Hanbury St

di Philly123
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jamie - Un giorno qualunque. ***
Capitolo 2: *** Dorotea - Chiamate. ***
Capitolo 3: *** Jamie - Starbucks. ***
Capitolo 4: *** Dorotea - Febbre. ***
Capitolo 5: *** Jamie - Lo Studio. ***
Capitolo 6: *** Dorotea - A Casa. ***
Capitolo 7: *** Jamie - Risveglio. ***
Capitolo 8: *** Dorotea - Rotture. ***
Capitolo 9: *** Dorotea - Paul e il negozio. ***
Capitolo 10: *** Jamie - Preparazione. ***
Capitolo 11: *** Dorotea - Il Party. ***
Capitolo 12: *** Jamie - Festa. ***
Capitolo 13: *** Dorotea - Paure. ***
Capitolo 14: *** Jamie - Il racconto. ***
Capitolo 15: *** Dorotea - In viaggio. ***
Capitolo 16: *** Dorotea - Tornare. ***
Capitolo 17: *** Jamie - Qualcosa di nuovo. ***
Capitolo 18: *** Dorotea - Sorpresa! ***
Capitolo 19: *** Jamie - Mamma e papà. ***
Capitolo 20: *** Dorotea - Solitudine. ***
Capitolo 21: *** Jamie - Alla fine è per sempre. ***



Capitolo 1
*** Jamie - Un giorno qualunque. ***


Ero seduto da Starbucks da qualche ora, mentre su Coventry street batteva un sole inusuale per gli standard londinesi.
Dei ragazzi, in strada, passeggiavano con le giacche sbottonate, quasi a fargliela vedere, al tempo, che loro non sentivano freddo. Io, invece, riparato dal vetro delle finestre, stavo ben coperto da una sciarpa e un paio di occhiali, giusto in caso qualcuno mi riconoscesse.
Perso nei miei pensieri, quasi non avevo notato la piccola ragazza appena entrata dalla porta a vetri.
-Cosa scrivo nel bicchiere?- aveva chiesto la giovane donna che stava dietro al bancone.
La ragazza si rianimò i capelli, compressi dal colletto del suo cappotto, e rispose solamente –Dorotea.-
L’accento della ragazza non era inglese. Forse era spagnola o italiana, in fondo, però non si notava molto, doveva essere in Inghilterra da molti anni. Non sapevo nemmeno perché la stessi guardando, quella piccola ragazza dai capelli castani, non l’avevo nemmeno vista in volto. Non era qualcosa di nuovo, però, mi piaceva guardare la gente, mentre sedevo a prendere un caffè, e immaginare le loro storie, perché fossero lì in quel momento e cosa avrebbero fatto in futuro.
La ragazza si sedette da sola in un tavolino più in là, portava degli occhiali da sole tondi, con la montatura metallica e un rossetto molto scuro.
Improvvisamente, sentii squillare il mio telefono. Due, tre squilli, poi risposi.
-Jamie? Puoi parlare?- chiese la voce di mia madre.
La discussione fu breve e concisa, come sempre. Dovevo andare a casa per vedere i miei parenti, perché era troppo tempo, a suo parere, che non mi facevo vivo. Avevo accettato senza entusiasmo, e forse era vero che non vedevo i miei da tanto. Me ne andai di corsa dal locale, scordandomi completamente della ragazza.
 
La mattina dopo mi svegliai con i muscoli indolenziti. Avevo dormito sopra le coperte senza una reale ragione, mi ero solo ritrovato troppo stanco per fare qualsiasi cosa, dopo la cena con i parenti e la conseguente serata in famiglia.
Il mio appartamento era diviso in due piani, ma quello superiore era composto unicamente dalla mia stanza, troppo bianca e vuota per i miei gusti, e da un piccolo bagno. Più giù, c’era un soggiorno-cucina e un altro salotto, con annesso un altro bagno. Non era un appartamento molto grande, ma da solo non me ne sarebbe servito uno enorme.
Decisi che non sarei riuscito a rimanere chiuso in casa, così chiesi a Tristan se avesse voglia di fare una corsa a Weavers Fields.
Mi sono appena alzato e avevo già dei piani per la giornata.
Scusami.
Tristan
Ero sicuro che mi stesse prendendo in giro, ma non avevo voglia di implorarlo, così bloccai lo schermo del cellulare e cominciai a prepararmi per andare da solo.
La giornata, notai, era ancora limpida ma alcune nuvole grigie incombevano sul cielo azzurro, prospettando un temporale nelle ore successive.
Arrivai in una decina di minuti e pubblicai una foto su Twitter in cui si vedeva la mia tuta con i pantaloncini corti e la maglia smanicata. Da quando abitavo a Hanbury street continuavo a tornare lì per correre. Non era un giardino molto frequentato, e soprattutto non si trovavano troppi turisti. Misi le cuffie alle orecchie e cominciai a correre. Alcune coppie erano occupate a spingere passeggini e sembravano così felici, durante quella giornata di sole autunnale. Mi guardai le scarpe e notai che si erano coperte di sporcizia dall’ultima volta in cui le avevo indossate.
Sentii un dolore sordo alla spalla e mi ritrovai sbilanciato all’indietro.
Una ragazza era distesa a terra, si teneva la testa contornata da capelli castani.
-Sei scemo? Ma guarda dove vai, la prossima volta!- esclamò in tono molto brusco.
Mi tolsi gli occhiali da sole e la guardai stupefatto. Era la stessa ragazza di Starbucks, non era lì per fare jogging ma indossava una gonna blu lunga fino alle caviglie e una felpa grigia.
-Scusami, sul serio. Posso fare qualcosa?- Le porsi una mano.
-Puoi aiutarmi a raccogliere quello che mi hai fatto cadere, almeno?- mi rispose, senza accettare la mia mano, indicando tutto quello che era finito a terra.
-Come ti chiami?- le chiesi, mentre le riprendevo dei colori a matita e alcuni matitatoi.
-Dorotea, Dorotea Crawford. Tu?- mi chiese, come se non mi conoscesse per davvero.
-Come saprai già, sono Jamie Campbell Bower, ma solo Jamie va bene.-
-No. Non sapevo già niente, in realtà- mi rispose. Credevo non fosse possibile, eppure le si leggeva in faccia che non stava mentendo.
-Dorotea, come mai tutti questi colori? Sei una pittrice?-
-Oh no, davvero, passo solo il tempo in questo modo, il sabato o la domenica- mi sorrise, e notai gli zigomi gonfiarsi sul piccolo volto a cuore. Sul viso portava ancora gli occhiali tondi, forse un po’ grandi per lei.
-Ti va se andiamo a prendere qualcosa fuori? Sta per piovere e io voglio scusarmi.- dissi quasi senza pensarci, mi sarebbe piaciuto passare un pomeriggio con quella ragazza.
-No, grazie, in realtà devo tornare a casa. Se vuoi, però, puoi chiamarmi.- Strappò un pezzo di carta dall’album che teneva fra le braccia e scrisse un numero con una matita azzurra, me lo porse quasi strappandomi dalle mani il portacolori che avevo appena raccolto e scappò via.
Sul foglio, in una bella scrittura, c’era il numero della ragazza, più sotto aveva segnato una “x”, un piccolo bacio.

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Capitolo 2
*** Dorotea - Chiamate. ***


Tornai a casa quasi correndo. Nonostante la giornata autunnale fosse abbastanza fresca, del sudore mi imperlava la fronte a causa della camminata e un fianco mi cominciava a far male. Non ero una tipa molto sportiva. Non avevo nemmeno idea di dove avessi preso il coraggio di scrivere quel messaggio sul foglietto e darlo al ragazzo. Era carino, si doveva ammettere, inoltre il suo viso mi era noto, ma non sapevo dove l’avevo visto.
In ogni caso, lavorando in un negozio di musica, si incontrano molte persone ogni giorno, alcune più volte al giorno e credevo di aver guardato in faccia almeno tutta Londra, per non parlare dei turisti.
Quasi senza ragionare, i miei piedi fecero strada verso la metropolitana di Bethnal Green e in quasi mezz’ora arrivai a Holborn, vicino a casa mia.
Stavo in un appartamento, al secondo piano di una palazzina dalla facciata con i mattoni rossi. Non era un posto molto grande, e soprattutto la mia roba stava sempre sparsa su ogni superficie, a rendere il luogo ancora più angusto. Appena riuscii ad aprire la porta d’ingresso, mi accasciai sul divano grigio, buttando i piedi sul basso tavolino di legno.
Girandomi verso destra notai il lavabo zeppo di piatti sporchi. Non avevo voglia di fare niente, in quel momento. La passeggiata mi aveva stancata e il volto mi diventava rosso ogni volta che pensavo a quello che avevo fatto.
Uno sconosciuto! Un ragazzo che non avevo mai visto! Come avevo potuto fare una cosa simile?
Ritenendo che fosse inutile continuare a rimuginare sull’accaduto, presi il portacolori dalla borsa e cominciai a frugare in cerca di una matita. Mi accorsi, improvvisamente, che il matitatoio non c’era da nessuna parte. Non aveva molto valore, in sé, ma era particolare, interamente metallico e me l’aveva regalato mio padre molti anni prima. Doveva essere caduto al momento dello scontro e non l’avrei ritrovato mai più, né avrei potuto sostituirlo facilmente.
Pensai con tristezza al mio matitatoio mentre cominciavo a preparare la tela. Se c’era una cosa che mi rilassava era proprio l’odore acre dei colori, delle colle e di tutto ciò che si usa per fare arte.
Mentre sistemavo la tela sul cavalletto sentii il telefono squillare. Ebbi un sussulto: e se fosse stato il ragazzo? Non ricordavo nemmeno il suo nome, che cosa gli avrei detto?
Senza nemmeno guardare lo schermo, con le mani sporche, poggiai il cellulare tra la spalla e l’orecchio.
-Salve?- chiesi timidamente. Dall’altra parte sentii una sonora risata.
-Cosa ti è successo, Dori? Hai visto un fantasma?- mi rispose una voce chiara, alta e molto femminile.
-Bethany! Sei proprio scema alcune volte. Credevo fosse qualcun altro-
-Altro? Aspetta, aspetta. C’entra qualche ragazzo?- a volte mi leggeva proprio dentro la testa.
-Ragazzo? E pensi che girino ragazzi attorno a me? Non mi conosci?- mentii, fingendo una lunga risata.
-Mhm, qualcosa non mi quadra. Comunque, hai voglia di uscire? Io e Paul avevamo intenzione di andare in giro per negozi-
-No, Beth, sono appena rientrata a casa. Ho voglia di mettere il pigiama, dipingere e poi leggere. Mi dispiace, comunque di’ a Paul che se vuole parlare lo chiamo stasera.-
Paul era il nostro migliore amico, un ragazzo che qualsiasi madre avrebbe gradito come fidanzato di sua figlia. Noi tre, però, eravamo come fratelli.
-Okay, anche se ti farebbe bene vedere qualcuno, certe volte. Non capisco come tu faccia a voler rimanere sempre in casa, sai? È un po’ strano-
-Sì, Beth, tranquilla. Ci sentiamo- dissi con il tono di chi voleva chiudere.
-Ho capito, chiudo! Ci sentiamo presto, Dori.-
A quel punto riattaccai la chiamata. Non volevo essere scortese, ma proprio non mi andava di passare un pomeriggio a chiedermi quale abito stesse meglio sul fisico perfetto di Bethany. Di certo non avrei comprato niente, visto che i soldi non mi avanzavano.
 
Passai un pomeriggio dipingendo, completamente in un altro mondo. Non mi venne nemmeno fame, all’ora di cena. Anche la sera passò senza colpi di scena, lessi un libro in italiano e poi andai a letto presto. Proprio quando pensavo di aver preso sonno il telefono squillò nuovamente.
-Ciao Paul, so che Beth ti ha detto che ci saremmo sentiti stasera, ma proprio non mi va di parlare. Puoi chiamare domani?- chiesi, senza aspettare nemmeno di sentire la voce dall’altra parte.
-Non sono Paul, ma posso comunque aspettare domani.-
Effettivamente, non era Paul quello. Schizzai a sedermi sul letto. Non avevo riconosciuto chi fosse.
-Ehm…- risposi solamente, non sapendo cosa dire.
-Sono Jamie, il ragazzo di oggi pomeriggio. Sto disturbando, perciò richiamerò domani.-
Jamie?! Com’era potuto succedere? Mi aveva chiamata?
-Oh, ciao. In realtà posso parlare- risposi con un filo di voce, le parole mi uscivano dalla bocca veloci e impastate.
-Ti va di fare colazione insieme, domani? Ho un giorno libero e vorrei farmi perdonare per lo spintone.-
Una lunga pausa seguì questa affermazione. L’indomani avrei dovuto lavorare ma il mio turno cominciava alle nove quindi… aspetta. Stavo davvero pianificando di incontrare uno sconosciuto?
-Pronto?- chiese il ragazzo dall’altra parte della cornetta, aveva un tono calmo e rilassato.
-Oh, sì. Facciamo alle 8 vicino la metro di Oxford street, okay?- non sapevo nemmeno cosa stavo dicendo.
-A domani- rispose soltanto, poi agganciò.

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Capitolo 3
*** Jamie - Starbucks. ***


Se c’era qualcosa che odiavo, era proprio svegliarmi la mattina presto. Durante i periodi di lavoro intenso mi capitava anche di alzarmi ogni giorno alle cinque, ma quando potevo riposare sfruttavo le mattinate per dormire fino a ora di pranzo.
Alle otto meno un quarto ero già a Oxford Circus, dopo aver affrontato il temporale che imperversava all’esterno. La musica nelle orecchie, un cappello, degli occhiali e una sciarpa. Nonostante fossi abbastanza nascosto dagli sguardi, alcune ragazzine mi fermarono per fare delle foto. Di solito erano adolescenti che quasi scoppiavano a piangere mentre scattavamo le foto. Facevo sempre facce buffe per sdrammatizzare il momento.
Non sapevo perché avessi accettato di incontrare quella ragazza così presto, avrei potuto dirle di vederci in un altro momento ma, in verità, ero davvero dispiaciuto per averla spinta al parco. Sembrava così piccola e indifesa che mi sentivo quasi come se l’avessi aggredita.
Improvvisamente mi sentii toccare il braccio, la mano di Dorotea, dalla carnagione chiarissima, mi stava sfiorando il trench grigio, aveva le unghie smaltate di nero.
-Ciao- disse solamente. Aveva il volto assonnato e privo di trucco e i capelli fradici che le incorniciavano il viso, gli occhi verdissimi mi guardavano dal basso verso l’alto, nonostante indossasse delle zeppe.
-Hey! Passeggiata sotto la pioggia?- chiesi ironicamente, indicando la sua testa.
-Non credevo piovesse così forte quando sono scesa, ti va di andare da qualche parte? Con questo vento credo che mi ammalerò.- Il corridoio della metro era attraversato da folate fortissime.
-Certo! Dove pensavi di fare colazione?-
-Andiamo da Starbucks, ho una voglia matta di muffin al cioccolato.- Sorrise lievemente e due piccole fossette le si formarono sotto gli zigomi. Non era bellissima, come le tante modelle che avevo conosciuto, ma nel suo volto c’era qualcosa che ti portava a guardarla ancora, come se ti raccontasse una storia interessante.
Camminammo sotto la pioggia, lei si stringeva nel suo impermeabile verde che sembrava non fare per niente il suo lavoro. Anche io mi stavo bagnando, nonostante avessi alzato il cappuccio della felpa. Sentivo piccole gocce passare tra i capelli e toccarmi la cute e sapevo che li avrei avuti per tutto il giorno crespi e gonfi.
Anche se Starbucks era solo a qualche decina di metro dall’uscita della metropolitana, entrammo nella sala completamente bagnati. Il locale era piacevolmente riscaldato, c’era molta gente, ma non così tanta da non poterci sedere.
Appena la vidi lì dentro ricordai di averla già incontrata proprio in un altro Starbucks, ma decisi di non dirglielo.
-Cosa prendi?- chiesi a Dorotea. Eravamo stati zitti per tutto quel tempo e la situazione cominciava a farsi imbarazzante.
-Penso che prenderò parecchie cose, stamattina ho una fame da impazzire. Tu?-
-Berrò solo un Pumpkin Spice Latte. L’ho provato l’altro giorno e mi è piaciuto tantissimo-
-Davvero? Allora prendo pure quello!-
Appena arrivò il nostro turno la piccola, gracile ragazza ordinò tre pietanze dolci e il latte che le avevo consigliato. Ero sbalordito, ma non la feci comunque pagare. Lei ovviamente cercò di non farsi offrire niente, ma io fui irremovibile.
Ci sedemmo sugli sgabelli, di fronte alla grande finestra che dava sulla strada, piccole gocce percorrevano il vetro. Le persone, in strada, camminavano strette ai loro ombrelli, con le ventiquattro ore attaccate al petto.
-Quindi- cominciai a dire mentre lei affogava la faccia nel cibo –raccontami qualcosa di te-
-Di me?- chiese con la bocca impastata. Le ragazze che frequentavo di solito stavano sempre attente alla linea e questa per me era una novità. La mia ex ragazza era una modella, una di quelle che se vai al cinema non puoi dividere i pop-corn. Lasciai perdere questi pensieri.
-Sì, chi sei? Cosa fai a Londra? Non sembri inglese.-
-Allora, in effetti sono italiana ma mio padre è inglese. Ho vissuto per tanti anni in Italia ma dopo la scuola ho deciso di tornare nella vecchia casa dei miei, a Manchester-
-Manchester, bella! E ora sei a Londra.-
-Sì, non volevo dipendere troppo dai miei genitori quindi ho lasciato tutto e ho cominciato a lavorare qui. Ho degli amici che abitano a Londra e mi hanno anche spronata a raggiungerli.-
La cosa che mi piaceva di quella ragazza era che parlava con me come se fossi semplicemente un ragazzo appena conosciuto, non un attore di cui puoi sapere quasi tutto andando su internet.
-E tu?- mi chiese, mentre addentava l’ultimo morso di Luxury Fruit Toast. Si era spazzolata tutto in una manciata di minuti, non credevo fosse nemmeno possibile. A quel punto notai che stava tremando. Aveva ancora l’impermeabile addosso, sbottonato e la maglietta che portava sotto era impregnata d’acqua come i capelli.
-Hai freddo?- chiesi, scansando la domanda.
-Un po’, ma passerà. Spero solo di non prendere la febbre perché sarebbe un bel problema non andare a lavoro-
-Mi puoi dare il tuo impermeabile?- più che una domanda, la mia era un’affermazione.
-Perché? Sto gelando, mi servirebbe-
-Per favore.-
La ragazza si sfilò il soprabito senza troppa grazia, rivelando il logo di Hmv. Io lo presi e lo scambiai con il mio trench, che le porsi.
-Posso metterlo?- chiese stupefatta.
-Certo! Me lo riporterai la prossima volta che ci vedremo- risposi sorridendo, poi continuai –Ma quanti anni hai? Non me l’hai ancora detto-
-Ventuno. In realtà ancora venti, ma la settimana prossima farò il compleanno-
-Davvero? Quando?-
-Lunedì, il trentuno ottobre. Ma non stavamo parlando di te?- chiese ancora.
-Sarà Halloween! Cosa farai? Darai un party in maschera?- risposi, ignorando completamente la domanda. Non volevo parlare di quanto fossi famoso, interessante e di tutto quello che facevo. Sentivo già gli sguardi della gente puntati su di me, nonostante portassi ancora gli occhiali da sole. Lei sbuffò appena, forse proprio perché ero così evasivo.
-Niente party. Non credo che farò nulla. Probabilmente uscirò con i miei due migliori amici, ma solamente se non avranno altre feste a cui andare-
-Non mi sembra molto carino, da parte loro. Oh, scusa, non volevo offenderli, parlo sempre troppo- aggiunsi all’ultimo momento, non era proprio la cosa che si dice al primo appuntamento con una ragazza.
-Non ti preoccupare, so come sembra, ma sono io che li invito a divertirsi. A me non piace andare ai loro party e se dovessero stare sempre ad aspettarmi diventerebbero vecchi. Non mi importa, mi fa piacere stare a casa a dipingere, davvero.- Dorotea si stringeva forte al mio trench, i capelli avevano bagnato il colletto. Era di molte taglie più grande e le mani quasi non spuntavano dalle maniche.
-Piuttosto.- Mi prostrai verso di lei e cercai dentro tasca del mio soprabito. Sentii la sua coscia sotto gli strati di tessuto. Il viso della ragazza, intanto, si era fatto porpora, soprattutto sul naso.
-C-cosa stai facendo?- chiese titubante, evitando di guardare dalla mia parte e accostare troppo il suo volto al mio.
-Ecco!- esclamai infine, e le porsi un attrezzo per disegnare che avevo trovato il giorno prima per terra, dopo che ci eravamo scontrati.
-Non ci credo! Hai ritrovato il mio matitatoio! Grazie mille, non posso spiegarti quanto ti sia riconoscente- il suo viso brillava di gioia. Improvvisamente, però, si portò la mano al piccolo polso, scoprendo un orologio nero, di gomma.
-Oh mamma! È tardissimo. Scusa, mi ha fatto molto piacere stare con te, ma ora devo andare a lavoro. Hai il mio numero, quindi ci possiamo sentire- concluse, mentre si puliva la bocca e scendeva dallo sgabello con un piccolo salto. Io mi alzai a mia volta, ma avevo i piedi che toccavano terra.
-Se vuoi ti accompagno da Hmv.- Lei rimase confusa per qualche momento, ma poi dovette capire.
-Oh, certo, la maglietta. Senti, non c’è bisogno, davvero. Posso andare da sola, sono quattro passi. Ci vediamo presto.-
A questo punto mi sorrise un’ultima volta e si avviò verso la porta. Proprio prima di varcarla si girò ancora.
-Grazie per il cappotto, te lo restituisco la prossima volta!-
Così la vidi sparire sotto la pioggia, mentre le piccole spalle erano curvate a proteggersi.

