Looking For A Place To Shine

di JonS
(/viewuser.php?uid=133636)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Passato, Lanterne e Paure ***
Capitolo 3: *** Il Veterano ***
Capitolo 4: *** Capitolo I - Nel cuore della notte ***
Capitolo 5: *** Capitolo II - Dillo Per Tre Volte ***
Capitolo 6: *** Capitolo III - Attenta A Quello Che Desideri ***
Capitolo 7: *** Capitolo IV - Seconda Stella A Destra ***
Capitolo 8: *** Capitolo V - Il Volo, le Speranze, l'Arrivo ***
Capitolo 9: *** Ognuno Ha I Suoi Demoni ***
Capitolo 10: *** E vissero per sempre... ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
 
LOOKING FOR A PLACE TO SHINE

 
 
Prologo
 ia nonna mi raccontava sempre una storia" disse Emilia stringendosi nelle spalle e accomodandosi su di una poltrona dallo stile vittoriano, posta accanto a una finestra che dava sulla macchia che circondava la casa. "Diceva che ogni uomo, donna o bambino che viene al mondo deve sottostare alle leggi del fato." Proseguì, rannicchiando le gambe magre sulla poltrona. I piedi, nudi, erano bianchi. "Ma che ognuno può riscattarsi, vincere la propria sorte ed essere padrone del proprio destino. E, se questo non dovesse bastare, diceva lei, si può sempre contare sui folletti." Sorrise, guardando dalla finestra, perdendosi in quella boscaglia multicolore, correndo con lo sguardo là, alla cima della collinetta e poi al oltre, fino quasi a toccare il centro della terra. 
"I Folletti?" La vocina stridula che proveniva dall'altro lato della stanza apparteneva ad un ometto tarchiato con il doppio mento. Il suo nome era Victor McKavy: un eccellente psichiatra scozzese, la cui fama come dottore era seconda solo a quella di bevitore. 
"Si, i folletti. Uno in particolare, di cui non ricordo il nome… ma sa, la leggenda vuole che quando si è in cerca di una soluzione, questo possa arrivare agevolmente alla testa e sciogliersi nella bocca, incantando la lingua e facendola muovere per pronunciare finalmente le lettere e urlare il suo nome." Emilia guardò il dottore, zittendosi, come in cerca di un'altra domanda che non arrivò. 
A interrompere i due ci pensò la campana del pranzo. Inutile dire che il dottore parve rinvigorito da quel suono angelico, che annunciava una delle tre ore da lui preferite del giorno. Fece per alzarsi, ma i braccioli della sedia non aiutarono la sua possente mole ad uscire con grazia dal loro abbraccio. Emilia si fece scappare una risata che trattenne quando l'altro, uscito dalla presa, le rivolse uno sguardo ammonitore. 
"Vogliate scusarmi signorina" fece, alzando il primo dei due menti che nascondevano il collo. "Dopo di voi." riprese, indicandole l'uscita con la mano tesa. "Oggi proveremo ad uscire, che ne dite signorina?" 
Emilia scosse il capo. 
"Facciamo domani dottore." disse lei con aria affranta. 
"Almeno venite a salutarmi come si conviene alle ragazze della buona società!" fece lui, sbiascicando le parole con l'accento che lasciava ben pochi dubbi sulla sua provenienza. 
Emilia si alzò dalla sedia e lentamente andò verso McKavy. Quando gli fu vicina gli tese la mano per stringere nella sua quella del dottore, in segno di saluto. L'altro, per risposta, indietreggiò attraversando la soglia, due passi oltre quella e poi tese la mano a sua volta. 
"Coraggio, Miss Emily, prendete la mia mano." 
L'arto teso della giovane prese a tremare, gli occhi si sgranarono e le guance rosee sbiadirono, raggiungendo il candido pallore del resto del corpo. Emilia provò ad avanzare di un passo, il medio della mano attraversò la linea di demarcazione segnata dalle diverse mattonelle tra la stanza e il corridoio al di fuori di essa e lì si fermò. 
McKavy sorrise, pregustando la piccola vittoria che stava per ottenere, ma prima che questa avesse luogo il braccio di Emilia si ritrasse.
"Magari domani, dottore." disse, chiudendo la porta in faccia al povero psichiatra, che andò a consolarsi con i pasti caldi della mensa.

 

Note Autrice: Questa storia è stata scritta principalmente per partecipare ad un contest sul forum di EFP e cioè QUESTO.  I protagonisti dovevano essere scelti tra una lista di fiabe, io ho scelto Rapunzel, Peter Pan e il personaggio di Rumpelstiltskin.
I Prestavolto della storia sono: Emilia (Carey Mulligan), John Hook (Benedict Cumberbatch), Rumpelstiltskin (Tom Hiddleston) e  Peter Pan (Evan Peters).
Spero possa piacervi :)
Un bacione e un grazie a tutti quelli che commenteranno o solamente leggeranno la storia <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Passato, Lanterne e Paure ***




Passato, Lanterne e Paure

milia si ritrovò a fissare il soffitto della sua stanza, la schiena poggiata contro il legno scuro della porta, unico sbarramento tra lei e il resto del mondo. 
Ormai erano dieci anni che non usciva di lì. 
Emilia ricordava a stento l’ultima volta che aveva toccato l'erba e sentito il rumore delle strade e della vita, che continuava il suo ciclo perenne fuori dalle mura della sua dimora nelle campagne londinesi. 
La casa di cura Mary Goldfree era situata in una posizione strategica: a nord est di Londra, in un luogo che molti credevano essere un toccasana per curare i mali della mente. E forse avevano pensato che Emilia sarebbe potuta guarire dalla sua paura, che un giorno sarebbe tornata a camminare per le strade, a conversare nei salotti dell'alta società e a trovarsi un buon marito. Ma così non era stato e più tempo Emilia passava in quel posto, più le sue paure crescevano.
Tutto era iniziato nel luglio del 1940, durante la prima serie di bombardamenti che colpirono la città di Londra. 
Emilia era solo una bambina quando le bombe cominciarono a piovere dal cielo, in una notte calda. Una pioggia di lanterne che volavano per lei, per festeggiare il giorno del suo nono compleanno, per farla sentire speciale: fu questo che pensò all’inizio. Ed invece una di quelle si infranse sulla casa dei Peterson, distante solo pochi isolati dalla sua. 
Il rumore era assordante, le ville si sgretolavano sotto il peso delle esplosioni, interi castelli di mattoni e pietre cadevano come carte al vento; dalla finestra della sua camera, situata all'ultimo piano in una stanza mansardata, la più alta rispetto alle altre, poteva vedere le persone correre in fiamme, come lucciole che si inseguono nel buio della notte.
Ricordava che sua nonna era entrata in camera sua, piangendo, e l’aveva tenuta stretta finché non cessarono i bombardamenti e la notte tornò priva di luce e piena delle grida disperate dei superstiti. Solo allora Adeaide, sua nonna, si era alzata tremante ed era andata verso la porta. 
"Resta qui dentro Emilia, non uscire per nessun motivo, mi hai capita?" aveva detto, ed Emilia aveva annuito piangendo.
Sua nonna non era più tornata. Era morta in seguito al crollo di una parte della casa, sotto il quale erano sepolti anche il padre e la madre di Emilia, rimasta ormai unica erede di una notevole fortuna e di un ampio terreno. 
Ad occuparsi dei suoi beni fu un suo zio prete, mister Binghelly, del Sussex. Fu lui a trasformare la dimora di Emilia nella casa di cura dove ella stessa era andata ad abitare. L'edificio era stato ricostruito e ammodernato tutto a eccezione dell’ultimo piano, dove risiedeva Emilia. Lassù, un’intera ala era interamente occupata da calcinacci e macerie, che attendevano solamente i fondi necessari per il restauro. Poche stanze erano ancora agibili, e non avevano nulla di salutare. 
Poi c’era la scala, integra come lo era stata prima dei bombardamenti, che serpeggiava oltre il tetto e su, nella torretta lasciata a vedetta: quella era la stanza dove Emilia aveva abitato negli ultimi dieci anni. L'ingresso era nascosto ai più da un quadro che ritraeva i genitori di Emilia; solo in pochi sapevano della sua esistenza, e perfino il personale ospedaliero era incuriosito da chi o cosa abitasse la torre.

