebre si alzavano e abbassavano fiacche sugli occhi di zaffiro. Eppure si sentiva una bomba pronta ad esplodere, riusciva quasi a percepire l'energia soffocata anelante lo scoppio, che premeva contro le pareti del proprio essere come una fiera dietro le sbarre.
Il rito si era concluso, Amelia era perfettamente impacchettata in seta e pizzo blu cobalto, i capelli raccolti in una delle solite complesse acconciature e il volto serafico truccato a dovere per mascherare le occhiaie.
Era una vittima sacrificale, un'offerta al dio della guerra, e presto sarebbe stata reclamata. A lei, però, non importava: non avrebbe scansato il pugnale, ma aiutato l'assassino a prendere la mira.
La paladina della giustizia era un guscio vuoto di sogni infranti e i cocci del suo cuore erano polvere nel vento.
«Sua Altezza, è bella come un angelo!» esclamò l'anziana domestica che dava le direttive. Amelia rispose con un sorriso appena accennato e con un gesto della mano invitò tutte ad abbandonare la stanza.
La disperazione l'aveva fatta prigioniera, ma il tempo aveva continuato a scorrere inesorabile.
Quarantasei erano i membri della Dieta imperiale. Quarantasei era il numero delle province dell'impero. Quarantasei erano i giorni che intercorrevano tra la firma dell'accordo matrimoniale e il giorno in cui lo sposo avrebbe fatto visita alla sposa.
Elmekia era un impero fondato sulla numerologia esoterica, ad ogni numero era assegnato un preciso valore simbolico da cui non si poteva prescindere. Il quarantasei era un numero sacro e inviolabile, di auspicio per la buona riuscita di un evento.
Amelia aveva vissuto quei giorni con angoscia, segnandoli sul calendario con la stessa solennità di un condannato a morte.
«Sarà grossolano e volgare, del tutto privo di classe o bellezza. Ho già conosciuto molti nobili di Elmekia... dei veri barbari misogini, incapaci di prendere una decisione prima di aver consultato il sacerdote.» disse trattenendo le lacrime «Ma io sarò la regina di Saillune e potrò imporgli le mie usanze, giusto?» rivolse a Lina un sorriso che però non fece in tempo a raggiungere gli occhi.
L'amica si alzò, con un gesto ormai abituale lisciò le pieghe del vestito avorio, e si avvicinò alla principessa. «Certo!» le sorrise intrecciando le mani alle sue. «La donne più forti e combattive nella storia della Penisola appartenevano tutte alla casata Remington, non lo dimenticare.» le carezzò una guancia con fare materno «Tua madre era forte e fiera e tu, che sei sua figlia, non sarai da meno!»
«Hai ragione. Abbiamo vinto molte battaglie...» disse incerta.
«Esatto!» le afferrò entrambe le mani «ora andiamo, la corte aspetta solo te.» disse aiutandola a mettersi in piedi. Amelia sapeva che quel finto entusiasmo era solo un mero palliativo, ma vi si abbandonò, troppo stanca per combattere ancora una volta contro sé stessa.



Rilesse la stessa pagina per l'ennesima volta, senza mettere a fuoco il vero significato del testo, negli ultimi tempi gli capitava spesso e provava sempre lo stesso fastidioso senso di smarrimento.
Immergersi nella lettura significava non pensare, perdere la concentrazione, invece,  rituffarsi nel mare di melma che era diventata la sua vita.
Aspirò una densa boccata di fumo dalla piccola pipa e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. La stanza era spaziosa, al centro vi era il lungo tavolo di legno massiccio al quale era seduto; vicino alla finestra un letto singolo e dal lato opposto una libreria, riempita con vari libri selezionati dalle molte biblioteche del castello; in generale, l'arredamento poteva dirsi più da servitore che da ospite, ma a lui andava bene.
Il fatto che lo studio improvvisato si trovasse in una torre lontana dal cuore pulsante della reggia lo faceva sentire al sicuro, da Amelia e da se stesso.
Stava osservando le volute argentee risalire fino alla lampada, quando la porta venne spalancata e richiusa con violenza, tanto che poté sentirla tremare sui cardini.
Le tende erano tirate e l'unica luce della stanza bastava a malapena ad illuminare il tavolo da lavoro, ma nell'oscurità riuscì a distinguere il profilo di un abito femminile.
Una bagliore giallognolo si irradiò dalla porta a tutte le pareti, in una ragnatela di raggi luminescenti che scomparvero nel giro di pochi attimi.
La figura allora si mosse, ma aveva il fiato corto e lui la riconobbe ancor prima di averla vista.
La gonna di organza blu catturò il debole chiarore della stanza, mentre i piccoli fermagli d'argento tintinnavano ad ogni passo. Zelgadis osservò rapito la linea del collo sottile come un giunco, ma non ebbe il coraggio di incontrare il suo sguardo per paura di trovarvi odio e rancore.

«Che ci fai qui?» chiese e il suo tono risultò più brusco di quanto volesse davvero.

«Volevo vederti...» la voce della principessa tremò come la fiamma di una candela.

Zelgadis mise da parte la pipa e si alzò «E perché mai?» disse senza guardarla, con i palmi aperti poggiati sul tavolo, come se stesse studiando la cartina geografica davanti a sé.

Ti ignorerò e tu, troppo ferita nell'orgoglio per restare, te ne andrai...

Un'altra sarebbe fuggita via da quel gelo, ma lei era Amelia ed era sempre stata disposta ad affrontare la bufera pur di stare con lui. Si avvicinò al tavolo e pose le piccole mani bianche su quelle ruvide di pietra.
Quel breve contatto gli chiuse la gola e quasi si sentì soffocare e risucchiare nel buio della stanza, mentre il cuore rimbalzava come una palla impazzita nel torace. Si permise di sostenere lo sguardo della principessa, per trasmetterle una gelida indifferenza, poi si allontanò esibendo una smorfia nauseata, e con uno strappo deciso scostò le pesanti tende rosse dalle finestre.
La luce del giorno penetrò nello studio, così intensa da ferirgli gli occhi. Avrebbe preferito darle le spalle e continuare a guardar fuori piuttosto che fronteggiarla.

Sono solo una vile chimera. Aveva bisogno d'aria...

«Non aprirla!» disse allarmata la principessa e lui non aveva resistito alla tentazione di voltarsi nella sua direzione «Ho fatto un incantesimo insonorizzante» si spiegò Amelia arrossendo.

Il cuore gli si era spaccato e già cominciava a sanguinare, ma Zelgadis ghignò sprezzante.
«Il pericolo non le si addice, sua altezza» rise amareggiato «se scoprissero...»

«Non lo faranno! Lina mi coprirà, me l'ha promesso» lo interruppe decisa aggirando il tavolo.
Zelgadis si ritrasse ancora di più, mentre lei provava a colmare la distanza che li separava.

Amelia aggrottò le sopracciglia contrariata e sbuffò «Vigliacco!» disse battendo un piede per terra.

«Prego?» spalancò gli occhi e la bocca, mentre un altro sentimento si faceva largo tra la folla ed emergeva prepotente.

«Hai sentito bene! Sei diventato anche sordo?» Amelia stava ritrovando improvvisamente il suo cipiglio.

