La stazione di Città Regresso

di Shomer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Jay ***
Capitolo 2: *** 2. Mail ***
Capitolo 3: *** 3.Tì + 4.La stazione di un'altra città ***



Capitolo 1
*** 1. Jay ***


Per Alessia. Buon compleanno in ritardo, tesoro!
 

 

Quando ero piccola, mia madre mi diceva sempre che coloro che ci avevano ridotto in schiavitù erano gli eroi della sua infanzia.
«Però loro facevano molte più cose» sorrideva «Quelli della televisione sapevano diventare invisibili, leggere nel pensiero, fermare il tempo... ad uno di loro uscivano perfino degli artigli dalle nocche.»
Io guardavo i volti di quegli uomini nel piccolo televisore scassato che tenevamo sul pavimento e mi domandavo che cosa ci fosse di diverso tra noi e loro.
«Sono più intelligenti» rispondeva sempre mia madre «Più furbi. E più veloci, più in salute, più belli da vedere, più abili, più lungimiranti... sono quello che siamo noi, però lo sono di più. Molto di più.»
A volte le chiedevo di raccontarmi com'era il mondo prima della loro comparsa, prima che le persone perdessero completamente il libero arbitrio, ma lei diceva di non ricordarselo. Io non le credevo, perché a volte si perdeva in pensieri riguardanti la sua infanzia e mi raccontava di festività strane, posti che non avevo mai visto, usanze ormai dimenticate. E poi mi parlava di loro, degli eroi di cui leggeva in libri o fumetti.
«Però loro erano buoni» diceva sempre «C'erano anche quelli cattivi, ma venivano sempre sconfitti. Ci hanno fatto crescere con l'illusione che, semmai fossero esistiti personaggi del genere, non ci avrebbero fatto del male. Forse sono stati proprio loro a mettere in giro certe storie, quando ancora non sapevamo della loro esistenza.»

L'ultimo ricordo che ho di mia madre si riduce ad una forte raffica di vento, alla pioggia che mi scava il volto e al suo sorriso che brilla come un faro nell'oscurità.
Aveva i polsi legati dietro la schiena, due uomini a tenerle le braccia e un furgone blindato ad aspettarla dall'altra parte della strada. Però la speranza non abbandonava il suo volto: quasi riesco a vederla ancora mentre, con un rapido movimento delle labbra, mima un «andrà tutto bene.»
Ma non è andato tutto bene.
Il sistema dei superuomini è sostanzialmente semplice: se non sei uno di loro, sei sotto di loro. 
Non so di preciso come hanno fatto a prendere il potere, so solo che nel momento esatto in cui l'hanno preso, hanno anche deciso che tutti gli umani al di sopra dei diciott'anni avrebbero dovuto trascorrere la vita a servirli. Le donne tra i diciotto e i venticinque, invece, avrebbero avuto la possibilità di avere dei figli – con l'inseminazione artificiale – e di crescerli fino al loro settimo anno di età: in quel momento, sarebbero state prese e portate nei centri rieducativi dove avrebbero imparato a svolgere delle mansioni degradanti, ma utili ai superuomini.
I bambini, invece, avrebbero avuto tre possibilità.
La prima: non sei abbastanza per loro, dunque ti strappano da tua madre e finisci in uno dei Centri Educativi per bambini, dove passi tutta la vita sentendoti dire che il destino che ti spetta una volta compiuti diciott'anni è proprio quello che ti meriti, un onore, un servigio che doni all'umanità. Tanto che alla fine finisci pure per guardarli negli occhi e dire «grazie» mentre muori in una delle loro miniere, in un pozzo petrolifero, nelle fogne.
La seconda: hai qualche malformazione, un deficit mentale grave, una malattia congenita, o magari sei semplicemente allergico al nichel e allora finisci in una delle Città Discarica, a vivere con altri “scherzi della natura”, quelli nati “sbagliati”, quelli che non servono a niente. Ti lasciano lì a marcire finché la morte non ha pietà di te e ti prende con sé. Molti pensano che questo sia il destino migliore, che è meglio condurre una vita di stenti piuttosto che una da schiavi.
La terza: hai qualcosa che a loro interessa. Sei bello o intelligente o abile. In questo caso, ti portano nei Centri di Ricerca dove ti fanno vivere come un re mentre ti iniettano strani sieri e monitorano le tue risposte al computer, dove ti fanno operazioni a cuore aperto solo per vedere come sei fatto, per capire come possono potenziarti, come renderti come loro o addirittura migliore di loro.
Vogliono sviluppare delle attività: telecinesi, telepatia, cose del genere. Cercano di creare un siero che possa potenziarli e i prototipi li sperimentano sui bambini che più somigliano a loro. Il quaranta per cento di questi muore dopo tre anni. Gli altri, quelli più forti e quindi più interessanti, anche se non sono diventati dei superuomini, a diciott'anni vengono mandati nei Settori di Rieducazione, dove li imbottiscono di farmaci particolari e fanno loro lavaggi del cervello in modo da farli uscire di lì talmente plagiati e talmente servizievoli che alla fine vanno a lavorare in uno dei loro Centri di Controllo, occupandosi di tutti quegli aspetti necessari, ma che annoiano i superuomini. Sono quelli che una volta si chiamavano “poliziotti”, insomma.
Questo è il destino peggiore, perché non sai mai ciò che potrebbero farti fare. Mia madre, che aveva diciott'anni quando i superuomini hanno preso il potere e quindi non ha intrapreso nessuna di queste tre vie, diceva sempre che il bambino a cui faceva da baby sitter da piccola era finito nei Centri di Ricerca. Lo rivide dieci o dodici anni dopo, quando venne a prenderla insieme ad altri uomini.
Guardò fuori dalla finestra e mi disse: «Lui è Jordan, il ragazzino che dovevo costringere a fare i compiti.»
Io appiccicai la faccia al vetro, guardando quello sconosciuto che si avvicinava a casa mia con le armi attaccate alla cintura. «È venuto a trovarti?» chiesi.
Mia madre fece un sorriso triste. «No» rispose «È venuto a prendermi.»
Era il giorno del mio settimo compleanno.

 

La stazione di Città Regresso

0.Sovrumani


Non ho mai creduto nel destino né in una qualche forma di vita ultraterrena che monitora le nostre vite dall'alto dei cieli, anzi, mi sono sempre ritenuta una figlia del caso: frutto di scelte del tutto casuali prese per la maggior parte da terzi, il risultato di azioni giuste e sbagliate, abominevoli e caritatevoli, tutte fatte senza pensarci, tutte commesse per caso.
La mia vita è stata una scommessa dall'inizio alla fine: l'Inseminatrice ha scelto il mio donatore maschile rovistando tra un mucchietto di fogli e prendendone uno qualsiasi, e per puro caso mia madre era la prima della lista di donne fertili. A sette anni sono finita al Centro 23 perché per caso era l'unico con dei posti liberi. Non sono morta precocemente perché, per caso, nel giorno in cui dovevano fare gli esperimenti sul cervello io avevo il raffreddore. Sono scappata dal Centro perché, per distrazione, una Rieducata ha scambiato il mio siero con quello destinato ad un altro ragazzo, e così quel giorno ho preso lo stesso di Jay e Mail. E, solo quella volta, ha funzionato.
Però, nonostante adesso sia quella che sono per pura casualità, mentre guardo il vetro sporco del treno che sta accelerando, non posso fare a meno di domandarmi se non sia stato proprio il destino a condurmi di nuovo qui.
Guardo il paesaggio che scorre fuori dal finestrino senza vederlo davvero: davanti agli occhi le spalle larghe di Mail che si allontanano e nell'orecchio la voce fredda e tremolante di Jay.
«Non voltatevi mai indietro» ha detto dieci minuti fa, in un mormorio contorto «Forse riusciremo a ritrovarci ancora... in un'altra vita.»
E l'abbiamo fatto. Un ultimo sguardo e un addio muto.
Un lungo sospiro da parte mia. Sulle spalle il peso dello zaino con lo stretto indispensabile per sopravvivere, nel cuore il ricordo malandato degli anni spensierati e degli errori che mi hanno condotta qui, ancora una volta, alla stazione di Città Regresso, senza la certezza di riaprire gli occhi dopo essere andata a dormire.
Ma è una cosa che posso sopportare. L'ho già fatto, in passato.
L'abbiamo fatto tutti.

 

Nella mia mente si affaccia sempre più prepotentemente il sorriso spensierato di Mail, i suoi occhi scuri piegati, le piccole rughe spuntate sul suo viso troppo presto, forse per le troppe sigarette. La sua risata leggera, cristallina, il suo tocco delicato. Le promesse che non ha mantenuto.
«Le nostre vite scorrono insieme» diceva, mentre Jay scoppiava a ridere «Non ci separeremo mai.»
«Molto romantico, Mail, ma adesso torna ad essere uomo» ghignava Jay, con un largo sorriso.
A volte ripenso con malinconia a quel giorno, a Mail che ci credeva veramente, a Jay che era felice. All'epoca non ci importava niente delle sue frasi ingombranti, dei suoi silenzi fastidiosi; era solamente “Jay la serpe”, ma le sue parole non facevano male a nessuno.
Eppure lo sapevamo, lo sapevamo che c'era qualcosa che non andava in lui. C'era qualcosa che non andava in tutti noi, ma ormai eravamo liberi, senza regole, senza paura. E prima di dormire non pensavamo a niente.
«Sei forte, per essere uno scherzo della natura» mi diceva sempre Mail, dopo che con un lieve gesto della mano riuscivo a sfilare i portafogli alle superdonne impellicciate.
«Anche tu» rispondevo con un sorriso.
Mail non era mai offensivo quando si riferiva a noi come a degli “scherzi della natura”, perché era esattamente ciò che eravamo. Ragazzi come tanti che però nascondevano un piccolo segreto: io muovevo gli oggetti con la mente, Jay riusciva a farti cambiare stato d'animo solo toccandoti, Mail riusciva ad intrufolarsi nei sogni della gente e, quando era sveglia, a fargli vedere ciò che voleva.
Non eravamo superuomini, o “Sovrumani” come preferivano farsi chiamare. Non eravamo nemmeno storpi.
Per quanto riguarda me, non ero né abile né tantomeno intelligente. Non c'era niente nel mio cervello che mi rendesse superiore alla media – forse ero e sono addirittura inferiore da quel punto di vista –, non sapevo fare nulla di particolare, di sorprendente. Però ero bella. E i bambini piacevoli da guardare, venivano presi insieme ai cervelloni. È difficile capirne i motivi, apparentemente non ce ne sono... ma i Sovrumani ricercano la perfezione. Che sia fisica o mentale, non importa. Qualsiasi cosa rasenti la perfezione anche solo in un campo, viene portata via e sottoposta ad esperimenti per potenziarla anche negli altri campi. Io ero una di questi. Anche Mail e Jay lo erano, perché sono intelligenti.
Quando avevamo scoperto che gli esperimenti dei Sovrumani su di noi avevano avuto effetto, avevamo fatto di tutto per tenere nascosta la cosa.
Che cosa ci avrebbero fatto, se avessero scoperto che eravamo diventati come loro o addirittura meglio? Avrebbero continuato a studiarci, ci avrebbero sezionato il cervello per capire come mai su di noi i sieri avevano effetto e sugli altri ragazzi no? Ci avrebbero integrati nella loro comunità?
Avevamo solo sedici anni e non volevamo scoprirlo.
Usando la mia abilità, senza farmi vedere da nessuno, cercavo il momento adatto per far scivolare fuori dalle boccette il sedativo che ci davano per evitare rivolte e fughe. E dopo mesi passati a programmare e ripassare, usando le nostre abilità siamo riusciti a scappare dal Centro 23.
Solo noi eravamo riusciti a fuggire... ed eravamo andati a vivere ad Amaranta, una delle poche città abitate contemporaneamente da mamme, storpi e superuomini. Ma erano riusciti a localizzarci, complice il fatto che per vivere eravamo diventati dei piccoli delinquenti. Di quelli che si vedono ai bordi delle strade e che fanno girare le persone dall'altra parte. Cercavamo di mimetizzarci con gli storpi, ma quando sei troppo bello o troppo abile o troppo intelligente, qualcuno se ne accorge.
Mail e Jay erano bravi a mimetizzarsi tra gli scarti, dovevano solo far finta di essere più stupidi e incapaci. Ma io no. Ero stata portata nei Centri di Ricerca solo perché ero bella, e questa è una cosa che difficilmente si può nascondere.
Prima che ci trovassero, ero una ladruncola da quattro soldi, Mail passava le sue giornate a vincere a poker online o a fare cose strane, sempre su internet, che in un modo o nell'altro ci facevano accumulare grana, e Jay a volte dava una mano a noi e a volte faceva cose “supersegrete” di cui non voleva parlare.
A quel tempo non lo sapevamo, non ce ne rendevamo conto, che non avremmo potuto continuare per sempre. Che avremmo dovuto pagare. E, di fatto, abbiamo pagato due volte. Ma io voglio raccontarvi della seconda volta.

