Il mistero della casa di Koira (/viewuser.php?uid=761656)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Era davvero una bella villetta ... ***
Capitolo 2: *** La cosa più giusta ***
Capitolo 3: *** Dissociazione ***
Capitolo 4: *** Vuoti di memoria ***
Capitolo 5: *** Impotenza ***
Capitolo 6: *** Affiliazione ***
Capitolo 7: *** Let it be ***
Capitolo 8: *** Controversie ***
Capitolo 9: *** Zombie ***
Capitolo 10: *** Solo una possibilità ***
Capitolo 11: *** Preoccupazioni ***
Capitolo 12: *** Fraintendimenti ***
Capitolo 13: *** Presunzione di innocenza ***
Capitolo 14: *** La festa ***
Capitolo 15: *** Aldilà di un freddo vetro ***
Capitolo 16: *** Rivelazioni ***
Capitolo 17: *** INFORMAZIONE ***
Capitolo 1 *** Era davvero una bella villetta ... ***
Capitolo 1
Era davvero una bella villetta …
Era davvero una bella villetta. Sembrava quasi guardarmi dall’alto in basso, nella sua maestosa eleganza, facendo mostra del suo incantevole giardino, un paradiso terrestre, e dei suoi due piani. Dava l’impressione di squadrarmi dalla testa ai piedi, quasi a volermi rimproverare il solo fatto di stare lì, fermo in mezzo al traffico dell’ora di punta, ad osservarla ammaliato, “tu che sei un povero pezzente, tu che non potresti permettertela neanche lavorando una vita!”, sembrava esclamare. Eppure, non so perché, mi sentii attratto sin da subito da quella costruzione, che spiccava, come il sole fra le stelle, sullo sfondo di un quartiere residenziale in apparenza pacifico e accogliente. Ricordo che associai quell’immagine così incantevole a un telefilm che mia moglie seguiva sporadicamente in televisione, “Desperate Housewives”. Il suono di un clacson mi riportò bruscamente alla realtà. “Smetti di fantasticare”, mi dissi, “o farai tardi al lavoro”.
E ripresi a guidare, immergendomi nuovamente nel torpore di una squallida e grigia metropoli del Nord Italia. Imboccai l’autostrada e premetti più forte sull’acceleratore, quasi sentendomi in colpa per aver anche solo osato pensare di contattare i proprietari per chiedere maggiori informazioni sulla vendita. Si erano quasi fatte le otto e mezza quando parcheggiai l’automobile e presi l’ascensore, diretto mestamente alla mia postazione.
Avevo sempre detestato il mio lavoro. Sulla mia uniforme, di un arancione abbagliante, spiccava una targhetta con su scritto: “addetto alla nettezza urbana”. Insomma, uno spazzino. A dirla tutta, mi occupavo della pulizia di un ospedale, ma il mio superiore era stato così “gentile” da concedermi il lusso di continuare ad indossare un’uniforme vecchia e logora, risalente ai tempi in cui, ancora giovane e speranzoso, lavoravo part-time come netturbino per pagarmi gli studi all’università. Ormai sono passati quasi vent’anni da quel periodo, e non solo ho rinunciato definitivamente al sogno di diventare medico, ma sono talmente in rosso con i conti da non potermi permettere nemmeno una divisa nuova! Così, ancora oggi, a quaranta anni suonati, mi tocca essere inadeguato rispetto agli altri, mi tocca spiccare su tutti i miei colleghi per il colore della mia stupida divisa. Una croce, direi. E pensate che, a tutto questo, si aggiungono gli imbarazzanti commenti dei miei ex colleghi dell’università, tutti medici, ovviamente, tutti affermati dottori che hanno ricevuto in eredità patrimoni dai genitori ultraricchi, e anch’essi dottori.
«Buongiorno, Edoardo».
Mi voltai per rispondere e, con amarezza, scoprii che a parlare era stato Simone, un mio vecchio amico nonché coinquilino ai tempi di Medicina. Oramai per me era il “dottore Alberini”, ovviamente, e guai a dargli del tu.
«Buongiorno, Dottor Alberini» risposi con il tono più gentile che riuscii ad ottenere.
«Mi raccomando, dai una pulita alla stanza 2, stanotte abbiamo avuto un paziente con ematemesi».
Mi rivolse un sorrisetto, come a dire “vediamo se hai il coraggio di chiedermi cosa significa ematemesi”.
Io che ti ho passato, al tempo, il compito di Patologia Generale, brutto imbecille! Io che ero presente, forse l’hai dimenticato, al famoso esame di Anatomia in cui avesti il coraggio di prenderti, soddisfatto, il tuo bel 30 e lode, dopo aver esclamato che il cuore ha tre cavità! E ora tu fai il cardiologo, mentre io pulisco i pavimenti.
«D’accordo, ci vediamo» mi limitai a rispondere.
Presi scopa e spazzolone e mi diressi verso la stanza n° 2. Lungo il corridoio, incontrai un’altra vecchia conoscenza, più gradita.
«Edo! Come stai? » esclamò Marta.
«Tutto ok. Lei, dottoressa Ferrero? »
«Quante volte devo dirti di chiamarmi Marta! Tutto ok anch’io, se così si può dire dopo una notte di dieci ore! Finalmente si torna a casa! Melissa come sta? E tua moglie? »
«Mia moglie sta bene, Melissa un po’ meno. E’ un po’ agitata per la maturità …»
«Dille che andrà benissimo, è molto preparata! E dopo cosa pensa di fare? »
«Medicina», risposi fiero.
In fondo non avevo motivo di lamentarmi della mia vita, pensai in quel momento. E’vero che dovetti abbandonare gli studi per sposare mia moglie, rimasta incinta, ma da quella gravidanza così inaspettata e, devo ammetterlo, detestata, era nata la più grande gioia che io abbia mai avuto: mia figlia, Melissa. E, dopotutto, è stato meglio così: preferisco sacrificarmi affinché sia lei a laurearsi, regalando alla Medicina uno dei pochi dottori preparati. Il mio sogno è che diventi esattamente come Marta: un medico che passa più tempo a curare le persone che il proprio conto in banca, un medico che salva vite umane.
«Sicuramente supererà il test di ammissione! Sono molto contenta che abbia scelto questa strada, è come se fosse mia figlia» disse Marta con un filo di tristezza nella voce. Purtroppo non poteva avere bambini: all’età di ventidue anni le era stato diagnosticato un carcinoma uterino, che aveva costretto i medici a un’isterectomia totale.
«Anche per lei vale la stessa cosa, è come se tu fossi la sua seconda madre» le dissi per rincuorarla.
«D’accordo, io vado a cambiarmi e torno a casa, si è fatto tardi. Ah, mi raccomando il signor Claudio alla stanza 2. Stanotte ha perso molto sangue, mi farebbe piacere se tenessi sotto controllo eritrociti ed emoglobina per me. Oggi è di turno Simone …» concluse con tono quanto mai eloquente.
«Ho visto. Cercherò di monitorare gli esami e, in caso di problemi, ho il tuo numero» risposi io con tono altrettanto eloquente.
La salutai, presi lo spazzolone e cominciai a pulire il pavimento. Avevo sempre apprezzato la spontaneità di quella donna, il fatto che chiamasse per nome i pazienti e si affezionasse a tutti, anche ai meno “simpatici”, in egual misura.
Dopo otto interminabili ore di lavoro, finalmente ero di nuovo in automobile, stavolta più felice, perché la destinazione era casa. Erano quasi le cinque di pomeriggio, e a quell’ora Melissa usciva da scuola. Presi la solita scorciatoia per non farla aspettare troppo tempo da sola e giunsi davanti al cortile dell’edificio.
«E’ da tanto che aspetti? » chiesi a mia figlia mentre saliva in auto.
«No, sono appena uscita» rispose.
Ma sapevo che non era così.
«Sai, se mi regalassi una macchina, potresti evitarti ogni giorno tutto questo tragitto» aggiunse poi, accendendo la radio.
«Non è un peso, lo faccio con piacere» ribattei io, maliziosamente.
Sapevo dove voleva arrivare. Era dal giorno dei suoi diciotto anni che continuava a chiedermi un’automobile, ma io ero assolutamente contrario. Nonostante avesse la patente, e fosse un’attenta guidatrice, temevo che potesse avere qualche incidente.
«Ti faccio vedere una cosa» esclamai, quasi senza accorgermene.
Feci un’inversione a U, subendo i suoi – giustissimi- rimproveri ( “e non fai guidare me!”), e la condussi a vedere la villetta che tanto mi aveva affascinato. La vista di quel maestoso edificio non la colpì come immaginavo.
«E’inquietante» si limitò a proferire.
«Se solo potessimo permettercela … è grande tre volte la nostra, ed è in periferia! Qui l’aria è pulita, la sera si può uscire senza timore, tutti si conoscono …» dissi.
«A me piace la nostra casa» esclamò Melissa.
Deluso, imboccai l’autostrada, senza comprendere il disappunto di mia figlia. Decisi di farla guidare per un certo tratto, e andò abbastanza bene. L’unico problema fu il bilancino al semaforo, dove rischiammo di capitombolare addosso alla macchina dietro di noi. Dopo pochi minuti, arrivammo finalmente a casa. Non si poteva dire che fosse un brutto appartamento, anzi era abbastanza accogliente, però fin troppo piccolo per quattro persone: io e Elena avevamo per camera da letto una sottospecie di sgabuzzino, e Melissa e Davide erano costretti a condividere la stanza, e, cosa ancora più grave, un solo bagno! Davide era ancora piccolo, poco più che un bambino al tempo: aveva solo tredici anni, e nulla a che vedere con sua sorella, e non solo fisicamente. Era molto più alto dei suoi coetanei, snello, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, la fotocopia esatta della madre. Giocava a basket quasi da professionista, e, come molti atleti, non andava d’accordo con i libri: studiava poco e di rado. Lo dicevo sempre a mia moglie, “se solo avesse un quarto dell’intelligenza di Melissa …”, e lei mi rimproverava, rivolgendomi sempre le stesse parole: “così non lo inciti di certo a studiare! Poverino, ha pure la squadra …”.
La “squadra” per lei era prioritaria: sognava che Davide diventasse un giocatore di basket professionista, lei che sin da piccola era stata un’ottima pallavolista, lei che aspirava a vincere i campionati europei, al tempo, prima di scoprire che qualcosa stava già nascendo dentro di lei, in assoluta indipendenza e autonomia. Del resto anch’io, fin da quando era piccina, ho trattato Melissa quasi come un’estensione di me, infondendole la passione per la medicina. Siamo un po’ tutti così noi genitori: cerchiamo di vivere una seconda volta nei nostri figli, speriamo che, almeno loro, riescano a realizzare sogni per noi ormai lontani. Quanto aveva ragione Sullivan con il suo modello.
Come Davide era l’esatta copia della madre, così Melissa sembrava essere, più che mia figlia, una novella Atena nata dal mio capo, vista la somiglianza estrema. Come me, aveva i capelli castani, gli occhi neri e la carnagione scura, a testimonianza delle nostre origini meridionali. Calabresi, per precisione. E, come ormai avrete capito, era un piccolo genio: tutti nove a scuola, borsa di studio per l’università, grandi aspirazioni. Insomma, la mia “pupilla”. Nutrivo grandi speranze sul suo futuro, ed ero certo che non mi avrebbe deluso.
Non appena aprimmo la porta di casa, un odorino invitante pervase le nostre narici: Elena stava cucinando. Da quando era stata costretta ad appendere a un chiodo i suoi sogni di diciottenne era diventata la casalinga perfetta, o meglio, la perfetta donna di casa: sempre lì a cucinare, pulire e riordinare il macello che noi tre vagabondi combinavamo. Chi l’avrebbe mai detto, vent’anni fa, che noi due saremmo finiti così: lei che non sapeva neanche come si usa una scopa, io ancora più pigro, preso solo dai miei progetti e dalle mie aspirazioni di carriera. La vita a volte ti riserva veramente cose che mai penseresti … Eppure non è cambiata di una virgola, in fondo è sempre la stessa guerriera: basta vedere come si infervora quando guarda la politica in televisione! Per non parlare delle scenate che fa in quelle poche, rarissime occasioni in cui Melissa si concede di uscire con le amiche la sera, e rientra anche solo cinque minuti oltre il coprifuoco.
«Cosa cucini di buono, mamma? » chiese Melissa, avvicinandosi ai fornelli.
«Lasagne al forno, oggi è un giorno speciale» rispose Elena senza distogliere lo sguardo dalla sua pietanza.
Terminò di cospargere l’ultimo strato di lasagne con besciamella e formaggio, aggiunse del sugo e pose il tutto nel forno.
«Amore, come è andata oggi a scuola? » chiese quindi a Melissa, baciandole dolcemente una guancia.
«Bene, finalmente la prof di italiano si è decisa a spiegare Montale. Meglio tardi che mai, considerando che siamo già a metà Maggio! Cosa si festeggia? » domandò a sua volta mia figlia, incuriosita.
«Ve ne parlerò stasera a tavola, voglio che ci sia anche Davide» si limitò a rispondere mia moglie, ermetica.
«E a me non chiedi come è andata la giornata, Mata Hari? » mi intromisi io, baciando calorosamente Elena sulla bocca.
«Che spiritoso … come è andata la tua giornata, Edo? » chiese mia moglie, scandendo ogni singola parola, fingendosi infastidita.
«Benissimo, forse un po’ faticosa … ho avuto due interventi impegnativi, una colecistectomia e una tiroidectomia … » risposi io, con aria di importanza.
«Bravo il mio maritino, allora. Ti sei meritato le lasagne» disse lei.
Preso dalla conversazione, non notai che, nel frattempo, Melissa era sgattaiolata, astuta come una volpe, verso il bagno - l’unico bagno! - e si era chiusa a chiave. Neanche il tempo di bussare che già aveva acceso lo stereo a tutto volume e si era persino messa a cantare a squarciagola.
«Colpito e affondato» esclamai, adagiandomi sul divano e accendendo la televisione.
A quell’ora la scelta era quasi obbligata: cartoni animati. L’alternativa era una trasmissione strappalacrime, una di quelle ipocrite trasmissioni del pomeriggio, e non mi allettava per nulla.
«Finisce ogni giorno così da quando ha imparato a camminare» disse mia moglie, sfoggiando uno dei suoi splendidi sorrisi.
Sapevamo entrambi che Melissa si sarebbe infilata in bagno, approfittando della mia distrazione, lo faceva sempre, tuttavia non mi infastidiva. Mi faceva piacere che pensasse di essere più astuta del padre, anche se penso che sapesse che le cedevo di proposito la doccia, era troppo intelligente per non sospettarlo almeno. Ma dopotutto le faceva comodo.
«Non importa, aspetterò che finisca» asserii.
«Preparati ad almeno un’ora di zapping, allora» concluse mia moglie, riprendendo a cucinare.
Sdraiato sul divano, con la coda dell’occhio guardavo lei che, nel frattempo, aveva iniziato a preparare la nostra torta preferita, la Sacher.
Sembrerà pazzesco, ma adoriamo a tal punto quel dolce da averlo scelto, suscitando a suo tempo il disappunto dei miei genitori, come torta di nozze. Ricordo che alla fine giungemmo a un compromesso: la Sacher nel nostro tavolo, solo per noi due, e la più classica torta panna e nocciola a più piani per gli invitati. Sul televisore spicca ancora la foto che ci scattarono in quel fantastico giorno: lei bellissima, io sempre fuori posto. Tra di noi, Melissa, nel pancione di Elena. Di lì a poco sarebbe nata, proprio durante il viaggio di nozze. Eravamo a Londra, prima tappa di un viaggio che avrebbe dovuto toccare le principali capitali europee. Chi si aspettava che Melissa avrebbe deciso di venire al mondo con così tanto anticipo, da settimina? D’altronde, è sempre stata più matura delle sue coetanee, più matura forse anche di me. Quel lontano giorno di Gennaio di diciotto anni fa fummo costretti ad andare all’ospedale in taxi, mentre io con una mano accarezzavo mia moglie e con l’altra gesticolavo per far capire all’autista dove volevamo andare, come se non fosse evidente.
Due folli, col senno di oggi, ad andare a Londra senza sapere nemmeno una parola di inglese. Eppure ce la facemmo, e oggi siamo ancora qui a parlarne e a ricordarcene, con un pizzico di nostalgia.
«Papà, il bagno è libero» esclamò Melissa, catapultandomi nella realtà.
«Di già, è passata solo un’ora e mezza! Mi stupisci di giorno in giorno» dissi io sarcasticamente.
«Dovresti ringraziarmi, sai che avrei potuto metterci più tempo» aggiunse lei, ridacchiando di gusto.
Mi affrettai ad entrare in bagno e a chiudermi a chiave: a breve sarebbe arrivato Davide dagli allenamenti. Si erano già fatte le sei e mezza. Mi concessi un lungo e meritato bagno rilassante. Mentre mi asciugavo i capelli, sentii Davide che urlava, probabilmente contrariato per aver trovato la porta chiusa a chiave. Cercai di affrettarmi, e aprii la porta.
«Ehi papi, al solito Melissa è rimasta un’ora sotto la doccia, vero? Dovremmo costruire un altro bagno …» disse mio figlio.
«Lo so, Dado, non ricordarmelo» risposi io, ripensando ancora a quella splendida villetta di periferia.
«Oggi sono stato il migliore in campo» aggiunse Davide, soddisfatto.
«Bravissimo, sono fiero di te! E il compito di matematica a scuola? » chiesi.
«Il solito, papà. Difficilissimo! » rispose lui, indecifrabile.
«Se lo dici tu … tra mezz’ora penso sia pronto, tua madre ha una bella notizia da darci. Speriamo che non venga a trovarci tua nonna, come lo scorso mese …» esclamai, suscitando la sua risata.
Mi recai quindi in cucina, dove il tavolo era già apparecchiato e le lasagne quasi pronte. Elena aveva deciso di sfoggiare i piatti “buoni”, quelli dei giorni di festa, il che mi fece sospettare che la buona notizia non fosse un imminente arrivo della madre, mentre Melissa era in camera sua a studiare greco o chissachè. Aveva l’abitudine di ripetere ad alta voce, sin dai tempi delle elementari. Adagiai l’orecchio contro la porta della sua stanza, come facevo spesso, incuriosito. “ … e in quest’opera Pirandello evidenzia minuziosamente la sua visione della follia, ponendo l’accento sul binomio, che egli vede come imprescindibile, follia – diversità …”. Stava studiando l’“Enrico IV” di Pirandello, una delle mie opere preferite. All’epoca della maturità, la mia tesina riguardava proprio questo tema. Il titolo era “La follia o manifestazione del diverso”, lo ricordo molto bene.
«Melissa, è pronto! » sbraitò Elena dalla cucina.
«Arrivo, mamma! » urlò in risposta mia figlia, spalancando la porta della sua stanza.
«Papà, che ci fai qui impalato?! Ti facevi un po’ i fatti miei, come al solito? » esclamò poi.
«Ripassavo l’Enrico IV, ascoltando te che ripetevi … ti ho mai detto che …» iniziai.
«Lo so, lo so papà, me l’hai detto almeno trecento volte! “ai miei tempi, portai come tema la follia alla maturità”, eccetera eccetera …» mi interruppe lei, facendo una credibile imitazione della mia voce.
«Scusa, volevo solo aiutarti con la tesina! Tu hai già scelto un argomento? »
«Sì, “L’individuo e la società” … mi dispiace, l’ho già fatta rilegare …»
«Non preoccuparti, è un buon tema. Andiamo a cenare, chiama tuo fratello» conclusi, recandomi verso la sala pranzo.
«Dado, è pronto! Libera il bagno! » strepitò Melissa.
«Arrivo!» urlò Davide in tutta risposta.
Sul tavolo i piatti erano già colmi di cibo, ed Elena stava riempiendo i bicchieri d’acqua. Nella nostra famiglia gli alcolici erano un tabù, specie a pranzo e cena. Melissa ovviamente era astemia, oltre che vegana, mentre io e Davide rispettavamo scrupolosamente la volontà di mia moglie, che avevamo scherzosamente soprannominato “la madre fondatrice”, con evidente riferimento ai padri fondatori e al loro squilibrato proibizionismo. Sapevamo bene che questa sua apparentemente folle volontà era giustificata da un brutto evento capitatole quando era solo una bambina: i genitori di Elena erano morti entrambi in un incidente d’auto provocato da un ragazzo, all’epoca poco più che ventenne, che guidava ubriaco. Erano più o meno le sei del mattino: Melissa e Davide – si chiamavano così – rientravano da una vacanza con la figlia, mia moglie, allora undicenne, mentre il giovane si ritirava dalla discoteca. Alla polizia disse di aver bevuto solo due birre, niente di più, due maledette birre che avevano causato la morte di due persone, due innocenti che per caso si trovavano nel posto sbagliato. Al momento sbagliato. Dopo lo sciagurato incidente, al ragazzo, in evidente stato di shock, furono chieste le referenze.
“Come si chiama? Ragazzo, qual è il suo nome?”
La vista era debole, sfuocata, i sensi assopiti.
A distanza, una macchia blu poco chiara, forse un’auto. Sì, era decisamente una berlina. O almeno così sembrava …
“Come? … Il mio nome? Ma cosa ho combinato, che cavolo ho fatto? Come stanno quelli sulla berlina? Sono ancora vivi?”
“ Ci sta pensando un mio collega in questo momento. Lei come si chiama? Ha bevuto qualcosa? Ha abusato di qualche sostanza?”
“Bevuto? … No, solo due birre ... e non mi sono fatto di niente …”
“Ho capito … mi vuole dire come si chiama?”
“Francesco … Di Giorgio. Come stanno le persone sulla berlina?”
“Ha detto “Di Giorgio”?” .
Silenzio.
“E i suoi genitori? Dove sono?”
“In Calabria, in vacanza … ma questo cosa centra adesso?”
“Ha un recapito? Un numero di telefono da poter chiamare per parlarci?”
Il carabiniere era fin troppo insistente. Qualcosa non andava.
“Ho il numero di mia nonna. Signore, cosa sta succedendo?”
Il carabiniere iniziava a sudare vistosamente … la vista accennava a tornare. A venti metri, un’auto, o quello che ne rimaneva dopo la tremenda collisione. Qualcosa non andava …
“Non succede nulla, devo contattare i suoi genitori. Procedura standard”
Lo sguardo di nuovo puntato sull’auto, insistente. Quella vettura aveva qualcosa di familiare … i suoi genitori ne avevano una simile. Non è possibile, non è la loro auto, sono in Calabria … Sul parabrezza un adesivo di Winnie the Pooh …
“Cosa è successo alle persone sull’auto”
Il respiro mozzato, la testa sembrava sul punto di esplodere. Non può essere, esistono migliaia di macchine come quella e centinaia di migliaia di adesivi come quelli …
Il carabiniere stava esitando troppo …
“Sta’ calmo, ragazzo … Francesco, su quell’auto c’erano i tuoi genitori e tua sorella, mi dispiace tantissimo …”
C’erano? … non è possibile, non è vero …
“Come stanno, sono vivi? Elena? …”
“Elena sta bene, era nel sedile posteriore … non ha riportato gravi ferite, solo contusioni …”
“Mamma e papà?”
“Francesco, siediti. Fatti coraggio … non ce l’hanno fatta … mi dispiace tantissimo”
“Non è vero … non è vero! ...”
E’ un sogno, è soltanto un brutto incubo, un bruttissimo incubo … Ho bevuto troppo, adesso mi sveglio e scopro che è stato tutto un incubo … mamma e papà sono ancora vivi, sono giù in Calabria … Se questo non è un sogno, se non sto dormendo, voglio morire, per favore uccidetemi … uccidetemi …
Non era un sogno: Francesco aveva provocato la morte dei suoi genitori. Da quel giorno, non fu più in grado di riprendersi. Andò in terapia per qualche mese, tentò di farcela per Elena, ma non ci riuscì. All’età di soli vent’anni, dopo aver lasciato la sorella a scuola, si suicidò con i gas di scarico della sua automobile, che divenne così anche per lui foriera di morte. Sul parabrezza, un adesivo di Winnie the Pooh e un foglietto con su scritto: “Perdonami, io non sono riuscito a farlo”.
