Paziente 2 2 1 B

di Little Redbird
(/viewuser.php?uid=193792)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Visto che sono una brutta persona e che non so dire di no, mi sono trovata ben presto a scrivere un secondo capitolo per questa storia - che in realtà è da collocare prima dell'altro.
Spero con tutto il cuore che sia all'altezza del primo pubblicato, perché ho davvero paura che non sia così e che mi odiate per non aver saputo sviluppare questo meraviglioso prompt.
Vabbe', per il momento vi lascio, ci rileggiamo giù, se ci arrivate.

Paziente 221B




Sherlock fissò l’enorme edificio di fronte a sé. La facciata di vetro, attraverso cui non era possibile vedere l’interno, era di una freddezza che congelava anche il sangue nelle vene. Osservò il proprio respiro condensarsi nell’aria gelida e chiuse con una mano il cappotto nero all’altezza del collo.
Attraversò la strada deserta e lanciò un’occhiata ai droni che trafficavano il cielo. Qualcuno, da lassù, nella monotonia del proprio quotidiano, doveva aver capito che la sua figura snella e alta si avviava verso ciò che sperava fosse la sua liberazione. Si dirigeva verso quello che sarebbe stato il nuovo se stesso. Uno Sherlock ancora più intelligente, più astuto e senza emozioni che limitassero la sua mente.
Essere intelligente e sensibile era stato un peso per tutta la sua esistenza. Comprendere qualsiasi cosa era il suo punto di forza, provare qualsiasi cosa – persino ciò che non lo riguardava – il suo punto debole. Aveva evitato ogni attaccamento affettivo sin da bambino, da quando aveva detto addio al suo cane, Barbarossa, mentre suo padre lo seppelliva in giardino. Aveva potuto percepire sulla sua giovane pelle la pesantezza della terra, la sua umidità, aveva persino creduto di poterla sentire trai propri capelli, mentre la vedeva scurire il pelo rosso del suo amato cane.
Sherlock aveva provato a tenere tutti alla larga da allora, ma poi era arrivato lui, che gli aveva fatto provare così tanto da fargli desiderare di non voler provare più nulla.
Entrò nel gigantesco laboratorio attraverso la porta automatica e l’aria calda all’interno lo investì in pieno, scaldandogli il viso arrossato dal freddo pungente. Si tolse la lunga sciarpa e i guanti, osservando il clima accogliente dell’entrata, completamente in contrasto con l’esterno. Le pareti erano di una calda tonalità di giallo chiaro, accentuata dalle luci, che non erano bianche come le si trovava di solito nei laboratori, ma leggermente più scure. Sette donne con capelli e trucco perfettamente in ordine sedevano dietro un alto bancone su cui erano poggiati schermi da cui non staccavano un attimo i polpastrelli, digitando come forsennate. Sherlock lanciò un’occhiata rapida alle persone in attesa, le cui pose e tic rivelavano molto sul perché fossero lì. Un uomo con corti capelli ed un forte tremore alle mani, stava seduto con le braccia incrociate sul petto e la schiena poggiata all’indietro, in una posa involontariamente minacciosa: un militare. Una donna fissava il pavimento ai suoi piedi, gli occhi sembravano di vetro, stava seduta con la schiena incurvata e stringeva tra le mani un piccolo pupazzo: una madre che aveva perso il figlio.
Sherlock distolse lo sguardo. Temeva di sembrare come tutti gli altri, impaziente di smettere di sentire qualsiasi emozione. Era pronto persino a rinunciare all’eccitazione di risolvere un caso, se significava smettere di soffrire.
Si avvicinò ad una delle donne al bancone e vi si incurvò per non dover alzare la voce. La ragazza bionda, che doveva essere di poco più giovane di lui, gli sorrise.
“È qui per fare il test?” gli domandò con cortesia.
Si chiese se ci fossero altri motivi per cui la gente si presentasse da loro.
“Sì” rispose, cercando di evitare di fare deduzioni sulla donna.
“Trasferisca i suoi dati dal cip obbligatorio, prego” gli disse, senza smettere di digitare.
Sherlock sfiorò con il palmo della mano il piccolo schermo incassato nel bancone e aspettò il basso bip che l’avvisò di aver completato la procedura di trasferimento dati.
“Grazie” gli sorrise la donna. “Si accomodi, la nostra equipe la accoglierà tra pochissimo nella sala colloqui.”
Sherlock la ringraziò, ma non si sedette insieme agli altri, rimase in piedi, di fronte alla vetrata che dava sulla strada. Osservò le ombre dei palazzi bianchi e anonimi proiettate dal sole, quasi nessuno camminava per strada, tutti diretti a lavoro – per i pochi fortunati che l’avevano – oppure verso i centri di rifornimento, sempre affollatissimi.
Un’ora e mezza più tardi, quando le ombre si erano allungate e cominciavano a confondersi con la notte, Sherlock si chiese se la donna con cui aveva parlato avesse dei problemi con la percezione del tempo, perché quel suo ‘tra pochissimo’ era un po’ più lungo del suo.
Molti nomi erano stati chiamati all’altoparlante e nella grande sala d’attesa restavano ormai poche persone. Si decise finalmente a sedersi su una delle sedie in metallo, lasciando riposare i muscoli indolenziti delle gambe. Rigirò tra le mani la sua sciarpa; aveva sentito dire che sarebbe stato privato di ogni oggetto personale, così aveva portato solo quella, l’unica cosa che gli era rimasta di lui, perché lasciarla andare avrebbe significato lasciar andare anche lui.
“Sherlock Holmes. Stanza 12” gracchiò la voce computerizzata dell’altoparlante.
Sherlock si alzò, improvvisamente impaziente. Attraversò la porta blu che segnava l’entrata al vero laboratorio e trattenne il fiato quando si ritrovò in un lungo corridoio dalle pareti di un bianco grigiastro, inframmezzate da porte blu che riportavano dei numeri. Camminò lentamente fino alla stanza dodici, notando con sorpresa che non aveva ancora lasciato andare il sospiro. Cacciò fuori l’aria bruscamente ed entrò senza tante cerimonie.
