Life Stories

di Gio_Snower
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zero Gravity ***
Capitolo 2: *** Olympos ***
Capitolo 3: *** Homecoming ***
Capitolo 4: *** Candlelight ***
Capitolo 5: *** Ash ***
Capitolo 6: *** Uniform ***
Capitolo 7: *** Dreams ***



Capitolo 1
*** Zero Gravity ***


 

Zero Gravity 



 

Quando l'Universo si creò, noi fummo creati con lui. Chi ci creò o cosa, non lo sappiamo né ci interessa. 
All'inizio eravamo solo entità di luce, correvamo sulla superficie bollente del nuovo pianeta senza accorgerci dello scorrere del tempo né dei cambiamenti che il suo scivolare comportava. Non avevamo una forma ben definita, non sapevamo cos'era la gravità, il peso, il pensiero. Sapevamo, comunicavamo, non parlavamo. Non esistevano le parole o un linguaggio fatto di suoni, come quello che avremmo usato molto più tardi.
Eravamo una decina, all'incirca. Ma io, fra i tanti, ne preferivo uno.
Passavo il mio tempo con lui, correvamo, giocavamo, scivolavamo su quello che presto sarebbe stato lo strato del pianeta chiamato Terra. L'unica differenza fra noi era il colore della nostra luce: il mio era un color ambra, il suo era un azzurro chiaro che sfumava alla fine in un blu scuro, forse un poco nero. 
Vedemmo lo sviluppo del pianeta e gli strati di terra uniti – che in seguito furono chiamati “continenti” - che spuntavano fra l'acqua; molto tempo dopo, il tempo in cui continenti erano uniti, fu denominato Pangea. 
Adoravamo volare sopra il mare per poi tuffarci nel suo intenso blu, creando onde scintillanti, e vedere che, piano piano, nuove forme di vita si creavano. 
Molto, molto, molto tempo dopo vedemmo i primi uomini, ma prima di poter essere chiamati così, s'erano succeduti molti stadi evolutivi in cui la loro struttura fisica e le loro caratteristiche erano cambiate. A lui piacevano molto quei nuovi esseri; si divertiva a guardarli per ore, osservandoli con una malinconica dolcezza e curiosità. 
Non capivo cosa ci trovasse in loro.
Erano rozzi, stupidi, deboli. Morivano.
Ovviamente noi eravamo una specie superiore; non morivamo, non dovevamo ingerire cose estranee ai nostri organismi per sopravvivere, non ci uccidevamo fra noi e per comunicare non dovevamo usare quello strano linguaggio formato da suoni gutturali.
Quando glielo dicevo, sembrava triste. La sua luce, solitamente brillante, si affievoliva un poco e per qualche ora, a volte un giorno, non lo vedevo, poiché se ne andava da qualche parte. 
Così rimanevo solo, continuavo a scorrere, a scivolare sulla superficie, a volte mi tuffavo nell'oceano, ma nulla era uguale a quando lui non c'era; quando ero solo, non mi sentivo bene così come mi sentivo con lui. 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Olympos ***


Olympos

 


Il tempo scivolò e il pianeta cambiò, popolandosi di nuove specie.
La più interessante era quella umana che, pian piano, dopo glaciazioni, cambiamenti climatici, carestie e pestilenze, si evolse.
Gli umani cambiavano forma, carattere e modo di vivere. In un primo momento erano come loro: nomadi, liberi.
Non avevano un posto in cui vivere, ma migravano, spostandosi da un continente all'altro in cerca di cibo e di un clima favorevole. Poi iniziarono a viaggiare sempre di meno, finché non crearono vere e proprie città in cui vivere stabilmente.
Spesso lui e il suo compagno si fermavano ad osservarli, incuriositi dal trambusto che creavano. In un certo senso li trovava affascinanti, ma non quanto l'altro.
Non capiva proprio cosa lo attirasse verso di loro: erano brutti, deformi, pieni di peluria.
Lo inquietavano troppo.
Tuttavia solo per lui era così, ben presto tutti ne rimasero attratti, soprattutto lui.
Inventarono un linguaggio pieno di suoni, concepirono la scrittura per esso e la loro società cambiò.
A un certo punto, non sapeva come, loro iniziarono a idolatrarli, chiamandoli “Dei”.
L'altro, non molto tempo prima, gli aveva dato un aiuto: il fuoco, come l'avevano chiamato loro. E da allora avevano iniziato ad amarli tutti.
Gli altri ne erano lusingati, lui pensava solo a quanto stupida potesse essere la razza umana.
Gli uomini iniziarono a dargli dei nomi e un luogo in cui vivere, una cima di una montagna che chiamarono Olimpo.
A lui fu attribuito il nome di Ade, mentre all'altro il nome di Ermes.
Gli attribuirono vari aspetti, animali e umani, che non apprezzò particolarmente. Uccidevano selvaggiamente le loro prede, bevevano e creavano e spesso s'ammazzavano fra loro. Bruciavano loro offerte, ma a lui non interessava.
Ermes decise di prendere forma e si trasformò in un fanciullo umano, gli occhi neri e la pelle leggermente scura, vestito da una leggera tunica bianca, creata dagli umani stessi; insistette finché anche lui non prese il nome datogli e l'aspetto umano. Allora prese l'aspetto di un giovane dai capelli chiari, occhi color ambra e pelle chiara; indossò anche lui una tunica, ma nera.
Ade non capiva. Non gli piacevano quegli esseri, così non interveniva mai nelle loro questioni a differenza degli altri. Ma nemmeno Ermes interveniva, poiché le guerre, il sangue e i combattimenti senza senso lo disgustavano. Il suo era un essere puro, ricordava l'altro osservandolo.
Spesso si mettevano a giocare sulle nuvole, ignorando gli altri che, come loro, avevano preso forma e nomi umani.
Alcuni si mostravano e donavano la saggezza che da sempre avevano.
Quando iniziarono a odiarlo e a temerlo, decise di intervenire e mandò loro qualche catastrofe che li mise in ginocchio per qualche tempo. Si divertì, ma Ermes, ogni volta che lo faceva, lo guardava male.
«Non capisco cosa ti piaccia di loro», gli disse una volta. «Sono così brutti... Sono avidi, egocentrici e sanguinosi».
«È vero, alcuni di loro sono così, ma non tutti», gli aveva l'altro con un sorriso dolce. Più passavano il tempo in forma umana, più imparavano i loro modi ed espressioni.
«Non tutti? Perfino le donne pensano che sia giusto concedersi al più sanguinoso e bruto!»
«Lo chiamano Amore. Loro si innamorano...»
«Amore!», aveva esclamato, «L'Amore è la loro più sciocca invenzione!»
Lo sguardo triste dell'altro che gli rivolse in risposta gli sarebbe rimasto per sempre nel cuore.
«Un giorno capirai anche tu perché gli umani mi piacciono tanto».
Ma Ade non aveva ancora compreso. Era sempre stato un po' lento e molte cose, ai suoi occhi, non erano altro che distrazioni senza senso. Lui e Ermes erano sempre stati in buoni rapporti. Per lui, passare il tempo con l'altro era semplicemente una cosa naturale. Non si chiedeva il perché solo loro due fossero così intimi fra loro, perché solo loro due preferissero parlare l'uno con l'altro invece che con gli altri.
Poi successe qualcosa che cambiò tutto e l'Olimpo, l'inizio e la fine, andò perduto. 

 

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Capitolo 3
*** Homecoming ***