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Capitolo 2 *** La cosa più giusta ***
La cosa più giusta
Capitolo 2
La cosa più
giusta
«Allora, qual era la tanto misteriosa
sorpresa che non vedevi l’ora di dirci?» esordì Davide a un tratto, senza
preavviso.
Eravamo tutti sazi e assopiti dopo la cena
“speciale” di Elena a base di lasagne e pollo arrosto (insalata per Melissa), e
c’era quasi sfuggito lo scopo di quel lauto banchetto: mia moglie aveva una
sorpresa da svelarci. L’aria divenne improvvisamente carica di tensione: ognuno
di noi sperava in qualcosa di diverso. Nella mente di Davide, speranzosa,
baluginava l’immagine di una vincita alla lotteria di qualche milione di euro,
mentre Melissa sperava nella comunicazione dell’imminente adozione di un
cucciolo, magari un piccolo yorkshire. Per quel che mi riguarda, tra le due
aspettative optavo decisamente per quella di mio figlio. Correndo il rischio di passare per un venale,
un materialista, prevedevo che a Settembre Melissa avrebbe iniziato il primo
anno a Medicina, e – lo sapete – lo studio ha un suo bel prezzo: costano i
libri, costa l’iscrizione all’università, costa la retta annuale. Chi, quale
genitore avrebbe avuto il coraggio di negare l’apprendimento a un figlio così
dotato? Io no di certo.
«Giusto, me n’ero quasi dimenticata!» esclamò
Elena, appoggiando il vassoio con il dolce sul tavolo.
«Stamattina ha chiamato Riccardo».
«Che fantastica notizia!» sbottai io, non
riuscendo a frenare il disappunto.
Riccardo era l’ex fidanzato di mia moglie, il
classico bulletto tutto sport niente studio. Non fraintendetemi, era ben
diverso da mio figlio Davide: era un totale imbecille. Lui ed Elena stavano insieme
ai tempi del liceo: quarto e quinto ginnasio, precisamente. Riccardo era il
migliore amico del fratello, e, nonostante la differenza di età, aveva sin da
subito adocchiato mia moglie dopo la morte di Francesco. Con la scusa di
volerla consolare, non aveva fatto altro che avvicinarsi a lei, come
un’anguilla, a poco a poco, approfittando della sua sofferenza. La loro storia
durò a malapena due anni, fino al giorno in cui Elena lo trovò a letto con la sua
migliore amica, e decise finalmente di lasciarlo. Non riuscivo a capacitarmi
del fatto che lo avesse perdonato, decidendo di mantenere un’amicizia, e che
ancora giudicasse “una bella notizia” ricevere una sua telefonata. Attribuivo
questa sua decisione, in apparenza assurda, alla volontà di non “tradire” in
qualche modo il fratello morto, allontanandosi da quello che era stato il suo
migliore amico.
«Scusa, continua» aggiunsi poi, sentendomi un
idiota.
Melissa e Davide ascoltavano rimanendo
educatamente in silenzio, ma scambiandosi degli sguardi perplessi.
«Stavo dicendo … Riccardo mi ha chiamata, stamattina. Voleva dirmi
che un suo amico ha deciso di affittare una villetta in periferia, poco
distante dalla palestra di Davide. E’ una casa su due piani, con un grande
giardino» proseguì Elena.
Un pizzico di speranza pervase tutto il mio
corpo: la villetta di quella mattina, il paradiso terrestre …
«E questa sarebbe la bella notizia? L’ho
vista stamattina, a giudicare dalle dimensioni non è proprio alla nostra portata
… e poi, se non sbaglio, quella villetta è in vendita» la interruppi,
leggermente innervosito.
«Lasciami finire, Edo … come dicevo, il
proprietario è un suo amico, e ha deciso all’ultimo momento di non venderla.
Pare sia troppo carica di ricordi della madre, defunta da poco … ha detto che
può farci uno sconto … 590» concluse.
«590 euro?» chiesi, sgomento. « … al mese?».
«No, al giorno!» esclamò Elena, sarcastica. «Certo
che al mese, che domande fai?».
«Non ci credo, c’è qualcosa dietro … una
villa così grande, almeno centocinquanta metri quadrati … nessuno sarebbe così
folle da affittarla per così poco, in questa città …» sostenni.
La verità era che non mi andava di dovere un
favore a Riccardo.
«Ti ho detto che il proprietario è un amico
di Riccardo, per questo costa così poco! E poi pare che abbia fretta di
affittare la casa, perché si sta per trasferire in un’altra città …» aggiunse
Elena, spazientita.
«Ma perché avete tutta questa volontà di
trasferirvi? Questa casa va benissimo, non ha niente che non vada!» intervenne
Melissa, quasi urlando.
Tutto ad un tratto si era alterata.
«Ha ragione tua figlia, questa casa va bene»
dissi io, affermando esattamente il contrario di quello che pensavo.
Quella casa mi piaceva veramente tanto.
«E tu che centri, papà! Non fingere di essere
d’accordo con me solo perché detesti Riccardo, fino a poche ore fa sognavi di
affittare quella casa! Mi hai persino portata a vederla!» sbottò Melissa.
Era vero. Mia figlia aveva pienamente
ragione, per quanto mi costasse ammetterlo: adoravo quella casa.
«Io … be’, mi sarà permesso di cambiare idea
o no?» dissi, arrampicandomi maldestramente sugli specchi.
«Se è questo che vuoi …» concluse Elena.
Prese un coltello e tagliò la torta,
distribuendone una fetta a tutti, me incluso. La cena terminò nel più avvilente
silenzio: nessuno ebbe più il coraggio di proferire alcuna parola. Verso le
nove, mia moglie sgombrò la tavola, aiutata da Melissa, e si mise a lavare i
piatti. Davide si lasciò cadere sul divano, guardando la televisione, e ben
presto fu raggiunto dalla sorella. Iniziò una lotta all’ultimo respiro fra i
due per il dominio del telecomando: Melissa voleva seguire il suo telefilm
preferito, mentre mio figlio aveva iniziato a vedere un film thriller, uno di
quelli tutto sparatorie niente trama. Lasciando la prole a contendersi
l’egemonia del televisore, decisi di andare subito a dormire: l’indomani loro
sarebbero rimasti a casa, ma io mi sarei dovuto svegliare alle sei per andare a
lavoro, dove non esistono sabato liberi. Adagiandomi sul letto, rimuginai sulla
serata: era stata un completo fallimento, e tutto per colpa mia, per colpa del
mio stupidissimo orgoglio maschile. Potevo veramente rinunciare a una così
stupenda villa, per giunta ad un prezzo così basso, solo perché a procurarcela
era stato Riccardo?
No, mi dissi. Mi venne in mente il testo di
una canzone che Melissa cantava spesso:
“… l’orgoglio
in amore è un limite che sazia solo per un istante e poi torna la fame …”.
Nina Zilli aveva ragione: l’orgoglio in amore è un limite. Non
potevo proprio permettermi di rovinare il rapporto con mia moglie e rinunciare
a quella fantastica casa solo per orgoglio! Mi alzai di scatto dal letto e
corsi in cucina: Elena stava ancora lavando i piatti. Intravidi la sua
espressione, un’espressione triste e amareggiata, e mi sentii ancora più in
colpa, ancora più stupido di prima. Melissa e Davide stavano litigando, e
iniziai a temere che i vicini chiamassero la polizia lamentando un disturbo
alla quiete pubblica. Lentamente e silenziosamente, mi avvicinai a mia moglie e
la cinsi con le braccia, facendola sussultare.
«Edo, sei tu! Hai messo a dura prova le mie
coronarie!».
«Scusami … e non solo per adesso. Sono stato
un vero idiota stasera dissi.
«Infatti, sei stato un imperdonabile
deficiente stasera» aggiunse lei, non riuscendo però a nascondere un sorrisino
soddisfatto.
«Un deficiente, un idiota, tutto quello che
vuoi … hai pienamente ragione ad avercela con me. Ti volevo dire che per la
casa va bene».
Non ho mai saputo scusarmi in vita mia.
«Va bene cosa?» insistette Elena.
Era chiaro che da me pretendeva qualcosa di
più. E dopotutto, ne aveva pienamente diritto.
«Va bene, possiamo andarla a vedere domani,
se il proprietario è disponibile. Domani pomeriggio dopo le due, però, perché
fino a quell’ora sono al lavoro» aggiunsi io, esitante.
Ma perché è così difficile scusarsi? Nei film
lo fanno sempre con effetto, usando paroloni, e il perdono è assicurato.
«Possono venire anche Davide e Melissa, è
giusto che piaccia anche a loro. Quindi tu l’hai già vista?» chiese mia moglie.
«Sì» risposi.
«E’ bellissima» aggiunsi, laconico.
«Sei veramente incredibile» esclamò lei,
baciandomi teneramente su una guancia.
«Visto che questa è la serata delle
rivelazioni» seguitò. « Ho preparato una fantastica cena per due motivi … ho …
ho deciso di tornare a lavorare».
Silenzio.
«Hai capito, Edo?».
Devo ammettere che quella notizia non mi fece
fare i salti di gioia, anzi, tutt’altro, però mi sentivo ancora troppo in colpa
per iniziare un’altra discussione.
«Sono contento» dissi semplicemente.
« Non vuoi neanche sapere di che si tratta?»
esclamò.
«Certo, amore! … di che si tratta?» chiesi in
fretta.
«Complimenti per la spontaneità! Comunque … Alla
palestra di Davide cercano un’istruttrice di pallavolo, e io ho deciso di fare
domanda. Inizio lunedì. Pensavo fosse giusto fartelo
sapere» proseguì.
«Hai fatto benissimo, Elena … anche se avrei
preferito che non ti sforzassi, fa sempre comodo uno stipendio in più, specie
in vista dell’università di Melissa» affermai.
«Sono contenta che ti faccia piacere … mi
impegnerà solo tre volte a settimana, se accettano la mia domanda» aggiunse
poi, quasi scusandosi.
«Non preoccuparti, l’importante è che sia
quello che vuoi» dissi. Ma
dovrai fare i conti con tuo figlio, temo».
«Lo so, ma non diciamogli niente prima di
lunedì, è meglio» si affrettò a dire Elena, preoccupata.
Dopo aver stipulato l’”armistizio”, mano
nella mano, ci recammo in salotto, dove Melissa e Davide, finalmente, avevano
smesso di litigare. Come al solito, aveva avuto la meglio mia figlia, e Davide,
ferito nell’orgoglio, era intento a mandare sms, probabilmente al suo amico di
sempre Giovanni, il figlio di Riccardo.
«Noi andiamo a letto» esordii a voce un po’
troppo alta, guadagnandomi un’occhiata indispettita di Melissa.
«Buonanotte» si limitò a dire, quasi temendo
di perdere una sillaba del telefilm che si era riuscita a guadagnare con tanta
fatica.
«Comunque, se vi interessa, domani pomeriggio
andiamo tutti a vedere la casa» scandì Elena, forse sperando di suscitare un
coro di “evviva!” che non arrivò.
«E come al solito in questa casa la mia
opinione non conta nulla» si limitò a dire Melissa.
Delusi, ci recammo in camera da letto e,
entro poco tempo, dormivamo entrambi come ghiri.
La mattina seguente fu un’impresa svegliarsi,
con tutta la casa in silenzio, assopita. Davide si era addormentato sul divano:
sembrava così piccolo, così innocente, disteso su quel sofà. Presi una coperta
e gliela gettai sulle spalle: eravamo a Maggio, ma faceva ancora freddo. Bevvi
il mio solito caffè in cucina, facendo attenzione a non svegliare nessuno, e
uscii, diretto al lavoro. Passando davanti alla villetta non potei fare a meno
di sorridere: “adesso chi è il pezzente?”, pensai. Premetti l’acceleratore e, nel
giro di dieci minuti, raggiunsi l’ospedale. La mattinata trascorse serena,
sostenuto dal compiacimento per il potenziale realizzarsi del mio sogno sulla
casa, e riuscii addirittura a mettere in imbarazzo Simone – pardon, il dottor Alberini – davanti ad un
paziente. Accorgendomi che stava dimettendo un anziano, a suo dire “guarito”,
con tre milioni e mezzo di globuli rossi e sette di emoglobina, non riuscii a
trattenermi dall’intervenire.
«Ma dottor Alberini, ha visto gli esami
ematochimici del paziente?» chiesi.
Nel frattempo, l’anziano, nonostante fosse
visibilmente sofferente, spostava lo sguardo fra me e Simone, turbato, quasi
chiedendosi chi dei due fosse il medico.
«Sì, quelli di ieri sera. E’ tutto a posto».
«No, quelli di stamattina, quelli che ha chiesto
personalmente la dottoressa Ferrero» continuai.
«Non ce n’è bisogno, non andavano fatti, l’ho
detto benissimo anche a Marta. In questi tempi di spending review dovremmo
evitare certe cose … e comunque a te non devo dire nulla, torna a pulire i pavimenti».
A quel punto, non riuscii proprio a
trattenermi. Se l’era cercato, in fondo.
«Dottore, il paziente ha pochi globuli rossi,
e anche l’emoglobina è bassa. Potrebbe avere un’emorragia interna, il che è
plausibile, considerando che fa TAO» esclamai, cercando di mantenere un tono di
voce piatto, per quanto la situazione non lo consentisse affatto. Il paziente
andava prontamente trasfuso. Fu provvidenziale il passaggio in corridoio di
Marta, che, resasi conto della gravità della situazione semplicemente dal
pallore dell’anziano, chiamò subito un infermiere e ricondusse il paziente in
reparto.
«Complimenti, Simone» si premurò di
aggiungere, prima di allontanarsi verso l’unità operativa di Medicina Interna.
Da parte sua Simone, visibilmente
imbarazzato, quasi più pallido del paziente, non proferì parola.
Incredibilmente, iniziai a provare pena per quell’uomo: in fondo, sembrava
sinceramente angosciato per le sorti dell’anziano, che peraltro era stato
affidato a lui. O forse era più preoccupato di come l’avrebbe presa il primario
alla notizia che uno dei suoi migliori medici aveva rischiato di uccidere un
paziente, chissà.
Erano quasi le due e un quarto quando timbrai
per uscire. Per fortuna, l’anziano era riuscito a salvarsi, grazie
all’intervento di Marta. Eccitato per l’imminente incontro con il proprietario
della villetta, chiamai mia moglie per avere conferma sull’orario e sulla sua
disponibilità. Loro erano già lì, mi disse, “aspettiamo solo te”. Mi misi in
macchina e cercai di fare il più in fretta possibile, per non far aspettare
troppo il proprietario e la mia famiglia. Arrivato a destinazione in soli
cinque minuti, parcheggiai l’auto nel garage della villetta: il padrone fu così
gentile da aprirmi il cancello e farmi entrare con la vettura. Entrando, ebbi
la stranissima impressione di essere osservato. Non ci feci caso, forse
distratto dallo sguardo fin troppo interessato che un ragazzo, affacciato sul
balcone della casa accanto, rivolgeva a mia figlia, che non si era accorta di
nulla. Prendere a pugni il tuo potenziale
vicino non ti aiuterà a fare buona impressione sul proprietario, mi dissi.
Scesi quindi dalla macchina e raggiunsi la mia famiglia.
«Buon pomeriggio, signor Martini» esclamò il
proprietario. Vicino a lui c’era Riccardo, sorridente, che mi fece un cenno con
la mano.
«Buon pomeriggio, signor …» dissi io.
« … Ruffini» concluse lui.
«Molto lieto, signor Ruffini».
«Il piacere è tutto mio! Volete vedere la
casa?» chiese il proprietario.
«E ce lo chiede pure» esclamò mia moglie.
Seguendo il signor Ruffini, finalmente
entrammo in quella villetta che fino a quella stessa mattina mi sembrava quasi
un’allucinazione. Superato il giardino si giungeva a un portico finemente
adornato, oltre il quale era collocata la porta di ingresso, ovviamente
corazzata, che immetteva in un lungo corridoio. Mia moglie fu immediatamente
colpita dalla bellezza dei pavimenti, in marmo. Il corridoio, lungo qualche
metro, terminava con un arco che introduceva nella cucina. E che cucina,
pensai. Quattro volte la nostra. I soli mobili valevano più della nostra casa
di allora. Erano pezzi d’antiquariato, risalenti ad almeno un secolo prima. A
destra della cucina c’era un piccolo bagno, provvisto di una doccia che catturò
l’attenzione di mia figlia. “E’ due volte la nostra, e questo è il bagno
piccolo!”, esclamò. Tornando indietro lungo il corridoio c’era un secondo
bagno, seguito dal salotto, un vero capolavoro di interni. C’erano poi la “sala
studio”, o almeno così la definì il proprietario, e due rampe di scale, una
diretta ai piani superiori, l’altra ad una cantina che avremmo potuto
utilizzare come deposito. Salendo al piano di sopra, ai lati di un secondo,
lungo corridoio c’erano tre ampie stanze e un terzo bagno. Un sogno ad occhi
aperti. Melissa si precipitò ad occupare la più grande fra le due camere
destinate ai “bambini”, che malauguratamente si affacciava sul balcone
dell’irritante ragazzo della casa accanto, e a Davide non rimase che accettare
l’ennesima sconfitta. Visitata la villetta, il proprietario ci invitò a
percorrere il giardino, colmo di alberi con frutti rigogliosi e provvisto
persino di una piscina (fin troppo, mi dissi, per soli 590 euro mensili), e fu
così gentile da insegnarmi ad aprire cancello e garage. Al termine della
visita, eravamo tutti soddisfatti: incredibilmente, anche Melissa sembrava aver
messo da parte la sua ritrosia iniziale, e sospettavo che, a parte i tre bagni
e la camera singola, centrasse qualcosa l’ambiguo vicino, che anche lei aveva
iniziato a scrutare con una certa insistenza. Nessuno aveva intenzione di
rifiutare la proposta del proprietario, e, quando ci chiese cosa avevamo
deciso, firmai quel contratto, convinto di fare la cosa più giusta che potessi
fare.
O almeno così pensavo.
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Capitolo 3 *** Dissociazione ***
Capitolo
3
Dissociazione
«Le
case non uccidono le persone. Le persone uccidono le persone».
Mi svegliai di
colpo, impaurita.
Era solo un sogno.
Colpa del mio
fantastico fratello minore, che
la sera prima aveva insistito a portarmi al cinema a vedere Amityville Horror. Grazie a lui, quella
notte non avevo fatto altro che sognare omicidi e pozze di sangue che
avevano
come scenario la nostra nuova casa. Come se non bastasse, dopo il
cinema
eravamo andati a cenare in pizzeria, dove avevo nuovamente incontrato
quello
strano ragazzo che mi spiava ormai da mesi e che, guarda caso, sarebbe
stato
presto il mio nuovo vicino. Un tipo molto singolare: alto, moro e con
gli occhi
azzurri. Un gran figo, penserete. E in effetti lo era, salvo
quell’aura di
eccentricità che si portava dietro. Stava sempre da solo, e
devo ammettere che
un po’ mi faceva pena. Eppure, non riuscivo a non esserne
inquietata …
«Sorella,
io sto per chiudermi a chiave in
bagno».
Le parole di Davide
mi catapultarono nella
realtà. Caspita, se lui era sveglio doveva essere davvero
tardi.
Guardai la sveglia
sul comodino: le undici e
trenta. Dovevamo sbrigarci: a breve sarebbero tornati mamma e
papà a prendere
la nostra roba.
«E’
tardissimo, spero che almeno abbia
preparato la tua valigia!» gli dissi, agitata.
«Guarda
che io è già da un po’ che sono in
piedi, e grazie a te e ai tuoi stupidi incubi. Non hai fatto che
strillare
stanotte» esclamò Davide, irritato.
«Vorrà
dire che la prossima volta sceglierò
io cosa vedere al cinema!» controbattei io, prontamente.
Presi
l’accappatoio e, approfittando della
sua distrazione, mi intrufolai in bagno. Neanche il tempo di chiudere a
chiave,
che da dietro la porta risuonarono le sue urla contrariate.
«Non
è possibile, sono ore che sono
sveglio!».
«Ti
saresti dovuto fare la doccia ore fa,
allora» ribattei.
Circa trenta minuti
dopo, liberai il bagno.
«E’
tutto per te, fratellino» dissi,
ridacchiando.
Davide, senza
nemmeno guardarmi in faccia,
prese una tovaglia e si infilò sotto la doccia.
Mentre lui si
sciacquava, mi misi a riempire
un po’ di scatoloni, temendo le urla dei miei genitori.
Alle 12.30, mio
padre suonò il campanello e
caricò sull’auto tutti gli scatoloni e due
valigie.
«Vi
dispiace portare voi quello che resta? La
nostra nuova vicina – una signora molto simpatica –
è stata così gentile da
offrirci il suo aiuto con il trasloco, e tra mezzora sarà
qui a prendervi con
la sua auto» disse mio padre.
«Simpatica
significa bella nel tuo
vocabolario?» chiesi io, maliziosamente.
«Bella
come può esserlo una signora di ben
ottantuno anni» rispose.
«Si chiama
Dorotea, comunque … vive nella
villetta accanto alla nostra con suo nipote, un ragazzo un tantino
strano»
aggiunse eloquentemente.
«Per te
ogni ragazzo tranne Davide è strano»
dissi.
Ero troppo
orgogliosa per specificare che
aveva ragione. Quel tipo era veramente strano. Se solo mio padre avesse
saputo
che era da un paio di mesi che mi gironzolava intorno, non solo avrebbe
evitato
di affittare quella casa, ma addirittura ci saremmo come minimo
trasferiti su un
altro pianeta.
Tipica
iperprotezione meridionale.
I trenta minuti
successivi furono allo stesso
tempo i più brevi e i più lunghi della mia vita.
Passai tutto il
tempo a contemplare la mia
piccola casetta, che di lì a poco avrei abbandonato. Le mura
della mia stanza
scarabocchiate nei miei moti di follia, i calci di Davide negli angoli
quando
perdeva a basket. In un angolo, una foto di mio padre da giovane: era
proprio
un bel ragazzo. Occhi scuri, capelli castani. Non capivo
perché quella
fotografia fosse rimasta lì. Era davvero un peccato
lasciarla. La presi e me la
ficcai in borsa.
«Credo che
sia arrivato il tuo fidanzato»
disse Davide.
«Il mio
che …?» ebbi appena il tempo di
esclamare.
Suonarono alla porta
e scesi ad aprire.
Davanti a me, la
figura inconfondibile del
mio (quasi) vicino di casa.
«Ciao»
si limitò a dire.
«Ciao»
risposi io.
«Chi
sei?» aggiunsi, fingendo di non averlo
notato nei mesi precedenti.
A quelle parole, ci
rimase un po’ male.
Sembrava quasi deluso.
«E’
vero, non ci conosciamo, che stupido! Mi
chiamo Giacomo» rispose.
«Piacere,
Giacomo. Io sono Melissa. Step due:
chi sei?» chiesi io, insistentemente.
«Giusto.
Sono il tuo nuovo vicino. Non so se
tuo padre te l’ha detto … io e mia nonna siamo
venuti a darvi un passaggio fino
a casa» aggiunse.
«Ok, e tua
nonna dove sarebbe?».
Era arrivato Davide.
Seppur fisicamente fosse
il contrario di mio padre, da lui aveva ereditato quella gelosia
caratteristica
del Sud Italia.
«Tu devi
essere Davide, tuo padre mi ha
parlato di te …» iniziò il ragazzo.