Emilia era ormai stanca dei continui tentativi dello zio di farla uscire dalla stanza: lì si sentiva al sicuro. 
Finché non fosse uscita sarebbe certamente rimasta in vita. Non come sua nonna.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Veterano ***


 
Il Veterano

 rano passate due settimane da quando il dottor  McKavy aveva gettato la spugna e aveva dato le dimissioni, sostenendo che il caso di Emilia era irrecuperabile e che valeva la pena lasciare che la poveretta vivesse lassù per il resto dei suoi giorni.
Quel venerdì mattina Emilia si alzò dal letto con il sorgere del sole ed aprì le finestre, che davano sulla fitta boscaglia; la luce del sole nascente le illuminava la candida pelle rendendola dorata. Gli occhi ghiaccio percorsero l'infinito ambiente che la circondava.
Respirò a pieni polmoni l'aria gelida del mattino, socchiudendo le palpebre e lasciandosi trasportare dal rumore degli uccelli, delle foglie mosse dal vento e, ancora più lontano, dal tenue eco di voci e veicoli della città.
Sorrise, accennando quel movimento come se i muscoli del viso fossero ancora addormentati, troppo per poter rispondere agli impulsi di una mente rilassata. Ad attirare la sua attenzione fu il rumore di un auto che percorreva il vialetto d'ingresso: ne seguì l’eco muovendo la testa verso sinistra fino alla finestra che dava sull'ingresso. Corse a vedere chi fosse, pensando che, probabilmente, di lì a poco avrebbe conosciuto un altro dottore, mandato a chiamare per lei da suo zio. In effetti ad accoglierlo lungo la scalinata d'ingresso c'era proprio lui, con il suo immancabile completo scuro. 
L'uomo che uscì dall'auto era alto e dai capelli castani. Insieme a lui c’era una donna bionda, che si avvicinò a suo zio per stringergli la mano,  mentre l'altro rimaneva più indietro, dritto come uno stecco, lo sguardo fisso in avanti. Sembrava una statua agli occhi di Emilia, che distolse lo sguardo da lui, sporgendosi dalla finestra della sua stanza per studiare i movimenti dello zio e della sua interlocutrice. Quando tornò a concentrarsi sul nuovo giunto, fu sorpresa di vedere che il volto dell'altro era puntato verso la finestra da cui ella si sporgeva. 
Emilia rimase con gli occhi sbarrati e si affrettò ad allontanarsi dal vetro di qualche passo; quando poi tornò a sporgersi l'auto non c'era più, e con lei nemmeno l'uomo.

Quella sera suo zio andò a trovarla in camera.
"Emilia!" chiamò dall'altro lato dell'uscio chiuso. "Sono Hector, vostro zio." fece, alzando ancor più la voce, ribadendo il suo titolo di parentela. "Siete presentabile?" domandò ora in tono più basso, dandole del lei, un vecchio lascito di quel passato che sembrava non voler abbandonare. 
"Entrate pure zio." rispose Emilia, non scomodandosi di alzarsi dalla poltrona che teneva vicino alla finestra, aperta benché fosse freddo. 
"Oh, per l'amor del cielo, figliola, chiudete quella finestra." bofonchiò il prete entrando nella stanza "Si gela qui dentro!" Emilia seguì il consiglio e chiuse i battenti 
"A cosa devo l'onore della vostra visita? Sono mesi che non vi vedo." Emilia ora stava dritta, la veste bianca che le lasciava scoperte parte delle caviglie e i piedi, celati alla vista dai calzettoni in lana grigia. 
"Abbiamo problemi di spazio." Schietto Hector iniziò il suo discorso, storcendo il naso alla vista dei calzettoni della nipote. "E problemi di fondi. Sapete, dopo la guerra è stato difficile tirare avanti e aiutare la povera gente, e ..." 
Emilia lo interruppe. "Arrivate al punto, zio!" fece sbrigativa all'altro, che incrociò le mani in un intreccio nervoso. 
"So che è disdicevole, ma ho pensato che dato che voi non uscirete comunque di qui, non dovrebbero esserci problemi a..." fece una pausa, abbassando lo sguardo “a far occupare questo piano a un altro paziente." 
Emilia sgranò gli occhi. "Davvero questo è il vostro problema?" Rise verso lo zio, che sudava a freddo. 
"Vedete, figliola, è che quest'uomo potrebbe essere, come dire…" si interruppe nuovamente. "vi potrebbe esser chiesto di chiudere a chiave la porta durante la notte." La faccia di Emilia si contrasse in una smorfia interrogativa.
"Chiudere a chiave la porta?" ripeté.
"Vedete, il poveretto è qui per passare qualche giorno di riposo. È un reduce della grande guerra, ma è pur sempre un uomo, ed è sconveniente che lui possa entrare liberamente nelle vostre stanze…" Emilia divenne rossa in volto. 
"Non voglio militari in casa mia." Disse, seria, il fiato che diventava corto e il cuore che le pulsava nel petto. 
"Ma mia cara, cercate di ragionare!" Fece un imbarazzato pretaiolo, alle prese con un capriccio più grande di lui. 
"Ho detto che non voglio nessun militare sotto il mio tetto, son stata chiara?" urlò Emilia, gli occhi lucidi per il ricordo di quello che i militari avevano fatto alla sua famiglia, dell'orrore che aveva portato la guerra nella sua vita. 
Prima che Emilia potesse aggiungere qualcosa, Hector prese coraggio e a gran voce balbettò: "La- la decisione è stata presa ra-ragazzina. Farete come dico io, mi avete capito, do-donna?" preso dalla foga del momento si voltò di scatto e andò a sbattere contro il petto di un uomo fermo sulla soglia. 
"Vogliate perdonare l'intrusione" si scusò il nuovo giunto.
"E voi chi sareste?" domandò Emilia, la voce esasperata dalla conversazione e l'aria di chi non ha tempo da perdere. L’uomo le indirizzo un mezzo inchino, rigido e formale, prima di presentarsi.
"Capitano John Hook, per servirla".