Homecoming



In un paesino francese, sperduto fra alberi rossi e montagne ricoperte di verde, la vita continuava con una tranquillità quasi innaturale. Lo scorrere del tempo sembrava non aver effetto né sull'aspetto di  quel paesino né sulla gente che lo abitava. 
Fra essi c'era Marc, un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi neri, la pelle abbronzata dal sole piena di lentiggini, e figlio di uno dei più grandi proprietari terrieri della zona.
Marc era un ragazzo calmo e ben educato, amava leggere e studiare, era un bravo ballerino e le figlie dei proprietari terrieri di quella zona arrossivano in sua presenza, deliziate dalla sua gentilezza. 
Ma lui, alle grandi sale da ballo, preferiva l'aperta campagna. Adorava stare sotto le fronde degli alberi e leggere sotto il sole cocente durante le giornate leggermente ventose, fresche. Quando scappava da casa per andare in uno dei suoi posti speciali, potevi vederlo vestito come un qualsiasi ragazzo della sua età nato in una famiglia non agiata. La camicia bianca, le bretelle scure, i pantaloni rozzi, ma resistenti e le scarpe dalle suole usate e scolorite, un libro rivestito da una copertina consumata, le cui pagine erano indubbiamente ingiallite. 
Un giorno, durante il suo ventitreesimo anno d'età, stava leggendo un trattato d'origine medievale che narrava la storia di un amore proibito. Solitamente non sceglieva libri che parlavano d'amore poiché, appena sentiva quella parola, veniva assalito da una malinconia sconosciuta. 
Girò la pagina con delicatezza, gustandosi il racconto e le parole che lo creavano, sorridendo lievemente alle parole d'amore che si scambiavano gli innamorati, quando qualcosa lo distrasse. Alzò lo sguardo dal tomo fra le sue mani per incontrare due occhi d'ambra. Mentre osservava quelle profondità ambrate, rimase senza fiato e arrossì. Qualcosa nel suo petto iniziò a battere più forte, a pulsare, e Marc capì solo dopo che quel qualcosa, che batteva così furiosamente, era il suo cuore.
Il ragazzo davanti a lui era vestito semplicemente. I capelli erano color stoppa, ma sulla radice tendevano ad un castano scuro, come le sopracciglia che s'aggrottavano sopra gli occhi ambrati, al naso romano e alla bocca dalle labbra sottili, ma ben cesellate. Il suo volto era lungo e bianco e, per un momento, Marc pensò al muso di un destriero, però, appena il ragazzo davanti a lui sorrise, si tolse subito dalla mente quel pensiero.
«Chi sei?», gli domandò, incapace di trattenersi. 
«Non credo ti interessi», rispose bruscamente l'altro, le sopracciglia aggrottate in segno di disprezzo e un sorriso simile a un ghigno. 
Marc arrossì imbarazzato, ma poi sentì la risata dell'altro, così il suo volto divenne rosso per la  rabbia. Eppure, sentire la sua risata, lo faceva in qualche modo rilassare. Quella voce brusca, quell'aspetto, specialmente quegli occhi, per lui erano tutti familiari, come se molto tempo prima li avesse sentiti e visti.
«Mi chiamo Jean, visto che ci tieni a saperlo», gli disse, «È da maleducati chiedere il nome degli altri senza dire prima il proprio, lo sai?»
«Ah... Io s-sono Marc», balbettò, sentendosi in colpa. Jean aveva ragione. 
«Posso sedermi vicino a te?»
«Certo, vieni pure!», rispose Marc sorridendo. Non riusciva a trattenersi. L'altro ridacchiò, ma si avvicinò e si sedette vicino a lui.
«Cosa stavi leggendo?», gli chiese adocchiando il tomo fra le sue mani. La sua espressione parlava da sé: a lui non piaceva leggere. 
«Un racconto medievale».
«Di che parla?»
«Una storia d'amore proibito...»
«La cosa, chissà perché, non mi stupisce».
«Cosa vorresti dire con questo?», esclamò un poco agitato. Non voleva essere frainteso e, pensare che lui lo vedesse come un rammollito, lo faceva in qualche modo infuriare. 
«Calmati», gli ingiunse Jean fissandolo con i suoi decisi occhi ambrati. All'inizio era sembrato sorpreso, poi aveva sorriso leggermente. 
Parlarono un po', come se il tempo non fosse importante, ma solo il loro incontro lo fosse. 
Quando Marc alzò gli occhi, si rese conto che il sole stava tramontando. Sebbene fosse un giovane nobile, non voleva far preoccupare la sua dolce madre, visto che non era sua abitudine star fuori oltre quell'orario. 
«Devo andare», disse, e si alzò, sebbene a malincuore. 
«Aspetta», lo chiamò Jean, rosso in volto. 
«Sì?»
«Ti va... ecco...», si grattò il viso con un dito e guardò verso il basso, «Ti va di vederci domani? Sempre qui».
Marc gli sorrise, il tramonto rosso sull'orizzonte dietro le spalle che gli illuminava il volto lentigginoso ed i capelli scuri, dandogli un che di luminoso.
«Certo!», rispose. «A domani, Jean», mormorò.
«A domani, Marc», fu la risposta sussurrata dell'altro.

Nei giorni successivi continuarono ad incontrarsi sotto l'albero in cima alla collina. Da quel posto si vedeva tutto il paesino e, girandosi, potevano osservare le montagne che svettavano su un cielo azzurro con qualche nuvola dipinta sopra. 
Parlavano del più e del meno, a volte si sfioravano, timorosi. 
«Così da piccolo mi sono sbucciato un ginocchio cadendo da un ponte», gli raccontò una volta Jean.
«Ma dai!», esclamò Marco, ridendo.
Un'altra volta stavano parlando del loro futuro.
«Vorrei una ragazza dai capelli neri», gli confidò Jean, «Minuta», aggiunse strizzandogli l'occhio.
Marc sentì il suo cuore stringersi in una morsa dolorosa, ma non disse niente e sorrise.
«Sono sicuro che la incontrerai», gli rispose. 
Quando Marc incontrava lo sguardo di Jean, sentiva sempre quel senso di familiarità, come se l'avesse incontrato prima, ma non ricordasse. Distoglieva a fatica lo sguardo e sembrava lo stesso per l'altro ragazzo che, dopo un po', si alzava e se ne andava, per ritornare il giorno dopo con un semplice “ciao” di saluto.
Eppure incontrarlo era come ritornare a casa, come se conoscere Jean l'avesse reso davvero sé stesso. 
Marc iniziava a chiedersi perché il suo cuore battesse così forte in sua presenza e se per Jean fosse lo stesso. 


Era fatto di luce azzurrina che sfumava nel nero. Correva sul mondo, scivolava nell'oceano e, qualche volta, osserva da lontano qualcosa. Provava molti sentimenti. 
Passava il suo tempo così, ma non era solo.
Erano in molti, lo sapeva, ma preferiva stare con uno di loro in particolare. Lui era fatto di una luce ambrata e, nonostante corresse con lui sulla superficie del pianeta e si tuffassero insieme nelle acque blu, non provava lo stesso per quel qualcosa che osservavano; mentre lui, lo sapeva, sentiva una connessione con quello che guardava, che spiava. 
Desiderava quella cosa, ma non voleva rinunciare a un'altra. 
Agognava a quella cosa solo per...

Marc si mise a sedere sul letto, la fioca luce dell'alba entrava dalla finestra inondando la sua figura. Era sudato e ansante e si domandava cosa fosse quel sogno appena fatto.
Sembrava così vero, così realistico...
Sembrava un ricordo.
Quel giorno, quando Jean arrivò nel loro luogo d'incontro, Marc decise di raccontargli il sogno. 
«Che cosa strana... Mi chiedo cosa voglia significare», mormorò Marc alla fine. 
Lo sguardo di Jean però era triste e limpido come mai l'aveva visto prima d'allora.
«Ciao», fu l'unico commento di Jean che si alzò e se ne andò dopo averlo guardato con tenerezza per qualche istante, tanto che Marc si chiese se quello sguardo fosse esistito davvero. 
 

“Oh grande Ermes, messaggero degli Dei!”, intonavano le voci. I canti, le tuniche bianche, il bastone, i simboli, le offerte, i templi, loro.
Occhi ambrati, capelli color stoppa, un sorriso sincero mentre osservava una bambina giocare con una bambola, accudendola. Lo vedeva solo di lato. 
Stava aspettando che...
Non si era accorto di lui il ragazzo che aveva di fronte e che portava una tunica nera.
Egli si girò e lo chiamò: “Ermes”.

Il ragazzo era Jean.
“Ade”, sentì dire dalle sue stesse labbra in risposta. 

Marc cadde dal letto, i capelli neri scompigliati, l'espressione confusa di chi non sa. Si tirò su e si sedette sul letto, nuovamente ansimante e sudato. Ade? Ermes? Pensava. Erano nomi così familiari.
«Ade», mormorò e nella sua mente comparve l'immagine di Jean.

Quel giorno andò nel loro posto d'incontro, ma Jean non si presentò. Mille domande affollavano la sua testa, ma non potendo chiedere spiegazioni all'altro, iniziò a convincersi che esse e quei sogni fossero frutto della sua immaginazione. Eppure una parte di lui, quando pensava a quei sogni, li collegava direttamente a dei ricordi dimenticati, come se sapesse già le risposte, ma non potesse impadronirsene. 
Il giorno dopo Marc ritornò sulla collina e, questa volta, Jean c'era. Era seduto all'ombra dell'albero, la schiena appoggiato al tronco, gli occhi ambrati socchiusi e il volto lievemente alzato verso il cielo, come se stesse pensando a qualcosa. Quando s'avvicinò, due occhi ambrati incontrarono i suoi. 
«Ce ne hai messo di tempo a ricordare», disse.
«Da quando ricordi?», rispose. Ormai aveva capito. Era tutto vero; quei sogni erano i ricordi del loro passato. 
«Dal primo giorno in cui t'ho incontrato...», ribatté Jean, la sua voce conteneva svariate note d'emozione, tra cui l'amarezza e una piccola felicità, «All'inizio non volevo accettarlo».
«Perché siamo così, ora?», domandò.
«Lo scegliesti tu, io ti seguii». Le profondità d'ambra lo fissavano senza pietà e Marc in quello sguardo si sentì perdere. 
«Grazie per non avermi lasciato solo», mormorò. «Sono felice di averti rincontrato».
«Anche io», rispose Jean, ma qualcosa nei suoi occhi diceva che c'era altro e Marc non poté non chiedersi cosa non si ricordasse. 
Marc si sedette vicino a lui mentre il silenzio calava fra loro come un muro invalicabile, ma che nessuno dei due accolse come un nemico, bensì come un qualcosa di naturale. Quando era vicino a Jean, si sentiva completo. Stare con lui era come ritornare a casa, e adesso sapeva perché. 
Il sole stava tramontando quando Jean si alzò per andarsene, ma Marc non voleva che lui se ne andasse, provava una spiacevole sensazione.
«Jean», lo chiamò.
Il ragazzo si girò e gli sorrise leggermente, le sopracciglia arcuate e un rapido cambio d'espressione, un ghigno arrogante, ma pieno di tristezza, poi un “ciao” prima di voltarsi e andarsene. 

