Unconfortable Truths

di whitesnow
(/viewuser.php?uid=236667)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** "Ombre Dal Passato" ***
Capitolo 3: *** "L'Alibi Perfetto!" ***
Capitolo 4: *** "Il destino ha la sua puntualità" ***
Capitolo 5: *** "Sospetti..." ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 Unconfortable Truths 
 
Prologo
 
Urla strazianti si levarono violentemente nell'aria, bloccando il passo affrettato e deciso delle quattro ragazze. I loro sguardi si unirono impauriti, non sapendo cosa fare, se agire o non lasciare che quell'apparente scherzo di cattivo gusto potesse suggestionarle. Solo uno sguardo bastò, un solo sguardo comunicativo e le quattro ragazze ritornarono indietro, correndo le une accanto alle altre, insieme. Le foglie  scricchiolavano sotto il peso dei loro passi, che accelerarono sempre più, fino a diventare una corsa affannosa . I rami cadenti e i cespugli ispidi rallentavano la loro corsa ma loro non si arresero di fronte a quegli ostacoli che - apparentemente - potevano essere considerati una piccola punizione per ciò che era accaduto poco prima. Era come se il destino volesse farla pagare a quelle quattro ragazze, ingannandole sulla distanza che - nonostante fosse stata proseguita poco prima - sembrò essere aumentata ed il tempo sembrò scorrere velocemente, come per ricordare che il loro intervento sarebbe stato inutile. Correvano in silenzio, lasciando che quest'ultimo comunicasse il loro sgomento, le loro paure, il loro terrore di ritrovarsi di fronte ad una realtà scomoda ed irrecuperabile. 
Giunsero insieme ed otto occhi così diversi, ma che in quel momento segnavano lo stesso sguardo sui loro volti, si soffermarono sulla sagoma rigirata, privata di sguardo, affondato nella melma e nel fango. Era immobile e fragile, paralizzata, indifesa e ormai priva di vita. Gli abiti erano stati maltrattati su alcuni punti e le mani rivolgevano i palmi al cielo. Era uno spettacolo straziante che paralizzò i loro corpi, rese secche le loro labbra e bloccò ogni suono dentro di loro, ogni parola, ogni pensiero. Non avevano il controllo di loro stesse, non sapevamo come agire, cosa fare. Si guardarono ancora, si legarono con lo sguardo ed una consapevolezza comune le avvolse. Nulla sarebbe stato come prima; quel segreto pronunciato nel silenzio della notte avrebbe decretato ogni cosa da allora in avanti. Quel segreto che le avrebbe divise,  quel segreto che le avrebbe riconciliate....

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** "Ombre Dal Passato" ***


                             



                             1°Capitolo

                     
"Ombre Dal Passato"


Otto anni dopo...


"Ancora! Hai avuto il coraggio schifoso di farlo ancora!!" La pregiata porcellana si frantumò ancora contro il muro, evitando di poco il volto dell'uomo che rivolse  uno sguardo sbarrato ed impaurito verso la bella moglie che - con indosso solo una sottile vestaglia -  mostrava la sua rabbia distruggendo il pregiato set di piatti tenuti fin a quel momento ben custoditi. Ne volò un altro e ancora un altro si aggiunse a quel cumulo di detriti lucenti. L’uomo si avvicinò di qualche passo verso di lei, ma fu fermato da un altro piatto che  gli sfiorò di poco una spalla. Era fuori di sè ed ogni argomentazione, scusa o tentativo di mettere fine a quell’ira violenta sarebbe stata inutile. L’uomo fissò ancora una volta la moglie - con il bel volto arrossato ed il petto che ad intermittenza andava su e giù - che lo guardava con i suoi lucenti occhi, quel pomeriggio rabbiosi e privi di quella bellezza che aveva fatto sognare molti uomini... e avevano reso lui fiero di sè. Quel pomeriggio non c’era bellezza su quel volto, ma solo rabbia e odio.
Savannah Clark era davvero stufa di quel matrimonio che si era rivelato un vero incubo e dal quale non vedeva via di fuga. Quel matrimonio senza amore che lei aveva accettato con troppa leggerezza e superficialità. Aveva sposato Adam Lewis - suo fidanzato storico del liceo - non deludendo le mille aspettative che gli abitanti della piccola cittadina di Dimwoods avevano nutrito su di loro. Ma nonostante quell’infelicità, quel mascherarsi ogni giorno in moglie felice e soddisfatta, Savannah Clark non riusciva ad accettare le mille scappatelle che suo marito - il bel proprietario dell’azienda Lewis & company, filantropo ed ex capitano della squadra liceale della città - si concedeva senza preoccupazioni. Era ormai divenuto da routine sorprenderlo nelle sue prestazioni da ufficio, o trovare ovunque potesse mettere le mani le tracce delle sue troiette che - senza preoccupazioni -  lasciavano gli indizi del loro passaggio, marchiando con orgoglio i luoghi in cui  c’era stata quell’unione di pochi attimi, schiaffeggiandola vigorosamente e facendole notare con fin troppa insistenza che quella vita - che lei cercava di autoconvincersi fosse perfetta - in realtà non lo era. Guardava suo marito e non riusciva a non provare disgusto, a provare ribrezzo per quel viso fin troppo curato, per la sua espressione sicura, per la sua figura grossa e prepotente. Ogni cosa di lui le ricordava quanto la sua vita non avesse preso le pieghe che lei aveva desiderato, ogni cosa di quell’uomo le ricordava quante occasioni, quante opportuntà e soprattutto quanta felicità le erano scivolate via dalle mani. Savannah aveva perso di vista ciò che realmente lei aveva sempre voluto, accontentandosi di una bella casa, di una bella auto, di un bel guardaroba e di un silenzio che premeva forte e che martellava la sua testa. Gettare altri piatti contro di lui sarebbe stato inutile: quella rabbia non poteva trovare freno nemmeno se avesse provato a rompere ogni angolo di quell’enorme casa, così vuota, così fredda, così inanimata e non vissuta. Si accasciò stancamente sulla poltroncina posta nell’angolo del salone e i lunghi capelli biondi le ricaddero sul viso smorti, privi di lucentezza e di bellezza. Il viso era basso e lo sguardo del tutto rapito dai pensieri. La stanchezza e le pene di un orgoglio ferito erano visibili in lei e su di lei.

“Savannah credimi, non è successo nulla….” Adam si avvicinò con testa bassa e sguardo sofferente. Osò farlo credendo che quella furia si fosse calmata, assopita e sprofondata nel tessuto morbido e pregiato della poltrona. Ma quando i grandi occhi cristallini della moglie si alzarono furiosi su di lui, non potè evitare di indietreggiare di qualche passo e prepararsi a fronteggiare ancora la sua ira.

“NON E' SUCCESSO NULLA UN CORNO!” Savannah lasciò il comfort della poltrona e puntò un dito minaccioso verso di lui, un dito che avrebbe sostituito volentieri con una lama lucente e affilata. Forse evirandolo avrebbe frenato quegli impulsi irrefrenabili ed impossibili da ignorare. Adam indietreggiava ad ogni passo di lei, cautamente e senza fretta; non avrebbe trovato difficoltà nello zittire ogni suo movimento: Savannah era magra, sottile e sotto la sua presa non avrebbe retto molto. Ma non avrebbe mai sfiorato sua moglie, nemmeno in quel momento in cui il suo controllo era del tutto perso. Savannah avanzò ancora, ritrovandosi a pochi centimetri da quel viso che la disgustava, da quell’ odore che le dava la nausea e da quell’essere verso il quale non aveva mai provato nulla, verso il  quale aveva finto ogni cosa, dal più semplice sorriso, fino al più naturale tocco ed alla più intima unione.
 
“Smettila di fare la pazza isterica. Calmati e parliamone” Adam si allungò verso di lei, tentando di stringerla tra le grosse e forti braccia, ingannandola con quella presa che tutto sarebbe passato, fingendo che mai più avrebbe ripetuto un’azione simile e mai più avrebbe donato al suo splendido viso espressioni corrugate e rabbiose. Sapeva anche lui che tutto ciò non sarebbe durato molto, ma in quel momento aveva la necessità di mentirle, di ingannarla e zittire quei piagnistei inutili. Lo conosceva bene: erano ormai da sei anni che entrambi condividevano ogni cosa, erano sei anni che si svegliava accanto a lui accettandone ogni difetto, senza mai farne parola, senza mai cercare di trovare una soluzione. Erano sei anni che condividevano quel luogo nel quale era visibile la finzione sulla quale il loro matrimonio era poggiato. Erano sei anni che fare l’amore era diventato un obbligo e non un piacere. 

“Parlare di cosa? Del fatto che non fai altro da sei anni? Del fatto che tutto questo è PURA FINZIONE?” Savannah scaraventò il tavolino in madre perla - entrato per nefasto caso nella sua traiettoria - sul pavimento, spaccandolo del tutto e rovesciando gli inutili gingilli poggiati su di esso. Adam soffiò stancamente ripensando alla somma spesa per quel capriccio fin troppo costoso. 

“Non è finzione! Ci amiamo e siamo sposati. Ma non puoi biasimarmi se qualche volta io abbia voglia di cambiare! Per noi uomini è diverso… Dovresti capirlo se realmente mi ami”. Adam fece sue le accuse che poco prima aveva negato e rifiutato. Fece sue le colpe della rabbia di Savannah che non riusciva a frenare il tremore delle mani, il fiato corto e l’accelerazione del battito cardiaco. Sentiva ogni tratto di lei bruciare come fuoco, sentiva il bisogno di urlare, ma sapeva che non sarebbe bastato. Era rimasta paralizzata di fronte a quelle parole che suonavano così chiare, suonavano tranquille come se ciò che aveva chiesto fosse contrattabile. Rimase a fissare il buio dei suoi occhi, che un tempo erano stati amati da molte e che lei non era mai stata capace di apprezzare. Guardò quel debole sorriso dipingersi sul suo volto, quel sorriso che alzò gli zigomi scolpiti perfettamente, ma che lei non riusciva a considerare tali. Adam trovava quella situazione divertente e guardava lei come se quel suo modo di vedere le cose fosse anche il suo. Savannah si sistemò al meglio l’elegante vestaglia in seta - coprendo ogni tratto del suo corpo - e sorrise di rimando. 

“Se è ciò che vuoi, allora da domani puoi portare il tuo culo fuori da casa mia.” Pronunciò quelle parole con calma, trattenendo le urla che desideravano saltare fuori e trattenendo i pugni che avrebbero colpito volentieri l’uomo, che ormai non riusciva più a considerare come suo marito. Adam sembrò riacquistare fiducia in sè e tramutò la sua espressione stralunata ed incredula, sostituendola con una più sicura, boriosa ed impertinente. 

“Non credo che ti convenga cacciarmi…” Adam sembrò aver preso in poco tempo le redini della questione ed aveva riassunto lo status di padrone di casa dopo aver pronunciato quelle semplici parole con sicura decisione. 

“Ti ricordo che abbiamo un contratto e cacciarmi di casa rovinerà solo la tua posizione!” Il sorriso di Savannah sparì completamente dal suo volto, lasciando spazio all’inquietudine. Conosceva bene ogni termine di quel contratto firmato senza problemi. Aveva poggiato la sua calligrafia su di esso, aveva dato il suo consenso ed aveva accettato termini impossibili da accettare; termini che gettavano fango su di lei, che le avevano spezzato le ali e cancellato il desiderio di essere felice. Si strinse nella vestaglia ed ingoiò a fatica gli innumerevoli insulti che gli avrebbe riversato contro. Rimase a fissarlo con chiaro disgusto e si scostò quando lui tentò di darle un leggero bacio velenoso, infido e perfido sulla guancia. 

“Mi costringi a trascorrere la notte fuori casa... “ Savannah sentì un groppo alla gola. Il capo divenne pesante e cominciò a dolere e si sentì completamente inutile, priva di quella carica scatenata poco prima. Adam si prendeva beffa di lei ogni attimo, la umiliava, mortificava il suo essere donna, il suo essere moglie e lei non avrebbe potuto fare nulla, oltre ad accettare quelle condizioni. Adam le avrebbe concesso solo delle inutili sfuriate, ma dopo ciò tutto sarebbe ritornato come prima. 
Savannah sentì le sue umide labbra poggiarsi sulla guancia e si arrese a lui. Sentì bruciare a quel tocco e senza controllo le lacrime solcarono il suo viso; bruciavano, facevano male. Si sentiva vuota, completamente priva di ogni cosa; ad occhi bassi percepì i suoi movimenti e solo quando sentì la porta sbattere si catapultò in bagno per scaricare tutta quella rabbia concentrata in lei. Si chiuse la porta alle spalle con un tonfo violento che fece tremare l’enorme specchio posto di fronte a lei. Non aveva il coraggio di guardarsi, di vedere come quel matrimonio l’avesse segnata non solo nell’animo, ma nel corpo, in ogni angolo di lei, su ogni tratto del suo viso. Si avvicinò allo specchio ad occhi bassi ed afferrò una boccetta di profumo che fu scaraventata con forza contro di esso. Savannah sentì il frastuono cristallino e vide il vetro cadere, sparpagliarsi sul pavimento esattamente come la sua vita, finita in frantumi. Non aveva il coraggio di alzare il volto e guardarsi, non aveva il coraggio di vedere come ogni cosa fosse cambiata, di accettare quel cambiamento avvenuto nel tempo, avvenuto improvvisamente e senza preavviso. 
Il capo fu levato piano, con lento dolore e quando incontrò il suo viso distorto - spezzato da tasselli mancanti - rivisse sei anni di una vita andata male, di una vita che aveva preso strade diverse e che aveva realizzato sogni mai poggiati nel cassetto. Gli occhi cristallini - un tempo vivaci e vivi - erano cupi, ricoperti da un velo di tristezza ed infelicità. Il viso era incavato e pallido, il colorito diafano era stato sostituito e rimpiazzato, le labbra piene erano secche, screpolate e non più rosee ed invitanti ed i capelli - la sua lunga chioma aurea - era smorta e trasandata. La sua bellezza - che un tempo l’aveva resa la ragazza più bella ed invidiata del liceo, che un tempo le aveva permesso di posare per le migliori copertine e di sfilare sulle passarelle europee - adesso era divenuta solo un ricordo. Ciò che lo specchio riportava era la figura di una donna consumata, una donna insoddisfatta ed infelice, una donna che ormai aveva perso la sua strada. 
Savannah non riusciva a guardarsi, non riusciva ad accettare quella condizione. Ma l’obbligo era chiaro e forte: lei non avrebbe mai lasciato quel luogo e quell’uomo. Si guardava, si perdeva nel suo stesso sguardo e sentiva nausea; sentiva dolore, il bisogno di scappare, di andare lontano e rinunciare a quella bellezza superflua e inutile. Quello sfarzo, le cene eleganti, gli abiti unici, i gioielli ed i gingilli, erano divenuti inutili ai suoi occhi e non mostravano più la loro lucentezza, la loro bellezza. Non mostravano più quello sfarzo che l’avevano resa succube di loro. Ormai era disintossicata dalla vita lussuosa perché aveva capito - anche se troppo tardi - che tutto ciò sarebbe finito,  tutto ciò sarebbe crollato. Savannah accasciò la testa sul marmo freddo del lavabo e si sciolse in un pianto isterico; piangeva incontrollabilmente, un pianto urlato, che raschiava la gola. La testa sembrava sul punto di voler scoppiare e gli occhi bruciavano, come se quelle lacrime fossero acido. Faceva male tutto ciò, faceva male il prezzo da pagare per quella vita superficialmente perfetta.
Sentì un tocco delicato battere sulla porta e restò in silenzio, temendo che Adam fosse ritornato indietro. Restò a fissare ancora il pavimento lucido, ma quel battito si ripetè ancora e la dolcezza impiegata le fece comprendere che dall’altro capo non c’era l’odiato Adam, ritornato a tormentarla. Si asciugò frettolosamente le guance umide di lacrime e cercò di darsi un aspetto migliore. Stese la vestaglia - che fasciava il suo corpo perfettamente - e mascherandosi ancora andò ad aprire la porta.

“Margareth...” Savannah quasi si stupì di incontrare il volto severo e rugoso della domestica: di solito la sua presenza si limitava a poche ore del giorno. La donna la guardava con aria torva e insoddisfatta, la sua solita aria che ormai Savannah aveva imparato a gestire. Nei primi tempi aveva temuto di esserle antipatica, ma con il passare degli anni aveva compreso che quello sguardo era solo il risultato del duro lavoro che lei svolgeva per dar la possibilità - alle sue due figlie - di studiare in un college che potesse permetterle di trovare futuro in quel mondo privo di speranza. 

“Signora Lewis, c’è qualcuno che la desidera” Margareth le porse il cordless e senza attendere il suo congedo si allontanò, lasciandole l’intimità della parola. La porta fu chiusa nuovamente e Savannah riestò a fissare il telefono per un tempo indeterminato, domandandosi chi fosse quel pomeriggio a reclamarla. Adam era appena uscito, quindi non poteva essere lui, anche perché se fosse stato lui Margareth lo avrebbe annunciato. Sua madre era in viaggio con le amiche e se anche non lo fosse stata una sua telefonata sarebbe stata improbabile. Savannah scavava nella sua mente in cerca di chi ci poteva esserci dall’altro capo del telefono; cercava nella sua mente il nome di qualcuno che avrebbe richiesto la sua voce, il suo aiuto, ma nulla! Il buio e l’incertezza totale. Avvicinò il telefono all’orecchio e schiarendosi la voce assunse la solita tonalità sicura e presuntuosa. 

“Pronto?” Il dolore e il pianto erano stati del tutto cancellati e la sua voce era forte e decisa. La debolezza le era scivolata via, l’aveva abbandonata completamente.

“Savannah…. sono Faye...” Quella voce, quel nome. Mille ricordi si radicarono nella sua mente, si accalcarono velocemente e si susseguirono dolorosamente. Quella voce non era cambiata: bassa, dolce, morbida e calda. Quella voce che suonava come un benvenuto, quella voce che le regalò un leggero sorriso. Gli occhi istintivamente si abbassarono verso il polso sinistro ed il piccolo cuore - disegnato con semplicità - riassunse il suo vero significato.
 
“Faye…” Pronunciare quel nome, parlare semplicemente con lei richiese uno sforzo enorme. La voce divenne un fischio sottile ed incerto e Savannah dovette accomodarsi sul bordo della vasca, perché le gambe avrebbero ceduto di lì a poco. 

“E' un pò che non ci si sente" Rispose la sua interlocutrice con lo stesso tono sottile ed incerto. Era trascorso troppo tempo da quando le due avevano ascoltato la loro voce.

"Già... da quando..." Le parole le morirono sulle labbra; entrambe sapevano benissimo a cosa si riferisse Savannah ed entrambe lasciarono che il silenzio si contrapponesse tra le loro parole. Poi Faye prese coraggio e fece risentire la sua presenza.

"E' proprio di questo di cui voglio parlarti. E' successa una cosa, ma non è il caso di parlarne al telefono; vediamoci tra un ora nel bosco, ci saranno anche le altre!" Pronunciò quelle parole tutto d’un fiato, non lasciando spazio ai ricordi, non dando la possibilità di raccontarsi, di rivelare cosa fosse accaduto in quel periodo che non le aveva viste protagoniste. Parlò frettolosamente e senza aggiungere altro Faye riagganciò, lasciando Savannah in un turbine di pensieri e domande. Cosa poteva essere successo? Senza perdere altro tempo corse a prepararsi per quell’appuntamento con il passato.

Si catapultò fuori l’abitazione pochi attimi dopo; aveva indossato abiti semplici, lasciando il viso privo di trucco. Non era da lei uscire in quello stato, ma la questione era importante ed il tempo era divenuto prezioso. Ordinò a Margareth di non farne parola con Adam e di inventare una qualsiasi scusa che potesse tenerlo lontano dalla sua stanza. Montò sull’enorme Tuareg grigio metallizzato, girò la chiave nel quadro e diede vita al motore che ruggì violentemente. Dette peso all’acceleratore e con forza sterzò verso l’uscita, abbandonando la sua proprietà e digendosi con il cuore che batteva freneticamente verso la strada del bosco. Quella strada percorsa tante volte, familiare, comune. Quella strada che non aveva visto più la sua presenza dopo quella notte che aveva cambiato la sua vita...





I loro occhi erano fermi sul corpo rigido e privo di vita. I capelli - come il viso - affondavano nella melma e gli abiti erano stati maltrattati con rudezza. Non c’era traccia del colpevole di quello scempio e le quattro ragazze erano incerte sul da farsi. 

“Cosa facciamo?” Una di loro ruppe il silenzio, stracciando con violenza quell’aria di suspance creatasi involontariamente. Savannah Clark fissava inorridita la sagoma, riconoscendone l’identità. 
Volse lo sguardo cristallino verso le tre amiche, che come lei fissavano il corpo tremando di paura e mimando espressioni di terrore e sgomento. Paralizzate nel corpo - che non accingeva a muoversi - e nella mente che non riusciva a formulare soluzioni. Lei avrebbe dovuto agire, avrebbe dovuto interrompere quell’immobilità e risolvere quel problema irrisolvibile. Si accasciò verso il cadavere rigirandolo e mostrando il volto pallido e sporco. 

“Savannah non puoi toccarla! Contaminerai le prove!” Una delle tre ragazze fece qualche passo avanti, rimproverando l’amica che ignorò del tutto le sue parole. Le scostò i lunghi capelli biondi incollati al viso e sistemò al meglio la T-shirt sottile e del tutto infangata. Sentiva la nausea salire, ma non poteva lasciare lì quel corpo. 

“Dobbiamo sotterrarlo….” Pronunciò i suoi pensieri senza guardare le tre amiche che a quella confessione strabuzzarono gli occhi, incredule per ciò che aveva appena pronunciato.

“Dobbiamo denunciarlo alla polizia!” Nuovamente Savannah ignorò la proposta più ovvia, cancellandola del tutto dalla sua testa e anche dalla testa delle tre.

