Sentimental jukebox

di Deirbhile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Marta ***
Capitolo 2: *** -Ludovica ***
Capitolo 3: *** -Enrico ***
Capitolo 4: *** Giorgio ***
Capitolo 5: *** - Marta ***
Capitolo 6: *** -Ludovica ***
Capitolo 7: *** -Enrico ***



Capitolo 1
*** -Marta ***


«How many years can a mountain exist
Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist
Before they're allowed to be free?
»

 

Bob Dylan, “Blowin’ in the wind”

 

La luna piena di fine febbraio, soda e lattea come l’occhio vacuo di un cielo cieco, si rifletteva spigolosamente sull’insegna del locale di fronte alla stazione ferroviaria, un piccolo pub scadente con la tappezzeria dei divanetti strappata e macchiata d’olio e il bancone degli alcolici sempre affollato di volti giovani e sperduti, pieni di sogni e con la speranza ridotta all’osso. Marta se ne stava mezza accasciata su uno degli sgabelli fuori uso, con le gambe un po’ deformi a reggerlo su e il sedile spolpato, col gomito sottile mollemente poggiato al bordo del banco e il volto inespressivo rivolto alla sue spalle, in direzione della saletta adiacente. Il locale era piuttosto affollato; gli “Psyco Elfs of the Decade”, il gruppo alternative rock di cui Ludovica, sua compagna di avventure più che amica, era voce principale e basso, stava suonando l’ultimo pezzo della scaletta, una cover rivisitata di “Creep” dei Radiohead,uscita per altro da poche settimane. Marta gettò un’occhiata passiva agli occhi di Ludovica, verdi e vivi come le onde del mare all’alba, che si allargavano o si socchiudevano a seconda se stesse cantando note acute o gravi, contornati da una tremula linea di matita nera e messi in risalto dalla luce soffusa dei faretti iridescenti. Accadeva spesso che, quando entrambe si sentivano prese da una risucchiante malinconia e la solitudine le inaridiva fino a farle sbriciolare come sabbia alla minima folata di emozione, cedessero alla lussuria che albergava timidamente nei loro occhi e si ritrovassero a condividere lo stesso letto, ingarbugliate l’una nei dolori dell’altra. E, per avere solo diciotto anni, questo accadeva fin troppo spesso. Era una specie di patto, il loro. Non erano amiche con beneficio, no. Quella definizione a Marta suonava troppo squallida e inorridiva al pensiero di considerare le sue afrodisiache scalate del corpo bianco di Ludovica semplici soddisfacimenti di bisogni fisici. Era piuttosto come un antidoto alla pazzia; si chiamavano con toni carezzevoli e incastravano le loro gambe in modo da congiungersi, come stessi pezzi di un grande vaso di terracotta fracassato a terra per un improvviso vento, ogni qual volta sapevano di non potercela fare da sole. Quando raggiungeva il picco del piacere, gli occhi di Ludovica si allargavano a tal punto da sembrare di poter contenere il verde di un’intera foresta. Marta diede un ultimo sorso al suo bicchiere, fino a pochi minuti fa ripieno fino all’orlo di vodka e vermut, rabbrividendo quando il sapore graffiante dell’alcol le corrose la gola. Si diede un’aggiustatina ai capelli, modellando con mani molli i boccoli che le cadevano sulle spalle. L’avevano scoperto insieme, il mondo del sesso. Ludovica, col suo fare enigmatico e la testa sempre apparentemente altrove (nel mondo delle idee platoniche, a detta sua), lasciava a pochi la possibilità di entrare nella sua vita o anche solo di parlarle. Era piuttosto fredda, sempre gentile con tutti, certo. Ma pur sempre gelida. Era stata lei a farle provare l’ebbrezza della libertà, l’amarezza dell’alba che sorge dopo una notte di oblio, l’atroce dolcezza delle droghe. E lei, Marta, non si era pentita di niente. A quasi diciotto anni, media dell’otto punto due al liceo classico di paese e figlia unica di due avvocati, poteva dire di non essersi fatta mancare nulla in termini di nuove esperienze.  Col suo viso sempre ben truccato e gli occhi tanto dolci da intenerire il più incallito dei sadici, nascondeva bene il caos che si agitava nella sua piccola testolina da aspirante scrittrice. Voleva scrivere nella vita, raccontare le storie della buona notte che, come diceva lei, i suoi genitori non le avevano mai raccontato. Storie che facessero addormentare come fossero camomilla, cullando in un calore nebuloso. Storie che sortissero lo stesso effetto rilassante e obliante della canna che una volta aveva fumato con Ludovica e Giorgio, la figura più assimilabile ad un migliore amico per lei, nei bagni pubblici del parco.

 Federico, batterista degli Elfs dai capelli biondi e lunghi, eternamente raccolti in una mezza coda che gli arrivava alle spalle, chiuse il pezzo con un energico colpo di cassa, facendo vibrare le pareti e destando per un attimo Marta dal suo sonno inerte. Qualcuno in fondo gridò, lei si limitò a rivolgersi nuovamente verso il bancone, stanca in volto e con i capelli castani e morbidamente ondulati che le coprivano quasi gli occhi.  Chiese in un sospiro un’altra vodka e vermut al giovane barista pieno di tatuaggi sugli avambracci. Quello alzò la sua testa bionda e le rivolse uno sguardo interrogativo.

-Sei sicura? Questo è il terzo- la avvertì Grisha, con quell’ accento slavo così marcato che a Marta ricordava ogni volta il suono di una lama che fende la delicata brezza mattutina. Dalla piccola folla che si era radunata nella saletta provenivano schiamazzi e urla di approvazione. Probabilmente, pensò,  Walter sta di nuovo spezzando tutte le corde della chitarra, perché le ragazzine lo adorano quando fa il duro. Uno schiocco metallico, simile ad un colpo di frusta, raggiunse il suo udito al di sopra di tutto quel chiasso, a confermare la sua tesi. Lei e Walter erano addirittura usciti assieme, per un certo periodo. Certo, avevano tredici  anni e lui suonava ancora sulla vecchia chitarra di suo padre, quella con la cassa acustica scollata e gli adesivi di Mazinga ancora attaccati su, e lei ancora baluginava in un universo ovattato fatto di libri da leggere prima di andare a letto e tranquilli pomeriggi in giardino con la nonna.  Poi si erano lasciati, in modo quasi anestetico, come solo i ragazzini sanno fare, dando poca importanza al sentimento che si impadroniva di loro quand’erano assieme ad ascoltare i Queen nella soffitta di Walter, seduti a gambe incrociate e con i mignoli intrecciati. Marta scorse il profilo di Giorgio in fondo all’unico corridoio che portava al cortile sul retro, i suoi capelli neri erano dorati dalla lieve luce che proveniva dalla lampada a neon a forma di bottiglia di Heineken fissa sopra il bancone. Teneva per mano una ragazza, una biondina dall’aria svampita, che lo guardava come un diabetico di fronte ad un succulento muffin al cioccolato. Li vide entrare nei bagni e chiudersi frettolosamente la porta alle spalle. Probabilmente quella sera lei e Ludovica l’avrebbero di nuovo dovuto salvare dalle grinfie delle sue pretendenti, fingendo di essere ragazze sedotte e abbandonate da lui in modo da allontanare tutte. Una tecnica che funzionava ogni volta, per il gran piacere di Giorgio, che otteneva i vantaggi  di storie della durata di una serata senza nemmeno doversi sentire in obbligo a richiamare.

-Sicurissima- affermò, tirando su col naso. Ora che il gruppo aveva finito di esibirsi, il proprietario aveva alzato il volume della tv, che era sintonizzata su un canale radio di soli classici anni sessanta, settanta e ottanta. In sottofondo, coperto dai brindisi festosi al buon proseguimento della carriera degli Psyco Elfs  e il rumore di bicchieri che si accostavano, Marta riuscì a distinguere “Stawberry fiels” dei Beatles. Grisha le rivolse un ultimo sguardo ammonitore, ma poi prese un bicchiere pulito e le versò la vodka e il vermut con gesti sicuri ed esperti da vero barman. Le aveva raccontato di aver viaggiato parecchio, prima di trovarsi a far il barista in quel piccolo paesino. Aveva lavorato in un pub a Parigi, ma era stato cacciato dopo che si era diffusa la notizia della sua tresca col proprietario; poi ad Amsterdam, dove però spendeva subitaneamente tutto ciò che guadagnava in marijuana, addirittura a Dublino.

-Ti porta lei a casa stasera?- chiese, ammiccando a Ludovica, che stava trangugiando la sua birra bionda, seduta ad un tavolino con tutti gli altri membri della band. Marta si girò, per guardare meglio a chi si stesse riferendo. Ludovica le fece un occhiolino, rivolgendole un sorriso seducente.

-Spero di si- si lasciò scappare, poggiando una guancia sulla mano e portandosi il bicchiere alla bocca.

-Siete proprio carine, voi due- ridacchiò Grisha, lucidando alcuni boccali appena lavati. Lei rispose con un grugnito, dondolando i piedi sullo sgabello troppo alto.

-Guarda che non è come credi- smentì, fulminandolo con lo sguardo.

-Si sta avvicinando- la avvertì divertito e, quando Ludovica si accostò a Marta per sussurrarle qualcosa e la fece arrossire, fece finta di star sistemando le bottiglie di birra vuote in una cassa, dando loro un po’ di privacy.

-Io e te, in bagno. Subito- mormorò con voce strascicata al suo orecchio, lasciandole un bacio umido sulla guancia. Marta si attorcigliò una delle sue ciocche rosse attorno al dito, guardandola maliziosa. Lo vedeva da come erano rilassati i suoi lineamenti che era lievemente brilla, di solito Ludovica aveva sempre il volto tirato in un broncio scontroso. I suoi capelli emanavano un inebriante odore di muschio e menta e la strana sfumatura dei suoi occhi, ora color palude, attirava Marta come una calamita.

- C’è Giorgio- riuscì a stento a mormorare, visto che quella aveva preso ad accarezzarle piano la schiena, coperta solo da una camicetta di seta semi trasparente. Grisha tossì imbarazzato, ricordandole che erano in un luogo pubblico.

-Tesoro, io sono frocio, ma loro no- rise, indicando due ragazzi coi dread che le guardavano imbambolati. Ludovica alzò le spalle, dando un sorso al bicchiere di Marta e vuotandolo tutto in un solo colpo.

-Che si fottano, Marta la posso avere solo io- ringhiò, passandole un braccio attorno alle spalle. Sentì Pier Davide, il secondo chitarrista, sussurrare a Federico qualcosa che suonava molto come “Ma quelle due stanno assieme si o no?!” e quello rispondergli, con un atteggiamento da santone, che le ragazze erano tutte strane.

-Ce ne andiamo?- sussurrò Marta, tirando un pizzicotto al fianco della rossa per farla voltare verso di lei. Ludovica annuì e per un attimo sembrò che le stesse sorridendo in modo dolce,ma poi riprese a scherzare con quelli del suo gruppo, tenendo testa a tutti in fatto di insulti e battutine sconce nonostante fosse l’unica ragazza. Salutarono Grisha e gli raccomandarono di controllare Giorgio quanto bastava per farlo tornare a casa sano e salvo e, soprattutto, senza nessuna ragazzina sprovveduta al seguito. Quando uscirono dall’ “Hurly Burly” si era alzato un lieve venticello e Marta, tutta infagottata nel suo cappotto rosso, attraversò tremando la strada.

-Dimmi, quant’hai bevuto, eh?- chiese Ludovica, brusca. Lei alzò le spalle e si accostò al muretto oltre il quale si potevano scorgere i treni fermi sui binari.

-Tre vodka e vermut, anzi… due e mezzo, per colpa tua- gracchiò, cercando di rimanere in equilibrio sui suoi tacchi di dieci centimetri. La rossa la guardò bieca, giocherellando con le chiavi della  Volkswagen di sua madre, presa, a detta sua, in prestito.

-Non devi bere così tanto, può essere pericoloso per te, lo sai- la rimproverò dura, continuando a fissare il movimento circolare delle chiavi attorno al suo dito indice. Marta rispose con un grugnito di disappunto.

-Io bevo quanto voglio, Ludo. Il cardiologo non mi ha dato nessuna raccomandazione- si inalberò, ma per il brusco gesto che fece col braccio rischiò di rovinare sul marciapiede. Ludovica accorse a tenerla su, prendendola per i fianchi. I suoi lunghi capelli rossi luccicavano come bronzo alla luce della luna e sulle sue orecchie quasi diafane spiccavano come stelle tre piercing d’argento. Si accese una sigaretta, tenendola fra il pollice e l’indice, come i maschi, e avvicinandola con calma alle sue labbra rosee. Marta, non appena si fu stabilizzata, si rivolse col busto verso la stazione ferroviaria che, silente e invasa da una leggera nebbiolina, appariva quasi come un miraggio.

-Mi piacerebbe andarmene, sai? Prendere un treno per chissà dove, senza salutare nessuno- mormorò, più a sé stessa che a Ludovica. Quella annuì, come se avesse capito esattamente a cosa si riferiva. Prese una boccata di fumo e guardò anche lei la stazione.

-E’ perché vuoi essere libera, vero?- chiese. Quando non era nervosa o arrabbiata, il che accadeva molto di rado, la sua voce suonava melodiosa e vellutata come il cinguettio di un canarino. Marta adorava sentirle dire cose banali come buongiorno, che cazzo combini, domani vieni a scuola? Quando parlava aveva l’impressione che tutto il mondo si fermasse ad ascoltarla.

-E’ perché voglio sentirmi libera. Liberi non lo si è mai davvero, secondo me-

Ludovica le circondò le spalle con un braccio, per tenerla al caldo. Le soffiò un po’ di fumo in faccia e la fece ridacchiare per il solletico. Marta le sorrise riconoscente, strofinando una guancia contro la sua sciarpa di lana grigia.

-Vieni, andiamo a casa- le sussurrò la rossa, facendo per dirigersi verso la sua auto.

- Ma non volevi…?- chiese l’altra, allusiva. Ludovica scosse la testa in un modo che a Marta sembrò quasi rassegnato. I suoi occhi ora erano miti e tranquilli come il fondo di un lago. Gettò la cicca sul marciapiede, calpestandola con la suola dei suoi stivali neri.

- Mi è passata la voglia- la sentì mormorare semplicemente, mentre una folata di vento scompigliava i capelli di entrambe. Restarono qualche minuto in silenzio, poi, dopo aver chiuso la sua portiera e aver infilato la chiave nel quadro dell’auto, Ludovica si voltò verso di lei.

-Marta?-

-Uhm?-

-Ti voglio bene, lo sai questo?-

Marta sorrise, nel buio dell’abitacolo. La stazione sfilava in tutto il suo squallore fuori al suo finestrino e, pensò, neanche se fosse partita con uno dei treni del mattino sarebbe mai stata libera dalla sensazione di calore e pace che provava in quel momento.

 

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Capitolo 2
*** -Ludovica ***


«Don't always know what I'm talkin' about, feels like I'm livin' in the middle of doubt 
'cause I'm eighteen, I get confused every day
»

Alice Cooper, “Eighteen

 

Il metronomo sul pianoforte del suo salotto continuava a ticchettare da un più di cinque minuti , dopo che il suo gatto siamese gli aveva dato una zampata facendolo cadere di lato. Ludovica, distratta dal suo studio, si alzò dalla scrivania e corse a bloccarlo, facendo scendere Tabasco con un gesto stizzito.

-Si può sapere perché mai hai paura del metronomo?- domandò scocciata, rivolta verso il gattone che la fissava quasi sconvolto, con gli occhi azzurri fissi come pietre. Tornò alla sua versione di greco, finendo la traduzione in meno di dieci minuti e sistemando soddisfatta i suoi libri in un angolo. Ludovica, al contrario di come ci si poteva aspettare, era categorica nel suo studio e persino dopo una sbronza magistrale come quella della sera precedente (alla fine Marta l’aveva invitata a salire da lei perché i suoi non c’erano e c’era andata di mezzo la sua bottiglia di Martini), non rinunciava alla possibilità di prendere un bel sette. La casa era silenziosa e vuota e, dopo aver finito di studiare l’ultimo paragrafo di storia dell’arte, si abbandonò sbuffando sul divano di pelle. Tutt’attorno a lei era la calma più totale, Tabasco dormicchiava ora più tranquillo sul tappeto di fronte al pianoforte e dalla finestra aperta della cucina adiacente proveniva un venticello tagliente e gelato che sferzava, di tanto in tanto, le braccia nude e bianche di Ludovica. Talvolta, quand’era sola a casa, la prendeva lo sconcerto più totale e la solitudine assumeva contorni spaventosamente violenti, tanto che spesso era costretta ad accendersi uno spinello o bere un bicchierino per distrarsi. Sua madre, essendo infermiera dell’ospedale della provincia, che distava una ventina di chilometri dal loro paesino, passava molto poco tempo a casa, nonostante cercasse di liberarsi sempre il prima possibile per stare un po’ di tempo con lei e suo fratello gemello. Probabilmente Enrico era agli allenamenti di calcetto e non sarebbe tornato prima di un paio d’ore, visto che spesso gli piaceva perdere tempo in giro a zonzo con la sua vespa nuova di zecca, così Ludovica decise di fare uno squillo a Walter e  Federico per proporgli di passare il pomeriggio alla solita maniera: partita alla playstation (anche quella nuova di zecca, uscita da appena tre mesi), sigarette e un po’ di musica. Ripescò il suo Nokia dalla sacca di tela che utilizzava come borsa, presa ad una manifestazione contro gli OGM, e compose il numero di Dede, come adorava prenderlo in giro da quando aveva scoperto che si lasciava docilmente chiamare così dalla nonna novantenne, per la quale aveva un particolare debole.

