La Fine della Seconda Guerra Elfica

di Hi Fis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Consiglio di Guerra ***
Capitolo 2: *** Scudo di Drago ***
Capitolo 3: *** Alinor ***
Capitolo 4: *** La Caduta ***
Capitolo 5: *** Bormath ***
Capitolo 6: *** Jyggalag ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Consiglio di Guerra ***


La storia che vi apprestate a leggere ha come Dovahkiin un Argoniano: se pensate che un uomo lucertola non sia degno di essere un mezzo drago, allora questa storia non fa per voi. Altrimenti, spero che vi piaccia abbastanza da lasciare una recensione :).
Piuttosto che raccontare anni di battaglie campali contro i Thalmor, ho preferito sviluppare questa storia concentrandomi sulla fine del conflitto, usando questo primo capitolo per dare un'idea della situazione a Tamriel dopo gli avvenimenti di Skyrim, cercando ovviamente di attenermi il più possibile al lore. Detto questo, vi auguro buona lettura.



 
"È... strano mio amato: come se si fosse aperta una spaccatura nel mio petto. Proprio qui, dove dovrebbe esserci il mio cuore, c'è invece un buco nero, freddo e vuoto."
"Rahgol."confermò il Dovahkiin, con una quieta voce.
Noi evacuammo.
Memorie di una Guardia Nera- Autore Anonimo.
 
C'è una città, nascosta nelle linee della pietra sotto le sue mani. E un castello dalle alte mura, a custodire solenne la città sotto di esso, illuminata da un pigro sole, velato appena da una curva del granito. Se chiude appena gli occhi, gli sembra perfino di scorgerne i campi, vicino ad una dolce collina...
Costretto a confrontarsi con l'inevitabile, senza vie di scampo, sua maestà imperiale principe Attrebus II Mede, ha un solo modo per fuggire dalla paura: astrarsi e fantasticare, in una caratteristica connaturata a tutti i membri della sua famiglia. Il Principe appare sereno agli astanti, ma solo perché gli è stato insegnato dal suo primo maestro di scherma, quando ancora era un giovane ragazzo, che la stirpe imperiale dovrebbe sempre accogliere la propria morte con grazia: come una pietra in cui è inevitabile inciampare. Attrebus sa però, che nonostante il suo apparente contegno la grazia non sarà mai lontana dal suo spirito come in quel momento.
Una piccola mano femminile si sovrappose alla sua, infrangendo la sua fantasticheria di città nascoste nella pietra. Una mano che Attrebus conosce meglio della propria: la mano di Silandra, sua moglie.
Come aveva potuto fallire in quel modo al suo dovere più importante? Cosa ne sarebbe stato di Silandra, che per amore di Attrebus aveva indossato i colori imperiali, nonostante fosse una Blacksap e una boiche, una degli elfi dei boschi? Era così impotente l'amore di un imperatore? Era davvero solo questo l'uomo che aveva invocato il Rito del Furto dei Bosmer per poterle donare il proprio cuore? Ma cosa avrebbe potuto fare per rimediare al suo fallimento, lui, ultimo discendente della linea imperiale, ma in fondo solo un uomo mortale?
Come aveva potuto permettere che accadesse?
Furono gli occhi di Silandra che lo costrinsero a reagire alla disperazione: di fronte a quelle iridi castane e dolci come il legno, Attrebus non poté almeno non provare a reagire. Con una lieve carezza, il principe scostò il ciuffo ribelle dalla fronte di sua moglie, di quei capelli tra il corallo e il miele che profumavano ancora dei fiori della sua patria: il loro era un matrimonio d'amore, piuttosto che di convenienza politica; un dono raro per un imperatore, specie in quei loro tempi tumultuosi. Con un sospiro, Attrebus si costrinse al presente, alla tenda che, compreso lui stesso, ospitava cinque uomini e cinque donne.
Capi popolo, re, imperatori, legati e principi: ognuno dei presenti possedeva almeno uno di questi titoli. Insieme, loro rappresentavano la totalità delle genti schierate contro il nemico comune, i Thalmor, l'arrogante e tirannico ordine di elfi alti che aveva tramato per assoggettare tutte le genti sotto il loro dominio, per poi distruggere ogni cosa.
C'era rispetto tra loro dieci, nonostante le enormi differenze, e in alcuni casi perfino amicizia ed amore, ma raramente tutti loro concordavano su qualcosa allo stesso tempo: Attrebus credeva che quella fosse una fortuna, altrimenti la Seconda Grande Guerra Elfica sarebbe finita troppo presto. Quel conflitto, che durava da quasi dieci anni, era stato un rimedio ai vecchi rancori, messi da parte di fronte ad un nemico insidioso ed astuto: solo quella guerra li aveva riuniti, per la prima volta da troppo tempo, lenendo gli errori della loro storia passata.
Nonostante il terrore strisciante che tutti i presenti provano in quel momento, il fatto che non si accusassero a vicenda fu per l'imperatore prova di quanto salda e vera fosse la loro alleanza:
"Cosa credi che farà?" chiese quietamente Attrebus alla donna rettile al suo fianco: Nascondi Artigli fece ticchettare le unghie sulla pietra mentre ponderava la sua risposta all'imperatore degli uomini.
Figlia del re di Argonia, terza in linea di successione al trono della radice, Nascondi Artigli era una Saxhleel, un'Argoniana dalle scaglie brune come l'autunno e dagli occhi d'oro, alta e longilinea. Era una Sarpa, una razza degli Argoniani contraddistinta da lunghi lembi di pelle tra i polsi e la vita, che le permetteva di planare nel vento: nella Palude Nera quelle "ali" erano state il modo più nobile per spostarsi di ramo in ramo, ma qui, nelle isole di Summerset, la patria ancestrale degli elfi alti, erano diventate solo un intralcio che Nascondi Artigli celava quasi sempre sotto una semplice stola di fine tessuto. Come Attrebus, anche l'Argoniana era molto giovane, ma al contrario dell'imperatore, Nascondi Artigli guidava con sicurezza le armate con cui era emersa dalla sua palude natia: possenti guerrieri Naga, illusori Saxhleel, spie ed assassini fedeli solamente a lei, che per la prima volta erano usciti dalla Palude Nera e si erano mostrati ad uomini ed elfi.
Attrebus e Nascondi Artigli erano stati i primi membri di quel consiglio di guerra e avevano condiviso in quegli anni così tanto che non solo Attrebus non era più stupito dai bracciali d'argento che Nascondi Artigli portava anche sulla lunga coda, o dal suo semplice gusto nel vestire, ma la familiarità tra loro era tale da aver fatto cadere in disuso persino il protocollo: niente più maestà imperiale e principessa, o la verbosa sequela di titoli. Si comprendevano intimante ormai, come fanno gli amici, e ad Attrebus sarebbe mancata la sua testardaggine, quando e se Nascondi Artigli fosse tornata alla sua patria: quel luogo venefico e inesplorabile da chiunque non fosse Argoniano.
"Dopo dieci anni, questo errore ancora si persevera...." rispose Nascondi Artigli.
Il suono della sua voce, con la pronuncia sibilante che non accennava a scomparire nemmeno dopo dieci anni, assomigliava alla sabbia che scorre sulle rocce: roca e lievemente metallica.
"...Conosce forse il pesce i pensieri dell'aquila? Che cosa sa il ragno della linfa dell'albero? Il Sangue di Drago ed io possiamo assomigliare nella forma, ma la nostra sostanza differisce come quella di ragno ed aquila."
"E tuttavia, tra noi sei quella ad essergli più vicina..." disse Silandra: non c'era amicizia tra la consorte imperiale e la principessa scagliosa. Ognuna considerava l'altra un male necessario, anche se per ragioni quasi opposte.
"Su questo c'è da dissentire, imperatrice. Tutto ciò che mi è noto, è già stato condiviso con questo consiglio. Non è mai stata mia la chiave per dischiudere la natura del Sangue di Drago, ma solo per la restituzione dei territori della Palude Nera ai Saxhleel..."
Una concessione di poco conto in fondo per Attrebus: in cambio delle truppe sotto il comando di Nascondi Artigli, i territori conquistati dalla dinastia imperiale e le città costruite ai margini della Palude Nera ai tempi di Tiber Septim erano passati in mano agli Argoniani, con la promessa però di mantenere aperti i commerci con l'impero degli uomini.
"Questa Khajiit pensa che se fosse al posto del Sangue di Drago probabilmente mozzerebbe i nostri arti, aprirebbe i nostri ventri e ci lascerebbe ad una tortuosa morte..." interloquì Dra'Khaj Krin con una risata dall'altra parte del tavolo: Dra'Khaj Krin, letteralmente Ghigno del Deserto nella lingua Khajiit.
"... ma questa Khajiit teme che lui abbia molta più fantasia di così." concluse con gli occhi verdi ridotti a due fessure.
Ribelle, terrorista ed eroina, Dra'Khaj Krin aveva fra tutti i presenti il passato più colorito e disonorevole, ma come leader di Ahzirr Traajijazeri, Coloro che prendono giustamente con la forza, era stata un incubo per i Thalmor anche durante il periodo in cui Elsweyr, terra natale dei Khajiit, si era trovata sotto il dominio straniero.
Grazie all'inganno, nell'anno 115 della Quarta Era i Thalmor si erano assicurati il dominio su Elsweyr, terra di deserti e foreste: in segreto, con un potente incantesimo avevano nascosto le due lune ai Khajiit. Per il popolo degli uomini gatto, che vedono nei cicli delle lune la sopravvivenza della loro razza, quella era stata una perdita intollerabile, tanto da spingerli a sottomettersi ai Thalmor pur di riavere Masser e Secunda nel loro cielo. Per quasi un secolo, grazie a quel falso manto di salvatori e protettori, i Thalmor si erano assicurati la fedeltà dei Khajiit, fino a quando il Dovahkiin non aveva svelato l'inganno, nascondendo il sole di Elsweyr per un giorno e dando inizio ufficialmente alla Seconda Grande Guerra Elfica: da quel momento, Fusozay Var Dar, Uccidere senza scrupoli, era stata l'unica legge a cui i Khajiit si erano attenuti verso i Thalmor.
Personificazione di quel desiderio di vendetta collettivo, e rappresentante dei Khajiit in quel consiglio di guerra, era una Dage, una Khajiit degli alberi, che in piedi non sarebbe arrivata all'anca di nesuno di loro, tanto era piccola di statura. Per di più, Dra'Khaj Krin non poteva nemmeno alzarsi in piedi, perché costretta dal suo ruolo e dalle usanze del suo popolo a portare i ciuffi di pelliccia di tutti i suoi seguaci annodati alla sua. Tuttavia, quel goffo insieme di pelo intrecciato, che le impediva perfino di muoversi liberamente e richiedeva cinque uomini robusti per venire spostato, nascondeva appena la magia della Khajiit: c'erano più sortilegi distruttivi tra i piccoli artigli di Dra'Khaj Krin che in un intera città di elfi alti e anche se i suoi metodi erano stati disgustosi in più di un'occasione e quello stesso consiglio di guerra stentava a frenare il suo desiderio di vendetta, i suoi risultati contro i Thalmor erano stati tali da rendere impensabile cacciarla da quel tavolo.
"La vostra sagacia è inopportuna in questo momento di crisi, signora dei Khajiit. O è forse con questa vostra sagacia che vorreste sfuggire al nostro fallimento?"
Fu Tibdan Morvain della casa di Redoran a parlare questa volta: un Dunmer, un elfo scuro di Morrowind. Tibdan era il più anziano tra tutti loro e probabilmente il più anziano di molti altri: pochi, perfino fra gli elfi, raggiungevano la sua veneranda età, che non gli aveva solo reso i capelli bianchi come la neve, ma gli aveva persino scolorito la pelle color cenere e gli occhi color sangue della sua gente. Tibdan era vecchio, oltre la definizione stessa del termine, ed era sopravvissuto a molte altre guerre e leggende: Attrebus non era mai riuscito a capire cosa pensasse davvero quell'elfo, che manteneva un contegno riservato e rispettoso in qualunque circostanza, preferendo il noioso, ma necessario compito di amministrare e gestire la loro molteplice armata piuttosto che le battaglie sul campo. Sembrava impossibile conciliare questa persona posata, ma severa, ai pettegolezzi che lo tacciavano di essere uno dei più grandi praticanti viventi della negromanzia e della manipolazione degli spiriti dell'Oblivion, nonostante a Morrowind simili pratiche fossero state proibite da molte ere.
"Questa Khajiit pensa rispettosamente che anche il nobile Redoran stia facendo lo stesso, mascherandosi dietro alla sue rughe..." rispose Dra'Khaj Krin facendo le fusa: "...Ma non siete altrettanto abile."
Se lasciati a loro stessi, Attrebus sapeva che quei due avrebbero potuto cominciare una schermaglia in piena regola, dove, pur mantenendo un tono fermo e ossequioso, sarebbero volati tali insulti e minacce velate da farlo invecchiare precocemente: non c'era amicizia ne stima tra Dra'Khaj Krin e Tibdan.
"Cough... Cough... Cough... Temo che stiate dimenticando qualcosa..." li interruppe Idgrod la Giovane, tra un colpo di tosse e l'altro: il clima delle isole di Summerset non le aveva giovato affatto.
Figlia di Idgrod Ravencrone, regina delle regine di Skyrim, Idgrod la Giovane era una donna del Nord, ma piuttosto lontana dalle turbolenti e passionali personalità tipiche dei suoi compatrioti: donna nel fiore degli anni, Idgrod possedeva una calma saggezza superiore alla sua età e un animo compassionevole, uniti ad un'intuizione ed una chiarezza di pensiero che tutti i presenti avevano imparato a rispettare. Idgrod era inoltre una veggente, dote che aveva preso dalla madre ormai troppo anziana per partecipare a qualunque guerra, e le sue profezie, spontanee ed incontrollabili, li avevano salvati e guidati più di una volta in quegli anni.
I guerrieri del suo seguito, uomini e donne che avevano seguito Idgrod in quella terra da Skyrim per sete di battaglia e gloria, la consideravano la loro sciamana, un titolo che la donna del Nord aveva fatto suo con un sorriso, e anche se il clima di Summerset aveva indebolito il suo naturale vigore, non c'era scontro a cui la principessa di Skyrim non partecipasse con il suo fidato arco.
"... vi state tutti preoccupando della sua reazione. Ma io temo cento volte di più la madre." concluse Idgrod con un ultimo colpo di tosse.
"Per le sabbie... temo tu abbia appena raddoppiato il peso dei miei anni, principessa del Nord." gemette Azhri Shaddam dall'altra parte del tavolo, stropicciandosi la barba bianca ed esternando ad alta voce ciò che tutti i presenti avevano appena realizzato.
Hel Ansei Azhri Shaddam era la dimostrazione che non è la propria fede personale ad essere davvero importante a Tamriel: ciò che importa è la divinità che si sceglie di seguire. Per quanto infatti il vecchio sacerdote Yokudan dalla pelle ormai cotta dal sole indossasse solo abiti che si era fabbricato da solo, osservasse il digiuno settimanale assieme ai suoi guerrieri di Hammerfell e pregasse sempre almeno tre volte al giorno, Azhri Shaddam era a capo dell'ordine religioso devoto al culto di Raymon Ebonarm, Dio della guerra e compagno di tutti i guerrieri. Hel Ansei, Santo della Spada, era il titolo che gli era stato dato in patria per onorarlo: Azhri era infatti uno degli ultimi veri canta spada del suo popolo, un'antica arte degli Yokudan creduta persa nel succedersi delle ere. Grazie ad essa, Azhri Shaddam, e quelli come lui, potevano cantare all'esistenza una spada a partire dalla propria anima: queste lame, chiamate Shehai, non erano comuni strumenti di morte, poiché essendo forgiate dall'anima del guerriero che la impugnava, permettevano di superare i limiti del proprio corpo, dando un vigore sproporzionato a colui che riusciva a brandirla. Per questo, pur essendo già venerabilmente anziano per un uomo, era attorno ad Azhri che le famiglie nobili di Hammerfell si erano strette durante la loro resistenza contro i Thalmor, quando il predecessore di Attrebus, Titus II Mede, aveva accettato il Concordato Oro Bianco alla fine della Prima Grande Guerra Elfica, abbandonando al loro destino coloro che come Azhri Shaddam non avevano voluto piegarsi.
"Perché tremi vecchio? Tra tutti noi, sei quello che ha più speranze di sopravvivere." brontolò Gortwog gro-Urdag, Orsimer delle montagne, con la sua voce bassa e cupa.
Capo di un popolo senza patria, Gortwog era l'unico fra loro ad indossare armi ed armature, che sosteneva di non togliersi nemmeno per giacère con una delle sue mogli: le sue due asce di oricalco gli pendevano dalla cintura, assieme al suo elmo, unica concessione al protocollo imperiale. Anche per un orco, Gortwog era brutto: quattro zanne gli sbucavano dalla labbra, e la sua pelle verdastra era butterata di cicatrici e scorie della fucina. Tuttavia, non c'era arma del loro esercito che prima o poi non fosse passata sotto le mani esperte degli Orsimer di Gortwog: solo gli orchi infatti sapevano riparare armi, armature e macchine d'assedio così velocemente.
Attrebus stesso aveva dovuto imparare che se c'era da chiudere una breccia o aprirne una nuova durante un assedio, era agli Orsimer che doveva rivolgersi: da sempre inoltre, la prima linea dell'esercito imperiale era costituita da orchi berserker, anche se in questa guerra, con troppi fronti aperti nello stesso tempo, barbari di Skyrim, guerrieri di Hammerfell e Naga li avevano affiancati con gioia.
Questo però non significava che Gortwog fosse fedele in modo particolare ad Attrebus o quel consiglio di guerra: come l'Orsimer gli aveva spiegato con i suoi modi spicci, schierarsi contro i Thalmor era l'unico modo per garantire la sopravvivenza della sua gente, ormai sparsa in piccole enclavi in tutta Tamriel: gli orchi erano un popolo di paria e difficilmente venivano accettati al di fuori delle loro roccaforti.
Attrebus sperava però, che una volta finita quella guerra la situazione potesse cambiare: era già stato emanato un editto che garantiva l'indipendenza alle enclavi di orchi più grandi e l'esenzione delle tasse per le roccaforti che si reggevano da più di un secolo in un dato territorio. Gortwog non aveva mai commentato quelle decisioni dell'imperatore, ma dietro i suoi occhi color palude, la sua mente brillante doveva certamente approvare: altrimenti, non avrebbe mai passato così tanto tempo ad ascoltare e discutere senza mulinare le sue asce.
"L'adulazione non ti si addice, capo Gortwog: anche gli Ansei temono i draghi. Come abbiamo già discusso in passato, non è abbandonando il valore della propria vita che si ottiene la vittoria."
"Bah... questo giorno non è diverso dagli altri: siamo in guerra e morire fa parte delle certezze di ogni nostro giorno. Sarà solo molto più glorioso di quanto avessi immaginato." rispose l'orco.
"Solo su questo mi sento di concordare." ribatté Azhri con un lieve sorriso, quasi invisibile dietro la sua barba color delle nuvole.
"...Cielo, a volte mi sembra di avere a che fare con dei ragazzi alla loro prima battaglia." si lamentò Gondard Vandergroet, con la sua voce stranamente acuta.
Vandergroet era un Bretone grassoccio e basso, che preferiva sempre indossare fluenti vesti da mago: nonostante la sua pelata incipiente e il suo doppio mento rendessero facile sottovalutarlo, Gondard non era in quel consiglio solo a causa della sua carica. Per quanto legato personale della regina di Wayrest infatti, egli era stato all'inizio della guerra solo uno dei tanti ambasciatori inviati dalle città- stato di High Rock, patria ancestrale dei Bretoni, mezz'elfi con una forte propensione per la magia e l'avventura. In pochissimo tempo, Vandergroet si era assicurato la superiorità su tutti i suoi connazionali e non solo manteneva il posto a quel tavolo da quasi otto anni, nonostante più di un attentato alla sua vita da parte dei suoi stessi sottoposti ansiosi di conquistarne il prestigio, ma in quel consiglio la sua abilità di fare le domande più scomode era preziosa, per quanto forse non apprezzata a dovere.
Perfino Attrebus rispettava Vandergroet e in parte lo temeva perfino: aveva sempre ritenuto labile la fedeltà di quell'ometto strano e pieno di contraddizioni, ma esperto conoscitore della natura di uomini ed elfi. L'imperatore si era fatto l'idea che l'ambasciatore non amasse quella guerra e ne auspicasse una fine rapida e decisiva, ma qualcosa continuava a sfuggirgli, perché il taumaturgo ed alchimista Bretone sembrava sempre perseguire strani obbiettivi politici, paralleli, ma raramente coincidenti, a quelli del loro consiglio di guerra.
"...Miei signori, ha ancora senso dibattere di cosa potrebbero fare il Sangue di Drago e la sua consorte? Non è forse molto più importante pensare a cosa potremmo fare noi, membri di questo consiglio?"
"Cosa proponi, ambasciatore Vandergroet?" chiese Nascondi Artigli.
"Dire di cominciare arrestando la guardia personale del Sangue di Drago..."
Il rumore del pugno che si abbatté sul tavolo lo zittì, mentre tutti loro si voltarono verso l'ultimo taciturno membro di quel Consiglio:
"Stai forse suggerendo di completare il nostro tradimento?" chiese una voce molto fioca.
La domanda era stata posta senza alcuna inflessione particolare, ma non fu un caso se Gortwog si scostò da Vandergroet: se Shasara si fosse avventata sull'ometto, nessuno voleva mettersi fra loro.
La nobile Shasara, che aveva rinunciato al suo cognome, era un'elfa alta, dalla pelle d'oro e dai capelli del colore dell'argento che le ricadevano morbidi sulla schiena: nella sua gioventù, Shasara era stata una delle grandi artisti del suo tempo, una poetessa, una scultrice e una pittrice. Ma poiché si era pronunciata in pubblico contro il regime dei Thalmor, ai tempi in rapida ascesa, per cento cinquanta anni, le decadi della sua prima giovinezza, era stata chiusa nel buio in catene, lasciata a marcire nelle sadiche mani dei peggiori carcerieri Altmer; e questo nonostante lei fosse l'unica figlia vivente di sua eccellenza lord Naarifiin, cancelliere supremo dei Thalmor. Per un secolo e mezzo, suo padre aveva condannato Shasara al buio e alla miseria, fino a quando, durante la prima offensiva nelle Isole di Summerset, le truppe guidate dal Dovahkiin avevano espugnato il castello dove era stata dimenticata.
Ormai una donna tra gli elfi, Shasara aveva finalmente rivisto il sole.
In quel buio passato in catene, l'elfa aveva perduto la sua arte, trovando però qualcosa d'altro: una furia più fredda dell'inverno a cui attingeva senza pietà. Sfigurata dai decenni di tortura, Shasara si era fatta tatuare un drago sul volto, come pegno di fedeltà verso l'unica persona che sapesse calmare il suo animo. Shasara, la regina d'inverno, come era chiamata da alcuni, che dopo la sua liberazione aveva radunato tutti i dissidenti e i ribelli che ancora esistevano tra gli Altmer: non erano molti, per lo più bande di patrioti male armati che ricorrevano alla guerriglia per opporsi ai Thalmor, ma poiché anche il più infimo degli elfi alti è uno stregone assai abile, erano una forza da non sottovalutare e la loro conoscenza del territorio delle isole di Summerset era stata senza prezzo per Attrebus e le forze imperiali.
L'unico occhio color del tramonto di Shasara era fisso su Vandergroet ora, in attesa della sua risposta: Gondard dovette deglutire prima di poter rispondere, ma quando lo fece, la sua voce era ferma:
"Io sono pronto a fare molte cose, nobile Shasara. Sì, sono pronto ad essere disprezzato e accusato di tradimento, perfino. Quello che però non sono pronto a fare è rinunciare alle responsabilità verso i nostri subordinati. Cosa succederà a questo esercito se dovesse perdere le sue dieci teste in una volta? Che ne sarà degli uomini che ci hanno seguito fino a qui?"
"Sei un codardo, ambasciatore Vandergroet?" sibilò Nascondi Artigli.
"Mi considero un uomo pragmatico, principessa. Credete forse che questa armata possa sopravvivere se la sua furia e quella delle sue guardie fossa scatenata? Abbiamo attirato sulle nostre teste una tempesta, ma non resterò inerme ad aspettare che il fulmine ci colpisca..."
"Tu sottovaluti la sua guardia, ambasciatore Vandergroet. E ti dimostri ingrato. L'hai dimenticato? Le Guardie Nere non vincono le guerre, ma ne cambiano le sorti. Ci siamo affidati alla loro forza per anni... chi fra i nostri generali ubbidirebbe ad un simile ordine?"
"Mio signore, le vostre Blade potrebbero..." protestò Vandergroet.
"Per quanto l'intero ordine delle mie guardie personali non desideri altro che mettersi alla prova contro le Guardie Nere fin dal giorno in cui il Sangue di Drago le istituì, la fedeltà che l'ordine delle Blade mi tributa non è abbastanza da garantire la loro vittoria."
"Siete caduto anche voi nel misticismo dunque?"
"Attento Gondard..." lo ammonì Silandra.
"Perdonatemi mia signora, ma..."
"Deve essere difficile per un uomo come voi comprendere certe cose ambasciatore, dato quanto i vostri compiti vi costringano nelle retrovie..." lo interruppe quietamente Tibdan, sorprendendoli tutti. "Ma posso assicurarvi che le storie che si raccontano sulle Guardie Nere sono tutte vere."
"Sciocchezze."
Tibdan fece il più piccolo dei sorrisi, incrociando le dita sotto il mento:
"Non ho bisogno di vederle all'opera, per convincermene..."
"Vi facevo più saggio... elfo." disse con Gondard con un'espressione di disgusto sul viso.
"Ora basta Vandergroet!" Sbraitò l'imperatore: "Comprendo che la paura possa attanagliare anche il vostro spirito, ma state superando il limite: se non siete in grado di controllare il vostro animo, andatevene." Attrebus era forse giovane e più inesperto di altri, ma non era membro del consiglio solo per rappresentanza: raramente aveva però dovuto imporsi così violentemente su uno di loro. Sembrò che Vandergroet fosse stato schiaffeggiato: Attrebus sapeva che avrebbe pagato quel suo eccesso, ma doveva assolutamente impedire alla paura del Bretone di diffondersi.
"...Principessa Idgrod, possiamo forse contare su una vostra visione per mostrarci la via?" chiese l'imperatore, prima che Vandergroet ritrovasse la parola.
"Temo di no: come sapete vostra maestà imperiale, esse mi vengono dai nove Dei, non posso evocarle a mio piacimento. E mi duole ammettere... cough cough cough... che non sono sicura di volere una visione in questo momento, quando la nostra situazione appare così disperata. Se la nostra sorte è certa, qual è il senso del cercare una visione profetica?"
"Allora mi resta una sola cosa da fare."
"Attrebus..." lo implorò sua moglie, aggrappandosi alla sua veste.
"L'ambasciatore Vandergroet ha ragione, Silandra. Dobbiamo impedire al fulmine di colpirci. Mi assumerò la responsabilità di questo fallimento e chiederò perdono personalmente al Sangue di Drago. Come recipiente del patto tra questo consiglio e lui, è giusto che sia solo io a ricevere la colpa."
"Molto coraggioso, mio signore... ma temo che non potrò permettervi di farlo da solo." disse Azhri.
"Hel Ansei..."
"Sono davvero desolato mio signore, ma permette che mi spieghi. Al contrario dell'ambasciatore Vandergroet qui, non ho vergogna ad ammettere la mia paura: sono troppo vecchio per cose del genere. Ma se vi lasciassi diventare il solo bersaglio della furia del Sangue di Drago, se vi lasciassi diventare il nostro capro espiatorio, allora sarei anche un codardo. E il Drago non ama i codardi."
"Concordo con Hel Ansei... " disse Tibdan: "La nostra più certa via di scampo è accettare uniti la responsabilità del fallimento. I membri di questo consiglio hanno condiviso la propria sorte per un tempo breve, ma sarebbe un errore separarsi ora."
"E se anche si scegliesse la fuga, non esiste luogo dove un Drago non possa arrivare." sibilò Nascondi Artigli.
Attrebus non poté protestare una seconda volta, perché Idgrod lo interruppe ancor prima che pronunciasse una sillaba:
"Mio Imperatore... cough cough, vi prego: non ci ordinate di infangare il nostro onore scegliendo di abbandonarvi in questo momento. Piuttosto che presentarmi a mia madre con una simile vergogna sulle spalle, preferirei... cough cough cough... senza dubbio la morte."
"E se davvero è venuto il nostro momento di cadere, marito, allora non c'è altro luogo in cui vorrei essere."
"Vaba Maaszi Lhajiito." miagolò Dra'Khaj Krin: "È bene fuggire quando è necessario. Ma se non c'è luogo in cui andare, allora questa Khajiit attaccherà: puoi nasconderti dietro di lei, Vandergroet."
"...Temo, signora dei Khajiit, che il riparo che potreste offrirmi non sia abbastanza ampio." rispose il Bretone, passandosi una mano sul ventre sporgente.
"Significa forse che non intendete più fuggire?"
"Significa, mia signora, che mi riservo il diritto a provarci mentre il Sangue di Drago calerà su di voi."
"Bah...dovreste imparare ad essere come noi Orsimer: meno attaccati alle cose mondane. Come la vita." interloquì Gortwog.
La risata di Dra'Khaj Krin li stupì tutti:
"Questa Khajiit pensa che avresti potuto essere un Khajiit interessante, Gortwog."
"Per la barba di Malacath, assolutamente no! Ho visto come vi pulite voi gatti. Disgustoso."
Per la prima volta in quel consesso, anche Tibdan rise: un lieve rumore secco, che l'elfo si affrettò a celare dietro un colpo di tosse.
Suo malgrado, anche l'imperatore si scoprì a sorridere: erano alle soglie del loro annientamento, ma sembrava l'avrebbero affrontato assieme. Attrebus ringraziò mentalmente gli Dei per questo.
"È nel momento in cui la spada sta per trafiggerti il cuore che il cielo sembra più azzurro." recitò Azhri con un una luce divertita negli occhi.
"...Eloquentemente posto, santo del deserto." sibilò Nascondi Artigli.
Shasara invece serrò i denti corrugando la fronte e il drago tatuato sul suo viso sembrò chiudere le ali:
"Voi tutti parlate con falsa speranza. Cercate di trovare un appiglio per non affogare nel nostro fallimento. Di farvi coraggio, pregando sul fondo delle vostre anime che possa fare la differenza. Un'illusione simile non è degna di noi..." disse con una voce piena di rabbia e di sofferenza. I sorrisi si spensero sui volti di tutti mentre Shasara parlava, cercando di staccare al meglio le parole, nonostante gli sfregi che le erano stati inferti.
"Noi non siamo bambini che hanno smarrito un pugno di monete che non ci appartenevano... avevamo un compito. Un impegno semplice e chiaro, che avevamo giurato tutti di mantenere, nel bene e nel male. Credete che le nostre patetiche scuse possano restituire ciò che i Thalmor gli hanno preso? Credete che le nostre vite possano valere qualcosa, ora? Capite molto poco il Dovahkiin."
Shasara stava tremando ora, visibilmente:
"Io maledico la nostra debolezza. Mi ha dato tutto. Luce e vita: avrei voluto morire prima di deluderlo. Qualunque punizione possa cadere su di noi, qualunque disgrazia... non sarà abbastanza."
E detto questo, Shasara iniziò a piangere: nemmeno il suo corpo sfregiato dalle torture e la sua anima indurita dal buio potevano arginare il suo rimorso. Nessuno dei presenti osò provare a consolarla: avrebbe loro strappato le ossa dal corpo e tuttavia, tutti i loro volti si fecero gravi come il suo e assieme attesero, in rispettoso silenzio, che succedesse qualcosa. Un ruggito o un pinnacolo di fuoco, un messaggero spaventato con notizie di morte: qualcosa, che sapevano, doveva arrivare.
 