«Sì,
piacere. Dov’è tua nonna?»
ripeté mio
fratello, contrariato.
Stava iniziando a
perdere la pazienza.
«Eccola,
è lì che ci aspetta» intervenni io,
notando una figura che salutava in lontananza.
«Ok, Mely.
Prendi la tua valigia e saliamo in
auto» disse allora Davide.
Era evidente che
Giacomo lo infastidiva. In
effetti, quella sua aria eccentrica, da
“fuoriposto”, proprio non lo aiutava.
Entrai in casa e
presi il mio bagaglio. Diedi
un’ultima occhiata alla vecchia cucina, così colma
di ricordi, e una calda
lacrima solcò il mio viso. Mi asciugai in fretta: non volevo
che degli
sconosciuti mi vedessero piangere. Non ero mai stata il tipo di persona
che ama
sfoggiare le proprie debolezze, o comunque i propri sentimenti; non mi
piaceva
che gli altri conoscessero di me certi aspetti così intimi.
«Ti
mancherà, vero?».
Mi voltai di scatto,
convinta di vedere
Davide. Ma non era stato lui a parlare.
Di fronte a me
c’era Giacomo.
Mi costrinsi ad
assumere un tono di voce il
più normale possibile.
«Ehm
… sì, certo, mi mancherà. Ma
trasferirsi
è la cosa giusta. Sarà
meglio per
tutti».
«Guarda
che con me puoi essere sincera» disse
lui.
I nostri occhi si
incrociarono, e per un
istante ebbi l’impressione di perdermi nell’azzurro
dei suoi. Sembrava diverso.
Era così bello …
«Ma se non
ci conosciamo neppure» affermai,
cercando di ricompormi.
Tra noi due
calò un silenzio imbarazzante.
Giacomo continuava a guardarmi fisso negli occhi, e io, imbarazzata,
distolsi
lo sguardo e iniziai a fissare con insistenza una macchia sul
pavimento. Prima
o poi sarebbe entrato Davide, pensai.
«Te
l’ha mai detto qualcuno che sei
bellissima?» esclamò ad un tratto.
Non risposi. Mi
limitai a fissare, con
insistenza, la stessa macchia sul pavimento della cucina. Cosa era
successo al
ragazzo timido di pochi minuti prima, che a malapena era riuscito a
dirmi come
si chiamava? E dove diavolo era finito mio fratello?
«Che fai,
non parli? Non ci credo che non te
l’ha mai detto nessuno …»
proseguì.
A poco a poco, si
stava avvicinando sempre più
a me. Finii col ritrovarmi con la schiena contro il muro della cucina,
terrorizzata dallo strano comportamento di quel ragazzo che fino a
cinque
minuti prima sembrava tanto inoffensivo.
«Sta per
entrare mio fratello, lasciami stare
…» dissi, tentando di non far trasparire la mia
paura.
Ormai eravamo
attaccati l’uno all’altra.
Sentivo il suo torace espandersi sul mio a intervalli regolari, e il
suo cuore
battere, energico. Iniziai a pensare che fosse un incubo.
Avvicinò le sue
labbra alle mie, pronto a baciarmi, e a quel punto gli assestai un
calcio allo
stomaco. Strillò e si contorse per il dolore, e io ne
approfittai per scappare.
Ma fu più veloce di me: mi prese per un braccio e mi
scansò contro il muro.
Urtai con la testa e, per un momento, mi sembrò di morire,
talmente forte fu il
colpo. Mi portai d’istinto le mani alla fronte, e notai che
stavo sanguinando.
Tentai di rialzarmi e mi misi a strillare il nome di mio fratello,
sperando che
mi sentisse. Nel frattempo, Giacomo si stava avvicinando, furioso. Mi
guardai
rapidamente intorno in cerca di qualcosa da poter usare come arma, ma
non c’era
nulla in quella stanza che potesse essermi utile. Chiusi gli occhi,
pronta a
tutto, quando sentii urlare il nome di Giacomo dall’altra
parte della cucina:
era sua nonna. Il ragazzo si voltò a guardarla e
sembrò per un attimo tornare
in sé, ma fu solo un’impressione fugace. Distolse
lo sguardo dalla donna e
tornò a dirigersi verso di me, pronto a sfogare la sua
rabbia. Mi aveva quasi
raggiunta quando arrivò Davide e gli frantumò in
testa un vaso di fiori,
facendolo cadere a terra, privo di sensi.
«Ma che
cavolo gli è preso?!» esclamò.
«Tu stai
bene?» aggiunse, rivolto a me.
Mi aiutò
ad alzarmi e mi porse un pacchetto
di fazzolettini per pulirmi il sangue che mi sporcava il volto.
«Io
… sì, credo di sì
…».
Non riuscii a dire
altro: ero ancora troppo
sconvolta dalla situazione così surreale.
«Che ti ha
fatto al viso?» chiese mio
fratello. «Hai una brutta ferita sulla fronte, ma non credo
ci vogliano punti»
aggiunse.
«Dove hai
trovato quel vaso?» chiesi.
Ma cosa me ne
importava?
«Nell’ingresso
… ma adesso che centra?»
rispose Davide.
La nonna di Giacomo
si limitava a guardarci,
inorridita, dall’altro lato della stanza.
«Lei non
dice niente?» esclamò ad un tratto
mio fratello.
«Io
… sì, ragazzi … la questione
è un po’
delicata …» cominciò. «Il
fatto è che Giacomo è malato».
«L’abbiamo
notato, in effetti» dissi.
«No, non
potete capire … lui … ha un disturbo
dissociativo d’identità» concluse.
«…
Un che?» proruppe Davide.
«Mettetevi
comodi. La storia è un po’ lunga
…» proseguì, prendendo due sedie.
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Capitolo 4 *** Vuoti di memoria ***
Vuoti di memoria
Capitolo
4
Vuoti
di
memoria
E così
Giacomo aveva un disturbo dissociativo
di identità. Da non crederci. In effetti, mi era sembrato un
tantino bizzarro –
e come non avrebbe potuto, dal momento che erano ormai mesi che mi
spiava e mi
seguiva di nascosto senza che l’avessi mai conosciuto?-.
Eppure mi faceva quasi
pena, steso lì, a terra, privo di sensi.
Quasi.
«E’
una storia lunga, ragazzi. Mi dispiace
che l’abbiate scoperto in un modo così
brutto» disse la signora Dorotea.
«Perché
c’è un modo bello di scoprirlo?»
esclamai istintivamente.
«Hai
ragione, non c’è un modo bello. Ed è
stato brutto anche per me, te lo assicuro, terribile, quando
l’ho scoperto.
Sapete, Giacomo è stato affidato a me che aveva
già undici anni. La madre è
morta di parto, mentre al padre è stata tolta la sua
custodia. Era un
alcolizzato violento, non faceva che picchiarlo, tutti i santi giorni.
Vivevano
vicino a casa mia, e non potete immaginare quante volte ho sentito
urlare
questo povero ragazzo. A un tratto, non ce l’ho fatta
più: ho deciso di
denunciare mio figlio alle autorità. Gli è stata
tolta la custodia ed è stato
arrestato, perché aveva pure commesso qualche reato. Giacomo
è venuto a stare
da me, e per i primi anni è andato tutto bene. Poi, un
giorno, di ritorno da
scuola, ho notato che si comportava diversamente dal solito. Sapete,
è sempre
stato un ragazzo tranquillo, timido e gentile. Al tempo, aveva circa
sedici
anni. Ha iniziato a trattarmi male, ad essere violento sia verso di me
che
verso gli amici, che lo hanno abbandonato a poco a poco e isolato. Non
sapevo
cosa pensare di lui: cosa diamine era successo a mio nipote? Decisi
così di
portarlo da uno psichiatra, che gli diagnosticò un disturbo
antisociale di
personalità. Avviò la psicoterapia, ma non
sembrava migliorare. Addirittura, un
giorno lo trovai in giardino che torturava un povero gatto. Iniziai ad
avere
paura di mio nipote».
Si interruppe ed
iniziò a singhiozzare.
Gli porsi un
fazzolettino di carta.
«Grazie,
cara. Dicevo … non riuscivo più a
riconoscere mio nipote, e iniziai ad averne paura. Mi consigliarono di
farlo
ricoverare presso un istituto psichiatrico, visto che stava diventando
pericoloso, ed io avevo praticamente ormai rinunciato a riavere il mio
gentile
nipotino, quando un giorno, senza preavviso, come se nulla fosse,
tornò quello
di prima. Era un pomeriggio d’estate, lo ricorderò
sempre. Stavo pulendo il
giardino, quando me lo ritrovai alle spalle: stava annaffiando i fiori.
Incredibile, pensai. Non può essere. Non volevo crederci.
Nei giorni successivi
continuò a comportarsi come il Giacomo che conoscevo, un
nipote buono, gentile
e timido. Gli psichiatri avevano opinioni contrastanti: chi pensava fosse stato un
periodo di ribellione
transitorio dovuto all’adolescenza, chi che stesse fingendo e
in realtà fosse
sempre un antisociale, in fondo. Fatto sta che, per alcuni mesi, tutto
tornò
alla normalità. Finché di nuovo, un giorno, si
ripresentò il problema: Giacomo
prese a pugni un suo compagno di classe. Il malaugurato ragazzo
finì in terapia
intensiva, e rischiò di morire. Mio nipote aveva quasi
diciotto anni, perciò
rischiò sul serio di finire in prigione. Fortunatamente
comprese il problema lo
psichiatra della scuola, il dottor Serio. La sera stessa
dell’incidente venne a
trovarmi e mi disse che pensava di aver capito quale fosse la malattia
di mio
nipote».
«Il
disturbo dissociativo di identità»
intervenni io, interrompendola.
Sentivo che aveva
bisogno di una pausa per
riprendersi. Tirò su col naso e proseguì.
«Sì.
E infatti fino ad oggi questa è
l’undicesima volta che succede».
«Ma di
cosa si tratta, esattamente?» chiese
Davide, incuriosito e spaventato al tempo stesso.
«Be’,
è un disturbo dissociativo, di fondo. Un
tempo si chiamava disturbo da personalità multiple. In
pratica, una stessa
persona ha più di una personalità, e ciascuna di
esse può prendere il controllo
del suo comportamento».
«E Giacomo
quante diverse personalità ha?»
domandai.
«Solo due,
almeno per adesso. In genere, la
transizione dall’una all’altra avviene in occasioni
cariche di significato,
emotivamente parlando» rispose, rivolgendomi uno sguardo
eloquente.
«Cosa
diavolo sta insinuando? Cosa centra
adesso mia sorella?» sbottò Davide, infastidito da
quell’espressione.
«Guardi
che noi due non ci eravamo mai visti
prima» dissi io, quasi a volermi giustificare.
«Forse tu
non lo avevi notato, ma lui è già
da un po’ che mi parla di te. O meglio, di una ragazza
bellissima e
intelligente che dice di aver conosciuto a mare, diversi anni
fa» sostenne
Dorotea.
Diversi
anni
fa? Una cosa era certa,
io non avevo
mai visto quel ragazzo se non qualche mese prima, a scuola. Me
l’aveva fatto
notare la mia migliore amica, Giada, e al tempo ci eravamo pure
spaventate.
Quel ragazzo più grande che mi fissava nascosto dietro a un
albero … cosa
poteva volere da me? Poi però mi tranquillizzai, se
così si può dire, dal
momento che si limitava solo a spiarmi.
«Guardi
che io non l’ho mai visto prima,
glielo assicuro. E poi … quale dei due Giacomo mi avrebbe
conosciuta al mare?»
chiesi, un po’ curiosa un po’ inquietata dalla
strana situazione.
«Quello
antisociale» rispose la nonna,
eloquentemente.
Mi sforzai a
ricordare, ma niente … sembrava
che veramente non avessi mai visto quel ragazzo prima di allora. A meno
che …
«Suo
nipote quanti anni fa mi avrebbe
conosciuta, esattamente?».
«Due anni
fa. Al tempo, lui aveva circa
diciannove anni».
Ecco.
Probabilmente mi
aveva conosciuta al falò del
terzo anno del liceo, l’unico falò al quale abbia
mai preso parte. E purtroppo,
aggiungerei. Avevo solo sedici anni, e avevo insistito con i miei
genitori
affinché mi mandassero a quella festa, la mia prima
festa. E non mi era sembrato vero, quando finalmente avevano
ceduto. Salvo
mettermi un coprifuoco
proibitivo a mezzanotte. A quel falò mi sono ubriacata per
la prima ed unica
volta nella mia vita, e dalla vergogna non riuscivo neppure ad aprire
la porta
di casa, di ritorno, prevedendo la reazione che avrebbe avuto mio
padre. Di
quella sera ricordo solo il primo drink e litri e litri di vomito sulla
spiaggia, con Giada che mi teneva la testa e mi consolava, ridacchiando
di
nascosto. Considerando il vuoto di ben tre ore, era plausibile che
l’avessi
conosciuto lì.
«Ha
parlato di una festa?» chiesi.
«Sì,
diceva di averti conosciuta ad un falò
in spiaggia. Non sai quanto gli sei rimasta impressa, Melissa
… per due anni
non ha fatto che parlare di te soltanto» disse Dorotea.
A quel punto, fui
pervasa dai sensi di colpa.
Com’era possibile che non mi ricordassi di lui?
Sicuramente in quei mesi mi aveva seguita sperando che lo
riconoscessi
e, che so, magari che lo salutassi pure calorosamente. Però
qualcosa non
tornava … come mai neppure Giada l’aveva
riconosciuto? Dopotutto, lei era
abituata a bere, e tollerava abbastanza bene gli alcolici.
«E adesso
dov’è suo padre?» chiesi a un
tratto, interrompendo il silenzio che aveva pervaso la stanza.
«Dovrebbe
essere ancora in galera, per quanto
ne so. E’ stato condannato a quindici anni, e finora ne ha
scontati solo
undici» rispose Dorotea.
Fantastico: un
ragazzo violento con un padre
carcerato a breve sarebbe diventato mio vicino. Cose che non si vedono
neanche
in tv.
«Quando si
sveglierà come faremo a sapere
quale Giacomo avremo di fronte?» proruppe
d’improvviso Davide, turbato.
«State
certi che lo capirete» replicò eloquentemente
Dorotea. Le tremavano le mani.
Neanche il tempo di
finire la frase, che il
nipote si iniziò a muovere.
«Ecco,
stiamo per scoprirlo, ragazzi».
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Capitolo 5 *** Impotenza ***
Impotenza
Capitolo
5
Impotenza
Si stava facendo
tardi.
Diedi
un’occhiata all’orologio: erano le due
e un quarto del pomeriggio. Caspita, ma che fine avevano fatto Davide e
Melissa? Possibile che non fossero ancora arrivati?
Mi diedi
un’occhiata intorno: era proprio
grande la mia nuova cucina.
Nell’attesa, avevo iniziato a personalizzare la stanza: sui
muri, prima vuoti,
adesso erano appesi diversi quadri, tutti rigorosamente di Van Gogh
(ovviamente
delle riproduzioni). Amavo quel pittore. Alla mia destra, “La
notte stellata”,
a sinistra, poco più avanti nella cucina, diverse copie dei
suoi famosissimi
girasoli. Sui mobili, invece, avevo collocato con cura diverse
fotografie della
nostra famiglia: dal nostro matrimonio all’evento
più recente, i diciotto anni
di Melissa. Era stata proprio una bella festa. Ripensai con nostalgia
allo
stupore della mia bambina quando, entrando in casa, si era ritrovata
tutti i
suoi amici e la sua famiglia ad aspettarla per celebrare la maggiore
età. Lei
aveva deciso di non festeggiare, vista la recente morte del nonno
paterno, al
quale era molto legata, e ci aveva letteralmente supplicati di
destinare il
denaro messo da parte a qualche associazione di beneficienza. Ma non
potevamo
non organizzare nulla per lei. Così, io ed Edoardo decidemmo
di farle
quantomeno una piccola festicciola in casa, riservando la quota
rimanente ad una
federazione gestita dall’ex collega di università
di Edo, la dottoressa
Ferrero.
La suoneria del
cellulare mi riportò
bruscamente alla realtà.
«Pronto?
Edo, sei tu?».
Ovvio che era lui:
il suo bel viso mi sorrideva
sullo schermo del telefonino.
«Sì,
Ely … Sono arrivati i ragazzi?».
«No, non
ancora. Strano che non siano già
qui. A che ora è andata a prenderli la signora
Dorotea?» chiesi, turbata.
Non era da loro
ritardare. O meglio, non era
da Melissa.
«Oh
… strano» si limitò a dire Edoardo. Era
chiaramente preoccupato.
«La vicina
aveva detto che sarebbe andata a
prenderli intorno alle tredici» proseguì.
Sembrava quasi che
volesse essere rassicurato
da me. Tipico degli uomini.
«Non so
cosa dirti, Edo … Hai provato a
chiamare Mely?» gli domandai.
«Giusto,
non ci avevo pensato … Ma sai che
per lei il cellulare diventa un optional quando a chiamare siamo noi
due. E’
sempre scarico … » rispose.
«Dai,
provo a chiamarla io. Ci sentiamo dopo».
Interruppi
repentinamente la conversazione; non
volevo che mio marito si accorgesse di quanto fossi angosciata. Composi
subito il
numero di Melissa, ad una velocità olimpionica –
Davide ne sarebbe stato fiero,
dal momento che di norma avrei impiegato qualche secondo solo per
sbloccare il
dispositivo-.
“Risponde
la
segreteria telefonica del numero 338 …”
Cavolo. Mio marito
aveva ragione, aveva il
cellulare spento. Maledii me stessa per il senso di impotenza che
provavo in
quel momento: non potevo andare in nessun posto, senza patente. Dopo la
morte
dei miei genitori e di mio fratello avevo giurato a me stessa che mai e
poi mai
avrei guidato un’auto, talmente forte era stato il trauma.
Edoardo aveva
provato a convincermi più volte, a partire dal nostro primo
appuntamento, ma io
mi ero sempre fermamente rifiutata. Provai a comporre il numero di
Davide, e
questa volta a rispondermi fu la sua strampalata segreteria fai-da-te: “In questo momento non posso rispondervi,
e
forse sapete anche perché. Quindi, evitate di
richiamare”.
Feci un profondo
respiro, e mi imposi di
mantenere la calma. Dopotutto, come diceva spesso mio padre, era
inutile “fasciarsi
la gamba prima di rompersela”. Pensa, mi dissi. Pensa, pensa
…
A un tratto mi venne
un’idea: i vicini.
Probabilmente avevano il numero di quella Dorotea, o come diavolo si
chiamava.
Presi borsa e chiavi di casa e uscii di fretta. Il quartiere pullulava
di
villette, una più bella e maestosa dell’altra.
Decisi di suonare al citofono
più vicino, quello di un certo signor Ariosto.
«Sì,
chi è?».
«Ehm
… buongiorno, signor Ariosto, mi chiamo
Elena Di Giorgio. Ho appena affittato la casa accanto alla sua e ci
stiamo
trasferendo qui con la mia famiglia. Avrei bisogno di un favore
… mi può
aprire?» dissi, dubitando che l’avrebbe fatto.
Vivevo lì da meno di mezza
giornata e già mi avevano fatto visita diversi testimoni di
Geova: presumibilmente
avrebbe pensato che fossi una di loro. E invece mi aprì,
senza dire nulla.
Mi feci strada
attraverso le erbacce del
giardino: a quanto pare il giardinaggio non era il suo forte. Bree Van
de Kamp
non avrebbe approvato.
Arrivata davanti al
portone della villa, mi
trovai di fronte un uomo di circa cinquanta anni. Tutto in lui stonava
con l’ambiente
residenziale che lo circondava: dai quattro tatuaggi (uno, in
particolare, sul
braccio sinistro riportava le iniziali G. & L.) alla barba
incolta.
Indossava un paio di boxer neri ed esibiva un – bel – paio di
pettorali sotto una maglietta blu
aderente, che non lasciava molto spazio all’immaginazione. Mi
sentivo piuttosto
in imbarazzo.
«Allora,
cosa vuole?» chiese bruscamente.
Mi colpirono i suoi
occhi azzurri, che si accostavano
perfettamente ai capelli biondi.
«Come le
stavo dicendo, giusto oggi ci stiamo
trasferendo nella villetta qui accanto. Aspettavo i miei figli per
l’una e un
quarto, ma sono quasi le tre e ancora non è arrivato nessuno
… forse le sembrerò
esagerata, ma sono abbastanza preoccupata per loro» dissi
tutto d’un fiato.
«In
effetti sì, mi sembra esagerata. I
ragazzi sono così … quanti anni hanno i suoi
figli?» domandò.
«Diciotto
e tredici» risposi. Non capivo cosa
c’entrasse la loro età.
«Allora
non si preoccupi, saranno andati a
pranzare in qualche locale e ci avranno impiegato più tempo
del previsto» dichiarò.
Stava per chiudermi
la porta in faccia, ma
non potevo permetterglielo.
«Lo sa che
parla proprio come un poliziotto?»
annunciai, forse a voce un po’ troppo alta.
Sembrò
più divertito che infastidito dalla
mia affermazione.
«Questa
poi mi è proprio nuova» disse. «Prego,
entri pure e mi dica come pensa che possa aiutarla».
Fece quello che
forse riteneva essere un
inchino e spalancò la porta di casa.
Entrando, non potei
fare a meno di notare l’estremo
disordine che vi regnava: cianfrusaglie a destra e a manca, foto
gettate sui
gradini delle scale, persino un reggiseno sul divano in salotto.
Evidentemente,
era o era stato in compagnia femminile. O era sposato, ma non sembrava
il tipo
da matrimonio o relazione stabile.
«Prego, si
accomodi».
Indicò il
divano. La mia germofobia mi impediva
anche solo di avvicinarmi, viste le numerose macchie e i peli di gatto
di cui
era colmo.
«No,
grazie, preferisco stare in piedi»
dissi, cercando di non far trasparire dalle mie parole il ribrezzo che
provavo.
«Forse ha
un DOC?» chiese lui, ridacchiando. «Un
Disturbo Ossessivo-Compulsivo?».
«Così
è pure uno psichiatra, oltre che un
poliziotto?» ribattei io.
Quel tipo iniziava
ad infastidirmi, perché non
si faceva gli affari suoi?
«No, non
sono uno psichiatra. Però ne ho
conosciuti molti» rispose in tono eloquente.
«Visto che
non è uno psichiatra, non ho
intenzione di farmi psicanalizzare. Volevo solo chiederle se per caso
ha il
numero della signora che abita qui di fronte» domandai
sbrigativamente io.
Sapevo di essere stata scortese, ma quella casa mi inquietava, e non
volevo
trascorrervi dentro più del tempo necessario. O meglio, quel
tipo mi
inquietava.
«La
signora Dorotea?».
«Sì,
credo si chiami così».
«Uhm,
è da un po’ di tempo che non la sento.
Sa, non siamo esattamente in buoni rapporti …
però dovrei avere il suo numero.
A cosa le serve, di grazia?» volle sapere.
Avevo la fastidiosa
impressione che mi
prendesse in giro.
«Si era
offerta di dare un passaggio ai miei
figli fino alla nuova casa» risposi, usando il tono
più dolce che in quel
momento mi riusciva.
«Eh
sì, è proprio da lei aiutare i ragazzi»
dichiarò
con malcelato sarcasmo.
«Cosa
vuole insinuare? Che dovrei preoccuparmi?»
chiesi, senza riuscire a trattenermi.
Mi voltò
le spalle e si diresse verso la
cucina. Dopo pochi minuti tornò in salotto con in mano la
rubrica telefonica.
«Ecco, qui
c’è il numero di mia madre».
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Capitolo 6 *** Affiliazione ***
Capitolo
6
Affiliazione
Si stava svegliando.