All’interno, la stanza era identica al corridoio, l’unica differenza erano un tavolo e tre sedie – due per i dottori ed una per il paziente. C’era un solo uomo seduto, con indosso il camice bianco, e sembrava poco più grande di lui. Aveva i capelli di una strana tonalità di grigio, creata per lo più dai capelli bianchi in contrasto con i neri. Sherlock si chiese come mai non seguisse la moda e non li tingesse come tutti gli altri. Sul camice, immacolato e perfettamente stirato, faceva capolino una targhetta elettronica su cui poté leggere ‘Greg Lestrade, GRS’.
“Salve, signor Holmes” lo accolse alzandosi.
“Salve” rispose soltanto.
“Sono il dottor Lestrade, del Gruppo Ricerca e Sperimentazione.”
“Non avevo dubbi” fece Sherlock, indicando la targhetta.
Il dottore sorrise bonario. “Si sieda, il mio collega arriverà a momenti.”
Sherlock si accomodò, sistemando il cappotto sulle spalle ed il petto. “Spero non abbia lo stesso orologio delle vostre Ricevitrici.”
Lestrade si accigliò, accennando un sorriso di scuse per non aver capito a cosa si riferisse.
Sherlock non si disturbò a spiegarsi, quindi l’altro si sedette a sua volta di fronte a lui.
“Dunque” cominciò, scorrendo con l’indice su di una tavoletta contenente i suoi dati. “Lei è uno dei pochi ad essere quasi completamente compatibile con il nostro programma” lo informò. “Oggi sarà seguito da un piccolo gruppo di psicologi, che si assicureranno che lei sia in grado di sopportare le limitazioni che verranno imposte alla sua persona nei prossimi mesi.”
Sherlock annuì, poggiando i gomiti sui braccioli della sedia e portando le mani giunte alle labbra.
“Alla fine della giornata, se i nostri esperti avranno deciso che può restare con noi, le verrà fatto leggere e firmare un contratto, che ci permette di modificare – irrimediabilmente – il DNA delle sue cellule al fine di procedere con la nostra ricerca.”
Sherlock accavallò le gambe e annuì di nuovo.
La porta blu si aprì, lasciando entrare un uomo all’incirca della sua età, anche lui in camice bianco. Il medico si bloccò un istante sulla porta, come se non si aspettasse di trovarlo lì, e Sherlock ebbe tutto il tempo per esaminarlo. I suoi capelli erano di un biondo che non si vedeva in giro da decenni, un biondo naturale, che catturava i riflessi di quelle luci accecanti e li restituiva sotto forma di aura dorata. Gli occhi grigi erano piccoli, ma profondi. Non era molto alto e, rispetto a lui che superava la media, doveva arrivargli massimo alle spalle.
Sherlock lo guardò di sbieco, senza muoversi dalla sua posizione rilassata e riflessiva, aspettando che lui si presentasse, nonostante potesse ben vedere, da quella distanza ridotta, che sulla sua targhetta fosse scritto ‘John Watson, GRS’.
“Dottor Watson” l’accolse il collega.
Il nuovo arrivato riuscì finalmente a riscuotersi, chiuse la porta dietro di sé e si sedette alla sinistra del dottor Lestrade, che gli mostrò i dati del paziente.
Il dottor Watson sembrò stupirsi di ciò che gli veniva mostrato e gli lanciò uno sguardo incuriosito.
“Lo stavo informando del contratto e delle restrizioni” lo aggiornò Lestrade.
John annuì. “Lei è consapevole che dovrà isolarsi da tutte le persone care e che non riuscirà più a provare nulla per loro?”
Sherlock fece un mezzo sorriso. “Non sarei qui, altrimenti.”
I due dottori si lanciarono un’occhiata che sembrava voler dire che non stavano assistendo a nulla di nuovo.
“Bene” disse il dottor Watson. “Sarà sotto osservazione ventiquattro ore su ventiquattro, attraverso una telecamera installata nella sua camera, in cui avrà a disposizione tutti i comfort a lei necessari.”
“Non potrò mai uscire?” domandò Sherlock – più per curiosità che per preoccupazione.
“Ha a disposizione un’ora alla settimana da passare nello spazio verde del laboratorio, ovviamente accompagnato da un medico dell’equipe a cui verrà assegnato.”
Sherlock pensò che avrebbe fatto volentieri a meno dell’ora all’aperto, ma non lo disse – non era sicuro che, dopo una settimana chiuso in una stanza, non ne avrebbe avuto bisogno.
“Avviseremo i suoi familiari che sarà trattenuto a tempo indeterminato.” La voce di Lestrade suonò pacata, come se attraverso quella informazione volesse trasmettergli tutta la pena che provava per lui.
Fu scortato nella sua stanza, non molto differente dal resto dell’edificio, da una giovane dottoressa che gli spiegò cosa avrebbe trovato ad attenderlo in quella che sarebbe diventata la sua casa – la sua cella.
Sulla porta, blu come tutte le altre, campeggiava la scritta 221B e Sherlock si chiese se fosse il nome con cui l’avrebbero chiamato da allora in poi. Sul letto c’era una tuta blu scuro, che sarebbe stata l’unico indumento che avrebbe potuto indossare da allora in poi. Nel piccolo armadio di fianco al letto, gli spiegò la giovane, avrebbe trovato ricambi a sufficienza per una settimana e sarebbe stato rifornito ogni volta che ce ne fosse stato bisogno.
“Avete dei libri?”
La dottoressa gli indicò una tavoletta digitale sul comodino. “Può scaricare tutti quelli che vuole dal nostro sistema.”
“Non avete nulla di carta?”
L’altra si accigliò. “Vedrò cosa posso fare.”
“Grazie…” Sherlock lanciò uno sguardo alla targhetta appuntata sul petto, “…Molly”.
Molly sorrise ed uscì, dando inizio alla sua nuova vita con il tonfo sordo della porta che si chiudeva.
Sherlock rimase in piedi ancora qualche secondo, guardandosi intorno per ambientarsi. Forse, si disse, non sarebbe stato facile quanto si aspettava.
 
