Il mistero della casa

di Koira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Era davvero una bella villetta ... ***
Capitolo 2: *** La cosa più giusta ***
Capitolo 3: *** Dissociazione ***
Capitolo 4: *** Vuoti di memoria ***
Capitolo 5: *** Impotenza ***
Capitolo 6: *** Affiliazione ***
Capitolo 7: *** Let it be ***
Capitolo 8: *** Controversie ***
Capitolo 9: *** Zombie ***
Capitolo 10: *** Solo una possibilità ***
Capitolo 11: *** Preoccupazioni ***
Capitolo 12: *** Fraintendimenti ***
Capitolo 13: *** Presunzione di innocenza ***
Capitolo 14: *** La festa ***
Capitolo 15: *** Aldilà di un freddo vetro ***
Capitolo 16: *** Rivelazioni ***
Capitolo 17: *** INFORMAZIONE ***



Capitolo 1
*** Era davvero una bella villetta ... ***


Capitolo 1
Era davvero una bella villetta …
 
 
Era davvero una bella villetta. Sembrava quasi guardarmi dall’alto in basso, nella sua maestosa eleganza, facendo mostra del suo incantevole giardino, un paradiso terrestre, e dei suoi due piani. Dava l’impressione di squadrarmi dalla testa ai piedi, quasi a volermi rimproverare il solo fatto di stare lì, fermo in mezzo al traffico dell’ora di punta, ad osservarla ammaliato, “tu che sei un povero pezzente, tu che non potresti permettertela neanche lavorando una vita!”, sembrava esclamare. Eppure, non so perché, mi sentii attratto sin da subito da quella costruzione, che spiccava, come il sole fra le stelle, sullo sfondo di un quartiere residenziale in apparenza pacifico e accogliente. Ricordo che associai quell’immagine così incantevole a un telefilm che mia moglie seguiva sporadicamente in televisione, “Desperate Housewives”. Il suono di un clacson mi riportò bruscamente alla realtà. “Smetti di fantasticare”, mi dissi, “o farai tardi al lavoro”.
E ripresi a guidare, immergendomi nuovamente nel torpore di una squallida e grigia metropoli del Nord Italia. Imboccai l’autostrada e premetti più forte sull’acceleratore, quasi sentendomi in colpa per aver anche solo osato pensare di contattare i proprietari per chiedere maggiori informazioni sulla vendita. Si erano quasi fatte le otto e mezza quando parcheggiai l’automobile e presi l’ascensore, diretto mestamente alla mia postazione.
Avevo sempre detestato il mio lavoro. Sulla mia uniforme, di un arancione abbagliante, spiccava una targhetta con su scritto: “addetto alla nettezza urbana”. Insomma, uno spazzino. A dirla tutta, mi occupavo della pulizia di un ospedale, ma il mio superiore era stato così “gentile” da concedermi il lusso di continuare ad indossare un’uniforme vecchia e logora, risalente ai tempi in cui, ancora giovane e speranzoso, lavoravo part-time come netturbino per pagarmi gli studi all’università. Ormai sono passati quasi vent’anni da quel periodo, e non solo ho rinunciato definitivamente al sogno di diventare medico, ma sono talmente in rosso con i conti da non potermi permettere nemmeno una divisa nuova! Così, ancora oggi, a quaranta anni suonati, mi tocca essere inadeguato rispetto agli altri, mi tocca spiccare su tutti i miei colleghi per il colore della mia stupida divisa. Una croce, direi. E pensate che, a tutto questo, si aggiungono gli imbarazzanti commenti dei miei ex colleghi dell’università, tutti medici, ovviamente, tutti affermati dottori che hanno ricevuto in eredità patrimoni dai genitori ultraricchi, e anch’essi dottori.
«Buongiorno, Edoardo».
Mi voltai per rispondere e, con amarezza, scoprii che a parlare era stato Simone, un mio vecchio amico nonché coinquilino ai tempi di Medicina. Oramai per me era il “dottore Alberini”, ovviamente, e guai a dargli del tu.
«Buongiorno, Dottor Alberini» risposi con il tono più gentile che riuscii ad ottenere.
«Mi raccomando, dai una pulita alla stanza 2, stanotte abbiamo avuto un paziente con ematemesi».
Mi rivolse un sorrisetto, come a dire “vediamo se hai il coraggio di chiedermi cosa significa ematemesi”.
Io che ti ho passato, al tempo, il compito di Patologia Generale, brutto imbecille! Io che ero presente, forse l’hai dimenticato, al famoso esame di Anatomia in cui avesti il coraggio di prenderti, soddisfatto, il tuo bel 30 e lode, dopo aver esclamato che il cuore ha tre cavità! E ora tu fai il cardiologo, mentre io pulisco i pavimenti.
«D’accordo, ci vediamo»  mi limitai a rispondere.
Presi scopa e spazzolone e mi diressi verso la stanza n° 2. Lungo il corridoio, incontrai un’altra vecchia conoscenza, più gradita.
«Edo! Come stai? »  esclamò Marta.
«Tutto ok. Lei, dottoressa Ferrero? »
«Quante volte devo dirti di chiamarmi Marta! Tutto ok anch’io, se così si può dire dopo una notte di dieci ore! Finalmente si torna a casa! Melissa come sta? E tua moglie? »
«Mia moglie sta bene, Melissa un po’ meno. E’ un po’ agitata per la maturità …»
«Dille che andrà benissimo, è molto preparata! E dopo cosa pensa di fare? »
«Medicina», risposi fiero.
In fondo non avevo motivo di lamentarmi della mia vita, pensai in quel momento. E’vero che dovetti abbandonare gli studi per sposare mia moglie, rimasta incinta, ma da quella gravidanza così inaspettata e, devo ammetterlo, detestata, era nata la più grande gioia che io abbia mai avuto: mia figlia, Melissa. E, dopotutto, è stato meglio così: preferisco sacrificarmi affinché sia lei a laurearsi, regalando alla Medicina uno dei pochi dottori preparati. Il mio sogno è che diventi esattamente come Marta: un medico che passa più tempo a curare le persone che il proprio conto in banca, un medico che salva vite umane.
«Sicuramente supererà il test di ammissione! Sono molto contenta che abbia scelto questa strada, è come se fosse mia figlia»  disse Marta con un filo di tristezza nella voce. Purtroppo non poteva avere bambini: all’età di ventidue anni le era stato diagnosticato un carcinoma uterino, che aveva costretto i medici a un’isterectomia totale.
«Anche per lei vale la stessa cosa, è come se tu fossi la sua seconda madre»  le dissi per rincuorarla.
«D’accordo, io vado a cambiarmi e torno a casa, si è fatto tardi. Ah, mi raccomando il signor Claudio alla stanza 2. Stanotte ha perso molto sangue, mi farebbe piacere se tenessi sotto controllo eritrociti ed emoglobina per me. Oggi è di turno Simone …»  concluse con tono quanto mai eloquente.
«Ho visto. Cercherò di monitorare gli esami e, in caso di problemi, ho il tuo numero»  risposi io con tono altrettanto eloquente.
La salutai, presi lo spazzolone e cominciai a pulire il pavimento. Avevo sempre apprezzato la spontaneità di quella donna, il fatto che chiamasse per nome i pazienti e si affezionasse a tutti, anche ai meno “simpatici”, in egual misura.
 
Dopo otto interminabili ore di lavoro, finalmente ero di nuovo in automobile, stavolta più felice, perché la destinazione era casa. Erano quasi le cinque di pomeriggio, e a quell’ora Melissa usciva da scuola. Presi la solita scorciatoia per non farla aspettare troppo tempo da sola e giunsi davanti al cortile dell’edificio.
«E’ da tanto che aspetti? »  chiesi a mia figlia mentre saliva in auto.
«No, sono appena uscita»  rispose.
Ma sapevo che non era così.
«Sai, se mi regalassi una macchina, potresti evitarti ogni giorno tutto questo tragitto»  aggiunse poi, accendendo la radio.
«Non è un peso, lo faccio con piacere»  ribattei io, maliziosamente.
Sapevo dove voleva arrivare. Era dal giorno dei suoi diciotto anni che continuava a chiedermi un’automobile, ma io ero assolutamente contrario. Nonostante avesse la patente, e fosse un’attenta guidatrice, temevo che potesse avere qualche incidente.
«Ti faccio vedere una cosa»  esclamai, quasi senza accorgermene.
Feci un’inversione a U, subendo i suoi – giustissimi- rimproveri ( “e non fai guidare me!”), e la condussi a vedere la villetta che tanto mi aveva affascinato. La vista di quel maestoso edificio non la colpì come immaginavo.
«E’inquietante»  si limitò a proferire.
«Se solo potessimo permettercela … è grande tre volte la nostra, ed è in periferia! Qui l’aria è pulita, la sera si può uscire senza timore, tutti si conoscono …»  dissi.
«A me piace la nostra casa»  esclamò Melissa.
Deluso, imboccai l’autostrada, senza comprendere il disappunto di mia figlia. Decisi di farla guidare per un certo tratto, e andò abbastanza bene. L’unico problema fu il bilancino al semaforo, dove rischiammo di capitombolare addosso alla macchina dietro di noi. Dopo pochi minuti, arrivammo finalmente a casa. Non si poteva dire che fosse un brutto appartamento, anzi era abbastanza accogliente, però fin troppo piccolo per quattro persone: io e Elena avevamo per camera da letto una sottospecie di sgabuzzino, e Melissa e Davide erano costretti a condividere la stanza, e, cosa ancora più grave, un solo bagno!  Davide era ancora piccolo, poco più che un bambino al tempo: aveva solo tredici anni, e nulla a che vedere con sua sorella, e non solo fisicamente. Era molto più alto dei suoi coetanei, snello, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, la fotocopia esatta della madre. Giocava a basket quasi da professionista, e, come molti atleti, non andava d’accordo con i libri: studiava poco e di rado. Lo dicevo sempre a mia moglie, “se solo avesse un quarto dell’intelligenza di Melissa …”, e lei mi rimproverava, rivolgendomi sempre le stesse parole: “così non lo inciti di certo a studiare! Poverino, ha pure la squadra …”.
La “squadra” per lei era prioritaria: sognava che Davide diventasse un giocatore di basket professionista, lei che sin da piccola era stata un’ottima pallavolista, lei che aspirava a vincere i campionati europei, al tempo, prima di scoprire che qualcosa stava già nascendo dentro di lei, in assoluta indipendenza e autonomia. Del resto anch’io, fin da quando era piccina, ho trattato Melissa quasi come un’estensione di me, infondendole la passione per la medicina. Siamo un po’ tutti così noi genitori: cerchiamo di vivere una seconda volta nei nostri figli, speriamo che, almeno loro, riescano a realizzare sogni per noi ormai lontani. Quanto aveva ragione Sullivan con il suo modello.
Come Davide era l’esatta copia della madre, così Melissa sembrava essere, più che mia figlia, una novella Atena nata dal mio capo, vista la somiglianza estrema. Come me, aveva i capelli castani, gli occhi neri e la carnagione scura, a testimonianza delle nostre origini meridionali. Calabresi, per precisione. E, come ormai avrete capito, era un piccolo genio: tutti nove a scuola, borsa di studio per l’università, grandi aspirazioni. Insomma, la mia “pupilla”. Nutrivo grandi speranze sul suo futuro, ed ero certo che non mi avrebbe deluso.
Non appena aprimmo la porta di casa, un odorino invitante pervase le nostre narici: Elena stava cucinando. Da quando era stata costretta ad appendere a un chiodo i suoi sogni di diciottenne era diventata la casalinga perfetta, o meglio, la perfetta donna di casa: sempre lì a cucinare, pulire e riordinare il macello che noi tre vagabondi combinavamo. Chi l’avrebbe mai detto, vent’anni fa, che noi due saremmo finiti così: lei che non sapeva neanche come si usa una scopa, io ancora più pigro, preso solo dai miei progetti e dalle mie aspirazioni di carriera. La vita a volte ti riserva veramente cose che mai penseresti … Eppure non è cambiata di una virgola, in fondo è sempre la stessa guerriera: basta vedere come si infervora quando guarda la politica in televisione! Per non parlare delle scenate che fa in quelle poche, rarissime occasioni in cui Melissa si concede di uscire con le amiche la sera, e rientra anche solo cinque minuti oltre il coprifuoco.
«Cosa cucini di buono, mamma? »  chiese Melissa, avvicinandosi ai fornelli.
«Lasagne al forno, oggi è un giorno speciale»  rispose Elena senza distogliere lo sguardo dalla sua pietanza.
Terminò di cospargere l’ultimo strato di lasagne con besciamella e formaggio, aggiunse del sugo e pose il tutto nel forno.
«Amore, come è andata oggi a scuola? »  chiese quindi a Melissa, baciandole dolcemente una guancia.
«Bene, finalmente la prof di italiano si è decisa a spiegare Montale. Meglio tardi che mai, considerando che siamo già a metà Maggio! Cosa si festeggia? »  domandò a sua volta mia figlia, incuriosita.
«Ve ne parlerò stasera a tavola, voglio che ci sia anche Davide»  si limitò a rispondere mia moglie, ermetica.
«E a me non chiedi come è andata la giornata, Mata Hari? »  mi intromisi io, baciando calorosamente Elena sulla bocca.
«Che spiritoso … come è andata la tua giornata, Edo? »  chiese mia moglie, scandendo ogni singola parola, fingendosi infastidita.
«Benissimo, forse un po’ faticosa … ho avuto due interventi impegnativi, una colecistectomia e una tiroidectomia  … »  risposi io, con aria di importanza.
«Bravo il mio maritino, allora. Ti sei meritato le lasagne»  disse lei.
Preso dalla conversazione, non notai che, nel frattempo, Melissa era sgattaiolata, astuta come una volpe, verso il bagno - l’unico bagno! - e si era chiusa a chiave. Neanche il tempo di bussare che già aveva acceso lo stereo a tutto volume e si era persino messa a cantare a squarciagola.
«Colpito e affondato»  esclamai, adagiandomi sul divano e accendendo la televisione.
A quell’ora la scelta era quasi obbligata: cartoni animati. L’alternativa era una trasmissione strappalacrime, una di quelle ipocrite trasmissioni del pomeriggio, e non mi allettava per nulla.
«Finisce ogni giorno così da quando ha imparato a camminare»  disse mia moglie, sfoggiando uno dei suoi splendidi sorrisi.
Sapevamo entrambi che Melissa si sarebbe infilata in bagno, approfittando della mia distrazione, lo faceva sempre, tuttavia non mi infastidiva. Mi faceva piacere che pensasse di essere più astuta del padre, anche se penso che sapesse che le cedevo di proposito la doccia, era troppo intelligente per non sospettarlo almeno. Ma dopotutto le faceva comodo.
«Non importa, aspetterò che finisca»  asserii.
«Preparati ad almeno un’ora di zapping, allora»  concluse mia moglie, riprendendo a cucinare.
Sdraiato sul divano, con la coda dell’occhio guardavo lei che, nel frattempo, aveva iniziato a preparare la nostra torta preferita, la Sacher.
Sembrerà pazzesco, ma adoriamo a tal punto quel dolce da averlo scelto, suscitando a suo tempo il disappunto dei miei genitori, come torta di nozze. Ricordo che alla fine giungemmo a un compromesso: la Sacher nel nostro tavolo, solo per noi due, e la più classica torta panna e nocciola a più piani per gli invitati. Sul televisore spicca ancora la foto che ci scattarono in quel fantastico giorno: lei bellissima, io sempre fuori posto. Tra di noi, Melissa, nel pancione di Elena. Di lì a poco sarebbe nata, proprio durante il viaggio di nozze. Eravamo a Londra, prima tappa di un viaggio che avrebbe dovuto toccare le principali capitali europee. Chi si aspettava che Melissa avrebbe deciso di venire al mondo con così tanto anticipo, da settimina? D’altronde, è sempre stata più matura delle sue coetanee, più matura forse anche di me. Quel lontano giorno di Gennaio di diciotto anni fa fummo costretti ad andare all’ospedale in taxi, mentre io con una mano accarezzavo mia moglie e con l’altra gesticolavo per far capire all’autista dove volevamo andare, come se non fosse evidente.
Due folli, col senno di oggi, ad andare a Londra senza sapere nemmeno una parola di inglese. Eppure ce la facemmo, e oggi siamo ancora qui a parlarne e a ricordarcene, con un pizzico di nostalgia.
«Papà, il bagno è libero»  esclamò Melissa, catapultandomi nella realtà.
«Di già, è passata solo un’ora e mezza! Mi stupisci di giorno in giorno»  dissi io sarcasticamente.
«Dovresti ringraziarmi, sai che avrei potuto metterci più tempo»  aggiunse lei, ridacchiando di gusto.
Mi affrettai ad entrare in bagno e a chiudermi a chiave: a breve sarebbe arrivato Davide dagli allenamenti. Si erano già fatte le sei e mezza. Mi concessi un lungo e meritato bagno rilassante. Mentre mi asciugavo i capelli, sentii Davide che urlava, probabilmente contrariato per aver trovato la porta chiusa a chiave. Cercai di affrettarmi, e aprii la porta.
«Ehi papi, al solito Melissa è rimasta un’ora sotto la doccia, vero? Dovremmo costruire un altro bagno …»  disse mio figlio.
«Lo so, Dado, non ricordarmelo»  risposi io, ripensando ancora a quella splendida villetta di periferia.
«Oggi sono stato il migliore in campo»  aggiunse Davide, soddisfatto.
«Bravissimo, sono fiero di te! E il compito di matematica a scuola? »  chiesi.
«Il solito, papà. Difficilissimo! »  rispose lui, indecifrabile.
«Se lo dici tu … tra mezz’ora penso sia pronto, tua madre ha una bella notizia da darci. Speriamo che non venga a trovarci tua nonna, come lo scorso mese …»  esclamai, suscitando la sua risata.
Mi recai quindi in cucina, dove il tavolo era già apparecchiato e le lasagne quasi pronte. Elena aveva deciso di sfoggiare i piatti “buoni”, quelli dei giorni di festa, il che mi fece sospettare che la buona notizia non fosse un imminente arrivo della madre, mentre Melissa era in camera sua a studiare greco o chissachè. Aveva l’abitudine di ripetere ad alta voce, sin dai tempi delle elementari. Adagiai l’orecchio contro la porta della sua stanza, come facevo spesso, incuriosito. “  … e in quest’opera Pirandello evidenzia minuziosamente la sua visione della follia, ponendo l’accento sul binomio, che egli vede come imprescindibile, follia – diversità …”. Stava studiando l’“Enrico IV” di Pirandello, una delle mie opere preferite. All’epoca della maturità, la mia tesina riguardava proprio questo tema. Il titolo era “La follia o manifestazione del diverso”, lo ricordo molto bene.
«Melissa, è pronto! »  sbraitò Elena dalla cucina.
«Arrivo, mamma! »  urlò in risposta mia figlia, spalancando la porta della sua stanza.
«Papà, che ci fai qui impalato?! Ti facevi un po’ i fatti miei, come al solito? »  esclamò poi.
«Ripassavo l’Enrico IV, ascoltando te che ripetevi … ti ho mai detto che …»  iniziai.
«Lo so, lo so papà, me l’hai detto almeno trecento volte! “ai miei tempi,  portai come tema la follia alla maturità”, eccetera eccetera …»  mi interruppe lei, facendo una credibile imitazione della mia voce.
«Scusa, volevo solo aiutarti con la tesina! Tu hai già scelto un argomento? »
«Sì, “L’individuo e la società” … mi dispiace, l’ho già fatta rilegare …»
«Non preoccuparti, è un buon tema. Andiamo a cenare, chiama tuo fratello»  conclusi, recandomi verso la sala pranzo.
«Dado, è pronto! Libera il bagno! »  strepitò Melissa.
«Arrivo!» urlò Davide in tutta risposta.
Sul tavolo i piatti erano già colmi di cibo, ed Elena stava riempiendo i bicchieri d’acqua. Nella nostra famiglia gli alcolici erano un tabù, specie a pranzo e cena. Melissa ovviamente era astemia, oltre che vegana, mentre io e Davide rispettavamo scrupolosamente la volontà di mia moglie, che avevamo scherzosamente soprannominato “la madre fondatrice”, con evidente riferimento ai padri fondatori e al loro squilibrato proibizionismo. Sapevamo bene che questa sua apparentemente folle volontà era giustificata da un brutto evento capitatole quando era solo una bambina: i genitori di Elena erano morti entrambi in un incidente d’auto provocato da un ragazzo, all’epoca poco più che ventenne, che guidava ubriaco. Erano più o meno le sei del mattino: Melissa e Davide – si chiamavano così – rientravano da una vacanza con la figlia, mia moglie, allora undicenne, mentre il giovane si ritirava dalla discoteca. Alla polizia disse di aver bevuto solo due birre, niente di più, due maledette birre che avevano causato la morte di due persone, due innocenti che per caso si trovavano nel posto sbagliato. Al momento sbagliato. Dopo lo sciagurato incidente, al ragazzo, in evidente stato di shock, furono chieste le referenze.
“Come si chiama? Ragazzo, qual è il suo nome?”
La vista era debole, sfuocata, i sensi assopiti.
A distanza, una macchia blu  poco chiara, forse un’auto. Sì, era decisamente una berlina. O almeno così sembrava …
“Come? … Il mio nome? Ma cosa ho combinato, che cavolo ho fatto? Come stanno quelli sulla berlina? Sono ancora vivi?”
 “ Ci sta pensando un mio collega in questo momento. Lei come si chiama? Ha bevuto qualcosa? Ha abusato di qualche sostanza?”
“Bevuto? … No, solo due birre ... e non mi sono fatto di niente …”
“Ho capito … mi vuole dire come si chiama?”
“Francesco … Di Giorgio. Come stanno le persone sulla berlina?”
“Ha detto “Di Giorgio”?” .
Silenzio.
“E i suoi genitori? Dove sono?”
“In Calabria, in vacanza … ma questo cosa centra adesso?”
“Ha un recapito? Un numero di telefono da poter chiamare per parlarci?”
Il carabiniere era fin troppo insistente. Qualcosa non andava.
“Ho il numero di mia nonna. Signore, cosa sta succedendo?”
Il carabiniere iniziava a sudare vistosamente … la vista accennava a tornare. A venti metri, un’auto, o quello che ne rimaneva dopo la tremenda collisione. Qualcosa non andava …
“Non succede nulla, devo contattare i suoi genitori. Procedura standard”
Lo sguardo di nuovo puntato sull’auto, insistente. Quella vettura aveva qualcosa di familiare … i suoi genitori ne avevano una simile. Non è possibile, non è la loro auto, sono in Calabria … Sul parabrezza un adesivo di Winnie the Pooh …
“Cosa è  successo alle persone sull’auto”
Il respiro mozzato, la testa sembrava sul punto di esplodere. Non può essere, esistono migliaia di macchine come quella e centinaia di migliaia di adesivi come quelli …
Il carabiniere stava esitando troppo …
“Sta’ calmo, ragazzo … Francesco, su quell’auto c’erano i tuoi genitori e tua sorella, mi dispiace tantissimo …”
C’erano? … non è possibile, non è vero …
“Come stanno, sono vivi? Elena? …”
“Elena sta bene, era nel sedile posteriore … non ha riportato gravi ferite, solo contusioni …”
“Mamma e papà?”