“Non possiamo rischiare! Troveranno le nostre tracce ed accuseranno sicuramente noi!” Aveva distaccato un momento la sua attenzione dal cadavere, minacciando con tono alterato e rabbioso le tre ragazze, che non riuscivano a non guardarla con sguardo confuso ed impaurito. Savannah sembrava completamente mutata: aveva assunto un’espressione di terrore e di colpevolezza e guardava quel corpo come se lei fosse stata l’artefice di quel gesto. Le tre si guardarono all’unisono, non sapendo cosa fare: se eseguire gli ordini oppure ribellarsi. Savannah le chiamò con un lento movimento di mano, invitandole ad avvicinarsi.

“Carichiamola sulla macchina” L’ordine fu pronunciato con prepotenza e nonostante il numero dei favorevoli fosse minore fu eseguito senza ribattere. Tutte e quattro presero quel corpo: Savannah la prese per un braccio e le altre tre si sistemarono alle estremità. Proseguirono in quel modo per tutto il bosco, rischiando di inciampare, di cadere e perdere il cadavere. Avanzarono sempre più verso l’uscita di quel luogo tetro, divenuto la scena di un omicidio privo di un assassino da condannare. Avanzavano silenziosamente, non sapendo cosa dire, non avendo alcun argomento che potesse spiegare o sdramatizzare la situazione. Stavano trasportando un corpo con l’intenzione di nasconderlo, come se fossero loro responsabili di quel reato. Avanzavano e la musica era sempre più viva, chiaro segno che erano quasi alla fine del percorso. Giunsero in strada e frettolosamente caricarono il corpo nel portabagagli. Savannah montò sull’auto seguita dalle tre amiche, che silenziosamente si accomodarono e lasciarono che partisse. Quello fu il viaggio più lungo che le quattro avrebbero ricordato; proseguivano per la città del tutto deserta. Era una notte calda e afosa e l’intera cittadina era stata rapita dal concerto indetto dal liceo. Nessuno poteva frenare la loro affannosa corsa verso un luogo che potesse occultare bene quel corpo. Savannah sterzò bruscamente ed entrò con prepotenza in un’enorme cantiere lasciato incautamente incustodito. Sentirono il terreno scricchiolare sotto le enormi ruote ed una volta giunte nelle profondità di quel luogo - dove nessuno avrebbe potuto vederle - si affrettarono a scendere e scaricare il corpo lì.

“Qualcuno prenda una pala” Savannah era decisa a nascondere quel corpo, a nascondere quell’omicidio e non tentare di chiedere aiuto a chi di dovere avrebbe eseguito il proprio compito. Iniziarono a scavare con forza, insieme. Scavarono ancora e ancora senza fermarsi, con il terrore di essere sorprese, con la paura di sbagliare nel fare ciò che stavano facendo. Scavarono ancora con il sudore che impregnava le loro fronti, i loro visi; con le braccia che dolevano e con la colpevolezza di tutto ciò. Presero il corpo e lo gettarono all’interno della profonda buca scavata frettolosamente; ritornarono al duro lavoro, sotterrando quel corpo, ricoprendolo di sabbia e terreno; nascondendo il suo volto, il suo corpo e la sua identità. Quando tutto ritornò apparentemente come prima, le quattro ragazze rimasero a fissarsi in silenzio; protettrici di quel luogo, artefici del reato di non aver dato giustizia a quell’assassinio avvenuto per cause sconosciute. Si guardarono a lungo, in silenzio, con la gola secca e povera di parole. 

“Giuriamo di non farne parola con nessuno!” Fu nuovamente Savannah a rompere il silenzio. Le tre la guardavano, contrariate per quel gesto e per la prima volta Savannha non vedeva quella complicità che le aveva rese uniche, quella complicità che le aveva rese unite per tutti quegli anni. 

“Ragazze non facciamo le stupide! Se avessero trovato il corpo nel bosco avrebbero accusato noi! Non potevamo rischiare! “ Quelle parole ripetute ancora non ebbero l’effetto desiderato. I loro sguardi erano duri e accusatori e Savannah stava facendo i conti con le sue migliori amiche. Il loro giudizio era fondamentale e perdere la loro stima, la loro complicità, sarebbe stato come vedersi crollare il mondo addosso. Come perdere tutto ciò che aveva di più caro.

“Ragazze l’ho fatto per voi..” Mugolò con le lacrime agli occhi , sperando di essere compresa realmente, di non veder voltare quelle tre figure e restare completamente sola con quel peso che avrebbe gravato sulle sue spalle. Ci fu un altro scambio di sguardi e senza il bisogno di parlare, di comunicare cosa farneticassero le loro menti, le tre le si avvicinarono unendo le loro mani  e pronunciando quel giuramente. Sotto il manto stellato di quella notte, quattro ragazze diedero alla loro amicizia un motivo in più per rendersi immortale. Quello stesso motivo che l’avrebbe sgretolata pian piano…






Savannah giunse dove tutto era iniziato, dove una volta uscite da quel luogo, la loro amicizia aveva preso pieghe diverse. Si fermò all’estremità degli alberi, dove il loro intreccio impediva il passaggio alle auto; non aveva varcato più quel luogo da allora, ma ricordava perfettamente il percorso. Si incamminò con naturalezza negli arbusti, scavalcando le grosse radici che cercavano spazio al di fuori del terreno e proseguì ancora, puntando verso l’oscurità del bosco. Nonostante fosse pieno pomeriggio, le folte chiome impedivano al sole di poggiarsi su di esso e donargli luce; era oscuro e lugubre, eppure Savannah si sentiva a suo agio: sentiva aria di casa, di familiarità in quel luogo. Scavalcò la pietra, quel simbolo che annunciava di essere giunta a destinazione e quando prese posto in quella piccola cerchia sembrò che il tempo non fosse mai trascorso. Le sembrò che ogni cosa fosse esattamente come era stata lasciata otto anni prima. Anche loro non erano mutate affatto: forse nello sguardo c’era una luce diversa, ma erano le sue amiche quelle che la guardavano. Lo sguardo di Faye era rimasto quello di sempre: dolce, amorevole e bonario. I lunghi capelli scarlatti non erano stati tagliati, e le sfioravano i fianchi come allora. 
I bellissimi occhi di Isabel non avevano perso la grinta e la passione adolescenziale e la sua tenuta comunicava che la passione per gli sport non si era affievolita con gli anni, ma era rimasta forte e duratura. Quella passione che nemmeno il tempo le avrebbe sottratto.
La presenza di Rosemary stupì maggiormente Savannah: aveva abbandonato Dimwoods poco dopo il diploma, lasciando la sua vita in quella cittadina, lasciando la sua felicità in quel luogo. Rivederla lì, rivedere i suo occhi nocciola così familiari, così profondi, le trasmise una spaventosa speranza: forse nulla era andato perduto, forse quella loro amicizia non si era del tutto sgretolata. Forse loro avevano ancora una speranza di ritornare e rivivere nuovamente quegli anni spensierati, anni in cui la sua era stata una reale felicità. Si fissarono ancora, si scrutavano, si esaminavano, come se non potessero credere a quella realtà. Restarono così a lungo, non accorgendosi del tempo che scorreva su di loro. 



 
Salve a tutti... ecco il primo capitolo che introduce una delle quattro protagoniste della storia e ci dice qualcosa in più sulla trama. Man mano che i capitoli saranno postati conoscerete le altre protagoniste e spezzoni di storia attuale e passata. 
Che dire, io e la mia co-autrice speriamo di aver suscitato in voi curiosità e ci auguriamo che chi ha letto fino ad ora continui a seguirci.
Un bacio Whitesnow&Medy 






 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** "L'Alibi Perfetto!" ***



                                  
                                                                                    2° Capitolo
                           
 "L'Alibi Perfetto!"

Il silenzio pungente che era sceso in quel bosco tra le quattro ragazze durò ancora per molto. Nessuna osava chiedere il motivo di quella inaspettata ed improbabile riunione; avevano tutte paura di sentire una notizia tanto sconvolgente che avrebbe portato nuovi cambiamenti nelle loro vite, esattamente come otto anni prima, quando erano state protagoniste involontarie di una tragica morte. Ognuna era andata avanti con la propria vita, che era proseguita con apparente tranquillità, cercando di nascondere il peso che ogni giorno gravava su di loro, quel peso dovuto all'enorme segreto che avevano tenuto nascosto per tutti quegli anni. Quel segreto che perseguitava i loro ricordi, la loro vita e che ogni giorno premeva sulle loro coscienze. Ma in fondo nessuna di loro aveva dimenticato quella terribile notte; nelle loro menti era ancora vivido il ricordo di quell urlo straziante, della loro corsa affannata ed infine della tragica scoperta. Poi tutto successe in un lampo: l'occultamento del cadavere, la promessa di non farne mai parola con nessuno e la consapevolezza che da allora in avanti tutto sarebbe cambiato, anche la loro stessa amicizia. Ora dopo anni di angoscia e di sensi di colpa  per aver assistito alla condanna di un innocente senza intervenire, qualcos'altro stava per turbare le loro angustiate vite. A rompere quel silenzio fu Faye che, facendo un passo avanti e ponendosi al centro del cerchio che si era creato, tirò fuori tutto il coraggio che aveva e rivelò il terribile motivo di quell'incontro.

"So già che vi starete chiedendo perchè siamo qui... Non voglio perdere altro tempo, quindi arriverò subito al punto. I nostri timori si sono realizzati: Il caso Miller è stato riaperto..."Ancora una volta il silenzio calò sulle quattro figure nel bosco.

"Che cosa? E' uno scherzo vero?" Scattò improvvisamente Savannah. Il suo viso era alterato da un misto di sorpresa e panico e fissava scioccata Faye, che cercando di mantenere la calma si apprestò a risponderle.

"Vorrei tanto che lo fosse credimi, ma non è così... Dopo anni Ted Gordon è riuscito a dimostrare che all'ora dell'omicidio lui non era presente sul posto. Il giudice ha ordinato l'immediata scarcerazione e la riapertura del caso." Tutte rivolsero il loro pensiero a quell'uomo che otto anni prima era stato condannato per un crimine che non aveva commesso ed in parte, loro erano responsabili per quella ingiusta accusa. Ted  era infatti il proprietario del cantiere dove le ragazze - in preda al panico - avevano deciso di sotterrare il cadavere di Marine Miller. Quando il corpo della povera ragazza  fu trovato due giorni dopo da una scavatrice e riconosciuto dai genitori della vittima, era scattato l'arresto immediato per il proprietario del cantiere che - per una nefasta coincidenza - aveva avuto poco tempo prima un accesa discussione proprio con il signor Miller, dovuta ad una questione d'affari. Si era subito pensato ad una vendetta e la mancanza di un alibi verificabile da parte di Gordon aveva dato il colpo di grazia. Le quattro ragazze erano rimaste in disparte ad assistere a quella condanna che aveva subito fatto sorgere in loro terribili sensi di colpa. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro; occultando il cadavere avevano commesso un reato, avevano contaminato le prove e la scena del crimine e se avessero rivelato tutto alla polizia avrebbero dovuto pagare per quello che avevano fatto. Così avevano deciso di restare a guardare e lasciare che un uomo innocente venisse punito ingiustamente. Ma ora la ferita si era riaperta: Ted Gordon aveva finalmente trovato un alibi che lo scagionava da ogni accusa. Era ritornato un uomo libero, portando però con sè un altro agghiacciante interrogativo: chi aveva ucciso Marine Miller otto anni prima e perchè? Questa volta a prendere parola fu Isabel che fino ad allora era rimasta in disparte. 

"E' stato Louise a rintracciare la prostituta con cui Ted Gordon ha trascorso la serata e quasi tutta la notte. Ha preso il caso ed è deciso a risolverlo." 

" Ottimo! Spero che sarete contente! Sapevamo che avremmo dovuto parlare con la Polizia... maledizione!" Intervenne Rosemary sull orlo di una crisi isterica. Era sempre stata la più fragile ed insicura tra le quattro; incapace di mentire, incapace di mantenere segreti. Savannah indirizzò alla ragazza uno sguardo furibondo e si rivolse a quest'ultima con un tono di voce abbastanza alterato.

"Si così a quest'ora saremmo al fresco e tu - mia cara - non  avresti potuto continuare i tuoi studi! Non sei tanto intelligente a quanto pare" 

"Forse lo sono abbastanza, dato che ho proposto fin dall'inizo di denunciare l'accaduto ed evitare che un povero innocente finisse in galera. Ma invece no, abbiamo dovuto obbedire ai tuoi ordini! E' solo colpa tua se adesso ci troviamo in questa situazione, colpa della tua codardia! " Al suono di quelle accuse il volto di Savannah divenne una maschera di rabbia e facendo un passo avanti in direzione di Rosemary incominciò a sparare a raffica tutto quelle che le veniva per la testa.

"Ma sentitela: lei parla di codardia. Lei che si è sempre nascosta da tutto e da tutti con il timore di essere osservata e giudicata. Tu che hai sempre guardato tutti dall'alto in baso, che hai sempre creduto che la tua intelligenza ti ponesse su un gradino più alto rispetto a noi comuni esseri mortali. Ma mi dispiace deluderti, con me non attaccano questi tuoi discorsi da saputella del cazzo." Savannah continuò ad avanzare verso Rosemary per fronteggiarla anche fisicamente. Quest' ultima - non abbassando mai lo sguardo - era pronta ad attaccare ed ad affrontare quella che un tempo era stata una delle sue migliori amiche. La situazione stava diventando insostenibile e sarebbe solo peggiorata se non fosse intervenuta Faye, che decise di frapporsi tra le due ragazze.

"Ora basta!! Vi sembra questa la situazione adatta per litigare?" Lo sguardo angustiato di Faye si posò su entrambe.

"Questa notizia non passerà inosservata. Susciterà grande scalpore e tutti cominceranno a porsi delle domande ed inizieranno nuove indagini. Non dimenticate che l'assassino di Marine è ancora là fuori e non abbiamo la minima idea di chi sia. Dobbiamo restare unite e non metterci a litigare come delle bambine! Dobbiamo proteggerci a vicenda, sostenerci a vicenda!!" Concluse con la speranza di aver calmato le acque.

"Ragazze ha ragione lei, dobbiamo restare unite e prepararci ad affrontare le conseguenze di questa notizia... insieme" Esclamò Isabel schierandosi al fianco di Faye. Rosmary annuì, indietreggiando di qualche passo, sostenendo quelle parole e lasciando che la rabbia sbollisse. Savannah invece restò a fissare coloro che un tempo erano state il suo mondo, coloro che avevano lasciato che la sua vita andasse a rotoli.

 "La parola insieme non fa parte più del mio vocabolario. Avete permesso che restassi sola, quindi... preferisco starne completamente fuori" Detto ciò volto loro le spalle e si allontanò, ignorando del tutto il richiamo delle tre.

"Bene... credo che dovremmo fare a meno di lei" Faye seguì con lo sguardo la figura di Savannah che sparì tra gli arbusti; la rabbia le era d'obbligo, non potevano evitare tutto ciò. Savannah aveva sperato in loro, nella loro amicizia, nel loro sostegno e loro invece le avevano voltato le spalle scrollandosi di dosso quelle responsabilità comuni. Forse con il tempo l'avrebbero ritrovata, ma per il momento dovevano pensare a risolvere la questione e dare giustizia a quell'atroce omicidio.

"Credo non ci sia altro da dire, almeno per il momento. Mi raccomando tenete gli occhi e le orecchie bene aperte e se ognuna di voi viene a conoscenza di qualcosa di sospetto o di estrema importanza contatterà le altre!" Detto questo Faye si incamminò per il sentiero, avviandosi verso la sua macchina con  la  testa piena di pensieri e ricordi...



Una giovane ragazza dai lunghi capelli biondi e dagli occhi cristallini aspettava impaziente davanti all'entrata di un negozio. Quando all'improvviso si voltò al richiamo di altre due ragazze: una con lucenti capelli rosso scarlatto e l'altra con due occhi nocciola che avanzava timorosa verso la bionda che attendeva il loro arrivo.

"Finalmente ce l'avete fatta!" Esclamò spazientita una giovane Savannah.

"Scusa Sav è colpa mia: papà ha insistito per accompagnarmi a scuola e ho dovuto aspettare che se ne andasse prima di raggiungere Faye" Si affrettò a spiegare Rosemary fissando con uno sguardo terrorizzato il negozio davanti al quale si erano fermate.

"Lascia stare, anche Isabel è in ritardo... come sempre d'altronde" Continuò Savannah alzando gli occhi cristallini al cielo.

"Deve sbrigarsi! Se qualcuno ci vede lo riferirà di sicuro ai nostri genitori e saranno guai seri!" Intervenne Faye con il suo solito tono preoccupato; Savannah annuì piano, poi puntò lo sguardo per la strada con una piccola inquetudine che aleggiava in lei. Si mordicchiò le labbra.

"Spero solo che quella pazza di Marine Miller non ci abbia seguite anche questa volta" Sussurrò appena, come temendo di farla apparire solo nel nominare il suo nome. Dopo pochi attimi le tre ragazze intravidero Isabel, che con indosso l'uniforme sportiva del loro liceo avanzava decisa verso le amiche.

"Finalmente!" Esclamarono le tre all'unisono.

"Mi dispiace ragazze ma la mia macchina ha fatto i capricci e ho dovuto chiamare Louise per farmi dare un passaggio" Concluse Isabel voltandosi a guardare la macchina posta all angolo della strada. Loiuse le salutò con un sorriso divertito, prima di accendere il motore e lasciare le quattro ragazze sole.

"Non ci posso credere! L'hai detto a Louise! Doveva essere un nostro segreto, almeno per oggi" Sbottò Savannah con il suo solito tono polemico.

"Non sapevo come raggiungervi. Di certo non potevo chiedere un passaggio a mio fratello e poi Louise è il mio ragazzo, non dirà nulla potete fidarvi di lui" Si difese prontamente Isabel.

"Ragazze non è il momento di fare polemiche! Vi ricordo che in questo momento dovremmo essere a scuola invece che qui, quindi - a meno che non vogliate finire nei guai - ci conviene entrare prima che qualcuno ci veda" Come sempre fu Faye ad appianare le divergenze tra le due amiche e detto questo - con un gesto del capo - esortò le tre ragazze ad entrare nel negozio davanti al quale erano ferme da un bel pò. La prima ad avviarsi all'entrata fu proprio Savannah, seguita da Isabel e poi da Faye. Rosemary invece rimase esitante davanti alla porta.

"Mi dispiace ragazze ma non credo di farcela" Esclamò con tono terrorizzato.

"Oh andiamo Rose è solo uno stupido tatuaggio e per di più di dimensioni microscopiche. Non sentirai assolutamente nulla!" Savannah le si avvicinò, prendendole la mano e tirandola di peso all'interno del negozio. Rosemary cercava di liberarsi da quella presa, ma l'amica non demordeva e - sotto gli occhi di un tatuatore del tutto confuso - fece accomodare l'amica sulla poltrona posta all'entrata. Le quattro ragazze attesero qualche minuto e quando giunse il loro turno si avviarono in quattro cabine diverse.
Savannah stava ammirando il piccolo cuoricino che era appena stato disegnato sul suo polso quando sentì delle urla terrorizzate provenire dalla cabina di Rosemary. Si alzò di scatto dal suo lettino - affrettandosi a raggiungere l'amica - e quando però scostò la tendina davanti ai suoi occhi le si presentò una scena tanto tenera quanto buffa: Rosemary ed un povero malcapitato tatuatore si contendevo il sottile polso della ragazza non intenzionata a farsi pungere dall'ago che tremava a pochi centimetri dalla sua pelle. Quando poi si accorsero della presenza di Savannah Rosemary guardò l'amica con un misto di paura e tenerezza e quest'ultima le si avvicinò prendendole la mano e cercando di infonderle tutta la sua sicurezza e determinazione. Bastò un solo sguardo complice che non aveva bisogno di parole... Rosemary allungò l'altro polso verso il ragazzo e chiudendo gli occhi lasciò che l'ago si avvicinasse alla sua pelle.
Cinque minuti dopo le quattro ragazze guardavano ammirate quel piccolo cuoricino che tutte si erano fatte tatuare sul polso come simbolo della loro amicizia.

"Devo ammettere di essere stata un pò tragica ma voglio ringraziarti Sav, senza il tuo supporto non avrei mai trovato il coraggio" Rosemary abbracciò teneramente l'amica che ricambiò l'abbraccio accarezzandole dolcemente i capelli ricci e ribelli.

"Bene, questo tatuaggio simboleggia il posto che ognuno occupa nel cuore dell'altra e quando ci sentiremo sole e tristi ci basterà guardarlo per sentirci subito meglio" Esclamò Faye con il sorriso sulle labbra.

"Faye Scott sei la solita ed inguaribile sentimentale" La canzonò Isabel e tutte scoppiarono in una sonora risata...




Persa completamente nei ricordi del passato Faye non si era accorta di essere quasi arrivata a casa. Prima di scendere dall'auto posò il suo sguardo sul polso e si fermò a contemplare quel piccolo cuoricino. Quel simbolo non era mutato in quegli otto anni, a differenza delle tre estranee con cui aveva appena parlato nel bosco e a differenza della stessa Faye, mutata molto in quel tempo passato senza l'appoggio, il sostegno e l'amore delle sue migliori amiche. Quel tatuaggio era vivido e scintillava fieramente, era lì per comunicarle che un tempo passato Savannah, Rosemary ed Isabel erano state il suo mondo. Era lì per ricordarle ciò che c'era stato, quella forte amicizia che non era rimasta fedele a quel simbolo. Un velo di malinconia si stese sul suo volto: ricordare le faceva male, ma soprattutto le faceva male ripensare a come si erano guardate pochi istanti prima e con quale tono si erano parlate. Le ultime parole di Savannah avevano spezzato ulteriormente il fragile cuore di Faye, che non aveva potuto far nulla se non guardare la sua ex migliore amica andarsene ed allonanarsi nuovamente da lei. Abbandonando quei numerosi e forse troppi pensieri che le balenavano per la testa, Faye si decise a scendere dall'auto e a dirigersi verso il portico di casa sua. Arrivata a destinazione esitò ancora qualche attimo prima di entrare e fingendo una tranquillità che non aveva entrò in casa. Un sospiro di sollievo si levò dalla sua espressione quando constatò che non c'era nessuno: sua madre e sua zia dovevano essere ancora alla tavola calda che quest'ultima gestiva nel centro di Dimwoods e sarebbero tornate  tra qualche ora. Quel particolare non fece che risollevare ulteriormente Faye, che non aveva proprio voglia di affrontare le numerose domande che le due donne le avrebbero posto. Si avviò quindi verso le scale che l'avrebbero portata alla sua stanza, ma fu bloccata dall'arrivo di una graziosa bambina che le correva incontro sorridente ed urlante.