Giacomo aveva
iniziato gradualmente a
muoversi sul pavimento. La nonna lo fissava terrorizzata da un capo
della
cucina, mentre, accanto a me, Davide si era alzato in piedi e brandiva
il cellulare come
un’arma. Il cellulare!
Probabilmente i miei genitori avevano provato a chiamarci, e il mio era
spento:
avevo dimenticato di accenderlo quella mattina, complice il risveglio
ritardato
e l’ansia pre-trasferimento. Mi misi una mano in tasca per
prenderlo, ma
niente; di certo l’avevo dimenticato in camera mia. Diedi
un’occhiata
all’orologio sul polso di mio fratello e mi resi conto che si
erano già fatte
le tre e un quarto del pomeriggio. Chissà quanto erano
preoccupati mamma e papà.
«Forse
sarebbe meglio che tu uscissi fuori»
esordì Davide. Era visibilmente angosciato per me.
«Non
preoccuparti, me la so cavare, fratellino»
dissi, pentendomene subito dopo.
Non era vero. In
quegli interminabili secondi
temevo il peggio, e la testa iniziava a farmi male. La mia solita
emicrania
tornava a farmi visita.
«Ragazzi,
forse sarebbe meglio che usciste
entrambi» dichiarò la signora Dorotea con un filo
di voce.
«Che
è successo, nonna?».
Era stato Giacomo a
parlare. Lentamente, si
sollevò dal pavimento e fissò lo sguardo verso la
nonna. Aveva un’espressione singolare,
a metà tra il sorpreso e lo sconvolto.
«Niente,
tesoro mio. Cosa ricordi?» gli
chiese la donna.
«Ricordo
che siamo venuti a dare un passaggio
ai nuovi vicini e poi … e poi non so, non ricordo
più nulla. Perché, cosa è
successo?».
Si diede
un’occhiata intorno e i nostri occhi
finirono nuovamente con l’incrociarsi. Ma questa volta i suoi
si distolsero
rapidamente, quasi intimoriti, e si spostarono in alto, sulla mia
fronte.
Sentivo che il sangue caldo continuava a stillare e ad impregnare il
mio viso,
ma il terrore mi aveva letteralmente paralizzata e lo lasciai scendere.
Giacomo
continuava a fissare la mia ferita, e inaspettatamente
iniziò a piangere.
Sembrava quasi un bambino, e provai compassione per lui. Non avevo
però la
minima intenzione di avvicinarmi a quel ragazzo che fino a pochi minuti
prima
mi aveva aggredita senza battere ciglio, e non lo feci, né
tantomeno lo fece
Davide, che, dal canto suo, continuava a brandire il telefonino a mo di
scudo.
«Io
… io …» proruppe
all’improvviso Giacomo
«Io non volevo … non so che cosa sia successo, ma
non è dipeso da me … ti
prego, perdonami».
Perdonarlo? No,
certo non in quel momento,
come avrei potuto? Non sapevo neppure cosa pensare: chi ci assicurava
che in
realtà non stesse mentendo?
«Tesoro,
hai avuto un altro episodio»
annunciò la signora Dorotea.
«Un altro?
Era da un po’ che non succedeva …».
Si interruppe
bruscamente, imbarazzato, e
iniziò a fissare il pavimento della cucina. La nonna mi
lanciò un’occhiata espressiva.
Non era possibile,
sembrava quasi che la
colpa fosse mia, da come si comportavano quei due. Io che neppure
ricordavo di
aver conosciuto qualcuno, a quella festa.
«Perdonatemi,
vi prego. Purtroppo non dipende
da me, non riesco a controllarlo» disse Giacomo.
«E chi ci
assicura che stiamo parlando con il
“bravo ragazzo”?» chiese a un tratto
Davide.
«Lo
psichiatra mi ha spiegato che delle due
personalità la dominante, l’host,
è
quella buona e gentile, mentre l’antisociale è
l’alter. L’host
non ha consapevolezza dell’alter né delle azioni
che
questo compie, a differenza dell’alter che, invece, conosce
l’host. Come ti
senti, Giacomo?».
«Io
… ho mal di testa, nonna» rispose il
nipote.
«Ecco
… alla fine di ogni transizione, al ritorno
alla personalità dominante, in genere ha
un’intensa cefalea» concluse Dorotea,
convinta così di aver chiarito ogni nostro dubbio o
perplessità.
Ma così
non era. Continuavo a tenermi ben
distante da Giacomo, temendo, da un momento all’altro, di
vedermelo saltare
addosso. Lui era visibilmente mortificato per l’accaduto,
nonostante non
ricordasse nulla. O almeno così diceva la nonna. Lo squillo
di un cellulare mi
riportò alla realtà; veniva dalla borsetta della
signora Dorotea, che,
cautamente, lo prese in mano e rispose.
«Pronto?
Sì, sono io. Certo che mi ricordo di
lei, signora Di Giorgio».
Era la mamma. Io e
Davide ci scambiammo una
rapida occhiata.
«Sì,
sono qui, glieli passo subito. Melissa,
è tua madre» disse Dorotea, porgendomi
l’apparecchio.
Cosa avrei dovuto
dirle? Non potevo certo
rivelarle l’accaduto, non dopo che i miei avevano affittato
la casa dei loro
sogni: se avessero saputo anche un minimo di quanto successo, non
avrebbero mai
accettato di trasferirsi in quel quartiere.
«Pronto,
mamma. Scusa, avremmo dovuto
chiamarti, ma non volevamo farti spaventare» dissi.
«Spaventare?
Perché mi sarei dovuta
spaventare? Cosa diavolo è successo, Mely?».
Era chiaramente
turbata.
«Io
… un incidente. Sono caduta dalle scale
scendendo la mia valigia» mentii. In vita mia non le avevo
mai detto una menzogna.
Giacomo mi diede una rapida occhiata, grato e sorpreso al tempo stesso.
«O mio
Dio, e che cosa ti sei fatta? Come
stai? Vengo subito lì, non ti muovere»
affermò.
Non potevo
permetterle di venire lì, avrebbe
capito subito quanto successo. Mia madre era una delle persone
più intelligenti
e acute che conoscessi, e le sarebbe bastato dare un’occhiata
alla cucina e ai
capelli sporchi di sangue di Giacomo per capire esattamente cosa era
successo.
«Non
c’è bisogno, mamma. Mi sono fatta solo
un graffietto alla fronte, e con me c’è la vicina.
A breve saremmo lì, così
potrai assicurarti che sono ancora viva e vegeta» esclamai,
tentando di far
trasparire dalle mie parole sarcasmo più di quanto ce ne
fosse. «E,
comunque, sei senza patente» aggiunsi.
«D’accordo,
io vi aspetto a casa, allora. Nel
frattempo chiamo papà, che era preoccupatissimo. E mi
raccomando … il cellulare
tienilo sempre spento, tesoro» concluse.
Dovevo essere
risultata abbastanza
convincente, mi dissi. La mia prima bugia era andata a buon colpo.
«Credo che
sarebbe meglio …» esordì Giacomo.
«E’
meglio andare a casa. Giacomo, prendi la
valigia di Melissa. E tu …» sostenne, rivolta a me.
«Fammi
vedere quella ferita».
«Forse
dovrebbe prima occuparsi di suo
nipote, mi sembra messo peggio» dissi io, in un inaspettato
– persino per me –
moto di altruismo. Il fatto era che quel ragazzo mi infondeva veramente
pietà,
non potevo farci nulla.
«Non
preoccuparti per lui, ha la pelle dura»
ribatté la donna.
Estrasse dalla borsa
una bottiglietta di
acqua ossigenata e delle garze. Quell’anziana era
incredibilmente colma di
risorse.
«Posso
chiederle cosa ci fa con una boccia di
acqua ossigenata nella borsa?» chiesi, incuriosita.
«Meglio di
no» rispose lei.
Mi
disinfettò il taglio e ci pose sopra delle
garze. Nel frattempo, Giacomo continuava a fissarci da un angolino.
«Solo, non
capisco una cosa» dissi
all’improvviso. «Lei ha detto che l’host,
la personalità dominante o come
diavolo si chiama non ha consapevolezza dell’alter, giusto? E
quindi non ha
memoria di quanto visto o fatto dall’alter».
«Sei una
ragazza molto acuta, Melissa. Vuoi
sapere come fa allora a ricordarsi di te mio nipote, giusto, dal
momento che ti
ha conosciuta come alter?» chiese Dorotea.
Sì,
volevo sapere proprio quello. Annuii.
«Diglielo
tu, Giacomo» proseguì, rivolta al
nipote. Giacomo fu letteralmente colto alla sprovvista dalla richiesta
della
nonna: probabilmente, non pensava che sarebbe più stato
chiamato a parlare, non
in presenza mia e di Davide.
«I- io
…». Balbettava, visibilmente turbato,
«Io ero in me, quando ti ho conosciuta. Ero l’host,
o come cavolo lo chiamano
gli psichiatri. Mi hai colpita come nessun’altra ragazza
prima di allora, e non
sai quanto mi costa dirlo, sapendo che potrei perdere il controllo da
un
momento all’altro».
Quelle sue parole mi
colsero alla sprovvista.
Non me l’aspettavo proprio di sentirlo parlare in modo
così spontaneo e
intenso. Non sapevo cosa dire.
«Ma lei ci
ha detto che l’ha conosciuto
l’antisociale» proruppe mio fratello.
«Hai
ragione» disse Dorotea. «Spiegagli come
è andata» proseguì, rivolta al nipote.
«Ti ho
vista la prima volta sulla spiaggia, a
quel falò che aveva organizzato la tua scuola. Come ho
detto, mi hai colpita.
Fino a quel giorno avevo avuto solo due
“transizioni”, e all’ultima avevo
rischiato veramente di uccidere qualcuno. Lo psichiatra mi aveva
avvisato del
possibile legame con emozioni o eventi “forti”, ma
io non avevo voluto
credergli veramente. Non fino a quel giorno. Quando ti ho vista, mi
è sembrato
di sentire il cuore fermarsi, come quando salti per sbaglio un gradino.
E poi …
e poi il vuoto …. ».
Non avrei mai potuto
immaginare una
dichiarazione (d’amore?) più strana e surreale di
quella. Nei miei sogni da
adolescente, mi aspettavo che il primo vero ragazzo che si fosse
innamorato di
me me l’avrebbe dichiarato in spiaggia, o magari in un
ristorante alla luce flebile
di una candela, ma mai in quella situazione tanto singolare. Tantomeno,
con mio
fratello tra gli spettatori. Continuai a tacere, lievemente
imbarazzata.
«La sera
del falò, Giacomo è rientrato a casa
tardi, in evidente personalità antisociale. Da allora ad
oggi ha avuto altre
otto transizioni, tutte in tua presenza».
In mia presenza?
«Diretta o
indiretta» aggiunse,
eloquentemente.
«Quindi
dovrei stargli alla larga?» chiesi.
Domanda retorica.
«Sì,
temo di sì. E sarà un po’ difficile,
avendoti
come vicina di casa» rispose Dorotea.
«Farà
più male a te che a me» esclamò
inaspettatamente Giacomo.
Stava succedendo
tutto troppo in fretta, e la
mia emicrania non mi aiutava certo a metabolizzare le numerose
informazioni
ricevute. Come poteva uno sconosciuto essere perdutamente innamorato di
me?
Fortunatamente, mi
dissi, la cosa non è
reciproca.
O almeno, non lo era
ancora.
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Capitolo 7 *** Let it be ***
Capitolo
7
Let
it be
Il viaggio di
ritorno a casa fu silenzioso
più del previsto, se possibile. Nessuno aveva voglia di
parlare, dopo quanto
accaduto nel nostro vecchio appartamento: io mi limitavo a guardare
fuori dal
finestrino, sperando che la fresca aria primaverile attenuasse la mia
terribile
emicrania, mentre Davide e Giacomo se ne stavano seduti ai due capi del
sedile
posteriore, evitando prudentemente anche solo di sfiorarsi. La signora
Dorotea
aveva insistito affinché mi sedessi davanti con lei,
intenzionata così a
tranquillizzarmi, senza però intuire che in quel modo non
aveva fatto altro che
peggiorare la mia apprensione; alle mie spalle, infatti, avvertivo il
respiro
regolare del nipote, un po’ più celere del
normale. Forse resasi conto dell’aria
elettrica che regnava nell’automobile, a un certo punto la
donna aveva acceso
la radio; quando arrivammo a casa, echeggiava in sottofondo una vecchia
canzone
dei Beatles, “Let it be”. Lascia
che sia
… Facile a dirsi, Paul McCartney. Se tua madre
proferiva “parole di
saggezza” in periodi difficili, la mia di certo a breve
avrebbe proferito tutto
fuorché parole sagge.
«Prego».
Non me ne ero
neppure accorta, talmente era
stato rapido: Giacomo mi stava aprendo la portiera dell’auto.
«Grazie»
dissi distrattamente, evitando di
guardarlo negli occhi.
A pochi metri di
distanza mia madre ci stava
aspettando, con un’espressione a metà tra il
furibondo e il preoccupato. La sua
tipica espressione infuriata che, tradotta in linguaggio comprensibile
a noi
comuni mortali, significava “cosa mi hai
combinato?”.
«Melissa!
Vieni qui, fatti vedere da vicino.
Cosa ti sei fatta al braccio?».
Braccio? Abbassai
istintivamente lo sguardo:
un livido abbastanza esteso tingeva l’arto di violaceo. Non
me ne ero neppure
accorta, talmente forte era l’emicrania.
«Oh,
sì, devo esserci caduta sopra quando
sono scivolata dalle scale» mi affrettai a rispondere.
I suoi occhi,
turbati, mi passarono a
setaccio dalla testa ai piedi.
«E sulla
fronte? E’ grave, signora Dorotea?»
chiese, rivolta alla vicina.
«No, non
si preoccupi, è solo un taglietto.
Ringrazi che si è trovata con un’ex infermiera,
quando è successo» rispose la
donna.
«Questo
non può che tranquillizzarmi» disse
la mamma, cercando di suonare il più sincera possibile.
Era ovvio che questo
non la tranquillizzasse
affatto.
«E suo
nipote cos’ha? Sembra sconvolto».
«Grazie,
mamma. Vedo che ti preoccupi di
tutti tranne che di me, qui fuori» esordì Davide,
cercando così di distogliere
la sua attenzione da Giacomo. E parve riuscirci.
« Tesoro
mio, certo che mi preoccupo di te.
Come stai?» rimediò in fretta.
Era proprio il suo
pupillo. E non potevo
negare che la cosa ci avesse aiutati non poco, in quella situazione.
«Bene,
mamma. Sei sempre così attenta al mio
stato di salute …».
La signora Dorotea
abbozzò un sorrisetto,
pensando forse così di rasserenare ulteriormente la vicina.
«Credo che
noi torneremo a casa. Si è fatto
tardi» disse.
«Di
già? Vorrei ringraziarla in qualche modo
… le
preparo un caffè? O forse
preferisce un tè?» propose mia madre.
«Niente,
grazie. L’abbiamo fatto con piacere.
Mi basta sapere che nessuno si
è
fatto male oggi. Poteva andare molto peggio»
dichiarò lei.
«Certo, ha
ragione. Se non ci fosse stata lei
… non so, sarebbe potuto succedere chissà che. La
invito a cena stasera».
«E non
accetto rifiuti» aggiunse rapidamente.
«D’accordo,
se la mette così ... ».
«Certo,
devo pure ringraziarla in qualche
modo» affermò mia madre, cordiale.
Wow, non sarebbe
potuto andare meglio.
Eravamo passati, nel giro di poche ore, dal “dovrei stargli
alla larga” al
“ceniamo insieme”. Potevo sempre fingermi malata;
dopotutto, era stata proprio
la nonna di Giacomo a consigliarmi caldamente di stargli alla larga: di certo non
si sarebbe offesa.
Mentre le due nuove
vicine colloquiavano
piacevolmente, quasi litigando sul ristorante designato, Davide e
Giacomo
avevano già portato tutte le valige dall’auto in
giardino, evitando con
attenzione anche solo di guardarsi in faccia.
«D’accordo,
signora Di Giorgio, ci vediamo
per le venti a casa sua. Guida suo marito o devo venire con la mia
auto?»
chiese Dorotea.
«Fortunatamente
abbiamo un’automobile
capiente, non c’è bisogno che porti la sua.
Allora, a più tardi» salutò mia
madre.
Armata delle mie due
valige, mi precipitai
rapidamente su per le scale, nella mia nuova camera. Non avevo voglia
di subire
un interrogatorio, non ero ancora pronta. Posi i bauli in un angolino
della
stanza e mi sdraiai sul letto: in quel momento, volevo solo dormire. I
colori
del soffitto si facevano sempre più sfumati, sempre
più lontani, mentre mi
addormentavo. In breve tempo, le palpebre mi si chiusero letteralmente
da sole,
talmente forte era la mia emicrania, restituendomi l’ombra
dei ghirigori sopra
la mia testa, in particolare di un occhio dentro un triangolo. Che
fantasia
doveva avere il proprietario. Probabilmente era uno di quei tipi
fissati con la
cultura celtica o religiosa, che ne so.
«Mely!
Svegliati, sono quasi le otto!».
Le urla di mia madre
mi risvegliarono
bruscamente. L’emicrania era passata, per fortuna, ma non
avevo comunque
nessuna intenzione di uscire quella sera; tantomeno con quella
compagnia.
«Mamma,
non mi sento molto bene. Preferisco
rimanere a casa, così inizio a sistemare la
stanza» le strillai in risposta.
«Ha
ragione Ely, è meglio che stia a casa,
stasera».
A parlare era stato
mio padre. Entro pochi
secondi me lo ritrovai nella mia stanza. Era visibilmente angosciato.
«Come ti
senti, tesoro?» mi chiese, accarezzandomi
delicatamente una guancia e indugiando con lo sguardo sulla ferita in
fronte. Mi si era
staccato il cerotto,
notai; era tipico di me muovermi molto mentre dormivo. Mio fratello,
dopo anni
di condivisione della stessa camera, mi aveva ribattezzata
“Taz Tazmania”.
«Bene,
papà, non preoccuparti. Mi fa solo un
po’ male la testa» mentii.
«Vuoi che
rimanga a casa con te?».
«E
lasciare la mamma in balia della guida di
Dorotea? Ti assicuro che sarebbe più al sicuro se guidassi
io, credimi. Non
accetterò più un suo passaggio» dissi,
sogghignando.
«Se guida
peggio di te, deve essere proprio
una pazza assassina»
esclamò lui,
prendendomi in giro.
«Dai, sei
proprio ingiusto. Non sono così
male!» mi irritai.
Lui
scoppiò a ridere di gusto e uscì dalla
stanza, salutandomi con la mano.
Amava scherzare, mio
padre, soprattutto con
me. Non faceva che punzecchiarmi bonariamente.
«Vuoi che
resti io con te?».
Era Davide.
«No, non
preoccuparti, Dado. Vai con loro.
Dorotea potrebbe faticare a reggere la storia che abbiamo raccontato.
Dopotutto, ha ottantuno anni. E non puoi lasciare mamma e
papà soli con quel
ragazzo» dissi.
Mi spaventava non
poco l’idea di lasciare la
mia famiglia sola in compagnia di Giacomo e di sua nonna, ma di certo
sarebbe
stato meglio per loro che io non andassi. “Da
allora ad oggi ha avuto altre otto transizioni, tutte in tua
presenza” … meglio
che fossi assente, allora.
Sentii la porta di
casa sbattere e il
cancello chiudersi: i miei erano usciti.
Decisi, prima di
mettermi a sistemare la roba
in stanza, di scendere in cucina a mangiare qualcosa: ero digiuna dalla
sera
precedente e, passata la reazione da stress con tutta
l’attivazione della
cascata ipotalamo-ipofisi-surrene, sentivo che la mia glicemia iniziava
ad
abbassarsi.
Asse
ipotalamo-ipofisi-surrene … era
evidente che stavo male e che studiassi troppo.
Giunta in cucina,
rimasi meravigliata dal
modo in cui mia madre, in un solo giorno, era riuscita a
personalizzarla,
rendendola accogliente quasi quanto la precedente. Ricordai di aver
preso nella
mia vecchia stanza una foto di papà da giovane, e salii a
prenderla nello
zainetto per riporla in un angolo, dietro la foto del matrimonio dei
miei.
Aprii il frigo
aspettandomi di trovarlo
semivuoto, ma non fu così: inaspettatamente, la mamma aveva
trovato persino il
tempo di fare la spesa. Era davvero una donna piena di
qualità, mi dissi. Mi
preparai un sandwich e lo divorai rapidamente, talmente ero affamata.
Terminata
la “cena”, tornai in camera mia e mi misi a leggere
un libro, al caldo sotto due
piumoni. Avrei sistemato l’indomani, ero troppo stanca anche
solo per muovermi.
Continuavo ad avere la stranissima e fastidiosa impressione di essere
osservata. Scesi dal letto e mi affacciai alla finestra, ritrovandomi
inaspettatamente
di fronte Giacomo: se ne stava seduto sul suo balcone a leggere anche
lui un
libro. Mi nascosi rapidamente dietro le tende, sperando che non mi
avesse
vista; Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere, ed ero sola in
casa.
«Guarda
che ti ho vista» esordì lui.
Ecco, proprio come
temevo. Non avrei mai
potuto fare l’agente segreto.
«Oh, scusa
… non pensavo mi avessi vista»
dissi, imbarazzata. «Come stai?».
Come
stai? Forse quel sandwich
mi aveva dato alla testa.
Lui sembrò più sorpreso di me da quella domanda.
«Io
… bene. Bene, per essere uno che poche
ore fa ha tentato Dio solo sa cosa» rispose.
«Come va
la testa?».
«Sicuramente
meglio della tua ferita. Però
puoi dire a tuo fratello che ha un’insospettabile forza, per
essere un
tredicenne».
«Gli
farà piacere» dissi, abbozzando un
sorriso.
«Cosa stai
leggendo?» mi interessai.
«”I
dolori del giovane Werther”».
«Non credo
però che ai vicini interessino le
nostre conversazioni» aggiunse, ridacchiando.
«Giusto,
stiamo strillando … lettura
interessante. Ti piacciono le storie sui suicidi
d’amore?».
Che domanda stupida.
«Direi
quelle sugli amori impossibili»
rispose, scrutandomi
intensamente. «”Ah questo
vuoto! Questo tremendo vuoto che
sento qui nel petto!... Spesso penso, se potessi stringerla, una sola
volta
stringerla al cuore, questo vuoto verrebbe colmato”.
Se questo non è amore
…».
Quella sua citazione
un po’ mi spiazzò.
Tentai di mantenere la voce ferma.
«Non
dovresti essere ad una cena?» chiesi.
«Potrei
farti la stessa domanda» disse lui.
«Hai
ragione. Non ci sono andata perché
temevo ci andassi tu» esclamai io, sincera.
«Ed io per
lo stesso motivo. Perché pensavo
che tu ci saresti andata».
Seguirono alcuni
secondi di spiacevole
silenzio.
«Penso che
dovresti andare a dormire, domani
hai la scuola» disse a un tratto Giacomo.
«Giusto,
tu non vai più a scuola. Allora …
buona lettura, Giacomo».
Il solo pronunciare
il suo nome sembrò quasi
agitarlo.
«Buonanotte,
Melissa».
L’indomani mattina, al risveglio, ritrovai sul davanzale un
foglietto di carta.
Chiedendomi come fosse arrivato lì, lo aprii.
C’era scritta una frase:
“And when the broken harted people
living in the world agree,
there will be an answer, let it be ….
For though they may be parted,
there is still a chance that they will see
…
There will be an answer, let it be”.*
*
“E quando le
persone dal cuore spezzato che vivono nel mondo
si dicono d'accordo,
allora
ci
potrà essere una risposta, lascia che sia …
Benché
essi
siano separati,
ci
sarà
sempre una possibilità che loro vedranno …
Ci
sarà una
risposta, lascia che sia”.
|
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Capitolo 8 *** Controversie ***
Capitolo
8
Controversie
«Non
capisco perché muori dalla voglia di
socializzare con i vicini» esordii all’improvviso.