John Hook era un uomo alto, dai lineamenti del viso marcati e duri in perfetto contrasto con la leggerezza dei suoi occhi chiari, che avevano lo stesso colore del cielo d'estate. Era magro e alto quasi fin oltre la piccola porta in legno chiaro che separava Emilia dal resto del mondo. Se ne stava dritto come uno stecco piantato al terreno, le braccia incrociate dietro la schiena e il mento alto.
"Hook, mio zio stava giusto per invitarvi a lasciare questa casa." Emilia imitò l'uomo che aveva di fronte, alzando il mento e puntandolo verso l'impassibile John. 
"Volete che me e vada?" fece l'altro lanciando un occhiata al Reverendo che, in risposta, si limitò ad alzare le spalle. 
"Non abbiamo camere disponibili e non potete certo dormire in una vecchia soffitta, signor Hook." 
John sorrise alzando solo una parte delle labbra. "Ho dormito in posti peggiori di una soffitta" disse, lasciando cadere il sorriso per far posto ad una faccia seria. 
"Non potete comunque restare." Emilia rimase immobile, gli occhi fissi in quelli dell'altro. 
"Domani stesso lascerò questo luogo, se è ciò che volete." 
"È ciò che voglio." disse l'altra, e attese che l'altro si congedasse e sparisse nella stanza adiacente.
Gli attimi che seguirono furono un continuo andirivieni di battibecchi, mugugnati per non far sentire all'ospite quanto disaccordo ci fosse in quell'ala della casa.

Salve a tutti Lettori e Lettrici. 
Ho una piccola nota da inserire, da adesso in poi ci sarà un cambio tra la terza e la prima persona. Un cambio voluto, perchè ho immaginato che i primi capitoli fossero quelli di un libro che si sta leggendo e man mano si entri nel vivo della storia, visttuta e vista dagli occhi di Emilia. Per tornare, alla fine, alla terza persona. Si, lo so, sono confusionaria, ma spero si sia capito :D 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo I - Nel cuore della notte ***




CAPITOLO I
Nel Cuore Della Notte


Mi alzai che era già notte fonda. Come mi ero addormentata? Come il sonno aveva sbattuto contro le finestre serrate che avevo posto davanti ai miei occhi? 
Il rumore del vento mi penetrava le orecchie e l'anima; cielo, mi sentivo tremendamente sola in quella stanza che era la mia casa e la mia prigione, che era la mia consolazione e la mia dannazione.
Avrei voluto uscire ed osservare il mondo dal basso invece che dall'alto di una torre, più bassa dei cieli e più alta dei pensieri della gente.
Il mio vicino di stanza si rigirava nel letto. Potevo sentirlo parlare nel sonno, chiamare un nome o forse maledirlo. Non riuscivo a distinguere le parole; ma, qualsiasi cosa fosse, non aveva importanza: odiavo che quell'Hook fosse in casa mia. 
Aveva vissuto la guerra e ce l'aveva ancora attaccata alla pelle: temevo che potesse lasciarne i resti in giro per la casa.
Mi rigirai nel letto, scostando la coperta e lasciando che solo la camicia da notte potesse coprire il mio corpo freddo. Mi piaceva sentire il gelo sulla pelle. 
Portai una mano alla testa per scansare qualche ciocca di capelli che mi era scivolata davanti al viso. Cielo, pensai, questi capelli sono troppo lunghi, dovrò far venire qualcuno a tagliarli.
Ma chi mai volevo far venire? Gli unici ad aver messo piede nelle mie stanze erano stati i parenti o gli strizzacervelli.
E Hook. 
Come avevano potuto permettere che accadesse?

Un battito, uno strusciare di dita sull'uscio, un altro battito e un altro ancora.
"Fatemi entrare" sospirò John dall'altro lato della porta. 
Sbarrai gli occhi: cosa mai voleva John Hook a quell'ora di notte?   
I miei piedi, e le gambe stesse, sembravano di marmo; andare alla porta era l'ultima cosa che il mio cervello volesse, ma allora perché mi muovevo per aprire a quello strano individuo? Non sapevo nulla di lui, tantomeno se fosse affidabile. Il mio corpo arrivò, non seppi come, alla porta. Girai la chiave e lasciai che lui ruotasse la maniglia.
John rimase qualche istante a fissarmi con occhi vuoti, persi in qualche sogno o rimasti indietro, alla ricerca della via di fuga da un incubo. Non tremava, né accennava a volermi toccare in nessun modo: si limitava a starsene sull'uscio, la testa poggiata allo stipite della porta.
Qualche passo indietro mi portò vicina al letto, sopra al quale erano rimaste tracce della cena e un piatto in coccio, pronto ad essere usato come arma in caso di una possibile aggressione. 
"Voi siete reale?" mi chiese John fissando un angolo della stanza. Non lasciò che rispondessi. "Io mi sento il fantasma di me stesso." continuò, in quel suo monologo senza un apparente filo logico. "Quando fui catturato dai tedeschi pensai che non mi sarei più sentito in trappola e invece, guardatemi, sono prigioniero del mio stesso corpo." Si passò la mano ossuta e affusolata tra i riccioli castani lasciandola li, con le dita fra i capelli e il palmo a coprirgli parte della fronte e del sopracciglio. "In trappola, è così che vi sentite anche voi?" fece, lasciando che la mano scivolasse senza vita dalla testa al fianco.
In un attimo mi sentì quegli occhi gelidi addosso e, benché amassi il freddo, in quel momento pensai di star congelando fin nel profondo dell'anima. 
"Ogni giorno..." gli dissi quasi sottovoce, vergognandomi di essere così profondamente contraddittoria. Io, che vivevo nella prigione che mi ero costruita ma che sognavo di abbandonare sulle ali di qualche uccello mitologico. 
"Il vostro astio nei confronti della guerra ci accomuna, sapete?" Ancora quel sorriso a mezza bocca che avevo visto poco tempo prima, stavolta si dipingeva amaramente sul volto stanco di Hook. "Quando mi misero a capo della Jolly Roger ero solo un giovane capitano, un ragazzino che gioca a fare la guerra e che l'ha vista solo dagli occhi privi di vita dei soldatini con cui si divertiva da bambino. Ma la guerra è diversa, miss. La guerra ti toglie ogni umanità, ti spoglia delle tue certezze e ti riempie del dolore e della morte che vedi dipinta negli occhi degli uomini che stai uccidendo. E io… io sono rimasto nudo, come… sono rimasto solo un povero esule in cerca della sua patria. E vedendovi, oggi, ho pensato a quanto fosse bello..." Si bloccò, pensieroso, portando la destra alla bocca.
Fu allora che notai che aveva una protesi a proteggere quello che sembrava un arto mancante. 
Strusciò quel guanto imbottito sulle labbra, a imitare un gesto che doveva aver fatto spesso quando la mano ancora glielo permetteva. "Dicevo, pensavo a quanto fosse bello vedere un'anima che era stata toccata dalla guerra così marginalmente." Una pausa in cui le sue labbra rimasero leggermente aperte. "Si, vostro zio mi ha raccontato la vostra storia, a cena." Morsi il labbro inferiore e maledissi silenziosamente mio zio e la sua lingua lunga. "Un’anima che avesse vissuto così tanti anni lontano dal marciume del mondo. Ho pensato che forse voi avreste potuto vedere nei miei occhi se la guerra aveva lasciato ancora un briciolo di umanità in me." Si avvicinò a grandi falcate e mi arrivò ad un tiro di fiato. Io deglutì rumorosamente e lo stomaco fece un rumore imbarazzante. 
Ero più bassa di lui di almeno venti centimetri. 
Mi rifiutai, in principio, di guardarlo in volto; rimasi fissa sull'incavo tra collo e spalle, respirando rumorosamente e con ben poca grazia. 
Una mano dal tocco caldo mi afferrò con delicatezza il mento, e obbligò la mia testa ad alzarsi in direzione di quella di Hook. Lo guardai, passando dalla barba appena accennata e salendo fino alle labbra: quella inferiore era più carnosa e piena di quella ce la sovrastava. Il naso mi ricordava quello di un topo, e in effetti il volto stesso del capitano era appuntito. Gli occhi sembravano infossati nelle ossa del cranio eppure risplendevano di una luce quasi innaturale: in quegli occhi c'era l'oceano che aveva attraversato e le mille avventure che non aveva potuto vivere.
In quegli occhi vedevo lo specchio dei miei.
Eravamo simili nella nostra diversità: Hook era stato sempre lontano da casa, a combattere qualche battaglia, e io non avevo mai lasciato la mia; entrambi volevamo quello che l'altro voleva.
Le labbra di Hook tremavano  in attesa del mio verdetto. 
"Dovete andarvene." Scelsi infine di dire. 
"Non avete risposto alle mie domande, miss." John rimase immobile, fissandomi, in attesa. 
"Cosa ne posso sapere io della vostra umanità? Andate a chiederlo a mio zio, lui è un uomo di chiesa e conosce i turbamenti dell'animo. O se preferite chiedetelo a uno strizzacervelli, ce ne sono talmente tanti in questo posto!"  
Non mi resi conto del tono alto che la mia voce aveva raggiunto in quel momento. Lo spinsi via, scostandomelo di dosso e provando a spostarmi di lato; due passi prima che mi afferrasse il polso e lo stringesse. Non sentì dolore. 
"Lasciatemi" gli dissi con astio. 
Lui dall'alto della sua statura mi tirò a sé e pensai che dovevo sembrare un filo d'erba nelle sue mani. Mi tirò a sé abbracciandomi e mi ritrovai a piangere sul suo petto. 
"Voglio solo andarmene di qui." sussurrai. Mi strinse per qualche istante, per poi congedarsi senza una parola, silenziosamente come s'era presentato, semplicemente facendo leva sulle gambe e trascinandosi in camera sua.
Rimasi in silenzio a singhiozzare finché non venne mattina, chiedendomi perché avevo confessato ad uno sconosciuto le mie paure e perché avevo scaricato su di lui le mie frustrazioni. 
Non trovai risposta.
L'indomani John Hook bussò alla mia porta. Rimanemmo in silenzio per qualche minuto dopo che ebbi aperto l'uscio, e dopo averlo visto lì in piedi, la divisa in dosso. 
"Volevo salutarvi." Disse, prendendo coraggio in un colpo di tosse. "Parto oggi, secondo il vostro desiderio." detto ciò fece un mezzo inchino con la testa, girò i tacchi e si avviò verso la scalinata senza degnarmi più nemmeno di un’occhiata.
"Aspettate" gli dissi di fretta. "Magari potreste aspettare un'altro giorno. Per colazione ci sono uova e pancetta, e domani è domenica, viene un cuoco da Londra, sapete? Vale la pena aspettare, non credete?" 
Hook si voltò, fissandomi, e un ampio sorriso gli si disegnò in volto "Beh miss, se c'è la pancetta, e le uova..." Lasciò morire il discorso, dirigendosi nuovamente alla sua camera. "Con permesso." Entrò e chiuse la porta. 
Stavo per fare lo stesso quando mi accorsi di avere un piede che sporgeva oltre l'uscio. Le dita stavano toccando un pezzo di pavimento che non avevano mai sforato negli ultimi anni.

