La Fine della Seconda Guerra Elfica di Hi Fis (/viewuser.php?uid=83902)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Consiglio di Guerra ***
Capitolo 2: *** Scudo di Drago ***
Capitolo 3: *** Alinor ***
Capitolo 4: *** La Caduta ***
Capitolo 5: *** Bormath ***
Capitolo 6: *** Jyggalag ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Consiglio di Guerra ***
La storia che vi apprestate a leggere ha come Dovahkiin
un Argoniano: se pensate che un uomo lucertola non sia degno di essere
un mezzo drago, allora questa storia non fa per voi. Altrimenti, spero
che vi piaccia abbastanza da lasciare una recensione :).
Piuttosto che raccontare anni di battaglie campali contro i Thalmor, ho
preferito sviluppare questa storia concentrandomi sulla fine del
conflitto, usando questo primo capitolo per dare un'idea della
situazione a Tamriel dopo gli avvenimenti di Skyrim, cercando
ovviamente di attenermi il più possibile al lore. Detto questo, vi
auguro buona lettura.
"È... strano mio amato:
come se si fosse aperta
una spaccatura nel mio petto. Proprio qui, dove dovrebbe esserci il mio
cuore,
c'è invece un buco nero, freddo e vuoto."
"Rahgol."confermò
il Dovahkiin, con una
quieta voce.
Noi
evacuammo.
Memorie
di una Guardia Nera- Autore Anonimo.
C'è una città,
nascosta nelle linee
della pietra sotto le sue mani. E un castello dalle alte mura, a
custodire
solenne la città sotto di esso, illuminata da un pigro sole, velato
appena da
una curva del granito. Se chiude appena gli
occhi, gli
sembra perfino di scorgerne i campi, vicino ad una dolce collina...
Costretto a
confrontarsi con
l'inevitabile, senza vie di scampo, sua maestà imperiale principe
Attrebus II
Mede, ha un solo modo per fuggire dalla paura: astrarsi e fantasticare,
in una
caratteristica connaturata a tutti i membri della sua famiglia. Il
Principe
appare sereno agli astanti, ma solo perché gli è stato insegnato dal
suo primo
maestro di scherma, quando ancora era un giovane ragazzo, che la stirpe
imperiale dovrebbe sempre accogliere la propria morte con grazia: come
una
pietra in cui è inevitabile inciampare. Attrebus sa però, che
nonostante il suo
apparente contegno la grazia non sarà mai lontana dal suo spirito come
in quel
momento.
Una piccola mano
femminile si
sovrappose alla sua, infrangendo la sua fantasticheria di città
nascoste nella
pietra. Una mano che Attrebus conosce meglio della propria: la mano di
Silandra,
sua moglie.
Come aveva potuto
fallire in quel
modo al suo dovere più importante? Cosa ne sarebbe stato di Silandra,
che per
amore di Attrebus aveva indossato i colori imperiali, nonostante fosse
una
Blacksap e una boiche, una degli elfi
dei boschi? Era così impotente l'amore di un imperatore? Era davvero
solo
questo l'uomo che aveva invocato il Rito del Furto dei Bosmer per
poterle
donare il proprio cuore? Ma cosa avrebbe potuto
fare per
rimediare al suo fallimento, lui, ultimo discendente della linea
imperiale, ma
in fondo solo un uomo mortale?
Come aveva potuto
permettere che
accadesse?
Furono gli occhi di
Silandra che lo
costrinsero a reagire alla disperazione: di fronte a quelle iridi
castane e
dolci come il legno, Attrebus non poté almeno non provare a reagire.
Con una
lieve carezza, il principe scostò il ciuffo ribelle dalla fronte di sua
moglie,
di quei capelli tra il corallo e il miele che profumavano ancora dei
fiori
della sua patria: il loro era un matrimonio d'amore, piuttosto che di
convenienza politica; un dono raro per un imperatore, specie in quei
loro tempi
tumultuosi. Con un sospiro, Attrebus si costrinse al presente, alla
tenda che,
compreso lui stesso, ospitava cinque uomini e cinque donne.
Capi popolo, re,
imperatori, legati e
principi: ognuno dei presenti possedeva almeno uno di questi titoli.
Insieme,
loro rappresentavano la totalità delle genti schierate contro il nemico
comune,
i Thalmor, l'arrogante e tirannico ordine di elfi alti che aveva
tramato per
assoggettare tutte le genti sotto il loro dominio, per poi distruggere
ogni
cosa.
C'era rispetto tra
loro dieci,
nonostante le enormi differenze, e in alcuni casi perfino amicizia ed
amore, ma
raramente tutti loro concordavano su qualcosa allo stesso tempo:
Attrebus
credeva che quella fosse una fortuna, altrimenti la Seconda Grande
Guerra Elfica
sarebbe finita troppo presto. Quel conflitto, che durava da quasi dieci
anni,
era stato un rimedio ai vecchi rancori, messi da parte di fronte ad un
nemico
insidioso ed astuto: solo quella guerra li aveva riuniti, per la prima
volta da
troppo tempo, lenendo gli errori della loro storia passata.
Nonostante il terrore
strisciante che
tutti i presenti provano in quel momento, il fatto che non si
accusassero a
vicenda fu per l'imperatore prova di quanto salda e vera fosse la loro
alleanza:
"Cosa credi che
farà?"
chiese quietamente Attrebus alla donna rettile al suo fianco: Nascondi
Artigli
fece ticchettare le unghie sulla pietra mentre ponderava la sua
risposta
all'imperatore degli uomini.
Figlia del re di
Argonia, terza in
linea di successione al trono della radice, Nascondi Artigli era una Saxhleel, un'Argoniana dalle scaglie brune
come l'autunno e dagli occhi d'oro, alta e longilinea. Era una Sarpa, una razza degli Argoniani
contraddistinta da lunghi lembi di pelle tra i polsi e la vita, che le
permetteva
di planare nel vento: nella Palude Nera quelle "ali"
erano state il modo più nobile per spostarsi di ramo in
ramo, ma qui, nelle isole di Summerset, la patria ancestrale degli elfi
alti, erano
diventate solo un intralcio che Nascondi Artigli celava quasi sempre
sotto una
semplice stola di fine tessuto. Come Attrebus, anche l'Argoniana era
molto
giovane, ma al contrario dell'imperatore, Nascondi Artigli guidava con
sicurezza le armate con cui era emersa dalla sua palude natia: possenti
guerrieri
Naga, illusori Saxhleel, spie ed
assassini fedeli solamente a lei, che per la
prima volta erano usciti dalla Palude Nera e si erano mostrati ad
uomini ed
elfi.
Attrebus e Nascondi
Artigli erano
stati i primi membri di quel consiglio di guerra e avevano condiviso in
quegli
anni così tanto che non solo Attrebus non era più stupito dai bracciali
d'argento che Nascondi Artigli portava anche sulla lunga coda, o dal
suo semplice
gusto nel vestire, ma la familiarità tra loro era tale da aver fatto
cadere in
disuso persino il protocollo: niente più maestà imperiale e
principessa, o la
verbosa sequela di titoli. Si comprendevano intimante ormai, come fanno
gli
amici, e ad Attrebus sarebbe mancata la sua testardaggine, quando e se
Nascondi
Artigli fosse tornata alla sua patria: quel luogo venefico e
inesplorabile da
chiunque non fosse Argoniano.
"Dopo dieci anni,
questo errore
ancora si persevera...." rispose Nascondi Artigli.
Il suono della sua
voce, con la
pronuncia sibilante che non accennava a scomparire nemmeno dopo dieci
anni,
assomigliava alla sabbia che scorre sulle rocce: roca e lievemente
metallica.
"...Conosce forse il
pesce i
pensieri dell'aquila? Che cosa sa il ragno della linfa dell'albero? Il
Sangue
di Drago ed io possiamo assomigliare nella forma, ma la nostra sostanza
differisce come quella di ragno ed aquila."
"E tuttavia, tra noi
sei quella
ad essergli più vicina..." disse Silandra: non c'era amicizia tra la
consorte imperiale e la principessa scagliosa. Ognuna considerava
l'altra un
male necessario, anche se per ragioni quasi opposte.
"Su questo c'è da
dissentire,
imperatrice. Tutto ciò che mi è noto, è già stato condiviso con questo
consiglio.
Non è mai stata mia la chiave per dischiudere la natura del Sangue di
Drago, ma
solo per la restituzione dei territori della Palude Nera ai Saxhleel..."
Una concessione di
poco conto in
fondo per Attrebus: in cambio delle truppe sotto il comando di Nascondi
Artigli,
i territori conquistati dalla dinastia imperiale e le città costruite
ai
margini della Palude Nera ai tempi di Tiber Septim erano passati in
mano agli
Argoniani, con la promessa però di mantenere aperti i commerci con
l'impero
degli uomini.
"Questa Khajiit pensa
che se
fosse al posto del Sangue di Drago probabilmente mozzerebbe i nostri
arti,
aprirebbe i nostri ventri e ci lascerebbe ad una tortuosa morte..."
interloquì
Dra'Khaj Krin con una risata dall'altra parte del tavolo: Dra'Khaj
Krin, letteralmente
Ghigno del Deserto nella lingua
Khajiit.
"... ma questa
Khajiit teme che lui
abbia molta più fantasia di così." concluse con gli occhi verdi ridotti
a
due fessure.
Ribelle, terrorista
ed eroina, Dra'Khaj
Krin aveva fra tutti i presenti il passato più colorito e disonorevole,
ma come
leader di Ahzirr Traajijazeri, Coloro che
prendono giustamente con la forza, era stata un incubo per i
Thalmor anche
durante il periodo in cui Elsweyr, terra natale dei Khajiit, si era
trovata
sotto il dominio straniero.
Grazie all'inganno,
nell'anno 115
della Quarta Era i Thalmor si erano assicurati il dominio su Elsweyr,
terra di
deserti e foreste: in segreto, con un potente incantesimo avevano
nascosto le due
lune ai Khajiit. Per il popolo degli uomini gatto, che vedono nei cicli
delle
lune la sopravvivenza della loro razza, quella era stata una perdita
intollerabile, tanto da spingerli a sottomettersi ai Thalmor pur di
riavere
Masser e Secunda nel loro cielo. Per quasi un secolo, grazie a quel
falso manto
di salvatori e protettori, i Thalmor si erano assicurati la fedeltà dei
Khajiit,
fino a quando il Dovahkiin non aveva
svelato l'inganno, nascondendo il sole di Elsweyr per un giorno e dando
inizio
ufficialmente alla Seconda Grande Guerra Elfica: da quel momento,
Fusozay Var
Dar, Uccidere senza scrupoli, era
stata l'unica legge a cui i Khajiit si erano attenuti verso i Thalmor.
Personificazione di
quel desiderio di
vendetta collettivo, e rappresentante dei Khajiit in quel consiglio di
guerra,
era una Dage, una Khajiit degli
alberi, che in piedi non sarebbe arrivata all'anca di nesuno di loro,
tanto era
piccola di statura. Per di più, Dra'Khaj Krin non poteva nemmeno
alzarsi in
piedi, perché costretta dal suo ruolo e dalle usanze del suo popolo a
portare i
ciuffi di pelliccia di tutti i suoi seguaci annodati alla sua.
Tuttavia, quel
goffo insieme di pelo intrecciato, che le impediva perfino di muoversi
liberamente e richiedeva cinque uomini robusti per venire spostato,
nascondeva
appena la magia della Khajiit: c'erano più sortilegi distruttivi tra i
piccoli
artigli di Dra'Khaj Krin che in un intera città di elfi alti e anche se
i suoi
metodi erano stati disgustosi in più di un'occasione e quello stesso
consiglio
di guerra stentava a frenare il suo desiderio di vendetta, i suoi
risultati contro
i Thalmor erano stati tali da rendere impensabile cacciarla da quel
tavolo.
"La vostra sagacia è
inopportuna
in questo momento di crisi, signora dei Khajiit. O è forse con questa
vostra
sagacia che vorreste sfuggire al nostro fallimento?"
Fu Tibdan Morvain
della casa di
Redoran a parlare questa volta: un Dunmer, un elfo scuro di Morrowind.
Tibdan
era il più anziano tra tutti loro e probabilmente il più anziano di
molti
altri: pochi, perfino fra gli elfi, raggiungevano la sua veneranda età,
che non
gli aveva solo reso i capelli bianchi come la neve, ma gli aveva
persino
scolorito la pelle color cenere e gli occhi color sangue della sua
gente. Tibdan
era vecchio, oltre la definizione
stessa del termine, ed era sopravvissuto a molte altre guerre e
leggende:
Attrebus non era mai riuscito a capire cosa pensasse davvero
quell'elfo, che
manteneva un contegno riservato e rispettoso in qualunque circostanza,
preferendo il noioso, ma necessario compito di amministrare e gestire
la loro molteplice
armata piuttosto che le battaglie sul campo. Sembrava impossibile
conciliare
questa persona posata, ma severa, ai pettegolezzi che lo tacciavano di
essere
uno dei più grandi praticanti viventi della negromanzia e della
manipolazione
degli spiriti dell'Oblivion, nonostante a Morrowind simili pratiche
fossero
state proibite da molte ere.
"Questa Khajiit pensa
rispettosamente
che anche il nobile Redoran stia facendo lo stesso, mascherandosi
dietro alla
sue rughe..." rispose Dra'Khaj Krin facendo le fusa: "...Ma non siete
altrettanto abile."
Se lasciati a loro
stessi, Attrebus
sapeva che quei due avrebbero potuto cominciare una schermaglia in
piena
regola, dove, pur mantenendo un tono fermo e ossequioso, sarebbero
volati tali
insulti e minacce velate da farlo invecchiare precocemente: non c'era
amicizia
ne stima tra Dra'Khaj Krin e Tibdan.
"Cough... Cough...
Cough... Temo
che stiate dimenticando qualcosa..." li interruppe Idgrod la Giovane,
tra
un colpo di tosse e l'altro: il clima delle isole di Summerset non le
aveva
giovato affatto.
Figlia di Idgrod
Ravencrone, regina
delle regine di Skyrim, Idgrod la Giovane era una donna del Nord, ma
piuttosto
lontana dalle turbolenti e passionali personalità tipiche dei suoi
compatrioti:
donna nel fiore degli anni, Idgrod possedeva una calma saggezza
superiore alla
sua età e un animo compassionevole, uniti ad un'intuizione ed una
chiarezza di
pensiero che tutti i presenti avevano imparato a rispettare. Idgrod era
inoltre
una veggente, dote che aveva preso dalla madre ormai troppo anziana per
partecipare a qualunque guerra, e le sue profezie, spontanee ed
incontrollabili,
li avevano salvati e guidati più di una volta in quegli anni.
I guerrieri del suo
seguito, uomini e
donne che avevano seguito Idgrod in quella terra da Skyrim per sete di
battaglia e gloria, la consideravano la loro sciamana, un titolo che la
donna del
Nord aveva fatto suo con un sorriso, e anche se il clima di Summerset
aveva
indebolito il suo naturale vigore, non c'era scontro a cui la
principessa di
Skyrim non partecipasse con il suo fidato arco.
"... vi state tutti
preoccupando
della sua reazione. Ma io temo cento volte di più la madre." concluse
Idgrod con un ultimo colpo di tosse.
"Per le sabbie...
temo tu abbia
appena raddoppiato il peso dei miei anni, principessa del Nord."
gemette Azhri
Shaddam dall'altra parte del tavolo, stropicciandosi la barba bianca ed
esternando ad alta voce ciò che tutti i presenti avevano appena
realizzato.
Hel Ansei Azhri
Shaddam era la
dimostrazione che non è la propria fede personale ad essere davvero
importante
a Tamriel: ciò che importa è la divinità che si sceglie di seguire. Per
quanto
infatti il vecchio sacerdote Yokudan dalla pelle ormai cotta dal sole
indossasse solo abiti che si era fabbricato da solo, osservasse il
digiuno
settimanale assieme ai suoi guerrieri di Hammerfell e pregasse sempre
almeno tre
volte al giorno, Azhri Shaddam era a capo dell'ordine religioso devoto
al culto
di Raymon Ebonarm, Dio della guerra e compagno di tutti i guerrieri.
Hel Ansei,
Santo della Spada, era il titolo che gli era stato dato in patria per
onorarlo:
Azhri era infatti uno degli ultimi veri canta spada del suo popolo,
un'antica
arte degli Yokudan creduta persa nel succedersi delle ere. Grazie ad
essa,
Azhri Shaddam, e quelli come lui, potevano cantare all'esistenza una
spada a
partire dalla propria anima: queste lame, chiamate Shehai,
non erano comuni strumenti di morte, poiché essendo forgiate
dall'anima del guerriero che la impugnava, permettevano di superare i
limiti
del proprio corpo, dando un vigore sproporzionato a colui che riusciva
a
brandirla. Per questo, pur essendo già venerabilmente anziano per un
uomo, era
attorno ad Azhri che le famiglie nobili di Hammerfell si erano strette
durante
la loro resistenza contro i Thalmor, quando il predecessore di
Attrebus, Titus
II Mede, aveva accettato il Concordato Oro Bianco alla fine della Prima
Grande
Guerra Elfica, abbandonando al loro destino coloro che come Azhri
Shaddam non
avevano voluto piegarsi.
"Perché tremi
vecchio? Tra tutti
noi, sei quello che ha più speranze di sopravvivere." brontolò Gortwog
gro-Urdag, Orsimer delle montagne, con la sua voce bassa e cupa.
Capo di un popolo
senza patria,
Gortwog era l'unico fra loro ad indossare armi ed armature, che
sosteneva di non
togliersi nemmeno per giacère con una delle sue mogli: le sue due asce
di
oricalco gli pendevano dalla cintura, assieme al suo elmo, unica
concessione al
protocollo imperiale. Anche per un orco, Gortwog era brutto: quattro
zanne gli
sbucavano dalla labbra, e la sua pelle verdastra era butterata di
cicatrici e scorie
della fucina. Tuttavia, non c'era arma del loro esercito che prima o
poi non
fosse passata sotto le mani esperte degli Orsimer di Gortwog: solo gli
orchi infatti
sapevano riparare armi, armature e macchine d'assedio così velocemente.
Attrebus stesso aveva
dovuto imparare
che se c'era da chiudere una breccia o aprirne una nuova durante un
assedio,
era agli Orsimer che doveva rivolgersi: da sempre inoltre, la prima
linea
dell'esercito imperiale era costituita da orchi berserker, anche se in
questa
guerra, con troppi fronti aperti nello stesso tempo, barbari di Skyrim,
guerrieri di Hammerfell e Naga li
avevano affiancati con gioia.
Questo però non
significava che
Gortwog fosse fedele in modo particolare ad Attrebus o quel consiglio
di guerra:
come l'Orsimer gli aveva spiegato con i suoi modi spicci, schierarsi
contro i
Thalmor era l'unico modo per garantire la sopravvivenza della sua
gente, ormai
sparsa in piccole enclavi in tutta Tamriel: gli orchi erano un popolo
di paria e
difficilmente venivano accettati al di fuori delle loro roccaforti.
Attrebus sperava
però, che una volta
finita quella guerra la situazione potesse cambiare: era già stato
emanato un
editto che garantiva l'indipendenza alle enclavi di orchi più grandi e
l'esenzione delle tasse per le roccaforti che si reggevano da più di un
secolo
in un dato territorio. Gortwog non aveva mai commentato quelle
decisioni
dell'imperatore, ma dietro i suoi occhi color palude, la sua mente
brillante doveva
certamente approvare: altrimenti, non avrebbe mai passato così tanto
tempo ad
ascoltare e discutere senza mulinare le sue asce.
"L'adulazione non ti
si addice,
capo Gortwog: anche gli Ansei temono i draghi. Come abbiamo già
discusso in
passato, non è abbandonando il valore della propria vita che si ottiene
la
vittoria."
"Bah... questo giorno
non è
diverso dagli altri: siamo in guerra e morire fa parte delle certezze
di ogni
nostro giorno. Sarà solo molto più glorioso di quanto avessi
immaginato." rispose
l'orco.
"Solo su questo mi
sento di concordare."
ribatté Azhri con un lieve sorriso, quasi invisibile dietro la sua
barba color
delle nuvole.
"...Cielo, a volte mi
sembra di
avere a che fare con dei ragazzi alla loro prima battaglia." si lamentò
Gondard Vandergroet, con la sua voce stranamente acuta.
Vandergroet era un
Bretone grassoccio
e basso, che preferiva sempre indossare fluenti vesti da mago:
nonostante la
sua pelata incipiente e il suo doppio mento rendessero facile
sottovalutarlo,
Gondard non era in quel consiglio solo a causa della sua carica. Per
quanto
legato personale della regina di Wayrest infatti, egli era stato
all'inizio della
guerra solo uno dei tanti ambasciatori inviati dalle città- stato di
High Rock,
patria ancestrale dei Bretoni, mezz'elfi con una forte propensione per
la magia
e l'avventura. In pochissimo tempo, Vandergroet si era assicurato la
superiorità su tutti i suoi connazionali e non solo manteneva il posto
a quel
tavolo da quasi otto anni, nonostante più di un attentato alla sua vita
da
parte dei suoi stessi sottoposti ansiosi di conquistarne il prestigio,
ma in
quel consiglio la sua abilità di fare le domande più scomode era
preziosa, per
quanto forse non apprezzata a dovere.
Perfino Attrebus
rispettava Vandergroet
e in parte lo temeva perfino: aveva sempre ritenuto labile la fedeltà
di
quell'ometto strano e pieno di contraddizioni, ma esperto conoscitore
della
natura di uomini ed elfi. L'imperatore si era fatto l'idea che
l'ambasciatore
non amasse quella guerra e ne auspicasse una fine rapida e decisiva, ma
qualcosa
continuava a sfuggirgli, perché il taumaturgo ed alchimista Bretone
sembrava
sempre perseguire strani obbiettivi politici, paralleli, ma raramente
coincidenti, a quelli del loro consiglio di guerra.
"...Miei signori, ha
ancora
senso dibattere di cosa potrebbero fare il Sangue di Drago e la sua
consorte?
Non è forse molto più importante pensare a cosa potremmo fare noi,
membri di
questo consiglio?"
"Cosa proponi,
ambasciatore Vandergroet?"
chiese Nascondi Artigli.
"Dire di cominciare
arrestando
la guardia personale del Sangue di Drago..."
Il rumore del pugno
che si abbatté
sul tavolo lo zittì, mentre tutti loro si voltarono verso l'ultimo
taciturno membro
di quel Consiglio:
"Stai forse
suggerendo di
completare il nostro tradimento?" chiese una voce molto fioca.
La domanda era stata
posta senza
alcuna inflessione particolare, ma non fu un caso se Gortwog si scostò
da
Vandergroet: se Shasara si fosse avventata sull'ometto, nessuno voleva
mettersi
fra loro.
La nobile Shasara,
che aveva
rinunciato al suo cognome, era un'elfa alta, dalla pelle d'oro e dai
capelli
del colore dell'argento che le ricadevano morbidi sulla schiena: nella
sua
gioventù, Shasara era stata una delle grandi artisti del suo tempo, una
poetessa,
una scultrice e una pittrice. Ma poiché si era pronunciata in pubblico
contro
il regime dei Thalmor, ai tempi in rapida ascesa, per cento cinquanta
anni, le
decadi della sua prima giovinezza, era stata chiusa nel buio in catene,
lasciata
a marcire nelle sadiche mani dei peggiori carcerieri Altmer; e questo
nonostante lei fosse l'unica figlia vivente di sua eccellenza lord
Naarifiin, cancelliere
supremo dei Thalmor. Per un secolo e mezzo, suo padre aveva condannato
Shasara al
buio e alla miseria, fino a quando, durante la prima offensiva nelle
Isole di
Summerset, le truppe guidate dal Dovahkiin
avevano espugnato il castello
dove era stata dimenticata.
Ormai una donna tra
gli elfi, Shasara
aveva finalmente rivisto il sole.
In quel buio passato
in catene, l'elfa
aveva perduto la sua arte, trovando però qualcosa d'altro: una furia
più fredda
dell'inverno a cui attingeva senza pietà. Sfigurata dai decenni di
tortura,
Shasara si era fatta tatuare un drago sul volto, come pegno di fedeltà
verso
l'unica persona che sapesse calmare il suo animo. Shasara, la regina
d'inverno,
come era chiamata da alcuni, che dopo la sua liberazione aveva radunato
tutti i
dissidenti e i ribelli che ancora esistevano tra gli Altmer: non erano
molti,
per lo più bande di patrioti male armati che ricorrevano alla
guerriglia per
opporsi ai Thalmor, ma poiché anche il più infimo degli elfi alti è uno
stregone assai abile, erano una forza da non sottovalutare e la loro
conoscenza
del territorio delle isole di Summerset era stata senza prezzo per
Attrebus e
le forze imperiali.
L'unico occhio color
del tramonto di
Shasara era fisso su Vandergroet ora, in attesa della sua risposta:
Gondard
dovette deglutire prima di poter rispondere, ma quando lo fece, la sua
voce era
ferma:
"Io sono pronto a
fare molte
cose, nobile Shasara. Sì, sono pronto ad essere disprezzato e accusato
di
tradimento, perfino. Quello che però non sono pronto a fare è
rinunciare alle
responsabilità verso i nostri subordinati. Cosa succederà a questo
esercito se
dovesse perdere le sue dieci teste in una volta? Che ne sarà degli
uomini che
ci hanno seguito fino a qui?"
"Sei un codardo,
ambasciatore
Vandergroet?" sibilò Nascondi Artigli.