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Capitolo 4
*** Candlelight ***


Candlelight

Un ragazzo, seduto su uno degli innumerevoli ponti di Venezia, osservava l'orizzonte della Laguna con i suoi occhi neri, simili a quelli dei cuccioli per la luce di tenerezza e di serietà che li animava.
Il suo nome era Marco. Viveva in una delle più frequentate città d'Italia, poiché ogni giorno arrivavano nuove navi mercantili, e non, che s'attraccavano al porto.
Venezia era una città piena di movimento, i bambini che nascevano in questa grande città, affollata come poche, imparavano a nuotare buttandosi nei canali davanti alle loro case o davanti ai campi in cui giocavano quando non dovevano lavorare, e le strade erano sempre gremite di saltimbanchi che si esibivano nei più svariati trucchi di magia.
Era il tempo della Repubblica di Venezia, la Serenissima, le cui bandiere svettavano fiere sugli alberi maestri delle navi veneziane.
Marco si alzò, il cielo che lentamente diventava più scuro, man mano che il sole scompariva dalla vista. Era il figlio di un nobile veneziano e viveva in un palazzo che da almeno due secoli apparteneva alla sua illustre famiglia. I muri del palazzo erano completamente in marmo e raffinati ghirigori lo decoravano insieme a qualche intaglio a forma di leone; le finestre erano ampie e di vetro di Murano e gli interni erano altrettanto lussuosi poiché i soffitti erano dipinti e i pavimenti erano in marmo di varie tonalità, ma di alta qualità.
Quando tornò a casa, il servitore principale di suo padre lo sgridò, ricordandogli che Venezia, anche se all'apparenza bella, poteva essere altrettanto pericolosa.
Non era inusuale la sparizione di qualche persona, nobile o meno che fosse, e visto il numero di navi che se ne andavano e che arrivavano ogni giorno era impossibile rintracciare gli scomparsi.
Era successo, però, che qualche volta venissero ritrovati... Sì, morti, i cui cadaveri s'erano impigliati nelle reti dei pescatori. Insomma, voleva davvero fare quella fine? Ovviamente Marco non voleva, ma qualcosa lo chiamava. Sì, qualcosa fuori da casa sua, qualcosa che forse era collegato ai sogni che faceva.
Quando era ancora molto piccino aveva iniziato a sognare cose strabilianti e allo stesso tempo terrificanti; quando aveva raccontato i sogni a suo padre e a sua madre, loro si erano terribilmente preoccupati, tanto che decisero di farlo esorcizzare da un prete, ma a nulla servì: Marco continuava a fare quei sogni. Dopo svariati riti di esorcismo, Marco capì di non doverne fare più parola, come una sera gli aveva suggerito sua madre in lacrime, così smise di parlarne ma i sogni continuarono. In essi vedeva il mondo, l'oceano distese di terra, a volte piena di alberi e erba, altre solo come terra spoglia o lava. Gli era successo anche di sognare caverne, danze, canti, templi, offerte, banchetti e case, molte case diverse fra loro. Con lui, però, c'era sempre una persona, ma anche dopo i suoi diciannove anni di età non era riuscito a capire chi fosse, poiché non la vedeva mai se non di spalle.
Sentiva però la sua voce; adorava sognare di quando si parlavano, adorava ascoltare quella voce piena e leggermente acuta, così rassicurante e dolce per lui.
Marco si era chiesto molte volte se avrebbe mai incontrato la persona dei suoi sogni e cosa avrebbe fatto allora, ma finora il problema in sé non s'era posto, con sua grande tristezza.
Quella notte sognò di colline ricoperte di erba, grossi tomi dalle pagine ingiallite e un albero le cui fronde proteggevano dal sole.
Quando si svegliò si sentì rilassato, eppure triste. Non ricordava proprio tutto dei suoi sogni, quanto più gli ambienti, i suoni, e le visioni che gli si erano impresse nella mente; come se non fosse importante ricordare quand'era stato, ma come.
Si vestì velocemente con abiti semplici e uscì dalla porta della servitù di nascosto, prima che il consigliere di suo padre o suo padre stesso lo beccassero, costringendolo ad andare a una di quelle stupide feste e simili.
Stava camminando in Piazza San Marco assorto nei suoi pensieri, quando qualcuno gli venne addosso, cadde sul pavimento in pietra e non poté trattenere un'esclamazione di dolore e sorpresa. Alzò lo sguardo e, preoccupato, si profuse subito in scuse.
«Scusi!», esclamò, arrossendo leggermente.
Due occhi d'ambra lo fissarono e Marco si ritrovò a trattenere il respiro, aspettando qualcosa, mentre si perdeva in quelle due profondità del colore dell'oro.
«Stia più attento», disse brusco il ragazzo, che si alzò e velocemente sparì dalla sua vista. Marco era ancora lì a terra, stordito. Non sapeva chi né come fosse il ragazzo, ma conosceva quella persona: era la sua voce che sentiva nei suoi sogni.
Tornò a casa, incapace di godersi la giornata senza ripensare all'altro che, però, sembrava svanito nella folla. L'avrebbe cercato, ma non avendolo visto bene non era sicuro di poterlo riconoscere. Eppure, qualcosa dentro di lui, diceva il contrario.
«Jean», mormorò, guardando la gente nella Piazza, poi si girò e tornò a casa.
 
***
 
Entrò dalla porta della servitù con la testa affollata dai pensieri, tanto distratto da non sentire i passi di una persona che si stava avvicinando, così, quando suo padre gli fu davanti, non poté far altro che sorridergli colpevole.
L'uomo sorrise in risposta, un sorriso simile a quello di suo figlio ma che Marco, essendo di carattere simile al padre, sapeva bene cosa stava a significare: guai.
Dopo qualche secondo, infatti, il padre gli ordinò di partecipare al ballo che si sarebbe tenuto la sera successiva. Non voglio, diceva, che tutti credano mio figlio uno strambo che gira per Venezia come un mendicante.
Marco non era riuscito a replicare agli ordini e alle parole persuasive dell'uomo, così alla fine fu costretto ad accettare. Amava star con gli altri, era un tipo piuttosto socievole e gentile, ma preferiva di gran lunga stare da solo, girovagare magari per le strade della sua amata città, osservare la gente che passava, parlava o che, semplicemente, viveva.
Dopo aver cenato, andò in camera sua, una grande stanza da letto con un morbido e alto letto a baldacchino, ovviamente fatto in legno pregiato e intagliato e coperto da lenzuola di seta. Sul lato sinistro c'era una piccola scrivania con sopra vari libri, un calamaio e una candela e a fianco c'era una piccola libreria piena zeppa; sull'altro lato c'erano le finestre, ma prima dell'angolo fra il letto – con vicino un mobile su cui c'era un'altra candela – e le finestre c'era una porta che conduceva in una stanza grande e spaziosa i cui muri erano occupati da grandi librerie, mentre al centro c'era un'altra scrivania, solo più grande e più disordinata di quella nella sua camera da letto.
Si spogliò con tranquillità e si infilò la calda vestaglia da notte e i calzoni leggeri, poi si infilò sotto le lenzuola, la candela accesa e lo stoppino sul mobile a fianco a lui.
Per un attimo, mentre guardava la fiamma tremolare, pensò di volerla toccare come un tempo, poi si rese conto del suo strano pensiero e si perse nel fiume dei suoi pensieri.
Spesso aveva dubitato della veridicità dei suoi sogni. Insomma, erano solo sogni, no? Quelle cose non potevano essere successe davvero, eppure, con tutto sé stesso, voleva incontrare nuovamente il ragazzo che possedeva la voce che apparteneva alla figura misteriosa.
Spense la fiamma con lo stoppino e il buio calò nella sua stanza.
Questa nuova vita è come la fiamma di una candela.
E s'addormentò.
 
Il rumore della marcia, i cavalli che nitrivano, l'aria impregnata di urla e sangue mentre delle colonne di fumo iniziavano a comparire nel cielo.
Lui osservava tutto da quella collina, mentre lo aspettava.
Aspettava chiedendosi perché dovesse sempre finire così, sempre.
Le fronde dell'albero che frusciavano con il vento e il rumore del loro fruscio nelle sue orecchie, insieme a quello delle grida e delle risate.
All'improvviso, un cavallo montato da una figura maschile si prospettò all'orizzonte, per un attimo pensò che fosse lui, ma si era sbagliato. Era uno di loro, dei nemici. Appena l'uomo lo vide, seppe che era finita. Non avrebbe potuto ribaltare le sorti, stavolta. E se lui non era ancora arrivato, voleva dire solo una cosa: era morto.
L'uomo si avvicinò e lo infilzò con la spada.
Si spense, ancora una volta, sulla loro collina.
 