"Mammaaa sei arrivata finalmente, dove sei stata? La nonna e la zia mi hanno lasciata sola con Sarah. Non la sopporto sta sempre a leggere, è così noiosa" Faye non potè fare a meno di sorridere alle parole della sua piccola bambina e la strinse forte a sè tempestandola di baci e coccole. Quel piccolo momento di tenerezza fu interrotto dall'arrivo della timida baby-sitter: una ragazzina esile con lunghi capelli neri, che tenendo gli occhi bassi le parlò quasi sussurrando.

"Signora Scott ora che lei è a casa io andrei via. Domani ho un compito e dovrei finire di studiare" Faye guardò quella ragazzina con tenerezza.  Le ricordava Rosemary alla sua età e così - prendendo delle banconote dalla sua borsa - si apprestò ad accompagnarla alla porta.

"Grazie mille per aver badato a Mindy durante la mia assenza. Alla prossima" Dopo essersi chiusa la porta alle spalle Faye si diresse in cucina, seguita dalla piccola Mindy che si protendeva nella spiegazione di come aveva trascorso la giornata a scuola. Ma per quanto si sforzasse di ascoltare quello che diceva la figlia, Faye aveva la mente da un altra parte: l'indomani la notizia della scarcerazione di Ted Gordon sarebbe stata resa pubblica e avrebbe fatto subito il giro della città, suscitando scalpore ed alzando un nuovo polverone che minacciava di investire anche loro. Ancora una volta veniva messa in pericolo la vita che si era costruita in quegli anni in cui aveva tenuto per sè quell'orribile segreto, restando fedele al patto che l'aveva legata - ma allo stesso tempo separata - dalla persone più importanti della sua vita.

"Mamma mi stai ascoltando?" La domanda di Mindy fece ritornare Faye alla realtà che rivolse alla bambina un dolce sorriso.

"Ma certo che ti sto ascoltando tesoro mio, ma adesso è meglio che tu vada a lavarti le mani.. tra poco ceneremo e poi diritto a nanna" Lo sguardo contrariato che le fu rivolto le fece capire che la figlia non era per niente d'accordo sull'ultima parte del suo discorso, ma l'espressione mediamente severa che assunse non permise a Mindy di ribattere. Così - senza aggiungere altro - la bambina si avviò verso il bagno. Il sole tramontò piano, lasciando ditro di sè un leggero manto bluastro e Faye apparecchiò la tavola seguendo il gusto della sua piccola. Le posate colorate e i bicchierini rosa avrebbero dato un tocco in più a quella cena che avrebbero consumato in due. Mindy sapeva sempre strapparle un sorriso, riusciva con un suo semplice sguardo a calmare il tormento interiore che da un pò l'accompagnava e guardarla pasticciare con il purè le diede almeno in quelo momento un senso di quiete. Amava la sua bambina più di ogni altra cosa e non avrebbe permesso a niente e nessuno di farla soffrire.

"Bene è giunto il momento di andare a dormire, andiamo signorina!" Faye prese  Mindy per mano e si diressero verso la cameretta della bambina. Nonostante le proteste di qualche attimo prima la piccola si addormentò quasi subito e Faye restò seduta sul bordo del piccolo lettino a contemplare il viso angelico della sua bambina che dormiva beatamente. Non si stancava mai di soffermarsi a guardare quel volto così perfetto, che solo con il calar della notte si colorava di tranquillità. Era una forza della natura nonostante fosse piccola e mingherlina; era la sua forza della natura. Faye non riusciva ad immaginare un solo attimo senza di lei, non riusciva a desiderare una vita in cui quella piccola peste non fosse presente, anche perchè non voleva. Se avesse avuto la possibilità di riavvolgere il tempo e rivivere ogni secondo della sua vita, non avrebbe saltato l'attimo in cui aveva scoperto di aspettare Mindy, ma lo avrebbe ripetuto ogni volta che la sua vita avesse preso una piega sbagliata. Perchè in quell'attimo forse lei aveva assaporato la vera felicità, interrotta e rovinata però quella stessa maledetta notte, quando la notizia fu oscurata dall'imminente incidente che coinvolse tutte loro.



Gli occhi di Faye si spalancarono per lo stupore mentre la seconda linea del test di gravidanza si faceva sempre più nitida. Aspettava un bambino e non aveva neanche preso il diploma che le sarebbe stato consegnato a distanza di una settimana. Continuava a guardare imbambolata il test non riuscendo a credere a quello che vedeva e come risvegliatasi da un sonno profondo cercò di mettere a fuoco quella notizia sconvolgente. Era incinta... un misto di ansia e piacevole sorpresa si mescolarono in Faye, che pensò immediatamente a come sarebbe cambiata la sua vita. Avrebbe dovuto dire addio al suo sogno di continuare gli studi alla Sorbonne di Parigi, di diventare una scrittrice di fama internazionale e di visitare le maggiori città del mondo. Avrebbe dovuto rinunciare ad un futuro architettato nei minimi particolari da una vita e che era stato gettato al vento in pochi attimi. Faye si sedette sul bordo del bagno e la paura invase ogni fibra del suo corpo; era stata una sciocca, una stupida incapace di controllare quella variabile che avrebbe cambiato la sua vita. Ma non riusciva ad odiarsi, o ad odiare la piccola creatura che già le cresceva dentro. Si sorprese quando realizzò che in quell'attimo una strana felicità le faceva tremare il cuore; quella felicità che al momento però coinvolgeva solo lei. Il suo pensiero volò a Darren e si sentì crollare; sentì le viscere smuoversi dal terrore e sentì un senso di colpevolezza. Sarebbe stata egoista nel dirglielo e nel costringerlo a rinunciare ai suoi sogni; Darren era ad un passo dal successo, mancava poco e poi avrebbe realizzato il suo sogno. Eppure quella variabile avrebbe fatto crollare il suo castello fatto di progetti quasi tutti realizzati. Faye si sentì maledettamente in colpa pensando a come Darren avrebbe potuto reagire e non lo avrebbe biasimato se l'avesse lasciata, se non avesse voluto prendersi le sue responsabilità. Lei era stata un incosciente, lei era stata una stupida a prendere tutto troppo alla leggera. Era disposta a lasciarlo andare, nonostante ciò che portava dentro fosse il simbolo del loro amore, forse manifestatosi in modo sbagliato agli occhi degli altri. Ma Faye sapeva che quella era la manifestazione migliore che si potesse avere. Un altra consapevolezza poi le attanagliò il cuore; se Darren avesse deciso di lasciarla la sua creatura sarebbe dovuta crescere senza un padre, esattamente come era successo a lei. Suo padre aveva infatti abbandonato sua madre proprio quando quest'ultima aveva scoperto di essere incinta e Faye era cresciuta senza una figura maschile di riferimento. Amava sua madre Lorene - che grazie anche al supporto della sorella Leticia l'aveva cresciuta non facendole mai mancare niente  e Faye per questo le era grata - ma in cuor suo non aveva mai abbandonato la speranza che un giorno suo padre avrebbe cercato di ricontattarla. Ora la stessa storia molto probabilmente si sarebbe ripetuta anche per lei. Presa dallo sconforto più totale - e intontita per quel turbine di sensazioni che si mescolavano in lei - Faye senza pensarci su due volte prese le chiavi dell'auto e come spinta da una forza sovrannaturale si diresse all'uscita di casa sua. Avrebbe detto la verità a Darren ed avrebbe dato la possibilità alla sua creatura di avere quello che era mancato a lei: una vera famiglia.
La distanza tra casa sua e quella di Darren sembrò aumentare notevolmente durante il tragitto e questo non faceva altro che alimentare la sue ansie e le sue paure. Appena arrivata a destinazione - con passo deciso e frettoloso - Faye si avviò alla porta, sperando che fosse proprio lui ad aprirle. Fortunatamente la sua preghiera fu ascoltata e quando il ragazzo le rivolse un sorriso felice e pieno d'amore lei seppe di non poter aspettare un secondo in più.

"Dobbiamo parlare.. è successa una cosa molto importante e al tempo stesso sconvolgente" L'espressione felice del ragazzo si tramutò in uno sguardo preoccupato e senza proferire una sola parola si scostò di lato per permettere a Faye di entrare in casa. Chiusosi la porta alle spalle, Darren si voltò a guardare la sua ragazza che si era accasciata su una poltrona del salotto e dopo essersi seduto difronte a lei le pose la fatidica domanda.

"Cosa è successo amore? Va tutto bene?" Al suono di quelle parole Faye cominciò a combattere con le lacrime che piano si apprestavano a sgorgare lungo il suo grazioso viso. Armandosi di un coraggio che non credeva di avere si apprestò a dargli la notizia che avrebbe cambiato per sempre la loro vita.

"Sono incinta Darren... l'ho appena scoperto ed ho pensato che tu fossi la prima persona ad avere il diritto di saperlo" Un silenzio angosciante invase la stanza e Faye cercò di interpretare l'espressione che si era delineata sul volto di Darren al suono di quelle parole. Ma il volto del ragazzo restò imperscrutabile. Continuava a fissarla senza proferire parola e senza che nessun tipo di emozioni lo attraversasse; non riuscendo a sostenere quello sguardo Faye si alzò di scatto dandogli le spalle. Continuò a parlare - cercando di usare un tono impersonale - anche se in quel momento l'unica cosa che avrebbe voluto fare era piangere e buttarsi tra le sue braccia forti e sicure. Ma non l'avrebbe influenzato o obbligato a restare con una scena melodrammatica.

"So che è una notizia sconvolgente che cambia la vita e capirei se tu decidessi di non accettare questa situazione. Non hai obblighi nei miei confronti e nel caso non volessi questo bambino io ti assicuro che sparirò, non chiederò un solo centesimo nè a te e nè alla tua famiglia" Darren si alzò di scatto e prendendo Faye per le spalle la costrinse a girarsi.

"Come puoi dirmi queste cose! Come puoi pensare una cosa del genere?Non puoi andartene. Faye... questo è il NOSTRO bambino, è un NOSTRO problema e non solo tuo... Faye io ti amo! E amerò anche lui.... " Tutte le paure, le ansie e le preoccupazioni di Faye svanirono in un lampo. La ragazza si abbandonò ad un pianto liberatorio e finalmente potè gettarsi tra le braccia dell'uomo che amava e che avrebbe sempre amato. Darren la strinse forte, facendola sentire protetta e al sicuro;  quando si staccò da lei si mise in ginocchio e guardando negli occhi una Faye confusa e tremante disse:

"Ci siamo dentro fino al collo, io ci sono da quando ho visto i tuoi occhi... questi meravigliosi occhi che riescono a parlarmi anche da lontano, che riconoscerei  anche tra una folla furiosa.... Faye, fa che ogni mattina mi svegli con i tuoi occhi che mi guardano, fa che ogni mattina mi svegli con te... DIVENTA MIA MOGLIE" Il viso di Faye si allargò in un radioso sorriso e senza pensarci su nemmeno per un secondo si inginocchiò abbracciando Darren. Nuove lacrime bagnarono il suo viso e tra i singhiozzi riuscì a dare finalmente la sua risposta.

"Si si, mille volte si!" Coprì la sua bocca di piccoli e dolci baci. Tascorsero tutto il pomeriggio accoccolati sul divano a fare progetti per il futuro, ad immaginare che aspetto avrebbe avuto il loro bambino, al nome che gli o le avrebbero dato. Si accorsero a malapena che erano passate già quattro ore ed il cielo stava cominciando ad imbrunirsi.

"Devo andare le ragazze mi aspettano. Ci vediamo più tardi al concerto" Scoccando un ultimo bacio al suo futuro marito, Faye si precipitò dalle sue migliori amiche per informarle di quella notizia che le avrebbe sicuramente sorprese.

La reazione delle sue tre migliori amiche fu esattamente quella che si aspettava - pensò Faye - mentre osservava le tre figure sedute difronte a lei su un tronco del bosco che da anni costituiva il loro rifugio segreto. Analizzò divertita le loro espressioni dopo aver accolto la notizia della sua gravidanza e del suo imminente matrimonio: Savannah la fissava con uno sguardo quasi incantato, come se si fosse estraniata completamente dalla realtà; le labbra piene si curvarono appena in un mezzo sorriso: non riusciva a pronunciare una singola parola, ma dentro di lei il cuore scoppiava di pura gioia. La dolce Rosemary si sciolse in un pianto misto ad un sorriso e la strinse forte tra le braccia, caricando su di lei tutto il bene che provava. Isabel invece si passò un mano tra i capelli sconvolta e l'unica parola che riuscì a pronunciare fu un sommosso "WOW" che echeggiò tra le chiome degli alberi. In un attimo una felicità comune le coinvolse, ma un rumore sospetto - proveniente da un cespuglio poco lontano da loro - interruppe quel momento d'affetto. Le quattro ragazze si girarono di scatto in direzione del cespuglio e restarono immobili in attesa che qualcosa succedesse. Forse si trattava solo di un animale di passaggio, ma quando da lontano spuntò un esile figura, le ragazze capirono all'istante di chi si trattasse: Marine Miller, che con un sorriso inquietante stampato sul volto pallido e incavato avanzava verso di loro. Il suo aspetto era lugubre e triste: i capelli di un biondo sporco le ricadevano sul viso smorti e privi di vita, la figura snella non comunicava il benessere del corpo, ma solo una sofferenza che coinvolgeva anche l'animo.

"Che diavolo ci fai qui Marine!" Esclamò su tutte le furie Savannah che fu subito pronta a fronteggiare la ragazza.

"Ho visto che stavate festeggiando ed ho pensato di unirmi a voi.." Controbattè Marine con un sorriso macrabo che incurvava le labbra marchiate da un marcato rossetto nero, sbavato e che le ricopriva anche i denti.

"Devi smetterla di seguirci dappertutto! Questa cosa sta diventando scocciante" Si intromise Isabel, che avanzò di qualche passo per spalleggiare l'amica.

"Altrimenti? Mi picchi con le palle da basket?" La canzonò Marine, cosa che fece andare su tutte le furie Isabel che avanzò minacciosamente verso quella figura esile.

"No ancora meglio, ti picchio con questi" Esclamò agitando un pugno minaccioso. Rosemary riuscì a frenare in tempo Isabel, pronta a cacciare Marine con la forza.

"Calmati, non ne vale la pena" Le sussurrò spintonantola verso il gruppo.

"Ragazze forse è meglio se andiamo via!" Esclamò Faye; Savannah colpì Marine con uno sguardo, trasmettendole tutto l'odio che aveva in serbo per lei e la sua risposta fu semplice: alzò appena un dito medio, poggiando le labbra e umidendolo con la saliva. Una scena disgustosa, l'ultima scena che videro le quattro prima che si incamminassero lontano da quella ragazza deviata.

"Ragazze, ho qualcosa che potrebbe interessarvi..." Tutte si voltarono verso di lei concedendole ancora attenzione, forse troppa. Marine scavò tremante nella lunga tracolla che pendeva floscia sulla spalla ed estrasse una piccola fialetta. Alzandola verso le ragazze mostrò con fierezza la sottile polverina contenuta  al suo interno.

"Potremmo divertirci un pò." Una smorfia speranzosa si allargò sul viso e  i suoi occhi si illuminarono di una strana luce. Le quattro ragazze - rivolgendole uno sguardo pieno di disprezzo unito ad un pizzico di compassione - non proferirono una singola parola e si voltarono nuovamente. Avanzarono verso le loro auto lasciandosi alle spalle quello spiacevole incontro. Stavano quasi per uscire dal bosco quando l'urlo agghiacciante di Marine straziò il loro udito....


 
​​Faye rabbrividì a quel ricordo che faceva ancora male e che stringeva in una morsa dolorosa ogni centimetro del suo corpo. Ciò che credeva di aver lasciato al passato era ritornato, pronto a punire ognuna di loro. Quell'incubo era ritornato a tormentare le loro notti...


Holaaaa eccoci qui con il terzo capitolo. Abbiamo conosciuto la seconda protagonista della storia con qualche scorcio del passato e anche di quanto successo quella fatidica notte. Che dire... speriamo che questo nuovo chap vi piaccia e che continuiate a seguire la storia.
Un bacio a tutti voi Whitesnow&Medy












 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** "Il destino ha la sua puntualità" ***





3°Capitolo

“Il destino ha la sua puntualità”


 
La pioggia tamburellava fastidiosamente sul vetro dell'auto, impedendo la visuale della strada che si apriva di fronte a lei. Rosemary sentiva ancora un enorme groppo alla gola e sentiva le lacrime pizzicarle fastidiosamente gli occhi. Ritornare a Dimwoods non era stata una buona idea; lei sapeva cosa avrebbe trovato una volta lì. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare i ricordi e il passato, ma era il momento di farlo. Era stata per troppo tempo rinchiusa in un'ampolla ovattata fingendo di aver solo sognato, fingendo di non aver storia prima di Dublino. Aveva finto per troppo tempo, bruciando le sue tracce su quella strada, le sue impronte da quei luoghi che l'avevano cresciuta, che l'avevano vista piangere, sorridere e che racchiudevano piccoli frammenti di vita. Aveva rivisto le ragazze dopo anni e anni di silenzio; aveva nuovamente rincontrato i loro visi, aveva risentito le loro voci e aveva rimpianto i loro attimi, il loro tempo, quando si erano sentite invincibili, quando avrebbero scommesso ogni cosa su di loro. Ma adesso sembravano solo delle estranee con troppo odio rinchiuso in loro; quell'odio pronto a scattare in qualunque attimo. Rosemary si asciugò frettolosamente una piccola perla salata che le scivolò ribelle dagli occhi; sentiva il respiro corto e la loro mancanza faceva più male della mancanza di ossigeno. Strinse il volante tanto forte da rendere le nocche bianche e sentire la copertura in pelle raschiare i palmi della mano. Aveva bisogno di distrarsi, aveva bisogno di caricare tutto quel dolore su altro. Non voleva soffrire così, voleva smetterla di sentire tanto dolore ancora; era bastato ciò che aveva dovuto subire in quegli otto anni ed era stanca di sentirsi a pezzi ogni volta che la sua mente divagava e si fermava sempre sul medesimo ricordo. Era stanca di sentirsi spezzata in due, di dover guardare quel tatuaggio e non leggere più ciò che esso rappresentava. Era semplicemente stanca di vivere con quel peso insostenibile. Sentì il trillo fastidioso del telefono e sobbalzò a quel richiamo alla realtà. Gli occhi erano ancora fermi sulla strada mentre con la mano libera - non poggiata sul volante - trafugava nella sua borsa in cerca del suo telefono che la chiamava a gran voce. Riuscì a trovarlo e con difficoltà rispose alla chiamata di suo fratello Aaron.

"Ehi" Rosemary fermò il cellulare tra la testa e la spalla e ritornò a guidare con prudenza. La ricerca dell'auricolare avrebbe impegnato altro tempo e quindi si accontentò di quella posa che le avrebbe procurato un gran torcicollo.

"Dove sei?" La voce distorta di Aaron toccava i toni della preoccupazione e Rosemary sorrise appena nell'immaginare suo fratello con sguardo apprensivo rivolto alla strada. La pioggia stava cadendo incessantemente aumentando la sua precipitazione. 

”Sono per strada….” Rispose semplicemente, unendosi al traffico di quel pomeriggio buio e cupo. 

“Non ceni da mamma e papà?” Aaron porse quella domanda, conoscendo già la risposta che gli sarebbe giunta e Rosemary si sentì tremendamente in colpa quando si vide costretta a concedergliela.

"No Aaron, ho bisogno di un bagno caldo. Domani devo recarmi in ospedale, è il primo giorno da specializzanda e voglio essere al pieno delle forze" Rosemary percepì che il silenzio di Aaron era di pura delusione. Le era molto legato e quegli otto anni andavano recuperati, ma non era in vena di fingere che andasse tutto bene. Non sentiva abbastanza forza che potesse aiutarla ad affrontare i suoi genitori e le occhiate insistenti di Aaron, che avrebbero ricercato risposta nel suo broncio, in quella sua aria cupa che non si accingeva a far sparire dal volto. Non aveva abbastanza forza per affrontare i suoi genitori e fingere di pendere dalle loro labbra, di ascoltare con precisione le mille raccomandazioni che il padre non si stancava di elencarle, nonostante fosse giunta ad un’età in cui raccomandazioni e consigli non esercitavano più alcun effetto. Eppure lei si sentiva in dovere di fingere che quelle parole avessero ancora effetto su di lei. 
Per troppi anni era rimasta incollata alla volontà del padre di dover ricercare il meglio per sè, di non accontentarsi della superficie ma di scavare a fondo; di cercare qualcosa di introvabile e di raro ed uscire dagli abiti di figli di semplici impiegati che - con sacrificio - erano riusciti  a dare a lei e suo fratello Aaron ciò di cui avevano bisogno. I ricordi delle giornate trascorse sui libri, o con la madre in biblioteca ad aiutarla a compiere le sue mansioni di bibliotecaria - e quindi approfittare di tutta quella conoscenza - erano ancora chiari e nitidi nella sua mente. Rosemary ricordava come - con il tempo - aveva iniziato ad adorare più i libri che le persone, rinchiudendosi nel suo mondo di carta e inchiostro. Era rimasta supina su un letto di finzione non assaporando la realtà che offriva qualcosa di meglio; qualcosa che Savannah, Faye ed Isabel le avevano dimostrato e le avevano fatto amare. Lo avevano fatto per lei, per permetterle di emergere tra la folla, di non restare incollata a quel luogo, ma di uscire e vedere il mondo e ciò che aveva da offrirle. Rosemary non le avrebbe mai ringraziate abbastanza per questo, anche se in fondo lei aveva sempre desiderato rischiare, gettarsi nella follia, assaporarne un po’; un piccolo cucchiaio di follia non poteva mai guastare. Per un po’ ne aveva fatto una scorpacciata abbondante, tanto da sentirsi sazia e felice. Ma adesso che tutto era finito, sentiva solo un enorme vuoto.