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Capitolo 4
*** Dorotea - Febbre. ***


-Dove sei con la testa oggi?- chiese la voce di Amy. Prima che potessi rispondere, uno starnuto mi fece sobbalzare. Guardai la donna con gli occhi che mi lacrimavano.
-Scusa, Amy. Non mi sento molto bene-
-Lo vedo! Non stavo parlando di quello, però. Hai la testa da un’altra parte-
-Non credo, sarà un’impressione- risposi, mentre gli occhi della cassiera, che sedeva accanto a me, mi squadravano con intento indagatore. La donna, che aveva passato la trentina da un po’, portava lunghi capelli ossigenati, aveva occhi piccoli su una faccia tonda e la carnagione chiara. I chili in più le si vedevano soprattutto sui fianchi e sulle cosce.
Ero rimasta infreddolita per tutto il giorno, visto che avevo asciugato i capelli soltanto con dei fazzoletti di carta, così come i vestiti. A ora di pranzo non avevo toccato cibo, segno che mi stavo ammalando e ora aspettavo impazientemente le sei per potermene tornare a casa e buttarmi sotto le coperte.
Le ore passavano lentamente, come se qualcuno mandasse indietro l’orologio ogni volta che non lo guardavo.
Tre ore, ancora tre ore, non ce la farò mai.
Due ore, sono tante due ore.
Un’ora, ce l’ho quasi fatta, quasi.
-Va bene, Dori, ci vediamo domani. Hai finito il turno.-
Non mi soffermai nemmeno a guardare il volto del mio interlocutore, scattai verso l’armadietto per raccattare la borsa e il cappotto, pronta per tornare a casa.
-Ehi, Dori, ma di chi è quel trench?- ancora Amy.
-Un amico, me l’ha prestato stamattina-
-Amico o spasimante?- chiese lei con aria maliziosa.
-Mi correggo: conoscente. Ci vediamo domani, Amy. Io scappo a casa.- La salutai con la mano e lei ricambiò attraverso un sorrisetto complice. Era stressante come tutti dovessero intromettersi nella mia vita sentimentale e sessuale. Una donna non può decidere di stare da sola senza destare sospetti.
Feci la strada fino a casa senza nemmeno rendermi conto che stavo camminando. La città mi passava sotto i piedi e mi scorreva davanti gli occhi senza che fosse un mio problema.
Arrivata al mio appartamento riuscii soltanto a togliere le scarpe e i vestiti, a mettere un pigiama in pile e infilarmi sotto le coperte. In quel momento presi il cellulare, non lo avevo considerato per tutto il giorno.
Tre messaggi non letti. Paul, Paul, Beth. Niente dal bel ragazzo. Peccato.
Ciao bellezza, ieri mi avevi detto di chiamare ma ho passato la più grande serata alcolica della mia vita. Ti va se usciamo stasera? Ci prendiamo un cocktail e ti racconto un po’ di cose.
Fammi sapere,

Paul x
Questo era il primo dei messaggi del mio amico, gli altri erano solo lamentele perché facevo sentire. Avevo promesso a Paul una serata insieme da molto tempo, ma in quel momento non sarei stata in grado di uscire, né di fare qualsiasi altra cosa. Decisi di chiamarlo comunque.
-Ciao!- esclamai appena sentii un suono dall’altra parte.
-Non dirmi che sto davvero parlando con te, avevo dimenticato la tua voce!-
-Dai, Paul, non fare dell’ironia. Sono stata occupatissima e non ho avuto tempo.- Ero sinceramente dispiaciuta, non volevo scappare dai miei amici.
-Va bene, ti credo. Ma stai bene? Hai una voce strana-
-No, sto malissimo, credo di essermi presa la febbre-
-Mhm, quindi prevedo che non usciremo, per questa sera. Ma almeno ce la fai a stare a casa da sola o hai bisogno d’aiuto?-
-Non ti preoccupare, Paul, ce la farò. Per stasera credo proprio che non andrò da nessuna parte, ma se vuoi possiamo parlare per telefono- alla fine di questa frase ebbi un ascesso di tosse.
-È una storia molto lunga, bimba, e credo che preferirei parlarne di presenza. Vai a riposarti, dai. Ti chiamo domani-
-Okay, allora ti do la buonanotte-
-Dori, sono solo le sette-
-Andrò a dormire comunque-
-Vabbé.- A questo punto, il mio amico chiuse la chiamata. Posai il cellulare sul comodino di compensato accanto al letto ma dopo poco sentii il suono di un messaggio.
Mi sa che è meglio se passa Bethany da te, non sembri molto in forma. Sto per scriverle.
Paul

Sentivo i muscoli dolere a ogni movimento e stavo rannicchiata su me stessa sotto il piumone.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato quando sentii la porta d’ingresso scricchiolare.
-Dori? Sono io. Posso entrare?- chiese da molto lontano Beth. Mi sembrava che la sua voce arrivasse da dentro un tunnel che si faceva strada nel sottosuolo.
La vidi appena accese la luce. I capelli riccissimi biondo-rame le contornavano il volto ovale, con gli occhi enormi e azzurri che spiccavano anche da lontano. Sul corpo esile e allungato portava soltanto un cardigan sopra una camicia a righe e dei pantaloni chiari molto attillati. Le stava tutto benissimo ma non riuscivo a capire come facesse non morire di freddo.
-Oh mio Dio, Dori, tu stai malissimo. Devo prenderti delle altre coperte e delle pillole. Però prima ti faccio un brodo.- Bethany era la mia migliore amica, e ogni volta che faceva cose del genere me lo confermava. Era l’unica persona che aveva le chiavi del mio appartamento, conosceva dove posavo la spesa, le lenzuola e perfino gli abiti che non potevo più usare.
Qualche ora dopo cominciai a sudare e a sentirmi meglio. Beth diceva che la febbre mi era arrivata a trentanove e mezzo ma ora stava calando.
-Come ti senti?- mi chiese, sdraiandosi accanto a me. Quando avevo affittato la casa c’era un letto matrimoniale che avevo deciso di tenere. Non che mi servisse a niente.
-Meglio, sento caldissimo-
-Non ti scoprire!- mi rimproverò lei, mentre stavo già portando la coperta all’altezza del bacino. Me la rimboccò con uno sguardo truce.
Sentii il suono di un messaggio. Sbloccando il touch notai solo un numero.
Ciao. È andato tutto bene a lavoro? Spero di sì. Hai lasciato con me il tuo incantevole impermeabile, e lui sente la tua mancanza. Mi sa che dobbiamo rivederci per forza o starà molto male.
Jamie
-Ehi! Io vengo qui per te e tu sorridi al cellulare!-
La voce di Beth mi riportò alla realtà. Avevo sorriso sul serio?
-Scusa, Beth, dammi solo un secondo e parliamo-
-Nessun secondo, confessa subito con chi stai parlando! Non avresti mai risposto, se fosse stato Paul.- La testa della mia amica si infilò tra me e il telefono, ma io bloccai subito lo schermo.
-Dori! Non ti lascerò mai in pace, stanne certa!- Era vero, e comunque non avevo voglia di nasconderle niente, soltanto, mi vergognavo un po’.
-C’hai visto bene, Bethany, è un ragazzo-
-Oh mio Dio. Tu me ne devi parlare subito.-
Così le raccontai tutto quello che era successo negli ultimi due giorni. Weavers Fields, Starbucks, il matitatoio, il trench. L’espressione di Beth era a metà tra lo stupore e la complicità.
-Aspetta un attimo. Per quanto riguarda la gentilezza e la simpatia ci siamo, ma non sarà mica brutto, questo Jamie, vero?-
-Non credo-
-Non credi? Io non mi fido molto di te. Descrivimelo!- In questi momenti tornava una dodicenne con gli ormoni impazziti.
-Allora, biondino, capelli lunghi e arruffati, occhi chiarissimi e viso angelico, molto più alto di me e magrissimo. Tra l’altro la sua magrezza è accentuata dagli abiti attillati che porta.-
Beth cominciò a ridere, poi mi squadrò con un sorrisetto sghembo.
-Sembra proprio bello. Assurdo, comunque, da come lo descrivi sembra proprio un attore che mi piace-
-Un attore? Chi?-
-Aspetta, lo cerco con il cellulare.- Per qualche istante rimasi a guardare la testa riccissima di Beth, piegata sopra lo schermo.
-Ecco- affermò, porgendomelo. Sentii il sangue defluire dal volto, in un misto di preoccupazione e confusione. Rimasi a fissare la mia amica negli occhi per dei lunghissimi momenti. La voce mi uscì strozzata.
-Bethany, è lui.-
Bethany quasi capitombolò dal letto.

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Capitolo 5
*** Jamie - Lo Studio. ***


La stanza era illuminata soltanto dalla fredda luce del cellulare che avevo posato accanto a me, sul letto. Prendere sonno mi era impossibile.
Sentii vibrare. Forse avevo sbagliato a scrivere quelle cose a Dorotea, magari le stavo dando troppa importanza.
Un messaggio.
Scusami se non ti ho risposto, non sto molto bene.
Possiamo vederci appena guarisco, se per te va bene. Vorrei anche chiederti alcune cose.
Dori
Chiedermi qualcosa? Non capivo cosa significasse. Era anche stata male, probabilmente tutta quella pioggia non le aveva fatto bene, chiunque si sarebbe ammalato.
Posso chiamare?” scrissi in fretta, maledicendomi per la curiosità.
” fu l’unica risposta.
Alcuni secondi dopo sentivo già il suono prolungato della chiamata in attesa, che riverberava nella stanza a causa del vivavoce. Nonostante le finestre dagli infissi in legno fossero chiuse, il fresco di fine Ottobre mi pungeva il petto nudo, dato che il lenzuolo mi copriva soltanto dal bacino in giù, mentre le mani erano strette dietro la nuca.
-Pronto?- chiese lei, aveva un voce roca e lievemente nasale, chiunque avrebbe capito che aveva l’influenza.
-‘Sera. Come ti senti?-
-Credo di aver avuto giorni migliori. Come mai hai chiamato?- Aveva un tono pacato. Immaginavo quasi di averla accanto, sul letto.
-Soffro d’insonnia, non avevo niente da fare e, sapendo che sei sveglia, ho provato. Non ti sto disturbando, vero?-
-Non ti preoccupare, ho mal di testa e non riesco ad addormentarmi. Volevi dirmi qualcosa di preciso?-
-No, avevo solamente voglia di chiacchierare. Piuttosto, cosa mi devi dire?- Avrei voluto chiederle quando ci saremmo visti, ma non volevo espormi così tanto.
-Ah già, credevo di affrontare questo discorso più tardi, ma penso che ormai io debba dirtelo per forza.-
Non capivo cosa intendesse, o magari non volevo capire. Speravo fosse qualsiasi cosa, tranne che mi aveva riconosciuto e aveva capito che sono famoso.
-Dimmi- risposi solamente, mentre cominciavo a mordicchiarmi un’unghia.
-Stasera è venuta a trovarmi un’amica, lei è un tipo un tantino più mondano di me. Per caso, mentre parlavamo d’altro, le ho raccontato di te e mi ha detto di conoscerti. In effetti, mi ha fatto capire che tutti ti conoscono, tranne me. Mi è sembrato un po’ strano. Voglio dire, sei davvero uno famoso? Fai l’attore?-
Bang. Colpito. Ora dovevo affrontare la situazione. Sbuffai sonoramente.
-Sì, faccio l’attore, magari mi hai anche visto da qualche parte. Comunque, vorrei solo chiederti di non soffermarti troppo su questa cosa, a me non importa, davvero-
-Ho letto su internet che sei fidanzato con una modella- la sua voce si fece piatta, più bassa.
-Sì, lo ero fino a qualche mese fa. Adesso ci siamo lasciati.- Con Matilda era finita piuttosto bene, semplici divergenze di idee, ma ci vedevamo ancora qualche volta. Pubblicavamo anche alcune foto insieme, così era facile immaginare che non ci fossimo mai lasciati.
La ragazza rimase in silenzio per un po’, sentivo il suo respiro attraverso il cellulare.
-Senti Dori…-
-Aspetta- intervenne lei –Voglio dire, immagino che tu possa avere tutte le ragazze che vuoi, qualsiasi. Se stai scherzando con me, oppure vuoi solamente portarmi a letto, per favore lascia perdere. Non ho voglia di una storia, né tanto meno di una notte di sesso.-
Avevo già sentito dei discorsi simili, ma questa volta ci rimasi male. Quella ragazza mi piaceva, inutile nasconderlo, ed era strano che qualcuno mi piacesse senza fare assolutamente niente. Inoltre, aveva appena detto che non era interessata a una storia.
-Guarda, io non so che dirti, vorrei rassicurarti ma non posso farlo. Dovresti soltanto credermi.- Cosa avevo detto? Non c’era davvero niente di meglio?
-Va bene. Ora mi sento molto stanca. Vorrei chiudere.- La sua voce era tornata bassa, faceva lunghe pause tra una frase e l’altra.
-Dorotea…-
-Scusa, ci sentiamo- disse soltanto, poi concluse la chiamata.
 
Lo studio di registrazione era caldo e puzzava di sudore e fumo.
-Jamie? Sei dei nostri? Non ti ho mai visto così taciturno in vita mia.-
Ero buttato su una poltrona da almeno mezz’ora a giocare distrattamente con il cellulare mentre gli altri discutevano di qualcosa. Alzando la testa per guardare il mio interlocutore mi scostai i capelli dal viso.
-Cosa c’è, Trist?- gli chiesi con tono petulante.
-Nulla, a parte il fatto che stiamo decidendo come arrangiare l’ultimo pezzo e tu non hai intenzione di dirci la tua.-
Era palesemente arrabbiato. Gli altri avevano volti stupiti, aspettando un litigio imminente. Dato che avevamo passato tantissimo tempo insieme, era capitato di litigare tra noi membri della band e io e Tristan, per quanto fossimo amici, eravamo le due teste calde. Quel giorno, però, non avevo voglia di scontrarmi con qualcuno. Ero nervoso e teso come una corda di violino senza saperne nemmeno il motivo. Senza dubbio stavo ancora pensando a quello che era successo la sera prima. A me, che avevo capito di pensare troppo a una ragazza, e a lei, che mi aveva quasi chiuso il telefono in faccia. Mi sentivo rifiutato, ferito nell’orgoglio.
-Senti, Tristan, lasciami stare.- Il mio tono era pacato, misurato. Non avevo alcuna voglia di urlare.
-Sai che ti dico? Vattene, se devi fare così!- urlò lui, con il volto che cominciava a tingersi di rosso.
-Sai che ti dico io, invece? Che me ne vado davvero. Mi hai rotto- risposi, questa volta alzando un po’ la voce. Presi la giacca di pelle e mi avviai verso la porta, ma sentii una mano sulla spalla.
-Jamie, aspetta. Non c’è bisogno di fare così. Rimani e risolviamo la discussione.- Dan era sicuramente quello più pacato di noi, cercava sempre di mettere le cose a posto, di evitare gli scontri.
-Lascia stare, Dan. Ho solo bisogno di andare a casa, okay? Non voglio litigare.-
Lui fece cadere la mano che fino a uno momento prima mi stava stringendo la spalla, gli sorrisi lievemente e poi andai via. Non sapevo nemmeno cosa mi fosse preso. Non poteva essere soltanto quella ragazza, non ero mica un adolescente alla sua prima cotta.
Camminavo per strada da qualche minuto, cercando di non farmi notare. Il cielo grigio scuro incombeva su Londra, quel giorno. Ancora una volta, sembrava che stesse per piovere. Sentii il cellulare vibrare in tasca. Era sicuramente uno dei ragazzi che cercava di farmi tornare indietro. Decisi di far finta di niente.
Lasciai Brick Lane e imboccai Hanbury street, visto che casa mia era soltanto a due isolati dall’Abstract Source, lo studio. Appena raggiunsi il mio appartamento buttai la giacca su una sedia, all’ingresso e decisi di fare un bagno. Portai con me il cellulare, ma non lo guardai finché non fui immerso nell’acqua bollente, i miei capelli ondeggiavano, sospinti da piccole onde, e finalmente mi sentii in pace.
Sbloccando lo schermo notai un solo messaggio: Dorotea.

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Capitolo 6
*** Dorotea - A Casa. ***


Ciao Jamie, mi dispiace per come mi sono comportata ieri sera. Ho un po’ esagerato. Ti va di vederci? Non sto ancora bene ma potrei uscire comunque.
Dori x”
Era la quarta volta che rileggevo quel messaggio senza aver ricevuto risposta. Ogni minuto che passava, avevo sempre più la sensazione di aver sbagliato tutto con l’atteggiamento della sera prima. Sarebbe stato meglio, forse, far passare qualche giorno, evitare di contattarlo, ma da quando avevo chiuso il telefono non avevo fatto altro che pensare a lui e a come mi ero comportata.
Nella primissima mattinata avevo chiamato i miei superiori per dire che non sarei andata a lavoro. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto, a causa della testa che mi girava. Probabilmente, non mangiare non mi stava aiutando affatto, visto che non avevo la forza di cucinare. Avevo anche detto a Jamie che sarei potuta uscire, ma non era per niente vero e non sapevo come avrei fatto.
Non aspettai nemmeno un momento: quando il cellulare emesse il solito motivetto lessi tutto d’un fiato.
Mi piacerebbe incontrarti, ma sei sicura di poter uscire? Se vuoi posso passare da te.
A casa mia? Un ragazzo? Cosa potevo dirgli? Certo, mi avrebbe fatto comodo, e rifiutare mi faceva sentire nuovamente in colpa, avevo l’occasione di sistemare tutto. Di contro, non sapevo se fosse una grande idea passare una serata in casa con Jamie. Per concludere, si sarebbe sicuramente spaventato a causa della confusione e del mio aspetto.
Feci un respiro profondo, abbassando leggermente le palpebre.
Boswell Street, Holborn.
Non ricevetti nessuna risposta. Notai con ribrezzo che avevo addosso un pigiama caldissimo ma estremamente brutto, che, tra l’altro, puzzava per il sudore provocato dalle pillole. Sentivo anche i capelli appiccicati alla fronte, ancora un po’ più calda del normale.
-Devo assolutamente fare una doccia!- mi dissi ad alta voce, come per convincermi.
Facendo un enorme sforzo mi costrinsi a raggiungere il bagno. Non avevo una vasca, ma una piccola doccia con le piastrelle bianche e una tenda in plastica all’entrata. Per quanto riscaldassi l’acqua, la sentivo sempre fresca sulla testa e bollente negli arti.
In seguito, cercai qualcosa di pronto da mangiare, ma trovai solamente delle fette biscottate.
Erano passate due ore e ancora non avevo avuto alcuna notizia. Magari non sarebbe venuto, ma mi avrebbe fatto piacere scoprirlo. Decisi di scrivergli ancora, sperando di non sembrare ossessiva.
Sai se verrai? Mi dispiace disturbarti ma dovrei organizzare la giornata.” Ovviamente era una menzogna, non avevo proprio nulla da fare.
Scusami. Ho avuto degli imprevisti. Passo sta sera, se vuoi.
Jamie x
Certo, perché non ci avevo pensato? Ognuno ha i suoi impegni, soprattutto un tipo famoso come lui. Probabilmente doveva andare a recitare, a firmare autografi o cose simili.
Non preoccuparti. Passa stasera, ma solo se puoi.
Non ricevetti più alcuna risposta.
 