-Ludofica, a che devo l’onore?- rispose allegramente, troppo allegramente, quello dopo solo uno squillo, a testimonianza del fatto che il nulla totale e assoluto occupava i suoi lunghi pomeriggi “di studio” e che senza gli Elfs sarebbe stato ancora seduto in silenzio in un angolo della 5 C, con un paio di cuffie da walkman nelle orecchie e gli ACDC sparati a tutto volume. Non che fosse asociale, semplicemente Federico si presentava come silenzioso e piuttosto timido e, in un paesino di provincia come quello,il suo comportamento riflessivo e tendente alla solitudine veniva considerato sintomo di sfigaggine.

-La smetti di chiamarmi con quel nome del…- prese ad inveire Ludovica, subito fermata da una replica scherzosa dell’altro.

-Andiamo, non dirmi che non ti piace. Riflette in pieno il tuo essere- ridacchiò sommessamente.

-Vuoi rimanere senza band?- lo minacciò la rossa, scontrosa.

-Qualcuno ha il ciclo oggi, eh?-

-Ma sta’ zitto! Piuttosto muovi quel culo floscio che ti ritrovi, legati i capelli in una bella coda di pony, prendi Walter e vieni a casa- gli intimò quasi, mentre fissava il soffitto macchiato e un po’ crepitante del salotto.

-Dammi il tempo di mettere in moto il catorcio- sospirò, per poi chiudere la chiamata.  Ludovica rispose con un bel vaffanculo, che utilizzava come intercalare o saluto ogni qual volta voleva enfatizzare il suo dissenso, e scorrendo fra i numeri della rubrica per cercare quello di Pier Davide, si soffermò a leggere quello segnato sotto il nome di Marta Cabassi. Si morse il labbro, gettandosi di nuovo a peso morto sul divano. Aveva tanta voglia di vederla, di stringere i suoi fianchi e affondare le mani nei suoi capelli scuri e mossi come le onde del mare. Adorava sentirla fremere sotto il suo tocco, provocarla fino a farla supplicare, giocare con i suoi desideri fino a farla cedere alla disinibizione più totale. Ma adorava anche, e se ne rese conto con sconcerto, i momenti successivi ai loro incontri ravvicinati; accarezzarle il collo per farla calmare dagli spasmi del piacere, respirare l’odore di arance che emanava il suo corpo umido e contemplare in silenzio le sue pupille restringersi e allargarsi a seconda dell’intensità delle sue attenzioni erano cose che la mandavano in visibilio, paragonabili in termini di appagamento solo ai suoi solitari giri in auto al calar della sera, con in sottofondo Alice Cooper e l’aroma del deodorante per auto alla menta a solleticarle le narici. Marta sapeva di inesplorato, di lontano e di irraggiungibile, tutte cose che Ludovica aveva imparato a conquistare grazie ai suoi abili modi di seduzione. Era come se, quando la toccava o le baciava la pelle, le barriere insormontabili che innalzava fra la sua testolina da scrittrice e il mondo cedessero come terracotta, come se l’orizzonte dei suoi occhi si avvicinasse per poter cogliere quanto più godimento possibile dall’abisso a cui Ludovica sentiva di appartenere. Marta era una vetta, una cima rivolta verso il cielo illimitato, pura, invalicabile e rischiosa, lei solo lo specchio cristallino di un lago paludoso, melmoso e impantanato nella terra. E nonostante tutto, quell’amicizia viziosa l’aveva attirata fin da subito come un fiore dall’odore inebriante, pronta a risucchiarla in quel vortice di sregolatezza e immoralità, col fascino irresistibile delle cose che ci fanno male. Quando l’avevano stregata i suoi occhi bruni e il suo broncio eternamente insoddisfatto, come se dalla vita cercasse qualcosa che non le era concesso avere! Prima di lei, Ludovica aveva provato solo con Walter (che vantava un gran numero di conquiste, sempre sedotte e abbandonate in virtù della sua esclusiva unione con Daisy, la sua Fender Telecaster gialla) e per di più sotto l’influsso di un paio di canne di troppo. Ora che ci pensava era stato terribile, in mezzo alla pineta del campeggio estivo dell’anno precedente.  E non si trattava di rametti fra i capelli e la terra nei pantaloncini, no. Quelli erano miseri dettagli. Walter, nonostante facesse il figo con gli amici e lo spaccone con le ragazze, era davvero un disastro in quelle cose e la cosa più eccitante che Ludovica riuscì a ricordare riguardo quella sera fu un bellissimo esemplare di civetta che tubava sul ramo sopra la sua testa. Per fortuna, la loro amicizia era rimasta intatta, come quand’erano bambini, perché sia lei sia Walter avevano ammesso che si era trattato di un semplice incidente. Ma con Marta, dio, era tutta un’altra cosa. Nemmeno riusciva a capire come il suo solo corpo contenesse così tanta passione. Stava giusto pensando di chiamarla per un giro in macchina quella sera stessa (e magari una sosta nelle zone deserte della campagna attorno al paese), quando suonarono al campanello del suo appartamento e fu costretta a farsi mentalmente una doccia fredda. Non appena aprì la porta, Federico e Walter si catapultarono sul divano, abbandonando per terra rispettivamente zainetto e custodia della chitarra.

-Daisy?- chiese Ludovica, prendendo posto sul bracciolo accanto a Dede.

-Erin- precisò il ragazzo dai capelli neri, sistemandosi una chitarra acustica color nocciola sul ginocchio. Walter, d’aspetto, era simile ad uno di quei principi nordafricani di cui sono piene le soap opera di bassa qualità: i suoi occhi, neri come le pietre del deserto, ipnotizzavano col loro calore esotico e straniero la maggior parte di quelli che lo guardavano e la sua pelle, simile al colore della sabbia al tramonto, trasudava quella sensualità raffinata tipica degli spiriti imperturbabili. La camicia di jeans che portava, sfilacciata ai bordi delle maniche, aderiva morbidamente ai suoi pettorali quasi evidenti e le sue converse all stars nere, seminascoste dalle falde del pantalone a vita alta verde petrolio, battevano a tempo sul tappeto, alzando un po’ di polvere. I vari ciondoli d’argento e le collane dal filo di cuoio che gli cingevano il collo tintinnavano ogni qual volta avvicinava il suo petto alla chitarra per poterla accordare meglio. Federico tirò fuori dalla tasca dei jeans la sua armonica mezza arrugginita e prese a lucidarla in silenzio, strofinandola contro il tessuto della maglietta grigia.

-Cos’è tutto ‘sto silenzio?- domandò la rossa, stiracchiandosi e dando un colpetto sul polpaccio di Walter con il piede. Quello alzò le spalle, avvicinando l’orecchio alle corde per sentire meglio.

-Dede è ancora arrabbiato con te per come lo hai trattato al telefono, razza di strega crudele- borbottò, cominciando a strimpellare qualche accordo. Federico, piegato com’era sulle ginocchia, soffiava tranquillo nella sua armonica per rimuovere gli ultimi residui di polvere, fingendo di ignorarli.

-Che bambinone!- ridacchiò Ludovica, alzandosi per andarsi a sedere sulle sue gambe e scompigliargli i capelli biondi, che ora erano sciolti, quasi come un’aperta provocazione alla sua precedente richiesta telefonica. Federico sbuffò, facendo il sostenuto.

-Andiamo, Dede- lo pregò con sguardo carezzevole e modi da ruffiana, passandogli una mano sulla guancia.

-Per favore, sembra che tu voglia sedurmi- rise quello dopo un minuto buono passato in silenzio a subire le sue attenzioni, facendola scendere con uno spintone dalle sue ginocchia e tirandola a sedere vicino a lui.

-Lo sai che Miss Rossa qui presente non gradisce il tuo gingillo, calma gli ormoni- sghignazzò Walter, riprendendo a suonare sconnessamente accordi di canzoni random, fra i quali si potevano scorgere gli incipit di “Smoke on the water” dei Deep Purple, “Sweet child of mine” dei Guns ‘n Roses e “With a little help from my friends” dei Beatles. Ludovica grugnì contrariata, lanciandogli addosso un plettro che giaceva abbandonato sul tavolino da tè.

-Assassina! Stavi per graffiarmi Erin!- gridò quasi il chitarrista, rivolgendole uno sguardo truce coi suoi occhi neri, lasciando a metà l’intro di “Woman from Tokyo”.

-Stronzo- mugugnò e ora fu il suo turno di fingersi offesa.

-Dai, amico, lasciamola copulare in pace con la Cabassi. Non possiamo biasimarla, ha proprio un culo da paura- scherzò Federico, beccandosi un altro scappellotto dietro la nuca.

-Non no-mi-na-rla, capito? Né lei, né il suo culo- sillabò piano Ludovica, prima di lasciargli un altro pizzicotto sul braccio.

-Scusa, scusa. Giuro che sto zitto, basta che la smetti di torturarmi- piagnucolò Dede, traendo il braccio, orami rosso per i segni, al petto. Ludovica gli rivolse un’ultima occhiata intimidatoria, prima di sedere a terra con le gambe incrociate, giocherellando coi lacci delle sue Adidas modello Stan Smith nere.

-Ah, quasi dimenticavo… ho portato i biscotti- saltò su Walter, indicando lo zaino abbandonato all’ingresso. La rossa allargò gli occhi, stirando le sue labbra chiare in un sorriso genuino. Solo di rado la si vedeva così naturale, spontanea e sincera come una bambina. Ludovica aveva sempre pensato che sensibilità, creatività e spontaneità andassero di pari passo, ma aveva imparato a sue spese che si verificava esattamente il contrario. Col passare degli anni, a causa del disagio che percepiva venendo a contatto con persone che non la capivano, aveva imparato a calcolarsi, a dosare la sua parte fantasiosa ed eclettica, fino a diventare una macchina, pressata e sballottata dentro la posa che aveva assunto per proteggersi. Afferrò ridacchiando il pacco di biscotti al cioccolato e fece una capatina in cucina per tirare fuori dal frigo una bottiglia di succo alla mela verde, la loro bevanda ufficiale. Ci avevano brindato alla loro prima serata, circa cinque anni prima, quando avevano ancora poco più che dodici anni e si chiamavano Ametist Vessels, dopo un’esibizione amatoriale per la famiglia di Walter. Tornò in salotto con tre bicchieri dal collo allungato, di quelli che davano in omaggio con tre pasti ai fast food, colmi fino all’orlo e il pacco di dolciumi già mezzo svuotato.

-Proviamo?- chiese Federico, finendo si masticare i biscotti e buttando giù l’ultimo sorso di succo di mela.

-Si, vai. Dopo ho bisogno di una sigaretta- concesse Ludovica, pulendosi le mani sui jeans e tirandosi su le maniche del maglioncino verde. Si alzò per andare a recuperare il suo basso, lasciato sul letto della sua camera, e poi tornò a sedersi di fronte a loro. Walter fece un cenno con la testa, cominciando con i primi arpeggi di “California dreamin’” dei The Mamas & Papas, seguito poi dalle percussioni del basso di Ludovica e le prime note melodiose della sua voce. Federico li seguì a tempo con un suo piccolo adattamento all’armonica, mentre anche il chitarrista prendeva a cantare sommessamente la seconda voce, mescolando il suo timbro gutturale e profondo con quello acuto e morbido dell’altra.

-You know the preacher likes the cold, he knows I'm gonna stay- cantò Ludovica, muovendo a ritmo la testa. 

-California dreaming, on such a winter's day seguirono Walter e Federico, che ora che aveva terminato il suo assolo si era unito, con le loro voci che ben si armonizzavano. Dalla porta che dava sul balconcino Ludovica poteva intravedere le prime gocce di pioggia di quello che sembrava preannunciarsi un bell’acquazzone. I tuoni tutt’ad un tratto coprirono lo strimpellare della chitarra e i colpi ritmici del basso, invadendo la stanza e spezzando l’atmosfera, come una palla di cannone che squarcia la vela di un vascello in navigazione verso terre remote e immaginarie. La rossa smise subito di suonare, con le mani molli e il fiato improvvisamente corto lasciò cadere il basso sulle sue gambe. Federico sembrò accorgersi della sua preoccupazione, perché si alzò immediatamente dal divano e si avvicinò per guardarla in volto. Tremava e teneva gli occhi fissi sul tappeto, con le mani chiuse a coppa sulle orecchie.

-Hey, folletto, è solo un temporale- sentì Dede che la tranquillizzava ma, con i rumori sordi dei tuoni e i flash improvvisi dei lampi ad illuminare a sprazzi il tavolo coi libri e la teca dove sua madre teneva i bicchieri di cristallo, riuscì a sentire solo un flebile fischio nelle orecchie. La luce era andata improvvisamente via, Walter si era precipitato a controllare il quadro dell’elettricità nell’altro corridoio. Federico le mise le mani sulle spalle, scuotendola leggermente. Non capiva cosa stava succedendo, tutto era immobile davanti a lei, solo i capelli biondi del ragazzo si illuminavano d’argento di tanto in tanto. La luce della luna si rifletteva nell’acqua piovana che grondava sul balcone e i lampi si susseguivano aritmicamente e senza che Ludovica potesse contare e calcolare quand’è che sarebbe giunto il successivo. Un ultimo tuono rombò più forte degli altri e, al buio, cominciò a piangere sommessamente, gemendo e mugolando come un cucciolo.

-Ludo, guardami- la chiamò Federico, mettendole una mano sotto il meno e tenendole ferme le ginocchia tremanti con l’altra. Ludovica si sforzò di alzare lo sguardo dal pavimento e respirare più regolarmente, mentre sentiva la scia bollente di una lacrima farsi strada sul suo collo ghiacciato. La luce si riaccese, dopo un paio di imprecazioni da parte di Walter, che in quel buio non riusciva a trovare la leva giusta, così si tolse le mani dalle orecchie per sentire meglio Federico.

-Dov’è Marta?- si sentì di domandare, quasi inconsciamente, ingoiando un’ultima lacrima. L’amico la guardò dubbioso, aggrottando le sopracciglia.

-A casa sua immagino- rispose con calma, sedendosi accanto a lei per terra e passandole un braccio attorno alle spalle, per calmare i suoi ultimi spasmi di panico.

-Anche lei ha paura dei temporali- mormorò, poggiando la testa sulla sua spalla. Walter li raggiunse, sedendosi alla sinistra di Ludovica e cominciando ad accarezzarle il braccio in modo goffo.

-Davvero?- si informò il moro, cercando di distrarla. Ludovica annuì, prendendo un respiro profondo.

-Una volta eravamo assieme, era dicembre e stavamo per addormentarci. E’ scoppiato un temporale ed eravamo sole in casa, sole e mezze andate. Così mi ha svegliata in lacrime e mi ha supplicato di dormire abbracciata a lei-

Federico annuì, stringendo di più la presa attorno alle sue spalle, che ora sembravano così esili ed indifese.

-Vuoi che la chiamiamo?- propose Walter, tastandosi le tasche alla ricerca del suo Motorola.