”Va bene Rose.. domani facciamo colazione insieme?" Il tono di voce speranzoso di Aaron fece cedere Rosemary, che non ebbe il coraggio di rifiutare l'invito del suo caro fratellone.

"Ok, domani facciamo colazione.... Ah lo sai chi ho appena incontrato... cazz...." Non ebbe il tempo di continuare la frase. Il telefono le scivolò via, rotolando sul tappetino dell'auto e nascondendosi da qualche parte tra il sediolino e la porta. Le imprecazioni di Rosemary giunsero a destinazione ed inconsciamente si abbassò alla ricerca del telefono. L'auto intanto proseguiva spedita priva di pilota che potesse guidarla e priva di comandi che la conducessero per la giusta strada. Rosemary tentava di compiere tutto in contemporanea: una mano che tastava i tappetini dell'auto - lo sguardo rivolto alla strada che si vedeva appena a causa dell'acqua che scrosciava violentemente - e la mente rivolta alla notizia che avrebbe dovuto dare ad Aaron e che di sicuro lo avrebbe spiazzato. Riuscì ad individuare il telefono tastando il display con i polpastrelli e si abbassò ancora un altro po’, distogliendo del tutto lo sguardo dalla strada. Fu un attimo e i mille sensi si attivarono contemporaneamente; qualcuno le bussò alle spalle facendola scattare e gli occhi - individuando l'ostacolo posto davanti a lei - comunicarono al cervello di frenare la corsa. Ebbe il tempo di farlo, frenò bruscamente e la testa sbatté appena sul volante ma nulla di grave. Il telefono era ricaduto sul tappetino e la chiamata si era staccata indipendentemente dalla sua volontà. Rosemary spostò lo sguardo dall’oggetto completamente oscurato al traffico che aveva creato dietro di sè. Bussavano con insistenza, confondendola e gettandola in un panico incontrollabile. Si guardò intorno intontita, massaggiandosi il capo che doleva appena e realizzò che la piccola botta che le faceva sentire quel lieve dolore - che sarebbe passato entro quella sera - non era nulla in confronto al danno creato involontariamente davanti a lei. Scorse  tra la pioggia del fumo che si mischiava ad essa un’auto ferma, sbucata improvvisamente senza preavviso: un elegante Audi costosa e di lusso aveva risentito dei danni della sua distrazione. Rosemary si mosse impacciatamente, non riuscendo a coordinare i movimenti e agire in modo lineare e concreto. Prese la borsa - rovesciando il contenuto sul sediolino - e cercò di ripescare tutto, ma le macchine alle sue spalle bussavano con insistenza. Gettò nuovamente la borsa ai piedi del sediolino vuoto e senza preoccuparsi della pioggia che cadeva incessantemente uscì dalla vettura, dirigendosi verso il malcapitato giunto sulla sua strada. Non diede peso alle auto che la sorpassarono imprecando e dedicandole parole poco gentili; gli abiti divennero completamente zuppi - imprignati di pioggia - esattamente come i suoi capelli che le si incollarono al viso. Pioveva con forza, con violenza, ma Rosemary era in pena per l’auto e per il suo proprietario, che in quel momento - munito di ombrello - abbandonò l’abitacolo per controllare il danno riportato. Rosemary si paralizzò completamente quando i suoi occhi e la sua attenzione percepirono e compresero chi fosse il proprietario dell’auto. Improvvisamente il tempo si bloccò, i rumori delle auto sparirono completamente e la pioggia non dava più alcun fastidio. Il freddo non penetrava nelle ossa ed il fumo del motore non era più visibile. Gli occhi di Rosemary erano completamente rapiti dalla figura posta di fronte a lei, attento a valutare il danno della sua auto e del tutto diverso da come lei lo ricordava. Era cambiato, nulla più richiamava ciò che era stato un tempo. Non c’era traccia di lui negli abiti che portava, fin troppo eleganti e forse costosi. Non c’era traccia di lui nel viso bruno, sottile, privo di rabbia, sereno e curato. Rosemary non aveva mai creduto nel destino, poco romantica per farlo; aveva sempre pensato che ogni cosa che accadeva intorno a loro fosse dovuto dalla loro volontà e non da una forza superiore che si divertiva a prenderli in giro, giostrandoli verso scelte sbagliate o incontri mai pensati. Eppure in quel momento qualcosa le comunicò che quell’incontro non era dato al caso, che la sua distrazione non era stata una semplice disattenzione. Rosemary guardava Blacke Banner e pensò che il destino avesse deciso di far scontrare le loro vite ancora, in quel modo bizzarro e pericoloso. Le loro vite si era nuovamente attorcigliate in un bivio, si erano unite in quella confusione; si erano rincontrati, scontrati violentemente e pericolosamente come per permettere ad entrambi di soffermarsi a pensare più a lungo e non lasciare che solo gli sguardi potessero parlare per loro. Blacke imprecò tra i denti e senza degnarla di un solo sguardo sfoderò dalla tasca dei calzoni il telefono, componendo un numero di tutta fretta.

“Mike è successo un casino, un idiota mi ha quasi distrutto l’auto! Ti richiamo dopo….NO, NON FARE NULLA SENZA DI ME….ciao” Rosemary sentì le viscere sobbalzare. I suoi modi, la sua voce, non era cambiati  di una sola virgola o di un  solo tono: rauchi, aggressivi, erano esattamente come lei li ricordava. Quella voce che aveva sentito tante volte, che aveva odiato e adorato, che le era mancata e che si era rivolta a lei - l’ultima volta - con la stessa rabbia con la quale si era rivolto al tale di nome Mike. Quei modi così rudi, così impulsivi, che avevano trovato tregua forse solo con lei. Rosemary restava in silenzio sotto la pioggia come una stupida, incapace di parlare, di pronunciare il suo nome; incapace di rivolgergli un semplice saluto. Avrebbe preferito sparire, mischiarsi alla pioggia e svanire semplicemente; ma lo sguardo limpido di lui la frenò. Blacke si era voltato finalmente verso di lei, sicuro di incontrare "L’IDIOTA" che aveva rovinato la bella carrozzeria della sua auto. Ma quando la vide, quando realizzò chi ci fosse sotto la pioggia a guardarlo, chi si fosse ri-presentata sulla sua strada, tutta la rabbia e la seccatura svanirono, scivolarono via e lasciarono spazio solo ad uno sguardo incredulo. Blacke socchiuse appena le labbra, incapace di produrre anche il più semplice suono gutturale. Aveva perso completamente le parole, sentendosi catapultare con forza in un passato che aveva sperato di aver dimenticato per sempre. Erano completamente isolati dall’intero mondo, ritrovando il loro. Erano persi nei loro sguardi, annegavano nei loro occhi e - se il silenzio fosse stato assoluto - il rumore dei loro cuori che in quel momento inconsapevoli battevano all’unisono - come se si fossero inviati un segnale, come se si fossero gettati in una affannosa ricerca e finalmente si erano ritrovati -  avrebbe donato suono ad ogni cosa. Ma quel silenzio ovattato, quell’atmosfera irreale fu spezzata dall’ennesimo clacson assordante che invase il loro spazio. 

“IDIOTI CHE DIAMINE FATE IMBAMBOLATI  PER LA STRADA! TOGLIETEVI DALLE PALLE!” Blacke si voltò di scatto verso l’uomo che - dall’auto - aveva interrotto quell’attimo di pura estasi per i suoi occhi e di strazio per il suo cuore. 

“Brutto stronzo va al diavolo” Blacke non si lasciò sfuggire quell’imprecazione che sollevò Rosemary; per un attimo aveva temuto di averlo perso completamente. Sotto agli abiti firmati e all’auto di lusso c’era ancora il vecchio Blacke, il diciassettenne ribelle che non avrebbe mai zittito la sua voce e che non avrebbe mai lasciato ad altri il piacere di spegnerlo ed istituzionalizzarlo. Si rivolse nuovamente verso di lei e ritornando vigile - scacciando via quell’incantesimo che lo aveva reso immobile e fermo - realizzò lo stato di Rosemary.

“Stupida come sempre…. eh Fisher…” Sul viso bruno di Blacke si incurvò un mezzo sorriso. La protezione dell’ombrello le fu porto con molta gentilezza e Rosemary non riuscì ad arrabbiarsi per quell’insulto che in quel momento suonò così dolce. 

“Sempre simpatico, Banner…” Rispose a tono lei, lasciando che la sua figura la sovrastasse. Quel semplice scambio di battute era colmo di significato. Quel semplice scambio di parole che si susseguì da copione la catapultò nel passato, facendole rivivere gli anni del liceo dove tutto era stato perfetto. Dove tutto sembrava eterno e indistruttibile e dove le speranze erano convinzioni ancora da tenere salde… 





Rosmary infilzò una carota, caricando su di essa tutta la rabbia e la frustrazione accumulata quella mattina e quest'ultima penzolò floscia prima di spezzarsi e ricadere nel piatto. L’appetito l’aveva abbandonata del tutto, lasciando solo un gran senso di nausea e stanchezza misto ad una rabbia che le rendeva lo sguardo torvo e corrugato. Intorno a lei c’era un gran vociferare; la mensa anche quel pomeriggio era stracolma di studenti. Il gelo invernale che irrompeva fuori aveva lasciato i giardinetti vuoti ed aveva impedito a lei e alle altre di recarsi nel bosco, il loro luogo sacro dove si riunivano per discutere di quelle ore trascorse separatamente. Giocherellò ancora con quel cibo che aveva perso ogni attrattiva, prima di essere raggiunta da Savannah che come al solito fece voltare metà del pubblico maschile presente in sala. I suoi lunghi e lucenti capelli ondeggiavano ad ogni passo ed il suo sorriso sembrava risplendere, nonostante fuori ci fosse un tumultuoso temporale. Faye la raggiunse poco dopo; si era trattenuta con il Club organizzativo per dar vita a qualche altro evento mondano che avrebbe donato alla scuola maggior notorietà. Isabel fu l’ultima a raggiungere il gruppo, essendo  stata fino ad allora impegnata ad organizzare gli schemi per la partita di pallavolo che si sarebbe tenuta la settimana prossima, con un liceo lontano da Dimwoods. Le tre ragazze si accomodarono al tavolo, non potendo evitare di notare lo sguardo furioso che oscurava completamente il viso di Rosemary, ancora immersa a contemplare l’insalata ed ignorando del tutto la loro presenza. Savannah si allungò verso di lei, puntando al naso - che venne pizzicato - e Rosemary alzò lo sguardo, scrutando le tre con lo stesso sguardo che non si accingeva a cancellarsi dal volto. 

“Che diamine hai?” Isabel addentò una mela, scrutando l’amica con sguardo contrariato. Rosemary alzò appena le spalle, restando muta e ritornando a fissare il suo povero pasto. 

“Hai intenzione di dirci cosa è successo o dobbiamo chiedere alla maga Sibilla?” Savannah le tirò una ciocca di capelli impiegando fin troppa forza.

“Ma sei idiota” Sbottò Rosemary massaggiandosi la nuca dolorante.

“Rose perché non parli con noi? Cosa è successo?” La voce dolce e morbida di Faye si unì a quelle richieste tutte simili tra loro. Sei occhi la fissavano con insistenza, continuando a chiedere quale fosse il motivo di quel silenzio glaciale. 

“Odio il progetto di Tutor che il professor Mcrayane mi ha assegnato! Soprattutto perché lo studente a cui devo fare da tutor è Blacke Banner….” Rosemary si vide con le spalle al muro e non potè sottrarsi nell’esporre il motivo del suo disagio; di sicuro le sue amiche non avrebbero rinunciato fino a quando spiegazioni soddisfacenti non fossero uscite dalla sua bocca. Rosemary chiarì così ciò che la rendeva adirata e silenziosa. Savannah scoppiò in una risata sonora, Faye cercò di apparire seria - anche se il suo risolino si mischiò a quello di Savannah - mentre Isabel rimase a contemplare la sua mela, ignorando del tutto il disagio dell’amica. 

“Quel Blacke? Ma non era in riformatorio?” Savannah si asciugò le piccole lacrime di ilarità che inumidirono i suoi occhi, gustandosi quella notizia e divertendosi nell’immaginare la perfettissima e ligissima Rosemary Fisher intenta ad insegnare nozioni di matematica al ribelle, scapezzato e pazzo Blacke Banner. La sua fama lo precedeva, la sua storia era da romanzo; incarnava perfettamente il prototipo di bello e dannato, di testa calda e sprecata. A Dimwoods la sua storia era sulla bocca di tutti e al suo passaggio un gran ronzio di voci si levava, pronte a raccontare ed informarsi sulla vita cupa e misteriosa di quel ragazzo. Cresciuto senza madre - suicidatasi quando era ancora un bambino - Blacke era cresciuto con il padre, noto a Dimwoods come il ladro e spacciatore peggiore della storia. Quest'ultimo fu rinchiuso poi in galera, seguito dopo un po’ dal primogenito Alec. Blacke era cresciuto da solo e aveva avuto una carriera simile a quella del padre. In riformatorio per fin troppe volte, il ragazzo aveva avuto ancora un’altra e forse ultima possibilità quell’anno e quella possibilità era stata poggiata nelle mani di Rosemary, evidentemente contrariata da tutto quel progetto creatosi senza che lei potesse replicare. 

“E' uscito la settimana scorsa e deve recuperare alcune materie. Hanno deciso di dargli la possibilità di diplomarsi….” Rosemary incrociò le braccia al petto incupendosi maggiormente e Faye rimproverò Savannah che non la smetteva di ridere, senza preoccuparsi del disagio di Rosemary, mentre Isabel sembrava del tutto disinteressata a quella notizia, forse considerandola poco rilevante. 

“E' giusto che gli venga data una seconda chance, tutti ne hanno bisogno….” Faye mostrò il suo animo tollerante, facendole notare che quel ragazzo non poteva essere lasciato a se stesso. Il destino con lui era stato già ingiusto donandogli una vita fatta di stenti, rinunce e mancanze e l’aggiunta della poca fiducia in lui lo avrebbe distrutto completamente, concludendo il lavoro di quel nefasto destino abbattutosi su di lui. Rosemary sembrò del tutto insensibile di fronte alla precisazione di Faye ed agitò con forza la testa.

“No! È insopportabile. Non ha fatto altro che fumare tutte le tre ore! E quando non fumava scarabocchiava su un blocchetto che inoltre non mi ha fatto nemmeno vedere! È odioso” Rosemary soffiò stancamente, aderendo con la schiena alla sedia e gettando lo sguardo oltre la mensa, dove suo malgrado lo intravide tra la folla. Era seduto in un angolo, solo, con lo sguardo rapito da quel blocchetto e con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra, fregandosene del divieto che padroneggiava in ogni angolo della mensa. Il cappello da baseball gli ricadeva di sbieco sul capo rasato e sembrava completamente perso in un altro mondo. Sembrava vivere in una fantasia propria, estraniato dalla realtà che si prestava ai suoi occhi. 

“Secondo me ti piace.. Guardate come lo guarda! Scommetto che tra un mese quello ti sfilerà le tue candide mutandine…” Rosemary si voltò sconvolta verso Savannah che sorrideva sorniona.

“Tre settimane..” Isabel sfilò dalla tasca della tuta una banconota poggiandola sul tavolo ed aprendo quella bisca improvvisa. Faye non riuscì a trattenere un sorriso divertito e Rosemary guardò le due traditrici con sguardo incredulo.

“Siete delle vipere” Sussurrò tra i denti, irrigidendosi maggiormente sulla sedia ed ignorando del tutto le due amiche, che in quel momento avevano scommesso su un suo prossimo cedimento carnale. Rimase rigida e torva sulla sedia fredda della mensa, cercando di non gettare lo sguardo verso Blacke e non dare a Savannah altri motivi per credere che lei potesse essere affascinata da un tipo come lui. Blacke Banner era attraente, ciò non poteva negarlo; nessuno pareva volerlo negare. Ma tutta quel fascino dato dal suo stile innovativo, dai suoi occhi nocciola in netto contrasto con la pelle scura, dalla sua figura magra e slanciata, venivano oscurati da quei suoi modi poco raccomandabili. L’essere finito in riformatorio troppo spesso aveva giovato e non sulla sua carriera. Molti lo consideravano un mito, un ribelle interessante da apprezzare soprattutto per la sua voglia di non seguire le regole e di vivere in un mondo proprio; mentre altri - come Rosemary - preferivano stargli alla larga. I suoi occhi lo intercettarono più volte e solo quando lasciò la mensa Rosemary ritornò a fissare altrove. I soliti discorsi fecero dimenticare per il momento il disagio e la scommessa che aveva dato inizio a quel pomeriggio e le quattro ragazze spostarono la loro attenzione su altro; Faye informò le amiche che per il week end sarebbe stata assente e la solita cena - che le quattro amiche organizzavano alla solita tavola calda gestita da sua zia - sarebbe stata spostata.

“Darren ha detto che ha organizzato qualcosa di speciale” I bellissimi occhi di Faye assumevano una luce nuova ogni volta che il discorso - o semplicemente il suo pensiero - si rivolgevano al bel capitano della squadra di Football che ormai aveva rapito ogni frammento di lei. 

“Non mi ha detto dove ha intenzione di portarmi ma….” Il discorso si interruppe di colpo; all’unisono le quattro ragazze furono rapite da un particolare che non poteva essere ignorato. Le porte della mensa si erano spalancate e Marine Miller fece il suo ingresso, scuotendo maldestramente i lunghi capelli che quel pomeriggio erano di un volgare biondo che non le apparteneva realmente. Si incamminava per la mensa con passo deciso e convinto, imitando fastidiosamente gli atteggiamenti che appartenevano a Savannah, la quale si adirò più di tutte quando un particolare alquanto macabro le saltò allo sguardo. Indossava la sua medesima gonna a balze color miele e su una spalla la sua identica borsa dondolava ad ogni passo. Aveva addosso ciò che lei quella mattina aveva scelto con selettività e precisione; aveva copiato il suo stile con fedeltà, come se l’avesse controllata passo per passo. 

“Non sapevo che tu e Marine faceste compere insieme….” Isabel guardò Savannah che intanto - con viso paonazzo - seguiva il percorso di Marine, la quale sembrò essere del tutto a suo agio in quel tentativo di assomigliarle. Marine Miller quel pomeriggio era la copia maldestra di Savannah; quel pomeriggio aveva tentato con scarsi risultati di emularla.

“Infatti non mi azzarderei mai nel recarmi con lei in qualunque posto… nemmeno al bagno” Rispose a denti stretti, sentendo la rabbia salirle fino alla testa. Il sangue iniziò a pompare con forza e non riuscì a trattenere maggiormente la rabbia che con ardore chiedeva di uscire, soprattutto quando un particolare saliente le saltò allo sguardo. Istintivamente si toccò la sottile gola sentendo la sua pelle, non riuscendo a tastare la sottile catenina che solo una settimana prima lo aveva ornato e che in quel momento rivedeva al collo di Marine. L'elegante e costoso ciondolo di “TIFFANY” che suo padre le aveva regalato e che aveva perso misteriosamente, scintillava dispotico sul collo di quest’ultima. Savannah fu completamente oscurata dalla rabbia e non riuscì a controllarsi o a darsi un contegno. Sentì il bisogno di avventarsi su di lei e strapparle di dosso ogni cosa. Balzò dalla sedia e nonostante gli inutili tentativi di Faye di trattenerla al suo posto, si avventò verso Marine. 

“Brutta squilibrata schizofrenica ladra! Ridammi il mio ciondolo” Marine si voltò teatrando  uno sguardo confuso. Savannah era a pochi centimetri da lei, pronta a caricare quella rabbia che le causava fastidiosi pizzicori alle mani. 

“Cosa?” Quel tono sognante e distaccato fece smuovere in Savannah quel desiderio di volerla prendere e schiaffeggiarla violentemente. 

“Dammi il mio ciondolo LADRA” Scattò in avanti, ma l’intervento di Isabel - che riuscì ad afferrarla e a trattenerla per il maglioncino - la  sottraesse da una furiosa rissa che l’avrebbe gettata in guai seri. Marine curvò appena la testa di lato e sfoderando il suo solito sorriso sporco di rossetto, iniziò a giocherellare con il piccolo ciondolo, causa di rabbia e frastuono. 

“Oh questo? Papà me lo ha comprato la settimana scorsa! Ti piace?” Savannah scattò nuovamente in avanti, ma l’intervento di Rosemary e Faye la bloccarono completamente. Le parole però non trovarono ostacoli e iniziarono a fluire rabbiose.

“Brutta stronza! Tuo padre non può permettersi nemmeno una schifosa casa. Siete dei pezzenti e tu idiota sei pazza! Vorresti essere come me! Ma dovresti rinascere! Non sarai mai come me! Sei patetica, sei inutile!“ 

“Smettila Sav….”  Faye la tirò ancora, ma Savannah resisteva con tutte le sue forze e quegli insulti continuavano a volare verso Marine, che guardava Savannah con sguardo stralunato e sconvolto. Intanto in mensa tutti gli occhi erano puntati su di loro, ma Savannah sembrava non accorgersi di ciò e continuava a tirarle insulti, ad offenderla e schiacciarle in faccia la dura realtà; a ripeterle che la sua vita era inutile e che non valeva la pena di essere vissuta. Faye e Rosemary riuscirono a trascinare Savannah - dopo vari tentativi di divincolarsi dalla presa delle due amiche - fuori dalla mensa e a spegnere quegli insulti che non la smettevano di uscire. Isabel avanzò verso Marine.

“Ti consiglio di non fiatare….” Le strappò prepotentemente la collana dal collo e con sguardo tagliente la minacciò di non protestare. Marine rimase ferma in mezzo alla mensa, lasciando che risa di scherno si posassero su di lei e non potendo ribattere lasciò scorrere quegli insulti taglienti e melliflui.






Rosemary ritornò con i piedi sull’asfalto bagnato e la mente al presente quando la voce di Blacke - che questa volta apparteneva a quel momento - le giunse forte nonostante il tono usato fosse calmo e sottile.

“Mi sono sempre domandato cosa farneticasse la tua testa….” Rosemary mise a fuoco ciò che aveva davanti e sentì il cuore colpire violentemente la cassa toracica quando ritornò ai suoi occhi, questa volta però reali e non legati ad un ricordo. Blacke era pericolosamente vicino e la pioggia scrosciava ancora fastidiosamente, creando intorno a loro un atmosfera disagiante. 

