Una foto a colori

di Canneella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Alessandra

Ottobre è il mio mese preferito.
Genova è così bella con le strade rosse di foglie e col sole che splende sempre, ma poco, come se avesse paura di abbagliarti troppo. 
Dalla finestra di camera mia vedo un pezzo di mare, e ogni settimana da qualche anno gli faccio una foto, all'ora che capita, un giorno le metteró tutte insieme e ci faró un album.
È martedì sette Ottobre, le sei e mezza di mattina per essere precisi, faccio una breve colazione, mi vesto, metto il dizionario di Greco nello zaino insieme a un po' di quaderni ed esco un quarto d'ora dopo.
L'autobus passa alle sette e venticinque, sono in anticipo di una mezzora, lo faccio sempre.
Abito a San Fruttuoso, un quartiere di semi-centro ma comunque lontano dal Mazzini, il Liceo Classico che frequento. 
Amo il mio quartiere, soprattutto a quest'ora, non c'è mai nessuno, solo i vecchietti che fanno le loro passeggiate e che mi sorridono sempre, e il vento che mi scompiglia i capelli.
Oggi c'è il sole.
Il tempo passa velocemente, sedici anni sono pochi, ma sono anche il periodo più bello della vita e io voglio  godermeli il più possibile.
Prima ancora che me ne renda conto passa il Diciotto, l'autobus che prendo tutti i giorni, salgo e mi siedo in fondo, vicino a una donna sudamericana e davanti a un ragazzo che credo si chiami Daniele, viene nella mia stessa scuola e non so mai se salutarlo o no, ma nel dubbio gli sorrido sempre.
È una persona incredibilmente interessante.
È alto, abbastanza magro e ha delle mani bellissime, sono una delle prime cose che guardo quando incontro qualcuno. 
Ha i capelli castano scuro sempre scompigliati, qualche lentiggine sul naso e gli occhi di un colore indefinito tra il verde e il marrone chiaro.
Il suo sguardo è perso fuori dal finestrino, vede le cose ma non le guarda davvero, è come se non lo interessassero. 
Ha sempre le cuffie nelle orecchie, io invece mai, amo la musica, ma se la ascolto fuori mi isola e io odio isolarmi, odio sparire.
Quando mi siedo mi guarda, non mi vede, mi guarda, gli sorrido e per un centesimo di secondo lo fa anche lui, prima di tornare nei suoi pensieri.
A cosa pensi, Daniele?


Salve!
Questa è la mia prima storia, 
Il format farà schifo, ma scrivo dalle note dell'iphone visto che non ho il computer e non lo posso cambiare.
Spero si veda lo stesso.
Alessandra e Daniele sono (quasi) completamente inventati, mentre le descrizioni di Genova no, io vivo effettivamente qui e non mancheranno perchè è una città meravigliosa davvero.
Beh, spero che la storia vi piaccia e che la seguirete.
Ciao!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Daniele

Scendo dall'autobus e mi sento soffocare da ragazzi che parlano, vecchietti che si lamentano e gente che corre per andare a lavorare.
Perchè hanno tutti così tanta fretta?
Alzo la musica, ignoro il solito avviso del cellulare che mi dice che un volume troppo alto puó danneggiarmi l'udito, mi siedo sul muretto davanti alla scuola e mi accendo una sigaretta.
Fumare non mi piace neanche, in realtá.
È una delle varie cose che ho iniziato a fare a quindici anni per sentirmi più grande, con la sciocca convinzione di poter smettere quando avrei voluto.
Ormai è più un'abitudine che un vizio, fumo due sigarette al giorno, una prima di entrare a scuola e una appena esco.
Guardo la gente che passa, vedo ragazzi e ragazze tutti uguali, non sento niente grazie alla musica nè ci tengo particolarmente.
Mancano otto minuti al suono della campanella, sei ore e otto minuti alla prossima sigaretta e io ho appena spento la mia senza neanche averla finita.
Finalmente suona e io mi alzo, aspetto che entri tutta la gente con cui non voglio parlare, abbasso la musica e mi perdo in un mare di persone tutte ugualmente noiose.
Tranne una.
Quando si è seduta davanti a me sul Diciotto ho avuto quasi paura di guardarla, mi ha sorriso, e avrei voluto dirle qualcosa, anche solo ciao, e invece non ho fatto un bel niente.
L'ho ignorata per tredici fermate con tutte le mie forze, ho ignorato quella cascata di capelli biondo cenere che le arrivano a metà della schiena, ho ignorato quegli occhi enormi e incuriositi puntati su di me, ho ignorato quelle labbra piccole tese in un sorriso timido, perchè se l'avessi guardata anche un solo secondo di più non avrei smesso.
So poco di lei.
È in terza , si chiama Alessandra e abita a San Fruttuoso, sale tre fermate dopo la mia ed è sempre felice, come se tutto ció che la circonda fosse bellissimo e illuminato.
Entro in classe, mi siedo al mio posto in seconda fila e saluto Martina, la mia vicina di banco.
"Come stai?" mi chiede, alzando lo sguardo. 
"A posto. Tu?" 
Non ascolto neanche la risposta, in realtá non mi interessa, ma è abitudine ormai chiederlo senza neanche pensarci.
Io e Martina siamo vicini di banco dalla terza, sono quasi due anni, eppure per me è quasi un'estranea.
Non mi è mai importato granchè di conoscerla, mi è sempre sembrata vuota, poco interessante. 
È bella, sì, come altri miliardi di ragazze esattamente identiche a lei. 
Tra noi c'è un rapporto di completa indifferenza, lei mi passa i compiti di greco, io quelli di matematica, ogni tanto mi scrocca una sigaretta.
Probabilmente tra qualche anno non ricorderó neanche più il suo nome, un dettaglio del suo viso, il colore degli occhi che tuttora non mi viene in mente se non la guardo.
Le lezioni passano veloce, e io sento tutto senza ascoltare davvero, e quando esco da quelle mura mi sento libero, libero veramente.
Alla fermata del Diciotto c'è il solito casino, anche se nessuno lo prende visto che è sempre vuoto, stanno tutti lì a chiacchierare e io dovrei decidermi a prendere la moto ogni tanto, ma non saprei dove parcheggiarla. 
E poi vedo lei, che parla con una signora sull'ottantina seduta sulle panchine della fermata dell'autobus.
Abbasso la musica e riesco a cogliere dei frammenti di discorso della donna, anche se la mia attenzione è catturata dallo sguardo interessato di Alessandra che la aiuta ad alzarsi e a salire sull'autobus.
Ha anche il dizionario di Greco in mano, e per un momento vorrei chiederle se le serve un aiuto, ma scaccio questo pensiero e salgo sedendomi nello stesso posto di stamattina, sperando che lei si sieda di nuovo davanti a me.
E lo fa.
E mi sorride, di nuovo, e distoglie lo sguardo, e prende un blocco da disegno e una matita.
La vedo tracciare delle linee che presto prendono forma, come per magia, diventando il viso di quella signora anziana con la quale parlava prima.
Vorrei dirle che è brava, Cristo se è brava, vorrei chiederle se posso vedere gli altri disegni, ma non ho il coraggio e resto a guardarla mentre da vita a quella figura, finchè non arriva la sua fermata e scende, girandosi all'ultimo secondo per sorridermi e sparire in mezzo a troppa gente.


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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Alessandra

L'acqua gelida mi avvolge e il mio cervello si svuota.
Siamo io, lei e il tempo.
Uno, due, tre, quattro, respira.
Non sento niente, non mi importa di niente, non esiste più niente che non sia il bordo della vasca che sto per raggiungere.
"Buono, Ale!
Addirittura meglio dell'altra volta!" urla soddisfatta Giorgia, la mia allenatrice, controllando il cronometro. 
Sorrido, sono soddisfatta, i miei tempi sono sempre migliori e io amo nuotare.
Amo sentire lo spostamento dell'acqua sulla pelle, amo sentire i muscoli doloranti, amo la boccata d'aria dopo bracciate in apnea, amo sentire freddo quando esco, amo buttarmi sul letto a casa con la sensazione di essere stata brava, di essermelo meritato.
Solitamente dopo l'allenamento mi trattengo ancora un po', faccio una ventina di vasche lente per pensare, riflettere, smorzare l'adrenalina che mi farebbe continuare allo sfinimento.
Alla terza vasca di "riposo" a rana mi torna in mente lo sguardo di Daniele, quello che mi ha tenuto incollato addosso per tutto il percorso dell'autobus mentre disegnavo.
Nei suoi occhi c'è sempre un velo triste, come se fosse spento, come se avesse ottant'anni e fosse già stanco di tutto, come se nulla lo emozionasse mai veramente.
Oggi peró era particolarmente attento, mi deconcentrava, sembrava che stesse cercando di trovare le parole adatte per dire qualcosa e non ci riuscisse, e io speravo che lo facesse e non l'ha fatto e quasi non avrei voluto scendere per dargli ancora un pochino di tempo.
Esco dall'acqua, mi faccio una doccia veloce, mi rivesto e vado via senza neanche asciugarmi i capelli, tanto siamo a inizio Ottobre e posso ancora permettermi di non farlo e fingere che sia estate.
Le sei di sera sono un'ora meravigliosa in questa stagione, il sole tramonta o l'ha appena fatto e c'è una bellissima luce.
Mi siedo sul muretto di Corso Italia, davanti a me solo un'infinita, agitata distesa blu di mare.
Sono questi i momenti in cui mi sento più in pace, più tranquilla, più viva.
Chiudo gli occhi, elimino i discorsi della gente che passa e resto sola, sola col mare, sola coi miei pensieri.

Daniele

Sara dorme accanto a me col sorriso sulle labbra e il rossetto sbavato.
Nulla la preoccupa in questo momento, appena si sveglierà tutti i problemi le ricadranno addosso, ma non adesso.
Adesso è libera.
La guardo con un misto di compassione e tristezza.
Ha vent'anni, un lavoro che non le piace, un fidanzato che non ama e una vita del cazzo.
Non abbiamo mai parlato chissá quanto, a dire il vero. 
Ci conosciamo da un annetto, è la sorella di un mio amico, ci vediamo quando ci va, facciamo sesso e poi torniamo a ignorarci come al solito.
Il suo ragazzo non sa niente, e a me non importerebbe in ogni caso, il problema è di Sara e non mio. 
Non provo un briciolo di affetto per lei e lei non ne prova per me, non abbiamo mai fatto un vero discorso, non siamo mai usciti insieme, non l'ho mai portata al cinema, non le ho mai offerto un gelato, non credo di averla mai abbracciata.
Ogni tanto mi chiedo come debba essere amare qualcuno.
Non penso di averlo mai fatto in vita mia, e alla fine è l'unica cosa per la quale io provi un briciolo di interesse, per il semplice fatto che nessuno te lo puó spiegare e lo devi scoprire da solo.
Sveglio Sara, mia madre torna tra venti minuti e lei se ne deve andare.
Si riveste, sistema il rossetto ed esce, non la saluto e lei non saluta me, mi dice solo "ci vediamo", come sempre.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Alessandra

La mia idea geniale di non asciugarmi i capelli dopo la piscina ha dato i suoi frutti : broncopolmonite!
Sono stata a casa quattro giorni e oggi che è domenica posso finalmente mettere il naso fuori (per andare a fare la spesa, ma è comunque un risultato).
Mi infilo le converse, una verde e una blu, perchè mi piacciono così, prendo i venti euro che mi ha lasciato mamma, la lista ed esco.
L'aria fresca nei polmoni mi era mancata.
Ho la fortuna di abitare a due minuti dal mercato, è molto più conveniente  del Carrefour e, soprattutto, la donna che tiene il banco di frutta e verdura migliore mi adora.
Si chiama Maria, ha sessantacinque anni, quattro figli e ogni volta che mi vede mi abbraccia e bacia come se fossi anch'io una specie di quinta figlia.
"Alessandra! Non venivi più a trovarmi?" Dice non appena mi vede.
"Ciao! Sono stata un po' male, ma ora è tutto a posto, sono sana come un pesce. Mi daresti un chilo di mele?
Quelle rosse magari, ma vanno bene anche gialle o verdi, mi fido di te!"
"Eh, cara, quest'anno le mele sono tutte buone! Te le metto a un euro e dieci al kg, ma non dirlo a nessuno!" Dice, facendomi l'occhiolino.
Mi fa sempre dei grandi sconti, prima combattevo un po' per pagarla il giusto, ma alla fine ho capito che è inutile e mi conviene assecondarla.
Compro velocemente qualche altra cosa e poi mi avvio a casa, è venuto freddo di colpo e son stata proprio scema a non portarmi una giacca.
"Non azzardarti a piovere" dico a quelle nuvole minacciose prima di entrare in casa.

