La principessa e il guerriero

di JanineRyan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - L'INIZIO DEL VIAGGIO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - IL PRIMO INCONTRO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - LE RAGIONI DEL RE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - INSEGNAMI ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - VECCHI AMICI ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 - PARTENZE E ARRIVI ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 - UN VIAGGIO DI SVENTURA ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 8 - AMORE IMMORTALE ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 9 - AMORE MORTALE ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 10 - FRATELLI ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 11 - L'AUDACIA DEL PRINCIPE ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 12 - IL PRIGIONIERO DI BOSCO ATRO ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 13 - PALAZZO SUL MARE ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 14 - IL GIARDINO DI CELEBRIAN ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 15 - DUBBI E CERTEZZE ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 16 - LA DAMA DEL PALAZZO D'ORO ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 17 - I FIGLI DI GONDOR ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 18 - LOTHLORIEN ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 19 - ANCHE I MOSTRI HANNO L'ANIMA ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 20 - LO SPECCHIO DI DAMA GALADRIEL ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 21 - HALDIR ***
Capitolo 22: *** CAPITOLO 22 - UN MAUSOLEO DI DOLORE ***
Capitolo 23: *** CAPITOLO 23 - AREDHEL ***
Capitolo 24: *** CAPITOLO 24 - LA CERIMONIA DEL NOME ***
Capitolo 25: *** CAPITOLO 25 - RICONOSCERE L'AMORE ***
Capitolo 26: *** CAPITOLO 26 - NEL PROFONDO ***
Capitolo 27: *** CAPITOLO 27 - FIORI CON SPINE ***
Capitolo 28: *** CAPITOLO 28 - SVERKER ***
Capitolo 29: *** CAPITOLO 29 - LA LAMA RIFORGIATA ***
Capitolo 30: *** CAPITOLO 30 - VIVI ***
Capitolo 31: *** CAPITOLO 31 - FINO ALLA FINE ***
Capitolo 32: *** CAPITOLO 32 - NON CON QUELLA VOCE... NON CON QUELLO SGUARDO... ***
Capitolo 33: *** CAPITOLO 33 - PERDONAMI ***
Capitolo 34: *** CAPITOLO 34 - TU MI VEDI ***
Capitolo 35: *** CAPITOLO 35 - OCCASIONI ***
Capitolo 36: *** CAPITOLO 36 - LA FINE ***
Capitolo 37: *** CAPITOLO 37 - L'AMORE NON BASTA ***
Capitolo 38: *** CAPITOLO 38 - DESTINAZIONI ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 - L'INIZIO DEL VIAGGIO ***



Questo capitolo è un pò corto, spero vi piaccia... intanto inizio a mettere la foto di come saranno due delle protagoniste...
Buona lettura a tutti!


ESTRYD 

ALHENA


Era pomeriggio nella Terra di Mezzo e nella meravigliosa terra di Gran Burrone si era appena concluso il Consiglio di Elrond. La compagnia dei nove era stata formata ed era pronta alla partenza.
Gli elfi di Gran Burrone si erano riuniti davanti al grande cancello per salutare e augurare buona fortuna ai viaggiatori. La loro missione era ardua e avevano poche possibilità di tornare a casa vivi e incolumi.
“Padre voglio partire! Non merito forse un’opportunità per dimostrare il mio valore?”
L’attenzione dei presenti venne catturata dalla cristallina voce di una giovane elfa dai lunghi e lucenti capelli castani. Con orgoglio si erse davanti al padre, Elrond di Gran Burrone. Vestiva abiti da guerriera, nonostante il suo lignaggio nobile.
Elrond fissò sua figlia terzogenita, sorella minore di Arwen e dei gemelli Elladan e Elrohir.
“Non permetterò mai a mia figlia di partire.” convenne con tono autoritario. “Sei troppo giovane per comprendere appieno le difficoltà e l’oscurità che incombe su questa terra. Sono tempi bui, figlia mia. Una principessa, come te, deve stare al sicuro tra le…”
“Nascondermi dietro la sottana di mio padre?” lo interruppe lei alzando la voce.
“Estryd! Non te lo permetto!” urlò Elrond, accompagnando l’affermazione con un segno imperativo del braccio.
Guardò la figlia negli occhi, sostenendo il suo verde sguardo. Non l’aveva mai vista così irritata. Un fuoco bruciava dentro di lei, una fiamma che non avrebbe mai potuto fermare.
“Alhena è partita.” sussurrò Estryd, chinando il capo.
Era dispiaciuta per quanto accaduto, non aveva mai alzato la voce con suo padre. Aveva grande rispetto per lui, ma non accettava questa sua decisione. Era stata presa per le ragioni sbagliate; l’elfo voleva solo proteggere la figlia. Ma Estryd, da sempre figlia obbediente di Elrond di Gran Burrone e Celebrìan, aveva uno scopo.
“Tua sorella è stata impudente. Ha abbandonato il suo popolo per unirsi ai raminghi. Tua sorella ha disonorato la nostra famiglia, disobbedendo dai miei ordini! Ho rinnegato Alhena. Tu non hai altre sorelle se non Arwen.”
“Mia sorella ha avuto il coraggio di fare ciò che era giusto!” convenne Estryd nell’ultimo disperato tentativo di raggiungere i suoi scopi.
Il volto di Messer Elrond si contrasse in un’espressione che poche volte aveva sfiorato il suo viso. Estryd, spaventata, non aggiunse altro. Chinò il capo davanti al padre e, con passo deciso, superando la popolazione elfica di Gran Burrone, raggiunse il palazzo, arrabbiata e determinata.
“Vogliate scusarmi, miei signori e ospiti. Ma mia figlia non ha ancora compreso il significato della parola rispetto.”
La voce di Elrond raggiunse le orecchie di Estryd mentre, ignorando le parole paterne, percorse un lungo corridoio per raggiungere un’uscita secondaria. Con agilità si arrampicò sull’alta muraglia e scavalcò le alte mura che proteggevano Gran Burrone. Prima di ridiscendere, diede un ultimo sguardo a casa sua: le sarebbe mancata. Era vissuta solo in questa terra, ma non era restare imprigionata tra le mura di Gran Burrone che avrebbe adempiuto al suo destino.
Volse lo sguardo verso il mondo: quello era il suo destino! Con o senza l’approvazione del padre sarebbe partita. Sua nonna, Lady Galadriel, le aveva scritto una lettera raccontandole una visione che aveva avuto. Insieme a sua sorella Alhena, era destinata a grandi cose e, solo fuggendo da Gran Burrone, avrebbe potuto compiere il suo destino.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 - IL PRIMO INCONTRO ***


 


Il viaggio era cominciato e i membri della Compagnia camminavano tra le rocce, percorrendo stretti passaggi. Nessuno parlava, il peso del viaggio che avrebbero dovuto sopportare iniziava a gravare sui loro cuori. Quando si erano offerti volontari per unirsi a Frodo, nessuno di loro sapeva a cosa sarebbero andati realmente incontro. Il sole stava per tramontare quando uscirono dai confini di mastro Elrond, superando l’estesa prateria e raggiungendo i piedi delle Montagne Nebbiose. Gandalf si fermò, ordinando agli Hobbit di accendere un fuoco, preannunciò una notte fredda. Attorno a quella fiamma si sarebbero riuniti, non sono per scaldarsi, ma anche per cucinare.
Frodo si accomodò su un piccolo masso, Sam gli aveva categoricamente proibito di unirsi a loro nella ricerca della legna. Gimli, a fianco del portatore, gli teneva compagnia narrando alcuni aneddoti della Battaglia delle Cinque Armate che suo padre, Gloin, gli aveva raccontato quand’era solo un bambino.
Gandalf osservava i due, ricordava fin troppo bene quegli eventi…Ereborn, la Montagna Solitaria, Reame Boscoso…
“Non siamo soli.” sussurrò Aragorn, avvicinandosi allo stregone e guardando i confini di una piccola foresta al loro nord. “Siamo stati seguiti non appena abbiamo lasciato Gran Burrone.”
Lo stregone annuì, voltandosi; se n’era accorto anche lui. Anche se, chiunque fosse, era molto abile nel celarsi ad occhi indesiderati.
“Lo so.” rispose semplicemente, avvicinandosi con l’amico agli alberi.
Con una mano, afferrò Aragorn per un braccio e gli fece segno d’aspettare. Poi, superando l’uomo, con passo leggero, Gandalf raggiunse la boscaglia accanto all’accampamento. Si fermò davanti agli alberi e, con dolcezza, disse: “Fatti avanti, mia signora. Non celarti nell’ombra della notte.”
Legolas, udendo le parole dello stregone, si avvicinò ad Aragorn e, acuendo la vista, osservò il buio della foresta.
“Avanti… mostrati!” concluse Gandalf, imperativo.
Senza far rumore, una scura figura si mosse tra gli alberi, camminando a testa alta.
Prima di uscire allo scoperto, si fermò e, portando le mani sopra il capo, abbassò il cappuccio per mostrare il suo volto.
“Lady Estryd!” esclamò Legolas, chinando il capo verso la fanciulla.
“Tuo padre ti verrà a cercare.” disse Gandalf, voltando le spalle alla ragazza e camminando verso l’accampamento. “Torna a Gran Burrone.”
Estryd uscì dalla foresta e raggiunse Aragorn e Legolas, rimasti fermi ad osservare ogni suo movimento. Il ramingo teneva stretta in mano una fiamma che le illuminò il volto.
“Non verrà.” disse con calma Estryd. “Ha dispiegato le sue forze ad Est, per aiutare Re Thranduil ad affrontare il male che minaccia le sue terre da sud.”
“Non ti permetteremo di seguirci.” replicò con convinzione Gandalf, voltandosi nuovamente e guardando l’elfa negli occhi. “Rispetto troppo tuo padre per andare contro i suoi ordini.”
“Mio padre…” ripeté Estryd con tono canzonatorio. “Mio padre è cambiato! Non è più l’elfo che hai conosciuto anni fa… si è allontanato dal mondo. Mira solo ad andarsene. Non gli interessa altro…” fece una pausa. Poi, aggiunse: “Mio padre non è mai riuscito a contenere il mio carattere. Pensi che tu possa farlo?”
La tensione crebbe attorno al fuoco, Estryd osservò tutti i membri della Compagnia. Dal nano, al guerriero di Gondor, ai quattro piccoli Hobbit. Ricordava le parole di Lady Galadriel, sarebbe dovuta stare accanto al portatore per permettergli di raggiungere il Monte Fato. Lei aveva un ruolo in questa guerra, lo sentiva.
Si avvicinò a Frodo e, chinandosi davanti ai suoi piedi, lo guardò negli occhi afferrando le sue mani.
“Frodo, tu hai conosciuto mio padre. Hai avuto fiducia in lui… ora ti chiedo di aver fiducia in me. So che sono solo una fanciulla di razza elfica e non possiedo la forza dei grandi guerrieri qui presenti… e nemmeno padroneggio la magia di Gandalf. Ma posso esserti comunque d’aiuto. Permettimelo. Permettimi di aiutarti!”
La giovane fece una pausa, poi continuò, sempre guardando Frodo negli occhi: “Sei il capo di questa Compagnia. Tu detieni l’Anello e, quindi, tu decidi.”
Estryd vide il giovane Hobbit volgere lo sguardo verso Gandalf, come in cerca di aiuto. Ma lo stregone tacque. Le parole della giovane elfa erano vere: Frodo avrebbe scelto e lui si sarebbe sottomesso al suo volere.
“Verrà con noi.” convenne Frodo, alzandosi da terra e raggiungendo l’elfa.
Estryd si chinò, guardando lo Hobbit negli occhi dalla stessa altezza: “Ti ringrazio, non te ne pentirai.”

“Sai combattere?”
Seduti attorno al fuoco, Sam grigliava dei piccoli conigli catturati e uccisi da Boromir. Il comandante di Gondor, guardava la ragazza e nel frattempo scuoiava l’ultimo animale che aveva preso. Era curioso di sapere di più su di lei; curioso di conoscere la sua forza e se sarebbe stata loro d’intralcio.
Estryd guardò Boromir e, sorridendogli, respirò a fondo.
“Sì. So combattere. Mi hanno insegnato a padroneggiare la spada, l’arco e la lancia. Non sarò brava quanto Alhena, ma so badare a me stessa.” rispose. “Sono cresciuta in tempi di guerra. Mio padre è stato un valoroso combattente. I miei fratelli, impegnati a est, sono dei valorosi combattenti. Non vi sarò di alcun peso, se questo ti preoccupa signore di Gondor.”
L’uomo sbuffò, irritato dalla risposta secca della ragazza e, porgendo l’animale scuoiato a Sam, si allontanò dal fuoco.
“Non sei stata molto gentile, mia signora.” disse Aragorn, che aveva seguito attentamente il discorso.
“Non sono la tua signora, Aragorn figlio di Arathorn.”
“Siete la mia signora, invece. Vostro padre è il mio signore…” rispose.
Estryd, chinandosi verso il ramingo, sussurrò guardandolo nei magnetici occhi azzurri.
“Voi siete Re per diritto di sangue.”
Aragorn, imbarazzato, non seppe che rispondere. L’arguzia della ragazza lo aveva spiazzato. Avrebbe voluto risponderle a tono ma, prima di avere il tempo, Sam si avvicinò a loro e, tenendo in mano un vassoio contenente i conigli cotti, chiese: “Volete della carne? E’ buona. Ottima, oserei dire.”
Estryd storse il naso, non era usanza elfica mangiare carne animale. Ogni creatura aveva il diritto di vivere.
“Mi basta del pane.” convenne alzandosi ed afferrando una galletta lembas, l’addentò.

Il giorno seguente, all’alba, la Compagnia era già in viaggio. In testa, Gandalf camminava fianco a fianco con Frodo e Sam. Seguiti da Marry, Pipino e Gimli, che tenevano il piccolo pony per le briglie. I due piccoli Hobbit cantavano canzoni allegre della Contea; più appropriate per una locanda Hobbit che per una missione come la loro. Subito dopo, camminavano Boromir e Legolas e, per chiudere la Compagnia, Aragorn camminava accanto ad Estryd.
Lei aveva conosciuto bene il ramingo nei lunghi anni in cui era vissuto a Gran Burrone; durante
quegli anni era stato istruito da suo padre per farlo diventare un degno erede del Trono di Gondor.
“Come ha reagito mia sorella alla tua partenza?” domandò Estryd, volgendo lo sguardo all’uomo al suo fianco.
#flashback#
Era un pomeriggio piovoso a Gran Burrone e Aragorn, solo vent’enne, aveva appena terminato una difficile lezione con Elrond nelle biblioteche elfiche. Uscì dalla stanza e rimase meravigliato dalla grande quantità d’acqua che cadeva dal cielo. sospirò, rimpiangendo di non aver preso una mantello quella mattina. Correndo velocemente, attraversò il piazzale per raggiungere la scala che avrebbe condotto agli alloggi personali della popolazione elfica. Tenendo lo sguardo chino, Aragorn non si accorse di un’altra persona che stava correndo nella direzione opposta alla sua. Fu inevitabile: si scontrarono.
Aragorn a stento restò in piedi mentre la fanciulla, con cui si era scontrato, era caduta a terra, sul bagnato, inzuppandosi il bellissimo abito blu e rosso che portava. Aragorn si avvicinò all’elfa e, stendendo la mano, verso di lei, sorrise:

“Permettimi di aiutarti, mia signora.”
La fanciulla alzò lo sguardo sull’uomo e rimase colpita. Sentì le sue guance avvampare. Mai, nei lunghi anni della sua vita, aveva incontrato una creatura talmente bella.
Accettò la mano che lo straniero le offriva e si alzò, guardando la veste che portava.
“E’ tutto bagnato…” sospirò lei.
“Mi dispiace. È colpa mia.”
“Oh no… non volevo accusarti…” rispose pronta lei, alzando il tono di voce e guardandolo negli occhi.
Aragorn si avvicinò alla fanciulla e, posando una mano sul suo braccio, con voce profonda, disse: “Mi chiamo Aragorn.”
“Io sono Arwen.”

Entrambi sorrisero, stava nascendo qualcosa tra loro. Entrambi lo sentivano: Arwen posò una mano su quella del ramingo e gli sorrise con dolcezza. L’acqua cadeva sui loro corpi bagnati, carezzando la loro pelle.
Il loro fu amore a primo sguardo. 
#fine flashback#

“Conosco la tua abilità con le armi, ma vorrei stare al tuo fianco. Proteggerti.” rispose il ramingo, ignorando la domanda dell’elfa.
“Non ho bisogno di protezione. So badare a me stessa. Combatto da prima che tu venissi al mondo…” rispose Estryd. “…e combatterò ancora dopo la tua morte.”
Subito si pentì di aver pronunciato quelle parole. Aveva offeso Aragorn, ricordandogli la sua mortalità. Morsicandosi il labbro inferiore, superò il ramingo e, afferrandolo per le braccia, lo fermò, guardandolo in volto: “Perdonami. Non so tenere a freno la lingua. Sono affezionata a te. Ti ho visto crescere e ho visto mia sorella innamorarsi di te… perdonami.”
Aragorn, sorrise, chinando il capo verso la fanciulla e, posando una mano all’altezza del suo cuore, disse con voce profonda: “Siete perdonata.”






***
Voglio ringraziare Carmaux_95, Giuli Snow e Sara_3210 per i bellissimi commenti e tutti voi che avete letto il primo e il secondo capitolo di questo racconto!
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 - LE RAGIONI DEL RE ***


Prima di leggere questo capitolo, ho una piccola osservazione da fare: le parti in corsivo, da questo capitolo in poi, saranno dei flashback. Inoltre, ringrazio ancora le fedeli lettrici di questa storia!
Buona lettura!
***



La Compagnia intraprese la via per Moria quando, il tentativo di superare le Montagne Nebbiose, oltrepassando le sue vette innevate, fallì. La decisione fu accolta con grande gioia da Gimli che, mentre camminava accanto agli Hobbit, continuava a lodare le miniere sotto la montagna. Era certo che il loro passaggio sarebbe stato facilitato da suo cugino Balin. Sarebbero stati organizzati grandi festeggiamenti e ricchi banchetti in loro onore.
“Grandi falò, birra di malto, carne stagionata con l’osso!” ripeteva il nano, già assaporando in bocca la cucina di casa.
Gli Hobbit erano entusiasti all’idea di una buona cena. Ma, il loro entusiasmo, non era condiviso da tutti.
Gandalf temeva ciò che si celava sotto la montagna. Aveva udito delle storie su un mostruoso demone di fuoco, risvegliato dall’avarizia dei nani per gli scavi fatti nel cuore della caverna.
Non era insoluto, per i nani, sfruttare le terre che offrivano loro ricchezze. Erano gelosi di possedere grandi tesori: oro, gemme o argento. Ma, il tesoro più grande che si poteva estrarre dalle miniere di Moria era il mithril.
Lo stregone tentò di opporsi, ma le sue parole non vennero ascoltate. Frodo prese la decisione di attraversare le miniere e, arrendendosi alla sua volontà, non contestò la scelta.

Camminarono attraverso una via ciottolata, accanto a un lago nero che puzzava terribilmente di morte. Una volta raggiunto l’ingresso nascosto delle miniere, Gandalf spiegò loro che solo conoscendo la parola magica sarebbero potuti entrare. Purtroppo, questa parola era stata gelosamente custodita dai nani, tanto da essere stata dimenticata. L’unica possibilità che ora avevano per aprire i cancelli di Moria, era risolvere un indovinello inciso nella pietra, sopra l’accesso.
Oltre a Gandalf, anche Estryd e Legolas diffidavano della decisione di Frodo. Nessun elfo avrebbe attraversato Moria con il cuore leggero.
“Era meglio procedere verso sud! Dovevamo dirigerci alla breccia di Rohan. Non saremmo mai dovuti venire qui! Passare attraverso il Mark e arrivare a Gondor da nord!” esclamò Boromir, avvicinandosi allo stregone.
“Non è mia intenzione far avvicinare tanto l’Anello a Gondor.” rispose Gandalf.
“Per quale ragione? Non avete fiducia nel mio popolo? Per anni abbiamo tenuto a bada il nemico… abbiamo combattuto e siamo morti per assicurarvi una vita tranquilla! Gondor saprà proteggere l’Anello!”
Gandalf guardò truce il Comandante, ma non rispose alle sue parole. Le stesse frasi erano già state pronunciate durante il Consiglio di Elrond ed erano state contestate.
Boromir si allontanò dallo stregone e, lasciandosi cadere su una roccia accanto alla riva, iniziò a gettare con rabbia dei sassolini dentro il lago. Osservava poi, con aria trasognata, gli anelli ingrandirsi attorno a dove il sasso era caduto.

Estryd, affaticata per il tentativo di scalare il passo di Caradhras, si lasciò cadere stremata sotto un albero d’ulivo. Chiuse gli occhi e, portando le mani sul volto, si massaggiò gli occhi.
“Come mai Alhena non ci ha ancora raggiunti?” chiese Legolas avvicinandosi all’elfa e accomodandosi al suo fianco. “Pensavo che, una volta allontanati da Gran Burrone, si sarebbe unita a noi.”
Estryd osservò il principe elfico.
“Non so dove si trova al momento. Mi ha scritto alcune settimane fa. Stava lasciando Esgaroth per dirigersi verso non so quale meta.”
“Forse ha raggiunto Bosco Atro dopo la mia partenza…” rifletté Legolas.
Estryd spostò l’attenzione su Gandalf, che stava cercando di risolvere l’indovinello.
“Cosa ti ha portato a Gran Burrone?” chiese Estryd, voltandosi verso l’elfo.


Con passo veloce, Legolas stava attraversando i ponti che collegavano un’ala all’altra dell’imponente palazzo di Bosco Atro, casa sua. Adorava camminare nel regno di suo padre ma, ancora di più, amava passeggiare per la foresta circostante quand’era ancora  verde e rigogliosa.
Raggiunta la Sala del Trono, entrò senza bussare. Thranduil sedeva scomposto sul grande seggio e, con aria annoiata, guardava l’anello che portava e muoveva le dita della mano per creare effetti di luce sulla pietra in esso incastonata.
“Padre, mi hanno detto che mi cercavi. Eccomi!”
Distogliendo lo sguardo dalla gemma, il sovrano incrociò gli occhi del figlio.
“Ti aspettavo tre giorni fa. I nostri confini sono stati violati da un branco di orchi di Mordor. Li abbiamo respinti con facilità, ma hanno aiutato il prigioniero a fuggire dal mio regno. L’abbiamo cercato, invano. Ieri, ho mandato la guardia a sud con l’ordine di proteggere i nostri confini meridionali.” fece una pausa.“Andrai a Gran Burrone e avviserai Elrond dell’accaduto.”
“Sì, padre.”
Legolas rimase fermo, in attesa d’essere congedato. I due elfi si guardarono in silenzio per alcuni minuti, poi Thranduil chiese al figlio, cercando di trattenere l’agitazione: “Quali novità mi porti da Esgaroth?”
“La città è stata ricostruita ritornando alla sua antica bellezza.” rispose il giovane elfo.
“Ottimo.” sussurrò.
Ma Legolas sapeva che erano altre le informazioni che suo padre voleva ottenere.
Infatti, Thranduil gli aveva ordinato di recarsi a Esgaroth per cercare una persona e, dopo alcuni giorni di ricerche, Legolas aveva trovato delle tracce. Le seguì per un giorno intero e una notte, prima di trovarla.
“Non mi chiedi di lei?” osò domandare il principe, osservando le reazioni del padre con attenzione.
Gli occhi di ghiaccio del sovrano scintillarono a quella domanda. Scattò in piedi, facendo cadere a terra un calice di cristallo e oro contenente dell’ottimo vino. Scese lentamente le scale, senza distogliere lo sguardo da Legolas.
Raggiunto, si fermò davanti al figlio, le mani distese lungo i fianchi ed il capo lievemente chinato a sinistra.
“No.”


“Mio padre mi ha ordinato di partire per Gran Burrone. Dovevo informare tuo padre della fuga della creatura Gollum.”
Estryd rise di cuore: “E, dunque, salgono a ben due le volte che le famose prigioni di tuo padre sono state violate! Anni fa vi siete lasciati fuggire tredici nani e, solo pochi giorni fa, quell’orrenda creatura!”
Legolas parve offeso da quelle affermazioni, ma non ribatté.
“Sapevo della fuga di Gollum ancor prima del tuo arrivo nella mia terra.” continuò Estryd, che aggiunse: “Alhena me ne ha parlato in una lettera. Quelle sono parole sue, non mie.”
“E tu? Sei d’accordo con lei?”
“Sì.” rispose l’elfa con voce cristallina. “Vi siete fatti fuggire dei prigionieri… dove sta la grandezza del tuo popolo, se nemmeno siete in grado di sorvegliare Gollum? Ricordo fin troppo bene Thranduil e ricordo il suo sguardo tronfio quando si era proposto volontario per sorvegliare la creatura… come? Come è riuscito a fuggire?”
“Non ero a Bosco Atro quella notte, conosco solo gli avvenimenti che mio padre mi ha raccontato e che ho riferito al Consiglio.”
Estryd stava per ribattere ma, un forte rumore, catturò l’attenzione di tutti. Le mura lentamente si stavano aprendo.
Gli Hobbit battevano entusiasti le mani, eccitati all’idea dell’ottima carne e della birra fresca che sarebbe stata loro offerta.

Dalla porta non emerse alcuna luce e non videro guardie che sorvegliavano l’accesso. Con passo deciso, la Compagnia si affacciò all’ingresso, cercando di vedere cosa ci fosse oltre.
Legolas, entrato per primo, storse il naso; odore di morte giungeva da quelle miniere. Si voltò per impedire ai compagni di seguirlo, ma non fece in tempo a parlare. Una mostruosa creatura, emersa dal lago, avventandosi sulla Compagnia con i suoi tentacoli. Cercava d’afferrare gli intrusi per attirarli a sé. Estryd conosceva quell’essere: adorava leggere e, alcuni volumi parlavano di quel mostro. Si chiamava Osservatore nell’Acqua, era una creatura del mondo antico che sorvegliava l’ingresso alle miniere di Moria. Molti valorosi guerrieri erano periti sotto il suo attacco.
Aragorn, Boromir, Legolas e Estryd impugnando le loro armi e attaccarono l’Osservatore. Cercavano di ostacolare i suoi attacchi, colpendo i tentacoli che si muovevano velocemente attorno a loro. Erano viscidi e di varie dimensioni: alcuni grandi e lunghi, altri più corti e fini.
Nel frattempo, Gandalf e Gilmi conducevano al riparo gli Hobbit oltre le mura di Moria.
“E’ troppo forte!” urlò Boromir, dopo alcuni minuti. “Dobbiamo ripiegare! Nelle miniere!”
Estryd, al suo fianco, colpiva i tentacoli della creatura.
“Estryd, raggiungi gli Hobbit! Va al riparo!” la supplicò Legolas, voltandosi e incrociando lo sguardo dell’elfa.
Ella inarcò le sopracciglia, irritata da quelle parole. Odiava quando veniva trattata come una fanciulla indifesa: era in grado di combattere e badare a sé stessa!
L’Osservatore si avvicinò strisciando verso i cancelli di Moria, dei tentacoli afferrarono le porte della miniera, spezzandole come fossero di carta.
“Le porte! Stanno crollando!” urlò Aragorn, mentre afferrava Estryd in vita e la conduceva di forza oltre le mura, seguito da Legolas e Boromir.


 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 - INSEGNAMI ***




Buio. Ecco cosa attendeva tutti loro una volta entrati nelle miniere.
La porta era crollata a causa dei ripetuti attacchi dell’Osservatore nell’Acqua, lasciando solo le macerie dell'antico accesso. Estryd istintivamente si strinse al braccio di Legolas; era terrorizzata, non tanto dal buio, ma quanto dall’oscurità che avvertiva attorno a sé. Sembrava avesse una sua consistenza, strisciava verso di lei, facendole mancare il fiato. Sentiva che, come il buio aveva prevalso sulla luce, quella stessa presenza le succhiava via il calore dell'anima.
Con due colpi secchi del bastone sul pavimento, Gandalf accese una fievole luce, sufficiente per vedere pochi passi davanti a loro.
“Suppongo che non abbiamo altra scelta… dobbiamo affrontare le lunghe tenebre di Moria.” il mago fece una pausa, voltandosi verso i compagni. “Un avvertimento: state in guardia. Ci sono cose più antiche e più malvagie degli orchi nelle profondità della terra. Non fate rumori. Non una parola mentre siamo in viaggio. Voglio attraversare queste miniere senza che la nostra presenza venga udita. Sarà un viaggio di quattro giorni fino all’altra parte. Gimli, cammina al mio fianco. Questa è la casa dei tuoi avi, conosci ogni via… mi aiuterai a ricordare la strada.”
Estryd liberò Legolas dalla presa, imbarazzata da quanto accaduto.
Si schiarì la voce tossendo e, per giustificare quando accaduto, sussurrò: “C'è solo morte qui…”.
Il respiro era accelerato e, mentre si guardava intorno, lentamente arretrava. Continuava a far vagare lo sguardo ovunque attorno a sé: non riusciva a concentrarsi troppo a lungo sui corpi. Era spaventata e, allo stesso tempo, si vergognava. Era partita perché era certa che sarebbe riuscita ad affrontare qualunque cosa, ma la spavalderia l'aveva abbandonata.
Indietreggiò fino a scontrarsi con Boromir. L’uomo la afferrò per le spalle, facendo una lieve pressione, cercando di infonderle coraggio. Comprendeva i timori che poteva provare un elfo davanti alla morte; per gli esseri immortali era straziante rimanere inermi davanti al lento scivolare del tempo che colpiva le altre razze.
“Non sei sola.” le disse con un filo di voce, chinandosi su di lei.
Gli occhi di Estryd correvano ancora da un lato all’altro: c’erano centinaia di scheletri di nani attorno a lei, indossavano antiche armature e impugnavano ancora le loro armi. Ogni cosa era coperta da polvere e ragnatele. Una battaglia era stata consumata, molti anni fa in quelle sale, ed era stata persa dal popolo dei nani.
Stese le braccia lungo il suo corpo e sfiorò le dita del Capitano di Gondor. Fu un secondo, ma un brivido le percorse la schiena.

Senza parlare, la Compagnia iniziò la marcia, salendo e riscendendo le vie della miniera. Le strade, se potevano definirsi tali, erano strette e poco accessibili. Le scalinate erano irregolari: i gradini erano stati scavati direttamente nella roccia, ma non era stato fatto un buon lavoro. Infatti, alcuni gradini erano alti e profondi, mentre altri erano più bassi e stretti.
C’erano anche diversi ponti che, attraversando gli scavi della miniera, collegavano un versante all’altro; erano di legno e, nonostante non sembrassero molto resistenti, ressero il peso dei viaggiatori.
I giorni si confondevano tra loro: persero il conto delle ore e se fosse giorno oppure notte. Ogni cosa era buia e immobile. La loro marcia continuava, senza essere interrotta. Anche mentre mangiavano, proseguivano il loro cammino. Gandalf era preoccupato, temeva l’oscura creatura di fuoco che si celava nelle profondità della montagna. Riposavano solo cinque ore per notte e sempre qualcuno rimaneva di guardia.
Estryd percepiva l’angoscia dello stregone e cercava di favorire il loro tragitto, aiutando gli Hobbit come meglio poteva. I Mezzuomini erano stanchi; per loro, quel viaggio, era troppo faticoso.
“Non ho memoria di questo posto.” sussurrò lo stregone, raggiunto un piccolo piazzale che si apriva su tre porte.
L’elfa sbuffò: era la seconda volta che capitava e non era certa di poter resistere ancora a lungo in quelle terre. Odiava il puzzo e l’umidità di quelle sale. Ardeva dal desiderio di ritornare all’aria aperta, sfiorare con i piedi l’erba soffice, odorare i fiori e sentire il sole sulla pelle.
Gimli, accomodandosi accanto a Gandalf, disse scuotendo il capo, in segno di resa: “Nemmeno io ricordo. Mi dispiace non esserti di alcun aiuto, mastro Gandalf.”
Lo stregone non rispose; chiuse gli occhi e cercò di vagare nella sua memoria per riportare a galla antichi ricordi, ma che, nonostante gli sforzi, gli scivolavano dalle mani come fumo.
Ormai rassegnata, Estryd si sedette su un masso e iniziò a guardare il vuoto davanti a sé.
Nessuno parlava mentre l’ansia iniziava a crescere nei cuori della Compagnia. L’elfa guardò la ripida scalinata che avevano appena scalato: tutti i nani erano stati uccisi, probabilmente da orchi che avevano varcato i cancelli della miniera.
Spostò lo sguardo sui compagni e nei loro occhi lesse le preoccupazioni che li rendevano taciturni. Temevano che alcuni orchi fossero rimasti di guardia nella miniera e, anche se erano rimasti a Moria solo poche centinaia, non avrebbero avuto via di scampo.
Erano dieci; e solo sei sapevano padroneggiare le armi.


Con rabbia, Estryd scaraventò la spada per terra. Era stanca di allenarsi e non capiva perché Elladan la spronasse: a suo padre non sarebbe piaciuto sapere di questi allenamenti.
Era autunno a Gran Burrone e le foglie degli alberi cadevano ingiallite a terra.
Dando le spalle al fratello, osservò la cascata che si infrangeva con forza sulle rocce. Avrebbe voluto possedere lei quella forza…
“Non è un compito mio imparare a combattere.” sussurrò, cercando di contenere l’irritazione.
“Devi saperti proteggere!” rispose il fratello, avvicinandosi a lei. Posò una mano sulla sua spalla: “Io e Elrohir partiremo presto per dirigerci ad est. La guerra è prossima e se non riuscissimo a tenere a bada le forze di Mordor..." Sospirò. "Estryd, voglio saperti al sicuro.”
L'elfa sorrise, intenerita dalle parole del fratello.
“Oltre il mare sarei al sicuro.” ribatté.
“Non ti obbligherei mai a partire. Tu nutri ancora speranza per questo mondo. Qui nei confini di Gran Burrone sarai protetta dalla magia di nostro padre. Ma non potrai sempre contare su di lui."
“Non essere sciocco. Tu ed Elrohir sarete qui a proteggermi…” lo contraddisse.
“Estryd non parlare come una stolta! La realtà è ben lungi dall’essere quella che noi desideriamo. Credi davvero che io o Elrohir o Arwen o…” fece una pausa. Avrebbe voluto dire il nome dell'altra sorella, ma la ferita era ancora aperta nella sua anima. Chiuse gli occhi e concluse, cercando di soffocare la rabbia. “Pensi che ci aspettassimo la sorte che è toccata alla nostra famiglia?”
Spaventata dalle parole del fratello, Estryd indietreggiò. Poi, voltandosi, camminò verso il palazzo. Elladan scosse il capo ed abbassò lo sguardo, guardandosi la punta degli stivali; si sentiva in colpa per le parole dette, ma ormai il danno era stato fatto.
“Insegnami!”
Guardò la sorella, sorpreso dalle sue parole e, piegando le fini labbra in un sorriso, si avvicinò a lei. Aveva ripreso l’arma e la impugnava con entrambe le mani.
“Insegnami… non voglio farmi trovare impreparata.” concluse Estryd.


“Ah! Quella è la via!” esclamò Gandalf, alzandosi in piedi.
“Bene! Se l’è ricordata!” esultò Merry, alzandosi e posando la pipa che aveva acceso nel frattempo.
“No, ma laggiù l’aria non ha un odore così fetido.” concluse lo stregone, posando il cappello sul capo e riprendendo la marcia.

La scalinata scendeva senza fine sempre più in profondità. Cinquanta, ottanta, centotrenta, centosettanta, duecento gradini… Estryd perse il conto. Il soffitto era molto basso, tanto che solo gli Hobbit e il nano riuscivano a camminare diritti.
L’aria iniziò a farsi più fresca, segno che il tunnel stava per terminare. Il soffitto divenne più alto, sempre più alto, fin quando raggiunsero l’ultimo gradino.
“Voglio osare un po’ più di luce.”
La voce di Gandalf si amplificò in un potente eco, le sue parole vennero perse mentre ogni cosa attorno a loro veniva illuminata. Estryd rimase a bocca aperta, mentre avanzava verso l’imponente salone: mai, nei suoi lunghi anni di vita, aveva visto una costruzione simile.
Era imponente e grandi e robuste colonne si ergevano fino al soffitto; elaborate e intagliate finemente da mani esperte. Statue enormi erano posizionate contro le pareti: rappresentavano gli antichi re nani di Moria e di Erebor.
Acconto a lei, anche Legolas si guardava attorno ammirato da tale maestria.
“Andiamo… non attardiamoci. Ormai i cancelli delle miniere sono vicini. Domani rivedremo il sole. Se non ricordo male, Lothlorien è bella in questo periodo…” disse entusiasta, proseguendo il cammino.
La Compagnia lo seguì, senza proferire parola. Da alcune ore, alle loro spalle, avevano iniziato ad udire rulli di tamburi. Ancora lontani, ma inquietanti. Volevano raggiungere l’uscita velocemente.
Estryd sorrise al pensiero di trovarsi a Lothlorien. Il regno degli elfi di Dama Galadriel e Sire Celeborn, genitori di sua madre.
Raggiunta la sala, notarono che il pavimento era di marmo nero e rifletteva la luce proveniente dal bastone di Gandalf.
Un urlo riecheggiò nella sala. Tutti si voltarono, guardando Gilmi disperarsi. Poi, superando tutti, corse verso una sala laterale; l'ascia stretta in mano e il passo pesante. Le ante della porta erano distrutte e scardinate, i nani avevano cercato di salvarsi, nascondendosi.
La Compagnia seguì Gimli nella sala, preoccupati per la sua reazione. Appena varcata la soglia, Estryd trattenne il fiato: corpi ormai ridotti ad ossa ricoprivano ogni superficie. Erano caduti combattendo.
“No!” urlò Gimli, cadendo in ginocchio davanti alla tomba di suo cugino Balin e iniziando a piangere.
“Non possiamo attardarci. Siamo seguiti. Proseguiamo!” disse Aragorn con tono deciso, guardando Gandalf in volto, in cerca di supporto.
Tutta quella morte faceva perdere fiato a Estryd; non aveva mai visto scheletri così da vicino. Questa volta però li osservava, incuriosita dalla forma che assumevano i corpi morti.
“Per l’amor del cielo, sciocco di un Tuck!” urlò Gandalf, volgendo lo sguardo al giovane Hobbit.
Involontariamente lo Hobbit aveva fatto cadere in un profondo pozzo quel che restava di un corpo di nano, provocando un rumore che riecheggiò nelle sale vuote. Tutti trattennero il fiato; era certo che fossero stati sentiti. Ormai non avevano alcuna speranza di raggiungere la fine delle miniere inosservati.
Subito Legolas raggiunse il portone ed osservó la sala principale. Una freccia lo mancò di pochi centimetri, con forza chiuse le porte, brandendo l’arco.
“Non sono orchi, ma goblin! Ne ho contati cinquanta, ma non di più!” esclamò.
“Non abbiamo speranza se restiamo qui! Ci uccideranno. Siamo bloccati in questa sala! Dei topi in trappola!” urlò Boromir scoraggiato.
Tutti sapevano che le sue parole corrispondevano alla verità: dieci contro almeno cinquanta goblin armati. Le chance che avevano erano scarse.
Estryd estrasse dal fodero la spada di lega elfica, dono di suo fratello Elladan, è la impugnò pronta allo scontro. Alla sua destra Aragorn, alla sua sinistra Boromir. Gimli in piedi sulla tomba del cugino, l’ascia in mano e parole feroci in bocca. Legolas e Gandalf davanti agli Hobbit con fare protettivo.
Respirò a fondo: non poteva più tornare indietro. La guerra era iniziata anche per lei.
Un suono di corno rimbombò nella sala principale del palazzo, un espediente crudele da parte dei goblin. Volevano spaventarli: avvisando che erano lì, pronti a fronteggiarli e batterli. La Compagnia guardava senza battere ciglio l’ingresso alla sala. L’attesa era quasi peggio del combattimento stesso.
Un secondo suono attraversò la sala, giungendo alle orecchie dei dieci membri della Compagnia dell’Anello. Estryd si mosse, spostando il proprio peso da un piede all’altro, facendo roteare la spada tra le mani.
Delle urla ruppero il silenzio, acuendosi nell’aria.
“Perché? Perché non attaccano?” chiese Gimli ansioso di ottenere la sua vendetta.
Altre urla giunsero da oltre la porta, ma non erano grida per infondere loro timore. Erano urla di terrore, urla di dolore, grida strazianti… stava avvenendo già un combattimento oltre quella porta.
Un terzo suono di corno rimbombò nell’aria.
“Ritiriamoci!”
Quella parola raggiunse le orecchie della Compagnia, facendoli sprofondare nel dubbio. Cosa stava accadendo oltre quella porta?
“Ritiriamoci!” ripeté la medesima voce gracchiante: i goblin si stavano ritirando sconfitti da qualcosa, o da qualcuno, forse ancora peggiore di loro.
Gandalf chiuse lentamente gli occhi. Frodo, al suo fianco, osservò il comportamento dell’amico.
“Gandalf chi c’è là fuori? Tu lo sai?” chiese il giovane Hobbit con un filo di voce.
“Nulla di buono, temo. Nulla di buono.” rispose lo stregone.
Oltre la porta ora c’era solo silenzio. I goblin si erano arresi ed erano fuggiti nelle profondità delle miniere. Poi, udirono un lieve rumore di passi, tacchi sul marmo: qualcuno si stava avvicinando. Non abbassarono le armi, pronti a fronteggiare chiunque si fossero trovati loro davanti.
I passi si arrestarono, solo le fini orecchie di Legolas e Estryd udirono il leggero tocco di due mani posate alle ante della porta. Con un cigolio sinistro, esse vennero aperte; spinte con forza. Una cadde a terra, completamente scardinata, mentre l’altra si posò con un tonfo sordo alla parete.
La calda luce del fuoco invase la sala e, controluce, videro un’esile figura ergersi su di loro. Avanzò di soli tre passi e, scostandosi una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso sporco del sangue nero di goblin, disse: “Felice di vederti viva, sorella.”




Ciao a tutte/i!
E questo sarà l'ultimo capitolo di quest'anno! Ho introdotto giusto alla fine anche l'altra sorella... era ora che arrivasse, no?
Un grazie speciale a voi lettori per seguire questa storia e un grande ringraziamento a Carmaux_95, evelyn80, Giuli Snow e Sara_3210 per i bellissimi commenti!
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 - VECCHI AMICI ***




Bionda con occhi azzurri di ghiaccio, pelle di porcellana e volto sporco da schizzi di sangue nero. Alhena entrò nella stanza volgendo la sua attenzione alla sorella. Al suo seguito camminava Haldir, Capitano dei Galadrhim e altri dieci di loro. Tutti gli elfi portavano splendenti armature dorate e lunghi manti vermigli che cadevano morbidi, sfiorando il pavimento. Alhena si distingueva dai Galadrhim: portava miseri abiti da viaggio, consumati e sporchi, e un vecchio mantello posato sulle spalle.
Il volto severo dell’elfa si aprì in un caldo sorriso non appena incrociò lo sguardo verde di Estryd. Era così diversa da come la ricordava… non sapeva cosa fare; avrebbe voluto raggiungerla e abbracciarla, ma restò ferma.
I suoi occhi vagarono tra i presenti. Tra loro riconobbe Aragorn, figlio di Arathorn; l’aveva conosciuto durante il suo esilio da Gran Burrone, al nord in un villaggio reduce da un massacro di orchi di Morgoth. Poi vide Gandalf, lo stregone distolse lo sguardo da lei, era grande amico di suo padre ed era presente quando la dura sentenza venne pronunciata. Non aveva proferito parola. Aveva lasciato che un padre cacciasse la propria figlia.
L’elfa abbassò lo sguardo, i ricordi erano ancora troppo dolorosi. La sua ferita non si era ancora rimarginata.
“Alhena!” sussurrò Estryd, gli occhi colmi di lacrime.
La bionda osservò la sorella che, con passo tremante, avanzava verso di lei. Riusciva a percepire i sentimenti di Estryd: leggeva le sofferenze che provava, aveva sofferto molto per la lontananza della sorella minore.
La bruna raggiunse Alhena, era cresciuta: diventando più alta di lei di pochi centimetri. Anche il volto di Estryd si aprì in un sorriso e, alzando le mani, carezzò il volto della sorella, cercando di pulire il suo viso dal sangue.
“Non è necessario…”  disse Alhena, afferrando la sorella per i polsi. Rimase in silenzio per alcuni secondi: “Mi sei mancata.”
Si strinsero con forza, erano state lontane per anni interi e semplici lettere non potevano reggere il confronto con il vedersi. La bionda sporcò il viso di Estryd con il sangue di goblin che le macchiava il volto.
“Mi sei mancata, sorella mia…” ripeté Alhena all’orecchio dell’altra.
Mentre le braccia di Estryd stringevano la sorella con forza, Alhena guardò attraverso la chioma della bruna: non sapeva che anche Legolas facesse parte della Compagnia dell’Anello.
Haldir, con passo deciso, superò le due ragazze e chinò il capo in segno di rispetto; prima a Legolas, che pur sempre era di stirpe reale, e poi ad Aragorn. Ma, per il ramingo, certe formalità non contavano, non con Haldir. Non con l’elfo che gli aveva salvato la vita.
Erano grandi amici e l’uomo non avrebbe mai dimenticato il loro primo incontro; era stato fortunato a scontrarsi con lui.


Vent’anni prima, Aragorn stava scortando un gruppo di uomini del nord lungo il corso del fiume Anduin, erano in viaggio per raggiungere la capitale di Gondor. Erano pochi i guerrieri in quella comitiva, composta principalmente da donne, bambini e anziani.
Appena calò il sole, si accamparono per la notte. Erano stanchi dopo un lungo giorno di cammino. Il silenzio era assoluto; non un grillo cantava e nemmeno un gufo mostrava la sua presenza dal bosco. Questo era innaturale e preoccupava il ramingo; una brutta sensazione pesava sul suo cuore. Decise di rimanere sveglio, fumando dalla sua pipa e osservando l’oscurità attorno a lui. Ma la notte passò tranquilla e l’alba iniziò a rischiarare il cielo; accadde allora.
Dalla vegetazione attorno all’accampamento emersero una decina di orchi di Mordor. Aragorn balzò in piedi, impugnando la spada e, incitando gli altri guerrieri a impugnare le proprie armi insieme a lui. Insieme agli altri, avanzò verso i nemici con coraggio.
Ma, com’era prevedibile, presto, furono in difficoltà. Erano inferiori numericamente agli orchi che, senza difficoltà, avevano in poco tempo ucciso due dei guerrieri che scortavano la comitiva. Nonostante tutto, Aragorn continuò a battersi: non si sarebbe mai arreso a loro. Con coraggio li fronteggiava e ne abbatteva uno dopo l’altro.
Una fitta improvvisa lo colpì alle spalle, si voltò; un orco lo aveva colpito alle spalle con un pugnale, ferendolo alla spalla. Preso alla sprovvista, Aragorn cercò di difendersi. Ma il colpo che gli era stato inferto era più grave di quello che credeva; era stato ferito alla destra e non riusciva più a muovere il braccio con cui impugnava l’arma.
Quando la fine sembrava ormai certa, il rumore di un corno rimbombò nell’aria. Gli orchi fermarono l’attacco e si guardarono intorno, sapevano che quello segnava l’arrivo degli elfi di Lothlorien. Il ramingo guardò a sud e li vide giungere, in sella a magnifici cavalli bianchi, un gruppo di Galadrhim. Chiuse gli occhi, grato per la sua fortuna.
Le creature di Mordor iniziarono a scappare, disperdendosi nella pianura o rifugiandosi nel bosco. Ma non ebbero chance: gli elfi li trucidarono, non lasciarono nessuno di loro in vita.
Con passo traballante, Aragorn si avvicinò alla compagnia di elfi e, guardando quello che portava i vessilli del Comandante, disse: “Grazie, miei signori.”
Questi smontò da cavallo con agilità, i suoi piedi che toccarono terra non fecero rumore. Si  tolse l’elmo e sorrise al ramingo.
Aveva dei tratti stupendi, ricordava quelli delle antiche divinità. Guardo l’uomo negli occhi:
“Dovere.” rispose con voce calda, un sorriso gli illuminava il volto.”Sono qui per scortarti da dama Galadriel e sire Celeborn. Ti stanno attendendo a Lothlorien.”
Aragorn stava per ribattere; non avrebbe mai abbandonato il gruppo, aveva dato la sua parola di condurli fino a Minas Tirith.
“Non preoccuparti per loro. Giungeranno a destinazione, scortati dai miei guerrieri. Hai la mia parola e non vengo mai meno agli impegni che prendo.”
“Come posso chiamarti? Mi hai salvato la vita… vorrei conoscere il nome dell’elfo che mi ha aiutato.”
“Accetto la tua gratitudine. Puoi chiamarmi Haldir.” rispose l’elfo.
“Allora grazie Haldir, Comandante dei Galadrhim. Ti sono debitore.”


“Non possiamo attardarci, Alhena.” disse Haldir, posando una mano sulla spalla della bionda.
L’elfa annuì, voltandosi verso il Comandante. Era consapevole che le truppe elfiche non avevano sconfitto i goblin; li avevano solo condotti alla ritirata, ma sarebbero ritornati e più numerosi.
Gandalf superò i membri della Compagnia, raggiungendo Haldir e, posando una mano sulla schiena dell’elfo, iniziò a parlare fitto con lui. Nonostante il tono infimo della voce, alcune parole colpirono l’attenzione delle sorelle e di Legolas. Chiedeva informazioni su una creatura di fuoco e ombra, parlava di rumori provenienti dagli abissi e di voci udite al riguardo. Haldir, scosse il capo: “Nulla ha attirato la nostra attenzione mentre vi raggiungevamo. Il demone di cui parli non si vede da quasi mille anni.”
“Ciò non significa che siamo al sicuro.” convenne lo stregone. “Usciamo da queste caverne maledette. Usciamo subito.”

Nella sala principale, in schieramento, c’erano all’incirca settecento elfi, lo sguardo fiero e fisso davanti a loro, immobili, in attesa di ricevere degli ordini.
“Galadhrim! Torniamo a Lothlorien!” urlò Haldir rivolto a tutti loro.
Contemporaneamente, in un unico movimento, si misero sull’attenti e, volgendosi a destra, iniziarono a marciare verso l’uscita della caverna che conduceva a Lothlorien.
“Dunque quel piccoletto è lo Hobbit che custodisce l’anello?” domandò Alhena alla sorella, guardando Frodo di spalle, camminare al fianco degli altri Hobbit e di Gandalf.
“E’ lui.” rispose Estryd, annuendo.
“Siamo sicuri che porterà a termine la sua missione? È solo un Hobbit…”
“Nostro padre ha fiducia in lui.” disse la mora, guardando la sorella negli occhi. “Il Consiglio gli ha affidato questo incarico. Ha posto fiducia in lui.”
Alhena sbuffò.
“La fiducia di nostro padre non sempre è ben riposta.” concluse, aumentando la falcata.
Estryd osservò la lunga chioma della sorella ondeggiare sulla sua schiena e sospirò. Certe questioni, purtroppo, non le avrebbero mai superate.

“Chi temi si celi nell’ombra di questa miniera?”
Gandalf guardò Alhena, lo aveva raggiunto e camminava al suo fianco. Lo stregone storse il naso, aveva conosciuto personalmente l’elfa, anni fa. Qualcosa in lei lo aveva sempre irritato: era caparbia e impulsiva.
“Temo che un antico demone si celi nel cuore di questa montagna.” rispose evasivo.
“Tu temi un Balrog.” concluse lei.
“Sì.” rispose con semplicità lo stregone, per niente sorpreso dall’arguzia dell’elfa.
“Purtroppo, nel tentativo di salvarvi, siamo stati uditi. Non abbiamo badato alla discrezione. So cosa Haldir ti ha detto. Lui non comprende appieno quello che sta accadendo. Penso che nessuno sia realmente consapevole dell’evolversi delle situazioni.”
Lo stregone osservò Alhena: “Infatti, dobbiamo muoverci velocemente. Non ho il potere di combattere il demone che temo si stia muovendo nell’ombra alle nostre spalle.”
“Dobbiamo solo raggiungere la fine delle miniere. Solo poche miglia e saremo protetti dal popolo dei miei parenti.” sussurrò Alhena, guardandosi intorno. Poi, alzando il tono della voce, aggiunse: “Haldir, aumentiamo il passo. In mezz’ora dobbiamo essere fuori.”
Il capitano annuì ed incitò le proprie truppe.
Un grugnito raggiunse le orecchie della compagnia; era un eco, ancora lontano. Proveniva da sotto il ponte che stavano percorrendo, in file di due. Gandalf si fermò ed osservò l’oscurità; lo sguardo deformato dal terrore.
Frodo, fermandosi al suo fianco, guardò lo stregone:
“Gandalf… andiamo…” disse con voce incerta.
Gandalf scosse il capo; non avrebbe proseguito con loro, se non con la certezza che la creatura non li avrebbe seguiti ed uccisi.
“Andiamo…” ripeté lo Hobbit.
“Va avanti… Aragorn ti proteggerà.” concluse, posando la mano sulla spalla del guerriero che si era fermato dietro lo stregone.
L’uomo annuì e, facendosi avanti, guidò Frodo lungo il ponte.
“Dimostri grande coraggio. Restare per salvare tutti noi.” disse Alhena. Poi, incrociando lo sguardo del mago, aggiunse: “Non posso impedirti di restare. Noi ti aspetteremo a Lothlorien, ma solo per una settimana. Poi proseguiremo. Con o senza di te.” concluse con fermezza.
Lo stregone annuì. Comprendeva le parole fredde dell’elfa: la protezione di Frodo era di primaria importanza per tutti loro.
“Tuo padre ha sbagliato. Gliene ho parlato ed ho cercato di dissuaderlo. Per anni ho tentato…”
L’elfa stava per rispondere, ma non disse nulla. Un improvviso terremoto scosse le pareti della miniera, facendo vibrare pericolosamente il ponte. Estryd osservò il varco che aveva appena percorso per raggiungere il ponte; la roccia si stava sgretolando, impotente davanti all’invincibile forza del Balrog. Appena la parete cadde, una scia di fuoco illuminò tutt’intorno loro e lo videro. Con passo pesante, il demone si avvicinava a loro: in testa aveva due corna come quelle dei tori e il corpo era possente, fatto di lava, roccia e fiamme. L’unica arma che aveva era una frusta infuocata che trascinava reggendola in mano. Ma quello che colpì particolarmente Estryd furono i suoi occhi; erano incandescenti, luccicavano nell’oscurità come due rubini.
“Fuggite!” urlò lo stregone, alzando il bastone in una mano e la spada nell’altra, verso la creatura, nel tentativo di arrestare il suo percorso.
Aragorn, Boromir, Gimli e Legolas si fermarono; le armi strette in mano. Pronti ad affrontare la creatura, pronti a lottare accanto a Gandalf. Legolas scoccò una freccia ma, prima ancora di colpire il demone, essa divenne cenere. Gli occhi dell’elfo vennero percorsi, per la prima volta nella sua millenaria vita, dal terrore.
“Fuggite!” ripeté Gandalf voltandosi verso i membri della Compagnia rimasti al suo fianco.
Aragorn cercò di ribattere, ma venne zittito dallo stregone.
“Andate. Non potete batterlo.”
Estryd, prese per gli abiti Frodo e, con forza, aiutata dalla sorella, trascinò lontano lo Hobbit, seguita dagli altri membri della Compagnia.
Li guardò proseguire il cammino e, quando furono sufficientemente lontani, Gandalf indietreggiò raggiungendo la metà del ponte. Chiuse gli occhi, per richiamare la magia di cui disponeva, e si preparò per fronteggiare la creatura demoniaca.
Con pazienza attese che lo raggiungesse sul ponte e, solo in quel momento, quando poteva sentire il calore che emanava il suo corpo, con un solo tocco del bastone, frantumò il passaggio, facendo precipitare il Balrog nel vuoto.
Gandalf respirò a fondo: l’aveva sconfitto.
Si voltò per raggiungere l’uscita della miniera ma, con un ultimo tentativo disperato, il Balrog di Moria mosse la frusta incandescente che stringeva. Con maestria questa si attorcigliò attorno alla caviglia dello stregone, trascinandolo nell’oscurità.
I cinque rimasero senza parole: era caduto. Non riuscivano a credere ai loro occhi. Gandalf era caduto nell’oscurità, sconfitto dal demone di fuoco. Trascinata da Legolas, Estryd venne condotta lontano dalla caverna. Non riusciva a muoversi, sconvolta da quanto aveva visto. Alhena camminava davanti a lei, il capo alto come se quanto avesse visto non la sfiorasse. Guardando la sorella, Estryd non riusciva a capire come mai fosse così indifferente verso ogni cosa. Sospirò, pensando al suo passato e ai demoni che celava dentro al mondo intero: in fondo, alcuni motivi, poteva averli.

Gli elfi stavano marciando verso la foresta di Lothlorien. Solo Haldir era rimasto ad aspettare che anche i membri della Compagnia uscissero dalle miniere. Con passo deciso il Comandante raggiunse Aragorn e, guardandolo in volto, posò una mano sul braccio dell’amico.
“Felice di vederti vivo e incolume. Ma Gandalf? Dov’è? Non lo vedo…”
Il ramingo non rispose, chinò il capo e scosse leggermente la testa. Haldir volse lo sguardo altrove, incrociando gli verdi occhi di Legolas, cercava delle risposte.
“E’ caduto.” rispose l’elfo con un filo di voce.
Estryd cadde seduta sulla roccia bianca, stringendosi tra le sue stesse braccia, e singhiozzò rumorosamente. Legolas si allontanò da Haldir e osservò la verde foresta di Lothlorien; il suo cuore stava soffrendo per la scomparsa dell’amico e, nemmeno un panorama simile, gli infondeva la pace di cui necessitava.
“Dobbiamo andare!” disse perentoria Alhena, mentre scendeva lentamente la scalinata insieme a Boromir.
Tutti la guardarono increduli.
“Concedi loro qualche attimo.” disse Boromir, guardando il profilo dell’elfa.
“No. A breve queste colline brulicheranno, non solo di goblin, ma anche di orchi. Dobbiamo andare. Piangerete la caduta dello stregone quando sarete al sicuro.” concluse la bionda, mentre puliva la spada dal sangue di goblin con uno strofinaccio.
Poi, senza voltarsi, si incamminò verso la foresta di Lothlorien.



***
Spero vi sia piaciuto questo capitolo...! Ho cercato di seguire al meglio i fatti del film/libro anche se considero quest'episodio del Balrog uno dei più complicati da descrivere...
Ringrazio i fedeli lettori di questa ff.
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 - PARTENZE E ARRIVI ***




Lothlorien pareva un miraggio agli occhi della Compagnia; non poteva essere più diversa dalle miniere di Moria. Costruita sui possenti rami di un bianco albero millenario, il palazzo di Caras Galadhon, si ergeva verso il cielo maestoso e possente. Era una costruzione chiara, costruita da abili mani elfiche. Le scale, che si attorcigliavano attorno al tronco, erano riparate da una tettoia ad arco e innumerevoli lumi brillavano diffondendo una calda luce.
Gli Hobbit, Gimli e Boromir, che era la prima volta che entravano nel regno di Lothlorien, rimasero senza parole. Caras Galadhon era meravigliosa: da togliere loro il fiato.
La Compagnia, guidata da Haldir e Alhena, fu accompagnata per le vie del palazzo fino a raggiungere una struttura di legno davanti ad una scalinata, sorvegliata da due guardie che indossavano le loro armature argentee. La struttura era magnifica: i rami degli alberi si attorcigliavano tra loro, risalendo fino a riunirsi nel punto più alto. La luce che brillava in ogni sala non proveniva dal fuoco, bensì da lumi bianche che brillava con la stessa forza e intensità delle stelle.
Le parole della madre, Celebrìan, tornarono alla memoria di Estryd; quand’era piccola la regina le rivelò che gli elfi di Lòrien veneravano Eärendil, la loro stella più amata. Ogni fonte di luce, secondo loro, proveniva da quell’astro.
Haldir si fece da parte, lasciando i membri della Compagnia davanti ai gradini. Alhena si avvicinò a lui, nascondendosi dietro una statua: era passato circa un secolo e mezzo dalla sua ultima visita in quella terra, non si sentiva degna di mostrarsi ai suoi parenti. Morsicandosi  il labbro inferiore e, guardando la punta dei propri stivali, si sentì a disagio. Guardò la bellezza del palazzo, era inadeguata per quello splendente. Ricordava l’ultima volta che aveva incontrato i genitori di sua madre; allora era ancora una principessa elfica e, come tale, si vestiva e atteggiava. Nulla in confronto con gli umili vesti che indossava, sporchi e consumati dal troppo uso.
Si voltò, dando le spalle alla Compagnia e, con le mani, tentò di ripulirsi il volto.
“Usa questo.”
Alhena osservò Haldir porgerle un fazzoletto candido.
“Non potrei mai… lo rovinerei…” rispose l’elfa, scuotendo il capo e ritraendo le mani.
“Dama Galadriel attendeva da tempo una tua visita. Non angosciarti per gli abiti che indossi. Sa cosa hai dovuto affrontare.”
“Non ricordo nemmeno più il suo volto.” sospirò Alhena, abbassando lo sguardo.
Gli occhi le bruciavano per via delle lacrime che stavano avanzando, nonostante cercasse di trattenerle.
Leggeri passi catturarono l’attenzione della Compagnia e di Alhena che volse lo sguardo verso la cima della scalinata: stavano arrivando. Galadriel e Celeborn scendevano i gradini con eleganza. Lei posava la mano su quella del marito, la sua bellezza colpì Alhena: non si sarebbe mai fatta vedere abbigliata in quel modo. Si coprì il volto col cappuccio del manto che portava e indietreggiò di alcuni passi.
Estryd osservò i suoi compagni, incuriosita dalle loro reazioni.
Aragorn chinò il capo, portandosi una mano sul volto in segno di rispetto. Gimli, accecato dalla bellezza della Dama, distolse lo sguardo accecato dall’elfa ed, infine, Boromir socchiuse gli occhi, indietreggiando di un passo.
Estryd lo osservò attentamente; il volto del Capitano di Gondor venne attraversato dall’ombra della vergogna e del dolore. La giovane elfa guardò Galadriel scendere gli ultimi scalini e fermarsi e donando loro un sorriso. Notò gli occhi color cielo della dama vagare da un membro all’altro della Compagnia. Estryd sorrise, conosceva le grandi doti magiche della nonna, comprese cosa stava accadendo: li stava studiando, stava parlando alle loro anime.
“Ditemi dov’è Gandalf? Desidero molto parlare con lui.” esclamò Celeborn, guardandosi attorno.
“Gandalf il grigio non ha varcato i confini di questa terra. E’ caduto nell’ombra.” sussurrò Galadriel, conosceva già la risposta a quella domanda.
Celeborn osservò la moglie, per nulla meravigliato dalla sua arguzia.
“E’ stato preso sia dall’ombra che dalle fiamme. Un Balrog di Morgoth. Siamo finiti inutilmente nella rete di Moria.” s’intromise Legolas, spiegando l’assenza dello stregone.
Alhena, dalla sua posizione, poteva osservare i membri della Compagnia: vide subito il dolore che avvolse il cuore di Gimli, si sentiva responsabile per la morte di Gandalf.
“Mai inutile è stata un’azione di Gandalf nella vita. Ancora non conosciamo appieno il suo scopo.” concluse Galadriel.
Poi, sorridendo, raggiunse Estryd. Posò le mani sulle spalle della nipote, per poi spostarle sul suo volto. Le sorrise e le carezzò la guancia. 
“Estryd, mia cara, è una tale gioia…” s’interruppe, notando nell’ombra della statua l’altra sua nipote: Alhena. “:…vederti…” concluse, mentre superava Estryd.
Haldir chinò subito il capo, vedendo la sua signora avvicinarsi.
“Alhena?” domandò, incerta su chi aveva davanti.
Tutti si voltarono, seguendo gli spostamenti di Galadriel e dal marito.
“Alhena… sei tu?” chiese nuovamente lei, guardando da vicino la giovane elfa che aveva davanti.
Stese un braccio e abbassò il cappuccio che celava il volto della giovane elfa. Era così diversa dall’elfa che aveva conosciuto quand’era solo una bambina. Sul volto riportava i segni della difficile vita che aveva dovuto affrontare: era sporca e gli abiti che portava… sospirò. Non erano degni d’un commento.
“Sono felice di trovarmi qui… felice di vedervi…” rispose Alhena, sorridendo ai nonni. “Ma non vorrei che la mia presenza vi creasse dei problemi con mio padre… posso andare, se volete… mi accamperò al di fuori dei vostri confini e non vi sarò di alcun…”
“Tu resterai qui.” convenne Celeborn con tono perentorio, interrompendola. “Haldir, per favore, conducila nelle nostre stanze personali e mostrale dove potrà lavarsi. Portale anche degli abiti puliti.”

Erano trascorsi due giorni dal loro arrivo a Lothlorien; avevano pianto la morte di Gandalf e, poter sfogare il loro dolore, aveva giovato a tutti. Il tempo era bello e il calore della stagione primaverile riscaldava il palazzo e la foresta circostante. Estryd abbandonò gli abiti da viaggio, indossando vesti femminili. Le era mancata la sensazione della seta sulla pelle, ad ogni passo si sentiva massaggiata da quella stoffa pregiata.
“Mia principessa, come mai passeggia sola per queste vie?”
L’elfa si voltò, incrociando lo sguardo grigio del Capitano di Gondor. Gli sorrise, fermandosi.
“Da sempre ho adorato questa terra… Lothlorien ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore. La sento vicina: è casa mia.”
Boromir si guardò gli stivali, non sapeva che altro dire. Quali parole poteva pronunciare senza sentirsi sciocco davanti a lei?
“Passeggeresti con me per la foresta?” chiese Estryd, stendendo un braccio verso il Capitano. Poi aggiunse: “Averti al mio fianco mi farebbe molto piacere…”
Meravigliato da quella proposta, l’uomo annuì, raggiungendo con solo un passo l’elfa.