«Sei un dannato vigliacco! Dove credi di andare?» alzò le braccia ad indicare l'intera camera. «Vuoi scappare dalla finestra? Accomodati! Non farai molta strada... ci sono arcieri appostati ad ogni angolo della città, con l'ordine di colpire ogni animale, persona o oggetto dall'aria sospetta!» il respiro in affanno e le gote arrossate, la principessa aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo, stringendo i pugni e battendo di nuovo i piedi.

«Ti sei sfogata?» la guardò come si guarda una bambina sciocca e capricciosa.

Amelia non rispose, rimase a fissarlo furiosa e poi, come una leonessa, sferrò l'attacco a sorpresa. Si avventò contro di lui, nonostante il peso del vestito e dei gioielli, con l'intenzione di schiaffeggiarlo, ma il ragazzo era più veloce e prestante. Le bloccò entrambe le mani dietro la schiena, tirando giù con forza le braccia, senza curarsi dei lividi che la sua stretta di pietra avrebbe potuto procurarle.
Aveva fatto di tutto per tenerla lontana, per quarantasei giorni non era uscito da quella torre solitaria se non per brevi passeggiate e saltuarie visite al parco, ma quella improvvisa vicinanza aveva annullato ogni sforzo. Poteva sentire il battito frenetico del suo cuore e il ritmico alzarsi del suo petto contro di sé, era inebriato dal profumo di pesca e vaniglia e rapito dai riflessi che il sole donava a quegli occhi blu come l'oceano.
Non sapeva cosa le passasse per la testa, se i loro pensieri collimassero, ma il totale abbandono che lesse nel suo sguardo e la resa che percepì attraverso il tessuto, furono sufficienti a fargli perdere il controllo. Con poche falcate la spinse contro la scrivania, mentre le loro labbra si scontravano, ancora una volta in preda alla disperata passione. La stoffa leggera del vestito e quella pesante delle sottovesti era troppa e ingombrante, Zelgadis provò più volte a sollevarla senza successo, ma il gemito frustrato della principessa lo convinse a scegliere la via più drastica. Estrasse il pugnale dal fodero che teneva sempre legato alla cintola e lacerò l'abito, uno strato alla volta. Quando finalmente intravide le gambe candide, le afferrò senza grazia e sollevò la ragazza fino a metterla seduta. Amelia gettò la testa indietro, aggrappandosi alle spalle solide, mentre il ragazzo iniziava la sua personale tortura.
Lei era lì, di nuovo sua come se nemmeno un giorno fosse passato da quel fatidico pomeriggio. Poteva toccarla, baciarla e morderla senza riguardi, poteva di nuovo razziarle il respiro e lasciarsi strappare il cuore dal petto, ma il pensiero che quella potesse essere l'ultima volta quasi lo annientò.
Era stato stupido a credere che la lontananza avrebbe spento la loro fiamma, perché era bastata un'unica scintilla a farla divampare impetuosa.
Aveva la mente appannata, mentre i battiti accelerati gli rimbombavano nelle orecchie mischiandosi al rincorrersi dei loro respiri e al rumore degli oggetti che cadevano giù. Nemmeno lo schianto della lampada riuscì a distoglierli mentre si avviavano verso l'oblio, morendo uno nella braccia dell'altra.
Amelia si strinse di più al suo petto e lui poggiò il mento nell'incavo del collo pallido, lasciandosi cullare dal ritmo crescente dei loro corpi, i fianchi della ragazza come unico appiglio per non precipitare nell'abisso.
La sentì tremare sotto di sé e, nonostante nessuno potesse sentirli, si affrettò a far suo l'ultimo sospiro, rubandolo alle labbra rosse e gonfie in un estremo atto possessivo. La spinse contro il tavolo, schiacciandola con il suo peso contro i fogli su cui prendeva appunti da più di un mese.
Senza staccarsi, prolungando la dolcezza di quel contatto, baciò i seni imprigionati nel corsetto, risalì la linea del collo, le guance, il naso e le palpebre chiuse. L'acconciatura era ormai un lontano ricordo e lui bramava di poter affondare le dita tra le ciocche corvine, così tolse i fermagli e con minuzia sciolse ogni singola treccia, finché il manto dei capelli non ricoprì il ripiano.
Amelia lo guardava con il volto disteso, carezzando ogni pietruzza sul suo viso e sul suo petto e sospirando di tanto in tanto.
Quella pace illusoria non era destinata a durare a lungo.

«Come lo spiegherai?» mormorò mordicchiandole il lobo di un orecchio.

«Cosa?» forse troppo confusa dall'inaspettata sequenza di eventi, la ragazza non sembrò capire.

Zelgadis arretrò di un passo, avvertendo il freddo penetrare la scorza dura della propria pelle e raggiungere le ossa. Quando la vide, smarrita, coprirsi con vergogna, capì che l'incanto era finito, dissolto da poche semplici parole.

«Non ho bisogno di giustificarmi, se è questo che intendi» disse piccata, castando un incantesimo riparatore sull'abito. «Io sarò la regina e lui è soltanto l'ultimo di tre figli maschi» la ascoltò stupito, non avendo mai sentito la sua voce colorata di arroganza.

Era deciso a guardare oltre quella nuova maschera, l'avrebbe distrutta sul nascere.
«E quindi?» la imprigionò di nuovo tra lui e il legno liscio.

«E quindi si dovrà accontentare di un giocattolo di seconda mano» gli sussurrò a fior di labbra.

Il pensiero che qualcun'altro l'avrebbe avuta, toccata e fatta sua lo riempì di disgusto e sentì la bile salire a incendiargli la gola. Per quanto lei potesse fingere cinismo, le lacrime la tradirono luccicando inopportune sulle ciglia.
Zelgadis indietreggiò ancora, lasciandosi andare contro la poltrona alle sue spalle, lo sguardo perso nel vuoto e le mani avvinghiate ai capelli.

Amelia, che era riuscita invece a mantenere un certo contengo, gli si inginocchiò accanto posandogli le mani sulla gambe «Oggi è il giorno...» si fermò per non piangere, ma Zelgadis non aveva più bisogno di parole.

La avvolse in un abbraccio che voleva essere rassicurante, non badando alla posizione scomoda o all'eventualità di ferirla, incapace com'era di dosare la sua forza.

«Ho paura» un soffio leggero che non gli sfuggì.

Amelia aveva paura e lui non sarebbe stato lì a proteggerla dal barbaro elmekiano: era questo il pensiero che lo tormentava. Non importavano i suoi desideri e le sue volontà, il fatto di volerle stare egoisticamente accanto era solo un aspetto secondario. Come poteva accettare di saperla sola e indifesa nella gabbia della tigre?

«Non devi averne» le disse aumentando la presa «Ovunque io andrò, in qualunque angolo della Terra o del Mare del Caos, ti amerò...» gli si incrinò la voce e fece una pausa per ritrovarne il controllo «e tu, non sarai mai da sola perché questo pensiero ti terrà per sempre compagnia» deglutì a stento.

«E poi» sospirò «io e Gourry abbiamo parlato di recente. Gli ho chiesto un... favore.»

Amelia fu colpita da quelle parole, tanto da staccarsi per poterlo guardare «Che favore?» sgranò gli occhi «Aspetta! Vuoi dire che si è...» le parole le morirono tra i denti.