Daniele

Tanti capelli biondi, qualche busta della spesa, una scarpa verde e una blu.
È lì, a venti metri da me, col naso all'insù che guarda il cielo ignorando  il semaforo verde che teoricamente stava aspettando.
Resta ferma, immobile, a osservare le nuvole che si muovono veloci seguendo il vento come se non le avesse mai viste prima.
Neanche io mi muovo.
La aspetto, e chissenefrega se arrivo tardi all'allenamento.
Finalmente sembra risvegliarsi e attraversa col rosso, correndo e beccandosi gli accidenti di tutte le macchine che passano, ridendo come se fosse una cosa estremamente divertente rischiare di farsi investire da un qualche cinquantenne stressato.
La guardo farsi sempre più piccina e girare l'angolo, e vorrei seguirla, ma resto fermo dove sono, bloccato da non so cosa.
Dopo martedì non l'avevo più vista nè sull'autobus nè a scuola, il sedile davanti al mio era sempre stato vuoto o occupato da qualcun altro, che è anche peggio.
Quello è il SUO posto, e io l'avevo cercata nelle persone che salivano a ogni fermata, senza trovarla mai, sentendomi un po' più vuoto del solito.
La vedo quasi ogni giorno da quando prendo questo autobus, sempre sorridente e sempre seduta lí, senza mai dirle niente, nemmeno un ciao.
È quando non c'è che mi rendo conto veramente di quanta influenza abbia su di me.
È sempre così felice, così entusiasta, così VIVA da trasmettere almeno un decimo di tutto questo anche a me, anche se non fa niente.
Basta che ci sia.



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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Alessandra

Adoro le persone.
Sono cosí complicate e insieme cosí semplici, cosí interessanti, cosí diverse, non mi capacito di come possano alcuni disinteressarsi di chi hanno intorno.
A scuola c'é un ragazzo in quarta C, l'anno scorso lo vedevo correre per le scale ad ogni intervallo, correva per raggiungere la sua ragazza dall'altro lato della scuola e quando la raggiungeva la baciava, la teneva stretta a sè, le accarezzava i capelli, la accompagnava in classe quando suonava la campanella.
Ha corso per un anno intero, poi ha smesso.
Ha iniziato a camminare, a fermarsi a parlare con qualcun altro, a non uscire proprio, lei veniva da lui e a malapena la teneva per mano.
Ora non si salutano neanche più, si incrociano tutti i giorni e si ignorano, nessuno dei due guarda l'altro in faccia, come se non si conoscessero.
Che cosa puó succedere di così terribile da spegnere l'amore, cosa puó fare cosí male da riportare due persone che si sono amate a sconosciute?
Basta veramente una parola sbagliata, o un abbraccio mancato quando sarebbe servito?
È tutto così fragile?

"Ti sei persa. Di nuovo. 
Ma hai sentito quello che ho detto? Arrivi tardi!"
"Eh? Oh, cavolo, scusa! Esco!"
Mia madre mi salva sempre quando mi perdo nei miei pensieri, se non ci fosse lei probabilmente dimenticherei anche che esiste la scuola.
Mi chiudo velocemente la porta alle spalle dimenticando di pettinarmi e anche la giacca, di nuovo, ma l'unica cosa che mi interessa è non perdere il Diciotto.
Arriverei in orario anche prendendo quello dopo.
Peró quello delle sette e venticinque é quello di Daniele, Daniele che si siede davanti a me, Daniele che guarda fuori, Daniele che ha gli occhi tristi e lo sguardo spento, Daniele che butta le sigarette a metà senza finirle mai. 
Vorrei tanto chiedergli perchè guarda un paesaggio che sa a memoria, perchè non sorride, perchè fuma davanti a scuola se non finisce nemmeno una sigaretta.
Scatto finale, salgo sul bus e lui è al solito posto, con lo sguardo rivolto verso la porta come se cercasse qualcosa o qualcuno.
Mi siedo di fronte a lui e sposta lo zaino per farmi spazio.
"Grazie", mormoro sorridendo.
"Prego", dice lui dopo qualche secondo, a voce bassa.
Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
"A che fermata scendi?"

Daniele

"A che fermata scendi?"
Sul serio? 
Mi sono bevuto il cervello?
Lo sai benissimo a che fermata scende, idiota, scende alla tua.
"Quella del Mazzini" risponde sorridendo, come se la mia domanda non fosse stupida ma assolutamente giustificata.
"Sei nella D?" continua.
"Sì, ma al biennio ero nella F. 
Eravamo troppo pochi e in terza ci hanno smistati nelle altre classi."
"Oh, quindi avevi i miei stessi professori!"
"Esatto. E non ho mai avuto la sufficienza nè in Greco nè in Latino, la Distefano mi ha sempre rimandato. È ancora perfida?"
"Altrochè! Io peró me la cavo, quindi non mi lamento. 
Mi porto dietro il debito di Matematica da due anni, in compenso!"
"A me la matematica piace tantissimo."
"E allora che ci fai al Classico?"
"Boh, non mi è mai piaciuto in effetti, ma i miei volevano che lo facessi.
Potessi scegliere di nuovo andrei allo Scientifico, o all'Elettronico."
"Io non riuscirei mai a studiare per cinque anni qualcosa che non mi piace." Commenta dopo averci pensato un pochino.
Scendiamo dall'autobus.
"Beh, ci vediamo!" mi dice, prima di entrare a scuola.
Faccio un cenno di saluto, mi sono già reso ridicolo a sufficienza, aspetto mezzo minuto per non far sembrare che la pedini e entro anch'io.
La sigaretta oggi non mi è servita.



Ciao!
Innanzitutto volevo ringraziare le persone che hanno messo la storia seguite, preferite e ricordate.
Mi fa tanto piacere!
Recensite quando vi va, sono aperta a qualsiasi commento, sia positivo che negativo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Daniele

Quinto Orazio Flacco aveva paura di morire.
Ha temuto la morte per tutta la propria esistenza e ha trovato nella vita un rifugio da essa, senza mai sconfiggere l'angoscia che lo tormentava.
Aveva accettato tristemente l'idea che quel giorno sarebbe arrivato anche per lui, si era rassegnato, ma la paura più terribile è irrazionale e persiste sempre, indipendentemente dagli strati di cose belle sotto cui la seppellisci.
Anch'io mi sento un po' così, a volte.
Orazio non mi piace, come non mi piacciono gli altri autori latini dietro ai quali sto perdendo tempo da anni, ma quando la Bartolucci aveva iniziato a parlare del suo rapporto con la morte ero stato davvero attento, davvero interessato per la prima volta.
Non è tanto la morte a spaventarmi, quanto la vita.
Potrei quindi sembrare nella situazione opposta a quella di Orazio, eppure il rapporto che lui ha con la propria paura è lo stesso che ho io.
La morte per me rappresenta non solo la fine di ogni preoccupazione o problema, ma anche del grande senso di noia e di vuoto che mi accompagna da circa due o tre anni.
Perchè nulla riesce mai ad appassionarmi davvero, è come se avessi già fatto tutto, visto tutto, sentito tutto e non mi restasse più niente.
Ed è per questo che Alessandra mi fa un effetto cosí strano, vederla ogni giorno trovare qualcosa di bello in tutte le cose, interessarsi anche delle persone con cui non parla nessuno,  mi affascina, lei è come una foto a colori in mezzo a un album dove le altre sono tutte in bianco e nero.
Devo combattere con me stesso per restare in classe durante la ricreazione e non andare a cercarla, perchè i cinque minuti di conversazione che abbiamo avuto sono stati troppo pochi, una goccia del mare di cose delle quali avrei voluto parlare.
Eppure ci riesco, resto fermo, seduto al mio posto a fingere di ripassare Letteratura inglese per la prossima ora, quando in realtà presto attenzione a una riga scarsa su cinque che leggo.
"Rischi inglese?" mi chiede Claudio, il ragazzo seduto dietro di me.
"No, ma mi conviene portarmi avanti."
"Usciamo a prendere aria in cortile?"
"Non ne ho voglia."
"Non ne hai mai voglia. In quasi cinque anni ti avró visto mettere il naso fuori massimo una decina di volte."
"Vorrà dire che capiterà, prima o poi" dico alzando le spalle e mettendo fine alla conversazione.
Claudio è una delle poche persone della mia classe che valga davvero qualcosa, anzi, direi che sia l'unico.
È sempre disponibile, sempre gentile, devo averlo visto arrabbiato forse due volte in vita mia ed è uno di quelli che parlano con tutti, pure coi muri se serve.
Ha i capelli biondissimi, una barba molto curata e non è mai trasandato come gli altri.
È di conseguenza popolare, rappresentante d'istituto, venerato dalle ragazzine di prima, seconda e terza e capitano della squadra di calcio.
Nonostante questo, non si ritiene Dio sceso in terra (come la sua fama gli permetterebbe), è perfettamente consapevole di essere un ragazzo normale e si comporta da tale.
Non abbiamo chissà che rapporto di amicizia, ma ci parliamo e ci vediamo a volte fuori da scuola.
Probabilmente quando usciremo di qui ci perderemo, ma al momento non mi interessa, mi basta passare i miei pomeriggi con qualcuno ogni tanto e credo che sia lo stesso per lui.
Oggi io esco alle due e Alessandra all'una, questo vuol dire che non la vedró fino a domattina, e non posso neanche provare a scriverle su Facebook perchè non ce l'ha.
Anche se che cazzo cambia che non abbia Facebook, tanto non le avrei scritto lo stesso.

Alessandra

Quando sono uscita da scuola l'ho aspettato.
Ho perso il Diciotto due volte, prima di realizzare che a quanto pare il lunedì esce alle due.
Sono tornata a casa a piedi, con molta calma, fermandomi al Porto Antico a guardare il mare dalle panchine in fondo, adesso sono le tre e io sono appena arrivata al portone.
Adoro non avere fretta, e poter camminare per ore fermandomi ogni volta che vedo qualcosa o qualcuno di interessante, e non dover correre da nessuna parte, e avere la mente intasata dai pensieri e sentirmi piena e felice, e viva, viva in un mare di gente che si sente così una volta all'anno forse.
Sono contenta di aver parlato con Daniele, anche se poco, sono contenta di vederlo di nuovo domani, sono contenta che parleremo di nuovo, sono contenta che abbia trovato il coraggio di rivolgermi la parola e che non abbia fumato la sua inutile sigaretta stamattina.
Quando entro in casa la prima cosa che faccio è prendere in braccio Biri, la mia gatta grigia che pesa quasi dieci chili e che, nonostante tutti dicano che i gatti sono freddi e indifferenti, mi sembra sempre molto felice e passa la vita a fare le fusa e a mangiare.
Sarebbe così bello essere un gatto!
Quando ero più piccola facevo dei discorsi interi con lei, che dopo cinque secondi si addormentava, ma a me non era mai importato perchè avevo imparato a miagolare in modo quasi realistico.
Si accovaccia sulle mie gambe con il suo considerevole peso e inizia a ronfare facendo le fusa alle mie carezze, io direi che i miei progetti di fare Greco saranno rimandati.
Anche se probabilmente non lo avrei fatto lo stesso, indipendentemente da Biri, sono successe troppe cose oggi e non vedo l'ora che arrivino le sette e venticinque di domattina.
Sospiro, mi sdraio e chiudo gli occhi col sorriso sulle labbra.





