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«How many years can a mountain exist
Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist
Before they're allowed to be free? »
Bob
Dylan, “Blowin’ in the wind”
La luna piena
di fine febbraio, soda e lattea come l’occhio vacuo di un cielo cieco, si
rifletteva spigolosamente sull’insegna del locale di
fronte alla stazione ferroviaria, un piccolo pub scadente con la tappezzeria
dei divanetti strappata e macchiata d’olio e il bancone degli alcolici sempre
affollato di volti giovani e sperduti, pieni di sogni e con la speranza ridotta
all’osso. Marta se ne stava mezza accasciata su uno degli sgabelli fuori uso,
con le gambe un po’ deformi a reggerlo su e il sedile spolpato, col gomito
sottile mollemente poggiato al bordo del banco e il volto inespressivo rivolto
alla sue spalle, in direzione della saletta adiacente. Il locale era piuttosto
affollato; gli “PsycoElfsof the Decade”, il gruppo alternative rock di cui
Ludovica, sua compagna di avventure più che amica, era voce principale e basso,
stava suonando l’ultimo pezzo della scaletta, una cover rivisitata di “Creep” dei Radiohead,uscita per
altro da poche settimane. Marta gettò un’occhiata passiva agli occhi di
Ludovica, verdi e vivi come le onde del mare all’alba, che si allargavano o si
socchiudevano a seconda se stesse cantando note acute o gravi, contornati da
una tremula linea di matita nera e messi in risalto dalla luce soffusa dei
faretti iridescenti. Accadeva spesso che, quando entrambe si sentivano prese da
una risucchiante malinconia e la solitudine le inaridiva fino a farle
sbriciolare come sabbia alla minima folata di emozione, cedessero alla lussuria
che albergava timidamente nei loro occhi e si ritrovassero a condividere lo
stesso letto, ingarbugliate l’una nei dolori dell’altra. E, per avere solo
diciotto anni, questo accadeva fin troppo spesso. Era una specie di patto, il
loro. Non erano amiche con beneficio, no. Quella definizione a Marta suonava
troppo squallida e inorridiva al pensiero di considerare le sue afrodisiache
scalate del corpo bianco di Ludovica semplici soddisfacimenti di bisogni
fisici. Era piuttosto come un antidoto alla pazzia; si chiamavano con toni
carezzevoli e incastravano le loro gambe in modo da congiungersi, come stessi
pezzi di un grande vaso di terracotta fracassato a terra per un improvviso
vento, ogni qual volta sapevano di non potercela fare da sole. Quando
raggiungeva il picco del piacere, gli occhi di Ludovica si allargavano a tal punto
da sembrare di poter contenere il verde di un’intera foresta. Marta diede un
ultimo sorso al suo bicchiere, fino a pochi minuti fa ripieno fino all’orlo di
vodka e vermut, rabbrividendo quando il sapore graffiante dell’alcol le corrose
la gola. Si diede un’aggiustatina ai capelli,
modellando con mani molli i boccoli che le cadevano sulle spalle. L’avevano
scoperto insieme, il mondo del sesso. Ludovica, col suo fare enigmatico e la
testa sempre apparentemente altrove (nel mondo delle idee platoniche, a detta
sua), lasciava a pochi la possibilità di entrare nella sua vita o anche solo di
parlarle. Era piuttosto fredda, sempre gentile con tutti, certo. Ma pur sempre
gelida. Era stata lei a farle provare l’ebbrezza della libertà, l’amarezza
dell’alba che sorge dopo una notte di oblio, l’atroce dolcezza delle droghe. E
lei, Marta, non si era pentita di niente. A quasi diciotto anni, media
dell’otto punto due al liceo classico di paese e figlia unica di due avvocati,
poteva dire di non essersi fatta mancare nulla in termini di nuove esperienze.Col suo viso sempre ben truccato e gli occhi
tanto dolci da intenerire il più incallito dei sadici, nascondeva bene il caos
che si agitava nella sua piccola testolina da aspirante scrittrice. Voleva
scrivere nella vita, raccontare le storie della buona notte che, come diceva
lei, i suoi genitori non le avevano mai raccontato. Storie che facessero
addormentare come fossero camomilla, cullando in un calore nebuloso. Storie che
sortissero lo stesso effetto rilassante e obliante della canna che una volta
aveva fumato con Ludovica e Giorgio, la figura più assimilabile ad un migliore
amico per lei, nei bagni pubblici del parco.
Federico, batterista degli Elfs dai capelli biondi e lunghi,
eternamente raccolti in una mezza coda che gli arrivava alle spalle, chiuse il
pezzo con un energico colpo di cassa, facendo vibrare le pareti e destando per
un attimo Marta dal suo sonno inerte. Qualcuno in fondo gridò, lei si limitò a
rivolgersi nuovamente verso il bancone, stanca in volto e con i capelli castani
e morbidamente ondulati che le coprivano quasi gli occhi.Chiese in un sospiro un’altra vodka e vermut
al giovane barista pieno di tatuaggi sugli avambracci. Quello alzò la sua testa
bionda e le rivolse uno sguardo interrogativo.
-Sei
sicura? Questo è il terzo- la avvertì Grisha, con
quell’ accento slavo così marcato che a Marta ricordava ogni volta il suono di
una lama che fende la delicata brezza mattutina. Dalla piccola folla che si era
radunata nella saletta provenivano schiamazzi e urla di approvazione. Probabilmente, pensò,Walter
sta di nuovo spezzando tutte le corde della chitarra, perché le ragazzine lo
adorano quando fa il duro. Uno schiocco metallico, simile ad un colpo di
frusta, raggiunse il suo udito al di sopra di tutto quel chiasso, a confermare
la sua tesi. Lei e Walter erano addirittura usciti assieme, per un certo
periodo. Certo, avevano tredicianni e
lui suonava ancora sulla vecchia chitarra di suo padre, quella con la cassa
acustica scollata e gli adesivi di Mazinga ancora attaccati su, e lei ancora
baluginava in un universo ovattato fatto di libri da leggere prima di andare a
letto e tranquilli pomeriggi in giardino con la nonna.Poi si erano lasciati, in modo quasi anestetico,
come solo i ragazzini sanno fare, dando poca importanza al sentimento che si
impadroniva di loro quand’erano assieme ad ascoltare i Queen nella soffitta di
Walter, seduti a gambe incrociate e con i mignoli intrecciati. Marta scorse il
profilo di Giorgio in fondo all’unico corridoio che portava al cortile sul
retro, i suoi capelli neri erano dorati dalla lieve luce che proveniva dalla
lampada a neon a forma di bottiglia di Heineken fissa sopra il bancone. Teneva
per mano una ragazza, una biondina dall’aria svampita, che lo guardava come un diabetico
di fronte ad un succulento muffin al cioccolato. Li vide entrare nei bagni e
chiudersi frettolosamente la porta alle spalle. Probabilmente quella sera lei e
Ludovica l’avrebbero di nuovo dovuto salvare dalle grinfie delle sue
pretendenti, fingendo di essere ragazze sedotte e abbandonate da lui in modo da
allontanare tutte. Una tecnica che funzionava ogni volta, per il gran piacere
di Giorgio, che otteneva i vantaggidi
storie della durata di una serata senza nemmeno doversi sentire in obbligo a richiamare.
-Sicurissima-
affermò, tirando su col naso. Ora che il gruppo aveva finito di esibirsi, il
proprietario aveva alzato il volume della tv, che era sintonizzata su un canale
radio di soli classici anni sessanta, settanta e ottanta. In sottofondo, coperto
dai brindisi festosi al buon proseguimento della carriera degli PsycoElfse il rumore di bicchieri che si accostavano,
Marta riuscì a distinguere “Stawberryfiels” dei Beatles. Grisha le
rivolse un ultimo sguardo ammonitore, ma poi prese un bicchiere pulito e le
versò la vodka e il vermut con gesti sicuri ed esperti da vero barman. Le aveva
raccontato di aver viaggiato parecchio, prima di trovarsi a far il barista in
quel piccolo paesino. Aveva lavorato in un pub a Parigi, ma era stato cacciato dopo
che si era diffusa la notizia della sua tresca col proprietario; poi ad
Amsterdam, dove però spendeva subitaneamente tutto ciò che guadagnava in
marijuana, addirittura a Dublino.
-Ti
porta lei a casa stasera?- chiese, ammiccando a Ludovica, che stava trangugiando
la sua birra bionda, seduta ad un tavolino con tutti gli altri membri della
band. Marta si girò, per guardare meglio a chi si stesse riferendo. Ludovica le
fece un occhiolino, rivolgendole un sorriso seducente.
-Spero
di si- si lasciò scappare, poggiando una guancia sulla mano e portandosi il
bicchiere alla bocca.
-Siete
proprio carine, voi due- ridacchiò Grisha, lucidando
alcuni boccali appena lavati. Lei rispose con un grugnito, dondolando i piedi
sullo sgabello troppo alto.
-Guarda
che non è come credi- smentì, fulminandolo con lo sguardo.
-Si sta
avvicinando- la avvertì divertito e, quando Ludovica si accostò a Marta per
sussurrarle qualcosa e la fece arrossire, fece finta di star sistemando le
bottiglie di birra vuote in una cassa, dando loro un po’ di privacy.
-Io e
te, in bagno. Subito- mormorò con voce strascicata al suo orecchio, lasciandole
un bacio umido sulla guancia. Marta si attorcigliò una delle sue ciocche rosse
attorno al dito, guardandola maliziosa. Lo vedeva da come erano rilassati i
suoi lineamenti che era lievemente brilla, di solito Ludovica aveva sempre il
volto tirato in un broncio scontroso. I suoi capelli emanavano un inebriante
odore di muschio e menta e la strana sfumatura dei suoi occhi, ora color
palude, attirava Marta come una calamita.
- C’è Giorgio- riuscì a stento a mormorare, visto che quella
aveva preso ad accarezzarle piano la schiena, coperta solo da una camicetta di
seta semi trasparente. Grisha tossì imbarazzato,
ricordandole che erano in un luogo pubblico.
-Tesoro,
io sono frocio, ma loro no- rise,
indicando due ragazzi coi dread che le guardavano
imbambolati. Ludovica alzò le spalle, dando un sorso al bicchiere di Marta e
vuotandolo tutto in un solo colpo.
-Che si
fottano, Marta la posso avere solo io- ringhiò, passandole un braccio attorno
alle spalle. Sentì Pier Davide, il secondo chitarrista, sussurrare a Federico
qualcosa che suonava molto come “Ma
quelle due stanno assieme si o no?!” e quello rispondergli, con un
atteggiamento da santone, che le ragazze erano tutte strane.
-Ce ne
andiamo?- sussurrò Marta, tirando un pizzicotto al fianco della rossa per farla
voltare verso di lei. Ludovica annuì e per un attimo sembrò che le stesse
sorridendo in modo dolce,ma poi riprese a scherzare con quelli del suo gruppo,
tenendo testa a tutti in fatto di insulti e battutine sconce nonostante fosse
l’unica ragazza. Salutarono Grisha e gli
raccomandarono di controllare Giorgio quanto bastava per farlo tornare a casa
sano e salvo e, soprattutto, senza nessuna ragazzina sprovveduta al seguito.
Quando uscirono dall’ “HurlyBurly”
si era alzato un lieve venticello e Marta, tutta infagottata nel suo cappotto
rosso, attraversò tremando la strada.
-Dimmi,
quant’hai bevuto, eh?- chiese Ludovica, brusca. Lei alzò le spalle e si accostò
al muretto oltre il quale si potevano scorgere i treni fermi sui binari.
-Tre
vodka e vermut, anzi… due e mezzo, per colpa tua- gracchiò, cercando di
rimanere in equilibrio sui suoi tacchi di dieci centimetri. La rossa la guardò
bieca, giocherellando con le chiavi dellaVolkswagen di sua madre, presa, a detta sua, in prestito.
-Non
devi bere così tanto, può essere pericoloso per te, lo sai- la rimproverò dura,
continuando a fissare il movimento circolare delle chiavi attorno al suo dito
indice. Marta rispose con un grugnito di disappunto.
-Io bevo
quanto voglio, Ludo. Il cardiologo non mi ha dato nessuna raccomandazione- si
inalberò, ma per il brusco gesto che fece col braccio rischiò di rovinare sul
marciapiede. Ludovica accorse a tenerla su, prendendola per i fianchi. I suoi
lunghi capelli rossi luccicavano come bronzo alla luce della luna e sulle sue
orecchie quasi diafane spiccavano come stelle tre piercing d’argento. Si accese
una sigaretta, tenendola fra il pollice e l’indice, come i maschi, e
avvicinandola con calma alle sue labbra rosee. Marta, non appena si fu
stabilizzata, si rivolse col busto verso la stazione ferroviaria che, silente e
invasa da una leggera nebbiolina, appariva quasi come un miraggio.
-Mi
piacerebbe andarmene, sai? Prendere un treno per chissà dove, senza salutare
nessuno- mormorò, più a sé stessa che a Ludovica. Quella annuì, come se avesse
capito esattamente a cosa si riferiva. Prese una boccata di fumo e guardò anche
lei la stazione.
-E’
perché vuoi essere libera, vero?- chiese. Quando non era nervosa o arrabbiata,
il che accadeva molto di rado, la sua voce suonava melodiosa e vellutata come
il cinguettio di un canarino. Marta adorava sentirle dire cose banali come buongiorno, che cazzo combini, domani vieni
a scuola? Quando parlava aveva l’impressione che tutto il mondo si fermasse
ad ascoltarla.
-E’
perché voglio sentirmi libera. Liberi
non lo si è mai davvero, secondo me-
Ludovica
le circondò le spalle con un braccio, per tenerla al caldo. Le soffiò un po’ di
fumo in faccia e la fece ridacchiare per il solletico. Marta le sorrise
riconoscente, strofinando una guancia contro la sua sciarpa di lana grigia.
-Vieni,
andiamo a casa- le sussurrò la rossa, facendo per dirigersi verso la sua auto.
- Ma non
volevi…?- chiese l’altra, allusiva. Ludovica scosse la testa in un modo che a
Marta sembrò quasi rassegnato. I suoi occhi ora erano miti e tranquilli come il
fondo di un lago. Gettò la cicca sul marciapiede, calpestandola con la suola
dei suoi stivali neri.
- Mi è
passata la voglia- la sentì mormorare semplicemente, mentre una folata di vento
scompigliava i capelli di entrambe. Restarono qualche minuto in silenzio, poi,
dopo aver chiuso la sua portiera e aver infilato la chiave nel quadro
dell’auto, Ludovica si voltò verso di lei.
-Marta?-
-Uhm?-
-Ti
voglio bene, lo sai questo?-
Marta
sorrise, nel buio dell’abitacolo. La stazione sfilava in tutto il suo squallore
fuori al suo finestrino e, pensò, neanche se fosse partita con uno dei treni
del mattino sarebbe mai stata libera dalla sensazione di calore e pace che
provava in quel momento.
«Don't always know what I'm talkin' about, feels like I'm livin'
in the middle of doubt 'cause I'm eighteen, I get confused every day»
Alice
Cooper, “Eighteen”
Il
metronomo sul pianoforte del suo salotto continuava a ticchettare da un più di cinque minuti
, dopo che il suo gatto siamese gli aveva dato una zampata facendolo
cadere di lato. Ludovica, distratta dal suo studio, si alzò dalla scrivania e
corse a bloccarlo, facendo scendere Tabasco con un gesto stizzito.
-Si può
sapere perché mai hai paura del metronomo?- domandò scocciata, rivolta verso il
gattone che la fissava quasi sconvolto, con gli occhi azzurri fissi come pietre.
Tornò alla sua versione di greco, finendo la traduzione in meno di dieci minuti
e sistemando soddisfatta i suoi libri in un angolo. Ludovica, al contrario di
come ci si poteva aspettare, era categorica nel suo studio e persino dopo una
sbronza magistrale come quella della sera precedente (alla fine Marta l’aveva
invitata a salire da lei perché i suoi non c’erano e c’era andata di mezzo la
sua bottiglia di Martini), non rinunciava alla possibilità di prendere un bel
sette. La casa era silenziosa e vuota e, dopo aver finito di studiare l’ultimo
paragrafo di storia dell’arte, si abbandonò sbuffando sul divano di pelle.
Tutt’attorno a lei era la calma più totale, Tabasco dormicchiava ora più
tranquillo sul tappeto di fronte al pianoforte e dalla finestra aperta della
cucina adiacente proveniva un venticello tagliente e gelato che sferzava, di
tanto in tanto, le braccia nude e bianche di Ludovica. Talvolta, quand’era sola
a casa, la prendeva lo sconcerto più totale e la solitudine assumeva contorni
spaventosamente violenti, tanto che spesso era costretta ad accendersi uno
spinello o bere un bicchierino per distrarsi. Sua madre, essendo infermiera
dell’ospedale della provincia, che distava una ventina di chilometri dal loro
paesino, passava molto poco tempo a casa, nonostante cercasse di liberarsi
sempre il prima possibile per stare un po’ di tempo con lei e suo fratello
gemello. Probabilmente Enrico era agli allenamenti di calcetto e non sarebbe
tornato prima di un paio d’ore, visto che spesso gli piaceva perdere tempo in
giro a zonzo con la sua vespa nuova di zecca, così Ludovica decise di fare uno
squillo a Walter eFederico per
proporgli di passare il pomeriggio alla solita
maniera: partita alla playstation (anche quella nuova di zecca, uscita da
appena tre mesi), sigarette e un po’ di musica. Ripescò il suo Nokia dalla
sacca di tela che utilizzava come borsa, presa ad una manifestazione contro gli
OGM, e compose il numero di Dede, come adorava
prenderlo in giro da quando aveva scoperto che si lasciava docilmente chiamare
così dalla nonna novantenne, per la quale aveva un particolare debole.