Quando Marco si svegliò, il suo umore era pessimo, eppure mascherò tutto con un sorriso gentile e nessuno notò la nota di malinconica tristezza nei suoi occhi.
Ligio al dovere, non provò a scappare da casa e stette tutto il giorno a leggere un libro. Quando arrivò la sera, si preparò. Si mise il completo verde scuro e un cravattino verde chiaro con rifiniture dorate. Quando si guardò allo specchio, vide un ragazzo giovane, quasi uomo, con i neri capelli pettinati indietro e con un viso abbronzato dal sole su cui qua e là spuntavano delle lentiggini.
Scese a prendere la gondola con la madre e il padre, poiché anche loro sarebbero andati alla festa per discutere di affari e divertirsi. Adorava salire sulla gondola e sentire il remo che il gondoliere sbatteva sull'acqua entrare ed uscire a un ritmo costante; sentire l'odore di salato così vicino a lui, vedere la verde acqua sopra cui viveva. Con la sua forma slanciata, l'imbarcazione denominata gondola, era elegante e accattivante, all'estremità della prua vi presenziava il ferro di prua, definito anche “pettine” a causa della sua forma dentata, e mentre la loro non l'aveva, alcune gondole di altre famiglie avevano una piccola cabina al centro di essa chiamata felze.
Passarono davanti alla residenza dei Bevilacqua e al Palazzo della Ca' D'Oro. Venezia ti faceva venir voglia di vivere, di vedere altri luoghi, di imparare più cose possibili. Con la sua particolarità e potenza mista a bellezza era davvero una città magica.
Scesero dalla gondola ed entrarono nel palazzo in cui si sarebbe tenuta la festa, salirono le grandi scale di marmo, rifinite e lucenti, accedendo al grande salone da ballo.
In fondo a esso c'erano dei musicisti che avrebbero allietato la serata e qualche tavolo pieno di rinfreschi e tortini era disposto ai lati insieme alle sedie per le matrone e per le signorine stanche dopo aver ballato troppo o semplicemente per le zitelle che non avrebbero ballato.
Grandi tendaggi vaporosi e colorati, i grandi lampadari a più braccia – appliques – contenevano candele sostenute da piattini e illuminavano la grande sala.
Marco passò la serata a ballare con molte signorine, ma nessuna di loro – nonostante la loro bellezza o intelligenza – riuscì a farlo emozionare. Arrossiva un poco quando gli accarezzavano la spalla o s'avvicinava un po', ma nulla di più di una reazione puramente fisica scaturiva da lui che arrossiva solo per pudore.
Alla fine, sfiancato dai balli e in cerca di pace, sfuggì a un'insistente dama nascondendosi dietro un tendone; quando si girò, andò a sbattere addosso a qualcuno e stava per cadere quando, velocemente, quel qualcuno lo sorresse da dietro.
«Grazie», disse mentre si girava per ritrovarsi davanti un ragazzo leggermente più basso di lui dai capelli color stoppa, ma neri alla radice e dal volto scarno, un poco allungato e virile.
Due occhi del colore dell'ambra lo fissarono e si illuminarono d'ironia.
Un ghigno derisorio si disegnò sul volto del ragazzo davanti a lui.
«Vedo che ha l'abitudine di andare addosso alle persone», disse. Marco avvampò d'imbarazzo, poiché lo sconosciuto aveva ragione, e di rabbia perché non era molto carino fargli notare la sua goffaggine che, stranamente, si manifestava sempre con la stessa persona.
«Mi scusi davvero, sono mortificato», disse, ma quando vide il luccichio di trionfo negli occhi dell'altro non poté trattenersi, «Ma solitamente non sono così impacciato e quando ci si scontra con qualcuno la colpa è di tutte e due le parti».
Aveva parlato con una sfrontatezza che non aveva mai usato prima e stava per scusarsi quando la bassa e calda risata dell'altro, simile a un ringhio rauco, lo raggiunse, facendolo avvampare nuovamente, ma non d'imbarazzo né di rabbia, bensì per l'emozione.
«Il mio nome è Marco», si presentò rosso in volto, porgendogli una mano che l'altro non strinse.
«Jean», rispose guardandolo con diffidenza. «Diamoci del tu, non sono avvezzo all'etichetta, Marco».
«Si sente davvero tanto il tuo accento straniero», osservò Marco.
Jean sembrò offendersi.
«Intendevo dire che è davvero bello, Jean», precisò. Il ragazzo arrossì e distolse lo sguardo e Marco si ritrovò a ridacchiare. Erano dietro una tenda, uno di fronte all'altro, e la persona davanti a lui sembrava timida tutto d'un tratto.
Stare lì con lui lo faceva emozionare.
«Che ne dici di uscire in terrazza?», gli disse. Jean annuì e lo seguì.
Si appoggiarono alla balaustra di pietra che dava sul Canal Grande e osservarono le barche passare. Con il buio che c'era fuori nessuno avrebbe potuto vederli distintamente.
Scese il silenzio fra loro e Marco, nervoso e voglioso di scoprire, si buttò.
«La tua voce mi è così familiare...»
«Anche la tua, così come il tuo nome», borbottò Jean.
«Hai fatto quei sogni pure tu, vero?», gli chiese fissandolo.
«Non so di che parli», ringhiò il ragazzo.
Marco si fece in disparte, mortificato. Abbassò lo sguardo e si perse nei pensieri, dispiaciuto per la risposta rabbiosa di Jean. Forse si era davvero sbagliato.
Ma senza contare il senso di familiarità nei suoi confronti, quel ragazzo provocava in lui emozioni che non aveva mai provato prima, come quella profonda tristezza provata a causa della risposta ricevuta.
Jean sospirò pesantemente.
«Sei tu... Io lo so che sei tu, ma siamo persone diverse, non siamo come in passato».
«Passato?», domandò Marco.
«Sì, ed era destino che ci rincontrassimo, ma non è quello che voglio», spiegò Jean, «Nonostante questo sono felice di averti incontrato», sospirò.
«Anche io», mormorò Marco con un sorriso aperto e solare.
Quando le labbra di Jean toccarono le sue non poté far a meno di lasciarsi scappare un verso di sorpresa, arrossendo completamente.
Anche l'altro ragazzo era molto rosso in viso quando si staccò, la punta del suo naso specialmente, e Marco non poté far a meno di provare tenerezza e una punta di sconcerto a quella vista.
«Hai sognato la tua morte? Almeno una delle tante?», gli domandò Jean, gli occhi dorati che lo fissavano senza pietà.
«Sì», mormorò, pensando al sogno della notte prima.
«Finirà sempre così».
«Non m'importa», si sentì rispondere Marco.
Il sorriso triste che il ragazzo gli rivolse in risposta gli spezzò il cuore.
«Siamo così ingenui ed egoisti ogni volta...», mormorò Jean. Gli occhi stretti abbassati, pieni di rassegnazione e felicità.
E Marco, vedendolo, non poté far a meno di pensarlo nuovamente: Questa nuova vita è come la fiamma di una candela. 