 
1. Jay


Era la Città Discarica numero quattro, ma io la chiamavo Città Regresso, perché mentre giravo per quelle strade trafficate venivo colta dal dubbio che forse Darwin non avesse poi così ragione riguardo alla selezione naturale. Vedevo spacciatori vendere dosi all'uscita da scuola, tossici di Mevitol tirare fuori i coltellacci per pochi spiccioli, prostitute fare le bolle con le gomme da masticare rosa.
L'aria era grigia e umida, pesante; le persone si avvolgevano nei cappotti e quando passavano davanti a un vicoletto si giravano dall'altra parte, i ragazzini storpi stavano piazzati vicino ai lampioni a sussurrare cose ai passanti.
Mi avvolsi nel cappotto pure io, alzandomi la sciarpa fin sopra il naso e nascondendomi il resto del volto con gli occhiali da sole.
Passai davanti ad un vicoletto e mi girai dall'altra parte, in perfetta sintonia con gli abitanti del luogo. Città Regresso non era il posto adatto a me, avrebbe detto Mail. Ma se sei uno scherzo della natura e devi nasconderti da un esercito di scienziati pazzi, cosa c'è di meglio di una città piena di scarti della società e criminali?
Guardai a destra e a sinistra meccanicamente prima di estrarre le chiavi di casa dalla borsa e aprire il portone. Un'ultima occhiata all'esterno prima di chiudermelo alle spalle con un gesto secco, un sospiro e un ringraziamento muto: ancora una volta ero tornata a casa.
Salii i quattro piani di scale quasi di corsa, mentre lo squillo del mio telefono rimbombava nell'atrio fatiscente e umido.
«Pronto?» chiesi, appoggiando all'orecchio il cellulare con appiccicato quell'affare elettronico che mi aveva dato Mail per nascondere la mia vera voce.
«Parlo con Tess... mi scusi, non conosco il suo cognome» la voce della donna dall'altra parte del telefono era imbarazzata e insicura, esattamente come quella di tutte le persone che mi chiamavano.
Con un sospiro entrai in casa procedendo con il solito rituale: sguardo a destra e sinistra e occhiata all'esterno prima di chiudermi la porta alle spalle.
«Solo Tess» dissi sbrigativa, togliendomi il cappotto e lanciandolo sul divano. Mi guardai intorno: la tenda della finestra di fronte a me lasciava entrare un filo di luce. Io la chiudevo sempre completamente... con un sobbalzo mi resi conto che non ero sola in casa.
Feci per girarmi e uscire di corsa, ma sentii qualcosa di duro e freddo premermi sulla spina dorsale. Era la canna di una pistola. Chiusi gli occhi, pietrificandomi sul posto, mentre la donna al telefono mi parlava dei sospetti che aveva sul conto di suo marito.
«Finisci la conversazione come se niente fosse» disse una voce gelida alle mie spalle.
«Capisco» dissi, cercando di non farmi assalire dal panico «Sono trecento. Cento in anticipo e gli altri duecento a lavoro concluso. In questi giorni le manderò un indirizzo e una data al numero che ha usato per chiamarmi: porti lì i soldi, il nome di suo marito e una sua foto in una busta sigillata. Mi farò viva io.»
La donna mi ringraziò e riattaccò. Io feci un respiro profondo, sentendo la canna della pistola che premeva sempre più forte sulla mia schiena. Mossi la mano sinistra in maniera quasi impercettibile, cercando di allontanare l'arma con la forza del pensiero. Pensai che se fossi riuscita a sfilarla, però, poi avrei dovuto uccidere il mio aggressore per avermi visto usare il mio potere. Il sangue mi si gelò nelle vene.
«Niente da fare. Basta stringerla un po' di più.»
La voce alle mie spalle stava prendendo una piega conosciuta. Feci per girarmi e controllare chi fosse l'uomo che si era introdotto a casa mia, ma questo mi bloccò mettendomi una mano sulla spalla. Poi la fece scivolare sul collo, seguendo la linea tracciata dalla catenina che portavo da anni nascosta dai vestiti. Riconobbi quel tocco: le dita fredde e lisce da donna, la sensazione che avrebbero potuto arpionarmi il cuore dal petto e farlo scoppiare stringendolo in un pugno.
L'uomo insinuò due dita sotto la mia maglietta, mentre un'espressione di puro disgusto mi si stampava in viso, e tirò fuori la collana con il ciondolo a forma di clessidra.
«Ce le hai ancora» disse «Le nostre vite che scorrono.»
Spalancai gli occhi quando anche quella voce fredda, sottile e strisciante mi riportò alla mente sensazioni che per il mio bene avrei dovuto dimenticare.
Jay ritirò la pistola e io mi voltai di scatto, strappandogli di mano il ciondolo. Era proprio lui: gli occhi grigi, scuri, perennemente impegnati in un'espressione di derisione; la bocca sottile come quella di un serpente, i lineamenti da ragazzino nonostante avesse ventidue anni. I capelli biondi che una volta teneva lunghi, adesso erano corti corti, come a volergli ricoprire di velluto tutta la testa. Era vestito di nero, con pantaloni e giacchetto di pelle, ed era infinitamente più magro di quanto lo ricordassi.
Sembrava un condannato a morte.
«Jay...» mormorai, non riuscendo a smettere di guardarlo. Aveva una cicatrice rosso scuro che partiva dall'orecchio sinistro e finiva alla base del collo. Allungai una mano per toccarla, mentre lui continuava a guardarmi con quegli occhi liquidi e assottigliati, ma poi la ritrassi.
Fece scoccare la lingua. «Anche io ce l'ho ancora» disse «La clessidra.»
Fece sventolare il polso fasciato di pelle nera e dalla manica uscì fuori il ciondolo attaccato ad una catenella. Era identico al mio.
«Che ci fai qui, Jay?» domandai, con voce rotta «Perché mi hai puntato contro una pistola, perché ti sei introdotto in casa mia?»
«Sono venuto a trovarti» spiegò, come se fosse la cosa più normale del mondo «Diventare bionda non ti basterà per nasconderti da me, anche se all'inizio non ero del tutto convinto che fossi tu... per questo la pistola. Stavi meglio con i capelli scuri, Theresa.»
«Tess» lo corressi «Adesso mi chiamano Tess.»
«Tess?» mi domandò, stupito.
«Il nome di battesimo è qualcosa che quelli come noi non possono permettersi.»
«E fai l'investigatrice?»
«Scatto foto agli storpi che si fanno di Mevitol» dissi, abbassando lo sguardo.
Il Mevitol è una droga sintetica che da qualche anno si è diffusa nelle Città Discarica. Quelli che la prendono diventano temporaneamente più forti e felici, non sentono più la fame perché all'organismo basta quella per sopravvivere, ma non appena si smette di assumerla la pelle comincia a raggrinzirsi e il cervello a morire. Una volta che la prendi, sei fregato: il tuo fisico non può più farne a meno. Alcuni storpi cominciano a drogarsi, col presupposto di non smettere mai, per tentare di condurre una vita senza troppe preoccupazioni e tristezza. L'unico effetto collaterale sono i raptus violenti che li colgono di tanto in tanto. Agli altri storpi questa cosa non piace, così non appena ne beccano uno lo giustiziano.
«Li mandi a morire, insomma.»
«Sono degli assassini, stupratori, violenti. Non è forse quello che si meritano?»
Jay annuì, con quel suo solito sorrisetto stampato sul volto. Si guardò intorno, passando in rassegna tutto l'umile mobilio che arredava la mia abitazione: il tavolino malconcio su cui tenevo il computer, il divano sfondato, la tv ammaccata. Si appoggiò allo schienale del divano, studiandomi con lo sguardo.
«E tu che cosa fai?» gli domandai, temendo la risposta.
Lui allargò le braccia, sorridendo e assottigliando quegli occhi da serpe. Era magro, molto più magro di quanto lo ricordassi: tutti i muscoli di un tempo erano spariti, lasciando il posto ad un ventre incavato e a delle gambe sottili, da donna sottopeso. Dalla sua maglietta rosso scuro quasi si riuscivano a contare tutte le coste.
«Secondo te?» mi domandò, lanciando una rapida occhiata al suo corpo per poi puntare gli occhi grigi nei miei.
«Fai la puttana» dissi, scuotendo la testa.
Lui scrollò le spalle. «L'avevi detto tu, che faccio l'amore come una puttana.»
«Già» risposi, guardando in basso «L'avevo detto io.»
Lo sentii ridacchiare. «Beh?» fece «Non ti arrabbi? Non mi chiedi niente?»
«Del tipo?» sibilai a denti stretti.
«Una delle tue solite domande stupide con delle risposte scontate. Tipo “e se ti prendi qualche malattia?” o “usi i preservativi, vero?” o ancora “hai un pappone che ti picchia e ti costringe?”» scoppiò a ridere.
«Non è divertente.»
«Non lavoro in mezzo alla strada, se ti può interessare» disse con un tono un po' più serio.
«Non me ne frega niente» mentii.
Jay lo capì e ammiccò.
Strinsi i pugni lungo i fianchi, chiudendo gli occhi. Niente di tutto quello era giusto: le cose sarebbero dovute andare in modo completamente diverso. Avevamo sbagliato ogni cosa.
Quando ancora vivevamo tutti insieme ad Amaranta, Jay ogni tanto se ne tornava a casa con più soldi del previsto e alle nostre domande rispondeva solo con un “sgraffignati”. Ma lo sapevamo, che non era vero, perché una volta l'avevo seguito.
Quando rialzai gli occhi, lui era ancora appoggiato al divano e mi guardava con le braccia incrociate. Aveva uno sguardo tra il divertito e il compiaciuto, come se gli piacesse vedermi reagire in quel modo. Ma se lo conoscevo bene, e lo conoscevo bene, sapevo che non aveva ancora finito.
Andai alla finestra, sorpassandolo senza guardarlo, i pugni ancora stretti e la disperata voglia di piangere. Scostai le tende scure che avevo piazzato lì per protezione e guardai il cielo nero su cui non si vedeva nemmeno una stella.
Quando eravamo piccoli, le stelle le vedevamo ogni notte. Prima di andare a dormire, gli scienziati Sovrumani ci concedevano due ore di libertà in una specie di foresta grande almeno due chilometri quadrati, che però era recintata ai lati e superiormente da rete elettrificata. Una volta un ragazzo ci era finito sopra per sbaglio... nessuno di noi aveva dormito per almeno un mese, dopo aver visto il cadavere.
In un posto come Città Regresso, invece, dove ci vivono tossici e ubriaconi, dove puoi morire come un cane in mezzo alla strada senza far voltare nessuno, dove la gente si accoltella nei vicoli... di stelle non ce ne erano mai.
«Non mi chiedi se so qualcosa di Mail?»
Il sussurro di Jay era appena percettibile, ma mi sfiorò la pelle del viso come un graffio. Appoggiò le dita gelide sul mio braccio facendomi rabbrividire.
Non l'avevo nemmeno sentito arrivare. Ma lui era così: silenzioso, invisibile, letale.
«Sei sempre la Serpe» mormorai, sorridendo amaramente. Appoggiai le mani sul davanzale premendo con forza i polpastrelli sul marmo freddo.
«Soprannome che mi hai dato tu» replicò, secco.
Respirai a fondo. «Hai avuto sue notizie?» domandai, cercando di mantenere un certo contegno nella voce.
Lui rimase alle mie spalle, il fiato caldo che mi solleticava il collo. «Sono stato da lui, prima di venire qui.»
«Che succede, Jay?» chiesi, voltandomi per guardarlo dritto negli occhi «Come hai fatto a trovarmi?»
«Mail ti tiene d'occhio» disse, mellifluo «Me l'ha dato lui, il tuo indirizzo.»
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. Dovevo aspettarmi una cosa del genere. «E come hai fatto a trovare Mail?»
«Non l'ho trovato» spiegò «Sapevo già dov'era. Quando ci siamo separati, due anni fa... lui ha pensato che, per sicurezza, avremmo dovuto tenerci in contatto in qualche modo. E così appena si è stabilito in un posto, mi ha fatto sapere dove si trovava. Non ci siamo più visti né sentiti da quel giorno. A parte oggi, s'intende.»
«Perché sei venuto da noi, allora?»
Lui sorrise. «Dimmelo tu» sogghignò «Sei un'investigatrice, giusto?»
Lo guardai senza capire. Cercai di indagare i suoi occhi, sempre così impenetrabili, per trovare una risposta.
Due anni prima, avevamo deciso che per la nostra sicurezza avremmo fatto meglio a dividerci per non rivederci mai più.
Io ero scesa alla stazione di Città Regresso, senza avere la più pallida idea di dove si trovassero i miei compagni di furti, mentre in testa mi rimbombavano le parole maledette.
“Non dobbiamo cercarci per nessun motivo.”
Allora perché adesso Jay si presentava da me e da Mail, infrangendo quel giuramento terribile?
Lui fece scoccare ancora la lingua e poi se la passò sulle labbra sottili. «Ieri il mio ragazzo ha notato un'auto nera parcheggiata davanti casa sua» spiegò, pratico «Quindi stanotte ho fatto i bagagli. Credo che la mia moto non sia mai andata così veloce...» ridacchiò «Ci ho messo solo quattro ore per arrivare da voi.»
I miei occhi si spalancarono piano piano, mentre la consapevolezza di qualcosa di terribile si faceva strada dentro di me. Jay era lì, fermo, il volto deformato da un sorriso noncurante, come se in gioco non ci fosse la sua vita. 
«Ci hanno trovati» mormorai con voce rotta.
«Ci hanno trovati» confermò.

