Ashira

di _Ametista_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** ...Alle rive del Nilo... ***
Capitolo 3: *** L'idea più folle di tutte ***
Capitolo 4: *** L'incanto del sacerdote ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
La luce tenue che filtra dalle stuoie poggiate sulle finestre mi inonda le palpebre di calore, colorandole d’arancio.
Sulle prime l’intorpidimento dato dal sonno non mi fa capire nulla, non penso, e mi limito a guardare con aria persa le pareti di legno della mia camera, colme di papiri colorati e comodini grondanti di sontuosi gioielli.
Ma poi qualcosa mi scatta dentro, come una trappola che ha avvinghiato la preda.
Il rituale. L’adolescenza. Sì! Uno dei momenti più importanti della mia vita sta per essere portato a compimento.
Sbadiglio e mi gratto gli occhi. Nonostante l’improvvisa ondata di emozione che mi è montata dentro, il torpore del sonno non vuole lasciarmi, ma anzi, sembra sussurrare:
Vieni tra le mie spire…Suvvia Ashira, non hai voglia di dormire un altro po’?
La voce di mia madre riscuote tutti i principi di sonno, la mia mente si fa lucida tutta s’un colpo e mi alzo di scatto.   
-Arrivo, mamma, arrivo!- grido all’ennesimo richiamo.         
Mi tolgo la canottiera di lino, per poi indossare il corto vestitino bianco, leggero e svolazzante come ali di ibis. Frugo fra i miei preziosi ornamenti e scovo i più belli, li metto ai polsi, oro lucente e freddo contro la mia pelle ramata. Qua e là, qualche rubino, sembrano quasi gocce di sangue chiaro sparsi sulle mie polsiere.                        
Allaccio il collare d’oro, calzo i sandali in pelle. Poi, cammino verso lo specchio, uno di quei strani oggetti che ti riflettono chiaramente, quasi come l’acqua del Nilo.
“Strane cose fanno i Sumeri! Guarda questo: non è meraviglioso? Chissà a quale genio è venuta in mente questa idea!”
Aveva detto mio padre porgendomelo, euforico, era appena tornato da uno dei suoi viaggi. Sorrido al ricordo. Ero solo una bambina. Innocente, treccia dell’infanzia, giocavo alla cavallina e al gioco della stella, mentre guardavo con invidia i cacciatori e le loro armi, di quel legno lucente e levigato.
Ora, sto per diventare una donna. Delle armi, non me ne devo curare. La mia vita sarà fatta di trucchi, abiti, gioielli, cucina. Non mi piace affatto il pensiero. Vorrei vivere da cacciatrice, arco in spalla, coraggio, forza, determinazione.
Intingo un dito nel kahal nero e mi segno le palpebre con una linea lunga, dritta.    
La persona che mi guarda nello specchio non è la “io” di sempre: i suoi occhi di un nero profondo hanno una scintilla insolita…
Le labbra a cuore sono increspate in un sorrisetto lieve; nella pelle ramata, nelle guance, incastrato fra le lentiggini, vi è un lieve rossore, dato dall’agitazione, l’attesa.
Sorrido a me stessa. Accarezzo la treccia dell’infanzia, i miei capelli neri lucenti che, tra poco tempo, saranno solo un mucchietto di peli troppo cresciuti stesi sul pavimento di marmo del tempio.
Esco dalla mia stanza. Sono sicura, determinata, orgogliosa.
Mia madre sta maneggiando un’anatra. Sembra impegnata: i capelli bianchi e corti che le ricadono sul viso sembrano non infastidirla per niente; l’espressione dei suoi occhi azzurri è seria e concentrata, ha le sopracciglia fini aggrottate.