Verso le nove ricominciai a chiedermi se sarebbe venuto realmente. Avevo passato l’intero pomeriggio con il cellulare in mano, a cercare informazioni su di lui. C’erano gruppi su Facebook e addirittura dei siti in cui inventavano delle storie sulla sua vita. Quel ragazzo voleva fare un salto a casa mia, sul serio? Ogni volta che ci pensavo mi sembrava meno reale. Avevo ancora paura che stesse soltanto scherzando con me, che fossi un gioco che sarebbe finito in breve tempo e male. Avevo paura, ma contemporaneamente volevo vivere quell’unica, incredibile occasione e lasciarmi alle spalle ansie e cattivi pensieri.
Alle dieci fui certa che non sarebbe mai passato, almeno fino al momento in cui sentii il citofono. Dopo aver risposto, stetti ad ascoltare i passi di Jamie sulle scale che portavano al secondo piano, non c’era ascensore. Ero nervosa, indossavo una tuta e due felpe, mentre la maggior parte delle ragazze si sarebbe presentata con un abito lungo e possibilmente scollato. Alla fine vidi la sua testa bionda sorgere da dietro il corrimano. I capelli erano crespi, come le altre volte in cui l’avevo visto e portava una giacca di pelle nera e dei pantaloni scuri e attillati, strappati sulle ginocchia.
-Ciao- dissi timidamente. Lui si limitò a sorridermi. Gli feci strada dentro casa, che non era stata sistemata in nessun modo. Si tolse la giacca e la buttò sul divano. Portava una maglia rossa e scollata.
-Ehm, benvenuto. Spero che tutto questo disordine non ti metta voglia di scappare!-
-Non fa niente, credimi, casa mia è molto peggio. Che ne dici di mangiare?- mi chiese con un sorriso. A quel punto notai il sacchetto di Burger King che aveva in mano.
-Non c’era bisogno che portassi la cena…- Mi sembrava che la bocca mi si impastasse dopo ogni parola, ma già lo stomaco brontolava.
-Tranquilla, non ho avuto tempo di cenare, così sono passato dal Burger King di Whitechapel e mi è sembrato giusto prendere qualcosa anche per te. Se non ti va non preoccuparti-
-No, no, anzi. Non ho mangiato per tutto il giorno-
-Per tutto il giorno?-
-Non stavo per niente bene, non avevo voglia di cucinare e non c’era niente di pronto-
Lui mi guardò corrucciato per qualche secondo, poi scoppiò subito a ridere.
-Meno male che volevi uscire- mi disse mentre un sorriso enorme gli si apriva sul volto, facendogli socchiudere gli occhi.
Evitando di rispondere, cominciai a togliere del materiale da disegno che era rimasto sul tavolo della cucina. Jamie si sedette a capotavola, su una delle mie sedioline dozzinali in legno. Era sbracato e con le lunghissime gambe aperte e distese. Iniziò a studiare uno dei miei disegni, io facevo finta di non guardarlo ma mi vergognavo immensamente.
-Pensavo fossi un’artista, ma non ti credevo così talentuosa- disse mentre mi sedevo accanto a lui.
-Oh, non esagerare, quello è solo uno schizzo. Non sono molto brava- risposi mentre addentavo un panino. Era un vero piacere mettere qualcosa sotto i denti.
-Secondo me, non dovresti lasciar perdere il tuo talento.- Mentre parlava, notai la dentatura perfetta, di certo sbiancata chimicamente, e le grosse occhiaie che gli solcavano il viso. Era un misto tra ordine e trascuratezza.
-Intendi che dovrei frequentare una scuola?-
-Perché no? Ti accetterebbero sicuramente, e poi potresti trovare un lavoro in questo campo-
-Magari è vero, ma non potrei vivere a Londra lavorando part-time, e dopo otto ore in negozio non riesco nemmeno a fare la spesa, figuriamoci andare all’università o studiare-
-Hai ragione, certe volte non penso a queste cose. Io sono diventato un attore addirittura prima di finire la scuola. Non ho mai fatto il college, mi sarebbe anche piaciuto-
-Com’è essere famoso?- chiesi impulsivamente. Avevo pensato di non parlarne ma ero troppo curiosa.
-Bhe, divertente. Certi giorni senti di avere tutti che pendono dalle tue labbra, puoi visitare un sacco di posti, incontrare persone che hai visto nei film quando eri bambino, poi io che ho cominciato da molto giovane sono un po’ come il bambino coccolato da tutti...-
-Non ti senti mai solo?- Avevo appena finito di mangiare e adesso mi ero poggiata al tavolo con i gomiti. Lui sbocconcellava delle patatine. Sentendo la mia domanda un guizzo apparve nei suoi occhi azzurrissimi, ma solo per un istante.
-Sì. È per questo che non ti ho detto chi ero, quando ho capito che non mi avevi riconosciuto. Mi avrebbe fatto piacere, per una volta, fare finta di essere uno qualunque e non uscire con una ragazza che mi veneri solo perché mi ha visto in tv-
-Non ti preoccupare, Jamie, io non venero nessuno- affermai, lasciandomi scappare una risata. Lui mi guardò nuovamente in modo serio, indugiando per qualche istante su di me.
-Lo so.-
Restammo in silenzio, furono solo degli attimi ma sembrarono lunghissimi. Mi sentii imbarazzata, così mi schiarii la gola.
 -Bhe, cosa vuoi fare? Ti va di guardare un film? Ne ho alcuni su una pen-drive. Altrimenti…- Non avevo idea di cosa fare, altrimenti.
-Senti, perché non ci sediamo sul divano, ti metti una coperta addosso, visto che stai tremando, e parliamo un po’?-
Stavo tremando davvero, avevo le mani congelate e non me n’ero neanche resa conto. Ci spostammo sul divano, appoggiati ognuno a un bracciolo. Io avevo i piedi sul divano ed ero girata dalla sua parte, avvolta in una coperta di pile, così potevo sfiorargli una coscia con il piede, senza volerlo.
Mi sembrò di essere rimasta a parlare con lui per tantissimo tempo, forse delle ore. Non so esattamente quando, ma a un certo punto mi addormentai.

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Capitolo 7
*** Jamie - Risveglio. ***


-Ehi Dori! Ti ho chiamata almeno un migliaio di volte ma…-
Queste furono le prime parole che sentii. Quando spalancai gli occhi, capii di non trovarmi nella mia stanza e ci misi qualche secondo per capire dove fossi. Mi resi conto di essermi addormentato a casa di Dorotea, ancora sul divano. Lei dormiva al mio fianco, la bocca socchiusa e la coperta che le arrivava fino al mento, scoprendole le calze bianche.
Chi aveva parlato prima? Solo allora ripensai che ero stato svegliato da qualcuno. In effetti, c’era una ragazza ferma davanti la porta ancora aperta, con le chiavi in mano e un’espressione sconvolta. Era molto carina. Credevo che Dorotea vivesse da sola, ma forse aveva un’inquilina.
-Salve!- dissi alla ragazza basita. Le chiavi quasi le cascarono di mano. Capii subito che mi conosceva.
-C-ciao…- rispose soltanto.
-La tua coinquilina sta ancora dormendo.- Non che fosse una cosa importante, ma avrebbe forse rotto il ghiaccio.
-No… cioè sì, sta dormendo, ma non è la mia coinquilina. Sono venuta per vedere come stava. P-posso uscire, se disturbo…-
-Rimani. Io sto per andare.- Detto ciò mi alzai dal divano cercando di non spostare Dorotea. Avevo le gambe indolenzite per aver dormito seduto e nella stessa posizione per tutta la notte. Quando mi alzai, lei si scosse leggermente. I capelli castani le incorniciavano il viso più pallido del solito, aveva delle lunghissime ciglia, notai, che le proiettavano un’ombra scura sugli zigomi pronunciati.
Ritrovai la mia giacca a terra, vicino al divano, la raccolsi e mi incamminai verso la porta. L’altra ragazza stava ancora lì, come una statua, con gli occhioni nocciola spalancati.
-Bene, io vado. Dille che la saluto e che mi aveva detto che doveva andare a lavorare.-
La ragazza ebbe un sussulto.
-Doveva andare a lavorare?! Oh cavolo, dovrebbe già essere lì! Che guaio!- Prima di dirigersi verso l’amica, però, si bloccò a guardarmi un’altra volta.
-Jamie… non è che potresti farmi un piccolo autografo?-
-Certo- risposi sorridendo, anche se avrei preferito essere lasciato in pace. Presi una penna dimenticata lì vicino e lei mi porse un diario pieno di adesivi, che aveva appena estratto dalla borsa al suo fianco. Appena rialzai gli occhi aveva un cellulare in mano, con un motivo animalier sulla cover.
-Ti va, se vuoi, di fare una foto insieme?-
Di nuovo, provai l’impulso di rifiutare e andarmene, ma annuii. Al momento dello scatto feci una delle mie solite facce buffe, la salutai e scappai dalla porta d’ingresso, rimasta socchiusa.
La giornata era ancora più grigia delle altre, notai correndo giù per le rampe. Doveva essere scomodo vivere in quel posto, soprattutto quando avevi bisogno di portar su i sacchetti della spesa. Forse era per questo che Dorotea non teneva da mangiare in casa.
Era stata una serata strana, ricordai ancor prima di finire di scendere le scale. Avevamo parlato tantissimo, e avevo capito che non solo era carina, con un bel viso e simpatica, ma anche molto intelligente. Non l’avevo nemmeno baciata, non ci avevo provato. Lei mi piaceva, sì, ma non avevo voglia, questa volta, di fare il cascamorto solo per ritrovarmi ubriaco e nudo in un letto altrui. Ero stato bene e mi sentivo confuso.
Aprendo il portone notai la leggera pioggia che scendeva quasi come neve, lenta e leggera. Mi strinsi nella giacca, cercando di coprirmi come meglio potevo e mi allontanai dalla palazzina di mattoni rossi.



N.D.A:
A tutte le (poche) persone che mi seguono: mi dispiace che questo capitolo sia così corto. Oggi ho fatto le corse tra università e lavoro, e credo di aver voglia di svenire.
Siete bellissimi, anche se siete pochi.
Un baaacio.
-Philly

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Capitolo 8
*** Dorotea - Rotture. ***


Mi risvegliai con una voce fastidiosa che mi urlava nell’orecchio.
-Dori! DORI DEVI SVEGLIARTI!-
Non capivo cosa stesse succedendo, le mie spalle venivano scosse e strette da delle mani. Appena riaprii gli occhi notai il volto imbellettato di Bethany, con un ombretto scuro sugli occhi.
-Sei pazza? Cosa vuoi? Che ci fai qui?- chiesi, ancora in dormiveglia.
Non mi sentivo più male come il giorno prima, probabilmente ero solo raffreddata. Non mi trovavo nella mia stanza ma in cucina, sul divano.
Aspetta! Jamie era rimasto accanto a me fin quando ricordavo. Mi girai di scatto, quasi facendomi male al collo. Capii, con delusione, di essere da sola.
-Guarda che il tuo bello se n’è appena andato. Dorotea, comunque sono le nove e mezza!-
Le nove e mezza, e allora? Mi guardai le calze che uscivano dalla coperta per qualche istante, poi ricollegai tutto: sarei dovuta andare a lavoro.
Mi fiondai giù dal divano e, quasi correndo, arrivai al cellulare, poggiato sul comodino in camera da letto. C’erano sette chiamate di Amy, la mia collega. La richiamai istantaneamente.
-Amy! Sono Dorotea. Mi sono addormentata, scusami. Di’ che sto arrivando, che sono per strada, prenderò un taxi. Faccio subito!- urlai mentre mi sfilavo i pantaloni della tuta, cercando qualcosa da mettere.
-Dori stai calma. Ho detto che mi avevi chiamato e non saresti venuta. Ti ho coperta-
-L’hai fatto davvero? Grazie! Ti devo un favore, Amy, sei un’amica- risposi con voce quasi supplichevole.
-Non ti preoccupare, ma non farlo mai più. Ora vado a lavorare, riposati ancora per un giorno, va bene?-
-Sì, Amy, grazie ancora.-
Sentii chiudere la chiamata. Mi sedetti sul letto, come già esausta. Vidi la figura snella di Beth spuntare da dietro la porta. Le spiegai cosa era successo e lei si limitò a sorridere.
-Bene. Lavati e vestiti, usciamo a fare shopping!- esclamò con aria radiosa.
Quel giorno, nonostante dovessi soffiare continuamente il naso, avevo voglia di accompagnarla. Mi preparai in fretta e prendemmo la sua macchina, una piccola utilitaria. Senza chiedere un vero parere, decise che Westfield era il posto giusto per rinchiudersi tra la folla. Una volta entrati, esplorava senza scrupoli ogni negozio femminile le si parasse davanti e aveva già in mano parte del suo bottino. Io, mentre la rincorrevo, sentivo la testa girare per il raffreddore. Svoltando in un corridoio del piano terra improvvisamente mi bloccai.
-Dori, andiamo! Lo sai che da Burberry non riesco a comprare niente!- mi disse, tirandomi per un braccio.
Rimasi bloccata a guardare l’enorme poster che spiccava sulla parete bianca, illuminata da una fortissima luce, dietro la vetrina. Avevo la bocca spalancata e probabilmente un’espressione inebetita.
-Quello… quello è Jamie, vero?-
Beth mi osservò con un sorrisetto malizioso sulle labbra, poi mi poggiò un braccio attorno al collo, cosa che le veniva dannatamente bene, visto che era alta parecchi centimetri più di me.
-Vedo che non hai fatto bene le tue ricerche.- Con l’altra mano reggeva già cinque o sei sacchetti zeppi di indumenti e accessori.
-Cioè, vuoi dirmi che fa pure il modello? È bellissimo.- Sentivo le guance scottare.
Delle ragazzine si fermarono accanto a noi, gli occhi nella nostra stessa direzione, parlavano concitatamente e ridacchiavano. Mi girai verso di loro e una ricambiò con uno sguardo complice.
-Possiamo andare?- chiese Beth, dalla direzione opposta.
Cosa stava succedendo? Stavo entrando a far parte di un gruppo di ragazzine in paranoia per un attore famoso? Io però, a differenza loro, lo conoscevo davvero. Mi sembrava assurdo.
-Credo che sia arrivato il momento di sederci da qualche parte e discutere con calma di ieri sera- sentenziò Bethany. In realtà mi aveva già chiesto molte cose, ma io ero stata un po’ evasiva e lei era distratta da mille possibili acquisti.
Tenendomi per un braccio, mi portò verso un locale italiano, Ca’puccino. Dall’esterno, le grandi lastre di vetro che lo delimitavano spiccavano subito alla vista.
-Ti va di prendere un gelato, Dori?-
Acconsentii, soprattutto perché, a causa del raffreddore, avevo voglia di sedermi, e poi sapevo che avrebbe fatto comunque di testa sua.
Prendemmo posto in un divanetto basso e nero, accanto a una finestra da cui si vedeva l’interno del centro commerciale.
-Hai tante cose da raccontarmi, Dori, preparati!- esclamò la mia amica, euforica, dopo aver ordinato.
-Credo che tu abbia delle aspettative troppo alte-
-Vuoi dire che trovare la tua migliore amica che ha dormito con un figo non debba creare alcuna aspettativa?-
-Dico che non è quello che sembra- conclusi, mentre il cameriere ci portava i nostri gelati, il mio era gigante, con del cioccolato sopra, mentre il suo era semplice, magro e alla frutta.
Gustando il delizioso dolce, che però non sembrava affatto quello di casa, le raccontai della mia serata per filo e per segno, come piaceva a lei. Non c’era stato nessun momento romantico, solo momenti in cui mi ero imbarazzata più di altri.
-Senti, Dori, non è che semplicemente non ti accorgi di quello che sta succedendo? Ho visto come ti ha guardata, stamattina. Ti ha osservata per un po’, con quegli occhi stupendi puntati su di te, e poi si è riscosso dai sogni. Avanti, anche uno scemo capirebbe che non è normale.- Mentre parlava concitatamente, i riccioli ramati le ballavano intorno al viso, creando dei giochi d’ombre. Il nasino le si accartocciava quando faceva un’espressione buffa. Era proprio bella, da ogni punto di vista.
-Beth, non pensi mai che quello che dici tu non è necessariamente la realtà? Non c’era nessun altro in quella stanza, e tu sei bravissima a sognare. Inoltre, non ha mandato un messaggio fino ad ora-
-Sarà. Probabilmente si è andato a coricare- rispose lei, distrattamente.
Finito il nostro spuntino, chiesi a Beth di riaccompagnarmi a casa, visto che non mi sentivo del tutto bene.
 
Durante il tragitto, guardai la città attraverso il finestrino di sinistra. La Westway era carica di auto di qualsiasi colore e dimensione, ai lati, potevo scorgere i profili degli edifici che si perdevano nel nulla. I miei amici londinesi non avrebbero mai apprezzato la bellezza di quella città, ma io ero sempre più felice di essere lì. Non in Italia, non a Manchester ma a Londra.
Il rumore del clacson di Beth mi riscosse dai miei pensieri. Non era una guidatrice provetta e molto spesso avrei voluto guidare al posto suo, ma lei non me lo permetteva, dicendo che non ero abituata ad avere il volante a destra.
-Dori, io credo che dovresti sfruttare questa opportunità. Voglio dire, non posso giurare che è interessato a te, ma sicuramente ti vuole conoscere…-
-Per favore, Bethany, non dirmi quello che devo fare. Non voglio vedere qualcuno. Non voglio che qualcuno ci provi con me-
-Ma perché?!- Avevamo avuto quella discussione un infinito numero di volte, finiva sempre in un litigio e, appena se ne presentava l’occasione, lei ricominciava.
-Perché dovrei stare per forza con qualcuno? Perché dovrei fare l’oca?-
-Nessuno ti ha detto di fare l’oca, Dorotea, ti ho solo consigliato di svagarti un po’.- Ogni volta che si girava per guardarmi, notavo quell’aria di disapprovazione mista a una certa superiorità, come se lei fosse una donna vissuta, mentre io non sapevo affrontare la vita nel modo giusto.
-Consigliarmi? Tu non mi hai mai consigliato niente, Bethany. Sei sempre lì, perfetta, bellissima che ti imponi sugli altri, che vuoi che facciano quello che dici tu solo perché ti senti migliore di loro.- Questa volta si girò di colpo, finendo quasi su un’auto che stava svoltando da un incrocio. Non le avevo mai detto quelle cose, anche se forse, inconsciamente, le pensavo da molto tempo.
-Scusami se cerco di darti una mano. Sai, l’unica cosa che sai fare da sola è rinchiuderti in casa a mangiare.- Beth urlava con un tono sempre più alto. Cominciavo a riconoscere le strade.
-Grazie per avermi fatto capire che non sai niente di me, Bethany. Ora ferma questa macchina e fammi scendere. Me ne andrò a piedi-
-Bene- affermò, frenando un po’ troppo bruscamente. La voce le era tornata calma, troppo calma.
Aprii la portiera senza guardare, quasi colpendo un ciclista che mi urlò qualche insulto. Mi girai verso di lei per un secondo, lo sguardo fisso nei suoi occhi.
-Ciao- dissi soltanto.
-Buon compleanno, per lunedì.- Questo fu un duro colpo. Mi aveva appena comunicato che non aveva intenzione di farmi gli auguri, né di uscire con me, l’indomani e per un po’ di tempo.
Me ne andai appena capii dove mi trovavo. Sentii la macchina ripartire alle mie spalle con un brusco colpo di acceleratore.
Avevamo litigato alcune volte, io e Bethany, ma mai in quel modo. Probabilmente le avevo detto delle cose vere in un modo troppo duro. Ero troppo arrabbiata, però, per esserne pentita. Lungo la strada scrutai un’altra volta il cellulare: nessuna chiamata, nessun messaggio.