“Hai avuto notizie di tua sorella?”
Estryd guardò i suoi fratelli, erano pronti per partire. Avevano deciso di recarsi a est per aiutare le armate di Re Thranduil a contenere l’avanzata del nemico proveniente da sud.
La giovane si guardò intorno: non voleva che il padre ascoltasse le sue parole. Ogni volta che udiva il nome di Alhena, si faceva strada nel suo cuore un grande rancore.
“Ho ricevuto una sua lettera. Ieri sera. Si trova anche lei a est.”
I due gemelli si guardarono, lo stesso pensiero attraversò le loro menti: l’avrebbero cercata.
“Abbracciatela anche da parte mia, se la vedete… e vegliate su di lei…” aggiunse Estryd.
I due annuirono e, montati sul cavallo, partirono seguiti da alcune migliaia di soldati.
Estryd, in quel momento, si era sentita terribilmente sola, ancora più sola, come sempre sola. I due fratelli erano stati sempre presenti nella sua vita, essere abbandonata anche da loro aveva creato un grande vuoto nel suo cuore.
Voltandosi, risalì le vie di Gran Burrone, fino a raggiungere la torre più alta. Voleva guardare i fratelli cavalcare, allontanandosi dalla loro casa. Voleva restare fino a quando la sua vista le avesse permesso di vederli.
Si appoggiò ad una colonna di pietra, abbracciandola e posando il capo ad essa. Il vento le scompigliava i capelli e le lacrime rigavano il suo volto.
Rimase ferma per ore poi, una volta scomparsi all’orizzonte, si voltò per raggiungere il padre: allora lo vide. Un cavaliere cavalcava da solo verso Gran Burrone. Portava la divisa della guardia di Minas Tirith.
Acuì la vista: era giovane, alto e con profondi occhi grigi. Avanzò verso il parapetto per poterlo vedere meglio, lo straniero la incuriosiva. Rimase affascinata dall’eleganza con cui cavalcava, da come l’armatura che portava ricopriva il suo corpo…
Scese le scale della torre quasi correndo, voleva essere presente al suo arrivo a Gran Burrone. Raccolse la gonna che portava, alzandola per potersi muoversi più agilmente.
“Estryd!” la voce di Elrond raggiunse le orecchie della fanciulla mentre correva lungo un corridoio deserto.
Si fermò, voltandosi verso il padre.
“Un cavaliere di Gondor sta per arrivare.” disse lei, ansimante.
“Sapevo del suo arrivo. Vieni con me ad accoglierlo?” domandò, sorridendo alla figlia.
“Con piacere!” rispose Estryd, prendendo sottobraccio il padre.
“Non dovresti correre così per le vie del palazzo. Non è dignitoso per una principessa.”
Estryd abbassò lo sguardo, imbarazzata.
In silenzio percorsero i corridoi di Gran Burrone, fino a raggiungere l’ingresso al palazzo. Non era ancora arrivato e l’attesa era snervante per l’elfa. Ardeva dal desiderio di conoscere meglio le fattezze del guerriero di Gondor.
Ferma, accanto al padre, non riusciva a controllare le dita delle mani. Continuava a muoverle, stropicciando le dita per scaricare la tensione. Quando le sue orecchie udirono il rumore degli zoccoli del cavallo avvicinarsi, quasi il cuore le si fermò nel petto.
Il Cavaliere attraversò l’arco, tirando le briglie per fermare l’animale. Smontò e si tolse l’elmo che portava. Con passo fiero, avanzò verso di loro e, una volta raggiunti, s’inchinò.
“Mio Lord Elrond, sono Boromir figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor.” si presentò, una volta alzatosi.
“Sono lieto di accogliervi nel mio palazzo. Siete stanco dal lungo viaggio. Le notizie che portate sono urgenti, ma prima permettetemi di offrirvi un buon pasto.”
Boromir accettò l’invito, chinando ancora lievemente il capo.
“Questa è mia figlia: Estryd.” disse, indicando la fanciulla al suo fianco. “Ti condurrà fino alle Sale di ristoro. Ci vedremo più tardi.”
Detto ciò, Elrond si congedò.
Estryd respirò a fondo e, sorridendo, guardò l’uomo che aveva davanti: era davvero bello, per essere di razza umana. Capelli castano chiaro, che riflettevano la luce del sole, creando bellissimi riflessi, quasi ipnotici. Il volto era fiero e ricordava più un discendente di Númenor, che un uomo di Gondor.
Voltandosi, Estryd, risalì le vie del palazzo. Boromir seguiva l’elfa senza parlare, imbarazzato dalla bellezza della fanciulla che aveva davanti. Mai aveva visto una creatura così perfetta.
“E’ stato un viaggio lungo?” chiese l’elfa, cercando di interrompere l’imbarazzante silenzio che si era creato.
“Cento giorni di cavalcata ininterrotta.” rispose Boromir.
“Tanta fretta può voler dire solo brutte notizie.” sussurrò.
Il Capitano stava per rispondere, ma Estryd lo anticipò: “Siamo arrivati. Accomodatevi pure, io intanto vado a prendere del cibo.”
“Non voglio disturbarla. Posso andare io…”
“Alcun disturbo. È un piacere per me.” concluse Estryd, allontanandosi dall’uomo.
Il vassoio che era stato preparato per l’ospite era ricco di ogni genere di pietanza: oltre alle verdure e al pane elfico, era stata cucinata anche carne e pesce. L’odore era nauseante per Estryd, che cercava di trattenere il respiro mentre camminava verso la Sala da pranzo.
Entrata, trovò Boromir, seduto su una sedia che, incuriosito, si guardava attorno. Non si era accorto del suo ritorno. Quando udì la porta chiudersi l’uomo, scattò in piedi e raggiungendo l’elfa, la aiuto a posare il vassoio sul tavolo.
Estryd lo osservò mangiare ogni cosa, catturata dalla perfezione delle sue labbra mentre assaggiavano i sapori della cucina elfica.
“Quanto resterete qui a Gran Burrone?” s’informò.
“Non so ancora. Tuo padre è stato qui, mi ha invitato a partecipare ad un Consiglio che ha indetto.”
“Siete atteso a Minas Tirith?”
Boromir guardò la fanciulla negli occhi, lasciando cadere sul vassoio il pane che aveva in mano. Scosse il capo e incrociando gli occhi dell’elfa, rispose:
“Solo da mio fratello e mio padre.”


“Non mi rivolgevate parole così dolci dal mio arrivo a Gran Burrone.” sospirò Boromir, guardando la fanciulla camminare al suo fianco.
Estryd si fermò, trattenendo Boromir per il braccio. L’uomo si voltò, incrociando gli occhi verdi della fanciulla: ad entrambi mancò un battito al cuore.
La principessa alzò una mano e, posandola sulle fini labbra del guerriero che aveva davanti, gli sorrise.
“Vorrei chiedere il tuo perdono. Non hai fatto nulla per offendermi.” poi, alzandosi sulle punte, baciò Boromir.



***
Vorrei ringraziare come sempre i fedeli lettori e i bellissimi commenti che dedicano a questa ff.
Spero di continuare a ricevere opinioni positive...
Alla prossima!
Janine

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 - UN VIAGGIO DI SVENTURA ***


Con questo capitolo voglio aggiungere un nuovo personaggio nato dalla mente di Tolkien: Celebrìan. Purtroppo sarà presente solo attraverso i miei flashback, ma volevo dare a questo incredibile personaggio un pò di spazio!
Buona lettura!!


Celebrìan: come la immagino io.


La sera stava giungendo e Alhena camminava tra gli alberi del giardino attorno al palazzo. Al suo passaggio, con la punta delle dita, sfiorava le cortecce delle piante. Gli occhi socchiusi, come per cercare di riportare a galla un antico ricordo. Anche quand’era poco più di una bambina e, con i genitori ed i fratelli, andava a far visita ai parenti materni, adorava percorrere le vie della foresta attorno a Caras Galadhon. Soprattutto di notte; quando le stelle brillavano nel cielo e illuminavano tenuemente il suo cammino.
Raggiunse un albero antico di innumerevoli secoli, dal tronco ancora forte, ma segnato dal tempo. Si fermò e, osservandolo da vicino, sfiorò i segni che rovinavano la sua forma sennonché perfetta. Sorrise al ricordo di Elrohir che, propri lì, su quella millenaria pianta, le aveva insegnato a tirare con l’arco. Le mancavano… era felice di aver incontrato Estryd. Ma, l’assenza degli altri fratelli, aveva lasciato un gran vuoto nel suo cuore.
Sospirò, chiudendo gli occhi: a Lothlorien si sentiva al sicuro.
Ricordava  quel sentiero a memoria; l’avrebbe condotta ad una piccola sorgente d’acqua cristallina, dove Galadriel era solita recarsi per praticare la magia dello specchio. Alhena era sempre stata affascinata dal grande potere della nonna: scoprire il futuro, rivivere attimi passati e osservare il presente mentre si stava compiendo.
Con passo lento, l’elfa proseguì la passeggiata.
La voce di Galadriel raggiunse le sue orecchie. Alhena subito si fermò ed udì le parole della nonna: stava parlando del potere dell’Anello.
Cercando di non far rumore, Alhena camminò furtiva tra gli alberi e, nascondendosi dietro un ponte di pietra tutto ricoperto d’edera, osservò la scena che si presentò ai suoi occhi.
Galadriel era in compagnia di Frodo. Gli aveva mostrato la magia dello suo specchio e stava parlando allo Hobbit con aria grave. Guardò la nonna in volto: era arrossata e sembrava affaticata, ansimava ma sembrava sollevata.
“Ho superato la prova. Perderò i poteri, me ne andrò all’ovest e rimarrò Galadriel.”
Alhena aggrottò la fronte; non comprendeva le sue parole.
“Non posso farcela da solo!” esclamò Frodo, guardando la dama e avvicinandosi a lei.
Sul palmo della mano teneva l’Anello. Alhena vide chiaramente il volto dello Hobbit; era sconvolto dalla paura. Qualunque cosa avesse visto nello specchio, aveva terrorizzato Frodo.
“Sei il portatore dell’Anello, Frodo. Portare l’Anello del potere vuol dire essere soli. Questo incarico è stato affidato a te e, se tu non troverai il modo, nessuno potrà.” disse Galadriel, guardandolo negli occhi.
 “Allora so cosa devo fare. È solo che ho paura di farlo.”
Alhena sentiva il cuore battere all’impazzata nel suo petto; non avrebbe dovuto udire quelle parole. Era di troppo, nascosta ad origliare: avrebbe voluto allontanarsi, ma non riusciva a muoversi. La curiosità le impediva di andare.
Si affacciò dal suo nascondiglio per guardare cosa stava accadendo. Frodo abbassò il braccio, stringendo l’Anello nel suo pugno. 
“Sono certa che raggiungerai il tuo scopo, mio piccolo amico.” disse Galadriel, sorridendo amabilmente.
“Potrebbe cambiare?” chiese Frodo. “Quello che ho visto… potrebbe cambiare?”
“Ciò che lo specchio mostra è solo quello che potrebbe accadere. Il tuo destino, come il destino di tutti noi, non è ancora stato scritto.”
“Non voglio restare solo…” concluse lo Hobbit.
Nell’udire quelle parole, Alhena si sentì mancare: conosceva bene i timori del portatore perché le paure del mezzuomo erano state le sue.
Quando fu bandita da Gran Burrone aveva, per la prima volta, avuto paura. Si era ritrovata sola, rifiutata dalle persone che avrebbero dovuto incondizionatamente amarla e proteggerla; non era stato facile, ma ce l’aveva fatta. Aveva imparato a prendersi cura di sé stessa iniziando ad affrontare le sue paure, una dopo l’altra.
Galadriel si chinò per poter guardare lo Hobbit negli occhi: “Anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro.” fece una pausa, poi aggiunse: “Torna pure dai tuoi amici e riposati. Il viaggio che ti attende sarà faticoso.”
Frodo nascose l’Anello sotto la maglia che portava e, dopo essersi inchinato al cospetto di Galadriel, risalì la scalinata, allontanandosi dalla dama.
Alhena, restando nascosta all’ombra del ponte, osservò l’elfa prendere il vassoio d’argento, che conteneva ancora dell’acqua, e svuotare il contenuto nella fontana. Senza voltarsi, Galadriel con dolcezza disse: “Non nasconderti nell’ombra, nipote mia.”
“Perdonami.” sussurrò Alhena, mostrandosi e fermandosi sotto il ponte di pietra.
Guardò le spalle della nonna, restando in silenzio.
“Vieni… fatti guardare da vicino…”
Con passo incerto, raggiunse Galadriel. Ella si voltò e sorrise alla nipote che, non riuscendo ad affrontare l’azzurro degli occhi della dama, abbassò lo sguardo: l’avrebbe accusata. Sarebbe stata accusata anche da lei.
“Non volevo disturbare la vostra conversazione… stavo passeggiando, non riuscivo a prendere sonno.” aggiunse la giovane elfa.
“Quando la notizia del tuo allontanamento è arrivata alle mie orecchie, non riuscivo a crederci.”
“So quello che ha detto.” sibilò risentita Alhena. “Ha detto che sono andata via da Gran Burrone di mia iniziativa e che i miei comportamenti lo hanno portato a bandirmi dal suo regno.”
“Ma entrambe sappiamo che non è andata così. Ti ha cacciata ingiustamente dalla tua stessa casa, dicendo che ti eri unita ai raminghi del nord. Ho incontrato tuo padre ed ho cercato di dissuaderlo. Ma la sua risposta è stata che non riusciva a guardarti in volto.”
“E perché avresti dovuto dissuaderlo? È stata colpa mia… tutto quanto accaduto, è stato per colpa mia! Conosco anche io le menzogne che ha diffuso sul mio conto e sul mio giusto allontanamento.” sbuffò l’elfa. “Tutti sanno la verità! Tutti lo hanno visto parlarmi con freddezza e i miei fratelli erano presenti quando mi ha ordinato di lasciare Gran Burrone.” Alhena fece una pausa, guardò Galadriel in volto e aggiunse, il tono della voce cresceva incontrollato: “Mi ha fatta scortare ai cancelli principali dalle guardie, come una criminale. Mi ha fatto provare vergogna. Mi ha fatta sentire colpevole, più di quanto non mi sentissi già. Da quel giorno io sono cambiata: quel giorno ho capito che non ero la figlia che Elrond avesse voluto.” S’interruppe bruscamente. Stava urlando: stava sfogando tutte le sue frustrazioni. Respirò a fondo, chiudendo per un attimo gli occhi. Scosse il capo: “Mi spiace. Non volevo mancarti di rispetto, nonna.”
“E’ passato quasi un secolo, Alhena e vedo che il tuo dolore e il tuo senso di colpa non è diminuito.” disse Galadriel, prendendo per mano la nipote e conducendola per i giardini. “Credo che il rancore di tuo padre sia svanito già da tempo.”
“Dimenticare? Come potrebbe dimenticare? Ricordo fin troppo bene il suo sguardo! Ogni volta che mi guardava… ogni volta che mi parlava o semplicemente mi incrociava per un corridoio… “ scosse il capo, cercando di scacciare il ricordo dalla mente. “Credimi, non c’erano dubbi sui sentimenti che nutriva nei miei riguardi. E come dargli torto?”


Come ogni anno, Celebrìan, accompagnata dalle figlie, si recava a Lòrien per incontrare i genitori. Era molto legata ad entrambi e, per lei, era difficile restare a lungo lontana dalla terra natia. Scortata da solo dieci guardie del valoroso esercito di Gran Burrone, percorrevano a cavallo la via più sicura. Estryd e Arwen al suo fianco della madre, chiacchieravano allegramente, ansiose di rivedere gli splendenti giardini del palazzo di Caras Galadhon. Alhena, montando un magnifico esemplare nero, era in testa al gruppo, ansiosa di poter cavalcare fuori dalla foresta, sull’estesa prateria.
“Alhena attendici!” Celebrìan rimproverò la figlia che, incitando continuamente l’animale, stava guadagnando terreno.
Sbuffando, l’elfa tirò le briglie, facendo fermare e voltare il cavallo: “Detesto cavalcare piano… non potrei procedere da sola? Per un’ora, poi vi aspetto.”
“Non sarei una buona madre se lasciassi la mia piccola da sola.”
Alhena sbuffò: “Non sono più la tua piccola, mamma. Sono cresciuta e so badare a me stessa. Alla mia stessa età, Arwen cavalcava questa stessa via da sola… perché io non posso?”
“Non discutere le mie decisioni. Sai fin troppo bene che le vie non sono sicure come secoli addietro.”
“Nessun orco oserebbe addentrarsi così a nord!” replicò acida la giovane elfa, dando le spalle alla madre.
“Alhena…” sussurrò esasperata Celebrìan, ma non terminò la frase. Ignorando le parole della madre, la bionda si allontanò, incitando il cavallo con forza. “Alhena!”
La voce della dama raggiunse le orecchie della figlia, ma non importava. Ormai, incontrollata, sfrecciava tra gli alberi, assaporando la libertà che la velocità le dava e il vento tra i capelli.
“Lascia stare, mamma. Conosci lo spirito di Alhena, ogni replica è fiato perso.” replicò Arwen, sorridendo con dolcezza.
“Non è sicuro viaggiare soli. Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra.” sussurrò Celebrìan preoccupata. “Per favore, andate e riportate qui mia figlia.” ordinò, indicando tre guardie al loro seguito.
Queste, chinando il capo, si allontanarono.
“Vostra sorella è come vostro padre… anche lui è sempre stato molto caparbio.”
“Papà? Caparbio?” chiese Estryd, guardando la madre incredula.
“Sì. Prima che nascessero Elladan ed Elrhoir. Era diverso. Era impavido e pronto alla lotta.” sospirò, perdendosi nei ricordi. “Un abile combattente pronto a donare la sua stessa vita per gli ideali che lo guidavano.”
Estryd non riusciva a immaginare il padre così descritto: era solita vederlo dietro la scrivania, chino sui volumi. Sorrise al solo pensiero.
Un sibilo ed una freccia tagliò l’aria colpendo una guardia al cuore, cadde a terra con un tonfo sordo. Gli altri elfi, impugnarono le proprie armi e, guardandosi intorno, cercavano la fonte dell’attacco. Una seconda freccia raggiunse un altro di loro, colpendolo alla spalla.
I cavalli, agitandosi, iniziarono ad impennarsi.
“Scappate, mia signora! Mettetevi in salvo, voi e le principesse. Siamo finiti in un’imboscata!” urlò una guardia, rivolgendosi a Celebrìan. “Scapp…”
Non terminò la frase: venne trafitto da una lancia allo stomaco, trapassandolo da parte a parte. L’elfo cadde da cavallo, morto. Estryd urlò spaventata dalla violenza che la circondava: era la prima volta che vedeva la morte.
Una risata riecheggiò nell’aria, raggiungendo le orecchie degli elfi. Da una collina si avvicinava camminando ed impugnando una lunga spada di ferro, un possente orco. Una pesante armatura copriva il suo corpo scuro.
“No.” una sola parola uscì dalle labbra di Celebrìan, come un sospiro di dolore.
Stretta tra le sue braccia, legata da grandi e pesanti catene di ferro, c’era Alhena. Guardando la figlia prigioniera di quell’orrenda creatura, Celebrìan si sentì mancare il fiato. Era stata ferita in volto e del sangue le sporcava il viso e la veste che portava. Si fece forza, stringendo le redini.
“Abbassate le armi e non verrà torto un capello all’elfa.” grugnì l’orco.
La signora di Gran Burrone guardò le quattro guardie ancora vive; con un cenno della mano, queste gettarono a terra le spade che impugnavano ed alzarono le mani verso il cielo, in segno di resa.
L’orco si avvicinò, trascinando Alhena. La fanciulla, inciampando nell’abito che portava, cadde a terra. Come se nulla fosse, l’orco la trascinò, tenendo le catene. Urlò dal dolore: una roccia le aveva graffiato la gamba dalla coscia fino alla caviglia.
“Per favore! Liberala! Le state facendo male!” implorò Celebrìan.
Non riusciva a vedere la figlia soffrire in quel modo. L’orco alzò il braccio nel quale stringeva le catene, sollevando l’elfa da terra. Alhena guardò la madre attraverso la chioma bionda che le ricadeva sul volto.
“Volete lei?” domandò.
“E’ mia figlia… non fatele del male…” supplicò Celebrìan, smontando da cavallo e avanzando verso gli orchi.
I movimenti della signora di Gran Burrone fecero reagire le creature; l’orco impugnò un pugnale e lo puntò al collo della prigioniera. La punta affilata le provocò un piccolo graffio, dal quale colò un rivolo di sangue fino a raggiungere la veste, macchiandola.
“Prendete me! Liberate mia figlia e prendete me! Vi sarei più utile io… è solo una bambina… non conosce nulla del mondo…”
“E voi chi sareste, elfa?” domandò un altro orco.
“Il mio nome è Celebrìan, figlia di sire Celeborn e dama Galadriel di Lothlorien e moglie di Elrond, signore di Gran Burrone.”
Un ghigno si aprì sul volto deforme della creatura, fece un cenno e quattro frecce vennero scoccate, colpendo le guardie ancora vive.
Estryd urlò terrorizzata ed Arwen abbracciò la sorella, nascondendo alla sua vista lo scempio che le circondava.
“Mamma non andare…” la supplicò la maggiore, guardandola con gli occhi colmi di lacrime.
“Non posso lasciare Alhena a loro. Appena mi prenderanno, voglio che tu e le tue sorelle, corriate a Gran Burrone. Dovete avvisate vostro padre.”
“Mamma…” singhiozzò Estryd, alzando lo sguardo e incrociando quello della madre.
Celebrìan alzò le braccia e carezzò i volti di entrambe le figlie, sorridendo: “Tornerò da voi. Non mi verrà fatto alcun male. A loro occorro viva.”
Arwen stava per replicare, ma venne anticipata: “Arwen, andrò da loro e tu resterai qui. Non appena mi avranno portata via, prendi Alhena ed Estryd e fuggi. Hai compreso le mie parole?”
Annuì, in lacrime: “Dove ti cercheremo?”.
L’orco avanzò verso le tre elfe, trascinando Alhena: “Dite a vostro padre e al suo esercito di elfi che ci troveranno a Dol Guldur.”


“Non fu colpa tua.” disse Galadriel, fermandosi e affrontando faccia a faccia la nipote.
“Non fu colpa mia?” ripeté Alhena, gli occhi colmi di lacrime, ormai represse da anni. “Se non mi fossi allontanata dalla scorta, gli orchi non mi avrebbero catturata e lei non avrebbe… non si sarebbe…” non riusciva a trovare le parole per descrivere l’accaduto. Si era barattata con lei, aveva offerto sé stessa per proteggere la figlia.
La dama posò le mani sulle spalle di Alhena: “Eri poco più di una fanciulla… è stato un terribile incidente! Avrei fatto lo stesso per salvare mia figlia.”
“Quando Elladan e Elrohir sono andati a cercarla, ho pregato che stesse bene! Ho supplicato che la riportassero a casa, viva e incolume!”
“Ed infatti è tornata a casa…”
Alhena interruppe Galadriel: “Viva. Non incolume. E’ stata torturata! Per colpa mia! Tua figlia, mia madre, è stata torturata! Ha preferito andarsene da questa Terra pur di non vivere in questo mondo pieno di dolore… Elrond non mi ha perdonata per questo e, credimi, mai lo farà. E lo posso anche capire! Lei era la luce della sua vita! Ricorderò sempre il suo sguardo quando mi disse di andarmene. Quello che provava per me era odio e l’odio non può sparire, può solo crescere.“

Sdraiati su un comodo letto, Estryd continuava a baciare Boromir. Lui le massaggiava i capelli e faceva scorrere le mani esperte sul corpo dell’elfa. Aveva cercato di trattenersi, di convincersi che non era importante e che non poteva innamorarsi di lei, ma furono parole al vento. Non appena assaporò le labbra di Estryd seppe che non poteva più farne a meno.
Lentamente, afferrando l’abito che indossava, iniziò ad alzarlo sfiorando la pelle nuda dell’elfa.
“Aspetta… no!” disse Estryd, separandosi da Boromir, respingendolo con entrambe le mani.
L’uomo guardò la giovane: “Aspettare? Aspettare cosa?”
La giovane sentì le sue guance avvampare, era difficile confessarsi: “Io sono un’elfa.” iniziò a dire, poi s’interruppe, troppo imbarazzata.
“Parlami. Sai che puoi fidarti di me.”
“Sono stata cresciuta con rigidi ideali. Per noi elfi l’amore è uno e quello rimane per l’intera vita.”
Boromir inarcò un sopracciglio, ma iniziava a comprendere le parole di Estryd.
“So di avere un carattere particolare…  e ho cercato di nascondere i sentimenti che iniziavo a provare per te dietro un freddo sarcasmo. Non volevo espormi. Non volevo arrivare a dover fare questa scelta.”
“Parli come se da questa decisione ne derivasse la tua vita…” fece una pausa, poi guardando gli occhi verdi di Estryd, continuò: “Tu pensi troppo, mia signora. L’amore è un sentimento che va oltre l’intelletto. O ami una persona o no. O desideri condividere l’intimità con una persona o no.”
La bruna non rispose, chiuse gli occhi, spaventata da quello che il suo cuore le imponeva di dire.
Davanti a quel silenzio, Boromir si alzò dal letto. Non aveva bisogno di conferme. Estryd aveva fatto la sua scelta e, conoscendola, non avrebbe avuto voce in capitolo. Sedendosi sul letto, l’uomo posò i gomiti sulle cosce e, piegandosi in avanti, si sistemò i capelli dietro le orecchie: “Pensate troppo. È questo il problema. Non ho mai costretto nessuna donna ad amarmi e non inizierò adesso.”
Si alzò in piedi e si allontanò dall’alcova. Prima di uscire dalla stanza, guardò l’elfa ancora stesa sul letto. Vide i suoi occhi pieni di lacrime, sporgersi verso di lui. Lo leggeva nei suoi occhi che avrebbe voluto richiamarlo a sé, ma non lo fece. Rimase zitta.
“Il tuo silenzio dice molte cose: pensi che io sia indegno di te. Voi aspettate qualcun altro o non avreste dubbi.”
Estryd avrebbe voluto fermare Boromir; dirgli che non aveva capito nulla. Il suo silenzio non era superiorità o incertezza: proprio perché era così importante per lei che aveva paura di non ragionare… di perdersi in quel sentimento immenso e incontrollabile.
Prese fiato, chiamandolo per nome.
Il guerriero si fermò, senza voltarsi.
“Non volevo questo!” esclamò Estryd, raggiungendolo e afferrando le sue mani. “Hai avuto altre donne prima di me. Si capisce: lo vedo dal tuo sguardo e dall’abilità con cui sfiori il mio corpo… voglio concedermi a te. Ma voglio che sia importante, per entrambi.”
L’elfa alzò le braccia e le posò sul petto dell’uomo.
“Dal primo momento in cui i miei occhi si posarono su di te, la mia testa perse la ragione. Quello che sento nel mio cuore è amore. E, se lo vorrai, sono vostra.”. Fece una pausa e, afferrando i lacci che chiudevano la camicia di Boromir, iniziò a slacciarli.
“Estryd…” sussurrò, afferrandola per i polsi e allontanando le sue mani dalla maglia che portava.
“Io ti amo. Voglio essere tua.” replicò con voce suadente.
Si divincolò dalla presa di Boromir e iniziò ad allentare i nastri che chiudevano la lunga veste cremisi che portava. Muovendo le spalle sensuale fece scivolare a terra l’abito restando nuda ai suoi occhi. Superò quell’inutile indumento con un solo passo e, alzandosi sulle punte, verso Boromir, sfiorò il suo volto con la punta delle dita: era così bello e si sentiva fortunata ad averlo al suo fianco.
Il Comandante l’afferrò per i fianchi, attirandola a sé con forza. Il corpo di Boromir era forte e, per giorni interi, Estryd aveva fantasticato su quel momento. Si lasciò guidare dall’uomo che, con premura, la fece adagiare sul letto. Gli occhi dell’elfa osservavano il Comandante mentre si toglieva la camicia che portava, gettandola sul pavimento. Il fisico dell’uomo corrispondeva alle sue fantasie: era stupendo, muscoloso e ben definito. Ma una cosa non aveva considerato, il torso era segnato dalle molte battaglie combattute.
Estryd si alzò a sedere e sfiorò, uno ad uno, i tagli che sfiguravano la bellezza di Boromir: tagli antichi di anni, tagli recenti, tagli profondi e tagli superficiali.
L’uomo sussultò, allontanandosi dal letto.
“Vorrei passare la notte con te. Lo vorrei davvero, Estryd. Ma non penso sia…” s’interruppe, per cercare la parola più appropriata. “…giusto. Riposa, mia principessa. Riposa e custodisci l’amore che arde dentro di te per un elfo meritevole.”


***

Spero vi sia piaciuto!
Alla prossima!!

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 8 - AMORE IMMORTALE ***



Voglio scusarmi per il terribile ritardo... ma questo capitolo mi ha impegnata molto...
Non voglio anticipare nulla e quindi: buona lettura!
***


Le barche, che erano state a loro donate dal popolo di Lothlorien per attraversare il fiume, non erano molto comode; stabili, ma strette. I membri della Compagnia dovettero stringersi per poterci stare tutti.
Era mattina ed il sole era appena sorto quando salparono dai porti della magnifica terra di Dama Galadriel e Sire Celeborn. I signori elfici donarono ad ogni membro della Compagnia un abbigliamento adeguato per il viaggio, tessuto a mano da Galadriel in persona. Inoltre, ognuno di loro ottenne un piccolo omaggio, la Dama sapeva i rischi che avrebbero corso e cercò di aiutarli il più possibile.
Boromir porse la mano per aiutare Estryd ad entrare nella piccola imbarcazione da lui guidata. L’elfa però, superando il guerriero di Gondor, facendo sembrare il suo un gesto naturale, raggiunse la barca dove Aragorn, Frodo e Sam erano già accomodati e con noncuranza salì a bordo.
Amareggiato dalla freddezza con cui Estryd l’aveva trattato, Boromir fece salire con lui Merry e Pipino. Subito dopo aver respinto l’amata, si sentiva in colpa: si era fatto prendere dalla paura, come un ragazzino. Sbuffò. Era un Comandante di uno dei più valorosi eserciti della Terra di Mezzo, eppure il suo coraggio aveva vacillato davanti agli occhi verdi della giovane elfa.
Guardò Estryd e sospirò. Dal suo rifiuto, ella non solo non gli parlava più, ma evitava anche di guardarlo. Boromir cercava di celare i sentimenti che provava, era stata una sua scelta rifiutare l’amore che gli era stato offerto. Ma, il dolore che provava, trapelava dal suo sguardo ogni volta che incrociava la vedeva. Sarebbe tornato sui suoi passi, se solo avesse potuto. Ma ormai ogni cosa era compiuta.
Con entrambe le mani l’uomo afferrò uno zaino colmi di cibo e acqua e lo caricò nella sua imbarcazione. Mentre si rialzava per prendere un secondo zaino, scosse il capo per scacciare quei pensieri dalla sua mente. La decisione ormai era stata presa e poi che vita avrebbe potuto offrire ad Estryd? Sarebbe morto e l’elfa avrebbe pianto per sempre la sua scomparsa.
Alhena si avvicinò all’uomo e, chinandosi, sussurrò al suo orecchio: “Potresti chiederle scusa.”
Boromir sussultò, distogliendo lo sguardo dall’amata: “Chiederle scusa? E perché dovrei?”
“Perché quello che provi non passerà.” rispose Alhena, con un’alzata di spalle, osservando la sorella.
“Passerà, invece.” concluse secco l’uomo, prendendo i remi e, saltando sull’imbarcazione, iniziando a vogare.
Alhena osservò il Comandante allontanarsi e scosse il capo in segno di resa. Sulla scia della barca di Boromir partì anche quella di Aragorn.
“Alhena, vieni!” disse Legolas, porgendo una mano verso l’elfa per aiutarla a salire a bordo.
Lei sorrise e, ignorando il gesto galante dell’amico, saltò sulla piccola imbarcazione, sedendosi davanti all’elfo con naturalezza.
“Se vuoi ti posso aiutare a remare.” esclamò prendendo un remo e immergendolo nell’acqua.
Legolas era abituato al carattere di Alhena, aveva vissuto con lei quarantasei anni e aveva imparato a volerle bene, come ad una sorella.
“Allora, vogliamo partire?” s’intromise Gimli, voltandosi e guardando i due elfi. “Siamo rimasti indietro… la via la conoscete, vero?”
Sorridendo alle parole del nano, Legolas immerse anche il suo remo nell’acqua e, con movimenti fluidi, seguì le altre due imbarcazioni.
Il percorso del fiume era tranquillo. La corrente facilitava il loro tragitto e, a entrambi i lati del corso d’acqua, c’era una ricca vegetazione. In lontananza si potevano perfino vedere le Montagne Nebbiose, ancora coperte da neve e ghiaccio.
“Ho ricevuto la ferita più grande con questa partenza. Ho guardato per l’ultima volta la cosa più bella. D’ora in poi non ci sarà nulla di bello oltre il suo dono a me.” disse Gimli amareggiato, guardando con tristezza il vuoto davanti a lui.
Alhena si voltò guardando Legolas, non comprendeva le parole del nano.
Contro ogni previsione, da quando erano giunti a Lothlorien, i due avevano stretto una salda amicizia. Erano andati oltre le incomprensioni dei loro popoli che, per secoli, avevano creato attriti.
“Che cosa ti ha donato?” chiese Legolas con voce calda all’amico.
“Le avevo chiesto un capello della sua chioma dorata.” rispose Gimli. “Me ne ha dati tre.”
Le labbra dell’elfo si piegarono in un sorriso; la bellezza di dama Galadriel non sarebbe mai svanita. Sarebbe aumentata… come un buon vino che, con l’invecchiamento, acquista pregio.

“Cosa ci aspetterà una volta finito il fiume?” chiese Merry ad Aragorn.
“Proseguiremo a piedi. Varcheremo i confini di Mordor da nord, sperando di passare inosservati.”
“E’ l’unica via?” s’intromise Pipino.
“No. Ne esistono molte. Vedremo qual’è la più sicura e prenderemo quella via.”
“Gandalf che strada avrebbe suggerito?” chiese Merry.
“Purtroppo non abbiamo mai parlato di questo. Ma non preoccuparti, mio piccolo amico, troveremo una via sicura e compiremo la nostra missione.” rispose Aragorn con tono convinto.
Estryd, guardando il severo ma bel volto del ramingo, iniziava a comprendere cosa aveva attratto Arwen in quest’ultimo. Era davvero una persona eccezionale: non solo aveva un gran cuore, era saggio e forte.
Sospirò e guardò la barca di Boromir davanti a loro. Si sentì venir meno. Non riusciva a capire le ragioni che avevano spinto il Comandante di Gondor a rifiutarla: era chiaro che provava dei sentimenti per lei. E allora perché negarlo? Perché soffocare il suo amore?
“Siete silenziosa oggi, mia signora.” disse Aragorn rivolgendosi all’elfa.
“Molti pensieri occupano la mia mente.” rispose con un’alzata di spalle e incrociando gli occhi del ramingo.
“E’ un uomo di valore.”
Estryd fulminò Aragorn con lo sguardo: “Non parlare di ciò che non comprendi.” apostrofò velenosa a denti stretti.
“Perdonatemi.” ripose l’uomo, mortificato.
“No, perdonami te.” sussurrò Estryd, dando le spalle ai due Hobbit e guardando Aragorn in volto. “Non dovevo trattarti così. Sei stato così gentile a preoccuparti…”
“Le mie scuse erano sentite. Non dovevo intromettermi nella tua vita. Ho parlato senza conoscerti.”
Chinando il capo, Estryd alzò le braccia e facendo scivolare le mani tra i capelli, alzò lo sguardo su Aragorn.
“Purtroppo mi conosci fin troppo bene… quelle cose che hai detto erano vere. Avevi ragione. Sto vivendo i tuoi stessi sentimenti e dubbi. Gli stessi di Arwen…” sussurrò l’elfa, volgendo lo sguardo verso Boromir. Era così bello…
“E’ davvero un uomo di valore, non mentivo. Ma un’ombra è calata su di voi… dopo Lothlorien qualcosa è cambiato.”
Estryd sorrise, divertita dalle parole di Aragorn: sembrava leggerle dentro.
“Avevo deciso di parlargli, di confessargli i miei sentimenti…” sospirò. “E così ho fatto. Ho permesso al mio istinto di prevalere, mostrandomi debole e vulnerabile.” s’interruppe, chiudendo gli occhi nel tentativo di riprendere il controllo di sé. “Mi ha rifiutata, ha detto che merito d’avere nella mia vita un elfo degno di me.”
“Credo non voglia farti soffrire.” rispose l’uomo. Poi, guardando i due piccoli Hobbit, seduti davanti a loro, si piegò verso l’elfa e, sussurrando, continuò: “Lo stesso pensiero che ti assilla, percorre anche la mia mente. Almeno una decina di volte al giorno.” fece un’altra pausa. Il ricordo del bel volto di Arwen, della sua voce calda e del suo profumo inondò la sua mente. ”Boromir ha dimostrato un grande coraggio. Ha fatto la cosa che reputava più giusta per te. Innumerevoli volte ho cercato di dissuadere Arwen. Le ho sempre augurato un futuro migliore, un futuro senza di me.” sospirò. “Più che altro le ho augurato un futuro…”
“Almeno tu le hai permesso di scegliere. Arwen ha deciso di amarti e di donarsi a te… a me non è stato concesso questo lusso: Boromir ha scelto per me!” concluse Estryd, osservando i movimenti del Comandante.
Per lei sarebbe stato doloroso continuare quel viaggio. Vedere il viso di Boromir ogni giorno senza poterlo però stringere a sé o parlargli… una tortura.

“Celeborn mi ha chiesto di te, prima di partire.”
“Cosa voleva sapere?” domandò Alhena, guardando Legolas seduto alle sue spalle.
“Mi ha fatto diverse domande.”
“Riguardo?”
“Soprattutto mi ha chiesto degli anni che hai passato a Bosco Atro sotto la protezione di mio padre. Mi ha chiesto se sapevo cosa hai dovuto affrontare. Molte domande che non potevano restare senza risposta.”
“Cosa gli hai raccontato?”
“La verità.” rispose con semplicità Legolas.
Alhena sbuffò: “La verità è sopravvalutata.”
Guardò altrove: non riusciva a guardare gli occhi verdi del principe di Bosco Atro.
“E come ha reagito Celeborn davanti alle decisioni e ai comportamenti di tuo padre?”
“Con rabbia.” rispose con semplicità Legolas. “Credo che però, in fondo, Celeborn comprenda lo stato d’animo di mio padre. Quando la notizia della partenza di Celebrìan per le Terre Immortali è giunta a Bosco Atro…” lasciò la frase in sospeso per alcuni secondi. “Beh, suppongo che si sia rivisto in Elrond. Entrambi hanno perso l’amore della loro vita. Quando mia madre è morta, mio padre ha perso la donna che più contava nella sua vita. Si è rivisto in tuo padre, ad avvicinarli c’era il loro dolore. Lo stesso dolore. Hanno perso la moglie, il loro punto di riferimento: la loro luna e il loro sole.”
Alhena non sapeva che rispondere. Legolas non la stava accusando, ma le sue parole corrispondevano alla verità.
“Ti sarò eternamente grata, Legolas. È stato grazie a te se sono sopravvissuta. Ero una bambina quando fui cacciata da Gran Burrone…”
“Non avrei mai potuto abbandonarti.” la interruppe l’elfo, posando una mano sulla spalla dell’amica. “Ho fatto quello che la mia coscienza mi ha ordinato di fare. Il destino non è stato clemente con te. Conoscevo molto bene i tuoi genitori; erano una coppia bellissima. Quand’ero bambino, mio padre mi raccontò del loro primo incontro. Era presente quando Elrond incontrò per la prima volta tua madre.”


Era inverno e il freddo penetrava fino alle ossa degli elfi che abitavano a Gran Burrone. Nemmeno i grandi fuochi che erano stati accesi in tutte le sale riuscivano a dare riparo alla popolazione. Era la stagione più rigida mai vissuta da innumerevoli secoli.
Elrond, in compagnia del giovane Thranduil, era nella stanza assegnata a quest’ultimo durante la sua permanenza nella terra dell’amico. Seduti su delle comode poltroncine, sorseggiavano del vino caldo; parlavano e ridevano di cuore. Dopotutto, con giornate così rigide, il desiderio di girare per i giardini di Gran Burrone, nonostante fossero magnifici, era inesistente nei loro animi.
Thranduil si era recato alla casa di Elrond, dietro ordine del padre. Oropher voleva che l’amicizia tra i loro popoli fosse consolidata con un nuovo trattato. Così, dopo aver discusso a lungo e parlato di argomenti seri per giorni, i due, di comune accordo, si erano concessi una meritata pausa. Thranduil aveva portato dalla cantina di casa sua dell’ottimo vino; sapeva che Elrond apprezzava il frutto dei vigneti dell’ovest.
Così, quel pomeriggio, quando anche la terza bottiglia venne svuotata e abbandonata sul tavolo assieme alle altre, i due elfi alzarono in alto i calici e, non trattenendo le risa, brindarono alla prosperità.
Due forti tocchi alla porta attirarono la loro attenzione. I due, con i calici sospesi mezz’aria, volsero lo sguardo alla porta. Thranduil, con un movimento improvviso, picchiò il proprio calice contro quello di Elrond e svuotò il contenuto: non poteva perdersi un brindisi.
La porta venne aperta ed un elfo vestito di grigio, con un lungo manto pesante del medesimo colore, entrò e, chinando il capo, disse con voce calma: “Mio Signore Elrond, sono giunti degli ospiti.”
“Ospiti?” chiese Elrond, ubriaco guardando l’elfo in volto. “Quali ospiti? Non aspettavamo nessuno…” aggiunse, svuotando il contenuto del calice e posandolo con forza sul tavolo.
Thranduil riempì i bicchieri.
“Sì, mio Signore Elrond. Dama Galadriel e sua figlia Celebrìan sono giunte attraverso le miniere di Moria. Chiedono ospitalità per alcuni giorni, finché non cesserà di nevicare e potranno proseguire verso i Porti Grigi.”
Elrond, che conosceva bene la Dama di Lothlorien, annuì con vigore e con voce leggera disse: “Ovviamente possono restare.” s’interruppe, mentre svuotava l’ennesimo calice. Con un movimento del braccio, aggiunse: “Conducetele in una stanza appropriata e porgete le mie scuse alle signore. Suppongo le incontrerò per cena.”
“Se riuscirai a stare retto sulle tue gambe!” aggiunse Thranduil, sorridendo brillo.
Quando l’elfo uscì dalla camera, Elrond scoccò uno sguardo di rimprovero al principe di Bosco Atro; non era da lui cedere ai vizi, ma non aveva resistito.
“Amico, lasciami parlare liberamente…” iniziò a dire Thranduil, posando i gomiti sul tavolo e guardando Elrond negli occhi.
“Hai mai tenuto a freno la lingua?” chiese il sovrano di Gran Burrone.
Thranduil, portando il calice alle labbra e svuotandolo in un solo sorso, sorrise: “Fa sempre piacere avere ospiti!”
Si alzò in piedi e, incamminandosi verso la finestra che si apriva sulla cascata, chiuse gli occhi, cercando di riportare alla mente le lodi del padre sull’avvenenza di Celebrìan. Guardò il panorama ed aggiunse: “Mi dicono che sia una fanciulla di incantevole bellezza. Celebrìan, intendo. Dal volto gentile e con due fossette sulle guance… davvero incantevole.”
“Sembra che abbiate trovato la vostra sposa, amico mio…” constatò Elrond, raggiungendolo.
“Oh, no…” rispose Thranduil, guardando il proprio riflesso nel vetro della finestra e sistemandosi i capelli. “Ho già incontrato la mia futura sposa…” s’interruppe, voltandosi verso l’amico. “E credimi sulla parola: ella non ha eguali.”
Solo quando risuonarono le sei di sera, Elrond si congedò dal compagno.
Barcollante, si diresse nelle sue stanze. Mentre cercava di mantenere un’andatura dignitosa, si maledisse per la pessima decisione presa: non aveva mai bevuto così tanto vino. Sospirò; Thranduil, nonostante se ne fosse servito almeno due volte tanto, pareva essere ancora sobrio al suo confronto.
Con molta difficoltà, raggiunse la propria camera da letto e, aprendo la porta con forza, tanto da farla sbattere contro il muro, barcollò fino al proprio letto. Non si spogliò dalla pesante veste che portava, non riusciva a pensare lucidamente. Voltandosi e dando le spalle al letto, si lasciò cadere supino.
Le parole di Thranduil gli tornarono alla mente: l’avevano incuriosito. Voleva vedere Celebrìan. Raramente l’amico lodava la bellezza di una persona che non fosse sé stesso. Chiuse gli occhi, mentre le pareti della camera parevano muoversi attorno a lui.
“Maledetto Thranduil e il suo dannato vino!” esclamò, prima di addormentarsi.
Quella sera, alcune ore più tardi, nella grande e maestosa Sala da Pranzo di Gran Burrone, ogni cosa era stata predisposta per festeggiare l'arrivo delle ospiti. Era stato acceso un fuoco per riscaldare l’ambiente e vennero organizzate danze, musica ed un ricco banchetto. Nessun dettaglio era stato trascurato: guardandosi attorno Elrond si ritenne soddisfatto.
“Vino, mio signore?” chiese un giovane elfo bruno, porgendo al proprio sovrano un calice.
Storcendo il naso, Elrond scosse il capo: non riusciva ad affrontare altro alcol.
Mentre parlava con Thranduil e altri elfi, continuava a guardare la porta. Attendeva impaziente di incontrare la tanto lodata figlia di dama Galadriel e sire Celeborn.
Ogni volta che entravano degli elfi, alzava lo sguardo, speranzoso. Un sorriso si apriva sulle sue labbra ma, appena capiva che non era lei, tornava serio e impassibile. Era la prima volta che provava una tale impazienza per qualcosa.
Thranduil, seduto comodamente al suo fianco, si gustava, un bicchiere dopo l’altro.
“Arriverà. Abbi pazienza, amico mio.” sussurrò il biondo, notando il nervosismo dell’amico.
“Sono state le tue parole a rendermi inquieto.” rispose Elrond, guardandolo.
“Eccole.” disse Thranduil, posando il calice sul tavolo e, alzandosi, raggiunse le due elfe.
Elrond non riuscì a muoversi, paralizzato dalla bellezza della creatura che si ritrovò davanti. Le parole di Thranduil erano poca cosa per descrivere la stupenda giovane che accompagnava la madre. Il cuore di Elrond iniziò a battere più forte: era restato senza fiato. Si alzò di scatto. Celebrìan, con capo chino, stava in silenzio accanto a dama Galadriel. Pareva intimidita da tutta la gente che la circondava.
Le parole di Thranduil non le rendevano giustizia; mentre si avvicinava alle ospiti, la osservava. Non riusciva a distogliere lo sguardo: aveva la pelle color porcellana, occhi azzurri come il cielo e lunghi capelli biondi. Mentre si avvicinava a loro, notò le gote della giovane elfa leggermente arrossate, le davano un’aria così dolce e delicata… portava un abito chiaro che risaltava la sua eterea bellezza.
Scuotendo il capo, raggiunse con passo sicuro le signore di Lothlorien per dar loro il benvenuto nella sua terra.
“Lord Elrond, siamo liete di poter ammirare ancora una volta Gran Burrone.” disse Galadriel chinando lievemente il capo.
“L’onore è il mio.” rispose Elrond, inchinandosi a sua volta. “Vostro marito, sire Celeborn, non vi ha accompagnate?” s’informò cercando d’essere indifferente.

“Purtroppo è stato trattenuto da questioni urgenti e inderogabili.” rispose sorridente Galadriel. “Questa è mia figlia, Celebrìan. Non credo abbiate ancora avuto il piacere di conoscerla.”
“No, infatti.” rispose Elrond, spostando finalmente lo sguardo sulla giovane elfa.
Ella alzò lo sguardo e incrociò i grigi occhi di Elrond. Non parlarono. E, dopotutto, le parole non servivano. Fin dal primo sguardo, il loro destino era stato scritto.


“Ammiravo entrambi; insieme hanno governato saggiamente sulle proprie terre. Tuo padre, nonostante gli errori commessi con te, è sempre stato un bravo sovrano... incredibilmente giusto. Sono convinto che, presto o tardi, capirà di aver sbagliato allontanandoti da casa e ti chiederà perdono.” mi sorrise, cercando di confortarmi. “Inoltre sono amico dei tuoi fratelli da molti secoli e ti ho conosciuta quand’eri ancora una bambina. Non potevo abbandonarti, avevi bisogno di me.” Legolas sospirò. “Avresti fatto lo stesso per me.” concluse, come se questo bastasse per chiudere il discorso.
“Dunque tuo padre era presente?” chiese Alhena, voltandosi per guardare l’amico in volto.
“Quando i tuoi genitori s’innamorarono?”
L’elfa annuì.
“Sì… è stato un bell’incontro, intenso…”


Quando la sera sopraggiunse, su decisione di Aragorn, la Compagnia si accampò in una radura, lungo il corso del fiume. Con dei rami, accesero un gran fuoco. Si unirono attorno ad esso, apprezzandone il calore e la luce.
Boromir seduto in disparte, stava preparando alcune frecce. Ogni tanto alzava lo sguardo e, attraverso la fiamma, osservava Estryd. Le ore passate sotto il sole avevano arrossito il volto dell’elfa.
Alhena si accomodò sul terreno accanto alla sorella e, dopo aver esaminato Boromir, disse ad Estryd sussurrando: “Dovresti parlargli.”
La giovane si voltò, incrociando lo sguardo di ghiaccio di Alhena, ed inarcò le sopracciglia. Fingendo di non capire le sue parole.
“A Boromir.” aggiunse la bionda. “Dovreste parlare, siamo in periodi difficili. Non dovremmo mai lasciare delle questioni in sospeso. Qualunque cosa accaduta tra voi, merita di rovinare quello che il futuro ha in serbo per voi?”
“Penso che, qualunque cosa gli dirò, non possa fare la differenza. Ciò che è accaduto a Lothlorien…” s’interruppe, arrossendo. Non poteva parlarne. Scattò in piedi e, guardando dall’alto Alhena, aggiunse: “Ora scusami, vado a prendere della legna per ravvivare il fuoco.”
Osservando la sorella addentrarsi nella foresta, Alhena sospirò rassegnata e si portò le mani sul capo, massaggiandosi i capelli.
“Testarda almeno quanto te.” disse Legolas, sedendosi dove prima c’era Estryd.
“Non mi reputo testarda. Solo che raramente mi sbaglio. Lei non ha ancora visto il mondo, non sa come può essere crudele… io sì. Da come si comporta, pensa di essere ancora tra le brillanti mura di Gran Burrone, protetta da nostro padre. Non ha mai impugnato un’arma contro un nemico…” voltandosi e guardando Legolas, Alhena aggiunse: “Non capisco perché le sia stato permesso di partire…”
“Permesso di partire? Credi davvero che tuo padre sia stato d’accordo? Estryd è scappata e ci ha seguiti contro la sua volontà.”
Alhena non rispose, rimase in silenzio diversi minuti, riflettendo sulle parole dell’amico.
“Chissà il suo scopo qual’è…” concluse, concentrando sulla fiamma davanti a lei la sua attenzione. “Perché, ne sono certa, lei ha uno scopo.”
Un movimento attirò l’attenzione di Legolas, con un movimento del braccio, le picchiò contro, accennando a Boromir. Il Comandante di Gondor si era alzato e, superando l’accampamento, seguì Estryd nella foresta. Alhena sorrise seguendo i movimenti dell’uomo e, portandosi le mani sul volto, si voltò e posò il capo sulla spalla di Legolas.

Nascosto dietro un albero, Boromir spiava Estryd mentre raccoglieva dei rami da terra. Una volta presi in mano, li osservava e li valutava, alcuni li teneva, altri li gettava via; probabilmente erano troppo umidi per prendere fuoco. La luce era tenute, proveniva dalla luna e dalle molte stelle che brillavano nel cielo. Catturato, guardava la lunga chioma castana dell’elfa muoversi ogni volta che si chinava per prendere un ramo. Era bellissima; avrebbe voluto aver maggior coraggio, uscire dal suo nascondiglio, raggiungerla e confessarle il suo amore…
“Per favore, non stare nascosto nell’ombra.”
Mostrandosi, Boromir sorrise imbarazzato, passando una mano tra i capelli.
“Perdonami. Pensavo che non fosse opportuno farti vagare per questa foresta da sola.”
“Per proteggermi?” chiese Estryd guardandolo negli occhi. “Sei qui solo per proteggermi?”
“Estryd…” iniziò a dire Boromir.
“Non nominare il mio nome!” urlò l’elfa, gettando con forza la legna per terra e raggiungendo l’uomo. “Non osare usare il mio nome! Non dopo quello che mi hai fatto! Non dopo le tue parole!”
“Pensavo fosse la cosa migliore per te!” rispose il guerriero.
“Per me? Se davvero lo avessi fatto per me, perché non mi hai lasciato scegliere? Perché non mi hai dato la possibilità di decidere? Sono grande abbastanza per correre i miei rischi! Avevo deciso di seguire i miei sentimenti… saresti stato l’unico. Saresti stato la persona più importante nella mia vita…”
Fece una pausa, per riprendere fiato. Boromir non le rispose, abbassò lo sguardo. Questo atteggiamento fece imbestialire Estryd che, puntando il dito contro il guerriero, urlò: “Tu! Tu mi hai distrutta! Mi hai fatta sentire inutile!”
“Perdonami.”sussurrò Boromir, ancora con il capo chino. “Non avrei mai voluto farti soffrire. Tutto quello che ho fatto è stato per proteggerti… voglio solo vederti felice!” la guardò negli occhi. “Vederti sorridere…” sospirò con aria trasognata. “Mi fa battere il cuore… avrei voluto avere maggior coraggio. Ma mi rendi vulnerabile. Quando sei con me nulla ha più importanza per me. Ti amo. Non c’è altro da dire…”
Con uno scatto, l’elfa saltò al collo dell’uomo. Le braccia di lui si strinsero alla sua vita, trattenendola forte a sé. I loro corpi erano scossi da violenti brividi, era un’emozione troppo forte. Avevano desiderato quel momento da tempo!
Con delicatezza, Boromir allargò il proprio manto sul terreno e, tenendo Estryd per mano, la fece adagiare. La guardò dall’alto, illuminata dalla luce degli astri notturni. Gli occhi di lei lo guardavano senza battere ciglio, stese un braccio per farlo stendere al suo fianco. Le stelle si riflettevano negl’occhi grigi di Boromir. L’uomo le sorrise, carezzandole i lineamenti dell’elfa e spostando i capelli che le cadevano sul viso.
Avvicinandosi a lei, la baciò. Le mani di lui scivolavano sul corpo dell’elfa, indugiando particolarmente sui seni ed i fianchi. Ai suoi occhi, era un miraggio…
“Amami per sempre…” sussurrò la principessa, mentre il guerriero le baciava il collo.



***
Alla prossima e grazie per i bellissimi commenti!
 

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 9 - AMORE MORTALE ***




“Raggiungeremo le Cascate di Rauros nel pomeriggio.” urlò Aragorn, per farsi sentire anche dai compagni sulle altre barche.
Alhena era entusiasta: aveva già visto quelle cascate, due volte per l’esattezza. Ma, nonostante tutto, non poteva evitare di provare quella tipica e crescente emozione che avvertiva ogni volta che vedeva una meraviglia simile.
Proseguirono lungo il fiume ancora per una ventina di minuti poi, seguendo il percorso ad est, apparvero ai loro occhi i volti severi dei sovrani sovrastarono le tre imbarcazioni. Le sculture intimorirono la Compagnia. Ma, dopotutto, quello era il loro scopo.
Fin dalla prima volta in quella terra, Alhena era rimasta impressionata dalla morfologia di quel paesaggio; da come le rocce erano state scolpite magistralmente dai discendenti di Nùmenor e da come la vegetazione cresceva senza distruggere la bellezza di quel posto. Una vera opera d’arte.
Segnalare l’inizio dei confini del grande Regno di Gondor e ricordare la sua grande forza a chiunque avesse tentato di sfidarlo.
“Guardate! Gli Argonath!” esclamò Aragorn. “Per tanto tempo ho desiderato guardare gli antichi re.” fece una pausa, poi abbassando il tono della voce, aggiunse: “La mia stirpe.”
Udendo quelle parole, Alhena guardò il ramingo. Doveva essere difficile, per lui.
Quando lo aveva conosciuto, anni prima, lo aveva scambiato per un semplice ramingo del nord. Nulla di Aragorn ricordava i Dúnadain, era sporco e malvestito. Sorrise, aveva rifiutato il suo lignaggio e si nascondeva sotto le vesti di ramingo. Legolas, che lo conosceva da alcuni anni, gli aveva confessato che a mancargli era il coraggio: temeva che, il destino dei suoi avi, lo avrebbe perseguitato. Teneva d’essere sconfitto dagli stessi demoni che avevano portato Isildur alla morte.
L’elfa aveva provato una gran pena per l’uomo e, anche adesso, a distanza di anni, non poteva evitare di pensare alle parole di Legolas.
La risata di Estryd raggiunse le orecchie di Alhena; distraendola dai suoi pensieri. Volse lo sguardo verso la sorella: era così diversa dal giorno prima… radiosa, questa era la parola giusta.
Quel giorno viaggaiva nella stessa imbarcazione di Boromir. I due continuavano a guardarsi negli occhi e sorridere. Mentre li osservava, Alhena notò che il comandante di Gondor si piegò in avanti, sfiorando la schiena di Estryd con una mano. Poi, con un gesto, sistemò dietro l’orecchio dell’elfa una ciocca ribelle, facendola arrossire.
I loro sguardi erano magnetici. Si erano chiariti e, vederli insieme, riscaldava il cuore di Alhena. Riusciva a vedere l’amore che la sorella provava per l’uomo, le brillavano gli occhi ogni volta che lo guardava e i battiti del suo cuore erano accelerati dalla forte emozione.
“Non posso desiderare nulla di meglio per il mio futuro se non stare al tuo fianco.” sussurrò Boromir all’orecchio dell’elfa.
Poi, rialzandosi, riprese a vogare, guardando Estryd e l’orizzonte dietro di lei.

Lasciarono le barche sulla riva del lago, il rumore delle Cascate di Rauros dava quasi fastidio alle orecchie della compagnia. L’acqua cadeva per diversi metri, fino ad infrangersi violentemente sulla roccia. Aragorn aveva deciso che avrebbero proseguito il cammino solo col calare del sole. Il loro passaggio sarebbe stato protetto dall’oscurità. Una volta superato il lago, avrebbero intrapreso la via per Mordor.
Aragorn, informò tutti che, dopo la loro partenza da Lòrien, un gruppo di orchi li aveva seguiti. Legolas aveva avvertito i loro spostamenti ed erano almeno un centinaio.
“Troppi per affrontarli direttamente.” concluse Aragorn con amarezza, prima di superare i membri della compagnia e addentrandosi nella foresta, per cacciare la cena.
Gli Hobbit si accomodarono a terra, all’ombra di alcuni alberi. Estrassero le loro pipe per fumare un po’, con loro c’era Gimli. Ridevano divertiti per una storiella buffa raccontata da Pipino.
Nel frattempo, aiutato da Alhena, Legolas, scaricava dalle barche il necessario per la notte e la posizionavano accanto ai primi alberi del bosco.
“Estryd come mai sei qui sola?” chiese Alhena, lasciando uno zaino per terra e guardando la sorella seduta sulla riva del lago, in disparte rispetto agli altri.
“Boromir perlustra la zona in cerca di rami per un fuoco.”
Alhena si avvicinò alla sorella, dando le spalle a Legolas che proseguì nuovamente verso le imbarcazioni.
“Parliamo un po’?” chiese titubante Alhena, sedendosi accanto a Estryd e guardando la bruna.
L’elfa annuì, ardeva dalla voglia di condividere le emozioni provate con Boromir la notte precedente. Prese fiato: ”Sono sicura di amarlo.”
Alhena osservò la sorella: lo sguardo sognante fisso all’orizzonte.
“E si vede…” scherzò l’altra, abbracciando Estryd. “E come è stato?” sussurrò al suo orecchio.
L’elfa arrossì violentemente a quella domanda. Pensò: “E’ così evidente?”
“E’ stato… bello…” rispose poi, con un filo di voce.
Entrambe sorrisero di cuore, Alhena posò il capo sulla spalla della sorella, guardando anche lei il panorama.
Rimasero in silenzio alcuni secondi, assaporando la quiete che le circondava. Erano anni che non stavano sole, loro due.
“Mi manca casa. Spesso la sogno di notte…” sussurrò la bionda, diventando malinconica. Alzandosi dalla spalla di Estryd, posò le braccia sulle ginocchia e la testa sopra queste. Voltò il capo verso la sorella ed aggiunse: “Arwen sta bene? Ed Elladan? Elrohir?”
“Arwen…” sospirò. “Nostro padre sta cercando di convincerla a lasciare Gran Burrone per le Terre Immortali.”
Lo sguardo di Alhena mutò, corrugò le ciglia.
“Ha donato ad Aragorn la Stella del Vespro. Rinuncerà alla sua immortalità per lui. Lo sapevi?” chiese Estryd.
“Sapevo che erano legati… non sapevo questo però.” concluse con tristezza.
“Purtroppo questo è il loro destino. Sono preoccupata… papà è arrabbiato con lei, teme di perdere sua figlia…” s’interruppe al pensiero di Boromir. Elrond avrebbe ostacolato anche la sua relazione con il comandante di Gondor.
Alhena non rispose. L’idea di perdere Arwen la devastava: erano molto legate. Le aveva fatto da madre quando Celebrìan era stata rapita, durante la sua convalescenza e durante i pochi mesi prima che venisse cacciata da Gran Burrone. Non avrebbe accettato di perderla. Non la vedeva da quasi un secolo e a stento ricordava la sua voce, ma il legame che nutriva per lei era forte. Chiuse gli occhi; non voleva altre brutte notizie. Ripensò alla sua vita, alle strade che aveva percorse negli ultimi anni, forse sarebbe partita anche lei per le Terre Immortali. Nulla la legava alla Terra di Mezzo.
“Elladan ed Elrohir invece sono a ovest.” continuò Estryd. “Si sono uniti con alcuni nostri soldati alle armate di Thranduil.”
“Li ho visti, ma non ho avuto modo di parlare con loro.”
“E perché no?”
“Non potevo.” rispose con un’alzata di spalle. “Thranduil li ha ammessi alla sua presenza, hanno soggiornato a Bosco Atro per alcuni giorni e poi hanno seguito i soldati silvani verso sud. Questo è quello che so.” Fece una pausa, valutando se rivelare parte di quelle strade percorso alla sorella. “Ho vissuto nel palazzo di Thranduil, per un periodo… poi sono andava via. Non potevo restare. Mi sono diretta a Pontelagolungo e ho vissuto tra gli uomini.”
“Thranduil non ha mai detto nulla…” iniziò a dire Estryd.
“E’ una storia molto complicata. Devo molto a Legolas. Si è dimostrato un grande amico. Fedele e di buon cuore.” respirò a fondo. Il ricordo degli anni trascorsi a Bosco Atro creavano nella ragazza dei sentimenti contrastanti: da un lato era triste, dall’altro quegli anni avevano lasciato dei ricordi bellissimi. “Possiamo non parlarne? Per favore Estryd, non chiedermi nulla.”
La bruna scosse il capo. Non voleva cambiare argomento, voleva capire cos’era accaduto alla sorella negli anni lontana da Gran Burrone. Si erano scambiate alcune lettere, ma aveva sorvolato su molte cose.
“Cosa è accaduto di così terribile? Per quanto hai vissuto a Bosco Atro? Perché sei andata via?”
“Estryd non posso. Per favore… non chiedermi nulla.” la supplicò Alhena, chiudendo gli occhi e respirando a fondo. La testa iniziava a dolerle, gli occhi le si inumidirono.
“Sapevo che eri a nord…” continuò Estryd, ignorando le parole della bionda: “Almeno sei stata a nord?”
Alhena scattò in piedi, facendo spaventare la sorella: “Come mai tanta curiosità?”
“Alhena… non volevo farti arrabbiare… in questi anni ero preoccupata per te.” sussurrò, guardandola.
“Lasciami in pace.” concluse seccata Alhena, zittendo Estryd ed allontanandosi da lei.
La bionda camminò verso la foresta, addentrandosi. Aveva bisogno di riflettere, quelle domande avevano tutte una risposta. Il problema era che non era pronta a condividerle. Non ancora, per lo meno.


Il Consiglio per decidere le sorti dell’Anello avrebbe avuto luogo il giorno seguente e, come sempre, Elrond aveva proibito ad Estryd di parteciparvi. La considerava troppo giovane per comprendere i cambiamenti che il mondo stava subendo.
La giovane elfa, delusa per quell’ennesima dimostrazione di sfiducia, vagava per i giardini e i gazebo di Gran Burrone. Riconosceva che era giovane, ma non era sciocca.
Udì delle voci provenire dal ponte nord del palazzo. Incuriosita, si avvicinò furtiva e, scostando i rami di un cespuglio, vide sua sorella Arwen in compagnia di Aragorn.
Non fu sorpresa di vederli insieme, conosceva già la natura della loro relazione.
Morsicandosi le labbra, Estryd si voltò: si sentiva di troppo e non voleva violare quel momento d’intimità tra la sorella e l’amato. Ma, nonostante volesse allontanarsi, le gambe non le obbedivano. Il cuore le martellava nel petto, rimbombando nelle sue orecchie. Spiando tra i cespugli e i roseti, guardava affascinata la magia che circondava le anime dei due amanti. Erano bellissimi e comprendeva il loro grande legame.
Provava invidia per la sorella; lei aveva avuto il coraggio di ascoltare il proprio cuore.
“Dissi che ti saresti legata a me, rinunciando all'immortalità del tuo popolo…”
Quelle parole, pronunciate da Aragorn, catturarono ancor di più l’attenzione di Estryd. Si avvicinò a loro e osservò attentamente la coppia.
Si tenevano per mano, guardandosi negli occhi: riusciva a percepire il fuoco che li univa. Non riuscivano a separarsi. Il corpo della sorella era piegato verso Aragorn, sfiorando quello di lui con il proprio. La giovane elfa vedeva chiaramente il desiderio che provavano l’uno per l’altro.
Ma, quello che maggiormente preoccupava Estryd era altro: “Rinunciare all’immortalità?” pensò. La sola idea di perdere Arwen le fece mancare il fiato.
“E a questo mi attendo... preferirei dividere una sola vita con te che affrontare tutte le ere di questo mondo da sola. Io scelgo una vita mortale…” rispose la sorella.
Una lacrima rigò la guancia di Estryd nell’udire quelle parole. In quel momento capì appieno l’amore della sorella per Aragorn. Per quel sentimento, avrebbe perso Arwen per sempre.
Voltandosi, con passo barcollante, si allontanò dai cespugli. Che senso aveva? Le parole udite erano state sufficienti per lei. Arwen sarebbe morta per l’erede di Isildur.
“Non avresti dovuto spiare tua sorella.” Elrond raggiunse la figlia, posando una mano sulla sua spalla con dolcezza.
“Padre… non ti avevo visto.” sussurrò Estryd, il cuore batteva frenetico nel suo petto per lo spavento. “Hai udito le loro promesse?”
Il signore di Gran Burrone non ebbe la forza di parlare, ma annuì debolmente.
“E glielo permetterai?”
“Cosa potrei mai fare io per impedirglielo? Farla allontanare da  Gran Burrone? Obbligarla a dirigersi nelle Terre Immortali? Ho tentato, Estryd… ma si amano. Lei non lascerà lui. Tutti dovrebbero provare questo sentimento almeno una volta nella vita.”
“Ma morirà!” lo interruppe Estryd, quasi urlando.
“E’ una scelta che spetta a lei. Posso solo starle vicino, supportarla in questi giorni bui.” convenne con saggezza.
“Avrebbe potuto amare chiunque… perché lui? Perché ha deciso di amare lui e non un elfo? Perché tu glielo hai permesso?”
Elrond sorrise, posando una mano sulla spalla della figlia e conducendola per le vie del palazzo: “Sei troppo giovane, mia amatissima figlia, per capire cosa sia l’amore. Un giorno, quando crescerai e sarai pronta, incontrerai una persona che ti renderà completa. Incontrerai colui al quale non potrai mai rinunciare. Colui per il quale sarai disposta a lasciare casa tua e seguirlo. Colui per il quale daresti di tutto e lui ricambierà il tuo grande amore. Sarete voi due. Anime affini.” fece una pausa. “Arwen ha trovato la sua via. Non è quella che le avrei augurato… ho tentato ogni cosa in mio potere per impedire la sua rinuncia all’immortalità… Aragorn la rende felice: è questo ciò che conta.”


“Dov’è Frodo?” chiese Merry, guardandosi intorno e non vedendo l’amico.
Sam scattò in piedi, incredulo per la sua distrazione. Aragorn e Legolas, poco lontani dal gruppo, guardarono Merry. Non si ricordavano di averlo visto nell’ultima mezzora.
Il ramingo notò subito l’assenza di Boromir e iniziò a capire cosa stava succedendo. Guardò Legolas: “Boromir…” sussurrò.
L’elfo annuì: avevano lo stesso pensiero.
“Dev’essere nella foresta con Boromir. Cercava legna per ravvivare il fuoco.” disse Estryd, raggiungendo Aragorn. “Non dobbiamo preoccuparci: Frodo è in ottime mani.”
“Dividiamoci e cerchiamolo.” convenne Legolas.
“Ma è con Boromir! Non corre alcun pericolo!” insisté Estryd, afferrando l’elfo per un braccio e guardandolo in volto.
Aragorn, ignorando le parole della ragazza, s’incamminò nella foresta seguito da Gimli e dagli Hobbit.
“Cosa mi nascondete?”
“Non credo d’essere io a dovertene parlare. Ti basta sapere che Frodo non è al sicuro?” chiese nervoso, guardandosi attorno. Doveva seguire gli amici per cercare il Portatore.
“Legolas!” insisté Estryd, alzando la voce.
“Ha un interesse particolare per l’Anello.” rispose d’un fiato.
Lasciò la presa, smarrita per quella risposta inaspettata: “Boromir?”
Non lo aveva mai notato. Sapeva che l’Anello avrebbe tentato chiunque e il comandante di Gondor, cresciuto tra guerra e morte, era a conoscenza della potenza e del valore di quel gioiello. Ma poteva essere vero?
“Mi spiace.” Concluse Legolas, prima di seguire i compagni nella foresta.
Estryd rimase in riva al lago, si sentiva mancare il fiato. Accecata dai sentimenti per Boromir non aveva visto i suoi comportamenti.
Le ginocchia le cedettero, cadde pesantemente sull’erba. La vista appannata dalle lacrime.
Avrebbe dovuto parlargli, non era pericoloso. Non avrebbe nuociuto a Frodo, ne era certa.
Traballante, si rimise in piedi e, camminando veloce, s’addentrò nella foresta: con un po’ di fortuna, avrebbe trovato Boromir prima degli altri.