 
Raccogliere le mie cose in fretta e furia, con Jay che se ne stava appoggiato al muro a guardare fuori dalla finestra, fu un'agonia.
La sensazione di panico che mi stringeva le viscere era paragonabile solo a quella che avevo provato due anni prima quando, tra le urla di Mail e i mormorii sommessi di Jay, avevo dovuto fare la stessa cosa. Ma allora eravamo insieme e non avevamo ancora deciso di separarci. Allora credevo che, in qualsiasi posto e in qualsiasi tempo, sarei stata con loro.
Come fai a decidere cosa mettere nello zaino, quando la tua vita si avvicina pericolosamente alla fine? Come puoi scegliere le cose da scartare, come fai a selezionare ciò che vuoi portare con te nel momento in cui nel tuo immediato futuro vedi solo uno sconosciuto che ti attacca elettrodi su tutto il corpo per osservare le tue reazioni al computer?
«Puoi fare anche più lentamente» borbottò Jay «Magari hanno beccato solo me. Non sappiamo se sono arrivati in città.»
«Sinceramente non voglio scoprirlo» replicai.
Continuai ad infilare vestiti e soldi nello zaino, lanciandogli un'occhiata di sbieco. Il suo volto non era attraversato da nulla se non dalla noia.
Mi ero sempre chiesta come facesse a rimanere così freddo e controllato. Anche quando due anni prima avevamo capito che loro ci stavano seguendo, lui non si era scomposto. Quando poi, grazie ai nostri “poteri”, eravamo riusciti miracolosamente a salvarci dall'agguato che ci avevano teso quattro uomini in giacca e cravatta, Mail gli aveva urlato che stavolta non l'avremmo passata liscia, che ce l'avrebbero fatta pagare per essere scappati e per aver ucciso quattro dei loro uomini, che avrebbero capito che possedevamo degli strani poteri.
«Quel taglio che ti hanno fatto sul collo» gli aveva detto Mail «Ti sembrerà quasi un gesto gentile in confronto a quello che ci faranno.»
Ma Jay se ne era stato lì, impassibile, a guardare fuori dalla finestra di quel motel, con le garze sporche di sangue appiccicate a quella ferita che non sarebbe mai guarita del tutto. 
«Dove andiamo?» domandai, prendendo la pistola dal cassetto del comodino e infilandomela nei pantaloni.
«Da Mail» rispose Jay «È più intelligente di noi e vuole chiudere questa storia una volta per tutte.»
Rabbrividii. Lui si voltò a guardarmi con il suo solito sorriso storto e compiaciuto.
Si scostò dal muro, uscendo dalla mia stanza con passo lento, ma deciso. Lo seguii, arresa e abbattuta, ma d'un tratto lo bloccai tenendolo per un braccio.
«Perché non sei scappato via, non appena ti hanno detto della macchina? Perché sei venuto qui ad avvertirci?»
Lui mi guardò negli occhi a lungo, cercando di indagarmi. Poi, la sua bocca si aprì nel primo vero sorriso da quando era entrato in casa mia. Alzò il polso sinistro da cui pendeva ancora la piccola clessidra.
«Le nostre vite scorrono insieme» disse e poi si voltò dall'altra parte.
Lasciai il suo braccio e lo seguii all'ingresso.
Prese le chiavi della mia macchina dal tavolo e aprì lentamente la porta di casa, sporgendo il capo fuori per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Io mi misi il cappotto, mi caricai lo zaino in spalla e aspettai un suo cenno prima di uscire.
«Possiamo andare» mormorò, alzandosi il colletto del giubbotto di pelle per coprirsi quell'orrenda cicatrice che solo un'arma sovrumana può causare.
Io lanciai un'ultima occhiata al posto in cui avevo vissuto per due anni e uscii. Stavo lasciando tutto per la seconda volta.
Mentre scendevo le scale e seguivo il mio amico di un tempo nel parcheggio, pensavo che eravamo stati stupidi a credere di poter vivere come ci pareva senza aspettarci che, ad un certo punto, qualcuno sarebbe venuto a chiederci il conto.
Alla fine si paga tutto, fino all'ultima goccia di sangue.
Indicai a Jay la mia auto e salimmo a bordo.
«Dove hai lasciato la tua moto?» gli domandai, mentre mi allacciavo la cintura.
Lui inserì la chiave nel quadro e il suo volto venne attraversato da un fugace lampo di malinconia. «L'ho buttata nel fiume» disse, secco.
Già. Dovevo immaginare che se n'era sbarazzato, dato che c'era il rischio che qualcuno l'avesse seguito a Città Regresso.
Mise in moto e uscì dal parcheggio. Cercai in tutti i modi di non guardarmi indietro, perché tanto non stavo lasciando niente di importante.
«Come te la passi, Tì?» mi domandò, la mano destra sul volante e la sinistra sulla pistola appoggiata alla coscia.
«Tiro avanti» borbottai, la fronte premuta sul vetro freddo del finestrino. «E tu? Hai un ragazzo?»
«Già. Dylan. È uno storpio... daltonico e asmatico. È anche un mio collega di lavoro» fece, tenendo gli occhi fissi sulla strada «L'avresti mai detto?»
«No» ammisi.
Lui sogghignò. Sapevo che in quel momento stava pensando a tutte le donne con cui aveva passato una notte di follie prima di scomparire nel nulla e a tutte le ragazzine che aveva abbindolato quando ancora vivevamo al Centro 23.
“Compresa me”, pensai con una stretta allo stomaco. Da un suo sguardo fugace capii che anche il suo pensiero era corso lì, a quella notte trascorsa nell'angolo più buio di quella sottospecie di foresta-giardino. Arrossii, ma non feci in tempo a voltare il capo per nascondermi.
«Non dirmi che ci pensi ancora» disse, con una nota di scherno nella voce. Jay la Serpe. Insensibile, noncurante, crudele. «Sono passati sei anni» aggiunse, poi.
«Mi avevi spezzato il cuore» borbottai, incrociando le braccia strette strette mentre mi facevo più piccola nel sedile.
Lui ridacchiò, sbattendo un paio di volte la mano destra sul volante e io mi rabbuiai: l'avrei picchiato, se solo non avessi avuto l'impressione che solo sfiorandolo avrei potuto romperlo.
«Più che di cuore, parlerei di orgoglio di donna» disse, facendomi arrossire ancora di più.
«Ma che ne sai, tu?» sbottai.
Mi voltai a guardarlo, arrabbiata, ma vidi l'espressione divertita che aveva sul viso morire in un lampo.
Sospirò. «E comunque alla fine hai vinto tu» disse, in un sussurro appena percettibile.
Premetti di nuovo la fronte sul finestrino freddo. «Già» mormorai «Ho vinto io.»
Jay fece scoccare la lingua, mentre un lampo scuro attraversava i suoi occhi grigi. Tutti i suoi muscoli, benché fossero ormai pochi, erano contratti. Con la mano sinistra teneva ancora la pistola, facendo scorrere l'indice lentamente sulla canna.
Non volevo guardarlo. Le viscere mi si stringevano mentre nella mia mente si faceva strada il ricordo di una vecchia ossessione che credevo di aver dimenticato.
Ma non riuscii ad impedirlo e la mia mente cominciò a vagare da sola, perdendosi nei giorni in cui Jay era ancora un donnaiolo incallito, in cui spendeva le sue giornate alla ricerca di qualcosa. Poi, però, i miei pensieri si fermavano al momento in cui, noncurante delle lacrime che mi bagnavano il volto, mi diceva che il problema non ero io, ma che forse non gli piacevano le donne.
Ci aveva messo altri anni, però, a capire che l'uomo che cercava era Mail.
Ma Mail me l'ero già preso io.

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Capitolo 2
*** 2. Mail ***



 

2.Mail

 

«Perché stai girando a vuoto?» domandai, guardando fuori dal finestrino le strade grigie e malfamate di Città Regresso.
«Secondo te?»
Il sopracciglio di Jay era pericolosamente alzato: faceva sempre così quando pensava che il suo interlocutore non stesse capendo cose che per lui erano ovvie.
«Non ne ho idea» sbottai, irritata dal suo tono seccato «Non dovremmo prendere l'autostrada?»
Jay fece tamburellare un paio di volte le dita sul volante, spazientito. «Dovremmo prenderla se le nostre intenzioni fossero quelle di uscire dalla città» spiegò.
Emisi un mugolio infastidito. «E non lo sono?»
«Evidentemente no, principessa» rispose, con un sorriso che di allegro non aveva proprio niente «Sto girando a vuoto per cercare di depistare eventuali inseguitori, cosa che si può evincere facilmente dalla velocità a cui sto andando. Poi potremo andare da Mail, anche lui è qui.»
«Cosa?» esclamai, sporgendomi verso di lui e afferrandogli il braccio sinistro «Mail? E che diavolo ci fa qui?»
Jay strattonò il braccio, facendo sì che glielo liberassi. Poi si voltò verso di me per un piccolo attimo, fulminandomi.
«Ci vive.» Scrollò le spalle.
Appoggiai nuovamente la schiena al sedile, confusa e sconvolta. Non avevo la minima idea che anche Mail fosse in quella città. Quante possibilità c'erano che la cosa fosse casuale? Quale percentuale di probabilità prevedeva che, quando ci eravamo lasciati due anni prima, lui avesse preso i miei stessi treni ad orari diversi e poi fosse sceso alla stessa stazione in cui ero scesa io? Assolutamente nessuna. Mail mi aveva seguita.
E ce l'avevo avuto così vicino per due lunghi anni, probabilmente c'eravamo anche incrociati, io da un lato della strada e lui dall'altro, senza che lo sapessi.
«Turbata?» mi domandò Jay, una nota divertita nella voce.
«Direi di sì» ammisi.
«Te l'avevo detto, che ti tiene d'occhio» disse stringendosi nelle spalle.
«Pensavo lo facesse tramite il computer o il telefono» borbottai.
Lui scosse la testa, ridacchiando. «Te lo dovevi aspettare» disse «Io me lo aspettavo. Lo conosci, Tì. Avrebbe mai potuto il prode cavaliere Mail abbandonare la sua principessa in una città malfamata come questa?»
Socchiusi gli occhi, pregando che Jay la smettesse di ridere con quella risata che somigliava ad un latrato. Pregando che la smettesse di lanciarmi occhiate che non riuscivano a nascondere tutto il risentimento e l'avversione.
Neanche lui era riuscito a dimenticare Mail. Non è una persona di cui ci si scorda facilmente, dopotutto. È una di quelle che lascia il segno, un'impronta marchiata a fuoco.
Era diverso da Jay e per certi versi lo preferivo a lui. Jay è una di quelle persone che si insinua nei tuoi pensieri di nascosto, furtivamente. E quando te ne accorgi, ormai è troppo tardi. Non puoi scacciarlo. Mail, invece, non lo vuoi scacciare: lui è uno di quelli che vuoi tenere sempre con te.
«Quando due anni fa mi ha detto che si era stabilito qui, avrei scommesso tutti i miei averi che c'eri pure tu e che non ne sapevi niente.»
«Ma perché non si è fatto mai vivo?» domandai, temendo la risposta.
Jay mi scoccò un'occhiata e io mi pentii di avergli posto quella domanda. Aveva quell'espressione. Quella di chi non si aspettava altro che una domanda del genere, quella di chi è pronto a vendicarsi. Lui è il tipo di ragazzo che mente dicendoti ciò che non vuoi sentire solo per guardare la tua reazione. Rabbrividii, perché lui mi aveva talmente in pugno che pur conoscendo questo lato del suo carattere, avrei creduto ad ogni singola parola che fosse uscita dalla sua bocca.
Ma quella volta disse la verità.
«Avevamo promesso» rispose con un'alzata di spalle «Non ci cerchiamo, non ci vediamo. Dividerci è stata la scelta migliore. E in una città grande come questa, se andate a vivere in posti che sono praticamente ai poli opposti... è come essere in due città diverse.»
«Già» mormorai.
Mi portai le ginocchia al petto, rannicchiandomi sul sedile della mia auto malandata. Jay guidava spedito, ad alta velocità, ma rispettando tutti i segnali stradali. Guardava spesso nello specchietto retrovisore, ma sul suo volto non c'era neanche l'ombra di una preoccupazione. Probabilmente era convinto che non ci stesse seguendo nessuno.
Aveva un ghigno amaro a deformargli la faccia, l'orrenda cicatrice dal colore innaturale che spuntava da sotto il colletto.
Quando quell'uomo gli aveva passato il coltello sulla gola, avevo pensato che sarebbe morto. E che se lo sarebbe meritato.
Tutti noi ce lo saremmo meritato. Morire come cani come gli uomini che avevamo ucciso per difenderci. È facile scherzare, dire “nessuno potrebbe spararti, Tì, tu gli puoi rimandare indietro i proiettili”, ma quando ti trovi costretta a farlo davvero... è tutta un'altra cosa.
Ricordo ancora l'espressione che aveva Jay mentre, con una mano premuta sul collo insanguinato, puntava la pistola contro l'ultimo di loro. «La prossima volta vi manderanno un esercito» aveva detto l'uomo. «Già» aveva risposto il mio amico «Non siamo così innocui senza sedativi, eh?»
La voce di Jay mi riscosse dai miei pensieri.