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Capitolo 9
*** Dorotea - Paul e il negozio. ***


Nonostante Io e Paul ci sentissimo poco a causa dei suoi impegni universitari, eravamo davvero buoni amici. Durante quel fine settimana, però, ero sicura di aver bisogno di lui. Sabato lo chiamai e gli chiesi di passare al mio appartamento.
Paul era un ragazzo dal fisico asciutto ma non troppo magro. Aveva un viso pulito e che esprimeva tranquillità, con una carnagione chiara ma macchiata da molti nei. Gli occhi erano nocciola e i capelli castani.
Appena mi vide, all’ingresso del mio appartamento, mi abbracciò così forte da sollevarmi da terra. Era molto più alto di me, un po’ come tutti.
-Che fine hai fatto, eh?- mi chiese all’orecchio, mentre ancora mi stringeva, con il suo solito accento greco. Paul era arrivato a Londra qualche anno prima, appena finita la scuola. Era di una famiglia abbiente di Mesologi, una città sul mar Ionio. Data la disponibilità economica, era subito andato a studiare Lingue Applicate a Birkbeck. Scegliendo di non prendere un appartamento in città, aveva preferito abitare con i suoi colleghi.
Appena gli sorrisi, mi lasciò poggiare nuovamente i piedi a terra, così gli dissi di sedersi al tavolo della cucina mentre preparavo un tè.
-Ho sentito che è successo qualcosa con Beth-
-Lo hai sentito da un uccellino?- chiesi sarcastica,visto che ovviamente glielo aveva detto lei.
-Possiamo dire così. Non voglio farmi i fatti vostri, Dori, però dovreste chiarire questa situazione. Lei vuole solo aiutarti -
-Lo so, dice di volermi aiutare, di agire per il mio bene e poi cerca sempre di litigare. Quella ragazza ha proprio una testa dura!- esclamai.
-E tu più dura ancora!- rispose lui mentre sorrideva. Era sempre così, riusciva a dire cose terribili apparendo quasi angelico -Che mi racconti, per il resto?- continuò.
-Riguardo?-
Lui mi guardò in cagnesco, e poi mi fece il verso.
-Ah, intendi quello. Sì, ho conosciuto un ragazzo. È molto carino, ma sicuramente non è alla mia portata. Senza contare che è scomparso-
-Tu hai provato a contattarlo?- mi chiese, mentre mi sedevo con lui, versando dell’acqua nelle due tazze diverse e sbeccate.
-Non voglio corrergli dietro, Paul, ha già migliaia di ragazze che fanno cose del genere. Non sono interessata a fare la fan sfegatata e poi ho paura, lo sai…-
Paul sorseggiava il tè bollente, guardandomi da sopra la tazza rossa. Le sue labbra, già abbastanza pronunciate erano diventate rosse a causa del calore, spiccando sul volto chiaro.
-So cosa pensi, ma io gli darei una possibilità, tanto per provare. Non sembra un cattivo ragazzo, Dori, sarebbe stupido perdere quest’opportunità. Non riesco nemmeno a immaginare cosa provi, ma so che hai bisogno di andare avanti.-
 
Lunedì, il trentuno ottobre, mi svegliai presto per andare a lavoro. Non mi sentivo eccitata per il mio compleanno, né avevo voglia di festeggiare.
Il cielo era plumbeo, un vento forte spazzava le strade ma non pioveva e l’aria era frizzante, entrava dentro il giubbotto attraverso le maniche e faceva rabbrividire.
Mi accorsi, prima in metro e poi in Oxford Street, che in città c’erano molti più turisti del solito. Era tutta la gente che veniva a passare le vacanze di Halloween. In effetti, ogni luogo era decorato a tema. Zucche intagliate spuntavano dalle vetrine dei negozi, così come festoni rappresentanti pipistrelli e altre figure spaventose.
Entrando in negozio, Amy mi accolse con un enorme sorriso.
-Dori! Buon compleanno!-
Mi limitai a sorriderle, sussurrando un “grazie”.
-Ti piacciono le decorazioni? Non ti senti un po’ a tema anche tu, stando qui?-
-Il mio umore si sente sicuramente a tema, Amy.-
Lei mi guardò con uno sguardo cupo. Proprio mentre stava per rispondere sentimmo i passi ticchettanti del capo reparto: Sheila.
Era una donna con lunghi capelli biondi, che di solito teneva legati in uno chignon e due occhi verde scuro, un fisico asciutto di chi fa molta palestra e una vera fissazione per il colore giallo. Si avvicinò a me con la sua solita aria sicura di sé e mi chiese di seguirla. Mi preoccupai molto a causa della mia assenza del il venerdì precedente.
-Come stai, Dorotea? Ho sentito che sei stata male.-
La gola mi si chiuse, così dovetti deglutire per cercare di far svanire il groppo.
-Sì, sono stata male, ma ora mi sento molto meglio-
-Oh, molto bene. Auguri di buon compleanno.-
Non capivo come mai avesse cambiato argomento così velocemente.
-Grazie mille-
-Comunque, ti ho chiamata perché oggi devi stare nel reparto musica, okay? C’è un nuovo ragazzo e voglio provare come va alla cassa. Sai già quello che devi fare.-
Passai la giornata ad ascoltare clienti più o meno simpatici. Qualche volta incontravo anche degli italiani, e facevo delle chiacchierate. Il reparto musica mi piaceva, ma non come quello dei libri. Leggere era una delle più grandi passioni e sapevo dare buoni consigli.
Alla fine della giornata ero esausta. Continuavo a sistemare i cd, distraendomi con i miei pensieri.
Com’era strano il comportamento di Jamie, era sembrato interessato a me, che avesse voglia di vedermi e poi era scomparso nel nulla. Per non parlare di Bethany, come se fosse normale dire…
-Posso disturbarti?- chiese una voce alle mie spalle. Doveva essere molto vicina, così mi spaventai e feci un brusco scatto, lasciando cadere il cd della colonna sonora de Lo Hobbit. Mi chinai subito a raccoglierlo, pregando che non si fosse rovinato. Il ragazzo, però, allungò una mano a sua volta, per aiutarmi.
-Scusa, solo un momento. Lasciami sistemare questo e dopo mi puoi chiedere quello che vuoi-
-Anche di uscire con me per il tuo compleanno?-
A quel punto mi girai di scatto. Jamie era lì, che sorrideva mostrando i suoi denti bianchissimi, le gote rigonfie a causa dell’espressione e gli occhi socchiusi. Rimasi a osservarlo per un tempo che mi sembrò lunghissimo.
-Come… Voglio dire…- in realtà, non avevo idea di quello che avrei dovuto dire.

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Capitolo 10
*** Jamie - Preparazione. ***


Ero ancora lì, di fronte a Dorotea. I suoi occhioni verdi, senza nemmeno un filo di trucco, erano spalancati da quando aveva capito che ero lì. Non sapevo se dire qualcosa di carino, stare zitto o scherzarci su.
-Non credevo di essere così brutto da traumatizzarti.- Optai per una battuta.
-Pensavo che non ci saremmo visti oggi, e poi cos’hai in faccia?- mi chiese sgranando ancora di più gli occhi.
-Trucco! È Halloween no? Avevi detto che è il tuo compleanno e ora ti porto in giro!- esclamai, sempre sorridendo.
-Ma io… guarda come sono vestita- esclamò tirandosi un po’ la t-shirt da lavoro. –Tu sei già pronto per festeggiare. Senti, ti ringrazio molto per essere venuto, per essertene ricordato e tutto il resto, ma non c’è bisogno.-
Rimasi interdetto per qualche istante, ma non mi persi d’animo.
-No, ehi, io ci tengo. Sono qui solo per te! Aspetto fino alle cinque, poi ti porto dalla mia amica che ti presterà qualcosa da mettere e ti truccherà.- Sulla mia faccia c’era già spalmato un po’ di cerone bianco e dell’ombretto nero per le ombre. Non avevo fatto un buon lavoro, ma sembravo decisamente più cadaverico del solito.
 
Mezz’ora dopo, ero su Oxford street ad aspettare Dorotea.
-Possiamo andare, sono pronta!- esclamò la ragazza, dopo esser passata dal retro del negozio.
-Bene. Ora seguimi, ho lasciato l’auto al parcheggio di Poland street-
-Non credevo fossi in macchina. Cioè, immaginavo l’avessi, ma in centro…-
-Lo so, non è molto intelligente. Pagherò anche un sacco di soldi, ma ora dobbiamo andare a Richmond.-
Lo sguardo della ragazza si accese un’altra volta.
-Ci si sta un sacco per arrivare a Richmond. Ci sono andata a cercare lavoro, una volta, e ci ho messo un’ora e mezza solo per arrivare!- Il suo tono era un misto di preoccupazione e confusione.
-In realtà, è molto vicina a Londra, diciamo che è attaccata, ma in metro sembra di andare dall’altra parte del mondo. Ci staremo soltanto mezz’ora con la macchina, sperando che non ci sia troppo traffico.-
Ovviamente, trovammo una coda lunghissima per gran parte della strada. Dorotea era girata verso il finestrino, sembrava che cercasse di cogliere ogni particolare di quello che vedeva. Le strade, gli immobili in mattoni rossi, le siepi curate. Io quasi non notavo più quelle cose. Avevo passato quasi tutta la mia vita a Londra, tranne il periodo del liceo. Spesso avevo anche voglia di andare via, e chiedevo a mio fratello di ospitarmi a Copenaghen per qualche giorno.
 
Un’ora dopo eravamo arrivati. La casa di Claire era l’unica bianca tra una schiera di edifici color mattone in Grosvenor road. Feci passare Dori prima di me dal cancelletto in ferro battuto che delimitava il piccolo giardino anteriore. Sul muretto erano posizionate tre zucche intagliate, che emanavano un bagliore soffuso. Suonai il campanello dorato, su cui c’era scritto “Wadley”. La mamma di Claire, una signora bionda e sovrappeso, aprì la porta. Aveva un cesto di caramelle in mano e delle mollette sulla testa.
-Non è ancora presto per suonare?- chiese, prima ancora di averci visti –Oh, Jamie! Scusami tanto, stavo cercando di sistemarmi per la serata. Credevo fossero già i bambini-
-Possiamo entrare, signora Wadley?-
-Certo, Claire sarà nella sua stanza. Sai dove andare. Tu sei?- Il suo sguardo si fermò su Dorotea che, evidentemente imbarazzata, continuava a fissarsi le scarpe.
-Dorotea, un’amica di Jamie- balbettò. La signora fece solamente un grande sorriso, e le guance già paffute sembrarono gonfiarsi.
Al piano superiore, la ragazza era intenta in grandi preparativi. Aveva indossato un vestito da infermiera e stava finendo di truccarsi da zombie. Le sue forme, già prominenti, erano ancora più in mostra a causa della divisa sexy. I capelli biondi le ricadevano sul seno in grandi boccoli. Si avvicinò a me e mi baciò su una guancia, i tacchi la facevano sembrare ancora più alta del solito.
-Claire, questa è la mia amica Dorotea. Come ti avevo accennato, le serve qualcosa da mettere e un po’ di trucco.-
La ragazza sorrise, scoprendo il piercing sotto il labbro superiore. Le sue braccia erano coperte di tatuaggi.
-Tranquillo, Jamie, vedrai che appena avremo finito non la riconoscerai nemmeno. Con la tua faccia, invece, che dobbiamo fare? Sembra che tu sia stato colpito da una pistola da paintball caricata a bianco e nero.- Ricambiai con una linguaccia, senza nemmeno rispondere.
-Io.. non credo di volermi vestire per Halloween. Sul serio, posso rimanere così- disse timidamente Dori.
-Che fai? La timida? Vieni qua e ti faccio vedere che ti piacerà.- Dicendo questo, la prese per mano e mi sbatté in faccia la porta della stanza.
Se si volesse pensare a due ragazze completamente opposte, si potrebbero prendere a esempio Dorotea e Claire. La prima era timida, introversa e cercava spesso di farsi da parte. Inoltre, era magra, piccola di statura e scura di capelli. Claire, invece, era alta, formosa e con i capelli biondi, che spesso tingeva con colori vistosi. Per non parlar del fatto che era sempre la prima a fare baldoria.
Nel tempo che impiegarono per sistemarsi, io riuscii a fare due volte il giro della casa, guardare la televisione, parlare con la madre di Claire per una buona mezz’ora e giocare con il cane nel giardino sul retro.
-Jaamie!- sentì urlare a un certo punto, quindi raggiunsi le scale, seguendo la voce della mia amica.
Credetti, per un secondo, di essere in presenza di una ragazza, del tutto diversa. Dori era in piedi sull’ultimo gradino, aveva un teschio disegnato sul volto ma non era quello che mi aveva illuso. Un tubino nero, che la ragazza continuava a tirare verso il basso, fasciava completamente il piccolo corpo, accentuando le forme che di solito erano nascoste dagli abiti larghi. Sulle gambe portava delle calze strappate e, ai piedi, le scarpe scure avevano un po’ di tacco, ma non troppo.
-Ho cercato di proporle qualcosa di più vistoso, ma lei continuava a ribellarsi-
-Credo che andrà benissimo, Claire, grazie- esclamai, attonito. Dovevo sembrare davvero uno stupido, infatti la ragazza rise di gusto.
Per la seconda volta, prese la mano di Dori, poi anche la mia e urlò –Mamma! Noi andiamo alla festa! Non aspettarmi per la notte, va bene?-
-Non fate niente di male, ciao!- si sentì dall’altra stanza.
 
La casa in cui eravamo capitati era letteralmente una regia. Non sapevo di chi fosse perché mi aveva invitato Dan, il nostro batterista. Le luci si scorgevano ancor prima di immettersi in Friars Stile road. Dovevano esserci già un centinaio di persone, ed erano solamente le otto di sera; molti degli invitati sarebbero arrivati a fine serata. All’esterno, un enorme prato si apriva subito dopo il marciapiede. Parecchi ragazzi passeggiavano e chiacchieravano, salutando me e Claire al passaggio. Appena entrammo, notai il locale ampio, col parquet a terra e delle luci soffuse. Qua e là, erano posizionate decorazioni a tema e tutto, in quella casa, sembrava costoso.
-Allora, che ne pensi?- chiesi a Dori. I suoi occhi verdi sembravano ancora più grandi e accesi, contornati da tutto quel nero.


N.d.A.: Ciao belli! Non mi piace lasciare note, quindi giusto due parole.
Non credo che esista, né esisterà mai un posto come l'ultimo descritto, a Richmond, quindi prendetela con filosofia se non vi quadra qualcosa.
L'amica di Jamie, Claire, esiste veramente, anche se con un altro cognome. Io, personalmente, non so chi sia, quindi è decisamente un'OOC.
Visto che sono qui, ne approfitto per ringraziare tutte le personcine carinissime che mi seguono e commentano. Grazie a voi mi viene ancora più voglia di scrivere (anche se scriverei in ogni caso ahah).
Questo è tutto. A presto, con il prossimo capitolo! Un bacio!

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Capitolo 11
*** Dorotea - Il Party. ***


Mi sembrava di non aver mai visto, né a Londra né tantomeno in Italia, tanto splendore tutto insieme. Il grande ambiente del loft brillava a giorno, nonostante non arrivasse pressoché alcuna luce dalle grandi finestre a parete. La sala era colma di persone, alcune in piedi, altre sedute su lunghi divani di pelle nera, adornati da discutibili cuscini pelosi rosa fluo e viola. Un megaschermo, sulla parete di fondo, stava trasmettendo un horror in bianco e nero senza suono, o forse il suono c’era ma era coperto dalla musica rock diffusa da altoparlanti invisibili. Alle pareti, inoltre, erano attaccate chitarre e poster di gruppi rock storici.
-Jamie, scusa se te lo chiedo, ma dove siamo finiti?- gli urlai, visto che la musica sovrastava tutto.
-Vuoi la verità? Non ne ho idea, tu divertiti e non ci pensare!- esclamò accostandosi a me. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena mentre le sue labbra sfioravano il mio orecchio.
Senza pensarci due volte, Jamie si diresse verso il lungo tavolo degli alcolici, mentre Claire stava già riconoscendo qualche amico, che abbracciava appassionatamente. Jamie mi guardò da lontano, facendo segno di avvicinarmi.
-Allora, tu cosa bevi? Io penso che comincerò da una birra.- Sul tavolo era posizionato qualsiasi genere di bevanda, più alcuni stuzzichini.
-Credo che berrò soltanto un succo di frutta, per ora-
-Dai! Insomma, sei a una festa di queste proporzioni, ci divertiremo da morire e…- Qualcuno diede una potente pacca sulla spalla di Jamie.
La prima cosa che notai, appena mi girai verso il ragazzo alto dietro di lui, erano tutti i tatuaggi che portava sul corpo: mani, braccia, collo, perfino uno, piccolo, sul viso. Era Oliver Sykes dei Bring Me the Horizon. Non ci potevo credere, avevo passato la mia adolescenza ad ascoltare la loro musica, anche se oggi non mi piaceva più. Accanto a lui c’era una bellissima ragazza, alta, magra, anche lei zeppa di tatuaggi. Il suo viso era tanto bello, anche se truccato con del sangue finto, da farmi venire voglia di nascondermi.
-Jamie! Allora sei qui! Mi avevano detto che non sapevi se saresti potuto venire, che dipendevi da una ragazza!- esclamò Oli, già evidentemente su di giri. Aveva detto che dipendeva da me?!
Jamie diede un colpo di tosse, poi rispose.
-Lei è Dorotea -
-Piacere, Oliver- rispose sorridendo. Appena gli diedi la mano si abbassò a baciarmela teatralmente. Le guancie mi bruciarono all’istante.
-Io sono Hannah, forse non ci siamo mai incontrati, vero Jamie?-
-Non credo- rispose lui con un gran sorriso.
Solo in quel momento notai il bellissimo vestito che portava la ragazza. Era nero, di una stoffa che sembrava quasi carta velina. Uno scollo all’americana risaltava il seno che invece era piuttosto piccolo. Appena sotto, si diramava una lunghissima gonna che le sfiorava i piccoli piedi, coperti da scarpe con un plateau altissimo.
-Allora, cosa beviamo? Tu vuoi del vino rosso, vero Dorotea? Devi essere italiana o qualcosa del genere, no? Questo vino è italiano.- Oli parlava così tanto e così speditamente che si faceva fatica a seguirlo.
-No, veramente…- Mentre tentavo di dire la mia, lui mi aveva già mollato in mano un bicchiere di plastica trasparente pieno di liquido rosso. Mi piaceva il vino, in effetti, ma era così tanto tempo che non andavo ai party da essermi dimenticata il sapore dell’alcol.
Appena tutti ebbero un bicchiere in mano, ci spostammo verso i divani, dove Oliver chiese ai ragazzi di alzarsi. Io non l’avrei mai fatto, nemmeno se fosse stata casa mia.
Ci sedemmo tutti a parlare. Hannah era una delle persone più carine e simpatiche che avessi mai conosciuto. A differenza di Bethany non cercava di soverchiare gli altri nelle conversazione, faceva molta attenzione alle tue parole, ma nello stesso tempo era disinibita e senza peli sulla lingua.
Dopo aver bevuto mezzo bicchiere, mi sentivo già con la testa tra le nuvole. Jamie, seduto dalla parte opposta ad Hannah sembrava invece molto tranquillo, ma a un certo punto cercò la mia mano.
Non sapevo che fare, non ne avevo idea, poi, quasi di scatto, incrociai le dita con le sue. Hannah sorrise.
-Dovreste stare insieme- mi disse all’orecchio. Io le risposi soltanto con un’espressione interrogativa. –Sembri così dolce- continuò -e distante dai suoi cliché. Saprai già che è stato un donnaiolo, ma Oliver mi ha detto che dopo l’ultima ragazza si era stufato di tutto. La verità è che ai nostri ragazzi non servono tipe del genere. Tutto il discorso della fama è una gran seccatura a volte, ma tu sembri perfetta per lui.-
A ogni parola, le mie guance si facevano più rosse, mentre ringraziavo il cerone per coprirmi il volto. Di tanto in tanto, Oliver si faceva portare da qualcuno delle cose da bere, ma io declinai tutto. Gli altri, invece, sembravano già più ubriachi di me.
-Non è che mi accompagni al tavolo? Sono digiuno- chiese Jamie al mio orecchio destro, urlando.
Hannah, che ovviamente aveva sentito tutto, mi fece l’occhiolino. Si appiccicò a Oliver appena ci alzammo, lui si girò e la baciò a lungo.
-Che fai? Andiamo?- gridò di nuovo Jamie, tirandomi la mano, non notando nemmeno la scena.
Arrivati al tavolo, capii che dovevano essere passate parecchie ore senza che me ne accorgessi. La tovaglia era letteralmente un disastro, molti ci avevano versato bevande e il cibo era pieno di liquidi colorati e sembrava essere stato toccato da tante persone.
-Pensi di prendere qualcosa?- chiesi in tono dubbioso.
-Mi è passata la fame. Vieni, sediamoci un secondo.- Detto ciò, si accasciò vicino al muro, ben lontano dalla macchia grigia. Io mi sedetti accanto a lui.
-Volevi parlarmi?- chiesi, tanto per dire qualcosa.
-Stiamo un po’ qui, mi sono stufato del divano. Guarda un po’- disse, indicando un punto in mezzo alla stanza. Claire stava ballando su un tavolino e mimava di suonare una chitarra. Molte persone erano in cerchio attorno a lei, e poco dopo alcune ragazze si unirono alla sua strana danza.
-Non è una ragazza molto timida, mi sa- esclamai ridendo.
-Tu invece sì, però.- Jamie fece un sorrisone, e mi sfiorò la punta del naso con un polpastrello.
Di nuovo, sentii le guance avvampare. Lentamente, vidi il volto di Jamie avvicinarsi, i suoi occhi si socchiusero, in un’espressione quasi angelica. Sentii il suo fiato sulle mie labbra, sapeva di alcol ma era comunque buono. Appena mi baciò, mi sentii come investita da una raffica di emozioni. Stupore, desiderio, gioia. Era come se dentro la mia testa ci fosse tutto e niente insieme. Le sue labbra erano così morbide, e le sue mani, sul mio collo, avevano un tocco delicato e leggero. Lentamente, lasciai scorrere le mie dita tra i suoi capelli, sottili e ingarbugliati come sempre. Nel momento in cui il suo corpo si accostò al mio, un’ondata dell’odore di Jamie mi penetrò le narici. Sapeva di uomo, di fresco, di buono.
Solo dopo un momento lunghissimo mi staccai. Troppo vergognata per guardarlo negli occhi, lo abbracciai e poggiai la mia testa nell’incavo della sua spalla. Jamie mi diede un bacio sui capelli.