“Nessuno di noi dovrebbe vagare solo, e tu meno di tutti.” Boromir stava raccogliendo della legna, cercando di fingere indifferenza. “Tante cose dipendono da te.”
Si alzò e guardò lo Hobbit. Gli occhi di Frodo esprimevano delusione e paura. Era solo nella foresta con Boromir; non avrebbe avuto modo di difendersi se il Comandante avrebbe cercato di impossessarsi dell’anello.
“Frodo?”  disse il guerriero, notando l’incertezza del Portatore.
Lo Hobbit si guardò attorno, cercando un modo per scappare, ma non vedeva una via di scampo. Boromir si stava avvicinando. Gli occhi grigi dell’uomo, puntati al suo collo, lo guardavano senza battere ciglio: preda d’un ossessione.
“So perché cerchi la solitudine: soffri. Lo vedo, giorno dopo giorno.” fece una pausa. Iniziava a sudare, la bramosia dell’Anello si faceva strada in lui. “Sei sicuro di non soffrire inutilmente?”
Frodo lo guardò negli occhi: non sapeva cosa pensare. Era stato l’unico a comprendere i suoi sentimenti? Il suo dolore? Il peso dell’Anello lo stava facendo sprofondare nel buio, nell’oscurità.
Carpendo i pensieri e le incertezze dello Hobbit, Boromir si avvicinò ancora di più.
“Ci sono altri modi, Frodo. Altre vie che possiamo prendere.”
“So già cosa mi diresti!” lo interruppe Frodo. “Sembrerebbe un consiglio saggio, ma il cuore mi mette in guardia.”
“In guardia? Contro cosa? Tutti abbiamo paura!”

Estryd si fermò; era la voce di Boromir quella che sentiva! Chiuse gli occhi per concentrarsi, era vicino. Guardò alla sua destra e, impugnando la spada donatale dal fratello, iniziò a correre.
“Ma lasciare che la paura distrugga la speranza è pazzia!” 
La voce di Boromir era altera. Saltando un masso, continuò a correre tra gli alberi.
“Non esiste altro modo.”
La paura nella voce di Frodo si avvertiva chiaramente.
“Chiedo solo di avere la forza per difendere il mio popolo! Se tu mi prestassi l’Anello…”
“Boromir no!” urlò Estryd scavalcando agilmente i resti di una statua distrutta dal tempo.
L’uomo sovrastava il piccolo Hobbit che, spaventato indietreggiava verso la vetta della collina.
La voce dell’elfa fece voltare il Comandante. I suoi occhi erano preda della follia, in loro brillava una luce strana che mai aveva visto.
Lentamente, avvicinandosi a loro, Estryd stese la mano libera verso Boromir.
“Boromir vieni con me.” disse con dolcezza, sorridendogli.
“Lui ha la chiave! Lui potrebbe salvarci tutti! La guerra potrebbe finire oggi stesso se solo avessi io l’Anello!” urlò, indicando Frodo alle sue spalle.
“Ma senti le tue parole? Stai vaneggiando… cosa potresti mai fare te con quell’Anello? Ti condurrà alla morte e tu sarai la causa della distruzione del mondo!”
Estryd avanzava ancora verso l’uomo, gli occhi di Frodo guardavano la giovane elfa avvicinarsi. Non sapeva cosa fare, se restare o fuggire.
Solo un passo separava Estryd da Boromir: avrebbe potuto sfiorarlo, toccarlo con le dita. Ma, per paura di farlo scappare, non si avvicinò ulteriormente.
“Perché non capisci? Non dobbiamo necessariamente distruggere l’Anello!” disse Boromir con voce tremante.
Estryd lasciò cadere la spada sul terreno, gli occhi dell’uomo seguirono l’arma cadere.
Approfittando della sua distrazione, l’elfa rivolgendosi a Frodo disse in silenzio, scandendo bene le parole con le labbra: “Fuggi al fiume.”
Senza farselo ripetere, il Portatore iniziò a correre.
Boromir si voltò di scatto e, appena vide lo Hobbit, urlò irato: “No!”
Estryd prese il Comandante per un braccio e, trattenendolo, gli sfiorò il suo volto con una mano. Lo fece girare, incrociando il suo sguardo.
“E’ così che doveva andare.”
“Cosa mi hai fatto fare?”
“Boromir… guardami!” disse l’elfa, stringendolo con maggior forza. “Frodo è il Portatore. Lui distruggerà l’Anello.”
“Potremmo usarlo per salvarci! La forza di quel gingillo… tu non capisci! Tu non conosci la guerra… io ho visto… io…”
“Capisco fin troppo bene!” rispose lei, quasi urlando, interrompendolo.
Posò le mani sul volto di Boromir e, alzandosi sulle punte, lo guardò: “Ti amo e l’altra notte è stato bellissimo... riesci a ricordare questo?”
Gli occhi dell’uomo cercavano di guardare altrove, non riusciva a sopportare la vista dell’elfa. Si vergognava per le sue azioni, per la sua debolezza…
“Boromir, guardami!” insisté lei. “Guardami negli occhi! Ti amo… e tu ami me… dimentica Frodo. Dimentica tutta questa storia. Sei il Comandante di Gondor. Torna dal tuo popolo e guidalo contro Mordor. Sarò al tuo fianco, se mi vorrai.”
Gli occhi di Boromir si riempirono di lacrime, cadde in ginocchio ai piedi della giovane elfa e la strinse in vita, posando il capo sul suo grembo.
Estryd carezzò i capelli dell’uomo, guardando il cielo e ringraziando i Valar per essere riuscita a convincerlo.
“Che cosa ho fatto? Perdonami…” singhiozzò l’uomo. “Ti prego, perdona le mie debolezze.”




***
Spero vi abbia intrigato questo capitolo... ringrazio tutti i fedeli lettori che seguono questa mia ff.
Alla prossima!
Janine

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 10 - FRATELLI ***




Frodo smarrì la via; raggiunse un altopiano, che offriva una vista panoramica mozzafiato sul lago. Camminò lento, fino a raggiungere delle antiche costruzioni. Le mura si ergevano fiere verso il cielo chiaro. Le grandi pietre bianche, ormai coperte da edera, agli occhi del piccolo Hobbit, erano magnetiche. Con mano tremante, sfiorò la roccia; aveva sentito parlare di quel santuario. Nella prima era, quando c’era ancora rispetto per la terra e gli antichi dei, quel tempio era stato eretto per pregare i Valar. Il cuore del Portatore si strinse nel suo petto. Lo scorrere del tempo non era stato clemente; la bellezza di quella costruzione e delle sue statue era venuta meno.
Un rumore improvviso attirò l'attenzione di Frodo; si voltò di scatto, il cuore gli pulsava frenetico, balzando fino a sentirlo nella gola. Un pensiero si fece spazio nella sua mente… scosse il capo: non poteva pensarci. Non doveva pensare a quell’eventualità. Guardò attentamente i confini della foresta, scrutando l’ombra tra i cespugli e gli alberi. Terrorizzato al solo pensiero di Boromir... che Estryd non fosse riuscita a fermarlo, a farlo tornare in sé.
Ma nulla si mosse. Respirò a fondo e posò nuovamente lo sguardo a sud; vide il lago e le barche. Non erano distanti dall’altopiano dove si trovava, doveva scendere la collina e sarebbe arrivato all’accampamento. Respirò nuovamente, chiudendo gli occhi e pensando a casa sua: alla Contea. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi trovare a là, al sicuro tra le mura di casa Baggins… ma, ormai, aveva deciso: sarebbe andato a Mordor e avrebbe raggiunto quella terra da solo. Presto o tardi, l’Anello avrebbe corrotto l’intera Compagnia. Non voleva essere la causa della loro fine.
“Frodo!”
Lo Hobbit sussultò spaventato, voltandosi. Alle sue spalle, Aragorn, lo stava guardando, ansimava, come se avesse corso, ed i suoi occhi non riuscivano a celare una crescente preoccupazione.
“Si è impossessato di Boromir.” sussurrò il Portatore, prendendo tempo per valutare l'uomo.
“Dov’è l’Anello?” chiese Aragorn, avvicinandosi.
Terrorizzato, Frodo, iniziò a scappare anche dal ramingo. Non riusciva a credere che anche lui avesse ceduto dalla bramosia di possedere l’Anello.
“Non ti avvicinare!” urlò imperioso.
Non avrebbe consegnato l’anello ad Aragorn né a nessun altro. Lo avrebbe custodito e distrutto.
“Frodo!” ripeté l’uomo, guardando lo Hobbit negli occhi.
Il tono della voce di Aragorn era controllato. Avanzava lento. Le mani, alzate verso il cielo, in segno di buona fede.
“Ho giurato di proteggerti.” aggiunse con lo stesso tono calmo.
“Puoi proteggermi da te stesso?” chiese lo Hobbit. “Tu lo distruggeresti?”
Frodo mostrò l’Anello al ramingo, lo teneva posato sul palmo della mano.
L'uomo raggiunse il Portatore e, inginocchiandosi al suo cospetto, richiuse la mano di Frodo. Non avrebbe preso l’Anello. Mai.
Si guardarono negli occhi; le parole furono superflue.
Frodo sapeva che Aragorn avrebbe dato la sua vita pur di mettere la parola fine al conflitto. Sapeva che lottava per uno scopo preciso, per poter tornare da lei, da Arwen. Sorrise al ramingo.
“Sarei venuto con te fino alla fine, tra le fiamme di Mordor.” sussurrò senza distogliere i propri occhi dallo Hobbit.
Frodo lo avrebbe voluto al suo fianco; iniziava a dubitare del proprio coraggio, temeva di fallire senza l’aiuto di qualcuno, dopotutto era solo un Hobbit della Contea.
“Lo so.” convenne, annuendo. Aragorn era onesto; non c’era alcuna brama di potere o menzogna nei suoi occhi.
Gli sorrise, grato di aver trovato un così buon amico.
Un fischio tagliò l’aria: “Non un movimento, Aragorn, o ti trafiggo.”
Il ramingo sentì una punta fredda sfiorargli il collo. Deglutì, voltandosi piano ed alzandosi in piedi. Mai aveva udito una voce talmente fredda e distaccata: guardò Alhena. Impugnava l’arco Galadhrim, dono dei suoi parenti di Lothlorien. La corda tenuta tesa e la freccia seguiva i movimenti di Aragorn. Nei suoi occhi di ghiaccio, l'uomo vide le fiamme.
Il ramingo alzò le mani al cielo: “Non comprendi. Non voglio l’Anello.”
Ignorando le parole del ramingo, l’elfa si rivolse a Frodo: “Dice il vero?”
“Sì.” rispose lo Hobbit, spaventato dall’elfa.
Subito Alhena abbassò l’arco: “Perdonami, temevo che il suo potere t’avesse…” s’interruppe un istante, una luce blu attirò la sua attenzione “…corrotto.”
Corrugò la fronte: la spada di Frodo si era illuminata. Anche Aragorn, seguendo lo sguardo dell’elfa, capì che non erano soli.
La giovane si voltò di scatto, tirando la corda dell’arco, pronta a colpire le creature che si stavano avvicinando.
“Orchi.” sussurrò, rivolgendosi ai due compagni.
“Va’ Frodo. Scappa!” ordinò Aragorn allo Hobbit, dandogli una spinta. Poi, con passo deciso, seguì l’elfa.
“Sono al tuo fianco, mia signora.” disse guardando i nemici avvicinarsi.
Alhena sorrise: "Ti guardo le spalle, ramingo.”
“Ed io le tue.”

Estryd stava correndo verso la riva del lago. Un gruppo di orchi aveva costretto Boromir ad ordinarle di scappare, cercava di proteggerla... sapeva che l’amata, nonostante sapesse padroneggiare perfettamente le armi, non era ancora pronta per un combattimento.
Mentre fuggiva, l’elfa si sentiva terribilmente in colpa… avrebbe voluto restare accanto a Boromir, per aiutarlo. Ma, infondo, temeva d'essergli solo d’intralcio.
Corse fino alla riva, fermandosi solo quando l’acqua fresca del lago le bagnò i piedi: fu un tale sollievo…
Un movimento alle sue spalle la fece voltare, impugnò la spada, reggendola con entrambe le mani.
“Frodo…” disse, insieme sollevata e spaventata. “Non sei sicuro qui. Devi scappare… prendi la barca e va!”
“Degli orchi… hanno attaccato Aragorn e Alhena.” rispose con voce rotta.
Sentir pronunciare il nome della sorella, fece mancare il fiato all’elfa.
“Sta bene. Sa combattere e con lei c’è Aragorn.” aggiunse Frodo, intuendo le preoccupazioni dell’amica.
Estryd cercò di distaccarsi: doveva sapere Frodo al sicuro. Galadriel l’aveva avvisata, avrebbe dovuto conquistare la sua fiducia, per poterlo seguire.
“Devi andartene.” convenne, con tono risoluto. “Prendi la barca e vai. Mettiti in salvo, tratterremo gli orchi su questa sponda. Supera la foresta e raggiungi Mordor.”
Frodo obbedì alle istruzioni, rincuorato dal fatto che lei sapesse cosa doveva fare. Posò le mani sull’imbarcazione, ma non si mosse.
“Non mi chiedi di venire con me?” domandò, guardando Estryd negli occhi.
“Non voglio importi la mia presenza, verrò solo se me lo chiederai.”
“Te lo sto chiedendo. Vieni con me.” la richiesta di Frodo sembrava una supplica.
Sorridendo, l’elfa annuì e, avvicinandosi al Portatore, spinsero l’imbarcazione verso il largo.
Estryd sentiva il proprio cuore batterle all’impazzata nel petto. Quella che stava compiendo era la seconda cosa più avventata che avesse fatto negli ultimi tempi.
Agilmente salì a bordo e, porgendo la mano a Frodo, lo aiutò a salire.
Presero un remo ciascuno ed iniziarono a vogare verso la sponda opposta. Mentre si allontanava dalla riva, il pensiero della giovane andò a Boromir. Si erano salutati velocemente, un veloce bacio e poi era scappata… il pensiero di doversi allontanare da lui le gravava sul cuore… si succhiò le labbra, assaporando ancora una volta il sapore del Comandante.

Ogni scontro, per Alhena, era una scarica di adrenalina; la elettrizzava, la eccitava.
Gli eventi attorno a lei si muovevano velocemente e, nonostante la presenza di Aragorn la aiutasse, facendola sentire al sicuro, aveva la sensazione di non riuscire ad avere la situazione sottocontrollo. Gli orchi erano numerosi, quella che stavano affrontando pareva una battaglia persa fin dall’inizio. Gli Uruk-hai non erano orchi normali: erano più forti, più veloci, più crudeli…
L’elfa lasciò da parte l’arco ed impugnò due spade: una aveva la lama più lunga, l’altra era più simile ad un pugnale. Tutte le creature erano state marchiate dalla mano bianca di Saruman.
Combattevano da diversi minuti ed era chiaro ai due che non avrebbero avuto speranza di vittoria.
Guardava Aragorn fronteggiare gli Uruk. Era molto abile e si muoveva colpendo un orco dopo l’altro, uccidendone uno dopo l’altro… osservava le sue mosse, colpita dalla sua bravura con la spada.
Spalla a spalla, l'uomo e l'elfa, li affrontavano. Il sangue, che colava lungo le lame delle spade che impugnavano, era caldo... raggiungeva l’elsa e gocciolava sulle loro mani.
“Siamo in svantaggio numerico…” disse Aragorn, guardando Alhena.
La ragazza non rispose: non le importava di morire in guerra. Dalle esperienze della sua vita aveva imparato a non aver mai paura. Aveva imparato ad affrontare ogni avversità a testa alta… ma, non poteva negare, che l’uomo avesse ragione: il loro destino era segnato... non avevano scelta; se non quella di perire cercando di dare tempo a Frodo.
Una freccia saettò tra le loro teste e colpendo al collo un orco. Alhena ed Aragorn si voltarono contemporaneamente e sorrisero: non erano più soli. Legolas e Gimli stavano risalendo la collina di corsa, le armi strette nelle mani ed espressioni risolute sui volti.
Scoccando una freccia dopo l’altra, Legolas colpiva gli Uruk senza sbagliare un colpo.
Purtroppo, le creature di Isengard erano troppe; molti superavano i quattro compagni e proseguivano lungo la vallata, per raggiungere il fiume. Era stata affidata loro una missione: trovare i Mezzuomini e consegnarli al loro padrone, Saruman.
“Aragorn, và!” urlò Legolas, intuendo le intenzioni delle creature. “Proteggi gli Hobbit!”
L’uomo non se lo fece ripetere; voltandosi, iniziò a correre seguendo gli orchi e uccidendo quelli con cui si scontrava. Aveva un unico pensiero nella mente: doveva sapere Frodo al sicuro... a quell'ora doveva aver già raggiunto le imbarcazioni ed essere partito...
Aragorn continuava la sua discesa senza sosta, sfrecciando tra gli alberi e superando ogni ostacolo. Delle urla attirarono la sua attenzione: erano Merry e Pipino. Si fermò, valutando le possibilità che aveva: raggiungere il lago o aiutare i due piccoli Hobbit.
Non ebbe dubbi; deviò verso la direzione delle voci. Frodo era importante per la missione, ma non poteva sacrificare gli altri compagni.
“Siamo qua!” udì la voce di Pipino.
Poi, un boato spezzò l’aria: il corno di Gondor stava suonando tra gli alberi della foresta.
“Boromir!” pensò Aragorn.
Dei grugniti alle sue spalle lo fecero fermare, una decina di orchi si stavano avventando su di lui.
Voltandosi ed impugnando la spada con entrambe le mani, affrontò le creature. Parò i colpi con maestria, la carne dei nemici si tagliava come burro sotto la sua lama.
“Lasciate stare l’uomo! Prendere i Mezzuomini!” grugnì una voce profonda.
Aragorn alzò lo sguardo, vedendo quello che doveva essere il Capitano dell’armata di Uruk. Sovrastava le sue truppe e osservava i loro movimenti dall’alto, fermo su una roccia. Era diverso dagli altri orchi: più alto e possente, indossava una pesante armatura che copriva il suo petto. Con gesti molli, indicava ai suoi dove dirigersi. Nessun orco replicava e, seguendo le sue direttive, proseguivano scendendo lungo il sentiero segnalato.
Il ramingo, seguendo la discesa degli orchi, cercava di rallentare il loro tragitto, ostacolandoli come poteva ed uccidendoli.
Un’altra volta il corno di Boromir raggiunse le sue orecchie… più pressante, più insistente… una supplica di aiuto… una, due, tre soffi…
“Aragorn! Dov’è Frodo?”
Legolas, accompagnato da Gimli, aveva raggiunto l’uomo.
“Gli ho ordinato di raggiungere il lago e attraversarlo.” rispose. Si guardò attorno, mancava l’elfa: “Alhena? Dov’è?”
“E’ scesa seguendo la via per il fiume.” rispose l’elfo.
Ancora una volta il corno risuonò tra gli alberi della collina. Fece mancare il respiro ad Aragorn… non poteva indugiare: “Boromir ha bisogno di noi!” aggiunse, voltandosi verso i due compagni. “Dobbiamo raggiungerlo…” concluse, riprendendo la discesa.
Sapeva che la loro era una missione disperata, ma doveva tentare. Boromir era un uomo di Gondor, il sangue della stessa gente scorreva nelle loro vene.
Finalmente lo videro. Tutti gli orchi sopravvissuti si erano avventati sul Comandante di Gondor, accerchiandolo, tagliandogli così ogni via di fuga.

Alhena sapeva che stava sbagliando… avrebbe dovuto raggiungere il lago ed assicurarsi che Frodo fosse al sicuro, come promesso ad Aragorn. Ma non poteva ignorare il disperato richiamo di Boromir. Quel corno le rimbombava nelle orecchie, raggiungendo il suo cuore, la sua anima… acuendo la vista, l’elfa lo vide: con coraggio, Boromir si era frapposto tra gli orchi e i due piccoli Hobbit.
Per la bionda era chiaro quello che l’uomo stava cercando di fare; voleva proteggerli. Redimersi dal peccato di aver tentato di prendere l’Anello a Frodo.
Gli Uruk scendevano dalla collina, raggiungendolo il Comandante di Gondor. Alhena vide negli occhi di Boromir la risolutezza tipica della sua stirpe: non si sarebbe fatto da parte. Mai! Non avrebbe permesso agli orchi di superarlo e prendere Merry e Pipino.
Disperata, Alhena, sfrecciando tra gli alberi. Strinse i pugni, cercando di aumentare la velocità. I suoi piedi a stento sfioravano il terreno, sembrava volare sull’erba.
Con un tonfo sordo, l’ennesimo orco cadde ai piedi di Boromir.
Alhena vide il Comandante alzare il capo: l’espressione sul suo viso mutò. Gli occhi si aprirono di poco, le labbra si dischiusero e il volto si contrasse. L’elfa conosceva bene quello sguardo: negli occhi grigi di lui vi lesse il terrore. Senza fermarsi, seguì lo sguardo del guerriero. Un possente orco, fermo diversi metri sopra di loro, aveva impugnato un grande arco nero e stava prendendo la mira.
Boromir ignorò la creatura e continuò ad affrontare i nemici. Alhena non conosceva quell’aspetto del suo carattere: era privo di qualunque timore, poteva sembrare uno sconsiderato agli occhi altrui… ma non lo era. Conosceva il valore della sua vita, era mortale. La morte per lui era inevitabile… ma c’erano alcune cose per le quali valeva la pena combattere, perire addirittura.
Il capitano degli Uruk sorrise maligno e tese la corda dell’arco ancora un poco.
“Non può finire così!” pensò l’elfa… era così vicina a Boromir… così terribilmente vicina… seguì la freccia scivolare, sfiorando il legno scuro dell’arco… ogni cosa, agli occhi della bionda, si muoveva a rallentatore. Poi, con un gesto improvviso, l’Uruk aprì la mano, rilasciando la freccia che partì, tagliando l’aria.


Da quando aveva saputo che sarebbe dovuto partire per Gran Burrone, Boromir sentiva che quel viaggio sarebbe stato inutile. Avrebbe potuto adoperare meglio il suo tempo e le sue abilità combattendo per proteggere i confini di Gondor, la sua città natale. La sua casa.
Ma suo padre, Denethor, sovrintendente di Gondor fino al ritorno del Re, aveva deciso diversamente e non poteva contraddirlo. I desideri del sovrintendente erano ordini, erano legge per Gondor e i suoi abitanti. Lui deteneva il potere. Lui decideva. E Boromir, da bravo Comandante, non aveva altra scelta se non quella di obbedire.
“Mi posso fidare solo di te.” gli aveva detto Denethor.
Quelle parole, alle orecchie di Boromir, erano risuonate incredibilmente false.
Il Comandante annuì, chinando di poco il capo.
“Bravo il mio ragazzo.” concluse Denethor, picchiando una mano sulla spalla del figlio. Raggiunte le sue camere, Boromir iniziò a preparare i bagagli: prese una sacca di pelle nera ed iniziò a riempirla con alcuni abiti e della biancheria. Si muoveva a rilento, non voleva partire. Non se la sentiva di abbandonare i suoi soldati…
Un tocco pesante alla porta lo distrasse dai bagagli, facendolo sorridere: era suo fratello, Faramir. Ne era sicuro perché, fin da quando erano bambini, avevano inventato questo stratagemma per riconoscersi. Un piccolo segreto che custodivano gelosamente.
“Vieni, fratello!” esclamò Boromir, un sorriso gli illuminò il volto.
L’altro non si fece ripetere ed entrò nella camera. Anche Faramir sorrideva ma, appena vide la sacca posata sul letto, il sorriso sul suo volto sfumò.
Chiuse la porta e si avvicinò al letto, studiando attentamente il contenuto della borsa.
“Dunque parti.” disse con tono piatto, sedendosi accanto alla sacca. “Dove ti manda nostro padre?”
“A Gran Burrone, da Messer Elrond.” rispose Boromir, chinato su un grande comò.
“Non ne sapevo nulla. Ma, dopotutto, non è una novità che nostro padre preferisca te a me.”
Abbandonando i bagagli che stava facendo, il Comandante si voltò, guardando Faramir e raggiungendolo. Si fermò davanti al fratello minore, guardandolo negli occhi.
Respirò a fondo e posò le mani sulle sue spalle: “Presto si accorgerà del tuo valore e della tua forza. Anche tu, sei un bravo Comandante per Gondor…”
“Ma mai bravo quanto te.” lo interruppe Faramir con tono triste. “Cosa ti ha chiesto di fare? Come mai parti per Gran Burrone? E perché adesso? Siamo accerchiati dagli eserciti di Sauron… abbiamo bisogno di tutte le nostre forze per resistere…”
“E’ stato trovato, Faramir… l’Anello è stato ritrovato.” fece una pausa. “Vuole che lo porti qui, a Gondor.”
Gli occhi grigi dei due fratelli si incrociarono.
“Dunque è vero ciò che si vocifera. Per tutti questi anni l’Unico Anello è stato celato dagli elfi?”
Boromir scosse il capo.
“E’ vero, è stato trovato… ma non dagli elfi… da un’altra creatura. Uno Hobbit della Contea. Lui l’ha consegnato ad Elrond.” concluse, ripetendo le parole del padre.
Faramir si alzò e, allontanandosi dal fratello, raggiunse l’uscio. Posò una mano sulla maniglia, ma non aprì la porta.
Una domanda gli premeva sulla gola… quelle parole che voleva dire, lo avrebbero fatto soffocare se trattenute.
Strinse con maggior vigore la maniglia. Un piccolo gesto per darsi maggior coraggio: respirò a fondo e chiuse gli occhi.
“Tornerai, vero?” chiese, senza voltarsi. Non avrebbe sopportato di guardare Boromir negli occhi e vederlo mentire.
Attese per alcuni minuti una risposta, ma ottenne solo il silenzio.
Con forza spalancò la porta.
“Tornerò.”  disse Boromir risoluto, attraversando la stanza e raggiungendo Faramir.
Lo prese per le spalle, facendolo voltare. Lo guardò e sorrise. “Non ti lascerò mai solo… sei tu la mia famiglia… l’unica che abbia mai avuto, l’unica che voglia e l’unica che avrò.”


Alhena si lanciò contro l’uomo, gettandolo a terra. La freccia scoccata dal comandante degli Uruk-hai passò sopra i loro corpi e si conficcò in un albero, alle loro spalle.
“Maledetto!” grugnì l’orco. “Uccidetelo! Uccidete l’uomo e la fanciulla elfo!”
Le sue truppe, obbedendo agli ordini, accerchiarono i due, ancora stesi a terra e disarmati. Puntarono le armi contro Boromir e Alhena, le lame luccicavano alla luce del sole. Alcuni Uruk li avevano superati e, prendendo i due Hobbit, proseguirono la loro corsa diretti a Isengard.
Con passo lento, il capo degli orchi scese la collina, raggiungendo i prigionieri.
Quando fu davanti a loro, si fece spazio tra i suoi soldati, spingendoli in malo modo, e osservò con attenzione prima l’uomo, poi l’elfa. Sorrise divertito e, piegandosi, si avvicinò al volto di Alhena, afferrandola per il mento, obbligandola ad alzare lo sguardo.
“Sta lontano da lei, schifoso!” urlò Boromir, cercando di impugnare la sua spada.
Subito la lama di un orco venne puntata al suo collo; “Non osare…”
Il Comandante degli Uruk prese Alhena per il collo, sollevandola con forza da terra. D’istinto l’elfa alzò entrambe le mani, avvicinandole alla morse e cercando di liberarsi dalla stretta. Iniziava a sentire l’aria mancare.
“E’ un vero peccato che debba uccidere una creatura talmente graziosa!” grugnì.
L’alito gli puzzava tremendamente. Alhena storse il naso, schifata… la testa si faceva sempre più leggera man mano che i suoi polmoni perdevano ossigeno.
“Lascia la ragazza e prendi me!” lo supplicò Boromir.
Ma le sue parole non sortirono alcun effetto, all’Uruk non importava della vita di un uomo qualunque… ma, uccidere un’elfa era eccitante… privarla dell’immortalità…
L’elfa sentì che le forze la stavano abbandonando, ogni cosa ai suoi occhi divenne sfocata… le braccia caddero inermi lungo il suo corpo.
Alhena la vide arrivare, lenta… inesorabile… ne era certa: quella sarebbe stata la sua fine.

Aragorn, Legolas e Gimli si fermarono sopra la collina, rimasero shoccati dalla situazione che videro: una trentina di orchi avevano accerchiato Boromir ed Alhena. Uno di loro stringeva la bionda al collo che, priva di conoscenza, sembrava una delicata bambola di porcellana.
Legolas prese una freccia dalla faretra, prese la mira… respirò a fondo, concentrandosi, valutando il soffio del vento, gli ostacoli tra lui e il suo obbiettivo… ed, infine, scoccò.
“Ottimo tiro, elfo.” disse Gimli, quando la freccia colpì il comandante Uruk al collo, trapassandolo da parte a parte.
L’attenzione degli altri si spostò dai due prigionieri a loro.
La distrazione delle creature, diede a Boromir la possibilità di impugnare la propria arma e di trafiggere un l’orco che lo sovrastava.
I tre ridiscesero la collina, brandendo le armi.
Legolas, mentre correva, continuava a scagliare frecce, abbattendo un nemico dopo l’altro.
Superando il corpo inerme di Alhena, gli orchi attaccarono lo strano trio che li aveva sfidati uccidendo il loro capo.
Boromir si avvicinò all’elfa e, voltandola, la guardò attentamente in volto. Le sfiorò la fronte, spostando i capelli che le ricadevano sul viso. Poi, posando due dita sul collo dell’elfa, cercò di sentire il battito del cuore. Il Comandante sudava freddo; tutta quella situazione, per lui, era così assurda! Chiuse gli occhi ed attese… alcuni secondi che gli parvero un’eternità. La pelle di Alhena era calda… batteva! Tirò un sospiro di sollievo. Si tolse il mantello che portava e piegandolo con cura, lo posò dietro il capo della giovane elfa. Poi, impugnando la sua arma, corse in aiuto degli amici.
Lo scontro ed il risultato finale sembrava certo: gli orchi erano troppo deboli per poter affrontare e vincere contro i quattro guerrieri. Aragorn combatteva, schiena a schiena con Boromir.
Anche quando l’ultimo orco cadde morto a terra, Aragorn si guardò attorno: avevano vinto! Sorrise, sollevato. Incrociò lo sguardo con Boromir che, a sua volta, ricambiò il sorriso.
Legolas raggiunse Alhena, piegandosi su di lei e chiamandola per nome con dolcezza. Era pallida e un rivolo di sangue le ricadeva sul viso.
Il ramingo sorrise vedendoli insieme: non capiva perché tra loro ci fosse solo una profonda amicizia…
“Bella prova, fratello mio.” disse Boromir, posando una mano sulla spalla di Aragorn, mentre si guardava attorno.
“E’ stato un onore combattere al suo fianco.” rispose sinceramente il ramingo.
Un’ombra percorse il volto di Aragorn… si voltò, cercando Gimli, non lo vide. Girò su sé stesso un paio di volte. Il sorriso lo abbandonò.
“Gimli? Dov’è?” chiese disperato, guardando tra i corpi degli orchi.
Anche il sorriso sul volto di Boromir scomparve; mentre, smarrito, si guardava attorno.
Legolas scattò, udendo quelle parole, ed incrociò gli occhi azzurri di Aragorn.
Boromir, allontanandosi dagli amici, iniziò a spostare i corpi dei nemici, cercando la crespa chioma rossa del nano. Trattenne il fiato e distolse lo sguardo, non riuscì a parlare… le frasi gli si fermarono in gola: aveva trovato Gimli.
Era stato colpito al busto con una violenza tale da distruggere l’armatura che portava. Un solo colpo, mortale. Dalla clavicola fino al petto.
Aragorn, raggiunto Boromir, si piegò sul nano, gli occhi colmi di lacrime.
Nella sua mente ripercorse gli eventi dello scontro: avrebbe potuto fare qualcosa per salvarlo? Distolse lo sguardo, si sentiva responsabile della sua fine.
Boromir, in piedi al suo fianco, posò una mano sulla spalla del ramingo: gli era vicino, comprendeva il suo dolore.
“Non meritava questa sorte.” sussurrò Legolas, raggiungendoli.
Un braccio stretto con forza attorno alla fine vita di Alhena, si era ripresa e un rivolo di sangue le sporcava il volto, partendo dalla testa scivolava fino al suo occhio sinistro.
“C-come…” tentò di chiedere l’elfa, spostando lo sguardo da Aragorn a Boromir… ma non finì la frase. La forza le mancava, posò la testa sulla spalla dell’elfo.
“Non abbiamo visto nulla...” rispose il ramingo, ancora piegato sul nano. “Come stai?” aggiunse, guardando l’elfa.
“M-meglio.” la voce debole, sembrava un soffio.
“Sanguini, mia signora.” disse Boromir, raggiungendola e controllandole il capo.
Le parole di Boromir si persero nella mente della bionda che, smarrita, guardava il corpo privo di vita di Gimli.
Ecco cosa rimaneva di un guerriero quando moriva… solo un corpo… vuoto, inutile…
Alhena chiuse gli occhi; era stato un valoroso combattente e Legolas aveva ragione, non meritava quella sorte. Riaprì gli occhi lentamente, osservando Aragorn. L’uomo portò una mano sulla fronte, segnando che il ricordo di Gimli sarebbe stato per sempre con lui… spostandola poi sulle labbra, per indicare che avrebbe raccontato la sua storia… ed, infine, all’altezza del suo cuore, perché erano amici e i sentimenti che li univano sarebbero stati eterni.
Alhena distolse lo sguardo da quella scena: era troppo doloroso per lei.




***
Spero di non aver fatto storcere il naso a nessuno per questo capitolo.
Non me la sono sentita di perdere un personaggio come Boromir... non adesso, in un modo così prevedibile. La mia ff è dedicata a lui e ad Estryd... al loro amore...
Alla prossima e grazie per le bellissime recensioni!
Janine

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 11 - L'AUDACIA DEL PRINCIPE ***




Alla fine Frodo aveva deciso: sarebbe partito per Mordor, accompagnato solo da Estryd e dal sempre fedele Sam. Il Portatore non aveva previsto l’aggiunta di un altro compagno alla sua missione, men che meno di due; però, come presto si accorse, avere accanto due amici era rincuorante. Soprattutto sapere di poter contare su Sam, dava a Frodo fiducia nella riuscita della sua missione. Il giardiniere rappresentava un pezzetto di Contea, di casa.
Raggiunta la riva opposta del lago, lasciarono l’imbarcazione in balia delle correnti del fiume che la fecero precipitare dalle cascate di Rauros. Volevano discrezione e non lasciar traccia del loro passaggio era indispensabile.
In testa al gruppo, Estryd, camminava seguendo la via più semplice da percorrere per i due Hobbit. La giovane era emozionata e allo stesso tempo spaventata per la decisione presa; ma sapeva d’aver fatto la cosa giusta.
Risalirono lentamente la collina, ad ogni loro passo, gli aghi dei pini e le foglie secche cadute a terra, scricchiolavano. Quel rumore rimbombava nella mente di Estryd senza però distrarla dai suoi pensieri. In mano stringeva il pegno d’amore di Boromir; ancora non riusciva a credere che avesse proseguito da sola. Una domanda la ossessionava: come avrebbe reagito scoprendo alla sua decisione? Non tentò di dar risposta all’interrogativo, per timore che la sua immaginazione trovasse solo ipotesi distruttive. Rilasciando l’aria che aveva nei polmoni, chiuse per un istante gli occhi e volse, per l’ennesima volta, lo sguardo verso la riva opposta del lago… Boromir sarebbe stato nei suoi pensieri, sempre.
Si voltò e guardò i due mezz’uomini, sorridendo loro.
Più si avvicinavano alla vetta, più il sentiero si faceva arduo. L'erba verde fu sostituita da fredda roccia, gli alberi scomparvero lasciando posto a qualche sporadico, e secco, arbusto. In quella terra non cresceva nulla, il terreno stesso era malato e impediva alle piante di mettere radice. Quel paesaggio preannunciava solo quanto avrebbero trovato sul loro cammino. C'era solo una parola per descrivere la via per Mordor: morta. Nulla era sopravvissuto al dominio di Sauron. Nulla.
Estryd aveva studiato a fondo la geografia della Terra di Mezzo e sapeva cosa aspettarsi: putride paludi, montagne fatte da roccia, distese di terra bruciata… nulla nasceva lungo quella via.
“Grazie per avermi permesso di seguirti.” disse Estryd, mentre porgeva la mano a Frodo per aiutarlo a risalire un pezzo particolarmente difficile.
Senza alcuno sforzo, sollevò il Portatore da terra, tenendolo saldamente per mano. Quando lo Hobbit le fu accanto, ricambiò il sorriso dell’elfa.
“Sono felice di non essere solo.” rispose, onesto. Poi, quando anche Sam fu al loro fianco, continuò: “Raggiungeremo Mordor insieme. Non avrei voluto che accadesse diversamente…”
“Non ti avrei mai permesso di affrontare tutto questo da solo, padron Frodo.” rispose Sam, annuendo e abbozzando un timido sorriso.
“E’ meglio muoverci.” s’intromise Estryd, guardando l’orizzonte. Ciò che vide le provocò dei brividi di paura che, lentamente, le risalirono la schiena.
I confini di Mordor erano visibili, la via che avrebbero percorso, una volta superati gli Emyn Muil e le Paludi Morte, li avrebbe condotti a destinazione in tempi brevi. Ripercorse mentalmente la via: avrebbero raggiunto i Cancelli Neri e da lì sarebbero entrati nelle terre di nemiche, fino ad arrivare al Monte Fato. “Più facile dirsi che farsi”, pensò Estryd. Ancora non sapeva come avrebbero fatto a superare la stretta sorveglianza degli orchi di Sauron.
Il percorso intrapreso non sarebbe stato facile.
“Tra poco sarà notte.” constatò l’elfa, distogliendo lo sguardo dall’orizzonte. “Suggerisco di accamparci qui. Non accenderemo alcun fuoco. Non voglio segnalare a occhi estranei la nostra presenza. Siamo troppo esposti.”
“Farà freddo!” esclamò Sam. “Padron Frodo congelerà!”
“Come preferisci… accendiamo un bel fuoco e segnaliamo a tutti gli orchi di Mordor la nostra presenza…” l’elfa fece una pausa, posando a terra lo zaino e allargando le labbra in un sorriso ilare. “Certo, moriremo di una morte orribile, ma almeno staremo al caldo!”
Sam sbruffò, sedendosi per terra e ignorando le parole di Estryd.
“Ha ragione lei, Sam.” s’intromise Frodo, serio.
“Non preoccuparti, Sam. Ho delle coperte in più. Non sentiremo freddo.” concluse secca l’elfa, prendendo una pesante coperta dallo zaino e gettandola a Sam.
Dopo aver consumato un veloce pasto, i due Hobbit si stesero a terra per riposare. Estryd rimase sveglia, di guardia. Non aveva udito alcun rumore sospetto da quando si erano separati dagli altri, ma voleva essere tranquilla. Osservava l’oscurità crescere attorno a sé e, nel frattempo, i suoi pensieri tornarono agli altri membri della Compagnia: a sua sorella, a Boromir…
I suoi occhi si riempirono di lacrime al pensiero dell’uomo. Si erano separati velocemente, con un bacio veloce. Si meritavano di meglio…
Fece roteare tra le dita l’anello che Boromir le aveva donato poche ore prima. Era un gioiello semplice; creato dall’oro giallo e, sulla parte superiore, era stato ricamato con madre perla il simbolo di Gondor, l’Albero Bianco. Un dono per restarle accanto, le aveva sussurrato. Con il palmo della mano si asciugò le lacrime, detestava piangere e sentirsi così debole.
“E’ un bel gioiello.” disse Frodo, raggiungendo l’elfa e sedendosi al suo fianco.
“Dovresti dormire.” rispose lei, chiudendo la mano e celando alla vista dello Hobbit il prezioso anello.
“Non riesco a prendere sonno.” fece una pausa. “Quello inciso è il simbolo di Gondor? L’Albero Bianco?”
“Sì.” rispose con semplicità lei.
“E’ un dono di Boromir…?” chiese Frodo guardando Estryd.
“Mi dispiace per quanto accaduto... non mi ero accorta di nulla. Avrei cercato di fermarlo… evitarti almeno questa sofferenza…”
“Non potevi conoscere le sue intenzioni. Nemmeno io ne ero certo.”
Estryd respirò a fondo: “Quando sei andato, si è pentito subito delle sue azioni. Non era in sé. L’Anello corrompe anche gli animi più saldi.”
“Boromir è un grande uomo. Un vero Comandante di Gondor.” disse Frodo. “E non preoccuparti, lo rivedrai. Ne sono certo.” concluse lo Hobbit, posando la mano su quella dell’elfa nel tentativo di calmare le sue angosce.

Dopo che Aragorn, con l’aiuto di Boromir, diede una degna sepoltura a Gimli, raggiunsero il fiume. Sulla riva, all’ombra di alcuni alberi, Legolas stava medicando Alhena con un impasto verde. I due elfi guardarono gli uomini quando li sentirono arrivare, ma non parlarono.
Aragorn si avvicinò e, chinandosi oltre la spalla di Legolas, controllò il taglio sulla nuca di Alhena. Era netto, ma l’elfo aveva fatto un buon lavoro ripulendo la ferita.
“Con il tempo si rimarginerà completamente.” osservò il ramingo, sfiorando la fronte della ragazza e studiando i margini della lesione. “Non dovrebbe rimanere alcuna cicatrice.”
Alhena sbuffò, infastidita dalla preoccupazione dell’uomo.
“Manca una barca.” disse, accennando alle due rimaste sulla riva del lago. “Frodo, Sam ed Estryd hanno proseguito il viaggio.” concluse l’elfa. “Mancano anche i loro zaini e parte delle provviste.”
“Estryd mi ha detto che scendeva qui... voleva assicurarsi che Frodo stesse bene.” s’intromise Boromir, ricordando le parole dell’amata. Poi,senza perdere tempo, si precipitò verso una delle imbarcazioni rimaste e, spingendola verso l’acqua, esclamò, guardando i compagni: “Presto! Dobbiamo seguirli!”
Ma nessuno si mosse. Boromir guardò i tre, non riusciva a capire cosa aspettassero… dovevano proseguire… Estryd… la sua Estryd era sola… doveva proteggerla…
Legolas voltò il capo alla sua destra e incrociò lo sguardo di Aragorn, contemporaneamente annuirono. Il Comandante di Gondor capì che avevano un piano diverso dal suo e iniziava a comprendere le loro intenzioni.
“Non li seguiremo?” chiese incredulo, allontanandosi dall’imbarcazione e affrontando Aragorn.
“Il destino di Frodo non è più nelle nostre mani.” rispose il ramingo con tono amaro.
Dando le spalle a tutti, si avvicinò a delle rocce e, prendendo il suo zaino, iniziò a rovistare.
Estraeva ogni oggetto e, studiandolo attentamente, ne valutava l’utilità. La maggior parte delle cose fu gettata a terra.
“Alhena… è tua sorella!” esclamò Boromir, raggiungendo la bionda e scansando malamente Legolas.
L’elfa era seduta a terra e il Comandante la superava in altezza. Sostenne lo sguardo grigio dell’uomo, ma non si mosse e non disse nulla. Amava anche lei Estryd, ma non avrebbe attraversato quel fiume. Avrebbe invece seguito Aragorn perché comprendeva l’urgenza della sua missione.
Legolas, chinatosi accanto a lei, disse con tono calmo, nonostante gli atteggiamenti di Boromir: “Non possiamo. Quando hanno deciso di attraversare il lago, sapevano che sarebbero stati soli.”
“Siete sicuri che sapessero di restar soli? E cosa intendete fare?” urlò Boromir irato, superando i due elfi e raggiungendo Aragorn. “Con gli Hobbit c’è Estryd! Non possono affrontare il viaggio senza di noi!”
“Comprendo le tue preoccupazioni, Boromir. Ma abbiamo giurato di essere fedeli. L’uno all’altro. Non ho intenzione di abbandonare Merry e Pipino al tormento e alla morte. Tale sarà la loro sorte se non andremo in loro soccorso.”
Boromir scosse il capo, volgendo lo sguardo verso l’altra sponda del lago. Avrebbe attraversato anche a nuoto la distesa d’acqua.
“Non angosciarti per lei. Mia sorella sa badare a sé stessa. È forte, più di quanto tu creda. Vi rivedrete, vi ritroverete.” intervenne Alhena. “Ma puoi raggiungerli, se credi. Il destino di Estryd però è questo. Non aveva scelta se non quella di seguire Frodo… puoi comprendere le sue decisioni… tu stesso hai lottato nel tentativo di proteggere Merry e Pipino dagli orchi… dovremo salvarli o almeno tentare...” l’elfa fece una pausa, chiuse gli occhi. Un capogiro le impedì di terminare la frase.
“Che cosa proponete di fare?” chiese Boromir, guardando Aragorn.
“Gli Uruk sono diretti a Isengard, consegneranno gli Hobbit a Saruman. Pensa siano loro ad avere l’Anello.” Iniziò, sistemando un pugnale nel fodero. “Lasceremo qui ciò che non occorre e che ci rallenterebbe. Dobbiamo viaggiare leggeri per poterli raggiungere.”
Poi, affrontando il Comandante, aggiunse con convinzione: “Sarei onorato di averti al mio fianco in questo viaggio.”
Boromir raggiunse il ramingo; da tempo sapeva chi egli fosse ma ora, per la prima volta, aveva visto in Aragorn l’orgoglio dell’antica stirpe dei re. Posò una mano sulla sua spalla e annuì: “Sarò al tuo fianco, amico mio.”
“Meraviglioso, mi stavo giusto annoiando. Andiamo a caccia d’orchi!” esclamò Alhena divertita, sorridendo.
Legolas avvicinandosi all’elfa, accostò il suo volto all’orecchio di Alhena: “Siete dannatamente simili!”


Da quando aveva lasciato Gran Burrone, le situazioni difficili erano state all’ordine del giorno per Alhena. Fuori dalle mura paterne, la giovane elfa si era scontrata con la cruda realtà del mondo e le sue, non indifferenti, difficoltà. Alhena era da sempre stata abituata agli agi della sua posizione privilegiata. Una volta bandita da Gran Burrone, aveva superato le Montagne Nebbiose per raggiungere Bosco Atro. Sperava di trovare un rifugio in quella terra, conosceva da anni Legolas, il figlio del volubile Re, ed erano legati.
Cavalcava da alcuni giorni ed era esausta. Quella via era la stessa che aveva percorso pochi mesi prima con la madre e le sorelle… la testa le girò, si sentì debole a quel pensiero. Era cosa vicina ai confini della terra natia materna… mai, però avrebbe varcato i confini di Lothlorien. Non avrebbe sopportato un altro rifiutato… dopotutto, Celebrìan era la figlia dei sovrani di Lòrien, la loro unica bambina.
Da quando le parole aspre di Elrond l’avevano costretta ad allontanarsi da Gran Burrone, non era passato un solo giorno o una singola notte senza continuare a rivivere le tristi vicende che l’avevano portata in quella situazione, in quel luogo. Chiuse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime: era colpa sua se la madre aveva perso il desiderio di vivere e, per ritrovare un po’ di pace, aveva abbandonato la Terra di Mezzo. Lasciando soli i cinque figli, il marito e i propri genitori.
Giunta ai confini di Bosco Atro, Alhena fermò il cavallo e smontò. Era più cupo di quello che ricordava: la foresta era cresciuta incontrollata, diventando quasi opprimente. Si voltò verso il suo destriero e carezzò il suo collo, con amore. Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò: “Vai… sei libero!”
Ma non si allontanò, avvicinò il muso al volto della ragazza e nitrì. Alhena sorrise per quel gesto d’affetto. Tenendo le redini, si addentrò nella foresta di Bosco Atro.
Non un raggio di luce filtrava tra le folte fronde degli alberi e, alzando lo sguardo, vedeva innumerevoli ragnatele che collegavano un albero all’altro… mentre avanzava, si guardava attorno guardinga. Grazie al suo udito fine, sentiva lo zampettare di oscure creature tutt’attorno a lei. Si muovevano veloci ed erano molte. Affrettò il passo.
Raggiunto il ponte che conduceva ai grandi cancelli della terra di Re Thranduil, Alhena si sentì sollevata. Con eleganza, smontò da cavallo e, tenendo le redini in mano, attraversò il ponte con passo lento ma deciso.
Mentre si avvicinava, vide le guardie scambiarsi uno sguardo d’intesa. Poi, una di loro, aprendo la porta, svanì.
“Le ordiniamo di fermarsi, Principessa.” la intimò un elfo dai lunghi capelli scuri e lucenti. A quelle parole i quattro guardiani del cancello sfoderarono le armi.
Subito Alhena s’immobilizzò e guardò gli elfi che aveva davanti, scrutando i loro occhi e cercando di restar calma. Non voleva far trapelare le sue paure.
“Vorrei solo parlare con il vostro Re…” disse piano, il tono della sua voce era stanco.
I quattro non risposero, rimasero fermi, frapponendosi tra lei e il cancello di Bosco Atro.
Ignorando i silenzi, la giovane elfa distolse lo sguardo. Il corso d’acqua che scorreva sotto il ponte catturò la sua attenzione, iniziò a studiarne i movimenti, incantata.
“Non riuscivo a credere che fossi davvero tu…!”
Gli occhi verdi del giovane principe di Bosco Atro brillarono nel vedere l’amica. Alhena sorrise, lasciando le redini e correndo verso Legolas. Raggiunto, si fermò, indecisa su cosa fare, su come comportarsi. Allungò le braccia verso l’elfo, afferrandogli le mani e stringendole tra le sue. Il biondo ricambiò il sorriso e, liberandosi dalla presa di Alhena, aprì le braccia, stringendo con forza la principessa.
“Che bello averti qui…” le sussurrò all’orecchio, senza sciogliere l’abbraccio.
Ed era vero. Era bello rivedere Alhena dopo tanti anni…
“Sei mancato anche a me!” rispose lei, allontanandosi e guardandolo negli occhi. “Ho bisogno di aiuto…” aggiunse poi con tono grave.
“Vieni… non indugiamo sull’ingresso…” disse Legolas, afferrandola per mano per guidarla oltre i confini di casa sua.
“Legolas, no!”
Il principe si girò e guardò l’amica. Dallo sguardo basso dell’elfa, intuì che un peso gravava sul suo cuore. Tornò sui suoi passi e, sfiorandole il volto, la incoraggiò a parlare: “Parlami…”
“Non credo d’essere la benvenuta…” rispose, studiando bene le parole. “Mi occorre un favore… non te lo chiederei… ma non so a chi altri rivolgermi…”
“Cosa posso fare per aiutarti?”
“Parla a tuo padre. Riferiscigli che sono qui e che chiedo ospitalità.”
“Ospitalità? Non hai bisogno d’inviti… le nostre famiglie sono legate da anni, secoli addirittura, d’amicizia…”
Alhena lo interruppe: “Per favore, Legolas…”
Il giovane principe annuì, non comprendeva la bizzarra richiesta dell’amica, ma, data l’ansia che lesse nei suoi occhi, si voltò per raggiungere il padre.
**
Thranduil era nella biblioteca e, in piedi davanti a un grande tavolo di quercia, con aria annoiata sfogliava un antico volume. In mano stringeva un calice contenente dell’ottimo vino elfico. Il fuoco che scoppiettava nel grande camino, illuminava la sala, tingendo i lineamenti del Re di rosso. Stava calando la sera e, come ogni notte, da quando sua moglie era morta, controllava il suo dolore aiutandosi col vino. Viveva in un perenne stato di apatia; non provava nulla, non trovava entusiasmo per niente.
Sbuffò, richiudendo il libro. Il calice che stringeva in mano ormai era stato svuotato dal suo contenuto. Lo posò sul tavolo, osservandolo con rammarico; solo l’alcool gli faceva sentire qualcosa. Più tardi sarebbe sprofondato nel sonno, cullato e allo stesso tempo ossessionato dai ricordi. Solo allora, nelle proprie stanze private, avrebbe dato sfogo all’antico dolore che la perdita dell’amata aveva lasciato nel suo animo. Avrebbe pianto, in silenzio, per il vuoto che sentiva crescere nel suo cuore.
Bussarono alla porta e, cacciando via quei pensieri, riempì nuovamente la coppa.
Suo figlio, il suo unico figlio, entrò senza aspettare risposta e, chinando leggermente il capo, disse: “Padre, Alhena di Gran Burrone ha varcato i nostri confini. Si trova ai cancelli, ma non ha voluto entrare senza prima chiedere il tuo benestare.”
Thranduil alzò lo sguardo, incrociando quello del figlio. Pensò alle parole che aveva udito, sapeva cosa voleva la giovane principessa elfica. Le sue fini labbra arroganti si piegarono in un sorriso, poi, con grazia, svuotò il contenuto del calice.
“Ha detto cosa la porta nelle mie terre?”
“Ospitalità. Non ha un bell’aspetto; sarà in viaggio da giorni… è senza scorta.”
Il Re annuì e, superando la scrivania, camminò fino al mobiletto, dove conservava il vino delle annate migliori.
Legolas finse di non notare i gesti del padre. Da tempo lo supplicava inutilmente di trovare cure migliori al proprio dolore…
“Padre che devo dirle?”
Thranduil riempì nuovamente la coppa e bevve un piccolo sorso, assaporandone il dolce sapore sulle labbra e massaggiandosele con la lingua.
“Un’ombra è calata sul signore di Gran Burrone. Lord Elrond ritiene che la triste sorte di sua moglie sia causata dalla figlia.” s’interruppe il tempo necessario per godere d’un altro sorso. Inclinò lievemente il capo e continuò: “E come dargli torto? Nega l’accesso all’elfa. Mai permetterò che quella disgraziata entri nelle mie Terre…”
Incredulo, Legolas raggiunse il padre, affrontandolo: “E’ solo una fanciulla! Che dovrebbe fare? Ciò che è accaduto a Celebrìan non è stata colpa sua! Permettile di…”
“Silenzio!” tuonò il Re, perdendo il controllo.
Il principe indietreggiò, spaventato dal proprio padre.
Thranduil sorrise e, abbassando il tono della voce, piegandosi verso il figlio, aggiunse: “Non osare contestare una mia decisione. Questo è un ordine. Un mio ordine. Sono il tuo Re, a me devi la tua fedeltà.”
Legolas non replicò, sfrontatamente s’inchinò e, voltandosi, si diresse ai cancelli.
Mentre percorreva le ale del palazzo, pensava a che parole avrebbe usato per spiegare la decisione folle del padre. Il peso del messaggio che portava gravava sul suo cuore.
I grandi cancelli si aprirono, mostrando la slanciata figura di Alhena controluce. Gli dava le spalle, carezzando il muso del cavallo che l’aveva condotta fino a Bosco Atro. Sentendo il rumore del portone, l’elfa si voltò. Legolas, nei grandi occhi dell’amica, vi lesse fiducia. Distolse lo sguardo, stava per infrangere le sue speranze.
“Mi dispiace, Alhena. Ma mio padre, il Re, non vuole avere niente a che fare con questa storia.” sussurrò, avvicinandosi a lei. “Mi ha ordinato di negarti l’accesso a Bosco Atro.”
Incredula la giovane guardò il principe.
“Non potrei parlargli? Spiegargli cos’è realmente accaduto…” insisté Alhena.
“Conosco mio padre. Quando prende una decisione, nulla riesce a dissuaderlo. È meglio se vai... qui non sei al sicuro.”
Voltandosi, Legolas si allontanò da Alhena, le porte si chiusero alle sue spalle. L’elfa rimase ferma, a guardare i cancelli sbarrati: l’ennesima porta chiusa.
**
Dopo che Thranduil le aveva negato l’accesso nel suo regno, Alhena si era sentita sola. Non avrebbe trovato riparo altrove. Guidando il cavallo si allontanò dai cancelli di Bosco Atro. Le spalle della giovane elfa erano piegate. Si sentiva sconfitta mentre attraversava nuovamente il lungo ponte. S’inoltrò nella foresta, percorrendo vie non battute e, seguendo il suo istinto, avrebbe superato il bosco fino a raggiungere Pontelagolungo.
Aveva del denaro umano con sé, non era molto, ma avrebbe vissuto come meglio poteva; adattandosi a umili lavori e vivendo in una piccola stanza.
“Alhena!”
Sussultando la ragazza si voltò, incrociando lo sguardo del principe di Bosco Atro.
“Legolas… cosa fai qui?” chiese Alhena ancora ansimando dallo spavento.
“Non potevo lasciarti sola. Non permetterò che una decisione poco saggia di mio padre, segni la tua fine.”
Alhena sorrise ilare: “La mia fine?” s’interruppe un istante. “Legolas credimi, so badare a me stessa.”
“No, invece.” rispose l’elfo, alzando la voce e, avvicinandosi all’elfa, le sfiorò i capelli sporchi di polvere, per poi afferrare una sua mano. “Alhena guardati! Da quanto non mangi un pasto caldo? Da quanto non dormi una notte intera? Sei debilitata… sei solo l’ombra di te stessa…”
Legolas prese fiato, chiudendo gli occhi e cercando di ritrovare la calma perduta. Era preoccupato per la salute di Alhena, non poteva fingere che la cosa non lo riguardasse. ”Non hai armi con te, Alhena… quanto pensi di durare nel mondo senza un aiuto?”
La giovane arrossì, imbarazzata per le parole di Legolas. Sembrava averle letto nell’animo… respirò a fondo e guardando i magnetici occhi verdi del principe, convenne: “Cosa cambia? Non puoi far nulla… Thranduil non mi permetterà di entrare nel suo palazzo… la nostra è una battaglia persa.”
“No, invece. Non potrai stare a palazzo, ma ci sono altri posti sicuri nei confini del mio regno. Locali che non sorveglia e nei quali potrai vivere. Non saranno degni di una principessa, ma godrai della protezione del mio popolo e, nel frattempo, parlerò con mio padre… ritornerà in sé, ne sono certo.”
Senza attendere risposta, Legolas strappò dalle mani della giovane elfa lo zaino che portava con sé e, sorridendole, disse: “Seguimi. Mi prenderò io cura di te.”
Così dicendo, i due s’incamminarono nella foresta diretti verso i confini meridionali di Bosco Atro. Legolas davanti, seguito da Alhena che, con capo chino, percorreva il sentiero senza proferire parola. Il principe avrebbe voluto tempestare l’amica di domande; voleva sapere cos’era successo, la ragione per cui aveva abbandonato casa sua, Gran Burrone. La guardò attentamente e un pensiero si fece spazio nella sua mente: suo padre aveva accennato alla triste vicenda di Celebrìan, Alhena era responsabile di quegli eventi? Non lo riteneva possibile. Sapeva che la Regina di Gran Burrone era stata catturata e torturata per giorni dagli orchi di Sauron, ma come poteva Alhena esserne responsabile? Piegando il capo a destra, osservò l’amica negli occhi: come? Come poteva essere responsabile di quegli eventi? Era solo una fanciulla… una bellissima e innocente principessa elfica.
**
La stanza era buia e le finestre erano state coperte con assi di legno, ormai marcite. La vernice, che copriva le pareti, si era scrostata col tempo e ogni superficie era ricoperta di polvere. Vecchie armi erano posate contro i muri, altre erano ammassate in alcuni angoli. A giudicare dall’aspetto di quel locale, Alhena sospettò che quella camera non fosse usata da diversi anni. L’aria stessa che respirava era viziata e diverse ragnatele erano state tessute dai ragni sulle pareti.
“So che non è niente di eccezionale. Queste erano le vecchie armerie.” spiegò Legolas. “Ma sono dentro i nostri confini, sarai protetta. Mio padre non ti scoprirà, non è sua abitudine spingersi fin qui.”
Alhena entrò per prima nella stanza e si guardò intorno. Aveva ragione Legolas, non era un posto confortevole, ma sarebbe stata al sicuro e tanto le bastava.
“Andrà più che bene.” sorrise la giovane, guardando l’elfo negli occhi. “Grazie, Leg.” concluse la bionda abbracciando l’amico con forza.
Da quel giorno trascorsero mesi, Legolas faceva visita ad Alhena ogni giorno. Le portava cibo e acqua. Inoltre, durante le visite, parlava con lei per ore, l’ascoltava interessato e con lei riuscì a liberarsi di molti pesi che gravavano sul suo cuore. Iniziò a conoscerla e, quello che scopriva, gli piaceva. Iniziò a sentirsi legato all’elfa, più di quello che avrebbe voluto o confessato a sé stesso.
D’altro canto, Alhena era grata al principe di Bosco Atro per il tempo che gli dedicava, ma adorava anche le ore di solitudine. Infatti, l’elfa, si allenava con le vecchie spade abbandonate nell’armeria e con un arco Galadhrim che Legolas le procurò. Insieme avevano perfino costruito dei fantocci di paglia con i quali Alhena si poteva esercitare.
Il principe si era meravigliato della velocità impiegata dall’elfa per apprendere l’arte della spada… e, con l’arco, riusciva a colpire un ragno da un lato all’altro della stanza. Per Alhena, quello, era un modo per sfogare la rabbia che provava per i torti subiti. Lei, da sola, contro quel fantoccio… un giorno era suo padre, l’altro era Thranduil, l’altro ancora era l’orco che aveva rapito la madre…
Le visite di Legolas erano puntuali; ogni sera, alle sette, sgattaiolava fino alle armerie dove trovava Alhena che lo attendeva con ansia. Gli occhi dell’elfa erano colmi di speranza e la stessa domanda sulle labbra: “Ha cambiato idea?”
Tre semplici parole e, ogni volta, la risposta che Alhena riceveva era la medesima: l’elfo scuoteva il capo, dispiaciuto che, per il carattere del padre, lei fosse costretta a nascondersi.
La tristezza però durava solo pochi secondi, la bionda subito sorrideva e, facendolo accomodare al suo fianco, si dividevano un lembas e sorseggiavano dell’ottimo vino rubato dalle cantine del Re. Ma, nonostante le visite dell’amico, Alhena soffriva per la clausura obbligata e, più passava il tempo, più quelle quattro mura le sembravano la sua prigione.
Una notte Alhena si svegliò di soprassalto, sudata, il cuore che le batteva frenetico nel petto… terrorizzata dall’incubo che aveva violato i suoi sogni. Si guardò attorno e, vedendo solo buio, si sentì soffocare: non poteva restare lì, sdraiata sulla paglia. Così, con passo titubante si avvicinò alla porta dell’armeria e, posando le mani sul lucchetto, lo fece scattare. L’aria fresca della notte colpì il suo volto; respirò a fondo, godendosi quel momento. Rimase sulla soglia dell’armeria per ore, osservando da una piccola finestra le stelle che luccicavano nel cielo. Lentamente le tinte da blu divennero infuocate.
Da quella notte, in segreto, la giovane elfa iniziò ad uscire dalla sua prigione. Camminava silenziosa lungo i ponti che collegavano le diverse ale del palazzo, celata dalla vista delle guardie di pattuglia grazie all’oscurità della notte e al lungo mantello nero che portava.
Seguiva lo stesso percorso, senza mai sgarrare la via. Trenta minuti, non uno di più, e ritornava nel suo nascondiglio. E, nonostante il tempo che trascorreva lontana dalle armerie fosse poco, a lei bastava. Grazie a quei minuti, Alhena riusciva a sentirsi in contatto con il mondo… perché fuori dalle armerie, fuori dalle mura del palazzo di Bosco Atro, c’era ancora un mondo! 
Ad ogni passo, il suo cuore batteva all’impazzata, frenetico pulsava nel petto dell’elfa… il rischio d’essere scoperta, le dava la forza di proseguire lungo i corridoi del palazzo, la faceva sentire viva!
Per Alhena, i mesi si trascinavano fin troppo lenti. L’inverno lasciò spazio alle calde temperature della primavera e, a maggio, durante una furtiva passeggiata notturna, per nascondersi da tre guardie, l’elfa si nascose dietro un’alta colonna di marmo. Si schiacciò contro essa, tanto che iniziò a sentir dolore alle spalle. Era talmente spaventata che trattenne il fiato, nella speranza di non essere udita.
I battiti del suo cuore rimbombavano nelle orecchie della giovane, rendendola sorda a qualunque altro rumore. Si abbassò lungo la roccia della colonna, chiudendo gli occhi. Sentì i passi dei tre raggiungerla, fino a superarla. Muovendosi lentamente, Alhena posò le mani sul marmo della colonna e, sporgendosi di poco, osservò le guardie. Si erano allontanati, proseguendo lungo una scala laterale e scendendo verso le prigioni del palazzo. Liberò i suoi polmoni dall’aria a lungo trattenuta, grata per la sua buona sorte.
“Non muoverti.”
Due semplici parole che, pronunciate lentamente, gelarono il sangue nelle vene di Alhena.
Non fece in tempo a voltarsi, la fredda lama di una spada elfica sfiorò il suo collo. La giovane chiuse gli occhi, deglutendo: sapeva che quella sarebbe stata la sua fine… mesi prima, accettando l’invito di Legolas, aveva sfidato la volontà del Re …
“Voltati e mostrami il tuo volto.”
Obbediente, Alhena alzò le mani verso il cielo: “Non sono armata.”
Girò lentamente su sé stessa mentre abbassava il cappuccio, mostrando il volto al glaciale sovrano di Bosco Atro.


Il cammino del Portatore e dei due amici proseguiva da tre giorni e, dopo la separazione dalla Compagnia, Frodo si era accorto che la missione era più complicata di quello che pensasse. La strada era faticosa e i bagagli che portavano, non favorivano il loro passaggio. Ad ogni passo, le pentole che Sam si era portato legate allo zaino, picchiavano tra loro provocando dei rumori davvero fastidiosi.
Estryd continuava a guardarlo irritata, ma non diceva nulla. Lo Hobbit aveva già spiegato le ragioni che lo spingevano a tenere quegli strumenti da cucina: ne era legato, era un pezzo di Contea che portava con sé. Rammentava ad entrambi le loro radici, da dove provenivano. L’elfa riusciva a comprendere i sentimenti del piccolo Hobbit, anche a lei mancava la sua terra… Gran Burrone in quel periodo dell’anno era davvero spettacolare: era primavera ed i fiori sarebbero sbocciati, inondando la vallata con il loro dolce profumo.
Voltandosi verso i compagni di viaggio, Sam sussurrò: “Gandalf non voleva che prendessimo questa via.”
Estryd e Frodo incrociarono lo sguardo del giardiniere.
“Non conoscevo i suoi piani.” disse l’elfa. “Ma, arrivati a questo punto, suppongo che non abbiamo altra scelta se non quella di proseguire per questa strada.”
Rassegnato, Sam si voltò e guardò l’orizzonte. Mordor era ancora troppo distante, vedere quella montagna e la desolazione che la circondava lo faceva cadere nella disperazione.
Un sussulto attirò l’attenzione di Estryd e Sam; Frodo, stringendo la mano attorno all’Anello, si lasciò cadere sulla roccia, ansimando.
L’elfa si accostò al Portatore, chinandosi ai suoi piedi e alzandole il volto con la mano, osservandolo attentamente.
“Sei affaticato. Vuoi darmi i tuoi bagagli?”
“No. Ce la faccio.” rispose Frodo, fingendo una forza che non gli apparteneva.
“Non mentirmi. So quanto possa essere arduo portare l’Anello.”
Lo Hobbit la guardò, corrugando la fronte.
“Mio padre mi ha parlato molto della sua storia… conosco il peso del potere e so quanto possa essere ingannevole la voce dell’Anello.”
“La voce?” ripeté.
“Sì… perché tu l’hai sentita, vero? Ti sussurra seducente nella mente… promettendoti ciò che più il tuo cuore brama…” continuò Estryd.
“Riesco a controllarla.”
“Sei forte, piccolo Hobbit.” disse l’elfa sorridendo e, togliendo dalle spalle del portatore lo zaino, aggiunse: “Ma non ammetto discussioni. Voglio facilitare il tuo viaggio, per quanto mi sarà possibile.”