«Non ancora, ma probabilmente lo farà a breve e lui è in debito con me» disse grave. «Ma non credere che lo farà solo per questo. Aveva i suoi secondi fini quando ha accettato e, se lo conosci bene, sai già a cosa mi riferisco.»

La principessa aggrottò la fronte, sforzandosi di liberare la mente dalla confusione per pensare con lucidità ai motivi che avevano spinto l'amico ad un tale sacrificio.
«La spada!» esclamò di colpo «Alle guardie reali forniamo spade con lamina in vantablack.» continuò scioccata dalla sua stessa scoperta.

Chiedere a Gourry quel favore gli era costato molte notti insonni, sapeva già che avrebbe accettato senza riserve e per questo il senso di colpa lo aveva divorato fin da subito.
Il fatto che l'amico fosse alla ricerca di un'arma lo aveva in un certo senso rassicurato, anche se continuava a sentire una nota stonata ronzare come una mosca nella sua mente.

«E Lina...» provò a dire Amelia, ma lui la interruppe all'istante prendendole il volto tra le mani.

«Lei non deve sapere niente! È una questione che non ci riguarda.»

«Ma Zel, cerca di capire, lei è mia amica e io non...» provò a divincolarsi senza successo.

«Lui ha accettato, sa a cosa deve andare incontro, e se Lina venisse a saperlo prima di sicuro si metterebbe in mezzo» aveva messo da parte ogni scrupolo per proteggerla, non le avrebbe permesso di mandare tutto a monte.

«Come potrò guardarla in faccia senza sentirmi in colpa?» aveva ripreso a piangere come una bambina. I pesi sul suo cuore erano diventati una catasta di pietre che non riusciva più a tenere in equilibrio tra le braccia.

Zelgadis stava per risponderle ma il suono intenso e prolungato di un corno reale irruppe nella stanza facendo tremare i vetri delle finestre.

Amelia lo guardò smarrita e lui a sua volta si sentì crollare il pavimento sotto i piedi.
«Sono arrivati» squittì la principessa portandosi le mani alla bocca.

Qualcuno bussò alla porta dello studio con veemenza. Il sangue defluì dalle guance della principessa e un brivido di puro terrore le percorse la schiena al pensiero della fine che avrebbe fatto Zelgadis se l'avessero trovata lì.
Si affrettò a raccogliere i fermagli d'argento e a rassettare il vestito come meglio poteva, mentre Zelgadis urlava di non essere presentabile in quel momento. Peccato che l'incantesimo scagliato dalla principessa fosse ancora attivo, così l'ospite inatteso forzò la serratura con un colpo secco.

«Scusate, scusate, scusate. Spero di non aver interrotto nulla!» Lina si fece largo a braccia alzate e occhi chiusi all'interno della stanza.

«Puoi aprire gli occhi!» la rimproverò esasperato il ragazzo.

«Meglio così, non è ora di farvi trovare nudi! Gli elmekiani sono sulla via di Saillune e il loro arrivo è previsto per questa sera.»

Amelia tirò un sospiro di sollievo e allentò la presa sui fermagli che già avevano iniziato a lasciare segni rossi sui palmi.
«Quindi la cerimonia non si terrà questa notte?» chiese rinfrancata.

«No, gli elmekiani celebrano riti notturni solo per compiere azioni offensive o cose del genere.»

«E tu come fai a conoscere così tanti dettagli?» le domandò scettico Zelgadis «Anzi no, non dirmelo. Hai minacciato un valletto?»

«La cuoca» ammise rimirandosi le unghie con aria soddisfatta.

«Mi sembra giusto.»

«Ora però non c'è più tempo... Amelia, ti aspetto fuori, fai in fretta.»

Alla fine era giunto il fatidico momento del distacco. Le avrebbe detto addio per sempre e di lei non gli sarebbe rimasto nient'altro che una manciata di ricordi, troppo miseri per potergli riempire il buco nel petto.
Erano uno di fronte all'altra a guardarsi, per imprimere nella mente dettagli all'apparenza insignificanti. Di lei avrebbe conservato il profumo dolce di gelsomino, le pagliuzze verdi che gli capitava di intravedere quando si trovavano in penombra, la morbidezza della sua pelle e la risata argentina che nasceva spontanea quando era allegra e felice.
La abbracciò con gentilezza, inspirando il profumo dei capelli scuri e lucenti, e la baciò senza fretta, per poter assaporare per l'ultima volta il suo sapore, affidandole l'ultimo pezzo del proprio cuore.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Alleanza ***


CAPITOLO IV – ALLEANZA

La capitale era in fermento da quando avevano avuto inizio i preparativi per accogliere il futuro re consorte.
Le mura della via che lo avrebbe condotto al castello erano state ricoperte di fiori freschi, migliaia di lanterne di carta erano pronte ad accendersi per illuminare il passaggio della scorta e sulla strada si estendeva un lunghissimo tappeto vermiglio. I migliori musici era giunti da tutto il regno per intonare canti in onore della principessa e nelle piazze i popolani si erano già riuniti fin dal mattino per celebrare riti di buon auspicio.
Il sole stava morendo all'orizzonte e il cielo si tingeva con i colori freddi della notte, quando ventisette carrozze arrivarono alle porte della città. Erano lucide, scure, ricche di intarsi e decorazioni a foglia color oro che splendettero agli ultimi raggi di luce rossastra, mentre le ruote scarlatte si muovevano veloci sul terreno sconnesso e polveroso.
Centootto frisoni neri trainavano le vetture, affiancate da decine di cavalieri in groppa a cavalli candidi. Lo stemma della famiglia Thormond, un cervo su sfondo rosso circondato da quattro iris, troneggiava alto sugli stendardi, ricamato in oro e seta.
L'accesso alla capitale era sbarrato e tenuto in sicurezza da un incantesimo difensivo e decine di soldati armati. Quando i trombettieri che precedevano il corteo iniziarono a far squillare i loro strumenti, un fante sailluniano si sporse dal parapetto di una delle torrette.
«Altolà! Chi osa bussare alle porte della gloriosa Saillune?» recitò la formula di rito.
«Sua Altezza, futuro re di Saillune!» fu la risposta solenne del Primo Cavaliere della scorta.
«Che Ceiphied lo abbia in gloria!» disse il fante e poi, con l'aiuto di una fiaccola, accese il grande braciere posto sul tetto della torretta. Quando tutti i bracieri delle altre torri arsero della stessa luce azzurra, l'incantesimo di difesa si palesò vibrando come un'opalescente bolla di sapone e sfrigolò mentre un varco veniva aperto per lasciar passare gli ospiti elmekiani.
Le grandi porte di alabastro, fatte costruire da re Joffridus III poco prima della sua dipartita, si aprirono lentamente e, quando il corteo se le lasciò alle spalle, un'esplosione di petali di iris blu e viola decretò l'inizio dei lunghi festeggiamenti per le nozze della principessa.
Il castello di Saillune era situato al centro dell'esagono che racchiudeva la città in un cerchio di magia bianca. Non era circondato da fossati, né da alte mura, ma da ettari di terreno, un immenso parco disseminato di boschetti e ricoperto da uno sottile prato verde smeraldo.
Su ogni lato dell'esagono vi era solo un arco di pietra, alto decine di metri e fregiato dall'antico disegno dell'emblema della famiglia reale, che si intersecava con rune anti-demone.
Molte leggende gravitavano attorno a quegli archi misteriosi ed era convinzione comune che chiunque avesse osato oltrepassarle senza il permesso del re sarebbe morto divorato dalle fiamme.
Quella sera risplendevano di un debole bagliore celeste, mentre centinaia di lucciole svolazzavano nell'aria notturna, rilucendo come stelle in un cielo limpido.
La fila di carrozze, protetta dall'invito ufficiale del sovrano, varcò indisturbata l'ingresso al parco.
All'interno di una di queste, il principe Jaden stava mollemente adagiato su sette cuscini di seta e broccato viola, un braccio dietro la testa e una gamba penzoloni.
Seduto davanti a lui vi era il vecchio Nirwald, uno dei più fidati consiglieri dell'imperatore che, tronfio nella sua ricca tunica, si puntellava al fondo della vettura con il bastone da passeggio.