-Io vado- annuncio avvicinandomi a lei. Distoglie lo sguardo dall’anatra che stava rimpinzando di patè.  
-Ciao, tesoro. Buon rituale. E non emozionarti, altrimenti il kahal cola tutto- mi fa l’occhiolino, e io ridacchio. Con un movimento rapido, afferro un po’ di ripieno e me lo porto alla bocca, gustandomelo. Il suo sapore speziato m’inonda il palato.
-Ashira…- sibila mia madre fingendosi minacciosa. Io la saluto con un cenno della mano ed esco dalla porta.
Il villaggio è in fermento: madri, ragazzine, bimbi, tutti sciamano verso un'unica destinazione: il tempio. Nell’aria vi è calore, si spargono delle chiacchiere e aleggia un piacevole profumo di carne arrostita. 
L’edificio, anche se di modeste dimensioni, trasmette comunque potenza: le pareti ornate di dipinti di processione divine narrano storie arcane e antiche.
Davanti al piccolo ingresso vi è una statua di misure esponenziali, che raffigura un faraone, sulla testa, la corona del Basso Egitto. Il suo sguardo sembra fissare il sole, severo, incorruttibile.
Entro.
Ai lati del muro vi sono altre statue di dei, in alabastro rosato. Il sacerdote Krukoslik, un vecchio dall’età assai veneranda, sta facendo il discorso d’apertura della cerimonia.
Mi affretto a raggiungere il gruppetto di ragazzine schierate, in ginocchio, davanti al sacerdote. Intravedo la mia migliore amica, Shabti, e la saluto con un cenno del capo.
Lei ricambia, i suoi occhioni languidi e castani sembrano parlare di ciò che sta pensando: “che emozione, finalmente adolescenti! Felice, Ashira?”                              
Dopo aver recitato con la sua voce gracchiante, preghiere in nome di Iside, Ra, e altri dei, Krukoslik inizia a tagliare le trecce. Per la stanza immersa nel silenzio semi totale si captano continui zak zak di capelli troncati.
Appena arriva a me, il mio corpo si mette a tremare. Il cuore palpita sempre più veloce, l’emozione mi risale dentro a grandi ondate.
Zak.
E i miei capelli sono a terra.
L’adolescenza è arrivata da me.
La cerimonia procede per un altro paio di momenti. Quando finalmente Krukoslik ci congeda, io e un’accozzaglia di giovani usciamo dalla porta del templio, spintonandoci a vicenda. Tutti corrono verso casa, o alle rive del Nilo, dove di sicuro avranno inaugurato dei giochi o delle gare. Fuori dalla porta rimaniamo solo io e Shabti.
-Adolescenti!- esulta stringendomi le braccia al collo. E’ entusiasta, il cuore le batte ancora forte.
-Già. Andiamo a prendere le parrucche? Mi sento nuda senza capelli- mormoro passandomi la mano destra sulla testa liscia. Ho un brivido.
-Va bene. Le troveremo sicuramente nella stanza vicino allo scrittoio dello scriba. Vieni!- mi prende la mano e, fra corse e risate, raggiungiamo la villa del faraone, a cui io e Shabti abbiamo libero accesso, essendo nipoti del sovrano.
Io figlia di scriba, lei di visir.
L’interno della villa è vuoto. Molto probabilmente, il faraone è a Tebe per qualche ricevimento.
-Via libera! Non c’è lo zio- mugola Shabti concitata, scivolando sul pavimento.
-La treccia te la sei tagliata per un motivo! Non sei più una bambina!- la rimprovero falsamente scocciata, guardandola fare la sciocca, correndo per i corridoi.