I quattro compagni, guidati da Aragorn, proseguivano la loro corsa instancabili, seguendo il gruppo di orchi che avevano catturato i due Hobbit. Alhena fu meravigliata dall’abilità del ramingo di trovare e seguire le tracce, lo osservava muoversi abilmente e notare cose che ad altri sarebbero fuggite. Tenere il passo dei tre guerrieri non era semplice per lei, ma faceva del suo meglio per non essere di peso a nessuno di loro.
Il panorama mutava attorno a loro, dal bosco umido avevano raggiunto alte montagne ancora incontaminate dalla presenza dell’uomo. Nessun villaggio, nessun campo arato, solo la terra come i Valar l’avevano creata.
Alhena si era spinta solo in un’occasione così a sud, non conservava memoria di quei luoghi.
“Non a caso cadono le foglie di Lòrien.” disse Aragorn, chinandosi improvvisamente e raccogliendo una spilla, dono dei signori di Lothlorien ai membri della Compagnia.
Legolas e Boromir si fermarono alle sue spalle, guardarono da vicino l’oggetto trovato dal ramingo.
“Potrebbero essere ancora vivi. A meno di un giorno da noi.” sussurrò Aragorn, sfiorando la terra con le dita e voltandosi, guardò i tre compagni.
Si alzò, corrugando la fronte, quando vide l’elfa.
Alhena si era posata ad una roccia con la schiena e, piegata in avanti, teneva la testa tra le mani. Era balorda, ma cercava di tenere duro. Già due volte Legolas aveva insistito per fermarsi e controllare la ferita. Il calore del sole, le aveva ripetuto, non avrebbe giovato alla guarigione del taglio che, inumidito dal sudore, le avrebbe potuto procurato un’infezione.
Anche Boromir e Legolas seguirono lo sguardo di Aragorn; la giovane elfa era pallida e boccheggiava, posata alla parete rocciosa.
“Stai bene?” chiese il ramingo, raggiungendola di corsa.
“Sì.” rispose, cercando di raddrizzarsi. “Proseguiamo…” ansimò. “Dobbiamo ridurre la distanza.” concluse, senza fiato.
Afferrandola per le spalle, Aragorn non ammise scuse, fece sedere Alhena e controllò personalmente il taglio.
“Non guarisce.” decretò, dopo alcuni secondi e, sfiorando la ferita, fece sussultare l’elfa.
“Guarirà.” sussurrò Alhena.
Ignorando le parole dell’elfa, Aragorn guardò i due compagni: “Dovrei avere dell’erba Athelas, accendete un piccolo fuoco e fatela bollire con dell’acqua. Dobbiamo purificare la ferita.”
Entrambi annuirono e, mentre Boromir corse a raccogliere degli arbusti per accendere il fuoco, Legolas prese la sacca di Aragorn e, obbediente, iniziò a schiacciare l’erba.
Alhena, costretta a terra, guardava Aragorn negli occhi.
“Avreste dovuto proseguire. Anche senza di me.”
“Non me lo sarei perdonato.” rispose il ramingo.
“Vi rallento. Ogni secondo che indugiate qui, gli Hobbit sono sempre più vicini a Isengard… lasciatemi qui… vi raggiungerò appena possibile.”
“Abbiamo tempo. Viaggeremo anche di notte, se necessario. Non ho intenzione di abbandonarti. Arwen mi ha raccontato molte cose sul vostro passato… Alhena avete trovato degli amici in noi e, tra amici, ci si aiuta.”
L’elfa non rispose, solo un altro elfo aveva osato tenerle testa così a lungo. Avrebbe voluto ribattere, ma le mancavano le forze.
“Ecco…” disse Legolas, porgendo ad Aragorn l’intruglio.
“Farà male.” l’avvertì il ramingo, guardando l’elfa negli occhi.
Alhena sbuffò: “Avanti, fallo! Non perdiamo tempo.”




***
Ed ecco qui un nuovo capitolo... ho particolarmente adorato scrivere il flashback!
Colgo l'occasione per ringraziare tutti voi che seguite, preferite e recensite la mia storia! Un bacio grande!
Alla prossima!

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 12 - IL PRIGIONIERO DI BOSCO ATRO ***



Voglio chiedere scusa per questo ritardo... E' un periodo stra incasinato... Ma non voglio farvi attendere oltre, quindi: buona lettura!!!
kisses
Jan
***


Con forza, Alhena, serrò le labbra per non urlare, il ramingo aveva ragione: il dolore era forte. All’inizio era solo un pizzico caldo che, poi, divenne un bruciore. S’impadronì del suo corpo, rendendola preda di deboli spasmi. Si fece forza, in bocca sentì un sapore amaro, di rame. Con i denti, si era morsicata le labbra, ferendosi.
“Fatto.” concluse Aragorn, rimettendosi in piedi e porgendo la mano alla bionda per aiutarla a rialzarsi.
L’elfa non ringraziò il ramingo per la gentilezza dimostrata e, rifiutando quel gesto di cortesia, si alzò in piedi, guardando i compagni.
“Abbiamo perso fin troppo tempo. Muoviamoci. Loro non si fermeranno e non avremmo dovuto farlo nemmeno noi.”
“Alhena devi riposare!” esclamò con prepotenza Legolas, afferrando l’amica per un braccio e affrontandola.
“No.” rispose con fermezza, sostenendo il suo sguardo del principe.
Si guardarono negli occhi per diversi minuti, Legolas fremette: era davvero bellissima… ma il suo sguardo… fermo, impassibile; non svelava emozioni.
Lasciò la presa dal braccio della giovane.
“Legolas sei mio amico, ma non sopporto essere comandata.” sussurrò lei, scandendo le parole con lentezza, chinandosi sul principe di Bosco Atro. “Io sono padrona di me stessa. Ti voglio bene e sono poche le persone che porto nel mio cuore…” s’interruppe alcuni istanti, valutando le parole che si stavano arrampicando lungo la sua gola. Chiuse gli occhi; non poteva parlare. Sorridendo, come se nulla fosse accaduto, concluse: “Andiamo!”
Continuando la corsa, superarono le rocce grazie alle quali si erano riparati dal sole. Seguirono un ripido sentiero, saltando da una roccia all’altra, e scesero fino a raggiungere l’altopiano. L’erba scricchiolava sotto i loro piedi, era secca. Il sole l’aveva bruciata, ingiallendola.
Proseguirono per diverse ore, senza fermarsi. Alhena si era spinta solo una volta fin quelle terre e, ormai, erano passati anni.
“Non mangiate nulla?” chiese Boromir, avvicinandosi all’elfa e porgendole una galletta elfica.
La giovane sorrise e afferrò il cibo offertole: “Grazie.”
Alhena osservò l’uomo al suo fianco; proseguiva il viaggio con loro, nonostante fosse chiaro a tutti che avrebbe preferito tornare sui propri passi e raggiungere Estryd.
“Ti manca?”
Boromir fu colto alla sprovvista da quella domanda, guardò l’elfa e aprì la bocca, pronto a rispondere. Ma tacque, non trovò una risposta. Da giorni, mille pensieri affollavano la mente del Comandante di Gondor: perché lo aveva lasciato? Perché abbandonarlo? Si vergognava di lui? Delle sue azioni?
Con il suo comportamento, la sua debolezza, aveva deluso Estryd e lo sapeva… aveva visto lo sguardo dell’elfa; era cambiato. Prima di salutarla, la guardò negli occhi e vi lesse pietà. Estryd nutriva pena nei suoi confronti, per la sua mancanza di forza. Sperava solo di avere la possibilità di riscattarsi, di essere ancora degno di stare al suo fianco, degno d’amarla.
“E’ così chiaro…” sospirò. “Avete avuto così pochi attimi da condividere… vi siete conosciuti quanto tempo fa? Da due, tre settimane, al massimo?”
Incrociò lo sguardo grigio del Comandante di Gondor, aveva colto nel segno.
“Sono certa che anche per Estryd è difficile questa situazione. Lei è innamorata di te e doverti lasciare è stata una decisione difficile… molto difficile. Ma l’ha presa per una ragione: sapeva che non aveva altra scelta. Questa era l’unica cosa giusta che poteva fare…”
“Parli come se quello di abbandonarmi fosse il suo destino.”
“Magari è proprio questo il punto…” sussurrò Alhena. “Estryd non aveva altra scelta se non quella di seguire Frodo. Era la cosa giusta da fare… era nel suo destino…”
“Cosa stai cercando di dirmi?” l’affrontò Boromir, fermando la sua corsa e afferrandola per le spalle. Con attenzione guardò Alhena negli occhi.
“Estryd ha seguito la sua strada abbandonandoti… ma questo non significa che non ti ama. Ha deciso di proseguire per dare a noi, a tutti noi, una possibilità. Frodo avrà una possibilità in più di portare a termine la sua missione con mia sorella al suo fianco. Tu per primo sai fin troppo bene quanto può essere corruttibile… l’Anello ha una sua volontà… alla fine di questa storia, Frodo sarà fortunato a non ritrovarsi a dover affrontare Lui da solo. Vi rivedrete. Ne sono certa…”
“Rohan.” urlò Aragorn, fermandosi per ammirare il paesaggio. “Dimora dei Signori dei Cavalli. Qualcosa di strano è all’opera qui. Un demone dà rapidità a queste creature e ci contrappone alla sua volontà.”
L’altopiano era spoglio, l’erba non cresceva più ormai da anni; per diverse miglia c’era solo roccia e rari arbusti.
Boromir si fermò tra Legolas ed Aragorn; osservò, senza proferire parola, la terra di Rohan. Il suo volto si contrasse in una smorfia, non nutriva simpatia per gli antichi alleati umani di Gondor. La fiducia in questo popolo era venuta meno da quando gli orchi di Sauron erano ritornati e attaccavano le città di Gondor; Rohan non era stata di alcun aiuto.
I Rohirrim si erano rifugiati nell’entroterra del Mark, badando unicamente ai propri confini e ignorando le minacce che stavano distruggendo, non solo Minas Tirith, ma anche Osgiliath e altre città.
“Non mi fido dei Rohirrim.” sussurrò Boromir ai compagni.
Aragorn lo guardò senza parlare, comprendeva l’astio dell’amico verso il popolo di Rohan. Nonostante avesse rinnegato la sua dinastia, il ramingo era informato sulle vicende che avevano condotto le due grandi potenze ad allontanarsi, tradendo i vecchi trattati d’amicizia.
“Hanno anche loro dei nemici da affrontare. Da Isengard devono contenere le armate di Saruman.” s’intromise Alhena. “Ogni popolo della Terra di Mezzo ha un suo nemico da combattere. Gli elfi di Bosco Atro e gli uomini di Pontelagolungo cercano di fermare le truppe di Mordor da nord. Rohan ha Isengard. Gondor affronta da ovest Mordor.”
“La forza di Mordor è superiore a quella di Isengard.” la contraddisse Boromir.
“Isengard è comandata da uno stregone. Saruman non è da sottovalutare.” concluse l’elfa.
“Ha assoldato uomini di Rohan, ribelli degli altipiani del nord. Non possiede solo orchi al suo comando…” disse Aragorn, notando solo in quel momento che Legolas aveva proceduto il cammino.
“Legolas!” lo chiamò urlando. “Cosa vedono i tuoi occhi di elfo?”
“La strada volge a est. Stanno portando gli Hobbit a Isengard!” rispose osservando i movimenti del gruppo di orchi.
Alhena guardò Aragorn: “Li conducono da Saruman…” s’interruppe, inorridita al solo pensiero. Afferrò il ramingo per un braccio e aggiunse, senza distogliere lo sguardo: “Pensa che loro abbiano l’Anello.”

Dopo un’altra giornata di cammino, Frodo, Sam ed Estryd, si fermarono accanto a delle rocce che li avrebbero riparati durante la notte dal gelido vento che proveniva da Mordor. Frodo si faceva sempre più debole e, veder la meta così vicina, faceva pesare ancora più l’Anello sul suo spirito. Estryd cercava di aiutarlo come meglio poteva e, anche Sam, era di grande conforto. Incoraggiava Frodo a proseguire il cammino quando pareva perdere la speranza; gli rammentava casa loro e che, presto, sarebbero tornati. Quei racconti di vita quotidiana parevano giovare all’anima del Portatore. I ricordi, però, nella mente di Frodo si facevano sempre più confusi, l’Anello iniziava a trasformarsi nella sua ossessione… la sua maledizione…
“Credi che abbia la forza di arrivare fino al Monte Fato?” chiese l’elfa a Sam, quando Frodo si addormentò accucciato sotto le coperte.
“Sì e poi non sarà solo. Non dovrà affrontare questo viaggio senza amici al suo fianco. Io sarò con lui, fino alla fine.”
“Ed io sarò con voi.” convenne Estryd.
“Sì. E tu con noi.” aggiunse Sam, sorridendo all’elfa.
“Frodo ti ha raccontato cosa ha tentato di fare Boromir, vero?”
Lo Hobbit guardò la bruna principessa e, imbarazzato, annuì.
“Da me non dovrete temere nulla.”
“Lo so.” la interruppe Sam. “Mi ha raccontato cosa è accaduto, hai impedito a Boromir di prendere l’Anello dal collo di padron Frodo.”
Pensare all’amato fece male all’elfa, chiuse gli occhi.
“Riposa. Farò la guardia per tre ore, poi ti chiamo e ci daremo il cambio.” concluse Estryd, stringendosi sotto il mantello.
Sam si alzò dalla pietra e, prima di raggiungere Frodo per concedersi qualche ora di sonno, guardò l’elfa negli occhi.
“Mi fido di te e del tuo giudizio. Sono più tranquillo sapendo che conosci la strada per Mordor. Da soli, ci saremmo di certo persi.” Fece una pausa, poi aggiunse: “Non mi fido facilmente delle persone. Frodo ed io ci conosciamo da anni, da quando eravamo bambini. Lo considero un fratello e mi preoccupo per il suo benessere.”
Estryd posò una mano sul braccio di Sam e gli sorrise. Capiva i sentimenti che nutriva per l’amico: “Riposa. Quello di domani si prospetta un lungo viaggio. Dobbiamo essere entrambi riposati.” Abbozzò un timido sorriso. “Per Frodo.”
Rimasta sola, portò, come ogni volta, le mani al collo e strinse l’anello di Boromir. Il ricordo dei giorni trascorsi insieme era il suo porto sicuro. Avrebbe trovato in quei ricordi il suo coraggio. Coraggio per sé stessa e coraggio per gli Hobbit.
Dei sassolini franarono poco distanti da lei, l’elfa scattò in piedi, impugnando la spada. Il primo pensiero che attraversò la sua mente, era anche il peggiore delle possibilità che potevano verificarsi: orchi. Ma non udì nessun altro rumore che le facesse presumere questa eventualità.
Alzò lo sguardo verso il cielo, il vento soffiava forte e, forse, aveva procurato la caduta di una roccia. Rinfoderò l’arma, ma non si sentiva tranquilla; il suo istinto le sussurrava che non era sola. Si accomodò per terra ma, per prudenza, strinse il pugnale che teneva nascosto sotto il manto. Le orecchie tese a carpire ogni movimento, ogni rumore vicino o remoto.
Chiuse gli occhi e si concentrò… sentì il vento soffiare, sollevava la polvere che strisciava sul sentiero roccioso che stavano percorrendo… le ali di alcuni uccelli sopra le loro teste… lo zampettare di qualche lucertola. Nulla di preoccupante, si disse cercando di calmarsi.
Udì dei respiri: il suo, leggermente accelerato dall’ansia, quello di Frodo, lento e regolare, quello di Sam, che rompeva il silenzio con un basso russare, e… un altro.
Scattò in piedi, ma non si voltò. Si concentrò su quel respiro; era sempre più vicino, proveniva da sopra l’ammasso di rocce che usavano come riparo dal vento. Era irregolare, ma costante.
Chiunque fosse camminava male, a quattro zampe, ma non era un animale.
“Tesssoro…”.
Una parola come sospiro roco arrivò alle orecchie di Estryd: Gollum li aveva seguiti.


“Scrivi a Elrond di Gran Burrone. Riferisci al nostro alleato che la creatura Gollum è stata catturata e consegnata dal ramingo Aragorn alle mie guardie. Scrivi pure che è stata condotta nelle segrete del mio palazzo.” ordinò Thranduil, rivolto a un servitore.
“Non intendi interrogarlo sui suoi spostamenti, padre?” chiese Legolas avvicinandosi al Trono, quando il fedele servo uscì dalla sala.
“Più tardi.” rispose con tono annoiato il sovrano. “Che non gli sia dato cibo ne acqua.”
“E’ crudele…”
Thranduil fulminò con lo sguardo Alhena. Da quando aveva scoperto la giovane girovagare nel suo palazzo, aveva perdonato il figlio per le menzogne e accolto la principessa di Gran Burrone.
Erano passati una ventina d’anni da quella sera e, fin da subito, Thranduil aveva conosciuto l’impertinenza della giovane elfa.
“Crudele? Mi parli di crudeltà, principessa rinnegata?” fece una pausa, per valutare l’effetto delle sue parole. “Ti sto ospitando nel mio palazzo da vent’anni e sei mesi. Nove mesi, se consideriamo il tempo che hai passato nelle mie armerie. Sai che non faccio mancare mai nulla ai miei ospiti.”
“Ospiti? Ho udito storie interessanti su come trattate gli ospiti, signore di Bosco Atro…” rispose l’elfa, chinando il capo.
Thranduil non proferì parola. La giovane elfa non comprese se il Re avesse captato l’ironia delle sue parole… Alhena detestava i suoi modi, ma non aveva alternativa se non quella di compiacere le stranezze del sovrano.
“Legolas, controlla che i miei ordini vengano seguiti alla lettera.” concluse, sottolineando le ultime due parole.
Il principe s’inchinò e, voltandosi, percorse i corridoi diretto nei sotterranei.
Alhena guardò l’amico percorrere il ponte che separava il possente Trono del Re dal resto del palazzo.
Thranduil si alzò dal seggio e scese i gradini raggiungendo la giovane elfa, si fermò davanti a lei. Odiava quando la ragazza gli teneva testa, come aveva fatto e stava facendo anche in quel momento.
Alhena sosteneva il suo sguardo, senza battere ciglio, e per Thranduil era chiaro che non spaventava la giovane. Anzi, nei suoi occhi, vi leggeva la sfida.
Nonostante i giorni passassero, i continui interrogatori del Re rivolti alla creatura non davano risultati. Le domande di Thranduil rimanevano senza risposta. Gollum continuava a urlare, disperandosi per la sua tragica situazione. Alhena lo udì sbraitare a pieni polmoni che non sapeva dove fosse, che un ladro gli aveva rubato il suo tesoro. Ma, secondo Thranduil, quelle erano solo menzogne; Gollum sapeva dov’era l’Anello e lo teneva nascosto per sé. Per poterlo riavere una volta liberato dalle prigioni di Bosco Atro.
Trascorse una settimana e il sovrano non aveva ancora acconsentito a dare nutrimento al prigioniero. Ogni volta che ne parlava, sorrideva maligno e ripeteva con noncuranza: “Solo affamandolo otterrò le risposte ai miei interrogativi…”
E non avrebbe ceduto, non era sua abitudine arrendersi. Presto o tardi, Gollum avrebbe parlato: il Re ne era certo.
Questo pensiero però non era condiviso da tutti.
Legolas e Alhena erano contrari; ma, mentre il primo non si opponeva al padre, per paura della sua ira, l’elfa decise di ignorare gli ordini di Thranduil e, sette giorni dopo averlo rinchiuso nelle segrete, celata dalla vista grazie all’oscurità della notte, Alhena percorse i corridoi per raggiungere la cella di Gollum. 
Non trovò guardie a sorvegliarlo e, dopotutto, non ce n’era bisogno. Non poteva aprire la cella che lo imprigionava, inoltre era troppo debole anche solo per camminare.
Cercando di non far rumore, Alhena raggiunse le prigioni. Rimase senza fiato vedendo la creatura; Gollum era disteso a terra, rannicchiato, tremava. Era molto magro, la pelle grigia e pochissimi capelli coprivano la sua grande nuca. Ebbe paura; era più simile a un cadavere, che ad un essere vivente.
“Ti ho portato dell’acqua.” sussurrò la giovane elfa, chinandosi e allungando una mano oltre le sbarre.
Gollum alzò a fatica la grande testa e guardò la fanciulla. “Mi sta sorridendo?” pensò, guardandola.
“E’ fresca, l’ho presa pochi minuti fa dalla sorgente.” aggiunse.
“F-fresca?” chiese la creatura, strisciando verso l’ingresso.
Gollum stese la mano ed afferrò la brocca che Alhena gli porgeva. Il peso fece tremare il suo braccio e, parte del contenuto, fu rovesciato. L’elfa scosse il capo: era troppo debole per sostenere da solo il peso del contenitore dell’acqua.

Avvicinando il prigioniero alle sbarre e, raccogliendo la borraccia, l’accostò alle sue labbra.
“Grazie.” disse con un filo di voce, quando terminò l’acqua.
“Per così poco…” rispose. “È disumano quello che Thranduil ti sta facendo.”
Gollum non rispose, si raggomitolò e nascose il capo tra le gambe.
“Ho portato anche un po’ di pane. Lo vuoi?” chiese porgendoglielo.
Scosse il capo: “No… il pane elfico è cattivo… cattivo…” singhiozzò.
“Di cosa ti nutri?”
“Carne e… e… e pesce… sì… noi adoriamo il pesce.”
“Carne e pesce…” ripeté Alhena, nauseata al solo pensiero. “Domani ti porterò della selvaggina.”
Si alzò e, voltandosi, iniziò ad allontanarsi dalla gabbia.
“C-come possiamo chiamarti?” chiese Gollum, le mani posate sulle sbarre.
Voltandosi, l’elfa sorrise alla creatura: “Puoi chiamarmi Alhena.”
Trascorsero tre mesi e, puntualmente ogni sera, l’elfa portava da mangiare e bere a Gollum. Alhena aspettava che terminasse la sua cena poi, prendeva i resti degli animali che il prigioniero mangiava e andava via. Presto Gollum iniziò a fidarsi di lei. Le raccontò la sua storia, la sua triste storia… di come l’Anello lo avesse manipolato fino a diventare la sua ragione, il suo unico scopo, di vita.

Delle molti notti trascorse in compagnia del prigioniero di Bosco Atro, Alhena ricordava una particolarmente significativa. Pioveva e il vento era pungente, la giovane cercando di ripararsi dall'acqua, si premette contro la parete esterna della cella. Gollum stava mangiando rumorosamente un coniglio che Alhena aveva ucciso quel pomeriggio. Presto la ragazza scoprì d’essere particolarmente abile con l’arco; non solo contro dei fantocci, com’era solita fare nelle armerie, ma anche contro bersagli in movimento.
“Sei diversa dal tiranno di questo regno... saremo mai liberi di andarcene?”
Alhena non seppe che rispondere, una cosa era sicura: Gollum non avrebbe mai ritrovato la propria libertà. Thranduil non lo avrebbe lasciato libero; mai senza prima ottenere ciò che bramava.
“Resterai vivo.” rispose, cercando di dargli un po’ di speranza.
“Questa noi non la consideriamo vita! Siamo prigionieri di un schifoso elfo!” urlò Gollum, gettando lontano i resti dell’animale e scagliandosi con forza contro i cancelli della sua gabbia.
“Non sei l'unico prigioniero... anch’io lo sono.” concluse con amarezza.
“Voi? P-prigioniera?”
“Thranduil mi cela nel suo palazzo… nessuno, salvo lui, suo figlio e poche fidate guardie sanno che risiedo qui... questa non è casa mia.”
Mentre parlava Alhena fissava il cielo: era cupo e le stelle si celavano alla sua vista, come lei si erano arrese dietro le nubi. Erano mesi che non vagava liberamente nella foresta, mesi che non cavalcava, che non si arrampicava sugli alberi per sentire il vento scompigliarle i capelli. Non ricordava nemmeno più la sensazione di sentirsi libera... le sue giornate erano tutte uguali: non superava mai i confini di Bosco Atro, nemmeno per cacciare la cena di Gollum. Era stata cacciata dalla propria casa e ora si trovava in una prigione.
“Non meritate di stare qui…” sussurrò con innaturale dolcezza la creatura.
“Non sono la persona che tu credi. Forse io non merito la felicità…” lo contraddisse Alhena. “Credo di meritarmi questo… le mie azioni hanno arrecato sofferenza a persone a me care…” lasciò la frase in sospeso. Ad ogni parola il timbro della sua voce si affievoliva, finché le ultime furono meno di un sussurro. Chiuse gli occhi e allontanò dalla mente quei pensieri che la tormentavano da tempo. “Cercherò di liberarti. Perché è la cosa giusta da fare.” convenne con tono deciso, alzandosi in piedi. “Resisti, amico mio! La tua vita è stata segnata dalla sfortuna... hai trovato l’Anello e, da quel giorno, non hai avuto altra scelta... Voglio provare a darti una possibilità, quella possibilità che a me è stata negata.”
Mentre si allontanava dalle segrete di Bosco Atro, Alhena non poteva evitare di pensare ai molti punti che l’accomunavano con Gollum… entrambi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie, allontanati da quella che chiamavano casa per i peccati dei quali si erano macchiati… entrambi si erano trovati soli, consapevoli che nessuno li avrebbe cercati o aiutati... ed infine entrambi erano prigionieri dello stesso carceriere.

Gli anni volarono e Thranduil acconsentì a dare alla creatura del cibo, del pane elfico ammuffito. Gollum non osava nemmeno toccarlo e urlava disperato solo sentendone l’odore. Al sovrano di Bosco Atro però non importava, considerava il proprio un atto di gentilezza. Inoltre, la piccola razione che gli forniva, spariva sempre il giorno seguente.
La creatura non aveva ancora parlato e, questo suo atteggiamento, iniziava a spazientire il sovrano.
“Forse non sa nulla!” disse Legolas, rivolgendosi al padre.
Thranduil guardava il fuoco scoppiettare in un grande camino, affascinato dalle fiamme e dal modo seducente che avevano di muoversi. Sorseggiava, avido, da un calice d’oro ornato di diamanti. Pareva non aver nemmeno udito le parole del figlio.
“Padre?” insisté Legolas.
Il sovrano si voltò, guardando prima il figlio, poi Alhena.

“Non mi sono mai spiegato come abbia fatto quel mostro a vivere così a lungo.” Sussurrò, allontanandosi dal camino e raggiungendo il centro della stanza. “Finché un dubbio si è fatto strada nella mia mente… che venisse aiutato… che nel mio regno ci fosse un traditore… così l’ho fatto sorvegliare. Giorno e… notte.” sottolineò questa parola, avvicinandosi all’elfa.
Alhena sostenne lo sguardo del Re; se era stata scoperta, non voleva mostrarsi colpevole. Lei non aveva fatto nulla di sbagliato.
“Alhena, che cosa ti porta nelle mie prigioni ogni notte?”
Anche Legolas guardò l’amica.
“Adoro camminare. Soprattutto di notte.” rispose lei, facendo spallucce.
“Mi credi uno stolto?” urlò Thranduil, sovrastando la giovane, perdendo il controllo.
Con uno scatto, Legolas si avvicinò al padre: “Papà… per favore…”
“Vattene Legolas.” sibilò, fulminando il figlio con lo sguardo.
Non contestò gli ordini del padre e, voltandosi, uscì dalla stanza.
Quando la porta si chiuse dietro le spalle di Legolas, lo sguardo di Thranduil si spostò ancora su Alhena.
“Adori camminare?” chiese con calma, guardando l’elfa negli occhi.
“Sei stato disumano!” disse pacata. “Tu lo chiami mostro, ma sei un mostro tu stesso!”
Fu un lampo: Thranduil alzò il braccio e colpì l’elfa in volto. Il colpo fu talmente forte che la fece indietreggiare di un passo. Ansimando, il Re fissò la ragazza. Il suo volto mutò; guardò la sua mano, ancora sospesa mezz’aria.
Alhena non disse nulla ma, alzando lo sguardo, osservò il re. La guancia dov’era stata colpita, ardeva. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma cercò di trattenerle.
“Perdonami.” sussurrò Thranduil, avvicinandosi a lei, stendendo le mani con l’intenzione di carezzarle il volto offeso.
Ma con un movimento improvviso, scansò il gesto del sovrano: “Non osare!” esclamò con ira, additandolo.
Thranduil si ritrasse, spaventato dal fuoco che lesse negli occhi dell’elfa.
“Sei stato incredibilmente gentile con me in tutti questi anni! Mi hai ospitata quando nessun altro lo avrebbe fatto e hai tenuto nascosta la mia presenza. Ma non pensare di potermi colpire nuovamente e uscirne bene.” sibilò Alhena, guardando Thranduil negli occhi. “Voi non siete il mio re.” concluse tranquilla. Poi, voltandosi, la ragazza uscì dalla sala, lasciando sbattere la porta.


“Maledetti! È nostro e lo vogliamo!” sussurrò con voce roca Gollum.
Estryd era nervosa, si trovava sopra di loro, di pochi metri. Lo percepiva, lo sentiva muoversi. Strisciava nell’ombra, avvicinandosi al suo obiettivo. L’elfa respirò a fondo; si alzò di scatto, spostando il mantello con i movimenti del proprio corpo e puntando il pugnale contro la creatura.
“Non muoverti!” urlò.
Sam e Frodo sussultarono, svegliandosi. Appena videro Gollum incombere sopra le loro teste, impugnarono le armi.
Con occhi sgranati, la creatura studiò i tre: due Hobbit e un’elfa. Una bizzarra compagnia, pensò. Spostò lo sguardo da uno all’altro… ciò che più contava era il suo Anello e, al momento, si trovava al collo dello Hobbit castano.
“Cosa ti porta qui?” chiese l’elfa, senza spostare l’arma dal petto di Gollum.
Istintivamente, gli occhi della creatura, saettarono al collo di Frodo: desiderio, bramosia, ossessione… era suo!
Con un balzo, scattò dalla roccia addosso al portatore, tendendo le mani verso il suo collo. Estryd e Sam corsero in soccorso dell’amico che, steso a terra, impotente, non riusciva a fronteggiare il suo assalitore. Nonostante fosse gracile, Gollum possedeva una grande forza. Era il desiderio di riavere il suo “tesoro” a fornirgli la carica.
Nel tentativo di allontanare la creatura da Frodo, Estryd perse il pugnale che cadde a terra, poco distante da loro. L’elfa afferrò con entrambe le mani l’essere per le spalle, cercando di liberare il Portatore. Ogni sua azione fu vana.
Con un calcio allo stomaco, Gollum gettò Estryd a terra.
Il suo posto venne preso da Sam; con coraggio si avventò contro la creatura, nel tentativo di immobilizzarla. Gollum si dimenava come un pesce fuori dall’acqua, si contorceva e rendeva difficile allo Hobbit trattenerlo.
Impugnando la spada, dono di Elladan, Estryd con fermezza, tagliando l’aria con la lama, la puntò al collo dell’essere.
“Lascia la presa o non ci penserò due volte a tagliarti la gola.”
Con riluttanza, la creatura alzando le mani al cielo, liberò Frodo dalla sua presa.
Con la corda elfica, dono di Galadriel, Sam imprigionò Gollum. Appena sfiorò la pelle dell’essere, questi iniziò a urlare; erano urla di dolore, sembrava soffrire terribilmente per quel contatto.
Estryd guardò Sam, che, sulla difensiva, esclamò: “Non ho fatto nulla!”
Ignorando le parole di Sam, l’elfa si avvicinò a Frodo e, stendendo la mano verso l’amico, lo aiutò ad alzarsi.
“Non è colpa tua, Sam. E’ stato prigioniero per anni dagli elfi di Bosco Atro.” spiegò Estryd. “Non sopporta il mio popolo. Ci disprezza e disprezza ogni cosa creata da noi. Sia cibo o abiti o armi. La corda con cui l’hai legato è stata fabbricata dai miei parenti di Lothlorien. Elfi.” fece una pausa, poi aggiunse: “Non possiamo liberarlo. Ci taglierebbe la gola mentre dormiamo.”
Frodo si era allontanato da loro, guardando affascinato il colore sinistro di Mordor. Il Monte Fato era attivo e la lava zampillava, i fumi si alzavano tingendo il cielo notturno di rosso.
“Sembra che ci stiamo dirigendo alle porte dell’inferno.” sussurrò il Portatore, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
“Meglio proseguire.” esclamò Estryd, rinfoderando l’arma. “Qui non siamo al sicuro. Non abbiamo ripari sopra le nostre teste. Superiamo questo sentiero desolato e raggiungiamo Mordor.”

Estryd non approvò la decisione di Frodo di tenere in vita quella creatura, aveva il presentimento che avrebbe arrecato loro solo guai. Ma, agli occhi del Portatore, Gollum, era una vittima, un disgraziato. Era rimasto solo con l’Anello per secoli e, questo tempo, vissuto in solitaria, aveva corrotto il suo cuore. Si sentiva responsabile per lui e per le sue azioni: condividevano lo stesso destino. L’Anello era il loro destino… il passato di Gollum era il suo presente e, con buone probabilità, sarebbe stato il suo futuro e la fine di entrambi.
Le montagne e le rocce lungo il cammino diminuirono e un forte puzzo pizzicò le narici dei viaggiatori. Erano sulla giusta via: stavano per arrivare alle Paludi Morte.
L’elfa non le aveva mai viste, ma tutti sapevano cosa si celava sotto gli acquitrini. Nella Seconda Era una violenta battaglia si era consumata su quella terra; nel tentativo di fermare la crescente forza di Sauron. Gli elfi, affiancati dagli uomini, si erano scontrati alle forze oscure. In molti erano caduti e i cadaveri dei morti erano rimasti in quella terra. Delle fiaccole erano state accese per segnalare dove questi riposavano e, chiunque osservasse quelle fiamme troppo a lungo, avrebbe trovato la morte.
“Questa sarà una via ardua.” sussurrò Estryd, i pericoli che correvano attraversando quella palude non erano indifferenti.
“N-noi conosciamo la via…” s’intromise Gollum con voce tremante.
Strisciò verso Frodo e, afferrando i lembi dei suoi abiti, lo guardò negli occhi.
“Parli onestamente?” chiese Frodo.
“S-sì. Noi siamo scappati da Mordor…” rispose in meno di un sussurro. “Noi abbiamo percorso queste vie già una volta.”
“Non possiamo fidarci, padron Frodo.” esclamò Sam, strattonando la corda legata al collo di Gollum e allontanandolo dall’amico.
“Sam non abbiamo scelta…” insisté il Portatore. “Non conosciamo la via. Lui sì.” concluse indicandolo.
“Non mi fido di lui.” replicò Sam, alzando il tono di voce. “Non dimentichiamoci che ha tentato di ucciderci tre giorni fa!”
“N-noi non faremmo mai male al P-padrone dell’Anello. Noi lo giuriamo…” s’interruppe, pensando a cosa dire. “Lo giuriamo su… su… sul Tesoro!” concluse urlando e saltellando.
Frodo guardò Estryd, in cerca di supporto: “Ci possiamo fidare?”
L’elfa si avvicinò alla creatura e, inginocchiandosi ai suoi piedi, afferrò con una mano Gollum per il mento, scrutando i suoi occhi.
“Possiamo dunque fidarci della tua parola? Possiamo credere che aiuterai due Hobbit e un’elfa?”
“Lo abbiamo giurato…” sussurrò.
“Certo. Lo… avete giurato sull’Anello.” fece una pausa, poi aggiunse: “E’ un giuramento ambiguo… ora l’Anello è nelle mani di Frodo, quindi la vostra lealtà va a lui.” socchiuse gli occhi, cercando di decifrare i pensieri di Gollum. “Ma dal momento in cui l’Anello passi di mano? A chi andrebbe la tua lealtà?”
La creatura iniziò a contorcersi e urlare.
“Noi lo abbiamo giurato… noi vi condurremo al Cancello Nero di Mordor.”
Estryd si alzò e, guardando Frodo, aggiunse: “Non penso di fidarmi di lui. Ma la decisione spetta a te, Frodo. Personalmente non conosco la via e, per noi, attraversare da soli le paludi, equivarrebbe alla morte.”
Il Portatore sospirò: “Allora non abbiamo scelta…”
Si voltò e guardò la creatura ai suoi piedi: “Gollum guidaci.” decretò con fermezza. “Mostraci la via più sicura.”



***
Ed ecco qui il mio ultimo capitolo... spero vi sia piaciuto!
Alla prossima!
Janine

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 13 - PALAZZO SUL MARE ***





Ogni mattina svegliarsi era un tale piacere… dopo anni di dolore, dopo anni di guerre e situazioni complicate, sempre al limite tra vita e morte… era bello poter godere del tepore di un posto piacevole, tanto da poterlo chiamare casa. Gran Burrone le sarebbe rimasta per sempre nel cuore… aveva vissuto secoli nel palazzo della sua famiglia, circondata dall’amore dei genitori e dei fratelli e sorelle. Estryd non poteva desiderare altro… o, almeno ne era convinta, fino al giorno in cui incrociò lo sguardo del guerriero di Gondor.
Solo quel giorno conobbe il significato della parola “amore”. Per lei l’amore era un legame che univa due persone per la vita… lo sapeva riconoscere quando lo vedeva tra due persone, ma non aveva mai provato quell’emozione. Non personalmente. Era sempre stata sola, incompleta. E Boromir aveva dato alla sua vita un lieto fine. Le aveva dato una speranza di felicità, come se la guerra, le perdite subite, ogni episodio difficile avesse avuto uno scopo: farli incontrare.
Rimase per alcuni minuti stesa sul letto, il morbido lenzuolo di cotone tirato fino al collo. Socchiuse gli occhi e spiò la debole luce che s’infiltrava dalle tende malamente chiuse. Sorrise al pensiero della sera appena trascorsa… piegò il collo verso destra ed osservò suo marito riposare al suo fianco.
Un dolce sorriso era dipinto sulle sue labbra fini.
Estryd si mise di lato e, puntando il gomito sul cuscino, prese la testa nella mano; era davvero bellissimo…
Era stata incredibilmente fortunata… avevano dovuto affrontare situazioni difficili: molte delle scelte che avevano fatto, avrebbero potuto allontanarli, ma non era successo. L’amore che nutrivano l’uno per l’altra era stato più forte; aveva unito le loro vite.
La notte scorsa avevano festeggiato il suo compleanno insieme alle rispettive famiglie. Nessuno aveva ignorato l’invito…
Estryd, ripensando al banchetto organizzato per l’occasione, sorrise. Quante cose erano cambiate in pochi mesi… lei si era sposata con un uomo meraviglioso… Elorhir si era fidanzato con un’elfa di Lothlorien, Solhem, e insieme si erano stabiliti nella sua terra natìa… Arwen era diventata Regina di Gondor, sposando l’unico uomo che avrebbe mai amato: Aragorn. La cerimonia fu memorabile e tutta la Terra di Mezzo accorse per i festeggiamenti. Si rimise sdraiata, supina; solo la sorella maggiore poteva capirla appieno… entrambe avevano concesso il loro cuore a un mortale, segnando inevitabilmente il loro triste destino.
Pensando ad Arwen non poté non provare una forte gratitudine: da quando la loro vita si era legata al marito mortale, era sempre presente. Si erano scritte innumerevoli lettere nelle quali entrambe davano sfogo dei loro sentimenti e dubbi. Inoltre, ogni occasione era buona per parlare e, quando capitava, parlavano a lungo… spesso le loro conversazioni terminavano con le lacrime, il destino dei loro amori era destinato a sfiorire… a morire…
Si rimise di lato e guardò il marito riposare, una lacrima scivolò lungo la sua guancia. Odiava avere quei pensieri, ma non poteva evitare di rimuginare sulla loro fine. Lui l’avrebbe abbandonata e lo avrebbe fatto prima di quanto Estryd avesse voluto…
Chiuse gli occhi e, con la mano, catturò le lacrime, cancellandole dal suo viso; avrebbe celato i suoi timori a Boromir. Lo aveva deciso nello stesso momento in cui aveva accettato di sposarlo.
Voltandosi, si mise a sedere ed osservò la camera matrimoniale… aveva portato con sé la maggior parte del mobilio che arredava il suo alloggio a Gran Burrone. Era certa che avrebbe provato la nostalgia per le sue cose, dopotutto erano parte di lei… e, Boromir, comprendendo questo legame, con l’aiuto di Elladan ed Elrohir, aveva traslocato ogni cosa. L’armadio in ciliegio, il grande letto con il baldacchino di raso crema, il comò intagliato nel legno e decorato con la madreperla, la scrivania e le piccole poltrone…
Scese dal letto, cercando di non svegliare il marito e, coprendosi con una lunga vestaglia di seta, che sfiorava il pavimento, camminò lentamente verso la portafinestra che si apriva sulla terrazza.
Passando davanti al grande specchio che ornava la parete accanto al letto, osservò il suo riflesso. Sorrise con dolcezza: “Parlando di cambiamenti…” pensò, carezzando il ventre gonfio. Non si era ancora abituata ai cambiamenti che il suo corpo stava subendo, era un miracolo quello che stava avvenendo dentro di lei… stava creando una nuova vita…
Le labbra dell’elfa si aprirono in un sorriso carico di dolcezza quando, un piccolo movimento, le fece percepire che il figlio che portava in grembo era vivo e, che presto, sarebbe arrivato. I mesi della gravidanza erano volati, il termine sarebbe giunto a giorni e, sia Estryd che Boromir, erano impazienti di diventare genitori. Attendeva con ansia quel giorno perché sarebbe stato il coronamento del loro sogno: formare una famiglia.
Raggiunse le tende ed uscì sulla terrazza; rimase senza fiato. Ogni volta si aspettava di vedere la cascata di Gran Burrone che, rumorosamente, cadeva sulle rocce… ma doveva ricredersi; la terrazza si apriva sul mare, sull’oceano. Per Estryd, nessun panorama era più bello di quello… niente era più piacevole alla vista…
Prima delle nozze, quando dovevano decidere la loro nuova casa, l’elfa aveva tanto insistito per andare a vivere vicino al mare. Alla fine Boromir aveva acconsentito. Avevano lasciato Minas Tirith e si erano recati a nord insieme alla moglie; da secoli i Porti Grigi erano rimasti senza abitanti…
Fin da piccola Estryd era rimasta incantata nell’ammirare quelle costruzioni; erano scavate nella roccia a precipizio sul mare. Non poteva chiamare casa alcun altro posto.
Avanzò fino a raggiungere il parapetto, posando le mani sul cornicione. Il vento le scompigliava i capelli, muovendoli delicatamente. L’aria odorava di salsedine e, chiudendo gli occhi, respirò a fondo, ammaliata da quel profumo delizioso…
“Presto anche te, angelo mio, vedrai questo magnifico panorama e te ne innamorerai…” sussurrò Estryd, sfiorando il proprio ventre.
“Non è ancora il giunto il giorno?”
L’elfa si voltò, sorridendo al marito.
Boromir la osservava, con occhi innamorati, dalla porta che dava sulla terrazza, la mano sinistra posata contro il muro, l’altra rilassata lungo il suo corpo.
L’elfa scosse il capo, sorridendo: “Non oggi.”.
Avanzando verso l’amata sposa, rispose, passandosi la mano nei capelli: “Raramente è capitato che i medici sbagliassero…”
Raggiunta, si chinò e posò le grandi mani sulla pancia della moglie, carezzandola con delicatezza.
L’elfa osservò il marito, si sentiva incredibilmente fortunata… non poteva desiderare di meglio.
“Non farti attendere troppo…” sussurrò Boromir, baciandole il ventre. Poi, incrociando lo sguardo di Estryd, si rialzò e, prendendo tra le mani il suo viso, la baciò.

Tenendo Boromir per mano, Estryd percorreva i corridoi del palazzo dove, ormai, vivevano da alcuni mesi. Era da poco passata l’alba e l’aria era frizzante. Presto anche gli ospiti si sarebbero svegliati dal sonno; mentre si avvicinavano alla sala da pranzo, il dolce profumo del pane appena sfornato raggiunse i loro nasi.
Estryd sorrise, stringendo un poco più forte la mano dell’amato; quei momenti di tranquilla quotidianità erano impagabili. Scesero con passo lento l’alta scalinata che conduceva ai piani inferiori, l’elfa si aiutava posandosi al corrimano.
“Oggi dovrò discutere con Aragorn alcune questioni importanti… non potrò dedicarti il tempo che meriti…” sussurrò Boromir, dispiaciuto. “Ma so di lasciarti in ottime mani… i tuoi fratelli si prenderanno cura di te…”
Guardando negli occhi il marito, Estryd si fermò e, spostandosi davanti a lui, per poterlo vedere meglio in volto, sussurrò: “Detesto il tempo che le questioni di Gondor sottraggono a noi…” prese tra le sue mani quelle di Boromir, portandole all’altezza del cuore. “Ma intanto che siamo ancora soli, concedici un altro istante…”
Chinandosi verso la principessa, l’uomo posò la sua fronte su quella di lei: “Avrai tutti gli istanti che desideri amor mio…”
Mentre stringeva in un abbraccio lo sposo, l’elfa non poteva evitare di sentirsi incredibilmente fortunata… solo dopo aver incontrato Boromir, comprese appieno le parole che Arwen sussurrò ad Aragorn anni fa… preferire condividere una sola vita con lui, piuttosto che affrontare tutte le ere del mondo da sola…
Non avrebbe mai vissuto senza Boromir; ormai erano una cosa sola… lui si era fatto strada nel suo cuore, spingendosi fin dove nessuno sarebbe mai arrivato ed Estryd aveva permesso che ciò accadesse, consapevole che non poteva donare il suo amore ad una persona migliore.
“Ogni volta che vi vedo, vi ritrovo abbracciati…” scherzò Alhena scendendo le scale, saltando gli ultimi gradini, e percorrendo con sguardo alto verso la sorella. “E’ dunque questo l’amore?”
Piegando il collo verso la scalinata, Estryd abbozzò un timido sorriso: “Buongiorno a te, Alhena…”
“Sono la prima ad essermi svegliata?” chiese, raggiungendo gli sposi.
“Non abbiamo visto nessun altro… suppongo di sì.” rispose Boromir, stendendo un braccio verso la bionda. “Permettetemi, mie signore, di condurvi nella sala da pranzo… sono certo che un’ottima colazione ci attende.”
Era la perfetta creazione degli architetti elfici. Era stata costruita nella seconda era da elfi che avevano deciso di restare sulla Terra di Mezzo dopo le guerre contro Morgoth. Per secoli divenne il porto che conduceva le creature immortali lontano dai dolori del mondo, verso Valinor.
Aveva assunto connotazioni negative, era visto come un luogo d’abbandono… ma, grazie ad Estryd, la vita era tornata anche lì. Aveva trasformato la città in un palazzo e in pochi mesi diversi elfi vi avevano preso residenza… come una fenice, anche i Porti Grigi erano rinati dalle proprie ceneri, prendendo, appunto, il nome di Palazzo sul Mare.

Il sole si era alzato nel cielo e Boromir aveva seguito gli altri sovrani per discorrere sul futuro della Terra di Mezzo. A lungo questi discorsi erano stati rimandati, ma non potevano attardare oltre. Estryd, insieme ai fratelli, si era recata sulla spiaggia. Avrebbero passeggiato fino all’ora di pranzo, per poi ritornarci fino all’ora di cena.
Fu una lunga giornata; dolorosa, per i novelli sposi, che non erano mai stati così tanto tempo lontani l’uno dall’altra. Quella notte, si stesero sfiniti nel proprio letto. Le vetrate che davano sulla terrazza erano state lasciate aperte per permettere alla brezza marina di entrare nella camera. Aveva fatto caldo quel giorno e il mare era stato agitato. Nel silenzio del Palazzo riuscivano a sentire le onde infrangersi contro la scogliera. Era un suono calmante, per Estryd.
“Domani nascerà?” chiese Boromir, posando la mano sul ventre della sposa e sfiorandolo con tocco delicato.
Riscuotendosi dai pensieri che assillavano la sua mente, Estryd si piegò verso il marito e, baciandolo, carezzò il suo volto.
“Sì, sarà domani… ne sono certa…” rispose con onestà, rimase in silenzio alcuni istanti. Poi, con serietà, aggiunse: “Quando crescerà, vorrà sapere ogni cosa su noi… sulla nostra storia… su come ci siamo incontrati e conosciuti…”
“E’ comprensibile questo suo desiderio… quand’ero bambino chiedevo sempre a mia madre di raccontarmi la storia della sua vita…”
“Dovremo parlargli anche d’altro…” sospirò l’elfa, pensando ai conflitti che avevano, per anni, infranto la pace della Terra di Mezzo.
“Si parlerà di questa guerra per sempre…” convenne Boromir, con saggezza, sfiorando il volto dell’amata.
“Cosa gli racconteremo? Che cosa sarà giusto spiegargli e cosa sarebbe opportuno celare? Come possiamo spiegare la guerra a lui? Ad una creatura innocente? Abbiamo affrontato un inferno… questo mondo ha vissuto un vero inferno…” sospirò. “Meriterebbe di conoscere solo il lato migliore della Terra nella quale vivrà per sempre.”. Estryd alzò lo sguardo ed incrociando gli occhi grigi dell’uomo, aggiunse: “Vorrei che sapesse solo il lato migliore di noi…”
“Lui sarà il nostro lato migliore…” sussurrò l’uomo, chinandosi sulla moglie e baciandole la fronte. “Merita di conoscere la nostra storia così com’è stata e non una favoletta inventata per conciliare i suoi sogni… nonostante le difficoltà affrontate possiamo definire la nostra una storia triste? Guardaci, Es… siamo sposati… siamo felici… ci amiamo…”
Gli occhi dell’elfa si riempirono di lacrime, la voce di Boromir… profonda e sensuale, riusciva a farle dimenticare ogni dubbio, ogni incertezza…
“Sua madre però ha fatto le scelte migliori…” concluse.
“Migliori?” fece eco Estryd. Non si era mai perdonata la decisione presa sulle cascate di Rauros. “Non avrei dovuto abbandonarti.” strinse le mani dell’uomo. “Sarei dovuta restare al tuo fianco… sarebbe stato più semplice, per te… per me…”
“Non possiamo cambiare ciò che è stato… non ti rinfaccio nulla. Abbiamo fatto le scelte giuste e, se sarà necessario, ogni giorno te lo ricorderò… perché meriti il meglio dalla vita! Certo, avrei desiderato stare insieme a te… aiutarti e supportarti durante il tuo viaggio verso il Monte Fato… ma di una cosa sono certo: io ti amo e per sempre sarò al tuo fianco! Quando ci siamo sposati, sette mesi fa, abbiamo unito le nostre vite… nostro figlio sta per nascere e, il suo arrivo, ci unirà ancora di più! Non penso che il fato ci sia avverso…”
Estryd dischiuse le labbra, stava per parlare, rispondere alle parole dello sposo, ma fu interrotta.
“Anche con la mia morte io sarò sempre con te… con te e il nostro bambino… io non ti abbandonerò mai… perché rivivrò in lui.” posando una mano all’altezza del cuore dell’elfa, aggiunse: “…e vivrò qui!”
Gli occhi di Estryd si riempirono di lacrime amare. Capì che i suoi timori erano condivisi da Boromir.
“Non piangere amore mio…” sussurrò l’uomo, asciugando le guance della sua principessa. “Queste sono parole dolorose ma indispensabili. Fanno male, ma devi ascoltarle…”
“Non voglio udirle…” rispose lei bisbigliando e scuotendo il capo.
“Estryd la tua sarà una vita immortale e, con grazia dei Valar, anche nostro figlio vivrà in eterno… ma il mio destino è già scritto… fu scritto il giorno stesso della mia nascita… morirò e voglio che tu mi prometta una cosa…”
L’elfa scosse il capo con maggior vigore… non voleva udire quelle parole… non voleva promettere nulla… nulla…
“Promettimi che non sarai preda della disperazione…”
“Come puoi chiedermi questo?” lo interruppe, alzando la voce e sedendosi sul letto. 
“Amore, tu dovrai badare a nostro figlio… non abbandonarlo… non rinunciare alla tua vita, fallo per lui. Fallo per me!” rispose Boromir, sedendosi accanto alla moglie.
Estryd comprendeva le parole dell’uomo; non avrebbe dovuto abbandonare il figlio, non come sua madre aveva fatto con lei e i suoi fratelli.
“Posso prometterti che non lascerò mai solo nostro figlio.” sussurrò l’elfa. “Ma non chiedermi altro. Non chiedermi di vivere con cuore sereno… non potrei mai… non dopo la tua morte.”
“Ti amo…” sussurrò Boromir, carezzando il suo volto. “Ti amo, mia principessa…”
“E tu sarai per sempre il mio…”

“Estryd! È ora! Procediamo…”
“…guerriero.”
L’elfa aprì gli occhi, sussurrando quella parola. La sentì amara sulle labbra. Si alzò a sedere e vide i due compagni di viaggio già pronti, gli zaini in spalla.
“Che ore sono?”
“Non è ancora l’alba… ma dobbiamo proseguire.” disse Sam.
“Il sole qui non sorge mai.” concluse Estryd alzandosi in piedi e prendendo la propria borsa. “Devo essermi addormentata durante la guardia… non accadrà nuovamente.”
“Non riposi da giorni… meriteresti anche te un po’ di pace.” s’intromise Frodo, sorridendo all’amica.
“La pace l’avremo solo terminata la guerra. Quando torneremo a casa e potremo vivere le nostre vite.” convenne con severità, avanzando lungo il sentiero.

“Boromir!”
Il Comandante di Gondor si svegliò, sussurrando l’amore per l’elfa che aveva sognato. Si alzò a sedere, sorridendo.
“Non avremmo dovuto fermarci questa notte!”
Alhena stava urlando contro Aragorn, contrariata dalle decisioni prese dal ramingo; non tollerava l’idea di essere trattata con riserbo per la ferita che aveva riportato durante il combattimento.
“Ormai gli Hobbit saranno nelle mani di Saruman!”
“Non è detto. Dovranno riposare anche loro! Partiremo presto…”
“Avremmo dovuto partire ore fa! Ma il bell’addormentato non si svegliava!” concluse, guardando con disprezzo Boromir. “Dormito bene, almeno?” aggiunse, sarcastica, incrociando le braccia.
“Divinamente.” concluse l’uomo, ignorando le parole di Alhena.
Mentre si rimettevano in viaggio, Boromir pensò ad Estryd... al magnifico sogno appena fatto e al futuro che li attendeva.



***
Ringrazio le fedelissime lettrici per i loro commenti! Mi fa sempre piacere leggerli!
Purtroppo sono in ballo con un trasloco e non ho molto tempo da dedicare alla scrittura... ;)

Spero vi sia piaciuto questo capitolo un pò particolare rispetto agli altri... volevo dare risalto ai protagonisti della mia storia e al loro amore! Vorrei sottolineare che si tratta di un sogno e, come ben sappiamo tutti, i sogni non sempre corrispondono alla realtà... detto questo, alla prossima!
Bacioni
Janine

 

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 14 - IL GIARDINO DI CELEBRIAN ***


Rieccomi qui!
Non avevo dimenticato questa storia, semplicemente con il trasloco mi si era rotto il pc e non ho avuto modo di recuperare le bozze scritte...
Non voglio rubarvi altro tempo e quindi: BUONA LETTURA!!!!
***


“Che ci fanno due elfi e due uomini nel Riddermark?” chiese con rabbia un cavaliere in sella a un possente cavallo nero. Portava un elmo che gli copriva gran parte del volto. Alhena notò gli occhi del guerriero, fiammeggiavano. Erano colmi di rabbia e desiderio di vendetta… ma, allo stesso tempo, erano anche stanchi. Quegl’occhi appartenevano ad una persona che aveva visto troppe cose; occhi di un uomo deluso.
Incantata da quello sguardo, la giovane principessa non si accorse che, lei e i compagni, erano stati circondati da una cinquantina di cavalieri. Le loro lance erano puntate loro contro. Legolas si mise davanti ad Alhena, con modi difensivi. Quel gesto, che generalmente avrebbe infastidito l’elfa, passò inosservato: la sua attenzione era rivolta solo alla tristezza del signore dei cavalli. Incrociò gli occhi verdi dell’amico: era l’unica che aveva notato tanto dolore?
L’elfo ricambiò lo sguardo di Alhena e, chinandosi verso l’amica, il principe di Bosco Atro, sussurrò, con estrema dolcezza: “Non aver timore…”
Aragorn alzò le mani verso il cielo limpido; un gesto di resa, per poi avanzare verso quello che doveva essere il capitano dei Rohirrim.
“Parlate in fretta!” aggiunse lo stesso cavaliere.
“Chi siete voi, capitano? Ditemi il vostro nome e poi rivelerò il mio.” esclamò Alhena, superando i compagni di viaggio, sfidando apertamente l’uomo.
Il maresciallo di Rohan, vedendo che davanti aveva solo una fanciulla di razza elfica, iniziò a ridere, imitato dai suoi guerrieri. Con maestria, smontò da cavallo. La pesante armatura provocò rumori fastidiosi. Sempre sorridendo, si avvicinò ai quattro viaggiatori, studiandoli con maggior attenzione.
“Chi abbiamo qui?... un Capitano di Gondor…” disse guardando Boromir e, incrociando il suo sguardo, gli girò attorno. “…un ramingo del nord…” aggiunse raggiungendo Aragorn, guardandolo da capo a piedi. “…cosa porta due uomini, di discendenza così diversa, insieme in viaggio con questi due… elfi?” concluse sottolineando, con il tono della voce, il disprezzo verso la razza immortale.
Aragorn, intuendo cosa stava per fare, posò una mano sulla spalla di Alhena, facendo lieve pressione.
“Perdonate la lingua della Signora.” fece una pausa, poi aggiunse. “Io sono Aragorn, figlio di Arathorn. L’uomo di Gondor è Boromir, figlio del sovrintendente Denethor, e lui è Legolas, figlio di Re Thranduil del Reame Boscoso.”
“E la ragazza?” chiese il cavaliere, guardando gli occhi di ghiaccio dell’elfa.
“Il mio nome è Alhena nata a Gran Burrone.” concluse lei, sperando che nessuno notasse la mancanza della menzione della sua discendenza.
Voltandosi, Aragorn incrociò il suo sguardo; era triste di chi conosce le sventure che aveva passato. Durò un attimo, poi volse l’attenzione all’uomo che aveva davanti.
“Siamo amici di Rohan e di Théoden, vostro Re.” proseguì con naturalezza, come se non fosse stato interrotto.
Il cavaliere abbassò lo sguardo: “Théoden non sa più riconoscere gli amici dai nemici. Nemmeno la propria stirpe.”
Con entrambe le mani, si tolse l’elmo, mostrando il volto. Alhena lo riconobbe subito: era Eomer, figlio del fratello minore del Re di Rohan. Subito gli altri cavalieri abbassarono le armi.
“Saruman ha avvelenato la mente del Re e stabilito il dominio su queste terre. La mia compagnia è di quelle fedeli a Rohan e per questo veniamo banditi. Lo stregone Bianco è astuto. Vaga per le nostre terre come un vecchio con mantello e cappuccio.” fece una pausa, guardando Legolas in volto. “E ovunque le sue spie sfuggono alle nostre reti.”
“Noi non siamo spie.” s’intromise Aragorn. “Inseguiamo un gruppo di Uruk-hai diretti a ovest. Hanno catturato due nostri amici.”
Eomer guardò il ramingo negli occhi e, con voce severa, sussurrò: “Sono distrutti. Li abbiamo trucidati stanotte.”
“Ma c’erano due Hobbit! Avete visto due Hobbit con loro?” chiese Boromir, pensando a Merry e Pipino e alle pene che avevano dovuto passare nei giorni della loro prigionia.
Si era legato ai due piccoli mezz’uomini durante il viaggio e si sentiva responsabile per la loro sorte.
Eomer, che mai aveva visto uno Hobbit, non sapeva che rispondere a quella raffica di domande. Aragorn, avvicinandosi a lui, aggiunse: “Sono piccoli. Dei bambini ai vostri occhi.”
Alhena incrociò lo sguardo del cavaliere di Rohan e, frapponendosi tra lui e Aragorn, lo osservò attentamente. Il dolore che aveva carpito nei suoi occhi, l’aveva visto riflesso in molti altri guerrieri. La loro mortalità li rendeva deboli, ma allo stesso tempo dava loro una forza incredibile... Eomer possedeva quella forza, possedeva la consapevolezza che ormai ogni cosa poteva essere perduta... la sua terra natia, la sua famiglia, le persone che amava, la sua stessa vita... non conosceva i due Hobbit ma era evidente che l'errore commesso, assassinando due innocenti creature, lo aveva sconvolto.
“Avete ucciso tutti, vero?” chiese con passione Alhena, ignorando i sentimenti del mare sciatto del Mark. “Così si fa a Rohan, giusto? Chi tradisce viene ucciso. Nessuna morte è più gloriosa di quella avvenuta in battaglia.”
Eomer prese fiato, spostando il proprio peso da un piede all’altro. Scosse il capo e, dopo aver guardato i proprio stivali per alcuni secondi, alzò lo sguardo e rispose: “Non ci sono vivi. Abbiamo ammassato le carcasse e vi abbiamo dato fuoco.”
Voltandosi, indicò una collina alle sue spalle. Il fumo si alzava nel cielo, bianco e grigio. Alhena strinse i pugni, doveva essere forte; prepararsi al peggio. Se erano morti, non aveva altra scelta che accettare la loro sorte, dimenticare i loro volti.
“Morti?” chiese Boromir, con voce rotta, indietreggiando di un passo.
Eomer non aggiunse altro e, voltandosi, fischiò. Due guardie, avanzarono portando al loro seguito tre cavalli: due nocciola e uno marrone scuro. Erano molto belli, appartenevano di certo alla scuderia di Rohan.
“Sono vostri. Vi conducano a una sorte migliore di quella dei loro precedenti padroni.” Il cavaliere guardò i quattro viaggiatori. “Addio, amici miei. Cercate i vostri amici, ma non confidate nella speranza. Ha abbandonato queste terre.”

L’odore della carne bruciare degli orchi fece storcere il naso ad Alhena. Non aveva mai sentito un puzzo così forte e nauseante. Chiuse gli occhi, cercando di allontanare i pensieri di morte dalla sua mente. Chinò il capo, posandolo sulla schiena di Legolas; dividevano lo stesso cavallo, tra i tre era il più leggero e non avrebbero affaticato l’animale.
Aragorn, distrutto dal dolore per la perdita dei giovani amici, cadde in ginocchio davanti al rogo e urlò disperatamente. Boromir, al suo fianco, posò una mano sulla spalla dell’amico, nel tentativo di consolarlo.
“Non eravamo con loro. Non potevamo… proteggerli.” concluse. I suoi pensieri corsero all’amata; dovunque Estryd fosse non poteva proteggerla. Quell’eventualità gli fece mancare il respiro.
“Non mi sembra vero che il lungo viaggio fatto sia stato inutile.” rispose il ramingo, con voce rotta.
Il Comandante di Gondor non rispose, non sapeva che dire. Ogni parola, in quella situazione, pareva superflua. Legolas, in disparte, recitava delle preghiere elfiche per congedare le anime dei defunti.
“Dunque? Che facciamo adesso?” chiese Alhena con tono distaccato, dando le spalle al rogo.
Le braccia incrociate sul petto e gli occhi puntati all’orizzonte, studiando le varie vie che si trovava davanti. I raggi del sole, ormai alto in cielo, colpivano la sua lunga chioma legata dell’elfa, creando dei magnifici effetti di luce.
L’attenzione dei tre si spostò sulla giovane, i loro occhi non celavano l’incredulità per le parole udite.
Non ottenendo risposta, Alhena si voltò e, guardando attentamente i compagni di viaggio, comprese il loro turbamento… ma non potevano vacillare in quel momento… erano in guerra e, in guerra, le cose funzionano così: ci sono sconfitte e ci sono vittorie, ci sono superstiti, feriti e ci sono morti…
Respirò a fondo e continuò: “Ci dirigiamo a sud verso Gondor? O intraprendiamo la via per Isengard?”
Poi, guardando Boromir, concluse: “Potremmo anche dirigerci verso i Cancelli di Mordor. Sono certa che Es abbia intrapreso quella via per condurre Frodo e Sam al Monte Fato… sono soli. Avranno bisogno del nostro aiuto.” fece una breve pausa. L’angoscia per le sorti della sorella  non le erano estranee, non avrebbe accettato di perderla… osservò i compagni: “Non convenite?”
Boromir si sentì mancare udendo il nome dell’amata; erano passati già otto giorni dalla loro separazione e soffriva la sua mancava ogni istante. La partenza di Estryd aveva creato una voragine nel suo cuore che credeva di non provare mai per nessuno… si era sempre detto superiore a questo genere di cose, all’amore. Ma, ogni suo proposito, era svanito con l’arrivo della principessa elfica; i pensieri del guerriero, andavano ad Estryd e perfino nei suoi sogni la protagonista era lei.
Durante le giornate di viaggio, in modo ossessivo, sperava che l’amata stesse bene... sperava di rivederla presto... di poterla stringere nuovamente tra le sue braccia e sentire il suo dolce profumo…
“Il nostro aiuto non sarà sprecato, qualunque decisione prendiamo. La guerra incalza su ogni fronte.” disse saggiamente Legolas.
“Potremmo separarci… intraprendere la strada per raggiungere il luogo che realmente desideriamo.” concluse Alhena, certa di trovare supporto in Boromir.
“Separarci?” chiese Aragorn, alzandosi in piedi e guardando la giovane elfa. “Separarci sarebbe la soluzione più sciocca da fare.”
“Allora? Che proponete di fare, Re di Gondor?” domandò lei, con tono di sfida, fulminandolo con lo sguardo.
Aragorn ignorò le parole dell’elfa; la sua attenzione fu catturata da alcune tracce lasciate sul terreno… erano insolite…
Superando Alhena, si chinò e sfiorò delicatamente l’erba con la punta delle dita. Nascosta dalla cenere, scorse una corda tagliata. La raccolse analizzandola attentamente, toccando i bordi lacerati.
Merry e Pipino erano stati legati e, queste corde, confermavano la sua sensazione. Stringendo la corda con forza, si guardò attorno… poco distante da lui c’erano dei sassi appuntiti, probabilmente si erano liberati grazie a quelli.
Posando le mani sul terreno sfiorò l’erba schiacciata, socchiudendo gli occhi.
“Si sono trascinati.” sussurrò, ancora assorto nei suoi pensieri. “E le corde sono state tagliate, proprio qui.” aggiunse, alzando i resti che aveva trovato.
Poi, individuando altre tracce sul terreno, si alzò e corse, raggiungendole: “Si sono liberati e hanno corso veloci, allontanandosi dalla battaglia.”
I tre compagni guardavano il ramingo ricostruire gli ultimi avvenimenti della sera precedente. Gli sguardi ammaliati dalla sua perspicacia.
Alhena era affascinata, e allo stesso tempo gelosa, da questa dote che, nonostante la convivenza con il suo popolo, non aveva mai appreso.
Con passo zigzagante, seguendo le tracce lasciate dagli Hobbit, Aragorn avanzò, continuando a fissare il terreno. Si allontanò dal campo di battaglia fino a fermarsi. Chiuse gli occhi, preoccupato per la sorte dei due piccoli amici.
“Si sono addentrati….” sussurrò, fermandosi davanti ad una fitta distesa di alberi. “…nella foresta di Fangorn.” concluse, voltandosi e incrociando gli occhi dei compagni.