Ogni giorno, da quando era stato scelto come paziente, Sherlock passava il tempo leggendo, ascoltando la musica diffusa dagli altoparlanti nella sua camera e aspettando impaziente l’ora da passare all’aperto. Dopo soli sei mesi da quando aveva cambiato così drasticamente la sua vita, aveva dovuto ricredersi su quell’ora di svago che gli permetteva di cambiare aria, di sentire la piacevole sensazione della luce solare sulla pelle a sostituire quella esageratamente bianca e gelida della sua stanza.
Lisciò con estrema accortezza la maglietta della tuta e passò una mano pallida tra i boccoli scuri. Non sapeva chi sarebbe apparso quando la porta si fosse aperta; ogni settimana era un dottore diverso. Spesso era Molly ad accompagnarlo, qualche volta Lestrade, però, per quanto piacevole fosse la loro compagnia, ammetteva di ritrovarsi a sperare ogni volta che toccasse al dottor Watson.
Lo vedeva quasi tutti i giorni, rispondeva alle sue domande e si sottoponeva ai suoi test, ma sembrava non bastargli lasciarsi esaminare da lui come la cavia da laboratorio che in effetti era. E sapeva che c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò, perché non avrebbe dovuto provare nulla per nessuno – in teoria. Gli avevano promesso zero emozioni, niente più ricordi, ma nel petto sentiva ancora il vuoto sordo della mancanza di Jim.
Ecco. Aveva pensato il suo nome, aveva pensato a lui per la prima volta dopo mesi. Il suo compagno era sempre stato un egoista figlio di puttana, ma era anche sempre stato il suo compagno. C’era il giorno in cui aveva deciso il suo orientamento sessuale, il giorno in cui aveva dato il suo primo bacio – l’aveva dato proprio a lui –, il giorno in cui suo padre era sopravvissuto per miracolo ad un infarto e quello in cui suo fratello Mycroft era diventato uno degli uomini fidati del Consiglio delle Nazioni Unite. Era in ogni suo ricordo, bello o brutto che fosse. Jim Moriarty era stato l’unica persona al mondo di cui gli importasse, per così tanto tempo che, quando alla fine l’aveva lasciato, non gli importava più nemmeno di se stesso. Come a Jim non era importato lasciarlo in quel modo raccapricciante, abbandonandolo su quel tetto da cui aveva cercato di portarlo via dopo un’altra delle sue crisi; e invece lui aveva infilato in bocca la canna di una vecchia pistola trovata chissà dove e aveva premuto il grilletto senza neanche distogliere lo sguardo. Aveva continuato a fissarlo negli occhi mentre prendeva coraggio per liberarsi dai suoi mali. L’aveva abbandonato lì, lasciando a fargli compagnia il suo corpo vuoto, morto e ancora caldo. La scia di sangue che colorava l’asfalto sotto la sua testa l’aveva perseguitato per mesi, era stata la prima cosa che vedeva ogni volta che chiudeva gli occhi per addormentarsi. L’aveva sognato fissarlo mentre dormiva, con i suoi occhi spalancati appannati dalla morte e quel sorrisetto da bastardo con cui se n’era andato, convinto che uccidersi avrebbe risolto tutti i suoi problemi – ed in effetti si erano risolti, ma ne avevano portati altri a Sherlock. L’unica persona che si era presa cura di lui, che aveva sopportato tutte le sue crisi, le sue scenate e le sue ossessioni. Aveva architettato quell’agghiacciante uscita di scena solo per lui, per assicurarsi che non scordasse mai che i sentimenti sono per gli stupidi.
Se solo fosse stato un po’ meno egoista, un po’ meno figlio di puttana, se solo avesse resistito ancora qualche mese, avrebbe potuto iscriversi al programma e farsi estirpare quelle maledette emozioni che l’avevano annientato. Invece aveva voluto essere sicuro di lasciare a Sherlock i suoi demoni come unica eredità, costringendo lui a provare a cancellare le proprie emozioni.
“Sherlock?”
Si riscosse da quello stato di dolorosa apatia. Alla porta c’era John, con il suo camice bianco sulla tuta rosso scuro ed il sorriso sbilenco che gli rivolgeva ogni giorno. Le mani di Sherlock smisero di tremare. C’era qualcosa, nel modo in cui il dottore pronunciava il suo nome, che immobilizzava tutti i suoi muscoli.
“Vogliamo andare?”
John infilò le mani nelle tasche del camice, nascondendole alla vista per impedirgli di notarne i palmi sudati. Sherlock avvertiva quasi un dolore fisico quando non poteva vedere le mani dalle dita tozze del dottore. Rivelavano davvero molto dei suoi stati d’animo, quelle dita tremanti, che si stringevano a pugno ogni volta che si trovavano troppo vicini e lo facevano sorridere di nascosto tutte le volte.