“Nulla d’importante, stavo solo pensando a come ritornare in albergo…” Rosemary si schiarì frettolosamente la voce, fingendo un sorriso semplice e privo di imbarazzo. Ciò che la tradì però fu il lieve rossore che si dipinse sulle sua guance, nonostante intorno a loro ci fosse solo pioggia e freddo. Le morbide labbra di Blacke si incurvarono in un lieve sorriso notando quel piccolo particolare che l’aveva resa sempre dolce. Nonostante gli anni trascorsi non era mutata di una sola virgola; era bella come lui la ricordava ed era esattamente come lui aveva deciso di ricordarla. 

“Mentre aspettiamo che arrivino i rinforzi che ne dici di prenderci un caffè… se ricordi ancora, poco distante c’è il LIKE’S CAFFE'…” Blacke non mostrava insicurezza; era consapevole che quell’invito sarebbe stato accettato senza la ricerca di scusanti inutili. Il LIKE’S CAFFE'. Quanti ricordi aleggiavano intorno a quel luogo, quanti ricordi erano rimasti improntati in ogni angolo, su ogni parete e su ogni tavolo di quel piccolo Bistrot. Quanti caffè bevuti al solito posto, quanti sorrisi e lacrime avevano accompagnato le tazze fumanti di quell'aroma amaro e pungente. Ritornare lì sarebbe stato come tuffarsi a capofitto nel passato e riportare alla mente ancora ricordi di ciò che non c’era più. Ma gli occhi di Blacke furono un motivo ovvio per accettare e gettarsi in quella vasca di ricordi, in quel passato che forse sarebbe rimasto solo tale. 

“ V-va bene…” La voce le tremò ed ormai si era tradita. Aveva messo in chiaro che la sua presenza aveva colpito dritto, aveva puntato nella parte giusta del petto: al centro della cavità toracica. Blacke sfoderò nuovamente il telefono dalla tasca dei calzoni e ricompose un numero.

“Mike vieni all’incrocio di Doyle street, la macchina è ferma per strada. Io ti raggiungo dopo, adesso ho altro da fare….” Di nuovo quel Mike ebbe una strigliata di capo e Rosemary non riuscì a non ascoltare il tono servizievole con il quale assecondò la volontà di Blacke. Rosemary era stata catapultata in un altro mondo: non era la Dimwoods che ricordava, e i suoi abitanti avevano risentito degli effetti di quel capovolgimento. Blacke ripose il telefono e con ancora la protezione dell’ombrello entrambi si incamminarono verso il LIKE’S CAFFE' per concedersi il piacere di un buon caffè e di una vecchia compagnia giunta per caso. Giunta solo perché il destino in quel momento aveva deciso di mostrare la sua puntuale forza. 


Sedettero involontariamente a quel solito tavolo in cui anni prima avevano consumato miriadi di caffè e in cui le loro parole si erano mischiate alle risa e alla semplicità di stare insieme. Quel giorno, nonostante fuori piovesse, nel Bistrot sembrò giungere il sole, illuminando ogni centimetro di loro. Erano seduti uno di fronte all’altro, con i leggeri rivoli di fumo prodotti dal caldo caffe ordinato che li divideva. Rosemary stringeva la tazza tra le mani e nascondeva gli occhi puntandoli nel liquido scuro. Blacke non accennava a fare lo stesso, ma insisteva nel guardarla, nel sfiorarla con gli occhi e nell’attendere una qualsiasi parola che potesse spiegargli il motivo del suo ritorno. Il viso sottile era una maschera neutra che nascondeva con talento il disagio di ritrovarsi nuovamente con lei. Avrebbe potuto rinunciare a quel caffè - proposto da lui - avrebbe potuto girare le spalle e lasciarla sotto la pioggia, ma la tentazione di risentire nuovamente la sua voce, di guardare ancora i suoi occhi e sperare in un suo sorriso, erano stati più forte del dolore e della delusione che ormai non faceva altro che premere su di lui. Otto anni prima Rosemary era andata via per inseguire un sogno, un sogno che vedeva lui come ostacolo. Blacke poggiò le labbra sul bordo della tazza e sorseggiò appena l’aroma forte e pungente del caffè, che riscaldò il corpo intorpidito dal freddo. Lo stesso fece Rosemary, che aveva ancora i capelli umidi e gli abiti impregnati di pioggia. C’era silenzio tra loro, un silenzio che preannunciava una sfilza di parole lasciate in sospeso. Blacke fu il primo a spezzare il silenzio, lasciando che i ricordi dolorosi fossero sovrapposti a ciò che lei gli aveva lasciato di bello; quei ricordi che solo a riportarli alla mente gli provocarono una piacevole malinconia. 

“Cosa ti ha riportato a Dimwoods?” Rosemary alzò di scatto lo sguardo, impreparata a quella domanda. Aveva accettato quel caffè senza pensare alle conseguenze, senza pensare al disagio che la compagnia di Blacke le avrebbe recato. Quel disagio che le impediva di parlare e di dare una semplice risposta a quella domanda e che prevedeva un duplice riscontro. Era tornata per due motivi, uno dei quali era da tenere ben custodito. Sospirò e ritornando a fissare il caffè che fumava nella tazza riprese parola. 

“Ho terminato gli studi ed ho fatto domanda per la specializzazione in cardiochirurgia. A Dimwoods abbiamo uno dei miglior dipartimenti e mi hanno riportata qui…” Pronunciò quelle parole tutto d’un fiato, come se le avesse scritte con precisione nella sua mente. Lo aveva ripetuto anche quando - alla stazione - aveva rincontrato una vecchia amica di famiglia e anche con Aaron aveva pronunciato quelle parole che avevano destato nel fratello un pizzico di sospetto. Blacke alzò un sopracciglio scettico e sorrise di sbieco. 

“Credevo che fossi tornata per me…” Quella battuta fu fuori luogo e le guance di Rosemary si colorarono di un leggero rossore; portò la tazza alle labbra e sorseggiò tutto d’un fiato il caldo caffè. La lingua andò a fuoco facendole perdere la sensibilità e bruciando le papille gustative. Rosemary arricciò le labbra, trattenendo con difficoltà un mugolio di dolore. 

“Scusa non volevo…” Blacke si rese conto del danno appena prodotto e  del disagio gettato tra loro. Scusarsi fu un altro elemento che fece comprendere a Rosemary quanto fosse cambiato Blacke; otto anni erano bastati per mutare non solo la forma ma anche l’essenza di quell’individuo che non riusciva a riconoscere? Nonostante tracce del vecchio Blacke fossero però visibili; tracce impercettibili che Rosemary riusciva a scorgere soprattutto quando trovava il coraggio di guardarlo negli occhi. Quell’abito scuro di ottima fattura gli donava, lo rendeva elegante, slanciava la sua figura ed arricchiva il suo fascino. Ma nei modi aggressivi e burberi, divertenti, dimostrati lì fuori e dagli occhi nocciola - che risaltavano sulla pelle scura - Rosemary poteva vedere il vecchio Blacke Banner. Il ragazzo che aveva conosciuto al liceo, quel ragazzo capitato sulla sua strada una semplice mattina. 

“Oh, non preoccuparti…. “ Rosemary si schiarì la voce e riuscì a produrre quelle inutili parole che furono seguite da altro silenzio, rotto solo dal vociferare di sottofondo e dalla musica sottile proveniente dalle casse che occupavano gli angoli del Bistrot. Blacke guardò la strada che poteva essere scorta dall’enorme vetrata che circondava il luogo; puntò gli occhi verso le due auto parcheggiate non molto lontano e che erano divenute due puntini incerti nella pioggia. Anche quella sottigliezza sembrò essere capitata perfettamente; il luogo dell’incidente era stato un elemento importante per catapultarli in un luogo appartenuto al LORO passato.

“Tra poco arriverà il mio assistente e si occuperà lui di tutto, anche della tua auto…” Si voltò nuovamente verso di lei e finalmente incrociò più di cinque minuti il suo sguardo. Finalmente si rincontrarono e lui sentì il cuore riprendere a pompare vita. Otto anni, otto anni non erano bastati per cancellare le sue tracce dalla mente, dal suo cuore. Otto anni lontano da lei lo aveva solo aiutato ad accantonare il suo ricordo, ma non a cancellarlo definitivamente. In quegli otto anni il suo cuore si era fermato completamente ed era divenuto gelido, di pietra, immobile nel suo petto. In otto anni Blacke aveva cercato di scaricare quel dolore su altro e farlo lo aveva condotto lontano. Nonostante avesse ottenuto ciò che aveva sempre sognato, non averla accanto aveva reso quel TUTTO un NULLA incolmabile. Ma adesso che era lì di fronte a lui, adesso che il suo sguardo si era piantonato nel suo, il cuore era ritornato a battere, era ritornato a vivere. 
Rosemary scosse il capo e involontariamente allungò una mano verso la sua stringendola, mimando a gesti di lasciar perdere con quell’atto caritatevole e caricandosi della colpa dell’incidente. Ma quell’unione e le parole che avrebbero spiegato quel gesto le si fermarono in gola e Blacke sentì che quel tocco - dopo otto anni - bruciava ancora sulla pelle. Lei si ritrasse portando le mani al grembo, toccandosi incredula il palmo della mano che era ancora caldo; sentiva la sua pelle e nonostante non fosse più poggiata su di essa era rimasta l’impronta di lui, non solo sulla mano ma ovunque. 

“Q-quindi hai un assistente…” Cercò di rompere quell’imbarazzo riportando l’attenzione sulla nuova vita di Blacke, visibile nei mille cambiamenti avvenuti in superfice. 

“Si, Mike. Si è trasferito da Londra… “ Quelle povere informazioni furono pronunciate con tono atono e piatto. Era Poco rilevante ciò che aveva da dire sul ragazzo che lo seguiva ovunque, che adorava il suo stile, la sua arte e lo portava a fare qualunque cosa Blacke gli proponesse. 

“Di cosa ti occupi adesso?” Il caffè rimase a raffreddarsi sul fondo della tazza e Rosemary decise di rompere quella lastra di ghiaccio che li divideva. Non avrebbero riacquistato più ciò che avevano avuto, ma era giusto ricreare anche in piccola parte un qualcosa. Blacke sorseggiò ancora il suo caffè aumentando l’attesa; lo finì tutto schioccando le labbra e lasciando che l’aroma forte si sentisse sul palato e sulla lingua. Degustò quell’amaro sapore, non paragonabile all’amaro che sentiva in lui a causa di quella formalità che li rendeva distanti e li rendeva due perfetti sconosciuti. 

“Mi occupo di tutto ciò che ha a che fare con l’arte: dipingo, disegno, mi occupo di fotografia. Ho seguito il tuo consiglio….” Blacke non riusciva a trattenere le parole; pronto sempre a riportare in scena il passato, ricordandole ciò che li aveva legati un tempo. Rosemary annuì, lasciando che un debole sorriso le si creasse sul volto; sentiva una fierezza in lei. Blacke Banner aveva dato adito alla sua passione ed aveva lasciato andare il suo istinto violento e irascibile; era riuscito ad uscire da quel tunnel buio che sembrava privo di luce e di uscita. Blacke aveva deciso di VIVERE  e non SOPRAVVIVERE e sprecare ogni attimo della sua vita; era riuscito a dar prova di sè e quella prova era stata superata con successo. 

“Ho comprato il vecchio edificio accanto al liceo. Ho parlato con il sindaco Hill e mi ha dato il consenso per costruire un istituto d’arte per i giovani di Dimwoods…” Rosemary ricordava quel vecchio edificio lasciato morente nella sua stessa calce, lasciando che gli anni e le intemperie eliminassero ogni sua traccia. Era sempre stato un edificio affascinante e la sua storia era legata alla creazione di quella cittadina. Un tempo era stato un rifugio, era stata la salvezza di molti e dopo anni - in cui era stato lasciato inconsiderato - Blacke aveva deciso di dargli voce e ridargli lo splendore di un tempo. Mentre parlava Blacke abbassò lo sguardo sul tavolo, tracciando timidamente le venature del legno incise su di esso e non notando come il volto di Rosemary - rimasto fino ad allora imbarazzato e distante - si fosse addolcito. Blacke era sempre stato così: dimostrava la parte peggiore di sè, metteva in risalto ciò che avrebbe potuto tenere più persone possibili lontane da lui, ma concludeva con finali che avrebbero fatto zittire chiunque avesse osato parlare. Rosemary confutò i pensieri di poco prima: quel mutamento era avvenuto solo in superfice, ma sotto di essa si racchiudeva ancora il vecchio Blacke, che nascondeva ancora la sua parte migliore, che saltava fuori in momenti come quelli ed in gesti tanto importanti. La fortuna che aveva ottenuto - grazie solo a se stesso - non era sprecata nelle sue mani.  

“E' un gesto molto bello” Blacke alzò gli occhi ed il sorriso di Rosemary fu contagioso; coinvolse anche il suo volto e si ritrovarono a sorridere - anche se poco - di fronte ad un caffè come una volta. Blacke vide in quell’evento un segnale, lesse in quel gesto - che aveva coinvolto entrambi - un messaggio che lo incitava a non perdere altro tempo. C’era ancora qualcosa tra di loro; c’era ancora quel legame ed era visibile dal semplice fatto che il tempo non aveva scalfito i loro ricordi, non aveva minimamente cambiato ciò che entrambi provavano l’uno per l’altro. Blacke sapeva che i brividi al cuore non coinvolgevano solo lui; sapeva che la presenza di Rosemary lì non era data solo al caso, ma che il suo accettare quel semplice invito era un chiaro segno che una seconda possibilità era stata data ad entrambi. Blacke - incurante delle conseguenze - si allungò verso di lei, pronto a pronunciare sentenza, a pronunciare ciò che sentiva fremere in lui; socchiuse le labbra, pronto a proferire parola. Rosemary non si fece sfuggire quel susseguirsi di azioni che avrebbero condotto ad un’unica azione concreta, che l’avrebbe spiazzata e che l’avrebbe colta impreparata. 

“Rose…” Pronunciò il suo nome masticando ogni lettera con dolcezza, assaporando quella parola e gustandosene ogni suono. Rosemary era in attesa, sperando in un finale che avrebbe migliorato quel pomeriggio che ormai si accingeva a terminare. Sperò di sentire quelle parole sognate per troppe volte; sperò di sentire la sua voce chiederle di ricominciare, di lasciarsi tutto il passato, gli sbagli, le occasioni non colte e le parole non dette. Blacke era rimasto in lei per tutti quegli anni, aveva lasciato la sua impronta, marchiandola con prepotenza e dolore e non permettendo ad altri di prendere il suo posto. Ma ci fu una variabile che cambiò ogni cosa: la porta del Bistrot si spalancò, producendo il tipico tintinnìo del campanello e dando adito al freddo di entrare e rompere il calore della sala. Blacke dovette distogliere lo sguardo da lei ed il suo cambio di espressione fece comprendere a Rosemary che quella variabile entrata in gioco avrebbe messo fine al loro breve ed intenso incontro. 

“Mike tempismo perfetto” Il tono sarcastico non sfuggì nè a Rosemary - che sorrise divertita nel vedere il volto di Blacke irrigidirsi e le labbra assottigliarsi infastidite - né allo stesso Mike, che si paralizzò a pochi passi dal tavolino in legno. Rosemary si voltò verso il ragazzo poco più giovane di loro; il tranch nero era zuppo ed i capelli biondo cenere gli si appiccicavano sul viso. Aveva corso e ciò lo si poteva scorgere dal petto che ad intermittenza andava su e giù. 

“Blacke scusami, ma il carroattrezzi è giunto in questo momento e credevo che volessi un passaggio. Ho l’auto qui fuori….” Mike sembrò non notare Rosemary e in parte fu un bene: non aveva voglia di aprirsi in presentazioni inutili che sarebbero state dimenticate, ma voleva raggiungere al più presto l’albergo e sprofondare completamente nelle calde coperte che l’attendevano. 

“Bene…. Di al carroattrezzi che si preoccupasse anche dell’altra auto; Rosemary dove devo accompagnarti?” Mike si voltò verso la ragazza, accorgendosi di lei solo in quel momento. Rosemary sobbalzò sentendosi chiamare in causa; Blacke la guardava con aria seria, mutata rapidamente e con troppa fretta. 

“Oh, non c’è bisogno; posso anche proseguire a piedi. Hai già fatto abbastanza con l’auto….” Rosemary si alzò goffamente dal tavolo scontrandosi involontariamente con Mike, che con eleganza le chiese scusa. Blacke fece lo stesso e lasciando una banconota sul tavolo - che avrebbe dato alla Cameriera di Turno una succulenta mancia - prese il soprabito di Rosemary, aiutandola ad indossarlo e riducendo nuovamente la distanza tra loro. 

“Non è mai abbastanza, soprattutto se si tratta di te… “ Rosemary sentì il soffio caldo sul suo collo e trasalì appena a quella confessione così esplicita. Si schiarì la gola e indossando il soprabito smeraldino spiegò la sua destinazione. 

Un attimo dopo Rosemary si ritrovò in macchina a pochi centimetri da lui, tenendo le gambe unite e cercando di non toccare le sue; Blacke guardava fuori il finestrino, ammirando la pioggia che si scontrava con il vetro scuro dell’auto, mentre lei cercava distrazione altrove, non trovandola e sentendosi solo a disagio. Il viaggio sembrò interminabile e il silenzio era caduto intorno a loro; Blacke aveva dimostrato in modo molto esplicito che quell’incontro era stato per lui una fortuna, a differenza di Rosemary, che sembrò considerarlo solo una catastrofe. Non riusciva a reagire nel giusto modo di fronte a ciò che si presentava chiaramente ai suoi occhi: Blacke era ancora legato a lei e sentiva uno strano disagio per quella consapevolezza; disagio che pian piano si trasformò in paura. Paura di soffrire ancora, paura di vedersi costretta a lasciarlo ancora a causa di quella verità che si stava nuovamente impadronendo della sua vita. Come avrebbe reagito alla notizia che Rosemary Fisher - ragazza apparentemente onesta - in realtà non era altro che una bugiarda che aveva avuto il coraggio non solo di occultare il corpo di una giovane ragazza e non darle giustizia, ma che aveva fatto accusare anche un uomo innocente? L’idealizzazione che aveva di lei sarebbe crollata a quelle confessioni e perderlo definitivamente le avrebbe causato solo altro dolore. Avrebbe preferito restare così, in quello stato di consapevolezza non concreta. Sentì l’auto frenare e seppe che la loro corsa era finita; si strinse nel soprabito ed attese che Blacke la congedasse. 

“Avrai al più presto la tua auto…” La sua attenzione ritornò a lei; la guardava dal fondo dell’auto con il capo appoggiato al freddo finestrino, con uno sguardo strano, intenso e spiazzante. Rosemary annuì appena, rimanendo a fissarlo e non riuscendo a comunicare al suo corpo di abbandonare l’auto e lasciarselo andare alle spalle; lasciarlo nel passato e non riportare a galla ciò che aveva provato unicamente per lui. Ma quando il suo cervello - che in quell’attimo sembrava atrofizzato - le comunicò di uscire dal calore della macchina e quindi uscire via ancora dalla sua vita, fu tardi. Blacke le si avvicinò e senza violare la sua volontà le sfiorò una guancia con le labbra, toccando appena l’angolo delle labbra. 

“E' stato bello rivederti….” Le sussurrò prima di lasciarla andare ancora. Rosemary non ebbe il tempo di dire la stessa cosa che già era scivolata fuori dall’auto. Pioveva ancora, ma lei restò a fissare la macchina scivolare sull’asfalto bagnato e abbandonare la sua traiettoria. Rimase immobile sotto la pioggia sentendo ancora il suo profumo su di lei; sentiva il cuore che accellerava piano sempre più fino a battere violentemente, a colpire la cassa toracica in un piacevole dolore. Rosemary chiuse gli occhi, sentendo ancora il tocco della sua pelle, il suo profumo e la sua voce roca e calda, ammaliante. Sentiva ancora la sua presenza accanto a lei ed ancora la mente la catapultò in un tempo passato, dove quel bacio non si era fermato all' angolo delle labbra…



 

Rosemary camminava a passo spedito per i corridoi della scuola rimasti quasi vuoti quel pomeriggio. Fuori pioveva a dirotto e molti studenti avevano deciso di rientrare a casa, prima che il tempo peggiorasse e mettesse a rischio il loro rientro nelle proprie dimore. Solo Rosemary e altre poche persone erano rimaste lì, chi per obbligo, chi - come lei - per pura dedizione allo studio. Savannah, Faye ed Isabel avevano deciso di aspettarla a casa di quest’ultima e lei avrebbe raggiunto le amiche dopo aver compiuto il suo dovere al liceo. Le mani stringevano un leggero foglio di carta; lo stringevano con forza, tanto da stropicciarne i bordi e Rosemary sentiva una rabbia fremere in lei tanto da farle attorcigliare le budella e rendere il suo volto rigido e corrugato. Le labbra erano una linea sottile di nervi e imprecazioni che riusciva a trattenere a stento; i suoi passi riecheggiavano rumorosi per gli angoli della scuola, la sua direzione era unica e l’avrebbe raggiunta una volta svoltato l’angolo. Spintonò la porta con carica e si ritrovò a fissare quattro ragazzi intenti a svuotare la propria vescica e che guardarono Rosemary increduli; non capendo cosa potesse volere nel bagno dei maschi quella ragazza che ignorandoli, scrutava quel luogo in cerca di una persona in particolare.Quando la trovò non riuscì a trattenersi.

“USCITE IMMEDIATAMENTE FUORI DI QUI” Tuonò contro il povero gruppo che non si mosse minimamente a quelle accuse; i quattro ragazzi si guardarono sorridendo a quel suo tentativo di incutere terrore. Nonostante il tono di voce austero e alterato, il viso paonazzo e gli occhi fiammeggianti di rabbia, Rosemary Fisher non avrebbe mai trasmesso timore ad alcuno. Quel compito era dato ad Isabel o a Savannah, ma lei non era adatta per quel ruolo. 