“Francesco, siediti. Fatti coraggio … non ce l’hanno fatta … mi dispiace tantissimo”
“Non è vero … non è vero! ...”
E’ un sogno, è soltanto un brutto incubo, un bruttissimo incubo … Ho bevuto troppo, adesso mi sveglio e scopro che è stato tutto un incubo … mamma e papà sono ancora vivi, sono giù in Calabria … Se questo non è un sogno, se non sto dormendo, voglio morire, per favore uccidetemi … uccidetemi …
 
Non era un sogno: Francesco aveva provocato la morte dei suoi genitori. Da quel giorno, non fu più in grado di riprendersi. Andò in terapia per qualche mese, tentò di farcela per Elena, ma non ci riuscì. All’età di soli vent’anni, dopo aver lasciato la sorella a scuola, si suicidò con i gas di scarico  della sua automobile, che divenne così anche per lui foriera di morte. Sul parabrezza, un adesivo di Winnie the Pooh e un foglietto con su scritto: “Perdonami, io non sono riuscito a farlo”.
 
 
 

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Capitolo 2
*** La cosa più giusta ***


La cosa più giusta

Capitolo 2

La cosa più giusta

«Allora, qual era la tanto misteriosa sorpresa che non vedevi l’ora di dirci?» esordì Davide a un tratto, senza preavviso.

Eravamo tutti sazi e assopiti dopo la cena “speciale” di Elena a base di lasagne e pollo arrosto (insalata per Melissa), e c’era quasi sfuggito lo scopo di quel lauto banchetto: mia moglie aveva una sorpresa da svelarci. L’aria divenne improvvisamente carica di tensione: ognuno di noi sperava in qualcosa di diverso. Nella mente di Davide, speranzosa, baluginava l’immagine di una vincita alla lotteria di qualche milione di euro, mentre Melissa sperava nella comunicazione dell’imminente adozione di un cucciolo, magari un piccolo yorkshire. Per quel che mi riguarda, tra le due aspettative optavo decisamente per quella di mio figlio.  Correndo il rischio di passare per un venale, un materialista, prevedevo che a Settembre Melissa avrebbe iniziato il primo anno a Medicina, e – lo sapete – lo studio ha un suo bel prezzo: costano i libri, costa l’iscrizione all’università, costa la retta annuale. Chi, quale genitore avrebbe avuto il coraggio di negare l’apprendimento a un figlio così dotato? Io no di certo.

«Giusto, me n’ero quasi dimenticata!» esclamò Elena, appoggiando il vassoio con il dolce sul tavolo.

«Stamattina ha chiamato Riccardo».

«Che fantastica notizia!» sbottai io, non riuscendo a frenare il disappunto.

Riccardo era l’ex fidanzato di mia moglie, il classico bulletto tutto sport niente studio. Non fraintendetemi, era ben diverso da mio figlio Davide: era un totale imbecille. Lui ed Elena stavano insieme ai tempi del liceo: quarto e quinto ginnasio, precisamente. Riccardo era il migliore amico del fratello, e, nonostante la differenza di età, aveva sin da subito adocchiato mia moglie dopo la morte di Francesco. Con la scusa di volerla consolare, non aveva fatto altro che avvicinarsi a lei, come un’anguilla, a poco a poco, approfittando della sua sofferenza. La loro storia durò a malapena due anni, fino al giorno in cui Elena lo trovò a letto con la sua migliore amica, e decise finalmente di lasciarlo. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che lo avesse perdonato, decidendo di mantenere un’amicizia, e che ancora giudicasse “una bella notizia” ricevere una sua telefonata. Attribuivo questa sua decisione, in apparenza assurda, alla volontà di non “tradire” in qualche modo il fratello morto, allontanandosi da quello che era stato il suo migliore amico.

«Scusa, continua» aggiunsi poi, sentendomi un idiota.

Melissa e Davide ascoltavano rimanendo educatamente in silenzio, ma scambiandosi degli sguardi perplessi.

«Stavo dicendo … Riccardo mi ha chiamata, stamattina. Voleva dirmi che un suo amico ha deciso di affittare una villetta in periferia, poco distante dalla palestra di Davide. E’ una casa su due piani, con un grande giardino» proseguì Elena.

Un pizzico di speranza pervase tutto il mio corpo: la villetta di quella mattina, il paradiso terrestre …

«E questa sarebbe la bella notizia? L’ho vista stamattina, a giudicare dalle dimensioni non è proprio alla nostra portata … e poi, se non sbaglio, quella villetta è in vendita» la interruppi, leggermente innervosito.

«Lasciami finire, Edo … come dicevo, il proprietario è un suo amico, e ha deciso all’ultimo momento di non venderla. Pare sia troppo carica di ricordi della madre, defunta da poco … ha detto che può farci uno sconto … 590» concluse.

«590 euro?» chiesi, sgomento. « … al mese?».

«No, al giorno!» esclamò Elena, sarcastica. «Certo che al mese, che domande fai?».

«Non ci credo, c’è qualcosa dietro … una villa così grande, almeno centocinquanta metri quadrati … nessuno sarebbe così folle da affittarla per così poco, in questa città …» sostenni.

La verità era che non mi andava di dovere un favore a Riccardo.

«Ti ho detto che il proprietario è un amico di Riccardo, per questo costa così poco! E poi pare che abbia fretta di affittare la casa, perché si sta per trasferire in un’altra città …» aggiunse Elena, spazientita.

«Ma perché avete tutta questa volontà di trasferirvi? Questa casa va benissimo, non ha niente che non vada!» intervenne Melissa, quasi urlando.

Tutto ad un tratto si era alterata.

«Ha ragione tua figlia, questa casa va bene» dissi io, affermando esattamente il contrario di quello che pensavo.

Quella casa mi piaceva veramente tanto.

«E tu che centri, papà! Non fingere di essere d’accordo con me solo perché detesti Riccardo, fino a poche ore fa sognavi di affittare quella casa! Mi hai persino portata a vederla!» sbottò Melissa.

Era vero. Mia figlia aveva pienamente ragione, per quanto mi costasse ammetterlo: adoravo quella casa.

«Io … be’, mi sarà permesso di cambiare idea o no?» dissi, arrampicandomi maldestramente sugli specchi.

«Se è questo che vuoi …» concluse Elena.

Prese un coltello e tagliò la torta, distribuendone una fetta a tutti, me incluso. La cena terminò nel più avvilente silenzio: nessuno ebbe più il coraggio di proferire alcuna parola. Verso le nove, mia moglie sgombrò la tavola, aiutata da Melissa, e si mise a lavare i piatti. Davide si lasciò cadere sul divano, guardando la televisione, e ben presto fu raggiunto dalla sorella. Iniziò una lotta all’ultimo respiro fra i due per il dominio del telecomando: Melissa voleva seguire il suo telefilm preferito, mentre mio figlio aveva iniziato a vedere un film thriller, uno di quelli tutto sparatorie niente trama. Lasciando la prole a contendersi l’egemonia del televisore, decisi di andare subito a dormire: l’indomani loro sarebbero rimasti a casa, ma io mi sarei dovuto svegliare alle sei per andare a lavoro, dove non esistono sabato liberi. Adagiandomi sul letto, rimuginai sulla serata: era stata un completo fallimento, e tutto per colpa mia, per colpa del mio stupidissimo orgoglio maschile. Potevo veramente rinunciare a una così stupenda villa, per giunta ad un prezzo così basso, solo perché a procurarcela era stato Riccardo?

No, mi dissi. Mi venne in mente il testo di una canzone che Melissa cantava spesso:

… l’orgoglio in amore è un limite che sazia solo per un istante e poi torna la fame …”.

Nina Zilli aveva ragione: l’orgoglio in amore è un limite. Non potevo proprio permettermi di rovinare il rapporto con mia moglie e rinunciare a quella fantastica casa solo per orgoglio! Mi alzai di scatto dal letto e corsi in cucina: Elena stava ancora lavando i piatti. Intravidi la sua espressione, un’espressione triste e amareggiata, e mi sentii ancora più in colpa, ancora più stupido di prima. Melissa e Davide stavano litigando, e iniziai a temere che i vicini chiamassero la polizia lamentando un disturbo alla quiete pubblica. Lentamente e silenziosamente, mi avvicinai a mia moglie e la cinsi con le braccia, facendola sussultare.

«Edo, sei tu! Hai messo a dura prova le mie coronarie!».

«Scusami … e non solo per adesso. Sono stato un vero idiota stasera dissi.

«Infatti, sei stato un imperdonabile deficiente stasera» aggiunse lei, non riuscendo però a nascondere un sorrisino soddisfatto.

«Un deficiente, un idiota, tutto quello che vuoi … hai pienamente ragione ad avercela con me. Ti volevo dire che per la casa va bene».

Non ho mai saputo scusarmi in vita mia.

«Va bene cosa?» insistette Elena.

Era chiaro che da me pretendeva qualcosa di più. E dopotutto, ne aveva pienamente diritto.

«Va bene, possiamo andarla a vedere domani, se il proprietario è disponibile. Domani pomeriggio dopo le due, però, perché fino a quell’ora sono al lavoro» aggiunsi io, esitante.

Ma perché è così difficile scusarsi? Nei film lo fanno sempre con effetto, usando paroloni, e il perdono è assicurato.

«Possono venire anche Davide e Melissa, è giusto che piaccia anche a loro. Quindi tu l’hai già vista?»  chiese mia moglie.

«Sì» risposi.

«E’ bellissima» aggiunsi, laconico.

«Sei veramente incredibile» esclamò lei, baciandomi teneramente su una guancia.

«Visto che questa è la serata delle rivelazioni» seguitò. « Ho preparato una fantastica cena per due motivi … ho … ho deciso di tornare a lavorare».

Silenzio.

«Hai capito, Edo?».

Devo ammettere che quella notizia non mi fece fare i salti di gioia, anzi, tutt’altro, però mi sentivo ancora troppo in colpa per iniziare un’altra discussione.

«Sono contento» dissi semplicemente.

« Non vuoi neanche sapere di che si tratta?» esclamò.

«Certo, amore! … di che si tratta?» chiesi in fretta.

«Complimenti per la spontaneità! Comunque … Alla palestra di Davide cercano un’istruttrice di pallavolo, e io ho deciso di fare domanda. Inizio lunedì. Pensavo fosse giusto fartelo sapere» proseguì.

«Hai fatto benissimo, Elena … anche se avrei preferito che non ti sforzassi, fa sempre comodo uno stipendio in più, specie in vista dell’università di Melissa» affermai.

«Sono contenta che ti faccia piacere … mi impegnerà solo tre volte a settimana, se accettano la mia domanda» aggiunse poi, quasi scusandosi.

«Non preoccuparti, l’importante è che sia quello che vuoi» dissi. Ma dovrai fare i conti con tuo figlio, temo».

«Lo so, ma non diciamogli niente prima di lunedì, è meglio» si affrettò a dire Elena, preoccupata.

Dopo aver stipulato l’”armistizio”, mano nella mano, ci recammo in salotto, dove Melissa e Davide, finalmente, avevano smesso di litigare. Come al solito, aveva avuto la meglio mia figlia, e Davide, ferito nell’orgoglio, era intento a mandare sms, probabilmente al suo amico di sempre Giovanni, il figlio di Riccardo.

«Noi andiamo a letto» esordii a voce un po’ troppo alta, guadagnandomi un’occhiata indispettita di Melissa.

«Buonanotte» si limitò a dire, quasi temendo di perdere una sillaba del telefilm che si era riuscita a guadagnare con tanta fatica.

«Comunque, se vi interessa, domani pomeriggio andiamo tutti a vedere la casa» scandì Elena, forse sperando di suscitare un coro di “evviva!”  che non arrivò.

«E come al solito in questa casa la mia opinione non conta nulla» si limitò a dire Melissa.

Delusi, ci recammo in camera da letto e, entro poco tempo, dormivamo entrambi come ghiri.

 

La mattina seguente fu un’impresa svegliarsi, con tutta la casa in silenzio, assopita. Davide si era addormentato sul divano: sembrava così piccolo, così innocente, disteso su quel sofà. Presi una coperta e gliela gettai sulle spalle: eravamo a Maggio, ma faceva ancora freddo. Bevvi il mio solito caffè in cucina, facendo attenzione a non svegliare nessuno, e uscii, diretto al lavoro. Passando davanti alla villetta non potei fare a meno di sorridere: “adesso chi è il pezzente?”, pensai. Premetti l’acceleratore e, nel giro di dieci minuti, raggiunsi l’ospedale. La mattinata trascorse serena, sostenuto dal compiacimento per il potenziale realizzarsi del mio sogno sulla casa, e riuscii addirittura a mettere in imbarazzo Simone – pardon, il dottor Alberini – davanti ad un paziente. Accorgendomi che stava dimettendo un anziano, a suo dire “guarito”, con tre milioni e mezzo di globuli rossi e sette di emoglobina, non riuscii a trattenermi dall’intervenire.

«Ma dottor Alberini, ha visto gli esami ematochimici del paziente?» chiesi.

Nel frattempo, l’anziano, nonostante fosse visibilmente sofferente, spostava lo sguardo fra me e Simone, turbato, quasi chiedendosi chi dei due fosse il medico.

«Sì, quelli di ieri sera. E’ tutto a posto».

«No, quelli di stamattina, quelli che ha chiesto personalmente la dottoressa Ferrero» continuai.

«Non ce n’è bisogno, non andavano fatti, l’ho detto benissimo anche a Marta. In questi tempi di spending review dovremmo evitare certe cose … e comunque a te non devo dire nulla, torna a pulire i pavimenti».

A quel punto, non riuscii proprio a trattenermi. Se l’era cercato, in fondo.

«Dottore, il paziente ha pochi globuli rossi, e anche l’emoglobina è bassa. Potrebbe avere un’emorragia interna, il che è plausibile, considerando che fa TAO» esclamai, cercando di mantenere un tono di voce piatto, per quanto la situazione non lo consentisse affatto. Il paziente andava prontamente trasfuso. Fu provvidenziale il passaggio in corridoio di Marta, che, resasi conto della gravità della situazione semplicemente dal pallore dell’anziano, chiamò subito un infermiere e ricondusse il paziente in reparto.

«Complimenti, Simone» si premurò di aggiungere, prima di allontanarsi verso l’unità operativa di Medicina Interna.

Da parte sua Simone, visibilmente imbarazzato, quasi più pallido del paziente, non proferì parola. Incredibilmente, iniziai a provare pena per quell’uomo: in fondo, sembrava sinceramente angosciato per le sorti dell’anziano, che peraltro era stato affidato a lui. O forse era più preoccupato di come l’avrebbe presa il primario alla notizia che uno dei suoi migliori medici aveva rischiato di uccidere un paziente, chissà.

Erano quasi le due e un quarto quando timbrai per uscire. Per fortuna, l’anziano era riuscito a salvarsi, grazie all’intervento di Marta. Eccitato per l’imminente incontro con il proprietario della villetta, chiamai mia moglie per avere conferma sull’orario e sulla sua disponibilità. Loro erano già lì, mi disse, “aspettiamo solo te”. Mi misi in macchina e cercai di fare il più in fretta possibile, per non far aspettare troppo il proprietario e la mia famiglia. Arrivato a destinazione in soli cinque minuti, parcheggiai l’auto nel garage della villetta: il padrone fu così gentile da aprirmi il cancello e farmi entrare con la vettura. Entrando, ebbi la stranissima impressione di essere osservato. Non ci feci caso, forse distratto dallo sguardo fin troppo interessato che un ragazzo, affacciato sul balcone della casa accanto, rivolgeva a mia figlia, che non si era accorta di nulla. Prendere a pugni il tuo potenziale vicino non ti aiuterà a fare buona impressione sul proprietario, mi dissi. Scesi quindi dalla macchina e raggiunsi la mia famiglia.

«Buon pomeriggio, signor Martini» esclamò il proprietario. Vicino a lui c’era Riccardo, sorridente, che mi fece un cenno con la mano.

«Buon pomeriggio, signor …» dissi io.

« … Ruffini» concluse lui.

«Molto lieto, signor Ruffini».

«Il piacere è tutto mio! Volete vedere la casa?» chiese il proprietario.

«E ce lo chiede pure» esclamò mia moglie.

Seguendo il signor Ruffini, finalmente entrammo in quella villetta che fino a quella stessa mattina mi sembrava quasi un’allucinazione. Superato il giardino si giungeva a un portico finemente adornato, oltre il quale era collocata la porta di ingresso, ovviamente corazzata, che immetteva in un lungo corridoio. Mia moglie fu immediatamente colpita dalla bellezza dei pavimenti, in marmo. Il corridoio, lungo qualche metro, terminava con un arco che introduceva nella cucina. E che cucina, pensai. Quattro volte la nostra. I soli mobili valevano più della nostra casa di allora. Erano pezzi d’antiquariato, risalenti ad almeno un secolo prima. A destra della cucina c’era un piccolo bagno, provvisto di una doccia che catturò l’attenzione di mia figlia. “E’ due volte la nostra, e questo è il bagno piccolo!”, esclamò. Tornando indietro lungo il corridoio c’era un secondo bagno, seguito dal salotto, un vero capolavoro di interni. C’erano poi la “sala studio”, o almeno così la definì il proprietario, e due rampe di scale, una diretta ai piani superiori, l’altra ad una cantina che avremmo potuto utilizzare come deposito. Salendo al piano di sopra, ai lati di un secondo, lungo corridoio c’erano tre ampie stanze e un terzo bagno. Un sogno ad occhi aperti. Melissa si precipitò ad occupare la più grande fra le due camere destinate ai “bambini”, che malauguratamente si affacciava sul balcone dell’irritante ragazzo della casa accanto, e a Davide non rimase che accettare l’ennesima sconfitta. Visitata la villetta, il proprietario ci invitò a percorrere il giardino, colmo di alberi con frutti rigogliosi e provvisto persino di una piscina (fin troppo, mi dissi, per soli 590 euro mensili), e fu così gentile da insegnarmi ad aprire cancello e garage. Al termine della visita, eravamo tutti soddisfatti: incredibilmente, anche Melissa sembrava aver messo da parte la sua ritrosia iniziale, e sospettavo che, a parte i tre bagni e la camera singola, centrasse qualcosa l’ambiguo vicino, che anche lei aveva iniziato a scrutare con una certa insistenza. Nessuno aveva intenzione di rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi fare.

O almeno così pensavo.

 

 

 

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Capitolo 3
*** Dissociazione ***


Capitolo 3

Dissociazione

«Le case non uccidono le persone. Le persone uccidono le persone».

Mi svegliai di colpo, impaurita.

Era solo un sogno.

Colpa del mio fantastico fratello minore, che la sera prima aveva insistito a portarmi al cinema a vedere Amityville Horror. Grazie a lui, quella notte non avevo fatto altro che sognare omicidi e pozze di sangue che avevano come scenario la nostra nuova casa. Come se non bastasse, dopo il cinema eravamo andati a cenare in pizzeria, dove avevo nuovamente incontrato quello strano ragazzo che mi spiava ormai da mesi e che, guarda caso, sarebbe stato presto il mio nuovo vicino. Un tipo molto singolare: alto, moro e con gli occhi azzurri. Un gran figo, penserete. E in effetti lo era, salvo quell’aura di eccentricità che si portava dietro. Stava sempre da solo, e devo ammettere che un po’ mi faceva pena. Eppure, non riuscivo a non esserne inquietata …

«Sorella, io sto per chiudermi a chiave in bagno».

Le parole di Davide mi catapultarono nella realtà. Caspita, se lui era sveglio doveva essere davvero tardi.

Guardai la sveglia sul comodino: le undici e trenta. Dovevamo sbrigarci: a breve sarebbero tornati mamma e papà a prendere la nostra roba.

«E’ tardissimo, spero che almeno abbia preparato la tua valigia!» gli dissi, agitata.

«Guarda che io è già da un po’ che sono in piedi, e grazie a te e ai tuoi stupidi incubi. Non hai fatto che strillare stanotte» esclamò Davide, irritato.

«Vorrà dire che la prossima volta sceglierò io cosa vedere al cinema!» controbattei io, prontamente.

Presi l’accappatoio e, approfittando della sua distrazione, mi intrufolai in bagno. Neanche il tempo di chiudere a chiave, che da dietro la porta risuonarono le sue urla contrariate.

«Non è possibile, sono ore che sono sveglio!».

«Ti saresti dovuto fare la doccia ore fa, allora» ribattei.

 

Circa trenta minuti dopo, liberai il bagno.

«E’ tutto per te, fratellino» dissi, ridacchiando.

Davide, senza nemmeno guardarmi in faccia, prese una tovaglia e si infilò sotto la doccia.

Mentre lui si sciacquava, mi misi a riempire un po’ di scatoloni, temendo le urla dei miei genitori.

Alle 12.30, mio padre suonò il campanello e caricò sull’auto tutti gli scatoloni e due valigie.

«Vi dispiace portare voi quello che resta? La nostra nuova vicina – una signora molto simpatica – è stata così gentile da offrirci il suo aiuto con il trasloco, e tra mezzora sarà qui a prendervi con la sua auto» disse mio padre.

«Simpatica significa bella nel tuo vocabolario?» chiesi io, maliziosamente.

«Bella come può esserlo una signora di ben ottantuno anni» rispose.

«Si chiama Dorotea, comunque … vive nella villetta accanto alla nostra con suo nipote, un ragazzo un tantino strano» aggiunse eloquentemente.

«Per te ogni ragazzo tranne Davide è strano» dissi.

Ero troppo orgogliosa per specificare che aveva ragione. Quel tipo era veramente strano. Se solo mio padre avesse saputo che era da un paio di mesi che mi gironzolava intorno, non solo avrebbe evitato di affittare quella casa, ma addirittura ci saremmo come minimo trasferiti su un altro pianeta.

Tipica iperprotezione meridionale.

I trenta minuti successivi furono allo stesso tempo i più brevi e i più lunghi della mia vita.

