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L’Amber Taverns era uno dei pub
a Warrington che trasmettevano la partita di rugby
della nazionale inglese.
Quella sera l’Inghilterra affrontava la Francia per il
terzo posto alla Coppa del mondo, in Sudafrica.
Il ragazzo si congratulò con se stesso: non poteva
scegliere serata migliore per il suo colpo.
Davvero, cosa poteva chiedere di meglio di un pub pieno
zeppo di tifosi inglesi ubriachi fradici? Tifosi incazzati perché la propria
squadra stava letteralmente facendo schifo, e quindi non molto attenti ai loro
averi, dove per “averi” il ragazzo intendeva sostanzialmente i loro portafogli.
Magari sarebbe riuscito a procurarsene uno traboccante di deliziose e profumate
sterline.
Ok, ora però era il suo stomaco a parlare. Perché sì,
stava morendo di fame e perché deliziose
e profumate potevano essere di sicuro le patatine fritte, un po' meno le
banconote. Patatine fritte dorate e croccanti, che gli facevano venire
l'acquolina in bocca e che continuavano a essere servite ai clienti al bancone,
lì dove c’era il televisore con la maledetta partita in onda.
Basta! Il ragazzo decise di darsi
una mossa, altrimenti non avrebbe mangiato neanche quella sera. Solo due giorni
prima era ancora nella casa della sua ultima famiglia affidataria, a Liverpool,
e ora eccolo, lontano dalla sua città natale, scappato dopo essersi stancato di
tutto e tutti, di essere spedito da una casa all'altra dall'età di cinque anni,
come il semplice testimone di una staffetta, solo perché era un tantino vivace
e indomabile.
Era un piccolo vagabondo di dodici anni ormai, in fuga,
povero in canna e con lo stomaco vuoto. Aveva deciso che per far fronte a quel
bisogno, doveva riprendere a fare ciò per cui sembrava aver sviluppato da
qualche anno un vero talento: rubare.
Non c'era altro modo per mangiare, prima di tutto, e per
raggiungere più velocemente la sua destinazione: la grandiosa città di Londra.
Lo stomaco in quel momento gli ricordò la sua fastidiosa
presenza e il ragazzo si fece coraggio.
Avanzò ulteriormente nel locale intriso di odore di
frittura, birra e sudore, e storse il naso. Meglio non essere vicino a un
tifoso inglese quando la sua squadra stava perdendo: era una vera tortura non
solo per l’udito, ma anche e soprattutto per l’olfatto.
Tuttavia il piccolo doveva sopportare e avvicinarsi per
poter sgraffignare ciò che gli serviva.
Così prese un profondo respiro e si intrufolò nella calca
davanti al bancone. Lui era piccolo e mingherlino e scivolava bene in mezzo
alle persone ammucchiate, tutte intente a bere e urlare contro qualche
giocatore che non stava facendo il proprio dovere.
Individuare gli obiettivi più semplici non fu complicato.
Erano lì, incuranti che un piccolo ladro stesse per sfilare loro ciò che
causava quel rigonfiamento nella tasca posteriore dei pantaloni.
Le sue dita erano ancora piccole e affusolate, nessuno
avrebbe percepito il loro tocco lieve e sfuggevole.
Sfilò il primo portafoglio, uno di tela azzurra, da un
ragazzo che stava urlando, “Fottuto Andrew, muovi il culo!”
Il secondo, di pelle nera, tutto logoro, apparteneva a un
uomo che poteva essere benissimo suo padre, e che stava guardando pigramente la
televisione, con fare assente, come se fosse in un mondo tutto suo, suo e del
suo boccale di birra mezzo vuoto.
Il terzo, un elegante e nuovissimo portafoglio lucido e
decisamente gonfio, proveniva direttamente dalla giacca di un distinto signore,
distinto solo nell’aspetto perché in effetti era già sbronzo a metà partita.
Ok, l'Inghilterra non era messa bene quella sera, ma cazzo, un po' di contegno!
Si trattava pur sempre di una semplice partita di rugby.
Proprio mentre il piccolo controllava che la refurtiva
fosse al sicuro, la Francia realizzò un'altra meta e tutti i tifosi reagirono
pesantemente, rossi in viso, imprecando e alzando le mani verso il televisore,
come se potessero davvero arrivare ai fottuti giocatori della loro nazionale.
Coglioni, pensò il ragazzo
quando si sentì spingere a terra, sul parquet sporco e appiccicoso.
Subito si rialzò, pulendosi alla bell'e meglio i
pantaloni e la giacca troppo grande che aveva sgraffignato prima di scappare da
Liverpool.
Apparteneva a quello stronzo che era così vigliacco da
picchiare sua moglie. Aveva provato ad alzare le mani anche su di lui, quando
aveva capito che non era poi così facile domarlo, ma il giovane ragazzo non
aveva alcuna intenzione di farsi anche solo sfiorare dalle sue mani luride.
Così l'aveva colpito una, due, tre volte con quella mazza da baseball che
avevano comprato proprio per lui, per aiutarlo a scaricare la sua rabbia. E lui
l'aveva fatto. Solo che si era scaricato sul corpo di quel folle. Poi era
fuggito, senza preoccuparsi delle condizioni in cui aveva ridotto l'uomo.
In ogni caso, se l'era meritato. Bastardo di merda!
Ora il ragazzo si precipitò fuori dal locale, con
noncuranza, per non dare troppo nell'occhio. Con la stessa compostezza con cui
era entrato, varcò la soglia del pub e fu libero. Al sicuro, nell'aria fresca
della sera.
Ridendo divertito, mentre sentiva il peso nelle sue tasche,
che voleva dire tutto per lui, si allontanò con passo affrettato fino a trovare
un vicolo stretto e poco illuminato, dove poter esaminare il bottino con
tranquillità.
Si sedette con la schiena contro il muro freddo, e
cominciò a prendere il primo portafoglio, quello elegante e lucido che si
rivelò essere anche ben fornito. C'erano almeno centocinquanta sterline più
qualche spicciolo. Aveva fatto bene ad adocchiare il distinto signore con la
giacca sofisticata e le guance rosse per il bere. Beh, con questo era a posto
per un po'. Significavano cibo e qualche vestito più caldo per la notte e
ancora cibo...
La gioia per aver trovato un tale tesoro era così immensa
che non fu scalfita dalla delusione per aver trovato una misera banconota da
dieci nel portafoglio di tela del ragazzo.
Ci riuscì, però, il rendersi conto che mancava un
portafoglio all'appello. La realizzazione lo lasciò davvero sconvolto. Cos’era
accaduto? Ricordava che fossero tre. Ricordava di aver preso il secondo e di
averlo infilato nella tasca della giacca. Ricontrollò ancora una volta, ma
niente da fare. Era sparito. Dove diavolo era finito? Forse l'aveva perso
quando era caduto? O forse nel breve tragitto dall'uscita del pub?
Dove cazzo-?
"Stai forse cercando questo?" fu la domanda che
giunse improvvisamente alle sue orecchie.
Con uno scatto il ragazzo balzò in piedi, osservando
l'uomo all'inizio del vicolo. Nella fioca luce del lampione, poteva vedere
questa sagoma alta e magra, e cosa assai più importante, aveva un portafoglio
dall'aspetto familiare in mano. Il giovane ragazzo spalancò gli occhi quando
riconobbe l'uomo a cui aveva sottratto il secondo portafoglio.
Voleva chiedergli come avesse fatto a riprenderselo, ma
si ritrovò non solo incapace di parlare, ma soprattutto non molto desideroso di
farlo, semplicemente perché non si fidava. In questi casi non bisognava fidarsi
mai.
Dal canto suo, l’uomo osservò il piccolo ladro con un
sorriso sul volto: poteva percepire perfettamente la sua paura, era bravo a
nasconderla, ma era evidente che lo temesse, pensando magari che fosse un
poliziotto.
E come biasimarlo, era ancora un ragazzino.
"Immagino che tu ti stia chiedendo come abbia fatto
a riprenderlo." disse l'uomo, e il ragazzino annuì in modo impercettibile,
provocandogli una piccola risata, "Segreti del mestiere, figliolo."
John aggrottò le sopracciglia, titubante. Mestiere un
corno! E se quel tizio fosse stato uno sbirro? Se stesse solo cercando di
avvicinarlo perché l’aveva visto rubare e poi l'avesse arrestato? E se avesse
scoperto da dove veniva e ciò che aveva fatto? Questa volta non sarebbe stato
spedito solo in un orfanotrofio, l'avrebbero rinchiuso in un cazzo di
riformatorio e lui sapeva bene che luoghi fossero quelli. Li facevano passare
come centri di custodia per giovani delinquenti, ma la sostanza non cambiava:
rovinavano i ragazzi, invece di correggere il loro cattivo comportamento.
“Hai fatto un bel lavoretto dentro al pub. Ho visto come
hai sfilato i portafogli, sai, ti ho notato subito quando sei entrato, anche se
tu non te ne sei accorto." esclamò con una punta di ammirazione,
"Dopotutto, te lo si leggeva in faccia, cosa avessi intenzione di fare. E
se posso permettermi di darti un piccolo consiglio, dovresti stare più attento
a queste cose. Sono molto importanti per la buona riuscita del colpo."
Il ragazzo non disse nulla, si limitò a continuare a
guardarlo, ancora teso e pronto a scappare al primo movimento sospetto
dell’uomo. Lui era più piccolo e veloce, l’avrebbe seminato in men che non si
dica. Un vero gioco da ragazzi.
"Sei un tipo taciturno tu, eh? Come ti chiami?"
continuò a dire l'uomo, mentre camminava verso di lui.
Più gli si avvicinava, più poteva vedere quanto fosse
giovane questo ragazzo. Quasi un bambino, come quelli che lui era stato
costretto ad abbandonare a casa sua. Questo ragazzino non poteva essere molto
più grande del suo primogenito.
"Pete."
Lo sguardo che il ragazzo ricevette fu uno molto
comprensivo e quasi...affettuoso?
"Se mi dici il tuo vero nome, ragazzino..."
iniziòl'altro, ridendo, "Potremo
condividere il contenuto di questi altri due bottini, che ne dici?"
John guardò sbalordito, mentre l'uomo estraeva altri due
portafogli dalla sua giacca e li mostrava proprio a lui.
"Dove li hai-?" iniziò a chiedere, prima di
pensare e riuscire a fermarsi dal cominciare a dare confidenza a questo
perfetto sconosciuto.
"Presi? Beh, c'è stata una piccola rissa al pub.
Colpa di un fottuto francofilo. E dannazione, le ammucchiate di quel genere
sono una manna dal cielo per gente come noi."
"Poveri?"
"Ladri.” rispose con una risata.
‘Pete’ stava abbassando lentamente le sue difese e l’uomo
voleva solo dirgli che non aveva alcun bisogno di temerlo, perché non gli
avrebbe fatto del male. Fin dal primo momento in cui l’aveva visto, aveva
percepito la disperazione nei suoi occhi, lo stesso bisogno di scappare verso
un posto e una vita migliori. E lui voleva solo aiutarlo, perché gli ricordava
troppo se stesso e i suoi bambini, bambini che sicuramente ora dovevano odiarlo.
"Quindi…” disse il ragazzo, fissandolo ancora
incerto, ma non totalmente chiuso in sé, “Non sei uno sbirro?"
"Hai mai visto uno sbirro rubare qualcosa?"
Il piccolo ladro scosse appena il capo, senza distogliere
lo sguardo dall'uomo.
"Allora non lo sono." commentò questi,
sorridendogli dolcemente, "Ora me lo dici, il tuo nome?"
Lui si guardò le mani incerto, non si fidava ancora del
tutto, ma il sorriso dell'uomo era così rassicurante. Era come se volesse
dirgli che d'ora in poi sarebbe andato tutto bene.
Come se volesse dirgli di fidarsi di lui perché in fondo,
erano nella stessa situazione.
Così annuì.
"Mi chiamo John. John Lennon."
"Bene, John Lennon, sei di queste parti?"
"Liverpool."
Lo sconosciuto sembrò essere preso in contropiede e il
suo sorriso vacillò: "Liverpool?"
"Sì, perché?"
"Anch’io sono di Liverpool. Sembra che abbiamo non
solo un'abilità in comune, ma anche le stesse origini." rispose l'uomo, e
la sua espressione si chiuse improvvisamente in qualcosa di malinconico e
triste, "Come sei finito qui?"
"Sono scappato." rispose John, tornando a
sedersi per terra.
"Da cosa stai scappando?"
John guardò l'uomo, mentre lo raggiungeva a terra:
"Persone che vogliono mettermi in gabbia."
"In gabbia? Chi vuole mettere in gabbia un
piccoletto come te?" domandò l’altro, incredulo.
"Quei mostri che vogliono affidarmi per forza a una
famiglia. Io non ho bisogno di una famiglia. Ho anche preso a mazzate l'ultimo
stronzo che doveva prendersi cura di me."
"A mazzate?"
"Sì. Voleva picchiarmi e mi sono difeso."
L’uomo annuì vagamente: "Capisco."
"E tu che ci fai qui?"
"Anche io sto scappando dalla gabbia."
"Cosa hai fatto?" gli chiese John, ora
sinceramente interessato a questo strano sconosciuto che gli si era avvicinato.
Forse, dopotutto, poteva fidarsi.
"Ho messo in pericolo mia moglie e i miei due
figli.” disse con un gran sospiro, “E ho preferito abbandonarli, piuttosto che
vederli soffrire a causa mia."
"E ora che farai?"
"Andrò a Londra per rifarmi una vita."
"Anche io voglio andare a Londra." esclamò John
e finalmente sorrise di un sorriso genuino.
L'uomo si voltò a guardarlo, sorpreso, e rise debolmente:
"Vuoi venire con me?"
"Sì. Tu mi aiuti ad arrivare a Londra e io ti aiuto
con qualche furto."
"In effetti…” disse l’uomo pensieroso, “Insieme
potremmo farcela."
John annuì: “Certo che possiamo farcela, John Lennon
riesce sempre in tutto.”
"Bene, sembra che abbiamo un affare, John."
esclamò l'uomo, porgendogli la mano, "Che ne dici di chiamarmi Jim?"
Note
dell’autrice: buon salve e buona Pasqua. J
Così, iniziamo con questa nuova storia, una AU… sì, adoro
le AU. :3 Ne ho scritta praticamente una in ogni fandom
in cui ho scritto ff, quindi, i Beatles non potevano
farla franca.
Non c’è molto da dire per ora, il prologo dice poco, ma
in effetti è il compito di un prologo.
Ringrazio kiki per la
correzione, _SillyLoveSongs_ per alcuni consigli, e ringostarrismybeatle per sopportare le mie paturnie sempre.
Il prossimo capitolo, “Itwon’t be long”, beh… se riesco a tradurre il nuovo capitolo
di Pesce d’aprile per martedì, arriverà mercoledì. :D
Quando l’uomo uscì dalla finestra, saltando a terra con
un agile balzo, inspirò a fondo l’aria della sera, frizzante, ma piacevole. La
primavera era finalmente arrivata.
L’allarme dell'Hard Rock Café
aveva iniziato a suonare già da cinque buoni minuti e le sirene della polizia
si erano unite solo da poco, quando avevano capito che il ladro era riuscito
nel suo intento ed era poi fuggito.
Ora lui stava correndo per tutto Hyde
Park, mentre le volanti della polizia sfrecciavano lungo le strade che
contornavano uno dei più bei parchi di Londra.
Il ladro rise, continuando a correre e stringendo la
presa sulla sacca con la refurtiva che portava sulle spalle. Un altro colpo era
andato a buon fine. Doveva solo sbarazzarsi di quei fastidiosi poliziotti. Non
che sarebbe stata un’impresa particolarmente difficile, anzi, lui ci stava
anche prendendo gusto.
Era quasi divertente, vedere come si affannavano per
cercare di stargli dietro, così goffi, patetici perché non avevano ancora
capito che Hermes era imprendibile.
Per esempio, in questo caso la polizia avrebbe perso
tempo ad aprire i cancelli per entrare con le proprie auto nel parco. La
tentazione di prendersene gioco fu troppa e Hermes decise di farsi vedere, solo
un po’, un piccolo movimento nell’ombra, così quello stupido dell’ispettore Sutcliffe si sarebbe precipitato fuori, iniziando a correre
alla cieca dietro alla sua preda, senza aspettare che anche le auto potessero
entrare.
E infatti le cose andarono proprio come previsto.
Avventato, Stu…molto
avventato, pensò il ladro.
Ma come biasimarlo dopotutto? Aveva saputo che era la sua
ultima occasione per catturare il famigerato Hermes. Se avesse fallito,
probabilmente il povero ispettore sarebbe stato trasferito chissà dove, forse
in campagna in un paesino sperduto con solemille anime, in cui la cosa più eccitanteche potesse capitare a un poliziotto era una
strada intasata da un gregge di pecore.
E il ladro sapeva che quello era ormai l’inevitabile
destino della sua nemesi, perché non aveva davvero nessuna intenzione di farsi
catturare.
Quando l’ispettore entrò nella sua visuale, il ladro si
diresse verso la Serpentine (1),
sicuro di riuscire a seminarlo lì. In fondo, era ciò che prevedeva il piano.
Quando raggiunse il lago artificiale che separava Hyde Park dai Kensington Gardens,
cercò immediatamente ciò che avrebbe depistato il suo inseguitore. Si trattava
di una rimessa di piccole imbarcazioni e fra queste c'era anche quella che era
stata sistemata lì proprio per lui.
La vide subito perché era l'unica ad avere già un..."passeggero".
Il ladro si avvicinò e adocchiò il telecomando che era
posto proprio accanto al manichino. Questo era stato vestito e legato al timone,
in modo da stare ben in piedi e apparire nella penombra come la sua sagoma
perfetta. Un lavoro decisamente impeccabile, e d’altro canto lui non poteva
aspettarsi di meno da quel piccolo, splendido aiutante che gli procurava tutti
questi trucchetti meravigliosi.
L’uomo afferrò il telecomando e corse a nascondersi sopra
un albero, aspettando l'arrivo dell'ispettore, il quale non tardò ad arrivare,
con la sua corsa maldestra e il respiro affannato. Hermes ridacchiò
sommessamente e azionò con il telecomando il marchingegno sull'imbarcazione,
che partì subito, facendo sussultare il povero ispettore.
"Ma cazzo!" imprecò lui, e si affrettò a
recuperare un mezzo per inseguire la sua preda.
Il ladro dovette tapparsi la bocca con una mano per non
scoppiare a ridere e farsi scoprire, mentre l'uomo cercava di far partire il
motore della piccola barca.
"A tutte le unità." esclamò Stuart, parlando
nella ricetrasmittente, "Il fuggitivo si dirige verso la riva ovest della
Serpentine. Circondare e bloccare immediatamente ogni via di fuga."
L'ispettore riuscì a partire e il ladro sorrise
soddisfatto. Il piano stava andando più che bene. Oh, quanto avrebbe voluto
vedere le facce dei poliziotti, quando avrebbero scoperto che l'uomo
sull'imbarcazione non era altri che un semplice e inanimato manichino.
Rimase sull'albero, mentre volanti della polizia
arrivavano da qualunque parte del parco per cercare di bloccare e arrestare una
volta per tutte Hermes.
Mentre queste si allontanavano dirette verso la riva
ovest e i Kensington Gardens, il giovane uomo decise
di aprire lo zaino per dare una rapida occhiata alla sua refurtiva: lì, tutto
piegato alla rinfusa, c'era niente meno che il vestito a strisce bianche e nere
che proprio Freddie Mercury aveva indossato nel Jazz
tour dei Queen del 1978.
Lo sfiorò con una mano e sentì una vibrazione
attraversare il suo corpo, la stessa che probabilmente riverberava nel corpo di
quella leggenda d'uomo, la stessa causata dalla sua energia infinita, quella
che mostrava in ogni concerto, fino agli ultimi giorni della sua troppo breve
vita.
E ora quel vestito, quel cimelio, così come tanti altri,
era nelle sue mani finalmente.
"John?"
John continuò ad ammirare quella meraviglia, l'aveva
desiderata da troppo tempo, lui con la sua passione smisurata per la musica e
in particolare per i Queen e-
"John!" lo
chiamò ancora una voce dal suo auricolare.
"Sì, sì, ci sono, Georgie."
rispose quasi spazientito per essere stato interrotto durante la sua opera di
ammirazione.
"Quante volte ti devo dire di non
chiamarmi Georgie?”
“Un’altra volta, mio caro.” esclamò John e si lasciò
scappare una risatina, mentre controllava che non ci fosse più nessuno in giro.
“Chiudi quella bocca e muovi il tuo cazzo di
culo." ribatté George, e John era quasi sicuro che
si fosse offeso.
Il piccolo, suscettibile, scontroso George Harrison. Ah!
Che prezioso aiuto era per John. E quanto si divertiva lui a prenderlo in
giro...
"Arrivo, arrivo, rilassati un po', amico."
esclamò John, saltando a terra e iniziando a correre dalla parte opposta
rispetto alla polizia, "Sei a Marble Arch?"
"Sì, li hai seminati?"
"Tsk, George, non dirmi
che avevi dei dubbi?" domandò, pensando ora di voler fare lui un po’
l’offeso.
“Dubbi sul famigerato Hermes? Mai e poi
mai." commentò George con una piccola risata, e poi
ancora, "Quindi Sutcliffe è fuori gioco
ora?"
"Sutcliffe è fuori gioco.
Hai visto che bella notizia ti porto?"
"John, sai meglio di me che anche se lo
mandano via, chiameranno qualcun altro. Magari molto più sveglio del povero Stu."
John infine si ritrovò all'uscita su Marble Arch e individuò subito la moto nuova di zecca di George,
l'ultimissimo modello della Honda, scintillante nelle luci della sera.
"Lo so." gli disse, raggiungendolo e
guardandolo con un sorriso rassicurante, "Ma vedrai che non durerà a
lungo. Faremo fuori anche lui."
George gli porse il casco, mentre John si abbassava il
cappuccio della felpa, scuotendo il capo per ravvivare i suoi capelli ramati,
"Come fai a esserne così sicuro?"
"Semplice." disse lui, salendo sulla moto
dietro di lui e allacciandosi il casco, "John Lennon riesce sempre in
tutto.”
“John, Hermes, che importa? Sono la stessa persona.”
E avvolgendo le braccia intorno alla sua vita, i due
sfrecciarono insieme per le vie di Londra.
Le sirene della polizia erano ormai un ricordo.
E Hermes aveva compiuto un
altro colpo.
****
“Allora, ispettore McCartney, benvenuto a bordo.” esclamò
Richard Starkey, alzandosi in piedi.
“Grazie, signore, sarà un piacere lavorare con lei. Non
la deluderò.” affermò Paul.
Egli si alzò e guardò il suo superiore, l’ispettore capo
della stazione di polizia di Chelsea, un piccolo uomo con un notevole naso e
grandi occhi azzurri, e gli sorrise fiducioso.
“Ne sono sicuro, a Liverpool parlano molto bene di lei.”
disse Richard, accompagnandolo verso la porta del suo ufficio, “Affidiamo il
caso alle sue mani.”
“Non si preoccupi, quel delinquente ha le ore contate.”
"Mi dica, ha già trovato un appartamento?"
"Sì, signore, ne ho trovato uno proprio qui
vicino."
"Spero sia di suo gradimento."
"In effetti, non è niente male.” rispose Paul,
annuendo entusiasta, “È una zona piuttosto tranquilla."
"Bene, allora si rilassi in questa giornata. Domani
mattina prenderà servizio e da lì comincerà la sua caccia al ladro."
esclamò Richard, stringendogli la mano.
Paul ricambiò la stretta, "Le assicuro che lo
arresteremo, signore.”
L'ispettore capo gli rivolse un gran sorriso e dopo
essersi congedato, Paul McCartney uscì dal suo ufficio, sfoggiando il più
determinato dei sorrisi.
Richard Starkey, come Paul, era appena stato trasferito
nella stazione di polizia di Chelsea, e dopo aver sollevato dal suo incarico il
precedente ispettore Stuart Sutcliffe, che aveva
fallito miseramente in tutto e per tutto, aveva assegnato quel posto al giovane
e promettente ispettore McCartney.
Gli aveva assegnato l’incarico di acciuffare Hermes.
Quel ladruncolo da due soldi che infestava Londra, la
magica, affascinante Londra. Paul aveva sempre desiderato andare a vivere nella
capitale, e non avrebbe mai pensato in tutti i suoi quasi venticinque anni che questo
desiderio si potesse avverare grazie a quella categoria di criminali che lui
odiava di più: i ladri.
Li odiava perché il loro crimine è quello di sottrarti
qualcosa che ti appartiene, qualcosa che tu hai pagato, e magari hai anche
sudato sette camicie per guadagnare i soldi necessari per comprarlo, oppure
qualcosa che ti è stato regalato e ha quindi acquisito un valore importante per
te.
Paul aveva dedicato tutta la sua carriera da poliziotto a
inseguire quei furfanti e recuperare le refurtive. Si era impegnato anima e
corpo nel suo lavoro. Il motivo? Beh, quando tuo padre abbandona la tua
famiglia dopo aver cominciato a rubare ed essersi messo nei guai, è il minimo
che possa accadere. E Paul odiava suo padre tanto quanto odiava i ladri.
Ma ora ciò che contava era la sua promozione e il suo
nuovo incarico. A Liverpool, Paul era riuscito a catturare una banda di
truffatori farabutti che approfittavano di ingenui vecchietti per entrare nelle
loro case e svaligiarle. Paul li aveva scovati abilmente e spediti dritti dritti in prigione, restituendo gran parte del maltolto ai
proprietari.
E grazie a quell’impresa, era stato promosso ispettore e
gli avevano proposto di prendere servizio nella stazione di polizia di Chelsea
che si occupava del caso di Hermes.
Come dire no a una simile offerta?
Finalmente poteva accettare e lasciare tranquillamente
Liverpool. Sua madre purtroppo era morta anni prima per un maledetto tumore al
seno che l'aveva spenta troppo presto. E il fratellino Mike era sposato da
appena un anno. Si era accasato con una brava ragazza, un bambino in arrivo e
un lavoro sicuro come fotografo. Non aveva più bisogno delle cure amorevoli di
Paul.
Inoltre a Londra Paul avrebbe potuto passare molto più
tempo con la sua fidanzata Jane. Essendo attrice, lei trascorreva molto più
tempo a Londra piuttosto che a Liverpool, quando era in Inghilterra. In questo
modo avrebbero facilitato la loro relazione.
Sì, Paul non vedeva l'ora di cominciare quella nuova
avventura. Quella che segnava l'inizio della parte più eccitante della sua
carriera e la fine, una volta per tutte, del famigerato Hermes.
(1)-
La Serpentine è il lago artificiale che separa Hyde
Park dai Kensington gardens.
Note
dell’autrice: e via con il capitolo 1. È arrivato anche
Paul, anzi l’ispettore McCartney. :3
E ci sono anche George e Ringo, ovviamente, non potevano
mancare.
Neanche a dirlo, in questo universo, si parlerà di molti
artisti davvero esistiti, tranne i Beatles, che non ci sono mai stati. Non è
credibile, ma è così. :D
Grazie a kiki per la
correzione. Grazie anche a ringostarrismybeatle e _SillyLoveSongs_ per il loro dolce supporto e tutti quelli
che seguono la storia.
Prossimo capitolo, “A day in
the life”, il giorno dell’incontro. Wowowow!
Arriverà domenica, che sarà d’ora in poi il giorno di
ogni aggiornamento, come in Ticket to Paris.
Paul era così entusiasta per essere venuto a lavorare e
vivere in quello che era sempre stato considerato il quartiere degli artisti.
Tutto era incantevole, i colori vivaci, i suoni, gli odori… Dio, già lo amava.
Aveva fatto bene a vagare un po’ per le vie
caratteristiche, di ritorno dalla stazione di polizia, ammirando affascinato il
verde rigoglioso dei parchi, il Tamigi che scorreva tranquillo, il chiacchiericcio
degli abitanti del quartiere, gli artisti di strada, i piccoli negozi di
antiquariato…
Aveva anche individuato delle gallerie d’arte che gli
sarebbe piaciuto visitare. Sicuramente agli occhi di qualcun altro sarebbe
apparso come un turista che metteva piede per la prima volta a Londra. In
realtà, vi era stato molte volte, sia per lavoro, sia per conto proprio. Ma non
aveva mai avuto modo di visitare Chelsea. E ora ci sarebbe persino vissuto.
Quanto era fortunato? Aveva una importante carriera
lavorativa, una fidanzata bella e famosa che lo adorava, un fratello
affettuoso, una casa piccola e accogliente…
Certo, non poteva immaginare che quel giorno, proprio
quello in cui aveva compreso appieno la sua fortuna, sarebbe stato anche il
giorno in cui la sua intera vita sarebbe cambiata.
E tutto cominciò quando vide quel negozio.
Stava rientrando a casa, per sistemare gli ultimi
scatoloni del trasloco; non aveva la stessa fretta di quella mattina, quando
era uscito di corsa per andare alla stazione di polizia, né era troppo occupato
a trasportare in casa le sue cose. Stava quindi esaminando e ammirando la
piccola via in cui si trovava il suo appartamento. Non era molto stretta, ma le
villette a schiera con soli due piani che la costeggiavano, la facevano sembrare
più piccola di quanto non fosse. Ogni casa era dipinta di un colore diverso,
colori tenui, giallo canarino, celeste, grigio, facendo risaltare il verde
delle piante che decoravano la strada in tutta la sua lunghezza.
L’appartamento di Paul era di un celeste molto pallido e lui
stava per rientrare in casa, quando si accorse che proprio lì di fronte vi era
un negozio.
Un piccolo negozio di musica dall’aspetto piuttosto
anticato. L’insegna di legno riportava il nome, Il tempio del rock.
Paul non seppe perché si sentì attirato da quel luogo. Al
momento pensò che fosse colpa del nome. Il tempio rimandava all’Antica Grecia,
come greco era anche il nome dell’uomo a cui lui stava dando la caccia, Hermes,
meglio conosciuto come messaggero degli dei, ma Paul aveva fatto delle ricerche
per conto proprio, quando era ancora a Liverpool, e aveva scoperto che la
divinità greca era considerata anche il dio astuto, un viaggiatore nella notte,
musico nonché, cosa assai più importante, ladro.
E il profilo di questo delinquente sembrava rispecchiare
pienamente quello del suo omonimo greco e divino. Era un ladro, ovviamente,
agiva solo di notte, si credeva tanto furbo da avvisare in anticipo la polizia
dei suoi colpi e rubava solo cimeli che avevano a che fare con grandi artisti
musicali, in particolare del rock.
Forse fu tutto questo che lo fece avvicinarsi al negozio
e poi aprire la porta ed entrare. Paul si guardò intorno, nel negozio vi erano
solo due ragazzini tutti intenti a guardare dei cd e alla sua sinistra, vicino
a una piccola cassa c’era un ragazzo pressappoco della sua stessa età, forse il
proprietario: aveva capelli ramati un po’ più lunghi dei suoi e soprattutto,
scompigliati, sul naso aquilino era appoggiato un paio di occhialini
rotondi,e aveva lo sguardo annoiato
fisso sullo schermo di un computer portatile.
Il campanello l’aveva fatto destare solo un po’ dal suo
torpore, giusto il tempo di sollevare lo sguardo verso il nuovo arrivato e
salutarlo con un cenno del capo, “Buongiorno.”
“Buongiorno.” rispose Paul, prima di dare un’occhiata in
giro.
Il locale era davvero minuscolo, per questo motivo non vi
era neanche il più piccolo centimetro libero. Nella parte centrale vi erano
banconi con scatoloni pieni di vecchi dischi in vinile, catalogati per genere.
Alle pareti, invece, vi erano gli scaffali con i cd musicali, e più in su,
mensole con libri sui più grandi artisti del rock, nonché diversi volumi di
spartiti per chitarra, basso e-
Un movimento sospetto attirò l’attenzione di Paul, mentre
osservava attentamente i titoli dei libri, un movimento che vide con la coda
dell’occhio. I due ragazzini alla sua sinistra stavano ridacchiando
sommessamente, mentre uno di loro stava infilando qualcosa sotto la giacca.
Paul agì prima di rendersene conto. Si avvicinò, afferrando con forza il polso
del ragazzo che stava rubando un cd.
“Lascialo andare subito!” gli intimò minaccioso, mentre
il ragazzo allentava la presa sul cd, lasciando che Paul glielo sfilasse dalle
mani, il tutto sotto gli occhi spaventati del suo amico.
“Tutto a posto?” chiese il
proprietario, sollevando la testa.
“Questi ragazzini stavano
cercando di rubare un cd.” rispose Paul, trascinando con sé il ladruncolo.
L’uomo non sembrò
particolarmente turbato, quando furono di fronte al bancone e Paul appoggiò il
maltolto di fronte a lui; anzi li guardò in modo quasi…divertito?
“Ehi, Danny, è la seconda
volta che ti sorprendo questo mese.” lo rimproverò, ma l’espressione allegra
del volto annullava completamente il richiamo.
Infatti il ragazzino gli
rivolse un sorriso sfacciato, “Eh insomma, John, non ce li ho mica tutti questi
soldi per questo cd. E poi oggi è il mio compleanno.”
“Davvero? Non era il tuo
compleanno anche due mesi fa?”
“Ma questo è quello vero.”
L’uomo di nome John rise,
prima di prendere il cd e consegnarlo al ragazzo, “Allora tieni e buon
compleanno, ma non farti più vedere fino all’anno prossimo!”
I due ragazzi presero il cd
e scapparono fuori dal negozio, lasciando Paul totalmente allibito per quanto
accaduto.
“Ma come? Li lascia andare
così?” domandò senza poter nascondere il suo sconvolgimento.
“Certo, sono solo due
ragazzini di tredici anni.” rispose John, scrollando le spalle, “È abbastanza
normale compiere qualche marachella alla loro età.”
Paul aggrottò la fronte,
perplesso: un crimine era sempre un crimine.
“Lei trova? Io penso che a
qualunque età un comportamento sbagliato debba essere corretto.”
“Sì, ma sicuramente non sarà
questo che li farà diventare dei delinquenti in futuro.” esclamò John divertito,
“Comunque la ringrazio per essere intervenuto.”
“Non deve ringraziarmi, è il
mio lavoro.” disse Paul, mostrando il distintivo, “Ispettore Paul McCartney,
del distretto di Chelsea.”
John alzò un sopracciglio,
interessato, prima di porgergli la mano affinché la stringesse, “John Lennon. È
nuovo di queste parti? Non credo di averla mai vista prima.”
“Sì, sono stato trasferito a
Chelsea da Liverpool.”
“Ma guarda, anche io sono di
Liverpool. Sono nato lì, ma dopo qualche anno la mia… famiglia si è trasferita
a Londra. Si trova bene a lavorare nella capitale?”
“In realtà comincio domani,
ma sono sicuro che mi troverò benissimo, mi hanno affidato un incarico molto
importante.” rispose Paul, molto orgoglioso.
“Intende il caso di Hermes?”
Paul sbatté le palpebre
sorpreso, “Come-”
John rise, “Andiamo, è il
caso dell’anno, no? È sulla bocca di tutti, il ladro melomane che ruba tutti i
memorabilia degli artisti musicali più famosi.”
“Non è qualcosa di cui
ridere, è un delinquente.” lo riprese Paul, severo.
Odiava quando la gente
prendeva così sottogamba le infrazioni della legge. Era come se ridessero del
suo lavoro e quindi, di lui, perché Paul viveva per il suo lavoro. Era la cosa
che più lo faceva sentire vivo e utile.
“Oh, suvvia, non stiamo
parlando di un assassino. Non ha mai fatto del male ad anima viva.” commentò
John.
“Comunque ha commesso dei
crimini e deve essere arrestato.”
“Su questo siamo d’accordo.”
esclamò infine John, ammiccando, “E quindi hanno fatto fuori quello che gli
stava alle calcagna, com’è che si chiamava? Sur…Sus…”
“Sutcliffe.
Ispettore Sutcliffe. E preferisco dire che sia stato
sollevato dal suo incarico.” precisò Paul.
John intrecciò le braccia,
pensieroso, appoggiandole sul bancone, “Sì, beh, immagino che per il povero
ispettore la sostanza non cambi.”
“Avrebbe dovuto impegnarsi
di più e questo non sarebbe successo.”
Paul sbuffò e quasi si pentì
di aver osato dire tanto con uno sconosciuto. Non era giusto, né professionale,
ma in fondo era ciò che pensava. Come potevi farti scappare un ladro che ti avvisava
anche di quando e dove avrebbe agito? Sicuramente Stuart Sutcliffe
non era stato addestrato bene quanto Paul.
“Dicono che sia
imprendibile.”
“Ha detto bene, dicono.” ribatté Paul, infastidito, “Io
invece dico, anzi, sono sicuro che lo prenderò e lo sbatterò in galera, dove
resterà fino a quando non avrà scontato la sua pena.”
John sorrise, ammirato, “Lei
sembra molto sicuro di sé. Non pensa che troppa sicurezza possa essere
controproducente?”
“Io confido solo in ciò che
so fare, dare la caccia ai criminali.”
Ed effettivamente, come
poteva non essere così sicuro delle sue capacità? Fin da giovane aveva
dimostrato di essere sveglio e di valere qualcosa. Doveva essere bravo,
speciale nel suo lavoro per arrivare ad assumere questo incarico importante ancora
così giovane.
John lo guardò solo per un
istante, poi sospirò tranquillamente, “Bene, e io le auguro tutta la fortuna
del mondo nel suo lavoro.”
“La ringrazio.”
“Mi dica, stava cercando
qualcosa di particolare nel mio negozio?” domandò John interessato, cambiando
decisamente argomento.
Preso in contropiede, Paul
si morse il labbro, perché in effetti neanche lui sapeva il motivo per cui
fosse entrato in quel negozio.
“Veramente no.”
“Allora ha sentito che stavo
per subire un furto?” chiese John, lasciandosi scappare una risata.
“Ehm no, io non so davvero
perché sono entrato qui.” rispose sinceramente Paul, “Stavo rientrando a casa e
ho visto l’insegna. Non so a cosa stessi pensando, neanche mi piace la musica.”
Il divertimento dal viso di
John sparì improvvisamente, lasciando spazio per un’espressione di totale
sconcerto, “Come fa a non piacerle la musica?”
“E’ così. Io detesto la
musica.”
John non disse nulla, si
limitò a fissarlo come se Paul per lui fosse un alieno, con le corna e la pelle
verde.
“Senza musica la vita sarebbe un errore.” disse John e poi fece il
giro del bancone per raggiungere Paul, “Sa chi l’ha detto?”
Paul scosse il capo.
“Nietzsche. E sa una cosa,
ispettore? Credo che lui avesse ragione. Provi a immaginare la sua vita come un
film, di quelli che vede al cinema o in televisione. Lei crede che avrebbero lo
stesso effetto, se togliesse la colonna sonora? Certo che no, perderebbero metà
della loro bellezza.” spiegò John, accalorato.
“Non lo metto in dubbio, e
lei saprà meglio di me che la musica può suscitare in noi le emozioni più
disparate. Il problema è che queste emozioni non sempre sono piacevoli.”
esclamò Paul.
Ed era vero, per chiunque la
musica poteva far riaffiorare la gioia, l’amore, la felicità, ma allo stesso
modo, poteva far rivivere i momenti peggiori della propria vita, riportare la
tristezza e le lacrime. Quindi perché ricordare tutto ciò, se bastava
semplicemente cliccare il tasto STOP o
staccare la spina dello stereo?
“E’ il bello dell’ascoltare
la musica. Bisogna dimostrare molto coraggio anche nel sopportare le emozioni o
i ricordi spiacevoli che può portarci.”
Paul scosse il capo con un
sorriso triste sulle labbra, “Allora io non ho questo coraggio.”
“Io dico di sì, è un poliziotto
dopotutto.” ribatté John, incoraggiandolo, “Basta cercarlo da qualche parte. E
io so cosa può aiutarla a trovare questo coraggio.”
Paul sospirò e si maledisse:
quando era entrato nel negozio non avrebbe mai pensato di finire in una
disquisizione su qualcosa di così insopportabile come la musica. Quell’uomo non
voleva capire che proprio non c’era niente da fare: lui detestava la musica e
non solo qualche canzone in particolare, qualche artista o opera, lui odiava la
musica in generale e tutto ciò ad essa correlata.
Ma evidentemente il suo
interlocutore era più cocciuto di lui, perché si diresse verso lo stesso
scaffale dove Paul aveva colto in flagrante i due ragazzi, e tornò con lo
stesso cd tra le mani.
“La prego, accetti questo
regalo.” gli disse poi, sorridendo e porgendogli l’oggetto.
“Perché?” domandò Paul,
perplesso.
“Per sdebitarmi del favore
che mi ha fatto.”
Paul agitò le mani, in un
chiaro segno di rifiuto, “Non ce n’è bisogno. Ho fatto solo il mio-”
“Il suo lavoro, lo so. Ma
devo insistere.” disse John, avvicinando di più il cd all’altro uomo.
Paul lo guardò riluttante,
ma alla fine, si convinse e lo prese fra le sue mani: era Exile on Main Street, dei RollingStones.
“Comunque non penso che lo
ascolterò.” ribadì convinto.
“Io credo di sì, magari tra
qualche giorno, o tra qualche settimana, ma lo farà.” affermò John, fiducioso,
“Perché in fondo, essendo un uomo di giustizia, sa bene anche lei che deve
darle una seconda occasione, prima di proclamare la condanna definitiva.”
Paul lo osservò, sospirando
lievemente. Pensò che non aveva mai considerato questo punto. Lui aveva un
motivo, un buon motivo per odiare la musica, ma era anche vero che era stato
sempre troppo arrabbiato per cercare di risolvere questa situazione particolare
in cui si trovava. Ora però John Lennon gli stava facendo capire che il suo
comportamento era sbagliato, mentre Paul era un uomo giusto. Gli errori non
erano previsti.
“Perché questo?” chiese poi
incuriosito.
John scrollò le spalle,
“Nessun motivo in particolare. È una riedizione uscita da poco, l’originale è
del 1972. L’ha mai ascoltato?”
“Non che io ricordi.”
“Deve assolutamente
recuperarlo. Anche quei ragazzini sapevano che è uno dei migliori album degli Stones. Stavano cercando di rubarlo, è vero, ma almeno
avevano buon gusto. E lei ora lo porta a casa sua e un giorno dovrà ascoltarlo,
e poi vorrei che venisse a parlarne con me, per sapere cosa ne pensa.
D’accordo?”
Paul si morse il labbro,
ancora titubante, ma alla fine annuì, “Allora grazie.”
“Grazie a lei.”
Paul si diresse verso
l’uscita e John lo accompagnò.
“Spero di rivederla presto,
ispettore.” gli disse, stringendogli nuovamente la mano.
“Penso che accadrà più
presto di quello che lei immagina.” affermò Paul, sorridendo, “Dal momento che
abito proprio qui di fronte.”
“Ah, davvero?” domandò John,
più che sorpreso, “Io abito nella casa accanto. Se dovesse avere bisogno di
qualcosa, mi chiami pure.”
“Grazie.” disse Paul,
“Allora buona giornata.”
“A lei.”
Paul si voltò, prima di
raggiungere la porta di casa sua e scomparirvi dietro.
John, John Lennon, l’uomo
che si nascondeva dietro Hermes, lo seguì con lo sguardo e un gran sorriso sul
viso fino all’ultimo istante, restando sulla soglia del suo negozio.
Paul McCartney, lo sbirro
che ora gli stava alle calcagna era quel ragazzino così giovane, così pieno di
sé e con gli occhi troppo grandi? Quasi gli veniva da ridere all’idea di quanto
sarebbe stato facile sbarazzarsi anche di lui.
Come rubare un lecca-lecca a
un bambino. Se non addirittura più facile.
Oh, sì, la strada per Hermes
era tutta in discesa.
Note
dell’autrice: no ma… i RollingStones… senza i Beatles… ma che mi sono fumata?! XD
Ok, bando alle ciance, siamo
infine giunti al fatidico incontro. È stato come ve l’aspettavate? E sono anche
dirimpettai. Bene e male che vivono così vicini… uhhhh
:3
Allora grazie a kiki per la correzione, a ringostarrismybeatle
e _SillyLoveSongs_ per il loro supporto, e a chiunque segua la
storia.
Nel prossimo capitolo, “In spite of all the danger”, scopriremo se Paul riuscirà ad ascoltare questo
benedetto cd.
Paul sorrise, mentre parlava al telefono con Jane. Usava
l’auricolare perché nel frattempo stava terminando di sistemare gli ultimi
libri nella libreria del suo salotto, al piano di sopra.
“Molto bello.” rispose, infilando I tre moschettieri
tra Le avventure di Sherlock Holmes e Dieci piccoli indiani, “Ho
finito di mettere a posto tutta la mia roba.”
“Bravo ragazzo.”
esclamò lei con una risatina, “E il quartiere?”
“Incantevole. Quando tornerai a Londra, lo visiteremo
insieme.” le disse Paul, fiducioso.
Jane sembrò entusiasta, “Mi sembra un’ottima idea.”
“Avete finito di girare?”
“Sì, ma il regista vuole sistemare l'ultima
scena.” rispose lei, sbadigliando annoiata, “Perciò penso che
resteremo qui qualche altro giorno.”
“Ma poi verrai a Londra, giusto?” domandò lui, impedendo
a se stesse di far trapelare la sua ansiosa attesa.
“Certo. Sbaglio o tra poche settimane
qualcuno compie venticinque anni?”
Paul rise, “No, in effetti penso che tu abbia ragione.”
“Ci vedremo sicuramente per il tuo
compleanno, amore. Stai tranquillo.”
“D’accordo." esclamò lui, abbassando poi lo sguardo
a terra, incerto, "Jane, io-”
“Ora ti saluto, Paul, devo scappare." lo
interruppe lei bruscamente, "Hanno organizzato una cena per tutti in
hotel questa sera.”
“Oh." disse lui, e questa volta si costrinse a
nascondere la delusione, "Sì, certo. Divertiti.”
“Buona serata, Paul.”
“Ti amo, Jane.”
“Anche io.”
Poi il segnale di occupato risuonò nell’orecchio di Paul.
Jane aveva messo giù e Paul era di nuovo solo.
Il giovane uomo sospirò, prima di abbandonare sul divano
l’auricolare e il cellulare.
Doveva ammetterlo. La vita a Londra dove non conosceva
nessuno non era così eccitante come era apparsa all’inizio. La solitudine non
si era fatta attendere e presto era arrivata a casa di Paul. Era la sua fredda
e silenziosa compagna di vita.
A Liverpool quando usciva di casa per andare a lavoro,
salutava i vicini che uscivano a prendere il giornale o erano fuori a stendere
i panni. Poi nel pomeriggio, poteva andare a trovare suo fratello e la sera
usciva con qualche amico, Ivan o Pete, per andare a bere qualcosa in un pub.
A Londra, invece, riusciva a scambiare qualche parola
solo con i suoi colleghi di lavoro. Ma per il resto non apriva più bocca, al di
là di qualche telefonata a Jane o Mike.
Jane, la sua bellissima ragazza, era a New York a girare
un film, una commedia americana, da quello che aveva capito Paul. Era stata
piuttosto impegnata nelle ultime settimane, e le telefonate tra lei e Paul si
potevano contare con le dita di una mano. Il fuso orario non aiutava di certo:
quando Jane finiva di girare, verso le nove di sera, a Londra erano ormai le
due del mattino e Paul era già nel mondo dei sogni. Lui le aveva sempre detto
di chiamarlo, nonostante l’orario, ma lei non voleva svegliarlo per non
disturbare il suo riposo.
Erano mesi che non la vedeva, che non poteva baciarla né
stringerla tra le sue braccia, inspirando a fondo il profumo dei suoi capelli
rosso fuoco.
Certe volte si chiedeva se valesse lo stesso per lei.
Anche Jane sentiva la sua mancanza proprio come Paul?
Una vocina petulante e fastidiosa nella sua mente gli
diceva che no, non era così. Il che portava a una serie di riflessioni che Paul
probabilmente non era ancora pronto per affrontare. Una fra tutte era che non
ricordava l’ultima volta che lei gli avesse detto di propria iniziativa, “Ti
amo.”
Solitamente era sempre lui a dirglielo, prima di
salutarla, e lei rispondeva con un rapido, “Anche io.”
Tuttavia Paul cercò di scacciare quel pensiero, non era
certamente il momento di pensare a quello, e soprattutto sapeva che in questo
caso, solo in questo caso, sia chiaro, lui si stesse sbagliando.
Dopotutto ora c'era solo una cosa di cui doveva
occuparsi. Un piccolo, maledetto ladro che sembrava davvero evanescente.
Ormai erano quasi due settimane che aveva iniziato a
lavorare alla stazione di polizia di Chelsea. Aveva letto e riletto e riletto
tutti i documenti, gli articoli, i rapporti di ogni furto di Hermes e ancora
non capiva come riuscisse a scappare ogni volta.
Sembrava che il delinquente avvertisse prima di ogni
colpo, e nonostante la polizia ricorresse alle misure di sicurezza più
sofisticate e ingenti, lui riusciva sempre a farla franca. Come, non si sapeva.
Era proprio come se all’improvviso quest’uomo diventasse immateriale,
invisibile, inudibile…
Semplicemente spariva, per qualche sorta di strano
incantesimo. Come una specie di Harry Potter, con il Mantello dell’Invisibilità
e la bacchetta magica.
Sì, certo, come se fosse un’opzione possibile,
aveva pensato Paul, prima di ridere per l’assurdità del suo pensiero.
Di fronte a lui vi era un’impresa davvero ardua. Sapeva
in partenza che non sarebbe stato facile, e anche ora, dopo aver compreso la
reale difficoltà del lavoro che lo aspettava, ovvero catturare Hermes, non si
lasciò abbattere. Lui sapeva, sentiva di avere le capacità adatte per
fermarlo.
Sentiva che sarebbe stato lui ad arrestarlo.
Il pensiero lo fece sospirare e poi sorridere, mentre
decideva di aprire la finestra per osservare la luce calda del tramonto che
illuminava la via del suo appartamento. Le pareti colorate delle case di fronte
e accanto alla sua risplendevano appena con la tenue luce del sole che andava
lentamente a morire.
Paul si sporse ancora di più dalla finestra, il suo
sguardo cadde sulla porta del negozio di musica che si stava aprendo e il suo
proprietario… John? Sì, John stava uscendo per poi chiudere la porta a chiave e
abbassare la saracinesca.
Paul non aveva ancora ascoltato il cd che gli aveva
regalato, nonostante gli avesse assicurato che ci avrebbe provato. E ora che ci
pensava non era stato proprio perché non volesse farlo, quanto piuttosto perché
era stato così preso dal lavoro e dal trasloco che non aveva avuto tempo di
fare altro. Quando arrivava l’ora di cena, non aveva neanche le forze per
preparare da mangiare.
Era così sovrappensiero che non si accorse che John lo
stava osservando, e quando intercettò il suo sguardo, lui lo salutò con un
cenno della mano e Paul gli sorrise debolmente, ricambiando il saluto, prima
che l’uomo sparisse dentro casa sua.
Paul vide la luce accendersi al di là delle finestre
della casa di fronte alla sua, primo piano, poi quelle del secondo. Le fissò
per qualche minuto, immaginando come dovesse essere la casa di quell’uomo:
sicuramente disordinata, sporca, con vestiti sparsi dovunque, i piatti accumulati
nel lavello, un’intera stanza piena di cd musicali e vinili, magari anche una
dedicata solo a suonare. Probabilmente quel ragazzo suonava la chitarra, o la
batteria o il pianoforte. Paul sospirò, qualunque strumento suonasse,
l’importante era che non lo disturbasse mentre voleva riposarsi.
Al pensiero del riposo, non poté trattenere uno
sbadiglio. Era molto stanco, in effetti. Avrebbe passato la serata sdraiato sul
divano, magari davanti alla televisione, che trasmetteva il solito inutile
varietà, poi si sarebbe addormentato e sarebbe rimasto lì tutta la notte,
risvegliandosi il mattino dopo con un terribile mal di schiena.
No, non gli piaceva proprio quel programma, pensò mentre
chiudeva la finestra. Guardò il salottino che aveva arredato al piano di sopra.
Vi erano una grande libreria, con incastonato un piccolo televisore, di fronte
un divanetto dai cuscini soffici, e sul mobiletto con una lampada antica, di
ferro battuto, che aveva preso dalla casa di sua madre, vi era appoggiato, o
forse era meglio dire abbandonato, il cd che gli aveva regalato il signor
Lennon. Lo aveva messo lì, perché non sapeva dove metterlo, non aveva porta-cd,
né uno stereo per ascoltarlo.
Anche se avesse voluto ascoltarlo, come avrebbe potuto
farlo?
Ma certo, il lettore dvd. Ne aveva preso uno che leggeva
anche i cd.
Dannazione, non aveva neanche la scusa di non avere i
mezzi per poterlo ascoltare.
Così, alla fine si decise. Era quasi sicuro che, se
avesse incrociato John nei prossimi giorni, lui sicuramente gli avrebbe chiesto
notizie sul cd. Perciò meglio togliersi da questo impiccio il prima possibile.
Si apprestò a sistemare il cd nel lettore e poi lo fece
partire, mentre andava a sedersi sul divano.
Da quanto tempo non ascoltava più un po’ di musica di sua
spontanea iniziativa? Una vita, praticamente. Da prima che lui se ne
andasse. Era lui che lo aveva fatto appassionare all’inizio, era lui che gli
aveva fatto ascoltare gli album più famosi, condividendo con Paul i suoi gusti,
e allo stesso modo, era lui che l’aveva deluso, lui il motivo per cui non
ascoltava più musica, per cui era arrivato a odiarla.
Per questo evitava di fare qualunque cosa avesse a che
fare con la musica, perché ogni volta, era come se lui apparisse davanti ai
suoi occhi, e Paul lo odiava così tanto che avrebbe voluto avventarsi su di
lui, afferrarlo per le spalle e scuoterlo, solo per scaricare un po’ di quella
sofferenza che lui gli aveva inflitto con il suo abbandono.
E continuare così, all’infinito, finché lui non avesse implorato
il suo perdono.
Paul sbatté le palpebre, rendendosi conto che il cd aveva
già cominciato a essere riprodotto e lui neanche se n’era accorto, troppo preso
da quei pensieri pieni di rancore verso qualcuno che non meritava il suo
perdono.
Per qualche momento rimase semplicemente fermo ad
ascoltarlo. Le prime canzoni si alternavano, senza che lui restasse
particolarmente scosso. Stava, sì, stava filando tutto liscio. O almeno così
sembrava.
Una canzone lo colpì particolarmente. Non era male. Aveva
un bel ritmo, di quelle che ti inducono a tenere il tempo con una parte
qualsiasi del corpo. E Paul quasi lo fece, prima di realizzare che non poteva
permetterselo. Significava dargliela vinta, troppo presto.
Così decise di sdraiarsi sul divano, e limitarsi ad
ascoltare la canzone. Non capiva bene le parole, sembrava che il cantante se le
mangiasse. Ma da quello che poteva capire lui, che non era esperto né di questo
gruppo, né di musica in generale, e non voleva certamente esserlo, era un po’
il suo stile: aveva una pronuncia, un modo di cantare molto strascinato.
Si adattava bene a canzoni
dalle atmosfere più tristi.
Paul non fece in tempo a
pensare questo che pochi minuti dopo, quella canzone, quella più malinconica,
quella che lui aveva solo ipotizzato, arrivò.
E dalle prime note, dalle
prime parole strinse il suo cuore. Lo catapultò violentemente in un pub, uno di
quelli nascosti nei vicoli bui, uno squallido e maleodorante. Paul era lì, nel
bel mezzo del pub, a guardarsi intorno. Ma non era spaesato, piuttosto era come
se sapesse chi stava cercando. E alla fine lo vide.
“And his coat is
torn and frayed”
Un uomo di mezz’età, con i capelli radi sulla testa, il
cappotto pesante, sporco e rovinato… aveva un’aria maledettamente familiare.
“It's seen much
better days.”
E come il cappotto, anche quell’uomo aveva visto giorni
migliori. Sembrava saperlo bene, anche nel suo stato ubriaco: le guance
arrossate e gli occhi annebbiati erano la prova evidente che forse aveva
esagerato con le pinte di birra.
“Just as long as
the guitar plays”
Perciò tutto quello che poteva fare era stare lì, seduto
da solo a quel tavolo, a pensare probabilmente ai suoi guai, mentre quella
canzone veniva suonata per accompagnare i suoi turbamenti.
“Let it steal
your heart away”
Paul sapeva chi era, sapeva cosa aveva fatto, a cosa
stesse pensando, perché si stesse struggendo in quel modo. Se fosse stato un
uomo qualunque, si sarebbe avvicinato per fargli compagnia, e bere una pinta
con lui, mentre gli chiedeva, “Che succede, amico?”
Ma no, quell’uomo, proprio quello, con gli occhi chiari
così familiari e il naso uguale al suo, meritava di essere in quella miseria,
anche se una parte di Paul, una piccolissima parte di Paul, voleva raggiungerlo
disperatamente, abbracciarlo e chiedergli, “Perché l’hai fatto?”, e poi
implorarlo di non lasciarlo più, mai più.
E così Paul sentì questo tormento interiore prendere
vita, liberarsi dalla gabbia in cui lui l’aveva rinchiuso anni prima, e salire,
salire percorrendo tutto il suo corpo, fino agli occhi, che si inumidirono e
lasciarono sfuggire piccole lacrime sulle sue guance arrossate e Paul-
Paul balzò in piedi, dirigendosi verso il lettore dvd e
con un movimento brusco lo spense. Il silenzio e la pace tornarono nella
stanza, ma non dentro Paul.
Sapeva che non avrebbe mai dovuto farlo. Che non era
pronto e non lo sarebbe mai stato. Perché l’aveva fatto? Per quello stupido
impegno che aveva preso con quello stupido fanatico del negozio di fronte?
Sì, per quello. Ma anche perché in fondo, una parte di
lui, la stessa che desiderava ancora abbracciare quell’uomo, aveva sperato che
potesse essere in grado ora, dopo tanti anni, di ascoltare di nuovo la musica.
Dopotutto non era come se non l’avesse mai ascoltata, anzi. Fino alla morte di
sua madre, la musica era sempre stata presente nella sua casa, più per
compiacere lei, ovviamente. Ma c’era stata. E questo voleva pur dire qualcosa.
Prese in mano il cd e lo sistemò nella custodia. Ci aveva
provato e no, non era andata bene, ma ci aveva provato. E John gli aveva detto
che poi sarebbe dovuto passare da lui, per parlarne.
Ebbene, Paul aveva tutta l’intenzione di farlo,
soprattutto per dirgli che sapeva che sarebbe finita in questo modo.
Per dirgli che era un caso senza speranza.
****
Il giorno dopo, Paul tornò dall’ennesima giornata di
lavoro inutile, in cui non aveva ricavato assolutamente alcuna informazione
preziosa sul conto di Hermes. Certo, l’esperienza della sera prima lo aveva
turbato, ma lui riuscì a tenere a bada i suoi sentimenti, e allontanarli dal
suo luogo di lavoro.
Quando rientrò, il negozio di musica era ancora aperto e
Paul decise di farci un salto. Entrò nel negozio, il campanello suonò
richiamando l'attenzione dell'uomo alla cassa. Il giovane ispettore batté le
palpebre confuso, quando realizzò che non si trattava dell'uomo di nome John.
Questo ragazzo era diverso. Era magrolino, i capelli castanierano lunghi e gli incorniciavano un viso
piccolo con zigomi marcati. Aveva gli auricolari alle orecchie e quando Paul si
avvicinò, ne tolse uno.
"Desidera?"
"Sì, ehm... Mi chiamo Paul McCartney, stavo cercando
il signor Lennon."
Il ragazzo lo fissò un istante attentamente, socchiudendo
le palpebre.
"Il signor Lennon?" ripeté divertito, "Ho
capito, lei deve essere lo sbirro."
"Ispettore, prego." lo corresse lui, non
gradendo particolarmente il termine adottato.
"Quello che è. John la stava aspettando."
rispose il ragazzo, tornando a posizionare l'auricolare nell'orecchio.
Paul inarcò un sopracciglio, "Sì, ma dov-?"
Non fece in tempo a concludere la domanda, che il ragazzo
gli indicò distrattamente il fondo del bancone della cassa. Paul non ci aveva
fatto caso l'altra volta, ma c'era una piccola tenda dello stesso colore delle
pareti. Si avvicinò e scostò il tessuto leggero, mentre dei suoni giungevano
alle sue orecchie. Suoni che scoprì presto essere prodotti dallo stesso John,
seduto su una sedia in mezzo a una stanza grande quasi metà del negozio. Aveva
una chitarra tra le braccia e la strimpellava allegramente. Il risultato non
era particolarmente piacevole. E non era certo a causa di Paul e della sua
avversità verso tutto ciò che producesse musica. Sentiva che non erano accordi
giusti, quelli di John.
John lo scorse e si fermò, un sorriso nacque sulle sue
labbra, “Salve.”
"Salve." esclamò Paul.
"Non mi aspettavo di vederla così presto,
ispettore."
“A essere sinceri, neanche io.” rispose Paul,
ridacchiando un po’.
John lo imitò brevemente, prima di invitarlo a sedersi di
fronte a lui, “Allora, deduco che abbia ascoltato il cd che le ho regalato?”
Lui non era pronto a vederlo
proprio quel giorno. Era sicuro che Paul McCartney avrebbe ascoltato quel cd, in
fondo John l'aveva punto nel suo orgoglio di poliziotto, ma non così presto, e
la cosa lo sorprese piacevolmente.
"Oh, non come lei
sperava, ma come io mi aspettavo."
John aggrottò la fronte,
"Nel senso che non le è piaciuto?"
"Nel senso che questa
non è una cosa facile da superare." spiegò Paul, “Non posso riavvicinarmi
a qualcosa che ho odiato per metà della mia vita da un momento all’altro.”
John annuì vagamente, “Lei è
molto enigmatico, gliel’hanno mai detto?”
Paul rise, “Ha ragione, mi
perdoni. Quello che volevo dirle, è che sono riuscito ad ascoltare solo qualche
canzone, non tutto l’album.”
“Ma qualche canzone l’ha
ascoltata, giusto?” gli domandò John, incoraggiandolo.
“Sì, certo.”
“E cosa ne pensa?”
“Beh, erano… erano
interessanti. Una, in particolare, mi è rimasta impressa.”
“Quale?”
“Non la conoscevo, ma mi
pare che dicesse: Baby, I can't stay, yougot to roll
me, and call me the tumblin' dice.”
“Ah sì, Tumbling
dice, quella che fa così.” esclamò John, prima di cominciare a cantare e
strimpellare qualche accordo sulla sua chitarra.
Paul lo osservò
attentamente, soffermandosi sulle dita e il modo in cui suonava. Come aveva
immaginato, John sbagliava gli accordi. Erano posizioni strane, Paul le
conosceva bene perché lui…
Lui
glieli aveva insegnati, quando Paul era piccolo, e glieli aveva insegnati in
quel modo, nello stesso modo in cui si suonava un banjo. Ma non erano adatti a
suonare una chitarra. Paul l’aveva scoperto qualche tempo dopo, grazie alle
lezioni che gli aveva fatto frequentare sua madre.
Il suo disappunto doveva
essere evidente, perché John si fermò a guardarlo.
“Cosa?”
“Dove ha imparato a suonare
in quel modo?”
“Da solo, perché?”
“Oh, niente, è solo che lei
sta usando degli accordi errati.” gli spiegò Paul, cercando di non tirare fuori
il So-Tutto-Io che si nascondeva in lui.
Sembrava essere abbastanza
fastidioso e soprattutto, incompreso dalle persone che correggeva.
“Chiedo scusa?” esclamò
John, sorpreso e divertito, “Non mi dica che lei sa suonare la chitarra?”
“In realtà, sì.”
John ridacchiò, “ Non
pensavo che un poliziotto sapesse suonare la chitarra, uno come lei, poi.”
“E invece le dico di sì, ho
preso lezioni da ragazzino.” ribatté Paul, accorato.
John gli rivolse uno sguardo
scettico, “E nonostante questo, continua a odiare la musica?”
“Sì.”
John rifletté per un momento.
Sapeva che Paul stava dicendo la verità, sapeva che questo ispettore, quello
che gli stava alle calcagna fosse sincero riguardo quell’informazione. Un brivido
lo percorse, mentre un pensiero si insinuava nella sua mente, un pensiero da
folli: era assai rischioso, ma se avesse giocato bene le sue carte, avrebbe
potuto sfruttare questa nuova conoscenza a suo favore.
“Le posso chiedere una cosa?”
“Certo.”
“Potrebbe insegnarmi a
suonare con gli accordi corretti?”
Paul sbatté le palpebre,
totalmente turbato dalla richiesta. Una richiesta assurda, illogica,
impossibile!
“Cosa? Non se-”
“Aspetti, prima di dire un
no definitivo.” lo interruppe John, alzando una mano, “Provi a pensare che
potrebbe essere una cosa utile a entrambi.”
“E in che modo?” chiese
Paul, il pessimismo era evidente sul suo viso.
“Io imparo gli accordi
corretti, e lei si riavvicina alla musica un passo alla volta.”
Paul aggrottò la fronte,
perplesso: era strano, messa in quel modo, la prospettiva offerta da John non
era così terrificante. C’era qualcosa di intrigante, nella proposta e in
quell’uomo, nel modo in cui si stava interessando al suo piccolo problema.
Naturalmente John lo stava facendo più per se stesso, per imparare a suonare
bene la chitarra, ma a Paul non importava, perché inoltre, questo accordo gli
avrebbe permesso di avere qualcuno con cui parlare, fuori dall’ambito
lavorativo. Forse avrebbero anche potuto diventare amici, chissà.
Certo, sarebbe stato un
rapporto che avrebbe avuto a che fare principalmente con la musica, ma Paul
poteva sopportare.
Come aveva detto John? Un
passo alla volta?
Sì, poteva farcela.
“Posso pagarla se-” iniziò a
dire John, non vedendo alcuna risposta da parte di Paul, ma questi lo
interruppe subito alzando una mano.
“Non ce n’è bisogno.”
rispose, “Accetto solo a una condizione.”
“Quale?”
“Che lei mi chiami Paul.”
disse Paul, porgendogli la mano.
John la guardò solo un
istante, prima di sorridere e stringerla.
“Bene, Paul, che ne
dici di chiamarmi John?”
Note
dell’autrice: oh c’è Jane al telefono con Paul. E poi Paul
ha qualche problemino ad ascoltare il cd, ma almeno ci ha provato. E alla fine
John gli fa quella strana proposta…
Bene, spero che tutto ciò
sia piaciuto.
Grazie a kiki
per la correzione, grazie anche a ringostarrismybeatle
e _SillyLoveSongs_ per il sostegno e per rendere le
mie giornate più dolci con le loro chiacchierate, e grazie a tutti quelli che
seguono la storia.
Era la cosa più pericolosa che John avesse mai fatto e
quando ne aveva parlato con George, anche lui gli aveva dato del folle, dello
svitato, del completamente ammattito. Ma non uno dei suoi tentativi di
convincimento riuscirono a fargli cambiare idea, né il “E’ un fottuto
poliziotto”, né il “E’ il fottuto
poliziotto che sta cercando te”, né il “Se compi un passo falso, sei fregato.”
Semplicemente a John piaceva il rischio. Il rischio era
come prendere una piccola scossa, era come il ketchup sulle patatine, rendeva
tutto migliore.
E doveva anche considerare che questa nuova “amicizia”
gli sarebbe stata molto utile. Per suonare bene la chitarra? Sì, anche, ma
soprattutto perché c’era la possibilità di ricavare qualche informazione utile
sugli spostamenti della polizia.
Così ora si trovava in compagnia dello sbirro, no, anzi,
di Paul, nel suo studio per la loro seconda lezione. John aveva ricavato
questa piccola stanza per se stesso dietro il negozio. Qui custodiva un paio di
chitarre acustiche, una elettrica, una tastiera, un amplificatore, poi c’era
qualche scaffale con libri di musica, e sulla parete opposta rispetto a dove
suonava John, erano appese diverse foto di lui con George e la sua fidanzata
Pattie, ma soprattutto di lui e Julian, Julian che giocava nel parco, Julian
che dormiva a casa, Julian che mangiava la pappa con il bavaglino… Era un modo
per averlo sempre con sé, anche la mattina, quando lui era all’asilo.
“E’ tuo figlio?” gli chiese all’improvviso Paul.
Aveva visto quelle foto già durante la loro prima
lezione, e aveva anche riconosciuto il ragazzo che qualche giorno prima l’aveva
chiamato “sbirro”: si chiamava George e aiutava John in negozio. Tuttavia Paul si
era dimenticato di chiedere informazioni riguardo le foto del bambino. E ora,
mentre accordavano le chitarre prima di cominciare, Paul ne approfittò per
sapere.
John sorrise, di un sorriso dolce, felice, sincero, “Sì,
si chiama Julian.”
“Si vede, ti assomiglia molto.”
“Dici?”
“Sì, avete la stessa forma degli occhi.”
“Lo dicono tutti.” commentò John, compiaciuto, allentando
la corda del Mi cantino.
“Quanti anni ha?”
“Quattro. È nell’età in cui posso ancora spupazzarlo
quanto voglio.” esclamò, prima di non riuscire a trattenere una risatina.
Paul rise, “Sì, immagino. Quindi sei sposato?”
“No.”
“Fidanzato?”
“Mm…no.”
Paul aggrottò la fronte, perplesso, “E la madre?”
John sospirò, doveva pur aspettarsi quella domanda. Tuttavia
non era pronto a condividere tanto con un perfetto sconosciuto.
“Diciamo solo che è una storia lunga.” tagliò corto John.
“Oh, capisco.”
Paul si morse il labbro, pensando che forse avesse osato
un po’ troppo e che non gli fosse ancora permesso chiedere cose così private a
un uomo che conosceva da appena due settimane. Tuttavia, sperava che John
capisse che fare domande, essere curioso, era nella sua natura di poliziotto.
Non lo faceva per essere scortese, era semplicemente più forte di lui.
“Andiamo avanti?” domandò infine John, sorridendo per
mostrargli che non era arrabbiato, o meglio, era arrabbiato, ma non con Paul.
Era arrabbiato perché quella storia, quella della madre
di Julian, faceva ancora male dopo tanto tempo e non era giusto.
Paul annuì più rilassato, “Hai studiato il giro di Do?”
“Certo, prof.”
“Allora, prego.” disse Paul, facendogli cenno di
dimostrarglielo.
John guardò solo brevemente le corde sul manico della
chitarra, per sistemare le dita nei tasti giusti, e poi cominciò a suonare gli
accordi del giro di Do.
Era molto più difficile, rispetto a come era solito
suonare lui. Il suo primo insegnante, quello che l’aveva introdotto nel mondo
della musica, aveva omesso il piccolo particolare che il banjo avesse solo
cinque corde, mentre la chitarra sei. Era ovvio che il modo di suonare fosse
diverso.
Inoltre, non si doveva arpeggiare sempre con tutte le
corde. Alcuni accordi ne coinvolgevano solo cinque o addirittura quattro.
Questo spiegava perché quando suonava, alcuni suoni non erano proprio
pulitissimi.
Paul aveva ridacchiato quando l’aveva visto suonare in
quel modo, prima di correggere subito la sua tecnica.
Così da quella prima lezione John si era esercitato un
po’ ogni giorno, mentre George lo sostituiva in negozio, o a casa, mentre
Julian giocava con le sue costruzioni.
Con Paul avevano stabilito di vedersi due volte a
settimana. Le lezioni erano piacevoli, era come se il tempo passasse
velocemente, John si divertiva, mentre Paul non sembrava essere altrettanto a
proprio agio, sia per la questione della musica, sia perché era ancora un po’
in imbarazzo con John, considerato il fatto che si conoscessero da poco tempo.
Tuttavia John sentiva che col tempo si sarebbe lasciato andare. Se c’era una
cosa in cui era bravo, era piacere alle persone. Quando si impegnava, era un
maestro in quell’arte.
E Paul, l’ispettore McCartney, la sua nemesi, non avrebbe
impiegato molto tempo a lasciarsi andare, a fidarsi di lui, a confidarsi con
lui…Dopotutto, da quello che John aveva capito, a Londra Paul non conosceva
molte persone, doveva sentirsi abbastanza solo, desideroso di parlare con
qualcuno prima o poi, e quando fosse stato pronto, John sarebbe stato lì,
pronto a raccogliere le sue confidenze, cercando di capire i suoi punti deboli
e qualunque altra informazione che avrebbe potuto sfruttare per la buona
riuscita dei suoi colpi.
Piuttosto crudele come piano, ma non importava. Non a
John almeno. La vita, le persone si erano prese gioco di lui, l’avevano illuso,
abbandonato. Quindi ora perché avrebbe dovuto portare rispetto, preoccuparsi di
persone che non fossero quelle poche che era certo, non l’avrebbero mai
lasciato? George, Julian, l’uomo che l’aveva salvato, solo loro contavano per
John.
“Niente male, impari in fretta, vedo.” commentò Paul,
alla fine della lezione.
John aveva suonato senza neanche un’incertezza il giro di
Do e poi, insieme a Paul, aveva perfezionato quello di Sol e Re.
“Non imparo in fretta.” disse lui, scuotendo lievemente
il capo, “E’ solo che voglio imparare.”
“Giusto. È una differenza importante.” esclamò Paul,
riponendo la chitarra nella custodia.
“Tu, invece, dici di odiare la musica, ma ti ricordi bene
come suonare.”
Paul si accigliò lievemente, “Sì, beh, ho suonato per
tanto tempo. Sono cose che non si dimenticano. È come andare in bicicletta.
Saprai farlo per sempre.”
Detto questo, gli porse la chitarra. Era una delle
chitarre che aveva John. Paul naturalmente aveva lasciato la sua a casa di sua
madre, per cui John gli aveva offerto una di quelle che teneva nel suo piccolo
studio.
“Se vuoi, puoi tenerla.” gli disse John.
“No, grazie.”
"Sei sicuro? A me non dispiace, sai. Ne ho un bel
po' a disposizione."
Paul sorrise, "Sono sicuro, non ti
preoccupare."
“Come desideri.” sospirò l'altro ragazzo.
Così John prese la chitarra dalle mani di Paul e la
sistemò insieme alla sua.
“Devo andare ora.” esclamò Paul, “Devo ancora recuperare
qualcosa da mangiare e andare a letto presto. Domani mi aspetta una giornata di
lavoro impegnativa.”
John drizzò le orecchie, tutti i suoi sensi erano
improvvisamente all’erta.
“Certo. Come…” disse, voltandosi con un movimento lento
verso Paul, “Come va con il lavoro? Qualche svolta interessante?”
“Ecco, veramente…” iniziò a dire Paul, ma si fermò appena
in tempo, “Forse non dovrei parlare di queste cose, sai, sono riservate.”
“Oh sì, giusto.” commentò John, mordendosi il labbro,
“Perdonami, non volevo intromettermi.”
Paul fece un vago gesto della mano, “Non c’è problema,
anzi, ti ringrazio per l’interessamento.”
John annuì, sorridendo, e poi si salutarono, decidendo di
incontrarsi all’inizio della settimana successiva, per la nuova lezione.
Quando l’ispettore se ne andò, John imprecò sottovoce.
Non avrebbe mai dovuto fare quella domanda. Era troppo presto, dannazione, ed
era ovvio che Paul avrebbe risposto in quel modo. Sicuramente non sarebbe stato
difficile da fare fuori, questo piccolo sbirro, ma era altrettanto vero che non
era uno stupido. John poteva farcela, doveva solo giocare bene le sue carte.
Ora più che mai doveva ricorrere al suo ingegno.
E poi Paul McCartney sarebbe stato un semplice ricordo.
****
Il giorno dopo, mentre Paul esaminava alcuni file sul
computer riguardanti Hermes, l’ispettore capo Starkey gli comunicò che fra un
paio di settimane sarebbe arrivato in città un ricco impresario, il quale
possedeva una famosa collezione di cimeli dei più famosi cantanti rock. Di
recente ne aveva aggiunto uno piuttosto particolare: si trattava di un disegno
della metà degli anni Sessanta, il quale rappresentava un personaggio composto
da alcuni tratti individuali dei cinque RollingStones, ovvero i capelli diMick, la faccia di
Brian, gli occhi di Keith, il naso di Charlie, e la bocca di Bill. Il ritratto
era stato fatto da un’adolescente inglese che era riuscita a farlo autografare
dagli stessi componenti della band.
L’uomo, ora proprietario del ritratto, aveva ricevuto una
lettera da parte di Hermes, che lo avvisava di voler rubare quel cimelio e
l’avrebbe fatto tra due domeniche. Per questo motivo aveva richiesto un
sopralluogo della polizia e ovviamente, la loro protezione.
Quel pomeriggio, quindi, Paul e qualche agente scelto si
recarono nella villa dell’uomo. Era un grande palazzo che si sviluppava su tre
piani. Paul ne rimase affascinato, sembrava un castello, non aveva mai visto
una casa così enorme. Che se ne facevano di tutte quelle stanze?
Rise un po’ del suo pensiero, fino a quando una giovane
donna dai lunghi capelli biondi, una dei suoi agenti scelti, gli rivolse uno
sguardo sconcertato e lui riprese un po’ di contegno e professionalità. Osservò
bene la casa e i dintorni. Era immersa nel verde: ai lati vi erano alberi dalle
fronde rigogliose e il giardino era ben curato, circondato da un elegante
cancello smaltato di nero, con le punte dorate e ben affilate.
Il proprietario del palazzo, tale John Lowe (1)
li accolse calorosamente e subito si apprestò a fargli fare un giro della
tenuta. Beh, se Paul era rimasto affascinato dalla facciata anteriore, lo fu
ancor di più quando scoprì che nella parte posteriore vi era una immensa
piscina. Tuttavia la cosa davvero spettacolare era ancora quella distesa verde,
con siepi e alberi meravigliosi, che rendevano tutto così naturale. Santo
cielo, c’era anche un laghetto da cui partiva un piccolo ruscello che si
snodava tra gli alberi e confluiva in un lago un po’ più grande.
L’uomo informò Paul su tutte le telecamere appostate nei
diversi punti del cancello e del palazzo, aggiungendo che erano tutte collegate
ai monitor della sala video che si trovava in un’ala del suo vastissimo
palazzo. Paul decise di andare subito a esaminare la sala. Non era niente male,
qualcosa di estremamente tecnologico, neanche la polizia era così avanzata da
quel punto di vista.
E lì, in quella sala, il signor Lowe informò Paul del suo
piano.
“Il vero ritratto è nel sotterraneo?” ripeté sbalordito
l’ispettore.
“Sì.”
“Allora dovremmo disporre degli uomini anche laggiù.”
“Certo che no.”
Paul sbatté le palpebre, perplesso, “Chiedo scusa?”
“Non ce ne sarà bisogno. È rinchiuso in una cassaforte a
prova di scasso.” affermò orgoglioso l’uomo, “Inoltre se il ladro vedesse degli
uomini nel sotterraneo, si insospettirebbe. Al contrario, lasciandolo incustodito,
lo attireremo nella sala dove è esposto e potrete arrestarlo.”
“Ma è troppo rischioso, signore, stiamo parlando di un
ladro esperto, non di un volgare delinquente.”
“E io le dico che il piano funzionerà, non si preoccupi,
ispettore McCartney. Hermes finirà in gabbia, glielo prometto.”
Così, alla fine, Paul fu costretto a sottostare al
suggerimento del signor Lowe.
Era totalmente da folli, Paul lo sapeva. Ma cosa poteva
fare? Anche l’ispettore capo Starkey, quando tornarono dal sopralluogo, gli
aveva consigliato di seguire le indicazioni dell’uomo. Non potevano fare altro,
era la sua decisione dopotutto.
Tuttavia la rabbia in Paul continuò a ribollire per tutto
il giorno. Solo quando fu l’ora di andare a casa cominciò a stare meglio, a
rilassarsi. In fondo, non sarebbe stata colpa sua, se Hermes fosse riuscito a
rubare quel ritratto.
Tornando verso casa, sentì il bisogno di sfogarsi con
qualcuno, di parlare di quanto era successo, ma con chi? A casa non lo
aspettava nessuno e Jane era lontana, impegnata probabilmente a girare il suo
film.
Un senso di solitudine gli oppresse il cuore, mentre
imboccava la via del suo appartamento, e quando fu davanti alla sua porta, il
suo sguardo cadde sul negozio di John, già chiuso, dal momento che era molto tardi.
Peccato, avrebbe potuto parlare con lui. Gli sarebbe
piaciuto passare a salutarlo, solo per scambiare due parole con qualcuno che
non fosse un suo collega di lavoro, solo per sfogare l’assoluta frustrazione di
quella giornata.
Poi però si ricordò dell’ultima volta che si erano visti
e si morse il labbro, mentre entrava in casa. Forse a John non avrebbe fatto
così piacere vedere proprio lui, dopo quello che era successo.
Paul sapeva di aver fatto la cosa giusta, eppure una
piccola parte di lui, gli stava sussurrando che non aveva risposto alla sua
domanda perché non si fidava. Paul non si fidava mai di nessuno e questo lo
portava ad avere pochi amici, anzi pochissimi amici.
Jane gli diceva che era sempre troppo chiuso in sé e
nelle loro chiacchierate al telefono, lo incoraggiava a cercare di frequentare
qualcuno per socializzare e non lasciare che Paul si sentisse troppo solo, dal
momento che il suo lavoro l’avrebbe tenuta lontano da Londra per molti mesi
durante l’anno. Se Paul ci pensava bene, ormai aveva solo Jane e un paio di
amici d’infanzia a Liverpool.
Non riuscire a fidarsi delle persone era un vero
problema. Paul sapeva che era dovuto all’essere stato abbandonato da quell’uomo
nella sua infanzia. Non era qualcosa che avrebbe risolto da un momento
all’altro. Lui allontanava le persone dalla sua vita, poca confidenza lo
difendeva da altro dolore. L’unica che fosse riuscita ad avvicinarglisi era
stata Jane. Paul sarebbe stato perso senza di lei. Letteralmente. Jane era
l’unica cosa certa nella sua vita, l’unica cosa per cui valesse la pena
rischiare.
Tuttavia era anche vero che non potesse continuare così e
lo stava capendo solo ora, ora che non aveva nessuno con cui confidarsi,
neanche i colleghi, dal momento che tutti erano ai suoi ordini e non poteva
permettersi di mostrarsi incerto, dubbioso, arrabbiato.
Da quando aveva iniziato quelle lezioni con John, Paul
pensava che forse non ci fosse pericolo a dargli un po’ di confidenza. Solo un
po’. Dopotutto stava affrontando anche il suo problema con la musica un passo
alla volta. Era stato difficile la prima volta che aveva ripreso la chitarra in
mano. All’inizio si era meravigliato che ricordasse alla perfezione tutti gli
accordi e questo forse l’aveva aiutato ad andare avanti, imbracciare nuovamente
la chitarra e suonare per mostrare a John le posizioni corrette. Tuttavia, in
seguito, Paul aveva capito che non aveva motivo di essere così sorpreso, perché
era semplicemente naturale. Il suo primo approccio con la musica era stato
entusiasmante, importante, l'aveva segnato a vita, proprio come ciò che era
seguito, ciò che l'aveva portato ad allontanarsi definitivamente dalla musica.
Allontanarsi, ma non dimenticarla, perché ora era diventata come una cicatrice:
non provocava più dolore, ma era lì e Paul lo sapeva, sapeva tutto di quella
cicatrice, chi l'avesse causata, perché e come... Una cicatrice che era debole,
poteva riaprire la ferita e fare ancora male.
Ma non tutti nel mondo desideravano fargli del male. Chi
era lui, in fondo? Solo un ragazzo, uno come tanti. Perché mai qualcuno, uno
come John per di più, che desiderava solo imparare qualcosa da lui, avrebbe
dovuto per forza fargli del male? Non c'era motivo. Allora perché non provare a
fidarsi di lui, solo di lui per ora? Un po' per volta...
Affrontando tutto ciò con convinzione ed estrema
naturalezza, Paul aveva deciso di presentarsi al negozio di John il giorno
successivo. George era alla cassa e quando vide Paul, gli indicò con un cenno
del capo la stanzetta dietro il bancone.
Mormorando un rapido "Grazie", Paul si diresse
verso il luogo da cui provenivano degli accordi più corretti rispetto a quelli
sentiti diversi giorni prima.
John proprio non si aspettava di vedere Paul lì. Quando
si accorse del giovane uomo in piedi di fronte a lui, sbatté le palpebre
sorpreso.
"Paul?"
"Ciao, John."
"Cosa ci fai qui?"
"Devo...ehm... io…” iniziò a balbettare Paul,
incerto, ma poi si ricordò che la sua decisione era stata presa ed era
determinato ad andare fino in fondo, “John, io devo chiederti scusa."
Il giovane uomo sbatté le palpebre, perplesso, "Scusa?"
"Sì. Per l'altro giorno."
"Oh. L'altro
giorno.” esclamò John, ricordando, “Ma, Paul, non ce n'è bisogno. Avevi
ragione tu."
"No, non era giusto.” ribatté accalorato Paul, “Tu
ti stai affidando a me per questo nostro accordo, significa che hai riposto in
me vera fiducia. E io te ne sono grato, sai, ma non sto facendo lo stesso con
te."
"Non è una cosa
istantanea, Paul, ci vuole tempo. Non si diventa amici da un giorno
all’altro." esclamò John, con una risata.
Paul scosse il capo,
sorridendo fra sé, “No, ma la verità è che fino a questo momento, non avevo mai
voluto trovarmi degli amici. Anzi, non avevo mai capito quanto potesse essere
importante, avere qualcuno con cui parlare di qualunque cosa.”
"Ora sì?"
Paul annuì, percependo un
lieve fremito alle mani. Sì. Ora sapeva. Sapeva che stava compiendo un altro
passo importante nella sua vita, uno che non pensava di poter fare fino a poche
settimane prima.
"Cosa ti ha fatto
cambiare idea?" domandò John, sinceramente interessato.
"Stress da
lavoro." rispose Paul, con una risata, "È sufficiente come
risposta?"
"Altroché."
esclamò John, mentre si alzava per recuperare una sedia affinché Paul potesse
sedersi di fronte a lui, e poi ripeté la stessa domanda di qualche giorno
prima, "Allora, Paul, come va con il lavoro?"
Paul guardò John che batteva
la mano sulla sedia di fronte a lui, invitandolo ad accomodarsi; si morse il
labbro, mentre una stupida vocina dentro di lui gli sussurrava di andarsene
subito. Stava solo facendo del male a se stesso.
Ma Paul stava cambiando.
Aveva deciso di cambiare.
Così, mise a tacere la
vocina nella sua mente e si sedette di fronte a John.
"Un vero
disastro." sbottò Paul esasperato, "Non hai idea di quello che abbia
dovuto sopportare oggi."
John gli sorrise
incoraggiante.
"Racconta."
(1)- John Lowe, uno dei componenti
dei Quarrymen.
Note dell’autrice: buona domenica.
Andiamo con il nuovo capitolo.
Allora, giusto un paio di cose da dire su questo. La prima è che questo
capitolo, l’idea di fondo, diciamo, del piano di nascondere il vero ritratto
nel sotterraneo è presa dal primo episodio dell’anime “Occhi di gatto”, che
probabilmente voi siete troppo piccoli per ricordare, ma ai miei tempi andava
alla grande. :3
E la seconda è che il ritratto
che John vuole rubare esiste davvero, e se vi interessa, nel prossimo capitolo
allegherò la foto.
Grazie a kiki
per la correzione, a ringostarrismybeatle e SillyLoveSongs per il supporto e a tutti quelli che seguono
la storia.
Il prossimo capitolo, “A hard day’s night” arriverà domenica prossima, probabilmente in
serata, però. :/
E facendo anche tanti auguri a
tutte le vostre mamme, vi lascio la storia che avevo scritto l’anno scorso per
questa occasione, Mary Julia.
Senza che lo volesse, la domanda era uscita dalla sua
bocca con un tono stranamente agitato, che gli fece guadagnare un’occhiata
altrettanto strana da parte di George.
“Sì.”
“Le telecamere? Le abbiamo tutte?” continuò, ignorandolo
e camminando frettolosamente a sinistra e a destra di George.
L’amico era seduto nella sua postazione, circondato da
diversi monitor e computer, e alla domanda di John, sospirò.
“Certo, John. Le ho crackate
tutte e le terrò sotto controllo, mentre sei all’opera.”
Su ogni schermo erano visualizzate le
inquadrature delle telecamere della villa del signor Lowe. John e George le
avevano studiate a fondo nei giorni precedenti, per capire se ci potesse essere
uno spiraglio in cui John poteva passare inosservato; ma ogni singolo
centimetro di quell'edificio era ripreso e sotto stretto controllo da parte
della polizia. Così avevano deciso di entrare nel sistema operativo della sala
controllo della villa, e sostituire al momento opportuno le inquadrature reali
con finte registrazioni effettuate nei giorni precedenti.
“Ti conviene, sai?” esclamò John, fissandolo con uno
sguardo penetrante e utilizzando un tono quasi minaccioso che raramente
rivolgeva a George.
Ma questi non si fece spaventare, al contrario,
ridacchiò, “Ehi, che ti prende oggi? Non avrai paura?”
“Paura? Io?” ripeté John, incredulo e sconvolto,
“Starai scherzando, spero.”
“Eppure sembrerebbe proprio così. Continui a camminare
agitato, avanti e indietro, e a fumare nervosamente. Riconosco fin troppo bene
la tua fumata nervosa."
"La mia fumata-?" iniziò a ripetere John, ma
dovette fermarsi per ridere e sbuffare visibilmente, e una nuvoletta del
suddetto fumo uscì dalle sue labbra, “E di cosa dovrei aver paura, se è lecito
chiedere?”
“Che ne dici de...il nuovo ispettore?”
John sorrise, indignato, ma soprattutto divertito, “Che
ne dici del: tu devi essere completamente fuori di testa, amico mio?! Io dovrei
avere paura di quel ragazzino sprovveduto che mi ha spifferato tutte le cose
più importanti riguardo questo colpo?”
“Sì.”
La risposta precisa e sicura di George lo prese un po' in
contropiede, ma John non ci fece caso e continuò, “Perché?”
“Perché secondo me, non è poi così sprovveduto come
sembra e tu non dovresti sottovalutarlo.”
“Non lo sto sottovalutando.” si affrettò a precisare
John.
“A me sembra proprio di sì. E ricordati che anche Stuart
all’inizio ti aveva sottovalutato, e guarda che fine ha fatto. Spedito in
qualche villaggio sperduto in Scozia a badare alle pecore. Ma se prendono te,
amico, non finisci in Scozia, lo sai.”
“Lo so.” ribatté John, sentendosi punto nell’orgoglio.
Ricordava bene come Stuart avesse preso sottogamba la
minaccia di Hermes, almeno inizialmente, etichettandolo come un semplice
ladruncolo che non aveva niente di meglio da fare e che non era poi neanche
così furbo come credeva di essere. Ora quello stesso uomo aveva avuto la fine
che meritava e John non voleva compiere il suo stesso errore. Troppa sicurezza
poteva essere un punto debole, non solo per l’ispettore McCartney, ma anche per
lo stesso John.
“Allora, non sottovalutare McCartney.”
No, non l’avrebbe fatto.
“D’accordo.” sospirò John, rassegnato.
“E ora vai. Non vorrai far aspettare gli sbirri?”
John rise, mentre si sistemava il cappuccio della felpa
sulla testa, “Certo che no, non vogliamo farli preoccupare. Coraggio,
sincronizziamo gli orologi.”
Entrambi si apprestarono a controllare l’ora, dopodiché
John si avviò verso la porta.
"Mi raccomando, stai attento." gli disse
George, con un sorriso incoraggiante.
"Non preoccuparti, Georgie.
Sarò di ritorno prima che tu possa dire, 'McCartney, sei fregato'."
****
Paul camminava nervosamente avanti e indietro nella sala
controllo della villa del signor Lowe.
Erano ormai le undici passate della notte: Hermes sarebbe
arrivato a momenti.
“Stia calmo, ispettore. Andrà tutto bene.”
Paul guardò il signor Lowe, seduto sulla sua comoda
poltrona, con un bicchiere di brandy che sorseggiava tranquillamente di tanto
in tanto, e sbuffò.
Come poteva restare calmo, quando era sicuro che Hermes
avrebbe capito subito che qualcosa non andava? C’erano troppi poliziotti nel
piano dove era esposto il ritratto, e neanche uno vicino al sotterraneo, se non
contava quelli di guardia, al di fuori della porta d’ingresso. Con chi credeva
di avere a che fare il signor Lowe? Non ci voleva molto, anche un bambino
l’avrebbe intuito. Tuttavia il ricco impresario non aveva voluto ascoltarlo,
sebbene Paul avesse provato a farlo ragionare altre volte, prima di quella
sera, senza ottenere alcun risultato.
E poi aveva gettato la spugna. Era già nervoso perché
quella era la sua prima occasione di acciuffare Hermes, non aveva intenzione di
lasciare che la testardaggine di quell’uomo lo irritasse ulteriormente.
“Io sono calmo.” mentì spudoratamente, cercando di
sembrare sicuro almeno davanti all’uomo.
Non aveva proprio voglia di apparire così agitato di
fronte a quella stessa persona che aveva contribuito a trasmettergli tanta
insicurezza.
Il signor Lowe, però, scoppiò a ridere, “Andiamo, si vede
lontano un miglio il suo nervosismo. Senza contare che sta fumando una
sigaretta dietro l’altra. Questo peggiorerà il suo stato d’animo, lo sa?”
Paul alzò gli occhi al cielo, espirando profondamente il
fumo intrappolato nei polmoni. Poi guardò la sigaretta e la spense nel
portacenere accanto alla bottiglia di brandy. Odiava ammetterlo, ma forse
fumare un intero pacchetto in poco più di due ore, non aveva contribuito a
farlo star meglio.
“Non si preoccupi, pensi solo che tra poco tempo potrà
mettere le mani su quel ladruncolo da strapazzo.” commentò il signor Lowe, trangugiando
un altro bicchiere di liquore, “E poi, guardi i monitor, è tutto calmo finora.
Se siamo fortunati, potremmo anche scoraggiarlo con queste ingenti misure di
sicurezza.”
Paul sospirò, non molto sicuro di quanto avesse appena
detto l’uomo. Hermes non era proprio un ladro che si lasciava scoraggiare,
anzi. Se aveva capito qualcosa, dalle sue analisi, era l’esatto opposto. Se
c’era una sfida, anche di quelle impossibili, lui si gettava a capofitto,
totalmente incauto, ma fiducioso delle sue capacità e della sua furbizia.
Per cercare di distrarsi almeno un po’, il giovane
ispettore si avvicinò ai monitor della sala. Si trattava di un sistema di
monitor molto tecnologico e complicato: vi era almeno uno schermo per ogni
telecamera della proprietà e tre addetti a controllare il tutto. La sua
attenzione si soffermò sulle immagini delle telecamere che controllavano il
giardino e tutto il perimetro delimitato dal cancello.
Non si vedeva neppure l’ombra del più piccolo dei
movimenti.
Sembrava che il signor Lowe avesse davvero ragione.
Era tutto calmo.
Finora.
****
Il cuore batteva rapidamente, ora che John era arrivato
alla tenuta del signor Lowe, lì dove era nascosta la sua preda.
Dannazione, George aveva ragione. John era nervoso, sì, e
neanche sapeva perché. Non era la prima volta che compiva un furto. Di
conseguenza ci poteva essere una sola risposta a questa assurda situazione:
John aveva paura di Paul.
Non tanto del ragazzino, in realtà, quanto piuttosto della
facilità apparente di questo colpo. Era stato davvero troppo facile, scoprire
l’informazione più importante, ovvero che il ritratto originale fosse nascosto
nel sotterraneo. Eppure c’era riuscito, con un gran bel colpo di fortuna,
ammettiamolo. Tuttavia ora, arrivava la parte più difficile: rubarlo.
Perciò, facendo attenzione a ciò che gli diceva George,
John lasciò la moto appena fuori dalla portata delle telecamere, ben nascosta
dagli alberi con le loro fronde rigogliose.
“Quando sei pronto, John, vado con la prima
telecamera.”
John osservò attentamente il cancello, mettendosi in
posizione per poter scattare appena George gli avesse dato il via libera, “Sono
pronto, George. Diamo inizio alle danze.”
“Bene, allora via libera tra 3…2…1…ora!”
Al segnale John con un rapido scatto raggiunse il cancello
e abilmente si arrampicò e lo scavalcò. Una volta atterrato all'interno della
tenuta, si guardò attentamente intorno e vide le luci accese all'ultimo piano
dell'edificio. Dovevano trovarsi tutti lì: il ritratto falso, la sala
controllo, i poliziotti, il proprietario e naturalmente, Paul.
"Ti neutralizzo un'altra telecamera.
Così puoi fare subito quanto stabilito nel piano."
John sbuffò. Il piano prevedeva anche un’idea proposta da
George, ovvero piazzare una sorta di cimice lì dove si trovava la sala controllo.
In questo modo, una volta trovata, la polizia avrebbe pensato che Hermes avesse
scoperto lo scambio dei ritratti, ascoltando di nascosto le loro conversazioni,
e soprattutto avrebbero deviato l’attenzione da quell’insignificante
particolare che aveva visto lo stesso ispettore comunicare questa notizia
fondamentale nientemeno che a Hermes in persona.
Sicuramente una trovata di grande utilità, John non lo
metteva in dubbio, ma era una scocciatura in più per lui, quella sera.
"Oh, devo proprio?" si lamentò.
"Cazzo, John, sì. Altrimenti come
faranno a essere sicuri che Hermes ha saputo dello scambio proprio qui, questa
sera?"
"Non basta perché sono sveglio e geniale?"
"Muovi quel culo, Lennon.” lo
rimproverò George, e poi continuò più tranquillo, “Puoi proseguire,
ora."
"Uff, va bene." sospirò John, avvicinandosi con
circospezione all’edificio, “Piccolo rompiscatole.”
“Ti sento, idiota.”
John rise fra sé, mentre raggiungeva il lato della villa
su cui si affacciava la sala controllo. Fortunatamente non sembravano esserci
poliziotti di guardia, almeno da questa parte dell’edificio, dal momento che
sarebbe dovuto entrare proprio dal piano terra, le cui luci erano tutte spente:
era quella l’entrata più vicina per il sotterraneo.
John e George avevano studiato bene la piantina della
casa, recuperata senza problemi dagli archivi del catasto di Londra. Poi, tramite
le informazioni un po’ generiche che Paul gli aveva involontariamente fornito,
avevano intuito dove si trovasse questa super-tecnologica sala controllo, e di
conseguenza elaborato il loro piano d’azione.
Proprio ai lati dell’edificio, vi erano degli alberi dal
tronco imponente e dai rami robusti. Erano ciò che faceva al caso di John.
Ovviamente anche questi alberi erano controllati da una telecamera installata nelle
vicinanze, e quando George gli comunicò di averla “oscurata”, John si arrampicò
agilmente e non appena fu alla giusta altezza, avanzò su uno dei rami, facendo
attenzione a non fare troppo rumore. Quando fu abbastanza vicino, notò che la
sala controllo disponeva sia di un modesto balcone, sia di una grande finestra,
la quale fortunatamente era socchiusa. Doveva puntare su questa.
Recuperò in fretta dalla sacca sulle spalle, una piccola
fionda, di quelle moderne e incredibilmente precise, su cui era già stata
posizionata la microspia e si sporse più che poté dal ramo, agganciandovi
fermamente le gambe. Aveva una sola occasione. Se avesse colpito il vetro con
la microspia, questa per quanto minuscola avrebbe comunque causato un lieve
tintinnio, attirando l'attenzione dei presenti, tra cui Paul.
Paul che stava dicendo, "Io sono calmo", con un
tono incerto che suggeriva l'esatto contrario. Forse John non era l'unico a
essere nervoso, il che era abbastanza consolante.
Inspirando a fondo, John restò immobile, prese
attentamente la mira e poi... Ecco!
Ce l'aveva fatta. La microspia aveva percorso la sua traiettoria con un tiro
secco e preciso ed era finita da qualche parte sul pavimento della sala.
Ora, finalmente, arrivava la parte divertente del piano.
Rubare il ritratto.
****
Paul cominciò a torturarsi l'unghia del pollice. Era
quasi mezzanotte e ancora non c'era stato alcun segno dell'arrivo o della
presenza di Hermes.
Non aiutava i suoi nervi il fatto che il signor Lowe
continuasse a dirgli di stare calmo e che probabilmente il ladro ci avesse
ripensato.
Così, a un certo punto decise di andare a fare un giro.
Si diresse, prima di tutto, nella sala dove era custodito il ritratto falso: i
poliziotti di guardia erano tutti alle loro postazioni, le stesse assegnate da
Paul. Il giovane ispettore si aggirò con passo nervoso nella sala,
avvicinandosi infine al ritratto per fissarlo. Era davvero tale e quale
all’originale, che Paul era riuscito a vedere il giorno prima, quando avevano
ispezionato il sotterraneo e la cassaforte. Ma ancora non capiva cosa ci fosse
di così interessante in un disegno che un bambino probabilmente avrebbe fatto
molto meglio.
Riconobbe alcune caratteristiche dei personaggi ritratti
sul quel foglio ormai consunto, i RollingStones, giusto? Erano gli stessi del cd che gli aveva
regalato John. Paul aveva sfogliato il libretto, esaminando le foto dei
musicisti, riconoscendo quei volti che molte volte erano passati sui canali
televisivi e che Paul aveva osservato solo distrattamente prima di quel
momento.
Dannazione, non avrebbe dovuto aprire quella porta.
Ripensare a quel cd gli fece ricordare tutte le emozioni contrastanti che aveva
provato all’ascolto delle tracce dell’album: quelle più serene, che pensava di
non poter provare mai più, ascoltando nuovamente la musica, e quelle più
spiacevoli, più strazianti, che gli ricordavano momenti bui della sua vita, lo
sconforto, la tristezza, il senso di abbandono e solitudine. Tutto ciò che ora,
proprio ora, sul lavoro, non poteva permettersi di prendere ancora in
considerazione. Aveva bisogno di essere concentrato, in una situazione così
stressante, in cui si sentiva impotente, perché non sapeva se e quando il suo
nemico sarebbe davvero arrivato oppure no.
Paul sospirò pesantemente, passandosi una mano nei
capelli e decise di aver bisogno di un po’ d’aria fresca. Si allontanò dalla
sala per poi scendere velocemente per le rampe di scale fino al piano terra, dove,
borbottando fra sé, si fermò solo per controllare che la porta del sotterraneo
fosse ancora chiusa; dopodiché, avendo accertato che fosse tutto a posto,
proseguì e si diresse verso la porta, al di fuori del quale vi erano altri
poliziotti di guardia.
Fu un vero peccato che non si fosse fermato a dare un’occhiata
anche in altri locali del piano terra, come per esempio, il piccolo salotto che
dava sul giardino, perché altrimenti avrebbe trovato dietro una delle tende
pesanti di velluto, proprio la sua preda.
John aveva trattenuto il respiro non appena aveva sentito
i passi che scendevano e si avvicinavano a dove si trovava lui. Una volta
sistemata la microspia, John aveva fatto il percorso a ritroso per poter
penetrare dal balcone del piano terra. Era stato un gioco da ragazzi, aprire
una serratura così banale. Senza fare rumore era entrato, richiudendo la porta
dietro di sé e nascondendosi dietro la tenda, per aspettare che l’uomo
passasse. John non aveva resistito alla tentazione e si era sporto solo un po’
da dietro la tenda per vedere passare nel corridoio proprio il suo vicino di casa.
Nell’oscurità che avvolgeva quel piano terra non aveva potuto vedere molto, ma
aveva notato che la sua andatura fosse nervosa e agitata. Probabilmente aveva
anche brontolato qualcosa che non era riuscito a captare.
Povero piccolo ispettore. Non pensava certo che sarebbe stato
facile, acchiappare Hermes?
Tuttavia era presto per cantare vittoria. Dopotutto, John
doveva ancora recuperare il ritratto e svignarsela il più in fretta possibile.
Cautamente uscì dal suo nascondiglio, affilando l'udito. Sembrava non ci fosse
nessun rumore in sottofondo. Muovendosi con passo felino, attraversò la stanza,
prestando attenzione a non sbattere contro il tavolino al centro o le poltrone.
Quando arrivò sulla soglia della porta, si nascose per un istante dietro il
muro. Fece capolino nell'ingresso per controllare che la via fosse libera. Poi,
finalmente, scorse la rampa di scale che scendeva fino al sotterraneo, accanto
a quelle che portavano ai piani superiori.
"Ricordati che troverai una porta alla
fine delle scale." gli ricordò George.
"Sì, lo so. Grazie." mormorò John, prima di
intrufolarsi e scendere i gradini in totale silenzio, "Pensa piuttosto a
neutralizzare le telecamere del sotterraneo."
"Già fatto." rispose l’amico e John imprecò mentalmente.
Dannato George che aveva sempre la risposta pronta.
La porta fu aperta con facilità e alla fine, John si
ritrovò nella stessa stanza con la cassaforte. Bene, restava solo una barriera
a dividerlo dal ritratto.
Si avvicinò velocemente per esaminare la cassaforte: era
una cassaforte a muro, con la porta circolare su cui vi erano una rotella e più
in basso una maniglia con tre manici.
John sorrise fra sé e la esaminò accuratamente. Niente di
così inviolabile, ma avrebbe dovuto aprirla cercando di dedurre la
combinazione. Appoggiò le dita della mano destra sulla rotella e l'orecchio
sulla porta della cassaforte. Cominciò a girare la rotella, ascoltando i rumori
dei meccanismi interni. Non un lavoro facile quando hai il cuore che pulsa
nelle orecchie.
Datti una calmata, John, si
disse fra sé, provando a ignorare il ritmo folle del suo cuore.
Non doveva pensare che in ogni momento potessero
scoprirlo.
Non doveva pensare che in ogni momento potesse essere
raggiunto da Paul ed essere arrestato.
Non doveva pensare che tutto quello avrebbe significato
il suo allontanamento da Julian.
Allora perché lo stava facendo? Se rubare metteva in
pericolo ciò che aveva di più caro al mondo, perché continuava a farlo? Non
aveva neanche più bisogno di soldi.
Perché lo stava facendo?
Perché la verità era che quella fosse l'unica cosa che
aveva deciso nella sua vita. L'unica che potesse controllare. Aveva solo
questo, solo in questo era davvero bravo. Solo questo lo faceva sentire come se
valesse effettivamente qualcosa.
Così allontanò tutte le distrazioni e si concentrò sul
suo lavoro.
Spostò la rotella fino a quando non riuscì a sentire il
tanto agognato click, segno che la cassaforte era ora aperta. John
indietreggiò di un passo e fece ruotare la grande maniglia. La porta si aprì ed
eccolo lì, sul ripiano centrale, il ritratto che aveva cercato da qualche anno
ormai. Era riposto in una custodia plastificata, ben conservato e perfettamente
in ordine.
Era splendido, davvero incantevole e pazzesco e cazzo!
C'erano anche gli autografi originali, segno che quel pezzo di carta era stato
maneggiato dai RollingStones
in persona.
Meglio non pensarci troppo, altrimenti sarebbe svenuto lì
e subito.
"Georgie, il ritratto è
nelle nostre mani." lo informò con un gran sorriso sulle labbra.
"Ottimo lavoro come sempre,
Johnny." esclamò George, la voce che tradiva tutto il
suo entusiasmo per l'ennesimo piano ben riuscito, "Ora fila fuori di
lì."
"Un attimo, devo lasciare un ricordino per
Paul."
"Che cosa?"
"Dai, George, non fare storie." affermò John,
ridendo in modo incontrollabile, "Piuttosto, pensa a ripristinare le
telecamere."
"Ma,
John, sei impazzito?"
"Dai, ho voglia di divertirmi un po'!"
****
Quella notte era stupenda. Il cielo era limpido e
stellato. La brezza primaverile era fresca e frizzante e risvegliava tutti i
sensi, allontanando le preoccupazioni.
Paul osservò i poliziotti di guardia fuori dalla porta,
anche loro immobili nelle loro postazioni, e si avvicinò a un paio di loro.
"Tutto tranquillo qui fuori?"
"Sissignore, signore." rispose la donna dai
capelli biondi che qualche giorno prima l'aveva osservato curiosamente, quando
erano arrivati in quella villa per la prima volta.
Il suo nome, come indicato dalla targhetta sul petto, era
Linda Eastman, un'agente scelto che si era trasferita a Londra direttamente
dall'America. Paul si chiese come mai. Cosa c'era o non c'era nella favolosa
America che l'aveva indotta a trasferirsi?
Stava quasi per chiederglielo, quando proprio in quel momento
dalla sua ricetrasmittente arrivò una voce allarmata.
"Signore, il ladro è penetrato
nell'edificio."
Paul fremette, così come tutti i poliziotti presenti che
sussultarono visibilmente. Prese subito in mano la ricetrasmittente e rispose.
C'erano tante domande da porre, ma diamine, quella più importante era
sicuramente...
"Dov'è ora?" chiese, e in qualche modo sapeva già
la risposta.
"Sta scappando dal sotterraneo."
In un attimo, Paul prese alcuni poliziotti con sé e si
precipitò dentro casa. I suoi agenti scesero le scale verso il sotterraneo, ma
Paul si accorse di una strana corrente d'aria che proveniva dal salotto alla
sua destra, lì dove il balcone era spalancato e le tende ondeggianti.
"Da questa parte!" urlò, prima di buttarsi
all'inseguimento.
Cominciò a correre e si fiondò fuori, all'aperto,
scorgendo davanti a sé un figura incappucciata che si dirigeva verso il
cancello.
"Fermo!"
Paul continuò a correre, estraendo la pistola di
ordinanza dalla custodia. Non che avesse intenzione di sparare. Non gli era mai
piaciuto sparare, ma se fosse stato necessario avrebbe dovuto farlo.
L'uomo si arrampicò agilmente sul cancello e lo scavalcò,
scomparendo tra gli alberi. Paul non smise mai di correre, doveva arrivare al
cancello e quando ci riuscì, sentì il rumore e vide le luci di una moto che
veniva accesa. A quel punto si fermò, prese la mira con la sua pistola,
puntando un faro rosso posteriore e quanto la moto partì, sparò. Il proiettile
centrò il bersaglio, il faro si spense ma la moto non si fermò. Paul la osservò
andar via, sospirando. L'eco dello sparo rimbombava nelle sue orecchie
scontrandosi con il battito cardiaco nei suoi timpani. Il respiro era
accelerato e Paul poteva sentire ogni singola molecola di adrenalina agire sul
proprio corpo, sconvolgendolo più di quanto già non fosse.
Ma nonostante tutto l'impegno, nonostante tutti gli
sforzi, il risultato non cambiava: Hermes era fuggito dopo l'ennesimo furto.
Paul non seppe quanto tempo
avesse trascorso lì, all’aperto, seppe solo che a un certo punto, dalla
ricetrasmittente, arrivò una voce.
"Signore?"
Con un movimento pigro e sconfitto della mano, il giovane
ispettore rispose alla chiamata, "Sì?"
"Il ritratto è stato rubato."
Ovviamente, che scoperta.
“Sì, grazie. L’avevo capito.” sbottò infastidito, prima
di iniziare a camminare senza fretta verso l’edificio.
Fortunatamente il poliziotto all’altro capo della
comunicazione ignorò il suo tono scontroso, “La
cassaforte è stata aperta e all’interno il
ladro ha lasciato un messaggio per lei."
Paul sbatté le palpebre, perplesso.
"Leggilo!"
"Benvenuto nel suo peggiore incubo,
ispettore McCartney."
Note dell’autrice: ecco, questo è solo il primo di diversi capitoli
che arriveranno nella storia, con la descrizione di queste scene d’azione, che
io sono assolutamente incapace a scrivere come si deve. XD Infatti mi ci vuole
davvero diverso tempo per scrivere uno di questi capitoli. :(
Comunque, spero che sia
piaciuto, e sì, ci sarà anche Linda, non ho resistito.
Qui potete trovare il ritratto
protagonista del furto di John. :3
Grazie a kiki
per la correzione, e questa volta vorrei rivolgere un grazie speciale e Chiara_LennonGirl e lety_beatle
per l’affetto che mi dimostrano con le loro parole gentili.
Il prossimo capitolo, “We can work it out”, è un capitolo
corridoio, diciamo, e arriveranno finalmente altri due personaggi, uno dei
quali sarà molto importante nella storia. Chi saranno mai? :D
Ci sentiamo domenica prossima,
allora, probabilmente in serata. ;)
Quellacasa era
troppo grande per lui. O comunque troppo silenziosa.
Sì, ecco, c'era troppo silenzio.
Una volta il silenzio gli piaceva molto: era rilassante e
dolce e aveva sempre il potere di farlo stare meglio.
Tuttavia ora era... ora era assordante. Troppo silenzio
permetteva ai suoi pensieri di rimbombare nella sua testa, rimbalzando da una
parete all'altra della stanza e tornando a riverberare in lui.
Paul era sdraiato sul suo letto da... non ricordava bene
da quanto, in effetti, ma comunque da molto tempo, questo era poco ma sicuro.
Rimuginava in continuazione su quanto accaduto quando quel fottuto Hermes aveva
rubato quello stupido ritratto!
Naturalmente, come conseguenza, il signor Lowe si era arrabbiato
con lui. Il motivo? Una stupida microspia trovata nella sala controllo, con la
quale Hermes aveva evidentemente appreso dello scambio di ritratti. Il ricco
impresario sosteneva che non avessero ispezionato bene il locale, ma Paul gli
aveva risposto con sicurezza che quella microscopia non c'era durante la loro
ispezione e di conseguenza, doveva essere stata inserita quella sera stessa,
mentre il signor Lowe stava dilungandosi su quanto fossero affidabili i suoi
sistemi di sicurezza.
Questo aveva fatto arrabbiare ancora di più l'uomo, che
aveva ripreso a scagliare ingiurie contro Paul, ma l'ispettore capo Starkey,
sopraggiunto di corsa dopo essere stato avvisato, era riuscito a calmarlo e
aveva poi consigliato a Paul di uscire e tornare a casa. Per fortuna, lui non
incolpava Paul.
Lo sapevano tutti che non era colpa sua. Il sistema
informatico del signor Lowe era stato facilmente crackato
da qualche complice di Hermes e poi...
Poi quel maledetto sotterraneo. Lui, Paul, voleva mettere
dei poliziotti di guardia anche lì, non era stato lui a vietarli
categoricamente perché si credeva tanto più furbo del ladro.
Tuttavia ora, chi aveva dato una cattiva impressione di
se stesso alla città non era stato certo il signor Lowe. No, ovviamente no.
Paul era il novellino che si era lasciato sfuggire Hermes al primo incarico.
Tutti i giornali ne avevano parlato, e lui ora poteva solo immaginare quanto
stesse sghignazzando divertito Stuart Sutcliffe in
quel della Scozia. Forse pensava che fosse giusto che era andata così, visto
che Paul aveva preso il suo posto, che se lo meritava, perché aveva affrontato
il tutto con troppa presunzione e questa, si sa, non è mai positiva.
Sospirò pesantemente, mentre si alzava dal letto. La
testa gli stava scoppiando. I giorni che seguivano un furto erano sempre
stressanti, e ora Paul si sentiva uno straccio. Aveva bisogno di un qualche
tipo di analgesico per allontanare quel dolore che stringeva il cranio, quasi
volesse spremere il cervello e farlo uscire dal suo corpo. Dio, che sensazione
del cazzo!
Paul si trascinò al piano inferiore, diretto alla cucina,
e mentre scendeva le scale sentì un rumore provenire dall'altra parte della
strada: una saracinesca che veniva abbassata. Anche senza affacciarsi dalla
finestra sapeva che si trattava del negozio di John.
Era da più di una settimana che Paul non si faceva
vedere. Dal furto di Hermes, in effetti. Teoricamente avrebbero dovuto avere
almeno un paio di lezioni di chitarra nei giorni precedenti, ma Paul nonne aveva voglia e non aveva neanche avvisato
il suo “allievo”.
John, da parte sua, non l'aveva cercato. Paul non aveva
idea del motivo, ma forse John, avendo saputo del suo fallimento, aveva deciso
di lasciarlo in pace. Oppure non gli importava poi molto delle sue lezioni.
Oppure Paul faceva così schifo a insegnare che-
No, questo no. Non doveva piangersi addosso. Era un
comportamento piuttosto infantile, e lui ormai era un uomo maturo. Per non
parlare del fatto che piangersi addosso fossetotalmente inutile. Di sicuro non avrebbe risolto i suoi problemi, non
avrebbe catturato Hermes pensando a quanto fosse stato idiota, chiedendosi come
sarebbe andata se si fosse impuntato sulle sue decisioni. No, non l’avrebbe
catturato così.
Doveva reagire, era forte, in fondo, aveva superato cose
ben peggiori.
Quando arrivò in cucina, alla ricerca di qualcosa da
mangiare prima di assumere un analgesico, non pensò al fatto che le cose ben
peggiori non era poi state così superate, anzi…
Pensò piuttosto che non aveva niente da mangiare in
cucina, se escludeva quel barattolino di yogurt ormai scaduto da diverse
settimane. Non sembrava proprio allettante, mangiare quegli esserini verdi che
avevano colonizzato la crema di yogurt e lamponi. Urgeva un ingente
rifornimento al supermercato.
Cinque minuti dopo stava uscendo da casa, diretto al
primo supermercato che avesse incrociato per strada, che si rivelò essere un
piccolo negozio appartenente alla catena Tesco.
Paul si infilò rapidamente e afferrò un cestino, incominciando a girovagare tra
i corridoi del supermercato.
Recuperò frutta, verdura, la birra ovviamente, un po’ di
carne, i biscotti, poi il latte e-
“Ehi, Paul.”
Alla menzione del suo nome, Paul scosse il capo: si rese
conto che negli ultimi istanti, era rimasto immobile di fronte al bancone del frigo,
con la testa rivolta alla sua sinistra, proprio lì dove a pochi passi di
distanza aveva intravisto, con sua grande sorpresa, la figura familiare di
John. E quando l’uomo aveva incrociato il suo sguardo, mentre recuperava due
budini al cioccolato, gli aveva sorriso e lo aveva chiamato.
“Ciao.” lo salutò Paul, osservando con circospezione John
che si avvicinava a lui.
“Come stai?”
“Io? Bene, grazie.” si affrettò a rispondere con la prima
cosa che passò nella sua mente.
“Mi fa piacere, sai, è da un po’ che non ti fai vedere al
negozio e mi stavo chiedendo che fine avessi fatto.” spiegò John, con una
risatina.
Paul sussultò impercettibilmente, sempre più sorpreso,
“Davvero?”
“Sì, beh… Abbiamo saltato un paio di lezioni, ma ho letto
sul giornale di quel ladro e ho pensato che magari non avessi voglia di farti
vedere per un po’.”
Sentire quelle parole dalla bocca di John fece riflettere
seriamente Paul sul fatto che, in realtà, avesse davvero evitato di proposito
John. Non che fosse stato consapevole di ciò che stava accadendo, lui non voleva
evitare John. Eppure in qualche modo lui, le loro lezioni di musica, quel
negozio dove se non suonavano loro, c’era sempre almeno un disco in sottofondo…
tutto gli ricordava quel ladro e di
conseguenza il suo fallimento. E sarebbe stato doloroso, troppo doloroso
frequentarlo.
La strana realizzazione lo lasciò più turbato di quanto
già non fosse.
"Sì." rispose, con totale sconforto, "Sì,
penso proprio che fosse quello il motivo."
"Oh." esclamò John, quasi non credendo che la
sua supposizione fosse esatta, "Mi dispiace, ma vedrai che la prossima
volta andrà meglio."
"La prossima volta?"
"Sì, da quello che si vede sui giornali, mi sembra
di capire che si tratti di un rapinatore seriale."
"Ah, sì, un rapinatore seriale, sì."
John gli sorrise, comprensivo nel vederlo così totalmente
a disagio con l’argomento, "Senti, magari stai rimuginando troppo su
questo fatto. Perché non torni in negozio e proseguiamo le nostre lezioni?
Forse un po' di musica potrebbe aiutarti a distrarti."
"Ma la musica ha a che fare anche
con...tu-sai-chi." protestò Paul, debolmente.
Non voleva pensare che una parte di sé stesse morendo
dalla voglia di tornare a suonare con John, una piccola parte che Paul non
pensava potesse essere ancora presente in lui, quella parte che amava la musica
tanto quanto la vita.
John sogghignò divertito, “La musica ha a che
fare con Voldemort?”
La risata di John lo fece destare all'improvviso.
Ma che cosa gli stava accadendo? Sembrava essere con la
testa tra le nuvole e non lì, al supermercato, a parlare con John. Non poteva
permettere a Hermes, al suo lavoro di
intromettersi così prepotentemente nella sua vita. Almeno quella, doveva
lasciarla in pace.
"Sai che ti dico? Hai ragione." esclamò Paul,
entusiasta.
"Questo significa che tornerai?" domandò John e
il suo tono interessato fece sentire in colpa Paul per aver pensato che non gli
importasse nulla di lui.
"Ma sì, perché no? Mi ci stavo abituando."
"Perfetto. Vedrai che non te ne pentirai.” affermò,
dandogli una sonora pacca sulla spalla, “E magari insieme possiamo farcela a
superare quel tuo problemino con la musica e non farti pensare troppo a quello
stupido ladro, perché vedi, Paul, se ci
pensi bene, Hermes non ha a che fare con la musica. Lui tratta solo cianfrusaglie
da nulla, mentre noi, noi sì che facciamo la musica. Siamo proprio noi a crearla,
e questo vale più di tutte quelle cazzate che ha rubato."
Paul annuì lentamente, più a se stesso che a John, come
se volesse convincersi ulteriormente che era la soluzione migliore.
“Hai ragione, John. Quando ricominciamo?” domandò Paul,
euforico.
John rise nel notare il cambiamento repentino di Paul,
“Quando vuoi. Sai dove trovarmi.”
“Facciamo domani pomeriggio?”
“Domani sia.”
Paul lo guardò solo un istante, pensando che stesse
davvero facendo la cosa migliore per se stesso. Lo sentiva come un fuoco buono
nella sua pancia. Era quel buon presentimento che aveva preceduto tutte le cose
belle della sua vita.
“Grazie mille, John.”
“Grazie a te.”
“Allora, ci vediamo.” lo salutò Paul.
“Sì, a domani.”
Dopo un ultimo
sorriso, che John ricambiò subito, Paul si voltò e se ne andò, lasciando John
da solo, davanti al bancone del frigo.
L’uomo sospirò. Che-cazzo-aveva-combinato?
Consolare Paul che era evidentemente abbattuto dalla sua
prima missione andata male con Hermes? Cercare di farlo riprendere, addirittura
parlando male di se stesso?
Come gli era saltato in mente? Non sarebbe stato meglio,
a questo punto, lasciarlo nel suo brodo, così che il suo stato d’animo potesse
andare a compromettere anche i futuri piani di Hermes?
No, no, era giusto, John aveva fatto bene a comportarsi
in quel modo. Aveva fatto bene ad aiutare il suo nemico, perché se non si fosse
fatto più vedere, John non avrebbe più potuto estrapolare le informazioni che Paul
condivideva ingenuamente con lui. E invece a John servivano, servivano eccome,
servivano tutte. Ogni più piccolo
dettaglio che Paul era disposto a confidargli, dai suoi interessi, alla sua
vita privata, ai suoi problemi sul lavoro…
John doveva conoscerlo a fondo per poter essere sicuro di
colpirlo.
Vincerlo.
Annientarlo.
****
"Ti ha lasciato un biglietto?”
Paul annuì, strimpellando distrattamente la chitarra tra
le sue braccia. Era nel negozio di John da pochi minuti, e mentre accordavano
le chitarre, Paul aveva sentito il bisogno di parlare di quanto era accaduto la
sera del furto. John era un grande ascoltatore. Era attento, interessato e si
lasciava facilmente coinvolgere.
“Molto arrogante da parte sua." commentò John.
“Già.”
“E hanno anche avuto il coraggio di dare la colpa a te?”
“Solo quel coglione del proprietario del ritratto.”
sbottò Paul, sbuffando, “Il mio capo non mi ha fatto storie, per fortuna.”
“Bene, almeno questo.” esclamò John, sollevato, “In
fondo, se quell’uomo ha deliberatamente deciso di sottovalutare il ladro,
perché dovresti andarci di mezzo tu?”
“E’ quello che mi sono detto anche io. Io non ho
intenzione di sottovalutare Hermes. Non lo sottovaluterò mai.”
Era una promessa alle orecchie di Paul, e una minaccia
per quelle di John, il quale si morse il labbro non per paura, quanto piuttosto
per una strana sensazione di euforia che lui doveva stare attento a nascondere,
almeno di fronte a Paul.
“Fai bene, sai. Sono sicuro che anche lui non abbia
alcuna intenzione di sottovalutarti.”
Paul sollevò lo sguardo dalla chitarra per rivolgergli un
sorriso pieno di gratitudine, prima di passare a cercare di suonare insieme una
canzone: aveva scelto “Knockin’ on heaven’s
door” di Bob Dylan. Era stata una scelta difficile per lui, si trattava di
una delle canzoni che piacevano di più a sua madre. Aveva quasi paura che
suonare quella canzone avrebbe potuto farlo crollare proprio lì, di fronte a
John. Tuttavia, Paul si era fatto coraggio e aveva deciso di proseguire con
questa sua decisione, anche perché era abbastanza semplice per essere la prima
canzone con cui John potesse provare i nuovi accordi. Inoltre se non si fosse
buttato, non avrebbe mai saputo se i suoi timori fossero fondati oppure no.
Fortunatamente, le cose iniziarono ad andar bene. Era
doloroso per Paul: ogni accordo, ogni parola riportava nella sua mente il
sorriso sincero di quella donna, la sua dolce risata, il tepore del suo
abbraccio, ma si trattava in effetti di un dolore sopito, sordo, un dolore
superficiale, insomma qualcosa che lui potesse sopportare e gestire.
Inoltre furono interrotti proprio nel bel mezzo
dell'esecuzione. Ci fu l'improvviso scampanellio della porta del negozio,
seguito da quella che sembrava la risata di un bambino. John smise subito di
suonare, alzando il capo e posando lo sguardo sulla tenda di quella stanza.
Come se fosse in attesa di veder spuntare qualcuno.
E infatti, pochi istanti dopo, qualcuno entrò davvero, o
forse sarebbe più corretto dire che si precipitò attraverso la tenda.
"Ehi, Jules!" esclamò John con un gran sorriso.
Subito Paul si voltò all'indietro per vedere chi avesse
causato quell'espressione sorridente e luminosa sul volto di John: un bambino
attraversò di corsa la sua visuale, pronto per gettarsi tra le braccia
dell'altro uomo.
"Papà!"
"Amore mio."
Paul osservò come John ripose subito la chitarra per
terra, prima di prendere in braccio il figlio e stringerlo teneramente a sé. Il
suo cuore si strinse a quella visione: non aveva mai visto John sorridere così
tanto, in quel modo tutto particolare che solo un figlio poteva causare. Non
che Paul lo conoscesse da tanto, ma era davvero la prima volta che il sorriso
di John gli parve genuino, senza quell’aria beffarda che era sempre presente
sul suo viso.
John si ritirò solo un po’ dall’abbraccio per poter
appoggiare la fronte su quella piccola del bambino e far strofinare i loro
nasi.
“Papà, lo sai che oggi la maestra mi ha dato ‘Ottimo’ nel
disegno?”
“Ottimo? Oh, ma allora diventerai un piccolo Van Gogh.”
commentò John, sorridendo e stringendolo ancora a sé.
In quel modo, John si accorse di Paul che stava fissando
tutta la scena molto interessato.
“Ah, Julian, guarda chi ti fa conoscere papà.”
“Chi?” domandò il bambino, mentre John lo metteva con i
piedi per terra, voltandolo verso Paul, il quale sussultò.
Si ritrovò, all’improvviso, di fronte a quel bambino in
carne e ossa, con gli occhi chiari, che ovviamente aveva preso dal padre, e i
capelli sottili dello stesso colore di John. E poi quei lineamenti dolci che di
John non avevano nulla, ma che su quel viso angelico stavano benissimo.
"Ti presento il mio amico Paul." disse John,
indicando al bambino l'uomo di fronte a entrambi.
Paul, sentendosi chiamato in causa, si destò dalle sue
riflessioni e sorrise al bambino, il quale gli rimandò uno sguardo titubante.