-Na na na na na na- m’ignora lei aprendo tutte le porte e lasciandole aperte.
Io le richiudo, come una madre prudente che ripara i pasticci della figlia ribelle.
-Eccole qua! Parrucchine della mamma!- esclama spalancando una porta ed entrandoci. Io la seguo.
La stanzetta è piccola e sa un forte odore di polvere. La luce entra da qualche minuta finestrella. Su un tavolo di legno di betulla, l’unico mobilio della piccola sala, sono stese due parrucche: una è semplice, corta, nera, con un fiore di loto trattenuto da una fascia frontale; l’altra è lievemente più elaborata, con due ciuffi lisci e una coda alta trattenuta da un prezioso fermacapelli dorato, screziato di pietre rosse ed azzurre.
-Sono delle vere meraviglie degne di Hathor!-
Shabti trotterella allegramente verso il tavolo, afferra la parrucca con il fiore di loto e se la mette in testa. Le dona veramente molto: i capelli neri le sfiorano gli angoli del viso tondo, incorniciandolo alla perfezione.
Prendo la mia parrucca e la poggio sul capo, sospirando allietata: ora che sono coperta da capelli, non mi sento più nuda, vuota e incompleta.
Avverto un vociare proveniente dalla stanza di fianco, quella di mio padre. Incuriosita, mi sporgo dallo stipite.
-Dove vai?! Dobbiamo vedere come ci stanno. Ho trovato uno specchio-
annuncia Shabti indicando un vetro riflettente a lato della stanza.
-Non preoccuparti, ora arrivo. Vado a controllare una cosa, tu aspettami qui-
ordino a mezza voce uscendo dalla porta e affiancandomi a quella dello scrittoio di mio padre, a qualche cubito più avanti.
-Ti aspetto, fai in fretta!- la sento urlare.
Sospiro e mi apposto al muro, accanto alla porta dello scrittoio, il freddo della parete è a diretto contatto con la mia schiena nuda che presto si ricopre di brividi.
Fortunatamente la porta è aperta, solo per un piccolo spiraglio, ma basta per farmi udire la conversazione:
-Dànik, i patti sono patti. Sai cos’ hai in ballo e sono ben sicuro che non vuoi perderlo-
E’ la voce di mio zio Anchesenaphy, visir di corte e uomo più folle d’Egitto, a mio parere.
Sta parlando con mio padre e il suo tono non è dei più gentili. Aguzzo l’udito.
-Anchesenaphy, sto seriamente pensando di conferire a Ramses di tutto questo; insomma, non puoi ricattarmi! Sono tuo fratello e scriba di corte, non una palma che si flette ad ogni tuo capriccio-
Bravo papà. Rinfaccia a quel topo che tu sei più abile di lui.
Un ricatto. Mio padre è stato ricattato. Da quanto tempo può essere andata avanti questa storia? Giorni? Mesi? E se fossero…Anni?
E chi è l’ostaggio? La carriera? La reputazione? La sua stessa vita?  
Anchesenaphy è capace di fare qualsiasi cosa per ciò che vuole.
-Ah, fratellino, non mi fai paura. Certo, Ramses è una bell'impiglio se me lo trovo per via. Ma anche i faraoni lasciano la terra-
Rumore di nocche sul legno. Mio padre sta tamburellando, è in preda ad una decisione molto importante.
-Va bene, verrò con te. Ma che questa sia l’ultima volta-
-Non te ne pentirai- sghignazza il visir. Stanno per uscire. Scatto verso la stanza in cui è rifugiata Shabti.
Li guardo allontanarsi. Mio padre è preoccupato e Anchesenaphy ha un’espressione strafottente. Ha in mente qualcosa, qualcosa di sporco.
E io non sono certo la tipa che sta a guardare…
 