-Ludofica, a che devo l’onore?- rispose
allegramente, troppo allegramente, quello dopo solo uno squillo, a
testimonianza del fatto che il nulla totale e assoluto occupava i suoi lunghi
pomeriggi “di studio” e che senza gli Elfs sarebbe stato ancora seduto in silenzio in un angolo
della 5 C, con un paio di cuffie da walkman nelle orecchie e gli ACDC sparati a
tutto volume. Non che fosse asociale, semplicemente Federico si presentava come
silenzioso e piuttosto timido e, in un paesino di provincia come quello,il suo
comportamento riflessivo e tendente alla solitudine veniva considerato sintomo
di sfigaggine.
-La
smetti di chiamarmi con quel nome del…- prese ad inveire Ludovica, subito
fermata da una replica scherzosa dell’altro.
-Andiamo,
non dirmi che non ti piace. Riflette in pieno il tuo essere- ridacchiò
sommessamente.
-Vuoi
rimanere senza band?- lo minacciò la rossa, scontrosa.
-Qualcuno
ha il ciclo oggi, eh?-
-Ma sta’
zitto! Piuttosto muovi quel culo floscio che ti ritrovi, legati i capelli in
una bella coda di pony, prendi Walter e vieni a casa- gli intimò quasi, mentre
fissava il soffitto macchiato e un po’ crepitante del salotto.
-Dammi
il tempo di mettere in moto il catorcio- sospirò, per poi chiudere la
chiamata.Ludovica rispose con un bel vaffanculo, che
utilizzava come intercalare o saluto ogni qual volta voleva enfatizzare il suo
dissenso, e scorrendo fra i numeri della rubrica per cercare quello di Pier
Davide, si soffermò a leggere quello segnato sotto il nome di Marta Cabassi. Si morse il labbro, gettandosi di nuovo a peso
morto sul divano. Aveva tanta voglia di vederla, di stringere i suoi fianchi e
affondare le mani nei suoi capelli scuri e mossi come le onde del mare. Adorava
sentirla fremere sotto il suo tocco, provocarla fino a farla supplicare,
giocare con i suoi desideri fino a farla cedere alla disinibizione più totale.
Ma adorava anche, e se ne rese conto con sconcerto, i momenti successivi ai
loro incontri ravvicinati;
accarezzarle il collo per farla calmare dagli spasmi del piacere, respirare
l’odore di arance che emanava il suo corpo umido e contemplare in silenzio le
sue pupille restringersi e allargarsi a seconda dell’intensità delle sue
attenzioni erano cose che la mandavano in visibilio, paragonabili in termini di
appagamento solo ai suoi solitari giri in auto al calar della sera, con in
sottofondo Alice Cooper e l’aroma del deodorante per auto alla menta a
solleticarle le narici. Marta sapeva di inesplorato, di lontano e di
irraggiungibile, tutte cose che Ludovica aveva imparato a conquistare grazie ai
suoi abili modi di seduzione. Era come se, quando la toccava o le baciava la
pelle, le barriere insormontabili che innalzava fra la sua testolina da
scrittrice e il mondo cedessero come terracotta, come se l’orizzonte dei suoi
occhi si avvicinasse per poter cogliere quanto più godimento possibile dall’abisso
a cui Ludovica sentiva di appartenere. Marta era una vetta, una cima rivolta
verso il cielo illimitato, pura, invalicabile e rischiosa, lei solo lo specchio
cristallino di un lago paludoso, melmoso e impantanato nella terra. E
nonostante tutto, quell’amicizia viziosa l’aveva attirata fin da subito come un
fiore dall’odore inebriante, pronta a risucchiarla in quel vortice di
sregolatezza e immoralità, col
fascino irresistibile delle cose che ci fanno male. Quando l’avevano stregata i
suoi occhi bruni e il suo broncio eternamente insoddisfatto, come se dalla vita
cercasse qualcosa che non le era concesso avere! Prima di lei, Ludovica aveva
provato solo con Walter (che vantava un gran numero di conquiste, sempre
sedotte e abbandonate in virtù della sua esclusiva unione con Daisy, la sua
Fender Telecaster gialla) e per di più sotto
l’influsso di un paio di canne di troppo. Ora che ci pensava era stato
terribile, in mezzo alla pineta del campeggio estivo dell’anno precedente.E non si trattava di rametti fra i capelli e
la terra nei pantaloncini, no. Quelli erano miseri dettagli. Walter, nonostante
facesse il figo con gli amici e lo spaccone con le
ragazze, era davvero un disastro in quelle
cose e la cosa più eccitante che Ludovica riuscì a ricordare riguardo
quella sera fu un bellissimo esemplare di civetta che tubava sul ramo sopra la
sua testa. Per fortuna, la loro amicizia era rimasta intatta, come quand’erano
bambini, perché sia lei sia Walter avevano ammesso che si era trattato di un
semplice incidente. Ma con Marta, dio, era tutta un’altra cosa. Nemmeno riusciva
a capire come il suo solo corpo contenesse così tanta passione. Stava giusto
pensando di chiamarla per un giro in macchina quella sera stessa (e magari una
sosta nelle zone deserte della campagna attorno al paese), quando suonarono al
campanello del suo appartamento e fu costretta a farsi mentalmente una doccia
fredda. Non appena aprì la porta, Federico e Walter si catapultarono sul
divano, abbandonando per terra rispettivamente zainetto e custodia della
chitarra.
-Daisy?- chiese Ludovica, prendendo
posto sul bracciolo accanto a Dede.
-Erin- precisò il ragazzo dai capelli
neri, sistemandosi una chitarra acustica color nocciola sul ginocchio. Walter,
d’aspetto, era simile ad uno di quei principi nordafricani di cui sono piene le
soap opera di bassa qualità: i suoi occhi, neri come le pietre del deserto,
ipnotizzavano col loro calore esotico e straniero la maggior parte di quelli
che lo guardavano e la sua pelle, simile al colore della sabbia al tramonto, trasudava
quella sensualità raffinata tipica degli spiriti imperturbabili. La camicia di
jeans che portava, sfilacciata ai bordi delle maniche, aderiva morbidamente ai
suoi pettorali quasi evidenti e le sue converse allstars nere, seminascoste dalle falde del pantalone a vita
alta verde petrolio, battevano a tempo sul tappeto, alzando un po’ di polvere.
I vari ciondoli d’argento e le collane dal filo di cuoio che gli cingevano il
collo tintinnavano ogni qual volta avvicinava il suo petto alla chitarra per
poterla accordare meglio. Federico tirò fuori dalla tasca dei jeans la sua
armonica mezza arrugginita e prese a lucidarla in silenzio, strofinandola
contro il tessuto della maglietta grigia.
-Cos’è tutto ‘sto silenzio?- domandò
la rossa, stiracchiandosi e dando un colpetto sul polpaccio di Walter con il
piede. Quello alzò le spalle, avvicinando l’orecchio alle corde per sentire
meglio.
-Dede è ancora arrabbiato con te per
come lo hai trattato al telefono, razza di strega crudele- borbottò,
cominciando a strimpellare qualche accordo. Federico, piegato com’era sulle
ginocchia, soffiava tranquillo nella sua armonica per rimuovere gli ultimi
residui di polvere, fingendo di ignorarli.
-Che
bambinone!- ridacchiò Ludovica, alzandosi per andarsi a sedere sulle sue gambe
e scompigliargli i capelli biondi, che ora erano sciolti, quasi come un’aperta
provocazione alla sua precedente richiesta telefonica. Federico sbuffò, facendo
il sostenuto.
-Andiamo,
Dede- lo pregò con sguardo carezzevole e modi da
ruffiana, passandogli una mano sulla guancia.
-Per
favore, sembra che tu voglia sedurmi- rise quello dopo un minuto buono passato
in silenzio a subire le sue attenzioni, facendola scendere con uno spintone
dalle sue ginocchia e tirandola a sedere vicino a lui.
-Lo sai
che Miss Rossa qui presente non gradisce il tuo gingillo, calma gli ormoni- sghignazzò Walter, riprendendo a
suonare sconnessamente accordi di canzoni random, fra
i quali si potevano scorgere gli incipit di “Smoke on
the water” dei DeepPurple,
“Sweetchildof mine” dei Guns ‘n Roses e “With a little help frommyfriends” dei Beatles. Ludovica
grugnì contrariata, lanciandogli addosso un plettro che giaceva abbandonato sul
tavolino da tè.
-Assassina!
Stavi per graffiarmi Erin!- gridò quasi il
chitarrista, rivolgendole uno sguardo truce coi suoi occhi neri, lasciando a
metà l’intro di “Woman from
Tokyo”.
-Stronzo-
mugugnò e ora fu il suo turno di fingersi offesa.
-Dai,
amico, lasciamola copulare in pace con la Cabassi.
Non possiamo biasimarla, ha proprio un culo da paura- scherzò Federico,
beccandosi un altro scappellotto dietro la nuca.
-Non no-mi-na-rla, capito? Né lei, né il suo culo- sillabò piano
Ludovica, prima di lasciargli un altro pizzicotto sul braccio.
-Scusa,
scusa. Giuro che sto zitto, basta che la smetti di torturarmi- piagnucolò Dede, traendo il braccio, orami rosso per i segni, al
petto. Ludovica gli rivolse un’ultima occhiata intimidatoria, prima di sedere a
terra con le gambe incrociate, giocherellando coi lacci delle sue Adidas
modello Stan Smith nere.
-Ah,
quasi dimenticavo… ho portato i biscotti- saltò su Walter, indicando lo zaino
abbandonato all’ingresso. La rossa allargò gli occhi, stirando le sue labbra
chiare in un sorriso genuino. Solo di rado la si vedeva così naturale,
spontanea e sincera come una bambina. Ludovica aveva sempre pensato che
sensibilità, creatività e spontaneità andassero di pari passo, ma aveva
imparato a sue spese che si verificava esattamente il contrario. Col passare
degli anni, a causa del disagio che percepiva venendo a contatto con persone che
non la capivano, aveva imparato a calcolarsi, a dosare la sua parte fantasiosa
ed eclettica, fino a diventare una macchina, pressata e sballottata dentro la
posa che aveva assunto per proteggersi. Afferrò ridacchiando il pacco di
biscotti al cioccolato e fece una capatina in cucina per tirare fuori dal frigo
una bottiglia di succo alla mela verde, la loro bevanda ufficiale. Ci avevano brindato alla loro prima serata,
circa cinque anni prima, quando avevano ancora poco più che dodici anni e si
chiamavano AmetistVessels, dopo
un’esibizione amatoriale per la famiglia di Walter. Tornò in salotto con tre
bicchieri dal collo allungato, di quelli che davano in omaggio con tre pasti ai
fast food, colmi fino all’orlo e il pacco di dolciumi
già mezzo svuotato.
-Proviamo?-
chiese Federico, finendo si masticare i biscotti e buttando giù l’ultimo sorso
di succo di mela.
-Si,
vai. Dopo ho bisogno di una sigaretta- concesse Ludovica, pulendosi le mani sui
jeans e tirandosi su le maniche del maglioncino verde. Si alzò per andare a
recuperare il suo basso, lasciato sul letto della sua camera, e poi tornò a
sedersi di fronte a loro. Walter fece un cenno con la testa, cominciando con i
primi arpeggi di “California dreamin’” dei The Mamas & Papas, seguito poi
dalle percussioni del basso di Ludovica e le prime note melodiose della sua
voce. Federico li seguì a tempo con un suo piccolo adattamento all’armonica,
mentre anche il chitarrista prendeva a cantare sommessamente la seconda voce,
mescolando il suo timbro gutturale e profondo con quello acuto e morbido
dell’altra.
-You know the preacher
likes the cold, he knows
I'm gonna stay- cantòLudovica, muovendo a ritmo la testa.
-Californiadreaming, on such
a winter'sday– seguirono Walter e Federico, che ora che aveva terminato il suo assolo
si era unito, con le loro voci che ben si armonizzavano. Dalla porta che dava
sul balconcino Ludovica poteva intravedere le prime gocce di pioggia di quello
che sembrava preannunciarsi un bell’acquazzone. I tuoni tutt’ad un tratto
coprirono lo strimpellare della chitarra e i colpi ritmici del basso, invadendo
la stanza e spezzando l’atmosfera, come una palla di cannone che squarcia la
vela di un vascello in navigazione verso terre remote e immaginarie. La rossa
smise subito di suonare, con le mani molli e il fiato improvvisamente corto
lasciò cadere il basso sulle sue gambe. Federico sembrò accorgersi della sua
preoccupazione, perché si alzò immediatamente dal divano e si avvicinò per
guardarla in volto. Tremava e teneva gli occhi fissi sul tappeto, con le mani
chiuse a coppa sulle orecchie.
-Hey, folletto, è solo un temporale- sentì Dede che la tranquillizzava ma, con i rumori sordi dei
tuoni e i flash improvvisi dei lampi ad illuminare a sprazzi il tavolo coi
libri e la teca dove sua madre teneva i bicchieri di cristallo, riuscì a
sentire solo un flebile fischio nelle orecchie. La luce era andata
improvvisamente via, Walter si era precipitato a controllare il quadro
dell’elettricità nell’altro corridoio. Federico le mise le mani sulle spalle,
scuotendola leggermente. Non capiva cosa stava succedendo, tutto era immobile
davanti a lei, solo i capelli biondi del ragazzo si illuminavano d’argento di
tanto in tanto. La luce della luna si rifletteva nell’acqua piovana che
grondava sul balcone e i lampi si susseguivano aritmicamente e senza che
Ludovica potesse contare e calcolare quand’è che sarebbe giunto il successivo.
Un ultimo tuono rombò più forte degli altri e, al buio, cominciò a piangere
sommessamente, gemendo e mugolando come un cucciolo.
-Ludo, guardami- la
chiamò Federico, mettendole una mano sotto il meno e tenendole ferme le
ginocchia tremanti con l’altra. Ludovica si sforzò di alzare lo sguardo dal
pavimento e respirare più regolarmente, mentre sentiva la scia bollente di una
lacrima farsi strada sul suo collo ghiacciato. La luce si riaccese, dopo un
paio di imprecazioni da parte di Walter, che in quel buio non riusciva a
trovare la leva giusta, così si tolse le mani dalle orecchie per sentire meglio
Federico.
-Dov’è Marta?- si sentì di domandare, quasi
inconsciamente, ingoiando un’ultima lacrima. L’amico la guardò dubbioso,
aggrottando le sopracciglia.
-A casa sua immagino-
rispose con calma, sedendosi accanto a lei per terra e passandole un braccio
attorno alle spalle, per calmare i suoi ultimi spasmi di panico.
-Anche lei ha paura dei
temporali- mormorò, poggiando la testa sulla sua spalla. Walter li raggiunse,
sedendosi alla sinistra di Ludovica e cominciando ad accarezzarle il braccio in
modo goffo.
-Davvero?- si informò il
moro, cercando di distrarla. Ludovica annuì, prendendo un respiro profondo.
-Una volta eravamo
assieme, era dicembre e stavamo per addormentarci. E’ scoppiato un temporale ed
eravamo sole in casa, sole e mezze andate. Così mi ha svegliata in lacrime e mi
ha supplicato di dormire abbracciata a lei-
Federico annuì,
stringendo di più la presa attorno alle sue spalle, che ora sembravano così
esili ed indifese.
-Vuoi che la
chiamiamo?- propose Walter, tastandosi le tasche alla ricerca del suo Motorola.