"Mi considero un uomo
pragmatico,
principessa. Credete forse che questa armata possa sopravvivere se la
sua furia
e quella delle sue guardie fossa scatenata? Abbiamo attirato sulle nostre
teste una
tempesta, ma non resterò inerme ad aspettare che il fulmine ci
colpisca..."
"Tu sottovaluti la
sua guardia, ambasciatore
Vandergroet. E ti dimostri ingrato. L'hai dimenticato? Le Guardie Nere
non
vincono le guerre, ma ne cambiano le sorti. Ci siamo affidati alla loro
forza
per anni... chi fra i nostri generali ubbidirebbe ad un simile ordine?"
"Mio signore, le
vostre Blade
potrebbero..." protestò Vandergroet.
"Per quanto l'intero
ordine
delle mie guardie personali non desideri altro che mettersi alla prova
contro
le Guardie Nere fin dal giorno in cui il Sangue di Drago le istituì, la
fedeltà
che l'ordine delle Blade mi tributa non è abbastanza da garantire la
loro
vittoria."
"Siete caduto anche
voi nel
misticismo dunque?"
"Attento Gondard..."
lo
ammonì Silandra.
"Perdonatemi mia
signora,
ma..."
"Deve essere
difficile per un
uomo come voi comprendere certe cose ambasciatore, dato quanto i vostri
compiti
vi costringano nelle retrovie..." lo interruppe quietamente Tibdan,
sorprendendoli tutti. "Ma posso assicurarvi che le storie che si
raccontano sulle Guardie Nere sono tutte vere."
"Sciocchezze."
Tibdan fece il più
piccolo dei
sorrisi, incrociando le dita sotto il mento:
"Non ho bisogno di
vederle
all'opera, per convincermene..."
"Vi facevo più
saggio... elfo." disse con Gondard con
un'espressione di disgusto sul viso.
"Ora basta
Vandergroet!" Sbraitò
l'imperatore: "Comprendo che la paura possa attanagliare anche il
vostro
spirito, ma state superando il limite: se non siete in grado di
controllare il
vostro animo, andatevene." Attrebus era forse giovane e più inesperto
di
altri, ma non era membro del consiglio solo per rappresentanza:
raramente aveva
però dovuto imporsi così violentemente su uno di loro. Sembrò che
Vandergroet
fosse stato schiaffeggiato: Attrebus sapeva che avrebbe pagato quel suo
eccesso, ma doveva assolutamente impedire alla paura del Bretone di
diffondersi.
"...Principessa
Idgrod, possiamo
forse contare su una vostra visione per mostrarci la via?" chiese
l'imperatore, prima che Vandergroet ritrovasse la parola.
"Temo di no: come
sapete vostra
maestà imperiale, esse mi vengono dai nove Dei, non posso evocarle a
mio
piacimento. E mi duole ammettere... cough cough cough... che non sono
sicura di
volere una visione in questo momento, quando la nostra situazione
appare così
disperata. Se la nostra sorte è certa, qual è il senso del cercare una
visione
profetica?"
"Allora mi resta una
sola cosa
da fare."
"Attrebus..." lo
implorò
sua moglie, aggrappandosi alla sua veste.
"L'ambasciatore
Vandergroet ha
ragione, Silandra. Dobbiamo impedire al fulmine di colpirci. Mi
assumerò la
responsabilità di questo fallimento e chiederò perdono personalmente al
Sangue
di Drago. Come recipiente del patto tra questo consiglio e lui, è
giusto che
sia solo io a ricevere la colpa."
"Molto coraggioso,
mio
signore... ma temo che non potrò permettervi di farlo da solo." disse
Azhri.
"Hel Ansei..."
"Sono davvero
desolato mio
signore, ma permette che mi spieghi. Al contrario dell'ambasciatore
Vandergroet
qui, non ho vergogna ad ammettere la mia paura: sono troppo vecchio per
cose
del genere. Ma se vi lasciassi diventare il solo bersaglio della furia
del
Sangue di Drago, se vi lasciassi diventare il nostro capro espiatorio,
allora sarei
anche un codardo. E il Drago non ama i codardi."
"Concordo con Hel
Ansei...
" disse Tibdan: "La nostra più certa via di scampo è accettare uniti
la responsabilità del fallimento. I membri di questo consiglio hanno
condiviso
la propria sorte per un tempo breve, ma sarebbe un errore separarsi
ora."
"E se anche si
scegliesse la
fuga, non esiste luogo dove un Drago non possa arrivare." sibilò
Nascondi
Artigli.
Attrebus non poté
protestare una
seconda volta, perché Idgrod lo interruppe ancor prima che pronunciasse
una
sillaba:
"Mio Imperatore...
cough cough,
vi prego: non ci ordinate di infangare il nostro onore scegliendo di
abbandonarvi in questo momento. Piuttosto che presentarmi a mia madre
con una
simile vergogna sulle spalle, preferirei... cough cough cough... senza
dubbio
la morte."
"E se davvero è
venuto il nostro
momento di cadere, marito, allora non c'è altro luogo in cui vorrei
essere."
"Vaba
Maaszi Lhajiito." miagolò Dra'Khaj Krin: "È bene
fuggire quando è necessario. Ma se non c'è luogo in cui andare, allora
questa
Khajiit attaccherà: puoi nasconderti dietro di lei, Vandergroet."
"...Temo, signora dei
Khajiit,
che il riparo che potreste offrirmi non sia abbastanza ampio." rispose
il
Bretone, passandosi una mano sul ventre sporgente.
"Significa forse che
non
intendete più fuggire?"
"Significa, mia
signora, che mi
riservo il diritto a provarci mentre il Sangue di Drago calerà su di
voi."
"Bah...dovreste
imparare ad
essere come noi Orsimer: meno attaccati alle cose mondane. Come la
vita."
interloquì Gortwog.
La risata di Dra'Khaj
Krin li stupì
tutti:
"Questa Khajiit pensa
che
avresti potuto essere un Khajiit interessante, Gortwog."
"Per la barba di
Malacath,
assolutamente no! Ho visto come vi pulite voi gatti. Disgustoso."
Per la prima volta in
quel consesso, anche
Tibdan rise: un lieve rumore secco, che l'elfo si affrettò a celare
dietro un
colpo di tosse.
Suo malgrado, anche
l'imperatore si
scoprì a sorridere: erano alle soglie del loro annientamento, ma
sembrava l'avrebbero
affrontato assieme. Attrebus ringraziò mentalmente gli Dei per questo.
"È nel momento in cui
la spada
sta per trafiggerti il cuore che il cielo sembra più azzurro." recitò
Azhri con un una luce divertita negli occhi.
"...Eloquentemente
posto, santo
del deserto." sibilò Nascondi Artigli.
Shasara invece serrò
i denti
corrugando la fronte e il drago tatuato sul suo viso sembrò chiudere le
ali:
"Voi tutti parlate
con falsa
speranza. Cercate di trovare un appiglio per non affogare nel nostro
fallimento. Di farvi coraggio, pregando sul fondo delle vostre anime
che possa
fare la differenza. Un'illusione simile non è degna di noi..." disse
con
una voce piena di rabbia e di sofferenza. I sorrisi si spensero sui
volti di
tutti mentre Shasara parlava, cercando di staccare al meglio le parole,
nonostante gli sfregi che le erano stati inferti.
"Noi non siamo
bambini che hanno
smarrito un pugno di monete che non ci appartenevano... avevamo un
compito. Un impegno
semplice e chiaro, che avevamo giurato tutti di mantenere, nel bene e
nel male.
Credete che le nostre patetiche scuse possano restituire ciò che i
Thalmor gli
hanno preso? Credete che le nostre vite possano valere qualcosa, ora?
Capite
molto poco il Dovahkiin."
Shasara stava
tremando ora,
visibilmente:
"Io maledico
la nostra debolezza. Mi ha dato tutto. Luce e vita: avrei
voluto morire prima di deluderlo. Qualunque punizione possa cadere su
di noi,
qualunque disgrazia... non sarà abbastanza."
E detto questo,
Shasara iniziò a
piangere: nemmeno il suo corpo sfregiato dalle torture e la sua anima
indurita
dal buio potevano arginare il suo rimorso. Nessuno dei presenti osò
provare a
consolarla: avrebbe loro strappato le ossa dal corpo e tuttavia, tutti
i loro
volti si fecero gravi come il suo e assieme attesero, in rispettoso
silenzio,
che succedesse qualcosa. Un ruggito o un pinnacolo di fuoco, un
messaggero
spaventato con notizie di morte: qualcosa,
che sapevano, doveva arrivare.
***
Quando accadde, non
fu un Urlo, ma
una voce umana, rassegnata ed imbarazzata. Erano solo quattordici le
persone in
tutta la loro armata che potessero interrompere una sessione di quel
consiglio
di guerra, ma Attrebus non fu stupito da chi entrò nella tenda: era
così ovvio
in fondo.
"Miei Signori...."
disse
l'uomo del Nord dopo essersi prostrato di fronte a loro: "Il capitano
delle
Guardie Nere chiede di voi." riferì senza incontrare i loro sguardi.
Il generale Hadvar
veniva da Skyrim,
e vestiva i colori della Legione Imperiale fin da prima della
ribellione di
Ulfric Manto della Tempesta. Non era il più abile dei condottieri su
cui Attrebus
potesse contare, ma Hadvar il Fortunato aveva quel soprannome per una
sua dote
unica: anche quando costretto a ritirarsi di fronte alle truppe
nemiche,
riusciva sempre a strappare un beneficio dalle sue sconfitte. Un
talento
davvero peculiare, a cui doveva probabilmente parte della sua scalata
nei
ranghi dell'esercito, oltre ad aver combattuto a Skyrim assieme al
Sangue di
Drago.
Dall'ultima volta che
Attrebus
l'aveva visto, l'aspetto del suo generale fortunato era cambiato
radicalmente: sembrava
fosse stato picchiato selvaggiamente e la sua divisa era ammaccata ed
infangata.
Lo stesso Hadvar riusciva a stento a reggersi in piedi, favorendo il
lato
destro del corpo.
"Che cosa vi è
successo,
Hadvar?"
L'uomo del Nord fece
uno stretto
sorriso dolorante, a mala pena visibile sotto il labbro spaccato e
insanguinato.
"Per il capitano
Scudo di Drago
mancavo di solerzia nell'obbedire ai suoi ordini..."
"E da quando i
capitani danno
ordini ai generali?" chiese severo Vandergroet.
Il generale del Nord
sembrò farsi un
po' più pallido mentre fissava l'ambasciatore Bretone:
"Credevo lo sapeste
mio signore:
un membro infuriato delle Guardie Nere può dare ordini anche agli
Dei..."
Angolo dell'autore:
Volendo essere del tutto sinceri, avevo questa storia in mente da
diverso tempo, e Tabula Rasa e Le Tre Spade sono state il mio tentativo
di metterla da parte: è un pezzo che desidero raccontare la sconfitta
del regime Thalmor, ma per
mancanza di tempo non sono mai riuscito a farlo prima. Spero che questa
storia vi piaccia, ed ogni recensione sarà ben accetta.
Al prossimo capitolo. |
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Capitolo 2 *** Scudo di Drago ***
"Quando ti è stato
consegnato perché tu lo
introducessi alla scherma, non ricordo fosse così... pesto." osservò
pacatamente il Dovahkiin.
"Ho
dovuto insistere con lui, mio Thane. Era, ed
è, ancora troppo goffo." rispose Scudo di Drago.
"Mhh...
Devo ammettere conte, che lo zelo dei
vostri è... encomiabile." commentò la Reggente Imperiale.
Biografia
di sua maestà imperiale Attrebus II Mede
Guardie Nere.
Le truppe personali
del Sangue di
Drago, scelti da lui personalmente tra migliaia di volontari. Uomini e
donne di
ogni razza, plasmati da un eroe leggendario a sua immagine e
somiglianza grazie
ad un addestramento del corpo e della mente in cui l'unico fallimento
concesso è
la morte. Ognuno di essi racchiuso in armature incantate di nero
acciaio daedrico,
l'infrangibile lega dell'Oblivion, per rendere invincibile ciò che è
stato addestrato
ad essere inarrestabile.
I membri delle
Guardie Nere erano idolatrati
dalle truppe regolari e per buone ragioni: dove la battaglia contro
l'esercito
dei Thalmor infuriava più disperata, dove perfino la speranza sembrava
destinata a soccombere, le guardie nere avanzavano sotto il loro
vessillo, il
cerchio formato da tre draghi che si mordevano la coda.
"Una fortezza può
rallentare una
Guardia Nera, ma mai fermarla", era la frase più comune che i veterani
dell'esercito imperiale usavano per spiegare alle nuove reclute chi
fossero
quelle truppe che combattevano al loro fianco, ma senza mescolare mai i
ranghi.
"Datemi mille soldati
vostra
maestà. Oppure chiedete al Sangue di Drago dieci guardie nere."
imploravano i generali di Attrebus prima di ogni battaglia difficile.
Fanaticamente devoti
al Dovahkiin, le Guardie Nere non
prendevano ordini che da lui, al punto che l'imperatore stesso le aveva
sciolte
dal protocollo: nessuna guardia nera si sarebbe mai dovuta inchinare di
fronte
a lui o a chiunque altro non fosse il Sangue di Drago. Un grande onore
quello, senza
dubbio, ma allo stesso tempo poca cosa, una piccola prova di
gratitudine per
truppe che avevano sempre e solo vinto contro i Thalmor.
Come spesso accade,
in quei dieci
anni di guerra le dicerie sulle Guardie Nere si erano moltiplicate
assieme ai
loro successi, unendo all'ammirazione dei soldati la paura: si diceva
che ci
fossero anche creature nelle loro file, vampiri e lupi mannari, e forse
persino
di peggio. C'erano storie di terrore su di loro, raccontate attorno al
fuoco
dei campi, mormorate a bassa voce da una gola all'altra e che
sembravano vivere
di vita propria ormai, crescendo e ingigantendosi sempre più: alcune
era persino
vere.
"Le Guardie Nere
hanno ordinato
alla città di Skywatch di aprire le porte. Gli elfi alti non solo hanno
ubbidito, ma chiesto perdono di non poter fornire una migliore
accoglienza."
Il loro numero
variava, a seconda di
quanto fosse stata difficile la loro vittoria precedente, ma non aveva
mai superato
le ottanta unità e questo per la tranquillità stessa del consiglio di
guerra e
di Attrebus: se le Guardie Nere fossero state di più, si temeva
avrebbero potuto
prendere il controllo dell'esercito.
La loro
organizzazione prevedeva la
spartizione in tre compagnie, ognuna retta da un comandante: così come
essere
membro delle Guardie Nere significava diventare un eroe per le truppe
regolari,
così essere comandante fra loro significava reclamare come propria la
fama di un
signore della guerra delle antiche leggende. Significava veder cambiare
la
propria armatura dal nero acciaio daedrico alle bianche ossa e alle
scaglie dei
draghi, ed essere investito dal Dovahkiin
di nuovi poteri: ad ognuno dei suoi tre comandanti infatti, il Sangue
di Drago aveva
donato tre Urli, due per dare battaglia e uno per chiamare il proprio Dovah.
Non era per caso che
l'emblema delle
Guardie Nere fossero tre draghi intrecciati: Alkrahod, Freddo
Distruttore di
Neve, Duyolzii, Fuoco Divoratore di
Spiriti, e Infaasdok, Maestro Segugio di Paura, erano i loro nomi,
unici che
prestassero le loro ali ad altri che non fosse il Dovahkiin.
Essere comandante
delle Guardie Nere
significava insomma avere il proprio nome noto in tutta Tamriel: Beor
Spezza
Inverno, comandante del Nord, che brandiva in battaglia uno spadone
fatto di
Stahlrim, il ghiaccio acciaio. Taros, comandante dell'Est, che sapeva
dividere
gli schieramenti nemici con un solo affondo della sua lancia daedrica e
Do'Zahana,
comandante del Sud, imbattuta con le sue due corte spade di ossa di
drago
imbevute di magia elementale...
Si raccontava sempre
delle Guardie
Nere fra le fila dell'esercito schierato al loro fianco e questo perché
non
c'erano nemici da odiare fra quelle dei Thalmor: gli elfi alti non
combattevano
spada contro spada o magia contro magia, ma usavano invece la loro
conoscenza
dell'Oblivion, il piano d'ombre al di là della realtà, per trarre da
esso e
schiavizzare un numero apparentemente illimitato di creature, su cui le
perdite
non avevano significato. Quei mostri e demoni, forgiati dal buio e dal
fuoco, erano
tutti sacrificabili perché sconfitti essi non morivano, ma ritornavano
semplicemente all'Oblivion da cui erano stati tratti: grazie a questo,
i
Thalmor raggiungevano coi crudi numeri ciò che mancava all'abilità dei
loro
comandanti, riuscendo a rallentare e a fermare l'avanzata degli
eserciti
schierati contro di loro.
Fare guerra ai
Thalmor poteva
apparire inutile a volte, arroccati com'erano all'interno di mura
costruite con
bianca pietra di luna, stregata affinché fosse immune ad ogni
sortilegio; ma
fino a quando le brecce nell'Oblivion aperte in ogni loro città non
fossero
state tutte chiuse, la Seconda Guerra Elfica non avrebbe mai avuto
fine: era una
guerra di trincea quella, fatta di rischi calcolati e di sacrifici
dolorosamente
necessari.
Per questo i semplici
soldati delle
Legioni dovevano avere qualcosa che li sostenesse dopo i giorni di
massacro,
dopo aver lottato contro le armate dell'Oblivion e aver respirato i
suoi
terribili incubi: per questo, per sostenersi, loro si raccontavano
delle
Guardie Nere, che affrontavano le schiere senza nome delle creature
dell'Oblivion e i loro padroni senza mostrare paura. Si raccontavano
dei loro
tre comandanti, che da nord, sud ed est facevano guerra all'ovest
assieme ai
loro draghi, e si raccontavano anche della donna sospesa tra il mondano
dei
mortali e il cielo del Dovahkiin:
Lydia Scudo di Drago, la prima ad aver giurato fedeltà al suo signore
quando era
giunto a Skyrim da prigioniero, e che lo seguiva ancora oggi come
capitano
della sua guardia personale, la sua fedeltà incrollabile.
***
"Imperatore. C'è
mancato poco
che io aspettassi." disse Lydia ad Attrebus, dopo che Hadvar scostò per
lei il lembo della tenda del consiglio di guerra.
Gli anni passati al
fianco del Sangue
di Drago, che Lydia ancora chiamava testardamente "mio thane",
avevano cambiato poco il suo aspetto: la donna del Nord, pallida e
volitiva,
portava ancora i capelli neri lunghi fino alle spalle, acconciati in
una
sottile treccia sulla tempia sinistra. L'unico vero cambiamento nel suo
aspetto
dai tempi di Skyrim riguardava la sua corazza: non più nera e scarlatta
come
l'acciaio dell'Oblivion o bianca come le ossa dei draghi, ma di un
perfetto e
uniforme grigio lucido, quasi come fosse fumo vetrificato; una lega
inventata
dal Sangue di Drago in persona e che solo Lydia indossava all'infuori
della
famiglia del suo signore.
Da sotto il suo elmo
a testa di lupo,
fu con occhi atroci che l'huscarlo del Sangue di Drago fissò i capi, i
re, le
principesse e gli ambasciatori nella tenda: Attrebus dovette abbassare
lo
sguardo, mentre gli altri dignitari gravitavano verso di lui, lasciando
libero
il lato del tavolo di fronte a Lydia.
"Che nessuno ci
interrompa." ordinò la donna al generale del Nord, che fu più che lieto
di
obbedire e dileguarsi dal suo cospetto, rimanendo come sentinella al di
fuori
della tenda: solo quattordici persone in tutto il loro esercito
potevano
interrompere una sessione di quel consiglio di guerra, ma nessuno aveva
il
coraggio per fare lo stesso col capitano delle Guardie Nere.
Quando il lembo
ricadde dietro
Hadvar, imprigionandoli con Lydia nello spazio ristretto della tenda,
nemmeno
Tibdan sapeva cosa sarebbe successo loro, ma se c'era qualcosa che
aveva
imparato nella sua lunga vita, era la pazienza e la cautela:
soprattutto quest'ultima.
Meglio che non fossero loro a parlare per primi.
Nemmeno il capitano
delle Guardie
Nere aveva fretta, e lasciò scorrere per qualche istante ancora i suoi
occhi sulle
dieci teste dell'armata. Poi sorrise: un sorriso tutto denti, di una
finzione
che era raccapricciante da osservare; uno di quei sorrisi che si vedono
anche
chiudendo gli occhi.
"Vi porto liete
notizie..."
disse Lydia: "Liete notizie invero."
Gli sguardi di tutti,
compreso quello
di Attrebus, si concentrarono sull'ambasciatore Vandergroet: in quel
momento,
solo quell'ometto probabilmente avrebbe saputo scegliere le parole
giuste.
Anche il Bretone doveva saperlo e i suoi occhi acquosi saettarono sui
volti
degli altri otto attorno alla tavola, ricevendo il loro muto consenso:
il volto
sfigurato della nobile Shasara era invece fisso sul mento di Lydia,
poiché
l'elfa non riusciva a guardarla negli occhi.
"...Vi prego allora,
riferitecele, capitano della Guardia Nera del Sangue di Drago." disse
Gondard, con la sua voce stranamente acuta.
Se possibile il
sorriso di Lydia si
fece ancora più largo, diventando isterico e folle.
"Con piacere...
annuncio con
gioia ai membri di questo consiglio che la Seconda Guerra Elfica è
giunta al
termine. Che squillino le trombe e si proclami la fine delle ostilità,
perché
questo conflitto è finalmente finito. Una lunga guerra sanguinosa, ma
quale
vittoria infine."
Il silenzio dei
presenti accolse
quella notizia.
"Perché quelle
espressioni? Si
porti il vino per Talos! Il vino e le libagioni. Si faccia festa!"
ripeté
Lydia allargando le braccia.
"Temo... temiamo..."
ripeté
Gondard, umettandosi le labbra: "Temiamo di non capire, capitano."
Lydia incurvò appena
la testa di
lato, mentre il suo sorriso diventava appena un po' più piccolo:
"Che cosa c'è da
capire,
ambasciatore?"
"Come può essere
finita questa
Guerra, Guardia Nera? Come può essere, quando rimangono ancora ai
Thalmor tre inespugnabili
città e tutto l'ovest di Summerset..." cominciò Gortwog.
"Due città." lo
interruppe
Lydia con furia. "Sono solo due le città che restano ai Thalmor. E si
arrenderanno prima dell'alba di domani."
"...Quindi lei è
viva?" chiese
Shasara con un filo di voce.
L'elfa aveva capito,
ma non poté
spiegare che cosa avesse compreso: perché quando Lydia calò il pugno
sulla
lastra di granito del tavolo, la pietra impossibilmente si incrinò come
colpita
da un martello da guerra.
Lo scricchiolio delle
sue ossa
accompagnò il gesto del capitano delle Guardie Nere, mentre apriva e
chiudeva
la mano, per scrollarsi dalla corazza la polvere e le schegge di
pietra:
"Non di certo grazie
a voi,
sciocchi inetti." sussurrò Lydia.
"...Grazie agli dei.
Grazie agli
dei!" ripeté Idgrod portandosi le mani alla bocca per coprire il suo
ennesimo colpo di tosse: l'insulto di Lydia era poca cosa di fronte al
sollievo
che quella notizia aveva portato loro.
"Capitano, come...
come potete
esserne sicura?" gemette Gondard.
"Non lo sono. Il mio
thane lo è,
e ciò mi basta: lei si trova ad Alinor." gli occhi di Lydia fissarono
il
Bretone con un tale immenso disgusto, che l'ambasciatore dovette fare
un breve
gesto propiziatorio per scongiurare un'eventuale maledizione.
"Ha senso. Una simile
prigioniera viva... potrebbe cambiare le sorti di questa guerra. Ma
perché dite
che questo conflitto è giunto al termine allora?"
"Mentre parliamo, il
mio thane e
sua moglie, e il loro figlio maggiore, cavalcano il vento a dorso di
drago, per
riprendere ciò che voi avete permesso gli venisse tolto: la loro unica
figlia e
sorella. Kaan."
E quando Lydia
pronunciò il nome
della figlia del Dovahkiin, la tenda
tremò attorno a loro per quel nome in lingua dei Draghi: Kaan, che era
il nome
con cui i draghi chiamavano la dea del cielo, colei che li accoglieva
nel suo
dominio quando spiegavano le ali, e che gli uomini chiamavano invece
Kynareth,
madre guerriera e signora della tempesta.
"...E il mio thane
punirà coloro
che hanno osato toglierla dalle loro braccia. Dal cielo pioverà su di
loro fuoco
e le loro strade si tramuteranno in rivi di sangue. E quando i Thalmor
vedranno
il prezzo della loro arroganza, non ne resterà uno solo con abbastanza
coraggio
da continuare questo conflitto. Questa guerra è finita." ripeté Lydia.
"Il Sangue di
Drago... il vostro
signore, può davvero far cadere da solo Alinor?"
"Non da solo: non mi
avete forse
sentito Azhri? Il mio thane ha espugnato una città già una volta,
guardata da
creature ben più terribili di quelle evocate dai meschini Thalmor. Ma
con sua
moglie e suo figlio al fianco? Potrebbero espugnare il cielo."
"Dite il vero?"
chiese
Attrebus.
"Perché credete che
abbia
reclamato per sé Skuldafn e i territori circostanti, una volta finita
questa
guerra?"