 

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Capitolo 2
*** ...Alle rive del Nilo... ***


 
Origlio un altro poco la conversazione dei due uomini.
-Alle rive del Nilo: andiamo a caccia­ di ippopotami-
ha detto poco fa Anchesenaphy. Mio padre ha annuito, ubbidiente come un cane.
Troppo buono, sei troppo buono papà!
-Ashira, che c’è?- chiede Shabti venendomi accanto.
-Tuo padre ha in mente qualcosa di losco- borbotto quasi fra me e me.   
-Uffa, sei fissata! Lui non è un pazzo- replica scocciata. Mi volto verso di lei, alzando un sopracciglio con aria ironica.
-Sta ricattando mio padre. Suo fratello. Lo scriba di corte. Ha proprio tutti i requisiti mentali al loro posto…- mugolo sarcasticamente. Chiudo la porta. Temo che possano udirci.
-Va bene, ma sei proprio testarda quando ti ci metti! Ti obbedirò solo per dimostrarti che hai torto- decreta mettendosi le mani sui fianchi e squadrandomi con aria seria.
-Affare fatto- ribatto io porgendole la mano, un ghigno composto in viso.
Lei la stringe.
-Anchesenaphy ha detto a mio padre di trovarsi sulle rive del Nilo. Andiamo lì e vediamo cosa sta tramando- ordino autoritaria aprendo la porta e uscendo.
-Sì, mia sovrana- sbuffa Shabti seccata.
Mio padre e il visir se ne sono andati. I corridoi della villa sono immersi nel silenzio.   Faccio ruotare la testa a destra e a sinistra, per essere sicura di essere sola con Shabti.
-Non c’è nessuno. Andiamo- mormoro iniziando a camminare per i corridoi dalle pareti ornate di dipinti dai colori vivaci. Shabti mi si appende alle spalle, canticchiando un allegro motivetto di ballata.
Non so come faccia ad essere così allegra. Io sono tesa come una corda d’arpa: sento qualcosa che spinge sulla gola, il cuore non ha più il suo regolare battito.  
Corri, o tuo padre sarà nel regno di Osiride.
Ricaccio l’orribile pensiero con una scrollata di capo.
Infondo al corridoio, poggiato sulla porta, ci sono l’arco e la faretra di mio padre.
Prima non c’erano.
Lui ti ha vista Ashira, ti ha lasciato un messaggio palese, ha bisogno di te. Perché sei così lenta?!
-E’ l’arco di Darwishi!- grida quasi Shabti indicando l’arma semplice, a sezione tonda e profilo irregolare, poggiata alla porta.
Il mio cuore ha perso un battito.
-Lui…Ha bisogno di me. Io…Devo prendere il suo arco. Noi…Dobbiamo andare in fretta- sussurro a fior di labbra.
Mi carico l’arma in spalla e lego alla vita la faretra colma di frecce dall’impennaggio bianco. Spalanco la porta con un cenno distratto.
-Ashira, stai bene? Sembri morta- nota Shabti scostandomi un ciuffo della parrucca.
Le mie labbra si piegano in un mezzo sorriso, non so se è per tranquillizzare lei o me.
-Ho solo paura per mio padre- le spiego, camminando velocemente per le vie del villaggio poco affollato –tuo padre lo sta ricattando, e chissà chi è l’ostaggio!-
La mia migliore amica sbuffa.
-Avrai capito male. Non è mio padre che ricatta lui, ma qualcun altro! Anchesenaphy non è un matto-
-No, non è matto. E’ proprio fuori di testa- replico facendole una linguaccia. 
-Ha ha ha che ridere- borbotta Shabti piccata.
Siamo arrivate alle rive del Nilo. Come avevo previsto, è stata organizzata una bella festa in onore all’ adolescenza; tutt’intorno vi sono languide ballerine, suonatrici di seshes, ragazze che tentano di conquistare i più bei ragazzi, dai fisici scolpiti e i lineamenti accattivanti. Avrei voglia di gettarmi nella mischia di giovani, ballare con loro, trovare amici con cui spassarmela e dimenticare la tensione.
Ma mio padre è più importante.
-Che bello!- esclama Shabti guardando la baldoria, gli occhi castani luccicanti. Lei è una gran festaiola, la dea Hathor in persona.
-Non posso fermarmi- mugolo assai dispiaciuta cercando mio padre ed Anchesenaphy con lo sguardo.
-Tu rincorri pure le tue follie. Io sto qui a divertirmi!!!!- urla, e si fionda nella mischia, ancheggiando abilmente.
-Unica, irrecuperabile, inimitabile Shabti- mormoro fra il divertito e il seccato.
-A me- dico poi, e m’inoltro nella selva di betulle che costeggia le rive del Nilo.
Lì i rumori della festa s’attutiscono d’un poco. Lo scroscio del fiume mi rilassa, facendomi chiudere le palpebre per pochi attimi, che assaporo con dolcezza.
Ippopotami. Caccia. Padre. Ricatto. Omicidio. Osiride.
I miei occhi si spalancano tanto da farmi male, e dalla bocca mi esce un suono strozzato.
Ma dove possono essere andati? Sembrano spariti, scomparsi fra i canneti e le betulle.  
Il muggito di un ippopotamo, verso est.
-Papà!-
Il grido mi sfugge senza trovare controllo.
Perché sotto quel muggito c’era un urlo, un urlo umano.
Quello di mio padre...
 