-Si, per favore. Avrà paura, ne ho anche io. O forse no, sono confusa ogni giorno di più-

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Capitolo 3
*** -Enrico ***


«There is no pain, you are receding ,a distant ship smoke on the horizon 
You are coming through in waves , your lips move but I can't hear what you're saying
»

Pink Floyd, “Comfortably numb

 

Enrico fissava il soffitto da tre ore buone, oramai. Non c’erano più scusanti a cui appigliarsi. Prima di andare a dormire aveva preso una camomilla, giusto per calmare i nervi dopo le pressanti stimolazioni della creatina, che assumeva in piccole dosi in palestra, e la stanchezza degli allenamenti di calcio con Giorgio. Si era assicurato di aver rubato dall’armadietto di sua madre il pacchetto di pillole giuste, c’era scritto su “Valeriana” a caratteri cubitali, non poteva essersi sbagliato. Non c’erano motivi per cui non riuscisse, non potesse, dormire. Andava tutto bene, dopotutto. Quella mattina aveva preso un bel voto in matematica, la professoressa si era addirittura complimentato con lui, perché accadeva raramente che riuscisse a prendere la sufficienza nei compiti in classe. Aveva passato il pomeriggio a bighellonare con Giorgio, avevano adocchiato un paio di ragazze e si erano messi a fare i cretini per fare colpo. Era stato un giorno come gli altri. Eppure, dopo essersi lasciato scivolare in gole due di quelle pasticche dal sapore amaro e di colore verdognolo e aver consumato quasi tutti gli infusi di camomilla della casa, ancora non riusciva a prendere sonno. Alzò la testa dalla coltre di coperte e lenzuola umide che lo facevano sentire soffocato, dando un’occhiata all’orologio digitale sul comodino a fianco al letto. Segnava le quattro e dieci, coi suoi caratteri spigolosi e a neon illuminava di rosso il pavimento piastrellato, dov’erano sparsi jeans e qualche libro di scuola, una manciata di fogli stropicciati e un pallone da calcio. Maledisse la luna, che faceva capolino minacciosa dalla finestra, accuratamente lasciata aperta per lasciar entrare un po’ d’aria (la sua insonnia poteva anche essere dovuta al fatto che in quella casa l’aria era sempre soffocante, si era detto), alzandosi col busto e tenendosi la testa dolorante fra le mani. Maledisse il sonno, che non gli dava pace da tre giorni ormai, e si alzò per fare un giro della casa. Accadeva spesso, infatti, che Enrico non riuscisse a dormire, per il troppo nervosismo o per la rabbia repressa che accumulava durante l’arco delle sue giornate frustranti. Insegnanti che non facevano altro che bacchettarlo, insufficienze su insufficienze, compagni di squadra che lo schernivano, che lo chiamavano sporco figlio di puttana, bastardo senza padre. Era bravo come attaccante, coglieva tutte le occasioni per soffiare la palla all’avversario e mandarla quanto più possibile vicino alla rete, talvolta tirando da distanze impossibili. Spesso faceva goal al limite dello spettacolare, come li definiva Giorgio, ma quei figli di papà non la smettevano mai di bloccarlo all’uscita dagli spogliato o dopo la scuola. Lo provocavano, gli causavano dentro una rabbia così cieca che a volte esplodeva in pugni, calci, urla. Enrico non era un tipo violento, fondamentalmente aveva la stessa sensibilità di sua sorella gemella, la stessa empatia, lo stesso amore per la calma e la pace. Peccato che non avesse il suo stesso quoziente intellettivo e la fama di bastardo. Scivolò come un fantasma, a piedi nudi, per il corridoio, poggiandosi alle pareti bianche e spoglie per non capitolare a terra nel buio. Passò di fronte alla camera di sua sorella e scorse la luce ancora accesa. La porta era semichiusa e Ludovica sembrava essersi addormentata ancora vestita, come suo solito, così Enrico ebbe la premura di entrare per spegnere la lampada sul comodino. La sua camera aveva sempre avuto un aspetto alquanto bizzarro, per lui. Le pareti, di un bianco ospedaliero come il resto della casa, erano interamente ricoperte da scritte a pennarello: frasi di canzoni, citazioni di libri e poesie in colori diversi, dal rosso al giallo. Riusciva a scorgere perfino un disegno del sistema circolatorio umano, con tanto di legenda anatomica piena di termini che non capiva, disegnata a mano. In alto, erano appesi enormi poster di band come i Beatles, i Pink Floyd e i Guns n’ Roses, insieme ai frontespizi dei libri preferiti di sua sorella (che puntualmente Ludovica staccava e incollava alle pareti). Sporgendosi per abbassare l’interruttore della lampada, calpestò accidentalmente il Game Boy Color, che la madre aveva regalato ad entrambi qualche anno prima, e quello si accese, cominciando a trillare. Cercò di spegnerlo il più velocemente possibile, per non svegliare Ludovica, e lo gettò sotto il letto. Sua sorella, però, raggomitolata com’era sul letto sembrò muoversi.

-Ludo, dormi?- domandò Enrico, con voce roca e gli occhi azzurrini quasi spruzzati di sangue. Ludovica aprì un occhio con calma, sospirando.

-Ci stavo provando, ma non funziona- mormorò, rivolgendogli uno sguardo stanco e avvilito almeno quanto il suo. Enrico si fece posto accanto a lei, gettando sul pavimento un paio di libri, “La fattoria degli animali” di George Orwell e “Jane Eyre” di Charlotte Bronte, e quella che, constatò con disgusto, sembrava una rivista pornografica. Ludovica arrossì, dandogli un colpo col piede e gettandola in fondo alla stanza.

-E’ successo qualcosa, bruco?- domandò poi, guardandolo negli occhi. Lui fece di no con la testa, passandosi una mano fra i capelli rossicci e ricci. I due gemelli si fissarono per un istante, perfettamente uguali nei tratti spigolosi e sottili del viso. Stesse labbra carnose e rosee, stessa pelle diafana, stesso sorrisetto ammiccante e stesse gote pronunciate. La madre diceva sempre che assomigliavano a lei, ma entrambi sapevano che la forma degli occhi, tondi e con ciglia lunghe e quasi trasparenti, l’avevano ereditata da quell’altro.

-Niente, bruca- rispose, mogio. Cominciò a giocherellare con le frange della coperta di lana, mentre Ludovica fissava la scrivania, alla parete opposta, che era illuminata da un unico fascio di luce lunare, pallido e spettrale. Sentirono un tonfo provenire dal piano superiore, poi lo stridore di un oggetto pesante trascinato. Nell’appartamento proprio sopra il loro abitava una coppia di sorelle, anziane e mezze sorde, e spesso si sentivano rumori strani agli orari più improbabili.

-Vieni, stenditi vicino a me, dai- lo chiamò Ludovica, adagiandosi con la testa sul cuscino e battendo con una mano di fianco a lei, invitando il fratello a fare lo stesso. Enrico si distese, rigido come un tocco e in silenzio.

-Oggi hai preso sufficiente, non sei contento?-

Lui annuì debolmente, strofinando le mani fra di loro e respirando piano, osservando il fiato condensarsi in nuvolette bianche per il freddo che aleggiava in quella stanza.

-Tu hai preso otto, non sei contenta?-

-Il voto è solo un fottuto numero, sai che m’importa- sminuì Ludovica, con un gesto sbrigativo della mano.

-Dovrebbe importarti, sei una tipa intelligente- protestò Enrico. Se fosse stato in lei, se avesse avuto almeno un barlume della sua forza di volontà e delle sue capacità cognitive e se non avesse avuto difficoltà a distinguere una lettera dall’altra, gli sarebbe importato eccome. Lei alzò le spalle, picchiettando con le mani sulle ginocchia a ritmo per riempire il silenzio che nonostante tutto troneggiava su di loro come una cappa soffocante.

-Io dico che anche tu sei intelligente, bruco- si limitò a dire, fissando il buio. Enrico si voltò verso di lei e scorse ancora quello sguardo perso e lontano che aveva visto spesso negli occhi della sorella. Si chiedeva dov’è che andasse, quando i suoi occhi si assottigliavano a quel modo e le sue labbra si irrigidivano fino a diventare tese come la pelle dei tamburi della batteria di Federico. Ma non glielo domandava mai, un po’ perché sentiva di non essere abbastanza per capirlo, un po’ perché non voleva riportarla a quella realtà che, lo sapeva, la lasciava perennemente a bocca asciutta. Anche lui, quand’era solo e si metteva a pensare, si rifugiava in mondo tutto suo, forse più primitivo e istintivo, senza i fronzoli delle parole che Ludovica leggeva nelle sue benamate poesie di Dikinson, ma pur sempre un posto dove spogliarsi di tutte le ansie e nascondersi, dove gli echi degli insulti si perdevano nel cinguettio di uccelli di un giardino immaginario. Enrico rimase in silenzio per un po’, poi riprese a parlare all’improvviso.

-Dovresti iscriverti a medicina- sbottò quasi, accompagnandosi con un deciso gesto della mano.

Ludovica rise di gusto, scoprendo i canini più aguzzi del normale e bianchi come avorio. Il suo sorriso non era amaro, né gaudente. Aveva la bruta crudeltà tipica di ogni realista.

-Ho altri progetti, ma ne parleremo a tempo debito. Manca ancora un po’ all’esame, no? A che serve preoccuparsi- sospirò, passandosi una mano fra i capelli lunghi, che cadevano come lingue di fuoco sulla t-shirt nera a maniche corte.

-Io non so dove andrò a finire, bruca- disse Enrico, portandosi le gambe al petto e stringendosele con le braccia.

-Andrai all’università, ce la farai- gli disse lei, carezzandogli amorevolmente il ginocchio.

-Sono arrivato al quinto anno per miracolo, perché sono tuo fratello e perché sono dislessico e faccio pena a tutti- sbuffò con rabbia e, all’improvviso, gli si gonfiò una vena sul collo e gli si contrassero nervosamente le mani. Ludovica gliele strinse fra le sue, piccole e lisce, cercando di tenerlo calmo.

-Non dirlo neanche per scherzo, è una cosa che sappiamo solo da un anno. E non è nemmeno una forma di dislessia grave, sei ad un liceo classico, cazzo- gli scosse le spalle, ma Enrico si scansò, alzandosi di scatto dal letto.

-Perché è questo che sono, un dislessico. Sono stupido, come quel bastardo di nostro padre- ringhiò, tirando un calcio violento alla sedia in legno della scrivania, facendola rotolare lungo distesa sul pavimento. Ludovica si alzò e gli prese le braccia, cercando di fermarlo. Enrico respirava a fatica, rosso in volto e con gli occhi quasi fuori dalle orbite.

-Shh, devi stare tranquillo- mormorò la gemella, stringendolo con le braccia. Siccome era notevolmente più bassa di lui, poggiando la testa sul suo petto sentì chiaramente i battiti furiosi del suo cuore, che scalpitava e gemeva come un canarino in gabbia. Enrico l’abbracciò a sua volta, tenendola stretta a sé, ansante come se avesse corso per dieci chilometri senza mai fermarsi. Ed era proprio così che si sentiva, come un maratoneta che corre all’infinito, con i polpacci gonfi e la milza a pezzi, senza mai arrivare ad un traguardo.

-Scusa Ludo, non volevo- disse, con la voce roca. Sentiva gli occhi rossi pizzicargli, come se stesse per piangere spine acuminate anziché lacrime bollenti. Ludovica non disse nulla, gli porse il bicchiere d’acqua poggiato sul suo comodino e si sedette insieme a lui sul bordo del letto. La sveglia segnava minacciosamente le cinque meno venti, ma oramai a nessuno dei due importava. Avrebbero dormito a scuola o preso qualche tazzina di caffè in più a colazione, in quel momento avevano bisogno di stare svegli e raccogliere i pezzi, insieme.

- Nostro padre era un bastardo, ma tu non sei come lui- affermò Ludovica, ammucchiando le coperte attorno ai suoi piedi infreddoliti.

-Io voglio solo proteggere te e la mamma, perché lui non ha voluto farlo- sussurrò Enrico, fissando il pavimento.

-Io non ho bisogno di essere protetta, lo sai. E nemmeno la mamma. Siamo dei sognatori e lo sei anche tu- ridacchiò lei, alleggerendo l’atmosfera.

-E i sognatori non hanno bisogno neanche di dormire?- chiese, sbadigliando e sentendo le membra intorpidite e rilassate dopo il precedente attacco di rabbia.

- I veri sognatori non dormono mai- sorrise Ludovica, citando uno dei suoi autori preferiti, Edgar Allan Poe, e stendendosi con le mani giunte dietro la nuca.

Enrico sorrise riconoscente, chiuse gli occhi e si raggomitolò come un bambino con le gambe troppo lunghe e le braccia troppo muscolose, cadendo dopo poco in un sonno profondo. Il mattino successivo, quando la madre li chiamò dalla cucina per invitarli a fare colazione, nonostante avesse dormito per poco più che tre ore, Enrico si alzò, sentendosi pieno di vita e pronto a cominciare una nuova giornata, dopo aver resettato tutta la rabbia che si portava dietro da giorni. Per lui, la rabbia, era un vero e proprio problema. Sapeva di doverne parlare con qualcuno, ma credeva che sfogarsi in palestra dandoci dentro con gli addominali e i bicipiti o farsi una chiacchierata ogni tanto con Giorgio fosse abbastanza. Eppure, nei momenti meno opportuni, come la sera precedente, scoppiava. Gli partiva qualcosa dal petto, qualcosa di infuocato e pensante, che doveva assolutamente manifestarsi attraverso colpi, grida; una forza che lo rendeva cieco e sordo e gli impediva di mettere a fuoco chi gli stava davanti. I volti diventavano tutti distorti allo stesso modo, deformi e uguali fra di loro, spaventosi e paranoici. Si guardò allo specchio, lavandosi i denti e sentendosi stranamente rilassato. Dopotutto, pensò, quella poteva essere una giornata diversa. Si diresse in cucina ancora a petto nudo, come sempre, quasi a mettere in mostra i risultati della sua costante fatica, e salutò allegramente sua madre con un bacio sulla guancia.

-Che turno hai, ma’?- chiese, sedendosi al tavolo apparecchiato di fronte a Ludovica. Prese una fetta di pane e prese a spalmarci sopra la marmellata alle fragole. Antonia, che trafficava ancora ai fornelli in attesa che bollisse l’acqua per il tè, si pulì le mani con lo strofinaccio e si aggiustò i capelli biondi, che portava ricci e lunghi fino alle orecchie, fissati con un fermaglio dietro la nuca ad incorniciare il suo viso rubicondo e sempre arzillo.

-Torno alle sette, così ce ne andiamo a mangiare alla taverna dello zio Pino. Che ne dite?- esclamò, versando l’acqua bollente in una tazza e poggiandola vicino ad Enrico. Quando erano tutti e tre liberi, siccome a detta di Antonia era importante passare del tempo assieme come una vera famiglia, cenavano nel ristorante di un loro zio di secondo grado, che gli riservava da anni lo stesso tavolo vicino all’unica finestra.

-Mff, perfetto. Tanto chiamo Marta- mormorò Ludovica fra un boccone e l’altro e, così sembro ad Enrico, represse un sorrisetto soddisfatto. Fece finta di vomitare, fissando la sorella, che rispose con un sonoro rutto e un’alzata di dito medio.

-Allora io oggi pomeriggio me ne vado da Giorgio, non mi va di sentire voi due che…- cominciò, facendo per addentare la fetta di pane, ma fu subito colpito da uno scappellotto di Ludovica, sporcandosi tutta la faccia di marmellata. Antonia intimò ad entrambi di smetterla, osservando divertita la faccia di Enrico.

-Sta’ zitto, coglione, o giuro che ti eviro. Tanto comunque non ne voglio di nipoti con la tua faccia di cazzo- lo minacciò quella, tirandogli un poderoso calcio sotto al tavolo.

-Ma’, Ludovica mi rompe!- si lamentò il ragazzo, dando un pizzicotto sul braccio alla sorella.

-Ludo, non ruttare, non si addice al tuo viso da principessina. Enri, smettila di prenderla in giro, lo sai che ne sarebbe capace. Tali e quali a quando avevate cinque anni- sospirò la donna, sorseggiando tranquillamente il suo tè.

-Ti aspetto giù- gli disse Ludovica, bieca, dirigendosi in salotto.

-Di preciso, cos’è che senti quando è con Marta?- chiese allora Antonia, sinceramente dubbiosa, poggiando la tazza vuota nel lavello. Enrico represse una risata, dicendo che non sentiva niente, assolutamente niente. 

                                                                                                                 ***

Le ore di religione erano un vero supplizio per Enrico, peggio addirittura degli allenamenti di calcio deteriorati in risse. Il professore, un prete di un paesotto vicino, bigotto e osservante ortodosso di ogni minima parola scritta nella Bibbia, non perdeva occasione per sottolineare “situazione” sua e di Ludovica. I figli nati fuori dal matrimonio sono frutto del peccato, diceva sempre. E, pronunciando quella sentenza che pesava sulle loro teste come un’accusa capitale, li fissava coi suoi occhietti neri e piccoli, digrignando i denti in un sorrisetto a metà fra il perverso e il mellifluo. E i suoi compagni di classe, complici in quella sevizia, li squadravano allo stesso modo, inorriditi e schifati come se loro, figli di due genitori sposati, fossero meglio. A volte Enrico si chiedeva se vivessero ancora nel Medioevo. Erano gli anni novanta, diamine!

 Antonella, una di quelle ochette tutte truccate e finte santarelline, esempi di castità che si facevano fottere tutti i sabati sera nei bagni delle discoteche fuori dal paese, alzò la mano per fare una domanda al professore.

-Don Gianni, ma è vero che gli omosessuali vanno all’inferno e che Gesù li odia?- chiese, con la sua vocetta petulante e sottile, penetrante come lo stridore di un’unghia sulla lavagna. Enrico si voltò per guardarla in faccia e vide che lei, a sua volta, stava fissando Ludovica, più bianca di un lenzuolo e con gli occhi inchiodati alla lavagna, le iridi perfettamente immobili e le narici allargate. Le mani cominciarono a pizzicargli e notò che Marta, seduta in fondo alla classe, aveva abbassato la testa sul banco, forse per nascondere le lacrime.

-Sta’ zitta, troia- mormorò senza farsi sentire dal suo compagno di banco, digrignando i denti. Il professore alzò la testa dalla Bibbia che stava leggendo, aprendosi in un sorrisetto sottile e insinuatore.

-Gli omosessuali sono contro natura, Rinaldi, lo sai- replicò, spostando interessato lo sguardo a Ludovica che, stoica, fissava davanti a sé impassibile, come se la faccenda non la riguardasse più di tanto. Una vena pulsava visibile sulla sua fronte, netta come un graffio su una scultura levigata. Enrico sentì un singhiozzo partire dal fondo, ma non si girò per vedere a chi appartenesse, sentendo lo stomaco contrarsi come quando stava per esplodere.

-E quindi la Di Mauro andrà all’inferno?- sghignazzò Antonella, rivolgendosi alla sua compagna di banco, un’altra ragazzetta piena di soldi e vuota di umanità. Enrico di nuovo sentì le mani che gli prudevano, ma si intimò di stare calmo. Non poteva, non doveva cedere alla rabbia. Non di nuovo, non in classe davanti a tutti. Era già il figlio bastardo e stupido, non voleva passare anche per quello pazzo e squilibrato.  