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Capitolo 5
*** Ash ***


Ash

 
Capelli color stoppa neri alla radice, occhi ambrati, un volto virile ma allungato e un naso leggermente all'insù, simbolo del sangue fiammingo che gli scorreva nelle vene insieme al nome che portava: Jean.
Ormai aveva diciannove anni e tutti sapevano che, dopo i tredici-anni, un ragazzo diventava uomo. Da tempo Jean non faceva parola dei suoi sogni con nessuno, già una volta era stato etichettato come matto e non ci teneva a ripetere le esperienze passate così tanto, anzi, per nulla.
Sapeva di avere un carattere tendente all'ira, di essere uno stupido che perdeva subito la pazienza e di avere una maschera di cinismo che copriva il vero lui, quello che a sciocche parole idealiste come amicizia ci credeva davvero.
Ma non aveva tutto il coraggio necessario per dirlo, né voleva. Non era l'epoca, non era il luogo. L'ingenuità era equivalente all'idiozia, in quei tempi.
Era stato cresciuto per diventare il vassallo di un signore, non poteva permettersi grattacapi se voleva diventare cavaliere e non invece un qualsiasi povero fabbro.
A tredici-anni l'avevano mandato a fare lo scudiero e negli anni aveva imparato l'arte della spada e dello scudo, l'arte della cavallerie e delle buone maniere, oltre al codice cavalleresco che da tempo, nemmeno i veri cavalieri seguivano. Passava le sue giornate con il suo signore o con gli altri vassalli e scudieri, gli altri cavalieri assoldati o con i mercenari che stanziavano lì quando era periodo di scaramucce o si prospettava una battaglia più in là.
Poi arrivò lo straniero.
Era un ragazzo più alto di lui, più massiccio, dal volto un po' tondo e scuro di pelle, pieno di lentiggini e dai capelli e occhi neri.
Metà del suo volto era sfregiato da una grossa bruciatura. Arrivò, vestito di abiti semplici e un grosso mantello e una sacca come suoi unici averi. Si fermò alla locanda del villaggio e subito i pettegolezzi si levarono fra la gente, come vide con disprezzo Jean. Odiava che si parlasse alle spalle degli altri, ma allo stesso tempo lo prendeva come qualcosa di naturale. Era la sua natura impulsiva che lo portava a essere una persona tanto onesta quanto diretta, schietta. Non amava sprecare parole se non quando si lanciava in uno dei suoi cinici discorsi, come a ribadire il suo pensiero, rassicurando gli altri che no, non era impazzito né era diventato improvvisamente un'altra persona. Odiava gli idealisti, benché lo fosse pure lui, e forse questo non faceva altro che accrescere l'odio che provava per loro.
E odiò subito quel ragazzo.
Quando lo vide da vicino, capì subito chi era, lui ricordava.
Spesso gli era successo di ricordare prima dell'altro e la cosa gli aveva sempre dato fastidio poiché la prendeva come la testimonianza di sentimenti che tutt'ora non voleva accettare. Ogni volta che si rincontravano iniziava a pensare a lui, al suo sorriso ingenuo, ai suoi occhi neri così profondi e conturbanti, alla sua natura buona e gentile. Non c'era una cosa che odiasse in lui, e quello lo infastidiva profondamente, poiché si sentiva come una vergine al primo incontro con un uomo.
Irritante.
Molesto.
A dir poco seccante.
Molte volte s'era comportato male con lui, ma non riusciva mai ad allontanarsi completamente, si ritrovava dispiaciuto e ferito, e si arrendeva a quello che gli uomini avevano chiamato destino.
Era inevitabile, per quanto provasse a sfuggirlo: si sarebbe compiuto, che lui lo volesse o meno.
Così, quando casualmente lo trovò sulla collina dove scappava quando voleva stare solo, lontano dal villaggio, non si stupì, ma si irritò. Stava per andarsene, quando lui lo fermò.
«Non te ne andare, ti prego».
Jean ritornò sui suoi passi e lo fissò senza ritegno, pieno di rabbia; ma quando incontrò lo sguardo di lui, si arrese. Erano più forti di lui, quei sentimenti.
Avevano attraversato i secoli.
Disgustoso, pensava dentro di sé.
«Cosa vuoi? Io non voglio parlarti».
«Parlare», rispose con naturalezza il ragazzo, arrossendo un poco. «Non conosco nessuno qui».
«Non sono un tipo socievole», disse irritato, ma quando vide il sorriso imbarazzato dell'altro non poté far altro che arrendersi. Merda.
«Cosa ci fa uno straniero come te, qui?».
«Mi ha chiamato mio padre qui».
«Chi è?».
«Il signore di queste parti», rispose l'altro con una leggera amarezza mescolata a un'ammirazione che voleva nascondere, ma non ci sarebbe riuscito con lui. «Non ha avuto figli e sua moglie è morta, si è deciso a chiamarmi».
«Benvenuto, allora». Lo disse con leggerezza e con sarcasmo, ma non si pentì delle sue parole quando l'altro gli rivolse un secondo sorriso, stavolta felice.
«Mi chiamo Marco, qual'è il tuo nome?»
«Jean».
«Jean», sussurrò il ragazzo. Aveva un modo tutto suo di pronunciare quel nome, un modo che a lui era mancato così tanto all'altro.
«Sì, Marco?», chiese scherzando.
«Sei stato gentile a parlare con me, nonostante le tue varie... incombenze?»
«Eh?»
«Qui vicino non c'è un bord--»
«Per la miseria! No! Non stavo...», il volto di Jean divenne completamente rosso e si mise una mano sul viso, cercando di riprendersi dall'emozione. La risata leggera di Marco lo avvolse e poco a poco lo calmò. Non amava che ridessero di lui, ma lui poteva.
Ha sempre potuto farlo lui. Pensò.
Jean era consapevole di essere un debole quando si trattava dell'altro, fin dall'inizio, in sua presenza, s'era fatto trascinare dalla personalità dell'altro così come Marco si era fatto trascinare dal suo ritmo; ma lui, a differenza sua, poteva staccarsene, mentre lui si sentiva terribilmente solo senza l'altro.
Era in vantaggio, insomma. Come in duello: una persona agile avrebbe potuto schivare i colpi facilmente.
Con il passare del tempo, Jean non evitò Marco, ma si aprì a lui come un tempo, mai del tutto. Non gli disse mai le sue vere preoccupazioni, anche se alcune, ne era sicuro, l'altro le carpiva, né dei suoi ricordi.
Qualche volta aveva il sospetto che Marco ricordasse, ma poi esso s'annullava, ripensando alle sue passate reazioni. Ogni volta c'era qualcosa di nuovo, benché nulla cambiasse veramente: loro rimanevano gli stessi.
Quando Jean passeggiava con Marco per le strade del villaggio o nel castello, vedeva gli sguardi indispettiti o schifati che rivolgevano alcune persone alla bruciatura del ragazzo. Jean non poteva non pensare: Deve far male.
Si sentiva stupido, eppure non riusciva a non pensarlo.
Un mattino, dopo un sogno sul loro passato, si ritrovò a piangere per il dolore racchiuso nel suo cuore; aveva sognato una delle innumerevoli morti di Marco.
In ogni vita, lo sapeva, si sarebbero incontrati. A volte era lui a non ritornare, altre Marco, altre ancora nessuno dei due; in nessuna, però, erano stati insieme per quello che gli umani chiamavano “eternità”.
Passava i momenti con Marco con la consapevolezza della loro separazione. Era doloroso vedere il suo sorriso, parlargli, toccarlo... baciarlo. Quante volte l'aveva perso? Quante volte si erano persi?
Ma Jean lo sapeva, sapeva che l'avrebbe sempre cercato, anche ricordando. Non importava quante vite vivessero e perdessero, lui sarebbe sempre ritornato da Marco.
È il nostro destino, siamo come cenere nel vento. Pensò Jean, una notte mentre baciava l'altro. 

 

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Capitolo 6
*** Uniform ***


Glossario
 
Obermann – corrisponde al grado di Assaltatore nelle SS.
Totenkopf – è l'emblema simbolo delle SS.
Mein Kampf – « La mia battaglia » è il saggio attraverso il quale Hitler espose il suo pensiero politico, che delineò in seguito il programma del Partito Nazista.
Prinz Alberecht Strasse 8 - Luogo dove vi era situato lo Stato maggiore personale del Reichsführer-SS, il vero e proprio centro d'influenza nel comando delle SS.

Rottenführer – Comandante di squadra.
Meine Ehre heißt Treue! - « Il mio onore si chiama fedeltà! » è il motto delle SS. 

 
 