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Capitolo 3
*** L'idea più folle di tutte ***


L’idea più folle di tutte
Correte gambe, correte. Non vi fermate. Su! Via! Mio padre è in pericolo.
I pensieri che si susseguono nella mia mente sono frettolosi, ansiosi.
Ansimo per paura e per fatica.
A piedi scalzi, sgattaiolo accanto ad ogni canna e betulla. L’erba mi punge i piedi come migliaia di piccoli aghi.
-Papà! Papà!- chiamo forte, disperatamente, la voce corrotta da un pianto che sto cercando di reprimere.
-Ashira!-
A sentire la voce maschile, le mie viscere sembrano sprofondare.
E’ lui! E’ vivo!  Penso allietata, e senza pensarci su due volte mi fiondo nella direzione del richiamo. Ma appena vedo che mi viene incontro il sollievo soccombe.         E’ Anchesenaphy. Le mani sporche di sangue rosso cupo, un’espressione falsamente dispiaciuta dipinta in viso, la camminata lenta e tranquilla come se le sue mani fossero sporche di semplice argilla.
-Dov’è mio padre?- mormoro a fior di labbra, gli occhi pesanti di lacrime. 
-Lui…E’ andato da Osiride. Un ippopotamo lo ha azzannato. Mi spiace, Ashira. Vado ad avvertire le guardie di Ramses- poi mi supera, senza dire  nient’altro.
Il mento trema sommessamente, la tristezza spinge sulla gola come un coltello caldo.
Grosse gocce calde scorrono sulle guance ed entrano nelle labbra, facendomi assaggiare il loro sapore salato.
-NO!- sbraito, e corro per trovare la salma di mio padre, lui non è morto, non può esserlo! Gli voglio troppo bene, era troppo intelligente per andarsene!
Il controllo è scivolato dal mio corpo, singhiozzo senza contegno e mordo le labbra fino a farmele sanguinare.
-Papà! Papà! Papà!- continuo a chiamare piantando le unghie nei tronchi candidi delle betulle ed estirpandone la corteggia.
Avvisto il baluginare di uno dei bracciali d’oro di mio padre. 
Lo raggiungo e ciò che vedo mi fa gemere.
Il corpo di mio padre, inerme, galleggia nelle acque colorate di rosso.   
Ha il volto disteso e inespressivo, bianco come marmo; gli occhi, aperti e vitrei, fissano il cielo. Sul suo petto sono impressi dei segni ancora sanguinanti: morsi d’ippopotamo. O forse…
Afferro il suo braccio inerme, orribilmente freddo, e trascino il suo corpo a riva, vincendo il disgusto e la repulsione. Esamino le ferite: troppo strette per essere causate da un accidentale morso d’ippopotamo. Queste sono fenditure da pugnale.
Anchesenaphy. Che bastardo! E’ stato lui.
La rabbia, cieca, suggerisce di trovare il visir e conficcargli una freccia nella testa.
La razionalità, invece, mi dice che la mia vendetta non sarà affatto violenta. Io non voglio diventare come lui, dopotutto. Non voglio essere un’assassina.                  
-Darwishi!- l’urlo straziante di mia madre squassa la radura come un boato. Qualche ibis vola via dagli albero con un fruscio.
La donna si affianca a me, inginocchiata vicino a papà. Prende il suo viso fra le mani e si dispera; “Mànuk e Darwishi, la coppia preferita di Hathor” li chiamavano.
Erano sempre stati assieme. Si erano amati nel bene e nel male. Ma la morte rovina tutto. Anchesenaphy ha distrutto la nostra famiglia.
Appena arriva, seguito da qualche guardia crucciata, il furore m’investe e poco manca che scocchi una freccia addosso all’uomo.
-BASTARDO! FRATELLO DI SETH, INSULSO ASSASSINO! SEI IL PEGGIOR UOMO CHE ABBIA MAI SOLCATO IL SUOLO! MUORI! – poi, rivolgendomi alle guardie allibite dalle mie urla -E’ STATO LUI! RINCHIUDETELO, FATELO SOCCOMBERE!!!-
Tutti mi guardano annichiliti. Sto ansimando di rabbia, di paura, di tristezza.
Dagli alberi spuntano Shabti e un ragazzo ameno dai capelli castani, gli occhi di un profondo azzurro, la pelle chiara: è uno schiavo, lo intuisco dai capelli lerci e il malconcio gonnellino che indossa. Ma ciò non minuisce la sua bellezza.
-Ashira, ma sei matta ad urlare così? Hai fatto prendere un colpo a tutti!- esclama senza guardare il corpo di mio padre. Che ingenua. E’ ancora una bambina stupida e insulsa.
Lo schiavo le lancia un’occhiataccia di rimprovero.
-MA SEI SCIOCCA O COSA?! Guarda- indico mio padre, steso a terra.
-E’ morto, stupida è morto! Guardalo, non respira più! Ti ci vuole un disegnino per fartelo capire?!-
Shabti lacrima. Ha sempre avuto il pianto facile.
-E’ stato tuo padre, ingenua- proseguo poi.
-Io? Ma Ashira, cosa vai a pensare!- si giustifica Anchesenaphy. Si legge una nota di preoccupazione nel suo tono.
-E’ drammatizzata, dopotutto è appena morto suo padre. Se ci lasciaste chiarire le cose…-
-CHIARIRCI?! CHIARIRCI!? TU SEI UN ASSASSINO, ECCO LA COSA CHIARA!!- il mio urlo interrompe le parole del visir.
-Ashira…- mugola mia madre, prendendomi la mano. Mi tolgo dalla sua presa, dolcemente.
Un’idea mi si sta facendo largo nella mente. E’ folle, la più folle di tutte.
Ed è molto probabile che non funzioni. Ma, per riavere mio padre, potrei fare qualsiasi cosa.
Balzo nelle acque gelide del Nilo e nuoto alla riva opposta. Bagnata fradicia, scappo nel bosco lasciandomi tutti alle spalle.
Mio padre, lo zio Anchesenaphy, mia madre, Shabti, lo schiavo bello…
Ma, soprattutto, il mio mondo.
 