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Capitolo 12
*** Jamie - Festa. ***


Baciarla era stato emozionante.
Non credevo di poter provare ancora qualcosa del genere, ma non potevo negarlo. Avrei voluto prenderla in braccio, senza mai staccare le labbra dalle sue. Avrei voluto dare sfogo alla mia passione, al calore che sentivo partire da un punto indefinito della pancia, o forse più giù, e diramarsi fino alla punta delle dita. Nonostante tutto quello che avrei voluto fare, non feci niente. Mi limitai ad accarezzarle le guance e le braccia nude, senza esagerare.
-Jamie!- Sentii urlare alle mie spalle, la voce che sovrastava appena la musica e il chiacchiericcio.
Mi girai e apparvero i ragazzi della band. Erano tutti lì, alcuni con una ragazza. Tristan, invece, era completamente ubriaco, da solo e indossava una tutina nera su cui erano stampate le ossa dello scheletro.
Appena notarono la ragazza appoggiata a me cominciarono a fare ripetuti occhiolini e strani gesti con le mani. Dori, che aveva visto tutto, si nascose dietro la mia spalla in preda alla vergogna. Aveva un po’ del mio trucco spalmato in viso, e io dovevo averne del suo.
-Non ti preoccupare, fanno sempre così. Non sono cattivi, imparerai ad amarli come fanno tutti-
-Oh, non ne dubito. Sono io a essere troppo timida- rispose, sollevando leggermente un angolo della bocca in un sorriso forzato.
Mi girai verso i miei amici e notai che se ne stavano andando, con il palese obiettivo di lasciarci da soli. Appena tornai a guardare il volto di Dori, i suoi occhi verdissimi mi catturarono, occupati a scrutarmi. Senza pensarci due volte, le misi una mano sotto il mento e la baciai di nuovo. Lei, questa volta, fu più disinibita. Non che facesse nulla di particolare, ma lo sentivo da come mi baciava, da come mi toccava.
Era quella magia dei primi baci, incredibilmente potente, che ti fa desiderare l’altra persona più dell’aria che respiri. Cominciai a posare la mano sui suoi fianchi, a toccarla sempre più passionalmente, con la voglia, repressa, di avere il suo corpo tutto per me.
Sentii le sue mani sui miei polsi; li stringevano, allontanandomi da sé.
In un attimo si ritrasse, quasi avesse preso una scossa. La sua espressione, da dolce e sognante, si era fatta contratta, non avrei saputo bene come interpretarla.
-Scusa- sbiascicò a voce tanto bassa che fu difficile sentirla. –Vado in bagno. Scusa- ripeté.
Non sapendo bene come comportarmi, rimasi seduto ad aspettarla. All’inizio pensai che si fosse sentita male. Non aveva bevuto molto, ma non sembrava una persona abituata all’alcol. Non mi sembrava nemmeno giusto seguirla, però, visto che mi aveva chiaramente invitato a lasciarla da sola.
Un po’ di tempo dopo, decisi che forse Dori non si era sentita male, era solo scombussolata e mi avrebbe visto ugualmente, se avessi raggiunto i ragazzi della band, Oliver e Hannah, sul divano.
-Jamie! Sei da solo? Dov’è la tipa?-
-In bagno. Vi prego, non fatela scappare appena tornerà!- urlai in risposta a Dan, ma rivolto un po’ a tutti.
Passai del tempo a parlare con gli altri, ma lo sguardo e la testa erano sempre diretti verso la sala, nel punto in cui si trovava il bagno. Continuai a scrutare finché non notai la figura piccola e snella di Dori farsi spazio tra la gente. Aveva il volto un po’ più pallido del solito e i capelli intorno al viso leggermente bagnati. Doveva essersi sciacquata la faccia, provocando la totale disfatta del trucco.
-Tutto a posto?- le sussurrai appena si sedette accanto a me.
-Scusami, sul serio. Non so cosa mi sia preso-
-Ho fatto qualcosa?- continuai a chiedere al suo orecchio, mentre le poggiavo un braccio attorno al collo.
-No. Non pensarci nemmeno. Sono solo io.- Queste ultime parole avevano un tono perentorio, come se volesse concludere il discorso. Così, poggiò la testa sulla mia spalla, socchiudendo gli occhi.
 
Sentivo il peso del corpo di Dori su di me, in preda a sogni che la facevano scuotere un po’. La festa imperversava ancora nella casa, la gente urlava e si sentiva male, ma lei riusciva a dormire beatamente sulla mia spalla.
-Scusate, ragazzi, devo portarla a casa- dissi agli altri. Un coro di lamenti si levò in risposta, ma io avevo già issato la ragazza sulle mie braccia. La testa le ricadeva un po’ all’indietro, il trucco, ormai, si dilatava senza forma sul suo volto.
Provai a cercare Claire con lo sguardo, trovandola in un angolo; appena mi notò fece un gesto con la mano, per salutarmi e dirmi di andare senza di lei.
Da quando avevo baciato Dori, alcune ore prima, non avevo più toccato alcol, perciò avevo deciso di guidare verso casa. Non avevo voglia di piombare nell’appartamento di Dori senza il suo consenso, così avevo optato per portarla da me.
Uno dei più grandi vantaggi della mia decisione, fu non dover fare quattro rampe di scale con la ragazza tra le braccia. Appena salimmo nella mia stanza, le tolsi le scarpe e la posizionai, ancora vestita, sotto le coperte. Io, invece, dopo essermi struccato e cambiato, mi sistemai sopra di esse. Dopo qualche attimo piombai in un sonno profondo e senza sogni.

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Capitolo 13
*** Dorotea - Paure. ***


Lentamente, come quando ci si sveglia dopo un sonno profondissimo, ripresi coscienza. Notai subito l’ambiente bianco, quasi asettico che contrastava con il telaio ligneo delle finestre.
Sapevo di essermi addormentata alla festa, la sera prima, perché mi ricordavo di aver lottato contro il sonno, contro le palpebre che si abbassavano pesantemente, a causa di una giornata di lavoro. Quello, però, non era l’ambiente della festa. Mi girai sul fianco sinistro e mi accorsi che Jamie era accanto a me, dormiva con indosso soltanto i pantaloni della tuta, il trucco sulla sua faccia era stato tolto frettolosamente, lasciando diversi segni neri e bianchi.
Istintivamente, mi ritrassi da lui e mi passai una mano sulla spalla, guardando il mio corpo, per capire se fosse successo qualcosa che non ricordavo. Niente. In fondo, Jamie era un bravo ragazzo, si era fermato istantaneamente quando, per me, stava esagerando. Notai anche che indossavo ancora l’abito e le calze della sera prima, e sfiorandomi il volto, una striscia di colore venne trasferita sulla mia mano.
Lentamente scesi dal letto, ebbi un piccolo brivido quando il mio piede nudo toccò il parquet freddo, poi mi avviai, con passo felpato, verso la scala. Il piano inferiore era elegante e pulito, a eccezione delle cose che Jamie aveva buttato per terra la sera prima: i cappotti, le sue scarpe, la mia borsa. Non sapendo cosa fare da sola in quella casa così perfetta, mi avviai verso il divano di tessuto grigio rivolto verso il camino, su cui mi sarei accoccolata. Quel posto non sembrava per niente nello stile del ragazzo e ricordai quando mi aveva detto che anche casa sua era molto confusionaria.
Che bello frequentare gli attori, possono prenderti in giro quanto vuoi. Avevo appena pensato alla parola “frequentare”. Poteva avere molti significati, nell’ambito di una coppia, ma io avrei solo e comunque dovuto interderla come “passare del tempo”. Non dovevo illudermi di niente, Jamie era un attore famoso, un uomo che aveva tante possibilità con le ragazze, come potevo sperare che volesse “frequentarmi”? Probabilmente, appena sveglio, mi avrebbe chiesto di andarmene.
-Dori! Mi sono svegliato da solo e pensavo fossi andata via- sbiascicò la voce di Jamie alle mie spalle, più profonda del solito. Appena mi girai, lo vidi sul penultimo gradino, ancora a petto nudo che si stropicciava un occhio. Il suo fisico era praticamente perfetto, certo, era molto magro ma i muscoli spuntavano sotto la sua pelle, coperta da parecchi tatuaggi.
-Scusa, non sapevo cosa fare…- risposi, scuotendomi dai pensieri rivolti al suo corpo.
Lui si limitò a sorridere e si sedette accanto a me, poi mi sfiorò il viso con una mano. Sentii un brivido propagarsi dalla guancia verso tutto il corpo.
-Dovresti fare una doccia-
-Oh- esclamai, come aspettandomi qualcos’altro –Allora mi sa che tornerò a casa, prenderò un taxi.- feci per alzarmi, ma la mano di Jamie mi trattenne un polso. Non fu un’azione repentina, e lui non  strinse per niente, ma in uno scatto inconscio ritirai la mano.
-Ti ho fatto male? Non l’ho fatto apposta, mi dispiace. Volevo solo dirti che puoi rimanere qui, puoi farla qui la doccia-
-Non mi hai fatto male. Scusa, Jamie - risposi in tono dolce, mentre mi sedevo di nuovo accanto a lui.
-Ah, bhe… meglio così-
-Comunque dovresti farla anche tu una doccia- gli dissi, mentre ridevo guardando le sue sopracciglia biondissime che erano diventate grigie.
-Possiamo farla insieme, se pensi di non saper decidere chi dei due debba andare prima.- Il suo tono era arrogante e ammiccante. Scoppiai a ridere, dandogli uno schiaffo sul braccio.
-Mi ritiro, ti lascio il posto!- esclamai.
Lui, per niente demoralizzato, si prostrò verso di me, poggiando le labbra sulle mie. Di nuovo, sentii qualcosa bruciare, o bollire, dentro. Mettendogli una mano sul viso, toccai gli zigomi, alti e squadrati. Intanto, le sue mani mi stringevano, premevano sul mio corpo, cercavano di avvicinarmi a lui. Era la sensazione più forte e istintiva che avessi mai provato. Tutto il mio corpo chiedeva a gran voce di unirsi al suo, ma la testa non era d’accordo.
Non so cosa fece esattamente, quali furono i gesti che mi portarono a scattare. So solo che provai una grande paura, o meglio un grande panico. Mi staccai da lui con tutta la forza che avevo in corpo, quasi con violenza.
-Lasciami!- gli gridai in faccia. Mentre notavo la sua espressione stupita, imbarazzata e quasi ferita.
-Dori, cosa ho fatto?-
Mi allontanai dal divano senza rispondergli, cambiando addirittura stanza e andandomi a sedere al tavolo della cucina. Non sapevo quando avessi cominciato a piangere, ma ora capii che delle grosse lacrime mi solcavano il viso e il pianto, da inconscio e silenzioso, diventò isterico, un pianto da panico.
Passati dei lunghissimi momenti, sentii dei passi dietro di me, erano lenti e silenziosi. Non vidi niente perché tenevo il viso stretto tra le mani, e le ginocchia al petto ma sentii sussurrare dal basso.
-Dori…- Da una fessura delle mie dita, vidi Jamie rannicchiato a terra, accanto alla sedia.
Avrei voluto smetterla, dire che non era niente, come avevo fatto la sera prima, ma il pianto colmo di paura non riusciva a essere contenuto.
-Ti prego, vattene.- Mi uscì dalla bocca. Non volevo offenderlo, non avrei nemmeno voluto veramente che se ne andasse.
-Posso rimanere qui in silenzio finché non ti calmi?-
Mi limitai ad alzare e abbassare la testa, acconsentendo.
Dopo tantissimo tempo, riuscii a non piangere più, ma preferii non scoprire il viso.
-Penserai che sono pazza- sussurrai. Se Jamie non fosse stato così vicino non l’avrebbe mai sentito.
-Non penso che tu sia pazza, vorrei solo capire cosa ho fatto e cosa c’è che non va.- La sua voce era dolce e bassa, quasi sussurrata e trasmetteva grande calma.
-Te l’ho già detto, non hai nessuna colpa. È tutta colpa mia, sono io. Mi dispiace tantissimo. Ti conviene buttarmi fuori da casa subito, così da non darti più fastidio-
-Io non butto fuori da casa nessuno, tanto meno te.- Mentre parlava, la sua mano si avvicinò a me, sentii sfiorare la mia pelle del mio braccio, ma poi se ne distaccò in fretta, quasi preso da una scossa. Adesso aveva paura di toccarmi.
-Jamie, io non voglio crearti problemi- sbiascicai, con la bocca accostata alle ginocchia.
-Facciamo così, ora ti faccio un tè, poi ci sediamo a terra nell’altra stanza e parliamo un po’, okay? Io faccio sempre così quando devo pensare.-
Di nuovo, annuii senza dire una parola.
 
-Non vorrai ascoltare questa storia- sussurrai, seduta sul tappeto più morbido che avessi mai visto.
Jamie era accanto a me e io gli tenevo la mano, tracciando linee immaginarie sopra il tatuaggio sulla sua mano destra. Non lo guardavo in faccia, non l’avevo guardato nemmeno una volta, dopo quello che era successo.
-Lascia decidere a me se la voglio ascoltare.-

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Capitolo 14
*** Jamie - Il racconto. ***


-Prima di tutto, voglio dirti che ti ho mentito.-
L’espressione di Dorotea mi era nascosta ma sentivo le sue dita sfiorarmi la mano, leggermente e senza sosta.
-In che modo?- Cercai di usare il tono più pacato possibile, ma non sapevo cosa aspettarmi.
-Sul mio passato, ti ho mentito sul mio passato. È vero che ho vissuto in Italia per tanti anni, ma in seguito mi sono trasferita a Manchester.-
-È come avevi detto, sei stata a Manchester da sola, per un po’.-
-È qui che ti sbagli. Ho finito il liceo in Inghilterra, i miei genitori si sono trasferiti con me, poi sono scappata da casa. Non mi piace parlare di loro, così preferisco dire di averli lasciati in Italia e basta.-
-Perché? Perché non parli mai di loro?-
Dori ebbe un leggero brivido, la mano le si contrasse per un istante. Era così minuta, in quel momento, che sentivo il bisogno di stringerla, ma non lo feci.
Vidi Dorotea spostarsi verso di me, fino a poggiare la testa sulla mia scapola. Avevo indossato una leggera felpa, prima di sedermi e a lei avevo prestato dei vestiti di mio fratello, stretti per me ma comunque giganti sul suo corpo.
-Posso poggiarmi? Non ce la faccio a continuare, altrimenti.-
-Senti, se non sei in vena, se non ci riesci, non devi parlare per forza.-
-No, ascolta.- Fece un lungo sospiro, poi cominciò –I miei genitori non sono mai stati una coppia perfetta. Ricordo i loro litigi fin da quand’ero molto piccola, anche in pubblico. In ogni caso, la mia infanzia fu abbastanza felice, e i problemi cominciarono appena diventai un’adolescente. Come tutti i ragazzini avevo la testa dura e un carattere decisamente ribelle, mi piaceva fare tutto quello che mi vietavano, infrangere le regole e andare sempre oltre. Nessun genitore accetterebbe una cosa del genere, né lo fecero i miei. Inizialmente, avemmo comuni litigi ma con il passare del tempo le cose peggiorarono.
Capiresti meglio se conoscessi mio padre, ma non importa. Sappi soltanto che è la persona più mentalmente instabile, infantile e meschina che tu possa immaginare. Per me, lui non è un uomo, non si merita questo nome.-
-Dorotea… cosa vuoi dire?-
-Non so quando cominciò tutto, non lo ricordo o forse non voglio ricordare, ma un certo punto quello prese ad alzare le mani su di me. Una volta mi fece sbattere contro un muro così forte da farmi vedere le stelle, un’altra volta mi legò con una cintura e…-
La ragazza non fu capace di continuare, si era rannicchiata a terra, le mani strette attorno al petto e singhiozzava sommessamente. Mi voltai di scatto, cercando di guardarla in faccia.
-Dori! Sul serio?! Non l’hai mai detto a nessuno? E tua madre?!- Sentivo il cuore pulsare in gola, in un impeto di rabbia.
-Non… non ne ho mai parlato. Mia madre lo sapeva, sapeva tutto e non ha mai mosso un dito, ha avuto sempre troppa paura, quel coniglio!- Dorotea parlava a denti stretti, il volto contratto in un’espressione di rabbia e disgusto. –Sai cos’ha detto una volta? “È pur sempre tua figlia”. Sono le uniche parole che abbia mai, mai pronunciato per difendermi. “È tua figlia”.-
Un nuovo ascesso di pianto isterico scosse il piccolo corpo della ragazza. Istintivamente, le sorressi le spalle con le mani, pentendomi all’istante del mio gesto. Quando le ritrassi lei mi bloccò.
-No, Jamie.- Mi guardò per la prima volta, dopo tantissimo tempo, mentre si asciugava le lacrime dal viso con una manica troppo lunga. –Io non ho paura di te, non ho paura dei ragazzi. Non volevo averli vicino, non volevo averci niente a che fare, e basta. Con te, però, non ci riesco. Dalla prima volta in cui ti ho visto, ho sempre avuto voglia di stare con te e non mi era mai capitato. Non ho paura del tuo tocco, delle tue mani. Solamente, il mio corpo reagisce appena perdo il controllo della situazione.-
Non sapevo cosa dire, come comportarmi. Le accarezzai lentamente il viso, asciugandole una lacrima.
-Anche per me è stato diverso. Non sei come con le altre che ho conosciuto. Non avevo voglia di portarti a letto, di divertirmi e basta. Sentivo, invece, di voler passare del tempo con te.-
-Però la voglia fisica conta.- La guardai negli occhi, cercando le parole.
-Ma…-
-Non mi prendere in giro, Jamie, non te ne sto facendo una colpa. Sei umano, è del tutto normale. Il problema qui sono io. Non so se sarò mai capace di comportarmi come le altre ragazze. Non ho mai avuto un rapporto con nessuno, né qualcosa che ci si avvicinasse. Permetto raramente di toccarmi con troppa foga perfino alle ragazze, a parte la mia migliore amica, che però forse non lo è più, e fuggo dagli abbracci. Lo dico per il tuo bene, Jamie, lasciami perdere, non voglio essere il tuo problema.-
-Ancora una volta, credi di sapere cosa sia meglio per me.- Il mio tono era stato forse un po’ troppo duro, così continuai in modo più pacato. -Non ho intenzione di mollare, Dori, ma solo se mi prometti che ci crederai anche tu. Se tu ci credi io ci credo.-
Vidi nei suoi occhi un improvviso bagliore. Era come se mi guardasse per la prima volta.
-Io ci credo- sussurrò, mentre si gettava sul mio petto, in un mare di lacrime.
 