Notte dopo notte John tornò a farmi visita. Parlammo dei suoi viaggi intorno al mondo, delle battaglie che aveva vinto e di quelle che avevano avuto la meglio sul suo animo tormentato; parlammo della sua famiglia e delle sue origini Irlandesi, che contraddistinguevano il suo accento marcato. Mi raccontò di aver avuto una ragazza una volta, prima di partire. 
"Le ho dedicato qualche verso." mi disse "Dev'essere scappata dopo aver capito che avrebbe potuto sposare un uomo con una profondità espressiva pari a quella di una nocciolina." 
Ridemmo. 
Passò un mese. Ogni notte parlavamo del mondo di fuori e costruivamo il nostro piccolo universo in quella stanza, seduti sul pavimento a mangiucchiare qualcosa che John aveva rubato dalla cucina. All'ombra di una candela tremolante mi chiese dei miei genitori e io gli parlai delle lanterne che ogni anno davo ordine di far volare in ricordo del bombardamento e delle vittime che quella notte avevano dato la vita per ideali politici che probabilmente non li avevano mai toccati.
"Siete bella quando sorridete, miss." mi disse di punto in bianco bevendo del vino chiaro. 
"E questo cosa centra con la pioggia?" domandai, rincorrendo la conversazione che avevamo lasciato poco prima. 
"Niente." disse solamente, prima di poggiare il calice al pavimento e avvicinarsi di più al mio viso. Sentì il calore del fiato che usciva dalle sue labbra semi aperte, vidi i suoi occhi chiudersi e chiusi i miei; le labbra di Hook si posarono sulle mie con una delicatezza quasi allarmante, unendosi per il tempo infinitesimale di un bacio che accettai e ricambiai. Non avevo mai baciato nessuno e non ero sicura che quello fosse il modo corretto di agire. Lasciai che fosse lui a guidare i miei movimenti.
Un bacio, un altro, e sentì crescere il calore nel petto; la voglia di qualcosa di nuovo apriva le porte alla voglia di nuove emozioni. 
Fu una serata di prime volte.
John era diventato in poco tempo una persona importante: un compagno, un confidente; ma solo quando fu dentro di me capì che era diventato qualcosa di più. Hook era la parte che mi avrebbe completato. 
In quel letto in cui mi aveva portata, tra le lenzuola che ci avvolgevano, capì che lui era il tassello mancante. Sentì di poter volare lontano dal mio corpo e fino alle vette più alte, o nel profondo degli abissi. Baciandolo, sentì i sapori delle terre che aveva visitato. A ogni sospiro potevo sentire le voci di tutti quelli che aveva conosciuto, a ogni tocco tutte le mani che aveva stretto e le lettere che aveva scritto. Nei suoi occhi potevo vedere i posti che aveva visto e l'amore che aveva trattenuto per tutti gli anni di servizio. Potevo vedere la mia e la sua solitudine farsi compagnia in quell'abbraccio di passione che si concluse nella fusione delle nostre anime. 
Rimanemmo abbracciati per tutta la notte, respirandoci addosso; mi rannicchiai contro John e annusai il profumo del suo petto e lì trovai il mio giaciglio, e m'addormentai.

 

Oh ragà, io c'ho provato in tutti i modi, ho guardato "orgoglio e pregiudizio", "le top 100 scene romantiche di tutti i tempi", "ps I love you", ho riflettuto per un'ora sotto la doccia – risultato : pensare per 60 minuti della mia vita a Sherlock che analizzava l'inci del mio shampo – e nulla. Io le scene romantiche non le sò proprio fà. Se anche voi siete convinti che JonS alias me medesima, sia completamente negata in tutto ciò, fatemelo sapere in un commentino qui sotto, o magari non esitate a farmi sapere quanto v'è piaciuta stà fanfiction.