-Il Signore è misericordioso, magari le darà il perdono se si decide a convertirsi e ad abbandonare la via della perdizione- concesse Don Gianni, con un gesto sbrigativo della mano e il tono leggero, come se fosse ovvio. I suoi occhietti scintillavano, come ogni volta che riusciva ad umiliare qualcuno, abbandonando il velo di remissività e finta benevolenza col quale si presentava a tutti, all’azione cattolica. Enrico vide gli occhi di Ludovica, inespressivi e ancora immobili come biglie di vetro. Marta aveva il viso nascosto dalle braccia, seduta da sola nel suo banchetto sperduto. La conosceva abbastanza per capire che stava per mettersi a piangere, le sue spalle esili non avrebbero resistito oltre alla forza dei singhiozzi.

- Posso uscire dall’aula?- domandò Ludovica, fredda e imperturbabile, alzando la mano. Di nuovo, suo fratello si spaventò per il pallore delle sue guance, innaturale, come una tela a cui sono stati portati via i colori.

-Qualcosa non va, Di Mauro?- chiese a sua volta il professore, fingendosi gentile.

-Si, sto per vomitare, se non le dispiace-

Ludovica, senza nemmeno aspettare un cenno d’assenso da parte del prete, uscì dall’aula sbattendo la porta. Marta sembrò volerla seguire, ma rimase incollata al suo posto, come fulminata, gli occhi nocciola quasi liquidi e in volto l’impotenza di un bambino che non può uscire di casa a giocare. Enrico si alzò, di scatto, sentendo il volto rosso per l’umiliazione e i nervi tesi. Ludovica stava male, lo sapeva. Era forte, quella ragazza, una roccia. Ma il fendente di quelle parole aveva colpito, come una spada affilata, la sua unica crepa, sgretolandola in tanti piccolo sassolini. A volte malediva Marta per quello che aveva fatto alla sorella. Aveva lasciato un segno nella anima di Ludovica, come pochi erano stati capaci di fare. Non credeva ci fosse nulla di particolarmente sbagliato, ma odiava vederla così; che a provocarlo fosse una ragazza era un dettaglio assolutamente irrilevante.

Guardò Don Gianni, senza nascondere il disgusto e l’odio che gli provocava la sua vista.

-Potrei denunciarlo, per diffamazione- parlò lentamente, sentendo le parole incespicare sulla lingua per la collera. Gli pulsava una vena sul collo rubizzo, i suoi occhi azzurri erano spalancati. La classe lo guardava in silenzio, come si guarda un povero diavolo.

-Potrei bocciarti per la condotta e addio esame di stato. Vuoi davvero questo, dopo tutti gli sforzi del consiglio per farti arrivare qui?-

Enrico sapeva che non ne aveva il potere e avrebbe tanto voluto fracassargli il naso con un dritto ben assestato, riempirlo di calci fino a spezzargli le costole e lasciarlo a terra agonizzante in una pozza di sangue e liquido cerebrale. Ma poi pensò a sua sorella, lì fuori a cercare di non cedere al pianto, abbandonata a se stessa, esattamente come lui. Solo più restia nell’ammetterlo. Ludovica si preoccupava sempre così tanto per lui, lo aiutava a studiare e si assicurava che non si mettesse in guai troppo grossi. Così, fece per tirargli un pugno, giusto per farlo spaventare, ma all’ultimo si scansò per uscire dall’aula, correndo via, fino a sentire le gambe cedere, per i corridoi vuoti e desolati. Don Gianni lo seguì, urlando di fermarsi, ma lui non desistette dalla fuga. Si nascose nel bagno dei maschi e lì, tremante e spossato, cominciò a piangere a dirotto. Per Ludovica, per sua madre, per se stesso. Per quel bastardo a cui assomigliava come una goccia d’acqua. Si vide riflesso in uno degli specchi scrostati posti sui lavandini: i capelli rossi, pettinati col gel, gli davano la sua stessa aria da seduttore. Per non parlare dei suoi occhi penetranti e pieni di rabbia, i suoi zigomi alti e la mascella squadrata, perennemente tesa in un ringhio frustrato, le spalle larghe e massicce come quelle di un nuotatore. 

-Sei un coglione, un fottuto coglione- urlò al se stesso dello specchio, fracassando con un calcio la porta di un cesso e abbandonandosi a terra con un ultima imprecazione.

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Capitolo 4
*** Giorgio ***


 

«Will some woman in this desert land
Make me feel like a real man?
Take this rock and roll refugee
Oh, baby set me free.
»

                                                                                    Pink Floyd, “Young Lust”

Il sole era già alto quando Giorgio percepì i primi formicolii alle gambe e alle braccia, aprendo prima un occhio, poi un altro e restando quasi accecato dall’intensità del sole di quella mattina, che filtrava da un finestrone in alto. Sentiva freddo alle braccia scoperte dalla t-shirt e aveva il vago sentore di essersi addormentato su qualcosa di duro e gelato. Quando sentì un persistente odore di birra stantia e di alcolici assortiti, mischiati al fumo di sigarette e di chissà cos’altro, si alzò di scatto, capitolando giù dallo sgabello sul quale si era addormentato. L’ “Hurly Burly” era deserto e il bancone era ancora ricoperto di liquidi appiccicosi e sottobicchieri inutilizzabili della sera prima, illuminato da un raggio di luce bianca che ne rendeva l’atmosfera ancora più fumosa. Dietro la fila di bottiglie di vodka e liquori colorati, Grisha contava in silenzio le banconote, riponendole mano a mano nella cassa tintinnante di spiccioli, con fare assorto. Quando si accorse che Giorgio si era svegliato, si voltò verso di lui con un sorriso sornione.

-Il dongiovanni s’è svegliato, finalmente- ammiccò con la testa, spostandosi poi un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio con un gesto stizzito.

-Checca- lo salutò il ragazzo, sbadigliando e stiracchiandosi fino a quasi perdere l’equilibrio per una seconda volta. Grisha rise divertito, sembrava che quella mattina fosse abbastanza di buon umore.

-Lo vuoi un caffè? Il tuo fegato starà ancora lottando contro il coma etilico- disse, sistemando un’ultima banconota e chiudendo la cassa con un colpo d’anca. Giorgio scosse la testa, pentendosene immediatamente. Gli sembrava di avere una boccia di pesci piena d’acqua al suo posto, sciabordante e pesante, che gli annacquava la vista e gli rendeva difficile persino muovere le gambe mezze atrofizzate.

-Ho dormito tutta la notte… qui?- domandò, rauco. Non ricordava assolutamente nulla della sera precedente, se non che era entrato nell’Hurly Burly per una birra con Enrico e che l’amico l’aveva lasciato a metà serata, ancora scosso per quello che era successo la mattina precedente a scuola. Poi aveva adocchiato una bella ragazza, con due tette davvero enormi, ci aveva provato, si erano ubriacati ed erano finiti nella sua station wagon a darci dentro. Evidentemente, constatò, l’aveva scaricato poco dopo aver finito con lui, altrimenti non si sarebbe trovato a dormire come un barbone sul bancone di quella checca mezza inacidita di Grisha.

-Si, e ringrazia che io non ti abbia cacciato fuori- rispose il barista slavo, col suo solito tono strascicato e dall’accento tagliente.

-Che è successo ieri sera?- chiese di nuovo Giorgio, tenendosi la testa che scoppiava fra le mani. Non riusciva proprio a ricordarsi com’è che fosse finito lì di nuovo. Dopo che era sceso (in realtà era stato buttato fuori, come al solito) dall’auto di quella tizia, ricordava di aver visto Ludovica che prendeva una birra scura, verso la mezzanotte. Si raddrizzò di scatto a quel pensiero, sentendo la schiena scricchiolare. Grisha lo guardò, con pena mista a comprensione. I suoi occhi grigi si assottigliarono, mentre passava uno straccio sul marmo scalfito e lercio, come se ciascun anima che si era seduta su quello sgabello avesse lasciato lì i suoi dolori e la sua storia, macchie indelebili che servivano da monito per altri viandanti.

-Ludovica era qui?- insistette il ragazzo, passandosi una mano fra i capelli ondulati e neri, che formavano una specie di cresta scura, rasata alla base delle orecchie. Cominciava a sentire le prime contrazioni dello stomaco, una nausea insistente pervadergli le narici, ma restò impassibile in attesa di una risposta.

-Te l’ho detto, no. Me lo hai chiesto per tutta la notte- borbottò a sguardo basso Grisha, continuando a pulire nervosamente. Giorgio sentì uno spasmo più forte degli altri, le viscere gli stavano letteralmente prendendo fuoco. Represse un conato di vomito, abbassando gli occhi sulle ginocchia.

-Allora dimmi cos’è successo-

-Ti sei ubriacato, hai fumato troppa erba. Hai cominciato ad urlare che non volevi tornare a casa, così ti ho proposto di restare qui. E tu mi hai preso alla lettera-

-Ieri… mi è sembrato di vedere Ludovica, proprio qui- mormorò confuso Giorgio, indicando proprio lo sgabello accanto al suo. Gli facevano male gli occhi, bruciavano anche più dello stomaco. La fiamma dei suoi capelli gli sembrò rifulgere nell’aria pesante, come la sera precedente.

-No, ti sbagli. C’eri solo tu- ribatté seccato il barista. Gli sembrò che gli occhi luminosi ed enigmatici di Ludovica lo stessero fissando per un secondo, poi di nuovo svanirono come un apparizione fulminea. Giorgio sbatté le palpebre, strofinandosi gli occhi rossi. Si alzò, senza dire una parola, passando accanto allo sgabello sul quale la sera prima aveva visto, ne era sicuro, Ludovica. Sorseggiava una birra scura, come piaceva a lei, da un boccale enorme. Se ne stava lì, come in attesa, con le gambe accavallate e lo sguardo perso, finalmente spoglio di qualsiasi malizia. Giorgio l’aveva osservata per un minuto buono, reggendosi a stento sulle gambe e con la testa ormai andata, e si era chiesto cosa mai potesse passare per la testa di quella ragazza. Cosa mai piegasse le sue labbra in una costante smorfia, cosa mai le rabbuiasse gli occhi, naturalmente predisposti a rifulgere come foglie sature di rugiada. Poi, non appena di era rigirato, non c’era più. Scomparsa, andata, lei e la sua birra. Raccolse la sua camicia, che giaceva sul pavimento unto, e indossandola con rabbia uscì senza nemmeno salutare Grisha.

-Aspetta, almeno prendi il caffè!- gli urlò quello, ma lui si era già chiuso con stizza la porta alle spalle, correndo in strada. Il sole pallido e opaco di una mattinata di fine inverno illuminava la squallida insegna dell’Hurly Burly e rifletteva i suoi raggi sui vetri della piccola stazione di fronte. Non c’era molta gente in giro a quell’ora, solo qualche anziano che lo guardava con disapprovo e studentelli delle medie che avevano bigiato la scuola. Tirò fuori dalla tasca il cellulare, componendo il numero di Enrico. Si sentiva male, aveva le ginocchia deboli e ora si pentiva di non aver accettato il caffè di Grisha. Chissà quando ne avrebbe preso un altro, chissà se sua madre gli aveva messo da parte la colazione come ogni mattina o, non vedendolo arrivare, aveva dato la sua parte a Marina. Chissà cosa aveva detto l’insegnante di disegno tecnico quando non l’aveva visto in classe, per l’ennesima volta, quella mattina. Probabilmente non era mancato a nessuno di loro.

-Bastardo, dove sei stato ieri sera, eh?- quasi urlò, non appena dall’altro capo del telefono sentì una voce rispondere. Peccato che la voce fosse troppo limpida e strascicata per essere quella di Enrico. Giorgio sgranò gli occhi e si maledì, quando capì che aveva risposto la sua gemella.

-Giorgio?- chiese Ludovica, dubbiosa.

“Coglione, coglione, coglione. Di’ qualcosa” si intimò mentalmente il ragazzo. Tossì un paio di volte, in imbarazzo.

-Ludo, scusa, pensavo fosse tuo fratello. Da quando rispondi al suo cellulare?- si sforzò di ridere, apparire disinvolto e ammiccante come sempre. La sua risata si trasformò piano in un gorgoglio gutturale, fino a spegnersi in un silenzio carico di tensione. La ragazza sospirò dall’altro capo della linea.

-Dov’è che sei ora?- il suo tono era rassegnato, come se fosse ben abituata alle scorrerie di Giorgio e ora cercasse una rapida soluzione a tutti i suoi casini. Era brava, Ludovica, sarebbe riuscita a risolvere tutto in un batter d’occhio perché sapeva come parlare alle persone. Sempre se era ben disposta, ovvio.   

-Io… fuori l’Hurly. Mi sono svegliato qui, ti giuro che non so che cosa ho fatto ieri sera- spiegò nervoso, cominciando a costeggiare il muretto della stazione, con le sue scarpe migliori che si sporcavano di fango e acqua piovana.

-Stai bene,vero?-

Ludovica di nuovo non sembrò per niente sorpresa. “Certo” si ostinò a pensare Giorgio “perché lei era qui ieri sera e deve avermi visto”.

Tuttavia sentire una preoccupazione sincera nella voce di Ludovica lo fece sentire ancora più male, ad ogni suo sospiro si sentiva come se stesse sprofondando nella melma disgustosa che era diventato, sempre di più, sempre più a fondo senza possibilità o forza di alzarsi. Cercò la forza di risponderle di si, ma non la trovò nemmeno nel suo orgoglio. Si limitò a grugnire, fermandosi di fronte all’entrata della stazione e poggiando la schiena contro il muro. Io sole batteva sulle sue ciglia lunghe e infastidiva i suoi occhi grigiastri venati lievemente di sfumature sanguigne.

-Non mi convinci- sentenziò Ludovica, con calma. La sua voce era sottile e morbidamente modulata come sempre, solo con una sfumatura più ansiosa, malinconica. Giorgio calciò violentemente via una lattina abbandonata, reprimendo un ringhio. Si intimò di nuovo di stare calmo, di apparire normale. Ludovica si sarebbe chiesta il perché, se avesse cominciato ad urlare aiuto come gli suggeriva il battito lento e irregolare del cuore.

-Ti ho detto che sto bene-

La sua voce era priva di qualsiasi tono, piatta come l’elettrocardiogramma di un cuore ormai morto. Il suo cuore, pensava, lo era.

-Voglio solo aiutarti, permettimi di aiutarti- continuò ostinata Ludovica e, dal rumore di passi sul pavimento, Giorgio capì che anche lei stava camminando avanti e indietro. Ingoiò un groppo particolarmente pesante alla gola, respirando a fatica. Ludovica sembrava fin troppo consapevole della situazione. Che sapesse cosa era successo la sera precedente?

“Non c’è niente che puoi fare, ormai sono andato, fottuto per colpa tua”avrebbe voluto replicare con voce graffiante, violenta. Ma non lo fece, lei non se lo meritava. Chiuse invece la chiamata senza una parola, con un gesto secco e deciso. Pronunciò un paio di improperi e una bestemmia, lasciandosi cadere a terra contro il muro sporco di graffiti. Niente amore per quelli come lui, solo notti all’insegna dell’effimero piacere, dalle spire fredde e solitarie come le steppe aride che si estendevano al posto delle sue emozioni, solo il grigiore dell’alba che lo trascinava in un altro giorno esattamente uguale al precedente. Quelle albe cariche di inerzia, senso di colpa, nausea e incertezza per l’avvenire. Mancavano pochi mesi alla fine del liceo e cosa fare dopo ci pensava sempre più insistentemente. Ludovica sarebbe andata a studiare lontano, era una ragazza brillante almeno quanto Marta, la sua migliore amica. Avrebbe dovuto chiamarla, ora che ci pensava, ma la sua mente era focalizzata su una sola cosa: la sfumatura silvestre degli occhi della De Mauro. Frequentando il liceo artistico, non aveva mai avuto il piacere di osservarla durante una lezione di chimica o di matematica. Eppure avrebbe scommesso qualunque cosa che, in quei momenti, Ludovica desse il meglio di sé, rapita da quelle formule che per lui non avevano alcun significato. Qualche volta gli era capitato di assistere alle prove degli Elfs, trovandosi a bighellonare a casa di Enrico, ed era sicuro non si sarebbe mai dimenticato del modo frenetico con cui Ludovica studiava fisica fra una pausa sigaretta e l’altra. A pensarci gli veniva da sorridere. Avrebbe voluto chiederle di spiegargli la chimica che avrebbe dovuto portare all’esame (concetti basilari come la glicolisi gli erano totalmente estranei), sapeva che Ludo sarebbe riuscita a farla capire anche ad uno zuccone come lui. Marta, che nelle materie scientifiche era un po’ più deboluccia, rinunciava a priori di dargli una mano, giustificandosi col fatto che lei stessa a malapena capiva. Tutto questo però, il fatto che probabilmente anche la sua migliore amica se ne sarebbe andata alla volta di un’università prestigiosa, gli aumentò il voltastomaco e la testa tornò a vorticare più forte, come per ripicca.