"Piacere di conoscerti, Julian." affermò Paul.
Ma il bambino si strinse all'indietro, contro suo padre,
totalmente intimorito da Paul. Tanto che quando Paul gli porse la mano, Julian
si voltò, nascondendosi nel petto di John, che ridacchiò, accarezzando i suoi
morbidi capelli.
"Andiamo, Jules, perché fai il timido ora?"
domandò John, cercando di farlo voltare ancora, ma il bambino si aggrappò con
una forza incredibile a lui, "Non ti morde, sai. Paul è un poliziotto, di
quelli veri con il distintivo, la pistola e la sirena nell'auto. Non è così,
Paul?"
Paul si affrettò ad annuire, "Ma certo. E se vuole,
posso anche farlo salire sulla macchina della polizia qualche volta."
A quelle magiche parole, Julian allentò la presa sulla
maglietta del padre per voltarsi lentamente e guardare Paul con occhi più
interessanti e meno impauriti.
"Davvero?"
"Se papà vuole,
ovviamente..." aggiunse subito Paul.
"Posso, papà?" domandò impaziente Julian.
Questa volta fu il turno di John di sussultare e quasi
rabbrividire. Salire su una macchina della polizia era un rischio che lui
correva ad ogni furto, ma a meno che non avesse confessato lui stesso di essere
Hermes, non c'era motivo per cui dovesse salire su quella macchina per scendere
solo all'interno di un carcere. Inoltre Julian era in attesa e lo stava
guardando con quei suoi occhi dolcissimi a cui John non sapeva resistere.
"D'accordo." sospirò alla fine.
"Allora un giorno di questi te la mostrerò."
esclamò Paul, facendogli l’occhiolino.
Il volto di Julian si illuminò di una luce decisamente
più entusiasta ora, quasi dimenticandosi del fatto che fino a pochi minuti
prima fosse impaurito da quello sconosciuto.
"Julian?" esclamò una voce femminile, proveniente
dalle spalle di Paul, "Hai salutato papà? Oh."
Paul, incuriosito, si voltò nuovamente per incrociare lo
sguardo di una delle ragazze più belle che avesse mai visto. Lunghi capelli
biondi, alta, con occhi chiari, guance paffute e labbra rosse e carnose… Una
specie di dea.
"Sì, grazie, Pattie." esclamò John.
La ragazza di nome Pattie entrò nella stanza,
avvicinandosi a padre e figlio, "Ci teneva anche lui a salutarti prima di
portare Elvis dal veterinario, non è vero, Julian?"
Julian annuì, ancora fra le braccia del padre.
"Ah, Pattie, non ti ho ancora presentato Paul
McCartney, il nuovo vicino di casa, nonché mio insegnante di chitarra."
“Insegnante è una parola grossa.” ribatté Paul, ridendo, mentre
si alzava per stringere la mano di Pattie, “Piacere di conoscerti."
"Il piacere è mio." esclamò Pattie con un
sorriso, “Non deve essere facile, avere come allievo John…”
“In realtà, è uno studente modello.”
“Chi? John?”
domandò Pattie, sbattendo le palpebre allibita e guardando l’uomo che aveva attualmente
appoggiato il mento sopra il capo di Julian, “Mi sorprendi, tesoro.”
“Le sorprese non finiscono mai, quando si tratta di me,
mia cara.” commentò John, facendole l’occhiolino maliziosamente, e Pattie rise
divertita.
Poi, la ragazza controllò l’orologio e tornò a guardare il
bambino, “Sarà meglio andare, ora, che ne dici, Julian?”
Il bambino annuì obbediente, mentre il padre lo faceva
voltare verso di sé, “Sì, dai, andate altrimenti fate tardi. Prima però, piccoletto,
dammi un bacio posato.”
“Quello forte forte?” domandò Julian, avvolgendo le
braccia sottili intorno al collo di John.
“Fortissimo!” rispose lui.
Il bambino rise e poi lo baciò sulla guancia,
stringendosi il più possibile a lui. Paul osservò tutta la scena con un dolce
tepore che sembrò scaldarlo in un istante. Pensò di non aver mai visto una
scena tra un padre e un figlio più bella di quella che si era appena svolta
davanti ai suoi occhi, più bella di quella che aveva appena sfiorato con le sue
stessa dita, in modo tanto delicato, da essere nel contempo sia spettatore che
attore.
Poi Julian prese la mano di Pattie e se ne andò, mentre
John gli diceva che si sarebbero visti quella sera a casa. Quando tornò a
guardare Paul, questi gli rivolse un lieve sorriso.
“Scusa l’interruzione.” gli disse John, “Ma ho chiesto a
Pattie di portarmelo un attimo, prima di andare dal veterinario, altrimenti non
lo vedevo fino a stasera.”
“Non devi scusarti, comprendo perfettamente e anzi, mi ha
fatto piacere conoscere tuo figlio. È un bambino delizioso.” affermò Paul.
“Grazie.”
“E Pattie sarebbe la babysitter?”
John annuì, mentre riprendeva la chitarra fra le sue
braccia, “In un certo senso. È stata la maestra di Julian al nido, e ora si
occupa di lui da quando esce dall’asilo fino a quando io e George chiudiamo il
negozio. E prima che tu lo chieda, sì, è impegnata.”
Paul rise, “Non avevo intenzione di chiederlo.”
“Dici? Come se non avessi notato come l’hai guardata. Ma
devo avvisarti che è sposata con George.” spiegò in fretta John.
Paul sbatté le palpebre più che sorpreso, “George è
sposato?”
“Sì, lo so.” rispose John, ridacchiando, “Non sembra
proprio il tipo da matrimonio, eppure è così e giuro di non aver mai visto una
coppia più felice di loro. Quindi, toglitela dalla testa.”
“Ti assicuro che
non avevo davvero pensato a lei in quel modo, sono felicemente fidanzato, sai?”
“Non lo sapevo, chi sarebbe la fortunata?”
“Si chiama Jane Asher.”
John spalancò gli occhi, incredibilmente sorpreso, “Quella Jane Asher?”
“Proprio lei.” rispose Paul, non riuscendo a nascondere
tutto il suo orgoglio per avere una ragazza così bella, famosa, brava, insomma
così perfetta.
“E come avete fatto a conoscervi?” domandò sinceramente
interessato.
“Oh, sai, è venuta a girare alcune scene di un film a
Liverpool e io ero solo un semplice agente scelto all’epoca, facevo parte del
servizio di sicurezza del set. Abbiamo cominciato a parlare durante le pause
dalle riprese e una cosa tira l’altra, alla fine siamo usciti insieme e abbiamo
iniziato a frequentarci seriamente.”
“Significa che vi sposerete?”
Paul abbassò lo sguardo, leggermente a disagio per
l’argomento, “Non so, per il momento non vuole sentir parlare di matrimonio.
Non voglio metterle fretta, sai, ma non nego di averci pensato diverse volte.”
“Se posso darti un consiglio, penso che tu faccia bene a
non metterle fretta, ma nello stesso tempo, dovresti comunque cercare di capire
che intenzioni abbia anche lei. Non si può mai dire come le cose possano
cambiare in un solo istante.”
Paul tornò a guardarlo, sorpreso, notando come la sua
espressione si fosse improvvisamente oscurata: tutta la luce portata da Julian
era come scomparsa. E Paul stava quasi per chiedergli cosa volesse dire, quando
John si accorse di essersi esposto più di quanto avesse desiderato.
“Dovresti proprio farmela conoscere, la tua fidanzata.” disse
poi, sorridendo.
“Oh, certo, dovrebbe venire a Londra settimana prossima.
Così come anche mio fratello.”
“Tuo fratello?”
“Sì, vengono a vedere come mi sono sistemato. E indovina?”
esclamò Paul, euforico, “Ho chiesto a Mike di portarmi i miei vecchi spartiti,
con tutti gli appunti di quando andavo a lezione.”
“E’ un’ottima idea, ti ringrazio.”
Paul rispose con un vago gesto della mano, “Figurati.”
“Lo penso davvero, queste lezioni sono molto utili, sia
per me che per Julian.” spiegò con una breve risata.
Paul aggrottò la fronte, perplesso, “In che senso?”
“Beh, quando mi esercito a casa la sera, Julian si siede
accanto a me e mi ascolta fino a quando non si addormenta.” spiegò John,
l’espressione serena e assorta in uno dei suoi ricordi più dolci.
“Hai un effetto soporifero allora.” scherzò Paul.
“Anche, ma più che altro, sentirmi suonare lo calma quando
magari è un po’ agitato o sta piangendo, e io voglio migliorare soprattutto per
lui.”
E chi era Paul per cercare di non aiutare John a
realizzare il suo scopo? Voleva aiutarlo, voleva aiutarlo perché John aveva un
nobile intento e lui voleva contribuire in qualunque modo possibile.
“Non ti preoccupare, John, vedrai che insieme ce la
faremo.”
Note
dell’autrice: caspita, quando si tratta di Julian esagero
un po’ con il fluff, ma cioè, dai, lui è il fluff, con quel musetto adorabile. Non
mi piace pensare che il John di questa au sia OOC per
quanto riguarda suo figlio, perché secondo me John semplicemente non era pronto
a fare il padre, quando è nato Julian, ma lo ha amato davvero. Solo che
purtroppo, non ha mai saputo come rapportarsi con lui.
Comunque, niente da dire su questo capitolo, è un
capitolo corridoio, e come tutti i capitoli corridoi è un po’ lento e per
niente eccitante, però ci sono due nuovi personaggi, eh, dai, c’è anche Pattie.
Yuhuuu!!
Comincio a chiedere in anticipo scusa per la lunghezza
dei capitoli che mi stanno diventando sempre più lunghi, HELP! XD
Se vi interessa, questo è il negozio che ho
immaginato per quello di John.
Grazie a kiki che ha corretto,
a ringostarrismybeatle per la consulenza musicale di
questo capitolo, e grazie a JosieWalking_Disaster
Vengeance, Chiara_LennonGirl e lety_beatle,
perché ci sono sempre. :)
Prossimo capitolo, “Birthday”,
domenica prossima. Di chi sarà questo compleanno?
Non credeva di averlo fatto per davvero. Erano
praticamente secoli che Paul non cantava, eppure ora eccolo lì, nella piccola stanzetta
sul retro del negozio di John a cantare dolcemente.
Stavano usando gli spartiti che Mike gli aveva portato da
Liverpool. C'erano tutte le annotazioni del suo insegnante di chitarra, oltre
che tutti i testi delle canzoni più belle della storia della musica, canzoni
che piacevano molto a Paul, canzoni che ancora adesso, nonostante tutte le sue
vicissitudini, riuscivano ad accendere in lui una fiamma di passione.
Quel giorno avevano optato per "Blowin' in the wind", un
brano molto semplice da suonare e da cantare contemporaneamente.
Era stato John a chiedergli di cantarla, ma Paul
all’inizio aveva detto categoricamente di no: suonare era un conto e cantare
tutt’altra cosa, prevedeva un’ulteriore esposizione che Paul non era ancora
sicuro di poter affrontare. L'ultima volta che aveva cantato era stata il
giorno prima che sua madre morisse. Sapendo quanto lei amasse sentirlo suonare
e cantare, Paul, vedendola così sofferente nella sua agonia, aveva provato a
darle sollievo con la sua musica, per farle sentire che era ancora vicino a
lei, che sarebbe sempre rimasto al suo fianco, anche se la sua musica era
triste e disperata come lui, anche se ogni accordo era bagnato dalle sue
lacrime salate.
Tuttavia, John non era solo questa volta. Aveva un
potente alleato nelle piccole sembianze di Julian. Quel pomeriggio era uscito
prima dall'asilo ed era stato portato da Pattie in negozio. John gli aveva
permesso di restare durante la lezione, a patto che fosse rimasto buono in un
angolino a disegnare e giocare in silenzio. Julian, entusiasta, aveva obbedito.
Così quando John aveva cominciato a pregare Paul affinché
cantasse per lui, aveva coinvolto anche il bambino.
"Guarda, Paul." aveva detto, "Anche Julian
vuole che canti, vero, amore?"
Il bambino, sentendosi chiamato in causa, si era voltato
verso il padre e l'aveva osservato mentre lui gli faceva l'occhiolino. Poi
aveva sorriso e guardato Paul.
"Sì, dai, canta!"
E quando Julian l'aveva pregato, quello era stato il
colpo di grazia per Paul che, sconfitto, aveva accettato.
Due contro uno non era affatto giusto. E Julian poteva
anche valere per tre, con il suo essere un bambino adorabile e bellissimo, di
quelli da coccolare dalla mattina alla sera. Paul non aveva mai avuto modo di
interagire davvero con i bambini, ma pochi giorni a contatto con Julian, e già
si era invaghito di quel piccolo, sentendosi così incredibilmente a proprio
agio con lui. Era un ragazzino sveglio, ma anche molto sensibile.
"Sei bravo a cantare." commentò John, al
termine del brano.
Paul scosse il capo, facendo un vago gesto con la mano,
"Ma no, era tantissimo che non cantavo. Ho preso certe stecche. Deve
essere stato straziante per tuo figlio."
"Non ti preoccupare, Jules è abituato a sentire di
peggio, non è così, piccolo?"
Julian alzò lo sguardo da dove si trovava a terra,
sdraiato a pancia in giù in mezzo a decine di pastelli colorati, e annuì.
“Papà canta sempre.”
Paul scoppiò a ridere, sotto lo sguardo di un John molto
piccato. L'innocenza nella voce e nelle parole di Julian era bellissima e nel
contempo, divertente.
"Julian!" lo riprese, "Io parlavo di
George."
"Mi piace quando canta zio George." affermò
distrattamente il bambino, guardando il suo disegno.
"E quando canta papà?" domandò John, e Paul
poté vedere una sorta di gelosia sul suo volto.
Julian gli sorrise, portandosi un dito in bocca, "Anche."
"Ecco, così va meglio." disse John,
rincuorato, scompigliandoli affettuosamente i capelli.
"Allora sei bravo a cantare."
affermò Paul, rivolto a John.
"Non come te."
"Non ci credo. Fammi sentire."
John scosse energicamente il capo, "No,
grazie."
"Oh, andiamo. Non ti far pregare. Io ho
cantato per te." gli fece notare Paul.
"Non se ne parla." ribatté John
inflessibile.
"Ma non è giusto."
John incrociò le braccia sul petto,
osservandolo con un sorriso, segno che si stava lasciando convincere,
"Facciamo così. La prossima volta canterò per te."
"Bene." esclamò Paul, il cui viso
si illuminò di interesse alla prospettiva, "Ci conto."
John prese il libro di Paul e cominciò a
sfogliarlo distrattamente, prima di guardarlo e chiedergli, "Hai qualche
richiesta particolare?"
"Una canzone qualunque di questi
spartiti. Sono tutte canzoni che mi piacevano da ragazzino. Me le ha fatte
conoscere mia madre, sai. Ci sono molto affezionato, anche se risentirle mi
porta ricordi dolorosi: gliele cantavo spesso quando era in terapia e lei mi
guardava con il suo sorriso debole, ma nonostante stesse male, continuava a
sorridere, fino all’ultimo."
"Capisco." disse John, abbassando
improvvisamente lo sguardo, di nuovo sugli spartiti.
Tutto nella sua voce e posizione stava
trasmettendo a Paul una sorta di disagio e questi sbatté le palpebre,
accorgendosi del repentino cambio di atmosfera. Era stata colpa sua,
dannazione, ma non aveva intenzione di portare tristezza in quel momento che
finora si era rivelato così gioioso e spensierato.
"Scusami, non volevo metterti in
imbarazzo." affermò Paul, profondamento dispiaciuto.
"No, non ti preoccupare.” si affrettò a
dire John, sorridendo, “Va tutto bene."
"Certe volte non mi accorgo che quello
che dico possa mettere a disagio le persone."
"Paul." iniziò John, sporgendosi
per appoggiare una mano sul ginocchio dell'altro uomo, "Non devi
preoccuparti di questo. Quando si parla di certi dolori, le persone che non
hanno provato le stesse cose, non sanno mai cosa dire. È solo normale e non è
colpa di nessuno, anche se forse, a volte preferiremmo che qualcuno ce lo
dicesse chiaramente, non posso capire quello che provi, piuttosto che
fare tanti discorsi pomposi e inutili che vogliono dire tutto e nulla nello
stesso momento. Io ho detto che ti capisco perché so cosa significa sentire una
canzone o vedere un luogo particolare che ci ricorda una persona che ci ha
abbandonati."
"Chi?" domandò Paul, senza riuscire
a trattenersi.
Era stato come rapito dalle parole di John,
perché in effetti, molte volte aveva sentito tutto quello che aveva descritto
lui, ma non ne aveva mai parlato con nessuno. Né con i suoi amici, né con Jane,
nessuno era mai riuscito a capire davvero come si sentisse, nessuno aveva mai
intuito che Paul volesse solo urlare certe volte, per lasciar andare quel
dolore che era troppo grande da tenere dentro di sé.
E ora John, John l’aveva capito e alla
domanda di Paul, rispose voltandosi a guardare Julian tristemente.
“Una persona che ora non è più con me.”
Paul sbatté le palpebre, perplesso, ma
affamato di risposte: chi non c’era più? E perché John aveva risposto guardando
Julian? Si trattava forse della madre del bambino?
Ma prima che Paul potesse dire qualunque
cosa, John si destò dai suoi pensieri e tornò a guardarlo, cercando di mostrare
un sorriso almeno credibile.
"Senti, che ne dici se rifaccio Blowin’
in the wind? Così avremo due versioni della
stessa canzone.”
Paul sospirò, e quasi si maledisse per aver osato, ancora
una volta, troppo. Forse John non era ancora pronto a condividere qualcosa di
tanto privato con lui e Paul non capiva proprio perché. E dire che pensava di
essere lui, quello troppo chiuso in sé. Ma piano piano, stava cominciando a
comprendere che anche John avesse una personalità più complessa di ciò che
voleva mostrare. Diventava evidente quando c’era Julian, insieme a lui. Julian
era in grado di far emergere il suo lato più dolce, così come anche le ombre
che erano in John. E se il primo era comunque mostrato più che volentieri da
John, per il secondo, John era ancora particolarmente restio. Paul decise di
rispettare la sua riservatezza e non provò a indagare ulteriormente.
“Dico che è un’ottima idea.” disse invece.
"Ma se poi non ti piace, non ti lamentare."
"Non sarà questo il caso. A Julian piace come canti
e io mi fido del suo giudizio." esclamò Paul, guardando il bambino.
John lo osservò, sorpreso perché la dolcezza dello
sguardo di Paul, rivolto a suo figlio, l'aveva fatto fremere. Julian era
abituato a ricevere questi sguardi da parte di chiunque lo incontrasse, era un
bambino bellissimo e dolcissimo, donne e uomini si scioglievano di fronte a
lui.
Tuttavia Paul aveva qualcosa di diverso. Paul aveva
qualcosa che gli diceva inequivocabilmente che John poteva fidarsi di lui. E
qualcos’altro in John gli stava sussurrando di farlo, fidarsi di Paul,
confidarsi con lui. Ma John non voleva, non poteva. Non avrebbe commesso
lo stesso errore di Paul: lui si stava fidando, consegnandogli tutta la sua
vulnerabilità. John invece, non avrebbe mai potuto farlo.
Deglutì quella strana voglia, sperando che scomparisse
per sempre dal suo corpo, e poi ripose la chitarra nella custodia. La lezione
era finita e John e Julian dovevano andare a casa a dare la medicina al piccolo
Elvis, il loro gattino con il raffreddore.
“Un gatto di nome Elvis?” ripeté Paul, sbalordito e
divertito insieme.
“Un gatto bianco di nome Elvis.” aggiunse John.
“E’ originale.”
“Non te l’ho detto, che il mio più grande amore è Elvis?”
“Elvis?" domandò Paul sorpreso, "Anche a me
piaceva molto.”
“Come?” esclamò ridendo John, “Proprio a te che non
ascolti più musica?”
Paul aggrottò la fronte, “Stiamo lavorando, per questo,
giusto? E comunque mi sembrava di aver spiegato che prima di…" si
interruppe per un istante per mettere in ordine i suoi pensieri improvvisamente
disordinati, "Prima amavo molto la musica, altrimenti non mi sarei
mai avvicinato. Ed Elvis era uno degli artisti che andavano per la maggiore a
casa mia. Dopotutto, è pur sempre il Re.”
“Hai ragione. Allora capirai quella strana sensazione che
mi assale ogni tanto, quando mi capita di pensare di essere nato in un’epoca
sbagliata.” esclamò John, ridendo fra sé, come se pensasse di essere ridicolo.
“Un’epoca decisamente sbagliata.” aggiunse Paul ed
entrambi non poterono far altro che ridere.
Poi, mentre Paul cercava di sistemare la chitarra nella
custodia, John gli chiese se potesse tenere gli spartiti.
"Certo. Me li sono fatto portare apposta da
Mike."
"Quando è arrivato tuo fratello?"
"Ieri pomeriggio."
"Sta a casa tua?"
"Sì." rispose Paul, e il suo sguardo verso John
divenne improvvisamente intimorito, "E a questo proposito, volevo
chiederti una cosa." esclamò, incerto.
Si morse il labbro e torturò le dita, quando John lo
incitò, "Dimmi."
"Ecco vedi, dopodomani ci sarà una festa a casa mia
e mi farebbe davverovpiacere se venissi anche
tu."
John sbatté le palpebre, confuso: tutto poteva aspettarsi
tranne questo.
"Io?"
"Sì. Ad una festa ci devono essere anche degli
amici. Da me ci saranno mio fratello, la mia ragazza e poi solo colleghi di
lavoro. Ma nessun amico, mentre tu sei la cosa che più si avvicina ad un amico,
qui a Londra."
Le orecchie di John si erano drizzate e lui si era già
convinto ad andare quando aveva sentito "colleghi di lavoro". Non che
non avesse udito tutto ciò che era seguito, l'aveva sentito eccome in effetti e
aveva anche visto quanto Paul fosse arrossito, come se stesse facendo uno
sforzo enorme a dire quelle parole, e John non poteva negare che non gli avesse
fatto piacere; dopotutto anche lui non aveva altri amici al di fuori di George
e Pattie. Ma il fatto che avrebbe potuto essere in mezzo ad altri poliziotti
l'aveva convinto. Sarebbe stato eccitante, per non parlare delle novità che
avrebbe potuto ascoltare su di lui, perché anche se ad una festa, John poteva
scommettere che quei poliziotti avrebbero parlato di lavoro.
"Grazie. Verrò con piacere."
****
"Tu devi aver perso qualche rotella!"
John rise alla battuta di George e si guardò allo
specchio in camera sua. Si abbottonò la camicia, prima di passare a fare il
nodo alla cravatta. Si stava preparando per andare alla festa di Paul e aveva
chiesto a George e Pattie di occuparsi di Julian, mentre era via. Tuttavia
George non sembrava particolarmente entusiasta dei suoi piani.
"Perché?"
"Stai davvero per andare ad una festa piena zeppa di
poliziotti?"
"Sì."
"Allora devi avere davvero qualcosa che non va. Sono
fottuti sbirri, John. Sono quelli che ti danno la caccia."
"Cosa credi che possa accadere, George? Che mi
leggano nel pensiero?"
"No, ma... sono sempre degli sbirri! E tu sei il
ricercato numero uno." fece notare George, gesticolando nervosamente, come
faceva sempre quando era a disagio, "È da pazzi, è come se... come se un
agnellino entrasse in un branco di lupi. Tu l'hai mai visto accadere,
John?"
John sorrise divertito, mentre sistemava il nodo della
cravatta, "No."
"Appunto. È totalmente innaturale, John. Per non
dire pericoloso."
"Ti ripeto, mio caro amico, che non indosso una
maglietta con scritto 'Io sono Hermes'. A meno che non sia io a dirlo, e
credimi, non lo farei mai, non penso proprio che capiranno che sono Hermes solo
guardandomi e parlando con me."
George sospirò rassegnato, aiutando a malincuore John a
indossare la giacca, "Fai come ti pare, allora."
"Grazie. Andrà tutto bene, vedrai."
"Sì, lo so." disse lui, guardandolo mentre un
piccolo sorriso nasceva sulle sue labbra, "Mi fido di te."
"E fai bene."
George annuì, ridacchiando un po' ora che l'ansia stava
cominciando a sparire, e lisciò le pieghe della giacca di John.
"Però sarebbe divertente." continuò John.
"Cosa?"
"Andare alla festa e urlare a tutti che sono
Hermes."
George lo guardò un istante totalmente apatico. Poi si
voltò per andare a raggiungere Pattie e Julian in cucina.
"Addio, John." gli disse senza speranza.
Pochi minuti e un bacio di Julian dopo, John uscì da casa
sua e percorse quel breve tratto di strada che lo separava dalla casa di Paul.
Aveva con sé una bottiglia di vino piemontese, dall'Italia, quindi una gran
bella scelta. Oh, lui sì che aveva buongusto. Non era convinto di dover portare
qualcosa, ma presentarsi a una festa a mani vuote lo metteva a disagio.
Inoltre, voleva, o meglio, doveva fare una buona impressione su Paul e sui suoi
colleghi di lavoro.
Quando John suonò il campanello della casa con le luci
accese, sperò che qualche ingenuo sbirro si lasciasse sfuggire qualche
indiscrezione interessante.
La porta si aprì, lasciando apparire nella sua visuale un
Paul McCartney sorridente e meno agghindato di John. Aveva solo giacca e
camicia sopra un jeans scuro. Niente cravatta.
"John, ciao, ben arrivato."
"Grazie." rispose lui, mentre Paul lo lasciava
entrare a casa sua e lo osservava attentamente.
"Che eleganza!"
"Ah, beh, pensavo che una festa con chissà quanti
poliziotti e un’attrice famosa in tutto il mondo lo richiedesse."
Paul rise, "Ti ringrazio. I poliziotti sono in sala
e l'attrice famosa tarderà un po'."
"Oh, mi dispiace."
"Non importa." commentò lui, sorridendo
tristemente, il pensiero perso chissà dove, "È appena tornata dagli Stati
Uniti. È molto indaffarata. Lo capisco."
John si ritrovò, senza volerlo, a lanciare un piccolo
insulto in direzione di quella ragazza. Tanti mesi separati e ora che era
tornata, non correva da lui? Se era vero che lo amasse, cosa c'era di tanto
importante da venire prima di Paul?
“Vedrai che arriverà, non ti preoccupare.”
“Grazie.” sospirò Paul, annuendo, non molto convinto, e John notandolo,pensò che fosse il caso di cambiare argomento.
“Ti ho portato una cosa.” esclamò, porgendogli la busta
verde smeraldo che conteneva la bottiglia di vino.
Paul lo guardò, sorpreso, ma compiaciuto, per un istante
prima di prendere il regalo, “Non dovevi disturbarti.”
“Nessun disturbo, mi sembrava giusto.”
“Oh, vino italiano.” disse, quando estrasse la bottiglia
allungata dalla busta regalo, “Wow, grazie mille, John.”
“Figurati. Spero solo che ti piaccia.”
“Altroché, adoro il vino.” commentò Paul, con una risata,
“Dai, accomodati, ci sono un sacco di cose da mangiare.”
Paul lo afferrò per un braccio, conducendolo sulla soglia
del salotto, in cui vi erano almeno una ventina di persone. Si trattava di una
sala piuttosto spaziosa, la moquette era di color tortora con le pareti di un
tenue bianco panna. C’era un divano scuro davanti a un piccolo caminetto
spento, ai lati del quale vi era una libreria piena zeppa di libri e dall’altro
un televisore tra due casse acustiche di legno. La sala era ben illuminata da
una ampia finestra a ghigliottina con l’intelaiatura di legno bianco, che si
poteva vedere anche dalla strada. Era un'affascinante finestra con seduta
annessa, composta da un piccolo divanetto con due cuscini, su cui ci si poteva
accomodare e guardare la via prendere vita al di là del vetro, magari bevendo
una tazza di tè o leggendo un libro.
Proprio accanto alla finestra vi era un tavolino
apparecchiato che offriva cibarie e bevande in gran quantità. John non si
sorprese nel vedere già diverse persone che ronzavano attorno a quel tavolo.
“Sono tutti miei colleghi di lavoro, mentre l’uomo che
sta ridendo in questo momento, è il mio capo.”
“Oh.” esclamò John, seguendo l’indicazione di Paul e
notando un piccolo ometto dal naso più grande del suo, col viso bonario e gli
occhi azzurri, “Così quello sarebbe il nuovo ispettore capo di Chelsea.”
“Esatto.”
"Non ha proprio l'aria da ispettore."
"Perché, io sì?" ribatté ridendo Paul.
"Non l'ho detto io." esclamò John, alzando le
mani in segno di resa, “Comunque, noto con dispiacere che non c’è neanche un
po’ di musica in sottofondo.”
Paul arrossì lievemente, “Ehm, no, infatti. Non ci avevo
pensato.”
“Forse non volevi pensarci.”
“Già." concordò Paul, dubbioso, "Pensi che
farebbe piacere agli invitati?”
“Una festa non è una festa senza amici, Paul, ma neanche
senza musica.” rispose lui, facendogli l'occhiolino.
Paul sorrise, annuendo, “Allora, vado a prendere il cd
che mi hai regalato. Ce l’ho di sopra.”
“D’accordo.”
“Tu intanto prendi pure qualcosa da mangiare e da bere.”
esclamò Paul, dirigendosi verso le scale, “Fai come se fossi a casa tua.”
John lo guardò salire al piano di sopra, prima di entrare
ancor di più nel salotto. Tuttavia, invece di puntare al tavolo delle cibarie, si
diresse verso la libreria, curioso di sapere che tipo di libri potesse leggere
uno come Paul. Altri invitati lo osservarono velocemente, ma non gli rivolsero
la parola. Beh, era ancora presto. Dopotutto, era appena arrivato.
John esaminò i titoli dei libri: c'erano gialli,
ovviamente, che poliziotto sarebbe stato altrimenti? Ma anche thriller e
romanzi storici, e classici della letteratura inglese, francese e italiana.
Insomma un'ampia varietà di generi nella sua collezione.
Non pensava che Paul fosse tipo da, Dio, da Le
avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Proprio mentre passava in rassegna i volumi sugli
scaffali, John scorse anche una cornice. All'interno vi era una foto che
ritraeva due bambini insieme a una donna, e tutti e tre erano seduti su un
prato. Sicuramente, pensò John, si trattava della madre di Paul. Aveva gli
stessi lineamenti delicati che erano ancora presenti sul volto del giovane
uomo. I due bambini erano stretti tra le sue braccia e sorridevano. Si
assomigliavano moltissimo fra loro, avevano la stessa aria furba. Ma qualcosa
rendeva il più grande dei due un po' più sveglio e John decise che quel bambino
fosse Paul.
Proprio quando prese in mano la cornice, udì qualcosa di
interessante: nel gruppetto di persone che parlavano con l'ispettore Starkey,
qualcuno aveva fatto il nome di Hermes.
Il cuore di John sussultò.
"...pensa che si tratti di qualcosa che possa
interessare anche ad Hermes. Anzi, ne è sicuro."
"Di cosa si tratta?"
"Pare che sia una chitarra di Bob Dylan risalente al
1965."
"Una Fender Stratocaster."
puntualizzò qualcuno e John sentì le gambe cedere.
Se fosse stata ciò che pensava lui, allora stava per
diventare l'uomo più felice del mondo. Conosceva la storia di quella chitarra e
forse era proprio questa a renderla speciale. John sapeva che era stata ritrovata
da poco e che era stata messa all'asta, e il misterioso acquirente aveva speso
la straordinaria cifra di quasi un milione di dollari per aggiudicarsela.
Così, si fece forza e continuò ad ascoltare.
"Il proprietario dice che arriverà la settimana
prossima eha richiesto espressamente la
nostra protezione."
Ottimo. John aveva una settimana di tempo per poter
organizzarsi e recuperare tutte le informazioni possibili. Doveva assolutamente
avvisare George e poi-
"Tu devi essere John."
La voce sopraggiunse dalla sua destra e per poco John non
saltò per lo spavento.
L'uomo che era magicamente apparso al suo fianco gli
sorrise, "Scusa, ti ho fatto spaventare?"
"No, no, affatto." mentì lui, affrettandosi a
rispondere, "Sono John, comunque."
Gli porse la mano, accorgendosi che quell'uomo così
somigliante a Paul non poteva che essere...
"Michael. Piacere di conoscerti."
"Il piacere è mio. Sei il fratello di Paul,
giusto?"
"Esatto. E non dire che si vede, perché non ci
assomigliamo per niente." commentò ridendo.
"Non è vero. Un po' sì." ribatté John,
"C'è qualcosa nello sguardo. Avete gli stessi occhi."
"Una bella eredità della mamma, allora."
commentò, con un sorriso dolce che si fece largo sulle labbra, "Ti stai
divertendo?"
"Oh beh, sono appena arrivato, sai." fece
notare lui, ripensando all'approccio del giovane uomo, "A proposito, come
facevi a sapere il mio nome?"
"Mio fratello ultimamente non fa che parlare di
questo fantomatico John Lennon che gli avrebbe chiesto lezioni di chitarra. Di
John e di Hermes, se vogliamo essere precisi. E dal momento che non mi sembri
far parte del gruppo dei colleghi di lavoro, ho pensato che dovessi essere per
forza John Lennon."
"Oh, ma certo." rispose John, cercando di
nascondere l'effetto che aveva avuto su di lui sentire il suo nome accanto a
quello di Hermes nella stessa frase.
"Quindi, è davvero così? Paul ti dà lezioni di
chitarra?" domandò ansioso.
"Sì."
"Wow." esclamò Mike, in qualche modo sollevato
e sorpreso, "È talmente strano. Non credevo che un giorno Paul avrebbe
ripreso in mano una chitarra per fare musica. Era bravo, sai?"
"Lo è ancora." confermò John, "Altrimenti
non gliel'avrei chiesto."
"Allora, John, ti ringrazio."
"Per cosa?"
"Perché stai aiutando Paul con il suo problema. Mi
dispiaceva molto che non coltivasse quella che da bambino era la sua grande
passione. È solo grazie a te se adesso ha voglia di risolvere questa sua
difficoltà."
John deglutì sonoramente. Qualcosa dentro di lui fece le
fusa, contento e caldo e soddisfatto. Tuttavia, insieme a questo, c'era anche
una spiacevole sensazione fredda che gli stringeva il cuore. Qualcosa che in
altre circostanze avrebbe definito come senso di colpa. Ma John non poteva
provare un simile sentimento, soprattutto nei confronti del suo nemico. No, non
doveva lasciarsi intenerire.
Eppure le parole che uscirono dalla sua bocca furono
sincere come quelle di Mike.
"In realtà, è lui che sta aiutando me. E grazie a
lui sto imparando a suonare decentemente."
"Quindi è come se vi steste aiutando reciprocamente."
"È proprio così."
Poi Mike prese la cornice dalle sue mani, guardandola
dolcemente, “Quando Paul mi ha detto che stava riprendendo in mano la chitarra,
non ci ho creduto inizialmente. È da quando è morta la mamma, che non la
toccava. Anche se, se vogliamo essere sinceri, se non fosse stato per lei, Paul
avrebbe smesso di suonare quando lui se n’è andato.”
Eccolo.
“Lui chi?” domandò John.
Cercò di apparire come se non conoscesse la risposta a
quella domanda, ma la verità era che John sapeva chi fosse lui.
“Nostro padre. Ci ha abbandonati quando Paul aveva dieci
anni.”
Sì, John sapeva anche questo. Come avrebbe potuto
dimenticare quella sera di tanti anni prima, quando la sua strada si era
incrociata con quella dell’uomo che l’avrebbe aiutato a sopravvivere?
“Come mai? Se posso chiedere, ovviamente…”
“Non lo sappiamo con precisione. Penso che si fosse messo
nei guai, e piuttosto che affrontare i suoi problemi con la sua famiglia, ha
preferito scappare con la coda fra le gambe. Paul e io, naturalmente, non
l’abbiamo mai perdonato da allora.” spiegò Mike con una smorfia addolorata sul
volto, addolorata e arrabbiata.
Naturalmente non potevano perdonarlo, e John voleva solo
dirgli che entrambi stavano sbagliando a non volerlo perdonare. Lui, dopotutto,
aveva imparato tanto da quell’uomo. Da Jim McCartney.
“Io… non ne avevo idea. Mi dispiace.”commentò, apparendo profondamente contrito.
Ma John non poteva essere davvero dispiaciuto:
ovviamente, era dell’opinione che un bambino non dovesse mai essere abbandonato
da uno dei genitori. Tuttavia lui senza Jim sarebbe stato perso, probabilmente
sarebbe stato ancora in giro a rubare portafogli ai clienti dei pub di
periferia, vivendo alla giornata. Forse senza di lui, ora non avrebbe avuto
neanche Julian.
“E’ una cosa che
Paul preferisce non condividere, a meno che non sia costretto. Penso l’abbia
detto solo a Jane.”
E Julian era l’unica cosa buona della sua vita. Per lui
avrebbe fatto di tutto e proprio grazie al suo bambino, poteva capire il gesto
compiuto da Jim.
“Ma non pensate che magari lui, se fosse vero che si è
messo nei guai, allora sia scappato solo per proteggervi?”
Poteva capirlo, anche se probabilmente non avrebbe mai e
poi mai potuto fare la stessa cosa. Se si fosse messo nei guai, avrebbe cercato
di risolverli, restando al fianco di suo figlio. Non si sarebbe mai allontanato
da Julian.
“E’ comunque un atto di codardia, scappare dai problemi.
In questo modo invece che risolverli, ne ha solo causati altri.”
“E non avete idea di dove sia ora?” chiese John.
Se avessero avuto dei sospetti su dove si trovasse Jim,
allora lui era in pericolo.
“No, per nulla. Paul non ha neanche provato a fare delle
ricerche. In fondo siamo cresciuti senza padre, e nostra madre si è presa cura
di noi in modo impeccabile. Perché dovremmo desiderare di vedere un uomo tanto
vigliacco da abbandonare i propri figli?”
John si morse il labbro, osservando come l’espressione di
Mike stesse indurendosi ad ogni parola. Pur comprendendo il suo stato d'animo,
odiava quell’espressione sul suo volto. Decise perciò di passare a un altro
aspetto di quell'argomento.
“Perché dici che il problema di Paul dipende da questo?”
“Perché nostro padre gli ha insegnato a suonare la
chitarra. Da quando aveva cinque anni ha cominciato a insegnargli le basi della
musica e gli faceva ascoltare tutti i suoi vinili. Poi quando lui se n’è
andato, Paul ha iniziato a odiare la sua chitarra e la sua musica, ma nostra
madre gli ha chiesto di continuare a suonare per lei e lui l’ha accontentata, a
malincuore.”
“Perché l’ha fatto, se non era ciò che desiderava?”
“Perché non voleva darle dispiaceri. Ci aveva già pensato
nostro padre. Così la mamma l’ha iscritto ad una scuola di musica, dove lo
stile di Paul è migliorato e ogni settimana suonava per lei qualcosa. La mamma
non voleva che Paul gettasse al vento un talento come il suo solo per colpa
dell'abbandono di nostro padre. Non era giusto che lui pagasse quella scelta in
questo modo. Inoltre a lei piaceva molto sentirlo suonare e cantare. Era
unicamente per questo che lui andava avanti. Così quando lei è morta, Paul ha
rinunciato per sempre alla musica."
"Sono davvero felice che Paul qui non sia solo, sai?
Quando si è trasferito temevo che avrebbe sofferto la solitudine, con Jane
sempre in viaggio, e me e i suoi amici a Liverpool. Invece ha trovato te. Mi
fai stare più tranquillo." spiegò Mike, mentre John arrossiva
involontariamente, "Paul non è un tipo particolarmente socievole."
"Sì, l'ho notato." commentò John, sorridendo.
"È che non si fida di nessuno, deve passare molto
tempo prima di ottenere la sua fiducia. Pensa che è
talmente riservato, che non ha neanche voluto dire a nessuno che oggi è il suo
compleanno."
John spalancò gli occhi, preso totalmente
alla sprovvista: "Compleanno?"
"Sì. È sostanzialmente per questo motivo
che sia io che Jane siamo venuti a Londra. Abbiamo approfittato di questa
ricorrenza per venire a trovarlo, non l'avrei mai lasciato solo in questo
giorno."
"Ehi!" esclamò Paul, sopraggiungendo fra di
loro, "Vedo che vi siete già presentati."
Tra le mani aveva il cd che John gli aveva regalato
quando si erano incontrati.
"In effetti, sì." rispose Mike.
"Non è che stavate sparlando di me?"
"No, tuo fratello mi stava solo dicendo che oggi è
il tuo compleanno, ma pare che nessuno degli invitati lo sappia."
spiegòJohn, rivolgendogli uno sguardo
di biasimo.
Paul rise divertito, ma sotto quello sguardo, arrossì
vistosamente, confermando tutto ciò che aveva detto Mike.
"Perché non me l'hai detto?" domandò John,
contrariato, "Avrei portato un regalo più bello di una stupida bottiglia
di vino."
"Proprio per questo non l'ho detto a nessuno. Non
volevo che vi disturbaste inutilmente."
"Ma è una festa di compleanno. Non si tratta di
'disturbarsi inutilmente'." ribatté accalorato John.
"Senti, John, ho apprezzato molto il tuo
regalo." lo rassicurò Paul, appoggiando una mano sulla sua spalla,
"Per cui non ci pensare più, d'accordo?"
John storse le labbra, non particolarmente convinto, ma
alla fine sospirò, "D'accordo. Posso almeno farti gli auguri?"
"Ma certo!" esclamò Paul con un sorriso.
"Allora buon compleanno, vecchio mio."
"Grazie."
"Ma non pensare di passarla liscia." lo
minacciò John, puntandogli un dito contro, "Adesso mi ricorderò questa
data e l'anno prossimo ti organizzerò una festa coi fiocchi, con molta,
moltissima musica in sottofondo."
"Sembra terribile." commentò Paul e poi scoppiò
a ridere.
Anche Mike sembrò apprezzare la sua battuta o forse stava
solo apprezzando il fatto che Paul stesse ridendo? Lo guardava come se lo
vedesse per la prima volta dopo tanti anni. Fece domandare a John da quanto
tempo non lo vedeva così spensierato?
Anche con tutti i suoi problemi, professionali e
personali, Paul era capace di ridere gioiosamente.
E chissà se in parte fosse merito di John...
****
La mattina dopo, Paul sospirò, mentre si svegliava e
stiracchiava nel suo letto.
Sembrava che fuori ci fosse il sole e che fosse sorto da
diverso tempo. Anche quella sarebbe stata una splendida giornata di sole.
Si mosse un po' nel letto, ma si accorse che vi era una
morbida massa di capelli rossi sparsa sulla sua spalla, un viso caldo sul suo
petto e il respiro che solleticava la sua pelle.
Jane.
Paul ripensò alla sera precedente, mentre la sua mano
accarezzava distrattamente la schiena della ragazza. Jane non era riuscita a
raggiungerlo per la sua festa. Era arrivata quando ormai tutti gli invitati
erano andati via. Paul aveva passato una serata bellissima per il suo
compleanno. I suoi colleghi gli avevano fatto i complimenti per il
bell'appartamento che aveva sistemato; l'ispettore Starkey non l'aveva
risparmiato neanche nel primo dei suoi tre giorni di ferie, informandolo
dell'eventualità che Hermes si facesse vivo a breve; e poi John, alla fine del
cd dei RollingStones, era
scappato un attimo a casa sua per fare scorta di cd e insieme avevano ascoltato
Elvis.
Paul pensava che sarebbe stato difficile: in fondo Elvis
gli ricordava moltissimo suo padre, era l'idolo di quel vigliacco traditore. Ma
con Mike al suo fianco e John, naturalmente, e con la distrazione della festa,
era stato più facile e perché no? Gradevole. John gli aveva parlato dei brani
di quel cd, delle caratteristiche di tutte quelle tracce, di tutto ciò che si
nascondeva dietro ogni testo e accordo. Per un momento a Paul era sembrato di
sentire suo padre, talmente immensa era la passione che si celava dietro quelle
parole. Era strano da pensare, ma Paul l'avrebbe ascoltato volentieri per tutta
la sera.
Poi i colleghi avevano cominciato ad andarsene e alla
fine, per ultimo, John, il quale gli aveva assicurato di essersi divertito e
ricordato che prima o poi si sarebbe vendicato della sua piccola omissione.
Jane era arrivata poco dopo, presentandosi sulla porta di
casa sua con l'espressione dispiaciuta e il viso stanco dal lavoro e dal jet lag.
Paul non poteva negare che ci fosse rimasto male, ma
nello stesso tempo non voleva farne una tragedia. Non aveva più dieci anni e
Jane era apparsa profondamente mortificata per il ritardo, sostenendo che
l'avessero trattenuta per un'intervista dell'ultimo momento. E per quale motivo
non avrebbe dovuto crederle? Era la sua ragazza, la sua dolce, adorabile Jane,
che lo amava. Perché proprio lei avrebbe dovuto farlo soffrire
intenzionalmente?
No, Jane non avrebbe mai potuto farlo.
Paul sospirò pesantemente, voltandosi verso il comodino.
Accanto alla sveglia, che segnava le dieci passate del mattino, vi era il
pacchetto con il regalo di Jane, un bellissimo orologio, col cinturino di pelle
nera e il quadrante con intelaiatura d'oro. Sicuramente un regalo molto costoso
e Paul l'aveva apprezzato, diamine, era un signor orologio!
Eppure, come il metallo di cui era composto, il pensiero
di questo regalo trasmetteva solo freddo. Non era giusto lamentarsi dei
regali che si ricevevano, ma si poteva capire molto di una persona dai regali
che ideava. E questo orologio trasmetteva solo fretta. Come se Jane non avesse
potuto spendere più tempo per lui, solo soldi.
Era impegnata, dovette ricordare a se stesso.
Sì, sospirò mentre la giovane si stiracchiava contro di
lui, era solo impegnata.
Jane si stropicciò gli occhi e sorrise, prima di alzare
lo sguardo verso Paul.
"Buongiorno."
Paul le restituì il sorriso, "Buongiorno. Dormito
bene?"
"Benissimo. Tu?"
"Altroché. Si sta bene in due in questo letto."
"Ah sì?"
Paul annuì con una risatina, desiderando allontanare ora
e una volte per tutte, le sue preoccupazioni, "Di solito è troppo grande
per me. Mi fa sentire solo, sai?"
"Oh, povero piccolo Paul. Adesso ci sono io a farti
compagnia." gli sussurrò seducente lei e lo baciò una volta, "Mi
prenderò cura di te."
"Lo faresti davvero?" domandò, mentre lei
scivolava sul suo grembo, sistemandosi a cavalcioni sopra di lui e ricoprendo
di piccoli baci il suo volto.
"Ma certo. Devo farmi perdonare, giusto?"
"Oh sì. Giustissimo." riuscì a dire prima che
Jane prendesse il suo viso fra le mani e lo baciasse appassionatamente sulle
labbra.
Paul ricambiò subito il bacio, lasciando che la sua mano
vagasse fra i suoi capelli e poi sempre più in giù, sulla schiena e oltre le
sue natiche, per andare ad accarezzare le sue cosce pallide che lo
circondavano.
E quando con fare ardito, fece scivolare le dita sotto la
sua camicia da notte, il cellulare sul comodino squillò.
"Oh cazzo." sospirò frustrato.
"Lascialo perdere." gli suggerì Jane, tenendolo
ancora tra le sue braccia.
"Ma potrebbe essere dall'ufficio..." insistette
Paul e a malincuore si divincolò dal suo invitante abbraccio.
Jane sospirò sconfitta, ricadendo sul cuscino, mentre
Paul raggiungeva il cellulare.
“Pronto?”
“Paul?”
“Ispettore Starkey, che succede?” domandò Paul,
sollevandosi subito a sedere.
“Mi dispiace disturbarla nel suo giorno di
ferie.”
“Non importa, mi dica.”
“Ricorda quello di cui abbiamo parlato ieri
sera?”
“Sì, certo. L’uomo che ha richiesto la nostra
protezione.”
“Esatto. Come ci aspettavamo, ha ricevuto un
biglietto da parte di Hermes.”
Il cuore di Paul sussultò, ma in fondo l'ispettore
Starkey aveva ragione: se lo aspettavano, così come Paul si aspettava le parole
che seguirono.
“Ruberà la chitarra di Bob Dylan.”
Note dell’autrice: santo cielo, non riesco ancora a credere di aver
scritto una scena het in questa storia. No, davvero. Per
fortuna che è finita. Ringraziamo tutti insieme Ritchie, che ha salvato la
situazione con la telefonata.
Allora, il compleanno era di
Paul… e in effetti tra poco lo sarà per davvero. *^*
La storia della chitarra di
Bob Dylan è bellissima, e dovevo assolutamente inserirla nella storia. :3
Grazie a kiki
che corregge e mi aiuta a scegliere le cose da far rubare a John.
Grazie a ringostarrismybeatle,
che era disposta a telefonare a Paul lei stessa, pur di interrompere la scena het. xD
E grazie a Chiara_LennonGirl,
JosieWalking_Disaster Vengeance, chiara_mingrone
e lety_beatle per le affettuose parole.
Il prossimo capitolo, “From me
to you”, è sempre uno di quelli con un furto di John.
Arriverà giovedì, però, perché… *ride*… non ci posso ancora credere, sì, ma
torno a Londra per la terza volta. Sono super emozionata. Quindi, ecco, la
domenica non posso aggiornare.
Quando Julian corse verso la cucina, i suoi passi
echeggiarono nel corridoio, mentre John continuava a guardare fuori dalla
finestra in salotto. Aveva osservato, anzi fissato la casa di Paul almeno da
quando aveva pranzato, prestando attenzione ai movimenti del giovane ispettore:
doveva controllare se uscisse e soprattutto quando.
Ma fintanto che la macchina di Paul fosse rimasta
parcheggiata di fronte alla porta, John poteva stare tranquillo. L'aveva visto
passare diverse volte di fronte alla finestra del piano di sopra e inoltre,
sapeva che tra poco sarebbe uscito di casa: dopotutto ci voleva un po' di tempo
per arrivare a Heathrow.
Tuttavia la cosa davvero rilevante per John era che Paul
sembrasse agitato.
Beh, faceva bene a esserlo.
John stava forse per compiere il suo colpo più difficile.
E la buona riuscita del furto dipendeva da un semplice, piccolo regalo che ora
era ben nascosto nella sua tasca, pronto per essere donato all'ignaro
ispettore.
"Eccomi, papà."
Julian zampettò verso di lui con una bella scatola in
mano: era rossa, quadrata, con un nastro dorato a chiuderla, ma il particolare
più importante della confezione erano tutti i forellini sul coperchio, creati
per far passare l'aria al suo piccolo ospite.
"Secondo te gli piacerà, anche se è nero?"
domandò John, accovacciandosi di fronte a lui.
Julian annuì vigorosamente, "Sì. I gatti neri
piacciono a tutti perché sono magici."
“Magici?” ripeté John, mostrando tutta la sua curiosità
per l’argomento.
“Certo. Ti fanno avere tutto quello che vuoi.” spiegò il
bambino, come se fosse la cosa più logica del mondo e così facendo, strappò un
sorriso a John.
“Davvero? Allora dovremmo prenderne uno anche noi.”
“Ma abbiamo già Elvis." protestò dolcemente Julian,
"Poi diventa geloso.”
"Hai ragione, piccolo mio."
E proprio mentre scompigliava affettuosamente i capelli
del figlio, John sentì il rumore lontano di una porta che si apriva.
Era il momento di passare all'azione.
"Andiamo, Jules?"
Il bambino annuì e quando il padre gli porse la mano, la
strinse con forza.
I due uscirono di casa e attraversarono la strada per
ritrovarsi di fronte a un Paul molto indaffarato, che trafficava per aprire la
portiera della macchina.
"Ciao, Paul."
L'uomo sollevò lo sguardo, sembrando particolarmente
sorpreso di vedere John e Julian che si avvicinavano, e interruppe ciò che
stava facendo.
"Ehi. Ciao. Che ci fate qui?"
"Siamo passati per darti una cosa, vero,
Jules?"
Julian annuì e si strinse contro la gamba del padre,
ancora un po’ intimidito da Paul.
"Che cosa?" domandò Paul, incuriosito.
"Un regalo di compleanno.” rispose John, sorridendo
e ricevendo un’occhiataccia da parte di Paul, “Con una settimana di
ritardo."
“Ma, John, ti avevo detto che non c’era bisogno di
disturbarsi. Così mi metti solo in imbarazzo.”
Paul si accovacciò quando il piccolo Julian, dopo
un'incitazione del padre, avanzò verso di lui e gli porse la scatola tremolante
che aveva tra le mani.
“Beh, e tu hai messo in imbarazzo me alla tua festa di
compleanno; direi che siamo pari, ora.”
Paul ridacchiò, “Ci sei rimasto proprio male, eh?”
“Ovviamente, il compleanno è sacro.” proclamò solenne,
facendo ridere Paul.
“Allora grazie.”
“Aprilo, se no poi Pepper sta male.” si affrettò a dire
Julian, preoccupato.
Paul, piuttosto perplesso dalle parole del bambino,
guardò il suo regalo. Dai forellini sul coperchio si poteva intravedere
qualcosa di nero che si agitava un po’. Il giovane ispettore sorrise ancor prima
di sollevare il coperchio, perché ormai aveva capito che all’interno avrebbe
trovato...
“Santo cielo.”
Un gattino nero.
Il cucciolo si fermò all’improvviso, schiacciandosi
contro un angolo della scatola e guardando in direzione di Paul. Sembrava spaventato
e Paul allungò una mano, incerto, per accarezzargli la testa.
“Ti piace?” domandò Julian, accovacciandosi anche lui, di
fronte a Paul.
“Sì, è bellissimo.”
Ed era vero, aveva il pelo arruffato e gli occhi azzurri
straordinariamente chiari. Ricordavano quelli vispi del bambino di fronte a
lui, che ora allungava la sua manina per accarezzare la piccola palla di pelo.
“Si chiama Pepper.” affermò Julian, sorridendo.
“Julian?" lo richiamò dolcemente John, "Quello
è il nome che gli hai dato tu, ma adesso è di Paul. Decide lui il nome,
giusto?”
Julian guardò il padre, mostrando un piccolo broncio e
Paul, osservandolo, rise.
“Pepper è un bel nome.” commentò Paul, riportando il
sorriso sul volto di Julian, “Posso chiamarlo anche io così?"
"Sì."
Paul prese in braccio il gattino, che si agitò non poco
tra le sue braccia, ma in qualche modo Paul riuscì a tenerlo a bada e poi si
alzò in piedi.
"Ti piace, allora?" domandò John, mentre Julian
gli si avvicinava nuovamente, alla ricerca della sua mano forte.
"Sì. Grazie mille. Non dovevi, davvero."
rispose Paul, dando un'altra occhiata al gattino tra le sue braccia.
"Ho pensato... anzi, abbiamo pensato che
visto che vivi da solo, ti avrebbe fatto piacere un po' di compagnia, quando
torni a casa dal lavoro."
L'espressione di Paul divenne radiosa a quella
prospettiva, “Avete pensato bene.”
“E già gli piaci.” commentò John, notando come il gattino
si fosse calmato in braccio all'uomo.
Paul seguì il suo sguardo e rise, “E’ un gatto nero con
buongusto, allora.”
"Lo sai che i gatti neri sono magici?" si
intromise Julian, rubando un sorriso a Paul.
Anche John rise e prese in braccio il bambino, che
automaticamente avvolse le braccia intorno al suo collo.
"Ma certo.” rispose Paul, avvicinandosi a entrambi,
“Le streghe hanno tutte i gatti neri. Altrimenti non riuscirebbero a fare gli
incantesimi."
Julian rise quando Paul concluse la sua affermazione con
un occhiolino complice, e nascose il viso nel collo del papà.
“A proposito di streghe, ti servirà un amuleto per stasera.”
iniziò a dire John, incerto, “E’ oggi, giusto?”
Lo sguardo di Paul divenne più serio all’improvviso, “Sì,
stavo andando proprio adesso all’aeroporto.”
“Allora…” disse John, cercando qualcosa nella tasca con
la mano libera, “Porta con te questo piccolo portafortuna.”
Paul sempre più turbato da questi regali, osservò la mano
di John, chiusa a pugno, allungarsi verso di lui. Esitò un solo istante, prima
di porgere anche la sua mano, in modo che l’altro uomo potesse farvi cadere
sopra ciò che stringeva.
Con sua grande sorpresa, l’amuleto portafortuna si rivelò
essere un portachiavi di colore blu elettrico. Paul lo rigirò nella sua mano:
aveva la sagoma di una chitarra, vi erano anche riportarti tutti i dettagli
come le corde, le chiavi sulla paletta e sul retro era inciso il nome del
negozio di John.
“E’ molto carino da parte tua, John, ma tutte queste
cose, non penso di meritarle.”
“Oh, andiamo, Paul, rilassati per una volta."
esclamò John, dandogli una leggera gomitata sul fianco, "Sono solo piccoli
pensieri, niente di più, dai.”
“Allora, grazie mille.” esclamò Paul, infilando il
portachiavi in tasca, “Speriamo porti davvero fortuna.”
John aveva osservato e seguito con molta attenzione la
mano di Paul che scivolava nella tasca della sua giacca.
Era fatta!
“Di nulla.” esclamò John, sorridendo soddisfatto, “Ma ora
come farai con il gattino? Vuoi che lo tenga io fino a stasera?”
“Oh, no, non ti preoccupare.” rispose Paul, avvicinandosi
alla porta di casa e suonando il campanello, “C’è Jane a casa.”
Ecco, ora finalmente John avrebbe conosciuto la famosa
Jane Asher. Era abbastanza di buon umore per conoscere la fidanzata dell’uomo
che gli dava la caccia. Anche Julian sembrava essere interessato e si voltò
verso la porta dell'appartamento di Paul.
Pochi secondi dopo, infatti, una bella ragazza, con una
folta chioma di capelli lunghi e rossi, aprì la porta di casa.
“Paul! Che succed-” iniziò a
dire, evidentemente sorpresa che Paul fosse ancora lì, ma il suo sguardo fu
subito attirato dalla creaturina in braccio a Paul, che si era ben adattata a
lui, “E quello da dove spunta?”
"Un ultimo regalo di compleanno." rispose Paul,
ridacchiando e grattando la testolina del gatto.
"Da chi?" domandò sconcertata Jane.
"I miei vicini di casa." rispose Paul,
indicando con un cenno del capo John e Julian.
"Salve." salutò John.
"Oh, salve."
"Jane, ti presento il mio amico John Lennon e suo
figlio Julian. Vivono qui di fronte. Mentre quest'adorabile ragazza..."
proseguì, guardando la sua fidanzata, "È Jane Asher, la mia dolce
metà."
"Piacere di conoscerti." disse John, con un
cenno del capo.
Jane gli sorrise debolmente.
"Mi hanno regalato questo gattino per farmi
compagnia." continuò Paul, entusiasta.
Per tutta risposta, Jane aggrottò la fronte, “Un gatto?”
“Esatto. Potresti occupartene tu, mentre vado a lavoro?”
“Ma io non ho mai avuto un gatto, non so cosa fare.”
protestò Jane, indietreggiando di un passo, mentre Paul si avvicinava per
porgerle il micio.
“Oh, dagli un po’ di latte, fai attenzione che non
distrugga casa e poi ci penserò io.” spiegò brevemente Paul.
"Paul, ma ci hai pensato bene?”
Paul sbatté le palpebre, sconcertato, “A che cosa,
tesoro?”
“A tenerlo. Come farai a badare a un gattino tanto
piccolo se sei via per gran parte del giorno? Io tra qualche giorno devo
ripartire. Resterebbe da solo per tutta la giornata."
La domanda di Jane lo lasciò senza parole e fece sparire
in un attimo tutto il suo entusiasmo. Non aveva pensato a questo particolare.
Jane sarebbe partita tra un paio di giorni e lui sarebbe rimasto solo. Come
avrebbe potuto lasciare a casa, da solo, un gattino? Rischiava di tornare nel
suo appartamento e trovare ogni sera un disastro.
Eppure l’idea che ci fosse qualcosa di vivente, qualcuno
pronto ad aspettarlo quando tornava, era troppo bella per essere abbandonata
per quella che era solo pigrizia o paura di dover pulire ogni sera, dei libri
buttati a terra e strappati, o i bisogni del cucciolo lasciati dovunque in
mezzo alla casa…
Quando John intervenne, a Paul sembrò quasi che avesse
letto nel suo pensiero.
"Oh, una volta che si abitua alla casa, vedrete che
sarà quasi come non averlo. È totalmente indipendente." commentò John.
"Il problema sarà farlo abituare." ribatté
Jane, storcendo il naso mentre riportava lo sguardo sul gatto di Paul.
"Accadrà prima di quanto immaginiate." la
rassicurò John, "Noi l'abbiamo visto con
Elvis."
"Elvis?"
"È il nostro gattino." spiegò
Julian.
“Hai visto?” disse Paul, sorridendo più
fiducioso verso la ragazza che lo guardava sempre scettica, “Andrà bene, non ti
preoccupare. Presto o tardi si abituerà.”
Tuttavia Jane sembrava proprio non volersi
convincere, “Conoscendo la nostra fortuna, sarà più tardi che presto.”
“Conoscendo te, sarà sicuramente tardi.”
commentò John.
Jane e Paul si voltarono rapidamente verso
John: Paul lo guardò sconvolto e incredulo che avesse osato dire una cosa
simile, mentre Jane sembrava arrabbiata e mortificata, così tanto che senza
dire una parola, scomparve dentro casa.
“Grazie tante, John.” sbottò Paul, prima di
seguire Jane.
John batté le palpebre, realizzando solo in
quel momento cosa fosse accaduto pochi secondi prima. Non si era reso conto di
quanto avesse detto, della sua frecciatina nei confronti di Jane. Eppure gli
era scappata, senza che lui potesse fare alcunché per evitarlo. Gli capitava
spesso, di fare queste uscite lievemente impertinenti, ma era più forte di lui.
Non riusciva proprio a trattenersi, se una cosa gli dava fastidio, doveva dirla
apertamente, a costo di ricevere sguardi malevoli e sfuriate arrabbiate di
gente che non capiva niente di lui.
E lo stesso era accaduto proprio ora con Paul
e Jane. I due sembravano abbastanza in sintonia, ma John non poteva credere che
lo stesso Paul che la sera del suo compleanno era stato messo da parte dalla
sua fidanzata, ora si comportasse con lei come se non fosse successo nulla.
Forse John non avrebbe dovuto intromettersi, ma dannazione, se avessero fatto a
lui una cosa del genere, beh, avrebbero dovuto penare molto prima di ottenere
il suo perdono.
“Perché sono andati via, papà?” chiese Julian,
ridestandolo dalle sue riflessioni.
“Oh, forse dovevano solo parlare un po’ di
Pepper.”
“Posso venire a trovarlo, qualche volta?”
continuò Julian, mentre John si avviava verso la propria casa.
“Beh, poi chiediamo a Paul, d’accordo?”
“Va bene.”
Una volta rientrati a casa, John lasciò che
Julian andasse a giocare nella sua cameretta, e mentre lo osservava salire le
scale, il cellulare nella tasca dei pantaloni vibrò.
John lo sfilò e lo guardò, riconoscendo
subito il numero che lo stava chiamando.
“Ciao,
George.”
“E’ stato fottutamente cattivo
quello che hai detto prima.”
John rise lievemente, “Significa che funziona
tutto?”
“Funziona tutto. Puoi prepararti,
Pattie sta arrivando per Julian.”
Il tutto riguardava
quell’insignificante portachiavi che aveva appena donato a Paul. Dentro, lui e
George avevano posizionato una minuscola microspia, così da poter sentire
quello che Paul e chiunque vicino a lui dicevano da questo momento in poi.
John sapeva che la chitarra di Bob Dylan
sarebbe arrivata a Heathrow e da lì sarebbe stata trasferita in una villa nella
campagna a nord di Londra. Insieme a George, aveva deciso di rubarla durante il
tragitto: da sempre rappresentava il tratto vulnerabile per eccellenza,
nonostante le misure di sicurezza a cui far ricorso.
Paul gli aveva detto che stavano pensando di
utilizzare tre furgoni portavalori per confondere il ladro, ognuno con un
tragitto diverso, e che avrebbero deciso all'ultimo momento quale furgone
avrebbe portato la preziosa chitarra.
Il piano aveva messo in crisi John e George.
Ma John non si arrendeva mai e non avrebbe facilmente rinunciato alla Fender Stratocaster di Bob Dylan per la sua collezione.
Così avevano ideato questo piano e deciso di
spiare Paul.
Era il motivo principale dietro tutta quella
messinscena.
Tutto per riuscire a dare a Paul il
portachiavi con la microspia, con il rischio che neanche lo portasse con sé al
lavoro. Ma finora era andato tutto bene.
E il gatto?
Beh, quello era il suo cavallo di Troia.
Doveva conquistare la piena fiducia di Paul, prima di riuscire a colpirlo
dall'interno. Il gatto era una copertura per mostrargli che faceva bene a
fidarsi di lui, di John, un amico che si preoccupava per Paul, che voleva che
stesse bene.
Certo.
Niente di più lontano dalla realtà.
"Sono pronto."
****
L'aereo privato era atterrato in perfetto
orario e subito sistemato nell'hangar. Paul, insieme all'ispettore capo Starkey
e agli uomini della loro stazione di polizia, attendeva che il proprietario
dell'oggetto minacciato da Hermes scendesse dall'aereo.
Era nervoso, come l'altra volta, se non di
più addirittura. Tuttavia buona parte del suo nervosismo questa volta non
dipendeva da Hermes. C'era stata quella battuta infelice di John verso la sua
fidanzata e inoltre, aveva discusso con Jane.
La ragazza si era sentita molto offesa da
quanto gli avesse detto John, ma se l'era presa con Paul perché durante tutta
quella conversazione non aveva mai cercato di stare dalla sua parte e per di
più, la battuta di John le aveva fatto capire che Paul avesse parlato con
quell'uomo appena conosciuto di loro due, della loro storia, dei loro problemi.
Jane, sentendosi così esposta, si era indignata.
E Paul? Lui proprio non aveva saputo cosa
fare né dire. Aveva cercato in qualche modo di spiegare che John era l'unica persona
lì, a Londra, che più si avvicinava ad un amico per lui, una persona di cui
Paul stava imparando a fidarsi, come facevano tutti gli amici, ovviamente. E
poi aveva aggiunto che lei avrebbe dovuto essere felice che lui avesse trovato
un amico, non era proprio Jane a dirgli di imparare ad aprirsi con gli altri?
Tuttavia lei aveva ribattuto che non era
questo che intendeva. C'erano comunque dei limiti. E poi perché aveva dovuto
parlargli proprio di lei?
Quando Paul era stato sul punto di rispondere
che era logico che due uomini parlassero anche di questi argomenti, Jane aveva
sospirato, esausta per la discussione, anche se questa non era durata per più
di cinque minuti. E quel sospiro era sempre ciò che faceva cedere Paul. Un
sospiro molto melodrammatico, adatto all’attrice che era, e questo costringeva
sempre Paul a chiederle scusa, anche quando non aveva motivo di scusarsi.
Così le cose si erano calmate. Almeno per il
momento. Jane avrebbe badato al gattino fino al suo ritorno. Il gattino
regalatogli da John e Julian...
Per tutto il percorso verso Heathrow, Paul
aveva pensato a quel cucciolo dai grandi occhi azzurri che d'ora in poi
l'avrebbe aspettato a casa. Per quanto fosse ora arrabbiato con John, Paul
doveva riconoscere che fosse stato un pensiero adorabile da parte dei due
Lennon. John aveva stranamente capito quanto Paul si sentisse solo in quella
casa troppo grande per lui, e gli aveva procurato un piccolo coinquilino che
potesse allontanare un po' di solitudine, quando nessun altro poteva essere lì
per Paul.
L'uomo che comparve sulla scala dell'aereo,
scendendo verso terra, gli fece abbandonare i suoi pensieri.
Era un uomo sulla cinquantina, alto, con un
fisico asciutto, i capelli brizzolati e un paio di occhialini dalla montatura
dorata. Si chiamava David Rogers ed era un dirigente
della EMI, nonché l'uomo che si celava dietro il misterioso acquirente che
aveva pagato ben 965.000 dollari per aggiudicarsi la chitarra di Bob Dylan.
Questa era stata messa all'asta dalla figlia del pilota dell'aereo che nel 1965
aveva portato il cantante in concerto. Era stato in quell'occasione che il
pilota era venuto in possesso di questa chitarra, dimenticata da Dylan alla
fine del tour. E ora apparteneva all'uomo che si trovava di fronte a loro e che
venne accolto calorosamente da Richard Starkey.
"Signor Rogers,
ben arrivato. Sono l'ispettore capo Starkey." esclamò l’uomo, stringendo
la sua mano.
"Salve."
"Ha fatto un buon volo?"
Il signor Rogers
sorrise, e la sua espressione rivelò la stanchezza dovuta a ore di viaggio, "Abbastanza,
grazie."
"Le presento l'ispettore McCartney."
disse Richard, indicando Paul, al suo fianco.
"Piacere di conoscerla, ispettore."
"Il piacere è mio, signore."
rispose Paul, stringendogli la mano.
"Se vuole seguirci, le mostriamo i portavalori
che adopereremo per il trasferimento verso la sua residenza."
I tre uomini raggiunsero i furgoni
posizionati all'interno dell'hangar, mentre alcuni dei poliziotti della squadra
di Paul sorvegliavano il prezioso oggetto, che veniva accuratamente prelevato
dall'aereo.
Richard informò il signor Rogers
del piano. Ogni furgone, scortato da due poliziotti su una volante, avrebbe
seguito un percorso diverso: il primo avrebbe preso la superstrada, il secondo avrebbe
attraversato la città di Londra, e il terzo avrebbe viaggiato in mezzo alla
campagna nei dintorni della capitale.
Decisero insieme che la chitarra avrebbe
viaggiato verso casa attraversando la campagna inglese. Sarebbe stato un
percorso meno frequentato e più facile da controllare. Tuttavia Paul non era
ancora soddisfatto dell'organizzazione. Dovevano tenere conto anche del fatto
che per qualche strano motivo, Hermes riuscisse a scoprire in quale furgone
trovare la chitarra e in quel caso niente avrebbe protetto il prezioso
strumento. Perciò...
"Ispettore Starkey, signor Rogers." li chiamò Paul, mentre i due uomini si
dirigevano verso l'auto che avrebbe portato il ricco dirigente nella sua
residenza.
"Sì, mi dica, McCartney."
"Volevo chiedere l'autorizzazione per
salire sul furgone con la chitarra."
L’ispettore Starkey batté le palpebre,
leggermente preso in contropiede, "Abbiamo già due agenti di scorta."
"Infatti, io vorrei stare nel vano
insieme allo strumento. Così se dovesse arrivare il ladro, ci sarò ancora io a
proteggerlo." ribatté Paul.
"È pericoloso, signore." esclamò
all'improvviso un uomo alle sue spalle.
Paul si voltò e vide uno dei suoi agenti, un
ragazzo ben piantato di nome Mal Evans, fare un passo in avanti e guardarlo
sconcertato.
E subito dopo di lui, anche l'agente Eastman
intervenne, "Sì, signore. Potrebbe essere rischioso. Il ladro potrebbe
essere armato."
"Vi ringrazio per l'interesse, ma non gli
permetterò di rubare ancora.” affermò Paul, sorridendo appena, “Inoltre, Hermes
sarà anche un delinquente, ma non ha mai davvero fatto del male a nessuno. A lui
interessano solo gli oggetti da rubare."
"Ma signore-" continuò Linda, che
venne però subito interrotta da una mano alzata di Paul e dal suo sorriso
fiducioso.
"Ma niente. Se l'ispettore Starkey e il
signor Rogers sono d'accordo, procederemo con questo
piano."
Paul guardò Richard, il quale si rivolse
direttamente all'altro uomo, "Che ne pensa, signore?"
Il signor Rogers
osservò Paul a lungo, prima di sorridere.
"Penso che sia un'ottima idea."
****
"Paul, cazzo. Ma quanto sei
idiota?"
John imprecò, quando George, tramite
l’auricolare, gli comunicò l'idea dell’ispettore McCartney.
"Cosa facciamo, John?"
Il giovane alzò gli occhi al cielo, mentre
sfrecciava sulla sua moto, "Cosa facciamo? Facciamo che andiamo
avanti."
"Ma se c'è Paul insieme con
la chitarra-"
"Non me ne frega un cazzo, di quel
coglione.” tagliò corto John, “È un pazzo masochista e non ho intenzione di
rinunciare al colpo a causa sua."
"Allora cosa hai in mente? Se dovesse
vederci in faccia..."
"Non ci vedrà. Esistono delle cose
fantastiche che si chiamano fazzoletti, lo sai, George? Ci copriremo il viso
con quello, alla maniera dei buoni vecchi banditi del far west."
"D'accordo." disse George, "John, il segnale della microspia si
avvicina."
"Bene, allora diamoci una mossa. Sarò da
te fra un minuto."
La microspia all'interno del portachiavi
regalato a Paul non permetteva solo di sentire tutto ciò che dicevano l'uomo e
le persone intorno a lui, era anche un perfetto localizzatore di posizione che
inviava un segnale al cellulare di George.
Perciò una volta appreso il percorso, George
l'aveva preceduto sul luogo in cui avrebbero attaccato il furgone, per
preparare una piccola messinscena, mentre John seguì il furgone dall'aeroporto
con la sua moto a debita distanza, per non far insospettire la polizia, ma
tenerlo comunque sott'occhio nel caso in cui avessero cambiato percorso
all'ultimo momento. In quel caso... Beh, meglio non pensarci ora, eh?
Come avevano previsto e appreso, il furgone
aveva una scorta, un'auto della polizia che gli spianava la strada per ogni
evenienza, dove, appunto, per ogni
evenienza si intendeva Hermes. Per questo motivo, John e George avevano
dovuto organizzare qualcosa per mettere fuorigioco la volante e i due
poliziotti che vi erano dentro. Del conducente del furgone non c'era da
preoccuparsi, in caso di assalto non doveva mai e poi mai scendere dalla sua
postazione. Troppo pericoloso. Certo, come se Johnvolesse far del male a qualcuno fisicamente.
No, grazie, non era nel suo stile. Solo un ladro qualunque e senza cervello
avrebbe potuto comportarsi così, e lui era ben lungi dall’essere qualunque
e senzacervello.
Quando John vide il piccolo villaggio
attraverso cui sarebbe passato il portavalori, spuntare dopo un'altra curva,
decise che fosse il momento per raggiungere George. Si allontanò dalla scia del
furgone, svoltando nella prima stradina a destra una volta entrati nel
villaggio. Aumentò la velocità della sua moto per cercare di attraversare il
paese più velocemente rispetto agli sbirri, e tuffarsi poi nel verde che
tornava a estendersi nella campagna, dopo quella breve interruzione di case e
cemento.
Finalmente scorse il punto in avrebbero
compiuto il furto. Era ancora deserto. George aveva deviato la corsia opposta
qualche metro più in là con segnali di lavori in corso. Dopodiché aveva pensato
di inscenare davvero dei finti lavori in corso sulla corsia che arrivava dal
villaggio. Si era procurato tutto il necessario e ora spiccava un bellissimo,
piccolo cantiere stradale che avrebbe certamente fatto rallentare la volante
della polizia e il furgone con il suo prezioso contenuto.
"Ottimo lavoro!" si complimentò
John, quando affiancò George in mezzo ai folti alberi che costeggiavano la
strada e nascondevano le loro sagome scure così come le loro moto.
"Grazie."
"Dico davvero. È perfetto."
"Lo so." rispose compiaciuto
George, "Dobbiamo solo sperare che funzioni."
"Funzionerà, te lo prometto. Funziona
sempre." sogghignò John.
"Mi auguro che tu abbia ragione, perché
stanno arrivando."
"C'è solo un modo per scoprirlo, amico
mio." esclamò, afferrando il fazzoletto nella tasca e legandolo sul volto,
"Entrare in scena."
I due uomini si accovacciarono dietro un
cespuglio, aspettando il passaggio delle vetture. Queste cominciarono a
rallentare alla vista del cantiere stradale e poi...
Poi fu come vedere una scena a rallentatore.
La volante della polizia sbandò e andò a sbattere contro il guard-rail, non
appena gli pneumatici furono bucati da chiodi a quattro punte, abbandonati in
quel tratto da George.
Anche il furgone subì l'attacco di quei
piccoli, ma efficaci pezzi di metallo appuntiti. Tuttavia il conducente, grazie
al notevole peso del mezzo, riuscì a controllarlo e restare in carreggiata,
sbandando solo un po'.
A quel punto George e John, con i volti ben
coperti, saltarono fuori dal loro nascondiglio. George aveva il compito di occuparsi
della volante della polizia, addormentare i due sbirri lanciando nell'abitacolo
una bomboletta di gas soporifero e poi legarli, una volta resi innocui.
John invece avrebbe pensato alla chitarra e a
Paul, ovviamente. Si avvicinò al furgone da dietro. Il conducente probabilmente
aveva già dato l'allarme, ma non sarebbe sceso. Non era lui il problema.
Cautamente, John raggiunse le porte
posteriori del furgone, l'ultimo ostacolo da superare per raggiungere il suo
obiettivo.
Al di là di quelle porte, c’era Paul. E la
chitarra, ovviamente. Certo. Ma anche Paul.
Paul con una… pistola? Gli avrebbe sparato
subito, se John avesse aperto? In fondo aveva il fegato per farlo, era un
ispettore, e John l’aveva visto con i suoi stessi occhi. Lui e la maledetta
pistola avevano rovinato il fanalino posteriore della sua moto.
Tuttavia no, John sapeva, sentiva che Paul non avrebbe sparato
subito. L’avrebbe prima guardato negli occhi e gli avrebbe detto di fermarsi.
Sì, come se John avesse potuto obbedire.
Infine, si decise. Era convinto di trovare le
porte bloccate con un altro sistema di sicurezza, invece quando la mano di John
si mosse per spostare la maniglia, le portiere si aprirono. Certo, dopotutto il
sistema di sicurezza in più era Paul.
“Fermo. Mani in alto.”
Con un prevedibile e alquanto fastidioso
tuffo al cuore, John rimase completamente immobile, fronteggiando Paul seduto
nel vano del furgone, accanto alla custodia della tanto agognata chitarra. E particolare
assai più importante, almeno al momento, la pistola ben puntata contro John,
impugnata saldamente nella sua mano sicura.
Paul si alzò in piedi lentamente, tenendo
sotto tiro il ladro. Quando questi alzò le mani in segno di resa, l’ispettore avanzò,
costringendo Hermes a indietreggiare.
Una volta che furono entrambi a terra, Paul quasi non
riuscì a credere di essere proprio là, con la sua preda a pochi centimetri di
distanza. Doveva solo allungare la mano e bloccarlo contro il furgone. Poi le
manette e finalmente la prigione. Poteva già vedere i titoli dei giornali del
giorno successivo, tutti pronti a esaltarlo, elogiare lui, Paul McCartney per
aver catturato Hermes.
Un sorriso involontario stava per nascere sulle sue
labbra, ma Paul riuscì a trattenersi e si concentrò sul ladro davanti a sé. Non
l'aveva mai visto da così vicino. Era alto pressappoco quanto lui e
probabilmente anche della stessa età. Non vedeva molto di lui. Aveva il volto
coperto da una specie di bandana e il solito cappuccio sulla testa, perciò
riusciva a vedere solo i suoi occhi. Due occhi chiari, azzurri come il ghiaccio
che gli rimandarono un potente sguardo, di quelli molto sicuri di sé e per
niente sorpresi, che non promettevano nulla di buono. Come se Hermes sapesse a
cosa andava incontro. Come se sapesse di trovare Paul lì...
Come se…
Ma perché?
Dal canto suo John non poteva negare di avere paura.
Paura forse era una parola troppo importante, ma comunque, trovarsi faccia a
faccia con il suo nemico, sapendo che da lì a pochi minuti Paul avrebbe potuto
scoprire la sua identità, scoprire che si era finto amico, per colpirlo dall’interno
e poi sentirsi tradito, incuteva in lui una sorta di disagio.
Una strana sensazione cercò di stringere lievemente il
suo cuore, cos’era? Rimorso?
John Lennon, anzi, Hermes non poteva provare rimorso per
Paul McCartney. Eppure sembrava proprio trattarsi di questo.
E John sapeva anche perché. A malincuore, doveva
ammettere che avrebbe sentito la mancanza di quei momenti trascorsi insieme a
lui. Si trattava più che altro di lezioni di chitarra, avevano parlato principalmente
di musica, ma comunque, era stato bello chiacchierare con lui. Erano piccoli
attimi di distrazione che Paul gli offriva e che John accoglieva lieto. Senza
contare che John stesse imparando molto da lui, e che anche Julian apprezzava
il nuovo modo di suonare di John.
L’idea che tutto potesse finire, sì, lo fece sentire un
po’ triste.
Per questo motivo il cuore martellava furiosamente nei
suoi timpani, impedendogli di udire correttamente i suoni intorno a sé, come
quel lieve sospiro proveniente dal lato della strada e i passi sull’asfalto che
si affrettarono a raggiungerli.
Poi John capì.
Quando vide una figura esile apparire all’improvviso
dietro Paul, capì.
Quando Paul cadde a terra, tramortito da un colpo ben
piazzato da dietro, John capì.
George era giunto e l’aveva salvato.
“George!” sospirò John, mai così felice di vedere
l’amico.
“Tutto a posto?”
“Oh, sì, avevo tutto sotto controllo.”
“Sì, ho notato, ma ho pensato comunque di aiutarti.”
“Grazie, molto gentile.”
“Filiamo via di qui, ora, prima che arrivino altri
sbirri.”
John annuì, “Prendi la chitarra, io sostituisco il
regalino per Paul.”
George si affrettò a salire dentro il vano del furgone
per recuperare la custodia della chitarra, mentre John si chinò su Paul e frugò
nella sua tasca, alla ricerca del suo portachiavi. Quando lo trovò, lo nascose
nella sua tasca, e lo sostituì con uno decisamente normale. Almeno, se, cosa
assai improbabile, avesse avuto dei sospetti a riguardo, non avrebbe trovato
proprio nulla dentro quel piccolo pezzo di legno.
Poi, soddisfatto e più che felice per aver ottenuto ciò
che tanto desiderava, John si allontanò dal furgone e scappò con George con le
loro moto, sfrecciando per la campagna inglese.
****
Ritenta, ispettore.
Paul rigirò quel biglietto tra le mani.
Sarai più fortunato.
Glielo aveva lasciato sicuramente Hermes, prima
di fuggire con la chitarra ovviamente.
Sei un idiota, Paul, pensò fra sé.
Sì. Lo era davvero perché la settimana prima,
quella del furto, si era lasciato stupidamente scappare il ladro dalle sue
mani. L'aveva avuto praticamente in pugno, aveva percepito quel brivido di
paura ed eccitazione per la vicinanza che aveva fatto fremere anche lo stesso
Hermes.
Dannazione.
E ora stava a casa sua, senza fare niente di
particolare. Il gattino regalatogli da John e Julian era felicemente accoccolato
accanto alla sua coscia e ronfava beato. Paul lo guardò e si lasciò scappare un
sorriso, invidiando la sua serenità. Erano stati giorni difficili, ma piano
piano Pepper si stava abituando a lui e alla casa. Ormai eranogli unici due inquilini. Jane era andata via un
paio di giorni dopo il furto: aveva cercato di consolarlo come aveva potuto, ma
Paul era troppo pieno di vergogna affinché una qualunque delle sue parole di
conforto potesse calmarlo.
Fu in quel momento che il campanello suonò, e
Paul svogliatamente si trascinò verso la porta.
Lì, davanti a lui, con sua immensa sorpresa, c'era
John. Due birre in mano e un sorriso debole sul volto.
Paul non voleva ammetterlo, ma era
terribilmente felice di vedere un volto amico, qualcuno che non avesse a che
fare con il suo lavoro, qualcuno a cui interessava solo Paul, non l’ispettore
McCartney.
"Hai tempo per uno stupido amico e per
le sue scuse?"
Paul rise, sapendo che tutto ciò che John
aveva detto e che l'aveva fatto arrabbiare, fosse ormai svanito nel nulla.
Per questo motivo, si fece da parte,
lasciando spazio a John per entrare.
"Accomodati."
Note dell’autrice: bene, e John ha
rubato anche quest’altro oggetto. La storia della chitarra è vera, tutto vero,
tranne ovviamente l’identità dell’uomo che ha speso tutti quei soldi per
comprarla. Ho usato un personaggio inventato. ;)
Grazie a kiki che
ha corretto.
Grazie a ringostarrismybeatle
e _SillyLoveSongs_, perché stavo andando in crisi con
questo capitolo, e loro mi hanno incoraggiata moltissimo.
Grazie a Chiara_LennonGirl
e paulmccartneyismylove, per le dolci parole.
Il prossimo capitolo, “In my
life”, arriverà venerdì prossimo. ;)
Le note di Sweetchild o' mine dei Guns
'N Roses risuonavano nella stanzetta sul retro del
negozio di John.
Il mese prima, quello del più recente furto
di Hermes, John aveva espresso il desiderio di imparare a suonare questa
particolare canzone del gruppo statunitense, pregando Paul affinché facesse
qualcosa a riguardo, dopotutto...
"Sei tu l'insegnante,
Paul."
Perciò il giovane ispettore aveva dovuto
cercare un modo per semplificare al massimo il complicatissimo riff di
chitarra.
A quanto pareva, John non era l'unico ad aver
avuto questo desiderio: molti altri avevano aperto discussioni in alcuni forum
su internet, e su Youtube si potevano trovare anche
un paio di video tutorial.
Paul ne aveva scelto uno e aveva imparato
innanzitutto lui a suonare questo brano; poi aveva cominciato a insegnarlo
anche a John, e proprio in quel momento l'uomo era di fronte a lui, tutto
intento a suonare e cantare appassionatamente e felicemente, mentre il piccolo
Julian era seduto sulle gambe di Paul. Fino a pochi minuti prima, il bambino
era per terra a colorare i suoi disegni di razzi e astronauti nello spazio.
Tuttavia quando il padre aveva iniziato a cantare, Julian si era alzato in
piedi e avvicinato, e Paul, dopo averlo osservato per un momento, l'aveva
sistemato sul suo grembo per farlo stare comodo, stringendo la sua vita stretta
con le braccia. Julian sembrava particolarmente assorto dalla musica del padre
e ben presto, si era rilassato abbastanza da appoggiarsi con la schiena al
petto di Paul.
John era bravo, davvero bravo.
Ormai stavano studiando quel brano da un paio
di settimane e Paul era lieto che John lo stesse eseguendo molto bene, sia come
tecnica sia come canto. Era veramente in gamba e ormai migliorava di giorno in
giorno, in modo sempre più evidente. Paul era piacevolmente sorpreso. Ad ogni
miglioramento, John voleva ottenere ancora di più, e Paul, dal canto suo, si
scopriva a desiderare di continuare quelle lezioni per aiutarlo nel suo
intento.
Quando John terminò la sua esibizione, Julian
batté le mani in un entusiasmante applauso, provocando un sorriso sul volto del
padre, così ampio che raggiunse le orecchie.
“Ti è piaciuto, piccolo?”
“Tantissimissimo!”
esclamò Julian e saltò giù dalle gambe di Paul, per andare ad abbracciare John,
“Sei bravissimo, papà.”
Il giovane uomo, con gli occhi che brillavano
per l’affermazione del figlio, si chinò su di lui per baciargli il capo, e poi
tornare a guardare Paul.
“E il prof cosa ne pensa?”
“Beh, Julian mi ha tolto le parole di bocca,
a parte il papà, si capisce.” esclamò
Paul, con una risata, “Sei stato davvero fantastico, John, non era per niente
facile, ma hai suonato in modo incredibile. Non ho mai visto qualcuno
migliorare in così poco tempo come hai fatto tu.”
John arrossì, ma cercò di rendere meno
evidente questa reazione, appoggiando la chitarra da un lato per prendere in
braccio il figlio.
“Non cominciare a dire così, altrimenti poi mi
esalto troppo.”
“Dico sul serio, John.” ribatté Paul,
accorato, “La tua non è solo una passione, è soprattutto un vero talento.”
John si morse il labbro, restando per un
istante in silenzio, osservando con insicurezza lo sguardo al contrario molto
determinato di Paul. Poi si rilassò in un sorriso e lo ringraziò.
“Avresti dovuto intraprendere una carriera da
musicista.” continuò il giovane ispettore.
“Oh, no, non credo che faccia per me. Con
tutto quel trambusto, i tour, e volare da una parte all’altra del mondo, senza
potersi riposare per prendere fiato... No, grazie, preferisco la tranquillità
di casa mia.” sospirò John, stringendo le braccia intorno a Julian.
“Beh..." ribatté Paul, scrollando le
spalle, "Questo non toglie che ti avrei visto bene in questo tipo di
vita.”
“Anche io.”
John, così come Paul, si voltò immediatamente
verso l’entrata, dove era apparso magicamente George.
“George! Stavi per caso origliando?” domandò
John, indignato ma anche divertito.
L'amico fece una smorfia contrariata,
“Origliando? Oh, ma che parola brutta. Stavo semplicemente assistendo alla tua esibizione
senza che voi tre ragazzi lo sapeste.”
“Ah, beh, così cambia tutto in effetti.”
commentò John, sorridendo.
“A parte gli scherzi, Johnny, è stato molto
interessante, non pensavo potessi davvero essere così bravo.”
John sospirò, alzando gli occhi al cielo, “Grazie,
George, sei sempre così gentile.”
“Non c’è di che.” rispose George, con un
sorriso, “Piuttosto, volevo chiederti se potessi uscire prima, per andare al
luna park con Pattie.”
“Ma certo. Chiudo io, vai pure tranquillo.”
“E volevo sapere…” continuò George, avanzando
di un passo, “Se potessimo portare anche Julian con noi?”
“Al luna park?” esclamò subito il bambino,
sentendosi chiamato in causa, la vocina acuta e gli occhi improvvisamente più
vispi del solito.
“Sì, ti piacerebbe venire con noi?” domandò
George, sorridendo verso di lui.
“Moltissimo.” rispose Julian e poi si voltò
verso John, “Posso, papà?”
L'uomo osservò il bambino per un istante,
notando senza difficoltà tutto l'entusiasmo trasmesso dal suo volto, “Solo se
prometti di fare il bravo e obbedire a quello che ti dicono George e Pattie.”
“Prometto.” si affrettò a dire il bambino.
“E se prima mi dai un bacio.” aggiunse John e
gli fece il solletico sulla pancia.
Julian rise e si sporse verso John per posare
un grosso bacio sulla sua guancia. Dopodiché John acconsentì a lasciarlo andare
con l’amico. Si alzò per aiutare Julian a indossare una giacchettina, perché
pur essendo a luglio, si alzava sempre un po’ di vento e la temperatura
diventava frizzante nelle serate londinesi. Raccomandò a George di non fargli
mangiare solo dolci e schifezze varie, e Julian, dopo aver salutato John e
Paul, prese la mano di George e si allontanò con lui.
John li seguì con lo sguardo dalla piccola
finestra della stanza che dava sulla strada, e quando i due sparirono dietro
l’angolo, sospirò, prima di tornare rapidamente verso la chitarra per
sistemarla nella custodia.
Paul lo seguì con attenzione, studiando ogni
minimo gesto. Sembrava lievemente e stranamente agitato: le mani incespicarono
solo un po’, mentre riponevano la chitarra nella custodia di tela, e le labbra
sottili erano contratte.
“Che cos’hai, John?” chiese infine Paul, non
riuscendo a trattenersi.
John sussultò appena. Evidentemente non si
aspettava la domanda di Paul, o forse era solo troppo perso nei suoi pensieri,
“Io? Niente, cosa dovrei avere?”
“Hai sospirato come se non volessi lasciarlo
andare con George.”
“Oh, no, no, non è così. Non è affatto così,
anzi, mi fa piacere che George e Pattie lo portino a divertirsi ogni tanto.” lo
rassicurò John.
“Allora cosa c’è?” insistette Paul,
sconcertato, perché John sembrava sincero, “Puoi dirmelo, sai, John?”
John si fermò un istante, mentre faceva
scorrere la cerniera della custodia. Il suo sguardo seguì il movimento della
sua mano e sembrò assente per tutto il tragitto; poi finalmente si voltò di
nuovo verso Paul. Lui era visibilmente preoccupato per John e sinceramente
interessato a qualunque cosa lo stesse tormentando. Era una cosa da nulla,
davvero, e vedere quel ragazzo, che in realtà doveva essere il suo più acerrimo
nemico, preoccuparsi per questo motivo con tutta la sincerità che poteva
dimostrare a John, gli provocava una strana sensazione: John avrebbe dovuto
essere indifferente, ma la realtà era che gli faceva piacere, sapere di poter
interessare a qualcuno che non fosse George o Pattie o l’uomo che l’aveva
cresciuto.
A un amico in più.
“Lo so che è da stupidi, perché non posso
stare ventiquattrore su ventiquattro con mio figlio." esordì prendendo un
gran respiro, "Ma mi manca quando non c’è. Vorrei stare sempre con lui per
proteggerlo, per impedire che gli accada qualcosa di spiacevole o anche solo
per impedire che mi abbandoni.”
Paul batté le palpebre, in totale confusione,
“Come potrebbe abbandonarti? È così piccolo e ti adora.”
“Sua madre l’ha fatto.” rispose John.
Neanche si era accorto di averlo detto
davvero. Si supponeva che dovesse essere solo un pensiero, uno dei tanti su di
lei, ma a quanto pareva questa volta l'aveva detto ad alta voce.
“Come?”
John rimase immobile per un istante, tornando
velocemente indietro nel tempo con la mente per assistere di nuovo a quello che
era successo un istante prima. E sì, l'aveva proprio detto.
“No, niente, lascia perdere.” sbottò poi,
allontanandosi da Paul, verso il muro.
“John, no, ti prego. Dalla prima volta che ne
abbiamo parlato non ho mai osato chiederti nulla su di lei, ma ora basta.”
disse e fece una piccola pausa, prima di proseguire più chiaramente,“Vorrei sapere della madre di Julian.”
John ripose la
custodia della chitarra contro il muro, soffermandosi solo per un momento a
guardarla apaticamente. Aveva sentito bene la richiesta di Paul e cazzo,
se non era la parte della sua vita più difficile di cui parlare.
Era pronto a
condividere tanto con Paul? Proprio con quell'uomo che meno sapeva di lui e
meglio era?
Sì, lo era. E la
verità era che ogni volta che i suoi occhi si posavano su Julian, lui ripensava
a quella donna, condannandosi, addossandosi tutte le colpe di ciò che era
accaduto, ma non c’era nessuno lì, pronto a raccogliere i suoi turbamenti e
allontanarli con un gesto o una semplice parola. Certo, George e Pattie
sapevano tutto: George gli era stato molto vicino nel momento del bisogno, e
Pattie aveva sempre mostrato grande interesse e comprensione nei suoi
confronti, ma non era giusto che John dopo diversi anni continuasse ad
assillarli con i suoi problemi, quando anche loro avevano la loro buona dose di
rogne.
Ora invece, Paul
era lì e voleva sapere, perché aveva sicuramente intuito fin da subito che ci
fosse qualcosa di strano nell’assenza di quella madre, e nel fatto che John non
avesse voluto parlare di lei al momento. Non ci voleva tanto a capire, ma Paul
l’aveva fatto e si interessava a lui. Così alla fine, John decise.
“Te lo dirò solo
se dopo risponderai a una mia domanda.” disse, voltandosi verso Paul con un
lieve sorriso.
Paul si morse il
labbro, pensieroso: John avrebbe potuto domandargli qualunque cosa. Tuttavia
Paul gli aveva chiesto tanto e John avrebbe risposto, aprendo forse una parte
difficile della sua vita, mostrandola a Paul. Perché lui non avrebbe dovuto
ricambiare?
“Affare fatto.”
John annuì fra
sé, tornando a sedersi sulla sedia di fronte a Paul. Si torturò lievemente le
mani, mentre pensava a come ordinare i ricordi e quali parole usare.
“Cosa vuoi sapere?”
“Quello che puoi
dirmi.”
“Devo cominciare
dall’inizio, allora.”
“Ti ascolto.”
"E devo
assolutamente fumare una sigaretta." esclamò John, affrettandosi a
recuperare il pacchetto di sigarette dalla giacca.
Le sue mani
tremavano davvero, mentre sfilavano un bastoncino bianco dal pacchetto e lo
portavano alla bocca, dopo averne offerto uno anche a Paul, il quale rifiutò. E
la cosa davvero strana era che John stesse facendo di tutto per cercare di
nascondere a Paul il suo nervosismo. Ma Paul sapeva bene che nonostante tutti
gli sforzi, il corpo potesse agire anche da solo, mostrando a tutti i veri
sentimenti di quell'anima tormentata.
“Quando ho
aperto questo negozio, la casa di fianco era di proprietà della famiglia
Powell." iniziò a spiegare John, dopo aver acceso la sua sigaretta,
"C'erano tre figli, la più giovane era una ragazza, di nome Cynthia.”
“Cynthia?”
ripeté Paul, sorridendo, “E’ un bel nome.”
John annuì
vagamente, espirando il fumo del primo tiro. Una sigaretta lo rilassava sempre,
e in quel momento particolare allentò la tensione che pochi minuti prima aveva
contratto la sua mascella.
“La prima volta
che la vidi fu quando entrò nel mio negozio per cercare un cd. Naturalmente
notai subito questa ragazza molto carina, mi sbarazzai in fretta e furia degli
occhiali e mi offrii per aiutarla. Una volta trovato il cd, le proposi di
regalarglielo a patto che uscisse con me.”
Paul rise
appena, mentre John gli raccontava questo con un sorriso malinconico sulle
labbra.
“Lei però
rifiutò.”
“Cosa?”
“Sì. Tornò la
settimana dopo per un altro cd e quella dopo ancora… Ogni volta la mia proposta
era la stessa, ma lei rifiutava sempre. Fino a quando inevitabilmente,
cedette.”
“Sei un vero
testardo, allora.” commentò Paul, ammiccando.
John annuì,
prendendo un altro tiro dalla sua sigaretta, e accavallò elegantemente le sue
gambe, “Me lo disse anche lei, sai, ma da quel momento abbiamo cominciato a
frequentarci. Avevo ventun anni quando la conobbi, e nessuno prima di allora mi
aveva fatto sentire così importante, né così coinvolto. È stata davvero il mio
primo amore. Lei era bella, dolce e sempre incredibilmente di buon umore, in
quel periodo era il mio esatto contrario e io ne ero terribilmente attratto. Ci
vedevamo tutti i giorni: lei veniva a trovarmi in negozio e la sera uscivamo
insieme. Qualche volta durante la pausa pranzo, i suoi genitori mi invitavano a
mangiare da loro, erano sempre molto gentili con me. Fu il periodo più bello di
tutta la mia vita.”
Il giovane uomo
fece una pausa come se questo racconto stesse chiedendo uno sforzo maggiore di
quello che si aspettava lo stesso John. Tuttavia Paul voleva sapere e non poté
trattenersi dall’incoraggiarlo a continuare.
“E poi?”
“Poi rimase
incinta.” sospirò John, “La notizia mi sconvolse del tutto. Fino a quel momento
non pensavo proprio di diventare padre, ma stava accadendo davvero. Lei sembrò
accettare meglio la situazione, non era affatto spaventata come me. O perlomeno
non lo sembrava. Era solo felice di diventare mamma. Eppure quando le chiesi di
sposarmi, rifiutò, sostenendo che non sarebbe stato giusto, sposarsi solo per
l’arrivo del bambino. Non siamo più negli anni Sessanta, John, midisse,
e io rispettai la sua scelta. Decidemmo però di andare a vivere insieme. I suoi
genitori andarono in pensione in quel periodo: avevano risparmiato per tutto il
periodo lavorativo e in quel momento decisero di utilizzare quei risparmi per
trasferirsi in campagna, appena fuori Londra, lasciando a me e Cynthia la casa
di fianco al negozio.”
“E’ stato un bel
pensiero.”
“Sì, infatti
gliene sarò grato a vita. Ma nonostante questo, la gravidanza di Cynthia non fu
facile: ebbe delle minacce d’aborto, per cui fu costretta a passare molti mesi
a letto. Fino ad allora era stata abbastanza tranquilla e rilassata con la
prospettiva di diventare madre, ma in quel periodo cominciò a innervosirsi.”
E sembrò
innervosirsi maggiormente anche John a quell’affermazione. La sua fronte si
corrugò appena e le dita strinsero con più forza la sigaretta, e Paul
semplicemente continuò a guardarlo, senza trovare qualcosa da dire, solo
aspettando e ascoltando.
“Molte volte la
sorpresi in piedi, tutta intenta a fare mestieri in casa e quando accadeva, la
rimproveravo, facendola solo agitare di più. Così alla fine sua madre venne ad
aiutarci. Stava con lei, mentre io ero in negozio, e si assicurava che non
facesse alcuno sforzo fisico. Alla fine, Julian nacque in una notte burrascosa
di inizio aprile. Io restai con lei per tutto il travaglio, spaventato allo
stesso modo: la vedevo soffrire, e sapere di non poter fare nulla per aiutarla,
mi stava uccidendo, tanto più che non avevamo pianificato, né desiderato questa
gravidanza.”
A quell’affermazione,
Paul spalancò gli occhi con totale sconcerto: mai e poi mai avrebbe pensato di
sentir dire queste cose dalla bocca di John, lo stesso che stravedeva per suo
figlio.
E ancora una
volta, John sembrò leggergli nel pensiero, e il pensiero di Paul era così
pesante da sostenere, che John si alzò in piedi per recuperare un posacenere da
uno scaffale lì vicino, solo per sottrarsi al suo sguardo sorpreso.
“Lo so che un
genitore non dovrebbe mai dire e neanche pensare certe cose, ma è la verità:
Julian è arrivato per caso. Questo non posso negarlo.” sospirò John, facendo
ricadere nell’oggetto tra le mani la cenere ormai inutile della sigaretta,
prima di voltarsi verso Paul.
Si abbandonò con
la schiena alla parete, apprezzando la distanza che aveva interposto fra lui e
Paul. Non poteva essere così vicino a lui sia col corpo che con l’anima, perché
era questo che stava accadendo, stava letteralmente aprendo il suo cuore per
lui, per rivelargli quel peso che si portava ormai da diversi anni, e in quel momento
tutta quella vicinanza improvvisa e inaspettata era troppo difficile da
affrontare per John.
“Tuttavia,
quando quella notte, l’ho stretto tra le mie braccia per la prima volta, e ho
visto i suoi piccoli occhi chiari, mi sono innamorato di lui immediatamente.
Non avevo mai visto niente di più bello in tutta la mia vita, e sapere che
fosse mio mi riempì il cuore di una gioia immensa.”
Paul si rilassò
in un sorriso, “È molto bello.”
“La felicità che
portò nella mia vita fu così immensa che mi accecò." continuò John,
appoggiando anche la nuca al muro per perdere il suo sguardo sul soffitto,
proprio ora che arrivava la parte più difficile da mandar giù, "In quei
suoi primi mesi di vita nient’altro contava, solo questa piccola creatura che
aveva bisogno di me, che aveva incredibilmente bisogno di me. Ma in questo modo
non mi accorgevo del problema che stava nascendo nella mia casa: tanto più io
ero preso dal nostro bambino, quanto più distratta e completamente
disinteressata a lui stava diventando Cynthia. I primi tempi, anche se
intimorita come me dal dover accudire un bimbo tanto piccolo, ci provava, si
impegnava a fondo, ma l’ansia di non essere in grado di farlo la stava
sopraffacendo. Non sapeva quando farlo mangiare, se svegliarlo per la poppata,
aveva paura di farlo cadere ogni volta che lo prendeva in braccio e piangeva,
diventava irritabile, non dormiva né mangiava e io… io non mi sono
accorto di nulla.”
“Ma come è
possibile?” domandò Paul, anche se ora la situazione di John ai suoi occhi
stava diventando più chiara.
“Sono tutte cose
che ho appreso solo in seguito." rispose John, e prese l'ultimo tiro dalla
sua sigaretta, "In quei giorni non ci facevo molto caso o comunque pensavo
fosse normale. Avevo sentito di molte donne che affrontavano un periodo di
crisi subito dopo il parto, ma lo superavano, era questione di poco tempo. Non
avevo capito che il caso di Cynthia fosse molto più grave.”
A quel punto
John si concesse una piccola pausa per spegnere la sigaretta nel posacenere con
un gesto un po' irrequieto. Poi finalmente lo disse.
“Julian aveva
pochi mesi quando lei se ne andò.”
“Se ne andò?”
ripeté Paul, ben consapevole che fosse una cosa stupida da dire, ma fu anche
l'unica che la sua mente riuscì a elaborare.
John non ci fece
molto caso. Fece intrecciare lemani e
prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi forse per riordinare ancora una
volta i suoi ricordi e soprattutto, le sue emozioni. Incredibile come potessero
essere sempre così dolorose.
“Sì, un giorno
tornai a casa e trovai Julian da solo, nella sua culla: piangeva disperato, ma
di Cynthia nemmeno l’ombra. Solo pochi vestiti scomparsi dall’armadio, neanche
un biglietto di spiegazione su dove andasse né sul perché. In quel momento
l’unica cosa certa per me era che lei ci avesse abbandonati."
Ed era una
certezza ancora più che evidente nei suoi occhi. Solo uno sciocco non l'avrebbe
notata.
"Poi mentre
cercavo di calmare Julian, mi chiamò suo padre per avvisarmi che Cynthia fosse
da loro. Cercai di farmi dire più informazioni possibili sul perché l’avesse
fatto, se avesse intenzione di tornare, ma il signor Powell non mi disse nulla,
solo che lei stava bene ed era al sicuro, ma era sconvolta e per il momento
doveva essere lasciata tranquilla. Lui interruppe la telefonata prima che
potessi protestare alcunché e mi lasciò a quei dubbi che mi assalirono in un
battibaleno: non sapevo cosa fare, da una parte volevo correre da lei per
cercare di capire cosa le stesse accadendo, ma dall’altra pensavo a mio figlio
e sapevo di non poterlo lasciare, non in quel momento. Passarono alcuni giorni,
e in ognuno di questi provavo a chiamare a casa di Cynthia, ma nessuno
rispondeva. Figuriamoci." sbottò John, abbassando il capo.
Quelle emozioni
erano tanto forti quanto ancora identiche a quelle provate quattro anni prima.
C'erano il dispiacere, la solitudine, la colpa, sì, ovvio, ma anche quella
sensazione ridicola di estraneità, come se non stesse accadendo davvero a lui.
Erano cose che aveva sentito, ma come potevano aver colpito lui e soprattutto
Cynthia, la stessa ragazza che aveva gli occhi brillanti e il sorriso radioso
quando gli aveva detto di aspettare il suo bambino? E questo, più di qualunque
altra cosa lo faceva vergognare. Per cui abbassò gli occhi, sfuggendo ancora
una volta a Paul.
"Poi
finalmente, un giorno, sua madre mi telefonò dicendo che Cynthia voleva
vedermi, ma non avrei dovuto portare Julian. Al momento risi perché niente di
tutto questo aveva senso. Tuttavia alla fine decisi di andare. Dovevo andare. Quando la vidi, dopo
diversi giorni passati lontano, notai subito che c'era qualcosa che non andava.
Era deperita e sembrava che tutta la felicità di essere mamma fosse sparita.
Non mi disse che le dispiaceva di essere andata via perché sapeva di aver fatto
la cosa giusta per proteggere Julian da se stessa."
"Cosa
intendeva dire?"
John si fece
scappare una risatina, era amara e senza alcun segno di divertimento reale, ma
era una risata e Paul non se lo sarebbe mai aspettato, non in quella parte del
racconto. Perché John rideva? Quale strano meccanismo gli stava causando quella
reazione sconveniente?
"Cosa
intendeva dire? Che qualche psicologo da strapazzo le aveva detto di soffrire
di depressione post-parto. Ecco cosa intendeva." borbottò non sapendo più,
a quel punto, quale emozione mostrare.
Non era facile
sotto lo sguardo pressante e indagatore di Paul, ma lui cercò di continuare a
farlo parlare.
"Depressione?"
"Sì.
Sembra..." disse John, sospirando, "Sembra che sia una patologia
molto comune tra le neo mamme, e Cynthia riportava tutti i sintomi, tra cui
quello più grave: il totale disinteresse nei confronti del figlio, ma io... io
non capivo. Come poteva essere questo? Come poteva ignorare il figlio? Una
mamma non lo farebbe mai, tanto meno la dolce Cynthia."
In quel momento
aveva proprio tanta voglia di mettersi le mani nei capelli, ma si trattenne.
Non voleva mostrarsi così vulnerabile, così esposto a Paul. Paul che però non
sembrava interessato tanto a giudicarlo, quanto piuttosto a cercare di
comprenderlo per poter trovare forse parole di conforto.
"Certe
volte può colpire anche chi non ci si aspetta."
“Le chiesi se
volesse tornare a casa, ma lei mi disse che doveva restare lì. C'era una
clinica psichiatrica nelle vicinanze e lei voleva essere curata. Io cercai di
insistere, sostenendo che non ci fosse aiuto migliore di quello mio e di
Julian, ma lei aveva paura che se fosse tornata, avrebbe fatto del male a
Julian e questa volta in modo serio. Fu questa prospettiva a convincermi
definitivamente. Se fosse successo qualcosa a Julian, non me lo sarei mai
perdonato. Allora insieme decidemmo che almeno fino a quando non si fosse
sentita pronta, non avrebbe più rivisto Julian.”
“E quindi, sono
quattro anni che lei non lo vede?” domandò Paul interessato.
“Oh, no, prima
che Julian compisse un anno, mi chiese di vederlo e glielo portai. Le cure
stavano proseguendo bene ed era più che evidente quanto stesse meglio. Ma
ancora non si sentiva di tornare a casa. E abbiamo proseguito sempre così fino
a quando gli incontri sono diventati più frequenti. Ora lo porto in campagna da
lei almeno una volta al mese. Ma la questione è che sto crescendo io Julian,
lei non ha alcuna intenzione di farlo. Ha paura di cadere di nuovo in una
spirale depressiva che potrebbe essere più lieve rispetto a prima, ma anche molto
più grave. Io l’ho accettato, per il bene di mio figlio, anche se è comunque un
pensiero che mi rattrista, e la cosa che più mi spaventa è che possa accadergli
qualcosa e Dio non voglia, ma se così fosse, cosa farò? Sono da solo, a chi
potrò aggrapparmi? Se perdessi anche Julian, io sarei finito. Penso che potrei
morire. Non mi rimarrebbe più nulla."
E solo in quel
momento, con un vero e proprio terrore negli occhi, la voce spezzata, il corpo
tremante, Paul capì davvero il comportamento di John durante il suo racconto.
Capì davvero John.
John era molto
più complicato di quello che immaginava. Dietro quella facciata intrigante di
carisma, amore per il figlio e passione per la musica, si celava in realtà
un’insicurezza che stonava con tutto il resto. Mai e poi mai Paul avrebbe
pensato di trovare tutta quella vulnerabilità, dietro un uomo così esuberante.
Mai e poi mai si
sarebbe aspettato di ritrovare in John la stessa paura di restare solo che
attanagliava anche lui, la sera, quando cercava di dormire, quando continuava a
pensare che era da solo in quella grande città, quando si domandava come
sarebbe stata la sua vita tra uno, cinque, dieci anni, se Jane sarebbe rimasta
al suo fianco, se al contrario lei l’avrebbe lasciato… Tutti pensieri che
stringevano il suo cuore, portandolo ad un’insonnia certa e quasi alle lacrime.
Beh, lacrime no,
in fondo era pur sempre un uomo, gli uomini non piangono per queste cose,
giusto? No, non era giusto, perché aveva visto John che si tratteneva con
espedienti come la sigaretta e allontanarsi da lui, per non crollare di fronte
a Paul, e allora forse non c’era niente di male se anche lui avesse pianto,
ogni qualvolta il desiderio di farlo si faceva più vivo che mai.
Così, si alzò in
piedi e raggiunse John, appoggiandosi con la schiena al muro, proprio accanto a
lui.
“Ma tu non sei
solo, John.” disse tranquillamente, e aspettò che l’altro uomo si voltasse
verso di lui prima di continuare con un sorriso, “Hai George e Pattie e anche
me, ora, se me lo permetti. Mi sono affezionato a Julian, non si può restare
indifferenti di fronte a quel bambino, e io sono sicuro che non gli capiterà
mai nulla di brutto perché tu vegli su di lui in modo impeccabile, non gli fai
mai mancare nulla, sei per lui un padre e una madre insieme, e da grande
diventerà un uomo buono e un padre altrettanto affettuoso.”
John non poté
negare di essere rimasto particolarmente sorpreso, nel sentire quelle parole
provenire proprio dal suo ispettore. Se Paul avesse saputo la realtà, forse non
avrebbe parlato in quel modo di John.
Ma cosa
importava ora? Le parole di Paul avevano avuto il potere straordinario di
calmare quell’angoscia che si era accumulata in lui per tutto il racconto.
Perché questo
ragazzo conosciuto da pochi mesi era riuscito ad ottenere con pochissimo sforzo
questo risultato?
“Ti prego, non
farmi pensare a Julian da grande.” esclamò John, ridendo, “Voglio solo godermi
la sua infanzia per adesso.”
“Oh, ok, allora
basta parlare di Julian da grande.” concordò Paul con un sorriso.
“Comunque…”
sospirò John, più rilassato, “Grazie.”
“Di che cosa?”
“Di avermi
ascoltato. Non avevo mai raccontato questa storia così.” ammise John, a Paul,
ma anche un po’ a se stesso.
Paul sorrise,
accompagnandolo con un vago gesto della mano, “Grazie a te per avermi permesso
di ascoltare.”
“Questo mi fa
pensare all’accordo stipulato poco fa.” esclamò John, facendogli l’occhiolino,
e Paul sussultò lievemente, preso in contropiede.
“Ah, davvero?”
“Sì, tocca
a me ora." proclamò John, voltandosi sul fianco per guardare meglio Paul.
"Così pare."
rispose Paul e si morse il labbro, mentre le sue mani si torturavano a vicenda,
mentre questa volta era il suo sguardo che sfuggiva a quello indagatore
di John.
John semplicemente sorrise,
non si accorse neanche di farlo e quando se ne rese conto, ormai era tardi.
Paul era visibilmente a disagio e di fronte a quella visione era impossibile
non sorridere dolcemente.
"Alla festa del tuo
compleanno, tuo fratello mi ha raccontato tutto."
"Tutto di cosa?"
domandò Paul.
Il giovane ispettore batté
le palpebre in confusione, pur sapendo in fondo cosa fosse quel tutto.
"Di tuo padre. Del
perché hai smesso di suonare e ascoltare musica." spiegò John, usando un
tono attento, ma riuscì comunque a far innervosire Paul.
"L'ha... L'ha
fatto?"
"Sì." confermò
John dolcemente, "Volevo sapere perché non l'hai mai cercato? Sei un
ispettore, avresti tutti i mezzi per trovarlo."
Era davvero una curiosità a
cui John pensava spesso. Certo, Jim sapeva chi fosse il nuovo ispettore, e gli
aveva chiesto di porre fine a questi furti, ma John aveva rifiutato. Non
poteva, dannazione, ne era ormai dipendente. Senza contare che stava ancora
aspettando l'occasione giusta per poter rubare un cimelio di Elvis, quel pezzo
che sarebbe stato il più importante nella sua collezione.
Fortunatamente non avevano
litigato, ma una piccola discussione era avvenuta. Anche perché John si
meravigliava del fatto che Jim non si sentisse pronto a ricevere informazioni
più personali su uno dei suoi figli. John era pronto a chiedere a Paul
qualunque cosa, ma l'uomo sembrava irremovibile a riguardo. L'arrivo di Paul
era stata una vera e propria sorpresa, giunta tra capo e collo, e Jim era stato
colto alla sprovvista. Tanto più che si trovava dalla parte sbagliata, ancora
una volta.
Tuttavia John non la pensava
allo stesso modo. Lui voleva sapere, sapere come avesse vissuto Paul senza
quella figura importante e perché non sfruttasse il suo lavoro per cercarlo.
"Il suo abbandono non è
un motivo sufficiente?" domandò Paul, con totale apatia, come se non fosse
un argomento che lo riguardasse.
A quanto pareva John non era
l'unico a usare quel meccanismo di difesa.
"Non lo è
affatto."
"Sì, invece."
protestò Paul, sollevando la schiena dal muro, "Lui se n'è andato
fregandosene di sua moglie e dei suoi due figli. Perché dovrebbe importarmi
ritrovarlo, se lui per primo ha dimostrato di non avere alcun interesse per
noi?"
"Forse ha solo
paura..." provò a dire John, memore di quanto avesse visto in Jim ogni
volta che tra loro spuntava fuori l'argomento 'Paul'.
"Paura?" ripeté
Paul, lasciandosi scappare una risata sardonica come se quella fosse la scusa
più ridicola del mondo, "Ti prego, John. Sai cos'è davvero la paura? È
vedere tuo fratello piangere mentre ti chiede perché suo padre se n'è andato, e
non sapere che cosa rispondere senza ottenere come reazione il suo totale
sconcerto perché, come può un padre abbandonare dei figli così piccoli? La
paura è sapere che tua madre si ammazza di lavoro giorno e notte per occuparsi
di te per non farti mancare nulla e vedere, giorno dopo giorno, quanto il suo
corpo si indebolisca, perché da sola ce la fa ad andare avanti, ma il prezzo da
pagare è troppo alto. Ecco cos'è la paura, John."
"Ma insomma, Paul,
prova a metterti nei suoi panni. Un padre non abbandonerebbe mai i propri figli
e se lui l'ha fatto, ci deve essere un motivo val-"
"Tu abbandoneresti mai
Julian?" lo interruppe Paul e la sua domanda spiazzò completamente John.
Il giovane uomo lo fissò un
po’ incerto, e ammettiamolo, colpito, prima di non poter fare altro che dire, "Cosa?"
"Hai sentito!"
E a quel punto, John si
sentì costretto a rispondere con tutta la sincerità che una domanda del genere
richiedeva, "No, certo che no."
"Beh, hai la tua
risposta ora." sospirò Paul, come se l’argomento fosse finalmente chiuso,
e si avviò verso la tenda che separava la stanza dove si trovavano dal negozio.
Tuttavia non aveva fatto i
conti con quell’uomo che lui stesso aveva definito testardo non più di dieci
minuti prima.
"Ma il mio caso è
diverso.” continuò John, incurante del fatto che Paul se ne stesse andando via,
“Julian può contare solo su di-"
"Oh, ma vaffanculo,
John!” sbottò infastidito Paul, fermandosi e voltandosi con un improvviso
scatto irato per poter fulminare John con il suo sguardo, “Cosa cazzo ne sai tu
di quello che ho passato?"
La reazione di Paul sorprese
infinitamente John. Non l’aveva mai visto comportarsi in quel modo, Paul sempre
pacato e gentile. Confermò la sua ipotesi sul fatto che anche Paul nascondesse un
lato più oscuro di sé. Ma questo non lo spaventò, anzi, gli diede solo la forza
di ribattere.
"Anche mio padre ci ha
abbandonati."
Le parole di John, pur
pronunciate a bassa voce, risuonarono fortissime nella stanza e lui riuscì
quasi a sentire Paul trattenere il fiato, mentre John decideva di condividere
con lui un altro triste atto di questa pièce teatrale che era la sua vita.
"Mio padre abbandonò
mia madre ancora prima che nascessi.” spiegò John, e quando non vide alcun
segno di voler intervenire da parte di Paul, proseguì abbassando il capo e
perdendo lo sguardo sulla moquette del pavimento, “Lei tirò avanti come poté
per qualche anno, fino a quando un giorno non fu investita da un poliziotto
ubriaco e morì. Avevo solo quattro anni, non ricordo molto di quei giorni, solo
che mi affidarono ai servizi sociali perché non avevamo parenti, mentre
cercavano di contattare mio padre. Ma lui non volle prendermi con sé. A quanto
pareva, non ero un problema suo. E così mi spedirono in un orfanotrofio e da lì
ho cambiato famiglia affidataria praticamente ogni anno. Ero un bambino
piuttosto vivace, sai?" esclamò, aggiungendo una risatina, "In questo
modo ho sperimentato sulla mia stessa pelle quanto possano sbagliare certi
padri e quanto sia sbagliato che certi uomini diventino padri. L'ultimo a cui
ero stato affidato, cercò di picchiarmi e quella volta dissi basta. Scappai per
sempre da Liverpool per venire qui, a Londra."
John terminò il suo racconto
e sollevò finalmente lo sguardo per incrociare quello di Paul, il quale senza
volerlo arrossì per quanto avesse insinuato prima con il suo scatto infuriato,
ma anche perché così John sembrava più vicino a lui rispetto a chiunque altro.
Proprio così sembrava che avessero fin troppe cose in comune.
"Mi-mi dispiace."
mormorò Paul e si avvicinò, per tornare in piedi di fronte a John, "Io non
ne avevo idea, pensavo che-"
"Lascia stare, non è
colpa tua.” tagliò corto John, aggiungendo un sorriso rassicurante, “Sono stato
io a dirti di essermi trasferito qui con la mia famiglia. Come potevi
immaginare quale fosse la realtà?"
"Sì, ma mi dispiace lo
stesso."
"Ti ringrazio."
"E cosa è successo
quando sei arrivato a Londra?" domandò Paul, ora la curiosità lo stava
attanagliando, ma lui si sentiva più libero di fare domande, indagare, rispetto
all’inizio di tutta questa storia.
"Io...” iniziò John,
mordendosi il labbro.
Dannazione, la voglia di far
sapere a Paul quanto potesse capire il suo stato d’animo era stata così forte,
che non si era accorto che quel racconto potesse riservare risvolti
potenzialmente pericolosi.
“Beh, mi sono imbattuto in
un uomo che si è preso cura di me.” spiegò, scegliendo con cura le parole, “Anche
lui aveva avuto qualche... problema con la sua famiglia. In quel momento viveva
da solo e ha avuto pietà di questo povero, affamato, sperduto ragazzino. È
stato molto buono con me. Mi ha fatto studiare, mi ha fatto avvicinare alla
musica e insegnato a suonare la chitarra..."
"Allora lui ti ha
insegnato quegli accordi?"
"Sì."
"E quindi sei cresciuto
con lui?”
John annuì, sorridendo ai
ricordi della gentilezza che quell’uomo gli aveva riservato, “È stato lui a
investire i soldi nel mio negozio. Ha sempre creduto in me e io gliene sarò per
sempre grato."
"È come un padre?" chiese Paul, e la domanda
fece riflettere profondamente John.
Sicuramente era stato la cosa più vicina a un padre che
John avesse mai avuto, ma non poteva considerarlo davvero tale. Non era giusto.
"No, lui è già padre di qualcuno. Non posso
considerarlo in questo modo e rubare questo ruolo ai suoi veri figli."
disse, sperando che Paul non facesse domande che andassero più nello specifico.
"Allora è come un mentore?"
Mannaggia a lui e alla sua curiosità da poliziotto.
"Diciamo così." rispose John, scrollando le
spalle.
"E dov'è ora?"
"Quante domande, signor ispettore." rispose
John, ridendo e facendo ridere anche Paul, “Voglio il mio avvocato.”
"Scusa. È più forte di me."
"Va bene. Non ti preoccupare.”
Insomma, non è che andasse poi così bene, prima di tutto
perché non era una grande idea svelare l’abitazione di Jim. E poi perché in
quella stessa casa, c’erano anche…
Ma in effetti, perché mai questa risposta avrebbe
innescato in Paul il collegamento tra John e suo padre? Non c’era alcun
pericolo, John non aveva detto nulla di ambiguo e in fondo, quante situazioni
di figli abbandonati dai padri c’erano nella sola Inghilterra? Paul avrebbe
dovuto saperlo meglio di John.
“Abita nella periferia di Londra. All’inizio stavamo in
un piccolo appartamento nella City, ma quando, grazie al negozio, abbiamo avuto
un po' di denaro a disposizione, abbiamo comprato una casa in un distretto
della Grande Londra."
"Beh, allora dovresti proprio farmelo conoscere
qualche volta." commentò Paul, entusiasta, e John si costrinse a trattenere
un colpo di tosse.
"Già... Dovrei."
Paul chinò il capo per un istante, ripensando al suo
problema e guardandosi le mani, prima di alzarne una con decisione e
appoggiarla sulla spalla di John.
"Mi dispiace molto per quello che hai passato, John,
ma ti prego di comprendermi; penso ora che tu sappia meglio di chiunque altro
perché io non abbia alcuna intenzione di cercare mio padre.”
Le parole di Paul, insieme con la sua mano sulla spalla,
sembravano così convincenti per John. Ora che ci pensava bene, neanche lui
aveva cercato suo padre e non l’avrebbe mai fatto.
“Inoltre…” proseguì Paul, “So per certo che mio padre fosse
un ladro e per questo si era messo nei guai. È stata una sua scelta rubare e io
detesto i ladri, tanto più che le conseguenze delle sue azioni si sono
riversate su di noi. Mia madre l'ha sempre difeso, sai, ha sempre cercato di
non farcelo odiare, ma sapere che anche mio padre fosse uno di loro è stato ciò
che mi ha fatto decidere di diventare poliziotto e iscrivermi all'accademia."
John annuì, prima di porre una domanda che a questo punto
era necessaria, “Non credi che un giorno potresti rimpiangerlo?”
“Certo.” ammise sinceramente Paul, “Tuttavia non posso
proprio, John, non ora almeno."
"D'accordo, Paul.” sospirò infine John, “Non posso
farti cambiare idea, questo l’ho capito, ma promettimi che penserai a quello
che ti ho detto."
"Ehi, non sono Julian." scherzò Paul, dandogli
un lieve spintone con la mano sulla spalla.
"Promettilo lo stesso." ribadì John.
Era serio, e il suo tono fu ripreso anche da Paul, "Lo
prometto."
“Bene.”
Perché John lo stava facendo? Perché stava tentando di
convincere Paul a cercare suo padre? Dopotutto se l’avesse fatto davvero,
sarebbe stato assai rischioso per tutti, per Jim, per John, per Hermes.
Allora perché aveva insistito?
"Dunque, cos'è successo esattamente oggi?"
domandò Paul, ridestando John dalle sue riflessioni.
"Cosa intendi?"
"Intendo tutta questa chiacchierata cuore a cuore,
come se fossimo grandi amici." spiegò Paul, con fare improvvisamente cauto
e sì, un po’ timido.
"Beh, significa quello che è. Siamo grandi
amici." rispose John, come se fosse la cosa più naturale da dire in quel
momento.
Ma era davvero così? Erano grandi amici? Forse da parte
di Paul, anzi, sicuramente da parte
di Paul sì, perché il ragazzo sorrise senza accorgersene, sembrò davvero più
forte di lui.
Ma John?
John doveva pensare a questa amicizia come a qualcosa di
utile per la sua seconda identità. Non doveva lasciare in alcun modo che la
situazione gli sfuggisse di mano.
Diventare davvero
amico di Paul era come andare incontro a un disastro assicurato.
"Oh, allora visto che siamo grandi amici, sai cosa
dovremmo fare?" domandò Paul, entusiasta.
"Cosa?"
"Dovrei farti compagnia stasera, perché sei da
solo."
John rise, "E cosa proponi?"
"Che ne dici di una birra al pub qui vicino?"
"Oh no, questo è terribile.” si affrettò a ribattere
John, con una smorfia disgustata sul volto, “Conosco un posto migliore, ma
prima, aiutami a chiudere il negozio."
Paul non riusciva a smettere di sorridere, mentre aiutava
John nel suo compito. Pensò di essere davvero felice per la prima volta da
quando si trovava a Londra, e la sensazione era inebriante, di quelle di cui
non si può mai fare a meno.
Certo, fino a quel momento aveva sempre considerato John
un amico, ma dopo quel pomeriggio, dopo quell'intimo scambio di confidenze, era
diverso. Ora sapeva, entrambi sapevano che potessero sempre contare l'uno
sull'altro per ogni problema, che potessero parlare davvero di qualunque cosa,
che finalmente fossero l'uno una componente importante della vita dell'altro.
E a questo punto, c'era solo ultima cosa da dire.
"Benvenuto nella mia vita, John."