«Ma tu?» «Io cosa?» domandai, senza capire.
«Non hai nessuno?» fece, piatto.
«Trovami qualcuno disposto ad accettare che sia una ricercata e uno scherzo della natura e me lo prendo al volo.»
«Anche Mail è da solo» borbottò «A quanto pare l'unico fortunato in amore sono io.»

 

Mentre salivo le scale di quel palazzo fatiscente, con lo sguardo fisso sulla schiena di Jay che mi precedeva, pensavo a che cosa avrei potuto dire a Mail una volta che l'avessi rivisto.
Avrei dovuto arrabbiarmi perché mi teneva d'occhio oppure avrei dovuto chiedergli esattamente in che modo lo faceva. Mi seguiva? Aveva nascosto delle telecamere? Leggeva tutte le mie mail, ascoltava le mie telefonate? Conoscendo le sue abilità con i computer e con qualsiasi cosa in cui scorresse della corrente, le ipotesi erano tutte plausibili.
Avrei voluto arrabbiarmi perché non mi aveva mai cercata, ma sapevo di non poterlo fare.
Durante quei due lunghi anni, io avevo provato mille volte l'impulso di lasciare quello stupido lavoro improvvisato e l'appartamento malridotto per cercare lui o Jay. Come aveva fatto lui, a resistere, sapendo perfettamente dove mi trovassi?
Anche Jay aveva resistito, ma non contava, perché lui era diverso. Jay era sempre stato più freddo di noi, più calcolatore, riflessivo. Magari gliene importava poco della sua incolumità, ma non avrebbe mai messo noi in pericolo.
Mail invece no. Mail era un casino. La sua mente era dominata dal caos più totale, così come il posto in cui viveva, il suo cassetto della biancheria, le icone nel desktop del pc. Era esuberante, diceva cose senza senso, pensava ad alta voce, spesso dopo aver parlato. Altre volte se ne stava zitto per tempi lunghissimi, con gli occhi ridotti a due fessure, concentrato, ed era evidente che stesse cercando di mettere ordine nella sua testa.
Quando Jay si fermò sul pianerottolo e mi lanciò un sorriso storto, sentii le mie viscere contorcersi e feci una smorfia. Lui ghignò, si voltò e bussò alla porta quattro volte.
Aspettammo un po', agitati, mentre ci guardavamo intorno per assicurarci che non ci fosse nessuno sulle scale.
Io lanciavo occhiate nervose all'ascensore.
Poi, la porta si aprì di qualche centimetro, lasciandoci intravedere qualche ciuffo di capelli ricci e crespi di Mail.
«Ci avete messo una vita, cazzo» sbottò, facendo scivolare lo sguardo prima su Jay e poi su di me. Mi fece l'occhiolino, chiuse la porta, tolse tutte i catenacci e poi la riaprì, spostandosi per farci passare.
Jay si precipitò dentro casa, togliendosi il giubbotto per lanciarlo malamente e sdraiarsi sul divano.
Io esitai un attimo. Mail era, più o meno, come lo ricordavo. I riccioli neri erano sparati in tutte le direzioni, sembrava quasi che non li pettinasse da mesi. La pelle scura era quasi interamente ricoperta di orribili tatuaggi, cosa che mi fece storcere il naso. Come aveva fatto, in due anni, a riempirsi la pelle di schifo in quel modo?
«Che fai, adesso ti tatui anche la lista della spesa o cosa?» dissi, osservando dei fili che gli si intrecciavano sul collo e andavano a finire dietro l'orecchio «Non troverai mai un lavoro vero conciato in questo modo.»
Mail ridacchiò, con gli occhi scuri piegati e le fossette che gli si formavano sulle guance. «Beh, finché posso far sognare al mio capo tutte le cose atroci che gli accadrebbero se mi licenziasse...» fece, con un sorrisetto.
Io sbuffai e lo seguii all'interno. Avrei voluto abbracciarlo, dirgli che mi era mancato, che gli anni che avevo passato da sola erano stati atroci. Gli lanciai un'occhiata a cui rispose con una altrettanto significativa e il sorriso sparì dal suo volto. Alzò un braccio sfiorandomi il gomito con le dita.
Feci per dire qualcosa, ma mi bloccai. Sapevo che non era il caso, che non eravamo i tipi che si dicono le cose, che tutto quello che volevo dirgli lo sapeva già. Lui però mi guardava con gli occhi scuri che brillavano e in quel momento avrei solo voluto abbracciarlo e rimanere lì, con lui e Jay, in pace, per sempre.
A fatica distolsi lo sguardo.
L'appartamento era un delirio. Davanti a me c'era quello che doveva essere un salotto con angolo cottura, ma il pavimento era sommerso da libri e cartacce; c'erano posacenere piazzati nei posti più improbabili: ne notai uno sotto il tavolo, uno sopra la tv, un altro per terra al centro della stanza. C'era un divano con qualche maglietta abbandonata sopra, su cui adesso Jay aveva appoggiato i piedi senza farsi troppi problemi. Il tavolino davanti alla televisione contava, su di esso, due computer, una consolle portatile, tre cellulari e quattro telecomandi. A che cosa servissero quattro telecomandi, non me lo riuscivo a spiegare. Davanti alle finestre coperte con delle tende scure c'erano dei treppiedi che però tenevano su di loro dei binocoli, poi un telescopio, delle macchine fotografiche appoggiate per terra, un cartone vuoto di pizza. Sparse per tutta la stanza c'erano delle scatolette nere con dei piccoli schermi attaccati con lo scotch, probabilmente dovevano essere gli ultimi esperimenti partoriti dalla mente malata di Mail.
Alla mia destra, c'erano il bagno e la camera da letto, le cui porte aperte mi rivelarono essere nelle medesime condizioni della stanza in cui mi trovavo.
«Questa casa è l'inferno» mormorai, decisamente sconvolta.
Mail ridacchiò ancora, passandosi una mano tra i capelli crespi. Poi, sentii il rumore della porta che si chiudeva e delle catenelle che venivano rimesse al loro posto.
«Manca la presenza femminile, direi» disse Jay, con un ghigno, mentre mi fissava dal divano.
Io lo ignorai e mi tolsi cappotto e sciarpa, appoggiandoli sul tavolo da pranzo che era ricoperto di libri e giornali.
«Vuoi trasferirti tu da me, Jay?» lo provocò Mail, togliendo con poca grazia i suoi piedi dal divano e sedendosi con un tonfo.
Lui fece una smorfia e borbottò qualcosa sottovoce. Io ridacchiati: Mail era l'unico che riusciva a zittire Jay, e spesso lo faceva anche con cattiveria.
Mi avvicinai a loro e mi sedetti per terra, creandomi un po' di spazio tra le cartacce e i vestiti. Mail mi guardava in modo strano. Avrei voluto sedermi vicino a lui, passargli una mano tra i capelli, magari baciarlo, ma di solito nessuno dei due si lanciava in manifestazioni d'affetto davanti a Jay. Non l'avevamo mai fatto, neanche prima di renderci conto dei suoi sentimenti. Non eravamo abituati. Era meglio far finta di niente.
«So che fai l'investigatrice» disse Mail tranquillamente, come se non stessimo rischiando la vita.
«Già» dissi «Tu?»
Lui ghignò. «Gioco a poker, faccio le solite cose su internet, clono carte di credito...» buttò lì con leggerezza.
«Che cosa?» urlai sbalordita, alzandomi da terra.
Jay rise. «Te l'avevo detto che avrebbe gridato.»
«Clonare carte di credito!» esclamai, arrabbiata «Tu devi essere fuori di testa!»
I due ragazzi stavano ridendo come se avessi detto qualcosa di estremamente divertente e non accennavano a voler prendere sul serio la mia ira.
«Aspetta!» esclamai, assottigliando gli occhi «Come fai a sapere che faccio l'investigatrice?»
Jay si sbatté una mano sulla fronte e guardò in alto, scuotendo la testa. Mail fece un risolino isterico.
«Allora?» insistetti «Jay ha detto che mi tieni d'occhio. Sei diventato una specie di stalker o cosa?»
Jay si alzò dal divano e la sua espressione divertita fece posto ad una decisamente esasperata. Recuperò il giacchetto di pelle che aveva lanciato in precedenza e sbuffò. «Vado a prendere qualcosa da mangiare» disse «Voi ditevi tutte le cazzate che dovete dirvi, così poi magari possiamo parlare delle cose serie. Delle nostre vite, per esempio.»
Ci lanciò delle occhiatacce, fece una smorfia e si sistemò la pistola nei pantaloni.
«Sta' attento, imbecille» gli urlò dietro Mail. Lui fece sventolare il braccio con noncuranza, l'altra mano in tasca, e si chiuse la porta alle spalle con un
tonfo.