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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Daniele

Una fitta di dolore all'addome mi sveglia.
Accendo il cellulare e guardo l'ora e merda, sono le tre di notte.
Sono stato in palestra fino alle nove ieri sera e quel pugno non l'avevo neanche visto arrivare da quanto ero stanco.
La boxe mi piace, ma mi piacerebbe di più se mi facessero stare con quelli della mia età anzi che con gli armadi più grandi.
Ieri è stato un massacro, l'ultimo incontro mi ha lasciato un livido abbastanza brutto sullo zigomo destro e un altro peggiore all'addome.
Mi alzo a fatica, che tanto se mi sveglio di notte non mi riaddormento mai, apro la finestra e l'aria fresca di metà ottobre entra in tutta la stanza.
Tra quattro ore potró fare colazione, prepararmi, uscire di casa, prendere il Diciotto e vedere Alessandra.
Certo, dopo l'ultimo punto ne seguono altri fastidiosi come la Versione di Greco, la probabile interrogazione di storia e il fatto che oggi esco di nuovo alle due quindi devo stare fermo e seduto per sei ore ad annoiarmi, ma esce alle due anche lei e la prospettiva della mia giornata mi fa un po' meno schifo.
Mi risdraio a letto, con qualche gemito di dolore per il livido.
Devo spegnere il cervello per quattro ore.
Ce la posso fare.
E ce la faccio.

"Daniele alzati, devo andare a lavorare.
Arrivi tardi."
Apro lentamente gli occhi e mi rendo conto che sono le sette, ho dormito e tra venti minuti devo essere sul diciotto.
Ignoro il dolore all'addome, mi vesto, faccio colazione al volo ed esco.
Mi siedo sull'autobus, al solito posto, facendo attenzione che resti libero quello davanti, e aspetto.
Piazza Martinez.
La vedo salire e sorridermi.
Ha i capelli legati in una specie di cipolla sulla testa che peró le sta bene, le scarpe di due colori diversi come al solito e degli orecchini con due piccoli gufi.
Si siede davanti a me.
"Ciao!"
"Ciao"
"Hai un livido sullo zigomo, lì, a destra"
"Ah, lo so, niente. Non fa male."
"Come te lo sei fatto? Secondo me fa male invece."
"Ieri sera all'allenamento. Faccio boxe."
"E vi picchiate così?" dice spalancando gli occhi già di loro enormi.
È carina, tanto, tanto carina.
"Solo a volte. 
Dipende dal tizio con cui ti mettono.
Ieri ero con un venticinquenne che passa la vita in palestra e pesa cento chili di muscoli, mi è andata pure troppo bene con solo due lividi."
"Io non ce la farei mai."
Beh, è ovvio che non ce la farebbe mai, è così piccina, io avrei paura di romperla.
Questo peró non glielo posso dire.
"Che sport fai tu?" Le chiedo infine.
"Nuoto da nove anni! É uno sport meraviglioso, davvero. 
Tu sai nuotare?"
"Sì, ma mi annoia. Dove nuoti?"
"Alle piscine di Albaro."
"Non è tanto lontano dalla mia palestra, ci passo davanti.
Fai le gare?"
"Sì, anche se non mi importa granchè dei risultati e della squadra e della classifica.
Io nuoto perchè mi piace."
"Allora un giorno vengo a vederti."
"Assolutamente no! Mi mette a disagio!"
"Va bene, va bene, stavo scherzando.
Comunque la settimana scorsa ti ho vista disegnare, sei brava.
Io non sono capace."
"Peccato che tu non sia capace, disegnare è proprio bello.
Io disegno tutte le persone e le cose interessanti che vedo."
"E ne vedi tante?"
"Oh, sì! Guarda quella ragazza in piedi vicino all'autista, per esempio.
Ha dei lineamenti bellissimi, particolari, e se non stessi parlando con te probabilmente la starei fissando incantata."
"Io non l'avrei nemmeno vista se tu non me l'avessi fatta notare. È normale, non è così bella."
"Odio l'aggettivo 'normale'. 
Nessuno è normale.
Siamo tutti un po' diversi, chi più chi meno, e tutti potenzialmente interessanti."
"Io sinceramente trovo interessanti poche persone.
Ho sempre l'impressione di essere circondato da una marea di gente uguale."
"Non la guardi abbastanza allora.
Io adoro osservare le persone che incontro, immaginarmi le loro vite, quello che pensano, se stanno bene o stanno male e perchè. 
Tu non lo fai?"
"No. 
Mi sa che lo fai solo tu, eh"
"Puó darsi allora, ma è un peccato, è una cosa bella."
Scendiamo dall'autobus e ci fermiamo davanti al portone della scuola ancora qualche minuto, poi mi ricordo di avere la Versione alle prime due ore.
"Io dovrei salire, ho Greco.
A che ora esci?"
"Alle due. Ci vediamo!"
"Ciao" dico, facendo uno sforzo enorme per salire le scale senza girarmi a guardarla.
E la versione va malissimo.
Ovvio, dovevi studiare, idiota.
Sinceramente al momento non mi interessa, recupereró, voglio soltanto che arrivino le due.

Quando esco la aspetto, riprendiamo il diciotto insieme e chiacchieriamo anche al ritorno.
Prima di scendere si ferma un secondo davanti alle porte che stanno per chiudersi.
"Posso disegnarti un giorno?"
Non mi da' il tempo di risponderle, le porte si chiudono e lei sparisce.


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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Alessandra

"Che vuol dire che vuoi disegnarmi?" 
Mi chiede Daniele appena salgo sul bus.
Ieri effettivamente ero scomparsa subito dopo averglielo detto.
"Era una domanda : posso disegnarti un giorno?"
"Ma perchè?"
"Perchè mi va, e perchè sei più interessante di quanto pensi."
"Mi mette a disagio."
"E dai, io non metto mai a disagio nessuno, mi hai vista? 
Al massimo ti faccio ridere!"
Sorride, ha un bellissimo sorriso, e io lo vedo pochissime volte.
Quando è serio peró ha un qualcosa di speciale, di diverso, qualcosa nello sguardo forse che io non riesco a identificare.
"E va bene, d'accordo."
"Che fai oggi pomeriggio?"
"Niente, ho un allenamento di pugilato alle sette e mezza peró."
"Allora ti disegno oggi pomeriggio.
A che ora esci da scuola?"
"All'una, tu?"
"Anch'io! Possiamo mangiare insieme. 
Io per le cinque devo essere a casa a studiare."
"Va bene.
Beh, ci vediamo all'uscita allora." 
Mi dice prima di salire le scale e andare in classe sua.
Io ovviamente non ascolto neanche mezza parola di lezione, e la campanella dell'uscita mi sembra il suono più celestiale del mondo.
Mi fiondo fuori dall'aula, scendo le scale di corsa, esco e non lo vedo.
Osservo ogni singolo viso, ma il suo non c'è.
Resto lì per dieci minuti.
"Ehi, scusami, quella di Fisica ci ha tenuti qualche minuto in più." mi giro ed è lí, vicino a me, con un'ombra di sincero dispiacere sul volto.
Sorrido.
"Non fa niente! Chi hai di Fisica?"
"La Bianchi..."
"Ah, ti capisco, ce l'ha anche una mia amica. 
Per fortuna lei non ha la mia sezione, io ho un pessimo rapporto sia con matematica che con fisica!"
"Dove andiamo a mangiare?"
"Non lo so, a te cosa va di mangiare?"
"Boh. Io mangio di tutto" dice alzando le spalle.
"Allora fammi pensare.
In via San Lorenzo c'è l'Orient Express, fanno un Kebab buonissimo lì.
A te piace il Kebab?"
"Sì. D'accordo, allora aspettiamo il venti e scendiamo in Piazza De Ferrari, da lì andiamo a piedi."
Annuisco e lo seguo fino alla fermata.
Sta zitto, pensa, chissà a che cosa.
Anch'io sto zitta.
Credo che pioverà, ci sono delle nuvole nerissime sopra di noi.
"Hai un ombrello?" Gli chiedo.
"No, tu?"
"Neanche io."
"Allora non sono l'unico che se li dimentica sempre!"
"Oh, beh, io mi dimentico tutto.
Mia madre dice che sono una svampita, se non ci fosse lei a ricordarmi le cose sarei spacciata."
Ride.
È una risata bassa, un po' rauca, ma mi piace.
È sincera, penso.
"Un po' svampita lo sei."
"Menzogne!
Solo che a volte mi perdo un po', mi distraggo e mi dimentico le cose."
"In che senso 'ti perdi'?"
"Magari penso a qualcosa, inizio a farmi un film mentale e da quel momento sono irraggiungibile per un po'. A te non succede?"
"A volte", dice piano, salendo sull'autobus.
Dopo una decina di minuti scendiamo, e nell'esatto istante in cui metto piede fuori dal bus sento una goccia d'acqua cadermi sul naso.
Poi due, tre, quattro, le vedo apparire sull'asfalto sempre più velocemente.
"Oh-oh." dico.
"Forse ho un K-Way. Aspetta."
Lo vedo frugare nervosamente nello zaino, mentre i suoi capelli (e i miei) iniziano a bagnarsi.
"Ce la fai a correre da qui a San Lorenzo?" mi chiede realizzando di non avere nessunissimo K-Way.
Annuisco e iniziamo a correre tutti e due, io ogni tanto mi fermo a tirarmi su i jeans perchè questi maledetti affari cadono, e quando entriamo all'Orient Express siamo fradici e stanchi, ma io sto ridendo e lui pure.
Ordiniamo e ci sediamo a un tavolino.
"Hai dei capelli buffissimi" gli dico.
Ha appena finito di sgrullarseli, come uno di quei cani pelosissimi quando escono dall'acqua, sono tutti arruffati.
"Non credere che i tuoi siano meglio!"
"Oh, tu non sai che cosa saranno appena inizieranno ad asciugarsi da soli. 
Si gonfieranno e faró concorrenza a un barboncino, e mi prenderai in giro per i prossimi trent'anni."
Mangiamo i nostri Kebab, il suo sparisce nel giro di tre minuti, io invece arrivo a metà e ce ne metto il quadruplo.
"Non lo finisci?"
"Non ho mai finito un Kebab in vita mia. 
Sono delle bombe, io dopo metà sono già strapiena."
"Vorrà dire che lo mangeró io. 
Posso?"
"Beh, certo, ma voi maschi che avete al posto dello stomaco? Un aspirapolvere?"
Dopo qualche minuto i resti del mio Kebab sono svaniti nel nulla.
Tiro fuori il blocco da disegno, una matita e la gomma.
"Ah, cazzo, mi ero dimenticato che vuoi disegnarmi.
Sei strana forte."
Non lo ascolto nemmeno, spariscono tutti i suoni, resta solo il foglio e il soggetto.
Traccio il contorno del suo viso, i capelli arruffati, le labbra, il naso, le sue lentiggini e lascio gli occhi per ultimi.
In realtà, non lo sto nemmeno guardando.
So il suo viso a memoria, mi ricordo pure i tre piccolissimi nei che ha sulla guancia destra.
Mentre li disegno mi viene un'idea.
Tiro fuori il Trattopen dall'astuccio.
"Avvicinati!"
"Neanche per sogno, che ci vuoi fare con quello?"
"Nulla che non si possa lavare."
Non gli do' tempo di replicare e collego i tre nei sulla sua guancia.
"Guarda!
È un triangolo equilatero!"
Mi guarda come se fossi matta, apre la fotocamera interna dell'iPhone e dopo un paio di secondi sorride.
"Solo a una come te poteva venire in mente una cazzata così."
Non rispondo e inizio a disegnare la parte di lui che preferisco.
Gli occhi.
Quell'espressione seria, malinconica, adulta che ha tutte le mattine eccetto quando parla con me.
Quando finisco osservo attentamente il disegno e mi piace.
È Daniele, dai capelli incasinati all'abbozzo delle spalle.
Lo giro in modo che lui lo possa vedere.
"Cristo se sei brava."
Non dico nulla, osservo soltanto la sua espressione.
"Dico davvero. 
Posso tenerlo o lo vuoi tenere tu?"
"Tienilo.
Io tanto ti vedo tutte le mattine."
Lo piega e lo infila in un quaderno, l'unico quasi asciutto che ha e che poi mette delicatamente nello zaino.
Ci alziamo, paghiamo ognuno per sè e usciamo.
Ha smesso di piovere, per terra è ancora bagnato.
"Devi andare a casa?" Mi chiede.
"Sì, vado a prendere il diciotto!"
"Beh, anch'io allora, se vuoi ti accompagno."
"Grazie!"
Facciamo il viaggio di sole sei fermate chiacchierando e quando arriva la mia ci salutiamo.
"Ci vediamo domani!" Gli dico allegramente.
"Sì, grazie per il disegno. Sei stata carina."
"Se anche tu non avessi accettato io ti avrei disegnato lo stesso, sappilo."
"E perchè?"
Non dico nulla, sorrido e scendo, lanciandogli un ultimo sguardo mentre aspetta una risposta che non ho intenzione alcuna di dargli.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Alessandra