Annuì, seguendolo lungo il corridoio verso l’esterno del laboratorio.
In realtà, non erano davvero fuori dell’edificio. Il giardino era uno spazio verde all’interno della struttura, a cui mancava il soffitto – come un giardino in soggiorno. Il prato esteso ospitava qualche panchina, anche se ne sarebbe bastata soltanto una, visto che gli ospiti del laboratorio potevano accedervi solamente uno alla volta, ognuno in un giorno ed un’ora stabiliti. C’era qualche albero di ciliegie, carichi di fiori che difficilmente sarebbero caduti, data l’assenza di vento causata dalle enormi pareti che circondavano lo spazio. Gli sarebbe piaciuto scuoterli per veder danzare i petali bianchi, che si sarebbero posati sul tappeto verde formato dall’erba. Gli sarebbe piaciuto, in realtà, vederli posarsi su John, disteso sull’erba intiepidita dal sole di maggio. Gli sarebbe piaciuto posarsi lui stesso, su John. Gli sarebbe piaciuto in un modo in cui non avrebbe dovuto piacergli, ma non poteva impedirselo.
Il dottor Watson se ne stava lì, a qualche passo da lui, osservandolo godersi il sole e l’aria limpida, in un silenzio quasi religioso, incapace di proferire una qualunque parola che si adattasse alla bellezza della situazione che gli si presentava.
Sherlock si passò volontariamente la mano tra i capelli, osservando gli occhi grigi di John spalancarsi lentamente insieme al suo movimento. La soddisfazione che quelle reazioni gli provocavano lo teneva sveglio la notte, e l’altro nemmeno lo sapeva.
Qualunque cosa John Watson gli avesse fatto, non aveva di certo rimosso le sue emozioni.
Non in senso letterale. In un certo senso, le aveva un po’ cambiate; le aveva sostituite. Il vuoto provocato da Jim era stato riempito dalle sue occhiate veloci quando credeva che non lo stesse osservando, il malessere che era diventato la sua unica compagnia di notte era stato sostituito dal ricordo del calore emanato dal corpo del dottore vicinissimo a lui, l’eco del suo nome pronunciato dalla voce di John aveva preso il posto del suono secco dello sparo. John stava lentamente rimpiazzando Jim. Pur non avendo mantenuto la promessa di eliminare le sue emozioni, stava migliorando quelle che provava.
“Come procede la vostra ricerca?” gli chiese, facendolo sobbalzare per averlo colto a fissarlo.
Non gli interessava davvero quello che succedeva nei laboratori, soprattutto perché lui stesso era la prova vivente che stavano sbagliando tutto, ma gli piaceva sentire quell’entusiasmo nella sua voce quando parlava del suo lavoro.
“Bene” rispose, stranamente poco loquace. “Siamo ancora all’inizio, è presto per avere dei risultati definitivi.”
Sherlock annuì e si sedette, invitando l’altro ad imitarlo con uno sguardo. John si accomodò al suo fianco, ma evitò accuratamente di incrociare i suoi occhi.
“Trova ancora piacevole la sua permanenza?”
Sherlock si domandò cosa avrebbe mai potuto fare se gli avesse risposto di no. E se gli avesse detto delle sue emozioni? L’avrebbero allontanato da lui per impedire coinvolgimenti per il dottore? Oppure sarebbe stato proprio lui, nonostante tutto, a volergli stare lontano in caso avesse scoperto il suo segreto?
Sherlock non era ancora sicuro di come dirgli che stavano sbagliando tutto.
“Bene” gli fece eco. “Come al solito.”
Il dottor Watson sembrò volergli dire qualcosa, ma si trattenne e si passò la lingua sul labbro superiore. Sherlock si impose disperatamente di non seguirne il movimento con gli occhi. Si voltò, sentendo lo sguardo di John sulla nuca e poi il viso, credette di sentirlo scorrere sulle spalle e le braccia, poggiate sulle gambe, ma non si voltò a controllare.
Restarono in silenzio per il resto del tempo. Facevano sempre così quando condividevano quell’ora completamente soli, scambiavano qualche frase di cortesia e poi tacevano, osservandosi l’un l’altro, consapevoli ma mai sicuri. Forse era per questo che sperava sempre che comparisse John ad accompagnarlo all’aperto: con lui non c’era bisogno di fare conversazione, le parole erano di troppo tra loro, bastavano gli sguardi silenziosi ma carichi di significato, che però nessuno dei due coglieva, perché uno era sicuro di non poter essere ricambiato e l’altro faceva di tutto per confermarlo. O forse, si disse Sherlock, sperava che ogni volta fosse John ad accompagnarlo semplicemente perché, che lo volesse o meno, i suoi sentimenti erano ancora lì, e gli gridavano di confessargli tutto.
 