Uniform
 

I raggi del sole filtravano dalla finestra inondando di luce la sedia posta vicino a un tavolo grezzo. Sulla seggiola, sopra lo schienale, era appoggiata una divisa nera con una mostrina sul colletto che indicava il grado di Obermann, mentre il berretto nero con sopra il Totenkopf era collocato sul tavolo.
Indaffarato a sbarbarsi canticchiando, guardandosi allo specchio tutto soddisfatto, c'era un ragazzo di diciott'anni. Era alto, magro, le spalla larghe e la schiena dritta, un volto allungato e una pelle bianca tipicamente europea, occhi ambrati orlati da ciglia scure, sopracciglia marroni, capelli color stoppa più scuri alla radice.
Il suo nome era Jean Kirshtein, tedesco per nascita ma di discendenza francese in parte, e quel giorno era entrato ufficialmente nelle SS. Indossava i calzoni neri dell'uniforme che gli fasciavano le lunghe gambe e una camicia dello stesso colore. Un sorrisetto arrogante gli arricciava le labbra fini e ben cesellate, nascondendo la dentatura bianca e perfetta che unita al suo viso allungato gli era valsa il soprannome di Faccia-da-Cavallo. Quell'epiteto infantile e azzeccato non urtava minimamente lo spropositato ego del ragazzo, evidente difetto – o pregio, a seconda dei punti di vista – del suo carattere che pendeva facilmente verso l'ira e il cinismo.
Il motivo della sua felicità era appunto l'essere riuscito a entrare nelle SS, visto che il sogno della sua vita era servire il suo Führer, Adolf Hitler.
Dopo aver letto e ascoltato gli ideali trascritti nel Mein Kampf, s'era convinto della verità delle parole contenute in esso e aveva voluto servire la causa di quell'uomo che ai suoi occhi era un idolo, un uomo nato per guidare l'umanità verso una nuova era.
Dopo essersi infilato la giacca dell'uniforme, le varie fasce e aver indossato il berretto con sopra il teschio simbolo del suo nuovo stato, uscì dal suo appartamento di Berlino e si diresse verso Prinz Albrecht Strasse 8, dove vi si trovava il vero centro delle SS.
Cercò il Rottenführer, trovandolo ancora prima che lo indirizzassero verso di lui, osservando con attenzione le mostrine sulle maniche e quando vide la Sig runica – uguale a quella che aveva anche lui – e le due lineette sulla seconda mostrina capì d'aver fatto centro.
Aspettò di essere chiamato mentre osservava con curiosità il suo diretto superiore, pensando che, una volta avanzato di grado, avrebbe potuto curarsi nell'aspetto e avere una vita stupenda come la sua.
Una volta chiamato, si fece avanti pieno di energia. Il Comandante fece un lungo discorso, congratulandosi con le nuove truppe e accennando brevemente al tatuaggio che presto si sarebbero dovuti fare, lodando il loro coraggio quasi come lo stesso Führer e recitando il motto con tanta convinzione ed emozione che quando toccò a lui non poté reprimere lo scintillio d'orgoglio che gli emerse nello sguardo.
«Meine Ehre heißt Treue!».
Dopo una giornata di addestramento, in cui dimostrò il suo valore come Obermann, fu invitato dal gruppo a bere qualcosa.
Cambiando idea verso metà del tragitto, lasciò i compagni con un leggero cenno del capo e un'occhiata fredda data dal suo carattere scontroso e poco socievole. Svoltando l'angolo, vide un ragazzo accasciato a terra e si avvicinò più per curiosità che per altruismo, mentre il suo buon senso e il suo egoismo gli dicevano a chiare lettere “Cambia strada, non fare l'idiota”.
Il ragazzo era accasciato fra i rifiuti in una posa scomposta, i capelli neri erano tagliati corti e la pelle era leggermente scura, come notò con disgusto Jean. Stava per girare i tacchi quando lo sconosciuto gemette.
Il suono di quella voce gli fece gelare il sangue nelle vene e un piccolo brivido gli percorse la schiena. Si voltò nuovamente verso il ragazzo e lo tirò su, notando subito che era più alto e massiccio di lui. Si soffermò a esaminarne il volto, notando così i lineamenti dolci e tondi, la pelle scura costellata di lentiggini, le labbra piene – sensuali, disse una voce dentro di lui, che ignorò prontamentee il naso leggermente arrotondato e a patata, differente dal suo naso romano un poco all'insù. Era il suo esatto contrario.
«Stai bene?», domandò allo sconosciuto, non riconoscendosi; nella sua mente c'era un conflitto in corso che sembrava stesse perdendo. Dopo aver sbattuto le palpebre, il ragazzo aprì gli occhi, neri come la notte, e lo fissò confuso.
«Cosa ti è successo?», chiese Jean, sentendosi lievemente preoccupato e sconcertato dall'influenza che quello sguardo esercitava su di lui.
«N... Non lo so», mormorò l'altro tossendo.
«Come ti chiami?».
«Io non...», provò a rispondere lo sconosciuto, ma subito emise un verso di dolore che gli fece serrare gli occhi, togliendogli la possibilità di rispondere.
Svenne, ma Jean, vedendo il suo malessere, lo sorresse, preoccupato che sbattesse la testa addosso al muro o sulla strada. Non capiva nemmeno lui la gentilezza che stava riservando a quel ragazzo né l'interesse che sentiva di provare nei suoi confronti.
Sospirò bruscamente quando sentì delle voci, chiedendosi cosa diavolo facesse là, con un uomo privo di sensi fra le sue braccia. Decise in pochi attimi, lo sollevò e lo trascinò nel suo appartamento che, per loro fortuna, non era lontano.
Nonostante Jean abitasse al secondo piano, grazie al fisico dato dall'addestramento, riuscì a portare il ragazzo su per le scale sforzandosi un poco. Cercò la chiave con una mano palpandosi nelle varie tasche mentre teneva l'altro stretto a sé con un braccio e, quando la trovò, emise un verso d'esultanza e soddisfazione – tipicamente maschile – e girò la chiave nella serratura con un sorrisetto stampato sul volto.
Aperta la porta, s'introdusse nell'appartamento, trasportando l'altro verso il grande letto vicino al muro. Lo appoggiò sulle lenzuola dapprima con trascuratezza poi, osservandolo un po', lo sistemò bene. Da quando era così altruista? Quello sconosciuto era impressionante solo per la gentilezza che riusciva a far emergere in lui.
Si spogliò, togliendosi con cura la divisa nera e si buttò nel grande letto, poggiando fra sé e il ragazzo un cuscino come barriera.
Un conto era soccorrerlo, ma dormire con un uomo non era di certo una sua aspirazione.
Nonostante tutto, quando si stese nel letto, si addormentò ascoltando il respiro regolare del ragazzo, non prestando attenzione ai pensieri offuscati dal sonno su lontani ricordi.
Quando aprì gli occhi, vide due profondità nere fissarlo, simili a una notte senza stelle. Si ritrovò risucchiato dalla dolcezza che traspariva in loro, una cosa del tutto innaturale per lui.
«Buongiorno», disse il ragazzo con un leggero imbarazzo, le guance piene di lentiggini arrossate.
Jean si tirò su di scatto.
«Stai bene oggi», affermò, cercando di sembrare freddo e distante com'era sempre stato prima d'allora, anche se in quel momento si sentiva l'esatto contrario.
«Grazie a te, mi hai salvato!», mormorò l'altro.
«Cosa ti è successo?», gli domandò Jean, sentendo la curiosità crescere in lui.
«Sono stato aggredito».
«Da chi?», chiese, sentendo la rabbia bruciargli in petto.
«Non lo so».
«Perché?», continuò insistendo.
«Sono ebreo», fu la risposta del ragazzo.
In quell'esatto momento Jean sentì il mondo cadergli addosso, schiacciandolo con il suo enorme peso. Dalla pelle scura aveva subito pensato a quell'opzione, ma non aveva voluto crederci, pensando di non poter essere così stupido da soccorrere uno di razza non ariana.
«Tu devi andartene», ringhiò, «subito!»
«Perché?».
«Non accetto ebrei in casa mia», rispose.
«Tu mi hai salvato, cosa è cambiato ora che sai la mia religione?»
«Cambia, ora vattene», gli ordinò.
Il ragazzo si alzò dal letto e si mise in piedi, ma subito le ginocchia gli cedettero e crollò.
Provò a rialzarsi, ma Jean vedeva la fatica che faceva e il tremito che sconquassava il suo intero corpo.
«Merda!», grugnì alzandosi dal letto, «Lascia perdere, sei ancora troppo debole».
«Me ne voglio andare», rispose il ragazzo.
Jean, incredulo, si girò verso di lui così vide l'espressione seria e determinata dell'altro.
«Non ce la fai a reggerti in piedi», gli fece notare.
«Non è importante».
Jean sospirò pesantemente, chiedendosi perché all'improvviso avesse tirato fuori tutta quella testardaggine inutile. Poi sogghignò, lui, il “Re dei Muli” – come lo chiamava sua madre – si chiedeva il perché della cocciutaggine dell'altro.
Si avvicinò a lui e lo prese sotto le scapole, con uno sforzo fisico lo appoggiò nel letto senza dire niente. Quando lo guardò, vide il volto arrossato d'imbarazzo.
«Non dirmi che sei anche uno di quelli», disse.
«Quelli?», chiese l'altro innocentemente.
«Se non lo sei, meglio così», esclamò. Un ebreo in casa sua era già un'idea strana e c'avrebbe messo molto ad abituarsi, o almeno era questo quello che pensava quando non lo guardava, ma quando si girava e incontrava i suoi occhi quei pensieri sparivano e un sentimento strano gli prendeva il petto, mentre la curiosità se lo mangiava vivo.
«Grazie», mormorò l'altro.
Jean alzò le spalle e si diresse verso la cucina nell'altra stanza.
«Starai qui finché non te ne potrai andare, ma poi basta», specificò, ma sentiva le bugia insita in quelle parole. Poi fu fulminato da una rivelazione che lo fece ridere un poco, finché non tornò in sé e vide lo sguardo del ragazzo puntato su di lui. Esso conteneva vari sentimenti tra cui la felicità e la curiosità. Chiedeva chiaramente: “perché stai ridendo?”.
«Stavo pensando che non so ancora chi sei. Qual è il tuo nome?»
«Marco».
E quel nome suonò perfetto.
«Ti sta bene», mormorò Jean, poi si diresse verso la cucina, cercando di concentrarsi su quel che doveva fare.
 
Finito di far colazione, decise di prepararsi. Aprì l'armadio e tirò fuori la divisa e il berretto e li poggiò con estrema cura sul tavolo.
«Sei una SS», mormorò Marco con gli occhi spalancati e bianco in volto.
«Sì, e sono felice di seguire il Mein Führer», rispose Jean indossando i pantaloni neri sopra la spessa biancheria intima.
«Sei diverso da quel che credevo».
«Che intendi?», chiese Jean mentre si infilava la camicia, attento ad abbottonarsi con ogni cura.
Voleva far bella figura nella sua divisa, forse così avrebbe trovato una bella ragazza da sposare.
«Una SS che aiuta un ebreo? Dai, sembravi solo uno schivo, non un fanatico», disse senza peli sulla lingua il ragazzo.
Jean si girò e in due passi fu davanti a lui; lo prese per il colletto della camicia con espressione rabbiosa che però non riuscì a mantenere.
Come poteva non provare rabbia nei suoi confronti? L'aveva insultato! Ma più lo osservava più si rendeva conto di che razza di idiota fosse. O almeno così si sentiva.
Sentì un peso crollare sulle sue spalle e – non per la prima volta – si chiese se quelle parole ispiratrici e carismatiche fossero vere e giuste, ma poi, per testardaggine, si disse che non stava sbagliando niente e che quell'insulto era solo quello di una persona appartenente a una razza inferiore, se di persona si poteva parlare.
«Uno come te non può capire», ringhiò, lasciandogli il colletto con un gesto ampio e violento, quasi uno strattone. Il silenzio scese fra loro, finché lo stesso Marco non lo chiamò.
«Perché hai deciso di unirti alle SS?», gli domandò.
«Perché ci credo, credo nelle parole del Cancelliere».
«Anche se implicano la morte di altri? Il togliere la vita a degli innocenti?»
«Innocenti? Altri? Io vedo solo una razza inferiore che merita di essere sterminata». Ma Jean non lo pensava davvero. Per quanto potesse ritenere superiore la razza ariana, non era preparato ad ammazzare gli altri, per quanto inferiori fossero rispetto agli ariani puri. Eppure, presto lo sarebbe stato, ne era sicuro. O almeno questo era quello che cercava disperatamente di provare, sia a Marco che a sé stesso.
«Non lo pensi veramente», disse l'altro.
«Tu non mi conosci».
«Non adesso».
«Che intendi?», domandò Jean sorpreso.
«Non lo so, ma ne sono... sicuro, in qualche modo».
Gli occhi neri di Marco lo fissavano, irremovibili, seri e convinti. Non stava inventando né dimostrava alcun rimorso o paura. Lo affrontava senza un minimo segno di pentimento.
Come fa a essere così sicuro di sé?, si domandò Jean.
«Pazzo», lo insultò, ma l'altro non rispose e lui non se la sentì di continuare; prese quindi la giacca, se la infilò insieme alle varie mostrine, si mise il berretto con il simbolo del teschio, chiamato Totenkopf, e se ne andò.
 