Passai tutto il tempo a contemplare la mia piccola casetta, che di lì a poco avrei abbandonato. Le mura della mia stanza scarabocchiate nei miei moti di follia, i calci di Davide negli angoli quando perdeva a basket. In un angolo, una foto di mio padre da giovane: era proprio un bel ragazzo. Occhi scuri, capelli castani. Non capivo perché quella fotografia fosse rimasta lì. Era davvero un peccato lasciarla. La presi e me la ficcai in borsa.

«Credo che sia arrivato il tuo fidanzato» disse Davide.

«Il mio che …?» ebbi appena il tempo di esclamare.

Suonarono alla porta e scesi ad aprire.

Davanti a me, la figura inconfondibile del mio (quasi) vicino di casa.

«Ciao» si limitò a dire.

«Ciao» risposi io.

«Chi sei?» aggiunsi, fingendo di non averlo notato nei mesi precedenti.

A quelle parole, ci rimase un po’ male. Sembrava quasi deluso.

«E’ vero, non ci conosciamo, che stupido! Mi chiamo Giacomo» rispose.

«Piacere, Giacomo. Io sono Melissa. Step due: chi sei?» chiesi io, insistentemente.

«Giusto. Sono il tuo nuovo vicino. Non so se tuo padre te l’ha detto … io e mia nonna siamo venuti a darvi un passaggio fino a casa» aggiunse.

«Ok, e tua nonna dove sarebbe?».

Era arrivato Davide. Seppur fisicamente fosse il contrario di mio padre, da lui aveva ereditato quella gelosia caratteristica del Sud Italia.

«Tu devi essere Davide, tuo padre mi ha parlato di te …» iniziò il ragazzo.

«Sì, piacere. Dov’è tua nonna?» ripeté mio fratello, contrariato.

Stava iniziando a perdere la pazienza.

«Eccola, è lì che ci aspetta» intervenni io, notando una figura che salutava in lontananza.

«Ok, Mely. Prendi la tua valigia e saliamo in auto» disse allora Davide.

Era evidente che Giacomo lo infastidiva. In effetti, quella sua aria eccentrica, da “fuoriposto”, proprio non lo aiutava.

Entrai in casa e presi il mio bagaglio. Diedi un’ultima occhiata alla vecchia cucina, così colma di ricordi, e una calda lacrima solcò il mio viso. Mi asciugai in fretta: non volevo che degli sconosciuti mi vedessero piangere. Non ero mai stata il tipo di persona che ama sfoggiare le proprie debolezze, o comunque i propri sentimenti; non mi piaceva che gli altri conoscessero di me certi aspetti così intimi.

«Ti mancherà, vero?».

Mi voltai di scatto, convinta di vedere Davide. Ma non era stato lui a parlare.

Di fronte a me c’era Giacomo.

Mi costrinsi ad assumere un tono di voce il più normale possibile.

«Ehm … sì, certo, mi mancherà. Ma trasferirsi è la cosa giusta. Sarà meglio per tutti».

«Guarda che con me puoi essere sincera» disse lui.

I nostri occhi si incrociarono, e per un istante ebbi l’impressione di perdermi nell’azzurro dei suoi. Sembrava diverso. Era così bello …

«Ma se non ci conosciamo neppure» affermai, cercando di ricompormi.

Tra noi due calò un silenzio imbarazzante. Giacomo continuava a guardarmi fisso negli occhi, e io, imbarazzata, distolsi lo sguardo e iniziai a fissare con insistenza una macchia sul pavimento. Prima o poi sarebbe entrato Davide, pensai.

«Te l’ha mai detto qualcuno che sei bellissima?» esclamò ad un tratto.

Non risposi. Mi limitai a fissare, con insistenza, la stessa macchia sul pavimento della cucina. Cosa era successo al ragazzo timido di pochi minuti prima, che a malapena era riuscito a dirmi come si chiamava? E dove diavolo era finito mio fratello?

«Che fai, non parli? Non ci credo che non te l’ha mai detto nessuno …» proseguì.

A poco a poco, si stava avvicinando sempre più a me. Finii col ritrovarmi con la schiena contro il muro della cucina, terrorizzata dallo strano comportamento di quel ragazzo che fino a cinque minuti prima sembrava tanto inoffensivo.

«Sta per entrare mio fratello, lasciami stare …» dissi, tentando di non far trasparire la mia paura.

Ormai eravamo attaccati l’uno all’altra. Sentivo il suo torace espandersi sul mio a intervalli regolari, e il suo cuore battere, energico. Iniziai a pensare che fosse un incubo. Avvicinò le sue labbra alle mie, pronto a baciarmi, e a quel punto gli assestai un calcio allo stomaco. Strillò e si contorse per il dolore, e io ne approfittai per scappare. Ma fu più veloce di me: mi prese per un braccio e mi scansò contro il muro. Urtai con la testa e, per un momento, mi sembrò di morire, talmente forte fu il colpo. Mi portai d’istinto le mani alla fronte, e notai che stavo sanguinando. Tentai di rialzarmi e mi misi a strillare il nome di mio fratello, sperando che mi sentisse. Nel frattempo, Giacomo si stava avvicinando, furioso. Mi guardai rapidamente intorno in cerca di qualcosa da poter usare come arma, ma non c’era nulla in quella stanza che potesse essermi utile. Chiusi gli occhi, pronta a tutto, quando sentii urlare il nome di Giacomo dall’altra parte della cucina: era sua nonna. Il ragazzo si voltò a guardarla e sembrò per un attimo tornare in sé, ma fu solo un’impressione fugace. Distolse lo sguardo dalla donna e tornò a dirigersi verso di me, pronto a sfogare la sua rabbia. Mi aveva quasi raggiunta quando arrivò Davide e gli frantumò in testa un vaso di fiori, facendolo cadere a terra, privo di sensi.

«Ma che cavolo gli è preso?!» esclamò.

«Tu stai bene?» aggiunse, rivolto a me.

Mi aiutò ad alzarmi e mi porse un pacchetto di fazzolettini per pulirmi il sangue che mi sporcava il volto.

«Io … sì, credo di sì …».

Non riuscii a dire altro: ero ancora troppo sconvolta dalla situazione così surreale.

«Che ti ha fatto al viso?» chiese mio fratello. «Hai una brutta ferita sulla fronte, ma non credo ci vogliano punti» aggiunse.

«Dove hai trovato quel vaso?» chiesi.

Ma cosa me ne importava?

«Nell’ingresso … ma adesso che centra?» rispose Davide.

La nonna di Giacomo si limitava a guardarci, inorridita, dall’altro lato della stanza.

«Lei non dice niente?» esclamò ad un tratto mio fratello.

«Io … sì, ragazzi … la questione è un po’ delicata …» cominciò. «Il fatto è che Giacomo è malato».

«L’abbiamo notato, in effetti» dissi.

«No, non potete capire … lui … ha un disturbo dissociativo d’identità» concluse.

«… Un che?» proruppe Davide.

«Mettetevi comodi. La storia è un po’ lunga …» proseguì, prendendo due sedie.

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Capitolo 4
*** Vuoti di memoria ***


Vuoti di memoria

Capitolo 4

Vuoti di memoria

E così Giacomo aveva un disturbo dissociativo di identità. Da non crederci. In effetti, mi era sembrato un tantino bizzarro – e come non avrebbe potuto, dal momento che erano ormai mesi che mi spiava e mi seguiva di nascosto senza che l’avessi mai conosciuto?-. Eppure mi faceva quasi pena, steso lì, a terra, privo di sensi.

Quasi.

«E’ una storia lunga, ragazzi. Mi dispiace che l’abbiate scoperto in un modo così brutto» disse la signora Dorotea.

«Perché c’è un modo bello di scoprirlo?» esclamai istintivamente.

«Hai ragione, non c’è un modo bello. Ed è stato brutto anche per me, te lo assicuro, terribile, quando l’ho scoperto. Sapete, Giacomo è stato affidato a me che aveva già undici anni. La madre è morta di parto, mentre al padre è stata tolta la sua custodia. Era un alcolizzato violento, non faceva che picchiarlo, tutti i santi giorni. Vivevano vicino a casa mia, e non potete immaginare quante volte ho sentito urlare questo povero ragazzo. A un tratto, non ce l’ho fatta più: ho deciso di denunciare mio figlio alle autorità. Gli è stata tolta la custodia ed è stato arrestato, perché aveva pure commesso qualche reato. Giacomo è venuto a stare da me, e per i primi anni è andato tutto bene. Poi, un giorno, di ritorno da scuola, ho notato che si comportava diversamente dal solito. Sapete, è sempre stato un ragazzo tranquillo, timido e gentile. Al tempo, aveva circa sedici anni. Ha iniziato a trattarmi male, ad essere violento sia verso di me che verso gli amici, che lo hanno abbandonato a poco a poco e isolato. Non sapevo cosa pensare di lui: cosa diamine era successo a mio nipote? Decisi così di portarlo da uno psichiatra, che gli diagnosticò un disturbo antisociale di personalità. Avviò la psicoterapia, ma non sembrava migliorare. Addirittura, un giorno lo trovai in giardino che torturava un povero gatto. Iniziai ad avere paura di mio nipote».

Si interruppe ed iniziò a singhiozzare.

Gli porsi un fazzolettino di carta.

«Grazie, cara. Dicevo … non riuscivo più a riconoscere mio nipote, e iniziai ad averne paura. Mi consigliarono di farlo ricoverare presso un istituto psichiatrico, visto che stava diventando pericoloso, ed io avevo praticamente ormai rinunciato a riavere il mio gentile nipotino, quando un giorno, senza preavviso, come se nulla fosse, tornò quello di prima. Era un pomeriggio d’estate, lo ricorderò sempre. Stavo pulendo il giardino, quando me lo ritrovai alle spalle: stava annaffiando i fiori. Incredibile, pensai. Non può essere. Non volevo crederci. Nei giorni successivi continuò a comportarsi come il Giacomo che conoscevo, un nipote buono, gentile e timido. Gli psichiatri avevano opinioni contrastanti: chi  pensava fosse stato un periodo di ribellione transitorio dovuto all’adolescenza, chi che stesse fingendo e in realtà fosse sempre un antisociale, in fondo. Fatto sta che, per alcuni mesi, tutto tornò alla normalità. Finché di nuovo, un giorno, si ripresentò il problema: Giacomo prese a pugni un suo compagno di classe. Il malaugurato ragazzo finì in terapia intensiva, e rischiò di morire. Mio nipote aveva quasi diciotto anni, perciò rischiò sul serio di finire in prigione. Fortunatamente comprese il problema lo psichiatra della scuola, il dottor Serio. La sera stessa dell’incidente venne a trovarmi e mi disse che pensava di aver capito quale fosse la malattia di mio nipote».

«Il disturbo dissociativo di identità» intervenni io, interrompendola.

Sentivo che aveva bisogno di una pausa per riprendersi. Tirò su col naso e proseguì.

«Sì. E infatti fino ad oggi questa è l’undicesima volta che succede».

«Ma di cosa si tratta, esattamente?» chiese Davide, incuriosito e spaventato al tempo stesso.

«Be’, è un disturbo dissociativo, di fondo. Un tempo si chiamava disturbo da personalità multiple. In pratica, una stessa persona ha più di una personalità, e ciascuna di esse può prendere il controllo del suo comportamento».

«E Giacomo quante diverse personalità ha?» domandai.

«Solo due, almeno per adesso. In genere, la transizione dall’una all’altra avviene in occasioni cariche di significato, emotivamente parlando» rispose, rivolgendomi uno sguardo eloquente.

«Cosa diavolo sta insinuando? Cosa centra adesso mia sorella?» sbottò Davide, infastidito da quell’espressione.

«Guardi che noi due non ci eravamo mai visti prima» dissi io, quasi a volermi giustificare.

«Forse tu non lo avevi notato, ma lui è già da un po’ che mi parla di te. O meglio, di una ragazza bellissima e intelligente che dice di aver conosciuto a mare, diversi anni fa» sostenne Dorotea.

Diversi anni fa? Una cosa era certa, io non avevo mai visto quel ragazzo se non qualche mese prima, a scuola. Me l’aveva fatto notare la mia migliore amica, Giada, e al tempo ci eravamo pure spaventate. Quel ragazzo più grande che mi fissava nascosto dietro a un albero … cosa poteva volere da me? Poi però mi tranquillizzai, se così si può dire, dal momento che si limitava solo a spiarmi.

«Guardi che io non l’ho mai visto prima, glielo assicuro. E poi … quale dei due Giacomo mi avrebbe conosciuta al mare?» chiesi, un po’ curiosa un po’ inquietata dalla strana situazione.

«Quello antisociale» rispose la nonna, eloquentemente.

Mi sforzai a ricordare, ma niente … sembrava che veramente non avessi mai visto quel ragazzo prima di allora. A meno che …

«Suo nipote quanti anni fa mi avrebbe conosciuta, esattamente?».

«Due anni fa. Al tempo, lui aveva circa diciannove anni».

Ecco.

Probabilmente mi aveva conosciuta al falò del terzo anno del liceo, l’unico falò al quale abbia mai preso parte. E purtroppo, aggiungerei. Avevo solo sedici anni, e avevo insistito con i miei genitori affinché mi mandassero a quella festa, la mia prima festa. E non mi era sembrato vero, quando finalmente avevano ceduto.  Salvo mettermi un coprifuoco proibitivo a mezzanotte. A quel falò mi sono ubriacata per la prima ed unica volta nella mia vita, e dalla vergogna non riuscivo neppure ad aprire la porta di casa, di ritorno, prevedendo la reazione che avrebbe avuto mio padre. Di quella sera ricordo solo il primo drink e litri e litri di vomito sulla spiaggia, con Giada che mi teneva la testa e mi consolava, ridacchiando di nascosto. Considerando il vuoto di ben tre ore, era plausibile che l’avessi conosciuto lì.

«Ha parlato di una festa?» chiesi.

«Sì, diceva di averti conosciuta ad un falò in spiaggia. Non sai quanto gli sei rimasta impressa, Melissa … per due anni non ha fatto che parlare di te soltanto» disse Dorotea.

A quel punto, fui pervasa dai sensi di colpa. Com’era possibile che non mi ricordassi di lui?  Sicuramente in quei mesi mi aveva seguita sperando che lo riconoscessi e, che so, magari che lo salutassi pure calorosamente. Però qualcosa non tornava … come mai neppure Giada l’aveva riconosciuto? Dopotutto, lei era abituata a bere, e tollerava abbastanza bene gli alcolici.

«E adesso dov’è suo padre?» chiesi a un tratto, interrompendo il silenzio che aveva pervaso la stanza.

«Dovrebbe essere ancora in galera, per quanto ne so. E’ stato condannato a quindici anni, e finora ne ha scontati solo undici» rispose Dorotea.

Fantastico: un ragazzo violento con un padre carcerato a breve sarebbe diventato mio vicino. Cose che non si vedono neanche in tv.

«Quando si sveglierà come faremo a sapere quale Giacomo avremo di fronte?» proruppe d’improvviso Davide, turbato.

«State certi che lo capirete» replicò eloquentemente Dorotea. Le tremavano le mani.

Neanche il tempo di finire la frase, che il nipote si iniziò a muovere.

«Ecco, stiamo per scoprirlo, ragazzi».

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Capitolo 5
*** Impotenza ***


Impotenza

Capitolo 5

Impotenza

Si stava facendo tardi.

Diedi un’occhiata all’orologio: erano le due e un quarto del pomeriggio. Caspita, ma che fine avevano fatto Davide e Melissa? Possibile che non fossero ancora arrivati?

Mi diedi un’occhiata intorno: era proprio grande la mia nuova cucina. Nell’attesa, avevo iniziato a personalizzare la stanza: sui muri, prima vuoti, adesso erano appesi diversi quadri, tutti rigorosamente di Van Gogh (ovviamente delle riproduzioni). Amavo quel pittore. Alla mia destra, “La notte stellata”, a sinistra, poco più avanti nella cucina, diverse copie dei suoi famosissimi girasoli. Sui mobili, invece, avevo collocato con cura diverse fotografie della nostra famiglia: dal nostro matrimonio all’evento più recente, i diciotto anni di Melissa. Era stata proprio una bella festa. Ripensai con nostalgia allo stupore della mia bambina quando, entrando in casa, si era ritrovata tutti i suoi amici e la sua famiglia ad aspettarla per celebrare la maggiore età. Lei aveva deciso di non festeggiare, vista la recente morte del nonno paterno, al quale era molto legata, e ci aveva letteralmente supplicati di destinare il denaro messo da parte a qualche associazione di beneficienza. Ma non potevamo non organizzare nulla per lei. Così, io ed Edoardo decidemmo di farle quantomeno una piccola festicciola in casa, riservando la quota rimanente ad una federazione gestita dall’ex collega di università di Edo, la dottoressa Ferrero.

La suoneria del cellulare mi riportò bruscamente alla realtà.

«Pronto? Edo, sei tu?».

Ovvio che era lui: il suo bel viso mi sorrideva sullo schermo del telefonino.

«Sì, Ely … Sono arrivati i ragazzi?».

«No, non ancora. Strano che non siano già qui. A che ora è andata a prenderli la signora Dorotea?» chiesi, turbata.

Non era da loro ritardare. O meglio, non era da Melissa.

«Oh … strano» si limitò a dire Edoardo. Era chiaramente preoccupato.

«La vicina aveva detto che sarebbe andata a prenderli intorno alle tredici» proseguì.

Sembrava quasi che volesse essere rassicurato da me. Tipico degli uomini.

«Non so cosa dirti, Edo … Hai provato a chiamare Mely?» gli domandai.

«Giusto, non ci avevo pensato … Ma sai che per lei il cellulare diventa un optional quando a chiamare siamo noi due. E’ sempre scarico … » rispose.

«Dai, provo a chiamarla io. Ci sentiamo dopo».

Interruppi repentinamente la conversazione; non volevo che mio marito si accorgesse di quanto fossi angosciata. Composi subito il numero di Melissa, ad una velocità olimpionica – Davide ne sarebbe stato fiero, dal momento che di norma avrei impiegato qualche secondo solo per sbloccare il dispositivo-.

“Risponde la segreteria telefonica del numero 338 …”

Cavolo. Mio marito aveva ragione, aveva il cellulare spento. Maledii me stessa per il senso di impotenza che provavo in quel momento: non potevo andare in nessun posto, senza patente. Dopo la morte dei miei genitori e di mio fratello avevo giurato a me stessa che mai e poi mai avrei guidato un’auto, talmente forte era stato il trauma. Edoardo aveva provato a convincermi più volte, a partire dal nostro primo appuntamento, ma io mi ero sempre fermamente rifiutata. Provai a comporre il numero di Davide, e questa volta a rispondermi fu la sua strampalata segreteria fai-da-te: “In questo momento non posso rispondervi, e forse sapete anche perché. Quindi, evitate di richiamare”.

Feci un profondo respiro, e mi imposi di mantenere la calma. Dopotutto, come diceva spesso mio padre, era inutile “fasciarsi la gamba prima di rompersela”. Pensa, mi dissi. Pensa, pensa …

A un tratto mi venne un’idea: i vicini. Probabilmente avevano il numero di quella Dorotea, o come diavolo si chiamava. Presi borsa e chiavi di casa e uscii di fretta. Il quartiere pullulava di villette, una più bella e maestosa dell’altra. Decisi di suonare al citofono più vicino, quello di un certo signor Ariosto.

«Sì, chi è?».

«Ehm … buongiorno, signor Ariosto, mi chiamo Elena Di Giorgio. Ho appena affittato la casa accanto alla sua e ci stiamo trasferendo qui con la mia famiglia. Avrei bisogno di un favore … mi può aprire?» dissi, dubitando che l’avrebbe fatto. Vivevo lì da meno di mezza giornata e già mi avevano fatto visita diversi testimoni di Geova: presumibilmente avrebbe pensato che fossi una di loro. E invece mi aprì, senza dire nulla.

Mi feci strada attraverso le erbacce del giardino: a quanto pare il giardinaggio non era il suo forte. Bree Van de Kamp non avrebbe approvato.

Arrivata davanti al portone della villa, mi trovai di fronte un uomo di circa cinquanta anni. Tutto in lui stonava con l’ambiente residenziale che lo circondava: dai quattro tatuaggi (uno, in particolare, sul braccio sinistro riportava le iniziali G. & L.) alla barba incolta. Indossava un paio di boxer neri ed esibiva un – bel  – paio di pettorali sotto una maglietta blu aderente, che non lasciava molto spazio all’immaginazione. Mi sentivo piuttosto in imbarazzo.

«Allora, cosa vuole?» chiese bruscamente.

Mi colpirono i suoi occhi azzurri, che si accostavano perfettamente ai capelli biondi.

«Come le stavo dicendo, giusto oggi ci stiamo trasferendo nella villetta qui accanto. Aspettavo i miei figli per l’una e un quarto, ma sono quasi le tre e ancora non è arrivato nessuno … forse le sembrerò esagerata, ma sono abbastanza preoccupata per loro» dissi tutto d’un fiato.

«In effetti sì, mi sembra esagerata. I ragazzi sono così … quanti anni hanno i suoi figli?» domandò.

«Diciotto e tredici» risposi. Non capivo cosa c’entrasse la loro età.

«Allora non si preoccupi, saranno andati a pranzare in qualche locale e ci avranno impiegato più tempo del previsto» dichiarò.

Stava per chiudermi la porta in faccia, ma non potevo permetterglielo.

«Lo sa che parla proprio come un poliziotto?» annunciai, forse a voce un po’ troppo alta.

Sembrò più divertito che infastidito dalla mia affermazione.

«Questa poi mi è proprio nuova» disse. «Prego, entri pure e mi dica come pensa che possa aiutarla».

Fece quello che forse riteneva essere un inchino e spalancò la porta di casa.

Entrando, non potei fare a meno di notare l’estremo disordine che vi regnava: cianfrusaglie a destra e a manca, foto gettate sui gradini delle scale, persino un reggiseno sul divano in salotto. Evidentemente, era o era stato in compagnia femminile. O era sposato, ma non sembrava il tipo da matrimonio o relazione stabile.

«Prego, si accomodi».

Indicò il divano. La mia germofobia mi impediva anche solo di avvicinarmi, viste le numerose macchie e i peli di gatto di cui era colmo.

«No, grazie, preferisco stare in piedi» dissi, cercando di non far trasparire dalle mie parole il ribrezzo che provavo.

«Forse ha un DOC?» chiese lui, ridacchiando. «Un Disturbo Ossessivo-Compulsivo?».

«Così è pure uno psichiatra, oltre che un poliziotto?» ribattei io.

Quel tipo iniziava ad infastidirmi, perché non si faceva gli affari suoi?

«No, non sono uno psichiatra. Però ne ho conosciuti molti» rispose in tono eloquente.