Il ritorno in camera era sempre un po’ angosciante. Sapere che l’avrebbe rivisto l’indomani era l’unica cosa che gli permetteva di lasciar andare John con il sorriso sulle labbra.
Sulla soglia della porta blu, il dottore si assicurava che fosse tutto in ordine, soprattutto dentro di sé.
“A domani, dottor Watson.”
La sensualità che Sherlock riponeva nel suo tono pronunciando quel saluto aveva lo stesso effetto di uno sport estremo per lui, sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene mentre aspettava con timore e speranza insieme che l’altro la cogliesse e capisse tutto.
Invece, John si limitava ad arrossire vistosamente, con le orecchie che sembravano quasi illuminarsi per l’intenso rossore, e a salutarlo con un veloce “A domani, Sherlock”. Ma la porta automatica si chiudeva sempre un secondo troppo tardi, permettendogli di vedere il dottore che asciugava i palmi madidi di sudore sul cotone candido del camice e lasciare andare un pesante respiro.
Aveva davvero cercato di eliminare la soddisfazione e la gioia che lo pervadevano osservando quella scena? Aveva davvero rischiato di lasciar andare quel piacevole tumulto di sensazioni per eliminare le emozioni lasciategli da qualcun altro?
Lanciò uno sguardo alla telecamera e sorrise, al suo dottore e a tutti gli altri, ringraziandoli silenziosamente per la loro incapacità di portare a termine i propri progetti.