Note
dell’autrice: e andiamo con il capitolo 9. Un po’ lento,
magari, e questi due parlano davvero tanto, ma a questo punto della storia, era
necessario che si confidassero l’uno con l’altro.
La mamma di Julian è Cynthia e non è morta. Non è mai
stata mia intenzione farla morire. Piuttosto mi interessava molto affrontare
questa depressione post-parto, mi sono documentata un po’ e insomma, questo è
il risultato.
Grazie a kiki che ha corretto,
grazie soprattutto a _SillyLoveSongs_ che mi ha
supportato per affrontare questo capitolo molto delicato e mi ha dato preziosi
consigli. Grazie a ringostarrismybeatle, che rallegra
le giornate con le nostre chiacchierate.
Grazie infine a Chiara_LennonGirl,
paulmccartneyismylove e lety_beatle,
sempre tanto gentili. :3
“Non si tratta di Hermes.” spiegò con molta convinzione
Paul ai presenti, ovvero l’ispettore Starkey e la sua squadra di agenti scelti.
Si trovavano nel vicino quartiere di South Kensington,
nella seconda sede di Christie’s, una delle
più famose case d’asta del mondo. Proprio qui erano in mostra cimeli di
qualunque genere di Slash, il chitarrista dei Guns’n’Roses,
che aveva deciso di metterli all’asta e devolvere il ricavato in beneficienza.
Proprio qui era avvenuto il furto di una maglietta che il
musicista era solito indossare nei suoi concerti.
Il problema era che l’autore questa volta non era Hermes,
almeno, questo era ciò di cui era convinto Paul.
“Ma ha avvisato come al solito dove e quando avrebbe
colpito.” fece notare l’agente Eastman.
“C’è una differenza fondamentale dagli altri furti.”
affermò Paul, avvicinandosi alla porta che dava sul corridoio e facendo
scorrere il suo sguardo per tutta la sua lunghezza.
“Ovvero?”
“La guardia ferita.” rispose Richard, il quale fino ad
allora aveva assistito in silenzio ai ragionamenti di Paul, pensando a lungo su
quanto fosse appena accaduto.
Paul si voltò verso di lui per rivolgergli uno sguardo di
profonda approvazione, “Esattamente. Hermes sarà anche un furfante, ma non ha
mai fatto del male a nessuno. Anche quando ha rubato la chitarra di Dylan, ha
fatto in modo che l’auto di scorta sbandasse dopo averla fatta rallentare. Qui
la situazione è diversa.”
Era diversa perché il malcapitato agente si era ritrovato
proprio sull’unica via di scampo che il ladro potesse usare. E quando questi
era sopraggiunto, aveva estratto la pistola e sparato a sangue freddo, senza
neanche prendere la mira. Il poliziotto ferito, Mal Evans, era stato molto
fortunato, dal momento che era stato colpito alla gamba e si era subito
accasciato a terra, lasciando via libera all’uomo.
Ora Mal si trovava nell’ospedale più vicino, trasportato
con urgenza da un’ambulanza, ma fortunatamente non era in pericolo di vita.
“Quindi ci troviamo di fronte a un secondo Hermes?”
domandò Linda.
“Sarebbe più giusto dire che siamo di fronte a un finto
Hermes.” la corresse Paul, “Agisce con lo stesso stile, o quasi, sperando di
farci credere che lui e Hermes siano la stessa persona, ma ormai abbiamo
appurato che non è così.”
“Viene da chiedersi se questo delinquente e il vero
Hermes siano in contatto fra loro.” aggiunse Richard, strofinandosi il meno con
due dita, “Dopotutto abbiamo visto che il nostro uomo ha un complice.”
Paul sospirò, scuotendo vigorosamente la testa, “Lo
ritengo altamente improbabile. Il complice di Hermes non agirebbe mai da solo e
soprattutto in questo modo. Non ne avrebbe motivo.”
“Forse per depistare le indagini?” domandò l’ispettore
capo.
“No, signore, da quello che ho potuto vedere in questi
mesi, Hermes pensa solo ai suoi furti, li programma, colpisce e poi pensa
subito al furto successivo. Non organizzerebbe mai qualcosa del genere con
qualcuno che non ha certamente alcuna remora a usare una pistola.” spiegò Paul,
incrociando le braccia sul petto.
“Bene, McCartney, se ne è davvero convinto, allora siamo
tutti con lei.” commentò Richard, sorridendogli incoraggiante.
Paul gli rivolse un cortese cenno del capo, “Grazie,
signore. Ora dovremmo pensare a un modo per catturare entrambi.”
“Sono d’accordo, e intanto faremo spostare la mostra
nella sede di King Street.” aggiunse Richard, mentre si avviavano verso
l’uscita dell’edificio, “Così potremo svolgere le indagini in tutta
tranquillità, senza che il signor Pinault(1)
venga a lamentarsi delle terribili ripercussioni che questo furto avrà
sulla sua mostra.”
“Comunque…”iniziò
a dire l’agente Eastman, una volta raggiunte le volanti, “Non trovate strano
che il vero Hermes non si sia ancora fatto vivo per rubare qualcosa da questa
mostra?”
“Ha ragione, agente Eastman, è molto strano. In fondo
sono già diversi giorni che la mostra è aperta al pubblico e l’annuncio
dell’asta è stato pubblicato ancora prima.” rispose Richard, aprendo la
portiera dell’auto accanto al conducente, “Lei cosa ne pensa, McCartney?”
Paul non sapeva davvero cosa rispondere, non aveva
assolutamente idea del perché il vero Hermes ancora non avesse annunciato un
furto. In situazioni “normali” a quest’ora l’avrebbe già fatto.
Forse aveva capito che stava succedendo qualcosa di
strano. O forse…
Paul ridacchiò divertito fra sé.
“Forse non gli piacciono i Guns’n’Roses.”
****
“Dio santo, quanto amo i Guns’n’Roses!”
Paul rise quando John esclamò questo. Erano nel retro del
negozio, ma questa volta non suonavano loro.John aveva sorpreso Paul e l'aveva convinto ad ascoltare un cd del
gruppo statunitense, G N' R Lies, e quando era
partita Patience, John si era lasciato
scappare un verso di chiaro apprezzamento.
Paul era seduto nella sua solita postazione: gli piaceva
ascoltare quel cd con John, ma la cosa più bella era osservare come quel
giovane uomo fosse assorto nell’ascolto della canzone, come tenesse il tempo
con la testa o il piede, come ogni tanto la cantasse o fischiettasse, insieme
al cantante. Era uno spettacolo affascinante a cui assistere, gli sembrava
quasi che John fosse molto più rilassato ora, più a suo agio con Paul. Non che
prima, prima di quella chiacchierata, non lo fosse. Era solo che adesso la
differenza era davvero palpabile. Forse era in John che sorrideva più spesso,
oppure John che scherzava facilmente con Paul.
Ma che importava, in fondo? Erano tante piccole cose che
rendevano il tempo passato con lui così piacevole.
John, dal canto suo, si sentiva anche lui così, così a
proprio agio, come se conoscesse Paul da tutta una vita e non da pochi mesi.
Questo nonostante stesse sforzandosi di mantenere comunque il controllo di se
stesso. Aveva già messo in chiaro con la sua coscienza e soprattutto, con quel
furfante del suo cuore, che doveva darsi un contegno e non lasciarsi andare in
quella nuova, pericolosa amicizia. Un po’ sì, ma non troppo, sia chiaro.
E ci riusciva, ora, ricordando a se stesso che aveva un problema,
un problema di nome “finto Hermes”, o fasullo, o impostore, o come diavolo si
chiamava.
Chi caspita era questo nuovo arrivato? E perché stava
sfruttando il suo nome in quel modo ignobile, impedendogli di compiere quel
furto che John tanto agognava?
Dannazione, era stato così eccitato quando aveva capito
di avere la possibilità di recuperare un cimelio di Slash, tanto che quando
Paul gli aveva detto che avevano ricevuto un avviso di Hermes, dovette
ricorrere a tutte le sue forze per non perdere il controllo e sbraitare e
imprecare perché, cazzo, non era lui!
Così insieme a George avevano deciso di aspettare e
vedere cosa fosse successo, e quello che era successo era una tragedia:
il nome di Hermes infangato da un impostore che aveva addirittura ferito un
agente con un colpo di pistola. John non poteva sopportarlo.
"È un bel cd." disse improvvisamente Paul.
John scosse il capo per destarsi dai suoi pensieri,
"Cosa odono le mie orecchie? Il signor Paul Non-Ascolto-Più-Musica
McCartney sta apprezzando il cd che ho scelto io?"
Paul rise, nascondendosi dietro la mano, "Sì, ma ora
non cantare vittoria."
"No, ma così come io, da quanto mi hai detto, sono
migliorato, anche tu stai facendo passi da gigante." esclamò John,
avvicinandosi per sedersi di fronte a lui e guardarlo negli occhi, "Una
volta ti saresti opposto alla mia proposta o ti saresti sentito male all'inizio
del cd. Invece, guardati ora. Stai benissimo."
John lo indicò con un sorriso fiducioso e Paul arrossì
lievemente, mentre il suo cuore sussultò alla realizzazione che John aveva
appena messo di fronte a lui: non ci aveva mai fatto caso prima, ma Paul non
stava male ora, anzi.
Non aveva palpitazioni di angoscia, ma di gioia; il
respiro non era agitato, ma tranquillo.Andava davvero tutto bene.
“Sì, è vero.” disse Paul, annuendo, “Ma è merito tuo,
sai, da solo non ce l’avrei mai fatta.”
Poi sorrise verso John, il quale senza pensarci, allungò
una mano per appoggiarla sopra quelle intrecciate di Paul. Erano così calde,
così forti, e John le sentì sulla propria pelle, prima di poterle vedere. E...
Che diamine, che cosa ci faceva la sua mano lì?
Veloce come le aveva raggiunte, John allontanò subito la
sua mano da quelle di Paul, alzandosi per tornare allo stereo e spegnerlo.
“Allora come…” iniziò a dire, schiarendosi la voce
improvvisamente secca, “Come è andata a lavoro? Ho letto che c’è stato un
risvolto inaspettato.”
“Oh, sì, è andata proprio così. Questo furto non è opera
del nostro uomo.” commentò Paul, abbandonandosi allo schienale della sedia.
“Chi è allora?” domandò John e si voltò per guardare Paul
con occhi indagatori.
“Non lo so.” rispose lui, scrollando le spalle, “Ma so
quello che non è, e non è Hermes.”
“Come fai a esserne così sicuro?”
“Ne sono sicuro perché ormai ho capito Hermes, o almeno
il suo stile. Lui non avrebbe mai sparato a uno dei miei uomini.”
John si ritrovò a sorridere nuovamente. Tuttavia, se una
volta questo sorriso sarebbe stato di sfida, perché Paul non avrebbe mai e poi
mai potuto capire appieno Hermes, ora invece era un sorriso di gratitudine, un
sorriso compiaciuto, perché Paul sapeva che lui, o perlomeno Hermes, non si
sarebbe comportato in quel modo.
“La tua sembrerebbe quasi un’affermazione di rispetto
verso quel ladro.” commentò John, mantenendo quel sorrisino sulle sue labbra.
Paul spalancò gli occhi, sorpreso, anzi, profondamente
turbato dalle parole di John, “Rispetto? Verso un ladro? Spero che tu stia
scherzando, John.”
“Intendo dire, rispetto verso quella parte del suo stile,
non verso il suo essere ladro.” ribatté John, “In fondo, non ha mai fatto del
male a nessuno.”
Paul lo fissò, aggrottando la fronte con perplessità,
“Resta comunque un delinquente, non porterò mai rispetto per una persona così.”
La sua promessa suonò stranamente malinconica per John,
fu come una piccola dolorosa stretta al cuore, perché ora sapeva che una parte
di lui voleva essere davvero amica di Paul. Invece quelle parole mostrarono un
così chiaro e categorico rifiuto che John rimase in silenzio per un istante, a
fissare Paul, cercando di capire cosa fare e dire ora, cercando di far
acquietare quei due lati di se stesso che per la prima volta entrarono in
conflitto.
"Beh, in fondo si tratta solo di ladro. Non devi
certo diventare amico suo." scherzò John con una risata nervosa.
"No, infatti."
"Gli amici sono altri."
“Gli amici sono altri.” ripeté Paul, e si lasciò scappare
un sorriso, che ebbe lo straordinario risultato di mettere pace al conflitto
interiore di John.
C'era qualcosa di così forte e allo stesso tempo dolce in
quel giovane. Era un mix pericoloso, con un potere immenso, e John fu molto
sorpreso nel comprendere appieno che effetto avesse su di lui.
"Caspita!” esclamò all’improvviso Paul, quando il
suo sguardo cadde sull’orologio, “È tardissimo."
"Tardi per cosa?" domandò John, incuriosito.
"Devo dare da mangiare a Pepper e telefonare a Jane
prima che parta per Parigi."
John batté le palpebre, sorpreso, “Parigi?”
"Sì.” sospirò Paul, rendendo più che evidente il suo
dispiacere per questa partenza, “Ora è in Scozia per girare uno sceneggiato per
la BBC, ma devono trasferirsi in un set allestito in Francia. Sembra che si
tratti di una co-produzione anglo-francese."
"È piena di lavoro questa ragazza." commentò
John, incredulo, “Beata lei.”
Paul sorrise malinconicamente fra sé, mentre si alzava in
piedi, "Sono contento per lei. La sua carriera sta andando alla grande. Se
lo merita perché ha lavorato tantissimo per arrivare a questo punto."
"Da quanto tempo non la vedi?" domandò John,
non credendo di averlo chiesto davvero.
Gli interessava così tanto quell’aspetto della vita di
Paul? E soprattutto, perché gli interessava?
"Dal mio compleanno."
Ah, ecco perché. Come diavolo faceva a stare così a lungo
lontano da lei? E come faceva Jane a non pensare di passare a trovarlo più
spesso? Che razza di relazione era mai questa?
"È tanto tempo." gli fece notare John.
Paul annuì, perdendo il proprio sguardo sul pavimento,
"Lo so, ma la capisco. E poi se io avessi avuto un lavoro normale, avrei
potuto prendermi dei giorni di ferie per andare a trovarla, ma per ora non
posso assentarmi da Londra."
John annuì, mordendosi il labbro. Ci mancava solo che
fosse colpa sua ora, questo rapporto decisamente freddo tra Paul e Jane.
"E quando dovrebbe tornare?"
"Penso che dovrà stare lì almeno per un mese."
"Non pensi mai che lei potrebbe..." disse John
e terminò facendo un vago gesto con la mano, che Paul evidentemente non capì,
perché gli rivolse uno sguardo di pura perplessità.
"Lei potrebbe cosa?"
"Beh…” iniziò a dire John, scrollando le spalle,
“Lontana da te, potrebbe conoscere qualcun altro."
"No.” protestò accorato Paul, “Non lo farebbe mai.
Siamo lontani e non ci vediamo spesso, è vero, ma non mi tradirebbe mai."
"Scusami, Paul.” disse John, alzando le mani, “Non
volevo intromettermi. È solo che, anche se è così impegnata, se ti amasse
davvero, farebbe di tutto per poter passare più tempo con te."
Paul sussultò lievemente quando udì quel “se ti amasse
davvero”, e cercò di non darlo a vedere, "Ti ringrazio per esserti
preoccupato per me, ma fidati, John. Lei mi ama."
"Tu la conosci meglio.” sospirò John, rivolgendogli
poi un sorriso rassicurante, “Quindi sarà sicuramente così."
"Sì.” mormorò Paul, annuendo più a se stesso che a
John, “Sì, è così. E ora perdonami, ma devo proprio scappare."
"Certo. Non sei arrabbiato, vero?" si affrettò
a chiedere John, balzando in piedi.
"Beh, perché ho insinuato certe cose su te e Jane e
ora capisco che non ne avevo alcun diritto."
"Ma stai tranquillo, John.” lo rassicurò Paul,
“Piuttosto, pensa a studiare il brano che ti ho assegnato oggi. La prossima
volta ti interrogo."
Dopodiché gli fece l'occhiolino, prima di salutarlo e
sparire attraverso la tenda. John rimase fermo al proprio posto, ascoltando Paul
che salutava brevemente George e poi usciva dal negozio. L’istante successivo
il suo amico e compagno di avventure lo raggiunse nella stanza.
"Dunque... Abbiamo a che fare con un finto
Hermes?" chiese George.
"George, dovresti fare qualcosa per questo tuo
continuo origliare, sai?" esclamò John, ridendo divertito, "Comincia
a diventare inopportuno."
"E per quale motivo?” domandò George, accigliandosi,
“Che segreti vi scambiate che io non posso sentire?"
"Niente, figurati, ma...” iniziò a rispondere John,
ma poi si rese conto che la sua fosse stata un’affermazione decisamente
sciocca, e sospirò, “Oh, lascia perdere. E pensiamo a questo finto
Hermes."
"Cosa dobbiamo fare?"
"Non lo so. Per adesso possiamo solo aspettare la
sua prossima mossa." commentò amaramente John, abbandonandosi sulla sedia.
"Come fai a sapere che agirà ancora?"
John intrecciò le mani sul grembo, voltandosi verso la
finestra che dava sulla strada, "Lo so perché lui non è me."
E da quella
finestra, osservò Paul entrare in casa sua e poi chiudere la porta.
"Lo so perché sono io il vero Hermes."
****
Il Pinnacle, soprannominato HelterSkelter, era
uno dei grattacieli più famosi di Londra. Aveva la forma caratteristica di uno
scivolo a spirale, e con i suoi sessantatré piani spiccava indubbiamente nello
skyline di Londra.
Le gallerie e gli uffici della casa d'asta Christie's erano in tutti gli ultimi dieci piani del
grattacielo. Si trovavano letteralmente a un passo dal cielo. E se qualcuno,
uno come Hermes o il suo doppione avesse provato a infiltrarsi per rubare
qualche cimelio dalla mostra di Slash, beh, sarebbe caduto in una trappola.
Praticamente non vi erano vie di fuga. A meno che uno dei due non fosse capace
di volare.
Paul rise fra sé, ma che stava pensando? Nessuno poteva
volare. No, questa volta non avrebbero rubato proprio nulla. Anzi, Paul sapeva
che sarebbe riuscito a mettere le sue mani su Hermes. O perlomeno sulla sua
brutta copia. Era arrivato un nuovo messaggio, la settimana prima, che avvisava
la polizia di un altro furto che avrebbe colpito quella mostra così appetitosa.
Non sapevano con certezza da chi potesse arrivare. Forse il vero Hermes aveva infine
deciso di agire anche lui e recuperare un souvenir dalla mostra. Oppure era da
parte di quello fasullo e Paul era assolutamente convinto di questa idea. Per
quanto scaltro e insolente, il vero Hermes era anche prudente e non avrebbe
rischiato di farsi arrestare per un soggetto che era già stato colpito una
volta.
Ora Paul si trovava al penultimo piano del grattacielo e
stava guardando dalla vetrata l'intera città di Londra stendersi sotto di lui,
mentre il caldo sole estivo spariva lentamente all'orizzonte. Era una visione
che metteva i brividi, e Paul ringraziò di non soffrire di vertigini,
altrimenti quella sarebbe stata una vera impresa per lui, lavorare a 288 metri
di altezza. Santo cielo!
C'era anche qualcosa che lo aiutava a… restare con i
piedi per terra, per poter affrontare meglio il suo lavoro: era il
portachiavi a forma di chitarra che rigirava in quel momento tra le sue mani,
il portachiavi regalatogli da John. Sorrise al ricordo di quando John si era
mostrato preoccupato per la sua difficile relazione a distanza con Jane. Era
stato molto gentile da parte sua; preoccuparsi era qualcosa che facevano i veri
amici e Paul non poteva che esserne felice. Sapere di avere il suo aiuto, il
suo sostegno per affrontare la sua vita a Londra, con tutti i problemi che
comportava, quelli di lavoro o la lontananza da Jane, rendeva tutto più
sopportabile e anche più facile.
“Che carino.” esclamò una voce femminile accanto a lui.
Paul sussultò lievemente, per essere stato sorpreso nei
suoi pensieri, e si voltò per vedere il bel viso di Linda fissare con interesse
l’oggetto che aveva tra le mani.
“Oh, grazie.”
“E’ un portachiavi?”
“Sì, me l’ha regalato un mio amico. Come portafortuna.”
aggiunse Paul, lasciandosi scappare una risata, mentre ricordava le parole di
John.
“E funziona?”
“Per adesso non proprio, se devo essere sincero.” rispose
Paul con un sospiro rassegnato, “Ma ce l’ho da poco, quindi, diamogli tempo.”
Terminò facendole l’occhiolino e lei ridacchiò,
portandosi una mano davanti alla bocca.
“Beh, intanto ha fatto in modo che il nostro Mal sopravvivesse
all’aggressione del ladro.” gli fece notare subito dopo.
“Hai ragione, è già un risultato.” ammise lui,
sorprendendosi di non aver preso in considerazione quel particolare.
Se Mal fosse morto sarebbe stata innanzitutto una vera
tragedia, e inoltre, Paul sapeva che la colpa sarebbe ricaduta su di lui,
perché era il responsabile di quel caso.
Linda gli sorrise dolcemente, voltandosi meglio verso di
lui ora, “Ho saputo che è andato a trovarlo in ospedale.”
Paul annuì, abbassando il capo e riportando lo sguardo
sull’oggetto tra le sue mani, “Sì, l’altro giorno, con l’ispettore Starkey.”
“E’ stato molto gentile da parte sua.”
“Ho fatto solo quello che sentivo.” commentò Paul,
scrollando le spalle, “Lui stava solo facendo il suo lavoro quando ha cercato
di fermare il ladro, e noi rispettiamo lui e l’impegno che dimostra ogni giorno.
La nostra visita voleva semplicemente dimostrare questo.”
“Sì, beh, ma…” iniziò a dire lei, avvicinandosi e
appoggiando una mano sul suo avambraccio, “Altri non l’avrebbero fatto, perciò volevo
solo dirle che io la rispetto molto, signore.”
“Grazie.” disse Paul, sottraendosi al suo tocco gentile
per controllare l’orologio, “Sarà meglio ora che raggiungiamo tutti le nostre
postazioni. È quasi l’ora X.”
Linda sospirò, prima di annuire, “Sì, signore.”
Paul la guardò andare via, ripensando alle sue parole: il
portafortuna aveva funzionato?
Gli stava davvero dando un aiuto?
Paul non lo poteva ancora affermare con certezza, ma
sentiva che in qualche modo l’avrebbe scoperto solo a fine serata, perché era
ora sicuro che proprio quella sera avrebbe catturato almeno uno dei due
possibili Hermes.
****
Il vento di quella sera di inizio luglio era piuttosto pungente.
Forse era dovuto al fatto che il sole fosse ormai
tramontato da un paio di ore.
O forse, anzi, molto probabilmente era dovuto a quelle
centinaia e centinaia di metri che separavano John dalla terra.
Stava letteralmente sorvolando Londra con un deltaplano e
caspita, era davvero molto in alto.
Aveva provato altre volte questa esperienza, ma ogni volta l’emozione di vedere
quella città stendersi sotto il suo corpo perfettamente allineato con
l’orizzonte faceva venire i brividi.
“John, pensaci bene, per favore.” disse all’improvviso la voce di George,
dall’auricolare, “Sei ancora in tempo per cambiare idea.”
“Ho già pensato bene, grazie, George. E no, non voglio
cambiare idea.” rispose John, sorridendo alla domanda dell’amico.
“Ma quell’avviso..” continuò
George, “Potrebbe essere una trappola.”
“Un trappola?”
“Sì, non hai pensato che magari questa possa
essere solo una messinscena della polizia per attirarti in quel cazzo di
grattacielo e arrestarti?” gli fece
notare George, particolarmente accorato.
“Oh, mio caro George, non hai sentito le parole di Paul?”
sospirò lui, scuotendo il capo in rassegnazione, anche se George non poteva
vederlo, “Perché avrebbe dovuto dirmi quelle cose, se fosse stata una
messinscena?”
“Resta comunque un’azione pericolosa.” sbottò l’amico.
Sembrava stranamente agitato
questa volta, ma John non aveva alcuna intenzione di ritirarsi e annullare
tutta l’operazione.
“Dobbiamo venirne a capo, George. Non posso tollerare uno
che agisca indegnamente usando il mio nome. È una questione di principio.”
Per non parlare del fatto che ormai fosse tardi per un
ripensamento, dal momento che era quasi arrivato all’HelterSkelter. Aveva deciso di arrivare
dall’alto perché sicuramente nessuno avrebbe immaginato che Hermes potesse calarsi
dal cielo.
“Oh, John.”
“Fidati, andrà tutto bene.” lo rassicurò John, “Sono o
non sono il famigerato Hermes?”
George sospirò, “Sì.”
“Bene, allora, rilassati ora, amico mio, stiamo per
entrare in azione.”
“Cerca di stare attento.”
“Non ti preoccupare.” ribadì John con tutta la
tranquillità che poteva recuperare dentro di lui, “Pensa piuttosto a essere qui
al momento giusto.”
“Ci sarò.”
John sorrise fra sé, e poi finalmente si preparò
all’atterraggio. Inclinandosi lievemente da un lato, fece un giro di ricognizione
per avere un idea di come fosse il tetto. Di sicuro, non era un tetto fatto per
un atterraggio di questo tipo. Ma d’altra parte, chi mai avrebbe potuto
progettare una pista d’atterraggio su uno dei grattacieli più eccentrici di
Londra?
Infine decise di calarsi definitivamente e appena giunto
in prossimità del tetto, allungò le gambe per frenare. Peccato che appena
toccato il suolo con i piedi, inciampò e franò a terra. Un sonoro crac gli comunicò che aveva appena rotto
la punta destra del deltaplano.
“Porca
put-”
“Tutto a posto, John?” domandò George.
“Sì, sì, tutto a posto. Solo un...” iniziò John,
alzandosi in piedi e pulendosi i pantaloni, “Un sassolino che mi ha fatto
inciampare.”
“Un sassolino? Come c’è finito un sassolino a
300 metri sopra Londra?” domandò George, ridendo.
“Non ho tempo ora per le tue domande esistenziali,
George.” gli fece notare, slacciando tutta l’imbracatura che lo legava allo
strumento di volo.
“Come vuoi, ma sei sicuro di stare bene?”
“Sto bene, George, mai stato meglio di così.” lo
tranquillizzò John, “Adesso cerco l’apertura del condotto di aerazione e poi
siamo dentro.”
“Indossa la bandana, non si sa mai cosa possa
accadere.”
“Sissignore, signore."
John, finalmente libero da corde e caschi e tutto
l'equipaggiamento necessario per il volo, si stiracchiò e poi si concentrò sul
tetto di quel grattacielo. La base era di forma rettangolare e solo un lato,
uno di quelli più corti, era completamente esposto all'aria. Da uno dei due lati
più lunghi partiva una vetrata concava che circondava l’edificio e si innalzava
sempre più verso il cielo fino a terminare sul lato parallelo in una sorta di punta
metallica. Proprio da quella parte c'era una piccola porta che con grande
gioia, John scoprì essere aperta. Questa dava su una rampa di scale che molto
probabilmente percorreva l'edificio in tutta la sua lunghezza. Sarebbe stata
quella la sua via di fuga, se le cose fossero andate male. Di fianco alla rampa
di scale, c'era l'ascensore ma era fuori questione usarlo. Sicuramente sarebbe
stato sorvegliato con una telecamera e questa volta George non ne aveva il
controllo.
E poi John lo vide, il condotto di areazione. Si avvicinò
per esaminarlo: non sembrava particolarmente stretto. John poteva passarci in
tutta tranquillità. Ok, non era un fuscello e qualche chilo in meno sarebbe
stato ben accetto, ma non era neanche così grosso.
Ridestandosi da quei pensieri che erano più adatti a una
palestra piuttosto che al luogo di un furto, John si apprestò a rimuovere la
grata che chiudeva il condotto di areazione e lo appoggiò per terra senza far
rumore. Poi sistemò la piccola sacca che portava sulle spalle, spostandola sul
petto e si arrampicò dentro.
Lo spazio era decisamente angusto e claustrofobico, ma
era importante che lui restasse calmo e che respirasse tranquillamente per non
farsi prendere dal panico. Insomma, anche il grande Hermes poteva lasciarsi
andare a queste crisi e rovinare tutto. Poteva essere scaltro e sfrontato
quanto voleva, ma era pur sempre un essere umano con i suoi punti deboli.
Quando si convinse che non c'era motivo per cui dovesse
agitarsi (e ci riuscì ricordando a se stesso cosa lo aspettava un paio di piani
più in basso), cominciò ad avanzare cercando di fare meno rumore possibile,
strisciando con movimenti felpati e facendo attenzione a non urtare contro le
pareti.
Arrivato in fondo al cunicolo, si fermò e si sedette. Il
condotto proseguiva in verticale verso il basso e non se ne vedeva la fine.
John aprì la sua sacca e ne estrasse un congegno tecnologico che aveva portato
con sé proprio per questa fase del piano: era una sorta di bobina che lo
avrebbe aiutato a calarsi nel condotto. Lo attaccò sulla parete superiore e poi
tirò l'estremità con il moschettone per agganciarlo alla cintura in vita. Con
un paio di strattoni violenti si assicurò che il congegno con la bobina
sostenesse il suo peso e poi, sentendo un tuffo al cuore, si lasciò andare nel
vuoto.
Imprecò mentalmente, mentre allontanava qualunque timore
per quella situazione precaria, cercando di non pensare che se il congegno
avesse ceduto, lui sarebbe stato un uomo morto e Julian un orfano di padre.
Così si appoggiò con la schiena ad una parete e puntò i piedi ben saldi dalla
parte opposta, prima di iniziare la sua lenta e attenta discesa. Oltrepassò il
cunicolo che si stendeva sopra l'ultimo piano del grattacielo. Era già a metà
strada e per ora stava andando tutto bene. Ottimo.
Proseguì verso il basso, mentre le mani sudavano
copiosamente e il cuore batteva forte nel petto, echeggiando nel condotto
stretto e silenzioso. Imbecille, così
li avrebbe fatti scoprire.
Fortuna che ormai era arrivato. Si arrampicò dentro il
secondo cunicolo incontrato nel tragitto e quando fu al sicuro, sganciò il
moschettone dalla cintura, accompagnando il gesto con un sospiro di sollievo.
Strisciò nuovamente in silenzio, pensando che proprio
sotto di lui vi era la più grande mostra di cimeli che avesse mai visto. In
altre occasioni sarebbe stato difficile scegliere, ma trattandosi di Slash,
John sapeva bene cosa rubare: una delle sue famose tube che indossava sopra
quei ricci neri e indomabili.
C'era solo un problema.
Qualcuno era arrivato prima di lui.
La grata sul lato del condotto sopra cui stava scivolando
John era già stata rimossa e appoggiata di lato.
E John sapeva che potesse trattarsi solo di
quell'impostore.
Si morse il labbro, pensieroso. Era rischioso, dal
momento che questo finto Hermes poteva essere aggressivo anche verso di lui, ma
John non avrebbe permesso che quella sua farsa continuasse a infangare il suo
nome.
Presa la sua decisione, si chinò e cercò di dare
un'occhiata a cosa stesse accadendo all'interno della stanza. Questa era ben
illuminata e per la miseria, quante
cose meravigliose c'erano: vestiti, ciondoli, catene, chitarre, miniature di dinosauri
e...i cappelli a tuba!
John notò anche una piccola porta secondaria dalla parte
opposta a quella principale e lì, di fianco, tre guardie legate, imbavagliate e
addormentate in angolo. Probabilmente il suo doppione li aveva fatti fuori con
qualche gas soporifero.
Poi John lo vide. Era un uomo alto e snello, indossava
una felpa col cappuccio, proprio come John e sul volto aveva una bandana. Stava
aggirandosi fra le tube e ne aveva adocchiata una che John sperava di poter
trovare: una tuba nera completamente rivestita da borchie.
Quando l'uomo allungò una mano per toccarla, John non
esitò. Sollevò sul viso la propria bandana e si tuffò nella stanza.
"Fermo dove sei."
L'uomo si bloccò per un istante con la mano a mezz'aria,
prima di sorridere e voltarsi verso di lui.
"Speravo venissi, caro il mio Hermes."
John batté le palpebre in confusione, mentre l'uomo lo
fissava con uno sguardo eccitato e un sorriso soddisfatto che sicuramente si
trovava al di là della bandana. Sembrava molto giovane, forse coetaneo di John,
ma non c’era tempo da perdere in queste riflessioni. John doveva sapere.
"Chi sei?"
"Mi chiamo Brian Epstein.” rispose l’uomo, “E sono
un tuo ammiratore."
"Un ammiratore?"
Brian annuì lentamente, chiudendo gli occhi per un
istante, "Sì. Ti seguo dai tuoi primi furti. Sei una creatura
straordinaria, Hermes. Il tuo stile mi fa impazzire: sei geniale, astuto e
riesci a farla franca, nonostante la polizia sia sempre lì ad aspettarti."
"Stai scherzando?" domandò John, quasi ridendo
per l’assurdità delle sue parole.
Come poteva un uomo qualunque provare ammirazione per un
delinquente come lui?
Insomma, ovviamente John sapeva di essere un grande in
quello che faceva, ma non avrebbe mai pensato di avere degli ammiratori. Uno
che sembrava anche molto strano da quello che lui poteva vedere.
"Come potrei scherzare ora che finalmente sto
parlando con te?! Sono così felice che tu ti sia accorto di me, non puoi
immaginare quanto."
John spalancò gli occhi. Le parole di Brian lasciavano
intendere che...
"Aspetta, mi stai dicendo che hai organizzato tutto
questo solo per attirarmi qui e incontrarmi?"
"Sì.” confermò Brian, lanciandogli uno sguardo di
pura estasi, “Sapevo che se avessi iniziato a copiare il tuo stile, prima o poi
saresti intervenuto."
"Ma... Perché?"
"Perché sei il mio idolo e volevo conoscerti e
chiederti di permettermi di aiutarti nei tuoi futuri progetti." spiegò
Brian, come se fosse qualcosa di così naturale, che John avrebbe dovuto
accettare senza pensarci due volte.
Ma John aveva ben altre risposte in mente.
"Non se ne parla." gli disse, mentre si
avvicinava al cappello che aveva intenzione di portare a casa.
Brian, totalmente preso in contropiede, lo guardò spalancando
gli occhi, "Cosa? Perché? Ho imparato il tuo stile. Insieme possiamo fare
grandi cose."
"Tu non hai imparato proprio un cazzo.” sbottò John,
senza nascondere tutta la sua irritazione, “Hai mandato in ospedale un
poliziotto sparandogli alla gamba. Io non sono così. Non metto a rischio la
vita di altre persone. Quindi te lo puoi scordare."
"Ma io-"
"Ma niente.” esclamò John, stringendo il cappello
fra le mani e osservandolo con più interesse di quanto stesse dimostrando
all’uomo dietro di lui, “Tu sei pazzo, sei completamente fuori di testa,
lasciatelo dire e-"
Un rumore metallico, un rumore simile a una pistola che
veniva caricata lo fece sussultare all'improvviso. John, con il cappello in
mano, si voltò ritrovandosi con l'arma puntata in faccia.
Il suo cuore perse un battito e il silenzio assordante di
quell'istante gli fece credere di essere già morto. Ma no, non era morto e
poter sentire la risata sardonica di Brian era una prova sufficiente.
"Tu credi ora di poter rifiutare la mia proposta, e
poi sgattaiolare via così, come se niente fosse successo?"
"Brian..."
"Non puoi farla franca. Sai, prima di venire qui ho
pensato, 'Gli conviene proprio accettare la mia offerta, altrimenti sarò
costretto a ucciderlo'."
Lo sguardo che Brian gli rivolse fu di pura follia e John
si sentì sbiancare in volto, ma cercò comunque di restare calmo e prendere
tempo.
"Non lo faresti davvero."
"Tu dici? In fondo ho già sparato a un poliziotto e
ora tu sai la mia identità. Se non collabori con me, dovrò proprio premere il
grilletto. E poi, a quel punto, io diventerò l'unico vero Hermes."
Dannazione. Le cose si mettevano male e John non poteva
neanche sperare nell'aiuto di George; l’amico, con molta probabilità, stava
ascoltando tutta la conversazione, incredulo, sentendosi incredibilmente
impotente. Cosa poteva fare lui ora per John?
Tuttavia, l'aiuto arrivò dalla persona da cui John poteva
aspettarsi tutto, tranne quello.
La porta della sala si spalancò e dentro irruppero tre
persone, una delle quali era...
Paul!
"Fermi. Mani in alto!" esclamò il giovane
ispettore, puntando una pistola che per John era mille volte più sicura.
Paul non avrebbe mai sparato ad altezza uomo. Ne era
certo. Lui non era folle come Brian.
Ma ora John non poteva perdersi in tali sentimentalismi,
doveva pensare piuttosto a come scappare e raggiungere il tetto. Si ricordò
della porta secondaria che aveva visto dall'altra parte della stanza. Era
un'incognita pericolosa, John non sapeva dove portasse, ma tutto era meglio
dell'altra uscita.
Così più veloce di un fulmine, approfittando della
distrazione momentanea di Brian, John scappò, correndo a perdifiato verso
quella porta.
E mentre sentiva Brian imprecare e Paul ordinare ai suoi
uomini di placcare l’impostore, John si accorse che la porta aveva una maniglia
antipanico, e l'insegna verde e luminosa in cima indicava che quella fosse
un'uscita di sicurezza.
Una sicurezza, certo, la sicurezza della salvezza di
John.
La spalancò, stringendo bene il cappello nella mano, e
spuntò sulla rampa di scale che aveva visto al suo arrivo. Era la sua giornata
fortunata.
Si precipitò su per le scale, sentendo passi concitati
dietro di lui che salivano gli scalini.
"George, ho davvero bisogno del tuo aiuto ora."
"Sto arrivando e comunque, ti ho già
aiutato."
"E in che modo?” domandò John, il respiro già
affannato, “Perché non me ne sono accorto."
"Ho mandato un sms a Paul da un numero
riservato, avvisandolo che c'erano i due Hermes nella sala della mostra."
"Ah grazie, George. Un gran bell'aiuto."
commentò John, senza poter nascondere il suo sarcasmo.
"Beh, sei ancora vivo o sbaglio?!"
Ma prima che John potesse rispondere, si udì due spari
provenire dal qualche parte da dove era venuto lui, e John saltò per lo
spavento. Cazzo!
Imprecò decisamente spaventato ora; non sapeva cosa fosse
successo, né chi avesse sparato, ma lui continuò solo a correre incurante della
fatica e del cuore che batteva come un forsennato.
"Ancora per poco, a quanto pare." esclamò John
per informare George, ancora all’ascolto.
Finalmente arrivò in cima e si affrettò a raggiungere il
tetto. Il deltaplano era fuori uso e di George neanche l’ombra.
"George, dai, cazzo. Muoviti."
sbottò, sentendo tutti i muscoli del corpo fremere per l’agitazione.
"Ci sono, ci sono."
Ma ogni secondo sembrava per John un’ora di
attesa. E quando qualcuno sopraggiunse dietro di lui, John si voltò, sentendo
l'adrenalina scorrere nelle sue vene come un fiume in piena.
"Fermati.” disse la voce di Paul.
Era una voce decisa e autorevole, ma aveva
anche, stranamente, una punta di dolcezza e questo bloccò John al proprio
posto.
“Arrenditi ora, sei in trappola.”
John osservò Paul che puntava la sua pistola
contro di lui. La mano era ancora ferma, ma si vedeva su tutto il volto di Paul
che lui non avesse alcuna intenzione di sparare.
“So che non sei stato tu, la scorsa volta, tu
non avresti mai sparato a uno dei miei poliziotti, vero?” domandò, avvicinandosi
pericolosamente a John, “Se ti arrendi ora, mi assicurerò che non ricada tra i
tuoi capi d’accusa.”
John non era proprio in grado di muoversi,
Paul si avvicinava sempre più, ancora qualche passo e avrebbe potuto scoprire
che l’uomo davanti a lui, Hermes, era proprio il suo amico John.
L’unica cosa che John potesse fare, era
sperare nel tempestivo arrivo di George. Oppure in un altro tipo di aiuto, come
l’arrivo di Brian, che sopraggiunse dietro Paul, strinse un braccio intorno al
suo collo e lo colpì in testa con il calcio della pistola.
La testa di Paul ricadde in avanti come a
peso morto.
Aveva perso i
sensi.
****
C'era un dolore acuto che continuava a inviare impulsi
fastidiosi ai suoi nervi e c'erano anche un ronzio in lontananza e un fischio
insopportabile che risuonavano nella sua testa.
Strani rumori che si intrecciavano con una voce di uomo.
"Dammi quel cappello e unisciti a me. È la tua
ultima possibilità."
"Altrimenti?" disse una voce soffocata.
"Altrimenti ucciderò l'ispettore."
Paul avrebbe voluto decisamente protestare a quella
affermazione. Non aveva molta intenzione di morire, ma d'altra parte decise di
non cercare di liberarsi, per evitare di far innervosire l'uomo e fargli
perdere la testa. Era ancora una possibilità.
"E perché dovrebbe importarmi?"
"Perché come hai detto tu, non è nel tuo stile. Vuoi
sconfiggerlo con la tua abilità, non uccidendolo. Ma se non accetti la mia
offerta, gli sparo in testa e poi darò la colpa a te."
Paul sentì il cuore aumentare il proprio ritmo. No,
doveva trovare un modo per liberarsi e salvarsi. Doveva trovare un aiuto, ma
chi?
I suoi due uomini che avevano fermato l’impostore che
fine avevano fatto? Avevano lasciato fuggire quell’uomo, allora forse era
successo loro qualcosa? Forse quel finto Hermes aveva sparato anche a loro, e
se fosse stato così, stavano bene ora?
E quanto impiegavano gli uomini dagli altri piani a
venire in suo aiuto?
Non c’era nessuno che potesse aiutarlo in quel momento, a
parte…
Ecco, forse qualcuno c'era: il vero Hermes.
Paul aprì gli occhi e subito incrociò quelli chiari della
sua preda. Lo fissò intensamente e a lungo, cercando di trovare in lui
un'umanità che Paul era sicuro lui avesse. Lo fissò come se volesse chiedergli
di ricambiare quella fiducia che lui aveva riposto nel ladro, quando aveva
subito rifiutato l'ipotesi che fosse stato lui a sparare a Mal Evans.
E l'altro uomo, suo nemico, capì.
"Va bene. Tieni." esclamò e lanciò verso di lui
il cappello di Slash.
Questo cadde ai loro piedi con un rumore metallico dovuto
alle borchie, e Paul sentì il falso Hermes ridere un po', mentre il ronzio
nella sua testa divenne sempre più vicino. Quanto forte l’aveva colpito quel
furfante?
"Ora di' che collaboreremo insieme e questo sbirro
sarà salvo."
Paul osservò il ladro di fronte a sé, mentre si mordeva
il labbro e chinava il capo.
Poi quel fastidioso ronzio divenne davvero assordante,
sembrava un rumore di eliche, anzi, più precisamente, di elicottero. E pochi
secondi dopo, dietro il vero Hermes, apparvero due fari accecanti che
abbagliarono Paul. Lui chiuse gli occhi istintivamente e forse anche
l'impostore fece la stessa cosa, perché Paul si sentì libero finalmente e cadde
a terra.
Quello che accadde dopo fu qualcosa di estremamente
concitato. Hermes si avventò sul suo doppione, atterrandolo e disarmandolo,
lanciando la pistola il più lontano possibile dall’uomo.
Paul, ancora a terra, cercò di riacquistare parte della
vista e riuscì a scorgere Hermes mentre colpiva in testa l'altro uomo, il quale
perse i sensi.
Poi il ladro recuperò in fretta il cappello di Slash e lo
indossò. E quando fece per andarsene, si voltò verso Paul e gli occhi si illuminarono,
come se dietro quella bandana stesse sorridendo, beffardo. La sua mano si mosse
verso il cappello, sollevandolo un po' mentre gli rivolgeva un profondo
inchino. Restò in quella posizione per qualche istante, come se stesse
aspettando qualcosa. Paul sbatté le palpebre confuso, incapace di muoversi:
qualcosa lo tratteneva dall'alzarsi in piedi e arrestare l'uomo a cui dava la
caccia da mesi, che ora era proprio lì, pronto per le manette e per lui. Ma
quando il ladro si accorse che Paul non aveva intenzione di fare alcunché, alzò
il busto e Paul, infine, lo guardò scappare. L'uomo si arrampicò su una
scaletta che pendeva dall'elicottero, e subito dopo sparì inghiottito
dall'oscurità della notte.
Paul scosse il capo, recuperando l’uso delle gambe e
della vista, e si alzò in piedi ancora un po' intontito. Mentre sentiva rumori
provenire dalle scale, si mosse verso il finto Hermes e lo bloccò con le
manette ai polsi. Ce l’aveva fatta. Aveva arrestato almeno uno dei due
delinquenti a cui dava la caccia, quello che senza dubbio era il più
pericoloso.
Poi, finalmente, fu raggiunto dai rinforzi.
“Sta bene, signore? Cos'è successo? Quale dei
due è questo?”
Erano tutte domande giuste in quel momento.
Eppure in quel
momento, c'era una questione più importante per cui Paul non poteva che
tormentarsi.
Questo non era stato un furto come altri fra quelli di
Hermes.
Questa volta era stato diverso.
Hermes non era scappato.
Paul gli aveva permesso di
scappare.
E volente o nolente, era una differenza importante.
(1)- Il signor François-Henri Pinault è il figlio del magnate francese François Pinault, proprietario della casa d’asta Christie’s.
Note dell’autrice: hola!Eccoci qua, oggi è venerdì, e quindi giorno di aggiornamento.
Allora, questo capitolo è un
po’ sovrannaturale. Ho cercato di rendere tutto molto realistico, ma non credo
di esserci riuscita. L Comunque la casa
d’asta Christie’s esiste davvero, così come il
grattacielo che è davvero soprannominato HelterSkelter. Ovviamente tra i molti grattacieli di Londra, non
potevo non scegliere questo. ;)
Inoltre, Slash ha davvero
messo all’asta tutti quegli oggetti per beneficienza. E sì, c’erano anche i
dinosauri. xD
Tutto il resto è inventato.
Ho inserito anche Brian, mi
sembrava adatto a essere il fanatico di Hermes. Cucciolo lui. :3
Bene, grazie a kiki per la correzione. Grazie a ringostarrismybeatle,
per il supporto ma anche perché è merito suo se ho scelto i Guns’n’roses
per questi due capitoli, e mi ha anche corretto il modo di scrivere del gruppo.
Grazie a _SillyLoveSongs_ che mi incoraggia sempre
moltissimo. :3
E grazie a paulmccartneyismylove,
lety_beatle e ChiaraLennonGirl
per le dolci parole.
John sorrise, mentre allacciava il giubbottino di jeans
di Julian, pensando che suo figlio fosse davvero sveglio e che indubbiamente
avesse ragione: era sempre un bravo bambino.
Quando la cerniera della giacchetta fu totalmente chiusa,
John lo guardò soddisfatto e divertito. Stava benissimo con i vestiti nuovi che
gli aveva regalato la mamma nell’ultima visita che le avevano fatto a fine
giugno: indossava un bel paio di jeans blu scuro, abbinati al giubbino senza
maniche, sotto cui vi era una maglietta bianca con una bella stampa di una
chitarra elettrica e un fumetto con la scritta “Il mio papà spacca”.
“Hai ragione, amore, ma oggi ancora di più, va bene?
Niente capricci. Se Paul dice che non puoi toccare la macchina o che è arrivato
il momento di andare, noi obbediamo e ce ne andiamo, giusto?”
“Va bene.” rispose Julian distrattamente, dal momento che li aveva
appena raggiunti il loro micio dal pelo tutto bianco e aveva iniziato a
strusciarsi contro le gambe di Julian, strappando i suoi sorrisi.
John gli scompigliò
affettuosamente i capelli e poi indossò la sua giacca, controllando di avere
tutto il necessario nelle tasche: fazzoletti, portafogli, fotocamera,
cellulare… sì, c’era tutto. Guardò anche l’ora: mancavano dieci minuti
all’appuntamento con Paul alla stazione di polizia di Chelsea. Era decisamente
il momento di avviarsi.
“Andiamo,
Jules, di’ ciao ciao a Elvis.”
“Ciao
ciao, Elvis!” ripeté il bambino, accovacciandosi per regalargli un’ultima
carezza sulla testolina, "Torniamo presto, quindi stai tranquillo."
Poi
John prese la sua mano e insieme uscirono di casa.
Era
il pomeriggio di una bellissima domenica di
luglio, il negozio di John era chiuso e lui stava andando con Julian verso il
luogo in cui lavorava Paul, perché l'ispettore aveva promesso che avrebbe fatto
salire il bambino su una macchina della polizia. E quale momento migliore della
domenica, quando molto agenti erano in servizio per strada e in stazione
rimaneva solo un numero di poliziotti sufficiente a garantire qualunque
emergenza?
Quando
Paul aveva avanzato quella proposta qualche giorno prima, John aveva
inizialmente rifiutato. L’idea di dover andare di sua spontanea volontà in una
stazione di polizia non era poi così allettante. Una volta non vi avrebbe dato
molto peso, ma ora, dopo quanto successo all’HelterSkelter, dopo essere stato quasi
scoperto da Paul, le cose erano cambiate.
Non
era sicuro di poter sopportare ancora la pressione di essere circondato da
agenti di polizia, o la visione di Paul, il suo amico Paul, nelle vesti
di quell’ispettore che compariva sempre per dare la caccia al suo alter ego.
Eppure
aveva accettato per fare felice Julian e perché era sicuro che sarebbe stato
lui, come sempre, a dargli un appiglio, a rendere tutto più facile. Era il suo
angelo, dopotutto.
Così
quando arrivarono di fronte alla stazione di polizia, in Walton
Street, John si fermò un istante e fissò l’edificio in stile Vittoriano. Era
così imponente e austero, incuteva timore solo con quella sua facciata
rigorosa.
“Siamo
arrivati?” chiese Julian, notando che il padre non avesse intenzione di
muoversi.
John
si ridestò, sentendo la voce del figlio, e abbassò il capo per guardarlo, “Sì,
siamo arrivati. Hai visto quante macchine della polizia?”
Indicò
con una mano le auto che erano parcheggiate proprio lì di fronte e Julian
sorrise felice, quando le vide, una dietro l’altra, tutte belle scintillanti,
con le loro sirene sui tettucci e le strisce catarifrangenti sulle fiancate.
“Possiamo
vederle subito?”
“Eh
no, prima andiamo a vedere cosa fa Paul, così poi sarà lui a farti salire su
una di queste, ok?”
“Ok.”
concordò lui tranquillamente.
John
strinse più forte la mano di Julian e dopo aver attraversato la strada,
finalmente i due si ritrovarono all’ingresso dell’edificio. Salirono
velocemente i gradini della breve scalinata che conduceva all’interno e poi
furono inghiottiti dal trambusto della stazione di polizia: telefoni che
squillavano in continuazione, agenti che si affrettavano da una parte
all’altra, pieni di documenti, e-
“Paul!”
Il
giovane ispettore era appena passato davanti ai loro occhi. Sembrava
particolarmente indaffarato, ma John lo chiamò senza neanche rendersene conto,
quasi fosse stato più forte di lui. E Paul si voltò, riconoscendo e
avvicinandosi subito ai due Lennon.
“Ehi,
ciao, siete arrivati.” esclamò, sorridendo a John e poi, chinandosi per una
carezza ai capelli di Julian.
“Sì,
abbiamo scelto un brutto momento?” domandò John, incerto.
“Oh,
no, no, cioè, più o meno." si affrettò a spiegare Paul, "Pensavo che
non ci sarebbe stato molto da fare, visto che è domenica, ma naturalmente non è
andata come speravo.”
“Cos’è
successo?”
“Uno
scontro frontale vicino al Chelsea Physic Garden, un
paio di ore fa." sospirò Paul, "Sono stati coinvolti anche diversi
veicoli, per cui ho dovuto mandare un paio di squadre ad aiutare con il
traffico, mentre i paramedici prestavano soccorso ai feriti.”
“Quanto
è stato grave?” chiese John interessato.
“Non
molto, per fortuna non ci sono state vittime. Adesso stiamo aspettando che
rimuovano le vetture incidentate per sgomberare la strada.”
John
annuì, comprendendo pienamente la situazione, “Se sei impegnato, possiamo
tornare un altro giorno.”
“No,
il mio turno sta per finire e poi arriva il capo, per cui sono libero.” esclamò
Paul, fiducioso, “Perché non mi aspettate nel mio ufficio? Arrivo tra cinque
minuti.”
“D’accordo.
Dove-?” iniziò a dire John, ma Paul subito lo interruppe.
Si
avvicinò di un passo verso di lui, per indicargli l’ultima porta a destra in
fondo al corridoio che si stendeva di fronte a loro. Poi disse loro di
accomodarsi pure, mentre lo aspettavano, e sparì dietro una porta, in un
ufficio dove il telefono squillava prepotentemente.
John
prese un profondo respiro: quel corridoio era stretto, o forse erano i
poliziotti che continuavano a passare in quel tratto a renderlo stretto. Una
situazione potenzialmente claustrofobica.
Decise
di poter attraversare quel corridoio solo in un modo: prendendo in braccio suo
figlio. Era la sua ancora, il bastone a cui aggrapparsi quando non aveva
energie, era lo scudo che lo proteggeva da qualunque male, era forza, era
coraggio, era amore.
E
con Julian stretto tra le sue braccia, John si inoltrò in quel corridoio che
sembrava oh, così lungo, quasi interminabile, ma alla fine arrivò in
fondo e quando vide la porta aperta dell’ufficio di Paul, entrò velocemente e
si lasciò andare in un grande sospiro di sollievo.
L’ufficio
di Paul non era molto grande. C’era una scrivania a forma di L accostata al
muro dal lato più corto. Sopra vi erano appoggiati un computer con una
stampante e un telefono. L’altro lato della stanza era interamente coperto da
librerie i cui scaffali erano pieni zeppi di raccoglitori di ogni dimensione,
anch’essi traboccanti di documenti.
John
si sedette di fronte alla scrivania, insieme a Julian.
“Bene,
allora, Jules, adesso non dobbiamo toccare nulla, ok?” lo mise in guardia John.
“Sì,
papà.”
John
lasciò andare il bambino che si arrampicò sulla sedia accanto a lui. Poi il suo
sguardo cadde sulla scrivania di Paul: oltre a svariate cartellette contenenti
documenti di lavoro, vi era una piccola targhetta proprio di fronte a lui, in
ottone, che riportava in caratteri più scuri, J.P. McCartney.
J stava
per James. Ovviamente Paul non glielo aveva detto, portare lo stesso nome di
suo padre non doveva essere cosa gradita per lui, ma John l’aveva saputo: Jim
gli aveva spiegato che tramandare il nome del padre al primogenito fosse
un’usanza molto frequente nella sua famiglia.
Il
suo sguardo cadde poi su una cornice che era in un angolo della scrivania. John
era certo riguardo chi avrebbe trovato all’interno, ma allungò comunque la mano
per afferrarla. La foto ritraeva una ragazza incredibilmente bella, con lunghi
capelli rossi, in una posa un po’ sfacciata, con le mani sui fianchi, il viso sollevato
all’insù e il naso arricciato: Jane Asher, la fidanzata di Paul.
Beh,
John l'aveva già vista in altre occasioni, in televisione o nei giornali
esposti quando andava in edicola.
Era
senza dubbio perfetta per stare accanto a Paul, entrambi giovani, entrambi
belli... Eppure qualcosa gli faceva storcere il naso. Ancora non comprendeva
come quella relazione potesse andare avanti. Ovviamente Paul era innamorato, ma
rischiava di essere una relazione con un attaccamento a senso unico. Non che
Jane non lo amasse, ma-
"Papà,
hai detto che non dovevamo toccare niente!" lo rimproverò Julian.
John
sussultò e poi, rendendosi conto che il bambino avesse ragione, sistemò la
cornice al proprio posto, lasciandosi scappare una risata.
Si
concentrò allora su quelle cartellette proprio di fronte la sedia di Paul. Tra
tutti i documenti c'era anche un quotidiano che spuntava sotto tutto il resto.
Sembrava aperto su una pagina di cronaca che riportava un articolo sull'arresto
del finto Hermes.
Quante
cazzate avevano scritto in quell'articolo! John l'aveva letto, come poteva
lasciarselo scappare? C'erano complimenti a profusione verso Paul e la sua
squadra per aver arrestato quell'impostore. Come se John non avesse nulla a che
fare con quell'arresto. Poi però doveva riconoscere a Paul che fosse stato
corretto, perché in una sua dichiarazione aveva ammesso di aver avuto un
importante aiuto proprio da parte del vero Hermes.
Forse,
ora, Paul lo odiava di meno.
Ma
era davvero così importante, quello che Paul pensava del suo alter ego?
Sì,
era importante, perché Hermes era parte di John ormai, così radicato dentro di
sé, che forse lui non avrebbe più potuto farne a meno. Eppure, un giorno,
chissà quanto lontano, sarebbe successo, non poteva continuare a rubare per
tutta la vita.
Allora
fino a quando? Fino a quando Paul non fosse stato sollevato dal suo incarico? O
prima? Ma prima quando?
“Eccomi
qui.”
La
voce di Paul lo fece quasi balzare sulla sedia. John era così immerso nelle sue
innumerevoli, infinite domande, che neanche si era accorto dei suoi passi che
si avvicinavano, ma fu felice che il suo arrivo l’avesse distolto da quei
pensieri che non portavano da nessuna parte.
“Ti
ho spaventato, John?” domandò Paul, divertito.
“Oh,
no.”mentì lui, voltandosi verso Paul, e
dandosi una sistemata, “No, ero solo sovrappensiero.”
Paul
rise dolcemente, prima di rivolgersi a Julian e porgergli una mano, “Allora,
piccolo, vogliamo andare?”
"Sì!"
John
guardò il bambino balzare a terra entusiasta e raggiungere Paul, il quale lo
prese per mano e si voltò poi verso l’altro uomo, "Vieni anche tu,
John?"
"Ma
certo." rispose e si affrettò a raggiungerli.
Paul
chiuse a chiave il suo ufficio, quando uscirono, e condusse i suoi due ospiti
dall'altra parte del corridoio. In quel momento, anche se John era di nuovo
circondato da poliziotti, si sentì al sicuro, e questa volta non era
solo grazie alla presenza di Julian.
Era
anche grazie a Paul.
Paul
lo faceva sentire in quel modo, come se niente di male potesse capitargli, come
se fossero in quella sala del grattacielo e John avesse ancora una pistola
puntata contro.
Ma
no, si sbagliava, doveva sbagliarsi. Non poteva essere Paul, lo stesso che da
qualche mese per lui significava tutto tranne che sicurezza. Ovviamente John
era rimasto sconvolto da quanto accaduto con quel pazzo di Brian Epstein.
Doveva essere questo a causargli tutti questi turbamenti, queste riflessioni,
queste domande del cazzo!
Prima
di uscire da una porta che dava sul cortile sul retro, Paul si fermò per un
istante in una stanza. Entrò portando con sé anche Julian e John sbirciò
all'interno, allungando il collo: c'era una ragazza in divisa alla scrivania,
aveva capelli lunghi e biondi e un bel viso lentigginoso, ed era tutta intenta
a compilare a mano una serie di documenti. Quando si accorse di Paul, si alzò
in piedi, e Paul le disse gentilmente di accomodarsi.
Poi
si avvicinò a una parete a cui erano appesi numerosi mazzi di chiavi e ne
afferrò uno. La ragazza lo guardò sconcertata, soprattutto quando Paul prese
anche il suo cappello appoggiato sulla scrivania, e portandosi un dito sulle
labbra come a volerle dire ‘Acqua in bocca’, uscì.
John
lo seguì in fretta ed emise un gran sospiro di sollievo quando furono
finalmente all'aperto, con l’aria fresca, senza tutti quegli uomini e quelle
donne che indossavano uniformi che proprio non volevano lasciarlo tranquillo.
"Wow!"
esclamò Julian e John non impiegò molto tempo a capire il motivo della sua
meraviglia.
Il
cortile sul retro era pieno di macchine della polizia parcheggiate, in attesa di
essere utilizzate. La maggior parte di esse erano le classiche auto che si
potevano facilmente incontrare per strada.
"Ti
piacciono?" domandò Paul, mentre li conduceva verso la macchina più
vicina.
"Sì,
tantissimo."
Julian,
come faceva sempre quando era elettrizzato, si mise a correre e Paul cercò di
stare al passo e contenere, senza successo, il suo entusiasmo. Quando
raggiunsero l’auto, il bambino lasciò la mano di Paul e toccò il cofano,
cercando poi John con lo sguardo.
"Guarda,
papà, è come quella piccolina che mi ha dato la mamma."
John
gli sorrise e annuì. Era davvero molto simile: un'elegante macchina bianca con
le strisce catarifrangenti gialle e arancioni sulle fiancante e le sirene blu
sul tettuccio.
"Ma
in quella non puoi salirci, giusto?" esclamò Paul, facendogli l'occhiolino
mentre apriva la portiera del conducente.
Gli
occhi di Julian brillarono e lui corse subito verso Paul, che nel frattempo si
era seduto. John si avvicinò, appoggiandosi con la schiena alla macchina
vicina, mentre osservava Paul che prendeva in braccio Julian e lo sistemava sul
suo grembo.
"Possiamo
andare in giro?" chiese Julian ansioso.
"Purtroppo
no, ma possiamo stare qui per un po', come veri poliziotti."
Julian
guardò il padre mettendo il broncio, e John gli rivolse un'occhiata
emblematica, che gli ricordò l'avvertimento messo in chiaro prima di uscire. Niente
capricci.
Il
bambino sembrò capire e Paul cercò di tirarlo su di morale, "Sai cosa deve
avere un vero poliziotto, Julian?"
"La
pistola?"
Paul
sbatté le palpebre, totalmente preso in contropiede, e guardò John che intanto
rideva per la risposta sveglia del figlio.
"Sì,
anche, ma soprattutto deve avere un bel… cappello!" esclamò Paul e
sistemò rapidamente sulla testolina di Julian il cappello che aveva rubato alla
bella ragazza di prima.
La
risata cristallina di Julian riempì l'abitacolo della vettura, mentre lui
cercava di guardare in alto il cappello. Tuttavia questo era troppo grande per
lui e ricadde sul suo volto. Paul, divertito, lo aggiustò e guardò John.
"Ora
che sei un vero poliziotto, fatti vedere da papà."
E
mentre Paul lo faceva voltare verso John, Julian portò le mani sul cappello:
come ogni bambino, anche lui doveva toccare per soddisfare la propria curiosità.
"Papà,
come sto?"
John
si morse il labbro nervosamente. Vedere quel capo particolare su suo figlio gli
fece un certo effetto. Da una parte lo agitava tremendamente: sembrava proprio
un piccolo poliziotto, pronto magari a dare la caccia a lui. Tuttavia, dall’altra
parte, non poteva non trovarlo adorabile. Julian stava bene con tutto, anche
con quel cappello.
"Stai
benissimo, amore." disse infine.
Julian
sorrise compiaciuto, prima di dedicare tutte le sue attenzioni a Paul che
iniziò a spiegargli cosa fossero tutti quei pulsanti e quelle spie sul
cruscotto oltre a cosa servissero la ricetrasmittente e la radio della polizia.
John notò con piacere che il bambino fosse incredibilmente interessato e
ascoltava in silenzio il giovane ispettore, il quale sembrava anch'egli
coinvolto da quel compito così particolare.
Paul
era felice. Lo si capiva da come sorrideva, dagli occhi che brillavano per la
gioia, da tante piccole cose nel suo corpo che trasmettevano così tanti
sentimenti positivi. John non sapeva a cosa fosse dovuto, non l'aveva mai visto
così entusiasta di vivere. E quella visione era talmente unica che John non
poté trattenersi dal prendere la sua macchina fotografica e scattare istantanee
di quei momenti felici, fra Paul e Julian, mentre chiacchieravano e facevano
finta di guidare per inseguire un malvivente, con le manine del bambino sul
volante coperte da quelle dell'uomo.
“E
questa…” continuò a dire Paul, portando una mano verso l’alto per indicare la
plafoniera delle luci sopra al tettuccio, “E’ la sirena.”
“Quella
che fa-” iniziò a chiedere Julian, facendo poi il verso della sirena
della polizia.
“Proprio
quella.” esclamò Paul con una risata deliziata.
“Posso
sentirla?”
Paul
aggrottò la fronte, incerto e dispiaciuto, “Beh, teoricamente non si potrebbe.”
“Poco
poco, ti prego.”
“Julian,
non insistere.” intervenne John con tono decisamente autoritario.
Il
bambino chinò il capo assumendo un’espressione mogia, mentre Paul lo guardò
titubante per pochi istanti prima di aggiungere, “Forse però possiamo accenderla
solo per qualche secondo…”
L’espressione
di Julian cambiò drasticamente, ma John si affrettò a protestare, “Paul, non
c’è bisogno, se non si può, non fa niente, davvero.”
“Non
ti preoccupare, per qualche istante non accadrà nulla, giusto, Julian?”
Il bambino
si voltò verso di lui, annuendo e guardandolo ansioso, mentre Paul alzava una
mano verso la plafoniera delle luci.
“Vi
conviene però tapparvi le orecchie, se volete salvare i timpani.” esclamò Paul
e una volta che John e Julian seguirono il suo consiglio, premette il pulsante
della sirena.
Il
suono che seguì fu in assoluto uno dei più acuti, penetranti e fastidiosi che
John avesse mai sentito. Perciò schiacciò maggiormente le mani sulle orecchie,
assicurandosi che anche Julian facesse la stessa cosa. La sirena risuonò nel
cortile per qualche secondo, prima che Paul la spegnesse, ma il silenzio durò
ben poco.
“E’
stato bellissimo!” esclamò Julian divertito.
“Cosa
devi dire ora a Paul che è stato così gentile?” gli domandò dolcemente John.
“Grazie,
Paul.”
“Non
c’è di che, piccolo.” rispose Paul, accarezzandogli i capelli.
Poi,
all’improvviso, una voce attirò la loro attenzione, “Signore, tutto bene?”
John
guardò verso la porta da cui erano usciti pochi minuti prima: proprio lì c’era
la ragazza in divisa che avevano visto prima, e guardava preoccupata verso di
loro.
“Sì,
Linda, tutto a posto.” esclamò Paul e con attenzione fece scendere Julian dalla
macchina.
Chiuse
a chiave la portiera dell’auto, recuperò il cappello dalla testa del bambino e
si affrettò a raggiungere la giovane donna. John tenne Julian vicino a sé,
mentre osservava Paul parlare con la donna e restituirle cappello e chiavi.
Infine il giovane ispettore la salutò con un gran sorriso e tornò da loro.
“Allora,
Julian, ti è piaciuta la nostra macchina?” domandò Paul, accovacciandosi per
essere allo stesso livello del bambino.
Julian
sorrise e annuì freneticamente, “Moltissimo.”
“Da
grande saresti un perfetto poliziotto, lo sai?”
John
fece molta fatica a trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo a
quell’affermazione, ma in qualche modo ci riuscì. Julian come poliziotto? No,
non l’avrebbe mai permesso, e non perché i poliziotti fossero suoi nemici, ma
perché John aveva visto e vissuto sulla propria pelle quanto potesse essere
pericoloso come lavoro. Non desiderava davvero che suo figlio corresse dei
rischi per colpa di qualche folle come era capitato a Paul con Brian.
“Io
però voglio fare il lavoro di papà.” rispose Julian e John ne fu così
sollevato, che prese il bambino in braccio per stringerlo e baciarlo sulla
guancia.
“Ecco,
ben detto, Jules.”
“Beh,
allora speriamo che sia più intransigente se qualcuno viene a rubare nel
negozio.” commentò Paul, ricordando quanto accaduto nel primo incontro con John
e ammiccando nella sua direzione.
“Sarà
indubbiamente così.” ribatté l’uomo, ridendo dopo aver colto l’occhiolino di
Paul, “Comunque, Paul, grazie mille per questa opportunità che ci hai dato
oggi. Julian ci teneva molto.”
“Figurati,
è stato un piacere.”
Paul
sorrise dolcemente e John lo guardò solo per un istante, prima di parlare
nuovamente e dire qualcosa che lo turbò non poco, “Senti, se non hai niente da
fare, perché non vieni con noi a prendere un gelato?”
“Oh,
sì, dai, ti prego.” intervenne Julian accorato.
Paul,
sorpreso, osservò entrambi prima di rispondere con una risata.
“Se
insistete…”
****
Il
sole del pomeriggio era caldo, piacevole, dolce sul viso.
John
e Paul erano seduti su una panchina, all’ombra di una grande quercia, mentre
entrambi osservavano Julian che si arrampicava con altri bambini sui giochi del
parco. Avevano appena terminato di mangiare il loro gelato, anche se a voler
essere precisi, John aveva dovuto terminare quello di Julian, che appena
accortosi di altalene, scivoli, dondoli e quant’altro nel parco, aveva subito perso
tutto il suo interesse per il gelato ed era corso a giocare.
Ora
John seguiva attentamente tutti i movimenti di Julian, controllando che non
facesse passi falsi e quindi cadesse.
“Non
gli togli gli occhi di dosso, vero?” domandò improvvisamente Paul.
John
si voltò un istante per guardarlo, mentre scuoteva il capo, prima di tornare a
controllare Julian, “Lo sai, non posso permettere che gli accada qualcosa, così
come non posso permettere che accada qualcosa a me. Siamo solo in due, ormai, a
prenderci cura l’uno dell’altro. Non posso abbandonare il mio bambino come ha
fatto sua madre, e soprattutto non può lasciarmi anche lui. Non lo
sopporterei.”
Paul
si spostò sulla panchina, per voltarsi meglio verso John.
“Vedrai
che non capiterà mai niente di simile, John, Julian è un bravo bambino e tu sei
un ottimo padre.”
John
sbuffò, come se trovasse l’ultima affermazione di Paul assolutamente ridicola.
“Sì,
come no…”
“Dico
sul serio, John, secondo me dovrebbero esserci più padri come te. La tua vita
da genitore single non è facile, ma tu lo ami tantissimo e stai facendo di
tutto per non far mancare nulla a tuo figlio. Il tuo impegno è così evidente,
si nota chiaramente.”
John
si sentì arrossire: non era abituato a ricevere complimenti, e riceverli da
Paul sull’aspetto più importante della sua vita, era indubbiamente
gratificante. Perciò si voltò ancora verso di lui e gli sorrise, questa volta
soffermandosi un po’ di più a guardarlo negli occhi che trasmettevano così
tanto coraggio e fiducia.
“Ciao,
John.”disse una voce, interrompendo
quel contatto visivo.
John
si voltò subito e Paul lo seguì con lo sguardo. Poco più in là, vicino alla
scivolo sopra cui giocava Julian, c’era una donna che teneva per mano una
bambina: la donna era minuta, con lunghi capelli neri, e la cosa che colpì
maggiormente Paul, furono i lineamenti orientali del viso, lineamenti che si
potevano intravedere anche sul volto della bambina, molto probabilmente sua
figlia. La posa della donna trasmetteva molta insicurezza e timidezza, e John
la salutò calorosamente con la mano e soprattutto con un gran sorriso. Lei
parve compiaciuta per la sua risposta e gli rivolse un ultimo cenno del capo,
prima di andare via con la bambina.
“Chi
è?” domandò Paul sinceramente interessato.
"La
mamma di una compagna d'asilo di Julian. Si chiama Yoko, mentre la bambina che
era con lei è sua figlia Kyoko."
"Yoko?”
ripeté Paul, “È giapponese?"
"Esatto.”
rispose John, “Vive qui da un paio di anni. So che prima era negli Stati Uniti.
Lì ha conosciuto il padre di sua figlia, si è sposata, ma dopo la nascita di Kyoko si sono separati perché le cose non funzionavano, e
lei si è trasferita qui con la bambina."
"Capisco.”
disse Paul, annuendo distrattamente, “Quindi è un genitore single anche
lei."
John
scrollò le spalle, "Che io sappia, sì."
"E
tu vorresti..." iniziò Paul lasciando la frase in sospeso, nell’aria.
"Io
vorrei cosa?" domandò John, aggrottando la fronte con evidente
perplessità.
"Sì,
dai, hai capito." tagliò corto Paul, sentendosi arrossire lievemente.
Non capiva
bene il motivo di quel rossore, forse era solo perché quella era la prima volta
che Paul parlava con lui di quell’aspetto della sua vita, e John non sembrava
voler rendere la cosa più facile.
"No,
non credo."
"Oh,
insomma.” sospirò Paul, rassegnato, “Vorresti chiederle di uscire con te?"
John
sbatté le palpebre assolutamente confuso. Non aveva mai pensato a questa
opportunità. Forse perché non pensava di poter trovare qualcuno che potesse
sostituire Cynthia sia per se stesso sia per Julian. E comunque non pensava di
trovarlo frequentando altri genitori single. No, genitori single significavano
altri problemi, problemi che potevano essere simili ai suoi, o anche più gravi,
ma erano sempre problemi e John non aveva davvero voglia di affrontarne altri o
addirittura farsene carico. Ne aveva già troppi per conto suo.
E a
pensarci bene, non aveva neanche tempo da dedicare a una possibile relazione.
Tra il negozio, il tempo trascorso con suo figlio, le lezioni con Paul e il suo
secondo "lavoro"... Beh, sarebbe stato dannatamente difficile
incastrare anche quest’altro tipo di impegno.
"No."
“Perché?”
“Non
posso.” spiegò John.
“Ma
non c’è stato più nessuno dopo Cynthia.” insistette Paul, “Non puoi continuare
a stare da solo.”
“Un
giorno, forse, ci penserò.” ribatté John, sperando di terminare al più presto
quel discorso, “Ma ora anche se volessi, non avrei tempo.”
Paul
sospirò, “Il tempo per queste cose si trova sempre, John.”
John
sgranò gli occhi, voltandosi verso Paul giusto in tempo per ricevere uno dei
suoi più sfacciati occhiolini.
“Ti
hanno mai detto che sei proprio un rompiscatole?” gli domandò, trattenendo a
fatica un sorriso.
Paul
scoppiò a ridere e fece cenno di no con la testa.
John
non sapeva perché in quel momento, proprio in quel momento pensò che quella che
stava vivendo fosse davvero una splendida giornata.
“E
tu?” domandò poi John.
“Io
cosa?” ribatté Paul, diventando subito perplesso.
“Come
mai sei così felice ultimamente?”
Paul
inarcò un sopracciglio, molto compiaciuto, “L’hai notato, eh?”
“Direi
che fosse impossibile non notarlo. Sprizzi gioia da tutti i pori. In effetti,
sei tutto l’opposto di quando ti ho incontrato.” commentò John.
“Non
è vero.” protestò Paul, mettendo il broncio.
“Sì,
invece.” ribatté John,divertito, “Eri
molto serio e scostante, tutto abbottonato e riservato. E ora invece, sei così
diverso.”
“Ed
è un bene?”
“Certo,
non trovi?”
“Sì.”
rispose Paul, annuendo.
“Perciò
volevo sapere per quale motivo tu fossi così felice.”
“Beh,
in realtà è molto semplice." rispose Paul, chinando il capo e sorridendo
perché John aveva notato il suo cambiamento, "Pochi giorni fa Jane mi ha
detto che dopodomani sarà a Londra. Sta per uscire il film che hanno girato in
America, quindi avrà delle conferenze e interviste e poi c’è la premiere qui. Sarà
molto impegnata, è vero, ma almeno sarà con me.”
John
annuì, “Capisco. Mi fa davvero piacere, Paul.”
“Ti
ringrazio.”affermò il giovane, “E poi
ovviamente anche il lavoro ha influenzato.”
“In
che modo?” domandò John, più interessato, e Paul lo guardò maliziosamente.
“Ho
arrestato il finto Hermes, no?”
John
rimase totalmente apatico per un istante, sorpreso di essere giunto così
all'improvviso a un argomento tanto pericoloso per lui da trattare con Paul.
Una volta sarebbe stato più sfrontato e felice di parlare con l'ispettore del
suo lavoro. Tuttavia ora quel senso di colpa, perché ammettiamolo, di questo si
trattava, rendeva tutta questa situazione più complicata, e John cominciò a
pensare che gli stesse sfuggendo di mano.
"Oh
sì, certo." si affrettò a rispondere, "L’ho letto sul giornale.
Complimenti. È stata una gran bella svolta.”
“Grazie."
esclamò Paul, sorridendo soddisfatto del complimento, "Non si tratta del
vero Hermes, sai, ma sono comunque soddisfatto. Era molto più pericoloso.”
“In
che senso?”
“Penso
che abbia dei seri problemi di tipo mentale. E devo ammettere che se non fosse
intervenuto il vero Hermes, a quest’ora potevo anche essere morto per colpa di
quell’impostore.”
“Oh
cazzo." commentò John, cercando di sembrare più sorpreso che poteva,
"Quindi è vero che quel ladro ti ha salvato la vita?”
“Ecco…"
iniziò a spiegare Paul, mordendosi il labbro, "Sì, in un certo senso, sì.
Avrebbe potuto non farlo, ma l’ha fatto, credo proprio che l’abbia voluto
fare. E poi io l’ho lasciato scappare.”
“L’hai
lasciato scappare?”
Paul
annuì, pensieroso, “Avrei potuto arrestare anche lui quella sera. C’è stato un
momento in cui era proprio lì, di fronte a me e forse anche lui stava
aspettando che io lo arrestassi. Ma poi io non mi sono mosso, sono rimasto
fermo e così come lui ha voluto salvarmi, io ho voluto lasciarlo andare.”
“Beh,
questo è strano. È davvero molto strano da parte tua.” constatò John
impressionato.
“Lo
so, e sono stato anche ripreso dall’ispettore Starkey per questo motivo, ma è
stato più forte di me. Non potevo arrestarlo, non quella sera.” affermò Paul,
scuotendo impotente il capo.
E
quella sensazione di Paul di avere a che fare con qualcosa che non conosceva,
qualcosa più grande di lui, fu ciò che spinse John a continuare quel discorso,
pericoloso sì, ma mai così interessante.
“Perché?”
“Perché
gli ero grato.” rispose Paul con certezza e sincerità.
“E
quindi, ora che ti ha salvato la vita, lo odi un po’ di meno?”
Paul
si morse il labbro, prima di guardare John, “Non lo so.”
John
si accorse del suo turbamento e si maledisse per aver posto quella stupida
domanda. Paul era così spensierato fino a pochi minuti prima che l’ultima cosa
che John volesse fare era rovinare quello stato d’animo che lo rendeva così
incredibilmente… bello!
Non
che John lo trovasse affascinante come avrebbe potuto fare Jane, per carità, ma
bello era la parola giusta da usare in quel caso. Era bello per come
rideva, per come aveva scherzato con Julian e poco prima con John, era bello
per ogni sua espressione.
Ecco.
In quella bella giornata di sole, Paul per John era assolutamente bello.
Così
John cercò di salvarlo ancora una volta, provando ad allontanare questa
sensazione di incertezza che si era creata in Paul. Niente doveva rovinare
quella giornata.
“Scusa,
è una domanda stupida.” si affrettò a dire, “Non farci caso.”
“Ma-”
“Ma
niente. Ora devi solo pensare ad arrestarlo, giusto? E visto che ci sei andato
così vicino, penso che non manchi molto. La prossima volta andrà meglio.”
Coglione!
Ecco
cos'era John.
Si
diede tranquillamente del coglione e con un buon motivo. Cosa cazzo stava
succedendo? Perché aveva detto quelle cose? Perché continuava a incoraggiare
Paul contro il suo stesso bene?
Perché?
Non
ne aveva motivo. Lui era il nemico di Hermes e John doveva pensare prima di
tutto al bene del suo alter ego, non a quello di Paul.
Eppure
c'era una risposta a quella domanda, una molto valida.
Il
sorriso fiducioso che Paul gli rivolse subito dopo fu esattamente il motivo per
cui John avesse detto tutte quelle cose. Ne era valsa la pena, oh sì.
John
lo sentiva con ogni fibra del suo corpo, con il suo cuore che fece un piccolo
balzo, sentiva che era stata la cosa giusta da fare, solo per vedere ancora
quella bellezza in Paul.
“Grazie,
John.”
E la
realizzazione lo turbò non poco, anzi abbastanza da farlo sentire totalmente in
imbarazzo.
"Prego."
borbottò infastidito, non contro Paul, ma contro se stesso, "E non farlo
mai più.”
“Cosa?”
“Lasciarmi
rovinare una bella giornata come questa.”
Paul
rise e John, prima che potesse arrossire ancora sotto il suo sguardo così pieno
di gratitudine, amicizia, calore, tornò a controllare Julian.
“Lo
sai, penso che potremmo migliorare ancora di
più questa bella giornata.” commentò Paul, ritrovando tutto il suo entusiasmo.
“Come?”
“Perché
non noleggiamo un film, prendiamo da mangiare del cibo spazzatura e andiamo a
casa mia?” propose Paul.
“A
casa tua?” domandò John, incerto.
“Sì,
così vedrete che Pepper è ancora vivo.”
John
si lasciò scappare una risata, “In effetti, Julian era preoccupato. E a me
manca un po’ di buon cibo spazzatura.”
“Allora,
ci stai?”
La
felicità, la bellezza di Paul erano così contagiose che John non ebbe altra
scelta.
“Se
insisti…”
****
Le
note di Beyond the sea risuonavano nel
salotto, mentre i titoli di coda di Alla ricerca di Nemo scorrevano nel
televisore.
Avevano
scelto proprio quel film perché era il preferito di Julian, e John, sorridendo
a mo' di scusa verso Paul, lo aveva accontentato, anche se a quanto pareva
ormai sapeva anche lui tutte le battute del film. Dopodiché erano passati da
McDonald's per comprare cheeseburger e patatine a volontà e infine avevano raggiunto
la casa di Paul. Qui Paul, aiutato da Julian, aveva dato da mangiare a Pepper e
mentre il bambino giocava con lui, i due uomini avevano sistemato la loro cena
in salotto, davanti al televisore.
Avevano
mangiato e poi riso e sofferto insieme ai personaggi del film, e ora che era
finito, Paul sospirò soddisfatto. Non aveva mai visto quel film e doveva
ammettere che gli fosse piaciuto. Quasi capiva perché a Julian piacesse tanto.
In fondo lui era un po' come Nemo, che viveva con un papà affettuoso, premuroso
e sì, decisamente ansioso. Forse John non lo dava a vedere come il papà di
Nemo, ma Paul sapeva che John avrebbe fatto di tutto per Julian e che era allo
stesso modo spaventato che potesse capitare qualcosa al bambino.
A
quel pensiero, Paul si voltò alla sua sinistra e un sorriso nacque
spontaneamente sul suo volto: Julian dormiva rannicchiato tra lui e John e
anche quest'ultimo sembrava profondamente addormentato, la testa era ricaduta
verso destra e la sua mano era appoggiata sulle gambe del bambino.
Paul
si mosse appena per sistemarsi su un fianco e guardarli meglio. Era inutile
dire che Julian sembrasse un angelo mentre dormiva. Dopotutto lui lo era sempre
con quei capelli chiari e fini e quei lineamenti dolci. Mentre John... John
dormiva così pacificamente che davvero non sembrava che potesse talvolta essere
tanto arguto e beffardo da sveglio. Paul avrebbe voluto che John potesse essere
sempre così tranquillo, come se non avesse problemi, nessuna preoccupazione sul
futuro o su che tipo di padre fosse per Julian, su tutto insomma.
Avrebbe
voluto che John potesse passare delle belle giornate come quella appena
trascorsa per sempre. Lui lo meritava e Paul promise a se stesso che avrebbe
cercato di contribuire, nei limiti delle sue possibilità.
Poi
sospirando, Paul allungò una mano e cercò di scuotere dolcemente la spalla di
John, sussurrando il suo nome.
Come
risposta, John chiuse ancor di più gli occhi, mormorando in segno di protesta
verso chiunque stesse cercando di svegliarlo. Ma Paul rise e insistette nel suo
compito, fino a quando John non aprì i suoi occhi chiari che incrociarono
subito quelli più scuri di Paul.
"Buongiorno."
John
fece una smorfia assonnata e si tolse gli occhiali per stropicciarsi gli occhi.
"Che
ore sono?" domandò con la voce impastata dal sonno.
"Quasi
le dieci e mezza."
John
sospirò e subito dopo non riuscì a trattenere uno sbadiglio, "Mi sono
addormentato?"
"Sì,
e non sei l'unico."
John
guardò il bambino accanto a sé, notando che fosse sprofondato nel mondo dei
sogni. Sorrise pensando che ora avrebbe dovuto portarlo a casa in braccio.
"Mi
dispiace. Non siamo stati molto di compagnia."
Paul
ridacchiò, mentre si alzava per andare a estrarre il dvd dal lettore.
"Non
ti preoccupare." lo tranquillizzò, premendo il pulsante per spegnerlo,
"Il film è finito esattamente nello stesso modo, e poi, dai, oggi è stata
una giornata impegnativa."
"Sì."
confermò John, prima di sollevare delicatamente il bambino tra le braccia e
fargli appoggiare la testolina sulla sua spalla, "È stata anche una bella
giornata."
"Dovremmo
farlo più spesso." propose Paul, tornando a sedersi accanto a John.
Non
riuscì a impedire a se stesso di guardarlo negli occhi, pensando però che forse
aveva sbagliato a dire qualcosa del genere, perché… Beh, in realtà non sapeva
davvero perché, c’era questa sciocca vocina dentro di lui che gli diceva che
più stava con quell’uomo, più era sbagliato. Ma Paul aveva imparato a
ignorarla, soprattutto perché John aveva quello sguardo magnetico che faceva
sembrare tutto il resto completamente inutile e perché trovava sempre il modo
di fargli capire che questo fosse giusto.
"Dovremmo."
disse, mentre Julian si spostava appena per nascondere il viso nel collo del
padre.
Paul
sorrise e percepì lo sguardo di John su di sé, anche mentre cercava il
telecomando per abbassare il volume del televisore che era ora sintonizzato sul
canale ITV1. Non voleva certamente far svegliare Julian. Sembrava così beato e
comodo tra le braccia di John, come se fosse nel posto più giusto per lui, come
se-
“Ehi,
ma quella non è Jane?” domandò John, tutto ad un tratto, e si aggiustò gli
occhiali sul naso.
Paul
fece scattare la testa verso l’alto e vide il volto della sua ragazza in tv.
"Che
ci fa lì?" continuò l'amico.
Era
quello che voleva sapere anche Paul. Ovviamente era normale che in tv
parlassero di Jane ogni tanto, ma quella foto che era apparsa sullo schermo,
faceva pensare a qualcosa di diverso.
Il
presentatore del programma era seduto su un divanetto color cremisi, e sui
monitor dietro di lui era proiettata la foto di Jane, con grandi occhiali da
sole e un cappellino bianco con un fiorellino di stoffa sui lunghi capelli
rossi. Paul conosceva quel programma: era un programma di seconda serata in cui
si parlava di gossip sulle celebrità, e Paul aveva sempre pensato che lo
mandassero in onda a quell'ora per conciliare il sonno dei telespettatori. Ma
ora la questione era un'altra: perché stavano parlando di Jane?
“…
proprio così, signore e signori, Jane Asher, la fidanzatina d'Inghilterra. Non
fa parlare molto di sé, ma quando accade, diamine, se non lo fa in grande
stile."
Paul
continuava a non capire cosa stesse succedendo. Capiva solo che tra le risate
del pubblico e John che continuava a lanciargli strani sguardi, si stava
innervosendo.
"Sembra
proprio che la bella attrice sia stata paparazzata a
Le Havre, in Francia, mentre era in dolce compagnia.”
Ecco,
ora cosa significava esattamente “dolce compagnia”?
Paul
non lo seppe, almeno fino a quando la regia del programma non fece scorrere
sullo schermo altre fotografie di Jane mano nella mano con un uomo che
evidentemente non era Paul, perché Paul non era mai stato a Le Havre e
certamente non era andato lì con Jane né con nessun'altra. Eppure c'era un uomo
con lei, un uomo abbracciato a lei, un uomo tutto intento a baciarla.
Ma
quell'uomo, a rigor di logica, non era Paul.
"Paul,
forse sarebbe meglio che-" iniziò dire John, ma Paul non sembrò ascoltare.
In
quel momento doveva solo sapere chi fosse l'uomo che non era Paul.
“L’uomo
con cui la Asher è stata sorpresa è David Donovan, famoso produttore
cinematografico di Hollywood, conosciuto a New York sul set del suo ultimo
film. Inutile dire che la relazione sia iniziata proprio in quell’occasione.”
Ma
no, come poteva essere? Mentre era a New York, Jane lo chiamava e gli diceva
che sentiva la sua mancanza. No, forse neanche la ragazza delle foto era Jane.
Eppure
in quelle foto sembrava proprio lei. Paul ricordava bene quando aveva comprato
quel cappellino bianco col fiorellino di lato. C'era anche lui.
“Sappiamo
che Jane frequenta da diverso tempo un ispettore della polizia. Ci chiediamo a
questo punto come l’abbia presa. Speriamo che il nostro ispettore non decida di
arrestare Donovan.” esclamò l’uomo, prima di ridacchiare, provocando
le fastidiose risate del pubblico.
Dio,
quanto odiava quei programmi inutili.
“Paul?”
provò a chiamarlo dolcemente John, con estrema cautela.
Ma
Paul non rispose. Sapeva quale domanda sarebbe seguita e lui non avrebbe
davvero saputo come rispondere.
Cosa
puoi dire quando tutte le tue certezze vengono frantumate così, all’improvviso,
con il semplice scatto di una fotografia?
“Paul,
come stai?”
Come
stava?
Beh,
ma non era ovvio?
Come
se quella fosse la giornata più brutta della sua vita.
Note
dell’autrice: salve a tutti.
Siamo giunti infine a un nuovo capitolo, che è corridoio ma fino a un certo
punto.
John e Paul si stanno avvicinando lentamente, lo
so, ma bisogna considerare che siamo partiti da conoscenza zero, quindi non
posso farli avvicinare in modo brusco. :/
Ho l’impressione che la storia stia uscendo forse
un po’ pesante, o forse noiosa, ma non capisco se il problema sia la lunghezza dei capitoli oppure altro. Help!
Comunque grazie come sempre a kiki
e ringostarrismybeatle, oltre che Flaw,
ChiaraLennonGirl e paulmccartneyismylove.
Lo squillo del telefono risuonò nella stanza, facendo
sussultare Paul nel letto. Lui si limitò a brontolare infastidito e rigirarsi
dall'altra parte.
Che squilli pure quanto vuole, pensò
chiudendo gli occhi. Cosa gli importava ormai di rispondere?
Il telefono di casa non faceva altro che squillare da un
paio di giorni a questa parte, ma lui non aveva mai risposto. Sapeva chi
avrebbe trovato dall'altra parte della linea: Jane, colei che Paul credeva
essere la sua fidanzata.
Un pensiero che evidentemente non apparteneva più solo a
lui, dal momento che la giovane e bella attrice era stata sorpresa con un altro
uomo, uno molto diverso da Paul: alto, biondo, una folta chioma dentro cui Jane
poteva tuffare le sue dita sottili, e poi gli occhi verdi e un fisico davvero
niente male.
Insomma, l'esatto opposto di Paul.
Tuttavia la cosa davvero rilevante era che Jane l'avesse
tradito, e chissà da quanto tempo andava avanti ormai quella storia. Stranamente
era un particolare che interessava a Paul, molto più del motivo per cui Jane
l'avesse fatto.
Forse Paul avrebbe potuto scoprirlo se avesse risposto a
una delle centinaia di telefonate che Jane provava a fargli sia sul telefono di
casa sia sul cellulare. Eppure Paul proprio non aveva voglia di rispondere, appena
riconosceva il numero del suo cellulare sul display, rifiutava la chiamata: non
si sentiva pronto a sorbire i suoi 'lasciami spiegare, mi dispiace,
perdonami...'
Erano parole inutili perché ovviamente non poteva essere
dispiaciuta per qualcosa che le aveva dato piacere, e sicuramente non c'era
alcuna spiegazione che potesse giustificare un tale comportamento. Anche perché
dalle foto che Paul aveva potuto osservare praticamente dappertutto, si vedeva
che Jane era molto diversa rispetto a quando stava con lui.
Il giorno prima Paul era uscito come al solito per andare
a lavoro, e passando davanti l’edicola aveva intravisto una serie di giornali
scandalistici che solitamente lui ignorava, ma proprio quel giorno era stato
costretto a fermarsi e comprarne uno. Le foto di Jane e… com’è che si chiamava?
Daniel? Darren?
David, certo, si chiamava David.
Beh, le foto di Jane e David erano dovunque ormai, e Paul
voleva esaminarle bene, nella tranquillità della sua casa.
La sua giornata lavorativa era stata uno strazio, tutti a
chiedergli ‘Come stai? Hai bisogno di qualcosa?’, e lui, pur apprezzando
l’interesse e la preoccupazione, aveva risposto di non aver assolutamente
bisogno di nulla e di stare bene. Naturalmente era una bugia bella e buona, ma
cos’altro poteva dire? Non era proprio come se lui potesse mostrarsi
vulnerabile e sofferente di fronte a loro. Il luogo di lavoro, soprattutto quel
tipo di lavoro, prevedeva che lui fosse sempre in forma, sempre sveglio,
attivo, forte.
E ora che la sua forza era crollata, Paul aveva dovuto
indossare quella maschera solo per poter andare avanti almeno nel suo lavoro.
Era una maschera pesante e fastidiosa, ma non poteva permettere che quella
storia rovinasse il suo lavoro. Lui sapeva di essere ancora bravo in quello che
faceva. Non aveva ancora arrestato Hermes, ma era ancora sicuro che ce
l’avrebbe fatta. Certo, era stato richiamato per averlo praticamente lasciato scappare
e probabilmente qualcuno alla stazione di polizia cominciava a dubitare della
sua bravura, ma Paul non si sarebbe lasciato abbattere, non in questa parte
importante della sua vita. C’era ancora chi credeva in lui: prima di tutto se
stesso e poi alcuni colleghi che sembravano aver capito il suo gesto nei
confronti del ladro. E anche John, naturalmente. John gli aveva sempre riservato
parole di incoraggiamento, e Paul doveva ammettere che si aggrappava spesso
alla fiducia che lui gli mostrava, era un buon appiglio su cui fare leva per
risollevarsi nei momenti di totale sconforto.
Anche ora, ora che era sdraiato a letto, totalmente senza
forze.
Non aveva chiuso occhio quella notte, dopo aver letto il
giornale che aveva comprato, ma Paul cercò comunque di mettersi a sedere,
appoggiandosi con la schiena sui cuscini. Afferrò di nuovo il giornale, che la
sera prima aveva abbandonato incurante al suo fianco, e lo sfogliò, tornando
sull’articolo principale.
Il titolo era riportato in caratteri molto grandi,
diceva, ‘Jane Asher, scene da La vie en rose’. Sotto vi era una sequenza
di foto che ormai Paul sapeva a memoria, ma stranamente sembrava trovare
qualcosa di diverso in Jane ogni volta che le guardava: una nuova fossetta
sulla guancia, le mani intrecciate dei due amanti, la braccia di lei avvolte
con passione intorno al collo di lui…
Quella non era Jane, o almeno non era la ragazza che
aveva conosciuto lui, riservata, timida, dolce. Questa ragazza ora era
cambiata, cresciuta, era una giovane donna sicura di sé, che sapeva di avere un
futuro brillante davanti a sé, e soprattutto che sapeva di non amare più l’uomo
lasciato a Londra. Perché sì, era evidente che Jane non lo amasse più. Era
quella teoria che molte volte era passata nella sua testa, ma che Paul aveva
sempre rifiutato di considerare a fondo, troppo attaccato a ciò che erano
stati, troppo attaccato al passato. Ora, come mostravano quelle foto, ora Jane
stava lasciando andare la ragazza insicura che era stata, stava lasciando
andare il suo passato, e chissà che Paul non dovesse fare altrettanto.
Forse anche Paul era pronto a compiere quel passo. Non
sapeva cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma di sicuro Jane non vi avrebbe
fatto parte.
Era doloroso? Sì, molto.
Era difficile? Sì, ovviamente.
Ma più di tutto era giusto.
****
Cinque, sei, sette e… caspita, ma quanti erano?
Una decina di paparazzi solo per Paul?
Quando John quella mattina si era svegliato, di certo non
si aspettava di trovare sotto casa del suo vicino, una serie di giornalisti e
fotografi pronti a cogliere di sorpresa Paul nel momento in cui fosse uscito di
casa.
Li aveva notati mentre preparava Julian per l’asilo
estivo, e anche Pattie fu particolarmente sorpresa quando arrivò per prendere
il bambino.
"È proprio come una principessa rinchiusa in un
castello, prigioniera di un drago cattivo." aveva detto la ragazza,
facendo ridere Julian.
Ora John fissava pensieroso dalla sua finestra,
domandandosi se Paul, la principessa, avesse già visto quei fotografi e
soprattutto se stesse bene. Il giorno prima l’aveva intravisto mentre usciva di
casa, ma non aveva fatto in tempo a parlargli. Il problema era che non sembrasse
particolarmente sconvolto, come John si aspettava. Sembrava invece che per Paul
quello fosse un giorno qualunque, e non quello in cui doveva affrontare il
tradimento della sua fidanzata.
E forse era questo che preoccupava maggiormente John,
perché sì, era preoccupato, era molto preoccupato, così tanto, in effetti, che
non pensò molto quando prese il cellulare e cercò nella rubrica il numero di
Paul, inoltrando subito dopo la chiamata.
Il segnale di libero risuonò nel suo orecchio per diversi
istanti e John aspettò pazientemente che Paul rispondesse, ma l’uomo sembrava
non avere intenzione di farlo, o forse stava semplicemente dormendo ancora.
John sospirò e stava quasi per interrompere la chiamata,
quando, finalmente, Paul rispose.
“Pronto?”
La sua voce era profonda e stanca, ma fece sussultare
John con gioia.
“Non uscire di casa.” gli disse subito John.
“Ma cosa? John, che stai dicendo?”
domandò Paul, perplesso.
“Hai visto i paparazzi fuori casa tua?”
Paul esitò un istante prima di
rispondere, “Paparazzi?”
“Sì, sono qui pronti a sorprenderti appena metti piede
fuori casa.”
“Oh cazzo, no.” imprecò
Paul, con un verso di totale frustrazione, “Ma io volevo uscire stamattina.”
Lo sconforto di Paul arrivò a lui, e anche John in quel
momento riuscì a vederlo come una principessa imprigionata nella torre più alta
di un castello. E lo sanno tutti di cosa abbia bisogno una principessa, in
questi casi…
“Beh, forse potrei aiutarti io.” propose John titubante.
Si sentiva molto come un principe, quel giorno. Non aveva
certamente l’armatura scintillante né il mantello azzurro, né tanto meno un
cavallo bianco, ma aveva il coraggio e la voglia di salvare la principessa in
pericolo.
“E come?” domandò Paul, evidentemente poco convinto che John potesse risolvere la
situazione.
Tuttavia John non si fece
scoraggiare e si lasciò scappare una risata, “Sono sicuro che
riuscirò a inventarmi qualcosa.”
"Tipo?”
“Oh, non saprei, devi per caso andare a lavoro?”
“No, oggi ho preso un giorno di ferie: volevo
solo uscire di casa per…” spiegò Paul,
il tono della sua voce divenne all’improvviso più triste e flebile, “Sai,
per non sentire il telefono.”
“Certo.” rispose John, comprendendo appieno la
situazione, “Quindi pensi che lì, alla stazione di polizia, saranno molto
arrabbiati se li mando da loro?”
Ci fu silenzio per un istante dall’altra parte della
linea, e poi John sentì qualcosa che in qualche modo lo tranquillizzò e che lo
incoraggiò ulteriormente: la risata di Paul.
“No, andrà bene.”
“Perfetto, allora lascia fare a me e se vuoi…” disse, e
questa volta, per qualche strano motivo, fu lui ad abbassare la voce, “Dopo
potremmo…”
“Cosa?”
“Beh, se hai bisogno di qualcuno per parlare o solo per
distrarti…” iniziò a spiegare John, cercando di trovare comunque la voce per
parlare, “Ecco, io volevo farti sapere che puoi contare su di me.”
Ancora silenzio, e John non seppe bene come
interpretarlo, ma qualcosa in lui sperava, e forse ne era davvero convinto, che
Paul stesse sorridendo, solo un po’, grazie a lui.
“Ti ringrazio, John, ma per ora vorrei solo
stare da solo.” fu la risposta di
Paul, e John fece di tutto per nascondere la sua delusione.
“Ma certo, sì, capisco, non ti preoccupare. Era solo per
fartelo sapere.” si affrettò ad aggiungere.
“Lo terrò a mente.”
“Bene, allora vado in missione.”
“Buona fortuna, John.”
“Buona giornata, Paul.”
Poi il segnale di occupato gli comunicò che Paul avesse
interrotto la chiamata.
John osservò il cellulare un istante, mordendosi il
labbro. Sperava davvero che Paul volesse vederlo, ma evidentemente non aveva
bisogno di lui quanto John avesse bisogno di controllare di persona che stesse
bene. E il pensiero per qualche motivo lo rattristò, oltre che turbò. Non era
normale e non solo perché Paul era tuttora la sua nemesi. C'era qualche altro
motivo che John non poteva ben identificare: era qualcosa che gli stringeva il
cuore all'idea di Paul che soffriva, lo stesso qualcosa che scioccamente gli
fece alzare la testa verso la finestra di Paul quando John uscì di casa. Fu un
gesto totalmente inutile e stupido perché John sperava di vederlo, anche solo
per un istante, ma sapeva che fosse impossibile perché ora che era stato
avvisato dei paparazzi, Paul non avrebbe mai e poi mai rischiato di farsi
vedere.
Allora perché stava cercando inutilmente il suo viso dietro
quelle tende bianche?
Perché voleva che assistesse alla sua performance da
bugiardo professionista, ecco perché. Doveva essere per questo motivo e in
fondo, era ciò che rappresentava al meglio John: un bugiardo che stava
costruendo questo nuovo rapporto solo sulla menzogna, e lui non avrebbe mai
pensato che una menzogna potesse trasformarsi in qualcosa di così vero. Eppure
era successo e-
E finiscila, John, quante cazzate stai
sparando.
John sospirò e solo in quel momento si accorse del ritmo
lievemente accelerato del suo cuore. Oh, sapeva che stava entrando
inevitabilmente in qualcosa più grande di lui, che non sapeva gestire e neanche
cosa fosse; tuttavia non era davvero il momento di pensarci. Ora come ora
contava solo salvare la principessa prigioniera nel castello.
Così si avvicinò al gruppo di giornalisti e fotografi e
si schiarì la voce.
"Se cercate l'ispettore McCartney, non lo troverete
di certo a casa."
Il gruppo di uomini e donne si voltò immediatamente verso
di lui, qualcuno riuscì anche a fotografarlo, cogliendolo di sorpresa con il
flash. John socchiuse gli occhi, infastidito, alzando una mano per ripararsi da
altri eventuali scatti.
"Lei chi è?" domandò una donna, che subito
recuperò un piccolo registratore dalla tasca e lo rivolse verso di lui.
John la guardò con una smorfia infastidita, "Il suo
vicino di casa.”
"Quindi dice che il signor McCartney non c’è in
questo momento?"
“Esatto. Penso che lo troverete al lavoro."
"Sa indicarci dove?" insistette un uomo.
"Certo.” esclamò John, sorridendo perché stavano
davvero credendo a quello che diceva lui, “Alla stazione di polizia in Waltonstreet."
"Grazie." disse qualcuno e subito tutto il
gruppetto trotterellò verso la strada principale, scomparendo dietro l'angolo.
"Grazie a voi." mormorò John, ridacchiando
divertito.
Ce l’aveva fatta. Non che non pensasse di riuscirci, ma
insomma, era stato più facile del previsto.
Soddisfatto di se stesso, John si voltò pronto per andare
ad aprire il suo negozio, ma si fermò quando sentì dei colpi lievi alla
finestra. Guardò verso l'alto e quando scorse il viso di Paul dietro una tenda,
il suo cuore fece una piccola capriola all'indietro.
Paul lo salutò con la mano, sorridendogli e
ringraziandolo con un cenno del capo, e John ricambiò il saluto esattamente
allo stesso modo.
Quando aprì il suo negozio pochi minuti più tardi, sentì
di essere sollevato e felice.
Salvare una principessa era un buon modo per iniziare la
giornata.
****
Il tempo in quei giorni era stranamente benevolo.
Regalava giornate splendide, con il sole alto nel cielo che splendeva e
riscaldava, il cielo terso, senza neanche una nuvola all’orizzonte e una
temperatura ideale per camminare.
Paul quella mattina, dopo essere stato liberato da John dalla
sua prigionia, era uscito dal suo appartamento e aveva preso il primo treno
della metropolitana verso il centro. Non sapeva esattamente dove volesse
andare, l’unica cosa certa era che volesse allontanarsi più che poteva da
Chelsea e da quei giornalisti da strapazzo. Così era sceso dalla metropolitana
a Westminster, e uscito dalla fermata, ecco che si ritrovò proprio sotto
l’imponente Big Ben.
Faceva davvero un grande effetto, vederlo da quella
posizione: si stagliava maestoso sullo sfondo del cielo limpido, e dietro di
lui si allungava l’edificio del Parlamento inglese.
Quante volte Paul era stato lì, ma senza apprezzarlo
davvero? L’ultima volta era andato con
Jane, e si erano divertiti molto, ma comunque aveva dovuto accontentare i suoi
desideri. Ora invece poteva fare il turista solitario scegliendo cosa vedere,
quando andare via, cosa mangiare e tutto ciò che nelle sue precedenti visite a
Londra non aveva mai potuto stabilire, perché con lui c’era altra gente.
Come per esempio, la ruota panoramica che era proprio
opposta al Big Ben. Ecco, Paul non era mai salito sul Londoneye. Jane non aveva voluto sentire ragioni a
riguardo, perché soffriva di vertigini. Eppure per Paul sembrava così
dannatamente eccitante, con quella posizione così sporgente sul fiume e
quell’altezza… Dio, era molto alta, era vero, ma Paul non aveva paura. Era un
poliziotto, dopotutto.
Così attraversò il ponte sul Tamigi e raggiunse la ruota
panoramica. Comprò il biglietto, e prima di salire sulle cabine che, a quanto
pareva, erano sempre in movimento, si sistemò gli occhiali da sole sul naso.
Non voleva certamente essere accecato dal sole che picchiava forte quel giorno.
Le cabine della ruota panoramica si muovevano lentamente,
salivano sempre di più e Paul restò per tutto il tempo vicino alle pareti di vetro,
così da poter vedere la terraferma sotto di lui che si allontanava e diventava
più piccola. Le persone sul ponte sembravano così piccine, come tante
formichine che camminavano una dietro l’altra. Paul ridacchiò e si voltò verso
destra. Fu un gesto inconscio, quasi non se ne accorse di farlo, ma sapeva che
stava cercando qualcuno accanto a sé, per condividere il suo pensiero.
Stava cercando Jane.
Ma Jane non c’era, Paul l’aveva persa ormai.
Sospirò rassegnato, pensando al futuro che lo aspettava:
sarebbe stato sempre così, Paul non avrebbe più potuto condividere alcunché con
Jane. Arrossì sia per rabbia, sia perché un gruppo di ragazzine stavano
guardando nella sua direzione e ridacchiavano scioccamente, perciò decise di
tornare a guardare fuori dalla cabina.
Forse una romantica ruota panoramica non era esattamente
il posto migliore per dimenticare una storia d’amore ormai arrivata al
capolinea.
Forse avrebbe dovuto provare altro.
Decise di andare verso Piccadilly.
Era una zona unica e piena di vita di giorno e soprattutto di notte, con tutti
i teatri e i locali che offrivano divertimenti. Certo, essendo estate, era
anche piena di turisti, di quelli veri, che venivano da paesi lontani per
visitare quelle zone, e non dal quartiere accanto come Paul. Tuttavia il
vantaggio c’era: infondevano molta allegria, facevano sentire Paul meno solo,
in quel momento e gli impedivano di pensare troppo ai suoi problemi.
Aveva scelto il posto giusto.
Il giovane uomo osservò le vetrine dei negozi,
lasciandosi contagiare dall’entusiasmo dei turisti che si affollavano per
spendere tutti i loro risparmi, e poi le insegne luminose dei teatri, gli
annunci dei prossimi spettacoli e… cazzo!
No, non poteva essere.
Che ci faceva lei qui?
Lei, Jane Asher, sempre e solo lei.
Paul chiuse gli occhi per un istante, cercando di
calmarsi, e poi li riaprì lentamente. Per fortuna Jane non era davvero lì,
davanti a lui, in carne e ossa. No, altrimenti Paul sarebbe impazzito.
Jane era in una locandina cinematografica.
Passeggiando distrattamente, Paul non si era accorto di
essere arrivato di fronte al cinema Odeon,
famoso per ospitare le anteprime dei film, e anche ora sembrava che avessero
scelto proprio quel cinema per la prima del nuovo lavoro di Jane. Era
tappezzato di locandine dove la sua-
No, dove Jane
si trovava in mezzo ai suoi co-protagonisti. Era
vestita di nero, i lunghi capelli rossi risaltavano rendendola così bella e il
suo sorriso era dolce e insieme sfacciato. Era quel sorriso che faceva sempre impazzire
Paul. La ragazza nella locandina stava recitando, il che gli fece dubitare
anche dei sorrisi che rivolgeva a lui. Era mai stata sincera con lui, o aveva
recitato anche con Paul?
Ma che cosa stava pensando? Era un pensiero ingiusto,
dettato solo dalla rabbia e dalla solitudine di quel momento.
Uscire per fare il turista si era rivelata una pessima
idea. Non era divertente, visitare tutti quei bei luoghi, se non poteva
condividerli con qualcuno. Così, a malincuore, decise di tornare a casa. Almeno
a casa c’era Pepper a fargli compagnia. Era una bella distrazione, quel
gattino. Era così vivace e curioso, ma anche affettuoso e pieno di calore. La
vita con lui in quella casa silenziosa era molto più interessante.
Prima di tornare, Paul si fermo a comprare un po’di latte per il cucciolo. Pensare a lui gli
aveva fatto ricordare che quella mattina era finita l’ultima bottiglia; poi
finalmente si avviò verso casa. Fortunatamente non c’erano paparazzi.
La trovata di John aveva funzionato, pensò sorridendo,
mentre entrava in casa. Si avviò verso la cucina, richiamando Pepper e-
"Ciao, Paul."
Paul sobbalzò ancora nell'ingresso e si voltò verso il
salotto, notando Jane, proprio Jane Asher seduta sul divano.
Probabilmente le rivolse uno sguardo sconcertato che le
disse, 'Che diavolo ci fai qui?', perché lei sorrise intimorita e
sollevò la mano che stringeva un mazzo di chiavi. Paul alzò gli occhi al cielo,
imprecando fra sé: era stato lui a darle le chiavi del suo appartamento, quando
era venuta a trovarlo.
"Mi dispiace di essere entrata così." disse
lei, alzandosi in piedi, "Ma ho intravisto dei paparazzi nei paraggi e
sarebbe stato rischioso restare fuori ad aspettarti."
"Rischioso?” sbottò Paul, ridendo senza alcun
divertimento, “Mi sembra che ormai tu abbia già corso il rischio più
grande."
Jane arrossì vistosamente e Paul esultò in silenzio,
malignamente. Non si era mai sentito così, come se volesse dirle le cose
peggiori che potesse pensare di lei, come se volesse farla soffrire nello
stesso modo in cui lei stava facendo con lui.
Paul conosceva il motivo per cui Jane fosse a casa sua
ora: aveva temuto quel momento da quando aveva appreso della sua relazione
segreta con un altro uomo. Lo temeva perché sapeva cosa sarebbe successo, cosa
avrebbe detto lei e quanto più grande e insopportabile potesse diventare il suo
dolore.
"Paul, ti prego.” sospirò Jane, frustrata ancor
prima di iniziare a spiegare, “Sono qui per discutere in modo civile."
Il sorriso sardonico sul volto di Paul sparì di fronte a
tali assurde affermazioni e lui si lasciò andare all’unica cosa che voleva
mostrarle ora: la rabbia.
"Oh vaffanculo, Jane, non c'è assolutamente niente
di civile in questa storia. Mi hai tradito! Mi hai fottutamente tradito.”
ripeté infine Paul, così, forse perché Jane non aveva ancora ben compreso la
gravità del suo gesto.
“Lo so, ma-” iniziò a dire lei, ma Paul non sembrava
avere alcuna intenzione di lasciarla parlare.
“E la cosa più assurda di questa cazzo di storia è che
l’hanno sbattuto in prima pagina.” esclamò Paul, alzando la voce, mostrando
tutto il suo risentimento perché il mondo intero ora sapeva che era lui quello
tradito dalla bellissima Jane Asher, “Lo sai che l’ho scoperto per caso in
televisione? Lo sai cosa si prova a scoprirlo così? Come se contassi meno di chiunque altro?”
“Mi dispiace, stavo per parlartene.” spiegò lei, cercando
di avvicinarsi a lui.
Sembrava dispiaciuta e sincera, ma come poteva Paul
credere a tutto questo, quando ormai aveva perso la fiducia che aveva riposto
in lei nel momento in cui si era accorto di amarla?
“Ah, e sentiamo, quando l’avresti fatto?”
Jane, presa in contropiede, abbassò lo sguardo, “Io…. Io
non lo so, ma ti giuro che avevo deciso di dirtelo.”
“Beh, non me ne faccio nulla delle tue decisioni.” sbottò
lui, incrociando le braccia sul petto.
“Smettila di fare così, Paul.” lo pregò Jane,
implorandolo con gli occhi, “Posso almeno spiegarti?”
“C’è davvero da spiegare qualcosa? A me sembra abbastanza
chiaro. Quelle foto hanno detto tutto il necessario.”
“Non è vero, c’è molto da spiegare. Per favore, Paul,
siediti un attimo.”
Paul, pur percependo il proprio volto in fiamme e
soprattutto, sapendo di non avere alcuna intenzione di conoscere i dettagli di
quella storia, decise che sarebbe stato saggio fare ciò che gli stava chiedendo
Jane. Forse per l’ultima volta.
Così si accomodò sul divano e Jane si sedette accanto a
lui, voltandosi completamente per guardarlo; e mentre lei sceglieva con
attenzione le parole giuste per spiegare quanto accaduto, Paul le rivolse un’espressione
di attesa, con un sopracciglio alzato, quasi a volerle dire, ‘E allora?’
“Ho conosciuto David sul set del film, a New York.”
iniziò a spiegare con un profondo sospiro.
“Sì, questo lo so, so tutto di lui ormai.” sbottò Paul,
“Da quanto va avanti?”
“Un paio di mesi.”
“Un paio di mesi?” ripeté Paul, sorpreso e sconcertato,
“Cazzo, Jane, ma…Perché?”
“Perché sono innamorata di lui.”
Una parola importante, innamorata.
E normalmente Jane l’avrebbe associata al nome di Paul.
Ma ora… ora Jane era lì, di fronte a
Paul, a parlare del suo amore per un altro uomo, mentre il cuore di Paul
sembrava essersi ridotto di tre taglie ed essere ora una piccola pietra, dura,
che non riusciva più a battere e tenerlo in vita.
Il peggiore incubo di Paul si era infine avverato, aveva
perso Jane perché non aveva saputo custodire il suo amore. E ripetere quanto
lei avesse appena detto non avrebbe risolto nulla, ma Paul non poté fare altro.
“In…Innamorata?”
“Sì, io… Paul, mi dispiace, ma è stato più forte di me.”
confessò impotente, continuando a guardarlo negli occhi, “Non scegliamo noi di
chi o quando innamorarci, ed è proprio quello che è accaduto. Lui era così
divertente e mi faceva stare bene.”
“E io no?” domandò lui, profondamente risentito dalle
ultime parole di Jane.
“Non ho detto questo.” si affrettò a chiarire Jane, “Ma
tu eri lontano, non riuscivamo più a vederci spesso. All’inizio sentivo la tua
mancanza disperatamente, ma poi ho cominciato ad abituarmi e nonostante sapessi
che era un brutto segno, sono andata avanti così, fino a quando lui non ha
cominciato a interessarsi a me.”
“E tu hai accettato le sue attenzioni.” terminò Paul, in
modo abbastanza scontato.
Jane sospirò e annuì lentamente, “Sì, e prima che me ne
rendessi conto, ero perdutamente innamorata di lui.”
Paul chiuse gli occhi un istante, la stanza aveva
cominciato a vorticare e lui non lo sopportava, così come non sopportava gli
occhi di Jane, che continuavano a guardarlo, con decisione, con fermezza, uno
sguardo che non vacillò mai mentre parlava di quel nuovo sentimento nato in
lei. Forse era questo che, più di tutto, fece soffrire Paul. Jane era
innamorata persa di un altro ed era sicura che quella fosse la cosa migliore
per lei ormai. Questo significava solo che non c’era più speranza per Paul.
Il suo cuore era come stretto in una morsa dolorosa, che
non aveva alcuna intenzione di allentare la presa. Faceva davvero male, così
tanto che Paul, per la prima volta dopo la morte di sua madre, sentì il
desiderio di piangere.
“Paul, mi dispiace così tanto, ma dovevo dirti la
verità.” mormorò Jane, sporgendosi verso di lui, cercando di appoggiare una
mano sulla sua spalla, “Non si tratta di una semplice scappatella. È una
relazione seria, e avevo bisogno di fartelo capire, prima di lasc-”
Paul sollevò una mano per zittirla e allontanare il
braccio da se stesso, “Ti prego, vattene ora.”
“Ma, Paul-” protestò lei, tentando ancora una volta di
toccarlo.
“Cazzo, Jane.” esclamò l’uomo, e la scostò come se si
fosse appena scottato, “Vattene.”
Jane si morse il labbro, profondamente contrita, poi si
alzò in piedi, “Spero che un giorno potrai perdonarmi.”
Paul non si prese il disturbo di rispondere, non poteva;
rimase in silenzio mentre la sentiva uscire dalla casa e chiudere la porta
dietro di sé.
E solo in quel momento, il giovane uomo sentì davvero la
solitudine, che era tornata prepotentemente nella sua casa. Era sempre fredda e
troppo silenziosa. Rendeva l’aver perso l’amore di Jane ancora più straziante.
Paul non poteva sopportarlo. Non da solo. Era sul ciglio
di un burrone in cui stava scivolando lentamente, e solo quella sera aveva
scoperto che era in quella situazione da molto tempo.
Aveva bisogno di una mano che lo portasse al sicuro.
Aveva bisogno di essere salvato.
****
John sospirò, leggendo il giornale che aveva comprato
quella mattina.
Ogni giorno ormai ne capitava una, ma in effetti il vero
motivo per cui John l'avesse comprato era perché sperava di trovare qualcosa di
interessante riguardo la fidanzata di Paul. Sicuramente sarebbe stato più
semplice comprare un giornale scandalistico, ma lui si vergognava troppo. Non
che all'edicolante sarebbe potuto importare molto di cosa leggesse uno dei suoi
clienti, ma John non voleva correre rischi. E poi lo sapevano tutti che la
stampa inglese, di qualunque genere fosse, era assetata di gossip.
Difatti, nella pagina degli spettacoli c'era un piccolo
trafiletto dove era riportata la foto di Jane con il belloccio in questione.
Nell'articolo non c'era scritto molto di più di quello che John già sapesse,
eppure qualcosa riuscì a catturare la sua attenzione.
"... Inoltre il signor Donovan sarà a
Londra, la settimana prossima, per l'inaugurazione di un museo del cinema,
vicino alla National Gallery. Il museo è stato curato personalmente dal produttore
cinematografico e raccoglie alcuni dei cimeli della storia di Hollywood e non
solo. Per maggiori informazioni consultare il sito ecc..."
John aggrottò la fronte pensieroso. Un museo del cinema?
Non aveva molto a che fare con il suo ambito, però poteva
sempre provare a fare delle ricerche. Se era fortunato, avrebbe potuto trovare
qualcosa di interessante.
E poi? L'avrebbe rubato?
Sì, ovvio.
Ma perché? Perché si stava preoccupando tanto di cercare
qualcosa di interessante da rubare a quell'uomo?
Perché rubare era il suo mestiere. No?
O forse aveva a che fare con il collegamento fra Paul e
quell'uomo?
Ma no, no, assolutamente no. Non era affatto così. Non
era possibile. Non era-
Il trillo del cellulare lo fece sobbalzare sul divano. E
quando vide chi lo stava chiamando, anche il suo cuore sobbalzò.
Paul.
Pensava che non l'avrebbe più sentito almeno per quella
giornata, invece... Eccolo lì! John era così curioso del perché lo stesse
chiamando che si affrettò a rispondere.
"Pronto?"
Un breve attimo di silenzio che John interpretò come
esitazione, e poi finalmente la voce di Paul, "È ancora valido
quell'invito?"
John non se ne rese conto, ma era rimasto letteralmente a
bocca aperta.
"Certo."
"Allora, pensi che possiamo vederci
stasera?"
"Sì.” rispose John, forse troppo rapidamente, “Lascia
che mi organizzi per affidare Julian a George e Pattie, e poi possiamo andare
dove vuoi."
"Grazie, John." disse lui, il tono dolce e insieme sofferente.
"Figurati. Ci vediamo dopo."
"Sì. A dopo."
John terminò la chiamata e sospirò. Santo cielo, non
aveva davvero trattenuto il respiro per tutta la durata della telefonata, vero?
Eppure ora aveva il respiro corto e il cuore che batteva un po’ più
velocemente.
Doveva assolutamente darsi una calmata e ragionare con
lucidità su quanto fosse appena accaduto: Paul l’aveva chiamato per chiedergli
di uscire e la sua voce era sembrata così contrita, che ora John voleva solo
assicurarsi che lui stesse bene. Doveva essere successo qualcosa di importante,
dal momento che quella mattina Paul aveva parlato con lui in modo molto
diverso, aveva anche riso.
Quindi, sembrava proprio che la principessa avesse
nuovamente bisogno del suo aiuto. E John, inutile negarlo, era più che felice
di darglielo.
Guardò Julian che giocava tranquillamente sul tappetto
con le macchinine e sorrise, “Ehi, piccolo, ti piacerebbe se stasera venissero
George e Pattie a stare con te, mentre papà esce?”
“Dove vai?” domandò distrattamente il bambino, senza
distogliere gli occhi dai suoi giochi.
“Esco con Paul.” rispose lui, alzandosi dal divano e
andando a sedersi accanto al figlio, “Sai, è un po’ triste in questi giorni.”
A quel punto, Julian si voltò verso di lui per
rivolgergli uno sguardo incuriosito, “Perché?”
“Perché la sua fidanzata gli ha detto una bugia.”
“E tu lo fai stare meglio?”
“Ci provo.” rispose John, “Quindi per te va bene, se
stasera non ci sono?”
“Va bene, ma prima devi giocare con me.” esclamò il
bambino, cogliendo di sorpresa John e buttandosi tra le sue braccia.
John rise un po’ e si sottomise volentieri al desiderio
di suo figlio, giocando con lui. Fecero una gara con le macchinine e ovviamente
vinse quella di Julian, ma John si vendicò, prendendolo tra le braccia e
facendogli il solletico, e la risata spensierata di Julian riempì la stanza.
Poi, mentre il bambino si lavava le mani per la cena,
John chiamò George per chiedergli se lui e Pattie potessero badare a Julian
quella sera, e se George potesse anche indagare su quel museo del cinema di cui
aveva letto nel giornale. George accettò, anche se rimase perplesso dall'ultima
richiesta di John, il quale lo tranquillizzò dicendo che gli avrebbe spiegato
tutto a tempo debito.
Quando John e Julian cenarono in tutta tranquillità in
cucina, l’uomo cominciò a sentirsi stranamente agitato. Il motivo doveva
sicuramente avere a che fare con Paul, ma John non capiva perché. Dopotutto non
era la prima volta che usciva con Paul per bere qualcosa, ma stavolta era
diverso.
Era pericolosamente diverso.
****
Paul non aveva per niente
una bella cera.
John l'aveva notato solo
quando era uscito dal suo appartamento. Aveva le occhiaie ben evidenti e la
barba di almeno due giorni, che creava un effetto particolare sul suo viso: sembrava
essere in contrasto con quei lineamenti delicati e quegli occhi dolci, ma anche
perfettamente abbinata alla bellezza del suo volto.
Era comunque inutile dire
che non stesse passando un bel momento. Quella gioia che John aveva visto solo
la domenica prima, si era come spenta e ora vi erano solo ombre. John aveva
preferito non dire nulla a riguardo, fino a quando Paul non l'avesse fatto lui
in prima persona.
Così avevano raggiunto a
piedi un pub non molto lontano dalle loro abitazioni, e seduti a un tavolino,
avevano iniziato a bere birra e parlare. Paul gli raccontò dei bei giri
turistici che aveva compiuto quella mattina e John ascoltò interessato, sapendo
perfettamente che non era quello il motivo per cui Paul avesse espresso il
desiderio di vederlo.
Quando le birre consumate
cominciarono ad aumentare, la situazione cambiò e Paul decise di passare a
tutt'altro tipo di bevanda. Qualcosa di più forte, un po’ di whiskey, quello potente,
così tanto da fargli dimenticare il suo stesso nome. John tentò di fermarlo, ma
Paul non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi, neanche quando uno strano
colorito rossastro cominciò a diffondersi sulle sue guance paffute e gli occhi
si annebbiarono.
Come se quella potesse esser
la soluzione a tutti i suoi problemi.
Tuttavia John sapeva di non
potergli dire banalità del genere, avrebbe solo peggiorato la situazione perché
quando qualcuno inizia a ubriacarsi, diventa totalmente insofferente verso
qualunque cosa. E quando qualcuno che tenta di affogare i propri dispiaceri
nell’alcol, si ubriaca, beh, allora tutto diventa imprevedibile. Così John aspettò
e guardò mentre anche i bicchierini di whiskey ordinati aumentavano sul tavolo
e Paul cominciava a parlare a vanvera.
“Io lo sapevo, sai?” sbottò
a un certo punto Paul, e la risatina che seguì fu la prova che fosse ormai
ubriaco.
“Cosa?” chiese dolcemente
John.
“Che prima o poi sarebbe
finita con Jane, che altro?"
John sospirò, intrecciando
le mani sul tavolo. Beh, lui sapeva che sarebbero arrivati a questo argomento,
prima o poi, durante la serata.
"Perché?"
"Eravamo ormai come
fratelli, fratelli che scopavano.” esclamò Paul e scoppiò a ridere con un
brusco movimento del suo corpo che fece rovesciare un bicchierino di whiskey
sul tavolo.
“Paul, cazzo.” imprecò John,
affrettandosi a recuperare dei tovaglioli per asciugare il pasticcio che aveva
combinato Paul.
“Cosa? È vero, sai? Anche se
non c'era più la stessa passione e comprensione dell'inizio.” mormorò
calmandosi all’improvviso, e fece incrociare le braccia sul tavolo, “E sapere
che lei si sia addirittura innamorata di un altro, è troppo difficile da
accettare."
John batté le palpebre,
guardandolo ora con evidente sorpresa, "Innamorata?"
"Sì.” sospirò Paul e
abbandonò la testa sulle sue braccia, “Me l'ha detto lei."
"Quando?"
"Non te l'ho detto? No,
ovviamente no, che stupido che sono.” esclamò dandosi uno schiaffo sulla
fronte, prima che John potesse fermarlo, “Si è fatta trovare a casa al mio
ritorno."
“Oh, una gran bella
sorpresa.” commentò John, e Paul rise debolmente.
“Puoi dirlo forte.”
“Quindi ti ha spiegato
tutto?”
Paul annuì distrattamente,
mentre con un dito tracciava degli invisibili cerchi sul tavolo, “La lontananza
e il nostro rapporto che si era raffreddato, l’hanno spinta tra le braccia di
un altro.”
“Mi dispiace, Paul.” gli
disse John, portando una mano sull’avambraccio di Paul
“Io pensavo che sarebbe
durata per sempre.” e John non sapeva se attribuire il singhiozzo che seguì al
troppo alcol o alla troppa sofferenza di Paul.
In qualunque caso, era
terribilmente sconfortante, vederlo ridotto in quello stato, sapendo quanto
fosse felice fino a pochi giorni prima. E altrettanto sconfortante era il fatto
che John non potesse provare parole adatte per rincuorarlo, era totalmente
impotente di fronte a lui, perciò disse la cosa più banale che gli passò per la
testa.