«Visto che non è uno psichiatra, non ho intenzione di farmi psicanalizzare. Volevo solo chiederle se per caso ha il numero della signora che abita qui di fronte» domandai sbrigativamente io. Sapevo di essere stata scortese, ma quella casa mi inquietava, e non volevo trascorrervi dentro più del tempo necessario. O meglio, quel tipo mi inquietava.

«La signora Dorotea?».

«Sì, credo si chiami così».

«Uhm, è da un po’ di tempo che non la sento. Sa, non siamo esattamente in buoni rapporti … però dovrei avere il suo numero. A cosa le serve, di grazia?» volle sapere.

Avevo la fastidiosa impressione che mi prendesse in giro.

«Si era offerta di dare un passaggio ai miei figli fino alla nuova casa» risposi, usando il tono più dolce che in quel momento mi riusciva.

«Eh sì, è proprio da lei aiutare i ragazzi» dichiarò con malcelato sarcasmo.

«Cosa vuole insinuare? Che dovrei preoccuparmi?» chiesi, senza riuscire a trattenermi.

Mi voltò le spalle e si diresse verso la cucina. Dopo pochi minuti tornò in salotto con in mano la rubrica telefonica.

«Ecco, qui c’è il numero di mia madre».

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Affiliazione ***


Capitolo 6

Affiliazione

Si stava svegliando.

Giacomo aveva iniziato gradualmente a muoversi sul pavimento. La nonna lo fissava terrorizzata da un capo della cucina, mentre, accanto a me, Davide si era alzato in piedi e brandiva il  cellulare come un’arma. Il cellulare! Probabilmente i miei genitori avevano provato a chiamarci, e il mio era spento: avevo dimenticato di accenderlo quella mattina, complice il risveglio ritardato e l’ansia pre-trasferimento. Mi misi una mano in tasca per prenderlo, ma niente; di certo l’avevo dimenticato in camera mia. Diedi un’occhiata all’orologio sul polso di mio fratello e mi resi conto che si erano già fatte le tre e un quarto del pomeriggio. Chissà quanto erano preoccupati mamma e papà.

«Forse sarebbe meglio che tu uscissi fuori» esordì Davide. Era visibilmente angosciato per me.

«Non preoccuparti, me la so cavare, fratellino» dissi, pentendomene subito dopo.

Non era vero. In quegli interminabili secondi temevo il peggio, e la testa iniziava a farmi male. La mia solita emicrania tornava a farmi visita.

«Ragazzi, forse sarebbe meglio che usciste entrambi» dichiarò la signora Dorotea con un filo di voce.

«Che è successo, nonna?».

Era stato Giacomo a parlare. Lentamente, si sollevò dal pavimento e fissò lo sguardo verso la nonna. Aveva un’espressione singolare, a metà tra il sorpreso e lo sconvolto.

«Niente, tesoro mio. Cosa ricordi?» gli chiese la donna.

«Ricordo che siamo venuti a dare un passaggio ai nuovi vicini e poi … e poi non so, non ricordo più nulla. Perché, cosa è successo?».

Si diede un’occhiata intorno e i nostri occhi finirono nuovamente con l’incrociarsi. Ma questa volta i suoi si distolsero rapidamente, quasi intimoriti, e si spostarono in alto, sulla mia fronte. Sentivo che il sangue caldo continuava a stillare e ad impregnare il mio viso, ma il terrore mi aveva letteralmente paralizzata e lo lasciai scendere. Giacomo continuava a fissare la mia ferita, e inaspettatamente iniziò a piangere. Sembrava quasi un bambino, e provai compassione per lui. Non avevo però la minima intenzione di avvicinarmi a quel ragazzo che fino a pochi minuti prima mi aveva aggredita senza battere ciglio, e non lo feci, né tantomeno lo fece Davide, che, dal canto suo, continuava a brandire il telefonino a mo di scudo.

«Io … io …» proruppe all’improvviso Giacomo «Io non volevo … non so che cosa sia successo, ma non è dipeso da me … ti prego, perdonami».

Perdonarlo? No, certo non in quel momento, come avrei potuto? Non sapevo neppure cosa pensare: chi ci assicurava che in realtà non stesse mentendo?

«Tesoro, hai avuto un altro episodio» annunciò la signora Dorotea.

«Un altro? Era da un po’ che non succedeva …».

Si interruppe bruscamente, imbarazzato, e iniziò a fissare il pavimento della cucina. La nonna mi lanciò un’occhiata espressiva.

Non era possibile, sembrava quasi che la colpa fosse mia, da come si comportavano quei due. Io che neppure ricordavo di aver conosciuto qualcuno, a quella festa.

«Perdonatemi, vi prego. Purtroppo non dipende da me, non riesco a controllarlo» disse Giacomo.

«E chi ci assicura che stiamo parlando con il “bravo ragazzo”?» chiese a un tratto Davide.

«Lo psichiatra mi ha spiegato che delle due personalità la dominante, l’host, è quella buona e gentile, mentre l’antisociale è l’alter. L’host non ha consapevolezza dell’alter né delle azioni che questo compie, a differenza dell’alter che, invece, conosce l’host. Come ti senti, Giacomo?».

«Io … ho mal di testa, nonna» rispose il nipote.

«Ecco … alla fine di ogni transizione, al ritorno alla personalità dominante, in genere ha un’intensa cefalea» concluse Dorotea, convinta così di aver chiarito ogni nostro dubbio o perplessità.

Ma così non era. Continuavo a tenermi ben distante da Giacomo, temendo, da un momento all’altro, di vedermelo saltare addosso. Lui era visibilmente mortificato per l’accaduto, nonostante non ricordasse nulla. O almeno così diceva la nonna. Lo squillo di un cellulare mi riportò alla realtà; veniva dalla borsetta della signora Dorotea, che, cautamente, lo prese in mano e rispose.

«Pronto? Sì, sono io. Certo che mi ricordo di lei, signora Di Giorgio».

Era la mamma. Io e Davide ci scambiammo una rapida occhiata.

«Sì, sono qui, glieli passo subito. Melissa, è tua madre» disse Dorotea, porgendomi l’apparecchio.

Cosa avrei dovuto dirle? Non potevo certo rivelarle l’accaduto, non dopo che i miei avevano affittato la casa dei loro sogni: se avessero saputo anche un minimo di quanto successo, non avrebbero mai accettato di trasferirsi in quel quartiere.

«Pronto, mamma. Scusa, avremmo dovuto chiamarti, ma non volevamo farti spaventare» dissi.

«Spaventare? Perché mi sarei dovuta spaventare? Cosa diavolo è successo, Mely?».

Era chiaramente turbata.  

«Io … un incidente. Sono caduta dalle scale scendendo la mia valigia» mentii. In vita mia non le avevo mai detto una menzogna. Giacomo mi diede una rapida occhiata, grato e sorpreso al tempo stesso.

«O mio Dio, e che cosa ti sei fatta? Come stai? Vengo subito lì, non ti muovere» affermò.

Non potevo permetterle di venire lì, avrebbe capito subito quanto successo. Mia madre era una delle persone più intelligenti e acute che conoscessi, e le sarebbe bastato dare un’occhiata alla cucina e ai capelli sporchi di sangue di Giacomo per capire esattamente cosa era successo.

«Non c’è bisogno, mamma. Mi sono fatta solo un graffietto alla fronte, e con me c’è la vicina. A breve saremmo lì, così potrai assicurarti che sono ancora viva e vegeta» esclamai, tentando di far trasparire dalle mie parole sarcasmo più di quanto ce ne fosse. «E, comunque, sei senza patente» aggiunsi.

«D’accordo, io vi aspetto a casa, allora. Nel frattempo chiamo papà, che era preoccupatissimo. E mi raccomando … il cellulare tienilo sempre spento, tesoro» concluse.

Dovevo essere risultata abbastanza convincente, mi dissi. La mia prima bugia era andata a buon colpo.

«Credo che sarebbe meglio …» esordì Giacomo.

«E’ meglio andare a casa. Giacomo, prendi la valigia di Melissa. E tu …» sostenne, rivolta a me.

«Fammi vedere quella ferita».

«Forse dovrebbe prima occuparsi di suo nipote, mi sembra messo peggio» dissi io, in un inaspettato – persino per me – moto di altruismo. Il fatto era che quel ragazzo mi infondeva veramente pietà, non potevo farci nulla.

«Non preoccuparti per lui, ha la pelle dura» ribatté la donna.

Estrasse dalla borsa una bottiglietta di acqua ossigenata e delle garze. Quell’anziana era incredibilmente colma di risorse.

«Posso chiederle cosa ci fa con una boccia di acqua ossigenata nella borsa?» chiesi, incuriosita.

«Meglio di no» rispose lei.

Mi disinfettò il taglio e ci pose sopra delle garze. Nel frattempo, Giacomo continuava a fissarci da un angolino.

«Solo, non capisco una cosa» dissi all’improvviso. «Lei ha detto che l’host, la personalità dominante o come diavolo si chiama non ha consapevolezza dell’alter, giusto? E quindi non ha memoria di quanto visto o fatto dall’alter».

«Sei una ragazza molto acuta, Melissa. Vuoi sapere come fa allora a ricordarsi di te mio nipote, giusto, dal momento che ti ha conosciuta come alter?» chiese Dorotea.

Sì, volevo sapere proprio quello. Annuii.

«Diglielo tu, Giacomo» proseguì, rivolta al nipote. Giacomo fu letteralmente colto alla sprovvista dalla richiesta della nonna: probabilmente, non pensava che sarebbe più stato chiamato a parlare, non in presenza mia e di Davide.

«I- io …». Balbettava, visibilmente turbato, «Io ero in me, quando ti ho conosciuta. Ero l’host, o come cavolo lo chiamano gli psichiatri. Mi hai colpita come nessun’altra ragazza prima di allora, e non sai quanto mi costa dirlo, sapendo che potrei perdere il controllo da un momento all’altro».

Quelle sue parole mi colsero alla sprovvista. Non me l’aspettavo proprio di sentirlo parlare in modo così spontaneo e intenso. Non sapevo cosa dire.

«Ma lei ci ha detto che l’ha conosciuto l’antisociale» proruppe mio fratello.

«Hai ragione» disse Dorotea. «Spiegagli come è andata» proseguì, rivolta al nipote.

«Ti ho vista la prima volta sulla spiaggia, a quel falò che aveva organizzato la tua scuola. Come ho detto, mi hai colpita. Fino a quel giorno avevo avuto solo due “transizioni”, e all’ultima avevo rischiato veramente di uccidere qualcuno. Lo psichiatra mi aveva avvisato del possibile legame con emozioni o eventi “forti”, ma io non avevo voluto credergli veramente. Non fino a quel giorno. Quando ti ho vista, mi è sembrato di sentire il cuore fermarsi, come quando salti per sbaglio un gradino. E poi … e poi il vuoto …. ».

Non avrei mai potuto immaginare una dichiarazione (d’amore?) più strana e surreale di quella. Nei miei sogni da adolescente, mi aspettavo che il primo vero ragazzo che si fosse innamorato di me me l’avrebbe dichiarato in spiaggia, o magari in un ristorante alla luce flebile di una candela, ma mai in quella situazione tanto singolare. Tantomeno, con mio fratello tra gli spettatori. Continuai a tacere, lievemente imbarazzata.

«La sera del falò, Giacomo è rientrato a casa tardi, in evidente personalità antisociale. Da allora ad oggi ha avuto altre otto transizioni, tutte in tua presenza».

In mia presenza?

«Diretta o indiretta» aggiunse, eloquentemente.

«Quindi dovrei stargli alla larga?» chiesi.

Domanda retorica.

«Sì, temo di sì. E sarà un po’ difficile, avendoti come vicina di casa» rispose Dorotea.

«Farà più male a te che a me» esclamò inaspettatamente Giacomo.

Stava succedendo tutto troppo in fretta, e la mia emicrania non mi aiutava certo a metabolizzare le numerose informazioni ricevute. Come poteva uno sconosciuto essere perdutamente innamorato di me?

Fortunatamente, mi dissi, la cosa non è reciproca.

O almeno, non lo era ancora.  

 

 

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Capitolo 7
*** Let it be ***


Capitolo 7

Let it be

Il viaggio di ritorno a casa fu silenzioso più del previsto, se possibile. Nessuno aveva voglia di parlare, dopo quanto accaduto nel nostro vecchio appartamento: io mi limitavo a guardare fuori dal finestrino, sperando che la fresca aria primaverile attenuasse la mia terribile emicrania, mentre Davide e Giacomo se ne stavano seduti ai due capi del sedile posteriore, evitando prudentemente anche solo di sfiorarsi. La signora Dorotea aveva insistito affinché mi sedessi davanti con lei, intenzionata così a tranquillizzarmi, senza però intuire che in quel modo non aveva fatto altro che peggiorare la mia apprensione; alle mie spalle, infatti, avvertivo il respiro regolare del nipote, un po’ più celere del normale. Forse resasi conto dell’aria elettrica che regnava nell’automobile, a un certo punto la donna aveva acceso la radio; quando arrivammo a casa, echeggiava in sottofondo una vecchia canzone dei Beatles, “Let it be”. Lascia che sia … Facile a dirsi, Paul McCartney. Se tua madre proferiva “parole di saggezza” in periodi difficili, la mia di certo a breve avrebbe proferito tutto fuorché parole sagge.

«Prego».

Non me ne ero neppure accorta, talmente era stato rapido: Giacomo mi stava aprendo la portiera dell’auto.

«Grazie» dissi distrattamente, evitando di guardarlo negli occhi.

A pochi metri di distanza mia madre ci stava aspettando, con un’espressione a metà tra il furibondo e il preoccupato. La sua tipica espressione infuriata che, tradotta in linguaggio comprensibile a noi comuni mortali, significava “cosa mi hai combinato?”.

«Melissa! Vieni qui, fatti vedere da vicino. Cosa ti sei fatta al braccio?».

Braccio? Abbassai istintivamente lo sguardo: un livido abbastanza esteso tingeva l’arto di violaceo. Non me ne ero neppure accorta, talmente forte era l’emicrania.

«Oh, sì, devo esserci caduta sopra quando sono scivolata dalle scale» mi affrettai a rispondere.

I suoi occhi, turbati, mi passarono a setaccio dalla testa ai piedi.

«E sulla fronte? E’ grave, signora Dorotea?» chiese, rivolta alla vicina.

«No, non si preoccupi, è solo un taglietto. Ringrazi che si è trovata con un’ex infermiera, quando è successo» rispose la donna.

«Questo non può che tranquillizzarmi» disse la mamma, cercando di suonare il più sincera possibile.

Era ovvio che questo non la tranquillizzasse affatto.

«E suo nipote cos’ha? Sembra sconvolto».

«Grazie, mamma. Vedo che ti preoccupi di tutti tranne che di me, qui fuori» esordì Davide, cercando così di distogliere la sua attenzione da Giacomo. E parve riuscirci.

« Tesoro mio, certo che mi preoccupo di te. Come stai?» rimediò in fretta.

Era proprio il suo pupillo. E non potevo negare che la cosa ci avesse aiutati non poco, in quella situazione.

«Bene, mamma. Sei sempre così attenta al mio stato di salute …».

La signora Dorotea abbozzò un sorrisetto, pensando forse così di rasserenare ulteriormente la vicina.

«Credo che noi torneremo a casa. Si è fatto tardi» disse.

«Di già? Vorrei ringraziarla in qualche modo …  le preparo un caffè? O forse preferisce un tè?» propose mia madre.

«Niente, grazie. L’abbiamo fatto con piacere. Mi basta sapere che nessuno si è fatto male oggi. Poteva andare molto peggio» dichiarò lei.

«Certo, ha ragione. Se non ci fosse stata lei … non so, sarebbe potuto succedere chissà che. La invito a cena stasera».

«E non accetto rifiuti» aggiunse rapidamente.

 «D’accordo, se la mette così ... ».

«Certo, devo pure ringraziarla in qualche modo» affermò mia madre, cordiale.

Wow, non sarebbe potuto andare meglio. Eravamo passati, nel giro di poche ore, dal “dovrei stargli alla larga” al “ceniamo insieme”. Potevo sempre fingermi malata; dopotutto, era stata proprio la nonna di Giacomo a consigliarmi caldamente di stargli  alla larga: di certo non si sarebbe offesa.

Mentre le due nuove vicine colloquiavano piacevolmente, quasi litigando sul ristorante designato, Davide e Giacomo avevano già portato tutte le valige dall’auto in giardino, evitando con attenzione anche solo di guardarsi in faccia.

«D’accordo, signora Di Giorgio, ci vediamo per le venti a casa sua. Guida suo marito o devo venire con la mia auto?» chiese Dorotea.

«Fortunatamente abbiamo un’automobile capiente, non c’è bisogno che porti la sua. Allora, a più tardi» salutò mia madre.

Armata delle mie due valige, mi precipitai rapidamente su per le scale, nella mia nuova camera. Non avevo voglia di subire un interrogatorio, non ero ancora pronta. Posi i bauli in un angolino della stanza e mi sdraiai sul letto: in quel momento, volevo solo dormire. I colori del soffitto si facevano sempre più sfumati, sempre più lontani, mentre mi addormentavo. In breve tempo, le palpebre mi si chiusero letteralmente da sole, talmente forte era la mia emicrania, restituendomi l’ombra dei ghirigori sopra la mia testa, in particolare di un occhio dentro un triangolo. Che fantasia doveva avere il proprietario. Probabilmente era uno di quei tipi fissati con la cultura celtica o religiosa, che ne so.

 

«Mely! Svegliati, sono quasi le otto!».

Le urla di mia madre mi risvegliarono bruscamente. L’emicrania era passata, per fortuna, ma non avevo comunque nessuna intenzione di uscire quella sera; tantomeno con quella compagnia.

«Mamma, non mi sento molto bene. Preferisco rimanere a casa, così inizio a sistemare la stanza» le strillai in risposta.

«Ha ragione Ely, è meglio che stia a casa, stasera».

A parlare era stato mio padre. Entro pochi secondi me lo ritrovai nella mia stanza. Era visibilmente angosciato.

«Come ti senti, tesoro?» mi chiese, accarezzandomi delicatamente una guancia e indugiando con lo sguardo sulla ferita in fronte.  Mi si era staccato il cerotto, notai; era tipico di me muovermi molto mentre dormivo. Mio fratello, dopo anni di condivisione della stessa camera, mi aveva ribattezzata “Taz Tazmania”.

«Bene, papà, non preoccuparti. Mi fa solo un po’ male la testa» mentii.

«Vuoi che rimanga a casa con te?».

«E lasciare la mamma in balia della guida di Dorotea? Ti assicuro che sarebbe più al sicuro se guidassi io, credimi. Non accetterò più un suo passaggio» dissi, sogghignando.

«Se guida peggio di te, deve essere proprio una pazza assassina» esclamò lui, prendendomi in giro.

«Dai, sei proprio ingiusto. Non sono così male!» mi irritai.

Lui scoppiò a ridere di gusto e uscì dalla stanza, salutandomi con la mano.

Amava scherzare, mio padre, soprattutto con me. Non faceva che punzecchiarmi bonariamente.

«Vuoi che resti io con te?».

Era Davide.

«No, non preoccuparti, Dado. Vai con loro. Dorotea potrebbe faticare a reggere la storia che abbiamo raccontato. Dopotutto, ha ottantuno anni. E non puoi lasciare mamma e papà soli con quel ragazzo» dissi.

Mi spaventava non poco l’idea di lasciare la mia famiglia sola in compagnia di Giacomo e di sua nonna, ma di certo sarebbe stato meglio per loro che io non andassi. “Da allora ad oggi ha avuto altre otto transizioni, tutte in tua presenza” … meglio che fossi assente, allora.

Sentii la porta di casa sbattere e il cancello chiudersi: i miei erano usciti.

Decisi, prima di mettermi a sistemare la roba in stanza, di scendere in cucina a mangiare qualcosa: ero digiuna dalla sera precedente e, passata la reazione da stress con tutta l’attivazione della cascata ipotalamo-ipofisi-surrene, sentivo che la mia glicemia iniziava ad abbassarsi.

Asse ipotalamo-ipofisi-surrene … era evidente che stavo male e che studiassi troppo.

Giunta in cucina, rimasi meravigliata dal modo in cui mia madre, in un solo giorno, era riuscita a personalizzarla, rendendola accogliente quasi quanto la precedente. Ricordai di aver preso nella mia vecchia stanza una foto di papà da giovane, e salii a prenderla nello zainetto per riporla in un angolo, dietro la foto del matrimonio dei miei.

Aprii il frigo aspettandomi di trovarlo semivuoto, ma non fu così: inaspettatamente, la mamma aveva trovato persino il tempo di fare la spesa. Era davvero una donna piena di qualità, mi dissi. Mi preparai un sandwich e lo divorai rapidamente, talmente ero affamata. Terminata la “cena”, tornai in camera mia e mi misi a leggere un libro, al caldo sotto due piumoni. Avrei sistemato l’indomani, ero troppo stanca anche solo per muovermi. Continuavo ad avere la stranissima e fastidiosa impressione di essere osservata. Scesi dal letto e mi affacciai alla finestra, ritrovandomi inaspettatamente di fronte Giacomo: se ne stava seduto sul suo balcone a leggere anche lui un libro. Mi nascosi rapidamente dietro le tende, sperando che non mi avesse vista; Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere, ed ero sola in casa.

«Guarda che ti ho vista» esordì lui.

Ecco, proprio come temevo. Non avrei mai potuto fare l’agente segreto.

«Oh, scusa … non pensavo mi avessi vista» dissi, imbarazzata. «Come stai?».

Come stai? Forse quel sandwich mi aveva dato alla testa. Lui sembrò più sorpreso di me da quella domanda.

«Io … bene. Bene, per essere uno che poche ore fa ha tentato Dio solo sa cosa» rispose.

«Come va la testa?».

«Sicuramente meglio della tua ferita. Però puoi dire a tuo fratello che ha un’insospettabile forza, per essere un tredicenne».

«Gli farà piacere» dissi, abbozzando un sorriso.

«Cosa stai leggendo?» mi interessai.

«”I dolori del giovane Werther”».

«Non credo però che ai vicini interessino le nostre conversazioni» aggiunse, ridacchiando.

«Giusto, stiamo strillando … lettura interessante. Ti piacciono le storie sui suicidi d’amore?».

Che domanda stupida.

«Direi quelle sugli amori impossibili» rispose,  scrutandomi intensamente. «”Ah questo vuoto! Questo tremendo vuoto che sento qui nel petto!... Spesso penso, se potessi stringerla, una sola volta stringerla al cuore, questo vuoto verrebbe colmato”. Se questo non è amore …».

Quella sua citazione un po’ mi spiazzò. Tentai di mantenere la voce ferma.