“Ragazzi uscite…..” Una voce roca e stanca si unì alla sua. Il gruppetto, con calma e senza accennare la minima fretta, si alzò all’unisono le zip dei calzoni, seguendo un movimento comune e diregendosi fuori dal bagno. Rosemary restò sola con Blacke che - seduto sul boro del lavabo - era intento a rollare uno spinello. Aveva il solito cappello che copriva solo una parte del capo rasato e la felpa gli andava più larga del solito, nascondendo il fisico asciutto.

“Blacke Banner….” Rosemary tuonò di nuovo, avvicinandosi ancora di più a lui. 

“Si, è cosi che mi chiamo” Disse leccando la cartina per chiudere quel lavoro sporco ed illegale. Si portò lo spinello alle labbra e puntò il suo sguardo su Rosemary; era sfidante, mentre tentava di accendere quel malvagio piacere rinchiuso per bene nella sottile cartina quasi trasparente. Rosemary non si lasciò intimorire da quella sfacciataggine e non preoccupandosi della reazione di Blacke gli strappò da bocca quella schifezza, schiacciandogli contro il naso il foglio che aveva trascinato con sè per metà Liceo.

“ORA SPIEGAMI COS’E'” Rosemary non la smetteva di urlare; la rabbia la gestiva come una marionetta e lei la lasciava fare. Blacke scostò con forza la prova intangibile del suo fallimento e superandola raccolse il suo spinello. 

“E' una F….di Fallito” Rispose, tentando ancora di dar vita a quella sigaretta, che sigaretta non era. Rosemary gliela strappò nuovamente da bocca, aprendo una piccola battaglia che non avrebbe avuto fine. 

“Si, è una F! Dopo che ho perso tempo con te a spiegarti ogni singola regola! Abbiamo fatto innumerevoli esercizi su questo argomento e tu cosa fai? Ti addormenti in classe, ti rifiuti di fare il compito e quando pensi che la lezione sia finita scarabocchi qualcosa di insensato e vai via, gettando il NOSTRO lavoro nel gabinetto! E butta questa schifezza” Le parole di Rosemary non furono ascoltate minimante e Blacke era ritornato a raccogliere lo spinello mischiatosi con l’acqua che imbrattava il pavimento. Incurante di tutto riprese posto sul lavabo e ritentò ancora di accendersi lo spinello ormai del tutto zuppo. 

“Nessuno ti ha chiesto di farlo Fisher. “ Rispose quando finalmente l’estremità prese vita, inondando il bagno di un odore vomitevole che fece tossicchiare Rosemary.

“Che schifo” Boccheggiò lei, cercando di allontanare da sè quel fumo intenso che iniziò a invadere ogni centimetro del bagno.

“Se lo provassi non diresti così” Blakce diede una boccata lunga e intensa per poi poggiarsi al muro e lasciare che l’effetto prendesse avvio nel suo corpo. Rosemary lo guardò disgustata, ma non era intenzionata a lasciar perdere. 

“Ascoltami! Non ho intenzione di perdere altre ore con te e non credo che anche tu lo voglia. Quindi che ne dici se tu iniziassi a studiare e riuscissi a prendere un bel voto così da svincolare entrambi da questa seccatura?” Rosemary cercò di trattare con lui, provando un approccio meno invasivo e meno violento. Si avvicinò di poco, cercando di trattenere tutta la rabbia di quel fallimento che Rosemery tradusse come un dispetto fatto a lei, un modo per farle credere che il suo tentativo di buona samaritana non avevesse funzionato a dovere. Quel fallimento che Blacke era riuscito a farlo sentire anche suo. 

“Farò richiesta di un altro tutor in modo da lasciarti andare. E poi a fine anno ritornerò qui per essere bocciato ancora... Non ho intenzione di studiare, non l’ho mai fatto e non credo che mettermi appiccicata un’imbranata come te - che crede di essere migliore, che crede di poter giudicare e imporre - potrebbe costringermi a farlo. Voglio restare nella mia ignoranza, la consapevolezza delle cose ti porta solo alla pazzia. Io non so nulla e vivo tranquillamente giorno per giorno, a differenza tua… che non fai altro che tormentarti l’anima..” Blacke aspirò ancora una buona manciata di fumo e poggiò nuovamente la testa alle piastrelle sporche, lasciando che la marijuana facesse l’effetto ricercato; aveva pronunciato quelle offese consapevole degli effetti che avrebbe prodotto. Rosemary non aveva mai avuto vergogna della sua intelligenza, della sua passione per lo studio, anche se molte volte le sue amiche - forse le uniche a cui avrebbe dato realmente retta - le avevano ripetuto di assaporare la vita nel giusto modo, non lasciando che quella sua passione le potesse rovinare la degustazione; lei aveva sempre lasciato scorrere le parole, tenendo salde le sue convinzioni. Eppure adesso sentì quelle parole trafiggerla violentemente, sentì un offesa trucidarla e farle male. 

“Non voglio arrendermi solo perché hai deciso di farmi un dispetto, anche stupido a dirla tutta. Ti costringerò a studiare….“ Rosemary era decisa a non dare soddisfazione a quel druido che preferiva sballarsi piuttosto che dare a sè stesso una ragione per ricominciare, una ragione per riavvolgere la sua vita e provare a migliorarla. Blacke scrollò le spalle non ribattendo e facendole capire che per lui il discorso poteva concludersi lì. Avvicinò ancora lo spinello alle labbra, ma questa volta fu interrotto; Rosemary lo prese con riluttanza tra le mani e lo gettò ai sui piedi calpestandolo con vivacità.

“Inizieremo la prima lezione adesso e la prima nozione sarà: Non fare uso di droghe…fondono il cervello” Si portò le mani ai fianchi e sentì un piccolo trionfo nello scorgere negli occhi nocciola di Blacke panico e rabbia. La guardava con ancora le labbra socchiuse e con i polmoni e il cervello in attesa di altro fumo, di altro sballo. 

“BRUTTA STRONZA QUELLA ROBA MI E' COSTATA UN OCCHIO DELLA TESTA” Blacke saltò giu dal lavabo, avvicinandosi a lei minacciosamente.  Rosemary sentiva le gambe tremare per il terrore e la paura di rimanere in quel bagno, morta magari ai piedi dei lavandini, immersa nella pozza del suo stesso sangue. Blacke era irascibile e nessuno gli avrebbe impedito di gettarsi su di lei e ammazzarla; il coraggio di farlo non gli mancava e ad aumentare quel coraggio c’era quella schifezza appena spiaccicata alla suola delle sue scarpe.
 
“Smettila di fumare e cerca di migliorare questa tua vita! Vuoi distruggerti esattamente come hanno fatto tuo padre e tuo fratello?” Chi la induceva a parlare in quel modo? Cosa le poteva importare di come Blakce avesse deciso di proseguire la sua vita. Lei non aveva alcuna voce in capitolo, eppure stava parlando fin troppo, con la voce fin troppo prepotente e con lo sguardo fin troppo serio e aggressivo. 

“COSA CAZZO TE NE FREGA EH? IO FACCIO CIO' CHE MI PARE…. E TU DEVI STARNE FUORI…” Si fronteggiavano con aggressività e odio. Per due mesi interi erano stati dei perfetti sconosciuti, uniti solo da un obiettivo comune: quello di Blacke era di scrollarsi di dosso le pressione dei professori e dell’assistenza sociale, fingendo di proseguire gli studi impegnandosi a pieno e non dedicarsi più alla malavita adolescenziale. Quello di Rosemary era semplicemente un obiettivo morale e in parte egoistico: voleva mostrare ad altri la sua bontà e la sua intelligenza. Per due mesi avevano studiato nel silenzio delle aule, nei silenzi delle biblioteca e nei silenzi dei loro sospiri accennati. Blacke aveva dato a Rosemary il permesso di rivolgergli la parola solo ed esclusivamente per dargli le giuste nozioni e lei aveva accettato senza chiedere altro; ma involontariamente i due si erano ritrovati a condividere un obiettivo: quello di acquistare un buon voto e vincere una piccola sfida personale. Tra i due non era nata un’amicizia ma una piccola alleanza, fatta di parole complicate e nozioni teoriche. Ma adesso Rosemary era lì per impartire un ordine che Blacke non avrebbe mai eseguito. 

“Non ne sto fuori! Sono il tuo tutor, sono responsabile di te e del tuo rendimento scolastico! Quindi da adesso in poi ascolterai me….” La voce si affievolì quando lo sguardo di Blacke si assottigliò. I suoi occhi divennero lame taglienti e affilate, minacciose, che le trasmisero terrore, un terrore che sembrò paralizzarle ogni cosa e comprese le parole che desideravano uscire.

“Non ascolterò te idiota! Io faccio ciò che mi pare e non mi va di studiare. Trovati un'altra pecorella smarrita per mostrare quanta bontà c’è in te. Schifosa e teatrale bontà che ti serve solo per leccare il culo ai professori... Sei patetica” Rosemary deglutì, trattenendo le lacrime di rabbia, trattenendo la voglia di abbandonare il campo e scappare via, donando la vittoria a quello sbruffone che le stava solo facendo del male. 

“Ascolterai me.. e non sono una lecca culo….” Rosemary pronunciò quelle parole con tono impaurito, sottile, simile ad un mugolio di una bambina alle prese con i piagnistei infantili. Aveva gli occhi curvi in un espressione triste e impaurita e sotto al suo sguardo sembrò ancora più piccola e indifesa. Questi particolari non sfuggirono a Blacke che scoppiò in una risata fragorosa. 

“Cazzo….” Pronunciò quell’imprecazione tra le risa e prima che Rosemary potesse comprendere ciò che stava accadendo sentì le sue labbra poggiarsi con prepotenza sulle sue; sentì le mani cingerle la vita e il muro freddo premere sulla schiena. La baciava con fin troppa forza, come se stesse combattendo con sè stesso, come se fosse diviso tra due forze: una che gli diceva di non farlo e l’altra - quella che sembrò prevalere - di farlo. Quel bacio al sapore di erba sembrò stordire Rosemary, che rimase ad assaporare le sue labbra che non furono spiacevoli, nonostante il mancato romanticismo del luogo e del gesto. Poi sentì quel contatto venire meno e guardò un Blacke del tutto confuso grattarsi il capo rasato, come se non capisse ciò che aveva appena fatto. 

“CAZZO…. CAZZO…. MALEDIZIONE” Imprecò ancora e senza spiegare nulla, senza che lei potesse ribattere, esporgli le sue sensazioni, la lasciò lì, sola, ad assaporare ancora quel bacio e ad ascoltare ancora il suo cuore tremare violentemente…






Rosemary si destò da quel ricordo quando una strana sensazione la fece ritornare al presente. Sentì un gelo su di lei dovuto non solo alla pioggia, che continuava a scendere ininterrotta; un brivido inquietante le passò per la schiena e un leggero formicolìo la colpì la nuca. Sentiva degli occhi scrutarla con insistenza, sentiva la presenza di qualcuno invadere il suo spazio. Si voltò in più punti, in cerca di chi fosse quello sguardo non accertato, che insisteva su di lei. La strada era vuota, ad eccezione di qualche auto che rientrava nella propria abitazione, essendo scesa la sera. Rosemary si guardò ancora intorno rabbrividendo e sentendo la paura invadere ogni fibra del suo corpo; si strinse nel soprabito e decise di rifugiarsi nella stanza d’albergo affittata per tutto il periodo della sua permanenza. Fu accolta dal Concierge, che con eleganza e ospitalità le diede il benvenuto e la condusse verso la reception, che le avrebbe dato la chiave della sua stanza. Rosemary era entrata ed era al sicuro e, nonostante avesse guardato attentamente ogni angolo della strada, la figura incappucciata poggiata ad un muro - completamente oscurata - era sfuggita alla sua attenzione. Quella figura che anonimamente si mischiò ai pochi passanti di quella sera, diretta altrove ma con l’intenzione di ritornare.

 


Hooola..! Eccovi il terzo capitolo che è ancora una volta incentrato su una delle quattro protagoniste, con qualche flashback per farci capire meglio quello che succede nel presente. Man mano che andremo avanti conosceremo altri particolari sia sul passato che sul presente. Che dire, ringraziamo coloro che hanno continuato a seguirci. Un ringraziamento particolare va anche a coloro che ci hanno onorate con una piccola ma significativa recensione.
Al prossimo capitolo, un bacio Whitesnow&Medy

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** "Sospetti..." ***


                 
       4° Capitolo  
 
 "Sospetti..."
 
Isabel attese che i piccoli cristalli dorati invadessero senza fretta e forza la stanza. Attese che il sole sorgesse appena sulla cittadina di Dimwoods, prima di lasciare il tiepido letto che quella notte aveva visto la sua inquietudine; aveva sentito il suo tormento ed era stato l'unico testimone di quel dolore che non trovava nè forma e nè manifestazione. Quel dolore che non aveva mutato i lineamenti rigidi del suo viso, quel dolore che non aveva inumidito e cancellato il luccichìo smeraldino dei suoi occhi. Isabel la sera precedente era rientrata nel suo piccolo appartamento - condiviso con Louise - lasciando al di fuori dimenticando, una volta varcata la porta di casa, il gelo che aveva sentito in quel bosco; quel gelo risvegliatosi con il ritorno di qualcosa che si pensava fosse stato seppellito per sempre sotto cumuli di ricordo e silenzio. Quella notte Isabel era rimasta vigile e rigida nel letto, non riuscendo ad abbandonarsi tra le braccia morbide e sottili della notte, non dandosi la possibilità di spegnere le mille voci che non le permettevano di trovare pace. Quelle voci che la riconducevano sempre a quella notte che le facevano rivivere con nitdia disperazione l'attimo che aveva decreatato il loro futuro, che aveva distrutto quel leggero pizzico di felicità e che - con incredula fortuna - le aveva investite per poi abbandonarle, lasciandole desiderose di ritrovarla e la consapevolezza che mai sarebbe ritornata. Isabel strizzò gli occhi, cercando di scacciare via la stanchezza non solo del corpo ma che aveva investito anche il suo animo.  Fingendo - come il giorno precedente - posò i piedi sul freddo pavimento che la scosse dalla voglia di ritornare a coprirsi e lasciare che il mondo proseguisse senza di lei, senza la sua presenza e il suo intervento. Il rumore delle stoviglie proveniente dalla cucina le fece comprendere che Louise era già sveglio, dedito a donarle un risveglio dolce e romantico. Isabel chiuse gli occhi e, rendendo il cuore rigido, rovinò quella sorpresa che in altre circostanze le avrebbe dipinto il volto di un radioso sorriso. Non trovava il coraggio di guardare Louise e fingere con lui, ANCORA. Quattro anni erano trascorsi e si erano plasmati nel silenzio omertoso su ciò che lei e le altre avevano compiuto; sul negare a Marine il semplice diritto di conoscere il proprio assassino e spiegare il motivo per cui la sua vita le era stata strappata via senza che lei potesse impedirlo. Quel fingere di non saperne nulla, quel restare in disparte alle indagini, fingendo che il suo aiuto non avrebbe potuto rendere le ricerche meno faticose e inutili. Isabel era rimasta in disparte, aveva voltato le spalle codardamente e aveva sigillato le labbra alle domande, zittito la voce, chiuso gli occhi; aveva proseguito senza voltarsi indietro e cercare di dare giustizia, lei che poteva, loro che avrebbero potuto provare. Se Louise lo avesse saputo lo avrebbe perso e con lui tutto ciò che con fatica si era costruita. Ma non riusciva a guardare il suo fidanzato - il suo futuro compagno di vita - negli occhi, continuando a fingere spudoratamente. Non riusciva a sorridere quando nulla sorrideva in lei, non riusciva a restare impassibile alla vista della dedizione che Louise stava impiegando in quelle ricerche, nel tentativo di divenire lui l'eroe di Marine; colui che avrebbe dato il volto del vero assassino. Isabel si catapultò in bagno e si chiuse la porta alle spalle, lasciando Louise solo, non dandogli la possibilità di poterle donare un risveglio migliore. 

"Isabel..." Sentire la sua voce cercarla, delusa di non averla trovata, le fece sentire quelle colpe gravare con maggior violenza su di lei. Cercando di trattenere il tremore che le salì alla gola - che l'avrebbe tradita e che avrebbe storpiato il tono - si schiarì la voce e rispose al suo richiamo dolcemente pronunciato. 

"Sono in bagno..." Rispose, poggiando la fronte sul ruvido legno. Percepì i suo passi avvicinarsi alla porta, per poi allontanarsi. Anch'essi descrivevano la confusione e la sua incapacità di spiegare il perchè di tanto distacco. Isabel aveva tentato di non lasciare che la paura e i sensi di colpa gestissero ogni movimento, ogni espressione; ma quella mattina - come la notte precedente - involontariamente aveva dato agio a quelle emozioni che non erano passate inosservate a Louise. Si staccò dalla porta, liberando il getto d'acqua e si fiondò sotto la doccia, cercando di spegnere i mille pensieri che producevano un rumore assordante nella sua mente. L'acqua calda le fece distendere i nervi ma non fu abbastanza per renderla totalmente tranquilla. Rimase lì immobile, fissando le piastrelle in porcellana lucida e non riuscendo a pensare ad altro; se non che  la notizia si sarebbe diffusa di lì a poco per tutta Dimwods, riportando sulla città un alone di mistero e timore irrisolti. Isabel si coprì con la ruvida asciugamano e - con i piedi ancora umidi - raggiunse la stanza condivisa con Louise che intanto era ritornato in cucina ignorandola del tutto. Il fastidioso ronzio della TV la raggiungeva, senza che lei potesse permettere a quelle informazioni di giungere a destinazione. Si vestì di malavoglia ma i suoi sensi si attivarono involontariamente. Andare a lavoro era l'ultima cosa che volesse fare; trovarsi nel liceo che un tempo lei, Savannah, Faye, Rosemary e.. Marine avevano frequentato e dove adesso Isabel ricopriva il ruolo di insegnante di ginnastica, di sicuro non avrebbe giovato al suo umore e avrebbe fatto riaffiorare solo i ricordi spiacevoli  della loro permanenza in quel luogo. La notizia che provenne dalla Tv la irrigidì completamente, gettandola in un  dimensione di paura e sgomento. Ogni parola del telecronista alla Tv sembrò essere urlata, intensificata e - mischiandosi al battito del cuore di Isabel che accellerò violentamente - fu assimilata alla perfezione dalla sua mente. Il caso Miller era stato riaperto e nuovi indizi erano stati portati alla luce; indizi che forse avrebbero coinvolto anche loro. Ascoltò ogni parola, tremando, lasciando in sospeso ciò che stava facendo.

"Isabel cos'hai?" La voce di Louise sembrò provenire da lontano e la travolse improvvisamente, riconducendola alla realtà e riportandola indietro. Si voltò con ancora il volto perso nel vuoto e accigliandosi mugolò incerta, non avendo colto le sue parole.

"Cosa? Niente, va tutto bene... ero solo sovrappensiero!" Mentì lei, infilando la felpa blu elettrica che le coprì le sottili curve e cercando di riprendere il controllo di sè, di apparire tanquilla e rilassata; abbozzò un vago sorriso, non del tutto convincente, verso il suo fidanzato. Ma Louise non sembrò convincersi delle sue parole e continuava a fissarla con aria sospettosa. Quello era uno degli svantaggi di vivere sotto lo stesso tetto dell'ispettore capo della polizia di Dimwoods.

"Ti avevo appena detto che non credo di farcela oggi per pranzo, alla centrale abbiamo tantissimo lavoro da fare. Sai oggi partono i sopralluoghi per il caso Miller. Con la scarcerazione di Gordon bisogna scoprire dove è avvenuto effettivamente l'omicidio." Nuovamente il viso ed il corpo di Isabel si irrigidirono al suono di quelle parole. Sicuramente anche il bosco sarebbe stato perlustrato e una nuova preoccupazione affiorò alla sua mente: e se avessero trovato le loro tracce lasciate dal loro recente passaggio? Come avrebbe potuto giustificare la sua presenza nel bosco a Louise? Improvvisamente sentì il respiro farsi sempre più corto, il cuore cominciò a battere all'impazzata e Isabel seppe di non poter restare un minuto di più in quell'appartamento, prima che Louise iniziasse a sospettare davvero del suo strano comportamento.

"Capisco, beh allora ci vediamo stasera a cena! Io adesso devo proprio scappare o farò tardi!" Isabel gli si avvicinò frettolosamente e il bacio a fior di labbra che concesse a Louise fece nascere in lui fievoli sospetti che però scacciò subito dalla mente, non riuscendo a credere che per un attimo li avesse evocati. Guardò la sua fidanzata che - senza mai incrociare il suo sguardo - si affettava ad uscire di casa lasciandolo lì, immobile a fissare esitante la porta che si era appena chiusa alle sue spalle.

Non appena uscì di casa Isabel potè nuovamente tornare a respirare, rilassando i muscoli del corpo e del viso che fino ad allora erano stati tanto rigidi da imperdirle i più semplici movimenti. Si trascinò di malavoglia fino alla sua Mercedes-Benz GL blu notte e, prima di partire, si lasciò sprofondare nei morbdii e caldi interni in pelle che per un piccolo istante le donarono un senso di relax. Ma quel piccolo attimo non bastò a scacciare quei torbidi pensieri che si insinuavano nella sua mente e che la stringevano in una morsa di angoscia e paura. Lo sguardo sospettoso che Louise le aveva  rivolto poco prima era bastato per far aumentare maggiormente i sensi di colpa che aveva nei suoi confronti. on sapeva per quanto ancora sarebbe riuscita a reggere quella situazione, er quanto ancora sarebbe stata capace di mentire all'uomo che amava ed ingannarlo per l'ennesima volta. Quel peso cominciava a diventare un macigno insostenibile sulla sua coscienza e nasconderlo agli occhi di Louise ogni singolo giorno era un prospettiva che lanciò Isabel nello sconforto più totale. Calde lacrime le scivolarono sul volto, posandosi salate sulle labbra. Lacrime che fino ad allora aveva trattenuto con forza che avevano lottato e alla fine avevano vinto. Quelle lacrime che non avevano mai avuto il privilegio di rigarle il viso.Per otto lunghi anni aveva dovuto custodire quell'enorme e doloroso segreto non potendo condividere le sue paure e le sue angoscie con la persona che amava. Aveva dovuto tenerelo all'oscuro di una parte della sua vita, nascondendogli le mille notti insonni passate a rimuginare su quella terribile notte. Ed ora che Louise era coinvolto in prima persona nel caso di Marine, Isabel ancora una volta avrebbe dovuto fingere, controllare ogni sua minima reazione o comportamento per non suscitare sospetti in colui che era il suo fidanzato ma allo stesso tempo colui che aveva il compito di svelare la verità; una verità che avrebbe potuto travolgerla. Socchiuse gli occhi, scacciando via quell'inquietudine che quella mattina avrebbe solo rovinato  i suoi soliti progetti. Assaporò l'aria che entrò nei polmoni, facendole male e, ritornando con la mente vigile e ferma, inserì le chiavi nel quadro dell'auto mettendo in moto; ma essa non partì. Provò più volte e, dopo molti tentativi, si decise finalmente a guizzare via e a unirsi al traffico. Le auto sfrecciavano accanto a lei frenetiche, come se avessero più fretta del solito, come se la notizia giunta anche nelle loro case avesse condotto gli abitanti di Dimwoods alla consapevolezza di quanto la vita fosse breve e di quante occasioni non potevano farsi mancare perchè, come successo a Marine, anche loro avrebbero potuto trovare qualcuno tanto macabro e violento da decidere di stroncare le loro vite. Isabel si incamminò lentamente verso l'istituto e non potè evitare di passare per il piccolo e ben curato cimitero della cittadina, dove metri di polvere e terreno accoglievano la salma di Marine; quella salma pianta dolorosamente quel giorno in cui le parole di Padre Gregory l'avevano accompaganata nel sonno profondo e tranquillo, lasciandola nelle braccia della morte...