"...Skuldafn?" grugnì
Gortwog.
"Un'antica rovina di
Skyrim,
risalente al dominio dei Draghi, ere fa. Un luogo che perfino noi Nord
credevamo solo una leggenda, perduto e irraggiungibile come lo sono i
sogni...
fino a quando il Sangue di Drago non vi arrivò sulle ali del nobile
Odahviing,
il grande drago rosso." mormorò Idgrod e Lydia assentì lievemente.
"E il luogo in cui
sorgerà la
sua città: la promessa che ci lega come Guardie Nere. O credete che il
mio thane
abbia davvero bisogno di qualcuno che lo protegga?"
"Sciocchezze!"
sbraitò
Vandergroet: "Storie per intimorire i Thalmor! Mistificazioni! Nessuno
sotto
questo cielo può espugnare una città da solo!"
"Siete davvero così
sciocco,
ambasciatore?" sibilò Scudo di Drago: "La vostra gratitudine è così
misera da non lasciare spazio al dubbio? Diteglielo Attrebus!" ordinò
poi
Lydia all'imperatore: "Diteglielo, o lo farò io."
"...Marito?"
"Oh Scudo di Drago...
sarebbe
stato più pietoso uccidermi." sospirò Attrebus.
"Non mi sento
particolarmente
misericordiosa quest'oggi, principe."
"... Che cosa si
intende con
questo, Attrebus?" chiese Nascondi Artigli.
L'imperatore sostenne
per un attimo
lo sguardo di Lydia, prima di parlare e confessarsi:
"...Sono in pochi a
saperlo, ma
prima di salire al trono dei miei predecessori, ho passato parte della
mia
infanzia in segreto, anonimamente. Il palazzo di Cyrodill è la dimora
che sono
stato chiamato ad occupare, dopo che l'antico consiglio mi ha designato
successore al trono: probabilmente perché a differenza degli altri
possibili
candidati ero più degno, o semplicemente ancora vivo..."
Era stata la morte
violenta di Titus
II Mede a permettere alla fine l'ascesa di Attrebus al trono, ma non
prima che
quell'assassinio scatenasse a Cyrodill complotti e congiure per il
diritto alla
successione, che si erano esauriti solo quando Alexia Vici, zia del
precedente
imperatore, era salita al trono in qualità di reggente temporanea per
qualche
anno, facilitando la transizione nel periodo in cui cominciavano le
preparazioni per la guerra contro i Thalmor.
"...Il luogo che, per
un certo tempo,
ho chiamato casa si trova a Skyrim: una villa, celata nei boschi vicino
al lago
Illinata. Una villa il cui signore è lo stesso del capitano delle
Guardie Nere..."
"Imperatore, il
Sangue di Drago
vi ha cresciuto?" chiese Tibdan aggrottando la fronte.
"Ed educato. E
nutrito. Per quasi
un anno, invero i mesi più gioiosi della mia infanzia, ho chiamato
amico il suo
figlio maggiore..." la frase seguente, Attrebus la disse rivolgendosi
all'ambasciatore Vandergroet:
"...Non posso
immaginare la
vastità dei suoi poteri e della sua furia, ma se c'è qualcuno capace di
espugnare una città da solo, quello è lui."
"Avete visto
Attrebus?" sibilò
Nascondi Artigli: "Non in questo pesce risiedeva la chiave per
dischiudere
il Sangue di Drago. È stata in voi per tutto questo tempo, voi che come
lui
portate il drago come vessillo."
"C'è una differenza
amica mia. Sì,
noi imperatori degli uomini ci orniamo del drago come vessillo, ma è
solo un
ornamento. Lui, invece, lo è."
"Questa Khajiit si
chiede perché
l'imperatore degli uomini lo abbia tenuto nascosto..."
"Non siate... cough
cough...
ottusa, signora dei Khajiit. Il Sangue di Drago è già un mostro sacro
per tutti
noi, senza offesa Scudo di Drago..."
"Nessuna offesa."
rispose
Lydia.
"...Se la notizia che
è stato il
Sangue di Drago ad educare il nostro imperatore si diffondesse, quanti
sospetti
verrebbero seminati. Quanta paura, di fronte all'influenza che
possiede: si
direbbe che il trono imperiale è già suo. Che è lui a dare ordini
all'impero
degli uomini. E qualcuno desideroso di compiacerlo potrebbe tentare
di... fare
posto alla sua ascesa." Lo sguardo obliquo di Idgrod verso Attrebus fu
più
rivelatorio delle sue parole: "Mentre altri potrebbero tentare di
opporsi
a lui con mezzi che lo costringerebbero a reagire con violenza. Un
inutile
spreco di altre vite."
"Principessa del
Nord, ogni
decisione che ho preso da quando sono salito al trono è stata fatta
indipendentemente dal Sangue di Drago." disse Attrebus piccato.
"Ma certo, vostra
maestà, non
era mia intenzione offendervi... cough... cough. Ma se anche non fosse
vero, probabilmente
avreste detto la stessa cosa..."
L'imperatore degli
uomini scosse la
testa tristemente:
"Se davvero avessi
seguito per
tutto questo tempo i suoi ordini, forse avremmo avuto meno perdite nei
nostri
ranghi."
"...Sembra siate
diventato un
poco più saggio dalla vostra ultima lezione, Attrebus." disse Lydia,
facendo arrossire l'imperatore, che ripose:
"Dopo tutti questi
anni...
ancora non riesco a giudicare quanta influenza il tuo signore abbia
sulla mia
vita."
L'huscarlo guardò per
un attimo Silandra,
prima di tornare a fissare il principe:
"Chissà? Vivrete per
sempre con
questo dubbio: ma io non credo che il mio thane vi abbia protetto ed
educato perché
foste un suo strumento. Perché altrimenti accontentarsi di diventare
conte,
quando avrebbe potuto essere re lui stesso? Allo stesso modo, avrebbe
potuto sedere
nell'antico consiglio se solo avesse desiderato, e tuttavia non ha
voluto
nemmeno quello."
La possibilità che
Attrebus facesse
parte di un piano futuro del Sangue di Drago non venne nominata, ma
rimase sospesa
sopra le loro teste: perché ineffabile era il Dovahkiin, carne mortale
animata
da spirito di drago.
"Ma allora... " disse
Vandergroet afferrandosi il mento: "...se il Sangue di Drago ha davvero
sempre avuto questo potere... perché non usarlo prima?"
L'imperatore sospirò,
chiudendo gli
occhi e rammentando una lezione della sua giovinezza a proposito del
buon
governo:
"Un potere
eccessivo..."
citò Attrebus a memoria: "O un eccessivo impiego di esso, genera
solamente
resistenza e ribellioni e spargimenti di sangue: desiderando troppo, e
troppo
in fretta, inevitabilmente si perderà tutto a causa della propria
avidità. Solo
la forza necessaria, mai di più: ed è questo equilibrio a definire il
governare..."
L'imperatore scosse
la testa, ricordando
quei giorni: "Questo mi è stato insegnato dal Sangue di Drago ed è un
insegnamento che permane in me e sento come vero."
"...Un guerriero ed
un filosofo.
Un santo per i suoi alleati ed un incubo per i suoi nemici: quale
peculiare
dicotomia il Sangue di Drago. Simile alle altre leggende del passato,
ma
diverso al punto che solo il Nerevarine e l'Eroe di Kvatch possono
essere accostati
a lui. Così terribile... e tuttavia, così grande." ponderò Tibdan.
Fu il turno di
Shasara di parlare a
quel punto, e di rivelare ciò che aveva intuito dopo essere stata
liberata dal
buio e dalle catene, anni prima: lo sussurrò solamente, aprendo e
chiudendo i
palmi mentre lo diceva, ma venne udita da tutti.
"...Per tutto questo
tempo,
questi anni di guerra, il Sangue di Drago ha sigillato se stesso:
perché questa
era una guerra tra nazioni, non tra leggende. Una guerra tra esseri
mortali e
come tale egli l'ha combattuta: un generale fedele ed abile. Per
salvare il
nostro onore ed il suo, per non alimentare la paura verso la nostra
alleanza,
cresciuta così tanto in questi anni, egli si è imposto dei limiti e
delle
regole ferree: non ha mai usato la Voce dei Draghi in questa guerra, ma
solo la
forza del suo braccio e del suo spirito. Ha istituito le Guardie Nere
perché
facessero coi numeri quello che lui non desiderava più fare... e tutti
questi
sforzi, questo impegno... sprecati dalla nostra inettitudine." Shasara
scosse la testa prima di continuare: "...Non più come mortale giungerà
agli elfi, ma come drago di tempesta, come un fuoco del cielo. Che i
nove dei
abbiano pietà di Alinor e dei suoi abitanti, perché di certo non ne
troveranno
in lui."
"Ed è per questo che
prima di
partire il mio thane ha sciolto le Guardie Nere." confermò Lydia
assentendo
col capo.
"Che cosa
ha fatto?"
"È così. Poiché
questa guerra è già
finita e noi abbiamo esaurito il nostro compito, Attrebus: le Guardie
Nere non
hanno più ragione di esistere."
"Che cosa sarà di
voi?"
chiese Azhri.
"Se temete una
ribellione, posso
assicurarvi che fino a quando indosserò quest'armatura, essa non
avverrà. Per
dieci anni abbiamo combattuto e affrontato gli incubi dell'Oblivion,
sorretti
dalla fede e da un sogno. È tempo che le Guardie Nere tornino alla casa
che ci
è stata promessa: prenderemo il mare, ed assieme al mio thane,
torneremo ad est."
"...E che succederà a
noi?"
chiese Idgrod.
"Non sono io la
veggente di
questo consesso. Noi Guardie Nere non ci siamo mai aspettati molto da
questo
consiglio, ma perdere sua figlia... è troppo, persino per voi. Credo
che il mio
thane lascerà alla storia il compito di ricordarvi come coloro che
hanno
permesso ai Thalmor di ferirlo."
"Io pretendo una
maggiore
condanna per la colpa di cui ci siamo macchiati oggi..." implorò
Shesara,
ma Lydia la zittì con un gesto.
"...Come ho detto,
non mi sento
particolarmente misericordiosa oggi, Shesara. Vivrai con questo colpa
per
sempre, e vivere è la condanna che impongo a tutti voi. Ma se davvero
vuoi
redimerti elfa, vieni con noi all'est: Skyrim ha il suo modo di mettere
alla
prova gli animi e scavare la vera natura di una persona."
"Venire all'Est?"
"Non obbligarmi a
ripetere
ancora, Altmer. La nostra nave partirà con la marea e non un momento
più tardi:
saprò cosa avrai deciso quando spiegheremo le vele."
"...Quale nave,
capitano? Le Guardie
Nere non hanno un vascello."
"Quella che abbiamo
requisito al
vostro esercito, ovviamente. O preferireste che noi restassimo a
Summerset,
principe?"
Attrebus scosse la
testa abbastanza
velocemente da apparire ridicolo.
"E dunque addio."
disse
semplicemente Lydia, dando loro le spalle.
"Un momento solo,
capitano."
la chiamò la Dage: "Questa
Khajiit pensa che, poiché il corpo delle Guardie Nere è stato sciolto,
ci
dobbiate un inchino."
Lydia si fermò sulla
soglia, con il
lembo della tenda già in mano, ma non si sprecò a voltarsi: girando
appena la
testa e guardando la Khajiit da sopra la spalla, sibilò:
"Precisamente."
Forse fu solo uno
scherzo della luce,
ma in quel momento gli occhi di Lydia sembrarono diventare come quelli
di un
lupo.
Senza degnarli di uno
sguardo di più,
la donna del Nord se li lasciò alle spalle, prostrati dal supplizio a
cui erano
sopravvissuti: perché stare in presenza dei compagni del Sangue di
Drago era
sempre come fronteggiare una tempesta.
"E così viviamo un
altro giorno...
che noia!" offrì la Dage a mo'
di spiegazione, cominciando a leccarsi gli artigli: Il ghigno del
deserto
doveva tenere fede al suo nome, anche quando le sue mani tremavano come
foglie.
"...Se fossi una orsimer, ti prenderei in moglie qui e
ora, gatta."
"Questa Khajiit
accetterebbe con
gioia." rispose Dra'Khaj Krin: il verso di disgusto di Tibdan si perse
assieme alla risata di Idgrod.
Angolo
dell'Autore:
Durante la stesura di questa storia, mi sono trovato spesso a
consultare il lore di elder scroll, sia per cercare di attenermici il
più possibile, sia per curiosità e ispirazione.
Spero che le mie idee e teorie sulla composizione degli schieramenti di
Altmer e l'Allenza, possa piacervi: sappiamo da alcune testimonianze
durante la crisi dell'Oblivion, che gli Altmer sono abituati a
schiavizzare le creature che evocano e usarle come forza lavoro e su
questo ho basato molte delle mie idee sul loro esercito (ci saranno più
informazioni nel prossimo capitolo, cmq).
Passando ad altro: Lydia! xD Dopo molto tempo, mi sono reso conto che o
la si ama o la si odia, non ci sono vie di mezzo con lei. Ammetto che non è il mio seguace preferito, ma bisogna riconoscere
che la fedeltà di Lydia è davvero incrollabile: non importa dove si
vada, cosa si combatta o chi tu sia come Sangue Di Drago, lei stringerà
le spalle, si caricherà la schiena e ripeterà sempre: "Ho giurato di
condividere le tue pene."
Credo si debba rispettare una simile abnegazione e decisione. Lydia si
merita di condurre le Guardie Nere. |
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Capitolo 3 *** Alinor ***
"In ogni guerra, fra tutti
i soldati schierati
tra le fila dell'esercito nemico, ce ne sarà sempre almeno uno che deve
essere
salvato ad ogni costo: trovalo!"
Due Code
- Sul Mestiere della Guerra.
L'odore nella stanza
è inconfondibile:
piscio e ferro, paura e sangue. Il rumore di stivali sul pavimento di
pietra
riecheggia nello spazio ristretto, cavernoso:
"Come sai Ennevio, ho
comandante
l'assedio della città imperiale durante la prima guerra elfica,
conquistandola
per quasi un anno..."
Da decenni, ben prima
che la seconda
guerra elfica cominciasse, Lord Naarifin, cancelliere supremo dei
Thalmor,
aveva iniziato a nascondere il suo volto dietro uno specchio di quarzo:
una
maschera di liscio cristallo iridescente, che nessuno fra i suoi poteva
dire di
avergli mai visto togliere. Era un artefatto che lo copriva
dall'attaccatura
dei capelli, del colore dell'argento, fino al mento e si fondeva
armoniosamente
coi tratti del suo viso, al punto che chiunque avesse cercato lo
sguardo del lord
cancelliere dei Thalmor, si sarebbe trovato a fissasse il proprio
riflesso. A
parte quella maschera peculiare, solo una semplice e sottile
gorgiera di bianco lino sottolineava la
sua nobiltà e il suo grado, perché alle vistose uniformi di corte, Lord
Naarifin
preferiva le più semplici vesti dei suoi giustizieri Thalmor, nere come
l'ebano
e bordate d'oro.
"... fino alla
battaglia
dell'anello rosso, quando l'esercito imperiale se l'è ripresa. Aver
sottovalutato quel piccolo imperatore mi è costato caro: per trentatré
giorni
sono rimasto fuori dalla Torre Oro Bianca, legato per il collo,
canalizzando
tutta la mia magia solo per non morire impiccato... un supplizio
davvero crudele.
Ma illuminante a suo modo."
Lord Naarifin si
prese un momento,
ricordando la sua ordalia, quando il vento lo aveva sbattuto contro le
pietre
della torre ed era stato costretto ad assistere al disfacimento della
sua
conquista:
"...illuminante, sì.
Perché col
passare di ogni alba, mentre la vita mi abbandonava ogni momento di
più, una
certezza si è fatta strada nel mio animo: la convinzione che non vi era
ragione
alcuna per il mio lottare. Tutte le cose in fondo devono morire prima o
poi,
scomparendo anche dai ricordi. Questa è l'unica verità del mondo: non
c'è altro
senso in esso se non quello che si cerca di dargli. Il valore della
vita? La
fedeltà ad una causa? Inganni della mente, illusioni che alimentano
aberrazioni..."
Ennevio non lo
interruppe, mentre
Naarifin continuava a parlare, infervorandosi:
"Non si racconta
forse che
Tamriel stessa fu creata con l'inganno e popolata da dei che avevano
rinunciato
alla divinità, quando Lorkhan, l'Ingannatore, versò le sue menzogne
nelle loro
menti? Avremmo dovuto essere dei, Ennevio, ma come trascorriamo invece
le
nostre esistenze? Nel peccato, lottando per grette motivazioni e
sperando in un
domani migliore, quando anche questa speranza è solo una demente
falsità.
Perché Ennevio, ogni vita uno spreco, un seme di caos e insensatezza
che
desidera vivere solo per se stessa e che schiaccerà ogni cosa sul suo
cammino
per continuare ad esistere. Ogni vita è, intrinsecamente,
sopraffazione: ogni
vita è male. Non c'è speranza e non c'è futuro: perché se la vita è
così
crudele e insensata, la morte non può essere diversa."
Il lord cancelliere
lo afferrò per le
spalle, scuotendolo e fissandolo negli occhi mentre parlava:
"C'è solo
un'alternativa
Ennevio: non la morte, perché anche la morte è solo trasformazione, ma
la Fine.
Del presente, del passato e del futuro: una fine pura, dove tutto è
fermo e
immutabile. Ordinato. Uno stato di non esistenza, dove non perdurano
conflitti
e non ci sono desideri o guerre...."
La testa di Ennevio
si piegò sul suo
petto e il Lord Cancelliere lo lasciò andare, quasi tristemente:
"...Ma perché perdo
tempo ad
illuminarti, quando tu non puoi più ascoltare nulla?"
Ed era vero: l'Altmer
non può più
rispondere al suo lord cancelliere, perché quando una lettera
indirizzata
all'imperatore Attrebus è stata trovata nelle sue stanze, Naarifin gli
ha fatto
tagliare la lingua, dato che rifiutava di confessare il suo tradimento,
e poi
l'ha personalmente spellato vivo, con una tale crudele precisione che
nemmeno
una goccia di sangue ha toccato le sue nere vesti o la sua maschera di
cristallo.
Non è nemmeno più
Ennevio ormai, solo
un mucchio di carne sanguinante e senza più scopo: con un ultimo
distratto gesto
della mano, il cancelliere supremo dei Thalmor gli dà fuoco, consumando
quei
resti con la magia, riempiendosi la bocca, il naso e i polmoni
dell'odore di
sangue e carne bruciata. Lord Naarifin non mostra disagio, nemmeno
mentre il
midollo di Ennevio sfrigola sulla pietra: da tempo è avvezzo a simili
spettacoli e da secoli le sue orecchie sono sorde ai lamenti.
Quella violenza è il
suo sfogo, la
catarsi della sua frustrazione contro coloro che si oppongo a lui e uno
spunto
di profonda riflessione per il lord cancelliere: così profonda, in
effetti, che
nemmeno la porta che cigola alle sue spalle lo distoglie dalla sua
contemplazione
dell'insensatezza che è l'esistenza altrui.
"Vostra
eccellenza..."
L'elfa era prostrata
dietro di lui, ginocchio
a terra e il pugno chiuso sul cuore: dietro la sua maschera di
cristallo,
l'ombra di un sorriso si affacciò sul volto del cancelliere supremo.
"Ah, Zenosha, mia
cara: quali
notizie?"
Raramente la vista
dell'elfa aveva
significato cattive nuove per Lord Naarifin e, anche questa volta,
Zenosha non
lo deluse:
"Liete, vostra
eccellenza. Il
corpo dei Volanti è tornato portando con sé l'obbiettivo, nonostante le
perdite."
Anche tra gli Altmer,
il popolo leggiadro
di Auri El, la migliore agente del Lord Cancelliere è considerata
bella: un
viso perfetto a forma di cuore, grandi occhi dorati, un naso grazioso a
sovrastare labbra che qualcun altro avrebbe certamente potuto usare per
ridere
alla vita... non che l'elfa l'abbia mai fatto. Perché quella bellezza è
macchiata irrimediabilmente da un particolare anomalo: lunghi capelli
color
tenebra sfuggono dal suo elmo, spargendosi sulle sue spalle e sulla
schiena, di
una sfumatura quasi impossibile per un'Altmer come lei, risaltando due
volte di
più sulla sua corazza dorata dai finimenti scarlatti.
"Nonostante le
perdite... Zenosha,
pensi forse che avrei dovuto mandare te?"
"Non è fra i miei
compiti quello
di pensare, vostra eccellenza. Io, semplicemente, obbedisco."
"Vero, sempre
instancabilmente e
alla lettera." concesse Naarifin: "La tua efficienza mi è preziosa
Zenosha: ecco perché ho mandato i Volanti. Perdere il tuo braccio
sarebbe un
fastidioso contrattempo, al contrario delle loro ali."
"Le vostre parole mi
onorano,
vostra eccellenza." rispose l'elfa senza battere ciglio, in un tono
monocorde
e monotono come se parlasse del tempo: per lui, Zenosha avrebbe dato
fuoco a
Tamriel.
"...Ho fatto
confinare l'ibrido,
se desiderate osservarlo." aggiunse l'elfa.
"L'ibrido?"
"Sì, vostra
eccellenza. L'ho
fatto chiudere nei sotterranei."
"E dimmi, ha i
talenti del suo
genitore?"
"Sembra di no, vostra
eccellenza: i Volanti riferiscono che è muta."
"Muta? Che
sorprendente
delusione... immagino che questa la renda inutile come cavia. Non
importa, in
fondo: conducila nelle mie stanze Zenosha, assieme a Quattro. Deciderò
del suo
destino dopo averla vista di persona."
"Certamente, vostra
eccellenza." rispose Zenosha, alzandosi in piedi in un unico movimento
fluido e affrettandosi ad eseguire i suoi ordini.
***
L'attesa del
cancelliere supremo
nelle sue stanze fu breve, interrotta solamente da un servitore
tremebondo con
un calice di vino alto, che lord Naarifin liquidò poi con un gesto.
Solo al riparo da
sguardi estranei,
nelle sue stanze personali, l'elfo poté privarsi della sua maschera:
sotto di
essa, il suo volto appariva come sempre imperscrutabile. Solo la
cicatrice che
aveva sul collo, il segno dell'impiccagione a cui era sopravvissuto,
raccontava
qualcosa di più sulla sua persona, ma il cancelliere supremo era sempre
molto
attento a nasconderla dietro la sua gorgiera di lino. Il lord
cancelliere
custodiva gelosamente il significato che quella cicatrice aveva per
lui: fu con
un brivido di estasi che Narifiin Lo accolse come sempre nella sua
mente.
Il
momento è quasi giunto. Non esitare.
"Mai, mio signore. Il
nostro
obbiettivo è a portata di mano."
Ricorda
perché ti ho salvato dal tuo supplizio e scelto come mio agente.
"La mia vita per
servire i
vostri ideali, mio signore."
La tua
prova si avvicina. Non deludermi.
"Mai." ripeté
Naarifin, ma
la Sua presenza e cristallina chiarezza erano già lontane dalla sua
mente.
Naarifin si concesse
un solo sorso di
vino e poi con un sospiro, indossò nuovamente la sua maschera di
cristallo: rimaneva
un solo ostacolo per realizzare il sogno di perfezione del suo
salvatore e
patrono. Anni spesi solo per arrivare fino a quel momento, ma ora,
finalmente,
sembrava che la Sua attesa sarebbe stata premiata: la chiave era nelle
mani di
Naarifin.
"Vostra eccellenza."
disse
Zenosha dopo aver bussato alle porte della sue stanze: "Ho portato la
creatura."
"Avvicinala." ordinò
il
Lord Cancelliere girandosi e osservando attentamente ciò che gli era
stato
portato:
"Tu devi essere
Kaan."
disse infine.
Di fronte a lui, una
bambina di dieci
anni lo guardava dal basso in catene.
"Quattro bravo?"
chiese l'essere
che accompagnava Zenosha e la bambina.
"Sì, Quattro ha
portato a
termine il suo compito." rispose Naarifin, senza distogliere lo sguardo
da
Kaan: l'abominazione che era Quattro era ormai ordinaria agli occhi
dell'elfo.
I Volanti: fiaccati
dalle Guardie
Nere, i Thalmor erano stati costretti a creare qualcosa che potesse
affrontare
i soldati del Sangue di Drago, e quelle creature erano state la
risposta,
un'innovazione a cui Lord Narifiin aveva personalmente partecipato.
Ognuno dei
Volanti era plasmato a partire da un cadavere morto da poco, a cui era
cavato
il cuore per sostituirlo con una gemma dell'anima in cui era
intrappolata l'essenza
di una creatura dell'Oblivion: era così, grazie ad un ultimo tocco di
taumaturgia per ricucire la carne mortale, che un nuovo schiavo dei
Thalmor si
inchinava ai suoi padroni. Naarifin li aveva voluti alati, per meglio
combattere l'esercito imperiale sulla terra e i draghi nel cielo, ed
era proprio
dalle loro vaste elitre di insetto che i Volanti prendevano il nome.
Incontrare in
battaglia uno di loro
significava doversi confrontare con una forza alimentata dalla follia,
perché
quei loro volti, spesso familiari ai soldati dell'impero, volti di
compagni,
familiari e commilitoni; erano animati dalle più fameliche e abbiette
volontà
dell'Oblivion, imprigionate dalla magia in un corpo di carne.