«Non dovresti essere ad una cena?» chiesi.

«Potrei farti la stessa domanda» disse lui.

«Hai ragione. Non ci sono andata perché temevo ci andassi tu» esclamai io, sincera.

«Ed io per lo stesso motivo. Perché pensavo che tu ci saresti andata».

Seguirono alcuni secondi di spiacevole silenzio.

«Penso che dovresti andare a dormire, domani hai la scuola» disse a un tratto Giacomo.

«Giusto, tu non vai più a scuola. Allora … buona lettura, Giacomo».

Il solo pronunciare il suo nome sembrò quasi agitarlo.

«Buonanotte, Melissa».


L’indomani mattina, al risveglio, ritrovai sul davanzale un foglietto di carta. Chiedendomi come fosse arrivato lì, lo aprii. C’era scritta una frase:

 

“And when the broken harted people living in the world agree,

there will be an answer, let it be ….

For though they may be parted,

there is still a chance that they will see …

There will be an answer, let it be”.*

 

 

*E quando le persone dal cuore spezzato che vivono nel mondo si dicono d'accordo,

allora ci potrà essere una risposta, lascia che sia …

Benché essi siano separati,

ci sarà sempre una possibilità che loro vedranno …

Ci sarà una risposta, lascia che sia”.

 

 

 

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Capitolo 8
*** Controversie ***


Capitolo 8

Controversie

«Non capisco perché muori dalla voglia di socializzare con i vicini» esordii all’improvviso.

Erano quasi le otto di sera e stavamo uscendo di casa per andare a cenare al ristorante con la nuova vicina, la signora Dorotea.

«Forse perché lei è stata così gentile da aiutarci con il trasloco, oggi pomeriggio? O forse perché ha salvato la vita a tua figlia …» fu la risposta di mia moglie.

«”Salvato la vita”… direi che stiamo esagerando. Le ha semplicemente medicato un taglio sulla fronte» dissi.

Davide tossì.

«Vedi, pure tuo figlio non voleva uscire stasera» aggiunsi.

«Mio figlio non vuole mai uscire, quando non gli piace la compagnia. Devo ricordarti di quando si finse febbricitante pur di non cenare con tua madre?» esclamò Elena, sarcastica.

«Ok, ok … comandi tu, padrona» conclusi, baciandola.

«Ecco perché non voglio mai uscire con voi» disse Davide, contrariato.

Imboccai il vialetto del cortile e aprii il cancello di casa. Non mi piaceva lasciare Melissa da sola, però sapevo di potermi fidare di lei: conoscendola, probabilmente si sarebbe messa in pigiama a leggere qualche libro. All’uscita, ad aspettarci c’era la signora Dorotea: era sola.

«Buonasera, signora. Prego, salga pure» le disse mia moglie, lasciandole il sedile anteriore e sedendosi dietro, accanto a Davide.

«E suo nipote … Giacomo, mi sembra che si chiami … non sarà dei nostri, stasera?» le chiesi, sperando che il mio tono risultasse neutro.

«Purtroppo ha un forte mal di testa, e ha preferito andare a dormire presto» rispose. «E Melissa? Sta meglio?».

«Sì, grazie. Ha ancora un po’ di emicrania ... l’urto deve essere stato forte, dopo la caduta» dichiarai.

Per il resto del viaggio non pronunciai più neanche una parola. In compenso, Elena e la vicina intavolarono una fitta discussione su questo e quel politico, infervorate. In quei trenta o più minuti che ci separavano dal ristorante non potei fare a meno di pensare a quel Giacomo. Non mi aveva fatto molta simpatia già dal primo giorno che l’avevo visto, in piedi sul suo balcone a fissare mia figlia; e adesso erano entrambi soli, a pochi metri di distanza … ma no, mi dissi, Melissa è  una ragazza seria, posso fidarmi ciecamente di lei.

E infatti, era di lui che non mi fidavo.

«Sinceramente, non credo che sia stata una mossa astuta da parte sua, vero, amore?».

Elena si era rivolta a me, riportandomi bruscamente alla realtà.

«No, neanche io, certo» dissi, cercando di non far trasparire che non sapevo neanche di cosa o di chi stesse parlando.

«Non stavi ascoltando, vero?» intuì mia moglie. «Fa sempre così, si dissocia».

«E chi non lo fa» esclamò Dorotea, sospirando.

Voltai l’angolo e mi trovai di fronte il ristorantino designato.

«Puoi lasciarci qui, amore. Noi iniziamo a prenotare il tavolo, tu nel frattempo parcheggia» dispose Elena.

«Agli ordini» risposi, sorridendole.

Fecero per scendere dalla macchina, ma li fermai.

«Aspetta un attimo, Davide. Devo parlarti» dissi, rivolto a mio figlio.

A malincuore, il ragazzo si risistemò sul sedile posteriore.

«Non rimproverarlo per quel cinque in storia, può sempre migliorare, e ha la squadra che lo impegna» si raccomandò mia moglie.

«Sarà fatto» controbattei, laconico.

Osservai Elena e la signora Dorotea che si allontanavano nel traffico, dirette verso il ristorante.

«Papà, ti prometto che per il prossimo compito studierò di più …» iniziò Davide.

«Non mi interessa nulla del compito, non adesso. Sai qualcosa di quel Giacomo?» chiesi, interrompendolo.

La mia domanda sembrò spiazzarlo. Evidentemente non se la aspettava, e non era preparato a quel tipo di interrogatorio.

«Cosa dovrei sapere? E’ il nostro nuovo vicino» rispose.

Era ovvio che sapesse altro e che non era intenzionato a dire di più.

«E basta? Sai solo questo? Non avete proprio parlato, oggi pomeriggio?».

«Mamma mia, non ti sopporto quando fai così» esclamò mio figlio. «Manco fossi un membro dell’Inquisizione. So che vive con la nonna- la signora Dorotea – e che ha circa ventidue anni, basta».

«Ventidue anni … e cosa fa nella vita? Studia? Lavora? Si fa mantenere dalla vecchietta?» domandai.

Era chiaro che fossi stato troppo insistente, perché Davide iniziò a sbuffare e fece per andarsene, scocciato.

«Ok, scusa. Ti credo. Vorrei che stesse alla larga da Melissa, non mi piace» dissi.

«E forse l’Alzheimer ti sta facendo brutti scherzi, papà. Mi spiace dirtelo, ma io non sono Melissa» concluse lui, aprendo la portiera e avviandosi verso il ristorante.

Bene, l’avevo fatto arrabbiare. Ovviamente le mie preoccupazioni non lo sfioravano nemmeno. Parcheggiai l’auto e mi diressi anche io verso l’interno del locale. Un locale semplice, devo dire. Una ventina di tavoli disposti in serie e qualche poltrona qua e là, vicino a dei camini spenti.

«Ce l’hai fatta, amore» mi accolse mia moglie.

«Scusami, non riuscivo a trovare parcheggio» mi giustificai io.

«Nell’attesa, abbiamo iniziato ad ordinare. Non le dispiace, vero?» chiese Dorotea.

«No, si figuri. Avete fatto bene».

Il resto della serata procedette tranquillo, con Elena e la vicina impegnate in discussioni perlopiù sulla politica, intercalate a riflessioni sul tempo (che non mancano mai) e ad inevitabili e dettagliate – fin troppo - descrizioni dei malori dell’anziana.

« … e lo scorso mese sono andata al centro osteoporosi. Sa, con l’età si rischia sempre. Il medico mi ha prescritto una cura a base di vitamina D e bifosfonati, raccomandandosi di prendere abbastanza sole. Ma dove dovrei prenderlo il sole, qui da noi? Piove trecentosessanta giorni all’anno!» esclamò, ridendo di gusto. Bevve un sorso d’acqua, giusto il tempo di riprendere fiato, e ricominciò.

«Poi sembra che tutte le malattie ce le abbia io. Osteoporosi, ipertensione, diabete … All’ultimo controllo, il medico di famiglia dice di avermi sentito un soffio al cuore. Chissà, probabilmente anche quello non funziona più come una volta …».

Avrei voluto interromperla e dirle che sì, è normale ad ottantuno anni che niente funzioni più come una volta, ma non lo feci. Mi limitai a scambiarmi occhiate divertite con mia moglie, che, dal canto suo, sembrava ascoltare i racconti istrionici della vicina con profondo interesse.

Avrebbe dovuto fare l’attrice. Persino quando si mise a parlare del fatto che le sembrava, quella mattina, di aver “sputato nero”, Elena rimase seria e finse sincero coinvolgimento.

«Mio marito conosce una bravissima dottoressa, magari può parlare a lei del colore del suo espettorato» esclamò a un tratto, interrompendo Dorotea.      

«Sul serio? Ne terrò conto» disse la donna, visibilmente interessata.

Davide, nel frattempo, un po’ ridacchiava un po’ chattava con l’amico Giovanni.

«Si è fatto un po’ tardi» esordii.

Erano quasi le ventitre.

«Hai ragione, Edo. Direi di tornare a casa, se lei è d’accordo» propose mia moglie, rivolta alla vicina.

«Certo, avete ragione. Io tra l’altro dovrei fare l’iniezione di insulina, prima di andare a letto. Giacomo mi starà aspettando in piedi» dichiarò Dorotea.

«Non ha scuola, domani?» chiesi io, fingendo di non conoscere l’età del nipote.

«No, è già da un po’ che l’ha finita. Però lavora, fa il fotografo».

«Affascinante, come attività» sostenne Elena, incuriosita. «Anche a Melissa piace la fotografia».

«Sembra proprio che abbiano molto in comune» disse la vicina, indossando la pelliccia.

Il fotografo. Ci mancava solo che avessero anche questa passione in comune.

«A proposito, vorrei ringraziarla nuovamente per oggi pomeriggio» ribadì mia moglie. «Se non fossi riuscita a contattarla, probabilmente avrei pensato il peggio».

«Si figuri. Ma come ha fatto a trovare il mio numero di cellulare? Non mi sembrava di averglielo lasciato» chiese Dorotea.

«Sono passata da suo figlio».

La risposta sembrò atterrire l’anziana, che per poco non ebbe un mancamento. Anche Davide sembrava agitato. Quei due mi nascondevano decisamente qualcosa.

«Signora Dorotea, tutto bene?».

Elena si avvicinò alla donna per sorreggerla.

«Sì, tutto bene. Probabilmente mi si è abbassata troppo la glicemia. L’avevo detto al dottore che la nuova pillola era troppo forte per me» si affrettò a rispondere lei.

Stava mentendo.

Solo pochi minuti prima aveva detto di dover tornare a casa a fare l’insulina, e adesso sosteneva di aver preso una pillola prima di cena; come se non mi fossi accorto che non aveva assunto nessun farmaco.

«D’accordo, l’importante è che stia meglio» disse mia moglie. «La riaccompagniamo subito a casa».

Passai anche il viaggio di ritorno immerso nei miei pensieri. Perché quella donna aveva mentito sulla pillola? E, soprattutto, perché aveva avuto quella reazione quando mia moglie le aveva parlato del figlio? Una cosa era certa: meglio tenerla alla larga, certa gente. Sentivo che non avrebbe portato altro che guai.

Al rientro a casa mi spogliai in fretta e mi misi a letto: l’indomani mattina mi sarei dovuto svegliare presto, come ogni santa mattina.

«Perché ti sei comportato così?» chiese mia moglie.
Anche lei si era subito messa a letto, senza neppure struccarsi.

«Così come?» chiesi, confuso.

«Stasera hai parlato poco o niente al ristorante».

«Forse perché per quasi tutto il tempo ci ha pensato Dorotea a parlare, facendoci una descrizione dettagliata di tutte le sue malattie?».

Ero stato troppo aggressivo.

«E’ un’anziana, Edo. Tutti gli anziani sono così».

«Comunque quella donna non mi piace. Ha mentito sulla glicemia e sulla pillola. Nasconde qualcosa» dissi, stringato.

«E perché avrebbe dovuto farlo? Edoardo, prima non volevi trasferirti qui, adesso parli male dei vicini. E poi … da quando tu sei un dottore?» infierì Elena.

A quel punto sbottai.

«Avrei potuto esserlo» dissi, pentendomene subito dopo.

Ero stato davvero uno stupido, ma non volevo ammetterlo subito. Elena mi diede le spalle e iniziò a dormire.

Che bella giornata. Prima la preoccupazione per Melissa e Davide, poi il litigio con mio figlio, infine il battibecco con mia moglie.

Iniziai a dubitare di aver fatto la scelta giusta.      

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Capitolo 9
*** Zombie ***


Zombie

 

Another head hangs slowly,

child is slowly taken …

and the violence caused such silence

who are we mistaken?

La mia canzone preferita mi diede il buongiorno. Guardai la radiosveglia: erano le sette. Scelsi un paio di vestiti da indossare e mi diressi verso il bagno (il mio bagno!). La prima doccia nella nuova casa fu più lunga del previsto. Avevo intenzione di godermi appieno il nuovo bagno tutto mio, e così feci. Mentre mi sciacquavo i capelli, non potei fare a meno di pensare alle parole di “Let it be” scritte sul foglietto nel davanzale della mia finestra.

 Benché essi siano separati,ci sarà sempre una possibilità che loro vedranno …”.

Cavolo, Giacomo doveva essere proprio cotto di me. E forse pensava che anche io, nel profondo, fossi perdutamente innamorata di lui. Che brutta situazione … quando non ricambi l’amore di qualcuno, è quasi più difficile per te farglielo capire che per lui sentirselo dire.

Specie se quel lui ha un disturbo dissociativo d’identità e potrebbe perdere il controllo da un momento all’altro.

Altro che Edward Cullen, pensai amaramente. Bella poteva pure lamentarsi del suo lui, ma il disturbo di Giacomo era decisamente più temibile che avere a che fare con un vampiro vegetariano buono e inoffensivo, per giunta con i modi di un signorino dei primi del Novecento.

«Mely, sono quasi le sette e mezza».

Era mio padre.

«Ho quasi finito!» mentii.

Stavo diventando brava con le bugie. Un corso accelerato di spionaggio e avrei potuto fare l’agente segreto.  Il tempo di asciugarmi i capelli ed ero già in cucina.

«A qualcuno piace fin troppo la sensazione di avere un bagno tutto per sé» osservò mia madre, porgendomi il pacco di cereali.

«Potrei abituarmici, in effetti» risi.

Tra lei e mio padre doveva essere successo qualcosa la sera prima: notai che evitavano di guardarsi in faccia.

«Allora, come è andata ieri sera a cena?» domandai, improvvisando un tono neutro.

«Benissimo, cara» si limitò a rispondere mia  madre.

«Certo, benissimo. Abbiamo imparato a memoria tutte le malattie della vicina, ma è andata comunque benissimo» intervenne mio padre.

Ed ebbi la certezza che avevano litigato.

«Anche Davide si è divertito» puntualizzò mia mamma.

Avevo seri dubbi che fosse vero, conoscendo mio fratello da (ahimè) ormai molti anni.

Finimmo la colazione in silenzio e mio padre ci accompagnò a scuola.

«Vai piano» furono le uniche parole che gli disse la mamma.

Dovevano aver litigato seriamente, visto che di solito al mattino si baciavano come minimo tre volte, prima di uscire di casa.

«Melissa».

Eravamo quasi arrivati a scuola, quando mio padre si rivolse a me.

«Non mi piacciono i nuovi vicini».

Davide era già sceso da un paio di minuti.

«Ok» fu la mia risposta.

Non capivo cosa volesse da me.

«La signora Dorotea è strana. E suo nipote … bè, strano è un eufemismo, rivolto a lui».

Capii dove voleva arrivare.

«Papà puoi stare tranquillo».

Sembrò sorpreso da quella mia affermazione.

«Certo che posso stare tranquillo» si ricompose. «Mi preoccupo per tua madre. Adesso ha voglia di socializzare con loro, non so perché».

Avrei voluto dirgli che non ci trovavo nulla di strano nella volontà della mamma, ma lasciai perdere; conoscevo troppo bene mio padre: quando si fissava con qualcosa, era impossibile fargli cambiare idea.

«Questa è la mia fermata, comunque» dissi.

Eravamo arrivati a scuola.

«Non so cosa sia successo fra te e mamma, ma penso sia stupido che vi mettiate a litigare per così poco» aggiunsi, scendendo dall’auto.

«Fai la brava!» mi urlò alle spalle.

Come se stessi andando all’asilo.

All’ingresso dell’istituto scorsi Giada, la mia migliore amica.

«Qualcuno qui ha fatto una doccia bella lunga, stamattina» commentò, salutandomi.

«E tu come fai a saperlo? Devo preoccuparmi, hai messo delle microcamere in casa mia?».

Rise.

«Sì, e sono ben nascoste. Non le troverai mai. Dovresti smetterla di ascoltare “Zombie”, mi sta stancando».

La guardai, un po’ divertita un po’ scioccata.

«Semplicemente, sei in ritardo. E non è da te. Mi delude, signorina Martini » dichiarò, in una credibilissima imitazione della professoressa di latino.

Scoppiai a ridere. Era sempre stata bravissima, con le imitazioni.

«Mi scusi, prof. Non succederà più».

«E certo che non succederà più. Lasci stare i Cranberries, oggi la interrogo in latino» proseguì Giada.

«Dai, Giada. Sai che potrebbe succedere, e ieri non ho neppure aperto il libro, a causa del trasloco».

Entrammo in aula, mestamente come ogni mattina. Quel giorno faceva particolarmente caldo, nonostante fossimo solo a maggio. Mi venne in mente una cosa.

«Ehi, ti ricordi il falò in spiaggia del terzo anno?».

Giada mi fissò. Sembrava turbata da quella domanda.

«Giurammo di non parlarne più, dopo la tua prima – ed ultima - sbronia».

«Sul serio?».

Non lo ricordavo.

«Ti ricordi di qualche ragazzo?» chiesi.

«Di molti, in effetti».

Tipico di Giada: andava alle feste solo per rimorchiare.

«Stupida io, che ti faccio queste domande retoriche. Hai presente quel tipo che mi segue da mesi?».

«Chi? Edward Cullen?».

L’aveva ribattezzato così, più che per i capelli biondi per l’aria eccentrica e riservata.

«Cosa c’entra, adesso? Certo che mi ricordo di lui».

«Bene. E’ il mio nuovo vicino, e dice di avermi conosciuta al falò di due anni fa in spiaggia. Peccato che io non mi ricordi proprio di lui».

Sembrava divertita.

«Ma certo, è per questo che ti seguiva! Io neppure mi ricordo di lui, però. Ero più ubriaca di te» esclamò.

Non sapevo se raccontarle tutto: della sua malattia, di quanto accaduto il giorno prima, della nonna …

Ma sì, era la mia migliore amica: come avrei potuto nasconderglielo?

«Ti devo raccontare una cosa. Ma promettimi che non ti scioccherai».

«Non mi scioccherò». Era curiosissima. «Avanti, sputa il rospo».

Iniziai a raccontarle del disturbo dissociativo d’’identità di Giacomo, spiegandole cosa fosse; avevo iniziato ad accennarle al dialogo della sera prima, quando la professoressa ci interruppe.

«Martini, De Fazio, sono oltre dieci minuti che parlate ininterrottamente. Che ne dite di parlarmi di Agostino?».

Ecco, proprio quello che temevo. Rivolsi un’occhiata di supplica a Giada, che la colse al volo.

«Oggi vengo io, prof. Melissa è reduce da un trasloco».

Era proprio un’amica. Peccato che neanche lei avesse studiato, infatti l’interrogazione non fu proprio un successo.

«Grazie, Giada. Ma avresti potuto dirle che eri ad aiutarmi, ieri pomeriggio. Ti saresti salvata anche tu» le dissi, all’uscita da scuola.

«Ma sì, un quattro in più non rovinerà la mia media. E poi, ci penserai tu ad alzarla: domani abbiamo compito in classe. E io ti voglio bene».

«Te l’avrei passato lo stesso».

Ci abbracciamo.

«Io vado, Mely. O vuoi che aspetti con te tuo padre?».

Era chiaro che il racconto su Giacomo l’avesse spaventata, anche se non voleva ammetterlo.

«Stai tranquilla, non ho bisogno della guardia del corpo» la rassicurai. «Tra poco arriverà mio padre».

Non sembrava convinta, ma non insistette. Mi salutò e salì sulla moto del suo ragazzo.

Guardai l’orologio: erano ancora le cinque. Mio padre ci avrebbe messo ancora un po’ per arrivare. Mi sedetti sul marciapiede, stanca. Stavo ascoltando l’ipod, quando si fermò un’auto.

Era Giacomo.

«Ehilà» esclamò, a mo di saluto.

«Ciao».

«Cosa fai tutta sola?».

«Aspetto mio padre».

Eravamo entrambi incredibilmente imbarazzati.

«Vuoi un passaggio?» chiese. Era evidente che farmi quella domanda era stato non poco impegnativo per lui.

«Non ti preoccupare, tra poco arriverà mio padre» gli dissi.

Continuava a guardarmi.

«Dai, sta per piovere».

Era vero, dovetti constatare.

«Giuro che non ti ucciderò e non farò a pezzi il tuo cadavere» aggiunse, pentendosene subito dopo.

Mi sforzai a ridere, ma ne uscì fuori solo un sorrisetto appena abbozzato. In quel momento, mi squillò il cellulare: era mio padre. Lessi l’sms: “Mely, stasera ritardo un po’. Arriverò per le sei”.

Fantastico.

Giacomo dovette cogliere l’espressione sul mio viso, perché uscì dalla macchina in fretta e mi spalancò la portiera.

«Avanti, Sali. E non accetto rifiuti».

Così salii.

 

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Capitolo 10
*** Solo una possibilità ***


Solo una possibilità

 

<< Vuoi ascoltare la radio? >>.

Era evidente che quella situazione imbarazzasse più lui di me. Così vicini non eravamo più stati, dopo l' "incidente" del pomeriggio precedente. Ma allora perché diavolo mi aveva offerto - anzi, imposto - un passaggio?

<< No, sto bene così >> risposi.

La mia proverbiale fortuna, poi, avrebbe fatto sì che la radio, contro ogni statistica possibile, trasmettesse nuovamente “Let it be”. E questo avrebbe decisamente peggiorato le cose.

<< Ti piacciono i Cranberries, vero? >>.

Ecco, questo sì che era inquietante; possibile che lui e Giada avessero sul serio impiantato delle microcamere in casa mia? Parve cogliere la mia espressione impressionata.

<< Stai tranquilla, non ti sto spiando. Ho letto il nome del gruppo sull'ipod >>.

Già, che stupida. Abbassai lo sguardo sul lettore, fermo su 'Linger'.

<< Sì, li adoro >> mi lasciai sfuggire.