Correndo disperata per le vie di Gran Burrone, Estryd cercava la sorella minore. Aveva novità da raccontarle, novità urgenti, novità, una volta tanto, felici!
Cercò Alhena ovunque, ma non la trovò. Raggiunse anche le ale più remote del palazzo e chiese informazioni alle guardie che incrociava nei corridoi del palazzo; tutti schivavano il suo sguardo, chinando il capo, come per nascondere un doloroso segreto. La risposta che riceveva era sempre la medesima: “Siamo spiacenti, non la vediamo da ieri sera”.
Dopo aver controllato perfino le scuderie, rassegnata, Estryd si fermò davanti un cancello di ferro elaborato con maestria. Le ringhiere erano ricoperte d’edera, era da molto che qualcuno non oltrepassava quella porta. Alzando le mani, le strinse al petto, meditando se controllare anche lì.
Chiuse gli occhi e, respirando a fondo, si avviò verso il cancello. Una scalinata intagliata nella roccia scendeva a spirale. Gli schizzi della cascata la raggiungeva, inumidendole gli abiti e la pelle. Erano trascorsi quasi trent’anni dall’ultima volta che aveva percorso quella via che conduceva ai giardini privati della famiglia reale.
Secondo la bruna, quello era il posto più bello di Gran Burrone: poteva trovare solitudine, pace e silenzio, cose alquanto rare da trovare nelle altre ale del regno di suo padre.
Scendendo la scala, con una mano, teneva sollevata la veste per non inciampare in essa, mentre l’altra, la lasciava posata contro la parete di roccia.
Le acque cristalline della cascata cadevano rumorosamente, infrangendosi sulla liscia superficie di un piccolo lago, prima di proseguire il loro viaggio lungo un ampio fiume.
Estryd sapeva che la giovane sorella, per sfuggire dallo sguardo accusatore del padre, si recava in quei giardini. Ricordava molto bene le parole che Alhena le disse alcuni giorni prima, per giustificare le sue fughe in quel luogo:
“E’ un piccolo pezzo di lei… la sento vicina al mio cuore… come se non fosse mai partita… a volte, quando chiudo gli occhi, odo la sua voce. Non mi sento in colpa per i crimini commessi… ovunque mi reco vedo solo sguardi accusatori per le mie gesta… ma non qui. Qui lei è viva e felice… in questo luogo lei è con me.” 
Estryd ammirò i giardini: erano stati creati per Celebrìan che, appena giunta a Gran Burrone, soffriva la lontananza da casa sua. Le mancavano le foreste e i magnifici profumi dei fiori. Elrond, allora, per alleviare la sofferenza dell’amata moglie, le aveva fatto dono di quella porzione di terreno. Da quel giorno, Celebrìan dedicava molte ore alla cura di quel giardino che, in breve tempo, divenne il più bello di Gran Burrone. Seminò diversi alberi dalla candida e rugosa corteccia bianca e creò piccole aiuole dai fiori di variopinti colori.
Purtroppo, a causa delle temperature troppo rigide di Gran Burrone, le piante erano morte con sopraggiungere del primo inverno. Tutte erano perite, tranne una: un bellissimo salice piangente che era cresciuto sano e forte.
Ma ora, dopo la sua partenza per le Terre Immortali, le sue cure erano state abbandonate. Elrond aveva negato l’accesso a chiunque, voleva dimenticare quel posto tanto amato dalla moglie. Voleva allontanare il ricordo di Celebrìan dal cuore.
Alhena però aveva trovato un modo per superare gli sbarramenti del padre e aveva fatto di, quel giardino, il suo rifugio segreto. Vi restava per ore, distesa all’ombra dell’unica pianta e fissava il cielo, perdendosi in ricordi felici.
L’elfa scese anche gli ultimi gradini della scala e si guardò attorno: nessuna traccia della sorella.
Vedere quel luogo la paralizzò. Ciò che sorprese Estryd, fu il peso che le gravò all’altezza del cuore: un dolore che si faceva sempre più insistente, una vocina che le sussurrava all’orecchio che qualcosa era cambiato.
Ignorando quella sensazione, si voltò, intenzionata a riprendere le ricerche di Alhena, ma non riuscì a fare nemmeno un passo. Chiuse gli occhi e strinse le mani a pugno, finché le nocche le divennero bianche. Non visitava quel giardino da tempo e le era mancato.
Quella terra era parte di sua madre, l’unico suo ricordo rimasto in tutta Gran Burrone.
Osservò attentamente il prato…. di nascosto, l’erba e le aiuole erano state curate. Le fronde di un possente salice cadevano sfiorando la superficie del lago.
Avanzò verso il centro del giardino; vicino alla riva diverse ninfee ornavano l’acqua, muovendosi poco e ammassandosi una accanto l’altra. Erano così belle… delicate… fragili…
Come un fulmine a ciel sereno, l’immagine di sua madre si fece viva nella mente dell’elfa. Era lì, a pochi passi da dove si trovava; china sui fiori mentre annusava il dolce odore di una rosa. Una lacrima rigò la guancia abbronzata di Estryd.
“Mamma…” un sussurro che racchiudeva tutto il dolore per l’assenza dell’amata madre.
Rassegnata, scuotendo il capo, si voltò per ritornare a palazzo, era troppo forte il dolore per restare in quel luogo: non poteva restare.
“Valar celesti!” esclamò spaventata, sussultando.
Voltandosi, infatti, si era scontrata con Arwen ed i gemelli.
Con le mani si massaggiò la nuca, sistemandosi i capelli dietro le orecchie e respirando a fondo, nel tentativo di riprendere la calma che l’aveva, per un istante, abbandonata.
Sorrise ai tre e, con voce cristallina, chiese: “Cerco Alhena. Dovevo vederla stamattina prima dei suoi studi con il precettore…”
Gli occhi di Arwen, già arrossati, si riempirono di nuove lacrime.
Estryd raggiunse la sorella e, sfiorandole il volto, volse lo sguardo ai fratelli. Corrugò la fronte, non capiva cosa stava succedendo.
“Cosa ti turba?” domandò. “Cosa turba tutti voi?” aggiunse guardando i fratelli.
Arwen, superando Estryd, raggiunse il giardino, le braccia stese lungo i fianchi, le spalle basse, era stanca, rassegnata. La giovane elfa osservò la sorella camminare lentamente fino a raggiungere il salice per poi lasciarsi cadere alla sua ombra, lo sguardo perso nel vuoto.
Guardò i fratelli, con occhi interrogativi: meritava una risposta per questi comportamenti bizzarri.
“Vieni Es. Accomodiamoci con Arwen. Ci sono questioni urgenti di cui dobbiamo discutere.” disse Elrohir, prendendo Estryd per la vita e conducendola verso l’albero.
Elladan, al suo seguito, camminava in silenzio, guardando il terreno sotto i suoi piedi.
“Allora, cosa accade?” chiese nuovamente, una volta seduta tra Arwen e Elrohir.
Nessuno le rispose.
“Riguarda Alhena?... Vero?” chiese con voce tremante.
I tre si scambiarono uno sguardo. Quel gesto fu sufficiente per capire che quelle preoccupazioni riguardavano la sorella. Estryd chiuse gli occhi, non era più certa di voler avere le risposte che cercava.
Arwen stese un braccio e sfiorò la guancia della sorella: “Abbiamo cercato di dissuaderlo… gli abbiamo parlato… l’ho supplicato…”
“D-dissuaderlo?” la interruppe con voce tremante.
“Nostro padre, questa mattina, ha ripudiato Alhena. L’ha costretta a lasciare Gran Burrone.” sussurrò Elladan, ancora incredulo dall’accaduto.
I tre fratelli guardarono Estryd: aspettavano una risposta, una sua qualunque reazione. Ma non arrivò. Sembrava che le parole di Elladan non avessero raggiunto le sue orecchie. Sul volto di Estryd c’era ancora un sorriso mite; ma i suoi occhi tradivano l’emozione che provava. Erano fissi nel vuoto, sconvolti...
Arwen si sporse in avanti e la strinse con forza tra le sue braccia. Tutti e tre sapevano che tra Estryd ed Alhena c’era sempre stato un legame speciale… Estryd, di soli tredici anni più grande dell’altra, era cresciuta insieme alla sorella. Avevano condiviso la camera da letto per diversi secoli, quella vicinanza,andava oltre il legame tra sorelle… a loro bastava uno sguardo per capirsi… a volte nemmeno quello…
 “Mi dispiace…” sussurrò Elrohir. “Abbiamo cercato…”
Respingendo Arwen, Estryd s’alzò di scatto e guardò i tre fratelli. Muovendo gli occhi da uno all’altro, incrociando i loro… aveva bisogno di sentirsi dire che era una bugia, che Alhena stava bene e che semplicemente era fuori a cavallo… ma loro non parlavano, non smentivano le parole dette.
Cercando di mantenere una calma che, in quel momento, non aveva, chiuse lentamente gli occhi, respirò a fondo, per poi riaprirli.
“Quali ragioni ha dato per giustificare il suo allontanamento?”
Si stupì della sua voce, era colma di dolore e di risentimento.
“Tutti noi sappiamo le sue ragioni… le da la colpa per la partenza di nostra madre… per la sua decisione di suggire per le Terre Immortali.” rispose Elrohir, guardando il gemello al suo fianco.
“Ma questo non è ciò che ha detto.” concluse Elladan.
“E cosa ha detto?”
Arwen si voltò, guardando la cascata: non sopportava di sentire nuovamente quelle orribili menzogne.
Alzandosi, Elladan raggiunse la sorella e, guardandola con intensità negli occhi, posò le mani sulle sue spalle: “Ha annunciato che è stato un desiderio di Alhena…” fece una pausa. “Quello… quello di partire.”


Il sentiero tra le Paludi Morte era stato un percorso arduo. Avevano proceduto lentamente lungo il sentiero, restando in silenzio. Nelle loro menti mille pensieri si creavano e sparivano. Alcuni erano colmi di speranza, altri di disperazione. Quella landa non lasciava molto spazio alla fiducia che, nei loro cuori, ormai era quasi esaurita.
Mentre camminava, Estryd si guardava curiosa attorno: aveva sentito parlare della battaglia consumata in quel campo molti secoli prima, durante la Prima Era della Terra di Mezzo. Si vociferava che le anime dei caduti fossero rimaste incatenate a quel posto. Non avrebbero mai riposato in pace e serenamente; erano divenute creature insidiose. Accendendo delle fiaccole, chiamavano a loro i viaggiatori, causandone la morte.
Estryd era preoccupata per Frodo. Aveva rischiato di perdersi, seguendo la voce incantatrice di una di quelle creature. Nel cuore dell’elfa il timore per la debolezza del Portatore era assillante; se la volontà dello Hobbit era stata manipolata da quegli esseri incantatori con tanta facilità, era certa che, presto o tardi, avrebbe ceduto al potere dell’Anello.
Galadriel, prima della partenza, l’aveva avvisata: l’Anello di Sauron non si sarebbe arreso alla sua distruzione con facilità. Avrebbe lottato e, con molte probabilità, avrebbe vinto.
Per gli eventi nelle Paludi, Estryd iniziava a dubitare sulla forza di volontà del Portatore; contro i morti era stato miracolosamente salvato da Gollum. Quel gesto inaspettato della creatura aveva sorpreso tutti loro. Aveva dimostrato, così, la sua buona fede e la lealtà verso il nuovo Portatore.
Scuotendo il capo, l’elfa allontanò quei pensieri dalla mente: dubitare dei suoi compagni non avrebbe giovato alla loro missione. Frodo aveva già dovuto affrontare molte prove nelle ultime settimane e l’elfa doveva avere fede in lui. Non poteva far altro, non aveva altra scelta…
Solo col tramontare del sole, i tre viaggiatori raggiunsero le montagne che creavano il confine naturale delle Terre libere con quelle di Mordor.
Il paesaggio non mutò da quello precedente: stessa desolazione delle Paludi, stesso puzzo, stessa mancanza di luce e stessa aria opprimente. Solo quando il sole scivolava lento per concedersi un meritato riposo, superando la cortina di polvere e nubi, uno spiraglio di luce rossa colpiva ogni cosa… durava un solo istante e poi tutto ritornava tenebra. Ma, quel singolo istante, seppur fugace, dava forza all’elfa: valeva la pena continuare il viaggio per dare una speranza al mondo… valeva la pena continuare per vedere un nuovo tramonto che le avrebbe riscaldato il cuore…
Frodo camminava in testa, pochi passi dietro di lui c’erano Sam e Gollum e, a chiudere la compagnia, vi era Estryd. Non era tranquilla; si guardava sempre alle spalle, come aspettandosi un agguato.
Avevano proceduto velocemente, temevano di dover trascorrere la notte così vicini a quella terra. Erano stati attenti a non far rumore durante l’attraversata, per evitare di attirare attenzioni indesiderate. Ma, il suo istinto la metteva in guardia: temeva che le precauzioni adottate non fossero state sufficienti per celare il loro passaggio.
“Domani giungeremo ai Neri Cancelli di Mordor.” disse Estryd, fermandosi accanto a degli alberi dall’aria malata e a delle rocce appuntite, ricoperte di muschio. “Fermiamoci qui per la notte… riposiamo e recuperiamo le forze. Questa, mi dispiace dirlo, non era la parte del viaggio difficile… le difficoltà inizieranno ora.”
Non c’erano altri ripari e, guardandosi attorno, Estryd costatò che, ogni cosa, più si avvicinava a Mordor, diventava morta. Solo grigia e fredda roccia.
Frodo, senza obbiettare alla proposta dell’elfa, obbedì e, stendendosi, prese sonno velocemente. Non parlò. Non mangiò. Non guardò nessuno dei compagni negli occhi.
Estryd guardava attentamente i comportamenti del Portatore e, più lo osservava, meno gli piaceva quello che vedeva… spesso lo intravedeva sfiorarsi il suo petto, all’altezza del cuore, dove, con molta probabilità, era posato l’anello… quell’atteggiamento non preannunciava nulla di buono.
Sam legò Gollum con della corda elfica, donatagli da Galadriel, assicurandolo a un albero. Voleva evitare una sua fuga notturna e, anche se Frodo si oppose, accecato dalla buona fede e dalle azioni della creatura, non demorse.
Quando il respiro di Frodo si fece regolare, Sam raggiunse Estryd e, accomodandosi al suo fianco, le sussurrò: “L’Anello pesa ogni giorno di più al collo di Frodo…” s’interruppe un istante, valutando se esporre le sue preoccupazioni all’elfa. Ma, lo sguardo grave che la ragazza assunse, gli fece capire che i suoi tormenti erano condivisi. “Non ho visto solo io tutto questo, vero? Lo hai notato anche te?”
La principessa piegò il capo, guardando il giovane Hobbit negli occhi verdi. Era dimagrito molto dall’inizio del viaggio da Gran Burrone. Stavano diventando l’ombra di loro stessi. Annuì debolmente, chiudendo gli occhi e respirando a fondo.
“Sì.” sospirò. “Lo avverto anch’io… vorrei aiutarlo… ma… ma non saprei cosa fare per aiutarlo… per alleviare un po’ quel peso che grava sul suo cuore…” Sospirò nuovamente, passando le mani tra i capelli. “Non dispongo del potere necessario per fare qualcosa… temo che non ci permetterà di aiutarlo…” chiuse gli occhi e, massaggiandosi il volto con le mani, concluse, esponendo ad alta voce i pensieri che la tormentavano da giorni: “Si sta allontanando da noi… l’Anello prende il soppravvento sulla volontà di Frodo.”
Nella voce dell’elfa, Sam avvertì una grande e crescente delusione. Guardò l’amica attentamente: capiva cosa stava provando Estryd. Stare giorno dopo giorno accanto a Frodo e vederlo lottare contro la forza dell’Anello, senza poterlo aiutare… era davvero straziante.
Non poteva credere che alle preoccupazioni dell’elfa: non poteva crederci… non doveva crederci…
“Superare le Montagne non sarà semplice. Vero?” chiese Sam, cercando di distrarre l’amica dal tormento di quelle congetture.
“No. Non lo sarà.” rispose onesta, sbuffando. “Mi chiedo se ho preso la strada giusta. Sarebbe più facile proseguire verso sud e tentare di superare i cancelli da lì. Potremmo trovare aiuto in Gondor.”
Sam guardò Estryd: non l’aveva mai vista così fragile, così indifesa. Sembrava aver perso ogni speranza e, così, anche la fiducia che la rendeva unica. Le motivazioni iniziali che l’avevano portata a seguire Frodo sembravano averla abbandonata. Il profilo severo dell’elfa era fisso all’orizzonte, lo Hobbit poteva intuire i suoi pensieri… pensava al suo amato, a Boromir…
Allungando un braccio verso la compagna, Sam posò la mano su quella dell’elfa. I loro sguardi s’incrociarono: sorrise alla ragazza nel tentativo di infonderle un po’ di fede.
“Non perdere le tue certezze, mia signora. Io ho fiducia nella riuscita della nostra missione.” disse. Poi, voltandosi verso Frodo, guardò l’amico riposare. “Potrà contare su di noi. Sempre potrà contare su noi due. Saremo al suo fianco, fino alle pendici del Monte Fato.”
Detto questo, Sam si allontanò dall’elfa e si coricò accanto a Frodo.
Rimasta sola, Estryd, fissò l’oscurità: avrebbe fatto la guardia fino alle due del mattino, poi, come da accordi, Sam avrebbe preso il suo posto.
Mentre guardava il buio, i pensieri di Estryd andarono a Boromir. Gli mancava… gli mancava in un modo che non riusciva a spiegare: avevano vissuto così poco tempo insieme e, anche finita la guerra contro Mordor, per via della sua natura mortale, non ne avrebbero mai avuto abbastanza, di giorni. Guardò l’anello che gli aveva donato prima della separazione, gli occhi le si riempirono di lacrime. Non sapeva dove si trovava, magari era in difficoltà… e lei non poteva far nulla; tutto ciò era straziante.
Frodo russò rumorosamente; quel suono fece eco attorno a loro.
Estryd si alzò di scatto, guardandosi attorno; preoccupata di essere uditi da orchi o altri alleati di Sauron.
“La corda… è stretta!” gracchiò Gollum, afferrandola e cercando di allentare il nodo attorno al suo collo.
Estryd lo guardò: non provava alcuna pena per quell’essere. Suo padre gliene aveva parlato, mettendola in guardia. Gli aveva raccontato che, tempo fa, era una persona, molto simile ad un Hobbit. Il ricordo delle parole del padre le fece venire la pelle d’oca: aveva ucciso a sangue freddo un suo amico, il migliore che avesse, solo per avere l’Anello. Per possederlo. “E’ stretta quel che basta per impedirti di scappare.” rispose secca. “Hai cercato di uccidere Frodo, alcuni giorni fa. Non l’ho ancora dimenticato.”
Gollum strabuzzò gli occhi: “Noi… noi non volevamo… noi non avevamo scelta… l’Anello…”
“Taci.” rispose Estryd perentoria. Non gli avrebbe dato la possibilità di parlare.
“Sei perfida… cattiva rispetto alla bionda elfa di Gran Burrone.” bofonchiò Gollum, piegandosi su sé stesso e tossendo rumorosamente.
“Bionda elfa?” ripeté Estryd, il cuore iniziò a battere più veloce nel suo petto. “Di… di chi stai parlando?”
Gollum alzò lo sguardo e sorrise maligno: “Della bionda principessa di Gran Burrone… di tua sorella… di Alhena…”
Sentir pronunciare il nome della sorella, fece scattare Estryd. In una falcata, raggiunse la creatura, afferrandola per un braccio e sollevandola, senza alcuno sforzo, da terra. Impugnò il pugnale che portava legato in vita e tagliò la corda con un movimento di polso. Poi, senza allentare la presa, trascinò Gollum lontano dall’accampamento e dagli Hobbit.
Quando fu certa di avere discrezione, guardò gli enormi occhi bianchi dell’essere.
“Come conosci mia sorella?” sussurrò a denti stretti, senza trattenere l’odio e il disgusto.
“Ooh, noi la conosciamo… la conosciamo mooolto bene!” rispose, senza distogliere lo sguardo dall’elfa.
“Come?” insistette Estryd. “E quando?”
“Alhena è stata gentile con noi… lei ci ha dato da mangiare quando eravamo prigionieri di Bosco Atro e di quell’arrogante Re…” fece una pausa, assaporando le parole che stava per pronunciare. “Lei ci ha liberati.”

 

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 15 - DUBBI E CERTEZZE ***


Eccomi con un nuovo capitolo!
Senza indugi: buona lettura!!!!
***


La foresta di Fangorn sembrava malata. Gli alberi erano antichi, l’edera che li ricopriva impediva loro di respirare. Soffrivano e il loro strazio giungeva fino alle orecchie dei due elfi, straziando i loro cuori. Alhena camminava con lo sguardo chino, fissando i propri stivali. Non sopportava quei lamenti… l’aria stessa che si respirava era asfissiante e la luce non penetrava oltre le fronde degli alberi. Le radici si arrampicavano tra le rocce e i massi, cercavano terreno dal quale potersi cibare.
Dietro di lei, Legolas si guardava attorno incuriosito: aveva sentito parlare di quella foresta, ma mai l’aveva percorsa. Cercava di ignorare il peso che gravava sul suo spirito, discorrendo con Boromir.
Aragorn, invece, camminava in testa al gruppo; una mano posata sull’elsa della spada, pronto a intervenire ad ogni evenienza. Alhena lo osservò guardarsi attorno. Avanzava sfiorando gli arbusti, fermandosi quando qualcosa attirava la sua attenzione.
La bionda comprendeva le angosce del ramingo: aveva visto molte cose, vagando per la Terra di Mezzo, e qualcosa di molto grande si muoveva tra gli alberi. Anche lei si era accorta che erano sorvegliati… dei grandi segni erano stati lasciati sul terreno e, dallo sguardo interrogativo di Aragorn, nemmeno lui era certo sul genere di creatura che si sarebbero trovati davanti.
“Le tracce degli Hobbit spariscono qui… qualcosa ha fermato la loro fuga… catturandoli.” disse Aragorn, chinandosi e sfiorando il terreno smosso. Scostò alcune foglie e tastò il terreno.
“Qualcosa?” chiese Boromir, chinandosi accanto al compagno.
Osservò quello che il ramingo stava studiando, senza vedere nulla se non un mucchio di foglie, arbusti e sassolini.
“Non so nemmeno io cosa possa essere… io… non capisco… sono orme strane, enormi...” rispose, alzando lo sguardo verso il comandante di Gondor. “Qualunque cosa sia è grande. Le impronte sul terreno mi fanno supporre che…” s’interruppe alcuni istanti, valutando le informazioni che stava per fornire. “La creatura dev’essere alta almeno tre metri.”
Boromir impallidì sentendo quelle parole: “Un troll delle montagne? Sarebbe plausibile…”
“Non penso. Raramente si allontanano così tanto dalle caverne…” lo contraddisse Aragorn. “Avrei un’idea… ma… è talmente assurda… io…”
“Quale? Che idea ti sei fatto?” chiese Boromir, incuriosito.
Il ramingo stava per rispondere, ma venne interrotto da Legolas che, seguito da Alhena, raggiunse e superò i due uomini; l’arco stretto in mano e lo sguardo fisso all’orizzonte.
“C’è qualcosa!” disse l’elfo, guardando davanti a lui.
Aragorn, alzandosi da terra, seguì l’elfo. Alhena estrasse dal fodero la sua spada, fermandosi pochi passi davanti a Boromir.
Legolas si bloccò, strizzando leggermente gli occhi. Alle sue spalle, Aragorn, guardava nella stessa direzione dell’amico. Qualunque cosa scorgesse l’elfo, lui non riusciva a vederla.
“Cosa vedi?” chiese in meno di un sussurro, chinandosi verso il compagno.
“Lo Stregone Bianco si avvicina.”
Quelle semplici parole furono sufficienti per raggelare il sangue nelle vene dei compagni. Un pensiero attraversò le loro menti: “Saruman ci ha trovati.”.
Istintivamente impugnarono le armi, pronti a sfidare lo stregone. Erano consapevoli di non aver molte possibilità con un attacco diretto… Saruman possedeva la conoscenza di arti magiche micidiali, ma almeno avrebbero provato. Non sarebbero rimasti mani in mano, avrebbero lottato. Fino all’ultimo.
Alhena avanzò verso Legolas con passo insicuro: “E’ diverso…” sussurrò accostando le labbra all’orecchio dell’elfo. “Lo senti anche te, vero?”
Legolas annuì, incerto. Comprendeva le parole della bionda: era lo Stregone Bianco che si stava avvicinando a loro… vedeva la sagoma del suo corpo e sentiva la sua forza: non c’erano dubbi in proposito… ma c’era qualcosa di diverso… il suo potere… le emozioni che suscitava agli alberi al suo passaggio… Saruman aveva sfruttato la foresta, riducendola quasi all’estinzione. Non era prudente per lui… gli alberi si sarebbero ribellati, vendicandosi.
“E’ qui da solo?” chiese Alhena, notando che non aveva un esercito al suo seguito.
Legolas mosse il capo, un gesto impercettibile agli occhi degli altri compagni, ma non sfuggì ad Alhena.
“Non lasciate che parli. Ci farebbe un incantesimo.” disse saggiamente Aragorn, raggiungendo i due elfi.
“Non farà un fiato…” rispose Legolas incoccando una freccia, pronto a colpire.
Schierati, uno accanto all’altro, erano preparati a fronteggiare qualunque cosa si sarebbe parata loro davanti.
Erano nervosi, lo si percepiva dai piccoli gesti… Legolas guardava lo stregone muoversi, senza battere ciglio. Aragorn respirava piano, come per non far rumore. Boromir girava su sé stessa la spada che aveva in pugno. Alhena, come ogni volta quando si presentava una situazione particolarmente difficile, ripensava agli anni felici della sua vita. Le servivano ricordi gioiosi per ritrovare pace e serenità. Per avere una spinta ad affrontare il combattimento.
Agli occhi della bionda non era sfuggito un solo movimento dello stregone… avanzava lento tra gli alberi, un lungo abito bianco che sfiorava il terreno erboso.
Qualcosa non quadrava… voltandosi verso il principe di Bosco Atro, Alhena intuì che anche l’amico aveva percepito la differente natura dell’uomo che si stava avvicinando… la sua magia apparteneva al Bianco Stregone, ma non pareva Saruman…
L’elfa non avvertiva malvagità in lui… anzi, tutt’altro: un alone di purezza lo seguiva. “Possibile che gli altri non lo avvertono?” pensò, guardando i due uomini, per poi risposare lo sguardo sulla figura incappucciata.
Scomparve.
Contemporaneamente, Alhena e Legolas sussultarono spaventati; non avevano previsto questa eventualità.
Un’accecante luce bianca abbagliò le loro spalle, facendoli voltare.
Sopra alcune rocce lo Stregone Bianco si ergeva in tutta la sua statura: in mano il bastone, la veste chiara legata in vita da una corda.
Legolas scagliò una freccia, ma questa si frantumò davanti al suo enorme potere.
Poi, con un gesto della mano, le spade che Aragorn, Boromir e Alhena impugnavano, divennero incandescenti. Senza scelta, lasciarono cadere le armi a terra.
Aragorn indietreggiò di un passo, smarrito… “Non poteva essere la fine…!” pensò il ramingo, scontrandosi con Boromir, alle sue spalle. “Non dopo tutti i sacrifici fatti… non arrivati fin lì…”
“State seguendo le tracce di due giovani Hobbit.” disse lo stregone, interrompendo il silenzio teso che si era creato.
La sua voce era famigliare… stranamente famigliare…
Ancora l’accecante luce che emanava impediva loro di guardarlo in volto, di scorgere i tratti del suo volto. Alhena sentiva che non si trattava di Saruman… non era lui… possedeva un animo buono…
“Dove sono?” chiese Aragorn, coraggiosamente. “Li hai visti?”
“Sono passati di qua…” fece una pausa. “L’altro ieri. Hanno incontrato qualcuno che non si aspettavano.” rispose lo stregone. “Questo vi conforta?”
Alhena e Legolas si scambiarono uno sguardo d’intesa. La bionda sorrise; comprese all’istante a chi apparteneva la voce…
“Chi sei?” chiese Aragorn, abbassando la mano con la quale si riparava gli occhi dalla luce. “Fatti vedere!”
Il chiarore diminuì; la luce venne assorbita dal corpo dello stregone. I lineamenti del suo volto iniziarono a intravedersi… lo riconobbero subito… e come scordarlo!
Era lui: il loro amico, il loro compagno caduto a Moria: Gandalf.

“Liberato?” ripeté incredula Estryd, sgranando gli occhi e guardando la creatura che aveva davanti.
Non riusciva a credere alle parole dette da Gollum. Erano menzogne! Erano tutte menzogne! Lo sapeva! Lo sentiva! Non poteva essere altrimenti!
Indietreggiò di un solo passo, incerta… ma il dubbio ormai si era fatto strada nella sua mente… quanto bene conosceva la sorella? Avevano perso i contatti, per anni, e solo nelle ultime settimane si erano riavvicinate… l’esilio da Gran Burrone poteva essere cambiata fino a quel punto?
Scosse il capo: no. Non lei. Non Alhena, sua sorella… la sua dolcissima Alhena.
Per quale motivo avrebbe liberato quella creatura? Era pericoloso! Letale, perfino! Sapeva uccidere e lo aveva ampiamente dimostrato assassinando Déagol per ottenere l’Anello…  
“Parla schifoso…” insisté l’elfa, chinandosi e puntando il pugnale al collo del prigioniero. “Par-la!” sussurrò Estryd, scandendo le parole.
“L’abbiamo conosciuta a Bosco Atro… è stata gentile con noi.” si ripeté.
“Perché lo avrebbe fatto? Perché ti ha liberato?”
“Siamo solo dei miserabili.” rispose Gollum. “Noi non abbiamo nulla. Viviamo per il nostro tesoro… il nostro bellissimo, unico, prezioso tesoro…” concluse, guardando Frodo che dormiva poco lontano da loro.
Estryd seguì lo sguardo della creatura, disgustata per la sua ossessione. L’Anello aveva corrotto spiriti forti, anche più del suo… l’erede di Gondor, Isildur, aveva ceduto al fascino che quell’oggetto ispirava.
“Rispondi alle mie domande!” sussurrò. “Perché Alhena ti ha liberato? Cosa le hai detto?”
“Mia dolce principessina… anche gli elfi possono nascondere… malvagità nei loro animi…” concluse Gollum enigmatico, avvicinandosi alla bruna e girandole attorno, senza distogliere lo sguardo dall’elfa. “Ci ha parlato a lungo della sua vita… lei non è più la sorella che ricordavi… tu non conosci Alhena come la conosciamo noi… è cambiata…”
Estryd non poteva ascoltare quelle parole. Erano tutte menzogne, dette solo per confonderla.
Lasciò la presa… in ogni modo ormai il danno era stato fatto: quelle frasi l’avevano prosciugata di ogni speranza. Si sentiva derubata, vuota…
Abbassò lo sguardo, fissando il terreno ai suoi piedi. Non poteva essere vero. Non poteva corrispondere al vero… stava mentendo…
Si allontanò di qualche passo da Gollum, continuando però ad osservarlo. Non voleva perdere un solo movimento… era spaventata da lui e dalle intenzioni che celava nel suo cuore.
“Lasciami sola.” esclamò infine.
I pensieri dell’elfa andarono subito alla sorella. Il dubbio si stava facendo strada nella sua mente: se ciò che aveva raccontato corrispondeva al vero, cosa aveva spinto Alhena a liberare Gollum? Cosa nascondeva dietro quel gesto inspiegabile? La semplice malvagità non giustificava le sue azioni…
Un pensiero attraversò la sua mente: l’Anello. Che anche Alhena lo volesse?
Respirò a fondo, cercando di riprendere il controllo che aveva perduto. Non aveva prove che quanto detto da Gollum corrispondesse al vero.
Scosse il capo, erano idee assurde. Solo paranoie. Frasi senza un fondo di verità.
“E’ mia sorella!” disse con tono piatto la bruna, più a sé stessa che a qualcuno in particolare. “La conosco.”
“E’ tua sorella… sì… tua sorella…” acconsentì Gollum. “Ma quanti anni sono passati dall’ultima volta che vi siete confidate? Che avete parlato?” fece una pausa. “Cosa ti ha raccontato del suo esilio?”
Superando Estryd, Gollum camminò verso gli Hobbit. Poi, fermandosi, concluse: “Non ti ha raccontato metà delle cose fatte per sopravvivere… ma a noi sì… sei troppo pura per comprendere i suoi sacrifici… e quel…” meditò sulla parola alcuni istanti. “…borioso sovrano… avremmo dovuto torcere quel suo delicato collo alla prima occasione…”
“Che… che sovrano?” chiese con voce tremante Estryd.
Gollum non rispose e, raggiunti gli Hobbit, si accovacciò accanto a Frodo.
Seguendo la creatura con lo sguardo, Estryd rimase senza fiato.
Il suo corpo si dimenticò di come si faceva a respirare… si sentì morire… non conosceva sua sorella… Alhena poteva aver commesso tante imprudenze, poteva anche averlo liberato… non si erano mai parlate dal loro incontro a Moira.
Cadde a terra, stremata… priva di ogni energia...
L’oscurità attorno a lei cresceva, opprimentola… privandola della forza, lasciandola disarmata. Gli occhi fissi nel vuoto e la mente vuota.
Perfino pensare era troppo faticoso. Rumori assordanti crescevano nel suo spirito: pensieri, urla, che attraversavano la sua mente… quella notte non avrebbe preso sonno.
A quale sovrano si riferiva? Aveva soggiornato a Bosco Atro, a Rohan, a Gondor… ripensò alle poche lettere scambiate con la sorella… aveva vissuto anche con i raminghi al Nord… poteva riferirsi a chiunque… Estryd chiuse gli occhi: poteva anche riferirsi a nessuno.


Elladan era in ritardo, constatò irritato Elrond osservando i figli seduti a tavola, davanti a lui. Sospirò; capitava spesso, troppo spesso ultimamente.

Quel giorno, il giovane, aveva perso la nozione del tempo. Era uscito di buon’ora da palazzo e, una volta accertato di non essere visto o seguito, aveva cavalcato senza sosta fino a quando il cielo aveva iniziato ad imbrunire.
Così trascorreva le giornate: si allontanava furtivamente da Gran Burrone e andava a cercare la sorella. Non voleva credere che fosse andata via… non sopportava l’idea di quanto successo. Sperava sempre di incrociarla durante le sue cavalcate… di vederla stesa all’ombra di un albero, sorridente e, con molte probabilità, con l’abito sporco e strappato… sorrise pensando ad Alhena: a lei non importavano le regole convenzionali. A lei piaceva divertirsi, essere sé stessa…
Chiuse gli occhi, ripensando ai lineamenti del suo volto: un modo per non scordarla, per sentirla vicino. Voleva stringerla a sé, non desiderava altro. Poi l’avrebbe riportata a casa e avrebbe lottato perché ciò potesse avvenire; scontrandosi con il loro stesso padre, se necessario. Non gli importavano i suoi ordini: Alhena era sua sorella, sua figlia… Era una principessa di Gran Burrone e il suo posto era a palazzo.
Purtroppo, anche quella volta il viaggio era stato infruttuoso. Nessuna traccia della giovane e, l’unica cosa ad aver guadagnato da quella giornata a cavallo, era stato un terribile mal di testa.
Pensare ad Alhena lo faceva soffrire per via dei ricordi di giorni felici trascorsi insieme… era troppo doloroso per lui… troppo…
Fermandosi lungo la via che conduceva a Gran Burrone, osservò il palazzo illuminato tenuemente da migliaia di candele.
L’ultima volta che si era fermato ad ammirare la propria casa, con lui c’era Alhena. Sorrise al pensiero della giovane sorella; fin da bambina aveva sempre insistito per seguirlo nelle sue cavalcate, dimostrando il suo legame con la natura. Adorava la pace che essa dava… ma solo quando aveva raggiunto l’età per possedere un cavallo e saperlo domare, avevano iniziato a uscire insieme.
Si sentiva legato ad Alhena, più rispetto alle altre due sorelle.
Inizialmente non voleva che lei lo seguisse; vedeva la giovane come un intralcio… un peso che avrebbe ostacolato le sue cavalcate solitarie… ma poi, con il tempo, era diventata la sua protetta… la sua piccola Alhena… la sua dolce sorellina…
Spronando il cavallo, riprese la via per Gran Burrone.
Erano passati già due mesi da quando loro padre l’aveva allontanata da palazzo. Lui e i fratelli avevano cercato di dissuaderlo, ma le loro suppliche non erano valse a nulla: Elrond era stato irremovibile sulla sua decisione. Non avrebbe permesso alla figlia di tornare a casa, non riusciva a perdonarla per quelli che a lui parevano degli errori.
Per questo, almeno due volte la settimana, Elladan usciva da palazzo in gran segreto… sentiva il bisogno di fuggire, di allontanarsi da quel palazzo che era troppo pieno di lei! Ogni angolo, ogni luce, ogni mobile o terrazza gli ricordava Alhena… era diventata la sua ossessione, un pensiero fisso nella sua mente: Alhena.
Ritrovarla e riportarla a casa.

Condusse il cavallo nelle stalle e lo liberò dal peso della sella.
“Mio Signore, vostro padre l’ha cercata per ore…” disse un giovane elfo bruno entrando nelle scuderie e piegando il capo, in segno di rispetto.
Elladan si voltò, guardandolo con attenzione.
“Dunque ha saputo che sono uscito questa mattina?”
“Sì e, se mi è permesso dirlo, non è di buon’umore. L’aspetta nella sala per la cena.”
“Va bene… riferisci che sto arrivando.” concluse, mentre iniziava a strigliare il cavallo.
Iniziava a trovare fastidioso il comportamento caparbio del padre… Alhena aveva commesso un’imprudenza… ma non aveva alcuna colpa, sarebbe potuto capitare a chiunque di loro… lei più di tutti soffriva per la decisione presa da Celebrìan… si sentiva responsabile della sua partenza per le Terre Immortali… e, invece di trovare conforto nella famiglia, nel padre, era stat rifiutata… era stata accusata. Il loro stesso padre l’accusava apertamente di ogni cosa e lei, per proteggersi, si era chiusa in sé stessa, iniziando anche a credere alle sue parole.
Senza cambiarsi d’abito, entrò nel salone dove il pasto serale era già stato servito. Il profumo del pane appena sfornato raggiunse le sue narici, lo stomaco gli brontolò: non toccava cibo dalla sera precedente…
La sala, in genere gremita di gente, era vuota. Poche candele erano state accese alle pareti e solo un candelabro posato al centro dell’unico tavolo presente. Non si sorprese, da sei mesi, dalla partenza di Celebrìan per le Terre Immortali, non c’erano stati più banchetti. Elrond non sopportava la musica, la compagnia, la gioia e le risa del suo popolo… preferiva la solitudine delle sue stanze, dove poteva piangeva la perdita dell’amata moglie.
Il rumore della porta rimbombò. Elladan fissò i fratelli, evitando gli occhi grigi del padre. La tavola era stata apparecchiata riccamente. Senza proferire parola si avvicinò a loro: a capotavola sedeva Elrond, alla sua destra c’erano le sorelle e, alla sua sinistra, Elrohir. Si erano già serviti del cibo e stavano mangiando in silenzio, come sempre.
“Ci perdonerai se non ti abbiamo aspettato.” sussurrò irritato Elrond, guardando il figlio.
Elladan vide Estryd, il capo chino sul piatto e la forchetta in mano mentre muoveva in circolo dei piccoli pomodori.
“Sei sempre in ritardo.” continuò severo Elrond. Storse il naso: “E puzzi di cavallo. Sei uscito?” fece una pausa. “Per cercare lei?”
Ignorando le parole paterne, prese posto accanto al gemello e, afferrando una galletta elfica, iniziò a mangiare come se nulla fosse accaduto. Come se nessuna parola fosse stata pronunciata…
“Sai che non è gradita qui.” continuò Elrond.
Ma, le sue parole furono ignorate. Elladan addentò un Lembas.
“Elladan!” Elrond si alzò in piedi di scatto, picchiando le mani sul tavolo.
Il figlio guardò il padre, diede un altro morso alla galletta e poi la gettò sul piatto vuoto.
“Cosa?” chiese irato, ma controllando però il tono della voce.
Il signore di Gran Burrone aprì bocca ma, dalle sue labbra, non uscì nemmeno una parola. Non sapeva cosa rispondere a quella semplice domanda.
“Cosa c’è che ti disturba tanto?” chiese Elladan, alzandosi a sua volta e guardando il padre in volto.
“Non ti permetto di…” iniziò a dire Elrond, ma la sua voce venne sovrastata dal figlio.
“Hai cacciato Alhena, tua figlia, da casa sua! L’hai sbattuta nel mondo, da sola ed indifesa! Credi forse che dopo due mesi sia tornato tutto come prima? Che ci siamo dimenticati di lei? Ti comporti come se non fosse mai esistita! Mangi, leggi i tuoi volumi, tieni riunioni… nulla è cambiato per te…! Ma io non riesco a sopportarlo! Alhena è mia sorella! Tua figlia! Come puoi comportarti così e predicare di essere un signore saggio e clemente per il tuo popolo?“
Elrond rimase in silenzio, impassibile: guardava davanti a sé. Lo sguardo fisso nel vuoto.
Anche Arwen ed Elrohir si alzarono in piedi.
“Dovremmo andare a cercarla!” s’intromise il gemello, osservando il padre con attenzione, cercando di capire i suoi pensieri. “Potrebbe essere in difficoltà… potrebbe aver bisogno del nostro aiuto…”
Stanco, il Sovrano di Gran Burrone si riaccomodò; ricurvo, come un arbusto spezzato.
“Non sappiamo dove sia… possibile che non provi preoccupazione per lei? È tua figlia… sangue del tuo sangue…” disse Arwen, avvicinandosi al padre e frapponendosi tra lui ed i fratelli.
S’inginocchiò e, posando le mani su quelle del padre, lo guardò negli occhi… erano così vuoti, freddi… privi di ogni sentimento.
“Una sola parola e noi andremo a cercarla. La cercheremo ovunque e la riporteremo a casa!” esclamò Elladan.
“Papà…” lo richiamò Elrohir.
Era sempre la stessa storia e, ormai, si ripeteva da mesi.
Dapprima cercavano di convincere Elrond a parlare della figlia, cercavano di fargli comprendere che Alhena non aveva colpa dell’accaduto… poi, cercavano di farlo ragionare, di convincerlo a ricredersi sulla decisione presa.
Non potevano accettare che la storia si  concludesse così: Alhena doveva tornare a casa. Il suo posto era lì, con loro e il padre.
“Papà… per favore…” supplicò Arwen, ancora una volta. “Mamma non avrebbe voluto questo…”
Elrond scosse il capo. Non si sarebbe fatto convincere.
“Ora basta.” Sussurrò, senza ormai più pazienza.
Quelle due parole raggelarono il sangue nelle vene dei figli.
S’interrupe alcuni istanti, poi Elrond continuò, con lo stesso tono distaccato: “Sedetevi a tavola o andatevene. Credete che mi interessino le vostre opinioni? Non ammetto questo atteggiamento dai miei figli. Ho perso Celebrìan… Alhena ne è la causa. Questione chiusa.”
Con un movimento brusco, scansò la figlia e, concentrando nuovamente l’attenzione al suo piatto, prese il calice di vino e, dopo aver osservato il contenuto, lo svuotò in un sorso.
Non ne aveva fatto parola ai figli, ma quella mattina aveva ricevuto un falco da Thranduil. Alhena aveva raggiunto la sua terra due giorni prima e lui aveva le negato l’accesso nei suoi confini. Leggere quelle poche righe lo aveva fatto sentire strano. Il fiato gli era mancato nel petto. Aveva raggiunto Bosco Atro da sola, sfuggendo dagli orchi che giravano per la Terra di Mezzo; aveva dimostrato di possedere coraggio e grandi abilità… ma non avrebbe ceduto.
Guardò i figli riprendere posto, anche Elladan si accomodò accanto al gemello.
Fece scorrere lo sguardo da un figlio all’altro, soffermandosi su Arwen ed, infine, Estryd. Non aveva parlato.
Non si era mossa: sguardo chino e forchetta in mano, roteando un pomodoro su sé stesso.
“Estryd, tu non hai nulla da dire al riguardo?” chiese. “Pare che tutti abbiano un’opinione… la tua?”
La giovane incrociò lo sguardo del padre, Elrond lesse odio negli occhi verdi della figlia. In lei c’era solo odio.
“Parlare non servirà a nulla. Hai rovinato la nostra famiglia. Spero solo che non accada nulla a mia sorella o potrai dire al mondo di aver perso non una, ma due figlie.”
Poi, alzandosi in piedi, uscì dalla sala.
Anche Elladan si alzò da tavola e, seguito dal gemello, senza parlare, uscirono, seguendo Estryd.
Rimasto solo con Arwen, Elrond guardò la figlia maggiore. Inarcò un sopracciglio, dallo sguardo della figlia sapeva che stava per dire qualcosa.
“Ebbene?” chiese guardando Arwen, irritato dalle continue lamentele.
“Ebbene?” ripeté incredula. La mente di Arwen era pesante, offuscata dai mille dubbi e pensieri: “…Riusciva a dire solo quello? Aveva perso una figlia e il rispetto degli altri e l’unica cosa che riusciva a dire era “Ebbene?”?...”
Scattò in piedi, con rabbia picchiò le mani sul tavolo. La sedia cadde per terra, il rumore rimbombò nella sala.
Chinandosi verso il padre, sibilò: “Prega che Alhena sia al sicuro o perderai tutti noi… e allora voglio vedere come spiegherai a mamma tutto questo... lei sarebbe disgustata da te e dal tuo comportamento!”
Con passo deciso seguì i fratelli, lasciando il padre solo.
Rimasto nella sala, come se nulla fossa, Elrond prese la brocca del vino e si riempì l’ennesimo calice fino all’orlo.
Le parole dei figli non lo avevano toccato: stava sbagliando e lo sapeva senza aver bisogno delle loro insistenze. Erano i suoi bambini quelli che stava perdendo, ma il dolore per la partenza della moglie era troppo grande.
Vedere Alhena girare per le ale del palazzo era uno strazio… lei: con i suoi occhi, i suoi capelli, la sua voce e le sue risa… somigliava così tanto alla madre, più di tutti gli altri figli. Era troppo per lui vederla. Troppo.
Bevve e riempì nuovamente il bicchiere.
Col tempo, magari, sarebbe riuscito a perdonare la figlia… ma, per ora, a Gran Burrone non c’era posto per Alhena.


Il Nero Cancello di Mordor era imponente, più di quello che Frodo e gli altri si aspettassero. Le immagini dei volumi che Estryd aveva studiato da fanciulla non gli rendevano giustizia. Era stato costruito con una lega speciale di ferro, dai fabbri più esperti della Terra di Mezzo.
Nero. Forte. Invalicabile. Indistruttibile.
La struttura univa due montagne fatte di roccia, chiudendo così l’unica via d’accesso a quella terra sotto il dominio di Sauron.
Acuendo la vista, l’elfa notò che diverse guardie sorvegliavano i confini. Erano appostate al di sopra del cancello e stavano fermi. Osservavano ogni cosa attorno a loro. Riconobbe le bandiere di alcuni clan: appartenevano a uomini del sud, soprattutto ribelli e pirati. Vide anche degli orchi e contò in totale quattro troll.
Valutando la situazione, Esrtyd non trovò una via d’accesso. Non una che reputasse sicura. Osservava il cancello, muovendo gli occhi da destra a sinistra e viceversa. Era controllato fin troppo bene.
Sospirò rassegnata; era impossibile superare il Nero Cancello senza essere visti.
Guardando i compagni di viaggio, lesse suoi loro volti le medesime preoccupazioni che turbavano la sua mente.
“Dobbiamo trovare un’altra via.” esclamò l’elfa, scuotendo il capo. “Non abbiamo alternativa… questo viaggio non può concludersi così.”
Nessuno rispose.
“Avviciniamoci… voglio capire se possiamo aprirci un valico… non posso…” s’interruppe un secondo. “Non voglio credere che non ci sia un punto debole… una via secondaria… possiamo tentare anche di girare attorno la montagna, cercando un versante sicuro…”
Piegandosi, si avvicinò lentamente, cercando di non far rumore. Dietro di lei, gli Hobbit seguirono i suoi passi.
Si nascosero dietro grigi sassi e studiarono la situazione.
Dalla montagna di roccia dove si trovavano, Estryd non trovava una soluzione; agitata, si morse il labbro superiore. Più analizzava il Cancello, più le pareva sempre una missione suicida.
Alle sue spalle sentì avvicinarsi Gollum; dopo che aveva promesso loro fedeltà, Frodo aveva insistito per liberarlo dalle corde. Estryd e Sam erano contrari: nonostante le promesse fatte, diffidavano della creatura. Ma la decisione finale, spettava al portatore e, Frodo, aveva deciso di concedergli fiducia.
“Non ci sono altre vie?” chiese Frodo, senza distogliere lo sguardo dal Cancello.
“Non ne conosco altre. Non meno sorvegliate…” rispose Estryd, guardando il portatore negli occhi.
Lo aveva deluso. Aveva deluso tutti. Aveva fallito. Non era stata in grado di condurlo fino al Monte Fato…
“E’ finita, allora.” disse Sam senza distogliere lo sguardo dall’obiettivo. “Non entreremo mai.”
“Dovranno pur esserci altre vie…” sussurrò l’elfa. “Ci devono essere. Da qui non passeremo mai inosservati. Proseguire su questa strada è una follia… varrebbe la pena consegnare l’Anello direttamente nelle mani di Sauron!” ironizzò.
Silenzio.
Il vento soffiava afoso, sollevando polvere dalla roccia.
“Mi dispiace Frodo. Ti ho deluso. Ho deluso tutti voi…” concluse Estryd, guardando il portatore.
Ma, le sue ultime parole, vennero sovrastate da dei rulli di tamburi che, battendo il tempo, guidavano la marcia di almeno trecento uomini del sud. Camminavano diretti al Cancello Nero, appesantiti da robuste armature.
Estryd volse lo sguardo al confine di Mordor: lentamente il Nero Cancello iniziò ad aprirsi. Un rumore echeggiò nell’aria, amplificato dall’eco.
Spingendo complicati meccanismi, i quattro Troll stavano spalancando le porte per permettere ai soldati l’accesso nelle Terre di Sauron.
Dei corni risuonarono oltre le mura di ferro, per annunciare l’arrivo di nuovi alleati.
Quel suono provocò una ferita al cuore di Estryd: le ritornò alla mente il rumore del corno di Boromir. Lo aveva suonato quando cercava di dare a lei e agli Hobbit una possibilità di fuga. Non aveva ricevuto sue notizie… temeva per la sua vita.
“Guardate… il cancello! Si sta aprendo!” esclamò Sam entusiasta.
“E’ la nostra occasione…” sussurrò Frodo, alzandosi in piedi.
Estryd e Sam guardarono il Portatore con occhi sgranati; stava vaneggiando! “La loro occasione?” L’elfa fermò lo Hobbit, afferrandolo per un braccio e trattenendolo.
“Non è un’idea saggia avvicinarci. Siamo in tre… e loro sono numericamente superiori…”
“Non possiamo restare qui e non far nulla!” rispose Frodo, guardando alle sue spalle il cancello ormai aperto. “Dobbiamo almeno tentare! Forse questo è proprio un segno del destino! I Valar non ci hanno abbandonato!”
“Per di qua!”
La voce di Sam raggiunse le orecchie dei compagni, Estryd alzò lo sguardo in tempo per vedere lo Hobbit sporgersi oltre una grande roccia. Questa traballò, minacciosa, per poi cedere sotto il suo peso.
“Sam, no!” urlò Frodo, allungando una mano verso l’amico cercando di afferrarlo prima che accadesse l’inevitabile.
Ma ogni tentativo fu vano; il masso e Sam precipitarono lungo la montagna di sassi e ghiaia, alzando polvere al loro passaggio.
Liberandosi dalla presa di Estryd, Frodo seguì il giardiniere giù per la collina. Colta impreparata, l’elfa rimase ad osservare la scena senza avere il tempo per reagire: gli avrebbero scoperti, non aveva dubbi…
Riprendendosi, Estryd corse fino alle rocce dalle quali Frodo di era gettato al seguito di Sam. Sporgendosi, vide il Portatore correre goffamente, muovendo innumerevoli sassi, facendo rumore e sollevando nuvole di polvere. La bruna volse lo sguardo agli uomini che stavano marciando oltre il Cancello Nero e, sollevata, constatò che non avevano notato nulla.
Con il cuore in gola, Estryd spostava lo sguardo, da Sam, ancora intrappolato ai piedi della montagna, a Frodo, che lo aveva quasi raggiunto, e, infine, alle truppe che marciavano compatte, sparendo oltre i confini di Sauron.
Anche Gollum, al fianco dell’elfa, si sporse. Lo guardò stupita, notando che la creatura pareva veramente preoccupato per gli Hobbit.
“Questo non è bene…” sussurrò la creatura con un filo di voce.
“No…” rispose Estryd, il cuore in gola quando vide l’evolversi degli eventi.
Accadde: quello che la principessa sperava non avvenisse… un uomo del sud si fermò e, uscendo dalle schiere in marcia, si fermò, scrutando con attenzione la montagna. Ai suoi occhi non era sfuggita la nube di polvere che, sospesa mezz’aria, segnalava un movimento lungo quel versante.
Fermò un altro compagno, afferrandolo al braccio e indicò il punto dove Sam era caduto. Poi, chinandosi sull’amico, sussurrò alcune parole. Questi annuì e, insieme, si avvicinarono al monte.
Estryd guardò i due uomini avanzare verso gli Hobbit.
Con prontezza, Frodo aveva coperto entrambi con il mantello dono dalla dama di Lothlorien. Grazie alla sabbia e alla magia che esso possedeva, erano riusciti a mimetizzarsi. L’elfa trattenne il fiato e lottò contro il desiderio di chiudere gli occhi. Doveva continuare a guardare, doveva sapere!
I due si avvicinarono, raggiungendo Frodo e Sam, le armi in mano, pronti ad attaccare.
Si fermarono ed osservarono attentamente la montagna; non notarono nulla di sospetto.
Trascorsero minuti, che parvero ore alla giovane elfa, poi, senza parlare, si scambiarono uno sguardo d’intesa e, voltandosi, tornarono sui loro passi, raggiunsero i compagni oltre i Cancelli di Mordor.
Estryd lasciò l’aria che aveva trattenuto nei polmoni: erano stati incredibilmente fortunati.

 

***

Un capitolo che mi è costato molto scrivere, volevo provare a parlare della vita a Gran Burrone senza Alhena... spero di aver reso l'idea! Alla prossima!

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 16 - LA DAMA DEL PALAZZO D'ORO ***



Sono sparita, lo so! Ma tra il lavoro e l'estate non ho molto tempo da dedicarmi alla scrittura!
Non voglio dilungarmi oltre: buona lettura!!!!

J
***


Edoras era in lutto. Il giovane principe ed erede al trono era stato gravemente ferito in battaglia. A nulla erano serviti i premurosi soccorsi prestati dai medici più esperti del regno. Ogni tentativo di cura era stato vano. Durante la notte, Théodred era morto. Da solo, nelle sue stanze.
Il corpo era stato trovato all’alba dalla cugina. Eowyn, sperando di trovare le condizioni dell’amato parente migliorate, aveva scoperto invece la triste verità. Era morto.
Troppo giovane per lasciare la vita. Troppo valoroso per poter essere dimenticato.
Non aveva abbandonato il suo corpo. Era l’unico amico che aveva entro quelle mura. Si era ritrovata sola. In quel palazzo che le pareva una prigione.
Nella capitale le lacrime erano state versate numerose, per giorni e per notti.
Lo stesso Re del Mark pareva essersi ammalato per la scomparsa del suo unico e amato figlio. Restava tutto il giorno seduto sul trono, piegato su sé stesso, a ricordare il tempo vissuto con Théodred.
Ricordava il suo bambino quand’era appena nato, i primi passi fatti e le prime parole pronunciate… la prima volta che aveva impugnato un’arma o domato un cavallo. Sospirava continuamente e non sorrideva e parlava. Pareva un arbusto spezzato… era debole, senza forza… in balia del fido consigliere che, sempre al suo fianco, sussurrava consigli maligni al suo orecchio.

Mentre i cinque forestieri risalivano le vie per raggiungere il Palazzo D’oro, Meduseld, sentivano gli occhi del popolo osservarli. Erano incuriositi; da molto non ricevevano visite di stranieri. In effetti, dalla morte dell’erede, il loro stesso Re si era rinchiuso nella sua dimora, privando l’accesso a chiunque. Bandendo perfino i fedeli Rohirrim e, tra loro, il suo stesso nipote: Eomer.
Smontando da cavallo, Gandalf lasciò libero Ombromanto e, richiamando a sé Aragorn e Boromir, disse loro, sussurrando:
“Non saremo i benvenuti e, soprattutto, voi due. Siete dei figli di Gondor, paese che non ha soccorso Rohan in questi giorni di buio… state attenti e tenete a freno la lingua…”
“Gondor ha altri problemi a cui badare!” lo interruppe bruscamente Boromir.
Da mesi, suo padre, il Sovrintendente, riceveva richieste d’aiuto dal regno del Mark. Richieste che ignorava, perché a malapena riusciva a proteggere i confini di Gondor. Non avrebbe sprecato forze lontano dai suoi confini. Come ripeteva sempre: Rohan doveva temere solo la minaccia di Isengard, Gondor doveva contenere Mordor, truppa assai più insidiosa…
“Boromir… Boromir…” sussurrò Gandalf, scuotendo il capo. “Qui non stiamo parlando di Rohan o Gondor… stiamo parlando di proteggere i Popoli Liberi! Tutti i popoli liberi. Stiamo parlando di un nemico comune. Che provenga da Mordor o da Isengard, la minaccia è la stessa. Sauron controlla Saruman… liberandoci dello stregone traditore, aiuteremo anche la causa di Gondor.”
“E Rohan?” domandò Boromir, sfrontato. “Ha mai aiutato Gondor? Abbiamo perso valorosi guerrieri… uomini con mogli e figli… amici miei…”. Il dolore era troppo forte per concludere i suoi pensieri. Guardò Gandalf e, con decisione, concluse: “Se hanno problemi con il mio popolo, non mi riguardano. Non nasconderò le effigi di Gondor… io sono fiero del mio lignaggio.”. S’interruppe e guardò Aragorn, al suo fianco. “Entrambi lo siamo.”
“Non metto in dubbio la fierezza dei vostri animi… ma non saremo i benvenuti, non voglio dar loro altre ragioni per non ammetterci alla presenza del Re. Qualunque cosa chiederanno, accontentatiamoli.”
Alhena, avvicinandosi allo stregone, lo affrontò: “Cosa potrebbero chiederci, esattamente?”
Gandalf deglutì; il tono dell’elfa era sfrontato, minaccioso perfino. La giovane sostenne lo sguardo dello stregone, percependo i suoi timori.
“Allora?” aggiunse quando non ottenne risposta. “Ho amicizie dentro queste mura… non temo un anziano Re e non temo questo popolo.” fece una pausa, spostando lo sguardo da Gandalf al palazzo alle spalle dello stregone. “Ci sono… uomini in quelle mura che non hanno la mia fiducia. Non mi priverò delle mie armi quando supererò quella porta…”
Mai avrebbe consegnato le sue armi. Non si fidava di Rohan, ancor meno dopo gli avvertimenti di Eomer.

“Non potete stare dinnanzi a Re Théoden così armati, Gandalf il Grigio. Per ordine… di Grima Vermilinguo” annunciò perentoria una guardia, raggiungendo i cinque viaggiatori che avevano risalito la scalinata, raggiungendo il grande portone di legno.
Gandalf, guardando i compagni, annuì. Avrebbe assecondato le richieste del sovrano: tutto pur di raggiungerlo, tutto pur di potergli parlare. Gli occhi celesti dello stregone incontrarono quelli di ghiaccio di Alhena. La giovane stava per ribattere, dischiuse le labbra per rispondere alla pretesa del Rohirrim ma, intuendo le intenzioni dell’elfa, Gandalf, alzò una mano per frenare le sue parole. Quel gesto la fece tacere, trattenne il fiato e, con lo sguardo, fulminò lo stregone.
Il primo a consegnare la spada fu Aragorn, imitato poi da Boromir e Legolas.
“Anche voi, elfa.” disse una giovane guardia, avanzando verso Alhena e stendendo le mani.
Storcendo il naso, la bionda estrasse la spada dal fodero e la consegnò, riluttante, al ragazzo. Consegnò anche i due pugnali che teneva legati, uno in vita, e l’altro in una fodera affrancata al suo stivale, infine porse anche l’arco e le frecce.
“Il tuo bastone.” asserì il comandante delle guardie, guardando Gandalf.
“Non vorrai separa un vecchio dal suo appoggio per camminare?”
Rifletté alcuni secondi. Grima era stato chiaro; non dovevano essere armati. E, un bastone, non era di alcun pericolo per il sovrano. Tutti loro disponevano di spade; inoltre aveva un’aria molto fragile… perché separare l’anziano stregone dal suo sostegno?
Annuì e voltandosi, superando il portone, li guidò al cospetto di Re Théoden.
Gandalf ammiccò, volgendo lo sguardo ad Aragorn, il quale ricambiò con un sorrisino divertito.

Il palazzo era poco illuminato, il camino spento e i vetri oscurati, per bloccare i raggi del sole. Alhena chiudeva la fila: si guardava attorno, notando vari spostamenti sospetti. Non tutte le guardie indossavano la divisa di Rohan, alcune portavano lunghi manti scuri e nessuna armatura li proteggeva. Stavano seguendo i loro movimenti, all’ombra delle colonne di pietra. Guardò Legolas che, davanti a lei, fingeva di sorreggere Gandalf mentre avanzavano verso il trono. Si scambiarono uno sguardo d’intesa: se n’era accorto anche lui.
La giovane guardò il trono, Théoden pareva invecchiato dal loro ultimo incontro e, al suo fianco, chinato al suo orecchio, riconobbe Grima che gli sussurrava delle parole inudibili, anche per le sue orecchie fini.
“Perché dovrei darti il benvenuto Gandalf Corvotempesta?” domandò, infine il sovrano. Ogni parola gli costava un’enorme fatica.
Allontanandosi dal sovrano, Grima, raggiunse i tre gradini che separavano il seggio del re dal resto della sala: “Una domanda giusta, mio signore… tarda è l’ora in cui questo stregone decide di apparire. Lathspell, io lo chiamo. Il malaugurio è un cattivo ospite.”
“Silenzio!” esclamò Gandalf con ira. “Tieni la tua lingua biforcuta tra i denti. Non ho attraversato fiamme e morte per scambiare parole inconsulte con un verme.”
Alhena sorrise, divertita da quel paragone. Aveva già conosciuto Grima e, paragonarlo ad un verme, era straordinariamente azzeccato!
L’espressione sul volto dell’uomo mutò. I suoi occhi si concentrarono sul bastone che Gandalf teneva stretto nella mano sinistra.
“No!” urlò. “Il bastone... vi avevo detto di prendere il bastone allo stregone!”
I soldati, fedeli a Grima, intervennero immediatamente, avvicinandosi agli ospiti non graditi. Con uno scatto, Legolas si allontanò da Gandalf e, imitato da Aragorn e Boromir, sfidarono i nemici, tenendoli lontani dallo stregone.
Gandalf, avanzando verso il trono, alzò il bastone, puntandolo contro il sovrano: era fin troppo chiaro cosa stava accadendo. Saruman si era impossessato della fragile mente del Re, aiutato dalle parole di Grima.
La reazione dei compagni sorprese le guardie che, prima ancora di impugnare le proprie armi, vennero immobilizzate. Alhena, facendosi da parte, avanzò verso il trono, nascosta dietro le colonne. Non le importava di quei soldati… il suo obiettivo era un altro…
Incrociò alcune guardie che portavano i colori di Rohan, non cercarono di fermarla; consapevoli della sua buona fede.
Il comandante, che prima li aveva disarmati, si avvicinò all’elfa. Alhena si fermò, incrociando lo sguardo dell’uomo; sorridendole, le porgerse la sua spada. “Salvate il nostro Re.”
Brandendo l’arma, Alhena annuì, abbozzando un mezzo sorriso.
“Théoden, figlio di Thengel. Troppo a lungo sei rimasto nell’ombra…” esclamò Gandalf, avanzando lentamente, un braccio steso verso il sovrano.
L’elfa vide Legolas colpire in volto un uomo che lo stava aggredendo alle spalle, facendolo cadere a terra. Aragorn e Boromir seguivano Gandalf, alle sue spalle, uno alla sua destra e l’altro alla sinistra dello stregone: si guardavano attorno, pronti a sfidare chiunque altro cercasse di bloccare il cammino Gandalf. Nessun altro si fece avanti.
L’elfa raggiunse il trono da destra, fermandosi all’ombra di alcuni stendardi: guardò Gandalf.
“Ascoltami… io ti libero dall’incantesimo!” aggiunse lo stregone.
Grima, camminando furtivo e, sperando di non essere visto, si allontanò dal trono. Tentava di fuggire dal palazzo. Il suo gioco era stato scoperto e non disponeva della forza per opporsi a Gandalf.
Uscendo dall’ombra dei vessilli e alzando l’arma, Alhena puntò la lama al collo dell’uomo quando la raggiunse: “Non muoverti.”
Lentamente si voltò e vedendo la giovane elfa, sorrise, riconoscendola.
“Ah…” sospirò. “Guarda, guarda cosa ci ha portato il vento… un bellissimo fiore elfico.”
Alhena strinse la mani attorno all’impugnatura, le nocche le divennero bianche. Guardò Grima in volto, lo avrebbe ucciso. Non avrebbe esitato e, quel gesto, non le avrebbe arrecato alcun rimorso… tutt’altro, avrebbe goduto nel togliere la vita a quell’essere meschino.
“Alhena!”
La voce di Legolas raggiunse remota le orecchie dell’elfa. Senza distogliere lo sguardo dall’uomo, ignorò le parole che l’amico le stava dicendo.
Posando una mano sulla spalla della ragazza, Legolas ripeté il nome della giovane: “Alhena non farlo.”
Controllandosi, la bionda allontanò di pochi centimetri la spada dal collo dell’uomo. Cosa stava facendo? si chiese, cercando di riprendere la calma.
Grima sorrise, pensando a quel gesto come ad un simbolo di debolezza: “Un bellissimo fiore elfico…” sussurrò.
Alhena, con un calcio, lo colpì al petto, gettandolo contro la parete. La violenza dell’urto fece perdere i sensi a Grima, che si accasciò a terra, il capo piegato in avanti.
“Io ti estirperò Saruman come il veleno viene estirpato dalla ferita.”
La voce di Gandalf raggiunse le orecchie dell’elfa. Voltandosi, vide che ormai lo stregone aveva raggiunto il re, seduto molle sul trono. Il bastone ben saldo tra le mani e puntato al petto di Théoden.
“Se io me ne vado, Théoden morirà.” esclamò il Re, alzandosi in piedi ed affrontando il mago, con malvagità.
Accadde allora: ogni altra cosa scomparve agli occhi di Alhena. Tra le alte colonne di marmo, intravide l’esile figura di una ragazza. Spostò lo sguardo, seguendo i movimenti della fanciulla; superava le guardie, correndo verso il sovrano, suo zio.
I lunghi capelli biondi si muovevano come fili d’oro nell’aria e la veste che portava faceva risaltare il pallore del suo corpo: una bellissima bambola di porcellana.
Alhena sorrise, sussurrando il nome della principessa di Rohan; la conosceva, non bene quanto avrebbe voluto, ma non avrebbe mai dimenticato il loro primo incontro.
 