Non parlammo più per una decina di minuti. Lei era appoggiata su di me, senza emettere un suono. I suoi capelli mi solleticavano il collo e sotto il mento, mentre guardavo un punto indeterminato del soffitto e le accarezzavo la testa.
-Ehi- sussurrai, poggiando le labbra sui suoi capelli, vellutati e morbidi.
Alzò leggermente il viso, guardandomi dal basso. In quella posizione i suoi occhi sembravano ancora più grandi e profondi, riuscivo a vedere alcune venature giallo paglierino immerse nello sfondo verde.
-Vedi questo tatuaggio?- indicai il mio braccio destro, in cui si diramavano dei ghirigori scuri. Lei mi afferrò l’avambraccio, scrutandolo.
-C’è scritto: Love always and forever 1989.-
-L’ho fatto per mia madre, per ricordarmi sempre chi sono. C’è anche un altro motivo, però: ho sempre voluto donare qualcosa di bello agli altri, sono convinto che tutti abbiano bisogno di amore. Se tu me lo permetterai, cercherò di fare il mio meglio per vederti felice, proverò a farti andare avanti, andremo avanti insieme.-



N.d.A.:
Okay, spero di essere stata abbastanza brava a scrivere questo capitolo, visto che l'argomento poteva essere molto serio ma anche molto banale. Ecco, spero di non essere stata banale. Ho ricontrollato e riscritto tutto molte volte.
In ogni caso, scrivo questa nota soprattutto per RINGRAZIARE (e ringraziare in maiuscolo!) tutti i miei lettori. Siete davvero carini e mi fa molto piacere sentire i vostri pareri.
Grazie, grazie, grazie!
Se potessi, vi abbraccerei tutti.
-Philly

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Capitolo 15
*** Dorotea - In viaggio. ***


L’autunno di Londra è un’esplosione di colori. I parchi si tingono di tutte le sfumature di rosso, giallo e marrone. Perfino in strada si raccolgono dei mucchietti di foglie, che cascano da alberi posizionati in file rigorose lungo i marciapiedi.
Holborn non faceva eccezione. L’intera zona sembrava intonarsi con le facciate di mattoni, come in un quadro. Il Sole splendeva come nei giorni precedenti e l’azzurro chiaro del cielo era macchiato soltanto da alcune nuvolette, che passavano a gran velocità.
Quella mattina, un uomo sulla cinquantina stava grattando per terra con un grosso rastrello metallico, un rumore stridulo disturbava la quiete mentre impilava i residui della nottata ventosa in vere e proprie montagne. Fischiettava, guardando al di là della strada, al di là di tutto. Nonostante stesse lavorando dalle sei del mattino, nonostante fosse solo, sporco, e ci fossero in giro soltanto pochi turisti che vagavano ubriachi dalla sera prima, lui sembrava felice, sereno e in pace.
Avrei voluto prendere il suo posto per un solo momento.
Vidi una mano sottile appoggiarsi al vetro, accanto alla mia faccia. Le mani di Jamie erano incredibilmente grandi ma, allo stesso tempo, affusolate e delicate. Mi girai verso di lui, issandomi sul piano rivestito di legno, sotto la finestra, e sedendomi su di esso con le spalle attaccate al vetro gelido.
-Cosa guardi?- mi chiese mentre fissava un punto oltre la mia testa, fuori.
La luce che gli illuminava il volto faceva assumere ai suoi occhi una sfumatura ancora più azzurra e i capelli scompigliati e crespi formavano un’aureola dorata attorno al viso. Aveva un’espressione seria e assorta.
-Mi ero fermata a guardare quel tipo. Sembra così tranquillo.-
-Tu non lo sei?-
-Non sono mai stata così preoccupata in vita mia.-
Finalmente mi guardò negli occhi, prima con la sua aria grave che però si sciolse presto in un sorriso.
-Ti ho detto che ti sarò accanto, quindi non pensare a niente. Ora vai a sistemarti. Sbrigati.-
-Dici di sistemarmi quando hai indosso soltanto una maglietta sporca e dei boxer. Predichi bene e razzoli male!-
-È un modo di dire italiano? Comunque io ci sto un secondo a prepararmi, non come te. Ora vai.-
Nonostante avesse un’espressione truce e un tono brusco, poggiò le labbra sulle mie in un leggero bacio. Mi alzai facendogli una linguaccia e lui mi rispose con l’espressione più brutta che riuscisse a fare, che in ogni caso era sempre molto bella.
 
Al primo passo fuori casa, notai come la bella giornata fosse una fregatura. Il cielo era sì quasi totalmente libero dalle nuvole, ma l’aria era così fredda da farmi rabbrividire e battere i denti.
Ci dirigemmo verso il garage in cui era conservata l’auto di Jamie. Una decappottabile nera, accattivante e perfettamente lucida.
-Non ricordo di essere salita su questa macchina, l’ultima volta- constatai con aria stupita. Sembrava molto, molto costosa.
-Non ci sei salita. Ti presento la cosa più simile a una figlia che io abbia mai avuto, non le fare del male o sarò costretto a ucciderti.-
Mentre lo fissavo come per dire “Tu sei completamente pazzo”, notai gli interni in pelle rossa e i sedili imbottiti che sembravano incredibilmente comodi.
 
-Perché hai voluto prendere la macchina?!- chiesi, mentre l’aria gelata mi faceva lacrimare.
-COOME?- urlò, allungando il collo verso di me. La camicia chiara che si era messo era ampiamente sbottonata sul davanti e svolazzava. Portava anche degli occhiali scuri. Io, intanto, mi stringevo nel cappotto felpato.
-Quale pazzo prenderebbe la macchina per un viaggio di quattro ore, in Inghilterra?!- gli gridai proprio dentro l’orecchio, forse un po’ troppo forte.
-Che c’è di male?-
-Avremmo potuto prendere il treno, Jamie!-
-E va bene, volevo far fare un giro a lei- esclamò, dando un colpetto sul volante –Non esce da tanto tempo.-
-Sembra che tu stia parlando di un animale domestico. Promettimi che appena sarai stanco lascerai guidare me, va bene?-
-Agli ordini!- Mimò un saluto militare.
Tenendo una mano davanti agli occhi, scrutai la strada al mio fianco, la M40.
Sentivo il cuore in gola, il battito accelerato e una strana sensazione di ansia e nausea ogni volta che mi fermavo a pensare, quindi preferii concentrarmi sul panorama. Subito dopo il bordo della strada si estendeva una distesa interminabile di steli giallognoli che ballavano a causa del vento. Una volta ogni tanto si scorgeva il profilo di qualche stabilimento, con alte canne fumarie che sembravano toccare il cielo. Ancora più in là si scorgevano i profili dei boschi, di cui si riconosceva soltanto il verde intenso. L’aria era completamente diversa da quella londinese, sembrava pulirti i polmoni a ogni respiro.
-Mi piaci quando scruti l’orizzonte. Fa tanto immagine poetica. Se ora ti facessi una foto e la mettessi su Twitter piacerebbe a un sacco di ragazze.-
-Non la metteresti mai, la mia faccia su Twitter- affermai, ridendo sommessamente.
-Perché no?- Lasciando il volante con la mano sinistra, si mise a frugare nel vano del cruscotto, in cui aveva lasciato il cellulare.
-Jamie, io direi che dovresti occuparti della strada, visto che andiamo a centocinquanta!-
-Tranquilla, ho tutto sotto controllo. Ora fai finta di niente, continua a guardare fuori.-
Feci come diceva solo perché pensavo che, discutendo, l’agonia sarebbe durata di più. Uscivo con lui da poche settimane ma credevo già di conoscerlo bene. Effettivamente, mise il cellulare a posto dopo aver scattato alcune fotografie.
Scoprii che la M40 era una lunga, interminabile distesa di nulla: campi, alberi, colline, poi di nuovo campi e così via, fino a perdita d’occhio. Solamente un pazzo come Jamie avrebbe preferito percorrerla in auto per tutte quelle miglia.
A un certo punto notai un cartellone della WelcomeBreak, un luogo di sosta per viaggiatori. Prima che potessi chiedere di fermarci, Jamie azionò la freccia e si immise nella corsia di sinistra. Il parcheggio in cui arrivammo era pieno zeppo di automobili, camper, scuolabus e qualsiasi tipo di mezzo di trasporto che possa andare su strada. La gente camminava lentamente, fumava, o era raccolta in gruppi a parlare. Altri erano chiusi in macchina a dormire.
Appena tornai dal bagno, sorpresi Jamie seduto con i piedi fuori dal finestrino e il cellulare tra le mani.
-Ehi- dissi semplicemente, ma lui fece un balzo sul sedile e quasi gli cadde il telefono.
-Oh cavolo, Dorotea!- esclamò, quasi arrabbiato.
-Cosa ho fatto?-
-Niente, mi hai spaventato. Mi hanno già chiesto delle foto, credevo fossi un’altra di quelle ragazze.- Indicò un gruppo di studentesse accanto a un pullman. –Guarda- affermò poi, porgendomi il suo cellulare.
La pagina Twitter di Jamie era aperta. Aveva appena pubblicato la mia foto, che effettivamente era molto poetica, con una didascalia che recitava “Travelling with girlfriend. Best landscape EVER. X”. Diventai rossa, ma per fortuna lui non lo vide, dato che era il suo turno per il bagno. Mentre lo aspettavo lessi i numerosi commenti, alcuni dolci, altri arrabbiati. Appena tornò, cominciai a guidare suo al posto.
 
Per quanto il panorama fosse incredibilmente bello, non riuscii a godermi nemmeno un secondo di quella vista. Continuavo a pensare, e la musica che Jamie aveva messo di sottofondo non serviva a distrarmi.
A mezzo giorno entrammo a Manchester. Una parte di me era contenta per aver concluso quel viaggio interminabile, ma l’altra si era augurata che non finisse mai.
Era tutto come lo ricordavo: le persone, le case, perfino l’atmosfera. Gli edifici erano bassi, rossi e con i tetti spioventi, tutti molto simili. Alcune persone percorrevano con passo cadenzato le strade silenziose del mio quartiere, girandosi verso l’auto sportiva.
Continuavo a muovere le mani sul volante, come se fosse bollente, e sentivo il sudore sulla fronte nonostante l’aria gelida.
-Non posso farlo.-
-Dori, ormai siamo arrivati. Ci siamo, e io so che ce la puoi fare.-
Sentivo che Jamie era molto vicino, ma la sua voce mi arrivava appena, come da una cappa di vetro.
Abbotsfield, il complesso di case che formava un piccolo quadrato, al cui interno c’era un parcheggio. Fermai l’auto accanto alle altre, che riconobbi una dopo l’altra. L’utilitaria di Ben, il pick-up da lavoro di Albert. Rividi me stessa che sbraitavo all’interno della stanza che si scorgeva nella finestra bianca, perfettamente lustrata. Tipico di mia madre pulire in modo maniacale. Notai la porta smaltata di bianco. Tutte le volte in cui avevo tentato di scappare e mi avevano chiuso le vie d’uscita.
Probabilmente Jamie continuava a parlare ma captavo poche parole che comunque non mi interessavano. Sentii la sua mano stringersi alla mia. A quel punto mi resi conto che avrei potuto farcela e che se le cose fossero andate troppo male, Jamie mi avrebbe protetto.
Feci un respiro profondo mentre mi avvicinavo alla porta e poi, cercando di non pensare, suonai il campanello dorato.

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Capitolo 16
*** Dorotea - Tornare. ***


Sentii dei passi. Il cuore mi martellava in gola e continuavo a stringere la mano di Jamie con tutte le mie forze. Un’ombra si mosse dietro il vetro opaco della porta, che  si spalancò con uno scatto.
Mia madre era una donna minuta, dai capelli scuri e cortissimi. Il suo viso sembrava invecchiato e, nonostante il trucco minuziosamente curato, dei lunghi solchi si diramavano sulla pelle ambrata. Sembrava sul punto di piangere dalla gioia ma cercava di contenersi.
-Dorotea, finalmente! Non mi avevi detto che avresti portato qualcuno- disse con il suo forte accento italiano, mentre puntava gli occhi castani sul ragazzo al mio fianco.
Mia madre non gradiva le sorprese. Era un’ordinaria, comune donna che voleva occuparsi soltanto di cose ordinarie e comuni come il bucato e le pulizie. Aveva bisogno di programmare ogni giornata e qualunque imprevisto la faceva entrare in confusione.
-Lui è Jamie, è…- Cominciai a farfugliare, non sapendo come volesse essere presentato.
-Sono il ragazzo di Dori. Piacere, signora Crawford.- Staccò la mano dalla mia e afferrò quella di mia madre, in una stretta potente e decisa.
-Marianna.- Lei sorrise lievemente, forse un po’ in imbarazzo.
-Prego, entrate. Sediamoci in salotto mentre aspettiamo tuo padre. È a lavoro ma appena tornerà potremo parlare.-
Varcando la porta, l’odore di casa mi turbò per un attimo. Era un odore forte, di detersivi e deodoranti chimici ma anche di qualcos’altro che non avrei saputo descrivere, era odore di casa e non lo sentivo da due anni.
Percorremmo il lungo corridoio dai muri bianchi e la moquette bordeaux, alle pareti c’erano delle fotografie, ma nessuna mi rappresentava. Eppure, ripensandoci, l’ultima volta c’erano. Decisi di non dire niente, mentre ci accomodavamo nella stanza quadrata.
Io e Jamie ci sedemmo sul divano mentre mia madre, nonostante ci fosse ancora molto spazio, preferì una delle due poltrone a lato. I tre mobili erano bordeaux, in pelle molto scura, antica, e formavano un ferro di cavallo attorno al tavolino di cristallo su cui era posata una ciotola di cioccolatini, disposti ordinatamente. Dalla nostra sinistra entrava una luce fioca, poiché una tenda bianca nascondeva la finestra.
-Allora, raccontatemi qualcosa. Tu, Jamie, cosa fai nella vita?-
-Sono un attore, e suono in una band.-
-Jamie è abbastanza conosciuto, mamma.-
Mi madre strinse gli occhi sul viso del ragazzo, come se stesse analizzando una pietra preziosa molto piccola.
Un rumore ci scosse dalla nostra conversazione. La porta d’ingresso era stata aperta e dei passi pesanti si avvicinavano sempre di più. Proprio mentre pensavo di non essere pronta, vidi la gigante figura di mio padre varcare la soglia della porta.
Era come lo ricordavo. I capelli rossicci erano leggermente più grigi e radi, attorno agli occhi verdi, sulla pelle dalla carnagione lattea si diramava qualche ruga in più ma, nel complesso, sembrava invecchiato molto meno di mia madre.
Jamie si alzò immediatamente, non so se per rispetto o per farsi notare. Appena gli si avvicinò capii che doveva essere più basso di una decina di centimetri rispetto a Philip.
Dopo le dovute presentazioni, mio padre si sedette sull’ultima poltrona libera.
-Sono contento che tu abbia accettato di venire, Dorotea- declamò con tono solenne. La sua espressione era estremamente severa.
-Non avrei mai accettato senza Jamie, quindi ringraziate lui. Avete qualcosa da dirmi, in particolare?-
-Sì, tuo padre vorrebbe risolvere le questioni in sospeso. Ti vorremmo vedere più spesso, sei sempre nostra figlia.-
Quella frase mi fece rabbrividire e Jamie dovette capirlo, perché incontrò il mio sguardo.
-Grazie, Marianna, vorrei parlare io- intimò mio padre in tono perentorio anche se pacato. Non riuscivo a immaginare qualcuno di più maleducato e fastidioso. –Sai, Dorotea- continuò. –Ti abbiamo pensato molte volte e credo che dovresti tornare a vivere qua. Non mi sembra il caso che passi la tua intera vita a fare la cassiera a Londra.-
-Grazie, ma sto bene lì. Non ho bisogno di tornare.-
-Dorotea, non pensi mai al tuo futuro?- continuò lui, leggermente infastidito. Odiavo quel vizio che aveva di ripetere il mio nome a ogni frase, per intero.
-Sì, certo che ci penso. Sai come mi vedo? Immagino una donna che avrà fatto a modo suo per tutta la vita, sarà andata avanti unicamente con sua la forza e se avrà sbagliato potrà incolpare solo se stessa. Mi vedo libera.- Sentivo le unghie che mi si conficcavano nel palmo della mano, mentre stringevo i pugni.
-Dorotea! Non fare la bambina. Devi trovarti un lavoro, o fare l’università. Non raccontiamoci balle hippie con tutta questa storia della libertà e dei sentimenti.- Aveva cominciato ad alzare la voce.
-Phil, non fare così- sussurrò mia madre.
-Sta’ zitta! Io ci voglio parlare, con questa, ma non mi dà nessuna possibilità. È senza speranza!- sbraitò.
Sentii come un fuoco esplodermi dentro, a causa di quello che stava accadendi e perché aveva zittito mia madre. Sentivo riaccendersi i vecchi rancori.
-L’unico senza speranza qui sei tu. Sei rimasto la stessa persona di merda che eri prima, con le tue convinzioni inalterabili. Chi pensi di essere, Dio? Dovresti fare un esame di coscienza e cercare di diventare una persona migliore, anche se penso sia impossibile.- Mi resi conto di essermi alzata e di gridargli in faccia. Si alzò anche lui, con aria di sfida.
-Cerca di smetterla e di portare rispetto, ragazzina.- Il suo tono era pacato, troppo pacato. Era così alto che per guardarlo negli occhi dovevo piegare notevolmente il collo, ma fissandolo mi sentivo un leone. Poteva anche essere grande e grosso, ma io ero più intelligente, più sensibile, più arguta.
Fece un passo verso di me. Vidi come a rallentatore le sue mani che mi prendevano le spalle e spingevano all’indietro. Di lato, mia madre urlò il suo nome e Jamie entrò nel mio campo visivo, troppo tardi.
Un attimo dopo ero seduta a terra, dopo essere rovinata sul tavolino di cristallo, ora in mille pezzi. Quanti oggetti avevamo rotto, in quel modo.
Ero stordita ma non avevo paura, perché sapevo di essere protetta: c’era Jamie e capii che mio padre l’aveva fatta grossa, persino per mamma.
-Philip! Ti rendi conto? L’hai chiamata per vederla e hai finito per farle male- esplose lei, e improvvisamente il mondo tornò a girare a ritmo normale. Non avevo mai visto mia madre rispondergli, mai.
-Dori! Dori ascoltami, sono qui!- urlava Jamie intanto.
-Andate tutti a fanculo! E tu rovinati pure la vita, idiota- borbottò, rivolto a me, poi si avviò verso la porta.
-Dove pensi di andare?- chiese mia madre, gridando ancora.
-Mi faccio un giro, visto che sei così impegnata a difenderla. Non so quando torno.-
Nel primo momento in cui l’avevo visto mi sembrava che fosse invecchiato di poco ma ora dovetti ricredermi: non era cambiato di una virgola.
-…otea. Dorotea ascoltami!- Jamie era chino di fronte a me, non mi toccava. Focalizzai il suo viso e lui dovette capirlo, perché continuò. -Devi alzarti da lì, è pieno di vetro, è pericoloso. Dori, sei ferita.-
Mi guardai e notai un grosso taglio sulla mano destra, da cui sgorgava parecchio sangue. A fissarlo, mi girava  la testa in modo formidabile.
-Vieni, Dori, ti aiuto io.- La voce di mia madre era dolcissima. Mi resi conto che, sotto tutto l’astio che provavo per lei, c’era un profondo amore celato. Era pur sempre la mia mamma, era stata dolce ogni volta che aveva potuto, ma non era mai riuscita ad affrontare mio padre. Fu come una rivelazione, un’epifania.
Mi alzai, senza sapere dove poggiarmi. L’unica cosa che riuscii a fare fu buttarmi su di lei, abbracciarla più forte possibile e piangere.
 
-Grazie per avermi curato la ferita, mamma- le dissi, mentre Jamie mi aiutava a mettere il cappotto.
-Vai al pronto soccorso appena arrivate a Londra, potrebbero volerci dei punti.- Una macchia rossa si era allargata sotto le bende.
-Grazie, mamma, per tutto. Sei sicura che starai bene? Philip non si arrabbierà con te, appena tornerà?-
-Non mi ha mai fatto niente e non comincerà oggi, Dori. Ti voglio bene.-
-Ti voglio bene, mamma- sussurrai, mentre le lacrime mi pizzicavano gli occhi. Ora che avevo capito quanto tenessi a mia madre avevo paura di lasciarla lì, da sola con quell’uomo. Le diedi un ultimo abbraccio e mi incamminai verso la macchina, mentre lei salutava Jamie.
In fondo, quel viaggio era servito a qualcosa.