Al prossimo capitolo!

Ciao. :)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo II - Dillo Per Tre Volte ***


 


CAPITOLO II

Dillo Per Tre Volte


Gli occhi mi facevano male, non ero abituata a tenerli così chiusi e per così tante ore. 
John era sveglio, e guardava fuori dalla finestra, poggiato al davanzale, completamente nudo eccezion fatta per i calzoni che gli coprivano la parte bassa del corpo; quella divisa che indossava era la cosa che più valorizzava il corpo scolpito da anni di leva. 
"Buongiorno" dissi stiracchiandomi e abbracciando un lenzuolo. 
"Devo partire." fece lui il tono serio "È il ventitré febbraio, e oggi riprendo servizio." il tono era serio, nella mano ancora integra aveva una sigaretta, stretta tra indice e medio. "Sembra che questo paese non ne abbia avuto abbastanza dei servizi del capitano John Hook." Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto quando si votò a guardarmi. La sigaretta venne gettata dalla finestra, ancora accesa. 
Si avvicinò al letto, inginocchiandosi, arrivando con la testa alla stessa altezza della mia, sfiorando con il mento quelle lenzuola che ancora avevano l'odore dell'amore che c'eravamo scambiati quella notte. 
"Venite con me Emilia" Sorrise ora, con le labbra e la speranza che gli si rifletteva in quegli occhi di ghiaccio. "Potrei rendervi felice, potrei portarvi a vedere le bellezze dell'Asia e i misteri dell'Africa. Potrei rendervi una moglie felice, se me lo permetterete." Rimase fermo, il sorriso dipinto su quelle labbra rosee. Io deglutì, cercando le parole. 
"Volete che esca… ora?" 
John si fece serio. "Non adesso. Tra qualche settimana, al mio ritorno da Parigi. Vostro zio potrebbe officiare le nozze, e potremo partire subito." 
Sorrisi, anche se sentivo crescere nel mio petto la paura dell'ignoto che si celava oltre le quattro mura della mia stanza. 
"Verrò con voi." Ero davvero sicura di quello che stavo dicendo a John? Sarei divenuta Miss Emilia Hook e avrei visitato con mio marito il vasto mondo e i vasti pericoli che in esso erano celati? In quel momento ero convinta che sarei potuta scappare. "Voi credete davvero che potrei trovare la forza per uscire da questa stanza?" 
Hook mi sorrise nuovamente. "Finora non avete mai avuto qualche motivo per farlo, ma tra quattro settimane varcherete la navata al mio braccio e saremo per sempre insieme."
John si alzò, precipitandosi in camera sua. Il giorno stesso partì.

Erano stati i giorni più vissuti della mia vita ed erano passati come un onda, mi erano passati addosso e si erano ritratti: quei giorni avevano il nome di John Hook.
Passai la prima settimana a chiedermi come c'eravamo innamorati, e se questo sentimento era il frutto di una vita di solitudine o se era reale: mi ero aggrappata ad Hook perché non avevo altro, oppure il sentimento era tangibile? 
Trovai la mia risposta nei giorni successivi, quando mi accorsi che mi mancavano tremendamente i discorsi miei e di John, fatti davanti ad una candela e con un bicchiere di vino in mano.
Sentì come se mancasse qualcosa nel mio animo; una parte di me era partita con lui, con lui stava solcando le acque a bordo della Jolly Roger.
    
Il terzo giovedì di Febbraio mi alzai di buon ora e mi misi a rassettare la stanza. D’istinto, dipinsi sul muro un albero dalle alte fronde e mi sedetti sotto di esso, immaginando di trovarmi in cima ad una collina. Dalla finestra potevo vedere il cielo azzurro e sentivo il cinguettare dei passerotti che si rincorrevano da un ramo ad un altro. Assaporavo il mio dolce far nulla quando mio zio fece capolino dalla porta della stanza, il viso serio e austero. 
"Zio, è una mattinata troppo bella perché voi cominciate a ricordarmi i doveri di una brava devota quale io non sono, quindi vi prego, non parlate." Sorrisi chiudendo gli occhi e poggiando la testa contro il muro. "Qualche notizia da John?" chiesi sperando in una lettera o in un pacco come quelli che mi erano giunti giorni addietro. Avevo parlato a mio zio di Hook, e lui aveva fatto formale richiesta al prelato di celebrare le nostre nozze al suo ritorno.
"John è morto." Mio zio sputò fuori quelle parole con la forza che aveva trattenuto dentro di se per troppi anni. Doveva essersi fatto coraggio e mi aveva confessato questa notizia, così drammatica e così crudele. 
"Cosa?" domandai, la voce rotta dall'emozione. Aprì gli occhi puntandoli contro il sole e guardandolo insistentemente, finché il bianco della sua luce mi accecò. 
"La Jolly Roger si è persa nella tempesta. Hanno trovato il pennone e qualche corpo, ma del resto della ciurma e di… John… nessuna traccia."
Sentì le lacrime che mi solcavano le guance. 
"Uscite dalla mia stanza." seria e stanca intimai a mio zio di lasciarmi sola. 
"Figliola mi dispiace..." farfugliò lui. 
"Uscite!" voltai la testa a cercare il viso di mio zio, ma avevo gli occhi ancora annebbiati dalla luce del sole. Lui uscì dalla stanza chiudendosi il portone alle spalle e io mi alzai da terra e presi a distruggere qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, maledicendo l'amore e il mio cuore, il mio stupido animo che avevo aperto al sentimento che ora mi faceva dilaniare l'anima al pensiero che John Hook, il mio John, non c'era più.

Una volta distrutto gran parte del mio spazio vitale mi ritrovai seduta tra le macerie dei pochi ricordi che mi ero costruita in quegli anni, a guardare dalla finestra della mia stanza le stelle in cielo. 
Tra un singhiozzo e un urlo soffocato nel cuscino presi a pensare alla storia che mi raccontava sempre mia nonna quando ero piccola, di quel folletto che poteva risolvere i problemi dei disperati che osavano pronunciare il suo nome per tre volte. 
Improvvisamente, mi resi conto che ricordavo quel nome.
In preda alla rabbia urlai: "Rumpelstiltskin. Rumpelstiltskin." Un attimo per riprendere fiato, una folata di vento mi travolse con il suo gelo. "Rumpelstiltskin!" 
Una folata più forte mi spinse a terra; mi rialzai velocemente, intontita, e fu allora che notai una figura avvolta nella tenebra che mi fissava. 
"Fatevi avanti." gli sussurrai. Due passi e si palesò alla luce della candela che avevo acceso per farmi compagnia solo pochi minuti prima. "Voi siete colui che chiamano Rumpelstiltskin?" L'uomo, perché di questo si trattava, mi osservò sorridendo. "Non – non siete un folletto dunque." L'altro si limitò a sorridere, fermo in piedi, immobile. "Dite qualcosa, per la miseria!" 
Rumpelstiltskin si fece più vicino, camminando con un andatura lenta. Sembrava fluttuare nella tenebra stessa. Con il volto si avvicinò al mio e fu allora che notai gli occhi profondi, il bell'aspetto, i capelli lunghi e la pelle bianca. Rumpelstiltskin accostò la sua guancia alla mia e sussurrò al mio orecchio. 
"Ditemi i vostri desideri e io vi dirò i miei." Rimase immobile. "Oh ma i vostri desideri sono semplici. Rumpelstiltskin può aiutarvi, Emilia, Rumpelstiltskin riporterà in vita il vostro dolce amore,  Rumpelstiltskin vi farà provare ancora la sensazione del tocco delle sue labbra sulla vostra pelle, Rumpelstiltskin lo farà per voi, se voi darete qualcosa a Rumpelstiltskin." 
Sentì la mia pelle andare a fuoco e mi eccitai sentendolo parlare con la sua voce melliflua: era il demone tentatore ed io mi sentivo come Eva, in quell'inferno che avevo fatto entrare nel mio giardino dell'Eden. 
"Qualsiasi cosa" risposi. 
Lo vidi pungersi il dito con uno spillo, fece lo stesso con il mio indice e li unì insieme a suggellare il nostro diabolico patto, quindi lo congedai chiudendo gli occhi. 
Quando li riaprì ero sola nella stanza. Mi convinsi di aver avuto un crollo nervoso e mi misi a letto, decisa a dimenticare almeno per qualche ora i turbamenti del mio animo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo III - Attenta A Quello Che Desideri ***