Era sera quando Jean tornò nel suo appartamento, per tutto il giorno – dopo la conversazione con Marco – era stato nervoso e di malumore. Durante la giornata, aveva dato la colpa a Marco per i dubbi che l'avevano assillato per tutto il tempo, perché erano spuntati solo dopo la loro conversazione e le affermazioni insinuanti dell'altro.
Quando tornò a casa lo trovò seduto al tavolo che, con occhi tristi, osservava fuori dalla finestra.
«Dimmi, perché pensi che sia sbagliato il pensiero del Führer? O forse è per la tua origine di razza inferiore?», gli domandò aspramente. Quella conversazione era l'ultima trincea di Jean e lui aveva deciso di abbatterla o di rafforzarla in un ultimo tentativo.
«Uccidere la gente perché la sua pelle ha un colore diverso, perché è di origine diversa, perché serve un Dio diverso... Non ti sembra semplicemente sbagliato? Tu, fra tutti, dovresti capirlo, Jean», fu la risposta di Marco.
«Che intendi? So che l'altruismo non è fra le mie qualità».
«Tu non sembri una persona forte, e questa è la tua grande qualità, poiché riesci a capire come si sentono i deboli – visto che anche tu, almeno in parte – sei come loro. Ed è per questo che mi hai aiutato, anche se la tua testa diceva di no».
Jean non riuscì a negare quel discorso, sebbene non capisse cosa c'entrasse con la dottrina nazista in cui credeva. O forse, era già arrivato al “a cui aveva creduto”?
«Tu non permetteresti l'oppressione dei deboli senza motivo né uccideresti un uomo innocente», gli disse Marco, fissandolo con quei suoi sinceri e profondi occhi neri, e Jean non poté distogliere lo sguardo.
«Sono onorato che tu abbia una così alta opinione di me, ma...», provò a ribattere con il sarcasmo, ma le parole morirono nell'aria, lasciando solo il vuoto che era in loro.
«Visto?», fu la semplice domanda di Marco.
E Jean non poté far altro che sospirare e arrendersi.
 
Col passare del tempo la vera opinione di Jean venne fuori, così tanto che gli fu difficile nasconderla agli altri suoi “compagni”. Ogni volta che sentiva un discorso pieno di arroganza e boria, sentiva la rabbia ribollire dentro di lui, mentre le sue mani prudevano dalla voglia di attaccar briga. Poi si domandava: Anche io ero così cieco?
E quando la risposta arrivava – un secco sì nella sua mente – si calmava.
Il volto lentigginoso e scuro di Marco, i suoi occhi tranquilli e neri come la notte e il suo sorriso sincero e aperto gli tornavano in mente durante il giorno e si ritrovava ad arrossire e a sorridere come uno sciocco.
Possibile? Possibile che si fosse innamorato di un uomo? Era diventato uno di quelli? Quando ci pensava, quando vedeva qualcuno di loro, non poteva non sentirsi a disagio, ma non sentiva più il disgusto di prima. Forse la sua mente si era finalmente aperta a una nuova prospettiva o forse, semplicemente, voleva illudersi che fosse così.
Tornato a casa trovò Marco, che finalmente riusciva a stare perfettamente in piedi senza sentirsi debole e dolorante, che cucinava la cena. Sentendolo arrivare si voltò e gli rivolse un aperto sorriso.
«Bentornato, Jean», gli disse con quel suo tono di voce calmo e dolce.
«Hai lasciato di nuovo la finestra aperta, Marco? Ti ho detto che è pericoloso!», lo rimproverò. I controlli e le proibizioni stavano drasticamente aumentando e i lager, costruiti su ordine di Hitler, si stavano presto riempiendo di ebrei strappati alla loro vita quotidiana, ma anche di persone che il Führer riteneva colpevoli.
Giusto ieri aveva visto delle SS trascinare via un ragazzino zingaro. Il bimbo piangeva e chiamava sua madre, ma nessuno – nemmeno una delle donne che passavano di lì – intervenne. Jean, nascosto dietro un muro, tirò un sasso in testa a uno delle due SS e il piccolo ne approfittò: morse quello che lo tratteneva e fuggì.
Aveva rischiato molto, eppure ora si sentiva meglio; per troppo tempo aveva chiuso gli occhi di fronte a quelle ingiustizie, nascondendo il vero sé stesso sotto un finto velo di fanatismo e d'arroganza. Ora si sentiva così stupido.
«Scusami», disse Marco appoggiando i piatti con la cena sul piccolo tavolo, «ma nessuno penserà che un ebreo è nascosto a casa di una SS, no?».
Jean sorrise leggermente, poi si avvicinò all'altro e gli diede una leggera pacca – che somigliava a una goffa carezza – sulla nuca.
«Stupido», borbottò Marco, cercando di darsi un contegno, visto il volto rosso e imbarazzato.
Mentre mangiavano chiacchierarono allegramente, come se quei momenti, e forse così era, fossero solo per loro. Nessuno esisteva al di fuori, nessuno ricercava Marco, nessuno imponeva una vista orrenda a Jean.
«Marco», lo chiamò all'improvviso, il volto serio e il sorriso che un attimo prima aleggiava su quelle fini labbra svanito nel nulla.
«Uhm?».
«Voglio scappare... Sono stufo di questa vita, di essere una SS», disse, vedendo l'espressione dell'altro, decise di chiederglielo: «Vuoi fuggire insieme a me?»
«Jean...».
«Potremo vedere cose nuove!», insisté Jean, poi appoggiò la mano sopra quella scura dell'altro, e lo fissò negli occhi, «Allora?».
«Lo voglio, Jean», mormorò Marco, gli occhi lucidi d'emozione.
Jean si alzò e andò ad abbracciarlo forte a sé, deciso a non nascondere più i sentimenti che dal primo momento aveva provato nei confronti di Marco.
 
Passarono due mesi nei quali prepararono la fuga; si fecero dei documenti falsi e si organizzarono a sparire nel nulla, senza lasciare traccia di loro. Presero solo le cose essenziali: qualche soldo, qualche vestito, del pane. Nessun oggetto pesante o grande.
«Jean, voglio andare a prendere una cosa», gli disse Marco il giorno prima di partire.
Lui non voleva, ma l'altro non ascoltò ragioni.
«Devo mostrartelo. Riguarda noi due», insistette il ragazzo, fissandolo con espressione determinata.
Jean si arrese, consapevole di non poter convincere Marco quand'era così deciso.
«”Fai attenzione” ti aspetti davvero che ti dica una cosa simile? Vengo con te, cretino».
Marco protestò, ma stavolta fu Jean a non sentire ragioni.
Lo baciò sulla guancia – il primo vero contatto intimo che gli concedeva – e Marco arrossì, per poi arrendersi con un leggero sorriso.
«Non cambierai mai», mormorò, prima di rubare un bacio dalle labbra sorridenti di Jean.
 
La strada era deserta quando Jean e Marco si inoltrarono nella zona ebraica. Non si vedeva più nessuno in quel quartiere, prima animato dalla gioiosa risata dei bambini, dai passi delle madri che andavano a comperare il cibo per il pranzo e la cena e dai discorsi degli uomini.
Marco entrò in una piccola casa, seguito a ruota da Jean. Aprì la porta con una chiave che l'altro non aveva mai visto e si introdusse dentro.
L'interno dell'abitazione era spoglio e i mobili erano rovesciati o distrutti. Molte decorazioni in onore del Dio degli ebrei erano sfasciate o sul pavimento.
«Che schifo», brontolò Jean vedendo una bambolina di pezza con su scritto un'oscenità. Era di certo opera di qualche fanatico nazista, probabilmente della stessa polizia.
Marco sparì in una stanza adiacente e pochi secondi dopo ne uscì con una collana.
«Andiamo», sussurrò Jean, sentendosi a disagio. Qualcosa gli urlava di scappare, di andarsene subito, di fuggire velocemente da quel posto.
Quando furono di nuovo in strada, si guardò attorno e allora li vide.
In pochi minuti molti uomini furono su di loro e neanche l'addestramento di Jean né la prontezza di Marco riuscirono a salvarli.
Furono catturati e cloroformizzati.
 