“Non possiamo mai prevedere
quello che ci riserva la vita.”
Paul singhiozzò e guardò la
mano appoggiata sul suo avambraccio, sembrava trasmettergli una sorta di
dolcezza che voleva solo consolarlo, vederlo stare meglio.
Tuttavia, era una sensazione
troppo lieve per poter lenire tutto quel dolore che lo stava divorando
dall’interno come se fosse senza fine, come se Paul dovesse soffrire per
sempre, e non ci fosse alcuno spiraglio di salvezza.
“Dannazione, sta andando
tutto a rotoli, tutto.” esclamò, nascondendo il volto tra le mani con un gesto
frustrato.
“No, no, non dire così, non
è vero.” protestò John, ma non era pronto a subire la reazione di Paul.
“Cosa ne sai tu?” sbottò il
giovane uomo, scrollandosi di dosso la mano di John, “Jane è stata la mia prima
storia importante. Sai cosa vuol dire, quando pensi che durerà per sempre, e
invece tutto crolla come un castello di carte e tu non puoi fare assolutamente
nulla?”
John si morse il labbro,
nervosamente, e abbassò lo sguardo. E come poteva non saperlo lui? Lo sapeva
eccome, lo sapeva bene tanto quanto Paul.
“Sì.” mormorò
tranquillamente.
Solo in quel momento, con la
sua risposta, con la sua calma che contagiò anche Paul, lui capì che John
sapeva meglio di chiunque altro ciò che provava. E sempre in quel momento, Paul
provò vergogna.
“Scusa, John, io… non
volevo, mi disp-”
“Non importa, sei ubriaco e
la tua ragazza ti ha fatto le corna, penso che tu sia giustificato. Solo per
adesso, si capisce.” commentò John, sorridendo e facendogli l’occhiolino.
Paul rise, ma l’azione gli
fece girare la testa, “Oh-o.”
“Cosa?” domandò John,
improvvisamente allarmato.
“Mi viene da vomitare.”
“Oh no, non ci provare, non
qui.”
Non appena John disse
questo, lo afferrò per il braccio e lo trascinò fuori. Paul lo seguì
barcollando pericolosamente, e quando fu all'esterno John lo condusse nel primo
vicolo che trovò sul suo cammino, giusto in tempo affinché Paul potesse
rimettere anche l'anima. Ecco, ora con tutto quel veleno, in forma di dolore e
di alcol, fuori dal suo corpo, Paul sarebbe stato decisamente meglio.
John rimase accanto a lui
per tutto il tempo, mentre i conati di vomito scuotevano il suo corpo
violentemente, e quando il peggio passò, Paul si accasciò a terra con la
schiena contro il muro. Abbandonò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
"Mi gira la
testa."
"Lo spero bene. Con
quello che hai rimesso." gli disse amaramente John, notando quanto fosse
pallido ora in viso e le lacrime che avevano bagnato le guance, durante lo
sforzo di pochi istanti prima.
Paul mormorò, mentre si
portava una mano sulla fronte, “Oh, mi sento uno schifo.”
“Domani starai meglio. Te lo
prometto.” lo rassicurò John, accovacciandosi di fronte a lui.
“Io vorrei stare meglio
ora.”
E in quel momento sembrò
così innocente, con le labbra dischiuse in un’espressione di totale sconforto e
gli occhi che brillavano con le lacrime intrappolate nelle lunghe ciglia,che John sentì il proprio cuore stringersi
dolorosamente.
Era una sensazione troppo
insolita per John, e ne ebbe la conferma quando la sua mano si allungò per
asciugare una delle sue guance paffute e umide.
“Ora non puoi, Paul.” spiegò
John, sospirando tristemente, “Devi solo sopportare.”
“Ma fa male.”
“Lo so, ma è necessario.”
“Perché?” domandò frustrato
Paul, mentre John si sedeva accanto a lui.
“Perché il dolore è la
condizione necessaria per guarire.”
Paul batté le palpebre,
confuso, e nello stesso momento il suo corpo fu scosso da un ultimo singhiozzo,
“Cosa significa?”
“Significa che… ecco, non so
spiegartelo bene, però è come quando hai la febbre.” disse John, ricevendo uno
sguardo di puro scetticismo da Paul, “La febbre ti fa stare male, è vero, ma
permette al tuo corpo di combattere l’infezione. È la stessa cosa in questo
caso.”
“E tu come fai a sapere
queste cose?” chiese Paul, aggrottando la fronte.
“Ho un bambino di quattro
anni, ricordi?” rispose John, dandogli una lieve gomitata nel fianco, “Vado dal
pediatra almeno una volta al mese.”
Paul rise leggermente, “Ah,
capisco, ora è tutto chiaro.”
La sua risata, per quanto
lieve, fu ciò che mostrò a John che Paul stesse un po’ meglio e che forse era
proprio ora di tornare a casa, “Coraggio, andiamo.”
“Dove?”
“Che domanda è? A casa,
idiota.” rispose lui, balzando in piedi, “Ce la fai ad alzarti?”
“Oh, dai, vieni, ti aiuto
io.” sospirò John e gli porse una mano.
Paul la guardò un istante
prima di afferrarla ed essere portato in piedi dall’amico.
“Ecco qua.”
John mantenne la mano di
Paul ben salda nella sua, ma quando vide che Paul barcollò leggermente
all’indietro, verso il muro, fece scattare l’altro braccio in avanti per
sorreggerlo dal fianco.
Paul rise divertito, “Ops, c’è qualcosa che non va.”
“Direi proprio di sì.”
“Non posso tornare a casa
così.”
“Non possiamo neanche
restare qui, se per questo.” gli fece notare John, prima di far scivolare un
braccio attorno alla sua vita e attirarlo a sé, “Coraggio, tieniti a me e
andiamo.”
Paul obbedì docilmente e
fece passare un braccio sulle sue spalle per sorreggersi meglio. Poi John
cominciò a portare entrambi verso casa, facendo sempre attenzione che Paul non
inciampasse e quindi facesse cadere entrambi a terra.
Il giovane ispettore lasciò
che John lo guidasse e sostenesse, perché in quel momento Paul non aveva
bisogno di altro. Non si era mai sentito così sperduto, così debole e apatico.
Sapeva a cosa fosse dovuto e se avesse voluto, avrebbe potuto contrastarlo, ne
aveva tutte le capacità. Eppure questa volta si trattava di qualcosa più forte
di lui, una sensazione di totale smarrimento, e Paul non voleva combatterla,
aveva bisogno di lasciarsi andare a quest’emozione, perché John aveva ragione,
soffrire ora gli avrebbe permesso di stare meglio dopo, magari anche il giorno
successivo.
Quando arrivarono nella loro
via, John invece di portarlo verso l’appartamento di Paul, lo condusse verso
casa sua.
“John, io devo andare di
là.” disse, cercando di guidarlo dalla parte opposta, ma John lo fermò.
“Non credo proprio.”
“Ma io-”
“Ma niente, credo sia meglio
che stanotte resti da me, ok? Non vogliamo che ti capiti qualcosa, da solo a
casa, in questo stato.” spiegò John, sorridendo dolcemente.
Paul protestò vivacemente,
scuotendo il capo, “No, no, no, è troppo disturbo.”
Tuttavia il gesto peggiorò
la situazione e i giramenti di testi aumentarono quel tanto da indurlo ad
aggrapparsi con più forza a John.
“Come no. Chiudi quella
bocca, ora, e vieni con me.” ordinò John divertito.
Paul sorrise, gli occhi
annebbiati e lievemente socchiusi, e seguì John quando aprì la porta con la
chiave e lo trascinò nel suo ingresso.
“Eccoci qua.” esclamò l’uomo,
mentre Paul si abbandonava un po’ più su di lui e mormorava distrattamente.
Stava cominciando a essere
pesante, e John doveva portarlo su qualcosa di morbido prima che si
addormentasse addosso a lui. Non si sentiva proprio di sollevare quel ragazzo
di quanto? Un metro e ottanta?
Così si avviò verso il
salotto dove George balzò in piedi dal divano, “John, che succede?”
“Un bicchierino di troppo.”
commentò John, “Aiutami a metterlo sul divano.”
George obbedì e raggiunse
Paul dalla parte opposta rispetto a John, sorreggendolo con un braccio intorno
alla vita. I due trascinarono Paul sul divano, dove lo fecero sdraiare e una
volta comodo, Paul strizzò gli occhi, stiracchiandosi con una smorfia sul viso.
“Mm… John?”
“Sono qui, Paul.”
“Mi fa male la testa.”
sbiascicò, portandosi una mano sulla fronte, “Non lo sopporto.”
“Ti porto un’aspirina.”
Poi, mentre Paul borbottava
qualcosa simile a un grazie, John afferrò il braccio di George e lo trascinò
con sé, salendo su per le scale.
“Si può sapere che cazzo gli
è successo?” sbottò George, incuriosito.
“La ragazza di Paul l’ha
tradito e lui s’è ubriacato, tutto qua.” spiegò rapidamente John, “Julian?”
“Pattie lo sta facendo
addormentare.”
“Bene.” esclamò John,
guardandosi indietro alle spalle, come un riflesso incondizionato di protezione,
“Allora, hai scoperto qualcosa?”
George annuì, diventando
improvvisamente più serio, “Sì, in effetti c’è qualcosa che ci può
interessare.”
“Ovvero?”
“Si tratta di un’originale
maschera del film The Wall.” esclamò George,
mentre John si infilava nel bagno per recuperare un’aspirina.
“Quello sull’album dei Pink
Floyd?” domandò John, con tanto entusiasmo da chiudere troppo velocemente
l’armadietto dei medicinali e provocare un rumore molto forte.
“Proprio quello. Ma, John,
ci saranno molti poliziotti e sistemi di sicurezza molto difficili da crackare. È pericoloso.”
“L’avevo immaginato.”
“Perciò, pensaci bene prima
di decidere. Prova a parlarne anche con Jim.” gli disse George, abbassando la
voce.
“No, Jim non vuole più
essere coinvolto da quando c’è… sì, insomma, lo sai.” tagliò corto John,
scrollando le spalle.
“Ho capito, ma-”
“E io rispetto la sua
decisione, chiaro?”
“D’accordo, John.” sospirò
George, rassegnato, “Ma cerca di non essere avventato.”
“Ci proverò, grazie per le
informazioni.”
Dopodiché si portò un dito
sulle labbra per dirgli di fare silenzio, prima di entrare nella cameretta di
Julian: la luce soffusa dell’abat-jour illuminava debolmente la stanza, mentre
in sottofondo si sentiva una dolce nenia che proveniva da un carillon. Pattie
era accanto al letto del bambino, guardandolo dormire. Il suo sguardo era dolce
e malinconico, John lo notò subito perché non era la prima volta che lei lo
rivolgesse proprio a Julian.
Quando la ragazza si voltò
verso di lui, John le sorrise e lei ricambiò subito, mentre l'uomo si
avvicinava al bambino per osservare la sua espressione tranquilla, con gli
occhi chiusi, le labbra dischiuse e il respiro profondo. Gli baciò dolcemente
la fronte, cercando di non farlo svegliare, e gli sistemò la coperta leggera,
mentre si chiedeva come facesse Julian a non soffrire il caldo dormendo
abbracciato a quel peluche a forma di sottomarino giallo. Era un mistero. Quel
peluche era una sorta di angelo custode e Julian ormai non poteva dormire
senza. Ma erano in piena estate ormai.
Poi, mentre Pattie usciva
dalla cameretta, John si avvicinò all'armadio, lo aprì e ne estrasse una
coperta. Con delicatezza chiuse la porta della camera di Julian dietro di sé e
si rivolse ai due giovani di fronte a lui.
"Non so come ringraziarvi
per stasera."
"Figurati. Tu eri
impegnato a far ubriacare lo sbirro." commentò George.
"Ha fatto tutto da
solo. Io mi sono limitato ad ascoltare le sue lagne e portarlo a casa sano e
salvo." spiegò John.
Non sapeva perché stesse
cercando di sembrare annoiato, ma qualcuno comunque non credette alla sua
piccola messinscena.
"Ti ci stai
affezionando, vero?" domandò improvvisamente Pattie.
"Cosa?” esclamò John,
sorpreso e indignato, “Sei fuori strada, mia cara."
Tuttavia Pattie non aveva
proprio intenzione di credergli e continuò a guardarlo con un sorriso
malizioso, "Dici? In fondo fai cose che solo un amico farebbe."
"È così, John?"
chiese George preoccupato, e lo sguardo che gli rivolse fu uno dei più
eloquenti, quasi volesse dirgli, 'Non
t'azzardare'.
"Ma no. Non è così!”
protestò John, “Siamo solo due conoscenti, due vicini di casa che ogni tanto si
vedono per suonare e fare due chiacchiere. Lui sta passando un brutto momento e
io sono l'unica sua conoscenza qui, è ovvio che si rivolga a me."
"Se lo dici tu..."
commentò George, scrollando le spalle e avviandosi giù per le scale.
Pattie lo seguì non prima di
aver rivolto a John l’ennesimo sorriso che sembrava sapere che John avesse
mentito, che sembrava avere una profonda conoscenza dei veri sentimenti di
John.
John, dal canto suo, non
sapeva bene cosa gli stesse accadendo. Aveva mentito, questo sì, a George per
di più, il suo migliore amico. Perché gli aveva mentito? Perché non aveva
potuto dirgli che stava imparando a considerare Paul come un amico, anzi, che
lo considerasse ormai più come un amico, che come un nemico?
Quando salutò e ringraziò
ancora George e Pattie per l’aiuto, John decise che non voleva sapere il perché
di tutte queste cose. Non ancora.
Eppure l’immagine che John
vide pochi minuti più tardi, di Paul che sonnecchiava sul suo divano, gli disse
che non doveva preoccuparsi, che era giusto che andasse tutto così. Sospirando
impotente, John si sedette sul tavolino di fronte al divano e scosse lievemente
Paul.
“Paul?”
Il giovane ispettore protestò
con un borbottio infastidito, prima di voltarsi dall’altra parte. John rise, ma
provò di nuovo a svegliarlo.
“Dai, Paul, svegliati solo
un attimo.”
Paul sospirò e tornò a
guardare John, gli occhi socchiusi proprio non ce la facevano ad aprirsi completamente.
“Tieni! Un'aspirina e un po'
d'acqua, così domani sarai come nuovo."
Paul guardò il bicchiere che
gli stava porgendo John, e la promessa dell’amico lo convinse a sollevarsi un
po’ per afferrarlo: era riempito a metà e nell'acqua c'erano bollicine
spumeggianti che indicavano la presenza del farmaco oramai disciolto. Bevve
tutto in un sorso, lasciandosi sfuggire una smorfia per il cattivo sapore.
John gli tolse il bicchiere
dalle mani, prima di farlo sdraiare sul divano e coprirlo con la coperta leggera
appena recuperata. Anche in questo caso Paul lo lasciò fare e quando la sua
testa si appoggiò sul cuscino, il sonno minacciò di sopraffarlo nuovamente.
Eppure c’era ancora una cosa che doveva chiedere a John, perché lui, come
persona ormai vicina a Paul, doveva conoscere la risposta a quella domanda.
"John, perché le
persone mi tradiscono e abbandonano?"
John sussultò a quella
domanda, e insieme a lui anche il suo cuore fece un piccolo salto, "Cosa?"
"Perché lo fanno?”
insistette Paul, senza agitarsi, solo con tutta la tranquillità che il breve
sonnellino di poco prima gli aveva infuso, “Prima mio padre e ora Jane. Forse
sono io che li ho allontanati da me."
"No, Paul, non è colpa
tua. Non devi pensarlo mai.” esclamò John, scuotendo vigorosamente il capo,
“Tu… tu sei una persona bellissima. Nessuno vorrebbe davvero allontanarsi da
te."
La risposta di John fu
ancora una volta delle più banali, e la successivadomanda di Paul fu più che legittima.
"Allora perché loro
l'hanno fatto?"
"Io non lo so.” sospirò
John sconfitto, “Ma so per certo che non è colpa tua."
Paul chiuse gli occhi,
l'espressione era ancora sofferente, ma più rilassata. Come se stesse ormai accettando
quella sofferenza.
"Grazie, John, sei
davvero il migliore amico che abbia mai avuto."
John lo guardò, mordendosi
il labbro e sentendo ancora quel senso di colpa che tornava di tanto in tanto,
anzi spesso ormai, a palpitare in lui.
"Non c'è di che."
rispose, la voce rotta, sopraffatta da tutte le emozioni di quella giornata.
La vista di Paul
completamente perso e vulnerabile, come non lo aveva mai visto, era stato troppo
per lui. John non pensava che Paul potesse davvero ridursi in questo stato. Paul
così composto, così sorridente, Paul così speciale.
E allo stesso modo, John non
pensava di poterne essere tanto colpito. Dio, John sapeva di voler fare
qualcosa, qualunque cosa per quella principessa che continuava a essere nei
guai, e si maledisse perché non poteva fare molto.
O forse…
Forse qualcosa c'era.
"Buonanotte,
John."
Poteva rubare la maschera.
"Buonanotte,
Paul."
Poteva vendicare Paul.
Note
dell’autrice: bene, eccoci qua, aggiornamento anticipato,
un po’ per cercare di avvicinarci velocemente alla svolta della storia e un po’
perché il 6 volevo pubblicare una cosa, se riesco, per l’anniversario di John e
Paul. :3
Allora, John riuscirà a
vendicare Paul?
Lo scopriremo nel prossimo
capitolo, “I’vegot a
feeling”, mercoledì prossimo.
Intanto grazie a kiki per la correzione, ringostarrismybeatle
perché sopporta le mie paturnie, e ChiaraLennonGirl, Flaw, lety_beatle e GaaraIstillloveyoubaby.
La risata di un bambino fu la causa del risveglio di
Paul, la mattina dopo. Era dolce, cristallina e lontana. Rimbombava nelle sue
orecchie, ma era ovattata, come se Paul avesse immerso la testa in una bolla
d’aria e tutto arrivasse a lui debolmente.
Non capiva da dove provenisse quella risata, a casa sua
non c’erano bambini, quindi… dove si trovava?
A malincuore, aprì gli occhi: era l’unico modo, in fondo,
per scoprire dove fosse. Batté le palpebre un paio di volte, mentre lentamente
metteva a fuoco l’ambiente circostante e tutti i suoi sensi si svegliavano con
lui.
Era sdraiato su un morbido divano, la testa appoggiata su
un cuscino soffice, e sopra di lui era sistemata una coperta leggera, affinché
non prendesse freddo durante la notte. Di fronte a lui vi era un tavolino con
un piattino contenente caramelle colorate, e sulla parete davanti c’era un
mobile di legno d’acero, con un televisore incastonato nel mezzo, un impianto
stereo accanto e su tutti gli scaffali c’erano libri, dvd, ma soprattutto cd
musicali e vinili. Inutile dire che quella poteva essere solo la casa di John
Lennon.
Paul si sollevò con una smorfia sofferente sul volto. La
testa pulsava e doleva, mentre Paul cercava di capire cosa fosse accaduto la
sera prima. E quando ricordò tutto, dalla discussione con Jane alla serata
passata con John a bere birra e qualcosa di molto più forte, tanto da
ubriacarsi, la testa fece ancor più male e insieme a lei, il cuore gli dimostrò
il suo tormento stringendosi dolorosamente. Eppure l'odore di quella casa, di
quel divano, di quella coperta, proprio quell'odore sembrò rendere tutto più
sopportabile. Era l'odore dolce di Julian, quando Paul aveva giocato con lui
alla stazione di polizia. Era anche l'odore più forte di John, quando la sera
prima l'aveva sorretto per portarlo a casa e gli aveva promesso che il giorno
seguente sarebbe andato tutto meglio.
Era così. La promessa era stata mantenuta.
Fu più facile, infatti, alzarsi e poggiare i piedi a
terra. Le sue gambe sembravano pronte e desiderose di portarlo dovunque volesse
andare.
Ma prima di questo, la sua attenzione fu catturata da un
movimento, qualcosa che cominciò a strusciarsi contro le sue caviglie. Abbassò
lo sguardo per scorgere un gatto. Non doveva essere molto più grande di Pepper,
ma aveva il pelo tutto bianco.
"Oh, ciao, tu devi essere Elvis." esclamò,
chinandosi per accarezzargli la testolina e lui fece subito le fusa, inarcando
la schiena, come se volesse dirgli, 'Sì, sono proprio io.'
Paul rise e gli dedicò un po' di attenzioni, fino a
quando il suo stomaco non brontolò, percependo un profumino delizioso provenire
dalla cucina.
Si alzò in piedi e si mosse in direzione della cucina,
mentre sentiva delle voci, ovviamente appartenenti a John e Julian.
"Passami altre due fette, Jules." stava dicendo
John, quando Paul si fermò sulla soglia per assistere alla scena.
John stava tostando il pane, che sfrigolava dolcemente in
una padella, mentre Julian seduto sul ripiano accanto alla cucina teneva in
grembo un pacchetto di pane in cassetta.
Ogni tanto John alzava lo sguardo verso il bambino che
ricambiava con un gran sorriso.
Era quasi un peccato doversi intromettere in quel
quadretto familiare, ma la vista di tre piatti sul tavolo contenenti una perfetta
colazione inglese spinse Paul a parlare.
"Buongiorno."
John si voltò immediatamente e sorrise vedendolo in
piedi.
"Hai visto, Julian? La principessa si è
svegliata."
Julian rise mentre Paul aggrottava la fronte perplesso,
"Principessa?"
"Lascia stare, lunga storia." tagliò corto
John, "Piuttosto, sei proprio in tempo per la colazione."
Paul rimuginò ancora sulla storia della principessa,
mentre John prendeva in braccio Julian per portarlo a terra.
"Julian, ti va di mostrare al nostro ospite il suo posto
a tavola, mentre papà finisce di tostare il pane?"
"Sì." rispose il bambino entusiasta, e corse ad
afferrare la mano di Paul, "Vieni di qua."
Paul si lasciò condurre fino all’altro capo del tavolo e
si sedette, ammirando il lavoro svolto da John e Julian. Vi erano tre
tovagliette con una fantasia a quadri arancioni e bianchi, e sopra ognuna di
queste vi era un piatto con uova al tegamino, salsicce e fagioli in salsa di
pomodoro. Julian si sedette accanto a lui, proprio quando John li raggiunse
sistemando due fette di pane tostato per ogni piatto.
“Ecco qua.” disse, dopo averli raggiunti al tavolo, “C’è
del caffè e del succo di frutta, se vuoi, Paul.”
“Grazie, John, ma non avrai fatto tutto questo per me,
spero…”
“Sta' tranquillo. Noi lo facciamo ogni giorno, vero,
piccolo?” chiese John, incitando Julian.
Il bambino era tutto intento a mangiare la sua salsiccia
già tagliata in piccoli pezzi, ma annuì per rispondere alla domanda del padre.
“Visto? Quindi, ispettore, coraggio, mangia in santa
pace.”
Paul rise e obbedì, iniziando a gustare quella abbondante
colazione, ricca non solo di sostanza, ma anche di pace e serenità.
"Stai meglio oggi?" domandò John con
accortezza, guardandolo di sottecchi.
Paul annuì con convinzione, "Sì. Grazie a te."
"Io non ho fatto niente." si affrettò a
specificare John.
"No, non è vero. Hai fatto tutto."
John lo osservò a lungo, mentre Paul gli sorrideva
dolcemente, e in quel momento il giovane uomo arrossì lievemente, ma la
percezione fu quella di due fuochi sulle guance. Due veri e propri incendi
devastanti.
Santo cielo, da quando Paul gli faceva questo effetto?
"Beh..." iniziò a dire, incespicando un po',
"Allora prego."
"Vorrei trovare un modo per sdebitarmi."
affermò Paul, con tutta la serietà del mondo, mentre si versava del caffè.
Per la miseria, aveva stra-maledettamente
bisogno di caffè!
"Non ce n'è bisogno." rispose John sorpreso e
facendo un vago gesto con la mano.
"Invece sì. Puoi chiedermi qualunque cosa."
"Ma Paul-"
"Andiamo, John." lo interruppe Paul, con una
piccola risata, "Ci sarà pure qualcosa di cui hai bisogno."
"Sì, ma non devi farlo."
"Ti prego. Ci tengo."
Paul praticamente lo implorò con lo sguardo, e in quel
momento John si rese conto del potere immenso che si celava dietro quegli occhi
troppo grandi e troppo dolci. Difficile dire di no di fronte a due occhi così.
Si morse il labbro pensieroso, "Ci sarebbe qualcosa
in effetti..."
"Di che si tratta?" chiese Paul, addentando una
fetta biscottata.
"Beh, vedi, è da diverso tempo che avevo intenzione
di ridipingere la cameretta di Julian." rispose John, "Magari
potresti aiutarmi tu, così George può stare in negozio."
"Togli il magari. Lo faccio sicuramente."
esclamò Paul, entusiasta, "Quando cominciamo?"
"Dobbiamo ancora scegliere il colore, giusto,
amore?" domandò John, scompigliando affettuosamente i capelli di Julian.
Il bambino annuì, abbassando il bicchiere di succo
d'arancia e rivelando le labbra bagnate, "Voglio il verde."
"Verde? È un colore bellissimo." fece notare
Paul, "Hai fatto un'ottima scelta."
Julian sorrise compiaciuto, continuando a bere il suo
succo.
"Hai visto, John? Problema risolto. Devi solo
decidere quando iniziare e farmelo sapere."
John annuì, sorridendo fra sé, "Grazie."
Ripresero a mangiare ognuno la propria colazione, con
Paul che voleva sapere quanti disastri avesse combinato la sera prima nel suo
stato ubriaco e John che cercava di tranquillizzarlo, assicurandogli che non
fosse accaduto nulla di così catastrofico.
E fu proprio nel bel mezzo della conversazione che il
cellulare di Paul squillò, facendolo sussultare visibilmente sulla sedia.
John lo guardò attentamente, mentre Paul recuperava il
cellulare dalla tasca dei pantaloni e poi scorgeva il numero sullo schermo. Per
un momento, John ne era sicuro, il giovane ispettore aveva pensato che potesse
trattarsi di Jane, perché una punta di timore aveva oscurato il suo volto.
“E’ dall’ufficio.” disse Paul, guardando John, “Ti
dispiace se vado un attimo di là per rispondere?”
“Oh, ma certo che no.” lo tranquillizzò John.
Paul lo ringraziò, prima di tornare nel salotto in cui
aveva dormito, e rispose al cellulare.
“Sì, pronto?”
“McCartney, sono l’ispettore Starkey.”
“Buongiorno, signore.”
“Buongiorno a lei. Spero che il suo giorno di
ferie sia stato utile.”
“Grazie, sì, lo è stato.”
“Mi fa piacere." rispose
l'uomo, prendendosi un attimo di pausa prima di continuare, "Senta, la
sto chiamando perché abbiamo ricevuto un nuovo messaggio da parte di Hermes.”
“Oh, cosa dice?”
“Si farà vivo settimana prossima,
all’inaugurazione del museo del cinema.”
Paul batté le palpebre, come se non avesse capito. Anzi,
come se non volesse capire, perché in effetti aveva capito eccome. Come avrebbe
potuto non capire l’esatto significato di quelle parole?
“Il museo del cinema?” ripeté e la sua voce balbettò
stupidamente.
“Sì, è stato il signor Donovan ad avvisarci.”
spiegò l’ispettore Starkey, con estrema cautela.
Che cos’era?
Uno scherzo del destino?
Hermes doveva scegliere di derubare proprio l’uomo che in
quel momento Paul odiava di più?
“Ho capito.” rispose Paul, con una piccola voce e lui si
odiò per questo.
“Comprendo bene che possa essere difficile
per lei, ma il signor Donovan verrà nel mio ufficio nel pomeriggio per
discutere su come agiremo, e ho bisogno che lei sia qui. Dopotutto è lei il
responsabile dell’incarico.”
Paul emise un flebile sospiro. Come si diceva in questi
casi? Oltre il danno, la beffa? Era esattamente ciò che sentiva ora Paul.
“Sì, ci sarò, non si preoccupi, signore.”
“Molto bene, allora la aspetto nel mio
ufficio, alle due in punto.”
“D’accordo. A dopo.”
Paul terminò la chiamata e guardò per un istante il
cellulare, prima di abbandonarsi sul divano con la testa fra le mani.
Ancora non credeva a quanto era accaduto, eppure era
tutto maledettamente vero. Stava per incontrare l’uomo che gli aveva rubato
Jane e non per questioni private, non per un regolamento di conti in stile
duello all'ultimo sangue.
Era il lavoro di Paul che li stava avvicinando
inevitabilmente.
Santo cielo, sembrava impossibile anche a volerlo fare
apposta.
Come avrebbe dovuto comportarsi? Come avrebbe dovuto
guardarlo? Che tono di voce avrebbe dovuto usare? Avrebbe dovuto chiedergli di
Jane o no? Avrebbe-
"Paul?" lo chiamò John, comparendo
all'improvviso dal nulla, "Tutto a posto?"
Paul sussultò e si voltò verso di lui, lieto di vederlo
perché il suo arrivo aveva allontanato tutte quelle domande sciocche che si
erano riversate in un istante nella sua mente.
"Sì." sospirò Paul, alzandosi in piedi e
raggiungendo John, "Solo una situazione particolare a lavoro."
"Del tipo?"
Paul scrollò le spalle, impotente, prima di raggiungere
John, "Del tipo che Hermes ha avuto la brillante idea di derubare il nuovo
fidanzato di Jane."
"Oh."
"Già... Oh!"
John ridacchiò divertito con una mano davanti alla bocca,
"Beh, è proprio il caso di dire che è uno strano scherzo del
destino."
"Decisamente." concordò Paul, alzando gli occhi
al cielo.
"È la volta buona che tifi per lui, eh?"
Il giovane ispettore sbatté le palpebre perplesso, "Per
chi?"
"Per Hermes, no?"
"Stai scherzando, John? Non potrei mai. Mi impegnerò
al massimo per proteggere qualunque cosa voglia rubare. Anche se detesto il suo
proprietario, io cercherò di essere il più professionale possibile con lui.
Come ho sempre fatto." affermò con decisione.
John fu colto alla sprovvista. Era stato così in sintonia
con Paul, in quegli ultimi minuti, che si aspettava una battuta anche da parte
sua. Tuttavia Paul era sempre Paul, la parte più inflessibile di lui era ancora
presente e pronta per apparire quando si toccavano quei temi cari a Paul. E la
sua professionalità era certamente il più importante.
“Sì, giusto.
Perdonami.”
“Macché, anzi, ti ringrazio ancora per quello che hai
fatto per me ieri e questa mattina.”
“Non devi ringraziarmi. È stato un piacere.” lo
tranquillizzò John con un sorriso.
“Ora però devo proprio scappare.”
“Sei sicuro?” domandò John preoccupato, “Puoi stare
ancora quanto vuoi.”
“Sì, devo rimettermi un po’ in sesto per dopo. Non credo
sia il caso di presentarmi con queste occhiaie e i vestiti che puzzano di birra."
esclamò, ridendo e indicando i vestiti che aveva indosso e che erano ancora
quelli della sera prima.
“No, infatti." concordò John con una risata,
"Non è affatto il caso.”
“Ci sentiamo più tardi, se vuoi. Dobbiamo finire di
studiare quel brano.”
“Ma certo che voglio.” si
affrettò a ribattere John, “Io adoro quel brano.”
“Buona giornata a te, e in
bocca al lupo per oggi.”
“Crepi.”
Detto questo, Paul uscì
dalla casa di John e questi lo guardò mentre attraversava la strada e si
rintanava nel suo appartamento.
Infine John sospirò, richiudendo
la porta.
C’era stato un momento poco
prima, quando aveva visto Paul con le mani nei capelli, in cui John aveva
provato una stretta al cuore. Non tanto perché gli dispiaceva di vederlo in
quello stato, ormai quello era ovvio. Aveva accettato il fatto che trovasse
difficile vederlo soffrire, anche se non gli era ancora chiaro per quale
motivo.
Piuttosto, ciò che contava
in quel momento, era che John si sentisse leggermente preoccupato. C’era questo
strano sentimento in lui, ingombrante, cresceva ogni volta che pensava a Paul.
Aveva paura di come avrebbe reagito, quando si fosse ritrovato di fronte a
quell’uomo; dopo il crollo totale della sera prima, chissà cosa avrebbe potuto
fare a quell'uomo che proprio in quei giorni aveva superato addirittura Hermes
nella classifica delle "persone da odiare".
Eppure John era sicuro che
Paul se la sarebbe cavata alla grande. Non si sentiva neanche un po’ in colpa
per quello chestava facendo, ovvero avvicinare
quei due uomini, perché Paul avrebbe dovuto affrontarlo ora, e ne sarebbe
uscito vincitore.
Almeno per quell'aspetto
della vicenda.
Era ovvio, come gli
ricordava la ragione, che il vero vincitore sarebbe stato Hermes.
Era anche ovvio, come gli
ricordava il cuore, che fosse tutto sbagliato.
Maledettamente sbagliato.
****
I suoi occhi lo trafiggevano. O perlomeno era ciò che
sperava Paul.
Desiderava che per una sola volta quello non fosse solo
un modo di dire, desiderava che il suo sguardo lo trapassasse da una parte
all'altra, colpendo il cuore dell'uomo che era seduto nell'ufficio
dell'ispettore Starkey, proprio come lui e Jane avevano fatto con lo stesso
Paul.
Il giovane ispettore scosse il capo, allontanando quei
pensieri vendicativi che non erano molti appropriati in quel momento, neanche
per un uomo adulto, ormai cresciuto, come Paul.
Eccolo lì, David Donovan, seduto con disinvoltura sulla
sedia. Aveva una gamba sollevata in modo da far riposare la caviglia sull'altro
ginocchio. Indossava un abito blu scuro, con pantaloni eleganti e una giacca
abbinata sotto cui vi era una camicia bianca slacciata nei primi due bottoni.
Ogni tanto, quando percepiva lo sguardo penetrante di
Paul si voltava verso di lui, solo per un istante, chiaramente a disagio. Forse
voleva solo controllare che non stesse cercando di pugnalarlo o comunque
attentare alla sua vita, e questo pensiero fece ridacchiare Paul dentro di sé.
“Allora, signor Donovan…” stava dicendo l’ispettore
Starkey, “Il ladro ha scritto cosa ha intenzione di rubare dal suo museo?”
“Sì, un’originale maschera dal film The Wall.”
“Visto che il museo è suo, sa dirci in che modo può
interessare a Hermes?” domandò intromettendosi Paul, “Come lei saprà, Hermes si
occupa solo di cimeli musicali, non cinematografici.”
“Certo, penso che sia interessato a quella maschera
perché il film è sul gruppo dei Pink Floyd. Chi non vorrebbe avere qualcosa dei
Pink, eh?” esclamò, terminando con una debole risata.
Tuttavia né Richard né Paul si ritrovarono a condividere
il suo divertimento.
“McCartney, come vuole organizzare la missione?” domandò
Richard, rivolgendo il suo sguardo all’ispettore accanto a lui.
“Dovremmo fare un sopralluogo prima.” rispose Paul,
incrociando le braccia, “Ma comunque, credo che dovremmo cercare di avere più
uomini possibili all’interno del museo, e ovviamente ne sistemeremo qualcuno
all’esterno, in corrispondenza delle uscite e delle finestre. E aggiungerei
anche la perquisizione dei presenti all’entrata del museo.”
Il signor Donovan si agitò sulla sedia, profondamente
inquieto, “E’ proprio necessario? Molti invitati sono amici miei, è
assolutamente impossibile che possano contribuire in qualche modo al furto, o
comunque rappresentare qualche pericolo.”
Paul sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Ricordava molto
il suo primo caso, quando il signor Lowe aveva deciso da solo di non mettere
alcun poliziotto dove era nascosto il vero ritratto. Beh, Paul non avrebbe
ripetuto lo stesso errore.
“E’ necessario.” ribatté Paul infine, aggrottando la
fronte.
“Ma-”
“Senta, signor Donovan, se non ci lascia fare il nostro
lavoro come si deve, allora stia sicuro che non riusciremo mai a fermare
Hermes.”
L’uomo sostenne lo sguardo gelido di Paul per pochi
istanti, prima di cedere inevitabilmente alle sue condizioni, “D’accordo, ho
capito, vada per le perquisizioni.”
“Bene, allora comincio a chiedere l’autorizzazione del
commissario per quanto riguarda le perquisizioni e il sopralluogo.” esclamò
Richard, alzandosi in piedi, "Continua lei, McCartney, mentre vado a
chiamare al commissariato?"
"Sissignore."
"Torno subito, signor Donovan." disse
l'ispettore capo, avviandosi verso la porta.
"Prego, faccia pure con comodo."
Fu così che infine rimasero soli, Paul e la nuova fiamma
di Jane.
L'uomo che gliel'aveva portata via.
L'uomo che era stato responsabile della sua sofferenza.
Non era stato facile per Paul prepararsi a questo
incontro. C'era voluta tutta la sua professionalità insieme al suo buon senso
per non rispondergli male, o peggio, atterrarlo per un improvvisato incontro di
boxe.
Non era neanche facile parlare di lavoro con lui. Paul
aveva questa strana sensazione, come se il signor Donovan non si fidasse di
lui. Come se pensasse che Paul, per i loro recenti trascorsi, avrebbe fatto di
tutto per creargli problemi e magari aiutare Hermes nella sua impresa.
Maledetto bastardo!
Ma per chi l'aveva preso?
Paul non era così. Non si sarebbe mai vendicato. O
perlomeno non l'avrebbe fatto mettendo a rischio il suo lavoro.
“Allora, è una coincidenza ben strana questa.” iniziò a
dire il signor Donovan.
“In che senso?”
L’uomo sorrise nervosamente, “Oh, suvvia, ha capito a
cosa mi riferisco.”
“Certo, ma non capisco davvero cosa voglia supporre.”
“Assolutamente niente, era… era solo per dire qualcosa.”
“Beh, se non ha nient’altro da dire riguardo il caso,
allora la lascio qui ad aspettare l’ispettore Starkey. Ho delle commissioni da
sbrigare.” sbottò Paul, prima di iniziare a dirigersi verso la porta.
“Aspetti un attimo.” si affrettò a dire l’uomo,
afferrando il braccio di Paul e costringendolo a fermarsi, “Io sono solo
preoccupato. Il museo mi è molto caro, ci lavoro da diverso tempo e sono
affezionato a ogni singolo elemento della mostra. Non voglio davvero che per
colpa della mia… vita privata, ci possa andare di mezzo tutto il mio lavoro.”
Eccolo!
Proprio ciò che Paul pensava.
In altre circostanze si sarebbe arrabbiato, e anche
molto. Ma ora che aveva conosciuto quest’uomo e aveva visto con i propri occhi
ciò che si era aspettato dal momento in cui aveva appreso di quell’inevitabile
incontro, si ritrovò a sorridere fra sé.
“Signor Donovan, se lei pensa che lascerò che anche la mia
vita privata si intrometta nel mio lavoro, allora, beh, è questo l’errore più
grande di tutta la sua vita, perché le assicuro che non permetterò mai che
accada.”
"Mi dispiace, non volevo insinuare niente del
genere. È solo che, vedi, Paul… Posso chiamarti Paul?"
"No.” rispose Paul, sbuffando vistosamente, “Può
continuare a chiamarmi ispettore McCartney, signor Donovan. Non ci conosciamo e
certamente non siamo amici."
“D-d’accordo. Come desidera. È
solo che visto quanto è accaduto con Ja-… con la
signorina Asher, mi sembrava solo logico che lei potesse… ecco, potesse-”
“Impegnarmi di meno?” terminò per lui Paul, quasi
divertito da quanto l’altro uomo fosse a disagio, “Come ho già detto, signor
Donovan, lei non mi conosce, e io le assicuro che la tratterò con la stessa
professionalità con cui tratterei qualunque altra persona che chiede il mio
aiuto, niente di più, niente di meno.”
“Mi dispiace di aver dubitato, ma capisce, è stato più
forte di me.” spiegò David, cercando di rimediare al suo errore.
“Non importa.”
“E mi dispiace anche per quanto è accaduto.”
Paul alzò gli occhi al cielo. Proprio come Jane, neanche
lui poteva essere davvero dispiaciuto per quanto avessero fatto insieme. Era
solo una frase di circostanza.
“Non credo, ma comunque, spero che possa essere felice
insieme a Jane.” affermò Paul, “E ora se vuole scusarmi…”
“Sì, scusi lei.”
“L’ispettore Starkey le farà sapere quando avverrà il
sopralluogo. Nel frattempo, buona giornata.” gli disse Paul, uscendo finalmente
dall’ufficio.
“Altrettanto a lei.”
Ma Paul non lo udì, perché era già lontano.
Per
fortuna, era già lontano.
****
Non poteva credere che fosse lì, proprio lì, dentro al
museo.
Eppure eccolo, John, in mezzo a tutta quella gente
vestita elegantemente, con l’aria così sofisticata, i capelli in ordine,
orologi e gioielli dorati… Insomma, gente molto diversa da John.
Ma in fondo, cosa gli importava di quei ricconi snob,
quando era a pochi passi da uno degli oggetti che più desiderava? Un cimelio
originale dei Pink Floyd. Non vedeva l’ora di metterci le mani, lui adorava
quel gruppo così unico nel suo genere.
Amava ogni singola canzone di ogni singolo album, amava Money,
Shine on youcrazydiamond, ComfortablyNumb,
amava-
Amava Wishyouwerehere
e la amava ancor di più da quando Paul l’aveva cantata con lui, qualche giorno
prima.
John non sapeva bene perché avesse chiesto a Paul di
cantarla insieme. Era solo che gli piaceva quando lo facevano, sembrava che
fosse giusto, come se in un’altra vita non avessero fatto altro che cantare e
suonare insieme e guardarsi di tanto in tanto, mentre le loro labbra formavano
le parole della canzone.
Paul aveva opposto resistenza, inizialmente, ma John non
aveva dovuto insistere molto questa volta. Era riuscito a convincerlo in poche
mosse, anche senza l’aiuto di Julian.
E così, si era unito a lui nell’intima
esibizione di quella canzone.
Era stato semplicemente unico, John doveva ammettere che
anche la prima volta era stato emozionante, ma ora era diverso. C’era stata un’emozione
lì, in quella stanza, mentre cantavano. Era la stessa che era apparsa
lentamente in John, e in quel momento era fuoriuscita da lui, avvolgendo anche
Paul insieme a John, come se volesse avvicinarlo a lui, mentre John non
riusciva a togliergli gli occhi di dosso, continuando a cantare e suonare. Paul
qualche volta aveva intercettato il suo sguardo, e quando capitava, sorrideva
lievemente, non solo con le labbra: sorrideva con gli occhi, con il naso che si
arricciava, sorrideva tutto il suo volto che si illuminava e poi arrossiva
appena, proprio appena, probabilmente Paul neanche se ne accorgeva, ma John era
riuscito a notarlo.
L’aveva notato e oh,
se non era la cosa più strana e insieme più bella che avesse mai visto. Forse
perché quando aveva conosciuto Paul non avrebbe mai pensato che potesse
ritrovarsi in quella situazione, non avrebbe mai pensato di riuscire ad aiutare
Paul con il suo problema, e non avrebbe mai e poi mai immaginato che potesse
scoprire di voler vedere, di desiderare un altro sorriso di Paul. Uno in più,
solo uno, solo per John. Quel giorno era stato così e la fortuna gli aveva
concesso ben più di un sorriso di Paul.
Questo era stato il motivo per cui, quando la canzone fu
terminata, John si era sentito disorientato, ritrovandosi sotto lo sguardo
divertito di Paul che aveva riso per poi chiedergli, "Troppo preso dalla
canzone, John?"
Sì, troppo preso dalla canzone e dallo stesso Paul, tanto
che John aveva dovuto sforzarsi per tornare in sé e ci era riuscito quando Paul
lo aveva invitato all’inaugurazione del museo.
Gli aveva detto che avrebbe potuto fargli avere un pass
se gli interessava, e John gli aveva chiesto come mai, mentre cercava di
ignorare quelle due parti di se stesso che stavano avendo reazioni
contrastanti: la prima esultava per il colpo di fortuna, incoraggiandolo ad
accettare la proposta così avrebbe potuto rubare più facilmente la maschera del
film; la seconda gli sussurrava, infida, che non avrebbe dovuto accettare, non
avrebbe neanche dovuto rubare quella maschera, perché era un traditore,
nient’altro, un traditore bello e buono, che stava mandando a quel paese la
fiducia di Paul, e quel pensiero gli inviava sempre brividi di freddo, quasi
glaciali, tanto da fargli venire la pelle d'oca.
Paul aveva risposto che essendo un'inaugurazione molto
importante e il proprietario del museo era il signor Donovan, lui aveva paura
che ci potesse essere anche Jane.
Ovviamente Paul non voleva che lei venisse, soprattutto
perché, anche se l'annuncio di Hermes non era stato reso pubblico, a causa
dell'importanza della serata e di tutte le sue implicazioni economiche e
sociali, restava una serata rischiosa, e Paul non avrebbe mai potuto lavorare
bene, se avesse dovuto preoccuparsi per Jane.
Perciò aveva chiesto il supporto di John.
E John aveva accettato, non sapendo bene quale delle due
ragioni che avevano spinto a farlo, avesse vinto, se il dover rubare la
maschera o l’aiutare Paul con la sua sola presenza.
L’importante era che ora fosse dentro, come John e come
Hermes, e ce l’aveva portato proprio Paul.
Il piano non era stato affatto semplice da programmare.
Avrebbe richiesto rapidità, agilità, coordinazione, insomma, tutte quelle cose
che John e George avevano sempre dimostrato prima d’ora, ma su cui John in
questo momento cominciava a sentirsi insicuro. Non era un buon segno. Non
sentiva più neanche l’entusiasmo di prima. Stava per rubare qualcosa solo per
vendicare Paul. L’avrebbe messo comunque nei guai, ma il motivo principale era
che John volesse colpire, a suo modo, l’uomo che aveva contribuito a
distruggere Paul.
La visione di Paul completamente ubriaco e perso l’aveva
colpito più di quanto potesse immaginare. Tornava a tormentarlo di tanto in
tanto, violentemente, facendogli desiderare solo di avere il potere di farlo
stare meglio con uno schiocco delle dita.
Come in quel momento.
Dannazione, non poteva
distrarsi. Un attimo di distrazione sarebbe stato fatale. Non poteva correre
questo rischio. La sua missione aveva già abbastanza complicazioni, ci mancava
solo che John perdesse tempo nei suoi pensieri alquanto strani e preoccupanti.
Ci penserai dopo, John, si
disse, cercando di tornare in sé.
Per aiutare se stesso a ritrovare la concentrazione,
mentre aspettava notizie di George, John decise di avviarsi verso il tavolo
dove eleganti camerieri servivano vino per gli ospiti. Optò per un calice di
vino bianco, prima di ammirare le opere che erano esposte nelle diverse sale
del museo. Non era un museo molto vasto, almeno paragonato ai più vicini
National Gallery e Portrait Gallery. Tuttavia non era
male, John doveva ammetterlo. C’erano locandine originali di film che
risalivano probabilmente addirittura a prima che nascessero i suoi nonni, e poi
costumi originali, oggetti di scena, e ovviamente, la famosa maschera che John
stava per rubare.
Era appoggiata su un semplice piedistallo, circondata da
cordoni rossi di velluto per impedire a chiunque, soprattutto a Hermes, di
avvicinarsi. John si sarebbe aspettato di vederla all’interno di una teca di
vetro, ma per fortuna, niente in quel museo era protetto in quel modo. Sarebbe
bastato allungare la mano e afferrarla, prima di correre via a perdifiato.
John la esaminò rapidamente da vicino, sorseggiando il
suo vino bianco, dal gusto leggermente dolciastro e frizzante; poi si allontanò
in fretta, per non destare troppi sospetti. Le sale erano sorvegliate da
poliziotti in ogni angolo. All’ingresso avevano addirittura perquisito gli
invitati. Ovviamente John era stato informato in precedenza da Paul, ed era
preparato, ma alcune signore con i loro abiti lunghi e scintillanti ne erano
rimaste totalmente sconcertate. Come potevano quei poliziotti da quattro soldi
anche solo pensare che loro nascondessero qualche pericolosa arma nelle loro
piccole borse o peggio, nella scollatura dei loro vestiti? Buon cielo, che
oltraggio!
John aveva riso vedendo le signore, decisamente piccate
nel loro nobile orgoglio, che venivano condotte in una sala privata per una
perquisizione altrettanto privata con delle poliziotte più degne di poter
gestire una situazione del genere.
Lui per fortuna non aveva avuto problemi. E come avrebbe
potuto averne? Indossava solo un paio di occhiali da vista, con la montatura
più spessa del solito, e nella giacca c’erano un portafogli e una scatoletta di
mentine, che tornavano sempre utili.
Oh e ovviamente c'era anche un piccolo, praticamente
invisibile auricolare per parlare con...
"George?" sussurrò impercettibilmente, coprendo
la bocca con il calice di vino.
"Sì. Ci sono quasi."
George era in un punto non ben precisato, nei pressi del
museo, nascosto in un piccolo furgoncino. Stava cercando di crackare
il sistema di sicurezza del museo, oltre che l'impianto elettrico, per poter
innescare con un semplice invio un blackout generale del museo che avrebbe
permesso a John di agire.
"Vorrei liberarmi il più in fretta possibile di
questo impiccio." mormorò John, facendo finta di tossire subito dopo,
"Sto cominciando a sentirmi a disagio."
"Ti ricordo che si tratta di una tua
idea, John. Per cui ora arrangiati."
Che razza di amico, pensò John ridacchiando e
avvicinandosi alle locandine appese alla parete.
"Comunque, ho scoperto come accedere al
sistema di sicurezza. Ma hanno installato un generatore di corrente extra che
si attiva dopo pochi minuti, quindi dovrai essere molto veloce."
John annuì, facendo finta di ammirare le opere esposte.
"Io penso di poter arrivare lì in un
minuto. Sarò proprio sotto la finestra a destra della sala dove ti trovi tu,
hai capito?"
"Sì."
"Mi occupo io dei poliziotti di guardia
all'esterno, ma tu dovrai fare il resto."
Di nuovo John annuì, analizzando una rarissima locandina
di Dracula del 1931, di cui, stando a quanto diceva la descrizione, esistevano
solo tre pezzi in tutto il mondo, e stava per rispondere affermativamente,
quando qualcuno gli si avvicinò alle spalle, senza che John potesse avvertire
il benché minimo rumore.
“Ciao, John.”
L'uomo sussultò visibilmente. Maledizione, da quando era
diventato così facilmente sensibile?
Poi si voltò e quando riconobbe l'uomo di fronte a lui,
ebbe la sua risposta.
"Avevo detto che ci sarei stato ed eccomi qui."
rispose John, indicando tutto se stesso.
"Sì, sei qui.”
Sembrava davvero sorpreso che John l'avesse raggiunto, e
il fatto che ora si stesse mordendo il labbro allontanò fin troppo facilmente i
pensieri di John dalla conversazione con George per portarli in un luogo
nascosto, segreto, dove John potesse facilmente credere che quel gesto col labbro
significasse solo che Paul era molto felice, tanto da dover costringere se
stesso a non lasciarsi scappare parole più calorose, parole compromettenti,
parole-
No, che stava pensando? Era totalmente fuoristrada. John
era amico di Paul. Lui era felice solo per questo.
Così, vedendo Paul ancora troppo preso dalla
realizzazione, John si decise a proseguire.
"Allora, gran bella serata, vero?"
"Se non dovessi lavorare lo sarebbe di più."
commentò Paul, sbuffando appena.
"Giusto."
Inoltre se Paul non fosse stato in servizio, in quel
momento, allora quella sarebbe stata una semplice uscita tra loro due.
Solamente loro due. Come un... appuntamento?
Vaffanculo, John, che testa di cazzo sei?
Stava impazzendo. Ecco, tutto qua. Non c'era altro
motivo.
"Jane non è venuta." lo informò Paul, e John lo
ringraziò fra sé per il semplice fatto di aver parlato e aver offerto uno
spunto di conversazione.
"Beh, è stato molto sensato da parte sua."
commentò John.
"Sì. Non penso che avrei potuto sopportare di essere
nella stessa sala con lei e con...quello!"
esclamò, indicando con la testa il signor Donovan.
John si lasciò scappare una risata prima di seguirlo con
lo sguardo, notando che il produttore cinematografico stesse parlando
amichevolmente con un uomo e una donna molto più anziani di lui, mentre si
allontanava da quella sala per raggiungerne un’altra.
"Quello? Avanti, Paul, puoi trovare qualcosa
di meglio per lui." esclamò John, divertito, dandogli una leggera spinta
sulla spalla.
"Ehm… idiota?"
"Stai scherzando? Coraggio, impegnati, amico."
lo esortò John.
"Coglione."
"Oh, così iniziamo a ragionare." affermò
soddisfatto John.
E la sua euforia fu percepita anche da Paul, che si
lasciò prendere la mano in quel piccolo gioco improvvisato.
"Stronzo." esclamò con fervore.
"Perfetto."
"Fottuto bastar-"
"Signore?"
Una voce femminile si intromise nello sfogo
di Paul, guardandolo perplessa.
"Oh, Linda." esclamò Paul,
arrossendo per essere stato sorpreso in un tale sconveniente comportamento, ma trovandolo
ancora più divertente, "Dimmi pure."
"Mi chiedevo se non fosse il caso di
fare un sopralluogo per le altre sale del museo, per controllare che sia tutto
tranquillo." propose la donna.
"Ma certo, hai ragione. Arrivo subito,
grazie."
Paul la guardò allontanarsi, prima di riportare
il suo sguardo su John e soffermarsi su di lui per un tempo che a entrambi
parve indeterminato.
"Ti ringrazio, John, per essere venuto,
ti ringrazio infinitamente."
"John, ci siamo."
Ma John non udì correttamente le parole di
George, sovrastate da quelle più forti, più vere di Paul. E i suoi occhi, gli
occhi grandi di Paul erano di nuovo posati su di lui e questa volta lo
osservavano con divertimento, felicità e qualcosa di molto caldo, molto dolce.
"Si entra in scena fra
tre..."
Cos'era? Affetto?
Erano occhi che mostravano qualcosa che
poche, rare volte John si era sentito rivolgere e la sensazione gli fece girare
la testa.
"Due..."
Il suo cuore palpitava e John non sapeva più
per quale motivo. Era a causa della sua imminente entrata in azione, o era a
causa di Paul?
"Uno..."
Avrebbe tanto voluto rispondergli che no,
Paul non poteva ringraziarlo, non in quel modo, perché John gli stava
complicando la vita e Paul davvero non aveva assolutamente nulla per cui
ringraziarlo.
Avrebbe voluto dirgli che il senso di colpa
lo stava distruggendo, ma non poté perché alla fine George parlò.
"Via!"
E tutto divenne buio.
****
La prima cosa che Paul udì fu il tonfo sordo del suo
cuore, che si preparava a qualunque cosa stesse per accadere, come tutto il
resto del suo corpo.
Sapeva cosa stava per accadere: Hermes.
Poi ci furono le voci concitate e spaventate degli
invitati per essere rimasti all’improvviso al buio. Così il giovane ispettore
decise di prendere in mano la situazione, non prima di aver suggerito a John di
seguire le sue istruzioni.
"Mantenete la calma, si tratta solo di un blackout.
Seguite la mia voce e riunitevi tutti in questo angolo."
Paul faceva fatica a vedere, nonostante dalle finestre
entrasse una debole luce. Quasi non bastava neanche per distinguere le sagome.
“Agente Eastman, dai l’allarme alla squadra esterna e
cerca l’ispettore Starkey, ma fai attenzione.”
“Sissignore.”
Paul la sentì allontanarsi con passo sicuro ma attento,
mentre i restanti due agenti presenti in sala gli chiedevano istruzioni.
“Mantenete le postazioni, io mi occuperò di proteggere la
maschera.” disse e fece per raggiungere il piedistallo con l’oggetto in
questione.
Era a un passo dalla sua meta quando il rumore di un
vetro che si infrangeva lo fece sussultare e immobilizzare, mentre ci furono
altre urla dei presenti. Tuttavia Paul non fece in tempo a voltarsi per cercare
la finestra che era stata rotta, dal momento che il minuto dopo la sala venne
invasa dai fumogeni e tutti iniziarono a tossire.
Dannazione.
Paulsi affrettò a
coprirsi naso e bocca con un fazzoletto, e nonostante gli occhi iniziassero a
bruciare per il fumo, il giovane ispettore riuscì a raggiungere la maschera per
impedirne, come poteva, il furto da parte di Hermes.
Attese, cercando di affinare l’udito, l’unico dei sensi a
cui potesse fare affidamento in quella situazione. In fondo, con il buio e il
fumo era come se fosse cieco. Un gran bello svantaggio per uno che doveva
proteggere un oggetto di valore e cercare di arrestarne il predatore. Il cuore
che pulsava nelle orecchie non aiutava, mischiando i suoi battiti al tossire
violento di chiunque avesse respirato quel fumo apparentemente soffocante.
Poi un rumore lieve, un passo felpato lo allertarono,
così come un’ombra che si mosse agile davanti a lui, proprio dalla parte
opposta del piedistallo.
“Non vincerai, non stavolta. Sei in trappola.” cercò di
dire, trattenendo la tosse che voleva prendere il sopravvento su di lui.
Non seppe bene per quale motivo lo disse, forse voleva
solo rendere nota la sua posizione in modo da scoraggiare o comunque allarmare
Hermes, ma comunque sapeva che non sarebbe servito a nulla.
Perciò tentò il tutto per tutto. Non avrebbe mai potuto
proteggere la maschera se fosse rimasta così esposta e decise di allungare una
mano per afferrarla, ma nello stesso momento sentì e percepì fisicamente uno
dei sostegni dei cordoni di protezione che veniva spinto a terra, producendo un
rumore metallico acuto e penetrante.
La mano di Paul esitò, restando a mezz’aria, mentre lui
cercava di capire se Hermes si fosse avvicinato a lui; in quel caso avrebbe
potuto decidere di afferrare lui piuttosto che la maschera e risolvere tutti i
suoi dannati problemi.
Ma proprio quell’attimo di esitazione gli fu fatale, perché
un’altra mano si avvicinò alla maschera e la sottrasse abilmente, e poi ci
furono dei passi veloci che si allontanavano dal piedistallo, ma restarono
comunque nella sala. Sicuramente Hermes sarebbe fuggito dalla stessa finestra da
dove era entrato. Paul fece per voltarsi e corrergli dietro, ma i cordoni erano
caduti proprio accanto a lui e lo fecero inciampare.
“Inseguite il ladro.” ordinò a gran voce agli altri due
agenti, mentre lui si rialzava un po’ goffamente.
Era terribile non avere alcuna idea dello spazio
circostante, né misure, né posizioni, né altro. Paul non avrebbe mai e poi mai
voluto trovarsi in una simile situazione un’altra volta.
Iniziò a correre cercando di farsi strada nella sala in
mezzo a quel fumo che proprio non ne voleva sapere di svanire, ma quando
arrivòsotto quella forzata via d’uscita,
vide una figura incappucciata sparire al di là della finestra. Paul non ci
pensò due volte. Si arrampicò in fretta e si sporse all’esterno, notando che
gli agenti che avevano il compito di sorvegliare quella breccia vulnerabile
erano stati messi k.o.
Non pensò molto prima di buttarsi al di fuori
dell’edificio e correre all’inseguimento di Hermes.
Non pensò affatto.
****
John sospirò, abbandonandosi alla parete.
Era seduto per terra, nello stesso punto in cui si
trovava quando la luce era andata via.
Lì dove Paul l’aveva lasciato.
Ce l’aveva fatta. Incredibilmente era riuscito a rubare
quella maschera.
Inspirò profondamente per recuperare più aria possibile,
dal momento che aveva inspirato lui stesso un po’ di quel fumogeno, dopo aver
lasciato la maschera a George. Doveva sembrare che lui non si fosse mosso dalla
sua posizione, doveva sembrare che lui fosse uno qualunque dei presenti.
Chiuse gli occhi, ricordando quei momenti di ansia e
adrenalina per essere a pochi passi dal suo ispettore.
Quando il buio li aveva avvolti, i suoi occhiali, un po’
diversi dal solito, gli avevano permesso una nitida visione, anche se immerso
nell’oscurità. Erano occhiali a raggi infrarossi, mascherati da comuni, banali
occhiali da vista. Una tecnologia molto sopraffina, decisamente.
E poi George da fuori aveva rotto la finestra e l’aveva
aperta, mentre John aveva sfilato la sua scatoletta di latta di mentine, o
forse era meglio dire, presunte mentine; aveva premuto il piccolo pulsante che
sembrava dovesse aprire la confezione, e l’aveva fatta scivolare accanto a sé,
dove aveva subito causato quella nube di fumo che aveva avvolto tutti i
presenti, compreso lo stesso John.
Tuttavia, come sembrava avesse fatto anche Paul, John si
era coperto naso e bocca con un fazzoletto ed era entrato in azione. Si era
avvicinato al piedistallo, pur sapendo che Paul fosse proprio lì, e aveva visto
quando aveva cercato, disperatamente, di afferrare la maschera. Così, per
distrarlo, aveva deciso di far cadere i sostegni dei cordoni vellutati e poi
gli aveva sottratto la maschera, proprio da sotto il suo bel naso.
Dopodiché si era precipitato verso la finestra, da dove
George era spuntato per prendere la maschera e scomparire in mezzo al traffico
del centro di Londra, mentre John era tornato verso la sua postazione per
sedersi a terra e recuperare la scatoletta di fumogeni ormai esaurita,
nascondendola in tasca, prima che tornasse la luce.
I poliziotti in sala si erano ripresi rapidamente,
cercando l'ispettore McCartney con lo sguardo, ma non trovandolo da nessuna
parte. Poi mentre prestavano soccorso agli invitati all'inaugurazione, erano
sopraggiunti l'ispettore Starkey e un ben alterato signor Donovan, anche loro
alla ricerca del povero Paul.
Quando videro che la maschera era sparita, beh, quello fu
il momento in cui il produttore cinematografico perse completamente le staffe.
L'ispettore capo cercò di farlo calmare, soprattutto per la presenza dei suoi stessi
invitati, ma lui non lo ascoltò e cominciò a urlare che doveva aspettarselo,
che era tutta colpa di McCartney, perché era un incompetente e un vendicativo.
Questo fino a quando l'uomo in questione tornò nel museo,
visibilmente sconvolto, affannato e sudato. Insomma era in pessimo stato.
E quando si trovò di fronte al signor Donovan e dovette
spiegare a entrambi che si era lasciato sfuggire Hermes perché era stato
inghiottito dalla folla di turisti a Trafalgar Square,
l'uomo ricominciò il suo flusso di ingiurie nei suoi confronti, definendolo un
pazzo che aveva lasciato che la propria vita privata influenzasse il suo
lavoro, e chi c'era andato di mezzo era stato proprio David Donovan. E quando
osò insinuare che non si sarebbe sorpreso, se avesse scoperto che fosse stato
addirittura lo stesso Paul a organizzare il furto, allora fu il turno
dell'ispettore arrabbiarsi, anche piuttosto seriamente, in un modo che John non
aveva mai visto. Gli disse che non aveva alcun diritto di alterarsi in quel
modo perché Paul aveva fatto di tutto per acciuffare Hermes e riprendere la
maschera, l'aveva inseguito a perdifiato in mezzo alla folla prima che lui
sparisse inghiottito dall'oscurità della notte.
E prima che David potesse ribattere, l'ispettore Starkey
lo fece allontanare dalla sala, mentre l'uomo sbraitava che si sarebbe fatto
risarcire per l'immensa perdita subita a causa di Paul.
Quando furono andati via, Paul sospirò. Era stanco e
altrettanto stanco si sentiva John, non solo a compiere furti che ormai non
sembravano entusiasmarlo più, ma anche a vedere, notare la stanchezza di Paul.
Era tutta colpa di John, se Paul era ora in quello stato, e John non lo poteva
accettare.
Ancor più difficile da sopportare fu il modo in cui Paul
si voltò e lo cercò con gli occhi, e poi gli sorrise, una volta scorto lì a
terra, dove l'aveva lasciato.
Non poteva continuare così. John poteva essere sia la sua
forza che la sua debolezza. Non era giusto.
"John, stai bene?" gli chiese, quando si
avvicinò.
"Sì. Tu?"
Paul annuì, sedendosi di fronte a lui a gambe incrociate.
"Mi dispiace per quello che è successo." ammise
John, nonostante un brivido l'avesse appena attraversato.
Ipocrita, ecco cos'era, e bugiardo.
Un traditore ancor peggiore di Jane e del signor Donovan.
"E a me dispiace di averti trascinato qui."
ribatté Paul, con un sorriso amaro.
La mano di John si mosse automaticamente verso quella di
Paul, per tranquillizzarlo, "Non preoccuparti. Stiamo tutti bene, è questo
che conta."
"Sì." concordò e il suo sorriso divenne più
sincero ora.
"Come…” iniziò a dire John, ritirando la mano, “Come
ha fatto a entrare?"
"Ha messo fuorigioco gli agenti all'esterno che
sorvegliavano queste finestre, poi è entrato facendo scattare un fumogeno per
poter agire con più facilità. E alla fine è scappato."
"E il blackout?"
"Penso che sia stato opera del complice."
rispose Paul, incrociando le mani e appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
"Hermes ha un complice?" chiese John, cercando di
sembrare il più sorpreso possibile.
"Sì. Lo sappiamo da un po', ormai. Dovrebbe essere
una specie di hacker informatico. Riesce a infiltrarsi nei sistemi di controllo
e sicurezza del luogo dove Hermes dovrà rubare."
“Oh, beh, così è troppo facile rubare.” esclamò John,
scuotendo il capo, “Arsenio Lupin non aveva di certo un complice hacker per i
suoi colpi. Faceva tutto da solo.”
Paul si lasciò scappare una risata e la cosa fece sentire
John entusiasta in un modo molto familiare, un modo che John difficilmente
poteva dimenticare. Era la stessa sensazione che John aveva provato quando
aveva rubato per la prima volta come Hermes.
Il che gli fece pensare che stesse rubando anche un’altra
cosa: la fiducia di Paul.
“Meno male che sei venuto stasera, John.”
John scosse lievemente la testa per allontanare una buona
volta quei pensieri insieme eccitanti e deprimenti, “Ah, e che fine ha fatto il
‘mi dispiace di averti trascinato qui’?”
“Era vero, ma sono comunque felice che tu sia qui. È tutto più facile quando ci sei tu.” disse Paul e lo fece
con una semplicità unica, una naturalità assolutamente deliziosa.
Il tonfo del cuore di John fu tanto forte che
lui si meravigliò che Paul non l’avesse sentito, ma a quanto pare fu proprio
così, e il giovane ispettore gli rivolse ancora quello stesso sorriso che gli
faceva maledettamente tremare le gambe. Ovviamente John non poteva dirlo con
certezza, era seduto, in fondo. Tuttavia era quasi sicuro che se si fosse
alzato in piedi, le sue gambe non lo avrebbero sorretto, almeno non se Paul
continuava a sorridergli in quel modo.
Dannato Paul, maledettissimo Paul. Era tutta
colpa sua, stava giocando e mandando a quel paese la mente di John. E John…
John lo odiava. Dio, se non era così. E ora doveva solo allontanarsi il
più in fretta possibile da quello stupido museo.
“E’ stato un piacere, Paul, ma ora, se ho il
permesso, vorrei davvero tornare a casa.” esclamò alzandosi in piedi.
“Certo, vai pure.”
“Non fare tardi, eh?” si raccomandò John, “Hai
bisogno di riposarti anche tu.”
“Ci proverò.” sospirò Paul, scrollando le
spalle.
“E soprattutto lascia perdere quell’idiota.
Non sa quello che dice.”
“Va bene.” affermò Paul, rincuorato, “Grazie
ancora per tutto, John.”
“Grazie a te.” disse, accennando un sorriso,
“Allora, ci sentiamo presto.”
“Sì. A presto.”
John annuì, guardandolo per un altro istante.
E poi si costrinse con la forza a voltarsi e allontanarsi da quell’uomo che
costituiva ormai un pericolo non solo per Hermes, ma anche per John. Un
pericolo di cui però John non poteva più fare a meno.
“Non è stata colpa mia.” disse all’improvviso la voce di George, ricordando in questo modo
a John che aveva dimenticato di togliere l’auricolare.
“Cosa?” sbottò John, uscendo dal museo, a
testa china einfilando le mani in
tasca.
“Quella pugnalata fredda alla
schiena che hai sentito prima.”
“Ma che stai dicendo?”
“Sì, dai, quando Paul ha detto
quelle cose, non ti sei sentito neanche un po’ in colpa?”
“Oh, per favore, George, sta’ zitto.”
“Ma io-”
Con un gesto nervoso, John si tolse l’auricolare,
nascondendolo in tasca. Finalmente silenzio.
Non che fosse servito a molto.
Dopotutto ora non sentiva più George, né
Paul, ma John era sempre presente in lui. E John sapeva diventare il più
assillante, fastidioso rompiscatole quando si impegnava.
Come ora, ora che gli faceva notare che era
vero, non era colpa di George, quella pugnalata fredda alla schiena. E non era
neanche colpa di Paul, lui in fondo non stava mentendo.
No.
Era solo colpa di John.
John, lo stupido.
John, il traditore.
John, il ladro.
****
Paul non poteva crederci.
Non poteva credere che Jane fosse andata da lui, un paio
di giorni dopo il furto. Era stata una vera sorpresa, trovarsela davanti una
volta aperta la porta.
Eppure era proprio Jane, in carne e ossa.
Gli aveva chiesto cortesemente di poter entrare e Paul
l’aveva fatta accomodare. Non capiva per quale motivo fosse lì, l’unica cosa di
cui lui era certo era che improvvisamente stare nella stessa stanza con lei,
ora, era più facile. Tutta la rabbia che provava prima per lei si era affievolita,
insieme al suo amore. Su questo non vi era alcun dubbio.
“Mi dispiace per quello che è successo.” esordì Jane.
“A cosa ti riferisci?”
“A tutto. Non solo a quello che ti ho fatto, ma anche per
l’altra sera. Ho letto l'articolo sul giornale. David non avrebbe dovuto dire
quelle cose davanti a tutte quelle persone.”
“Non avrebbe dovuto.” ripeté Paul, pienamente d’accordo,
ricordando l’articolo di giornale che riportava per filo e per segno tutte le
ingiurie che gli avesse rivolto David.
“Pensavo che non venire all’inaugurazione avrebbe reso le
cose più facili, ma mi sbagliavo.” affermò Jane, e i suoi occhi divennero più
lucidi, anche se c’era un sorriso triste sul suo volto.
“Non è vero, avevi ragione. Penso che non avrei potuto
sopportare lo stare nella stessa stanza con voi due e nel frattempo
concentrarmi sul lavoro.”
"Allora una cosa buona l'ho fatta." commentò
lei amaramente.
Paul scosse il capo e si affrettò a rispondere, "Jane.
Non dire così."
"Perché non dovrei?" sbottò Jane, senza
riuscire a trattenere le lacrime, "Ho rovinato tutto quello che stavamo
costruendo insieme."
"Ehi. Si è sempre in due in una relazione e se è
successo quello che è successo, allora è anche colpa mia. Non ho saputo
custodire il tuo amore."
"Oh Paul!" si lasciò scappare prima di
piangere, scossa da singhiozzi violenti, "Non dovresti dire così. Dopo
quello che ti ho fatto passare..."
"Beh, penso che se è accaduto, allora doveva essere
inevitabile. Ma ora devi farti coraggio, Jane, e non piangere." le disse
lui, alzandosi per sedersi accanto a lei.
Le diede pacche leggere sulle spalle e le porse un
fazzoletto che lei accettò per asciugare le lacrime. La ragazza pianse per
qualche minuto, mentre Paul cercava di consolarla con dolci parole di conforto.
Quando alla fine Jane si calmò, si scusò per il piccolo
crollo avuto di fronte a lui. Poi disse di dover andare via: aveva un aereo per
la Francia in serata e stava già rischiando di fare tardi.
Paul annuì e la accompagnò fuori casa, verso la macchina.
"Allora fa' buon viaggio." le disse.
"Grazie, Paul. Per tutto."
Jane gli sorrise, i grandi occhi azzurri erano ancora
lucidi, e Paul pensò che non potesse essere arrabbiato con lei. Non più almeno.
Non ora che non aveva senso, perché si stavano dicendo addio.
"Non devi ringraziarmi."
"Ci tenevo. Così come tengo molto al restare amici,
se per te va bene."
Paul si morse il labbro. Non avrebbe mai potuto pensare a
Jane come un'amica. Anche se lui non l'amava più, era ancora troppo presto per
considerarla un'amica. Eppure lui sapeva e Jane sapeva che una volta che lei
fosse andata via, non si sarebbero rivisti mai più.
Così che senso aveva farla andare via con una risposta
negativa?
"Certo, Jane. Mi farebbe molto piacere."
Jane sorrise dolcemente e Paul si accorse che da tempo
non sorrideva così con lui. Poi lei si avvicinò e lo abbracciò teneramente,
prima di salutarlo una volta per tutte e sparire dentro la sua macchina.
Paul rimase a guardarla fino a quando l'auto sparì dietro
l'angolo. C'era un vuoto nel cuore ora. Ma non era propriamente spiacevole.
Sembrava quasi buono, come un buon segno, come se qualcosa di bello e
incredibile stesse per accadere per riempire quel vuoto.
Il pensiero era dei più positivi e Paul si ritrovò a
sorridere, e sorrise ancor di più quando voltandosi per tornare in casa,
incrociò lo sguardo di John che lo osservava dal suo negozio.
Lo salutò con la mano. Un saluto e un sorriso, gesti
molto automatici ormai da rivolgere a quel ragazzo così particolare e così
fondamentale per lui.
E John ricambiò subito.
John che l'aveva visto con Jane con una stretta dolorosa
al cuore. Non perché fosse geloso, in fondo si vedeva che quello fosse un addio
definitivo tra Paul e Jane.
La stretta dolorosa era per il semplice fatto di aver
incrociato lo sguardo di Paul.
Era per tutte quelle emozioni che Paul suscitava in John.
Per quel sentimento che si agitava disperato e contento
dentro di lui.
Sì, c'era davvero un sentimento in John per Paul.
No, non era affatto amicizia.
Sì, era qualcosa di molto più dolce.
No, non era una bella cosa.
Sì, erano grossi guai.
Perché John, con quel sentimento, era fottuto.
Perché John, il ladro, aveva perso la testa per Paul.
Paul, l'ispettore.
Note dell’autrice: yeah,
sorpresa! Santo cielo, una storia al giorno in questi tre giorni, e che cavolo!
Qualcuno mi ha chiesto di
aggiornare prima sulla pagina facebook, e considerato
che era un capitolo importante, ho pensato di accontentare. J
Beh,
allora John e la sua realizzazione occupano gran parte del capitolo. :3 E direi
che era ora che si svegliasse questo ragazzo. Yooo!
Grazie
a kiki per la correzione, grazie a ringostarrismybeatle che mi sopporta supporta e che mi ha ispirato la scena di John e Paul prima del colpo di Hermes, e
grazie a lety_beatle, paulmccartneyismylove,
Chiara_LennonGirl, GaaraIstillloveyoubaby,
paperback_writer, Mademylifeasong.
Grazie
anche a tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite. Wow! *_*
Prossimo
capitolo, “Here comes the sun”,
martedì prossimo. Parola chiave: piscina! ;)
John stava correndo a perdifiato in una delle stradine
che costeggiavano il lussuosissimo hotel Dorcester,
di fronte ad Hyde Park.
Aveva appena derubato Elton John in persona. Il famoso ed
eccentrico cantautore in quei giorni aveva una serie di concerti al Royal Albert Hall, e soggiornava nel vicino Dorcester insieme al suo compagno. La cosa davvero
particolare di quel soggiorno, che era perfino stata riportata su tutti i
tabloid inglesi, era che Sir Elton avesse addirittura prenotato una camera solo
per gli accessori, come scarpe, gioielli e ovviamente gli occhiali.
John sapeva da tempo che, semmai gli fosse capitata
l'occasione, avrebbe rubato un paio di occhiali di Elton John. Erano così
particolari, così unici nel loro genere, bisognava avere un fegato niente male
per potersi esibire davanti a migliaia di persone con quegli accessori strambi.
Tuttavia Sir Elton aveva dimostrato più volte di possedere quel fegato, ed era
una delle cose che John apprezzava di lui, oltre al grandissimo talento per
scrivere canzoni sempre originali e sicuramente d'effetto.
Il problema, però, era che John in quei giorni non fosse
stato più lo stesso. Aveva letto l'articolo sul cantante e non aveva
minimamente pensato di derubarlo.
Non aveva neanche avuto voglia di farlo. Se non
fosse stato per George, infatti, John non avrebbe mai e poi mai deciso di
indossare nuovamente i panni di Hermes: George aveva insistito, dicendo che era
un'occasione da non perdere e avrebbero dovuto assolutamente rubare qualcosa al
mitico baronetto.
Controvoglia, John aveva accettato.
E ora era lì, a correre in quella stradina, inseguito da
Paul.
Non era stato particolarmente facile realizzare quel
colpo, sebbene una voce dentro John gli continuasse a ripetere che, rispetto ad
altri colpi, questo era una passeggiata.
Era John il problema. Ormai aveva capito da tempo
di non avere più l'entusiasmo, né l'ispirazione, né tantomeno la concentrazione
giusta.
Il messaggio di Hermes aveva annunciato il furto di una
camicia dell'artista, ma in realtà il suo obbiettivo era un paio di occhiali.
Così Paul aveva concentrato le guardie nella camera principale del Sir, sebbene
un paio di guardie fossero state incaricate di sorvegliare l'interno della
camera degli accessori. John, sapendo tutto questo dallo stesso Paul, si era
arrampicato dall'esterno fino al quinto piano dell'edificio. Era l'unica
soluzione, dal momento che l'interno dell'hotel pullulava di poliziotti. Una
volta raggiunto il balcone, in silenzio aveva creato una piccola breccia nel
vetro, per potervi far scivolare all'interno un dispositivo che avrebbe
addormentato i due poliziotti di guardia con un potente sonnifero.
Difatti i due uomini erano caduti a terra, privi di
senso, e John aveva potuto agire indisturbato. Era entrato e aveva potuto
ammirare tutti quegli occhiali scintillanti ed eccentrici custoditi nella
stanza. Non ne cercava un paio in particolare, ma quando aveva scorto degli
occhiali a forma di pianoforte a coda, sulle cui lenti erano riportate le
iniziali E. a destra e J. a sinistra, scritte con dei
brillantini, John aveva saputo subito che fossero proprio quelli gli occhiali
che facevano al suo caso.
Perciò li aveva afferrati velocemente, facendo scivolare
un altro paio sul pavimento, e si era precipitato fuori per poter tornare a
terra.
Tuttavia non aveva fatto i conti con l'udito sopraffino
di Paul.
Il giovane ispettore aveva udito il rumore causato dal
ladro, aveva capito che qualcosa non andasse ed era corso nella camera. John
era a metà percorso quando Paul dal balcone gli aveva intimato di fermarsi,
cosa che John era ben lungi dal fare.
Così mentre Paul era tornato dentro, evidentemente per
aspettarlo a terra, John si era affrettato a scendere. Non appena era stato ad
un'altezza non pericolosa, aveva abbandonato i suoi appigli e si era lanciato a
terra, iniziando a correre in una qualunque direzione, proprio mentre Paul e
alcuni agenti erano usciti dall'hotel tuffandosi nel suo inseguimento.
Ora John correva ed era assolutamente certo di aver
sbagliato strada. Non era quella che aveva concordato con George. Il che
rendeva tutto più complicato perché ora John non avrebbe più potuto incontrarsi
con George e seminare definitivamente Paul.
"John, dove cazzo sei?" sbottò
infastidito George dall'auricolare.
"Ho sbagliato strada."
"Cazzo, John. Che ti è preso?"
Beh, quella era una domanda molto giusta, a cui era
altrettanto difficile trovare una risposta sensata e accettabile.
"Pensiamo dopo a questo. Ora dimmi cosa fare. Paul e
i suoi mi stanno alle calcagna."
George sospirò e John pensò che avesse anche alzato gli
occhi al cielo.
"Cerca di seminarli e poi vengo a
recuperarti."
"D'accordo."
Come se fosse facile.
Qualcosa non andava quella sera e John ne era
dolorosamente consapevole: o Paul aveva acquisito maggiore resistenza nella
corsa, oppure era John che la stava perdendo.
Fatto sta che Paul era davvero molto vicino e John era...
Sì, era stanco di correre. Stanco di scappare, non poteva negarlo.
L'unica cosa che voleva fare era fermarsi e lasciarsi
catturare, anche se Paul avrebbe scoperto la sua identità, anche se Paul
l'avrebbe odiato.
Tuttavia non poteva, in alcun modo non poteva farsi
catturare. Doveva pensare a Julian. Il suo bambino aveva bisogno di lui, solo
di lui. E se John fosse stato arrestato, chi si sarebbe preso cura di Julian?
Non aveva alcuna intenzione di lasciare che il suo bambino affrontasse le sue
stesse brutte esperienze. Sì, c'era Cynthia, ma se non se la fosse sentita di
occuparsi di
Julian ogni
giorno della sua vita?
C'erano anche George e Pattie, ma se non avessero avuto
l'approvazione del tribunale dei minori?
No, c'era solo John per Julian.
Paul gli intimò nuovamente di fermarsi, riportandolo
bruscamente a quel momento e John si voltò un istante verso di lui.
Non l'avesse mai fatto. Il senso di colpa scalpitò
ferocemente alla visione di Paul, il suo ispettore, il suo amico, l'uomo che
aveva mandato in frantumi la presunta normalità di John, la sua quotidianità,
le sue certezze...
Il tonfo che interruppe quei pensieri non fu certamente
quello del suo cuore. No, l'asfalto duro che si sfregò improvvisamente contro
la sua guancia e contro i palmi delle sue mani, gli comunicò in modo abbastanza
chiaro che John fosse inciampato e franato a terra.
E Paul e i suoi agenti si stavano avvicinando
pericolosamente.
Porcaputtana, John imprecò
fra sé.
Si rialzò subito con un balzo agile e riprese a correre.
Decise di infilarsi nella prima strada a destra e fortunatamente si ritrovò
davanti ad un edificio in ristrutturazione. Le impalcature erano rivestite da
una fitta rete che in quel momento avrebbe potuto salvarlo così come
rappresentare la sua condanna. Decise di rischiare, confidando nel fatto che la
via fosse piena di turisti. Dovevano essere molto vicini a Piccadillycircus, il che significava che, Dio, avesse
corso davvero per un bel pezzo di strada.
Trovò riparo nelle impalcature, e rimase immobile,
trattenendo anche il respiro fino a quando Paul non arrivò.
Il suo ispettore, in evidente difficoltà ora, si guardò
intorno per pochi istanti prima di tuffarsi in mezzo alla folla e John si
lasciò cadere a terra con un gran sospiro.
Era salvo. Per ora.
"George." mormorò senza fiato, "Ho
seminato gli sbirri."
"Ottimo. Dove sei?"
John cercò di guardare il numero civico e il nome della
via, sempre nascosto dalle impalcature.
"Al numero 3 di SavileRow."
"Arrivo, non muoverti."
John annuì, anche se George non avrebbe mai potuto
vederlo, e cercò di rilassarsi.
Per la miseria, quanto era stato stupido? Aveva corso il
rischio più grande di tutta la sua carriera da ladro. Lo sapevano bene la sua
mente, che continuava a ripetergli che era salvo, e il suo corpo, che tremava
in modo incontrollabile.
John si guardò le mani: erano ferite, un po' di sangue
era apparso lì dove il duro asfalto aveva sfregato la pelle sottile del palmo,
e il loro tremore era evidente, così John le chiuse a pugno per fermarle.
Non avrebbe dovuto tentare questo colpo, soprattutto
perché i recenti eventi avevano fottuto la mente di John.
C'era la questione di Paul, ovviamente. Come poteva non
influire? Bastava vedere come avesse fatto distrarre John quella sera stessa.
Paul e i nuovi sentimenti di John. Come era potuto
accadere? Come aveva fatto quel rapporto, che almeno da parte di John era
partito con le intenzioni più ipocrite e disdicevoli, ad essere passato a
qualcosa di così puro, così intenso, così meravigliosamente devastante? Come
aveva potuto John lasciare che accadesse?
Era stato più forte di lui, era stato inevitabile, come
se fosse dettato dal destino, lo stesso che aveva condotto Paul nel suo
negozio, all’inizio di tutta questa storia.
Giorno benedetto e maledetto, quello.
Eppure, John non poteva davvero sentirsi dispiaciuto;
nonostante tutto, nonostante le conseguenze terribili che potevano seguire la
sua realizzazione, John era felice, davvero felice di questo sentimento. Non si
era mai sentito così euforico, così attratto da qualcuno. Era anche spaventato,
certo, ma quella meravigliosa voglia di stare sempre con Paul, di non fare
altro che ascoltarlo mentre parlava o cantava, di guardarlo ogni minuto che era
con lui, era troppo bella per poter essere rinnegata, o scacciata, o nascosta.
John si era sentito così solo un’altra volta.
Con Cynthia.
E questo portava il suo irrequieto flusso di pensieri
all’altro problema, sorto un paio di giorni prima.
Cynthia l’aveva chiamato, proprio lei, in persona. Non
era stato tanto questo ad averlo turbato, quanto piuttosto la sua richiesta.
Come definire tale richiesta? Beh, la prima parola che
John aveva pensato era assurda.
"John, se a te sta bene, vorrei tenere
Julian per un fine settimana."
“Stai scherzando, spero.”
Praticamente le aveva urlato contro, senza neanche
accorgersene, stringendo con forza inaudita la cornetta del telefono. Non
avrebbe mai voluto risponderle così, infatti subito dopo si era scusato. Ma era
stato istintivo, più forte di lui, perché la paura di perdere Julian si era
impossessata di lui in un attimo, con la stessa forza.
Non si sarebbe mai aspettato una richiesta del genere,
anche se Cynthia aveva dimostrato di stare molto meglio negli ultimi mesi.
Ricordava molto la ragazza di cui lui si era innamorato, e questo per quanto
potesse fargli piacere, lo terrorizzava anche.
E se Cynthia avesse preteso, prima o poi, l’affidamento
di Julian? Era una possibilità reale, ora; per quanto una madre potesse avere
dei problemi, i tribunali cercavano sempre di favorire il ricongiungimento tra
madre e figlio, anche se questa aveva abbandonato il proprio bambino,
mettendolo in pericolo.
D’altra parte, John non voleva negare a suo figlio la
possibilità di vedere e stare con sua madre per più di una semplice giornata.
Così, a malincuore, aveva detto a Cynthia che avrebbe preso in seria
considerazione la sua proposta.
E ora, ora doveva solo decidere cosa fare. Era così
incredibilmente combattuto, che davanti a sé vedeva solo buio, come se si
stesse inoltrando in una nube temporalesca, scura, di un nero profondo, una
nube che non prometteva nulla di buono, una nube che allontanava il sole per
sempre dalla sua vita.
Il sole di John era sempre stato Julian.
Ma c’era un nuovo sole nella sua vita. Paul.
Ed entrambi si stavano allontanando inevitabilmente da
lui.
****
George stava catalogando alcuni nuovi arrivi al negozio,
quando vide lo sbirro entrare e dirigersi verso il bancone dove stava
lavorando.
“Ciao, George.” lo salutò l’uomo con un sorriso.
George sussultò. Stava parlando proprio con lui?
Beh, certo, aveva detto George!
Il giovane uomo si maledisse perché cominciò a sentire le
mani sudare. Anzi, maledisse John, perché era lui il responsabile del
fatto che lo sbirro ora frequentasse il loro negozio un giorno sì e quello dopo
pure.
Ovviamente l’incontro con quell’uomo aveva facilitato
molto i loro lavoretti: John era stato decisamente astuto, George doveva
ammetterlo. Tuttavia ora, ora che John non era in negozio e non si sarebbe
fatto vedere in alcun modo, George come doveva comportarsi con lui?
Che espressioni doveva usare? Poteva sorridere? O doveva
restare sempre imbronciato?
Cosa doveva fare?
L’assenza di John si faceva sentire prepotentemente, come
se fosse una reale presenza lì, con lui e Paul. diamine, come faceva John a
essere così tranquillo quando si trovava da solo con Paul? Quale forza
misteriosa lo aiutava, gli dava la forza necessaria per essere sempre se stesso
anche con il suo nemico?
George non ne aveva alcuna idea, ma decise che fissare
semplicemente Paul con la faccia sorpresa da pesce lesso, non fosse la
soluzione al problema.
“Ciao.”
“Stavo cercando John.” spiegò Paul, facendo vagare
speranzoso gli occhi sulla tenda che divideva quel piccolo negozio dal luogo in
cui lui e John passavano il loro tempo insieme.
“Mi dispiace, ma John non c’è.” lo informò con un
sospiro, appoggiando sul bancone i cd che aveva in mano.
Tuttavia George non era davvero pronto a vedere
l’improvvisa e profonda delusione che si appropriò del volto di Paul, come se
il sole fosse sparito da quella bellissima giornata d’estate. La realizzazione
lo colpì come un potente schiaffo, lasciandolo stordito per un istante.
“Posso chiederti come mai?” chiese Paul, il volto
trasmetteva solo una strana sensazione spiacevole, “È da diversi giorni che non
lo sento, non risponde neanche al cellulare e sto cominciando a preoccuparmi.”
“Non è niente di grave, è solo che non sta molto bene.”
spiegò George, tranquillamente, “Ma si riprenderà presto, vedrai.”
Paul spalancò gli occhi, preoccupandosi ancor di più,
anche se George aveva cercato di rassicurarlo. Un lavoro inutile, a quanto
pareva.
“Oh no, che cos’ha?”
Beh, questa sì che era una bella domanda. L’ispettore
sapeva fare le domande giuste, eh?
Che cosa aveva John?
Ovviamente niente, figuriamoci, ma quella stupida ferita
che si era procurato nel loro ultimo colpo, avrebbe potuto destare dei sospetti
in Paul; quindi, finché non fosse guarita, John avrebbe dovuto evitare lo
sbirro.
Tuttavia Paul aveva ragione a dire che John era sembrato
strano. Anche George l'aveva notato e non aveva molto a che fare con il piccolo
incidente di quella sera. Era qualcosa che sembrava turbare John infinitamente,
e George si dannava perché non gliene aveva parlato e perché lui stesso non
riusciva a capirlo. Sapeva che John si sarebbe confidato con lui se avesse
voluto, allora perché non l'aveva fatto?
L’ispettore non aveva potuto nascondere il suo così palese
sospiro di sollievo, e George lo trovò quasi divertente. Sembrava che l’affetto
di Paul per John fosse sincero.
"Eh già."
Ma allora John? Anche lui
provava qualcosa di sincero per Paul?
"E come fa a occuparsi di Julian se sta male?"
domandò nuovamente Paul.
"Lo aiutiamo noi, anzi, lo aiuta Pattie. Io mi
occupo del negozio."
"Sembrate molto amici con John, vero?"
George sorrise fra sé, "Sì."
Paul si morse il labbro, pensieroso, prima continuare a
fare domande a George.
"Posso chiederti una cosa?"
"Certo."
"Come hai conosciuto John?"
George batté le palpebre, perplesso: non si aspettava
proprio una domanda simile, e questo andava solo ad alimentare ciò che aveva
pensato poco prima. Paul era davvero amico di John, si interessava a lui, alla
sua salute, alla sua famiglia, alla sua storia, come qualunque altro amico
avrebbe fatto. George non avrebbe mai voluto essere nei panni di John, perché
il senso di colpa doveva essere insopportabile e infinitamente lacerante.
Ma ora Paul aspettava la sua risposta e George aveva
tutte le intenzioni di fornirgliela.
"Oh, questa sì che è una bella storia. È accaduto
poco prima che conoscesse Cynthia. Io avevo appena compiuto diciotto anni e i
miei amici mi avevano sfidato a rubare qualcosa nel suo negozio."
Paul rise leggermente, "Ma allora questo negozio è
maledetto."
George si lasciò scappare una risata, sorprendendosi
infinitamente, "È colpa di tutti questi bei cd."
"E ci sei riuscito?" chiese Paul interessato.
"Figuriamoci.” sbuffò George, trovando però ancora
divertente quel ricordo di John, “John mi ha beccato praticamente subito. Ha la
vista lunga lui, sai? Secondo me ha capito le mie intenzioni nel momento stesso
in cui ho messo piede nel suo negozio."
"E cosa ha fatto?"
"Beh, ovviamente mi ha detto, imitando qualche
vecchio folle saggio: 'Figliolo, lo sai che non si ruba, vero?'"
"E tu?"
"Non ho potuto fare altro che concordare, prima di
scusarmi.” rispose George, alzando le spalle, “C'era qualcosa nel suo viso che
mi trasmetteva severità, ma anche una sorta di serenità. Come se il mio gesto
fosse sì, grave, ma niente di così irreparabile."
"Tipico di John, eh?" esclamò Paul, sorridendo
dolcemente, e appoggiò le braccia incrociate sul bancone di George.
George lo guardò attentamente e chi lo conosceva bene
sapeva che sì, era tipico di John.
Perciò il ragazzo annuì, senza più sorprendersi per
quanto quel discorso gli stesse facendo scoprire tanti piccoli, interessanti
dettagli del rapporto tra John e Paul.
"Poi mi ha chiesto perché lo stavo facendo. Ha capito
che dovessi annoiarmi molto per sottostare a stupide sfide dei miei amici. Per
questo motivo mi ha proposto di lavorare con lui."
"Oh.” esclamò Paul colpito, “Gentile da parte
sua."
"Sì. Ovviamente ho accettato subito. Non avevo
alcuna intenzione di iscrivermi a qualche facoltà stupida, per perdere tempo e
far spendere soldi inutili ai miei genitori per la mia mancanza totale di
voglia di studiare. Così ho colto al volo l'occasione."
"Un ragionamento sensato." commentò Paul,
"È da quel giorno che siete amici, allora?"
"Esatto."
"Ed è stato grazie a lui che hai conosciuto
Pattie?" continuò l’ispettore.
Cielo, le sue domande erano senza fine, pensò George, non
tanto infastidito. Anzi, ci stava quasi prendendo gusto. Forse era anche la sua
natura di poliziotto che lo spingeva a fare queste domande, eppure George era
convinto che questo non avesse nulla a che fare con quello che stava accadendo.
No, Paul era solo curioso, di quella curiosità innocente e tipica dei bambini.
"Sì. Quando Cynthia se n'è andata, John ha dovuto
iscrivere Julian all'asilo nido. Aveva appena un anno, e qualche volta andavo
io a prenderlo all'asilo. Ovviamente dopo aver notato quanto fosse carina la
sua maestra, mi offrivo spesso per andare a prendere Julian, e John, che aveva
capito, acconsentiva volentieri. Ma lei all'inizio era molto riservata e
rifiutava i miei inviti a uscire."
Paul puntò un gomito sul bancone per appoggiare il mento
sul palmo della mano, "Era già fidanzata?"
"No, in realtà lo faceva per un motivo più serio.”
spiegò George, e non poté fare a meno di rabbuiarsi per un secondo.
“Ovvero?”
George lo guardò, incerto. Non sapeva se fosse giusto nei
confronti di sua moglie parlare di quell’argomento, ma Pattie era una donna in
gamba e più volte aveva mostrato più forza di George rispetto al suo problema.
Il che non faceva altro che aumentare l’ammirazione e l’amore che George
provava per lei.
Decise che non ci fosse alcun ostacolo per raccontare
quella storia a Paul.
“Aveva avuto dei problemi di salute che l'hanno resa sterile."
Paul sussultò lievemente, "Nel senso che non può
avere dei figli?"
"Già. Era soprattutto per questo che allontanava
qualunque uomo fosse interessato a lei.” spiegò George, mentre le mani si
strinsero ricordando quanto triste fosse sembrata Pattie quando continuava a
rifiutarlo, “Ma io le dissi che non mi importava nulla, mi importava solo di
lei. Fu così che alla fine cedette. E beh, all'inizio dell'anno scorso ci siamo
sposati."
Concluse con un sorriso che più luminoso di così non
poteva essere. Era lo stesso di quando Pattie aveva accettato la sua proposta,
lo stesso del giorno del loro matrimonio.
"Deve essere dura per lei lavorare con i bambini,
sapendo che non potrà averne uno." fece notare Paul, con un lieve
cipiglio.
"Sì, ma sono sicuro che sia proprio per questo che
le piace.” rispose George, “Inoltre c'è sempre Julian. Non penso che Pattie
possa sostituire sua madre, nessuno può, ma almeno può occuparsi di lui come
farebbe con un figlio suo."
"E comunque c'è sempre l'adozione. Ci avete mai pensato?"
George annuì: era la loro unica soluzione, era ovvio che
vi avessero già pensato.
“Stiamo appunto iniziando a informarci. Speriamo di poter
fare domanda entro la fine di quest'anno."
"È sicuramente una bellissima idea e sono sicuro che
andrà tutto bene."
"Grazie. Ne sono sicuro anche io. Pattie è la
persona più forte che abbia mai conosciuto e merita solo il meglio."
"Assolutamente."
Paul gli sorrise in modo incoraggiante e George ebbe la
piena consapevolezza, ora, di aver appena confidato a Paul alcuni dei momenti
più importanti della sua vita privata. Ma la cosa davvero strana era che tutto
fosse sembrato così naturale, come se in quel momento i loro ruoli
contrapposti, di ispettore e complice di un ladro, si fossero annullati e
avessero perso importanza.
Era Paul che aveva causato tutto questo?
“Sai, George, stavo pensando a una cosa su cui vorrei il
tuo parere.” gli chiese un momento dopo Paul.
Sul suo viso danzava un sorriso malizioso ed euforico,
come se stesse per accadere qualcosa di bellissimo, ma George non sapeva se
fosse qualcosa di bello anche per lui.
“Oh, ehm… certo, dimmi.” esclamò con la voce lievemente
tremolante.
“Vorrei organizzare qualcosa di carino per John e
Julian.”
Beh, George non si aspettava proprio niente del genere.
Sicuramente era una giornata piena di sorprese, quella, vero?
“Come mai?”
“Beh, John mi è stato vicino quando soffrivo per Jane e
vorrei ringraziarlo.” rispose Paul, abbassando lo sguardo con un sorriso dolce
sulle sue labbra.
“Avevi già qualcosa in mente?”
Paul si morse il labbro, e George lo notò, trovandolo
incredibilmente buffo.
“Sì, ma ho bisogno del tuo aiuto.”
****
Schiamazzi di bambini e spruzzi d’acqua provenivano da
ogni angolo.
Ovviamente, cosa si aspettava John? Era pur sempre una
piscina.
Il TootingBec
Lido era una delle piscine aperte più importanti a Londra. Non c’era da
sorprendersi che in quella giornata di agosto fosse così affollata da persone
di ogni genere e ogni età, e lui era lì, con Julian, Paul, George e Pattie.
Non era stata propriamente una sua idea. Da quello che
aveva capito, era stata un’idea di Paul, e George e Pattie lo avevano aiutato
preparando cestini per fare un bel picnic e restare lì per tutta la giornata, e
soprattutto portando John e Julian nel luogo della sorpresa.
Paul si era fatto trovare direttamente in piscina. Paul,
colui che aveva ideato tutta quella giornata.
Nessuno aveva mai organizzato una festa per lui, nessuno.
Solo Paul, e la cosa lo faceva infuriare così come rallegrare. Forse rallegrare
era troppo limitativo. No, la sorpresa l’aveva mandato totalmente in brodo di
giuggiole. Quando aveva capito tutto, le gambe avevano tremato, rischiando di
farlo cadere, anche se John voleva che resistessero, solo per un attimo, solo
per avvicinarsi a Paul, e abbracciarlo, e baciarlo… ma no!Non poteva.
E non era neanche per il fatto che stesse provando certi
sentimenti d’affetto per Paul, dopotutto uomo o donna, che importava? Paul era
stupendo perché era Paul. Fine della questione. Tutto il resto non
contava.
Non poteva perché proprio quel Paul l’avrebbe odiato.
Paul non avrebbe mai potuto ricambiare ciò che provava John e anche se l'avesse
fatto, beh, sarebbe stata una catastrofe, perché sicuramente John avrebbe
combinato qualche disastro e Paul avrebbe scoperto chi si celava dietro la
maschera di Hermes e a quel punto l'avrebbe odiato ancor di più. Avrebbe
desiderato di non aver mai incontrato John e questo era più doloroso del
semplice stare a guardare Paul, solo stare con lui come amico e nulla più,
soffocando un sentimento così evidentemente troppo ingombrante per John.
Perciò John si infuriava. Ogni qualvolta Paul facesse
qualcosa di carino per lui, John ricadeva in quel turbinio di sensazioni e
desideri insieme spiacevoli e deliziosi. Un circolo vizioso, ecco cos'era, e
stava giocando pericolosamente con la mente di John.
"John?"
La voce di Paul lo destò dai suoi pensieri, ma non riuscì
a farglieli abbandonare definitivamente. Dopotutto riguardavano lui. Così il
risultato fu solo che quegli stessi pensieri divennero più intensi e i suoi
sentimenti più caldi. Il che non era proprio una cosa positiva, dal momento che
il sole picchiava con decisione quel giorno.
John percepì la mano di Paul sfiorare la sua spalla, e
lottando per non chiudere gli occhi e concentrarsi su quelle dita lunghe che, ohdio, toccavano proprio lui, si voltò verso l'ispettore.
"Ciao." lo salutò, cercando di sorridere e fu
quasi certo che il risultato fosse stato piuttosto inquietante.
Paul era così bello. Ora anche John poteva vedere quanta
bellezza adornasse il suo corpo. Occhi che al primo incontro erano sembrati
troppo grandi, ora erano meravigliosamente grandi. Quei lineamenti ancora così
giovani, erano anche più dolci di qualunque altro viso che John potesse
ricordare.
Era bello in modo indescrivibile e ora era accanto a lui,
con il suo petto pallido e le lunghe gambe bianche in mostra, la mano ancora
sulla spalla di John e un sorriso sul suo viso.
"Posso sedermi?"
"Ma certo."
Paul si sistemò accanto a John. Ora erano entrambi seduti
sul bordo della piscina, con le gambe immerse nell'acqua fresca, e Paul si era
unito a John nell'osservare con interesse George e Pattie che giocavano in
acqua con Julian. Il bambino galleggiava grazie a braccioli gonfiabili e
sembrava divertirsi un mondo, mentre George faceva finta di attaccarlo come un
pericoloso squalo e Pattie lo metteva in salvo tra le sue braccia sicure.
John era felice che il suo bambino si stesse divertendo.
"Una bella giornata, vero?" gli chiese Paul,
portando lo sguardo su di lui.
"Splendida.” commentò John, ricambiando lo sguardo,
“Grazie a te."
Paul rise, compiaciuto, "Oh, figurati. Per così
poco."
"Perché hai fatto tutto questo?"
"Mi andava." rispose Paul, scrollando le
spalle.
"Andiamo, Paul.” insistette John, “Ci deve essere un
motivo..."
"Non poteva semplicemente andarmi di farlo?"
"No! E se non me lo dici, non esiterò un istante a
buttarti in acqua." esclamò John, allungando le mani verso il suo busto
per spingerlo.
Tuttavia Paul, ridendo, si ritrasse arrendendosi alla sua
richiesta, e l'unico tuffo che seguì fu quello del cuore di John quando non
riuscì a toccarlo. Dannazione, neanche sapeva di volerlo toccare.
"Cazzo, sei davvero un testone, John."
"Sono il campione dei testoni." gli fece notare
John, cercando di mascherare la delusione.
E ci riuscì, pensando che fosse ancora un desiderio
lieve, qualcosa più simile alla semplice curiosità di trovarsi in quella nuova,
eccitante situazione.
"È solo il mio modo per dirti grazie." gli
spiegò Paul, arrossendo lievemente.
"Per cosa?"
"Lo sai. Per quello che hai fatto per me quando Jane
mi ha lasciato."
"Mi avevi già ringraziato." ribatté John.
Non capiva davvero perché Paul avesse fatto tutto questo
per lui. O meglio, lo capiva, ma era difficile da accettare, soprattutto perché
i ricordi delle sue bravate a discapito di Paul tornavano a scalpitare nella
sua mente, rendendo solo tutto più confuso, più sbagliato, così dannatamente
ingiusto nei confronti di Paul. Era qualcosa che stava letteralmente uccidendo
John, e lui non aveva idea di quanto avrebbe resistito ancora.
"Sì, ma questo è meglio di una semplice parola,
giusto? Inoltre abbiamo l'occasione per stare tutti insieme. Non siamo mai
stati da qualche parte con George e Pattie."
"Non dirmi che sei diventato anche amico loro."
esclamò John, costringendosi a ridere e a prestare attenzione alle parole di
Paul, che alla fine era ciò che desiderava di più al mondo.
Più di qualunque cimelio raro e prezioso, John voleva
solo Paul.
"Beh, ho dovuto avere a che fare con loro per la
sorpresa, quindi ho parlato un po' con loro, soprattutto con George."
"Spero che non ti abbia parlato male di me."
commentò John, sogghignando fra sé.
"In effetti, ho cercato di strappargli qualche
aneddoto succulento su di te, ma non ha aperto bocca."
"Gli darò un aumento di stipendio allora."
esclamò John, soddisfatto, mentre Paul gli rivolgeva un’occhiata divertita.
"Mi ha raccontato di Pattie e che vogliono adottare
un bambino." continuò poi l’ispettore, con un tono più serio.
Anche John sembrò ritrovare un po’ di serietà e annuì
lentamente, “Mi hanno già chiesto se potessi scrivere per loro una lettera di
referenze, sai, per tutte le volte in cui si sono occupati di Julian."
"E lo farai?"
"Certo. Se c'è anche una minima cosa che posso fare
per aiutarli, allora lo farò. Sono sempre loro a soccorrermi, mi sembra giusto
ricambiare il favore. Julian ed io saremmo persi senza di loro."
E quella era una sacrosanta verità: per ogni aspetto
della sua duplice vita, George e Pattie erano stati fondamentali per lui e
soprattutto per Julian. La loro compagnia rendeva meno pesante la mancanza di
una madre.
"È un bel gesto da parte tua." commentò Paul,
sorridendo.
"Grazie."
"Julian sembra molto attaccato a Pattie." fece
notare Paul, mentre Julian era ancora in braccio alla ragazza ed emetteva
continui risolini ogni volta che lei gli faceva le pernacchie sul collo.
"È così. È l'unica figura femminile stabile nella
sua vita."
"Pensi che la consideri come una mamma?"
domandò Paul, con molta accortezza.
"Non lo so. Lui sa benissimo che ha una mamma, però
certe volte ho come l'impressione che il suo corpo trasmetta tutt'altro. È come
se i suoi gesti dimostrino chiaramente che considera Pattie la sua mamma. E
questo non è giusto né per Julian, né per Cynthia e neanche per la povera
Pattie." sospirò infine John.
"Forse dovresti parlarne con lui."
"Ci ho provato, ma è ancora troppo piccolo."
"Allora cosa vuoi fare?"
"Io..." iniziò a dire, ma si fermò mordendosi
il labbro con nervosismo.
John sapeva cosa doveva fare, ma ancora non aveva detto a
nessuno di quella proposta di Cynthia. Forse era arrivato il momento di
confidarsi con qualcuno e condividere quel peso con Paul. Dopotutto, era così
facile parlare con lui. Se ne avesse parlato con George o Jim, forse loro
avrebbero protestato inizialmente e John non voleva sentire proteste.
Voleva solo qualcuno che lo ascoltasse, che gli desse un
consiglio spassionato, che semplicemente fosse lì a raccogliere la sua
confidenza e farne tesoro, perché la sua decisione, anche se traballante, era
stata già presa.
“Paul…” disse attentamente, “L’altro giorno mi ha
chiamato Cynthia.”
“Come mai?” domandò dolcemente Paul.
“Aveva una richiesta da farmi che riguardava Julian.”
“Di cosa si tratta?”
John distolse lo sguardo da Julian per portarlo su Paul:
sentiva di aver bisogno di guardarlo direttamente negli occhi per poter
continuare, c’era una forza che giaceva lì, e John ne aveva disperatamente
bisogno.
“Vuole che le lasci Julian per un intero fine settimana.”
Paul batté gli occhi, perplesso, “Beh, questa è proprio
una sorpresa.”
“Già.”
“Cosa vuoi fare?”
“Io vorrei accettare. In fondo, è giusto che Julian stia
con sua madre…” e senza che John se ne accorgesse, la frase terminò con un
senso di sospensione.
“Ma?”
“Ma cosa?”
“Mi sembra di capire che ci sia un ma, no?” lo incalzò Paul.
Dopo un attimo di sorpresa, John annuì, “Ho paura.”
“Perché?”
“Io non lo so davvero.” sbottò John, odiandosi perché le
sue maledette paure tornavano a far sentire la loro presenza nei momenti meno
opportuni.
Non erano mai sparite del tutto, anche Paul l’aveva
capito ormai, ma John non poteva più tenerle a bada da solo. Non ne era più
fisicamente in grado.
“Non ho mai lasciato Julian con Cynthia per più di una
giornata.” continuò con un sospiro.
"Pensi che possa fargli del male a causa del suo
problema?"
"Oh no. Assolutamente no.” si affrettò a replicare
John, scuotendo il capo, “Lei sta bene da molto tempo ormai e inoltre, ci
saranno anche i suoi genitori con lei. Julian è al sicuro."
"Allora di cosa hai paura?"
"E se in quei giorni a Julian piacesse stare con la
madre e decidesse di vivere con lei?"
"Oh, John.” sospirò Paul, “Non accadrà, ne sono
sicuro."
"Come fai a esserne sicuro? In fondo, è assai
probabile. Lui vede sua madre per poco tempo, insieme ridono e giocano. Lei non
lo deve rimproverare quando fa i capricci, lei gli fa solo regali e lo coccola,
mentre io-"
"Mentre tu cosa?” lo interruppe Paul, quasi
alterandosi per lo sfogo frustrato di John, “Non lo coccoli, non gli fai i
regali?"
"Sì, ma, Paul, tu non ci sei quando devo sgridarlo.”
ribatté John, e chinò il capo, perdendo il suo sguardo nell’acqua cristallina
della piscina, “Lui mi guarda in un modo che... Dio, sembra quasi che mi odi in
quel momento. E allora penso che forse ho esagerato e sono stato troppo severo
e lui non meritava tutto ques-"
"John, ora basta.” esclamò Paul, afferrandolo per le
spalle e costringendolo a voltarsi di nuovo verso di lui, per poi continuare
dolcemente, “Se c'è una cosa di cui sono certo è che è soprattutto questo
l'amore per un figlio. Se non lo correggi tu quando sbaglia, chi lo farà?
Qualcuno veramente cattivo quando sarà più grande, e sicuramente qualcuno a cui
non importa nulla di lui. Mentre tu, tu lo correggi per amore. E lui da grande
lo capirà e ti ringrazierà. Nel frattempo continua come hai sempre fatto con
lui.”
Le parole di Paul toccarono qualcosa molto in profondità
dentro di lui, e John si sentì sull’orlo delle lacrime.
“Ma…”
“E non ti preoccupare
per lui.” proseguì Paul, accarezzandogli le spalle distrattamente, “Perché
Julian non ti abbandonerà mai. Lo so."
John annuì, consapevole che tutto in Paul, dalla sua
dolce voce, alle sue carezze premurose, alle sue parole gentili, avesse
contribuito a rendere quella decisione più sicura e meno spaventosa.
"Allora, non mi resta che avvisare Cynthia."
sospirò infine.
"Sai cos'altro farei?” domandò Paul, “Lo chiederei
anche a Julian."
"Dici?"
"È abbastanza grande da capire la situazione e così
potrai vedere subito la sua reazione."
John annuì. Non aveva mai pensato di chiederlo anche a
Julian, ma Paul aveva ragione, Julian doveva essere coinvolto.
"Allora ti andrebbe di aiutarmi?"
Paul batté le palpebre, totalmente preso in contropiede, "Eh?"
"Ti andrebbe di aiutarmi a chiederlo a Julian?"
ripeté gentilmente John.
"Ma è una cosa troppo personale.” protestò
vivacemente Paul, “Io non c'entro nulla."
"Paul, una volta hai detto che con me fosse tutto
più facile per te. Beh.” esclamò, tenendo a bada quel fuoco che cercava di
impossessarsi delle sue guance, “Vale lo stesso per me."
Paul si morse il labbro, incerto. Poi, dopo quel breve
attimo di esitazione, gli sorrise dolcemente e John mandò al diavolo tutto e
lasciò che il suo viso si colorasse di un bel rosso acceso.
"Se la metti così, allora ok."
****
Qualche minuto più tardi fu il turno di John e Paul
giocare con Julian, mentre George e Pattie erano sulle sdraio a rilassarsi e
prendere il sole.
John aveva fatto togliere al bambino i braccioli e ora
insegnava a Julian a muovere le gambine e stare a galla, mentre lo sosteneva
con una mano sulla pancia. Paul invece era davanti a lui e stringeva le sue
mani, aiutandolo a tenere le braccia ben distese davanti a sé.
Julian sembrava divertirsi molto a nuotare col papà e se
la stava cavando alla grande, quando all’improvviso fece un movimento sbagliato
della testa che finì in parte sott’acqua e ne bevve un po’ inavvertitamente.
John lo tirò subito fuori e il bambino cominciò a tossire
e insieme piangere, aggrappandosi disperatamente al padre.
“Oh, andiamo, non è successo nulla, amore.”
Ma Julian non sembrava essere dello stesso parere e
piangeva come se stesse patendo le pene dell'inferno. Era uno spettacolo che
stringeva il cuore e Paul si ritrovò sorridere dolcemente, perché Julian aveva
tutte le ragioni del mondo per piangere in quel modo. Anche lui, da piccolo, se
un po' d'acqua gli capitava in bocca o nel naso, piangeva subito, ricercando le
attenzioni e le coccole di sua madre, che non tardavano mai ad arrivare e
sembravano allontanare tutte le sue sofferenze per magia. Quando era ancora più
piccolo, anche suo padre era pronto a fare lo stesso, Paul non poteva negarlo,
ma quello era prima che suo padre mandasse tutto in rovina.
I singhiozzi più tranquilli di Julian riportarono Paul
alla realtà e lui si accorse delle smorfie che John stava facendo ora al
bambino per farlo tornare a sorridere, cosa che puntualmente accadde.
"Ma guarda che bravo bambino sei, Julian. Hai smesso
subito di piangere." esclamò Paul, ammirato, avvicinandosi ai due e
facendo il solletico sul fianco del bambino.
Julian, con gli occhi ancora arrossati e il petto scosso
dagli ultimi singhiozzi, sorrise timidamente e fece appoggiare la testa alla
spalla del padre.
"Beh, gli ho promesso che se avesse smesso di
piangere, gli avrei dato una buona notizia." spiegò John, continuando a
cullarlo dolcemente.
"Ah sì? Allora devi proprio dirgliela ora, vero,
piccolo?"
Julian annuì e tornò a guardare John, con i suoi grandi
occhi dolci che aspettavano solo lui. John si voltò un istante verso Paul, che
sorrise incoraggiante e annuì, e prese un profondo respiro.
"Allora, Julian, ti ricordi quando ha chiamato la
mamma l'altra sera?"
"Sì. Ha detto che mi ha comprato una macchinina
nuova." rispose il bambino tra un singhiozzo e l’altro.
"È vero. A me ha detto anche un'altra cosa."
"Cosa?" domandò Julian, sembrando ora più
interessato.
"Mi ha detto che vuole tanto andare in vacanza con
te per tre giorni e vorrebbe sapere cosa ne pensi anche tu." spiegò John
nel modo più chiaro e semplice possibile, e facendo bene attenzione alla
reazione del figlio.
Lui non esultò, ma neanche protestò. Era come se stesse
ancora cercando di capire cosa dovesse davvero accadere e cosa comportasse
quella situazione.
"Devo andare con la mamma?"
"Sì.” annuì John, accarezzandogli la fronte per
scostare i ciuffi di capelli bagnati che erano finiti davanti agli occhi, “Ti
piacerebbe stare con lei e con i nonni?"
"A casa sua?"
"No, andate in un posto bellissimo, sai? C'è la
piscina, e poi ci sono anche i cavalli e i maialini-"
"E le pecorelle ci sono?" chiese Julian, e il
suo sorriso disse a John che stava cominciando a entusiasmarsi all’idea.
"Non lo so, ma penso di sì."
"Allora va bene." esclamò soddisfatto Julian.
John annuì, un gesto che Paul interpretò come un modo
come un altro per accettare la risposta affermativa del figlio.
"Quando torniamo a casa, chiamiamo la mamma, allora,
ok?"
"Ok. Ma vieni anche tu, papà?"
John scosse il capo, notando la preoccupazione del
bambino e la speranza in quella domanda. In fondo, era comprensibile, non era
mai stato da solo con Cynthia. E questo, più di tutto, lo convinse ancor di più
che era la scelta più giusta.
"Oh no, amore, io ti porto dalla mamma e poi
resterai solo con lei e i nonni."
"E tu cosa fai?" chiese interessato.
"Io starò a casa." spiegò John, dolcemente.
"Da solo?"
"Gli farò compagnia io." si intromise Paul,
cogliendo di sorpresa John con le sue parole.
L'uomo arrossì in un attimo, mentre Paulfaceva l'occhiolino al bambino, il quale sorrise
debolmente e strinse di più le braccia intorno al collo del padre.
"Ma se poi non mi piace, posso tornare da te?"
"Oh certo, tesoro.” si affrettò a rispondere John,
abbracciandolo con più forza, “Basta che lo dici alla mamma, così lei mi chiama
e io corro a prenderti."
Julian annuì e tornò ad accoccolarsi contro la spalla di
John.
"Ma non devi preoccuparti per questo.” lo
tranquillizzò John, accarezzandogli la nuca, “Tu e la mamma vi divertirete
tantissimo. La mamma è molto simpatica, lo sai. E poi comunque, alla fine dei
tre giorni lei ti riporterà da me."
"Va bene." sospirò il bambino.
"Bravo il mio ragazzo." commentò John,
baciandogli i capelli.
"E il bacio della buonanotte, chi me lo dà se tu non
ci sei?"
"Te lo darà la mamma."
"E a te, chi lo dà?'
"A me lo darà Paul." esclamò John, trattenendo
a stento un sorriso divertito.
E questa volta fu Paul ad arrossire vistosamente, preso
alla sprovvista, mentre un brivido caldo e freddo lo scosse per un abbondante
secondo.
Che cosa gli era successo? Perché era arrossito?
Quella di John era solo una battuta, come dimostrava
chiaramente il fatto che stesse cercando di non ridere.
Allora cos'era stato quel brivido?
****
John chiuse la porta dietro di sé.
Sospirò, lasciando che i suoi occhi si chiudessero.
Aveva appena portato Julian a casa di Cynthia, e questo
spiegava l'assordante silenzio che riempiva la casa.
Non c'erano le risate né i pianti del bambino.
Senza di lui la casa era vuota, spenta, oscura perché era
Julian renderla viva e allegra. Lui era luminoso come il sole, allegro come i
cinguettii degli uccellini, vitale come una bella giornata d'estate.
E anche se la lontananza sarebbe durata poco, per John
era pesante da sopportare.
Neanche Elvis, il gattino, che si era avvicinato a lui
per dargli il bentornato e fare le fusa intorno alle sue caviglie, era riuscito
a fargli sentire più calore.
Neanche Elvis, quello vero, con la sua voce era riuscito
a riempire la casa di musica e gioia, più tardi quella sera.
Solo il trillo del campanello portò un debole raggio di
luce, perché alla porta c'era Paul, con una busta piena di bottiglie di birra,
patatine e schifezze varie.
"Ciao, John." lo salutò con un sorriso
raggiante.
E di nuovo la casa fu inondata di musica.
"Sei venuto qui per il bacio della buonanotte?"
gli domandò John, lasciandolo entrare in casa.
Di calore.
"Stupido."
Di sole.
Note
dell’autrice: eccoci qua. Allora, che dire di questo
capitolo? Sono successe un po’ di cose, per cui spero non sia risultato
confusionario. Ci tenevo anche a inserire la storia di Georgie
e mi sembrava proprio il momento adatto.
Vogliamo parlare della scena di John, Paul e Julian in
piscina? Aww…non ho potuto fare a meno di inserirla,
sono la dolcezza quei tre insieme, scriverei di loro per tutta la vita. :3
Comunque, grazie a kiki per la
correzione, e a ringostarrismybeatle, la cavia. xD
Grazie a chi ha recensito: GaaraIstillloveyoubaby,
paulmccartneyismylove, Flaw,
Astoria McCartney, ChiaraLennonGirl e lety_beatle.
Grazie anche a Goldenslumber14 che ha iniziato a leggere
la storia.
Prossimo capitolo, “HelterSkelter”, martedì prossimo. Parola chiave: verniciare! :D
Comincio già a dire che sarà l’ultimo prima di prendermi
una piccola pausa dalla pubblicazione, che coincide con le vacanze e che
sfrutterò per portarmi avanti con la scrittura. :)
Paul alzò la testa dalla sua scrivania per notare
l’ispettore capo Starkey sulla soglia della porta e subito scattò in piedi,
“Signore?”
“Posso entrare?”
“Ma certo.”
L’uomo entrò nell’ufficio di Paul e si sedette di fronte
alla sua scrivania, mentre anche Paul tornava a sedersi. Il giovane ispettore
vide chiaramente un profondo cipiglio che si delineò sulla fronte del suo capo,
e qualcosa gli disse che non fosse niente di buono.
“C’è qualche problema, signore?” chiese, ignorando quella
leggera ansia che stava cominciando ad attanagliargli il cuore.
Richard lo fissò per qualche secondo, senza rispondere
alla sua domanda, mentre le labbra si curvavano in un’espressione dubbiosa.
“Non è niente di grave, davvero, McCartney.” lo rassicurò
Richard, “Ma comunque mi sento in dovere di informarla.”
“Riguardo cosa, signore?”
Richard si torturò le mani, chinando il capo per
riordinare le parole, e poi con un sospiro tornò a guardare Paul, “A Scotland
Yard non sono particolarmente entusiasti del nostro lavoro.”
Le parole dell’ispettore Starkey non giunsero
inaspettate, per questo motivo Paul non fu particolarmente sorpreso. Voci di
corridoio riportavano da tempo che ai piani alti non fossero molto soddisfatti
del lavoro di Paul riguardo il caso di Hermes. E come dar loro torto? Paul era
completamente d’accordo. Aveva cercato sempre di dare il meglio di se stesso,
di impegnarsi al massimo nonostante tutto e tutti, eppure ogni maledettissima
volta Hermes sembrava sapere sempre qualcosa in più di lui, sembrava prevedere
le sue mosse. Come ci riuscisse, Paul non ne aveva idea, ma era così,
dannazione, e Paul non poteva farci nulla.
Perciò era ovvio che i suoi fallimenti (perché di questo si
trattava), non fossero graditi. A chi piacevano i fallimenti? A chi giovavano?
A nessuno.
Erano guai, guai seri, soprattutto per Paul.
Sentiva di avere più di un fiato sul suo collo e più di
una spada di Damocle sulla sua testa, ma se si fosse fermato a pensarci non
avrebbe concluso nulla.
"Immagino."
"Non voglio metterle ansia, perché la ritengo in
gamba e perché credo che siamo stati anche molto sfortunati riguardo il caso,
ma temo che lei abbia i giorni contati, se qualcos'altro dovesse andare male."
Paul si aspettava anche questo, era logico. Eppure la sua
voce tradì il suo stato d'animo così improvvisamente perso.
"Certo, capisco perfettamente."
"Ovviamente, è solo una mia supposizione in seguito
a ciò che ho sentito, e lei non deve pensarci troppo." cercò di
rassicurarlo Richard e Paul annuì.
"Ci proverò."
"La prossima volta andrà meglio. Non si lasci
demoralizzare e si faccia coraggio. Contiamo tutti su di lei."
Anche questo era vero e dopotutto, in un paio di
occasioni Paul era stato davvero a un soffio dal catturare Hermes. Grazie a
questo Paul riuscì ad aggrapparsi alle parole dell'ispettore e farle sue.
"Sissignore. Le prometto che non falliremo,
signore."
Era una promessa, una promessa rischiosa, perché Paul
conosceva bene il suo avversario, ma non conosceva cosa gli riservasse il
futuro.
Solo di una cosa era certo: Paul McCartney avrebbe
mantenuto la sua promessa.
"Hermes non ruberà più."
****
"Hermes non ruberà più."
"Cosa?"
La dichiarazione solenne di John era arrivata quel
venerdì pomeriggio, come un fulmine a ciel sereno per George.
Avevano appena aperto il negozio dopo la pausa pranzo e
George aveva intuito che qualcosa non andasse dal modo in cui John continuava a
rivolgergli occhiate fugaci e incerte.
Così, mentre George sistemava i nuovi arrivi sugli
scaffali, aveva pensato cosa potesse turbare l'animo dell'amico. Sicuramente
non riguardava Julian. John aveva accettato il fatto che fosse con la mamma
ora, e George sapeva che il primo giorno senza Julian sarebbe stato quello più
difficile. Meno di quarantotto ore e John avrebbe avuto nuovamente il bambino
che gironzolava per casa.
Quindi se non si trattava di Julian, qual era il
problema?
George non riusciva davvero a pensare cosa stesse
passando per la testa di John, ma questo sicuramente non se lo sarebbe mai
aspettato.
"Hai capito."
"No, non credo proprio." affermò accorato
George.
"Sì, invece."
"Allora, saresti così gentile da spiegarmi almeno
perché? La risposta 'è peccato' non conta, ti avviso subito."
John a quella domanda arrossì e chinò il capo, in quel
momento, George capì e spalancò gli occhi.
"No." esclamò, scuotendo il capo, "Dimmi
che non è per lo sbirro."
"Anche se fosse?" ribatté John, aggrottando la
fronte.
"Cosa vuol dire 'anche se fosse', John? Tu...
Tu non vuoi rubare più a causa sua?"
John la sentiva bene, l'accusa nella sua voce, il modo in
cui stesse cercando di dirgli quanto sbagliato fosse quel suo comportamento.
"Non ci riesco più, ok?" sbottò John,
spazientito, "Sono divorato dal senso di colpa e questo si riflette sulle
mie abilità. Hai visto cos'è accaduto l'ultima volta?"
"Beh, allora dovevi pensarci prima di iniziare
questa messinscena."
"Come potevo sapere cosa sarebbe accaduto?"
"Cos'è accaduto, John?" gli domandò George in
modo abbastanza diretto.
John sussultò e arrossì. Era un disastro. Cosa aveva
combinato? Aveva stravolto le vite di tutti, la sua, quella di George e
soprattutto quella di Paul. George aveva ragione. Come mai non aveva pensato
alle conseguenze delle sue azioni? Era stato così accecato da quella sfida,
giocare così pericolosamente col fuoco, che non si era accorto di essersi
infine bruciato. In tutti i sensi. Aveva bruciato le sue abilità di ladro e ora
aveva anche imparato a bruciare con quel sentimento nuovo per Paul.
Era stato sconsiderato e le sue intenzioni ipocrite si
erano infine riversate sullo stesso John, causandogli più problemi di quanti
già non ne avesse.
E ora George lo guardava aspettando una risposta che non
l'avrebbe fatto arrabbiare ancora di più, una risposta che non avrebbe reso
chiaro il grosso guaio in cui si era cacciato John.
"Paul è amico mio, George. Non posso più fargli
questo." spiegò John con una piccola voce contrita.
"Avevi detto che non era vero." protestò
George, "Me lo ricordo bene, sai? Ma dovevo immaginare che stessi
mentendo. Dopotutto hai mentito a Paul, perché mai io avrei dovuto essere
risparmiato?"
John sospirò e si avvicinò a George, "Ti prego,
perdonami, ero così confuso in quel momento. Non avrei mai voluto
mentirti."
George lo guardò scettico, mentre John lo fissava
sinceramente dispiaciuto. I suoi occhi confermarono che John stesse dicendo la
verità, così alla fine George scrollò le spalle.
"Non importa. Tanto lo sapevo, sai? Ti conosco.
Stavi facendo cose che non avresti mai fatto se lui non fosse stato un amico. E
la cosa che mi lascia perplesso è che anche lui ti considera allo stesso
modo."