Erano quasi le otto
di sera e stavamo uscendo
di casa per andare a cenare al ristorante con la nuova vicina, la
signora
Dorotea.
«Forse
perché lei è stata così gentile da
aiutarci con il trasloco, oggi pomeriggio? O forse perché ha
salvato la vita a
tua figlia …» fu la risposta di mia moglie.
«”Salvato
la vita”… direi che stiamo
esagerando. Le ha semplicemente medicato un taglio sulla
fronte» dissi.
Davide
tossì.
«Vedi,
pure tuo figlio non voleva uscire
stasera» aggiunsi.
«Mio
figlio non vuole mai uscire, quando non
gli piace la compagnia. Devo ricordarti di quando si finse
febbricitante pur di
non cenare con tua madre?» esclamò Elena,
sarcastica.
«Ok, ok
… comandi tu, padrona»
conclusi, baciandola.
«Ecco
perché non voglio mai uscire con voi»
disse Davide, contrariato.
Imboccai il vialetto
del cortile e aprii il
cancello di casa. Non mi piaceva lasciare Melissa da sola,
però sapevo di
potermi fidare di lei: conoscendola, probabilmente si sarebbe messa in
pigiama
a leggere qualche libro. All’uscita, ad aspettarci
c’era la signora Dorotea:
era sola.
«Buonasera,
signora. Prego, salga pure» le
disse mia moglie, lasciandole il sedile anteriore e sedendosi dietro,
accanto a
Davide.
«E suo
nipote … Giacomo, mi sembra che si
chiami … non sarà dei nostri, stasera?»
le chiesi, sperando che il mio tono
risultasse neutro.
«Purtroppo
ha un forte mal di testa, e ha
preferito andare a dormire presto» rispose. «E
Melissa? Sta meglio?».
«Sì,
grazie. Ha ancora un po’ di emicrania
... l’urto deve essere stato forte, dopo la caduta»
dichiarai.
Per il resto del
viaggio non pronunciai più
neanche una parola. In compenso, Elena e la vicina intavolarono una
fitta
discussione su questo e quel politico, infervorate. In quei trenta o
più minuti
che ci separavano dal ristorante non potei fare a meno di pensare a
quel
Giacomo. Non mi aveva fatto molta simpatia già dal primo
giorno che l’avevo
visto, in piedi sul suo balcone a fissare mia figlia; e adesso erano
entrambi
soli, a pochi metri di distanza … ma
no,
mi dissi, Melissa è una
ragazza seria,
posso fidarmi ciecamente di lei.
E infatti, era di lui che non mi fidavo.
«Sinceramente,
non credo che sia stata una
mossa astuta da parte sua, vero, amore?».
Elena si era rivolta
a me, riportandomi
bruscamente alla realtà.
«No,
neanche io, certo» dissi, cercando di
non far trasparire che non sapevo neanche di cosa o di chi stesse
parlando.
«Non stavi
ascoltando, vero?» intuì mia
moglie. «Fa sempre così, si dissocia».
«E chi non
lo fa» esclamò Dorotea,
sospirando.
Voltai
l’angolo e mi trovai di fronte il
ristorantino designato.
«Puoi
lasciarci qui, amore. Noi iniziamo a
prenotare il tavolo, tu nel frattempo parcheggia» dispose
Elena.
«Agli
ordini» risposi, sorridendole.
Fecero per scendere
dalla macchina, ma li
fermai.
«Aspetta
un attimo, Davide. Devo parlarti»
dissi, rivolto a mio figlio.
A malincuore, il
ragazzo si risistemò sul
sedile posteriore.
«Non
rimproverarlo per quel cinque in storia,
può sempre migliorare, e ha la squadra che lo
impegna» si raccomandò mia
moglie.
«Sarà
fatto» controbattei, laconico.
Osservai Elena e la
signora Dorotea che si
allontanavano nel traffico, dirette verso il ristorante.
«Papà,
ti prometto che per il prossimo
compito studierò di più …»
iniziò Davide.
«Non mi
interessa nulla del compito, non
adesso. Sai qualcosa di quel Giacomo?» chiesi,
interrompendolo.
La mia domanda
sembrò spiazzarlo.
Evidentemente non se la aspettava, e non era preparato a quel tipo di
interrogatorio.
«Cosa
dovrei sapere? E’ il nostro nuovo
vicino» rispose.
Era ovvio che
sapesse altro e che non era
intenzionato a dire di più.
«E basta?
Sai solo questo? Non avete proprio
parlato, oggi pomeriggio?».
«Mamma
mia, non ti sopporto quando fai così»
esclamò mio figlio. «Manco fossi un membro
dell’Inquisizione. So che vive con
la nonna- la signora Dorotea – e che ha circa ventidue anni,
basta».
«Ventidue
anni … e cosa fa nella vita?
Studia? Lavora? Si fa mantenere dalla vecchietta?» domandai.
Era chiaro che fossi
stato troppo insistente,
perché Davide iniziò a sbuffare e fece per
andarsene, scocciato.
«Ok,
scusa. Ti credo. Vorrei che stesse alla
larga da Melissa, non mi piace» dissi.
«E forse
l’Alzheimer ti sta facendo brutti
scherzi, papà. Mi spiace dirtelo, ma io non
sono Melissa» concluse lui, aprendo la portiera e
avviandosi verso il
ristorante.
Bene,
l’avevo fatto arrabbiare. Ovviamente le
mie preoccupazioni non lo sfioravano nemmeno. Parcheggiai
l’auto e mi diressi
anche io verso l’interno del locale. Un locale semplice, devo
dire. Una ventina
di tavoli disposti in serie e qualche poltrona qua e là,
vicino a dei camini
spenti.
«Ce
l’hai fatta, amore» mi accolse mia
moglie.
«Scusami,
non riuscivo a trovare parcheggio»
mi giustificai io.
«Nell’attesa,
abbiamo iniziato ad ordinare.
Non le dispiace, vero?» chiese Dorotea.
«No, si
figuri. Avete fatto bene».
Il resto della
serata procedette tranquillo,
con Elena e la vicina impegnate in discussioni perlopiù
sulla politica,
intercalate a riflessioni sul tempo (che non mancano mai) e ad
inevitabili e
dettagliate – fin troppo - descrizioni dei malori
dell’anziana.
«
… e lo scorso mese sono andata al centro
osteoporosi. Sa, con l’età si rischia sempre. Il
medico mi ha prescritto una
cura a base di vitamina D e bifosfonati, raccomandandosi di prendere
abbastanza
sole. Ma dove dovrei prenderlo il sole, qui da noi? Piove
trecentosessanta
giorni all’anno!» esclamò, ridendo di
gusto. Bevve un sorso d’acqua, giusto il
tempo di riprendere fiato, e ricominciò.
«Poi
sembra che tutte le malattie ce le abbia
io. Osteoporosi, ipertensione, diabete …
All’ultimo controllo, il medico di
famiglia dice di avermi sentito un soffio al cuore. Chissà,
probabilmente anche
quello non funziona più come una volta
…».
Avrei voluto
interromperla e dirle che sì, è
normale ad ottantuno anni che niente funzioni più come una
volta, ma non lo
feci. Mi limitai a scambiarmi occhiate divertite con mia moglie, che,
dal canto
suo, sembrava ascoltare i racconti istrionici della vicina con profondo
interesse.
Avrebbe dovuto fare
l’attrice. Persino quando
si mise a parlare del fatto che le sembrava, quella mattina, di aver
“sputato nero”,
Elena rimase seria e
finse sincero coinvolgimento.
«Mio
marito conosce una bravissima
dottoressa, magari può parlare a lei del colore del suo
espettorato» esclamò a
un tratto, interrompendo Dorotea.
«Sul
serio? Ne terrò conto» disse la donna,
visibilmente interessata.
Davide, nel
frattempo, un po’ ridacchiava un
po’ chattava con l’amico Giovanni.
«Si
è fatto un po’ tardi» esordii.
Erano quasi le
ventitre.
«Hai
ragione, Edo. Direi di tornare a casa,
se lei è d’accordo» propose mia moglie,
rivolta alla vicina.
«Certo,
avete ragione. Io tra l’altro dovrei
fare l’iniezione di insulina, prima di andare a letto.
Giacomo mi starà
aspettando in piedi» dichiarò Dorotea.
«Non ha
scuola, domani?» chiesi io, fingendo
di non conoscere l’età del nipote.
«No,
è già da un po’ che l’ha
finita. Però
lavora, fa il fotografo».
«Affascinante,
come attività» sostenne Elena,
incuriosita. «Anche a Melissa piace la fotografia».
«Sembra
proprio che abbiano molto in comune»
disse la vicina, indossando la pelliccia.
Il
fotografo. Ci mancava solo
che avessero anche questa
passione in comune.
«A
proposito, vorrei ringraziarla nuovamente
per oggi pomeriggio» ribadì mia moglie.
«Se non fossi riuscita a contattarla,
probabilmente avrei pensato il peggio».
«Si
figuri. Ma come ha fatto a trovare il mio
numero di cellulare? Non mi sembrava di averglielo lasciato»
chiese Dorotea.
«Sono
passata da suo figlio».
La risposta
sembrò atterrire l’anziana, che
per poco non ebbe un mancamento. Anche Davide sembrava agitato. Quei
due mi
nascondevano decisamente qualcosa.
«Signora
Dorotea, tutto bene?».
Elena si
avvicinò alla donna per sorreggerla.
«Sì,
tutto bene. Probabilmente mi si è
abbassata troppo la glicemia. L’avevo detto al dottore che la
nuova pillola era
troppo forte per me» si affrettò a rispondere lei.
Stava mentendo.
Solo pochi minuti
prima aveva detto di dover
tornare a casa a fare l’insulina, e adesso sosteneva di aver
preso una pillola
prima di cena; come se non mi fossi accorto che non aveva assunto
nessun
farmaco.
«D’accordo,
l’importante è che stia meglio»
disse mia moglie. «La riaccompagniamo subito a
casa».
Passai anche il
viaggio di ritorno immerso
nei miei pensieri. Perché quella donna aveva mentito sulla
pillola? E,
soprattutto, perché aveva avuto quella reazione quando mia
moglie le aveva
parlato del figlio? Una cosa era certa: meglio tenerla alla larga,
certa gente.
Sentivo che non avrebbe portato altro che guai.
Al rientro a casa mi
spogliai in fretta e mi
misi a letto: l’indomani mattina mi sarei dovuto svegliare
presto, come ogni
santa mattina.
«Perché
ti sei comportato così?» chiese mia
moglie.
Anche lei si era subito messa a letto, senza neppure struccarsi.
«Così
come?» chiesi, confuso.
«Stasera
hai parlato poco o niente al
ristorante».
«Forse
perché per quasi tutto il tempo ci ha
pensato Dorotea a parlare, facendoci una descrizione dettagliata di
tutte le
sue malattie?».
Ero stato troppo
aggressivo.
«E’
un’anziana, Edo. Tutti gli anziani sono
così».
«Comunque
quella donna non mi piace. Ha
mentito sulla glicemia e sulla pillola. Nasconde qualcosa»
dissi, stringato.
«E
perché avrebbe dovuto farlo? Edoardo,
prima non volevi trasferirti qui, adesso parli male dei vicini. E poi
… da
quando tu sei un dottore?» infierì Elena.
A quel punto sbottai.
«Avrei
potuto esserlo» dissi, pentendomene
subito dopo.
Ero stato davvero
uno stupido, ma non volevo
ammetterlo subito. Elena mi diede le spalle e iniziò a
dormire.
Che bella giornata.
Prima la preoccupazione
per Melissa e Davide, poi il litigio con mio figlio, infine il
battibecco con
mia moglie.
Iniziai a dubitare
di aver fatto la scelta
giusta.
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Capitolo 9 *** Zombie ***
Zombie
Another head hangs slowly,
child is slowly taken …
and the violence caused such silence
who
are we
mistaken?
La mia canzone
preferita mi diede il
buongiorno. Guardai la radiosveglia: erano le sette. Scelsi un paio di
vestiti
da indossare e mi diressi verso il bagno (il mio
bagno!). La prima
doccia nella nuova casa fu più lunga del previsto. Avevo
intenzione di godermi
appieno il nuovo bagno tutto mio, e così feci. Mentre mi
sciacquavo i capelli,
non potei fare a meno di pensare alle parole di “Let
it be” scritte sul foglietto nel davanzale della
mia finestra.
“Benché essi siano separati,ci
sarà sempre
una possibilità che loro vedranno …”.
Cavolo, Giacomo
doveva essere proprio cotto
di me. E forse pensava che anche io, nel profondo, fossi perdutamente
innamorata di lui. Che brutta situazione … quando non
ricambi l’amore di
qualcuno, è quasi più difficile per te farglielo
capire che per lui sentirselo
dire.
Specie se quel lui
ha un disturbo
dissociativo d’identità e potrebbe perdere il
controllo da un momento
all’altro.
Altro che Edward
Cullen, pensai amaramente.
Bella poteva pure lamentarsi del suo lui, ma il disturbo di Giacomo era
decisamente più temibile che avere a che fare con un vampiro
vegetariano buono
e inoffensivo, per giunta con i modi di un signorino dei primi del
Novecento.
«Mely,
sono quasi le sette e mezza».
Era mio padre.
«Ho quasi
finito!» mentii.
Stavo diventando
brava con le bugie. Un corso
accelerato di spionaggio e avrei potuto fare l’agente
segreto. Il tempo
di asciugarmi i capelli ed ero già in
cucina.
«A
qualcuno piace fin troppo la sensazione di
avere un bagno tutto per sé» osservò
mia madre, porgendomi il pacco di cereali.
«Potrei
abituarmici, in effetti» risi.
Tra lei e mio padre
doveva essere successo
qualcosa la sera prima: notai che evitavano di guardarsi in faccia.
«Allora,
come è andata ieri sera a cena?»
domandai, improvvisando un tono neutro.
«Benissimo,
cara» si limitò a rispondere mia
madre.
«Certo, benissimo.
Abbiamo imparato a memoria tutte le malattie della vicina, ma
è andata comunque
benissimo» intervenne mio
padre.
Ed ebbi la certezza
che avevano litigato.
«Anche
Davide si è divertito» puntualizzò mia
mamma.
Avevo seri dubbi che
fosse vero, conoscendo
mio fratello da (ahimè) ormai molti anni.
Finimmo la colazione
in silenzio e mio padre
ci accompagnò a scuola.
«Vai
piano» furono le uniche parole che gli disse la
mamma.
Dovevano aver
litigato seriamente, visto che di
solito al mattino si baciavano come minimo tre volte, prima di uscire
di casa.
«Melissa».
Eravamo quasi
arrivati a scuola, quando mio
padre si rivolse a me.
«Non mi
piacciono i nuovi vicini».
Davide era
già sceso da un paio di minuti.
«Ok»
fu la mia risposta.
Non capivo cosa
volesse da me.
«La
signora Dorotea è strana. E suo nipote …
bè, strano è un eufemismo, rivolto a
lui».
Capii dove voleva
arrivare.
«Papà
puoi stare tranquillo».
Sembrò
sorpreso da quella mia affermazione.
«Certo che
posso stare tranquillo» si
ricompose. «Mi preoccupo per tua madre. Adesso ha voglia di
socializzare con
loro, non so perché».
Avrei voluto dirgli
che non ci trovavo nulla
di strano nella volontà della mamma, ma lasciai perdere;
conoscevo troppo bene
mio padre: quando si fissava con qualcosa, era impossibile fargli
cambiare
idea.
«Questa
è la mia fermata, comunque» dissi.
Eravamo arrivati a
scuola.
«Non so
cosa sia successo fra te e mamma, ma
penso sia stupido che vi mettiate a litigare per così
poco» aggiunsi, scendendo
dall’auto.
«Fai la
brava!» mi urlò alle spalle.
Come se stessi
andando all’asilo.
All’ingresso
dell’istituto scorsi Giada, la
mia migliore amica.
«Qualcuno
qui ha fatto una doccia bella
lunga, stamattina» commentò, salutandomi.
«E tu come
fai a saperlo? Devo preoccuparmi,
hai messo delle microcamere in casa mia?».
Rise.
«Sì,
e sono ben nascoste. Non le troverai
mai. Dovresti smetterla di ascoltare “Zombie”,
mi sta stancando».
La guardai, un
po’ divertita un po’ scioccata.
«Semplicemente,
sei in ritardo. E non è da
te. Mi delude, signorina Martini »
dichiarò, in una credibilissima imitazione della
professoressa di latino.
Scoppiai a ridere.
Era sempre stata
bravissima, con le imitazioni.
«Mi scusi,
prof. Non succederà più».
«E
certo che non succederà più. Lasci stare i
Cranberries, oggi la interrogo in
latino» proseguì Giada.
«Dai,
Giada. Sai che potrebbe succedere, e
ieri non ho neppure aperto il libro, a causa del trasloco».
Entrammo in aula,
mestamente come ogni
mattina. Quel giorno faceva particolarmente caldo, nonostante fossimo
solo a
maggio. Mi venne in mente una cosa.
«Ehi, ti
ricordi il falò in spiaggia del
terzo anno?».
Giada mi
fissò. Sembrava turbata da quella
domanda.
«Giurammo
di non parlarne più, dopo la tua
prima – ed ultima - sbronia».
«Sul
serio?».
Non lo ricordavo.
«Ti
ricordi di qualche ragazzo?» chiesi.
«Di molti,
in effetti».
Tipico di Giada:
andava alle feste solo per
rimorchiare.
«Stupida
io, che ti faccio queste domande
retoriche. Hai presente quel tipo che mi segue da mesi?».
«Chi? Edward
Cullen?».
L’aveva
ribattezzato così, più che per i
capelli biondi per l’aria eccentrica e riservata.
«Cosa
c’entra, adesso? Certo che mi ricordo
di lui».
«Bene.
E’ il mio nuovo vicino, e dice di
avermi conosciuta al falò di due anni fa in spiaggia.
Peccato che io non mi
ricordi proprio di lui».
Sembrava divertita.
«Ma certo,
è per questo che ti seguiva! Io
neppure mi ricordo di lui, però. Ero più ubriaca
di te» esclamò.
Non sapevo se
raccontarle tutto: della sua
malattia, di quanto accaduto il giorno prima, della nonna …
Ma sì,
era la mia migliore amica: come avrei
potuto nasconderglielo?
«Ti devo
raccontare una cosa. Ma promettimi
che non ti scioccherai».
«Non mi
scioccherò». Era curiosissima. «Avanti,
sputa il rospo».
Iniziai a
raccontarle del disturbo
dissociativo d’’identità di Giacomo,
spiegandole cosa fosse; avevo iniziato ad
accennarle al dialogo della sera prima, quando la professoressa ci
interruppe.
«Martini,
De Fazio, sono oltre dieci minuti che
parlate ininterrottamente. Che ne dite di parlarmi di
Agostino?».
Ecco, proprio quello
che temevo. Rivolsi un’occhiata
di supplica a Giada, che la colse al volo.
«Oggi
vengo io, prof. Melissa è reduce da un
trasloco».
Era proprio
un’amica. Peccato che neanche lei
avesse studiato, infatti l’interrogazione non fu proprio un
successo.
«Grazie,
Giada. Ma avresti potuto dirle che
eri ad aiutarmi, ieri pomeriggio. Ti saresti salvata anche
tu» le dissi, all’uscita
da scuola.
«Ma
sì, un quattro in più non rovinerà la
mia
media. E poi, ci penserai tu ad alzarla: domani abbiamo compito in
classe. E io
ti voglio bene».
«Te
l’avrei passato lo stesso».
Ci abbracciamo.
«Io vado,
Mely. O vuoi che aspetti con te tuo
padre?».
Era chiaro che il
racconto su Giacomo l’avesse
spaventata, anche se non voleva ammetterlo.
«Stai
tranquilla, non ho bisogno della
guardia del corpo» la rassicurai. «Tra poco
arriverà mio padre».
Non sembrava
convinta, ma non insistette. Mi
salutò e salì sulla moto del suo ragazzo.
Guardai
l’orologio: erano ancora le cinque.
Mio padre ci avrebbe messo ancora un po’ per arrivare. Mi
sedetti sul
marciapiede, stanca. Stavo ascoltando l’ipod, quando si
fermò un’auto.
Era Giacomo.
«Ehilà»
esclamò, a mo di saluto.
«Ciao».
«Cosa fai
tutta sola?».
«Aspetto
mio padre».
Eravamo entrambi
incredibilmente imbarazzati.
«Vuoi un
passaggio?» chiese. Era evidente che
farmi quella domanda era stato non poco impegnativo per lui.
«Non ti
preoccupare, tra poco arriverà mio
padre» gli dissi.
Continuava a
guardarmi.
«Dai, sta
per piovere».
Era vero, dovetti
constatare.
«Giuro che
non ti ucciderò e non farò a pezzi
il tuo cadavere» aggiunse, pentendosene subito dopo.
Mi sforzai a ridere,
ma ne uscì fuori solo un
sorrisetto appena abbozzato. In quel momento, mi squillò il
cellulare: era mio
padre. Lessi l’sms: “Mely,
stasera
ritardo un po’. Arriverò per le sei”.
Fantastico.
Giacomo dovette
cogliere l’espressione sul
mio viso, perché uscì dalla macchina in fretta e
mi spalancò la portiera.
«Avanti,
Sali. E non accetto rifiuti».
Così
salii.
|
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Capitolo 10 *** Solo una possibilità ***
Solo
una possibilità
<<
Vuoi ascoltare la radio? >>.
Era
evidente che quella situazione imbarazzasse più
lui di me. Così vicini non eravamo più stati,
dopo l' "incidente" del
pomeriggio precedente. Ma allora perché diavolo mi aveva
offerto - anzi, imposto - un
passaggio?
<<
No, sto bene così >> risposi.
La
mia proverbiale fortuna, poi, avrebbe fatto sì
che la radio, contro ogni statistica possibile, trasmettesse nuovamente
“Let it be”. E
questo avrebbe
decisamente peggiorato le cose.
<<
Ti piacciono i Cranberries, vero?
>>.
Ecco,
questo sì che era inquietante; possibile che
lui e Giada avessero sul serio impiantato delle microcamere in casa
mia? Parve
cogliere la mia espressione impressionata.
<<
Stai tranquilla, non ti sto spiando. Ho
letto il nome del gruppo sull'ipod >>.
Già,
che stupida. Abbassai lo sguardo sul lettore,
fermo su 'Linger'.
<<
Sì, li adoro >> mi lasciai sfuggire.
<<
Non sono male, in effetti. Anche se io preferisco
i Beatles >>.
<<
Perché mi hai lasciato quel biglietto,
stamattina? >>.
Non
riuscii a trattenermi: che senso aveva fingere
di essere amici, quando tutti e due sapevamo benissimo che era
pericoloso anche
solo guardarsi negli occhi?
<<
I-io .... >> iniziò.
<<
Ti prego, lasciami stare. È evidente che
non sono interessata a te >>.
Forse
ero stata troppo dura con lui. Frenò
bruscamente e scese dalla macchina. Fuori aveva iniziato a piovere, e
in poco
tempo si ritrovò inzuppato dalla testa ai piedi. Non capivo
cosa avesse
intenzione di fare, fermo in piedi sotto la pioggia. Aprii la portiera
e lo
raggiunsi.
<<
E adesso cosa diavolo stai facendo?!
>> strillai.
Mi
guardò intensamente. Distolsi in fretta lo
sguardo: possibile che stesse avendo una "transizione", come le
chiamava sua nonna? Gli sottrassi le chiavi dell'auto dalla mano,
pronta a
fuggire alla prima avvisaglia di pericolo.