CAPITOLO III

Attenta A Quello Che Desideri


Il mattino venne a svegliarmi con il calore dei raggi di un fievole sole. 
Sentivo ancora gli occhi doloranti dal troppo pianto della sera prima: le ciglia parevano attaccate l'una all'altra e tutto sembrava volermi impedire di spalancare lo sguardo al nuovo giorno che nasceva. 
Debolmente riattivai la circolazione, le gambe si mossero per passare da una posizione rannicchiata ad una in cui finalmente le sentivo, le braccia e la schiena si spostarono in avanti per cercare una posizione che mi permettesse di stirare tutti i muscoli. Invece delle lenzuola trovai un corpo freddo ad attendere le mie braccia e le mie attenzioni.
 La pelle era liscia, eccezion fatta per il petto che aveva qualche accenno di peluria. Non osai aprire gli occhi e mi limitai a studiare quella figura con il solo ausilio del senso tattile; incontrai quasi subito un braccio alla cui estensione non trovai una mano ma un moncherino, e allora l'agitazione prese il sopravvento e spalancai gli occhi. 
Ci vollero alcuni istanti perché mettessi a fuoco la figura della persona che avevo di fronte. 
John respirava a ritmo regolare, gli  occhi chiusi e girato sul fianco, il petto rivolto contro il mio. Mi guardava dal lato del sogno e io guardavo lui dallo specchio dei ricordi.
O era reale?
Gli pizzicai una guancia, il che lo fece sobbalzare. Restammo in silenzio senza rivolgerci parola. 
Cielo quanto mi era mancato! Il suo profumo, gli occhi color del mare, quell'oceano che me l'aveva strappato forse troppo presto. 
"Sei reale?" dissi debolmente mentre il sole illuminava la figura angelica del mio amante che giaceva nudo di fianco a me. "Sto sognando, vero?" John sorrise alzando solo metà della bocca.
"Sono reale." La mano ancora sana mi accarezzò la guancia, lasciando che il mio corpo vibrasse al tocco. Sentì le lacrime scendere naturalmente dagli occhi fino al mento, presi la mano nella mia e mi avvicinai la viso di Hook. Poggiai le labbra sulle sue, cercando di incontrare la sua anima, tentando di stabilire quella connessione che avevamo raggiunto ormai troppi giorni addietro. 
Chiusi gli occhi e tentai di assaporare il gusto del suo animo, ma a differenza della prima volta riuscì a sentire solamente il gusto amaro della salsedine tra le sue labbra. 
Nei suoi occhi potevo vedere l'oceano in tempesta e i mille volti dell'Ade. 
Quando il nostro amore prese forma sentì dentro di me divampare le fiamme dell'inferno, e ogni suo respiro sembrava il grido di una madre perso nella foschia della notte. Allora mi staccai da quell'unione di corpi, e mi chiesi che ne era stato dell'uomo che avevo conosciuto. Forse il mare aveva lavato via tutta la sua umanità?
Trovai le mie risposte nelle parole che seguirono quel pensiero. "Torna da me." disse quando mi staccai dal suo corpo sudato. 
"Cosa vi è successo John?" Lui mi guardò con faccia interrogativa. 
"Sono tornato, come ti avevo promesso. Non è questo che volevi?" Io annuì tornai ad abbracciarlo, a respirare su quel petto che sbatteva a più ripetizioni contro il mio.

Passò una settimana e John restò sempre chiuso in camera mia. 
Ci alzavamo per guardare il tramonto calare e ci addormentavamo quando il sole era già caldo; mangiavamo l'uno dal corpo dell'altra, cospargendoci di frutti esotici che ci facevamo lasciare davanti alla porta.  Sentivo il mio amore riprendere forma giorno dopo giorno, spinta dopo spinta, parola dopo parola, promessa dopo promessa. 
"Non sei più triste?" mi chiese infine Hook asciugandosi la fronte madida con il moncherino. 
"Non più." risposi pettinandomi i lunghi e indomabili capelli biondi. 
"Lascia che ti aiuti" fece lui alzandosi dal giaciglio che avevamo occupato pochi minuti prima.  Lo guardai nella sua nuda perfezione, venirmi incontro con il passo lento e deciso, afferrare la spazzola e iniziare a passarmela tra i capelli. Inizialmente mi persi a osservarmi allo specchio, a guardarmi, così matura ma così giovane, senza un segno dell'età che non accennava a passare ma così scavata dall'amore che mi scorreva nelle vene fino al cuore. Mi chiesi se questo sentimento romantico era la ragione per cui il mio cuore non aveva ancora perso uno o più battiti.
Ero così distratta da me per accorgermi che il riflesso di John sullo specchio non era in realtà quello che sarebbe dovuto essere.
"Voi..." dissi, e fu allora che mi accorsi che il mio cuore non avrebbe battuto mai più come prima.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo IV - Seconda Stella A Destra ***