“Mai!” si disse Alhena, cavalcando verso sud. Continuava a incitare il cavallo per andare più veloce, non sopportava il pensiero di restare ancora a Bosco Atro. “Non tornerò da lui! Mai!”
I paesaggi mutavano veloci, ma non li vedeva.
Non vedeva nemmeno la strada che le scorreva davanti agli occhi. Le lacrime cadevano veloci, sfuggendo dal suo viso fine e scomparendo nell’aria.
Non le interessava di essere di nuovo sola nel mondo; di certo non sarebbe rimasta nel regno di Thranduil. Non riusciva ancora a credere a quanto successo solo poche ore prima: era così… assurdo!
Da quando era arrivata a Bosco Atro, dopo essere stata ammessa come ospite, aveva sorvolato su molti comportamenti del sovrano che reputava ambigui e disgustosi. Non avrebbe mai scordato i trattamenti disumani riservati ai prigionieri o gli eccessi di alcool… odiava perfino i sui modi di fare e di parlare: era narcisista e le frecciatine che, fin troppo spesso, le rivolgeva non riusciva più a tollerarle.
Non aveva mai conosciuto un elfo come lui. Perfino il suo stesso figlio veniva denigrato, ogni cosa che Legolas faceva non lo soddisfaceva mai completamente. Nessuno era eguali a lui, il grande Thranduil… a quel pensiero, Alhena, scosse con forza le briglie del cavallo che sellava. Era ancora troppo vicina alle sue terre.
Legolas… il suo stesso figlio… era così diverso… come poteva essere cresciuto così diverso dal padre? In Legolas aveva trovato un grande amico, un confidente e un compagno per trascorrere il tempo. Verso il padre era fin troppo tollerante, lo giustificava di continuo, sostenendo che le sue esuberanze erano dovute dalla perdita dell’amata consorte. Ma Alhena non lo poteva giustificare. Non dopo quanto accaduto. Aveva sorvolato sullo schiaffo, decidendo di perdonarlo e restare a Bosco Atro, ma, quest’ultima cosa, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Si sarebbe diretta a Pontelagolungo, ma era certa che sarebbe stato il primo posto dove Thranduil l’avrebbe fatta cercare. Non voleva rischiare. Non poteva rischiare.
Era stato davvero troppo per lei. Troppo.
Anche se, ogni volta che ripensava a quell’istante una morsa le stringeva la bocca dello stomaco.
Superò il confine con Rohan all’alba, sarebbe andata a Edoras. Alcuni anni prima, insieme alla sua famiglia, quando poteva ancora definirsi tale, era andata in visita nella capitale del Mark e aveva conosciuto il sovrano e i suoi parenti. Avrebbe chiesto ospitalità per alcuni giorni, per poi dirigersi a nord. I raminghi non avrebbero fatto domande su chi fosse e sulle ragioni che l’avevano portata nelle loro terre. Sarebbe rimasta con loro o sarebbe restata sola. non si sentiva ancora pronta per abbandonare la Terra di Mezzo, nonostante tutto, sapeva che c’erano ancora cose che doveva fare.
La velocità del cavallo iniziò a diminuire, la giovane elfa, sfiorandogli dolcemente il collo, sorrise con affetto: avvertiva la sua forza ridursi. Aveva bisogno di una pausa, dopo quella lunga corsa.
“Fermiamoci, amico mio…” sussurrò, sporgendosi verso l’orecchio dentro dell’animale.
Obbediente, il cavallo ridusse la velocità e continuò al trotto per alcune miglia, fino a raggiungere una radura con un piccolo lago dall’acqua cristallina.
Alhena smontò e, tirando le briglie, guidò la bestia fino al laghetto. Poi, liberandolo dall’imbracatura, si accomodò all’ombra di alcuni alberi, senza perderlo di vista. Era stato leale a scortarla fino a Rohan, meritava una pausa.
Si guardò attorno, il posto era isolato. Non vide case o altra vegetazione attorno a loro. Avrebbero riposato per il resto del giorno.
Stanca per il viaggio, chiuse gli occhi e si appisolò.
“S-scusami…”
Alhena sussultò, svegliandosi. Qualcuno le picchiettava sul braccio e la incitava a svegliarsi.
L’elfa aprì gli occhi e scattò in piedi. Impugnò il pugnale che teneva legato alla gamba, si guardò attorno, allarmata che fosse stata seguita e raggiunta. Il cuore in gola, il battito rimbombava nelle orecchie. Ma, l’unica persona che Alhena si ritrovò davanti, era una fanciulla di razza umana. Alta, pallida, bionda e con occhi grigi.
La reazione improvvisa dell’elfa l’aveva spaventata e fatta indietreggiare, terrorizzata.
“S-scusami. Cavalcavo poco distante da qui e ho visto il tuo cavallo vagare per la prateria, da solo.” disse la ragazza, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. “Temevo che gli orchi dello Stregone Bianco avessero mietuto altre vite…”
Schiarendosi la voce, Alhena sorrise. Comprendeva i timori della fanciulla, anche lei aveva avuto a che fare con quelle bestie. Erano forti, più di orchi normali.
“Perdonami te. Ti devo aver spaventata. Temevo di essere stata seguita…”
La giovane sorrise. “Non preoccuparti! Abbassare la guardia in questi tempi è pericoloso.” rispose pronta. “Non s’incontro molti elfi nelle terre di mio zio.”
“Si tuo zio?” le fece eco l’elfa.
“Sì, mio zio è il sovrano di queste terre. Théoden è il suo nome e il mio nome è…”
“Eowyn.” concluse Alhena, interropendola. Aveva riconosciuto i tratti di Eowyn, quando l’aveva vista la prima volta, anni prima, era solo una bambina. Non aveva più di sei o sette anni, mentre ora… era cresciuta, diventando una giovane donna. “Forse non ti ricordi di me… ci siamo conosciute quand’eri solo una bambina. Di certo non ti ricorderai di me. Eri troppo piccola. Il mio nome è Alhena, vengo da Nord. Da Gran Burrone.”
I grigi occhi di Eowyn, s’illuminarono nell’udire quelle parole.
Ricordava perfettamente le parole lette sui volumi durante le lezioni con il precettore quand’era ragazza e, il nome dell’elfa che aveva davanti, non le era nuovo. Alhena era la figlia più giovane di Lord Elrond, signore di Gran Burrone e di Celebrìan, figlia dei signori di Lothlorien. Colei che aveva davanti era una principessa di razza nobile.
Goffamente, la signora dei cavalli, chinando il capo, salutò l’elfa: “E cosa porta la principessa di Gran Burrone così a sud, lontana da casa? Soprattutto in questi giorni?”
Gli occhi di Alhena si riempirono nuovamente di lacrime; era stata forte per anni, ma ora, le sue difese stavano crollando. Aveva affrontato diverse situazioni difficili, cercando di essere forte… ma il mondo era troppo. Le stava mettendo davanti troppi ostacoli. Troppi. Non era pronta ad affrontare il mondo da sola. Sentiva la mancanza dei fratelli e di casa sua.
Notando il volto rabbuiato dell’elfa, Eowyn s’avvicinò e, posando una mano sul braccio di Alhena, la guardò preoccupata: “Stai bene? Sei pallida…”
Scuotendo il capo, in segno di rassegnazione, Alhena alzò le mani, coprendosi il volto. Si sentiva umiliata per quello che stava per fare, ma non poteva trattenere oltre le lacrime. Era troppo. Tutta la pressione che aveva vissuto e le offese subite avevano raggiunto il limite. Non riusciva a sopportare altro. Non ancora. Non più.
Eowyn guardava l’elfa, imbarazzata. Non sapeva come comportarsi; la reazione della bionda non aveva senso… si chiese se avesse sbagliato qualcosa. Attese in silenzio, lasciando che l’elfa finisse di piangere. Aveva l’aria di una persona che avesse bisogno di un’amica con cui parlare.
Quando la distanza tra i singhiozzi aumentò, Eowyn costrinse l’elfa a sedersi e, accomodata al suo fianco, la guardò per la prima negli occhi. Non aveva mai visto due occhi così chiari. Azzuri; ma non come il colore del cielo, più simili all’azzurro del ghiaccio.
“Hai l’aria di una persona che ha passato l’inferno.” disse la ragazza. “Ti conosco solo per fama… ma posso esserti amica.”
“Sei troppo giovane per comprendere e non voglio assillare la tua mente con i miei pensieri…”
“Sono giovane rispetto a te per età… ma per aspetto sembriamo coetane. Ho diciassette anni e non sono una bambina. Non posso vantare tanti secoli di vita come te, ma anch’io ho il mio bagaglio d’esperienza…”
“No. Non sei una bambina.” asserì Alhena.
Respirò a fondo, riempiendo i polmoni di aria. Chiuse gli occhi, per cercare il coraggio per parlare… aveva celato tante cose. Anche a Legolas gli ultimi avvenimenti, quelli che l’avevano condotta lontana da Bosco Atro, erano oscuri.
Guardando le nuvole sopra la sua testa, strinse i pugni e iniziò a confidarsi. Le raccontò ogni cosa: dalla cavalcata durante la quale era avvenuta la tragica imboscata che aveva condotto sua madre nelle Terre Immortali, dal suo allontanamento da Gran Burrone da parte di suo padre, fino al suo arrivo a Bosco Atro. Gli raccontò di Thranduil e della sua decisione iniziale e di Legolas, che le aveva offerto un riparo. Narrò ogni cosa, senza tralasciare un solo avvenimento.
Alhena si accorse presto che, raccontare la sua vita a una estranea, le veniva naturale. Si poté finalmente liberare di quel gran peso che la opprimeva e fu un tale sollievo poter piangere e sfogarsi senza imbarazzarsi.
Eowyn si dimostrò molto matura, più di quanto Alhena si aspettasse.
Rimase in silenzio e ascoltò le parole dell’elfa, senza interromperla.
Il sole stava calando quando Alhena, respirando a fondo, concluse il racconto: “…e sono fuggita. Non potevo restare a Bosco Atro. Non più.”
La ragazza rimase in silenzio. La vita di Alhena era stata tutta in salita eppure era sopravvissuta. Era una donna fiera, la ammirò per la forza con cui affrontava le avversità.
“E non sei più tornata a casa?”
“No.” rispose semplicemente lei, con un alzata di spalle.
“E tuo padre? Gli hai parlato? O scritto?”
“No. È stato molto chiaro al riguardo quando mi ha cacciata da Gran Burrone.”
Ma, prima che la ragazza potesse chiedere altro, Alhena l’anticipò: “E cosa grava invece sul tuo cuore? Perché anche i tuoi occhi urlano sofferenza…”
Eowyn avvampò. Non si era accorta che fosse un libro aperto, distolse lo sguardo e guardò a est, verso il palazzo di Edoras, casa sua.
“Stavo scappando.” sussurrò, sempre guardando a est.
“Da cosa? O dovrei chiederti da chi?”
Eowyn dischiuse le labbra, per rispondere, ma dei rumori di cavalli la fece scattare in piedi. Allarmata, corse verso il suo cavallo.
“Mi hanno trovata…”
Alhena imitò la giovane donna, seguendola: “Trovata…? Chi? La persona dalla quale scappi?” Anche l’elfa guardà a est e vide una decina di uomini, con pesanti armature e i vessilli di Rohan: “Sono dei Rohirrim.” guardò Eowyn. “Da cosa scappi?”
“Resta al mio fianco…” sussurrò la ragazza, chinando il capo e guardando i propri piedi.
“Sono qui.” rispose con un filo di voce Alhena, prendendo Eowyn per la mano e facendole forza.
Si voltò nuovamente, ormai le guardie avevano raggiunto il loro obiettivo. Si fermarono a pochi metri da loro e un signore, vestito di scuro, con unti capelli neri e occhi azzurri, smontò da cavallo. Cadde con un tonfo sul terreno e, lentamente, avanzò verso le due ragazze. Alhena si accorse che era pallido e camminava male, ricurvo in avanti.
Eowyn indietreggiò di un passo.
“Eowyn, mia cara, ci hai fatti spaventare. Tuo cugino il principe e tuo fratello ti stanno cercando. Hai fatto preoccupare tutti a palazzo.” disse con voce fredda.
Alhena percepì le bugie che disse l’uomo: non era spaventato e non era preoccupato per le sorti della giovane.
Quando raggiunse fu davanti a loro, l’uomo guardò incuriosito l’elfa. Alhena si sentì a disagio, gli occhi del signore in nero la guardavano come se fosse senza abiti.
“Un’elfa qui a Rohan? Che cosa ti conduce così a sud fanciulla immortale?”
“E’ una mia amica!” s’intromise Eowyn, senza lasciare ad Alhena tempo per rispondere.
“Un’amica elfo?” chiese l’uomo, guardando la principessa di Rohan. “Da quando le tue conoscenze raggiungono la razza elfica?”
“Sono stata in visita a Rohan con la mia famiglia, anni fa.” rispose Alhena con voce secca. “Il mio nome è Alhena e vengo da Gran Burrone.”
“E’ la figlia di Lord Elrond e lady Celebrìan, signori di Gran Burrone.” aggiunse Eowyn, guardando l’uomo negli occhi.
“Una principessa…” sussurrò, guardandola con attenzione.
Alhena, scrutata dai suoi occhi indagatori, non potè evitare di distogliere lo sguardo.“Il vostro nome, invece?”
Inchinandosi, l’uomo, afferrò Alhena per la mano, cogliendola di sorpresa. Le alzò il braccio e gliela baciò. Un brivido percorse la schiena dell’elfa, provò disgusto per quel contatto. Eowyn, al suo fianco, sospirò, allungando anche l’altro braccio e sfiorando la mano dell’elfa. Le due si guardarono: gli occhi di Eowyn non lasciavano dubbi sulle ragioni della sua fuga da Rohan.
Guardò, infine nuovamente l’uomo, ancora le teneva la mano e disse, con voce strascicata: “Dolcissimo fiore elfico, il mio nome è Grima. Sono il consigliere del Re.”


“Non hai ucciso me, non ucciderai lui.” sentenziò Gandalf.
“Rohan è mia!” urlò Théoden, lasciando il sopravvento all’ira.
Approfittando della sua rabbia, lo stregone colpì il re al petto col bastone: “Vattene!” urlò infine.
Un lampo di luce avvolse la sala del trono, un rombo e, infine, uno scocco. Il corpo del sovrano si rilassò; cadendo in avanti, piegandosi su sé stesso, come un foglio di carta che si accartoccia se a contatto con la fiamma.
Aragorn lasciò la presa ed Eowyn raggiunse lo zio, afferrandolo e, con l’aiuto del comandante delle guardie di Rohan, lo spinse sul seggio.
Alhena, rimase meravigliata nel vedere il mutamento di Théoden: ringiovanì a vista d’occhio, i capelli da bianchi divennero biondi, la barba s’accorciò, le rughe che coprivano il suo viso si attenuarono e la pelle ritornò rosea.
Saruman aveva perso il controllo sul Re di Rohan.

Lasciate alle spalle le montagne per accedere a Mordor, il panorama attorno ai quattro viaggiatori cambiò drasticamente. La roccia, che prima copriva il terreno, venne sostituita dall’erba e innumerevoli piante crescevano verdi e rigogliose, alberi ricchi di frutti. Per Estryd, ritrovarsi tra la natura, la fece sentire come a casa.
Erano arrivati a Gondor, il paese natio di Boromir. Quei luoghi le faceva sentire sempre di più la mancanza dell’amato, questa terra era stata testimone della sua nascita e crescita. In queste terra era diventato l’uomo che aveva imparato ad amare.
Gollum aveva proposto una via alternativa per accedere a Mordor: avrebbero percorso l’Ithilien fino a raggiungere il passo di Cirith Ungol. Sam si era dimostrato contrariato, non capiva perché Gollum non aveva proposto subito quella via, dato che la considerava più sicura. Del medesimo parere era anche Estryd. Dopo le parole scambiate con lui alcune notti prima, non riusciva a fidarsi della creatura: amava la sorella e sapeva che le parole dette da Gollum erano cattiverie gratuite.
Alhena aveva subito molti torti, soprattutto dal padre. Ma non avrebbe mai tradito i suoi ideali per questo.
Guardò Frodo: come poteva credere nella buona fede di quella creatura? Il Portatore aveva accettato di percorrere quella via e a nulla erano valse le parole dei due amici per dissuaderlo.
Anche l’aria cambiò, lontani dal Nero Cancello: divenne fresca e piacevole al contatto. Una brezza leggera che colpiva i loro volti, muovendo i lunghi mantelli che portavano.
Camminando tra gli alberi, Estryd udì il rumore lontano dell’acqua di un ruscello.
“Siamo vicini a un corso d’acqua.” disse, guardando verso est ed accelerando il passo, desiderosa di rinfrescarsi.
“Non mi fido di lui. Lo sto tenendo d’occhio.” sussurrò Sam, raggiungendo Estryd.
Frodo camminava davanti a loro, in compagnia di Gollum. Passavano molto tempo insieme, si sentiva legato a quella creatura perché anche lui conosceva il peso dell’Anello.
“Non sei sciocco come pensavo.” rispose l’elfa. “Non gode nemmeno della mia fiducia. Dalle sue labbra escono solo bugie. Nulla di ciò che dice è vero. Vuole l’Anello per sé. Vedo come guarda Frodo mentre riposa… glielo strapperebbe dal collo con la forza.”
Sam rabbrividì al solo pensiero.
“Dobbiamo stare vicino a Frodo. Dobbiamo liberarci di Gollum alla prima occasione.” continuò Estryd volgendo lo sguardo alla creatura che, ricurva su sé stessa, camminava lenta.
“Liberarci di Gollum?” domandò lo Hobbit, guardando l’elfa.
“Sì. Ucciderlo.” concluse con tono grave, senza distogliere lo sguardo dal suo obiettivo.

 




***
Ed ecco qui il mio sedicesimo capitolo ;)
Alla prossima!

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 17 - I FIGLI DI GONDOR ***


Ciao! Rieccomi qui dopo una lunga assenza con un nuovo capitolo!
Vorrei ringraziare tutti i lettori per apprezzare la mia storia!
Buona lettura e commentate!
Kiss
J
***


La capitale di Rohan era svuotata; la minaccia di un attacco da parte degli uruk-hai di Saruman era più reale di quanto credessero e, il Re, dopo attente considerazioni, aveva preso la difficile decisione di abbandonare Edoras. Thèoden era certo che avrebbe trovato un riparo per il suo popolo altrove e, più precisamente, dietro le possenti e forti mura del Fosso di Helm.
In passato, durante gli assedi nemici, innumerevoli volte, la gente del Mark aveva trovato rifugio in quella conca. Mai le sue mura erano state violate e il sovrano era sicuro che la roccaforte avrebbe protetto tutti loro ancora una volta.
Dopo la fuga di Grima dal Palazzo d’Oro, Thèoden aveva ordinato di sorvegliare i suoi spostamenti. Le sentinelle lo avevano avvistato dirigersi a Isendgard, dal suo signore Saruman. In molti non avevano condiviso la decisione del Re di liberarlo, di salvargli la vita. Essendo stato il “fido” consigliere del sovrano per anni, conosceva i piani congeniati dai Rohirrim per la battaglia e, soprattutto, conosceva le debolezze delle roccaforti del Mark.

“No, mio signore! No, mio signore! Lascialo andare.” Aragorn aveva interrotto Théoden che, con la sua arma in mano, era pronto a decretare giustizia.
Il ramingo, afferrandolo per le spalle, aveva impedito quel gesto. Poi, guardando il Re dei Rohirrim con intensità, Aragorn aggiunse, abbassando la voce, per dare maggior intimità alle parole che stava per pronunciare: “Troppo sangue è stato versato a causa sua.”
Thèoden incredulo osservò Aragorn che, per dar maggior incisione alle sue parole, scosse il capo. Il futuro Re di Gondor comprendeva le motivazioni che spingevano Thèoden a desiderare la morte di Grima ma, quel gesto, seppur giusto, non avrebbe arrecato loro alcun vantaggio. Era un verme. Non meritava di essere ucciso da mani reali.
Alhena rimase senza parole: avrebbe ucciso quell’uomo a mani nude. Non avrebbe mai dimenticato il passato che univa Eowyn e quel viscido essere.
Aragorn, sorridendo, stese il braccio per aiutare Grima a rialzarsi. Voleva dargli una possibilità di redenzione, ma la sua gentilezza fu ignorata. Il traditore scappò, sottraendo un cavallo dalle scuderie e rifugiandosi dal suo padrone.
Ignorando il gesto di Grima, Aragorn si voltò e seguì la corte verso il palazzo.
“Ehi, ramingo!”
Alhena corse incontro ad Aragorn: era furibonda.
L’uomo si fermò e guardò la giovane principessa raggiungerlo. Il volto arrossato dalla foga della corsa e i capelli, nonostante fossero legati, erano scompigliati a causa del forte vento che soffiava perennemente in quella terra.
“Mia signora, come posso aiutarti?” chiese con gentilezza il ramingo, chinando di poco il capo in segno di rispetto.
Nonostante fosse stata ripudiata, Aragorn non dimenticava il lignaggio nobile dell’elfa che aveva davanti.
Quella accortezza dell’uomo, però, fece irritare ancor più la giovane che, afferrandolo per un braccio, si trascinò lontano dalla folla.
Rimasti soli, incrociò gli occhi color cielo del ramingo, e sussurrò, cercando di controllare la rabbia che pulsava nelle sue vene: “Che cosa vuol dire quel gesto? Cosa ti fa credere che questa tua decisione fosse quella giusta? Non devo essere io a rammentarti che da ogni nostra azione corrisponde una reazione… questa scelta potrebbe costare la vita a molti!”
“I Valar non ci hanno dato il potere di decidere sulla vita altrui...” iniziò a dire Aragorn, ma fu interrotto da Alhena che, spingendolo con forza contro il muro alle sue spalle, puntò un pugnale alla gola dell’uomo.
“Grima non merita la grazia di nessuno! Sarebbe dovuto morire! Oggi stesso!” sussurrò a denti stretti. “Non conosci la metà delle atrocità che ha fatto in questo regno e non avevi il diritto di chiedere clemenza… la tua imprudenza ci arrecherà solo problemi in futuro… e, nonostante speri che ogni cosa vada per il meglio, credi alle mie parole: di ogni brutto avvenimento futuro, riterrò te, Aragorn, personalmente responsabile… ne risponderai a me.”
Aragorn, spaventato dalla bionda elfa che si trovava davanti, non riuscì a proferire parola. Dischiuse le labbra per rispondere, ma non un suono fuoriuscì dalla sua bocca.
Strizzando di poco gli occhi e avvicinandosi al volto del ramingo, Alhena sussurrò: “Hai compreso le mie parole?”
Annuì. Mosse il capo, un lieve cenno, appena percettibile, ma ad Alhena fu sufficiente.
Allontanò il pugnale dal collo del ramingo e, voltandosi, rinfoderò l’arma e raggiunse la piazza per ritornare al Palazzo.
La mente della principessa di Gran Burrone era invasa da pensieri tetri: nell’eventualità che gli avvenimenti si sarebbero evoluti come sospettava, la popolazione sarebbe partita immediatamente per il Fosse di Helm e lì, ad attenderli, ci sarebbero state le armate di Saruman.
Sbuffò: era una possibilità più che plausibile.
Superò il grande portone. Nel pomeriggio restava sempre spalancato per permettere agli ultimi raggi del sole di entrare nella Sala del Trono e, superando una porta laterale, raggiunse la camera privata di Eowyn.
Dopo il veloce incontro nella Sala del Trono, le due fanciulle non avevano più avuto occasione di parlate e l’elfa sentiva la necessità di spiegare all’amica che nulla era stato dimenticato e che avrebbe elargito giustizia.
Bussò un paio di volte, ma non ottenne alcuna risposta. Abbassando la maniglia, entrò nella camera. Alhena rimase senza fiato; nulla era cambiato col trascorrere del tempo… se quei muri avessero potuto parlare… respirò a fondo e, voltandosi, si allontanò.
Avrebbe dovuto parlare con l’amica, ma non era quello il momento più opportuno.
Mentre camminava, testa alta e andatura sostenuta, Alhena cercava di distrarsi pensando al tragitto che avrebbero dovuto intraprendere per raggiungere il Fosso di Helm. Ma anche quei pensieri erano insidiosi; la giovane conosceva quella via e non poteva evitare di pensare a quanto fosse rischiosa. Un cammino di diversi giorni che li avrebbe lasciati scoperti in caso di attacchi nemici. Un altopiano, con poche colline e scarsa vegetazione, e una carovana di persone allo sbaraglio erano una tentazione troppo grossa per Saruman.
Attraversando il cortile, diretta alle stalle, osservò la gente di Edoras. Avrebbero proceduto lentamente per via dei bambini, delle donne e degli anziani.
Stringendo i pugni pensò alla follia di quel viaggio. Era incredibile la decisione del Re.
Anche Aragorn e Boromir condividevano le idee di Alhena; avevano parlato con Thèoden e a nulla valsero i tentativi di dissuaderlo nell’abbandonare Edoras. Il sovrano del Mark non voleva sentir ragioni: sarebbe partito per il Fosso, senza chiedere aiuto a Gondor.
Le scuderie di Edoras, costruite a sud del Palazzo d’Oro, erano un viavai di cavalieri. Erano indaffarati a sellare i propri destrieri per l’imminente partenza.
Superando alcuni cavalieri dai lunghi capelli biondi, Alhena vide Legolas dall’altra parte del locale, intendo a strigliare il suo destriero. Rimase un secondo a osservarlo, cercando di non farsi scorgere… già una volta aveva visto l’amico con lo sguardo chino, impegnato ad occuparsi del suo cavallo. La giovane elfa sorrise nostalgica.
“E’ stata un’idea folle…” sussurrò Alhena all’amico, superando i diversi guerrieri di Rohan.
Legolas le dava le spalle mentre prendeva a sella per l’animale e, voltandosi, posò l’arcione sul dorso del cavallo. Non rispose e, iniziando a tirare le fibbie per fissare la sella, ignorò l’elfa.
La giovane principessa restò a guardarlo, il destriero in mezzo a loro.
Incrociò lo sguardo verde dell’amico; tra loro c’era un legame molto forte e, se gli eventi si fossero evoluti diversamente, avrebbero potuto anche avere una relazione.
Per un secondo, involontariamente, nonostante l’irritazione del momento, Alhena sorrise a Legolas. Forse per abitudine, ma non poté evitarlo.
“Legolas…” lo richiamò, controllando il tono della voce.
Il biondo, senza distogliere lo sguardo dall’animale, rispose: “Conosco quella fortezza, Alhena… se farà sentire al sicuro questa gente, perché non lasciarli andare? Tutti hanno bisogno di trovare conforto in…” s’interruppe un secondo, incrociando gli occhi di ghiaccio dell’amica. Sentì le sue guance avvampare, sorrise. Avrebbe voluto dire in qualcuno perché, per Legolas, guardare Alhena o saperla vicina, era la cosa migliore della giornata. Prese fiato e concluse la frase: “qualcosa…”.
“Nasconderci dietro delle mura non darà conforto a Rohan! Dovremmo invece affrontare il nemico e combattere! Cosa si aspettano? Che vinceremo la guerra comportandoci così? Da codardi? Nascondendoci dietro possenti mura?” domandò Alhena, superando il cavallo e guardando Legolas negli occhi.
Con uno scatto, la giovane si fece avanti, afferrando le mani dell’amico e fermando così i suoi preparativi per il viaggio.
I loro sguardi s’incrociarono; ad entrambi quel momento parve durare un’eternità.
La giovane elfa chinò il capo, alcuni capelli ricaddero sul suo volto… Legolas era ipnotizzato dalla principessa e un pensiero attraversò la sua mente: gli occhi di Alhena erano magnetici. E, nonostante tentasse di guardare altrove, di distrarsi, per non dover affrontare la realtà dei suoi sentimenti, non riusciva. Lei era tutto quello che avrebbe voluto nella vita, lei sarebbe bastata a Legolas per sentirsi felice.
“Dovremmo chiedere aiuto…” sussurrò la bionda, interrompendo il silenzio e i pensieri dell’elfo. “Penso che tuo padre possa esserci d’aiuto.”
Una smorfia contrasse il viso di Legolas. Perché menzionare suo padre? Quello era un argomento complicato… il suo tallone d’Achille.
“Legolas…” lo richiamò Alhena, nella voce un tono di rimprovero.
“Mio padre non ci potrà aiutare. È impegnato su un altro fronte. Sta combattendo contro Mordor sul fronte nord.”
L’elfa alzò le braccia e prese il volto di Legolas tra le mani. Lo guardò, scrutando i suoi occhi. Un brivido percorse la schiena del giovane principe che, nonostante gli sforzi, non riuscì ad allontanarsi dal tocco delicato della principessa.
“Thranduil non ti negherà il suo aiuto. Sei suo figlio… ti ama.”
“Mi amerà… ma essere suo figlio è stata una condanna per me.” concluse Legolas, chiudendo gli occhi. Non riusciva a guardare Alhena; non così vicina… non senza pensare a lei… alle sue labbra che si muovevano mentre parlava… a che sapore avrebbero avuto, se solo avesse potuto baciarla…
Istintivamente, senza rendersene conto, Legolas, sfiorando con le dita la guancia della bionda, si chinò fino a raggiungere con le labbra il suo orecchio. Il profumo della giovane raggiunse le sue narici, facendolo eccitare. Si controllò a stento…
“Mai chiederò aiuto a Lui.” si rialzò, guardando la fanciulla, i nasi che si sfioravano. “Mai.”
“Tentiamo…” lo pregò lei.
“No.” rispose con tono fermo.
“Sei troppo duro con Thranduil. Gli attribuisci colpe che non ha, ogni azione che ha fatto è stata per proteggerti, per amore. È un uomo complesso, avrà commesso degli errori in passato… come tutti…”
“Ti avrebbe lasciata morire…”
“Non era in sé…” lo interruppe Alhena.
Ma nemmeno lei terminò la frase, Legolas la interruppe: “Non era in sé?” ripeté incredulo. “Io ti ho protetta, dandoti un riparo… come mai lo giustifichi?”
“Non lo giustifico…” disse Alhena agitata.
“Cosa è accaduto realmente tra voi? Come mai sei fuggita da Bosco Atro? Mi hai nascosto molte cose… voglio avere delle risposte! Mi sono svegliato una mattina e tu eri scomparsa… come potevo reagire? Mio padre mi ha detto che eri andata via. Che avrei dovuto pensare?”
Alhena dischiuse le labbra, non sapeva che rispondere… non aveva mai rivelato l’accaduto a nessuno. Avrebbe capito? Un fiume di pensieri attraversò la mente della bionda: Legolas avrebbe reagito male conoscendo la verità.
“Forse sono scappata per causa tua.” rispose la bionda cercando di mettersi sulla difensiva.
Sentire quelle parole fece mancare l’aria nei polmoni del principe di Bosco Atro. Subito la giovane si pentì di quell’osservazione; era stata decisamente indelicata.
“Perdonami.” disse subito per correggere l’errore commesso. ”Sai che non sei tu la causa della mia fuga da Bosco Atro. Sei stato l’unico amico che abbia mai avuto durante quegli anni…”
Lo strinse, in un abbraccio fraterno, amichevole… per nulla provocante.
“Perdonami.” ripeté Alhena.
Il giovane trattenne il fiato; era abituato alla vicinanza con l’amica, si conoscevano da innumerevoli anni, ma quella volta nel suo abbraccio c’era qualcosa di diverso… il suo sguardo… era così… il principe non riusciva a trovare le parole giuste… profondo.
Gli occhi di Alhena erano intensi, magnetici, non l’aveva mai così prima.


L’estate stava arrivando e il calore era davvero opprimente. Quell’anno era nato il secondogenito del Sovrintendente di Gondor e, per omaggiare questa nascita, Elrond aveva deciso di recarsi a sud, accompagnato dalla famiglia. Ma, in realtà, per il Lord di Gran Burrone, era una scusa per non pensare alle disgrazie della sua vita.
Durante una cena, consumata nel consueto silenzio totale, imprevedibilmente questo fu interrotto dalla voce di Elrond. Dapprima tossicchiò, educatamente, per attirare l’attenzione dei figli, intenti a mangiare, senza alzare lo sguardo dal piatto che avevano davanti. Meravigliati i cinque guardarono il padre.
“Saprete già che è nato un altro figlio al Sovrintendente.” fece una pausa, in attesa forse in un qualunque cenno da parte loro. Non arrivando, continuò: “Partiremo domani. Al sorgere del sole.”
Alhena guardò il padre negli occhi. Avrebbe voluto chiedere se anche lei fosse stata gradita in questo viaggio, ma fu anticipata.
“Suppongo che la buona educazione mi imponga di portare tutti i miei cinque figli.”
I suoi occhi si posarono sull’unica bionda presente in sala; era così simile a Celebrìan, eppure così diversa. Non riusciva a guardarla negli occhi: era colpa sua… distolse lo sguardo.
“Verrà anche Alhena.” concluse con indifferenza guardando il vuoto davanti a lui.
Quello sguardo fece sentire la bionda principessa invisibile agli occhi del padre.
Elrond si alzò e, superando il tavolo ancora riccamente apparecchiato, uscì dalla sala per ritirarsi nella solitudine dei suoi appartamenti.
“Non dovrebbe trattarti così.” esordì Elladan, appena la porta si chiuse alle spalle del signore di Gran Burrone.
Alhena si voltò, guardando il fratello: “L’ho costretto alla solitudine. È colpa mia se la donna che ama lo ha abbandonato.”
Arwen, alzandosi, raggiunse la sorella e, abbracciandola, le sussurrò all’orecchio le parole che le ripeteva da mesi: “Non è colpa tua. È stato un tragico incidente… non possiamo prevedere quello che le nostre azioni causeranno in futuro… sarebbe potuto accadere a chiunque.”
Irritata per la solita cantilena, Alhena si alzò di scatto, spaventando Arwen. Guardando gli occhi della sorella, rispose, cercando di controllare il tono della voce: “Sarebbe potuto accadere comunque? Io ho condotto quei mostri da voi… io mi sono allontanata, disubbidendo a nostra madre… è stata colpa mia! Ogni cosa è stata colpa mia! Papà ha ragione ad odiarmi… ogni cosa è accaduta per colpa mia!”

Senza attendere risposta, si allontanò dalla sala. Non sopportava le loro parole: tentavano di farla stare meglio ma, in realtà, quelle affermazioni la facevano sentire più in colpa che mai.
“Temo che papà la allontanerà da Gran Burrone.” sussurrò Estryd.
I fratelli la guardarono, non comprendevano quest’affermazione.
La giovane proseguì: “Stavo andando nel giardino di mamma… non credevo di trovarci papà… era disperato, parlava con Lindir… diceva che non sopportava vedere Alhena nella sua terra.”
“Allontanarla da Gran Burrone? Per mandarla dove?” chiese Elrohir.
“Non so. Non ho potuto ascoltare altro… non lo sopportavo…”
“Suppongo a Lothlorien.” concluse Arwen. “Ma il fatto che ne stia parlando, non vuol dire che lo farà… è pur sempre sua figlia.”
“Penso che a questo punto non faccia più differenza.” concluse Estryd, terminando i pomodori dal suo piatto.

La mattina seguente, come annunciato dal Signore di Gran Burrone, i cavalli erano stati sellati e i bagagli caricati sui dorsi degli animali. Sarebbe stato un viaggio lungo e, non era da escludersi, un soggiorno anche a Lothlorien. Erano mesi che Elrond rifiutava qualunque invito ricevesse, ma, questa volta, aveva acconsentito a fermarsi nella terra natia di sua moglie. Sperava anche di alleviare la sofferenza che lo struggeva ininterrottamente da mesi.
“Elladan… aspettami!”
Il giovane principe di Gran Burrone, voltandosi, sorrise alla sorella minore.
“Sei in ritardo.” Alhena lo raggiunse e lui, posando una mano sulla sua spalla, aggiunse: “Ma questo non dovrebbe più sorprendermi…”
“Mi prometti una cosa?” chiese lei con tono innocente, senza distogliere lo sguardo dal corridoio che stavano percorrendo.
“Se è una promessa che posso mantenere senz’altro.”
“Cavalca al mio fianco in questo viaggio. Non lasciarmi sola.”
Elladan si fermò e, afferrando con forza la sorella per un braccio, la fermò, affrontandola.
“Non sei sola. Noi ti siamo accanto. Tutti noi: ricordalo.”
Gli occhi di Alhena si riempirono di lacrime, che tentò di trattenere: “Tu, forse… ma nostro padre…”
“Nostro padre ti perdonerà.” la interruppe. “Ti ama. Sei parte di lui. Nelle tue vene scorre il suo stesso sangue… come potrebbe non amarti?”
“La linea che divide l’amore e l’odio è così fragile…”
L’elfo rimase in silenzio; non sapeva cosa dire. Comprendeva le preoccupazioni della sorella, Elrond era molto duro con lei. Troppo, a suo parere. Ma la cicatrice era ancora fresca nel cuore del sovrano di Gran Burrone e, con rammarico, riusciva a comprendere il suo dolore.
“Elladan! Alhena! Sbrigatevi! Stiamo aspettando voi!” esclamò Arwen, raggiungendo i fratelli. “Papà si sta spazientendo…”
Divincolandosi dalla presa di Elladan, Alhena corse lungo il corridoio per raggiungere la piazza.
“Sta bene?” si preoccupò Arwen, guardando la bionda scappare.
“No e inizio a temere che nulla tornerà come prima.”

Era una giornata nuvolosa, il sole non sarebbe sorto la mattina dell’arrivo di Elrond a Minas Tirith. Fermandosi a poche miglia dal Palazzo Bianco, Elrond ammirò la capitale di Gondor; l’ultima volta che aveva visitato questo territorio era in compagnia della sua amata Celebrìan. Si voltò, guardando Alhena: più il tempo passava e meno era certo che avrebbe potuto perdonare le gesta della figlia.
Il viaggio si rivelò inspiegabilmente piacevole: Elrond non rivolse parola ad Alhena, ma non ci furono discussioni.
Non incrociarono pericoli, nemmeno nel territorio limitrofo a Gondor. I gemelli spesso proseguivano da soli per controllare il percorso, ma non avvistarono truppe nemiche, ma le notizie che riportavano erano rassicuranti.
Minas Tirith non poteva essere più bella agli occhi degli elfi venuti da Gran Burrone. Era la prima volta, sia per Estryd sia per Alhena, che viaggiavano con il padre per ragioni diverse da incontri famigliari. Per le due giovani elfe era incredibile trovarsi nella capitale di Gondor.
Lo stato di Gondor era il più grande della Terra di Mezzo e, la sua capitale, Minas Tirith, era un grande centro commerciale e politico. Avevano solo letto di quelle terre e poterle finalmente vedere con i loro occhi era un sogno per le giovani principesse.
Mentre percorrevano le vie della cittadella, salendo lungo i vari livelli, si guardavano attorno meravigliate e incredule. Era una vera fortezza anche dal punto di vista militare, i diversi strati di Minas Tirith erano separati da possenti mura che permettevano, in caso di attacco nemico, di potersi proteggere a diversi livelli.
Estryd si guardava attorno con il cuore in gola: era davvero bellissima! Diversi addobbi adornavano le vie e ogni casa, sui davanzali o sulle terrazze, avevano posto fiori freschi di vari colori e i festoni collegavano le case di un lato a quelle opposte. La popolazione era in subbuglio per la nascita del secondogenito; quest’avvenimento aveva dato ai cittadini un motivo di festeggiamento, una ragione per distrarsi dalla guerra sempre più incalzante.
In groppa ai cavalli salirono fino al palazzo del Sovrintendente, che si trovava al livello più alto della cittadella. Davanti all’ingresso del palazzo c’era un magnifico giardino pensile, anch’esso addobbato riccamente, ma, a catturare l’attenzione degli elfi, c’era il leggendario Albero Bianco di Gondor.

Estryd rimase senza parole, fissò l’Albero senza riuscire ad esprimere la sensazione che pulsava in lei. Era sempre stata affascinata dalla storia degli uomini e di come avevano sempre lottato contro i nemici. Erano valorosi, nonostante avessero le debolezze tipiche della loro razza.
Ad attenderli, sei stallieri erano pronti per prendere in custodia i cavalli e condurli nelle scuderie private del Sovrintendente. Rimasti soli, i membri della famiglia reale di Gran Burrone, rimasero in silenzio. Nessuno aveva coraggio di parlare; nel corso del viaggio erano state dette pochissime parole.
Elrond, con severità, guardò i ragazzi e disse, con tono piatto: “Mi raccomando, siamo in visita e, dato che i rapporti tra elfi e uomini sono molto tesi, vorrei approfittare di quest’occasione per appianare alcuni antichi diverbi.”
Nessuno dei figli proferì parola, allora continuò, per precisare alcuni punti: “Elladan, Elrohir, voi sarete al mio fianco durante le trattative. Sarete i futuri signori di Gran Burrone e penso sia opportuno per voi imparare fin da subito le responsabilità che vi spettano.”
“Senz’altro, padre.” disse Elrohir, senza alcun entusiasmo.
“Bene… per quanto riguarda Arwen ed Estryd sono convinto che non mi deluderete. Siete entrambe molto aggraziate, avete preso molto da vostra madre… un’altra cosa…” volse lo sguardo verso l’unica figlia bionda. “Alhena, voglio sperare che almeno in quest’occasione non creerai scompigli inutili. Comportati bene. Non parlare se non interpellata e nessuna imprudenza.”
Alhena si sentì avvampare udendo queste parole. Gli occhi le si inumidirono e abbassò lo sguardo, imbarazzata.
“Hai compreso le mie parole?” chiese pacato Elrond.
“Sì, padre.” rispose con un filo di voce Alhena, senza alzare lo sguardo.
Senza aggiungere altro, Elrond avanzò verso il portone con passo deciso: “Andiamo, non facciamoli aspettare.” ordinò ai figli, ancora basiti per le parole riservate alla figlia.
Annuendo, nel tentativo di rassicurarli, Alhena incoraggiò i fratelli a proseguire. Con il capo chino, seguì la famiglia verso il salone. Era spaventata e sentiva di star perdendo definitivamente il rapporto col padre. In cuor suo sentiva, che il peggio doveva ancora arrivare.

La nascita del piccolo Faramir era stata una ventata d’aria fresca per la popolazione di Gondor. Troppe morti e troppi pochi eventi positivi rischiavano di demoralizzare i soldati. I festeggiamenti per la nascita del secondogenito sarebbero iniziati quello stesso pomeriggio e avrebbero coinvolto l’intera città.
Elrond era contrariato dopo aver appreso questa notizia; la ragione principale del suo viaggio non era festeggiare per la nascita di Faramir, ma consolidare l’alleanza tra elfi e uomini. Non si sentiva di festeggiare: non aveva nulla per cui festeggiare.
Entrati nel salone principale, dove il Sovrintendente riceveva gli ospiti, i sei elfi videro Denethor e la consorte Finduilas, parlottare tra loro, chini l’uno verso l’altra.

Estryd non poté evitare di notare il grande legame che li univa. Erano felici e innamorati; sorrise cercando però di nascondere i propri sentimenti.
Udendo i rumori dei passi rimbombare nella sala, Denethor alzò lo sguardo dalla moglie e sorrise a Elrond e ai suoi figli.
“Lord Elrond! Che piacere averla qui!” esclamò il Sovrintendente alzandosi e raggiungendo il signore di Gran Burrone. “E con tutta la famiglia!”
Elrond si fermò e sorrise a denti stretti: “E’ un vero piacere per me e i miei figli trovarci nella bellissima terra di Gondor.”
Finduilas, raggiunse il marito, un sorriso caldo si apriva sul suo volto, illuminandole lo sguardo. Con occhi attenti osservò gli ospiti e composta, come una regina, s’inchinò al Lord di Gran Burrone.
Finduilas era una donna davvero di straordinaria bellezza, discendente dei Dúnadan, con lunghi capelli ondulati biondi ramati e occhi blu come il mare. La sua discendenza era nota a Elrond e rispettava i suoi avi e le loro gesta eroiche.
“Mia Lady Finduilas che piacere rivederla!” disse Elrond, chinando di poco il capo e baciandole la mano.
“Che piacere avervi qui! Sembra che la nascita del mio piccolo Faramir sia un evento importante e spero ci permetterà di confermare e consolidare il legame tra i nostri popoli.”
“Sarebbe un mio grande desiderio.” rispose pronto Elrond. “Ma ora, con il vostro permesso, voglio presentarvi i miei figli: Elladan ed Elrohir…” entrambi chinarono il capo per omaggiare il sovrintendente e la signora. “…Arwen… Estryd…” aggiunse indicando le due figlie ed entrambe si inchinarono con eleganza.
Alhena sorrise, certa che il prossimo nome menzionato sarebbe stato il suo, ma il padre la deluse, continuò dicendo: “Allora, dove sono i vostri figli? Sono curioso di conoscere il nuovo nato!”
La giovane principessa si sentì umiliata per il comportamento del padre. Cercò di nascondere la tristezza che sentiva e ci riuscì perfettamente; perché nessuno, tranne i fratelli, si accorse dell’imbarazzante situazione creata.
Nello stesso tempo, un pensiero triste attraversò la mente della bionda: “Mi ha già dimenticata… mi tratta come se io fossi nessuno…”
La dimenticanza di Elrond era passata inosservata.
“Certo, venite…” esclamò il Sovrintendente, gli occhi gli brillavano per la gioia.
Mentre seguivano Denethor, Finduilas ed Elrond lungo una vita secondaria, Estryd prese Alhena per mano e le sorrise, cercando di darle fiducia.
“Non dargli peso…” sussurrò.
Alhena non rispose.
Elladan, al suo fianco, le sfiorò i capelli e disse con dolcezza: “Ha ragione Es. Non dare peso alle parole di nostro padre… è ancora arrabbiato… supererà il dolore.”
“Sì… è un momento difficile per lui…” aggiunse Arwen.
“Noi ti vogliamo bene. Sei la mia piccola sorellina… cosa farei senza di te?” concluse Elladan.
Alhena non proferì parola; erano le solite frasi che le propinavano per consolarla, ma lei non voleva o doveva essere consolata.
Soffriva per questo. Soffriva perché in fondo al cuore sapeva che era la verità. Si sentiva responsabile e in parte giustificava i comportamenti del padre.
“Basta.” disse infine, interrompendo i fratelli e il loro fiume di parole. “Sto bene. Starò bene.”

Faramir era un bambino bellissimo: piccolo, con la pelle perfetta, grandi occhi grigi e una spruzzatina di capelli del medesimo colore della madre. Stava dormendo nel lettino di legno intagliato a mano e, al suo fianco, il fratello maggiore Boromir, lo osservava dormire con fare protettivo.
Il primogenito, appena vide i genitori entrare nella camera del fratellino, distolse lo sguardo da Faramir e corse verso la madre, allungando le braccia per essere coccolato.
Finduilas, chinandosi, lo strinse a sé e, rivolgendo la parola alla nutrice, chiese: “Dorme ancora? Si è svegliato?”
“No, mia signora. Dorme ininterrottamente da due ore.”
“Perfetto. Se vuoi, puoi andare… mi occuperò io di lui, adesso.”
Inchinandosi alla sua signora, la nutrice lasciò la camera.
Rimasti soli, Finduilas si avvicinò alla culla e, posando Boromir a terra, prese tra le braccia il piccolo Faramir che immediatamente aprì gli occhi. Il piccolo non pianse per il sonno disturbato, osservò la madre e le sorrise.
“Ecco, vi presento il nostro Faramir!” disse la donna con orgoglio.
“Davvero un bambino bellissimo. È incantevole… ed ha i tuoi occhi…” esclamò Elrond, osservando con attenzione il piccolo.
Mentre tutti lodavano il piccolo, Alhena si mise in disparte, osservando la scena: erano una bella famigliola. Unita e legata. Sorrise nostalgica per quanto avevano perso.
Sussultò quando sentì qualcosa tirarle la gonna, abbassò lo sguardo e vide Boromir guardarla con i suoi grandi occhi innocenti. L’elfa sorrise e, chinandosi, allungò una mano verso il piccolo e disse con gentilezza: “Ciao… io sono Alhena… tu come ti chiami?”
“Boromir!” rispose con fierezza il piccolo.
Poi, senza aspettare che Alhena dicesse qualcosa, allungò le mani e alzò i capelli della bionda, mostrando le sue orecchie a punta.
Con l’innocenza, tipica dei bambini, aprì la bocca meravigliato: “Sei un elfo! Un elfo vero!”
“Esattamente! Sono di razza elfica e tu sei un bambino davvero bellissimo!”
“Grazie!” rispose sorridendo dolcemente e, dondolandosi avanti e indietro, aggiunse: “Posso confidarti un segreto?”
Alhena, avvicinandosi al piccolo, annuì: “Certo, dimmi tutto!”
“E’ bellissima!” disse, allungando un braccio verso Estryd e indicandola con un ditino cicciotto.
Alhena guardò nella direzione che il bambino indicava e vide la sorella lodare la bellezza di Faramir.
“Estryd?” chiese Alhena.
“Estryd…” ripeté il piccolo, incantato dal nome dell’elfa.
“Hai ragione, Boromir. È davvero molto bella!”
“Sai un’altra cosa? Io la sposerò.” concluse con decisione il bambino, annuendo con convinzione. “Quando sarò grande e lei sarà ancora così bellissima, io la sposerò!”
Alhena sorrise davanti all’innocenza di Boromir: avrà avuto cinque, massimo sei anni, e la tenerezza con cui parlava di Estryd le sciolse il cuore. Dopo mesi di dolore e sofferenza vide uno spiraglio di sole, grazie alle parole del bambino.
“Ascolta bene le mie parole, Estryd sarà fortunata ad avere il tuo cuore. Sarai un uomo valoroso e sarai un forte guerriero, leale e abile. Sono certa che vi rincontrerete e che lei vedrà in te un bellissimo uomo!”


Estryd e Sam avevano discusso per giorni e, l’unica soluzione che avevano trovato, era di assassinare Gollum facendolo sembrare a un incidente. Frodo si era affezionato a quell’essere e non avrebbe permesso ai compagni di ucciderlo a sangue freddo.
Durante le notti insonni passate di guardia, l’elfa e lo Hobbit, avevano messo a punto un piano perfetto… perfino l’elfa, nonostante l’iniziale titubanza, concordò che l’idea di Sam era buona.
Avrebbero aspettato di raggiungere il passaggio segreto che la creatura aveva suggerito loro di percorrere, poi, con l’arrivo della notte, avrebbero proposto di fermarsi. Frodo avrebbe acconsentito senza ribattere: ogni giorno che passava era sempre più stremato e le notti crollava esausto. Nemmeno durante il sonno, però, riusciva a riposarsi; infatti, i suoi sogni erano tormentati da tremendi incubi. L’Anello stava prendendo il sopravvento nel cuore del Portatore. Entrambi i compagni avevano visto Frodo carezzarlo e sussurrargli dolci parole. Questi comportamenti spaventavano Estryd e Sam.
“Ehi, Gollum, manca molto?” chiese Estryd, superando Frodo e raggiungendo la creatura.
“N-no.” rispose. “Noi siamo sicuri che tra due… tre giorni al massimo… arriviamo al passaggio.”
“La stessa frase l’hai detta l’altro giorno.” ribatté secca l’elfa.
“Ci siamo sbagliati…” convenne Gollum, singhiozzante, fermandosi e contorcendosi. “Chiediamo perdonooo…”
“Estryd non rivolgerti a lui con questi toni… lo spaventi!” la rimproverò Frodo, protettivo.
“Mente. Non siamo più vicini al passaggio di quanto lo fossimo alcuni giorni fa.” disse la bruna.
“Siamo sicuri questa volta… due… t-tre giorni e saremo arrivati a destinazione!” disse con convinzione Gollum.
Sam ed Estryd si scambiarono uno sguardo d’intesa. Più i giorni passavano, più si convincevano che il passaggio era un’invenzione di Gollum. Un meschino tentativo di attirarli in una trappola congeniata durante le sue fughe notturne per riprendersi l’Anello.
Quella notte, mentre Frodo riposava accanto alle braci di quello che restava di un fuoco, Estryd raggiunse Sam e, accomodandosi al suo fianco, sussurrò: “Dovremmo piantargli un coltello nella gola. Adesso.” concluse, sfiorando con le dita la lama che teneva nella fodera legata alla cintura.
“No. Non aver fretta, Es.”
“Perché no? Questa storia del passaggio non mi piace… non mi è mai piaciuta e inizia a piacermi, ogni ora che passa, sempre meno. È una trappola: lo sento!”
“Non voglio rischiare di perdere l’amicizia e la fiducia di Frodo.” rispose Sam. “Voglio che continui a fidarsi di noi. Non possiamo insospettirlo. Non possiamo permetterci che nessuno dei due sospetti qualcosa…”
“Io non voglio finire in una trappola. Morire tradita da quel mostro… non lo accetto!”
Sam stava per ribattere ma Estryd lo fermò; le sue orecchie avevano percepito un rumore sordo in lontananza. Si guardò attorno, sembravano dei passi. Decisamente troppo pesanti per appartenere a Gollum.
“Estryd… cosa…”
L’elfa lo zittì nuovamente, posando una mano sulla sua bocca e accompagnando il gesto, dicendo: “Ssth.”.
Trascorsero alcuni minuti, e i rumori divennero sempre più vicini.
“Sveglia Frodo… ci stanno accerchiando!”
“Accerchiando?” ripeté Sam. “Chi?”
“Sveglialo!” ordinò Estryd, impugnando la propria spada e guardandosi attorno, in cerca di una via di fuga.
Erano vicini, troppo vicini!
“Deponi l’arma elfo e indietreggia, lentamente.”
Dalla boscaglia tutt’attorno alla principessa, una trentina di uomini incappucciati e abbigliati con i colori della terra, avanzarono verso di lei. Tenevano degli archi stretti in mano e le frecce già incoccate. Estryd li guardò, uno a uno, cercando l’anello debole o una via di fuga. Erano troppi per poterli affrontare: non poteva rischiare, non con Sam e Frodo con lei.
“Chi comanda?” chiese la bruna, cercando di non far trapelare la paura che provava.
Un uomo, superando gli altri, avanzò, levandosi il cappuccio: “Io.”
Estryd lo guardò con attenzione. Era un giovane uomo e in mano stringeva un bastone infuocato. Poteva distinguere i suoi tratti: era alto, con lunghi capelli che gli sfioravano le spalle color castano chiaro, tendente al ramato, e profondi occhi grigi. Possedeva un’aria fiera e impavida, ma nei suoi occhi vi lesse comunque l’innocenza.
“Il mio nome è Faramir.” fece una pausa. “E il vostro?”
“Estryd.”
“Estryd?” le fece eco l’uomo. “Venite da Gran Burrone? Quali affari portano una giovane principessa di razza elfica e due Hobbit fin qui, nelle terre di Gondor?”
“I nostri affari ci appartengono.” rispose lei fredda.
Faramir sorrise, divertito dall’arroganza dell’elfa; si voltò, guardando i suoi uomini, e, massaggiandosi il mento, ordinò: “Catturateli.”
Poi, voltandosi verso Estryd e fissandola nei suoi occhi verdi, aggiunse: “Mi dispiace giovane elfa, i vostri affari, al contrario di quello che sostieni, appartengono al mio popolo. Siete entrati nelle mie terre, armati e con intenti a noi sconosciuti. In questi tempi, Estryd, non ci si può fidare di nessuno. Io non posso fidarmi di nessuno.”
Con un gesto della mano, sei sentinelle si fecero avanti e legarono i tre compagni.
La bruna si guardò attorno e, mentre Sam, spinto dalle guardie, superò Estryd, i due si scambiarono uno sguardo d’intesa: Gollum era sparito.

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 18 - LOTHLORIEN ***


Ciao a tutti!
Sono così felice delle bellissime recensioni che continuo a ricevere, spero che la storia continui a piacervi!
Vi lascio a questo nuovo capitolo!
Baciooooo
J
***


"I miei dicono che siete spie degli Orchi.” esordì Faramir, avvicinandosi ai prigionieri e guardandoli attentamente.
Incredulo, Sam rispose alle accuse, fissando il suo interlocutore negli occhi: “Spie? Aspetta un momento!”
Ma non riuscì ad aggiungere altro; infatti, Faramir lo interruppe. Li zittì, chiedendo loro, senza riuscire a nascondere la scarsa fiducia che nutriva: “Se non siete spie, allora chi siete?”
I tre non risposero, ma si scambiarono uno sguardo d’intesa. Per il compimento della loro missione era importante la riservatezza.
Estryd aveva cercato di tenere testa al giovane soldato, ma non avrebbe potuto tacere per sempre. Rischiavano di essere condannati a morte, accusati di collaborare con il nemico.
Si sentiva a disagio e non voleva esporre sé stessa o i suoi compagni a inutili rischi.
Faramir si accomodò su una roccia e guardò attentamente i tre: conosceva l’elfa… o meglio, ne aveva sentito parlare e incontrata una volta, quando era appena nato. Suo fratello spesso gli raccontava della visita di Lord Elrond e dei suoi figli per omaggiare la sua nascita; narrava tutto, nei minimi dettagli. Boromir non lo aveva mai ammesso, ma Faramir era certo che il fratello nutrisse dei sentimenti per l’elfa che, in quel momento, aveva davanti. Erano emozioni nate fin dal loro primo incontro. Non aveva mai parlato liberamente delle emozioni che provava e comprendeva le ragioni della riservatezza del fratello… non era un segreto che loro padre li voleva concentrati unicamente sui successi militari. Denethor non tollerava distrazioni di alcun genere; soprattutto nutriva grandi aspettative dal primogenito che, puntualmente, non perdeva occasione di lodare.
Cercando di essere distaccato, Faramir, con tono deciso, aggiunse: “Parlate!”
Entrambi gli Hobbit guardarono Estryd che, annuendo, diede a Frodo il permesso di parlare. In precedenza, avevano accordato cosa dire in caso di cattura. Sperava che le informazioni che avrebbero fornito a Faramir, sarebbero state ritenute sufficienti.
“Siamo Hobbit della Contea. Frodo Baggins è il mio nome e lui è Samvise Gamgee.” disse deciso Frodo, ripentendo le parole che aveva ormai imparato a memoria.
“La guardia del corpo?” s’intromise Faramir, guardando Sam.
“Il giardiniere.” rispose pacato lo Hobbit.
Un mezzo sorriso illuminò lo sguardo di Faramir, poi, ritornando serio, chiese: “E dov’è il vostro amico furtivo? Quella creatura errante… di aspetto sgradevole.”
Estryd sentì il suo cuore fermarsi nel petto; se avessero catturato Gollum, quanto ci sarebbe voluto al mostro di tradirli? Avrebbe rivelando loro la verità e l’obiettivo della loro missione?
“Non c’è nessun altro.” rispose pronto Frodo “Siamo partiti da Gran Burrone con sette compagni.”
Lo sguardo di Faramir s’illuminò udendo quelle parole.
“Uno l’abbiamo perso a Moria…” continuò il portatore. “Due erano miei congiunti. C’erano anche un nano, un elfo e due uomini.” s’interruppe un istante, notando lo sguardo del suo interlocutore. “Aragorn, figlio di Arathorn, e Boromir di Gondor. A Lothlorien, la sorella di Estryd si è aggregata alla nostra compagnia. Si chiama Alhena.”
La reazione di Faramir, udendo il nome dei due uomini che accompagnavano i suoi prigionieri, fu immediata.
Si alzò in piedi e, voltandosi, ordinò ai suoi soldati: “Conducete i due Hobbit nelle celle e legateli con cura.”
“E l’elfa?” chiese una guardia dai corti capelli neri.
“Lei ed io dobbiamo parlare.” concluse Faramir, girando il capo e guardando attentamente la bruna.
I suoi ordini furono eseguiti scrupolosamente; quattro soldati si fecero avanti e presero i due Hobbit per le braccia, sollevandoli da terra e conducendoli fuori dalla caverna.
Rimasti soli, Faramir riprese posto sulla stessa roccia che occupava poco prima e, guardando Estryd in volto, posò i gomiti sulle gambe.
“Allora, quali ragioni conducono la principessa di Gran Burrone qui a Gondor?”
“Ti ho già detto che le motivazioni del nostro viaggio ci appartengono.” rispose irritata.
“Certo…” disse Faramir, chinando il capo e nascondendolo nelle mani, rise sommessamente. Conosceva la testardaggine tipica della razza elfica; ma non ci aveva mai avuto a che fare, fino a quel momento. “Certo…” continuò. “Quindi vuoi farmi credere che undici compagni sono partiti da Gran Burrone…”.
Fu interrotto.
“Dieci… mia sorella si è unita a noi a Lothlorien.” lo corresse Estryd.
“Sì. Dieci.” si corresse Faramir. “Dicevo… Siete partiti per…?” aggiunse, cercando di farla parlare.
L’elfa sorrise, divertita da quell’interrogatorio mascherato da chiacchierata amichevole.
“Per una scampagnata.” rispose Estryd.
“Una scampagnata?” ripeté Faramir, senza credere alle parole della principessa. “E gli altri? Dove sono adesso?”
“Abbiamo deciso di prendere strade diverse. Non condividevamo le stesse idee per la destinazione finale.”
“Divertente… ma non scherzare!” Faramir si alzò di scatto, spaventando la giovane elfa. “Allora cosa vi porta qui a Gondor? Dove sono gli altri? Avete perso un compagno a Moria… chi? Non farmi perdere tempo! Voglio potermi fidare di te. Ed entrambi sappiamo che il tempo della fiducia cieca è morto! Dobbiamo costantemente fare attenzione alla gente che attraversa i nostri territori. Abbiamo il compito di proteggere le nostre donne e i nostri bambini…”
“Le tue motivazioni sono valide e, credimi, le comprendo… ma non possiamo parlare delle ragioni del nostro viaggio.”
“Come mai?”
“Anche noi, non possiamo fidarci della gente che incrociamo. Come hai detto te, ci sono traditori ovunque. Bisogna stare attenti.”
“Puoi fidarti di me.” disse Faramir, calmandosi e avvicinandosi all’elfa. Voleva parlargli a cuore aperto, rivelargli chi lui realmente fosse, ma non era certo di volersi fidare della ragazza. Non prima di sapere dove fosse suo fratello, dove fosse Boromir.
“Fidarmi di te?” ripeté l’elfa. “Conosco solo il tuo nome… come mai dovrei fidarmi di te?”
“Guardami… ti sembra che menta?”
Estryd lo guardò attentamente, effettivamente i suoi tratti avevano un non so che di famigliare. Pareva onesto.
Poi, un lampo attraversò la mente di Estryd. Riconobbe l’uomo.
“Faramir…” sussurrò l’elfa, pensando attentamente. “Sei Faramir, figlio di Denethor? O è una casualità?”
“Sì. È il mio nome e Denethor è mio padre.”
Estryd si sentì gelare il sangue nelle vene.
“Sei partita da Gran Burrone con mio fratello. Dove si trova?” continuò l’uomo.
“Non… non lo so.” rispose con un filo di voce l’elfa. “Ci siamo separati nei pressi delle Cascate di Rauros, alcune settimane fa… non so dove si trova.”
“Dovrei crederti?”
“Dico la verità!” esclamò con sentimento Estryd, alzandosi in piedi e affrontando Faramir. “Non mentirei mai! Mi stanno a cuore le sorti di Boromir!”
Con un movimento inaspettato, Faramir prese la catena legata al collo dell’elfa e la sollevò dal petto della principessa. Non l’aveva notata prima ma, legata alla collana, c’era l’Anello di suo fratello.
“Dove hai preso quest’anello?” chiese.
“E’ un dono.”
“Un dono di Boromir a te?” chiese curioso Faramir.
“Sì.” rispose l’elfa, arrossendo.
Estryd riprese la catena dalle mani di Faramir e sfiorò l’anello, rigirandolo su sé stesso e guardandolo con intensità. Era l’unico ricordo che aveva di Boromir. L’unico oggetto che la collegasse a lui.
“Non se ne sarebbe mai separato…” fece una pausa, poi continuò. “Almeno che…” lasciò la frase in sospeso.
Estryd, imbarazzata, diede le spalle a Faramir. Non riusciva a sopportare le sue parole e il suo sguardo; pareva che la sua relazione fosse giudicata dall’uomo.
“Lo ami?” chiese il Comandante senza preamboli.
Estryd chiuse gli occhi, pensando al volto di Boromir… gli mancava… girandosi, guardò Faramir negli occhi… riusciva a vedere nei tratti del fratello alcune espressioni simili a quelle dell’amato.
Aprì gli occhi e sostenne lo sguardo dell’uomo: “Sì.”

Da quella conversazione, trascorsero alcuni giorni e il giovane Comandante di Gondor non permetteva ai tre prigionieri di allontanarsi dal loro accampamento. Nonostante non fossero più costretti a soggiornare nelle celle, Faramir non permise loro di girare liberamente. Sospettava che il loro arrivo fosse collegato alla guerra.
Aveva ripensato all’ultima volta che aveva visto il fratello e sapeva che loro padre aveva obbligato Boromir a partire per Gran Burrone. Denethor era convinto che gli elfi custodissero l’Unico Anello. Voleva che Boromir se ne impadronisse per portarlo a Gondor. Il Sovrintendente era certo che tutti avrebbero rivendicato il loro diritto sul flagello di Isildur ma, era convinto, che fosse suo il diritto di possederlo. Quell’Anello avrebbe assicurato la vittoria definitiva di Gondor contro le forze di Mordor.
Aveva cercato di parlare con gli Hobbit, ma non avevano detto nulla al riguardo. Continuavano ad affermare la loro estraneità ai fatti. E sembravano perfino convincenti.
Una sera di luna piena, Faramir raggiunse Frodo e lo costrinse a seguirlo. Lo condusse lungo un passaggio secondario che risaliva sulla montagna nella quale era stato ricavato il nascondiglio di Faramir e del suo esercito.
Frodo sentiva una voce gracchiante cantare; la riconobbe immediatamente. Era Gollum. Fermandosi vicino alla cascata, l’uomo indicò un punto.
“Laggiù.” disse Faramir, indicando il lago sotto di loro.
Frodo si sporse e vide il suo amico tuffarsi e catturare un pesce. Dunque non era scappato. Gli aveva cercati e, una volta trovati, era rimasto nei paraggi. Il portatore sorrise, convinto delle buone intenzioni della creatura.
“Entrare nello Stagno Proibito implica la condanna a morte.” disse Faramir, interrompendo i pensieri del Portatore.
Frodo guardò il Capitano che indicò i suoi uomini appostati tutt’intorno a Gollum; le frecce incoccate, pronti a colpire.
Spaventato, si guardò attorno.
“Aspettano un mio ordine. Devo darlo?”
“No! Aspetta! Quella creatura è legata a me. Ed io a lui.” concluse continuando a guardare Gollum. “E’ la nostra guida.” aggiunse. “Ti prego!”
Faramir acconsentì.
Insieme a Frodo, scesero fino al fiume e convinse Gollum a consegnarsi ai soldati di Gondor, senza lottare. Ma la creatura si sentì tradita dal suo padrone; non comprendeva le ragioni che avevano spinto Frodo, il suo adorato Padrone, ad affidarlo a quegli uomini. Erano crudeli con lui e lo spaventavano.
Lo avevano interrogato a lungo, chiedendogli le ragioni che lo portavano nella loro terra e lo avevano maltrattato, picchiandolo e privandogli di bere e mangiare. Avevano riso di lui e si erano presi gioco delle sue sembianze.
Faramir raggiunse i suoi uomini e, con tono deciso, ordinò loro di smetterla. Subito obbedirono al loro Comandate e si fecero da parte. L’uomo, avvicinandosi alla creatura, raggomitolata a terra, tremante e spaventata, chiese con disprezzo: “Dove li stai conducendo?”
Ma non ottenne risposta. Gollum piangeva rumorosamente.
“Rispondimi!” ordinò, alzando la voce.
Poi, accadde qualcosa di strano. Sembrava che quell’essere avesse due personalità distinte e una parlava con l’altra.
“Sméagol!” disse una voce sibilante. “Perché piangi Sméagol?”
“Uomini crudeli ci fanno male!” singhiozzò una voce diversa, quasi umana. “Il padrone ci ha ingannati!”
Faramir restò senza parole. Non comprendeva appieno quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi, ma sperava di avere delle informazioni. Non s’intromise in quella conversazione; rimase in silenzio, in ascolto.
“E’ naturale. Te l’avevo detto che ingannava.” continuò la voce sibilante. “Te l’avevo detto che era falso.”
“Il padrone è nostro amico… nostro amico!”
“Il padrone ci ha traditi!” urlò l’altra personalità della creatura. La sua voce era piena d’odio e disgusto.
“No! Non sono affari tuoi! Lasciaci in pace!”
“Luridi piccoli Hobbit e lurida elfa!” disse la voce sibilante, accompagnando la parola con un pugno sul terreno. “Ce l’hanno rubato!”
“No…!” singhiozzò la personalità più debole.
Faramir comprese qual’era l’oggetto del litigio, ma voleva una conferma: “Cos’hanno rubato?”
Voltandosi, Gollum affrontò lo sguardo del Comandante di Gondor e, con sguardo folle, rispose: “Il mio Tesoro!”
Dunque l’avevano loro! Queste tre parole attraversarono la mente dell’uomo.
“Bugiardi!” sussurrò Faramir, mentre, quasi correndo, si dirigeva verso la sala, dove erano tenuti i tre prigionieri.
Gli avevano mentito, ma non importava: avevano loro l’Anello e lui avrebbe fatto qualunque cosa per averlo e consegnarlo al padre per dimostrare il suo valore.