«Che gli è preso?» domandai «Prima rideva.»
Mail scrollò le spalle. «Lo sai che è un po' strano.»
Eravamo ricercati da una specie di boss della morte e della disperazione e quell'idiota andava a prendere da mangiare. Noi non eravamo meglio di lui, dato che ci mettevamo a parlare di cose così frivole in un momento del genere, ma uscire di casa così, senza motivo...
Certo, ancora non sapevamo se i Sovrumani avessero capito che abitavamo a Città Regresso, ma per non rischiare avremmo dovuto fare i bagagli una seconda volta e al più presto.
«Mi sei mancata.»
La voce di Mail era poco più di un sussurro e arrivò alle mie orecchie dolce e ovattata. Alzai lo sguardo su di lui, accorgendomi che stava abbozzando un piccolo sorriso. I suoi occhi scuri, circondati da piccole rughette precoci, brillavano.
Era completamente diverso da Jay: non aveva il fisico e il viso da ragazzino, non aveva un tocco delicato, non si tratteneva, non era tormentato.
Mail era così come lo vedevi: limpido come l'acqua, sereno, libero, anche se caotico e burrascoso, rumoroso, sboccato e a volte fuori luogo e fin troppo diretto nel modo di esprimersi.
Mi aspettavo che, non appena fossimo rimasti soli, mi avrebbe travolto in un abbraccio esattamente come avrei voluto fare io.
Non lo fece.
Rimase lì, seduto sul divano, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani strette l'una all'altra.
Io rimasi in silenzio a fissarlo, non capendo bene come comportarmi. Che cosa significava quel modo di fare?
«Ti trovo... bene» proseguì lui, con un piccolo accenno di esitazione che mi fu del tutto estraneo «Sai, so tutto di quello che hai fatto negli ultimi due anni. Non ti ho messo dei microfoni in casa, non fare quella faccia. Solo che ogni tanto passavo a controllarti, giusto per sapere se stessi bene. Io e Jay non abbiamo bisogno di protezione, ma tu...»
«Io non sono sveglia e furba come voi?» feci, con un sopracciglio alzato.
Non mi piaceva che Mail si fosse improvvisato uno stalker negli ultimi due anni, né mi piaceva pensasse che non fossi in grado di cavarmela da sola.
«No, non è questo» disse, scuotendo la testa e ignorando il mio tono irritato «È che tu... insomma, hai ucciso tre uomini quella notte. Avevo paura potessi dare di matto e fare qualcosa di stupido.»
Aprii la bocca, cercando di dire qualcosa, ma non ci riuscii. Dunque era quello l'unico motivo: era preoccupato per la mia stabilità mentale. Aveva forse paura che mi consegnassi?
Ci avevo pensato durante ogni notte trascorsa da sola in quella casa mezza distrutta. Ogni sera, prima di andare a dormire, pensavo che avrei dovuto pagare per quello che avevo fatto e che uccidermi sarebbe stato troppo facile. Avrei voluto consegnarmi sul serio, lasciare che i Sovrumani mi sezionassero viva, che mi attaccassero elettrodi al cervello. Era quello che mi meritavo.
L'unico motivo per cui non lo avevo fatto, era che sapevo che con la forza mi avrebbero estorto che anche Mail e Jay avevano delle capacità. E avrebbero rafforzato le ricerche, mettendo le loro foto ad ogni angolo, aumentando spropositatamente le taglie che già c'erano sulle loro teste.
«Avevi paura che vi tradissi?» domandai alla fine, assottigliando gli occhi «Pensi davvero che sarei capace di una cosa del genere?»
Mail scosse ancora la testa. «No, Tì» disse stancamente «Avevo paura che andassi a cercare Jay, mettendo così in pericolo tutti e due.»
«E perché mai sarei dovuta andare a cercarlo?» esclamai senza capire «Abbiamo giurato!»
Lui fece un sorriso amaro e appoggiò la schiena al divano, puntando lo sguardo alla sua destra. Improvvisamente mi accorsi che era esausto.
Non l'avevo mai visto così: lui era sempre pieno di vita, non esitava, non cercava mai le parole giuste da dire, parlava e basta. In quel momento, invece, sembrava tormentato. Sembrava quasi Jay, con gli occhi fissi su un punto imprecisato, i pugni serrati e l'espressione tesa.
«Quando hai un problema, di qualsiasi natura, vai sempre a cercare Jay» mormorò.
«Non è vero. Sono sempre venuta da te.»
Mail si girò e mi guardò fisso negli occhi. «Ti sbagli» disse, col tono di chi non ammetteva repliche «Ma non importa. È sempre stato così e sarà sempre così, e tutti ci abbiamo fatto l'abitudine. È un gran casino... ma non dovremmo pensarci più, giusto? Tra qualche giorno ognuno di noi riprenderà strade diverse. Questa volta per sempre.»
Avevo immaginato che sarebbe successa una cosa del genere, ma le sue parole mi ferirono. Un conto è ipotizzare, dentro di te sperare che uno di voi trovi la soluzione per non dovervi dividere più, un conto è sentirsi sbattere in faccia la realtà con un tono così fermo e distaccato. Sentii gli occhi che cominciavano a pizzicarmi.
«Che ti è successo, Mail?» mormorai «Quando sei diventato così?»
Lui distolse lo sguardo e non rispose. Fece un profondo sospiro, si passò una mano sulle labbra e sul mento e alzò gli occhi al soffitto.
«Non voglio fare questo discorso, Tì» disse.
«Ma che significa?»
«Non ci vediamo da due anni e questa probabilmente è l'ultima occasione per stare insieme. Lasciamo perdere tutto. Non parliamo. Non voglio portarmi dietro un brutto ricordo.»
Lo guardai senza capire. «Un brutto ricordo? Ma che stai dicendo?»
«Lascia perdere.»
«No.»
Mail mi guardò a lungo e strinse le labbra. «Secondo te è stata una mossa intelligente, quella di Jay?» domandò, poi «Venire qui non appena si è reso conto che l'avevano trovato.»
«È venuto qui per avvertirci» risposi immediatamente «Così non avrebbero trovato anche noi.»
Mail ridacchiò senza traccia di allegria. «E che cosa ti fa pensare che avrebbero trovato anche noi? Magari erano solo sulle sue tracce. Anzi, al novanta per cento è così. Venendo qui ci ha solamente messi in pericolo. Non credi?»
«Jay non lo farebbe mai!» esclamai.
«Jay non lo farebbe mai!» mi scimmiottò lui «Stai sempre a difenderlo, qualunque cosa faccia. Anche quando abbiamo scoperto come riusciva ad ottenere tutti quei soldi... l'hai fatto perfino dopo come ti ha trattata al Centro 23! E lo fai anche adesso, negando i fatti evidenti.»
«Stai parlando a vanvera» dissi, decisa «Lo fai sempre, Mail. Non capisco dove tu voglia arrivare!»
«Mi trovi bene, vero?» domandò «Sicuramente sono più in forma di quando ci siamo lasciati.»
Lo guardai senza capire. Lui ammiccò e proseguì. «Forse era la competizione ad avvelenarmi il sangue. Ci ho pensato a lungo e l'unica spiegazione che mi sono dato è questa.»
«Di che cosa stai parlando? La competizione con chi?»
«Con Jay» rispose semplicemente, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Quello che dici non ha senso...» scossi la testa.
«Ha perfettamente senso, invece» disse «Guardaci, Tì. Io e te, tu e Jay, Jay e me: se le nostre vite fossero una fiction, sarebbe la più scadente di tutte.»
«Smettila con queste stupidaggini!» sbottai, alzando la voce «Ti devo forse ricordare di un particolare fondamentale? A Jay non piacciono le donne, Mail! E anche se gli piacessero, non gli piacerei io. Siamo io e te, nessun altro! Questo discorso è ridicolo...»
Lui si alzò all'improvviso e così feci io. Per un lungo istante ci guardammo negli occhi senza parlare.
«Sono stato io a dire a Jay di venire qui. Prima mi hai chiesto quando sono diventato così. Beh, te lo spiego: stando lontano da voi per tutto questo tempo, ho capito tante cose. E ho capito che questa storia va avanti da troppo e che io non starò bene finché non sarà tutto finito. Non starò mai bene finché voi due non ve ne sarete andati dalla mia testa. Ho fatto molte passeggiate nei tuoi sogni, Tì. E sai che cosa ho visto? Jay. Sempre e solo Jay. Di me, non c'era mai traccia.»
Le sue labbra erano piegate in un sorriso carico di risentimento e amarezza. Non dissi niente e aspettai che lui ricominciasse a parlare.
«Così, alla prima occasione utile, ho detto a Jay di venire qui. In modo di portarci anche loro. Ho un piano per chiudere tutta questa storia, e funzionerà. A quel punto, forse, potrò ricominciare ad avere una vita.»
Mail mi guardò assottigliando i suoi grandi occhi scuri. Poi voltò il capo in direzione della porta, rendendosi conto che qualcuno stava armeggiando con la serratura. Dal colletto della sua maglietta riuscivo a veder spuntare il disegno di una piccola clessidra, proprio sopra la clavicola destra. Mi domandai se, alla prima occasione utile, avrebbe cercato di cancellare anche quello, magari coprendolo con qualcos'altro.
Stavo giusto per chiederglielo, volevo sapere se davvero aveva intenzione di lasciare tutto ciò che ci riguardasse, ma nell'istante in cui feci per aprire bocca sentii la porta della sua camera che sbatteva e quella dell'ingresso che si apriva.
Quando Jay entrò in casa, la sua espressione ferita mi fece capire che aveva sentito tutto ciò ci eravamo detti. Ma io, al contrario di lui, avevo anche visto lo sguardo di Mail. Lo sguardo di qualcuno che mi aveva dimenticata.

 

Jay non disse niente. Appoggiò la busta con il cibo nel tavolino stracolmo di cianfrusaglie, si tolse la giacca di pelle e si lasciò cadere sul divano passandosi una mano tra i capelli cortissimi.
Io rimasi ferma al centro della stanza, lo sguardo che vagava da lui alla porta chiusa di Mail, mentre ancora riuscivo a sentire il frastuono che aveva fatto nello sbatterla.
Gli occhi mi pizzicavano.
Dunque era questo che eravamo diventati ai suoi occhi: un incubo ridicolo. Uno di quelli che, ripensandoci a posteriori, fa solo ridere. Me lo immaginavo mentre, con i capelli brizzolati e degli occhiali a mezzaluna, sorrideva amareggiato dicendosi che con noi aveva solamente perso tempo e sanità mentale.
Un po' come facevo io quando pensavo alla cotta che mi ero presa per Jay da piccola. “Che cosa stupida”, mi dicevo, “Totalmente insensata. Uno spreco di energie senza nessuna logica”.
E quando mi accorgevo che se lui mi guardava lo stomaco mi si contorceva, mi convincevo che era dovuto solo al mio orgoglio che ancora era ferito per aver fatto la figura della stupida, della ragazzina, della debole.
In quel momento non potevo fare altro che odiare Mail per aver riaperto quella ferita. E odiavo anche Jay, che se ne stava lì zitto senza degnarmi di uno sguardo, che sicuramente mi disprezzava per avergli messo contro Mail.
Dentro di me sentivo nascere un uragano. Il sangue mi scorreva più velocemente nelle vene, la pelle del mio viso era diventata incandescente, le labbra mi tremavano.
Tutto quello che, nel corso di quegli anni di lontananza, avevo faticosamente messo in ordine nella mia testa adesso era fuori posto, in rivoluzione.
Mail aveva distrutto la mia pace. La nostra pace. E per questo non l'avrei mai perdonato.



Mail uscì dalla sua stanza dopo qualche ora. Aveva con sé uno dei suoi computer, un blocchetto per gli appunti e una penna. Si sedette sul divano tra me e Jay senza degnarci di uno sguardo, poggiò il portatile sul tavolino e lo accese.
«Dobbiamo parlare del piano» disse «Quello per liberarci dei Sovrumani. Secondo i miei dispositivi, saranno qui in meno di trentasei ore.»
Rabbrividii nel sentire quelle parole e mi portai una mano alla bocca.
Mail era impassibile mentre batteva le dita sulla tastiera del pc, digitando stringhe di codici che per me erano incomprensibili. Jay lo fissava serio e composto, con l'espressione di chi avrebbe fatto tutto ciò che occorreva per lasciarsi questa storia alle spalle. Il fatto che, probabilmente, tra meno di due giorni saremmo finiti rinchiusi in una stanza bianca con degli aghi conficcati nel cervello, non sembrava scalfirlo più di tanto.
«Che cosa intendi con “dispositivi”?» domandò.
Mail sembrò rifletterci un attimo. «Intendo...» cominciò «dispositivi. Ho microtelecamere a infrarossi piazzate a tutte le uscite della città, in questo modo controllo le auto dei Sovrumani che entrano ed escono. La loro “polizia” in genere ha divisa arancione, ma i cacciatori di taglie vestono di nero. Ho fatto ricerche approfondite e gli unici fuggiaschi qui siamo noi, quindi, se entreranno in città, entreranno per noi. Conosco uno storpio che conosce uno storpio che è cugino di un tale la cui fidanzata abita vicino ad un tizio Rieducato che pulisce i cessi della loro stazione di polizia, e tramite questa via ho scoperto che ieri una telecamera di sicurezza ha ripreso un ragazzo che gettava una moto nel fiume. Dal colletto della sua giacca si intravedeva una cicatrice particolare, una di quelle che solo i coltelli speciali dei Sovrumani possono fare. Dovevi stare più attento, Jay.»
Jay imprecò, diventando tutto rosso in faccia.
«Non ti preoccupare» continuò Mail senza degnarlo di uno sguardo «Il piano è proprio questo. Condurli qui da noi così da chiudere questa storia.»
«E come hai intenzione di fare?» domandai, temendo un pochino la sua risposta.
Lui continuò a battere velocemente le dita sulla tastiera finché non si aprì quella che sembrava una ripresa di una telecamera di sorveglianza. Ingrandì il punto che gli interessava e poi si appoggiò allo schienale del divano, per permetterci di guardare.
Io e Jay avvicinammo il viso al monitor del pc, socchiudendo gli occhi per cercare di capire cosa contenevano quelle immagini sgranate.
In bianco e nero, si intravedeva una gigantesca fossa nel terreno. E dentro quella fossa, c'erano corpi. Tantissimi corpi. Uomini e donne, di tutte le età, morti. Mail aveva piazzato una telecamera per sorvegliare una fossa piena di cadaveri.
«Che cosa significa?» mormorò Jay, con voce rotta.
Riuscii a staccare lo sguardo dallo schermo per posarlo su Jay, che ancora guardava quella distesa di gente morta con gli occhi sgranati. Che cosa aveva intenzione di fare Mail?
«Sentite, lo so che è orribile» disse «Ho passato anni a cercare una soluzione a questo problema, e l'unica praticabile è questa. I miei poteri possono aiutarci, certo, ma momentaneamente... ai Sovrumani dovrà rimanere in mano qualcosa.»
«Che diavolo stai dicendo, Mail?» sbottò Jay, staccando finalmente gli occhi dal monitor e posandoli su di lui «Spiegaci che cazzo vuoi fare.»