 ***
 
Quando accadde, non fu un Urlo, ma una voce umana, rassegnata ed imbarazzata. Erano solo quattordici le persone in tutta la loro armata che potessero interrompere una sessione di quel consiglio di guerra, ma Attrebus non fu stupito da chi entrò nella tenda: era così ovvio in fondo.
"Miei Signori...." disse l'uomo del Nord dopo essersi prostrato di fronte a loro: "Il capitano delle Guardie Nere chiede di voi." riferì senza incontrare i loro sguardi.
Il generale Hadvar veniva da Skyrim, e vestiva i colori della Legione Imperiale fin da prima della ribellione di Ulfric Manto della Tempesta. Non era il più abile dei condottieri su cui Attrebus potesse contare, ma Hadvar il Fortunato aveva quel soprannome per una sua dote unica: anche quando costretto a ritirarsi di fronte alle truppe nemiche, riusciva sempre a strappare un beneficio dalle sue sconfitte. Un talento davvero peculiare, a cui doveva probabilmente parte della sua scalata nei ranghi dell'esercito, oltre ad aver combattuto a Skyrim assieme al Sangue di Drago.
Dall'ultima volta che Attrebus l'aveva visto, l'aspetto del suo generale fortunato era cambiato radicalmente: sembrava fosse stato picchiato selvaggiamente e la sua divisa era ammaccata ed infangata. Lo stesso Hadvar riusciva a stento a reggersi in piedi, favorendo il lato destro del corpo.
"Che cosa vi è successo, Hadvar?"
L'uomo del Nord fece uno stretto sorriso dolorante, a mala pena visibile sotto il labbro spaccato e insanguinato.
"Per il capitano Scudo di Drago mancavo di solerzia nell'obbedire ai suoi ordini..."
"E da quando i capitani danno ordini ai generali?" chiese severo Vandergroet.
Il generale del Nord sembrò farsi un po' più pallido mentre fissava l'ambasciatore Bretone:
"Credevo lo sapeste mio signore: un membro infuriato delle Guardie Nere può dare ordini anche agli Dei..."


Angolo dell'autore:
Volendo essere del tutto sinceri, avevo questa storia in mente da diverso tempo, e Tabula Rasa e Le Tre Spade sono state il mio tentativo di metterla da parte: è un pezzo che desidero raccontare la sconfitta del regime Thalmor, ma per mancanza di tempo non sono mai riuscito a farlo prima. Spero che questa storia vi piaccia, ed ogni recensione sarà ben accetta.
Al prossimo capitolo.

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Capitolo 2
*** Scudo di Drago ***


"Quando ti è stato consegnato perché tu lo introducessi alla scherma, non ricordo fosse così... pesto." osservò pacatamente il Dovahkiin.
"Ho dovuto insistere con lui, mio Thane. Era, ed è, ancora troppo goffo." rispose Scudo di Drago.
"Mhh... Devo ammettere conte, che lo zelo dei vostri è... encomiabile." commentò la Reggente Imperiale.
Biografia di sua maestà imperiale Attrebus II Mede
 
Guardie Nere.
Le truppe personali del Sangue di Drago, scelti da lui personalmente tra migliaia di volontari. Uomini e donne di ogni razza, plasmati da un eroe leggendario a sua immagine e somiglianza grazie ad un addestramento del corpo e della mente in cui l'unico fallimento concesso è la morte. Ognuno di essi racchiuso in armature incantate di nero acciaio daedrico, l'infrangibile lega dell'Oblivion, per rendere invincibile ciò che è stato addestrato ad essere inarrestabile.
I membri delle Guardie Nere erano idolatrati dalle truppe regolari e per buone ragioni: dove la battaglia contro l'esercito dei Thalmor infuriava più disperata, dove perfino la speranza sembrava destinata a soccombere, le guardie nere avanzavano sotto il loro vessillo, il cerchio formato da tre draghi che si mordevano la coda.
"Una fortezza può rallentare una Guardia Nera, ma mai fermarla", era la frase più comune che i veterani dell'esercito imperiale usavano per spiegare alle nuove reclute chi fossero quelle truppe che combattevano al loro fianco, ma senza mescolare mai i ranghi.
"Datemi mille soldati vostra maestà. Oppure chiedete al Sangue di Drago dieci guardie nere." imploravano i generali di Attrebus prima di ogni battaglia difficile.
Fanaticamente devoti al Dovahkiin, le Guardie Nere non prendevano ordini che da lui, al punto che l'imperatore stesso le aveva sciolte dal protocollo: nessuna guardia nera si sarebbe mai dovuta inchinare di fronte a lui o a chiunque altro non fosse il Sangue di Drago. Un grande onore quello, senza dubbio, ma allo stesso tempo poca cosa, una piccola prova di gratitudine per truppe che avevano sempre e solo vinto contro i Thalmor.
Come spesso accade, in quei dieci anni di guerra le dicerie sulle Guardie Nere si erano moltiplicate assieme ai loro successi, unendo all'ammirazione dei soldati la paura: si diceva che ci fossero anche creature nelle loro file, vampiri e lupi mannari, e forse persino di peggio. C'erano storie di terrore su di loro, raccontate attorno al fuoco dei campi, mormorate a bassa voce da una gola all'altra e che sembravano vivere di vita propria ormai, crescendo e ingigantendosi sempre più: alcune era persino vere.
"Le Guardie Nere hanno ordinato alla città di Skywatch di aprire le porte. Gli elfi alti non solo hanno ubbidito, ma chiesto perdono di non poter fornire una migliore accoglienza."
Il loro numero variava, a seconda di quanto fosse stata difficile la loro vittoria precedente, ma non aveva mai superato le ottanta unità e questo per la tranquillità stessa del consiglio di guerra e di Attrebus: se le Guardie Nere fossero state di più, si temeva avrebbero potuto prendere il controllo dell'esercito.
La loro organizzazione prevedeva la spartizione in tre compagnie, ognuna retta da un comandante: così come essere membro delle Guardie Nere significava diventare un eroe per le truppe regolari, così essere comandante fra loro significava reclamare come propria la fama di un signore della guerra delle antiche leggende. Significava veder cambiare la propria armatura dal nero acciaio daedrico alle bianche ossa e alle scaglie dei draghi, ed essere investito dal Dovahkiin di nuovi poteri: ad ognuno dei suoi tre comandanti infatti, il Sangue di Drago aveva donato tre Urli, due per dare battaglia e uno per chiamare il proprio Dovah.
Non era per caso che l'emblema delle Guardie Nere fossero tre draghi intrecciati: Alkrahod, Freddo Distruttore di Neve,  Duyolzii, Fuoco Divoratore di Spiriti, e Infaasdok, Maestro Segugio di Paura, erano i loro nomi, unici che prestassero le loro ali ad altri che non fosse il Dovahkiin.
Essere comandante delle Guardie Nere significava insomma avere il proprio nome noto in tutta Tamriel: Beor Spezza Inverno, comandante del Nord, che brandiva in battaglia uno spadone fatto di Stahlrim, il ghiaccio acciaio. Taros, comandante dell'Est, che sapeva dividere gli schieramenti nemici con un solo affondo della sua lancia daedrica e Do'Zahana, comandante del Sud, imbattuta con le sue due corte spade di ossa di drago imbevute di magia elementale...
 
Si raccontava sempre delle Guardie Nere fra le fila dell'esercito schierato al loro fianco e questo perché non c'erano nemici da odiare fra quelle dei Thalmor: gli elfi alti non combattevano spada contro spada o magia contro magia, ma usavano invece la loro conoscenza dell'Oblivion, il piano d'ombre al di là della realtà, per trarre da esso e schiavizzare un numero apparentemente illimitato di creature, su cui le perdite non avevano significato. Quei mostri e demoni, forgiati dal buio e dal fuoco, erano tutti sacrificabili perché sconfitti essi non morivano, ma ritornavano semplicemente all'Oblivion da cui erano stati tratti: grazie a questo, i Thalmor raggiungevano coi crudi numeri ciò che mancava all'abilità dei loro comandanti, riuscendo a rallentare e a fermare l'avanzata degli eserciti schierati contro di loro.
Fare guerra ai Thalmor poteva apparire inutile a volte, arroccati com'erano all'interno di mura costruite con bianca pietra di luna, stregata affinché fosse immune ad ogni sortilegio; ma fino a quando le brecce nell'Oblivion aperte in ogni loro città non fossero state tutte chiuse, la Seconda Guerra Elfica non avrebbe mai avuto fine: era una guerra di trincea quella, fatta di rischi calcolati e di sacrifici dolorosamente necessari.
Per questo i semplici soldati delle Legioni dovevano avere qualcosa che li sostenesse dopo i giorni di massacro, dopo aver lottato contro le armate dell'Oblivion e aver respirato i suoi terribili incubi: per questo, per sostenersi, loro si raccontavano delle Guardie Nere, che affrontavano le schiere senza nome delle creature dell'Oblivion e i loro padroni senza mostrare paura. Si raccontavano dei loro tre comandanti, che da nord, sud ed est facevano guerra all'ovest assieme ai loro draghi, e si raccontavano anche della donna sospesa tra il mondano dei mortali e il cielo del Dovahkiin: Lydia Scudo di Drago, la prima ad aver giurato fedeltà al suo signore quando era giunto a Skyrim da prigioniero, e che lo seguiva ancora oggi come capitano della sua guardia personale, la sua fedeltà incrollabile.
 