<< Non sono male, in effetti. Anche se io preferisco i Beatles >>.

<< Perché mi hai lasciato quel biglietto, stamattina? >>.

Non riuscii a trattenermi: che senso aveva fingere di essere amici, quando tutti e due sapevamo benissimo che era pericoloso anche solo guardarsi negli occhi?

<< I-io .... >> iniziò.

<< Ti prego, lasciami stare. È evidente che non sono interessata a te >>.

Forse ero stata troppo dura con lui. Frenò bruscamente e scese dalla macchina. Fuori aveva iniziato a piovere, e in poco tempo si ritrovò inzuppato dalla testa ai piedi. Non capivo cosa avesse intenzione di fare, fermo in piedi sotto la pioggia. Aprii la portiera e lo raggiunsi.

<< E adesso cosa diavolo stai facendo?! >> strillai.

Mi guardò intensamente. Distolsi in fretta lo sguardo: possibile che stesse avendo una "transizione", come le chiamava sua nonna? Gli sottrassi le chiavi dell'auto dalla mano, pronta a fuggire alla prima avvisaglia di pericolo.

<< Perché non mi vuoi dare una possibilità?  >> chiese.

La sua, più che una domanda, suonava come una supplica.

<< Mi sembra chiaro il perché >> mi limitai a dire.

Sembrò sorpreso da quella risposta.

<< Per via della mia malattia? >>.

Annuii. Era chiaro che fosse per quello, che razza di domande faceva?

<< Ti chiedo solo una possibilità, Melissa. Oggi sono andato dallo psichiatra, che mi ha cambiato la terapia. Dice che mi darà più effetti collaterali, ma dovrebbe tenermi sotto controllo >>.

Pretendeva davvero che gli credessi? Non ero affatto un'ingenua, nonostante la giovane età.

<< Mi dispiace ... >> cominciai.

<< Melissa, ti giuro su mia madre che mi allontanerò da te e da tutta la tua famiglia, se mai ti farò anche solo un graffio >>.

Wow, doveva essere proprio innamorato per giurare sulla madre defunta. O estremamente fiducioso nella nuova terapia. Ma io non ero ancora convinta; dopotutto, a parlare era il Giacomo buono, e chi poteva garantirmi che l'avrebbe comunque pensata così, una volta "trasformatosi" nel suo alter-ego?

<< Ti prego >>.

Era tornato a supplicarmi.

<< D'accordo >> dissi, quasi automaticamente.

 E me ne pentii nell'istante stesso in cui pronunciai quelle parole.

Giacomo si illuminò in volto.

<< Grazie >> esclamò.

Nel frattempo, anche io mi ero completamente inzuppata. Lui se ne accorse, e fu rapido a tornare in auto e prendermi il suo giaccone, adagiandomelo sulle spalle. 

<< Adesso ci conviene tornare in macchina >> disse.

Gli porsi le chiavi, ma non le prese.

<< Guida tu, io ho un po’ di sonnolenza. Gli effetti collaterali che ti dicevo prima iniziano a farsi sentire >>.

Mi sedetti dalla parte dell'autista, spiazzata. Giacomo era decisamente più alto di me, e non di poco: dovetti spostare in avanti il sedile di alcuni centimetri.

<< Stai tranquilla, ci sono io >> mi rassicurò.

Certo, chi non starebbe tranquillo avendo accanto un potenziale sociopatico? Non che il mio ex insegnante di guida fosse meglio, in effetti.

Misi in moto l'auto, riuscendo miracolosamente a non spegnerla. Sembrava che con lui accanto fosse tutto più facile.

<< Quindi ti piacciono i Beatles >> dichiarai.

Il silenzio era persino più imbarazzante della discussione di prima.

<< Sì >> si limitò a rispondere.

Evidentemente non voleva parlare del bigliettino di quella mattina.

<< Dovresti cambiare marcia >>.

<< Ma tu non eri sonnolente? >> puntualizzai.

Rise.

<< É che la mia auto mi sta chiamando in aiuto >>.

Tipico dei ragazzi.

<< Già, perché le auto parlano, come dite voi uomini. Io non le ho mai sentite, comunque >>.

<< Forse perché parlano una lingua diversa dalla tua >> mi prese in giro.

Decisi di accettare il suo consiglio; allungai la mano per cambiare marcia, e in quello stesso momento compì anche lui lo stesso movimento, così che le nostre mani si sfiorarono. Sentii tremare la sua, incredibilmente fredda, sotto la mia, e la allontanai rapidamente.

<< Scusa >> disse, guardandomi con aria triste e al contempo spaventata.

<< Non preoccuparti >> lo rassicurai. << Succede >>.

Per il resto del tragitto, nessuno dei due proferì parola. Eravamo quasi arrivati a casa, quando mi ricordai di non aver risposto all'sms di mio padre.

Cavolo, mi avrebbe come minimo uccisa se mi avesse vista insieme a Giacomo, per di più a guidare. Ferma ad uno stop, estrassi il cellulare dalla tasca e guardai l'ora, tirando un respiro di sollievo: erano ancora le cinque e mezza . Composi rapidamente un sms di risposta: "Papà, non preoccuparti. Mi ha accompagnata a casa Giada". Almeno non si sarebbe spaventato. Giacomo guardava fuori dal finestrino. 

Un'ultima curva, e arrivammo a casa.

<< Tua madre sarà preoccupata >> dichiarò.

<< Non credo, le luci sono spente. Deve essere uscita a fare la spesa >>.

Strano, però. Di solito era sempre in casa, a quell'ora.

<< Allora, io scendo qui >> dissi, spegnendo l'auto e restituendogli le chiavi.

Mi guardò, stupito.

<< Guarda che anche io abito qui. O forse ti ho graffiata cercando di cambiare marcia e adesso devo abbandonare il quartiere? >>.

Quella sua affermazione mi fece ridere involontariamente. Come poteva passare, in pochi minuti, dalla timidezza più estrema al sarcasmo pungente? Quella sua capacità mi affascinava.

<< Giusto. Però la macchina la parcheggi tu >> specificai.

L'avevo lasciata praticamente in mezzo alla strada. Tipico di me, non sapevo proprio cosa fosse un parcheggio.

<< La prossima volta ti insegnerò a parcheggiare >>.

Dava per scontato che ci  sarebbe stata una prossima volta. Forse non avrei dovuto illuderlo, dandogli una possibilità.

<< Vedremo. Buonanotte >> gli dissi, allontanandomi.

Mi ricordai di avere addosso il suo giubbotto. Feci per togliermelo, ma mi fermò.

<< Te l'ho detto, me lo restituirai la prossima volta, quando ti insegnerò a parcheggiare >>.

<< Grazie >> gli dissi.

Mi avvicinai al cancello di casa e lo aprii.

<< Comunque non avrei sperato in niente di meglio che toccare la tua mano, stasera >> mi strillò dietro.

Non commentai.

<< Buonanotte, Melissa >>.

Non si poteva negare che fosse incredibilmente dolce.

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Capitolo 11
*** Preoccupazioni ***


Preoccupazioni

C’era solo Davide in cucina, quando aprii la porta di casa. Se ne stava sdraiato sul divano a guardare tranquillamente la tv.

<< Ciao, Dado. Mamma e papà? >> gli chiesi.

Non sembrava per nulla preoccupato.

<< Non ne ho idea >> fu la sua risposta.

<< Come non ne hai idea? Sono quasi le sei di sera, non ti sfiora neppure lontanamente il pensiero che possa essere successo qualcosa? Mamma è sempre a casa a quest’ora >>.

Quel ragazzo era davvero incredibile. Possibile che nulla lo turbasse? Non era più un bambino, ormai.

<< Che ne so, Mely. Papà sarà andato a prendere mamma al lavoro >>.

Al lavoro?

<< Quale lavoro? >> gli domandai.

<< E’ stata la stessa faccia che ho fatto io quando l’ho scoperto. Solo che io l’ho saputo stamattina, dal vivo, quando l’ho vista entrare in palestra. Davanti a tutti i miei compagni di squadra. Tutti >>.

Sembrava sconvolto. Manco stesse raccontando un’impresa di guerra.

<< Il cocco di mamma >> lo presi in giro.

Sembrò prendersela, e mi diede le spalle.

<< Dai, scherzavo >> tentai di rimediare. << E fino a che ora deve lavorare mamma? >>.

<< Che io sappia, fino alle sei e mezza >>.

Bene. Perché diavolo non l’aveva detto subito?

<< Grazie per avermi fatta preoccupare invano, allora >> gli dissi, irritata.

Uscii dalla cucina e mi diressi verso la mia stanza. Decisi, per sicurezza, di inviare un sms a mia mamma, per chiederle conferma di quanto detto da mio fratello. Dopo neanche cinque minuti, mi squillò il cellulare: era lei.

<< Pronto? >> risposi.

<< Ciao Mely, sono la mamma >>.

<< Lo so che sei tu, mamma. E’ apparso il tuo nome sul telefono >>.

Lei e la tecnologia erano come Gandhi e la violenza.

<< Ah, giusto. Ti volevo avvisare che rientrerò più tardi, faccio un salto dalla nonna all’uscita dal lavoro >>.

<< Ecco, quando pensavi di dirmi che adesso hai un lavoro? >> la stuzzicai.

<< Mely, non abbiamo proprio avuto tempo di parlare, dopo il trasloco. Adesso lo sai >> mi interruppe.

Decisi di non ribattere: ne avremmo riparlato a casa quella sera stessa.

<< E papà viene con te? >> le chiesi.

<< Papà? No, certo che no. Tuo padre che va a trovare tua nonna? >> rise. << Perché me lo chiedi? Non è ancora tornato a casa? >>.

Si era preoccupata, come al suo solito.

<< Mely, chi ti ha accompagnata a casa, allora? >>.

<< Giada >> risposi in fretta.

Tirò un sospiro di sollievo, ben percepibile.

<< Adesso però sono preoccupata per papà >> le dissi.

Quel mio carattere ansioso e ansiogeno l’avevo ereditato da lei.

<< Provo a chiamarlo e ti faccio sapere, ok? >> dichiarò, ponendo fine alla conversazione.

Che giornata. Addirittura più bizzarra di quella precedente. Decisi, nel frattempo, di mettermi a studiare qualcosa, certa che la mattina successiva la professoressa di latino avrebbe interrogato me. Avevo appena aperto il libro, iniziando a sottolinearlo, quando mi arrivò l’sms di mia madre: “Stai tranquilla, papà arriverà per le otto”. Bene, almeno anche a lui non era successo nulla. Mi guardai intorno: la mia stanza era ancora totalmente in disordine. Dovevo sistemare, mi toccava proprio. Diedi una rapida lettura alla biografia e al pensiero di Agostino, sperando di aver assimilato qualcosa, e mi misi a riordinare. Ci misi in tutto quasi due ore, ma alla fine la mia stanza era perfettamente pulita e sistemata, arredata con le numerosissime foto di famiglia e le mie decine di peluche tutti in fila, dal più vecchio e logoro al più recente, regalatomi dai miei per il diciottesimo compleanno. Era un orsetto a misura d’uomo, alto quasi quanto me: Teddy. Ripensai al giorno in cui mio papà me lo donò, esortandomi a tenerlo in camera con me “fino al matrimonio”. “C’è dentro una telecamera”, mi aveva detto, “il che significa che saprò perfettamente chi entra ed esce dalla tua stanza”. Rabbrividii, sperando che la sua fosse stata solo una battuta divertente: troppe persone sembravano spiarmi. Guardai l’orologio del cellulare: si erano già fatte le otto. Che strano, papà non era ancora arrivato. Mi affacciai dalla finestra: nemmeno l’ombra di un’auto in avvicinamento. Mi stupì la sorprendente – ed inquietante – tranquillità di quel quartiere; era ancora sera, eppure non c’era già nessuno per strada. Scesi in cucina, trovando Davide, come sospettavo, ancora sdraiato davanti alla televisione.

<< Ma tu non hai mai compiti? >> gli chiesi, ficcando il naso nel suo zaino.

<< Ma tu non hai nient’altro da fare che farti gli affari miei? >> controbatté, sottraendomi rapidamente la cartella.

<< Fai come vuoi >>.

Mi ero stancata di stargli dietro; era chiaro che non gliene poteva importare nulla dello studio. Si scaraventò nuovamente sul divano, alzando il volume del televisore.

<< Però almeno abbassa il volume, siamo qui solo da un giorno e vuoi farci cacciare? >> gli strillai.

<< Guarda che ti ho vista. Con Giacomo >>.

Cavolo.

<< Mi ha solo dato un passaggio >> specificai.

<< E la sua giacca >> osservò.

La sua giacca! Me ne ero completamente dimenticata. Era appesa all’ingresso: dovevo essermela tolta inconsciamente.

<< Dado, non dire niente a papà … >> lo supplicai.

<< Cosa vuoi che me ne importi di papà. Mely, quel tipo è pericoloso, non dovresti frequentarlo >>.

Se non l’avessi conosciuto così bene, avrei pensato che fosse preoccupato per me. E, in effetti, lo sembrava.

<< Stai tranquillo >> lo rassicurai. << Mi conosci, sono la persona più affidabile e noiosa di questo mondo >>.

<< Lo so, ma sei anche la più buona che conosca. So che tu … hai scoperto che mi hanno espulso dalla squadra >>.

Era vero.

<< Dado, io non ho … >> iniziai.

<< Lo so, non hai detto niente a mamma e a papà. Per questo dico che sei buona >>.

Erano mesi che Davide era stato cacciato dalla squadra di basket, ed io avevo deciso di non dirlo ai miei. Pare l’avessero sorpreso a fumare uno spinello negli spogliatoi, o roba del genere. Lui mi aveva assicurato che era stato un caso, che in realtà lo spinello era del suo amico Giovanni, ed io avevo voluto credergli. Volevo troppo bene a mio fratello per tradirlo. Continuava ad andare in palestra tutti i giorni, per non far insospettire la mamma.

<< Comunque come pensi di cavartela, adesso che mamma lavora lì alla tua palestra? >> gli domandai.

<< Non so, probabilmente l’ha già scoperto >>.

Sembrava più addolorato che spaventato.

<< L’avrò delusa >> aggiunse.

<< No, Dado, sono sicura che non è così >> tentai di consolarlo.

<< Tu pensa a stare lontana da Giacomo >> mi intimò.

<< D’accordo >> lo rassicurai.

<< Sono già le otto e venti, strano che papà non sia ancora arrivato >> dissi.

<< Già. Io vado a farmi una doccia >> dichiarò, dirigendosi verso il bagno.

Era incredibile: non lo turbava proprio nulla. Decisi di uscire per strada ad aspettarlo. Sapevo perfettamente che non sarebbe servito a nulla, ma non mi piaceva sentirmi così impotente. Muovermi, almeno, mi dava l’illusione di fare qualcosa di utile. Arrivata sul marciapiede, scorsi un uomo in lontananza. Poteva avere sì e no cinquanta anni, il classico tipo da evitare. Mi vide anche lui e si avvicinò. Ormai era troppo tardi per fingere di non averlo notato, e rientrare in casa sarebbe stato scortese. Maledissi mia madre mentalmente per avermi insegnato l’educazione.

<< Ciao >> esordì.

<< Salve >>.

Ma chi ti conosce, avrei voluto aggiungere.

<< Stasera fa caldo >> aggiunse.

Ecco, aveva iniziato a parlare del tempo. Fantastico.

<< Già >> dissi.

<< Tu devi essere la figlia della nuova vicina >>.

E tu chi diavolo sei?

<< Sì, e lei chi è? >> chiesi, cercando di non suonare sgarbata. Persino in momenti del genere mi preoccupavo dell’educazione, incredibile.

<< Sono il padre di Giacomo >>.

Wow. Ma non doveva essere in galera ancora per molto?

<< Vi ho visti rientrare insieme, stasera >> osservò.

<< Sì, mi ha dato un passaggio >>.

Cercai di mantenere un tono tranquillo, anche se in realtà ero letteralmente paralizzata dalla paura.

<< Ti consiglio di stargli lontana >> mi intimò.

E con lui eravamo a tre. Anzi a quattro, contando la signora Dorotea.

Decisi di non commentare.

<< Sembri una ragazza seria. Giacomo ti farebbe solo soffrire >>.

Ma come si permetteva di parlarmi quasi “da padre a figlia”? Non conoscevo neppure il suo nome.

Si avvicinò a me, cogliendomi alla sprovvista. Non sapevo cosa fare; ero pronta a strillare, quando mi soffiò su una guancia.

<< Avevi un ciglio >> si giustificò.

Apparve all’orizzonte un’auto: mio padre stava rientrando.   

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Capitolo 12
*** Fraintendimenti ***


Fraintendimenti

<< Signore, signore … >>.

Mi svegliai all’improvviso. Il barman mi stava chiamando con insistenza.

<< Mi scusi … grazie >>.

Nel locale mi stavano fissando tutti, imbarazzati per me. Pagai il conto, presi la giacca e uscii in fretta. Provavo solo vergogna per me stesso; non ci potevo credere, ero tornato a bere. Erano ormai diciannove anni che avevo smesso, da poco prima che nascesse Melissa, dopo un lungo e faticoso percorso di riabilitazione. Come era potuto succedere? Rivolsi lo sguardo sull’orologio da polso: erano già le sei e mezza. Melissa! Presi velocemente il cellulare e notai che avevo ricevuto due sms. Il primo era proprio di Melissa: “Papà, non preoccuparti. Mi ha accompagnata a casa Giada”. Tirai un respiro di sollievo. Il secondo sms era di mia moglie: “Edo, dove sei finito? Melissa e Davide sono preoccupati”. Dubitavo seriamente che Davide fosse preoccupato. Le risposi che andava tutto bene, che semplicemente ero uscito più tardi dal lavoro e che sarei stato a casa per le otto, vergognandomi non poco di me stesso: ero tornato a mentire alla donna che amavo. Salii in macchina e ripercorsi mentalmente la giornata, ormai agli sgoccioli. A lavoro era andato tutto male, come sempre, e soprattutto io e mia moglie non ci parlavamo: succedeva raramente dopo un litigio. La sera prima ero stato un vero idiota con lei, per la faccenda dei vicini. La verità era che non volevo che li frequentasse; non mi fidavo né della signora Dorotea né tantomeno del nipote, quel ragazzo strano. Però non avrei dovuto parlarle in quel modo, non se lo meritava proprio. Composi il suo numero di telefono, deciso a scusarmi.

<< Pronto? Edo? >>.

Era palesemente preoccupata.

<< Amore >> dissi, cercando di non far capire che avevo bevuto.

Elena aveva come un sesto senso per certe cose.

<< Va tutto bene? >> mi chiese. << Hai una voce strana >>.

<< Sì, va tutto bene >> mentii.

<< E’ successo qualcosa al lavoro? >> si interessò.

<< No, non è successo nulla. Dovevo recuperare delle ore al lavoro e … avevo solo voglia di sentire la tua voce >>.

Mi sentivo terribilmente in colpa.

<< Ok >>.

Sembrava fredda.

<< Sei già a casa? >> le domandai.

<< No, oggi ho iniziato a lavorare alla palestra di Davide, non ricordi? >>.

Giusto. Me ne ero completamente dimenticato.

<< Sì, mi ricordo >> mentii. << Non sei ancora uscita? >>.

<< Sto finendo adesso di allenare le ragazze >>.

<< Vuoi che passi a prenderti al lavoro? >> mi offrii.

<< No, non preoccuparti. Prenderò l’autobus. E poi hai detto che il turno finisce alle otto >>.

Era vero, avevo scordato di averle scritto così.

<< Lo so, ma potrei uscire prima … >> tentai di rimediare.

<< Non c’è bisogno. Prenderò l’autobus >> mi interruppe.

Perché si comportava così? Perché era così fredda e distante?

<< Ok, allora … a stasera >> la salutai.

Silenzio.

<< A stasera >> disse infine.

Sentii che aveva interrotto la conversazione, e mi resi conto che per la prima volta, dopo oltre diciannove anni di matrimonio, non ci eravamo detti che ci amavamo. Lo so, sembra una cosa stupida, ma non lo era. Il giorno del fidanzamento ci giurammo che ce lo saremmo detti sempre, ad ogni saluto, ogni giorno, anche centinaia di volte al giorno. E ci era capitato molte volte di litigare, anche di brutto, però mai a tal punto da “toglierci il ti amo”, come dicevamo spesso. Quella situazione non mi piaceva proprio, non ce la facevo ad avercela con Elena; la amavo troppo. Avvistai un negozio di fiori a pochi passi dal bar da cui ero uscito; mi allontanai dalla macchina ed acquistai un mazzo di rose bianche, i suoi fiori preferiti. Avevo deciso di farle una sorpresa, andando a prenderla alla palestra. Imboccai l’autostrada e mi diressi velocemente da lei.

 

------------------------------------------------------------

<< Forza, ragazze. Cinque minuti e torniamo tutte a casa >>.

Ero stanchissima: da quella mattina alle otto avevo iniziato a lavorare alla palestra di Davide, la palestra della scuola. Quando avevo inviato il curriculum, un po’ per sfida, ero convinta che non mi avrebbero mai assunta – soprattutto, visti i tempi che correvano -. Eppure, erano stati piuttosto rapidi a chiamarmi, fissando un colloquio per il giorno successivo, e, dopo quello, assumendomi. “Inizierà questo lunedì, se per lei non ci sono problemi” , mi aveva detto il Preside. Certo, nessun problema, a parte il fatto che non ho neppure accennato la cosa alla mia famiglia. Dirlo ad Edoardo, in realtà, era stato più semplice del previsto; apparentemente, aveva accettato la cosa, e sembrava pure felice per me. I ragazzi … beh, Davide l’aveva scoperto quella mattina stessa, davanti ai suoi compagni (cosa che non mi avrebbe mai perdonato), mentre Melissa l’aveva saputo dal fratello. Dio solo sapeva cosa mi aspettava a casa quella sera …

<< Prof, noi andiamo a cambiarci >>.

Era una delle ragazze della squadra di pallavolo della scuola, Elisa.

<< Certo, andate pure. E, quante volte devo dirvelo, non sono una professoressa! Chiamatemi Elena >>.

<< Soprattutto tu, Eli >> aggiunsi, quando le altre si erano già allontanate.

Elisa era la seconda figlia di Riccardo, sorella di Giovanni. Aveva solo dodici anni, ma sembrava molto più grande: alta, snella … la tipica pallavolista. Mi ricordava tanto me alla sua età.

<< Certo, zia, ma non mi sembra giusto, davanti alle compagne >>.

Mi chiamava “zia” da quando era alta poco più di un metro.

<< Hai ragione >> le dissi. << Ma adesso va’ a cambiarti, o tuo padre se la prenderà con me >>.