Tra dieci giorni è Dicembre!
Io e Daniele abbiamo iniziato a parlare spesso.
Tutti i giorni sul bus e quando ci incrociamo a scuola ci salutiamo, qualche parola con me la scambia.
È come se qualcosa lo accendesse, il suo sguardo vuoto si illumina di interesse, e se sono io a fargli questo effetto posso ritenermi la persona più felice del mondo.
Ormai so un po' di cose di lui.
Il suo gruppo preferito sono i Radiohead ("piacciono anche a me!" Gli avevo detto, "ma sono un po' tristi"), non gli piace il gelato al cioccolato ma quello al pistacchio, suona la chitarra, ha i genitori separati.
Dei suoi genitori so poco peró.
Qualche rapida informazione, lui solitamente sta da sua madre che abita tre fermate dopo casa mia, mentre suo padre abita troppo lontano (non ho capito dove) e ci va solo durante le vacanze perchè ci metterebbe un'ora e mezza ad andare a scuola.
Avrei voluto chiedergli di più, che tipi sono, cosa fanno, ma ho capito che non ne parla volentieri e ho lasciato stare.
"Ho deciso : voglio farmi un piercing." gli dico appena lo raggiungo sul diciotto.
"Eh?"
Mi guarda come se fossi matta, con un'espressione tra il confuso e il divertito.
"Un piercing, sveglia!"
"Che piercing?"
"Non lo so. Secondo te cosa mi starebbe bene?"
"Boh, a me non piacciono. Peró per caritá, non quello al naso che ti fa sembrare una mucca."
"Ma a me piace!
E quello al labbro?"
"Scomodo."
"Sopracciglio?"
"È da maschio!"
"Guance?"
"Certo, così diventi uno scolapasta." Dice ridacchiando.
"Quanto sei noioso! E se mi faccio quello al labbro che peró spunta sul mento? Non so come spiegartelo, si chiama tipo Central Labret."
"Ah, ho presente, quello è carino. 
Ma perchè sta cosa del piercing?"
"Perchè mi va."
"E se poi non ti piace?"
"Lo tolgo."
"Ma quando ti è venuta questa idea?"
"Circa, hum, mezz'ora fa. Così, ci stavo pensando e basta ed è una cosa fattibile. Ho il tuo appoggio?"
"Mh, sì, ma solo per il Central Labret. E devo pensarci meglio.
Tua madre?"
"Lei mi ha sempre detto che posso fare quello che voglio con la mia faccia e i miei capelli. Sul serio.
I capelli sono miei, la faccia è mia, ho sedici anni e se faccio guai è solo colpa mia, che c'entra lei?"
"Davvero? Strano, di solito le madri rompono veramente tanto.
La mia quando ho fatto l'orecchino mi avrebbe cacciato di casa."
"Ma perchè? Proprio non capisco.
Comunque pensavo di farlo oggi pomeriggio, conosci posti dove facciano piercing?"
"Uno abbastanza grande in via San Vincenzo. Hai capito quale?"
Ci penso un po'.
"Penso di no..."
"Mmh. Io peró non so come spiegartelo. 
Sai dopo il negozio che vende sciarpe?"
Lo guardo stralunata.
Sbuffa, sollevando un ciuffo di capelli e facendomi ridere.
"Ho capito, ti ci devo portare io.
A che ora esci oggi?"
"Alle due"
"Anch'io. Hai i soldi?"
"Ho trenta euro, secondo te bastano?"
"Ma sì. 
Allora ci vediamo all'uscita e ti accompagno."
"Grazie mille!" Gli dico prima di salire in aula ad affrontare tre ore di latino.
Il latino e il greco non mi disgustano, a dire il vero.
In prima mi piacevano tantissimo, soprattutto perchè quando sbagliavo a cercare qualche parola le mie traduzioni erano molto divertenti ("I soldati andavano in guerra guidati dal basilico", o "l'ambasciatore attraversa il fiume su un ippopotamo"), avevano smesso di essere divertenti quando avevo iniziato a non capirci più un accidente e a non trovare mezzo verbo in cinque righe di frase.
Le cinque ore della giornata le passo a bere un caffè ogni due, a prendere qualche appunto e per il resto a disegnare sul banco o sul diario.
La prof di Storia dell'arte sembra una rana, più la osservo più ci faccio caso e finisco per passare la sua ora e disegnare tanti piccoli rospi con la sua faccia.

Daniele

Quando suona la campanella esco e la aspetto.
Un mare di facce, e io cerco la sua.
Dopo qualche minuto vedo un guizzo di capelli biondi, faccio un cenno, mi vede e mi raggiunge.
"Scusa se ci ho messo tanto, la Contri se ne frega della campanella, deve finire la sua spiegazione a tutti i costi!"
Ha le guance rosse, ogni tanto le succede e sembra una bambina.
Andiamo alla fermata del diciotto (che non perdiamo per un soffio) e scendiamo dopo un po' di fermate, fino ad arrivare a piedi in via San Vincenzo.
La porto davanti al posto.
"Sei sicura?"
"M-mh!" Annuisce con veemenza, sorridendo come sempre.
Entriamo e un uomo enorme con una barba foltissima rossa ci accoglie come se fossimo suoi amici.
"Buongiorno! Cosa volete fare?"
"Io vorrei fare il Central Labret!"
"Quanti anni hai? Non foriamo chi ha meno di sedici anni senza il permesso di un genitore."
"Sedici! Giusta giusta."
"Perfetto allora! Siediti." Dice andando a prendere la sua attrezzatura.
Io non so se andarmene o restare, in fondo dovevo solo accompagnarla.
La guardo, si è legata i capelli in una coda alta e tamburella con le dita sulla sedia, con uno sguardo deciso da bambina.
È buffa, buffa e carina.
"Resti? Se mi viene un infarto chiami l'ambulanza."
"Perchè dovrebbe venirti un infarto?"
"Non lo so. Resti anche se non mi viene?"
Sorrido.
"Se proprio devo..."
L'omaccione torna e si siede davanti a lei, nel giro di cinque minuti lei ha il labbro bucato e una pallina di metallo sul mento.
Lui la disinfetta e inizia a darle le istruzioni.
"Niente cibi solidi per una settimana, disinfettalo per i primi due mesi, metti la pomata, non toglierlo mai."
Lei annuisce contenta, si guarda allo specchio soddisfatta e va alla cassa a pagare.
"Trentacinque."
"Uh."
Lei ne ha trenta.
Frugo nervosamente nelle tasche, prendo il portafoglio e trovo cinque stropicciatissimi euro.
"Ei, ho i cinque che mancano"
"Grazie! Ti offriró una pizza."
Dice appena usciamo dal negozio.
"Appena potrai mangiarla..."
"Mh, è vero.
Un frullato di pizza?"
"Santo cielo, no. Facciamo che ti pago 1/7 del piercing, visto che a causa del mio parere non hai potuto fare quello da mucca che ti piace tanto."
Borbotta qualcosa sul fatto che me li deve restituire, poi si ferma.
"E ora?"
"E ora cosa?"
"Che facciamo?"
"Bo. Hai da fare?"
"No, oggi no. Tu?"
"Neanche."
Penso per qualche secondo, poi mi viene un'idea.
"Sei disposta a farti un'ora e un quarto di autobus?
Ti porto in un posto."



Ciao!
Scusate se non ho aggiornato in questi giorni, ma tra Natale e impegni vari non ho proprio avuto tempo!
Oggi se riesco metto due capitoli.
Fatemi sapere cosa pensate della storia, se volete!


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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Daniele