***
 
"Imperatore. C'è mancato poco che io aspettassi." disse Lydia ad Attrebus, dopo che Hadvar scostò per lei il lembo della tenda del consiglio di guerra.
Gli anni passati al fianco del Sangue di Drago, che Lydia ancora chiamava testardamente "mio thane", avevano cambiato poco il suo aspetto: la donna del Nord, pallida e volitiva, portava ancora i capelli neri lunghi fino alle spalle, acconciati in una sottile treccia sulla tempia sinistra. L'unico vero cambiamento nel suo aspetto dai tempi di Skyrim riguardava la sua corazza: non più nera e scarlatta come l'acciaio dell'Oblivion o bianca come le ossa dei draghi, ma di un perfetto e uniforme grigio lucido, quasi come fosse fumo vetrificato; una lega inventata dal Sangue di Drago in persona e che solo Lydia indossava all'infuori della famiglia del suo signore.
Da sotto il suo elmo a testa di lupo, fu con occhi atroci che l'huscarlo del Sangue di Drago fissò i capi, i re, le principesse e gli ambasciatori nella tenda: Attrebus dovette abbassare lo sguardo, mentre gli altri dignitari gravitavano verso di lui, lasciando libero il lato del tavolo di fronte a Lydia.
"Che nessuno ci interrompa." ordinò la donna al generale del Nord, che fu più che lieto di obbedire e dileguarsi dal suo cospetto, rimanendo come sentinella al di fuori della tenda: solo quattordici persone in tutto il loro esercito potevano interrompere una sessione di quel consiglio di guerra, ma nessuno aveva il coraggio per fare lo stesso col capitano delle Guardie Nere.
Quando il lembo ricadde dietro Hadvar, imprigionandoli con Lydia nello spazio ristretto della tenda, nemmeno Tibdan sapeva cosa sarebbe successo loro, ma se c'era qualcosa che aveva imparato nella sua lunga vita, era la pazienza e la cautela: soprattutto quest'ultima. Meglio che non fossero loro a parlare per primi.
Nemmeno il capitano delle Guardie Nere aveva fretta, e lasciò scorrere per qualche istante ancora i suoi occhi sulle dieci teste dell'armata. Poi sorrise: un sorriso tutto denti, di una finzione che era raccapricciante da osservare; uno di quei sorrisi che si vedono anche chiudendo gli occhi.
"Vi porto liete notizie..." disse Lydia: "Liete notizie invero."
Gli sguardi di tutti, compreso quello di Attrebus, si concentrarono sull'ambasciatore Vandergroet: in quel momento, solo quell'ometto probabilmente avrebbe saputo scegliere le parole giuste. Anche il Bretone doveva saperlo e i suoi occhi acquosi saettarono sui volti degli altri otto attorno alla tavola, ricevendo il loro muto consenso: il volto sfigurato della nobile Shasara era invece fisso sul mento di Lydia, poiché l'elfa non riusciva a guardarla negli occhi.
"...Vi prego allora, riferitecele, capitano della Guardia Nera del Sangue di Drago." disse Gondard, con la sua voce stranamente acuta.
Se possibile il sorriso di Lydia si fece ancora più largo, diventando isterico e folle.
"Con piacere... annuncio con gioia ai membri di questo consiglio che la Seconda Guerra Elfica è giunta al termine. Che squillino le trombe e si proclami la fine delle ostilità, perché questo conflitto è finalmente finito. Una lunga guerra sanguinosa, ma quale vittoria infine."
Il silenzio dei presenti accolse quella notizia.
"Perché quelle espressioni? Si porti il vino per Talos! Il vino e le libagioni. Si faccia festa!" ripeté Lydia allargando le braccia.
"Temo... temiamo..." ripeté Gondard, umettandosi le labbra: "Temiamo di non capire, capitano."
Lydia incurvò appena la testa di lato, mentre il suo sorriso diventava appena un po' più piccolo:
"Che cosa c'è da capire, ambasciatore?"
"Come può essere finita questa Guerra, Guardia Nera? Come può essere, quando rimangono ancora ai Thalmor tre inespugnabili città e tutto l'ovest di Summerset..." cominciò Gortwog.
"Due città." lo interruppe Lydia con furia. "Sono solo due le città che restano ai Thalmor. E si arrenderanno prima dell'alba di domani."
"...Quindi lei è viva?" chiese Shasara con un filo di voce.
L'elfa aveva capito, ma non poté spiegare che cosa avesse compreso: perché quando Lydia calò il pugno sulla lastra di granito del tavolo, la pietra impossibilmente si incrinò come colpita da un martello da guerra.
Lo scricchiolio delle sue ossa accompagnò il gesto del capitano delle Guardie Nere, mentre apriva e chiudeva la mano, per scrollarsi dalla corazza la polvere e le schegge di pietra:
"Non di certo grazie a voi, sciocchi inetti." sussurrò Lydia.
"...Grazie agli dei. Grazie agli dei!" ripeté Idgrod portandosi le mani alla bocca per coprire il suo ennesimo colpo di tosse: l'insulto di Lydia era poca cosa di fronte al sollievo che quella notizia aveva portato loro.
"Capitano, come... come potete esserne sicura?" gemette Gondard.
"Non lo sono. Il mio thane lo è, e ciò mi basta: lei si trova ad Alinor." gli occhi di Lydia fissarono il Bretone con un tale immenso disgusto, che l'ambasciatore dovette fare un breve gesto propiziatorio per scongiurare un'eventuale maledizione.
"Ha senso. Una simile prigioniera viva... potrebbe cambiare le sorti di questa guerra. Ma perché dite che questo conflitto è giunto al termine allora?"
"Mentre parliamo, il mio thane e sua moglie, e il loro figlio maggiore, cavalcano il vento a dorso di drago, per riprendere ciò che voi avete permesso gli venisse tolto: la loro unica figlia e sorella. Kaan."
E quando Lydia pronunciò il nome della figlia del Dovahkiin, la tenda tremò attorno a loro per quel nome in lingua dei Draghi: Kaan, che era il nome con cui i draghi chiamavano la dea del cielo, colei che li accoglieva nel suo dominio quando spiegavano le ali, e che gli uomini chiamavano invece Kynareth, madre guerriera e signora della tempesta.
"...E il mio thane punirà coloro che hanno osato toglierla dalle loro braccia. Dal cielo pioverà su di loro fuoco e le loro strade si tramuteranno in rivi di sangue. E quando i Thalmor vedranno il prezzo della loro arroganza, non ne resterà uno solo con abbastanza coraggio da continuare questo conflitto. Questa guerra è finita." ripeté Lydia.
"Il Sangue di Drago... il vostro signore, può davvero far cadere da solo Alinor?"
"Non da solo: non mi avete forse sentito Azhri? Il mio thane ha espugnato una città già una volta, guardata da creature ben più terribili di quelle evocate dai meschini Thalmor. Ma con sua moglie e suo figlio al fianco? Potrebbero espugnare il cielo."
"Dite il vero?" chiese Attrebus.
"Perché credete che abbia reclamato per sé Skuldafn e i territori circostanti, una volta finita questa guerra?"
"...Skuldafn?" grugnì Gortwog.
"Un'antica rovina di Skyrim, risalente al dominio dei Draghi, ere fa. Un luogo che perfino noi Nord credevamo solo una leggenda, perduto e irraggiungibile come lo sono i sogni... fino a quando il Sangue di Drago non vi arrivò sulle ali del nobile Odahviing, il grande drago rosso." mormorò Idgrod e Lydia assentì lievemente.
"E il luogo in cui sorgerà la sua città: la promessa che ci lega come Guardie Nere. O credete che il mio thane abbia davvero bisogno di qualcuno che lo protegga?"
"Sciocchezze!" sbraitò Vandergroet: "Storie per intimorire i Thalmor! Mistificazioni! Nessuno sotto questo cielo può espugnare una città da solo!"
"Siete davvero così sciocco, ambasciatore?" sibilò Scudo di Drago: "La vostra gratitudine è così misera da non lasciare spazio al dubbio? Diteglielo Attrebus!" ordinò poi Lydia all'imperatore: "Diteglielo, o lo farò io."
"...Marito?"
"Oh Scudo di Drago... sarebbe stato più pietoso uccidermi." sospirò Attrebus.
"Non mi sento particolarmente misericordiosa quest'oggi, principe."
"... Che cosa si intende con questo, Attrebus?" chiese Nascondi Artigli.
L'imperatore sostenne per un attimo lo sguardo di Lydia, prima di parlare e confessarsi:
"...Sono in pochi a saperlo, ma prima di salire al trono dei miei predecessori, ho passato parte della mia infanzia in segreto, anonimamente. Il palazzo di Cyrodill è la dimora che sono stato chiamato ad occupare, dopo che l'antico consiglio mi ha designato successore al trono: probabilmente perché a differenza degli altri possibili candidati ero più degno, o semplicemente ancora vivo..."
Era stata la morte violenta di Titus II Mede a permettere alla fine l'ascesa di Attrebus al trono, ma non prima che quell'assassinio scatenasse a Cyrodill complotti e congiure per il diritto alla successione, che si erano esauriti solo quando Alexia Vici, zia del precedente imperatore, era salita al trono in qualità di reggente temporanea per qualche anno, facilitando la transizione nel periodo in cui cominciavano le preparazioni per la guerra contro i Thalmor.
"...Il luogo che, per un certo tempo, ho chiamato casa si trova a Skyrim: una villa, celata nei boschi vicino al lago Illinata. Una villa il cui signore è lo stesso del capitano delle Guardie Nere..."
"Imperatore, il Sangue di Drago vi ha cresciuto?" chiese Tibdan aggrottando la fronte.
"Ed educato. E nutrito. Per quasi un anno, invero i mesi più gioiosi della mia infanzia, ho chiamato amico il suo figlio maggiore..." la frase seguente, Attrebus la disse rivolgendosi all'ambasciatore Vandergroet:
"...Non posso immaginare la vastità dei suoi poteri e della sua furia, ma se c'è qualcuno capace di espugnare una città da solo, quello è lui."
"Avete visto Attrebus?" sibilò Nascondi Artigli: "Non in questo pesce risiedeva la chiave per dischiudere il Sangue di Drago. È stata in voi per tutto questo tempo, voi che come lui portate il drago come vessillo."
"C'è una differenza amica mia. Sì, noi imperatori degli uomini ci orniamo del drago come vessillo, ma è solo un ornamento. Lui, invece, lo è."
"Questa Khajiit si chiede perché l'imperatore degli uomini lo abbia tenuto nascosto..."
"Non siate... cough cough... ottusa, signora dei Khajiit. Il Sangue di Drago è già un mostro sacro per tutti noi, senza offesa Scudo di Drago..."
"Nessuna offesa." rispose Lydia.
"...Se la notizia che è stato il Sangue di Drago ad educare il nostro imperatore si diffondesse, quanti sospetti verrebbero seminati. Quanta paura, di fronte all'influenza che possiede: si direbbe che il trono imperiale è già suo. Che è lui a dare ordini all'impero degli uomini. E qualcuno desideroso di compiacerlo potrebbe tentare di... fare posto alla sua ascesa." Lo sguardo obliquo di Idgrod verso Attrebus fu più rivelatorio delle sue parole: "Mentre altri potrebbero tentare di opporsi a lui con mezzi che lo costringerebbero a reagire con violenza. Un inutile spreco di altre vite."
"Principessa del Nord, ogni decisione che ho preso da quando sono salito al trono è stata fatta indipendentemente dal Sangue di Drago." disse Attrebus piccato.
"Ma certo, vostra maestà, non era mia intenzione offendervi... cough... cough. Ma se anche non fosse vero, probabilmente avreste detto la stessa cosa..."
L'imperatore degli uomini scosse la testa tristemente:
"Se davvero avessi seguito per tutto questo tempo i suoi ordini, forse avremmo avuto meno perdite nei nostri ranghi."
"...Sembra siate diventato un poco più saggio dalla vostra ultima lezione, Attrebus." disse Lydia, facendo arrossire l'imperatore, che ripose:
"Dopo tutti questi anni... ancora non riesco a giudicare quanta influenza il tuo signore abbia sulla mia vita."
L'huscarlo guardò per un attimo Silandra, prima di tornare a fissare il principe:
"Chissà? Vivrete per sempre con questo dubbio: ma io non credo che il mio thane vi abbia protetto ed educato perché foste un suo strumento. Perché altrimenti accontentarsi di diventare conte, quando avrebbe potuto essere re lui stesso? Allo stesso modo, avrebbe potuto sedere nell'antico consiglio se solo avesse desiderato, e tuttavia non ha voluto nemmeno quello."
La possibilità che Attrebus facesse parte di un piano futuro del Sangue di Drago non venne nominata, ma rimase sospesa sopra le loro teste: perché ineffabile era il Dovahkiin, carne mortale animata da spirito di drago.
"Ma allora... " disse Vandergroet afferrandosi il mento: "...se il Sangue di Drago ha davvero sempre avuto questo potere... perché non usarlo prima?"
L'imperatore sospirò, chiudendo gli occhi e rammentando una lezione della sua giovinezza a proposito del buon governo:
"Un potere eccessivo..." citò Attrebus a memoria: "O un eccessivo impiego di esso, genera solamente resistenza e ribellioni e spargimenti di sangue: desiderando troppo, e troppo in fretta, inevitabilmente si perderà tutto a causa della propria avidità. Solo la forza necessaria, mai di più: ed è questo equilibrio a definire il governare..."
L'imperatore scosse la testa, ricordando quei giorni: "Questo mi è stato insegnato dal Sangue di Drago ed è un insegnamento che permane in me e sento come vero."
"...Un guerriero ed un filosofo. Un santo per i suoi alleati ed un incubo per i suoi nemici: quale peculiare dicotomia il Sangue di Drago. Simile alle altre leggende del passato, ma diverso al punto che solo il Nerevarine e l'Eroe di Kvatch possono essere accostati a lui. Così terribile... e tuttavia, così grande." ponderò Tibdan.
Fu il turno di Shasara di parlare a quel punto, e di rivelare ciò che aveva intuito dopo essere stata liberata dal buio e dalle catene, anni prima: lo sussurrò solamente, aprendo e chiudendo i palmi mentre lo diceva, ma venne udita da tutti.
"...Per tutto questo tempo, questi anni di guerra, il Sangue di Drago ha sigillato se stesso: perché questa era una guerra tra nazioni, non tra leggende. Una guerra tra esseri mortali e come tale egli l'ha combattuta: un generale fedele ed abile. Per salvare il nostro onore ed il suo, per non alimentare la paura verso la nostra alleanza, cresciuta così tanto in questi anni, egli si è imposto dei limiti e delle regole ferree: non ha mai usato la Voce dei Draghi in questa guerra, ma solo la forza del suo braccio e del suo spirito. Ha istituito le Guardie Nere perché facessero coi numeri quello che lui non desiderava più fare... e tutti questi sforzi, questo impegno... sprecati dalla nostra inettitudine." Shasara scosse la testa prima di continuare: "...Non più come mortale giungerà agli elfi, ma come drago di tempesta, come un fuoco del cielo. Che i nove dei abbiano pietà di Alinor e dei suoi abitanti, perché di certo non ne troveranno in lui."
"Ed è per questo che prima di partire il mio thane ha sciolto le Guardie Nere." confermò Lydia assentendo col capo.
"Che cosa ha fatto?"
"È così. Poiché questa guerra è già finita e noi abbiamo esaurito il nostro compito, Attrebus: le Guardie Nere non hanno più ragione di esistere."
"Che cosa sarà di voi?" chiese Azhri.
"Se temete una ribellione, posso assicurarvi che fino a quando indosserò quest'armatura, essa non avverrà. Per dieci anni abbiamo combattuto e affrontato gli incubi dell'Oblivion, sorretti dalla fede e da un sogno. È tempo che le Guardie Nere tornino alla casa che ci è stata promessa: prenderemo il mare, ed assieme al mio thane, torneremo ad est."
"...E che succederà a noi?" chiese Idgrod.
"Non sono io la veggente di questo consesso. Noi Guardie Nere non ci siamo mai aspettati molto da questo consiglio, ma perdere sua figlia... è troppo, persino per voi. Credo che il mio thane lascerà alla storia il compito di ricordarvi come coloro che hanno permesso ai Thalmor di ferirlo."
"Io pretendo una maggiore condanna per la colpa di cui ci siamo macchiati oggi..." implorò Shesara, ma Lydia la zittì con un gesto.
"...Come ho detto, non mi sento particolarmente misericordiosa oggi, Shesara. Vivrai con questo colpa per sempre, e vivere è la condanna che impongo a tutti voi. Ma se davvero vuoi redimerti elfa, vieni con noi all'est: Skyrim ha il suo modo di mettere alla prova gli animi e scavare la vera natura di una persona."
"Venire all'Est?"
"Non obbligarmi a ripetere ancora, Altmer. La nostra nave partirà con la marea e non un momento più tardi: saprò cosa avrai deciso quando spiegheremo le vele."
"...Quale nave, capitano? Le Guardie Nere non hanno un vascello."
"Quella che abbiamo requisito al vostro esercito, ovviamente. O preferireste che noi restassimo a Summerset, principe?"
Attrebus scosse la testa abbastanza velocemente da apparire ridicolo.
"E dunque addio." disse semplicemente Lydia, dando loro le spalle.
"Un momento solo, capitano." la chiamò la Dage: "Questa Khajiit pensa che, poiché il corpo delle Guardie Nere è stato sciolto, ci dobbiate un inchino."
Lydia si fermò sulla soglia, con il lembo della tenda già in mano, ma non si sprecò a voltarsi: girando appena la testa e guardando la Khajiit da sopra la spalla, sibilò:
"Precisamente."
Forse fu solo uno scherzo della luce, ma in quel momento gli occhi di Lydia sembrarono diventare come quelli di un lupo.
Senza degnarli di uno sguardo di più, la donna del Nord se li lasciò alle spalle, prostrati dal supplizio a cui erano sopravvissuti: perché stare in presenza dei compagni del Sangue di Drago era sempre come fronteggiare una tempesta.
"E così viviamo un altro giorno... che noia!" offrì la Dage a mo' di spiegazione, cominciando a leccarsi gli artigli: Il ghigno del deserto doveva tenere fede al suo nome, anche quando le sue mani tremavano come foglie.
"...Se fossi una orsimer, ti prenderei in moglie qui e ora, gatta."
"Questa Khajiit accetterebbe con gioia." rispose Dra'Khaj Krin: il verso di disgusto di Tibdan si perse assieme alla risata di Idgrod.


Angolo dell'Autore:
Durante la stesura di questa storia, mi sono trovato spesso a consultare il lore di elder scroll, sia per cercare di attenermici il più possibile, sia per curiosità e ispirazione.
Spero che le mie idee e teorie sulla composizione degli schieramenti di Altmer e l'Allenza, possa piacervi: sappiamo da alcune testimonianze durante la crisi dell'Oblivion, che gli Altmer sono abituati a schiavizzare le creature che evocano e usarle come forza lavoro e su questo ho basato molte delle mie idee sul loro esercito (ci saranno più informazioni nel prossimo capitolo, cmq).
Passando ad altro: Lydia! xD Dopo molto tempo, mi sono reso conto che o la si ama o la si odia, non ci sono vie di mezzo con lei. Ammetto che non è il mio seguace preferito, ma bisogna riconoscere che la fedeltà di Lydia è davvero incrollabile: non importa dove si vada, cosa si combatta o chi tu sia come Sangue Di Drago, lei stringerà le spalle, si caricherà la schiena e ripeterà sempre: "Ho giurato di condividere le tue pene."
Credo si debba rispettare una simile abnegazione e decisione. Lydia si merita di condurre le Guardie Nere.

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Capitolo 3
*** Alinor ***


"In ogni guerra, fra tutti i soldati schierati tra le fila dell'esercito nemico, ce ne sarà sempre almeno uno che deve essere salvato ad ogni costo: trovalo!"
Due Code - Sul Mestiere della Guerra.
 
L'odore nella stanza è inconfondibile: piscio e ferro, paura e sangue. Il rumore di stivali sul pavimento di pietra riecheggia nello spazio ristretto, cavernoso:
"Come sai Ennevio, ho comandante l'assedio della città imperiale durante la prima guerra elfica, conquistandola per quasi un anno..."
Da decenni, ben prima che la seconda guerra elfica cominciasse, Lord Naarifin, cancelliere supremo dei Thalmor, aveva iniziato a nascondere il suo volto dietro uno specchio di quarzo: una maschera di liscio cristallo iridescente, che nessuno fra i suoi poteva dire di avergli mai visto togliere. Era un artefatto che lo copriva dall'attaccatura dei capelli, del colore dell'argento, fino al mento e si fondeva armoniosamente coi tratti del suo viso, al punto che chiunque avesse cercato lo sguardo del lord cancelliere dei Thalmor, si sarebbe trovato a fissasse il proprio riflesso. A parte quella maschera peculiare, solo una semplice e sottile gorgiera di bianco lino sottolineava la sua nobiltà e il suo grado, perché alle vistose uniformi di corte, Lord Naarifin preferiva le più semplici vesti dei suoi giustizieri Thalmor, nere come l'ebano e bordate d'oro.
"... fino alla battaglia dell'anello rosso, quando l'esercito imperiale se l'è ripresa. Aver sottovalutato quel piccolo imperatore mi è costato caro: per trentatré giorni sono rimasto fuori dalla Torre Oro Bianca, legato per il collo, canalizzando tutta la mia magia solo per non morire impiccato... un supplizio davvero crudele. Ma illuminante a suo modo."
Lord Naarifin si prese un momento, ricordando la sua ordalia, quando il vento lo aveva sbattuto contro le pietre della torre ed era stato costretto ad assistere al disfacimento della sua conquista:
"...illuminante, sì. Perché col passare di ogni alba, mentre la vita mi abbandonava ogni momento di più, una certezza si è fatta strada nel mio animo: la convinzione che non vi era ragione alcuna per il mio lottare. Tutte le cose in fondo devono morire prima o poi, scomparendo anche dai ricordi. Questa è l'unica verità del mondo: non c'è altro senso in esso se non quello che si cerca di dargli. Il valore della vita? La fedeltà ad una causa? Inganni della mente, illusioni che alimentano aberrazioni..."
Ennevio non lo interruppe, mentre Naarifin continuava a parlare, infervorandosi:
"Non si racconta forse che Tamriel stessa fu creata con l'inganno e popolata da dei che avevano rinunciato alla divinità, quando Lorkhan, l'Ingannatore, versò le sue menzogne nelle loro menti? Avremmo dovuto essere dei, Ennevio, ma come trascorriamo invece le nostre esistenze? Nel peccato, lottando per grette motivazioni e sperando in un domani migliore, quando anche questa speranza è solo una demente falsità. Perché Ennevio, ogni vita uno spreco, un seme di caos e insensatezza che desidera vivere solo per se stessa e che schiaccerà ogni cosa sul suo cammino per continuare ad esistere. Ogni vita è, intrinsecamente, sopraffazione: ogni vita è male. Non c'è speranza e non c'è futuro: perché se la vita è così crudele e insensata, la morte non può essere diversa."
Il lord cancelliere lo afferrò per le spalle, scuotendolo e fissandolo negli occhi mentre parlava:
"C'è solo un'alternativa Ennevio: non la morte, perché anche la morte è solo trasformazione, ma la Fine. Del presente, del passato e del futuro: una fine pura, dove tutto è fermo e immutabile. Ordinato. Uno stato di non esistenza, dove non perdurano conflitti e non ci sono desideri o guerre...."
La testa di Ennevio si piegò sul suo petto e il Lord Cancelliere lo lasciò andare, quasi tristemente:
"...Ma perché perdo tempo ad illuminarti, quando tu non puoi più ascoltare nulla?"
Ed era vero: l'Altmer non può più rispondere al suo lord cancelliere, perché quando una lettera indirizzata all'imperatore Attrebus è stata trovata nelle sue stanze, Naarifin gli ha fatto tagliare la lingua, dato che rifiutava di confessare il suo tradimento, e poi l'ha personalmente spellato vivo, con una tale crudele precisione che nemmeno una goccia di sangue ha toccato le sue nere vesti o la sua maschera di cristallo.
Non è nemmeno più Ennevio ormai, solo un mucchio di carne sanguinante e senza più scopo: con un ultimo distratto gesto della mano, il cancelliere supremo dei Thalmor gli dà fuoco, consumando quei resti con la magia, riempiendosi la bocca, il naso e i polmoni dell'odore di sangue e carne bruciata. Lord Naarifin non mostra disagio, nemmeno mentre il midollo di Ennevio sfrigola sulla pietra: da tempo è avvezzo a simili spettacoli e da secoli le sue orecchie sono sorde ai lamenti.
Quella violenza è il suo sfogo, la catarsi della sua frustrazione contro coloro che si oppongo a lui e uno spunto di profonda riflessione per il lord cancelliere: così profonda, in effetti, che nemmeno la porta che cigola alle sue spalle lo distoglie dalla sua contemplazione dell'insensatezza che è l'esistenza altrui.
"Vostra eccellenza..."
L'elfa era prostrata dietro di lui, ginocchio a terra e il pugno chiuso sul cuore: dietro la sua maschera di cristallo, l'ombra di un sorriso si affacciò sul volto del cancelliere supremo.
"Ah, Zenosha, mia cara: quali notizie?"
Raramente la vista dell'elfa aveva significato cattive nuove per Lord Naarifin e, anche questa volta, Zenosha non lo deluse:
"Liete, vostra eccellenza. Il corpo dei Volanti è tornato portando con sé l'obbiettivo, nonostante le perdite."
Anche tra gli Altmer, il popolo leggiadro di Auri El, la migliore agente del Lord Cancelliere è considerata bella: un viso perfetto a forma di cuore, grandi occhi dorati, un naso grazioso a sovrastare labbra che qualcun altro avrebbe certamente potuto usare per ridere alla vita... non che l'elfa l'abbia mai fatto. Perché quella bellezza è macchiata irrimediabilmente da un particolare anomalo: lunghi capelli color tenebra sfuggono dal suo elmo, spargendosi sulle sue spalle e sulla schiena, di una sfumatura quasi impossibile per un'Altmer come lei, risaltando due volte di più sulla sua corazza dorata dai finimenti scarlatti.
"Nonostante le perdite... Zenosha, pensi forse che avrei dovuto mandare te?"
"Non è fra i miei compiti quello di pensare, vostra eccellenza. Io, semplicemente, obbedisco."
"Vero, sempre instancabilmente e alla lettera." concesse Naarifin: "La tua efficienza mi è preziosa Zenosha: ecco perché ho mandato i Volanti. Perdere il tuo braccio sarebbe un fastidioso contrattempo, al contrario delle loro ali."
"Le vostre parole mi onorano, vostra eccellenza." rispose l'elfa senza battere ciglio, in un tono monocorde e monotono come se parlasse del tempo: per lui, Zenosha avrebbe dato fuoco a Tamriel.
"...Ho fatto confinare l'ibrido, se desiderate osservarlo." aggiunse l'elfa.
"L'ibrido?"
"Sì, vostra eccellenza. L'ho fatto chiudere nei sotterranei."
"E dimmi, ha i talenti del suo genitore?"
"Sembra di no, vostra eccellenza: i Volanti riferiscono che è muta."
"Muta? Che sorprendente delusione... immagino che questa la renda inutile come cavia. Non importa, in fondo: conducila nelle mie stanze Zenosha, assieme a Quattro. Deciderò del suo destino dopo averla vista di persona."
"Certamente, vostra eccellenza." rispose Zenosha, alzandosi in piedi in un unico movimento fluido e affrettandosi ad eseguire i suoi ordini.
 