-Porco mondo- imprecò, sistemandosi meglio sui gradini della stazione. Cosa avrebbe fatto? Enrico sarebbe riuscito a cavarsela, in fondo aveva la sufficienza in quasi tutte le materie e, nonostante il disturbo di apprendimento, qualche volta dava segno di essere particolarmente capace nelle materie scientifiche, come la sorella. Avrebbe potuto prendersi una laurea triennale e diventare ingegnere, chissà. Ma lui? Un tipo come lui cosa avrebbe mai potuto aspettarsi dalla vita? Avrebbe potuto prendere il diploma al geometra, se si fosse impegnato, sarebbe potuto andare a lavorare per qualche professionista come contabile. Eppure davanti a lui c’era il vuoto più totale, come sempre. Alla catasta di pensieri opprimenti, si aggiunse immediatamente anche un ultimo ricordo, che la sera prima era riuscito a reprimere a stento con tutte quelle sorsate di birra. Il giorno prima, dopo che ad Enrico era successo quell’inconveniente col prof di religione, quando era passato di fronte al liceo classico nel suo consueto giro in macchina dopo le lezioni, aveva scorto Marta a piangere in un angolo del cavedio, la sua piccola figura stagliata contro la marea di studenti che usciva dalle porte spalancate. Era sceso dalla macchina, si era avvicinato, ma aveva incrociato prima Enrico e quello, rosso di rabbia e coi bicipiti ancora contratti, gli aveva raccontato l’accaduto. Sentì il cuore spezzarsi, per la prima volta forse nella sua miserabile vita, ed un suono simile ai vetri delle finestre che infrangeva per divertimento da ragazzino gli riempì le orecchie e l’anima. Sapeva perché Marta stava piangendo e questo non fece altro che peggiorare il casino di emozioni che aveva in testa. Marta era innamorata di Ludovica e lo percepiva, anche se né lei aveva mai fatto accenno ad una eventuale omosessualità né ad una relazione con l’amica. Sentì il dolore della sua migliore amica iniettato direttamente nelle vene e ne fu partecipe, per un po’. Ma si sentì al tempo stesso meschino e subdolo, perché voleva Ludovica tutta per se e questo Marta non l’aveva mai sospettato, presa com’era dal suo mondo e dai suoi successi. Imprecare sembrò l’unico modo per risolvere la situazione.

A tardo pomeriggio, dopo aver bighellonato per il paese senza nessuna intenzione di avere contatti umani, cupo e abbattuto com’era, ed essere tornato a casa a rassicurare sua madre del fatto che purtroppo fosse ancora vivo, prese l’auto per andare da Enrico. O meglio, da Ludovica. Nonostante si sentisse l’essere più strisciante della terra nel fare questo a Marta, sentiva di dover liberarsi di quel peso dallo stomaco con lei. Guidò come un pazzo sotto sedativo fino alla piccola casa all’angolo dell’ultima strada dopo il Municipio, alzò il volume della radio quando sentì che si trattava di “True love waits” dei Radiohead e si lasciò scappare un altro “porco mondo”, perché quella canzone era così perfetta per come si sentiva, per la pioggia che aveva preso a cadere a gocce lente sul parabrezza e per le lacrime che aveva visto sul volto serico della sua migliore amica. Si guardò nello specchietto della Volvo e appurò che i suoi capelli erano perfettamente pettinati come sempre e i suoi occhi, nonostante fossero lievemente cerchiati di nero, non sembravano così malaticci come si aspettava. Non voleva farle pietà, Giorgio. Voleva solo sapere se la sera prima quella di Ludovica fosse stata solo un’allucinazione. E magari stare con lei per un po’. Ancora non sapeva in che limite poteva relazionarsi con lei, perché lo spettro di Marta continuava a tormentargli la coscienza. Decise di lasciare in standby tutto, dirigendosi verso il portoncino e suonando al campanello. Le mani presero ad aggrovigliarsi fra di loro come dotate di volontà propria. Ludovica venne ad aprire dopo pochi secondi, con una matita sull’orecchio e i capelli rossi sparsi sulle spalle, selvaggia. I suoi occhi avevano assunto la sfumatura fangosa delle pozzanghere che cominciavano a riempire le buche delle strade bitorzolute. Non sembrò particolarmente meravigliata di vederlo, come se se lo aspettasse.

-Giorgio, che ci fai qui? Enrico non c’è-

-Si, lo so. E’ agli allenamenti di calcio- ammise vergognosamente, fissando le tonalità brulle del tappetino all’ingresso.

-Cercavi me allora?-

-Esattamente- ammise.

Ludovica gli fece cenno di entrare, spostandosi di lato. La pioggia gli aveva reso i capelli ancora più neri e le mani tremanti per il freddo. Aveva le braccia scoperte da una t-shirt larga, grunge, e le sue consunte converse bianche erano diventate verdognole. La casa era silenziosa e regnava una leggera penombra, probabilmente la signora De Mauro era a lavoro in ospedale. Si sentì impacciato mentre, invitato da un gesto sciolto di Ludovica, si sedette sul divano, dove erano sparsi fogli con formule e libri di algebra.

-Stavi studiando?- chiese, per paura di averla disturbata. Non si era mai fatto così tante paranoie con una donna, così provò a sciogliersi e affondò meglio nel divano.

-Oh, si, ma ho quasi finito- mormorò mentre metteva tutto via, sul tavolino da tè. Giorgio annuì, non sapendo cosa dire. Così fu Ludovica a chiederglielo.

-Ieri sera mi è successa una cosa strana- esordì, giocherellando con i bordi sfilacciati della maglietta. I suoi occhi sempre così seducenti sembravano essersi ridotti a due fessure spente e apatiche.

-Dimmi tutto-

-Era mezzanotte, credo. Ti ho vista all’Hurly Burly. Stamattina mi sono risvegliato sul bancone, Grisha dice che ieri sera ho bevuto troppo e ho fumato più del solito. Ma che ieri sera lì non c’eri-

Ludovica prese a fissare il pavimento, improvvisamente pensierosa. Giorgio trovò strano che non avesse ancora imprecato o insultato o fatto la stizzosa come al solito, c’era qualcosa che non andava.

-Ero davvero lì a bere birra- confessò, con in volto l’espressione più colpevole che le avesse mai visto. Giorgio chiese spiegazioni, balbettando. Il cuore aveva preso a battergli più forte, senza motivo. La mente partì immediatamente con un flusso di pensieri che nemmeno lui riuscì a frenare. Gli venne voglia di baciarla, improvvisamente. Ludovica aveva gli occhi acquosi, l’astio li rendeva sempre più lucenti e determinati ma ora sembravano due specchi che riflettevano la sua immagine squallida e degradata. Giorgio abbassò subito lo sguardo, non riuscendo a sostenere quel confronto. Tornò a farsi schifo, all’improvviso.

-Colpa della vita- rispose, a bassa voce, la rossa.

-C’è qualcosa che posso fare?- chiese, col cuore pieno di una segreta speranza di poterla aiutare, sostenere, cancellarle dal volto quell’orribile broncio mesto e sostituirlo con un enorme sorriso, luminoso e seducente come quelli che di solito rivolgeva a tutti.

-Di’ a Marta di tenere duro- disse dopo qualche minuto, poi si passò una mano stanca sugli occhi e con una scusa si allontanò, per tornare poi con gli occhi più lucidi e in mano due bicchieri di gassosa. Giorgio ne prese uno, ma non riuscì a mandarne giù nemmeno un sorso. Allora aveva capito bene, ci aveva visto giusto. E all’improvviso l’essere venuto lì gli sembrò l’idea più terribile della sua vita, si sentì un traditore, un verme, lo schifoso dongiovanni che era. Cosa aveva pensato di fare? Di abbordare Ludovica come una delle sue conquiste del weekend, nella speranza che si fosse sbagliato riguardo i suoi sentimenti? Come aveva potuto tirare un così brutto tiro a Marta? Eppure le labbra di Ludovica erano così rosse, rosse e succose come ciliegie e lui aveva così sete di quel prelibato succo. Si ritrasse, quando quella cercò di guardarlo negli occhi. Ludovica lo fissò stranita, sorseggiando la sua gassosa. Aveva le guance un po’ rosse, da quando aveva nominato Marta. Una pugnalata al cuore colpì allora Giorgio, spappolandogli tutto, riducendolo alla poltiglia di uomo che si sentiva, ridotto a schiavo del suo corpo, non capace di rispettare nemmeno l’unica persona che l’aveva mai sostenuto nella vita. E dopo quella altre mille e mille ancora, finché il suo cuore non gli sembrò nient’altro che carne pulsante veleno, nera e corrotta come la sua anima, sprofondata definitivamente nei suoi inferi. Lasciò il bicchiere pieno sul tavolino, accanto agli appunti di Ludovica così ben scritti, poi si diresse alla porta, salutandola sommessamente. Si voltò un ultima volta sotto la pioggia e, quando fu sicuro che il frastuono della strada coprisse sufficientemente la sua voce, parlò, fissando la rossa che se ne lontano stava sulla soglia.

-Comunque ti amo-

Ma quello lo sentì solo la pioggia.

 

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Capitolo 5
*** - Marta ***


“I have never known

The likes of this, I've been alone

And I have missed things and kept out of sight

But other girls were never quite like this”

 

The Beatles, “I’ve just seen a face”

 

 

 

La stanza notoriamente disordinatissima di Ludovica quel pomeriggio appariva stranamente immobile, come se la luce fioca del sole che filtrava dalle imposte cristallizzasse ogni cosa al suo posto, rendendo l’atmosfera pesante e silenziosa. Le coperte colorate giacevano sfatte sul materasso e, su di esse, distese spudoratamente con le gambe attorcigliate fra di loro, c’erano Ludovica e Marta, a guardarsi di sottecchi, coi capelli lunghi a mescolarsi in un groviglio di sospiri e ansiti. La più piccola, schiacciata com’era dal corpo caldo dell’altra, respirava a fatica. Marta le diede un colpetto stizzito sulla spalla e cercò di spostarla, ridacchiando. Cominciava a fare caldo, marzo aveva spazzato via tutto il freddo con le sue pioggerelle miti e tiepide e ora Aprile le deliziava con suo profumo di fiori appena sbocciati e di terra matura per i frutti. Ludovica, col capo poggiato sul suo petto, sembrava fissare un punto indefinito del soffitto, dalla sua bocca spiravano dense nuvolette di fiato, ancora intervallato da sospiri sommessi. Marta cominciò a scorrere con le dita fra i suoi capelli selvaggi e rossi, sorridendo senza farsi vedere e facendola sistemare meglio sul suo petto, coperto da un lieve velo di sudore. Quella volta, Ludovica le aveva stretto le braccia attorno al corpo durante tutto l’amplesso, aggrappandosi come se finalmente anche lei, sempre impassibile e lontana, avesse avuto paura di perdersi in quel vortice. Il calore, quasi affettuoso, che aveva sentito Marta a quel contatto le aveva fatto girare la testa, molto di più di quelli che Ludovica chiamava i suoi trucchetti.

 Fece per parlare, ma si accorse che ancora la voce le mancava e preferì rimanere anche lei a fissare il soffitto, come se in quel modo potesse raggiungere Ludovica nelle brughiere sconfinate della sua fantasia, dove spesso andava a nascondersi. Ormai la conosceva abbastanza da sapere che, poiché era cresciuta in una situazione dove esprimersi non le arrecava altro che danni o perché in fondo era timida di indole, quando provava una qualsiasi emozione tendeva ad estraniarsi. Quando cantava, il suo sguardo era sempre rivolto verso l’alto, mai verso il pubblico, come se avesse potuto perdere un briciolo di quella magia se l’avesse condivisa con qualcuno. Il cuore di Marta sembrò accelerare, per quanto fosse possibile, il battito a quel pensiero. Scosse la testa dopo poco, però, ricordandosi che Ludovica era irraggiungibile, ermetica com’era, e che di certo il suo cuore non stava battendo forte quanto il suo. Eppure… erano colpi ritmici e affannati quelli che sentiva contro il proprio seno? Non riusciva a capire quali fossero i suoi e quali quelli di Ludovica. Chiuse di poco gli occhi, nella penombra, cullando l’altra senza dire una parola. Spesso si era fatta domande circa quel loro rapporto ambiguo, che spesso era oggetto di chiacchiere dei loro amici, ma ogni volta aveva liquidato il tutto senza tanta preoccupazione. Ora però, premuta com’era contro di lei e col respiro mozzo in gola, tutto le sembrò più reale e crudo. Sono innamorata, pensò. Ingoiò a vuoto, passando le dita su quel collo niveo. No, non era possibile. Provò di nuovo a parlare, ma sentì gli occhi pungerle.

-Stai piangendo?-

La voce di Ludovica era un sussurro lieve come il frusciare del vento primaverile. Quando le lasciò un bacio sulla pelle esposta, a Marta sembrò che il petto stesse scoppiando definitivamente.

-No, che dici, è il polline- borbottò, passandosi una mano sugli occhi e imprecando fra sé per la scusa banale. La rossa le rivolse un’occhiataccia e al secondo bacio, Marta abbandonò ogni speranza di trattenersi. Due lacrime le solcavano le guance e le sue mani tremavano in modo vistoso. Ludovica le schioccò un terzo bacio sul collo, poi si alzò, preoccupata come non l’aveva mai vista.

-Dimmi che ti succede-

Quando deglutì, le sembrò di star ingoiando spine tanto la sua gola era stretta. Si rannicchiò contro la spalliera, tirandosi su le lenzuola e nascondendo il viso dietro la coltre di capelli scuri. Le parole di Ludovica le arrivarono ovattate, come se fosse stata esiliata in una terra di gelo e solitudine, lontana dalle sue braccia accoglienti e sicure.

-Io non lo so- mormorò, sinceramente, provando a ricacciare indietro altre lacrime. Ludovica si era alzata, infilandosi una maglietta larga almeno il doppio di lei, per poi porgerle i suoi vestiti. Marta li lasciò cadere ai piedi del letto, ora piangendo forte.

-Ti prego, non rivestirti- singhiozzò, sentendo una strana sensazione di paura pervaderla tutta. La rossa allora, leggermente sconcertata, lasciò cadere anche la sua t-shirt accanto agli abiti sul pavimento, infilandosi sotto le lenzuola e cingendole la vita.

-E’ per quello che dicono in classe, vero? Per colpa di quelle piccole bastarde- mormorò, all’improvviso piena di disgusto, serrando i pugni con forza dietro la schiena di Marta. Quella continuò a singhiozzare, non osando nemmeno poggiare la testa sulla sua spalla  per paura di irritarla, tanto ora i suoi occhi parevano accesi di un fuoco inestinguibile. Si accorse, però, che lasciarsi andare su di lei era l’unica cosa che l’avrebbe placata. Lasciò cadere altre lacrime, rigida come un tocco, e quando si decise a parlare, la sua voce era roca e bassa.

-E’ il magone dello scrittore- si sforzò di ridere, citando una frequente presa in giro di Ludovica. Ogni qualvolta, infatti, si isolava o diventava distante senza un valido motivo, Ludovica soleva affermare che quello altro non era che il magone dello scrittore: un sentimento di inspiegabile malinconia e senso di vertigine, causato dalle più piccole cose e ingigantito dall’animo ipersensibile di Marta. La rossa non rise, rimase a fissarla interdetta, con le guance colorite per il precedente furore.

-No, non è vero. Lo so che non è vero- scosse la testa, contrariata. Poi tornò a fissare il soffitto, come se l’inquietudine di Marta l’avesse colpita sul debole. Marta notò che i suoi occhi erano vacui e leggermente socchiusi, come se stesse cercando di controllarsi. Sapeva che Ludovica non mostrava mai le sue ferite, preferiva stare in silenzio e aspettare che la sua mente si fosse schiarita. Pensò che forse era questo quello che doveva cercare di fare anche lei. Perché stava piangendo? Dopotutto aveva ottenuto il suo pomeriggio di sesso, come sempre. Cosa si aspettava di più? Sesso. Le parole delle sue compagne di classe l’avevano ferita a morte, doveva ammetterlo, ma c’era da aspettarselo. Uscita da quella casa, avrebbe dimenticato tutto. Sarebbe andata avanti da sola, lo sapeva. Eppure il solo pensiero di tornare nella sua, di casa, la terrorizzava. Sono innamorata, pensò di nuovo e si sforzò di non piangere ancora.

Dopo qualche minuto di silenzio, sentì Ludovica toccarle il braccio, gentilmente. Quando si girò, temette di rimanere senza fiato. Due lacrime brillavano sul suo volto rigido per la rabbia, il verde dei suoi occhi era spento,arrendevole come la chioma di un albero abbattuto. Marta si azzardò a toccarle una guancia, sentendo una sensazione di vuoto nello stomaco. Da lì, baciarla sulle labbra fu del tutto naturale. Non si erano mai baciate, lei e Ludovica, a discapito di tutto il tempo passato a rotolarsi fra le lenzuola. Chissà perché, ma entrambe avevano giudicato i baci fin troppo ambigui anche per loro. Infondo, il loro era un puro e semplice passatempo scoperto per curiosità alla fine di  un’estate noiosa e priva di vita. Marta ancora ricordava la sensazione di vuoto allo stomaco quando aveva sentito le sue dita su di sé per la prima volta, l’impressione di essere completamente vulnerabile e l’ondata di elettricità che la pervadeva ancora a questo pensiero. Ma niente era paragonabile a quello che stava provando ora, poggiata alla testiera del letto, con la mano destra e bloccare la schiena di Ludovica, in modo delicato eppure possessivo, e la sinistra aggrappata spasmodicamente ai suoi capelli rossi. Sfiorò le sue labbra superficialmente ancora una volta, sentendo il gusto agrodolce delle lacrime sulla lingua e sospirando pesantemente. Marta non aveva mai creduto nell’amore, fin da piccola aveva sentito il bisogno di sentirsi protetta, ma nessuno l’aveva mai difesa a spada tratta, nessun principe azzurro aveva mai infilzato con la spada i mostri cattivi che le albergavano in testa. I suoi genitori, col loro rapporto asettico e inerte, la gettavano ancora di più nello sconforto. Eppure ora si sentiva calda, protetta, intraprendente, dimentica di tutte le sofferenze che le avevano provocato.