Mi cambiai anche io, togliendo la tuta ed indossando il – meno pratico – tailleur che avevo scelto la mattina. Chiusi la palestra ed uscii, diretta alla fermata degli autobus. Avevo deciso di andare a trovare mia madre, erano giorni che non ci vedevamo, ed ero ancora troppo arrabbiata con Edo per farmi accompagnare da lui.

<< Ehilà, Elena >>.

Mi voltai per capire chi mi avesse chiamata, e vidi Riccardo, con Elisa accanto.

<< Ciao, Riccardo >> gli risposi, baciandolo su una guancia.

<< Eli mi ha detto che adesso sei la sua prof di pallavolo. Detto fra noi, era proprio ora che rimpiazzassero la Polverini, era mezza sorda e pare venisse al lavoro ubriaca >>.

Era sempre il solito: conosceva tutti i pettegolezzi.

<< Povera donna, non dovremmo parlarne così. Speriamo si sia ripresa dopo la pensione >>.

Mi guardò e sorrise.

<< Sei la persona migliore che conosca >> commentò.

<< Papà, sta aspettando l’autobus. Possiamo darle un passaggio noi >> intervenne Elisa.

<< Certo. Dai, vieni con noi >> si mise a disposizione Riccardo.

<< Non ti preoccupare, devo andare da mia madre che sta dall’altra parte della città, non è il caso … >> iniziai.

<< Su, è stata Elisa ad offrirti il passaggio. Non vorrai mica farla offendere? >> disse, facendo una smorfia.

<< D’accordo >> mi arresi.

Ci dirigemmo verso la sua auto, parcheggiata poco più avanti.

<< Tua moglie come sta? >> gli chiesi, mentre camminavamo.

<< Bene, bene … lavora. Questa settimana l’hanno mandata in Siria >>.

Ludovica, la moglie di Riccardo, faceva la giornalista. Guarda caso, quei due si erano conosciuti a Dubai, dove lui era andato a revisionare degli edifici, in qualità di ingegnere, e lei a scrivere degli articoli.

<< Wow, deve essere entusiasmante il suo lavoro >> osservai.

L’avevo sempre invidiata, perché, grazie alla sua professione, aveva già visto mezzo mondo.

<< Io non lo definirei entusiasmante. Almeno non per noi >> puntualizzò, indicando Elisa.

<< E’ terribile sapere che in questo momento, mentre io e te passeggiamo tranquillamente, lei sta rischiando la vita >>.

Aveva ragione, che stupida. Non sapevo più cosa dire. In silenzio, salii sull’auto. Riccardo sembrò notare la mia espressione.

<< Scusami, forse sono stato sgarbato. E’ che sono preoccupato per lei >>.

<< No, hai ragione. Sono stata io la stupida >> dissi.

Mi accarezzò una guancia.

<< Tu non sei stupida >> si limitò a dire.

 

-----------------------------

Svoltai l’angolo; ero quasi arrivato alla palestra. Parcheggiai in una stradina secondaria e uscii dalla macchina, sperando che il mio alito non puzzasse troppo di alcol. Arrivato di fronte alla scuola, scorsi Elena: era con Riccardo. Era seduta sul sedile anteriore della sua auto, e i due sembravano così … complici. Incredibile … al telefono mi aveva detto che avrebbe preso l’autobus, e invece era con il suo ex. Gettai le rose a terra, calpestandole, e corsi verso la mia macchina: sarei tornato al bar. 

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Capitolo 13
*** Presunzione di innocenza ***


Presunzione di innocenza

 

<< Papà, finalmente! Ci hai fatti preoccupare >>.

Erano quasi le nove di sera quando mio padre rientrò a casa. Scese dalla macchina senza dire nulla, con un’aria stanca e un’espressione avvilita sul volto. Conoscevo quell’espressione, l’avevo vista centinaia di sere sul viso di Giada: aveva bevuto. La puzza di alcol sui suoi vestiti mi diede la conferma definitiva; ero certa che fosse ubriaco. Ma come era possibile? Lui che, come me, aveva sempre detto di essere astemio? Non ci potevo credere, no.

<< Dove sei stato fino a quest’ora? >> gli chiesi.

Mi rivolse un’espressione a metà tra il confuso e l’ irritato.

<< Chi è quest’uomo? >> esclamò infine, indicando il padre di Giacomo.

Ovviamente non avevo alcuna intenzione di specificare i suoi rapporti di parentela, ci mancava solo quello per far perdere il controllo a mio papà.

<< Un nostro vicino, il signor … >> iniziai, rendendomi conto di non sapere il suo nome.

<< … Ariosto. Luca Ariosto >> completò lui, venendomi in aiuto.

Ariosto … così era quello il cognome di Giacomo. Era così … letterario.

<< Piacere, Edoardo Martini >> si presentò mio padre, porgendogli la mano.

Notai che faticava a pronunciare il suo nome, e barcollava vistosamente.

<< Papà, perché non entri in casa? Mamma ha lasciato la cena da riscaldare nel forno a microonde >> gli dissi, sperando di convincerlo.

Mi guardò nuovamente con quella sua aria confusa. Faticavo a riconoscere mio padre dietro quegli occhi vitrei, così freddi ed inespressivi. Non l’avevo mai visto in quello stato, in diciotto anni di vita, e mi faceva molta pena.

<< Tua madre ha lasciato la cena … beh, sarà meglio entrare >> dichiarò, salutando il vicino.

Lo guardai allontanarsi con passo incerto verso il portone. In quello stesso momento, mi squillò il cellulare.

<< Pronto? >>.

Era mia mamma.

<< Ciao, Mely, menomale che almeno qualcuno risponde. E’ da venti minuti che chiamo tuo padre e Davide >>.

<< Davide è sotto la doccia, mamma. Papà … deve aver lasciato il cellulare in macchina >>.

Preferii non specificarle che sembrava ubriaco fradicio.

<< Ok … dovresti dirgli di venirmi a prendere dalla nonna. A quanto pare, non ci sono autobus diretti al nostro nuovo quartiere dopo le otto di sera >>.

Cavolo, e adesso che cosa avrei potuto dirle? Optai per la verità.

<< Mamma >> iniziai, allontanandomi dal padre di Giacomo e abbassando la voce in modo che non mi sentisse. << Credo  che papà abbia bevuto >>.

Silenzio.

<< Sei sicura? >> mi chiese.

Non sembrava stupita, almeno non quanto lo ero io.

<< Credo proprio di sì. Balbetta, barcolla e … puzza di birra >>.

<< Ok >>.

Ok?

<< Mamma, hai capito? >>.

Non potevo credere che la sua risposta fosse così laconica. Ne aveva semplicemente preso atto, e non era proprio da lei.

<< Ti spiegherò tutto a casa, ho la batteria del telefono quasi morta >> chiarì.

<< Vuoi che venga a prenderti io? Posso guidare l’auto di papà >> mi offrii.

<< Non se ne parla nemmeno, Melissa >> disse, categorica.

<< E allora cosa vuoi fare? Rimanere a dormire dalla nonna? >>.

Non si fidava proprio di me, e la cosa non poteva che infastidirmi.

<< Se vuole, posso prenderla io >> intervenne il signor Ariosto.

Evidentemente, non ero lontana abbastanza da lui perché non sentisse.

<< Con chi sei, Melissa? >> chiese mia mamma.

<< C’è il vicino, mamma. Il figlio della signora Dorotea. Dice che può venire a prenderti lui >>.

Silenzio.

<< Mamma, ci sei? >>.

Sembrò pensarci su. Ero convinta che fosse indecisa sul da farsi: accettare il passaggio da quell’uomo dall’aria inaffidabile (oltre che ex carcerato, ma fortunatamente non conosceva questo piccolo dettaglio) o rifiutare e, nella migliore delle ipotesi, dormire dalla nonna? Per quanto la amasse, dubitavo che avrebbe scelto di fermarsi da lei per la notte: mia nonna viveva letteralmente circondata dai gatti, e mia madre era allergica al loro pelo.

<< Va bene, passamelo che gli spiego dove trovarmi >> cedette alla fine.

Ne ero certa.

Mentre i due si mettevano d’accordo, rientrai in casa a vedere come stava mio padre. Davide era uscito dal bagno e stava divorando un panino.

<< Papà? >> gli domandai.

<< E’ andato a letto. Dice che ha mal di testa. Strano >>.

Salii le scale e lo raggiunsi, trovandolo disteso sul letto a guardare il soffitto.

<< Papà, io esco un attimo con il vicino a prendere la mamma. E’ rimasta bloccata dalla nonna, dice che non passano autobus dopo le otto diretti in questo quartiere >>.

<< Perché non chiede un passaggio al suo amico Riccardo? >> commentò lui, irritato.

Finsi di non averlo sentito.

Presi la giacca e scesi all’ingresso, spiegando a Davide la situazione.

<< Cosa? >>.

Era sconvolto.

<< Non è un dramma, Dado. Gli autobus sono inaffidabili >>.

Mi rivolse un’occhiata di rimprovero.

<< Tu devi esserti bevuta il cervello, sorella. Prima frequenti Giacomo e poi vuoi andare in macchina da sola con il padre? Devo ricordarti che è stato in galera, e Dio solo sa per cosa? >>.

Era furioso.

<< E tu cosa proponi di fare, genio? Di lasciarlo solo con mamma? >>.

<< No, ci vado io >> si offrì.

<< Tu devi rimanere con papà >>.

<< Ci rimani tu con papà, Mely. Non ti lascio sola con quel tipo >>.

<< Ed io non lascio te >> dissi, categorica.

<< Allora ci andiamo insieme >> decise. << Papà se la caverà. Per come è messo, sono sicuro che dormirà fino a domani mattina >>.

Evidentemente, aveva notato anche lui che era ubriaco.

Uscimmo di casa e raggiungemmo il vicino, che aveva appena interrotto la conversazione con mia mamma.

<< E voi dove andate? >> ci chiese.

<< Con lei. La accompagniamo, così siamo sicuri che non si perda fino a casa di nostra nonna >> rispose Davide, sfoggiando un tono di sfida.

<< D’accordo, andiamo >>.

Mi restituì il cellulare e ci fece strada verso la sua auto, una berlina blu vecchio stile parcheggiata alla meno peggio. Non che io parcheggiassi meglio, in realtà.

<< Prego, salite >>.

Davide fece per sedersi davanti, ma il padre di Giacomo lo fermò.

<< Davanti le donne >> specificò.

Così mi sedetti nel sedile anteriore, alla sua destra, non poco a disagio.

<< Allora, come va la scuola? >> si interessò, mentre imboccavamo l’autostrada.

Non capivo cosa gliene importasse. Evidentemente, quello era il suo modo di rompere il ghiaccio.

<< Bene >> risposi, laconica.

<< E tu, ragazzo? >> si rivolse a Davide.

<< Bene >> mentì lui.

<< Come vi chiamate? Non vi siete neppure presentati, non è molto educato >> osservò.

Un ex galeotto che ci impartiva lezioni di educazione? Surreale.

<< Melissa e Davide >> ci presentai.

<< Bei nomi, davvero belli >>.

Guardai Davide dallo specchietto dell’auto: anche lui, come me, sembrava confuso.

<< E vostra madre? Lavora? >>.

Praticamente ci stava facendo un interrogatorio.

<< Alla scuola di Davide >> dissi io.

La conversazione era persino più insolita di quella del pomeriggio con il figlio.

<< Vi avrà parlato di me, mia madre Dorotea >>.

Annuimmo entrambi.

<< Quindi sapete che sono stato in galera >> osservò, spiazzandomi.

Non mi aspettavo che sarebbe stato così diretto.

Sospirò e proseguì.

<< Non pretendo che mi crediate quando vi dico che sono innocente. Però ve lo dico lo stesso: non ho fatto nulla. Mi accusano di aver maltrattato Giacomo, ma non l’ho mai sfiorato. Amo mio figlio, non gli farei mai del male >>.

Non capivo perché si difendesse con noi. Era ovvio che non credevamo neppure ad una singola parola che aveva pronunciato.

<< Non siamo certo qui per giudicarla >> me ne uscii io.

<< Grazie, ne sono lieto >> disse lui, ridendo. << Anche perché altrimenti dubito che avreste accettato il mio passaggio >>.

Entro pochi minuti arrivammo a casa di mia nonna, trovando mia madre seduta sul marciapiede ad aspettarci. Alla vista dell’auto, un brivido sembrò scuoterla. Ma fu solo un’impressione: un attimo dopo era tornata a sorridere, come sempre.

 

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Capitolo 14
*** La festa ***


La festa

<< Come stavamo dicendo, la Seconda Sofistica, che già nel nome richiama la Prima, fiorita in Grecia nel V secolo a. C., focalizza la sua attenzione esclusivamente sulla forma, sulla ricerca estetica, sfoggiando, a fronte di uno stile sempre perfetto e sontuoso, una futilità di argomenti mai vista prima. Chi fu il principale esponente di questo movimento retorico, signorina Martini? >>.

La pronuncia del mio nome da parte della professoressa di greco mi riportò bruscamente alla realtà.

<< Luciano >> risposi meccanicamente.

<< Bravissima. E quale fu la sua opera più nota? >>.

<< I “Dialoghi dei morti” >>.

Ringraziai mentalmente Giada per avermi fatto dare un’occhiata al suo libro, quella mattina. Il giorno prima non avevo avuto il tempo di studiare nulla, a causa dei numerosi imprevisti, salvo dare una rapida lettura ad Agostino e alla letteratura latina.

<< Giusto >> proseguì la professoressa. << Nei “Dialoghi dei morti”, Luciano, che nell’ultima parte della sua vita si dedicò alla satira, deride apertamente la stupidità dei suoi coetanei, che si affannano alla ricerca di cose vane. Bellezza, ricchezza, potere, dice il retorico, non vi serviranno a nulla dopo la morte >>.

La professoressa continuò con la spiegazione, ma io mi distrassi per tutto il resto del tempo. Non potevo fare a meno di pensare a mio padre. Quel giorno aveva deciso di non andare a lavoro, cosa stranissima, visto che non capitava mai, neppure quando era malato. Sapevo che era reduce da una sbornia, ne ero certa, ma non capivo perché la mamma non avesse voluto parlargli, sgridarlo magari, o comunque chiedergli spiegazioni. Forse, pensai, era troppo delusa del suo comportamento, visto il modo in cui aveva perso, proprio per colpa dell’alcol, i genitori e, a pochi mesi di distanza, il fratello maggiore.

<< Mely! >> mi spintonò Giada. << Si può sapere cosa è successo ieri? >>.

Mi voltai a guardarla, e mi accorsi che mi stava fissando.

<< Nulla, cosa deve essere successo? >> risposi innocentemente.

<< Perché hai detto a tua madre che ti ho dato un passaggio fino a casa? >>.

Cavolo.

<< Io … tu come fai a saperlo? Microcamere? >> risi, sperando di farla calmare.

Era visibilmente turbata.

<< Non scherzare. Ieri sera mi ha chiamata e me l’ha chiesto >>.

<< E tu? >> domandai, speranzosa.

<< Che dovevo dirle? Ho confermato >>.

Grazie a Dio.

<< Grazie, sei un’amica! >> esclamai, abbracciandola.

<< Ferma, tu non me la racconti giusta >> mi scansò. << Chi ti ha accompagnata a casa? >>.

Ecco, come avrei potuto mentirle?

<< Giacomo >> dissi, abbassando la voce.

Stavamo camminando in corridoio e si fermò bruscamente, così di scatto che le arrivò addosso Federico, che era dietro di noi.

<< Giada, calmati! >> scoppiò a ridere. << Già che ci siamo, vi lascio gli inviti per stasera. Oggi compio diciotto anni e festeggio in discoteca >>.

<< Auguri, allora! >> gli dissi, sorridendo e baciandolo su una guancia.

Federico era un nostro compagno di classe, il classico tipo che crede di essere figlio del dio Apollo: alto, biondo e con gli occhi verdi. Era molto carino, in effetti; peccato fosse un totale idiota.

<< Grazie, Mely >> mi ringraziò, abbracciandomi un po’ troppo calorosamente.

Lo scostai, sgridandolo.

<< Calma, siete tutte e due troppo agitate oggi! >> dichiarò, allontanandosi. << Mi raccomando, stasera vi aspetto per le undici! Puntualità >> aggiunse, imitando la professoressa di greco.

<< Che maiale >> commentò Giada. << E’ dal primo anno che ti viene dietro, Mely >>.

<< Lo sai che non mi interessa >> dissi, disgustata.

<< Almeno ci verrai alla sua festa, stasera? >> mi chiese.

<< Non credo proprio. Non amo le feste, e sicuramente non ci tengo ad andare alla sua >>.

<< Comunque … Perché diavolo hai accettato un passaggio da quel sociopatico? >>.

Speravo che se ne fosse dimenticata.

Sospirai.

<< Perché mi ha praticamente obbligata, Giada! Non potevo dire di no >> mi giustificai.

Mi indirizzò un’espressione contrariata.

<< Tu sei pazza >> criticò. << Ti ha fatto qualcosa? >>.

<< No >> risposi, sincera.

Era stato molto carino, anzi. Ma questo evitai di dirlo ad alta voce.

<< Almeno. Sei stata fortunata, Mely. La prossima volta chiama me o Alex, se vuoi uno strappo fino a casa >>.

Alex era il suo ragazzo, una specie di emo. Evitai di commentare che mi fidavo più di Giacomo che di uno che ascoltava heavy metal: probabilmente si sarebbe offesa.

<< D’accordo >> dissi. << Cambiando discorso, avrei bisogno di un favore >>.

<< E’ un passaggio? >> rise.

La fissai, offesa.

<< Ok, scherzavo. Cosa ti serve? >>.

<< Tuo padre fa il poliziotto >> dissi.

Mi rivolse un’occhiata interrogativa.

<< Vorrei avere delle informazioni su un certo Luca Ariosto >>.

Era dal giorno prima che ci pensavo. Io e Davide volevamo scoprire  perché era finito in galera, alcuni anni prima.

<< Ok >> si limitò a dire lei. << Posso chiederti chi è? >>.

<< E’ il padre di Giacomo >>.

<< E perché ti interessa? >>. Deglutì. << Credi che abbia ucciso qualcuno? >>.

Era spaventata.

<< No, non credo che abbia ucciso qualcuno, Giada. Semplicemente, so che è stato in carcere, e vorrei sapere cosa ha combinato. A parte maltrattare il figlio >>.

Mi fissò.

<< Maltrattava Giacomo? >> domandò.

<< Pare di sì. O almeno, così dice sua nonna >>.

---------------

 

Era ormai l’una passata, quando uscimmo da scuola. Giada, ovviamente, insistette a darmi un passaggio, rifiutando persino che prendessi l’autobus.

<< Allora, come va a scuola? >> mi chiese suo padre, mettendo l’auto in moto.

<< Tutto bene, signor De Fazio >>.

<< Anche Giada? >>.

<< Papà! >> intervenne la figlia. << Sempre le solite, stupide domande! Lo sai che faccio schifo a scuola >>.

<< Lo so, infatti >> disse il padre, prendendola in giro. << Sei una capra >>.

Entro pochi minuti arrivammo a casa.

<< Ci vediamo stasera? >> mi urlò dietro Giada dopo che scesi dalla macchina, abbassando il finestrino.

<< Certo >> mentii, facendole l’occhiolino.

Aveva detto al padre che sarebbe venuta a studiare a casa mia, dal momento che, tanto per cambiare, era nuovamente in punizione. E aveva il divieto assoluto di andare a qualsiasi festa.

Aprii il cancello e scorsi mio padre in giardino, intento a pulire la piscina.

<< Papà, cosa fai? >> lo salutai.

<< Oggi fa caldissimo, Mely. Ho pensato di dare una ripulita alla piscina, così potremo usarla >>.

Sembrava il solito papà di sempre.

<< Ok, io vado a pranzare >> gli dissi, entrando in casa.

Mi preparai rapidamente della pasta e mangiai, rimuginando ancora sulla famiglia di Giacomo. Trascorsi tutto il pomeriggio in camera, a studiare greco e storia e perfezionare il power paint della tesina. Quando scesi in cucina, la mamma era già tornata, e stava cucinando.

<< Mamma >> la salutai. << Cosa prepari di buono? >>.

<< Sto facendo la pizza, Mely. Dobbiamo festeggiare anche stasera … Davide è stato promosso capitano della squadra! >>.

Era felicissima.

Indirizzai un’occhiataccia a mio fratello, che se ne stava rannicchiato su una poltrona: come aveva potuto dire una bugia così grossa alla mamma? Lui mi rivolse uno sguardo colpevole.

<< Bene, sono contenta >> gli ressi il gioco. Certo non spettava a me dire la verità.

Cenammo quasi nel più totale silenzio. Mia madre era contentissima per Davide, ma ancora offesa con papà, per cui le uniche conversazioni della serata furono tra lei e mio fratello.

Erano quasi le ventitré, quando mi misi in pigiama e mi coricai. Nella dormiveglia, mi svegliò il suono di un sms in arrivo. Presi svogliatamente il cellulare e lo lessi.

“Melissa, sei in ritardo”.

Era di Federico.

“Ti ho già detto che non sarei venuta”, gli risposi, infastidita. Spensi il telefono e tornai a letto. Dopo pochi minuti, lo strombazzare di un clacson mi riportò bruscamente nella realtà. Mi affacciai alla finestra e notai, con disgusto, che era Federico.

<< Ti piace la mia nuova macchina? >> strillò.

<< Zitto! >> gli urlai in risposta. << E poi, quando avresti preso la patente? >>.
Eravamo in un quartiere residenziale, e a quell’ora tutti dormivano.

<< Non sapevo come contattarti. Accendi il cellulare >>.

Obbedii: ci mancava solo che lo sentisse mio padre.

<< Cosa diavolo vuoi? >> risposi alla sua chiamata.

<< Sempre di buon umore, eh? >> commentò, sarcastico. << Perché non sei venuta alla mia festa? >>.

<< Perché non mi andava. Che ci fai qui? >> domandai, irritata.

<< Mi ha mandato Giada. Vuole che le porti la traduzione di Luciano alla festa >>.

<< E tu pensi che ci creda? Mi offende il fatto che mi reputi così stupida >>.

<< E’ la verità, te lo giuro >> mi assicurò. << Non devi venire per forza in discoteca. Scendimela che gliela passo io più tardi >>.

Ci pensai su. Come poteva essere vero? In effetti, però, non era così insolito che Giada mi chiedesse la traduzione delle versioni nel cuore della notte.

<< Ok, aspettami in auto >> acconsentii alla fine.