I Volanti erano lo
scherno ultimo di
Naarifin verso coloro che osavano insorgere contro di lui, e solo due
cose il
cancelliere supremo insegnava alle sue creature: come attingere ai
ricordi
della carne per meglio distruggere i soldati che affrontavano, e come
fare
prigionieri per ingrossare le loro fila. L'eloquio non era una dote che
il
cancelliere sprecasse tempo ad insegnare:
"Quattro non ha
mutilato preda.
Gustosa, piccola, tenera. Ma Quattro non ha mangiato. Quattro tante
fame
ora."
"Credevo indugiassi
nella tua frenesia
cannibale durante la battaglia, Quattro." commentò Zenosha con neutra
curiosità.
"Corazze dure per
artigli e zanne
di Quattro. Qualche occhio, qualche naso. Dolci urla. Ma niente succose
viscere.
Troppi nemici questa volta."
"Non preoccuparti
Quattro: non appena
mi avrai portato altri prigionieri, avrai nuovi fratelli e sorelle con
cui
fornicare." rispose benevolmente Naarifin.
"Quattro tanta fame
ora."
ripeté la creatura soddisfatta: in vita, doveva forse essere stata una
donna
del Nord, ma era difficile capirlo al di sotto degli stracci che
portava,
macchiati com'erano di sangue e umori, o dai suoi lineamenti, sfregiati
dalle
cicatrici degli esperimenti di alterazione che erano stati fatti per
rendere la
sua carne dura come pietra.
"Zenosha, fai
accompagnare
Quattro nei sotterranei a scegliere il suo pasto e aspetta fuori:
desidero
esaminare questa creatura."
"Certamente, vostra
eccellenza." replicò l'elfa, affrettandosi ad eseguire i suoi ordini.
Quando le porte si
chiusero dietro di
loro, lasciandoli soli, il lord cancelliere si chinò sulla bambina.
"Sembra che i teoremi
di
filogenia razziale si applichino anche nel tuo caso... affascinante."
Se Quattro, come
tutti i Volanti,
aveva risaltato nella stanza per la sua forma abbietta, così Kaan era
impossibile da ignorare per le sue peculiarità. Ad un primo sguardo
distratto,
o da lontano, la bambina avrebbe potuto passare per una dunmer, come
sua madre:
pelle color della cenere e una figura sottile, che nonostante la
giovinezza già
tradiva la fanciulla che sarebbe potuta diventare.
Osservata più
attentamente però, era
impossibili non notare le differenze: così come anche negli elfi scuri,
anche
l'iride e la sclera dei suoi occhi erano dello stesso colore, ma invece
del
rosso sangue tipico dei dunmer, lo sguardo che si rifletté sulla
maschera di
cristallo di Narifiin era di un azzurro perfetto, come il cielo
d'estate.
Gli occhi della
bambina erano senza
malizia e intensi come raramente il cancelliere supremo aveva visto.
Kaan, unico ibrido
noto in tutta la
storia di Tamriel tra un Argoniano e una Dunmer, e per di più figlia
dell'ultimo Sangue di Drago: il numero di esperimenti che Naarifin
avrebbe
potuto compiere su un simile campione erano quasi illimitati. Sopra
quegli
occhi color del cielo, Kaan sfoggiava ciò che più di tutto tradiva la
sua natura
ibrida: non vi erano capelli sulla sua testa, ma lunghe piume come di
pavone,
di ogni sfumatura dell'azzurro e del blu, ornate d'oro e di castano,
che le
ricadevano morbidamente all'indietro sulla schiena, catturando la luce
della
stanza in mille riflessi.
Mentre Naarifin la
osservava, Kaan sentì
il bisogno di grattarsi la testa, lasciando che il cancelliere
intravedesse la
radice di due piccole corna situate appena sopra le sue orecchie,
lunghe e appuntite
come quelle degli elfi.
"...E tuttavia non
parli, non è
vero?" chiese l'Altmer.
Kaan scosse la testa,
battendosi un
dito sulla gola, cinta da una sciarpa color del fuoco su cui erano
ricamate
rune in lingua dei draghi.
"Posso?" chiese
Naarifin:
Kaan non sembrava intimorita dalla sua presenza e fece spallucce.
Prendendo il
tessuto tra due dita, Naarifin lo scostò appena, confermando che anche
sul
collo della bambina si trovavano i tagli paralleli delle sue branchie,
così
come in tutti gli Argoniani.
"Sai nuotare dunque?"
le
chiese l'elfo, rialzandosi in piedi.
Kaan rispose con un
sorriso,
assentendo con la testa mentre si risistemava la sciarpa con un gesto
che
denotava lunga pratica: le manette non sembravano intralciarla più di
tanto o
spaventarla.
Naarifin meditò per
un momento se
liberarle i polsi, ma infine decise di non farlo: ci sarebbe stato
tempo per
quello, più tardi. Tempo per levarle quella pretenziosa veste con i
colori
dell'impero e mettere tutti i suoi organi in tanti vasi colorati. Tempo
per
conoscere un po' meglio la fisiologia di quella sciocca bambolina senza
paura,
e nel caso insegnargliela. Tempo, per dare fuoco ad ogni lembo di pelle
di
quell'ibrido disgustoso, dopo aver catalogato ogni proprietà magica ed
alchemica dei suoi fluidi ovviamente...
Un quieto bussare
alla sua porta
interruppe i pensieri del lord cancelliere.
"Vostra eccellenza..."
"Credevo di aver
ordinato di non
essere disturbato, Zenosha."
"Perdonatemi vostra
eccellenza,
ma il duca e la Regina..."
"Continuo io, serva.
Perché non
vai ad occupare il tuo tempo con qualche mansione più degna di te, come
pulire
lo sterco dei Volanti dalle mura?" disse una voce annoiata: dietro
Zenosha, un Altmer dai capelli rossicci si trascinava stancamente,
facendo
vagare il suo sguardo per la stanza senza soffermarsi su nulla. Ogni
gesto di
quell'Altmer vestito riccamente sembrava dire: "sono mortalmente
annoiato".
"I Volanti non
defecano,
Corenar. Rigettano ciò che non possono digerire."
Lo sguardo dell'elfo
non mutò affatto
mentre osservava Naarifin e Kaan, ma la sua voce si fece di gelo:
"Duca di Alinor per
te, cancelliere: confido che non abbia
dimenticato le tue maniere nel buco che ti sei scavato nella mia città
per i
tuoi... esperimenti. La Regina desidera la tua presenza. E porta anche
la
bambina."
"E ha mandato voi a
dirmelo?
Invero, un compito assai degno di un duca: riferite alla regina che
sarà un
piacere presentarmi al suo cospetto non appena avrò finito qui."
"Subito cancelliere.
Non vorrete
farmi insistere." alle spalle di Corenar, duca di Alinor e consigliere
della Regina di Summerset, guardie Altmer con l'insegna della città
sulle loro
armature di cristallo e oro si riversarono nella stanza, circondando il
lord
cancelliere: dieci lance furono puntate su di lui.
"Oh, perdonatemi
duca: non avevo
inteso fosse così urgente. Questo
vecchio Thalmor a volte si perde nelle sue ricerche."
"Ma certo,
cancelliere. Volete
seguirmi ora?"
"Fate strada, duca.
Zenosha:
porta con te l'ibrido." ordinò Naarifin.
"Certamente vostra
eccellenza."
Il duca di Alinor
alzò appena un
sopracciglio, riuscendo a mantenere però un espressione annoiata: una
dote
affinata nei secoli passati a corte.
"Suvvia duca, non
vorrete
davvero che una delle vostre guardie debba sporcarsi le mani con
qualcosa come
quella, non è vero?" gli domandò il cancelliere.
Corenar sembrò
pensarci un momento,
ma alla fine annuì, lasciando che Zenosha afferrasse Kaan per un
braccio e
cominciasse a trascinarsela dietro.
Strano individuo il
duca: Naarifin gli
avrebbe volentieri aperto il cranio per studiarne la mente, cercando di
capire
come un pensiero qualsiasi potesse risiedere in una persona così piena
di se
stessa.
***
Alinor, seconda
capitale delle isole
di Summerset: l'ultimo gioiello della corona del terzo domino Aldmeri e
una
città che in tutte le isole di Summerset era stata seconda solo a Nuova
Cloudrest. Una città assai antica, poiché Alinor era stata edificata
addirittura nella Seconda Era ed il fascino delle sue torri, che
sembravano
fatte di vetro o ali di insetto, rivaleggiava con quello dei suoi
palazzi, che
raccoglievano la luce del sole e la scomponevano nei suoi colori
fondamentali,
spargendoli su tutta la città. Il suo porto era così grande da poter
accogliere
l'intera flotta dei Thalmor e posto ancora sarebbe avanzato per un
altra
uguale.
Nel centro di Alinor,
troneggiava il
palazzo di cristallo, dai bastioni impossibilmente alti e vorticosi: la
residenza che era stata del duca di Alinor per generazioni, e che ora
ospitava
la regina degli Altmer, costretta a fuggire da Nuova Cloudrest quando
le truppe
imperiali avevano espugnato quella città.
Fu proprio nei
giardini del palazzo
di cristallo che il drappello di guardie scortò lord Naarifin e
Zenosha, al
cospetto di Tuinden figlia di Ayrenn, Regina delle Isole di Summerset e
degli
Altmer: splendente era Tuinden, dai capelli del colore delle stelle e i
cui
occhi riflettevano le onde del mare.
Corenar e Naarifin
posarono entrambi
un ginocchio a terra di fronte alla loro regina, assieme alle guardie
del drappello,
e solo Zenosha rimase in piedi, con il polso stretto attorno al braccio
di Kaan:
la bambina era stata catturata dai fiori del giardino e strattonava per
esplorare quelle meraviglie.
"Mia regina...
prendervi
personalmente cura di questi fiori... è sconveniente che siate voi ad
occuparvene con le vostre mani." disse Corenar: la sua voce stillava
suadenti emozioni e ossequio da ogni singola sillaba.
"Duca: vorreste voi
forse dire
ad una regina cosa può e non può fare?" rispose Tuinden, e la sua voce
era
il coro di mille fate.
"...Perdonate questo
vostro
umile servitore, mia regina, ma vedere le vostre preziose mani oscurate
dal
nero della terra mi fa quasi odiare questi fiori."
Tuinden lo interruppe
con un lieve
gesto della mano, effettivamente annerita dalla terra:
"La luce di Auri El
illumina
ogni cosa duca, perché i doni degli otto dei ricadono su tutti noi
senza
distinzione. Perché un giardino come questo prosperi però, è necessario
che
qualcuno separi le piante utili da quelle nocive. E a volte... a volte
è
necessario che perfino una regina sporchi le proprie mani, affinché le
cose
vengano fatte secondo i suoi desideri." per un breve istante, lo
sguardo della
Regina si fissò su Zenosha, per poi tornare su suoi adorati fiori.
"Capisco mia regina."
belò
Corenar.
"Davvero duca? Noi
non crediamo."
lo canzonò lievemente Tuinden: "Voi cosa dite, Lord Naarifin?"
"Sinceramente? Vostra
maestà,
questo vecchio Thalmor trovo tutto questo... orribile."
"Dite davvero?"
Lord Naarfin assentì
lievemente col
capo, di fronte alla domanda sorpresa della regina:
"Precisamente, vostra
maestà: il
vento soffia, le lune sorgono e tramontano e i fiori prima o poi
appassiscono, inevitabilmente,
non importa quanta cura possa essere loro riservata. È la natura delle
cose:
affaccendarsi per cambiarla vi lascerà insoddisfatta e col nero della
terra
sotto le unghie."
"Che cosa ci
proporreste dunque?"
"...Forse la scultura
potrebbe
darvi maggiore soddisfazione, mia regina. Se anche le statue sono
condannate
prima o poi all'oblio, come ci insegnano le opere degli Ayeleid, almeno
non vi sporcheranno
le mani."
La Regina rimase in
silenzio un
momento, soppesando le parole del cancelliere supremo, valutando i
molti
significati nascosti.
Fu con un sorriso che
Tuinden parlò,
infine:
"...Lord Naarfin."
"Sì, mia regina?"
"Il vostro intelletto
è stato un
dono prezioso per le isole di Summerset e per noi..."
"Le vostre parole mi
onorano."
"... così come il
vostro zelo,
specie dopo il vostro ritorno in patria. E tuttavia, sembra abbiate
ecceduto
nei vostri compiti."
"Temo di non riuscire
a seguirvi,
mia signora."
"Non osate fingere,
lord
Naarifin..." per un momento, l'ombra di emozioni e toni non degni della
sua carica si affacciarono nella voce di Tuinden: "...non lo
ammettiamo:
che ne è stato del duca Ennevio?"
Se dietro la sua
maschera di
cristallo Naarfin sorrise, nessuno lo seppe mai:
"Mia regina, che cosa
può fare
un Thalmor di un traditore? Come vostro cancelliere supremo, è mio
dovere
investigare e sopprimere il germe dell'infedeltà, ovunque esso si
annidi... o
forse i vostri amanti sono immuni alla mia giustizia?"
"Naarifin!" sbraitò
Corenar.
"Lasciate che si
esprima, duca.
È... piacevole ascoltare una lingua schietta di tanto in tanto:
alzatevi, lord
Naarifin. Siamo sorpresi che sapeste di me e del duca."
Il cancelliere
supremo si spazzolò la
veste mentre si alzava, riuscendo ad apparire ancor più insultante di
quanto
già non fosse normalmente:
"Ai miei Thalmor non
sfugge
nulla, vostra maestà. Sapevo da tempo con quanta assiduità il duca si
prendesse
cura... del vostro giardino, per così dire. Vi porgo le mie
condoglianze per il
suo tradimento a favore dell'Impero."
"E che direste se vi
rivelassimo
che è stato per un nostro ordine che il duca Ennevio ha scritto
all'esercito
Imperiale?"
"Vostra maestà... non
intenderete davvero arrendervi?"
"Silenzio Corenar.
Voi non avete
il potere di decidere cosa possiamo o non possiamo fare. Voi siete solo
un
duca, piccolo e goffo, occupato dal pensiero della sua città. Ma noi
dobbiamo
agire per il bene di tutti gli Altmer."
"...Perdonate la
domanda, vostra
maestà, ma come può la resa essere un bene per i Thalmor?"
"Non per i Thalmor,
Naarifin: ma
per gli Altmer. I duchi di Lillandril e Sunhold ci inviano notizie di
malcontento
e di voci di ribellione nelle loro città: a quanto pare i vostri
Thalmor
possono evocare creature dall'Oblivion e respingere le armate
dell'Impero, ma
non possono nutrire le masse."
"Un compito che non
gli spetta,
ad essere... schietti, vostra maestà. La situazione è dunque così
disperata?"
"Al punto, lord
cancelliere, che
stavamo pensando di consegnare al Sangue di Drago la vostra testa."
"Temete così tanto il
padre
della creatura che ho fatto catturare?"
"Non siate ottuso,
Naarifin! Anche
se riusciste a sconfiggerlo con un simile meschino stratagemma, i
Thalmor di
cui andate tanto fiero hanno già perso. Il nostro popolo non può
resistere ad
un altra settimana di guerra."
"I miei Thalmor non
perdono,
vostra maestà. E non sono pronto a separarmi dalla mia testa, quando la
vittoria è così vicina."
"Noi non possiamo
ottenere la
vittoria: non in questa guerra. Non più ormai. Ma le vite degli uomini
sono
brevi e inconsistenti: il sogno antico di una supremazia degli Altmer
sulle
altre razze, il sogno di nostra madre, si avvererà un giorno. Ma senza di voi e il demone che vi consiglia."
Il silenzio prese
sostanza nel
giardino del palazzo di cristallo:
"... A quanto pare
non siete
solo una sciocca bisognosa di amore, Tuinden. Perdonate se vi ho
sottovalutato
in questi anni."
"Noi non vi
perdoniamo,
cancelliere. Nostra madre Ayrenn ha lottato a lungo contro coloro che
servono i
principi dell'Oblivion, come voi ben sapete. Siete stato abile in
questi anni a
nasconderlo, ma negli ultimi mesi sembrava quasi che non vi importasse
più di
tenerlo segreto: è lampante quanto l'ombra di uno dei principi vi
avvolga nel
suo fetore. Come potevate pensare che vi fosse permessa una simile
eresia? E
come potevate pensare che nessuno se ne accorgesse?"
"Immagino che
chiedervi di fornire
le prove delle vostre false accuse, mia regina, sarebbe uno sforzo
inutile, ma ci
sono ottime ragioni con cui potrei persuadervi se me lo permetteste..."
"Di nuovo Naarifin,
noi non ve
lo permettiamo." concluse Tuinden con un sorriso crudele ed un gesto.
Le guardie si mossero
attorno a loro,
levando le lance e preparandosi a colpirlo, ma il lord cancelliere fu
più
rapido: attorno a Naarifn, dove prima c'erano stati dieci soldati, un
duca ed
una regina, si ergevano ora dodici statue di cristallo, finemente
cesellate con
l'ultima espressione che avevano avuto in vita. Ucciderle aveva
richiesto a
Naarifin meno di un battito del cuore.
"Sì... senza dubbio
la scultura
è più soddisfacente dell'orticultura e tuttavia..." un semplice cenno
della mano del lord cancelliere e le statue cominciarono a creparsi
finendo in
pezzi: "Anche le statue sono destinate e diventare polvere nel
tempo." ripeté con una lieve soddisfazione nella voce.
Il tempo di quelle
tediose e false
riverenze era per lui finito, così come l'utilità di Tuinden. I Thalmor
e
Naarifin non avevano più bisogno di una regina: mai più, ora che il
cancelliere
supremo era così vicino al suo sogno.
Dietro di lui,
Zenosha aveva fatto
solo tempo a nascondere Kaan dietro di sé, proteggendola quando le
guardie si
erano avvicinate.
"Dimmi Zenosha..." le
chiese
il lord cancelliere voltandosi: "Ti disturba il fatto che abbia ucciso
tua
madre?"
L'elfa dai capelli
corvini fissò i
frammenti di cristallo sparsi tra i fiori, prima di rispondere al suo
lord:
"No, vostra
eccellenza. Tuinden
sapeva prendersi cura solo dei suoi fiori e dei suoi amanti: i miei
capelli
neri l'hanno sempre disgustata. Montare quelle menzogne contro di voi
per
tentare di accusarvi di eresia non è diverso da ciò che lei ha fatto a
me per
allontanarmi dalla corte. Io non dimentico che è solo grazie a voi che
sono
potuta tornare alle nostre amate isole."
Zenosha si inchinò
profondamente:
"E inoltre, la mia
fedeltà a voi
rende ogni altro sentimento... irrilevante."
Per un lungo momento
Naarifin lasciò
che Zenosha si prostrasse di fronte a lui: quando fu convinto della
veridicità
delle parole del suo luogo tenente, il cancelliere supremo dei Thalmor
annuì
soddisfatto.
"Quale giorno
propizio è mai
questo, Zenosha. Per mia mano sono caduti due duchi ribelli ed una
debole regina.
E prima che tramonti il sole, anche un Drago cadrà."
In quel momento, da
est, un ruggito
echeggiò nel cielo e sulla terra, superando le mura della città di
Alinor e scuotendo
quelle del palazzo di cristallo, per giungere fino a loro: a quel
suono, la
piccola Kaan cercò di nuovo di scappare dalla presa di Zenosha.
Angolino dell'autore:
La figura di Lord Naarifin è davvero presente nel lore di Skyrim,
compresa la sua impiccagione al di fuori della torre della città
imperiale. Alcune fonti riportano però che dopo 33 giorni il suo
corpo svanisce, portato via da una creatura dell'oblivion. Ho voluto
ampliare questa idea e cotruire così il Lord Naarifin che trovere in
queste pagine, il cattivo della storia (Per quanto riguarda
invece i Volanti sono una mia invenzione). Spero che questo capitolo vi
sia piaciuto abbastanza da lascaire una recensione. Dal prossimo
(finalmente) le cose si faranno un bel po' più movimentate: i parenti
di Kaan sono arrivati :).
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Capitolo 4 *** La Caduta ***
Come avevo promesso, da questo capitolo in poi cercherò
di descrivere perchè rapire la figlia del Sangue di Drago sia stata una
pessima idea da parte degli Altmer.
Due piccoli particolari che spero vi piacciano: a Rorikstead è
possibile incontrare Sissel, che riferisce di come abbia sognato di un
grande drago che non le sembrava cattivo come gli altri...
predestinazione all'opera? Chissà.
Inoltre in tutto il lore di "The Elder Scroll", viene menzionato un
altro drago rosso oltre ad Odahviing: Nafaalilargus, il cui nome però
non ha alcun significato in lingua dovah e che quindi ho lievemente
cambiato per dargli più senso (come se fosse il primo retcon della
storia. xD). Per il resto, buona lettura e spero vi piaccia (Ogni
recensione è ben accetta.)
La Via della Voce risiede in due parole: Lok Thu'um. Perché
un joor, un mortale, possa usare le rotmulaag, le parole del potere,
egli deve accoglierne
il significato nella propria anima: solo uno spirito indomabile, o un
Dovahkiin, riesce a non esserne corrotto. A tutti gli altri, sulla cima
di
questa mia strunmah, io insegno il come.
La Via
della Voce- Sissel di Rorikstead.
I draghi non calarono
sulla città di
Alinor: le sentinelle sulle mura e i Volanti appostati sulle torri li
videro planare
invece davanti alle sue porte, alla distanza di due tiri di freccia.
Due grandi draghi
rossi, che più di
tutti gli altri erano vicini al Sangue di Drago e alla sua famiglia, e
perfino gli
Altmer conoscevano i loro nomi: Odahviing, il drago di Skyrim che aveva
servito
Alduin prima di giurare fedeltà al Dovahkiin, e Nahfaasaar, il drago
mercenario, che si diceva avesse prestato le sue ali a Tiber Septim in
persona,
e che era stato riportato in questo mondo dal Sangue di Drago per
servirlo.
BO GUT
Non fu un Urlo che riverberò sulla
piana fino alle mura di Alinor, ma un ordine, e gli Altmer osservarono
i due
draghi aprire di nuovo le grandi ali di cuoio e spiccare il volo,
dirigendosi verso
est, divorando il vento come se li inseguisse una tempesta. Per natura,
i
Draghi non temono nulla, e tuttavia...
Dove Odahviing e
Nahfaasaar si erano
posati solo per un momento, erano rimaste tre figure: anche dalle mura,
le loro
armature grigie, come di fumo vetrificato, tradivano le loro identità.
"Vostra eccellenza,
quali ordini
dalla Regina?" chiese il capitano dei soldati a lord Naarifin, quando
Quattro lo posò sul bastione delle mura: i volti delle guardie Altmer
erano
tesi, ma fiduciosi ora che il cancelliere supremo era fra loro.
"Sua maestà ha
lasciato a me il
comando capitano. Diffondete la notizia che le vostre truppe
prenderanno ordini
dai miei Thalmor da questo momento in poi: non ammetterò errori."
"Certamente vostra
eccellenza.
Le mie truppe sono a vostra disposizione."
"Eccellente,
capitano. Avrei
preferito affiancarvi Zenosha, ma i suoi compiti la trattengono: non
deludetemi, e la vostra ricompensa sarà enorme."
Il capitano delle
guardie di Alinor
sorrise, mentre la cupidigia gli riempiva gli occhi: dopo un profondo
inchino al
cancelliere, l'elfo si affrettò a dare ordini alle truppe, preparando
gli
Altmer alla battaglia.
Liberatosi in quel
modo della sua
presenza, Naarifin appoggiò le mani sulle mura, osservando coloro che
così
tanta strada aveva fatto per giungere fino a lui: Alinor era davvero
lontana
dall'impero.
"Quattro? Va ad
accoglierli." ordinò Naarifin: meglio che fosse un Volante ad
avvicinarli
per primo.
La creatura aprì le
ali con un ghignò
famelico e si lanciò nell'aria, planando fino a posarsi nella terra di
nessuno
fra Alinor e il Sangue di Drago.
"E dunque, così
comincia."
si disse Naarifin: sotto di lui, schierati sulle mura, arcieri Altmer
incoccarono le loro frecce, mentre stregoni Thalmor raccolsero la forza
degli
elementi nelle loro mani.
Fu del Sangue di
Drago, la prima
mossa:
VEN MUL RIIK
L'Urlo riverberò fino a Naarfin come un
tuono cupo, portando con se la forza del vento. L'odore di pioggia
riempì
l'aria e la natura di quelle tre parole fu subito chiara: nebbia,
troppo rapida
e fitta per appartenere alle isole di Summerset, o a Tamriel, si
condensò
attorno alla città, crescendo e correndo in lingue e spirali,
stringendosi
attorno alle sue mura, densa più della spuma del mare: il territorio
attorno ad
Alinor, la pianura fertile e perfino le montagne in lontananza erano
ora diventate
invisibili.
Perfino le onde del
mare alle spalle della
città, erano state nascoste.
Naarifin sorrise
dietro la sua
maschera: Alinor sembrava galleggiare nella nebbia, come unico luogo
del creato
su cui splendesse ancora il sole. Come sempre la voce dei draghi era
ineluttabile, e tuttavia quella nebbia magica non riusciva ad
avvicinarsi alle
mura incantate di pietra di luna della città: gli incantesimi dei
Thalmor
respingevano ogni magia e dunque la bruma poté solo scorrere,
accumulandosi come
l'acqua contro le pareti di una diga, salendo lentamente di livello.