Era un giorno grigio e pioviginoso e, nonostante si trovassero a metà maggio, le quattro adolescenti che si dirigevano verso la chiesa di Dimwoods furono attraversate da strani brividi di freddo che fecero venir loro la pelle d'oca. Arrivate al cospetto della porta d'ingresso esitarono qualche istante prima di entrare e prendere posto nelle panche di legno poste in ultima fila. Si guardavano intorno spaesate, sentendosi a disagio nel trovarsi lì - in quel giorno - a dare l'ultimo saluto ad una persona che per anni avevano sbeffegiato e tenuto alla larga; una persona di cui custodivano un atroce segreto che non dava di certo alle quattro ragazze il diritto di trovarsi lì quel giorno. Ma un sentimento di compassione e di colpevolezza aveva spinto Savannah, Faye, Rosemary ed Isabel a partecipare al funerale di Marine. La loro presenza era forse un inutile tentativo di scrollarsi di dosso quel peso insostenibile che le attanagliava e quel gesto voleva essere interpretato come una richiesta di perdono per aver interferito con il destino e di non aver saputo evitare quella tragica fine. Nonostante Marine avesse trascorso gli anni del liceo completamente emarginata dal resto del corpo studentesco, quel giorno tutti i loro compagni di scuola si erano presentati per dare a quella ragazza l'attenzione e il dovuto rispetto che aveva sempre cercato di guadagnarsi in vita. L'attenzione di Isabel si spostò sui familiari di Marine ed in particolare si soffermò a fissare la piccola Lola Miller, una bambinetta esile con morbidi capelli neri di appena otto anni che tentava di consolare la madre, abbandonatasi intanto ad un pianto silenzioso ma disperato. Isabel non potè fare a meno di provare ammirazione per quella bambina che ancora troppo piccola per capire cosa realmente fosse successo cercava comunque di allieviare il dolore che, in quel momento, stavano provando i suoi genitori. Padre Greogory fece il suo ingresso nella chiesa e, raggiunta la bara dove il corpo di Marine giaceva immobile, diede inizio al rito funebre:

"Fratelli e sorelle, siamo riuniti qui per salutare un'ultima volta la nostra cara sorella Marine Miller, morta per volere altrui, strappata alla vita quando il tempo era ancora lungo, quando la vita era ancora piena e lei ancora sazia di essa... Era giovane Marine, amava la vita, amava la sua città, la sua famiglia, le sue amiche... ma tutto ciò le è stato privato ingiustamente, con violenza e malignità. Preghiamo per il suo assassino affinchè possa trovare la via del pentimento e si renda conto del suo atto; si renda conto dell'ingiusta volontà che ha preteso di esercitare su di lei. Preghiamo affinchè giustizia venga fatta, preghiamo per Marine, affinchè prosegua per la strada del Signore e arrivi ad esso per rendersi immortale... Il corpo muore ma l'anima vive in eterno.... Preghiamo".
Isabel questa volta si girò in direzioni delle sue tre migliori amiche per esaminarne l'espressioni e si accorse che tutte avevano lo sguardo abbassato come a voler evitare di scorgere la candida bara bianca che padroneggiava al centro della navata.Tutte tranne Savannah che fissava il vuoto con aria indifferente, come se la sua presenza in quel luogo fosse stata data al caso; come se fosse totalmente indiffrente a quel dolore che aleggiava per l'intera chiesa e che si posava su ogni persona presente. Isabel si domandò se quell'indiffrenza ostentata dall'amica fosse reale o se Savannah avesse indossato quella maschera per non mostrare la debolezza e il senso di colpa che in quel momento facevano da padroni all'interno del suo animo. La sua attenzione fu nuovamente richiamata dalla voce di Louise che, in piedi affianco alla bara di Marine, si apprestava a fare il discorso di commemorazione a nome dell'intero liceo di Dimwoods.

"Come Rappresentane d'Istituto mi è stato chiesto di dire qualcosa per Marine... Siamo in chiesa, nella casa del signore e non dirò bagianate inutili... dirò solo la verità. Marine non era una ragazza facile da capire, preferiva nascondersi dietro ad abiti non suoi, ad un look che non le apparteneva, dietro a modi sbagliati che deturpavano il suo vero essere. Marine non ha mai mostrato chi realmente fosse ma qualche volta lo faceva... qualche volta si tradiva e mostrava il suo essere sorridente, la sua spensieratezza di giovane ragazza, quella spensieratezza che le è stata strappata via.... Marine non meritava una sofferenza tale, non meritava di essere seppellita e nascosta in un modo cosi BARBARO, privandole giustizia, privandole di una dignitosa sepoltura. Oggi voglio ricordare Marine come la mia partner di Biologia; la stessa che quando un giorno il professore le chiese di sezionae una rana si alzò rifiutandosi, preferendo una F piuttosto che dissacrare un corpo.Voglio ricordare Marine nella sua gioventù, quella gioventù che le è stata sottratta e che non ha avuto il tempo di terminare e prendere il suo corso... Addio Marine, ci mancherai..." Un tenue applauso accompagnò la fine di quel discorso e Louise tornò a prendere il suo posto tra le prime file.

Le quattro ragazze non poterono fare a meno di sussultare al sentire la parole "sepoltura" e sperarono che nessuno si fosse accorto di quel loro brusco movimento. Soprattutto Isabel si augurò di non essere stata vista da Louise che, per tutto il discorso, aveva avuto lo sguardo fisso nella sua direzione; non si vedevano da giorni ormai. Da quando, la notte dopo l'omicidio di Marine, Isabel si era chiusa in casa rifiutando di parlare con tutti, anche con lui e biascicando qualche scusa campata in aria che avevano insospettito Louise, il quale però aveva preferito non insistere o fare pressioni sulla sua ragazza e deciso ad affrontarle appena si fosse presentata l'occasione. Dopo il discorso commovente di Louise, padre Gregory si accinse a benedire la bara e a concedere un ultimo e straziante saluto alla famiglia di Marine. La piccola Lola si avvicinò titubante alla bara posta al centro dell'altare. Non realizzando realmente cosa fosse accaduto, poggiò la piccola manina su di essa, salutando per l'ultima volta la sua cara sorella. E fu allora che la maschera d'indiffrenza che Savannah aveva portato fino a quel momento crollò. Non riuscendo più a sostenere la tensione che rivestiva ogni fibra del suo corpo, la ragazza si alzò di scatto, voltandosi in direzione dell'uscita. Ma fu bloccata da Faye che, afferrandola per un braccio, costrinse Savannah a sedersi nuovamente e le parlò quasi sussurrando:

"Non puoi andartene! Dobbiamo prima salutare la famiglia di Marine. O vuoi che qualcuno si insospettisca?" Mai prima d'allora Faye aveva osato rivolgersi ad una di loro in quelo modo. Il tono duro che aveva usato aveva deformato la sua voce che, da calda e morbida com'era sempre stata, si era tramutata in un suono aspro e glaciale. L'espressione che aveva assunto Faye mentre pronunciava quelle parole fece rimanere tutte di stucco e la stessa Savannah non osò contrombattere a quell'ordine che le era stato impartito. Si rimise a sedere immobile e con lo sguardo basso; per la prima volta intimidita da qualcuno e quel qualcuno era proprio la sua migliore amica. Le quattro ragazze aspettarono che arrivasse il loro turno e si avvicinaro alla famiglia Miller per porgere le loro condoglianze. Quando lo sguardo di Carol Miller si posò su di loro, la donna le accolse con un sorriso familiare; come se già avesse fatto la loro conoscenza. E come stabilito fu Faye a prendere la parola.

"Signori Miller le porgiamo le nostre più sentite condoglianze" Il tono di poco prima era sparito e la sua voce era tornata come sempre calda e rassicurante; in quel momento le si poteva leggere un tono di dolore e rammarico, segno del suo reale stato d'animo.

"Vi ringrazio ragazze per la vostra presenza. Marine sarebbe stata felice di sapere che le sue migliori amiche non l'hanno mai abbandonata. Sapete, lei non faceva altro che parlare di voi, di elogiare la vostra gentilezza e il fatto che in tutti questi anni Marine abbia avuto qualcuno su cui contare al liceo mi ha sempre fatta stare tranquilla. Sappiamo benissimo che la sua vita a scuola non era per niente facile ma sapere che c'era qualcuno che nonostante tutto la accettava mi rallegrava". Le parole, sussurrate tra lacrime, lasciarono spiazzate le ragazze che non compresero a cosa la donna si stesse riferendo. Savannah scoccò un'occhiata colma di domanda a Rosemary che scrollò appena le spalle, facendole comprendere che ne sapeva quanto lei. Isabel guardò Faye, consigliandole, con un accennato cipiglio, di dire qualcosa e far cadere quell'alone di imbarazzo appena sceso su di loro. Fay rimase immobile e spaesata, allora Isabel si decise ad intervenire e, schiarendosi la gola, mentì con un talento che non credeva di possedere.

"Signora Miller, Marine è stata molto importante per noi e perderla è stato davvero doloroso...." La voce tremava ma, con stupore delle presenti, riuscì a mantenere la calma e riuscì a non tradirsi. Allungò la mano verso la donna stringendogliela, continuando quella farsa con magnifico talento. Carol Miller stava già soffrendo abbastanza e le quattro ragazze non se l'erano sentita di darle un ulteriore dispiacere; come sempre avevano deciso di mentire e nascondere la verità. Savannah soffiò stancamente, voltando le spalle a quella scena che la stava mandando in fibrillizzazione. Mentire in modo così sfacciato sarebbe stato compito suo ma in quel momento sembrò che le parti fossero state ribaltate, rendendola del tutto incapace di parlare. Frenando la minima bugia che, in casi diversi, sarebbe balzata fuori con facilità.

"Marine mi ha sempre detto quanto foste legate a lei. Mi raccontava sempre delle vostre serata passate al cinema o nel vostro luogo segreto, il bosco. Devo dire che mi ha sempre messo un pò di timore sapervi in quel posto." I volti delle quattro ragazzi si pietrificarono all'istante non solo per le bugie che per anni Marine aveva raccontato a sua madra - e di cui non riuscivano a comprendere il motivo  - ma anche del fatto che Marine era già stata nel bosco prima di quella terribile notte. Le aveva seguite per chissà quanto tempo, le aveva spiate, aveva ascoltato i loro discorsi ed era venuta a conoscenza dei loro più intimi segreti. Isabel rivolse uno sguardo alle sue amiche e capì dai loro volti che la situazione stava diventando instostenibile e che quello era il momento di andarsene. Assumendo nuovamente uno sguardo ed un tono cordiale si rivolse alla madre, cercando le parole adatte per congedarsi. Ma fortunatamente in loro aiuto arrivò la preside del Liceo di Dimwoods e Carol Miller, prima di rivolgere la sua attenzione a quest'ultimo, rivolse un sorriso alle quattro ragazze che ricambiarono indecise, prima di voltarsi e raggiungere l'uscita della chiesa. Appena furono fuori all'aria aperta, i loro volti poterono rilassarsi e i loro cuori ricominciarono a battere regolarmente. Ma non appena Isabel posò il suo sguardo su una figura appoggiata ad un auto difronte a lei capì che era troppo presto, almeno per lei, per potersi rilassare. Louise intanto si era staccata dal suo fuoristrada ed avanzava deciso verso il quartetto, senza però togliere gli occhi di dosso alla sua ragazza.

"Isabel se non ti dispiace vorrei darti un passaggio a casa... ho bisogno di parlarti." Il tono duro e risoluto di Louise non ammetteva repliche. Erano giorni che lo evitava, temendo di essere troppo trasparente ai suoi occhi. Ma ora che lui era lì davanti a lei, non poteva tirarsi indietro; annuendo appena con il capo, Isabel si rivolse alle sue amiche.

"Ragazze ci sentiamo questa sera" E detto ciò, si avvio verso Louise che, cingendole appena la vita con una mano, la scortò verso la sua auto. Nonostante avesse dichiarato di doverle parlare per quasi tutto il viaggio Louise era rimasto in silenzio, mantenendo sempre gli occhi fissi sulla strada con il viso tirato e teso. Isabel dal canto suo si sentiva enormemente in imbarazzo per quel silenzio che era scesa tra lei ed il suo ragazzo ma non aveva il coraggio di rompere il ghiaccio, anche perchè non sapeva assolutamente cosa dire. Ma come se Louise avesse letto nella sua mente si decise a parlare.

"Perchè mi eviti?" Louise rivolse quella domanda che ronzava nella sua mente da una settimana; domanda che non aveva trovato alcuna risposta. Aveva rivissuto vari momenti, ipotetici, che gli avrebbero fatto comprendere quell'atteggiamento distante e ingiustificato di Isabel; ma nulla affiorò alla sua mente, nulla era riuscito a spiegargi il perchè di quel distacco improvviso, di quella freddezza e di quelle telefonate a vuoto. Sentì Isabel muoversi nervosamente al suo posto e con la coda dell'occhio la vide abbassare lo sguardo, come se quella domanda l'avesse abbattuta, l'avesse schiacciata pesantemente.

"Non ti evito..." Mentì lei, mordendosi la lingua e frenando altre bugie. 

"Non fingere con me, Isabel..." Il fuoristrada frenò bruscamene appena in tempo. Le auto davanti erano ferme in strada e nuovamene il silenzio cadde tra loro. Isabel scostò lo sguardo e si soffermò a osservare il cielo che quella mattina era di un grigio pallido, con qualche leggero raggio di sole che, timidamente, mostrava la sua presenza. Non si annunciava pioggia ma il cielo sembrava essersi perso in una triste malinconia. Gli occhi di Louise divennero sempre più insistenti; erano puntati su di lei, in cerca di qualcosa che potesse aiutarlo a comprendere il perchè di tutto ciò. Aveva notato piccoli particolari quella mattina che avevano farto sorgere in lui dubbi e sospetti.

"Anche in chiesa durante il mio discorso tu e le tue amiche vi comportavate in modo strano. Cosa sta succedendo Isabel?" Lo sguardo di Louise questa volta era preoccupato, angosciato per quel suo strano atteggiamento. Isabel chiuse gli occhi, sentendo quelle parole calcare nella sua mente il ricordo della salma di Marine, il ricordo di pochi attimi prima, dello sguardo stanco e triste della madre, del ricordo - tristemente tenero - della piccola Lola, incapace di comprendere cosa ci facesse sua sorella in quella bara in legno.

" Nulla, Louise. Non pretendere di vedermi felice... abbiamo appena seppellito una nostra amica..."

"Da quando consideri Marine un'amica?" Louise sentiva che Isabel gli stava nascondendo qualcosa. Il dispiacere della morte di Marine aveva coinvolto molti, nonostante la ragazza non avessse veri amici a Dimwoods. Ma quella parole suonò cosi stonata da far sorgere nuovi dubbi in lui.

"Louise stiamo appena rientrando da un funerale. Cavolo non puoi farmi queste domande!" Isabel sentì la pasienza scivolarle via dalle mani e scoppiò in un leggero impeto di rabbia.

"Ok, scusa" Louise rimise in moto e, lasciando perdere del tutto i sospetti, le domande e soprattutto Isabel che sembrava essere sotto pressione, ripartì dando al silenzio la possibilità di accompaganre il loro breve viaggio. Ma appena arrivati davanti casa sua, si rivolse nuovamente alla sua ragazza:

"Se ci fosse qualcosa che non va, che ti preoccupa, me lo diresti vero?" Louise non sapeva cos'altro dire. Non volendo farle nuovamente delle pressione; voleva solo farle comprendere che lui era lì per lei e lo sarebbe stato per sempre..

"Certo che te lo direi. Ma davvero va tutto bene... sono solo un po' provata e ho bisogno di dormire.Ti chiamo stasera..." Dettò ciò Isabel si affrettò ad uscire dalla macchina; senza donare a Louise un gesto tenero si allontanò frettolosamente. Non poteva crederci! Per la prima volta in vita sua aveva mentito all'uomo che amava. Aveva dovuto farlo, aveva dovuto fingere. Non riusciva a non farlo. Ormai era diventato facile fingere che nulla fosse accaduto; in quella settimana le bugie erano divenute parte integrante e necessaria della sua vita...



E allora non sapeva quante altre bugie avrebbe dovuto raccontargli, pensò Isabel, ritornata al presente non appena la sua auto entrò nel parcheggio del liceo riservato ai docenti. Subito dopo aver conseguito la mini-laurea in scienze fisiche e motorie, il liceo di Dimwoods aveva offerto ad Isabel il posto di insegnante di educazione fisica. Quest'ultima inizialmente era stata restìa nell'accettare l'incarico; ma alla fine si era lasciata convincere da suo fratello Josh e dallo stesso Louise. Essendo leggermente in ritardo per la prima ora di lezione, Isabel procedette con passo spedito verso la palestra. Il suo passaggio per i corridoi non mutati del vecchio liceo furono seguiti da sguardi scrutatori che si domandavano, silenziosamente, se lei potesse conoscere dettagli accurati su quella vicenda, riportata alla luce dopo otto anni di tranquillo e omeroso silenzio. Ma Isabel notò a malapena quegli sguardi: troppo assorta nei suoi pensieri, non notò neanche che aveva superato di un bel pò l'entrata della palestra. Quella mattina di sicuro non avrebbe combinato niente di buono pensò, tornando indietro e prendendo questa volta la direzione giusta. Gli alunni del terzo anno erano già nella palestra ad attenderla. Appena Isabel fece il suo ingresso notò qualcosa di strano: quasi tutti i ragazzi erano posti in semi-cerchio e porgevano i loro sguardi rapiti da qualcosa che Isabel inizialmente non riuscì a scorgere. Sentiva solo urla provenire dal centro di quel cerchio e, quando si fu avvicinata abbastanza, riuscì a vedere cosa o meglio chi lo occupava. Quattro ragazzi ridevano e sbeffeggiavano una ragazza minuta dai lunghi e morbidi capelli bruni; ma quest'ultima non dava segnali di risposta: se ne stava lì, con la testa bassa, senza mostrare la minima intenzione di reagire. E, prima che Isabel potesse intervenire per portare ordine e cominciare la lezione, fu immobilizzata dalle parole che uscirono dalle bocche di quei ragazzini.

"Tua sorella era pazza ma tu hai un cervello da gallina. Non mi stupisco che si sia uccisa! Averti come sorella era uno strazio per lei! Non so come tua madre abbia potuto procreare due creature così: Marine e Lola Crazy Miller!" Una fragrosa risata di scherno accompagnò quelle offese che, come lame taglienti, avevano trafitto il cuore della povera ed indifesa Lola Miller. La dolce e piccola Lola che rimaneva lì immobile con gli occhi lucidi ma senza proferire una singola parola. Isabel di getto fu riportata a tanti anni prima, quando anche lei era stata al posto di quei ragazzini e, come loro, anche lei era rimasta impassibile alle offese che la maggior parte degli studenti del suo liceo rivolgeva a "Marine Crazy Miller" una ragazzina pazza e squilibrata, oggetto di insulti e scherzi di pessimo gusto. Isabel stava rivivendo giornate come quelle, quando al centro dell'attenzione c'era stata Marine Miller che, mascherandosi e nascondendo il volto addolorato e stanco di quelle continua prese in giro, aveva proseguito per la sua strada senza dare la soddisfazioni a lingue melliflue di adolescenti fin troppo sinceri, incapaci di tenersi per se commenti velenosi. Marine aveva sempre mostrato un animo diverso, una personalità in contrasto con gran parte dei modelli standard presenti in quella scuola. Quella personalità che non l'aveva condotta su una giusta strada. Era sempre stata derisa Marine, da tutti, da lei, da loro. Aveva sempre sentito su di se commenti poco carini e piacevoli, aveva sempre trattenuto con forza le lacrime dolorose, nascondendo quel dolore, sommergendolo e cancellandolo dalla sua mente in modo sbagliato. Dando al suo corpo sostanze velenose, avvelenandosi , preferendo piccoli attimi di incoscienza chimica, piuttosto che interi giorni   di realtà pungenti, dure, velenose. Isabel riviveva quelle scene, odiando se stessa, sentendo colpe farsi strada in lei e sussurrarle all'orecchio quanto fossero state ingiuste; facendole provare disgusto per se stessa e per le sue amiche che non avevano mai impedito nulla. Improvvisamente si sentì in dovere di intervenire, di difendere Lola non solo in quanto compito di un insegnante ma perchè Isabel in qualche modo voleva redimersi da errori fatti in passato, dal silenzio che troppe volte aveva avuto la meglio su di lei.