«Una degna accoglienza, non trova?» disse l'anziano indicando la folla fuori dal finestrino.
Il principe si mise a sedere con un colpo di reni e riavviò indietro i folti capelli castani, del tutto indifferente alle parole di Nirwald.
«Sua Altezza, ha per caso dimenticato le buone maniere durante il viaggio?» stizzito l'anziano batté il bastone tre volte sul pavimento della carrozza.
«Sì, degna di uno stupido contadino» rispose allora annoiato il principe, richiudendo con un gesto seccato le tende «Accolto da un branco di popolani e costretto a rimanere in isolamento fino a domani mattina!»
«La tradizione prevede che lei si mostri per la prima volta durante la cerimonia nuziale, se ne faccia una ragione. E, in ogni caso, non si preoccupi per domani, ho visto uno stormo di rondini allontanarsi dal regno. Un buon auspicio.» disse pacato Nirwald lisciandosi la lunga barba bianca.
«Non m'importa, il mio posto non sarà mai qui.» sussurrò tra i denti, ma ciononostante quelle parole non sfuggirono al Gran Maestro dei Segni, che lo colpì con il bastone sulle ginocchia.
«Bada a cosa fai, vecchio! Io sono...»
«Lei è uno sciocco!» gli puntò contro un dito nodoso «Le è stata offerta un'occasione più unica che rara e non ha fatto altro che piagnucolare come una donnicciola!»
«Quale occasione? Restare segregato all'interno delle mura nemiche a rivestire un ruolo privo di importanza, mentre i miei fratelli combattono fianco a fianco per difendere Elmekia? Il mio posto è nell'esercito imperiale, tra i miei uomini, a difendere i confini.»
«No!» la voce avvizzita del Gran Maestro risuonò roca «Crede davvero che Saillune sia ancora il nemico?! Due volte sciocco! Forze oscure si agitano al di là del Deserto della Distruzione e non possiamo farci trovare divisi e impreparati.»
«Lo so bene, conosco le notizie giunte da Digranes.»
«E allora saprà che non abbiamo più molto tempo a disposizione.» sospirò poggiando la schiena contro il sedile imbottito.
«Sì, ma questo compito spetterebbe a Lantyn.» disse con il volto contorto da una smorfia di rabbia e i pugni stretti sulle ginocchia «Non è giusto. Tu lo sapevi, perché non hai detto niente quando mio padre ha fatto il mio nome al Consiglio?»
«Lo sapevano tutti, ma suo fratello non è mai stato adatto a ricoprire tale ruolo. Troppo impulsivo e rozzo, avrebbe fatto un disastro dietro l'altro portando alla rovina il nostro più grande alleato.»
«Come fai ad esserne certo?»
«L'ho visto nel fuoco,» si rabbuiò «Saillune immersa nel caos demoniaco, l'impero di Elmekia attaccato su due fronti e costretto a cedere ai nuovi conquistatori.» fece una pausa, come se quella rivelazione gli fosse costata un certo sforzo.
«Non è stato suo padre a proporla, sono stato io. Saillune ha bisogno di un sovrano saggio e lei è l'unico tra i suoi fratelli a possedere tutte le qualità necessarie affinché il regno rimanga al sicuro.»
Jaden ammutolì, incapace di reagire a quell'amara rivelazione, e restò a guardare il volto placido del suo Maestro, la sua guida, l'uomo che lo aveva allevato e istruito fin dalla più tenera età.
«Sua Altezza, non si senta offeso né tradito. Ho agito nel suo interesse, lei è destinato alla grandezza.»
«Hai visto anche questo nel fuoco o in uno dei tuoi sogni, oppure magari dentro le viscere di una rondine morta?»
«Lo vedo nei suoi occhi e tanto mi basta.»
Il principe sospirò «Come dovrei comportarmi? Si dice che la principessa non sia più illibata da tempo, dunque dovrò accontentarmi dello scarto di una vile chimera demoniaca. E tra quelle mura vivono indisturbati i Traditori...» storse le labbra disgustato.
«Re Philionel in persona ha promesso di bandire la chimera dal regno. Quanto ai Traditori, le consiglio di non agire di impulso, sia paziente.»
I cavalli rallentarono la loro andatura finché la carrozza non si fermò con uno strattone. Il cocchiere aprì lo sportello e l'aria pungente della sera entrò nell'abitacolo facendo rabbrividire il principe.
Nirwald, invece, scese giù aiutandosi con il bastone «Ah, che splendida serata!» esclamò all'improvviso entusiasta, come se niente fosse accaduto.
Jaden indossò il proprio mantello foderato di pelliccia e mise per la prima volta piede sul suolo sailluniano. L'odore degli iris era ancora nell'aria, ma era quasi del tutto sovrastato da quello dolciastro dei gelsomini che si arrampicavano sui pilastri e le colonne del porticato davanti a cui si era arrestata la marcia del corteo.