Il fatto che anche George l'avesse notato aveva reso John
estremamente felice. Significava che era un affetto sincero, allora, sia da
parte di Paul che da parte di John. Forse l'unica cosa sincera della sua vita
negli ultimi mesi. Anche se, come gli ricordava il suo cuore, John provava
qualcosa di più profondo e più caldo per Paul, ma non era necessario che George
lo sapesse.
"Allora riesci a capire perché ho preso questa
decisione?" continuò John, più rilassato.
"Me ne farò una ragione." rispose George,
annuendo, "L'hai detto a Jim?"
"Sì. Per lui va bene."
"Ovviamente." sospirò George, alzando gli occhi
al cielo, "Pensi che non ruberai più ora?"
John si morse il labbro. Era una bella domanda e ora come
ora John non sapeva proprio dire se la sua decisione fosse definitiva oppure
no.
"Non lo so." rispose abbassando lo sguardo,
"Per adesso vediamo cosa accade, poi ci penseremo."
"Quindi continuerai a frequentare Paul?" gli
chiese George e a quella domanda John fece scattare i suoi occhi di nuovo
sull'amico.
"Sì." si affrettò a rispondere, "Ho
bisogno di lui."
"Perché?"
"Perché anche lui ha bisogno di me. Mi fa sentire...
importante." rispose John, cercando di ignorare il suo cuore che
aveva iniziato a battere più veloce e più caldo.
"E tutti gli altri no?" ribatté George, alzando
un sopracciglio con totale perplessità.
"Non ho detto questo. Ma tu e Pattie avete l'un
l'altra. Se dovesse succedere qualcosa, potete sempre contare su voi stessi. Io
sono da solo e invece Paul si sta dedicando completamente a me." spiegò
John.
Forse era sembrato leggermente accalorato mentre diceva
quelle cose a George, perché la sua espressione passò dalla semplice perplessità
al più evidente sconcerto.
"John! Sei sicuro che tu non stia riversando su di
lui un altro tipo di bisogno?" gli domandò chiaramente.
Ma John non capì, o forse stava solo fingendo di non
capire, "Cosa?"
"Io non so bene come spiegarlo, ma hai sentito le
tue parole?" gli chiese George, "Parli di lui come se fosse più di un
amico."
"Non è vero." protestò John.
"Sì, invece. E John, lo capisco, sai, sei stato da
solo per tanto tempo. Forse ricevere le sue attenzioni ti ha solo illuso che
questo rapporto potesse diventare altro, perché è normale che tu abbia bisogno
di qualcuno di importante al tuo fianco, ma questo qualcuno non può essere
Paul."
E John voleva solo chiedergli perché, quando tutto in lui
urlava che non ci fosse persona più giusta per John. Invece John si limitò ad
arrossire violentemente e chinare lo sguardo.
"Sei fuori strada, George." sbottò John.
"Allora dimostramelo."
"Come?"
"Esci con qualcuno."
"Con chi?"
"Non lo so." rispose George, alzando le spalle,
"Qualcuno che conosci, che ne dici di Yoko? È anche la mamma di una
compagna di Julian. Potreste portarli insieme al parco."
John non voleva fare nulla di tutto questo. O meglio,
poteva anche desiderare di portare Julian al parco con qualcuno, ma quel
qualcuno doveva essere Paul. Ricordò la domenica trascorsa insieme a lui con
Julian. Era stata una giornata perfetta ed era stato Paul a renderla tale.
Eppure George non capiva, non sembrava neanche voler
capire e John non aveva alcuna intenzione di continuare a discutere di Paul con
lui. Non voleva più parlare di questo, sapeva che continuare a parlarne avrebbe
solo rovinato tutto e John non avrebbe permesso che qualcosa rovinasse il suo
sentimento per Paul.
Niente e nessuno poteva.
L’unica soluzione, quindi, era assecondare le richieste
di George.
“D’accordo.”
O almeno fingere.
****
Paul non aveva dormito affatto bene.
Le parole dell’ispettore Starkey avevano continuato a
tormentarlo per tutta la notte. Risultato: non aveva chiuso occhio e quella
mattina si era svegliato con una pessima cera.
Era facile per il suo capo dire, ‘Non si lasci
demoralizzare’. Non era certamente lui a rischiare il posto di lavoro.
Ma Paul, Paul ci aveva pensato eccome ed era impossibile
non lasciarsi demoralizzare. Sebbene fosse stato molto sicuro a promettere
all'ispettore capo che avrebbe impedito altri furti di Hermes, Paul sarebbe
stato uno sciocco a non ammettere che fosse ormai a un passo dal fare la stessa
fine del suo predecessore, l'ispettore Stuart Sutcliffe.
Paul ricordava perfettamente cosa gli fosse
successo, e ricordava anche quanto presuntuoso fosse lui stesso quando aveva
ottenuto quella promozione. Ma ora stava cambiando. Sentiva di essere molto
diverso da quel Paul e questo era dovuto ovviamente al suo lavoro, che aveva
ridimensionato il suo ego, a Jane, che infliggendogli quella sofferenza l'aveva
reso più forte, e anche a John, che lo incoraggiava sempre e gli dimostrava
speranza, fiducia e qualcosa che Paul ancora non capiva. Qualcosa di così
confuso.
Arrossì lievemente quando si rese conto che,
più cercava di capire di cosa si trattasse, più tutto diventava complicato. Era
come se Paul si fosse appena inoltrato in una nube temporalesca alla ricerca di
qualcosa di importante, ma come poteva trovarla se tutto intorno a lui era
bianco, bianco come i lampi che continuavano ad accecarlo? Paul voleva davvero
trovare quel qualcosa, ma sentiva anche di non aver fretta: in effetti era
tutto molto tranquillo, era stranamente piacevole, perché lui era convinto che
prima o poi l’avrebbe trovato, non sapeva come né quando, ma sarebbe andata
così e Paul ne sarebbe stato molto felice. Come un classico caso di
serendipità. Non aveva senso affannarsi per cercare l’oggetto della sua
ricerca, perché prima o poi questo gli sarebbe capitato tra le mani.
Non aveva senso anche perché quel pomeriggio
doveva aiutare John a ridipingere la cameretta di Julian e Paul non poteva
permettergli di accorgersi di tutto ciò che lo turbava, come sicuramente John
avrebbe finito per fare se Paul non fosse stato attento. Era una qualità di
John che continuava a sorprenderlo, e se da una parte lo spaventava, perché di
fronte a lui, di fronte al suo sguardo si sentiva totalmente esposto, nudo,
come se stesso donando a John il suo cuore e la sua anima, affinché se ne
occupasse lui, dall’altra parte lo rasserenava, perché Paul non aveva mai
provato una simile emozione con nessuno; era stato sempre troppo chiuso, troppo
riservato, e ora invece, poteva finalmente lasciarsi andare, condividendo tutti
i suoi problemi con qualcuno, un uomo che lo comprendeva fino in fondo.
Così dopo pranzo si preparò, indossando una
paio di vecchi pantaloni da ginnastica e una maglietta ancor più vecchia, e
nonostante fosse ancora troppo presto, si avviò verso l’appartamento
dell’amico. Magari avrebbero potuto fare qualcosa prima o iniziare subito a
lavorare. Che importava? Dopo la nottata appena trascorsa, Paul aveva solo
bisogno di passare del tempo con John, in qualunque modo, per spegnere la sua
mente da tutto quel rimuginare sui propri problemi.
Attraversando in fretta la strada, si accorse
che la porta del negozio di John era aperta e dall’interno provenivano delle
risate. Una era quella di John, Paul la riconobbe subito, perché ormai gli era
molto familiare e molto cara. Ma l’altra era diversa, non apparteneva neanche a
George.
E a quella realizzazione Paul accelerò
lievemente il passo ed entrò, scorgendo subito John in fondo al negozio, tutto
intento a mostrare un disco di vinile a una donna che Paul riconobbe come la
donna del parco che aveva salutato timidamente John.
Il suo cuore perse un battito, e Paul non
seppe bene per quale motivo, se fosse a causa del modo in cui John rideva o per
la mano di lei abbandonata con finta noncuranza sull'avambraccio di lui.
Qualunque fosse il motivo, Paul si sentiva
così e avrebbe anche potuto pensare di essere preda di un improvviso, inutile
attacco di gelosia, ma questo portava solo altra confusione in lui. E Paul
temeva tutto questo perché sapeva che prima o poi sarebbe scoppiato.
"Ciao, Paul." lo salutò George.
Paul sussultò e guardò alla sua sinistra il
ragazzo al bancone: non si era accorto che ci fosse anche lui, e come avrebbe
potuto? Era stato troppo preso da John che rideva con… com’è che si chiamava?
Oh, che importanza aveva? Proprio ora John si
era accorto di lui e un improvviso sorriso illuminò il suo volto.
“Paul, sei già arrivato?” gli domandò John,
abbandonando il vinile tra le mani della donna e avvicinandosi a lui.
“Sì, pensavo che non ci sarebbero stati
problemi, ma se sei impegnato, posso tornare più tardi.” spiegò Paul, e fece
per voltarsi, maledicendosi perché stava comportandosi in modo infantile e Paul
si odiava, ma era più forte di lui.
Gli sembrava di aver interrotto qualcosa e
anche se non sapeva di cosa si trattasse, beh, odiava qualunque cosa avesse
interrotto. Era sicuro che non fosse nulla di buono. Almeno, non per Paul. Ma poi
perché doveva avere a che fare con Paul? Solo perché si trattava di John? Ma
non tutto ciò che riguardasse John, interessava anche Paul.
O no?
La mano di John che scattò per afferrargli il
braccio e impedirgli di andarsene fu ciò che lo informò che sì, questo aveva a
che fare con Paul. Aveva molto a che fare con Paul.
“No, aspetta. Arrivo subito.” lo
tranquillizzò John con un sorriso.
Paul sentì il proprio cuore fare una dolce
capriola all’indietro, quando John gli sorrise e strinse leggermente le dita
sul suo avambraccio, e da quel momento in poi non capì molto di quanto stesse
accadendo. Vide John tornare dalla donna asiatica e parlare con lei.
Yoko, ecco come si chiamava.
Forse John la salutò perché pochi secondi
dopo, lei se ne andò, passando di fronte a Paul per uscire dal negozio.
Dopodiché l'amico si avvicinò a George e
disse qualcosa anche a lui, prima di raggiungere Paul e afferrarlo di nuovo per
il braccio.
E solo in quel momento tutto andò nuovamente
al posto giusto.
“Andiamo?”
****
Paul sospirò quando finirono il lavoro.
Si stiracchiò, allungando le mani sopra la testa, e si
portò al centro della camera. Osservò John che era ancora sulla scala per
rifinire quel disegno che aveva dipinto su una parete della cameretta di
Julian. Aveva deciso di fargli una sorpresa: Julian sapeva che il padre avrebbe
ridipinto la sua stanza di verde, ma non sapeva che al suo ritorno, avrebbe trovato
sulla parete di fronte al suo letto un bel sole di colore giallo che spuntava
in un angolo in alto, e soffici e vaporose nuvole bianche che si offrivano come
sfondo a un piccolo stormo di merli.
Era bellissimo ed era tutta opera di John. Paul apprese
solo quel giorno che un'altra delle passioni di John fosse l'arte e il disegno.
A quanto gli aveva raccontato, mentre tracciava le sagome delle nuvole, John
amava disegnare almeno quanto suonare. La scoperta rese felice Paul, in quanto
aveva appena ottenuto un altro tassello di quel puzzle di nome John Lennon.
Tuttavia lo sconfortava anche e il motivo era stupido, doveva essere stupido.
Quante cose ancora non sapeva di John? Quante cose Paul doveva scoprire? E le
avrebbe mai scoperte o sarebbero rimaste un mistero? Paul non voleva che John
fosse un mistero. Era già così confuso ultimamente su di lui che davvero aveva
bisogno di conoscerlo più a fondo.
"Che ne dici?" gli chiese John, scendendo dalla
scala.
"È bellissimo."
"Sicuro? Non è un po'...?"
"Cosa?"
"Non lo so. Non mi convince davvero." disse
John, appoggiando le mani sui fianchi.
"Stai scherzando? È perfetto, John." esclamò
Paul, abbandonando una mano sulla sua spalla, "A Julian piacerà
moltissimo."
"Speriamo." sospirò John, "Ehi, che ne
dici di una birra per festeggiare?"
"Dico, va bene." rispose il giovane ispettore,
sorridendo entusiasta.
"Arrivo subito, allora."
John uscì dalla cameretta, lasciando Paul da solo, il
quale nell'attesa si sdraiò sugli strofinacci usati per coprire il pavimento.
Si rilassò, distendendo le gambe e fece indietreggiare la
schiena, puntando la mani dietro di sé. Poi inspirò profondamente e chiuse gli
occhi, lasciandosi trasportare dalla musica. John sosteneva che lavorare con la
musica fosse più stimolante e più divertente, e Paul non impiegò molto tempo ad
accorgersi che avesse ragione. Avere quel sottofondo era rilassante e gli
permetteva di concentrarsi sul proprio compito.
Dal momento che la pittura aveva portato via tutto il
pomeriggio e quei primi attimi della sera, John aveva optato per un centinaio
di canzoni varie come colonna sonora. Le aveva caricate sul suo lettore mp3 e
l'aveva collegato con due piccole casse, in modo che le onde sonore si
disperdessero nella camera.
Ora, per esempio, c'era una canzone di Stevie Wonder. La sua voce era inconfondibile, ma Paul non
conosceva il titolo; gli piaceva molto, era dolce e nello stesso tempo
spensierata, e strappò una risata a Paul perché ormai non si sorprendeva più
nel ritrovarsi ad apprezzare la musica che John gli proponeva.
Tanto John era migliorato nella sua tecnica, tanto Paul
aveva fatto passi da gigante nel cercare di superare il suo problema, quello
che in un certo senso aveva dato inizio alla conoscenza di John, ciò che aveva
dato inizio a tutto.
Forse il problema di Paul non era del tutto sparito, ma
Paul sentiva quanto fosse cambiata la situazione per lui. Ora anche a lui
piaceva la musica, anche lui si ritrovava a fischiettare e canticchiare quando
era da solo, a casa, mentre cucinava o si preparava per andare a lavoro. Ed era
tutto merito di John.
John aveva portato la musica nella sua vita, perché per
Paul la musica era lo stesso John.
Era una melodia perfetta che suonava solo per lui. Ecco
spiegato il motivo di quella reazione di gelosia che aveva avuto quando lo
aveva visto con Yoko.
Proprio in quel momento John entrò nella stanza con due
bottiglie di birra in mano. Paul lo seguì con lo sguardo, mentre si sedeva a
gambe incrociate di fronte a lui.
Perché c'era Yoko con lui? Se John gli aveva detto di non
aver alcun interesse per lei, perché stavano ridendo in quel modo? Insieme?
"Ecco a te." esclamò John, porgendogli una
bottiglia già stappata.
"Grazie."
"A cosa stavi pensando?" chiese interessato
l’uomo.
Paul sussultò. Dannazione.
"Io?"
"E chi altri?" domandò John, ridendo
dolcemente, "Avevi una faccia tutta pensierosa."
"Oh, niente di speciale.” si affrettò a dire Paul,
con un vago gesto della mano, “Mi chiedevo come si chiamasse questa
canzone."
"Questa? Si intitolaYou are the sunshine of my life."
"Sunshine?" ripeté Paul sorridendo,
"Beh, sembra perfetta per il tuo dipinto."
John annuì e lo seguì con lo sguardo quando il giovane
uomo si voltò verso il sole sulla parete di fronte, senza distogliere gli occhi
dal suo profilo. C'era qualcosa di strano nel suo sorriso, era così forzato.
Non che Paul non pensasse le cose che aveva detto. Sembrava più che stesse
nascondendo altro, un'altra domanda.
"Paul?"
E ora John voleva sapere quale fosse la vera domanda di
Paul.
"Mh?"
"A cosa stavi pensando davvero?"
Paul si voltò verso di lui, guardandolo più che sorpreso.
Avrebbe dovuto aspettarselo, eppure non poté fare a meno di apparire ancora una
volta colpito dalla capacità di John di leggere dentro di lui.
"Chi ti dice che non stessi pensando davvero a
questo?" domandò, cercando di capire come potesse John avere
quell’abilità.
"Io."
"Perché?"
"Perché ti conosco." rispose John, convinto,
"Allora?"
Paul si morse il labbro nervosamente. Non era sicuro che
dire a John la verità fosse una cosa giusta da fare, o perlomeno, dire quella verità. E se John avesse
frainteso?
Tuttavia Paul si convinse che John meritasse quella
sincerità, aveva capito che qualcosa non andasse in lui e non si sarebbe
arreso. Perciò non avrebbe avuto senso mentirgli e inventarsi qualche altra
scusa.
E poi… che male poteva esserci a confidargli i suoi veri
sentimenti?
"Mi chiedevo solo come mai ci fosse Yoko prima, nel
tuo negozio." spiegò con estrema cautela.
"Oh.”
John sussultò alla domanda di Paul, il suo cuore perse
anche un battito. Poteva aspettarsi di tutto da lui, ma mai e poi mai questa
domanda.
Che
idiota sei, John!
Sicuramente stava vedendo troppo in quella richiesta di
Paul, non c’era nulla di strano nel chiedere il motivo della presenza di quella
donna. Sì, era stato il cuore di John ad aver viaggiato troppo con la fantasia.
“Siamo usciti a pranzo insieme." proseguì.
"Pensavo che non volessi frequentare nessuno."
"È così." si affrettò a spiegare, "Lo sto
facendo solo per accontentare George."
Paul aggrottò la fronte perplesso. Che cosa c’entrava
George adesso?
"Per quale motivo?"
"Lui...” iniziò John, giocando distrattamente con la
bottiglia di birra, “Lui vuole che cerchi qualcuno per, sai, hai capito."
Beh.
Questo cambiava tutto. O quasi. C’era sempre la
possibilità che John potesse innamorarsi di quella donna, a furia di
frequentarla.
Tuttavia Paul non ci credeva davvero, no, era certo di
essere al sicuro, ormai; la risposta di John faceva quadrare tutto, anche se il
giovane uomo osò un po’ di più, pretendendo ulteriore chiarezza.
"Quindi non hai davvero intenzione di stare con
lei?"
"No, no. L'ho solo portata a pranzo fuori così
George la smetteva di assillarmi."
"Meno male." esclamò Paul e non riuscì a
impedire a se stesso di tirare un gran sospiro di sollievo.
John rise deliziato, ma arrossì vistosamente al commento
così sincero e sollevato di Paul, "Perché dici così?"
E ora toccò a Paul arrossire, in maniera meno evidente
rispetto a John, ma lui se ne accorse e anche John se ne accorse e… dio, se non era tutto così complicato!
"È solo che non penso vada bene per te."
rispose Paul, cercando di essere sincero.
"Ti ricordo che anche tu mi stavi spingendo a
frequentarla."
"Beh, ho cambiato idea.” ribatté Paul, alzando le
spalle, “Non penso che faccia al caso tuo. Come avevi detto tu, ogni genitore
single porta con sé dei problemi e tu non puoi farti carico dei problemi
altrui."
"Allora chi è adatto a me?" chiese John,
curioso.
Paul scacciò una risposta assurda che stava per
fuoriuscire della sue labbra e che lo riguardava fin troppo da vicino, e cercò
di trovare una risposta più accettabile.
"Tu hai bisogno di qualcuno che condivida le tue
passioni, qualcuno che sia disposto a condividere anche i tuoi problemi e la
tua stessa vita. Qualcuno che possa occuparsi sia di te che di Julian."
"Mai perdere la speranza.” lo incoraggiò Paul, “Prendi
me. Mi consideravo un caso disperato, ma tu mi hai dimostrato che non era
così."
John lo guardò per un istante senza fiatare, solo
sorridendo con dolcezza, e poi disse, “Perché sapevo che non eri così.”
“Come?”
“Si vedeva dai tuoi occhi.” spiegò tranquillamente John,
“Mi stavano implorando di aiutarti. E io sono accorso in tuo aiuto.”
“I miei occhi?”
“Certo, i tuoi occhi dicono un sacco di cose, sai?”
Paul non aveva alcuna intenzione di arrossire ancora di
più, niente affatto. Ma santo cielo, se John non stava facendo di tutto per
portarlo lì, in quel luogo insieme fantastico e pericoloso, dove John potesse
dirgli qualunque cosa e Paul si sentisse libero di arrossire quanto voleva,
perché le parole di John lo toccavano così in profondità e nei posti giusti e…
diamine, quanto lo facevano impazzire!
“E cosa dicono ora?”
“Ora?” ripeté John, alzando un sopracciglio, prima di
avvicinarsi per guardarlo meglio negli occhi, “Beh, ora dicono che sei
preoccupato per qualcosa.”
“Per cosa?”
John si lasciò scappare una risata, “E non lo so, questo
devi dirmelo tu, non sono un indovino, amico.”
Paul annuì, sorridendo, prima di abbassare lo sguardo per
guardarsi le mani.
“E’ il lavoro.”
“Cosa succede?” chiese John, interessato.
“L’ispettore Starkey mi ha fatto capire che a Scotland
Yard non sono affatto contenti del mio lavoro con Hermes.” sospirò Paul.
John spalancò gli occhi. Non poteva essere così, era
troppo presto.
“Cosa significa?”
O forse era solo la speranza di John a dirgli che fosse
troppo presto per riservare quel trattamento a Paul. La speranza che non gli
capitasse qualcosa di spiacevole, come andare via da Londra, in un posto dove
non potesse più vedere John tutti i giorni.
“Significa che se non lo catturo al più presto, mi
faranno fare la fine di Sutcliffe.”
Ecco, appunto.
“No, non possono.” protestò John, scuotendo il capo.
“Certo che possono.” ribatté Paul, sconsolato per la sua
situazione, “Sto fallendo miseramente. Quante volte me lo sono lasciato
scappare? Cinque? In pochi mesi l’ho fatto scappare ben cinque volte. Non è
normale, John.”
No, non lo era. Ma si trattava di Paul e John non voleva
che andasse via. Il suo intento iniziale era proprio quello ed era a un passo
dall’ottenerlo, ma ora le cose erano cambiate e no, Paul non aveva alcun
diritto di andar via.
“E quindi, ora cosa puoi fare?”
“Devo solo arrestarlo, la prossima volta che si farà
vivo, lo catturerò.” sospirò Paul.
Oppure potevano semplicemente restare entrambi in quella
situazione di stallo: John non avrebbe più indossato i panni di Hermes e Paul
non avrebbe perso il lavoro. Era l’unica soluzione al momento e John dovette
ammirare se stesso per il tempismo della sua decisione.
“Sono sicuro che ce la farai.” disse infine, provando a
incoraggiarlo.
“Grazie, John.”
Paul cercò di sorridere, ma John poteva facilmente vedere
dietro quel sorriso, il vero stato d’animo di Paul. Lui non credeva più in se
stesso, nelle sue capacità, era evidente e anche normale, dopo tutte le volte
che John era riuscito a fuggire evitando l’arresto. Il problema era che John
non ce l’avrebbe mai fatta, forse, se Paul non gli avesse rivelato le sue
mosse, se Paul non fosse entrato nella sua vita per scombussolarla.
Dio, avevano scombussolato l’uno la vita dell’altro.
Anche per Paul era cambiato tutto. John ricordava la sua
sicurezza il giorno in cui era entrato nel suo negozio per la prima volta, e
ora sembrava così perso, con poca fiducia in se stesso. Ed era stato John il
responsabile di quel cambiamento.
“Lo penso davvero, Paul, tu sei incredibilmente in
gamba.”
Paul annuì distrattamente, chinando il capo e John lo osservò.
Il suo cuore batteva forte, in modo regolare, e gli occhi non si staccavano dal
bel viso di Paul che ora mostrava una delle espressioni più tristi che John
avesse mai visto.
Era colpa sua se Paul stava così e John voleva solo fare
qualcosa per rimediare. Da una parte sapeva di dovergli confessare tutto, la
sua identità in primo luogo e i suoi sentimenti, ma non poteva. L'avrebbe perso
e lui non poteva rinunciare a Paul.
Poteva rinunciare a Hermes, sì, ma mai e poi mai a Paul.
Non poteva avere entrambi, questo era ovvio, e quel ragazzo era diventato
lentamente più importante dell'altro John.
A quella realizzazione, John sorrise, prese il pennello
ancora impregnato di vernice gialla e sporcò la punta del naso di Paul, il
quale, dopo un attimo di esitazione in cui probabilmente si stava chiedendo che
cazzo avesse combinato John, alzò lo sguardo e lo fissò sconcertato solo per un
istante, prima di prendere il suo pennello, con la vernice bianca, e imitare su
John il suo stesso gesto.
John si lasciò scappare una risata e passò il pennello
sul mento di Paul. Il giovane ispettore lo lasciò fare, dandogli anche il tempo
di ammirare il suo lavoro e gongolare, per poi avventarsi su di lui e
atterrarlo con una delle sue mosse migliori, una di quelle che usava per
placcare i criminali e arrestarli.
John non se l'aspettava proprio, e lo guardò sorpreso ma
divertito, mentre Paul lo bloccava sistemandosi a cavalcioni su di lui e
fermando con una mano quelle di John, il quale perse la presa sul pennello.
"Chi è che ride ora?" esclamò Paul in tono di
sfida.
"Cosa hai intenzione di fare, ispettore?
Arrestarmi?"
"No, mi limiterò a vendicarmi." commentò
maliziosamente.
La sua mano libera prese il pennello con la vernice
verde, abbandonato per terra sul rivestimento di strofinacci e fogli di
quotidiani, econ questo evidenziò tutta
la linea della mascella di John. Non ci aveva mai fatto caso, ma John aveva una
bellissima mascella, non era né troppo pronunciata, né troppo delicata come
quella di Paul. Era davvero perfetta, tanto che Paul avrebbe voluto tracciarla
con le sue stesse dita, ma sapeva che fosse totalmente disdicevole. John
l'avrebbe mandato al diavolo e con una buona ragione. Anche Paul si maledisse
da solo, perché... Che cazzo di desiderio era mai quello?
Poi John rise e mosse un po' il capo per il solletico che
le morbide setole stavano trasmettendo alla pelle sensibile del viso.
"Forse è meglio usare qualcos'altro." affermò
Paul.
"Perché? Non hai ancora finito il tuo capolavoro,
Michelangelo?"
"Certo che no, che domanda stupida." esclamò
sbuffando.
Paul abbandonò il pennello e decise di ricorrere a due
delle sue dita. Le sporcò di vernice gialla e si chinò lievemente su di lui,
appoggiando le dita sulla sua fronte. Disegnò un grande sole in mezzo alla
fronte liscia, scostando con le dita pulite i capelli della frangia. Si
assicurò che fosse un sole perfetto, rotondo e luminoso, come quello che
avevano disegnato sulla parete della cameretta di Julian.
"Cosa stai facendo?"
"Dopo lo vedrai. Fa' silenzio ora."
"D'accordo, capo."
Paul rise e spostò le dita su una delle sue guance.
Contornò l'occhio, facendo attenzione a non avvicinarsi troppo alla palpebra,
ammirando da vicino quel colore così particolare dei suoi occhi: l'iride era
verde chiaro, con pagliuzze ambrate che rendevano il suo sguardo così pieno di
calore.
Un calore che Paul si ritrovò a desiderare. Non capiva
bene per quale motivo e non sapeva come fare per provare ancora e ancora quel
calore. Ma ne aveva avuto un assaggio: John era stato così gentile con lui,
premuroso e sempre presente quando Paul ne avesse avuto bisogno, che Paul ora
si ritrovava a esserne dipendente e a desiderarne sempre di più.
Perciò la mano si spostò per ripetere la stessa azione
sull'altra guancia. Rise leggermente quando la sua opera fu conclusa e John,
interessato, gli chiese se ora finalmente avesse finito.
"Sì, direi di sì." rispose soddisfatto.
"Oh, allora non ti dispiace se faccio questo."
"Cos-"
Ma Paul non fece in tempo a chiedere alcunché. Capì solo
di aver abbassato la guardia prima, con quella sua risata, e di aver allentato
la presa sulle mani di John. Lo capì quando, dopo uno scatto dei fianchi di
John, si ritrovò steso a terra e l'istante successivo John si arrampicò a
cavalcioni sopra di lui, bloccando insieme le braccia e le gambe di Paul.
"Ehi. Non vale." protestò, ridendo,
l'ispettore.
"Che cosa, mio caro? Non lo sai che chi la fa,
l'aspetti?"
"Ma-"
"Sta' zitto. Mi devo concentrare per ricambiare
adeguatamente il favore."
Paul cercò di ridere ma lo trovò molto difficile. John studiava
il suo viso con un'attenzione incredibilmente accesa, quasi ardente. Era
strano, ma Paul non era mai stato guardato in quel modo, e ancor più strano era
il fatto che Paul desiderasse quello sguardo su di sé per sempre. Lo faceva
sentire importante, speciale, amato.
Perché nessuno l'aveva mai guardato in quel modo?
Perché John era l'unico ad averlo fatto?
Le risposte a quelle domande erano troppo complicate e
Paul non voleva davvero saperle. Soprattutto non ora che John aveva sporcato le
proprie dita di vernice bianca e stava disegnando dei baffi sul volto di Paul,
facendo dei bei riccioli sulle sue guance rotonde.
Il contatto tra le dita di John e le guance di Paul
bruciava, per quanto lieve, bruciava come l'incendio più devastante.
Era folle, ma Paul voleva solo che John non finisse mai
di toccarlo, che John lo accarezzasse, e tutto il resto non importava. Almeno,
non quel giorno, proprio quando si era reso conto che stava rischiando di
perdere le uniche due cose importanti che gli fossero rimaste: il suo lavoro e
John.
Ora come ora non poteva far molto per il lavoro. Doveva
solo aspettare la prossima mossa di Hermes, perché indizi su di lui ne avevano
davvero pochissimi. Londra era abitata da milioni di persone e lui ne cercava
solo una.
Mentre per quanto riguardava John, Paul non poteva
permettere che si allontanasse da lui. E quando l'aveva visto ridere con Yoko,
Paul aveva avuto paura. Qualcosa si era acceso, diventando più confuso, più
importante. Non aveva idea di cosa gli stesse accadendo, ma Paul sapeva che non
era disposto a condividere John con un'altra persona.
E allora George? Perché con George non aveva questa
reazione?
George era amico di John, come anche Paul era amico di
John.
No, Paul sapeva in fondo che non fosse uguale. Era
diverso in qualche modo.
Tutti i suoi pensieri, dubbi, riflessioni scoppiarono
come una bolla di sapone quando John rise dolcemente per il lavoro compiuto.
Paul si ritrovò a sorridere inconsapevolmente. Forse
sorrideva già da qualche minuto, da quando John, euforico, aveva cominciato a
dipingere il volto di Paul. Era un'espressione incredibile, quasi ipnotica e
soprattutto bellissima sul viso di John.
Paul ne era ammaliato, affascinato… conquistato.
"Ecco fatto. La mia vendetta si è conclusa."
John aspettò che Paul dicesse qualcosa, ma il ragazzo
continuava solo a guardarlo. John non sapeva perché, e il suo cuore batteva
così forte che non riusciva a capire nient'altro al di là di quello splendido
uomo che lo guardava e sorrideva con un calore che arrivava anche a John, e
sembrava che stesse facendo sciogliere la parte più razionale di sé.
Non sapendo cos'altro aggiungere per cercare di ottenere
una qualunque risposta da Paul, John disse un semplice e banalissimo,
"Paul?!"
E finalmente ebbe la sua risposta. Breve e concisa. Non
molto chiara, e di certo così sorprendente.
John ebbe la sua risposta quando Paul si sollevò
leggermente col busto.
Quando Paul lo baciò.
Fu così rapido che John neanche se ne rese conto.
Paul, proprio Paul McCartney, il suo ispettore, il suo
amico, ilsuo Paul l'aveva baciato. E dio, se questa non era la
cosa più incredibile che John avesse mai provato.
Improvvisamente tutto intorno a lui era più luminoso,
come se quel sole sulla parete fosse vero, e John si sentiva così leggero:
sembrava che con quel bacio (era un bacio, vero?) Paul avesse fatto sparire
tutti i suoi problemi, tutti quei dubbi complicati che facevano intrecciare la
mente di John.
Paul l'aveva baciato. Oh, sì, era proprio così. E John
l'aveva visto, mentre avvicinava le sue labbra piene e le posava su quelle di
John. Mai aveva assaggiato labbra più soffici e più dolci di quelle di Paul.
L'odore acre della vernice sui loro volti era ancora così intenso e la bocca di
Paul sapeva di birra, ma c'era un sapore dolce come miele che giaceva lì, su
quelle labbra e John voleva assaggiarlo ancora.
Tuttavia non fece in tempo ad afferrare il suo volto tra
le sue mani per poterlo baciare di nuovo, che Paul aveva già ricominciato a
parlare.
"Io… dovrei andare, ora."
John voleva solo dirgli, ‘no, non andare, resta e
baciami ancora’. Ma non voleva affrettare le cose. Quel bacio aveva aperto
una porta che John voleva disperatamente aprire e ora che Paul l’aveva fatto al
posto suo, ora quella porta li aveva portati in un’altra dimensione, una in cui
c'era molto su cui riflettere e forse sarebbe stato meglio che l'avessero fatto
da soli, ognuno per conto suo.
Sicuramente era questo che stava cercando di dirgli Paul
con la sua affermazione. Forse non sapeva cosa dire né fare a causa del suo
gesto, e quindi era ricorso a quella semplice e ovvia soluzione.
"C-certo."
John liberò Paul ed entrambi si alzarono in piedi,
avviandosi poi verso le scale.
“Grazie mille per… oggi.” gli disse John, scendendo i
gradini.
“Se non mi avessi aiutato, sarei ancora a metà lavoro.”
“E’ a questo che servono gli amici, no?”
“Già.”
John annuì e Paul continuò solo a guardarlo, trovando
incredibilmente difficile andare via, distogliere i suoi occhi dal viso di John
che ora appariva così diverso.
Tuttavia, doveva
andare via. Alla fine Paul era scoppiato, proprio come aveva previsto, e in un
modo che non si aspettava.
“Allora, ci vediamo, John.”
“Sì, ciao, Paul.”
Paul gli rivolse un rapido cenno della mano prima di
voltarsi e allontanarsi velocemente da quella casa. Il tragitto verso casa sua
fu molto breve, ma Paul percepiva lo sguardo di John sulla sua schiena:
bruciava e rendeva il ritorno a casa infinito.
Finalmente Paul raggiunse il suo appartamento e sparì
dietro la porta.
Ora, solo ora
diede il permesso al proprio corpo di assimilare e capire ciò che aveva fatto.
E ciò che aveva fatto era la cosa più strana, la cosa più travolgente, la cosa
più sbagliata che avesse mai fatto.
Aveva baciato John.
Un bacio vero, ed era stata una sua iniziativa. Era stato
lui a sollevarsi per avvicinarsi a John e sfiorare le sue labbra con le
proprie.
Le labbra di John, così morbide, perfette, facevano venir
voglia di baciarlo ancora, ma no, no, che cosa stava pensando?
Che cazzo ti prende, Paul?, si
chiese angosciato.
Aveva bisogno di John, solo questo. In quel momento, dove
aveva compreso appieno tutto ciò che l’uomo avesse fatto per lui, tutto ciò che
rappresentasse e quanto meraviglioso apparisse ai suoi occhi, quel bacio per
Paul era stata la cosa più giusta da fare.
Ma era sbagliato, troppo sbagliato, era una situazione
troppo ingarbugliata, era una matassa attorcigliata di un filo che non poteva
essere sciolta.
Non vi era alcuna soluzione.
E soprattutto non vi era soluzione ora, con la mente di
Paul ancora annebbiata e il suo cuore ancora così euforico, impazzito.
Aveva bisogno di dormirci sopra, e sicuramente il giorno
dopo sarebbe stato tutto più chiaro.
Una notte di riposo, con la speranza che questa piccola
barca sopra cui si trovava Paul, uscisse dalla tempesta.
Una tempesta che Paul amava e odiava.
Una tempesta di nome John.
Note
dell’autrice: buondì.
Sinceramente, non so cosa dire di questo capitolo, a
parte il fatto che… ehi, Paul ha baciato John! È una cosa che aspettavamo, ma
proprio ora? :/
Ad ogni modo, è un buon modo per augurarvi buone vacanze.
Domani si parte, ma mi porterò dietro tutto il necessario per continuare a
scrivere. Purtroppo anche se volessi, non credo che avrò la connessione a
internet per pubblicare, perciò ci sentiremo al ritorno.
Grazie a kiki che ha corretto
il capitolo.
Grazie a Chiara_LennonGirl e GaaraIstillloveyoubaby che hanno recensito lo scorso
capitolo e a tutti quelli che hanno seguito con affetto la storia fino a questo
momento.
Prossimo aggiornamento: 19 agosto.
Non lascio alcuno spoiler (sarebbe crudele), a parte il
titolo, “You’vegot to hideyour love away”.
Capitolo 17 *** You've got to hide your love away ***
I’ll get you
Capitolo 16: “You’ve got to hide your love away”
Il mattino sopraggiunse dolcemente, inondando la camera
da letto di Paul con i suoi raggi dorati.
E con lui giunse anche quell'importante realizzazione che
Paul aspettava dalla sera precedente.
No, non aveva sognato.
Anche se Paul aveva dormito tranquillamente, quel ricordo
non era stato cancellato, perché non era qualcosa accaduto solo nel mondo dei
sogni.
Era accaduto davvero.
Non era effimero come un sogno, era concreto e Paul, quella
mattina, ricordava tutto, fino al più insignificante particolare: l'odore della
vernice sulla pelle di entrambi, la musica in sottofondo, il calore di John che
lo avvolgeva come la più morbida coperta.
Tutto era così vivo in lui che Paul sapeva sarebbe stato
difficile dimenticarlo.
Ma la domanda era: lui voleva davvero dimenticare?
Non ne era poi così convinto. C'era una parte di se
stesso, quella più folle, che urlava a gran voce che Paul non dovesse affatto
dimenticare un evento come quello.
Tuttavia, era anche vero che quella sembrasse l'unica
soluzione possibile.
No, l'unica soluzione accettabile.
Perché in effetti se Paul rifletteva bene, c'erano altre
due scelte, ma entrambe lo spaventavano infinitamente.
La prima era quella di parlare con John riguardo ciò che
era successo, ciò che Paul aveva fatto, e a quel pensiero, al ricordo di Paul
che prendeva l'iniziativa, l'uomo arrossì vistosamente. Dio, doveva aver perso
la testa per fare una cosa simile. Non poteva neanche dare la colpa alla birra.
Ne aveva bevuto a malapena mezza bottiglia. Magari poteva incolpare la stanza e
quell'odore intenso di vernice. Forse era stato davvero questo a farlo
impazzire, qualche sostanza chimica presente in quell’intruglio verdastro.
Perché Paul doveva essere impazzito per forza per baciare
John. Per voler baciare John.
Ed era proprio questo il problema. Se Paul avesse parlato
con John e scoperto che quella era stata la cosa giusta da fare? Paul non
poteva crederci, ma era una possibilità concreta. Dopotutto John non l'aveva
respinto e neanche si era incazzato come Paul avrebbe potuto facilmente
immaginare. Sembrava sorpreso quanto Paul, ma sicuramente non arrabbiato.
E forse... Forse Paul osava troppo in questi suoi
pensieri, ma poteva anche dire che John avesse... apprezzato?
Ecco. Era questo il nodo cruciale. Se avesse parlato con
John e insieme fossero giunti alla conclusione che potevano farcela, che non
era così sbagliata l'idea di loro due che-
Aspetta un attimo, Paul, si
disse.
Che cosa stava pensando? Paul che frequentava un altro
uomo? Non era possibile, non era credibile, non era-
Ma John non era un altro uomo. John era John e John era
incredibile, così meraviglioso per Paul, così... così...
No, cristo santo, Paul, che cazzo ti prende?
Paul si sollevò a sedere, passandosi la mano sul viso
sudato, e respirò profondamente e con lentezza. Neanche si era accorto
dell'iperventilazione.
E mentre riprendeva a respirare normalmente, la sua mente
gli suggerì la seconda soluzione, quella che il suo cuore già in partenza non
poteva neanche prendere in considerazione.
Non vedere più John. Cancellarlo per sempre dalla sua
vita. Non avere più niente a che fare con lui perché stava mandando a puttane
la sua salute psicofisica. Era davvero una tempesta, delle più devastanti, e
Paul, il folle, dopo averne visti gli effetti, era ancora combattuto tra il
fuggire il più lontano possibile da lui e il restarne in balia.
Sarebbe stato più semplice, certo, ma quale sarebbe stato
il prezzo? Uno sicuramente troppo alto da pagare per Paul. Non poteva
permetterlo, neanche questo era accettabile. Scappare via, lontano da John, era
da vigliacchi.
E allora?
Se non poteva allontanarsi da John, né pensare a lui come
a più di un amico, cosa poteva fare?
Cosa doveva fare?
****
John sospirò quando Julian finalmente si addormentò.
Il bambino era tornato nel tardo pomeriggio e John aveva
subito notato quanto fosse felice. Vederlo così allegro con sua madre gli
riempì il cuore di gioia, ma comunque non poté fare a meno di correre verso di
lui quando vide la macchina di Cynthia parcheggiata di fronte al suo
appartamento.
Gli era mancato così tanto che John voleva solo
abbracciarlo e non lasciarlo andare mai più. Un desiderio ovviamente
impossibile da esaudire e sicuramente dettato dai pensieri a caldo di John, ma
in quel momento tutto era concesso, e John lo strinse a sé e poi lo baciò sulle
guance e sulla fronte, mentre Julian rideva per il solletico.
Cynthia l'aveva ringraziato per l'opportunità e aveva
salutato Julian promettendogli che si sarebbero rivisti presto. La sera era
trascorsa tranquillamente con Julian che raccontava a John dei suoi giri sul
pony, e le volte in cui aveva dato da mangiare alle oche e poi i tuffi con la
mamma in piscina. Sì, si era divertito più di quanto lui stesso potesse
immaginare. Tuttavia quando più tardi quella sera Julian gli aveva chiesto il
permesso di dormire nel suo lettone, John era stato più che felice di
accontentarlo. Come se anche Julian avesse sentito fortemente la mancanza del
padre e avesse bisogno di sentirlo vicino per essere sicuro di essere di nuovo
con lui.
Così eccoli lì ora, nel grande letto di John: Julian era
accoccolato tra le braccia di John, il viso nascosto nel petto di suo padre, e
John lo avvolgeva dolcemente.
Gli aveva canticchiato una ninna nanna per farlo
addormentare e Julian, a causa anche della stanchezza dovuta a un fine
settimana movimentato, era crollato in pochi minuti.
John rimase sveglio, assaporando la sensazione potente di
essere di nuovo con il suo bambino. Era caldo tra le sue braccia, e i suoi
capelli profumavano dolcemente di buono.
Era tutto ciò che gli serviva per placare il suo animo in
tormento da almeno un giorno.
Da quando Paul l'aveva baciato.
Era davvero difficile credere a una cosa simile, ma ogni
volta che John pensava che dovesse trattarsi solo di un sogno, allora il suo
cuore cominciava a battere come se fosse ancora lì con Paul, e sulle sue labbra
poteva ancora percepire il dolce sapore del giovane uomo. Tutto questo per
ricordargli che non aveva affatto sognato.
Il problema era che Paul non si fosse fatto sentire quel
giorno. Forse aveva voluto lasciarlo in pace sapendo del ritorno di Julian. O
forse, come John, non sapeva proprio come comportarsi. Doveva essere John a
chiamarlo? Oppure toccava a Paul?
E tutto diventava ancor più complicato se John si
soffermava a pensare alla reazione di Paul. Lui, John, ovviamente non aveva
avuto problemi. Insomma era o non era ciò che aspettava disperatamente? Cazzo,
se lo era.
Tuttavia Paul era stato impassibile. L'aveva baciato lui,
sì, ma poi? Poi si era comportato come se non fosse successo nulla. E in quel
momento a John era parsa la soluzione migliore, ma ora stava cominciando a
ricredersi. Non vi era stato un solo segnale da Paul né in un senso né nell'altro.
O forse vi era stato e John non l'aveva recepito?
Santo cielo, rischiava di impazzire a passare i suoi
giorni e le sue notti a pensarci senza arrivare ad alcuna conclusione. Doveva
fare qualcosa, doveva vedere con i propri occhi Paul e solo allora avrebbe
capito cosa fare.
E dal momento che Paul non sembrava voler fare la prima
mossa, John decise che toccasse a lui. Si voltò leggermente, tenendo vicino a
sé Julian, e afferrò il cellulare dal comodino. Erano le 22.45. Paul doveva
essere ancora sveglio. O almeno John lo sperava.
Decise di scrivergli un messaggio. E caspita, mai
messaggio fu più complicato da scrivere. Cosa doveva dire? Come doveva
iniziare? Ciao o era meglio Buonasera? E poi? Come stai? Tutto
bene?
Oh, era un idiota. Ecco. Farsi stupidi problemi per uno
stupido messaggio. Neanche fosse una ragazzina di quattordici anni alla sua
prima cotta.
Scrivi solo la prima cosa che ti passa per la
testa!, si disse.
E così fece.
'Ciao. Avrei un nuovo brano da studiare
insieme a te. Che ne dici? Ci stai?'
Inviato il messaggio, John rimase in attesa e nel
frattempo accarezzò i capelli di Julian, un gesto che aveva il potere di
calmarlo, e in quell’occasione era assolutamente fondamentale mantenere la
calma. Se Paul non gli avesse risposto subito, John sarebbe impazzito. Certo,
poteva essere che il giovane ispettore stesse già dormendo. Ma allo stesso
modo, poteva anche essere che Paul non volesse più sentirlo, che volesse
cancellarlo dalla sua vita, troppo pentito da quanto fosse accaduto.
In quel caso, le peggiori catastrofi si sarebbero
affollate nella sua mente, e John sentì il proprio respiro mozzarsi alla sola
idea di non vedere Paul mai più.
Per fortuna, però, il cellulare vibrò pochi minuti dopo,
e lui aprì subito il messaggio per leggere due parole semplici che lo resero
nello stesso momento incredibilmente felice e terribilmente ansioso.
'Ci sto.'
****
Paul era pronto.
Appena uscito dalla porta di casa sua, prese un profondo
e respiro e si sentì proprio così. Pronto.
Pronto a rivedere John.
Ormai la decisione era stata presa e Paul aveva accettato
che quella fosse davvero l'unica soluzione. Ecco perché aveva acconsentito di
vedere di nuovo John per una delle loro lezioni; e Paul sapeva per certo che
anche John si sarebbe comportato esattamente come lui. Il messaggio che gli
aveva mandato era chiaro.
L’uomo attraversò la strada e giunse di fronte al negozio
di John.
Il suo cuore, stupido, batteva così forte: era un
maledetto bastardo, ecco cos'era. Paul aveva chiarito più volte con se stesso,
dopo molte discussioni interne, che davvero non potesse fare altro in quella
situazione. Ma il suo piccolo folle cuore non gli dava mai retta e faceva di
testa sua, impazzendo al solo pensiero che stesse per rivedere John. Dio, lo stesso
John che Paul aveva baciato.
Paul scosse il capo per allontanare ancora
quell'immagine, e provò a ignorare a tutti i costi il suo cuore, mentre varcava
la soglia del negozio.
Si guardò subito intorno e quell'incosciente del suo
cuore perse un battito, sprofondando nella delusione perché di John non c'era
neanche l'ombra. Oh, se fosse stato ancora ammalato? Poteva aver preso una
ricaduta. Era una possibilità concreta.
Ma che stupido! Perché continuava a preoccuparsi in quel
modo per John? Doveva rispettare la sua decisione. Doveva-
"Ciao, Paul."
Una voce giunse alle sue orecchie, destandolo dai suoi
pensieri e permettendogli di accorgersi che ci fosse solo George in negozio.
"Ciao." lo salutò Paul, raggiungendolo al
bancone.
Il ragazzo stava giocando a solitario al pc, mentre
ascoltava un po’ di musica con gli auricolari, "Qual buon vento?"
"Oh. John ed io dobbiamo studiare un nuovo
brano."
"Capisco."
"Non lo vedo in negozio. Non è ancora ammalato,
vero?" domandò Paul, guardandosi intorno e ancora non riuscendo a scorgere
John.
"No, no.” si affrettò a rispondere George, con un
vago gesto della mano, “Ha portato Julian al parco con Yoko e sua figlia."
Paul batté le palpebre, turbato.
Yoko?
Ancora?
Ma John gli aveva detto che non fosse niente di serio, giusto?
Quindi Paul non doveva preoccuparsi.
No, ecco, aveva detto bene. Paul non aveva alcun diritto
né alcun motivo per preoccuparsi. Quella stupida gelosia che lo stava
nuovamente attanagliando era davvero incredibilmente stupida e inutile.
Non poteva essere ancora geloso, e non perché John gli
avesse detto che non c'era nulla di serio con Yoko. Non poteva perché non
dovevano andare così le cose fra lui e John. Loro erano amici, solo amici.
Tutto qui, e prima Paul l'avesse capito, prima sarebbe stato meglio. Non solo
per lui stesso, ma anche per John.
"Ma sta per tornare, non ti ha dato buca."
spiegò George, “Altrimenti mi avrebbe avvisato.”
"Oh, sì, va bene, grazie." balbettò Paul,
ancora un po’ inquieto da quel contrasto tra ciò che diceva la sua mente e ciò
che desiderava il suo cuore.
"John è diventato molto bravo, vero?"
Paul annuì, grato per il fatto che George gli avesse
offerto un argomento di discussione con cui distrarsi, "Assolutamente
sì."
"L'ho sentito l'altro giorno mentre si esercitava. Sono
molto colpito." commentò George, entusiasta.
"Aveva molta voglia di imparare.” spiegò Paul, “È
per questo che ce l'ha fatta."
"Pensi che andrete avanti ancora per molto?” domandò
George, interessato, “In fondo quello che doveva imparare, l'ha imparato..."
Paul batté le palpebre e sentì un tonfo nel suo petto,
all'idea che gli stava suggerendo George.
Forse perché sapeva che George avesse ragione e che
quelle stupide lezioni non servissero a nulla. Almeno, John non aveva più nulla
da imparare di quello che Paul aveva da offrirgli. Ormai non erano più lezioni,
erano solo attimi rubati alla loro vita per stare insieme. Erano momenti a cui
Paul si aggrappava per avere John tutto per sé.
Certo, come se non l'avesse mai avuto in altre occasioni.
Tuttavia era così che era cominciato, e così doveva
continuare perché Paul stava così bene in quei momenti con John. C'erano solo
loro due e la musica. Un mix perfetto di cui Paul, ormai l'aveva appurato, non
poteva più fare a meno.
“Sì, io credo che il lavoro con John non sia ancora
finito.”
“Perché?”
Già, questa era la domanda più importante.
Perché?
****
John controllò l’ora e quasi imprecò ad alta voce: era in
ritardo per l’appuntamento con Paul.
Cosi cercò di affrettare il passo. Aveva appena lasciato
Julian al parco con Yoko. In realtà avrebbe dovuto portarlo a casa con sé: non
aveva alcuna intenzione di affidarlo a qualcuno che probabilmente non l’avrebbe
sorvegliato come lo stesso John.
Tuttavia quando aveva detto a Julian di tornare a casa,
lui aveva protestato e insieme a lui anche Kyoko. E a
quel punto, Yoko si era offerta di riportare il bambino a casa; perciò John
aveva ceduto.
Una volta non l'avrebbe fatto. Solitamente lasciava
Julian con George e Pattie perché si fidava, ma con altri mai e poi mai. Eppure
da quando aveva affidato Julian alla madre per pochi giorni, era come se avesse
imparato ad allentare la presa su di lui. Lo capì quando si rese conto che,
dalla sua nascita, non si era mai separato da Julian per più di un giorno,
troppo preso dalle sue responsabilità di padre single. Ma ora era diverso. Non
desiderava certamente che suo figlio crescesse pieno di paure e ansie
nell'affrontare il mondo da solo. La proposta di Cynthia era arrivata nel
momento giusto, ed era anche il modo migliore per John per affrontare e cercare
di attenuare le sue ansie di genitore.
Così John aveva accettato e affidato Julian a Yoko,
consapevole del fatto che la distrazione che gli stava offrendo Paul fosse un
notevole aiuto alla sua situazione.
Difatti quando svoltò nella via di casa e vide la porta
del negozio aperta, il suo cuore iniziò a battere più velocemente e lui sorrise
a nessuno in particolare. Una cosa molto stupida da fare, ma santo cielo! Stava
per rivedere Paul. Quello stesso Paul che l'aveva baciato. Gli era permesso
comportarsi da sciocco, no?
Chissà se era già arrivato. Conoscendolo, forse sì, era
già lì ad aspettarlo e… maledizione! Il pensiero rese quel breve tratto
di strada interminabile. Per quanto John potesse accelerare il passo, la porta
del negozio appariva sempre lontana.
Eppure, non ce la faceva proprio a trovare tutto questo
così stupido, anzi, era quasi divertente, pensò ridendo fra sé. Non si sentiva
così leggero e sereno da secoli: era incredibile, era pazzesco, e lui voleva
solo che questa sensazione non scomparisse mai più.
Quando si avvicinò finalmente al negozio, poté sentire
George parlare con qualcuno.
"Pensi che andrete avanti ancora per
molto? In fondo quello che doveva imparare l'ha imparato..."
John arrestò improvvisamente il passo, e con un sussulto
al cuore, riconobbe la voce che gli rispose.
“Sì, io credo che il lavoro con John non sia
ancora finito.”
Paul.
Paul era già arrivato, proprio come previsto da John, e
stava parlando con George.
“Perché?”
Santo cielo, stava proprio parlando di lui con George e a
quella realizzazione, John si sentì arrossire per qualche strano motivo.
“Ehm, dobbiamo ancora perfezionare alcune…
sì, alcune cose, sai, riguardanti la tecnica.”
John batté le palpebre, accorgendosi, non senza un po’ di
perplessità, che il tono di Paul fosse quasi… ma non era possibile, quasi a
disagio.
“A me sembra che vada bene ormai.”
Stupido George, perché caspita doveva insistere?!
“Oh, sì, ma vedi, lui… anche lui sta aiutando
me e… e io ho ancora bisogno di lui.”
John si morse il labbro, sentendosi diventare ancora più
rosso e più caldo in viso, mentre il suo cuore batteva euforico nel suo petto
come se fosse così felice che non sapesse più come calmarsi. E diamine, aveva
tutte le ragioni del mondo per essere felice. Molte volte John si era ritrovato
a pensare le stesse cose di George, il fatto che lui non avesse più bisogno
delle lezioni di Paul, ma altrettante volte aveva risposto a se stesso proprio
come Paul, con le stesse parole, la stessa titubanza, le stesse traballanti
scuse.
Il che poteva voler dire solo una cosa: che Paul, forse,
provasse esattamente gli stessi sentimenti di John.
“Ma, Paul, secondo me dovreste-“ iniziò
a ribattere George e a quel punto, John, spaventato, decise di intervenire ed
entrare in fretta nel negozio.
“Buongiorno!”
Sia George che Paul sussultarono quando si accorsero di
John.
"Oh, ciao, John."
"Ciao, Georgie." lo
salutò John, sorridendo, prima di voltarsi verso Paul e addolcire il suo
sguardo così come il suo tono, "Ciao, Paul."
L’uomo ricambiò il sorriso debolmente, "Ciao,
John."
"Sono felice che tu abbia accettato di aiutarmi con
il nuovo brano."
"È un piacere, lo sai."
"Che brano vuoi preparare, John?" si intromise
George.
"Vediamo, pensavo a Songbird,
dei Fleetwood Mac."
"Oh, è molto bello." commentò George, colpito.
"E molto impegnativo, perciò prima cominciamo,
meglio è, vero, Paul?" domandò, appoggiando le mani sulle spalle di Paul,
e senza neanche aspettare la sua risposta, iniziò a sospingerlo verso la sua
stanza, "A dopo, George."
John continuò a guidare Paul, mentre George augurava a
entrambi una buona lezione.
Quando finalmente raggiunsero la loro meta,John chiuse accuratamente la tenda dietro di
sé e si voltò a osservare con attenzione e con un'improvvisa timidezza Paul che
cercava con lo sguardo la chitarra.
“Allora, di cosa stavate parlando esattamente tu e
George?” chiese John, la sua voce dolce e attenta.
“Oh, niente, mi ha chiesto se non fosse il caso di
terminare questi incontri, dato che sei migliorato molto.” rispose Paul,
avvicinandosi alla custodia della chitarra che usava lui.
“E tu gli hai risposto di no?”
“Certo." rispose Paul, tornando a guardarlo,
"Alla fine non servono solo a te, anche io ne sto traendo vantaggio.”
“Così pare.” commentò facendo uno, due passi verso Paul.
Il giovane sussultò visibilmente, ma cercò comunque le
parole per rispondere, “E’ la verità.”
John annuì, sorridendo, “Lo so."
E il sorriso di John, dolce e malizioso, ebbe uno strano
potere su di lui: lo inchiodò al proprio posto, rendendolo incapace di muovere
un solo muscolo, mentre John si avvicinava sempre più.
Tutto in Paul gli stava urlando di scappare, e tutto in
John gli chiedeva di restare lì, proprio così, fermo.
Fermo solo per un istante, ad aspettare la mossa di John,
divenuta oramai così chiara, cristallina: la sua bocca stava cercando quella di
Paul.
Ma Paul ricordò a se stesso di essere più che convinto
della sua decisione e con un attimo di lucidità, prima che quell’ultimo
centimetro di distanza venisse eliminato, poggiò le mani sul petto di John e lo
spinse lontano da sé.
“Cosa credi di fare?”
John batté le palpebre, totalmente preso in contropiede,
"Eh?"
"Ho chiesto, cosa cazzo credi di fare, John?"
ripeté, il tono divenne lievemente alterato, suo malgrado.
"Io... Volevo solo... bac-"
Paul rise amaramente, impedendogli di terminare ciò che
voleva dire, "Devi essere impazzito."
"Ma Paul, credevo che anche tu lo volessi."
"Sei fuori strada." si affrettò a chiarire
Paul.
"No, non è vero." protestò John, aggrottando la
fronte e non gradendo questo cambio di atteggiamento in Paul, "Sei stato
tu a iniziare tutta questa storia."
Paul sussultò, non riuscendo a impedire a se stesso di
arrossire, "Quello è stato un errore."
"Un errore?" ripeté John, spalancando gli
occhi.
Dannazione. Era proprio come Paul aveva pensato. John...
John aveva chiaramente accolto con favore, con piacere, il gesto di Paul.
Era un disastro. Ed era tutta colpa di Paul. Non poteva
prendersela con John, perché lui aveva ragione: era stato Paul a iniziare
tutto.
"Sì." sospirò Paul, provando a calmare la sua
voce, "Dovremmo entrambi dimenticarcene e andare avanti come se nulla
fosse successo. Possiamo farcela, John."
Il tono più dolce e incoraggiante di Paul, quello che di
solito faceva impazzire John, ora era... Era odioso, insopportabile.
John guardò l'uomo con totale sconcerto e scosse il capo,
"No, Paul, non possiamo."
"Perché?" protestò accorato Paul, "In
fondo è stato solo uno sbaglio dettato dal momento."
"Cosa intendi?"
"Io ero..." iniziò a dire, distogliendo lo
sguardo e passandosi una mano tra i capelli, "Ero sconvolto per il lavoro
ed ero appena uscito da una storia importante, finita in modo turbolento. Non
capivo davvero cosa stessi facendo."
"Stai mentendo.” ribatté John, puntandogli un dito
contro, “Lo sapevi bene."
"Questo non toglie il fatto che sia stato un
errore." sbottò Paul.
"Cazzo, Paul, io non voglio considerarlo un errore,
ok? Non voglio fingere che non sia mai accaduto."
Era snervante, era una situazione senza speranza, John
stava cercando di far ragionare Paul inutilmente, perché Paul… lui non sembrava
avere alcuna intenzione di smuoversi dalla sua posizione, John lo sentiva.
La paura che Paul cercasse di dimenticare quello che era
successo si era infine avverata.
"Perché?" domandò Paul, spazientito.
"Perché?” ripeté John, prima di avvicinarsi
nuovamente a Paul per afferrarlo per le braccia, “Hai sentito anche tu quello
che sta succedendo. Tra noi due."
"Tu sei fuori di testa, John." esclamò,
liberandosi dalla sua presa.
John scosse il capo lentamente, "No. Non puoi non
averlo avvertito. È così forte."
"Che cosa, John?"
John gli afferrò la mano, stringendola dolcemente, "Questo,
Paul. Questa strana voglia che ho di te, di toccarti e baciarti ogni volta che
mi sorridi, ogni volta che-"
"Basta, smettila." gli intimò Paul, prima di
allontanarsi ancora da lui, liberando la propria mano dalla stretta di John.
"Paul?!"
"Paul un cazzo, John.” esclamò l’ispettore, facendo
attenzione a non alzare troppo la voce per evitare che George, oltre la tenda,
sentisse ogni singola parola di quella folle discussione, “Tu sei pazzo. Hai
perso la testa. Non puoi provare queste cose. Non per me."
E sebbene John fosse preparato a questa reazione di Paul,
non mancò di colpirlo, come un pugnale dalla lama metallica e fredda che
infilzò il suo cuore, e ora John sanguinava e soffriva, soffriva
maledettamente.
"Perché?" continuò con un filo di voce.
"Perché io non voglio."
John chiuse gli occhi per un istante, alla ricerca del
coraggio e della forza per rispondere ancora una volta a Paul e alla sua
fottuta cocciutaggine.
"Sono i miei sentimenti, Paul.” mormorò senza alcuna
emozione a connotare quelle parole, “Non puoi impedirmelo."
"Allora se le cose stanno così, forse non abbiamo
più niente da dirci." disse l’uomo, prima di voltarsi e dirigersi verso
l'uscita.
Ma John, spaventato, si affrettò a seguirlo e fermarlo
con una mano sul suo braccio, "Aspetta, Paul. Che stai facendo?"
"Me ne vado."
"No, ti prego, Paul. Io ho bisogno di te."
sussurrò John dolcemente, ritrovandosi quasi a implorare Paul.
"Allora dimentica quello che è successo."
sospirò Paul, chiedendogli con gli occhi di accontentarlo, perché anche lui aveva
bisogno di John, tanto quanto lo stesso John, solo che a differenza dell’altro
uomo, Paul era troppo spaventato per ammettere quanto fosse immenso il suo
bisogno di John.
"Non posso, perché se non l'avessi fatto tu, l'avrei
fatto io.” ammise John, portando una mano tremante sul viso di Paul, ma ancora
non toccandolo per paura della sua reazione, “E continuerei a farlo, te lo
giuro."
"Mi dispiace, John.” rispose Paul, sospirando e
indietreggiando di un passo verso la tenda, “Io non ho bisogno di te in questo
modo."
John, a quelle parole, si sentì sprofondare completamente
sotto terra, come se sotto di lui si fosse aperta una voragine e questa
l’avesse inghiottito senza pietà. E Paul… Paul era lì a osservare tutto e non
muovere un dito per aiutarlo.
Paul che proseguì, dicendo, "E se tu non riesci ad
accettarlo, sono costretto a dirti addio."
"No, io... no, Paul, non posso dimenticare."
ribadì John, scuotendo il capo, come se la sua fosse la richiesta più assurda
di tutta la sua vita.
"Bene. Allora addio, John."
Detto questo, Paul si voltò uscendo dalla piccola stanza,
lasciando John nel più totale sconforto, mentre cercava di capire cosa fosse
successo.
Non che ci fosse molto da capire e in effetti era tutto
piuttosto chiaro. Paul stava solo nascondendo ciò che provava davvero. O forse
John si era solo illuso che lui provasse anche solo un pizzico di tutto ciò che
scuoteva il suo animo.
Forse John aveva letto troppo nelle cose che Paul faceva
per lui, in quello che diceva o come si poneva verso John. John aveva visto
tutto questo con occhi inizialmente opportunisti. Poi piano piano la sincerità
di Paul l'aveva spiazzato, facendo in modo che lui si arrendesse a un’amicizia
così strana prima e ora a questo sentimento che era cresciuto fino a occupare
ogni parte di lui.
E accecato da tutto questo, John aveva frainteso,
pensando che Paul potesse ricambiare.
Forse Paul aveva ragione. Quel bacio era stato solo un
errore, un incidente, che non poteva continuare, svilupparsi in qualcosa di più
dolce e importante.
Tuttavia John non voleva nascondersi come Paul. Gli aveva
già nascosto una parte importante di se stesso, non poteva frequentarlo ancora
e nascondergli anche questo sentimento. John sarebbe impazzito.
"Che cosa è successo?" chiese all'improvviso
George, spuntando dalla tenda.
John sospirò, avvicinandosi alla finestra per seguire
Paul che rincasava con le mani ben infilate in tasca e il capo chino.
"Solo un acceso scambio di opinioni diverse."
Paul aveva ragione.
L'unica soluzione era non vedersi più. Almeno per un po',
fino a quando a John non fosse passato questo scombussolamento emotivo e
fisico.
Poi forse sarebbero potuti tornare amici.
Forse.
****
Maledetto John!
Dio, se non era un piccolo fottuto bastardo, pensò Paul
imprecando fra sé.
Stava fumando nervosamente nel cortile della stazione
della polizia. Era la sua piccola pausa di metà mattina e lui aveva pensato
bene di andare a fumare una sigaretta nel cortile con tutte le loro auto.
Tuttavia ben presto si accorse di aver scelto il luogo
sbagliato, perché proprio lì poteva rivedere facilmente le scene di una
bellissima giornata di qualche settimana prima, quando aveva portato John e
Julian a vedere da vicino una vera auto della polizia.
Una giornata incantevole quella. C'era il sole e Paul si
era sentito così felice nel vedere la gioia sul piccolo bel visino di Julian,
nonché la serenità di John. Tutto questo prima che il suo mondo andasse in
frantumi proprio come le sue certezze.
Perché ora, proprio ora tutto ciò a cui potesse pensare
era John. Non aveva fatto altro da quella discussione. Pensare a lui e
desiderare corrergli dietro per dirgli che...
Non era proprio sicuro di cosa dirgli. Lui pensava ancora
quello che aveva detto a John, ma ora che si erano congedati così bruscamente,
stava avendo dei ripensamenti.
E certo, il fatto che John si divertisse a tornare nella
sua mente ogni due per tre non facilitava il suo quieto vivere. In realtà lo
peggiorava e come risultato Paul si sentiva ancora più combattuto.
Il suo mondo era stato letteralmente messo a soqquadro da
quando si era trasferito a Londra.
Mai e poi mai avrebbe pensato di fallire nel suo lavoro,
eppure eccolo lì a un passo dal baratro.
Mai e poi mai avrebbe pensato di desiderare un altro
uomo, eppure era proprio così. John era entrato nella sua vita mettendo tutto
in disordine, la sua vita così perfetta e Paul era stato lì a osservare tutto,
impotente, senza poter impedire che tutto questo avvenisse. Come una stanza
appena pulita e messa in ordine, in balia di un ragazzino troppo vivace, troppo
curioso.
John era quel ragazzino e quella stanza la vita di Paul.
Paul odiava il disordine perché nascondeva tutto, le cose
più importanti andavano perdute e lui sapeva che nonostante la sua vita fosse
ormai in quello stato disastrato, il suo vero io era ancora lì. Doveva solo
trovare qualcuno che lo aiutasse nella ricerca.
"Salve, signore."
Una voce lo salutò da dietro e Paul si voltò per scorgere
il viso sorridente di Linda.
"Oh Linda, ciao." esclamò, mentre lei si
avvicinava a lui.
"È in pausa?"
"Sì."
"Le dispiace se mi unisco a lei?"
"No, certo che no."
La giovane donna annuì e prese un pacchetto
di sigarette dalla tasca dei pantaloni per estrarne subito dopo una, prima che
Paul le porgesse l'accendino.
"Grazie." gli disse lei, sorridendo
e guardandolo calorosamente.
E per questo motivo, Paul sussultò e sbatté
le palpebre perplesso.
Un momento...
Forse lei avrebbe potuto aiutarlo.
"Ho sentito dire che l'ispettore Starkey
le ha fatto un certo discorsetto..." iniziò a dire Linda, espirando un piccola
nuvoletta di fumo.
"Oh quello?!" esclamò Paul,
annuendo, "Sì, in effetti è andata proprio così."
Linda sbuffò sonoramente, "Secondo me
non è giusto. Non dovrebbero trattarla in questo modo."
"Ti ringrazio, ma credo che abbiano
ragione." affermò Paul dolcemente, "Mi hanno chiamato per un motivo,
eppure io non sto facendo il mio lavoro."
"Ma non è stata colpa sua."
protestò Linda, accorata, "Siamo stati solo sfortunati."
"La sfortuna può influire una o due
volte, Linda. Qui invece c'è qualcosa che non va." sospirò Paul,
rassegnato.
"Beh, comunque, resta il fatto che non
possono cacciarla così. Lei è un uomo in gamba, signore, lo penso
davvero."
Paul la osservò attentamente in viso e
notando la sincerità del suo tono di voce, nonché della sua espressione
dispiaciuta, gettò il mozzicone della sua sigaretta a terra, prima di spegnerlo
con la punta del piede, e le sorrise.
"Sei gentile, grazie, ma per il momento
non possiamo fare molto. Se non aspettare la prossima mossa di Hermes."
Anche Linda ricambiò il sorriso, ma fece
anche qualcos'altro. Appoggiò la mano sul suo avambraccio, dandogli una breve e
delicata carezza.
"E sono sicura che la prossima volta lo
prenderemo, signore."
Paul si sentì arrossire appena, una piccola
ondata di calore stava espandendosi sulle sue guance. Il motivo ovviamente era
quella ragazza e il modo in cui lo guardava.
Ovviamente non era come se in passato non si
fosse mai accorto delle occhiate maliziose che gli rivolgevano altre ragazze.
Diamine, erano cose che riconosceva subito, lui.
Ma questa volta era diverso. Forse a causa
del fatto che il suo stato di scapolo gli permettesse ora di cedere a quella
malizia e magari approfittarne pure. Oppure per qualche altro motivo che gli
suggeriva che lo stesse facendo solo per ripicca, e di certo non nei confronti
di Jane, che ormai non si interessava più di lui. C'era il nome di un'altra
persona nella sua testa, ma era ancora spaventoso. Paul non doveva pensarci.
Non doveva pensarci mai più.
"Sì. Ben detto, lo acciufferemo."
esclamò, portando una mano sopra quella della giovane donna.
E così facendo, poté facilmente notare che
Linda fosse arrossita, ma nel contempo il suo viso era anche raggiante di
gioia.
"Ora... Signore, se vuole scusarmi,
io... devo proprio tornare al lavoro." esclamò lei, un po' incerta, la
voce traballante come le sue gambe che indietreggiavano.
Paul dovette trattenere una piccola risata.
Non pensava potesse avere ancora questo effetto su una giovane donzella; e fu
proprio questo motivo a convincerlo per prendere la palla al balzo.
"Ah, Linda?"
"Sì, signore?" domandò lei,
fermando il suo indietreggiare.
Paul si avvicinò lentamente, e alla fine le
prese una mano, "Mi chiedevo..."
"Cosa?"
"Mi chiedevo se per caso ti andrebbe di
proseguire questo discorso."
Linda, col viso ora ancora più rosso, chinò
lo sguardo per osservare la sua mano stretta in quella di Paul,
"Ora?"
"No, veramente pensavo magari davanti
una birra."
Linda si lasciò scappare una risata,
portandosi l'altra mano sulla bocca, "Mi sta per caso chiedendo di uscire,
signore?"
"Mm sì, qualcosa del genere."
esclamò Paul, sorridendo e facendole l'occhiolino, "Che ne dici?"
Linda si morse il labbro, pensierosa, ma era
un'esitazione che Paul aveva facilmente riconosciuto come civettuola.
Infatti...
"Ci sto."
"Davvero?" esclamò Paul, battendo
le palpebre.
"Ad una condizione."
"E sarebbe?"
"Che possa chiamarti Paul."
****
Pazzesco. Ci era davvero riuscito.
Aveva ottenuto un appuntamento con una
ragazza.
Paul ridacchiò nervosamente, mentre tornava a
casa in macchina.
Dopo la storia con Jane, pensava di aver
perso colpi nel cercare di rimediare un appuntamento con una ragazza, ma a
quanto pareva non era proprio come pensava lui. Anzi, era stato più facile del
previsto. Dovevano ancora sistemare alcuni dettagli, ma ormai la parte più
difficile era stata superata, e complice di questa ritrovata facilità era stata
la stessa Linda.
Paul non se n'era accorto prima d'ora, per
ovvi motivi, ma ripensando all'atteggiamento della donna nei suoi confronti,
lei non stava aspettando altro.
Aveva fatto proprio un'ottima scelta. Forse
Linda non era bella come Jane, ma il suo viso lentigginoso con gli occhi
azzurri e i capelli biondi a incorniciarlo, aveva una delicata bellezza, di
quelle che incantavano in modo dolce, indimenticabili tanto quanto le bellezze
più travolgenti.
Sarebbe stato un appuntamento perfetto, Paul
ne era convinto.
Eppure, quando parcheggiò davanti casa e
scese dalla macchina, non poté fare a meno di pensare che una parte di lui
avrebbe cercato di farsi piacere questa ragazza a tutti i costi perché era
l'unica sua salvezza, l'unico appiglio su cui Paul potesse far leva per
rialzarsi da quella situazione in cui era caduto.
E se ne rese dolorosamente conto quando
scorse dall'altra parte della strada John.
Aveva il piccolo e addormentato Julian in
braccio ed era tutto intento a parlare con Yoko, la quale portava la figlia
allo stesso modo. Dovevano aver trascorso un piacevole pomeriggio insieme.
Paul provò a ignorare il sussulto infastidito
del suo cuore, e troppo preso da questo duello interiore, non si accorse che
John si era voltato verso di lui.
Il giovane ispettore arrossì violentemente
sentendo gli occhi di John su di lui, ma se fino a pochi giorni prima l'uomo
gli avrebbe sorriso con l'espressione felice e radiosa, ora egli si limitò
semplicemente a ignorarlo. Il suo volto rimase impassibile e tornò subito a
guardare Yoko.
Il cuore di Paul si schiantò a terra e il
rumore che fece fu assordante, come un vaso di cristallo che cade e si frantuma
in milioni di piccole schegge nell'impatto con il pavimento. Ecco, quello
stesso rumore sovrastò qualunque cosa circondasse l'uomo e lo colse alla
sprovvista.
Ma perché?
Non era in fondo ciò che desiderava Paul?
John stava nascondendo i suoi sentimenti come stava facendo Paul, come gli
aveva chiesto Paul.
Ma così... Così era troppo. John lo stava
addirittura ignorando e Paul non poteva sopportarlo, perché in questo modo gli
aveva legato le mani, rendendo impossibile da parte di Paul una qualunque
reazione.
Se Paul avesse protestato, avrebbe solo
contraddetto ciò che aveva illustrato in modo abbastanza chiaro nella loro
ultima discussione. Che impressione gli avrebbe dato? Che forse, forse
si era pentito ora della sua richiesta?
No, per quanto dolorosa, quella era l'unica
soluzione. Se entrambi non riuscivano a frequentarsi come amici, nascondendo i
loro sentimenti ingarbugliati, così intrecciati fra loro che erano riusciti ad
avvicinarli, allora ignorarsi e nascondersi l'uno all'altro, nascondere
addirittura la loro conoscenza, era davvero l'unica soluzione possibile.
E con la speranza che prima o poi Paul
avrebbe superato anche questo, corse dentro casa per nascondersi anche alla
vista di John.
John che vide tutto questo con la coda
dell'occhio, mentre ascoltava distrattamente le parole di Yoko su quanto lei e
la figlia fossero state bene insieme a loro e che avrebbero dovuto farlo più
spesso, magari anche solo loro due, John e Yoko, senza figli al seguito.
John annuì a tutto, vagamente. Stava in
realtà cercando di trovare una risposta sensata a quelle domande che si
affollarono nella sua mente nel momento in cui aveva ignorato Paul.
Hai davvero ignorato Paul? Noi
non ignoriamo Paul, idiota! Si può sapere perché diavolo l'hai fatto?
Beh, John non lo sapeva. O forse lo sapeva ma
la reazione di Paul, il modo in cui si era affrettato per entrare a casa sua,
aveva fatto scoppiare le sue convinzioni, le aveva fatte crollare una dopo
l'altra come le pedine del domino. Una caduta inevitabile.
Inevitabile come la comparsa di quelle
domande sul perché John l'avesse ignorato, quando la verità era che la semplice
visione di Paul per lui, ultimamente, era diventata così cara, preziosa, una
fonte incredibile di gioia.
Inevitabile come anche i suoi dubbi, innescati
dalla reazione di Paul. Perché comportarsi così, se era stato lui stesso a
proporre quella soluzione?
Era stato Paul a desiderare tutto questo e
John aveva riconosciuto che avesse ragione, perciò ora gli stava solo
dimostrando che stesse comportandosi proprio come Paul aveva chiesto.
Non aveva senso ora, restare male per quel
comportamento. Non aveva senso come ogni altra cosa accaduta in quel rapporto,
a quanto pareva.
E dal momento che non erano due computer, non
avevano il tasto reset per cancellare tutto e cominciare da capo, allora non
potevano fare altro che evitare l'un l'altro.
Nascondersi, giocare a nascondino sapendo,
tuttavia, che nessuno dei due aveva voglia di giocare.
Che nessuno aveva voglia di vincere.
Di trovarsi.
Note dell’autrice: ed eccoci qua,
riprendiamo gli aggiornamenti della au.
Beh, ovviamente non potevano esserci rose e
fiori per John e Paul, giusto? :/
Ma non preoccupatevi, uno dei personaggi della
storia mi ha assicurato che sistemerà tutto! ;)
Grazie a kiki che
ha corretto e a GaaraIstillloveyoubaby, lety_beatle, paulmccartneyismylove,
paperback writer e Chiara_LennonGirl
che hanno recensito lo scorso capitolo.
Grazie anche a GoldenSlumber14 che sta
recuperando la storia.
Prossimocapitolo, “I want to hold your hand”, lunedì. E intanto ci sentiamo
venerdì con il nuovo capitolo della mini long rossa.
Forse era la quarta o quinta volta in pochi minuti. Non
che a lui importasse, figuriamoci. Neanche si accorgeva di sospirare.
Ma George sì e lo trovava particolarmente fastidioso, soprattutto
con questa frequenza. Avevano aperto il negozio da una buona oretta quella
mattina, eppure John non aveva ancora mosso un dito. Se ne stava seduto al
bancone, giocando al pc senza prestare davvero attenzione, il viso abbandonato
sul palmo della mano, e gli occhi assenti, sicuramente rivolti verso un altro
luogo.
Era uno spettacolo alquanto deprimente, almeno per
George, soprattutto perché durava da almeno un paio di settimane, dal giorno in
cui John e Paul avevano litigato, per l'esattezza. John non aveva voluto dirgli
molto a riguardo e George non aveva insistito inizialmente, pensando che fosse
più opportuno lasciarlo un po' in pace.
Tuttavia ora stava cominciando a innervosirsi. Non vedeva
John in quello stato da qualche anno, da quando Cynthia l'aveva abbandonato, a
voler essere precisi.
Anche se in effetti era stato comunque diverso in quel
caso. All'epoca John aveva molto a cui pensare, primo fra tutti Julian, che lo
teneva impegnato e lo aiutava a distrarsi. Ma ora? Non c'era davvero molto che
chiunque potesse fare. A parte Paul, naturalmente, e George sarebbe andato
volentieri a parlare con lui, ma non sapendo quale fosse il vero problema, come
faceva a spendere parole gentili nei confronti del suo migliore amico?
Così decise di parlare con l'altro diretto interessato, e
facendosi coraggio, si avvicinò all'amico, appoggiando di fronte a lui la pila
di cd che stava sistemando.
"Johnny?"
L'uomo sobbalzò, riportato bruscamente alla realtà dal
rumore dei cd e dalla voce di George.
"Johnny?" ripeté lui, perplesso.
"Sì. È il tuo nome, sai."
"Il mio nome è John e tu mi chiami Johnny
solo quando vuoi ottenere qualcosa da me." sbuffò John.
George rise lievemente, "Ops, smascherato."
"Che cosa vuoi allora?" sospirò l'amico,
incrociando le braccia.
"Voglio sapere cosa ti succede, Johnny caro."
John aggrottò la fronte. Maledizione, George era uno che
non si arrendeva mai quando voleva ottenere qualcosa, e questa era sempre stata
per John una nobile virtù, ma ora che riguardava così strettamente lui, stava
cominciando a dargli sui nervi.
Tuttavia provò comunque a rispondere, "Niente di
importante."
"Niente di importante, certo." sbottò George,
alquanto irritato, "Ecco perché non fai che sospirare da diversi giorni e
sei distratto in negozio."
John arrossì vistosamente, "Non è vero."
"Ah no? Vai a dirlo a David Bowie che si è ritrovato
un cd degli Who nella sua sezione." ribatté
George, chiaramente indignato, "Secondo te di chi è stata la colpa?"
"E sentiamo, quando sarebbe successo?" chiese
supponente.
Ma George rispose con prontezza, "Un paio di giorni
fa."
"Allora, va bene." sospirò nuovamente John,
sconfitto, "Cosa vuoi sapere?"
"Quello che ti è accaduto. Perché hai litigato con
Paul?" chiese George, diretto.
Ecco. Proprio quello che John temeva di più. Come poteva
spiegargli il vero motivo di quella discussione e dell'allontanamento che ne
era seguito?
"Ti ho già detto che si è trattato di un semplice
scambio di opinioni diverse." rispose, cercando di percorrere ancora una
volta la strada del vago.
"Certo, come no? È per
questo che hai bisogno di ridurti così per un litigio con lui?"
John assunse un'espressione crucciata quando
George lo indicò con una mano, in modo totalmente sdegnato, "Non mi sto
riducendo in nessun modo, George."
"Oh andiamo, John. Non raccontare
stronzate."
"Comunque non posso dirtelo."
"Perché?"
Santo cielo, era davvero stressante George. Come
poteva John sottrarsi a un tale impiccio?
"È una cosa che riguarda Paul. È
privato." spiegò, pensando che in effetti non fosse una completa bugia.
Dopotutto riguardava davvero Paul.
"E da quando rispetti la sua
privacy?" domandò George, scettico, "O forse ti sei dimenticato come
è iniziata tutta questa storia?"
"Non l'ho dimenticato, e se non sbaglio
ho deciso di abbandonare Hermes per lui." gli fece notare John.
George sospirò pesantemente, "Allora
perché non puoi dirmelo? Forse parlarne con qualcuno ti farebbe bene, o se vuoi
posso andare a spendere qualche parola buona per te. Della serie, 'Qualunque
cazzata ha fatto o detto John, non badarci. È solo nella sua natura'."
John rise, intenerito a questo punto dalla
dimostrazione di interesse e di affetto di George.
"Perché dovrebbe essere stata colpa
mia?"
"Non lo so, chiamalo sesto senso."
rispose lui, scrollando le spalle.
"Il tuo sesto senso sbaglia, sai, perché
stavolta ha cominciato lui."
"Oh." fece George, preso totalmente
in contropiede, "Allora come posso aiutarti?"
"In nessun modo, almeno per
adesso." sospirò malinconicamente John, abbassando lo sguardo, "Ma ti
ringrazio, George. Forse non te lo dico spesso, ma apprezzo davvero quello che
fai per me."
"È solo che mi preoccupo per te. Non
voglio che tu stia male. Siamo stati bene fino al suo arrivo."
John scelse di non ribattere, anche se
avrebbe voluto.
Nonostante tutto, John non rimpiangeva
neanche per un solo istante l'aver incontrato Paul. Non era sicuro che stesse
poi così bene prima del suo arrivo. Forse aveva solo creduto di avere tutto,
l'amore di suo figlio, l'affetto di pochi ma buoni amici e naturalmente una
situazione economica piuttosto benestante. Paulinvece con il suo arrivo aveva scombussolato tutto. Aveva reso evidente
quella mancanza dentro John. E no, non si trattava del saper suonare
correttamente la chitarra.
Era quel vuoto nel suo cuore, quello in cui
avrebbe dovuto esserci qualcuno di importante, indispensabile, qualcuno da
amare e da cui farsi amare, qualcuno che fosse stato sempre accanto a lui tanto
nei momenti di gioia quanto in quelli di dolore.
Paul era arrivato nella sua vita, senza
pretendere quel posto, eppure l'aveva occupato e John era così felice che fosse
stato proprio lui il prescelto.
In fondo, anche se ora non si parlavano e,
anzi, si ignoravano completamente, John era ancora felice di provare quel
sentimento per Paul.
Era come se sapesse che non poteva provarlo
tanto intensamente per qualcun'altro.
Forse John aveva sbagliato approccio con lui.
Forse invece di provare a baciarlo, quel giorno, avrebbe dovuto prima
spiegargli bene cosa provasse: prenderlo per mano e dirgli quanto importante
fosse diventato per John, quanto John lo sognasse la notte, quanto desiderasse
ancora stare con lui, stringerlo, baciarlo e-
"Grazie, George." esclamò John,
decidendosi ad allontanarequei pensieri
potenzialmente dannosi per la sua salute mentale, "Ma non ti preoccupare
per me. Starò bene."
Se George avesse creduto alle sue parole,
John non poteva dirlo con certezza.
In quel momento tutto ciò su cui potesse
concentrarsi, era quella fastidiosa vocina che gli sussurrava che mai e poi mai
avrebbe potuto fare qualcosa di simile.
Mai avrebbe potuto parlare con Paul di tali
folli e ardenti sentimenti.
Mai la sua mano avrebbe potuto intrecciarsi
ancora con quella di Paul.
****
Paul sospirò.
Non proprio perché si stesse annoiando. Dopotutto Linda
era una ragazza deliziosa.
Erano usciti a bere qualcosa insieme quella sera. Paul
aveva impiegato almeno due settimane per trovare la forza per realizzare la
proposta di uscire insieme.
E ora eccolo lì, a bere una birra insieme a quella
ragazza così bella. Doveva sentirsi molto fortunato per il fatto che lei avesse
accettato. Era anche molto sveglia e simpatica, e in quel preciso momento gli
stava raccontando la sua storia, di come si era innamorata di un suo compagno
di scuola, di come lui l'aveva messa incinta e poi non avesse voluto sapere
nulla di lei né della bambina, di come i suoi genitori si fossero presi cura di
loro per i primi anni, fino a quando lei non avesse deciso di trasferirsi a
Londra, troppo stanca di quell'ambiente che le ricordava quanto avesse passato
e soprattutto, ora che la bambina era più grande, non voleva più essere di peso
ai suoi genitori; e Londra sembrava proprio un buon nuovo inizio.
Paul aveva ascoltato tutto con estremo interesse,
facendole domande per chiarire alcuni punti. Eppure non poteva fare a meno di
sospirare. Per quale motivo, Paul non lo sapeva bene. Se non era il trovare
noioso quell'appuntamento con Linda, allora di cosa si trattava?
"Mi dispiace per quello che è successo." le
disse sinceramente Paul, "Non deve essere stato facile."
"No, ma la mia bambina mi ha dato la forza
necessaria per affrontare ogni nuova sfida." ribatté lei, sorridendo
amorevolmente al pensiero di sua figlia.
Paul batté le palpebre, sconcertato per un istante. Quel
discorso di Linda gli era familiare. Gli ricordava qualcuno, qualcuno ben
conosciuto, ma Paul non poteva proprio pensare a lui ora.
"Quanti anni ha?" domandò, cercando di
distrarsi.
"Cinque. Si chiama Heather ed è l'unica cosa buona
della mia vita."
"Oh andiamo." esclamò Paul, "Non dire
così. Hai un lavoro che ti appassiona e che svolgi molto bene. Devi essere
fiera anche di questo."
Linda arrossì lievemente, prima di allungare una mano per
stringere il braccio di Paul, abbandonato con noncuranza sul tavolo, “Grazie
mille, Paul, sei un tesoro.”
Le dita sottili di lei si avvolsero dolcemente attorno al
suo braccio forte, e quel tocco bruciò come un devastante incendio, ma non per
il motivo che Paul potesse più facilmente immaginare: il piacere. Bruciò perché
era il ricordo di un gesto simile a bruciare, il ricordo di quell’uomo che in
un pub lo consolava, o almeno ci provava, dalla sua sofferenza
Tuttavia no, Paul non poteva permettersi di ritornare a
quella sera. Era sconveniente per molti motivi: primo fra tutti pensare a
un’altra persona durante un appuntamento era assai scortese nei confronti di
Linda; inoltre quei suoi pensieri stavano andando contro ciò che lui avesse
deciso, ovvero lasciar perdere John.
Paul si convinse a chiudere la sua mente a qualunque
ricordo di John bussasse alla porta del suo cuore, ma a quanto pare, non fece
un buon lavoro.
La serata, infatti, trascorse piacevolmente: Paul riuscì
a continuare a parlare con Linda in modo piuttosto tranquillo, senza alcuna
interferenza di un terzo incomodo; eppure, quando più tardi i due dovettero separarsi,
quando Linda salutò Paul con un bacio sulla guancia, la ragazza fece anche
scivolare la sua mano in quella del suo ispettore, facendo intrecciare le loro
dita.
E in quel momento, Paul si ritrovò a pensare che la mano
di Linda fosse così poco adatta a stare nella sua. Non era compatibile, era
così scomoda e Paul non poteva sopportarlo. Per quanto lui lo desiderasse,
Linda non era ciò che Paul voleva. La sua mano lo sapeva meglio di lui, quando
gli ricordò la presa di John, quella stessa sera, fuori dal pub.
Una stretta perfetta.
A malincuore Paul dovette ammetterlo, mentre tornava a
casa, mentre apriva la porta del suo appartamento, e si accorgeva della luce
accesa al primo piano della casa di John.
John gli mancava.
Gli mancava terribilmente.
****
Quel pensiero lo tormentò per i due giorni successivi e
Paul stava semplicemente impazzendo, tanto più che non riusciva neanche a
vedere John. Non gli importava di parlargli, e avrebbe persino cercato di non
pensare al fatto che John l’avrebbe comunque ignorato.
Paul voleva solo vederlo, voleva incrociare il suo
sguardo solo per un istante, in modo da capire esattamente cosa provasse.
Sentiva la sua mancanza solo come amico e compagno di lezioni di musica,
oppure, come suggeriva ogni fibra del suo essere, si trattava di qualcosa di
più?
La risposta era nel suo cuore, ma lui si aggrappava con
forza a quest’ultima possibilità per rendersi conto che forse avesse sbagliato
tutto, che forse avesse solo interpretato male i propri sentimenti così come
quelli di John.
A tutto questo pensava mentre stava camminando
tranquillamente verso casa, quando la sua attenzione fu catturata da un
movimento di fronte al suo appartamento.
Riconobbe con facilità la sagoma gracile di George che
chiudeva la saracinesca del negozio. Paul controllò l’ora sul suo orologio da
polso. Erano appena passate le quattro del pomeriggio. Un po’ presto per
chiudere, no?
Incuriosito da quanto stesse accadendo al di là della
strada, decise di raggiungere il giovane uomo, e mentre si avvicinava, notò che
i movimenti di George erano leggermente ansiosi.
“Ciao, George.”
George abbassò definitivamente la saracinesca con il
piede, e si voltò verso Paul quel tanto che bastava per riconoscerlo, prima di
tornare al proprio compito.
“Oh, Paul, ciao.”
“Stai chiudendo prima oggi…” disse Paul, lasciando in
sospeso la frase nell’aria.
“Sì, devo scappare in un posto.”
“E John?” domandò, cercando di assumere un tono vago.
George sospirò, dopo aver chiuso a chiave la saracinesca,
e si voltò completamente verso Paul, "John è all'ospedale."
La rivelazione lasciò Paul non solo sorpreso, ma anche
decisamente preoccupato. John all’ospedale? Per quale motivo?
"Cosa? È successo qualcosa di grave?" si
affrettò a chiedere, senza preoccuparsi di mostrare le sue vere emozioni che
all’improvviso, divennero così confuse.
"Niente di grave.” lo tranquillizzò George, “Ma mi
ha telefonato Pattie per dirmi che Julian è caduto all'asilo, e ora sono tutti
in ospedale."
"Oh, cazzo. Come sta?"
"Non lo so ancora. Stavo proprio andando là."
"Vieni, ho la macchina qua fuori. Ti accompagno
io." affermò Paul, facendogli segno di seguirlo.
"Sei sicuro?" chiese George, titubante.
"Certo.” rispose Paul, afferrandolo per la manica
della camicia, “Andiamo, dai."
I due si precipitarono nell'auto di Paul e in un istante
partirono.
Durante il tragitto Paul cercò di chiedere particolari in
più, ma davvero George non sapeva altro, dal momento che Pattie gli aveva solo
riferito poche cose a causa dell'agitazione e del poco tempo a disposizione per
stare al telefono.
Così Paul decise di non insistere e trascorsero in
silenzio il resto della strada. Dentro di sé però, Paul stava avendo un'accesa
discussione con se stesso. Era ovviamente preoccupato per Julian, ma lo era
altrettanto per John. Non osava neanche immaginare in che stato fosse. Doveva
essere così spaventato e Paul, a quel pensiero, premette ancor di più
sull'acceleratore desiderando solo essere accanto a lui il più presto possibile.
Non sapeva bene cosa dirgli né cosa fare. Sperava solo
che le parole e i gesti giusti nascessero in lui nel momento stesso in cui
avesse incrociato lo sguardo di John. Eppure qualcosa lo stava rendendo
insicuro e ancor più agitato.
Se John non l'avesse voluto lì con lui?
Paul non voleva neanche prendere in considerazione tale
ipotesi, anche perché era sicuro che fosse del tutto assurda.
Nonostante quanto fosse accaduto tra lui e John, nonostante tutto, quello era un momento
in cui John non voleva sentirsi solo né doveva essere lasciato a se stesso.
Aveva bisogno dei suoi amici e aveva bisogno di Paul. In qualche modo lui era
ancora importante per John e Paul ne era certo.
Infine giunsero a destinazione: arrivati all'ospedale,
George lo condusse all'interno dell'edificio e cercarono l'ascensore per salire
al piano in cui si trovava il reparto di pediatria. Seguendo le indicazioni che
gli aveva fornito Pattie, George si diresse verso il corridoio a destra
dell'ascensore e Paul rimase dietro di lui.
Poi finalmente, intravidero John appoggiato con la
schiena alla parete fuori dal corridoio.
"John." lo chiamò George, accelerando il passo
per raggiungerlo.
L'uomo si voltò e insieme a lui, anche la donna che gli
stava accanto.
Yoko.
"George!" esclamò, prima che il ragazzo lo
abbracciasse, "Grazie per essere venuto."
"Scherzi? Mi sono precipitato appena ho ricevuto la
chiamata di Pattie." spiegò, "Allora, come sta?"
John sospirò e si passò una mano sul viso, e Paul non
mancò di notare quel lieve tremore che la percorse.
"Gli hanno dato cinque punti per chiudere la ferita.”
spiegò, la voce flebile, appena appena udibile, “E poi hanno fatto una TAC per
escludere un trauma cranico più grave. Ora sta dormendo, ma appena avranno i
risultati, mi permetteranno di portarlo a casa."
"Ma come è successo?” continuò George, “Pattie mi ha
detto che è caduto."
"Sì. Noi... Noi stavamo parlando con Yoko, mentre i
bambini giocavano e Julian si stava arrampicando su quello stupido gioco e
poi...” balbettò John, e ora, lo stesso fremito che aveva attraversato la sua
mano, colpì anche la sua voce, “N-non lo so, credo abbia appoggiato male il
piede e poi sia scivolato. Io... Io non stavo guardando e l'ho sentito
piangere, ma lui era già a terra, e io sono corso da lui e-"
"Adesso calmati, dai.” lo interruppe George,
tornando ad abbracciarlo per rassicurarlo, “Presto starà meglio. È un bambino
dalla testa dura, lo sai."
John annuì, mentre lasciava che George lo
tranquillizzasse con lievi pacche sulla schiena.
"John, se per te va bene, porto a casa Kyoko." intervenne Yoko timidamente, sfiorandogli il
braccio con la sua piccola mano.
"Oh sì.” disse John, sciogliendo l’abbraccio con
George, “Grazie mille per essere rimasta, Yoko."
"Non ti preoccupare. Ti chiamo domani per sapere come
sta." affermò la donna, stringendolo brevemente tra le sue braccia.
"D'accordo."
"Arrivederci."
I tre uomini la salutarono, e Paul la osservò mentre la
donna raggiungeva la bambina addormentata sui sedili della sala d'attesa e la
prendeva in braccio, per poi allontanarsi.
Infine tornò a guardare John, e ora che era stato
rassicurato sulle condizioni del bambino, Paul riuscì a notare pienamente in
che stato disastrato si trovasse l'uomo. Non solo fisicamente, con il volto
pallido, gli occhi ancora spaventati, e la camicia sporca di sangue sul petto,
ma anche dentro di lui doveva essere distrutto. Paul lo sapeva, lo poteva ben
vedere. Così stanco, terrorizzato, così tremante nel corpo e nell'anima.
"Posso vederlo?" chiese George.
"Sì, vai pure. C'è Pattie con lui ora." lo
informò, indicando la porta a fianco.
George seguì l'indicazione, e John lo vide scomparire
dietro la porta prima di voltarsi verso Paul. In quel momento il giovane
ispettore sussultò visibilmente. Finalmente aveva incrociato i suoi occhi e dannazione, l’unica cosa che Paul
potesse capire ora, era proprio il fatto che non stesse capendo più nulla.
"Perché sei qui?"
Paul si sentì arrossire lievemente sotto lo sguardo
potente dell'altro uomo, ma ignorò il suo turbamento e tutto ciò in lui che gli
stava suggerendo di mentire, di dirgli che era venuto solo per informarsi sulle
condizioni di Julian.
"Per vedere come stavi." rispose sinceramente.
John aggrottò la fronte, perplesso, "Io? Io sto
bene, non lo vedi?"
Paul sospirò, aspettandosi una risposta simile da John.
Perciò allungò una mano per stringere la sua camicia sul petto.
"John, hai il sangue di tuo figlio sulla
camicia." ribatté lui, sperando che John capisse cosa volesse dire davvero
Paul.
E da come gli occhi di John si ingrandirono, Paul capì
che aveva centrato il bersaglio.
John chinò il capo per vedere la mano di Paul sulla
propria camicia e la sua espressione divenne all'improvviso sofferente. Si
spostò con passo affrettato nella piccola sala d'aspetto, e Paul lo seguì
appena in tempo per vederlo scoppiare a piangere.
Molte volte Paul aveva visto la vulnerabilità di John
ormai, ma mai come in quel momento la scena lo colpì in modo così devastante: John
appoggiò la schiena al muro e si lasciò cadere, portandosi le mani sul volto
per coprire un pianto frustrato sì, ma silenzioso.
Paul si morse il labbro, combattuto su cosa fare. Una
parte di lui avrebbe voluto semplicemente stargli accanto, dandogli leggere
pacche sulle spalle.
Tuttavia l'altra sapeva che a John in quel momento non
bastassero le pacche sulle spalle. Non se ne faceva niente e neanche a Paul
bastavano. Lui voleva stare accanto a John, consolarlo e rassicurarlo con ogni
parte di se stesso, e per quanto tale desiderio andasse contro tutto ciò che
Paul aveva deciso nelle ultime settimane, sapeva anche che fosse troppo forte
per essere ignorato o contrastato.
Così si abbandonò a questo bisogno tanto di John quanto
suo, e in meno di un secondo fu in ginocchio di fronte a lui, tra le sue gambe,
e la sua mano si mosse per accarezzargli dolcemente i capelli.
John riconobbe il suo tocco gentile, ma non alzò il capo
per incontrare il suo sguardo, perché sarebbe stato troppo per lui farsi vedere
in quello stato. Nessuno poteva vederlo così: così perso, così disorientato,
come quando da piccoli si va al supermercato con i propri genitori e
all'improvviso ci si gira e... puff!
Spariscono dietro qualche corridoio e non si sa bene dove cercarli.
Ma fu grato a Paul per quella carezza, tanto che senza
neanche rendersene conto, si ritrovò ad avvolgere le braccia intorno alla vita
dell'altro uomo e attirarlo a sé, in modo da poter nascondere il viso nel suo
petto e continuare a piangere senza farsi vedere.
Paul sentì il proprio cuore perdere un battito, non
capendo se fosse perché doveva allontanarlo, o perché era così piacevole e
gratificante il modo in cui le mani di John stringevano la sua camicia,
aggrappandosi a lui come se stesse per cadere e Paul fosse il suo unico
appiglio. Come se Paul fosse indispensabile per John.
Dio, era mai stato indispensabile per qualcuno? Sì,
certo. Sua madre. Ma sua madre era morta e quindi questo faceva di John l'unica
persona a provare una tale sensazione per lui.
E capire questo fece tremare Paul, perché lui aveva
bisogno allo stesso modo di John; John era altrettanto indispensabile per Paul,
la sua presenza era così dolce, così unica nella vita di Paul che questo gli
fece mandare al diavolo tutti i suoi concetti astrusi sull'amore.
Cos'era l'amore per Paul?
Fino a quel momento era stato una giovane donna dai
capelli rossi che gli aveva fatto perdere la testa, tanto da accecarlo e
rendergli impossibile accorgersi del fatto che lui non fosse altrettanto
importante per questa donna.
E ora?
Ora poteva assumere le sembianze di un uomo? Un uomo che
era entrato per caso nella sua vita e l'aveva scombussolata?
Non aveva cercato quel sentimento in John, non l'aveva
voluto, ma era accaduto e da un giorno all'altro Paul si era reso conto che lentamente
John era entrato in lui, occupando tutto lo spazio disponibile nel suo cuore.
John e il suo fascino irresistibile.
John e la sua dolcezza.
John che gli aveva fatto perdere la testa, sì, ma nello
stesso tempo non l'aveva accecato, rendendolo ancora in grado di pensare con
lucidità a questo nuovo sentimento che era più forte di Paul.
E Paul non voleva più combatterlo. Ci aveva provato e non
era riuscito ad annientarlo, né ad allontanare John dalla sua vita.
Perciò avvolse le braccia intorno al collo di John,
stringendolo a sé.
Se John fosse rimasto turbato dall'abbraccio di Paul, non
ci è dato saperlo. Ciò che contava, in fondo, era che continuasse a piangere,
al sicuro in quell'abbraccio protettivo.
Erano secoli che non piangeva, eppure ora era stato così
facile iniziare perché Paul aveva con altrettanta facilità trovato le parole
giuste, quella chiave che si incastrava con perfezione per aprire le porte del
cuore di John, toccarlo così intimamente e permettergli uno sfogo, in modo da
allontanare tutte quelle paure e quelle angosce che si erano accumulate negli
anni nel suo animo.
John pianse e pianse e pianse, e Paul non poté fare altro
che continuare a stringerlo, accarezzandogli i capelli e sussurrandogli di
tanto in tanto, "Va tutto bene, John."
Sembrava senza fine, ma poi nella sala comparve George, e
il ragazzo guardò con lieve sorpresa la scena che si presentò di fronte a lui.
Si disse che non fosse decisamente il momento di pensare a questo, perché...
"John?"
A quel richiamo l'uomo si calmò improvvisamente e alzò lo
sguardo per incontrare quello di George.
"Julian si è svegliato."
Ancora scosso dagli ultimi singhiozzi, John si alzò in
piedi asciugandosi alla bell'e meglio gli occhi con le mani, e fece per seguire
George. Tuttavia Paul, anch'egli alzatosi in piedi, lo trattenne prima di
rivolgersi a George.
Lo trattenne prendendolo per mano, stringendola con
delicatezza tra le sue dita. John, sorpreso, abbassò lo sguardo per vedere con
i propri occhi il gesto di Paul. Per capire se fosse vero.
E diamine, era
vero!
"Arriviamo subito, George, grazie."
"D'accordo." mormorò scettico il ragazzo, e
tornò indietro.
John non disse nulla, ma si limitò a guardare Paul e
chiedergli con gli occhi perché l'avesse fermato.
Paul in risposta gli sorrise e prese, con la mano libera
dalla stretta di John, un fazzoletto pulito dalla tasca dei pantaloni.
"Non vogliamo far vedere a Julian che hai pianto,
giusto?" gli chiese, asciugando con attenzione il viso di John.
L'altro uomo scosse il capo lievemente, mentre i
singhiozzi ormai scemavano e dopo pochi minuti, Paul fu soddisfatto del proprio
lavoro e lo lasciò libero.
"Ecco qua. Come nuovo."
"Grazie." gli disse John, gli occhi ancora un
po' lucidi e le guance arrossate.
Paul sentì il proprio cuore stringersi. Con quell'aspetto
John sembrava ancora così perso, e gli provocò un moto di tenerezza, una voglia
di tornare ad abbracciarlo, che ormai per Paul non era più strana.
"Di niente." rispose con un filo di voce e un
sorriso, "Meglio andare da Julian ora, che ne dici?"
"Sì." mormorò John e solo in quel momento Paul
lasciò la presa della sua mano.
John indugiò solo un altro istante, osservando Paul con
profonda attenzione, come se si stesse chiedendo cosa ci fosse dietro quel
cambio di atteggiamento in Paul. Tuttavia quello non era il momento per
pensarci; ora c'era solo Julian.
Julian di cui John doveva prendersi cura.
Perciò si avviò verso la stanza di suo figlio, sentendo
Paul camminare dietro di lui.
Quando finalmente giunse a destinazione, entrò per vedere
il bambino ancora steso a letto, la magliettina ancora leggermente sporca del
suo stesso sangue, notò John con un ultimo brivido, e una garza per proteggere
i punti appena più in su del sopracciglio.
Pattie era accanto a lui e gli sorrideva amorevolmente,
mentre gli accarezzava i capelli, e George era ai piedi del letto.
John prese un respiro profondo e avanzò, raggiungendo
Julian che ora si stava stropicciando gli occhi con le mani, ancora assonnato.
"Ciao, amore." lo salutò lui, appoggiando una
mano sulle sue gambe.
Il bambino si voltò e sorrise debolmente, prima di
protendere le piccole braccia verso di lui, "Papà!"
John sorrise a sua volta chinandosi per essere avvolto
dalle sue braccia e baciarlo dolcemente sulla guancia.
"Come ti senti?" gli domandò, facendo
strofinare i loro nasi insieme.
"Ho sonno, papà.” rispose il bambino, sbadigliando,
“Quando andiamo a casa?"
"Presto, tesoro, prima devo parlare con il dottore e
poi andiamo a casa."
"Promesso?"
"Promesso!" rispose John, sorridendo più
fiducioso, e accarezzando i capelli morbidi di Julian, "Sei stato proprio
un bravo bambino oggi, sai? Il dottore ha detto che non ha mai visto un bambino
così coraggioso."
Julian rise debolmente, "Hai visto che non ho mai
pianto?"
"Infatti. Sei stato bravissimo, amore." gli
confermò John, ricordando il momento in cui il dottore aveva medicato le ferita
del bambino.
Julian non aveva versato una sola lacrima. Soffriva,
ovviamente, e aveva gli occhi lucidi mentre il dottore applicava i punti, ma
non lasciò che neanche una lacrima scivolasse sulle sue guance paffute e
arrossate. Il motivo? Neanche John lo sapeva con certezza, soprattutto perché
Julian si era rivelato più forte di quanto credesse il suo stesso padre.
Tuttavia l'uomo era quasi sicuro, e orgoglioso, naturalmente, che fosse in
parte merito suo. John era stato accanto a lui tutto il tempo, tenendogli la
mano e distraendolo come gli aveva consigliato il dottore. Gli aveva raccontato
una favola, aggiungendo di tanto in tanto quanto stesse dimostrandosi bravo e
che ormai mancasse davvero poco alla fine di quella piccola tortura, e così
facendo il bambino non aveva avuto modo di concentrarsi sul dolore e sulla
brutta avventura di quel pomeriggio.
John, invece, fino a qualche minuto prima non aveva
davvero voluto assimilare quanto fosse successo, troppo impegnato ad
assicurarsi che suo figlio stesse bene.
Eppure quando Paul l'aveva richiamato con tenerezza, la
realtà l'aveva colpito duramente.
Quel pomeriggio si era reso conto che non solo le sue
paure di perdere Julian si erano quasi e pericolosamente avverate, ma lui si
era mostrato più vulnerabile di quanto già non sapesse di essere. Il che rese
ancora più evidente al suo cuore quanto fosse importante per lui che Julian
stesse bene e fosse con lui. Senza quel bambino avrebbe perso la testa.
Era stato in grado di fare quanto avesse fatto, portarlo
in ospedale o stargli accanto durante la medicazione, solo in funzione di farlo
star bene. Altrimenti non avrebbe saputo dove sbattere la testa per iniziare.
Poi era arrivato Paul, e lui con una semplice frase aveva
permesso a John di realizzare gli eventi di quella giornata e accettarli.
Aveva permesso a quella tempesta incontrollabile di
calmarsi per un istante in modo che John potesse prendere fiato e piangere.
Piangere per allontanare quelle paure e quella realtà che lo stavano
sopraffacendo.
E lui, Paul, l'aveva abbracciato e consolato, restando
accanto a John in silenzio, ascoltando solo i suoi lamenti, riscaldando le sue
membra stanche, rese fredde dallo spavento improvviso.
Gesti semplici ma così efficaci.
Facevano dolere il cuore di John, ripensando a tutto
quanto fosse accaduto nei giorni precedenti: le cose che si erano detti, il
modo in cui si erano ignorati, John che aveva sentito terribilmente la sua
mancanza...
Eppure ora sembrava tutto svanito.
Ora, mentre John cullava il suo bambino, rivolgendo il
suo sguardo a Paul, il quale gli rimandò un sorriso, sembrava che fosse
tutto... Tutto come prima?
No, non era come prima. John lo sentiva: il sorriso caldo
di Paul, i suoi occhi dolci rivolti a John, rendevano tutto diverso.
Tuttavia John non voleva né poteva pensare a questo. Il
suo cuore l'aveva illuso già una volta e, dio, se poi John non aveva sofferto!
Doveva sbagliarsi, e tutto questo era dovuto solo a
quanto accaduto quel pomeriggio.
Forse aveva addirittura sognato.
Sì, era stato proprio così.
Eppure, c'era qualcosa che continuava a indicargli quanto
si stesse maledettamente sbagliando.
La sua mano.
La mano ancora pregna del calore di Paul.
****
Il silenzio regnava sovrano nell'abitacolo dell'auto di
Paul.
Stava accompagnando a casa John e Julian. George invece
era tornato con Pattie.
Paul non sapeva cosa dire. Continuava a rivolgere
occhiate fugaci a John seduto accanto a lui. L'uomo stringeva il bambino
nuovamente addormentato tra le sue braccia, senza alcuna intenzione di voler
allentare la presa né proferire parola.
Il dottore aveva riferito che i risultati degli esami non
avessero evidenziato problemi, per cui avevano subito dimesso il bambino, con
grande gioia di quest'ultimo e di suo padre.
Ecco perché ora si trovavano sulla via verso casa, John
con la sua paura, Paul con i suoi ritrovati sentimenti.
Era felice e nello stesso momento spaventato da quanto aveva
compreso quel pomeriggio. Non era arrivato certamente come un fulmine a ciel
sereno, ma sapere di poter ricambiare in qualche modo ciò che provava John per
lui, l'aveva in un certo senso mandato fuori fase. Solitamente era così facile
parlare con John e capire cosa pensasse o provasse. Invece ora Paul non aveva
alcuna idea di cosa gli passasse per la testa o ciò che facesse battere il suo
cuore. Sì, era sicuramente ancora spaventato, ma il dottore gli aveva
assicurato che il bambino si sarebbe ripreso in pochi giorni.
Allora cosa rendeva la sua espressione così apatica e lui
così taciturno?
Paul non ne aveva idea, l'unica cosa di cui fosse certo
era quel forte desiderio di stargli accanto e stringergli ancora la mano per
mostrargli che Paul c'era per lui, in tutti i sensi.
Quando arrivarono a casa, Paul parcheggiò di fronte la
porta dell'appartamento di John.
"Aspetta che ti aiuto." gli disse, scendendo
subito dall'auto e affrettandosi ad andare ad aprire la portiera di John.
Senza che John potesse avere il tempo di protestare, Paul
prese il bambino tra le sue braccia, cercando di essere delicato nei suoi
movimenti per non farlo svegliare, e permettendo così a John di essere libero
di scendere.
Poi l'uomo fece per riprendere Julian, ma Paul gli disse
di pensare ad aprire la porta di casa, altrimenti sarebbe stato piuttosto
scomodo con il bambino in braccio.
John acconsentì, riconoscendo come sensato il pensiero di
Paul, e aprì la porta. Solo a questo punto Paul gli porse Julian, che continuò
a dormire nel passaggio dalle braccia premurose di Paul a quelle amorevoli di
John.
"Ti ringrazio molto per tutto ciò che hai fatto
oggi, Paul."
"Figurati, per così poco." rispose lui con un
sorriso, e il suo cuore sussultò piacevolmente quando Paul trovò il coraggio
per proseguire, "Se vuoi posso farti compagnia e prepararti qualcosa da
mangiare. Non hai mangiato niente."
"No, grazie."
"Sei sicuro? Non ci vuole niente, sai? Un panino o
un po' di pasta, se preferisci."
"Sei gentile, Paul, ma no. Ho solo bisogno di stare
un po' da solo con il mio bambino."
La delusione si appropriò improvvisamente del volto di
Paul in modo evidente, ma lui neanche se ne rese conto. Era troppo impegnato a
realizzare il fatto che John non lo volesse con lui quella sera.
"D'accordo."
"Ciao, Paul." mormorò John, prima di indietreggiare
e chiudere la porta in faccia a Paul.
Il giovane uomo non si mosse di un solo millimetro. Non
poteva e non voleva. La sua mano, al contrario, si appoggiò sul legno della
porta, forse per rendersi davvero conto, anche con il corpo, che quella era la
realtà, che John lo aveva deliberatamente allontanato da se stesso quella sera.
Non era stato come se avesse fatto scivolare la propria
mano dalla sua stretta. Era invece come se gli avesse detto un più che
eloquente vattene, come se avesse usato quella stessa mano per
appoggiarla sul petto di Paul e spingerlo il più lontano possibile da lui.
E questo faceva male, perché Paul voleva solo stargli
vicino, mentre John l'aveva respinto.
Come poteva biasimarlo, dopotutto? Era più che normale.
Eppure c'era una parte di lui che l'aveva sperato,
fortemente.
La stessa che sapeva che le loro mani si sarebbero
nuovamente incontrate e intrecciate.
Per uno o pochi istanti, o forse...
Chissà, forse per sempre.
Note
dell’autrice: bene, ecco, Paul ha avuto l’illuminazione, alleluja. Benedetto ragazzo. :/
Comunque, al solito tocca a Julian sistemare tutto, no?
Piccolo cucciolo. :3
Bene, come andranno le cose ora che Paul ha capito?
Intanto, grazie a kiki che ha
corretto, e grazie a paulmccartneyismylove, paperback
writer e potterbute a vita,
per aver recensito lo scorso capitolo.
Il prossimo capitolo, “A taste of honey”,
arriverà martedì.
Qui intanto c’è
il terzo capitolo della mini long rossa di ieri. ;)
Quando Paul varcò la soglia della sua casa, inspirò
profondamente l'odore di quell'appartamento.
All'inizio era stato difficile adattarsi al cambio di
residenza, ma ora poteva considerare quella come la sua vera casa e il suo
profumo era dolce come il miele per Paul.
Negli ultimi giorni ne aveva anche sentito la mancanza.
Era tornato a Liverpool in quella settimana di inizio
ottobre, perché suo fratello Mike era diventato padre di una bellissima bambina
di nome Mary, come la madre di Paul.
Per questo motivo il giovane ispettore, appena possibile,
era corso a Liverpool per vedere la sua nipotina. L'aveva stretta tra le sue
braccia, così piccola e calda, il viso un po' schiacciato ma molto simile a
quello di suo fratello. Era stato bellissimo tenere in braccio una nuova Mary
McCartney. Ma non era una sorpresa, perché in fondo i bambini riescono ad
alleviare qualunque sofferenza, come quella immensa della perdita della propria
madre.
Questo era stato dunque l'evento più importante di
quell'ultima settimana, e il lunedì pomeriggio Paul era finalmente tornato a
casa.
Gli aveva fatto bene allontanarsi da Londra. E
naturalmente gli aveva fatto bene allontanarsi da John.
Dopo quanto accaduto al piccolo Julian, Paul non aveva
avuto più sue notizie. Avrebbe voluto andare da John o telefonargli, ma aveva
paura. Non sapeva bene come comportarsi. Doveva essere lui a fare il primo
passo, oppure doveva aspettare John?
La testa pulsava e doleva quando cominciava a porsi tali
domande. Se avesse potuto, sarebbe corso da John subito. Per fare cosa, non ne
era poi così sicuro, ma l'avrebbe fatto.
Tuttavia ogni volta che era sul punto di aprire la porta
di casa per precipitarsi fuori, l'immagine di John che gli chiedeva di
lasciarlo da solo lo colpiva violentemente, come uno schiaffo inatteso. E a
quel punto ogni desiderio appassionato di Paul si spegneva in un istante.
Avrebbe almeno potuto usare la scusa di vedere come
stesse Julian, ma non sarebbe stato credibile, dal momento che Paul aveva
infine visto con i suoi stessi occhi che il bambino si stesse riprendendo alla
grande. Lo vedeva dalla finestra del proprio salotto, quando tornava dall'asilo
con John o con Pattie. Era vispo come sempre, il che naturalmente fece molto
piacere a Paul.
Un po' meno piacevole era quando Paul si accorgeva della
presenza di Yoko insieme a John. Certo, c'erano sempre i bambini con loro, ma
Paul non poteva fare a meno di arrossire di rabbia e gelosia a quella visione.
Come mai lei era sempre con John? Non potevano stare insieme, vero?
No, non potevano, decise Paul. Soprattutto perché John
sembrava comportarsi come al solito con lei.
Come facesse Paul a sapere tutte queste novità sui due
Lennon, beh, naturalmente era a causa del fatto che bastasse solo che Paul
riconoscesse la voce di Julian o di John, e subito si precipitava alla finestra
per vedere cosa stesse accadendo dall'altra parte della strada.
Non c'era da sorprendersi, quindi, se più di una volta
John avesse intercettato il suo sguardo, accorgendosi che il suo vicino di casa
lo stesse spiando.
Ora, spiare era una parola grossa per Paul.
Dopotutto lui stava solo controllando che Julian stesse bene. Paul non voleva
pensare che non fosse necessario correre ogni volta alla finestra: ormai aveva
capito che Julian stava guarendo.
Eppure era più forte di lui, e allora correva solo per
poter vedere un istante John, anche se, quando inevitabilmente John si voltava
verso di lui, Paul arrossiva e scompariva dietro la tenda.
Per questo non poteva recarsi da John con la scusa di
informarsi su Julian. Ormai John sapeva che Paul avesse capito che Julian stava
meglio.
Così ora Paul era bloccato in quel limbo straziante, in
cui non poteva fare nulla. Aveva le mani bloccate, come uno di quei criminali
che arrestava. Paul non lo sapeva con certezza, non aveva mai provato il freddo
metallo delle manette sulla sua stessa pelle. Ma sapeva che dovesse essere
all'incirca la stessa sensazione frustrante di impotenza.
Tutto ciò che potesse fare era semplicemente aspettare
che qualcosa cambiasse.
Qualcuno sosteneva che l'attesa fosse più bella del
piacere stesso.
Eppure come poteva un tale pensiero consolare Paul, se
neanche lui sapeva cosa stesse aspettando?
****
Paul era tornato.
John non ne era stato sicuro fino a quel pomeriggio. Non
sapeva bene dove fosse andato: aveva provato a pensarci, e ogni ipotesi
comprendeva Paul che si allontanava da Londra per colpa di John e del modo in
cui lui lo avesse respinto la sera dell’incidente di Julian. John si era
sentito in colpa, in seguito, per quell’episodio. Paul era stato così gentile,
ma avrebbe dovuto capire che John fosse infinitamente sconvolto quella sera e
non capiva davvero cosa stesse facendo. Per cui era stato quasi logico pensare
che forse Paul fosse partito per riflettere o semplicemente per non vedere più
John.
Così era stato facile per John notare che per diversi
giorni la sua casa fosse stata sempre al buio e non vi fosse stato alcun
movimento che indicasse la presenza di qualcuno.
Poi quel pomeriggio, quando John era tornato con Julian,
Yoko e sua figlia, aveva intravisto la sua sagoma alla finestra al piano di
sopra. Li stava spiando, e questo pensiero aveva divertito John, il quale però
non aveva lasciato trasparire alcuna emozione. Aveva semplicemente guardato
Paul per una frazione di secondo, quel tanto che bastava per indurlo a sparire
dietro la tenda.
Era successo spesso ultimamente e John non poteva fare a
meno di chiedersi come mai.
All'inizio aveva pensato che Paul stesse solo
controllando che Julian si fosse ripreso; ma dopo aver intercettato i suoi
occhi quattro, cinque, dieci volte, aveva capito che Julian non avesse più a
che fare con questo comportamento di Paul.
Paul era cambiato, John ne era sicuro.
Da quanto John ricordava di quella terribile sera in cui
Julian era finito all'ospedale, Paul era sembrato così diverso. Era affabile,
era disponibile e... Cazzo, quanto era stato dolce.
Con la mente lucida e senza le preoccupazioni per la
salute di Julian, John ora poteva riconoscere in lui una delicatezza dei gesti
e delle parole, una premura, un interesse che gli facevano tremare le gambe e
sudare le mani.
Eppure, nonostante questo, ancora non poteva permettere
al proprio cuore di illudersi. Ricordava bene le parole sicure, lo sguardo
deciso di Paul quando avevano discusso.
Il cambiamento di Paul che John aveva percepito
addirittura con la sua stessa pelle doveva essere dovuto solo alla situazione
critica di quella particolare sera. Era ovvio che incerte occasioni alcune questioni più futili
venissero messe da parte. Così aveva fatto Paul.
E ora stavano entrambi aspettando che tutto tornasse come
prima.
A Paul sarebbe passato presto questo insolito bisogno di
guardare John dalla finestra, e John avrebbe più facilmente impedito a se
stesso di viaggiare con la fantasia.
Sarebbe tornato ad aspettare invano qualcosa che non
poteva arrivare.
Sarebbe tornato ad aspettare che questo sentimento
sparisse.
****
Paul era dovuto scappare al supermercato non appena
resosi conto che non c'era davvero nulla di commestibile nel suo frigorifero.
Aveva bisogno di fare rifornimento, soprattutto perché
aveva recuperato Pepper dall'appartamento di Linda. Era stato ingiusto da parte
sua chiedere un aiuto di questa portata alla ragazza con cui era uscito e che
non aveva neanche richiamato, ma era l'unica che potesse aiutarlo con il micio.
Ovviamente lei aveva approfittato del suo ritorno e gli aveva chiesto di uscire
di nuovo, illustrandogli quanto fosse stata bene con lui quella sera, che uomo
piacevole fosse Paul, quale grande ascoltatore e confidente si celasse in
lui...
Tuttavia Paul non voleva uscire con lei, non più almeno,
e non essendo ancora pronto a spiegarle il vero motivo, cercò di arrangiarsi,
sostenendo che fosse davvero molto impegnato e che per il momento non avesse
proprio tempo per il divertimento. Lei sembrò accettarlo, per fortuna.
Così Paul aveva portato a casa Pepper e si era accorto
del bisogno impellente di fare la spesa per entrambi, ma prima di uscire aveva
aspettato che John sparisse dalla strada. L'uomo aveva avuto un tempismo
perfetto nel decidere quando tornare a casa con Julian, e Paul non aveva
resistito ed era corso alla finestra.
Ripensando ora al momento in cui i loro sguardi si erano
incrociati quel pomeriggio, Paul arrossì violentemente. La sua ennesima figuraccia.
Gli venne quasi spontaneo chiedersi cosa pensasse John di
Paul che continuava a guardarlo. Forse credeva che fosse impazzito, il che non
era molto lontano dalla verità. Oppure aveva capito il vero motivo del suo
comportamento, e il fatto che non facesse nulla per avvicinarsi a Paul era
ancor più straziante.
Era un disastro. Una situazione intricata da cui Paul non
sapeva più come uscire.
Sospirò, mentre recuperava un paio di cartoni di latte
per se stesso e per Pepper, decidendo che il supermercato non fosse proprio il
luogo adatto per cercare di mettere a posto questioni così private, dal momento
che era circondato dal cigolio delle ruote dei carrelli, dalle voci dei
commessi all'altoparlante, da genitori che richiamavano i propri figli che
scorrazzavano liberi per i corridoi...
Una risata acuta, da bambino, lo destò dalle sue
riflessioni, e subito dopo qualcosa, o meglio, qualcuno andò a sbattere contro
le sue gambe.
"Oh!"
Paul si voltò, incuriosito, per notare che chi fosse
andato a sbattere contro di lui era proprio...
"Julian?" esclamò, sorpreso, nello stesso
momento in cui un'altra voce richiamò il bambino per nome.
E l'istante successivo Paul credette di sprofondare sotto
terra, perché John aveva appena svoltato l'angolo per infilarsi nel corridoio
dove si trovava lui.
"Quante volte ti ho detto di guardare dove v-"
La sua voce si incrinò quando riconobbe l'uomo contro cui
suo figlio era andato a sbattere, ma Paul non sapeva dire se per John fosse
qualcosa per cui essere felice oppure deluso.
"Oh. Ciao, Paul." lo salutò con voce tremante.
"Ciao, John."
"Mi... Mi dispiace per Julian. Gli dico sempre di
guardare davanti, ma non vuole ascoltarmi." esclamò John, afferrando
subito il bambino per le braccia e sistemandolo nel seggiolino nel carrello.
"Non ti preoccupare." lo tranquillizzò Paul,
accennando un sorriso, "Anzi, mi fa piacere vedere che si sia ripreso così
velocemente."
"Ah sì. Per quello non c'è più alcun problema. Sta
benissimo ora, vero, Jules?"
Julian annuì, sorridendo, quando il padre gli scompigliò
affettuosamente i capelli, e in questo modo Paul poté notare ancora un piccolo
cerotto lì dove c'erano i punti della ferita.
"È una bellissima notizia."
John osservò per un istante il suo sorriso sinceramente
compiaciuto, prima di balbettare un incerto, "G-grazie."
Detto ciò il silenzio cadde tra tutti e tre e Paul si
morse il labbro. C'erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli: che
bello rivederti, non hai idea di quanto tu mi sia mancato, lo sai che mi fai
impazzire?
Eppure non era esattamente il luogo più appropriato per
certe dichiarazioni, soprattutto perché John era così strano. Paul non riusciva
a capire il motivo del suo imbarazzo: era per la troppa felicità o perché non
volesse trovarsi lì con Paul?
Il giovane ispettore si diede dell'idiota, intimando a se
stesso di non pensare a queste cose, e decise di concentrarsi sul carrello di
John. Vi erano molte cose interessanti: bottiglie di Coca Cola, birra, patatine
di ogni tipo, salatini, panini pronti per essere farciti con salumi, e
palloncini, piatti e bicchieri di plastica colorati.
Sembrava proprio tutto l'occorrente per una festa.
"Ehi, c'è qualche occasione particolare da
festeggiare?" domandò entusiasta.
"Domani è il compleanno di papà." rispose
prontamente Julian.
Paul batté le palpebre molto più che sorpreso, quasi
stordito. Il compleanno di John era il giorno seguente e lui non ne sapeva
niente. La realizzazione fu davvero spiacevole, ma cercò di non darlo a vedere.
"Ma davvero?" esclamò sbalordito.
"Sì." disse Julian, annuendo vigorosamente,
"Facciamo la festa a casa e papà ha preso anche le mie patatine
preferite."
"E quali sono?" chiese Paul, interessato.
"Quelle rotonde." spiegò Julian, indicando il
sacchetto di patatine nel carrello.
"Lo sai, Julian..." iniziò a dire Paul,
allungando una mano per toccargli la punta del naso con un dito, "Sono
anche le mie preferite."
Julian rise, "Allora devi venire anche tu."
Paul arrossì vistosamente, non aspettandosi una risposta
del genere da parte del bambino e non sapendo cosa dire. Ecco, quella sì che
era una situazione spiacevole. Se John non l'aveva invitato, doveva pur avere
le sue buone ragioni, e secondo Paul ne aveva fin troppe. E ora invece, suo
figlio senza accorgersene l'aveva appena messo in imbarazzo.