***
 
L'attesa del cancelliere supremo nelle sue stanze fu breve, interrotta solamente da un servitore tremebondo con un calice di vino alto, che lord Naarifin liquidò poi con un gesto.
Solo al riparo da sguardi estranei, nelle sue stanze personali, l'elfo poté privarsi della sua maschera: sotto di essa, il suo volto appariva come sempre imperscrutabile. Solo la cicatrice che aveva sul collo, il segno dell'impiccagione a cui era sopravvissuto, raccontava qualcosa di più sulla sua persona, ma il cancelliere supremo era sempre molto attento a nasconderla dietro la sua gorgiera di lino. Il lord cancelliere custodiva gelosamente il significato che quella cicatrice aveva per lui: fu con un brivido di estasi che Narifiin Lo accolse come sempre nella sua mente.
Il momento è quasi giunto. Non esitare.
"Mai, mio signore. Il nostro obbiettivo è a portata di mano."
Ricorda perché ti ho salvato dal tuo supplizio e scelto come mio agente.
"La mia vita per servire i vostri ideali, mio signore."
La tua prova si avvicina. Non deludermi.
"Mai." ripeté Naarifin, ma la Sua presenza e cristallina chiarezza erano già lontane dalla sua mente.
Naarifin si concesse un solo sorso di vino e poi con un sospiro, indossò nuovamente la sua maschera di cristallo: rimaneva un solo ostacolo per realizzare il sogno di perfezione del suo salvatore e patrono. Anni spesi solo per arrivare fino a quel momento, ma ora, finalmente, sembrava che la Sua attesa sarebbe stata premiata: la chiave era nelle mani di Naarifin.
"Vostra eccellenza." disse Zenosha dopo aver bussato alle porte della sue stanze: "Ho portato la creatura."
"Avvicinala." ordinò il Lord Cancelliere girandosi e osservando attentamente ciò che gli era stato portato:
"Tu devi essere Kaan." disse infine.
Di fronte a lui, una bambina di dieci anni lo guardava dal basso in catene.
"Quattro bravo?" chiese l'essere che accompagnava Zenosha e la bambina.
"Sì, Quattro ha portato a termine il suo compito." rispose Naarifin, senza distogliere lo sguardo da Kaan: l'abominazione che era Quattro era ormai ordinaria agli occhi dell'elfo.
I Volanti: fiaccati dalle Guardie Nere, i Thalmor erano stati costretti a creare qualcosa che potesse affrontare i soldati del Sangue di Drago, e quelle creature erano state la risposta, un'innovazione a cui Lord Narifiin aveva personalmente partecipato. Ognuno dei Volanti era plasmato a partire da un cadavere morto da poco, a cui era cavato il cuore per sostituirlo con una gemma dell'anima in cui era intrappolata l'essenza di una creatura dell'Oblivion: era così, grazie ad un ultimo tocco di taumaturgia per ricucire la carne mortale, che un nuovo schiavo dei Thalmor si inchinava ai suoi padroni. Naarifin li aveva voluti alati, per meglio combattere l'esercito imperiale sulla terra e i draghi nel cielo, ed era proprio dalle loro vaste elitre di insetto che i Volanti prendevano il nome.
Incontrare in battaglia uno di loro significava doversi confrontare con una forza alimentata dalla follia, perché quei loro volti, spesso familiari ai soldati dell'impero, volti di compagni, familiari e commilitoni; erano animati dalle più fameliche e abbiette volontà dell'Oblivion, imprigionate dalla magia in un corpo di carne.
I Volanti erano lo scherno ultimo di Naarifin verso coloro che osavano insorgere contro di lui, e solo due cose il cancelliere supremo insegnava alle sue creature: come attingere ai ricordi della carne per meglio distruggere i soldati che affrontavano, e come fare prigionieri per ingrossare le loro fila. L'eloquio non era una dote che il cancelliere sprecasse tempo ad insegnare:
"Quattro non ha mutilato preda. Gustosa, piccola, tenera. Ma Quattro non ha mangiato. Quattro tante fame ora."
"Credevo indugiassi nella tua frenesia cannibale durante la battaglia, Quattro." commentò Zenosha con neutra curiosità.
"Corazze dure per artigli e zanne di Quattro. Qualche occhio, qualche naso. Dolci urla. Ma niente succose viscere. Troppi nemici questa volta."
"Non preoccuparti Quattro: non appena mi avrai portato altri prigionieri, avrai nuovi fratelli e sorelle con cui fornicare." rispose benevolmente Naarifin.
"Quattro tanta fame ora." ripeté la creatura soddisfatta: in vita, doveva forse essere stata una donna del Nord, ma era difficile capirlo al di sotto degli stracci che portava, macchiati com'erano di sangue e umori, o dai suoi lineamenti, sfregiati dalle cicatrici degli esperimenti di alterazione che erano stati fatti per rendere la sua carne dura come pietra.
"Zenosha, fai accompagnare Quattro nei sotterranei a scegliere il suo pasto e aspetta fuori: desidero esaminare questa creatura."
"Certamente, vostra eccellenza." replicò l'elfa, affrettandosi ad eseguire i suoi ordini.
Quando le porte si chiusero dietro di loro, lasciandoli soli, il lord cancelliere si chinò sulla bambina.
"Sembra che i teoremi di filogenia razziale si applichino anche nel tuo caso... affascinante."
Se Quattro, come tutti i Volanti, aveva risaltato nella stanza per la sua forma abbietta, così Kaan era impossibile da ignorare per le sue peculiarità. Ad un primo sguardo distratto, o da lontano, la bambina avrebbe potuto passare per una dunmer, come sua madre: pelle color della cenere e una figura sottile, che nonostante la giovinezza già tradiva la fanciulla che sarebbe potuta diventare.
Osservata più attentamente però, era impossibili non notare le differenze: così come anche negli elfi scuri, anche l'iride e la sclera dei suoi occhi erano dello stesso colore, ma invece del rosso sangue tipico dei dunmer, lo sguardo che si rifletté sulla maschera di cristallo di Narifiin era di un azzurro perfetto, come il cielo d'estate.
Gli occhi della bambina erano senza malizia e intensi come raramente il cancelliere supremo aveva visto.
Kaan, unico ibrido noto in tutta la storia di Tamriel tra un Argoniano e una Dunmer, e per di più figlia dell'ultimo Sangue di Drago: il numero di esperimenti che Naarifin avrebbe potuto compiere su un simile campione erano quasi illimitati. Sopra quegli occhi color del cielo, Kaan sfoggiava ciò che più di tutto tradiva la sua natura ibrida: non vi erano capelli sulla sua testa, ma lunghe piume come di pavone, di ogni sfumatura dell'azzurro e del blu, ornate d'oro e di castano, che le ricadevano morbidamente all'indietro sulla schiena, catturando la luce della stanza in mille riflessi.
Mentre Naarifin la osservava, Kaan sentì il bisogno di grattarsi la testa, lasciando che il cancelliere intravedesse la radice di due piccole corna situate appena sopra le sue orecchie, lunghe e appuntite come quelle degli elfi.
"...E tuttavia non parli, non è vero?" chiese l'Altmer.
Kaan scosse la testa, battendosi un dito sulla gola, cinta da una sciarpa color del fuoco su cui erano ricamate rune in lingua dei draghi.
"Posso?" chiese Naarifin: Kaan non sembrava intimorita dalla sua presenza e fece spallucce. Prendendo il tessuto tra due dita, Naarifin lo scostò appena, confermando che anche sul collo della bambina si trovavano i tagli paralleli delle sue branchie, così come in tutti gli Argoniani.
"Sai nuotare dunque?" le chiese l'elfo, rialzandosi in piedi.
Kaan rispose con un sorriso, assentendo con la testa mentre si risistemava la sciarpa con un gesto che denotava lunga pratica: le manette non sembravano intralciarla più di tanto o spaventarla.
Naarifin meditò per un momento se liberarle i polsi, ma infine decise di non farlo: ci sarebbe stato tempo per quello, più tardi. Tempo per levarle quella pretenziosa veste con i colori dell'impero e mettere tutti i suoi organi in tanti vasi colorati. Tempo per conoscere un po' meglio la fisiologia di quella sciocca bambolina senza paura, e nel caso insegnargliela. Tempo, per dare fuoco ad ogni lembo di pelle di quell'ibrido disgustoso, dopo aver catalogato ogni proprietà magica ed alchemica dei suoi fluidi ovviamente...
Un quieto bussare alla sua porta interruppe i pensieri del lord cancelliere.
"Vostra eccellenza..."
"Credevo di aver ordinato di non essere disturbato, Zenosha."
"Perdonatemi vostra eccellenza, ma il duca e la Regina..."
"Continuo io, serva. Perché non vai ad occupare il tuo tempo con qualche mansione più degna di te, come pulire lo sterco dei Volanti dalle mura?" disse una voce annoiata: dietro Zenosha, un Altmer dai capelli rossicci si trascinava stancamente, facendo vagare il suo sguardo per la stanza senza soffermarsi su nulla. Ogni gesto di quell'Altmer vestito riccamente sembrava dire: "sono mortalmente annoiato".
"I Volanti non defecano, Corenar. Rigettano ciò che non possono digerire."
Lo sguardo dell'elfo non mutò affatto mentre osservava Naarifin e Kaan, ma la sua voce si fece di gelo:
"Duca di Alinor per te, cancelliere: confido che non abbia dimenticato le tue maniere nel buco che ti sei scavato nella mia città per i tuoi... esperimenti. La Regina desidera la tua presenza. E porta anche la bambina."
"E ha mandato voi a dirmelo? Invero, un compito assai degno di un duca: riferite alla regina che sarà un piacere presentarmi al suo cospetto non appena avrò finito qui."
"Subito cancelliere. Non vorrete farmi insistere." alle spalle di Corenar, duca di Alinor e consigliere della Regina di Summerset, guardie Altmer con l'insegna della città sulle loro armature di cristallo e oro si riversarono nella stanza, circondando il lord cancelliere: dieci lance furono puntate su di lui.
"Oh, perdonatemi duca: non avevo inteso fosse così urgente. Questo vecchio Thalmor a volte si perde nelle sue ricerche."
"Ma certo, cancelliere. Volete seguirmi ora?"
"Fate strada, duca. Zenosha: porta con te l'ibrido." ordinò Naarifin.
"Certamente vostra eccellenza."
Il duca di Alinor alzò appena un sopracciglio, riuscendo a mantenere però un espressione annoiata: una dote affinata nei secoli passati a corte.
"Suvvia duca, non vorrete davvero che una delle vostre guardie debba sporcarsi le mani con qualcosa come quella, non è vero?" gli domandò il cancelliere.
Corenar sembrò pensarci un momento, ma alla fine annuì, lasciando che Zenosha afferrasse Kaan per un braccio e cominciasse a trascinarsela dietro.
Strano individuo il duca: Naarifin gli avrebbe volentieri aperto il cranio per studiarne la mente, cercando di capire come un pensiero qualsiasi potesse risiedere in una persona così piena di se stessa.
 
***
 
Alinor, seconda capitale delle isole di Summerset: l'ultimo gioiello della corona del terzo domino Aldmeri e una città che in tutte le isole di Summerset era stata seconda solo a Nuova Cloudrest. Una città assai antica, poiché Alinor era stata edificata addirittura nella Seconda Era ed il fascino delle sue torri, che sembravano fatte di vetro o ali di insetto, rivaleggiava con quello dei suoi palazzi, che raccoglievano la luce del sole e la scomponevano nei suoi colori fondamentali, spargendoli su tutta la città. Il suo porto era così grande da poter accogliere l'intera flotta dei Thalmor e posto ancora sarebbe avanzato per un altra uguale.
Nel centro di Alinor, troneggiava il palazzo di cristallo, dai bastioni impossibilmente alti e vorticosi: la residenza che era stata del duca di Alinor per generazioni, e che ora ospitava la regina degli Altmer, costretta a fuggire da Nuova Cloudrest quando le truppe imperiali avevano espugnato quella città.
Fu proprio nei giardini del palazzo di cristallo che il drappello di guardie scortò lord Naarifin e Zenosha, al cospetto di Tuinden figlia di Ayrenn, Regina delle Isole di Summerset e degli Altmer: splendente era Tuinden, dai capelli del colore delle stelle e i cui occhi riflettevano le onde del mare.
Corenar e Naarifin posarono entrambi un ginocchio a terra di fronte alla loro regina, assieme alle guardie del drappello, e solo Zenosha rimase in piedi, con il polso stretto attorno al braccio di Kaan: la bambina era stata catturata dai fiori del giardino e strattonava per esplorare quelle meraviglie.
"Mia regina... prendervi personalmente cura di questi fiori... è sconveniente che siate voi ad occuparvene con le vostre mani." disse Corenar: la sua voce stillava suadenti emozioni e ossequio da ogni singola sillaba.
"Duca: vorreste voi forse dire ad una regina cosa può e non può fare?" rispose Tuinden, e la sua voce era il coro di mille fate.
"...Perdonate questo vostro umile servitore, mia regina, ma vedere le vostre preziose mani oscurate dal nero della terra mi fa quasi odiare questi fiori."
Tuinden lo interruppe con un lieve gesto della mano, effettivamente annerita dalla terra:
"La luce di Auri El illumina ogni cosa duca, perché i doni degli otto dei ricadono su tutti noi senza distinzione. Perché un giardino come questo prosperi però, è necessario che qualcuno separi le piante utili da quelle nocive. E a volte... a volte è necessario che perfino una regina sporchi le proprie mani, affinché le cose vengano fatte secondo i suoi desideri." per un breve istante, lo sguardo della Regina si fissò su Zenosha, per poi tornare su suoi adorati fiori.
"Capisco mia regina." belò Corenar.
"Davvero duca? Noi non crediamo." lo canzonò lievemente Tuinden: "Voi cosa dite, Lord Naarifin?"
"Sinceramente? Vostra maestà, questo vecchio Thalmor trovo tutto questo... orribile."
"Dite davvero?"
Lord Naarfin assentì lievemente col capo, di fronte alla domanda sorpresa della regina:
"Precisamente, vostra maestà: il vento soffia, le lune sorgono e tramontano e i fiori prima o poi appassiscono, inevitabilmente, non importa quanta cura possa essere loro riservata. È la natura delle cose: affaccendarsi per cambiarla vi lascerà insoddisfatta e col nero della terra sotto le unghie."
"Che cosa ci proporreste dunque?"
"...Forse la scultura potrebbe darvi maggiore soddisfazione, mia regina. Se anche le statue sono condannate prima o poi all'oblio, come ci insegnano le opere degli Ayeleid, almeno non vi sporcheranno le mani."
La Regina rimase in silenzio un momento, soppesando le parole del cancelliere supremo, valutando i molti significati nascosti.
Fu con un sorriso che Tuinden parlò, infine:
"...Lord Naarfin."
"Sì, mia regina?"
"Il vostro intelletto è stato un dono prezioso per le isole di Summerset e per noi..."
"Le vostre parole mi onorano."
"... così come il vostro zelo, specie dopo il vostro ritorno in patria. E tuttavia, sembra abbiate ecceduto nei vostri compiti."
"Temo di non riuscire a seguirvi, mia signora."
"Non osate fingere, lord Naarifin..." per un momento, l'ombra di emozioni e toni non degni della sua carica si affacciarono nella voce di Tuinden: "...non lo ammettiamo: che ne è stato del duca Ennevio?"
Se dietro la sua maschera di cristallo Naarfin sorrise, nessuno lo seppe mai:
"Mia regina, che cosa può fare un Thalmor di un traditore? Come vostro cancelliere supremo, è mio dovere investigare e sopprimere il germe dell'infedeltà, ovunque esso si annidi... o forse i vostri amanti sono immuni alla mia giustizia?"
"Naarifin!" sbraitò Corenar.
"Lasciate che si esprima, duca. È... piacevole ascoltare una lingua schietta di tanto in tanto: alzatevi, lord Naarifin. Siamo sorpresi che sapeste di me e del duca."
Il cancelliere supremo si spazzolò la veste mentre si alzava, riuscendo ad apparire ancor più insultante di quanto già non fosse normalmente:
"Ai miei Thalmor non sfugge nulla, vostra maestà. Sapevo da tempo con quanta assiduità il duca si prendesse cura... del vostro giardino, per così dire. Vi porgo le mie condoglianze per il suo tradimento a favore dell'Impero."
"E che direste se vi rivelassimo che è stato per un nostro ordine che il duca Ennevio ha scritto all'esercito Imperiale?"
"Vostra maestà... non intenderete davvero arrendervi?"
"Silenzio Corenar. Voi non avete il potere di decidere cosa possiamo o non possiamo fare. Voi siete solo un duca, piccolo e goffo, occupato dal pensiero della sua città. Ma noi dobbiamo agire per il bene di tutti gli Altmer."
"...Perdonate la domanda, vostra maestà, ma come può la resa essere un bene per i Thalmor?"
"Non per i Thalmor, Naarifin: ma per gli Altmer. I duchi di Lillandril e Sunhold ci inviano notizie di malcontento e di voci di ribellione nelle loro città: a quanto pare i vostri Thalmor possono evocare creature dall'Oblivion e respingere le armate dell'Impero, ma non possono nutrire le masse."
"Un compito che non gli spetta, ad essere... schietti, vostra maestà. La situazione è dunque così disperata?"
"Al punto, lord cancelliere, che stavamo pensando di consegnare al Sangue di Drago la vostra testa."
"Temete così tanto il padre della creatura che ho fatto catturare?"
"Non siate ottuso, Naarifin! Anche se riusciste a sconfiggerlo con un simile meschino stratagemma, i Thalmor di cui andate tanto fiero hanno già perso. Il nostro popolo non può resistere ad un altra settimana di guerra."
"I miei Thalmor non perdono, vostra maestà. E non sono pronto a separarmi dalla mia testa, quando la vittoria è così vicina."
"Noi non possiamo ottenere la vittoria: non in questa guerra. Non più ormai. Ma le vite degli uomini sono brevi e inconsistenti: il sogno antico di una supremazia degli Altmer sulle altre razze, il sogno di nostra madre, si avvererà un giorno.  Ma senza di voi e il demone che vi consiglia."
Il silenzio prese sostanza nel giardino del palazzo di cristallo:
"... A quanto pare non siete solo una sciocca bisognosa di amore, Tuinden. Perdonate se vi ho sottovalutato in questi anni."
"Noi non vi perdoniamo, cancelliere. Nostra madre Ayrenn ha lottato a lungo contro coloro che servono i principi dell'Oblivion, come voi ben sapete. Siete stato abile in questi anni a nasconderlo, ma negli ultimi mesi sembrava quasi che non vi importasse più di tenerlo segreto: è lampante quanto l'ombra di uno dei principi vi avvolga nel suo fetore. Come potevate pensare che vi fosse permessa una simile eresia? E come potevate pensare che nessuno se ne accorgesse?"
"Immagino che chiedervi di fornire le prove delle vostre false accuse, mia regina, sarebbe uno sforzo inutile, ma ci sono ottime ragioni con cui potrei persuadervi se me lo permetteste..."
"Di nuovo Naarifin, noi non ve lo permettiamo." concluse Tuinden con un sorriso crudele ed un gesto.
Le guardie si mossero attorno a loro, levando le lance e preparandosi a colpirlo, ma il lord cancelliere fu più rapido: attorno a Naarifn, dove prima c'erano stati dieci soldati, un duca ed una regina, si ergevano ora dodici statue di cristallo, finemente cesellate con l'ultima espressione che avevano avuto in vita. Ucciderle aveva richiesto a Naarifin meno di un battito del cuore.
"Sì... senza dubbio la scultura è più soddisfacente dell'orticultura e tuttavia..." un semplice cenno della mano del lord cancelliere e le statue cominciarono a creparsi finendo in pezzi: "Anche le statue sono destinate e diventare polvere nel tempo." ripeté con una lieve soddisfazione nella voce.
Il tempo di quelle tediose e false riverenze era per lui finito, così come l'utilità di Tuinden. I Thalmor e Naarifin non avevano più bisogno di una regina: mai più, ora che il cancelliere supremo era così vicino al suo sogno.
Dietro di lui, Zenosha aveva fatto solo tempo a nascondere Kaan dietro di sé, proteggendola quando le guardie si erano avvicinate.
"Dimmi Zenosha..." le chiese il lord cancelliere voltandosi: "Ti disturba il fatto che abbia ucciso tua madre?"
L'elfa dai capelli corvini fissò i frammenti di cristallo sparsi tra i fiori, prima di rispondere al suo lord:
"No, vostra eccellenza. Tuinden sapeva prendersi cura solo dei suoi fiori e dei suoi amanti: i miei capelli neri l'hanno sempre disgustata. Montare quelle menzogne contro di voi per tentare di accusarvi di eresia non è diverso da ciò che lei ha fatto a me per allontanarmi dalla corte. Io non dimentico che è solo grazie a voi che sono potuta tornare alle nostre amate isole."
Zenosha si inchinò profondamente:
"E inoltre, la mia fedeltà a voi rende ogni altro sentimento... irrilevante."
Per un lungo momento Naarifin lasciò che Zenosha si prostrasse di fronte a lui: quando fu convinto della veridicità delle parole del suo luogo tenente, il cancelliere supremo dei Thalmor annuì soddisfatto.
"Quale giorno propizio è mai questo, Zenosha. Per mia mano sono caduti due duchi ribelli ed una debole regina. E prima che tramonti il sole, anche un Drago cadrà."
In quel momento, da est, un ruggito echeggiò nel cielo e sulla terra, superando le mura della città di Alinor e scuotendo quelle del palazzo di cristallo, per giungere fino a loro: a quel suono, la piccola Kaan cercò di nuovo di scappare dalla presa di Zenosha.



Angolino dell'autore:
La figura di Lord Naarifin è davvero presente nel lore di  Skyrim, compresa la sua impiccagione al di fuori della torre della città imperiale. Alcune fonti  riportano però che dopo 33 giorni il suo corpo svanisce, portato via da una creatura dell'oblivion. Ho voluto ampliare questa idea e cotruire così il Lord Naarifin che trovere in queste pagine, il cattivo della storia  (Per quanto riguarda invece i Volanti sono una mia invenzione). Spero che questo capitolo vi sia piaciuto abbastanza da lascaire una recensione. Dal prossimo (finalmente) le cose si faranno un bel po' più movimentate: i parenti di Kaan sono arrivati :).

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Capitolo 4
*** La Caduta ***


Come avevo promesso, da questo capitolo in poi cercherò di descrivere perchè rapire la figlia del Sangue di Drago sia stata una pessima idea da parte degli Altmer.
Due piccoli particolari che spero vi piacciano: a Rorikstead è possibile incontrare Sissel, che riferisce di come abbia sognato di un grande drago che non le sembrava cattivo come gli altri... predestinazione all'opera? Chissà.
Inoltre in tutto il lore di "The Elder Scroll", viene menzionato un altro drago rosso oltre ad Odahviing: Nafaalilargus, il cui nome però non ha alcun significato in lingua dovah e che quindi ho lievemente cambiato per dargli più senso (come se fosse il primo retcon della storia. xD). Per il resto, buona lettura e spero vi piaccia (Ogni recensione è ben accetta.)




La Via della Voce risiede in due parole: Lok Thu'um. Perché un joor, un mortale, possa usare le rotmulaag, le parole del potere, egli deve accoglierne il significato nella propria anima: solo uno spirito indomabile, o un Dovahkiin, riesce a non esserne corrotto. A tutti gli altri, sulla cima di questa mia strunmah, io insegno il come.

La Via della Voce- Sissel di Rorikstead.
 
I draghi non calarono sulla città di Alinor: le sentinelle sulle mura e i Volanti appostati sulle torri li videro planare invece davanti alle sue porte, alla distanza di due tiri di freccia.
Due grandi draghi rossi, che più di tutti gli altri erano vicini al Sangue di Drago e alla sua famiglia, e perfino gli Altmer conoscevano i loro nomi: Odahviing, il drago di Skyrim che aveva servito Alduin prima di giurare fedeltà al Dovahkiin, e Nahfaasaar, il drago mercenario, che si diceva avesse prestato le sue ali a Tiber Septim in persona, e che era stato riportato in questo mondo dal Sangue di Drago per servirlo.

BO GUT

Non fu un Urlo che riverberò sulla piana fino alle mura di Alinor, ma un ordine, e gli Altmer osservarono i due draghi aprire di nuovo le grandi ali di cuoio e spiccare il volo, dirigendosi verso est, divorando il vento come se li inseguisse una tempesta. Per natura, i Draghi non temono nulla, e tuttavia...

Dove Odahviing e Nahfaasaar si erano posati solo per un momento, erano rimaste tre figure: anche dalle mura, le loro armature grigie, come di fumo vetrificato, tradivano le loro identità.
"Vostra eccellenza, quali ordini dalla Regina?" chiese il capitano dei soldati a lord Naarifin, quando Quattro lo posò sul bastione delle mura: i volti delle guardie Altmer erano tesi, ma fiduciosi ora che il cancelliere supremo era fra loro.
"Sua maestà ha lasciato a me il comando capitano. Diffondete la notizia che le vostre truppe prenderanno ordini dai miei Thalmor da questo momento in poi: non ammetterò errori."
"Certamente vostra eccellenza. Le mie truppe sono a vostra disposizione."
"Eccellente, capitano. Avrei preferito affiancarvi Zenosha, ma i suoi compiti la trattengono: non deludetemi, e la vostra ricompensa sarà enorme."
Il capitano delle guardie di Alinor sorrise, mentre la cupidigia gli riempiva gli occhi: dopo un profondo inchino al cancelliere, l'elfo si affrettò a dare ordini alle truppe, preparando gli Altmer alla battaglia.
Liberatosi in quel modo della sua presenza, Naarifin appoggiò le mani sulle mura, osservando coloro che così tanta strada aveva fatto per giungere fino a lui: Alinor era davvero lontana dall'impero.
"Quattro? Va ad accoglierli." ordinò Naarifin: meglio che fosse un Volante ad avvicinarli per primo.
La creatura aprì le ali con un ghignò famelico e si lanciò nell'aria, planando fino a posarsi nella terra di nessuno fra Alinor e il Sangue di Drago.
"E dunque, così comincia." si disse Naarifin: sotto di lui, schierati sulle mura, arcieri Altmer incoccarono le loro frecce, mentre stregoni Thalmor raccolsero la forza degli elementi nelle loro mani.
Fu del Sangue di Drago, la prima mossa:

VEN MUL RIIK

L'Urlo riverberò fino a Naarfin come un tuono cupo, portando con se la forza del vento. L'odore di pioggia riempì l'aria e la natura di quelle tre parole fu subito chiara: nebbia, troppo rapida e fitta per appartenere alle isole di Summerset, o a Tamriel, si condensò attorno alla città, crescendo e correndo in lingue e spirali, stringendosi attorno alle sue mura, densa più della spuma del mare: il territorio attorno ad Alinor, la pianura fertile e perfino le montagne in lontananza erano ora diventate invisibili.