"Solo un trucco." si
fece
sentire la voce del capitano delle guardie, tranquillizzando i suoi
uomini. Sì,
solo un trucco, ma assai d'effetto:
"Guardate!" urlò uno
dei
soldati.
Le volute di nebbia
di fronte alle
porte della città cominciarono a turbinare, diventando quasi solide,
assumendo
forme, ma non sostanza: anche a lord Naarfin occorse un momento per
capire di
cosa si trattasse.
Quando fu pronto,
l'avatar di nebbia
di Brelyna Maryon, della casata di Telvanni, moglie dell'ultimo Sangue
di Drago
e madre di sua figlia, si alzò in piedi di fronte alle porte di Alinor.
La
figura di bruma della strega era abbastanza alta da superare con la
testa l'orlo
delle mura della città e lord Naarifin ammirò sinceramente il controllo
e la
delicatezza di quell'incantesimo, e la squisita precisione con cui i
lineamenti
dell'elfa scura erano stati scolpiti nella nebbia: grigio, su di un
grigio
ancor più assoluto.
Quando gli occhi di
quell'avatar si
fissarono su di lui, il cancelliere supremo vide che contenevano la
luce dei
fulmini:
"Lord Naarifin: mi
aspettavo
foste più alto." disse la nebbia con voce perfettamente chiara: l'elfo
si sarebbe
aspettato invece il cupo brontolio del tuono.
"E io, che sarebbe
stato il
Sangue di Drago a parlare con me." rispose lord Naarifin.
"...Temo che al
momento il mio
sposo non possa parlare in una lingua che capireste."
"E che ne è di
Quattro? Credevo
che il Sangue di Drago rispettasse la sacralità di un ambasciatore..."
La nebbia sembrò
sorridergli, prima di
risponderli:
"Parlate della
vostra...
creatura? In questa nebbia così fitta, temo possa essersi perduta."
Fuori
dalle porte di Alinor, la pioggia cominciò a cadere sulle terre di
Summerset.
Era la prima volta da
molto tempo che
dietro la sua maschera di cristallo, il cancelliere supremo dei Thalmor
non
provava una simile gioia: poteva quasi percepire la furia impotente del
Dovahkiin
e di quella sgualdrina di sua moglie, mascherata dietro falsa
cordialità. Quello
era il posto che meglio si confaceva loro: strisciare di fronte a lui,
umiliati
ed impotenti. Tutti sapevano chi avesse vero potere in quel momento, ma
quella
furia non era ancora abbastanza per gli scopi di Lord Naarifin: ne
serviva
molta di più.
"Ovviamente. E ditemi
strega,
per quale motivo, voi e la vostra... pittoresca famiglia siete giunti
ad
Alinor, così lontani dalle forze dell'impero? Venite a porgere la
vostra
resa?"
"Veniamo a proporre
uno
scambio." fu la risposta.
"Uno scambio? È
questo dunque il
Sangue Di Drago e la sua famiglia? Mercanti? Usurai?..."
KOS NAHLOT,
FAHLIIL
E per un momento, un istante che a
tutti gli Altmer sulle mura sembrò dilatarsi all'infinito, suoni e voci
morirono, perché così il Sangue di Drago aveva ordinato: fare silenzio.
Non
solo nella gola, ma anche nella mente: per un terribile momento, lord
Naarifin
dimenticò cosa volesse dire parlare con la bocca e ciò che significasse
sentire
con le orecchie.
Fu solo per un
istante e solo perché
non si trattava di un Urlo: altrimenti, forse, ogni elfo sarebbe stato
reso
sordo e muto.
"Veniamo a garantire
per la
città di Alinor, la sola vera roccaforte che ancora vi resta. Questa
città, in
cambio di nostra figlia, viva ed incolume. Che dite Lord Naarifin?"
Il vento soffiò
contro le mura e in
esso, il cancelliere supremo ritrovò la sua voce.
"...Un offerta molto
allettante,
strega. Ma, io ne ho una migliore e mi rivolgo alla disgustosa creatura
che
avete preso come marito: i vostri sortilegi non possono superare le
mura di
Alinor. La vostra furia è patetica ed impotente. Voi non avete niente:
niente
che possa convincermi a restituirvi ciò che vi ho tolto. Niente per
forzarmi la
mano, niente... che possa convincermi ad ascoltarvi ancora. Chinate il
capo,
come le bestie che siete e forse i miei Thalmor vi daranno la morte che
meritate, assieme all'abominio che avete generato!"
L'avatar di nebbia di
Brelyna Marion
sembrò chinare il capo raccogliendo i propri pensieri e per un momento,
la luce
del fulmine nei suoi occhi si spense.
"...È un sollievo che
siate così
cieco, Lord Naarfin. Ad essere sincera, temevamo di dare fondo a ciò
che ci
avete fatto provare. Grazie, stupido Altmer, per averci liberato dal
fardello
noto come ragione. E ora..."
Nella nebbia dietro
l'avatar di
Brelyna, si aprì un occhio rosso: un cerchio di luce scarlatta. Un
portale per
oscure dimensioni.
"...Se non ricordo
male, fu
appropriandosi del merito di aver posto fine alla crisi dell'Oblivion,
quando durante
la terza era il mondo quasi cessò, che i Thalmor iniziarono la loro
salita al
potere. È appropriato dunque che sia l'Oblivion a segnare la vostra
caduta..."
Perché le dimensioni
oscure non sono
uniformi nella sua struttura: dagli strati più vicini a questo mondo si
possono
trarre spiriti che la volontà mortale può soggiogare. Ma se ci si
inoltra
troppo a fondo, se si apre una finestra sui Veri Abissi, allora non
saranno più
piani d'ombra quelli che si troveranno, ma universi infernali di cui
ogni
demone è rovina.
***
"Un portale è stato
aperto sul
vostro reame, e tuttavia tu sola lo hai attraversato. Perché mai?"
Nascosto nella
nebbia, un giovane
uomo pose questa domanda al demone che aveva varcato il portale:
femmineo,
dalla carne color della notte e dai capelli tinti con la cenere delle
ossa
delle anime che aveva tormentato, mentre i tatuaggi scarlatti sul suo
viso brillavano
come il sangue anche nella nebbia. Il demone sorrise, di un sorriso
sanguinario, e i suoi liquidi occhi fatti di oscurità si fissarono sul
figlio
adottivo del Sangue di Drago: un giovane uomo del Nord dai capelli neri
e
riccioluti, occhi verdi dallo sguardo sfrontato e senza paura, e
sottili
cicatrici sul bel volto che ancor di più gli avrebbero attirato il
favore delle
fanciulle nella sua terra natia.
"Aventus Arentino. Mi
ricordo di
te."
Il giovane scosse la
testa,
corrugando il viso.
"Preferisco essere
chiamato Due
Code, Khathutessa."
Il demone rise: un
roco gorgoglio
metallico di gola.
"Rammento ancora
quando ho quasi
banchettato col tuo cuore. Il sapore del tuo sangue allora... così
dolce."
rispose il demone, passandosi un artiglio corazzato sulla lingua e
sulle
labbra.
Due Code, figlio
maggiore del Sangue
di Drago, fissò con furia e orgoglio ferito il demone, ricordando
l'umiliazione
da cui aveva dovuto essere salvato:
"Io
sono più forte di allora."
Il demone lo annusò
rumorosamente:
"...Sì, tu non odori
più di
debolezza... " concesse: "Tutt'altro: un giorno forse ti farò mio. Ma
ora scostati mortale, perché possa inchinarmi alla mia signora."
Dopo un momento, il
giovane le obbedì,
permettendo a Khathutessa di inginocchiarsi di fronte a Brelyna Maryon,
fino a strisciare
la fronte nella terra.
A causa del patto che
la strega aveva
stretto coi grandi Principi dell'Oblivion, l'elfa aveva perso la
capacità di
evocarne le creature: i regni di fiamma e oscurità sfuggivano ora dal
suo tocco,
dalle sue mani che, come il suo corpo, recavano incise le rune
dell'Oblivion
tatuate a fuoco.
Era stata una grande
rinuncia per
lei, che però aveva compiuto senza rimpianti, per amore e per orgoglio.
Brelyna però non
aveva saputo
rinunciare del tutto alla sua arte, trovando così nuove strade:
l'ultima Pietra
del Sigillo ancora a Tamriel dai tempi della Crisi dell'Oblivion, il
pernicioso
artefatto che era stato il suo esame finale di evocazione al Collegio
di Magia
e Stregoneria di Winterhold tanti anni prima, costituiva ora la cima
della sua
staffa magica. Grazie a quella pietra, la strega poteva aprire un varco
per
ogni regno dell'Oblivion, ma spettava alle creature in esso se chinarsi
al suo
volere o meno. Khathutessa non aveva avuto scelta: il demone si era
piegato
alla strega dopo essere stato quasi distrutto per aver bramato un
bambino che
non le apparteneva e aver ucciso il precedente huscarlo di Brelyna.
Il patto era stato
semplice: la sua
vita in cambio della sua schiavitù. Per il demone, un buon patto in
fondo:
"Mia Signora,
l'Oblivion ribolle
per la tua magia."
Non fu senza un
piccolo sorriso sul
volto tatuato che l'elfa scura accolse il gesto del demone:
"Khathutessa,
Arciduca dell'Oblivion
e Valkynaz dei Paria. Quanto tempo."
"Lord Dagon urla
dalle Terre
Morte per l'affronto che gli hai fatto: chiamare noi che non ci siamo
mai
piegati a lui invece che i suoi soldati."
"Disapprovi?"
"Il mio sangue canta
di
gioia!" ruggì il demone.
"Bene. Ho pensato di
invitarti
ad un massacro. Vedi la città di fronte a noi? Voglio che tu faccia
degli
abitanti in essa ciò che vuoi."
Il sorriso del demone
femmina si aprì
su una bocca piena di canini e Khathutessa ruggì qualcosa nella lingua
dell'Oblivion, con parole che ferivano l'anima di chi le ascoltava: dal
portale
alle sue spalle, cominciò a riversarsi il suo Kin.
Ottocento e ottantotto dremora, tutti carne nera, armature
scarlatte, nere e oro di acciaio daedrico, Churl e Caitiff dalle lunghe
mazze,
Kynmarcher con scudo e spada, e infine Markynaz con lunghi spadoni di
fuoco e
nero acciaio: l'ultimo di essi portava con sé anche la spada di
Khathutessa,
che si affrettò a porgerle. Il demone femmineo la imbracciò con una
sola mano,
fendendo l'aria e facendo tintinnare gli anelli che ne ornavano la
lama.
E poi i dremora
cominciarono a
cantare: ottocento ottantotto demoni alle porte di Alinor, inneggiando
nella
nebbia, mentre le loro spade fiammeggiavano di mille violente promesse:
"SANGUE PER IL SANGUE
DI DRAGO!
TESCHI PER IL SUO TRONO!" fu il grido nella lingua dell'Oblivion,
ripetuto
ancora e ancora, mentre le loro voci agghiaccianti riverberavano nella
piana.
Poi l'ultimo Sangue
di Drago avanzò
verso le porte di Alinor, segnalando la carica con un Urlo.
MUL QAH DIIV
E la luce delle anime
dei
draghi lo avvolse come un armatura.
***
Sulle mura di Alinor,
gli Altmer
videro la luce del portale scomparire, l'occhio di fuoco chiudersi
nella
nebbia, per essere sostituito da fiamme più piccole ma impossibilmente
numerose.
Poi arrivarono le
urla, e sulle mura
di Alinor, gli Altmer ebbero paura: l'Urlo li fece tremare, perché in
mezzo
alla piana, tra le lingue di fuoco, un drago risplendente era nato,
guidando la
carica dei demoni.
"FUOCO!" urlò il
capitano
delle guardie quando i nemici furono abbastanza vicini, e i Volanti
spiegarono
le ali, gli arcieri tesero i loro archi e gli stregoni Thalmor
riversarono la
furia degli elementi sulla pianura sottostante: frecce d'oro si
inoltrarono
nella nebbia, troppo numerose per poterle contare, mentre fulmini e
palle di
fuoco saturarono l'aria. I difensori di Alinor fecero del loro meglio,
ma il
loro meglio fu quasi nulla: degli ottocento ottantotto demoni, solo
ventitre
caddero sulla piana per colpa delle frecce e degli incantesimi degli
Altmer,
tornando all'Oblivion. Il resto, continuò ad avanzare dietro il Sangue
di
Drago, perché fu Karstaag a ricevere il resto degli attacchi e degli
incantesimi al loro posto, scrollandoseli di dosso come acqua.
"Auri El. Cosa è
mai..."
Il Sangue di Drago,
senza sforzo,
senza gesti magici e senza artefatti, aveva evocato dall'aria stessa il
gigante
di ghiaccio: una bestia alta come le porte della città, e che mai le
isole di
Summerset avevano visto. Il respiro degli Altmer si fece di ghiaccio
mentre Kaarstag
muggiva al cielo, levando su di loro quattro occhi malvagi, affossati
nella sua
pelliccia bianca come quella di un orso.
"Fermatelo!" ordinò
il Cancelliere
Supremo dal bastione: tremila fra Volanti e creature dell'Oblivion
obbedirono a
quell'ordine, una nera nuvola di artigli e bocche affamate che si tuffò
sul
gigante.
Perché Kaarstag non
era un evocazione
dell'Oblivion, ma una creatura di Tamriel fatta di sangue e carne, che
il
Sangue di Drago aveva chissà come materializzato: significava, che la
magia
delle mura di Alinor non lo avrebbe arrestato.
Nella schiera degli
attaccanti, Due
Code aprì la bocca ed urlò con quanto fiato aveva in gola:
"Ed il debole udrà il
mio Thu'um
e fuggirà da esso: FAAS RU MAAR!"
Creature che fino a
quel giorno non
avevano conosciuto il significato del terrore lo impararono per la
prima volta
in quell'Urlo: Faas Ru Maar, terrore irresistibile e paura e fuga. Lo
stormo di
creature non si arrestò semplicemente, ma colpì se stesso, mentre i più
vicini
al primogenito del Sangue di Drago travolgevano chi gli stava dietro,
cercando
di fuggire. Alcune fra quelle creature furono preda di un tale terrore,
da
uccidersi sbattendo contro le bianche mura di Alinor, che si
macchiarono di
scarlatto.
E anche Karstaag, il
gigante di
Solstheim il cui spirito era stato sconfitto e soggiogato dal Sangue di
Drago
tanti anni prima, venne colpito dall'urlo, e tutta la sua limitata
intelligenza
fu focalizzata nell'atto del fuggire. Neanche si accorse di aver
divelto le
porte della città, o di averne attraversato i bastioni portando il
primo
inverno delle isole di Summerset; così come non
si accorse di aver travolto case e schiacciato palazzi sotto la
sua
mole. Solo le mura del palazzo di cristallo lo fermarono,
restituendogli un
barlume di ragione: ma al quel punto, circondato com'era da elfi alti,
Volanti
e creature dell'Oblivion che riversavano su di lui sortilegi e frecce,
non ebbe
più importanza. Con un nuovo ruggito, Karstaag congelò l'aria stessa,
evocando
una tempesta di ghiaccio attorno a lui: coloro a cui non congelava il
sangue immediatamente
furono fatti a pezzi dalle macerie che presero a turbinare. Anche in
quello
stato, il potere del gigante, che era stato un tempo scelto come preda
dal
principe daedrico della caccia, non era diminuito.
Fu così che il Sangue
di Drago entrò
ad Alinor, circondato da demoni dell'Oblivion e ammantato dell'aspetto
dei
draghi: il primo Altmer che si parò sul suo cammino nemmeno si accorse
di
venire decapitato con un pugno.
Le guardie di Alinor
non erano ancora
pronte a cedere però: mille lance e frecce e artigli si avventarono su
di lui,
incontrando la luce d'oro che lo copriva, plasmata nella forma di un
drago.
Un'aura i cui occhi rossi fissarono Alinor senza che la città si
riflettesse in
essi.
YOL TOOR
SHUL
Un sole si accese dentro le mura
della città per quell'Urlo, spazzando la nebbia che aveva cominciato a
riversarsi attraverso le sue porte: un inferno di fuoco che consumò
fino alle
ossa tutto ciò che toccò, perfino alcuni fra i Dremora che erano
rimasti troppo
vicini: solo Brelyna e Due Code vennero risparmiati dalle fiamme,
grazie alle
armature che portavano.
Ma la furia del
Sangue di Drago non
poteva essere spenta così facilmente: da tutti coloro che erano stati
consumati
dal fuoco, dalle loro ossa e dalla loro carne, sorsero fiamme come
anguille,
che si nutrirono della cenere. Erano serpenti di fiamma viva affamati
di vita,
che si dispersero in ogni direzione, appiccando fuoco a tutto ciò che
toccavano, fossero case o armature.
Fu solo allora, dopo
che gli effetti
dell'Urlo di terrore erano svaniti dalle loro menti, che i
sopravvissuti dello
stormo degli Altmer tornarono indietro, creando una mischia sanguinosa
in cui
ogni lato mirava agli stregoni avversari, cercando di fermarli prima
che
sterminassero troppi dei loro: solo la superiorità numerica dei Thalmor
permetteva loro di confrontarsi alla pari con i demoni.
"Con me!" ruggì il
primogenito del Sangue di Drago, assaltando le mura, accompagnato da
Markynaz e
Churl, mirando a conquistare la cinta dei bastioni e far piovere magia
e frecce
sugli Altmer.
Elfi e creature
caddero di fronte a
loro, fulminate dalla magia o dalla spada, e i gradini si fecero
viscidi col
sangue dei loro nemici. Nonostante le sue mani fossero vuote, era il
giovane
uomo ad aprire la strada ai demoni: ogni elfo che si parasse di fronte
a lui
cadeva morto col sangue che gli sgorgava dal petto, senza che qualcuno
riuscisse a fermarlo.
La sua ascesa si
interruppe quasi
sulla cima: sul più alto dei gradini, Lord Naarifin lo aspettava con le
mani
raccolte dietro la schiena.
"Non male ragazzo, ma
è ancora
troppo presto per..."
Una macchia rossa si
aprì sulla
spalla dell'elfo, e non fu sul suo collo, perché il cancelliere supremo
si era spostato
di mezzo passo: il Churl a fianco di Due Code divenne una statua di
cristallo.
"Irrispettoso: non ti
hanno
insegnato a non interrompere gli anziani?"
"...E a non giocare
con il
cibo." rispose il giovane uomo.
"Immagino che le
congratulazioni
siano d'obbligo: è la prima volta da anni che qualcuno mi ferisce.
Anche se la
tecnica è grezza denota... inventiva: mischiare così le arti
dell'illusione e
le basi dell'evocazione..."
Dicendo questo, il
cancelliere
supremo chiuse il pugno sopra la spalla ferita, materializzando una
daga fatta del
fuoco dell'Oblivion: un'arma resa invisibile e creata al momento con la
magia,
in una tecnica assassina.
"...Potresti essere
una cavia
interessante, ma non sei alla mia altezza, ragazzo." continuò il
cancelliere supremo, sfilandosi la daga dalla spalla e lasciando alla
sua
taumaturgia il compito di chiudergli la ferita: il pugnale di fiamma
porpora si
disperse in fumo dal suo pugno.
"In verità, speravo
che potessi
dirmi dove si trova mia sorella, pelle d'oro." rispose Due Code,
provocando una risata nei demoni che aveva attorno.
"...Quanta devozione
per le
creature che ti hanno accolto. Mi chiedo se ti renda conto di quanto
sia
malriposta: perché essere fedeli a dei mostri disgustosi?"
Stanchi di aspettare,
la squadra di
demoni alle spalle di Due Code si lanciò sul Cancelliere: anche se
colto di
sorpresa, la prima fila dei Markynaz venne impalata su crudeli
stalattiti di
cristallo, che Naarifin usò anche per ripararsi dalle palle di fuoco
dei Churl.
Per buona misura, l'elfo saltò all'indietro, evitando le spade che
trafissero
il muro di cristallo cercando la sua carne: quei demoni che aveva
ferito a
morte erano già scomparsi, ma altri ne restavano e Naarfin dovette
indietreggiare ancora, liberando spazio e permettendo ai demoni di
riversarsi
sulle mura, mentre i suoi soldati accorrevano in suo aiuto.
Il capitano delle
Guardie di Alinor
cadde in quell'assalto, dopo essere stato trafitto da tre spade diverse
e
decapitato. Le urla di gioia dei demoni e quelle di terrore degli elfi
coprivano ogni cosa:
"Onorerò la mia
signora
DISTRUGGENDOTI!" gridavano i Markynaz mentre i Churl strangolavano gli
Altmer, aggiungendo teste ai loro trofei.
Eppure, oltre le
grida, Naarifin udì
Due Code:
"La prima cosa che
hai detto è
quella giusta..." gli disse, materializzando un arco con la fiamma
dell'Oblivion e indirizzando verso Naarifin una pioggia di frecce.
L'elfo
costruì una spada di cristallo in un istante, una larga lama con un
solo filo,
ricevendo le frecce di Due Code su di essa.
"Noi siamo mostri. E
sensibili
agli insulti..." mentre lo diceva, il giovane trasformò l'arco in due
corte spade e si avventò sull'elfo, facendo cozzare le lame di fiamma
con
quelle di cristallo: "Specie se vengono da esseri meschini."
"Mi sembrava di
avertelo detto:
non sei un avversario alla mia altezza!" con la mano libera, Naarifin
spaccò il naso del primogenito del Sangue di Drago, tentando di
cavargli gli
occhi e costringendolo a indietreggiare.
Il cancelliere
supremo osservò con un
lieve stupore il sorriso sul volto del giovane uomo:
"Ah! Finalmente un
elfo che sa
combattere. Badate al resto della feccia, lui è MIO." ruggì ai demoni
occupati a fendere carne e corazze, che con una risata fecero spazio
attorno a
lui e Naarifin straziando coloro che ancora restavano sulle mura e
indirizzando
le loro frecce e sortilegi sulla mischia sottostante.
"E il mio Thu'um mi
lancerà con
la forza della tempesta: WULD NAH KEST."
Lord Naarifin si
accorse di aver perso
un braccio solo dopo che le spade di Due Code gli aveva attraversato la
schiena. Due attacchi simultanei che all'elfo parvero uno solo.
"...Debole, alla
fine. Come il
resto della feccia." gli sussurrò Due Code nell'orecchio.
"AAARGH!" ruggì
l'elfo e il
giovane uomo dovette abbandonare le spade dentro Naarifin, mentre un
muro di
cristallo circondava il cancelliere. Due Code non era stato abbastanza
veloce:
un rivolo di sangue gli uscì dalla bocca, dato che l'incantesimo di
Naarifin
gli aveva rotto una costola. Quando il muro di cristallo di abbassò,
Naarifin
aveva di nuovo il suo braccio attaccato e le spade nel suo petto erano
scomparse.
"Continui a
sorprendermi con la
tua inventiva ragazzo, nonostante la banalità delle tue tecniche. Ma
sei davvero
lento di comprendonio: tu non sei alla mia altezza."
"Peccato. Mi diverte
lottare con
te vecchio, ma se dovessimo continuare rischierei di ucciderti..."
"Che sciocchezza."
"...Come hai detto
elfo, io sono
stato salvato e accolto da mio padre e da mia madre. Ma perché trovi
così
strana la mia devozione filiale, quando mi hanno dato così tanto? Dove
ero
debole e spaurito, loro mi hanno dato tutto: la magia di mia madre e la
forza
di mio padre."
"E tuttavia, loro
rimangono
mostri!"
"...E di cui
condivido
letteralmente il sangue: non si dice forse tale
il padre così il figlio?" chiese all'elfo.
E poi Due Code
esplose: il suo magro
corpo di uomo si ricoprì di pelliccia nera, mentre zanne e artigli in
grado di
fendere qualunque cosa prendevano il posto di denti e unghie. La sua
corazza
mutò e si deformò, per far posto alla crescita del suo corpo, e in
pochi
istanti Lord Naarfin si trovò a fissare occhi verdi in un muso di
licantropo,
coperto da una corazza magica:
"WOOF!" lo schernì
Due
Code.
"Disgustoso." sibilò
l'elfo: l'incantesimo aveva appena lasciato le sue dita però, che il
licantropo
lo afferrò per una gamba, facendolo roteare sopra di sé come una mazza.
Due
Code era irrealmente veloce in quella forma:
"Mio padre chiede di
voi, Lord
Naarifin!" ruggì Due Code, lanciandolo dalla mura come un giavellotto.
I
Churl e i Markynaz si assicurarono che nessun Volante interrompesse la
sua
caduta.
Il sacco d'ossa e
carne che una volta
era stato un elfo cadde, toccando terra con troppa violenza per
lasciarlo
incolume: la sua preziosa divisa da Thalmor e la sua gorgiera finirono
in stracci
mentre rotolava nella terra umida di sangue. E tuttavia, Lord Naarfin
riuscì a
rimettersi in ginocchio, tossendo mentre muscoli e ossa venivano
rimessi
assieme, e la carne si rimarginava.
"Che sfrontatezza."
disse
il cancelliere supremo non appena la sua bocca si ricompose dietro la
maschera:
quando alzò la testa, sopra di lui, il Sangue di Drago lo osservava nel
mezzo
della carneficina.
Naarifin non urlò
quando il Dovahkiin
lo afferrò per il collo e lo alzò da terra.
***
"...E dunque è questo
che tiene
aperto il portale da cui traggono le loro creature." disse Brelyna,
lasciando cadere l'incantesimo d'illusione con cui aveva potuto
allontanarsi
indisturbata dalla battaglia. Le poche guardie rimaste non erano state
un
impedimento per la strega, che li aveva fulminati tutti prima ancora
che si
accorgessero di lei.