-Si, per favore. Avrà
paura, ne ho anche io. O forse no, sono confusa ogni giorno di più-
«There is no pain, you
are receding,a distant ship smoke on the horizon You are coming through in waves, your
lips move but I can't hear what you're saying»
Pink Floyd, “Comfortablynumb”
Enrico fissava il soffitto da tre ore buone, oramai. Non c’erano
più scusanti a cui appigliarsi. Prima di andare a dormire aveva preso una
camomilla, giusto per calmare i nervi dopo le pressanti stimolazioni della
creatina, che assumeva in piccole dosi in palestra, e la stanchezza degli
allenamenti di calcio con Giorgio. Si era assicurato di aver rubato
dall’armadietto di sua madre il pacchetto di pillole giuste, c’era scritto su
“Valeriana” a caratteri cubitali, non poteva essersi sbagliato. Non c’erano
motivi per cui non riuscisse, non potesse, dormire. Andava tutto bene,
dopotutto. Quella mattina aveva preso un bel voto in matematica, la
professoressa si era addirittura complimentato con lui, perché accadeva
raramente che riuscisse a prendere la sufficienza nei compiti in classe. Aveva
passato il pomeriggio a bighellonare con Giorgio, avevano adocchiato un paio di
ragazze e si erano messi a fare i cretini per fare colpo. Era stato un giorno
come gli altri. Eppure, dopo essersi lasciato scivolare in gole due di quelle
pasticche dal sapore amaro e di colore verdognolo e aver consumato quasi tutti
gli infusi di camomilla della casa, ancora non riusciva a prendere sonno. Alzò
la testa dalla coltre di coperte e lenzuola umide che lo facevano sentire
soffocato, dando un’occhiata all’orologio digitale sul comodino a fianco al
letto. Segnava le quattro e dieci, coi suoi caratteri spigolosi e a neon illuminava
di rosso il pavimento piastrellato, dov’erano sparsi jeans e qualche libro di
scuola, una manciata di fogli stropicciati e un pallone da calcio. Maledisse la
luna, che faceva capolino minacciosa dalla finestra, accuratamente lasciata
aperta per lasciar entrare un po’ d’aria (la sua insonnia poteva anche essere
dovuta al fatto che in quella casa l’aria era sempre soffocante, si era detto),
alzandosi col busto e tenendosi la testa dolorante fra le mani. Maledisse il
sonno, che non gli dava pace da tre giorni ormai, e si alzò per fare un giro
della casa. Accadeva spesso, infatti, che Enrico non riuscisse a dormire, per
il troppo nervosismo o per la rabbia repressa che accumulava durante l’arco
delle sue giornate frustranti. Insegnanti che non facevano altro che
bacchettarlo, insufficienze su insufficienze, compagni di squadra che lo
schernivano, che lo chiamavano sporco
figlio di puttana, bastardo senza padre. Era bravo come attaccante,
coglieva tutte le occasioni per soffiare la palla all’avversario e mandarla
quanto più possibile vicino alla rete, talvolta tirando da distanze
impossibili. Spesso faceva goal al limite dello spettacolare, come li definiva
Giorgio, ma quei figli di papà non la smettevano mai di bloccarlo all’uscita
dagli spogliato o dopo la scuola. Lo provocavano, gli causavano dentro una
rabbia così cieca che a volte esplodeva in pugni, calci, urla. Enrico non era
un tipo violento, fondamentalmente aveva la stessa sensibilità di sua sorella
gemella, la stessa empatia, lo stesso amore per la calma e la pace. Peccato che
non avesse il suo stesso quoziente intellettivo e la fama di bastardo. Scivolò
come un fantasma, a piedi nudi, per il corridoio, poggiandosi alle pareti
bianche e spoglie per non capitolare a terra nel buio. Passò di fronte alla
camera di sua sorella e scorse la luce ancora accesa. La porta era semichiusa e
Ludovica sembrava essersi addormentata ancora vestita, come suo solito, così
Enrico ebbe la premura di entrare per spegnere la lampada sul comodino. La sua
camera aveva sempre avuto un aspetto alquanto bizzarro, per lui. Le pareti, di
un bianco ospedaliero come il resto della casa, erano interamente ricoperte da
scritte a pennarello: frasi di canzoni, citazioni di libri e poesie in colori
diversi, dal rosso al giallo. Riusciva a scorgere perfino un disegno del
sistema circolatorio umano, con tanto di legenda anatomica piena di termini che
non capiva, disegnata a mano. In alto, erano appesi enormi poster di band come
i Beatles, i Pink Floyd e i Guns n’ Roses, insieme ai frontespizi dei libri preferiti di sua
sorella (che puntualmente Ludovica staccava e incollava alle pareti). Sporgendosi
per abbassare l’interruttore della lampada, calpestò accidentalmente il Game
Boy Color, che la madre aveva regalato ad entrambi qualche anno prima, e quello
si accese, cominciando a trillare. Cercò di spegnerlo il più velocemente
possibile, per non svegliare Ludovica, e lo gettò sotto il letto. Sua sorella,
però, raggomitolata com’era sul letto sembrò muoversi.
-Ludo, dormi?- domandò Enrico, con voce roca e gli occhi azzurrini
quasi spruzzati di sangue. Ludovica aprì un occhio con calma, sospirando.
-Ci stavo provando, ma non funziona- mormorò, rivolgendogli
uno sguardo stanco e avvilito almeno quanto il suo. Enrico si fece posto
accanto a lei, gettando sul pavimento un paio di libri, “La fattoria degli
animali” di George Orwell e “Jane Eyre” di Charlotte Bronte,
e quella che, constatò con disgusto, sembrava una rivista pornografica.
Ludovica arrossì, dandogli un colpo col piede e gettandola in fondo alla
stanza.
-E’ successo qualcosa, bruco?- domandò poi, guardandolo negli
occhi. Lui fece di no con la testa, passandosi una mano fra i capelli rossicci
e ricci. I due gemelli si fissarono per un istante, perfettamente uguali nei
tratti spigolosi e sottili del viso. Stesse labbra carnose e rosee, stessa
pelle diafana, stesso sorrisetto ammiccante e stesse gote pronunciate. La madre
diceva sempre che assomigliavano a lei, ma entrambi sapevano che la forma degli
occhi, tondi e con ciglia lunghe e quasi trasparenti, l’avevano ereditata da quell’altro.
-Niente, bruca- rispose, mogio. Cominciò a giocherellare con
le frange della coperta di lana, mentre Ludovica fissava la scrivania, alla
parete opposta, che era illuminata da un unico fascio di luce lunare, pallido e
spettrale. Sentirono un tonfo provenire dal piano superiore, poi lo stridore di
un oggetto pesante trascinato. Nell’appartamento proprio sopra il loro abitava
una coppia di sorelle, anziane e mezze sorde, e spesso si sentivano rumori
strani agli orari più improbabili.
-Vieni, stenditi vicino a me, dai- lo chiamò Ludovica,
adagiandosi con la testa sul cuscino e battendo con una mano di fianco a lei,
invitando il fratello a fare lo stesso. Enrico si distese, rigido come un tocco
e in silenzio.
-Oggi hai preso sufficiente, non sei contento?-
Lui annuì debolmente, strofinando le mani fra di loro e
respirando piano, osservando il fiato condensarsi in nuvolette bianche per il
freddo che aleggiava in quella stanza.
-Tu hai preso otto, non sei contenta?-
-Il voto è solo un fottuto numero, sai che m’importa- sminuì
Ludovica, con un gesto sbrigativo della mano.
-Dovrebbe importarti, sei una tipa intelligente- protestò
Enrico. Se fosse stato in lei, se avesse avuto almeno un barlume della sua
forza di volontà e delle sue capacità cognitive e se non avesse avuto
difficoltà a distinguere una lettera dall’altra, gli sarebbe importato eccome.
Lei alzò le spalle, picchiettando con le mani sulle ginocchia a ritmo per
riempire il silenzio che nonostante tutto troneggiava su di loro come una cappa
soffocante.
-Io dico che anche tu sei intelligente, bruco- si limitò a
dire, fissando il buio. Enrico si voltò verso di lei e scorse ancora quello
sguardo perso e lontano che aveva visto spesso negli occhi della sorella. Si
chiedeva dov’è che andasse, quando i suoi occhi si assottigliavano a quel modo
e le sue labbra si irrigidivano fino a diventare tese come la pelle dei tamburi
della batteria di Federico. Ma non glielo domandava mai, un po’ perché sentiva
di non essere abbastanza per capirlo,
un po’ perché non voleva riportarla a quella realtà che, lo sapeva, la lasciava
perennemente a bocca asciutta. Anche lui, quand’era solo e si metteva a
pensare, si rifugiava in mondo tutto suo, forse più primitivo e istintivo,
senza i fronzoli delle parole che Ludovica leggeva nelle sue benamate poesie di
Dikinson, ma pur sempre un posto dove spogliarsi di
tutte le ansie e nascondersi, dove gli echi degli insulti si perdevano nel
cinguettio di uccelli di un giardino immaginario. Enrico rimase in silenzio per
un po’, poi riprese a parlare all’improvviso.
-Dovresti iscriverti a medicina- sbottò quasi,
accompagnandosi con un deciso gesto della mano.
Ludovica rise di gusto, scoprendo i canini più aguzzi del
normale e bianchi come avorio. Il suo sorriso non era amaro, né gaudente. Aveva
la bruta crudeltà tipica di ogni realista.
-Ho altri progetti, ma ne parleremo a tempo debito. Manca
ancora un po’ all’esame, no? A che serve preoccuparsi- sospirò, passandosi una
mano fra i capelli lunghi, che cadevano come lingue di fuoco sulla t-shirt nera
a maniche corte.
-Io non so dove andrò a finire, bruca- disse Enrico,
portandosi le gambe al petto e stringendosele con le braccia.
-Andrai all’università, ce la farai- gli disse lei,
carezzandogli amorevolmente il ginocchio.
-Sono arrivato al quinto anno per miracolo, perché sono tuo
fratello e perché sono dislessico e faccio pena a tutti- sbuffò con rabbia e,
all’improvviso, gli si gonfiò una vena sul collo e gli si contrassero
nervosamente le mani. Ludovica gliele strinse fra le sue, piccole e lisce,
cercando di tenerlo calmo.
-Non dirlo neanche per scherzo, è una cosa che sappiamo solo
da un anno. E non è nemmeno una forma di dislessia grave, sei ad un liceo
classico, cazzo- gli scosse le spalle, ma Enrico si scansò, alzandosi di scatto
dal letto.
-Perché è questo che sono, un dislessico. Sono stupido, come
quel bastardo di nostro padre- ringhiò, tirando un calcio violento alla sedia
in legno della scrivania, facendola rotolare lungo distesa sul pavimento.
Ludovica si alzò e gli prese le braccia, cercando di fermarlo. Enrico respirava
a fatica, rosso in volto e con gli occhi quasi fuori dalle orbite.
-Shh, devi stare tranquillo- mormorò la gemella, stringendolo con
le braccia. Siccome era notevolmente più bassa di lui, poggiando la testa sul
suo petto sentì chiaramente i battiti furiosi del suo cuore, che scalpitava e
gemeva come un canarino in gabbia. Enrico l’abbracciò a sua volta, tenendola
stretta a sé, ansante come se avesse corso per dieci chilometri senza mai
fermarsi. Ed era proprio così che si sentiva, come un maratoneta che corre
all’infinito, con i polpacci gonfi e la milza a pezzi, senza mai arrivare ad un
traguardo.
-Scusa Ludo, non volevo- disse, con la voce roca. Sentiva gli
occhi rossi pizzicargli, come se stesse per piangere spine acuminate anziché
lacrime bollenti. Ludovica non disse nulla, gli porse il bicchiere d’acqua
poggiato sul suo comodino e si sedette insieme a lui sul bordo del letto. La
sveglia segnava minacciosamente le cinque meno venti, ma oramai a nessuno dei
due importava. Avrebbero dormito a scuola o preso qualche tazzina di caffè in
più a colazione, in quel momento avevano bisogno di stare svegli e raccogliere
i pezzi, insieme.
- Nostro padre era un bastardo, ma tu non sei come lui-
affermò Ludovica, ammucchiando le coperte attorno ai suoi piedi infreddoliti.
-Io voglio solo proteggere te e la mamma, perché lui non ha
voluto farlo- sussurrò Enrico, fissando il pavimento.
-Io non ho bisogno di essere protetta, lo sai. E nemmeno la
mamma. Siamo dei sognatori e lo sei anche tu- ridacchiò lei, alleggerendo
l’atmosfera.
-E i sognatori non hanno bisogno neanche di dormire?- chiese,
sbadigliando e sentendo le membra intorpidite e rilassate dopo il precedente
attacco di rabbia.
- I veri sognatori non
dormono mai- sorrise Ludovica, citando uno dei suoi autori preferiti, Edgar
Allan Poe, e stendendosi con le mani giunte dietro la
nuca.
Enrico sorrise riconoscente, chiuse gli occhi e si
raggomitolò come un bambino con le gambe troppo lunghe e le braccia troppo
muscolose, cadendo dopo poco in un sonno profondo. Il mattino successivo,
quando la madre li chiamò dalla cucina per invitarli a fare colazione,
nonostante avesse dormito per poco più che tre ore, Enrico si alzò, sentendosi
pieno di vita e pronto a cominciare una nuova giornata, dopo aver resettato
tutta la rabbia che si portava dietro da giorni. Per lui, la rabbia, era un
vero e proprio problema. Sapeva di doverne parlare con qualcuno, ma credeva che
sfogarsi in palestra dandoci dentro con gli addominali e i bicipiti o farsi una
chiacchierata ogni tanto con Giorgio fosse abbastanza. Eppure, nei momenti meno
opportuni, come la sera precedente, scoppiava. Gli partiva qualcosa dal petto,
qualcosa di infuocato e pensante, che doveva assolutamente manifestarsi
attraverso colpi, grida; una forza che lo rendeva cieco e sordo e gli impediva
di mettere a fuoco chi gli stava davanti. I volti diventavano tutti distorti
allo stesso modo, deformi e uguali fra di loro, spaventosi e paranoici. Si
guardò allo specchio, lavandosi i denti e sentendosi stranamente rilassato.
Dopotutto, pensò, quella poteva essere una giornata diversa. Si diresse in
cucina ancora a petto nudo, come sempre, quasi a mettere in mostra i risultati
della sua costante fatica, e salutò allegramente sua madre con un bacio sulla
guancia.
-Che turno hai, ma’?- chiese, sedendosi al tavolo
apparecchiato di fronte a Ludovica. Prese una fetta di pane e prese a spalmarci
sopra la marmellata alle fragole. Antonia, che trafficava ancora ai fornelli in
attesa che bollisse l’acqua per il tè, si pulì le mani con lo strofinaccio e si
aggiustò i capelli biondi, che portava ricci e lunghi fino alle orecchie,
fissati con un fermaglio dietro la nuca ad incorniciare il suo viso rubicondo e
sempre arzillo.
-Torno alle sette, così ce ne andiamo a mangiare alla taverna
dello zio Pino. Che ne dite?- esclamò, versando l’acqua bollente in una tazza e
poggiandola vicino ad Enrico. Quando erano tutti e tre liberi, siccome a detta
di Antonia era importante passare del
tempo assieme come una vera famiglia, cenavano nel ristorante di un loro
zio di secondo grado, che gli riservava da anni lo stesso tavolo vicino
all’unica finestra.
-Mff, perfetto. Tanto chiamo Marta-
mormorò Ludovica fra un boccone e l’altro e, così sembro ad Enrico, represse un
sorrisetto soddisfatto. Fece finta di vomitare, fissando la sorella, che
rispose con un sonoro rutto e un’alzata di dito medio.
-Allora io oggi pomeriggio me ne vado da Giorgio, non mi va
di sentire voi due che…- cominciò, facendo per addentare la fetta di pane, ma
fu subito colpito da uno scappellotto di Ludovica, sporcandosi tutta la faccia
di marmellata. Antonia intimò ad entrambi di smetterla, osservando divertita la
faccia di Enrico.
-Sta’ zitto, coglione, o giuro che ti eviro. Tanto comunque non
ne voglio di nipoti con la tua faccia di cazzo- lo minacciò quella, tirandogli
un poderoso calcio sotto al tavolo.
-Ma’, Ludovica mi rompe!- si lamentò il ragazzo, dando un
pizzicotto sul braccio alla sorella.
-Ludo, non ruttare, non si addice al tuo viso da
principessina. Enri, smettila di prenderla in giro,
lo sai che ne sarebbe capace. Tali e quali a quando avevate cinque anni-
sospirò la donna, sorseggiando tranquillamente il suo tè.
-Ti aspetto giù- gli disse Ludovica, bieca, dirigendosi in
salotto.
-Di preciso, cos’è che senti quando è con Marta?- chiese allora
Antonia, sinceramente dubbiosa, poggiando la tazza vuota nel lavello. Enrico
represse una risata, dicendo che non sentiva niente, assolutamente niente.
***
Le ore di religione erano un vero supplizio per Enrico,
peggio addirittura degli allenamenti di calcio deteriorati in risse. Il
professore, un prete di un paesotto vicino, bigotto e
osservante ortodosso di ogni minima parola scritta nella Bibbia, non perdeva
occasione per sottolineare “situazione” sua e di Ludovica. I figli nati fuori
dal matrimonio sono frutto del peccato, diceva sempre. E, pronunciando quella
sentenza che pesava sulle loro teste come un’accusa capitale, li fissava coi
suoi occhietti neri e piccoli, digrignando i denti in un sorrisetto a metà fra
il perverso e il mellifluo. E i suoi compagni di classe, complici in quella
sevizia, li squadravano allo stesso modo, inorriditi e schifati come se loro,
figli di due genitori sposati, fossero meglio. A volte Enrico si chiedeva se
vivessero ancora nel Medioevo. Erano gli anni novanta, diamine!
Antonella, una di
quelle ochette tutte truccate e finte santarelline, esempi di castità che si facevano fottere tutti i sabati sera nei
bagni delle discoteche fuori dal paese, alzò la mano per fare una domanda al
professore.
-Don Gianni, ma è vero che gli omosessuali vanno all’inferno
e che Gesù li odia?- chiese, con la sua vocetta
petulante e sottile, penetrante come lo stridore di un’unghia sulla lavagna.
Enrico si voltò per guardarla in faccia e vide che lei, a sua volta, stava
fissando Ludovica, più bianca di un lenzuolo e con gli occhi inchiodati alla
lavagna, le iridi perfettamente immobili e le narici allargate. Le mani
cominciarono a pizzicargli e notò che Marta, seduta in fondo alla classe, aveva
abbassato la testa sul banco, forse per nascondere le lacrime.
-Sta’ zitta, troia- mormorò senza farsi sentire dal suo compagno
di banco, digrignando i denti. Il professore alzò la testa dalla Bibbia che
stava leggendo, aprendosi in un sorrisetto sottile e insinuatore.
-Gli omosessuali sono contro natura, Rinaldi,
lo sai- replicò, spostando interessato lo sguardo a Ludovica che, stoica,
fissava davanti a sé impassibile, come se la faccenda non la riguardasse più di
tanto. Una vena pulsava visibile sulla sua fronte, netta come un graffio su una
scultura levigata. Enrico sentì un singhiozzo partire dal fondo, ma non si girò
per vedere a chi appartenesse, sentendo lo stomaco contrarsi come quando stava
per esplodere.
-E quindi la Di Mauro andrà all’inferno?- sghignazzò
Antonella, rivolgendosi alla sua compagna di banco, un’altra ragazzetta piena
di soldi e vuota di umanità. Enrico di nuovo sentì le mani che gli prudevano,
ma si intimò di stare calmo. Non poteva, non doveva cedere alla rabbia. Non di
nuovo, non in classe davanti a tutti. Era già il figlio bastardo e stupido, non
voleva passare anche per quello pazzo e squilibrato.