“Hanno Gollum?” chiese altera Estryd, guardando Frodo. “Ci tradirà!”
Il Portatore non disse nulla, non escludeva questa possibilità, ma confidava nella loro amicizia e nel loro legame.
“Calmati, Es.” esclamò protettivo Sam, non sopportava che Estryd aggredisse Frodo in quel modo. “Arrabbiarti non servirà a nulla.”
“Ci consegnerà a loro… ne sono certa!”
“Non è detto… è legato a me. Si è affezionato!”
“Si è affezionato all’idea di possedere l’Anello.” concluse pacata l’elfa.
Dei passi lontani fecero tacere i prigionieri. Alcuni secondi dopo, Faramir li raggiunse e guardò attentamente i tre.
“Allora? Chi ce l’ha?” domandò, spostando lo sguardo da uno all’altro.
“Chi ha cosa?” chiese Estryd, ma sapeva già la risposta. Gollum aveva tradito tutti loro.
“Non fare l’ingenua… non ti si addice. Datemi subito l’Anello.”
L’elfa si alzò e raggiunse Faramir: “Parliamo da soli.”
“Sapevo che l’avevi tu!” fece una pausa e, voltandosi, aggiunse: “Seguimi!”.


Lothlorien era la città elfica più bella a parere di Alhena.
Aveva sempre sognato di abitare in quel paese, Caras Galadhon era incantevole. Costruita tutt’intorno a grandi e possenti alberi, con gradinate a chiocciola che conducevano su varie terrazze e ai diversi alloggi privati. Adorava anche i magnifici giardini, infondevano calma e, passeggiare per quelle vie, faceva riaffiorare i ricordi di momenti vissuti con la madre.
Dopo un giorno trascorso a Gondor, Alhena si sentiva di troppo. Suo padre non perdeva occasione per rinfacciarle l’accaduto e lei non sopportava più le sue frecciatine, la umiliava incurante di chi ci fosse insieme a loro.
Elladan aveva deciso di accompagnare la sorella; non si fidava a lasciarla sola, era un viaggio lungo un paio di giorni e temeva per la sua incolumità.
Arrivarono a Lòrien nel tardo pomeriggio. Lady Galadriel e Sire Celeborn accolsero i nipoti con grandi festeggiamenti, che si protrassero fino al sorgere della luna.
Ma, stanca per il lungo viaggio, Alhena si allontanò dalla sala ancora nel pieno delle danze. Raggiunse la sua stanza, la stessa che occupava quando era in visita con la sua famiglia. Non era grande, ma aveva una terrazza che si affacciava sulla foresta, riusciva a vedere anche il fiume Anduin. Di notte era bellissimo, le stelle illuminavano il corso d’acqua dandogli un aspetto da mozzare il fiato.
Seduta per terra, accanto al parapetto, guardò l’orizzonte. Il paesaggio l’aveva incantata. Pensava alla madre e, allo stesso tempo, alla sua vita; temeva il futuro, temeva l’incertezza…
Alhena sussultò quando udì la voce del fratello alle sue spalle.
Si voltò e, asciugandosi il volto rigato dalle lacrime, cercò di sorridere, mostrando indifferenza.
“Elladan… che fai qui? Ti credevo ancora nella sala a festeggiare…”
“Ho visto la tristezza nei tuoi occhi quando sei andata… speravo che Lothlorien potesse dare un po’ di sollievo alle tue angosce.”
Elladan raggiunse la sorella e, accomodandosi al suo fianco, carezzò il suo volto. Subito Alhena scoppiò a piangere, crollando tra le braccia del fratello che cercava di consolarla.
Non disse nulla. Sapeva che, qualunque cosa avrebbe detto, non avrebbe alleviato il dolore che Alhena sentiva. La lasciò sfogare, finché il sonno non sopraggiunse.

La mattina seguente, Alhena si svegliò al sorgere del sole. Elladan, steso al suo fianco, era sveglio e guardava il cielo, affascinato dalla sua mutevolezza. Alhena si alzò, puntando i gomiti al pavimento di pietra. Aveva l’aria esausta. Girandosi di lato, la bionda sorrise al fratello.
“Ma non hai dormito?”
“No.” rispose lui. “Ho vegliato su di te. Anche i sogni, a volte, possono essere ostili.”
Alhena abbracciò il fratello, stringendolo con forza. Gli era incredibilmente grata per le sue premure.
“Grazie… sei dolcissimo… non so cosa farei senza te.”
“Te la caveresti comunque egregiamente.” sussurrò l’elfo.
“No…” disse Alhena. “Da quando nostra madre ha abbandonato queste terre, sei stato come un padre per me. Mi associ una forza che non posseggo…”
“Sei la mia sorellina.”
“Riposa ora.” sussurrò Alhena, alzandosi e porgendo la mano al fratello. “Sto meglio, molto meglio. Ho voglia di passeggiare per i giardini…”
Afferrando la mano che la sorella le porgeva, Elladan si mise in piedi. Superava Alhena di diversi centimetri, si guardarono intensamente per alcuni minuti, poi si strinsero nuovamente in un abbraccio.

“Stai meglio, vero?” chiese preoccupato, stretto ancora alla sorella.
“Sì. Sto meglio e, grazie a te, sono certa che ogni cosa andrà per il meglio!” rispose l’elfa, sciogliendo l’abbraccio.
Elladan prese la sua mano e la strinse tra le sue: “Potrai sempre contare su di me. Sei mia sorella e il legame che ci unisce è più forte del volere di nostro padre.”
“Sei sempre stato protettivo nei miei confronti, ma non voglio creare altre tensioni nella nostra famiglia.” respirò a fondo. “Spero che questo periodo lontano da casa possa aiutarlo a perdonarmi. Temo che mi allontanerà da casa…”
“Non essere sciocca… sono certo che ti perdonerà.”
Alhena abbozzò un mezzo sorriso: nemmeno Elladan era convinto delle parole che aveva appena detto.
Dopo aver accompagnato il fratello nel suo mallorn, Alhena scese le scalinate per raggiungere i giardini, orgoglio di sua nonna Galadriel. Le vie erano affollate da guerrieri Galadhrim che pattugliavano le vie di Lòrien e da altri elfi. Tutti, al passaggio della bionda, s’inchinavano e salutavano gentilmente la giovane principessa di Gran Burrone.
Con un finto sorriso sul volto, lei rispondeva ai saluti, cercando di essere gentile e disponibile.
“Alhena?”
La bionda si voltò e si scontrò con Haldir. Il primo vero sorriso da quella mattina: erano amici da secoli, fin dalla sua prima visita nella terra materna. Celebrìan, conoscendo bene la figlia minore, aveva insistito che qualcuno le tenesse compagnia durante il loro soggiorno. Era certa che Alhena avrebbe commesso delle imprudenze, allontanandosi dalla foresta e aveva pregato i genitori di affiancargli una persona fidata, per sorvegliarla…

La scelta era ricaduta su Haldir che, entusiasta per la fiducia a lui data, aveva accettato, non consapevole dei guai che la giovane elfa gli avrebbe fatto passare.
“Haldir!” esclamò la bionda, raggiungendo l’elfo e abbracciandolo con forza.

La sollevò da terra, annusando il profumo della sua pelle.
“Da quanto siete arrivata?”
“Solo ieri, nel pomeriggio… ora che ci penso, non ti ho visto alla festa…”
“Ero di guardia, ieri, e nessuno mi ha avvisato… Alhena… è davvero una bella sorpresa per me!” disse con emozione, poi aggiunse: “Ho saputo di tua madre… mi dispiace molto. Come state?”
Il sorriso scomparve dal volto di Alhena e, per un istante, un’ombra attraversò il volto della giovane. Chinò il capo e, con un filo di voce, disse: “Non voglio parlarne.”

Ad Haldir furono sufficienti quelle poche parole; non chiese altro. Poteva comprendere il dolore che la giovane stava affrontando, essere abbandonata dalla madre per un’imprudenza commessa…
“Quanti giorni ti fermerai?” chiese Haldir.
“Non so… sono qui con Elladan. Non abbiamo ancora deciso.” s’interruppe un istante, poi continuò: “E quante volte ti ho chiesto di non trattarmi come una principessa. Siamo amici… certe accortezze non sono necessarie tra noi!”
Haldir non rispose, si fermò e, chinando il capo e stendendo le braccia davanti a sé, si sfiorò i palmi delle mani. Era imbarazzato, Alhena se ne accorse.

“Per favore!” lo supplicò, sfiorandogli il braccio.
“Come desideri… Alhena.”
Sentir pronunciare il suo nome le fece venire un brivido lungo la schiena.
L’aveva detto con una tale intensità che rimase sorpresa. Si guardarono alcuni istanti poi, la bionda, sorridendo, riprese a camminare, muovendo la testa e facendo ondeggiare i lunghi capelli sulla schiena.
“Allora, che novità?” domandò Alhena, voltandosi e incrociando lo sguardo del Capitano dei Galadhrim.
“Nessuna rilevante… questa guerra incombe su di noi ma, per ora, i nostri confini sono ben protetti. Non abbiamo subito perdite e il nemico pare non interessato alle terre di Lòrien.”

“Credo che tema il potere di Galadriel.” meditò la principessa.
“Di certo non è da sottovalutare… ora, a malincuore, devo salutarti…”
“Salutarmi? E perché?”
“Sono una guardia di questo bellissimo paese.” rispose Haldir, accennando con un movimento leggero del braccio i giardini che li circondavano. “Anche se la guerra non è arrivata fin qui, devo tenermi in forma. Voglio essere pronto ad affrontare qualunque avversità si presenti.”
“E non posso farti compagnia? Non ti sarei di alcun intralcio… sai, sono abbastanza abile con la spada…” disse Alhena, superando Haldir, mentre si dirigeva verso l’armeria di Lothlorien.

Si allenarono, senza sosta, per la maggior parte della mattinata.
Haldir era il più giovane Capitano dei Galadhrim e fu nominato tale da Galadriel stessa. Per il giovane elfo era stato un grande onore e non mancava occasione per dimostrare il suo valore sia sul campo che fuori.

Si ritrovarono nelle armerie alcuni minuti dopo, Alhena indossava abiti maschili e sembrava un’altra persona. La maglia larga ed i pantaloni legati in vita con della corda, la facevano assomigliare a un elfo scarno. Scendendo gli ultimi gradini per raggiungere Haldir, si legò i capelli con un nastro di seta bianco.
“Allora, iniziamo?” domandò Alhena, sorridendo.

Dopo alcune ore, Haldir dovette ammettere che, nonostante fosse magra, la giovane principessa possedeva una grande forza nelle braccia. Riusciva a parare la maggior parte dei suoi colpi e senza fare nemmeno troppa fatica.
Haldir si ritrovò a fissare le gocce di sudore che si creavano sulla fronte della giovane e che, lentamente, cadevano fino a raggiungere le guance arrossate.
“Eccoti, finalmente!”
I due si fermarono e volsero lo sguardo verso Elladan che, con passo calmo, raggiunse Alhena e Haldir. Il Capitano si sentì uno sciocco per quei pensieri che affollavano la sua mente.
“Ti ho cercata ovunque!” aggiunse Elladan, raggiungendo la sorella.

“Sono sempre stata qui!” rispose Alhena. “Per favore, dammi il cambio! Haldir mi sta distruggendo!”
Il Capitano sorrise e posò una mano sulla spalla di Alhena: “Ad essere onesto, anch’io sono provato! Tua sorella è stata una sorpresa!”. Guardò la ragazza e aggiunse: “Chi ti ha insegnato a muoverti così?”
“Lui!” rispose, accennando con fierezza al fratello.
Elladan sorrise e, raggiungendo la bionda, le prese di mano la spada: “Divertiamoci un po’ anche noi, Haldir!” esclamò, puntando l’arma contro il Capitano.
Alhena si allontanò, senza voltarsi, mentre il rumore delle spade che si picchiavano tra loro raggiungeva le orecchie della principessa.

“Mia sorella è affezionata a te.” disse Elladan.
Si erano allenati alcune ore poi, sfiniti, si erano seduti all’ombra di un alto albero, sorseggiando dell’acqua fresca e ammirando il cielo imbrunirsi.
”Siamo amici da anni ormai…” rispose Haldir, cercando di mostrare non curanza.
“Raramente si fida delle persone. Ha imparato a diffidare di chiunque.”
“E ha ragione. Questo dimostra che non è una sprovveduta.”
“Sì…” sussurrò Elladan. “Però penso che sia un errore. Da quando nostra madre è partita, ha chiuso il cuore a chiunque… sta diventando fredda e insensibile. Alcuni suoi ragionamenti mi lasciano però basito. Pensa a ogni cosa con estrema freddezza. Sono preoccupato.”
Haldir non seppe rispondere a quelle parole. Le era sembrata l’Alhena di sempre quando avevano parlato quella mattina.
“Spero che l’indifferenza che mio padre le riserva finisca presto. È lui a farla cambiare. Lei cerca solo di proteggere il suo cuore. Si sta preparando al peggio e, sai una cosa? Penso abbia ragione. Temo che non finirà bene questa storia…”

 

“Sbagli. Non è in mio possesso.” disse Estryd, affrontando senza paura Faramir.
“Finora sono stato indulgente con voi per l’affetto che unisce mio fratello a te. Non ho permesso ai miei uomini di perquisire te e i tuoi amici… non ho permesso loro di estorcervi informazioni con metodi… diciamo, non convenzionali… mi devi almeno l’onestà!”
“Sono onesta! Non lo custodisco io!”
Faramir stava per parlare, ma Estryd lo anticipò: “E non ti permetterò di prenderlo. Abbiamo una missione. Tuo fratello ha compreso.”
“Una missione? Che missione?”
Estryd lo guardò attentamente negli occhi. Al Comandante di Gondor bastò il silenzio dell’elfa per comprendere le sue intenzioni.
“Volete distruggerlo?” domandò incredulo.
“Non capisci? Non c’è altra soluzione! Corromperà chiunque lo possegga! No.” esclamò Estryd, scuotendo il capo. “No. Non te lo consegnerò! Mai!”
Faramir parve irritarsi davanti alla scarsa collaborazione dell’elfa, ma lei anticipò l’uomo, aggiungendo: “Ascoltami… fidati di me… l’Anello deve essere distrutto. Non c’è altro modo… la guerra cesserà solo se lo getteremo nel Monte Fato. È lì che stiamo andando. Boromir ha compreso l’importanza di questa missione.”
“E come mai non è qui? Con voi?”
“Abbiamo preso strade diverse. Ci siamo separati alle Cascate di Rauros. Siamo stati attaccati dagli Uruk di Saruman… io ho proseguito il viaggio con Frodo e Sam.”
“Perché non vi hanno raggiunti?” domandò Faramir.
Era una domanda che Estryd si era posta diverse volte: che ragioni avevano impedito a Boromir e agli altri di raggiungerla? Di seguirla?
“Non so.” ammise. “Penso che abbiamo deciso di proseguire per la via di Rohan.”
“Boromir non sarebbe mai andato a Rohan! Mai!” esclamò Faramir. “Rohan è debole! Noi stiamo fronteggiando da soli le forze di Mordor, mentre nelle terre di Théoden vagano liberamente gli orchi dello Stregone Bianco!”
“Comprendo che non ti fidi di me! Non mi conosci… ma sono certa che ti fidi di tuo fratello e del suo giudizio… e, se ti fidi di Boromir, perché non fidarti delle sue scelte? Mi ha donato il suo anello perché è legato a me… perché si fida di me… perché mi ama!”
Faramir rimase senza parole. Mille pensieri attraversarono la sua mente, cercando di capire cosa fare. Loro padre era stato estremamente chiaro con Boromir; doveva recarsi a Gran Burrone per convincere gli elfi a consegnare l’Anello a Gondor… senza obiettare, da figlio obbediente e buon Comandante, aveva eseguito gli ordini di Denethor. Si era recato a Gran Burrone ma cos’era accaduto per cambiare la sua lealtà?
“Faramir…” disse Estryd, guardandolo negli occhi e prendendogli le mani nelle sue. “Non mi sto prendendo gioco di te. Amo tuo fratello.” fece una pausa. “Fidati di me.”
“Chi possiede l’Anello? Frodo o Samvise?”
Estryd titubò nel rispondere. Non sapeva cosa dire, parlare o celare i propri segreti? Guardò Faramir con attenzione. Pareva onesto e, se voleva conquistare la sua fiducia, doveva rivelare almeno qualcosa.
“Frodo. Frodo è il Portatore.” concluse Estryd, ancora non pienamente convinta della sua decisione.
Faramir sorrise e, avvicinandosi all’elfa, disse: “Grazie per la fiducia… ma, in questi giorni, la prudenza non è mai troppa.”
Con queste parole, Faramir uscì dalla stanzetta, intenzionato a raggiungere gli Hobbit. Ora sapeva dove si trovava il suo Anello e, per nessuna ragione al mondo, avrebbe deluso nuovamente suo padre.
“Dove vai? Dove stai andando? Non da Frodo! Mi sono fidata! Mi sono fidata!” urlò Estryd, mentre due guardie avanzavano verso di lei e la conducevano di forza verso le celle.

I due Hobbit erano seduti e parlottando sottovoce tra loro. Faramir li raggiunse e, estraendo la spada, li guardò attentamente.
Entrambi si alzarono, spaventati.
“Così, questa è la risposta a tutti gli enigmi.”
Avanzò verso Frodo, puntando l’arma contro il Portatore.
“Qui, nelle Terre Selvagge ho voi, due Mezzuomini e un’elfa, e un esercito di Uomini al mio comando.”
Frodo indietreggiò lentamente, terrorizzato per la follia che intravide negli occhi del Comandante degli uomini. Raggiunse il muro di roccia e si posò contro di esso, terrorizzato.
“E l’Anello del Potere a portata della mia mano.” concluse, sollevando dal petto di Frodo la catena contenente l’Unico.
Guardava il gioiello ammaliato, era davvero lì… a pochi centimetri dalle sue mani… bastava prenderlo e consegnarlo al padre… dischiuse le labbra per parlare, ma fu interrotto da Estryd che, seguita da alcune guardie che cercavano di fermarla, avanzò come una furia, spada in mano, pronta ad affrontare Faramir.
“Non farlo!” esclamò, frapponendosi tra il Portatore e il Comandante. “Per favore!”
Nessuno si mosse.
Nessuno parlò.
“Osgiliath è stata attaccata! Chiedono rinforzi immediati.”
Un soldato avanzò, un messaggio nella mano e lo sguardo allarmato.
Faramir distolse lo sguardo da Frodo e dall’Anello che teneva al collo. La notizia che portava il suo soldato era delle peggiori che potesse ricevere.
Osgiliath era una città sul confine di Gondor, posizionata in un punto strategico. Era costruita sul fiume, a poche miglia da Minas Tirith; perderla, equivaleva a consegnare al nemico una nuova opportunità di invasione.
“Capitano!” esclamò la guardia, cercando di richiamare l’attenzione di Faramir per ricevere ordini al riguardo.
Non aveva scelta; avrebbe dovuto spostare il suo esercito per proteggere la città che tanto faticosamente il suo popolo cercava di difendere.
“Preparatevi a partire!” sussurrò convinto. Poi, spostando lo sguardo ai tre prigionieri, aggiunse: “L’Anello andrà a Gondor.”
Pronunciate queste parole, uscì dalla camera per prepararsi alla partenza.
“No!”.
La voce di Estryd lo raggiunse. Era disperata: “Non consegnare l’Anello a tuo padre! Ci farai uccidere tutti! Faramir! Ti prego!”

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Capitolo 19
*** CAPITOLO 19 - ANCHE I MOSTRI HANNO L'ANIMA ***


Grazie ancora per le belle recensioni, ecco qui un nuovo capitolo!
Buona lettura e alla prossima!
Baci
J
***


Dopo la partenza da Edoras, Alhena notò che Eowyn era rimasta affascinata da Aragorn. E poteva comprenderla; il ramingo era molto affascinante. Aveva uno sguardo profondo e, quando parlava, infondeva calma nel suo interlocutore. Anche lei, la prima volta che l’aveva visto, era rimasta senza parola guardando i suoi occhi. Si percepiva la sua discendenza, la sua saggezza… era un Dùnenain e aveva la fierezza di chi sapeva che discendeva dalla stirpe dei Re.
Mentre le ore scorrevano, l’elfa notò che il discorso tra i due, iniziato nel giardino del Palazzo d’Oro, era continuato ininterrottamente fino a quel momento. Era infastidita da quel legame che si stava creando tra i due: Aragorn, dopotutto, era fidanzato con sua sorella!
A cavallo, al fianco di Legolas, Alhena non riusciva ad evitare di distogliere lo sguardo dall’uomo.
Non poteva evitare d’essere protettiva con la sorella maggiore; Arwen aveva sacrificato molto per la loro storia… ma, a preoccupare maggiormente Alhena, era che Aragorn guardava Eowyn con occhi colmi d’ammirazione.
“Non mi piace…” sussurrò acida. “Non mi piace per niente.”
Legolas spostò lo sguardo nella stessa direzione di Alhena. Capì subito cosa non piaceva alla bionda.
“Sono amici. Aragorn ama tua sorella.” disse, cercando di confortare la bionda.
“Sei così ingenuo a volte.” sussurrò l’elfa, guardandolo sospettosa.
Di risposta, il principe di Bosco Atro rise di gusto.
“Credimi, non tradirebbe mai tua sorella. Non dopo tutte le difficoltà che sta affrontando per poterla sposare.”
“Lei è di razza elfica, lui un mortale… che futuro potranno mai avere?”
“Alhena!” la ammonì Legolas, accennando a Boromir che, dietro di loro, aveva udito ogni parola.
La bionda, voltandosi, incrociò lo sguardo dell’uomo.
“Pensi davvero a quelle parole?” domandò piatto il Comandante di Gondor.
“Boromir non essere sciocco. Sai che dico la verità…” fece una breve pausa e aggiunse: “Morirai… violentemente o per il lungo scivolare del tempo… tu morirai, mentre Estryd vivrà in eterno… che potrai mai dargli te? Amore? E per quanto? Vent’anni? Trenta? Quaranta al massimo?”
“Alhena! Basta adesso!” la rimproverò Legolas, afferrandola per un polso.
La giovane elfa fulminò Legolas con lo sguardo. Solo un altro uomo l’aveva afferrata in quel modo e, in quell’occasione, la sua vita era stata sconvolta.
“Lascia il mio polso.” disse lei, scandendo le parole. “Subito.”
Il principe lasciò la presa e, scusandosi, aggiunse: “Non volevo…”
Ma non terminò la frase, Alhena lo interruppe: “Conosci quel detto Legolas? La mela non cade mai tanto lontana dall’albero… è proprio vero. Ora, con permesso.”
Incitando il proprio cavallo, la principessa superò l’elfo, avvicinandosi ad Aragorn ed Eowyn per origliare la loro conversazione.
Per lo più discorrevano di sciocchezze, ma una domanda di Eowyn attirò l’attenzione della bionda.
“Dov’è lei? La donna che ti ha donato quel gioiello?” chiese, accennando alla collana che il ramingo teneva al collo.
L’elfa guardò Aragorn, studiando i tratti del suo viso e, curiosa di sapere cosa avrebbe risposto, si sorprese notando che lo sguardo dell’uomo s’incupì. Un’ombra che oscurò il suo volto per un secondo.
“Sta andando nelle Terre Immortali…” prese fiato, quelle parole lo facevano soffrire. “Con ciò che resta della sua stirpe.”
Ad Alhena mancò un respiro: Arwen stava partendo per le Terre Immortali? Estryd non le aveva accennato nulla durante i giorni trascorsi insieme…
Guardò l’uomo camminare a fianco di Eowyn, tenendo le redini del suo cavallo. L’elfa voleva capire se stava mentendo, ma non lesse menzogne nei tratti del suo volto.
“Oh…” sussurrò Eowyn, iniziando a comprendere. “Mi dispiace. Sarà una brutta separazione per voi… se vuoi parlare con qualcuno, puoi contare su di me. Sono un’ottima ascoltatrice… posso esserti di conforto…”
La ragazza posò una mano sulla spalla di Aragorn. Quel gesto fece nauseare Alhena che, incitando il cavallo, raggiunse i due.
“E’ mia sorella: Arwen.” s’intromise nel discorso, attirando la loro attenzione. Poi, come se non avesse interrotto nulla, aggiunse: “Vieni, Eowyn. Cavalca al mio fianco… sono certa che Aragorn ha da fare.”
Montando sul suo esemplare, Eowyn, seguì l’amica, lasciando Aragorn solo.
Mentre superava il ramingo, la bionda elfa si voltò e lo fulminò con lo sguardo, trasmettendogli tutto il suo disprezzo.

Rimaste sole, Eowyn guardò Alhena.
L’elfa cavalcava con postura rigida; guardava davanti e non batteva ciglio. La giovane dama di Rohan, aveva conosciuto molto bene la giovane elfa e avevano parlato a cuore aperto. Alhena le aveva parlato del padre e della sua vita in giro per la Terra di Mezzo.
“Sapevi che era un discendente dei Dùnedain?” domandò Eowyn, cercando di rompere il ghiaccio. “Mi ha rivelato di avere ottantasette anni! Ci puoi credere? Sembra così giovane!”
Alhena guardò la donna, irritata per quelle parole: “Aragorn? Sì. Lo sapevo… è figlio di Arathorn, discendente di Isildur.”
“Lui è il legittimo Re di Gondor?” chiese Eowyn senza fiato, voltandosi e guardando il ramingo, intento a parlare con Boromir. “Non ne avevo idea…”
“Sii onesta, per favore… ti piace?” chiese senza preamboli, guardando l’amica negli occhi.
La fanciulla di Rohan arrossì.
“Quel rossore devo interpretarlo come una risposta affermativa?”
“Non sapevo che fosse legato a un’altra donna… non ne avevo idea… l’ho conosciuto da pochi giorni… ma rispetto il suo legame con tua sorella.”
Alhena la guardò in volto, sorridendole con sincerità: “Non preoccuparti! Non potevi saperlo…”
Le due ragazze, rimasero in silenzio alcuni minuti. Entrambe guardavano l’orizzonte, smarrite nei loro pensieri.
Il sole era ormai alto nel cielo e il caldo iniziava a farsi pesante. La terra stessa emanava calore, le rocce erano incandescenti e l’afa rendeva l’aria irrespirabile. Innumerevoli moschini svolazzavano, scontrandosi tra loro e picchiando contro i viaggiatori. Erano noiosi e non semplificavano il viaggio verso il Fosso di Helm.
“Quando sei andata via da Rohan, per dirigerti a nord, la mia vita è stata un incubo.” sussurrò Eowyn, guardando l’amica.
Alhena ricambiò il suo sguardo.
“Pensavo che le cose fossero migliorate…”
“No.” la interruppe Eowyn, con tono duro. “Subito dopo la tua partenza, Eomer è stato cacciato da corte per volere di mio zio… anche se, a comandare il suo allontanamento, sono certa che sia stato Grima… non potevo contare sul supporto di altri… ero sola! Sola con quello schifoso!”
“Avresti potuto chiedere il mio aiuto.” esclamò Alhena.
“E come?” domandò Eowyn, gli occhi inumiditi dalle lacrime che tentava di trattenere. “Non sapevo dove tu fossi… come ti avrei rintracciata?”
L’elfa non rispose. Comprendeva l’ira dell’amica; era scappata dai problemi di Eowyn perché non riusciva ad affrontare altri demoni oltre a quelli che già l’assillavano.
Guardò il profilo severo della ragazza e, con tono freddo, sussurrò, in modo che solo lei potesse udire: “Non preoccuparti. Abbi fiducia in me. Avrà ciò che si merita.”

Urla di terrore.
Grida.
E poi la notizia giunse, diffondendo panico tra la folla.
“I mannari! I mannari!”
Rumori di metallo, spada contro spada.
Alhena guardò Eowyn al suo fianco, il volto della donna era contratto dalla paura.
Voltandosi, incrociò Legolas avanzare correndo verso la collina. Mentre la superava, seguito da Boromir e da Aragorn, per una frazione di secondo, nei lineamenti del principe di Bosco Atro, vide Thranduil.
I tre risalirono la collina in cerca del Rohirrim che aveva gridato aiuto. Ma, ciò che trovarono, fu un cadavere dilaniato dai mannari di Saruman e diversi orchi che, in sella a quelle bestie, stavano scendendo la collina per avventarsi su di loro.
“Mio Dio…” sussurrò Boromir, sfoderando la spada per prepararsi al combattimento.
Aragorn, voltandosi, vide Thèoden che, seguito dai suoi cavalieri, si stavano preparando per fronteggiare l’attacco nemico. Vedendo lo sguardo del Re, riconobbe il valoroso combattente che aveva conosciuto anni prima; in lui non c’era più traccia della maledizione di Saruman.
In cima a una roccia, Legolas stava scoccando frecce abbattendo più nemici possibili, ma erano troppi. Ne contò un centinaio e loro, pur non essendo inferiori numericamente, dovevano anche proteggere la popolazione del Mark. Non era nel suo carattere temere le avversità, suo padre gli aveva insegnato l’orgoglio del guerriero.
Scoccò l’ennesima freccia che non mancò il bersaglio ma, questa volta, oltre alla propria freccia, un’altra fu lanciata alle sue spalle.
Si voltò, sorpreso: “Alhena?!”
“Non ti lascio solo.” disse lei, prendendo la mira e scoccando un’altra freccia.
Afferrò l’amica per le spalle e la guardò negli occhi: “Non ti permetto di combattere! Non oggi!”
“So badare a me stessa!” replicò lei, cercando di divincolarsi dalla presa dell’elfo. Ma, la presa di Legolas era forte, non riuscì a liberarsi.
“Legolas…” sussurrò Alhena.
Sentir pronunciare il suo nome, con quel tono… si sentì tremare le gambe.
“Non chiamare il mio nome… non pronunciarlo con quel tono!”
Alhena aggrottò la fronte, ma non diede peso alle parole del principe. “Voglio combattere. Voglio rendermi utile!”
“Sarai utile anche proteggendo il popolo di Rohan. Conducili al sicuro, al Fosso di Helm.”
La principessa si voltò per raggiungere i cittadini del Mark.
Fece solo due passi, poi si voltò nuovamente; Legolas le dava le spalle.
Scoccava frecce contro i mannari e gli Uruk in avvicinamento. La postura era rigida e lo sguardo, immaginò, fosse concentrato… come ogni volta, quando prendeva la mira, una piccola ruga si formava tra i suoi occhi… l’elfo alzò il braccio per afferrare un’altra freccia.
Un impulso irrefrenabile costrinse la bionda a fermare la mano dell’amico. La strinse, costringendolo a girarsi e, incrociando i suoi occhi, si alzò sulle punte… si avvicinò a lui, lentamente…
“Alhena…” sussurrò lui.
La principessa batté le ciglia una volta, continuando a guardarlo. Si avvicinò ancora di più, riusciva a sentire il suo odore… il respiro caldo di Legolas le accarezzava la pelle… Alhena si morse il labbro inferiore e spostò lo sguardo sulle labbra rosse del principe… respirò a fondo, tremante, il fiato spezzato dal desiderio…


Thranduil era di ritorno da una lunga cavalcata con il suo fedele alce; era pensieroso e, solo allontanandosi dal suo palazzo, poteva trovare la pace di cui aveva bisogno. La guerra appena affrontata era stata dura per il giovane Re di Bosco Atro e, durante la stessa, aveva perso molto. Più di quanto potesse ammettere con sé stesso.
Non era ancora sorto il sole e le vie erano deserte. Come ogni giorno, quelli, erano gli unici momenti che usciva dalle sue stanze.
Era stanco.
Era arrabbiato.
Era deluso.
Dopo aver nutrito il suo adorato alce, unica amica che volesse al suo fianco, si rinchiuse nelle sue camere private. Le tende erano tirate, per impedire al sole di penetrare dalle finestre. Odiava la luce, perché solo il buio poteva celare il mostro che era diventato. Il letto era stato rifatto mentre era fuori dal suo alloggio e una ricca colazione era stata posata sulla scrivania.
Il vassoio d’argento era stato, come ogni mattina, lucidato e frutta fresca era stata sistemata ricreando una magnifica composizione di colori. Afferrò una mela verde, la avvicinò e la studiò attentamente.
Era così perfetta: la superficie era liscia e senza difetti, dura al tatto e, avvicinandola al naso, aveva un odore fresco e, allo stesso tempo, pungente. Carezzò la buccia… con rabbia, la scaraventò contro il muro, rompendola in tanti piccoli pezzi…
Iniziò a slacciare la lunga veste che portava, la lasciò cadere per terra, incurante del suo valore. Si diresse nella sua camera da bagno, la vasca era stata preparata; l’acqua era tiepida e, sulla superficie, galleggiavano petali di rosa.

Chinandosi immerse una mano nell’acqua: era tiepida, perfetta.
Si voltò e, avvicinandosi al caminetto di marmo, si versò un bicchiere di vino fino al bordo. Alzando il volto incrociò il suo sguardo nello specchio. L’aveva rotto da mesi, da quando era tornato dal combattimento… non aveva permesso a nessuno di sostituire la superficie.
Ogni specchio nel suo palazzo era stato rotto, non sopportava più il proprio riflesso.
Lui, che era sempre stato così orgoglioso e vanitoso del suo volto perfetto, ora non riusciva a guardarsi. Aveva schifo della sua stessa immagine.
Posò una mano sulla superficie, nascondendo quel volto riflesso nei vari cocci.
Rimase immerso per diverse ore, sfiorando la superficie con i palmi delle mani e giocherellando con i petali di rosa che si avvicinavano al suo corpo. Li afferrava e li stracciava, odiava ogni cosa che rasentava la perfezione. Non lo sopportava, non ora che lui non era più perfetto.

Seduto avvolto in un lungo accappatoio di seta color blu notte, osservava le proprie terre dalla finestra. Quel pomeriggio aveva diversi impegni ufficiali che necessitavano la sua presenza. Queste responsabilità lo irritavano; i suoi interlocutori, era certo, lo fissavano e nei loro occhi vi leggeva pietà.
Lui non aveva bisogno della loro compassione; era stato ferito in battaglia, ma non era debole. Non voleva essere debole. Cercava di celare i propri sentimenti agli occhi dei suoi sudditi.
Respirò a fondo, cercando di allontanare questi pensieri: i confini del suo regno erano belli, verdi e ricchi. Adorava guardarli perché in essi trovava il proprio coraggio; coraggio ad affrontare un nuovo giorno, coraggio perché era solo, coraggio ad affrontare il mondo.
La battaglia lo aveva cambiato: il suo carattere, un tempo fiero, spavaldo, esuberante, ora, in lui, non restavano che incertezze e dubbi…
Prese l’ennesimo bicchiere di vino e lo bevve in soli due sorsi; il vino lo aiutava a non pensare al passato. Lo aiutava a dimenticare, a non provare nulla.

L’ennesimo incontro terminò, aveva ascoltato i propri consiglieri discutere, ma non aveva udito alcuna parola. Lo sguardo chino in avanti e i capelli che coprivano il volto, per non farsi guardare, per non incrociare gli occhi degli altri elfi seduti al tavolo con lui.
Raggiunse le sue stanze, la sua gola bramava di assaporare un nuovo bicchiere di vino. Ma, ad attenderlo, seduto comodamente sul davanzale, le tende aperte, permettendo ai raggi del sole di entrare e illuminare la camera, c’era Legolas.

Il giovane figlio di Thranduil stringeva tra le mani un piccolo arco di legno e, appena la porta si aprì, incrociò gli occhi del padre. Il suo volto s’illuminò di gioia nel vederlo; erano settimane che non gli era permesso di incontrare il genitore e soffriva per la lontananza.
Sorridendo, corse incontro al padre con le braccia aperte, desideroso di un abbraccio.
“Fermati!” lo intimò Thranduil, urlando.
Il giovane principino si bloccò e, alzando lo sguardo, guardò il padre senza capirne il comportamento.
“Papà…” sussurrò, gli occhi inumiditi dalle lacrime.
“Esci dalla mia camera!” sibilò.

Legolas singhiozzò; si sentiva rifiutato, perché il padre non voleva vederlo? Parlargli? Sorridergli? Abbracciarlo? Baciarlo? Non aveva che lui…
”E’ questo sfregio che volevi vedere quando hai deciso di venire qui?” domandò freddo, accennando alla guancia.
Legolas si avvicinò al padre e, allungando un braccio, afferrò la veste, tirandola nel tentativo di farlo abbassare.
Thranduil si chinò verso il figlio ed afferrò le sue braccia, allontanandole da lui.
“Questo volevi vedere? Questa ripugnante cicatrice?”
Non comprendeva il genitore; aveva solo lui e non gli importava della cicatrice che segnava il suo volto… lui lo amava… era suo padre… lo avrebbe sempre amato…
Divincolandosi dalla presa paterna, abbracciò Thranduil e iniziò a singhiozzare.
“Padre so che state soffrendo molto… voglio solo poterti aiutare… lascia che ti aiuti… ti prego…” alzò lo sguardo, incrociando gli occhi freddi e vuoti del Re. “Papà…”
Con un movimento improvviso, Thranduil allontanò il figlio e, alzandosi, con tono distaccato sussurrò: “Non ho bisogno del tuo aiuto e della tua compassione.”
Trascinò Legolas verso la porta e, spalancandola, lo fece uscire.

“La prossima volta non entrare nelle mie camere senza avere prima il mio permesso. Chiaro?”
“Ma… papà…” sussurrò il giovane elfo, senza comprendere l’atteggiamento del genitore.
Ignorando le parole del figlio chiuse la porta, sbattendola con forza.
Thranduil chiuse gli occhi, cercando di non pensare a quanto accaduto. Amava il figlio, ma non sopportava lo sguardo di Legolas… lo guardava con i suoi grandi occhi ancora innocenti… con quello sguardo così simile a quello della madre… non lo sopportava.
Aveva bisogno di solitudine. Aveva preso una decisione: avrebbe vissuto segregato nelle sue camere, non mostrando il mostro che era diventato.
“Ti voglio bene, papà…”
La voce di Legolas, raggiunse le orecchie del Re da dietro la porta e, per la prima volta, dopo la morte della sua adorata moglie, Thranduil pianse.


Boromir era irrequieto, mentre i mannari si avvicinavano. In sella al suo destriero, il Comandante di Gondor aveva in pugno già la sua arma, pronto ad attaccare. Presto però l’irrequietezza mutò in eccitazione. Ogni battaglia, per Boromir, era una scarica di adrenalina!
La battaglia si consumò velocemente, i Rohirrim subirono perdite, ma vantarono una vittoria schiacciante contro le truppe nemiche. Con il sorriso ancora sulle labbra, Boromir si guardò attorno, in cerca dei volti che aveva imparato a chiamare amici.
Vide Legolas, poco distante da lui, anche il giovane elfo si guardava attorno in cerca dei compagni. Boromir gli fece un lieve cenno con il capo che, Legolas non mancò di ricambiare. L’uomo continuò la sua ricerca, ma di Aragorn non c’era traccia.
Scese dal cavallo e raggiunse l’elfo, camminava guardandosi attorno.
“Aragorn?” chiese raggiunto il principe di Bosco Atro.
“L’ho perso di vista durante il combattimento…” rispose. “Aragorn!” chiamò, urlando il nome del ramingo.
“Aragorn!” gli fece eco Boromir.
Non ottennero risposta, se non delle risa acide.
Voltandosi, vide un orco mutilato steso a terra. Camminò fino a sovrastare quel mostruoso essere e lo guardò attentamente; era in fin di vita ma, nonostante il dolore che stava sentendo, rideva di gusto.
L’Uruk tossicchiò, sputacchiando sangue.
Anche Boromir lo raggiunse, era chiaro ad entrambi che sapeva qualcosa. L’orco conosceva la risposta alla domanda che gravava sul cuore dei due.
Boromir, inginocchiandosi, lo affrontò: “Tu sai cosa è successo… sai dov’è il nostro amico… il ramingo che vestiva abiti elfici. Dov’è?”
La creatura aprì la bocca, cercando di parlare. Ogni parola gli costava un enorme sacrificio ma godè nel pronunciare la risposta alla domanda dell’uomo: “E’… morto.”
Legolas lo guardò, avvicinandosi a lui: stava mentendo… ne era certo!
“Dimmi la verità e ti faciliterò il trapasso!” urlò Boromir, afferrandolo per la divisa e strattonandolo.
L’odio che provava per quella creatura era senza paragoni; non poteva aver ucciso Aragorn, era un abile combattente! Aveva imparato a rispettarlo; Aragorn era l’uomo che avrebbe voluto al suo fianco in caso di battaglia, l’uomo che aveva iniziato a onorare come fosse il suo re.
“Vogliamo la verità!” esclamò Legolas.
“Ha… fatto un piccolo capitombolo… dal dirupo.” bofonchiò l’orco, prima di ricominciare a ridere.
Entrambi i membri della compagnia volsero lo sguardo alle loro spalle, dove l’Uruk stava guardando. C’erano delle rocce le quali cadevano a picco nel vuoto.
Preso dall’ira, Legolas, afferrò il servo di Saruman per l’armatura e, con odio, sibilò: “Tu menti!”
La creatura tentò di dire qualcosa, ma dalla sua bocca fuoriuscirono solo dei rantoli. Mosse il braccio, lentamente… la mano stretta a pugno, nascondeva qualcosa… Legolas lo guardò morire. La vita abbandonò gli occhi dell’orco.
Lo sguardo di Boromir cadde sulla sua mano: “Cos’è? È…?”
Non riuscì a terminare la frase, se l’oggetto che stringeva era ciò che temeva, significava che non aveva mentito. Che Aragorn era davvero morto.
Legolas afferrò il gioiello stretto nella mano dell’orco. Era ciò che temevano: il gioiello dono di Arwen, la Stella del Vespro. I due guerrieri si scambiarono uno sguardo smarrito, non riuscivano a crederci… era morto? Era davvero morto?
Quel pensiero spaventò i due, non riuscivano a pronunciare quella parola ad alta voce… avrebbe reso tutto così reale…
Con uno scatto, Legolas si allontanò dal cadavere e corse verso il precipizio.
Non c’era nulla. Non vide nulla.
Solo il fiume che, impetuoso, avanzava la sua marcia. Boromir raggiunse l’elfo e osservò anch’egli oltre il burrone. Deglutì, non sapeva cosa dire. Posò una mano sulla spalla di Legolas, comprendeva il suo dolore; lui e Aragorn erano amici da anni.

Il Fosso di Helm non poteva essere più diverso di come Alhena se lo fosse immaginata. Era grande, con mura possenti che univano i due versanti delle montagne, formando una fortezza invalicabile. Costruita nel versante nordoccidentale degli Ered Nimrais, catena montuosa che separata Rohan da Gondor. La rocca, per il popolo del Mark, poteva essere una casa, un riparo, una fonte di salvezza… ma poteva trasformarsi anche nella loro tomba.
“Durante la battaglia dove si nasconderanno le donne e i bambini?” chiese l’elfa ad Eowyn.
“Ci sono dalle caverne. Saranno ben protetti.”
“Fino a quando reggeranno le mura…” concluse Alhena, avanzando verso il portone spalancato per permettere agli abitanti di Edoras di entrare.
Le due donne risalirono a piedi le vie della fortezza per raggiungere il salone principale.
Era quasi l’ora di cena ed Eowyn aveva preso in mano la situazione; aveva predisposto brande per i rifugiati e si stava preparando per distribuire loro del cibo. Non trovarono molte dispense, erano sufficienti per affrontare tre settimane di assedio, ad essere ottimisti…
“Posso chiederti una cosa?” domandò Eowyn, mentre distribuivano minestra calda. “E’ personale.”
Alhena incrociò lo sguardo dell’amica, era arrossita. Annuì.
“Tra te e l’elfo… Legolas… cosa è accaduto? Siete…?” lasciò la frase in sospeso, troppo imbarazzata per terminarla.
L’elfa non seppe che rispondere… ripensare agli attimi prima della separazione le faceva battere il cuore, ma sentiva che qualcosa era sbagliato… si sfiorò le labbra con le dita, cercando di far riaffiorare un sapore, un ricordo…
“Vi siete baciati, vero?”
“Non è semplice…” rispose Alhena. Quelle parole uscirono dalla sua bocca senza riflettere.  Questo era il problema: non era una situazione semplice.
Quando aveva baciato Legolas, per un istante, la sua mente le aveva giocato un brutto scherzo. Un orribile scherzo…
“L’amore dovrebbe essere semplice. O c’è o non c’è.” convenne Eowyn. “Non puoi obbligare il tuo cuore ad amare una persona.”
Alhena non rispose, pensava e ripensava alle parole dell’amica. Erano entrate in lei, arrivando a sfiorarla nel profondo. Aveva ragione.
L’amore o c’è o non c’è.

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Capitolo 20
*** CAPITOLO 20 - LO SPECCHIO DI DAMA GALADRIEL ***


Ciao e rieccomi con un nuovo capitolo!
Ringrazio tutte/i che seguono la mia ff: buona lettura e commentate!
Kisses
J
***



Faramir, insieme al suo esercito, si stava dirigendo velocemente verso la città di Osgiliath. Gli eserciti stanziati in quella città avevano chiesto soccorsi e non poteva tardare.
I tre prigionieri erano stati bendati, per impedire loro di vedere la via intrapresa e ostacolare un’eventuale fuga. Estryd era arrabbiata; si era fidata ciecamente di Faramir, gli aveva rivelato chi custodiva l’Anello, dettagli sulla loro missione e lui aveva tradito tutti loro… si fidava di Faramir.
Mentre camminava, con passo incerto, l’elfa pensava a quello che sarebbe potuto accadere; era in viaggio verso Osgiliath e la città era sotto assedio. L’Anello si stava avvicinando sempre più al nemico e, non era nemmeno più certa, che l’unico nemico fosse Mordor.
“Guardate!”
La voce di un soldato alle sue spalle la fece sussultare.
Un crescente vociare la informò cosa stava accadendo: Osgiliath era perduta. Stava bruciando e gli orchi di Mordor stavano vincendo contro i soldati di Gondor.
“L’Anello non salverà Gondor! Ha solo il potere di distruggere…” disse Frodo, parlando con Faramir. “Ti prego! Lasciaci andare!”
Ma le sue parole furono ascoltate solo dal vento; cercava, invano, di convincere il Comandante di Gondor a liberarli.
L’unico pensiero di Faramir andava alla battaglia; incitava i propri soldati a proseguire. Era certo che sarebbero stati ancora in tempo… dovevano sbrigarsi… in quel momento, validi combattenti di Gondor stavano morendo per proteggere il porto di Osgiliath e, prima sarebbero arrivati alla città, prima avrebbero potuto salvare loro la vita.
La benda che copriva gli occhi di Estryd si abbassò di poco, permettendo all’elfa di spiare sopra di essa. Faramir era davanti a lei, pochi soldati la separavano dal Comandante. Non vide gli Hobbit; scappare non sarebbe stato semplice, erano circondati.
Improvvisamente, aumentò il passo, scatenando l’ira delle guardie che l’avevano in custodia.
“Faramir!” lo chiamò, raggiungendolo. “Faramir, ti prego ascoltami!”
L’uomo si voltò, trovando l’elfa dietro di lui.
“Vi avevo chiesto di bendarla.” sussurrò freddamente ai suoi uomini, fermandosi e sistemando nuovamente la benda sul volto di Estryd.
“Ti prego! Ascolta le mie parole…” continuò lei.
Con uno scatto, Faramir alzò un braccio e strappò dal volto di Estryd la benda permettendole di vedere. L’elfa si bloccò, sotto choc per la vista di Osgiliath in fiamme.
“Come vedi, elfa, non abbiamo tempo da perdere… quindi, se vuoi, parlami, ma cammina!” disse l’uomo rimettendosi in marcia.
Estryd gli stava accanto, senza faticare nel tenere il passo.
“L’Anello non vi sarà di alcun aiuto… corromperà il vostro cuore, condannandovi alla morte! L’unico che può sfruttare la sua forza è Sauron stesso! Non commettere lo stesso errore di Isildur… abbi fede in me… liberaci e dà agli uomini una possibilità di riscatto!”
“Non compete a me la scelta!” rispose Faramir, pareva turbato.
“E a chi? A chi compete questa scelta?”
“A mio padre, il Sovrintendente di Gondor. Lui lo vuole. Che potrei mai fare io? Sono suo figlio… gli devo la mia vita e la mia lealtà… la mia spada è fedele a lui. Io sono fedele a Gondor.” rispose Faramir, continuando a guardare davanti a sé.
Estryd lo capiva, era suo padre, ma non voleva arrendersi.
“Tuo padre e Gondor sono cose diverse… a chi sei più fedele? Chi merita i tuoi servigi? Per chi daresti la vita? Per tuo padre o per Gondor?” chiese Estryd, cercando di convincere l’uomo.
“Il mio amore va a Gondor.”
“Liberaci. Dacci una possibilità di distruggere l’Anello! Distruggendo l’Anello, la guerra terminerà e Gondor sarà salva… Faramir, ti prego…”
Il Capitano di Gondor rimase in silenzio, la sua coscienza stava lottando contro i suoi doveri e l’affetto che nutriva per il padre.
Un soldato della guardia di Gondor raggiunse Faramir, interrompendo i suoi pensieri.
“Gli Orchi hanno conquistato il versante Est… sono troppo numerosi! Entro stanotte saremo soverchiati!” annunciò con tono grave.
Faramir sapeva che l’unica cosa sensata era ripiegare, ritirarsi per salvare quante più vite possibili.

Erano arrivati a Osgiliath: alzò lo sguardo e vide le rovine della città. Le fiamme bruciavano ovunque e i fumi annebbiavano la vista dei soldati. Il caldo era opprimente e i cadaveri erano ammucchiati a terra, calpestati dai vivi che cercavano di opporre resistenza. Un odore di morte aleggiava nell’aria.
Gli orchi avevano occupato il versante Est della città, erano numericamente superiori rispetto agli uomini e, nonostante tutto, continuavano a combattere.
Un lamento raggiunse le orecchie di Estryd, voltandosi vide Frodo; era piegato in avanti, sudava e stava soffrendo.
“Padron Frodo?”
Sam aveva tolto la sua benda e stava cercando di dare sollievo all’amico.
“L’Anello lo sta chiamando… Sam… l’Occhio di Sauron mi ha quasi scorto!”
Estryd raggiunse il Portatore e, chinandosi al suo fianco, gli sfiorò il volto: era accaldato e il corpo dello Hobbit era scosso da forti brividi.
“Resistete, padron Frodo! Andrà tutto bene!” sussurrò Sam.
“Non può restare qui…” esclamò Estryd rivolgendosi a Faramir. “Il tempo sta scivolando troppo velocemente dalle nostre mani… dobbiamo andare a Mordor… e subito!”
Guardò il Comandante di Gondor, non rispose. Poteva intuire i dubbi che gravavano nella sua mente: “Cos’hai deciso?”
Il cuore di Estryd le batteva nel petto, la speranza di ottenere la libertà era un fuoco che bruciava in lei; ardeva, infondendole speranza.
“Faramir!”
L’uomo respirò a fondo poi, guardando un suo soldato, disse: “Portali da mio padre. Digli che Faramir invia un immenso dono: un’arma che cambierà le nostre sorti in questa guerra.”
Estryd scattò in piedi: “Noooo!”.
L’elfa urlò e, incurante della battaglia che si stava consumando attorno a loro, afferrò Faramir per la veste e lo spinse contro il muro, puntandogli un pugnale alla gola: “Non commettere questo errore… Boromir stava per essere corrotto, ma ha trovato la sua forza!”
“Non mi ucciderai, principessa. Le tue mani non sono sporche di sangue innocente. Non mi ucciderai anche per l’amore che ti unisce a mio fratello…”
“Non sfidarmi… non sfidare la tua buona sorte…” sibilò l’elfa.
Alle sue spalle tre guardie avevano puntato le spade alla sua schiena, pronte ad eseguire gli ordini del loro Comandante.
“Liberaci.”
“Come già detto: l’Anello andrà a Gondor. L’Anello è stato strappato dalla mano di Sauron da Isildur. Isildur era il Re di Gondor e, quindi, l’Anello appartiene a Gondor.” concluse Faramir.
“Sei uno sciocco se credi che l’Anello riconosca un Padrone che non sia Sauron. Per favore, lasciaci e potrai avere la pace per Gondor. Per quel paese che tanto ami.”
Faramir guardò l’elfa negli occhi. Erano lucidi e sinceri, completamente sinceri.
Poi osservò gli Hobbit; Sam, chino su Frodo, stava parlandogli con dolcezza. Origliò alcune parole: “C’è del buono in questo mondo…” e “E’ giusto combattere per questo!”
“Ha ragione Sam…” sussurrò Estryd all’orecchio di Faramir. “Dà una possibilità alla nostra missione. Abbi fiducia in noi! Questa è la cosa giusta da fare… l’unica possibilità di vittoria per noi.”
Anche i Nazgul erano entrati in battaglia; le loro urla stridenti assordavano i soldati, inducendoli alla follia. Faramir guardò Frodo, sembrava un arbusto spezzato. Piegato su sé stesso, dolorante, tremante… comprendeva il dolore che il Portatore doveva sopportare e Sam, al suo fianco, cercava di fargli forza sussurrandogli parole all’orecchio.
Annuì.
“Va bene.” Faramir chiuse gli occhi e respirò a fondo. “Potete andare. Fate presto… se siete fortunati, passerete inosservati. Quella porta conduce alle vecchie fognature. Scorrono sotto il fiume, fino ai margini della città. Troverete riparo nei boschi.”
Afferrò Estryd per un braccio e, guardandola negli occhi, aggiunse, accostando il volto al suo orecchio: “Fa tutto ciò che è in tuo potere per concludere questa battaglia.”
“Grazie…” rispose Estryd, abbracciando con forza Faramir. “Hai dimostrato le tue qualità.” sorrise. “Ci rivedremo.”
Congedandosi dal Capitano di Gondor, i quattro viaggiatori iniziarono a camminare attraverso le macerie della città. Estryd chiudeva la fila, cercando di farsi largo tra le frecce ed i massi che gli orchi lanciavano dal fiume.
Vide Frodo, Sam e Gollum oltrepassare la porta che avrebbe condotto al passaggio, si voltò per guardare Faramir un’ultima volta; era grazie a lui se avrebbero avuto una possibilità di portare a termine la loro missione.
Da quando era fuggita da Gran Burrone aveva dovuto ricredersi su molte cose. La prima, e forse la principale, era la forza degli uomini; suo padre aveva perso fiducia nella loro razza ma, Faramir, gli aveva dimostrato che il valore era ancora un sentimento vivo nei loro cuori. Aveva visto con i propri occhi il valore del giovane Capitano. C’era ancora speranza: gli uomini erano forti.
Voltandosi, incrociò lo sguardo con Faramir, e gli sorrise, grata per la possibilità data.

Accadde velocemente; senza rendersene nemmeno conto, cadde a terra.
Una freccia sfiorò il volto di Faramir e, tagliando l’aria con un sibilo, raggiunse Estryd, colpendola alla spalla.
Abbassò lo sguardo, osservando quell’oggetto che fuoriusciva dal suo corpo… la testa le girava… non capiva cosa fosse successo… alzò lentamente un braccio e strinse quella freccia, estraendola con forza… era sporca di sangue: il suo sangue… chiuse gli occhi, sentendo la testa leggera… ciondolava… faceva fatica a restare sveglia… sentiva freddo, ma sul suo corpo sentiva colare il proprio sangue… caldo, denso… le voci attorno a lei erano lontane… freddo… sempre più freddo… la vista si annebbiò... buio… freddo… le gambe cedettero, ma braccia forti la presero, impedendole di cadere a terra… dischiuse le labbra, cercando di parlare… la gola era secca…
Distinse le sagome di Frodo e Sam e… Faramir era sopra di lei.
“Va…” sussurrò l’elfa, con tutta la forza che le restava. “A-andate…”
“Non ti lasciamo qui…” sussurrò Sam.
“Non puoi lasciarci… hai iniziato il viaggio con noi e lo finiremo insieme…” aggiunse Frodo.
Estryd guardò Faramir… gli occhi le lacrimavano… le forze la stavano abbandonando… dovevano proseguire… dovevano! Estryd sentì il proprio corpo scosso da violenti brividi…le parole dei compagni non arrivavano alle sue orecchie, ormai sorda al mondo che la circondava… chiuse gli occhi e li aprì… respirò… il cuore le batteva nel petto, accelerato… una mano si posò alla sua spalla, premendo con forza sulla ferita.
“Ha ragione Estryd. Andate.”
Sam, alzandosi, gli occhi colmi di lacrime, prese Frodo per le spalle, costringendolo a seguirlo.
“Starà bene?” chiese il Portatore.
“Ci occuperemo noi di lei.” rispose Faramir. “Ora andate.”


Come ogni pomeriggio, Lady Galadriel adorava dedicarsi alla cura dei suoi giardini. Controllava i fiori e le piante, cercando di non far mancare loro nulla. Li curava con amore e passione. Ricordava benissimo quando aveva piantato ogni singolo fiore e ogni singolo arbusto… adorava vedere la mutevolezza della natura… semi che si trasformano in alberi, forti e maestosi.
Molti dei semi li aveva piantati insieme alla figlia, Celebrìan. Curare quelle piante, le permetteva di sentirla vicina, il mare che le separava non esisteva più… ricordava benissimo le dolci risa della piccola Celebrìan, la sua voce soave… le sarebbe mancata sempre, fino alla sua partenza per le Terre Immortali.
“Nonna!”
La dama di Lothlorien si voltò e sorrise alla nipote, alzandosi in piedi e sistemando la lunga gonna, raggiunse la bruna.
“Estryd, non ti aspettavamo!”
La giovane elfa raggiunse Galadriel e la strinse in un abbraccio, erano anni che non vedeva la nonna. Sentiva la necessità di incontrarla, di vedere un volto famigliare fuori dalle mura di Gran Burrone che, più di una casa, somigliava sempre più a una prigione.
“Ma sono molto felice di averti qui!”
Allontanando la nipote, la guardò con attenzione negli occhi: “Sei qui da sola?”
“Sì.” rispose. “In effetti sono venuta perché pensavo… speravo ci fosse Alhena.”
Il volto della Dama della luce si rabbuiò.
“No. Speravo che venisse qui, da noi.” sospirò. “Sarebbe stata la benvenuta… ma temo che la reazione di vostro padre abbia condizionato il suo modo di vedere le cose… di esporsi con noi tutti.”
Estryd abbassò lo sguardo, imbarazzata dalle parole della nonna. La signora di Lothlorien prese per mano la nipote e iniziarono a passeggiare per i giardini. La brezza era calda e il sole che filtrava tra gli alberi illuminava loro il viso.
“Non è stata sua la colpa.” continuò Galadriel. “Anzi, sono convinta che la maggior parte della colpa debba essere imputata a vostro padre.”
“A papà?” chiese Estryd, senza comprendere.
“Sì. Non è stato vicino a vostra madre. Non l’ha protetta… quando i tuoi fratelli l’hanno salvata e dopo che ha curato le ferite del suo corpo, non ha prestato attenzione alle ferite della sua anima. Mia figlia si stava lasciando morire… mio marito ha costretto Celebrìan a partire. Ha organizzato tutto per allontanarla da questa terra, per salvarle la vita.”
Estryd ascoltò le parole della nonna: era la prima volta che udiva questa versione dei fatti.
“Ovviamente tuo padre non ha detto nulla di tutto ciò… è corretto, vero?” continuò Galadriel.
“Sì.” sussurrò Estryd.
“Come sospettavo.” fece una pausa. “Resta pure tutto il tempo che vuoi. Sei sempre la benvenuta qui nella mia Terra.”
Lady Galadriel si fermò, affrontò la nipote e, con dolcezza, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, prese le mani della giovane.
“Sapevo che stavi arrivando… lo sapevo perché l’ho visto!”
Estryd sorrise, conosceva le doti magiche della nonna.
“Ma ora devo mostrarti io una cosa. Seguimi, il mio specchio ha una cosa da rivelarti!”

Guidò Estryd fino al giardino dove teneva il vassoio d’argento dal quale poteva mostrare il passato, il presente e il futuro. La fonte dell’acqua cadendo sulla roccia, produceva un rumore delicato.
Per Estryd, non era la prima volta che vedeva quella parte di giardino ma, ogni volta, era una grande emozione. Scesero una scalinata e raggiunsero il piedistallo di roccia bianca intagliata, come sempre il vassoio era posato sopra di esso.
“Aspetta qui. Prendo l’acqua…” disse Galadriel, camminando fino alla sorgente e riempiendo una brocca di vetro.
Versò il contenuto nel vassoio e guardò la nipote.
Restò in attesa per alcuni minuti, ma Estryd non si mosse; forse troppo timorosa di quello che avrebbe visto.
“Avanti, guarda!”
Facendosi coraggio, la giovane elfa si sporse sopra il vassoio ed osservò; prima vide la sua immagine riflessa, ricambiarle lo sguardo, poi delle immagini apparvero.
Vide sé stessa, alcuni anni fa, era in compagnia dei fratelli e stavano leggendo un libro nel giardino privato della sua famiglia. Ricordava quel giorno come fosse ieri, narrava la storia della creazione degli anelli del potere e della magia in loro racchiusa. Era stato un bel pomeriggio ed Elrohir le aveva rivelato che uno dei tre Anelli era custodito da Galadriel.
Poi le immagini cambiarono; nello specchio vide Alhena, era nella terra di Re Thranduil e stava parlando con Legolas… sembrava felice, spensierata… sorrise guardandola, era da molto che sperava di avere sue notizie e ora le aveva. Alhena era rinata dopo essersi allontanata da Gran Burrone. Le immagini cambiarono nuovamente, vide un paese straniero, che non aveva mai visto prima: verde, con molte colline e alberi da frutto ovunque. La popolazione era felice e dedita a coltivare i campi, allevare il bestiame e produrre vino e birra. Erano Hobbit e quella doveva essere la Contea. Vide i volti di alcuni di loro, non sapeva chi fossero, ma il suo istinto le urlava a gran voce che presto li avrebbe conosciuti.
Le immagini mutarono una terza volta; vide suo padre, Legolas, Aragorn, uno degli Hobbit che aveva visto poco prima, Gandalf e altri elfi che conosceva. Stavano discutendo tra loro e, in mezzo alle varie sedie, posato su una mezza colonna di pietra elaborata c’era un Anello, l’Unico Anello. Nel cuore sentì il desiderio di trovarsi lì, partecipare a quel consiglio… sentiva che doveva aiutare il giovane Hobbit… era un desiderio incontrollabile, troppo forte da resistere… sapeva che sarebbe stata d’aiuto e avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarlo nella missione di cui si era candidato volontariamente.
Le immagini scomparvero e ritornò ad osservare sé stessa. Alzò lo sguardo dal vassoio e incrociò gli occhi di Galadriel.
“Cosa vuol dire?” chiese.
“Hai visto il passato, hai visto il presente e hai potuto scoprire frazioni del tuo futuro.”
“L’Anello è stato ritrovato?”
“Chi lo detiene in questo momento non sa ancora cosa possiede… ma presto ogni cosa cambierà.”
“Come cambierà? Cosa cambierà?” chiese Estryd spaventata.
“Il tempo sta cambiando. L’Anello brama di ritornare dal suo padrone… presto ci sarà una battaglia per il possesso dell’Unico.”
Estryd rimase senza parole, troppo spaventata per chiedere altro, troppo spaventata per conoscere altri fatti.
“Dovrai aiutare il Portatore.” sussurrò la dama.
“Lo Hobbit?”
“Sì.” rispose con dolcezza Galadriel, avvicinandosi alla nipote e prendendo le sue mani. “Gli sarai di grande aiuto, dovrai partire con lui e dovrai seguirlo, ad ogni costo.”


“Sire Aragorn!”
“E’ tornato!”
“E’ vivo!”
Le urla di gioia che portavano la buona notizia si diffusero a macchia d’olio tra tutte le persone rifugiate dietro le mura del Fosso di Helm. Era stato creduto morto e vederlo ritornare, in sella al suo cavallo, pareva un vero miracolo, una ventata di speranza per i cittadini del Mark.
“Amico!” esclamò Boromir, correndo verso Aragorn e stringendolo in un abbraccio fraterno.
Era davvero felice; era sopravvissuto!
“Che gioia! Abbiamo temuto il peggio! Tutti noi!” continuò il Comandante di Gondor.
Aragorn, posando una mano sulla spalla dell’amico, sorrise: “Sono stato fortunato.” fece una pausa, poi continuò: “Boromir, dov’è il Re?”
“Seguimi.” rispose, voltandosi e iniziando a camminare verso la sala principale. “Come vedi, ci stiamo preparando per la battaglia. Abbiamo armi e abbiamo uomini. Le mura sono salde e la motivazione, di certo, non manca…”
“Ci sono rifugi per coloro che non riescono a combattere?” s’informò Aragorn.
“Sì. Ci sono delle grotte e, nel caso vada male la battaglia, c’è una seconda via che conduce nella foresta. Ma sono fiducioso. Siamo forti in queste mura…”
Risalirono una scalinata per raggiungere il salone dov’era il sovrano di Rohan.
“Purtroppo porto brutte notizie.” sussurrò Aragorn a Boromir, incupendosi.
“Sei in ritardo!” esclamò Legolas, trattenendo a stento un sorriso mentre camminava verso l’amico. “Che brutto aspetto!” aggiunse, guardandolo attentamente.
Poco distante, Alhena riconobbero la voce del ramingo. Il suo volto si aprì in un grande sorriso: “Aragorn!”.
Eowyn guardò l’amica: “Cos’hai detto?”
“Aragorn! E’ qui! È vivo!” esclamò Alhena voltandosi.
Entrambe guardarono l’uomo, l’elfa si sentì sollevata nel vedere il ramingo vivo. Sapeva che per Arwen sarebbe stato insopportabile vivere senza l’amato.
“Aragorn!” lo chiamò la principessa di Gran Burrone, camminando verso l’uomo. “Sono davvero felice di vederti vivo!”
Sorpreso per le parole della bionda elfa, il ramingo ricambiò il sorriso di Alhena.
Abbracciandolo e, avvicinando il volto all’orecchio dell’amico, disse: “Ti prego, non commettere imprudenze… per mia sorella… per Arwen!”
Quelle parole turbarono Aragorn, lo colsero impreparato: non conosceva quest’aspetto del carattere di Alhena. L’aveva sempre vista come una giovane avventata, ma la ragazza che aveva davanti in quel momento era diversa.
“Ecco qui… la Stella del Vespro” continuò l’elfa, porgendogli il gioiello. “Indossala con orgoglio. Lei ti ama. E molto.”
“Aragorn!” lo richiamò Boromir, accennando alla porta dietro la quale c’era Re Thèoden, nel tentativo di ricordargli il messaggio che doveva riferire.
“Porto un orribile messaggio per il Re… devo vederlo, subito!” sussurrò, superando i compagni e avanzando verso il salone.
Seguito dai compagni, Aragorn raggiunse la sala dove Re Thèoden si trovava; si presentò al cospetto del sovrano di Rohan. Purtroppo, non portava buone notizie; dovevano essere preparati, pronti per affrontare l’esercito di oltre diecimila orchi che marciavano verso di loro.
Il volto del Re era sconvolto: “Diecimila?” ripeté facendo eco al ramingo.
“È un esercito creato per un unico scopo: distruggere il mondo degli Uomini. Saranno qui al calar della notte.”
“Dobbiamo fortificare il cancello e prepararci alla battaglia!” s’intromise Alhena, fronteggiando il sovrano accanto ad Aragorn.
Re Thèoden annuiva, il capo chino pensando ai preparativi: “Bene… bene… tutti gli uomini e ragazzi capaci di reggere le armi dovranno essere pronti alla battaglia.” sussurrò. 
“Non possiamo sconfiggerli da soli.” esclamò Legolas, intromettendosi nella conversazione, intuendo i pensieri e le preoccupazioni del Re del Mark.
“Sì. Chiedi aiuto, mio Signore!” continuò Aragorn.
“Non siamo fortunati come te nelle amicizie…” disse Re Thèoden, senza riuscire a mascherare la sua rabbia. “Il coraggio dei miei uomini è appeso a un filo… devo essere in grado di proteggerli, sono il loro Re. Non ho altro da offrire loro se non un mondo di pace…”
Legolas, Aragorn e Boromir si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi il ramingo disse: “Chiedi aiuto a Gondor!”
“Gondor?” fece eco il Re. “No, mio signore Aragorn… noi siamo soli.”
“Manda un messaggero! Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile!”
“Non c’è tempo! La guerra incombe e, come già detto, noi siamo soli.”
Il discorso pareva chiuso. Thèoden non ammetteva repliche, non avrebbe chiesto aiuto a nessuno perché era certo che nessuno avrebbe risposto.
Alhena uscì dalla sala, aveva bisogno di prendere una boccata d’aria fresca. Tutti i Rohirrim si stavano preparando, stavano affilando le lame e preparando frecce nuove… si sentiva impotente, avrebbe voluto fare di più, ma non aveva la forza di far altro. Non poteva far altro che aspettare.
Camminò senza meta lungo la muraglia, sfiorando con la mano la ruvida superficie e scrutando l’orizzonte. Presto gli Uruk di Saruman sarebbero arrivati e la battaglia avrebbe avuto inizio. Raggiunse il limite est delle mura e si accomodò per terra, la schiena contro la roccia della montagna. Dopo il ritorno dei guerrieri che erano rimasti indietro per affrontare i mannari, non aveva parlato con Legolas. Non riusciva ad affrontarlo: si erano baciati e questo ricordo la ossessionava.
Sentì dei passi avvicinarsi, alzò lo sguardo: Legolas era a pochi passi da lei. La bionda scattò in piedi, pronta a scappare dall’amico.
“No! Aspetta!” disse il principe, afferrando il braccio della giovane, trattenendola. “Dobbiamo parlare.”
“Non abbiamo nulla di cui parlare.” sussurrò lei, senza voltarsi per non incrociare gli occhi dell’amico.
“Non mi guardi nemmeno più…” fece una pausa. “Ti prego… guardami! Parliamo…”
“E’ stato uno sbaglio.”
Legolas lasciò la presa, sconvolto da quella frase.
“Alhena…” sussurrò.
“Mi dispiace…” si voltò, guardando Legolas. “Non dovevo… è stata un’imprudenza del momento…”
“Quel bacio era reale!”
“Era reale… ma resta comunque uno sbaglio.”
Con queste parole Alhena si allontanò dall’elfo, lasciando il principe solo.
“La passione che ho sentito era reale… forse non era per me, ma era reale…” concluse Legolas, chinando il capo, guardando i propri stivali.