"Ma la festa è di papà." cercò di fargli notare
Paul dolcemente.
Julian aggrottò la fronte, perplesso, e si voltò verso il
padre, il quale sussultò, "Papà, è vero che può venire anche Paul?"
John si morse il labbro, imprecando fra sé. Dannazione,
ora Paul avrebbe pensato che lui non avesse voluto invitarlo prima. Eppure non
era così. John l'avrebbe voluto con lui alla festa, l'avrebbe voluto eccome.
Ma chi gli assicurava che Paul avrebbe accettato? Che non gli avrebbe risposto
un altro no?
"Ma certo." si affrettò a rispondere John,
accorato, "Se ti fa piacere, Paul, sarei felice che venissi anche
tu."
Paul sorrise appena. Non era particolarmente entusiasta
di come avesse rimediato quell'invito decisamente poco spontaneo, ma ora non
poteva rifiutare. In fondo John sembrava sincero nella sua richiesta. Forse
c'era qualche altro motivo per cui non glielo avesse chiesto prima.
"Mi farebbe molto piacere, John." fu la
sua risposta all'invito.
Julian esultò, mentre anche John si rilassava in un
sorriso, uno più radioso; illuminò il suo viso improvvisamente, lo illuminò di
una dolce sorpresa e una insperata felicità.
E nel rendersi conto del potere della sua risposta, il
cuore di Paul mancò un battito, creando solo per un secondo un vuoto
straordinario nel suo petto, quello stesso vuoto che era da tempo pronto per
essere colmato.
"Bene, allora vieni verso le sette. Non ci saranno
molte persone, ma saranno quelle più importanti per noi."
"Ci sarò sicuramente." lo tranquillizzò Paul.
"Ora dobbiamo andare, sai, dobbiamo completare le
ultime compere." spiegò John, indicando vagamente il carrello, ma
mostrandosi del tutto incapace di distogliere ora gli occhi da Paul.
"Certo. Ci vediamo domani sera."
"A domani."
"Ciao ciao." lo salutò Julian, mentre John
riprese a spingere il carrello lungo il corridoio.
Paul li guardò allontanarsi, salutando il bambino con la
mano fino a quando John non si voltò di nuovo verso di lui, continuando a
camminare. In quell'istante Paul percepì il proprio respiro mozzarsi in gola e
lui si sentì all'improvviso leggero come una piuma: si ritrovò a sorridere con
una dolcezza, un calore che poteva percepire sulle sue stesse guance.
John ricambiò il sorriso, sorpreso, senza accorgersene,
come se non se lo aspettasse.
Sapeva che non doveva illudersi, eppure c'era troppo in
Paul che gli stesse facendo perdere la testa e la razionalità in quel momento.
I suoi sorrisi, i suoi sguardi per John, il suo accettare l'invito...
Che ci fosse davvero una piccola speranza per John?
Tuttavia la combinazione tra continuare a guardare e
sorridere a Paul e continuare a spingere il carrello fu fatale: il suo carrello
andò a sbattere contro quello di una coppia di anziani, che non si
risparmiarono di rimproverare immediatamente John.
"Insomma, giovanotto, faccia attenzione, per l'amor
del cielo."
John si profuse in mille scuse, mentre Paul rideva
divertito per la scena, ma anche perché la dolcezza che John riservava solo a
lui era tornata e aveva riscaldato il suo cuore così infreddolito da diverso
tempo.
Quando infine i due anziani signori si allontanarono,
anche Julian si permise di richiamare il padre, "Papà, devi guardare dove
vai!"
“Hai ragione, amore.” gli disse John, prima di voltarsi
verso Paul.
Era ancora lì, tutto intento a guardarli e sorridere
compiaciuto. Sembrava soddisfatto di essere appena stato la causa del piccolo
incidente di John.
Il motivo era ancora sconosciuto per John, ma questo non
gli impedì di affrontare il resto della giornata con un sorriso sulle labbra e
una piacevole sensazione di leggerezza nel cuore.
****
La sera seguente Paul si preparò per la festa, prese il
regalo, e puntualissimo, si presentò alla porta dell’appartamento di John.
Sentiva il proprio battito cardiaco rimbombare
direttamente nelle orecchie, ed era a un ritmo assurdo.
Che razza di idiota! Perché avrebbe dovuto essere
nervoso? Era solo una festa, ci sarebbero state altre persone oltre a lui e
John. Ovviamente, che festa sarebbe stata senza altre persone? Se fossero stati
solo loro due, sarebbe stato un appuntamento.
Paul non aveva motivo di sentirsi così, non sarebbe stato
da solo con John, non avrebbe avuto l’occasione di parlargli di certe cose,
non sarebbe successo proprio nulla.
Oh, ma che importava cosa sarebbe accaduto? Paul lo
sapeva, sapeva che anche se avesse trascorso un solo istante con John, si
sarebbe sciolto in sorrisi da far venire la carie e sguardi così intensi da
rendere fin troppo chiari i suoi sentimenti.
John avrebbe capito tutto, perché capiva sempre tutto di
Paul.
E a quel punto John avrebbe cercato di avvicinarsi a lui,
di riprendere quel discorso che Paul aveva stupidamente interrotto, allora Paul
sarebbe stato oh, così felice.
Oppure John l'avrebbe ignorato, avrebbe fatto finta di
non riconoscere i sentimenti di Paul, mettendo davvero la parola fine a
qualunque cosa fosse accaduta tra loro; allora Paul sarebbe stato oh,
così triste.
Il giovane uomo scosse il capo, o almeno si costrinse a
farlo per allontanare tutti quei pensieri stupidi e quei dubbi inutili, e suonò
il citofono.
Ma chi venne ad aprire non fu proprio il festeggiato.
Si trattò invece di quel nome che nell'ultimo periodo
stava semplicemente facendo impazzire Paul e no, non in modo positivo.
Yoko.
"Oh salve." esclamò, "Lei deve essere
l'ispettore."
La donna gli sorrise debolmente, e Paul si ritrovò
incapace di ricambiare. Era la casa di John, eppure era lei a fare gli onori di
casa? Che cazzo significava?
"Non credo ci abbiano mai presentato, mi chiamo Paul
McCartney.” le disse invece porgendole la mano, cercando di essere comunque
molto cortese e poco sconvolto.
“Yoko Ono.” rispose lei, “Si accomodi, mancava solo lei
ormai.”
“Ehm… grazie.”
Yoko lo condusse verso il soggiorno, dove c’erano già
almeno una ventina di persone. Si erano formati tanti piccoli gruppetti di
conversazione, mentre in sottofondo la voce calda di Elvis teneva loro
compagnia con le sue canzoni.
Naturalmente Elvis non poteva mancare.
“Da questa parte può trovare le bibite e qualcosa da
mangiare.” gli disse la donna, indicando un tavolo sopra cui vi erano bottiglie
colorate e panini, salatini e patatine di ogni genere.
Paul annuì, seguendo Yoko al tavolo e intanto cercando
John nella stanza con lo sguardo. Vide George e Pattie sul divano, entrambi
presi da una conversazione con un’altra coppia, che Paul non aveva mai visto.
Ben presto, l’ispettore si accorse che non conosceva davvero nessun altro di
tutti i presenti. Non aveva idea di chi fossero, ma se erano lì, allora
dovevano essere amici di John.
“Cosa preferisce da bere?” gli chiese Yoko, destandolo
dai suoi pensieri.
“Oh, un po’ di aranciata, grazie.”
Yoko si affrettò a preparargli un bicchiere della bibita
richiesta e Paul la osservò con attenzione. Sembrava sempre più importante, in
quella festa, come se sapesse come muoversi, come se conoscesse a fondo come
era stato disposto tutto il necessario per la festa.
“Ha aiutato lei John con i preparativi?”
“Sì.” rispose lei, sorridendo e porgendogli il bicchiere,
“Mi ha chiesto di aiutarlo, così sono venuta nel pomeriggio e mentre i bambini
giocavano con i palloncini, noi abbiamo sistemato tutto.”
“Avete fatto un ottimo lavoro.” commentò Paul,
costringendosi a rivolgerle un sorriso, dopo aver ammirato tutto ciò che
offriva il tavolo delle cibarie e i festoni e palloncini appesi per tutta la
stanza.
“Grazie.”
Paul si maledisse, quando lei gli sorrise compiaciuta
perché qualcuno aveva finalmente capito quanto fosse importante il suo ruolo in
quella festa.
Se lui non fosse stato così ottuso, così cocciuto da
respingere John, in quel momento ci sarebbe stato lui al posto di Yoko. John
avrebbe chiamato lui, insieme avrebbero preparato i panini e sistemato tutto
l’occorrente.
Invece Paul aveva mandato tutto al diavolo e ora… Ora era
giusto che si rodesse il fegato per la sua sciocca gelosia. Era la sua più che
meritata punizione.
Questo non gli impedì di voler approfondire la conoscenza
del rapporto che intercorreva tra John e Yoko.
“John mi aveva detto che ci sarebbero state poche
persone, invece mi sembra che sia già un bel numero di invitati.”
“Oh sì, sono soprattutto clienti affezionati del suo
negozio.” spiegò lei, versando per se stessa un po’ di Coca Cola.
Paul batté le palpebre, sorpreso: non si aspettava certo
che lei conoscesse anche questo.
“E…” continuò, schiarendosi la voce, “E per caso, sa se
sia presente anche l’uomo che ha cresciuto John?”
“Ah, no, lui non poteva venire.”
“Capisco.” mormorò Paul, prendendo un sorso della
bevanda.
Cristo santo, perché aveva preso l’aranciata? Era così
maledettamente amara. Non era salutare per lui bere cose amare, non facevano
che accentuare i suoi sentimenti già amari.
E John e Yoko così intimi erano per lui amari tanto
quanto quell’aranciata.
“Lei e John sembrate molto in confidenza.” disse infine
Paul con cautela e un leggero senso di sconfitta.
“E’ solo per i bambini.” spiegò Yoko, chinando il capo e
rigirando distrattamente il suo bicchiere.
Il sorriso della donna si era leggermente affievolito,
era diventato quasi malinconico.
“Solo per i bambini?” ripeté, perplesso.
“Sì.”
Yoko sospirò amaramente e Paul lo notò, certo che lo
notò. Inizialmente ne fu sorpreso, la conversazione fino a quel momento era
stata un vero calvario per lui. Ma ora, con quel sospiro della donna, cambiava
tutto.
“Mi… mi sembra di capire che lei sperasse in qualcosa di
più?” esclamò timorosamente.
Era necessario mostrare prudenza, arrivati a questo
punto. Una piccola scintilla di speranza si era accesa di nuovo in Paul, ma doveva
essere protetta con attenzione.
“Esatto.” rispose Yoko, “Ma lui mi ha fatto capire
chiaramente che non era interessato.”
“Oh.” fu tutto ciò che riuscì a dire Paul.
John non era interessato.
Poche parole che risuonarono in continuazione nella mente
di Paul, come un disco che si era incantato.
Ma non bastava.
“Le ha spiegato come mai?” continuò Paul.
“Pare che ci sia qualcun altro per la sua testa.” rispose
lei, quasi sbuffando infastidita.
Ma nonostante i suoi fossero degli sbuffi, questi non
avevano alcun potere sulla scintilla che proprio quella stessa donna aveva
riacceso in Paul, anzi, andavano solo ad alimentarla, a renderla più forte.
“Chi?” chiese Paul, e la domanda gli uscì senza che
neanche se ne accorgesse.
Yoko sollevò un sopracciglio con scetticismo, “Ha
importanza?”
Certo che sì, che razza di domanda stupida era mai
quella? Come poteva pensare che non ne avesse?
Forse perché non ha alcuna idea che possa
essere tu, stupido che non sei altro, si disse Paul.
“Ha ragione, mi perdoni.” le disse con voce appena
tremante.
Che sforzo immane cercare di controllarsi davanti a lei.
“Comunque no, non mi ha detto di chi si tratta.”
Maledizione!
Ma chi poteva essere se non Paul, giusto? Chi altri aveva
potuto conquistare John in così poco tempo? No, non era possibile. Era
sicuramente lui. Doveva essere Paul.
“E quando sarebbe successo?”
“Ieri pomeriggio. Mi ha detto anche che capiva
perfettamente se avessi deciso di non aiutarlo più per stasera, ma ho pensato
di farlo comunque. In fondo, la mia bambina si trova bene a giocare con Julian
e vorrei che continuasse a frequentarlo in modo da avere almeno degli amici.”
“E’ stato molto gentile da parte sua, aiutarlo nonostante
tutto.” le fece notare gentilmente Paul.
“Grazie.” gli disse lei, “Ora se vuole scusarmi, vado a
prendere altri panini.”
“Sì, prego, non si preoccupi.”
Paul la seguì con lo sguardo, mentre si recava in cucina.
Una parte di lui cercava in tutti i modi di mantenere un certo contegno, mentre
l’altra aveva solo voglia di urlare, gridare al mondo la sua felicità.
Santo cielo, si sentiva così leggero, come se da un
momento all’altro potesse librarsi in volo. Era davvero possibile? Dio, forse
sì, e Paul doveva solo trovare un appiglio prima che una folata di vento
potesse portarlo via.
Trovò un valido appiglio nello sguardo di John.
Era con altri due uomini in un angolo della stanza.
Stavano parlando animatamente di qualcosa, quando John intercettò lo sguardo di
Paul.
L’uomo gli sorrise lievemente, alzando la mano per
salutarlo e Paul si sentì arrossire, ricambiando il saluto, prima di tornare a
bere la sua bevanda.
Qualcuno per caso aveva messo del miele in quella
aranciata? Perché all’improvviso era diventata incredibilmente dolce.
E così anche la gassosa che seguì.
E la Coca-Cola.
E la birra.
E…
****
Finalmente Julian si era addormentato.
Erano state necessarie una fiaba e due ninna nanna per
metterlo k.o., ma alla fine John c'era riuscito.
Nonostante non avesse fatto altro che correre e giocare
con Kyoko per tutta la sera, sembrava che Julian non
avesse sonno. Quel bambino aveva una soglia della stanchezza molto alta. Ma da
chi aveva preso?
Sorridendo fra sé, John tornò al pianterreno per trovare
George e Pattie che stavano indossando i loro cappotti per andare via.
"Si è addormentato?" chiese Pattie,
interessata.
"Sì.” sospirò John, “Finalmente, direi."
"Si è dato alla pazza gioia stasera." commentò
la ragazza, sorridendo.
"Neanche fosse il suo compleanno." ribatté
George, lasciandosi scappare una risatina, “Insieme a quella bambina poi, ha
dato il meglio di se stesso.”
John annuì, divertito, "A proposito, sono andati
tutti via?”
George rivolse un rapido sguardo a Pattie, prima di
tornare verso John.
“A dire il vero c’è un superstite.” gli disse, facendo un
cenno verso il soggiorno.
John seguì l’indicazione e riuscì a scorgere una massa di
capelli scuri che spuntava dal divano.
“Oh.”
Paul.
Deglutì sonoramente, riconoscendo il suo ispettore ancora
lì, nella sua casa.
Che stesse aspettando lui? E perché?
Certo che stava aspettando lui, non era stato forse John
a evitarlo per tutta la sera?
L’aveva evitato, sì, e non sapeva bene neanche il motivo
delle sue azioni. L’aveva a malapena salutato, l’aveva osservato di sfuggita
per tutta la sera, distogliendo lo sguardo non appena quello di Paul
incrociasse il suo, e quando per caso si erano imbattuti l’uno nell’altro in
cucina, e Paul gli aveva offerto il suo aiuto, John l’aveva liquidato in fretta
e furia, scappando dalla stanza con la prima scusa che gli fosse passata per la
testa.
E ora Paul lo stava aspettando, per fare cosa John non lo
sapeva con esattezza, ma era più che sicuro che lui avesse notato che John
l’aveva evitato e ora voleva solo chiarire perché.
John era in trappola. Una dolce, dolcissima, straziante
trappola.
Aveva fegato per affrontare tutto ciò?
Sì, l’aveva, ne aveva abbastanza per parlare con Paul.
“Vuoi una mano?” gli chiese George.
John scosse il capo, sorridendo, “Non ti preoccupare, ce
la posso fare.”
“D’accordo, allora noi andiamo.” affermò l’amico,
appoggiando una mano sulla sua spalla e dandogli un’affettuosa pacca.
“Certo. Grazie mille per stasera, ragazzi."
"Grazie a te." gli disse Pattie, baciandolo
sulla guancia, "E ancora tanti auguri."
John sorrise in risposta e li accompagnò fino all’uscita.
Non appena si salutarono, l’uomo chiuse la porta e sospirò, prima di tornare
verso il soggiorno.
Vide di nuovo quella indimenticabile testa di capelli
neri e arruffati, e nonostante i suoi dubbi e timori, il suo cuore batteva
intensamente a quella visione, faceva tremare il suo petto in modo dolce; era
una sensazione stupenda. Lo faceva sentire così vivo.
Recuperando un po' di quel coraggio che
contraddistingueva le sue notti da ladro, avanzò nella sala e quando fu in
piedi accanto al divano, Paul si voltò.
“Ciao.”
"Ciao.” disse John, sedendosi accanto a lui e
sorridendo imbarazzato, “Bella festa, eh?"
Paul sorrise, di fronte alla situazione di disagio di
John, "Sì, molto."
"Pensavo fossi andato via."
Il giovane uomo chinò lo sguardo, scuotendo appena il
capo, “Non potevo ancora andarmene.”
“Perché?” domandò, seguendo Paul che si voltò dalla parte
opposta rispetto a John per recuperare qualcosa al suo fianco.
“Beh, prima di tutto non ti avevo ancora dato il mio
regalo.” rispose lui e gli porse quello che era evidentemente un pacco regalo.
“Non dovevi disturbarti.”
“Una volta qualcuno mi ha detto che il compleanno è
sacro, quindi non si preoccupi, signor Lennon, nessun disturbo.”
Paul gli porse nuovamente il suo regalo e John rise,
riconoscendo le sue stesse parole in quelle del giovane ispettore. Si decise
perciò ad accettare il dono: era sottile, di forma quadrata, rivestito da una
carta argentata a righe colorate e nel centro vi era una coccarda da regalo di
un bel rosso acceso.
“Dai, aprilo.” lo incalzò Paul.
John gli rivolse un rapido sguardo divertito, prima di
iniziare a scartare il misterioso oggetto. Le sue mani tremavano e forse Paul
se ne rese conto, ma a questo punto per John non aveva più importanza. Paul lo
aveva visto in condizioni peggiori: schiacciato dal peso opprimente della
paura, quando Julian era finito in ospedale, e ancora prima, implorante di
fronte a Paul che lo stava allontanando da se stesso.
Per cui davvero, non aveva importanza.
Quando la carta strappata rivelò il regalo, John rimase
letteralmente a bocca aperta.
Non era possibile.
Le sue mani, tremanti d’amore e di sorpresa, stringevano
un LP di Elvis. Era Blue Hawaii, uno dei suoi preferiti, ma non era un
disco qualunque: si trattava infatti di un'edizione originale del 1961, una
delle prime copie pubblicate. La custodia era leggermente rovinata ai bordi e
ingiallita. Il povero Elvis non aveva affatto una bella cera.
"Ti piace?" domandò Paul, incuriosito, dal
momento che John non sembrava voler aprire bocca.
"Se mi piace? Io... Questo è... è..."
La sua voce vacillava in modo incontrollabile, vuoi per
la sorpresa, vuoi per la gioia o per quell'immenso sentimento che Paul aveva
acceso in lui.
"È uno dei due LP originali che ti mancano di
Elvis." terminò Paul al posto suo, "Lo so."
John lo guardò, alzando un sopracciglio, "Te l'ha
detto George?"
Paul annuì, "Volevo farti un regalo speciale, ma
tutto ciò a cui potessi pensare era banale. Allora gli ho chiesto aiuto e lui
mi ha informato che mancano due esemplari alla tua collezione di prime edizioni
di LP di Elvis."
"Esatto, come hai fatto a trovarlo?"
"Trovare cose e persone è il mio lavoro,
giusto?" esclamò divertito Paul, facendogli l'occhiolino, "Ho i miei
mezzi."
"Ma ti sarà costato una fortuna." ribatté John,
accorato, sbalordito, e ancor più preso da questo giovane uomo perché non
poteva accettare che Paul, lo stesso Paul che stava rischiando il proprio
lavoro per colpa di John, spendesse così tanti soldi per lui.
"Beh, su questo non posso esprimermi." commentò
l'uomo, prima di scrollare le spalle, "Ti basti sapere che l'ho fatto con
piacere."
John scosse il capo, "Comunque, non me lo
merito."
Paul si lasciò scappare una risata, abbandonandosi allo
schienale del divano, "Su questo ti do pienamente ragione."
"Ah sì?" ribatté John, battendo le palpebre,
preso in contropiede.
"Certo. Il che ci porta a un altro motivo che mi ha
indotto a restare qui stasera."
"Quale?"
"Era necessario, sai? Mi hai evitato da quando sono
arrivato." spiegò Paul.
Con sorpresa John si accorse che Paul non era arrabbiato
mentre gli faceva notare che sì, aveva capito che John l’aveva evitato. Paul
stava invece sorridendo, e sorrideva con una tenerezza che fece stringere il
suo cuore.
"Hai ragione." mormorò, voltandosi leggermente
verso l’altro uomo.
"Perché l'hai fatto, John?" chiese il giovane
ispettore, abbassando lo sguardo per trovare la mano di John a un soffio dalla
sua.
"Avevo paura."
Paul annuì lentamente e la sua espressione diceva in modo
evidente che si aspettasse una risposta simile, "Di che cosa?"
"Del motivo per cui sei venuto."
"Sono venuto perché Julian ci teneva e ti ha
praticamente costretto a invitarmi." rispose Paul, divertito.
John rise, imitando Paul e appoggiandosi al divano allo
stesso modo, "Non mi ha costretto. Ci tenevo anche io a invitarti, ma non
sapevo se avresti accettato."
"Certo che avrei accettato e Julian lo sapeva. È un
bambino sveglio, te l'ho già detto?" esclamò, rivolgendogli uno sguardo
che era dolce e insieme malizioso.
"Per questo sei venuto? Solo per lui?"
"Per lui e per le mie patatine preferite,
ovviamente.” commentò Paul, ma prima che John potesse ridere per la sua
battuta, allungò una mano per accarezzare il suo braccio, “E perché anche tu
lo volevi."
John sussultò visibilmente, rendendosi conto che il suo
cuore fosse più che impazzito: non sapeva più con che ritmo battere, non sapeva
più a quale delle tante meravigliose emozioni, suscitate dalle parole e dai
gesti di Paul, dare la precedenza.
"Ah d-davvero?” balbettò, cercando di mantenere la
sua voce ferma, ma fallì miseramente e il fallimento non fu poi molto
importante, “E come fai a esserne così… così sicuro?"
"Perché…” iniziò a dire Paul, osservando la propria
mano che scivolò sul braccio di John verso l’alto, fino al mento dell’uomo,
“Quello che vuoi tu è ciò che voglio anche io."
Adagiandosi nel tocco di Paul e ispirando profondamente,
John si avvicinò a lui, non riuscendo a trattenere un sorriso, "Parli sul
serio?"
"Mai stato così serio." sospirò Paul,
lasciandosi contagiare dallo stesso incredibile mix di sentimenti di John.
"Perché devi sapere…” disse John e non riuscì a
impedire a se stesso di avvicinarsi ancora a Paul, “C'è una cosa che vorrei
fare proprio ora. E dovresti saperlo anche tu."
Paul si morse il labbro, continuando a sorridere,
"Infatti lo so. Lo so bene."
John sussultò appena, ma abbandonò qualunque residuo di
esitazione fosse rimasto in lui perché Paul aspettava solo la sua mossa, e con
decisione allungò una mano per appoggiarla sulla guancia calda di Paul.
"Ma è difficile."
"Ti sbagli, John. È semplice." disse lui,
chiudendo gli occhi, mentre il pollice di John cominciava ad accarezzarlo,
"È la cosa più semplice del mondo."
L’istante successivo John pensò che Paul avesse ragione.
Fu semplice chinarsi su di lui, quasi naturale.
Fu semplice sfiorare le labbra di Paul con le sue,
toccarle una, due volte.
Non poteva fermarsi.
E il fatto che Paul non lo stesse fermando né
respingendo, lo incoraggiava solo a non porre mai fine al suo bacio. Anzi,
desiderò e provò ad approfondirlo, solo un po', solo per controllare che fosse
proprio come lo ricordava lui.
Paul sorrise quando dischiuse le sue labbra per John,
permettendogli di baciarlo come desiderasse, e poi lasciò che la sua mano si
intrecciasse con i sottili capelli ramati dell'uomo, mentre l'altra si appoggiò
sul suo petto, all'altezza del cuore, lì dove il bacio di Paul aveva causato
quel ritmo folle.
Folle proprio come si sentiva John. Si appropriò della
bocca di Paul, riconoscendo quel dolce sapore di miele che lo aveva così
colpito. La mano sulla sua guancia continuò ad accarezzarlo, mentre l'altra
scivolò sul fianco di Paul, stringendolo e avvicinandolo a sé.
Infine, John si allontanò dalla sua bocca quel tanto che
bastava per tornare a respirare e sospirare dolcemente quel nome così caro a
lui.
"Paul."
Paul sorrise, mentre faceva strofinare il naso contro la
guancia di John e accarezzava il suo petto.
"Cosa, John?"
Incapace di allontanarsi da lui, John fece appoggiare la
sua fronte a quella di Paul, deliziandosi per la vicinanza, per il contatto,
per lo stesso Paul.
"Di' la verità. Stasera sei rimasto solo per
questo."
Paul scoppiò a ridere, stringendosi contro di lui, “No,
ma ci sei andato vicino."
"Sul serio?" chiese John, guardandolo
perplesso.
"Sì. C’è un terzo motivo per cui non sono andato
via.”
“E quale sarebbe?”
“Sarebbe che…” iniziò a dire, attirando nuovamente John a
se stesso, “Non ti ho ancora fatto gli auguri.”
“Oh, dannazione. È vero.” concordò John, cercando con più
sicurezza ora la dolce bocca di Paul.
Paul sorrise ancora, prima di chiudere ancora
gli occhi e baciare John ancora.
“Buon compleanno, John.”
E poi tutto fu dolce come miele.
Ancora.
Note dell’autrice: oh, oh, OH!
Ce l’hanno fatto, alleluja,
stappiamo lo spumante. ;)
Non ho niente da dire su questo capitolo, spero solo che
sia stato come ve lo aspettavate.
Grazie a kiki per la
correzione. Grazie a paperback writer, JapanAsh_BeautifulGazette e letybeatle per aver recensito lo scorso capitolo.
Una curiosità che mi sta uccidendo: non so se qualcuno
stia seguendo la mini long rossa che sto scrivendo su John e Paul, “Il quinto
elemento”, ma se qualcuno lo stesse facendo, mi farebbe piacere sapere come mai
stia praticamente passando inosservata. Se c’è qualche problema, sarei felice
di sapere di cosa si tratta, così da poter rimediare. La potete trovare qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2765308&i=1
A martedì prossimo con il nuovo capitolo, “I’mlookingthroughyou”.
Il cielo era di un grigio terribilmente scuro: la pioggia
aveva cominciato a bagnare la città molto presto di mattina e continuò a cadere
in quel pomeriggio cupo, con tanto di tuoni e fulmini. Era una situazione
decisamente spiacevole, che creò molti disagi in città.
Probabilmente c'era una sola persona in tutta Londra per
cui quel tempo da cani non facesse alcuna differenza.
L'ispettore Paul McCartney, infatti, tornò dal lavoro
canticchiando allegramente sotto il suo ombrello. La pioggia era così fitta che
il giovane uomo si era inzuppato l'orlo dei pantaloni, le maniche della giacca
e anche i capelli.
Ma non importava in che stato disastrato si trovasse, né
quanto fossero cupe le nubi sempre minacciose: quella per lui era la giornata
più bella degli ultimi mesi. Non riusciva a smettere di sorridere. Ci aveva
provato, ma ogni tentativo era risultato vano.
E il sorriso non scomparve neanche quando arrivando a
casa, Paul vide il negozio di John aperto e ancora meglio, scorse lo stesso
John dalla finestra, tutto intento a suonare la sua chitarra.
Il cuore di Paul perse un battito, lasciandolo stordito,
senza fiato solo per un lungo, delizioso secondo.
Paul sapeva che fosse il suo modo per dirgli di andare
avanti, entrare nel negozio e... e poi...
Poi John!
Mordendosi il labbro per contenere l'entusiasmo, Paul si
decise a fare proprio ciò che gli stava suggerendo il suo cuore. Le sue gambe
si mossero conducendolo con straziante lentezza verso il negozio dall'altra
parte della strada. Quando Paul giunse alla porta, entrò e fu subito avvolto da
una melodia che gli diede il più dolce benvenuto.
Sapeva che fosse John a suonare, sapeva che proprio là,
oltre quella tenda, ci fosse John, lo stesso che Paul aveva baciato la sera
prima.
Se ci pensava, e praticamente Paul non aveva fatto altro
da quel momento, le gambe tremavano in modo incontrollabilee il respiro gli si mozzava in gola. Eppure,
nonostante questo, era una sensazione delle più piacevoli e incantevoli e-
“Ciao, Paul.”
Improvvisamente il sogno in cui Paul correva da John in
quel preciso istante, il sogno alimentato dalla dolce voce di John che cantava
dalla sua stanzetta sul retro del negozio, fu interrotto a causa della voce di
George, che lo riportò bruscamente alla realtà.
“Ciao.” sospirò Paul, avvicinandosi al ragazzo.
“Qual buon vento?” domandò lui con un sorriso.
“Oh, io veramente-”
Paul s’interruppe dal momento che, avvicinarsi a George
gli aveva permesso di sentire non solo ciò che John stava suonando, ma anche
ciò che stava cantando.
“For you
there'll be no more crying
For you the sun
will be shining”
E proseguire la conversazione si rivelò improvvisamente
il più difficile dei compiti per Paul.
La voce di John che cantava in totale solitudine era un
richiamo dei più soavi, a cui era terribilmente difficile resistere.
“And I feel that
when I'm with you
It's alright, I
know it's right”
Tuttavia prima Paul doveva liberarsi di George.
“Sono passato per salutare John.” rispose, azzardando un
sorriso e ricevendone uno decisamente più furbo da George.
“Avete fatto pace, eh?”
Paul arrossì violentemente, mentre nella sua testa si
riversavano immagini di come lui e John avessero fatto pace, immagini
alimentate dalla voce sempre calda e vellutata dell’uomo nella stanza accanto.
“To you, I'll
give the world
To you, I'll
never be cold”
“Sì.” rispose Paul, annuendo.
George si lasciò andare a un evidente sospiro di
sollievo, “Meno male. John era diventato insopportabile, sempre a sospirare in
modo inconsolabile. Decisamente fastidioso, sai.”
Ma se da una parte pensare a John in quello stato faceva
stringere con dolore il cuore di Paul perché sapeva che era stata colpa sua,
dall’altra gli faceva anche un piacere immenso, sapere che lui, proprio Paul,
potesse avere così tanto potere sull’umore di John.
E non era in fondo lo stesso per Paul? Anche lui non era
stato affatto bene in quei giorni lontano da John, era in una situazione di
costante disagio, come se nessun altro al mondo potesse farlo stare bene di
nuovo.
“'Cause I feel
that when I'm with you
It's alright, I
know it's right”
Come se nessun altro fosse giusto per lui. Proprio così.
"Mi dispiace, ma l'importante è che abbiamo risolto,
no?" gli chiese Paul.
George lo guardò per un istante, gli occhi appena
socchiusi, quasi volesse leggere qualcosa più in profondità in Paul. Qualcosa
che era custodito gelosamente nel suo cuore, e Paul deglutì, cercando di
chiudere e proteggere ancor di più questo suo sentimento per John, non ancora
sicuro di poterlo condividere con George.
“And the
songbirds are singing
Like they know
the score”
"Certo. Ora tornerà tutto come prima?"
Paul si morse il labbro: non pensava davvero che sarebbe
tornato tutto esattamente come prima, ma decise che per il momento era
questo che George potesse pensare di lui e John.
Così annuì, sorridendo, "Tutto come prima."
"Allora sai dove trovare il nostro John." gli
disse George, indicando la stanza da cui proveniva il canto.
Paul seguì l'indicazione e sussultò, prima di ringraziare
George e avvicinarsi con delizioso timore alla sua meta.
“And I love you,
I love you, I love you
Like neverbefore”
Quando Paul scostò leggermente la tenda, un brivido
percorse tutta la sua schiena, un brivido caldo, come se le parole cantate da
John fossero riverberate contro il corpo di Paul.
Quando poi vide John, seduto di spalle, lo sguardo chino
sulla propria chitarra, fu come se il cuore di Paul fosse impazzito tutto d'un
tratto, battendo violentemente contro il suo petto, la sua gola, le orecchie...
“And I wish you
all the love in the world
But most of all,
I wish it from myself”
Chissà, forse John aveva sentito i battiti folli del suo
cuore, perché all'improvviso si fermò e si voltò.
E solo allora Paul poté liberare quel sorriso che voleva
mostrarsi in tutta la sua gioia e luminosità da quando aveva messo piede nel
negozio.
Lo stesso sorriso che apparve sul viso di John.
"Paul?!" mormorò leggermente stordito per
l'improvvisa apparizione, "Che sorpresa."
Paul si decise a entrare definitivamente nella stanza,
assicurandosi di chiudere bene la tenda dietro di sé. John lo osservò senza
poter in alcun modo eliminare o anche solo attenuare quel sorriso che stirava
le proprie labbra.
Ma come avrebbe potuto farlo, e perché soprattutto? La
visione di Paul a due passi da lui, con i vestiti e i capelli bagnati dalla
pioggia incessante di quel giorno era un incanto. Nonché una vera e propria
magia.
John stava cantando quella canzone pensando a lui, e
magicamente Paul era apparso. Sembrava quasi che avesse sentito i pensieri di
John e seguito il suo richiamo.
"Mi dispiace di averti disturbato."
"Nessun disturbo." lo rassicurò John, "Da
quanto sei lì?"
"Da un po'." rispose Paul, vagamente, scrollando
le spalle, "Ma prima ero di là a parlare con George e ho potuto ascoltare
la canzone."
"È quella che volevo suonare con te." spiegò
John.
C'era una nuova timidezza che stava guidando i suoi
gesti, la sua voce, ma a lui non importava. Andava bene così.
"Ah beh, allora sono lieto di non averla suonata
anche io." affermò Paul con una piccola risata, che tuttavia lasciò John
interdetto, con la fronte crucciata.
"Perché?"
"Perché cantata e suonata da te era… magica."
John rise, sollevato e compiaciuto, prima di iniziare a
riporre la chitarra nella sua custodia, dal momento che qualcosa di più
interessante stava aspettando proprio lui, "Esagerato."
"Non è vero. Mi piace molto sentirti cantare. In
effetti... lo adoro." spiegò Paul, arrossendo lievemente perché ora John
si stava avvicinando a lui.
"Grazie." mormorò lui con calore.
Gli occhi di Paul si spostarono velocemente dalla
custodia con la chitarra, a John che era ormai a pochi passi da lui. Non sapeva
per cosa fosse più dispiaciuto, se per la chitarra abbandonata o per John
ancora così maledettamente lontano.
Decise di optare per mantenere un minimo di decoro, e la
prescelta fu la chitarra.
"Ma perché ora hai messo via la chitarra?” chiese,
protestando vivacemente.
“Perché ci sei tu, che domande!” spiegò John, divertito,
e non poté fare a meno di notare quell'euforia, causata dalla sua risposta, che
ora tentava disperatamente di tirare gli angoli della bocca di Paul.
Paul stava ovviamente trattenendosi, non ancora sicuro di
come dovessero proseguire ora le cose tra loro due.
Tuttavia doveva ritenersi un ragazzo fortunato, molto
fortunato, perché John aveva una certa idea e aveva tutte le intenzioni di
metterla in pratica.
“Ma non voglio farti smettere di suonare." protestò
nuovamente Paul, "Non volevo davvero disturbarti, anzi sarà meglio che me
ne vad- Ehi!”
Il suo braccio fu afferrato e tirato da John, e l’istante
successivo Paul andò a sbattere contro il corpo dell'altro uomo.
“Paul, sta' zitto, ok? Sei in assoluto il più bel motivo
per smettere di suonare.”
Paul si lasciò scappare una risatina, una decisamente più
rilassata ora, e fece scivolare le braccia intorno alla vita di John, mentre
questi stringeva le sue al collo del giovane ispettore.
“Bene, allora.”
John chiuse gli occhi per un istante, appoggiando la
fronte a quella di Paul, sorridendo perché il respiro dell’uomo gli solleticava
la pelle del viso. Era straordinariamente, e cosa assai più importante, ancora
vicino a lui.
Aveva passato l’intera notte a ricordare quanto fosse
accaduto dopo la sua festa di compleanno e ogni volta che chiudeva gli occhi,
Paul lo baciava ancora. Solo che a differenza di quel primo, impacciato bacio
che Paul gli aveva donato in un attimo di confusione, questa volta John aveva
la certezza che fosse voluto da entrambi. Non gli bastava più sognare che Paul
lo volesse tanto quanto lo stesso John, ora poteva semplicemente aprire gli
occhi e Paul sarebbe stato ancora lì, pronto a baciarlo di nuovo. E John non
vedeva l'ora perché sapeva che sarebbe stato ancora meraviglioso, se non di
più: sarebbe stato più appassionato, più pensato. Aveva senso? John non
ne era convinto, ma c'era solo un modo per scoprirlo.
Così aprì gli occhi, e quando vide Paul sorridergli
teneramente, fremette tra le sue braccia.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Sai, credo proprio che sia appena accaduta una vera
magia.” gli disse John, ridacchiando.
Paul si lasciò contagiare (era così facile ormai) e rise
anche lui, “Che tipo di magia?”
“Beh, ho pensato a te tutta la notte, e poi tutta la
mattina-”
“Ma non mi dire!”
“…e tutto il pomeriggio.” continuò John, “E ora eccoti
qua. Se non è una magia questa...”
“Oh, capisco.” affermò Paul, rapito, “Ed è una bella
magia?”
"Ci puoi giurare. Sono molto contento che tu
sia qui." gli disse John.
"E io sono molto contento di essere qui."
ribatté Paul, quando le braccia di John si strinsero un po’ di più intorno a
lui, causando un piccolo ma coinvolgente sussulto del suo cuore.
John per tutta risposta mormorò dolcemente, socchiudendo
gli occhi, "Mm, sembra perfetto."
"Lo è, John." concordò Paul, “Lo è.”
John tornò a guardarlo, allontanando di poco la testa da
quella del perfetto giovane uomo intrappolato tra le sue braccia, e portò una
mano sulla sua guancia che divenne all’improvviso di un tenue color rosso
pomodoro.
"Sai cos'altro sarebbe perfetto?"
La domanda di John fu posta con gli occhi di uno
profondamente immersi in quelli dell’altro, e Paul permise a un brivido di
attraversarlo dalla testa ai piedi.
"Cosa?" domandò senza fiato.
"Un appuntamento."
"Un cosa?"
"Hai sentito."
"Un appuntamento?” ripeté Paul, battendo le palpebre
perplesso, “Un vero appuntamento?"
"Sì, certo. Un appuntamento! Hai presente, tu, io,
un posto romantico... Che ne dici?"
Paul arrossì lievemente. Non si aspettava di certo di
rimediare un appuntamento con John, quando era entrato nel negozio. Non che gli
dispiacesse, sia chiaro, solo che suonava ancora strano per lui, vivere questa
situazione con John.
Molte volte era uscito con John, prima che tutto si
trasformasse in qualcosa di più profondo, ma ora sarebbe stato diverso:
sarebbero stati solo lui, John e quel nuovo, pazzesco sentimento che li univa.
Paul aveva paura, di che cosa non sapeva, ma sarebbe
stato con John, ed era solo questo che contava. Insieme ce l’avrebbero fatta.
John sembrava davvero sicuro e convinto che sarebbe andato tutto bene, come il
giorno in cui gli aveva chiesto di aiutarlo a suonare la chitarra, il giorno in
cui era iniziata tutta questa storia.
Un passo alla volta,
gli aveva detto John.
Beh, avrebbero fatto un passo alla volta anche in questa
occasione.
Così Paul si ritrovò a sorridere a John, sorridergli con
sincerità, con affetto, con dolcezza.
"Dico che sarebbe fantastico."
"Fantastico è proprio l'aggettivo che stavo
cercando." commentò John, rivolgendogli un occhiolino sfacciato.
"Per cosa?"
"Oh, per un sacco di cose: per il nostro
appuntamento, per questo momento, per il bacio di ieri sera..." esclamò
John, e man mano che si avvicinava nuovamente a Paul, la sua voce divenne
sempre più bassa, più calda, più vibrante, "Ti ricordi il bacio di ieri
sera, Paul?"
"Forse vuoi dire i baci." lo corresse
Paul.
"Proprio quelli. Non erano fantastici?"
domandò John, lasciando che la sua mano si spostasse ora nei capelli di Paul.
Ma lui arricciò il naso, fintamente pensieroso, cercando
di ricordare con precisione ricordi che in realtà erano ancora più che vivi in
lui.
"Non saprei."
"Ah no, eh?" esclamò John, con il tono di chi
la sapeva molto lunga.
"Dovrei rivivere di nuovo quell'esperienza, sai, per
potermi esprimere con obiettività." gli fece notare Paul, l'espressione
più maliziosa stava danzando sul suo bel viso.
John si sentì tutto d’un tratto ammaliato, rapito dal suo
sguardo, totalmente in balia di Paul, proprio come sotto l'effetto di un
incantesimo.
E quell'incantesimo gli chiedeva solo di baciare Paul. Ora.
"Vieni qui, allora, ci penso io a rinfrescarti la
memoria." mormorò John e fece per attirarlo a sé.
Ma proprio quando le sue labbra erano ormai a un
centimetro da quelle di Paul, George lo chiamò a gran voce facendo sussultare
entrambi.
"John! Muovi il culo, ti vogliono al telefono."
È finita la magia,
pensò John sbuffando per il richiamo decisamente poco delicato di George.
Paul lo guardò comprensivo, e lasciò che si allontanasse
da lui per affacciarsi dalla tenda.
"Chi è, George?"
"Cynthia. Dice che ti ha chiamato sul cellulare, ma
non rispondevi."
John sospirò, abbassando il capo, sconfitto, "Dille
che la richiamo tra un istante."
George acconsentì, e subito dopo John tornò da Paul e gli
prese le mani, stringendole teneramente.
"Scusa per l'interruzione."
"Non ti preoccupare. Tanto devo andare a casa a
togliermi questi vestiti bagnati, se non voglio prendermi il raffreddore."
spiegò Paul, mentre tutto il calore che gli aveva offerto John nei minuti
precedenti stava affievolendosi, rammentando l'umidità più che evidente dei
suoi abiti.
John rise, quando Paul fu percorso da un brivido, e cercò
di strofinare le mani sulle sue braccia per riscaldarlo.
"Dicono che domani farà bel tempo." esclamò
John.
"Oh, e scommetto che pensavi a domani per il nostro
appuntamento."
"È una sorpresa." spiegò John, toccandogli
affettuosamente la punta del naso con un dito, "Quindi niente domande,
grazie."
"D'accordo."
"Allora ci vediamo domani?"
"A domani, John." gli confermò e poi si
avvicinò per posare un piccolo bacio sulla sua guancia.
Il viso di John si colorò di un rosso molto tenue, ma
Paul non mancò di notarlo e prima di andare via e sparire oltre la tenda, gli
rivolse un sorriso che era sì, dolce, ma anche tinto di una punta di malizia,
un mix pericoloso che fece tremare le gambe di John.
E quando Paul se ne andò, John si lasciò cadere di nuovo
sulla sedia, sorridendo a nessuno in particolare.
Da quanto tempo non provava più questa sensazione
perfetta e deliziosa di impotenza e insieme invincibilità? Troppo. Ma ora
eccolo lì, si era tuffato di nuovo in una situazione simile con Paul, Paul che
rendeva tutto cento volte più eccitante perché era incredibile e perché...
Perché era tuttora l'uomo che gli stava dando la caccia.
Dio, John doveva essere il più folle dei masochisti. E se
George avesse saputo tutta la verità sulla nuova natura dei rapporti che
intercorrevano tra John e Paul, avrebbe detto la stessa cosa.
Ma George non poteva saperlo, non ancora almeno.
Ora John voleva solo assaporare fino in fondo questo
sentimento e voleva farlo con Paul, solo con lui, perché chiunque altro avrebbe
rovinato ciò che entrambi provavano.
E questo non poteva avvenire, soprattutto alla vigilia
del loro fatidico primo appuntamento.
Doveva andare tutto bene, doveva essere perfetto, una
giornata perfetta in un luogo perfetto.
Qualcuno potrebbe obiettare che la perfezione non esiste.
Beh, forse quel qualcuno non ha fatto i conti con John
Lennon, con i suoi progetti, con la sua convinzione, e soprattutto con il suo
cuore.
****
L'indomani pomeriggio c'era davvero bel tempo, come aveva
previsto John. Il cielo era limpido, azzurro come non
lo era mai stato da molto tempo. O forse era semplicemente Paul che guardava
tutto con occhi diversi, occhi per cui tutto era bello, senza alcuna
imperfezione.
Paul si lasciò scappare una risata, mentre si preparava
per uscire. Quel giorno si sentiva strano, combattuto: da una parte era
follemente eccitato per questo appuntamento, ma dall’altra parte era
inutilmente, stupidamente terrorizzato. L’idea di passare tutta la giornata con
John, conoscerlo meglio, stare da solo con lui, accendeva in Paul un miscuglio
di emozioni così diverse fra loro che si annullavano a vicenda per lasciarlo in
un piacevole e leggerissimo stato di intorpidimento.
Era un caso disperato, ecco cos'era.
Se si fosse guardato allo specchio, non avrebbe più visto
quel ragazzo impettito, serio, che era giunto da Liverpool alla ricerca di
un'opportunità.
Avrebbe invece visto un uomo con i suoi stessi occhi e le
sue stesse labbra, che, tuttavia, erano anche molto diversi. C'era una nuova
ragione di entusiasmo dietro quel suo perenne sorriso, e una nuova ragione di
vita che faceva brillare i suoi occhi.
Era diverso, lo sapeva, era diverso in profondità dentro
di lui. Dio, aveva perfino ascoltato della musica di sua spontanea volontà,
mentre si preparava. Ed era tutto merito di John.
Quando giunse l'ora prestabilita, Paul si infilò la
giacca, diede un'ultima aggiustatina ai capelli di fronte allo specchio, uscì
e…
E rimase a bocca aperta.
John era lì, proprio davanti la porta di casa sua, in
sella a una moto scintillante.
"Ciao, Paul." lo salutò John, sorridendo
sornione.
Paul si avvicinò, ridendo divertito, "E
questa?"
"È mia." rispose John, dando un'affettuosa
pacca alla moto.
Paul spalancò gli occhi, sorpreso, "Tua?"
"Proprio così." affermò John, orgoglioso e
soddisfatto perché la sua sorpresa stava decisamente riuscendo.
"Non mi hai mai detto di avere una moto."
"Oh, piccolo." sospirò John, "Ci sono così
tante cose che devi ancora scoprire di me."
John sussultò, ma scosse il capo prima di potersi
crogiolare nel desiderio di Paul.
"Vogliamo andare?" chiese poi, porgendogli il
casco.
Paul si morse il labbro, esitando nell'accettare
quell’offerta. Non gli erano mai piaciute le moto, almeno, non gli piaceva
viaggiare con un mezzo simile. Lo riteneva piuttosto pericoloso.
"Cosa c'è? Non ti fidi a salire con me sulla moto?”
domandò John, con una risata, “Guarda che sono bravissimo."
Il sorriso e le parole di John tuttavia avevano lo
straordinario potere di infondergli una fiducia infinita in lui, e allontanare
qualunque paura.
Perciò Paul sospirò, scrollando le spalle, "Se lo
dici tu..."
"Andiamo, Paul." lo incoraggiò John,
punzecchiandolo dolcemente sul fianco.
Paul si contorse per un istante, e così facendo gettò al
vento qualunque esitazione potesse ancora fermarlo e prese il casco. Lo
indossò, assicurandosi di allacciarlo bene sotto il mento, mentre John faceva
la stessa cosa.
Dopodiché sollevò una gamba e si sistemò dietro John.
"Tieniti forte." gli disse John, prima di
abbassare la visiera del casco.
Paul obbedì e fece scivolare le braccia intorno alla vita
dell'uomo, stringendole poi con forza. L'istante successivo John mise in moto e
partì. La spinta iniziale fece barcollare leggermente Paul all'indietro; così
si affrettò subito ad aggrapparsi di più con le braccia a John.
Non aveva idea di dove John lo stesse portando e per il
momento, nonostante Paul fosse piuttosto ansioso sia per l’appuntamento che per
quella maledetta moto, decise di godere di quel viaggio. La moto sfrecciava
sicura e sinuosa per le strade di Londra, e Paul poté ammirarne la bellezza
abbracciato a John, sentendo il suo calore tra le sue braccia e il suo cuore
battere fortemente nel suo petto. Era all'unisono con quello di John.
Che incredibile emozione, poter vivere tutto questo
insieme a John. Non che Paul non fosse mai andato in moto né che avesse mai
visitato Londra. Ma insieme a John, sperimentare questo per la prima volta con
John, vedere le stesse cose con lo stesso sentimento folle che riscaldava il
petto, rendeva tutto perfetto.
Era come se stessero guardando l'uno con gli occhi
dell'altro.
Quando infine giunsero a destinazione, John parcheggiò la
moto, mentre Paul scese con entusiasmo e si tolse il casco, sistemandosi alla
bell'e meglio i capelli schiacciati. Il giovane si guardò brevemente intorno:
erano a Richmond Park, come diceva il cartello all'entrata, uno dei parchi più
belli, più grandi, più importanti di Londra.
Paul non era mai stato lì e all'improvviso si sentì
elettrizzato per avere la possibilità di visitarlo. Sempre che quella fosse
l'intenzione di John.
Sorridendo fra sé, Paul si voltò verso l'uomo e si
avvicinò a lui, ancora in sella alla sua moto, tutto intento a togliersi il
casco.
"Allora era questa la destinazione misteriosa?
Richmond park?"
"Sì." rispose John, sistemandosi i capelli con
una mano, "In autunno è stupendo, lo sai?"
"Ne sono sicuro.” affermò Paul, avvicinandosi, “E
cosa prevede il programma? Una passeggiata solo io e te?”
John arricciò le labbra, “Sarebbe carino.”
“Magari mano nella mano?" gli chiese con un filo di
voce, sfiorando le sue dita.
John chinò il capo per guardare la sua mano stringere
quella di Paul, prima di tornare ai suoi occhi, "Perché no?"
"Allora sembra proprio che ci aspetti un pomeriggio
indimenticabile." concluse Paul, compiaciuto.
"Lo sarà, fidati." disse John, facendo
scivolare un braccio intorno alla vita di Paul per attirarlo a sé e portando
l'altra mano sul ciuffo dell'uomo per aggiustarlo, "Sarà perfetto."
L’ispettore rise dolcemente e avvolse le braccia intorno
al collo di John, "Non ti facevo così romantico."
"Te l'ho detto.” continuò John, sporgendosi verso di
lui alla ricerca di un bacio, “Devi ancora scoprire molte cose su di me."
Le parole di John furono sospirate sulle labbra di Paul,
che fremette visibilmente, pronto ad abbandonarsi sulla bocca dell’altro uomo.
Ma il cellulare nella tasca di John cominciò a suonare prepotentemente
e il suo trillo giunse come il più inaspettato e indesiderato degli eventi.
John sbuffò rassegnato, quando lasciò andare Paul per
recuperare il cellulare.
“Mi dispiace." si affrettò a scusarsi, senza poter
nascondere la sua delusione, "Lo tengo sempre acceso ultimamente, sai, da
quando Jules è…”
John s'interruppe, abbassando lo sguardo, mentre il
ricordo di quella spiacevole giornata tornava a farsi dolorosamente vivo in
lui.
“Non ti preoccupare, John." lo rassicurò Paul,
accarezzando il suo avambraccio, "È più che comprensibile.”
“Grazie.”
John controllò il messaggio appena arrivato e sospirò.
"Qualche problema?" s’intromise con cautela
Paul, non gradendo l'ombra buia che calò sul volto di John.
"È Cynthia." rispose John, alzandosi dalla
moto.
"Oh." si lasciò scappare Paul, "C'è
qualche problema?"
"No, no, è solo che vuole che le lasci ancora
Julian." spiegò John, prendendo entrambi i caschi e sistemandoli sotto il
sellino della moto.
Aveva bisogno di qualcosa con cui distrarsi, mentre
parlava con Paul di quell'argomento che era sempre stato il suo punto debole.
"E tu? Non sei d'accordo?" gli domandò Paul,
interessato.
"Oh sì, ma certo. È che... Vedi, stavo facendo un
buon lavoro con le mie paure di genitore. Poi però..."
"Poi quell'incidente ha annullato il tuo
lavoro." concluse Paul per lui.
John lo guardò sorpreso per un istante, prima di annuire
mestamente e chinare lo sguardo distratto sulla sua moto.
"Oh, John." sospirò Paul, avvicinandosi a lui e
abbracciandolo da dietro, "Capisco quanto tu sia insicuro ora, ma è
normale. È la naturale conseguenza di uno spavento come quello che hai preso
con la caduta di tuo figlio. Ma devi sempre, sempre ricordare che tu sei
suo padre, e l'amore che continui a mostrargli non è facilmente dimenticabile.
Soprattutto per un bambino affettuoso come Julian."
John sorrise fra sé, quando Paul concluse la sua
rassicurazione con una dolce stretta delle sue braccia.
"Grazie, Paul." mormorò, ricoprendo le braccia
dell'uomo con le proprie.
"Va meglio?" chiese preoccupato Paul.
"Sì, tranquillo." rispose John, voltandosi
verso di lui con un sorriso che confermava l'effetto positivo delle sue parole,
"Ma ora non dobbiamo pensare a me. Occupiamoci del nostro
appuntamento."
Paul sorrise e annuì vigorosamente, prima di sciogliersi
dall'abbraccio di John.
"Allora..." iniziò Paul, tendendo una mano
verso di lui, "Vogliamo andare?"
John guardò la sua invitante mano per un attimo, prima di
sorridere e afferrarla con decisione, stringendola come per non farla scivolare
via dalla sua presa.
"Andiamo."
****
“Allora è per questo che sei andato via la scorsa
settimana?”
“Esatto.”
Paul annuì, sorridendo: aveva appena raccontato a John
della nascita della sua nipotina, mentre erano tranquillamente sdraiati nel
parco, in mezzo a una radura con pochi alberi di faggio.
I raggi del sole che tramontava riverberavano tra le
foglie delle fronde colorate con sfumature che andavano dal giallo brillante al
rosso acceso, e nella radura c’era una foschia che rendeva tutto il paesaggio
incantevole, quasi magico.
Era un connubio strano, quasi assurdo, tutti quei colori
caldi, morbidi, immersi in quel freddo pungente di inizio autunno.
Tuttavia Paul non poteva davvero dirsi infreddolito: non
dopo aver passeggiato mano nella mano con John per gran parte del pomeriggio,
né dopo bevuto una tazza di tè caldo e mangiato pasticcini a volontà in riva a
uno dei pittoreschi laghi del parco, e certamente non stando in quella
posizione, sdraiato accanto al corpo di John.
Come poteva sentire freddo, con John che si era sistemato
su un fianco e lo guardava ora con occhi carichi di quel sentimento già di per
sé pieno di calore?
Beh, non poteva, anzi, doveva ammettere che stava proprio
bene in quel momento.
“E come è stato?” continuò John.
“Cosa?”
“Tenere in braccio la tua nipotina.”
“Oh, quello.” rispose Paul, facendo vagare lo sguardo
sugli alberi che li sovrastavano, “È stato strano. Non avevo mai tenuto in
braccio un neonato. All’inizio avevo paura di farla cadere, sembrava
infinitamente piccola e fragile, ma quando mi sono rilassato, ho scoperto che è
la cosa più semplice e più bella del mondo.”
John annuì lentamente, concordando con lui, prima di
confessargli ciò che aveva occupato i suoi pensieri in quei giorni di assenza
di Paul, “Pensavo fossi andato via per colpa mia.”
Paul voltò la testa verso di lui e lo guardò sorpreso,
“Colpa tua?”
“Perché ti ho respinto quando ti sei offerto di stare con
me quella sera.” spiegò John, arrossendo lievemente.
“Oh no, John, non dovevi proprio pensare una cosa
simile.” ribatté Paul, accorato.
Tuttavia John protestò, sinceramente dispiaciuto, “Ma tu
ci sei rimasto male, l’ho capito.”
“Sì, è vero, ma capisco anche che quella sera non stavi
bene, e forse era giusto che restassi da solo con tuo figlio.” lo rassicurò
Paul, portando una mano sulla sua guancia, accarezzandola poi delicatamente.
“Quindi non sei arrabbiato per quel motivo?”
La domanda di John fu posta con timore e incertezza e
Paul non poté proprio trattenere un sorriso, “Mai stato arrabbiato.”
“Ah dio.” sospirò infine John, felice, “Non sai che
sollievo sentirtelo dire. Mi sentivo tremendamente in colpa.”
“Andiamo, John, non ci pensare più.” affermò Paul,
spostando la mano sulle labbra sottili di John, “Pensa invece a qualcos'altro.”
“Per esempio?” domandò malizioso John, contro i
polpastrelli morbidi di Paul.
Paul ridacchiò, divertito per la sensazione di formicolio
sulle dita causata dalle parole di John, e si alzò in piedi, incoraggiandolo a
fare la stessa cosa.
“Ho voglia di sgranchirmi le gambe.”
John sorrise, prima di afferrare entrambe le mani di Paul
e tornare al suo stello livello.
"Posso tenerti ancora per mano?"
"Secondo te perché ho voglia di camminare?!"
esclamò Paul, facendogli l'occhiolino.
John trovò assolutamente adorabile il modo in cui Paul
flirtasse con lui: era impertinente e insieme dolce. Un mix potente, non c'era
alcun dubbio, gli conferiva un carisma che affascinava John ogni giorno di più.
E realizzando questo, John provò nuovamente il desiderio di baciarlo, ma a
malincuore resistette: non era il momento perfetto per baciare ancora Paul.
Così John si lasciò prendere per mano e condurre verso
nuovi sentieri del parco. Attraversarono piccole radure in cui si potevano
facilmente scorgere cervi e daini pascolare in tutta tranquillità, ormai
abituati alla presenza dei passanti, poi la piantagione
di Isabella, così caratteristica e colorata, con piccoli e incantevoli ruscelli
che scorrevano attraverso, e infine, quando il sole scomparve, lasciando nel
cielo solo la sua scia rossastra, raggiunsero la collinetta.
Da qui si poteva ammirare un panorama suggestivo. Il
versante della collina di un bel verde acceso, alternato a boschetti con i
caratteristici colori autunnali, scendeva dolcemente per aprirsi su uno
squarcio caratteristico della città di Londra, in cui spiccava l'imponente
cupola della cattedrale di St. Paul.
Le luci della città cominciavano a spiccare nel cielo che
volgeva all'oscurità della notte, rendendo tutto semplicemente mozzafiato.
Era perfetto, pensò John.
Quello era il momento perfetto, con il viso di Paul che
si illuminò di sorpresa per essersi imbattuto un po' per caso in questo panorama.
Il giovane ispettore lasciò la mano di John per
avvicinarsi a un punto da cui potesse vedere meglio ciò che veniva offerto ai
suoi occhi affascinati.
"Guarda, John."
Paul raggiunse un lampione in stile Vittoriano, che
lentamente stava accendendosi, e si voltò verso John, facendogli cenno di
raggiungerlo.
Cosa che fu puntualmente realizzata.
John poteva vedere con facilità che Paul fosse quasi
ammaliato da quanto stesse vedendo: le luci di Londra si estendevano sotto di
loro, luci che si riflettevano e brillavano negli stessi occhi di Paul, e fu
proprio lì che John poté ammirare lo stesso paesaggio.
Gli occhi di Paul erano come un vero specchio, solo che
la cornice del suo volto rendeva tutto mille volte più incantevole.
John ne era semplicemente rapito.
"Non è bellissimo?" chiese Paul, sorridendo fra
sé.
"Oh sì."
Paul sussultò visibilmente al sospiro appassionato di
John e si voltò, non del tutto pronto a ricevere il suo sguardo ardente.
Mai era stato guardato in quel modo, e diamine, se non era la cosa più
meravigliosa che gli fosse mai capitata. Avrebbe voluto essere guardato così da
John per sempre.
E nel momento in cui realizzò che in effetti John l'aveva
sempre guardato così affascinato, Paul non poté più trattenersi e allungò le
mani per afferrare il colletto della camicia di John e attirarlo a sé, prima
che qualunque altra cosa potesse interromperli ancora.
Lo baciò con dolcezza e fervore, abbandonandosi con la
schiena al lampione dietro di sé, e cercò di comunicargli con quel gesto tutte
le emozioni che John aveva acceso in lui durante quella giornata.
John sembrò capire perfettamente, mentre lo sospingeva di
più contro il lampione. Sorrise nel bacio, pensando che fosse ancora meglio di
quanto si aspettasse. Non era solo più appassionato, era soprattutto più
consapevole di quanto stesse accadendo, di quanto fosse potente il sentimento
che aveva dato vita a quel gesto. In balia di un tale ardente pensiero, John
non poté trattenere le sue mani che si mossero desiderose, scivolando sul petto
di Paul fino a cingere i suoi fianchi, tremando nel momento in cui Paul strinse
le braccia intorno al suo collo e si lasciò scappare un piccolo sospiro tra le
sue labbra.
Il cuore di John sussultò con gioia, anche se pochi
istanti dopo, lui si allontanò dall'uomo quel tanto che bastava per riprendere
fiato.
"Cominciavo a pensare che non sarei riuscito a
baciarti neanche oggi." sospirò John, causando una piccola risata da parte
di Paul.
"Penso che a un certo punto uno dei due l'avrebbe
fatto. In qualunque modo."
"Lo credo anche io." mormorò John, prima di
nascondere il viso nell’incavo del collo di Paul, che profumava del suo
dopobarba e di quella giornata trascorsa insieme.
Il giovane sorrise quando John accarezzò la sua pelle con
le proprie labbra, e il suo sguardo, i suoi occhi si chiusero con abbandono per
assaporare fino in fondo le incredibili sensazioni trasmesse da John, quel
delicato formicolio, quel piacevole incendio causato dalle sue carezze e dai
suoi baci.
“Credo che stiano per chiudere il parco.” sbuffò a
malincuore Paul pochi istanti dopo.
"Perché?"
"Perché fuori c'era scritto che chiudeva al
tramonto." spiegò Paul, provando ad allontanare John, "E noi siamo al
tramonto."
Tuttavia John si limitò a ridere dolcemente contro di
lui.
“Oh no, piccolo, noi non siamo al tramonto." disse
prima di tornare alla sua precedente attività, "Siamo solo all'inizio.”
****
“Quando posso rivederti?”
La domanda di Paul arrivò alla fine della giornata, una
volta tornati a casa quella sera tardi. Erano entrambi vicino alla porta
dell’appartamento di John, e lui aveva fatto segno all’ispettore di parlare a
bassa voce per non attirare l’attenzione di George e Pattie che facevano da
babysitter a Julian.
“Quando vuoi, Paul. Il più presto possibile, diciamo.”
commentò John.
“Sono d’accordo.” esclamò Paul, ridendo, mentre John lo
attirava a sé con una mano sulla schiena e gli rubava un ultimo, rapido, ma
palpitante bacio.
“E’ stato incredibile oggi, John." affermò Paul, il
tono trasognato, "Grazie mille.”
“Grazie a te.”
“Mi sono divertito.”
“Anche io, molto.”
Paul arrossì appena, quando le braccia di John lo
strinsero un po’ di più.
“Ma io ho potuto imparare anche nuove cose su di te.”
John si lasciò scappare una risata, mentre Paul
accarezzava le sue braccia ancora avvolte alla propria vita, “Cose belle
spero.”
“Bellissime.” gli sussurrò all’orecchio Paul.
Così facendo, John fu attraversato da un violento brivido
che fece fremere ogni fibra del suo essere, lasciandolo stordito per un
istante. Poi Paul appoggiò una mano sulla sua guancia, accarezzandolo
brevemente, rivolgendogli un dolce sguardo.
“Allora ci vediamo presto.”
“Sì, buonanotte, Paul.” sbiascicò John, lasciandolo
andare a malincuore.
“Buonanotte.” rispose lui, avviandosi verso casa,
soffermandosi solo un altro istante per voltarsi a guardarlo, così spensierato,
così incredibilmente felice.
John aspettò che l’uomo entrasse a casa e sospirò.
Si sentiva proprio come Paul, come se fossero appena
saliti insieme sulle montagne russe, con picchi di euforia che si alternavano a
momenti più delicati. Un continuo andirivieni che lo stava facendo impazzire,
ed erano solo all’inizio.
In una giornata sola, John si era già aperto con Paul,
mostrandogli quel lato più dolce di se stesso, quello romantico, come
l’aveva definito Paul.
Eppure non gli dispiaceva.
Non gli dispiaceva affatto.
C’era un problema, però.
Quel senso di colpa che fino a quel momento John era
riuscito a tenere a bada, troppo preso dal voler ottenere la felicità che
potesse offrirgli Paul, ora stava tornando a scalciare violentemente,
ricordando a John la sua presenza.
Perché John aveva detto bene a Paul: c’erano ancora molte
cose che Paul doveva scoprire di lui.
C'era soprattutto un lato di John di cui Paul non
conosceva l'esistenza.
Ed era una menzogna, una menzogna che l’avrebbe fatto
soffrire disperatamente.
John era Hermes.
E per la prima volta nella sua vita desiderò non esserlo
mai stato.
Note
dell’autrice: buongiorno. Eccoci con il nuovo capitolo.
Innanzitutto volevo scusarmi per non aver pubblicato ieri
la fine della mini long rossa, arriverà, penso, giovedì.
Poi, questo capitolo è ancora più melenso dell’altro, lol. Non mi piacciono molto i capitoli troppo melensi, ma
mi sono lasciata andare stavolta, solo perché se lo meritavano questi due. :3 E
dal prossimo torneremo a un livello normale (?) di fluffosità.
Grazie a kiki che ha corretto.
Grazie ad Astoria McCartney, JapanAsh_BeautifulGazette,
Beatlesmusicismylife, lety_beatle
e paperback writer per aver recensito lo scorso
capitolo.
Il prossimo, “Youcan’t do that”, non è ancora
terminato, sigh, ma spero di pubblicarlo come al solito martedì prossimo.
Paul sbuffò, nonostante il divertimento cercasse di farlo
sorridere a tutti i costi.
Erano nel negozio di John a suonare insieme da almeno
un'ora, ma non avevano combinato granché, dal momento che John continuava a
guardarlo e poi baciarlo e ancora guardarlo, gettando tutti e due in un circolo
vizioso che non aveva mai fine.
Non che a Paul dispiacesse, diamine, John era impetuoso
in un modo assolutamente adorabile, e Paul non poteva fare altro che
sottomettersi alle sue azioni.
Tuttavia queste continue distrazioni si ripercuotevano
sul loro lavoro. Avevano deciso finalmente che fosse giunto il momento di
suonare insieme una canzone di Elvis, e per l'occasione a Paul era sembrata
appropriata The wonder of you.
La scelta era stata azzardata: aveva richiesto un notevole carico di
coraggio da parte di Paul per proporla a John, ma questo non gli risparmiò
un'occhiata impertinente da parte dell'altro uomo.
Solo che a Paul non importava, perché John era dolce
anche quando cercava di mostrarsi malizioso e sfacciato. Come in quel momento,
per esempio.
"No, no, ti prego, Paul. Voglio sentirtelo
dire." esclamò John, trovando impossibile smettere di ridere.
John era certo che Paul non volesse davvero farlo
smettere; sapeva invece che desiderasse ancora quello sguardo su se stesso.
“Oh maledizione, John." borbottò Paul, mettendo un
finto broncio, "Sei così testardo certe volte.”
“Andiamo, Paul.” esclamò John, alzandosi in piedi e
avvicinandosi all'uomo, “Dimmi come e perché dovrei smettere di guardarti.”
Paul arrossì leggermente, quando John gli prese la
chitarra dalle mani e la appoggiò delicatamente per terra.
“Perché mi distrai.” rispose con un piccolo tuffo al
cuore.
John annuì, comprensivo, “E questo è un problema,
giusto?”
“A dire il vero sì, se vogliamo imparare a suonare
questo brano.” commentò Paul con una risata.
“Hai ragione, piccolo.” concordò John, chinandosi per
accarezzare la sua guancia, “Ma, sai, non resisto se canti per me, 'Quando
sorridi il mondo è più luminoso'.”
Paul lo riprese dolcemente, “John!”
“Oppure, 'Tocca la mia mano e sono un re'.”
proseguì John, stringendo la mano di Paul con la sua libera.
Paul sollevò il capo per strofinare il naso contro quello
di John, trattenendo il respiro, “E poi?”
“E poi, se continui con, 'Il tuo bacio per me vale una
fortuna'...” sospirò sulle sue labbra, “Non riesco proprio a trattenermi.”
Paul si sentì rapito dalle sue parole, soprattutto quando
la mano di John si spostò sul suo mento per sollevarlo verso di lui.
“Dal fare cosa?”
Tuttavia la domanda di Paul non ricevette alcuna
risposta. John si limitò invece a sorridergli, a un soffio dal suo naso, e
quella fu l’ultima cosa che Paul vide, perché l’istante successivo chiuse gli
occhi e quello ancora dopo ci fu solo John.
John e il suo bacio.
Paul fece scivolare una mano sul suo petto, strinse fra
le dita la sua maglietta e lo attirò ancor di più a sé, desiderando solo lui in
quel momento.
Incredibile davvero come John potesse con un gesto
semplice allontanare ogni pensiero di Paul, appropriarsi di ogni spazio libero
nella sua mente, nel suo cuore. Un po' prepotente, no? Ma Paul si sottometteva
volentieri sempre. Era in assoluto la prima volta che provasse un tale
desiderio, un desiderio che diventava di giorno in giorno più ardente.
Infine, a malincuore, John si allontanò, e passò la
lingua sulle proprie labbra per imprimere il sapore di Paul nella sua memoria.
Nonostante fossero passate ormai diverse settimane da quando avevano entrambi
accettato i reciproci sentimenti, per John era ancora una situazione nuova.
Paul, i suoi baci, il suo sapore erano ancora nuovi per lui. E tutto ciò
che era nuovo lo intrigava, perché gli faceva venir voglia di esplorare fino in
fondo Paul, la sua persona, la loro relazione, fino a conoscere ogni singolo
angolo.
“Allora…” mormorò John, soddisfatto dell’espressione
beata sul volto di Paul, “Ho risposto alle tue domande?”
Paul mormorò, distrattamente, “Sì, ma non giustificano il
fatto che non siamo riusciti a suonare bene il brano.”
“Ah no?”
“No, infatti, dovremmo riprovarci qualche altra volta.”
affermò Paul, alzandosi in piedi e iniziando a sistemare la chitarra nella sua
custodia.
“Anche se corriamo il rischio di distrarci nuovamente?”
Paul sorrise fra sé, prima di voltarsi per rivolgergli un
occhiolino impertinente, “Soprattutto per quello.”
John scoppiò a ridere, “Sei proprio un ingordo, Paul.”
“Mm, sì…” sussurrò lui, mentre John lo attirava a sé, “Lo
divento un po’ quando c’è qualcosa che mi piace davvero.”
“Avresti dovuto dirmelo prima allora, mi sarei preparato
psicologicamente.”
“Ansia da prestazione?”
“Un po’.”
Paul scrollò le spalle, fintamente noncurante, “Ma, sai,
John, io so anche accontentarmi.”
“Vedrai che non dovrai accontentarti.” ribatté John,
piccato nell’orgoglio, “Dò il meglio di me stesso quando sono sotto pressione.”
Paul rise dolcemente, lasciandosi andare a un altro
piccolo bacio tra le braccia di John, ma quando l’occhio cadde sull’orologio
alla parete e vide che ora stessero segnando le lancette, si destò
improvvisamente, interrompendo l’idilliaco momento con John.
“Oh, mannaggia, sono in ritardo.” sbottò, allontanandosi
in fretta da lui.
“Per cosa?” domandò John, totalmente sconcertato da
quanto stesse accadendo, mentre Paul iniziava a recuperare le proprie cose.
“Devo vedermi con… una persona.”
John aggrottò la fronte, perplesso, “Chi?”
Paul non era convinto che fosse la cosa giusta dire a
John con chi avesse un appuntamento. In realtà, era la cosa giusta da
fare, Paul lo sapeva bene: per lui era fondamentale costruire un rapporto sulla
sincerità, soprattutto quello con John.
Tuttavia l’idea di dover spiegare a John chi fosse la
donna che stava per vedere, non lo allettava. Quell’uscita era stata un errore.
Certo, gli aveva fatto capire quanto stesse sentendo la mancanza di John, ma
non era stato un comportamento corretto verso di lei. Motivo per cui Paul aveva
organizzato quell’incontro.
"Linda." rispose vagamente, sistemando la
chitarra nella sua custodia.
"Di nuovo, chi?"
"Linda.” sospirò Paul, decidendo infine di voltarsi.
Meglio affrontare un simile discorso guardandosi negli
occhi.
“È uno dei miei agenti scelti. Siamo usciti insieme, sai,
prima che noi due-"
"Siete usciti insieme?" lo interruppe John, gli
occhi spalancati.
Paul annuì, titubante per il fatto che John stesse
ripetendo le sue parole. Anche la sua espressione era tutt'altro che
tranquilla.
"Sì. Era il periodo in cui siamo stati lontani, ma
non è successo niente." si affrettò a spiegare.
John guardò Paul negli occhi per un lungo momento,
decidendo infine che stesse dicendo la verità. Certo, perché avrebbe dovuto
mentire? Paul era sempre stato sincero con lui, a differenza di John. Forse
aveva mentito solo quando gli aveva detto di non volere nulla di più profondo
di una semplice amicizia.
Così annuì, ma nonostante fosse convinto della sua
sincerità, il gesto apparve come incerto. Che fosse a causa di quel sentimento
che gli strinse il cuore con dolore quando immaginò Paul con quella donna?
"Per caso sei geloso, John?" domandò Paul e la
sua domanda combaciò perfettamente con quella che risuonò nella sua testa.
"Cosa?" esclamò, sorpreso, John.
"Ti ho chiesto se sei geloso." ripeté lui,
mentre si stava sforzando per non ridere.
"E tu sei fuoristrada." sbuffò John, voltandosi
per sistemare la sua chitarra.
Tuttavia, subito dopo sentì il petto caldo di Paul
adagiarsi contro la sua schiena, le braccia avvolgersi intorno alla sua vita e
il naso sfiorare il suo orecchio.
"Non devi essere geloso, John.” lo rassicurò
dolcemente, “Non contaper me."
John rabbrividì tra le sue braccia, i suoi dubbi ormai
scoperti con facilità da Paul.
"Sei sicuro?" domandò, voltandosi nel suo
abbraccio, senza scioglierlo.
"Sicurissimo. Sono uscito con lei solo per ripicca.”
spiegò Paul, “Non riuscivo ad accettare quanto fossi diventato importante per
me."
"Ora sì?"
"Sì.” sospirò, chiudendo gli occhi e sorridendo,
“Per questo voglio parlarle e dirle tutta la verità. Non mi sono comportato
bene con lei."
John si morse il labbro per un istante, prima di annuire,
rassegnato, "Capisco."
"Invece tu dovresti dirlo a George." affermò
poi Paul, puntando il dito sul suo petto, lì dove le sue stesse parole avevano
creato un improvviso vuoto d'aria.
"Cosa?"
"È il tuo migliore amico, John.” gli fece notare il
giovane, “Devi dirgli di noi due. Non mi va di continuare a fingere di fronte a
lui e parlare a bassa voce qui, nella tua stanza, per non farci scoprire."
"Ma-"
"Ma niente.” esclamò Paul, interrompendo qualunque
protesta di John, “Sono sicuro che capirà perché è tuo amico."
John avrebbe voluto ribattere che mai e poi mai George
avrebbe capito, ma questo comportava una spiegazione che Paul non avrebbe mai
accettato. George lo avrebbe rimproverato, e avrebbe anche potuto abbandonarlo
per sempre. Tuttavia Paul aveva ragione, John doveva dirglielo, a tutti i costi.
"Ci proverò." sospirò infine.
"Perfetto." esclamò Paul, entusiasta prima di
stringersi a lui per un bacio, indugiando sulle sue labbra tanto quanto
desiderasse, "Allora ci vediamo stasera."
"Sì, ci sarà anche Julian."
"E la festa di Halloween a casa di Yoko?"
"La bambina ha la febbre per cui lei ha deciso di
annullarla."
"Mi sembra giusto." concordò Paul, portando
entrambe le mani sul petto di John, diventando un istante pensieroso,
"Credi che dovremmo dirglielo? A Julian?"
John lo guardò per un istante, incerto. Sarebbe stato un
passo importante, nonché dei più delicati di questa storia, ma era un passo da
compiere in un modo o nell'altro.
"Beh, prima o poi sarà inevitabile.” rispose John,
“Ma per ora voglio aspettare. Ti dispiace?"
Paul scosse il capo, energicamente, "No, certo che
no. Sono d'accordo."
"Grazie."
"Allora scegliete un bel film da vedere insieme, mi
raccomando. Possibilmente di paura, così non vi addormentate tutti e due."
concluse, rivolgendogli un occhiolino.
John ridacchiò, ripensando a quando lui e suo figlio si
erano addormentati a casa di Paul, mentre guardavano Alla ricerca di Nemo.
"Va bene."
Dopodiché Paul raccolse la sua giacca e John lo
accompagnò all'uscita del negozio, dove l’ispettore salutò anche George prima
di andare via.
John sospirò profondamente, lo sguardo fisso su quella
porta oltre cui era sparito Paul. E quando si ridestò dai suoi pensieri, si
accorse di George e del suo sguardo scettico e indagatore nei suoi confronti.
"Che cosa c'è?" chiese leggermente infastidito,
non gradendo come lo stesse guardando l'amico.
George si limitò a scrollare le spalle, con fare
indifferente, "Niente."
John lo seguì con gli occhi, mentre l’amico tornava alla
sua occupazione precedente.
Non poteva dirgli di lui e Paul: George non avrebbe mai
capito, George avrebbe protestato, si sarebbe opposto, avrebbe-
No.
Non poteva dirglielo.
Ma, in un modo o nell'altro, doveva farlo.
****
“Mi dispiace.”
Linda gli sorrise, appoggiando una mano sopra quella di
Paul, abbandonata sul tavolino.
Si erano dati appuntamento in un piccolo café non molto distante dall’abitazione di Paul, il quale
aveva ritardato di dieci buoni minuti, dal momento che quell’idiota di John gli
aveva fatto perdere altro tempo, mandandogli sciocchi, adorabili messaggi sul
cellulare dove alla fine gli raccomandava di fargli sapere come avrebbe reagito
la donna.
Quando infine si era ritrovato con la giovane, Paul aveva
raccolto il suo coraggio, insieme a ciò che provava per John, e le aveva
spiegato tutto.
Linda sembrò non prenderla male.
“Non ti preoccupare, Paul.” lo rassicurò
gentilmente.
"Ma ti ho praticamente mentito." protestò lui.
"Oh, andiamo, ho subito di peggio." esclamò la
donna, con una risatina che non nascondeva una punta amara, "Anzi, tu
almeno hai avuto la decenza di essere sincero. Fino in fondo."
"Era il minimo." sospirò Paul.
Linda annuì, lasciando andare la mano di Paul,
"Confesso che comunque non me l'aspettavo."
"Nemmeno io." concordò Paul, sorridendo fra sé
o forse al pensiero sempre costante di John.
"Lui ti ama?" gli chiese lei, interessata.
Paul si morse il labbro: quella era davvero una bella
domanda, a cui però Paul non sapeva rispondere.
"Non lo so."
"E tu? Lo ami?"
Di nuovo, una domanda stupenda, anche se Paul
non poteva ancora rispondere con certezza.
"Non lo so ancora." sospirò Paul,
"Ma so che per il momento voglio John nella mia vita."
"Quindi sei felice?” domandò Linda, accennando un
sorriso.
Paul la guardò negli occhi, percependo un sussulto al
cuore che lo fece tremare, ma che nello stesso momento era infinitamente
piacevole. E la risposta suggerita da quello stesso sussulto era ben chiara.
"Sì."
Linda sorrise più sinceramente ora, "Allora va tutto
bene, no?"
"Sì.” ripeté Paul, “Va tutto bene."
La risposta sembrò soddisfare la donna, perciò l'istante
dopo si alzò in piedi.
"Visto che è tutto sistemato ora, sarà meglio che
vada." esclamò, "Grazie per esserti preoccupato per me, Paul.”
"Grazie a te per aver capito." le disse lui,
causando una risata dolce da parte della giovane donna.
"L'amore non si capisce, Paul, si deve solo
vivere." affermò Linda, e gli diede un piccolo
buffetto sulla guancia, "Perciò non preoccuparti di nulla."
"Lo farò." le confermò l'uomo.
"Ci vediamo domani al lavoro."
“A domani.” la salutò Paul e la osservò
andare via.
Era stato più facile del previsto parlare con
lei e spiegarle tutto. Forse perché Paul aveva solo paura che non potesse
capirlo, che potesse anche giudicarlo, ma se doveva essere sincero, non
conosceva così bene quella donna: avrebbe potuto reagire sia in un modo, sia
nell’esatto contrario, e per sua fortuna era andata così, ed era anche convinto
ora di poter contare sulla sua discrezione a lavoro.
Poi, ricordando la raccomandazione di John,
si affrettò a recuperare il suo cellulare e cominciò a scrivergli un messaggio.
'Missione compiuta con successo.
Ora tocca a te.'
Quando questo arrivò a destinazione, il
telefono di John squillò e lui lesse subito il testo.
Paul ce l’aveva fatta.
John sorrise fra sé. Ovviamente Paul ce l’aveva fatta:
gli era sembrato molto determinato quando gli aveva spiegato cosa stesse per
fare, e quando Paul si metteva in testa qualcosa, difficilmente falliva.
Ora tocca a te,
diceva il messaggio.
John guardò e guardò quelle parole per secondi infiniti,
ripetendole nella sua testa più volte, immaginandole pronunciate dalla voce
dolce di Paul.
Beh, se Paul credeva in lui, allora John poteva
farcela.Così abbandonò la sua chitarra,
si alzò dalla sedia e raggiunse George nel negozio.
L’amico era tutto preso a leggere qualcosa al computer,
qualcosa di interessante a giudicare dalla sua espressione concentrata ed
entusiasta. Ma John doveva assolutamente parlargli. Così avanzò con un paio di
passi incerti e si schiarì la voce.
"George?"
Il giovane alzò gli occhi dallo schermo e sorrise,
"Oh, John, capiti proprio al momento giusto. Guarda qui."
George gli fece un cenno di avvicinarsi e John,
sospirando, obbedì. Quando fu accanto a lui dietro il bancone, il ragazzo gli
indicò ciò che mostrava lo schermo. John socchiuse gli occhi e cercò di leggere
l'articolo.
Il cuore fece un piccolo sussulto eccitato e spaventato
quando capì di cosa si trattasse.
"Una mostra di Elvis?" esclamò,
cercando di mascherare entrambe le emozioni che si erano accese in lui.
"Sì, tra un mese."
"Vuoi… vuoi andare a vederla?"
domandò John stupidamente, sapendo che George non voleva andare a vederla.
Non solo, almeno.
"John, non voglio andare a vederla.”
rispose lui, scuotendo la testa con un sorriso, “Voglio andare a prendere un
souvenir."
Ecco, proprio come sospettava John.
"Ma George..." cercò di ribattere
lui.
George, però, lo interruppe subito, alzando
una mano per farlo tacere, "No, John, ascoltami bene ora. Nella mostra ci
sarà l'ultimo LP che manca alla nostra collezione. È una rara copia firmata da
Elvis in persona. Dobbiamo assolutamente rubarlo."
John si morse il labbro, abbassando lo
sguardo incerto, mentre George continuava a fissarlo intensamente.
"Andiamo, John." lo incoraggiò.
"Non posso." fu la risposta accorata
dell’amico.
George aggrottò la fronte,
"Perché?"
"Paul...” sospirò John, “Lui perderà il
lavoro se... se io..."
"Cazzo, John.” sbottò George,
decisamente infastidito, “Aspettiamo questo giorno dall'inizio di questa storia
di Hermes. Non possiamo fermarci per Paul. Coraggio, non farà una fine molto
diversa da Sutcliffe. Verrà solo trasferito fuori
città."
"Non posso permetterlo."
"Perché?"
"Ho bisogno di lui."
George alzò gli occhi al cielo, quasi
frustrato nel notare come non riuscisse a convincere l’amico, "John, si
può sapere che diavolo ti prende? Non ti riconosco più.”
John abbassò lo sguardo, arrossendo
lievemente. Era preda di una tempesta interna che non riusciva a fargli trovare
le parole né la lucidità necessaria per affrontare questo argomento. Ma doveva
riuscirci. Per Paul e per se stesso.
"Sto frequentando Paul."
"Sì, questo l’ho capito" sospirò
rassegnato George.
Ma la sua calma rese chiaro a John che non
avesse compreso fino in fondo il significato delle sue parole.
"No, George, Paul e io ci stiamo frequentando."
ripeté, scandendo bene le parole e guardandolo direttamente negli occhi con la
speranza che questa volta comprendesse.
E George capì, o perlomeno cominciò a capire.
Spalancò gli occhi, restando in silenzio per un istante, forse per assimilare
ogni singola lettera e sfumatura di quell’affermazione, prima di decidersi a
parlare.
"Cosa significa che vi state
frequentando?"
“Significa quello che pensi.” spiegò John con
un sospiro profondo.
Il tono della voce di George non sembrava
promettere bene.
“No.” iniziò a dire lui, scuotendo
vigorosamente il capo, “No, non è possibile, non con lo sbirro.”
“George...”
“Da quanto va avanti?” domandò bruscamente.
“Da qualche settimana.”
“E me lo dici solo ora?” continuò lui
con una profonda rabbia che stava incupendo la sua espressione, “Non pensavi
che fosse qualcosa di importante da farmi sapere?”
John sussultò, notando l’evidente fastidio
sul volto di George. Non capiva se fosse più sconvolto per la notizia o per il
fatto che John non l’avesse informato prima.
“Io…” iniziò a spiegare John, la voce tremava
in modo incontrollabile, “Io avevo paura che ti saresti opposto, che-”
“E avevi ragione. Tu sei pazzo, John.”
esclamò George, puntandosi un dito sulla tempia.
John aggrottò la fronte, non gradendo a
questo punto il tono e le parole del suo migliore amico.
“Non sono pazzo.” ribatté, serrando la
mascella, “Stiamo bene insieme. Tengo a lui come lui tiene a me.”
“Lui cosa?”
“Smettila, George.” sbottò John, incrociando
le braccia.
“No che non la smetto. Siete entrambi pazzi. Ma
tu di più e sai anche perché.”
John lo guardò. Non si sentiva davvero
arrabbiato con lui. Tuttavia non poté impedire al suo viso di arrossarsi per il
fastidio. O almeno, questo era ciò che voleva fargli credere la sua mente. Il
suo cuore, il più sincero, gli stava suggerendo che fosse arrabbiato per il
fatto che George avesse ragione, che quella fosse una situazione assurda, da
pazzi e che sicuramente non potesse finire bene.
George ricambiò lo sguardo, altrettanto
infastidito, ma si calmò ben presto, quando si accorse che c’era qualcosa di
diverso in John. Era meno chiuso in se stesso e cercava in ogni modo di
superare le sue paure e insicurezze su se stesso e sulle persone intorno a lui.
E dopo aver appreso la folle rivelazione su John e Paul, per George non fu così
strano accorgersi che il cambiamento di John fosse cominciato almeno dal
momento in cui Paul era entrato nella sua vita.
Un buon cambiamento.
"Tu..." iniziò a dire George poco dopo,
"Tu lo ami?"
A quella domanda John sussultò e il suo cuore con lui,
"Io credo di sì."
"Credo di sì non vuol dire sì."
John sospirò frustrato, di fronte a questo muro che
George sembrava voler frapporre tra loro.
"Non ne sono sicuro, George, ok?” sbottò, “So solo
che ho bisogno di lui ora e non posso fargli del male."
"Non devi fargli del male.” ribatté George, più
tranquillamente, “Dobbiamo solo rubare quello che ci serve."
Tuttavia John non era d’accordo e non avrebbe mai più
potuto essere d’accordo con George su questo aspetto della loro vita. Così
scosse il capo fra sé, più per convincere quella parte della sua persona che
voleva solo seguire con entusiasmo la proposta dell’amico, quella parte di nome
Hermes.
"Non importa. È come se gliene facessi."
George si incupì, constatando il fatto che davvero non
riuscisse a far ragionare John. Era come trovarsi in un vicolo cieco, e non vi
era alcuna via d’uscita.
O forse sì, anche se era rischiosa.
"Bene, allora.” sospirò George, incrociando le
braccia sul petto, “Se non lo farai tu, ci penserò io."
John spalancò gli occhi a quell'affermazione, e il
respiro gli si mozzò in gola.
"Cosa?"
"Ho imparato qualcosa in questi mesi."
"Non puoi farcela da solo." si affrettò a
protestare John.
"Beh, suppongo che dovrai aiutarmi tu.” esclamò
George, “Per evitare che mi cacci in qualche guaio.”
John sentì un tonfo nel suo petto. Il suo cuore stava
precipitando in un oscuro baratro e quando giunse alla fine, si schiantò per
terra, spaccandosi in due perfette metà; e John sapeva che, a questo punto,
avrebbe potuto recuperarne solo una.
"George, ti prego.” mormorò, la voce flebile, il
tono supplicante, “Non farmi scegliere."
"Mi dispiace, John." esclamò George,
recuperando la sua giacca, "Non mi hai dato altra scelta."
"Ma io..." cercò di ribattere John, ma scoprì
di non avere alcuna forza per protestare.
"Se cambi idea, sai dove trovarmi."
"Perché mi stai facendo questo?"
"Non lo immagini? Avevo intuito da tempo che
provassi qualcosa per lui, ma mi hai mentito quando ti ho dato l'occasione di
parlarne. Mi hai mentito molte volte da quando c'è Paul."
"Ti ho detto che avevo paura." affermò John.
La sua voce era ora più stanca che mai, e un'incredibile
voglia di piangere stava provando in tutti i modi a vincere le sue reticenze, ma
John non poteva piangere, non ora di fronte a George.
"E io ti avrei aiutato. Ma ora è tardi, John."
John non disse nulla, non sapeva più cosa dire, perciò si
limitò a guardarlo mentre si preparava per andarsene. Poi George si avvicinò
alla porta, indugiando un istante nell'afferrare la maniglia.
"A proposito, Jim lo sa? Di te e Paul?"
John scosse il capo.
"Come sospettavo."
"Glielo dirò quanto prima."
"Non è quello il punto, John.” esclamò George, “Il
punto è che sei finito in una situazione di merda, amico mio. Ti avevo messo in
guardia dall'inizio, ma non mi hai dato retta. E ora non solo ci hai trascinati
tutti con te, ma nessuno di noi può aiutarti. Sei completamente solo."
"Lo supererò.” ribatté John, recuperando quel
briciolo di convinzione che gli era rimasta, “Come sempre."
George scelse di non ribattere, forse perché per la prima
volta in assoluto nella sua vita non si fidava di John.
Così se ne andò senza fiatare, lasciando John proprio
come gli aveva detto.
Solo.
****
La risata di Julian riempì la stanza.
Era sempre in grado di far tornare il buonumore a John.
Quella e il sorriso di Paul, che nonostante non potesse esprimersi al meglio,
era accompagnato da una punta di immensa dolcezza ogni volta che era rivolto a
John.
Avevano passato decisamente una bella serata, mangiando i
dolcetti di Halloween portati da Paul e guardando Monsters
& co.
"Ma non è un film di paura." aveva protestato
Paul, indignato quando aveva appreso il film scelto.
John aveva ribattuto che ai due Lennon non piacevano i film
horror e quello era il massimo che potessero sopportare.
Era dunque passata con spensieratezza la sera di
Halloween.
Tuttavia John non aveva potuto fare a meno di continuare
a pensare a ciò che gli aveva detto George: il colpo che aveva in programma, quello
che stavano aspettando entrambi da sempre, e anche la questione di Jim.
Insomma il padre di Paul era stato felice che John avesse
sospeso i furti per il rapporto instauratosi tra lui e il figlio, ma John non
pensava sarebbe stato ugualmente felice se fosse venuto a sapere in che
direzione avesse deviato questa amicizia.
Certo, avrebbe anche potuto accettarlo senza storie. Era
una piccola probabilità, ma almeno c'era.
"Papà!" esclamò Julian, saltando all'improvviso
sulle sue gambe.
"Cosa, amore?"
"Stasera può raccontarmi la favola della buonanotte
Paul?" gli domandò con occhi imploranti, “Ti prego.”
“Se lui vuole…” disse John, alzando lo sguardo verso Paul
che parve illuminarsi di gioia a una richiesta simile.
“Oh sì.” affermò Paul, raggiungendo il bambino e
sollevandolo con le sue braccia, “Conosco giusto una storiella perfetta per la
buonanotte.”
“Ma davvero?” esclamò John, mentre Julian iniziava a
ridere.
“Certo!” rispose Paul, iniziando a salire le scale verso
il piano superiore, “Parla di un sottomarino giallo-”
“Come il mio pupazzo!” esclamò il bambino.
“Proprio così. E il comandante del sottomarino si chiama
Julian-”
“Come me!”
John ridacchiò, osservandoli mentre si allontanavano
lungo le scale e le loro voci si affievolivano.
Quei due avevano instaurato un bel rapporto: Paul ci
sapeva fare con i bambini, e Julian, da parte sua, sembrava essersi affezionato
molto a lui. John pensò che forse il bambino fosse pronto per sapere di lui e
Paul. Era convinto che suo figlio avrebbe capito.
Perché Julian era un bravo ragazzo, in gamba,
intelligente, tutto l’opposto di John, che non aveva visto in tempo il grosso
guaio in cui si stava cacciando.
E ora quel guaio si era ingigantito, diventando di
dimensioni troppo grandi affinché John potesse gestirlo da solo, e stava anche
coinvolgendo troppe persone. John non aveva idea di come sistemare le cose,
soprattutto dopo l’ultimatum di George.
Era in trappola e lui odiava sentirsi così: gli rendeva
impossibile respirare e quindi ragionare con lucidità. Eppure… forse una
soluzione c'era.
Forse se avesse indossato i panni di Hermes per l'ultima
volta per evitare che George finisse nei guai, avrebbe almeno in parte risolto
i suoi problemi.
Certo, Paul avrebbe perso il lavoro, ma avrebbe potuto
trovare qualche altro posto, avrebbe potuto reinventare se stesso, cambiare
ambito lavorativo. Avrebbe potuto insegnare musica come aveva fatto con John,
avrebbe-
Oh, ma che cazzo stava pensando? Paul non avrebbe mai
fatto l'insegnante di musica. Paul sarebbe andato dovunque l'avessero spedito.
La musica non era la sua vita.
John doveva scegliere. Era una triste realtà, nonché
l'unica soluzione possibile. E dal momento che il problema più grave era
rappresentato da George, colui che stava mettendo alla prova John e la sua
fedeltà, John avrebbe scelto il suo migliore amico.
Così si affrettò a recuperare il cellulare per scrivere
un semplice messaggio.
'Ci sto.'
John guardò quelle due parole semplici ma decisive, e
prendendo un profondo respiro, le inviò a George.
Poi prima che potesse pentirsi di quanto avesse appena
fatto, sentì i passi di Paul scendere le scale e un minuto dopo, due braccia si
strinsero teneramente intorno al suo collo, mentre le labbra più dolci e il
respiro più delicato sfiorarono il suo orecchio.
Il suo cuore sussultò con gioia e dolore.
"Ha funzionato la storiella?" chiese, cercando
di allontanare i suoi cupi pensieri.
"Certo.” rispose Paul, con la sua voce vellutata,
“Avevi dei dubbi?"
"Ovviamente no." ribatté John e si lasciò
scappare una risata, che risultò essere molto debole e poco convinta.
John sapeva ancor prima che Paul parlasse che lui
l'avesse notato.
"Tutto bene, John? Sei così strano stasera."
mormorò Paul, preoccupato, seppellendo il naso tra i capelli sottili dell’altro
uomo, "È successo qualcosa con George?"
E John avrebbe voluto voltarsi e guardarlo in faccia per
dirgli che stesse andando tutto male, e sarebbe andata peggio per colpa sua, solo
colpa di John.
"No, non ti preoccupare, Paul."
Tuttavia così, con la possibilità di non dover
incrociare il suo sguardo, John chiuse i suoi occhi.
Si abbandonò nell'abbraccio di Paul.
Accarezzò le sue braccia ancora strette al suo collo.
E infine sospirò.
"Va tutto bene."
Note
dell’autrice: buongiorno a tutti.
Allora, ce l’ho fatta a finirlo, questo benedetto
capitolo. Non è che mi piaccia molto, trovo piuttosto difficile scrivere scene
in cui John e Paul parlano con altre persone. -_- Mannaggia a me.
Intanto, John ha fatto la sua scelta e tornerà nei panni
di Hermes per l’ultima volta. :’(
Grazie a kiki che ha corretto.
Grazie anche a paperback writer
e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso
capitolo. J
Il prossimo, “Hold me tight”,
se lo finisco (è quasi finito) arriverà martedì prossimo.
Le pareti di quella camera non udivano suoni del genere
da diversi anni.
Si trattava di qualcosa molto lieve, quasi timoroso nel
manifestarsi, ma comunque vibrante nell’aria.
Erano le carezze di dita curiose su una camicia morbida.
Erano i fruscii di gambe desiderose di intrecciarsi.
Erano sospiri tremanti e nascosti nell’incavo di un collo
caldo e profumato.
Paul sorrise ad occhi chiusi quando le labbra di John si
spostarono dietro il suo orecchio. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato
da quando quelle coccole più audaci del solito fossero cominciate. Avevano solo
finito di vedere un film, messo a letto il bambino e poi…
Un bacio, una carezza, un altro bacio, fino ad arrivare a
quello.
“Sai, John…” mormorò Paul, portando una mano tra i
capelli di John.
“Cosa?”
“Stavo pensando…”
“Mm, mi piace quando pensi.” esclamò John, interrompendo
le sue attenzioni all’invitante collo di Paul, solo per rubargli un bacio a
fior di labbra.
Paul rise dolcemente, “Perché?”
“Beh, perché…” rispose John, spingendolo
all’indietro con una mano sul petto, per farlo ricadere sui cuscini del divano,
“…mentre tu pensi, io posso fare questo.”
Così dicendo, si sdraiò su di lui, puntò i gomiti ai lati
del viso di Paul e gli sorrise, facendo sfiorare i loro nasi, prima di
baciarlo. Paul strinse automaticamente le braccia intorno al petto di John,
inarcandosi solo un po’ verso di lui, come un chiaro segno di apprezzamento.
“Quindi?” disse poi John, spostando la propria bocca
sulla guancia dell’uomo.
“Cosa?”
“Quello che stavi pensando…”
“Oh… sì, io…” sospirò Paul, portando lievemente la testa
all’indietro per offrirsi a John che scese di nuovo sul suo collo, “Pensavo che
siamo fortunati a vivere in quest’epoca.”
“E perché mai?”
“Beh, ricordi quando abbiamo detto che saremmo dovuti
nascere negli anni Sessanta?”
“Sì.” fu la risposta di John, soffocata contro la pelle
di Paul.
“Se fosse stato davvero così, sarebbe stato più
difficile, no, vivere quello che c’è tra noi.”
John si sollevò appena per guardarlo negli occhi,
perplesso, “Mm, no, direi di no.”
“Perché? In fondo all’epoca era considerato un crimine.”
“Sai che me ne importa?" sbottò John, scrollando le
spalle, "Se si fosse trattato sempre di te, l’avrei fatto comunque.”
“Davvero?”
John annuì, regalandogli una carezza delle più delicate
sui capelli, "Certo. Se qualcuno cercasse di impedirmi di stare con te,
farei qualunque cosa per vincerli."
"John..."
"Io ti vorrei sempre e
comunque, Paul, in qualunque epoca e luogo del mondo."
Paul arrossì lievemente, non tanto per
l'imbarazzo, quanto piuttosto per il suo cuore che sussultò con gioia nel suo
petto, lasciando che quel sentimento nato proprio lì si diffondesse in tutto il
corpo.
Così tornò a baciarlo, facendo scivolare una
mano sulla sua schiena, stringendo la camicia tra le dita, mentre l'altra mano
si intrecciò con i capelli sulla nuca di John, attirandolo a sé per
approfondire il suo bacio appassionato.
John emise un profondo verso gutturale, come
le fusa del piccolo Elvis accoccolato di fronte al camino.
Ben presto fu lui a prendere il sopravvento,
baciando con ardore il giovane uomo sotto di lui. Lasciò che le sue mani
scivolassero sui fianchi di Paul, mentre le loro gambe si intrecciavano come
per non lasciarsi più andare. Era molto diverso da altre volte in cui si erano
trovati in quella situazione. Almeno, John si sentiva diverso. Forse perché
stava scoprendo che quello fosse l'unico modo per mettere a tacere le mille
voci nella sua testa che protestavano e insieme lo incoraggiavano per quanto
avesse deciso di fare con George.
Tornare nei panni di Hermes.
Ingannare di nuovo Paul.
John stava seriamente rischiando di
impazzire, ma Paul, i suoi baci appassionati, i suoi caldi abbracci, riuscivano
a farlo stare bene per un solo istante. Un istante che John non voleva finisse
mai, un istante che John voleva approfondire.
Voleva di più. Molto di più.
Voleva Paul.
Lasciandosi scappare un gemito accorato a
quel pensiero, fece scorrere una mano più in giù, fino alla coscia di Paul,
dove le sue dita la accarezzarono prima di stringersi per sollevarla intorno ai
propri fianchi.
Paul ansimò con piacere, ma anche con
sorpresa quando si ritrovarono a toccarsi in quel modo. Erano l'uno a contatto
con l'altro in ogni singolo punto dei loro corpi.
Improvvisamente la sua mente fu annebbiata
con qualcosa che gli suggeriva solo di lasciarsi andare e abbandonarsi tra le
braccia di John.
Tuttavia fu un semplice attimo di incantevole
follia, perché ben presto tornò a ragionare con lucidità, soprattutto quando le
dita di John percorsero la linea della sua cintura fino alla fibbia, con cui
cominciarono a giocherellare, rendendo evidenti le intenzioni di John.
Paul si sentì mancare il respiro alla
violenta realizzazione che una parte di lui non volesse fermare John, mentre
l'altra aveva paura di affrontare qualcosa del genere con lui. Non che ci fosse
nulla di male. In fondo John era così sensuale, tanto da far impazzire Paul,
che diverse volte si era ritrovato a desiderarlo, a voler sperimentare di più
con lui.
Ma tra desiderare e lasciarsi effettivamente
andare c'era un abisso. Paul non credeva di essere ancora pronto. O forse lo
era, a giudicare da quanto il suo corpo si stesse scaldando sotto il tocco di
John e inarcandosi verso di lui. Solo che doveva ancora accettarlo nella sua
mente. Per John avrebbe fatto di tutto, ne era certo, ma la sua parte
razionale, quella importante, che aveva guidato ogni sua azione nella sua vita,
doveva prima assimilare questo desiderio e accettarlo.
Per il momento, quindi, doveva fermare John.
Così appoggiò le mani sul suo petto e mentre
l'uomo esplorava avidamente un punto dietro l'orecchio di Paul, questi lo
sospinse gentilmente all'indietro.
"Credo..." iniziò a dire Paul,
sotto lo sguardo sconcertato di John, "...credo sia meglio che vada,
ora."
John, il viso arrossato, gli occhi
annebbiati, il respiro affannato, impiegò qualche secondo per recepire il vero
messaggio dietro quelle parole: Paul voleva fermarlo.
Non poté negare di essere deluso, diamine,
erano secoli che non stava con un'altra persona così. Perlomeno con
qualcuno che John desiderasse davvero. Tuttavia avrebbe dovuto aspettarselo:
nessuno dei due era stato con un altro uomo in quel modo, e per quanto grande
potesse essere il desiderio che provavano l'uno per l'altro, era logico che
volessero andarci piano. John, in fondo, lo stava facendo per frustrazione, per
non essere da solo e non avere il tempo per pensare. Perciò accettò la
decisione di Paul e si scostò da lui, mettendosi a sedere sul divano.
"Sì, hai ragione." sospirò.
"Domani devo alzarmi presto per andare a
lavoro." iniziò a spiegare Paul, mentre imitava John, "Sembra che
Hermes si sia fatto nuovamente vivo dopo tutti questi mesi."
John soppresse una smorfia di dolore quando
il suo cuore protestò animatamente alle parole di Paul.
"Capisco."
"Perciò devo essere impeccabile in
questi giorni. Devo fare bella figura con il capo." gli disse, facendogli
l'occhiolino.
John sorrise, ma la mortificazione in lui era
troppa e per nasconderla lui dovette abbracciare d'impulso Paul, solo per non
fargli vedere l'espressione del suo viso.
Paul rise debolmente, preso in contropiede,
"Ehi."
"Paul, sei stupendo, vedrai che andrà
tutto bene."
John lo strinse a sé con forza come se
volesse aggrapparsi a lui prima che potesse sfuggire dalle sue braccia. Ma alla
fine, inevitabilmente, dovette lasciarlo andare e cercò di recuperare un
aspetto normale.
"Grazie." gli disse Paul,
sorridendo con calore.
John annuì, costringendosi a ricambiare il
sorriso, mentre tutto in lui lanciava epiteti ingiuriosi contro se stesso: bugiardo,
opportunista, traditore erano solo fra i più gentili. Continuavano a
risuonare nella sua testa ed era per John una vera tortura. Non riusciva né
voleva farlo smettere, perché sapeva che si meritasse di soffrire così.
Tuttavia accolse con sollievo la scusa di
accompagnare Paul alla porta, anche perché aveva una piccola sorpresa in serbo
per lui.
“Di che si tratta?” gli chiese Paul, quando
John fece il suo annuncio.
John rise appena, prendendolo per mano e
conducendolo nell’ingresso. Qui si fermò presso il tavolino sopra cui vi era il
telefono e aprì il cassetto, prendendo subito dopo un oggetto dal suo interno.
Quando lo porse a Paul, questi lo afferrò e
batté le palpebre, sorpreso.
“Un cd?”
“Non è un normale cd.” gli spiegò John,
indicandogli la copertina.
Paul socchiuse gli occhi per guardarla
meglio: era tutta colorata di verde chiaro e in mezzo c’era una scritta piccola
piccola, in bianco. Così piccina era che Paul dovette
avvicinare il cd ai propri occhi per capire cosa ci fosse scritto.
Per Paul, da John.
Paul si lasciò scappare una risatina,
procurandosi un’occhiata perplessa da John.
“Cosa?”
“Niente, è che è scritto davvero piccolo.”
commentò Paul, divertito.
“Ehi, non sono proprio a mio agio con questi
programmi sul computer. È George l’esperto.” ribatté lui, appena piccato nel
suo orgoglio.
“Capisco. E di che cd si tratta?” chiese
interessato Paul.
“Sono..." iniziò a spiegare lui,
abbassando lo sguardo un po' a disagio, "Sono solo alcune canzoni che ho
suonato e cantato da me. Hai detto che adori sentirmi cantare.”
Paul lo guardò dolcemente, arrossendo in
viso, “E’ così.”
“Quindi ti piace?" domandò ansioso John,
"La sorpresa, intendo…”
“Oh, beh.” esclamò l'altro uomo, arricciando
il naso e avvolgendo le braccia intorno alla sua vita, “Prima devo controllare
come è venuta l’incisione. Poi ti farò sapere.”
"Basta che fai più in fretta di quando
ti regalai il cd dei RollingStones."
"Stavolta andrà meglio, te lo
prometto." affermò Paul, "Intanto grazie, Johnny."
Poi si chinò su di lui per un bacio pigro,
mentre John lo stringeva a sé proprio allo stesso modo. Quando infine Paul si
allontanò, fece incontrare le loro fronti, guardandolo negli occhi.
"Non sei arrabbiato, vero?"
John batté le palpebre, sconcertato,
"Per cosa?"
"Per prima. Non vorrei che pensassi
che-"
"È tutto a posto, Paul." si
affrettò a rincuorarlo, "Ti capisco perfettamente."
"Davvero?" esclamò Paul, sorridendo
quasi incredulo, "Perché devi sapere che lo voglio, io voglio te,
ma non credo che sia il momento giusto."
Il cuore di John sussultò teneramente,
accorgendosi che Paul fosse arrossito un po', come se l'argomento lo mettesse a
disagio, ma nonostante quello, lui volesse comunque affrontarlo con John. Era
una notevole dimostrazione di forza da parte sua.
"Paul, non preoccuparti." mormorò,
accarezzandogli una guancia per rassicurarlo, "È normale avere un po' di
paura. Anche io ce l'ho."
"Sul serio?" domandò Paul,
sorpreso.
"È logico." affermò John, annuendo,
"Ma se siamo insieme, sono sicuro che ce la faremo."
Paul sorrise, chiudendo gli occhi quando John
cominciò ad accarezzargli la schiena. I suoi gesti, le sue parole, la sua
stessa voce erano il calmante più efficace. Nonostante Paul avesse la testa
piena di pensieri, tra il lavoro e l'aver realizzato di desiderare con ardore
John, in quel momento non uno dei suoi problemi stava avendo la meglio sulle
sensazioni incredibili e benefiche che John gli stava trasmettendo.
Fu così che quella sera tornò a casa, in pace
con se stesso e con il mondo.
Fu così che, allo stesso modo, lasciò John da
solo.
Da solo e in guerra con se stesso.
****
Il giorno seguente Paul si recò a lavoro di
buon'umore.
Era felice, nonostante il suo posto fosse a
rischio: si trattava di qualcosa che non importava poi molto perché, in fondo,
se stava bene lui, allora questo si sarebbe ripercosso inevitabilmente anche
sul suo operato. Inoltre Paul non aveva alcun dubbio su come sarebbe andata a
finire quella storia: avrebbe catturato Hermes e questa volta per davvero. Non
l'avrebbe fatto scappare, nossignore. Non se ne parlava proprio.
Per tutta la giornata, quindi, aveva raccolto
informazioni sul luogo dove si sarebbe tenuta la mostra di Elvis, analizzando i
punti deboli dell'edificio, le potenziali vie d'entrata e uscita. Era anche
andato ad analizzare i precedenti colpi di Hermes per controllare dove avessero
sbagliato. L'ispettore capo Starkey parve soddisfatto del suo entusiasmo e
questo rese Paul ancora più felice.
Nelle piccole pause che si concedeva durante
quell’impegnativa giornata di lavoro, Paul si permetteva di pensare a John.
Le sue parole lo avevano rassicurato: sapere
che anche lui fosse spaventato allo stesso modo era giusto ciò che serviva a
Paul per non lasciarsi prendere dal panico riguardo quel particolare aspetto
della loro relazione.
Così potente era stato l'effetto che ora Paul
era solo curioso. Curioso di sapere come sarebbe stato vivere una simile
esperienza con un altro uomo, con John.
Il suo cuore mancò un battito e lui si sentì
arrossire, mentre un audace volo di fantasia prendeva ben presto il sopravvento
su di lui. Poteva ben vedere se stesso e John di fronte al camino di casa sua,
poteva sentire le sue mani scivolare sulla camicia di John per sbottonarla,
percepire quelle di John sui propri fianchi, mentre lo accarezzavano e
stringevano a sé, poteva perfino rabbrividire immaginando il respiro e le
labbra di John aleggiare sulla sua pelle, poteva-
"Paul?"
Paul sobbalzò letteralmente sulla propria
sedia, mentre si accorgeva che Linda era appena entrata nel suo ufficio.
"Ops, mi
dispiace di averti spaventato." esclamò lei, sorridendo divertita.
Paul cercò immediatamente di ricomporsi,
schiarendosi la voce, "Oh no, non mi hai spaventato. Stavo solo-"
"Sognando a occhi aperti?" concluse
per lui Linda.
Paul annuì, sorridendo, "Qualcosa del
genere."
"Ed era un bel sogno?" continuò la
giovane donna con interesse.
"Sì." affermò, convinto,
"Direi di sì."
“Allora mi dispiace di aver interrotto il bel
sogno.” commentò Linda, ridendo, “Ma volevo sapere se potessi ritirare le
pratiche che hai preso questa mattina, dal momento che il mio turno sta per
finire.”
“Ma certo.” esclamò Paul, recuperando
velocemente le cartellette e alzandosi per porgerle alla donna, “Ecco a te.”
“Grazie. Sono state utili?”
“Non particolarmente, ma mi ha fatto comunque
bene dare un'occhiata." rispose Paul,passandosi
una mano tra i capelli e sospirando.
Il gesto fu facilmente notato dalla donna, che si
accigliò, preoccupata, “Sei stanco?”
“Un po’.” sbuffò Paul, “Avrei dovuto finire il turno due
ore fa, ma volevo prima esaminare tutte queste pratiche.”
“Dovresti andare a casa a riposarti, sai. Se sei stanco è
inutile andare avanti, non concluderesti comunque nulla.” gli suggerì lei.
Paul la osservò, notando un’evidente apprensione farsi
largo sul suo bel viso. Non ci aveva fatto caso, ma Linda non aveva tutti i
torti. Se Paul si fosse stancato troppo, ne avrebbe risentito solo il suo
lavoro e questa era l’ultima cosa che Paul voleva.
“Hai ragione, sai?” esclamò con convinzione, “Dovrei
andare a casa.”
“Ecco, bravo.” commentò Linda, mentre lui rientrava
nell’ufficio per recuperare portafogli e cellulare, “Vai a casa, rilassati,
mangia qualcosa-”
“Veramente…” iniziò a dire Paul, fermandosi un istante e
sorridendo fra sé, “Stasera dovrei andare a casa di John.”
“Oh, cenetta romantica?”
La domanda di Linda lo lasciò interdetto per pochi
istanti. Una cenetta romantica con John era una di quelle tante cose che ancora
non avevano provato insieme; ma sarebbe stata decisamente interessante. Paul
poteva farci un pensierino, avrebbe potuto cucinare lui: vivendo da solo, aveva
imparato alcune ricette da leccarsi i baffi.
Tuttavia non poteva davvero dedicarsi a un'ipotesi tanto
allettante ora, con Linda che aspettava ansiosa la sua risposta.
“No, no, niente del genere.” disse infine,
raggiungendola, “Solo una serata a casa sua, sai, a guardare un film, giocare
con suo figlio e...”
"Non mi avevi detto che avesse un figlio."
esclamò la donna, sorpresa.
"Sì, un vivace bambino di quattro anni."
"Allora sì che ci sarà da non annoiarsi."
"Puoi dirlo forte." concordò Paul, con una
risatina.
Ma quando il suo divertimento scemò, Paul si accorse con
facilità che l’espressione di Linda fosse decisamente cambiata, scivolando in
qualcosa di più teso che lo rese particolarmente irrequieto in un istante.
“C’è qualcos’altro, Linda?” le domandò con tono attento.
Linda si morse il labbro, titubante, mentre le dita
sottili si stringevano di più intorno alle cartellette che avevano in mano.
"Senti, Paul..." iniziò, la voce vacillò
appena, ma Paul lo avvertì comunque.
"Dimmi."
"Io… so che non dovrei, ma non sarebbe giusto nei
tuoi confronti."
Paul aggrottò la fronte, seriamente preoccupato ora,
"Di che cosa stai parlando?"
"Ho stampato una mail oggi per l'ispettore Starkey.
Non avrei dovuto farlo, ma l'ho letta." spiegò lei con aria profondamente
colpevole.
"Cosa diceva?" chiese Paul.
Stava trattenendo il fiato, se ne stava rendendo
dolorosamente conto. E ancora non sapeva di cosa stesse parlando Linda, ma a
giudicare dall’espressione sofferente del suo viso, Paul era convinto che non
fossero buone notizie. Non per lui, almeno.
"Era da parte del capo di Scotland Yard.” rispose
Linda, lentamente, cercando di scandire bene le parole, “Sembra proprio che
abbiano già scelto un eventuale sostituto per il tuo posto."
Paul spalancò gli occhi, mentre sentì il suo cuore
precipitare e precipitare e precipitare. Era senza fine. E la mancanza di un
impatto era più dolorosa dello schianto stesso. Paul ne era sicuro.
"Non è possibile." sospirò senza fiato.
"Mi dispiace, Paul.”
“Di…” iniziò a dire lui, ignorando le sue ultime parole,
“Di chi si tratta?”
“Si chiama William Campbell. È un ispettore di
Canterbury. Ha risolto il caso della banda di ladri che in estate svaligiava le
ville di quanti andavano in vacanza."
"Ma... No, non può essere. L'ispettore Starkey mi
aveva detto che non c'era bisogno di preoccuparsi."
"Invece secondo me dovresti preoccuparti. Molto."
gli consigliò Linda, sinceramente, "La mail era molto chiara. Se non
riusciamo a prendere Hermes, sarai tu a pagarne le conseguenze."
Paul cercò di ascoltare bene quelle parole, esaminarle
attentamente come se volesse trovare un ultimo, insperato appiglio di speranza.
Ma la verità era che non c'è più speranza. Era così. Lui
era ormai condannato a una condanna lenta e piena di straziante agonia.
Paul stava per crollare. E non c'era niente e nessuno che
potesse aiutarlo. Poteva contare solo sulle proprie forze. Solo che così, con
questa notizia a caldo, che bruciava nel suo corpo, era difficile.
"Sì... Grazie, Linda." le disse con fare
sbrigativo.
Aveva bisogno di andar via, in qualche posto dove potesse
spegnere quell'incendio doloroso e devastante.
"Stai bene?" domandò lei, ansiosa.
"Sto bene. Non preoccuparti." la rassicurò lui,
invitandola a uscire, "Vai pure a casa, ora."
"Come vuoi, Paul." sospirò lei, intuendo il
vero stato d'animo dell'uomo e decidendo di lasciarlo solo, "A
domani."
Paul non rispose. E come avrebbe potuto?
La sua mente era ancora troppo impegnata a ripetere le
parole di Linda per cercare di trovare una via di fuga da quella prospettiva
catastrofica che si parava di fronte a lui.
Ma il messaggio era ben chiaro.
Paul avrebbe perso il suo lavoro, qualcosa che aveva
costruito con fatica.
Ciò che aveva stretto con forza tra le sue mani, ora
stava scivolando via.
E il rimedio era solo uno.
Il rimedio era catturare una
volta per tutte Hermes.
****
Ma dove diavolo era finito?
John stava cominciando a innervosirsi. Solo quella
mattina Paul gli aveva confermato che sarebbe venuto a casa sua, verso le otto
di sera, ma ora erano già le undici passate e di Paul neanche l'ombra. John
aveva provato di tutto: chiamarlo sul cellulare, mandargli messaggi, telefonare
a casa, aveva addirittura bussato alla sua porta per controllare se fosse tutto
a posto, ma Paul non era lì.
Dopo quasi tre ore di ritardo, John era preoccupato da
morire. Poteva essergli successo qualcosa e lui non lo sapeva. Dio, non
sapeva neanche dove iniziare a cercarlo e questo lo stava solo facendo
impazzire.
Era una sensazione frustrante d'impotenza.
Era una terribile angoscia.
Era-
John sobbalzò nel bel mezzo dei suoi tormenti, quando
sentì dei colpi alla porta: qualcuno stava bussando.
Si precipitò senza neanche pensare e aprì.
Con profondo sollievo si accorse che di fronte a lui
c'era Paul, appoggiato allo stipite della porta. Tuttavia il suo sguardo era
assente, distratto, stanco, e l’uomo sollevò con fatica gli occhi rossi verso
John.
"Paul?!” esclamò John, desiderando fargli sapere
quanto fosse preoccupato solo con il tono della sua voce, “Si può sapere dove
sei stato?"
Paul ridacchiò e scrollò le spalle, "Oh, in giro,
John, dove altro potevo essere?"
Solo in quel momento, grazie anche a un intenso odore di
alcool che proveniva dall'uomo davanti a lui, John capì, non senza un po’ di
timore.
"Sei ubriaco?" domandò.
"Nah, solo un po'."
sbuffò Paul, e fece per muoversi in avanti, "Posso entrar- ops!"
Il giovane uomo, però, sbandò a causa di un improvviso
giramento di testa, e sarebbe franato a terra se John non avesse avuto i
riflessi pronti e l'avesse afferrato al volo con le sue braccia.
Paul sogghignò, mentre si aggrappava a lui, "Appena
in tempo, eh?"
"Vieni dentro, stupido." sbottò John, non
condividendo lo stesso divertimento di Paul.
Era impegnato, piuttosto, a chiedersi e cercare una
risposta al motivo per cui Paul si fosse ubriacato. Sembrava che fosse successo
qualcosa di importante e anche grave per far sì che si riducesse in quello
stato pietoso. Di nuovo.
Nel frattempo Paul aveva messo il broncio, sostenendo di
non essere affatto stupido, mentre John lo conduceva nel suo salotto. Quando
questi lo sistemò al sicuro sul divano, si sedette accanto a lui.
"Si può sapere cosa è successo? Mi hai fatto
spaventare a morte, Paul."
Paul lo fissò, mentre un sorriso sciocco si disegnava
sulle sue labbra, "Eri preoccupato per me, Johnny?"
"Certo. Non ti vedevo arrivare...” rispose John,
come se fosse la cosa più normale del mondo, “Pensavo ti fosse successo
qualcosa."
Paul si avvicinò a lui, con un movimento sinuoso, facendo
toccare le loro fronti e portando una mano sulla sua guancia.
"Scusa." mormorò, dolce, e poi lo baciò.
John lo lasciò fare per pochi istanti, prima di
ricordarsi che fosse ubriaco fradicio e per niente in sé, quindi inconsapevole
di ogni sua più piccola azione. Si scostò, cercando di richiamare Paul, ma lui
vinse la forza delle sue braccia che lo bloccavano, e tornò su John. Lo
trattenne contro il suo corpo, avvicinandolo, e portò le labbra sul suo collo,
lasciandosi scappare un sorriso trionfante quando la pelle dell’altro uomo fu
percorsa da brividi lievi, ma perfettamente percepibili. Questo, nonostante
John provasse ancora a sottrarsi, lo incoraggiò e Paul si decise a far
agireanche le sue mani.
"Paul?!" esclamò John con più convinzione,
quando sentì le dita del giovane iniziare a sbottonare la sua camicia.
"Mm?"
"Cosa stai facendo?"
"Vuoi che ti faccia un disegnino?" domandò, con
una risatina soffocata nell’incavo del suo collo.
Ma John non lo trovò affatto divertente, difatti afferrò
con fermezza le curiose mani di Paul, allontanandole dal proprio corpo.
“Ma… io ti voglio ora.” continuò Paul, provando a
tornare su di lui, “Ne ho bisogno.”
John scosse il capo, irremovibile, e cercò di adottare un
tono di voce più dolce e rassicurante, viste le condizioni instabili di Paul.
“No, Paul, non sarebbe giusto. Perché invece non mi dici
cosa è successo?”
Paul cambiò totalmente espressione in un istante, e da
implorante e bisognoso passò a irritato e chiuso.
"Non è successo niente." sbottò, alzandosi in
piedi, e fece per allontanarsi.
John, però, lo seguì immediatamente, afferrandolo per un
braccio per farlo voltare verso di lui, "Aspetta un attimo."
"No, vaffanculo.” esclamò Paul, liberandosi con uno
strattone della sua presa, “Lasciami stare."
“Paul!”
John lo richiamò, cercando di riprenderlo, fino a quando,
infine, Paul decise di fermarsi e affrontarlo una volta per tutte.
“Cazzo, John.” sospirò, la voce graffiata e chiaramente
esausta, “Volevo solo una cosa stasera, ma se non mi puoi aiutare, allora sarà
meglio che vada via.”
“No, non andare. Dimmi cosa volevi. Ti prego.” gli chiese
John, accorato.
Paul lo osservò, l’espressione ancora cupa, ma anche
vacillante mentre decideva sul da farsi. Non stava andando proprio come aveva
pianificato. Mentre beveva e beveva continue pinte di birra, aveva cominciato a
sentirsi così caldo, così bisognoso di non stare da solo, e il pensiero di John
era divenuto costante e ardente in lui. Il suo pensiero e il suo
desiderio. Per questo aveva deciso di recarsi da John, sapendo che quel
desiderio condiviso da entrambi, finalmente, quella sera poteva avverarsi.
“Volevo solo che mi stringessi e mi aiutassi a non
pensare.” mormorò, abbassando lo sguardo.
“A cosa?” domandò John,
dolcemente.
"A cosa?” ripeté Paul, tornando con uno scatto
improvviso a guardare John, “Ti basta lo schifo di vita che mi ritrovo?"
John si accigliò appena. Davvero non stava capendo nulla
di tutto ciò che stesse accadendo a Paul. Solo la sera prima stava così bene, e
ora sembrava totalmente distrutto, quasi un'altra persona; quel lato
irrazionale che era sempre stato celato in lui, ora stava uscendo allo scoperto.
E se finora era stato controllato in qualche modo da Paul, accettando i suoi
sentimenti per John e lasciandosi andare in molti aspetti della sua vita,
adesso sembrava invece incontrollabile. Era totale follia, anarchia, e il tutto
era guidato da una profonda rabbia di cui John non conosceva la provenienza.
"Paul, calmati ora.” lo rassicurò John, allungando
le mani per cercare di sfiorare le sue braccia, “Qualunque cosa sia successa,
possiamo risolverla insieme."
"No che non possiamo.” ribatté Paul, frustrato,
decidendo di indietreggiare verso l’ingresso, “Non puoi fare niente tu né
nessun altro. Sono solo. Di nuovo, sono fottuto, sono-"
"Attento!" esclamò John, quando Paul perse
nuovamente l’equilibrio nel bel mezzo del suo sfogo.
Ma questa volta John non fu abbastanza rapido e Paul
cadde a terra, battendo con un tonfo contro il pavimento.
"Ahi!" si lamentò subito dopo, con una smorfia.
John lo osservò, trattenendo a stento un sorriso perché
nonostante tutto, nonostante gli occhi rossi e assenti, le labbra screpolate
dal freddo, e l'alito e i vestiti intrisi di alcol, Paul aveva ancora
quell'aria innocente che John trovava semplicemente adorabile in lui.
Perciò si inginocchiò a terra, allungando una mano verso
il suo viso.
"Paul, tu non sei solo. Non lo sarai mai più, perché
devi sapere che non ho intenzione di lasciarti tanto presto. E qualunque cosa
sia successa a te, ora riguarda anche me, per questo so per certo che insieme
possiamo superarla. Fidati di me, Paul, per favore."
Paul, con gli occhi lucidi per le lacrime imminenti,
causate un po’ dalla sua rabbia, un po’ dall’alcol e un po’ dalle rassicuranti
parole di John, si avvicinò per nascondere il viso nel suo petto, aggrappandosi
con forza alla camicia, mentre iniziava a piangere. John sospirò con sollievo,
e lo strinse tra le sue braccia, non potendo fare altro che cullarlo dolcemente
e aspettare che il pianto si calmasse.
Non disse niente, mentre Paul piangeva, era solo felice
che si fosse finalmente fidato di lui. Aspettò, quindi, pazientemente che lo
sfogo di Paul si completasse, e quando questo accadde, Paul singhiozzò
fortemente.
"John?" domandò, e si scostò dall'uomo,
mostrando i suoi occhi gonfi e le sue guance umide.
John sorrise incoraggiante, sperando che finalmente
potesse sapere cosa fosse accaduto.
"Sì, Paul?"
Ma la risposta che ricevette fu ben diversa e decisamente
meno soddisfacente.
"Mi viene da vomitare."
****
Pochi minuti e qualche incontro ravvicinato con il
gabinetto dopo, Paul, ripulito, stanco e leggermente più lucido, si ritrovò
sotto le coperte del letto di John insieme a lui.