*

Profumo di rose e d'incenso si spandeva nell'aria fredda del tempio di Saillune. La chiara luce del mattino penetrava dalle feritoie laterali e dal rosone centrale posto dietro l'altare. Uno scudo circondato dalle spire di un serpente bianco, sovrastato da una corona dorata e affiancato da due ali candide - lo stemma della casata reale -, era raffigurato su ogni colonna di alabastro.
Il pavimento di marmo chiaro era attraversato da linee curve che un occhio attento avrebbe riconosciuto come la runa sacra a Ceiphied.
Una serie di suoni gutturali e cavernosi, ripetuti con costanza dalle voci profonde dei monaci, risuonava potente tra le pareti vuote, mentre le vestali di Ragadria pregavano Ceiphied offrendo doni sull'altare, presso cui era eretta una statua del dio drago, fatta di oro bianco e zaffiri.
Gli sposi sarebbero entrati dalle porte laterali e, dopo aver attraversato due corridoi affiancati da piccole colonne di granito grigio, si sarebbero incontrati per la prima volta in quel luogo freddo e poco accogliente.
Da settimane non si parlava d'altro che del matrimonio tra Philionel ed Elismarie, lei era scoppiata a ridere alla vista dello sposo e il momento di imbarazzo era stato talmente grande da far svenire il sacerdote. Erano tutti in attesa di un nuovo succulento aneddoto di cui discutere negli anni a venire.
Lina fremeva sul posto.
«Se sento un'altra malignità giuro che faccio saltare tutti in aria» sussurrò a Gourry.
Lo spadaccino annuì, lo sguardo serio e fisso davanti a sé, la mandibola serrata e le mani incrociate in grembo. Lo osservò di sottecchi e si sentì spaesata. Il completo di broccato blu e oro, le calze di seta, il panciotto e le scarpe di raso con tacco, il cappello a tesa larga decorato da piume bianche, una spada leggera appesa al fianco e i capelli biondi raccolti da un nastro di velluto nero: quello non era il Gourry che conosceva, eppure lui era ancora lì, sepolto sotto strati di oggetti costosi.
Lei non era da meno, agghindata come una dama di corte, il lungo vestito color crema, con la gonna ingombrante e il corpetto stretto da farle mancare il respiro. Abbassò gli occhi sulla scollatura, dove una pesante collana di diamanti scintillava catturando la luce dei ceri accesi, la toccò con la mano coperta dal guanto. Quando era accaduto? Quando lei e Gourry avevano smesso di sentirsi dei semplici viaggiatori di passaggio?
Si erano assuefatti al lusso, alle stoffe costose e alle pietre preziose, ai cibi pregiati e ai comodi salotti di corte, ma quella non era la loro vita e mai lo sarebbe stata.
Ci aveva pensato tutte le notti negli ultimi quarantasei giorni e, quel pensiero, che le aveva rosicchiato il cervello, si fece più forte e vivido.
Amelia avrebbe sposato un principe di Elmekia, dunque c'era una remota possibilità che quell'unione avrebbe sancito il ritiro ufficiale della taglia che gravava sulle loro teste.
Si era sentita sporca e meschina a causa del sollievo che quell'idea riusciva a darle ogni volta che le attraversava la mente. Amelia li aveva accolti come fratelli, si era impegnata per far sì che la taglia venisse annullata entro i confini del proprio regno. Non avrebbe potuto abbandonarla al suo destino, privandola di veri amici su cui fare affidamento, ed era certa che Gourry non si sarebbe mai tirato indietro.
Provò il desiderio di correre fuori, all'aperto, dove il sole nasceva all'orizzonte e l'aria era fresca e sapeva di rugiada, ma un cambiamento repentino le fece dimenticare i suoi piani di fuga.
Il tono del mantra divenne più concitato e si sollevò di parecchie note, mentre le vestali, finito il rito delle offerte, si inginocchiarono accanto all'ara con le mani sollevate al cielo e gli occhi chiusi, unendosi alla preghiera dei monaci in un coro di voci angeliche.
La principessa, futura regina di Saillune fece il suo ingresso nel tempio. L'abito bianco di pizzo e chiffon, tempestato di minuscoli diamanti, accompagnato da un lungo e ampio strascico, sembrò risplendere di luce propria. Un velo pesante, dello stesso colore, le celava il viso e le oscurava la vista.
A distanza di pochi minuti anche le porte sulla destra si spalancarono e, finalmente, Jaden della casata Thormond entrò nel tempio e, con passo cadenzato, si avvicinò alla sposa. Si esibì in un profondo inchino e la liberò dalla coltre che sembrava imprigionarla.

*

Stava accadendo, la parola fine stava per essere scritta sulle pagine della sua vita passata.
Lo aveva pensato per tutta la notte, l'ultima da nubile, l'ultima da semplice principessa.
Aveva trascorso l'adolescenza nella speranza che sua sorella maggiore Gracia fosse sopravvissuta e che, con un ingresso trionfale in città, l'avrebbe esonerata dalla carica di regina.
Ormai, però, era troppo tardi per i ripensamenti.
Era un marionetta spinta sul palcoscenico per recitare l'atto conclusivo della sua personale tragedia.
Fece un respiro profondo, mentre le porte della sua stanza venivano spalancate e uno stuolo di cameriere entrava disponendosi su due file ai lati del baldacchino.
Tradizioni antiche quasi quanto il regno stesso a cui non avrebbe potuto sottrarsi prevedevano rituali e gesti ben precisi. Innanzitutto non le era concesso proferir parola, poiché le prime di quel giorno erano destinate alla cerimonia nuziale.
Le cameriere l'aiutarono ad alzarsi e poi la denudarono gettando la vestaglia nel fuoco: gli indumenti da nubile avrebbero fatto tutti la stessa fine.
Davanti al camino acceso l'attendeva una vasca riempita di acqua calda e petali di giglio, simbolo di purezza e castità. Si immerse in quel dolce tepore e provò a liberare la mente mentre quattro mani le strofinavano tutto il corpo. Era credenza diffusa che il profumo di rose rosse risvegliasse l'amore nel cuore delle donne e desiderio in quello degli uomini, perciò dopo il bagno alcune cameriere si prodigarono cospargendola di olio essenziale.
Guardò il cielo fuori dalla vetrata, l'aurora si stava risvegliando, e in quell'istante due piccoli passeri si posarono sul davanzale della finestra per il tempo di un battito di ciglia.
Il viso di Zelgadis, le sue mani che le accarezzavano i capelli, il suono caldo di quella voce tanto amata... i ricordi la investirono come un fiume in piena in cui rischiò di annegare.
Si appoggiò al ripiano della toeletta con entrambe le mani e premette la fronte sulle nocche. Un solo triste singulto le salì in gola ed esplose prima che lei riuscisse a contenerlo.
Tutte le cameriere si allontanarono veloci, in simultanea, ne avvertì i passetti leggeri sul parquet.
Voltò la testa di lato e vide la sua immagine riflessa nel grande specchio posto in fondo alla stanza.
Il primo particolare a risaltare, nella sua drammatica evidenza, fu la pelle bianca e tesa sulle scapole, che si aprivano all'indietro come ali pronte a spiccare il volo. Solo allora si rese conto di indossare nient'altro che delle calze.
«P-principessa Amelia... Sua maestà, è ora» il tocco gentile di una delle domestiche la convinse a mettersi in piedi.
Le squadrò, una ad una, quelle donne semplici e felici di trovarsi lì con lei, di potersi beare dei vestiti e dei gioielli che mai avrebbe sognato di poter indossare.
La invidiavano? La ammiravano? La disprezzavano?
Forse.
Quel che però non avrebbero mai sospettato era che lei le invidiava, perché avevano la libertà di scelta, le ammirava, perché svolgevano le loro mansioni con solerzia e senza patemi e le disprezzava, perché sapeva che nel profondo del loro cuore avrebbero voluto essere al suo posto.
Con passi lenti ed eleganti si diresse al centro della camera, stese le braccia e si preparò ad accogliere l'abito di Elismarie III di Remington, cucito dalle sarte di Kalmaart e portato all'epoca con fierezza dalla regina, nonostante il divieto di possedere oggetti estranei a Saillune.
Elismarie era stata una donna coraggiosa e volitiva, capace di far valere le proprie ragioni persino di fronte a tradizioni così antiche. Lei, invece, era rimasta imbrigliata nei rigidi schemi aristocratici e, la delusione alla scoperta di essere così distante da sua madre, era stato solo l'ultimo di una serie di colpi bassi che il destino aveva deciso di infliggerle.
Quando si era messa in viaggio con Lina si era sentita così simile alle Remington che quasi il petto le era esploso di orgoglio, ma a cosa era servito? La pecorella smarrita era infine tornata all'ovile.
Non si mosse mentre tre domestiche lavoravano svelte alla sua acconciatura, tirando le ciocche corvine all'indietro e intrecciandole in complicate forme sulla nuca. Era come se ogni parte del corpo avesse smesso di funzionare, come se il sangue avesse smesso di fluire nelle vene.
Infine, con altre tre donne corpulente che la reggevano per le braccia e le spalle, indossò le scarpe aiutata da una piccola servetta che non aveva mai visto. La bambina, una volta ultimato il lavoro, le si piantò davanti, la guardò estasiata e un ampio sorriso nacque spontaneo sul viso paffuto.
Era pronta.
Si rimirò allo specchio un'ultima volta, prima che un pesante velo di taffetà le venisse appuntato sulla cima dell'elaborato chignon, dove in seguito avrebbe trovato posto la corona.
Era pronta?
«Sua Altezza, il nostro lavoro è terminato. Resti qui in attesa delle ancelle. Ah, e mi raccomando, si ricordi di non parlare con nessuno, per nessun motivo! Oggi le sue prime parole saranno riservate al principe! Intesi?» Amelia impossibilitata a parlare o a muovere la testa, si limitò ad un gesto della mano con cui congedò tutte le cameriere.
Era sola.
Uno cigolio metallico e il rumore di passi pesanti alle sue spalle. Si voltò indietro ma la vista le era preclusa dal velo.
Era sola?
Dita ruvide e fredde sulle spalle e respiro caldo sul collo, un piccolo bacio venne depositato sulla pelle nuda della schiena. Amelia non reagì, avrebbe riconosciuto quel tocco tra mille.
«Amelia...» mormorò senza staccare la mani dalle sue spalle.
Il cuore le mancò un battito e fu costretta a portarsi una mano al petto per contenere il dolore.
Si era infine deciso a scappare via con lei? Loro due per sempre insieme, fuggiaschi uniti nella vita e fino alla morte. Allungò una mano per toccarlo, ma lui la scansò.
Non poteva parlare, non poteva toccarlo, non poteva vederlo, non poteva piangere... non riusciva a respirare.
«Amelia, perdonami se puoi...»
Come una folata di vento distrugge un castello di carte, così Zelgadis aveva frantumato le sue speranze. Non voleva portarla via da quella stanza, ma abbandonarla per sempre. Sospirò affranta, mentre il dolore al petto la spezzava a metà.
«...e promettimi una cosa, una soltanto, poi uscirò dalla tua vita.»
Quella frase era la pugnalata al petto che stava aspettando, il pensiero sepolto nei recessi della mente che aveva preso forma in poche amare parole.
«Sii forte come una Remington.» sussurrò con fermezza.
Sii forte come una Remington. Sapeva pizzicare le corde giuste del suo cuore, lo aveva sempre fatto, perché loro due, in fondo, erano anime complementari e, a dispetto degli eventi che li avrebbero travolti, nulla avrebbe potuto cambiare quella costante.
Sarebbe stata forte, per sé stessa, per Zelgadis, per suo padre e per i suoi sudditi.
Sarebbe stata forte perché non aveva altra scelta.