Erano passati solo tre secondi quando si ritirò frettolosamente, chiudendo gli occhi per paura di uno sguardo raggelante da parte di Ludovica. Sapeva di essere arrossita e non poco, ma pregò che l’altra non se ne fosse accorta. E invece…

-Sei arrossita- sussurrò Ludovica, con un sorrisino divertito sulle labbra. Marta aprì scocciata gli occhi, alzando le mani in segno di resa. Sorrise anche lei nel vedere il volto raggiante e palesemente sollevato della rossa. Si chiese da quanto aspettasse quel bacio, moriva dalla voglia di chiederglielo. Così lo fece.

-Da quando…?-

-Non lo so, ma è stato… carino- ammise sottovoce Ludovica, piegando la testa di lato e strofinandosi il naso come un gatto.

Marta scoppiò a ridere, mentre le lacrime le si seccavano sulle guance. Rise così tanto da finire con la testa all’indietro, con la mano destra ancora a ghermire morbidamente la schiena dell’altra. Quella le rivolse un sorriso sghembo, quasi dubbioso. Come a dire, ora che si fa? Non voleva chiederselo, non ora. Era tutto perfetto: il sole bruciava debolmente le strade deserte, il primo lembo di caldo soffocava tutto con l’arrivo della nuova stagione, i fiori sbocciavano e così sembrava star facendo anche Marta. Si sentiva come un bocciolo toccato dalla prima brezza primaverile. Come se fosse appena arrivata sulla cima di un’altura e ora si stesse godendo il paesaggio paradisiaco. La pianura diafana del petto di Ludovica, lo strapiombo del suo collo teso, coperto da un ruscelletto di sudore, la foresta dei suoi occhi,  l’odore di muschio dei suoi capelli color rame. Le sembrava di guardare tutto con occhi nuovi. Da qualche parte, aveva letto che l’amore era come una scalata: una volta arrivati in cima, si guardava tutto il resto con un’ottica differente. Scendere, però, sarebbe stato doloroso. Marta passò una mano fra i suoi capelli, mentre Ludovica si avvicinava di nuovo per baciarla, e pensò che non aveva la ben che minima intenzione di scendere di lì. Il secondo bacio ebbe il sapore della vittoria, l’eccitazione delle cose nuove, il brivido del conosciuto e del ritrovato. Ludovica, fissata com’era con la filosofia, l’avrebbe di certo paragonato alla ridiscesa platonica dell’anima alla sua vera casa, il mondo delle idee. Qualcosa nel suo sguardo, quando si staccarono, ne diede la conferma a Marta.

-Ora, insomma, sul serio… che facciamo?- chiese, trattenendo a stento un sorriso. Ludovica gliene rivolse uno identico, solo saturo della sua sottile malizia. Le passò un dito sulle scapole, lasciva.

-Potremmo prendere la mia auto e raggiungere i ragazzi al cinema…- cominciò, mordendosi un labbro. Marta fu tentata di scoppiarle a ridere in faccia, per l’irragionevolezza della proposta. In effetti, avevano promesso a Giorgio e Federico che sarebbero andate con loro a vedere Gettysburg, visto che Walter aveva la fissa per la storia americana e la Guerra di Secessione, ma la spronò a continuare, perché proprio non aveva voglia di alzarsi di lì.

-…oppure, ora che abbiamo scoperto il magnifico potere delle labbra, restare qui a… coccolarci… un altro po’. Perché dubito che in queste condizioni riusciremmo a trovare la strada per il cinema- sogghignò Ludovica, abbandonando improvvisamente l’aria provocante per una risata alta e liberatoria, come quella di una bambina. Marta rise con lei, per poi tapparle la bocca con un bacio e trascinarla di nuovo su di sé.

                                                                                                                                                  ***

Qualche ora e qualche bacio di troppo dopo, entrambe erano sedute nella sala semideserta del cinema di paese, una vecchia struttura degli anni settanta con ancora vecchie locandine di film appese all’ingresso e sempre la stessa anziana commessa al bancone dei popcorn. Quando Giorgio le aveva chiesto di dividerli con lei, Marta era stata subito agguantata da Ludovica.

-Li divide con me- aveva sentenziato la rossa, aggrottando le sottili sopracciglia in un’espressione che voleva sembrare minacciosa per spaventarlo.

-Ohoh, la gattina qui presente sta sfoderando gli artigli. Non si può nemmeno dividere i popcorn con la propria migliore amica, la gelosia è ad uno stadio avanzato- scherzò, prendendo posto vicino a Walter, che, estatico, fissava lo schermo ancora nero come se lo spettacolo fosse già cominciato.

-Così puoi stare vicino a me e fare questo- le sussurrò la rossa, una volta che le luci si furono abbassate, prendendole una mano e accarezzandogliela, nascondendosi nel maxi contenitore dei popcorn. Marta arrossì sulle orecchie, come non aveva mai fatto nemmeno per le situazioni più intime.

-E’ carino … molto carino- esalò,riprendendo le sue parole e  lasciandosi andare sulla poltrona, osservando di tanto in tanto il profilo di Ludovica, che seguiva con interesse il film. Decisamente nessuno, ragazzo o ragazza che fosse, l’aveva mai fatta sentire così.

Una volta che fu finito il film, che Marta giudicò troppo noioso per i suoi gusti (ma fu ben lungi dal lamentarsi, visto come le dita di Ludovica si stringevano attorno alle sue ad ogni scena di guerra), Federico ebbe la magnifica idea di andare tutti a bere qualcosa.

-Sono d’accordo, ma non da Grisha … - borbottò Giorgio, lasciandosi scappare una risatina. Ludovica annuì senza farsi vedere dagli altri e quando Enrico chiese il motivo, entrambi alzarono le spalle, complici. Alla fine, dopo varie discussioni con annesse azzuffate fra Federico e Walter, che fingeva di sparargli in stile cowboy, ricevettero la fortunata chiamata di Tamara, cugina di Dede, che aveva trasformato il suo garage in una sorta di stanza delle necessità, per invitarli a farsi un giro da lei. Marta, Giorgio e Ludovica si avviarono verso l’auto di quest’ultima, mentre Walter si dirigeva a casa sua per cambiarsi d’abito, da buon vanesio qual’era. Tutti sospettavano di una sua ipotetica cotta per Tamara e questa ne fu la conferma.

-Che ha fatto sta volta quello stupido del mio fratellone acquisito?- domandò curiosa Marta, una volta che furono in macchina. Si affacciò dal finestrino e gettò un’occhiata sul retro della Volkswagen, assicurandosi che Giorgio non le stesse ascoltando. A quanto sembrava, si era placidamente addormentato.

-Un’altra delle sue scorribande, tranquilla- mormorò Ludovica, girando nella stradina deserta dove si trovava il garage di Tamara. A Marta la strana ombra che assunsero i suoi occhi verdi non piacque. La strada era illuminata da radi e ordinati lampioni, nel quartiere più in della città. Le villette a schiera sembravano stagliarsi placide ai lati dell’auto, silenziose e illuminate come case di piccoli elfi. Nessun rumore inopportuno, solo il frinire dei grilli che riposavano sugli oleandri, nelle folte siepi ai lati dei cancelli.

 -Ne sei sicura? E’ un po’ di tempo che non mi confida nulla… non so che gli succede- rivelò, preoccupata. Ludovica la fissò, spegnendo il motore e le strinse una mano, comunicando mutamente di stare tranquilla. Il modo in cui le accarezzò il dorso della mano fece sentire Marta la persona più al sicuro del mondo. Ingoiò a vuoto, annuendo. Ludovica, dannatamente empatica, dovette intuire che ne aveva bisogno, perché fece per baciarla, ma si bloccò sul posto quando sentì una voce dal sedile posteriore.

-Interrompo forse qualcosa?-  sbadigliò Giorgio, passandosi una mano fra i capelli ben pettinati. Le luci del rifugio e gli schiamazzi dello stereo erano il chiaro segno che la festa era già cominciata. Marta si ritrasse in fretta, andando quasi a sbattere con la testa sul finestrino opposto. Ludovica, dal canto suo, non si scompose più di tanto, facendo per scendere dalla macchina.

-Vi aspetto dentro- avvisò, avviandosi verso il garage, mentre Tamara le veniva in contro con una bottiglia di birra già stappata in mano. Marta la salutò da lontano, sorridente, capendo che Ludovica li aveva voluti lasciare soli per parlare. Si schiarì la gola, riprendendosi dall’imbarazzo.

-Ludovica mi ha detto che avete parlato- esordì, incerta. Giorgio fissava senza interesse la tappezzeria della vecchia auto, respirando piano. Quando alzò la testa, i suoi occhi parvero quasi dorati alla luce del lampione.

-Si, abbiamo parlato. Tienitela stretta. Ludo, intendo- le disse, rivolgendole un sorriso malinconico. Marta aggrottò la fronte, non senza arrossire.

-In che senso? Non siete mai stati nemmeno tanto amici- si agitò, volle sviare il discorso. E se…? No, non poteva essere. Sperò di aver capito male.

Giorgio le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla.

-E’ quella giusta per te, fragolina- affermò dandole un buffetto sulla guancia, poi fece per aprire la portiera posteriore. Marta lo fermò,in cerca di spiegazioni.

-Cosa… che… intendi dire che… no, noi non stiamo assieme!- farfugliò confusamente, trattenendolo per la maglietta.

- Io me la caverò, non devi preoccuparti di me. Ho visto come ti teneva la mano al cinema, non te la porterò via. Ti voglio troppo bene e ne voglio anche a lei- le sorrise, ancora in quel modo a metà fra l’affettuoso e il triste, poi scese in strada e fu agguantato da Walter, che proponeva di fare una partita di calcetto contro quelli della sua classe, il giorno dopo. Le ci vollero cinque minuti buoni per riprendersi. Giorgio innamorato di Ludovica. Non sapeva se essere gelosa o dispiaciuta per lui. Scese dalla macchina ed entrò nell’ambiente accogliente del garage: due vecchie poltrone, appositamente rivestite da lenzuola colorate a fiori gialli e verdi, erano occupate da Dede e Tamara, una ragazza magra e biondina come lui che sembrava uscita da un film sugli hippie. Le pareti color crema erano ricoperte di poster dai colori psichedelici e dallo stereo sul tavolino proveniva un assolo di chitarra che assomigliava vagamente a quello di “I want you” dei Beatles.

-Dov’è Ludo?- chiese, atona. Si sentiva strana, come se stesse per piangere di nuovo. Si vergognò a quel pensiero, non voleva risultare una sentimentale senza voglia di divertirsi. Ma aveva bisogno di Ludovica. Tamara alzò la testa da un libro, Les fleurs du Mal di Baudelaire, e smise momentaneamente di bere da un bicchiere pieno di liquido dorato, probabilmente whisky.

-Credo sia salita sul tetto- perfino la sua voce sembrava aver raggiunto il nirvana. Le fece segno di avvicinarsi, mollemente, gettando la testa all’indietro. Forse aveva fumato qualcosa. La guardò attentamente, reclinando la testa.

-Ludovica ti ama- sussurrò, guardandola con quegli occhi liquidi tanto erano azzurri. Tamara a volte la inquietava: sembrava sempre così distratta, sulle sue, persa in un mondo come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, eppure sapeva osservare molto meglio di qualunque altro. Marta provò a respirare regolarmente e a parlare.

-Hai fumato troppo- gracchiò, con la voce che parve uscire fuori come un sibilo incerto. La biondina scosse la testa, ridendo di gusto.

-Avrò anche fumato, ma quando è entrata qui aveva il tuo stesso volto. Perso, in attesa. Cercava te anche se sapeva che eri in macchina. Dammi retta, amica- affermò, tornando poi a leggere, tranquilla come se quella conversazione non fosse mai avvenuta. Federico, dietro di lei, le mimò una frase, è tutta matta. Marta non ebbe la forza di ridere e alzò le spalle, salendo una scala laterale che portava al tetto del garage, rivestito rudemente di cemento come quando i lavori non sono stati ancora ultimati, abbandonato e in netto contrasto con la facciata ben dipinta e armonica della villetta. Trovò Ludovica seduta a gambe incrociate nel buio, che guardava le stelle in silenzio. Si avvicinò piano, per non spaventarla.

-Marta- si sentì chiamare, dopo che ebbe fatto nemmeno un passo. Marta restò in silenzio, sedendosi vicino a lei.

-A che pensi?- domandò, guardando anche lei il punto del cielo nero che stava fissando la rossa. Ludovica rimase in silenzio per un po’, guardandola di sottecchi.

-So perché hai pianto oggi-

Il suo tono era deciso, eppure quasi tremava come se avesse freddo. Marta pensò bene di accarezzarle il braccio, anche se ancora la imbarazzava quel riflesso naturale che la portava a cercare il contatto fisico con lei.

-Hai pianto perché non credevi che… questa cosa fosse possibile. Nemmeno io. Non credevo, dopo tutto quello che ho passato, che sarei riuscita a fidarmi tanto. A fidarmi tanto e lasciarmi andare. La vita mi ha insegnato che l’amore è un casino, che fa male e talvolta ti lascia sul ciglio di una strada incinta di due gemelli. Che io posso farne a meno, chiusa nel mio mondo. Non so se questo è l’amore, perché io non lo conosco. Ma è… bellissimo- disse a fatica, abbassando la testa come se si vergognasse. Marta le prese il mento fra le dita, con gli occhi che quasi le bruciavano.

-Io non so cos’è l’amore o l’affetto. Ho mio padre, a differenza tua, è vero. Ma la mia infanzia è stata terribile, tutto a casa è stato terribile. Solitudine, freddezza, porte sbattute, urla. Sai quand’è che ho cominciato a credere di poter davvero avere una vita diversa? Di lasciarmi alle spalle tutto questo? Quella volta in cui mi hai trovata in classe, a piangere e strappare tutto quello che avevo scritto. Mi dicesti…-

-… che tutto il male che ti è accaduto si tramuta in arte e quell’arte è il tuo riscatto- completò per lei Ludovica. Tornarono a guardare il cielo in silenzio, mentre dal pian terreno si sentivano i rumori di risate e bottiglie di vetro accostate. Marta ci rifletté un attimo prima di dirlo, ma poi si fece forza.

-Questo è il nostro riscatto- affermò e quella consapevolezza diede forza ad entrambe.

                                                                                                               

 

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Capitolo 6
*** -Ludovica ***


Time and again I've longed for adventure,
Something to make my heart beat the faster.
What did I long for? I never really knew.
Finding your love I've found my adventure,
Touching your hand, my heart beats the faster,
All that I want in all of this world is you
.”

Ella Fitzgerald, “All things you are”

Schizzò fuori dal letto come una scheggia, gettando di lato le coperte aggrovigliate disordinatamente e camminando scalza verso la cucina, grattandosi la fronte, lì dove una zanzara l’aveva punta. Trotterellò lungo il corridoio canticchiando una vecchia canzone di Ella Fitzgerald che le era venuta in mente la sera prima.

-Enri, buongiorno!- urlò, colpendo la sua porta e proseguendo quasi a saltelli, stiracchiandosi di tanto in tanto e facendo grossi sbadigli. Non aveva mai dormito così bene come quella notte e mai sogni più sereni l’avevano accolta e consolata fra le loro braccia seducenti e oblianti. Non che ora avesse bisogno di essere consolata, tutt’altro. Aveva bisogno di prendere l’auto, mettere della buona musica, possibilmente qualcosa che le trasmettesse quell’iperattività frenetica che sentiva nelle vene dalla sera precedente, e correre per la città suonando a tutto spiano, svegliando tutti quelli che ancora dormivano a quell’ora di domenica mattina, passare di fronte alla chiesa del quartiere e gridare al cielo un bel vaffanculo! solo per il gusto di beccarsi gli sguardi scioccati delle anziane signore che sciamavano in piazza per la messa di mezzogiorno. Ovviamente, tutto questo sarebbe stato più divertente se fatto con Marta al suo fianco.

-Cristo mio, Ludo, ma che cazzo bussi che sono le otto e mezza?- biascicò infastidito Enrico dalla stanza, con la voce ovattata di chi è si è appena addormentato dopo una notte di divertimenti più sfrenati. Probabilmente, la sbornia era stata più devastante del previsto. Tutta colpa di quella roba che Tamara aveva messo dentro gli alcolici a loro insaputa. Ora che ci pensava, anche Ludovica non credeva di aver smaltito completamente quella sottospecie di droga sintetica che quella pazzoide aveva lasciato cadere nella sua birra, ma si diresse volteggiando verso la cucina senza farci caso. Antonia sedeva placidamente sul divanetto arancione, guardando il notiziario mattutino con occhi distratti, bonari.

-Buongiorno cara- mormorò fra un sorso e l’altro di caffè, volgendole uno sguardo sorridente. Ludovica rispose con un sorrisone, versandosi anche lei del caffè e addentando una delle ciambelle che sua madre comprava, premurosamente, tutte le domeniche mattina.