CAPITOLO IV
Seconda Stella A Destra


John si rifletteva nello specchio e lo specchio si rispecchiava in Rumpelstiltskin. 
Quando scoprì l'inganno Rumpelstiltskin rimase serio, immobile, il respiro calmo. Mentre il suo corpo riprendeva la sua reale forma non accennò a smettere di pettinare le ciocche che aveva nelle maglie del pettine. 
"Mi avete ingannata!" L'essere dai lunghi capelli corvini rimase in silenzio. "Mi avete usata!" Sbottai, non lasciando il tempo all'altro di proferire parola. 
"Rumpelstiltskin aveva detto che vi avrebbe dato il tocco di John Hook. Rumpelstiltskin ha mantenuto la sua promessa." La voce era seria, bassa. " Rumpelstiltskin avrebbe potuto rimanervi accanto se voi aveste continuato a crederlo un altro." Scoppiai in un pianto isterico, coprendomi gli occhi con entrambe le mani e soffocando i miei singhiozzi nei palmi sudati. "Ora dovete a  Rumpelstiltskin quello che gli avete promesso." 
Fu allora che ricordai del patto suggellato con il mio sangue, di quello che avevo creduto di sognare e che invece era la realtà che ora mi stava travolgendo con domande, massi che la mia coscienza fragile non poteva sopportare. 
"Un momento." Dissi, recuperando la ragione. "Il patto non è valido." Rumpelstiltskin assunse una faccia interrogativa. "Non avete riportato in vita John, non avete quindi il diritto di essere ripagato dei vostri servigi." Sorrisi beffarda, convinta di aver smascherato l'inghippo che si celava dietro l'inganno del folletto dalla forma umana.
I miei occhi erano ancora lucidi e la mia voce tremolava dall'ansia che quella scoperta aveva suscitato nel mio animo già tormentato e provato.  Rumpelstiltskin non sembrò turbato, né in realtà sembrava dare molto peso alle mie parole.
"Oh Emilia, ma  Rumpelstiltskin ha mantenuto la sua promessa." Mosse le mani come per incantare lo stesso specchio che l'aveva smascherato pochi minuti prima. "Guardate voi stessa.  Rumpelstiltskin ha portato John Hook in una terra lontana, in un'isola magica in cui il tempo non scorre e in cui il vostro amore durerà in eterno, eternamente giovane, eternamente bello." 
Osservai quello specchio come si osserva un tramonto che affoga tra la boscaglia: vidi John sul ponte di una nave che doveva essere la Jolly Roger, vidi la fiancata completamente squarciata da quello che forse era stato il contatto con uno scoglio.
"Chi mi dice che questo sia reale?" Chiesi al folletto una volta che l'immagine sullo specchio si fu dissolta in una nuvola di fumo, che ne opacizzò la sua superficie. 
"Rumpelstiltskin mantiene sempre la parola data." disse sbrigativo, passandosi una mano tra i capelli e puntando quegli occhi scuri contro i miei. 
"E cosa volete in cambio?" 
Le sue labbra si spalancarono in un sorriso dall'aria innocente. "A tempo debito verrò a riscuotere il vostro debito." E ridacchiò, visibilmente soddisfatto dal gioco di parole.
Tirai su con il naso. "Mia nonna diceva che  voi eravate un ladro di bambini, e che con l'anima innocente avreste riscosso i debiti."
Rumpelstiltskin alzò gli occhi al cielo, sbuffò, e si voltò, dirigendosi alla finestra aperta. "Il  pagamento di Rumpelstiltskin sarà il vostro coraggio, Emilia. Ascoltate le parole di  Rumpelstiltskin! Alla mezzanotte…" alzò un dito indicando il soffitto "badate bene Emilia, non un minuto in più non un minuto in meno. All'ultimo rintocco dell'orologio verrete a questa finestra, vi getterete nel vuoto e la mia magia vi farà volare dal vostro amore.  Rumpelstiltskin sa dove si trova, seconda stella a destra poi dritti fino al mattino. Ma non un minuto in più, non un minuto in meno. Emilia, ricordate le parole di  Rumpelstiltskin."

Rumpelstiltskin si dissolse in una nuvola violacea prima che potessi dire qualcosa, e tanto in fretta come era sparito lui arrivò il primo tocco che annunciava la mezzanotte. Corsi alla finestra pensando che quello fosse l'unico modo che avevo per raggiungere John ma, una volta sulla soglia, mi bloccai, immobilizzata dalla paura.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo V - Il Volo, le Speranze, l'Arrivo ***




CAPITOLO V
Il Volo, Le Speranze, l'Arrivo


Dall'alto della finestra potevo scorgere l'intera foresta che mi separava dal cielo e dal mare di verde nel quale si tuffava il sole al tramonto. Le foglie degli alberi si muovevano cullate dal vento, seguendo una danza che il mio vestito imitava; il mondo intorno a me respirava la vita. 
Il piede toccò la gelida soglia in marmo chiaro. 
Feci forza sulle ginocchia e rimasi immobile a guardare quel paradiso naturale, in cui cicale e uccelli suonavano per me con il loro cantare e tamburellare. Mi sembrò quasi di essere la regina di quel mondo che avevo sempre guardato dall'alto. 
La notte mi travolse con la sua oscura bellezza: le stelle del firmamento brillavano per me e con loro il mio cuore splendeva di luce propria al pensiero che all'ultimo rintocco la magia di Rumpelstiltskin mi avrebbe portata da John.
Respirai a pieni polmoni e mi sembrò che l'aria fosse fatta di frammenti di ghiaccio; sentì l'ossigeno grattarmi la gola mentre si faceva strada nei polmoni e la paura prese il sopravvento. Ero veramente sicura di voler uscire? Di poterlo fare? 
Assurdamente, pensai che avrei voluto non aver tagliato i miei capelli nel corso degli anni. Immaginai come sarebbe stato usarli come corda per farmi strada attraverso le pareti ripide della mia casa; immaginai mondi e luoghi che avrei potuto visitare, le cose che mi ero persa. Non avevo mai visitato la tomba della mia famiglia, non avevo ricercato nelle montagne l'origine del mio nome né avevo visitato i parenti che avevo li. Ero rimasta per troppo tempo la ragazza della torre, più simile ad un fantasma che ad una vera e propria figura reale e tangibile.
Alzai lo sguardo in aria, chiusi gli occhi e allargai le braccia. Mi convinsi che era per John, che non avrei avuto più paura e che avrei lasciato che la magia mi trasportasse in quell'isola magica di cui il folletto mi aveva parlato.
L'ultimo rintocco. Il mio piede si staccò dal cornicione e saltai.
Sospinta da una magica brezza, respirai l'odore della libertà. Le lacrime riempirono i miei occhi e mi sentì finalmente libera, sentì che in me cresceva il sentimento d'amore e che con lui si faceva più vivida l'immagine di John, del volto che avrebbero avuto i nostri figli, del matrimonio che avremmo celebrato sulla spiaggia di quell'isola tra le stelle, come Dei che festeggiano la loro unione celestiale e sacra. 
Più salivo in alto più mi sentivo leggera e coraggiosa. Abbandonai la testa indietro e chiusi gli occhi. 
Le lacrime si lasciarono trascinare dal vento.
Potevo sentire il suono del mondo che cantava per me. Cielo! Come ero stata sciocca, come avevo potuto lasciare che le mie paure mi trattenessero? Perché avevo pensato che il mondo fosse pericoloso? La mia fine non era certo fuori da quella stanza! Tutto il mondo ora mi guardava nella mia bellezza mentre volavo verso il cielo.
Il tempo sembrò fermarsi. 
L'ultimo eco del rintocco segnò la mia sentenza. Cominciai a perdere quota e, quando mi accorsi che sotto i miei piedi c'era il vuoto, ebbi paura. Se prima mi sentivo leggera, ora ero mille volte più pesante. Cielo, com'ero in alto! 
Portai il capo in avanti e Rumpelstiltskin apparse nel mio campo visivo. Se ne stava dritto in piedi, lo sguardo puntato su di me, il suo naso appuntito che mi trafiggeva, lo sguardo che mi spogliava di tutte le certezze. 
"No" sussurrai prima di cadere in picchiata. Come poteva essere bello il mondo anche nella sua violenza? L'aria sapeva di pino e abete, di erba bruciata, e cadevo contro il terreno che apriva le sue fauci e mi aspettava affamato. 
Pregai per la mia anima, ma nel terrore non ricordai il mio nome. Cadevo e più lo facevo più sentivo la pressione dell'aria contro il mio corpo bianco. Dovevo sembrare una nuvola in caduta libera anche se, a differenza di quella, io mi sarei dissolta in un vapore color del sangue. Distolsi lo sguardo da Rumpelstiltskin, riuscì a voltarmi verso il cielo e in quel momento pensai a quanto fosse bello osservare quelle lanterne stellate, e a quanto fosse orribile che stessi andando nella direzione opposta a quella dove si trovava John.
"Non uscire di qui, Emilia." La voce di mia nonna rimbombò nella mia testa mentre mi fratturavo le deboli ossa contro il terreno battuto della strada principale. Non ci sarebbe stato tempo di provare dolore: la morte mi avvolse e come una martire caddi ai piedi di Rumpelstiltskin. 
L'ultima immagine che vidi furono quegli occhi color dell'oblio e quella nera luce che mi avvolgeva.
Ero sua.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Ognuno Ha I Suoi Demoni ***