Il gelo che la avvolse quando la chimera si allontanò, sparendo per sempre dietro la porta segreta della sua stanza, si diffuse presto fino alle ossa e, per la prima volta in vita sua, si sentì davvero sola.

*

Il sole si era appena affacciato all'orizzonte e la sua luce penetrava dal rosone centrale, spandendosi in raggi colorati all'interno del tempio, quando il velo fu sollevato e lei vide per la prima volta il suo viso. Aveva incontrato molti uomini provenienti da Elmekia per via di missioni diplomatiche, perlopiù anziani tozzi e nerboruti, privi di tatto, le cui mani callose stringevano quelle altrui con forza e superbia. L'uomo – il ragazzo – che invece si trovò davanti non doveva essere più grande di Gourry, era molto più alto di lei e la guardava serio attraverso le lunghe ciglia scure. La sua pelle era chiara, ma baciata dal sole, e i folti capelli castani ricadevano in ciocche disordinate sul viso affilato.
Indossava gli abiti semplici e austeri di Elmekia, fatti di lana e leggero bisso, e un sontuoso mantello di ermellino, foderato di velluto rosso e legato alle spalle attraverso cinture di cuoio incrociate sul petto. Il suo volto era chiuso in un rigido e pacato distacco, ma Amelia temeva che dietro quella maschera si nascondesse il carattere turbolento di cui la famiglia Thormond si era sempre vantata. Il principe Jaden, ignaro dei suoi pensieri, si esibì in un elegante inchino e baciò l'anello a forma di serpente che le circondava tutte le dita della mano destra, poi si rimise in piedi e una vestale unì le loro mani, avvolgendole con una corolla di fiori bianchi.
I monaci smisero allora di recitare il mantra, lasciando il posto al canto angelico delle vestali, la cui melodia si spanse leggera come vento primaverile.
Re Philionel e il consigliere Nirwald si avvicinarono agli sposi poggiando ognuno una mano sulle spalle dei loro rispettivi protetti.
Il sacerdote, un uomo così antico da non avere età, vestito di una semplice tonaca candida e con il volto dipinto da rune azzurre, si avvicinò ai futuri sposi e pose le proprie mani sulle loro.
«Ceiphied, signore del Bene, invochiamo la tua benevolenza.» disse con un tono di voce basso, ma potente, che spezzò il silenzio tombale in cui l'intero tempio era piombato.
«Ceiphied, signore della Luce, davanti al Sacro Altare noi chiediamo la tua benedizione.» prese la corolla e la gettò dentro una piccola fiaccola che una vestale gli porgeva. Non appena i fiori ne toccarono il fondo d'argento, una fiamma rossa come il sangue si sprigionò e, allora, il sacerdote la prese e la diede ad Amelia.
«Chi sei tu?»
«Sono Amelia Wil Remington Tesla, principessa di Saillune, futura regina e protettrice dell'Alleanza.»
«Qual è il tuo desiderio?»
A quelle parole, ebbe un sussulto e sentì la lingua pietrificarsi tra i denti. Voleva davvero la pace per il proprio popolo e se la via per arrivarci passava per quel matrimonio, allora non avrebbe mentito davanti al Dio Drago.
«Desidero sposare il qui presente Jaden Anselet Iordanus IV Thormond, principe di Elmekia.» disse e poi passò la fiaccola a Jaden.
Il sacerdote ripeté le stesse domande, ma il principe rispose con la fermezza di cui lei non era stata capace, senza smettere di guardarla negli occhi.
«Io, Wirtonious, in nome di Ceiphied, dichiaro questa coppia unita nel sacro vincolo coniugale. Possa la vostra unione essere guidata dalla Sacra Luce divina e possa la vostra progenie essere numerosa. Il passato è alle vostre spalle, mentre il futuro splende radioso di fronte a voi.»
Avvertì la mano calda e rassicurante del padre premere leggermente sulla sua spalla e poi lasciarla andare. Lui era lì, ma non ci sarebbe stato per sempre, mentre l'avvenire che l'attendeva era di fronte a sé, in quella maschera di determinazione elmekiana. Si sentì persa mentre il sacerdote le prendeva la mano sinistra e ne marchiava l'anulare con il sacro fuoco, incidendo le iniziali di suo marito. Poche lettere che bruciarono la pelle bianca facendola sanguinare. Lo stesso fece poi con la mano di Jaden e infine entrambi fecero un inchino alla statua di Ceiphied, mentre la corte applaudiva felice.
Era successo, aveva sposato un estraneo.