-A te-

Mangiò con avidità, sentendo lo stomaco, inacidito dalle porcherie che aveva ingerito la notte precedente, brontolare grato al primo pasto decente dell’intero fine settimana. Nascose per bene coi capelli quella macchietta rosa che Marta le aveva lasciato sul collo appena dopo la loro conversazione sul tetto, piegando la testa di lato sperando che sua madre non la notasse, e ingollò il caffè, non riuscendo a stare ferma sulla sedia. Tutto quello che era successo la sera prima, dio, l’aveva resa elettrica. Agguantò Tabasco, costringendolo a farsi fare le coccole ed evitando per poco una sua zampata poco amichevole.

-Comincio a pensare che ti odi, Ludo- ridacchiò Antonia,cambiando canale per vedere il notiziario delle undici e mezza. Lei alzò le spalle, gettando al gattone un’occhiata piena di astio e mescolando ora i cereali nel latte. Aveva una fame da paura.

-Questo è il compenso per averti salvato dal metronomo, bravo Tabasco!- lo redarguì e sentì lo sguardo sconcertato di sua madre su di sé. Probabilmente aveva gli occhi ancora un po’ rossi, colpa delle canne che si era fumato Walter. Ovviamente, aveva dovuto prenderne due boccate, tanto il garage già aleggiava di marijuana, tanto valeva...

-Ma si, Tabasco ha paura del metronomo. Disgraziato- sibilò, quando il gatto si piazzò di fronte a lei, fissandola con quegli occhi ipnotici per indurla a lasciargli un po’ di latte.

-Come dici tu- concesse Antonia, cautamente. La televisione trasmetteva le ultime notizie e Ludovica ascoltò con interesse le prime indiscrezioni sugli esami di stato di quell’anno.

-Dici che quest’anno è latino o greco?- domandò. Antonia storse la bocca, pensierosa.

-L’anno scorso è stato greco, quindi immagino sarà latino. In qualunque caso andrai bene, questo è certo-

Ludovica fece di sì con la testa, gongolando leggermente. In latino tutto sommato se la cavava, anche se era Marta la regina indiscussa delle subordinate ciceroniane e delle ellissi di Tacito. Le avrebbe chiesto aiuto, avrebbero ripassato insieme. O forse no, non era il caso. Il caldo di giugno avrebbe giocato brutti scherzi. Si divertì ad immaginarsi con lei in spiaggia, poche settimane dopo la prova scritta, a brindare al suo cento, perché Marta era una ragazza così brillante che non c’erano dubbi sulla sua buona riuscita. Forse la matematica non era il suo forte, ma sarebbe stata più che volenterosa ad aiutarla con le equazioni goniometriche. Quando Marta non riusciva in una cosa, comunque, era insopportabile. Borbottava fra sé, ignorava chiunque le stesse intorno, e come una caricatura se ne usciva con le esclamazioni più patetiche e drammatiche possibili. Mio dio, che palle! Era capitato di pensare a Ludovica. Ma questo quando facevano solo sesso. Ora era sicura di aver sempre adorato anche quel suo lato spaventosamente maniacale. In qualunque caso, le faceva disconnettere il cervello. Pensò alla notte prima e un brivido prepotente le attraversò la schiena come se fosse ancora lì su quel tetto, con Marta addosso.

-Ludo, ci sei?-

Si girò verso sua madre, sospirando di si. Finì di mangiare i cereali mentre Tabasco si leccava le zampe, altezzoso, e gli lanciò più volte sguardi di sfida. Che se lo venisse a prendere con le sue zampe, il latte! Probabilmente Antonia stava pensando di far un test del palloncino ad entrambi i figli, visto che Enrico si era appena trascinato in cucina con la faccia più bianca di sempre, ma Ludovica non se ne curò poi tanto. Doveva uscire al più presto, prendere la macchina e sgommare per le strade.

-Erni, mi accompagni se faccio un giro in macchina?- gli chiese, ma suo fratello non diede segni di vita, limitandosi a fissare la sua tazza di cereali accanto alla mamma, sul divano. Tabasco gli era saltato addosso e ora stava leccando tutto il bordo della sua colazione, mentre sembrava non accorgersene. Seppur stava avendo una minima percezione di ciò che gli accadeva attorno, non sembrava importargliene poi molto, dietro un paio di occhi appannati e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni.

-Ma si, fare un giro è una buona idea. Non hai una buona cera stamattina- disse apprensiva Antonia, passandogli una mano sulle guance per appurare se avesse la febbre o meno e cercando di lisciargli due ciocche che, ai lati della fronte, sembravano le orecchie di Tabasco, tanto erano irte e rosse. Alla fine, la povera donna, gettando uno sguardo apprensivo ai suoi gemelli, dovette concludere che avevano semplicemente trovato un modo per aprire la porta di casa senza far rumore, ritirandosi alle tre del mattino o anche oltre, perché non poteva esserci altra spiegazione.

-Mai più tardi come ieri sera, sia inteso- li rimproverò allora, alzandosi per andare a sistemare il lavello. E per sottolineare il concetto, quando Ludovica grugnì, passandole la tazza vuota e facendole segno di posarla per lei, se ne andò stizzita in salotto intimandole di usare le sue di gambe, se ancora funzionavano. Enrico semplicemente annuiva senza cognizione e continuò a fissare il pavimento, come se stesse ascoltando una muta ramanzina di sua madre, per i cinque minuti successivi. Prima di sparire nella sua stanza in quel turbino di buoni sentimenti che quella mattina la animavano, Ludovica si rivolse di nuovo a suo fratello, urlandogli quasi nelle orecchie.

-Allora? Allora?-

Enrico puntò su di lei gli occhi mezzi socchiusi, nello stesso modo in cui aveva fatto il suo gattone poco prima. Solo che, si augurava Ludovica, Tabasco non aveva ingurgitato quasi due litri di birra con tanto di cicchetti del whisky di pessima qualità che Tamara teneva nascosto sotto la sua poltrona dal lenzuolo multicolore.

-Allora fottiti, Ludo!- scandì bene le parole, dimostrando che non aveva ancora perso la facoltà di parlare. Non del tutto.

-Che scorbutico. Ti è forse morto il gatto?-

Tabasco alzò lo sguardo dalla tazza di Enrico, con gli occhi dilatati dalla paura, come se avesse colto l’insinuazione. Ludovica, uscendo dalla cucina con le mani alzate, si chiese quale dei due esseri fosse più intelligente. Quella palla di pelo rossa che aveva ricominciato a bere il suo latte o il gatto.

-Scusa coso- concluse, rivolgendosi forse a tutti e due.

*************************************

-E quindi, insomma, tu e Marta state assieme?-

Dede non la smetteva di cantilenare, con gli occhi dolci, la stessa frase da quando era arrivato al garage di Walter, dove si erano riuniti per provare qualche canzone per la jam session della sera successiva all’Hurly Burly. Walter accordava in tranquillità Erin, dall’altro lato della stanza piena di poster fino al soffitto, e se anche aveva capito di cosa stavano confabulando, probabilmente aveva deciso di non infierire ulteriormente sull’orgoglio già provato di Ludovica. Una delle bacchette della batteria volò verso di lui, andando tanto così dal colpirlo proprio dritto in mezzo alla fronte. Ludovica, borbottando contro la sua mira pessima, si rifiutò comunque di rispondere.

-Andiamo, prima o poi ce lo dovrai dire! Che succede se uno di noi due vuole provarci con lei? E’ una questione di correttezza!- protestò, facendole un gestaccio per quel tentato omicidio. Walter grugnì, forse in segno di assenso, mentre dava un’occhiata alle sue partiture. Ludovica si limitò a legarsi i capelli in una crocchia disordinata, mostrando il viso dal profilo sottile e, sbadatamente, il suo collo. A Dede quel piccolo puntino rosso, proprio sotto la mascella, sembrò non sfuggire.

-AH!- saltò su allora, rizzandosi con la schiena e rotolando quasi giù dal vecchio divano rosso pieno di toppe sul quale spesso si era addormentato, nei lunghi pomeriggi d’estate.

-Guarda, Walter, il segno del misfatto! Ci sono prove troppo evidenti, madame, lei è colpevole!-

Le indicò con un gesto plateale il collo, intimandole  di scostarsi lo scollo della camicetta grigia che avrebbe avuto il compito di nasconderlo, mentre lei lasciava cadere debolmente i capelli come se stesse davvero mettendo giù un paio di pistole cariche dopo esser stata colta in fallo. Walter, a quelle parole, sembrò interessarsi alla faccenda più che alla lucidatura della sua chitarra acustica (il che era un avvenimento alquanto raro), avvicinandosi ai due roteando sulla sedia girevole, con Erin ancora in grembo.

-Fa’ vedere- disse, col tono di un ispettore sospettoso nell’atto di esaminare la scena del crimine. Ludovica sbuffò allora più pesantemente, come un gatto infuriato, minacciando di non avvicinarsi troppo. Aveva le orecchie rosse e cercava di non mettersi a ridere. Se la copertura doveva saltare così miseramente, almeno le rimanesse un po’ del suo orgoglio femminile!

-Non ti faccio vedere proprio nulla, cominciamo a provare che è tardi- sentenziò, allontanandosi verso la scrivania dove intendeva appollaiarsi col suo basso. Raramente suonavano in piedi, forse solo durante le loro esibizioni, nonostante per Ludovica sarebbe stato più professionale cantare senza piegarsi col busto in avanti. Ma a nessuno era mai importato, in tutti quegli anni. Si lasciò quindi cadere a gambe incrociate, lasciandone una penzolare mollemente da un lato all’altro, fissando gli occhi sull’accordatura del suo strumento pur di non soccombere ancora a quell’infima presa in giro. Stupida camicetta. Stupida Marta che si divertiva a torturarle sempre la stessa zona di pelle. Stupida lei che glielo lasciava fare ogni volta. Stupido fondotinta troppo scuro di sua madre!

-Manca Pier Davide- le ricordò allora Federico, seppur avvicinandosi docilmente alla batteria al centro della stanza. Walter alzò le spalle, informandoli che ormai era una questione di minuti. Il suo motorino di certo non era in condizioni migliori del bolide di Dede, che strisciava per le strade della città con la marmitta pericolosamente piegata verso l’asfalto.

-Aspettiamolo, va bene- concesse Ludovica, sempre con una mano ermeticamente attaccata al collo. Federico le lanciò un’occhiatina divertita.

-E smettetela di ridacchiare, okay? Mi fate salire i nervi quando fate così!- sbottò.

-Ti facciamo salire i nervi sempre e comunque- rettificò Federico, con il volto angelico dietro i ciuffi biondi dei suoi lunghi capelli. Walter annuì con aria saggia, facendo tintinnare le sue mille catenelle e ciondoli.

-E’ per questo che ci adori- aggiunse. Dall’espressione funerea di Ludovica, dedussero fosse meglio lasciar perdere e la conversazione deviò sull’ultima conquista di Walter, con patetici accenni alla desertica vita sentimentale di Federico, che proprio non riusciva a capire dove sbagliasse ogni volta. Ludovica, sorridendo fra sé e lasciandosi un po’ andare, gli consigliò di essere più impulsivo. Come aveva fatto lei il giorno prima, baciando Marta senza preavviso. Come aveva fatto sul tetto di Tamara, lasciando finalmente uscire fuori tutte quelle parole che aveva sempre voluto dirle. Aprendo uno scrigno ormai arrugginito, forse mai neanche considerato, sepolto dentro di lei come un tesoro mille leghe sottoterra, trovato da un abile cacciatore. Che senso avrebbe avuto tenerlo chiuso ancora, sotto il tocco esperto e carezzevole di Marta? Era solo una questione di tempo, come il ritardo di Pier Davide, prima che anche lei fosse costretta ad affrontare i suoi sentimenti. Non poteva scappare per sempre. E allora, sì, la sua impulsività, la sua rabbia repressa forse per una volta avevano giocato un ruolo positivamente decisivo, spingendola oltre quella linea di confine che lei e Marta fissavano con gli occhi appannati dalle lacrime da un po’ troppo tempo. Da quando avevano sorpreso i loro corpi in reazioni anomale, da quando si erano lasciate andare a queste senza la minima considerazione razionale, pretendendo di poterne affrontare le conseguenze, il giorno dopo, sempre con lo stesso cipiglio cinico. Era solo un passatempo. Tutte bugie. Era come se avesse fatto pulizia nella propria anima, gettato via cartacce e scartoffie piene di righe vuote, di parole che le ingombravano solo la mente senza lasciarla libera di vagare in più innocenti fantasie. E ora fosse libera, avesse scoperto dentro di sé un’immensa pianura dove si respirava un’aria sublimata, senza quella sensazione di scoppiare che le opprimeva il petto ogni volta che scivolava via dalle coperte di Marta e dalle sue braccia. Sentì che il cuore prendeva a batterle con un ritmo diverso e un po’ se ne vergognò, perché non era abituata a mostrare così palesemente i suoi stati d’animo. Era sempre riuscita a controllare la ben che minima reazione, perché aveva paura di mostrare il fianco e venir pesantemente pugnalata, se avesse lasciato le sue sensazioni trasparire oltre la sua stessa pelle. Eppure non poteva impedire che il cuore in petto le balzasse sempre più coraggiosamente, come a dirle di non avere paura, che le sue emozioni non erano qualcosa da combattere. Erano la sua stessa forza. Il motivo per cui quella mattina si era svegliata così allegra, per cui ora sorrideva mentre accordava le corde arrugginite del basso, per cui l’indomani sarebbe andata a scuola senza pensieri negativi per la testa, ma avrebbe camminato per le strade vuote, alle sette e mezza del mattino, solo per accompagnare Marta nella sua passeggiata mattutina. Avrebbe voluto che fosse lì con lei a darle sicurezza, lo avrebbe voluto tanto. Era così difficile accettare quell’elettrica condizione di non avere più nulla sotto controllo. Difficile ed eccitante nello stesso momento, come correre su una strada vuota, ad alta velocità, coi freni poco oleati. Pier Davide li raggiunse poco dopo e tirò fuori la sua chitarra già accordata, scusandosi per il ritardo. Come sospettavano, il suo povero mezzo di trasporto lo aveva lasciato a piedi nel mezzo del viale principale e aveva dovuto trascinarselo fino al meccanico più vicino per fargli dare finalmente un’occhiata. Ludovica intercettò uno sguardo sornione fra Dede e Walter, ma non sembrò importarsene più di tanto. Alzò le spalle sconfitta, in modo che fosse visibile per tutti e tre che oramai si era arresa.

-Quindi tu e Marta state assieme?- saltò su Pier Davide, quando gli sembrò di aver capito l’oggetto della discussione muta. Ludovica fece cadere pesantemente la testa sul petto, sospirando in modo teatrale. Si alzò dalla scrivania, si tolse la tracolla del basso, poggiandolo a terra con cautela, e si fermò al centro della stanza con aria solenne.

-Ahimè, ragazzi, compagni in questa lunga avventura di libertà, temo di essere stata presa all’amo anche io. Per cui, niente più commenti sconci sulle tipe che vengono a guardarci suonare. Mai più- declamò, con tanto di mano sul petto. Walter ne sembrò sinceramente felice, forse perché calcolava che così avrebbe avuto ancora più ragazze con gli occhi puntati su di lui (Ludovica aveva sempre avuto il suo fascino, su questo non si discuteva). Pier Davide sembrò illuminarsi come se solo ora avesse capito il significato di tanti, piccoli dettagli slegati fra di loro. Poco mancava che alzasse il dito indice, esclamando Eureka! Federico fu l’unico ad alzarsi dal suo posto, lasciando sulla batteria le sue bacchette, per darle un buffetto sui capelli rossi e tentare di abbracciarla per congratularsi. Ludovica si trattenne dal mollargli l’ennesimo ceffone, perché quel ragazzo era così tenero.

-Si, lo so. Grazie, grazie. Sono una grande, ho preso la ragazza migliore in circolazione, non c’è bisogno di dirlo- sdrammatizzò, ma dentro di lei sapeva che non era vero. Lei aveva preso la ragazza migliore che potesse esserci per lei, in assoluto. Marta, la sua ragazza. 

************************************************

Si trovarono quella sera, dopo i compiti per il giorno dopo, nel vicoletto dopo la strada di Marta, dove aveva il suo piccolo garage. Ludovica era uscita a piedi, con solo indosso la sua t-shirt grigia dal collo largo che indossava quando era a casa e il suo paio di jeans strappati in più punti. La dannata camicetta l’aveva gettata sul fondo dell’armadio. Non faceva ancora caldo, quella primavera si mostrava più restia a concedere a loro poveri studenti un po’ di sana vitamina A, ma l’aria della sera era sufficientemente tiepida e Ludovica se ne beava placidamente, mentre camminava lungo le vie semi deserte. C’era solo il macellaio, in fondo alla sua strada, che si accingeva a chiudere bottega, e un paio di muratori a languire ai tavolini del piccolo bar della rotonda dopo il loro duro turno giornaliero. Camminava con le mani in tasca perché se le sentiva sudare ad ogni passo di più e cercava di asciugarsele alla bell’e meglio senza farsi prendere dal panico. Trovò Marta che ciondolava fuori sui gradini di pietra dura, con la bicicletta nera smaltata di traverso sulle gambe mentre stava sistemando i freni ormai andati. Aveva i capelli scuri a coprirle il viso, qualche macchia nera sulla camicia di jeans e quell’aria da donna pratica che proprio non le si addiceva. Cercava goffamente di ricollegare un tubicino nero al manubrio, a terra aveva lasciato una varietà di chiavi inglesi e altri arnesi che Ludovica non immaginava come avrebbero potuto aiutarla. Le si avvicinò con un sorrisino, aveva bisogno di una mano. Quando glielo chiese, Marta rispose stoicamente che ce la faceva da sola.