<<
Perché non mi vuoi dare una
possibilità? >>
chiese.
La
sua, più che una domanda, suonava come una
supplica.
<<
Mi sembra chiaro il perché >> mi
limitai a dire.
Sembrò
sorpreso da quella risposta.
<<
Per via della mia malattia? >>.
Annuii.
Era chiaro che fosse per quello, che razza
di domande faceva?
<<
Ti chiedo solo una possibilità, Melissa.
Oggi sono andato dallo psichiatra, che mi ha cambiato la terapia. Dice
che mi
darà più effetti collaterali, ma dovrebbe tenermi
sotto controllo >>.
Pretendeva
davvero che gli credessi? Non ero
affatto un'ingenua, nonostante la giovane età.
<<
Mi dispiace ... >> cominciai.
<<
Melissa, ti giuro su mia madre che mi
allontanerò da te e da tutta la tua famiglia, se mai ti
farò anche solo un
graffio >>.
Wow,
doveva essere proprio innamorato per giurare
sulla madre defunta. O estremamente fiducioso nella nuova terapia. Ma
io non
ero ancora convinta; dopotutto, a parlare era il Giacomo buono, e chi
poteva garantirmi
che l'avrebbe comunque pensata così, una volta
"trasformatosi" nel
suo alter-ego?
<<
Ti prego >>.
Era
tornato a supplicarmi.
<<
D'accordo >> dissi, quasi
automaticamente.
E me ne
pentii nell'istante stesso in cui pronunciai quelle parole.
Giacomo
si illuminò in volto.
<<
Grazie >> esclamò.
Nel
frattempo, anche io mi ero completamente
inzuppata. Lui se ne accorse, e fu rapido a tornare in auto e prendermi
il suo
giaccone, adagiandomelo sulle spalle.
<<
Adesso ci conviene tornare in macchina
>> disse.
Gli
porsi le chiavi, ma non le prese.
<<
Guida tu, io ho un po’ di sonnolenza. Gli
effetti collaterali che ti dicevo prima iniziano a farsi sentire
>>.
Mi
sedetti dalla parte dell'autista, spiazzata.
Giacomo era decisamente più alto di me, e non di poco:
dovetti spostare in
avanti il sedile di alcuni centimetri.
<<
Stai tranquilla, ci sono io >> mi rassicurò.
Certo,
chi non starebbe tranquillo avendo accanto
un potenziale sociopatico? Non che il mio ex insegnante di guida fosse
meglio,
in effetti.
Misi
in moto l'auto, riuscendo miracolosamente a
non spegnerla. Sembrava che con lui accanto fosse tutto più
facile.
<<
Quindi ti piacciono i Beatles >>
dichiarai.
Il
silenzio era persino più imbarazzante della
discussione di prima.
<<
Sì >> si limitò a rispondere.
Evidentemente
non voleva parlare del bigliettino di
quella mattina.
<<
Dovresti cambiare marcia >>.
<<
Ma tu non eri sonnolente? >>
puntualizzai.
Rise.
<<
É che la mia auto mi sta chiamando in
aiuto >>.
Tipico
dei ragazzi.
<<
Già, perché le auto parlano, come dite voi
uomini. Io non le ho mai sentite, comunque >>.
<<
Forse perché parlano una lingua diversa
dalla tua >> mi prese in giro.
Decisi
di accettare il suo consiglio; allungai la
mano per cambiare marcia, e in quello stesso momento compì
anche lui lo stesso
movimento, così che le nostre mani si sfiorarono. Sentii
tremare la sua,
incredibilmente fredda, sotto la mia, e la allontanai rapidamente.
<<
Scusa >> disse, guardandomi con aria
triste e al contempo spaventata.
<<
Non preoccuparti >> lo rassicurai.
<< Succede >>.
Per
il resto del tragitto, nessuno dei due proferì
parola. Eravamo quasi arrivati a casa, quando mi ricordai di non aver
risposto
all'sms di mio padre.
Cavolo,
mi avrebbe come minimo uccisa se mi avesse
vista insieme a Giacomo, per di più a guidare. Ferma ad uno
stop, estrassi il
cellulare dalla tasca e guardai l'ora, tirando un respiro di sollievo:
erano
ancora le cinque e mezza . Composi rapidamente un sms di risposta:
"Papà,
non preoccuparti. Mi ha accompagnata a casa Giada". Almeno non si
sarebbe
spaventato. Giacomo guardava fuori dal finestrino.
Un'ultima
curva, e arrivammo a casa.
<<
Tua madre sarà preoccupata >>
dichiarò.
<<
Non credo, le luci sono spente. Deve
essere uscita a fare la spesa >>.
Strano,
però. Di solito era sempre in casa, a
quell'ora.
<<
Allora, io scendo qui >> dissi,
spegnendo l'auto e restituendogli le chiavi.
Mi
guardò, stupito.
<<
Guarda che anche io abito qui. O forse ti
ho graffiata cercando di cambiare marcia e adesso devo abbandonare il
quartiere? >>.
Quella
sua affermazione mi fece ridere
involontariamente. Come poteva passare, in pochi minuti, dalla
timidezza più
estrema al sarcasmo pungente? Quella sua capacità mi
affascinava.
<<
Giusto. Però la macchina la parcheggi tu
>> specificai.
L'avevo
lasciata praticamente in mezzo alla strada.
Tipico di me, non sapevo proprio cosa fosse un parcheggio.
<<
La prossima volta ti insegnerò a
parcheggiare >>.
Dava
per scontato che ci sarebbe
stata una prossima volta. Forse non
avrei dovuto illuderlo, dandogli una possibilità.
<<
Vedremo. Buonanotte >> gli dissi,
allontanandomi.
Mi
ricordai di avere addosso il suo giubbotto. Feci
per togliermelo, ma mi fermò.
<<
Te l'ho detto, me lo restituirai la
prossima volta, quando ti insegnerò a parcheggiare
>>.
<<
Grazie >> gli dissi.
Mi
avvicinai al cancello di casa e lo aprii.
<<
Comunque non avrei sperato in niente di
meglio che toccare la tua mano, stasera >> mi
strillò dietro.
Non
commentai.
<<
Buonanotte, Melissa >>.
Non
si poteva negare che fosse incredibilmente
dolce.
|
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Capitolo 11 *** Preoccupazioni ***
Preoccupazioni
C’era
solo Davide in cucina, quando
aprii la porta di casa. Se ne stava sdraiato sul divano a guardare
tranquillamente la tv.
<<
Ciao, Dado. Mamma e papà?
>> gli chiesi.
Non sembrava per
nulla preoccupato.
<<
Non ne ho idea >> fu
la sua risposta.
<<
Come non ne hai idea? Sono
quasi le sei di sera, non ti sfiora neppure lontanamente il pensiero
che possa
essere successo qualcosa? Mamma è sempre a casa a
quest’ora >>.
Quel ragazzo era
davvero incredibile.
Possibile che nulla lo turbasse? Non era più un bambino,
ormai.
<<
Che ne so, Mely. Papà sarà
andato a prendere mamma al lavoro >>.
Al
lavoro?
<<
Quale lavoro? >> gli
domandai.
<<
E’ stata la stessa faccia
che ho fatto io quando l’ho scoperto. Solo che io
l’ho saputo stamattina, dal vivo, quando
l’ho vista entrare in
palestra. Davanti a tutti i miei compagni di squadra. Tutti
>>.
Sembrava
sconvolto. Manco stesse
raccontando un’impresa di guerra.
<<
Il cocco di mamma >>
lo presi in giro.
Sembrò
prendersela, e mi diede le
spalle.
<<
Dai, scherzavo >>
tentai di rimediare. << E fino a che ora deve lavorare
mamma? >>.
<<
Che io sappia, fino alle sei
e mezza >>.
Bene.
Perché diavolo non l’aveva
detto subito?
<<
Grazie per avermi fatta
preoccupare invano, allora >> gli dissi, irritata.
Uscii dalla
cucina e mi diressi verso
la mia stanza. Decisi, per sicurezza, di inviare un sms a mia mamma,
per
chiederle conferma di quanto detto da mio fratello. Dopo neanche cinque
minuti,
mi squillò il cellulare: era lei.
<<
Pronto? >> risposi.
<<
Ciao Mely, sono la mamma
>>.
<<
Lo so che sei tu, mamma. E’ apparso
il tuo nome sul telefono >>.
Lei e la
tecnologia erano come Gandhi
e la violenza.
<<
Ah, giusto. Ti volevo
avvisare che rientrerò più tardi, faccio un salto
dalla nonna all’uscita dal
lavoro >>.
<<
Ecco, quando pensavi di
dirmi che adesso hai un lavoro? >> la stuzzicai.
<<
Mely, non abbiamo proprio
avuto tempo di parlare, dopo il trasloco. Adesso lo sai
>> mi interruppe.
Decisi di non
ribattere: ne avremmo
riparlato a casa quella sera stessa.
<<
E papà viene con te?
>> le chiesi.
<<
Papà? No, certo che no. Tuo
padre che va a trovare tua nonna? >> rise.
<< Perché me lo chiedi?
Non è ancora tornato a casa? >>.
Si era
preoccupata, come al suo
solito.
<<
Mely, chi ti ha accompagnata
a casa, allora? >>.
<<
Giada >> risposi in
fretta.
Tirò
un sospiro di sollievo, ben
percepibile.
<<
Adesso però sono preoccupata
per papà >> le dissi.
Quel mio
carattere ansioso e
ansiogeno l’avevo ereditato da lei.
<<
Provo a chiamarlo e ti
faccio sapere, ok? >> dichiarò, ponendo fine
alla conversazione.
Che giornata.
Addirittura più
bizzarra di quella precedente. Decisi, nel frattempo, di mettermi a
studiare
qualcosa, certa che la mattina successiva la professoressa di latino
avrebbe
interrogato me. Avevo appena aperto il libro, iniziando a
sottolinearlo, quando
mi arrivò l’sms di mia madre: “Stai
tranquilla, papà arriverà per le otto”.
Bene, almeno anche a lui non era
successo nulla. Mi guardai intorno: la mia stanza era ancora totalmente
in
disordine. Dovevo sistemare, mi toccava proprio. Diedi una rapida
lettura alla
biografia e al pensiero di Agostino, sperando di aver assimilato
qualcosa, e mi
misi a riordinare. Ci misi in tutto quasi due ore, ma alla fine la mia
stanza
era perfettamente pulita e sistemata, arredata con le numerosissime
foto di
famiglia e le mie decine di peluche tutti in fila, dal più
vecchio e logoro al
più recente, regalatomi dai miei per il diciottesimo
compleanno. Era un orsetto
a misura d’uomo, alto quasi quanto me: Teddy.
Ripensai al giorno in cui mio papà me lo donò,
esortandomi a tenerlo in camera
con me “fino al matrimonio”. “C’è
dentro
una telecamera”, mi aveva detto, “il
che significa che saprò perfettamente chi entra ed esce
dalla tua stanza”.
Rabbrividii, sperando che la sua fosse stata solo una battuta
divertente:
troppe persone sembravano spiarmi. Guardai l’orologio del
cellulare: si erano
già fatte le otto. Che strano, papà non era
ancora arrivato. Mi affacciai dalla
finestra: nemmeno l’ombra di un’auto in
avvicinamento. Mi stupì la sorprendente
– ed inquietante – tranquillità di quel
quartiere; era ancora sera, eppure non
c’era già nessuno per strada. Scesi in cucina,
trovando Davide, come
sospettavo, ancora sdraiato davanti alla televisione.
<<
Ma tu non hai mai compiti?
>> gli chiesi, ficcando il naso nel suo zaino.
<<
Ma tu non hai nient’altro da
fare che farti gli affari miei? >>
controbatté, sottraendomi rapidamente
la cartella.
<<
Fai come vuoi >>.
Mi ero stancata
di stargli dietro;
era chiaro che non gliene poteva importare nulla dello studio. Si
scaraventò
nuovamente sul divano, alzando il volume del televisore.
<<
Però almeno abbassa il
volume, siamo qui solo da un giorno e vuoi farci cacciare?
>> gli
strillai.
<<
Guarda che ti ho vista. Con
Giacomo >>.
Cavolo.
<<
Mi ha solo dato un passaggio
>> specificai.
<<
E la sua giacca >>
osservò.
La sua giacca! Me ne ero completamente
dimenticata. Era appesa
all’ingresso: dovevo essermela tolta inconsciamente.
<<
Dado, non dire niente a papà
… >> lo supplicai.
<<
Cosa vuoi che me ne importi di
papà. Mely, quel tipo è pericoloso, non dovresti
frequentarlo >>.
Se non
l’avessi conosciuto così bene,
avrei pensato che fosse preoccupato per me. E, in effetti, lo sembrava.
<<
Stai tranquillo >> lo
rassicurai. << Mi conosci, sono la persona più
affidabile e noiosa di
questo mondo >>.
<<
Lo so, ma sei anche la più
buona che conosca. So che tu … hai scoperto che mi hanno
espulso dalla squadra
>>.
Era vero.
<<
Dado, io non ho … >>
iniziai.
<<
Lo so, non hai detto niente
a mamma e a papà. Per questo dico che sei buona
>>.
Erano mesi che
Davide era stato
cacciato dalla squadra di basket, ed io avevo deciso di non dirlo ai
miei. Pare
l’avessero sorpreso a fumare uno spinello negli spogliatoi, o
roba del genere.
Lui mi aveva assicurato che era stato un caso, che in realtà
lo spinello era
del suo amico Giovanni, ed io avevo voluto credergli. Volevo troppo
bene a mio
fratello per tradirlo. Continuava ad andare in palestra tutti i giorni, per non far insospettire la mamma.
<<
Comunque come pensi di
cavartela, adesso che mamma lavora lì alla tua palestra?
>> gli domandai.
<<
Non so, probabilmente l’ha
già scoperto >>.
Sembrava
più addolorato che
spaventato.
<<
L’avrò delusa >>
aggiunse.
<<
No, Dado, sono sicura che
non è così >> tentai di consolarlo.
<<
Tu pensa a stare lontana da
Giacomo >> mi intimò.
<<
D’accordo >> lo
rassicurai.
<<
Sono già le otto e venti,
strano che papà non sia ancora arrivato >>
dissi.
<<
Già. Io vado a farmi una
doccia >> dichiarò, dirigendosi verso il bagno.
Era incredibile:
non lo turbava
proprio nulla. Decisi di uscire per strada ad aspettarlo. Sapevo
perfettamente
che non sarebbe servito a nulla, ma non mi piaceva sentirmi
così impotente.
Muovermi, almeno, mi dava l’illusione di fare qualcosa di
utile. Arrivata sul
marciapiede, scorsi un uomo in lontananza. Poteva avere sì e
no cinquanta anni,
il classico tipo da evitare. Mi vide anche lui e si
avvicinò. Ormai era troppo
tardi per fingere di non averlo notato, e rientrare in casa sarebbe
stato
scortese. Maledissi mia madre mentalmente per avermi insegnato
l’educazione.
<<
Ciao >> esordì.
<<
Salve >>.
Ma chi ti
conosce, avrei voluto
aggiungere.
<<
Stasera fa caldo >>
aggiunse.
Ecco, aveva
iniziato a parlare del
tempo. Fantastico.
<<
Già >> dissi.
<<
Tu devi essere la figlia
della nuova vicina >>.
E tu chi diavolo
sei?
<<
Sì, e lei chi è? >>
chiesi, cercando di non suonare sgarbata. Persino in momenti del genere
mi
preoccupavo dell’educazione, incredibile.
<<
Sono il padre di Giacomo
>>.
Wow. Ma non
doveva essere in galera
ancora per molto?
<<
Vi ho visti rientrare
insieme, stasera >> osservò.
<<
Sì, mi ha dato un passaggio
>>.
Cercai di
mantenere un tono
tranquillo, anche se in realtà ero letteralmente paralizzata
dalla paura.
<<
Ti consiglio di stargli
lontana >> mi intimò.
E con lui
eravamo a tre. Anzi a quattro,
contando la signora Dorotea.
Decisi di non
commentare.
<<
Sembri una ragazza seria.
Giacomo ti farebbe solo soffrire
>>.
Ma come si
permetteva di parlarmi
quasi “da padre a figlia”? Non conoscevo neppure il
suo nome.
Si
avvicinò a me, cogliendomi alla sprovvista.
Non sapevo cosa fare; ero pronta a strillare, quando mi
soffiò su una guancia.
<<
Avevi un ciglio >> si
giustificò.
Apparve
all’orizzonte un’auto: mio
padre stava rientrando.
|
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Capitolo 12 *** Fraintendimenti ***
Fraintendimenti
<<
Signore, signore … >>.
Mi svegliai
all’improvviso. Il barman
mi stava chiamando con insistenza.
<<
Mi scusi … grazie >>.
Nel locale mi
stavano fissando tutti,
imbarazzati per me. Pagai il conto, presi la giacca e uscii in fretta.
Provavo
solo vergogna per me stesso; non ci potevo credere, ero tornato a bere.
Erano
ormai diciannove anni che avevo smesso, da poco prima che nascesse
Melissa,
dopo un lungo e faticoso percorso di riabilitazione. Come era potuto
succedere?
Rivolsi lo sguardo sull’orologio da polso: erano
già le sei e mezza. Melissa!
Presi velocemente il cellulare
e notai che avevo ricevuto due sms. Il primo era proprio di Melissa:
“Papà, non preoccuparti.
Mi ha accompagnata a
casa Giada”. Tirai un respiro di sollievo. Il
secondo sms era di mia
moglie: “Edo, dove sei finito?
Melissa e
Davide sono preoccupati”. Dubitavo seriamente che
Davide fosse preoccupato.
Le risposi che andava tutto bene, che semplicemente ero uscito
più tardi dal
lavoro e che sarei stato a casa per le otto, vergognandomi non poco di
me
stesso: ero tornato a mentire alla donna che amavo. Salii in macchina e
ripercorsi mentalmente la giornata, ormai agli sgoccioli. A lavoro era
andato
tutto male, come sempre, e soprattutto io e mia moglie non ci
parlavamo:
succedeva raramente dopo un litigio. La sera prima ero stato un vero
idiota con
lei, per la faccenda dei vicini. La verità era che non
volevo che li
frequentasse; non mi fidavo né della signora Dorotea
né tantomeno del nipote,
quel ragazzo strano. Però non avrei dovuto parlarle in quel
modo, non se lo meritava
proprio. Composi il suo numero di telefono, deciso a scusarmi.
<<
Pronto? Edo? >>.
Era palesemente
preoccupata.
<<
Amore >> dissi,
cercando di non far capire che avevo bevuto.
Elena aveva come
un sesto senso per
certe cose.
<<
Va tutto bene? >> mi
chiese. << Hai una voce strana >>.
<<
Sì, va tutto bene >>
mentii.
<<
E’ successo qualcosa al lavoro?
>> si interessò.
<<
No, non è successo nulla.
Dovevo recuperare delle ore al lavoro e … avevo solo voglia
di sentire la tua
voce >>.
Mi sentivo
terribilmente in colpa.
<<
Ok >>.
Sembrava fredda.
<<
Sei già a casa? >> le
domandai.
<<
No, oggi ho iniziato a
lavorare alla palestra di Davide, non ricordi? >>.
Giusto. Me ne
ero completamente
dimenticato.
<<
Sì, mi ricordo >>
mentii. << Non sei ancora uscita? >>.
<<
Sto finendo adesso di
allenare le ragazze >>.
<<
Vuoi che passi a prenderti
al lavoro? >> mi offrii.
<<
No, non preoccuparti.
Prenderò l’autobus. E poi hai detto che il turno
finisce alle otto >>.
Era vero, avevo
scordato di averle
scritto così.
<<
Lo so, ma potrei uscire
prima … >> tentai di rimediare.
<<
Non c’è bisogno. Prenderò
l’autobus >> mi interruppe.
Perché
si comportava così? Perché era
così fredda e distante?
<<
Ok, allora … a stasera
>> la salutai.
Silenzio.
<<
A stasera >> disse
infine.
Sentii che aveva
interrotto la
conversazione, e mi resi conto che per la prima volta, dopo oltre
diciannove
anni di matrimonio, non ci eravamo detti che ci amavamo. Lo so, sembra
una cosa
stupida, ma non lo era. Il giorno del fidanzamento ci giurammo che ce
lo
saremmo detti sempre, ad ogni saluto, ogni giorno, anche centinaia di
volte al
giorno. E ci era capitato molte volte di litigare, anche di brutto,
però mai a
tal punto da “toglierci il ti amo”,
come dicevamo spesso. Quella situazione non mi piaceva proprio, non ce
la
facevo ad avercela con Elena; la amavo troppo. Avvistai un negozio di
fiori a
pochi passi dal bar da cui ero uscito; mi allontanai dalla macchina ed
acquistai un mazzo di rose bianche, i suoi fiori preferiti. Avevo
deciso di
farle una sorpresa, andando a prenderla alla palestra. Imboccai
l’autostrada e
mi diressi velocemente da lei.
------------------------------------------------------------
<<
Forza, ragazze. Cinque
minuti e torniamo tutte a casa >>.
Ero
stanchissima: da quella mattina
alle otto avevo iniziato a lavorare alla palestra di Davide, la
palestra della
scuola. Quando avevo inviato il curriculum, un po’ per sfida,
ero convinta che
non mi avrebbero mai assunta – soprattutto, visti i tempi che
correvano -.
Eppure, erano stati piuttosto rapidi a chiamarmi, fissando un colloquio
per il
giorno successivo, e, dopo quello, assumendomi. “Inizierà
questo lunedì, se per lei non ci sono problemi” , mi
aveva detto il Preside. Certo, nessun problema, a parte il fatto che
non ho
neppure accennato la cosa alla mia famiglia. Dirlo ad Edoardo, in
realtà, era
stato più semplice del previsto; apparentemente, aveva
accettato la cosa, e
sembrava pure felice per me. I ragazzi … beh, Davide
l’aveva scoperto quella
mattina stessa, davanti ai suoi compagni (cosa che non mi avrebbe mai
perdonato), mentre Melissa l’aveva saputo dal fratello. Dio
solo sapeva cosa mi
aspettava a casa quella sera …
<<
Prof, noi andiamo a
cambiarci >>.
Era una delle
ragazze della squadra
di pallavolo della scuola, Elisa.
<<
Certo, andate pure. E,
quante volte devo dirvelo, non sono una professoressa! Chiamatemi Elena
>>.
<<
Soprattutto tu, Eli >>
aggiunsi, quando le altre si erano già allontanate.
Elisa era la
seconda figlia di
Riccardo, sorella di Giovanni. Aveva solo dodici anni, ma sembrava
molto più
grande: alta, snella … la tipica pallavolista. Mi ricordava
tanto me alla sua
età.
<<
Certo, zia, ma non mi sembra
giusto, davanti alle compagne >>.
Mi chiamava
“zia” da quando era alta
poco più di un metro.
<<
Hai ragione >> le
dissi. << Ma adesso va’ a cambiarti, o tuo
padre se la prenderà con me
>>.
Mi cambiai anche
io, togliendo la
tuta ed indossando il – meno pratico – tailleur che
avevo scelto la mattina. Chiusi
la palestra ed uscii, diretta alla fermata degli autobus. Avevo deciso
di
andare a trovare mia madre, erano giorni che non ci vedevamo, ed ero
ancora
troppo arrabbiata con Edo per farmi accompagnare da lui.
<<
Ehilà, Elena >>.
Mi voltai per
capire chi mi avesse
chiamata, e vidi Riccardo, con Elisa accanto.
<<
Ciao, Riccardo >> gli
risposi, baciandolo su una guancia.
<<
Eli mi ha detto che adesso
sei la sua prof di pallavolo. Detto fra noi, era proprio ora che
rimpiazzassero
la Polverini, era mezza sorda e pare venisse al lavoro ubriaca
>>.