Il banchetto in onore degli sposi si era protratto fino a sera, tra centinaia di gustose portate e balli al centro della grande sala centrale. Amelia e Jaden era rimasti seduti accanto al trono del re, rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra, per quasi tutto il tempo dopo aver aperto le danze. Non si erano scambiati neppure una parola, in compenso molti si erano avvicinati per congratularsi, ma, mentre Amelia si era sentita in dovere di elargire sorrisi e parole di gratitudine, Jaden era rimasto chiuso nel suo silenzio, limitandosi a pochi e misurati cenni del capo, così che gli sguardi che i cortigiani le rivolgevano si erano fatti via via sempre più compassionevoli.
I giorni di viaggio e tutte le avventure che aveva vissuto sembravano appartenere ad un'altra vita, una vita non sua, come fossero ricordi rubati a qualcuno. Lei e Zelgadis si erano amati davvero o era stato tutto uno splendido sogno? Guardò il dito marchiato per l'ennesima volta mentre Jaden accoglieva altri cortigiani con il volto rigido e serio. Lui era suo marito, il padre dei suoi figli, il re che l'avrebbe accompagnata alla guida del regno, il resto non contava più.
Ormai si era fatto tardi, la corte era sazia e stanca e lei non era da meno, tanto che era ricorsa più volte al recovery per dare riposo alla schiena e alle gambe stanche di tenere la stessa posizione. La stessa cosa aveva dovuto fare il vecchio Nirwald al principe.
Re Philionel si fece largo tra la folla e salì i gradini per sedersi sul trono. Le trombe squillarono per avvertire i sudditi riuniti a corte, ciò significava che la festa era giunta al termine. Amelia guardò il padre e le sembrò all'improvviso più vecchio, più stanco e fragile, diverso dalla figura granitica a cui era abituata. L'alleanza con Elmekia avrebbe dovuto farli sentire al sicuro, eppure lo sguardo a tratti ostile del principe diceva tutt'altro e, forse, non erano mai stati vulnerabili come il quel momento.
Da soli o in coppia i nobili ospiti si misero in fila per salutare con un inchino i reali di Saillune. Li contò come i passi per arrivare al precipizio e, quando l'ultimo cavaliere se ne andò, lasciandoli da soli in quella immensa sala vuota, Amelia sentì il pavimento cedere sotto le suole delle sue deliziose scarpette di seta. Trenta guardie arrivarono per scortarli nei loro alloggi, ma era certa che i dieci energumeni che avrebbero accompagnato Jaden non fossero lì per proteggerlo.

La camera da letto nuziale non aveva una porta principale, ma due laterali che portavano ad altrettante anticamere prive di finestre, dove gli sposi potevano farsi aiutare nell'atto delle svestizione prima di incontrarsi in totale solitudine.
Le ancelle erano state molto più svelte di quanto avesse sperato, ma non abbastanza. Varcata la soglia trovò il principe seduto sulla poltrona di fronte al caminetto acceso, le gambe accavallate e nella mano destra un calice di vino. Era alto e magro, non aveva i movimenti affettati tipici degli aristocratici di corte, né quelli rozzi che si sarebbe aspettata, ma ogni gesto esprimeva la grazia del controllo e dell'equilibrio. Fece roteare il vino nel bicchiere e lo bevve tutto in un lungo sorso.
«Mia signora, perché resti nascosta nell'ombra?» le chiese senza scomporsi.
«Io non ho bisogno di celarmi alla tua vista, non qui, non nel mio castello. Tu, piuttosto, ritieni consono ricevere la tua sposa in tal modo?» si avvicinò al futuro compagno con il portamento regale che teneva durante gli incontri ufficiali: lei era la vera regina e avrebbe rimarcato il concetto finché avesse avuto fiato in corpo.
«Chiedo scusa, mia signora, gli elmekiani non conoscono le buone maniere. O magari il problema è un altro.» disse, la voce roca e gli occhi astiosi. Si sentì sollevata e spaventata al tempo stesso nello scoprire che, dietro quel gelido distacco si celava profonda ostilità. Finse di ignorare l'ultima frase, ma Jaden non aveva ancora finito.
«La mia pelle sarà sicuramente troppo tenera per te, tu sei abituata alla dura roccia» la guardò con la coda dell'occhio continuando a bere. Amelia colpì forte la mano del principe gettando sul tappeto la coppa d'oro e tutto il suo contenuto.
«Sciocco! Come osi fare questo genere di insinuazioni? Siamo sposati, abbiamo giurato di fronte a Ceiphied, queste lettere incise sulle nostre dita significano che dobbiamo mettere da parte il nostro odio!» disse, incapace di contenersi, e si maledì quando lui si alzò per fronteggiarla.
Jaden le afferrò la mano sinistra e ne baciò l'anulare segnato, poi sospirò.
«Io non ti odio, mia signora. L'odio richiede interesse, l'interesse un sentimento, ma la realtà è che mi sei indifferente come lo è il vento che spira fuori dalla finestra. Ciò che provo adesso è amore per la mia terra e nostalgia per la vita che mi ero scelto,» disse slacciando con noncuranza i nastri che le chiudevano la vestaglia «ma, se questo è il mio compito, il mio destino, lo porterò a termine.» la guardò dritto negli occhi sciogliendo l'ultimo nodo.
Amelia ebbe un sussulto quando il tessuto leggero della veste scivolò via dalle spalle, cadendo ai suoi piedi: trovarsi in una strada gremita di persone l'avrebbe fatta sentire meno nuda e indifesa. Jaden la esplorò con indolenza, carezzando e baciando ogni centimetro di pelle chiara, dal collo alle braccia, i seni, e infine si fermò sul ventre, con l'indice tracciò un tre sotto l'ombelico e si inginocchiò per baciare il numero immaginario. Sapeva che quello era solo l'ennesimo rituale superstizioso di fertilità, ma quel gesto la fece sentire marchiata, più di quanto non avesse fatto il sacerdote con il Sacro Fuoco.
«Anch'io avevo deciso il mio percorso, il mio futuro sembrava già scritto, fin quando non ho sentito pronunciare per la prima volta il tuo nome.» disse provando a fermarlo.
Jaden si tolse la camicia e la costrinse a toccare il petto glabro, guidandola fino alle spalle. Amelia avvertì i muscoli tesi sotto la pelle morbida e calda, una sensazione nuova che la fece indietreggiare. Si allontanò di qualche passo e gli diede le spalle per nascondere il rossore, di rabbia e d'imbarazzo, che le stava colorando le guance.
«Che succede?» le chiese con il fiato corto.
«Dobbiamo consumare il prima possibile, per sancire in modo definitivo il matrimonio e l'alleanza.» disse lei con freddezza, restando immobile.
«E allora?»
E allora quel che stavano facendo non aveva niente a che vedere con il dovere! Avrebbe voluto urlarglielo in faccia, magari dopo averlo preso a pugni, perdendo tutta la dignità regale che aveva ostentato per tutto il giorno.
Lo sentì sospirare mentre si sfilava gli ultimi indumenti. Era convinta che l'esperienza con Zelgadis l'avesse resa abbastanza sicura da riuscire a sopportare la presenza di un altro uomo, ma in realtà la paura le serrò le viscere quando Jaden lasciò cadere i pantaloni a terra. Le si avvicinò cauto e Amelia avvertì di nuovo il suo respiro sul collo e fra i capelli.