-Il Signore è misericordioso, magari le darà il perdono se si
decide a convertirsi e ad abbandonare la via della perdizione- concesse Don
Gianni, con un gesto sbrigativo della mano e il tono leggero, come se fosse
ovvio. I suoi occhietti scintillavano, come ogni volta che riusciva ad umiliare
qualcuno, abbandonando il velo di remissività e finta benevolenza col quale si
presentava a tutti, all’azione cattolica. Enrico vide gli occhi di Ludovica, inespressivi
e ancora immobili come biglie di vetro. Marta aveva il viso nascosto dalle
braccia, seduta da sola nel suo banchetto sperduto. La conosceva abbastanza per
capire che stava per mettersi a piangere, le sue spalle esili non avrebbero
resistito oltre alla forza dei singhiozzi.
- Posso uscire dall’aula?- domandò Ludovica, fredda e
imperturbabile, alzando la mano. Di nuovo, suo fratello si spaventò per il
pallore delle sue guance, innaturale, come una tela a cui sono stati portati
via i colori.
-Qualcosa non va, Di Mauro?- chiese a sua volta il
professore, fingendosi gentile.
-Si, sto per vomitare, se non le dispiace-
Ludovica, senza nemmeno aspettare un cenno d’assenso da parte
del prete, uscì dall’aula sbattendo la porta. Marta sembrò volerla seguire, ma
rimase incollata al suo posto, come fulminata, gli occhi nocciola quasi liquidi
e in volto l’impotenza di un bambino che non può uscire di casa a giocare.
Enrico si alzò, di scatto, sentendo il volto rosso per l’umiliazione e i nervi
tesi. Ludovica stava male, lo sapeva. Era forte, quella ragazza, una roccia. Ma
il fendente di quelle parole aveva colpito, come una spada affilata, la sua
unica crepa, sgretolandola in tanti piccolo sassolini. A volte malediva Marta
per quello che aveva fatto alla sorella. Aveva lasciato un segno nella anima di
Ludovica, come pochi erano stati capaci di fare. Non credeva ci fosse nulla di particolarmente
sbagliato, ma odiava vederla così; che a provocarlo fosse una ragazza era un
dettaglio assolutamente irrilevante.
Guardò Don Gianni, senza nascondere il disgusto e l’odio che
gli provocava la sua vista.
-Potrei denunciarlo, per diffamazione- parlò lentamente,
sentendo le parole incespicare sulla lingua per la collera. Gli pulsava una
vena sul collo rubizzo, i suoi occhi azzurri erano spalancati. La classe lo
guardava in silenzio, come si guarda un povero diavolo.
-Potrei bocciarti per la condotta e addio esame di stato. Vuoi
davvero questo, dopo tutti gli sforzi del consiglio per farti arrivare qui?-
Enrico sapeva che non ne aveva il potere e avrebbe tanto
voluto fracassargli il naso con un dritto ben assestato, riempirlo di calci
fino a spezzargli le costole e lasciarlo a terra agonizzante in una pozza di
sangue e liquido cerebrale. Ma poi pensò a sua sorella, lì fuori a cercare di
non cedere al pianto, abbandonata a se stessa, esattamente come lui. Solo più
restia nell’ammetterlo. Ludovica si preoccupava sempre così tanto per lui, lo
aiutava a studiare e si assicurava che non si mettesse in guai troppo grossi.
Così, fece per tirargli un pugno, giusto per farlo spaventare, ma all’ultimo si
scansò per uscire dall’aula, correndo via, fino a sentire le gambe cedere, per
i corridoi vuoti e desolati. Don Gianni lo seguì, urlando di fermarsi, ma lui
non desistette dalla fuga. Si nascose nel bagno dei maschi e lì, tremante e
spossato, cominciò a piangere a dirotto. Per Ludovica, per sua madre, per se
stesso. Per quel bastardo a cui assomigliava come una goccia d’acqua. Si vide
riflesso in uno degli specchi scrostati posti sui lavandini: i capelli rossi,
pettinati col gel, gli davano la sua stessa aria da seduttore. Per non parlare
dei suoi occhi penetranti e pieni di rabbia, i suoi zigomi alti e la mascella
squadrata, perennemente tesa in un ringhio frustrato, le spalle larghe e
massicce come quelle di un nuotatore.
-Sei un coglione, un fottuto coglione- urlò al se stesso
dello specchio, fracassando con un calcio la porta di un cesso e abbandonandosi
a terra con un ultima imprecazione.
«Will some
woman in this desert land Make me feel like a real man? Take this rock and roll refugee Oh, baby set me free. »
Pink
Floyd, “Young Lust”
Il sole era già alto quando Giorgio
percepì i primi formicolii alle gambe e alle braccia, aprendo prima un occhio,
poi un altro e restando quasi accecato dall’intensità del sole di quella
mattina, che filtrava da un finestrone in alto. Sentiva freddo alle braccia
scoperte dalla t-shirt e aveva il vago sentore di essersi addormentato su
qualcosa di duro e gelato. Quando sentì un persistente odore di birra stantia e
di alcolici assortiti, mischiati al fumo di sigarette e di chissà cos’altro, si
alzò di scatto, capitolando giù dallo sgabello sul quale si era addormentato. L’
“Hurly Burly” era deserto e il bancone era ancora ricoperto di liquidi
appiccicosi e sottobicchieri inutilizzabili della sera prima, illuminato da un
raggio di luce bianca che ne rendeva l’atmosfera ancora più fumosa. Dietro la
fila di bottiglie di vodka e liquori colorati, Grisha contava in silenzio le
banconote, riponendole mano a mano nella cassa tintinnante di spiccioli, con
fare assorto. Quando si accorse che Giorgio si era svegliato, si voltò verso di
lui con un sorriso sornione.
-Il dongiovanni s’è svegliato,
finalmente- ammiccò con la testa, spostandosi poi un ciuffo di capelli biondi
dietro l’orecchio con un gesto stizzito.
-Checca- lo salutò il ragazzo,
sbadigliando e stiracchiandosi fino a quasi perdere l’equilibrio per una
seconda volta. Grisha rise divertito, sembrava che quella mattina fosse
abbastanza di buon umore.
-Lo vuoi un caffè? Il tuo fegato starà
ancora lottando contro il coma etilico- disse, sistemando un’ultima banconota e
chiudendo la cassa con un colpo d’anca. Giorgio scosse la testa, pentendosene
immediatamente. Gli sembrava di avere una boccia di pesci piena d’acqua al suo
posto, sciabordante e pesante, che gli annacquava la vista e gli rendeva
difficile persino muovere le gambe mezze atrofizzate.
-Ho dormito tutta la notte… qui?-
domandò, rauco. Non ricordava assolutamente nulla della sera precedente, se non
che era entrato nell’Hurly Burly per una birra con Enrico e che l’amico l’aveva
lasciato a metà serata, ancora scosso per quello che era successo la mattina
precedente a scuola. Poi aveva adocchiato una bella ragazza, con due tette
davvero enormi, ci aveva provato, si erano ubriacati ed erano finiti nella sua
station wagon a darci dentro. Evidentemente, constatò, l’aveva scaricato poco
dopo aver finito con lui, altrimenti non si sarebbe trovato a dormire come un
barbone sul bancone di quella checca mezza inacidita di Grisha.
-Si, e ringrazia che io non ti abbia
cacciato fuori- rispose il barista slavo, col suo solito tono strascicato e
dall’accento tagliente.
-Che è successo ieri sera?- chiese di
nuovo Giorgio, tenendosi la testa che scoppiava fra le mani. Non riusciva
proprio a ricordarsi com’è che fosse finito lì di nuovo. Dopo che era sceso (in
realtà era stato buttato fuori, come al solito) dall’auto di quella tizia,
ricordava di aver visto Ludovica che prendeva una birra scura, verso la
mezzanotte. Si raddrizzò di scatto a quel pensiero, sentendo la schiena
scricchiolare. Grisha lo guardò, con pena mista a comprensione. I suoi occhi
grigi si assottigliarono, mentre passava uno straccio sul marmo scalfito e
lercio, come se ciascun anima che si era seduta su quello sgabello avesse
lasciato lì i suoi dolori e la sua storia, macchie indelebili che servivano da
monito per altri viandanti.
-Ludovica era qui?- insistette il
ragazzo, passandosi una mano fra i capelli ondulati e neri, che formavano una
specie di cresta scura, rasata alla base delle orecchie. Cominciava a sentire
le prime contrazioni dello stomaco, una nausea insistente pervadergli le
narici, ma restò impassibile in attesa di una risposta.
-Te l’ho detto, no. Me lo hai chiesto
per tutta la notte- borbottò a sguardo basso Grisha, continuando a pulire
nervosamente. Giorgio sentì uno spasmo più forte degli altri, le viscere gli
stavano letteralmente prendendo fuoco. Represse un conato di vomito, abbassando
gli occhi sulle ginocchia.
-Allora dimmi cos’è successo-
-Ti sei ubriacato, hai fumato troppa
erba. Hai cominciato ad urlare che non volevi tornare a casa, così ti ho
proposto di restare qui. E tu mi hai preso alla lettera-
-Ieri… mi è sembrato di vedere Ludovica,
proprio qui- mormorò confuso Giorgio, indicando proprio lo sgabello accanto al
suo. Gli facevano male gli occhi, bruciavano anche più dello stomaco. La fiamma
dei suoi capelli gli sembrò rifulgere nell’aria pesante, come la sera
precedente.
-No, ti sbagli. C’eri solo tu- ribatté
seccato il barista. Gli sembrò che gli occhi luminosi ed enigmatici di Ludovica
lo stessero fissando per un secondo, poi di nuovo svanirono come un apparizione
fulminea. Giorgio sbatté le palpebre, strofinandosi gli occhi rossi. Si alzò,
senza dire una parola, passando accanto allo sgabello sul quale la sera prima
aveva visto, ne era sicuro, Ludovica. Sorseggiava una birra scura, come piaceva
a lei, da un boccale enorme. Se ne stava lì, come in attesa, con le gambe
accavallate e lo sguardo perso, finalmente spoglio di qualsiasi malizia.
Giorgio l’aveva osservata per un minuto buono, reggendosi a stento sulle gambe
e con la testa ormai andata, e si era chiesto cosa mai potesse passare per la
testa di quella ragazza. Cosa mai piegasse le sue labbra in una costante
smorfia, cosa mai le rabbuiasse gli occhi, naturalmente predisposti a rifulgere
come foglie sature di rugiada. Poi, non appena di era rigirato, non c’era più.
Scomparsa, andata, lei e la sua birra. Raccolse la sua camicia, che giaceva sul
pavimento unto, e indossandola con rabbia uscì senza nemmeno salutare Grisha.
-Aspetta, almeno prendi il caffè!- gli
urlò quello, ma lui si era già chiuso con stizza la porta alle spalle, correndo
in strada. Il sole pallido e opaco di una mattinata di fine inverno illuminava
la squallida insegna dell’Hurly Burly e rifletteva i suoi raggi sui vetri della
piccola stazione di fronte. Non c’era molta gente in giro a quell’ora, solo
qualche anziano che lo guardava con disapprovo e studentelli delle medie che
avevano bigiato la scuola. Tirò fuori dalla tasca il cellulare, componendo il
numero di Enrico. Si sentiva male, aveva le ginocchia deboli e ora si pentiva
di non aver accettato il caffè di Grisha. Chissà quando ne avrebbe preso un
altro, chissà se sua madre gli aveva messo da parte la colazione come ogni
mattina o, non vedendolo arrivare, aveva dato la sua parte a Marina. Chissà
cosa aveva detto l’insegnante di disegno tecnico quando non l’aveva visto in
classe, per l’ennesima volta, quella mattina. Probabilmente non era mancato a
nessuno di loro.
-Bastardo, dove sei stato ieri sera, eh?-
quasi urlò, non appena dall’altro capo del telefono sentì una voce rispondere.
Peccato che la voce fosse troppo limpida e strascicata per essere quella di
Enrico. Giorgio sgranò gli occhi e si maledì, quando capì che aveva risposto la
sua gemella.
-Giorgio?- chiese Ludovica, dubbiosa.
“Coglione, coglione, coglione. Di’
qualcosa” si intimò mentalmente il ragazzo. Tossì un paio di volte, in
imbarazzo.
-Ludo, scusa, pensavo fosse tuo
fratello. Da quando rispondi al suo cellulare?- si sforzò di ridere, apparire
disinvolto e ammiccante come sempre. La sua risata si trasformò piano in un
gorgoglio gutturale, fino a spegnersi in un silenzio carico di tensione. La
ragazza sospirò dall’altro capo della linea.
-Dov’è che sei ora?- il suo tono era
rassegnato, come se fosse ben abituata alle scorrerie di Giorgio e ora cercasse
una rapida soluzione a tutti i suoi casini. Era brava, Ludovica, sarebbe
riuscita a risolvere tutto in un batter d’occhio perché sapeva come parlare
alle persone. Sempre se era ben disposta, ovvio.
-Io… fuori l’Hurly. Mi sono svegliato
qui, ti giuro che non so che cosa ho fatto ieri sera- spiegò nervoso,
cominciando a costeggiare il muretto della stazione, con le sue scarpe migliori
che si sporcavano di fango e acqua piovana.
-Stai bene,vero?-
Ludovica di nuovo non sembrò per niente
sorpresa. “Certo” si ostinò a pensare Giorgio “perché lei era qui ieri sera e
deve avermi visto”.
Tuttavia sentire una preoccupazione
sincera nella voce di Ludovica lo fece sentire ancora più male, ad ogni suo
sospiro si sentiva come se stesse sprofondando nella melma disgustosa che era
diventato, sempre di più, sempre più a fondo senza possibilità o forza di
alzarsi. Cercò la forza di risponderle di si, ma non la trovò nemmeno nel suo
orgoglio. Si limitò a grugnire, fermandosi di fronte all’entrata della stazione
e poggiando la schiena contro il muro. Io sole batteva sulle sue ciglia lunghe
e infastidiva i suoi occhi grigiastri venati lievemente di sfumature sanguigne.
-Non mi convinci- sentenziò Ludovica,
con calma. La sua voce era sottile e morbidamente modulata come sempre, solo
con una sfumatura più ansiosa, malinconica. Giorgio calciò violentemente via
una lattina abbandonata, reprimendo un ringhio. Si intimò di nuovo di stare
calmo, di apparire normale. Ludovica si sarebbe chiesta il perché, se avesse
cominciato ad urlare aiuto come gli suggeriva il battito lento e irregolare del
cuore.
-Ti ho detto che sto bene-
La sua voce era priva di qualsiasi tono,
piatta come l’elettrocardiogramma di un cuore ormai morto. Il suo cuore,
pensava, lo era.
-Voglio solo aiutarti, permettimi di
aiutarti- continuò ostinata Ludovica e, dal rumore di passi sul pavimento,
Giorgio capì che anche lei stava camminando avanti e indietro. Ingoiò un groppo
particolarmente pesante alla gola, respirando a fatica. Ludovica sembrava fin
troppo consapevole della situazione. Che sapesse cosa era successo la sera
precedente?
“Non c’è niente che puoi fare, ormai
sono andato, fottuto per colpa tua”avrebbe voluto replicare con voce
graffiante, violenta. Ma non lo fece, lei non se lo meritava. Chiuse invece la
chiamata senza una parola, con un gesto secco e deciso. Pronunciò un paio di
improperi e una bestemmia, lasciandosi cadere a terra contro il muro sporco di
graffiti. Niente amore per quelli come lui, solo notti all’insegna
dell’effimero piacere, dalle spire fredde e solitarie come le steppe aride che
si estendevano al posto delle sue emozioni, solo il grigiore dell’alba che lo
trascinava in un altro giorno esattamente uguale al precedente. Quelle albe
cariche di inerzia, senso di colpa, nausea e incertezza per l’avvenire.
Mancavano pochi mesi alla fine del liceo e cosa fare dopo ci pensava sempre più
insistentemente. Ludovica sarebbe andata a studiare lontano, era una ragazza
brillante almeno quanto Marta, la sua migliore amica. Avrebbe dovuto chiamarla,
ora che ci pensava, ma la sua mente era focalizzata su una sola cosa: la
sfumatura silvestre degli occhi della De Mauro. Frequentando il liceo
artistico, non aveva mai avuto il piacere di osservarla durante una lezione di
chimica o di matematica. Eppure avrebbe scommesso qualunque cosa che, in quei
momenti, Ludovica desse il meglio di sé, rapita da quelle formule che per lui
non avevano alcun significato. Qualche volta gli era capitato di assistere alle
prove degli Elfs, trovandosi a
bighellonare a casa di Enrico, ed era sicuro non si sarebbe mai dimenticato del
modo frenetico con cui Ludovica studiava fisica fra una pausa sigaretta e
l’altra. A pensarci gli veniva da sorridere. Avrebbe voluto chiederle di
spiegargli la chimica che avrebbe dovuto portare all’esame (concetti basilari
come la glicolisi gli erano totalmente estranei), sapeva che Ludo sarebbe
riuscita a farla capire anche ad uno zuccone come lui. Marta, che nelle materie
scientifiche era un po’ più deboluccia, rinunciava a priori di dargli una mano,
giustificandosi col fatto che lei stessa a malapena capiva. Tutto questo però,
il fatto che probabilmente anche la sua migliore amica se ne sarebbe andata
alla volta di un’università prestigiosa, gli aumentò il voltastomaco e la testa
tornò a vorticare più forte, come per ripicca.