Per un'ora e un quarto lei non ha fatto altro che tartassarmi di domande.
"Dove andiamo? Quanto manca? Non sono mai stata qui! Ma perchè mi ci porti? E dai, rispondimi! Dai dai dai dai!"
"Abbi un po' di pazienza! Non manca molto."
"Ma è un qualche posto sperduto e bellissimo tipo un bosco?"
"Mh, sì, tipo."
"Coi folletti? E le fate?"
"Sì, coi folletti e le fate. Alzati, scendiamo alla prossima."
Il cinquantotto continua la sua strada di curve, sull'autobus ci siamo solo noi e Alessandra sceglie il momento peggiore per alzarsi.
Il bus gira, lei perde l'equilibrio e resta in piedi per un soffio aggrappandosi al palo con il pulsante per prenotare la fermata.
Sorrido vedendo la sua espressione allucinata e scendiamo sulla stradina asfaltata e deserta, immersa nel nulla della collina sopra Genova.
"Uooh, ma da qui si vede tutto tutto!"
"Sì, ma non siamo ancora arrivati."
"Come no?"
"Beh, gli autobus non arrivano ovunque. Dobbiamo fare un quarto d'ora a piedi e ci siamo." Le dico iniziando a percorrere la stradina, e lei mi segue.
Fa freddo, almeno, credo che lei abbia freddo.
Io lo soffro poco, ho la felpa e sto bene, lei invece nonostante la giacca, la sciarpa e i guanti sembra congelare.
"Su, se ci muoviamo hai diritto a una cioccolata calda."
"Uh, cioccolata calda? Ma quindi è un posto chiuso!"
"E certo, con questo tempo credevi che ti avrei portata a morire assiderata sulle colline?"
Ride e accelera il passo seguendomi.
"Siamo quasi arrivati. La vedi quella torre lassù?"
"No. O sì. Sì, la vedo. Non andiamo lì, VERO?"
"Tranquilla, non oggi. Andiamo in quella casa bianca e azzurra poco più giù."
Nel giro di una decina di minuti arriviamo al piccolo cancello verde, tiro fuori le chiavi e apro.
"È casa tua?" mi chiede a bocca aperta osservando l'edificio.
È una casetta a tre piani, con un grande giardino intorno e un'altalena. 
"Sì, è quella di mio padre."
"È bellissima! Ma perchè qui?"
"Beh, una casa così se non sei molto ricco puoi permettertela solo in posti isolatissimi, tipo questo."
"A me piace."
"È scomoda."
"Mi piace lo stesso."
Apro la porta di casa e lei entra, iniziando a guardarsi intorno curiosa.
"Tuo padre?"
"Boh, non c'è, sarà fuori per lavoro." 
Annuisce, ma prima che possa farmi altre domande la sua attenzione viene catturata da qualcos'altro.
"Oddio, hai un gatto! Come si chiama?" Dice accarezzando quella palla di pelo rossiccia spuntata fuori all'improvviso.
"Artura."
"ArturA? O ArturO?"
"No no, si chiama ArturA."
"E perchè?"
"La vecchietta che l'aveva trovata e portata al gattile credeva fosse un maschio e l'aveva chiamata Arturo. 
Poi si sono accorti che era femmina e quando l'abbiamo adottata abbiamo deciso di chiamarla Artura."
Ride, ha una risata limpida, mi piace.
Io non l'ho mai sfiorata.
Non abbiamo avuto nessun contatto fisico, non un abbraccio, non un bacio sulla guancia, non ci siamo neanche, che ne so, dati il cinque.
In certi momenti mi viene voglia di abbracciarla, quando mi ispira particolare tenerezza, o quando ride, tutte cose di cui lei probabilmente nemmeno si accorge.
"Ti avevo promesso la cioccolata, e cioccolata sia!"
"Sarà il mio unico nutrimento visto che posso mangiare solo cose liquide..."
"Vabbeh, lamentati anche! La cioccolata calda è buonissima."
"E il gelato al cioccolato perchè non ti piace?"
"Non sa abbastanza di cioccolato."
"Non hai mai mangiato un vero gelato al cioccolato allora!"
Mentre la cioccolata calda si prepara, le faccio fare il giro della casa.
Quando entra in camera mia resta sulla porta come se fosse un luogo sacro o meraviglioso.
È piccola, con qualche scritta sui muri, manifesti e volantini attaccati ovunque, adesivi, giocattoli di me da piccolo, cd, il mio nintendo DS e un sacco di altre cose sparse.
Il letto è lungo il muro, in un angolo della stanza, e ci sono due finestre.
Va verso la prima, dalla quale si vede il mare e tutta la città sotto, si ferma un pochino incantata e si sposta sull'altra, che invece da' sugli alberi della collina.
"Ma è bellissimo..."
"Non esagerare, non è nulla di che."
Vado a prendere le due tazze di cioccolata in cucina e quando torno lei è lì, con un peluche di Pikachu in mano e che guarda qualcosa (il mare? La città?) fuori.
Le do' la tazza e non dice niente, sorride, prende un sorso e fa una piccola smorfia di dolore.
"Tutto ok?"
"Sì, solo che la cioccolata è calda e mi fa un pochino male al buco.
La lascio raffreddare, anche se così diventa una cioccolata fredda e perde un po' di fascino."
"Nah, sarà buona uguale. 
Sul serio ti piace così tanto qui?"
"Sì.
Insomma, sembra di essere in un qualche posto sperduto!"
"Beh, un po' lo è."
"Sì, ma poi vedi la città e ti ricordi che è lì, sotto di te, e che ti basta poco per ripiombare tra la gente. 
Non è meraviglioso?"
"Ora che ci penso sì.
Ormai sono abituato, ci vivo da quando sono nato, non avevo mai fatto caso a queste cose."
"Giustificami i poster dei Cavalieri dello Zodiaco!"
"2006."
"E non li hai mai tolti?"
"No."
"Bravo, anch'io ho ancora tutti quelli dei Pokèmon."
"Ci mancherebbe altro, come si fa a toglierli?" Dico mentre lei fa i grattini a un'Artura che sembra un motorino da tutte le fusa che fa.
Mi sdraio sul letto e dopo un paio di minuti sento un corpicino farsi spazio accanto a me e restare a fissare il soffitto, muto e immobile, respirando appena, come se avesse paura di far troppo rumore.
I nostri corpi non si sfiorano. 
A un certo punto lo fa.
Si gira, appoggia la testa sul mio petto e chiude gli occhi.
Non dico niente, non faccio niente, resto immobile a sentire il suo respiro vicino al mio e quella manina gelida che sfiora la mia.
La stringo leggermente.
Sono le tre e mezza, ma lei si è addormentata con quel lieve sorriso sulle labbra, un sorriso timido, piccino.
Anche Sara forse sorride così.
Anche lei forse ha le mani fredde.
Anche lei forse dorme rannicchiata.
Eppure tutte le cose che in lei mi lasciano indifferente adesso in Alessandra mi accendono, come se non le avessi mai viste prima.
Verso le cinque e mezza la sveglio.
"Ale, guarda fuori."
"Cosa c'è?"
"Guarda."
Si alza e va verso la finestra, si ferma lì e fissa il cielo.
Il sole sta tramontando, il cielo è rosso e piano piano diventa arancione, rosa, viola, le nuvole sembrano fondersi con il mare e la luce che inonda la stanza rende tutto un po' rossiccio, perfino i suoi capelli biondi.
"Che bello." Dice, incantata.
Sapevo che le sarebbe piaciuto.
Io al cielo non ci avevo mai fatto troppo caso, ma lei aveva iniziato a farmi notare tutto. 'Guarda su, guarda quella nuvola, hai visto di che colore è', e adesso lo guardavo anche io, ogni volta.
Resta ferma davanti alla finestra per quasi dieci minuti, coi capelli scompigliati e il viso assonnato di chi si è appena svegliato, finchè il sole non sparisce dietro il mare.
"A che ora devi essere a casa?"
"Per le sette e mezza."
"Sarà meglio che iniziamo a prepararci allora."
"Tu non resti qui?"
"Sì, ho avvertito mia madre, ma ti accompagno alla fermata del bus."
Si sistema un po' quella specie di criniera che ha in testa, prende lo zaino e va all'ingresso, iniziando a mettersi le sue scarpe diverse.
Faccio lo stesso, salutiamo Artura e usciamo, camminiamo fino alla fermata del cinquantotto con lei che parla a ruota libera di qualsiasi cosa.
Riesce a non annoiarti mai, e io solitamente sono annoiato da tutto.
Mentre aspettiamo l'autobus spero in continuazione che non arrivi, o che arrivi un'ora dopo, vorrei che lei restasse qui.
Quando invece quel maledetto arriva lei sale, non la abbraccio e me ne pento subito, appena le porte si chiudono.
Resto immobile.
Idiota, idiota, idiota.



Ho pubblicato anche un altro 
capitolo, come promesso c:
Grazie mille a tutte le persone che seguono la storia e a quelle che hanno recensito, sono stata felicissima di leggere il vostro parere!
Continuate a farvi sentire appena vi va, ciao!



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Capitolo 11
*** Capitolo Dieci ***


Alessandra

Che buon odore che ha.
Ho sempre avuto una particolare sensibilità per il profumo delle persone e anche per la loro voce, se qualcuno ha una bella voce o un buon odore per me diventa automaticamente bello.
Con odore peró intendo l'odore della pelle, non quei profumi orrendi dei negozi che sanno di finto e che lasciano scie insopportabili, quelli li detesto proprio.
Giocherello col nuovo piercing, lo giro un po' e non fa male, anche se non dovrei toccarlo senza essermi lavata le mani, in effetti.
Scendo dall'autobus e non c'è più luce, anche se non è poi così tardi.
Daniele, o meglio, il papà di Daniele, ha una casa bellissima.
Vorrei potermi autoinvitare.
Peró, probabilmente, questa giornata mi sarebbe piaciuta anche se la casa fosse stata bruttina, malandata e immersa in una via trafficata.
Passo davanti a una vetrina e mi ci specchio, lo faccio sempre, non so se per vanità o paranoia, è più forte di me.
Ho le guance un po' rosse e i capelli in disordine e ridacchio, insomma, ho la faccia di una che ha dormito un bel po'.
Sento il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni.
Una, due, tre vibrazioni prolungate.
"Ale, sei arrivata?"
"Sto tornando! Tranquillo, non mi sono persa nella selvaggia campagna genovese."
Lo sento ridere e abbassare il telefono.
È una sua caratteristica, non sta mai tanto al telefono.
Massimo un paio di frasi, esattamente come se fosse un messaggino, quindi a questo punto non so nemmeno perchè chiami anzi che scrivere.
A me stare al telefono è sempre piaciuto tantissimo, per ore e ore, sono capace di parlare di qualsiasi cosa con quasi chiunque.
Le conversazioni migliori peró le faccio con mia nonna.
Lei abita in Trentino, non la vedo praticamente mai, è una in gamba e non mi stressa se per una settimana non la chiamo, a differenza di tante nonne.
Semplicemente quando lo faccio è felice come una bambina, non fa la solita lagna del "non mi chiami maaaaaai".
È l'unica nonna che ho, gli altri non li ho mai conosciuti, e so poco di loro.
O meglio, poco di loro come persone, so le storie che mi raccontano e basta.
La nonna mi parla sempre di com'era il nonno, di come si sono conosciuti, ogni tanto le chiedo di raccontarmelo e lei comincia sempre nello stesso modo.
"Ci siamo parlati per una gonna a pieghe. Figurati.
Ero sulla corriera, prendevamo la corriera insieme tutti i giorni, io una volta avevo una gonna a pieghe e lui si era alzato per farmi sedere e io gli avevo detto di no, perchè si sarebbe tutta stropicciata. 
Da quel giorno mi ha sempre e comunque tenuto un posto e io non ho più messo la gonna a pieghe."
Il pezzo dopo varia, è sempre romanzato e cambia un pochino a volte ma non mi metto a farglielo notare.
Lei l'ha amato tanto.
Anch'io vorrei amare qualcuno così.


Daniele

Quando sono tornato in casa mi sono seduto sul bordo del letto e l'ho un po' osservato.
Il copriletto era stropicciato nel punto dove era stata lei, e c'era il segno sul cuscino.
Non l'ho toccato.
L'ho immaginata lì, ricordata così.
Mi sono sdraiato sulla parte "intatta" di copriletto e ho un po' giocato con Artura, che oggi fa un sacco di fusa.
Vorrei che lei fosse ancora qui, penso, e crollo dal sonno anche se sono a stento le otto di sera.