-Questa bici peserà il doppio di te, con tutte le marce che ci hai fatto montare sopra … da’ qua- le intimò bonariamente, piegandosi sulle ginocchia per arrivare all’altezza del suo viso. Quando Marta alzò lo sguardo dal suo indegno lavoro manuale, i suoi occhi gialli alla luce della sera si fissarono nei suoi come due pietre, immobili. Ludovica in seguito non poté dire se vi avesse letto qualcosa, se avesse avuto l’occasione di presentire da quello sguardo il bacio che poi ne seguì, perché il tempo fu breve, ma a lei sembrò fluire come curiosamente solidificato sulla sua pelle. Come se si stesse morbidamente affossando in delle calde, accoglienti sabbie mobili pronte ad inghiottire ogni parte di lei. In effetti, era quella l’impressione che le aveva sempre dato Marta. E il fatto che non fosse ancora riuscita a toccare il suo fondo, l’impossibilità che aveva di risalire da quello spirito immenso, era una delle cose più meravigliose. Le labbra di Marta furono lievi sulle sue, non si curò nemmeno se qualcuno le stesse guardando, dalle finestre dei palazzi circostanti. Fu troppo breve. Nessuno avrebbe potuto coglierne nemmeno l’ombra. Era un qualcosa di esclusivamente loro e Ludovica lo capì subito, per questo rimase immobile, lasciando a lei l’arbitrio di dosare quel gesto.

-Ce la faccio anche da sola, grazie- replicò candidamente, scostandosi una ciocca dal viso e ripiegandosela, con un gesto così delicato che Ludovica fu tentata di insistere ancora. Aveva delle mani così delicate, la pelle del dorso sempre morbida, le dita lunghe e le unghie ben curate come quando suonava il pianoforte, da bambina. Anche il suo viso era pulito, lucente, rifletteva a pieno i suoi modi eleganti, posati. Ludovica si sedette senza parlare accanto a lei, giocherellando coi fili.

-Vedi, questo va qui- le indicò comunque, guidando il suo sguardo verso l’altro capo del manubrio –altrimenti non funzioneranno mai, questi freni-

Marta si accigliò leggermente, dandosi della sciocca. Il sole stava ritirando il suo ultimo raggio, dietro i tetti rossi di fronte a loro, e lo guardarono mentre chiudeva il suo sipario nella luce rarefatta, uscendo di scena come un celebre attore avvezzo alle glorie.

-Bello quando comincia a tramontare tardi, vero? Ci siamo quasi- sospirò Marta, col naso all’insù.

-Per l’estate dici?-

-Per l’estate, per l’aria soffocante del pomeriggio, per le sere fresche. Questa sembra una sera d’estate-

Ludovica fu d’accordo. La primavera aveva già i suoi araldi appostati sui rami delle magnolie del viale, potevano sentire il frusciare delle fronte e qualche rondine che già stormiva, mentre tornava al suo nido.

-Fra poco escono le stelle. Rimani con me?- le chiese. Marta sorrise, con quel suo rossore sempre ad accompagnare ogni gesto con cui si rivolgeva a Ludovica.

-Solo se mi indichi le costellazioni, genio-

Ludovica le diede uno spintone e quella, ridendo, per poco non capitolò sotto il peso della bicicletta.

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Capitolo 7
*** -Enrico ***


There's a heaven above you baby 
And don't you cry 
Don't you ever cry 
Don't you cry tonight 
Baby maybe someday .”

Guns n Roses, “Don’t cry”

 

Mise a fuoco con difficoltà la pagina di chimica organica da studiare per il giorno dopo, sbattendo piano le palpebre, cercando di mettere in ordine nella sua testa le parole che riusciva a leggere. Due dei quattro atomi di carbonio del buBute che? Due dei quattro atomi del butene sono legati da legami covale … Ricominciò dall’inizio del rigo, sentendo l’orologio della cucina ticchettare insistentemente di fronte a lui e Tabasco soffiare indispettito in un angolo per la poca attenzione che gli veniva rivolta, nella casa semi vuota. C’era solo Ludovica, chiusa da qualche parte in camera sua a suonare, probabilmente l’ultimo pezzo che i ragazzi avevano tentato di mettere assieme. Aveva dato un segno di vita un’ora prima, quando era entrata trascinandosi in cucina per agguantare una tazza di cereali e versarci dentro una quantità industriale di corn flakes perché “la facevano concentrare di più”. Dal suo tono gli era sembrato che non volesse essere disturbata, quindi aveva rinunciato in partenza a chiederle una mano per l’interrogazione del giorno dopo e, visto che né Walter né Giorgio erano in grado di risolvere nemmeno il più banale esercizio di scissione omolitica, si era chiuso in cucina col gatto nella speranza di raccapezzarci qualcosa. Almeno un misero sei … ne aveva bisogno, se voleva avere qualche speranza di essere promosso all’esame senza nessun “aiutino” da parte dei professori. Ci teneva ad arrivarci da solo, perché dopo tutto il cervello era un muscolo, no? Avrebbe potuto esercitarlo come faceva con gli addominali durante gli allenamenti di calcetto. O forse no, non se lo ricordava. Forse aveva appena pensato una sciocchezza. Gli venne da alzarsi e andare alla porta di Ludovica, per chiederle se davvero il cervello era un muscolo come gli pareva di ricordare. Comunque sia, sarebbe stato meglio non saperlo. In quel caso si sarebbe sentito anche peggio, perché per ogni suo sforzo non otteneva nient’altro che una misera tensione intellettiva, niente che potesse garantirgli un minimo di dignità ai suoi occhi. Tornò al butene e ai suoi due atomi di carbonio legati da un doppio legame covalente. Fin qui, ci era arrivato. Lesse il rigo successivo, si intimò di restare seduto sebbene le sue gambe battessero continuamente contro il tavolo, irrequiete, tremanti. L’orologio però non segnava ancora le sei, gli allenamenti erano ancora lontani, anche se … sarebbe potuto uscire, prendere un po’ d’aria e magari riprovare dopo. No! Doveva riuscirci. Tabasco andò ad accoccolarsi ai suoi piedi, insistendo perché gli venissero fatte le coccole. Ci stava provando a concentrarsi.

-Ludo vieni a prenderti questa palla di pelo prima che la ficchi nel forno con una mela in bocca e te la dia in pasto!- sbottò, sperando che la sua voce le arrivasse lontana com’era. Ma che diavolo stava facendo? Proprio quando aveva bisogno di lei. Lo scacciò con una pedata, facendogli digrignare i denti come un piccolo demonio rosso, poi si alzò col libro di chimica in mano. Una mano, gli serviva una mano. Prima che gli tornasse addosso quella strana inquietudine che lo rendeva così improduttivo. Camminò scalzo lungo il corridoio vuoto e, mentre passava davanti allo specchio del mobile del salotto, si accorse che la maglia scucita che portava di solito in casa gli dava un’aria piuttosto smagrita. Che ultimamente addosso aveva più pelle che muscoli, gli occhi sempre cerchiati di sonno, dopo le ore passate a cercare di combinare qualcosa e i pasti saltati in virtù di qualche scappatella con Giorgio. Beveva più che mangiare, girandosi e rigirandosi di notte fra le lenzuola umide si accorgeva di potersi contare chiaramente le costole e le ossa del bacino sottile gli sporgevano ai lati come due punte acuminate. I capelli rossi gli ricadevano ormai lunghi fino ai lati del viso, ma almeno ogni mattina aveva la cura di rasarsi, con l’unico risultato di far apparire ancora più spettrale gli zigomi bianchi. Gli esami si avvicinavano, il futuro macinava strada di fronte a lui, mentre il passato gli sfuggiva di mano come un aquilone ad un bambino che piange perché non riesce a riacchiapparlo. Il presente, nient’altro che un’ombra. L’ombra dei suoi occhi, che vagavano agitati da una paranoia ingiustificata, braccato da ogni lato senza sapere come evitare quella macchina mangia uomini che è l’avvenire. Che cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Dimmelo, Enrico, dove andrai? Sei un uomo o un coglione? Ce li hai gli attributi o no? E piangeva, certe volte, dopo che la sbornia gli era passata. Piangeva così forte nel cuore della notte che doveva soffocare le urla nel cuscino per paura che Ludovica lo sentisse, tanto erano sottili quelle pareti. Ludo, ti prego, dammi una mano in chimica. Non voleva piagnucolare, ma alla vista della sua sagoma qualcosa gli si era spezzato dentro, un’infinita tristezza, un vertiginoso bisogno di urlare a qualcuno di aiutarlo. Di tirarlo fuori da quel giro vizioso, di far sparire i mostri sotto al letto. Qualcuno, ma chi? Lo sapeva benissimo, eppure non voleva ammetterlo. Si sentì una ragazzina respinta dalla sua prima cotta, uno schifo. Aprile germogliava tranquillo alla sua finestra, mentre lui piano piano si dissolveva in stesso. Ma doveva farcela. Doveva bussare alla porta di Ludovica. Almeno lei …

-Ludo, hai già fatto chimica?- si sentì patetico lì sulla porta, a grattarsi la testa con una matita sull’orecchio e il libro di chimica a lato. Aveva una strana paura di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Lui, un uomo. Era evidentemente della stessa pasta di quel bastardo. Una donnicciola incapace di prendersi le sue responsabilità. Sarebbe stato meglio per lui fallire nella vita, non diplomarsi, finire a lavorare in fabbrica e ad ubriacarsi ogni fine settimana in periferia, andare a puttane e smetterla di pretendere da se stesso di potersi salvare. Lui non poteva. Perché avrebbe dovuto, quel figlio di un bastardo? La stanza di Ludovica profumava di pesca, aveva acceso le candele che le piacevano tanto ai piedi del letto e se ne stava distesa a testa in giù con un libro schiacciato contro il naso. Gli dava le spalle, quindi non lo notò. Enrico tossì, sentendo la voce tremare.

-Ludovica- la chiamò.

Lei si tolse le cuffie del walkman e si alzò spaventata, per poi premersi una mano sul cuore e sbuffare stizzita.

-Sei tu, mi hai spaventato- esalò, rotolando sul letto e gettando il libro sul cuscino. Enrico alzò il libro di chimica, con le braccia molli. Dov’erano finiti i suoi muscoli? Cretino, pappamolle.

-Mamma stasera ha il turno di cinque ore, ti ricordi? Ci ha lasciato la cena in forno- alzò le spalle. Ludovica annuì, distratta. Sembrò notare il libro solo dopo qualche minuto e quella disattenzione, inspiegabilmente, affossò ancora di più i pensieri di Enrico. Nemmeno tua sorella ti vuole.

-Vuoi una mano in chimica?- domandò retoricamente Ludovica. Lui annuì, gettando il volume sul letto e sedendosi in terra, a gambe incrociate. Ludovica lo aprì alla pagina che aveva già studiato e si schiarì la voce, per leggere il paragrafo come faceva ogni volta, pazientemente. Enrico si sentì uno schifo, assolutamente inutile. Tanto sarebbe andato tutto a puttane lo stesso. Ma almeno lei, sua sorella, lei sarebbe andata avanti. E sua madre sarebbe stata fiera. Lui sarebbe scappato via, si sarebbe nascosto pieno di vergogna in qualche posto in cima al mondo, vivendo come uno di quegli eremiti che perdono anche l’uso della parola, dopo tutto il tempo passato in solitudine. Si sarebbe ridotto ad un bruto e sua madre non lo avrebbe riconosciuto, dietro la sua enorme barba. Tutti si sarebbero dimenticati di lui, tranne i bambini che avrebbe terrorizzato la domenica andando in chiesa, mettendo finalmente la testa fuori casa. Si sarebbero dimenticati di lui e sarebbe stato meglio così, per lui e per tutti. Ma gli occhi di Ludovica lo fissavano attoniti, come se gli stesse appena leggendo nella mente. Sembrò che qualcosa anche in lei si stesse spezzando.

-Ancora?-

Enrico, esausto, lasciò andare le lacrime e, con la testa fra le mani, la schiena magra piegata in avanti, con le vertebre spaventosamente visibili sotto la maglietta, pianse. Ancora ed ancora. Quando sarebbe stato libero di vivere in pace? Quella mancanza lo logorava, tanto. Papà … dove sei? E come ogni volta, Ludovica lo abbracciò e gli disse di stare calmo, che tutto si sarebbe risolto. E lui si lasciò cullare, perché aveva paura di tutto, soprattutto di se stesso e di quel buio che sembrava volerlo inghiottire ogni volta era solo. Quella sfiducia che non voleva, ma che era sempre lì appollaiata sulla sua spalla come un demone crudele, a succhiargli via il sangue direttamente dalla aorta.

-Ora ti spiego i doppi legami, va bene? Che poi hai gli allenamenti- fu Ludovica a rompere il silenzio. Ed Enrico non poté fare altro che annuire ancora, riconoscendo la sconfinata forza della sua gemella, sperando, raccogliendo i pezzi.

***

Era rimasto al campetto più degli altri, tirava calci al pallone e si sentiva meglio, infinitamente meglio. Era all’aperto e faceva caldo, quella sera, perché oramai erano già le otto e probabilmente Ludovica aveva già messo in tavola gli avanzi del polpettone e le patate novelle che gli piacevano tanto, mentre Tabasco miagolava per il suo cibo. Si sentì un po’ meschino a lasciarla lì sola, sapendo quanto aveva fatto per lui, ma proprio non ce la faceva a tornare. Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di respirare, come dopo essere stati per troppo tempo sott’acqua. Quel demone doveva lasciare la presa, doveva andarsene. Lui lo avrebbe scacciato via con tutte le sue forze, come i colpi violenti che ora dava al pallone. Rete, ancora. Sua madre non avrebbe dovuto dimenticarsi di lui, non lo avrebbe permesso. Sua madre si sarebbe ricordata sempre di suo figlio, quello ferito, quello sfiduciato, quello dislessico e fragile, il bambino coi bicipiti, e non se ne sarebbe dovuto andare da nessuna parte. Non avrebbe dovuto nascondersi, né chiudersi in una casetta su una montagna. Avrebbe trovato una donna, una di quelle dolci, forti, che avrebbe dato senso a tutto quel dolore. Sarebbe stato bene, prima o poi. Poteva, doveva crederci. Almeno per sua sorella, per lei che era l’unica ad avere fiducia. E quanta ne aveva, quella ragazza! Quanto era fiduciosa nel bene, nel mondo, in una possibilità di riscatto, in se stessa, nell’amore, nell’amicizia, nella musica. Forse l’aveva trovato nei libri che leggeva, chissà. Un giorno, tornato da un lungo viaggio, gliel’avrebbe chiesto. E le avrebbe sorriso, magari, perché forse anche lui l’aveva trovata  nel frattempo quella cosa lì, la fiducia nel futuro. Una macchina macina ossa, mangia uomini, il cambiamento. Ma lo avrebbe accettato, perché è quello che fanno gli uomini, anche se nessuno gliel’aveva mai spiegato. I veri uomini non sono quelli che non soffrono, sono quello che soffrono con coraggio. Che distruggono per costruire. E anche se questo lo capì molto tempo dopo, qualcosa in quell’attimo lì, mentre calciava l’ultimo pallone prima di andarsi a gettare in doccia, glielo fece intuire. Qualcosa nell’aria, nella contrazione dei muscoli, nella luna che brillava dietro una lieve coltre di nuvole, nel grido del custode che da dieci minuti gli ricordava che stavano per chiudere. Qualcosa in quella vita lo fece sperare. Quando tornò a casa, fresco e coi capelli ancora umidi di shampoo al muschio, si sorprese di sentire delle voci in cucina, dove era stata accesa l’unica luce. Camminò senza farsi sentire lungo il corridoio buio, trovando Marta accoccolata sul divano arancione, fra i cuscini dove di solito dormiva Tabasco quando faceva freddo, con un libro in mano e Ludovica ad affaccendarsi attorno al tavolo, sistemando le posate e i bicchieri. Ridacchiava ,come a non volersi far sentire, ma in casa c’erano solo loro due e un po’ di musica che avevano messo alla radio, i Police forse, qualcosa di basso, d’atmosfera.

-Mi presti un po’ d’attenzione?- chiese Ludovica, scocciata, ma ridendo. Marta alzò per un attimo gli occhi dal libro, inarcando un sopracciglio, mentre Enrico guardava il tutto attonito, come un bambino di fronte ad una vetrina di dolci.

-La signorina reclama fin troppe attenzioni stasera- insinuò, chiudendo il volume.

-Io almeno solo viva, Catullo è schiattato da secoli! Mi sembra un elemento sufficiente a favore della mia causa- fu la risposta altrettanto maliziosa. Marta rise, poi si alzò.

-Dai, ti do una mano a sistemare prima che torni Enrico. Secondo me muore di fame-

Ludovica sorrise, portando in tavola la pirofila con le patate che tanto adorava.

-Di sicuro muore di fame. Quindi non toccare, che se torna e sa che abbiamo cominciato ci uccide-

E risero tutt’e e due. Enrico le salutò, fingendo di essere appena tornato. Sorridendo.

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