«So a cosa stai pensando, principessa. Nessuno dei due stanotte avrà ciò che vuole, io una moglie vergine e tu uno sposo di pietra, ma non deve essere per forza un'esperienza degradante.»
Amelia rilassò le spalle e voltò la testa per guardarlo in viso, era rassegnato quasi quanto lo era lei. Lo prese per mano e lo condusse al sontuoso talamo, scostò le pallide lenzuola di seta e vi si stese supina. Jaden si inginocchiò sul materasso di fronte a lei, aprendole le gambe con delicatezza. Amelia allora chiuse gli occhi e appoggiò la guancia sul cuscino, l'unico pensiero ad occuparle la mente era quel numero che lui le aveva tracciato sulla pancia: se avesse funzionato non avrebbe dovuto ripetere più quell'esperienza per almeno un anno. Zelgadis e tutti i ricordi a lui legati, invece, non avevano alcun nesso con quel che stava per accadere, nessun gesto meccanico ripetuto all'infinito avrebbe mai potuto sostituire i momenti che avevano passato insieme, nessuna gioia sarebbe stata tanto grande da riempirle il cuore con la medesima intensità.
«Ti prego girati, sembra che tu stia per ricevere un fendente mortale» le disse e, senza darle il tempo di reagire, l'afferrò per i fianchi mettendola in posizione prona.
Era giunto infine il momento, Amelia serrò di nuovo le palpebre stringendo le lenzuola tra le mani, ma non versò una lacrima come aveva promesso a se stessa. Come aveva promesso tacitamente a Zelgadis.
Jaden fu svelto e allo stesso tempo gentile, quando ebbe finito non disse nulla, concedendole lo spazio di cui aveva bisogno. Dai rumori lei intuì che avesse ripreso posto sulla poltrona davanti al fuoco.

Avrebbe voluto restare raggomitolata sotto le coperte per il resto dei propri giorni, ma poi si ricordò di un importante problema da risolvere prima che fosse troppo tardi.
Scattò seduta e d'istinto guardò le lenzuola: immacolate. Gli unici a conoscere la verità erano suo padre, l'imperatore, Jaden e il consigliere Nirwald. Purtroppo, però, la Prova Purpurea sarebbe stata esposta a tutta la corte e al seguito del principe a conferma dell'
atto, ma cosa avrebbero esposto se non c'era nulla da esporre?
Rinunciò all'idea di agire da sola senza consultare il principe, prima avrebbero iniziato a collaborare meglio sarebbe stato per entrambi.
«Principe?» disse incerta, schiarendosi la voce. Non lo aveva ancora chiamato per nome e, nonostante il triste amplesso, o meglio, proprio per il triste amplesso non sapeva fino a che punto fossero diventati intimi. Per quanto fosse possibile in un solo giorno.
«Stai bene?» chiese lui ignorando lo strano appellativo e indossando la camicia.
«Sì, certo» rispose con fierezza, a testa alta nonostante lui non potesse vederla.
«Domattina la corte vorrà vedere la...»
«Ah, già! Quasi dimenticavo la prova purpurea» disse estraendo qualcosa dalla tasca dei pantaloni abbandonati sul pavimento.
Quando vide luccicare una lama affilata, Amelia si preparò a lanciare una fireball distruttiva come solo quelle di Lina potevano essere, mentre nel frattempo Jaden sedeva sul letto accanto a lei.
«Basteranno poche gocce e la faccenda sarà risolta» disse rigirando il pugnale fra le mani con maestria.
«Fai da sola o vuoi che ci pensi io?»
Amelia non rispose ma afferrò il coltello, pronta a lacerarsi il palmo della mano sinistra.
«Ferma! Che diamine ti salta in mente?! Ho detto poche gocce e vanno fatte cadere nel punto giusto!» sbuffò riappropriandosi dell'arma «Dammi la mano.»
Esitò per qualche momento, mentre lui la osservava impaziente e allo stesso tempo incurante del fatto che fosse ancora nuda, poi gli porse la mano e lui praticò un minuscolo foro sulla punta dell'indice badando a far gocciolare il sangue al centro del letto.
«Bene, è abbastanza, fai una delle tue magie.»
«Tu non...»
«Sono un uomo d'azione, preferisco il rumore del metallo allo sfrigolio di qualche incantesimo attira-demoni»
«Gli incantesimi non attirano i demoni» disse perplessa mentre rimarginava la piccola ferita.
«Non tutti, certo. Gran parte di essi li evocano e questo non porta mai a niente di buono, dovresti saperlo ormai.»
Dietro quella frase, dietro lo sguardo penetrante che le rivolse, si nascondevano molti sottintesi, tutti riguardanti le sue avventure con Lina, un argomento che presto avrebbero dovuto affrontare.
«Da come ne parli sembra che tu sia in grado di praticare la magia»
«Esatto, ma non ho mai voluto imparare nemmeno quelle più semplici» si stiracchiò lasciandosi poi cadere sul materasso, la mani dietro la testa e le gambe penzoloni. Era come se si fosse liberato da un grosso peso e, forse, era proprio ciò che era accaduto.
«Quel che dici non ha senso, un recovery in battaglia può salvare la vita a te o ai tuoi compagni»
«Io la vedo così: esiste un disegno per ognuno di noi, se arriverà il momento di morire non voglio ricorrere a innaturali stratagemmi per evitare che il mio destino si compia.» la guardò attraverso le folte ciglia scure.
«So che ti sembreranno sciocchezze dette da un elmekiano superstizioso, ma non ci troveremmo qui in questo momento se qualcuno non avesse abusato della magia, se avesse lasciato agire il fato.»
«Già, saremmo sepolti sotto molti metri di terra e macerie.» si alzò stizzita ma lui la trattenne per il lenzuolo che aveva avvolto intorno al corpo.
«Come puoi dirlo?» di nuovo quello sguardo, di nuovo quegli occhi neri come la pece che cercavano risposte.
«Io c'ero e se non fosse stato per quell'abuso di magia, come ti piace chiamarlo, non esisterebbero più regni o imperi da proteggere, solo morte e caos.» Jaden serrò le labbra e non rispose.
«Se è vero che arriverà la guerra da est, la magia è l'unico vantaggio che abbiamo.»
«Oppure la nostra rovina.» disse lapidario lasciandola andare.
Il loro tempo era quasi scaduto, presto sarebbero arrivate le ancelle a prelevare la famigerata Prova, così entrambi si ritirarono nelle loro anticamere.
Proprio mentre varcava la soglia Amelia sentì svanire il senso di oppressione che aveva gravato per giorni sul suo petto. Aveva navigato nelle torbide acque dell'incertezza, era giunta finalmente a riva.

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