L'unica cosa che non mi piace del dormire da mio padre è che non posso prendere il diciotto la mattina, devo svegliarmi prestissimo e farmela quasi tutta a piedi.
A scuola non la vedo, oggi usciamo anche ad orari diversi quindi é una giornata abbastanza inutile.
Passo le due ore attaccate di letteratura inglese a fare esercizi di matematica, mentre Martina mi guarda inespressiva.
Ormai si è abituata a vedermi fare matematica quando sono annoiato, non fa più quell'insopportabile faccia da "oddio, questo è pazzo".
La matematica su di me ha sempre avuto un enorme effetto terapeutico, mi rilassa.
Ho una mente logica, sono portato ad analizzare le cose e anche le persone in maniera freddamente razionale.
Quasi sempre, almeno.
Appoggio la penna.
"Tutto qui?" Mi chiede Martina, ironica.
"Mh."
"Ho latino per domani, se ti serve."
"No, grazie. Mi servono gli ultimi appunti di filosofia peró."
Annuisce e me li passa, io inizio a copiare senza capire - senza neanche provarci - mezza parola.
Ho la testa altrove, cazzo, la devo piantare di pensarci così tanto.
Non mi fa bene.
Quando esco da scuola trovo un sms di Sara.
"Hai da fare oggi?"
"Non mi va", le rispondo.
Per la prima volta non mi va.
"Non è per quello. Posso chiamarti?"
Sbuffo, ma le rispondo di sì e nel giro di tre secondi il mio telefono inizia a squillare.
"Cosa c'è?"
"Mi serve il tuo aiuto."
"E per cosa?"
"Per mio fratello."
"Che ha tuo fratello?"
"Sta dando di matto, urla da tutta la mattina che gli servono dei soldi per pagare uno che è venuto ieri sera, l'ha pestato a sangue dicendo che gli deve pagare la roba. Io non sapevo che si drogasse, tu lo sapevi?"
La voce le trema. 
Sì, io lo sapevo.
"No, non lo sapevo. Arrivo subito."
Sara abita abbastanza vicino alla scuola.
Sono stato a casa sua un paio di volte, ma non per lei, mi aveva invitato Giacomo.
L'anno scorso eravamo molto amici, poi quest'estate aveva iniziato a ignorarmi, a frequentare altra gente.
Un brutto giro di gente.
Vita sua, scelte sue, non sono mai andato a rompergli le palle, ma non pensavo che fosse così ridotto male.
Suono al citofono, salgo e trovo Sara spettinata, vestita male e con due occhiaie marcate.
"Dov'è?"
"Camera sua."
Entro nella seconda porta del corridoio e vedo Giacomo sul letto, rannicchiato.
Non sembra lui.
Non lo vedo da Luglio, quasi sei mesi.
È magro, una magrezza malata, aveva sempre fatto boxe e avuto un bel fisico.
Ha la barbetta incolta, i capelli sporchi e lividi un po' ovunque.
Sento lo stomaco contorcersi dall'ansia, ho un nodo alla gola e non riesco a parlare.
Dopo qualche minuto si accorge che ci sono e mi guarda, con quegli occhi azzurri che io ricordavo accesi, mentre ora sono grigi, vuoti e velati di tristezza.
"Che ci fai qua?"
"Ti aiuto. Cazzo, Jack, come ti sei ridotto? Chi è quel tizio che ti ha pestato?"
"Uno che mi ha venduto la roba la settimana scorsa. L'ho pagato, ma non quanto voleva lui. Gli avevo detto che gli avrei dato il resto il giorno dopo, ma col cazzo, ho finito i soldi. Dice che mi ammazza."
"Quanti soldi ti servono?"
"Centoquaranta."
"E come pensi di trovarli centoquaranta? Come si chiama questo?"
"Non lo so e non so come si chiama. Cioè, lo chiamano Luca, ma non si chiama davvero così. Sta a Cornigliano, lo conoscono abbastanza ovunque peró."
"Tu non puoi continuare così. Come lo paghi ora?"
"Che cazzo ne so io non lo pago, non ho i soldi, Cristo!"
"Ma non lavoravi?"
"Licenziato, un mese fa. Mi sa che mi han beccato. Ma non hanno detto niente, mi hanno cacciato e basta perchè non andavo mai."
"Sei proprio coglione. Devi SMETTERLA con quella roba, hai visto come stai? I soldi io ce l'ho, e il tipo lo pago io, ma scordati di toccarla ancora. Lo dico ai tuoi, e vai in un centro."
"No, cazzo, io non ci voglio andare coi tossici, giuro che non lo faccio, te lo giuro. Ma tu non glielo dire, ti prego, non glielo dire"
"Glielo dico eccome. Ti pago il debito, ma tu paghi me andando in un dannatissimo centro."
Esco dalla stanza senza dargli il tempo di rispondere e vado da Sara.
"Deve centoquaranta euro a un tizio."
"Ma lui NON HA centoquaranta euro!"
"Infatti, non li ha. Ce li ho io, e li pago io. Ma tu devi, DEVI dirlo ai vostri genitori, perchè io gli pago un debito, peró lui va in un centro e si disintossica."
"Non puoi pagare tu!" 
Dice lei, con le lacrime agli occhi.
"Lavoreró di più" continua "faró dei turni extra ma tu non paghi per Jack, non puoi farlo."
"Posso perchè ho i soldi e lo faccio. 
Non preoccuparti del debito.
Tu peró promettimi che lo dici ai tuoi e lo mandate in un centro.
Promettimelo." 
Inizia a piangere, non l'ho mai vista piangere, io odio vedere la gente che piange.
Mi alzo, le do' una leggera pacca sulla spalla ed esco.
Ora devo solo trovare il tipo prima possibile e tirare Giacomo fuori da 'sto casino e io, davvero, non so per quale dannato motivo lo stia facendo.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Daniele

Appoggio la penna sconfitto sulla pagina dei compiti di Greco.
Non riesco, non riesco a concentrarmi, non riesco a pensare a nulla che non sia Jack, i centoquaranta euro, quanto mi faccia schifo Cornigliano e tutta quella zona lì e al casino in cui mi sono ficcato.
Ho messo i soldi in una busta e l'ho lasciata sulla scrivania e fissata per un po'.
Devo andarci presto, quello da quanto ho capito è uno che non sa aspettare troppo.
Ci vado domani, sì, ci vado domani.
E perchè non stasera?
No, stasera no.
No.
Mi sta esplodendo la testa, devo distrarmi, devo fare qualcos'altro, qualunque cosa ma non star qui a pensare.
Sono le sette e domani è sabato, perfettamente umano come orario.
Prendo le chiavi della moto e il casco, metto la giacca ed esco.
Appena mi chiudo dietro la porta sto fermo qualche secondo.
La prendo o non la prendo, quella cazzo di busta?
Non la prendo.
Sì, la prendo.
La infilo nello zaino al volo, richiudo la porta e tempo due minuti sono sulla moto.
E ora dove vado?
Da Alessandra, vai da Alessandra.
Ma magari è stanca e non le va di vedermi.
Beh, alla peggio me ne vado.
Quando arrivo sotto il suo portone fisso un po' incerto il citofono, ma io a casa sua non ci sono mai stato e magari mi risponde sua madre e io che accidenti le dico?
La chiamo.
"Pronto?"
"Ale, che fai stasera?"
"Niente, tu?"
"Ti porto in moto da qualche parte. Scendi."
Abbasso subito il telefono, tanto mi riempirà di domande lo stesso.
Dopo cinque minuti scende, ha i capelli un pochino umidi (piscina?), dei jeans e una giacca verde gigante.
"Ma allora dicevi SUL SERIO?"
"Eh sí, a volte sono serio." Le rispondo tirando fuori un casco dal baule.
Ignoro il flusso sconnesso di parole e domande che sta formulando e le stringo il casco il più possibile, anche se resta comunque un po' largo.
"Tienilo un po' fermo con la mano, se senti che ti sta largo."
Salgo sulla moto e la sento mettersi dietro di me.
Aggrappati.
Dai.
No, non glielo posso chiedere.
Sì, posso, la moto è mia e decido io.
"Tieniti a me. Andiamo veloci."
Si stringe forte e sento una scarica elettrica attraverso tutto il corpo, ha delle mani piccolissime.
Accendo il motore e parto senza nemmeno una destinazione, voglio solo restare con lei così il più possibile.

Alessandra

Forse avrei dovuto dirgli che non sono mai salita su una moto in vita mia.
Sì, avrei decisamente dovuto.
Quando partiamo mi stringo fortissimo a lui, per i primi cinque minuti rischio che mi venga un attacco di cuore, ma poi mi abituo e inizio a osservare le cose.
Le luci di corso Europa, la gente per strada, la luna che spunta da sotto una nuvola.
E il vento che sento sul viso e fin nelle ossa e ho freddo ma non mi importa, chiudo gli occhi e mi stringo di più a Daniele, che si irrigidisce qualche secondo.
"Dove vuoi andare?" Mi chiede mentre siamo fermi a un semaforo.
"Al mare."
"Al mare? Ma siamo quasi a Dicembre!"
"Appunto perchè siamo quasi a Dicembre!"
"E dove andiamo?"
"Dove vuoi tu. Quanto ti va di guidare?"
"Ah beh, non è proprio un problema quello. Andiamo a Sori, ci vuole un po', ma vale la pena."
Annuisco e lui riparte appena scatta il verde, la strada è deserta e stiamo andando DAVVERO veloci, ora sembra proprio di volare.
Urlo come la gente in quei film americani quando succede qualcosa di tanto figo o sono tanto gasati, e lui ride.
"Ma che fai?" Mi chiede.
"Sono felice!"
"E urli sempre quando sei felice?"
"Solo a volte, quando sono molto felice."
Non mi risponde, ma urla anche lui e iniziamo a ridere, ogni tanto mi ritiro un po' giù il casco che rischia di sfilarsi.
Per arrivare a Sori ci mettiamo mezz'ora, parcheggia la moto e ci sediamo sulla spiaggia.
"Hai fame?" Mi chiede.
"Ho del cibo."
Tiro fuori dallo zaino tre panini, uno per me e due per lui, preparati in trenta secondi e nemmeno mi ricordo cosa ci sia dentro.
"Accidenti, sei così organizzata?"
"Nah, è che non mi piace cenare fuori."
"E perchè?"
"Non lo so. Tante cose non mi piacciono senza un perchè, e tante non mi piacciono con un perchè."
"Tipo?"
"Tipo non mi piace attraversare col giallo.
Insomma, non ti mette un'ansia terribile?
L'omino è fermo, potrebbe diventare rosso da un momento all'altro e tu potresti essere investito, e quando diventa rosso e sei a metà delle strisce ti viene il panico e corri e tutti ti suonano i clacson.
Fa schifo, insomma, o è rosso o è verde, a che accidenti serve il giallo?"
"A dirti che sembri un semaforo, hai la giacca verde, lo zaino rosso e i capelli gialli."
"Ma io non ho i capelli GIALLI! Sono BIONDI!"
"E non è uguale?"
"No. 
Allora io posso dirti che hai i capelli color cacca e gli occhi color melma."
"Lusingato, veramente!"
Chiacchieriamo un'oretta e io ho sempre più freddo, ma non glielo dico.
Non voglio rompere le scatole, anche perchè cosa ci puó fare lui?
Lo guardo bene, anche se il suo viso lo so a memoria, ha quell'accenno di barbetta che si stuzzica in continuazione e mi fa molto ridere.
Ogni tanto peró si rabbuia, come se si ricordasse all'improvviso qualcosa di brutto.
I lampioni non fanno chissà quanta luce, il cielo è limpido e si vedono tutte le stelle.
"Guarda quante sono" gli dico incantata.
"Molte sono aerei, eh"
"Devi sempre rovinare tutto, ma insomma!"
"Beh, le stelle non lampeggiano e non si muovono."
"E tu che ne sai?"
Si zittisce, capendo di star parlando con un muro e sento il suo sguardo addosso.
È piacevole, caldo, come una specie di abbraccio, anche se non mi sta nemmeno sfiorando.
Lo sento sui capelli, sulle guance, sulla punta del naso, sulle mani, non ho più freddo.
Sto bene, anche se siamo in silenzio.
Generalmente il silenzio mi mette a disagio, mi fa pensare di essere noiosa quando non ho niente da dire e finisco per raccontare stupidaggini, o andarmene, tutto pur di non star zitta o parlare da sola.
Eppure adesso non funziona così.
Lui al silenzio ci è abituato, insomma, magari ci sta pure bene, in silenzio, parla poco.
Magari è contagioso e sono diventata una persona silenziosa o magari il silenzio con lui è un silenzio diverso.
Quanti tipi di silenzio ci sono?
Quello imbarazzato, poi? Quello triste. Quello stanco. Quello annoiato, che non è la stessa cosa del silenzio noioso.
E non me ne vengono altri, quindi questo è il silenzio bello e basta.
Metto una manina gelida sulla sua e lui la stringe, e continuiamo a non dire niente, a fissare un po' l'altro, un po' il cielo, e passano le ore e all'una penso soltanto "di già?"
"A che ora devi essere a casa?" Mi chiede, con la voce un po' roca di uno che è stato zitto.
"Non lo so, io la sera non esco quasi mai. Le poche volte che lo faccio peró mia madre non mi da' un'orario, basta che torni a casa sobria, si fida di me."
"Allora tornerai a casa sobria e ad un'ora decente." Dice tirandomi su e togliendosi un po' di sabbia dai jeans.
Il ritorno in moto è piacevole, anche se ha un po' perso il fascino della prima volta, e quando gli chiedo se mi riporterà in moto di nuovo dice soltanto che è proprio una domanda scema, certo che lo fará.
Io le cose non le do mai per scontate, se le dai per scontate te le godi di meno.
Ci salutiamo con un cenno come al solito, i saluti lunghi non piacciono nè a me nè a lui.
Vorrei dire qualcosa di intelligente e carino adesso, ma le cose sono belle così.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Daniele