Questi avvicinò una mano per accarezzargli una guancia,
“Allora, si può sapere cosa è successo?”
Paul singhiozzò, rannicchiandosi di più sotto le coperte,
e infine si convinse a raccontare ciò che era accaduto quel tardo pomeriggio.
Alla fine del racconto, John sembrava arrabbiato e sorpreso, almeno tanto
quanto lo stesso Paul, il che per lui fu già un dolce conforto. Era come se con
quell’espressione gli avesse fatto capire che non era nel torto, anzi, il torto
era stato fatto a lui.
“E’ stato fottutamente cattivo, Paul.” sbottò indignato.
Paul annuì, sospirando rassegnato, “Non pensavo che
avessero addirittura già contattato qualcun altro.”
Paul si voltò per sdraiarsi sulla schiena e far perdere
lo sguardo sul soffitto. John lo osservò, sentendo il proprio cuore scalciare
furioso nel proprio petto. Furioso per quanto stesse accadendo a Paul, ma ancor
di più per quanto stesse per fargli proprio John, John di cui Paul si fidava,
Paul che magari lo amava-
"Non ci pensare ora, Paul.” si affrettò a dire John,
ma sembrava più diretto a se stesso che all’altro uomo, “Devi reagire."
"Cosa posso fare?" domandò Paul, e rivolse i
suoi grandi occhi dolci verso John.
E John sapeva maledettamente cosa dovesse fare Paul.
"Catturare Hermes.” sospirò, lasciando vagare le sue
dita tra i capelli scuri di Paul, “Solo questo."
Paul scosse il capo, totalmente abbattuto, "Come?
Non ci sono riuscito fino ad ora."
"Ora sarà diverso.” lo rassicurò John,
convinto, “Vedrai che ce la farai."
Paul sembrò accorgersi di quella convinzione e provò a
farla sua, soprattutto perché veniva da una persona così importante come John.
“Grazie.” disse infine, accennando un sorriso, lasciando
che John lo attirasse sul proprio petto, "E scusa per prima."
"Non ci pensare, piccolo.” ribatté lui, con una dolce
risata, “Dormi tranquillo ora."
Paul annuì, prima di chiudere gli occhi e cercare un po'
di sonno ristoratore. John lo aiutò, tranquillizzandolo con le carezze sulla
sua schiena e sui capelli, fino a quando Paul si addormentò tra le sue braccia.
Poteva essere una situazione rilassante, stare lì con
Paul, riscaldato dal calore del suo corpo, cullato dal suo respiro profondo.
Eppure il cuore di John era in tumulto per un motivo ben
diverso.
Ora John sapeva cosa fare.
La vista di Paul in quello stato era stata illuminante.
John avrebbe dovuto fare qualcosa per rimediare. Qualcosa che non aveva mai
pensato di fare.
Certo, gli sarebbe costata un'intera vita. Avrebbe perso
Julian e i suoi amici. Avrebbe perso anche Paul.
Ma doveva.
Era l'unico modo per evitare che Paul perdesse il lavoro
e che John impazzisse con il senso di colpa.
Hermes doveva farsi arrestare.
Note
dell’autrice: eh sì, le cose si stanno complicando per
John e Paul. :’(
E si stanno complicando anche per me. ç_ç
Help, la storia diventa difficile e io sono pure sotto esame e non riesco a
scrivere come vorrei. Ma ce la farò, promesso.
Grazie a kiki per la correzione
e l’incoraggiamento perenne, e grazie a Beatlesmusicismylife
e paperback writer per aver recensito lo scorso
capitolo. :)
Sto notando un calo nella partecipazione, e mi chiedevo
se fosse dovuto a un peggioramento dei capitoli, oppure a qualche altro motivo.
:/
Comunque, il prossimo capitolo, si intitola “If I fell”. Spero tanto di
pubblicarlo martedì prossimo. J
Mancava meno di un mese a Natale e Londra era stata
addobbata con le caratteristiche luci che coloravano e facevano brillare le
strade della città.
Le luci di Natale erano una delle poche cose che fossero
sempre riuscite a contagiare Paul, rendendolo entusiasta per le imminenti
festività. Avevano questo straordinario potere di rendere tutto incantevole,
quasi magico; non si trattava solo delle vetrine dei negozi e delle strade. Era
tutta l'atmosfera a cambiare, erano le persone a percepire questo cambiamento e
renderlo reale, le persone che diventavano più buone con il prossimo.
Ogni anno Paul restava affascinato dall'incantesimo
esercitato da questa semplice festività. Lui ovviamente non era da meno, e
nonostante non stesse passando un bel periodo per quanto riguardava la sua
carriera, fu con molta gioia che recuperò i primi addobbi natalizi per la sua
casa. Comprò una bella ghirlanda con il pungitopo, poi un piccolo albero di
Natale con le luci, le palline e i nastri.
Quella sera stessa decise di preparare l'albero, mentre
ascoltava il cd che gli aveva regalato John qualche giorno prima. Non gli aveva
ancora detto che l'aveva già ascoltato non una, ma diverse volte. Gli piaceva
moltissimo. C'erano davvero tutte le canzoni che avevano suonato insieme, e
ogni volta che lo ascoltava, a Paul sembrava di rivedere tutti i momenti
trascorsi insieme, dal quel primo, strano, diffidente incontro fino agli ultimi
giorni, agli sguardi pieni di calore, agli abbracci, ai baci...
Paul sorrise fra sé mentre pensava che tutto questo
sembrasse quasi un film. Un film che desiderava non avesse mai fine.
Al contrario del cd di John. La lista delle tracce
terminava con una canzone che Paul conosceva, ma non aveva mai cantato né
suonato con John. Era Can't help falling in love di Elvis. Paul, pur avendo avuto i suoi
problemi con la musica, aveva sempre apprezzato quella canzone. Ma ora, ora che
John l'aveva cantata apposta per lui... Beh, ora la amava.
E fu con un dolce sussulto al cuore che capì.
Forse John aveva inserito quella canzone per qualche
motivo. Forse voleva comunicargli qualcosa in particolare, qualcosa che ancora
non gli aveva detto e non riusciva a dirgli di persona.
Forse John lo amava?
La domanda lo lasciò tutto d'un tratto stordito, tanto
che la sua mano fece cadere sul pavimento la pallina rosso rubino destinata a
uno dei rami dell'albero.
John lo amava davvero?
E Paul? Poteva amare un altro uomo?
Paul arrossì fra sé, mentre si chinava a raccogliere ciò
che aveva fatto cadere maldestramente.
Sì, certo che poteva. Poteva e voleva amare John. Sarebbe
stato uno stupido a non ammetterlo. Non era una storia che aveva intrapreso per
divertimento o per dimenticare Jane.
Era importante, era la cosa più straordinaria di tutta la
sua vita e per nessun motivo al mondo avrebbe rinunciato tanto facilmente a
John.
La riproduzione del cd in quel momento terminò e Paul,
ancora preso dai suoi pensieri, si apprestò a riporlo nella sua custodia.
Aveva bisogno di dirlo a John. Doveva farlo perché era
giusto che John sapesse. Ma come? Come trovare il momento giusto, la giusta
atmosfera, le giuste parole?
Il giovane uomo mormorò, pensieroso, rigirando
distrattamente il cd tra le mani, mentre andava ad accomodarsi sul suo divano.
Quando lo sguardo gli cadde sulla copertina, vide ancora una volta quella
semplice, piccola, piccolissima dedica, Per Paul, da John.
Una risata gli sfuggì dalle labbra, mentre l'idea
perfetta nasceva nella sua mente.
Era giunto il momento di fare qualcosa.
Per John, da Paul.
****
John si infilò la giacca e guardò il proprio riflesso.
Dire che provasse ribrezzo per se stesso era limitativo.
In effetti, era più corretto dire che si facesse letteralmente schifo.
Quell’uomo che lo fissava dallo specchio era la persona
più falsa del mondo. Era la meschinità personificata, si era ricoperto di
un'onta che l'avrebbe accompagnato per il resto della sua vita, qualcosa che
avrebbe sempre rimpianto, che l'avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi
giorni.
Che razza di uomo con un po' di senno avrebbe potuto fare
qualcosa del genere a una persona che amava? Cosa gli era passato per la testa
quando aveva cominciato quella storia?
Qualunque cosa fosse, era comunque sbagliata e ora John
meritava di soffrire.
Soffriva ogni volta che parlava con Paul, ad ogni suo
sorriso, ad ogni suo bacio. Soffriva anche solo a guardarlo. Non c'era alcun
modo in cui lui potesse proseguire quella storia. Almeno, continuando a
nascondergli la verità. Una verità che corrispondeva a una sicura perdita di Paul
per John. Ma era giusto così. Doveva resistere solo un altro giorno. Un ultimo
giorno di sofferenza, di amore, di Paul.
Perciò ora stava preparandosi per recarsi a casa sua.
Paul l'aveva invitato a cena: gli aveva detto che avrebbe preparato lui. John
si lasciò scappare una risatina, ricordando quanto fosse entusiasta ed
elettrizzato il giovane uomo mentre gli illustrava il programma della serata.
Lui era stato inizialmente un po’ restio ad accettare, si trattava pur sempre
della sera prima dell’ultimo colpo di Hermes, quello decisivo. Ma Paul aveva
insistito, pregandolo, sostenendo che avesse bisogno di stare con lui, solo con
lui, quella sera, per non pensare a cosa lo aspettasse il giorno dopo.
E così John si era arreso e aveva accettato. D’altra
parte, resistere sarebbe stato complicato, per non dire impossibile. C’era una
luce sul viso di Paul, faceva brillare i suoi occhi più del solito e rendeva il
suo sorriso pieno di calore. John temeva di conoscere il motivo dietro
quell’atteggiamento. Un simile invito non si riceveva per caso, ci doveva
essere qualcosa sotto, Paul doveva avere una qualche idea in serbo per quella
serata da trascorrere insieme.
Quando John l’aveva capito, si ritrovò molto confuso: se
da una parte l’idea lo incuriosiva e intrigava, dall’altro lo faceva sentire
come se volesse rifiutare quell’occasione. Ma come avrebbe potuto dirgli di no?
Stava già per spezzare il suo cuore, almeno questo glielo doveva.
Perciò aveva portato Julian a casa di George e Pattie,
promettendo al bambino che si sarebbero sicuramente rivisti la mattina dopo,
prima che lui fosse andato all’asilo. Poi era tornato a casa per prepararsi e
ora si era fatto coraggio una volta per tutte ed era uscito.
Si diresse con passo incerto verso la casa di Paul. Il
suo cuore, come un folle, batteva forte nel suo petto e le sue dita cercavano
di combattere il loro tremore per sostenere il piccolo regalo che aveva
comprato per quella sera. Quando giunse di fronte alla porta su cui era stata
appesa una ghirlanda natalizia, John si sistemò il colletto della camicia
mentre un'ondata di calore si appropriava del suo corpo.
Era emozionato e spaventato insieme, così combattuto tra
voler scappare il più lontano possibile da quella porta e da Paul e voler
irrompere nella sua casa, prenderlo tra le sue braccia e non lasciarlo più. In
entrambi i casi sarebbe risultato troppo avventato. Doveva trovare una via di
mezzo.
Prese un profondo respiro e suonò il campanello.
Pochi istanti dopo, con passi poco aggraziati, Paul
raggiunse la porta e la aprì. E quando John lo vide, la stretta al cuore che
percepì gli fece capire immediatamente di aver fatto la cosa giusta.
"Ciao, John, ben arrivato." lo salutò lui, il
suo volto si illuminò alla vista di John.
John sorrise con calore, osservandolo con attenzione.
Indossava una bella camicia bianca sopra dei pantaloni grigio scuro, ma
l'effetto elegante era annullato e addolcito da un grembiule da cucina di un
bel verde scuro con tanto di pettorina. Decisamente molto virile. Con facilità
John riuscì a notare anche degli sbuffi di quella che sembrava molto farina,
sia sul grembiule sia sul viso.
Forse non era cortese, ma era davvero impossibile non
ridere di fronte a una simile visione.
"Cos'è successo, Paul?" domandò, abbandonandosi
a una debole risata, "Hai combattuto contro il mostro della farina?"
"Una cosa del genere." rispose Paul,
sorridendo, "Vieni, entra."
John si accomodò dentro casa, e subito un profumino
invitante solleticò le sue narici, stuzzicando il suo appetito. Poi, quando
Paul chiuse la porta dietro di lui, gli porse il suo regalo.
"Tieni, qualcosa per dopo."
"Cos'è?" chiese Paul incuriosito, prendendo il
regalo tra le sue mani.
"Una bottiglia di spumante."
"Oh, perfetto.” esultò Paul, “Lo apriremo dopo il
dolce."
John batté le palpebre, piacevolmente colpito, "Hai
fatto anche il dolce?"
"Certo. Una cena completa." spiegò Paul,
rivolgendogli un adorabile occhiolino sfacciato, "Anzi, meglio andare a
controllare. Deve essere quasi pronto."
Poi fece per sorpassarlo, ma John d'istinto afferrò il
nodo dei laccetti del grembiule sulla schiena.
Non sapeva bene perché lo stava facendo, o forse sì, ma
questo non toglieva il fatto che ci fosse qualcosa in Paul quella sera che
stava stuzzicando un altro tipo di appetito. Così John gli prese il viso tra le
mani e lo baciò, facendo ridere debolmente Paul.
“Oh, ciao, Johnny!” sospirò, compiaciuto, sulle
sue labbra.
John lo guardò, accarezzando le sue guance per pulire gli
sbuffi di farina, e tornò a baciarlo, ma questa volta non riuscì a resistere e
lo spinse contro il muro. E mentre Paul indietreggiava, abbandonò la bottiglia
di spumante sul piccolo mobile all’ingresso, proprio accanto al telefono, per
permettere alle mani di stringersi sulla schiena di John.
John non sembrava in grado di fermarsi e lo inchiodò al
muro, approfondendo il bacio, rendendo entrambi i respiri lievemente più
affannati. Paul sospirò, avvolgendo le braccia intorno al suo collo, e inarcò la
schiena, lasciando che il suo petto sfiorasse quello dell’altro uomo. Questi
fece scivolare le sue dita rapidamente lungo i fianchi di Paul, stringendoli e
avvicinandolo a se stesso.
Quello fu il momento in cui John si rese conto che no,
non doveva andare così, ma comunque si ritrovò incapace di fermarsi, e se
qualcun altro non l’avesse fatto al posto suo, probabilmente sarebbe andato
avanti, permettendo al suo ardente desiderio di guidare le sue azioni. Ma per
sua fortuna, un trillo riecheggiò per tutta la casa, facendo sobbalzare i due
amanti.
Sembrava tanto il suono del timer.
John si allontanò leggermente dal viso di Paul, cercando
insieme a lui un ritmo più regolare per il proprio respiro, ma il suo sguardo
non poté in alcun modo spostarsi da Paul, dai suoi occhi che rivelavano lo
stesso desiderio di John, dalle sue guance arrossate, dalle sue labbra
dischiuse e umide, che si mossero appena per dire solo...
“Credo sia pronto.”
****
Quando Paul aveva detto di aver preparato una cena
completa, era la verità.
Il menù era decisamente invitante: c'era un primo piatto
con spaghetti alle vongole e un filetto di branzino con contorno di patate.
John era rimasto davvero molto colpito da tutto quanto avesse preparato Paul.
Lui gli confessò di aver cercato le ricette su internet, ma anche di aver avuto
qualche piccolo imprevisto in cucina: un duello con il branzino che proprio non
ne voleva sapere di farsi sfilettare. E John intuì che il piccolo imprevisto
non fosse poi così piccolo quando Paul gli vietò categoricamente di entrare in
cucina. Doveva aver combinato qualche disastro e John trovò tutto
irresistibilmente adorabile.
La cena, tuttavia, trascorse senza problemi. Paul aveva
apparecchiato in salotto, su un piccolo tavolo non molto lontano dal camino. I
piatti che aveva scelto erano molto buoni e John doveva ammettere che avesse
cucinato benissimo.
Il giovane ispettore, improvvisatosi chef per una sera,
era stato ansioso per tutto il tempo, ansioso, per la precisione, di sapere se
il suo lavoro fosse stato apprezzato da John. Così fu con molto piacere che
alla fine, dopo aver mangiato un delizioso tortino al cioccolato e lamponi,
John si complimentò con lui, e Paul arrossì lievemente, ringraziandolo con un
gran sorriso.
“Comunque non c’era bisogno di fare tutto questo per me.
Dico davvero, Paul.”
“Oh, suvvia, non è niente di che.” esclamò Paul,
alzandosi piedi e iniziando a sparecchiare la tavola, “E poi ti ho detto che ci
tenevo a farlo.”
John lo imitò per aiutarlo, “Sì, ma tutto questo lavoro e
poi-”
Paul sospirò, prima di voltarsi verso di lui per zittirlo
con un rapido bacio.
“Silenzio, ora, mi accontento di un grazie.”
mormorò, arricciando il naso dolcemente, “E dei complimenti, ovviamente.”
Così John fu costretto ad arrendersi, “D’accordo, come
vuoi. Ma almeno lascia che ti aiuti a lavare i piatti.”
“Non se ne parla.”
“Guarda che sono un campione nel lavare i piatti, sai,
sono specializzato in pentole incrostate.” esclamò molto orgoglioso di se
stesso.
Paul rise, prima di recuperare i piatti dalle mani di
John e appoggiarli sulla pila che aveva già raccolto lui stesso, “Non lo metto
in dubbio, ma i piatti posso aspettare anche domani mattina per essere lavati,
giusto?”
“Sei sicuro?” gli chiese, mentre Paul spariva in cucina,
“Perché se ti aiuto, possiamo fare in fretta.”
Paul non rispose. Si udirono solo alcuni rumori che
indicavano che stesse sistemando i piatti da qualche parte, e qualche istante
dopo, il giovane uomo tornò in salotto, con due calici in mano e la bottiglia
portata da John.
“Sono sicuro.” esclamò Paul, appoggiando tutto sul tavolo
e apprestandosi a stappare lo spumante, “Ora, piuttosto dobbiamo
brindare."
John sussultò visibilmente quando Paul fece volare il
tappo da qualche parte della stanza, "A che cosa?"
"Che domande! A noi." rispose Paul,
sorridendogli e guardandolo maliziosamente, prima di riempire entrambi i
bicchiere.
"Noi?" ripeté John, incerto, quando Paul gli
porse uno dei due calici.
"Sì.” mormorò Paul con un filo di voce, facendo
incontrare il suo bicchiere con quello di John, "A noi."
E dopo il leggero tintinnio dei bicchieri di cristallo,
entrambi si apprestarono a bere un sorso di quel vino dolce e frizzantino, che
inebriò delicatamente tutti i sensi. Questo però non impedì a John di
accorgersi che la canzone in sottofondo fosse cambiata. Con suo grande piacere,
la colonna sonora di quella cena era stata proprio la compilation che John
aveva preparato per Paul. E ora stava cominciando l’ultima traccia, quella a
sorpresa. Quella che John aveva inserito per un motivo ben preciso, quella che
voleva solo dirgli che John era uno stupido, il più folle degli stupidi, ma che
nonostante questo, non aveva potuto fare a meno di innamorarsi follemente di
Paul.
"Allora, non mi hai ancora detto se ti è piaciuto il
mio cd."
"Certo che mi è piaciuto. L’ho già ascoltato un
sacco di volte.”
John si fece quasi andare di traverso lo spumante, quando
sentì la risposta di Paul, “Un sacco di volte? Addirittura?”
Paul rise divertito per la reazione di John, poi prese entrambi
i calici e li portò sul tavolo.
“Hai capito.”
“Beh, questo sì che è un cambiamento.”
“E’ merito tuo.” rispose Paul, il tono della voce
vellutato, lo sguardo dolce e pieno di calore.
Sembrava quasi che lo stesse accarezzando, una carezza
invisibile che John poté percepire perfettamente. Una carezza che nello stesso
tempo lo spaventò, e quando Paul fece per avvicinarsi a lui, John si voltò e
cercò di raggiungere il lettore cd per recuperare la custodia con la lista
delle canzoni.
"E ti piacciono le canzoni che ho scelto?"
Paul sorrise fra sé, notando quanto John cercasse di
atteggiarsi con disinvoltura, come se non sapesse che Paul volesse solo lui
quella notte.
"Oh sì, moltissimo.” rispose, avvicinandosi, “Anche
se non le abbiamo suonate tutte insieme."
John rise dolcemente, e fremette quando Paul lo raggiunse
e lo abbracciò da dietro.
"Te ne sei accorto, eh?"
"Credimi, se avessimo cantato insieme Can't help falling in
love, me lo sarei ricordato."
"Beh…” iniziò John, portando le mani su quelle di Paul,
intrecciate sul proprio addome, “Considerala una bonus track
della compilation. Una specie di colpo di scena finale."
"Mi piacciono i colpi di scena." mormorò Paul,
contro la pelle del collo di John, che rabbrividì piacevolmente,
"Soprattutto quelli che riguardano te."
Quando Paul sottolineò la sua affermazione posando
piccoli baci nell'incavo del suo collo, John chiuse gli occhi, ricordando che
il prossimo colpo di scena riguardante se stesso non sarebbe piaciuto a Paul.
Il pensiero fu doloroso e John aggrottò la fronte nel tentativo di cacciarlo,
mentre inclinava il capo all'indietro verso Paul, provando ad abbandonarsi a
lui.
Senza molta sorpresa si accorse che le mani di Paul erano
risalite dalla sua vita sul suo petto, iniziando a sbottonare la camicia con
straziante lentezza. Il cuore di John mancò un battito, e sebbene il suo corpo
reagì al tocco di Paul riscaldandosi subito, ci fu anche qualcosa di freddo,
dannatamente pesante che lo mantenne con i piedi per terra.
"Paul..." sospirò, provando a fermare le mani
del giovane.
"Cosa?"
"No, per favore."
Paul si ritirò, leggermente accigliato, mentre John si
voltava verso di lui.
"Perché?"
"Non lo vuoi davvero.”
“Sì, invece.”
“No, tu sei solo agitato per domani." ribatté John,
decisamente poco convinto e Paul se ne accorse, prendendo subito la palla al
balzo.
"E allora? Ti ho detto subito di aver bisogno di te
stasera e tu sapevi che tipo di occasione sarebbe stata questa.”
“Ma…”
“Ma cosa? Lo sapevi, John, l’avevi capito, e nonostante
questo, sei venuto comunque, perché lo vuoi anche tu. Perciò, perché non puoi
lasciarti andare a me?”
John si morse il labbro nervosamente, cercando una
risposta valida mentre osservava Paul in attesa per lui: gli occhi erano
sinceri e appassionati, le labbra dischiuse invitavano solo lui, e sulla sua
pelle candida come la neve danzava la luce tremolante delle fiamme del
focolare.
Fu un errore guardarlo così attentamente, perché
qualunque motivo John potesse trovare, fu spazzato via in un istante, lasciando
spazio a ben altre domande.
Cosa lo stava esattamente trattenendo dall'appropriarsi
di un simile spettacolo? Il fatto che fosse sbagliato? Che oltre a rubare il
suo cuore, ora avrebbe rubato anche l’ultima cosa che fosse rimasta a Paul, il
suo corpo? Perché era così, John avrebbe rubato tutto di lui.
Ma non era rubare,
protestò dentro di sé.
Sì, lo era, perché Paul non sapeva tutta la verità su
John, e se l’avesse saputa, di sicuro farsi toccare da lui sarebbe stato il suo
ultimo desiderio.
Eppure ora Paul si stava offrendo a lui con una tenerezza
che… cielo, John doveva essere uno stupido per rifiutarlo ancora.
Era sbagliato, era fottutamente sbagliato, ma John era un
debole e gli sbagli sono delle persone deboli. Non avrebbe resistito ancora a
Paul, non poteva né voleva resistergli, soprattutto se ricordava a se stesso
che Paul fosse totalmente lucido, che fosse sincero nelle sue parole e nei suoi
gesti. E allora forse John poteva trovare una cosa buona in tutta quella
situazione. Per una volta avrebbe potuto mostrare la sua sincerità a Paul,
perché quello che provava per lui, per quanto doloroso, era anche
maledettamente vero.
Così afferrò Paul per i fianchi e lo attirò a sé,
scontrandosi subito dopo con la sua bocca.
Paul sorrise soddisfatto nel bacio di John e portò subito
le braccia intorno alla sua vita per evitare che l'uomo potesse allontanarsi da
lui ancora. Non l'avrebbe permesso perché, pur avendo visto le reticenze di
John a lasciarsi andare, Paul sapeva che dentro di sé, John desiderasse stare
con lui tanto quanto Paul. John poteva anche rifiutarlo a parole, ma le sue
azioni erano chiare, il modo in cui le sue mani lo stringevano, la sua bocca lo
baciava, il suo corpo lo cercava in continuazione. Era tutto così vero che Paul
moriva dalla voglia di provarne di più.
Permise quindi alle proprie dita di riprendere l'attività
che John aveva interrotto poco prima, mentre l'altro uomo si concentrava sul
suo collo, avvicinandolo con una mano sulla sua nuca e l'altra sulla sua
schiena.
Quando tutti i bottoni della camicia di John furono
scivolati fuori dalle rispettive asole, Paul afferrò i due lembi e li aprì,
mostrando il petto di John, la sua pelle calda che Paul si concesse di saggiare
con le proprie dita prima e con la bocca dopo, facendo inarcare John contro di
lui e gemere. D’istinto John strinse le sue dita tra i capelli di Paul,
tenendolo vicino e lasciò che Paul facesse tutto quanto desiderasse per tutto
il tempo che voleva.
Poi, inevitabilmente, John si rese conto che anche lui
volesse toccare Paul. Così portò le mani sulla sua vita, dove aiutato dallo
stesso Paul, cercò di sfilare la sua camicia dai pantaloni, e quando ci riuscì
cominciò a sbottonarla, più velocemente rispetto a quanto avesse fatto il suo
compagno. Questi rabbrividì violentemente, lasciandosi scappare una piccola
risata, per la sensazione piacevole e solleticante che le dita di John gli
provocavano, accarezzando il suo petto, l'addome per poi risalire lungo la
schiena e stringerlo a sé. Quando John tornò ad appropriarsi della sua bocca,
facendo incontrare i loro petti, Paul si aggrappò con le mani alle spalle
dell’altro uomo, e sospirò mentre faceva scivolare la camicia lungo le sue
braccia per lasciarla ricadere sul pavimento.
John ricambiò subito il favore, prima di inginocchiarsi
davanti a lui, sfiorando con le labbra il suo addome. Paul abbandonò il capo
all'indietro, sorridendo beatamente, mentre le sue dita si tuffavano tra i
capelli ramati di John, stringendoli quando le sensazioni trasmesse dall'uomo
lo sopraffecero.
Le mani di John risalirono, curiose, lungo le gambe di
Paul per terminare sulla cintura. Si affrettarono a slacciarla per togliere di
mezzo i suoi pantaloni e la biancheria.
Paul trattenne il respiro quando sentì di essere ormai
completamente nudo di fronte a John; non si era mai sentito così scoperto non
solo nel corpo, ma anche nell’anima. Mai si era mostrato in questo modo ad
un'altra persona. Con Jane era sempre stato diverso, non provava con lei questa
sensazione di totale vulnerabilità che spaventava e insieme incantava. Forse
perché anche con lei in qualche modo era sempre stato sulla difensiva. C'era
una parte di lui che doveva necessariamente restare sempre vigile e attenta,
nonostante qualunque cosa stesse facendo. Ma ora John l'aveva cambiato e Paul
per la prima volta sentì di potersi esporre in quel modo. Per John e nessun
altro.
Quando abbassò lo sguardo per notare le mani di John alle
prese con le sue gambe, e le sue labbra non riuscire a staccarsi dalle sue
cosce, un brivido lo percorse, lasciandolo stordito, bruciante di passione e
prima che le sue gambe potessero cedere lì e subito, Paul si inginocchiò per
essere al suo stesso livello. Avvolse le braccia intorno al collo di John,
facendo toccare le loro fronti, e chiuse gli occhi, restando così per qualche
secondo, un po' per riprendere fiato, un po' per assaporare quel momento,
cercando di imprimerlo con inchiostro indelebile nel suo cuore, come una
cicatrice profonda non provocata dal dolore.
Quando riaprì gli occhi, sorrise a John. C'erano molte
cose che avrebbe voluto dirgli, cose che aveva accettato e capito negli ultimi
giorni, ma sapeva di non aver bisogno di parlare. Perché in fondo poteva vedere
i suoi stessi sentimenti su tutto il volto di John, nei suoi occhi, nel suo
sorriso; così, allo stesso modo John poteva leggere tutto quanto stesse
provando Paul solo guardandolo in viso.
E quando Paul pensò di desiderare un bacio proprio in
quel momento e l'istante successivo John catturò la sua bocca dolcemente, capì
di aver avuto ragione.
Paul si sottomise felicemente alle sue azioni: lasciò che
John lo accarezzasse e toccasse dappertutto, lasciò che lo stringesse a sé in
modo da far aderire i loro corpi, lasciò che lo sdraiasse sul pavimento e poi
sovrastasse, continuando a baciarlo e toccarlo teneramente.
Paul gemette per il piacere che John stava accendendo in
lui, e sebbene cominciasse a essere un po' spaventato, allungò le mani per
slacciare la cintura di John ed eliminare di conseguenza quegli ultimi
indumenti rimasti sul corpo dell'altro uomo. Se qualcuno, mesi fa, gli avesse
detto che lui sarebbe stato in grado, con le sue mani, con il suo corpo di far
infiammare un altro uomo, e che anche Paul potesse reagire allo stesso tocco,
beh, forse avrebbe riso prima di chiamarlo folle.
Eppure ora era così, ora lui era lì, sdraiato davanti al
camino di casa sua, totalmente nudo, le sue gambe accoglievano il corpo di
John, le sua mani mai soddisfatte percorrevano la sua pelle, la sua bocca,
famelica, lo cercava in continuazione. Era questa la sua realtà, il suo
presente, e no, non gli dispiaceva affatto.
Non voleva neanche fermarsi lì: voleva solo John, e
voleva che John lo avesse, in un modo in cui nessun altro poteva averlo.
Silenziosamente, chiese al corpo di John di unirsi al
suo, e John esitò un istante, guardandolo negli occhi socchiusi per il piacere,
un ultimo istante di timore che fu rapidamente allontanato dai sospiri di Paul,
dal modo in cui John lo faceva gemere, arrossire, scaldare, contorcere sotto di
lui.
Paul stava mettendo da parte, solo per quella sera, tutte
le sue preoccupazioni, e chiedeva a John di fare lo stesso, glielo chiedeva
disperatamente con ogni parte di sé. E accontentare Paul, era l’unica cosa di
cui importasse davvero a John ora.
Così nel momento in cui Paul gli sorrise dolcemente,
notando la sua esitazione, il cuore di John mancò un battito. Gli sembrò quasi
di morire. Morire per risorgere l’istante successivo, quando diventarono una
sola cosa, quando John delicatamente lo prese, rendendolo suo, solo suo.
Il bel viso di Paul si contrasse in una smorfia di
dolore, ma nonostante questo avvolse gambe e braccia intorno a lui,
avvicinandolo a sé. Stretto così teneramente e sapendo che Paul stesse
soffrendo, John si affrettò ad accarezzare la sua guancia prima di baciarlo
dovunque le sue labbra potessero arrivare.
Quando il corpo di Paul si rilassò in modo palpabile,
John prese ad amarlo.
Era così. In quel momento, avvolto dal calore di Paul,
con la sua bocca che sospirava il suo nome, con le sue mani che si aggrappavano
e stringevano la sua schiena, con il cuore che palpitava all'unisono con John,
impostando un ritmo da seguire, John non poté sentire altro che amore.
Lo stesso che aveva acceso il corpo di Paul. Egli seguiva
con incantevole perfezione i suoi movimenti, mentre un fuoco devastante, ma nel
contempo così piacevole, si propagava dovunque dentro di lui.
Paul era fuoco, un fuoco che bruciava per John, un fuoco
che cadeva e cadeva verso un luogo di promesse di felicità e amore e Paul
voleva portarlo con sé. Così gemette apertamente e si aggrappò con più forza
alla schiena di John, incoraggiando i suoi movimenti. E quando John lo strinse
più vicino a sé, bruciò con lui, in un contatto di passione, di amore, di John
e Paul.
Poi ricaddero sul pavimento, le braccia di Paul non
avevano alcuna intenzione di lasciarlo andare e John gliene fu grato, amando la
sensazione di essere avvolto dal suo corpo.
Sollevò il capo per guardarlo, mentre riprendeva fiato.
Il suo respiro affannato si unì a quello di Paul, che sorrise dolcemente mentre
la sua mano si muoveva per spostare i capelli umidi sulla fronte di John.
"John?"
La sua voce era leggermente graffiata, ma ancora la più
dolce per John.
"Sì?"
"Devo dirti una cosa."
Con un sussulto doloroso al cuore, John lo osservò,
percependo il proprio respiro mozzarsi in gola. Sapeva cosa stava per dirgli e
la cosa lo spaventava a morte.
"Io ti a-"
Così, veloce come un fulmine, John lo zittì con un bacio.
Cosa non avrebbe dato per sentire quelle parole pronunciate dalla bocca di
Paul… Ma no, questo no, non poteva permetterlo.
"Shhh. Non dirlo
ora."
"Perché?" domandò, perplesso, Paul.
John si spostò al suo fianco, per poggiare poi il viso e
le mani sul suo petto.
"Voglio solo stare così per ora. Ti prego."
Paul lo guardò ancora insicuro per un istante, ma poi
sorrise, stringendo le braccia attorno a John, tenendolo vicino, in silenzio,
come desiderava lui.
Era ovvio che John avesse capito cosa stava per dirgli,
anche se per Paul non era altrettanto chiaro perché l'avesse fermato. Tuttavia
aveva offerto tutto se stesso a John quella sera e pensò che forse, non fosse
davvero necessario dover specificare anche a parole che fosse innamorato di
lui.
Perdutamente
innamorato di lui.
Note
dell’autrice: ebbene, siamo ormai alla vigilia dell’incontro
finale. Aiuto, ho iniziato a scriverlo e già sto male perché ci avviciniamo
lentamente alla fine della storia. Salvo modifiche dell’ultimo momento, siamo
ufficialmente a -6 capitoli.
Comunque, la scena "rossa" del capitolo... E' ovviamente una scena d'amore, ma ho cercato di descriverla rispettando i parametri del rating arancione, se per caso dovesse essere troppo, potete anche farmelo notare così provvedo a cambiare. :)
Inoltre... è con molta gioia che pubblico questo capitolo
dopo aver visto The normalheart. Quel film è una pugnalata al cuore, ti
strazia l’anima ma è davvero stupendo. ç_ç
Grazie a kiki per la
correzione. Grazie a Beatlesmusicismylife e Astoria
McCartney per aver recensito lo scorso capitolo. Ce la faremo ad arrivare a 100
recensioni? :)
Prossimo capitolo, “Run for your life”, martedì prossimo, spero. ;)
Non c’è bisogno di specificare cosa avesse svegliato John
la mattina dopo. Semplicemente perché non si era mai addormentato durante
quella notte.
Non aveva potuto chiudere occhio.
Troppe emozioni lottavano fra loro dentro di lui,
tenendolo, di conseguenza, sveglio.
Per questo motivo aveva passato tutta la notte stringendo
Paul a sé, guardandolo dormire, ammirando la sua massa scura di capelli che
ricadeva sul suo petto, rabbrividendo quando il suo respiro diventava più
profondo e solleticava la sua pelle.
Di tanto in tanto si concedeva di accarezzargli il
braccio con delicatezza o sfiorare la sua testa con le labbra, facendo
attenzione a non svegliarlo, anche quando il sole iniziò a sorgere. Dopotutto,
sarebbe stato un vero peccato rovinare quella sua espressione sognante e
serena.
No, John non voleva affatto disturbarlo.
Gli avrebbe arrecato già abbastanza dolore quella sera,
non c’era alcun bisogno di svegliarlo. Anche perché non sarebbe stato pronto
per affrontarlo, non quando la loro prima notte insieme corrispondeva anche
all'ultima. Che cosa gli avrebbe dovuto dire? Non trovava parole che potessero
esprimere quello che provava. O forse avrebbe anche potuto trovarle, ma il problema
era che ci fossero troppe cose che avrebbe voluto dirgli. Come stai? Mi
dispiace. Perdonami. Ti amo.
John non avrebbe mai potuto trovare un ordine in quella
lunga lista. Per non parlare del fatto che Paul, una volta svegliatosi, avrebbe
potuto desiderare riprendere il discorso che John aveva interrotto bruscamente
la sera prima, e John non aveva cambiato idea a riguardo.
Paul non poteva dirgli quelle cose. Non in quella
situazione. Forse neanche c'era bisogno che gli rivolgesse parole simili,
eppure sembrava qualcosa a cui Paul tenesse. John l'aveva notato non solo
quando lo aveva interrotto baciandolo, ma anche un attimo prima, prima di
diventare una sola cosa, Paul l'aveva guardato come se stesse per dirglielo, ma
poi aveva desistito, consapevole del fatto che in quel momento non ci fosse
davvero alcun bisogno di parole.
Tuttavia quella mattina Paul non si sarebbe arreso e John
voleva impedire a tutti i costi ciò che avesse in mente. Così, mentre godeva
degli ultimi istanti di calore concessi dal corpo di Paul, John rifletté e
l'unica soluzione per evitare un possibile confronto era quella di correre via.
Non sarebbe stato giusto, ma Paul avrebbe capito, come
sempre. Inoltre John aveva promesso a Julian di vederlo prima dell'asilo e lui
manteneva sempre la parola data a suo figlio, anche se d'ora in poi sarebbe
stato decisamente più complicato.
Sì, l'unica soluzione era scappare. La sua ultima fuga da
Paul.
Si alzò dal letto su cui si erano sdraiati la sera
precedente per dormire, e recuperò in silenzio i propri vestiti. Poi, prima di
andare via, si assicurò che Paul fosse coperto bene e sfiorò la sua fronte con
le labbra.
L'espressione di Paul era ancora serena e contenta. John
lo prese come un segno. Forse non si sarebbe arrabbiato per non aver trovato
John al suo fianco quella mattina in particolare.
Ma in fondo che importava?
Era davvero così importante, sapendo che comunque Paul
avrebbe avuto presto motivi ben più appropriati per odiarlo?
Sì. Certo che importava. Ormai John era condannato,
questo era poco ma sicuro.
Ma fintanto che avesse potuto essere ancora la causa di
un semplice sorriso da parte di Paul, beh, allora lui avrebbe combattuto per
quel sorriso.
****
Paul si stiracchiò lentamente, strizzando gli occhi
mentre tornava alla realtà.
Tornare alla realtà fu la cosa più dolce quella mattina,
perché svegliarsi implicava che la mente di Paul fosseriportata alla sera prima e inondata da
immagini che fecero comparire un sorriso sulle sue labbra.
Quello prima di aprire gli occhi e rendersi conto che,
nonostante avesse trascorso la sera con John, nonostante si fossero
addormentati insieme nel suo letto, l’uno tra le braccia dell’altro, ora Paul
era solo.
Accanto a lui, il freddo, il silenzio, il vuoto.
John era scomparso per qualche motivo, insieme a lui
tutti i suoi vestiti, e la coperta ben tirata affinché Paul non prendesse
freddo non lasciava alcun dubbio sul fatto che John fosse decisamente andato
via di casa.
La realizzazione colpì fortemente Paul. Avrebbe
desiderato potersi svegliare accanto a lui, poterlo guardare con occhi ancora
assonnati e condividere con lui un bacio pigro, prima di fare colazione
insieme. Sarebbe stato il perfetto inizio per una giornata che si prospettava
essere molto difficile per Paul.
Purtroppo non era andata così, e la questione accompagnò
Paul mentre provvedeva da solo a tutto quanto avesse immaginato. Aveva anche
controllato se ci fossero messaggi sul cellulare, o se per caso John avesse
lasciato un biglietto prima di andare, ma niente da fare. E più Paul ci
pensava, più non capiva per quale motivo John fosse andato via.
Era successo qualcosa?
O forse aveva a che fare con Paul e quello che era
accaduto tra loro la sera prima?
Paul si morse il labbro, quando giunse a quell’opzione.
No, non poteva essere questo.
Tuttavia era anche vero che John era stato molto
reticente all’inizio, per cui forse… si era pentito?
Perché avrebbe dovuto essere pentito? Paul non aveva
alcun rimorso, Paul sarebbe tornato indietro e avrebbe rifatto tutto da capo,
Paul aveva amato ogni singolo momento di quella sera con John, e il dubbio che
per lui non potesse essere stato lo stesso lo stava facendo impazzire.
Decise che avrebbe dovuto chiarire questa situazione con
John prima di qualunque altra cosa quel giorno.
Per questo motivo, dopo essersi preparato, uscì di casa,
recuperò un po’ di muffin appena sfornati dal bar più vicino, e si recò nel
negozio di John con il cuore scatenato nel suo petto per la sola idea di
parlargli, toccarlo, vederlo.
Quando entrò, il campanello suonò richiamando
l’attenzione di George al bancone. Il cuore di Paul si calmò un istante,
rendendosi conto che John non c’era. Ma durò davvero la frazione di un secondo,
perché non vederlo lì lo fece preoccupare.
Che fosse davvero arrabbiato? Ma per cosa? Non era successo
nulla di male, allora perché sembrava che lo stesse evitando?
Una parte di lui cercò di farlo ragionare. Solo perché
non l’hai trovato in negozio, non significa che ti stia evitando, sciocco
ragazzo.
Paul convenne che avesse ragione e si affrettò a salutare
George, che ricambiò il saluto.
“Quale buon vento?” gli chiese George.
“Ho portato dei muffin per la colazione.” rispose Paul,
sorridendo e porgendo il pacchetto al ragazzo.
George sembrò sorpreso e accettò con piacere il pensiero,
“Grazie mille, Paul.”
“John non c’è?” domandò, cercando, e fallendo, di
mostrare noncuranza.
“Veramente…” iniziò a dire, guardando incerto la tenda
alla fine del bancone.
Paul lo osservò perplesso, aggrottando la fronte, ma
prima che potesse seguire il suo sguardo, sentì la voce di John.
“Ci sono, ci sono.”
Quando infine apparve dalla tenda, Paul si lasciò
scappare un sorriso caloroso.
John percepì la solita fitta dolorosa al cuore che gli
causò, come risposta, un sorriso assai debole per Paul. Aveva sospettato che
Paul l'avrebbe cercato e John pensava di essere preparato a riceverlo. Eppure
vederlo effettivamente lì, aveva mandato facilmente in frantumi tutta la sua
presunta preparazione.
"Ciao, Paul."
"Ciao, John."
L’uomo si morse il labbro, provando l’immensa voglia di
stringerlo tra le sue braccia, ma davanti a George era difficile. Così fece un
cenno con la testa a Paul per dirgli di seguirlo e Paul obbedì, raggiungendo
John nel suo piccolo nascondiglio. Nel momento in cui la tenda fu ben chiusa,
John si voltò verso di lui e lo attirò a sé, prima di baciarlo
appassionatamente.
Paul sospirò sorpreso, ma compiaciuto, mentre rispondeva
al bacio e avvolgeva le braccia intorno al suo collo, e quando John si
allontanò da lui quel tanto che bastava per far incontrare le loro fronti, il
giovane ispettore rise dolcemente.
"Cosa c'è?" domandò John, incuriosito.
Paul scosse il capo, "Niente. Stavo per chiederti se
qualcosa non andasse, visto che stamattina te ne sei andato senza svegliarmi,
ma a quanto pare non ce n'è bisogno.”
"È solo che avevo promesso a Julian di vederlo prima
che andasse all'asilo." rispose, portando una mano tra i suoi capelli.
"Non devi giustificarti." affermò Paul,
sorridendo prima di rubargli un altro rapido bacio, “Mi basta sapere che tu non
sia arrabbiato.”
“Beh, non lo sono.” rispose John, accarezzandogli poi una
guancia delicatamente con il dorso delle dita, “Tu invece? Stai bene?”
“Ma certo che sto bene. Mai stato meglio.”
John annuì lentamente e gli sorrise, spostando un ciuffo
di capelli ribelli dalla frangia del giovane uomo stretto tra le sue braccia.
Cercò di godere di quei momenti più a lungo che poteva,
sapendo per certo che fosse l’ultima volta che potesse stringerlo. L’ultima
occasione che aveva per toccarlo, assaporare le sue labbra, sentire il suo
profumo…
L’ultima occasione, anche, per poter sentire le stesse
cose su se stesso. Il pensiero quasi lo fece soffocare, ma non poteva davvero
lasciarsi andare proprio lì tra le sue braccia. Non voleva anticipare il
momento in cui l’avrebbe perso per sempre.
“Sei nervoso per oggi?”
L’espressione entusiasta di Paul cambiò rapidamente in
qualcosa di più malinconico e lui si morse il labbro, chinando lo sguardo.
“Un po’.” ammise.
“Andrà tutto bene, Paul."
Paul sorrise dolcemente, "E tu come fai a saperlo?"
"Chiamalo sesto senso." rispose John,
scrollando le spalle.
"Allora mi conviene fidarmi di te e del tuo sesto
senso.” esclamò maliziosamente, “Sembra alquanto affidabile."
"Oh, lo è di certo."
"E lo scenario che suggerisce è allettante."
"Decisamente."
"Allora se dovesse avere ragione, e io dovessi
catturare Hermes, potremmo poi andare a visitare questa mostra di Elvis
insieme, che ne dici?"
John lo guardò, mentre Paul gli rivolgeva un sorriso
pieno di attesa, e la visione fu così contrastante: Paul era sincero, John
invece un bugiardo. Era sempre stato questo il problema con Paul. Lui aveva
questa capacità incredibile di mostrarsi a John per come era davvero, e
ricordare come fosse chiuso e riservato all'inizio non fece che peggiorare lo
stato d'animo di John perché, come aveva sempre detto Paul, era solo merito suo
quel cambiamento.
Questo permise a John di vedersi come era davvero: un
uomo meschino che non meritava neanche un briciolo della felicità che potesse
offrirgli quel giovane, splendido ragazzo.
Era giusto che John facesse quella fine. Ora finalmente
avrebbe pagato per le sue colpe, colpe che aveva commesso inseguendo un sogno
certamente appassionato, ma di certo John non aveva scelto la via più corretta
per inseguirlo. Anzi, non solo questa via non fosse corretta, ma stava anche
per fargli perdere quella promessa di felicità che il destino, beffardo e
vendicatore, gli aveva mandato nelle vesti del suo nemico numero uno.
Ma John non poteva combattere contro il destino perché
era tanto più forte di lui. Così non poteva fare altro che aspettare la sua
condanna in un'attesa straziante.
"Dico che sarebbe molto bello."
"Bene.” mormorò, allargando una mano all’altezza del
suo cuore, “Considerati prenotato per un appuntamento con me allora."
John fece per sorridere divertito, e proprio nel bel
mezzo del sorriso Paul lo baciò, stringendosi a lui così forte che il cuore di
John sussultò. Poi quando si allontanò, Paul strofinò il naso contro quello di
John.
"Devo andare ora. Non voglio fare tardi."
"Certo." disse John, anche se le sue braccia
non sembravano avere alcuna intenzione di lasciarlo andare, così che Pau rise
debolmente.
"John?"
"Oh, sì. Scusa."
"Ti chiamerò al più presto."
John annuì. Cosa poteva dirgli, quale poteva essere
l’augurio perfetto, sapendo a cosa stavano entrambi andando incontro?
Ovviamente, nessuno.
Qualunque cosa sarebbe apparsa come uno stupido scherzo.
Ma non poteva lasciarlo andare così, Paul si aspettava un
ultimo incoraggiamento. E alla fine John decise.
“In bocca al lupo, Paul."
“Crepi.”
Paul gli sorrise un'ultima volta, prima di voltarsi e
andarsene. John dalla sua finestra lo guardò correre via.
Lo guardò correre verso una nuova vita, correre lontano
dalla vita di John.
Correre per andarsene per sempre.
****
Un po' nervoso.
Aveva detto a John di essere solo un po’ nervoso.
Balle!
La verità era che Paul fosse quasi sull’orlo di un
attacco di panico. Alla fine di quella giornata il suo destino si sarebbe
compiuto, e lui avrebbe saputo cosa ne sarebbe stato della sua carriera. Una
carriera che aveva costruito faticosamente, e che ora un piccolo ladruncolo da
strapazzo stava per mandare in frantumi, semplicemente, così tanto che sembrava
quasi un fragile castello di carte sotto l’azione della più debole brezza.
Come era potuto accadere?
Paul non sapeva davvero come spiegarselo. Dopotutto,
quando era giunto a Londra era così diverso. Un tempo avrebbe affrontato tutto
con maggiore freddezza e determinazione.
Ma ora sentiva solo calore, passione, voglia di vivere
appieno la vita che gli era stata donata, desideri che occupavano ogni parte
del suo corpo, della sua anima. Erano sempre stati presenti dentro di lui, ma
le vicissitudini passate li avevano coperti con il loro manto ghiacciato. Ora
però qualcuno li aveva portati di nuovo allo scoperto, lasciando che la loro
natura si mostrasse completamente.
John era l’autore di tutto questo.
Per cui sì, forse andare a Londra l’aveva cambiato, ma
Paul non poteva rimpiangere neanche per un solo istante quella nuova avventura,
perché l’aveva portato ad avere John.
E quella sera avrebbe combattuto anche per lui. Catturare
Hermes significava poter continuare a lavorare a Londra e non venire trasferito
in qualche posto sperduto del Regno Unito; e lavorare a Londra significava
poter restare con John e vederlo tutti i giorni, ogni qualvolta Paul lo
desiderasse.
Catturare Hermes ora era più importante che mai.
“Paul?”
L’ispettore si destò dai suoi pensieri in tumulto e si
accorse di Linda al suo fianco.
“Sì, dimmi pure, Linda.”
“Volevo solo informarti che tutti gli agenti sono ai
propri posti.”
“Grazie.”
Si trovavano in una maestosa villa nel quartiere di South
Kensington, proprietà di un ricco imprenditore, che l’aveva messa a
disposizione per la mostra su Elvis. Nel primo pomeriggio avevano compiuto l’ennesima
ispezione per controllare che telecamere e sistemi di sicurezza fossero a
posto; poi, quando la sera cominciò a calare dolcemente, Paul aveva dato ai
suoi agenti l’ordine di raggiungere le rispettive postazioni.
E ora si trattava solo di aspettare l'arrivo della sua
preda.
"Ce la faremo questa volta." disse Linda,
incoraggiante, "Lo prenderemo."
Paul si limitò a sorriderle con gratitudine.
Non era altrettanto fiducioso come la ragazza, ma non
sarebbe andato molto lontano con un simile atteggiamento. E Paul aveva già
chiarito con se stesso quanto fosse importante raggiungere il suo obiettivo
quella sera.
Forse c'era una soluzione.
Solo per una sera avrebbe dovuto tornare a essere il buon
vecchio Paul. Aveva molti difetti quel Paul, ora anche lui poteva ben vederli.
Eppure aveva altrettanti pregi, quelli che lo avevano portato a essere uno dei
più giovani e più in gamba ispettori della nazione. Un aspetto della sua
carriera davvero niente male.
"Sì, Linda." esclamò, sentendo dentro di sé una
nuova forza, una nuova voglia di vincere.
Quel cambiamento era necessario, fondamentale.
Solo per una sera, si
disse, poi sarebbe tornato a quella che ora era la sua normalità: la musica,
l'abbandono, l'amore... John!
"Lo prenderemo."
****
John era pronto.
Forse era più corretto dire che fosse quasi
pronto. Il quasi faceva una gran differenza. Si trattava di qualcosa che ora
gli mancava, ma che era molto presente in tutti i suoi colpi con le sembianze
di Hermes.
Era la voglia.
Non aveva alcuna voglia di entrare in azione perché
sapeva bene cosa dovesse fare, e ciò che doveva fare gli avrebbe fatto perdere
una delle persone che a sorpresa era diventata tra le più importanti della sua
vita.
Tuttavia il senso di colpa, l'amore per quell'uomo erano
così immensi che da soli bastavano a compensare l'assenza di volontà. Gli
sussurravano dolcemente che fosse la cosa giusta da fare per Paul; dunque
sarebbero stati loro a condurre le sue gambe.
John rigirò un coltellino tra le sue dita nervose. Era
sul limitare della villa dove si stava svolgendo la mostra. Aspettava che
George gli desse il via libera. Lui avrebbe distratto i poliziotti, cercando di
attirarne quanti più possibile all'esterno, e messo fuori uso le telecamere, un
passaggio quest'ultimo decisamente inutile visto che John aveva intenzione di
farsi arrestare; ma no, questa era una cosa che George non doveva sapere.
Se l’avesse saputo, George l’avrebbe fermato, e John non
voleva essere fermato. Ora era proprio come il corpo sferico nella teoria del
piano inclinato: una volta partito, niente avrebbe potuto fermarlo perché
qualcosa di molto più grande di lui, molto più forte lo attirava
inesorabilmente verso la sua meta.
Così quando George gli comunicò di essere pronto per
entrare in scena, John si preparò per tornare, solo per una sera, l’ultima
sera, nei panni di Hermes.
Non voleva pensare a niente e nessuno, soprattutto a suo
figlio. Lui, forse, era l’unica cosa abbastanza forte da fargli cambiare idea,
ma John non era sicuro di poter continuare a vederlo crescere con il rimorso
per ciò che aveva fatto. Sarebbe stato decisamente meglio se Julian fosse
cresciuto con la consapevolezza che suo padre avesse infine preso coscienza dei
propri sbagli e pagato per tutto. Forse l’avrebbe odiato per non esserci stato
al suo decimo compleanno, all’inizio della scuola superiore, alla sua prima
cotta, ma John sarebbe stato in pace con se stesso. Pensava che tutti avrebbero
giovato dalla sua decisione.
Ecco perché doveva farlo, pensò tirando il cappuccio
della sua felpa ben sopra la testa.
Ecco perché andava incontro alla sua ultima missione,
quella da cui non sarebbe più scappato.
Quella senza fuga.
****
Gli ci volle un secondo per capire che infine stava
accadendo.
Per quanto Paul potesse sentirsi preparato, beh, fu
comunque una sorpresa quando il suono acuto dell’allarme squarciò il silenzio
che avvolgeva il grande edificio.
Tuttavia il giovane ispettore si riprese in fretta.
L’allarme indicava che qualcuno fosse penetrato
all’interno del terreno circostante. Le telecamere avevano ripreso una figura
non ben identificata che aveva scavalcato il cancello, e Paul era stato subito
avvisato.
L'istinto gli diceva di non far uscire tutti i suoi
uomini dalla villa. Così, ordinò solo a una parte di essi di andare a inseguirlo
fuori, mentre lui e un'altra squadra sarebbero rimasti all'interno.
Aveva una strana sensazione, quando restò a guardare i
suoi agenti uscire dall'edificio. Gli sembrava solo una trovata per deviare la
sua attenzione. Quell'uomo che si era lasciato riprendere dalle telecamere era
stato avventato e Hermes non si era mai comportato così. La logica conseguenza
di quel ragionamento era che certamente Hermes non fosse l'uomo che ora veniva
inseguito dai suoi uomini. Era molto più probabile che Hermes dovesse ancora
entrare in scena, per cui quell'uomo non poteva che essere il suo complice.
Forse fu per questo motivo che il suo udito divenne
improvvisamente affinato, lasciando che il suono dell'allarme divenisse solo un
ovattato rumore di fondo e il battito intenso del suo cuore fosse l'unica cosa
a rimbombare nelle sue orecchie.
Capì che fosse giunto il suo momento ancor prima di
sentire il suono di vetri infranti da una delle sale interne.
Si affrettò a raggiungere il luogo, con adrenalina e
ansia palpitante che scorrevano nelle sue vene. Lo sentiva come un fuoco buono
nella sua pancia: avrebbe catturato Hermes. Ne era certo.
Arrestò la corsa quando vide del fumo fuoriuscire dalla
sala da cui era giunto il rumore, e subito dopo una figura con andatura
traballante apparve nella sua visuale. Paul recuperò in fretta la pistola dalla
fondina, ed era pronto a puntarla verso quella figura prima di rendersi conto
che si trattava di Linda e che dietro di lei vi erano altri suoi agenti.
"Linda?"
"Paul... Mi dispiace..." cercò di dire tra
continui colpi di tosse, "È entrato e... Ha usato dei fumogeni... Non si
riesce a respirare..."
Il cuore di Paul sobbalzò.
Ci siamo.
Quello era il momento in cui poteva e doveva dimostrare
quanto valesse.
Quello era l'ultimo attimo di libertà di Hermes.
"Vai a chiamare rinforzi, intanto ci penso io."
"Ma è pericoloso." protestò debolmente Linda.
"Non preoccuparti.” la incoraggiò Paul, “Vai."
Il giovane uomo si lasciò la sua squadra alle spalle e si
avvicinò alla sala ancora immersa in quella nube.
Linda aveva detto che era pericoloso. In realtà Paul
sapeva che quel ladro, per quanto criminale, non avesse alcuna intenzione di
far del male a nessuno, soprattutto a Paul. Se avesse avuto intenzione di
ferirlo, l'avrebbe già fatto. Aveva avuto occasioni per farlo. E invece Paul
era ancora lì.
Paul era lì, a un passo dal suo obiettivo. Solo
una coltre di fumo che andava diradandosi lo divideva da Hermes.
Prese un fazzoletto per coprire naso e bocca e avanzò
nella sala. La pistola era ben salda nella sua mano, calda e pronta a sparare
se Paul avesse voluto.
Il suo cuore batteva come un folle, preparandosi a
quell'incontro che in un modo o nell'altro avrebbe cambiato la sua vita.
Le sue gambe continuavano a farlo avanzare, i suoi occhi
riconoscevano le sagome delle teche con i cimeli in esposizione e poi...
Poi eccolo.
Davanti a lui, in piedi, fermo.
Quella sagoma che Paul molte volte aveva visto di spalle,
ora invece lo fronteggiava.
Sicuramente si era accorto dell'arrivo di Paul.
Allora perché non stava scappando?
A quella realizzazione, Paul sentì un improvviso vuoto
nel petto, come sulle montagne russe e dopo la lenta salita, quando meno lo si
aspetta... bum! Di colpo la discesa.
Quell'uomo, Hermes, non stava aspettando lui.
Giusto?
****
L'aveva visto avanzare con cautela in mezzo a tutto quel
fumo.
Quella figura che aveva imparato ad amare ora era lì, in
quel momento, nella resa dei conti.
John stava per crollare sotto tutta la pressione di quei
sentimenti contrastanti che combattevano fra loro dentro di lui. Ma stava per
finire tutto. Ancora un momento, solo uno e John avrebbe ritrovato la pace.
Aveva usato tutto quel fumo solo perché sapeva che
avrebbe fatto fuggire tutti, tranne Paul, l'unico che quella sera si sarebbe
buttato anche in un dirupo per catturare Hermes. Se non altro, sarebbe stato
solo con lui quando avrebbe spezzato il suo cuore.
Poi si era fermato, aspettandolo, aspettando Paul. Cosa
avrebbe fatto o detto non lo sapeva. Sperava di trovare qualcosa da dire o fare
al momento.
E così fu.
Quando Paul lo vide, si fermò davanti a lui mentre il
fumo ormai andava a sparire. La pistola era nella sua mano, ma l'uomo non
sembrava avere intenzione di puntarla contro di lui.
Piuttosto continuava a fissarlo come se si stesse
chiedendo che cazzo avesse in mente. E John non poté fare altro che restare
fermo, in attesa che Paul pronunciasse quelle parole fatidiche.
"Ti..” iniziò incerto, “Ti dichiaro in arresto nel
nome di Sua Maestà."
Paul non poteva ancora credere di esserci riuscito. Stava
davvero arrestando Hermes? L'uomo che gli aveva fatto dannare l'anima e messo a
rischio la sua carriera?
Non sembrava vero, ma il ladro non disse né fece nulla.
Si limitò a guardarlo con il capo lievemente abbassato, i suoi occhi sotto il
cappuccio della felpa sembravano così chiari.
Ancora sconcertato da quanto stesse accadendo, ma
soprattutto dalla facilità con cui fosse arrivato a questa agognata cattura,
Paul si avvicinò, e quando prese dalla tasca quelle manette su cui dall'inizio
di questa storia era riportato il nome di Hermes, il ladro sollevò le braccia,
porgendo i polsi all'ispettore.
Con le mani tremanti, Paul fece per allacciare le
manette, ma si fermò. C'era qualcosa che doveva fare prima.
Vedere il volto dell'uomo a cui aveva dato la caccia per
mesi.
La sua mano si mosse verso l'alto fino a raggiungere la
testa dell'uomo, dove afferrò il cappuccio e lo tirò con forza all'indietro,
scoprendo infine un viso che per Paul era fin troppo familiare.
John riuscì quasi a sentire il rumore che fece il cuore
di Paul quando si spezzò; avvenne quasi all'unisono con quello di John.
Due cuori spezzati e un unico responsabile.
"John?"
La voce di Paul uscì debole, incredula, innamorata,
sconfitta. Quella di John invece sembrò essere scomparsa nel nulla.
"Non può essere."
Era bastato un attimo per far bruciare tutto ciò che di
buono ci fosse in Paul quel giorno: la voglia di fare bene, la sicurezza,
l'amore.
Era bastato quell'attimo per ridurlo in un mucchietto
esanime di carne e ossa che non poteva credere a quanto stesse accadendo, no,
vedendo.
John, John Lennon, il suo John… era Hermes? Era sempre
stato Hermes? Era stato Hermes la notte quando rubava, così come il giorno
quando suonava ed era impegnato a baciare Paul?
"Mi dispiace."
Sì. Era lui. Quella era la sua voce, dolce e intrigante,
che aveva cantato per Paul, quelli erano i suoi occhi chiari che avevano
guardato Paul, le labbra che avevano baciato Paul, la braccia che avevano
stretto Paul, la mani che avevano toccato Paul.
John era Hermes.
Il volto di Paul divenne all'improvviso rosso e caldo
come fuoco. Esattamente come il giorno prima, Paul era fuoco, ma questa volta
era il fuoco della rabbia, della vergogna, della disperazione.
Paul si ritrovò improvvisamente debole e il suo desiderio
più grande era lasciarsi cadere a terra, così come il suo corpo lo stesse
implorando di fare. Ma con quel poco di dignità rimasta, decise di continuare a
fronteggiare John, in piedi, permettendo a se stesso solo di far cadere le
manette a terra.
"Tu..." iniziò, sapendo che tutto quanto avesse
detto, sarebbe risultato banale, "Sei... Sei sempre stato tu?"
"Paul, mi dispiace, non vole-"
"Sta' zitto." sbottò Paul alzando una mano,
rendendosi conto che non volesse udire alcunché dall'uomo che odiava e amava
insieme.
John si morse il labbro con forza, vedendo quanto ferito
e sconvolto fosse Paul, e sentì il sapore metallico del sangue sulla sua
lingua.
Beh, cosa si aspettava? Qualcosa di diverso?
No, certo. Ma sentire con il suo cuore, prima che con i
suoi occhi, l'effettivo dolore arrecato a Paul era terribile ora.
"Per tutto questo tempo... Tu eri... Dio, quanto
sono stato coglione."
John avrebbe voluto dire qualcosa, ma qualunque cosa
potesse dire era inutile e avrebbe solo sconvolto Paul ancor di più.
Il giovane ispettore, dal canto suo, non sapeva cosa fare
né cosa dire.
Come aveva fatto a non accorgersene?
Era stato davvero così ingenuo?
E poi…
Doveva arrestare John?
Domande che furono spazzate via facilmente quando Paul
udì il rumore di passi affrettati dirigersi verso quella sala. Doveva fare in
fretta, chinarsi, recuperare le manette e arrestare John.
Ma John...
Paul conosceva quell'uomo, a differenza di tutti gli altri
poliziotti. Sapeva fin troppe cose su di lui, cose che gli fecero prendere
senza alcuna esitazione la decisione finale.
"Vattene."
John batté le palpebre, sconvolto. Cosa aveva detto Paul?
"Come?"
"Ho detto…” disse Paul, la voce totalmente apatica
ora, “Vattene."
"Ma così... Tu perderai il posto." protestò
John, cercando i suoi occhi per capire cosa diavolo stesse combinando Paul.
Tuttavia Paul non voleva guardarlo, non poteva, perciò
distolse lo sguardo dall’altro uomo, "Non importa."
John scosse il capo. No, non poteva andarsene, non era
ciò per cui si era preparato, non era ciò che si aspettava da Paul,
dall’ispettore Paul McCartney.
"No, non posso permetterlo. Devi arrestarmi."
ribadì, porgendo nuovamente i polsi.
"Ti prego, John, vai via prima che sia troppo
tardi." lo implorò Paul.
"Perché?"
"Perché?” ripeté Paul, indignato, “John, c'è un
bambino a casa che sta aspettando suo padre. Julian è dolce e sensibile, non
merita di pagare per le tue colpe. Ha già sofferto abbastanza e non sarò io a
infliggergli altra sofferenza."
John rimase senza parole. Ora capiva, non stava parlando
con l’ispettore McCartney, stava parlando con Paul, il suo vicino di
casa, il suo amico, il suo tutto. Lo guardò percependo il proprio cuore
stringersi per amore verso Paul, verso Julian, ma anche con dolore.
"Sei stato avventato, John, e irresponsabile.”
riprese Paul, “Non meriti l'amore di tuo figlio. Stavi per comportarti proprio
come mio padre, quando invece avevi promesso a te stesso di stare sempre con
Julian. Sei solo un vigliacco. Tuttavia, sei pur sempre suo padre. Perciò ora,
sparisci dalla mia vista."
Ogni parola di Paul lo colpì nel petto, lo trafisse come
la lama più fredda. Ma Paul aveva ragione in tutto quanto avesse detto. Doveva
tornare da Julian e Paul gli stava offrendo questa possibilità.
Anche se significava sparire per sempre dalla vita di
Paul.
Così si avvicinò a Paul che continuò a guardarlo con
un'ombra scura sul suo volto, e John si sporse leggermente verso di lui,
posando le sue labbra su quelle del giovane ispettore che non si mosse di un
millimetro e non ebbe la benché minima reazione al gesto di John.
“Grazie, Paul.” sospirò sulla sua bocca.
Quel bacio fu l'unica cosa che John rubò quella sera.
Poi si voltò e senza guardare Paul, fece come gli aveva
ordinato.
Sparì dalla sua vista.
E molto probabilmente anche dalla sua vita.
Note
dell’autrice: chiedo venia per il ritardo, purtroppo ho
avuto poco tempo e poca testa per dedicarmi a questo capitolo decisamente
complicato, a causa sia della poca ispirazione, sia di un esame che per fortuna
è andato bene. J
Allora, alla fine siamo arrivati a questo momento che
almeno per quanto mi riguarda, aspettavo di scrivere dall’inizio. Avviene forse
un po’ velocemente, ma mi sembrava più realistico così, vista la situazione in
cui si trovavano.
Ok, per la correzione di questo capitolo ringrazio kiki, e ringrazio anche paperback_writer,
mclennon, paulmccartneyismylove
e beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso
capitolo.
Il prossimo, “Don’tbother me”, spero di scriverlo e pubblicarlo al più presto.
Ormai siamo a -5. J
Paul sospirò, sdraiato sul divano, mentre il cellulare
squillava e vibrava tra le sue mani. Quando sul display era comparso il nome di
John, Paul era rimasto per qualche istante a osservarlo, prima di rifiutare la
chiamata.
Ormai John provava a chiamarlo tre, quattro volte al
giorno e puntualmente Paul rifiutava la chiamata.
Quelli erano stati e continuavano a essere giorni
difficili per Paul, e tutto era cominciato ovviamente quando aveva lasciato
andare Hermes, o forse doveva dire John.
Oh, al diavolo? Che importava? Erano la stessa persona,
erano sempre stati una cosa sola, John e Hermes.
Sempre.
Fin dal primo momento in cui aveva incontrato John, lui
era quel ladro, lui che doveva essere la preda di Paul, era diventato infine il
suo predatore. Lo scambio di ruoli si era concluso con Paul convocato
dall'ispettore Starkey.
Era passato solo un giorno dall'ennesimo fallimento di
Paul, e quando si era ritrovato faccia a faccia con l'ispettore, questi era
sembrato decisamente contrito mentre gli comunicava che sarebbe stato
trasferito a Shrewsbury, una cittadina più a nord di
Londra, vicina al confine con il Galles e soprattutto vicina a Liverpool.
Avrebbe preso servizio con l'anno nuovo.
Sembrava proprio come tornare a casa. L'idea era migliore
di quanto si fosse aspettato. Almeno non era finito in un piccolo paese di
provincia come il suo predecessore, e questo, secondo Paul, era dovuto al fatto
che lui avesse, se non altro, ottenuto un misero successo quando aveva
arrestato il fasullo Hermes.
Ma d'altro canto, aveva fatto scappare il ladro per due
volte dopo essere stato a un passo dal catturarlo, gli aveva spiegato
l'ispettore Starkey, e quindi il trasferimento era obbligatorio.
Paul aveva deciso di non avvisare ancora suo fratello sul
suo nuovo posto di lavoro, altrimenti avrebbe insistito per sapere quando si
sarebbe sistemato a Shrewsbury. Per il momento gli
bastava sapere che fosse stato sollevato dal suo incarico. Paul aveva bisogno
di un po' di tempo per assimilare l'accaduto.
Se ci pensava ancora, rischiava di impazzire. John
l'aveva preso in giro, dall'inizio di quella storia. Ogni attimo trascorso con
John, ogni parola che gli avesse rivolto, ogni sguardo, ogni sorriso... Era
tutto finto. Era accaduto tutto per un secondo fine, non certo per affetto
verso Paul. A John era sempre interessato l'ispettore McCartney, non l'uomo che
si celava dietro quel distintivo.
Forse persino Pepper, che ora giaceva addormentato vicino
al caminetto, era stata tutta una montatura per ingannarlo. Un modo subdolo per
ottenere la fiducia di Paul.
Dio, c'era qualcosa di vero nell'uomo che stupidamente
credeva di amare?
Paul avrebbe voluto dire di no. No, non c'era. Con
la rabbia che aveva in corpo, era semplice da affermare.
Eppure sapeva bene dentro di sé che non fosse così.
I sentimenti di John per suo figlio erano veri. Su questo
non vi era alcun dubbio. Dopotutto era il motivo per cui Paul aveva deciso di
lasciarlo andare.
Solo questo.
Il resto non contava più. Qualunque parola o gesto
d'amore che John avesse fatto per Paul, non aveva più alcuna importanza.
E questo era qualcosa che lo faceva soffrire immensamente
e insieme infuriare. Gli faceva desiderare di urlare e sbarazzarsi di ogni cosa
che John gli avesse regalato, prima di piangere e disperarsi.
Ma non poteva.
Perché faceva troppo male.
Perché John non lo meritava.
****
Quando la sua chiamata fu rifiutata, ancora, John
abbandonò il cellulare sul divano e si lasciò cadere sui cuscini soffici,
attirandosi uno sguardo incuriosito da parte di Julian che giocava sul
pavimento con Elvis.
Niente da fare, Paul non aveva alcuna intenzione di
parlare con lui. John aveva provato di tutto: se telefonava sul cellulare, Paul
vedeva il numero e rifiutava la chiamata; se John telefonava, invece, a casa,
non appena Paul riconosceva la sua voce dall’altro capo della linea, metteva
subito giù. E non parliamo di quando John cercava di avvicinarlo: non faceva in
tempo a uscire di casa, che Paul era già sparito dietro la propria porta o
nella sua macchina. Era diventato davvero bravo a sfuggirgli.
Certo, faceva male, e John capiva che Paul avesse tutte
le ragioni del mondo per scappare il più lontano possibile da lui. Ma perché,
perché non gli dava neanche una misera, minuscola occasione per spiegare tutto?
Forse perché non hai una spiegazione decente,
sporco bastardo.
Beh, sì, era ovvio. John non aveva alcuna spiegazione per
quanto gli avesse fatto, almeno, non una spiegazione accettabile da qualcuno
con un po’ di senno.
Era solo che John voleva parlare con Paul. Non tanto per
spiegarsi, quanto piuttosto per assicurargli di aver iniziato ben presto a
sentire un po’ di rimorso per quanto stesse facendo a Paul, fino a quando
questo non fosse diventato insopportabile, tanto da non fargli capire più
nulla, tanto da fottere il suo cervel-
No!
No, no, no, quella era una scusa, una scusa bella e buona
per giustificare il suo ignobile gesto.
No, non c’erano scuse, una persona responsabile non
avrebbe trovato scuse, avrebbe solo accettato le conseguenze delle proprie
azioni.
Eppure la conseguenza di ciò che aveva fatto John era
troppo dolorosa. Aveva perso la cosa più bella che gli fosse capitata negli
ultimi anni, e non c’era modo di riaverla. Niente di tutto ciò che John avesse
potuto dire o fare, avrebbe convinto Paul a tornare da lui, tornare come prima.
Non c’era modo che John e Paul potessero tornare a essere solo John e Paul,
senza che le loro doppie identità di ladro e ispettore e ciò che era accaduto
tra loro interferisse.
Nessun modo.
Dire che stesse per impazzire era limitativo. Stava male,
non stava così male da quando Cynthia l’aveva abbandonato con Julian. Ma
stavolta non c’era niente che appartenesse solo a lui e Paul che potesse
salvarlo.
Se avesse potuto, si sarebbe dato un ceffone, o anche un
pugno, così da trasformare un po' di quella sofferenza in dolore fisico. Se non
altro, l'avrebbe aiutato a stare meglio, più in pace con se stesso. Non che
avrebbe risolto i suoi problemi, naturalmente, ma era sicuro che sarebbe stato
d’aiuto, almeno con il senso di colpa.
“Papà?”
John si destò dai suoi tormenti alla dolce voce del
figlio che lo chiamava. Julian si era alzato in piedi e stava ora accanto a
lui, con le piccole mani strette intorno al suo braccio. John si ritrovò a
sorridere.
Per fortuna aveva Julian. Era la sua più grande
distrazione, lo aiutava senza rendersene conto. Era stupendo.
“Cosa c’è, amore?” gli chiese, sollevandolo e facendolo
sistemare sul suo grembo.
“Dopo possiamo vedere GliIncredibili?”
John aggrottò la fronte, perplesso, “Ma l’abbiamo visto
settimana scorsa.”
“Ti prego!!” implorò il bambino, unendo le mani e
intrecciando le dita, "È il mio preferito."
John rise quando Julian lo guardò con i suoi occhioni da
cucciolo, e alla fine si ritrovò ad annuire, impotente.
"D'accordo."
Il bambino esultò e si chinò per avvolgere le braccia
intorno al suo collo, prima di baciarlo sulla guancia. John lasciò che l'amore
di suo figlio provasse almeno a lenire le sue ferite. In quel caso non
rappresentava, purtroppo, una cura definitiva, ma aveva una sorta di potere
palliativo. Insomma, era sempre meglio che niente. C'era qualcosa nell'amore
per un figlio che dava sempre la forza necessaria per andare avanti, nonostante
tutto.
"Papà?"
"Dimmi."
"Possiamo far venire anche Paul a vedere il
film?"
Paul.
John sentì il proprio cuore spezzarsi ancora, se
possibile, udendo il nome dell'uomo che amava pronunciato dal suo bambino. Le
sue braccia si strinsero attorno a Julian come per aggrapparsi, prima di cadere
in un baratro oscuro di cui John non poteva vedere la fine.
Era strano, sentirlo pronunciare dopo tutto quello che
era successo. Strano perché quel nome così semplice e caldo e dolce suscitava
in lui le stesse emozioni dei giorni, mesi precedenti. C'era la sofferenza,
ovvio, e il rimorso, ma sopra tutto c'era l'amore. Un amore tanto immenso che
John non riusciva ancora a crederci di provarlo per un uomo, o anche solo che
fosse così presente e importante dentro di lui. Lui che a stento si fidava
delle persone, lui che di amore ne aveva ricevuto ben poco, e il primo a
mostrarglielo era stato proprio il padre di Paul. Era come uno strano scherzo
del fato, che tanto amore da parte di John fosse rivolto proprio al figlio di
quell'uomo, come se fossero destinati l'uno all'altro.
Ma John aveva rovinato tutto, come al solito.
"No." rispose con un filo di voce, "Meglio
di no."
"Perché?" domandò Julian, leggermente
sconcertato dalla risposta del padre.
John si morse il labbro. Non era certamente facile spiegare
qualcosa che suscitava tante discordanti emozioni alla persona più importante
per lui.
"Ecco... Vedi, piccolo, io e Paul abbiamo
litigato."
"Perché?"
"Beh, sai, papà ha detto una bugia a Paul."
spiegò,quasi vergognandosene.
"Ma papà!” esclamò sorpreso Julian, “Tu mi dici
sempre che non si devono dire le bugie."
"Infatti è così." ribatté John, arrossendo
lievemente alla più che giusta osservazione del figlio, "Ma vedi, amore,
l'ho fatto per non farlo soffrire di più."
"Perché?"
"Perché gli voglio bene."
"Come me?" domandò ingenuamente.
John si alzò a sedere per guardare meglio il suo bambino
negli occhi; lo osservò per diversi minuti, accarezzandogli i capelli e
scegliendo con cura le parole da dire.
"Beh, gli voglio molto bene, ma in modo un po' diverso
da come ne voglio a te."
"E come?"
"Come...”
Come? Ottima domanda.
Come avrebbe potuto spiegare quello che provava per Paul
a suo figlio? Era certamente una situazione nuova per John e avrebbe tanto
voluto l’aiuto di Paul. Era convinto che lui avrebbe trovato le parole giuste.
Ma John era solo ora, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
“Come ne volevo alla mamma, quando stavamo insieme.”
spiegò attentamente John, “Capisci cosa significa?"
Julian sembrò pensieroso per un attimo, ma durò davvero
la frazione di un secondo, perché poi guardò John e disse semplicemente,
"Significa che viene a vivere con noi.”
John non riuscì a trattenere un sorriso, mentre
accarezzava la guancia morbida e paffuta del bambino. Forse da lui non poteva
pretendere di più. Era ancora piccolo e il concetto dell’amore tra due persone
era ancora troppo vago per lui, soprattutto perché non aveva mai visto suo
padre con un’altra persona, né tantomeno con sua madre.
“Beh, sì, qualcosa del genere.” esclamò dolcemente, “Ti
piacerebbe?”
“Può giocare con me?”
“Certo.”
“Allora va bene.” esclamò Julian, sorridendo.
"Prima però devo farmi perdonare da Paul."
"Devi chiedere scusa. Bisogna dire scusa quando si
dice una bugia, vero, papà?"
John sussultò lievemente alla domanda del bambino. Ma certo.
La risposta ai suoi tormenti era così semplice. Come aveva fatto a non pensarci
prima?
"Sì, piccolo." affermò John, stringendolo
calorosamente al proprio petto, "È vero."
Julian aveva ragione, John doveva scusarsi.
Era stato così impegnato a trovare scuse che potessero
spiegare o giustificare quanto avesse fatto a Paul, che non aveva capito che la
prima cosa da fare era chiedere un sincero ‘Scusa’ a Paul.
Anche se lui non l'avrebbe accettato.
Anche se non avrebbe cambiato nulla.
John doveva chiedere scusa.
****
Recuperare tutti i suoi effetti personali dal suo
ufficio, per lasciarlo libero al suo successore, era stato più difficile del
previsto.
Gli erano sembrati davvero numerosissimi tutti gli
oggetti che gli appartenevano e che aveva sistemato con cura quando era
arrivato.
All'inizio erano sembrati pochi, davvero una miseria.
Forse perché era emozionato per la nuova avventura e l'entusiasmo lo aveva
spinto a lavorare felicemente, senza badare al tempo che impiegava per fare
qualunque cosa.
Ora però l'entusiasmo era svanito, come se fosse stato
bruciato da una fiamma molto pericolosa. Così raggruppare i suoi oggetti e
sistemarli in una scatola fu un lavoro lungo e per nulla interessante.
Aveva recuperato anche la targhetta con il suo nome. In
fondo, ci era affezionato.
I suoi agenti erano venuti a poco a poco nell'ufficio per
salutarlo e mostrare il loro dispiacere. Paul fu grato a tutti. Avevano
costruito insieme una bella squadra di lavoro e lasciarla ora era straziante.
Nonostante tutti i problemi, gli piaceva stare lì. I suoi superiori non si
erano comportati bene, ma i suoi agenti l’avevano accolto con calore.
Ora anche questo era finito, pensò mentre parcheggiava
l’auto davanti casa sua.
No, non solo questo, si
corresse, È tutto finito.
Anche Linda era andato a salutarlo, lo aveva abbracciato
e gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto ora. Paul le aveva risposto che si
sarebbe concesso una piccola vacanza, prima di prendere servizio a Shrewsbury.
Sospirò, mentre usciva dall’auto e chiudeva la portiera.
Una vacanza per modo di dire: sarebbe rimasto comunque a
Londra, provando a distrarsi sul suo fallimento e su tutto quanto fosse
accaduto con-
“John?”
Paul spalancò gli occhi, quando voltandosi si ritrovò di
fronte casa sua John Lennon in persona. Che cazzo ci faceva ora lì?
"Ciao, Paul."
John non provò neanche ad accennare un sorriso, perché lo
sguardo di Paul era chiaro: non era felice di vedere John.
Peccato, perché John al contrario impazziva per la
felicità di essere riuscito finalmente a braccare Paul. Lo aveva
aspettato pazientemente tutto il giorno, e quando la sua auto era apparsa in
strada, John si era precipitato fuori.
Paul era senza parole. La sorpresa, la spiacevole
sorpresa era giunta tra capo e collo. Ovviamente si aspettava qualche altro
tentativo di approccio da parte di John, ma ora l'aveva preso alla sprovvista.
Perché?
Come mai Paul non se n'era accorto? Forse era troppo
preso dai pensieri sulla sua mattinata per notare John raggiungerlo da casa
sua? Sì, era molto probabile.
Una volta, secoli prima, Paul non avrebbe abbassato la
guardia così facilmente. E ritrovarsi ora davanti all'uomo responsabile di
tutto, dai suoi fallimenti al suo cambiamento, era terribile.
"Lasciami in pace." affermò, cercando di
oltrepassarlo per raggiungere la sua porta.
Tuttavia John non era disposto ad assecondarlo e provò a
fermarlo dolcemente con una mano sul suo avambraccio, "No, ti prego, dammi
cinque minuti."
"Non se ne parla." sbottò lui, scostandosi.
Ma John non aveva intenzione di lasciarlo andare,
"Paul, aspetta."
"Che cosa? Che forse tu mi faccia riavere il posto?
Forse vuoi andare a rubarlo per restituirmelo? Non credo sia possibile, sai.”
"Paul, ti scongiuro, non fare così." lo pregò
John, provando a fermarlo anche con l’altra mano.
Tuttavia Paul non aveva intenzione di farsi toccare
ulteriormente da lui, e cercò di liberarsi dalla sua presa con un movimento
brusco che fece cadere la scatola dei suoi effetti personali a terra.
"Così come?” esclamò Paul, incurante di quanto fosse
appena accaduto ai suoi piedi, “Come dovrei comportarmi con l'uomo che mi ha
rovinato la vita? Mi hanno trasferito in un’altra città per colpa tua, lo sai?
Il mese prossimo dovrò lasciare Londra, così finalmente avrai ottenuto quello
che volevi, liberarti di colui che ti avrebbe dovuto dare la caccia."
"Il… il mese prossimo, ma...” balbettò John, incerto
su cosa dire.
Si era preparato un certo discorso, non era andato lì con
l’intenzione di improvvisare. Ma Paul non stava seguendo il copione scritto da
John e ora John non trovava parole da rivolgere all’altro uomo, soprattutto
dopo aver appreso che tra poche settimane non avrebbe più potuto vedere Paul.
Naturalmente, avrebbe dovuto immaginarlo.
“Paul, davvero io non volevo, io-"
"Oh finiscila, John. Non renderti ridicolo.” affermò,
sorprendendosi di quante parole potesse rivolgere all’uomo che gli aveva
rovinato la vita.
Pensava di non poter dire nulla in sua presenza, né di
volerlo; in realtà c’erano così tante cose da dire che ora Paul non poteva
fermarsi. Era come un fiume in piena. Si sentiva il respiro affannato, ma nello
stesso momento i suoi polmoni erano pieni di aria, pronta per uscire.
“Sapevi benissimo cosa stavi facendo.” continuò, “Mi hai
usato e ingannato dall'inizio. Eri amico mio solo perché ti faceva comodo, mentre
io pensavo che tu fossi sinceramente interessato a me, che fossi-"
"È così, Paul.” lo interruppe John, “Io sono quella
persona. All’inizio, hai ragione, ti ho usato, ma ben presto ho iniziato a
provare rimorso per quello che stavo facendo. Solo che, a quel punto, dirti la
verità era impossibile, avevo paura di perderti e non potevo permetterlo perché
non potevo più fare a meno di te, Paul. Tu mi piacevi così tanto, mi piacevano
i momenti passati con te, e quando ho capito quanto fossi diventato importante
per me, ho smesso di rubare.”
Paul cercò di ignorare quella parte di sé che voleva solo
crogiolarsi in quanto stesse spiegando l’uomo, e decise di concentrarsi,
invece, su un più che evidente contrasto alle affermazioni di John.
“Allora perché hai deciso di riprendere proprio ora?”
“Non potevo proseguire in questa storia lasciandoti
all’oscuro e mettendo a rischio il tuo lavoro, il senso di colpa mi stava
facendo impazzire. Perciò ho deciso di farmi arrestare da te. Non riuscivo ad
andare avanti, continuando a stringerti e sapendo quale grande menzogna ti
stessi celando.”
“Volevi farti arrestare per salvare il mio lavoro?”
John annuì mestamente, ma continuò a guardarlo negli
occhi, rivolgendogli una preghiera silenziosa.
“Paul, io ti amo, farei qualunque cosa per te."
Paul non disse nulla. Si limitò a guardarlo un istante,
senza tralasciare alcuna emozione né dagli occhi, né dalle labbra, niente di
niente, solo la più totale apatia. E John non sapeva davvero come
interpretarlo.
“Sai una cosa, John?” esclamò dopo qualche secondo, un
ghigno sardonico si andò a dipingere sulle sue labbra, “Tu sei davvero
meschino, credo che tu sapessi benissimo che non avrei mai avuto il coraggio di
arrestarti.”
John spalancò gli occhi, incredulo per quanto avesse
appena udito. No, questo no.
“Cosa? No, non è vero.”
"Sì, invece, e se il tuo presunto amore per me fosse
stato vero, non mi avresti fatto tutto questo. Avevo una vita perfetta prima di
conoscerti, e poi tu arrivi e in un istante mandi a puttane tutto quello che
avevo costruito."
John sussultò, prima che la sua espressione si crucciasse
per ciò che aveva detto Paul.
"Adesso sei tu che stai mentendo.” protestò John,
puntandogli un dito contro, minaccioso, “Non avevi una vita perfetta, eri
rinchiuso in questa maschera rigida con cui allontanavi tutti per evitare di
soffrire. Eri prigioniero di una relazione che si era arenata da tempo e lo
sapevi bene. Quindi, non dare tutta la colpa a me ora. Sei tu che mi hai
permesso di cambiare tutto, sei tu che mi hai permesso di innamorarmi di te,
sei-"
Ma non poté continuare in alcun modo, perché
all’improvviso Paul gli sferrò un micidiale gancio sinistro proprio sullo
zigomo, e John si ritrovò a indietreggiare di qualche passo, mentre un dolore
lancinante si propagava su tutta la parte destra del suo viso.
La scena si era svolta troppo velocemente per Paul, e se
non fosse stato per il dolore che sentiva ora alla mano sinistra, probabilmente
avrebbe pensato di aver assistito alla scena da fuori, come se stesse guardando
un film. In realtà, era stato lui a colpire John. Le parole che gli stava
rivolgendo lo stavano facendo impazzire: erano tristemente vere. Ad ogni
parola, Paul si rendeva conto che John aveva ragione: Paul non era davvero
contento della sua vita. Le emozioni, i nuovi sentimenti che John aveva
suscitato in lui erano stati il brivido più bello, più caldo, più sconvolgente
di tutta la sua vita.
Eppure sentirlo dire ora, proprio ora, dalla bocca di
John, era… Era semplicemente qualcosa che Paul non poteva accettare. C’era
ancora troppa vergogna in lui, e questa si era trasformata in rabbia mentre
John parlava, permettendogli di capire che avesse dato davvero così tanto
potere a una persona meschina e bugiarda come quell’uomo che era di fronte a
lui.
John lo guardò sorpreso, mentre si teneva la guancia
colpita con una mano. Era ovvio che non se lo aspettasse e la realizzazione
rese Paul stranamente soddisfatto.
"Hai avuto i tuoi cinque minuti." sbottò, ora
davvero senza fiato, recuperando i suoi effetti da terra, “Adesso lasciami in
pace.”
John annuì, sconfitto. Non c’era assolutamente nulla che
potesse fare per Paul. Un dolore, questo, che faceva male molto più del pugno
appena ricevuto.
“Come vuoi, Paul. Volevo solo dirti che mi dispiace per
tutto quello che ho fatto, ecco. So che non vale molto, ormai, ma ci tenevo a
porgerti le mie scuse. Solo questo.”
Paul scelse di non ribattere. Non poteva, in realtà, non
aveva parole per rispondere, né in un senso né nell’altro. Non poteva
ringraziarlo del pensiero, un pensiero inutile, diciamoci la verità, dal
momento che Paul non se ne faceva proprio nulla delle sue scuse. Non lo
avrebbero convinto a perdonare John, non c’era alcun modo in cui potesse
perdonarlo.
E d’altra parte, non aveva neanche parole per ribattere
alle sue scuse, non c’era davvero nient’altro da dire. Doveva finire così,
quella storia iniziata un po’ per caso e rivelatasi alla fine così
incredibilmente fatale.
Tuttavia, quando John infine lo lasciò da solo, davanti a
casa sua, voltandogli le spalle forse per l’ultima volta, Paul non poté più
ignorare quella parte di sé, ridotta ora a un piccolo brandello della sua anima
lacerata, che soffrì nel vedere John allontanarsi.
Non era giusto, né accettabile, ma c’era e Paul non
poteva farla sparire in alcun modo.
Non voleva farla sparire.
****
“Ahi!”
“Se stessi un po’ fermo, John, non farebbe così male.”
John sbuffò al rimprovero di George.
Si trovava seduto sul divano del salotto di casa sua, con
l’amico al suo fianco che si occupava della sua guancia dolorante con una borsa
del ghiaccio.
Il problema era che faceva male, molto male, e il dolore
aumentava se John ricordava a se stesso come avesse fatto a procurarselo. Non
avrebbe mai pensato che Paul potesse colpirlo in quel modo, ma questo non
faceva che confermare quanto fosse stato idiota John, quanto avesse sbagliato
in quella storia, dall’inizio alla fine. Perché era così, ne era certo, era
davvero arrivato alla fine di qualunque cosa avesse condiviso con Paul.
Questo, insieme al dolore fisico, era ciò che gli
impediva di stare fermo, mentre George si occupava di lui.
“Certo che ha davvero un bel gancio il nostro ispettore.”
commentò George, cercando di alleggerire l’atmosfera.
Era bella pesante, e la non risposta di John contribuì
solo a peggiorare il tutto. Distolse lo sguardo da George, cercando di
concentrarsi su qualche oggetto del suo salotto.
George lo fissò, preoccupato. Alla fine del loro ultimo
colpo, quando aveva visto John tornare tremante da lui, gli aveva chiesto cosa
fosse accaduto, notando soprattutto l'assenza della refurtiva. Il racconto di
John lo lasciò sbalordito e profondamente arrabbiato con John perché aveva
fatto tutto senza consultarsi con lui. Ma quando si era reso conto dello stato
distrutto di John, aveva abbandonato ogni traccia di rabbia e cominciato a
provare un leggero senso di colpa.
“Mi dispiace per quello che è successo, è colpa mia.”
ammise mestamente l’amico.
“Non dire stronzate, George, non hai nulla di cui
dispiacerti.” lo corresse accorato John, “Tu mi hai detto fin da subito che le
cose avrebbero potuto andare male, ma io non volevo ascoltarti.”
“Se potessi tornare indietro, lo faresti?”
“Ascoltarti?”
“Sì.”
John fece tornare gli occhi sul ragazzo, guardandolo
profondamente, “E lasciar perdere Paul?”
George annuì.
“No, mai.” rispose con convinzione, scuotendo il capo.
E mentre John faceva una smorfia di dolore a causa del
movimento intenso della testa, George si accigliò, perplesso, lasciando perdere
la borsa del ghiaccio e si sedette per guardare meglio l’amico.
“Perché?”
“Per lo stesso motivo per cui tu non rimpiangi di aver
conosciuto tua moglie, ogni volta che litigate.” sospirò John.
“Ma questo non è un semplice litigio, John.” gli fece
notare George, con attenzione.
“Lo so, ma il concetto è lo stesso. Anche se ho rovinato
tutto e Paul non vuole perdonarmi, non posso rimpiangere ogni momento che ho
trascorso con lui. Mi ha dato così tanto in così poco tempo che non ho potuto
davvero fare a meno di innamorarmi di lui, anche se in realtà eravamo
avversari.”
La parola innamorarmi fece sussultare in modo
impercettibile George. Erano secoli che John non ammetteva di essere innamorato
di qualcuno. No, anzi, erano secoli che neanche si innamorava.
“Tu… tu lo ami?”
John chiuse gli occhi, pensando alla domanda, e alla
risposta, che poteva essere solo una.
“Con tutto il cuore.” sospirò, mentre un’espressione
sofferente si appropriò del suo volto.
George batté le palpebre un paio di volte, accorgendosi
che quanto stesse dicendo John fosse vero. Intendiamoci, sapeva da tempo che John
provasse qualcosa di importante per Paul, ma vederlo infine ammettere i suoi
sentimenti anche davanti a lui e accorgersi di quanto questa fottuta situazione
lo stesse facendo soffrire, era incredibile. Come se fosse la prima volta che
George venisse a conoscenza di queste cose.
“E cosa hai intenzione di fare?”
“Niente.”
“Cosa significa niente?” domandò sconcertato.
“Significa niente, George. Ci ho già provato, ma
lui non ha alcuna intenzione di perdonarmi, quindi non mi resta che
arrendermi.” spiegò, alzando le spalle.
“Beh, mi sembrava che Hermes non si arrendesse di fronte
a nessuna sfida.”
John scosse il capo, portandosi una mano sulla testa.
Stava letteralmente scoppiando.
“Non sono più Hermes.”
“Hermes e John Lennon sono la stessa persona, invece.” ribatté
George con calore, incrociando le braccia.
“Beh, si vede che sono cambiato grazie a Paul.” sbottò,
nervoso.
Si stava agitando, e quando era agitato erano sempre guai
per tutti. Ma George era così testardo a volte. Non vedeva che l’argomento lo
stesse facendo sentir male? Perché non lo lasciava stare? Perché insisteva a
parlarne?
“Chiedi aiuto allora.”
“A chi?”
“A me.” esclamò George, e subito dopo, la risposta
perfetta comparve nella sua mente, “O a Jim.”
John sbuffò, quasi sopprimendo una risata maligna.
“Sì, certo, così cancellerei anche la più piccola
possibilità che ho che Paulsi svegli un
giorno e di punto in bianco, cambi idea e mi rivoglia con sé. No, grazie.”
“Ma è suo padre. Potresti aiutarli a riunirsi.” gli fece
notare George, speranzoso.
Povero, piccolo, ingenuo George. Non aveva la minima idea
di quanto stesse affermando. Non c’era alcun modo per cui Paul volesse rivedere
Jim, e sicuramente neanche Jim avrebbe avuto il coraggio di farlo.
“Paul non vorrebbe avere niente a che fare con lui,
fidati, amico.”
“Lo sai con certezza?” esclamò George, accigliato,
“Perché sai, John, non mi fido più del tuo giudizio. Forse è vero che questa
storia con Paul ti abbia cambiato, ma non pensi, allora, che possa aver
cambiato anche lui?”
John rifletté un istante, pensando che il ragionamento di
George filasse liscio. Lo stesso Paul aveva ammesso più volte di essere
cambiato. Ma comunque John non vedeva come Jim potesse aiutarlo.
No, non c’era nessuno che potesse aiutare John. Era
questa la triste realtà, e prima John l’avesse accettato, meglio sarebbe stato
per tutti.
“Lascia perdere, George. Non funzionerà.”
“Ma-”
“Ma niente.” tagliò corto John, “Paul verrà trasferito
all’inizio del nuovo anno.”
“E tu vuoi lasciarlo andare così?”
“Sì.”
George non poteva credere davvero a quanto stesse vedendo
con i suoi occhi. John Lennon che si arrendeva così facilmente. Aveva sempre
saputo che John in realtà fosse molto insicuro, ma vederlo ora così abbattuto
era strano. Era dolorosamente strano.
“Non credi che sarà doloroso continuare a osservarlo
dalla tua finestra senza voler far nulla per fermarlo, e aspettare che lui se
ne vada per sempre?”
“E per questo che andrò via per le vacanze di Natale.”
“Come?” esclamò, preso in contropiede.
“Vado con Julian da Cynthia.” spiegò John, sospirando,
“Così passeranno il primo Natale insieme.”
“Non me l’avevi detto.”
“Me lo ha proposto qualche settimana fa Cynthia. Ho
aspettato a risponderle per capire cosa fare con Paul, ma ora è la soluzione
migliore. Almeno quando sarò tornato lui non ci sarà più.”
“John…”
“George, è tutto finito.” sbottò una volta per tutte
John, prima di alzarsi e andarsene, “Lascia perdere.”
George scosse il capo.
Forse John era cambiato, e forse era cambiato anche Paul,
ma di una cosa era certo. George non era cambiato.
O almeno, la sua testardaggine era sempre la stessa.
E quando George si metteva in testa qualcosa,
difficilmente avrebbe cambiato idea.
Nessuno poteva dirgli cosa fare.
Nessuno poteva dirgli di lasciar perdere.
Note
dell’autrice:fiuuu, ce l’abbiamo
fatta.
Chiedo ancora perdono per il ritardo, ma praticamente ho
un esame al mese ora e dato che sono gli ultimi devo impegnarmi al massimo. :3
Comunque, siamo quasi alla fine di questa storia e questi
due continuano a fare i piccioncini sciocchini. xD
Grazie a kiki per la correzione
e grazie a ADayInTheLife_, Beatlesmusicismylife,
McLennon e Astoria McCartney per aver recensito lo
scorso capitolo.
Prossimo capitolo, “Do youwant to know a secret”, arriverà
quanto prima, ho già iniziato a scriverlo e cercherò di approfittarne in questi
giorni in cui posso riprendere un po’ di fiato. J
George prese un profondo respiro, prima di suonare il
campanello.
Dio, lo stava facendo davvero?
Doveva essere impazzito anche lui come John.
Ma diamine, doveva farlo, per John. Sebbene il suo amico
lo avesse rassicurato sul fatto che George non avesse nulla a che fare con
quella profonda spaccatura sorta tra John e Paul, George non poteva davvero
fare a meno di sentirsi in colpa.
Era stato lui a costringere John a tornare nei panni di
Hermes. John non l’avrebbe mai fatto. Era anche vero che, considerando il suo
gesto avventato di provare a farsi arrestare da Paul, forse la pressione di
tenere ancora quel segreto alla fine l’avrebbe fatto scoppiare lo stesso.
Pertanto quella spaccatura era inevitabile.
George, però, sentiva di volerlo fare.
Paul non gli era piaciuto all’inizio, e forse il motivo
era solo per quello che stava combinando John; ma in seguito si era accorto che
Paul aveva cominciato ad affezionarsi a John, a considerarlo un amico e poi
qualcosa di più. Perciò non poteva permettere che allontanasse John in quel
modo, sapendo che corrispondesse i suoi sentimenti.
Doveva fare almeno un tentativo, e convincere Paul che
John non aveva alcuna intenzione di fargli del male, non più.
Così alzò un dito e premette il campanello.
Sperava solo che Paul lo facesse parlare.
L’approccio non fu, in effetti, dei più incoraggianti.
Quando Paul aprì la porta, pochi secondi dopo, e lo riconobbe, sospirò alzando
gli occhi al cielo.
“Cosa vuoi?”
Anche il tono non era certamente dei più ben disposti.
"Parlare con te."
"Beh, questo era ovvio." sbottò, "Ma devo
avvisarti che se vuoi parlare di una certa conoscenza che condividiamo, non
sono dell'umore adatto."
"Non devo parlarti di John."
A quelle parole, Paul lo guardò scettico e George pensò
di dover specificare meglio.
"Almeno, non direttamente."
Paul sbuffò, aspettandosi qualcosa del genere. Di cosa
avrebbe potuto parlargli George se non di John?
"Non c'è niente che tu possa dire che possa
cancellare quanto è accaduto."
"No, ma..." iniziò George, la voce vacillava
suo malgrado, "Paul, non è stata colpa sua. Sono stato io a costringerlo a
fare quel furto alla mostra di Elvis."
"Oh, cazzo!" sospirò Paul, colpendosi la fronte
con una mano, "Ma certo, sei tu il suo complice, che ingenuo sono
stato."
Come aveva fatto a non pensarci prima? George era il
complice di John. Paul non si era neanche posto la domanda quando aveva
smascherato John, a causa forse del troppo sconvolgimento.
Ecco. Questa era una cosa che il vero Paul non avrebbe
trascurato. John aveva scherzato e fottuto la sua mente. Paul doveva solo
allontanarsi da lui il più presto possibile e poi avrebbe ripreso il controllo
di sé e una vita normale.
"Sì. Sono io. Gli ho dato un ultimatum che sapevo
non avrebbe potuto rifiutare perché altrimenti mi sarei messo io nei guai. John
voleva solo salvarmi."
"E tu perché lo hai costretto?"
"Ero un po' geloso. Devo ammetterlo."
“Geloso?”
“Sì, insomma, tu hai cambiato John. Lui era molto più
cinico all’inizio, credo di aver sempre saputo in fondo che non fosse davvero
felice. Ma tutta questa storia l’ha in qualche modo ammorbidito. In senso
buono, naturalmente, e credo che sia merito tuo. Ero geloso perché non sapevo
come farlo star meglio, mentre tu ci sei riuscito."
“Non mi interessa." affermò Paul, incrociando le
braccia, "Lui mi ha preso in giro e io ho perso il mio posto di lavoro a
Londra. Quello che ha fatto è imperdonabile.”
“Lo so." si affrettò a concordare George, "E ti
assicuro che lo sa anche lui. È così dispiaciuto per quello che ha f... abbiamo
fatto. Lo siamo entrambi. Ma è stato lui il primo a rendersi conto di quanto
sbagliato fosse."
"Non cambierà nulla."
"Ti prego, John non è cattivo. Certo, non sarà
neanche la persona più buona del mondo, ma andiamo, tutti nella vita abbiamo
fatto qualcosa di cui non andiamo fieri. Dagli una seconda opportunità, Paul.
La meritano tutti. "
Paul si morse il labbro, imprecando fra sé. Che razza di
seccatura, avere a che fare con George!
Perché lo stava facendo? Perché si stava mostrando così
testardo sull'argomento?
È molto amico di John,
rispose la sua vocina interiore.
Ma come poteva essere amico di John? John, lo stesso uomo
che aveva ingannato Paul!
Paul chiuse gli occhi per un istante, l'espressione
sofferente rispecchiava molto bene il dolore che provava il suo cuore a ogni
palpito causato dal ricordo di John.
Lo sapeva, sapeva perché George tenesse così tanto al suo
amico. Paul l'aveva visto con i suoi stessi occhi, l'aveva provato con la sua
stessa pelle. Anche lui per molto tempo aveva subito lo stesso fascino di John,
lo stesso incantesimo che aveva annebbiato la sua mente e accecato i suoi
occhi.
Eppure, avere ora George lì, davanti a lui, così lucido,
non accecato, ma determinato a mettere una buona parola per John, gli suggeriva
che forse John avesse mostrato qualcosa di vero anche a Paul.
E il dubbio ora seminato dentro di lui creò una crepa in
quello scudo di glaciale indifferenza e insieme fiammeggiante rabbia,
attraverso cui passarono ricordi e sentimenti, momenti trascorsi con il vero
John. Lo stesso John che più di una volta aveva conquistato la sua fiducia,
prima del suo cuore.
Ma Paul non poteva lasciarsi andare, non poteva
perdonarlo. Non ce la faceva. Non avrebbe passato giorno senza pensare a ciò che
John gli avesse fatto. Come potevano chiedergli lui, George, il suo folle,
folle cuore, di perdonarlo?
Non se ne parlava.
"George, vai via, per favore." mormorò alla
fine con un filo di voce, "Ho passato e continuo a passare giorni
infernali. Sono stanco, non immagini neanche quanto, e voglio solo recuperare
le forze prima di partire."
"Ma, Paul..." cercò di protestare George.
"Ti prego." lo interruppe Paul con una mano
alzata, "Basta così."
Così dicendo, Paul gli chiuse la porta in faccia,
lasciando il giovane in piedi, esterrefatto.
Non era andata esattamente come George sperava. Paul era
testardo, molto più di John. George non credeva fosse possibile l'esistenza di
qualcuno più testardo del suo amico.
Sospirando rassegnato, decise di tornare verso il negozio.
Che disastro avevano creato!
E ora non vi era alcun modo di uscirne. Almeno, non con
un lieto fine. Il “e vissero per sempre felici e contenti” sembrava la
più irraggiungibile delle utopie.
C'erano due cuori spezzati in gioco e nessuno in grado di
rimettere insieme i pezzi.
O forse qualcuno c'era.
Qualcuno che era a monte di tutta questa situazione,
qualcuno che forse avrebbe trovato le parole giuste per Paul e John.
George sapeva chi doveva chiamare.
Sapeva che doveva chiedere aiuto a Jim.
****
“Sì. Certo. No, capisco perfettamente. Hai ragione. Sì,
grazie. Ci vediamo stasera.”
George si torturò l’unghia del pollice, mentre fissava
John parlare al telefono. La telefonata era giunta quella mattina. George
sapeva chi avrebbe trovato dall’altra parte della linea, perciò aveva lasciato
che fosse John a rispondere.
Quando l'amico cominciò a capire cosa fosse successo,
rivolse il suo sguardo più glaciale a George e continuò a osservarlo, truce,
mentre parlava con Jim e anche alla fine, dopo aver riposto la cornetta del
telefono al proprio posto.
“Si può sapere che cazzo hai combinato?”domandò, non con rabbia, ma in qualche modo
era infastidito che George avesse coinvolto Jim in qualcosa senza speranza.
“Ho fatto solo quello che tu non avevi il coraggio di
fare.” rispose George, alzando le spalle, “Raccontare tutto a Jim.”
“Ed esattamente cosa gli hai detto?”
“Quello che è successo. Ma ho pensato che avresti dovuto
informarlo tu sul vero rapporto tra te e Paul.”
John sospirò sollevato. Almeno questo era stato lasciato
al suo controllo.
Forse questo era proprio il motivo per cui non
voleva chiedere aiuto a Jim. Chiedergli aiuto significava ammettere di fronte a
lui, una volta per tutte, che fosse innamorato di suo figlio. E Dio solo sapeva
come avrebbe potuto reagire John.
John era certo che non gli avrebbe certamente staccato la
testa. Ma chissà, era impossibile che Jim fosse addirittura contento. Era pur
sempre un uomo di un'altra generazione.
Tuttavia quello era un problema che avrebbe dovuto
affrontare quella sera.
Ora, mentre tornava a guardare George, ricordò un'altra
importante questione.
“Perché l'hai fatto?”
George prese un profondo respiro, prima di rispondere,
“Perché sono andato a parlare con Paul ieri-”
“Tu cosa?” esclamò incredulo.
Ma George lo ignorò, continuando a parlare, “… e mi sono
accorto di avere a che fare con due testoni. Perciò dal momento che riesco a
fatica a gestirne uno, ho pensato di chiedere l’aiuto di qualcuno che è molto
vicino a entrambi.”
“Ma George-"
“John." lo interruppe ancora l'amico, avvicinandosi
per afferrargli le spalle, "Io voglio che tu sia felice, farei di tutto
per questo. E in questo momento è Paul che può renderti felice."
“No." rispose John, scuotendo la testa con vigore,
"Non funzionerà. Non servirà a nulla.”
“Senti, ho visto ieri Paul, e non aveva affatto una bella
cera."
"Cosa?" esclamò John, preoccupato.
"Ora, tu potresti dire che stia soffrendo per quello
che è accaduto. Ma a me piace credere che stia soffrendo anche perché sente la
tua mancanza.”
John chiuse gli occhi, portando le mani nei capelli. No,
non era possibile. Paul non stava soffrendo per quel motivo, non stava sentendo
la sua mancanza, e John non poteva accarezzare una simile opzione, perché
altrimenti sarebbe corso da lui all’istante, anche se Paul non glielo aveva
chiesto esplicitamente.
Ma Paul è arrabbiato con te,
protestò il suo cuore, E’ ovvio che non te lo direbbe mai.
No, non poteva essere così. John non aveva alcuna
possibilità, era sciocco illudersi in quel modo. Avrebbe solo sofferto
ulteriormente, mentre John non voleva più soffrire.
Ma ora era stato coinvolto anche Jim e chissà come
sarebbero andate le cose. Avrebbe potuto migliorare la sua situazione o
peggiorarla, il che era assai probabile.
Non sapeva cosa aspettarsi da quell'immediato futuro. Ma
qualunque cosa fosse stata, John avrebbe dovuto accettarla senza a quel punto
poter fare più niente.
Ancora una volta il suo destino era tutto nelle mani di
un McCartney.
O più precisamente, di due McCartney.
****
Paul sussultò visibilmente quando Pepper gli saltò sul
grembo.
Il giovane era seduto sulla sua poltrona, cercando di
leggere le avventure del suo più fortunato collega, Sherlock Holmes, quando il
gatto all'improvviso era balzato su di lui, ricercando le sue carezze.
Paul sorrise debolmente. Negli ultimi giorni lo aveva
trascurato perché, come altre cose nella sua casa, anche Pepper gli ricordava
John. E occuparsi di lui era troppo doloroso.
Ma ora il gattino, ormai cresciuto, si strusciava
soddisfatto contro la sua mano, facendo le fusa. Paul si sentì un po' in colpa
per ciò che gli aveva fatto. In fondo, non era certo colpa sua, e Paul si era
affezionato a lui. Non avrebbe mai potuto lasciarlo ora.
L’altra cosa che aveva trascurato era la musica. Erano
giorni che non ascoltava più un cd né altro. Tutto il lavoro fatto con John era
andato a farsi benedire. Ovviamente.
Era stato John, dopotutto, a farlo riavvicinare a quella
parte della sua vita a cui aveva rinunciato per colpa di un uomo. E proprio ora
Paul era stato costretto a rinunciare nuovamente alla musica, per colpa di un
altro uomo.
Un uomo che non era poi molto diverso da quello che
l’aveva abbandonato da piccolo. Erano entrambi ladri e il pensiero fece quasi
ridere Paul. Era un fottutissimo scherzo del destino. La sua vita segnata e
rovinata da due ladri.
Era talmente preso dalle sue riflessioni e dal dedicare
tutte le sue attenzioni a Pepper, che sussultò visibilmente quando sentì il
campanello suonare.
Santo cielo, quel dannato campanello non era mai stato
disturbato così tanto come in quei giorni.
Dando un’ultima piccola carezza alla testolina del gatto,
Paul si alzò in piedi e abbandonò il libro sulla poltrona. Decise che questa
volta avrebbe controllato dallo spioncino chi avesse suonato.
La persona che si trovava al di là della porta era la
stessa che negli ultimi giorni faceva esplodere in lui mille emozioni diverse
fra loro. Come, come era possibile che Paul, nonostante tutto, fosse ancora
felice e insieme arrabbiato di vedere John?
Nessuno prima d’ora aveva mai avuto un tale effetto su di
lui, Paul non si era sentito così neanche quando Jane l’aveva tradito. Era come
se volesse prenderlo di nuovo a schiaffi e subito dopo attirarlo nell’abbraccio
più appassionato. Per il momento, quando Paul, con un sospiro rassegnato,
decise di aprire la porta, prevaleva la voglia di prenderlo a schiaffi. Ma il
desiderio opposto era ancora vivo, ruggiva dentro di lui, caldo e sofferente,
gli chiedeva solo di perdonarlo, di riprenderlo con sé perché gli mancava
tantissimo, e tutto questo lo spaventava all’infinito.
“Cosa vuoi?” domandò Paul, e strinse la presa sul pomello
della porta per evitare di fare qualcosa di molto stupido, come afferrare John
per un braccio e attirarlo prima di baciargli dolcemente quel livido nero sullo
zigomo, lo stesso che aveva causato Paul.
John fu lieto che Paul avesse aperto la porta; era
convinto che non appena avesse controllato dallo spioncino (perché John era
certo che Paul l’avesse fatto, dopo essere stato colto di sorpresa per ben due
volte da John prima e da George dopo), gli avrebbe solo intimato di andarsene,
senza neanche guardarlo in faccia.
Per fortuna, però, le cose erano andate diversamente e
ora John poteva osservarlo meglio, a differenza di quanto avesse fatto qualche
giorno prima. In quell’occasione era stato troppo preso da ciò che stava per
dire a Paul e dalla notizia del suo trasferimento per poter accorgersi che sì,
Paul non stava bene, stava soffrendo, tanto quanto lui ed era facilmente
riconoscibile per John, gli sembrava quasi di vedere se stesso allo specchio.
Certo, Paul aveva anche molta rabbia e vergogna e tradimento che delineavano i
tratti del suo viso, ma il dolore, la mancanza che sentiva per John, l’amore
ancora vivo che provava per lui erano lì, nei suoi occhi, sulle sue labbra, su
tutto il suo viso.
“Paul, ciao, io-”
“Se è ancora per quello che è successo, John, risparmia
il fiato, non ho alcuna intenzione di-”
“No.” lo interruppe John, “No, io vorrei che mi aiutassi
a fare una cosa.”
Paul aggrottò le sopracciglia. Che razza di richiesta era
mai quella? Come si permetteva di chiedergli aiuto come se niente fosse
successo?
“Aiutarti? A fare cosa di preciso?” domandò sconcertato.
“Se vieni con me in un posto, te lo mostro.”
Sì, certo, Paul sbuffò
tra sé.
Come se potesse seguirlo così.
“Se credi che io possa venire con te chissà dove, ti
sbagli di grosso.”
John si morse il labbro, trattenendo una smorfia di
delusione e dolore perché la risposta di Paul era così chiara. Paul non si
fidava più di lui.
Che stupido era stato. Sì, d’accordo, aveva visto tutte
quelle emozioni in Paul, ma che importanza avevano se mancava quella
fondamentale? La fiducia. Paul l’aveva persa e ora, ora…
No, Dio, non poteva aver paura che John gli facesse del
male fisicamente!
“Ti prego, fidati.” lo implorò.
“Non posso.”
“Solo per questa volta, poi giuro che ti lascerò in pace,
sparirò per sempre dalla tua vita." lo rassicurò John, "Ma fidati di
me, Paul, un’ultima volta. Non potrei mai farti del male.”
“Me ne hai già fatto.”
L’ennesima pugnalata alla schiena. Ma questa volta era
stata dolorosa, molto più del solito. Paul era troppo pieno di rancore, avrebbe
ritorto contro John ogni cosa lui avesse detto, e John aveva comunque un limite
oltre cui farsi del male in quel modo era inaccettabile. Anche se Jim era
disposto a fare quel grande passo, Paul non era altrettanto disposto a fare uno
sforzo per venirgli incontro.
Che senso aveva, allora, andare avanti?
Improvvisamente John desiderò piangere, e d’istinto, si
voltò, dando le spalle a Paul, deciso ad andarsene e abbandonare per sempre
anche la più debole e traballante possibilità che avesse di farsi perdonare da
Paul.
Paul, dal canto suo, si maledisse. Non era stato davvero
lui a parlare, quelle parole erano sfuggite senza che lui potesse frenarle.
Erano state dettate da tutto quel miscuglio disordinato di sentimenti, una
miscela potenzialmente esplosiva. E aver risposto in quel modo a John era stato
un esempio di quanto fosse pericoloso Paul, ora, in quello stato d’animo.
Non voleva rispondere così a John. Era ancora arrabbiato
sì, su quello non c’era alcun dubbio, e John gli aveva chiesto aiuto, per cosa
Paul non lo sapeva ancora, ma era sembrato così fragile, così spaventato di
affrontarlo e insieme così forte, che Paul aveva sentito il suo cuore
stringersi alla visione.
“Aspetta.” si affrettò a dire.
Era una parola molto pericolosa da dire; Paul non sapeva
a cosa l’avrebbe portato e l’ignoto faceva ancora paura. Ma John no, John non
poteva fargli paura. John non gli avrebbe più fatto del male. Era una verità
difficile da accettare, era scomoda e straordinaria.
Così quando subito dopo, John si voltò verso di lui,
guardandolo con incredulità e ritrovata speranza, Paul sostenne il suo sguardo,
lasciando la presa sul pomello.
“Dove si va?”
****
Quando Paul scese dall’auto, fu molto colpito dall’edificio
che si trovò di fronte. Era una casa davvero deliziosa, non era particolarmente
grande né appariscente. Si sviluppava su due soli piani e le mura erano
costituite da mattoni di un bel rosso vivo, gli stessi che permettevano al
comignolo di spiccare sul tetto marrone scuro.
Una piccola scalinata portava all’ingresso, lasciando
intravedere un qualche tipo di seminterrato alla base della casa.
“Cos’è questo posto?” chiese Paul, guardando John al suo
fianco.
Avevano trascorso il viaggio in totale silenzio, il che
era risultato abbastanza imbarazzante per entrambi e soprattutto pesante. Paul
avrebbe voluto fare un sacco di domande: dove stiamo andando, cosa devi
farmi vedere, e perché?
Mentre John avrebbe voluto ringraziarlo per averlo
seguito e ribadire ancora una volta i suoi appassionati sentimenti per lui, ma
non era sicuro che Paul l’avrebbe presa molto bene. E comunque, John era sicuro
che tutte le cose che nessuno dei due aveva il coraggio di dire fossero
presenti nell’abitacolo dell’auto, come se fossero stati altri passeggeri. Ecco
perché il silenzio aveva fatto da colonna sonora a quel viaggio.
“Tu ora conosci il mio segreto più importante, Paul. Ma
voglio essere sincero fino in fondo con te, a questo punto, e svelarti altre
cose che non ti ho mai fatto vedere.”
“E l’aiuto di cui parlavi?”
“Ora te lo mostro, vieni con me.” rispose John,
facendogli cenno con il capo di seguirlo.
Paul strinse le dita in pugni. C’era qualcosa che lo
tratteneva ancora: la sorpresa nell’aver scoperto che ci fossero altre cose che
non sapeva di John, e la paura, il timore che questi segreti potessero fargli
del male ancora una volta. Ma Paul moriva di curiosità. Era ormai qualcosa che
aveva accettato, che tutto ciò che riguardasse quell’uomo intrigante fosse per
lui motivo di una curiosità estrema.
Perciò decise di seguire John, attraversando prima il
giardino antistante e poi percorrendo il contorno della casa, fino al retro,
dove John lo condusse lungo una scalinata che scendeva verso il seminterrato.
Quando John aprì la porta chiusa a chiave e Paul entrò,
questi rimase a bocca aperta. Ciò che si ritrovò davanti era nello stesso tempo
il suo peggiore incubo e il sogno più ambito.
La refurtiva di Hermes.
Scaffali e vetrine apposite esponevano tutto ciò che John
avesse rubato con i panni del ladro melomane. Paul riconobbe facilmente alcuni
oggetti. Erano quelli che John aveva rubato da quando Paul aveva ottenuto
l’incarico di acciuffarlo: il ritratto dei RollingStones, la chitarra di Bob Dylan, gli occhiali di Elton
John…
Paul aveva cercato di difenderli, ma non c’era riuscito e
ora erano lì, a portata di mano.
Senza parole, continuò a osservare con interesse la
stanza, notando molti altri cimeli che evidentemente John aveva rubato prima
del suo arrivo. Notò una vetrina dedicata solo a manoscritti originali di Jimi
Hendrix o Jim Morrison, poi una chitarra spaccata in due dei Nirvana, un paio
di stivali decisamente bizzarri dei Kiss fino ad arrivare a un paio di semplici
ma caratteristici occhiali da vista di Buddy Holly.
Quel seminterrato conteneva cimeli tanto diversi fra loro
e Paul non voleva neanche pensare quanto fosse il valore complessivo di un tale
tesoro. Piuttosto, la vera domanda era un’altra.
“Cosa significa tutto questo?”
“Devi aiutarmi a restituire queste cose.” rispose John,
il tono pacato, ma in qualche modo vacillava di fronte allo sguardo penetrante
di Paul.
In un primo momento, l’ispettore pensò di non aver
sentito bene. John voleva restituire che
cosa?
Tuttavia la sua espressione era molto decisa; John non
stava dicendo una cazzata, e Paul ora sapeva riconoscere quando dicesse la
verità.
Poi, di nuovo, si ricordò di altre menzogne di John a cui
Paul aveva abboccato come uno sciocco, e decise che fosse il caso di
controllare, per sicurezza.
“Mi stai prendendo in giro?”
“No, sono serio. Non li voglio più.”
“Ma…” iniziò Paul, battendo le palpebre, perplesso, “Non
capisco, perché vuoi restituirli ora?”
“Perché mi hanno fatto perdere te.”
Senza poterlo impedire in alcun modo, Paul arrossì
lievemente, e si voltò subito verso una delle vetrine per nasconderlo a John.
Maledetto!
Come osava comportarsi ancora in quel modo con lui? Come
osava ricordargli tutte quelle piccole cose di John che l’avevano fatto
innamorare?
Non sapeva che fosse doloroso?
“Sì, beh, questo non cambierà le cose.” ribatté Paul, la
voce leggermente incrinata, debole per i ricordi suscitati da John, “Non ti
permetterà di avermi ancora.”
John sorrise fra sé, rassegnato, “No, lo so bene, non lo
faccio per questo. Ma ogni volta che li guardo, mi ricordano inesorabilmente
quanto sia stato stupido e ingiusto con te. Inoltre, speravo che potessero aiutarti
con il lavoro.”
Paul non seppe bene cosa rispondere, era decisamente
combattuto a riguardo. Era un pensiero inutile, quello di John, restituire la
refurtiva non significava che Paul avrebbe ottenuto ancora il suo vecchio incarico.
Ma d’altro canto, John si stava preoccupando per lui, e anche se Paul era
ancora arrabbiato con lui, non poteva fare a meno di sentirsi colpito da quella
preoccupazione. Era come una mano, dita delicate cercavano in continuazione di
avvicinarsi per accarezzarlo, ma Paul continuava a sottrarsi al tocco: a volte
si costringeva lui stesso ad allontanarsi, altre era solo il suo orgoglio a
spingerlo via.
“Non c’è alcun modo per farmi ottenere di nuovo il mio
lavoro, John.” rispose, tornando a guardarlo, “Ma li restituiremo perché è la
cosa giusta da fare.”
“D’accordo. Grazie, Paul.”
Paul annuì, evitando il suo sguardo, “Di nulla.”
John sospirò. Bene, una era fatta. Ora arrivava la parte
difficile.
“Andiamo di sopra, ora, che ne dici?” domandò,
attraversando la stanza, verso un’altra porta, dietro cui si celava una breve
serie di gradini che portavano al piano terra.
Paul lo guardò, incuriosito, ma i suoi passi si mossero
istintivamente verso John, seguendolo lungo le scale.
“Perché?”
“C’è un’altra cosa che vorrei mostrarti.” spiegò John,
quando raggiunsero l’ingresso, uscendo dal sottoscala, “O meglio restituirti.”
Paul inarcò un sopracciglio, mentre John lo guidava
attraverso l’ingresso fino a fermarsi di fronte a una porta di legno di mogano
finemente intagliata, su cui risaltava un pomello d’ottone brillante.
“Di cosa si tratta?” chiese, titubante.
John appoggiò la mano sul pomello e lo fece ruotare per
aprire la porta.
“Qualcosa che ti è stato rubato, ma stavolta non per
causa mia.”
L’enigmatica risposta di John ebbe come effetto quello di
far accelerare i battiti del cuore di Paul. Egli poteva sentirlo rimbombare
nelle sue orecchie e non aveva assolutamente idea del perché.
“Che cosa significa?”
“Entra e lo scoprirai.” gli suggerì John, con un sorriso,
aprendo la porta e invitandolo a entrare, ma questa volta solo Paul.
Paul lo guardò per un istante, convincendosi a seguire le
parole di John più velocemente rispetto ad altre volte. Perciò entrò,
ritrovandosi in un elegante soggiorno, e sussultò quando la porta dietro di lui
fu chiusa.
“John?” esclamò, avvicinandosi alla porta.
Poi un lieve rumore lo fece sussultare, e una voce giunse
alle sue orecchie.
“Ciao, Paul.”
Il giovane ispettore si voltò lentamente, e quando
quell’uomo spuntò da un angolo della stanza, così come dal passato di Paul, una
sola parola comparve nella sua mente.
Impossibile!
Note dell’autrice: oh mio dio, ci siamo. :)
Ebbene sì, siamo ormai al
punto cruciale di questa storia. Aw, sono emozionata.
Cosa vi aspettate dal prossimo
capitolo?
Grazie a kiki
che ha corretto. Grazie a Astoria McCartney, Mclennon
e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso
capitolo.
Il prossimo, “Till there was you”, eh… *sospira* E’ davvero complicato da scrivere e so
che mi dannerò l’anima, per di più mercoledì inizio lo stage con i topolini in
laboratorio, per cui probabilmente ritarderà un po’. Comunque, ormai siamo a -3
dalla fine. J
Certo, sarebbe andata bene anche una qualunque
imprecazione, ma no, l'imprecazione era troppo banale in quel caso.
Impossibile invece era decisamente più adatto.
Impossibile che Paul si trovasse
di fronte a un uomo dai lineamenti così familiari.
Impossibile,
anche, che a Paul sembrasse di guardare, come se fosse allo specchio, una
versione più invecchiata di se stesso, con lo stesso naso e la stessa bocca, e
le rughe e i capelli bianchi e diradati a indicare la età avanzata.
Impossibile,
infine, che proprio John l'avesse condotto da suo padre.
E fu proprio quest'ultima riflessione a fargli trovare le
parole giuste da dire.
"Non è possibile." mormorò con voce tremante,
"Tu... Non puoi essere tu."
"Sono io, figliolo."
L'uomo rispose con un sorriso debole, e la combinazione
di quelle parole e quel sorriso fece tremare Paul violentemente. Una scossa che
lo fece ridestare all'improvviso da quella specie di intorpidimento che provava
da quando si era voltato verso l'uomo.
"No." protestò Paul, accorato, "Non mi
chiamare così. Non farlo. Hai perso il diritto di chiamarmi in quel modo."
Jim McCartney sussultò appena, non aspettandosi un simile
atteggiamento da parte di Paul, o perlomeno, non così presto.
"Hai ragione, perdonami."
"Perdonami?" ripeté Paul, indignato e
sbalordito, "Quindici anni che non dai tue notizie e tutto quello che sai
dire è perdonami?"
"Paul, per favore. Cos'altro dovrei dire?"
sospirò Jim, sconsolato, "Qualunque cosa dicessi, tu me la ritorceresti
contro."
Paul si lasciò scappare una risata sardonica, "E
puoi biasimarmi?"
"No, ma..."
"Allora smettila di farmi queste inutili
paternali." lo interruppe, ogni traccia di divertimento fasullo scomparve
in un istante, "Sono cresciuto, e non ho più bisogno di te."
"Non fare così, Paul, ti prego."
"E come dovrei fare? Sono di fronte all'uomo che ha
abbandonato la mia famiglia."
"Sono stato costretto." sbottò Jim.
Era evidentemente in difficoltà, forse aveva sperato che
le cose potessero andare almeno un po’ meglio, ma nonostante questo, si
sforzava a restare tranquillo. Ci stava pensando Paul a essere abbastanza
nervoso per entrambi.
"Perché sei stato un irresponsabile e ti sei messo
nei guai." gli rinfacciò.
"Non avevo scelta." si giustificò Jim,
scuotendo appena il capo.
"Sì, invece. L'avevi.” protestò Paul, “Ed era
restare con noi. Avremmo affrontato tutto insieme."