"È più sofisticato di
quanto mi
aspettassi: deve essergli costato molto tempo per realizzarlo. E
tuttavia..."
La staffa con cui
aveva aperto il
portale fuori Alinor le riposava sulla schiena, perché Brelyna brandiva
Kren Lah, la spada creata da suo marito
col legno del Verdorato, e capace di distruggere qualunque forma di
magia.
L'altare su cui il
portale dei
Thalmor era stato costruito, una complicata scultura di falci dorate,
si tramutò
in sabbia sotto il tocco della spada di legno. Il portale cambiò
colore,
passando da un blu profondo ad un porpora livido, ma non sembrò deciso
a
chiudersi. Tuttavia, le creature al servizio dei Thalmor, che ancora
restavano
in città, scomparvero nel nulla come se non fossero mai esistite.
"Strano. Sembra che
qualcosa
stia forzando aperto il portale..." borbottò Brelyna.
"Strano? Io direi
folle!"
disse un'allegra voce dietro di lei.
L'elfa non ebbe
bisogno di voltarsi
per sapere di chi si trattava: occhi da falco in un volto anziano, ma
giubilante, con la più strana delle vesti divisa in due colori, porpora
e
arancio. Il fatto che quell'entità galleggiasse a mezz'aria posando
solo il suo
bastone da passeggio a terra non stupì più di tanto Brelyna: gli aveva
visto
fare cose anche più strane.
"Ho visto cose assai
più
folli." gli ricordò.
"Anche tu? Come un
pomodoro
parlante e una volpe mangiare del formaggio? Se ti chiedi cosa ci sia
di così
folle e perché non hai visto il formaggio! Era smisurato! E aveva delle
zanne!
Bei tempi..."
"Per quale ragione vi
trovate qui?
Credevo che voi Principi non poteste manifestarvi a Tamriel." lo
interruppe educatamente la dunmer.
"Mia cara, cara
Brelyna: tra voi
due, sei sempre stata la mia preferita. Altrettanto astuta, ma meno
distruttiva. Tu sai già perché mi trovo qui, non è vero? Solo che
ancora non lo
sai..."
Il principe indicò il
portale col
bastone, facendo cenno all'elfa di precederlo:
"Vogliamo andare?
Sembra che stia
per piovere e Haskill avrà già preparato the e tartine."
Brelyna dovette
pensarci un momento,
ma poi, contro ogni buon senso, l'elfa varcò il portale per prima: le
rune
tatuate sulla sua pelle rifulsero mentre varcava quella soglia, e il
principe
daedrico la seguì fischiettando un allegro motivetto, chiudendo il
portale
dietro di se.
***
GOL HAH
Ogni osso del corpo
di Naarifin si
incrinò di nuovo, mentre quell'Urlo lo scuoteva: da quella distanza,
tenuto per
la gola dal Sangue di Drago, fu come essere percosso da un maglio.
La sua mente invece,
si fece
impossibilmente vuota e leggera, mentre dolori che pensava di avere
cancellato
dalla sua anima, la disperazione e la perdita, furono lavati via da
quelle
parole: fu il ritorno all'età dell'innocenza, dove ogni cosa non può
farti del
male.
Nemmeno sentì quando
il Sangue di
Drago lo lasciò andare, facendolo cadere sulle ginocchia.
"Kaan?"
E Naarifin rispose,
perché la
creatura che aveva davanti era superba e perché per lui avrebbe fatto
qualunque
cosa in quel momento:
"Nella torre più alta
del
Palazzo di Cristallo. Guardata a vista da Zenosha... che strano, perché
avrei
dovuto dare ordine di ucciderla se le porte di Alinor fossero cadute?
Non
ricordo... tutto mi sembra così... irreale?"
Il Sangue di Drago
non rispose
sentendo la risposta del Lord Cancelliere: l'elfo era nel fango, mentre
la
pioggia cadeva su di lui, lasciando che lavasse via la melma e il
sangue dalla
sua maschera di cristallo. Quando il Dovahkiin alzò lo sguardo per
osservare il
cielo sopra di loro, ormai offuscato quasi del tutto dalla nebbia,
Naarifin non
poté fare a meno di trovarlo nobile e bello.
Sulle mura di Alinor
invece, Due Code,
ancora nella sua forma di lupo, si affrettò ad ordinare ai demoni di
salire al
sicuro, dove la magia dei Thalmor li avrebbe forse protetti.
"Noi non possiamo
morire,
mortale!" lo schernì uno dei Churl.
"Ciò che sta per
arrivare, può
uccidere la morte stessa." ringhiò Due Code.
Lo disse con un tono
tale, che
perfino Khathutessa corse sulle mura:
"Ti preferisco ora,
mortale.
Così forte... anche se eri così delizioso quella volta." gli disse.
"Taci demone. E
lascia che io
ammiri per la prima volta la furia della Voce dei Draghi liberata da
ogni
vincolo."
Quando Khathutessa si
strinse a lui tuttavia, il Licantropo non si scostò da lei.
Mai prima di allora
il Sangue di
Drago aveva usato quell'Urlo completo: nemmeno contro Alduin aveva
osato
richiamare la cieca furia della tempesta, e anche quando aveva
espugnato da
solo Skuldafn, anche allora si era limitato ad una parte dell'Urlo,
solo due
parole. Perché quell'Urlo in particolare era fatto per distruggere
città e per
soggiogare con la paura che esso causava.
Cosa sarebbe potuto
accadere ad
Alinor, ora che il cuore del Sangue di Drago era pieno di rabbia
insensata e
vestiva le anime dei draghi che aveva ucciso, che lo avvolgevano e
amplificavano il suo potere?
STRUN BAH QO
Quelle parole furono
vento, che
scoperchiò i tetti delle case più vicine, e furono il cielo sopra
Alinor, che si
fece nero di nubi di tempesta, e furono il ciclone che risucchiò la
nebbia nelle
strade di Alinor, nascondendo alla città il cielo. L'urlo del tuono fu
il solo
preavviso che i suoi abitanti ebbero prima che la furia di Kynareth si
abbattesse su di loro, indifferente a chi fossero, scuotendo case e
cominciando
ad uccidere ogni cosa, senza risparmiare la più misera forma di vita.
In quel
momento, anche Auri El distolse lo sguardo da Alinor.
Il primo fulmine
cadde su Naarifin e,
per la seconda volta nella sua vita, per l'elfo venne il buio. |
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Capitolo 5 *** Bormath ***
"Anche per voi dunque fu
amore a prima vista,
lady Maryon?"
"Non
esattamente, imperatrice: per noi ci volle un
poco più di tempo."
"Come
successe allora?"
"...Posso
solo dire che mi è impossibile ignorare
qualcuno che mi sorride dopo essere stato trasformato in vari animali e
poi
riportato alla sua forma originaria."
Conversazioni
- Maestà Imperiale Silandra Blacksap
"Ti piace?" chiese
Zenosha,
mostrando a Kaan il pendente che di solito teneva nascosto sotto la sua
corazza.
Un ciondolo piuttosto
misero, fatto di
rame brunito e di nessun vero valore. Un semplice contenitore in
effetti, come
scoprì la bambina aprendolo: all'interno c'era una ciocca di capelli
neri,
tenuta assieme da un laccio di seta.
L'elfa era sorpresa
da come restare
da sola con Kaan la facesse sentire: non che avrebbe mancato al suo
compito comunque,
le era ben chiaro cosa dovesse fare, ma si scoprì ad abbassare le sue
difese. Niente
l'obbligava a condividere con Kaan il suo unico tesoro: semplicemente
Zenosha aveva
sentito il desiderio di farlo, mentre entrambe rimanevano chiuse negli
alloggi
del cancelliere supremo. Seduta sull'unica sedia della stanza, Kaan si
era
annoiata presto di scalciare il vuoto e forse per questo l'elfa aveva
deciso di
placare la sua monotonia: quando la bambina accostò la ciocca di
capelli ai
suoi, verificando che erano dello stesso colore, Zenosha non poté
evitare al
più piccolo dei sorrisi di affacciarsi sul suo volto.
"Sì." confermò
l'elfa:
"Un ricordo di mio padre."
Curvando la testa con
aria interrogativa,
Kaan sembrò guardarla dal basso, ponderando attentamente qualcosa nel
suo muto
silenzio, poi, prima che Zenosha potesse fermarla, la bambina si
afferrò una
delle piume che aveva sulla testa e se la tirò con violenza fino a
strapparsela: la sua radice era ben più spessa di quella dei capelli e
Kaan non
poté impedire ad una buffa smorfia di affacciarsi sul suo volto.
"Perché...?" cominciò
a
chiedere l'elfa, prima di ricordarsi quanto fosse inutile.
Kaan era muta, ed era
impossibile
capire quanto davvero comprendesse della situazione che stava vivendo,
ma non
sembrava che la bambina provasse particolare paura o disagio: eppure
non pareva
che la magia che aveva ereditato dai suoi genitori le avesse toccato la
mente,
eventualità tutt'altro che remota. Certo, c'erano stati dei momenti,
quando
Zenosha l'aveva presa dalle grinfie di Quattro o quando il cancelliere
supremo
aveva ucciso con la magia Tuinden; in cui Kaan si era spaventata e
l'ombra
delle lacrime si era affacciata nei suoi occhi azzurri, ma erano stati
attimi
di breve durata: da quello che ricordava di se stessa, Kaan stava
mostrando più
coraggio di Zenosha nelle stesse situazioni.
Senza poter
rispondere, la bambina
intrecciò in un nodo la sua piuma, l'elfa le aveva tolto le manette,
unendola
poi assieme a quella nera di suo padre e porgendogliele entrambe:
quando
Zenosha si attardò a riprenderle in mano, la bambina saltò giù dalla
sedia con
un lieve sbuffo divertito, mettendo assieme entrambe le ciocche e
richiudendo
il medaglione. L'elfa non pensò nemmeno a fermarla, ma ogni domanda
nella sua
mente venne spazzata via da un quieto bussare alle porte: Zenosha fece
solo in
tempo a nascondere il medaglione di nuovo sotto la corazza, prima che
un nuovo
elfo entrasse nella stanza.
Casualmente, Kaan si
era seduta allo
stesso tempo sul pavimento, a giocare con i nodi del tappeto.
"Ennario, che cosa ci
fate
qui?" chiese Zenosha con la sua voce monocorde.
Il giovane elfo dai
capelli d'argento
sorrise lievemente alla sua superiore: Ennario era una rarità tra gli
Altmer,
perché a differenza di molti altri, portava le sue emozioni sul volto.
L'arte
della sottigliezza e dell'inganno erano sprecate su di lui, e allo
stesso modo,
la divisa di inquisitore Thalmor sembrava sempre essergli un po' troppo
larga.
Il giovane elfo era anche, assieme ai molti altri come lui, uno degli
specchi
del suo tempo: l'unico bene che una guerra possa produrre sono gli
orfani e come
il cancelliere supremo aveva realizzato da tempo, i suoi migliori
agenti erano
sempre quelli che venivano indottrinati da giovani. Le loro storie
erano sempre
uguali: a volte era il fervore dei loro genitori a portarli nelle mani
dei
Thalmor, a volte la morte dei loro parenti per mani nemiche, e altre
volte... a
giovani particolarmente promettenti o che potevano essere utili non
veniva
lasciata altra scelta.
Di Ennario, cresciuto
in un
orfanotrofio dei Thalmor, i suoi genitori si erano liberati non
potendolo
crescere, ricevendone in cambio il peso in monete: un povero scambio,
dato
quanto il giovane elfo fosse sempre stato magro.
"... Speravo di
poterle essere
utile." disse timidamente: perfino il suo nome significa
"ultimo" nella lingua degli elfi alti, eppure questo non gli aveva
impedito di scalare i ranghi della gerarchia Thalmor.
"A badare ad una
prigioniera?
Quale stima avete di me, Vice Inquisitore."
L'elfo si grattò la
nuca imbarazzato
e un lieve rossore si diffuse sulle sue guance: Zenosha sapeva il vero
motivo
per cui il giovane era venuto, ma aveva sempre fatto finta di non
capire. Era
più semplice, per entrambi.
"...Ah no, perdonate,
mi sono
espresso male, non volevo dire questo."
"E che cosa volevate
dire, Vice
Inquisitore?" Negli anni, Zenosha aveva perfezionato l'arte di
rimuovere
ogni intonazione dalla sua voce, rendendola il più possibile piatta e
priva di
intenzioni. Una dote a cui doveva la sua stessa sopravvivenza.
"...Ecco, a costo di
sembrarvi
sfrontato, penso che questo incarico non sia degno di voi. Occuparvi di
qualcosa
come quella..." disse l'elfo indicando Kaan, "Volevo sapere se potevo
fare qualcosa per alleviarlo: potrei prendermi cura io della
creatura..."
"Vice Inquisitore
Ennario."
l'interruppe Zenosha.
"Sì?"
"Nessun compito
datomi dal lord
cancelliere è mai troppo gravoso o troppo umile. Sua eccellenza mi ha
dato un
ordine: badare all'ibrido fino a quando notizie di vittoria non
giungeranno in
questa stanza. O sopprimerla, se le porte di Alinor dovessero cadere.
Mi state
chiedendo di disobbedire ai suoi ordini?"
"No! Certo che no...
volevo solo
sapere se potevo esservi d'aiuto o almeno... di compagnia." disse
infine
Ennario: l'ultima frase gli sfuggì di bocca e l'elfo abbassò lo sguardo
a
terra, cercando di nascondere il rossore sulle sue guance. Una cotta:
ecco cos'era.
Una stupida infatuazione. Eppure Zenosha non riuscì a chiudere il suo
animo a
quell'esistenza, per quanto giovane fosse: l'elfa non era mai stata
abbastanza
forte per quello.
"Vice Inquisitore?"
gli
chiese invece, cercando ancora di appiattire il più possibile la sua
voce.
"S- Sì?" balbettò
Ennario.
"Voi siete fedele ai
Thalmor?"
"Ma certo... !"
Zenosha lo
interruppe con un gesto della mano:
"Non è mia intenzione
mettere
alla prova la nostra fede, Vice Inquisitore, ne il vostro onore.
Desidero solo
conoscervi meglio: perché dunque siete fedele ai Thalmor?"
Il giovane elfo
deglutì e strabuzzò
gli occhi, mentre cercava di scacciare le fantasie che desidero
conoscervi meglio gli avevano causato.
"...Vice Inquisitore?"
"Perdonatemi... è
solo una
domanda che non mi è stata mai fatta." l'elfo dovette raccogliere le
idee
prima di rispondere: "Io sono convinto, anzi so, che viviamo in un
mondo
imperfetto: ci sono così tanti errori a Tamriel. Così tante eresie e
tragedie... I Thalmor... noi, rappresentiamo la migliore possibilità
per questo
mondo. Lo troverà ingenuo forse..."
"Affatto, vi prego,
continuate."
"... Credo, benché io
stesso sia
meno che perfetto, di poter essere uno strumento per la via verso la
perfezione. Per la giusta ascesa di noi Altmer, il nostro diritto di
nascita. I
nostri mezzi sono limitati, e a volte... despicabili, ma io sono
convito che il
fine che Lord Naarifin e lei incarniate... valga i mezzi."
"Dunque sono certa
ubbidireste a
qualunque ordine vi venga dato da un vostro superiore?"
"Certamente: non è
forse questa il
più importante precetto di un buon Thalmor?" rispose l'elfo con un
sorriso.
"E se ora vi
ordinassi di
prendere la spada che porto alla cintura e trafiggermi il cuore?"
La bocca di Ennario
si aprì e si
chiuse senza emettere alcun suono.
"...Perdonatemi
Ennario: vi ho
fatto una domanda crudele. Avevo detto di non voler mettere alla prova
la
vostra fedeltà e mi sono contraddetta." Zenosha finse un sospiro ed il
giovane inquisitore reagì come si aspettava. Ennario cercò di
innalzarsi al
massimo della sua altezza, gonfiando il petto: era ridicolo per certi
versi, ma
la sua ingenuità impediva a Zenosha di trovarlo divertente.
"... Io obbedirei a
qualsiasi
vostro ordine, o di Lord Naarifin. Anche se non proverei piacere
nell'eseguirlo,
tuttavia non mancherei mai al mio compito come Thalmor."
Zenosha divette
schiarirsi la gola
prima di continuare:
"Una buona risposta,
Vice
Inquisitore. Ma come Thalmor dovrete imparare ad estirpare ogni
emozione dal
vostro animo: come avete detto, la nostra causa è grande, ma minacciata
da ogni
lato da nemici. Ed essi non ammettono pietà, ne indugi. È una fortuna
che siate
così giovane: avete... tempo per migliorarvi."
Le veniva così facile
mentire ormai.
"Grazie, lady
Zenosha." Se
Ennario si fosse inchinato appena un po' di più, sarebbe senza dubbio
caduto.
Fu allora che caddero
le porte di
Alinor.
Il rumore lontano
della Voce dei
Draghi riverberò fino a loro, come un vento di tempesta, portando sulle
sue ali
il tremito e il rimbombo di passi sempre più vicini. Zenosha ed Ennario
sentirono il Palazzo di Cristallo tremare attorno a loro e
l'incredulità sul
volto del giovane elfo rifletteva la sua. E poi ci fu l'impatto,
colossale,
impossibile, come un terremoto, quando Kaarstag il gigante di ghiaccio,
arrestò
la sua carica contro il palazzo, sventrando il muro di cinta e
schiacciando
sotto la sua mole case, pietre ed elfi.
"Mia Lady!" fu l'urlo
singhiozzato dai corridoi, mentre una guardia correva verso le stanze
del lord
cancelliere.
Da fuori, un ruggito
bestiale scosse
Ennario, mentre Kaarstag iniziava la sua opera di insensata distruzione.
"Le porte della città
sono state
sfondate!" riferì una guardia aggrappandosi allo stipite delle porte,
il
primo dei molti Altmer che si riunirono sulla soglia. Tutti stavano
guardando Zenosha
ora, perché l'impossibile era avvenuto: il Sangue di Drago aveva appena
espugnato la città.
"...Cosa... che cosa
sta
succedendo là fuori?"
E la guardia
pallidissima rispose:
"Un gigante, mia
lady: ha
sfondato le porte della città ed ora è alle mura est del palazzo."
"Inviate ogni soldato
disponibile a ucciderlo: sua eccellenza li fermerà alle mura, noi ci
occuperemo
della situazione qui."
"Come comandate mia
Lady."
"Va con loro,
Ennario: io ho un
compito a cui assolvere." disse Zenosha guardando la bambina. Neanche
si
accorse dell'inchino che il giovane elfo le fece.
Quando fu di nuovo
sola con Kaan,
Zenosha estrasse la spada, mentre nella sua mano riluceva la luce di un
incantesimo...
***
Da quando hanno
rapito sua figlia, Coda
Spezzata, l'ultimo Sangue di Drago, ha perso se stesso nella furia: ciò
che ha
fatto e sta facendo ad Alinor non è guidato da istinti paterni o
mortali, ma
dalla sete di vendetta contro coloro che hanno osato prendere ciò che è
suo.
Questo significa
essere Sangue di
Drago: se la furia della tempesta che ha evocato dovesse uccidere suo
figlio e
sua moglie o sua figlia, ammesso che sia ancora viva, in questo momento
per lui
non farebbe differenza. Se dovesse succedere, il Sangue di Drago
varcherebbe le
porte dell'Oblivion per riprendere le anime dei suoi cari e riportarle
di nuovo
a Tamriel: sarebbe un atto mostruoso, ma nella sua furia, il Dovahkiin
travolge
ogni cosa. Non ha rimorsi il Sangue di Drago mentre cammina per Alinor
seguendo
le orme di Kaarstag, e i fulmini gli cadono attorno: i suoi cari
sopravvivranno
alla tempesta, oppure no.
Niente può domare la
sua rabbia e
dove il fulmine tocca terra, tutto è incenerito e distrutto: i
leggiadri
palazzi di Alinor vengono scossi, mentre il vento strappa via facciate,
i
fulmini scoperchiano tetti e la terra inghiotte fondamenta.
Coloro che lo
affrontano, disperati,
sono convinti che uccidendolo quella distruzione avrà fine: Coda
Spezzata non
si preoccupa di educarli del contrario. La furia ormai viene dal cielo,
non più
da lui: per tre volte squadroni di guardie Altmer, nelle loro armature
di
cristallo e oro si scontrano con lui, e per tre volte la sua spada
daedrica, il
cui nome inciso sulla lama in rune si legge Zahkrii,
fende gli schieramenti nemici senza pietà. Uomini e armature, spade e
corazze,
niente rimane intatto al passaggio della sua spada, mentre incantesimi
di fuoco
e fulmine si infrangono sulla sua armatura senza produrre effetti.
Il sangue degli elfi
scorre per le
strade di Alinor, prima di venire anch'esso cancellato dai fulmini che
cadono
dal cielo: la volontà del Sangue di Drago e che nulla rimanga della
città, ed
il cielo gli obbedisce.
E quando i suoi passi
lo conducono
davanti al Palazzo di Cristallo, perfino Karstaag, che fino a quel
momento
aveva fedelmente combattuto per lui, cade sotto la sua spada: Coda
Spezzata lo
priva di una gamba, prima di tagliargli la testa con Zahkrii,
ruggendo al cielo la sua furia e la sua follia, assieme al
lampo e al tuono.
Il suo contratto col
gigante di
ghiaccio, stipulato anni prima nell'isola di Solstheim non è ancora
decaduto:
due altre volte ancora Coda Spezzata potrà chiamarlo a se.
Per gli ultimi Altmer
rimasti a
difesa del palazzo, i sortilegi del Dovahkiin sono già troppo: fulmine
e fuoco
devastano le loro carni, mentre illusioni ottenebrano le loro menti
facendoli
cadere nell'isteria più completa, che li porta ad uccidersi fra loro.
Solo di
coloro che si trovano sul suo cammino, Coda Spezzata prende la testa:
quando
avrà demolito il Palazzo di Cristallo, l'ultima effige ancora intatta
di quella
città, allora il Sangue di Drago marcerà sul suo porto e darà fuoco a
tutto ciò
che si trova in esso.
La storia della città
di Alinor, i
millenni della sua eredità, scompariranno dalla memoria.
"LOK VAH KOOR."
E le nuvole sopra il
Palazzo di
Cristallo vennero stracciate, permettendo al sole di passare, mentre i
fulmini continuarono
a cadere sul resto della città.
***
Zenosha aveva provato
un grande senso
di liberazione quando aveva eretto attorno a se e a Kaan la barriera
mistica:
era l'unica arte in cui potesse dire di essere superiore a tutti gli
altri
Thalmor, Naarifin incluso.
Era un incantesimo
che la riconnetteva
al suo passato e anche un precetto assoluto, poiché fino a quando la
sua spada
fosse rimasta piantata nel pavimento della stanza, niente e nessuno
avrebbe oltrepassato
le sue porte: ne frecce, ne sortilegi, ne creature dell'Oblivion o di
carne e
ossa. Avrebbe potuto essere il futuro delle difese magiche dei Thalmor,
se ci
fosse stato il tempo di perfezionare l'incantesimo, ma Zenosha non
aveva mai
insegnato quel sortilegio a nessuno, anche se avrebbe potuto rendere
superflue le
mura di pietra di luna degli Altmer.
Il pavimento della
stanza riluceva di
linee sottili, che si intrecciavano formando cerchi e simboli di
incantamento,
rune e frasi, che si espandevano sulle pareti e sul soffitto,
fortificando,
unendo, negando e legando assieme. Un incantesimo che era un'altro
ricordo di
suo padre e l'ultimo che le rimanesse di lui.
Emozioni di nostalgia
e perdita si
affacciarono sul suo animo mentre Zenosha sigillava l'incantesimo con
una
lacrima: al suo fianco, Kaan si era aggrappata alla sua corazza.
Con gesti misurati e
lenti, Zenosha
si tolse l'elmo, mentre i fulmini cominciarono a cadere sulla città.
"I tuoni ti
spaventano?"
Kaan negò con la
testa e l'elfa si
legò l'elmo alla cintura, sedendosi per terra al suo fianco. I guanti
della sua
corazza vennero via e l'elfa li gettò lontano.
"...A me moltissimo.
Quando ero
bambina, avevo così paura della tempesta che ogni volta mi nascondevo
sotto il
mio letto. Allora mio padre strisciava al mio fianco, e mi teneva
stretta
raccontandomi storie fino a quando non mi addormentavo di nuovo. E
quando mi
svegliavo nel mio letto, il mattino dopo, lui era ancora al mio
fianco...."
L'elfa si interruppe
quando Kaan la
abbracciò, stringendo quanto più forte le fosse possibile:
"Vorresti farmi
compagnia,
mentre questa tempesta è su di noi?"
Kaan assentì con
tutta se stessa:
"Grazie. Sei davvero
una bambina
coraggiosa."
Per la prima volta,
con anni di
ritardo, Zenosha poté esprimere il lutto per la perdita di suo padre.
Quando il fulmine si
portò via un
pezzo del muro della stanza, l'elfa non poté fare a meno di gridare: il
suo
incantesimo aveva retto, ma ora la sua vista spaziava su ciò che
restava di
Alinor.
"Mi fai male." disse
una
vocina sottile tra le sue braccia.
Quando Zenosha aprì
le sue braccia,
Kaan la stava guardando con occhi pieni di calma fiducia:
"Sai parlare..."