Mail sospirò. «Dobbiamo fare finta di morire» disse.





 








Buonasera a tutti, anche il secondo capitolo è finito!
Ringrazio tutti coloro che hanno commentato, che hanno messo la storia tra i seguiti, e anche tutti i lettori silenziosi! Grazie davvero :)
Il terzo e ultimo capitolo arriverà il prossimo finesettimana :)
Un abbraccio

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Capitolo 3
*** 3.Tì + 4.La stazione di un'altra città ***


3.Tì




Il piano di Mail era spaventoso e, semplicemente, sbagliato.
Durante la mia esistenza, seppur breve, avevo imparato che non importa quanto tu abbia sofferto, che non conta il fatto che meriti un po' di felicità, conta il modo in cui quella felicità te la prendi.
Io lo sapevo bene: avevo ucciso degli uomini – che sicuramente avevano compiuto molte azioni deplorevoli – per salvare la vita dei miei amici e la mia, avevo mentito, avevo rubato, avevo fatto del male a persone che nemmeno conoscevo, tutto per proteggermi e per proteggere quelli che mi erano più cari al mondo. E dopo quello che avevo passato, chi avrebbe potuto biasimarmi? Non meritavo forse anch'io un po' di sicurezza, un po' di felicità? Non meritavo anch'io di vivere?
Ma in questo mondo non funziona così: non contano gli scopi, contano solo i mezzi usati per ottenerli. E se i mezzi sono sbagliati, paghi il pegno.
Io avevo pagato ogni singola cattiva azione che avevo commesso: l'avevo pagata con la paura, la solitudine, gli incubi, con il desiderio costante di consegnarmi ai Sovrumani e non poterlo fare.
Anche Jay aveva pagato. E anche Mail, a modo suo, l'aveva fatto.
Ma adesso mi aveva messo di fronte all'ennesimo vicolo cieco: avrei dovuto compiere un altro gesto ignobile per salvarmi la vita.
Mi aveva concesso un po' di tempo per pensarci, ma come avrei potuto dire di no? Avrei davvero potuto rifiutare, ben sapendo che né lui né Jay sarebbero andati avanti senza di me?
Avrei davvero potuto tirarmi indietro cancellando così ogni possibilità di Mail di costruirsi una vita lontano da noi e dal nostro ricordo?
Se fossi stata più meschina, l'avrei fatto. Mi sarei vendicata per tutte le cose orribili che mi aveva detto poche ore prima, per il modo in cui mi stava facendo sentire, per la confusione in cui mi aveva gettata. Gliel'avrei fatta pagare per aver detto di volerci cancellare. Per avermi dimenticata.
Ma non ero fatta così. E mi ritrovai a pentirmene.
«Posso farlo io al posto tuo.»
La voce di Jay era un sussurro appena accennato. Era sdraiato per terra avvolto da un paio di coperte, proprio accanto al divano su cui invece ero coricata io. La lampada era spenta, ma dalle tende scure filtrava una flebile luce che veniva dalle illuminazioni della città. Non era notte fonda, anzi il sole era appena calato: avevamo deciso di riposarci qualche ora in modo da non recarci alla fossa comune troppo stanchi. Alle due di notte saremmo usciti di casa e avremmo cominciato ad attuare il piano di Mail.
«No» mormorai «Devo farlo io. Posso usare il mio potere... tu, invece... non voglio che ti metti a spostare cadaveri al mio posto.»
Jay sospirò. Non potevo vederlo al buio, ma sapevo che mi stava guardando.
«Mail ti ha chiesto di farlo solo per punirti. Lo sai, vero? Non gli sarebbe mai venuto in mente, altrimenti. L'avremmo fatto io e lui senza neanche porci il problema.»
Strinsi gli occhi. «Lo so.»
«Lascia che lo faccia io» insistette.
«No» ripetei «Forse è quello che mi merito. Però... potresti starmi vicino.»
Lo dissi tutto d'un fiato, arrossendo nel buio della stanza.
Jay non rispose, però tutto d'un tratto cominciai a sentire un fruscio di coperte. La sua mano si insinuò sotto la mia trapunta e le sue dita fredde si intrecciarono alle mie.
Mentre sentivo quel familiare formicolio che partiva dalla punta delle mie dita, pensai che forse Mail aveva ragione e che era vero che quando ero turbata, infelice, persa, era Jay che volevo accanto. Perché sapevo che dopo tutto quello che avevo passato, nonostante tutte le cose che ci univano e ci dividevano, lui ci sarebbe stato e avrebbe trovato il modo di aiutarmi. E non con i suoi poteri, ma con un semplice sguardo, con una carezza. Mi bastava sapere che lui c'era, che esisteva, e mi sentivo meglio.
Ma quella volta, però, mi fece un regalo: il formicolio che partiva dalla sua mano si estese dalla punta delle mie dita fino a percorrermi tutto il braccio. Quando, dopo una manciata di secondi, travolse tutto il mio corpo, sentii un'ondata di pace e tranquillità pervadermi e sprofondai in un sonno senza sogni.




Mail ci aveva spiegato che quel posto si chiamava “Cimitero Discarica” e quella fossa che avevamo visto era il posto in cui gli storpi gettavano i drogati di Mevitol dopo averli giustiziati. La sorveglianza si riduceva a quattro uomini che si alternavano in turni di dodici ore l'uno nell'arco della settimana, ma lo storpio che aveva il turno di notte il mercoledì si addormentava sempre, quindi quello era il momento giusto per introdurci dentro e rubare i cadaveri.
Muovere gli ingranaggi che costituivano la serratura del cancello sarebbe stato un gioco da ragazzi per me, in condizioni normali, ma in quel momento le mani mi tremavano talmente tanto ed ero talmente agitata che non sapevo nemmeno da dove cominciare.
Da qualche parte dietro di me, Mail sbuffò. Questo era un suo atteggiamento che mi era totalmente estraneo: era Jay, quello che sbuffava. Era Jay quello che si lamentava, quello che infieriva, quello che scuoteva la testa. Era lui la serpe, non Mail.
Lentamente mi voltai a guardarlo, con gli occhi che pizzicavano. E mi resi conto che quel mostro l'avevo creato io.
Lui si riscosse, forse accorgendosi che non era un atteggiamento degno di lui.
«Scusa» disse, guardando da un'altra parte. Si avvicinò a me e mi poggiò delicatamente una mano sulla spalla. «Puoi farcela. Concentrati.»
Jay, dietro di noi, osservava la scena impassibile.
Feci un profondo sospiro, mi girai verso in cancello e tentai di concentrarmi.
Sentivo la lieve pressione della mano di Mail sulla spalla e questo contribuì ad infondermi un po' di sicurezza.
Di solito immaginavo l'oggetto che si spostava nella mia mente e questo si muoveva, andando nella posizione che desideravo. Questa volta, però, non potevo semplicemente spostare il cancello, perché avrebbe fatto troppo rumore.
Dovevo immaginare quella piccola levetta che scattava, nonostante non l'avessi mai vista. Era un pochino più difficile del normale.
Respirai a fondo e chiusi gli occhi. Dovevo farcela: il cancello era troppo alto per essere scavalcato e, se volevo fare in modo che Mail si creasse una vita felice, dovevamo entrare là dentro. Non potevo fallire.
«Apri gli occhi, Tì» disse Mail.
«Ancora un attimo» dissi «Posso farcela, aspettate un altro po'.»
«Tì, il cancello è aperto» fece Jay «Ci sei riuscita.»
Aprii gli occhi. Il cancello si era mosso di pochi centimetri. Ci ero riuscita e nemmeno me ne ero accorta.
Non sorrisi. Forse una parte di me non voleva realmente entrare in quel posto a disturbare i morti.
«Andiamo» borbottò Mail, superandoci e spingendo con forza le sbarre di ferro.
Io e Jay ci scambiammo un'occhiata veloce e poi lo seguimmo all'interno.
All'apparenza, quel posto era un cimitero normale. C'erano croci sparse in giro per il prato, cappelle, tombe un po' più articolate, ma Mail non le degnò di uno sguardo. Girava con sicurezza per quei sentieri, senza esitare nemmeno per un attimo; mi domandai quante volte avesse percorso quella strada, di giorno, per preparare il piano.
Ad un certo punto, dopo aver camminato per almeno quindici minuti, arrivammo davanti a quello che sembrava il baracchino del custode. Era di legno e malconcio, ma dalla finestra si riusciva ad intravedere una luce. Mail ci fece segno di stare fermi e si avvicinò per controllare che si fosse già addormentato.
«Via libera» mimò con le labbra e noi gli andammo incontro.
Superò lo stabile e scavalcò agilmente il muretto dietro esso, con noi che ripetevamo le sue mosse. Poi, ci ritrovammo di fronte ad una specie di palazzo.
«Devi aprire un'altra porta, Tì.»
Il palazzo era a due piani, ma il secondo era costruito a metà. Non c'era nessuna finestra e solo una piccola porta arancione. “Vietato l'ingresso”, c'era scritto sopra.
Quella volta non fu difficile come la precedente. Riuscii immediatamente a far scoccare la serratura e la porta si aprì. Fu in quel momento che cominciammo a sentire la puzza.
Mail la ignorò ed entrò, deciso.
Io esitai. Quell'odore rivoltante mi faceva venire i conati di vomito e la testa mi girava.
Jay mi passò un braccio intorno alle spalle, l'espressione amara e gli occhi socchiusi.
«Coraggio, Tì» mormorò «Un ultimo sforzo.»
Feci un profondo sospiro, chiusi gli occhi ed entrai.