La guardo salire le scale e anche quando non la vedo più resto fermo per un po'.
Mi sento un idiota, un idiota felice.
Almeno finchè non mi ricordo che devo portare quei dannatissimi soldi a quel dannatissimo tizio in quel dannatissimo quartiere.
Devo farlo stasera e devo farlo adesso, se no non lo faccio più.
Risalgo sulla moto e durante la mezz'ora che ci metto ad arrivare non faccio che chiedermi perchè mi sono messo in una cosa del genere, non so nemmeno come fare a trovarlo questo qui, mi sono bevuto il cervello?
Scendo nella piazzetta -se così si puó chiamare- di quartiere ed è semideserta, eccezion fatta per un ragazzino (14? 15 anni?) che ha ovviamente una canna in mano.
"Dove l'hai presa?"
"Vuoi dell'erba o roba più forte?"
Rifletto un attimo.
"Roba più forte."
"Allora vai al Garden, un locale che sta proprio qua dietro. C'è uno che ti vende la roba migliore, ma sempre se hai i soldi ovviamente, che ne vuole tanti. E te devi darglieli, la gente che non lo paga finisce male."
Sento un brivido corrermi lungo la schiena.
"Ok. Come si chiama?"
"Luca, penso, ma tanto lo riconosci. Cia'".
Lo ringrazio e inizio a cercare il posto, che trovo dopo una decina di minuti.
È una specie di squallida discoteca con squallida musica house con squallide persone ubriache o strafatte e un odore terrificante.
Mi faccio coraggio.
Non ci metto molto a individuare il tizio.
È seduto a un tavolo, probabilmente lui e il suo interlocutore sono le uniche due persone sobrie di tutta la stanza e io lo osservo bene.
É uno che sembra tozzo pure da seduto, con delle spalle larghissime e i capelli corti squadrati, come se la forma della sua testa non lo fosse giá abbastanza.
Tutto è geometrico in lui, questo peró lo rende quasi affascinante.
Spalle quadrate, testa quadrata, mascella quadrata, bocca sottile che forma una linea retta, occhi piccoli ed espressione in bilico tra l'arroganza e la  cattiveria.
Il tizio con cui sta parlando si alza, si salutano velocemente ed è il mio turno.
Respiro.
Una, due volte.
Devo andare prima che si alzi.
Lo vedo allungare una mano verso la giacca, ma sono più veloce e mi siedo davanti a lui.
"Ciao."
"Che vuoi? Non ho più roba per stasera."
"Non la voglio. Devo pagarti e basta."
"Non ti ho mai visto."
"Lo so. Mi ha mandato un mio amico che ti deve dei soldi, Giacomo."
Sentendo il nome fa un sorriso beffardo.
"Aah, certo, mi ricordo.
Me ne deve un po', sono ben centoquaranta, ho provveduto a farglielo capire che mi servono."
Mi sforzo di non commentare e fingo di non capire il riferimento casuale al pestaggio. Tiro fuori la busta.
"Beh, mi ha mandato a darteli. Ti deve solo questi?"
"Al momento sí."
"Allora prendili, sono nella busta."
"Te non compri niente?"
"No, io non compro niente."
"La vendi?"
"Neanche."
"E che ci fai qui?"
"Ora che ti ho dato i soldi, più nulla. Ciao."
Dico, alzandomi e senza guardarlo.
Uscendo dal locale faccio un grosso sospiro di sollievo.
Mi sono tolto un peso.
E centoquaranta euro dal portafogli.
Per Giacomo che ha smesso di cagarmi mesi fa.
Sono davvero cosí solo e disperato da fare cose del genere per gente che non fa niente per me?
Risalgo sulla moto e stavolta vado a casa.
Sì, evidentemente lo sono.
Spero soltanto che servirà a qualcosa, che lui smetterà di drogarsi, ma in fondo non ci credo poi così tanto.
Anzi che andare a casa di mia madre vado da mio padre, è vuota anche oggi e preferisco stare un po' da solo.
Mio padre passa a casa sua un giorno sì e uno no, giusto quel che basta per far sopravvivere il gatto.
Quando infilo la chiave nella serratura mi sento travolgere da un senso di malinconia opprimente, improvvisamente sprofondo nella solitudine ancora più di quanto già non l'avessi fatto.
L'ultima volta che ho aperto questa porta ero con Ale, Ale con le scarpe diverse, Ale con diciottomila colori addosso, Ale con un calzino su e uno giù e adesso non c'è.
Proprio non c'è.
Chiudo gli occhi e li riapro e lei continua a non esserci, a non esserci per niente, l'unica cosa che vedo è la mia faccia da beota nello specchio all'ingresso.
Oggi l'ho già vista, giusto qualche ora fa, per giunta.
Che altro vuoi? Accontentati!
Guardo l'ora, sono le tre e mezza.
Dorme di sicuro, l'ho riportata a casa all'una.
Mi rassegno alla mia solitudine e mi butto sul letto svegliando Artura, che mi guarda malissimo per poi spostarsi sul divano.
Domani non c'è scuola, quindi non la vedo. 
Anche questo pensiero mi opprime.
Vorrei smettere di pensarci ma non ci riesco affatto, ovunque guardi c'é qualcosa che mi ricorda lei, pure su 'sto cazzo di letto se mi concentro sento ancora l'odore dei suoi capelli.
Mi prendo la testa tra le mani.
Basta, basta basta basta.
Non devo pensare a lei, se ci penso ancora un po' mi butto giù dalla finestra che non è nemmeno troppo alta quindi potrei provarci che secondo me sopravvivo.
Non posso smettere di pensarci e non posso chiamarla a quest'ora ma posso scriverle.
Sí, posso scriverle.
Alla peggio lo legge domattina, con ogni probabilità lo legge domattina.
E che le scrivo?
Una cosa bella cosí comincia bene la giornata?
No, non so scrivere cose belle o non cose che di solito piacciono alle ragazze, quelle stronzate romantiche da film proprio no.
Forse a lei quelle non piacciono ma io non sono capace comunque.
Cellulare acceso sul suo numero da dieci minuti e la tastiera che sembra chiedermi se sono scemo.
Alla fine lo faccio.
Scrivo la cosa più inutile e scontata che posso.
"Sei sveglia?"



Ciao!
Scusate se sono lenta ad aggiornare, ma la scuola mi sta uccidendo e se trovo il tempo di respirare è già tanto.
Il prossimo capitolo sarà più lungo, promesso.
Grazie a tutte le persone che hanno recensito e grazie anche a chi non lo fa!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Alessandra

"Sei sveglia?"
Sorrido, come potrei non esserlo? 
Ho così tante cose a cui voglio pensare che non so nemmeno a quale pensare per prima.
Avete presente quelle giornate che sono particolarmente belle, così belle che quando volete ripensarci per ricordarvele meglio non sapete da dove iniziare?
Se anche provassi a chiudere gli occhi la felicitá e l'emozione mi travolgerebbero, e mi sembra un tale spreco di tempo dormire quando sto così bene.
Rispondo a Daniele di sì e la sua risposta arriva con una rapidità impressionante.
"Ti posso chiamare?"
Sorrido di nuovo e lo chiamo io.
"Non eri quello che stava poco al telefono?"
"Mica sempre. Perchè sei sveglia?"
"Perchè non mi va di dormire. Posso farlo anche domattina, che tanto è sabato!
Tua madre non ti uccide se stai al telefono a quest'ora?"
"Forse lo farebbe, ma sono da mio padre da solo con Artura, quindi la cosa non mi preoccupa."
"Aaah, quanto ti invidio! È una casa meravigliosa in un posto meraviglioso."
"Domattina dormi, ma domani pomeriggio hai da fare?"
"Allenamento di nuoto dalle quattro alle sei, ma da lì in poi nulla"
"Allora vengo a prenderti alle sei e ti porto qui, così sei contenta"
Vorrei rispondergli che sarei contenta pure se mi portasse in un posto sfigato e che puzza, ma non oso tanto.
Chiacchieriamo ancora per un'ora intera e intanto sento il sonno che arriva, e le gambe che non reggono più il quarantesimo giro della camera.
Quando sono al telefono devo muovermi, assolutamente, è una specie di tic.
"Daniele, mi sta venendo sonno"
"Che intuizione, non l'avrei mai detto, sei al quarto sbadiglio. Vai a dormire"
"Mi dispiace andare a dormire"
"Se ci vai tu ci vado anche io"
"Peró mi da un fastidio tremendo avere sonno adesso.
Dormire a volte è irritante, soprattutto quando vorresti che le giornate non finissero mai e poi ti viene sonno e sei costretto a finirle e insomma, non è terribile?"
Lo sento ridere.
"Era da un po' che non facevi un ragionamento scemo del genere.
Notte Ale"
"Io non butto giù. Ho i minuti illimitati.
Russi o parli nel sonno?"
"Direi nessuna delle due, perchè?"
"Perchè io posso pure dormire adesso senza buttare giù e fregarmene se mi senti."
Sta in silenzio qualche secondo, mi immagino che sorrida.
"D'accordo. Finchè non si scarica un cellulare?"
"Finchè non si scarica un cellulare.
Buonanotte Daniele."
"Buonanotte Ale", dice, ma io già non lo sento più.


Quando mi sveglio sono le undici, vedo il cellulare scarico sul comodino e faccio un sorriso, mettendolo in carica.
Faccio una colazione-pranzo, studio un po' ed esco per l'allenamento.
Fa un freddo cane, quel freddo che respiri e ci sono le nuvolette di fumo e non riesci neanche a tirar fuori le chiavi dallo zaino perchè hai le mani troppo gelate, a me le mani si ghiacciano sempre.
Entrare in acqua peró, per assurdo, è un sollievo.
Ho addosso una sensazione strana, sono felice ma inquieta, non riesco a star ferma un secondo, faccio dei tempi ottimi ma non mi soddisfano.
"Che hai oggi, Ale?" Mi chiede Lorena, una mia compagna di corso.
È una delfinista, ha un corpo e un fiato pazzeschi, penso sia la migliore di tutte noi.
L'ho sempre invidiata un pochino.
"Nulla, mi sento carica."
"Sicura?"
"Sicura."
La osservo iniziare la vasca.