Kaan assentì con la
testa:
"Ma non mi piace
farlo: a volte
succedono cose brutte quando parlo."
"Quali cose?"
La bambina indicò il
paesaggio sferzato
dalla tempesta aldilà della barriera magica:
"Cose come quella."
Diversi incendi si
erano propagati
per la città, e fulmine e fuoco rivaleggiavano per consumare Alinor: il
tuono
riecheggiò nella stanza anche attraverso la barriera e Zenosha ne sentì
il riverbero
nelle ossa. Lo sguardo di Kaan ora, era catturato dalla distruzione che
cadeva
sulla città:
"Questa è l'ira di
mio
padre." disse serenamente, quasi con una punta di orgoglio: "Fa un
po' paura, non credi?"
"Sì." disse l'elfa
con un
filo di voce.
Qualsiasi odio lei
avesse avuto per
Alinor, veniva lavato via in quel momento assieme alla pioggia: nessuna
città
meritava una simile fine.
"...Sai perché non ho
paura dei
tuoni?" le chiese Kaan.
"No."
"Perché mio padre mi
ha
insegnato a calmare il cielo e cancellare la nebbia e il tempo
inclemente." dicendo questo, Kaan lasciò andare la mano di Zenosha,
avvicinandosi pericolosamente allo squarcio nel muro: di fronte alla
furia del
cielo e al fuoco sulla terra, cosa poteva fare una bambina così piccola?
"LOK VAH KOOR!"
Assordata da
quell'Urlo, Zenosha non
sentì gli strattoni e i lamenti che provenirono oltre l'uscio delle
stanze.
***
Ennario correva,
vagamente
consapevole della sua destinazione, la mente sconvolta dal panico:
stava
disobbedendo agli ordini, ma cosa avrebbe potuto fare, da solo?
Non era stato il
gigante a
terrorizzarlo: è vero, il suo fiato era più gelido dell'inverno e la
sua
pelliccia impervia ad ogni sortilegio, ma Ennario l'aveva affrontato
comunque,
fianco a fianco con i suoi compatrioti e compagni. Anche quando il
cielo aveva
scatenato la sua furia, nemmeno allora, Ennario aveva indugiato:
l'insegnamento
di Zenosha era limpido nella sua mente, e l'elfo aveva soggiogato la
sua paura,
anche quando i fulmini avevano fatto scoppiare come sacchi di sangue
gli elfi
attorno a lui. Lo spruzzo caldo in faccia aveva appena intaccato la sua
risolutezza.
Ma quando il gigante
era caduto e
quella... cosa aveva ruggito al cielo sul suo cadavere, macellando gli
ultimi
superstiti attorno a lui e lasciandolo solo, tutto solo, l'ultimo degli
Altmer
a difendere il Palazzo di Cristallo...
Ennario fuggiva da
quell'essere:
l'elfo aveva già visto dei draghi, cerature uccise dai Thalmor, ed un
drago quell'essere
gli era sembrato, ma non come gli altri. Un anima grigia e nera, come
organi
traslucidi, ricoperta da pelle di luce, screziata come l'arcobaleno, e
dagli
occhi rossi, così rossi e terribili...
Ennario fuggiva da
lui, sapendo che
quella creatura non lo avrebbe permesso, sapendo che qualcosa, non Lui, ma qualcosa, lo stava già
inseguendo.
Era come trovarsi in
un incubo e la
consapevolezza di non poter fuggire gli attanagliava le viscere: quando
le
porte della stanza in cui aveva lasciato Zenosha non si aprirono di
fronte a
lui, Ennario poté solo continuare a spingere, fino a che...
"Hai mai sentito la
storia di
Mathieu Bellamont, e del grande inganno di Cheydinhal? Uccidi la madre
di un
ragazzo, e la vendetta avvelenerà il figlio."
Appoggiato con la
schiena contro la
porta, l'elfo finalmente lo vide: nella luce surreale della tempesta,
attraverso i suoi occhi sporchi di sangue non suo, una figura si ergeva
nel
corridoio, con una lama nel pugno. Un uomo con un cappuccio che non
permetteva
ai suoi occhi di essere visti, col più strano dei sorrisi sul volto.
Schiavo
del suo panico, Ennario scagliò una palla di fuoco nel corridoio, ma la
sfera
di fiamma attraversò l'uomo passandogli attraverso, e dando fuoco agli
arazzi
con lo stemma dei Thalmor dietro di lui.
L'uomo rise, con una
ricca voce di
basso, una voce che non poteva essere di questo mondo:
"Vorresti uccidermi?
Qualcun
altro ha già avuto quell'onore." disse la figura ridendo ancora, perché
egli era il fantasma di un Oratore della Fratellanza Oscura, che era
stato
torturato, mutilato e divorato per poi essere appeso per i piedi dai
suoi stessi
confratelli. Nella sua furia, il Sangue di Drago aveva evocato anche
quello
spettro, perché facesse dei vivi ciò che voleva.
"...Riesci a
sentirlo? C'è
musica di morte nell'aria. Ma non temere: non c'è dolore nel VUOTO!"
Con l'ultima parola,
un grido folle e
grondante di massacri ormai passati, lo spettro si gettò su Ennario,
affondando
la sua lama fantasma nella carne dell'elfo ancora e ancora, fino a
quando il
suo pugnale divenne così rosso da sembrare quasi vero, non più solo
spirito.
Solo allora si arrestò, passando attraverso il pavimento per cercare
altre
vittime, altre prede nascoste nel Palazzo di Cristallo.
Quando il Sangue di
Drago arrivò
sulla scena, il fuoco avvolse ciò che restava di Ennario: niente
sarebbe
rimasto di Alinor, nemmeno il nome o i corpi di chi l'aveva abitata.
Zahkrii, che poteva
tagliare
qualunque cosa, si abbatté sulla porta.
***
Zenosha lo avvertì,
piuttosto che
sentirlo: attraverso il sortilegio che la legava alla stanza, fu come
una lama
di ghiaccio dietro gli occhi. Qualcuno o qualcosa di assai potente,
stava
cercando di spezzare il suo incantesimo: normalmente qualcosa di simile
era
impossibile, eppure Zenosha aveva avvertito le linee del suo sortilegio
dissiparsi e riformarsi attorno a quel tentativo di intrusione:
qualunque cosa
fosse, non era una comune lama quella che cercava di forzare la porta.
Dall'altro lato
dell'uscio, il
Dovahkiin rinfoderò Zahkrii, perché quella lama non avrebbe potuto
forzare
quell'incantesimo, ed estrasse Unslaad
Bahlok, la spada forgiata tre volte con la quale aveva ucciso
Alduin.
L'incantesimo di
Zenosha cadde come
se non fosse mai esistito: non fu spezzato, ma divorato, e l'elfa
percepì la
strana sensazione di quella scomparsa, come se fosse stata inghiottita
una
parte di lei. Quando l'uscio si aprì su ciò che si trovava al di là,
l'ultima
cosa che Zenosha si sarebbe aspettata di sentire fu:
"Bormath!" cinguettò
deliziata Kaan, e la stanza tremò loro attorno per quella parola in
lingua dei
Draghi.
Prima che Zenosha
potesse fermarla, la
bambina corse da suo padre, cingendogli la corazza delle gambe e
affondando il
viso nel mantello di pelli di orso, per poi aprire le braccia per
essere
sollevata in aria, cieca all'aspetto del suo genitore.
Era amore e fiducia
alimentata da
esso, perché per quanto suo padre fosse capace di inaudita violenza,
per quanto
una parte di suo padre fosse mostruosa, Kaan sapeva che lo stesso
sangue
scorreva in lei e in suo fratello, per quanto in forme differenti.
Kaan era convinta che
suo padre non
le avrebbe mai fatto del male.
E le mani squamose di
Coda Spezzata,
che avevano distrutto una città e si erano sporcate col sangue di
innumerevoli
vite rinfoderarono Unslaad Bahlok, e
trassero a se sua figlia.
L'aura di drago che
lo avvolgeva si
disperse come un brutto sogno, come l'inverno fa all'arrivo della
primavera,
mentre Coda Spezzata, che i suoi amici chiamavano Haraan e la sua
famiglia
Cuetzaltzin, osservava negli occhi sua figlia.
Anche Zenosha lì
osservò a lungo, mentre
la fronte della piccola Kaan si appoggiava al muso da coccodrillo di
suo padre:
l'elfa si chiese se un tempo fosse stato così anche per lei.
Fu solo dopo essersi
riempito gli
occhi con la sua vista, ed il naso col suo profumo, che Coda Spezzata
lasciò
andare sua figlia, accogliendo nella sua mano così grande quella
piccola della
sua bambina: scaglie nere come la notte, attorno a pelle del colore
della
cenere.
"Zenosha. Non ci
vediamo da
tempo." le disse.
"Troppo, Haaran.
Davvero
troppo." disse l'elfa alzandosi in piedi.
"Quel colore... non
ti dona
affatto." rispose l'Argoniano indicando la sua corazza d'oro: "Il
nero.. ti si addiceva molto di più."
"Dopo dieci anni è la
prima cosa
che sai dire?" rispose Zenosha: "... ma è anche vero che non vedo
l'ora di indossare qualcosa di più confortevole. Magari bianco..."
Erano passati già
dieci anni dal loro
primo incontro? Erano passati dieci anni da quando Zenosha aveva
chiesto aiuto
al Sangue di Drago, prima ancora che scoppiasse la seconda guerra
elfica, per
abbattere il regime Thalmor e salvare gli Altmer? O era invece passato
così
poco tempo da quei mesi in cui il Sangue di Drago aveva impartito a
Zenosha il
sapere e le conoscenze e l'addestramento necessario per rimanere nelle
fila del
nemico così a lungo?
L'elfa non sapeva
decidersi: amicizia
e stima, complicità e sollievo si mescolavano in lei, per aver portato
a
termine il loro comune disegno, che aveva richiesto così tanti
sacrifici e
rinunce personali.
Ai tempi, quando era
giunta in
segreto assieme alla delegazione imperiale a Solitude, mesi dopo la
fine della
ribellione dei Manto della Tempesta, Zenosha aveva solo un vago disegno
per far
cadere il regime Thalmor e lord Naarifin, e la mente e il cuore piena
di
vendetta: Coda Spezzata le aveva ridato equilibrio.
"Grazie Zenosha."
disse
improvvisamente il Dovahkiin: "Mia figlia è stata tenuta al sicuro
grazie
a te. Ti sei presa cura di lei, quando io non potevo farlo. Grazie."
E il Sangue di Drago,
che mai prima
d'ora si era inchinato di fronte a uomini o dei, quell'essere temuto da
creature
e da demoni, mise il ginocchio a terra di fronte a Zenosha, chinando la
testa:
l'elfa non gli disse di alzarsi, semplicemente gli posò le mani sulle
spalle.
"E tu hai salvato il
mio cuore e
la mia anima quando stavano per scomparire, amico mio: con questo ho
solo
ripagato il debito che avevo nei tuoi confronti."
Il Sangue di Drago si
alzò in piedi
sotto la sua mano, guardando Zenosha negli occhi, facendo un passo
indietro e
prendendo Zahkrii dalla cintura e soppesandola con due mani:
"Pochi sono stati
coloro che ho chiamato
amici nella mia vita Zenosha, e non esiste debito in un'amicizia:
questa è
Zahkrii, che taglia qualunque cosa. La strada davanti a te sarà ancora
difficile,
regina degli elfi alti, ma questa spada potrà proteggerti lungo la via,
se la
imbraccerai."
Zenosha prese Zahkrii
dalle mani di
Coda Spezzata, soppesando la lunga spada, forgiata come una katana
degli
Akaviri, ma fatta di acciaio daedrico: sembrava fosse stata fatta per
adattarsi
non solo alla sua mano, ma a quella di chiunque l'avesse impugnata.
"Altmere
Arelle." recitò Zenosha nella lingua degli elfi:
"Regina degli Altmer... sono davvero la persona giusta?"
"Questo, solo tu puoi
saperlo,
amica mia. Per quello che vale, il trono delle isole di Summerset non
potrebbe
andare a persone più adatta di te: gli Altmer hanno bisogno di qualcuno
che li
scuota dai loro incubi."
"...Per quello che
vale? Pensi
forse che la tua opinione abbia così poco valore?"
"Si pensa sempre che
io abbia
ulteriori motivi..." disse il Sangue di Drago con un sorriso "Perché
tutti voi vi affannate a cercare un intento segreto nelle mie azioni?
Nessuno
di voi vuole credere mai che il mio unico intento sia quello di rendere
più felici
le persone che ho attorno... che lo vogliano o no." finì Coda Spezzata
con
un sorriso da drago.
"Adesso ti riconosco
amico
mio... a proposito: pensi di poter fare qualcosa per la tempesta?"
disse
Zenosha indicando la distesa che era stata Alinor, al di là dell'occhio
del
ciclone creato da Kaan: un sacrificio necessario, l'ultimo, per
assicurare che
la mostruosità di menzogne e cadaveri e sopraffazioni che era stato il
regime
Thalmor non potesse risorgere dalle ceneri.
Coda Spezzata scosse
la testa:
"Una volta
richiamata, la furia
del cielo deve fare il suo corso: non manca molto ormai."
"Papà?"
"Sì Kaan?"
"Mi sono sempre
piaciuti i
giorni di pioggia."
"Anche a me." rispose
il
Sangue di Drago sereno, scompigliandole le piume: "...Quanto sono stati
difficili questi anni, Zenosha?"
Osservando la città
venire rasa al
suolo sotto la furia del cielo, la regina degli elfi raccontò al suo
unico
amico le conseguenze della sua scelta di dieci anni prima: di farsi
carico
della sopravvivenza degli Altmer, indossando gli odiosi panni dei
Thalmor.
Fu un racconto lungo
e pieno di
dolore e di episodi terribili che Kaan non sentì, perché si addormentò
molto in
fretta in braccio a suo padre, complice un piccolo aiuto di magia: non
c'era
bisogno che crescesse prima del tempo. Quando l'elfa ebbe finito, Coda
Spezzata
avrebbe volentieri distrutto altre città: non sembrava esserci limite
alla
crudeltà dei mortali gli uni verso gli altri.
"Mi dispiace solo che
tu abbia
dato il colpo di grazia a Naarifin: avrei volentieri ornato il mio
trono con la
sua testa."
Senza preavviso, alle
loro spalle si
aprì un portale sull'Oblivion, che risputò Brelyna a Tamriel,
richiudendosi
subito dietro di lei: la dunmer portava con se un lungo oggetto avvolto
in
quelle che sembravano essere le più orribili tende che Tamriel avesse
mai
visto.
"....Questo desiderio
potrebbe
ancora essere esaudito." rispose la strega con aria cupa: la tempesta
andava perdendo di forza, ma la battaglia non sembrava essere ancora
pronta a
finire. |
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Capitolo 6 *** Jyggalag ***
Si dice che il sangue
scorra più denso dell'acqua, e
che non sappia mentire. Mi è stato insegnato però che non è ciò siamo,
o ciò che
ci scorre nelle vene, che dovrebbe determinare i nostri desideri: sono
le
nostre aspirazioni per un domani migliore che dovrebbero guidarci.
Kaan la
Leggiadra - Discorso inaugurale del feudo di
Skuldafn all'incontro degli Jarles per l'elezione del nuovo Re dei Re
di
Skyrim.
"Hai mai visto
qualcosa di simile,
Khathutessa?"
La demonessa al suo
fianco sorrise
prima di rispondere: il cielo taceva ora, ma sotto di loro, nell'anello
delle
mura ormai interrotto dove palazzi troppo alti erano franati sopra di
loro, la
piana restava silenziosa.
"...Ho visto l'ira
dei Principi
spazzare l'Oblivion ed incenerire interi piani di esistenza molte
volte. Intere
realtà bruciare nel conflitto solo per essere distrutte... ma qui? A
Tamriel?
Dove la realtà è invece assai meno mutabile e impossibile da piegare
con la volontà?
È la prima volta che il mio spirito assiste ad una distruzione così
completa."
Fulmine e fuoco
avevano cancellato la
città: a parte il Palazzo di Cristallo, nulla si ergeva per più di una
singola
pietra, ma perfino dalle mura Due Code riusciva a vedere quanto
precaria fosse l'unica
costruzione che ancora si ergeva al centro della città. Una lieve
pioggia
batteva sulle rovine, lavando via il poco che restava: l'ira del cielo
era
venuta facendo il suo corso ed era ora finalmente passata.
"ARUHHHH!" ruggì
Khathutessa dalla mura, levando i pugni al cielo con un espressione
estatica: i
suoi demoni gridarono e risero con lei, lamentando la carneficina che
era già
finita e celebrando la strage che avevano compiuto.
La prima lancia di
cristallo si
infranse nelle loro fila impalando proprio la demonessa. La seconda
sfiorò la
spalla di Due Code portandogli via una spallaccio, mentre uno spruzzo
di sangue
non suo gli bagnava la faccia.
Come osa?
In futuro, Due Code
riuscirà a
distaccarsi dal suo desiderio di non venire abbandonato dalla sua
seconda famiglia,
riuscirà a convincersi che ciò è successo ai suoi primi genitori non
potrà
accadere di nuovo e che non ha nulla da dimostrare a loro. Ma dopo che
la
corazza che è stata forgiata per lui dal suo secondo padre, e l'unico
fra i due
che abbia conosciuto, viene intaccata, è come se la sua stessa identità
di Due
Code fosse stata spezzata: per un secondo, il giovane uomo è di nuovo
un
bambino troppo piccolo e solo, che si
stringe attorno ad ossa e candele per tenere fuori il buio e il freddo.
Imperdonabile
I suoi artigli di
lupo forano la
bianca pietra di luna mentre si tuffa verso il basso, evitando la
pioggia di
lance di cristallo: la salva uccide i demoni che sono rimasti
impietriti a
guardare Khathutessa, rispedendoli nell'Oblivion. Solo pochi Markynaz
hanno la
presenza di spirito di tuffarsi come lui giù dalle mura, evitando per
un soffio
gli artigli di cristallo.
Imperdonabile
Due Code è divorato
dal livore mentre
corre nella sua forma di lupo: solo una bestia priva di raziocinio,
appena
capace di schivare i proiettili che gli vengono lanciati contro.
Sempre. Più.
Vicino...
Nel suo slancio, Due
Code sente i
suoi artigli fendere qualcosa e il cristallo cedere, ma quando si
volta,
Naarifin è ancora in piedi, con la sua maschera sul volto intatta.
"Ti avevo detto che
non eri alla
mia altezza, ragazzo."
La risposta del
giovane licantropo è
un ruggito ed un nuovo assalto: questa volta, Naarifin lo afferra per
la
collottola e lo spedisce nel fango con un gesto distratto:
"Qualcosa non va?"
gli
chiese l'elfo.
Ingoiare terra e
sentirsi il fango
gelido scorrere dentro l'armatura gli restituisce un po' di lucidità,
abbastanza da accorgersi che nel momento in cui Naarifin l'ha toccato,
la sua
forma di licantropo è venuta meno e, per quanto Due Code si sforzi, il
suo lupo
non risponde al richiamo.
"Piuttosto
impressionante, lord
Naarifin." ammette Due Code: "Nemmeno mia madre ci è mai
riuscita."
"Non paragonarmi ad
una
dunmer." Rotolando nel fango, Due Code schiva un altra lancia di
cristallo: è stato l'istinto a farlo muovere, perché il giovane uomo si
rende
conto che senza i suoi riflessi di Licantropo quei proiettili sono
invisibili.
"...Il solo pensiero
è
rivoltante. E se ora potessi restare fermo e farti uccidere, te ne
sarei molto
grato."
Come se
avessi bisogno della mia collaborazione... pensò Due Code, ma dalla
bocca gli
uscì ben altro:
"Non sono molto
interessato ad
assecondare le richieste di un vecchio elfo nudo e mascherato."
Questo diede pausa al
loro scontro:
fu la volta di Lord Naarifin realizzare che per quanto il suo corpo
fosse di
nuovo vivo, i suoi vestiti erano stati fatti a pezzi e bruciati quando
la
tempesta si era abbattuta su di lui.
"Oh... piuttosto
imbarazzante.
Scusami un momento..."
"Ma certo..." disse
Due
Code, evocando un arco di fumo e lanciando contro Naarifin
una mezza dozzina di frecce. Fu
inutile, ovviamente, perché i suoi dardi fantasma scomparvero prima di
trafiggere il corpo dell'elfo, nel frattempo, Lord Naarifin stava
materializzando una veste di inquisitore Thalmor, con tanto di
gorgiera.
L'unica differenza
rispetto a quella
che aveva indossato l'ultima volta, consisteva nel fatto che questa
fosse tutta
di colore grigio, anche se sempre bordata d'oro.
"...Suvvia ragazzo:
cercare di
sfruttare un momento di debolezza del tuo avversario è banale strategia
di
base, ma un minimo di etichetta dovrebbe esserti stata insegnata." lo
canzonò l'elfo.
"La mia istruzione
era
focalizzata più sul sopravvivere ad una battaglia." Unendo entrambe le
mani, Due Code evocò un globo purpureo e poi semplicemente, sparì.
Un lancia di
cristallo si infisse nel
punto in cui fino ad un attimo prima si era trovato il giovane uomo,
mancandolo
di nuovo:
"...Irritante."
mormorò
Naarifin: "Speravo di riuscire ad ucciderlo prima che arrivaste, Sangue
di
Drago."
"E io vi speravo
morto."
disse Coda Spezzata, mentre suo figlio si svelava al suo fianco.
Brelyna e
Zenosha erano subito dietro di loro.
"È dunque questo che
avete
insegnato a vostro figlio? Ad essere un codardo?"
"Provocazioni simili
non hanno
effetto su mio padre, Thalmor... e inoltre, sottrarre una preda ad un
Alfa...
non è una scelta intelligente."
"Credete davvero di
potermi
sconfiggere da solo?"
"Non da solo." disse Brelyna, passando Kaan, ancora mezza
addormentata, fra le braccia di suo fratello: "Credo di avere lo stesso
diritto di farvi a pezzi."
Due Code si allontanò
il più in
fretta possibile, cercando nuovamente rifugio sulle mura: restare
vicino a quello
scontro non era saggio con sua sorella in braccio.
"Con tutto il
rispetto
possibile, lady Maryon, ho vissuto all'ombra di questo individuo troppo
a lungo
da restare a guardare." disse Zenosha sfoderando Zahkrii:
"...Se a voi non dispiace, ovviamente."
Brelyna sorrise
amabilmente,
impugnando la sua staffa, mentre l'altra, ancora avvolta in quei brutti
stracci, riposava legata sulla sua schiena:
"Non è mia abitudine
negare i
desideri di una regina, cercate solo di non esserci di intralcio,
Zenosha."
"Sono migliorata
dall'ultima
volta" la rimbeccò l'Altmer, fissando i suoi occhi d'oro su Naarifin.
"Vedremo." rispose la
dunmer, impugnando Kren Lah nella
mano libera.
"...E così alla fine
mi hai
tradito Zenosha, sono sopreso." commentò il cancelliere supremo,
piegando
la testa di lato.
"Tradimento
significherebbe una
qualche forma di transitoria fedeltà, lord
Naarifin. Pianifico la vostra morte da quasi dieci anni." rispose
l'elfa.
"Oh? Complimenti per
la vostra
dissimulazione allora: non posso dire di aver sospettato mai di voi,
mentre
eseguivate tutti i miei ordini... Posso chiedervi il perché?"
"A parte il sangue
sulle mani
che avete sparso in nome di una spregevole dottrina?"
"...Oltre a quello
ovviamente."
"Non avreste dovuto
uccidere mio
padre, Naarifin. Ne trasformarlo in un Volante per farmelo danzare
davanti agli
occhi per più di tre anni, prima che trovassi l'occasione di porre fine
a
quell'esistenza."
"Temo di non
ricordare di chi vi
riferiate... come ben sapete sono molti i Volanti che ho creato in
questi
anni."
"Lo avete chiamato
Due,
rammentate ora?"
"Ah... il Volante
fatto con il
corpo dell'ambasciatore Psijic... mi chiedevo perché fosse rimasto tra
noi in
effetti. Un Volante squisito..."
Per quanto l'antico
ordine di
stregoni Psijic fosse composto quasi esclusivamente da Altmer, essi
avevano
preferito mantenersi neutrali durante le guerre elfiche, rimanendo
irraggiungibili in una delle isole dell'arcipelago di Summerset, tenuta
nascosta ed intangibile dalla loro magia: le guerre fra nazioni non li
interessavano minimamente, occupati com'erano a preservare l'equilibrio
della
magia nel mondo; o almeno questo era quello che si diceva di loro.
Nemmeno i Thalmor
erano riusciti a
trovare il loro ordine e la frustrazione di Naarifin per il loro fermo
rifiuto
di schierarsi al suo fianco si era abbattuta sul loro ambasciatore.
"...devo ammetterlo:
mi avete
ingannato. Ma non siete riuscita a fermarmi, Zenosha. E temo che queste
piccole
vostre provocazioni non siano abbastanza per costringermi ad attaccarvi
imprudentemente."
rispose Naarifin
amabile,
rivolgendosi poi a Coda Spezzata:
"Voi cosa dite,
Sangue di Drago?
Il silenzio non vi si addice, dopotutto." disse, indicando ciò che un
tempo era stata Alinor.
"...Shasara manda i
suoi saluti."
disse l'Argoniano, aprendo la chiostra delle sue zanne in un sorriso.
"Tu... LUCERTOLA!"
strillò
Naarifin gettandosi su di lui.