Perfino le onde del mare alle spalle della città, erano state nascoste.
Naarifin sorrise dietro la sua maschera: Alinor sembrava galleggiare nella nebbia, come unico luogo del creato su cui splendesse ancora il sole. Come sempre la voce dei draghi era ineluttabile, e tuttavia quella nebbia magica non riusciva ad avvicinarsi alle mura incantate di pietra di luna della città: gli incantesimi dei Thalmor respingevano ogni magia e dunque la bruma poté solo scorrere, accumulandosi come l'acqua contro le pareti di una diga, salendo lentamente di livello.
"Solo un trucco." si fece sentire la voce del capitano delle guardie, tranquillizzando i suoi uomini. Sì, solo un trucco, ma assai d'effetto:
"Guardate!" urlò uno dei soldati.
Le volute di nebbia di fronte alle porte della città cominciarono a turbinare, diventando quasi solide, assumendo forme, ma non sostanza: anche a lord Naarfin occorse un momento per capire di cosa si trattasse.
Quando fu pronto, l'avatar di nebbia di Brelyna Maryon, della casata di Telvanni, moglie dell'ultimo Sangue di Drago e madre di sua figlia, si alzò in piedi di fronte alle porte di Alinor. La figura di bruma della strega era abbastanza alta da superare con la testa l'orlo delle mura della città e lord Naarifin ammirò sinceramente il controllo e la delicatezza di quell'incantesimo, e la squisita precisione con cui i lineamenti dell'elfa scura erano stati scolpiti nella nebbia: grigio, su di un grigio ancor più assoluto.
Quando gli occhi di quell'avatar si fissarono su di lui, il cancelliere supremo vide che contenevano la luce dei fulmini:
"Lord Naarifin: mi aspettavo foste più alto." disse la nebbia con voce perfettamente chiara: l'elfo si sarebbe aspettato invece il cupo brontolio del tuono.
"E io, che sarebbe stato il Sangue di Drago a parlare con me." rispose lord Naarifin.
"...Temo che al momento il mio sposo non possa parlare in una lingua che capireste."
"E che ne è di Quattro? Credevo che il Sangue di Drago rispettasse la sacralità di un ambasciatore..."
La nebbia sembrò sorridergli, prima di risponderli:
"Parlate della vostra... creatura? In questa nebbia così fitta, temo possa essersi perduta." Fuori dalle porte di Alinor, la pioggia cominciò a cadere sulle terre di Summerset.
Era la prima volta da molto tempo che dietro la sua maschera di cristallo, il cancelliere supremo dei Thalmor non provava una simile gioia: poteva quasi percepire la furia impotente del Dovahkiin e di quella sgualdrina di sua moglie, mascherata dietro falsa cordialità. Quello era il posto che meglio si confaceva loro: strisciare di fronte a lui, umiliati ed impotenti. Tutti sapevano chi avesse vero potere in quel momento, ma quella furia non era ancora abbastanza per gli scopi di Lord Naarifin: ne serviva molta di più.
"Ovviamente. E ditemi strega, per quale motivo, voi e la vostra... pittoresca famiglia siete giunti ad Alinor, così lontani dalle forze dell'impero? Venite a porgere la vostra resa?"
"Veniamo a proporre uno scambio." fu la risposta.
"Uno scambio? È questo dunque il Sangue Di Drago e la sua famiglia? Mercanti? Usurai?..."

KOS NAHLOT, FAHLIIL

E per un momento, un istante che a tutti gli Altmer sulle mura sembrò dilatarsi all'infinito, suoni e voci morirono, perché così il Sangue di Drago aveva ordinato: fare silenzio. Non solo nella gola, ma anche nella mente: per un terribile momento, lord Naarifin dimenticò cosa volesse dire parlare con la bocca e ciò che significasse sentire con le orecchie.

Fu solo per un istante e solo perché non si trattava di un Urlo: altrimenti, forse, ogni elfo sarebbe stato reso sordo e muto.
"Veniamo a garantire per la città di Alinor, la sola vera roccaforte che ancora vi resta. Questa città, in cambio di nostra figlia, viva ed incolume. Che dite Lord Naarifin?"
Il vento soffiò contro le mura e in esso, il cancelliere supremo ritrovò la sua voce.
"...Un offerta molto allettante, strega. Ma, io ne ho una migliore e mi rivolgo alla disgustosa creatura che avete preso come marito: i vostri sortilegi non possono superare le mura di Alinor. La vostra furia è patetica ed impotente. Voi non avete niente: niente che possa convincermi a restituirvi ciò che vi ho tolto. Niente per forzarmi la mano, niente... che possa convincermi ad ascoltarvi ancora. Chinate il capo, come le bestie che siete e forse i miei Thalmor vi daranno la morte che meritate, assieme all'abominio che avete generato!"
L'avatar di nebbia di Brelyna Marion sembrò chinare il capo raccogliendo i propri pensieri e per un momento, la luce del fulmine nei suoi occhi si spense.
"...È un sollievo che siate così cieco, Lord Naarfin. Ad essere sincera, temevamo di dare fondo a ciò che ci avete fatto provare. Grazie, stupido Altmer, per averci liberato dal fardello noto come ragione. E ora..."
Nella nebbia dietro l'avatar di Brelyna, si aprì un occhio rosso: un cerchio di luce scarlatta. Un portale per oscure dimensioni.
"...Se non ricordo male, fu appropriandosi del merito di aver posto fine alla crisi dell'Oblivion, quando durante la terza era il mondo quasi cessò, che i Thalmor iniziarono la loro salita al potere. È appropriato dunque che sia l'Oblivion a segnare la vostra caduta..."
Perché le dimensioni oscure non sono uniformi nella sua struttura: dagli strati più vicini a questo mondo si possono trarre spiriti che la volontà mortale può soggiogare. Ma se ci si inoltra troppo a fondo, se si apre una finestra sui Veri Abissi, allora non saranno più piani d'ombra quelli che si troveranno, ma universi infernali di cui ogni demone è rovina.
 
***
 
"Un portale è stato aperto sul vostro reame, e tuttavia tu sola lo hai attraversato. Perché mai?"
Nascosto nella nebbia, un giovane uomo pose questa domanda al demone che aveva varcato il portale: femmineo, dalla carne color della notte e dai capelli tinti con la cenere delle ossa delle anime che aveva tormentato, mentre i tatuaggi scarlatti sul suo viso brillavano come il sangue anche nella nebbia. Il demone sorrise, di un sorriso sanguinario, e i suoi liquidi occhi fatti di oscurità si fissarono sul figlio adottivo del Sangue di Drago: un giovane uomo del Nord dai capelli neri e riccioluti, occhi verdi dallo sguardo sfrontato e senza paura, e sottili cicatrici sul bel volto che ancor di più gli avrebbero attirato il favore delle fanciulle nella sua terra natia.
"Aventus Arentino. Mi ricordo di te."
Il giovane scosse la testa, corrugando il viso.
"Preferisco essere chiamato Due Code, Khathutessa."
Il demone rise: un roco gorgoglio metallico di gola.
"Rammento ancora quando ho quasi banchettato col tuo cuore. Il sapore del tuo sangue allora... così dolce." rispose il demone, passandosi un artiglio corazzato sulla lingua e sulle labbra.
Due Code, figlio maggiore del Sangue di Drago, fissò con furia e orgoglio ferito il demone, ricordando l'umiliazione da cui aveva dovuto essere salvato:
 "Io sono più forte di allora."
Il demone lo annusò rumorosamente:
"...Sì, tu non odori più di debolezza... " concesse: "Tutt'altro: un giorno forse ti farò mio. Ma ora scostati mortale, perché possa inchinarmi alla mia signora."
Dopo un momento, il giovane le obbedì, permettendo a Khathutessa di inginocchiarsi di fronte a Brelyna Maryon, fino a strisciare la fronte nella terra.
A causa del patto che la strega aveva stretto coi grandi Principi dell'Oblivion, l'elfa aveva perso la capacità di evocarne le creature: i regni di fiamma e oscurità sfuggivano ora dal suo tocco, dalle sue mani che, come il suo corpo, recavano incise le rune dell'Oblivion tatuate a fuoco.
Era stata una grande rinuncia per lei, che però aveva compiuto senza rimpianti, per amore e per orgoglio.
Brelyna però non aveva saputo rinunciare del tutto alla sua arte, trovando così nuove strade: l'ultima Pietra del Sigillo ancora a Tamriel dai tempi della Crisi dell'Oblivion, il pernicioso artefatto che era stato il suo esame finale di evocazione al Collegio di Magia e Stregoneria di Winterhold tanti anni prima, costituiva ora la cima della sua staffa magica. Grazie a quella pietra, la strega poteva aprire un varco per ogni regno dell'Oblivion, ma spettava alle creature in esso se chinarsi al suo volere o meno. Khathutessa non aveva avuto scelta: il demone si era piegato alla strega dopo essere stato quasi distrutto per aver bramato un bambino che non le apparteneva e aver ucciso il precedente huscarlo di Brelyna.
Il patto era stato semplice: la sua vita in cambio della sua schiavitù. Per il demone, un buon patto in fondo:
"Mia Signora, l'Oblivion ribolle per la tua magia."
Non fu senza un piccolo sorriso sul volto tatuato che l'elfa scura accolse il gesto del demone:
"Khathutessa, Arciduca dell'Oblivion e Valkynaz dei Paria. Quanto tempo."
"Lord Dagon urla dalle Terre Morte per l'affronto che gli hai fatto: chiamare noi che non ci siamo mai piegati a lui invece che i suoi soldati."
"Disapprovi?"
"Il mio sangue canta di gioia!" ruggì il demone.
"Bene. Ho pensato di invitarti ad un massacro. Vedi la città di fronte a noi? Voglio che tu faccia degli abitanti in essa ciò che vuoi."
Il sorriso del demone femmina si aprì su una bocca piena di canini e Khathutessa ruggì qualcosa nella lingua dell'Oblivion, con parole che ferivano l'anima di chi le ascoltava: dal portale alle sue spalle, cominciò a riversarsi il suo Kin. Ottocento e ottantotto dremora, tutti carne nera, armature scarlatte, nere e oro di acciaio daedrico, Churl e Caitiff dalle lunghe mazze, Kynmarcher con scudo e spada, e infine Markynaz con lunghi spadoni di fuoco e nero acciaio: l'ultimo di essi portava con sé anche la spada di Khathutessa, che si affrettò a porgerle. Il demone femmineo la imbracciò con una sola mano, fendendo l'aria e facendo tintinnare gli anelli che ne ornavano la lama.
E poi i dremora cominciarono a cantare: ottocento ottantotto demoni alle porte di Alinor, inneggiando nella nebbia, mentre le loro spade fiammeggiavano di mille violente promesse:
"SANGUE PER IL SANGUE DI DRAGO! TESCHI PER IL SUO TRONO!" fu il grido nella lingua dell'Oblivion, ripetuto ancora e ancora, mentre le loro voci agghiaccianti riverberavano nella piana.
Poi l'ultimo Sangue di Drago avanzò verso le porte di Alinor, segnalando la carica con un Urlo.

MUL QAH DIIV

E la luce delle anime dei draghi lo avvolse come un armatura.

 
***
 
Sulle mura di Alinor, gli Altmer videro la luce del portale scomparire, l'occhio di fuoco chiudersi nella nebbia, per essere sostituito da fiamme più piccole ma impossibilmente numerose.
Poi arrivarono le urla, e sulle mura di Alinor, gli Altmer ebbero paura: l'Urlo li fece tremare, perché in mezzo alla piana, tra le lingue di fuoco, un drago risplendente era nato, guidando la carica dei demoni.
"FUOCO!" urlò il capitano delle guardie quando i nemici furono abbastanza vicini, e i Volanti spiegarono le ali, gli arcieri tesero i loro archi e gli stregoni Thalmor riversarono la furia degli elementi sulla pianura sottostante: frecce d'oro si inoltrarono nella nebbia, troppo numerose per poterle contare, mentre fulmini e palle di fuoco saturarono l'aria. I difensori di Alinor fecero del loro meglio, ma il loro meglio fu quasi nulla: degli ottocento ottantotto demoni, solo ventitre caddero sulla piana per colpa delle frecce e degli incantesimi degli Altmer, tornando all'Oblivion. Il resto, continuò ad avanzare dietro il Sangue di Drago, perché fu Karstaag a ricevere il resto degli attacchi e degli incantesimi al loro posto, scrollandoseli di dosso come acqua.
"Auri El. Cosa è mai..."
Il Sangue di Drago, senza sforzo, senza gesti magici e senza artefatti, aveva evocato dall'aria stessa il gigante di ghiaccio: una bestia alta come le porte della città, e che mai le isole di Summerset avevano visto. Il respiro degli Altmer si fece di ghiaccio mentre Kaarstag muggiva al cielo, levando su di loro quattro occhi malvagi, affossati nella sua pelliccia bianca come quella di un orso.
"Fermatelo!" ordinò il Cancelliere Supremo dal bastione: tremila fra Volanti e creature dell'Oblivion obbedirono a quell'ordine, una nera nuvola di artigli e bocche affamate che si tuffò sul gigante.
Perché Kaarstag non era un evocazione dell'Oblivion, ma una creatura di Tamriel fatta di sangue e carne, che il Sangue di Drago aveva chissà come materializzato: significava, che la magia delle mura di Alinor non lo avrebbe arrestato.
Nella schiera degli attaccanti, Due Code aprì la bocca ed urlò con quanto fiato aveva in gola:
"Ed il debole udrà il mio Thu'um e fuggirà da esso: FAAS RU MAAR!"
Creature che fino a quel giorno non avevano conosciuto il significato del terrore lo impararono per la prima volta in quell'Urlo: Faas Ru Maar, terrore irresistibile e paura e fuga. Lo stormo di creature non si arrestò semplicemente, ma colpì se stesso, mentre i più vicini al primogenito del Sangue di Drago travolgevano chi gli stava dietro, cercando di fuggire. Alcune fra quelle creature furono preda di un tale terrore, da uccidersi sbattendo contro le bianche mura di Alinor, che si macchiarono di scarlatto.
E anche Karstaag, il gigante di Solstheim il cui spirito era stato sconfitto e soggiogato dal Sangue di Drago tanti anni prima, venne colpito dall'urlo, e tutta la sua limitata intelligenza fu focalizzata nell'atto del fuggire. Neanche si accorse di aver divelto le porte della città, o di averne attraversato i bastioni portando il primo inverno delle isole di Summerset; così come non  si accorse di aver travolto case e schiacciato palazzi sotto la sua mole. Solo le mura del palazzo di cristallo lo fermarono, restituendogli un barlume di ragione: ma al quel punto, circondato com'era da elfi alti, Volanti e creature dell'Oblivion che riversavano su di lui sortilegi e frecce, non ebbe più importanza. Con un nuovo ruggito, Karstaag congelò l'aria stessa, evocando una tempesta di ghiaccio attorno a lui: coloro a cui non congelava il sangue immediatamente furono fatti a pezzi dalle macerie che presero a turbinare. Anche in quello stato, il potere del gigante, che era stato un tempo scelto come preda dal principe daedrico della caccia, non era diminuito.
 
Fu così che il Sangue di Drago entrò ad Alinor, circondato da demoni dell'Oblivion e ammantato dell'aspetto dei draghi: il primo Altmer che si parò sul suo cammino nemmeno si accorse di venire decapitato con un pugno.
Le guardie di Alinor non erano ancora pronte a cedere però: mille lance e frecce e artigli si avventarono su di lui, incontrando la luce d'oro che lo copriva, plasmata nella forma di un drago. Un'aura i cui occhi rossi fissarono Alinor senza che la città si riflettesse in essi.

YOL TOOR SHUL

Un sole si accese dentro le mura della città per quell'Urlo, spazzando la nebbia che aveva cominciato a riversarsi attraverso le sue porte: un inferno di fuoco che consumò fino alle ossa tutto ciò che toccò, perfino alcuni fra i Dremora che erano rimasti troppo vicini: solo Brelyna e Due Code vennero risparmiati dalle fiamme, grazie alle armature che portavano.

Ma la furia del Sangue di Drago non poteva essere spenta così facilmente: da tutti coloro che erano stati consumati dal fuoco, dalle loro ossa e dalla loro carne, sorsero fiamme come anguille, che si nutrirono della cenere. Erano serpenti di fiamma viva affamati di vita, che si dispersero in ogni direzione, appiccando fuoco a tutto ciò che toccavano, fossero case o armature.
Fu solo allora, dopo che gli effetti dell'Urlo di terrore erano svaniti dalle loro menti, che i sopravvissuti dello stormo degli Altmer tornarono indietro, creando una mischia sanguinosa in cui ogni lato mirava agli stregoni avversari, cercando di fermarli prima che sterminassero troppi dei loro: solo la superiorità numerica dei Thalmor permetteva loro di confrontarsi alla pari con i demoni.
"Con me!" ruggì il primogenito del Sangue di Drago, assaltando le mura, accompagnato da Markynaz e Churl, mirando a conquistare la cinta dei bastioni e far piovere magia e frecce sugli Altmer.
Elfi e creature caddero di fronte a loro, fulminate dalla magia o dalla spada, e i gradini si fecero viscidi col sangue dei loro nemici. Nonostante le sue mani fossero vuote, era il giovane uomo ad aprire la strada ai demoni: ogni elfo che si parasse di fronte a lui cadeva morto col sangue che gli sgorgava dal petto, senza che qualcuno riuscisse a fermarlo.
La sua ascesa si interruppe quasi sulla cima: sul più alto dei gradini, Lord Naarifin lo aspettava con le mani raccolte dietro la schiena.
"Non male ragazzo, ma è ancora troppo presto per..."
Una macchia rossa si aprì sulla spalla dell'elfo, e non fu sul suo collo, perché il cancelliere supremo si era spostato di mezzo passo: il Churl a fianco di Due Code divenne una statua di cristallo.
"Irrispettoso: non ti hanno insegnato a non interrompere gli anziani?"
"...E a non giocare con il cibo." rispose il giovane uomo.
"Immagino che le congratulazioni siano d'obbligo: è la prima volta da anni che qualcuno mi ferisce. Anche se la tecnica è grezza denota... inventiva: mischiare così le arti dell'illusione e le basi dell'evocazione..."
Dicendo questo, il cancelliere supremo chiuse il pugno sopra la spalla ferita, materializzando una daga fatta del fuoco dell'Oblivion: un'arma resa invisibile e creata al momento con la magia, in una tecnica assassina.
"...Potresti essere una cavia interessante, ma non sei alla mia altezza, ragazzo." continuò il cancelliere supremo, sfilandosi la daga dalla spalla e lasciando alla sua taumaturgia il compito di chiudergli la ferita: il pugnale di fiamma porpora si disperse in fumo dal suo pugno.
"In verità, speravo che potessi dirmi dove si trova mia sorella, pelle d'oro." rispose Due Code, provocando una risata nei demoni che aveva attorno.
"...Quanta devozione per le creature che ti hanno accolto. Mi chiedo se ti renda conto di quanto sia malriposta: perché essere fedeli a dei mostri disgustosi?"
Stanchi di aspettare, la squadra di demoni alle spalle di Due Code si lanciò sul Cancelliere: anche se colto di sorpresa, la prima fila dei Markynaz venne impalata su crudeli stalattiti di cristallo, che Naarifin usò anche per ripararsi dalle palle di fuoco dei Churl. Per buona misura, l'elfo saltò all'indietro, evitando le spade che trafissero il muro di cristallo cercando la sua carne: quei demoni che aveva ferito a morte erano già scomparsi, ma altri ne restavano e Naarfin dovette indietreggiare ancora, liberando spazio e permettendo ai demoni di riversarsi sulle mura, mentre i suoi soldati accorrevano in suo aiuto.
Il capitano delle Guardie di Alinor cadde in quell'assalto, dopo essere stato trafitto da tre spade diverse e decapitato. Le urla di gioia dei demoni e quelle di terrore degli elfi coprivano ogni cosa:
"Onorerò la mia signora DISTRUGGENDOTI!" gridavano i Markynaz mentre i Churl strangolavano gli Altmer, aggiungendo teste ai loro trofei.
Eppure, oltre le grida, Naarifin udì Due Code:
"La prima cosa che hai detto è quella giusta..." gli disse, materializzando un arco con la fiamma dell'Oblivion e indirizzando verso Naarifin una pioggia di frecce. L'elfo costruì una spada di cristallo in un istante, una larga lama con un solo filo, ricevendo le frecce di Due Code su di essa.
"Noi siamo mostri. E sensibili agli insulti..." mentre lo diceva, il giovane trasformò l'arco in due corte spade e si avventò sull'elfo, facendo cozzare le lame di fiamma con quelle di cristallo: "Specie se vengono da esseri meschini."
"Mi sembrava di avertelo detto: non sei un avversario alla mia altezza!" con la mano libera, Naarifin spaccò il naso del primogenito del Sangue di Drago, tentando di cavargli gli occhi e costringendolo a indietreggiare.
Il cancelliere supremo osservò con un lieve stupore il sorriso sul volto del giovane uomo:
"Ah! Finalmente un elfo che sa combattere. Badate al resto della feccia, lui è MIO." ruggì ai demoni occupati a fendere carne e corazze, che con una risata fecero spazio attorno a lui e Naarifin straziando coloro che ancora restavano sulle mura e indirizzando le loro frecce e sortilegi sulla mischia sottostante.
"E il mio Thu'um mi lancerà con la forza della tempesta: WULD NAH KEST."
Lord Naarifin si accorse di aver perso un braccio solo dopo che le spade di Due Code gli aveva attraversato la schiena. Due attacchi simultanei che all'elfo parvero uno solo.
"...Debole, alla fine. Come il resto della feccia." gli sussurrò Due Code nell'orecchio.
"AAARGH!" ruggì l'elfo e il giovane uomo dovette abbandonare le spade dentro Naarifin, mentre un muro di cristallo circondava il cancelliere. Due Code non era stato abbastanza veloce: un rivolo di sangue gli uscì dalla bocca, dato che l'incantesimo di Naarifin gli aveva rotto una costola. Quando il muro di cristallo di abbassò, Naarifin aveva di nuovo il suo braccio attaccato e le spade nel suo petto erano scomparse.
"Continui a sorprendermi con la tua inventiva ragazzo, nonostante la banalità delle tue tecniche. Ma sei davvero lento di comprendonio: tu non sei alla mia altezza."
"Peccato. Mi diverte lottare con te vecchio, ma se dovessimo continuare rischierei di ucciderti..."
"Che sciocchezza."
"...Come hai detto elfo, io sono stato salvato e accolto da mio padre e da mia madre. Ma perché trovi così strana la mia devozione filiale, quando mi hanno dato così tanto? Dove ero debole e spaurito, loro mi hanno dato tutto: la magia di mia madre e la forza di mio padre."
"E tuttavia, loro rimangono mostri!"
"...E di cui condivido letteralmente il sangue: non si dice forse tale il padre così il figlio?" chiese all'elfo.
E poi Due Code esplose: il suo magro corpo di uomo si ricoprì di pelliccia nera, mentre zanne e artigli in grado di fendere qualunque cosa prendevano il posto di denti e unghie. La sua corazza mutò e si deformò, per far posto alla crescita del suo corpo, e in pochi istanti Lord Naarfin si trovò a fissare occhi verdi in un muso di licantropo, coperto da una corazza magica:
"WOOF!" lo schernì Due Code.
"Disgustoso." sibilò l'elfo: l'incantesimo aveva appena lasciato le sue dita però, che il licantropo lo afferrò per una gamba, facendolo roteare sopra di sé come una mazza. Due Code era irrealmente veloce in quella forma:
"Mio padre chiede di voi, Lord Naarifin!" ruggì Due Code, lanciandolo dalla mura come un giavellotto. I Churl e i Markynaz si assicurarono che nessun Volante interrompesse la sua caduta.
 
Il sacco d'ossa e carne che una volta era stato un elfo cadde, toccando terra con troppa violenza per lasciarlo incolume: la sua preziosa divisa da Thalmor e la sua gorgiera finirono in stracci mentre rotolava nella terra umida di sangue. E tuttavia, Lord Naarfin riuscì a rimettersi in ginocchio, tossendo mentre muscoli e ossa venivano rimessi assieme, e la carne si rimarginava.
"Che sfrontatezza." disse il cancelliere supremo non appena la sua bocca si ricompose dietro la maschera: quando alzò la testa, sopra di lui, il Sangue di Drago lo osservava nel mezzo della carneficina.
Naarifin non urlò quando il Dovahkiin lo afferrò per il collo e lo alzò da terra.
 