Era sempre il
solito: conosceva tutti
i pettegolezzi.
<<
Povera donna, non dovremmo
parlarne così. Speriamo si sia ripresa dopo la pensione
>>.
Mi
guardò e sorrise.
<<
Sei la persona migliore che
conosca >> commentò.
<<
Papà, sta aspettando
l’autobus. Possiamo darle un passaggio noi >>
intervenne Elisa.
<<
Certo. Dai, vieni con noi
>> si mise a disposizione Riccardo.
<<
Non ti preoccupare, devo
andare da mia madre che sta dall’altra parte della
città, non è il caso …
>> iniziai.
<<
Su, è stata Elisa ad
offrirti il passaggio. Non vorrai mica farla offendere?
>> disse, facendo
una smorfia.
<<
D’accordo >> mi
arresi.
Ci dirigemmo
verso la sua auto,
parcheggiata poco più avanti.
<<
Tua moglie come sta?
>> gli chiesi, mentre camminavamo.
<<
Bene, bene … lavora. Questa
settimana l’hanno mandata in Siria >>.
Ludovica, la
moglie di Riccardo,
faceva la giornalista. Guarda caso, quei due si erano conosciuti a
Dubai, dove
lui era andato a revisionare degli edifici, in qualità di
ingegnere, e lei a
scrivere degli articoli.
<<
Wow, deve essere
entusiasmante il suo lavoro >> osservai.
L’avevo
sempre invidiata, perché,
grazie alla sua professione, aveva già visto mezzo mondo.
<<
Io non lo definirei
entusiasmante. Almeno non per noi >>
puntualizzò, indicando Elisa.
<<
E’ terribile sapere che in
questo momento, mentre io e te passeggiamo tranquillamente, lei sta
rischiando
la vita >>.
Aveva ragione,
che stupida. Non
sapevo più cosa dire. In silenzio, salii
sull’auto. Riccardo sembrò notare la
mia espressione.
<<
Scusami, forse sono stato
sgarbato. E’ che sono preoccupato per lei >>.
<<
No, hai ragione. Sono stata
io la stupida >> dissi.
Mi
accarezzò una guancia.
<<
Tu non sei stupida >>
si limitò a dire.
-----------------------------
Svoltai
l’angolo; ero quasi arrivato
alla palestra. Parcheggiai in una stradina secondaria e uscii dalla
macchina,
sperando che il mio alito non puzzasse troppo di alcol. Arrivato di
fronte alla
scuola, scorsi Elena: era con Riccardo. Era seduta sul sedile anteriore
della
sua auto, e i due sembravano così … complici.
Incredibile … al telefono mi aveva detto che avrebbe preso
l’autobus, e invece
era con il suo ex. Gettai le rose a terra, calpestandole, e corsi verso
la mia
macchina: sarei tornato al bar.
|
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Capitolo 13 *** Presunzione di innocenza ***
Presunzione di
innocenza
<<
Papà, finalmente! Ci hai
fatti preoccupare >>.
Erano quasi
le nove di sera quando mio padre rientrò a casa. Scese dalla
macchina senza
dire nulla, con un’aria stanca e un’espressione
avvilita sul volto. Conoscevo
quell’espressione, l’avevo vista centinaia di sere
sul viso di Giada: aveva bevuto. La
puzza di alcol sui suoi
vestiti mi diede la conferma definitiva; ero certa che fosse ubriaco.
Ma come
era possibile? Lui che, come me, aveva sempre detto di essere astemio?
Non ci
potevo credere, no.
<<
Dove sei stato fino a
quest’ora? >> gli chiesi.
Mi rivolse
un’espressione a metà tra
il confuso e l’ irritato.
<<
Chi è quest’uomo? >>
esclamò infine, indicando il padre di Giacomo.
Ovviamente non
avevo alcuna
intenzione di specificare i suoi rapporti di parentela, ci mancava solo
quello
per far perdere il controllo a mio papà.
<<
Un nostro vicino, il signor
… >> iniziai, rendendomi conto di non sapere
il suo nome.
<<
… Ariosto. Luca Ariosto
>> completò lui, venendomi in aiuto.
Ariosto
…
così
era quello il cognome di Giacomo. Era così … letterario.
<<
Piacere, Edoardo Martini
>> si presentò mio padre, porgendogli la mano.
Notai che
faticava a pronunciare il
suo nome, e barcollava vistosamente.
<<
Papà, perché non entri in
casa? Mamma ha lasciato la cena da riscaldare nel forno a microonde
>>
gli dissi, sperando di convincerlo.
Mi
guardò nuovamente con quella sua
aria confusa. Faticavo a riconoscere mio padre dietro quegli occhi
vitrei, così
freddi ed inespressivi. Non l’avevo mai visto in quello
stato, in diciotto anni
di vita, e mi faceva molta pena.
<<
Tua madre ha lasciato la
cena … beh, sarà meglio entrare >>
dichiarò, salutando il vicino.
Lo guardai
allontanarsi con passo
incerto verso il portone. In quello stesso momento, mi
squillò il cellulare.
<<
Pronto? >>.
Era mia mamma.
<<
Ciao, Mely, menomale che
almeno qualcuno risponde. E’ da venti minuti che chiamo tuo
padre e Davide
>>.
<<
Davide è sotto la doccia,
mamma. Papà … deve aver lasciato il cellulare in
macchina >>.
Preferii non
specificarle che
sembrava ubriaco fradicio.
<<
Ok … dovresti dirgli di
venirmi a prendere dalla nonna. A quanto pare, non ci sono autobus
diretti al
nostro nuovo quartiere dopo le otto di sera >>.
Cavolo, e adesso
che cosa avrei
potuto dirle? Optai per la verità.
<<
Mamma >> iniziai,
allontanandomi dal padre di Giacomo e abbassando la voce in modo che
non mi
sentisse. << Credo che
papà abbia
bevuto >>.
Silenzio.
<<
Sei sicura? >> mi
chiese.
Non sembrava
stupita, almeno non
quanto lo ero io.
<<
Credo proprio di sì.
Balbetta, barcolla e … puzza di birra >>.
<<
Ok >>.
Ok?
<<
Mamma, hai capito? >>.
Non potevo
credere che la sua
risposta fosse così laconica. Ne aveva semplicemente preso
atto, e non era
proprio da lei.
<<
Ti spiegherò tutto a casa,
ho la batteria del telefono quasi morta >>
chiarì.
<<
Vuoi che venga a prenderti
io? Posso guidare l’auto di papà >>
mi offrii.
<<
Non se ne parla nemmeno,
Melissa >> disse, categorica.
<<
E allora cosa vuoi fare?
Rimanere a dormire dalla nonna? >>.
Non si fidava
proprio di me, e la
cosa non poteva che infastidirmi.
<<
Se vuole, posso prenderla io
>> intervenne il signor
Ariosto.
Evidentemente,
non ero lontana abbastanza
da lui perché non sentisse.
<<
Con chi sei, Melissa?
>> chiese mia mamma.
<<
C’è il vicino, mamma. Il
figlio della signora Dorotea. Dice che può venire a
prenderti lui >>.
Silenzio.
<<
Mamma, ci sei? >>.
Sembrò
pensarci su. Ero convinta che
fosse indecisa sul da farsi: accettare il passaggio da
quell’uomo dall’aria
inaffidabile (oltre che ex carcerato, ma fortunatamente non conosceva
questo
piccolo dettaglio) o rifiutare e, nella migliore delle ipotesi, dormire
dalla
nonna? Per quanto la amasse, dubitavo che avrebbe scelto di fermarsi da
lei per
la notte: mia nonna viveva letteralmente circondata dai gatti, e mia
madre era
allergica al loro pelo.
<<
Va bene, passamelo che gli
spiego dove trovarmi >> cedette alla fine.
Ne ero certa.
Mentre i due si
mettevano d’accordo,
rientrai in casa a vedere come stava mio padre. Davide era uscito dal
bagno e
stava divorando un panino.
<<
Papà? >> gli domandai.
<<
E’ andato a letto. Dice che
ha mal di testa. Strano
>>.
Salii le scale e
lo raggiunsi,
trovandolo disteso sul letto a guardare il soffitto.
<<
Papà, io esco un attimo con
il vicino a prendere la mamma. E’ rimasta bloccata dalla
nonna, dice che non
passano autobus dopo le otto diretti in questo quartiere
>>.
<<
Perché non chiede un
passaggio al suo amico Riccardo? >> commentò
lui, irritato.
Finsi di non
averlo sentito.
Presi la giacca
e scesi all’ingresso,
spiegando a Davide la situazione.
<<
Cosa? >>.
Era sconvolto.
<<
Non è un dramma, Dado. Gli
autobus sono inaffidabili >>.
Mi rivolse
un’occhiata di rimprovero.
<<
Tu devi esserti bevuta il
cervello, sorella. Prima frequenti Giacomo e poi vuoi andare in
macchina da sola con il padre?
Devo ricordarti
che è stato in galera, e Dio solo sa per cosa?
>>.
Era furioso.
<<
E tu cosa proponi di fare, genio?
Di lasciarlo solo con mamma? >>.
<<
No, ci vado io >> si
offrì.
<<
Tu devi rimanere con papà
>>.
<<
Ci rimani tu con papà, Mely.
Non ti lascio sola con quel tipo >>.
<<
Ed io non lascio te >>
dissi, categorica.
<<
Allora ci andiamo insieme
>> decise. << Papà se la
caverà. Per come è messo, sono sicuro che
dormirà fino a domani mattina >>.
Evidentemente,
aveva notato anche lui
che era ubriaco.
Uscimmo di casa
e raggiungemmo il
vicino, che aveva appena interrotto la conversazione con mia mamma.
<<
E voi dove andate? >>
ci chiese.
<<
Con lei. La accompagniamo,
così siamo sicuri che non si perda fino a casa di nostra
nonna >> rispose
Davide, sfoggiando un tono di sfida.
<<
D’accordo, andiamo >>.
Mi
restituì il cellulare e ci fece
strada verso la sua auto, una berlina blu vecchio stile parcheggiata
alla meno
peggio. Non che io parcheggiassi meglio, in realtà.
<<
Prego, salite >>.
Davide fece per
sedersi davanti, ma
il padre di Giacomo lo fermò.
<<
Davanti le donne >>
specificò.
Così
mi sedetti nel sedile anteriore,
alla sua destra, non poco a disagio.
<<
Allora, come va la scuola?
>> si interessò, mentre imboccavamo
l’autostrada.
Non capivo cosa
gliene importasse.
Evidentemente, quello era il suo modo di rompere il ghiaccio.
<<
Bene >> risposi,
laconica.
<<
E tu, ragazzo? >> si
rivolse a Davide.
<<
Bene >> mentì lui.
<<
Come vi chiamate? Non vi
siete neppure presentati, non è molto educato
>> osservò.
Un ex galeotto
che ci impartiva
lezioni di educazione? Surreale.
<<
Melissa e Davide >> ci
presentai.
<<
Bei nomi, davvero belli
>>.
Guardai Davide
dallo specchietto
dell’auto: anche lui, come me, sembrava confuso.
<<
E vostra madre? Lavora? >>.
Praticamente ci
stava facendo un
interrogatorio.
<<
Alla scuola di Davide
>> dissi io.
La conversazione
era persino più insolita
di quella del pomeriggio con il figlio.
<<
Vi avrà parlato di me, mia
madre Dorotea >>.
Annuimmo
entrambi.
<<
Quindi sapete che sono stato
in galera >> osservò, spiazzandomi.
Non mi aspettavo
che sarebbe stato
così diretto.
Sospirò
e proseguì.
<<
Non pretendo che mi crediate
quando vi dico che sono innocente. Però ve lo dico lo
stesso: non ho fatto
nulla. Mi accusano di aver maltrattato Giacomo, ma non l’ho
mai sfiorato. Amo
mio figlio, non gli farei mai del male >>.
Non capivo
perché si difendesse con
noi. Era ovvio che non credevamo neppure ad una singola parola che
aveva
pronunciato.
<<
Non siamo certo qui per
giudicarla >> me ne uscii io.
<<
Grazie, ne sono lieto
>> disse lui, ridendo. << Anche
perché altrimenti dubito che
avreste accettato il mio passaggio >>.
Entro pochi
minuti arrivammo a casa
di mia nonna, trovando mia madre seduta sul marciapiede ad aspettarci.
Alla
vista dell’auto, un brivido sembrò scuoterla. Ma
fu solo un’impressione: un
attimo dopo era tornata a sorridere, come sempre.
|
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Capitolo 14 *** La festa ***
La festa
<<
Come stavamo dicendo, la
Seconda Sofistica, che già nel nome richiama la Prima,
fiorita in Grecia nel V
secolo a. C., focalizza la sua attenzione esclusivamente sulla forma,
sulla
ricerca estetica, sfoggiando, a fronte di uno stile sempre perfetto e
sontuoso,
una futilità di argomenti mai vista prima. Chi fu il
principale esponente di
questo movimento retorico, signorina Martini?
>>.
La pronuncia del
mio nome da parte
della professoressa di greco mi riportò bruscamente alla
realtà.
<<
Luciano >> risposi
meccanicamente.
<<
Bravissima. E quale fu la
sua opera più nota? >>.
<<
I “Dialoghi dei morti” >>.
Ringraziai
mentalmente Giada per
avermi fatto dare un’occhiata al suo libro, quella mattina.
Il giorno prima non
avevo avuto il tempo di studiare nulla, a causa dei numerosi
imprevisti, salvo
dare una rapida lettura ad Agostino e alla letteratura latina.
<<
Giusto >> proseguì la
professoressa. << Nei “Dialoghi
dei
morti”, Luciano, che nell’ultima parte
della sua vita si dedicò alla
satira, deride apertamente la stupidità dei suoi coetanei,
che si affannano
alla ricerca di cose vane. Bellezza, ricchezza, potere, dice il
retorico, non
vi serviranno a nulla dopo la morte >>.
La professoressa
continuò con la
spiegazione, ma io mi distrassi per tutto il resto del tempo. Non
potevo fare a
meno di pensare a mio padre. Quel giorno aveva deciso di non andare a
lavoro,
cosa stranissima, visto che non capitava mai, neppure quando era
malato. Sapevo
che era reduce da una sbornia, ne ero certa, ma non capivo
perché la mamma non
avesse voluto parlargli, sgridarlo magari, o comunque chiedergli
spiegazioni.
Forse, pensai, era troppo delusa del suo comportamento, visto il modo
in cui
aveva perso, proprio per colpa dell’alcol, i genitori e, a
pochi mesi di
distanza, il fratello maggiore.
<<
Mely! >> mi spintonò
Giada. << Si può sapere cosa è
successo ieri? >>.
Mi voltai a
guardarla, e mi accorsi
che mi stava fissando.
<<
Nulla, cosa deve essere
successo? >> risposi innocentemente.
<<
Perché hai detto a tua madre
che ti ho dato un passaggio fino a casa? >>.
Cavolo.
<<
Io … tu come fai a saperlo?
Microcamere? >> risi, sperando di farla calmare.
Era visibilmente
turbata.
<<
Non scherzare. Ieri sera mi
ha chiamata e me l’ha chiesto >>.
<<
E tu? >> domandai,
speranzosa.
<<
Che dovevo dirle? Ho
confermato >>.
Grazie a Dio.
<<
Grazie, sei un’amica!
>> esclamai, abbracciandola.
<<
Ferma, tu non me la racconti
giusta >> mi scansò. << Chi ti
ha accompagnata a casa? >>.
Ecco, come avrei
potuto mentirle?
<<
Giacomo >> dissi,
abbassando la voce.
Stavamo
camminando in corridoio e si
fermò bruscamente, così di scatto che le
arrivò addosso Federico, che era
dietro di noi.
<<
Giada, calmati! >>
scoppiò a ridere. << Già che ci
siamo, vi lascio gli inviti per stasera.
Oggi compio diciotto anni e festeggio in discoteca >>.
<<
Auguri, allora! >> gli
dissi, sorridendo e baciandolo su una guancia.
Federico era un
nostro compagno di
classe, il classico tipo che crede di essere figlio del dio Apollo:
alto,
biondo e con gli occhi verdi. Era molto carino, in effetti; peccato
fosse un
totale idiota.
<<
Grazie, Mely >> mi
ringraziò, abbracciandomi un po’ troppo
calorosamente.
Lo scostai,
sgridandolo.
<<
Calma, siete tutte e due
troppo agitate oggi! >> dichiarò,
allontanandosi. << Mi raccomando,
stasera vi aspetto per le undici! Puntualità
>> aggiunse, imitando la professoressa di greco.
<<
Che maiale >> commentò
Giada. << E’ dal primo anno che ti viene
dietro, Mely >>.
<<
Lo sai che non mi interessa
>> dissi, disgustata.
<<
Almeno ci verrai alla sua
festa, stasera? >> mi chiese.
<<
Non credo proprio. Non amo le
feste, e sicuramente non ci tengo ad andare alla sua >>.
<<
Comunque … Perché diavolo
hai accettato un passaggio da quel sociopatico? >>.
Speravo che se
ne fosse dimenticata.
Sospirai.
<<
Perché mi ha praticamente
obbligata, Giada! Non potevo dire di no >> mi giustificai.
Mi
indirizzò un’espressione
contrariata.
<<
Tu sei pazza >> criticò.
<< Ti ha fatto qualcosa? >>.
<<
No >> risposi,
sincera.
Era stato molto
carino, anzi. Ma
questo evitai di dirlo ad alta voce.
<<
Almeno. Sei stata fortunata,
Mely. La prossima volta chiama me o Alex, se vuoi uno strappo fino a
casa
>>.
Alex era il suo
ragazzo, una specie
di emo. Evitai di commentare che mi fidavo più di Giacomo
che di uno che
ascoltava heavy metal: probabilmente si sarebbe offesa.
<<
D’accordo >> dissi.
<< Cambiando discorso, avrei bisogno di un favore
>>.
<<
E’ un passaggio? >>
rise.
La fissai,
offesa.
<<
Ok, scherzavo. Cosa ti
serve? >>.
<<
Tuo padre fa il poliziotto >>
dissi.
Mi rivolse
un’occhiata interrogativa.
<<
Vorrei avere delle
informazioni su un certo Luca Ariosto
>>.
Era dal giorno
prima che ci pensavo.
Io e Davide volevamo scoprire perché
era
finito in galera, alcuni anni prima.
<<
Ok >> si limitò a dire
lei. << Posso chiederti chi è?
>>.
<<
E’ il padre di Giacomo
>>.
<<
E perché ti interessa?
>>. Deglutì. << Credi che abbia ucciso
qualcuno? >>.
Era spaventata.
<<
No, non credo che abbia
ucciso qualcuno, Giada. Semplicemente, so che è stato in
carcere, e vorrei
sapere cosa ha combinato. A parte maltrattare il figlio
>>.
Mi
fissò.
<<
Maltrattava Giacomo?
>> domandò.
<<
Pare di sì. O almeno, così
dice sua nonna >>.
---------------
Era ormai
l’una passata, quando
uscimmo da scuola. Giada, ovviamente, insistette a darmi un passaggio,
rifiutando persino che prendessi l’autobus.
<<
Allora, come va a scuola?
>> mi chiese suo padre, mettendo l’auto in moto.
<<
Tutto bene, signor De Fazio
>>.
<<
Anche Giada? >>.
<<
Papà! >> intervenne la
figlia. << Sempre le solite, stupide domande! Lo sai che
faccio schifo a
scuola >>.
<<
Lo so, infatti >>
disse il padre, prendendola in giro. << Sei una capra >>.
Entro pochi
minuti arrivammo a casa.
<<
Ci vediamo stasera? >>
mi urlò dietro Giada dopo che scesi dalla macchina,
abbassando il finestrino.
<<
Certo >> mentii,
facendole l’occhiolino.
Aveva detto al
padre che sarebbe
venuta a studiare a casa mia, dal momento che, tanto per cambiare, era
nuovamente
in punizione. E aveva il divieto assoluto di andare a qualsiasi festa.
Aprii il
cancello e scorsi mio padre
in giardino, intento a pulire la piscina.
<<
Papà, cosa fai? >> lo
salutai.
<<
Oggi fa caldissimo, Mely. Ho
pensato di dare una ripulita alla piscina, così potremo
usarla >>.
Sembrava il
solito papà di sempre.
<<
Ok, io vado a pranzare
>> gli dissi, entrando in casa.
Mi preparai
rapidamente della pasta e
mangiai, rimuginando ancora sulla famiglia di Giacomo. Trascorsi tutto
il
pomeriggio in camera, a studiare greco e storia e perfezionare il power
paint
della tesina. Quando scesi in cucina, la mamma era già
tornata, e stava
cucinando.
<<
Mamma >> la salutai. <<
Cosa prepari di buono? >>.
<<
Sto facendo la pizza, Mely.
Dobbiamo festeggiare anche stasera … Davide è
stato promosso capitano della
squadra! >>.
Era felicissima.
Indirizzai
un’occhiataccia a mio
fratello, che se ne stava rannicchiato su una poltrona: come aveva
potuto dire
una bugia così grossa alla mamma? Lui mi rivolse uno sguardo
colpevole.
<<
Bene, sono contenta >>
gli ressi il gioco. Certo non spettava a me dire la verità.
Cenammo quasi
nel più totale
silenzio. Mia madre era contentissima per Davide, ma ancora offesa con
papà,
per cui le uniche conversazioni della serata furono tra lei e mio
fratello.
Erano quasi le
ventitré, quando mi
misi in pigiama e mi coricai. Nella dormiveglia, mi svegliò
il suono di un sms
in arrivo. Presi svogliatamente il cellulare e lo lessi.
“Melissa,
sei in ritardo”.
Era di Federico.
“Ti
ho già detto che non sarei venuta”, gli risposi,
infastidita. Spensi il telefono e
tornai a letto. Dopo pochi minuti, lo strombazzare di un clacson mi
riportò
bruscamente nella realtà. Mi affacciai alla finestra e
notai, con disgusto, che
era Federico.
<<
Ti piace la mia nuova
macchina? >> strillò.
<<
Zitto! >> gli urlai in
risposta. << E poi, quando avresti preso la patente?
>>.
Eravamo in un quartiere residenziale, e a quell’ora tutti
dormivano.
<<
Non sapevo come contattarti.
Accendi il cellulare >>.
Obbedii: ci
mancava solo che lo
sentisse mio padre.
<<
Cosa diavolo vuoi? >>
risposi alla sua chiamata.
<<
Sempre di buon umore, eh?
>> commentò, sarcastico. <<
Perché non sei venuta alla mia festa?
>>.
<<
Perché non mi andava. Che ci
fai qui? >> domandai, irritata.
<<
Mi ha mandato Giada. Vuole
che le porti la traduzione di Luciano alla festa >>.
<<
E tu pensi che ci creda? Mi
offende il fatto che mi reputi così stupida >>.
<<
E’ la verità, te lo giuro
>> mi assicurò. << Non devi
venire per forza in discoteca.
Scendimela che gliela passo io più tardi >>.
Ci pensai su.
Come poteva essere
vero? In effetti, però, non era così insolito che
Giada mi chiedesse la
traduzione delle versioni nel cuore della notte.
<<
Ok, aspettami in auto
>> acconsentii alla fine.
Presi la
versione dallo zaino e scesi, sforzandomi di non svegliare nessuno. Aperto il cancello, mi
ritrovai
Federico di fronte.
<<
Allora? La versione?
>> domandò.
Gliela porsi in
fretta.
<<
Carino il pigiama >>
osservò, scrutandomi dalla testa ai piedi. Maledii me stessa
per non aver
indossato un giubbotto.
<<
Grazie, ci vediamo >>
esclamai, dirigendomi verso casa.
Mi prese per un
braccio e mi fermò,
facendomi voltare verso di lui.