"Non potevo permetterlo."
"Perché? Noi ti avremmo aiutato."
Paul sembrò affievolire la sua dose di rancore, di anni e
anni di rancore che non aveva mai potuto lasciar sfogare.
Tuttavia Jim continuava a scuotere la testa, "Paul,
tu non capisci."
"Allora fammi capire." rispose Paul, quasi
istintivamente.
Sì, Paul si rese conto che fu una risposta istintiva e
inaspettata, perché Jim lo osservò sorpreso, piacevolmente sorpreso.
"Tu... Tu lo faresti?"
E la sua voce tremante confermò a Paul il suo timore.
Quella risposta gli era scappata prima che lui potesse ragionarci sopra e
fermarla. Ma in realtà, ora che poté riflettere per qualche secondo, si accorse
di non aver davvero voglia di fermarla o ritrattarla.
"Io, sì, credo di sì.”
“Davvero?” chiese Jim, sorridendo con incredula speranza.
“Sì.” rispose Paul, annuendo con più convinzione, “A
questo punto, voglio sapere."
Jim annuì lentamente, "Perché non ti siedi, allora?
Solo per un attimo."
Paul si morse il labbro, titubando di fronte alla
richiesta.
Stava davvero per permettere all'uomo che gli aveva rovinato
la vita di spiegare le sue azioni?
Perché mai? Si era ripromesso più e più volte nella sua
vita che mai e poi mai avrebbe voluto sapere alcunché da suo padre. Si era
ripromesso che non gli importasse più nulla di lui.
Ma la verità era che Paul era un uomo diverso ora.
Quella parte di se stesso che aveva sempre desiderato
riabbracciare suo padre, la stessa che stupidamente voleva perdonare John, era
una piccola ma importante parte di lui; era una parte senza cui Paul non poteva
vivere. Era semplicemente il suo cuore.
E il suo cuore poteva anche essere un folle bastardo, che
gli faceva desiderare cose che andavano contro i dettami della sua ragione, ma
Paul ora sapeva come ascoltarlo. Sapeva di volerlo ascoltare come non
aveva mai fatto prima del suo arrivo a Londra, prima di incontrare John, che
aveva acceso in lui quel desiderio.
Così, lasciando che il cuore tornasse a guidarlo come
negli ultimi mesi, si diresse verso la poltrona nel bel mezzo del salotto e si
accomodò.
Jim lo osservò, incredulo che Paul volesse davvero
sapere, ma soprattutto con amore e orgoglio: l'amore che non aveva potuto
mostrargli negli ultimi, lunghissimi anni passati lontano dalla sua famiglia, e
l'orgoglio per lo splendido giovane uomo che era diventato. Sapeva che Paul avrebbe
avuto tutte le ragioni del mondo, se ora si fosse alzato e fosse andato via,
non disposto ad ascoltare le sue parole, sapeva che avrebbe avuto ragione anche
a non voler perdonare John, e sapeva anche che lo stare lì ora, in attesa per
lui, che l'aver seguito John, ignaro di ciò che stesse per accadere,
comportasse un grande sforzo da parte sua. Jim lo apprezzava e stimava ancor di
più per questo. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non credeva fosse qualcosa che
Paul avrebbe accettato.
"Ebbene?" domandò Paul, guardandolo con
aspettativa.
Jim si lasciò scappare un sorriso: i suoi grandi occhi,
gli stessi che aveva ereditato dalla sua bellissima madre, erano ancora gli
stessi che ricordava. Avevano la stessa dolce attesa e adorabile innocenza di
quando Paul da piccolo aspettava che suo padre gli raccontasse una fiaba per la
buonanotte.
La fiaba che doveva raccontare, ora, era ben diversa e il
lieto fine non era affatto certo.
Così Jim raccolse tutto il suo coraggio e tutti i suoi
ricordi dolorosi, e quindi, ben vividi, e si sedette di fronte a lui,
sfregandosi le mani sui pantaloni.
"L'anno prima della mia fuga, la ditta in cui
lavoravo andò in bancarotta e fu costretta a chiudere, lasciando a casa decine
e decine di operai. Alcuni furono fortunati, trovarono subito altri impieghi.
Ma io, così come altri miei ex-colleghi, non fummo altrettanto fortunati. Per
mesi andammo avanti con i risparmi che tua madre ed io avevamo messo da parte
dal nostro matrimonio. Tua madre riusciva a trovare piccoli impieghi, andando a
fare le pulizie anche nelle case di amici nostri. Io non ero d'accordo, non
volevo che si umiliasse in questo modo per persone che frequentavamo, ma a lei
non importava. Per lei contava solo far mangiare la sua famiglia, una famiglia
a cui io non ero più in grado di badare. Questo mi rese abbastanza disperato,
tanto da accettare un'offerta di lavoro a Birkenhead
che si rivelò essere qualcosa di criminoso. Sapevo cosa stavo facendo, sapevo
che stavo per lavorare per un'associazione a delinquere. Ma cosa dovevo fare?
Non potevo sopportare il non riuscire a provvedere ai miei figli. Non sono mai
stato forte come tua madre. Così cominciarono ad assegnarmi piccoli furti a
danno di nemici del boss. Non mi piaceva come lavoro: mi sentivo sempre in
colpa, ma ero bravo e riuscii a guadagnarmi la fiducia degli altri. Cercavo di
non pensare a quanto sbagliato fosse, e questo fu possibile perché immensa era
la gioia che provai quando tornai a sfamare i miei bambini e mia moglie."
Paul sembrava alquanto sbalordito. Aveva sempre saputo
che suo padre si fosse messo nei guai, ma non credeva addirittura con
un’organizzazione di stampo mafioso.
"Cos'è successo dopo allora?" domandò
interessato.
"Dopo…” riprese Jim, mentre il suo corpo veniva
attraversato da un brivido, “È successo che a un certo punto mi assegnarono un
incarico ben diverso. Non avrei dovuto rubare qualcosa, questa volta avrei
dovuto addirittura uccidere un uomo.”
“Uccidere?” ripeté Paul, la voce morì in gola prima della
fine.
“Sì, ma non avrei mai potuto farlo, neanche per amore dei
miei figli. Togliere la vita a un uomo era inaccettabile per me. Così dissi che
avrei accettato, ma la sera prima dell'incarico, me ne andai. Decisi che
sarebbe stato più sicuro andarmene da solo. Fin quando fossi stato con voi, voi
sareste stati in pericolo."
Paul scosse il capo. Ora poteva capire le azioni di suo
padre, ma c’era ancora qualcosa che non tornava.
"Lo saremmo stati comunque. Potevano rintracciare la
nostra casa e farci del male."
"No, sarebbe stato molto difficile. Io sapevo in cosa
stavo per essere coinvolto, quando mi sono messo al loro servizio. Ero
disperato, è vero, ma non tanto sprovveduto. Per questo motivo diedi loro un
nome fasullo. Almeno se fosse successo qualcosa, non avrebbero mai potuto
risalire a voi. Così sareste stati al sicuro, anche senza di me."
"Ma se avevi usato un nome fasullo, perché non
potevi restare con noi?” chiese Paul, ancora perplesso, “Avremmo potuto
andarcene tutti insieme."
"Avevo paura che potessero in qualche modo
rintracciarci e vendicarsi su di voi. Penso che tu sappia bene quale grande
potere abbiano queste organizzazioni."
Suo malgrado, Paul si ritrovò a sospirare. Sì, lo sapeva.
Era un tipo di criminalità che faceva ancor più ribrezzo di un semplice ladro.
"Allora non troverai difficile comprendere quello
che ho fatto. Dopotutto, forse non sai ancora cosa significa avere dei figli,
ma anche tu hai degli affetti e credo che desideri che stiano sempre bene, o
sbaglio?"
"No.” rispose Paul, con una sorta di senso di
sconfitta, “Hai ragione."
"Non volevo raccontarti questo solo per impietosirti
e avere qualche speranza di farmi perdonare da te, ma ora che siamo qui, di
nuovo insieme, io dovevo dirti la verità."
Paul annuì distrattamente, troppo preso da tutte quelle
improvvise rivelazioni e dal provare ad assimilarle. Non era un compito facile,
vuoi per il fatto che Paul aveva a che fare anche con il rimorso, la colpa che
cercavano di sopraffarlo. Aveva sempre odiato suo padre per quello che aveva
fatto e ora invece, doveva fare i conti con le sue spiegazioni, spiegazioni
anche abbastanza convincenti, dannazione.
Ma non voleva né poteva crogiolarsi in tutto questo,
lasciarsi andare, perdonare così facilmente quell’uomo. Se Jim era stato sempre
lì, a Londra, se conosceva John, allora c’era un altro motivo a cui Paul
potesse aggrapparsi per resistere.
"E John?” domandò, “Come l'hai conosciuto?"
Jim non sembrò turbato dalla domanda, era ovvio che la
stava solo aspettando.
"Quando sono scappato, decisi di andare a Londra.
Sarebbe stato più difficile rintracciarmi in questa grande metropoli. Così
durante una piccola sosta in un pub di Warrington,
entrò questo ragazzino dall'aria sveglia e sfilò alcuni portafogli dai clienti,
tra cui il mio. Notai ciò che stava facendo, così lo seguii fuori dal pub e da
lì iniziò questa amicizia. Lui era così piccolo, poteva benissimo essere mio
figlio e mi accorsi subito che avesse bisogno di affetto e protezione. E dal
momento che non avrei potuto occuparmi dei miei ragazzi, decisi di prendermi
cura di lui. Andammo a Londra, dove riuscii a trovare un piccolo appartamento
grazie a un mio vecchio amico. Vivendo con John, scoprii pian piano tante
piccole cose su di lui: suo padre aveva abbandonato sua madre, lei era morta e
lui era stato affidato ad un orfanotrofio. Subito dopo aveva cominciato a
cambiare famiglie adottive, perché nessuna di queste era in grado di dargli ciò
che serviva: un po' d'amore disinteressato. Fino a quando non capitò con una
coppia in cui il marito picchiava la moglie. Quando provò a picchiare anche
lui, John si ribellò. Lo colpì con forza prima di scappare, e poi, beh, poi ha
incontrato me."
Paul sussultò: sapeva qualcosa del passato di John, ma
quel particolare, quello di un piccolo John che si difendeva così
violentemente, gli era stato omesso. E scoprirlo ora, dal racconto di suo
padre, fu inaspettato e sconvolgente.
"E la storia di Hermes?" domandò subito dopo.
"La storia di Hermes…” sospirò Jim, chinando il capo
e arrossendo, forse per vergogna, “A Londra all'inizio vivevamo con piccoli
furti, ma poi trovai un lavoro come si deve. Decisi di mettere quanti più soldi
da parte per me e per John. Quando dopo diversi anni ci ritrovammo con una
bella cifra tra le mani, rilevammo il negozio di musica e cominciammo a
lavorarci entrambi. Ma dopo che George iniziò a lavorare con noi, pensai di
potermi ritirare e lasciai il lavoro ai due ragazzi. Avevamo smesso con i furti
e stavamo entrambi bene. Poi John conobbe Cynthia e accadde ciò che già sai.
John, alla fine, era completamente distrutto. Non voleva darlo a vedere, ma
sapevo che fosse così. Perciò quando pensò di diventare Hermes, non lo fermai.
Per la prima volta dopo Cynthia, lui era ancora entusiasta per qualcosa. Sapevo
che gli dava sicurezza e una sorta di controllo che fino ad allora non aveva avuto,
soprattutto nella storia con Cynthia, dove le cose erano accadute senza che
potesse fare molto per lei."
"E quando sono arrivato io?" lo incalzò Paul,
fremendo di ansia per quello che rappresentava il punto cruciale di tutta la
storia.
"Quando sei arrivato tu e lui mi ha raccontato di
aver fatto la tua conoscenza, gli ho chiesto di smettere e ritirarsi. Ma lui ha
voluto proseguire nonostante tutto. È testardo tanto quanto me. Ma poi, per
fortuna, ha sospeso i furti, e io mi sono sentito sollevato. Non volevo né che
tu perdessi il tuo lavoro per causa sua, né che lui finisse nei guai per
qualcosa che gli stava sfuggendo di mano."
“Ma poi è successo.” puntualizzò Paul, il tono lievemente
maligno, “Ho perso il mio incarico per colpa sua.”
“Lo so, e mi dispiace.” esclamò Jim, sinceramente
addolorato, “Non sapevo nulla, non mi hanno avvisato dell’ultimo colpo e sono
molto arrabbiato con John per quello che è successo. Tuttavia, quando mi ha
confessato il motivo per cui l’aveva fatto e soprattutto, i sentimenti che
provava per te, ho deciso di dargli una mano per convincerti a perdonarlo.”
Paul, senza volerlo, si ritrovò ad arrossire alla sola
idea che John e suo padre avessero parlato di.... certe cose.
“Lui… che cosa ti ha detto?”
“Che era pentito e che ti amava e avrebbe voluto
sistemare le cose.”
Nonostante il suo cuore ebbe un piccolo sussulto, Paul
costrinse se stesso a sbuffare, “E tu gli credi?”
“Certo, lo conosco bene." affermò, convinto, l'uomo,
"So quando sta dicendo la verità.”
“Non credo però che abbia scelto la persona adatta per
farsi aiutare.” ribatté Paul.
La sua parte razionale stava ancora avendo la meglio su
di lui, sapeva essere incredibilmente sadica quando si impegnava. E Paul poté
vederlo facilmente dalla reazione di Jim: il volto si incupì e gli occhi
divennero lucidi. Come se avesse voglia di piangere. Ma nonostante questo,
l'uomo resistette e proseguì nell'affrontare Paul con coraggio.
“Beh, forse non sono la persona adatta per
convincerti." concordò Jim, "Ma di sicuro sono l’unico a sapere per
certo che tua madre vorrebbe che lo perdonassi. E che perdonassi anche me.”
Gli occhi di Paul si spalancarono di nuovo con sdegno, di
fronte alla figura intoccabile che suo padre stava tirando in ballo.
"Tu non sai un bel niente, non puoi parlare di lei.
”
“Sei in errore, Paul, io so tutto di lei.”
“No, non è vero." protestò Paul, alzandosi in piedi,
e questa volta era lui che aveva voglia di piangere per tutto ciò che era
accaduto e stesse ancora accadendo, "L’hai lasciata da sola a crescere due
bambini senza più dare tue notizie, perciò non osare insinuare cosa lei avrebbe
voluto che facessi.”
“Paul, lo so che sei ancora arrabbiato con me, ma devi
credermi." affermò Jim, guardandolo dal basso e convincendolo a tornare a
sedersi, "Ricordo tutto di tua madre: era la persona più dolce e gentile
del mondo. Ed era comprensiva; dopotutto, lei sapeva in che guaio mi fossi
cacciato e ha accettato la mia decisione di andare via.”
Se Paul non avesse sentito il proprio cuore precipitare
con un tonfo improvviso, avrebbe pensato che si fosse fermato. Non poteva
credere alle sue orecchie. Sua madre sapeva?
“Cosa?” chiese comunque, lasciando trapelare il suo
sconvolgimento.
“Sì." rispose Jim, "Vedi, lei mi ha aiutato a
organizzare la fuga. Naturalmente all’inizio ha provato a farmi cambiare idea,
sostenendo che non ci avrebbero mai trovato, anche se avessi dato un nome
falso, ma io sapevo che non era vero. E lei capì che non potevo continuare a
vivere con il terrore che ogni giorno potessero far del male a voi o a lei,
insieme a Liverpool o da qualunque altra parte del mondo. Così cedette e lasciò
che me ne andassi. Cercavo sempre di tenermi in contatto con lei: appena potevo
le mandavo un po’ di soldi per te e Mike e lei mi informava dei vostri
progressi a scuola e dei-”
“Ma se lei sapeva..." lo interruppe Paul,
sconcertato da tutti quei dettagli che gli erano stati taciuti, "...
perché non ce lo ha mai detto?”
“Hai ragione. Il fatto è che in un primo momento, abbiamo
pensato di non dirvi nulla. Eravate troppo piccoli e temevamo che poteste
lasciar scappare qualche informazione con qualcuno. Le orecchie indiscrete
stanno dappertutto, sai. In seguito, quando siete cresciuti, lei avrebbe voluto
spiegare tutta la verità, ma a quel punto voi mostravate troppo rancore nei
miei confronti. Pensava che non avreste mai potuto crederle, o comunque che
avreste odiato anche lei."
“Chi mi dice che non stai inventando tutto? Lei è morta,
non può confermare quello che hai detto.”
Jim aggrottò la fronte. Era arrabbiato, sì, ma soprattutto
deluso perché Paul si stava dimostrando il testone che gli aveva descritto
John. Vederlo ancora pieno di dubbi faceva male. Certo, non pretendeva che Paul
saltasse di gioia, ma neanche che pensasse che Jim potesse sfruttare la morte
di sua madre per la loro riconciliazione.
“Non mentirei mai su tua madre, Paul." disse poi,
con tono glaciale, "Lei era la mia vita.”
Alle sue parole e al suo sguardo penetrante, Paul si
sentì rabbrividire. Forse aveva esagerato questa volta. Così arrossì e distolse
lo sguardo, provando a pensare ad altre domande per chiarire i suoi dubbi.
“Allora perché lei non ci ha detto nulla? Se avesse
provato, forse ci sarebbe stata una possibilità.”
“Hai detto bene, Paul, forse. Forse l’avreste
capito, o forse no, e così avremmo solo peggiorato la situazione. Non lo
sapremo mai, Paul, non possiamo tornare indietro e cambiare le cose. Possiamo
solo accettare ciò che è successo e andare avanti.”
Paul annuì lentamente. Sì, suo padre aveva ragione: se
ripensava a se stesso da ragazzino, così pieno di rabbia per un padre che li
aveva abbandonati, sicuramente Paul non avrebbe capito il gesto dei suoi
genitori e il silenzio di sua madre. Forse se sua madre avesse parlato, si
sarebbe rovinato anche il rapporto con lei.
“Cosa hai fatto dopo, allora?”
“Le dissi di lasciar perdere e lei cercò solo di non
alimentare ulteriormente il vostro odio nei miei confronti.”
Il giovane ispettore si morse il labbro. Il sacrificio di
suo padre era stato ammirevole, Paul doveva riconoscerglielo. Anche se suo padre
era stato assente, se non altro, Paul aveva avuto una madre affettuosa e
presente. Il ricordo che lei gli aveva lasciato era dei più dolci.
“Io… non avevo idea che voi foste d’accordo.”
“Non è stata una decisione facile e sicuramente sarà
stata quella sbagliata, ma questo è per dirti che tutti possono sbagliare. E
quando sbagliano le persone che amiamo, soffriamo di più, ma è anche questo
parte della vita. È ciò che ci permette di crescere. Ho sbagliato ad
abbandonarvi in quel modo, con il senno di poi so che avrei potuto chiedere
aiuto, alla polizia forse, così da poter continuare a vivere insieme.
Nonostante questo, ho cercato di rimediare ai miei errori, occupandomi di un
ragazzino che come me era rimasto solo. E ora è lui ad aver sbagliato. Ma devi
perdonarlo, Paul, ti prego. John è un bravo ragazzo. Lo conosco molto bene
io."
Il rossore sulle guance di Paul divenne più intenso nel
sentire la preghiera del padre. Perché ci teneva così tanto? Forse tanto quanto
al suo stesso perdono?
"E dovrei perdonare anche te?" gli chiese,
incrociando le braccia sul petto.
"Sì.” sospirò Jim, “È la cosa a cui tengo di più. Il
perdono tuo e di Mike."
"Se ci tenevi così tanto, perché hai voluto vedermi
solo ora?"
"Avevo paura. Ma soprattutto, non credo che fossi
pronto prima di adesso."
"Come fai a dirlo?” domandò Paul, perplesso, “Tu non
mi conosci."
Con grande sorpresa di Paul, Jim sorrise con una punta di
furbizia. E questo lo rese improvvisamente nervoso.
"Oh, io ti conosco bene, invece.” ribatté Jim, “E
non solo perché sono tuo padre. Nei racconti che John mi riferiva su di te,
potevo vederti chiaramente e riconoscere il bambino che avevo lasciato a
crescere da solo. Poi, man mano che John iniziava ad affezionarsi a te, i suoi
racconti sono diventati così attenti e dettagliati che mi sembrava di essere
ogni volta insieme a te. Come se mai fossimo stati separati. John ti ha sempre
osservato bene, fin dal primo momento."
"Perché gli conveniva." affermò Paul, con uno
sbuffo.
E quella fu la prima volta in cui Paul si accorse che un
po’ di quella rabbia, anzi, molta rabbia era scemata, lasciando il posto a una
sorta di indispettito fastidio.
"All'inizio, certo, non lo metto in dubbio.”
concordò Jim, “Ma poi è stato perché ti amava."
Paul chiuse gli occhi per un istante, sentendo il suo
cuore agitarsi nel suo petto. Oh santo cielo, non poteva crollare ora. Quello
che gli aveva fatto John era ancora terribile e lui era arrabbiato e…
E ee…
E Paul era stanco di sentirsi così, ma non poté resistere
alla tentazione di lanciare un’ultima frecciatina a suo padre, una che
coinvolgeva anche John.
"E tu? Vorresti farmi credere che per te va bene,
tutta questa situazione? Tuo figlio si innamora dell'uomo che lo ha ingannato e
gli ha spezzato il cuore, e per te è tutto normale?"
Jim sussultò, non aspettandosi una domanda del genere,
così schietta e intima. Ci rifletté per qualche secondo, e poi rispose,
cercando di essere il più sincero possibile.
"È ovvio che non mi sarei mai aspettato una cosa del
genere. Quando John mi ha confessato i suoi sentimenti per te, ammetto di
essere rimasto spiazzato per un momento. Ma non è stato difficile notare la sua
sincerità, e ho capito quanto tenesse a te e quanto volesse solo renderti
felice d'ora in poi. Questo riavvicinamento tra noi due è un esempio. Pensava
che fosse una buona idea."
"È stata una sua idea?" chiese Paul, battendo
le palpebre, perplesso.
"Tecnicamente è stata di George.” rispose Jim, con
una piccola risata, “Ma poi John, che è stato a più diretto contatto con te, ha
capito che tu fossi cambiato e che ci fosse una minima possibilità che forse ti
avrebbe fatto piacere."
Paul si morse il labbro, mentre Jim lo osservò
intensamente, come fossero i due poli di una calamita, come se ora che
finalmente era tutto chiarito, lui non potesse più distogliere lo sguardo dal
suo bambino, il suo bambino ormai cresciuto.
"Aveva ragione, Paul?" continuò Jim, timoroso.
Paul strinse le dita sulle braccia, mentre una sola
parola occupava la sua mente.
Una sola parola e una sola risposta.
"Sì."
Era stato difficile dirlo, era stato difficile cedere, ma
il sorriso solare di Jim gli disse che ne era valsa la pena.
“Bene, sono… sono davvero felice, non hai idea di quanto-"
"Ma!” lo interruppe Paul, desiderando chiarire
alcune cose, prima che suo padre facesse troppi voli di fantasia, “Questo non
vuol dire che tornerà tutto come prima o che comincerò a chiamarti papà."
"No, lo so bene." concordò Jim, mestamente.
"Ci vorrà tempo, molto
tempo, per questo e per accettare il fatto che voglia perdonarti."
specificò Paul, con convinzione.
Jim annuì, sorridendo dolcemente, come se ora fosse
difficile smettere di sorridere, "Io sarò qui ad aspettarti per tutto il
tempo che vorrai."
"D'accordo." sospirò Paul.
"E con John?" chiese Jim.
Già, quella era una bella domanda.
E con John?
****
Il viaggio di ritorno fu ancor più silenzioso
dell’andata, se possibile.
John non aveva idea di cosa fosse successo nell’incontro
tra Paul e Jim. Aveva solo intravisto Jim, che gli aveva sorriso debolmente.
Non sapeva se prenderlo come un segno positivo, della serie, “Andrà tutto
bene”, oppure come qualcosa di negativo, per esempio, “Missione fallita”.
Lui, John, non aveva neanche il coraggio di chiederlo.
Paul aveva uno sguardo molto concentrato, come se gli stesse intimando di non
osare fargli neanche una sola domanda su quanto fosse accaduto. E John, suo
malgrado, dovette obbedire, anche se la curiosità lo stava divorando.
Dopodiché avevano recuperato la refurtiva di Hermes e
l’avevano caricata in macchina.
E ora eccoli là, tutti intenti a scaricare i pesanti
scatoloni e portarli nella casa di Paul.
Quando finirono, John mise le mani sui fianchi,
osservando la sua refurtiva. Era difficile, lasciar andare tutti quegli oggetti
che aveva recuperato, anzi, rubato, affrontando missioni complicate, che
l’avevano eccitato, ma anche spaventato. John le ricordava una per una, con
malinconico affetto e rimorso. Tuttavia ora non aveva più bisogno di queste
cose. Non gli davano più alcuna gioia, né il calore o la felicità che ogni
essere umano cerca. Aveva bisogno di Paul, però, e restituire la refurtiva
forse non gli avrebbe fatto ottenere ancora il suo incarico, ma avrebbe potuto
colpirlo al cuore, solo un po’. John non chiedeva tanto, una piccola breccia nel
suo cuore era sufficiente per far uscire tutto l’amore che era sicuro Paul
provasse ancora per lui. E poi chissà, magari quell’amore l’avrebbe convinto a
restare.
Il problema era che Paul non stesse mostrando nulla di
tutto questo. Era come immerso in una profonda riflessione, come se fosse su un
altro mondo. John sapeva che fosse dovuto solo all’aver rincontrato suo padre.
Paul doveva essere rimasto sorpreso, sconvolto. Oh, quanto avrebbe voluto solo
abbracciarlo per rassicurarlo, come aveva fatto prima di quel disastro, dirgli
che sarebbe andato tutto bene d’ora in poi. Ma non poteva farlo, non poteva né
abbracciarlo, perché Paul l’avrebbe respinto, né incoraggiarlo con quei
messaggi di speranza, perché John non sapeva cosa sarebbe accaduto in futuro. O
forse lo sapeva, e proprio per questo non poteva dirgli che sarebbe andato
tutto bene. Non dipendeva da lui, lui aveva fatto tutto ciò che aveva potuto,
ora toccava a Paul.
“Allora, come spiegherai questo ritrovamento?” domandò
John, provando a distrarsi.
Paul sospirò, evitando di guardarlo, “Non lo so, mi
inventerò qualcosa.”
“Non avrai dei guai, vero?”
“No, non direi.” rispose il giovane, scrollando le
spalle.
“D’accordo." sospirò John, prima di mordersi il
labbro.
Non voleva che quella conversazione terminasse, perché
avrebbe significato solo una cosa. L'addio definitivo a Paul. E addio era una parola così brutta.
Diventava poi insopportabile se associata a Paul.
Così John fu costretto dal proprio cuore a continuare la
conversazione in qualunque modo.
"Con Jim tutto a posto?"
Paul si morse il labbro, "Non ne sono sicuro."
"Perché?"
"Vuole che lo perdoni."
"E lo farai?" chiese John, il tono attento e
addolcito, lo sguardo ancora posato su Paul.
"Io credo di sì.” rispose Paul, “Mia madre vorrebbe
che lo perdonassi."
"Per quello che vale la mia opinione, penso che
dovresti farlo.” affermò John, “Pensavi di aver perso un padre e ora lo hai
ritrovato. Nonostante tutto quanto possa aver fatto, è una fortuna che capita a
pochi."
"Sarà complicato, ma ci proverò."
"E’ un’ottima decisione."
Paul accennò un debole, debolissimo sorriso che fece
saltare il cuore di John.
Egli sperò che Paul ora dicesse qualcosa riguardo il
perdono nei suoi confronti. Sicuramente anche Paul ci stava pensando, era in
evidente duello con se stesso, ma non una sola parola fu proferita a questo
proposito.
Così il piccolo volo di speranza di John andò a
schiantarsi sulle vette della irremovibilità di Paul. Era ovvio. Paul non
l'avrebbe mai perdonato. E prima John l'avesse accettato, meglio sarebbe stato
per tutti.
Ma soprattutto, più facile sarebbe stata la separazione
definitiva dal giovane uomo che aveva stravolto e migliorato la sua vita.
"Allora…” continuò John, “Non ci resta che dirci
addio.”
Paul sussultò lievemente, prima di portare finalmente gli
occhi su di lui, “Cosa?”
“Sì, addio, domani parto.”
Addio,
una parola che continuò a rimbombare nella mente di Paul, stordendolo appena,
ma lasciandolo abbastanza lucido da chiedere, “Dove vai?”
“Io e Julian andiamo a passare le vacanze di Natale da
Cynthia. Quando torneremo, tu sarai già andato via.”
“Oh.”
Oh era
la cosa più giusta da dire, dal momento che Paul non sapeva bene cosa dire né
fare. Pensava che non gli sarebbe importato nulla di John, che il fatto di non
vedersi più sarebbe stato solo il suo desiderio che veniva esaudito.
Ma ora scopriva di non volere niente di tutto ciò, anzi,
gli angoli dei suoi occhi pizzicarono fastidiosamente, mentre un futuro che non
comprendeva John né il piccolo Julian scorreva nella sua mente.
Un futuro certamente doloroso.
“Volevo…” continuò a dire John, sorridendo e arrossendo
appena, mentre abbassava lo sguardo, “Volevo chiederti di restare qui, con me e
Julian, perché sentiremo entrambi la tua mancanza.”
“Julian non sentirà la mia mancanza, è troppo piccolo.”
“No, non è vero, certe cose le avverte anche lui.” rispose
John, “E comunque, mi sono reso conto che ho perso il diritto di chiedertelo.”
Paul spalancò gli occhi, sentendo il viso avvampare e no,
non per piacere. C’era solo tanta rabbia ora, rabbia insieme a qualcosa che
Paul conosceva bene. Entrambe le emozioni facevano battere forte il suo cuore,
come se questo piccolo, fondamentale, folle organo volesse liberarsi dalla
gabbia toracica e prendere lui il comando del corpo di Paul.
E il giovane ispettore, notando che John avesse ormai
rinunciato a combattere, decise di concedergli un po' di quel comando.
"Hai ragione, sai?" esclamò, spingendolo fuori
da casa sua, "Non hai nessun diritto di chiedermelo."
John batté le palpebre, decisamente preso in contropiede,
"Ma... Paul, io-"
"Quindi..." proseguì Paul, incurante di ciò che
stesse dicendo l’altro uomo, "Addio,
John."
E l’istante successivo, Paul fece sbattere la porta in
faccia a John, e poi, pentito e frustrato per il gesto, si accasciò a terra e
pianse.
Fu un pianto silenzioso che valeva più di mille parole.
Le stesse che Paul non aveva il coraggio di accettare, quelle che avrebbero
perdonato John, che gli avrebbero sussurrato di amarlo e poi chiesto di
baciarlo.
Quelle parole che avrebbero lenito la sua sofferenza, la
sua e quella di John.
Non aveva potuto dire tutte queste cose a John, non
ancora, perché prima avrebbe dovuto dirle a se stesso e soprattutto,
accettarle.
Ed era ciò che stava facendo.
Proprio ora, nella sua solitudine, nella sua sofferenza,
nel suo pianto disperato.
Note
dell’autrice: buon Halloween. J
Prima di tutto, chiedo perdono perché il titolo del
capitolo è sbagliato rispetto a quello che avevo anticipato l’altra volta. Questo
perché in effetti quello successivo e questo avrebbero dovuto essere un solo
capitolo, ma ho visto che mi stavo dilungando troppo e li ho divisi.
Quello successivo sarà davvero “Tilltherewasyou”.
Grazie a kiki per la
correzione. Grazie a paulmccartneyismylove e Beatlesmusicismylife per aver recensito lo scorso capitolo.
Mi dispiace un po’ che ci sia scarsa partecipazione,
proprio ora che le cose si stanno chiarendo e stiamo arrivando alla fine. Se è
un problema di non gradimento della storia potete dirlo, anche perché vedo
molte visualizzazioni e pochissime recensioni. Non capisco ancora quale sia il
motivo.
Comunque, buon Halloween e buon weekend.
Spero di scrivere presto il prossimo capitolo, altrimenti
ci sentiremo il 6 novembre con una fluff che più fluff non si può. Fra John e
Paul, ovvio. ;)
Lo aveva spinto fuori casa sua,
aveva pronunciato quella parola insopportabile e poi gli aveva chiuso la porta
in faccia.
John era rimasto per qualche secondo a guardare quello
stupido ostacolo che lo divideva dall'uomo che amava. Sperava che Paul potesse
cambiare idea e tornare da lui.
Ma per dirgli cosa?
Beh, John non poteva saperlo davvero. Paul avrebbe anche
potuto non parlare; avrebbe potuto limitarsi ad
abbracciarlo, magari, o baciarlo. Oh, quello sarebbe stato un vero
sogno.
Ecco, quanto stupido era stato John a pensare qualcosa di
simile? Era proprio un sogno. Un simile scenario avrebbe potuto svolgersi solo
nei suoi sogni ormai, perché Paul non voleva più avere niente a che fare con
John. Perciò ora lui doveva avere la forza di accettarlo e smettere di
combattere quell'inutile battaglia. Si sentiva quasi come Don Chisciotte nelle
sue battaglie contro i mulini a vento.
E il suo amore era diventato la più futile di queste battaglie. Combattere per lui ora, con Paul che
proprio non aveva intenzione di perdonarlo, era troppo doloroso. John non
poteva continuare a farsi del male, non era così follemente masochista.
Amava Paul, ancora, con tutto il suo cuore, ma se avesse
continuato a insistere con lui, se avesse continuato a sbattere la testa contro
quell'incrollabile muro, si sarebbe ferito e questa
volta molto dolorosamente. Era qualcosa che non poteva permettere.
Lui doveva stare bene per suo figlio, per quello splendido
bambino che ora dormiva serenamente tra le sue braccia.
L’uomo sospirò, chinandosi a baciargli il capo
delicatamente.
La sera prima John non aveva fatto altro che pensare a
quello che era accaduto con Paul, e ogni momento rivissuto nella sua mente gli aveva
causato brividi di freddo e fastidiose morse al cuore. Se avesse continuato in
quel modo, non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte, e dal
momento che il giorno dopo sarebbero partiti, John doveva essere
sveglio, con i riflessi pronti.
Così, quando Julian si era addormentato, lo aveva preso
delicatamente tra le sue braccia e portato nel suo letto, accoccolandosi contro
di lui e guardandolo dormire beatamente, prima che il sonno vincesse anche lui.
Ancora una volta, la presenza del bambino accanto a lui,
il dolce suono del suo respiro lieve, il battito tranquillo del suo cuore, il
tepore del suo piccolo corpo, tutte queste cose lo aiutarono a recuperare la
serenità necessaria per dormire.
E ora, appena svegliato dopo quel sonno ristoratore, John
si concesse di stare ancora un po’ sotto il caldo piumone, mentre provava a
svegliare con delicatezza il bambino. Julian fece una smorfia quando iniziò ad
avvertire le dita del padre che gli solleticavano la guancia e il collo. Le
palpebre si strinsero in ricognizione del tocco e le labbra si dischiusero in
un’espressione beata, ma lui non sembrava aver voglia di svegliarsi. Così John
lo avvicinò di più a sé e cominciò a baciargli la fronte, le guance, il naso, e
infine, Julian sospirò e si stiracchiò, prima di stropicciarsi gli occhi con la
mano.
“Buongiorno, amore.” lo salutò John.
Julian sbadigliò, facendo sorridere il padre, che lo
sollevò con le braccia, facendolo dondolare un po’.
“Andiamo, piccolo, sveglia! Oggi dobbiamo partire.” gli
disse, facendo le sue moine per provare a svegliarlo definitivamente, “Sei contento di rivedere la mamma?”
Il bambino annuì e John ridacchiò dolcemente, prima di
sollevare il busto e far sedere Julian sulle sue gambe.
“Allora dobbiamo alzarci, lavarci e preparare le valigie,
giusto?”
"Sì." rispose Julian, la voce ancora impastata
dal sonno, "Ma io ho fame."
"Allora prima scendiamo in cucina a preparare la
colazione." commentò John, facendo il solletico sulla sua pancia quando
brontolò richiedendo cibo, "Vuoi aiutarmi?"
Julian sorrise e annuì, così John gli disse di andare
subito a lavarsi le mani e il bambino saltò giù dal letto, filando subito nel
bagno.
Una volta rimasto solo, John sospirò, restando seduto sul
materasso.
Tra qualche ora sarebbe partito e poi non avrebbe rivisto
mai più Paul. Il pensiero quasi lo fece soffocare. Avrebbe voluto mandare a
quel paese la sua dignità, correre da Paul, e implorarlo di restare con lui,
perché... Come poteva pensareche John potesse continuare a vivere lì, senza Paul di fronte casa
sua?
Senza Paul nella sua vita?
Ma poi John si ricompose, ricordando a se stesso che Paul
non aveva più motivi per restare a Londra. Forse
neanche Jim era un motivo sufficientemente valido per
restare. Jim non era poi legato a Londra come John.
Lui avrebbe potuto raggiungere Paul, andare a trovarlo ogni volta lo
desiderasse.
John no, perché Paul non lo voleva più nella sua vita.
E allora tanto valeva lasciar perdere
Paul e partire.
Il pensiero doloroso fu interrotto bruscamente quando il
cellulare di John vibrò sul comodino.
Il suo cuore sussultò e poi sembrò battere debolmente,
come se volesse permettere ai sensi dell'uomo di diventare più affinati.
E in effetti John sentì la gola
seccarsi, le mani sudare, e i battiti del cuore rimbombare nelle sue orecchie.
La sua mano tremante si mosse verso il comodino, mentre
una sola domanda echeggiava nella sua mente.
E se fosse Paul?
****
“Ma, McCartney, com’è
possibile?”
Paul sospirò, scrollando le spalle. Era nel cortile della
stazione di polizia insieme all’ispettore Starkey, a
Linda e qualche altro agente scelto per recuperare gli scatoloni con la
refurtiva di Hermes dalla sua macchina.
Quella mattina Paul si era svegliato presto, pensando a
cosa inventarsi come scusa per il suo ex-capo. Ci aveva riflettuto a fondo:
doveva trattarsi di qualcosa su cui non si potesse indagare molto, per impedire
che i suoi colleghi volessero intraprendere ricerche più approfondite. Alla
fine era giunto a una sorta di conclusione accettabile.
“Signore, gliel’ho detto.” esclamò Paul, “Ieri sera ho
trovato gli scatoloni abbandonati davanti casa mia.”
“Doveva chiamarci subito.” lo rimproverò Richard,
incrociando le braccia, “Avremmo potuto cominciare a svolgere delle indagini.”
“Mi perdoni, signore, ma dubito fortemente che avreste ricavato qualche informazione utile. È un via piccola quella in cui abito io, non molto
trafficata.”
Richard sembrò riflettere a fondo,
strofinandosi il mento con due dita, prima di tornare a guardare Paul, “Mi
sembra che ci fosse un negozio di fronte casa sua, o sbaglio?
Potremmo interrogare il proprietario per scoprire se ha notato qualche
movimento strano.”
La semplice immagine suscitata dalle parole
dell’ispettore capo fece sussultare impercettibilmente Paul. Sarebbe stata una
vera tragedia.
Lui… quell’uomo di certo, testardo com’era, folle
com’era, avrebbe anche potuto decidere all’improvviso di confessare tutto
direttamente all’ispettore Starkey, pur di farsi
perdonare da Paul. E Paul era ancora convinto che non fosse la cosa giusta da
fare.
“Lo ritengo altamente
improbabile.” si affrettò a rispondere, con calma, “Dal momento che ieri ero
uscito proprio con lui. Vede, noi siamo... siamo molto
amici.”
Richard lo osservò con un sopracciglio alzato. Non
sembrava che non volesse credere a Paul, il quale lottava con tutte le sue
forze per non arrossire; sembrava invece infastidito per quello che era
accaduto, come se avesse appena sorpreso un bambino a rubare una misera
caramella. Paul era sicuro che non avrebbe subito una
vera ramanzina. Dopotutto aveva già ricevuto la sua punizione.
“Non capisco, comunque, cosa significherebbe tutto
questo?” sospirò infine Richard.
Paul fece scrollare le spalle, con fare
noncurante, “Non lo so, forse Hermes si è stancato di rubare e di collezionare
questi oggetti e ha deciso di restituirli.”
“O forse è rimasto scottato dal suo primo fallimento e ha
avuto una crisi d’identità.” aggiunse Linda, “Potremmo anche non rivederlo
più.”
“Può darsi che sia come dice uno di voi.” affermò
Richard, prima di tornare a guardare Paul con un cipiglio molto serio,
“Tuttavia, McCartney, lo sa che questo non le farà riavere il suo incarico?”
“Lo so, signore.” rispose Paul, “Ho pensato solo di
portarvi la refurtiva così potevate restituirla ai legittimi proprietari.”
“Sì.” disse Richard, annuendo fra sé, “Sì, ha fatto bene,
la ringrazio.”
Era fatta, l’ispettore aveva creduto alle sue parole.
Certo, Paul non poteva dire che la cosa non l’avesse messo a disagio. Stava pur
sempre mentendo a un suo superiore, anzi all’intera categoria dei poliziotti,
la stessa di cui aveva fatto parte per molti anni, la stessa per cui aveva dato
tutto il suo impegno e tutte le sue forze. Solo che un valore più importante
stava guidando ora le sue azioni, e Paul non avrebbe mai potuto rimpiangerlo.
Era più che convinto di tutto quanto stesse facendo.
Così si morse il labbro e tornò a guardare i suoi ex
agenti, che finivano di controllare la refurtiva per vedere se ci fosse tutto.
“Quando partirà per Shrewsbury?”
domandò poi Richard.
“Io… non lo so.” rispose Paul, incerto, “Devo ancora
organizzarmi.”
In realtà non era più sicuro di cosa fare, e si odiava
per questo, perché sapeva fosse collegato alla stessa persona che aveva
stravolto la sua vita. Dall’ultima volta che lo aveva visto, tutta la voglia di
Paul di partire e abbandonare Londra era come svanita nel
nulla. Al suo posto c’era invece un vuoto, un vuoto
che chiedeva di essere colmato, una mancanza che stringeva il suo cuore in un
modo che faceva male.
Il problema era… Paul voleva colmare questo vuoto?
“Vedrà che si troverà bene.” commentò l’ispettore,
destandolo dai suoi pensieri.
“Sì.” rispose Paul, “Grazie.”
“Ora se non le dispiace, devo andare a riferire a
Scotland Yard che abbiamo recuperato la refurtiva.”
“Certo, signore.”
“In bocca al lupo per il nuovo incarico.” gli augurò,
stringendogli la mano e rivolgendogli un gran sorriso, che Paul ricambiò.
Dopotutto, nonostante quello che era successo, Paul non
poteva dire di essersi trovato male con l’ispettore Starkey.
L’uomo era sempre stato molto corretto nei suoi confronti, disponibile e
cortese, cercando di rendere il lavoro di Paul più facile, soprattutto nei
primi giorni. E Paul l’aveva molto apprezzato.
“Grazie mille.”
Dopodiché l’ispettore capo lo salutò, rientrando
nell’edificio, e Paul si ritrovò con Linda che gli rivolse un sorriso lieve.
“Allora…” iniziò lei.
“Allora…”
“Partirai davvero per Shrewsbury?”
Ancora questa domanda…
E Paul provò ancora lo stesso turbamento di pochi
istanti prima, lo stesso vuoto che si fece così pesante e ingombrante e…
Dannazione, quanto lo detestava!
“Non lo so, in realtà.” rispose per provare almeno a
ignorare quel sentimento.
“E’ per John, vero?”
Paul sussultò lievemente: non aveva voluto dare un nome a quella persona da quando gli aveva fatto
capire che non si sarebbero visti mai più. E ora sentirlo pronunciare da
un’altra persona lo fece tremare violentemente. Così tanto,
in effetti, che tutto ciò che si era rotto quando Paul aveva scoperto la vera
identità di Hermes, sembrò andare a posto, aggiustarsi.
“Credo… credo di sì.” disse
senza fiato, meravigliato da quella realizzazione che lo travolse come un'onda
del mare in tempesta.
“Credo?”
No, niente credo.
Era così.
Paul non voleva partire.
Non voleva partire per John.
Non voleva che lui sparisse dalla sua vita.
E ora sapeva che dal giorno prima, la rabbia che Paul
provava ancora per lui fosse dovuta solo al fatto che
John avrebbe almeno potuto provare a chiedergli di restare, ma Paul capiva
perché John avesse rinunciato a farlo. Dopo tutti i tentativi di rappacificamento
di John e la testardaggine di Paul, chiunque avrebbe gettato la spugna.
Frustrato e sconfitto, non disposto a soffrire ulteriormente.
Perciò ora toccava a Paul rimediare e alleviare la
sofferenza sua e di John. E doveva farlo al più presto, prima che John
partisse, prima che lasciasse Londra con la convinzione che Paul non lo volesse
più nella sua vita.
"Sì. Io..." iniziò a dire, non riuscendo a non sorridere,
"Linda, scusa, ma devo scappare."
"Paul, ma-"
Ma la donna non fece in tempo a dire alcunché,
dal momento che Paul si precipitò subito verso la sua auto. Si affrettò a
chiuderne lo sportello del bagagliaio, e poi salì per metterla in moto e
sfrecciare fuori dalla stazione di polizia.
In realtà non sapeva bene da dove John dovesse partire, e
di certo non poteva chiamarlo per chiederglielo. No, doveva dirgli di persona
tutto ciò che ora aveva compreso e accettato.
Ovvero che gli mancava qualcosa da quando la situazione
era precipitata. Non tanto il lavoro, perché, dopotutto, se fosse partito, ne
avrebbe comunque avuto uno.
Gli sarebbe mancata però un'altra cosa.
Una persona che lo avrebbe aspettato a casa, come faceva
John.
Una persona che avrebbe sorriso, quando l'avesse visto,
come faceva John.
Una persona il cui semplice pensiero avrebbe fatto
sorridere Paul.
Come faceva John.
Fino a quando c'era stato John
nella sua vita, Paul in fondo si era sentito completo.
E ora con l'aiuto di un piccolo amico avrebbe potuto
sistemare tutto.
Con l'aiuto di George, avrebbe portato John nella sua vita.
Ancora una volta.
****
Stupido.
Stupido, John.
Stupido stupidostupido John!
Ma che diavolo gli era preso quando aveva pensato che
Paul potesse contattarlo?
Sei solo stupidamente innamorato, stupido
John!
Ah ecco. Doveva essere quello il motivo.
Come uno stupido infatti, quella mattina si era affrettato a recuperare il cellulare
dal comodino per leggere il messaggio.
E con un pesante tonfo al cuore, aveva visto
che fosse da parte di George: gli comunicava di essere disponibile, se lui
avesse avuto bisogno di un passaggio in macchina alla stazione di King's cross.
Così John aveva sospirato, abbandonando la
fronte contro il palmo della sua mano.
No, non aveva bisogno di un passaggio.
Voleva essere solo nei suoi ultimi momenti
trascorsi nella stessa città di Paul, la città che li
aveva fatti incontrare e poi li aveva uniti così follemente.
Voleva dire un ultimo, silenzioso addio a
Paul. Sapeva che quel pensiero non sarebbe mai giunto a destinazione, ma era
qualcosa che doveva fare per se stesso, più che per Paul. Almeno in questo modo
avrebbe voltato pagina definitivamente e avrebbe potuto
tornare a una vita ora decisamente normale. Senza Hermes, senza Paul.
Ora era solo John, il padre di Julian. Il
resto, i panni del ladro e quelli dell’amante di Paul, erano
svaniti nel nulla.
Così si ritrovò quel pomeriggio nella
stazione di King's cross. La sua mano destra
stringeva con forza quella di Julian per evitare che si perdesse, mentre con
l'altra trasportava il trolley con i loro vestiti ed effetti per stare lontano da casa per almeno tre settimane.
Con la sua vista ciecata, però, era
impossibile per Johnvedere
il tabellone degli orari. Si decise quindi ad
inforcare i suoi occhiali, e finalmente lesse il binario da cui sarebbe partito
il loro treno.
E dannazione, padre e figlio erano
anche in ritardo. Il treno sarebbe partito tra dieci minuti esatti e la
stazione era immensa e immersa nel caos, piena di gente che arrivava e partiva,
per non parlare dei pazzi invasati che andavano a fare la foto presso il binario 9 e 3/4. Che razza d'intralcio quando uno era già
in ritardo!
"Andiamo, Jules. Corriamo un po’, sei d’accordo?"
"Sì, papà."
John si mise a correre, facendo attenzione a
non perdere Julian, e raggiunse la zona dei binari. Fece scorrere accanto a lui
tutti i binari fino a quando non giunse a destinazione. Come lui, c'erano altri
passeggeri che si affrettavano a salire.
John cercò il vagone giusto e una volta
trovato, caricò prima il bambino e dopo se stesso con il trolley. Quando trovò
i loro posti che davano sulla piattaforma, fece sedere
Julian e sistemò il bagaglio nello scompartimento sopra di loro. Poi si sedette
accanto al finestrino e non fece in tempo a sospirare per l'affanno della
corsa, che subito Julian si arrampicò sul suo grembo per accoccolarsi contro il
suo petto, mentre fissava lo sguardo sulle persone ancora a terra.
John avvolse le braccia intorno al figlio,
tenendolo vicino, e poi imitò il suo gesto, guardando fuori dal finestrino.
C'erano molte persone che salutavano con la
mano i passeggeri del treno accanto, dicevano loro arrivederci, buon viaggio,
o inviavano loro baci immaginari.
Sorrise fra sé, mentre la sua immaginazione
ricreava una perfetta scena da film strappalacrime degli anni ‘60, dove Paul
correva lungo la piattaforma, cercando tramite i finestrini qualcuno in
particolare. Cercando John.
Il suo cuore sussultò con gioia e dolore,
mentre Paul nella sua mente lo trovava e gli dichiarava il suo appassionato
amore, segno che dunque, l'aveva perdonato.
Ma no, non era possibile.
John chiuse gli occhi, portandosi una mano
alla testa. Paul non l'avrebbe mai fatto, non sarebbe mai arrivato a tanto per
John.
Paul aveva rinunciato a John e ora John stava
rinunciando a lui. Non aveva neanche provato a chiedere a Paul di restare a
Londra.
E mentre il controllore dava un'ultima
occhiata sulla piattaforma per controllare eventuali ritardatari dell'ultima
ora, John capì che quel viaggio avrebbe aiutato a rendere la separazione
definitiva più facile.
"Guarda,
papà."
"Cosa, amore?"
"Lì." rispose il bambino, puntando
il dito indice sul vetro.
John si avvicinò per controllare meglio.
C'era qualcuno che stava correndo lungo il
binario.
E se John non fosse stato certo del
contrario, avrebbe potuto dire che si trattasse di Paul. Avrebbe riconosciuto
quella massa di capelli ovunque.
Ma non poteva essere lui, gli ricordò una
parte di sé stesso.
O forse sì?
Era Paul?
****
Paul parcheggiò nel primo posto libero che
trovò. Non era sicuro che fosse possibile parcheggiare lì ma beh, cosa
importava ora? Al massimo avrebbe trovato una multa. Aveva solo bisogno di
cinque minuti per recuperare qualcosa.
In effetti, doveva recuperare la cosa più
importante della sua vita.
O meglio, ribatté fra sé mentre entrava nel
grande edificio con i mattoni di un bel rosso vivo, doveva assicurarsi che
fosse in buone mani.
Quando entrò nella stazione, si ritrovò
subito in uno degli ambienti più confusionari che potessero esistere in una
metropoli come Londra. C’era gente che andava avanti e indietro, con i loro
pesanti bagagli pronti per le vacanze e le buste piene di regali per il Natale.
Era inutile cercare John fra tutte quelle
persone. Secondo le istruzioni che gli aveva dato pochi minuti prima George al
telefono, il treno sarebbe partito fra pochi minuti. Paul doveva trovare prima
di tutto il binario giusto.
Così rivolse il suo sguardo trepidante verso
il tabellone degli orari. Lo scorse ansioso, con il cuore che palpitava nelle
sue orecchie, rendendo quel fastidioso rumore di passi affrettati, voci
concitate, annunci all'altoparlante e stridii di binari, ancor più assordante.
Poi finalmente trovò l'informazione che
cercava e cominciò a correre a perdifiato verso la sua meta.
Aveva ancora pochi minuti prima che il treno
partisse. Se fosse arrivato in ritardo, sarebbe stato terribile. Non avrebbe
mai potuto perdonare se stesso per aver rimandato fino all'ultimo momento
possibile il cercare di sistemare le cose con John.
Ma non era il caso di fasciarsi la testa prima del dovuto,
dopotutto...
Dopotutto il treno era ancora fermo al
binario, e con lui lo stesso John.
Si fermò solo per un istante, cercando di
scorgere prima di tutto la figura familiare dell'uomo tra quelle ancora sulla
piattaforma. Ma nessuna apparteneva a John.
Doveva essere già sul treno.
Così Paul, prendendo un gran respiro, iniziò
a correre cercando di guardare nel frattempo attraverso i finestrini, per
trovare John dall'altra parte del vetro.
Se non l'avesse trovato, piuttosto sarebbe
salito sul treno e al diavolo il biglietto e quella
stupida macchina parcheggiata fuori posto. Gliel'avrebbero
rimossa, ma almeno lui avrebbe ritrovato John.
L'avrebbe trascinato nuovamente nella sua
vita.
Stava per arrivare quasi alla fine del treno,
come gli ricordò il suo cuore disperato, quando alla fine, con il vuoto nella
pancia che sussultò all'improvviso, lo vide.
John era al di là del
finestrino: il suo sguardo era sorpreso, totalmente incredulo ma si sforzava di
mantenere una sorta di controllo, forse per non apparire più così debole di
fronte a lui.
Prima o poi Paul avrebbe dovuto dirgli che quella sua parte vulnerabile era
la sua preferita, perché lui era uno dei pochi a cui fosse stato concesso
l'onore di vederla e toccarla.
Ma anche perché, nel
contempo, faceva emergere il lato più fragile di Paul.
Come accadde in quel momento.
Paul sentì un brivido percorrere il proprio
corpo e indebolirlo, mentre John si alzava e abbassava il finestrino per far
sporgere la propria testa.
"Paul?"
"Ciao, John." lo salutò con voce
tremante e con la bocca improvvisamente secca.
"Che... che cosa ci fai qui?"
Paul si morse il labbro, nervoso. Se avesse
parlato ora, non sarebbe più potuto tornare sui suoi passi. Sarebbe stato così.
Lui e John, insieme, per chissà quanto tempo. Per tutta la vita forse, e il per tutta la vitaera un tempo molto lungo.
Chissà cosa sarebbe potuto accadere. Di sicuro, faceva paura.
Ma il pensiero di quel futuro lunghissimo senza John era ancora più
terrificante. E proprio questo lo convinse finalmente a parlare.
“C’è una cosa che hai rubato e non mi hai
restituito.” disse Paul, il respiro appena affannato per la corsa.
Tutte le speranze di John che, da quando lui
aveva riconosciuto Paul al di là del finestrino, si
erano librate in volo, leggere, nel suo animo, all'improvviso sprofondarono; si
tuffarono, o meglio, furono spinte dal grattacielo più alto di Londra, e si
schiantarono con gran fracasso per terra. Ma certo,
come aveva potuto John pensare che Paul potesse volergli dire altro?
Tuttavia, riflettendoci bene, John non sapeva
a cosa si stesse riferendo Paul. Aveva restituito tutto, ne era certo.
“Cosa?” domandò, la
delusione si era appropriata in modo fin troppo evidente del suo volto.
Solo che sparì ben presto.
Sparì quando Paul sorrise, e questa volta il
suo sorriso era uno che John conosceva molto bene, era quello che faceva
tremare le sue gambe.
Sparì definitivamente, poi, quando Paul portò
una mano sul proprio petto.
Anzi, no, sul suo cuore.
“Questo.” rispose senza distogliere gli occhi
da John, guardandolo ora senza più timore, né
indecisione, né rabbia, né nessun’altro dei sentimenti orribili che avevano
tormentato entrambi negli ultimi giorni.
Così libero dalla sua sofferenza, John sentì
di poter scoppiare di felicità ora. Provò anche a chiudere gli occhi, come a
voler trattenere quella sensazione stupenda dentro di sé, ma era così potente
che gli fece provare solo le vertigini e fu costretto a tornare a guardare
Paul, senza alcun dispiacere, si capisce, e si aggrappò al finestrino per non
cadere, ora che le gambe si erano indebolite di fronte a Paul.
“Mi dispiace, Paul.” disse con un piccolo
sorriso, “Non posso restituirtelo. È la cosa a cui tengo di più fra quelle che ho rubato.”
“Lo so e non voglio che tu lo restituisca.”
lo rassicurò Paul, “Voglio che sia tuo. Ad una
condizione.”
“Quale?” domandò John, prestando molta
attenzione, nonostante Julian avesse cominciato a richiamare la sua tirando i
suoi pantaloni.
“Devi prendertene cura tu." spiegò Paul,
cercando di reprimere, fallendo, un sorriso tinto di dolce malizia,
"Perché io devo occuparmi di quello che ho rubato io.”
John si lasciò scappare una risatina, “E’ la
prima volta che rubi qualcosa?”
“Sì. E non ne sono affatto
pentito.”
“Neanche io.” esclamò John, stringendo le
dita sul finestrino.
Dio, era incredibile avere Paul di fronte a
lui, con il respiro affatto per essergli corso dietro, con quel sorriso che
proprio non riusciva ad abbandonare il suo viso, con un dolce rossore che
colorava le sue guance e il suo naso e, diamine, perfino le sue orecchie.
Faceva venir voglia a John di saltare oltre quel finestrino maledetto che lo
separava da Paul, e poi prenderlo tra le sue braccia e stringerlo e baciarlo e-
Ma il fischio del capotreno fece scoppiare il suo volo di fantasia.
Per uno spaventoso momento John pensò di aver sognato tutto. Invece Paul era
ancora lì.
“Allora, affare fatto?” domandò l'uomo.
“Affare fatto.” affermò John, “Ma dovremo
stipulare un qualche accordo per mettere in chiaro ogni singolo particolare di
questo scambio. Sono un uomo d’affari, io, sai?”
“Non ti preoccupare." lo rassicurò Paul,
"Quando tornerai, sistemeremo tutto.”
John batté le palpebre, sorpreso e deliziato
da ciò che volevano dire davvero le parole di Paul.
“Significa che resti qui?” domandò,
desiderando ardentemente un sì come risposta.
E il sì arrivò.
“Sì." rispose Paul, annuendo, "Ti
aspetterò proprio qui.”
"Ci conto, eh?"
"Contaci."
Poi finalmente John dedicò le sue attenzioni
al figlio che tirava ora con più forza il tessuto dei suoi pantaloni, e lo
prese in braccio, permettendogli di guardare fuori dal finestrino.
Il bambino sorrise e salutò Paul con la mano,
mentre lui ricambiava e augurava loro buon viaggio, promettendo a entrambi che
si sarebbero rivisti molto presto.
Il treno prese velocità e John continuò a
guardare Paul, mentre diventava solo un puntino all'orizzonte.
Quando non lo vide più, John si decise a
rientrare e sedersi comodamente.
Sorrise come uno sciocco, o forse come un
innamorato, mentre le parole di Paul, la sua voce calda, i suoi grandi occhi,
si appropriarono con adorabile prepotenza della sua mente.
Quasi John non riusciva a crederci che fosse
accaduto davvero e non si trattasse di un altro dei suoi sogni. Era proprio a
un passo dal darsi un pizzicotto per accorgersi che fosse sveglio e cosciente.
Tuttavia sapeva che non aveva bisogno di
farlo. I battiti folli del suo cuore si stavano preoccupando per fargli capire
tutto questo.
No, non aveva sognato.
No, non avrebbe più pensato a Paul come
qualcosa che aveva perso, come una persona che era appartenuta solo al suo
passato.
Ora poteva vedere anche lui nel suo futuro
perché era tutto sistemato.
Perché Paul, il suo Paul, sarebbe stato lì al
suo ritorno.
Lì ad aspettarlo.
Lì per John.
Note dell’autrice:aww, ce l’hanno fatta. Yeah! Che testoni erano eh? :D
Bene, spero che il capitolo sia piaciuto e
che sia stato come ve l’aspettavate, perché andiamo,
era ovvio che avrebbero fatto pace. ;)
Grazie a kiki che
ha corretto e a Beatlesmusicismylife, Astoria
McCartney, Beoir, Mclennon,
Oh darlingbeatles, Adayinthelife e paulmccartneyismylove
per aver recensito lo scorso capitolo.
Siamo a -1 dalla fine + epilogo, of course. J
Il prossimo capitolo non so ancora che titolo
avrà, devo pensarci bene.
Quando era piccolo, le vacanze di Natale passavano fin
troppo velocemente, e altrettanto velocemente ricominciava la scuola.
Paul odiava con quanta fretta scorresse il tempo. Gli
piaceva non doversi alzare la mattina presto per andare a scuola, godere ancora
del tepore delle coperte del suo letto, stare a casa e guardare dalla finestra
mentre fuori nevicava... Uh, sembrava facesse così freddo.
Sì. Quando era piccolo, sembrava davvero che un giorno iniziassero
le vacanze e quello dopo iniziasse già la scuola. Forse perché Paul aspettava
con ansia le vacanze di Natale dalla ripresa delle lezioni a settembre.
Ora, però, era diverso.
Ora il tempo scorreva lentamente. Troppo
lentamente.
E il motivo era che Paul non stava aspettando le vacanze
di Natale.
Aspettava qualcos'altro, qualcosa che sarebbe accaduto
dopo Natale, dopo Capodanno...
Aspettava John.
Controllò l'orologio: mancavano esattamente due giorni al
ritorno di John, e sarebbe andato proprio lui a prenderlo in stazione, come
promesso.
Solo che... Dio, sembrava ancora così lontano quel
giorno. Era possibile che il tempo stesse scorrendo più lentamente. No, vero?
No, figuriamoci, era solo un’impressione, una sensazione
dovuta a sciocche supposizioni del suo altrettanto sciocco cuore innamorato.
Certo, la lontananza da John non stava aiutando a farlo
ragionare con lucidità, ma ormai si trattava di resistere solo per altri due
giorni. Cos’erano due giorni in confronto alle tre settimane che li avevano
separati?
Inoltre, non poteva dire di essersi totalmente annoiato.
Aveva approfittato di quei giorni per cercare di riallacciare il rapporto con
Jim. Non era facile, c’era una sorta di imbarazzo e timidezza che guidava le
loro azioni, ma Paul era convinto di ciò che stava facendo. Era giusto nei
confronti di un uomo che era stato costretto a sbagliare, pur sapendo che
avrebbe arrecato sofferenza ai suoi cari; era giusto nei confronti di sua
madre, era giusto nei confronti di se stesso e di Mike. Non avrebbero dovuto
continuare a portare tutto quel rancore per il padre. Sarebbe stato deleterio e
controproducente, soprattutto per Paul che ora aveva deciso di restare a
Londra.
Suo padre, in fondo, era un persona interessante, lo era
sempre stato. Paul ricordava bene quando aveva cominciato a istruirlo con la
sua cultura musicale: lo prendeva per mano, lo portava in salotto e gli faceva
ascoltare uno dei suoi vecchi dischi in vinile. Altrettanto chiari come ricordi
erano le lezioni di chitarra, quando Jim gli aveva insegnato accordi che in
seguito Paul aveva scoperto essere errati per una chitarra. Erano, in effetti,
più adatti a un banjo. Questo spiegava perché anche John, quando aveva
conosciuto Paul, usasse quel tipo di accordi per suonare la chitarra. Solo che
in quel momento per Paul pensare ad un collegamento tra John e suo padre era
pressoché impossibile.
Paul ricordò i suoi primi giorni a Londra. Era un uomo
completamente diverso allora. Pur avendo molti difetti, come l'eccessiva
sicurezza, un po' di arroganza e soprattutto la mancanza di fiducia verso gli
altri, Paul doveva ammettere che quella versione di se stesso gli piaceva
ancora. Insomma, se non fosse stato così, come sarebbe cambiato il suo futuro?
Avrebbe frequentato John? Si sarebbe innamorato comunque di lui?
Di certo non l'avrebbe mai saputo, ma era contento di
come fossero andate le cose.
Sospirò, mentre era sdraiato sul pavimento di casa sua,
di fronte al caminetto. Stava ascoltando il cd che gli aveva regalato John,
provando a ingannare l'attesa lasciandosi prendere e sopraffare dalla sua voce
che cantava per lui, e nel frattempo leggeva un libro, con Pepper accoccolato
sulla sua pancia e Elvis accanto a lui.
John aveva lasciato a George il compito di occuparsi del
suo gatto, ma Paul decise di prendersene cura personalmente, mentre il padrone
era via. Aveva di sicuro più tempo libero da dedicare al piccolo esserino.
Inoltre, pensava fosse una buona idea portarlo a casa sua: avrebbe potuto
familiarizzare e giocare con Pepper. Così era stato. Era divertente vederli
giocare insieme, rincorrersi sul pavimento e poi aggrovigliarsi davanti al
camino, mordicchiandosi le orecchie a vicenda e facendosi le coccole.
Uno bianco e uno nero, tanto diversi erano, ma avevano
legato subito.
In qualche modo ricordavano a Paul se stesso e John.
Diversi, sì, eppure così compatibili, perfetti, come se fossero in qualche modo
destinati l’uno all’altro, come se fossero due anime gemelle.
Il pensiero fece sorridere Paul fra sé, mentre
accarezzava distrattamente la testolina del suo gatto, e il giovane uomo si
chiese poi cosa ne sarebbe stato della sua vita d'ora in avanti.
Della sua carriera, soprattutto.
Tornare in polizia era fuori discussione. Era un lavoro
che amava. In fondo, era stato un sogno che si era avverato. Tuttavia, ora,
qualcosa si era incrinato. Sentiva che non avrebbe più provato lo stesso
entusiasmo. Lavorare in una qualunque stazione di polizia di Londra come
ispettore non era fattibile. Paul aveva provato a parlarne con l'ispettore
capo, quando gli aveva comunicato la sua decisione di non prendere servizio a Shrewsbury.
Un modo c'era, gli aveva detto Richard, ed era
l'abbassamento di grado.
Paul non poteva accettarlo. Dopotutto, aveva speso forze
ed energie per arrivare al grado di ispettore. Non poteva tornare indietro.
Così alla fine, aveva preferito uscire di scena con il suo vero grado,
piuttosto che accettare quella soluzione.
E fu con molta sorpresa che ricevette un'offerta di
lavoro, qualche giorno dopo il colloquio con l'ispettore Starkey, proprio
grazie a suo padre.
Un paio di persone tra i suoi amici e vicini di casa
cercavano da tempo qualcuno disposto a dare lezioni di chitarra ai propri figli
e Jim aveva dato il suo nome, conscio del buon lavoro che Paul aveva fatto con
John.
Paul all’inizio fu riluttante ad accettare, non tanto per
il tipo di lavoro, uno che aveva a che fare con la musica, ancora;
quanto piuttosto per le prospettive che offriva. Sì, era pur sempre un lavoro,
e avrebbe guadagnato qualcosina, ma non tanto da viverci. E comunque, fino a
quando avrebbe tenuto quelle lezioni? Una volta che i ragazzi avessero imparato
tutto quello che c’era da imparare, beh, non avrebbero più avuto bisogno di
Paul. A quel punto cosa ne sarebbe stato di lui?
Avrebbe tanto voluto parlarne con John, chiedere il suo
consiglio, ma era un argomento che avrebbero potuto affrontare al suo ritorno.
Così, per il momento, Paul aveva deciso di accettare l'offerta.
Le sue giornate senza John quindi trascorrevano tra una
visita a George al negozio di musica, qualche lezione nel primo pomeriggio e un
tè alle cinque a casa di suo padre.
Nei giorni di festa come Natale e Capodanno, Paul era
stato invitato a casa di George e Pattie insieme a Jim.
Suo fratello Mike aveva preferito non raggiungerlo a
Londra con moglie e figlia, e Paul accolse favorevolmente la sua decisione.
Aveva comunicato al fratello di aver ritrovato il padre. Si era inventato un
qualche tipo di indagine personale che Paul aveva intrapreso per conto suo per
cercarlo. Mike non era sembrato particolarmente entusiasta, e anche se Paul
aveva spiegato tutto il racconto di Jim, lui aveva bisogno di tempo per
accettare la realtà dei fatti e magari prendere la stessa decisione di Paul.
Ecco perché Mike non aveva trascorso con loro quelle festività. Era piuttosto
sconvolto.
Per questo motivo Paul aveva deciso di non parlargli di
John e del rapporto che intercorreva fra loro.
Una notizia bomba alla volta, Paul, si
era detto.
Era però curioso di sapere come avrebbe reagito Mike. Il
suo sesto senso gli diceva che sarebbe andato tutto bene. John gli era già
piaciuto una volta, gli sarebbe piaciuto ancor di più ora che era diventata
l'unica persona in grado di rendere felice Paul.
Il giovane uomo sorrise, voltandosi sul fianco, con
grande disappunto di Pepper che si svegliò dal suo pisolino e raggiunse Elvis
sul pavimento.
Guardò il focolare nel camino, rendendosi conto che ci
dovesse essere all’incirca la stessa temperatura nel suo cuore, al pensiero del
futuro che stava aspettando lui e John
Al pensiero di John.
Controllò l'orologio ancora una volta. Mancavano cinque
minuti in meno rispetto a poco tempo prima. Beh, era pur sempre un aspetto
positivo.
Un giorno, ventitré ore e cinquantacinque minuti e poi
avrebbe potuto ritrovare tutto ciò che stesse aspettando.
Tutto ciò di cui avesse bisogno.
John, l'amore.
****
C’era quasi.
Dopo un’ora di viaggio, circa, il treno era entrato a
Londra e finalmente cominciò a rallentare. John poteva vedere dal finestrino le
case della periferia trasformarsi pian piano negli edifici del centro di
Londra.
E mentre il treno rallentava, il suo cuore accelerava i
battiti nel suo petto. Batteva rapidamente, sì, ma anche con intensità. Ogni
battito scuoteva il suo petto e faceva fremere la sua pelle.
C'era anche una piacevole leggerezza che John percepiva
nella sua pancia e un lieve formicolio alle mani. Tutto questo per la persona
che lo stava aspettando sul binario, lì dove si erano visti l'ultima volta.
Tutto questo per Paul.
Dio. Paul sarebbe stato lì per lui.
John faceva ancora fatica a crederci. Le tre settimane di
lontananza sembravano aver reso la corsa di Paul in stazione solo il più
effimero dei ricordi.
Eppure John sentiva che sarebbe andata così. Avrebbe
ritrovato Paul e questa volta per sempre.
Stava morendo dalla voglia di vederlo, toccarlo, sentire
la sua voce...
Era strano da capire, perché in fondo si erano
rappacificati, ma John e Paul non si erano mai telefonati durante quei giorni.
Gli ultimi ricordi di John della voce di Paul erano bellissime parole di
speranza.
Poi il nulla. Non che non si fossero più parlati, sia
chiaro. I messaggi, quelli sì che erano stati abbondanti. Solo che nessuno dei
due aveva mai pensato di fare una telefonata all'altro. In realtà John non
pensava che fosse dovuto a una mancanza di volontà sua o di Paul. Era piuttosto
una sorta di imbarazzo che l'aveva trattenuto dal telefonare a Paul almeno una
volta.
Il semplice messaggio offriva la protezione di uno
schermo. La telefonata no. John sarebbe stato esposto. Se la sua voce avesse
traballato, Paul l'avrebbe sentito. Se non avesse saputo cosa dire, Paul
l'avrebbe sentito. Se, ancora peggio, avesse detto qualcosa di inappropriato,
Paul l'avrebbe sentito.
E John non voleva. Aveva paura di rovinare tutto. Quel
rapporto con Paul era delicato, come i cocci di un vaso appena incollati
insieme. John sentiva di essere ancora in grado di rompere quel vaso. Non che
volesse fare del male a Paul di proposito, ma John era un tale disastro.
Sarebbe bastato un niente per rompere definitivamente con Paul, e John era
molto bravo anche a trovare e realizzare quel fottuto niente.
Ecco perché non l'aveva chiamato, e pensò che anche Paul
temesse la stessa cosa. Forse sapeva come si stesse sentendo John e stava solo
aiutandolo a non combinare guai nel loro ritrovato rapporto.
Il solo pensiero fece gonfiare il cuore di John con
amore. Con un po' d'attenzione e con l'aiuto di Paul, sarebbe andato tutto
bene.
Un movimento lieve richiamò la sua attenzione, così John
abbassò lo sguardo verso la testolina di Julian appoggiata sulle sue gambe. Il
bambino dormiva profondamente e John sorrise alla visione, mentre gli
accarezzava i capelli d'angelo.
Il piccolo si era divertito molto nelle vacanze trascorse
con la mamma e dal canto suo, John era felice che il rapporto tra Cynthia e suo
figlio si stesse ricostruendo lentamente. Lei era molto più tranquilla ora, più
sicura di se stessa, così diversa da come la ricordava lui e questo fece star
meglio anche lui. Dopotutto non aveva mai desiderato che lei sparisse dalle
loro vite e continuasse a soffrire. Non era giusto, era pur sempre la madre di
Julian e una persona importante della vita di John. Voleva che lei fosse
felice, tutto qua.
Aveva anche trovato un nuovo compagno, un dottore della
clinica dove era stata ricoverata. Quando era stato presentato a John, questi
aveva avuto sicuramente una buona impressione su di lui. Sembrava proprio
perfetto per Cynthia, a differenza di John.
Tuttavia non era qualcosa per cui Johnpotesse crucciarsi, perché sapeva ora di
essere perfetto per un’altra persona.
Il fischio del treno lo fece sussultare nello stesso
momento in cui la sua mente formò il nome di quella persona.
Paul.
Paul che era lì, da qualche parte, ad aspettarlo.
John cercò di sbirciare dal finestrino alla ricerca di
Paul sulla piattaforma, mentre il treno si fermava, ma non lo vide. C'era molta
gente ad aspettare le persone appena arrivate ed era anche vero che John fosse
terribilmente ansioso, e lo sanno tutti che l'ansia gioca brutti scherzi.
Eppure non l'aveva visto, e il suo cuore, che stava impazzendo disperato nel
petto, ne era la conferma.
Non lo vide neanche qualche minuto dopo, quando John
scese dal treno con Julian ancora un po' assonnato, e si fece strada in mezzo
alla folla che salutava i nuovi arrivati.
"Papà, voglio andare a casa." mormorò Julian,
stropicciandosi gli occhi.
"Lo so, amore, ma dobbiamo aspettare Paul. Viene a
prenderci lui."
E mentre Julian si appoggiava alla sua gamba, lasciandosi
scappare un piccolo sbadiglio, John prese il cellulare e controllò di aver riferito
l'orario giusto a Paul. Poi, una volta appurato che non vi fossero errori nelle
informazioni che gli aveva riferito, prese Julian in braccio, facendogli
appoggiare la testolina sulla spalla.
Nel frattempo diede un'occhiata in giro per provare a
scorgere una testa familiare, cercando di ignorare le mille domande che si
affollarono prepotenti nella sua mente.
E se Paul non fosse venuto?
E se fosse stato tutto un trucco?
O peggio, se avesse cambiato idea?
Tuttavia John non ebbe il tempo di disperarsi per tali
orribili scenari, perché pochi secondi dopo sentì due dita puntate sulla
schiena e una dolce voce sfiorare le sue orecchie.
"Mani in alto. Ti dichiaro in arresto in nome di Sua
Maestà."
John sorrise fra sé, riconoscendo quella voce che poteva
appartenere a un solo uomo.
"Con quale accusa, signore?"
"Latitanza."
"Oh, sembra terribile."
"Lo è." rispose Paul, mentre John decideva
infine di voltarsi.
Quando finalmente si ritrovò di fronte a
Paul, il suo Paul, tutto intorno a lui divenne ovattato. La stazione, i treni,
i fischi delle locomotive, le voci delle persone… tutto sembrò sparire
nell’esatto momento in cui i suoi occhi incrociarono quelli di Paul,
nell’esatto momento in cui John tornò a essere completo. E quando uno è
completo, quando non sente la mancanza di nulla che cosa può dire?
Non aveva desideri o particolari richieste da
esprimere a parole, perché tutto ciò di cui avesse bisogno era di fronte a lui.
Perciò, ritenendo sconveniente continuare a guardare Paul
senza proferire parola, John si decise a far scivolare lo sguardo sulla mano di
Paul che voleva solo simulare una pistola.
"Un po' innocua come arma."
Paul si limitò ad alzare le spalle, "Sono stato
costretto a improvvisare. Ero in ritardo. Londra è sempre così trafficata a
quest’ora.”
“L'importante è che tu sia qui ora.” commentò John,
divertito.
"No." disse Paul, prendendo la valigia di John
e chinandosi solo un po' verso di lui, "L'importante è che tu sia
qui."
E poi sorrise. Quel sorriso caloroso e dolce che John
aveva sognato ogni notte da quando era partito.
Quel sorriso che voleva solo dirgli...
"Bentornato a casa, John."
****
Una volta arrivati a casa, Paul li lasciò a sistemarsi,
mentre andava a recuperare qualcosa da mangiare per tutti e tre.
Fu grato di aver avuto quel piccolo momento per prendere
fiato. Pensò di averlo trattenuto da quando aveva intravisto il dolce viso di
Julian in stazione, in braccio a un uomo che doveva essere sicuramente John.
Ecco, quel momento era stato magico. Paul era arrivato a King’s cross con il fiatone e il cuore impazzito per la
corsa che aveva fatto, visto che era in ritardo, ma quando aveva notato John,
tutto era diventato cento volte più intenso e sconvolgente, come se non potesse
più tornare a respirare normalmente.
Era stata solo un’impressione, ovviamente, ma Paul
l’aveva percepita molto bene con tutto il corpo e in qualche modo era riuscito
ad andare avanti, raggiungere John, parlare con lui, guardarlo, sfiorarlo… fare
tutte quelle cose che aveva solo sognato nelle ultime settimane. Era una
sensazione deliziosa, sapere di poter fare ora tutto quello che voleva.
Solo che non era così facile. Non lo era affatto.
C’era troppo in Paul, troppa agitazione, troppo amore,
non avrebbe potuto fare molto in quelle condizioni.
Ecco perché accolse con gioia questo momento di
solitudine. Aveva aspettato così tanto il potersi trovare faccia a faccia con
John, e ora che era sicuro di trovarlo a casa, poteva concentrarsi solo su cosa
dire o fare.
Perciò cercò con calma i panini da mangiare quella sera,
e subito dopo recuperò Elvis dal suo appartamento. Poi facendosi coraggio,
tornò a casa Lennon.
Il piccolo padroncino di Elvis fu felicissimo di rivedere
il suo gatto e iniziò subito a giocare con lui, mentre John e Paul preparavano
la cena.
Di tanto in tanto John gli lanciava uno sguardo furtivo,
quando apparecchiarono la tavola, o mentre mangiavano, oppure lo fissava senza
accorgersi di farlo, mentre Paul gli spiegava del lavoretto che gli aveva
procurato suo padre...
E Paul doveva trattenersi ogni volta dal ridere. Ora
sentiva di essere più sicuro, di avere più controllo di se stesso. Tuttavia sembrava
che John ancora non credesse di essere lì con lui. Era come se stesse morendo
dalla voglia di allungare una mano solo per sfiorarlo e assicurarsi che fosse
vero, che Paul fosse proprio lì con lui, che nonostante tutto, che dopotutto
fossero ancora insieme.
In qualche stranissimo modo.
Eppure era così, constatò John quando per l'ennesima
volta Paul intercettò il suo sguardo, facendolo di conseguenza arrossire. Non
capiva perché facesse fatica a crederci. I battiti folli del suo cuore erano
più reali che mai, e come sempre erano causati da Paul.
Forse era solo un po' di paura. Dopo aver aspettato per
tanto tempo quel momento, ora che finalmente era giunto, John temeva il
confronto che sarebbe seguito per la sua dannata insicurezza, e non perché
sarebbe stato qualcosa che avrebbe rovinato il loro rapporto, anzi. Si
supponeva dovessero chiarire una volta per tutte e ricominciare da capo.
Si supponeva, anche, che John avesse così tante cose da
dirgli che non sapeva da dove cominciare; ma fintanto che Julian fosse stato
con loro, attirando tutte le attenzioni di Paul mentre John sparecchiava la tavola,
era impossibile parlarne con calma.
Perciò, fu con sollievo e un leggero senso di paura che
John capì quando arrivò il momento di portare a letto il bambino. Il piccolo aveva
cominciato a sbadigliare sonoramente e stropicciarsi gli occhi, mentre giocava
con Paul, e John decise, infine, di portarlo nella sua camera. Prese tra le braccia
il bambino che Paul gli porse con attenzione.
"Torno subito." gli disse.
Paul annuì, sorridendo rassicurante, quasi volesse dirgli
senza fiatare che l’avrebbe aspettato a qualunque costo.
Pochi istanti dopo John aiutava il figlio a infilare il pigiama.
Julian non era molto collaborativo, la testa praticamente ciondolava dal sonno.
John pensò che non avrebbe impiegato molto tempo a metterlo a letto. Difatti
quando il bambino si ritrovò sotto le coperte e John iniziò a cantargli una
ninna nanna, Julian si addormentò all'istante.
Ma John era ancora spaventato di ritrovarsi da solo con Paul.
Era strano come un desiderio così agognato potesse infine
essere anche tanto temuto.
Perse un po' di tempo per finire la ninna nanna e accarezzare
i capelli di Julian, sperando che il suo cuore potesse almeno calmare i suoi
battiti. John era quasi convinto che Paul al piano di sotto avrebbe potuto
percepirli.
Poi, quando pensò di essere pronto per affrontare Paul,
John spense l'abat-jour e uscì dalla camera.
Quando si voltò, trovò Paul di fronte a sé, appoggiato
allo stipite della camera di John. E tutto il suo lavoro di pochi minuti prima
andò in frantumi.
"Si è addormentato?" domandò Paul, interessato.
John annuì, il suo cuore era di nuovo impazzito. Sentiva di
avere la gola secca; se avesse provato a parlare, forse non sarebbe uscito
alcun suono. Ma doveva provarci a qualunque costo.
"Sì.” rispose, avvicinandosi con passo incerto
all’altro uomo, “È crollato ancor prima che finisse la ninna nanna."
Paul rise dolcemente all'immagine creatasi nella sua
mente: John che cantava una nenia al piccolo Julian.
"La prossima volta posso sbirciare?"
John non era sicuro cosa fosse stato ora a farlo
rilassare in un istante. Se fosse stata la risata di Paul, oppure il suo
atteggiamento molto tranquillo, o ancora il suo sguardo dolce che non riusciva
ad allontanarsi da John. Pensò che fosse la stessa sensazione che aveva provato
la sera del suo compleanno. Anche in quel caso Paul l’aveva aspettato, anche in
quel caso avevano avuto molte cose di cui parlare.
E ora John conosceva le parole giuste da rivolgergli.
"Non lo so."
Paul aggrottò la fronte, lievemente preso in contropiede
dalla risposta di John, "Perché?"
"Dipende."
"Da cosa?"
"Devi accettare le mie scuse per quello che è
successo." disse John, causando un piccolo sorriso sulle labbra di Paul.
Ecco, quella era una questione che Paul si aspettava.
"Non ce n'è bisogno, John."
"Sì, invece.” ribatté John, avvicinandosi
ulteriormente all’uomo, “Hai perso il tuo lavoro per colpa mia."
"Ho deciso io
di restare qui."
"Ma se non avessi creato tutta questa gran
confusione, non saresti stato costretto a prendere questa decisione. Avresti
ancora il tuo lavoro."
"E se tu non avessi deciso di diventare Hermes, io
non sarei venuto qui e forse non ci saremmo mai incontrati, John." gli
fece notare Paul, "Allora, cosa credi sia peggio?"
John sussultò all’ipotesi suggerita da Paul. Una vita
senza Paul era proprio ciò che l’aveva tormentato, quando doveva decidere se
consegnarsi a lui oppure no. Certo, se doveva vederla in quell’ottica, allora
era ovvio quale fosse la risposta.
Paul sembrò leggergli nel pensiero perché, senza
aspettare che John rispondesse, si sporse verso di lui, facendolo tremare
visibilmente, per stringere tra le dita la sua camicia e attirarlo a sé.
"Paul..."
"Io preferisco che tu sia diventato Hermes, così ho
potuto conoscerti e finalmente, prenderti."
John rise più rilassato, e si fece coraggio per far
scivolare le braccia ancora intimorite intorno alla vita di Paul.
"Pensavo fossi stato io a prenderti." ribatté,
arricciando le labbra.
"No, ti sbagli. Sono stato io.” insistette Paul,
scuotendo il capo, prima di puntare un dito sul suo petto, “E ora devi promettere
che non mi scapperai più."
"Non voglio più scappare, non da te." mormorò
John, "Ma devi accettare comunque le mie scuse."
"Se ti fa stare meglio..." sospirò Paul,
lasciando che la sua bocca si strofinasse contro la guancia dell'altro uomo,
"Scuse accettate."
John rabbrividì visibilmente, percependo dopo tanto tempo
le labbra di Paul ancora una volta sulla sua pelle. Gli era mancato tutto di
lui. Dal semplice sguardo, alle mani calde, alla soffice bocca, alla-
"E ora finalmente posso dirtelo."
Alla sua voce dolce che sapeva trovare sempre
le parole migliori per far impazzire John.
"Ti amo, John."
John chiuse gli occhi, stringendo le mani sui fianchi di
Paul quando quel lieve sussurro sfiorò il suo orecchio. La testa improvvisamente
vorticò come se fosse una giostra che John adorava, ma a cui non riusciva a
stare dietro. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non perdere
l'equilibrio e franare a terra. Tuttavia, desiderò che questa giostra non
finisse mai di vorticare perché... Beh, il motivo era la cosa più semplice e
insieme più complicata del mondo, era la cosa più banale, scontata, la cosa più
popolare ma anche unica per ogni persona sulla faccia della Terra, la cosa più
importante...
Era...
"Ti amo anch'io, Paul.”
John non lo vide, perché Paul era ancora rivolto verso un
lato del suo viso, ma fu sicuro che l’avesse fatto sorridere dal modo in cui
trattenne appena il respiro.
Incoraggiato, decise di continuare. Aveva molto altro da
dire.
“E non hai idea di quanto sia felice che tu sia qui con
me."
"Penso di poterlo immaginare, sai, vagamente."
scherzò Paul, ridendo sommessamente.
“Ma cosa farai, ora che non hai più il lavoro?” domandò
John, cercando di guardarlo negli occhi.
Era, in fondo, un argomento molto serio di cui parlare,
qualcosa che forse avrebbe tormentato John per sempre con il rimorso e la
colpa.
Tuttavia l’espressione di Paul non era seria. Era
tutt’altro, in effetti.
“Dobbiamo parlarne adesso?” domandò, mordendosi il
labbro.
"Pensavo volessi parlare con me..."
"Ed è così.” si affrettò a rispondere Paul, prima di
appoggiare tutto il palmo della sua mano sul petto caldo di John, “Ma sai,
pensavo di fare altro proprio in questo momento..."
La frase lasciata in sospeso e la mano forte di Paul sul
proprio cuore, fecero provare a John un brivido insieme caldo e freddo.
"Del tipo?" domandò, la voce quasi strozzata da
una sensazione leggera nella sua pancia.
Paul sorrise malizioso, prima di attirarlo a sé e poi
dentro la camera, con la mano che si strinse sulla camicia.
Quando John si scontrò con la sua bocca, capì quale fosse
il piano di Paul per quella sera e pensando che non gli dispiacesse affatto
sottostare al volere di Paul, fece chiudere la porta della sua camera dietro di
sé, con un piccolo colpo di tacco.
E ancora, mentre Paul lo stringeva e lo baciava, e John
lo conduceva verso il suo letto, capì che quella porta aveva chiuso una volta
per tutte il loro turbolento passato fuori dalle loro vite.
Perché ora non contava più.
Perché ora contavano solo l'uno per l'altro.
Perché ora, proprio ora, c'era solo amore.
Note
dell’autrice:buuuuu, lo so, non
è granché. Non mi convince proprio e non ho neanche idea del perché. ç_ç
Se voi l’avete, per favore, fatemelo notare, così sistemo
e mi metto l’anima in pace.
Comunque siamo arrivati alla fine. Manca solo l’epilogo
che avrà come titolo “Alltogethernow”. J
I ringraziamenti li teniamo tutti per la fine. Per adesso grazie a kiki per la correzione.
Nel frattempo linko questa os
che ho scritto a quattro mani con SillyLoveSongs. Ci farebbe
piacere sapere il vostro parere. ^_^
Ad
Anya, per l’affetto che mi mostra ogni giorno e perché senza di lei questo capitolo
non sarebbe mai stato finito. J
I’llgetyou
Epilogo: “Alltogethernow”
Il quartiere di Chelsea era davvero meraviglioso.
Paul era così entusiasta per essere andato a lavorare e
vivere in quello che era sempre stato considerato il quartiere degli artisti.
Tutto era incantevole, i colori vivaci, i suoni, gli odori… Dio, già lo amava.
Aveva fatto bene a vagare un po’ per le vie
caratteristiche, di ritorno dalla stazione di polizia, ammirando affascinato il
verde rigoglioso dei parchi, il Tamigi che scorreva tranquillo, il
chiacchiericcio degli abitanti del quartiere, gli artisti di strada, i piccoli
negozi di antiquariato…
Aveva anche individuato delle gallerie d’arte che gli
sarebbe piaciuto visitare. Sicuramente agli occhi di qualcun altro sarebbe
apparso come un turista che metteva piede per la prima volta a Londra. In
realtà, vi era stato molte volte, sia per lavoro, sia per conto proprio. Ma non
aveva mai avuto modo di visitare Chelsea. E ora ci sarebbe persino vissuto.
Quanto era fortunato? Aveva una importante carriera
lavorativa, una fidanzata bella e famosa che lo adorava, un fratello
affettuoso, una casa piccola e accogliente…
Certo, non doveva essere questo
ad accendere in lui il desiderio di entrare in "quel" negozio.
Paul stava rientrando a casa, quando si accorse che
proprio lì, di fronte il suo appartamento, vi era un negozio.
Un piccolo negozio di musica dall’aspetto piuttosto
anticato. L’insegna in legno riportava il nome, "Il tempio del
rock".
Paul non seppe perché si sentì attratto da quel luogo.
C'era qualcosa di intrigante nel nome così come nell'aspetto. Ricordavano
entrambi qualcosa di molto antico, qualcosa che Paul stava cercando
disperatamente. Ma non era possibile. Lui odiava la musica!
Allora perché si sentiva attirato verso quel luogo come
se fossero i due poli di una calamita? Non lo sapeva, ma decise che l'unico
modo per scoprirlo fosse entrare e vedere con i suoi stessi occhi cosa ci fosse
di tanto interessante.
Stava per attraversare la strada, quando il suo cellulare
squillò nella sua tasca.
Si fermò davanti casa sua e prese il telefono: era Jane.
Caspita, erano secoli che non prendeva lei l'iniziativa di telefonare. Un
momento così era troppo prezioso. Paul doveva approfittarne.
No.
Rivolse un'altra occhiata al negozio davanti casa. Forse,
pensò Paul mentre vedeva due ragazzini uscire dal negozio ridacchiando con
complicità, avrebbe potuto recarsi lì un altro giorno.
Che cosa stai facendo, idiota?
In fondo il negozio non scappava e neanche il suo
proprietario. Era forse l’uomo che si poteva intravedere dalla finestra?
No, stupido. Devi entrare ORA!
Così Paul scrollò le spalle e si voltò per rispondere a
Jane ed entrare, nel frattempo, in casa.
Solo che al posto della voce delicata della giovane
donna, udì un grido, qualcosa di disperato, un urlo tanto forte che dovette
chiudere gli occhi.
Li riaprì l'istante successivo e la prima cosa che notò
fu il battito accelerato del suo cuore e il sudore che imperlava la sua fronte.
Sicuramente erano entrambi dovuti all'incubo appena avuto.
Era stato un incubo, vero?
Doveva essere un incubo, perché…
caspita, perché nel sogno lui non conosceva John. Non era mai entrato nel suo
negozio e di conseguenza John non era mai entrato nella sua vita.
Mentre quella doveva essere la realtà: Paul
sdraiato nel letto di John, nella camera di John, con le braccia di John
attorno alla sua vita, il bellissimo viso di John a pochi centimetri dal suo e
il figlio di John addormentato tra lui e il padre.
Sospirò dopo aver inspirato profondamente. Sperava con
tutto il suo cuore che fosse quella la realtà.
Non aveva mai fatto un incubo così potente e
sconvolgente, da quando le cose tra lui e John si erano sistemate. Si chiese
come mai. Forse era stato così felice nei mesi precedenti, che il suo inconscio
si stava preoccupando di dargli qualche altro pensiero.
Grazie tante, stupido inconscio, proprio oggi
tra l'altro?
Un lieve mormorio gli comunicò che John si stesse per
svegliare e Paul decise di allontanare quel brutto incubo (perché di un incubo
si trattava) per non farlo preoccupare.
"Buongiorno." gli disse l’uomo, stiracchiandosi
leggermente, facendo attenzione a non disturbare il sonno del bambino.
Questo non gli impedì comunque di stringere appena il suo
braccio intorno alla vita di Paul.
"Buongiorno." rispose Paul, ridendo per il
solletico che gli aveva inavvertitamente causato.
"E buon compleanno." proseguì John, sporgendosi
verso di lui per baciargli la guancia.
"Oh." disse Paul, muovendosi appena sul
cuscino, "Grazie. Ma così farai arrabbiare Julian.”
John aggrottò la fronte, inclinando il capo con
perplessità, “E perché mai?”
“Beh, ha detto di voler dormire qui così poteva essere il
primo a farmi gli auguri.” spiegò divertito Paul.
“A me ha detto di voler dormire qui perché aveva paura
del temporale.”
Paul rise dolcemente, mentre la sua mano si adagiò con
delicatezza sui capelli del bambino per accarezzarli brevemente. Dormiva
sereno, con la testa nascosta nel petto di John, la schiena rivolta a Paul e un
braccio abbandonato sulla vita del padre.
“Oh, è molto furbo.”
“Altroché.” concordò John, “È figlio mio dopotutto.”
“Sì.” rispose Paul, annuendo senza poter distogliere gli
occhi da Julian.
Erano veri, sicuramente era così: John, suo figlio, e
Paul insieme a loro. Doveva essere tutto vero, perché la morbidezza dei capelli
di Julian sotto le sue dita era concreta, e così anche il calore della mano di
John sul fianco di Paul.
L’incubo che aveva svegliato Paul doveva essere finito.
Non poteva essere nient’altro che uno stupido sogno, qualcosa che era stato
prodotto dal suo altrettanto stupido inconscio. Non avrebbe più dovuto
pensarci, rischiava solo di rovinare il giorno del suo compleanno, per non
parlare del fatto che avrebbe fatto preoccupare John, e quella era l’ultima
cosa che voleva.
No, non doveva pensarci. E per fortuna, un aiuto arrivò
proprio dal bambino tra loro, il quale cominciò a svegliarsi e tornare alla
realtà, aprendo i suoi grandi occhi chiari.
Li stropicciò appena, mentre John e Paul gli davano il
buongiorno. Così facendo, permisero a Julian di diventare sempre più
consapevole di dove si trovasse.
"Svegliati, piccolo, è mattina."
A quelle parole, il bambino guardò il padre sorridente,
con occhi ancora piuttosto assonati, ma nonostante questo, trovò comunque
qualcosa da dire.
"Papà?"
"Sì, amore?"
"È vero che non hai fatto gli auguri a Paul prima di
me?”
"Gli auguri di che cosa?" domandò John,
mostrando una finta curiosità.
"Di buon compleanno."
"Oh, è vero!” esclamò John, colpendosi la fronte con
la mano, “Hai proprio ragione. Devo rimediare subito. Buon compleanno,
Paul."
"Ma papà..."
Julian mise il broncio e il dispetto del padre lo fece
diventare subito sveglio e più vispo che mai. John rise divertito, mentre Paul
scuoteva il capo, sconsolato.
"Lascia perdere tuo padre, Julian." disse Paul,
prendendo tra le braccia il bambino per consolarlo, "Se tu non glielo
avessi ricordato, forse neanche mi avrebbe fatto gli auguri."
E così dicendo rivolse la linguaccia a John, che sembrava
ancora deliziato dallo scherzo appena fatto al figlio. Julian rise, notando il
gesto di Paul, e si affrettò a imitarlo.
"Anzi, sai che ti dico?” continuò Paul, “Penso che
papà si meriti una bella punizione, che ne dici, piccolo?"
Il bambino esultò con gioia, essendo totalmente d'accordo
con Paul.
"E sentiamo, di quale colpa mi sarei
macchiato?" domandò incuriosito John.
"Alto tradimento." proclamò solennemente Paul.
"Misericordia.” esclamò indignato John, “Cosa
prevede, dunque, questa punizione?"
Paul ci pensò un istante, prima di sorridere, segno che
avesse appena avuto un’illuminazione.
"Che tu prepari la colazione per tutti e ce la porti
a letto."
"Ma tu guarda.” borbottò John, incrociando le braccia,
stizzito, “E se non avessi alcuna intenzione di farvi la colazione?"
"Allora, noi non ti parleremo più, dico bene,
Julian?" disse Paul, tornando a guardare il bambino appollaiato sul suo
grembo.
"Sì, non ti parleremo più."
"Due contro uno, eh?” sospirò John, decidendo infine
di alzarsi dal letto, “A quanto pare, mi tocca proprio accettare la
punizione."
"Esatto. E ora, fila in cucina.” ordinò Paul,
trattenendo a fatica una risata e indicandogli la porta della camera da letto,
“Meno chiacchere e più lavoro."
"E scommetto che voi mi aspetterete qui..."
"Ovvio, mio caro."
John scosse il capo rassegnato, prima di uscire dalla
stanza, e Paul, sorridendo divertito, strinse a sé Julian che avvolse le
braccia intorno a lui, mentre entrambi si accoccolavano di più sotto le
coperte, per scherzare e giocare e aspettare insieme una succulenta colazione a
letto.
E all’improvviso Paul capì.
Se quella fosse stata la sua realtà, allora era tutto a
posto, perché stava bene così.
Ma se quello fosse stato solo un sogno, allora non voleva
svegliarsi mai più. Era convinto che qualunque realtà lo aspettasse, una volta
aperti gli occhi, non sarebbe mai stata bella come quel sogno, non l’avrebbe
mai reso altrettanto felice.
Così strinse di più il bambino tra le sue braccia, percependo
il suo calore, il battito del suo cuoricino nel suo petto, e per impedire che
il suo corpo si risvegliasse da quel sogno, decise di aggrapparsi a lui.
A Julian e a John.
****
Per Paul il giorno del suo compleanno non fu molto più
diverso dagli altri.
Aveva trascorso una piacevole mattinata con Julian al
parco, mentre John era in negozio con George.
Nel pomeriggio, invece, aveva avuto diverse lezioni con i
suoi allievi. Erano ormai aumentati a quattro, cinque ragazzini che volevano
studiare la chitarra. Paul doveva ammettere che, nonostante l'iniziale
disappunto per quel lavoretto, ora si trovasse abbastanza bene.
Non era di certo facile insegnare a dei ragazzini. Non
tutti erano realmente interessati a imparare a suonare la chitarra. Forse
alcuni di loro erano solo stati costretti dai genitori. Altri invece provavano
una sincera voglia di suonare e migliorare la loro tecnica.
Tuttavia con tutti loro Paul aveva imparato a mostrarsi
severo al punto giusto per farsi rispettare. I ragazzini moderni erano davvero
indisciplinati. Quando si impegnavano, riuscivano a tirare fuori il peggio di
Paul. Per fortuna che col tempo aveva imparato a essere paziente, e il merito
era anche di John. Frequentare Johne
suo figlio gli aveva mostrato quanta pazienza potesse esserci in un individuo.
Così lui aveva imparato a cercare la sua, proprio come faceva John con Julian.
Questo era uno dei motivi per cui Paul arrivava sempre
esausto nel corpo, ma soprattutto nella mente, alla sera. E la sera del giorno
del suo compleanno non fu da meno.
Proprio ora stava tornando a casa, o forse era meglio
dire che si stesse trascinando a casa. Era stanco sì, ma era anche un po' giù
di morale.
Non si era fatto sentire nessuno dei suoi familiari per
fargli gli auguri. Né Mike, né suo padre. Ovviamente Paul non aveva più otto
anni, non avrebbe dovuto prendersela perché qualcuno si fosse dimenticato di
fargli gli auguri di buon compleanno. Ma Mike e Jim non erano qualcuno,
rappresentavano ciò che restava della sua famiglia.
Per di più, la sensazione di vivere solo in un sogno non
lo stava aiutando affatto a stare meglio. Insomma, era la realtà, oppure si
trattava di un maledetto sogno? Paul non sapeva più che cosa stesse vivendo.
Non voleva che fosse un sogno. Non voleva aprire gli occhi, svegliarsi e
rendersi conto che John non fosse mai entrato nella sua vita. O peggio ancora,
che John fosse presente nella sua vita, ma non nel modo in cui stava
sperimentando ora.
Come avrebbe potuto resistere?
Paul sospirò, costringendo se stesso ad allontanare una
volta per tutte quello stupido pensiero.
Suvvia, Paul, un sogno non dura così tanto, si
disse.
La notte non era formata da molte ore e sicuramente non
da un'intera giornata. Paul non poteva sognare così a lungo. Era impossibile!
E se in realtà questo sogno non fosse stato concentrato
interamente in una notte? E se ogni volta che si addormentava, Paul ripiombava
in quel sogno nel punto esatto in cui l'aveva interrotto la sera precedente?
No, no e poi no. Era semplicemente ridicolo. Era la cosa
più assurda a cui Paul potesse pensare ora. Sapeva perché stesse provando tutte
queste cose.
Aveva solo paura di essere felice. Di essere davvero
felice.
La felicità era sempre stata un’illusione per lui, non
credeva davvero di essere felice prima di tutta questa storia. Si stava forse
accontentando, aveva accettato tutto ciò che la vita gli aveva donato, senza
mai rischiare per cercare altro. Eppure con John aveva rischiato, aveva avuto
coraggio e aveva sofferto, ma ora, ora provava solo felicità. Certo, non
pensava che la loro vita sarebbe stata priva di difficoltà d'ora in poi, ma se
fossero stati insieme, avrebbero potuto superare tutto. Ne era certo.
Se solo fosse vero…
Oh dannazione!
Doveva sbarazzarsi una volta per tutte di quel maledetto
dubbio che lo tormentava. Era già riuscito a non far preoccupare John quella
mattina; non era sicuro di potercela fare di nuovo, dopo un'intera giornata di
pensieri e domande e dubbi.
Così prendendo respiri profondi, cercò di pensare solo a
cose belle, come per esempio, il suo compleanno. Sicuramente John gli avrebbe
preparato qualcosa di speciale: una cena solo per loro tre e poi avrebbero
guardato un film, accoccolati sul divano e si sarebbero addormentati tutti
insieme questa volta...
Paul stava sorridendo fra sé per l'allettante quadretto
ricreato nella sua mente, quando cercò nella tasca le chiavi dell'appartamento
di John. Lui gli aveva procurato una copia poco tempo prima, dal momento che
Paul aveva cominciato a dormire praticamente ogni sera a casa sua.
Il negozio era chiuso, notò Paul passando davanti al
locale completamente immerso nel buio. Era piuttosto presto per chiudere, e la
cosa lo fece preoccupare un po', ma se fosse successo qualcosa di grave, John
l’avrebbe sicuramente chiamato sul cellulare.
Così si rilassò e aprì la porta. Anche in casa era tutto
buio. Forse John era solo uscito un attimo con Julian, forse erano andati a
prendere un regalo per Paul, perché John si era dimenticato di cercare qualcosa
prima, o forse erano andati a comprare qualcosa da mangiare, o forse-
“Sorpresa!”
Paul quasi saltò per lo spavento, quando accese la luce
in sala.
C’erano festoni e palloncini colorati e una grande tavola
imbandita sopra cui erano sistemati stuzzichini di ogni genere; ma più di
tutto, c’erano le persone a lui più care, gli amici, George e Pattie, i suoi
familiari, Jim, Mike con la figlia e la moglie, e ovviamente John e Julian che
corse verso di lui per abbracciarlo affettuosamente.
Tutti si affrettarono a fargli gli auguri di buon
compleanno, e questo spiegò il motivo per cui nessuno si fosse fatto sentire
durante la giornata. Ovviamente, stavano aspettando la festa a sorpresa.
Una sorpresa che, effettivamente, era riuscita in pieno,
e Paul pensava di sapere chi ci fosse dietro tutta quella storia.
Rivolse a John, rimasto un po’ più indietro rispetto agli
altri, un affettuoso sguardo di biasimo, ma lui si limitò a scrollare le spalle
e sorridere incurante.
Quel sorriso, proprio quello fece sussultare dolcemente
il suo cuore.
Forse, dopotutto, non stava sognando.
In un sogno il cuore non batteva così forte. O perlomeno
non batteva in modo così reale, tanto che Paul lo sentiva persino nelle
orecchie.
E dal momento che era sempre stato John a causare
quell'incantevole sensazione, allora anche lui doveva essere reale.
Giusto?
****
La festa fu la più incredibile che Paul avesse mai
ricevuto.
Le decorazioni erano così allegre, e la musica in
sottofondo era decisamente perfetta, per non parlare dei regali avuti dagli
invitati. Erano uno più bello dell’altro.
George e Pattie avevano preparato addirittura una torta
speciale per lui, con panna, cioccolato e fragole, le quali erano state
sistemate molto abilmente da Julian.
Paul fu molto grato a entrambi. Erano due ragazzi in
gamba e meritavano tutta la felicità del mondo. Da pochi mesi erano stati
dichiarati idonei per adottare un bambino e Paul sperava davvero che al più
presto sarebbe arrivata una piccola creatura nella famiglia Harrison. Se lo
meritavano, dopotutto. E George, finalmente,aveva superato quella sorta di gelosia che aveva provato all'arrivo di
Paul. Sarebbe stato per sempre il migliore amico di John, qualcosa molto vicino
a un fratello.
A proposito di fratelli, Paul era stato incredibilmente
felice di aver trovato anche Mike alla festa, ma soprattutto che avesse parlato
molto con Jim. Solo pochi mesi prima Paul aveva informato il fratello di aver
“ritrovato” il padre. La reazione iniziale di Mike era stata comprensibile: non
aveva alcuna intenzione di sapere cosa gli fosse successo, né per quale dannato
motivo Paul avesse cambiato idea, quando per tutta la vita aveva affermato di
non volerlo perdonare. Ma di fronte alle insistenze di Paul, Mike aveva ceduto,
aveva ascoltato la storia di Jim e alla fine, aveva accettato di perdonarlo. Era
seguito un primo incontro, dove Mike era stato impacciato tanto quanto Paul, ma
comunque l’avevano superato, anche perché l’evidente felicità di Jim era
riuscita a contagiare anche i suoi figli. E quando si è felici, è tutto più
facile, soprattutto riprendere un rapporto stroncato troppo presto.
Perciò ora, fu un’immensa gioia per Paul vedere Mike e
Jim che parlavano, con la piccola Mary che dormiva beatamente fra le braccia
del nonno.
Non c'era stato bisogno di informare Mike riguardo la
vera natura del rapporto che intercorreva tra Paul e John. Aveva capito da
solo, e la cosa sorprese infinitamente Paul, quando a un certo punto della
serata, si erano ritrovati a parlare solo loro due, come un tempo, come da
piccoli a Liverpool, e Mike glielo aveva detto chiaramente e sembrava averlo
accettato senza problemi.
Ma come aveva fatto a capirlo? Paul ovviamente era certo
che Mike non avrebbe fatto scenate disdicevoli per la loro situazione. Tuttavia
non avrebbe mai e poi mai immaginato che arrivasse a scoprirlo da solo. Nelle
poche volte in cui si erano ritrovati tutti insieme, John e Paul avevano sempre
cercato di essere discreti, almeno fino a quando anche il resto della famiglia
di Paul fosse stato a conoscenza della loro relazione. Solo che a quanto pareva,
l'unico in grado di essere discreto era stato John. Paul non aveva esattamente
ottenuto gli stessi risultati. Tutt'altro! C'era troppo nel suo volto, nel
sorriso speciale che rivolgeva a John, nei suoi sguardi carichi di un
sentimento ben familiare a Mike, nella voce che si addolciva quando pronunciava
il suo nome... E fu tutto questo a dire a Mike quali fossero i veri sentimenti
di Paul. Lui, d'altronde, lo conosceva più che bene.
Ma la sorpresa di questa scoperta non durò a lungo e ben
presto fu sostituita dalla felicità perché ora tutte le persone a lui care
sapevano e condividevano la sua gioia, non lo giudicavano, non lo
allontanavano.
Niente di tutto questo.
Ora andava tutto bene.
Così alla fine della serata, gli invitati tornarono a
casa; Paul li ringraziò uno per uno,prima di accompagnare il fratello nella sua casa. Sarebbero rimasti lì
per un paio di giorni.
Poi tornò a casa di John e sospirando, chiuse la porta
nel momento stesso in cui John scese dal piano di sopra. Aveva appena portato a
letto un esausto e addormentato Julian.
“Allora?” chiese John, abbandonando la schiena al
corrimano.
“Allora?”
“Ti è piaciuta la festa?”
Paul rise dolcemente e annuì, “Sì, moltissimo.”
“Anche la musica?”
“Soprattutto quella.” rispose, rivolgendogli uno sfacciato
occhiolino.
“E’ un cd che ho fatto proprio per l’occasione, sai.
Sbaglio o l’anno scorso ti avevo promesso una festa con moltissima musica?”
“Oh, era una promessa? Sembrava più una minaccia.”
esclamò Paul, lasciandosi scappare una risata, “Ma ti ringrazio, davvero, è
stato tutto perfetto.”
“E’ la verità?” chiese l’altro uomo, lo sguardo era
diventato serio tutto d’un tratto.
Paul sussultò e batté le palpebre, “Certo, perché dovrei
mentire?”
John lo fissò intensamente per qualche secondo, prima di
avanzare verso di lui, "Perché è da stamattina che sembri strano. È forse
successo qualcosa?"
"No, John, non è successo niente, non ti
preoccupare. Sarà solo l'anno in più." rispose Paul, cercando di ridere
per tranquillizzare John in primis, ma anche se stesso.
Solo che a quanto pare fallì, e John se ne accorse
subito.
"Balle.” sbottò, ora a un soffio da Paul, “Sarò
anche rintronato, vista l’ora tarda, ma sono sempre attento quando si tratta di
te."
"Lo so." rispose Paul, abbassando lo sguardo.
"E sono convinto che tu stai mentendo ora, amore
mio.” gli spiegò John, preoccupato, appoggiando una mano sulla sua guancia,
incoraggiandolo a guardarlo negli occhi, “Perciò, posso sapere che cosa
succede?"
Paul sospirò, sollevando infine il viso verso John. Non
avrebbe mai voluto farlo preoccupare in quel modo: conoscendolo, anche John si
era tormentato per tutta la giornata, dopo aver intuito il turbamento di Paul,
domandandosi cosa fosse accaduto, se fosse stata colpa sua, se fosse stato
qualcosa detto o fatto da John a causare tutto ciò.
Non meritava di essere tenuto all’oscuro, si convinse
Paul, dal momento che proprio John aveva portato la felicità nella sua vita.
"Promettimi che non mi prenderai in giro."
"Perché dovrei prend-"
"Promettilo, John." lo interruppe Paul, portando
un dito sulle sue labbra.
"D'accordo.” sospirò John, alzando gli occhi al
cielo, “Prometto di non prenderti in giro."
"Bene, allora.” disse Paul, annuendo distrattamente
dopo che John si fece una croce sul cuore.
All’improvviso, sotto lo sguardo affettuoso e curioso di
John, tutti quei dubbi che avevano tormentato Paul divennero così… ridicoli.
Pensava davvero che quello che aveva costruito con John, quello che stavano
vivendo insieme fosse davvero solo un’effimera illusione?
“Stanotte ho avuto un incubo." mormorò con un filo
di voce, come se fosse appena diventato timido.
"Che tipo di incubo?" chiese John, interessato.
“Mi ero appena trasferito a Londra per il nuovo lavoro,
ed ero sul punto di entrare nel tuo negozio…”
“Oh, una specie di déjà-vu.”
Paul annuì tristemente, “Ma nel sogno non sono mai
entrato e quindi non ti ho mai conosciuto.”
John aggrottò la fronte, turbato, "Ed era questo
l'incubo?"
“Sì. Quando mi sono svegliato, pensavo che fossi troppo
felice per poter vivere nella realtà. Pensavo che questo fosse un sogno e
quell’incubo la vita vera.”
Paul si morse il labbro, leggermente ansioso mentre
aspettava la reazione di John: una risata divertita, forse, oppure, a dispetto
della promessa fatta, una bella presa in giro in stile Lennon.
Tuttavia John non fece nulla di tutto questo, anzi, lo
attirò a sé, avvolgendo le braccia intorno alla sua vita e sorridendogli
dolcemente.
"Ma, Paul, dovresti saperlo bene ormai."
"Cosa?"
"Che eravamo destinati a incontrarci.” rispose John,
ridendo debolmente, “Se non fossi entrato quel giorno, l'avresti fatto quello
dopo o quello dopo ancora. Che importa? Ciò che conta è che so per certo che ci
saremmo incontrati, in qualunque modo."
"Ne sei sicuro?" ribatté Paul, non ancora del
tutto convinto, "E se ci fossimo incontrati in modo diverso e non fossimo
diventati amici né-"
"Basta, ora." lo mise a tacere John, poggiando
un dito sulle sue labbra, "Te l'ho detto. In qualunque epoca, in qualunque
universo ci fossimo trovati, io ti avrei scelto comunque e tu mi avresti preso
con te, senza alcun dubbio."
Paul si sentì sorridere in modo più rilassato,
permettendo a se stesso di godere del tocco caldo di John, delle sue parole
dolci, del suo tono che come la più lieve delle carezze sfiorava la sua pelle.
"D'accordo, allora. Dimentichiamo questo
incubo."
"È un'ottima idea." mormorò John prima di
chinarsi per baciarlo dolcemente.
E fu quel tenero gesto, insieme a quanto John gli avesse
appena detto, che convinse infine Paul che fosse proprio quella la
realtà. Non era un sogno, non lo era affatto. Anzi, era un sogno, sì, ma
divenuto realtà. E quello era davvero tutto ciò che Paul potesse chiedere alla
vita.
“Mi dispiace di averti fatto preoccupare, John.”
“Non ci pensare.”
“È solo che sono così felice, con te e Julian, felice
come non lo sono mai stato prima d’ora; e nel momento in cui l’ho realizzato,
ho pensato che fosse impossibile che proprio a me fosse stato concesso questo
dono, che questa immensa felicità fosse vera.”
“È vera, Paul, perché noi siamo veri.”
Paul annuì, nascondendo il volto nel collo di John,
lasciando che lui lo tranquillizzasse con le carezze sulla sua schiena e le
labbra che sfioravano la sua fronte. Incredibile come con poche, semplici, giuste
parole John potesse allontanare le sue paure. Certo che loro erano veri, John
era vero e caldo e tra le sue braccia, profumava di buono e di un futuro
con Paul.
“Va meglio?” chiese poi John.
“Sì, grazie, John.” rispose Paul, regalandogli un bacio
sfiorato sulle labbra.
John sorrise e senza timore, fece scivolare la mano in
quella di Paul e intrecciare le loro dita.
“Dai, vieni con me, c’è qualcosa che ti farà dimenticare
questo brutto incubo una volta per tutte.”
“Di cosa si tratta?” domandò Paul, curioso, lasciando che
John lo conducesse di nuovo in salotto.
John non rispose. Si limitò ad avvicinarsi alla libreria
e sfilare dallo scaffale più alto un oggetto che poi porse a Paul. Era una
confezione quadrata, leggermente più piccola di uno dei tanti LP che aveva
John, ma decisamente più spessa, per non dire pesante. Era avvolta in una carta
argentata lucida sopra cui spiccava un bel fiocco blu oltremare.
“E’ un regalo?” domandò Paul.
“Cos’altro potrebbe essere?” rispose John, con una lieve
risata.
“Beh…” iniziò a dire Paul, scrollando le spalle, “In
realtà, pensavo che il regalo fosse la festa a sorpresa.”
“La festa era solo una festa, piccolo, ma è questo il mio
regalo di compleanno per te. O più precisamente, un anticipo del vero regalo.”
Paul aggrottò le sopracciglia perplesso, non riuscendo
proprio a capire cosa potesse nascondersi dietro le parole di John: di solito
era bravo a realizzare cosa frullasse nella sua mente, ma era anche vero che
John sapeva essere così dannatamente misterioso certe volte. Faceva desiderare
a Paul di poter leggere nella sua mente. Eppure come qualunque altra relazione
che si rispetti, Paul capiva anche che fosse giusto un po’ di mistero. Era ciò
che rendeva il rapporto più irresistibile, inebriante, incredibile.
“E’ inutile che ci provi.” disse John, destandolo dalle
sue riflessioni.
“A fare cosa?”
“A leggermi nel pensiero, idiota.” rispose John, dandogli
una leggera pacca sulla spalla, “Fai prima a scartare il regalo.”
Paul rise e alla fine si decise a seguire il consiglio di
John. Si sedette sul divano, impaziente a questo punto di sapere cosa si
nascondesse oltre la carta regalo, e cominciò a togliere prima il fiocco blu e
poi la carta.
Tra le mani si ritrovò quella che sembrava una scatola di
velluto verde smeraldo.
“Aprila.” lo incoraggiò John, accovacciandosi di fronte a
lui.
Paul obbedì. Fece scattare l’apertura e sollevò il
coperchio. Non sapeva davvero cosa aspettarsi, dentro quella scatola, ma di
certo non una scintillante targa di ottone.
“Cosa significa?” chiese titubante.
“Leggi bene cosa c’è scritto.” gli suggerì John con un
cenno del capo.
Paul tornò a guardare la targa e il suo cuore fece un
piccolo salto all'indietro.
C’era un bellissimo pentagramma inciso: era leggermente
ondulato, con una chiave di violino all’inizio, ma al posto delle note musicali
c’era scritto…
“Scuola di Musica Lennon/McCartney?”
“Sì, forse preferisci McCartney/Lennon?” chiese John,
mordendosi il labbro ansioso.
“Cosa... John, non capisco…”
Cosa significava, voleva chiedere, ma all'improvviso Paul
si ritrovò senza parole.
No, in realtà le aveva, le parole, aveva tante domande da
fare a John su ciò che era stato inciso sulla targa, che Paul non sapeva da
dove cominciare.
Johnsospirò e si
alzò in piedi, solo per andare a sedersi accanto a Paul.
“Lo sai, Paul..." iniziò a spiegare, appoggiando una
mano su quella di Paul, "È da diverso tempo che ci penso. Con il lavoro
che hai fatto con me e quello che fai ora, con tutti quei ragazzini, penso che
dovremmo proprio aprire una scuola di musica."
"Una scuola di musica?"
John annuì, sorridendo, "All’inizio tu potresti
occuparti delle lezioni di chitarra, e quando avremo ingranato un po’, potremmo
assumere insegnanti di altri strumenti musicali.”
Paul non poteva credere che John facesse sul serio, ma
conosceva quel particolare sorriso che ora gli stava rivolgendo. Era quello che
prometteva esperienze elettrizzanti, nonché qualcosa che Paul avrebbe amato
moltissimo.
“John, perché stai facendo tutto questo?"
"Perché so quanto ti piaccia lavorare, ma capisco
che questa situazione sia troppo traballante. Voglio aiutarti a renderla più
sicura. Forse un lavoro che ha a che fare con la musica non sarà ciò che avevi
sognato, ma è pur sempre qualcosa."
"No, John, non è quello il problema." si
affrettò a dire Paul, scuotendo il capo per rincuorarlo, "Voglio dire,
come faremo con tutto il resto? Che ne sarà del tuo negozio?”
“Lo lascerò a George.” rispose prontamente John, "Ne
avrà bisogno."
“E i soldi per questa scuola, dove li prenderemo?”
“Li abbiamo, non ti preoccupare." lo rassicurò John,
"Sono secoli che metto da parte dei risparmi."
"Non posso lasciare che li usi per me."
protestò vivacemente Paul.
"Sì, invece. E comunque non li sto usando per te.
Non solo perlomeno. Li userò per noi. Tu sarai l'insegnante e io mi
occuperò di tutta la robaccia burocratica." rispose John, cercando di
convincerlo, "E poi se non li uso per le persone a cui tengo di più, per
chi dovrei usarli?"
John concluse con una dolce risata e un lieve rossore
sulle guance, e Paul si ritrovò imitarlo. A quanto pareva John aveva pensato
proprio a tutto. Aveva la risposta pronta per ogni domanda di Paul.
“John, sei stupendo, sai." sospirò Paul, "E
anche questo sogno è stupendo, ma-"
"Davvero?" esclamò John, senza curarsi molto
del fatto che Paul non avesse ancora finito la sentenza, "Significa che
accetti?"
"Mi piacerebbe molto, ma abbiamo bisogno di un posto
per la scuola, no? Dovremmo cercare un edificio apposta e comprarlo e-”
“Ce l’ho già.”
La risposta di John, l'ennesima risposta pronta, fece
battere le palpebre di Paul, preso in contropiede.
"E qual è?"
John trattenne a stento un sorriso che aveva una punta di
malizia, e si affrettò a prendere la mano di Paul; lo fece alzare in piedi e lo
condusse verso la finestra che dava sulla strada.
"Vedi? È proprio lì, di fronte a noi." spiegò, indicando
l'appartamento dall'altra parte della strada.
Paul spalancò gli occhi e si voltò verso l'altro uomo,
non sapendo cosa dire. L'unica cosa che sapeva per certo era che gli occhi di
John brillassero come Paul non vedeva da un po', ed era qualcosa che riusciva
sempre a farlo impazzire.
"John, quella è casa mia."
John annuì e tornò a guardarlo, permettendo a Paul di
notare ancor di più quell'entusiasmo che stava muovendo i pensieri e le azioni
di John.
"Lo so."
Paul non aveva mai visto John così, come se fosse un
bambino alle prese con un nuovo, incredibile giocattolo, e il suo stato
d'animo, questa gioia ansiosa, riuscì a contagiare anche Paul, soprattutto
perché la proposta di John prevedeva anche una soluzione che giaceva ora lì,
fra di loro, come una presenza silenziosa fra John e Paul.
"E quindi..." continuò Paul, sorridendo,
"Vorresti sfrattarmi per fare la nostra scuola di musica?"
"Oh no." rispose John, scuotendo il capo,
"Pensavo di offrirti una sistemazione più allettante."
"Del tipo?" domandò Paul, e il sussulto del suo
cuore gli fece capire che in qualche modo lui conoscesse già la risposta.
Ora era giusto che anche Paul ne venisse a conoscenza.
Perciò attese, mentre John prendeva la targa dalle sue mani e la appoggiava di
lato, così da far intrecciare le loro dita.
Poi, finalmente, John parlò.
"Vieni a vivere con me e Julian."
A quelle parole un brivido attraversò Paul. Nacque dalle
mani strette con amore da quelle di John, per cui Paul pensò che forse lo
stesso brivido attraversò anche il suo compagno. Il che lo rese deliziosamente
affascinato.
Non poteva certo dire che Paul non ci avesse mai pensato.
Era ovvio che quell’ipotesi avesse più volte attraversato la sua mente nelle
ultime settimane. Solo che Paul non aveva mai avuto il coraggio di parlarne con
John; era qualcosa che in qualche modo lo spaventava, ma Paul sapeva che in
fondo si trattasse di una paura buona, di quelle che si provano quando arriva
un cambiamento importante nella propria vita, un cambiamento certamente
positivo.
"John, io-" iniziò a dire con voce tremante, ma
John quel giorno aveva sviluppato la sorprendente abilità di riuscire sempre a
interromperlo prima che finisse di parlare.
"Lo so che forse è un po' affrettato.” spiegò John,
gli occhi non avevano mai smesso di brillare con entusiasmo e amore, “Ma perché
rimandare ancora? Ormai dormi praticamente ogni sera da me. E poi ho già fatto
fare una targhetta simile a questa per la nostra cassetta delle lettere."
"Ah sì?” esclamò Paul, ridendo, “E cosa c'è
scritto?"
John infilò una mano nella tasca dei pantaloni per
estrarre subito dopo una piccola, lucida, targhetta rettangolare in ottone,
sopra cui vi era inciso…
"Casa Lennon/McCartney."
Paul sorrise fra sé, prendendo tra le mani il nuovo
oggetto. Sentì che lo stesso calore di John si stava ora impossessando del suo
corpo, perché John sapeva essere impetuoso in modo assolutamente adorabile.
Ogni cosa tra le sue mani diventava la più speciale ed emozionante, come quella
targhetta, come i loro nomi uno accanto all’altro e Paul desiderava solo che
fossero stati così per sempre.
"Sembra un’incantevole prospettiva."
"Lo è." concordò John.
"Allora se abbiamo già la targhetta…” continuò Paul,
avvolgendo teneramente le braccia intorno al collo di John, “Sono costretto ad
accettare, ti pare?"
"Sì, ma solo se lo vuoi davvero.” ribatté John,
stringendolo allo stesso modo.
“John, io ti amo.” sospirò Paul, felicemente, “Come
potrei non volerlo davvero?”
“Beh, ho scombussolato la tua vita..." disse John,
allargando le mani sulla schiena di Paul e avvicinandolo a sé, forse per una
sciocca e inconscia paura che potesse perderlo, ancora.
Paul sapeva che quella paura avrebbe accompagnato per
sempre John, e la preoccupazione che aveva causato in lui quel giorno ne era la
prova. Ma John non doveva avere paura, né del futuro, né di ciò che era
accaduto nel loro passato.
“Tu hai scombussolato la mia vita?”
Forse avrebbero dovuto fare i conti ogni giorno della
loro esistenza con quelle preoccupazioni, John con la sua paura di perdere
Paul, e Paul con la paura di non meritare quella felicità.
“Certo. Io ti sono molto grato, Paul, perché hai portato
ordine nella mia vita.”affermò John,
accorato, “Ma guarda cosa ho fatto alla tua. Il completo opposto. Ho portato il
disordine. Prima avevi una sicurezza economica, una vita normale e ora-”
“Oh, John, smettila, per favore. Tu non hai portato il
disordine.”
Paul sorrise, lasciandosi stringere dalle braccia di
John, in modo che i loro petti si sfiorassero, in modo che il cuore dell’uno
battesse all’unisono e accanto all’altro, come avrebbero fatto per sempre d’ora
in poi.
“Hai portato una cosa molto più importante.”
“Cosa?”
Perché dopotutto, solo questo contava.
Che importanza avevano ora tutte le sofferenze che
avevano affrontato, quei dolori, quelle delusioni, quella solitudine che
avevano attraversato e gettato ora alle proprie spalle?
Che importanza avevano se ora uno aveva allontanato
quelle dell’altro con un soffio?
Niente di tutto questo contava, se ora per Paul non c’era
altro che John.
E il suo amore.
E la sua gioia.
E…
“John, mi hai
portato la musica.”
Fine
Note
dell’autrice: infine ci siamo. Questa long che mi sembrava
infinita all’inizio è giunta alla fine.
Ho avuto molte difficoltà per l’epilogo. Sapevo cosa
dovesse accadere, ma non trovavo le parole. Anya mi ha fatto notare che forse
non volevo farla finire a livello inconscio e mi sa che aveva ragione. Ma da
quel momento grazie ai suoi incoraggiamenti sono riuscita a sbloccarmi e ora ci
siamo. L'inizio del capitolo è preso da quello in cui Paul incontra John per la prima volta, A day in the life. :)
Non sono proprio soddisfatta, non so perché, per cui aspetto
le vostre opinioni decisamente più obiettive delle mie. Magari speriamo anche
in chi ha seguito e non ha mai recensito, che ne dite? J
Grazie a kiki come sempre per
la correzione e il supporto che mi ha dato dall’inizio alla fine.
Grazie ad Anya, ovviamente, che mi ha dato il più grande
incoraggiamento.
Grazie a chiunque abbia seguito la storia, solo all’inizio,
solo a metà, o solo alla fine.
Grazie graziegrazie.
Speriamo di sentirci presto con una oneshot
di Natale, eh? :3