O
gnuno Ha I Suoi Demoni


Il corpo di Emilia cadde dalla finestra più alta della villa atterrando al suolo e infrangendosi al contatto con esso. I piedi di Rumpelstiltskin si macchiarono del colore del sangue.
L'uomo si voltò di lato cercando di non guardarla in quegli occhi che, ancora aperti, lo fissavano. Erano blu e candidi nonostante la morte l'avesse legata con le catene più difficili da spezzare.
Rumpelstiltskin tirò su con il naso, gli occhi lucidi, e rimase per qualche istante in un muto requiem cantato con il solo rumore di quel cuore troppo oscuro per essere ritenuto degno di battere. Si fece coraggio, poi si abbassò sulla salma della ragazza e posò una mano sul petto, ormai privo di ossa sane che lo sorreggessero. 
Qualche frase recitata in una lingua inudibile all'orecchio degli esseri viventi accompagnò la fuoriuscita di una sfera di luce pulsante dal corpo di Emilia, che rimase ferma sopra il corpo della ragazza. 
Rumpelstiltskin ormai aveva gli occhi bagnati e sembrava sul punto di scoppiare in un pianto isterico. La stessa mano che aveva poggiato contro il petto di Emilia ora reggeva la sfera di luce.
"Maledizione" farfugliò Rumpelstiltskin respirando a fatica. L'oggetto si muoveva tra le sue mani con forza e sembrava che l'uomo fosse in seria difficoltà nel trattenerlo. "Rumpelstiltskin deve sbrigarsi o perderà la sua occasione!" fece tra sé e sé, nervoso. 
"Dannazione, lasciami stare!" urlò poi contro la notte solitaria. Il suo tono era più basso, ora. più umano. 
"Cos'ha Rumpelstiltskin? Ha forse paura di chiamare il ragazzo? Rumpelstiltskin sa che lui può farci rimanere uniti. Rumpelstiltskin non vuole tornare ad essere il folletto che tutti deridevano,  Rumpelstiltskin vuole essere come tutti gli uomini di questo mondo." La faccia e la voce erano melliflue, adirate e forti quando parlava di se in terza persona, mentre il tono che rispose era debole e sofferente. 
"Non voglio tornare ad essere un folletto." disse con la voce rotta da un pianto che da un occhio scendeva e dall'altro era trattenuto. 
"E dunque Rumpelstiltskin dovrà fare il suo nome."
Fu allora che, urlando nella notte, la parte umana del folletto scandì le parole "Peter Pan. Peter Pan." e si interruppe per prendere fiato, mentre con il braccio libero si asciugava la lacrima che cadeva sulla guancia. 
"Peter Pan".

La notte avvolse con una coltre oscura il cielo. Le stelle stesse si spensero, e i grilli smisero di cantare la loro canzone monotona. Un cane di guardia abbaiò per qualche istante prima di ritirarsi nella sua cuccia. Il mondo parve trattenere il respiro mentre si palesava dinnanzi a Rumpelstiltskin la figura di un ragazzo sui diciassette anni. I capelli spettinati e rossi accompagnavano un sorriso che trasudava cattiveria. 
"Rumpel, Rumpel, pensavo non mi avresti chiamato questa volta." disse beffardo all'altro. "Pensavo non avessi capito che consideravo quel capitano e la sua nave come un… come dire… regalo da parte tua per scusarti del ritardo nelle consegne. Quel vecchio che mi hai mandato non ha una mano, sai? Ho dovuto lasciare che si attaccasse un uncino, almeno i nostri combattimenti sarebbero stati alla pari." Scoppiò in una risata isterica, che riecheggiò nella notte. "Come se qualcuno potesse competere con me. E questa cos'è?" Peter Pan si mosse velocemente verso il corpo senza vita di Emilia, mettendosi a cavalcioni sulla salma e avvicinando il volto a quello privo di vita della giovane. "Rumpel,  Rumpel,  Rumpel.... " scosse il capo. "E io cosa ci dovrei fare con il corpo senza l'anima? E comunque sai che il tuo pagamento non si può saldare con le anime di quelli che non sono più puri." Si alzò di scatto, improvvisamente urlando. "Ti sembra forse una bambina?" 
Fu allora che notò l'anima che fluttuava impazzita tra le grinfie serrate di  Rumpelstiltskin. 
"Rumpelstiltskin sa che quest'anima è forte. Rumpelstiltskin ha in serbo una grande sorpresa per il suo magnifico Pan." così dicendo porse la sfera di luce all'altro.
"Prendila maledetto bastardo!" sibilò la voce dell’uomo-folletto, quella vera e più triste. "Prendila! È troppo potente perché questa carcassa che chiamo corpo possa reggerne l’impeto!" 
Pan allungò la mano, afferrando la sfera di luce. "Oh si." disse, sadico. "L'anima di un'innamorata. L'amore è più potente di qualsiasi altro maleficio, lo sai? Bravo Rumpel, ti sei guadagnato un altro anno in questo corpo. Ma attento, a viziare Pan finisce che Pan si abitui ad essere viziato." rise a crepapelle, convinto che il suo gioco di parole fosse divertente. 
Peter mosse una mano e una scarica elettrica colpì Rumpelstiltskin, il quale sembrò rinvigorito da quell'energia che gli stava scorrendo nelle vene e che rigenerava quel corpo nel quale dimorava la sua anima di folletto. 
"Ci vediamo tra un anno, mio caro" disse Peter. Poi scomparve nella notte insieme all'anima di Emilia.

Rumpelstiltskin rimase immobile per qualche istante prima di cadere a terra poggiandosi sulle ginocchia. Allora scoppiò in un pianto isterico e urlò di dolore, afferrando con una mano il vestito candido di Emilia. 
"Rumpelstiltskin si era forse innamorato della ragazza? Rumpelstiltskin sa che..." 
La voce melliflua fece una pausa, il che diede il tempo all'altro occupante del corpo di parlare. 
"Taci!" 
Solo questo, e poi il silenzio. 
Quella notte, di Rumpelstiltskin si persero le tracce; e con lui, scomparve anche il corpo di Emilia.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** E vissero per sempre... ***


E Vissero Per Sempre...

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2936963