I morti non dovrebbero essere disturbati.
Questo era quello che avevo pensato mentre con i miei poteri spostavo un cadavere dopo l'altro, nella spaventosa ricerca di tre ragazzi che ci somigliassero almeno un po' come corporatura.
Jay e Mail li avevano esaminati meticolosamente, bocciandoli dopo una rapida occhiata: «Questo è troppo grosso» diceva Mail, «Questa è troppo giovane», «Questo andrebbe bene se solo non gli mancasse una gamba».
E io li avevo spostati, uno dopo l'altro, con le mani che mi tremavano e le narici pregne di quella puzza di morte che, lo sentivo, mi si stava attaccando ai vestiti, ai capelli, stava cominciando a scorrermi nelle vene.
I morti non dovrebbero essere disturbati.
Per tutto il tempo trascorso dentro quella stanza fatiscente mi ero chiesta quale sarebbe stato il prezzo per un'azione così deplorevole, se sarebbe stato più alto di quelli che avevo dovuto pagare in passato. Mi ero chiesta se un giorno mi sarei liberata di quel ricordo o se avrei passato tutta la vita a sognare le facce di quei tossici di Mevitol morti, molti dei quali lì per causa mia.
Mail non mi aveva degnata di uno sguardo per tutto il tempo. Se mi avesse guardata probabilmente avrei pianto, ma non so se il motivo per cui non lo fece fosse questo. Fatto sta che aveva passato quelle ore impartendo ordini dall'altra parte della stanza, dicendomi: «Questo non va bene, rimettilo a posto», «Prova con questo sotto il ragazzino», «Cerca di essere più ordinata, altrimenti non capiamo quali abbiamo già visto e quali no».
Jay gli aveva lanciato occhiatacce di tanto in tanto, ma non aveva detto niente, probabilmente troppo nauseato per parlare. Forse pensava che se solo avesse aperto bocca quell'essenza di morte gli sarebbe entrata dentro.
Quando finalmente Mail trovò i corpi che cercava, io avevo pensato di essere già morta.
Li avevamo trasportati dentro dei sacchi fino alla mia macchina e li avevamo accasciati nel cofano, ma la puzza arrivava fino all'abitacolo.
Adesso eravamo al fiume che separava Città Regresso dal nulla più completo.
Mail aveva detto che potevamo far finta di esserci accampati lì per scappare dai Sovrumani e perciò avevamo montato una tenda e acceso un fuoco.
«Come stai?»
La voce di Jay sembrava lontana anni luce da me. Lanciava sassi sulla superficie del fiume cercando di fargli fare qualche rimbalzo, ma non ci riusciva.
«Bene» mentii.
Lui ridacchiò tristemente e lanciò un altro sasso, questa volta con più rabbia di prima.
Il fiume, di cui non conoscevamo il nome, scorreva veloce guidato dal vento freddo che ci scompigliava i capelli. Mi domandai se, immergendomi completamente nelle sue acque, avrei potuto levarmi di dosso tutto quello sporco che mi stava prendendo anche l'anima.
«È qui che ho buttato la mia moto» disse Jay «Quella che avevamo rubato dal parcheggio del cinema. Quella nera.»
«Immaginavo fosse sempre la stessa» borbottai.
«L'ho buttata perché non volevo che ci rintracciassero a causa di essa... e poi scopro che il piano di Mail prevedeva proprio il farci rintracciare. Insomma, ho perso la moto senza motivo.»
«Brutta storia.»
«Già» lanciò un altro sasso e questa volta fece un rimbalzo «L'avevo riverniciata, sai? Insieme a Dylan. L'avevamo fatta rossa.»
«Un colore che non attira l'attenzione, insomma.»
Jay rise. Non era mai stato attento e meticoloso come me e Mail, proprio per questo ero sempre stata convinta che sarebbe stato il primo ad essere preso.
«È il colore preferito di Dylan» si giustificò con un'alzata di spalle.
«Anche il mio.»
«Lo so.»
Mi strinsi le ginocchia al petto, appoggiandoci sopra la testa. Il rumore dei sassi contro la superficie dell'acqua mi trapanava le orecchie e in lontananza riuscivo a sentire anche le dita di Mail che battevano furiosamente sulla tastiera. Forse stava sincronizzando le bombe con il telecomandino che si era portato dietro.
«Se sopravviveremo a questa notte... pensi che tornerai da lui?» domandai, atona «Da Dylan.»
Jay si passò una mano sul mento e sulla bocca. «No» rispose, secco.
«Lui lo sa?»
«Gli ho lasciato un biglietto sul frigo.»
«Capisco.»
Feci un mezzo sorriso. Jay non era fatto per gli addii: a volte perché non gliene importava niente, a volte perché gliene importava troppo. Mi domandai in quale categoria di persone rientrasse questo Dylan e in quale rientrassi io. Probabilmente eravamo entrambi nella seconda, ma tanto lui non l'avrebbe mai ammesso. Mail era sicuramente nella seconda.
Due anni prima, quando avevamo scelto di dividerci, ci aveva guardati a lungo. Poi aveva alzato piano la testa, aveva deglutito guardando Mail, gli aveva fatto un cenno e aveva dato gas alla moto.
Non si era voltato indietro nemmeno per un attimo. Forse quella era stata la seconda volta in cui mi aveva spezzato il cuore.
«Ce l'hai un posto dove andare?» gli chiesi.
«No. Tu?»
«No. Farò come l'altra volta... prenderò un treno a caso e scenderò in una stazione a caso.»
Lui rimase in silenzio, guardando il suo riflesso sporco sulle acque limpide.
«Jay...» cominciai, esitante.
«Dimmi.»
«Secondo te ci rivedremo, prima o poi?»
Jay si passò una mano sulla testa e alzò lo sguardo al cielo. «Le nostre vite scorrono insieme, Tì. Non te lo dimenticare.»
«Mail non vorrà vederci mai più. Per colpa mia.»
«Che bel regalo che mi hai fatto, eh?» disse a denti stretti. Mi guardò senza rabbia, senza accusa, ma il suo tono era amaro.
Deglutii, sentendo gli occhi che mi pizzicavano. Mi maledissi per non aver ascoltato Mail, il giorno prima. Lui l'aveva detto, che era meglio non parlare. L'aveva detto, che così facendo ci saremmo portati dietro un brutto ricordo. E di fatto, parlando, avevamo scombinato le carte in tavola. E avevamo rovinato tutto.
Ci sono cose che non si devono dire. E ferite che non si devono riaprire.
«Ti ricordi i primi mesi da fuggiaschi?» domandai, sentendo che le unghie mi si stavano conficcando nei palmi.
Jay, accanto a me, si mosse nervosamente. «Sì» disse.
«Avevamo paura di dormire da soli» continuai «Quindi dormivamo tutti e tre nello stesso letto, ma stavamo stretti. Mail è un gigante, si prendeva tutta una piazza...»
«Tu stavi schiacciata come una sottiletta e tremavi come una foglia.»
«E tu ti lamentavi perché non riuscivi a dormire e mi dicevi di smetterla, altrimenti te ne saresti andato sul divano. Mail ti diceva di piantarla e di fare silenzio, ma anche lui sapeva che non te ne saresti mai andato.»
Jay mi sfiorò le nocche della mano chiusa a pugno con le sue dita incredibilmente fredde. «Magari prima o poi mi avresti esasperato talmente tanto che me ne sarei andato. Chi lo sa?»
«Facevi in quel modo ogni notte» continuai, ignorandolo «Dopo un po', quando non ne potevi più, mi mettevi una mano sul collo e io cominciavo a sentire quel formicolio strano... e poi mi addormentavo.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Ha ragione Mail» mormorai. «Sei sempre stato tu. Sarai sempre tu, Jay.»
«Lo so» rispose lui.
Chiusi gli occhi. Il venticello che si era alzato era gelido e sferzava la superficie dell'acqua. Poi alzai lo sguardo: i piccoli sassolini sembravano riflettere la luce e pensai che somigliassero a tantissime stelle. Da lontano riuscivo a sentire il ticchettare frenetico delle dita di Mail sulla tastiera.
Pensai che quello era un bel posto per morire.
«Tì, io...»
«Non importa» lo interruppi «Non c'è bisogno che mi rispondi. L'abbiamo già fatto questo discorso, no? Anni fa... Va bene così. Mi basta che tu ci sia.»
Jay mi cinse le spalle con un braccio. Mi voltai a guardarlo a notai che aveva gli occhi un po' lucidi, anche se la bocca era incrinata in un mezzo sorriso. Appoggiai la testa sulla sua spalla e lui mi strinse più forte.
«Vorrei poter continuare ad esserci» sussurrò «Lo vorrei davvero.»
«Lo vorrei anche io.»





Era tutto pronto. Mail aveva piazzato le bombe che aveva costruito tutte intorno al perimetro, avevamo fatto sparire i sacchi per i cadaveri – che ancora giacevano nel bagagliaio – e tenevamo vivo il fuoco vicino alla tenda. Eravamo riusciti a creare un ambiente particolare: sembrava che avessimo davvero deciso di stabilirci in quel posto.
Aspettammo tutta la notte e il giorno successivo, ma quando il sole calò di nuovo e la luna si liberò alta nel cielo, vedemmo il furgone blindato arrivare.
Eravamo pronti.
Sapevamo che le possibilità di successo erano scarse e che avremmo dovuto essere scaltri, attenti, furbi.
Ci alzammo tutti e tre.
Jay si voltò a guardarmi. «Non preoccuparti, Tì» sussurrò, sfilandosi la pistola dai pantaloni. «È un bel posto per morire.»
Non dissi niente.
Mail, accanto a me, stringeva spasmodicamente il piccolo telecomandino per azionare le bombe. Con l'altra mano mi passò una pistola. Mi sembrava quasi che mi stesse ustionando la mano, talmente era gelida.
Quando i nostri sguardi si incrociarono, abbozzò un sorriso nervoso. Mi domandai se fosse felice perché da lì a poco le nostre strade si sarebbero divise per sempre.
Dal furgone scesero cinque persone: tre uomini e due donne, tutti vestiti di nero, segno che erano cacciatori di taglie. Non erano Sovrumani: lo capivo dai loro visi, dalla loro corporatura, dalle loro espressioni.
I Sovrumani erano bellissimi e la loro bellezza risplendeva tutta intorno a loro, quasi abbagliando coloro che li guardavano. Avevano espressioni fiere e altezzose, senza nessun segno di paura o nervosismo, guardavano coloro che ritenevano inferiori con disgusto e pena.
No, loro erano semplicemente Rieducati di primo livello, ciò che saremmo dovuti diventare noi se non fossimo scappati. Probabilmente i Sovrumani avevano pensato che non valeva la pena scomodarsi per tre scarti come noi.
Niente di più sbagliato.
Alzarono le armi e una delle due donne, con un'espressione talmente cattiva da ricordarmi un diavolo, parlò. «Non opponete resistenza e nessuno si farà male» disse, ma dal suo sguardo riuscivo a capire che non desiderava altro che piantarci una pallottola in fronte. «Abbassate le armi.»
Jay non diede segno di averla sentita e tenne ancora più alta la pistola.
«Sono troppi» disse Mail in un sussurro appena percettibile «Non posso controllarli tutti. Tre di loro devono morire.»
Serrai la bocca nervosamente. Li passai in rassegna uno ad uno, cercando di immaginare quali di loro sarebbero morti da lì a poco o se sarebbero stati più furbi di noi e ci avrebbero fatto fuori prima che potessimo premere il grilletto.
Lanciai un'occhiata a Jay vedendo che non stava battendo ciglio. Forse aveva già deciso che sarebbe stato lui a farlo.
«Abbassate le armi» ci intimò uno dei Rieducati. «È finita, ragazzi.»
Jay e Mail si scambiarono un veloce cenno di intesa e le abbassarono.
Sembrava che il tempo stesse scorrendo molto più lentamente di quello che era in realtà: vedevo quei cinque uomini avvicinarsi con passo calmo e le pistole alzate, sentivo il rumore del fiume che scorreva alle mie spalle, lo scoppiettio del legno che bruciava alla mia destra.
Poi, Mail ci guardò, ci fece l'occhiolino e premette il pulsante.






Da quel momento in poi successe tutto velocemente. Ciò che dovevamo fare ci era stato spiegato minuziosamente da Mail, quindi eravamo preparati, sincronizzati, precisi. Ci fu solo un piccolo cambio di programma: non appena le bombe esplosero e gli alberi cominciarono a bruciare, nella baraonda che si creò e di fronte alle espressioni stupite dei Rieducati, Jay premette il grilletto cinque volte talmente velocemente che i miei occhi non riuscirono a registrare alla perfezione ciò che stava succedendo.
Vidi due uomini e una donna cadere a terra: uno con un foro sulla fronte e gli altri con due buchi nel petto.
Prima che i due superstiti potessero rendersene conto, Mail alzò un braccio e chiuse il pugno: gli stava facendo ciò che lui chiamava “ipnotizzazione con stile”.
«Forza!» gridò «Adesso!»
Jay gettò la pistola per terra, più padrone di sé di quanto sarei stata io se avessi appena sparato a tre persone, e corse verso di me.
Aprì il cofano dell'auto e insieme cominciammo a tirare fuori i tre cadaveri, mentre il puzzo di morte mescolato al fumo causato dall'incendio ci impregnava le narici, i vestiti, i capelli.
Mail, a pochi metri da noi, aveva gli occhi chiusi stretti stretti e il pugno serrato in aria.
L'uomo e la donna davanti a lui erano immobili, le braccia lasciate libere lungo i fianchi, gli occhi aperti e i visi completamente inespressivi.
Io e Jay sistemammo i corpi in auto: uno sul sedile anteriore, al volante, e gli altri due nei sedili posteriori.
Dall'esterno feci in modo che la chiave girasse nella toppa, che il piede del cadavere che doveva essere Mail premesse sull'acceleratore, che la macchina partisse.
Jay andò vicino ai Rieducati, sfilò lentamente le loro due pistole dalle mani e sparò una raffica di colpi all'auto che, finita sugli alberi infuocati, prese fuoco.
Dopo, risistemò le pistole nelle mani dei proprietari.
«Mail!» gridò «Andiamocene!»
Lo afferrò per un braccio e lo guidò mentre lui stava ancora con gli occhi chiusi. Lo portò lontano dall'incendio, lontano dal fumo, abbastanza lontano da poter scappare. Io li seguivo e, quando fummo ad una cinquantina di metri da loro, nascosti dietro degli alberi, Mail aprì gli occhi e abbassò il pugno, segno che “l'incantesimo” era finito.
Sentimmo uno dei Rieducati urlare all'altro di chiamare i rinforzi, i pompieri, un'ambulanza, qualcuno.
Sapevo perfettamente ciò che avevano visto: noi che correvamo verso la macchina e Jay che ci seguiva dopo aver sparato a tre di loro, mentre cercavamo di ripararci dalle pallottole. Il fumo che copriva tutto, gli alberi che bruciavano.
Mail che metteva in moto mentre noi salivamo sul sedile posteriore. La macchina che barcollava mentre cercavamo di scappare, ma non ci riuscivamo perché loro ci sparavano addosso colpendo vetri, gomme, serbatoio.
E poi, quando ormai il veicolo non poteva in nessun modo continuare a muoversi, nelle loro menti finiva tra le fiamme, impedendoci di uscire e bruciandoci vivi.
Eravamo morti. Forse anche per davvero.