-Porco
mondo- imprecò, sistemandosi meglio sui gradini della stazione. Cosa
avrebbe fatto? Enrico sarebbe riuscito a cavarsela, in fondo aveva la
sufficienza in quasi tutte le materie e, nonostante il disturbo di
apprendimento, qualche volta dava segno di essere particolarmente capace nelle
materie scientifiche, come la sorella. Avrebbe potuto prendersi una laurea
triennale e diventare ingegnere, chissà. Ma lui? Un tipo come lui cosa avrebbe
mai potuto aspettarsi dalla vita? Avrebbe potuto prendere il diploma al
geometra, se si fosse impegnato, sarebbe potuto andare a lavorare per qualche
professionista come contabile. Eppure davanti a lui c’era il vuoto più totale,
come sempre. Alla catasta di pensieri opprimenti, si aggiunse immediatamente anche
un ultimo ricordo, che la sera prima era riuscito a reprimere a stento con
tutte quelle sorsate di birra. Il giorno prima, dopo che ad Enrico era successo
quell’inconveniente col prof di
religione, quando era passato di fronte al liceo classico nel suo consueto giro
in macchina dopo le lezioni, aveva scorto Marta a piangere in un angolo del
cavedio, la sua piccola figura stagliata contro la marea di studenti che usciva
dalle porte spalancate. Era sceso dalla macchina, si era avvicinato, ma aveva
incrociato prima Enrico e quello, rosso di rabbia e coi bicipiti ancora
contratti, gli aveva raccontato l’accaduto. Sentì il cuore spezzarsi, per la
prima volta forse nella sua miserabile vita, ed un suono simile ai vetri delle
finestre che infrangeva per divertimento da ragazzino gli riempì le orecchie e
l’anima. Sapeva perché Marta stava piangendo e questo non fece altro che
peggiorare il casino di emozioni che aveva in testa. Marta era innamorata di
Ludovica e lo percepiva, anche se né lei aveva mai fatto accenno ad una
eventuale omosessualità né ad una relazione con l’amica. Sentì il dolore della
sua migliore amica iniettato direttamente nelle vene e ne fu partecipe, per un
po’. Ma si sentì al tempo stesso meschino e subdolo, perché voleva Ludovica
tutta per se e questo Marta non l’aveva mai sospettato, presa com’era dal suo
mondo e dai suoi successi. Imprecare sembrò l’unico modo per risolvere la
situazione.
A tardo pomeriggio, dopo aver
bighellonato per il paese senza nessuna intenzione di avere contatti umani,
cupo e abbattuto com’era, ed essere tornato a casa a rassicurare sua madre del
fatto che purtroppo fosse ancora vivo, prese l’auto per andare da Enrico. O
meglio, da Ludovica. Nonostante si sentisse l’essere più strisciante della
terra nel fare questo a Marta, sentiva di dover liberarsi di quel peso dallo
stomaco con lei. Guidò come un pazzo sotto sedativo fino alla piccola casa
all’angolo dell’ultima strada dopo il Municipio, alzò il volume della radio
quando sentì che si trattava di “True
love waits” dei Radiohead e si lasciò scappare un altro “porco mondo”,
perché quella canzone era così perfetta per come si sentiva, per la pioggia che
aveva preso a cadere a gocce lente sul parabrezza e per le lacrime che aveva
visto sul volto serico della sua migliore amica. Si guardò nello specchietto
della Volvo e appurò che i suoi capelli erano perfettamente pettinati come
sempre e i suoi occhi, nonostante fossero lievemente cerchiati di nero, non
sembravano così malaticci come si aspettava. Non voleva farle pietà, Giorgio.
Voleva solo sapere se la sera prima quella di Ludovica fosse stata solo
un’allucinazione. E magari stare con lei per un po’. Ancora non sapeva in che
limite poteva relazionarsi con lei, perché lo spettro di Marta continuava a
tormentargli la coscienza. Decise di lasciare in standby tutto, dirigendosi
verso il portoncino e suonando al campanello. Le mani presero ad aggrovigliarsi
fra di loro come dotate di volontà propria. Ludovica venne ad aprire dopo pochi
secondi, con una matita sull’orecchio e i capelli rossi sparsi sulle spalle,
selvaggia. I suoi occhi avevano assunto la sfumatura fangosa delle pozzanghere
che cominciavano a riempire le buche delle strade bitorzolute. Non sembrò
particolarmente meravigliata di vederlo, come se se lo aspettasse.
-Giorgio, che ci fai qui? Enrico non
c’è-
-Si, lo so. E’ agli allenamenti di
calcio- ammise vergognosamente, fissando le tonalità brulle del tappetino
all’ingresso.
-Cercavi me allora?-
-Esattamente- ammise.
Ludovica gli fece cenno di entrare,
spostandosi di lato. La pioggia gli aveva reso i capelli ancora più neri e le
mani tremanti per il freddo. Aveva le braccia scoperte da una t-shirt larga,
grunge, e le sue consunte converse bianche erano diventate verdognole. La casa
era silenziosa e regnava una leggera penombra, probabilmente la signora De
Mauro era a lavoro in ospedale. Si sentì impacciato mentre, invitato da un
gesto sciolto di Ludovica, si sedette sul divano, dove erano sparsi fogli con
formule e libri di algebra.
-Stavi studiando?- chiese, per paura di
averla disturbata. Non si era mai fatto così tante paranoie con una donna, così
provò a sciogliersi e affondò meglio nel divano.
-Oh, si, ma ho quasi finito- mormorò
mentre metteva tutto via, sul tavolino da tè. Giorgio annuì, non sapendo cosa
dire. Così fu Ludovica a chiederglielo.
-Ieri sera mi è successa una cosa
strana- esordì, giocherellando con i bordi sfilacciati della maglietta. I suoi
occhi sempre così seducenti sembravano essersi ridotti a due fessure spente e
apatiche.
-Dimmi tutto-
-Era mezzanotte, credo. Ti ho vista all’Hurly Burly. Stamattina mi sono
risvegliato sul bancone, Grisha dice che ieri sera ho bevuto troppo e ho fumato
più del solito. Ma che ieri sera lì non c’eri-
Ludovica prese a fissare il pavimento,
improvvisamente pensierosa. Giorgio trovò strano che non avesse ancora
imprecato o insultato o fatto la stizzosa come al solito, c’era qualcosa che
non andava.
-Ero davvero lì a bere birra- confessò,
con in volto l’espressione più colpevole che le avesse mai visto. Giorgio
chiese spiegazioni, balbettando. Il cuore aveva preso a battergli più forte,
senza motivo. La mente partì immediatamente con un flusso di pensieri che
nemmeno lui riuscì a frenare. Gli venne voglia di baciarla, improvvisamente.
Ludovica aveva gli occhi acquosi, l’astio li rendeva sempre più lucenti e
determinati ma ora sembravano due specchi che riflettevano la sua immagine
squallida e degradata. Giorgio abbassò subito lo sguardo, non riuscendo a
sostenere quel confronto. Tornò a farsi schifo, all’improvviso.
-Colpa della vita- rispose, a bassa
voce, la rossa.
-C’è qualcosa che posso fare?- chiese,
col cuore pieno di una segreta speranza di poterla aiutare, sostenere,
cancellarle dal volto quell’orribile broncio mesto e sostituirlo con un enorme
sorriso, luminoso e seducente come quelli che di solito rivolgeva a tutti.
-Di’ a Marta di tenere duro- disse dopo
qualche minuto, poi si passò una mano stanca sugli occhi e con una scusa si
allontanò, per tornare poi con gli occhi più lucidi e in mano due bicchieri di
gassosa. Giorgio ne prese uno, ma non riuscì a mandarne giù nemmeno un sorso.
Allora aveva capito bene, ci aveva visto giusto. E all’improvviso l’essere
venuto lì gli sembrò l’idea più terribile della sua vita, si sentì un
traditore, un verme, lo schifoso dongiovanni che era. Cosa aveva pensato di
fare? Di abbordare Ludovica come una delle sue conquiste del weekend, nella
speranza che si fosse sbagliato riguardo i suoi sentimenti? Come aveva potuto
tirare un così brutto tiro a Marta? Eppure le labbra di Ludovica erano così
rosse, rosse e succose come ciliegie e lui aveva così sete di quel prelibato
succo. Si ritrasse, quando quella cercò di guardarlo negli occhi. Ludovica lo
fissò stranita, sorseggiando la sua gassosa. Aveva le guance un po’ rosse, da
quando aveva nominato Marta. Una pugnalata al cuore colpì allora Giorgio,
spappolandogli tutto, riducendolo alla poltiglia di uomo che si sentiva, ridotto
a schiavo del suo corpo, non capace di rispettare nemmeno l’unica persona che
l’aveva mai sostenuto nella vita. E dopo quella altre mille e mille ancora,
finché il suo cuore non gli sembrò nient’altro che carne pulsante veleno, nera
e corrotta come la sua anima, sprofondata definitivamente nei suoi inferi.
Lasciò il bicchiere pieno sul tavolino, accanto agli appunti di Ludovica così
ben scritti, poi si diresse alla porta, salutandola sommessamente. Si voltò un
ultima volta sotto la pioggia e, quando fu sicuro che il frastuono della strada
coprisse sufficientemente la sua voce, parlò, fissando la rossa che se ne
lontano stava sulla soglia.
La
stanza notoriamente disordinatissima di Ludovica quel pomeriggio appariva
stranamente immobile, come se la luce fioca del sole che filtrava dalle imposte
cristallizzasse ogni cosa al suo posto, rendendo l’atmosfera pesante e
silenziosa. Le coperte colorate giacevano sfatte sul materasso e, su di esse,
distese spudoratamente con le gambe attorcigliate fra di loro, c’erano Ludovica
e Marta, a guardarsi di sottecchi, coi capelli lunghi a mescolarsi in un
groviglio di sospiri e ansiti. La più piccola, schiacciata com’era dal corpo
caldo dell’altra, respirava a fatica. Marta le diede un colpetto stizzito sulla
spalla e cercò di spostarla, ridacchiando. Cominciava a fare caldo, marzo aveva
spazzato via tutto il freddo con le sue pioggerelle miti e tiepide e ora Aprile
le deliziava con suo profumo di fiori appena sbocciati e di terra matura per i
frutti. Ludovica, col capo poggiato sul suo petto, sembrava fissare un punto
indefinito del soffitto, dalla sua bocca spiravano dense nuvolette di fiato,
ancora intervallato da sospiri sommessi. Marta cominciò a scorrere con le dita
fra i suoi capelli selvaggi e rossi, sorridendo senza farsi vedere e facendola
sistemare meglio sul suo petto, coperto da un lieve velo di sudore. Quella
volta, Ludovica le aveva stretto le braccia attorno al corpo durante tutto
l’amplesso, aggrappandosi come se finalmente anche lei, sempre impassibile e
lontana, avesse avuto paura di perdersi in quel vortice. Il calore, quasi
affettuoso, che aveva sentito Marta a quel contatto le aveva fatto girare la
testa, molto di più di quelli che Ludovica chiamava i suoi trucchetti.
Fece per parlare, ma si accorse che ancora la
voce le mancava e preferì rimanere anche lei a fissare il soffitto, come se in
quel modo potesse raggiungere Ludovica nelle brughiere sconfinate della sua
fantasia, dove spesso andava a nascondersi. Ormai la conosceva abbastanza da sapere
che, poiché era cresciuta in una situazione dove esprimersi non le arrecava
altro che danni o perché in fondo era timida di indole, quando provava una
qualsiasi emozione tendeva ad estraniarsi. Quando cantava, il suo sguardo era
sempre rivolto verso l’alto, mai verso il pubblico, come se avesse potuto
perdere un briciolo di quella magia se l’avesse condivisa con qualcuno. Il
cuore di Marta sembrò accelerare, per quanto fosse possibile, il battito a quel
pensiero. Scosse la testa dopo poco, però, ricordandosi che Ludovica era
irraggiungibile, ermetica com’era, e che di certo il suo cuore non stava
battendo forte quanto il suo. Eppure… erano colpi ritmici e affannati quelli
che sentiva contro il proprio seno? Non riusciva a capire quali fossero i suoi
e quali quelli di Ludovica. Chiuse di poco gli occhi, nella penombra, cullando
l’altra senza dire una parola. Spesso si era fatta domande circa quel loro
rapporto ambiguo, che spesso era oggetto di chiacchiere dei loro amici, ma ogni
volta aveva liquidato il tutto senza tanta preoccupazione. Ora però, premuta
com’era contro di lei e col respiro mozzo in gola, tutto le sembrò più reale e
crudo. Sono innamorata, pensò. Ingoiò
a vuoto, passando le dita su quel collo niveo. No, non era possibile. Provò di
nuovo a parlare, ma sentì gli occhi pungerle.
-Stai
piangendo?-
La voce
di Ludovica era un sussurro lieve come il frusciare del vento primaverile.
Quando le lasciò un bacio sulla pelle esposta, a Marta sembrò che il petto stesse
scoppiando definitivamente.
-No, che
dici, è il polline- borbottò, passandosi una mano sugli occhi e imprecando fra
sé per la scusa banale. La rossa le rivolse un’occhiataccia e al secondo bacio,
Marta abbandonò ogni speranza di trattenersi. Due lacrime le solcavano le
guance e le sue mani tremavano in modo vistoso. Ludovica le schioccò un terzo
bacio sul collo, poi si alzò, preoccupata come non l’aveva mai vista.
-Dimmi
che ti succede-
Quando
deglutì, le sembrò di star ingoiando spine tanto la sua gola era stretta. Si
rannicchiò contro la spalliera, tirandosi su le lenzuola e nascondendo il viso
dietro la coltre di capelli scuri. Le parole di Ludovica le arrivarono
ovattate, come se fosse stata esiliata in una terra di gelo e solitudine,
lontana dalle sue braccia accoglienti e sicure.
-Io non
lo so- mormorò, sinceramente, provando a ricacciare indietro altre lacrime.
Ludovica si era alzata, infilandosi una maglietta larga almeno il doppio di
lei, per poi porgerle i suoi vestiti. Marta li lasciò cadere ai piedi del
letto, ora piangendo forte.
-Ti
prego, non rivestirti- singhiozzò, sentendo una strana sensazione di paura
pervaderla tutta. La rossa allora, leggermente sconcertata, lasciò cadere anche
la sua t-shirt accanto agli abiti sul pavimento, infilandosi sotto le lenzuola
e cingendole la vita.
-E’ per
quello che dicono in classe, vero? Per colpa di quelle piccole bastarde- mormorò,
all’improvviso piena di disgusto, serrando i pugni con forza dietro la schiena
di Marta. Quella continuò a singhiozzare, non osando nemmeno poggiare la testa
sulla sua spalla per paura di irritarla,
tanto ora i suoi occhi parevano accesi di un fuoco inestinguibile. Si accorse,
però, che lasciarsi andare su di lei era l’unica cosa che l’avrebbe placata.
Lasciò cadere altre lacrime, rigida come un tocco, e quando si decise a parlare,
la sua voce era roca e bassa.
-E’ il magone dello scrittore- si sforzò di
ridere, citando una frequente presa in giro di Ludovica. Ogni qualvolta, infatti,
si isolava o diventava distante senza un valido motivo, Ludovica soleva
affermare che quello altro non era che il magone dello scrittore: un sentimento
di inspiegabile malinconia e senso di vertigine, causato dalle più piccole cose
e ingigantito dall’animo ipersensibile di Marta. La rossa non rise, rimase a fissarla
interdetta, con le guance colorite per il precedente furore.
-No, non
è vero. Lo so che non è vero- scosse la testa, contrariata. Poi tornò a fissare
il soffitto, come se l’inquietudine di Marta l’avesse colpita sul debole. Marta
notò che i suoi occhi erano vacui e leggermente socchiusi, come se stesse
cercando di controllarsi. Sapeva che Ludovica non mostrava mai le sue ferite,
preferiva stare in silenzio e aspettare che la sua mente si fosse schiarita.
Pensò che forse era questo quello che doveva cercare di fare anche lei. Perché
stava piangendo? Dopotutto aveva ottenuto il suo pomeriggio di sesso, come
sempre. Cosa si aspettava di più? Sesso. Le parole delle sue compagne di classe
l’avevano ferita a morte, doveva ammetterlo, ma c’era da aspettarselo. Uscita
da quella casa, avrebbe dimenticato tutto. Sarebbe andata avanti da sola, lo
sapeva. Eppure il solo pensiero di tornare nella sua, di casa, la terrorizzava.
Sono innamorata, pensò di nuovo e si
sforzò di non piangere ancora.
Dopo
qualche minuto di silenzio, sentì Ludovica toccarle il braccio, gentilmente.
Quando si girò, temette di rimanere senza fiato. Due lacrime brillavano sul suo
volto rigido per la rabbia, il verde dei suoi occhi era spento,arrendevole come
la chioma di un albero abbattuto. Marta si azzardò a toccarle una guancia,
sentendo una sensazione di vuoto nello stomaco. Da lì, baciarla sulle labbra fu
del tutto naturale. Non si erano mai baciate, lei e Ludovica, a discapito di
tutto il tempo passato a rotolarsi fra le lenzuola. Chissà perché, ma entrambe
avevano giudicato i baci fin troppo ambigui anche per loro. Infondo, il loro
era un puro e semplice passatempo scoperto per curiosità alla fine diun’estate noiosa e priva di vita. Marta
ancora ricordava la sensazione di vuoto allo stomaco quando aveva sentito le
sue dita su di sé per la prima volta, l’impressione di essere completamente
vulnerabile e l’ondata di elettricità che la pervadeva ancora a questo
pensiero. Ma niente era paragonabile a quello che stava provando ora, poggiata
alla testiera del letto, con la mano destra e bloccare la schiena di Ludovica,
in modo delicato eppure possessivo, e la sinistra aggrappata spasmodicamente ai
suoi capelli rossi. Sfiorò le sue labbra superficialmente ancora una volta,
sentendo il gusto agrodolce delle lacrime sulla lingua e sospirando
pesantemente. Marta non aveva mai creduto nell’amore, fin da piccola aveva
sentito il bisogno di sentirsi protetta, ma nessuno l’aveva mai difesa a spada
tratta, nessun principe azzurro aveva mai infilzato con la spada i mostri
cattivi che le albergavano in testa. I suoi genitori, col loro rapporto
asettico e inerte, la gettavano ancora di più nello sconforto. Eppure ora si
sentiva calda, protetta, intraprendente, dimentica di tutte le sofferenze che
le avevano provocato.