Presi la versione dallo zaino e scesi, sforzandomi di non svegliare nessuno. Aperto il cancello, mi ritrovai Federico di fronte.

<< Allora? La versione? >> domandò.

Gliela porsi in fretta.

<< Carino il pigiama >> osservò, scrutandomi dalla testa ai piedi. Maledii me stessa per non aver indossato un giubbotto.

<< Grazie, ci vediamo >> esclamai, dirigendomi verso casa.

Mi prese per un braccio e mi fermò, facendomi voltare verso di lui.

<< Non mi fai neppure gli auguri? >> osservò, contrariato.

<< Auguri >> gli dissi, liberandomi dalla presa.

Mi trascinò verso di sé e tentò di baciarmi, guadagnandosi uno schiaffo in faccia.

<< Che fai, sei impazzita? >> strillò.

<< Io?! >> esclamai, dandogli nuovamente le spalle e avviandomi velocemente verso il cancello.

<< Tu … >> iniziò, strascicandomi contro il muro di casa e ghermendomi con il suo corpo. << Parli troppo >>.

Sentivo le sue mani su tutto il mio corpo, ma non potevo fare nulla, a parte strillare.

<< Cosa stai facendo?! >>.
Era Giacomo.

Allontanò Federico da me e gli assestò un pugno in faccia.

<< Noi … stavamo solo scherzando! Cosa ti prende? Ti credi il giustiziere della notte? >> lo insultò Federico, toccandosi il volto nel punto esatto in cui aveva ricevuto il cazzotto.

Io, nel frattempo, ne approfittai per ricompormi, abbassandomi la maglietta del pigiama e sperando che Giacomo non avesse visto nulla: ci mancava solo che avesse una delle sue “transizioni”.

<< Guai a te se ti vedo un’altra volta nel mio quartiere! >> stava strillando a Federico, che era salito in auto e l’aveva già messa in moto. Quando il mio compagno di scuola si allontanò, mi rivolsi al vicino.

<< Grazie, Giacomo >> dichiarai semplicemente. << Nel mio quartiere? Fa tanto film western >>.

Non sapevo cos’altro dire: ero terribilmente imbarazzata.

<< Non dovresti frequentare certa gente >> mi ammonì.

Certa gente? Detto da uno che aveva un disturbo dissociativo d’identità, suonava strano.

<< Lo so, è un idiota >> mi limitai a commentare.

<< Sei ferita? >> chiese, avvicinandosi a me e guardandomi il braccio.

<< Questa? >> dissi, indicando una piccola escoriazione al gomito. << Non è nulla >> lo rassicurai.

Si strappò la maglietta, scoprendo in parte l’addome, e me ne ripiegò un frammento sul braccio, con fare premuroso.

<< Intanto mettiti questa >>.

<< E’ arrivato il momento in cui ti strappi la camicia per fasciarmi la ferita? >> dissi, dubitando che avrebbe colto la citazione.

<< Se volevi che mi spogliassi, bastava chiedere >> citò in risposta lui.

Strano. Non sembrava tipo da Shadowhunters.

Sistemò il frammento della maglia con cura sulla mia ferita. Era così vicino che riuscivo a sentire il suo respiro sul mio volto, ed era così … non pensarci, mi imposi. Mantieni la calma. Potrebbe perdere il controllo da un momento all’altro. Mentre ero persa nei miei pensieri, mi sollevò il mento: era molto più alto di me. Avvicinò le sue labbra alle mie e … ci baciammo. Già, ci baciammo. Mi imposi di staccarmi da lui con tutte le forze – era il mio istinto di conservazione a parlare -, e ci riuscii: non potevo permettermi che avesse una transizione, non quando eravamo gli unici del quartiere ancora in piedi.

<< Scusa … >> disse lui, allontanandosi.

Sembrava ancora in sé.

<< Non ti scusare >> lo rassicurai. << Io torno a dormire >> aggiunsi, aprendo il cancello di casa.

<< Buonanotte e grazie di tutto >>.

<< Grazie a te >> esclamò lui. << E comunque l’idiota aveva ragione. Il pigiama ti sta benissimo >>.

Mi voltai rapidamente, imbarazzata, e mi diressi verso casa, senza aggiungere altro.

Ero nuovamente a letto, quando mi venne in mente Giada. Chissà se aveva veramente bisogno della versione di greco? Quell’imbecille l’aveva presa, ma dubitavo che gliel’avrebbe data.

Composi rapidamente il numero della mia amica, certa che fosse ancora sveglia a ballare.

<< Pronto? >>.

<< Giada, sei ancora alla festa? Ti volevo chiedere se … >> iniziai.

<< Non sono Giada >> mi interruppe la voce. << Sono sua madre >>.

Cavolo, l’avevo combinata grossa. Adesso sua mamma avrebbe capito che Giada non era in casa …

<< Mi scusi >> mi limitai a dire, impacciata.

<< Giada è in coma >> aggiunse lei, in preda alle lacrime.

 

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Capitolo 15
*** Aldilà di un freddo vetro ***


Aldilà di un freddo vetro

 

<< In coma …? >> ripetei meccanicamente.

Giada non poteva essere in coma, stava benissimo fino a poche ore prima …

<< Sì, Melissa. E’ in coma. E’ caduta da una finestra al secondo piano alla festa di Federico. I medici dicono che era ubriaca e ha perso i sensi. Melissa … >> iniziò la madre di Giada.

<< No, non lo dica. Non ci penso neppure a restare a casa >> la interruppi. << Vengo subito >>.

<< Ma tuo padre deve lavorare, non preoccuparti di correre così in fretta. Verrai con lui domani mattina >> insistette lei, evidentemente scossa.

<< Non si preoccupi lei >> dissi io, interrompendo la telefonata.

Mi vestii in fretta e scesi in cucina: era l’una e mezza di notte. Come potevo svegliare mio padre? La signora De Fazio aveva ragione, quella mattina avrebbe dovuto lavorare. Ma non potevo stare ferma lì, senza fare nulla; non ce la facevo proprio. Presi le chiavi di casa e uscii, diretta verso la villa di Giacomo. Stavo per suonare il campanello, quando lo vidi: era sul suo balcone, intento a leggere un libro. Ma non dormiva mai?

<< Melissa >> esordì. << Già ti mancavo? >>.

<< Non è il momento di scherzare, Giacomo. Non c’è tempo. Devi darmi un passaggio >>  arrivai al punto, senza troppi giri di parole. In quel momento, le buone maniere erano il mio ultimo pensiero.

<< Certo >> disse lui, chiudendo il libro ed entrando rapidamente in casa.

Incredibile, non aveva neanche voluto sapere perché volessi uno strappo. Come se fosse normale, nel centro della notte, racimolare passaggi dai vicini. Entro pochi minuti, mi fu di fronte.

<< Dove andiamo? >> chiese semplicemente.

<< All’ospedale >> risposi io, laconica.

<< Non ti avrà mica rotto qualche costola? >> esclamò, guardandomi il torace (e facendomi arrossire più del dovuto). << Se è così, giuro che lo … >>.

<< No >> lo troncai. << E’ la mia amica Giada. E’ in coma >>.

Quell’affermazione parve turbarlo: era triste per me.

<< Ok, sali in macchina >> disse semplicemente.

Aprii la portiera e mi sedetti accanto a lui.

Ma cosa diavolo stavo facendo? Chiedere passaggi di notte, per di più a semi-sconosciuti potenzialmente pericolosi, non era proprio da me. Iniziai a pensare di essere impazzita.

<< Cosa c’è? Preoccupata? >> domandò Giacomo.

<< Sì, per Giada >> mentii io.

<< Stai tranquilla, sono sicuro che le cose si sistemeranno >> mi consolò, sfiorandomi una guancia con la mano e facendomi rabbrividire.

Mise in moto l’auto ed entro pochi minuti fummo all’ospedale. Salimmo le scale fino al reparto di “Terapia Intensiva”, dove trovammo Giorgia, la madre di Giada. Era la fotocopia della figlia: alta, bionda, con i capelli di un riccio indomabile.  

<< Ti avevo detto di non … >> iniziò.

<< Allora? >> la interruppi, forse un po’ troppo bruscamente.

Mi fissò, confusa.

<< I medici dicono che è stabile, ma non possono sapere quando si sveglierà … e se si sveglierà >> rispose, scoppiando in lacrime.

Se?

Mi avvicinai a lei per consolarla, rendendomi conto di non esserne in grado. Ero troppo sgomenta, troppo preoccupata, per poter consolare qualcuno. Aldilà di un freddo vetro, a pochi metri da noi, c’era Giada, lo sapevo benissimo. Eppure, non avevo il coraggio di avvicinarmi, di vederla in quello stato.

<< Melissa >> mi sentii chiamare. << Vengo con te >>.

Era Giacomo. Mi prese per mano e mi trascinò verso quel vetro, come se fossi una bambina bisognosa di rassicurazioni. La sua mano era calda e sudata, non fredda come l’ultima volta. Sperai che non si accorgesse che la mia tremava, sotto la presa sicura della sua. Ed eccola di fronte a me: Giada. La mia migliore amica era sdraiata su un letto, inerme: sembrava stesse dormendo, e quasi cercai di autoconvincermi che fosse così. Non ero certa di riuscire ad affrontare una situazione del genere. Attaccate al braccio destro c’erano due flebo, al dito un pulsossimetro; sul suo torace un paio di elettrodi, collegati ad un macchinario che registrava il suo battito, regolare, ritmico. Ma allora perché non si svegliava?

Senza volerlo, fui sommersa dalle lacrime. Scendevano una dopo l’altra, veloci, e non riuscivo a trattenerle. Giacomo mi avvicinò a sé e mi strinse, cingendomi in un abbraccio e accarezzandomi i capelli. In quel momento, c’eravamo solo noi due: l’idea che potesse perdere il controllo da un momento all’altro non mi sfiorava neppure lontanamente. Era così rassicurante … sentivo i suoi addominali, scolpiti, sotto la mia presa, e il suo torace espandersi, a ritmo regolare.

<< Melissa >> mi sentii chiamare.

Mi voltai e vidi che era il padre di Giada.

<< Signor De Fazio >> mi ricomposi, liberandomi dall’abbraccio.

Ci mancava solo che dicesse qualcosa ai miei.

<< Cosa è successo a Giada? >> gli domandai, sperando che non mi chiedesse informazioni su Giacomo.

Sapevo che con lui potevo parlare: era un tipo molto più forte della moglie. Non a caso, faceva il poliziotto.

<< Ho parlato con il vostro compagno – mi pare che si chiami Federico -, e ha detto che l’ha vista cadere dalla finestra della discoteca. Pare che abbia perso l’equilibrio, che si sia sporta troppo in avanti >>.

Parlava con un tono distaccato, come se stesse raccontando la trama di un film visto in televisione.

<< Domani interrogherò gli altri invitati alla festa, per avere la loro versione. Tu non c’eri, vero? >> chiese.

<< No, non ci sono andata >>.

<< Neanche Giada ci sarebbe dovuta andare, lo sai. Ha detto che  avreste studiato insieme stanotte, per l’interrogazione di greco >>.

Sembrava quasi mi stesse addossando la colpa.

<< Io … >> iniziai.

<< Da te non me lo sarei mai aspettata, Melissa. Sapevi che beveva. Sapevi che si ubriacava >> mi stava praticamente sputando addosso tutta la sua sofferenza. << E sapevi che era in punizione >>.

Mi sentivo terribilmente in colpa. Il signor De Fazio aveva ragione: era colpa mia. Tentai di trattenere le lacrime: non volevo muoverlo a pietà. Dopotutto, il suo era uno sfogo, e aveva diritto di sfogarsi; non pensava realmente quello che diceva.

<< Signore >> intervenne Giacomo.

Il padre di Giada sembrò spiazzato: non si aspettava che qualcuno lo interrompesse.

<< Capisco che stia soffrendo per sua figlia, ma non dovrebbe prendersela con Melissa. Anche lei sta male, e non è colpa sua quello che è successo. Non conosco Giada, ma sono sicuro che sarebbe andata comunque alla festa, anche senza la complicità di Melissa, trovando un’altra scusa. E poi, consideri che sono quasi le due di notte, e lei è qui, in ospedale. Ha accettato un passaggio da me, si figuri. Doveva essere veramente motivata >>.

<< I- io … >> iniziò il signor De Fazio, interrompendosi subito dopo ed andandosene via, in preda alle lacrime.  

<< Forse dovrei ringraziarti di nuovo >> dissi, rivolta a Giacomo.

Lui mi guardò intensamente, e mi sorrise.

<< Ancora non hai capito che ti amo >>.

Non sapevo cosa dire. Non volevo ferirlo, ma non potevo comunque illuderlo. Non lo ami, dissi mentalmente. Non lo ami, non lo ami … anche se, forse …

Scelsi di tacere.

<< Non te lo dico perché esigo che tu ricambi i miei sentimenti. Non posso pretenderlo, Melissa. Semplicemente, prendine atto >> proseguì. La sua voce era diversa dal solito: più sicura, ma al contempo più malinconica.

<< Io >> dissi infine. << Io non lo so se ti amo >>.

Qualcosa cadde a terra, rompendo il silenzio che aveva inondato la stanza. Mi voltai nella direzione del suono: era Federico. Mi stava portando il caffè, in un insospettabile moto di altruismo, e aveva un’espressione delusa.

<< Melissa, non puoi amarlo. Non lo conosci neppure! Tu non sai cosa ha fatto quel ragazzo >>.

 

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Capitolo 16
*** Rivelazioni ***


 Rivelazioni

 

Giacomo continuava a tenermi stretta per mano, mentre Federico lo guardava in cagnesco, dall'altra parte del corridoio.

<< Lasciami stare, dopo quello che é successo a casa mia non hai il diritto di rivolgermi la parola >> gli dissi, voltandogli le spalle.

<< Mely, tu non lo conosci. Non sai quello che ha fatto >> insistette Federico.

<< So quello che ha fatto >> dichiarai, alzando la voce.  

Ero stufa di sentirlo parlare con quel tono di chi la sa lunga.

<< Tu ... Non credo che lo sappia, altrimenti non staresti con lui. Sei una ragazza troppo seria per frequentare tipi come Giacomo >>.

<< Tipi come te, vuoi dire >> .

Ma come si permetteva di parlarmi così? Soprattutto dopo quello che aveva tentato di farmi, solo poche ore prima? Rivolsi un'ultima occhiata a Giada, ancora immobile ed apparentemente addormentata, e trascinai Giacomo lontano da quel corridoio, lontano da Federico. Non sapevo neanche io perché, ma non tolleravo che gli parlasse così.

Non se lo meritava proprio, non dopo quello che aveva detto e fatto per me quella sera.

<< Grazie, ma so difendermi da solo >> esordì lui quando ormai eravamo fuori dall'ospedale, nel  cortile dell'edificio.

<< Però non ti sei difeso con Federico >> osservai io.

<< No, infatti >> disse. << Perché ha ragione. Sono una persona orribile, Melissa >>.

Lo guardai negli occhi.

<< No, non lo sei. Il tuo alter, o come diavolo si chiama, lo é >>.

Sorrise.

Un sorriso tutto fuorché felice.

<< Resta comunque una parte di me. E difficilmente potrò liberarmene >>.

Lo presi per mano, sentendolo rabbrividire al mio tocco.

<< Giacomo, la tua nuova terapia sta funzionando. Se così non fosse, adesso non saremmo qui, a parlare tranquillamente.  E non ci saremmo mai potuti baciare >>.

Quelle parole mi uscirono spontanee, una dietro l'altra. Sapevo che era stato il mio cuore a parlare. Per quanto non lo volessi ammettere, avevo a poco a poco iniziato a voler bene a quel ragazzo.

<< Quasi baciare, Melissa. Tu non sai cosa sono in grado di fare. Intendo, da alter. Non hai la minima idea di quello che ho fatto >>.

<< Sì, invece >> lo spiazzai. << Me l'ha raccontato tua nonna, mentre eri svenuto. So che hai quasi ucciso un tuo compagno di scuola al liceo >>.

Sembrava stupito da quell'affermazione.

<< T-tu ... lo sai? >> domandò, incredulo.

<< Sì >>.

<< E non sei scappata via a gambe levate? >>.

<< No. Mi hanno sempre detto che sono un po’ pazza, in effetti >> risi. << Diciamo che non mi piacciono le cose semplici >>.

Ci sedemmo su una panchina di fronte al Pronto Soccorso. Quella notte faceva veramente freddo, nonostante fossimo a fine Maggio. Rabbrividii all'ennesima folata di vento, e Giacomo se ne accorse.

<< Torniamo dentro >> suggerì.

<< No, ti prego >>.

Non avevo nessuna voglia di salire nuovamente da Giada, non ce la facevo a vederla in quelle condizioni. E non volevo rischiare di incontrare Federico.

<< Come vuoi >> si arrese Giacomo.

Si tolse la giacca e me la gettò sulle spalle, abbracciandomi. Sentivo il suo respiro caldo sui miei capelli, e quella sensazione era incredibilmente piacevole. Stavo quasi per addormentarmi, cullata dall'espandersi regolare del suo torace, quando lo sentii sussurrarmi all'orecchio.

<< Vado a prenderti un caffè al bar, Melissa. Ne hai davvero bisogno >>.

No, non andartene, pensai, rimani ancora qui con me.

<< Ok >> dissi invece.

Si allontanò strofinandosi le braccia con le mani: cavolo, per colpa mia aveva freddo. Nell'attesa, alzai lo sguardo al cielo: c'erano così tante stelle. Se fossi stata con Giada ci saremmo messe a guardarle per ore, nella speranza di vederne cadere una ed esprimere un desiderio. "Tanto lo so che il tuo é un desiderio noioso", avrebbe detto lei, come faceva sempre. "Qualcosa tipo una laurea". "Perché, tu cosa chiederesti?", le avevo domandato un giorno. "Un pó di serenità per tutti", aveva risposto, salvo poi aggiungere: "E un ragazzo per te, che sei così complicata".

Beh, Giada, forse il tuo desiderio si era realizzato per metà.

<< Melissa >>.

Mi voltai.

<< Oh, salve signor De Fazio >>.

Era visibilmente distrutto.

<< Cosa ci fai qui fuori a quest'ora? E per di più da sola? >>.

<< Nulla, stavo solo pensando >>.

Preferii omettere che non ero sola.

<< Ti volevo chiedere scusa per prima. Sono stato uno stupido >>.

<< No, non ce n'é bisogno. Sul serio >> lo tranquillizzai. << Aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno >>.

<< Ma tu non hai nessuna colpa, Melissa. Quello che é successo non é dipeso da te >>.

<< Ci sono novità? >> domandai, speranzosa.

<< No, purtroppo nessuna. In realtà, ti cercavo per un altro motivo, oltre che per scusarmi >>.

Per un altro motivo? Cosa poteva volere da me il signor De Fazio? Si sedette accanto a me.

<< Oggi pomeriggio, Giada mi ha detto che avevi bisogno di informazioni su un certo Luca Ariosto >>.

Giusto, le avevo chiesto di parlarne a suo padre. Annuii.

<< Beh, ho fatto un paio di ricerche al lavoro. É stato denunciato più volte per maltrattamenti su minore. Le carte dicono che aveva la brutta abitudine di picchiare il figlio: molte volte il malcapitato bambino é finito in ospedale con fratture e lividi su tutto il corpo. Una volta é arrivato a rompergli la milza >>.

 Quelle sue parole mi turbarono. É arrivato a rompergli la milza ... Fui pervasa da un moto di compassione pura per Giacomo. Come avrebbe potuto sopravvivere incolume a tanta violenza?

<< Oddio >> mi limitai a dire.

<< E non é tutto, Melissa >>.

Sospirò.

<< Attualmente é indagato per l'omicidio della moglie >>.

L'omicidio della moglie? Mi era sembrato di aver capito che fosse morta di parto ...

<< La moglie é stata assassinata? >> domandai.

<< Sì. Alcuni pensavano che fosse scappata di casa, invece pochi mesi fa é stato rinvenuto il suo cadavere >>.

<< Ma ... non dovrebbe stare in carcere, allora? >> chiesi.

<< Non abbiamo abbastanza prove per tenerlo dentro, ma ... Melissa, come fai a sapere che non é in carcere? >>.

Mi rivolse un'occhiata sospetta.

<< Perché vive proprio di fronte a casa mia >> confessai.

L'espressione sul suo volto era radicalmente cambiata: era terrorizzato.

<< E tuo padre lo sa? >>.

<< No >> dichiarai. << E non gli dica nulla, per favore. Lui e mia madre hanno appena affittato quella villetta >>.

<< Ma Melissa, loro devono ... >> iniziò.

<< La prego >> lo interruppi.

<< D'accordo. Però, non appena abbiamo le prove per incastrarlo, dico tutto ai tuoi genitori >> si arrese.

<< Grazie >> gli dissi mentre rientrava in ospedale, a passo incerto.

Entro pochi minuti, Giacomo fu di ritorno. Aveva in mano un vassoio con due cappuccini e due cornetti.

<< Per lei, signora >> enfatizzò, inchinandosi.

Mangiammo in silenzio. Continuai a pensare per tutto il tempo alle violenze che Giacomo aveva dovuto subire dal padre, e a come, incredibilmente, fosse diventato un tipo così gentile e buono, nonostante quello che aveva affrontato. Forse é per questo che si é 'sdoppiato', pensai. Perché ha tentato - invano - di rimuovere quanto di più malvagio covava in lui.

<< Ti sei sporcata  >> affermò, pulendomi il viso con un tovagliolo.

Ancora una volta, il suo tocco mi fece rabbrividire.

<< Grazie >> lo ringraziai, sperando che non avesse notato quanto ero arrossita. Maledissi le migliaia di vasi sanguigni che c'erano sulle mie guance, ad uno ad uno.

<< Non devi preoccuparti di arrossire. É una cosa bellissima >> mi tranquillizzò, sfiorandomi una guancia con un dito.

Mi avvicinai di più a lui, tanto vicino da rendermi conto che i suoi occhi, in realtà, non erano proprio azzurri. Sembravano quasi verde acqua, a quella distanza. Lo trassi verso di me e, per la prima volta, diedi un bacio sulle labbra. Il mio primo bacio. Sì, insomma, il mio primo vero bacio. Quello di poche ore prima era durato meno di cinque secondi, mentre questo fu molto più lungo e piacevole. Rimanemmo avvinghiati per alcune ore, solamente abbracciandoci, finché non fu mattino.

<< Credo che la nuova terapia stia funzionando >> furono le sue uniche parole, all'alba.

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** INFORMAZIONE ***


Per chiunque stesse leggendo questa storia! I capitoli successivi li trovate su wattpad. Basta cercare "Il mistero della casa" o Koira91, il mio nome utente. Grazie! ^^

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