Nella mia mente la stazione di Città Regresso era più un simbolo che un luogo. Rappresentava la sconfitta, la malinconia, la solitudine.
Rimetterci piede dopo due anni fu strano.
Vedevo Sovrumani in giacca e cravatta che camminavano lentamente, composti, forse per prendere qualche coincidenza; storpi che si aggiravano per quelle vie senza una meta precisa, senza nessuno scopo a parte il rimanere in vita; mamme che guardavano i loro figli tristemente, pensando al giorno in cui glieli avrebbero portati via.
Nei due anni in cui avevo vissuto a Città Regresso avevo pensato spesso a mia madre. Mi ero chiesta dove si trovasse, se fosse ancora viva. Mi ero ritrovata più volte a sperare che fosse morta e che avesse smesso di soffrire.
Quando vivevo al Centro 23, speravo sempre che un giorno o l'altro sarebbe venuta a prendermi e mi avrebbe portata via con sé. L'avevo confidato a Mail e lui mi aveva risposto che probabilmente le avevano manomesso il cervello talmente tanto che mi aveva dimenticata.
Io invece non l'avevo dimenticata. Non avrei mai dimenticato nessuno di loro: mia madre, Jay, Mail.
Li avrei sempre custoditi gelosamente in un angolo del mio cuore, pensando a loro costantemente, ripercorrendo con la mente i momenti più felici.
Non avrei mai parlato di loro con nessuno, in modo che rimanessero solo miei. E avrei accettato tutti i sentimenti contrastanti che forse solo in quel momento, quello dell'ennesimo addio, riuscivo a comprendere completamente. Li avrei accettati e li avrei fatti miei, senza mai cercare di cancellarli.
Perché avevo capito che quei sentimenti non li potevo combattere.
Avrei passato il resto della vita sperando di rivedere Jay, un giorno o l'altro. E sperando di non rivedere mai più Mail.
Lo guardai. Lui mi sorrise per un solo istante.
«È andato tutto bene» sussurrò «Adesso è arrivato il momento di levare le tende.»
Jay alzò il capo e respirò a fondo. Si sistemò gli occhiali da sole sulla testa, il viso deformato da un'espressione che non riuscivo a riconoscere.
Le luci blu elettrico del bagno in cui ci eravamo rifugiati mi confondevano e creavano giochi particolari negli occhi di Mail, che strinse le labbra e si voltò dall'altra parte. Avrei tanto voluto sapere che cosa gli passasse nella mente in quel momento, perché ciò che immaginavo mi faceva solo stringere il cuore in una morsa dolorosa.
Jay si appoggiò alla parete, le mani congiunte dietro la schiena.
«Facciamo al solito modo, allora. Scegliete un treno qualsiasi e salite» disse a denti stretti «Non voltatevi mai indietro. Forse ci rivedremo, un giorno... in un'altra vita.»
Mail stringeva spasmodicamente i pugni. Deglutì, prima di parlare. «Non ci rivedremo» soffiò «Non stavolta.»
Ci guardò intensamente per una manciata di secondi. I suoi occhi scuri erano lucidi e coperti a tratti da riccioli ribelli, ma il suo viso non fu attraversato da niente che ricordasse la tristezza o il rimpianto.
Jay strinse le labbra. «Mail...» tentò, facendo qualche passo deciso verso di lui.
«No, Jay» disse Mail, indietreggiando e alzando le mani a mo' di resa. «Io... so che hai sentito quello che ho detto ieri. Non avrei voluto, ma... quel che è fatto è fatto, insomma. So che non è colpa di nessuno. Non posso farci niente.»
«Se mi lasciassi spiegare...» feci io, anche se in realtà non avevo idea di che spiegazione avrei potuto dare.
«No, Tì» rispose Mail «Ma mi avete visto? Non sono io questo. Non voglio essere così. Le cose che ho detto... le penso davvero, ma... è colpa mia. Non avrei dovuto intrufolarmi nei tuoi sogni, Tì. Ma il pensiero di... mi fa impazzire, lo capite?»
Mail gesticolava e sbatteva frequentemente le palpebre. Non sembrava avere ben chiare in testa le cose che voleva dirci. In lui riconobbi un po' del Mail che avevo conosciuto anni prima.
Né io né Jay aprimmo bocca.
«Devo prendermi una pausa. Una pausa dagli appostamenti notturni, dagli storpi che mi passano informazioni, dalle telecamere infrarossi... non ce la faccio. Devo iniziare da capo. E voi fate parte di un periodo della mia vita che voglio dimenticare.»
Nessuno si mosse. Rimanemmo lì, immobili, a guardarci per un lungo periodo. Le parole di Mail pesavano sulla mia schiena e sul mio stomaco come macigni. Non provai nemmeno l'impulso di piangere.
Fu lui il primo ad interrompere il contatto visivo. Chiuse gli occhi, girò la testa di lato e strinse il pugno.
«Allora io vado» disse.
Mi passò una mano sulla guancia, facendomi rabbrividire, e abbracciò Jay.
Poi si voltò e si chiuse la porta alle spalle. Noi due rimanemmo a fissarla per un po', sentendo ancora il rumore nelle orecchie.
Mi voltai verso Jay. Aveva gli occhi chiusi e le labbra strette, come se stesse cercando di metabolizzare senza riuscirci, come se da un momento all'altro si sarebbe messo ad urlare e a tirare pugni agli specchi. Ma sapevo che non l'avrebbe fatto. Infatti sospirò e aprì gli occhi, con la malinconia che attraversava ogni tratto del suo viso pallido.
«Cambierà idea» dissi «Lo conosco.»
«Non lo farà» rispose senza guardarmi «È proprio perché lo conosci che sai che non lo farà.»
«Ma...»
«Non possiamo farci niente, Tì. Alcune persone se ne vanno e basta.»



 
4.La stazione di un'altra città




È Jay ad interrompere il silenzio. Ha passato gli ultimi quindici minuti guardandosi intorno con discrezione, battendo quasi impercettibilmente l'indice sulla coscia, forse pentendosi di essere salito sul quel treno con me. «Questo è l'unico che va a nord» ha detto, a mo' di giustificazione «E io voglio andare a nord.»
Quando sento che sta parlando, non mi giro. Non voglio guardarlo. Riesco ad avvertire che il treno comincia a perdere velocità e so che il momento sta arrivando.
«Devo scendere» sussurra al mio orecchio «È stato già abbastanza rischioso salire.»
Sento che gli occhi mi si stanno riempendo di lacrime, allora mi sforzo di continuare a guardare il paesaggio che scorre sempre più lentamente fuori dal finestrino.
Riesco ad avvertire la presenza nervosa di Jay al mio fianco e cerco di imprimermi nella mente la sensazione che provo nel sapere che è lì, vicino a me.
«Se per qualche assurdo motivo dovessero continuare a cercarci...» comincio, la voce bassa e tremolante «E non lo faranno, perché ci credono morti... in ogni caso cercherebbero tre ragazzi, Jay.»
Lui respira velocemente dal naso. Mi sembra quasi di avvertire il suo cuore battere e il suo cervello lavorare.
«Non me lo chiedere, Tì» dice.
Arrossisco, vergognandomi del mio egoismo. Sapevo fin dal primo momento che gliel'avrei chiesto.
«Jay...»
Lui mi prende la mano, stringendo forte, e con l'altra mi obbliga a voltare il capo nella sua direzione. Ha il volto pallido, cadaverico, gli zigomi sporgenti e gli occhi liquidi.
«Non chiedermi di restare» mormora.
«Resta.»
Ci guardiamo a lungo. Il treno cammina sempre meno velocemente e so che abbiamo pochissimo tempo prima che si fermi.
«Devo scendere» dice lui con voce spezzata «Non c'è alternativa e lo sai.»
«Staremo attenti!» rispondo, sentendo le lacrime che cominciano a rigarmi il viso. «Non pretendo niente da te, Jay, te lo giuro... però... non voglio rimanere di nuovo sola.»
Lui mi abbraccia, nascondendo il mio viso nell'incavo del suo collo. Le volte in cui mi ha abbracciato, da quando lo conosco, le posso contare sulle dita di una mano. Forse adesso lo sta facendo solo perché qualcuno dei passeggeri potrebbe chiedersi come mai sto piangendo. Sicuramente non vuole attirare l'attenzione.
«Lo so, Tì, lo so» mormora «Ma non possiamo... proprio adesso...»
Mi passa una mano prima su una guancia e poi sull'altra, asciugandomi le lacrime. Alzo lo sguardo su di lui e mi accorgo che i suoi occhi, talmente chiari da sembrare grigi, sono tormentati. So che in questo momento molto probabilmente sta pensando a Mail, ma io sono talmente egoista da cercare di trattenerlo.
So anche che non avrò mai Jay per me, non sono stupida, e rimpiango costantemente i giorni in cui credevo di essermi liberata dell'ossessione che nutro per lui. I giorni in cui, nonostante il suo viso apparisse costantemente nella mia mente, accantonavo tutto facendo finta di niente e mentendo a me stessa.
So che quei giorni non torneranno mai più. E so che questo è un regalo che mi ha fatto Mail. Mi ha donato un'esistenza di ossessioni e rimpianti.
Jay mi stringe forte e io mi aggrappo alle sue spalle.
«Due anni fa avevo giurato che non sarei mai venuto da nessuno di voi» sussurra al mio orecchio «Adesso invece ti prometto un'altra cosa. Quando le acque si saranno calmate, quando i Sovrumani si saranno dimenticati di noi... verrò a cercarti. Non so quanto tempo ci vorrà, ma quando quel momento sarà arrivato, Tì, ti cercherò e ti troverò.»
«Giura che verrai.»
«Lo giuro.»
Jay scioglie l'abbraccio, si sistema gli occhiali da sole sugli occhi e raccoglie lo zaino da terra.
Proprio mentre si sta alzando, il treno si ferma e le porte si aprono.
I punti in cui il suo corpo ha aderito al mio adesso sono gelidi.
Lo seguo con lo sguardo finché non scende dal treno e poi lo cerco tra la folla fuori dal finestrino.
Prima di voltarmi le spalle e andarsene, sorride.




 





E anche questa è fatta. Sicuramente non è la storia migliore che abbia mai scritto, ma ho avuto una specie di impulso qualche mese fa e insomma non poteva rimanere a marcire nella mia testa. 
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e messo la storia nelle varie liste (siete tantissimi, non mi aspettavo un tale seguito per una storia del genere!). Siete dei tesori :)
Soprattutto ringrazio Alessia (ale93) ribadendo che questa è per te tesoro, se non fosse stato per te probabilmente Jay non sarebbe mai nato, quindi... è tutto tuo! XD
Grazie mille a tutti, ragazzi! Vi lascio il mio link facebook, nel caso qualcuno volesse contattarmi: 
https://www.facebook.com/shomer.efp
e tutti gli altri (twitter, ask e credo basta) li trovate sulla mia pagina autore.
Un bacio a tutti e a presto!!! 

 

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