Erano
passati solo tre secondi quando si ritirò frettolosamente, chiudendo gli occhi
per paura di uno sguardo raggelante da parte di Ludovica. Sapeva di essere
arrossita e non poco, ma pregò che l’altra non se ne fosse accorta. E invece…
-Sei
arrossita- sussurrò Ludovica, con un sorrisino divertito sulle labbra. Marta
aprì scocciata gli occhi, alzando le mani in segno di resa. Sorrise anche lei
nel vedere il volto raggiante e palesemente sollevato della rossa. Si chiese da
quanto aspettasse quel bacio, moriva dalla voglia di chiederglielo. Così lo
fece.
-Da
quando…?-
-Non lo
so, ma è stato… carino- ammise
sottovoce Ludovica, piegando la testa di lato e strofinandosi il naso come un
gatto.
Marta
scoppiò a ridere, mentre le lacrime le si seccavano sulle guance. Rise così
tanto da finire con la testa all’indietro, con la mano destra ancora a ghermire
morbidamente la schiena dell’altra. Quella le rivolse un sorriso sghembo, quasi
dubbioso. Come a dire, ora che si fa?
Non voleva chiederselo, non ora. Era tutto perfetto: il sole bruciava
debolmente le strade deserte, il primo lembo di caldo soffocava tutto con
l’arrivo della nuova stagione, i fiori sbocciavano e così sembrava star facendo
anche Marta. Si sentiva come un bocciolo toccato dalla prima brezza
primaverile. Come se fosse appena arrivata sulla cima di un’altura e ora si
stesse godendo il paesaggio paradisiaco. La pianura diafana del petto di
Ludovica, lo strapiombo del suo collo teso, coperto da un ruscelletto di
sudore, la foresta dei suoi occhi,l’odore
di muschio dei suoi capelli color rame. Le sembrava di guardare tutto con occhi
nuovi. Da qualche parte, aveva letto che l’amore era come una scalata: una
volta arrivati in cima, si guardava tutto il resto con un’ottica differente.
Scendere, però, sarebbe stato doloroso. Marta passò una mano fra i suoi
capelli, mentre Ludovica si avvicinava di nuovo per baciarla, e pensò che non
aveva la ben che minima intenzione di scendere di lì. Il secondo bacio ebbe il
sapore della vittoria, l’eccitazione delle cose nuove, il brivido del
conosciuto e del ritrovato. Ludovica, fissata com’era con la filosofia,
l’avrebbe di certo paragonato alla ridiscesa platonica dell’anima alla sua vera
casa, il mondo delle idee. Qualcosa nel suo sguardo, quando si staccarono, ne
diede la conferma a Marta.
-Ora,
insomma, sul serio… che facciamo?- chiese, trattenendo a stento un sorriso.
Ludovica gliene rivolse uno identico, solo saturo della sua sottile malizia. Le
passò un dito sulle scapole, lasciva.
-Potremmo
prendere la mia auto e raggiungere i ragazzi al cinema…- cominciò, mordendosi
un labbro. Marta fu tentata di scoppiarle a ridere in faccia, per
l’irragionevolezza della proposta. In effetti, avevano promesso a Giorgio e
Federico che sarebbero andate con loro a vedere Gettysburg, visto che Walter aveva la fissa per la storia americana e la
Guerra di Secessione, ma la spronò a continuare, perché proprio non aveva
voglia di alzarsi di lì.
-…oppure,
ora che abbiamo scoperto il magnifico potere delle labbra, restare qui a… coccolarci… un altro po’. Perché dubito
che in queste condizioni riusciremmo a trovare la strada per il cinema-
sogghignò Ludovica, abbandonando improvvisamente l’aria provocante per una
risata alta e liberatoria, come quella di una bambina. Marta rise con lei, per
poi tapparle la bocca con un bacio e trascinarla di nuovo su di sé.
***
Qualche
ora e qualche bacio di troppo dopo, entrambe erano sedute nella sala semideserta
del cinema di paese, una vecchia struttura degli anni settanta con ancora
vecchie locandine di film appese all’ingresso e sempre la stessa anziana
commessa al bancone dei popcorn. Quando Giorgio le aveva chiesto di dividerli
con lei, Marta era stata subito agguantata da Ludovica.
-Li
divide con me- aveva sentenziato la rossa, aggrottando le sottili sopracciglia
in un’espressione che voleva sembrare minacciosa per spaventarlo.
-Ohoh, la gattina qui presente sta
sfoderando gli artigli. Non si può nemmeno dividere i popcorn con la propria
migliore amica, la gelosia è ad uno stadio avanzato- scherzò, prendendo posto
vicino a Walter, che, estatico, fissava lo schermo ancora nero come se lo
spettacolo fosse già cominciato.
-Così
puoi stare vicino a me e fare questo- le sussurrò la rossa, una volta che le
luci si furono abbassate, prendendole una mano e accarezzandogliela,
nascondendosi nel maxi contenitore dei popcorn. Marta arrossì sulle orecchie,
come non aveva mai fatto nemmeno per le situazioni più intime.
-E’
carino … molto carino- esalò,riprendendo le sue parole e lasciandosi andare sulla poltrona, osservando
di tanto in tanto il profilo di Ludovica, che seguiva con interesse il film. Decisamente
nessuno, ragazzo o ragazza che fosse, l’aveva mai fatta sentire così.
Una
volta che fu finito il film, che Marta giudicò troppo noioso per i suoi gusti
(ma fu ben lungi dal lamentarsi, visto come le dita di Ludovica si stringevano
attorno alle sue ad ogni scena di guerra), Federico ebbe la magnifica idea di
andare tutti a bere qualcosa.
-Sono
d’accordo, ma non da Grisha … - borbottò Giorgio,
lasciandosi scappare una risatina. Ludovica annuì senza farsi vedere dagli
altri e quando Enrico chiese il motivo, entrambi alzarono le spalle, complici.
Alla fine, dopo varie discussioni con annesse azzuffate fra Federico e Walter,
che fingeva di sparargli in stile cowboy, ricevettero la fortunata chiamata di
Tamara, cugina di Dede, che aveva trasformato il suo
garage in una sorta di stanza delle
necessità, per invitarli a farsi un giro da lei. Marta, Giorgio e Ludovica
si avviarono verso l’auto di quest’ultima, mentre Walter si dirigeva a casa sua
per cambiarsi d’abito, da buon vanesio qual’era. Tutti sospettavano di una sua
ipotetica cotta per Tamara e questa ne fu la conferma.
-Che ha
fatto sta volta quello stupido del mio fratellone acquisito?- domandò curiosa
Marta, una volta che furono in macchina. Si affacciò dal finestrino e gettò
un’occhiata sul retro della Volkswagen, assicurandosi che Giorgio non le stesse
ascoltando. A quanto sembrava, si era placidamente addormentato.
-Un’altra delle sue scorribande,
tranquilla- mormorò Ludovica, girando nella stradina deserta dove si trovava il
garage di Tamara. A Marta la strana ombra che assunsero i suoi occhi verdi non
piacque. La strada era illuminata da radi e ordinati lampioni, nel quartiere
più in della città. Le villette a schiera sembravano stagliarsi placide ai lati
dell’auto, silenziose e illuminate come case di piccoli elfi. Nessun rumore
inopportuno, solo il frinire dei grilli che riposavano sugli oleandri, nelle
folte siepi ai lati dei cancelli.
-Ne sei sicura? E’ un po’ di tempo che non mi
confida nulla… non so che gli succede- rivelò, preoccupata. Ludovica la fissò,
spegnendo il motore e le strinse una mano, comunicando mutamente di stare
tranquilla. Il modo in cui le accarezzò il dorso della mano fece sentire Marta
la persona più al sicuro del mondo. Ingoiò a vuoto, annuendo. Ludovica,
dannatamente empatica, dovette intuire che ne aveva bisogno, perché fece per
baciarla, ma si bloccò sul posto quando sentì una voce dal sedile posteriore.
-Interrompo
forse qualcosa?-sbadigliò Giorgio,
passandosi una mano fra i capelli ben pettinati. Le luci del rifugio e gli schiamazzi dello stereo erano
il chiaro segno che la festa era già cominciata. Marta si ritrasse in fretta,
andando quasi a sbattere con la testa sul finestrino opposto. Ludovica, dal
canto suo, non si scompose più di tanto, facendo per scendere dalla macchina.
-Vi
aspetto dentro- avvisò, avviandosi verso il garage, mentre Tamara le veniva in
contro con una bottiglia di birra già stappata in mano. Marta la salutò da
lontano, sorridente, capendo che Ludovica li aveva voluti lasciare soli per
parlare. Si schiarì la gola, riprendendosi dall’imbarazzo.
-Ludovica mi ha detto che avete parlato-
esordì, incerta. Giorgio fissava senza interesse la tappezzeria della vecchia
auto, respirando piano. Quando alzò la testa, i suoi occhi parvero quasi dorati
alla luce del lampione.
-Si,
abbiamo parlato. Tienitela stretta. Ludo, intendo- le disse, rivolgendole un
sorriso malinconico. Marta aggrottò la fronte, non senza arrossire.
-In che
senso? Non siete mai stati nemmeno tanto amici- si agitò, volle sviare il
discorso. E se…? No, non poteva essere. Sperò di aver capito male.
Giorgio
le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla.
-E’
quella giusta per te, fragolina- affermò dandole un buffetto sulla guancia, poi
fece per aprire la portiera posteriore. Marta lo fermò,in cerca di spiegazioni.
-Cosa…
che… intendi dire che… no, noi non stiamo assieme!- farfugliò confusamente,
trattenendolo per la maglietta.
- Io me
la caverò, non devi preoccuparti di me. Ho visto come ti teneva la mano al
cinema, non te la porterò via. Ti voglio troppo bene e ne voglio anche a lei-
le sorrise, ancora in quel modo a metà fra l’affettuoso e il triste, poi scese
in strada e fu agguantato da Walter, che proponeva di fare una partita di
calcetto contro quelli della sua classe, il giorno dopo. Le ci vollero cinque
minuti buoni per riprendersi. Giorgio innamorato di Ludovica. Non sapeva se
essere gelosa o dispiaciuta per lui. Scese dalla macchina ed entrò
nell’ambiente accogliente del garage: due vecchie poltrone, appositamente
rivestite da lenzuola colorate a fiori gialli e verdi, erano occupate da Dede e Tamara, una ragazza magra e biondina come lui che
sembrava uscita da un film sugli hippie. Le pareti color crema erano ricoperte
di poster dai colori psichedelici e dallo stereo sul tavolino proveniva un
assolo di chitarra che assomigliava vagamente a quello di “I wantyou” dei Beatles.
-Dov’è Ludo?- chiese, atona. Si
sentiva strana, come se stesse per piangere di nuovo. Si vergognò a quel
pensiero, non voleva risultare una sentimentale senza voglia di divertirsi. Ma
aveva bisogno di Ludovica. Tamara alzò la testa da un libro, Lesfleursdu
Mal di Baudelaire, e smise
momentaneamente di bere da un bicchiere pieno di liquido dorato, probabilmente
whisky.
-Credo sia salita sul tetto- perfino la sua voce sembrava
aver raggiunto il nirvana. Le fece segno di avvicinarsi, mollemente, gettando
la testa all’indietro. Forse aveva fumato qualcosa. La guardò attentamente,
reclinando la testa.
-Ludovica ti ama- sussurrò, guardandola con quegli occhi liquidi tanto
erano azzurri. Tamara a volte la inquietava: sembrava sempre così distratta,
sulle sue, persa in un mondo come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie,
eppure sapeva osservare molto meglio di qualunque altro. Marta provò a
respirare regolarmente e a parlare.
-Hai fumato troppo- gracchiò, con la voce che parve uscire
fuori come un sibilo incerto. La biondina scosse la testa, ridendo di gusto.
-Avrò anche fumato, ma quando è entrata qui aveva il tuo
stesso volto. Perso, in attesa. Cercava te anche se sapeva che eri in macchina.
Dammi retta, amica- affermò, tornando poi a leggere, tranquilla come se quella
conversazione non fosse mai avvenuta. Federico, dietro di lei, le mimò una
frase, è tutta matta. Marta non ebbe
la forza di ridere e alzò le spalle, salendo una scala laterale che portava al
tetto del garage, rivestito rudemente di cemento come quando i lavori non sono
stati ancora ultimati, abbandonato e in netto contrasto con la facciata ben
dipinta e armonica della villetta. Trovò Ludovica seduta a gambe incrociate nel
buio, che guardava le stelle in silenzio. Si avvicinò piano, per non
spaventarla.
-Marta- si sentì chiamare, dopo che ebbe fatto nemmeno un passo.
Marta restò in silenzio, sedendosi vicino a lei.
-A che pensi?- domandò, guardando anche lei il punto del cielo
nero che stava fissando la rossa. Ludovica rimase in silenzio per un po’,
guardandola di sottecchi.
-So perché hai pianto oggi-
Il suo tono era deciso, eppure quasi tremava come se avesse
freddo. Marta pensò bene di accarezzarle il braccio, anche se ancora la
imbarazzava quel riflesso naturale che la portava a cercare il contatto fisico
con lei.
-Hai pianto perché non credevi che… questa cosa fosse possibile. Nemmeno io. Non credevo, dopo tutto
quello che ho passato, che sarei riuscita a fidarmi tanto. A fidarmi tanto e
lasciarmi andare. La vita mi ha insegnato che l’amore è un casino, che fa male
e talvolta ti lascia sul ciglio di una strada incinta di due gemelli. Che io
posso farne a meno, chiusa nel mio mondo. Non so se questo è l’amore, perché io
non lo conosco. Ma è… bellissimo- disse a fatica, abbassando la testa come se
si vergognasse. Marta le prese il mento fra le dita, con gli occhi che quasi le
bruciavano.
-Io non so cos’è l’amore o l’affetto. Ho mio padre, a
differenza tua, è vero. Ma la mia infanzia è stata terribile, tutto a casa è
stato terribile. Solitudine, freddezza, porte sbattute, urla. Sai quand’è che
ho cominciato a credere di poter davvero avere una vita diversa? Di lasciarmi
alle spalle tutto questo? Quella volta in cui mi hai trovata in classe, a
piangere e strappare tutto quello che avevo scritto. Mi dicesti…-
-… che tutto il male che ti è accaduto si tramuta in arte e
quell’arte è il tuo riscatto- completò per lei Ludovica. Tornarono a guardare
il cielo in silenzio, mentre dal pian terreno si sentivano i rumori di risate e
bottiglie di vetro accostate. Marta ci rifletté un attimo prima di dirlo, ma
poi si fece forza.
-Questo è il nostro riscatto- affermò e quella consapevolezza
diede forza ad entrambe.
“Time and again
I've longed for adventure, Something to make my heart beat the faster. What did I long for? I never really knew. Finding your love I've found my adventure, Touching your hand, my heart beats the faster, All that I want in all of this world is you.”
Ella Fitzgerald, “All things you are”
Schizzò
fuori dal letto come una scheggia, gettando di lato le coperte aggrovigliate
disordinatamente e camminando scalza verso la cucina, grattandosi la fronte, lì
dove una zanzara l’aveva punta. Trotterellò lungo il corridoio canticchiando
una vecchia canzone di Ella Fitzgerald che le era venuta in mente la sera prima.
-Enri, buongiorno!- urlò, colpendo la
sua porta e proseguendo quasi a saltelli, stiracchiandosi di tanto in tanto e
facendo grossi sbadigli. Non aveva mai dormito così bene come quella notte e mai
sogni più sereni l’avevano accolta e consolata fra le loro braccia seducenti e
oblianti. Non che ora avesse bisogno di essere consolata, tutt’altro. Aveva
bisogno di prendere l’auto, mettere della buona musica, possibilmente qualcosa
che le trasmettesse quell’iperattività frenetica che sentiva nelle vene dalla
sera precedente, e correre per la città suonando a tutto spiano, svegliando
tutti quelli che ancora dormivano a quell’ora di domenica mattina, passare di
fronte alla chiesa del quartiere e gridare al cielo un bel vaffanculo! solo per il gusto di beccarsi gli sguardi scioccati delle anziane
signore che sciamavano in piazza per la messa di mezzogiorno. Ovviamente, tutto
questo sarebbe stato più divertente se fatto con Marta al suo fianco.
-Cristo mio, Ludo, ma che cazzo bussi che sono le otto e mezza?- biascicò
infastidito Enrico dalla stanza, con la voce ovattata di chi è si è appena
addormentato dopo una notte di divertimenti più sfrenati. Probabilmente, la
sbornia era stata più devastante del previsto. Tutta colpa di quella roba che Tamara
aveva messo dentro gli alcolici a loro insaputa. Ora che ci pensava, anche
Ludovica non credeva di aver smaltito completamente quella sottospecie di droga
sintetica che quella pazzoide aveva lasciato cadere nella sua birra, ma si
diresse volteggiando verso la cucina senza farci caso. Antonia sedeva
placidamente sul divanetto arancione, guardando il notiziario mattutino con
occhi distratti, bonari.
-Buongiorno
cara- mormorò fra un sorso e l’altro di caffè, volgendole uno sguardo sorridente.
Ludovica rispose con un sorrisone, versandosi anche lei del caffè e addentando
una delle ciambelle che sua madre comprava, premurosamente, tutte le domeniche
mattina.