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Capitolo 17
*** Jamie - Qualcosa di nuovo. ***


Dorotea era stata silenziosa e assorta per tutto il viaggio di ritorno. Non l’avevo disturbata, né le avevo chiesto come si sentisse. Era difficile immaginare quali pensieri le girassero per la testa. Doveva essere stata la giornata più dura e pesante da molto tempo ma questo le si leggeva in faccia.
Sua madre sembrava una persona molto dolce ed ero rimasto colpito quando aveva curato la ferita a Dori, di quanta attenzione ci mettesse a non farle del male, a rimediare agli errori del marito. Era una chiara dimostrazione dell’amore materno, il più grande amore del mondo. Non sembrava la donna che mi aveva descritto Dorotea tante volte.
-Hai freddo?- le chiesi rompendo il silenzio, visto che un brivido la stava scuotendo.
-No, stavo solo pensando.-
Il tettuccio era già chiuso da molto tempo, mentre le luci della città si avvicinavano sempre di più. Mi sentivo stanco e gli occhi mi bruciavano per aver guidato al buio per troppo tempo.
-Jamie…- continuò lei.
-Che c’è? Va tutto bene?-
-Possiamo andare a casa tua? Non voglio rimanere da sola, stanotte.-
 
Appena entrammo, Dorotea buttò la sua roba all’ingresso e sprofondò nel divano del soggiorno, rifiutando di cenare. Non volle sentire nominare il pronto soccorso ed evitò perfino di farsi cambiare la benda, così la dovetti costringere. Non ero bravo come sua madre, perciò gridò più volte mentre le disinfettavo la ferita ancora aperta.
Conclusa l’operazione delicata, la lasciai sul divano e mi riscaldai una cena leggera, al mio ritorno dormiva come un sasso.
-Dori, dovresti alzarti, così posso prepararti il letto.- La seconda volta in cui aveva dormito da me, ovvero la notte prima, l’avevo fatta dormire su quel divano. Le avevo proposto di restare, dopo aver cenato insieme, perché sapevo che saremmo dovuti partire presto verso Manchester e lei aveva accettato.
Gli occhi della ragazza si socchiusero leggermente. Era rannicchiata su se stessa, patendo evidentemente il freddo.
-Posso dormire con te?-
-Cosa?- Fu l’unica parola che mi uscì dalla bocca. Non mi aspettavo quella richiesta.
-Sei sicura, Dori?- le chiesi con un tono grave.
-Non ce la faccio a stare sola, stanotte. Ho bisogno di averti accanto. Tutto quello che è successo oggi mi sembra quasi assurdo, non riesco nemmeno a pensarci senza entrare nel panico.- I suoi occhi si erano aperti completamente, rivelando uno sguardo profondo ma triste.
-Certo che puoi dormire con me, se lo vuoi.- Le dissi mentre le tendevo la mano, dandole un bacio.
 
La aspettai disteso sulla parte destra del letto, in pantaloncini come sempre. Sentivo i passi di Dorotea in bagno, che si preparava. Ero un po’ in ansia perché la ragazza con cui stavo per dormire era Dori. Non sapevo come mi sarei dovuto comportare, non volevo spaventarla o ferirla. A volte, con lei, mi vergognavo semplicemente di essere un uomo inglese, della stessa nazionalità e sesso della persona che le aveva rovinato la vita.
Sentii la serratura della porta, così mi picchettai sui gomiti per vederla entrare in camera.
Era semplicissima: struccata, con i capelli sciolti e indosso un pigiama che le avevo prestato, enorme.
-Perché mi guardi?- chiese toccandosi i capelli, evidentemente imbarazzata.
-Non posso?- Stavo sorridendo.
-No, non guardarmi- rispose lei, un po’ scherzosa, un po’ seriamente.
Pensando di farla sentire meglio, tornai disteso e poggiai un braccio sugli occhi. La sentii avvicinarsi piano, era scalza e i suoi passi quasi non facevano rumore. Appena capii che era abbastanza vicina il letto si mosse e il suo odore mi inondò i polmoni. Avevo imparato ad amare quell’odore, indescrivibile e buono.
-Come fai ad accettare tutto questo?- Il suo fiato era vicino alla mia guancia sinistra.
-Che vuoi dire?-
-Venire a casa mia, a vedere litigare me e mio padre, le mie paranoie, tutti i problemi che ti creo… potresti stare con qualunque ragazza normale del mondo.-
-Intendi con qualsiasi noiosa ragazza che pende dalle mie labbra? Per una volta dovresti credermi, se dico che non mi interessa nessun’altra.-
-Jamie…-
-Cosa?-
-Mi abbracci?- chiese con voce incerta e spaventata.
Finalmente aprii gli occhi. La luce dell’abat jour la illuminava solo in parte, creando dei giochi di luce sul suo volto e nascondendomi l’espressione della ragazza. Mi avvicinai delicatamente a lei e la strinsi al petto. Era così piccola che potevo a cingerle la vita con un braccio solo. Riusciva a essere fragile e sensuale nello stesso momento, senza mai eccedere in un modo o nell’altro.
Mi scoprii a provare un desiderio fortissimo. Avrei voluto baciarla, toccarle ogni singolo punto del corpo e ancora non fermarmi, avrei voluto sentire i suoi muscoli tendersi sotto le mani e l’odore del suo sudore. Non potevo. Non potevo nemmeno permettermi di pensare una cosa del genere. Le avevo promesso di starle vicino e non avrei fatto niente, a meno che lei non avesse scelto di compiere la prima mossa.
Sentii la sua mano fasciata che mi accarezzava il viso, la benda sapeva di disinfettante ma, facendo più attenzione, c’era ancora l’odore acre del sangue. Le presi il viso con le mani e lo spostai delicatamente verso di me. Gli occhi di Dorotea, solitamente di quel verde così profondo, adesso erano due punti scuri nello sfondo poco più chiaro del suo viso. Sentivo il suo fiato che mi solleticava il petto e mi faceva impazzire.
Nel momento in cui stavo cominciando a parlare, la sua mano si spostò dal mio viso al collo e lei mi baciò. Se prima ero riuscito a contenere la mia voglia, adesso sembrava impossibile. Mi contenevo anche se il mio corpo sembrava essere stato creato per desiderarla.
Sentii le mani di Dori scendere lungo la mia schiena, lentamente, mentre mi baciava ancora. Ero sicuro di sentire il suo cuore batterle nel petto e sulle labbra, come impazzito.
-Dori, sei spaventata. Non devi fare nulla che non ti va, okay?- Non volevo che si agitasse ancora, dopo quella lunghissima giornata.
-Aspetta, Jamie. Non dire niente.- Si piegò in avanti, poggiando interamente il corpo su di me. Prima di capire che stava spegnendo la luce sussultai.
Sentii il fruscio del tessuto e sfiorai la sua pelle nuda con una mano, che lei aveva preso tra le sue. A quel punto, anche il mio cuore batteva più forte del solito. Dorotea mi piaceva veramente e non sapevo che fare: avevo paura di farle del male, di rovinare tutto. Iniziai ad accarezzarla dolcemente con la punta delle dita, mentre lei si stendeva di nuovo accanto a me. La sua pelle era liscia e morbida, in alcuni punti riuscivo a sentire la forma delle ossa, ma il suo corpo era sinuoso e sensuale.
Mi fece capire di spogliarmi, sempre senza dire una parola. Ricominciammo a baciarci e mi facevo guidare completamente da Dorotea. A ogni movimento corrispondeva una mia risposta e solamento dopo tantissimo tempo mi ritrovai sopra di lei.
-Dori, aspetta- le dissi, fermandole leggermente le mani.
-Cosa c’è?- La sua voce era roca e profonda.
-Voglio che tu mi dica che sei assolutamente sicura di quello che stai facendo, in caso contrario dobbiamo fermarci.-
-Sono sicura.-
-Quanto sei sicura?-
-Jamie, io ti amo- disse con la più totale spontaneità.
Quelle parole mi destabilizzarono per un lungo istante. Mi ero preparato a sentire discorsi su quanto fosse pronta e quanto desiderasse quel momento, e io le avrei creduto solo in parte e avrei cercato di andare in fondo alla questione. Lei, invece, aveva detto le uniche parole che mi avevano convinto e zittito contemporaneamente. Mi ci volle un po’ per rispondere, ma poi lo feci.
-Anche io ti amo, Dori.- Probabilmente non lo avrei mai detto per primo, ma riuscii a pensare soltanto che era vero anche per me, senza dubbio.
Ricominciammo a baciarci contemporaneamente, come per un tacito accordo. Il suo corpo, caldo, fremeva mentre si scontrava con il mio.
Fu un lungo momento. Cercai di non farle male, di essere più gentile possibile, mentre scivolavo dentro di lei. Dorotea non mi baciava più ma sorrideva con le labbra poggiate sulle mie.

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Capitolo 18
*** Dorotea - Sorpresa! ***


Il vento gelido sferzava il mio viso mentre attraversavo Regent street, stretta nel cappotto che copriva un maglione incredibilmente pesante. Avevo preferito camminare per quei cinque minuti che separavano il mio posto di lavoro da Kingly street, ma adesso avevo le mani intorpidite dal freddo.
Londra sembrava risplendere di luce propria, con tutti quei festoni natalizi che brillavano su ogni superficie disponibile, mentre la gente si affrettava a comprare gli ultimi regali prima delle fatidiche vacanze. Personalmente, ero combattuta tra emozioni contrastanti: la curiosità di conoscere i genitori di Jamie e la paura della stessa identica cosa.
Svoltai a sinistra e mi immisi nella piccola strada in cui ero diretta, a ogni passo vedevo un negozio diverso, le cui vetrine erano colme di addobbi colorati e brillanti. Infine, raggiunsi la facciata bianca ed entrai, pestando il tappetino zuppo a causa della pioggia del pomeriggio, su cui era stampata la scritta “Drop Dead”.
-Salve! Posso aiutarti?- chiese subito una ragazza con tantissimi tatuaggi, poggiata sul bancone bianco di fronte all’ingresso.
-Lascia stare, Cara. È una mia amica!- La bellezza di Hannah era prorompente come sempre. Aveva pochissimo trucco sul viso e portava una felpa nera così grande da sfiorarle le ginocchia.
-Hannah!- esclamai, incredibilmente contenta di vederla, mentre mi abbracciava. Nelle ultime settimane l’avevo incontrata soltanto una volta, ma la nostra amicizia si consolidava sempre di più, mentre quella con Bethany si stava perdendo definitivamente.
-Allora, dimmi tutto- esclamò portandosi un dito tatuato sulle labbra, in un’espressione pensierosa. Era sempre molto teatrale nei suoi modi di fare.
-Che posso regalare a Jamie?-
-Giusto! Come ho fatto a non pensarci, e io che credevo che volessi vedermi- ridacchiò, poi aggiunse: -Avevi pensato a qualcosa?-
-A dir la verità, so solo di non avere le tasche troppo piene. Certo, non pagare l’affitto mi consente di mettere da parte qualcosa in più, ma non vorrei dover chiedere niente a Jamie per il resto del mese.- In seguito alla prima volta in cui avevamo fatto l’amore, avevamo dormito sempre più spesso nella stessa casa, fino a decidere che non aveva senso vivere in due appartamenti diversi.
-Spero che la vostra convivenza vada a gonfie vele. Comunque, facciamo che non ti preoccuperai dei soldi, prenderai quello che vorrai e appena potrai mi offrirai da bere, ci stai?-
Nonostante non fossi per niente convinta dell’accordo, Hannah quasi mi costrinse ad accettare. In fondo, era la co-proprietaria della Drop Dead e poteva permettersi di non fare pagare i suoi amici. Grazie al suo aiuto, scelsi una felpa grigia e dei pantaloni scuri, raggiungendo il prezzo complessivo di centootto sterline. Gliene diedi quaranta e scrissi il debito sulla mia agenda, scusandomi più volte.
-Grazie mille, Hannah- le dissi appena Cara, la commessa, finì di impacchettare i regali.
-Aspetta, vado sul retro per un secondo e torno!- gridò mentre scendeva le scale che portavano all’aria riservata.
Pochi minuti dopo tornò con due capi tra le mani. Non capivo cosa avesse in mente.
-Questo è tuo regalo da parte mia e di Oliver, ne abbiamo parlato parecchio per poi decidere che sarebbero stati perfetti per te. Volevamo fare la stessa cosa per Jamie ma tu ci hai preceduto, quindi non restituirci niente, okay?-
-Ma…- risposi solamente, senza avere la minima idea di come continuare.
-Niente ma, vai a provare queste cose, dai! Ho conservato tutto sul retro per te ma ho paura di non aver scelto bene la misura.-
Mi diressi verso il camerino dalla porta a specchio, con un’aria evidentemente imbarazzata. Non avevo potuto dire granché la mia, ma il modo di fare di Hannah era diametralmente diverso da quello di Bethany. Lei si preoccupava molto del mio punto di vista, ma sapeva che non avrei mai accettato, se non si fosse imposta almeno un po’.
Scoprii che i capi consistevano in una gonna nera che si chiudeva sul davanti, ampiamente decorata e un crop top bianco con uno smile stampato sopra, simbolo della Drop Dead. Qualcuno aveva accuratamente ritagliato i prezzi dalle etichette, ma immaginavo che entrambi i capi fossero molto cari. Li infilai, constatando che mi scoprivano porzioni di pelle che solitamente nascondevo.
Appena mi feci vedere, Hannah cominciò a saltellare dalla felicità. Mi prese per le spalle e mi girò verso lo specchio.
-Che bella che sei, così! Voglio dire, hai un fisico stupendo e te ne stai sempre in felpa e jeans.-
-Mi si vede la pancia…- mi lamentai.
-E allora? Stai benissimo, non vorrai dirmi che ti senti grassa!-
-Di certo non ho il tuo fisico- esclamai, mentre guardavo il suo riflesso filiforme. I suoi jeans skinny le mettevano in risalto delle cosce così minute da essere quasi della misura del polpaccio.
- Io non mi sforzo a essere così, altrimenti non ci proverei nemmeno. Sono sicura che a Jamie tu piaccia come sei e non abbia mai voluto che tu perda un solo chilo.-
Arrossii, ripensando a tutte le volte in cui ero stata nuda accanto a lui. A tutte le volte in cui mi sfiorava la pelle e mi diceva che ero bellissima. Hannah dovette notarlo perché scoppiò a ridere.
–Esatto, Dori! Posso immaginare quello che stai pensando!-
 
Mi ritrovai nuovamente per strada dopo aver salutato Hannah e Cara. Capitava sempre più spesso che la gente mi riconoscesse. Di certo nessuno mi fermava a chiedermi l’autografo, ma le ragazze a volte mi squadravano con lo sguardo pieno di gelosia e ammirazione.
Entrai a Oxford Circus e riuscii a raggiungere casa solo dopo essermi districata tra la folla natalizia, naturale consuetudine londinese.
Aprii silenziosamente la porta di casa, sperando che Jamie non mi notasse. Non gli avevo detto niente del mio regalo e non volevo che lo scoprisse così presto. Mi tolsi le scarpe all’ingresso e cercai di raggiungere la camera da letto a piccoli passi, dove avrei nascosto il pacco dentro un cassetto.
-Dori!- sentii chiamare dal soggiorno. –Che stai combinando?-
Mi maledissi per aver fatto troppo rumore. Quel ragazzo aveva imparato a conoscermi bene.
Lo trovai disteso sul divano, mentre giocava con il cellulare. Aveva i capelli legati in un codino e indossava maglietta e larghi pantaloni della tuta.
-Ciao, devo andare in bagno, scusami.- Cercai di sembrare più tranquilla che potevo, ma senza molto successo.
-Sai che abbiamo un bagno anche al piano terra, vero? Cos’hai lì dietro?-
-Niente! Niente che ti riguardi.- esclamai, forse con troppa foga.
Senza alzarsi dal divano, allungò un braccio afferrandomi un ginocchio e si mise un’espressione da cucciolo maltrattato.
-Fammi vedere!-
Litigammo per un po’ finché lui non l’ebbe vinta. Appena vide la marca posta sul sacchetto gli brillarono gli occhi.
-Posso aprirlo ora, posso?- mi chiese con l’aria di un bambino che vuole scartare i doni.
-Jamie, è soltanto il ventitré. Dovresti aspettare almeno fino a domani sera.-
-Posso?- chiese nuovamente, corrugando la fronte e facendomi capire che non aveva intenzione di scendere a compromessi.
Scartò tutto con foga, rivelando il contenuto del pacchetto. Era così felice che si sarebbe potuto mettere a ballare sul tavolo.
-Mi vado a cambiare!- gridò mentre già correva verso la scala.
Al suo ritorno, indossava sia la felpa che i pantaloni. Entrambe le cose erano della sua misura e mi sembrava ancora più bello del solito.
-Direi che ti stanno benissimo! Ti piacciono?-
-Non li toglierò più di dosso, ma ora vieni con me- esclamò senza smettere di sorridere.
In cucina, la tavola era apparecchiata e su di essa troneggiava la torta più bella che avessi mai visto, con una glassa lucida di cioccolato e la panna a ciuffi. Era il miglior regalo che avessi ricevuto da parecchi anni.
-Grazie, Jamie, sul serio. Sei stato molto dolce a pensare a me- gli dissi, mentre lo abbracciavo forte.
-Aspetta, non è ancora finita.- Frugò nella tasca e ne estrasse un foglio un po’ spiegazzato, uscito dalla stampante. Appena ne lessi il contenuto credetti di svenire: era un biglietto aereo, per Praga.
-Allora? Sorpresa? Partiamo venerdì, il ventisette, e rimaniamo fino a Capoda…- Prima che riuscisse a finire la frase, gli ero già saltata al collo, baciandolo quasi freneticamente.
-E io che pensavo che la torta fosse abbastanza. Non so nemmeno che dire, sono senza parole!-
-Piuttosto, la mangiamo questa torta?-
-Torta!- esclamai, in preda a un’eccitazione incontrollabile.