***
 
"...E dunque è questo che tiene aperto il portale da cui traggono le loro creature." disse Brelyna, lasciando cadere l'incantesimo d'illusione con cui aveva potuto allontanarsi indisturbata dalla battaglia. Le poche guardie rimaste non erano state un impedimento per la strega, che li aveva fulminati tutti prima ancora che si accorgessero di lei.
"È più sofisticato di quanto mi aspettassi: deve essergli costato molto tempo per realizzarlo. E tuttavia..."
La staffa con cui aveva aperto il portale fuori Alinor le riposava sulla schiena, perché Brelyna brandiva Kren Lah, la spada creata da suo marito col legno del Verdorato, e capace di distruggere qualunque forma di magia.
L'altare su cui il portale dei Thalmor era stato costruito, una complicata scultura di falci dorate, si tramutò in sabbia sotto il tocco della spada di legno. Il portale cambiò colore, passando da un blu profondo ad un porpora livido, ma non sembrò deciso a chiudersi. Tuttavia, le creature al servizio dei Thalmor, che ancora restavano in città, scomparvero nel nulla come se non fossero mai esistite.
"Strano. Sembra che qualcosa stia forzando aperto il portale..." borbottò Brelyna.
"Strano? Io direi folle!" disse un'allegra voce dietro di lei.
L'elfa non ebbe bisogno di voltarsi per sapere di chi si trattava: occhi da falco in un volto anziano, ma giubilante, con la più strana delle vesti divisa in due colori, porpora e arancio. Il fatto che quell'entità galleggiasse a mezz'aria posando solo il suo bastone da passeggio a terra non stupì più di tanto Brelyna: gli aveva visto fare cose anche più strane.
"Ho visto cose assai più folli." gli ricordò.
"Anche tu? Come un pomodoro parlante e una volpe mangiare del formaggio? Se ti chiedi cosa ci sia di così folle e perché non hai visto il formaggio! Era smisurato! E aveva delle zanne! Bei tempi..."
"Per quale ragione vi trovate qui? Credevo che voi Principi non poteste manifestarvi a Tamriel." lo interruppe educatamente la dunmer.
"Mia cara, cara Brelyna: tra voi due, sei sempre stata la mia preferita. Altrettanto astuta, ma meno distruttiva. Tu sai già perché mi trovo qui, non è vero? Solo che ancora non lo sai..."
Il principe indicò il portale col bastone, facendo cenno all'elfa di precederlo:
"Vogliamo andare? Sembra che stia per piovere e Haskill avrà già preparato the e tartine."
Brelyna dovette pensarci un momento, ma poi, contro ogni buon senso, l'elfa varcò il portale per prima: le rune tatuate sulla sua pelle rifulsero mentre varcava quella soglia, e il principe daedrico la seguì fischiettando un allegro motivetto, chiudendo il portale dietro di se.
 
***

GOL HAH
Ogni osso del corpo di Naarifin si incrinò di nuovo, mentre quell'Urlo lo scuoteva: da quella distanza, tenuto per la gola dal Sangue di Drago, fu come essere percosso da un maglio.
La sua mente invece, si fece impossibilmente vuota e leggera, mentre dolori che pensava di avere cancellato dalla sua anima, la disperazione e la perdita, furono lavati via da quelle parole: fu il ritorno all'età dell'innocenza, dove ogni cosa non può farti del male.
Nemmeno sentì quando il Sangue di Drago lo lasciò andare, facendolo cadere sulle ginocchia.
"Kaan?"
E Naarifin rispose, perché la creatura che aveva davanti era superba e perché per lui avrebbe fatto qualunque cosa in quel momento:
"Nella torre più alta del Palazzo di Cristallo. Guardata a vista da Zenosha... che strano, perché avrei dovuto dare ordine di ucciderla se le porte di Alinor fossero cadute? Non ricordo... tutto mi sembra così... irreale?"
Il Sangue di Drago non rispose sentendo la risposta del Lord Cancelliere: l'elfo era nel fango, mentre la pioggia cadeva su di lui, lasciando che lavasse via la melma e il sangue dalla sua maschera di cristallo. Quando il Dovahkiin alzò lo sguardo per osservare il cielo sopra di loro, ormai offuscato quasi del tutto dalla nebbia, Naarifin non poté fare a meno di trovarlo nobile e bello.
Sulle mura di Alinor invece, Due Code, ancora nella sua forma di lupo, si affrettò ad ordinare ai demoni di salire al sicuro, dove la magia dei Thalmor li avrebbe forse protetti.
"Noi non possiamo morire, mortale!" lo schernì uno dei Churl.
"Ciò che sta per arrivare, può uccidere la morte stessa." ringhiò Due Code.
Lo disse con un tono tale, che perfino Khathutessa corse sulle mura:
"Ti preferisco ora, mortale. Così forte... anche se eri così delizioso quella volta." gli disse.
"Taci demone. E lascia che io ammiri per la prima volta la furia della Voce dei Draghi liberata da ogni vincolo."
Quando Khathutessa si strinse a lui tuttavia, il Licantropo non si scostò da lei.
Mai prima di allora il Sangue di Drago aveva usato quell'Urlo completo: nemmeno contro Alduin aveva osato richiamare la cieca furia della tempesta, e anche quando aveva espugnato da solo Skuldafn, anche allora si era limitato ad una parte dell'Urlo, solo due parole. Perché quell'Urlo in particolare era fatto per distruggere città e per soggiogare con la paura che esso causava.
Cosa sarebbe potuto accadere ad Alinor, ora che il cuore del Sangue di Drago era pieno di rabbia insensata e vestiva le anime dei draghi che aveva ucciso, che lo avvolgevano e amplificavano il suo potere?
 
STRUN BAH QO
 
Quelle parole furono vento, che scoperchiò i tetti delle case più vicine, e furono il cielo sopra Alinor, che si fece nero di nubi di tempesta, e furono il ciclone che risucchiò la nebbia nelle strade di Alinor, nascondendo alla città il cielo. L'urlo del tuono fu il solo preavviso che i suoi abitanti ebbero prima che la furia di Kynareth si abbattesse su di loro, indifferente a chi fossero, scuotendo case e cominciando ad uccidere ogni cosa, senza risparmiare la più misera forma di vita. In quel momento, anche Auri El distolse lo sguardo da Alinor.
Il primo fulmine cadde su Naarifin e, per la seconda volta nella sua vita, per l'elfo venne il buio.

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Capitolo 5
*** Bormath ***


"Anche per voi dunque fu amore a prima vista, lady Maryon?"
"Non esattamente, imperatrice: per noi ci volle un poco più di tempo."
"Come successe allora?"
"...Posso solo dire che mi è impossibile ignorare qualcuno che mi sorride dopo essere stato trasformato in vari animali e poi riportato alla sua forma originaria."
Conversazioni - Maestà Imperiale Silandra Blacksap
 
"Ti piace?" chiese Zenosha, mostrando a Kaan il pendente che di solito teneva nascosto sotto la sua corazza.
Un ciondolo piuttosto misero, fatto di rame brunito e di nessun vero valore. Un semplice contenitore in effetti, come scoprì la bambina aprendolo: all'interno c'era una ciocca di capelli neri, tenuta assieme da un laccio di seta.
L'elfa era sorpresa da come restare da sola con Kaan la facesse sentire: non che avrebbe mancato al suo compito comunque, le era ben chiaro cosa dovesse fare, ma si scoprì ad abbassare le sue difese. Niente l'obbligava a condividere con Kaan il suo unico tesoro: semplicemente Zenosha aveva sentito il desiderio di farlo, mentre entrambe rimanevano chiuse negli alloggi del cancelliere supremo. Seduta sull'unica sedia della stanza, Kaan si era annoiata presto di scalciare il vuoto e forse per questo l'elfa aveva deciso di placare la sua monotonia: quando la bambina accostò la ciocca di capelli ai suoi, verificando che erano dello stesso colore, Zenosha non poté evitare al più piccolo dei sorrisi di affacciarsi sul suo volto.
"Sì." confermò l'elfa: "Un ricordo di mio padre."
Curvando la testa con aria interrogativa, Kaan sembrò guardarla dal basso, ponderando attentamente qualcosa nel suo muto silenzio, poi, prima che Zenosha potesse fermarla, la bambina si afferrò una delle piume che aveva sulla testa e se la tirò con violenza fino a strapparsela: la sua radice era ben più spessa di quella dei capelli e Kaan non poté impedire ad una buffa smorfia di affacciarsi sul suo volto.
"Perché...?" cominciò a chiedere l'elfa, prima di ricordarsi quanto fosse inutile.
Kaan era muta, ed era impossibile capire quanto davvero comprendesse della situazione che stava vivendo, ma non sembrava che la bambina provasse particolare paura o disagio: eppure non pareva che la magia che aveva ereditato dai suoi genitori le avesse toccato la mente, eventualità tutt'altro che remota. Certo, c'erano stati dei momenti, quando Zenosha l'aveva presa dalle grinfie di Quattro o quando il cancelliere supremo aveva ucciso con la magia Tuinden; in cui Kaan si era spaventata e l'ombra delle lacrime si era affacciata nei suoi occhi azzurri, ma erano stati attimi di breve durata: da quello che ricordava di se stessa, Kaan stava mostrando più coraggio di Zenosha nelle stesse situazioni.
Senza poter rispondere, la bambina intrecciò in un nodo la sua piuma, l'elfa le aveva tolto le manette, unendola poi assieme a quella nera di suo padre e porgendogliele entrambe: quando Zenosha si attardò a riprenderle in mano, la bambina saltò giù dalla sedia con un lieve sbuffo divertito, mettendo assieme entrambe le ciocche e richiudendo il medaglione. L'elfa non pensò nemmeno a fermarla, ma ogni domanda nella sua mente venne spazzata via da un quieto bussare alle porte: Zenosha fece solo in tempo a nascondere il medaglione di nuovo sotto la corazza, prima che un nuovo elfo entrasse nella stanza.
Casualmente, Kaan si era seduta allo stesso tempo sul pavimento, a giocare con i nodi del tappeto.
"Ennario, che cosa ci fate qui?" chiese Zenosha con la sua voce monocorde.
Il giovane elfo dai capelli d'argento sorrise lievemente alla sua superiore: Ennario era una rarità tra gli Altmer, perché a differenza di molti altri, portava le sue emozioni sul volto. L'arte della sottigliezza e dell'inganno erano sprecate su di lui, e allo stesso modo, la divisa di inquisitore Thalmor sembrava sempre essergli un po' troppo larga. Il giovane elfo era anche, assieme ai molti altri come lui, uno degli specchi del suo tempo: l'unico bene che una guerra possa produrre sono gli orfani e come il cancelliere supremo aveva realizzato da tempo, i suoi migliori agenti erano sempre quelli che venivano indottrinati da giovani. Le loro storie erano sempre uguali: a volte era il fervore dei loro genitori a portarli nelle mani dei Thalmor, a volte la morte dei loro parenti per mani nemiche, e altre volte... a giovani particolarmente promettenti o che potevano essere utili non veniva lasciata altra scelta.
Di Ennario, cresciuto in un orfanotrofio dei Thalmor, i suoi genitori si erano liberati non potendolo crescere, ricevendone in cambio il peso in monete: un povero scambio, dato quanto il giovane elfo fosse sempre stato magro.
"... Speravo di poterle essere utile." disse timidamente: perfino il suo nome significa "ultimo" nella lingua degli elfi alti, eppure questo non gli aveva impedito di scalare i ranghi della gerarchia Thalmor.
"A badare ad una prigioniera? Quale stima avete di me, Vice Inquisitore."
L'elfo si grattò la nuca imbarazzato e un lieve rossore si diffuse sulle sue guance: Zenosha sapeva il vero motivo per cui il giovane era venuto, ma aveva sempre fatto finta di non capire. Era più semplice, per entrambi.
"...Ah no, perdonate, mi sono espresso male, non volevo dire questo."
"E che cosa volevate dire, Vice Inquisitore?" Negli anni, Zenosha aveva perfezionato l'arte di rimuovere ogni intonazione dalla sua voce, rendendola il più possibile piatta e priva di intenzioni. Una dote a cui doveva la sua stessa sopravvivenza.
"...Ecco, a costo di sembrarvi sfrontato, penso che questo incarico non sia degno di voi. Occuparvi di qualcosa come quella..." disse l'elfo indicando Kaan, "Volevo sapere se potevo fare qualcosa per alleviarlo: potrei prendermi cura io della creatura..."
"Vice Inquisitore Ennario." l'interruppe Zenosha.
"Sì?"
"Nessun compito datomi dal lord cancelliere è mai troppo gravoso o troppo umile. Sua eccellenza mi ha dato un ordine: badare all'ibrido fino a quando notizie di vittoria non giungeranno in questa stanza. O sopprimerla, se le porte di Alinor dovessero cadere. Mi state chiedendo di disobbedire ai suoi ordini?"
"No! Certo che no... volevo solo sapere se potevo esservi d'aiuto o almeno... di compagnia." disse infine Ennario: l'ultima frase gli sfuggì di bocca e l'elfo abbassò lo sguardo a terra, cercando di nascondere il rossore sulle sue guance. Una cotta: ecco cos'era. Una stupida infatuazione. Eppure Zenosha non riuscì a chiudere il suo animo a quell'esistenza, per quanto giovane fosse: l'elfa non era mai stata abbastanza forte per quello.
"Vice Inquisitore?" gli chiese invece, cercando ancora di appiattire il più possibile la sua voce.
"S- Sì?" balbettò Ennario.
"Voi siete fedele ai Thalmor?"
"Ma certo... !" Zenosha lo interruppe con un gesto della mano:
"Non è mia intenzione mettere alla prova la nostra fede, Vice Inquisitore, ne il vostro onore. Desidero solo conoscervi meglio: perché dunque siete fedele ai Thalmor?"
Il giovane elfo deglutì e strabuzzò gli occhi, mentre cercava di scacciare le fantasie che desidero conoscervi meglio gli avevano causato.
"...Vice Inquisitore?"
"Perdonatemi... è solo una domanda che non mi è stata mai fatta." l'elfo dovette raccogliere le idee prima di rispondere: "Io sono convinto, anzi so, che viviamo in un mondo imperfetto: ci sono così tanti errori a Tamriel. Così tante eresie e tragedie... I Thalmor... noi, rappresentiamo la migliore possibilità per questo mondo. Lo troverà ingenuo forse..."
"Affatto, vi prego, continuate."
"... Credo, benché io stesso sia meno che perfetto, di poter essere uno strumento per la via verso la perfezione. Per la giusta ascesa di noi Altmer, il nostro diritto di nascita. I nostri mezzi sono limitati, e a volte... despicabili, ma io sono convito che il fine che Lord Naarifin e lei incarniate... valga i mezzi."
"Dunque sono certa ubbidireste a qualunque ordine vi venga dato da un vostro superiore?"
"Certamente: non è forse questa il più importante precetto di un buon Thalmor?" rispose l'elfo con un sorriso.
"E se ora vi ordinassi di prendere la spada che porto alla cintura e trafiggermi il cuore?"
La bocca di Ennario si aprì e si chiuse senza emettere alcun suono.
"...Perdonatemi Ennario: vi ho fatto una domanda crudele. Avevo detto di non voler mettere alla prova la vostra fedeltà e mi sono contraddetta." Zenosha finse un sospiro ed il giovane inquisitore reagì come si aspettava. Ennario cercò di innalzarsi al massimo della sua altezza, gonfiando il petto: era ridicolo per certi versi, ma la sua ingenuità impediva a Zenosha di trovarlo divertente.
"... Io obbedirei a qualsiasi vostro ordine, o di Lord Naarifin. Anche se non proverei piacere nell'eseguirlo, tuttavia non mancherei mai al mio compito come Thalmor."
Zenosha divette schiarirsi la gola prima di continuare:
"Una buona risposta, Vice Inquisitore. Ma come Thalmor dovrete imparare ad estirpare ogni emozione dal vostro animo: come avete detto, la nostra causa è grande, ma minacciata da ogni lato da nemici. Ed essi non ammettono pietà, ne indugi. È una fortuna che siate così giovane: avete... tempo per migliorarvi."
Le veniva così facile mentire ormai.
"Grazie, lady Zenosha." Se Ennario si fosse inchinato appena un po' di più, sarebbe senza dubbio caduto.
Fu allora che caddero le porte di Alinor.
Il rumore lontano della Voce dei Draghi riverberò fino a loro, come un vento di tempesta, portando sulle sue ali il tremito e il rimbombo di passi sempre più vicini. Zenosha ed Ennario sentirono il Palazzo di Cristallo tremare attorno a loro e l'incredulità sul volto del giovane elfo rifletteva la sua. E poi ci fu l'impatto, colossale, impossibile, come un terremoto, quando Kaarstag il gigante di ghiaccio, arrestò la sua carica contro il palazzo, sventrando il muro di cinta e schiacciando sotto la sua mole case, pietre ed elfi.
"Mia Lady!" fu l'urlo singhiozzato dai corridoi, mentre una guardia correva verso le stanze del lord cancelliere.
Da fuori, un ruggito bestiale scosse Ennario, mentre Kaarstag iniziava la sua opera di insensata distruzione.
"Le porte della città sono state sfondate!" riferì una guardia aggrappandosi allo stipite delle porte, il primo dei molti Altmer che si riunirono sulla soglia. Tutti stavano guardando Zenosha ora, perché l'impossibile era avvenuto: il Sangue di Drago aveva appena espugnato la città.
"...Cosa... che cosa sta succedendo là fuori?"
E la guardia pallidissima rispose:
"Un gigante, mia lady: ha sfondato le porte della città ed ora è alle mura est del palazzo."
"Inviate ogni soldato disponibile a ucciderlo: sua eccellenza li fermerà alle mura, noi ci occuperemo della situazione qui."
"Come comandate mia Lady."
"Va con loro, Ennario: io ho un compito a cui assolvere." disse Zenosha guardando la bambina. Neanche si accorse dell'inchino che il giovane elfo le fece.
Quando fu di nuovo sola con Kaan, Zenosha estrasse la spada, mentre nella sua mano riluceva la luce di un incantesimo...
 
***
 
Da quando hanno rapito sua figlia, Coda Spezzata, l'ultimo Sangue di Drago, ha perso se stesso nella furia: ciò che ha fatto e sta facendo ad Alinor non è guidato da istinti paterni o mortali, ma dalla sete di vendetta contro coloro che hanno osato prendere ciò che è suo.
Questo significa essere Sangue di Drago: se la furia della tempesta che ha evocato dovesse uccidere suo figlio e sua moglie o sua figlia, ammesso che sia ancora viva, in questo momento per lui non farebbe differenza. Se dovesse succedere, il Sangue di Drago varcherebbe le porte dell'Oblivion per riprendere le anime dei suoi cari e riportarle di nuovo a Tamriel: sarebbe un atto mostruoso, ma nella sua furia, il Dovahkiin travolge ogni cosa. Non ha rimorsi il Sangue di Drago mentre cammina per Alinor seguendo le orme di Kaarstag, e i fulmini gli cadono attorno: i suoi cari sopravvivranno alla tempesta, oppure no.
Niente può domare la sua rabbia e dove il fulmine tocca terra, tutto è incenerito e distrutto: i leggiadri palazzi di Alinor vengono scossi, mentre il vento strappa via facciate, i fulmini scoperchiano tetti e la terra inghiotte fondamenta.
Coloro che lo affrontano, disperati, sono convinti che uccidendolo quella distruzione avrà fine: Coda Spezzata non si preoccupa di educarli del contrario. La furia ormai viene dal cielo, non più da lui: per tre volte squadroni di guardie Altmer, nelle loro armature di cristallo e oro si scontrano con lui, e per tre volte la sua spada daedrica, il cui nome inciso sulla lama in rune si legge Zahkrii, fende gli schieramenti nemici senza pietà. Uomini e armature, spade e corazze, niente rimane intatto al passaggio della sua spada, mentre incantesimi di fuoco e fulmine si infrangono sulla sua armatura senza produrre effetti.
Il sangue degli elfi scorre per le strade di Alinor, prima di venire anch'esso cancellato dai fulmini che cadono dal cielo: la volontà del Sangue di Drago e che nulla rimanga della città, ed il cielo gli obbedisce.
E quando i suoi passi lo conducono davanti al Palazzo di Cristallo, perfino Karstaag, che fino a quel momento aveva fedelmente combattuto per lui, cade sotto la sua spada: Coda Spezzata lo priva di una gamba, prima di tagliargli la testa con Zahkrii, ruggendo al cielo la sua furia e la sua follia, assieme al lampo e al tuono.
Il suo contratto col gigante di ghiaccio, stipulato anni prima nell'isola di Solstheim non è ancora decaduto: due altre volte ancora Coda Spezzata potrà chiamarlo a se.
Per gli ultimi Altmer rimasti a difesa del palazzo, i sortilegi del Dovahkiin sono già troppo: fulmine e fuoco devastano le loro carni, mentre illusioni ottenebrano le loro menti facendoli cadere nell'isteria più completa, che li porta ad uccidersi fra loro. Solo di coloro che si trovano sul suo cammino, Coda Spezzata prende la testa: quando avrà demolito il Palazzo di Cristallo, l'ultima effige ancora intatta di quella città, allora il Sangue di Drago marcerà sul suo porto e darà fuoco a tutto ciò che si trova in esso.
La storia della città di Alinor, i millenni della sua eredità, scompariranno dalla memoria.
"LOK VAH KOOR."
E le nuvole sopra il Palazzo di Cristallo vennero stracciate, permettendo al sole di passare, mentre i fulmini continuarono a cadere sul resto della città.
 
***
 
Zenosha aveva provato un grande senso di liberazione quando aveva eretto attorno a se e a Kaan la barriera mistica: era l'unica arte in cui potesse dire di essere superiore a tutti gli altri Thalmor, Naarifin incluso.
Era un incantesimo che la riconnetteva al suo passato e anche un precetto assoluto, poiché fino a quando la sua spada fosse rimasta piantata nel pavimento della stanza, niente e nessuno avrebbe oltrepassato le sue porte: ne frecce, ne sortilegi, ne creature dell'Oblivion o di carne e ossa. Avrebbe potuto essere il futuro delle difese magiche dei Thalmor, se ci fosse stato il tempo di perfezionare l'incantesimo, ma Zenosha non aveva mai insegnato quel sortilegio a nessuno, anche se avrebbe potuto rendere superflue le mura di pietra di luna degli Altmer.
Il pavimento della stanza riluceva di linee sottili, che si intrecciavano formando cerchi e simboli di incantamento, rune e frasi, che si espandevano sulle pareti e sul soffitto, fortificando, unendo, negando e legando assieme. Un incantesimo che era un'altro ricordo di suo padre e l'ultimo che le rimanesse di lui.
Emozioni di nostalgia e perdita si affacciarono sul suo animo mentre Zenosha sigillava l'incantesimo con una lacrima: al suo fianco, Kaan si era aggrappata alla sua corazza.
Con gesti misurati e lenti, Zenosha si tolse l'elmo, mentre i fulmini cominciarono a cadere sulla città.
"I tuoni ti spaventano?"
Kaan negò con la testa e l'elfa si legò l'elmo alla cintura, sedendosi per terra al suo fianco. I guanti della sua corazza vennero via e l'elfa li gettò lontano.
"...A me moltissimo. Quando ero bambina, avevo così paura della tempesta che ogni volta mi nascondevo sotto il mio letto. Allora mio padre strisciava al mio fianco, e mi teneva stretta raccontandomi storie fino a quando non mi addormentavo di nuovo. E quando mi svegliavo nel mio letto, il mattino dopo, lui era ancora al mio fianco...."
L'elfa si interruppe quando Kaan la abbracciò, stringendo quanto più forte le fosse possibile:
"Vorresti farmi compagnia, mentre questa tempesta è su di noi?"
Kaan assentì con tutta se stessa:
"Grazie. Sei davvero una bambina coraggiosa."
Per la prima volta, con anni di ritardo, Zenosha poté esprimere il lutto per la perdita di suo padre.
Quando il fulmine si portò via un pezzo del muro della stanza, l'elfa non poté fare a meno di gridare: il suo incantesimo aveva retto, ma ora la sua vista spaziava su ciò che restava di Alinor.
"Mi fai male." disse una vocina sottile tra le sue braccia.
Quando Zenosha aprì le sue braccia, Kaan la stava guardando con occhi pieni di calma fiducia:
"Sai parlare..."
Kaan assentì con la testa:
"Ma non mi piace farlo: a volte succedono cose brutte quando parlo."
"Quali cose?"
La bambina indicò il paesaggio sferzato dalla tempesta aldilà della barriera magica:
"Cose come quella."
Diversi incendi si erano propagati per la città, e fulmine e fuoco rivaleggiavano per consumare Alinor: il tuono riecheggiò nella stanza anche attraverso la barriera e Zenosha ne sentì il riverbero nelle ossa. Lo sguardo di Kaan ora, era catturato dalla distruzione che cadeva sulla città:
"Questa è l'ira di mio padre." disse serenamente, quasi con una punta di orgoglio: "Fa un po' paura, non credi?"
"Sì." disse l'elfa con un filo di voce.
Qualsiasi odio lei avesse avuto per Alinor, veniva lavato via in quel momento assieme alla pioggia: nessuna città meritava una simile fine.
"...Sai perché non ho paura dei tuoni?" le chiese Kaan.
"No."
"Perché mio padre mi ha insegnato a calmare il cielo e cancellare la nebbia e il tempo inclemente." dicendo questo, Kaan lasciò andare la mano di Zenosha, avvicinandosi pericolosamente allo squarcio nel muro: di fronte alla furia del cielo e al fuoco sulla terra, cosa poteva fare una bambina così piccola?
"LOK VAH KOOR!"
Assordata da quell'Urlo, Zenosha non sentì gli strattoni e i lamenti che provenirono oltre l'uscio delle stanze.
 