 


Un grazie infinito a Donnie, che ha promptato la storia e che si è sorbita un po' di miei scleri durante la stesura di questo capitolo.
Grazie alle persone che hanno recensito e che mi hanno spinta a continuare a sviluppare questa trama, perché la sto amando con tutta me stessa e ne sto diventando dipendente. E a questo proposito, credo che arriverà un ultimo capitolo conclusivo, in modo da vedere cosa succede dopo.

Ancora grazie a tutte, davvero. Anche a chi ha inserito la storia trai preferiti e le seguite.

A presto,
Red.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Due ***


Capitolo #2  



Le luci accecanti del laboratorio erano una delle cose che John amava di più. Girare trai suoi colleghi più eccelsi, con indosso il camice bianco, lo faceva sentire parte di qualcosa. Osservare i risultati dei suoi esperimenti era la cosa più appagante della sua vita; guardare i progressi fatti dai soggetti al di là del vetro lo inorgogliva non poco.
Creare umani super potenti era il sogno dell’umanità da secoli, qualcuno ci aveva provato e aveva miseramente fallito. Gli ultimi soggetti con forza disumana erano stati usati nella quarta guerra mondiale, erano stati lasciati liberi di distruggere tutto quello che incontravano – compresi innocenti ed i loro stessi creatori – ed erano stati eliminati appena prima che estinguessero quella che una volta era la loro stessa razza. John non avrebbe mai preso parte ad un esperimento di quel genere; costringere normali uomini ad assumere sostanze tossiche per vincere una guerra era per lui quanto di più sbagliato ed ingiusto potesse esserci. Quello a cui lui stava lavorando era un progetto totalmente differente, la sua equipe potenziava la mente, non il corpo, incoraggiava l’intelligenza, non la forza. Immaginava quanto fosse raccapricciante osservare esseri umani trasformarsi in mostri con muscoli eccessivamente sviluppati, vederli detestare il proprio aspetto e arrendersi al fatto di non poter controllare la propria forza. Anche solo guardare ai reperti storici, le foto e i video custoditi nelle loro banche dati, gli metteva agitazione. Ma John sapeva che quello che stava facendo lui era qualcosa di completamente diverso, sebbene avesse – come tutto, del resto – i suoi aspetti negativi. La differenza, nel suo progetto, era che i soggetti si sottoponevano volontariamente ai loro trattamenti. Accettavano di lasciar modificare, attraverso le apparecchiature più recenti e sofisticate offerte dal governo, il DNA delle loro cellule. I soggetti – non gli piaceva chiamarli cavie – venivano selezionati in base al loro grado sociale, il QI naturale e alcuni aspetti riguardanti il DNA. Ogni anno si presentavano ai colloqui migliaia di persone da tutto il mondo; a quanto pareva, la possibilità di diventare più intelligenti della norma valeva la pena di lasciare la propria famiglia, i propri affetti, lasciarsi chiudere in piccole stanze sorvegliate ventiquattro ore su ventiquattro, con gli unici svaghi proposti dai dottori, e rinunciare alle proprie emozioni semplici – cosa che sembrava essere positiva per quelli che tentavano di essere scelti. Lasciarsi estirpare il dolore era una prospettiva allettante anche per lui, ma non era capace di immaginare una vita senza emozioni positive, senza tenerezza o gioia o amore. Anche se quell’amore era rivolto a chi non poteva ricambiarlo.
“Dottor Watson?”
John si riscosse dai propri pensieri e si voltò verso uno dei suoi colleghi. “Dimmi, Lestrade.”
“Il paziente 221B ha superato con successo anche il test di questa settimana.”
“Come ci aspettavamo.”
L’uomo, i cui capelli grigi quasi scintillavano sotto quelle luci, si accigliò, combattuto tra il dirgli quello che stava pensando o tenerlo per sé.
“Che succede?” domandò John. “Devi dirmi tutto su quel paziente, lo sai.”
“Dice che si è annoiato” si arrese l’altro. Sul viso aveva un’espressione più stupita di quella di John, probabilmente. “Gli altri soggetti ci stanno lavorando da almeno dodici ore, mentre lui l’ha svolto in un’ora e dice di essersi annoiato.”
John non si stupì più di tanto. Il paziente 221B era in assoluto il più intelligente di quelli che avevano trattato ed era quasi un genio anche prima di essere modificato geneticamente.
“Significa che stiamo procedendo bene, caro Lestrade.” Gli posò una mano sulla spalla e l’altro sorrise ma, di nuovo, sembrava indeciso se dirgli o meno quel che sapeva.
Non aspettò che il dottor Watson lo incitasse, stavolta. “Ha chiesto di lei tutta la mattina.”
La testa di John si voltò di scatto verso il corridoio in cui la camera del paziente era situata, quasi come se l’avesse chiamato. Scostò la mano dalla spalla del collega e cercò di sembrare impassibile.
“Ti ringrazio, vado a controllare immediatamente.”