-A te-
Mangiò
con avidità, sentendo lo stomaco, inacidito dalle porcherie che aveva ingerito
la notte precedente, brontolare grato al primo pasto decente dell’intero fine
settimana. Nascose per bene coi capelli quella macchietta rosa che Marta le
aveva lasciato sul collo appena dopo la loro conversazione sul tetto, piegando
la testa di lato sperando che sua madre non la notasse, e ingollò il caffè, non
riuscendo a stare ferma sulla sedia. Tutto quello che era successo la sera
prima, dio, l’aveva resa elettrica. Agguantò Tabasco, costringendolo a farsi
fare le coccole ed evitando per poco una sua zampata poco amichevole.
-Comincio
a pensare che ti odi, Ludo- ridacchiò Antonia,cambiando canale per vedere il
notiziario delle undici e mezza. Lei alzò le spalle, gettando al gattone
un’occhiata piena di astio e mescolando ora i cereali nel latte. Aveva una fame
da paura.
-Questo
è il compenso per averti salvato dal metronomo, bravo Tabasco!- lo redarguì e
sentì lo sguardo sconcertato di sua madre su di sé. Probabilmente aveva gli
occhi ancora un po’ rossi, colpa delle canne che si era fumato Walter.
Ovviamente, aveva dovuto prenderne due boccate, tanto il garage già aleggiava
di marijuana, tanto valeva...
-Ma si,
Tabasco ha paura del metronomo. Disgraziato- sibilò, quando il gatto si piazzò
di fronte a lei, fissandola con quegli occhi ipnotici per indurla a lasciargli
un po’ di latte.
-Come
dici tu- concesse Antonia, cautamente. La televisione trasmetteva le ultime
notizie e Ludovica ascoltò con interesse le prime indiscrezioni sugli esami di
stato di quell’anno.
-Dici
che quest’anno è latino o greco?- domandò. Antonia storse la bocca, pensierosa.
-L’anno
scorso è stato greco, quindi immagino sarà latino. In qualunque caso andrai
bene, questo è certo-
Ludovica
fece di sì con la testa, gongolando leggermente. In latino tutto sommato se la
cavava, anche se era Marta la regina indiscussa delle subordinate ciceroniane e
delle ellissi di Tacito. Le avrebbe chiesto aiuto, avrebbero ripassato insieme.
O forse no, non era il caso. Il caldo di giugno avrebbe giocato brutti scherzi.
Si divertì ad immaginarsi con lei in spiaggia, poche settimane dopo la prova
scritta, a brindare al suo cento, perché Marta era una ragazza così brillante
che non c’erano dubbi sulla sua buona riuscita. Forse la matematica non era il
suo forte, ma sarebbe stata più che volenterosa ad aiutarla con le equazioni
goniometriche. Quando Marta non riusciva in una cosa, comunque, era
insopportabile. Borbottava fra sé, ignorava chiunque le stesse intorno, e come
una caricatura se ne usciva con le esclamazioni più patetiche e drammatiche
possibili. Mio dio, che palle! Era
capitato di pensare a Ludovica. Ma questo quando facevano solo sesso. Ora era
sicura di aver sempre adorato anche quel suo lato spaventosamente maniacale. In
qualunque caso, le faceva disconnettere il cervello. Pensò alla notte prima e
un brivido prepotente le attraversò la schiena come se fosse ancora lì su quel
tetto, con Marta addosso.
-Ludo,
ci sei?-
Si girò
verso sua madre, sospirando di si. Finì di mangiare i cereali mentre Tabasco si
leccava le zampe, altezzoso, e gli lanciò più volte sguardi di sfida. Che se lo
venisse a prendere con le sue zampe, il latte! Probabilmente Antonia stava
pensando di far un test del palloncino ad entrambi i figli, visto che Enrico si
era appena trascinato in cucina con la faccia più bianca di sempre, ma Ludovica
non se ne curò poi tanto. Doveva uscire al più presto, prendere la macchina e
sgommare per le strade.
-Erni, mi accompagni se faccio un giro
in macchina?- gli chiese, ma suo fratello non diede segni di vita, limitandosi
a fissare la sua tazza di cereali accanto alla mamma, sul divano. Tabasco gli
era saltato addosso e ora stava leccando tutto il bordo della sua colazione,
mentre sembrava non accorgersene. Seppur stava avendo una minima percezione di
ciò che gli accadeva attorno, non sembrava importargliene poi molto, dietro un
paio di occhi appannati e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni.
-Ma si,
fare un giro è una buona idea. Non hai una buona cera stamattina- disse
apprensiva Antonia, passandogli una mano sulle guance per appurare se avesse la
febbre o meno e cercando di lisciargli due ciocche che, ai lati della fronte,
sembravano le orecchie di Tabasco, tanto erano irte e rosse. Alla fine, la
povera donna, gettando uno sguardo apprensivo ai suoi gemelli, dovette
concludere che avevano semplicemente trovato un modo per aprire la porta di
casa senza far rumore, ritirandosi alle tre del mattino o anche oltre, perché
non poteva esserci altra spiegazione.
-Mai più
tardi come ieri sera, sia inteso- li rimproverò allora, alzandosi per andare a
sistemare il lavello. E per sottolineare il concetto, quando Ludovica grugnì,
passandole la tazza vuota e facendole segno di posarla per lei, se ne andò
stizzita in salotto intimandole di usare le sue di gambe, se ancora
funzionavano. Enrico semplicemente annuiva senza cognizione e continuò a
fissare il pavimento, come se stesse ascoltando una muta ramanzina di sua
madre, per i cinque minuti successivi. Prima di sparire nella sua stanza in
quel turbino di buoni sentimenti che quella mattina la animavano, Ludovica si
rivolse di nuovo a suo fratello, urlandogli quasi nelle orecchie.
-Allora?
Allora?-
Enrico
puntò su di lei gli occhi mezzi socchiusi, nello stesso modo in cui aveva fatto
il suo gattone poco prima. Solo che, si augurava Ludovica, Tabasco non aveva
ingurgitato quasi due litri di birra con tanto di cicchetti del whisky di
pessima qualità che Tamara teneva nascosto sotto la sua poltrona dal lenzuolo
multicolore.
-Allora
fottiti, Ludo!- scandì bene le parole, dimostrando che non aveva ancora perso
la facoltà di parlare. Non del tutto.
-Che
scorbutico. Ti è forse morto il gatto?-
Tabasco alzò
lo sguardo dalla tazza di Enrico, con gli occhi dilatati dalla paura, come se
avesse colto l’insinuazione. Ludovica, uscendo dalla cucina con le mani alzate,
si chiese quale dei due esseri fosse più intelligente. Quella palla di pelo
rossa che aveva ricominciato a bere il suo latte o il gatto.
-Scusa coso- concluse, rivolgendosi forse a tutti e due.
*************************************
-E
quindi, insomma, tu e Marta state assieme?-
Dede non la smetteva di cantilenare,
con gli occhi dolci, la stessa frase da quando era arrivato al garage di
Walter, dove si erano riuniti per provare qualche canzone per la jam session della sera successiva all’HurlyBurly. Walter accordava in tranquillità Erin, dall’altro lato della stanza piena di poster fino al
soffitto, e se anche aveva capito di cosa stavano confabulando, probabilmente
aveva deciso di non infierire ulteriormente sull’orgoglio già provato di
Ludovica. Una delle bacchette della batteria volò verso di lui, andando tanto
così dal colpirlo proprio dritto in mezzo alla fronte. Ludovica, borbottando
contro la sua mira pessima, si rifiutò comunque di rispondere.
-Andiamo,
prima o poi ce lo dovrai dire! Che succede se uno di noi due vuole provarci con
lei? E’ una questione di correttezza!- protestò, facendole un gestaccio per
quel tentato omicidio. Walter grugnì, forse in segno di assenso, mentre dava
un’occhiata alle sue partiture. Ludovica si limitò a legarsi i capelli in una
crocchia disordinata, mostrando il viso dal profilo sottile e, sbadatamente, il
suo collo. A Dede quel piccolo puntino rosso, proprio
sotto la mascella, sembrò non sfuggire.
-AH!-
saltò su allora, rizzandosi con la schiena e rotolando quasi giù dal vecchio
divano rosso pieno di toppe sul quale spesso si era addormentato, nei lunghi
pomeriggi d’estate.
-Guarda,
Walter, il segno del misfatto! Ci sono prove troppo evidenti, madame, lei è colpevole!-
Le
indicò con un gesto plateale il collo, intimandole di scostarsi lo scollo della camicetta grigia
che avrebbe avuto il compito di nasconderlo, mentre lei lasciava cadere
debolmente i capelli come se stesse davvero mettendo giù un paio di pistole
cariche dopo esser stata colta in fallo. Walter, a quelle parole, sembrò
interessarsi alla faccenda più che alla lucidatura della sua chitarra acustica
(il che era un avvenimento alquanto raro), avvicinandosi ai due roteando sulla
sedia girevole, con Erin ancora in grembo.
-Fa’ vedere- disse, col tono di un
ispettore sospettoso nell’atto di esaminare la scena del crimine. Ludovica
sbuffò allora più pesantemente, come un gatto infuriato, minacciando di non
avvicinarsi troppo. Aveva le orecchie rosse e cercava di non mettersi a ridere.
Se la copertura doveva saltare così miseramente, almeno le rimanesse un po’ del
suo orgoglio femminile!
-Non ti
faccio vedere proprio nulla, cominciamo a provare che è tardi- sentenziò,
allontanandosi verso la scrivania dove intendeva appollaiarsi col suo basso.
Raramente suonavano in piedi, forse solo durante le loro esibizioni, nonostante
per Ludovica sarebbe stato più professionale cantare senza piegarsi col busto
in avanti. Ma a nessuno era mai importato, in tutti quegli anni. Si lasciò
quindi cadere a gambe incrociate, lasciandone una penzolare mollemente da un
lato all’altro, fissando gli occhi sull’accordatura del suo strumento pur di
non soccombere ancora a quell’infima presa in giro. Stupida camicetta. Stupida
Marta che si divertiva a torturarle sempre la stessa zona di pelle. Stupida lei
che glielo lasciava fare ogni volta. Stupido fondotinta troppo scuro di sua
madre!
-Manca
Pier Davide- le ricordò allora Federico, seppur
avvicinandosi docilmente alla batteria al centro della stanza. Walter alzò le
spalle, informandoli che ormai era una questione di minuti. Il suo motorino di
certo non era in condizioni migliori del bolide di Dede,
che strisciava per le strade della città con la marmitta pericolosamente
piegata verso l’asfalto.
-Aspettiamolo,
va bene- concesse Ludovica, sempre con una mano ermeticamente attaccata al
collo. Federico le lanciò un’occhiatina divertita.
-E
smettetela di ridacchiare, okay? Mi fate salire i nervi quando fate così!-
sbottò.
-Ti
facciamo salire i nervi sempre e comunque- rettificò Federico, con il volto
angelico dietro i ciuffi biondi dei suoi lunghi capelli. Walter annuì con aria
saggia, facendo tintinnare le sue mille catenelle e ciondoli.
-E’ per
questo che ci adori- aggiunse. Dall’espressione funerea di Ludovica, dedussero
fosse meglio lasciar perdere e la conversazione deviò sull’ultima conquista di
Walter, con patetici accenni alla desertica vita sentimentale di Federico, che
proprio non riusciva a capire dove sbagliasse ogni volta. Ludovica, sorridendo
fra sé e lasciandosi un po’ andare, gli consigliò di essere più impulsivo. Come
aveva fatto lei il giorno prima, baciando Marta senza preavviso. Come aveva
fatto sul tetto di Tamara, lasciando finalmente uscire fuori tutte quelle
parole che aveva sempre voluto dirle. Aprendo uno scrigno ormai arrugginito,
forse mai neanche considerato, sepolto dentro di lei come un tesoro mille leghe
sottoterra, trovato da un abile cacciatore. Che senso avrebbe avuto tenerlo
chiuso ancora, sotto il tocco esperto e carezzevole di Marta? Era solo una
questione di tempo, come il ritardo di Pier Davide, prima che anche lei fosse
costretta ad affrontare i suoi sentimenti. Non poteva scappare per sempre. E
allora, sì, la sua impulsività, la sua rabbia repressa forse per una volta
avevano giocato un ruolo positivamente decisivo, spingendola oltre quella linea
di confine che lei e Marta fissavano con gli occhi appannati dalle lacrime da
un po’ troppo tempo. Da quando avevano sorpreso i loro corpi in reazioni
anomale, da quando si erano lasciate andare a queste senza la minima
considerazione razionale, pretendendo di poterne affrontare le conseguenze, il
giorno dopo, sempre con lo stesso cipiglio cinico. Era solo un passatempo. Tutte bugie. Era come se
avesse fatto pulizia nella propria anima, gettato via cartacce e scartoffie
piene di righe vuote, di parole che le ingombravano solo la mente senza
lasciarla libera di vagare in più innocenti fantasie. E ora fosse libera,
avesse scoperto dentro di sé un’immensa pianura dove si respirava un’aria
sublimata, senza quella sensazione di scoppiare che le opprimeva il petto ogni
volta che scivolava via dalle coperte di Marta e dalle sue braccia. Sentì che
il cuore prendeva a batterle con un ritmo diverso e un po’ se ne vergognò,
perché non era abituata a mostrare così palesemente i suoi stati d’animo. Era
sempre riuscita a controllare la ben che minima reazione, perché aveva paura di
mostrare il fianco e venir pesantemente pugnalata, se avesse lasciato le sue
sensazioni trasparire oltre la sua stessa pelle. Eppure non poteva impedire che
il cuore in petto le balzasse sempre più coraggiosamente, come a dirle di non
avere paura, che le sue emozioni non erano qualcosa da combattere. Erano la sua
stessa forza. Il motivo per cui quella mattina si era svegliata così allegra,
per cui ora sorrideva mentre accordava le corde arrugginite del basso, per cui
l’indomani sarebbe andata a scuola senza pensieri negativi per la testa, ma
avrebbe camminato per le strade vuote, alle sette e mezza del mattino, solo per
accompagnare Marta nella sua passeggiata mattutina. Avrebbe voluto che fosse lì
con lei a darle sicurezza, lo avrebbe voluto tanto. Era così difficile
accettare quell’elettrica condizione di non avere più nulla sotto controllo.
Difficile ed eccitante nello stesso momento, come correre su una strada vuota,
ad alta velocità, coi freni poco oleati. Pier Davide li raggiunse poco dopo e
tirò fuori la sua chitarra già accordata, scusandosi per il ritardo. Come
sospettavano, il suo povero mezzo di trasporto lo aveva lasciato a piedi nel
mezzo del viale principale e aveva dovuto trascinarselo fino al meccanico più
vicino per fargli dare finalmente un’occhiata. Ludovica intercettò uno sguardo
sornione fra Dede e Walter, ma non sembrò
importarsene più di tanto. Alzò le spalle sconfitta, in modo che fosse visibile
per tutti e tre che oramai si era arresa.
-Quindi
tu e Marta state assieme?- saltò su Pier Davide, quando gli sembrò di aver
capito l’oggetto della discussione muta. Ludovica fece cadere pesantemente la
testa sul petto, sospirando in modo teatrale. Si alzò dalla scrivania, si tolse
la tracolla del basso, poggiandolo a terra con cautela, e si fermò al centro
della stanza con aria solenne.
-Ahimè,
ragazzi, compagni in questa lunga avventura di libertà, temo di essere stata
presa all’amo anche io. Per cui, niente più commenti sconci sulle tipe che
vengono a guardarci suonare. Mai più-
declamò, con tanto di mano sul petto. Walter ne sembrò sinceramente felice,
forse perché calcolava che così avrebbe avuto ancora più ragazze con gli occhi
puntati su di lui (Ludovica aveva sempre avuto il suo fascino, su questo non si
discuteva). Pier Davide sembrò illuminarsi come se solo ora avesse capito il
significato di tanti, piccoli dettagli slegati fra di loro. Poco mancava che
alzasse il dito indice, esclamando Eureka!
Federico fu l’unico ad alzarsi dal suo posto, lasciando sulla batteria le sue
bacchette, per darle un buffetto sui capelli rossi e tentare di abbracciarla
per congratularsi. Ludovica si trattenne dal mollargli l’ennesimo ceffone,
perché quel ragazzo era così tenero.
-Si, lo
so. Grazie, grazie. Sono una grande, ho preso la ragazza migliore in
circolazione, non c’è bisogno di dirlo- sdrammatizzò, ma dentro di lei sapeva
che non era vero. Lei aveva preso la
ragazza migliore che potesse esserci per lei, in assoluto. Marta, la sua ragazza.
************************************************
Si
trovarono quella sera, dopo i compiti per il giorno dopo, nel vicoletto dopo la
strada di Marta, dove aveva il suo piccolo garage. Ludovica era uscita a piedi,
con solo indosso la sua t-shirt grigia dal collo largo che indossava quando era
a casa e il suo paio di jeans strappati in più punti. La dannata camicetta l’aveva
gettata sul fondo dell’armadio. Non faceva ancora caldo, quella primavera si
mostrava più restia a concedere a loro poveri studenti un po’ di sana vitamina
A, ma l’aria della sera era sufficientemente tiepida e Ludovica se ne beava
placidamente, mentre camminava lungo le vie semi deserte. C’era solo il
macellaio, in fondo alla sua strada, che si accingeva a chiudere bottega, e un
paio di muratori a languire ai tavolini del piccolo bar della rotonda dopo il
loro duro turno giornaliero. Camminava con le mani in tasca perché se le
sentiva sudare ad ogni passo di più e cercava di asciugarsele alla bell’e
meglio senza farsi prendere dal panico. Trovò Marta che ciondolava fuori sui gradini
di pietra dura, con la bicicletta nera smaltata di traverso sulle gambe mentre
stava sistemando i freni ormai andati. Aveva i capelli scuri a coprirle il
viso, qualche macchia nera sulla camicia di jeans e quell’aria da donna pratica
che proprio non le si addiceva. Cercava goffamente di ricollegare un tubicino
nero al manubrio, a terra aveva lasciato una varietà di chiavi inglesi e altri
arnesi che Ludovica non immaginava come avrebbero potuto aiutarla. Le si
avvicinò con un sorrisino, aveva bisogno di una mano. Quando glielo chiese,
Marta rispose stoicamente che ce la faceva da sola.