***
 
Ennario correva, vagamente consapevole della sua destinazione, la mente sconvolta dal panico: stava disobbedendo agli ordini, ma cosa avrebbe potuto fare, da solo?
Non era stato il gigante a terrorizzarlo: è vero, il suo fiato era più gelido dell'inverno e la sua pelliccia impervia ad ogni sortilegio, ma Ennario l'aveva affrontato comunque, fianco a fianco con i suoi compatrioti e compagni. Anche quando il cielo aveva scatenato la sua furia, nemmeno allora, Ennario aveva indugiato: l'insegnamento di Zenosha era limpido nella sua mente, e l'elfo aveva soggiogato la sua paura, anche quando i fulmini avevano fatto scoppiare come sacchi di sangue gli elfi attorno a lui. Lo spruzzo caldo in faccia aveva appena intaccato la sua risolutezza.
Ma quando il gigante era caduto e quella... cosa aveva ruggito al cielo sul suo cadavere, macellando gli ultimi superstiti attorno a lui e lasciandolo solo, tutto solo, l'ultimo degli Altmer a difendere il Palazzo di Cristallo...
Ennario fuggiva da quell'essere: l'elfo aveva già visto dei draghi, cerature uccise dai Thalmor, ed un drago quell'essere gli era sembrato, ma non come gli altri. Un anima grigia e nera, come organi traslucidi, ricoperta da pelle di luce, screziata come l'arcobaleno, e dagli occhi rossi, così rossi e terribili...
Ennario fuggiva da lui, sapendo che quella creatura non lo avrebbe permesso, sapendo che qualcosa, non Lui, ma qualcosa, lo stava già inseguendo.
Era come trovarsi in un incubo e la consapevolezza di non poter fuggire gli attanagliava le viscere: quando le porte della stanza in cui aveva lasciato Zenosha non si aprirono di fronte a lui, Ennario poté solo continuare a spingere, fino a che...
"Hai mai sentito la storia di Mathieu Bellamont, e del grande inganno di Cheydinhal? Uccidi la madre di un ragazzo, e la vendetta avvelenerà il figlio."
Appoggiato con la schiena contro la porta, l'elfo finalmente lo vide: nella luce surreale della tempesta, attraverso i suoi occhi sporchi di sangue non suo, una figura si ergeva nel corridoio, con una lama nel pugno. Un uomo con un cappuccio che non permetteva ai suoi occhi di essere visti, col più strano dei sorrisi sul volto. Schiavo del suo panico, Ennario scagliò una palla di fuoco nel corridoio, ma la sfera di fiamma attraversò l'uomo passandogli attraverso, e dando fuoco agli arazzi con lo stemma dei Thalmor dietro di lui.
L'uomo rise, con una ricca voce di basso, una voce che non poteva essere di questo mondo:
"Vorresti uccidermi? Qualcun altro ha già avuto quell'onore." disse la figura ridendo ancora, perché egli era il fantasma di un Oratore della Fratellanza Oscura, che era stato torturato, mutilato e divorato per poi essere appeso per i piedi dai suoi stessi confratelli. Nella sua furia, il Sangue di Drago aveva evocato anche quello spettro, perché facesse dei vivi ciò che voleva.
"...Riesci a sentirlo? C'è musica di morte nell'aria. Ma non temere: non c'è dolore nel VUOTO!"
Con l'ultima parola, un grido folle e grondante di massacri ormai passati, lo spettro si gettò su Ennario, affondando la sua lama fantasma nella carne dell'elfo ancora e ancora, fino a quando il suo pugnale divenne così rosso da sembrare quasi vero, non più solo spirito. Solo allora si arrestò, passando attraverso il pavimento per cercare altre vittime, altre prede nascoste nel Palazzo di Cristallo.
Quando il Sangue di Drago arrivò sulla scena, il fuoco avvolse ciò che restava di Ennario: niente sarebbe rimasto di Alinor, nemmeno il nome o i corpi di chi l'aveva abitata.
Zahkrii, che poteva tagliare qualunque cosa, si abbatté sulla porta.
 
***
 
Zenosha lo avvertì, piuttosto che sentirlo: attraverso il sortilegio che la legava alla stanza, fu come una lama di ghiaccio dietro gli occhi. Qualcuno o qualcosa di assai potente, stava cercando di spezzare il suo incantesimo: normalmente qualcosa di simile era impossibile, eppure Zenosha aveva avvertito le linee del suo sortilegio dissiparsi e riformarsi attorno a quel tentativo di intrusione: qualunque cosa fosse, non era una comune lama quella che cercava di forzare la porta.
Dall'altro lato dell'uscio, il Dovahkiin rinfoderò Zahkrii, perché quella lama non avrebbe potuto forzare quell'incantesimo, ed estrasse Unslaad Bahlok, la spada forgiata tre volte con la quale aveva ucciso Alduin.
L'incantesimo di Zenosha cadde come se non fosse mai esistito: non fu spezzato, ma divorato, e l'elfa percepì la strana sensazione di quella scomparsa, come se fosse stata inghiottita una parte di lei. Quando l'uscio si aprì su ciò che si trovava al di là, l'ultima cosa che Zenosha si sarebbe aspettata di sentire fu:
"Bormath!" cinguettò deliziata Kaan, e la stanza tremò loro attorno per quella parola in lingua dei Draghi.
Prima che Zenosha potesse fermarla, la bambina corse da suo padre, cingendogli la corazza delle gambe e affondando il viso nel mantello di pelli di orso, per poi aprire le braccia per essere sollevata in aria, cieca all'aspetto del suo genitore.
Era amore e fiducia alimentata da esso, perché per quanto suo padre fosse capace di inaudita violenza, per quanto una parte di suo padre fosse mostruosa, Kaan sapeva che lo stesso sangue scorreva in lei e in suo fratello, per quanto in forme differenti.
Kaan era convinta che suo padre non le avrebbe mai fatto del male.
E le mani squamose di Coda Spezzata, che avevano distrutto una città e si erano sporcate col sangue di innumerevoli vite rinfoderarono Unslaad Bahlok, e trassero a se sua figlia.
L'aura di drago che lo avvolgeva si disperse come un brutto sogno, come l'inverno fa all'arrivo della primavera, mentre Coda Spezzata, che i suoi amici chiamavano Haraan e la sua famiglia Cuetzaltzin, osservava negli occhi sua figlia.
Anche Zenosha lì osservò a lungo, mentre la fronte della piccola Kaan si appoggiava al muso da coccodrillo di suo padre: l'elfa si chiese se un tempo fosse stato così anche per lei.
Fu solo dopo essersi riempito gli occhi con la sua vista, ed il naso col suo profumo, che Coda Spezzata lasciò andare sua figlia, accogliendo nella sua mano così grande quella piccola della sua bambina: scaglie nere come la notte, attorno a pelle del colore della cenere.
"Zenosha. Non ci vediamo da tempo." le disse.
"Troppo, Haaran. Davvero troppo." disse l'elfa alzandosi in piedi.
"Quel colore... non ti dona affatto." rispose l'Argoniano indicando la sua corazza d'oro: "Il nero.. ti si addiceva molto di più."
"Dopo dieci anni è la prima cosa che sai dire?" rispose Zenosha: "... ma è anche vero che non vedo l'ora di indossare qualcosa di più confortevole. Magari bianco..."
Erano passati già dieci anni dal loro primo incontro? Erano passati dieci anni da quando Zenosha aveva chiesto aiuto al Sangue di Drago, prima ancora che scoppiasse la seconda guerra elfica, per abbattere il regime Thalmor e salvare gli Altmer? O era invece passato così poco tempo da quei mesi in cui il Sangue di Drago aveva impartito a Zenosha il sapere e le conoscenze e l'addestramento necessario per rimanere nelle fila del nemico così a lungo?
L'elfa non sapeva decidersi: amicizia e stima, complicità e sollievo si mescolavano in lei, per aver portato a termine il loro comune disegno, che aveva richiesto così tanti sacrifici e rinunce personali.
Ai tempi, quando era giunta in segreto assieme alla delegazione imperiale a Solitude, mesi dopo la fine della ribellione dei Manto della Tempesta, Zenosha aveva solo un vago disegno per far cadere il regime Thalmor e lord Naarifin, e la mente e il cuore piena di vendetta: Coda Spezzata le aveva ridato equilibrio.
"Grazie Zenosha." disse improvvisamente il Dovahkiin: "Mia figlia è stata tenuta al sicuro grazie a te. Ti sei presa cura di lei, quando io non potevo farlo. Grazie."
E il Sangue di Drago, che mai prima d'ora si era inchinato di fronte a uomini o dei, quell'essere temuto da creature e da demoni, mise il ginocchio a terra di fronte a Zenosha, chinando la testa: l'elfa non gli disse di alzarsi, semplicemente gli posò le mani sulle spalle.
"E tu hai salvato il mio cuore e la mia anima quando stavano per scomparire, amico mio: con questo ho solo ripagato il debito che avevo nei tuoi confronti."
Il Sangue di Drago si alzò in piedi sotto la sua mano, guardando Zenosha negli occhi, facendo un passo indietro e prendendo Zahkrii dalla cintura e soppesandola con due mani:
"Pochi sono stati coloro che ho chiamato amici nella mia vita Zenosha, e non esiste debito in un'amicizia: questa è Zahkrii, che taglia qualunque cosa. La strada davanti a te sarà ancora difficile, regina degli elfi alti, ma questa spada potrà proteggerti lungo la via, se la imbraccerai."
Zenosha prese Zahkrii dalle mani di Coda Spezzata, soppesando la lunga spada, forgiata come una katana degli Akaviri, ma fatta di acciaio daedrico: sembrava fosse stata fatta per adattarsi non solo alla sua mano, ma a quella di chiunque l'avesse impugnata.
"Altmere Arelle." recitò Zenosha nella lingua degli elfi: "Regina degli Altmer... sono davvero la persona giusta?"
"Questo, solo tu puoi saperlo, amica mia. Per quello che vale, il trono delle isole di Summerset non potrebbe andare a persone più adatta di te: gli Altmer hanno bisogno di qualcuno che li scuota dai loro incubi."
"...Per quello che vale? Pensi forse che la tua opinione abbia così poco valore?"
"Si pensa sempre che io abbia ulteriori motivi..." disse il Sangue di Drago con un sorriso "Perché tutti voi vi affannate a cercare un intento segreto nelle mie azioni? Nessuno di voi vuole credere mai che il mio unico intento sia quello di rendere più felici le persone che ho attorno... che lo vogliano o no." finì Coda Spezzata con un sorriso da drago.
"Adesso ti riconosco amico mio... a proposito: pensi di poter fare qualcosa per la tempesta?" disse Zenosha indicando la distesa che era stata Alinor, al di là dell'occhio del ciclone creato da Kaan: un sacrificio necessario, l'ultimo, per assicurare che la mostruosità di menzogne e cadaveri e sopraffazioni che era stato il regime Thalmor non potesse risorgere dalle ceneri.
Coda Spezzata scosse la testa:
"Una volta richiamata, la furia del cielo deve fare il suo corso: non manca molto ormai."
"Papà?"
"Sì Kaan?"
"Mi sono sempre piaciuti i giorni di pioggia."
"Anche a me." rispose il Sangue di Drago sereno, scompigliandole le piume: "...Quanto sono stati difficili questi anni, Zenosha?"
Osservando la città venire rasa al suolo sotto la furia del cielo, la regina degli elfi raccontò al suo unico amico le conseguenze della sua scelta di dieci anni prima: di farsi carico della sopravvivenza degli Altmer, indossando gli odiosi panni dei Thalmor.
Fu un racconto lungo e pieno di dolore e di episodi terribili che Kaan non sentì, perché si addormentò molto in fretta in braccio a suo padre, complice un piccolo aiuto di magia: non c'era bisogno che crescesse prima del tempo. Quando l'elfa ebbe finito, Coda Spezzata avrebbe volentieri distrutto altre città: non sembrava esserci limite alla crudeltà dei mortali gli uni verso gli altri.
"Mi dispiace solo che tu abbia dato il colpo di grazia a Naarifin: avrei volentieri ornato il mio trono con la sua testa."
Senza preavviso, alle loro spalle si aprì un portale sull'Oblivion, che risputò Brelyna a Tamriel, richiudendosi subito dietro di lei: la dunmer portava con se un lungo oggetto avvolto in quelle che sembravano essere le più orribili tende che Tamriel avesse mai visto.
"....Questo desiderio potrebbe ancora essere esaudito." rispose la strega con aria cupa: la tempesta andava perdendo di forza, ma la battaglia non sembrava essere ancora pronta a finire.

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Capitolo 6
*** Jyggalag ***


Si dice che il sangue scorra più denso dell'acqua, e che non sappia mentire. Mi è stato insegnato però che non è ciò siamo, o ciò che ci scorre nelle vene, che dovrebbe determinare i nostri desideri: sono le nostre aspirazioni per un domani migliore che dovrebbero guidarci.
Kaan la Leggiadra - Discorso inaugurale del feudo di Skuldafn all'incontro degli Jarles per l'elezione del nuovo Re dei Re di Skyrim.
 
"Hai mai visto qualcosa di simile, Khathutessa?"
La demonessa al suo fianco sorrise prima di rispondere: il cielo taceva ora, ma sotto di loro, nell'anello delle mura ormai interrotto dove palazzi troppo alti erano franati sopra di loro, la piana restava silenziosa.
"...Ho visto l'ira dei Principi spazzare l'Oblivion ed incenerire interi piani di esistenza molte volte. Intere realtà bruciare nel conflitto solo per essere distrutte... ma qui? A Tamriel? Dove la realtà è invece assai meno mutabile e impossibile da piegare con la volontà? È la prima volta che il mio spirito assiste ad una distruzione così completa."
Fulmine e fuoco avevano cancellato la città: a parte il Palazzo di Cristallo, nulla si ergeva per più di una singola pietra, ma perfino dalle mura Due Code riusciva a vedere quanto precaria fosse l'unica costruzione che ancora si ergeva al centro della città. Una lieve pioggia batteva sulle rovine, lavando via il poco che restava: l'ira del cielo era venuta facendo il suo corso ed era ora finalmente passata.
"ARUHHHH!" ruggì Khathutessa dalla mura, levando i pugni al cielo con un espressione estatica: i suoi demoni gridarono e risero con lei, lamentando la carneficina che era già finita e celebrando la strage che avevano compiuto.
La prima lancia di cristallo si infranse nelle loro fila impalando proprio la demonessa. La seconda sfiorò la spalla di Due Code portandogli via una spallaccio, mentre uno spruzzo di sangue non suo gli bagnava la faccia.
Come osa?
In futuro, Due Code riuscirà a distaccarsi dal suo desiderio di non venire abbandonato dalla sua seconda famiglia, riuscirà a convincersi che ciò è successo ai suoi primi genitori non potrà accadere di nuovo e che non ha nulla da dimostrare a loro. Ma dopo che la corazza che è stata forgiata per lui dal suo secondo padre, e l'unico fra i due che abbia conosciuto, viene intaccata, è come se la sua stessa identità di Due Code fosse stata spezzata: per un secondo, il giovane uomo è di nuovo un bambino troppo piccolo e solo,  che si stringe attorno ad ossa e candele per tenere fuori il buio e il freddo.
Imperdonabile
I suoi artigli di lupo forano la bianca pietra di luna mentre si tuffa verso il basso, evitando la pioggia di lance di cristallo: la salva uccide i demoni che sono rimasti impietriti a guardare Khathutessa, rispedendoli nell'Oblivion. Solo pochi Markynaz hanno la presenza di spirito di tuffarsi come lui giù dalle mura, evitando per un soffio gli artigli di cristallo.
Imperdonabile
Due Code è divorato dal livore mentre corre nella sua forma di lupo: solo una bestia priva di raziocinio, appena capace di schivare i proiettili che gli vengono lanciati contro. Sempre. Più. Vicino...
Nel suo slancio, Due Code sente i suoi artigli fendere qualcosa e il cristallo cedere, ma quando si volta, Naarifin è ancora in piedi, con la sua maschera sul volto intatta.
"Ti avevo detto che non eri alla mia altezza, ragazzo."
La risposta del giovane licantropo è un ruggito ed un nuovo assalto: questa volta, Naarifin lo afferra per la collottola e lo spedisce nel fango con un gesto distratto:
"Qualcosa non va?" gli chiese l'elfo.
Ingoiare terra e sentirsi il fango gelido scorrere dentro l'armatura gli restituisce un po' di lucidità, abbastanza da accorgersi che nel momento in cui Naarifin l'ha toccato, la sua forma di licantropo è venuta meno e, per quanto Due Code si sforzi, il suo lupo non risponde al richiamo.
"Piuttosto impressionante, lord Naarifin." ammette Due Code: "Nemmeno mia madre ci è mai riuscita."
"Non paragonarmi ad una dunmer." Rotolando nel fango, Due Code schiva un altra lancia di cristallo: è stato l'istinto a farlo muovere, perché il giovane uomo si rende conto che senza i suoi riflessi di Licantropo quei proiettili sono invisibili.
"...Il solo pensiero è rivoltante. E se ora potessi restare fermo e farti uccidere, te ne sarei molto grato."
Come se avessi bisogno della mia collaborazione... pensò Due Code, ma dalla bocca gli uscì ben altro:
"Non sono molto interessato ad assecondare le richieste di un vecchio elfo nudo e mascherato."
Questo diede pausa al loro scontro: fu la volta di Lord Naarifin realizzare che per quanto il suo corpo fosse di nuovo vivo, i suoi vestiti erano stati fatti a pezzi e bruciati quando la tempesta si era abbattuta su di lui.
"Oh... piuttosto imbarazzante. Scusami un momento..."
"Ma certo..." disse Due Code, evocando un arco di fumo e lanciando contro  Naarifin una mezza dozzina di frecce. Fu inutile, ovviamente, perché i suoi dardi fantasma scomparvero prima di trafiggere il corpo dell'elfo, nel frattempo, Lord Naarifin stava materializzando una veste di inquisitore Thalmor, con tanto di gorgiera.
L'unica differenza rispetto a quella che aveva indossato l'ultima volta, consisteva nel fatto che questa fosse tutta di colore grigio, anche se sempre bordata d'oro.
"...Suvvia ragazzo: cercare di sfruttare un momento di debolezza del tuo avversario è banale strategia di base, ma un minimo di etichetta dovrebbe esserti stata insegnata." lo canzonò l'elfo.
"La mia istruzione era focalizzata più sul sopravvivere ad una battaglia." Unendo entrambe le mani, Due Code evocò un globo purpureo e poi semplicemente, sparì.
Un lancia di cristallo si infisse nel punto in cui fino ad un attimo prima si era trovato il giovane uomo, mancandolo di nuovo:
"...Irritante." mormorò Naarifin: "Speravo di riuscire ad ucciderlo prima che arrivaste, Sangue di Drago."
"E io vi speravo morto." disse Coda Spezzata, mentre suo figlio si svelava al suo fianco. Brelyna e Zenosha erano subito dietro di loro.
"È dunque questo che avete insegnato a vostro figlio? Ad essere un codardo?"
"Provocazioni simili non hanno effetto su mio padre, Thalmor... e inoltre, sottrarre una preda ad un Alfa... non è una scelta intelligente."
"Credete davvero di potermi sconfiggere da solo?"
"Non da solo."  disse Brelyna, passando Kaan, ancora mezza addormentata, fra le braccia di suo fratello: "Credo di avere lo stesso diritto di farvi a pezzi."
Due Code si allontanò il più in fretta possibile, cercando nuovamente rifugio sulle mura: restare vicino a quello scontro non era saggio con sua sorella in braccio.
"Con tutto il rispetto possibile, lady Maryon, ho vissuto all'ombra di questo individuo troppo a lungo da restare a guardare." disse Zenosha sfoderando Zahkrii: "...Se a voi non dispiace, ovviamente."
Brelyna sorrise amabilmente, impugnando la sua staffa, mentre l'altra, ancora avvolta in quei brutti stracci, riposava legata sulla sua schiena:
"Non è mia abitudine negare i desideri di una regina, cercate solo di non esserci di intralcio, Zenosha."
"Sono migliorata dall'ultima volta" la rimbeccò l'Altmer, fissando i suoi occhi d'oro su Naarifin.
"Vedremo." rispose la dunmer, impugnando Kren Lah nella mano libera.
"...E così alla fine mi hai tradito Zenosha, sono sopreso." commentò il cancelliere supremo, piegando la testa di lato.
"Tradimento significherebbe una qualche forma di transitoria fedeltà, lord Naarifin. Pianifico la vostra morte da quasi dieci anni." rispose l'elfa.
"Oh? Complimenti per la vostra dissimulazione allora: non posso dire di aver sospettato mai di voi, mentre eseguivate tutti i miei ordini... Posso chiedervi il perché?"
"A parte il sangue sulle mani che avete sparso in nome di una spregevole dottrina?"
"...Oltre a quello ovviamente."
"Non avreste dovuto uccidere mio padre, Naarifin. Ne trasformarlo in un Volante per farmelo danzare davanti agli occhi per più di tre anni, prima che trovassi l'occasione di porre fine a quell'esistenza."
"Temo di non ricordare di chi vi riferiate... come ben sapete sono molti i Volanti che ho creato in questi anni."
"Lo avete chiamato Due, rammentate ora?"
"Ah... il Volante fatto con il corpo dell'ambasciatore Psijic... mi chiedevo perché fosse rimasto tra noi in effetti. Un Volante squisito..."
Per quanto l'antico ordine di stregoni Psijic fosse composto quasi esclusivamente da Altmer, essi avevano preferito mantenersi neutrali durante le guerre elfiche, rimanendo irraggiungibili in una delle isole dell'arcipelago di Summerset, tenuta nascosta ed intangibile dalla loro magia: le guerre fra nazioni non li interessavano minimamente, occupati com'erano a preservare l'equilibrio della magia nel mondo; o almeno questo era quello che si diceva di loro.
Nemmeno i Thalmor erano riusciti a trovare il loro ordine e la frustrazione di Naarifin per il loro fermo rifiuto di schierarsi al suo fianco si era abbattuta sul loro ambasciatore.
"...devo ammetterlo: mi avete ingannato. Ma non siete riuscita a fermarmi, Zenosha. E temo che queste piccole vostre provocazioni non siano abbastanza per costringermi ad attaccarvi imprudentemente."
rispose Naarifin amabile, rivolgendosi poi a Coda Spezzata:
"Voi cosa dite, Sangue di Drago? Il silenzio non vi si addice, dopotutto." disse, indicando ciò che un tempo era stata Alinor.
"...Shasara manda i suoi saluti." disse l'Argoniano, aprendo la chiostra delle sue zanne in un sorriso.
"Tu... LUCERTOLA!" strillò Naarifin gettandosi su di lui.
"RII VAAZ ZOL!" fu la risposta del Sangue di Drago, che fece indietreggiare Naarifin portandosi entrambi le mani al petto, mentre parte delle sua anima gli veniva strappata dal corpo assieme alle unghie.
"Avete un'anima interessante Naarifin." disse il Dovahkiin: fra le sua dita si agitava intrappolato un globo di fumo, il pezzo di anima dell'elfo.
"...All'inizio credevo fosse stata la taumaturgia a tenervi in vita così a lungo, ma è palese che essa non è che una piccola parte." il globo grigio sfuggì dalle mani del Sangue di Drago muovendosi serpentino verso Naarifin e rientrando dentro di lui.
"Il vostro corpo e il vostro spirito non vengono semplicemente rimarginati, ma ricreati... Qualcosa che è stata vista accadere dai miei occhi un'altra volta solamente, ma mai fino a questo punto. Dovete essere pazzo per aver venduto perfino la vostra carne all'Oblivion."
Lord Naarifin rise: uno sguaiato e folle ghigno che lo scosse come un fuscello mentre si afferrava le spalle.
"... La vostra ignoranza mi disgusta." disse alla fine: sulla sua maschera di cristallo Zenosha, Coda Spezzata e Brelyna non si riflettevano più: "Ma mi siete stati molto utili. Specialmente voi, Sangue di Drago. La mia opera è compiuta, il mio scopo raggiunto: è tempo che il servo si faccia da parte, per fare spazio al padrone."
Dopo queste parole, la maschera di cristallo sembrò colare dal viso di Naarifin, e la pietra iridescente si riversò su tutto il suo corpo, inghiottendo e consumando. L'elfo non urlò, nemmeno una volta: ciò che gli stava accadendo era per lui un'estasi, perché lo liberava da un mondo che aveva smesso di comprendere tanto tempo prima. Aveva tramato, ordito e ingannato, aveva torturato e pianificato solo per quel momento: per portare a Tamriel il suo signore e per avere da lui la morte ultima.
La Furia del Sangue di Drago era stata per Naarifin un mezzo per un fine.
Quando Egli si erse di fronte al Sangue di Drago, torreggiando nella sua armatura grigia, un grigio guerriero che imbracciava uno spadone a due mani, coperto da capo a piedi da una spessa armatura, la luce stessa del sole sembrò non dare più calore e colore al mondo. Egli era senza lineamenti, un volto liscio come la maschera di Naarifin, calata dietro un elmo a torre e una corazza spinata.
Fu così che si manifestò a Tamriel, per la prima volta nella storia: senza clamore, senza distruggere niente se non il suo servo: quietamente. Come la morte.
"E ancora una vola, io avanzo."
 