Lestrade annuì e si allontanò per svolgere il suo lavoro. John cercò sulla sua tavoletta personale i valori dei test clinici del suo paziente e constatò che era tutto in regola.
Inspirò a fondo e si diresse nel corridoio dei pazienti inglesi. Sulla soglia, espirò con calma il respiro che non si era accorto di trattenere ed entrò con le mani sudate.
“Come va, oggi, Sherlock?”
Il ragazzo dai capelli scuri lo guardò lentamente, non lasciando trasparire nessuna emozione – poiché, si disse John, non poteva provarne. Era seduto con la schiena rigida, le mani giunte e pallide posate sul banco d’acciaio. Il letto era stato rifatto con perfezione maniacale, sotto di esso, pile di libri riposti con cura lasciavano intendere che aveva finito i suoi svaghi. Le pareti bianche erano ricoperte di formule, melodie e disegni, tutto ciò che l’aveva colpito in quei libri o nelle ore dedicate agli svaghi pensati dagli scienziati.
“Come ogni giorno, dottor Watson” rispose.
“Mi hanno detto che hai superato con successo anche il test di questa settimana” gli disse, sedendosi al tavolo di fronte a lui.
“Le hanno detto che questo test mi ha annoiato a morte?”
John sorrise. La sua sfacciataggine era la più difficile da gestire, gli altri pazienti si limitavano ad essere saccenti. “Me l’hanno detto, sì.”
John poggiò i gomiti sul tavolo in metallo, avvicinandosi di poco, ma di proposito. Non riusciva a spiegarsi il buon odore che emanava da Sherlock – a  nessuno dei pazienti era concesso mettere del profumo e gli veniva distribuito del sapone inodore –, ma ne era diventato dipendente. Più restava in quella stanza e più l’olfatto vi si abituava, più sentiva il bisogno di sentire ancora quell’odore.
Sherlock lo stava studiando attentamente con i suoi occhi multicolore, resi ancora più luminosi dalle luci bianche. John si chiese se non fosse quello il motivo per cui amava le luci del laboratorio.
“Ho chiesto di lei, questa mattina” confidò Sherlock con la sua voce profonda.
Ogni volta che parlava era come ritrovarsi al buio, essere inghiottiti dalle tenebre più piacevoli del mondo.
John ingoiò il groppo di desiderio che sentiva in gola. Sentirlo parlare era una delle cose per cui si alzava al mattino. “Lo so” disse. Si impose di continuare a parlargli per poter ascoltare le sue risposte, anche se l’unica cosa che davvero voleva dirgli non gli era concessa, perché lui era uno scienziato e Sherlock il suo paziente – la sua cavia. “Hai qualche richiesta da farmi?”
“Nessuna” rispose, lasciando le labbra socchiuse.
John ingoiò di nuovo a vuoto. “Volevi farmi sapere che i test iniziano ad annoiarti?”
“No” disse, lasciando le labbra a forma di ‘o’.
John si alzò in fretta dal tavolo, scostando la sedia metallica con un’assordante suono di acciaio contro piastrelle. “Allora vado” disse, evitando di guardare ancora quelle labbra incredibilmente rosa.
“Non vuole sapere perché ho chiesto di lei?” domando Sherlock, attirando di nuovo la sua attenzione.
John lo guardò con un’espressione palesemente sofferente. Stringeva i pugni per impedirsi di cercare di toccarlo, per ricordarsi che il ragazzo non provava nulla per lui – né per altri, ed era colpa sua.
“Ti ascolto” rispose. E, dannazione, se l’ascoltava! Ascoltava ogni frase, ogni parola, ogni sillaba pronunciata da quella bocca con quella voce. E ascoltava il proprio battito seguire il ritmo della cadenza del suo tono.
“Avete fatto male i conti” mormorò affilando lo sguardo. Aspettava che John cogliesse da solo il significato delle sue parole, ma lui era troppo occupato ad ascoltare.
“Cosa?” domandò, riscuotendosi.
“Non dovrei provare nulla, me l’avevate promesso.” La sua voce si faceva sempre più bassa, costringendo il dottore ad avvicinarsi a lui. “E allora perché sento il bisogno di strapparti quel camice di dosso, John?” disse in un sussurro appena udibile.
Il dottor Watson spalancò gli occhi, incapace di credere a quello che aveva appena sentito. La stanchezza gli stava giocando un brutto scherzo? Aveva sentito male a causa del tono basso con cui l’altro aveva parlato?
Boccheggiò un istante. Non sapeva cosa fare, cosa dire, se continuare a fissarlo incredulo o uscire dalla stanza e non tornarvi mai più. Rimase lì, in piedi, immobile, ancora qualche secondo mentre Sherlock continuava a fissarlo in attesa di una risposta.
John deglutì ancora, questa volta era il panico a bloccargli la gola. “Da quanto?” chiese.
“Da quanto voglio strapparti i vestiti?” chiese Sherlock, l’ombra di un sorriso su quelle labbra.
“Da quanto provi emozioni” riformulò John, rispondendo al sorriso solo per metà.
“Da sempre” fu la risposta destabilizzante di Sherlock. “E questo risponde ad entrambe le domande” aggiunse, accentuando il sorriso.