"RII VAAZ ZOL!" fu la
risposta del Sangue di Drago, che fece indietreggiare Naarifin
portandosi
entrambi le mani al petto, mentre parte delle sua anima gli veniva
strappata
dal corpo assieme alle unghie.
"Avete un'anima
interessante
Naarifin." disse il Dovahkiin: fra le sua dita si agitava intrappolato
un
globo di fumo, il pezzo di anima dell'elfo.
"...All'inizio
credevo fosse
stata la taumaturgia a tenervi in vita così a lungo, ma è palese che
essa non è
che una piccola parte." il globo grigio sfuggì dalle mani del Sangue di
Drago muovendosi serpentino verso Naarifin e rientrando dentro di lui.
"Il vostro corpo e il
vostro
spirito non vengono semplicemente rimarginati, ma ricreati... Qualcosa
che è
stata vista accadere dai miei occhi un'altra volta solamente, ma mai
fino a
questo punto. Dovete essere pazzo per aver venduto perfino la vostra
carne all'Oblivion."
Lord Naarifin rise:
uno sguaiato e
folle ghigno che lo scosse come un fuscello mentre si afferrava le
spalle.
"... La vostra
ignoranza mi
disgusta." disse alla fine: sulla sua maschera di cristallo Zenosha,
Coda
Spezzata e Brelyna non si riflettevano più: "Ma mi siete stati molto
utili. Specialmente voi, Sangue di Drago. La mia opera è compiuta, il
mio scopo
raggiunto: è tempo che il servo si faccia da parte, per fare spazio al
padrone."
Dopo queste parole,
la maschera di
cristallo sembrò colare dal viso di Naarifin, e la pietra iridescente
si
riversò su tutto il suo corpo, inghiottendo e consumando. L'elfo non
urlò,
nemmeno una volta: ciò che gli stava accadendo era per lui un'estasi,
perché lo
liberava da un mondo che aveva smesso di comprendere tanto tempo prima.
Aveva
tramato, ordito e ingannato, aveva torturato e pianificato solo per
quel
momento: per portare a Tamriel il suo signore e per avere da lui la
morte
ultima.
La Furia del Sangue
di Drago era
stata per Naarifin un mezzo per un fine.
Quando Egli si erse
di fronte al
Sangue di Drago, torreggiando nella sua armatura grigia, un grigio
guerriero che
imbracciava uno spadone a due mani, coperto da capo a piedi da una
spessa
armatura, la luce stessa del sole sembrò non dare più calore e colore
al mondo.
Egli era senza lineamenti, un volto liscio come la maschera di
Naarifin, calata
dietro un elmo a torre e una corazza spinata.
Fu così che si
manifestò a Tamriel,
per la prima volta nella storia: senza clamore, senza distruggere
niente se non
il suo servo: quietamente. Come la morte.
"E ancora una vola,
io
avanzo."
***
Alcune
ore prima:
"Una storia davvero
affascinante, folle dio. Jyggalag, avete detto?"
"Esatto! Principe
Daedrico
dell'Ordine. O dei biscotti... No. Ordine. E non in un modo divertente:
cupo,
monotono, morto. Noioso, noioso, noioso!" ripeté Sheogorath, battendo
il
suo bastone per terra per sottolineare
ogni ripetizione.
Brelyna e Sheogorath,
principe
daedrico della follia, erano seduti attorno ad un ampio tavolo
imbandito,
circondato dai servitori di quest'ultimo: gli Aureals e i Mazken,
demoni d'oro
o di oscurità, esseri di manie e demenza. Per la strega era la sua
seconda
visita nel reame del principe daedrico: comparandolo agli altri regni
che
esistevano nell'Oblivion, il dominio del principe della follia era
sorprendentemente accogliente, dato che qui si rischiava solo di
perdere la
propria mente. Dopo averla invitata nel suo regno attraverso il portale
e
averle offerto una fetta di torta al formaggio e una tazza di the, il
principe
daedrico della follia le aveva raccontato il motivo della sua
convocazione.
"Grazie Haskill."
disse
Brelyna al ciambellano di Sheogorath, che le aveva appena riempito
nuovamente
la tazza: unica creatura sana di mente alla corte del principe
daedrico,
l'ombroso Haskill preferiva vestire l'ingannevole aspetto di un bretone
calvo e
dall'aria piuttosto annoiata e melanconica.
"Gli ospiti del mio
Signore sono
benvenuti." rispose il ciambellano, senza curarsi di nascondere i suoi
veri pensieri sul volto: Brelyna sospettava che ad Haskill non
piacessero i
mortali.
"Dove eravamo?"
chiese
Sheogorath improvvisamente, afferrandosi il pizzetto.
"Mi stavate
raccontando di
Jyggalag."
"Oh! Giusto! Non un
estimatore
della mia opera, posso dirti. In poche parole: la odia. E odia me! ME!
Riesci
ad immaginare qualcuno di così perverso da odiare Sheogorath, principe
daedrico
del formaggio?"
"Davvero non capisco
come possa
essere." assentì educatamente Brelyna.
"Esatto! Ma Jyggalag
è sempre
stato un po' ossessionato, se capisci cosa intendo. Non un tipo
simpatico:
credo che non piaccia nemmeno ad uno degli altri principi. Voglio dire,
persino
Malacath è più popolare alle feste, e Malacath non è un tipo polare
alle feste!
Ma d'altro canto, Jyggy non è un tipo tranquillo e amichevole. E senza
nemmeno
un singolo pensiero originale nel suo guscio senza vita!"
"Ed è per questo che
voi e gli
altri sedici grandi principi dell'Oblivion lo avete maledetto?"
"Più o meno...
avremmo voluto
confinarlo per l'eternità, ma Jyggy conserva abbastanza potere da
manifestarsi
una volta ogni era. Questa volta però, è riuscito a trovare un
passaggio per
Tamriel, grazie all'elfo mascherato. L'improvvisazione non è mai stata
uno dei
suoi punti forti, quelle cose lui le lascia ai suoi servitori, ma non
credo di
doverti spiegare cosa potrebbe fare alla realtà, se lasciato libero di
agire...
"
"Una nuova crisi
dell'Oblivion?"
"Non proprio mia
cara: almeno
Dagon è divertente. Fuoco, fiammate nel cielo, battaglie campali,
qualche
tradimento e complotto... No, Jyggalag è l'altra faccia della medaglia
di cui
un lato è la somma della vita e della morte: la cessazione di ogni
ciclo."
"Ho solo una domanda
principe
Sheogorat... perché non mi avete parlato di Jyggalag quando sono stata
qui
l'altra volta? E che legame c'è tra voi e lui?"
Il sorriso del
principe Daedrico si
fece ancora più largo ed allegro:
"Il patto tra noi è
uno di non
interferenza, mortale: ma esistono molte scappatoie da esso. Stai
davvero
pretendendo che un principe ti riveli tutti i suoi segreti? Senza dare
niente
in cambio?"
"...Avete ragione. È
follia." ammise l'elfa.
"Già! E non del tipo
che piace a
me.... MA! MA! Potrei rispondere alle tue domande... oppure aiutarti a
risolvere il problema con Jyggy."
Brelyna sospirò:
"Immagino che
sceglierò
l'aiuto." disse infine.
"Adoro quando i
mortali sanno di
essere manipolati. Sfortunatamente a causa del patto in cui mi hai...
costretto, posso fare ben poco." disse il dio pazzo sfregandosi le mani.
"Principe Sheogorath,
ritengo la
mia famiglia strana il giusto: non ho intenzione di permettere ad un
principe
dell'Oblivion di renderla anche pazza."
"Bah! Che noia.
D'accordo
allora: prendi un gambero. Si abbinano perfettamente con il the!" disse
offrendole una coppa pieno di salsa rosa con un fila di gamberi
appoggiati sul
bordo.
Quando le dita di
Brelyna si chiusero
attorno ad uno di essi, l'elfa si ritrovò a diverse leghe di altezza
nel cielo,
in caduta libera verso la terra.
"...Odio davvero
quando fate
così." disse Brelyna.
"Ricorda: basta che
lo
rispediate nell'Oblivion. Al resto penseremo noi. Tah Tah!" disse il
dio
pazzo, cadendo e ridendo al suo fianco.
"E come faremo?"
"Ma con gli scampi
naturalmente!"
Appena prima di
toccare terra, si
aprì un portale sotto Brelyna che la rispedì a Tamriel.
***
"Il mio servo è
stato... capace.
Ma sei tu che devo ringraziare, Sangue di Drago." disse Jyggalag,
puntando
il dito contro Coda Spezzata: "Attraverso la maschera, la tua magia è
arrivata fino a me, unendo i nostri mondi."
"... Rapire nostra
figlia
serviva dunque a questo?" chiese Brelyna.
"Il libero arbitrio è
un
illusione: solo causa e conseguenza esistono. Naarifin sapeva che con
una
spinta adeguata, il Dovahkiin avrebbe liberato tutto il suo potere. Ed
esso mi
ha resto forte. E ora..."
Dietro la figura del
principe
Daedrico si innalzò un grigio obelisco di cristallo, da cui
cominciarono a
manifestarsi i suoi schiavi: grigi cavalieri paludati in armature di
metallo
iridescente e preti vestiti di nero, tutti con la stessa maschera di
Naarifin
sul volto.
"...Tamriel si
inginocchierà di
fronte a me."
"Già una volta un
essere con
simili mire è stato ucciso, Jyggalag. Come te, si credeva un dio: a
quanto pare
oggi questa spada ne ucciderà un altro." disse il Sangue di Drago
estraendo la grande katana che portava sulla schiena, Unslaad
Bahlok.
"Dei mortali sulla
mia strada?
Assurdo."
"Non un mortale,
demone: un Dovahkiin, una regina ed una strega. MID
VUR SHAAN!"
L'urlo rimbombò per
le rovine di
Alinor, ma il principe daedrico non si mosse:
"Folle. È stata la
magia dei
draghi a riportarmi in questo mondo: non puoi toccarmi con essa."
"Non era destinato a
voi..."
Al fianco di Coda Spezzata, Brelyna e Zenosha rifulgevano di luce:
l'Urlo aveva
donato loro vigore e forza.
"Dunque... è così che
ci si
sente. Notevole." commentò l'elfa.
"Se poteste tenerlo
occupato per
un momento, mie signore, mentre evoco un esercito per tenere impegnato
il suo."
"Futile! Futile!
Futile! State
solo rimandando l'inevitabile!"
Zenosha e Brelyna
erano già nelle sue
fila, rafforzate dall'Urlo di Coda Spezzata: le loro spade e i loro
arti si
muovevano più rapidi di quanto l'occhio potesse seguirle, Brelyna
fendendo gli
schiavi di Jyggalag con la spada e la magia e Zenosha tenendo occupato
Jyggalag
in persona. Pochi attimi di distrazione di cui il Sangue di Drago
approfittò.
DURNEHVIIR!
E la terra tremò di
nuovo spaccandosi
lungo una larga fessura: un lampo verde e le grida dei dannati
fuggirono da
essa, mentre un drago prendeva forma dalle fiamme, un drago di carne
decomposta, marcescente, che si rimarginava solo per putrefarsi di
nuovo in un
ciclo senza fine, un drago mai morente, richiamato per servire il suo
signore.
"Durnehviir: alok
dilon! Ofan lahvu!"
urlò il Sangue di Drago, mentre Zenosha dovette indietreggiare per non
venire
trafitta dalla spada di Jyggalag, una grande claymore a due mani,
grigia come
la corazza del principe Daedrico.
"Geh, qaahnariin!"
rispose il
drago aprendo le ali marcescenti e spiccando il volo. Quando raggiunse
il
cielo, il drago aprì le fauci su Alinor urlando tre parole terribili
con cui
aveva sognato di sconfiggere persino Alduin: "DIIL QOTH ZAAM" nella
lingua dei Draghi: non morto, tomba e schiavo.
Gli abitanti di
Alinor, non importa
cosa o quanto ne restasse, sorsero di nuovo in aiuto del Sangue di
Drago.
Fu una seconda grande
battaglia che fece
impallidire la prima, schiacciando ulteriormente le rovine della città,
mentre
i suoi morti si levavano di nuovo, incapaci di riposare nonostante le
ferite
che li avevano stroncati, solo per incontrare le lame crudeli dei
soldati del
principe daedrico.
"Io apro la strada al
mio
signore Jyggalag!" urlavano gli schiavi del dio dell'ordine, mentre i
morti si gettavano sulle loro fila, scompostamente. I guerrieri li
sterminavano
senza posa, ma dove un cadavere cadeva, due ne prendevano il posto.
I preti dell'ordine
evocarono nuovi
obelischi da cui trarre altri soldati, ma ogni volta che tentavano, Zenosha o Brelyna li infrangevano con una
delle due spade magiche.
Jyggalag stesso era
in difficoltà
contro Coda Spezzata: per quanto il Thu'um non avesse effetto su di
lui, Unslaad Bahlok aveva in se la forza del
fulmine e ogni volta che la lama si alzava verso il cielo, un lampo
colpiva la
corazza grigia del principe dell'ordine, mentre l'acciaio trafiggeva il
suo
corpo.
Ma era uno scontro
impari: perché
Jyggalag poteva rimarginare il suo involucro all'infinito non appena
esso
veniva danneggiato, mentre il Dovahkiin pagava in sangue ogni volta che
la lama
grigia si abbatteva su di lui.
Era solo questione di
tempo e di
capire chi per primo sarebbe caduto.
"Inchinatevi di
fronte al potere
di Jyggalag!" ruggì il principe daedrico, mentre respingeva ancora una
volta Coda Spezzata: "Perché resisti?"
"Questa domanda... mi
è già
stata fatta una volta, principe dell'Ordine. Perché combattere? Perché
difendere un mondo pieno di persone che sono nel profondo meno di
quello che
dovrebbero o potrebbero essere? Semplicemente, mi piace questo mondo."
"Non vi accorgete di
quanto sia
inutile? I mortali sono condannati alla morte, al fallimento e alla
perdita!
Perché non arrendersi?"
"Non mi ascoltate
principe: non
c'è nulla da comprendere, ne da spiegare. Si devono solo accettare le
dicotomie
di questo mondo, sperimentarle. Queste contraddizioni, che voi chiamate
caos e
odiate, mi sono invece molto care."
"Illusioni di una
mente mortale:
io distruggerò tutto ciò che vedo e lo ricreerò perfetto! Migliore! E
tu non
potrai fermarmi Sangue di Drago, non senza la tua magia che mi
alimenta!"
"Mi sottovalutate."
Coda
Spezzata levò nuovamente Unslaad Bahlok
verso il cielo e il fulmine cadde di nuovo, ma questa volta, cadde solo
sulle
truppe di Jyggalag, spazzandole via, segnando il punto di svolta in
quel
conflitto. Nel cielo, Durnhevirr ruggì, accecando il principe con una
fiammata
di fuoco fatuo, che ferì il suo spirito. Fu per un istante, prima che
la lama
di Jyggalag attraversasse il cielo, trafiggendo il drago in volo.
Durneviir cadde
pesantemente sulle
rovine della città, ma fu un errore per Jyggalag aver lanciato così la
sua
spada: Zenosha trafisse le braccia del suo avatar con le due lame
magiche,
bloccandolo per un momento, mentre Brelyna lo trafisse con l'asta
magica che le
era stata data da Sheogorath.
Jyggalag non urlò: si
liberò delle
due donne con un sortilegio, spedendole lontano: nessuna delle due
avrebbe
potuto combattere ancora e la luce di cui erano state investite si
ritrasse.
"Nessuno dei vostri
espedienti
può sconfiggermi!" disse il Principe Daedrico mentre la sua corazza
diventava nuovamente intatta: "Io sono Jyggalag!" ripeté, afferrando
la staffa che lo aveva trafitto e strappandosela dal corpo con due mani.
"Il vostro
stratagemma
è..." ma il principe daedrico non finì la frase, perché entrambe le sue
mani si strinsero sulla staffa, senza poterla lasciare: "Che cosa è mai
questo?"
"Un regalo, da
parte.... del dio
pazzo." disse Brelyna, mentre suo marito l'aiutava ad alzarsi, usando
la
sua taumaturgia per curarne le ferite: "L'asta dei semprescampi."
E attorno a Jyggalag,
comparvero
quattro enormi granchi del fango che cominciarono immediatamente a fare
ciò che
fanno tutti i granchi: seppellirsi nella sabbia e cercare cibo
camminando di
lato.
Jyggalag ruggì, ma le
sua mani non
potevano lasciare la staffa. Schiacciò uno dei crostacei sotto il
piede, ma
subito un altro comparve a prenderne il posto.
"Sia maledetto
Sheogorath!"
Zenosha non poté fare
a meno di
ridere.
"COME OSI?"
Coda Spezzata e
Brelyna non
riuscirono a loro volta a trattenersi:
il grande Jyggalag, nella sua armatura di grigio cristallo iridescente,
il
gigante terribile, circondato da quattro granchi grossi come cani.
"Liberatemi! È un
ordine!"
"Non possiamo." disse
Brelyna tra una risata e l'altra.
Jyggalag era
furibondo: i mortali
stavano ridendo e il principe daedrico non poteva farci nulla, perché
la staffa
maledetta lo costringeva ad usare il suo immenso potere in un solo ed
unico
modo, ovvero quello di materializzare scampi. Il principe daedrico
urlò, si
dibatté, ruggì e l'unico effetto fu quello di aggiungere un quinto
granchio
agli altri, che comparve con una pernacchia.
Le risate si
moltiplicarono attorno a
lui, mentre Jyggalag diventava lo zimbello di Tamriel fino a quando con
un
ultimo assordante urlo, Jyggalag esplose, lasciando Tamriel, e
spianando Alinor
del tutto.
Quando le orecchie
smisero di
ronzargli e Coda Spezzata si assicurò che Zenosha e Brelyna stessero
bene, il
Sangue di Drago chiese:
"...Jyggalag principe
daedrico
della pesca?"
E nel cratere fumante
che era stata la città, si sparse di nuovo il rumore delle loro risate. |
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Capitolo 7 *** Epilogo ***
Tre sono le vie per
corteggiare la morte nelle locande
di Skyrim: chiamare vile un Nord, dubitare che l'idromele sia una
bevanda degna
degli dei e insultare l'onore del Sangue di Drago o della sua famiglia.
Guida
Tascabile all'Impero, quinta edizione.
"Le nere
ali di Alduin oscurarono il cielo..." cominciò la
strofa, ma una voce cavernosa e sibilante interruppe immediatamente la
giovane
Guardia Nera e il suo liuto:
"Per le ombre sotto
le fronde,
canta qualcosa d'altro Erik: quella la sappiamo tutti a memoria."
Difficile dire di no
a Ombra Chiara,
un Naga, e quindi un Argoniano alto
quasi tre metri, con un impressionante cappuccio di pelle tra le spalle
e la
testa. Per quanto un piccolo gigante, Ombra Chiara ricorda più i
serpenti che i
coccodrilli, di cui condivide diverse similitudini, come il morso molto
velenoso. Non è un caso che in quei dieci anni di guerra, Ombra Chiara
sia
stato l'unico ad non aver mai
imbracciato le armi in battaglia, limitandosi alla sola forza bruta:
anche
rimanendo seduto sul ponte della nave, era più alto di ogni altro suo
commilitone. Senza la sua nera armatura addosso, le sue scaglie pallide
riflettevano la luce del sole come un caleidoscopio. Era per le sue
proporzioni
terribili che il resto delle Guardie Nere lo aveva soprannominato "Il
grosso della truppa", anche se forse il suo comandante, Do'Zahana, lo
trovava piuttosto il perfetto scaldino su cui addormentarsi. La Khajiit
gli si
era addormentata di nuovo fra le gambe incrociate.
Con il suo lituo in
mano, Erik
l'Uccisore sorrise sotto la sua corta barba bionda, pizzicando le corde
e dando
vita ad nuova canzone, un motivetto d'osteria, con cui poteva quasi
dire di
essere cresciuto nel suo villaggio natio. Sulle parole, l'uomo del Nord
improvvisò la melodia, cantando le strofe come se la sua vita
dipendesse da
quello:
"C'era
una volta un eroe chiamato Ragnar il rosso,
che venne
a Whiterun cavalcando a più non posso.
Entrò
tracotante brandendo la lama,
urlando
spavaldo di gloria e di fama..."
il resto delle
guardie nere, da Beor
alla barra del timone, con la lunga barba nera al vento, alla vedetta
in cima
sull'albero maestro, si unirono al coro:
"Ma poi
tutt'un tratto il suo tono scemò,
quando di
Matilda lo sguardo incontròòò...
Siam
stanchi di udire siffatte menzogne,
orsù
diamo un limite a queste vergogne!"
E venne
lo scontro e l'affondo di spada
Che
infranse del rosso i sogni di brama...
E dello
spaccone la sorte è segnataaa!
Di lui ci
rimane una testa mozzata!"
Le Guardie Nere
finirono la canzone con
un ululato che avrebbe tenuto lontano qualsiasi pirata, ridendo e
scambiando
luride battute. La loro mente sapeva che la guerra era finita, ma il
loro cuore
aveva ancora bisogno di accettarlo. Non erano gli unici a bordo: da
quando
avevano preso il mare, la polena della nave era sempre stata rivolta ad
est, solcando
le onde e infrangendo la spuma.
Erano da diversi
giorni che
viaggiavano, ma erano ancora lontani dai freddi venti e dal ghiaccio
del mare
del nord.
Tutte le Guardie Nere
non vedevano
l'ora di arrivare: ci sarebbe stato tempo sulla terraferma di ricordare
coloro
che non ce l'avevano fatta, ma potevano aspettare ancora un poco. Le
onde, il
vento e il cielo erano troppo luminosi, e loro si sentivano troppo vivi
per
poter essere già tristi.
Solo uno dei
passeggeri rimaneva in
disparte da tutti loro, guardando la scia della nave che si allungava
fino
all'orizzonte: il suo cappuccio di lana nascondeva appena il suo unico
occhio
triste.
"Una pinta per i tuoi
pensieri,
Shasara." le disse Lyda, appoggiandosi di schiena al parapetto della
nave.
"È in ritardo." disse
semplicemente l'elfa.
"...Due settimane
sulle onde è
già ti sei stancata della nostra compagnia? È per questo che passi così
tanto
tempo chiusa nella tua cabina?"
"Mi preoccupo. E non
mi sento a
mio agio sotto il sole."
"Preoccuparsi per il
mio thane è
lo stesso che preoccuparsi per le montagne: dolce, in un certo qual
modo, ma
inutile. Sarà rimasto a consigliare Attrebus su cosa fare, e su come
aiutare i
veri Altmer a risollevarsi dal dominio Thalmor. E poi un giorno, senza
preavviso, la sua ombra ci volerà sopra, per aspettarci a Skyrim. E
quando
arriveremo, si lamenterà del nostro ritardo." disse Lydia con un
sorriso,
osservando l'orizzonte a sua volta.
"...Sembri conoscerlo
molto
bene. Ovvio in fondo."
"Non come pensi,
Shasara. Il mio
thane disprezza coloro che vogliono essere suoi schiavi, ma onora
coloro che
gli sono amici: i veri compagni sono preziosi per lui. E io, e alcuni
di noi,
lo siamo stati. Per molti anni."
"E tuttavia ancora lo
chiami
ancora mio thane..."
"Perché ho giurato di
condividere il suo destino Shesara, molto prima che accettasse lui
stesso di
essere il Sangue di Drago. I Nord hanno una sola parola." rispose
Lydia:
"....Anche se non è stato facile all'inizio comprendere le sue
stranezze." aggiunse con un sorriso.
"Perché è un
Argoniano?"
"No. Non solo. È
stato più
difficile accettare che nulla di ciò che fa è per caso. Il suo stesso
nome, e
quello di suo figlio, nascondono segrete profondità: perditi,
e solo la tua coda saprà indicarti da dove sei venuto. Un
proverbio della palude nera, e che spiega i loro nomi."
"... Due Code, per
aver vissuto
due volte. Ma Coda Spezzata?"
"Per non aver mai
conosciuto la
propria origine. Il mio thane è stato cresciuto da una Lamia, nella
profondità
della palude nera, poiché fu una di quelle creature a trovare il suo
uovo alla
deriva sul fiume."
"...Vi state burlando
di
me."
"Potete chiederglielo
voi
stessa. Ma anch'io ebbi una reazione simile alla vostra, quando mi
venne
raccontata quella storia... mmhh... sono passati così tanti anni. Fu
durante la
prima notte in cui divenni suo huscarlo. Ah! Ero così giovane e
ignorante."
"Difficile
crederlo..."
disse Shasara, osservando la donna nella sua incompleta armatura
grigia: Lydia
lasciava che il vento le accarezzasse i capelli e le braccia.
"Eppure lo sono
stata. E il mio
thane lo sapeva, perché mi condusse nella piazza principale di Whiterun
quella
notte, sotto il grande albero sacro a Kyne, e mi disse che non si era
mai
spiegato a nessuno, perché non aveva mai avuto nessuno su cui contare.
E mi raccontò
di sé: la notte più lunga della mia vita. Una storia che ogni Guardia
Nera
conosce."
"...Sarebbe
inopportuno
chiedervi di raccontarla anche a me?"
E Lydia raccontò
anche a lei la
storia che aveva serbato nel cuore per tutti quegli anni: quando finì,
le lune
erano già alte nel cielo, ma Shesara aveva smesso di guardare a est,
rivolgendo
il suo sguardo finalmente verso il futuro che l'aspettava.
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