***
 
Alcune ore prima:
"Una storia davvero affascinante, folle dio. Jyggalag, avete detto?"
"Esatto! Principe Daedrico dell'Ordine. O dei biscotti... No. Ordine. E non in un modo divertente: cupo, monotono, morto. Noioso, noioso, noioso!" ripeté Sheogorath, battendo il suo bastone  per terra per sottolineare ogni ripetizione.
Brelyna e Sheogorath, principe daedrico della follia, erano seduti attorno ad un ampio tavolo imbandito, circondato dai servitori di quest'ultimo: gli Aureals e i Mazken, demoni d'oro o di oscurità, esseri di manie e demenza. Per la strega era la sua seconda visita nel reame del principe daedrico: comparandolo agli altri regni che esistevano nell'Oblivion, il dominio del principe della follia era sorprendentemente accogliente, dato che qui si rischiava solo di perdere la propria mente. Dopo averla invitata nel suo regno attraverso il portale e averle offerto una fetta di torta al formaggio e una tazza di the, il principe daedrico della follia le aveva raccontato il motivo della sua convocazione.
"Grazie Haskill." disse Brelyna al ciambellano di Sheogorath, che le aveva appena riempito nuovamente la tazza: unica creatura sana di mente alla corte del principe daedrico, l'ombroso Haskill preferiva vestire l'ingannevole aspetto di un bretone calvo e dall'aria piuttosto annoiata e melanconica.
"Gli ospiti del mio Signore sono benvenuti." rispose il ciambellano, senza curarsi di nascondere i suoi veri pensieri sul volto: Brelyna sospettava che ad Haskill non piacessero i mortali.
"Dove eravamo?" chiese Sheogorath improvvisamente, afferrandosi il pizzetto.
"Mi stavate raccontando di Jyggalag."
"Oh! Giusto! Non un estimatore della mia opera, posso dirti. In poche parole: la odia. E odia me! ME! Riesci ad immaginare qualcuno di così perverso da odiare Sheogorath, principe daedrico del formaggio?"
"Davvero non capisco come possa essere." assentì educatamente Brelyna.
"Esatto! Ma Jyggalag è sempre stato un po' ossessionato, se capisci cosa intendo. Non un tipo simpatico: credo che non piaccia nemmeno ad uno degli altri principi. Voglio dire, persino Malacath è più popolare alle feste, e Malacath non è un tipo polare alle feste! Ma d'altro canto, Jyggy non è un tipo tranquillo e amichevole. E senza nemmeno un singolo pensiero originale nel suo guscio senza vita!"
"Ed è per questo che voi e gli altri sedici grandi principi dell'Oblivion lo avete maledetto?"
"Più o meno... avremmo voluto confinarlo per l'eternità, ma Jyggy conserva abbastanza potere da manifestarsi una volta ogni era. Questa volta però, è riuscito a trovare un passaggio per Tamriel, grazie all'elfo mascherato. L'improvvisazione non è mai stata uno dei suoi punti forti, quelle cose lui le lascia ai suoi servitori, ma non credo di doverti spiegare cosa potrebbe fare alla realtà, se lasciato libero di agire... "
"Una nuova crisi dell'Oblivion?"
"Non proprio mia cara: almeno Dagon è divertente. Fuoco, fiammate nel cielo, battaglie campali, qualche tradimento e complotto... No, Jyggalag è l'altra faccia della medaglia di cui un lato è la somma della vita e della morte: la cessazione di ogni ciclo."
"Ho solo una domanda principe Sheogorat... perché non mi avete parlato di Jyggalag quando sono stata qui l'altra volta? E che legame c'è tra voi e lui?"
Il sorriso del principe Daedrico si fece ancora più largo ed allegro:
"Il patto tra noi è uno di non interferenza, mortale: ma esistono molte scappatoie da esso. Stai davvero pretendendo che un principe ti riveli tutti i suoi segreti? Senza dare niente in cambio?"
"...Avete ragione. È follia." ammise l'elfa.
"Già! E non del tipo che piace a me.... MA! MA! Potrei rispondere alle tue domande... oppure aiutarti a risolvere il problema con Jyggy."
Brelyna sospirò:
"Immagino che sceglierò l'aiuto." disse infine.
"Adoro quando i mortali sanno di essere manipolati. Sfortunatamente a causa del patto in cui mi hai... costretto, posso fare ben poco." disse il dio pazzo sfregandosi le mani.
"Principe Sheogorath, ritengo la mia famiglia strana il giusto: non ho intenzione di permettere ad un principe dell'Oblivion di renderla anche pazza."
"Bah! Che noia. D'accordo allora: prendi un gambero. Si abbinano perfettamente con il the!" disse offrendole una coppa pieno di salsa rosa con un fila di gamberi appoggiati sul bordo.
Quando le dita di Brelyna si chiusero attorno ad uno di essi, l'elfa si ritrovò a diverse leghe di altezza nel cielo, in caduta libera verso la terra.
"...Odio davvero quando fate così." disse Brelyna.
"Ricorda: basta che lo rispediate nell'Oblivion. Al resto penseremo noi. Tah Tah!" disse il dio pazzo, cadendo e ridendo al suo fianco.
"E come faremo?"
"Ma con gli scampi naturalmente!"
Appena prima di toccare terra, si aprì un portale sotto Brelyna che la rispedì a Tamriel.
 
***
 
"Il mio servo è stato... capace. Ma sei tu che devo ringraziare, Sangue di Drago." disse Jyggalag, puntando il dito contro Coda Spezzata: "Attraverso la maschera, la tua magia è arrivata fino a me, unendo i nostri mondi."
"... Rapire nostra figlia serviva dunque a questo?" chiese Brelyna.
"Il libero arbitrio è un illusione: solo causa e conseguenza esistono. Naarifin sapeva che con una spinta adeguata, il Dovahkiin avrebbe liberato tutto il suo potere. Ed esso mi ha resto forte. E ora..."
Dietro la figura del principe Daedrico si innalzò un grigio obelisco di cristallo, da cui cominciarono a manifestarsi i suoi schiavi: grigi cavalieri paludati in armature di metallo iridescente e preti vestiti di nero, tutti con la stessa maschera di Naarifin sul volto.
"...Tamriel si inginocchierà di fronte a me."
"Già una volta un essere con simili mire è stato ucciso, Jyggalag. Come te, si credeva un dio: a quanto pare oggi questa spada ne ucciderà un altro." disse il Sangue di Drago estraendo la grande katana che portava sulla schiena, Unslaad Bahlok.
"Dei mortali sulla mia strada? Assurdo."
"Non un mortale, demone: un Dovahkiin, una regina ed una strega. MID VUR SHAAN!"
L'urlo rimbombò per le rovine di Alinor, ma il principe daedrico non si mosse:
"Folle. È stata la magia dei draghi a riportarmi in questo mondo: non puoi toccarmi con essa."
"Non era destinato a voi..." Al fianco di Coda Spezzata, Brelyna e Zenosha rifulgevano di luce: l'Urlo aveva donato loro vigore e forza.
"Dunque... è così che ci si sente. Notevole." commentò l'elfa.
"Se poteste tenerlo occupato per un momento, mie signore, mentre evoco un esercito per tenere impegnato il suo."
"Futile! Futile! Futile! State solo rimandando l'inevitabile!"
Zenosha e Brelyna erano già nelle sue fila, rafforzate dall'Urlo di Coda Spezzata: le loro spade e i loro arti si muovevano più rapidi di quanto l'occhio potesse seguirle, Brelyna fendendo gli schiavi di Jyggalag con la spada e la magia e Zenosha tenendo occupato Jyggalag in persona. Pochi attimi di distrazione di cui il Sangue di Drago approfittò.
DURNEHVIIR!
E la terra tremò di nuovo spaccandosi lungo una larga fessura: un lampo verde e le grida dei dannati fuggirono da essa, mentre un drago prendeva forma dalle fiamme, un drago di carne decomposta, marcescente, che si rimarginava solo per putrefarsi di nuovo in un ciclo senza fine, un drago mai morente, richiamato per servire il suo signore.
"Durnehviir: alok dilon! Ofan lahvu!" urlò il Sangue di Drago, mentre Zenosha dovette indietreggiare per non venire trafitta dalla spada di Jyggalag, una grande claymore a due mani, grigia come la corazza del principe Daedrico.
"Geh, qaahnariin!" rispose il drago aprendo le ali marcescenti e spiccando il volo. Quando raggiunse il cielo, il drago aprì le fauci su Alinor urlando tre parole terribili con cui aveva sognato di sconfiggere persino Alduin: "DIIL QOTH ZAAM" nella lingua dei Draghi: non morto, tomba e schiavo.
Gli abitanti di Alinor, non importa cosa o quanto ne restasse, sorsero di nuovo in aiuto del Sangue di Drago.
 
Fu una seconda grande battaglia che fece impallidire la prima, schiacciando ulteriormente le rovine della città, mentre i suoi morti si levavano di nuovo, incapaci di riposare nonostante le ferite che li avevano stroncati, solo per incontrare le lame crudeli dei soldati del principe daedrico.
"Io apro la strada al mio signore Jyggalag!" urlavano gli schiavi del dio dell'ordine, mentre i morti si gettavano sulle loro fila, scompostamente. I guerrieri li sterminavano senza posa, ma dove un cadavere cadeva, due ne prendevano il posto.
I preti dell'ordine evocarono nuovi obelischi da cui trarre altri soldati, ma ogni volta che tentavano,  Zenosha o Brelyna li infrangevano con una delle due spade magiche.
Jyggalag stesso era in difficoltà contro Coda Spezzata: per quanto il Thu'um non avesse effetto su di lui, Unslaad Bahlok aveva in se la forza del fulmine e ogni volta che la lama si alzava verso il cielo, un lampo colpiva la corazza grigia del principe dell'ordine, mentre l'acciaio trafiggeva il suo corpo.
Ma era uno scontro impari: perché Jyggalag poteva rimarginare il suo involucro all'infinito non appena esso veniva danneggiato, mentre il Dovahkiin pagava in sangue ogni volta che la lama grigia si abbatteva su di lui.
Era solo questione di tempo e di capire chi per primo sarebbe caduto.
"Inchinatevi di fronte al potere di Jyggalag!" ruggì il principe daedrico, mentre respingeva ancora una volta Coda Spezzata: "Perché resisti?"
"Questa domanda... mi è già stata fatta una volta, principe dell'Ordine. Perché combattere? Perché difendere un mondo pieno di persone che sono nel profondo meno di quello che dovrebbero o potrebbero essere? Semplicemente, mi piace questo mondo."
"Non vi accorgete di quanto sia inutile? I mortali sono condannati alla morte, al fallimento e alla perdita! Perché non arrendersi?"
"Non mi ascoltate principe: non c'è nulla da comprendere, ne da spiegare. Si devono solo accettare le dicotomie di questo mondo, sperimentarle. Queste contraddizioni, che voi chiamate caos e odiate, mi sono invece molto care."
"Illusioni di una mente mortale: io distruggerò tutto ciò che vedo e lo ricreerò perfetto! Migliore! E tu non potrai fermarmi Sangue di Drago, non senza la tua magia che mi alimenta!"
"Mi sottovalutate." Coda Spezzata levò nuovamente Unslaad Bahlok verso il cielo e il fulmine cadde di nuovo, ma questa volta, cadde solo sulle truppe di Jyggalag, spazzandole via, segnando il punto di svolta in quel conflitto. Nel cielo, Durnhevirr ruggì, accecando il principe con una fiammata di fuoco fatuo, che ferì il suo spirito. Fu per un istante, prima che la lama di Jyggalag attraversasse il cielo, trafiggendo il drago in volo.
Durneviir cadde pesantemente sulle rovine della città, ma fu un errore per Jyggalag aver lanciato così la sua spada: Zenosha trafisse le braccia del suo avatar con le due lame magiche, bloccandolo per un momento, mentre Brelyna lo trafisse con l'asta magica che le era stata data da Sheogorath.
Jyggalag non urlò: si liberò delle due donne con un sortilegio, spedendole lontano: nessuna delle due avrebbe potuto combattere ancora e la luce di cui erano state investite si ritrasse.
"Nessuno dei vostri espedienti può sconfiggermi!" disse il Principe Daedrico mentre la sua corazza diventava nuovamente intatta: "Io sono Jyggalag!" ripeté, afferrando la staffa che lo aveva trafitto e strappandosela dal corpo con due mani.
"Il vostro stratagemma è..." ma il principe daedrico non finì la frase, perché entrambe le sue mani si strinsero sulla staffa, senza poterla lasciare: "Che cosa è mai questo?"
"Un regalo, da parte.... del dio pazzo." disse Brelyna, mentre suo marito l'aiutava ad alzarsi, usando la sua taumaturgia per curarne le ferite: "L'asta dei semprescampi."
E attorno a Jyggalag, comparvero quattro enormi granchi del fango che cominciarono immediatamente a fare ciò che fanno tutti i granchi: seppellirsi nella sabbia e cercare cibo camminando di lato.
Jyggalag ruggì, ma le sua mani non potevano lasciare la staffa. Schiacciò uno dei crostacei sotto il piede, ma subito un altro comparve a prenderne il posto.
"Sia maledetto Sheogorath!"
Zenosha non poté fare a meno di ridere.
"COME OSI?"
Coda Spezzata e Brelyna non riuscirono a loro volta  a trattenersi: il grande Jyggalag, nella sua armatura di grigio cristallo iridescente, il gigante terribile, circondato da quattro granchi grossi come cani.
"Liberatemi! È un ordine!"
"Non possiamo." disse Brelyna tra una risata e l'altra.
Jyggalag era furibondo: i mortali stavano ridendo e il principe daedrico non poteva farci nulla, perché la staffa maledetta lo costringeva ad usare il suo immenso potere in un solo ed unico modo, ovvero quello di materializzare scampi. Il principe daedrico urlò, si dibatté, ruggì e l'unico effetto fu quello di aggiungere un quinto granchio agli altri, che comparve con una pernacchia.
Le risate si moltiplicarono attorno a lui, mentre Jyggalag diventava lo zimbello di Tamriel fino a quando con un ultimo assordante urlo, Jyggalag esplose, lasciando Tamriel, e spianando Alinor del tutto.
Quando le orecchie smisero di ronzargli e Coda Spezzata si assicurò che Zenosha e Brelyna stessero bene, il Sangue di Drago chiese:
"...Jyggalag principe daedrico della pesca?"
E nel cratere fumante che era stata la città, si sparse di nuovo il rumore delle loro risate.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Tre sono le vie per corteggiare la morte nelle locande di Skyrim: chiamare vile un Nord, dubitare che l'idromele sia una bevanda degna degli dei e insultare l'onore del Sangue di Drago o della sua famiglia.
Guida Tascabile all'Impero, quinta edizione.
 
"Le nere ali di Alduin oscurarono il cielo..." cominciò la strofa, ma una voce cavernosa e sibilante interruppe immediatamente la giovane Guardia Nera e il suo liuto:
"Per le ombre sotto le fronde, canta qualcosa d'altro Erik: quella la sappiamo tutti a memoria."
Difficile dire di no a Ombra Chiara, un Naga, e quindi un Argoniano alto quasi tre metri, con un impressionante cappuccio di pelle tra le spalle e la testa. Per quanto un piccolo gigante, Ombra Chiara ricorda più i serpenti che i coccodrilli, di cui condivide diverse similitudini, come il morso molto velenoso. Non è un caso che in quei dieci anni di guerra, Ombra Chiara sia stato  l'unico ad non aver mai imbracciato le armi in battaglia, limitandosi alla sola forza bruta: anche rimanendo seduto sul ponte della nave, era più alto di ogni altro suo commilitone. Senza la sua nera armatura addosso, le sue scaglie pallide riflettevano la luce del sole come un caleidoscopio. Era per le sue proporzioni terribili che il resto delle Guardie Nere lo aveva soprannominato "Il grosso della truppa", anche se forse il suo comandante, Do'Zahana, lo trovava piuttosto il perfetto scaldino su cui addormentarsi. La Khajiit gli si era addormentata di nuovo fra le gambe incrociate.
Con il suo lituo in mano, Erik l'Uccisore sorrise sotto la sua corta barba bionda, pizzicando le corde e dando vita ad nuova canzone, un motivetto d'osteria, con cui poteva quasi dire di essere cresciuto nel suo villaggio natio. Sulle parole, l'uomo del Nord improvvisò la melodia, cantando le strofe come se la sua vita dipendesse da quello:
 
"C'era una volta un eroe chiamato Ragnar il rosso,
che venne a Whiterun cavalcando a più non posso.
Entrò tracotante brandendo la lama,
urlando spavaldo di gloria e di fama..."
 
il resto delle guardie nere, da Beor alla barra del timone, con la lunga barba nera al vento, alla vedetta in cima sull'albero maestro, si unirono al coro: 
 
"Ma poi tutt'un tratto il suo tono scemò,
quando di Matilda lo sguardo incontròòò...
Siam stanchi di udire siffatte menzogne,
orsù diamo un limite a queste vergogne!"
E venne lo scontro e l'affondo di spada
Che infranse del rosso i sogni di brama...
E dello spaccone la sorte è segnataaa!
Di lui ci rimane una testa mozzata!"
 
Le Guardie Nere finirono la canzone con un ululato che avrebbe tenuto lontano qualsiasi pirata, ridendo e scambiando luride battute. La loro mente sapeva che la guerra era finita, ma il loro cuore aveva ancora bisogno di accettarlo. Non erano gli unici a bordo: da quando avevano preso il mare, la polena della nave era sempre stata rivolta ad est, solcando le onde e infrangendo la spuma.
Erano da diversi giorni che viaggiavano, ma erano ancora lontani dai freddi venti e dal ghiaccio del mare del nord.
Tutte le Guardie Nere non vedevano l'ora di arrivare: ci sarebbe stato tempo sulla terraferma di ricordare coloro che non ce l'avevano fatta, ma potevano aspettare ancora un poco. Le onde, il vento e il cielo erano troppo luminosi, e loro si sentivano troppo vivi per poter essere già tristi.
Solo uno dei passeggeri rimaneva in disparte da tutti loro, guardando la scia della nave che si allungava fino all'orizzonte: il suo cappuccio di lana nascondeva appena il suo unico occhio triste.
"Una pinta per i tuoi pensieri, Shasara." le disse Lyda, appoggiandosi di schiena al parapetto della nave.
"È in ritardo." disse semplicemente l'elfa.
"...Due settimane sulle onde è già ti sei stancata della nostra compagnia? È per questo che passi così tanto tempo chiusa nella tua cabina?"
"Mi preoccupo. E non mi sento a mio agio sotto il sole."
"Preoccuparsi per il mio thane è lo stesso che preoccuparsi per le montagne: dolce, in un certo qual modo, ma inutile. Sarà rimasto a consigliare Attrebus su cosa fare, e su come aiutare i veri Altmer a risollevarsi dal dominio Thalmor. E poi un giorno, senza preavviso, la sua ombra ci volerà sopra, per aspettarci a Skyrim. E quando arriveremo, si lamenterà del nostro ritardo." disse Lydia con un sorriso, osservando l'orizzonte a sua volta.
"...Sembri conoscerlo molto bene. Ovvio in fondo."
"Non come pensi, Shasara. Il mio thane disprezza coloro che vogliono essere suoi schiavi, ma onora coloro che gli sono amici: i veri compagni sono preziosi per lui. E io, e alcuni di noi, lo siamo stati. Per molti anni."
"E tuttavia ancora lo chiami ancora mio thane..."
"Perché ho giurato di condividere il suo destino Shesara, molto prima che accettasse lui stesso di essere il Sangue di Drago. I Nord hanno una sola parola." rispose Lydia: "....Anche se non è stato facile all'inizio comprendere le sue stranezze." aggiunse con un sorriso.
"Perché è un Argoniano?"
"No. Non solo. È stato più difficile accettare che nulla di ciò che fa è per caso. Il suo stesso nome, e quello di suo figlio, nascondono segrete profondità: perditi, e solo la tua coda saprà indicarti da dove sei venuto. Un proverbio della palude nera, e che spiega i loro nomi."
"... Due Code, per aver vissuto due volte. Ma Coda Spezzata?"
"Per non aver mai conosciuto la propria origine. Il mio thane è stato cresciuto da una Lamia, nella profondità della palude nera, poiché fu una di quelle creature a trovare il suo uovo alla deriva sul fiume."
"...Vi state burlando di me."
"Potete chiederglielo voi stessa. Ma anch'io ebbi una reazione simile alla vostra, quando mi venne raccontata quella storia... mmhh... sono passati così tanti anni. Fu durante la prima notte in cui divenni suo huscarlo. Ah! Ero così giovane e ignorante."
"Difficile crederlo..." disse Shasara, osservando la donna nella sua incompleta armatura grigia: Lydia lasciava che il vento le accarezzasse i capelli e le braccia.
"Eppure lo sono stata. E il mio thane lo sapeva, perché mi condusse nella piazza principale di Whiterun quella notte, sotto il grande albero sacro a Kyne, e mi disse che non si era mai spiegato a nessuno, perché non aveva mai avuto nessuno su cui contare. E mi raccontò di sé: la notte più lunga della mia vita. Una storia che ogni Guardia Nera conosce."
"...Sarebbe inopportuno chiedervi di raccontarla anche a me?"
E Lydia raccontò anche a lei la storia che aveva serbato nel cuore per tutti quegli anni: quando finì, le lune erano già alte nel cielo, ma Shesara aveva smesso di guardare a est, rivolgendo il suo sguardo finalmente verso il futuro che l'aspettava.

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