John scosse la testa, stordito. “Ma non hai mai mostrato nulla…” Non riusciva davvero a capire.
“Ho un viso molto meno espressivo del tuo, tutto qui.”
John si chiese se volesse dire che tutte le volte in cui aveva fissato i suoi occhi arcobaleno con la voglia di annegarci dentro, tutte le volte che aveva dovuto trattenersi letteralmente dal toccarlo, Sherlock lo avesse notato; forse aveva persino sperato che cedesse.
Sherlock si alzò, non aveva mosso un muscolo fino ad allora, ma si scostò dal tavolo con la grazia di un ballerino, aggirando l’ostacolo tra lui ed il dottore con poche, lente, fluide falcate. Era la prima volta che John fantasticava sulle gambe di qualcuno, ma quei muscoli avvolti nella divisa blu scuro dei pazienti, che guizzavano ad ogni movimento, lo mandarono quasi fuori di testa.
Fece un passo indietro, passando una mano sul viso, poi la lasciò a coprire la bocca. Sherlock allungò una mano per afferrare la sua, la lasciò un attimo a mezz’aria, aspettando che lo scienziato lo lasciasse continuare o lo fermasse, ma John non si mosse, riusciva a stento a respirare. Le lunghe dita del moro sfiorarono il dorso della mano che teneva ancora premuta sulla bocca, poi la scostò lentamente e la portò alle labbra per baciarla. John si rilassò e si irrigidì al tempo stesso. Il suo braccio sembrava aver perso sensibilità dopo quel tocco leggero, ma il resto del suo corpo aspettava teso la prossima mossa di Sherlock. Questi si portò la mano di John su un fianco e si avvicinò a lui. Ora il dottore poteva sentire il suo profumo con una intensità che non aveva nemmeno mai osato sperare di poter percepire. Il respiro di Sherlock gli sfiorava le guance, provocandogli brividi lungo il collo. Quando le sue labbra finalmente sfiorarono quelle di lui, John temette di perdere i sensi, e quasi ci sperò, perché dopo aver percepito quella morbidezza nulla avrebbe più avuto senso.
Sherlock si spinse ancora di più contro il suo corpo, costringendolo ad arretrare un po’, fino a che si scontrò con lo schienale della sedia che aveva occupato fino a poco prima. La sua lingua gli sfiorò le labbra, che cedettero al primo tocco, lasciando che riempisse la sua bocca con una lentezza disarmante.
John si lasciò trascinare in quella danza di mani e bocche ancora qualche istante, prima di divincolarsi con riluttanza. Quello che stavano facendo andava contro ogni regola imposta da lui stesso, ma a preoccuparlo ancor di più era che la loro ricerca si basava su informazioni errate: se Sherlock provava ancora emozioni, quanti altri riuscivano a sentire qualcosa?
“Devo andare” disse, il fiato corto a causa di quello che era appena successo.
“I tuoi studi possono tardare ancora un po’” obiettò l’altro avvicinandosi di nuovo.
Era molto più alto del dottore, avrebbe potuto intrappolarlo senza sforzi, ma John gli posò una mano sul petto e lo guardò con sguardo supplichevole. Tutti quegli eventi erano troppo da sopportare in una volta.
“Torno il più presto possibile” promise.
Sherlock annuì. “Non vado da nessuna parte” disse ironico, scostandosi per lasciarlo passare.
John uscì di corsa, fermandosi a riprendere fiato solo quando arrivò nella sala di monitoraggio. “Merda” sussurrò, rendendosi conto che tutti, probabilmente, avevano visto quanto poco professionale fosse appena stato.
Lestrade era davanti ai computer, dava le spalle ai monitor, oscurandone la visuale. John pregò che non si fosse mosso da lì per tutto il tempo. Gli si avvicinò e lui fece un gesto di brindisi col suo bicchiere di caffè.
“Abbiamo un problema” sussurrò John.
“Non mi sembrava fosse un problema, due minuti fa” gli disse ghignando.
John divenne paonazzo.
“Non c’è di che” mormorò Lestrade, scostandosi dai monitor.
John lo guardò perplesso. Il suo collega sapeva già tutto? Era stato Sherlock ad organizzare quell’incontro? Lanciò un’occhiata al monitor che inquadrava il paziente 221B. Sherlock aveva poggiato le mani ai bordi del tavolo e guardava fisso nella telecamera. Anche da lì, avrebbe giurato John, poteva vedere i suoi occhi brillare.
Seguì Lestrade nel laboratorio e sorrise. Eliminare le emozioni di qualcuno per renderlo più intelligente era l’idea più stupida che gli fosse mai venuta.







 One shot scritta per il Drabble Week-end indetto nel gruppo We are Johnlocked.

Pur essendo stata scritta per il drabble weekend, il prompt non mi permetteva di creare una drabble o una flash, mi ha presa l'ispirazione e sono venute fuori più di duemila parole. Credo, però, che un prompt così bello sarebbe stato meglio svilupparlo con una long, cosa per cui non ho tempo al momento, ma chissà.
Grazie alla fantastica Donnie che l'ha promptata.

Red.

 


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2929915