Daniele

"Pronto?"
"Daniele, sono Giacomo"
"Oh, ciao"
"Hai pagato il mio debito. Perchè?"
"Perchè tu non potevi."
"Sara ha detto ai miei che mi drogo. Domani sarà il primo giorno nel centro di recupero. 
Non posso dire di esserti grato per averle suggerito di dirlo, ma lo sono perchè mi hai pagato il debito e ti ridaró tutti i soldi, lo giuro"
"Lei come sta?"
"Bo, bene. Meglio. Falle un colpo di telefono semmai, non lo so. Non ci parlo granchè e non è a casa.
Ora dovrei far la valigia, ti ho chiamato solo per ringraziarti, perchè nessun altro l'avrebbe fatto e credevo ce l'avessi con me."
Gli vorrei rispondere che ce l'ho a morte con lui, ma mi limito a dire "figurati", abbassare e buttarmi sotto la doccia per due ore.
Son contento che si sia chiusa questa cosa.
Io ho fatto la mia buona azione da bella persona in cui non ho guadagnato niente, potrei essere, che so, il personaggio buono di qualche film.
Spero che starà meglio, ma in realtà al momento è in fondo alla mia lista di priorità.
Alessandra è in piscina adesso, e poi la  devo andare a prendere.
Stasera ci ordiniamo una pizza.
Sì, e magari le faccio trovare casa in condizioni decenti.
Magari pulisco un po' o cambio la lettiera del gatto.
Mi rifaccio il letto.
No, non so rifarmi il letto quindi chissenefrega.
Peró una sommaria pulita la potrei dare.
Finisco per passare il tempo che mi rimane a chiedermi cosa posso fare senza fare realmente nulla, se non accorgermi che sono in ritardo, vestirmi al volo, uscire di casa coi capelli fradici e ricordarmi il casco per miracolo.

Alessandra

Sono le sei e venti e sembra notte.
Ah, l'inverno.
Lui è proprio fuori dalla piscina, appoggiato alla sua moto col casco del Genoa e la barba sfatta, e mi guarda e mi imbarazza un po'.
Siamo di poche parole, questa sera.
La mia felicità ansiosa adesso è alle stelle.
"Che facciamo?"
"Pioverà tra dieci minuti. 
Ti va di andare a casa mia?"
"Uuuh, da Artura?"
"Sì, da Artura, e ci ordiniamo una pizza."
"Ci arrivano le pizze a Granarolo?"
"Dovremo ordinarla alle sette per farla arrivare alle otto ma sì, ci arrivano."
"Allora aspetta, lo scrivo a mia madre giusto per farla star tranquilla.
E a che ora mi riporti a casa?"
"Ah, uh, boh. Quando vuoi."
"Decideremo."
Salgo sulla moto, stringo le braccia intorno a lui e partiamo verso casa sua, col freddo pungente accentuato dalla velocitá, ma al momento del freddo mi importa meno di zero.
Sabato sera.
"Non esco mai il sabato sera"
"E perchè?"
"Non lo so. Tanta gente, e la sera di base io sono stanca."
"Per la gente hai ragione. 
Genova é meglio vuota la mattina presto.
Tranquilla, a Granarolo non c'è vita notturna. Probabilmente siamo gli unici due esseri umani nel raggio di chilometri."
Non rispondo, continuo a guardare la gente mentre siamo fermi al semaforo, e non li invidio, non li invidio perché il mio sabato sera non potrebbe proprio essere meglio di così.
Daniele canticchia, Daniele è di buon umore, Daniele adesso è diverso da Daniele che a malapena mi saluta sul bus, diverso da Daniele che fuma davanti a scuola, diverso da Daniele annoiato.
Arriviamo a casa sua alle sette precise, lui ordina due pizze mentre io coccolo il gatto e collego il telefono alle casse.
Metto la musica, bassa per riuscire a parlare, ma la metto perchè fa film, fa allegria.
Daniele adesso non dice niente, si siede davanti a me e accarezza distrattamente Artura.
Mi guarda e io non so se alzare lo sguardo, non so mantenere per troppo tempo il contatto visivo.
Alla fine lo faccio.
Siamo zitti.
Siamo fermi.
Il gatto si accorge che nessuno sta badando a lui e va a piazzarsi davanti al termosifone.
Daniele mi si avvicina un minimo e mi abbraccia e ci sdraiamo vicini, come la prima volta che sono venuta qua, ed entrambi guardiamo il soffitto, e il mio cuore batte così forte che ho paura che si senta.
Stiamo così un po', finchè non suona il citofono un eroico fattorino che ha raggiunto questo posto.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Daniele

Mentre finiamo le pizze siamo i soliti, chiacchieriamo e ridacchiamo per stupidaggini, ma io non riesco a smettere di guardarla.
Ha i capelli in disordine, non li ha asciugati in piscina, si sono asciugati al vento. 
È di una bellezza quasi eterea, se sapessi disegnare bene come lei ora lo farei.
O le farei una foto, se solo potessi dirle "in questo momento mi piaci tantissimo, quindi ti faccio una foto".
Peró non posso, non posso fare niente, a parte prendere i cartoni delle pizze ormai vuoti e andare a buttarli in cucina mentre sento di sfuggita lei che continua a parlare (di cosa? Non lo so) dal salotto.
Parla proprio tanto, ma riesce anche a capire quando bisogna star zitti e lo apprezzo moltissimo.
Se ora non mi stesse raccontando la storia dei suoi pesci rossi probabilmente ci sarebbe un teso e imbarazzato silenzio.
Ho bisogno di toccarla, mi serve un contatto, non riesco a starle lontano, è come se fosse una calamita.
Le sfioro una mano con la mia e lei la stringe e smette di parlare.
Ho lo sguardo fisso sul pavimento di camera mia, non riesco a sostenere il suo.
Chiude gli occhi per un paio di secondi, e quando li riapre sono fissi nei miei.
Ci separa solo qualche centimetro, ma io non riesco a muovermi.
Ho paura, sento l'ansia che mi divora, sono immobile e così è lei, e la cosa diventa pesante, carica.
Il panico inizia a farsi strada nel mio cervello, non capisco più nulla, riesco a contarle le lentiggini chiare che ha sul naso e sulle guance, che se non ci fai proprio attenzione non le noti.
Mi stringe la mano più forte.
Non so come, quel contatto è la scarica elettrica definitiva, mi avvicino quel poco che basta e appoggio le labbra sulle sue.
Stiamo immobili per una frazione di secondo, poi la bacio, la bacio sul serio, la bacio come fanno nei film, e quando allontano le labbra dalle sue non ho il coraggio di guardarla.
E se ho sbagliato?
E se non le piaccio?
E se ora se ne va e non la vedo mai più?
"Ti ha dato fastidio?" Chiedo con un filo di voce, mangiandomi anche le parole.
"Guardami", dice.
Alzo lo sguardo e lei è di nuovo vicinissima, con un mezzo sorriso sulle labbra.
Mi prende la testa tra le mani e mi bacia, e mi sento esplodere, vorrei tanto non aver bisogno di respirare adesso, se già non capivo un cazzo prima ora è pure peggio.
Continua a stringere la mia mano e quando ci allontaniamo restiamo una decina di secondi immobili, questo probabilmente è il momento in cui le dovrei dire "sei bellissima" o cose del genere ma non ho il coraggio ora, anche se lo penso, Cristo, bellissima è riduttivo.
Le accarezzo i capelli e lei inizia a ridere, dal nulla.
"Cosa c'è da ridere?"
"Niente, mi è venuta in mente una parola buffa."
"ADESSO? E che parola è?"
"Cotoletta. Ma non lo so perchè mi sia venuta in mente, a volte mi succede qualunque cosa io stia facendo, peró insomma senti come suona strano. Cotoletta, cotoletta cotoletta cotoletta."
Inizio a ridere anche io, e non per "cotoletta", ma  perchè lei è l'unica persona dell'universo capace di ridere per la parola "cotoletta" in QUESTO momento e che ha pure il coraggio di spiegarmelo.
Ci sdraiamo sul letto e torno a baciarla, sulle labbra, sul collo, all'altezza della clavicola, i vestiti che abbiamo addosso nel giro di qualche minuto sono già per terra.
Sento le sue mani piccine che mi accarezzano la schiena, e mi fa impazzire, tutto di lei adesso mi fa impazzire.
Sono carezze leggere, come se avesse paura.
Le lascio tanti piccoli baci sul collo, mentre la mia mano scorre sul suo seno.
Ha un seno piccolo, ma mi piace, perchè tutto di lei è piccolo e perfettamente in armonia col resto.
Ci siamo solo noi, noi e il ticchettio della pioggia sul vetro, e io non potrei stare meglio di così.



La luce debole dell'alba mi è sempre piaciuta, ma mai così tanto.
Lei è accanto a me, dorme e io mi sono svegliato tre minuti fa, e quasi non ci credevo quando l'ho vista.
Ha ancora le guance rosse, rosse come le aveva stanotte, e il sorriso sulle labbra, come lo aveva stanotte.
Le sue piccole lentiggini sono dodici.
Le accarezzo una guancia, sperando che non si svegli, poi la mia mano scende sul suo collo liscio, sulla clavicola, si ferma sul piccolo neo che ha sopra il seno. 
È proprio bello, e le sta bene.
Ha pochi nei sul corpo in generale, ne ha uno qui, uno all'altezza dei fianchi, uno sul collo e forse qualcuno sulle cosce.
Torno ad accarezzarla, lievemente come ha fatto lei questa notte, e mi fermo all'altezza dell'ombelico perchè non voglio che si svegli.
Voglio stare così ancora per un po'.
"È questo quello che cercavi?"
Non lo so.
Non avrei mai pensato una cosa del genere, ho sempre passato il tempo ad autocommiserarmi sulla mia vita insoddisfacente senza concentrarmi sulle cose belle, che sono arrivate tutte insieme a lei.
Avrei potuto trovare il coraggio di parlarle pure prima, avrei perso meno tempo a essere triste o scazzato, ma in fondo sono contento che sia andata così perché - siamo onesti - sarebbe potuta andare meglio?
Mai, mai mi sarei aspettato di svegliarmi una mattina ed averla accanto a me, eppure lei c'è, c'è e sorride mentre dorme e chissà a che sta pensando.
Probabilmente alla cotoletta come ieri sera, ma sorvolando su quello, probabilmente pensa a qualcosa di bello.
Come sempre.
Tra tutte le cose che amo di lei, l'unica che vorrei avere io (perchè le altre sono sue caratteristiche e starebbero male a chiunque altro) è la capacità di trovare il lato bello delle cose.
Non l'ho mai vista triste per qualcosa.
L'ho vista mettersi margherite tra i capelli in giornate orrende, l'ho vista parlare con le vecchiette, l'ho vista esplodere di gioia per una foglia particolarmente rossa caduta da un albero, l'ho vista ridere sotto la pioggia, mangiare una mela per strada, regalare la sua granita a un barbone, e dovrebbe essere pieno, pieno di persone come lei.
Ma forse è meglio così.
È meglio che l'unica persona del genere stia dormendo accanto a me adesso, perchè una piccola punta di egoismo ce l'ho anche io.
Nel silenzio sento la musica bassa che è ancora di là, non l'abbiamo mai spenta, è rimasta lì tutta la notte.

Apre gli occhi lentamente (l'ho svegliata? O era già sveglia?) e la stringo a me, sento il suo corpicino dare calore al mio.
"È questo quello che cercavi?"
Sì, è esattamente questo.



-

Salve a tutti!
Come avrete visto, ho barrato la casella "completa" e ora vi spiego perchè.
In una storia d'amore penso che la parte migliore sia quella precedente alla storia in sè, trovo affascinante il modo in cui due persone possano avvicinarsi addirittura più di quanto trovi affascinante chi sta insieme.
Daniele e Alessandra mi piacciono così.
Se avessi continuato a scrivere la loro storia (come fanno tutti su efp) sarebbe diventato noioso e banale, e non mi va di scrivere Beautiful o una roba del genere.
Immaginateveli voi o lasciateli così.
Non scriveró l'epilogo in cui sono passati quindici anni e loro sono sposati e vivono alle Bahamas con due figli eccetera, odio mettere una fine alle cose.
Piuttosto le lascio incomplete, ma scrivere "fine" mi rende triste.
Spero che non ce l'avrete con me perchè non ho continuato, ma non sarei stata capace di farlo bene e preferisco che si chiuda così, con loro felici, perchè è così che dovrebbero essere sempre le cose.
Grazie a chi ha seguito e recensito la storia, mi avete dato un piacere immenso.
Grazie davvero.
- Cannella

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