-Questa
bici peserà il doppio di te, con tutte le marce che ci hai fatto montare sopra
… da’ qua- le intimò bonariamente, piegandosi sulle ginocchia per arrivare
all’altezza del suo viso. Quando Marta alzò lo sguardo dal suo indegno lavoro
manuale, i suoi occhi gialli alla luce della sera si fissarono nei suoi come
due pietre, immobili. Ludovica in seguito non poté dire se vi avesse letto
qualcosa, se avesse avuto l’occasione di presentire da quello sguardo il bacio
che poi ne seguì, perché il tempo fu breve, ma a lei sembrò fluire come
curiosamente solidificato sulla sua pelle. Come se si stesse morbidamente
affossando in delle calde, accoglienti sabbie mobili pronte ad inghiottire ogni
parte di lei. In effetti, era quella l’impressione che le aveva sempre dato
Marta. E il fatto che non fosse ancora riuscita a toccare il suo fondo,
l’impossibilità che aveva di risalire da quello spirito immenso, era una delle
cose più meravigliose. Le labbra di Marta furono lievi sulle sue, non si curò
nemmeno se qualcuno le stesse guardando, dalle finestre dei palazzi
circostanti. Fu troppo breve. Nessuno avrebbe potuto coglierne nemmeno l’ombra.
Era un qualcosa di esclusivamente loro e Ludovica lo capì subito, per questo
rimase immobile, lasciando a lei l’arbitrio di dosare quel gesto.
-Ce la
faccio anche da sola, grazie- replicò candidamente, scostandosi una ciocca dal
viso e ripiegandosela, con un gesto così delicato che Ludovica fu tentata di
insistere ancora. Aveva delle mani così delicate, la pelle del dorso sempre
morbida, le dita lunghe e le unghie ben curate come quando suonava il
pianoforte, da bambina. Anche il suo viso era pulito, lucente, rifletteva a
pieno i suoi modi eleganti, posati. Ludovica si sedette senza parlare accanto a
lei, giocherellando coi fili.
-Vedi,
questo va qui- le indicò comunque, guidando il suo sguardo verso l’altro capo
del manubrio –altrimenti non funzioneranno mai, questi freni-
Marta si
accigliò leggermente, dandosi della sciocca. Il sole stava ritirando il suo
ultimo raggio, dietro i tetti rossi di fronte a loro, e lo guardarono mentre
chiudeva il suo sipario nella luce rarefatta, uscendo di scena come un celebre
attore avvezzo alle glorie.
-Bello
quando comincia a tramontare tardi, vero? Ci siamo quasi- sospirò Marta, col
naso all’insù.
-Per
l’estate dici?-
-Per
l’estate, per l’aria soffocante del pomeriggio, per le sere fresche. Questa
sembra una sera d’estate-
Ludovica
fu d’accordo. La primavera aveva già i suoi araldi appostati sui rami delle
magnolie del viale, potevano sentire il frusciare delle fronte e qualche
rondine che già stormiva, mentre tornava al suo nido.
-Fra
poco escono le stelle. Rimani con me?- le chiese. Marta sorrise, con quel suo
rossore sempre ad accompagnare ogni gesto con cui si rivolgeva a Ludovica.
-Solo se
mi indichi le costellazioni, genio-
Ludovica
le diede uno spintone e quella, ridendo, per poco non capitolò sotto il peso
della bicicletta.
“There's a heaven above you baby
And don't you cry
Don't you ever cry
Don't you cry tonight
Baby maybe someday .”
Guns n Roses, “Don’t
cry”
Mise a fuoco con
difficoltà la pagina di chimica organica da studiare per il giorno dopo,
sbattendo piano le palpebre, cercando di mettere in ordine nella sua testa le
parole che riusciva a leggere. Due dei
quattro atomi di carbonio del bu … Bute che? Due dei
quattro atomi del butene sono legati da legami covale … Ricominciò
dall’inizio del rigo, sentendo l’orologio della cucina ticchettare
insistentemente di fronte a lui e Tabasco soffiare indispettito in un angolo
per la poca attenzione che gli veniva rivolta, nella casa semi vuota. C’era
solo Ludovica, chiusa da qualche parte in camera sua a suonare, probabilmente
l’ultimo pezzo che i ragazzi avevano tentato di mettere assieme. Aveva dato un
segno di vita un’ora prima, quando era entrata trascinandosi in cucina per
agguantare una tazza di cereali e versarci dentro una quantità industriale di cornflakes perché “la facevano
concentrare di più”. Dal suo tono gli era sembrato che non volesse essere
disturbata, quindi aveva rinunciato in partenza a chiederle una mano per
l’interrogazione del giorno dopo e, visto che né Walter né Giorgio erano in
grado di risolvere nemmeno il più banale esercizio di scissione omolitica, si
era chiuso in cucina col gatto nella speranza di raccapezzarci qualcosa. Almeno
un misero sei … ne aveva bisogno, se voleva avere qualche speranza di essere
promosso all’esame senza nessun “aiutino” da parte dei professori. Ci teneva ad
arrivarci da solo, perché dopo tutto il cervello era un muscolo, no? Avrebbe
potuto esercitarlo come faceva con gli addominali durante gli allenamenti di
calcetto. O forse no, non se lo ricordava. Forse aveva appena pensato una
sciocchezza. Gli venne da alzarsi e andare alla porta di Ludovica, per
chiederle se davvero il cervello era un muscolo come gli pareva di ricordare.
Comunque sia, sarebbe stato meglio non saperlo. In quel caso si sarebbe sentito
anche peggio, perché per ogni suo sforzo non otteneva nient’altro che una
misera tensione intellettiva, niente che potesse garantirgli un minimo di
dignità ai suoi occhi. Tornò al butene e ai suoi due atomi di carbonio legati
da un doppio legame covalente. Fin qui, ci era arrivato. Lesse il rigo
successivo, si intimò di restare seduto sebbene le sue gambe battessero
continuamente contro il tavolo, irrequiete, tremanti. L’orologio però non
segnava ancora le sei, gli allenamenti erano ancora lontani, anche se … sarebbe
potuto uscire, prendere un po’ d’aria e magari riprovare dopo. No! Doveva
riuscirci. Tabasco andò ad accoccolarsi ai suoi piedi, insistendo perché gli
venissero fatte le coccole. Ci stava provando a concentrarsi.
-Ludo vieni a
prenderti questa palla di pelo prima che la ficchi nel forno con una mela in
bocca e te la dia in pasto!- sbottò, sperando che la sua voce le arrivasse
lontana com’era. Ma che diavolo stava facendo? Proprio quando aveva bisogno di
lei. Lo scacciò con una pedata, facendogli digrignare i denti come un piccolo
demonio rosso, poi si alzò col libro di chimica in mano. Una mano, gli serviva
una mano. Prima che gli tornasse addosso quella strana inquietudine che lo
rendeva così improduttivo. Camminò scalzo lungo il corridoio vuoto e, mentre
passava davanti allo specchio del mobile del salotto, si accorse che la maglia
scucita che portava di solito in casa gli dava un’aria piuttosto smagrita. Che
ultimamente addosso aveva più pelle che muscoli, gli occhi sempre cerchiati di
sonno, dopo le ore passate a cercare di combinare qualcosa e i pasti saltati in
virtù di qualche scappatella con Giorgio. Beveva più che mangiare, girandosi e
rigirandosi di notte fra le lenzuola umide si accorgeva di potersi contare
chiaramente le costole e le ossa del bacino sottile gli sporgevano ai lati come
due punte acuminate. I capelli rossi gli ricadevano ormai lunghi fino ai lati
del viso, ma almeno ogni mattina aveva la cura di rasarsi, con l’unico
risultato di far apparire ancora più spettrale gli zigomi bianchi. Gli esami si
avvicinavano, il futuro macinava strada di fronte a lui, mentre il passato gli
sfuggiva di mano come un aquilone ad un bambino che piange perché non riesce a
riacchiapparlo. Il presente, nient’altro che un’ombra. L’ombra dei suoi occhi,
che vagavano agitati da una paranoia ingiustificata, braccato da ogni lato
senza sapere come evitare quella macchina mangia uomini che è l’avvenire. Che
cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Dimmelo,
Enrico, dove andrai? Sei un uomo o un coglione? Ce li hai gli attributi o no?
E piangeva, certe volte, dopo che la sbornia gli era passata. Piangeva così
forte nel cuore della notte che doveva soffocare le urla nel cuscino per paura
che Ludovica lo sentisse, tanto erano sottili quelle pareti. Ludo, ti prego, dammi una mano in chimica.
Non voleva piagnucolare, ma alla vista della sua sagoma qualcosa gli si era
spezzato dentro, un’infinita tristezza, un vertiginoso bisogno di urlare a
qualcuno di aiutarlo. Di tirarlo fuori da quel giro vizioso, di far sparire i
mostri sotto al letto. Qualcuno, ma chi? Lo sapeva benissimo, eppure non voleva
ammetterlo. Si sentì una ragazzina respinta dalla sua prima cotta, uno schifo.
Aprile germogliava tranquillo alla sua finestra, mentre lui piano piano si dissolveva in stesso. Ma doveva farcela. Doveva
bussare alla porta di Ludovica. Almeno lei …
-Ludo, hai già
fatto chimica?- si sentì patetico lì sulla porta, a grattarsi la testa con una
matita sull’orecchio e il libro di chimica a lato. Aveva una strana paura di
scoppiare a piangere da un momento all’altro. Lui, un uomo. Era evidentemente
della stessa pasta di quel bastardo. Una donnicciola incapace di prendersi le
sue responsabilità. Sarebbe stato meglio per lui fallire nella vita, non
diplomarsi, finire a lavorare in fabbrica e ad ubriacarsi ogni fine settimana
in periferia, andare a puttane e smetterla di pretendere da se stesso di
potersi salvare. Lui non poteva. Perché avrebbe dovuto, quel figlio di un
bastardo? La stanza di Ludovica profumava di pesca, aveva acceso le candele che
le piacevano tanto ai piedi del letto e se ne stava distesa a testa in giù con
un libro schiacciato contro il naso. Gli dava le spalle, quindi non lo notò.
Enrico tossì, sentendo la voce tremare.
-Ludovica- la chiamò.
Lei si tolse le
cuffie del walkman e si alzò spaventata, per poi premersi una mano sul cuore e
sbuffare stizzita.
-Sei tu, mi hai
spaventato- esalò, rotolando sul letto e gettando il libro sul cuscino. Enrico
alzò il libro di chimica, con le braccia molli. Dov’erano finiti i suoi
muscoli? Cretino, pappamolle.
-Mamma stasera
ha il turno di cinque ore, ti ricordi? Ci ha lasciato la cena in forno- alzò le
spalle. Ludovica annuì, distratta. Sembrò notare il libro solo dopo qualche
minuto e quella disattenzione, inspiegabilmente, affossò ancora di più i
pensieri di Enrico. Nemmeno tua sorella
ti vuole.
-Vuoi una mano
in chimica?- domandò retoricamente Ludovica. Lui annuì, gettando il volume sul
letto e sedendosi in terra, a gambe incrociate. Ludovica lo aprì alla pagina
che aveva già studiato e si schiarì la voce, per leggere il paragrafo come
faceva ogni volta, pazientemente. Enrico si sentì uno schifo, assolutamente
inutile. Tanto sarebbe andato tutto a puttane lo stesso. Ma almeno lei, sua
sorella, lei sarebbe andata avanti. E sua madre sarebbe stata fiera. Lui
sarebbe scappato via, si sarebbe nascosto pieno di vergogna in qualche posto in
cima al mondo, vivendo come uno di quegli eremiti che perdono anche l’uso della
parola, dopo tutto il tempo passato in solitudine. Si sarebbe ridotto ad un
bruto e sua madre non lo avrebbe riconosciuto, dietro la sua enorme barba.
Tutti si sarebbero dimenticati di lui, tranne i bambini che avrebbe
terrorizzato la domenica andando in chiesa, mettendo finalmente la testa fuori
casa. Si sarebbero dimenticati di lui e sarebbe stato meglio così, per lui e
per tutti. Ma gli occhi di Ludovica lo fissavano attoniti, come se gli stesse
appena leggendo nella mente. Sembrò che qualcosa anche in lei si stesse
spezzando.
-Ancora?-
Enrico, esausto,
lasciò andare le lacrime e, con la testa fra le mani, la schiena magra piegata
in avanti, con le vertebre spaventosamente visibili sotto la maglietta, pianse.
Ancora ed ancora. Quando sarebbe stato libero di vivere in pace? Quella
mancanza lo logorava, tanto. Papà … dove
sei? E come ogni volta, Ludovica lo abbracciò e gli disse di stare calmo,
che tutto si sarebbe risolto. E lui si lasciò cullare, perché aveva paura di
tutto, soprattutto di se stesso e di quel buio che sembrava volerlo inghiottire
ogni volta era solo. Quella sfiducia che non voleva, ma che era sempre lì
appollaiata sulla sua spalla come un demone crudele, a succhiargli via il
sangue direttamente dalla aorta.
-Ora ti spiego i
doppi legami, va bene? Che poi hai gli allenamenti- fu Ludovica a rompere il
silenzio. Ed Enrico non poté fare altro che annuire ancora, riconoscendo la
sconfinata forza della sua gemella, sperando, raccogliendo i pezzi.
***
Era rimasto al
campetto più degli altri, tirava calci al pallone e si sentiva meglio, infinitamente
meglio. Era all’aperto e faceva caldo, quella sera, perché oramai erano già le
otto e probabilmente Ludovica aveva già messo in tavola gli avanzi del
polpettone e le patate novelle che gli piacevano tanto, mentre Tabasco
miagolava per il suo cibo. Si sentì un po’ meschino a lasciarla lì sola,
sapendo quanto aveva fatto per lui, ma proprio non ce la faceva a tornare.
Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di respirare, come dopo essere stati per
troppo tempo sott’acqua. Quel demone doveva lasciare la presa, doveva
andarsene. Lui lo avrebbe scacciato via con tutte le sue forze, come i colpi
violenti che ora dava al pallone. Rete, ancora. Sua madre non avrebbe dovuto
dimenticarsi di lui, non lo avrebbe permesso. Sua madre si sarebbe ricordata
sempre di suo figlio, quello ferito, quello sfiduciato, quello dislessico e
fragile, il bambino coi bicipiti, e non se ne sarebbe dovuto andare da nessuna
parte. Non avrebbe dovuto nascondersi, né chiudersi in una casetta su una
montagna. Avrebbe trovato una donna, una di quelle dolci, forti, che avrebbe
dato senso a tutto quel dolore. Sarebbe stato bene, prima o poi. Poteva, doveva
crederci. Almeno per sua sorella, per lei che era l’unica ad avere fiducia. E
quanta ne aveva, quella ragazza! Quanto era fiduciosa nel bene, nel mondo, in
una possibilità di riscatto, in se stessa, nell’amore, nell’amicizia, nella
musica. Forse l’aveva trovato nei libri che leggeva, chissà. Un giorno, tornato
da un lungo viaggio, gliel’avrebbe chiesto. E le avrebbe sorriso, magari,
perché forse anche lui l’aveva trovata nel frattempo quella cosa lì, la fiducia nel
futuro. Una macchina macina ossa, mangia uomini, il cambiamento. Ma lo avrebbe
accettato, perché è quello che fanno gli uomini, anche se nessuno gliel’aveva
mai spiegato. I veri uomini non sono quelli che non soffrono, sono quello che
soffrono con coraggio. Che distruggono per costruire. E anche se questo lo capì
molto tempo dopo, qualcosa in quell’attimo lì, mentre calciava l’ultimo pallone
prima di andarsi a gettare in doccia, glielo fece intuire. Qualcosa nell’aria,
nella contrazione dei muscoli, nella luna che brillava dietro una lieve coltre
di nuvole, nel grido del custode che da dieci minuti gli ricordava che stavano
per chiudere. Qualcosa in quella vita lo fece sperare. Quando tornò a casa,
fresco e coi capelli ancora umidi di shampoo al muschio, si sorprese di sentire
delle voci in cucina, dove era stata accesa l’unica luce. Camminò senza farsi
sentire lungo il corridoio buio, trovando Marta accoccolata sul divano
arancione, fra i cuscini dove di solito dormiva Tabasco quando faceva freddo,
con un libro in mano e Ludovica ad affaccendarsi attorno al tavolo, sistemando
le posate e i bicchieri. Ridacchiava ,come a non volersi far sentire, ma in
casa c’erano solo loro due e un po’ di musica che avevano messo alla radio, i
Police forse, qualcosa di basso, d’atmosfera.
-Mi presti un
po’ d’attenzione?- chiese Ludovica, scocciata, ma ridendo. Marta alzò per un
attimo gli occhi dal libro, inarcando un sopracciglio, mentre Enrico guardava il
tutto attonito, come un bambino di fronte ad una vetrina di dolci.
-La signorina
reclama fin troppe attenzioni stasera- insinuò, chiudendo il volume.
-Io almeno solo
viva, Catullo è schiattato da secoli! Mi sembra un elemento sufficiente a
favore della mia causa- fu la risposta altrettanto maliziosa. Marta rise, poi
si alzò.
-Dai, ti do una
mano a sistemare prima che torni Enrico. Secondo me muore di fame-
Ludovica
sorrise, portando in tavola la pirofila con le patate che tanto adorava.
-Di sicuro muore
di fame. Quindi non toccare, che se torna e sa che abbiamo cominciato ci
uccide-
E risero tutt’e
e due. Enrico le salutò, fingendo di essere appena tornato. Sorridendo.