Quando aprì gli occhi era disteso sul pavimento e una fila di persone e soldati lo guardavano come se fosse un verme. Vide gli occhi degli ufficiali luccicare, deliziati dallo spettacolo di fronte a loro.
Si alzò e sentì le manette che gli legavano i polsi, il corpo dolorante e le ferite sanguinanti.
«Aiutare un ebreo a fuggire e non solo... Jean Kirshtein, da lei non me lo aspettavo proprio, vista la sua discendenza», annunciò l'ufficiale con il grado più alto fra tutti.
«Non ha niente da dire a sua discolpa?», domandò un'altra persona.
Jean non rispose, si limitò a fissarli uno ad uno, chiedendosi se davvero non vedessero la scorrettezza delle idee del loro Führer, se non vedessero la stessa pazzia e lo stesso odio che aveva visto lui.
«La condanniamo a essere torturato e fucilato per alto tradimento», disse poco dopo.
Jean tremò, ma poi sorrise arrogantemente. La morte lo spaventava, ma piuttosto che vivere una vita vuota come la loro, morire gli sembrava dolce.
Marco fu trascinato, sanguinante e pesto, senza un braccio – fasciato senza cura – e con un occhio completamente rosso a causa del sangue.
«Marco», sussurrò. Poi vide il sorriso di uno degli ufficiali e si pentì, capendo di aver dato soddisfazione a quelle insulse persone.
«Sarà in un'altra vita, Jean», fu la risposta sussurrata di Marco, che nessuno notò o sentì a parte lui.
Un'altra vita?, si domandò fugacemente.
Marco fu posizionato contro il muro di spalle.
Poi lo fucilarono.
Jean gridò, gridò così tanto che la voce gli mancò. Insultò gli ufficiali, sputò addosso a uno.
E quando vide che quell'uomo – offeso per lo sputo – aveva intenzione di ucciderlo, se la prese solo con lui. L'ufficiale ci cascò, reagì e gli diede quello che voleva con la crudele lentezza tipica dei sadici.
Gli sparò alle gambe, poi alle braccia e infine al petto.
Nell'altra vita, Marco, pensò Jean.
Infine fu il buio.

 
 

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Capitolo 7
*** Dreams ***


Questo è un capitolo diverso dagli altri. Ho deciso di scriverlo così, di dargli questa fine e spero che la storia vi piacerà lo stesso, anche se ho addottato questo stile.
(*Piccolo appunto* I pezzi delle canzoni sono presi da: E.T. - Katy Perry, Moondance - Micheal Buble e Midnight Romeo dei Coldplay)




Dreams

  

Per troppo tempo ci siamo inseguiti senza restare uniti, ricordando di volta in volta le nostre vite precedenti, e con esse i nostri sentimenti... 



Occhi neri come la pece, come due buchi neri, nascosti dietro le lenti di spessi occhiali neri, che ti risucchiano senza via di scampo. 
«Merda!», bofonchi, mentre l'altro arrossisce. Lo riconosci, sai che è lui e quando ti guarda, sai cosa sta per dire, cosa le sue labbra stanno per articolare.
«Jean.», sussurra infatti, con quel suo unico modo di pronunciarlo.
«Marco.», è come un ansimo il tuo. E il suo nome per la tua lingua è come miele colato, come il cioccolato sulle fragole. 

 

You're so hypnotizing 
Could you be the devil, could you be an angel...

 

«Stai scrivendo cosa, Marco?», ti domanda con un sorriso dolce; quel sorriso che è così strano sul suo volto per gli altri che lo conoscono, ma che per te è semplicemente familiare. È casa, quel suo sorriso, così come il suo cipiglio e quello sguardo dorato, magnetico e duro. Anche la piega delle sue labbra è dura, sensuale. 
«Niente.», rispondi con un sussurro, arrossendo, incapace di nascondere i pensieri che si scrivono sul tuo volto scuro e lentigginoso, mentre Jean ghigna, leggendoti.

 

They say be afraid 
You're not like the others...


«Buon Natale, Jean.», mormora. Il suo volto è completamente rosso, e la colpa è di quel bacio che ti ha dato, così innocente e puro. Lo è sempre stato. Lo sai. 
«Buon Natale, Marco.», sussurri, mentre appoggi la tua fronte contro la sua. Alzi lo sguardo e ridacchi.
«Cosa c'è?», chiede Marco.
«Guarda lassù.», dici, indicando il vischio sopra di voi. «Non hai affatto un pessimo tempismo.», affermi, sorridendo di quel tuo solito ghigno. Una volta esso spaventavano gli uomini, una volta era il sorriso associato al Dio del Tartaro. 
Marco scoppia a ridere e ti abbraccia più stretto, un sorriso aperto sul volto. 
Metti una mano in tasca e tiri fuori quel che vuoi dargli: il tuo regalo. È un'agendina nera, una specie di piccolo diario, simile a quelli che Marco riempie sempre. 
«È bellissima.», mormora lui mentre l'accarezza, gli occhi lucidi. 
Santa Merda, pensi dentro di te. Oh, infondo è Natale. E lo baci. 

 

Can I just have one a' more moondance with you, my love
Can I just make some more romance with you, my love...

 

Jean è completamente ubriaco, il suo volto rosso e i suoi occhi lucidi ti fanno ridere. Sta cantando una famosa canzone natalizia – stonandola come pochi – e ridendo fra una frase e l'altra, mentre i vostri amici ridono e battono le mani. Loro non ricordano il prima, lo sai.
Molti non lo ricordano.
«Marco, fermalo! Ti prego!», esclama uno.
Ridi e ti alzi.
«Non credi sia ora di lasciare il microfono?», gli domandi.
Jean sorride e si lecca le labbra.
Arrossisci.
Lui usa sempre dei trucchetti, lo sapevi, e li adori. Tutti, specialmente quelli che con l'arguzia – che anche Jean possiede, ma non usa – li rivolti contro di lui.
«Ehi, ehi, mancano 12 secondi, facciamo il countdown!»
11...
I tuoi occhi sono fissi nei suoi.
10...
Si stacca dal microfono e dal karaoke per il sollievo di tutti, che però sono impegnati a contare.
9...
Le sue labbra.
8...
Il suo volto.
7...
È un anno.
Da quanto non passavate un anno insieme?
6...
Forse non l'avevate mai passato.
5...
Sempre lontani, sempre distanti.
4...
Non siete mai potuti stare insieme per molto.
3...
Tranne che all'inizio, ma tu volevi di più. Volevi quello.
2...
È difronte a te, le vostre mani che si cercano.
1...
E ti bacia.
Buon anno nuovo, pensi, mentre ricambi, mentre le vostre lingue si intrecciano, mentre i vostri corpi si toccano e stavolta non sarà per l'ultima volta prima della prossima.

 

My heart is beating fast but my hands are moving slow
(Oh, Woah)
Feels so right you just can’t say no...

 

Controlli di essere solo in casa, prima di portare alle labbra la leggera striscia di pelle che è il tuo nuovo braccialetto. Ha il suo odore, è un suo regalo. Lo ami, non c'è che dire. Arrossisci dopo il tuo gesto, imbarazzato. 
La porta si apre e Marco ti vede. Sorride innocentemente e tu non puoi far a meno di sentirti imbarazzato a morte.
«Ugh, vorrei sotterrarmi...», mormori. 
Marco ride. «Sei davvero dolce, Jean.».
«Tu!», urli, ormai non hai speranze. Sai che il tuo volto rimarrà rosso per un bel po', forse per anni. «Piccolo demone! Lurido finto santo!», lo accusi. 
La risata di Marco, calda e dolce, ti sfiora e sprofondi nella piacevolezza della felicità. Solo con lui sei completo. 

 

Tell me baby, are we more than friends...



Mano nella mano i due ragazzi passeggiano, disinteressati ad alcuni sguardi curiosi, ad altri gentili, felici, che si crogiolano del loro essere normali, rilassati, ma sopratutto innamorati. Si guardano e si sorridono, chiunque li veda non può far a meno di notare quanto naturale sia per loro, quanto l'uno tenga all'altro. Perfino il ragazzo dall'aspetto lugubre sorride, e sembra davvero felice, insieme al ragazzo più alto e dall'aria ingenua, che lo guarda con occhi dolci. 
Sono così innamorati da far quasi schifo, così tanto che fra gli sguardi della gente ce ne sono alcuni gelosi, ma in senso buono. I due parlottano fra loro, litigano. 
«Jean, è tutta colpa tua!», lo accusa quello più alto.
«Sì, ma Marco, porca vacca io non...», prova a difendersi Jean, usando il suo solito linguaggio scurrile. Eppure, anche mentre bisticciano, non si lasciano le mani e i loro sguardi non si staccano mai per davvero. Camminano per strada sotto la luce del sole estivo, portando segreti e epoche remote, pieni di amori tragici e sentimenti complessi, dentro di loro.
Sono cose che nessuno saprà, ma che tutti vedranno. 
E ora avrebbero vissuto il loro sogno. 

 

«Staremo insieme fino alla fine dei tempi.»
«È il nostro destino.»

 
 

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