<<
Non mi fai neppure gli
auguri? >> osservò, contrariato.
<<
Auguri >> gli dissi,
liberandomi dalla presa.
Mi
trascinò verso di sé e tentò di
baciarmi, guadagnandosi uno schiaffo in faccia.
<<
Che fai, sei impazzita?
>> strillò.
<<
Io?! >> esclamai,
dandogli nuovamente le spalle e avviandomi velocemente verso il
cancello.
<<
Tu … >> iniziò, strascicandomi
contro il muro di casa e ghermendomi con il suo corpo. <<
Parli troppo
>>.
Sentivo le sue
mani su tutto il mio
corpo, ma non potevo fare nulla, a parte strillare.
<<
Cosa stai facendo?!
>>.
Era Giacomo.
Allontanò
Federico da me e gli
assestò un pugno in faccia.
<<
Noi … stavamo solo
scherzando! Cosa ti prende? Ti credi il giustiziere della notte?
>> lo
insultò Federico, toccandosi il volto nel punto esatto in
cui aveva ricevuto il
cazzotto.
Io, nel
frattempo, ne approfittai per
ricompormi, abbassandomi la maglietta del pigiama e sperando che
Giacomo non
avesse visto nulla: ci mancava solo che avesse una delle sue
“transizioni”.
<<
Guai a te se ti vedo un’altra
volta nel mio quartiere!
>>
stava strillando a Federico, che era salito in auto e l’aveva
già messa in
moto. Quando il mio compagno di scuola si allontanò, mi
rivolsi al vicino.
<<
Grazie, Giacomo >> dichiarai
semplicemente. << Nel mio
quartiere?
Fa tanto film western >>.
Non sapevo
cos’altro dire: ero
terribilmente imbarazzata.
<<
Non dovresti frequentare certa gente >>
mi ammonì.
Certa
gente? Detto
da uno che aveva un disturbo dissociativo
d’identità, suonava strano.
<<
Lo so, è un idiota >>
mi limitai a commentare.
<<
Sei ferita? >> chiese,
avvicinandosi a me e guardandomi il braccio.
<<
Questa? >> dissi,
indicando una piccola escoriazione al gomito. << Non
è nulla >> lo
rassicurai.
Si
strappò la maglietta, scoprendo in
parte l’addome, e me ne ripiegò un frammento sul
braccio, con fare premuroso.
<<
Intanto mettiti questa
>>.
<<
E’ arrivato il momento in cui ti
strappi la camicia per fasciarmi la
ferita? >> dissi, dubitando che avrebbe colto
la citazione.
<< Se volevi che mi spogliassi, bastava chiedere
>> citò in
risposta lui.
Strano. Non
sembrava tipo da Shadowhunters.
Sistemò
il frammento della maglia con
cura sulla mia ferita. Era così vicino che riuscivo a
sentire il suo respiro
sul mio volto, ed era così … non pensarci, mi
imposi. Mantieni la calma.
Potrebbe perdere il controllo da un momento all’altro. Mentre
ero persa nei
miei pensieri, mi sollevò il mento: era molto più
alto di me. Avvicinò le sue
labbra alle mie e … ci baciammo.
Già,
ci baciammo. Mi imposi di staccarmi da lui con tutte le forze
– era il mio
istinto di conservazione a parlare -, e ci riuscii: non potevo
permettermi che
avesse una transizione, non quando eravamo gli unici del quartiere
ancora in
piedi.
<<
Scusa … >> disse lui,
allontanandosi.
Sembrava ancora
in sé.
<<
Non ti scusare >> lo
rassicurai. << Io torno a dormire >>
aggiunsi, aprendo il cancello
di casa.
<<
Buonanotte e grazie di tutto
>>.
<<
Grazie a te >> esclamò
lui. << E comunque l’idiota aveva ragione. Il
pigiama ti sta benissimo
>>.
Mi voltai
rapidamente, imbarazzata, e
mi diressi verso casa, senza aggiungere altro.
Ero nuovamente a
letto, quando mi
venne in mente Giada. Chissà se aveva veramente bisogno
della versione di greco?
Quell’imbecille l’aveva presa, ma dubitavo che
gliel’avrebbe data.
Composi
rapidamente il numero della
mia amica, certa che fosse ancora sveglia a ballare.
<<
Pronto? >>.
<<
Giada, sei ancora alla
festa? Ti volevo chiedere se … >> iniziai.
<<
Non sono Giada >> mi
interruppe la voce. << Sono sua madre >>.
Cavolo,
l’avevo combinata grossa.
Adesso sua mamma avrebbe capito che Giada non era in casa …
<<
Mi scusi >> mi limitai
a dire, impacciata.
<<
Giada è in coma
>> aggiunse lei, in preda alle lacrime.
|
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Capitolo 15 *** Aldilà di un freddo vetro ***
Aldilà
di un freddo vetro
<<
In coma …? >>
ripetei meccanicamente.
Giada non poteva
essere in coma,
stava benissimo fino a poche ore prima …
<<
Sì, Melissa. E’ in coma. E’
caduta da una finestra al secondo piano alla festa di Federico. I
medici dicono
che era ubriaca e ha perso i sensi. Melissa …
>> iniziò la madre di
Giada.
<<
No, non lo dica. Non ci
penso neppure a restare a casa >> la interruppi.
<< Vengo subito
>>.
<<
Ma tuo padre deve lavorare,
non preoccuparti di correre così in fretta. Verrai con lui
domani mattina
>> insistette lei, evidentemente scossa.
<<
Non si preoccupi lei
>> dissi io, interrompendo la telefonata.
Mi vestii in
fretta e scesi in
cucina: era l’una e mezza di notte. Come potevo svegliare mio
padre? La signora
De Fazio aveva ragione, quella mattina avrebbe dovuto lavorare. Ma non
potevo
stare ferma lì, senza fare nulla; non ce la facevo proprio.
Presi le chiavi di
casa e uscii, diretta verso la villa di Giacomo. Stavo per suonare il
campanello,
quando lo vidi: era sul suo balcone, intento a leggere un libro. Ma non
dormiva
mai?
<<
Melissa >> esordì.
<< Già ti mancavo? >>.
<<
Non è il momento di
scherzare, Giacomo. Non c’è tempo. Devi
darmi un passaggio >> arrivai
al
punto, senza troppi giri di parole. In quel momento, le buone maniere
erano il
mio ultimo pensiero.
<<
Certo >> disse lui, chiudendo
il libro ed entrando rapidamente in casa.
Incredibile, non
aveva neanche voluto
sapere perché volessi uno strappo. Come se fosse normale,
nel centro della
notte, racimolare passaggi dai vicini. Entro pochi minuti, mi fu di
fronte.
<<
Dove andiamo? >>
chiese semplicemente.
<<
All’ospedale >>
risposi io, laconica.
<<
Non ti avrà mica rotto
qualche costola? >> esclamò, guardandomi il
torace (e facendomi arrossire
più del dovuto). << Se è
così, giuro che lo … >>.
<<
No >> lo troncai. <<
E’ la mia amica Giada. E’ in coma >>.
Quell’affermazione
parve turbarlo:
era triste per me.
<<
Ok, sali in macchina
>> disse semplicemente.
Aprii la
portiera e mi sedetti
accanto a lui.
Ma cosa diavolo
stavo facendo?
Chiedere passaggi di notte, per di più a semi-sconosciuti
potenzialmente pericolosi,
non era proprio da me. Iniziai a pensare di essere impazzita.
<<
Cosa c’è? Preoccupata?
>> domandò Giacomo.
<<
Sì, per Giada >>
mentii io.
<<
Stai tranquilla, sono sicuro
che le cose si sistemeranno >> mi consolò,
sfiorandomi una guancia con la
mano e facendomi rabbrividire.
Mise in moto
l’auto ed entro pochi
minuti fummo all’ospedale. Salimmo le scale fino al reparto
di “Terapia
Intensiva”, dove trovammo Giorgia, la madre di Giada. Era la
fotocopia della
figlia: alta, bionda, con i capelli di un riccio indomabile.
<<
Ti avevo detto di non …
>> iniziò.
<<
Allora? >> la
interruppi, forse un po’ troppo bruscamente.
Mi
fissò, confusa.
<<
I medici dicono che è
stabile, ma non possono sapere quando si sveglierà
… e se si
sveglierà >> rispose, scoppiando in lacrime.
Se?
Mi avvicinai a
lei per consolarla,
rendendomi conto di non esserne in grado. Ero troppo sgomenta, troppo
preoccupata, per poter consolare qualcuno. Aldilà di un
freddo vetro, a pochi
metri da noi, c’era Giada, lo sapevo benissimo. Eppure, non
avevo il coraggio
di avvicinarmi, di vederla in quello stato.
<<
Melissa >> mi sentii chiamare.
<< Vengo con te >>.
Era Giacomo. Mi
prese per mano e mi
trascinò verso quel vetro, come se fossi una bambina
bisognosa di rassicurazioni.
La sua mano era calda e sudata, non fredda come l’ultima
volta. Sperai che non
si accorgesse che la mia tremava, sotto la presa sicura della sua. Ed
eccola di
fronte a me: Giada. La mia migliore amica era sdraiata su un letto,
inerme:
sembrava stesse dormendo, e quasi cercai di autoconvincermi che fosse
così. Non
ero certa di riuscire ad affrontare una situazione del genere.
Attaccate al
braccio destro c’erano due flebo, al dito un pulsossimetro;
sul suo torace un
paio di elettrodi, collegati ad un macchinario che registrava il suo
battito,
regolare, ritmico. Ma allora perché non si svegliava?
Senza volerlo,
fui sommersa dalle
lacrime. Scendevano una dopo l’altra, veloci, e non riuscivo
a trattenerle.
Giacomo mi avvicinò a sé e mi strinse, cingendomi
in un abbraccio e
accarezzandomi i capelli. In quel momento, c’eravamo solo noi
due: l’idea che
potesse perdere il controllo da un momento all’altro non mi
sfiorava neppure
lontanamente. Era così rassicurante … sentivo i
suoi addominali, scolpiti,
sotto la mia presa, e il suo torace espandersi, a ritmo regolare.
<<
Melissa >> mi sentii
chiamare.
Mi voltai e vidi
che era il padre di
Giada.
<<
Signor De Fazio >> mi
ricomposi, liberandomi dall’abbraccio.
Ci mancava solo
che dicesse qualcosa
ai miei.
<<
Cosa è successo a Giada?
>> gli domandai, sperando che non mi chiedesse
informazioni su Giacomo.
Sapevo che con
lui potevo parlare:
era un tipo molto più forte della moglie. Non a caso, faceva
il poliziotto.
<<
Ho parlato con il vostro
compagno – mi pare che si chiami Federico -, e ha detto che
l’ha vista cadere
dalla finestra della discoteca. Pare che abbia perso
l’equilibrio, che si sia
sporta troppo in avanti >>.
Parlava con un
tono distaccato, come
se stesse raccontando la trama di un film visto in televisione.
<<
Domani interrogherò gli
altri invitati alla festa, per avere la loro versione. Tu non
c’eri, vero?
>> chiese.
<<
No, non ci sono andata
>>.
<<
Neanche Giada ci sarebbe
dovuta andare, lo sai. Ha detto che
avreste studiato insieme stanotte, per
l’interrogazione di greco
>>.
Sembrava quasi
mi stesse addossando
la colpa.
<<
Io … >> iniziai.
<<
Da te non me lo sarei mai
aspettata, Melissa. Sapevi che beveva. Sapevi che si ubriacava
>> mi
stava praticamente sputando addosso tutta la sua sofferenza.
<< E sapevi
che era in punizione >>.
Mi sentivo
terribilmente in colpa. Il
signor De Fazio aveva ragione: era colpa mia. Tentai di trattenere le
lacrime:
non volevo muoverlo a pietà. Dopotutto, il suo era uno
sfogo, e aveva diritto
di sfogarsi; non pensava realmente quello che diceva.
<<
Signore >> intervenne
Giacomo.
Il padre di
Giada sembrò spiazzato:
non si aspettava che qualcuno lo interrompesse.
<<
Capisco che stia soffrendo
per sua figlia, ma non dovrebbe prendersela con Melissa. Anche lei sta
male, e
non è colpa sua quello che è successo. Non
conosco Giada, ma sono sicuro che
sarebbe andata comunque alla festa, anche senza la
complicità di Melissa,
trovando un’altra scusa. E poi, consideri che sono quasi le
due di notte, e lei
è qui, in ospedale. Ha accettato un passaggio da me, si
figuri. Doveva essere
veramente motivata >>.
<<
I- io … >> iniziò il
signor De Fazio, interrompendosi subito dopo ed andandosene via, in
preda alle
lacrime.
<<
Forse dovrei ringraziarti di
nuovo >> dissi, rivolta a Giacomo.
Lui mi
guardò intensamente, e mi
sorrise.
<<
Ancora non hai capito che ti amo >>.
Non sapevo cosa
dire. Non volevo
ferirlo, ma non potevo comunque illuderlo. Non
lo ami, dissi mentalmente. Non lo
ami, non lo ami … anche se, forse …
Scelsi di tacere.
<<
Non te lo dico perché esigo che
tu ricambi i miei sentimenti. Non posso pretenderlo, Melissa.
Semplicemente,
prendine atto >> proseguì. La sua voce era
diversa dal solito: più
sicura, ma al contempo più malinconica.
<<
Io >> dissi infine.
<< Io non lo so se ti
amo
>>.
Qualcosa cadde a
terra, rompendo il
silenzio che aveva inondato la stanza. Mi voltai nella direzione del
suono: era
Federico. Mi stava portando il caffè, in un insospettabile
moto di altruismo, e
aveva un’espressione delusa.
<<
Melissa, non puoi amarlo. Non lo
conosci neppure! Tu
non sai cosa ha fatto quel ragazzo >>.
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Capitolo 16 *** Rivelazioni ***
Rivelazioni
Giacomo
continuava a tenermi stretta per mano, mentre Federico lo guardava in
cagnesco,
dall'altra parte del corridoio.
<<
Lasciami stare, dopo quello che é successo a casa mia non
hai il diritto di
rivolgermi la parola >> gli dissi, voltandogli le spalle.
<<
Mely,
tu non lo conosci. Non sai quello che ha fatto >>
insistette Federico.
<<
So quello
che ha fatto >> dichiarai, alzando la voce.
Ero
stufa di sentirlo
parlare con quel tono di chi la sa lunga.
<<
Tu ...
Non credo che lo sappia, altrimenti non staresti con lui. Sei una
ragazza troppo
seria per frequentare tipi come Giacomo >>.
<<
Tipi
come te, vuoi dire >> .
Ma
come si
permetteva di parlarmi così? Soprattutto dopo quello che
aveva tentato di
farmi, solo poche ore prima? Rivolsi un'ultima occhiata a Giada, ancora
immobile ed apparentemente addormentata, e trascinai Giacomo lontano da
quel
corridoio, lontano da Federico. Non sapevo neanche io
perché, ma non tolleravo
che gli parlasse così.
Non
se lo
meritava proprio, non dopo quello che aveva detto e fatto per me quella
sera.
<<
Grazie,
ma so difendermi da solo >> esordì lui quando
ormai eravamo fuori
dall'ospedale, nel cortile
dell'edificio.
<<
Però
non ti sei difeso con Federico >> osservai io.
<<
No,
infatti >> disse. << Perché ha
ragione. Sono una persona orribile,
Melissa >>.
Lo
guardai negli
occhi.
<<
No, non
lo sei. Il tuo alter, o come diavolo si chiama, lo
é >>.
Sorrise.
Un
sorriso tutto
fuorché felice.
<<
Resta
comunque una parte di me. E difficilmente potrò liberarmene
>>.
Lo
presi per
mano, sentendolo rabbrividire al mio tocco.
<<
Giacomo, la tua nuova terapia sta funzionando. Se così non
fosse, adesso non
saremmo qui, a parlare tranquillamente.
E non ci saremmo mai potuti baciare >>.
Quelle
parole mi
uscirono spontanee, una dietro l'altra. Sapevo che era stato il mio
cuore a
parlare. Per quanto non lo volessi ammettere, avevo a poco a poco
iniziato a
voler bene a quel ragazzo.
<<
Quasi
baciare, Melissa. Tu non sai cosa sono in grado di fare. Intendo, da
alter. Non
hai la minima idea di quello che ho fatto >>.
<<
Sì,
invece >> lo spiazzai. << Me l'ha
raccontato tua nonna, mentre eri
svenuto. So che hai quasi ucciso un tuo compagno di scuola al liceo
>>.
Sembrava
stupito
da quell'affermazione.
<<
T-tu
... lo sai? >> domandò, incredulo.
<<
Sì
>>.
<<
E non
sei scappata via a gambe levate? >>.
<<
No. Mi
hanno sempre detto che sono un po’ pazza, in effetti
>> risi. <<
Diciamo che non mi piacciono le cose semplici >>.
Ci
sedemmo su
una panchina di fronte al Pronto Soccorso. Quella notte faceva
veramente
freddo, nonostante fossimo a fine Maggio. Rabbrividii all'ennesima
folata di
vento, e Giacomo se ne accorse.
<<
Torniamo dentro >> suggerì.
<< No,
ti
prego >>.
Non
avevo
nessuna voglia di salire nuovamente da Giada, non ce la facevo a
vederla in
quelle condizioni. E non volevo rischiare di incontrare Federico.
<<
Come
vuoi >> si arrese Giacomo.
Si
tolse la
giacca e me la gettò sulle spalle, abbracciandomi. Sentivo
il suo respiro caldo
sui miei capelli, e quella sensazione era incredibilmente piacevole.
Stavo
quasi per addormentarmi, cullata dall'espandersi regolare del suo
torace,
quando lo sentii sussurrarmi all'orecchio.
<<
Vado a
prenderti un caffè al bar, Melissa. Ne hai davvero bisogno
>>.
No,
non
andartene, pensai, rimani ancora qui con me.
<<
Ok
>> dissi invece.
Si
allontanò
strofinandosi le braccia con le mani: cavolo, per colpa mia aveva
freddo.
Nell'attesa, alzai lo sguardo al cielo: c'erano così tante
stelle. Se fossi
stata con Giada ci saremmo messe a guardarle per ore, nella speranza di
vederne
cadere una ed esprimere un desiderio. "Tanto lo so che il tuo
é un
desiderio noioso", avrebbe detto lei, come faceva sempre. "Qualcosa
tipo una laurea". "Perché, tu cosa chiederesti?",
le avevo
domandato un giorno. "Un pó di serenità
per tutti", aveva
risposto, salvo poi aggiungere: "E un ragazzo per te, che sei
così
complicata".
Beh,
Giada,
forse il tuo desiderio si era realizzato per metà.
<<
Melissa
>>.
Mi
voltai.
<<
Oh,
salve signor De Fazio >>.
Era
visibilmente
distrutto.
<<
Cosa ci
fai qui fuori a quest'ora? E per di più da sola?
>>.
<<
Nulla,
stavo solo pensando >>.
Preferii
omettere che non ero sola.
<<
Ti
volevo chiedere scusa per prima. Sono stato uno stupido
>>.
<<
No, non
ce n'é bisogno. Sul serio >> lo
tranquillizzai. << Aveva bisogno di
sfogarsi con qualcuno >>.
<<
Ma tu
non hai nessuna colpa, Melissa. Quello che é successo non
é dipeso da te
>>.
<<
Ci sono
novità? >> domandai, speranzosa.
<<
No,
purtroppo nessuna. In realtà, ti cercavo per un altro
motivo, oltre che per
scusarmi >>.
Per
un altro
motivo? Cosa
poteva volere da me il signor De Fazio? Si sedette accanto a me.
<<
Oggi
pomeriggio, Giada mi ha detto che avevi bisogno di informazioni su un
certo
Luca Ariosto >>.
Giusto,
le avevo
chiesto di parlarne a suo padre. Annuii.
<<
Beh, ho
fatto un paio di ricerche al lavoro. É stato denunciato
più volte per
maltrattamenti su minore. Le carte dicono che aveva la brutta abitudine
di
picchiare il figlio: molte volte il malcapitato bambino é
finito in ospedale
con fratture e lividi su tutto il corpo. Una volta é
arrivato a rompergli la
milza >>.
Quelle sue parole mi
turbarono. É arrivato
a rompergli la milza ... Fui pervasa da un moto di
compassione pura per
Giacomo. Come avrebbe potuto sopravvivere incolume a tanta violenza?
<<
Oddio
>> mi limitai a dire.
<<
E non é
tutto, Melissa >>.
Sospirò.
<<
Attualmente é indagato per l'omicidio della moglie
>>.
L'omicidio
della
moglie? Mi
era
sembrato di aver capito che fosse morta di parto ...
<<
La
moglie é stata assassinata? >> domandai.
<<
Sì.
Alcuni pensavano che fosse scappata di casa, invece pochi mesi fa
é stato
rinvenuto il suo cadavere >>.
<<
Ma ...
non dovrebbe stare in carcere, allora? >> chiesi.
<<
Non
abbiamo abbastanza prove per tenerlo dentro, ma ... Melissa, come fai a
sapere
che non é in carcere? >>.
Mi
rivolse
un'occhiata sospetta.
<<
Perché
vive proprio di fronte a casa mia >> confessai.
L'espressione
sul suo volto era radicalmente cambiata: era terrorizzato.
<<
E tuo
padre lo sa? >>.
<<
No
>> dichiarai. << E non gli dica nulla, per
favore. Lui e mia madre
hanno appena affittato quella villetta >>.
<<
Ma
Melissa, loro devono ... >> iniziò.
<<
La
prego >> lo interruppi.
<<
D'accordo. Però, non appena abbiamo le prove per
incastrarlo, dico tutto ai
tuoi genitori >> si arrese.
<<
Grazie
>> gli dissi mentre rientrava in ospedale, a passo
incerto.
Entro
pochi
minuti, Giacomo fu di ritorno. Aveva in mano un vassoio con due
cappuccini e
due cornetti.
<<
Per
lei, signora >> enfatizzò, inchinandosi.
Mangiammo
in
silenzio. Continuai a pensare per tutto il tempo alle violenze che
Giacomo
aveva dovuto subire dal padre, e a come, incredibilmente, fosse
diventato un
tipo così gentile e buono, nonostante quello che aveva
affrontato. Forse é per
questo che si é 'sdoppiato', pensai. Perché ha
tentato - invano - di rimuovere
quanto di più malvagio covava in lui.
<<
Ti sei
sporcata >>
affermò, pulendomi il
viso con un tovagliolo.
Ancora
una
volta, il suo tocco mi fece rabbrividire.
<<
Grazie
>> lo ringraziai, sperando che non avesse notato quanto
ero arrossita.
Maledissi le migliaia di vasi sanguigni che c'erano sulle mie guance,
ad uno ad
uno.
<<
Non
devi preoccuparti di arrossire. É una cosa bellissima
>> mi
tranquillizzò, sfiorandomi una guancia con un dito.
Mi
avvicinai di
più a lui, tanto vicino da rendermi conto che i suoi occhi,
in realtà, non
erano proprio azzurri. Sembravano quasi verde acqua, a quella distanza.
Lo
trassi verso di me e, per la prima volta, diedi un bacio sulle labbra.
Il mio
primo bacio. Sì, insomma, il mio primo vero
bacio. Quello di poche ore
prima era durato meno di cinque secondi, mentre questo fu molto
più lungo e
piacevole. Rimanemmo avvinghiati per alcune ore, solamente
abbracciandoci,
finché non fu mattino.
<<
Credo
che la nuova terapia stia funzionando >> furono le sue
uniche parole,
all'alba.
|
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Capitolo 17 *** INFORMAZIONE ***
Per chiunque stesse leggendo questa storia! I capitoli successivi li trovate su wattpad. Basta cercare "Il mistero della casa" o Koira91, il mio nome utente. Grazie! ^^ |
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