"Ora basta! Che cosa sta succedendo?" Il tono autoritario che provenne dalla figura di Isabel fece immediatamente zittire l intera palestra e i ragazzi che, un secondo prima stavano prendendo in giro Lola Miller, ora non erano altro che studenti impauriti dall'arrivo della Professoressa Martin. Isabel non aspettò la loro risposta e, ponendosi al centro del cerchio, rivolse agli alunni uno sguardo severo dal quale però non potè fare a meno di lasciar trasparire il disprezzo che in quel momento provava per loro.

"Voi quattro, immediatamente nell'ufficio del preside!" Una bella sospensione non gliel'avrebbe tolta nessuno, pensò soddisfatta Isabel.

"Ma professoressa Martin noi..." Uno dei quattro ragazzi mugugnò un flebile protesta ma fu fulminato all'istante dallo sguardò assassino dell'insegnante. Senza aggiungere altro gli alunni puniti sgusciarono in silenzio verso l'uscite della palestra, diretti all'ufficio del Preside. Isabel immediatamente si avvicinò a Lola, la quale continuava a stare lì immobile, combattendo contro le lacrime che prepotenti volevano scivolare lungo il visino smunto; sollevò lo sguardo, non appena le braccia rassicuranti di Isabel furono intorno alle sue spalle.

"Vieni, andiamo in infermeria" Lola esitò qualche istante sul viso di Isabel, guardandola con occhi familiari. Continuando a restare in silenzio la seguì lontano dai suoi compagni di classe che erano rimasti imbambolati ad assistere il suo salvataggio. Venne sorretta dalle forti braccia della sua insegnante che, prima di uscire dalla palestra, si volse nuovamente verso il resto degli studenti.

"Pretendo che restiate buoni e calmi fino al mio ritorno intesi?" E senza aggiungere altro ripresero a camminare dirette verso l'infermeria.
Camminarono in silenzio lungo i corridoi deserti della scuola ma le braccia di Isabel erano sempre strette intorno a Lola, come se avesse paura che il fragile corpicino della ragazza potesse cedere da un momento all'altro. E quando finalmente entrarono nell'infermeria, al riparo da occhi ed orecchie indiscrete, Isabel si fermò ad analizzare la sottile figura di Lola, troppo magra a parer suo; il suo volto, pallido e delicato, comunicava dolcezza e innocenza. Non assomigliava per niente a Marine, se non per l'impressionante magrezza. Ogni tratto di lei era l'opposto della sorella maggiore. L'arrivo dell'infermiera, la signorina Torres, interruppe lo scambio di sguardi tra Isabel e Lola; con un sorriso raggiante, diede ad entrambe la possibilità di muoversi in quel luogo come se fossero in casa propria.

"Infermiera Torres, è possibile avere un po' d'acqua?" La richiesta della Professoressa fu colta subito e, senza farla attendere, le fu portato un bicchiere monouso contenemte acqua fresca che ridiede a Lola la possibilità di ingoiare le lacrime di umiliazione. Isabel riprese a fissarla, volendosi assicurare che stesse bene o almeno meglio rispetto a pochi attimi prima. Istintivamente, senza limitare o sopprimere quell'azione, le accarezzò il capo con una dolcezza che, in casi diversi, avrebbe riservato solo a Louise. Si sentiva in debito con quella ragazzina; sentiva il bisogno di assicurarsi che stesse bene, come se le colpe la inducessero a quella rassicurazione. Erano piccoli segni quelli, piccoli messaggi del fato che le stavano comunicando che ben presto molte cose sarebbero cambiate e il caso Miller avrebbe ritrovato nuovi indizi che avrebbero messo una nuova luce su ogni cosa. Per il momento però, sembrava volersi solo divertire tormentandola, mettendole sotto il naso vecchi ricordi e sensi di colpa che non poteva impedire che riaffiorassero.

"Come va adesso?" I grandi occhi di Lola si spostarono su Isabel e sfoderò il suo miglior sorriso: accennato e poco visibile, l'unico in grado di evocare in quel momento; annuì, rassicurandola.

"Molto meglio adesso... Devo ringraziare te" Isabel per un attimo tralasciò quel suo rivolgersi così confidenziale. Ma quando Lola ritornò a stringere con nervosa pressione il bicchiere in plastica - che piano si accartocciò tra le sottili mani - ripensò al modo con cui si era rivolta a lei. Non che fosse fiscale ma Lola poche volte le aveva rivolto la parola e quelle poche volte si erano limitate ad educati saluti.

"Sai... io mi ricordo di te e anche delle tue amiche..." La sottile voce di Lola riaffiorò, debole, pacata, tranquilla: esattamente come lei. Teneva gli occhi bassi sul bicchiere monouso e stringeva forte, come se ciò che stava rievocando le facesse male. Isabel ingoiò a vuoto, sospettando a cosa lei si riferisse. Una sola volta lei, Savannah, Rosemary e Faye avevano incontrato quella ragazzina; l'unica volta che non avrebbe dimenticato facilmente. Sembrò rivederla poggiare la paffuta mano, mutata esattamente come lei, sul feretro in legno, porgendo l'ultimo saluto a Marine, abbandonandola nelle braccia della terra. Attese che continuasse e quando lo fece i suoi sospetti divennero reali.

"Eravate presenti al funerale di Marine... avete parlato con mia madre..." Non accennava a voler mostrare l'espressione che quei ricordi le provocavano. Il viso basso non permetteva ad Isabel di scorgere nei suoi occhi un ipotetico dolore o un sorriso di infelicità. I capelli castani contribuivano ad ostruire la visuale.

"Si, anche io mi ricordo di te" Aggiunse Isabel, incapace di dire qualcosa di sensato. Rievocare quel momento le fece mancare un battito, ricordare la codardia, le menzogne raccontate a chiunque si avvicinasse a loro. Scappare dalla reltà. Nuovamente era tutto poggiato alla memoria, nitida e precisa.

"Marine parlava sempre di voi, diceva che eravate le uniche amiche che aveva..." Quelle parole si ripeterono con la medesima nenia, esattamente come la signora Miller aveva fatto quel giorno. Lo stomaco divenne un macigno e i sensi di colpa attanagliavano le budella. L'innocenza della ragazza era visibile nella voce che tracciava piano toni pacati e calmi, rievocando di malavoglia attimi che forse non ricordava realmente.

"Però..." La precisazione che ne sarebbe conseguita gettò su Isabel della suspance. Quel però che sembrava voler spiegare che lei non era come gli altri ma aveva scorto qualcosa in quelle bugie che la sorella, immotivatamente, si era prodigata - un tempo quando le era ancora possibile - di raccontare.

"Ho sempre saputo che non era vero. Anche se ero abbastanza piccola sapevo riconoscere quando mia sorella mentiva... Marine inventava storie  e scuse su di voi solo per poter uscire di casa." Fu come presagito. Lola conosceva la sorella meglio di chiunque altro e, nonostane la sua giovane età, era stata capace di poter individuare la bugia in quelle scuse convincenti che avevano ingannato i genitori, i quali erano stati felici di lasciare che la propria bambina potesse frequentare brave e sincere ragazze come loro; inconsapevoli però delle cattiverie e colpi bassi che le erano stati inflitti. Isabel sembrò incapace di emettere ogni tipo di suono: rimase lì immobile, scioccata da quelle inaspettate dichiarazioni e non sapendo cosa rispondere, se confermare o smentire quanto aveva appena detto Lola. Ma la ragazzina come se potesse leggere in lei la sua esitazione continuò nel suo monologo.

"Marine aveva molti segreti... ma allora ero troppo piccola per poter scoprire qualcosa e, quando fu trovato il suo corpo senza vita in quel cantiere, sapevo che non era stato quell'uomo ad ucciderla. Sai, negli ultimi giorni della sua vita Marine era più strana del solito: usciva di notte e stava sempre al telefono. Credo che si trattasse della stessa persona... la stessa persona che molto probabilmente l'ha uccisa..."

"Lola perchè mi stai dicendo queste cose?" Isabel aveva finalmente trovato il coraggio di parlare, di porre quella domanda che esprimeva tutti i dubbi e le incertezze che fino a quel momento l'avevano attanagliata. Perchè Lola le stava confidando quei suoi più intimi pensieri? Forse sospettava di lei, delle sue amiche. Forse in qualche modo la ragazzina aveva scoperto che anche loro, in un certo qual modo, erano coinvolte nella morte di sua sorella. Aspettò con ansia la risposta a quella domanda che era stata pronunciata con timore.

"Perchè ho intenzione di scoprire chi ha realmente ucciso mia sorella e perchè non aspetterò che la polizia faccia le sue indagini. Ha già sbagliato una volta! E poi so che posso fidarmi di te e delle tue amiche; nonostante tutto quel giorno in chiesa avete omesso particolari che avrebbero distrutto mia madre, più di quanto non lo fosse già." Lo sguardo di rispetto che Lola le riservò fece sentire in colpa Isabel. Se solo la ragazzina fosse stata al corrente di quello che avevano fatto al corpo di Marine quella terribile notte, avrebbe di sicuro cambiato la sua opinione su lei e le amiche. Non le avrebbe di sicuro confidato quei suoi sospetti e l'intenzione di scoprire da sola l'assassino di sua sorella. Il suono della campanella sembrò riscuoterla da un sonno profondissimo e, cercando di assumere un pò di contegno, Isabel si alzò dalla sedia che aveva occupato fino ad allora. Prima di andarsene si soffermò ancora una volta sul viso di Lola che rimaneva lì, a fissarla di rimando con una strana espressione che Isabel non riuscì a decifrare.

"Grazie ancora dell'aiuto professoressa Martin."Come se il suono della campanella avesse decretato la fine delle sue confessioni, Lola ritornò alle formalità, rivolgendosi ad Isabel come se fosse un insegnante qualunque. Quest'ultima, dal canto suo, decise di non soffermarsi troppo su quella questione; la mattinata era già stata densa di avvenimenti e l'unica cosa che Isabel desiderava fare era starsene un po' per conto proprio e liberare la mente da quel flusso di pensieri che ininterrottamente stava attraversando la sua mente.

"Era mio dovere farlo." E senza aggiungere altrò si allontanò dall'infermeria e dalle confessioni che poco prima avevano portato nuovi dubbi e tormenti nel suo animo.


**


Per tutto il resto della giornata però Isabel non potè fare a meno di pensare alle parole di Lola. E ancora una volta le sue riflessioni ricaddero su quel giorno in chiesa e a quanto aveva detto la signora Miller. Perchè mai Marine aveva usato loro per mentire alla mamma? E soprattutto dove andava - o meglio - da chi andava quando mentiva ai suoi genitori? Troppi segreti si celavano ancora sulla tragica fine di Marine; segreti che erano rimasti sepolti per tutti quegli anni ma che adesso sembravano voler riemergere. Segreti che coinvolgevano anche loro e che, a quanto pareva, non c'entravano nulla con quello che avevano fatto quella notte. Isabel non sapeva se avrebbe dovuto contattare le altre per riferire loro della conversazione avuta con Lola. Dopotutto erano state dette cose importanti, cose che riguardavano anche loro. La mente di Isabel lavorava ininterrottamente ma c'erano troppe domande a cui non sapeva dare una risposta; domande che in quel momento sembravano di estrema importanza per donare alla sua vita la serenità che ormai cercava da tempo. Forse avrebbe dovuto aiutare Lola a scoprire il vero assassino di Marine e mettere fine a quella tormentata questione che la perseguitava da anni. Ma immediatamente pensò a Louise, al fatto che fosse proprio lui il responsabile delle nuove indagini sul caso Miller. Louise inconsapevolemente la stava costringendo a rigettarsi in quella menzogna e nascondergli particolari scottanti. Non poteva parlarne con lui, non poteva svelare  al suo fidanzato - che tra lì a qualche mese sarebbe diventato suo marito - i tormenti che non facevano altro che tamburellarle la mente, facendo un fracasso infernale; non poteva farlo. Da quando Louise aveva deciso di prestare alla comunità la sua perspicacia, la sua dedizione, il suo talentuoso cervello. Louise e Isabel navigavano, per la prima volta, su due linee differenti e contrastanti. Mentirgli era l'unica soluzione che Isabel poteva considerare ovvia. I sospetti di Lola sarebbero serviti a lei e le altre nell' occultare, ancora, il loro coinvolgimento di otto anni prima.  L'assassino sarebbe stato scovato dalla polizia ma i tormenti erano riferiti soprattutto alla possibilità che le loro tracce sarebbero potute venire a galla, infangando il loro ruolo, gettando su di loro sospetti e accusandole di un qualcosa dettato dalla paura e dall'incapacià di ragionare che quella notte era stata padrona dei loro gesti. Isabel si sentiva tesa e nervosa e il lieve mal di testa che l'aveva accompagnata per tutta la giornata stava diventando sempre più forte, martellandole le tempie e rendendola ancora più inquieta. Quando finalmente il suono della campanella decretò la fine delle lezioni, Isabel si avviò verso la sua auto con il solo desiderio di andare a casa e rilassarsi sul suo comodo divano e lasciare i pensieri e le paura fuori dalla sua mente.
Ma non appena Isabel varcò la soglia di casa, s'imbattè nella figura di Louise che, seduto su una poltrona del salotto, aveva gli occhi fissi sulla porta d'ingresso, come se stesse aspettando il suo arrivo da un momento all'altro.

"Ehi ciao, non mi aspettavo di trovarti qui! Pensavo fossi impegnato in commissariato." Isabel cercò di celare lo stupore e lo sconcerto di esserselo ritrovato difronte, al buoi e in quella posa inquietante.

"Già ma sono tornato prima... devo parlarti!" Il tono serio e austero che Louise usò fece capire ad Isabel che nuovi guai erano all'orizzonte e non potè fare a meno di pensare che avesse scoperto qualcosa su quella notte; qualcosa che poteva mettere in serio pericolo lei e le altre. Ma soprattutto che poteva minare seriamente alla stabilità del suo rapporto con Louise.

"E' successo qualcosa di grave?" Isabel distolse lo sguaro da Louise, puntandolo sulle chiavi che tintinnarono nervosamente, fingendo indifferenza. Le posò sul piattino posto all'ingresso e puntò verso la cucina, con sguardo schivo e freddo che non sfuggì a Louise. La seguì a passi pesanti, spazientiti da quegli strani comportamenti che forse avevano trovato una risposta.

"Mi ascolti Isabel?" Lo disse quasi urlando ed Isabel riuscì a trovare in tempo appoggio al tavolo. Si sentiva schiacciare sempre più, sentiva pressione ovunque e adesso anche il tono alterato di Louise sembrava chiederle di urlare a squarciagola cosa nascondesse dentro di lei.

"Si  ti ascolto" Fu quasi impercettibile la voce che diede risposta all'urlo di Louise. Il capo le doleva, come se mille aghi lo trafiggessero di parte in parte; come se martelli rimbombssero dentro di lei con violenza inaudita. Sentiva lo stomaco sobbalzare e il bisogno di trovare conforto e tranquillità altrove.I suoi occhi si posarono sull'anello che occupava spazio sulla mano del cuore. E brillava dispettosamente, come per ricordarle che quella promessa racchiusa in lui stava venendo meno, come per dirle che non meritava quell'amore eterno che si sarebbero giurati davanti a Dio. Sentì il bisogno di scappare, perchè Louise non meritava quelle bugie, non meritava quella meschinità..

"Isie, ho da dirti una cosa MOLTO importante, pretendo la tua attenzione" Sentì i passi farsi vicini ma non sentì l'abbraccio dolce che era solito riservarle. Non sentì il suo profumo invaderla e rassicurarla che tutto andava bene, che quell'incubo era solo frutto dei suoi sogni. La voce era autoritaria e piatta, come se ciò che stava per pronunciare facesse male ance e lui; come se il peggio fosse riservato a quelle parole.

"Oggi abbiamo riesaminato gli effetti personali che Marine Miller aveva addosso al momento dell'omicidio, lasciate dimenticate negli archivi... ed ho trovato questo..." Il luccichìo della collanina, conosciuta E familiare, la colpì con violenza. Le penzolava davanti agli occhi e la presenza di Louise era viva alle sue spalle, come se tra loro si fosse formata una lastra di tensione e rivelazioni scomode. Sentì il sangue raggelarsi nelle vene e tutto intorno inziò a vorticare velocemente. Le labbra divennero secche e il flebile sussurrò fu abbastanza per destare altri sospetti in Louise.

"Ma questa è..." Le parole le morirono sulle labbra, mentre continuava a fissare il ciondolo di Tiffany appartenuto a Savannah e che Isabel, tanto tempo prima, aveva strappato dal collo di Marine davanti all'intera mensa del liceo. Ed ora non riusciva a spiegarsi come quel ciondolo potesse essere presente nelle mani di Louise che intanto non le toglieva gli occhi di dosso, pronto a scorgere ogni sua minima reazione. La presa di Louise era aggressiva e violenta, mai appertenutagli prima, ma chiaro segno che la pazienza aveva raggiunto il limite. La fece girare con forza verso di lui, permettendosi di guardarla negli occhi dove scorse una luce diversa, una paura che incupiva lo splendore dei suoi occhi. Le labbra di Isabel tremavano e il viso era smorto, pallido e sudaticcio. Quell'alone di sudore, segno di colpevolezza.

"Spiegami cosa DIAMINE ci faceva la collana di Savannah tra i reperti dell'omicidio di Marine Miller!!"Isabel sentì le difese, la forza avuta fino ad allora, la menzogna che la stava traformando, crollare e abbandonarla. Il tono alterato e sospettoso con cui Louise le parlò fece comprendere a Isabel che la situazione stava peggiorando. Ora il suo fidanzato - nonchè ispettore capo della polizia di Dimwoods - aveva dei sospetti su di lei e sulle sue amiche. Non sapeva cosa dire, come giustificare la presenza di quell'oggetto che era appartenuto ad una delle sue migliori amiche; anche perchè non ne aveva la minima idea. L'ultima volta che aveva visto quel ciondolo era stato quel pomeriggio a scuola, quando era ritornato nelle mani della legittima proprietaria. Ma, a pensarci bene, dopo quel giorno non l'aveva più visto al collo di Savannah. Possibile che Marine fosse riuscita nuovamente a sottrarglielo? Isabel balbettò, incapace di produrre scusanti in grado di salvarla, di ingannarlo. Forse nel suo profondo voleva smetterla con quella farsa e involontariamente stava mandando a Louise i segnali di una richiesta di aiuto.

"Io... non lo so..."Quel flebile sussurro incerto e spaventato, furono le uniche parole che uscirono dalla bocca di Isabel che continuava a reggersi al tavolo, come se da un momento all'altro sarebbe potuta sprofondare. Louise continuava a fissarla con due occhi che non appartenevano al suo fidanzato, all'uomo che amava. Colui che in quel momento la stava sottoponendo ad una sorta di interrogatorio era l'ispettore capo Louise Stewart che non aveva intenzione di mollare la presa finchè non avesse avuto delle risposte soddisfacenti. Sentì che la rabbia stava montando in lui difronte alla sua risposta evasiva. Quello che fece dopo lasciò Isabel profondamente provata.

"Isabel, maledizione, mi trovo in una posizione scomoda! DIMMI COSA DIAVOLO SAPETE TU E LE TUE AMICHE!" Isabel era una bambola in pezza nella sua presa che, forte, non la smetteva di strattonarla; sfogando quella rabbia che cresceva sempre più in lui, visibile nel suo sguardo adirato, nella sua voce rabbiosa. Isabel sentì lacrime di terrore scivolarle involontariamente sul viso e con forza si sottrasse a lui.


"NON LO SO! NON LO SOO!" Urlò di conseguenza e, stanca , spossata e sconvolta, lo gettò di lato per indirizzarsi a passi affrettati in camera da letto, dove si chiuse tutto alle spalle con un tonfo sordo. Lousie fissava il punto in cui poco prima c'era stata Isabel. Le mani tremavano e un senso di colpevolezza lo colpì in pieno petto. Non aveva mai trattato Isabel in quel modo. Non aveva mai urlato contro di lei; ma in quel momento una forza superiore, incapace da ignorare, si era impadronito di lui distruggendo la perfezione creatasi tra loro in quegli anni di convivenza e amore.
Una volta chiusasi la porta della stanza da letto alle sue spalle Isabel si liberò in un pianto esasperato e lì, da sola, rannicchiata in un angolo diede sfogo a quella tensione che ormai la possedeva da giorni. Pianse come mai aveva fatto prima. La forte e coraggiosa Isabel ormai era solo un ricordo sbiadito che aveva lasciato spazio ad una donna fragile e angosciata. Ogni cosa che era riuscita a costruirsi in quegli anni stava crollando; quella vita che si era costruita a fatica accanto a Louise stava per essere demolita dal peso insostenibile delle bugie. Per un attimo Isabel ripensò a quello che era successo poco prima, allo scontro che aveva avuto con Louise e stentò a credere che fossero arrivati addirittura ad un contrasto fisico. Le braccia le dolevano ancora nel punto dove lui l'aveva strattonata ma quello che faceva più male era l'animo, ferito e straziato da quello che era accaduto. Improvvisamente Isabel udì il rumore della porta d'ingresso che sbatteva e rimase immobile con il fiato sospeso, nell'attesa di carpire altri suoni o rumori. ma niente... un silenzio assordante era sceso intorno a lei. Louise doveva essersene andato e Isabel dovette ammettere che quella prospettiva le aveva donato un pizzico di calma. Per il momento non sarebbe stata in grado di riaffrontare nuovamente il suo fidanzato; era troppo scossa, troppo debole per subire un suo ulteriore assalto. Le domande che le aveva rivolto poco prima l'avevano destabilizzata abbastanza da farle perdere il suo usale self-control e poi la catenina che stringeva tra le mani aveva lasciato Isabel di stucco, incapace di darsi una spiegazione plausibile. Improvvisamente, riacquistando il suo solito contegno e la sua risolubilità, Isabel sapeva qual era l'unica cosa giusta da fare. Si alzò di scatto e si diresse verso il cordless - poggiato su un comodino - e composto il numero con dita tremanti e con fare frenetico; si portò il telefono all'orecchio in attesa di una risposta.

"Pronto" Rispose una voce calda e rassicurante ma allo stesso tempo velata da un pizzico di incertezza. Doveva aver registrato il suo numero pensò Isabel che, impaziente, si affrettò a parlare a quella voce che aspettava di conoscere il motivo della sua telefonata.

"Faye, sono Isabel. Ho assoluto bisogno di parlarti... è sorto un problema."
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2375250