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Capitolo 19
*** Jamie - Mamma e papà. ***


Non vedevo i miei genitori da più di un mese, precisamente dalla prima volta in cui avevo incontrato Dorotea. Era strano per me portare una ragazza a casa loro, ma probabilmente le cose con Dori stavano prendendo una piega piuttosto seria. Non ero nemmeno cosciente del momento in cui erano diventate così serie.
Inizialmente era solo interesse, una curiosità fomentata dal suo non essere una mia fan, o comunque una che avrebbe pagato solo per stare vicino a me. In seguito mi ero sentito in dovere di proteggerla, dopo avere scoperto il suo passato, provavo anche attrazione fisica per lei, ma non era questa la reale motivazione che mi spingeva a starle accanto. Infine me n’ero innamorato, l’avevo scoperto nello stesso modo in cui si scopre una pietra preziosa nascosta sotto la sabbia: lei c’è sempre stata, magari era sotto il tuo palmo, ma appena te ne rendi conto diventi felice ed euforico.
-Jamie? Hai sentito quello che ti ho detto?- esplose una voce al mio fianco.
-Cosa?- chiesi, atterrito.
-Ma dove hai la testa, oggi? Non avremmo dovuto portare qualcosa? Che ne so, un regalo o il dolce?-
Dorotea portava degli abiti nuovi, il regalo di Hannah e Oliver a quanto pareva, con delle scarpe alte, e aveva il viso leggermente truccato. Il verde degli occhi risaltava grazie alla matita nera e le labbra, tinte di rosso, sembravano più grandi e carnose. Mi facevano venire voglia di baciarle.
-No… credo. Scusa, penso di essermi distratto di nuovo.-
-Sei impossibile- mi rispose tediata, aggiungendo un lungo sbuffo dopo l’ultima parola.
I tacchi di Dorotea risuonavano lungo Dartmouth Park road, mentre ci avvicinavamo all’entrata della casa in cui ero cresciuto. Gli edifici, in quella zona, erano minuziosamente curati. Si innalzavano per due o tre piani, con facciate di mattoni e finestre dagli infissi bianchi. Solo i ricchi potevano permettersi una casa ad Highgate.
Aprii il cancelletto che delimitava il piccolo giardino frontale. Presi le chiavi dalla tasca e spalancai la lucida porta rossa, dal pomello dorato, su cui era posta una ghirlanda di una qualche pianta profumata.
-Mamma!- gridai.
Sentii dei passi veloci sbattere sulle scale di vetro e poi sul parquet finché non vidi mio fratello correre e raggiungere la porta. Portava una maglietta di tre taglie più grande e dei pantaloni neri. Non aveva scarpe, soltanto dei calzini grigi e logori.
-Jamie!- urlò mentre mi si gettava addosso, abbracciandomi.
-Come stai, Sammy? Oh, questa è Dorotea- gli dissi, indicandola. Era piuttosto imbarazzata e continuava a mordersi un’unghia.
-Tu devi essere la nuov… la ragazza di Jamie!- balbettò lui. Gli lanciai uno sguardo di rimprovero anche se sapevo che non era stato un atto di cattiveria a soltanto un lapsus. Al contrario dei miei, lui aveva conosciuto tutte le mie ragazze.
-Piacere, sono Dorotea. Sei Samuel, giusto?-
 
Mentre loro continuavano le presentazioni, io lasciai il cappotto sull’appendiabiti e mi addentrai nella casa, cercando gli altri abitanti. Scesi i due gradini che separavano l’ingresso dal resto dell’abitazione e mi addentrai in soggiorno attraverso la porta sormontata da una libreria a parete, rividi i tomi antichi e gli oggetti di design, accostati a monili giapponesi, vecchi di secoli. Anche in quella stanza non c’era nessuno, così mi sedetti in uno dei lunghissimi divani in pelle nera, di fronte al camino che crepitava. Accanto alla finestra c’era un albero di Natale più alto di me.
Gli altri due entrarono qualche istante dopo. Dori era decisamente impressionata dalla magnificenza della casa, studiava gli oggetti come fosse in un museo, senza toccarli o avvicinarsi troppo.
-Dove sono mamma e papà?- chiesi a Sam.
-Sopra, mi hanno detto di scendere a tenervi compagnia. A quanto pare vi aspettavano più tardi, non credevano che fossi puntuale.-
-La gente cambia, Sammy, e loro si sono fatti trovare impreparati. Sono sicuro che non se lo perdoneranno mai.-
-Oh, dai. Non fa niente se aspettiamo, mi piace guardare tutte queste cose. Vorrei proprio poterle disegnare- esclamò Dorotea con aria pacificatoria, mentre si sedeva accanto a me e io le mettevo un braccio attorno alle spalle.
-Sono contento che questa casa ti piaccia- sentenziò una nuova voce, appena oltre l’entrata.
Ci girammo tutti istantaneamente, come se fossimo stati colti in fallo. Mio padre, capelli biondi, corti e spettinati, carnagione cerea e barbetta incolta, era poggiato allo stipite della porta.
-Piacere, Dorotea!- esclamò lei alzandosi in piedi, sempre più imbarazzata. Lui si avvicinò con un grande sorriso sul volto, tendendo la mano. La superava in altezza di almeno dieci centimetri.
-Io sono David, e questa è mia moglie, Anne.- La donna bionda, dalla fronte alta e un grosso neo sulla guancia destra spuntò dietro mio padre. Anche lei scosse forte la mano di Dorotea e le sorrise.
-Jamie, sono mesi che non ci vediamo! Non ti fai mai sentire, ho più contatti con tuo fratello che abita in un altro Paese- esclamò mia madre, stringendomi a sé mentre l’uomo mi dava una potente pacca sua spalla.
-Quindi tu non vivi a Londra?- chiese Dori, evidentemente intenta a dissipare il suo imbarazzo.
-No, abito a Copenaghen e…-
-Ragazzi, che ne dite di continuare a tavola? Shann ha appena sfornato la prima portata, sarebbe un peccato farla freddare.-
Tutti si avviarono in sala da pranzo, così presi Dorotea per un braccio e le feci l’occhiolino.
-Come sta andando? Devi sapere che Shannon è la cameriera, e se te lo stai chiedendo, i soldi non ci mancano. I miei lavorano entrambi nell’ambito della musica, è anche per questo che so suonare.-
-Credo che ci fosse bisogno di chiarirmi che siete ricchi, mi era quasi sfuggito- rispose lei, sarcastica, mentre entravamo nella stanza dal lungo tavolo in vetro e dalle sedie in tappezzeria rossa, entrambi rifiniti in ferro battuto. Sulla tavola imbandita erano posti dei candelabri accesi e Shann faceva frettolosamente spola dalla cucina.
 
Una decina di portate e molte chiacchiere dopo mi ritrovai a sbottonarmi i pantaloni per la quantità di cibo che avevo ingurgitato. Dorotea, invece, aveva appena toccato ogni piatto ed era piuttosto pallida. Era parecchio strano ma imputai la colpa al suo imbarazzo, almeno finché non scattò in piedi, interrompendo il chiacchiericcio all’improvviso.
-Scusate, io… io devo andare in bagno!- esclamò mentre si allontanava dal tavolo e si dirigeva nella stanza in cui era già stata mezz’ora prima.
Gli altri commensali mi fissarono, come per chiedermi cosa stesse succedendo.
-Vado a vedere se c’è qualcosa che non va.-
Bussai più volte nella porta bianca in legno, ma dall’interno sentivo soltanto l’acqua che scorreva, troppo forte per essere quella di un solo rubinetto.
-Dori, tutto a posto?- chiamai forte, cercando di superare il rumore.
Sentii la chiave girare nella serratura, e il suo viso, se possibile più cinereo di prima, si affacciò timidamente da uno spiraglio della porta.
-Sto bene, tranquillo- disse con una voce roca.
-Non mi sembra proprio, che è successo?-
-Nulla di importante, deve avermi fatto male qualcosa… ma ora sto bene!- si affretto ad aggiungere.
-Vuoi dirmi che hai vomitato?!- esclamai.
-Oh, che vuoi che sia, non sono mica abituata a tutto questo cibo. Tra l’altro stavo male anche ieri. Avrò preso un virus influenzale o qualcosa del genere.-
Nonostante fossi preoccupato, dovevo ammettere che il ragionamento filava, così chiusi la porta e la lasciai sistemare.
Tornai dagli altri, che intanto si erano trasferiti in soggiorno e sorseggiavano del liquore caldo seduti sui divani.
-Che succede?- chiese mio padre, con un tono moderatamente impensierito.
-Niente, non sta bene di stomaco. Magari ha l’influenza, è stata male anche ieri- risposi in fretta, cercando di concludere l’argomento prima che tornasse. Dorotea non avrebbe gradito una conversazione su di lei, si sarebbe vergognata.
-Quindi è già successo!- esclamò mia madre, senza cogliere il mio tentativo.
-Sì- asserii velocemente, e mentre vedevo entrare la sagoma di Dori con la coda dell’occhio, mi preoccupai di aggiungere: -Sapete che tra due giorni partiremo, vero?-
Dorotea si sedette al mio fianco, le mani incrociate in grembo.
-Partite davvero? Jamie, io ti odio. Non ci vediamo mai e appena torno in città tu vai via!- esclamò mio fratello. Sapevo che non era veramente arrabbiato. Per molti anni, durante la nostra adolescenza, ci eravamo odiati ma da quanto eravamo diventati più grandi era come se fosse il mio migliore amico. Non avrebbe mai sprecato il poco tempo che avevamo a litigare.
-Domani sei invitato a casa nostra per tutto il giorno, vero Dori?-
-Sicuro, e ti cucinerò qualcosa di buono- esclamò lei, la voce ancora bassa e roca. Mia madre non smetteva di fissarla, come se la stesse studiando.
 
Alcune ore dopo, verso le sette di sera, rincasammo. La giornata era incredibilmente fredda, pioveva e i nostri cappotti non servivano a proteggerci.
La prima cosa a cui pensai, appena arrivato a casa, fu un bagno caldo.
-Vuoi venire con me?- chiesi a Dori, ammiccante. Lei aveva il cellulare in mano e stava facendo una ricerca su Google, ma non riuscivo a vederne il contenuto.
-Scusa, devo uscire ma tornerò tra un attimo- rispose soltanto, non degnandomi nemmeno di uno sguardo. Riaprì la porta e corse via, senza che nemmeno potessi chiederle dove stesse andando o se volesse essere accompagnata.
Decisi di attuare comunque il mio piano. Riempii la vasca del bagno a piano terra ed entrai soltanto quando vidi l’acqua fumare. Mentre mi immergevo sentivo la pelle bruciare e arrossarsi ma era quella la sensazione a cui agognavo ancor prima di mettere piede a casa. Sentii ogni muscolo che si rilassava, e il calore che si irradiava dentro il mio corpo, fino alle ossa. I capelli ondeggiavano sull’acqua, massaggiandomi la cute.
Mi ritrovai a pensare a Dorotea, a chiedermi che fine avesse fatto o a quale fosse la commissione urgente da risolvere la sera del venticinque Dicembre. Non mi venne in mente niente così, a poco a poco, il torpore mi catturò sempre di più.
Stavo quasi per addormentarmi quando squillò il telefono.
-Dori?- chiesi, senza nemmeno guardare il numero.
-No, sono tua madre. Non eravate insieme?-
-Sì, mamma, lei è appena uscita. Volevi dirmi qualcosa?- Mi sedetti di scatto, incuriosito.
-Scusami, ma non riesco a non pensarci. C’è un dubbio che mi assale da quando ho visto Dorotea, oggi.-
-Un dubbio? Cosa vuoi dire?-
-Capisco che sia una cosa che volete tenere per voi, al momento e sicuramente non volevi dirlo davanti a Sam e tuo padre ma…- si interruppe, soppesando le parole come se stesse dicendo qualcosa che mi avrebbe potuto fare arrabbiare.
-Mamma, non ti capisco, sii chiara.-
-Non è che, per caso, Dorotea è incinta?-
 
Era come se le mie orecchie continuassero a fischiare da quando avevo sentito quelle parole. Incinta. Incinta. Incinta. Dorotea poteva essere incinta? Sì, e no. Avevamo fatto l’amore? Sì, e i bambini si fanno in questo modo, non che ci capissi niente di bambini, ma ero troppo grande per la storia delle api e dei fiori. In ogni caso, avevamo cercato di fare le cose per bene, senza rischi. Tranne una volta.
Sentii le chiavi girare nella toppa. Mi alzai di scatto, ricordandomi che ero rimasto in accappatoio, con i capelli che mi gocciolavano sulla schiena. Sentivo molto freddo ma non l’avevo capito fino a quel momento.
-Jamie?- chiese la voce di Dorotea.
Non sapevo che dire, mi sembrava di avere la bocca impastata, in un misto di stupore e paura. Non avevo idea di quale fosse il modo migliore per introdurre la discussione.
-Dorotea devo parlar…-
-No! Aspetta, devo dirtelo subito o non avrò più il coraggio. Ecco…- si fermò, ragionando.
-Ecco…-
-Dorotea, per favore, finisci la frase- dissi con un tono irritato.
-Ho fatto un test di gravidanza!-

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Capitolo 20
*** Dorotea - Solitudine. ***


Già dalle prime ore dell’alba, la luce cominciò a disturbare il mio sonno. Degli uccellini cinguettavano fuori dalla finestra, intonando un canto melodioso. Lasciai cadere un braccio sulla parte sinistra del letto, solo per ricordarmi che non c’era nessuno disteso lì. Continuavo a dimenticare. Ogni volta che pensavo a quanto mi mancava Jamie sentivo una stretta al cuore e mi sudavano le mani. Mi districai dal lenzuolo leggero e mi misi in piedi, la camicia da notte che celava a fatica le mie curve. La casa era deserta, silenziosa e anche giù in strada sembrava che tutti gli abitanti di Londra si fossero fermati per un secondo durante quel giorno di Agosto.
Avevo imparato a convivere sia con la solitudine che con i sintomi della gravidanza: nausea, arti gonfi, dolore allo stomaco. Mi sentivo una botte in procinto di scoppiare, goffa e impacciata, con quella pancia gigante che quasi non mi permetteva di guardarmi i piedi.
Quella mattina avevo un appuntamento con Hannah. Mi preparai in fretta solo per rendermi conto che erano appena le sette, mentre l’appuntamento era alle dieci.
Aspettai mentre il telefono suonava a vuoto.
-Sì?- chiese una voce che sembrava provenire dall’oltretomba.
-Ciao Hannah, volevo chiederti se possiamo vederci subito. Sono già pronta e non so che fare.- Sentii un lieve grugnito, probabilmente Oliver che si lamentava degli squilli. Li immaginai distesi accanto, che si abbracciavano sul letto e mi sentii subito triste.
-Okay, ma vieni tu. Ti farei aspettare un casino.-
-Giusto il tempo della strada e sono da te- risposi, poi riattaccai. Mi sentivo un po’ in colpa, Hannah avrebbe detto di no a qualsiasi altra persona ma probabilmente non voleva lasciarmi da sola in casa, forse pensava che mi sarei depressa o qualcosa di simile.
 
Mi diressi verso casa dei due ragazzi, a piedi come al solito. L’enorme loft di Richmond apparteneva a Oliver e vi trascorrevano la maggior parte delle vacanze, l’appartamento striminzito nel quartiere di Wimbledon, invece, era stato preso per le esigenze di lavoro dei due.
Raggiunsi il quarto piano del palazzo e suonai il campanello mentre Hannah stava già spalancando la porta con fare sgraziato. Indossava una canottiera larga e dei pantaloncini cortissimi, che mettevano in mostra il suo corpo tatuato.
-Dori!-
La salutai con un bacio sulla guancia.
-Ehi.- Oliver era poco dietro di lei, in pigiama e con i capelli in tutte le direzioni. Aveva un nuovo tatuaggio accanto all’orecchio, rosso e gonfio.
-Come stai, Dori? Come ti senti oggi?- chiese Hannah, premurosa, mentre mi faceva sedere in cucina. Aveva lasciato sul tavolo una fetta di pane già mordicchiata con della crema al cioccolato sopra.
-Sempre la stessa vita: gravidanza, lavoro, solitudine…- L’ultima parola mi uscì in un tono basso e riflessivo.
-Mi dispiace, Dori, stiamo facendo tutto il possibile per non farti sentire sola, lo sai vero?-
Prima che potessi rispondere sentii due mani che si appoggiavano sulle mie spalle. Io e Oliver eravamo diventati molto amici negli ultimi tempi.
-Non ti deprimere, scema, l’attesa è quasi finita!- disse lui, con tono ammiccante.
-Oliver!- lo rimproverò la ragazza, con uno sguardo truce.
 
Qualche ora dopo andammo a passeggiare lungo il ponte di Westminster. Ogni cosa mi ricordava Jamie, perfino il Tamigi, accanto al quale avevamo camminato tantissime volte.
Concludemmo la giornata dall’ecografista, una delle tante visite di routine che solitamente affrontavo da sola. Infine, tornammo a casa e mi addormentai presto, scordandomi di puntare la sveglia.
Parecchie ore dopo sentii un rumore, qualcosa che infastidiva il mio sonno. Capii che si trattava del telefono. Senza aprire gli occhi, cercai l’apparecchio sul comodino con la mano sinistra.
-Farai meglio a svegliarti!- esclamò la voce di Hannah dall’altra parte.
-Come?- riuscii a chiedere soltanto. Provavo una leggera nausea, nulla di nuovo.
-Sveglia, Dori! Devi prepararti, altrimenti arriveremo in ritardo.-
In ritardo. In ritardo…
La sorpresa mi fece alzare di scatto, e non fu un bel risveglio. Senza nemmeno salutare Hannah, gettai il telefono da qualche parte e cercai di sbrigarmi.
Mezz’ora dopo, lei e Oliver erano sotto casa mia, fermi dentro a un minivan nero. Saltai su senza troppa grazia e partimmo più in fretta possibile. In realtà, avevamo un largo margine di tempo, ma non puoi mai sapere se incontrerai una lunga distesa di auto, prendendo una strada per andare fuori città. Mi sentivo ansiosa e inquieta, continuavo a portarmi le mani sul ventre gonfio, avevo preso quell’abitudine da quando la strana convessità aveva modificato il mio corpo.
Quaranta minuti dopo eravamo nei pressi dell’aeroporto. Le macchine si divincolavano nel traffico opprimente ma in qualche modo ci avvicinammo all’entrata.
-Come ti senti, Dori?- chiese Oliver.
-Non credo che riuscirò a sopportare quest’ansia ancora per molto!-
Lui rise, rideva praticamente per tutto. Ero convinta che avrebbe riso anche se gli fosse capitata una disgrazia, e questo non era un vizio così terribile.
-Mi sa che non dovrai sopportarla più- disse piano, mentre fissava un punto fuori dall’auto.
Mi girai, seguendo il suo sguardo e notai un ragazzo. Era in piedi, perfettamente dritto, con uno zaino sulle spalle. I capelli biondi erano leggermente scossi dal vento e una maglietta blu s’intonava perfettamente con quegli occhi che non potevo vedere, ma conoscevo così bene da averli disegnati continuamente, in quel periodo. Sembrava confuso, mentre scrutava da una parte e dall’altra, e poi controllava l’orologio.
Aprii la portiera, senza curarmi del leggero movimento della macchina, o della voce di Hannah che diceva “Aspetta”. Cominciai a correre lungo il marciapiede, facendo attenzione a non scontrarmi con nessuno, anche se la gente si spostava per lasciarmi passare.
Appena arrivai abbastanza vicino, mi gettai sopra Jamie. Il suo petto era caldissimo, sotto la mia guancia, e sapeva esattamente dell’odore di Jamie.
-Mi sei mancato da morire- borbottai singhiozzando, non sapevo nemmeno se mi avesse capito. Non ero solita fare quelle scenate, men che meno davanti a tutti, ma in quel momento non riuscivo a trattenermi, forse era colpa dell’emotività causata dalla gravidanza.
-Ti amo- rispose lui, baciandomi la testa. Sentii le sua labbra affondare nei miei capelli.
Poco dopo si scostò da me e si inginocchiò, portandosi all’altezza della mia pancia. Mi sentivo un po’ in imbarazzo, a vederlo così davanti a tutti, ma a lui sembrava non importare affatto.
-Come sta?- chiese, fissando il mio ombelico che formava un piccolo bottone attraverso la maglietta.
-Ti sta salutando.-
-Come fai a dirlo?-
-L’ho sentito agitarsi così soltanto poche volte- risposi, ridendo sommessamente. Diede un bacio sulla mia pancia come se stesse già baciando suo figlio. Sarebbe stato il padre migliore dell’universo.

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Capitolo 21
*** Jamie - Alla fine è per sempre. ***


Dal primo momento in cui avevo posato gli occhi sul corpo della mia ragazza, avevo notato quanto fosse cambiato. Le sue rotondità esagerate la facevano apparire goffa e impacciata ma, ai miei occhi, era la donna più bella che avessi mai visto. Ogni volta che la guardavo non potevo non riflettere sulla piccola vita che si nascondeva dentro quel corpo.
Una nuova vita. Stavo davvero per incontrare mio figlio, una creatura che sarebbe dipesa unicamente da me e da sua madre. Ero pronto a questo? Nemmeno un po’. Entravo nel panico ogni volta che ci pensavo, immaginando come sarebbe stata la mia vita da quel momento in poi.
-Jamie?!-
-Scusa, Dori, scusami. Sono qui, hai bisogno di qualcosa?-
La ragazza mi strinse più forte la mano, mentre delle goccioline di sudore le rigavano il viso contratto. Mi fece addirittura male, mentre conficcava le sue unghie dentro la mia pelle. Sapevo che quel dolore era nulla rispetto a ciò che stava provando lei.
Attorno a noi, la stanza era piena d’infermieri che seguivano il normale protocollo. I volti concentrati, ma con la consapevolezza di qualcuno che ha assistito centinaia di volte a scene simili. Il ginecologo era serio ma sorridente, e continuava a ripetere consigli a Dori che sarebbero dovuti essere rassicuranti.
 
Appena vidi mio figlio fu come se tutti si fermasse per un attimo. Era di un colore innaturale, gli occhietti socchiusi e gonfi. Non era come nei film, dove i bimbi nascono bellissimi e perfetti: la sua pelle era chiazzata e rossa, leggera come carta velina. Mio figlio.
Mi girai verso quella donna che avevo conosciuto come una ragazzina e che ora era il pilastro più importante della mia vita. Sapevo che non avrei mai voluto separarmene, che ero pronto ad andare avanti con lei per tutto il tempo che mi sarebbe stato concesso.
Non avevo mai creduto nei “per sempre” ma questo era esattamente ciò che immaginavo con mio figlio e con Dorotea.




N.D.A:
Scusate immensamente per il ritardo, questo periodo non è stato dei migliori e inoltre non avevo assolutamente idee. Spero che questo finale vi piaccia. Alla prossima FF.

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