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Capitolo 4
*** L'incanto del sacerdote ***


Braccia aperte, volto rilassato, occhi chiusi.
Così si presentava Krukoslik il sacerdote, in piedi al centro del tempio.
-Che fai?- chiedevo osservandolo. Ero ancora piccola, una bambina che giocava con il carretto di legno per le stanze del tempio di Ra.
-Vedi, Ashira- iniziava lui, aprendo gli occhi e guardando il vuoto con fare sognante –ho reperito, in una vecchia biblioteca di Alessandria, un papiro con su citati degli incantesimi che, di dice, conducano al mondo degli dei-
-Cosa?! E’ incredibile! Non ci credo. Mostrameli, mostrameli, mostrameli!- insistevo saltellando euforicamente.
E Krukoslik tirò su il fiato...Mi aspettavo chissà quali formule…
-Hotep mos*-
Tutto qui? Ero assai delusa. Anche perché non era successo nulla.
-Non ci riesco mai, piccola Ashira…Forse non piaccio abbastanza agli dei- mormorò affranto.
“Io ce la farò” pensai subito. Poi scossi la testa, rendendomi conto della ridicolezza del mio pensiero.
 
Il ricordo è tornato improvviso, un brusco salto nel passato.                               Sbatto gli occhi. Ho sonno. Ho freddo.
E’ calata la notte.
Al buio, sotto una betulla, rimugino sul da farsi.
Tornare in villaggio? Neanche per idea.
Restare qui? Ci sono troppi rumori, scricchiolii, ombre, e la mia fantasia si scatena in maniera angosciosa e inverosimile.  
Provare l’incantesimo? E’ la cosa più conveniente.
Anche se è una follia, lo so.
Non ci è riuscito nemmeno Krukoslik, sacerdote fedele agli dei in maniera quasi maniacale, con anni e anni di esperienza sacerdotale alle spalle.
Perché dovrei farcela io?
Ma provare non guasta mai. Soprattutto se c’è di mezzo un membro della mia famiglia.
Mi alzo in piedi. Ho le gambe stanche e doloranti.
Apro le braccia e mi concentro.
Ma nella mia mente aleggia l’immagine del cadavere di mio padre e la musica di un canto funebre, con tanto di strazio delle lamentatrici.
-H-hotep m-mos- mugolò con il mento ancora tremante a causa delle  lacrime che mi sono fatta salire.
La sagoma sfocata del dio Anubi prende il posto della macabra scena.
Poi, la mia testa vortica e sprofonda nel buio.
 
*Hotep significa pace, riposo, offerta, soddisfazione, mentre “mos” è generare, nascere.

 

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