“Ben svegliata mia signora!”
Estryd aprì gli occhi, era stesa a terra, su un giaciglio di fieno. Il sole era alto nel cielo ed entrava dalla finestra, illuminando una grande stanza dalle pareti alte.
Attorno a lei c’erano diversi uomini, soldati feriti in battaglia.
“D-dove sono?” chiese con fiato rotto, anche se la risposta la conosceva già.
“Siete a Minas Tirith.”
“Minas Tirith?”
Cercò di alzarsi, ma un forte dolore la colpì alla spalla. I ricordi ritornarono alla sua mente: Osgiliath, la via di fuga attraverso le vecchie fogne, la freccia…
“Dovete riposare!” disse la signora. Poi, chinandosi verso Estryd, le sfiorò il capo. “Siete ancora accaldata!”
“Io… io devo andare… non posso stare qui!”
Cercò di alzarsi nuovamente, ma non riusciva; era ancora troppo debole.
“Siete debole.” sussurrò la donna, intuendo i pensieri della ragazza.
“Da quanto tempo mi trovo qui?”
“Da ieri. È stato Faramir ha portarla qui. Osgiliath è caduta.”
“Devo andare… i miei effetti… do-dove sono?” chiese, guardandosi attorno.
“Dovete riposare. E, se non volete farlo per voi, per favore fate questo sacrificio per il suo bene.”

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Capitolo 21
*** CAPITOLO 21 - HALDIR ***


Questo capitolo lo dedico a lui, ad Haldir… all’incredibile elfo che, nonostante la triste sorte che gli spetta, avrà sempre un posto speciale nel mio (e spero anche nel vostro) cuore!

Buona lettura e se volete lasciate un commento!
Baci
J
***


“Porto notizie da Elrond di Gran Burrone. Un’alleanza esisteva una volta fra Elfi e Uomini… molto tempo fa abbiamo combattuto e siamo morti insieme. Siamo qui per onorare questa lealtà.”
Alto e fiero, nella sua impeccabile armatura color dell’oro, Haldir raggiunse il Fosso di Helm prima del calar del sole. Il lungo mantello rosso che portava sulle spalle, si muoveva elegantemente, spinto dal vento.
Un esercito composto da circa cento elfi seguiva il Capitano dei Galadhrim; anche loro, come Haldir, erano pronti per affrontare la battaglia contro Isengard.
Thèoden era rimasto senza parole; non si aspettava l’arrivo di soccorsi, soprattutto non si aspettava l’arrivo degli elfi. Guardò attentamente Haldir, seguendone i movimenti.
L’elfo si avvicinò alla scalinata e, fermandosi, s’inchinò; con sguardo fiero sostenne le occhiate dei presenti. Molti uomini erano scettici sul loro arrivo. Gli elfi si erano sempre estraniati dagli ultimi avvenimenti della Terra di Mezzo, preferivano lasciare le sue sponde per godere della pace eterna oltre il mare. Come spesso accadeva, gli uomini biasimavano la razza elfica, accusandoli di vigliaccheria. Ma, quel giorno, un esercito proveniente dalle terre di Lothlorien e sostenuto dal signore di Gran Burrone, si era candidato volontario per marciare in soccorso dei popoli del Mark e affrontare le forze dello stregone bianco.
Aragorn, tra tutti, si fece avanti e abbracciò l’amico.
“Sei più che benvenuto, Haldir!”
La serietà che gravava sul volto del Capitano Galadhrim sciamò per un istante; abbandonandosi a un sorriso, ricambiò la stretta del ramingo.
“Siamo fieri di combattere al fianco degli Uomini, ancora una volta.” sussurrò, volgendo lo sguardo lontano, in cerca di una persona.
I profondi occhi blu di Haldir vagavano tra i curiosi che si erano ammassati attorno a loro; la cercava disperatamente tra i presenti, quel viaggio lo aveva intrapreso anche per vedere lei, per saperla al sicuro.
La scorse accanto ad Eowyn, in cima alla scalinata, dietro i consiglieri e le guardie personali del Re di Rohan. Aveva faticato a riconoscerla abbigliata con l’armatura che, malamente, le fasciava il corpo; i tratti del volto di Alhena, però, non riuscivano a nascondere l’ardente speranza che, nonostante i momenti bui, bruciava in lei… quando i loro sguardi s’incrociarono, la bionda abbozzò un timido sorriso e accennò un saluto con il capo.
Quel gesto non passò inosservato; Legolas la guardò infastidito dalla palese complicità che percepiva tra loro.
Il Guardiano di Lòrien distolse lo sguardo dalla principessa e, respirando a fondo, chiuse gli occhi. Sulle sue spalle gravava il peso delle pessime notizie che portava; riaprendoli, guardò Aragorn in viso. Il sorriso di poco prima si era trasformato in un’espressione grave: “Circa diecimila orchi stanno marciando contro di voi. Saranno qui al tramonto, o forse prima…” continuò. “Isengard è stata svuotata. Ogni orco di Saruman sta venendo qui.”
Il ramingo annuì, le proporzioni della minaccia che incombeva su di loro erano già note: “Ci stiamo preparando.”. Poi, posando con forza la mano destra sulla spalla dell’elfo, aggiunse: “Il vostro arrivo è stato davvero inaspettato.”
Thèoden raggiunse il Capitano e, con tono gentile, iniziò: “Avete intrapreso un lungo viaggio per arrivare fino alle mie terre…”
Il Galadhrim lo interruppe con un cenno della mano e, chinando il capo in segno di rispetto, disse: “Non abbiamo bisogno di riposo, mio signore. Siamo pronti per la battaglia.”

Gli elfi da lui guidati si sparpagliarono lungo il perimetro del Fosso: alcuni si sistemarono nel piazzale, mentre altri si collocarono lungo le mura della fortezza. Stringevano i loro archi e, con sguardo fiero, scrutavano l’orizzonte. Non temevano la morte. Erano pronti per la battaglia, erano pronti a ogni cosa pur di difendere la Terra di Mezzo.
La situazione era tesa; dopo la Prima Grande Guerra, elfi e uomini non erano più in buoni rapporti. I Rohirrim osservavano gli immortali senza perderli di vista, incuriositi da loro. Dapprima li studiavano con diffidenza, poi con ammirazione; compresero che avevano marciato fino al Fosso per dar loro una possibilità di salvezza.
Il sole stava scivolando dietro le montagne e il passo pesante degli orchi rimbombava nella vallata, avvisando i popoli del Mark che si stavano avvicinando. Erano vicini, molto vicini. Le fiaccole che tenevano in mano illuminavano l’orizzonte, rendendolo tetro…
Con passo fiero, Haldir ed Aragorn camminavano avanti e indietro, percorrendo più volte le mura. Il ramingo dava istruzioni ai soldati in lingua elfica: li preparava allo scontro, suggerendo loro dove colpire e comandandogli di non avere pietà.
Insieme scesero le scale fino ad arrivare al robusto portone. I Rohirrim, dietro la guida di Boromir e Legolas, lo avevano appena fortificato, aggiungendo nuove travi e catene di ferro a sostegno delle vecchie.
“Reggerà.” convenne Boromir, voltandosi e guardando Aragorn e Haldir.
Avvicinandosi alla massiccia porta di legno, Haldir posò una mano su di essa, studiandola attentamente. Infine asserì, abbozzando un sorriso: “Ottimo lavoro. E’ stata ben fortificata…”
Ma, solo Aragorn e Legolas intuirono che stava mentendo.

“Haldir…”
La voce di Alhena, come musica soave, raggiunse le orecchie del Capitano di Lòrien. Si voltò e guardò l’amica; da un lato felice di poterla vedere ma, dall’altro, spaventato sapendola lì.
Aragorn, Legolas e Boromir guardarono la principessa di Gran Burrone, sapevano dell’amicizia che legava i due elfi, ma l’espressione sul viso di Haldir era indecifrabile. Il Guardiano la osservava senza battere ciglio: sembrava incantato, incapace di potersi muovere.
“Vorrei parlarti… per favore, seguimi!” continuò la bionda.
Haldir annuì, seguendo Alhena lontani dai compagni.
Legolas guardò l’elfa superarlo e raggiungere Haldir; la bionda incrociò i suoi occhi, nei quali lesse il desiderio di parlarle, il desiderio di chiarirsi… vi lesse anche la disperazione. Alhena sapeva che il principe non comprendeva e non aveva ancora accettato il suo rifiuto.
“Non dovresti essere qui.” sussurrò Haldir quando si furono allontanati dai compagni. Poi, afferrando la bionda per il braccio e la trascinò per una via secondaria. “Quando ho accettato di venire qui, ho promesso una cosa. Da anni ormai sto cercando di tener fede ad una promessa fatta…”
“Non capisco… cos’hai promesso? E… a chi? A chi l’hai promesso?”
“Alla mia signora, a Dama Galadriel. Ho giurato di tenerti al sicuro. Di vegliare sulla tua vita.”
“Io sono al sicuro.” rispose Alhena per nulla turbata o spaventata, sfiorando il braccio del Capitano.
“No, non sei al sicuro. Forse non sai con chi hai a che fare o semplicemente non lo capisci… ho visto gli Uruk che stanno marciando contro questa fortezza. Non avete possibilità. Siete numericamente inferiori!”
“Siamo protetti dalle mura. Sono alte e robuste. Resisteranno.” poi, prendendo Haldir per le mani, ripeté: “Resisteremo.”
Il Capitano si voltò, allontanandosi dall’elfa.
“Non capisci… oscuri presagi si fanno largo nella mia mente… non saremo al sicuro. Saruman è forte… lui è lo stregone bianco…”
“Anche Gandalf lo è!” ribatté Alhena, interrompendolo.
“Sono preoccupato per te!”
“So badare a me stessa.” sussurrò lei, camminando fino alle spalle di Haldir.
Posò le mani sulla sua schiena coperta dalla possente armatura. La voce rotta, gli occhi inumiditi dalle lacrime: “Sei il mio più vecchio amico, Haldir… abbiamo combattuto fianco a fianco altre volte. Abbi fiducia in me. Domani saremo ancora qui a parlare di questa incredibile notte… ci batteremo per la pace… ci batteremo per vivere nel mondo che desideriamo…”
Haldir si voltò, guardando negli occhi la principessa. Non era cambiata: cercava di far la dura, ma il suo cuore era d’oro.
Le sorrise, asciugando le lacrime dalle guance della giovane elfa.
“Baderò io a te, Alhena.” fece una pausa. “E, su questo punto, non voglio discussioni.”

La tensione nell’aria era palpabile. La notte era rigida e le torce accese sulle mura permettevano agli eserciti di Rohan e di Lothlorien di vedere gli orchi in avvicinamento.
Alhena era sulle mura, accanto ad Haldir. In mano stringeva il suo fidato arco, dono di Elladan. Ciò che i suoi occhi vedevano era sconcertante: sentiva la paura crescere in lei, nonostante cercasse di trattenerla, di soffocarla.
Una saetta aprì il cielo.
Un tuono rimbombò tra le montagne…
La pioggia iniziò a cadere dal cielo, poche gocce che divennero un fiume… lacrime dal cielo che picchiettavano sulle armature dei soldati, producendo inquietanti ticchettii metallici.
Gli Uruk marciavano contro di loro, erano ancora figure indistinte. Rumori di passi lontani, ma si stavano avvicinando.
Alhena voltò il capo, esaminando i volti degli elfi accanto a lei; nei loro occhi non c’era timore. Osservavano gli eserciti di Saruman; senza battere ciglio, con sguardo fiero. Questa battaglia avrebbe mietuto molte vite: vite mortali e vite immortali… il cuore si spezzò nel petto della giovane principessa; aveva già ucciso in passato, solo orchi e solo perché costretta. Non aveva mai dovuto affrontare una battaglia di queste dimensioni, non aveva mai dovuto vedere la vita scivolare da un corpo immortale… questo pensiero la terrorizzava.
Allungò il braccio e afferrò la mano di Haldir.
L’elfo sorrise, guardandola.
“Ho paura.” sussurrò Alhena.
“Tutti noi l’abbiamo. La paura ci permette di sentirci vivi. Ci permette di combattere, ci permetterà di superare questa sfida…” convenne il Capitano.

Ogni guerriero lo sa: l’attesa è peggiore della battaglia stessa.
Le ansie degli uomini divengono evidenti sui loro volti, si trasformavano in libri aperti…
Alhena aveva imparato a riconoscere quello sguardo, conosceva perfettamente quel vuoto, un tormento incessante: la paura dell’ignoto. I Rohirrim sono abili combattenti, ma non sapevano cosa aspettarsi. Non sapevano cosa stavano per affrontare…
Alcuni di loro avevano visto o combattuto delle battaglie, ma erano scontri di poca importanza; nessuno di loro aveva affrontato una guerra, una da potersi chiamare tale.
Alhena li guardava, dimostravano un gran coraggio; celavano al meglio i loro timori.
La pioggia cadeva a dirotto. Gocciolava dai capelli di Alhena, fino a bagnarle il viso.
I ruggiti degli orchi rimbombavano nel Fosso, raggiungendo le orecchie dei soldati. Quei versi infondevano paura, questo era il loro fine: intimorire i guerrieri, far perdere loro la speranza…
“Non abbiate per loro alcuna pietà, perché voi non ne riceverete!” urlò Aragorn, camminando tra l’armata di elfi. “Il loro unico scopo è distruggere! Uccidere! E, se ne avranno la possibilità, uccideranno tutti noi!”
Gli Uruk si fermarono davanti alle mura. Picchiavano con violenza le lance sul terreno, ruggendo rabbiosi; volevano dimostrare la loro forza, la loro superiorità.
Aragorn e Boromir si fermarono accanto ad Haldir ed Alhena. L’elfa guardò i due uomini, senza battere ciglio.
“Dunque ci siamo…” sussurrò Boromir, guardando gli orchi sotto di lui. “La battaglia ha inizio!”


L’erba era verde e la roccia che recintava il giardino era grigia chiara, ricordava il colore delle perle. Non c’erano fiori, l’unica pianta nata era un salice millenario con lunghi e forti rami che, cadendo, sfioravano la superficie di un piccolo lago dall’acqua cristallina. 
Su un ramo era stata appesa un’altalena; fin dal giorno del suo centoventesimo compleanno, Celebrìan era solita giocarci. Per innumerevoli ore si dondolava, fantasticando sul suo futuro o immaginando di poter volare lontana da Lothlorien, diretta verso terre lontane e ignote.
Si sentiva libera!
Nonostante il passare degli anni, la principessa tornava in quel giardino, lo adorava; ogni singolo filo d’erba, ogni goccia d’acqua, il salice millenario, erano stati partecipi della sua crescita.
“Celebrìan, eccoti finalmente!”
Haldir raggiunse l’elfa, sorridendole. Si accomodò sull’erba, sotto le fronde dell’albero e, guardando la fanciulla che si dondolava, si perse nell’ammirare i riflessi del sole sui suoi capelli sciolti e mossi dal vento.

“Sai che sono sempre qui!” esclamò la bionda, ridendo.
“Dovrei saperlo, ormai… ma diventa sempre più difficile raggiungere questo giardino per me. Le guardie che ti proteggono capiranno che ci vediamo di nascosto… presto esaurirò le scuse!”
Celebrìan si oscillava sempre più in alto, stringendo con forza le mani alle catene. Incrociò lo sguardo con Haldir e, sorridendo, disse: “Sono certa che ne troverai altre!”
Scese dall’altalena e, ondeggiando verso il ragazzo, gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi. Stringendo la candida mano di Celebrìan, l’elfo si alzò e s’inchinò.
Con uno movimento improvviso, la bionda afferrò l’amico per le spalle e, dopo aver guardato ed essersi persa nelle profondità dei suoi occhi, lo baciò.
Haldir sorrise per l’irriverenza della principessa; aveva imparato a conoscerla e, con il tempo, aveva imparato ad amarla.
Dopotutto, il primo bacio non si scorda mai.

“Quando avevi intenzione di dirmelo?” chiese Haldir arrabbiato, entrando della camera di Celebrìan e avvicinandosi alla dama.
La giovane principessa dava le spalle all’ingresso, stava scegliendo, insieme a due ancelle, gli abiti che avrebbe portato con sé per l’imminente viaggio per Gran Burrone.
L’elfa chiuse gli occhi e respirò a fondo: “Potete lasciarmi sola? Vorrei parlare con il sottoufficiale.”
Le dame s’inchinarono e, obbedendo, uscirono dalla stanza senza proferire parola.
Appena la porta fu chiusa alle spalle di Haldir, l’elfo raggiunse Celebrìan e, prendendola per le spalle, la guardò negli occhi.
“Ti aspettavo… sospettavo che, quando la notizia sarebbe giunta alle tue orecchie, saresti venuto da me.”
Il giovane soldato guardò la sua principessa, cercava di mantenere la calma, ma non era semplice. La stava perdendo, la stava perdendo per sempre.
“Stai partendo? Stai partendo per Gran Burrone?”
La bionda non rispose, ma abbassò lo sguardo.
“Perché? Perché non me l’hai detto?” continuò lui.
“Haldir…” disse Celebrìan, allontanando le mani del Galadhrim dal suo corpo.
L’elfo indietreggiò, iniziava a capire cosa stava accadendo.
“Sei partita quattro mesi fa con tua madre e vi siete fermate a Gran Burrone… ora parti nuovamente da sola…” s’interruppe.
Non era certo di voler conoscere la risposta alla domanda che si agitava nella sua mente. Si fece coraggio: “Questa volta sarà per sempre?”
Celebrìan raggiunse Haldir e gli prese le mani: “Non volevo che accadesse… ero convinta che saresti stato tu…”
“Ti ho amata… ti amo tuttora! Dal primo sguardo che ci siamo scambiati…”
Guardò la sua principessa, non trovava altre parole… si sentiva patetico.
Il suo mondo si stava sgretolando e lui non poteva far altro che guardare Celebrìan andarsene impotente.
“L’amore che proviamo è un affetto infantile… lo capirai anche te… con il tempo.”
Si alzò sulle punte e baciò la fronte del soldato poi, superandolo, uscì dalla stanza. Quella notte sarebbe partita per Gran Burrone, per vivere la sua vita insieme a Elrond.
Haldir si voltò, guardando Celebrìan allontanarsi; il cuore in frantumi. Si erano baciati solo una volta ma, il sentimento che li legava, era più profondo di un affetto infantile.
Dopotutto, il primo amore non si scorda mai.

Era inverno, ma nonostante la stagione fredda, il clima nella città elfica di Lothlorien era mite.
Erano passati più di mille anni dalla celebrazione del matrimonio tra Celebrìan ed Elrond, avevano avuto dei bambini: due gemelli, Elladan ed Elrohir, e due figlie femmine, Arwen ed Estryd.
Quel giorno di fine gennaio, l’arrivo a Lòrien della famiglia reale di Gran Burrone era un grande evento. Per il loro arrivo, erano stati organizzati grandi festeggiamenti che sarebbero durati fino a notte fonda.

Celebrìan era felice, ogni volta che ritornava nella terra natia si sentiva rinascere, si sentiva a casa.
Sistemando gli abiti che avevano portato con loro, Elrond notò il volto pallido dell’amata.
“State male, amor mio?” sussurrò il signore di Gran Burrone, raggiungendo la moglie e abbracciandola.
“No, mio caro… è il viaggio… è stato lungo e faticoso.” rispose Celebrìan sorridendo. “Esco a fare una passeggiata. Estryd dorme ed i gemelli e Arwen sono insieme a mio padre.”
“Non preoccuparti… va pure!”
Elrond si sporse, baciando l’amata con passione.
Il giardino era come se lo ricordava: l’erba era ancora ben curata, il salice era sempre verde e l’altalena si muoveva spinta dalla brezza… ogni cosa era come ricordava. Sorrise, avvicinandosi all’albero. Sfiorò la corteccia con le mani, abbandonandosi ai ricordi d’infanzia.
“Celebrìan!”
La Dama di Gran Burrone sussultò, voltandosi.
“Haldir!”
Per la gioia, raggiunse correndo l’elfo e lo strinse con forza: “Che bello vederti! È passato così tanto tempo!”
Haldir sentì il proprio cuore fare una capriola nel petto; i sentimenti che provava non erano cambiati.
“Ma guardati! Sei diventato Capitano dei Galadhrim!” sorrise. “Sono così fiera di te!”
L’elfo allontanò l’amica e la osservò attentamente, spostando lo sguardo dal volto arrossato al suo ventre gonfio: “Ma sei…”
Celebrìan annuì: “Dicono che sarà una bambina. La chiameremo Alhena. Credo sia opportuno che rientri nelle mie camere… il viaggio è stato stancante…”
Mascherando i propri sentimenti, Haldir sorrise e, inchinandosi, salutò l’elfa.
Guardando l’amata allontanarsi, il Capitano non riuscì a trattenere le lacrime. Ormai l’aveva persa da anni, avrebbe dovuto dimenticarla… ci aveva provato, ma non riusciva a dimenticare il suo volto, la sua voce, il suo sorriso…
Dopotutto, il grande amore non si scorda mai.

“E’ uguale a lei.” sussurrò Haldir a sé stesso, vedendo la giovane principessa di Gran Burrone.
Ed, in effetti, Alhena era molto simile alla madre: stessi capelli biondi color del grano, stessi occhi azzurri ghiaccio, stesse espressioni del viso…
“Ecco qui il nostro giovane Capitano.” disse Galadriel, allungando il braccio verso Haldir. “Avvicinati! Ti siamo molto grati di aver accettato di sorvegliare nostra nipote durante la sua permanenza a Lothlorien.”
Inchinandosi alla propria Regina, rispose: “E’ un onore per me, mia signora.”
Haldir ritrovò in Alhena molto dell’amata elfa: non solo si assomigliavano fisicamente, ma anche caratterialmente. Erano così simili… ogni volta che parlava con la giovane principessa o che la osservava da lontano non poteva evitare di confonderla con Celebrìan. Erano passati quasi millecinquecento anni dal loro primo bacio e, mai, l’amore che nutriva per lei era scomparso o diminuito.
Da quando aveva assunto l’incarico di sorvegliare la giovane Alhena, Haldir non aveva avuto occasione di parlare con l’amata. O meglio, il Capitano non aveva permesso che quell’occasione si presentasse. Saperla contenta lo appagava; nonostante la felicità l’aveva trovata con un altro elfo al suo fianco.
Un pomeriggio, dopo tre mesi dall’arrivo della Regina di Gran Burrone e delle figlie a Lothlorien, Haldir si trovava sulla terrazza della sala principale. Controllava i movimenti di Celebrìan e delle figlie, pronto a intervenire in caso di bisogno o pericolo.
“Stai dimostrando il tuo valore…” sussurrò Galadriel, avvicinandosi ad Haldir.
“Mia signora…”
Il Capitano s’inchinò.
Galadriel raggiunse l’elfo fino al parapetto e, sporgendosi, guardò sua figlia e le nipoti passeggiare per i giardini.
“E’ incredibile la loro somiglianza, non trovi?” continuò la Dama della Luce.
“Sì, mia signora. La giovane principessa Alhena mi ricorda vostra figlia.”
Galadriel annuì, chiudendo e riaprendo gli occhi.
“Ho sempre saputo dei profondi sentimenti che nutri per Celebrìan. Hai celato per troppi anni il tuo cuore all’amore…”
Haldir guardò la propria Regina, ma non era stupito che lei sapesse ogni cosa.
“Non avevo altra scelta.” sussurrò. “Ho preso la decisione giusta.”
Galadriel percepì la sofferenza che si mascherava tra le parole del suo Capitano.
“Haldir, ho bisogno che tu stia vicino ad Alhena. Ho visto il suo futuro… e sarà un triste futuro.”
“Che cosa devo fare?”
Galadriel sorrise: “Ti ho scelto come Capitano, nonostante i tuoi pochi inverni non solo per il coraggio che dimostri in ogni occasione… ma per il tuo valore! Guardati! Guarda l’incredibile elfo che sei diventato.” s’interruppe, sospirando. Poi, aggiunse, volgendo lo sguardo verso Celebrìan: “Ami una donna che non potrai mai avere e sei disposto ad affrontare ogni avversità per sua figlia… la figlia che ha avuto con un altro elfo.” respirò a fondo. “E’ grazie a persone come te, Haldir, che sono certa che vinceremo la battaglia che incombe su di noi. Abbiamo la forza di lottare. Noi lotteremo sempre, grazie ai nostri sentimenti siamo capaci di compiere grandi gesta.”
“Per la figlia di Celebrìan darei la mia stessa vita…”


La battaglia iniziò.
Durante i combattimenti non c’è mai tempo per pensare, si deve agire. Bisogna resistere, lottare. Uccidere, per non essere uccisi. Gli eventi si muovevano velocemente: l’odore acre della morte riempiva l’aria, soffocando i guerrieri, e le frecce si confondevano con la pioggia che cadeva dal cielo.
Haldir era concentrato, non distoglieva lo sguardo dai suoi obiettivi: la velocità con cui scoccava e riprendeva una nuova freccia era sbalorditiva.
Gli Uruk morti cadevano sul campo con un tonfo sordo, sulla terra bagnata dall’acqua e dal sangue e calpestati dai compagni che marciavano verso la roccaforte.
Nelle orecchie del Capitano dei Galadhrim rimbombavano le urla dei compagni elfi che cadevano morti. Ogni perdita, era una freccia che lo colpiva al cuore; si sentiva legato a tutti loro… erano i suoi uomini, i suoi amici… con molti era cresciuto e con altri aveva combattuto diverse battaglie.
“Le scale!”
La voce di Aragorn rimbombò nella fortezza.
“Spade! Spade!”
Gli archi vennero accantonati e le spade furono sguainate. Alhena roteava la spada tra le mani; respirava piano, per cercare di controllare i battiti del cuore.
“Sta al mio fianco…” sussurrò Haldir, guardando la bionda.
Alhena li aspettava, sarebbero spuntati da dietro le mura; ancora attesa, ancora secondi di inerzia prima dell’arrivo degli Uruk. La fortificazione traballava quando le grandi scale si appoggiavano contro le mura.
L’adrenalina scorreva nelle vene dell’elfa.
“Allontanati da qui… raggiungi il piazzale…” ordinò Haldir, afferrando Alhena per un braccio e spingendola verso le scale che portavano al piano inferiore dove, un gruppo di elfi, era ancora intento a scoccare frecce oltre la muraglia.
“Haldir!”
“Va!” urlò l’elfo guardandola infuriato.
Spaventata dalla reazione improvvisa del Capitano Galadhrim, Alhena indietreggiò e, scendendo le scale, obbedì.
Riparandosi con lo scudo dalle frecce degli Uruk; sentiva pungente all’olfatto l’odore del veleno di cui queste erano intrise. Proseguiva, senza avere il coraggio di guardarsi attorno; corpi morti di uomini ed elfi giacevano senza vita per terra. Sdraiati, ammucchiati, bagnati dal loro stesso sangue.

Nel cortile Aragorn istruiva i soldati elfi; continuava a far lanciare frecce, non tutte sarebbero andate a segno, ma avrebbero tuttavia mietuto delle vittime.
“Come posso esserti d’aiuto?” chiese Alhena, avvicinandosi al ramingo.
Aragorn guardò l’elfa raggiungerlo: non era abituato a vedere elfe del suo lignaggio in abiti da combattimento. Raramente fanciulle di razza elfica erano abili con le armi. La loro natura le rendeva tranquille, più dedite alla pace che alla battaglia.
“Sono un’abile arciere.” continuò.
“Preferirei saperti al sicuro…” disse Aragorn. “Ma, se vuoi restare, puoi dimostrare il tuo valore da qui, con arco e frecce.”
La fanciulla annuì e, stringendo una freccia, la scoccò verso il cielo nero.

Haldir e Legolas combattevano fianco a fianco. La morte li circondava, ma resistevano. Uccidevano ogni orco che saliva le alte scale di legno e superava le mura del Fosso.
Dei movimenti sospetti, però, attirarono l’attenzione di Boromir; alcuni Uruk si allontanavano dai compagni per trasportare sfere d’acciaio e lasciarle contro il canale di scolo sotto le mura. Il Comandante di Gondor aveva già visto quegli arnesi, aveva visto il loro potere durante le battaglie combattute nelle regioni di Gondor. Producevano uno scoppio tale da distruggere perfino la pietra.
Con il terrore negli occhi, abbandonò la sua posizione, alla ricerca di Aragorn.
“Aragorn! Aragorn!”
Il ramingo lo guardò scendere di corsa le scale e raggiungerlo nella piazza.
“Aragorn, abbiamo un problema!” esclamò, raggiungendo l’amico. “Hanno un’arma…” ansimava per la stanchezza. “Un’arma capace di distruggere la roccia!”
“C-cosa?”
Aragorn non conosceva un’arma con una tale forza, ma credeva alle parole del compagno.
“Cosa possiamo fare?”
“Abbiamo una sola possibilità…” continuò Boromir. “Chiama il più bravo arciere che hai. Dobbiamo uccidere subito colui che porta il fuoco. Il fuoco non deve raggiungere quell’arma o sarà la fine.”
Salirono le scale correndo, Aragorn chiamò Legolas e, senza perdere tempo in spiegazioni inutili, gli ordinò di abbattere un orco; uno solo era il suo obiettivo.
Boromir e gli altri osservavano gli Uruk sotto di loro… lo cercavano senza sosta, spostando il capo da destra a sinistra, ma senza risultati. Non lo trovava! Ma doveva esserci; era sicuro che c’era! Poi, una scintilla attirò l’attenzione del Capitano di Gondor e, come detto, trasportava una fiaccola, una luce che spiccava nell’oscurità.
“E’ lui!” urlò indicandolo. “Legolas, uccidi quell’Uruk!”
Una freccia.
“Abbattilo!” urlò Boromir. “Abbattilo, Legolas!”
Due frecce.
Entrambe andarono a segno, ma l’orco non cadeva, non mollava… continuava a correre verso le sfere di metallo.
“Uccidilo!” urlò Aragorn.
Terrorizzato, Boromir continuò a incitare l’elfo: sapeva cosa sarebbe successo. Bastava una sola scintilla e le mura sarebbero crollate. Non avrebbero più avuto via di scampo; gli Uruk sarebbero entrati.
Alhena disobbedendo agli ordini di Aragorn, risalì le scale per raggiungere i compagni sulle mura. Prese anch’ella una freccia e, sporgendosi oltre il parapetto, per poter prendere meglio la mira, la scoccò. Colpì l’orco che portava la fiamma alla spalla ma questo, gettandosi con le ultime forze di cui disponeva, lanciò la torcia sulle sfere di metallo, causando l’esplosione.

Il rombo fu assordante: le mura crollarono, spazzate via da quell’arma letale. Sassi ovunque, polvere e fumo, la terra tremò…
Mai si era visto qualcosa di simile: la roccia si era sgretolata, frantumata.
Nessuno sapeva esattamente cos’era accaduto e cosa aveva potuto provocare quella breccia nelle possenti mura del Fosso di Helm.
Le urla di gioia degli orchi invasero le orecchie degli uomini ed elfi; stavano per entrare nel forte e avrebbero ucciso tutti. Adesso avrebbero combattuto faccia a faccia, senza un muro a separarli.
Contemporaneamente l’attacco si spostò anche sul versante opposto. Il grande portone di legno tremò pericolosamente; un ariete di quercia venne scagliato con forza contro la porta.
“Difendete il cancello!”
L’urlò disperato di Re Thèoden rimbombò in tutto il Fosso di Helm. Subito una ventina di Rohirrim accorsero al portone per impedire l’accesso degli Uruk; lanciavano frecce e massi dall’alto nel tentativo di colpire gli orchi che, con forza, spingevano l’ariete contro l’ingresso.
“Ci stanno attaccando da entrambi i versanti!” sussurrò Alhena guardando Haldir al suo fianco.
L’elfo posò una mano sulla spalla dell’amica e, sorridendogli, rispose, nel tentativo di confortarla: “Abbi fede. Il risultato della battaglia non è ancora certo.”

Gli Uruk erano entrati nel piazzale, come scarafaggi strisciavano, sparpagliandosi tutt’intorno. Gli elfi, brandendo le spade, stavano combattendo per impedire loro di superarli, di entrare nel cuore della fortezza. Ma erano troppi, gli orchi erano troppi. Con coraggio, gli eserciti di Lòrien non rinunciavano alla battaglia… continuavano a combattere, nonostante la loro sorte fosse certa.
Mai atti di tale coraggio furono visti dagli innocenti occhi di Alhena. Non riusciva a guardare altro, era troppo: la morte, la sofferenza, il dolore… ogni cosa non aveva più senso… la vita stessa aveva perso senso…
Alhena vide Legolas, Aragorn e Boromir combattere nella piazza del Fosso, dimostrando grande audacia.
“Aragorn! Ritiratevi nella fortezza!” urlò un comandante delle guardie del Mark. “Aragorn! Porta via i tuoi uomini!”
Le sorti della guerra sembravano certe; nessun nemico aveva superato le mura, mai.
“Alla fortezza!” urlò Aragorn agli elfi. Poi, guardando la muraglia, urlò: “Haldir! Alhena! Alla fortezza!”
Haldir annuì, prese Alhena per mano e, con forza, la guidò lontana dal pericolo. Il Capitano Galadhrim intuì che l’amica era ancora sconvolta per quanto visto accadere nella piazza della rocca.
“No!” urlò la bionda, voltandosi e guardando terra.
Un orco l’aveva afferrata per una caviglia, impedendole di proseguire.
Haldir si fermò e, vedendo la creatura che toccava la principessa, tornò sui suoi passi per ucciderlo. Sovrastandolo, lo trafisse con la spada all’altezza del collo.
Alhena si voltò, guardando il suo più caro e vecchio amico salvarla per l’ennesima volta. Gli sorrise; grata per la loro amicizia, grata per il loro legame.
Ma la gioia sciamò in un istante…
Non lo vide arrivare. Nessuno lo vide avanzare spavaldamente alle spalle di Haldir, impugnando una lama avvelenata forgiata da rozzo ferro.
Il tempo si fermò, i secondi si congelarono agli occhi di Alhena.
Lo vide arrivare , strisciare come un incubo nel buio della notte, un servo di Saruman colpì Haldir, trafiggendolo alla schiena.
Il sorriso sul volto dell’elfa scomparve, il viso di Haldir venne contratto da una smorfia di dolore. Crollò sulle proprie gambe. Correndo, Alhena raggiunse l’amico e, incurante del pericolo, lo afferrò prima che toccasse terra.
Udì la voce di Aragorn, ma non distinse le parole dette, non vide nulla.
Era cieca a tutto tranne che a lui. Ad Haldir.
Lo abbracciò con forza, sentiva il suo respiro debole… soffriva ma il suo cuore batteva… lottava con grinta; ancora troppo aggrappato alla vita per morire, per darsi per vinto.
Il cuore dell’elfo rimbombava nelle orecchie di Alhena… pulsava sempre più lentamente, era sempre più debole. Ogni respiro era una lama che lo penetrava…
“Haldir…” sussurrò Alhena, china sull’amico. “Haldir… non morire… non puoi morire… non lasciarmi…”
L’elfo cercò di parlare, ma non una parola uscì dalle sue labbra.
“Haldir…” lo chiamò una terza volta.
Gli occhi dell’elfo divennero vitrei, la vita stava abbandonando il corpo del guerriero di Lothlorien.
“No! Non te lo permetto…” sussurrò Alhena, singhiozzando e piegandosi per baciarlo sulla fronte.
Lo stringeva tra le braccia; incapace di lasciarlo andare… incapace di riaprire gli occhi… incapace di affrontare la verità…
E così, stretto tra le braccia della figlia di Celebrìan, l’unica che abbia mai amato, Haldir morì.

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Capitolo 22
*** CAPITOLO 22 - UN MAUSOLEO DI DOLORE ***


Scusate l'assenza ma sono piena di impegni!
Non vi faccio attendere altro, quindi buona lettura e commentate!
Bacioni
J
***


“I-il suo bene?” ripeté Estryd, aggrottando la fronte, senza capire le parole dell’infermiera.
La mente dell’elfa iniziò a lavorare frenetica, temeva la risposta che la donna le avrebbe dato perché, sottosotto, nel suo cuore, conosceva già la verità.
“Sì, mia signora.” rispose quella mentre, chinandosi verso la fanciulla, controllava la ferita sotto la fasciatura. Non aveva un bell’aspetto e, nonostante gli innumerevoli impacchi fatti con l’antidoto, faticava a guarire. Sospirò: “Intraprendere un viaggio simile… e nel suo stato… è stata pura follia!” concluse, alzando gli occhi al cielo. “Pura follia!”
“Nel mio stato?” ripeté nuovamente Estryd, il sangue le gelò nelle vene.
Ormai era inutile negare l’evidenza, aveva capito. Guardò la donna e rimase in silenzio; troppo sconvolta per pensare, troppo sconvolta per parlare…
Abbassò gli occhi, osservando il ventre; aveva notato alcuni cambiamenti nel suo corpo, ma non poteva essere vero… non doveva essere vero…
Guardò in volto l’anziana e, afferrandole i polsi, per fermare i suoi movimenti, sussurrò: “Per favore…” deglutì, la gola secca per la paura. “Per favore…” ripeté l’elfa. “Mi dica che sbaglio… mi dica che non ho compreso le sue parole… che i miei timori sono infondati… mi dica che non sta crescendo una nuova vita dentro di me…”
Gli occhi dell’infermiera si rabbuiarono per un istante, coperti da un velo di dolore e dispiacere.
“Dunque non lo sapevate?”
“No…” sussurrò l’elfa col fiato spezzato.
Lasciò la presa dai polsi dell’infermiera e si guardò nuovamente il ventre, spaventata. Alzò le braccia, coprendosi il volto e, poi, passando le mani tra i capelli, respirò a fondo, cercando di riacquistare la calma. Non poteva perdere il controllo. Anche se, ormai, non poteva far altro che accettare questa situazione… da sempre aveva sognato una famiglia sua, un figlio… ma non così presto e, soprattutto, non in un mondo dilaniato da guerra e morte.
“Beh, mia signora, ora lo sapete.” concluse la donna, alzandosi dal letto di Estryd. Poi, con tono serio, aggiunse: “Quindi, voglio sperare, che vi comporterete di conseguenza. Il giovane Comandante Faramir l’ha portata qui due giorni fa; eravate in fin di vita, mal nutrita e stanca. Ho temuto per la vostra vita e quella del bambino.” s’interruppe, osservando attentamente l’elfa. “E anche ora siete sciupata. La ferita non guarisce. È strano… è come se il vostro corpo rifiutasse la cura. Dovete rimettervi in forze… il che vuol dire riposo assoluto.”
L’anziana si voltò e, prendendo delle erbe da vari recipienti di terracotta, li depose in una bacinella di metallo. Poi, prese una brocca e aggiunse un po’ d’acqua; un odore forte di muschio, salvia e timo riempì l’aria.
Quei profumi invasero le narici della bruna e i ricordi avanzarono nella sua mente; sua madre era solita trascorrere innumerevoli ore a confezionare medicinali… curava con amore il suo giardino e adorava il contatto che si creava tra lei e la natura che la circondava… si sentiva a casa, felice.
Estryd, ammaliata, osservava le mosse dell’infermiera. Le sottili mani della donna si muovevano con sapienza, ripeteva quei movimenti come se fosse un’abitudine per lei… come se avesse preparato quell’antidoto ormai innumerevoli volte. Afferrando poi un pestello di legno, iniziò a schiacciare le erbe, fino a creare un intruglio simile a una crema.
Avvicinandosi nuovamente all’elfa, scoprì la sua spalla dalla veste che portava e, pulendo la ferita con una spugna intrisa d’acqua, afferrò l’antidoto e, intingendo le dita, iniziò a spalmarlo con delicatezza.
“Senti fastidio?” chiese, notando l’espressione di Estryd.
“No.” Rispose la bruna. “Un ricordo si fa strada nella mia mente… ha utilizzato del timo… e salvia…?”
La donna annuì: “C’è anche del muschio bianco, raccolto nel giardino della Dama della Luce.”
Estryd non si sorprese sapendo che le erbe che la stavano curando provenivano dal giardino di sua nonna. Aveva imparato già da anni a riconoscere erbe ideali per preparare intrugli e, le proprietà magiche delle erbe coltivate da dama Galadriel, era tra le più abili che conosceva. La Regina di Lothlorien aveva cercato di trasmettere tutto il suo sapere all’unica figlia che, a sua volta, aveva cercato di fare lo stesso con le sue figlie.
“Mia madre era solita usare queste erbe… le coglieva dal giardino della nostra famiglia e preparava piccoli ma variopinti mazzi… profumavano la mia camera e non una volta ho avuto timore del buio che cresceva attorno a me. I miei genitori mi hanno cresciuta con affetto… mi sono sempre stati vicini…”
“Tutti i bambini meritano avere al loro fianco due genitori… qualunque cosa tu stessi facendo a Osgiliath è il momento di fermarti.”
Quelle parole raggiunsero le orecchie di Estryd come una doccia fredda: come aveva potuto essere così sciocca? Si era scordata dell’amico… si era scordata di Frodo e della missione che l’aveva portata così a sud! Un lampo attraversò la mente della principessa e, cercando di mettersi in piedi, chiamò, sussurrando, il nome del Portatore.
“Devo andare… io devo…”
Il solo pensiero che in quel momento era solo… era solo ormai da due giorni, con Sam e quell’essere traditore.
“Mi lasci…” cercò di divincolarsi dalla presa dell’infermiera. “Devo andare…”
“Estryd, per favore.”
Senza bussare, Faramir entrò nella stanza e, avvicinandosi al giaciglio dell’elfa, si accomodò per terra, al suo fianco, aiutandola a stendersi.
“Faramir…” sussurrò Estryd concentrando il suo sguardo sul Capitano di Gondor. “Mi puoi capire… tu sai cosa c’è in gioco… devo andare…”
L’uomo scosse il capo, poi, prendendole le mani, incrociò lo sguardo della fanciulla: “Sei preoccupata per Frodo e lo comprendo… ma Sam veglia su di lui. Puoi fidarti di Sam… è un uomo d’onore…”
“Ma…” iniziò a dire Estryd.
“No.” la interruppe Faramir. “Non accetto contraddizioni. Dovete prendervi cura di voi. Le tue azioni in questa battaglia sono state lodevoli. Soprattutto per una principessa di razza elfica… ma in grembo portate il figlio di mio fratello.” sospirò. “E’ mio dovere proteggerlo. È mio dovere proteggere entrambi. La freccia che ti ha colpita era intrisa di veleno. Gli orchi di Mordor utilizzano un veleno micidiale… si disperde nel tuo corpo uccidendoti lentamente… noi abbiamo fatto ciò che era in nostro potere per curarti e, ora, il tuo corpo è in via di guarigione, ma quel veleno non abbandonerà tanto facilmente il tuo sangue… ti ha indebolita e non sei in grado di viaggiare…”
La bruna guardò Faramir, ma non replicò. Dalla risolutezza del suo sguardo, capì che ogni parola sarebbe andata sprecata; ormai avevano deciso e lei poteva solo adeguarsi al suo volere.
“Va bene.” Concluse Estryd, dopo alcuni secondi di silenzio, cercando di risultare credibile. Sorrise, abbassando lo sguardo.
Felice per il risultato, il Capitano di Gondor si alzò e posò una mano sulla spalla dell’elfa: “Hai fatto la scelta giusta. Riposa ora. Sei logora dal lungo viaggio e meriti un po’ di pace.”
Poi, l’uomo, rivolgendosi all’infermiera, sussurrò: “Non fatela uscire da questa stanza. Metterò delle guardie a sorvegliare la porta. È furba… non perdiamola di vista.”
Entrambi volsero lo sguardo verso Estryd che, abbozzando un finto sorriso innocente, si stese e chiuse gli occhi, fingendo di addormentarsi. Comprendeva le angosce di Faramir; non era prudente per lei proseguire il viaggio al fianco di Frodo e Sam… soprattutto ora, che stavano varcando i confini di Mordor, i pericoli sarebbero aumentati a dismisura.
“Tornerò più tardi a farti visita…” aggiunse Faramir, guardando la giovane. “Ho delle domande per te che esigono una risposta.”
Estryd non disse nulla, aprì gli occhi, incrociando lo sguardo dell’uomo, ed annuì.
Si sfiorò il ventre, voltandosi e dando le spalle all’uscio, ormai chiuso.
Un bambino…
Un piccolo essere, in quel momento, stava crescendo dentro di lei… il suo cuore esplodeva invaso da mille emozioni: lo amava già. Sia se fosse stato maschio o femmina, mortale o immortale, era nato dall’amore e nell’amore sarebbe cresciuto… ma in che mondo sarebbe vissuto? Guerra… morte… disperazione… nel suo corpo era protetto dalla malvagità che, da anni, terrorizzava la Terra di Mezzo, ma non sarebbe stato per sempre al sicuro; voleva assicurargli un mondo migliore… non avrebbe permesso che i suoi innocenti occhi vedessero e conoscessero quel mondo, un mondo simile… un mondo lacerato dalla guerra.
No. Non poteva rinunciare alla sua missione.
Ormai l’elfa aveva deciso; avrebbe detto e fatto qualunque cosa per scappare da Gondor. La sorte di Frodo era precaria, non si fidava di Gollum, di quel demoniaco essere… voleva vegliare sul Portatore, proteggerlo, e questo avrebbe fatto.
Aveva preso la sua scelta quando era fuggita da Gran Burrone per unirsi alla Compagnia: avrebbe accompagnato Frodo fino alle pendici del Monte Fato e lo avrebbe aiutato a compiere il suo incarico. Questo era il suo futuro e non si sarebbe tirata indietro.
Riaprì gli occhi ed osservò il panorama oltre la grande finestra; il sole era ancora alto e l’acre odore di fumo raggiungeva le sue narici. 
Sarebbe scappata quella stessa notte, con l’ausilio delle ombre.

Come l’usanza esigeva, i corpi degli uomini caduti durante la battaglia al Fosso di Helm furono deposti su alte pire funerarie e bruciati, con tutti gli onori riservati ai grandi guerrieri. Ma, per gli elfi, non erano queste le tradizioni; bruciare un corpo era la cosa peggiore che si potesse fare alla sua anima.
La battaglia aveva mietuto fin troppe vite ma, alla fine, gli eserciti di Saruman erano stati sconfitti; nessuno di loro era sopravvissuto e, grazie all’intervento finale di Eomer e dei suoi uomini, la vittoria era stata schiacciante.
Tre giorni dopo il termine dello scontro, Re Théoden con i suoi eserciti e il suo popolo era rientrato ad Edoras. Quella sera erano stati organizzati grandi festeggiamenti e nessuno sarebbe mancato.
Ogni cosa era già stata decisa: le grandi sale del Palazzo d’Oro erano state addobbate e i musici avrebbero intrattenuto le folle con danze allegre fino al sorgere del sole. I cuochi avevano preparato un ricco banchetto con pietanze di ogni genere e dell’ottimo vino e birra sarebbero stati serviti a volontà.
Tutti avrebbero partecipato, i banchetti commemorativi era un’usanza di Rohan per onorare il sacrificio dei caduti e dar loro un degno saluto, tra danze e gioia. Le perdite erano state importanti e in molti soffrivano per i mariti o fratelli o figli morti ma, la vittoria, aveva portato una ventata di speranza nel cuore del popolo del Mark che, in quel momento più che mai, aveva bisogno di nuova energia e grinta.
“Dobbiamo parlarle.” sussurrò Legolas ai compagni di viaggio mentre passeggiavano per le vie del paese, aiutando, come potevano, nei preparativi della festa.
Da giorni Boromir e Aragorn avevano cercato di superare la barriera che Alhena si era costruita attorno per proteggersi dal dolore per la perdita di Haldir, ma niente era valso quello sforzo.
La bionda si era chiusa nel mutismo; erano amici e non riusciva a dimenticare gli occhi del Guardiano mentre perdevano il calore della vita… aveva visto la luce spegnersi nelle sue iridi grigie… continuava a rivivere quegli ultimi attimi, le ultime parole che le aveva detto e quelle che, seppur chiare nei suoi occhi, non le aveva detto… nel buio della stanza che occupava, fissava il vuoto attorno a lei. Per ore rimaneva incantata ad osservare la polvere galleggiare mezz’aria, illuminata da fini spiragli di sole che filtravano dalle tende tirate.
“Non presta ascolto a nessuno.” rispose Boromir, pensando ad Alhena. “Le ho portato del cibo ieri sera, ma non ha risposto. Non mangia da giorni. Sono preoccupato per lei… è cambiata… mi spaventa…”
“Possiamo comprendere il suo dolore… era legata ad Haldir…” aggiunse Aragorn, camminando accanto agli amici, mentre guardava per terra, si sentiva impotente. “Dovresti parlarle te, Legolas. Tra voi c’è confidenza… siete amici… vi conoscete da sempre…”
L’elfo scosse il capo, contrariato da quell’affermazione ma, comprendendo la serietà della situazione, annuì: “Va bene. Ci proverò. Ho già conosciuto una persona che non ha saputo gestire il proprio dolore e non voglio che anche Alhena cada in quell’abisso… cedere al dolore la porterà alla solitudine e al tormento… però non sarà facile… la conosciamo e sappiamo che nessuno tranne sé stessa, può dirgli cosa fare.” sospirò. “Prego solo che possa trovare la forza di combattere e trovare la pace.”


“Benvenuti, amici miei! Benvenuti nella mia meravigliosa terra! Quanti anni sono passati…! Sono lieto di accogliervi e poter ricambiare la vostra ospitalità!”
Re Thranduil, con un magnetico sorriso ad illuminargli il volto, raggiunse Lord Elrond. Al suo seguito, in sella alle loro cavalcature, c’erano sua moglie Celebrìan e i loro figli; Elladan, Elhoir e la neonata Arwen.
“Amico!” esclamò Elrond gioviale, smontando dal cavallo e raggiungendo Thranduil, con le braccia aperte.
I due compagni si strinsero in un forte abbraccio fraterno; erano diventate così rare le occasioni che riunivano i due vecchi amici… ma, quando capitava, erano sempre ben gradite.
“Mio caro amico Re” esclamò, Celebrìan, osservando dall’alto della sua cavalcatura i due elfi. Entrambi volsero lo guardo all’elfa. Ella continuò: “Dove sono finite le tue buone maniere?”
Thranduil sorrise, incrociando gli occhi color cielo della bionda. Aveva sempre ritenuto Celebrìan un’elfa affascinante… nonostante la lunga amicizia che li legava, non era mai riuscito a comprenderla fino in fondo. La conosceva fin dall’infanzia e l’aveva sempre considerata una creatura meravigliosa, unica nel suo genere… solo dopo aver conosciuto l’elfa che sarebbe diventata sua moglie, Thranduil si ravvide.
“Celebrìan, bellissima Regina di Gran Burrone che mai nessuna dama ha pareggiato bellezza e grazia… che onore averla qui, nel mio piccolo e modesto regno!” sorrise il biondo Re, avvicinandosi a lei, porgendole la mano per aiutare la discesa.
I giovani principi di Gran Burrone, in sella ai propri destrieri, alle spalle della madre, si scambiarono uno sguardo e nascosero a stento le risa. Entrambi conoscevano Thranduil e lo avevano sempre considerato strano; così diverso da loro padre in molti, e forse troppi, aspetti.
“Quante lusinghe…” rispose la Regina, scendendo elegantemente dal cavallo, aiutata dall’elfo biondo. I suoi piedi sfiorarono terra con grazia e, dopo essersi sistemata l’abito, riportò l’attenzione al re: “Scommetto che queste gentilezze vogliono in cambio un favore…”
Thranduil sorrise, ammaliato dall’astuzia della dama.
“Mia cara…” disse Elrond, raggiungendo la moglie. “Conosci fin troppo bene questi due vecchi amici…”
“Sì… vi conosco entrambi e, credete alle mie parole, meritate una giornata da soli… lontani da impegni e da obblighi che gravano sulle vostre teste. Domani il sole brillerà dall’alba fino al sorgere della luna… consideratevi liberi dal peso delle vostre corone!”. Celebrìan prese fiato e, posando una mano con dolcezza sulla spalla di Thranduil, volse lo sguardo verso i figli: “Permettimi, amico mio, di rinfrescarti la memoria: questi sono i figli miei e di Elrond… i primogeniti.” incrociando gli occhi del biondo re, aggiunse sussurrando: “Dovresti ricordarli… eri presente alla loro nascita… ma temo che l’alcol abbia annebbiato la tua mente…”
Thranduil la osservò contrariato, ma non proferì parola.
Quali parole poteva dire per giustificarsi? La bionda Regina aveva ragione; come volevano le usanze, alla nascita dei figli dei Lord delle città elfiche, l’evento imponeva grandi festeggiamenti che univano l’intera comunità della razza immortale. Thranduil ricordava d’essere presente al parto dei gemelli ma, oltre il viaggio per recarsi a Gran Burrone, in compagnia del figlio, non ricordava altro.
Con rammarico guardò Celebrìan e tristi pensieri avanzarono nella mente del Re di Bosco Atro. La bionda era legata alla defunta moglie e, dalla sua prematura scomparsa, nonostante fosse in attesa dei primogeniti, aveva cercato di aiutarlo come meglio poteva. Purtroppo, Thranduil aveva trovato maggior conforto, non nella compagnia degli amici, ma nella solitudine e nell’alcol.
Accostandosi all’orecchio del sovrano, Celebrìan, con tono severo, lo ammonì: “E’ da poco sorto il sole e il tuo respiro odora già di vino… che direbbe lei?”
Thranduil la fulminò con lo sguardo.
“Nulla.” sussurrò, avvicinandosi al volto della dama. “È morta.”
Poi, voltandosi, risalì le scale e raggiunse le sue stanze. Come sempre accadeva in queste situazioni, il Re aveva bisogno di solitudine e, più si allontanava dagli ospiti, più la sua gola reclamava del buon vino fresco.
Osservando l’amico allontanarsi, Elrond si avvicinò alla moglie e, abbracciandola, le sfiorò le mani. Accostandosi al suo orecchio, sussurrò con dolcezza: “Sei stata eccessivamente dura con lui… soffre ancora per la sua perdita… e si vede…”
Sciogliendo l’abbraccio del marito, Celebrìan lo guardò contrariata. Comprendeva la sofferenza che turbava l’animo di Thranduil; ma lui la sfruttava per cedere alle proprie debolezze, era solo il fantasma del brillante e affascinante elfo che avrebbe potuto essere.
“Non scusarlo… sono passati secoli… deve riprendersi: per suo figlio e per il suo popolo. Bosco Atro non ha bisogno di un sovrano debole. La guerra si sta avvicinando e l’ombra di Mordor si sta estendendo. Presto raggiungerà queste terre e deve essere in grado di combattere, di difendere i suoi confini… Thranduil deve ritrovare la forza di affrontare la vita senza nascondersi dietro le sue terrene dissolutezze.”
Legolas che, fino a quel momento, era rimasto in disparte, con passo incerto, si avvicinò agli ospiti. Ormai si era abituato ai comportamenti del padre, anche se non aveva ancora smarrito la speranza.
“Vi chiedo scusa da parte sua… papà soffre ancora molto…” s’interruppe, incerto su cosa aggiungere. Respirò a fondo: “Sono state preparate le vostre camere e i nostri stallieri si occuperanno dei vostri cavalli…”
Elrond e Celebrìan guardarono il giovane principe; era cresciuto molto dall’ultima volta che i due signori di Gran Burrone si erano recati in visita ad ovest e, ai loro occhi, era irriconoscibile. Aveva preso le fattezze del padre, ma qualcosa nel suo volto ricordava la dolcezza della madre.
“Giovane principe… che piacere vederti!” esclamò con amabilità Celebrìan, avvicinandosi all’elfo. Sfiorò il suo volto e aggiunse: “Somigli sempre più a tua madre.”
Legolas sorrise, imbarazzato per le attenzioni che stava ricevendo; raramente il padre parlava con lui e, ancor più di rado, si accorgeva che il figlio stava crescendo. Vivere a fianco di Thranduil, per il giovane elfo, era un vero tormento… aveva trascorso l’infanzia in compagnia di una nutrice, i giorni passavano monotoni e nonostante tentasse di avvicinarsi al padre, questo lo respingeva sempre. Ricordava intere giornate senza poterlo vedere, senza sapere se stesse bene o meno… bussava alla sua porta con insistenza, desiderosi di attenzioni che però non otteneva… era straziante trovarlo svenuto tra bottiglie vuote di vino, riverso sul letto, nel migliore dei casi, o sul pavimento…
Ogni sera, guardando il cielo incupirsi, Legolas pregava i Valar e le alte stelle che suo padre entrasse nella sua camera e gli augurasse la buonanotte… che iniziasse a star meglio, che smettesse di soffrire e ricominciasse a vivere… ma le sue preghiere furono sempre vane. Ormai si era abituato alla sua assenza, era cresciuto solo ed era diventato un giovane elfo contando solo sulle sue forze.

Per il resto della giornata, Thranduil non uscì dalle sue stanze. Sdraiato sul letto, si crogiolò nel suo dolore, ancora troppo legato al ricordo dell’amata moglie. Le tende tirate, per impedire al sole di entrare nella camera. La luce e il calore dell’astro del giorno erano poco gradite, preferiva rimanere nell’oscurità che alimentava il suo tormento.
Steso mollemente sul grande letto, osservava il vuoto attorno a lui. Chiudendo gli occhi si perdeva nei ricordi e, grazie all’alcol, riusciva a renderli ancora più nitidi nella sua mente. Con regolarità delle ancelle si recavano nelle sue stanze, portando decanter di cristallo contenenti dell’ottimo vino e qualunque altra cosa desiderasse.
Elrond, fuori dagli alloggi dell’amico, aveva cercato di parlargli, ma a nulla erano valsi i suoi tentativi; il sovrano si era rinchiuso nel suo guscio, ossessionato dalla sua disperazione.
“E’ inutile…” sussurrò Legolas, avvicinandosi alle spalle del Signore di Gran Burrone.
“Da quanto? Da quanto soffre così?” domandò, guardando la grande porta chiusa.
“Suppongo da quando è morta… non ho memoria di quelle infelici lune, ma non un solo giorno è stato un giorno felice… queste terre sono morte con mia mamma, e lui è morto con lei.”
Elrond rimase senza parole; poteva solo immaginare ciò che Thranduil provasse e, seppur avesse la reputazione d’essere un saggio sovrano, non aveva trovato la forza di superare la perdita dell’amata.
Pensò alla sua vita senza Celebrìan; il solo pensiero lo avrebbe distrutto.
“Avresti potuto chiedere il nostro aiuto.” continuò guardando il giovane principe di Bosco Atro.
“Me lo ha proibito…” rispose Legolas, accompagnando le parole con un’alzata le spalle. “Durante le giornate come questa esce solo di notte, per recarsi al mausoleo dove riposa.”
“Presumo che gli parleremo stanotte.” concluse Celebrìan, raggiungendo il marito e il giovane elfo. “Siamo amici da secoli e dobbiamo aiutarci. Stanotte parlerò io con Thranduil. Cercherò di farlo ragionare. Forse, se sono fortunata, potrò fare qualcosa per lui.” sospirò. “Credo che quello di cui ha davvero bisogno sia una spalla amica…”

Quella sera la luna brillava nel cielo e le stelle incorniciavano il pallido candore dell’astro notturno. Bosco Atro era immerso in un silenzio inquietante; non un passo, non un sussurro o il canto di una civetta… solo silenzio.
Pareva una città fantasma, abitata dal ricordo dei suoi abitanti.
Le finestre delle camere da letto erano spalancate, permettendo all’aria di rinfrescare i locali; il sole aveva portato un caldo a dir poco soffocante.
“Dovremmo parlargli insieme!” esclamò Elrond, guardando la moglie negli occhi.
Erano stesi sul letto e, guardandosi negli occhi, si cullavano. Con le dita, Elrond sfiorava il fianco dell’amata moglie e, con eleganti movenze, scendeva e risaliva disegnando le linee dell’elfa. Nonostante fossero sposati da quasi quattromila anni, l’amore che provavano l’uno per l’altra non era diminuito… anzi, era cresciuto, maturato per la consapevolezza del legame che li univa. Si erano giurati eterno amore ed eterno sarebbe stato il sentimento che riempiva i loro cuori.
“Conosciamo Thranduil… non vorrà farsi vedere debole, soprattutto ai tuoi occhi… siete amici e avete combattuto fianco a fianco in innumerevoli scontri. Non si abbandonerà a confidenze personali con te… ero sua amica, la sua migliore amica… voglio almeno tentare, lo dobbiamo a Legolas… quel povero bambino è cresciuto senza madre e con un padre assente…” sospirò. “Meritava una vita migliore… Thranduil è troppo vanitoso, non è adatto a fare il padre…”
“Non hai fiducia in lui… Oropher l’ha cresciuto perché un giorno diventasse Re. La prematura morte di sua moglie l’ha straziato, ma non penso si sia spezzato. È un uomo forte, di valore.”
“Ha perso la donna che amava…” rispose Celebrìan con sentimento, alzandosi a sedere sul letto. “Questo cambia ogni cosa. Perdere l’amore, spezzerebbe anche il più valoroso dei guerrieri.”
Elrond imitò la moglie, guardandola con intensità negli occhi.
“Se me lo permetterà, sono certa che il mio aiuto non sia vano.”
“Perché pensi che con te parlerà?” chiese il signore di Gran Burrone, sfiorando dolcemente il volto dell’amata.
“Perché sono una donna. Non deve mostrarsi forte con me, potrà abbattere il muro che ha costruito per proteggersi. Con te presente non mostrerà mai le sue debolezze…”
L’elfo rimase in silenzio, osservava la moglie senza sapere cosa pensare; comprendeva le angosce di Celebrìan e, fino a quel giorno, l’aveva sempre appoggiata, in ogni sua decisione… ma, quel giorno, non era tranquillo; conosceva Thranduil da secoli, da quando erano solo due imprudenti fanciulli con sangue reale nelle vene e, mai, il biondo aveva dimostrato di essere superiore ai suoi sentimenti. Si faceva coinvolgere, gettandosi anima e corpo nelle cose, e poi, inaspettatamente, crollava a picco; si spezzava, si rovinava con le sue stesse mani… ma, se da un lato, era preoccupato per l’amico, dall’altro temeva che quello fosse tempo perso. Nessuno poteva aiutare Thranduil se non lui stesso.
Sospirò, ma valeva la pena tentare.
“Hai ragione, come sempre.” convenne saggiamente Elrond. “Legolas merita un padre. Quel giovane ragazzo merita una famiglia e una vita felice… è dovuto crescere troppo velocemente; non ha avuto scelta. Suo padre lo ha abbandonato… ma, forse, non tutto è perduto.” carezzò il volto dell’amata moglie, scendendo fino a sfiorarle il collo e soffermandosi sulla linea delle spalle. Poi, sorridendole, aggiunse: “Ho fiducia in te. Se c’è qualcuno che potrà aiutarlo, sei tu amore mio…”

Il mausoleo dove Thranduil aveva deposto il corpo della moglie era un locale umido, scavato nella roccia, sottoterra. Si raggiungeva scendendo una lunga scala ampia, fino ad arrivare a un lungo corridoio illuminato solo da una decina di fiaccole. L’atmosfera era angosciante, le pareti spoglie e, l’unico ornamento, erano statue di marmo grigio perla che rappresentavano le fattezze dei defunti. L’aria che si respirava odorava di fiori secchi.
“Odiava questo posto.” sussurrò Celebrìan avvicinandosi alle spalle dell’amico.
Thranduil indossava ancora le vesti di quella mattina, erano sporche di vino e di polvere.
“Avresti potuto farla riposare in un posto più simile a lei… un luogo speciale per lei, per voi… uno che adorava…”
Il sovrano, voltandosi, osservò la bionda elfa avvicinarsi e fermarsi alle sue spalle, non proferì parola.
Celebrìan osservò l’imponente statua che aveva davanti; era così somigliante all’amica. Non solo i tratti erano uguali, ma possedeva il suo stesso sguardo penetrante. Gli scultori avevano fatto un lavoro incredibile. Con mano tremante, stese il braccio e sfiorò il viso della Regina di Bosco Atro… le mancava l’amica; le mancavano molto le lunghe chiacchierate. Fin dall’infanzia si era creato un profondo legame tra le due fanciulle; Celebrìan, essendo figlia unica, l’aveva considerata come una sorella maggiore e lei l’aveva preso sotto la sua ala.
“Ma capisco anche le attrattive di questo posto…” continuò. “Qui puoi trovare la pace… qui puoi godere della solitudine… stare con lei.”
“Sì.” sussurrò Thranduil, voltandosi nuovamente. “Con lei non mi resta altro! Condividere la mia solitudine.”
Celebrìan lo raggiunse, posando le mani sulla schiena del Sovrano.
“Lei non ti ha lasciato solo… ti ha fatto un dono: ti ha dato un figlio, vostro figlio… parte di te e di lei… dal vostro amore è nato Legolas.” continuò Celebrìan, interrompendolo. “Tuo figlio è cresciuto senza una madre… e, purtroppo, da quello che vedo, anche senza un padre. Ma puoi ancora rimediare: ha bisogno di te, della tua guida. Un giorno tutto questo sarà suo… devi prepararlo alle responsabilità. Devi aiutarlo a crescere, come tuo padre fece con te.”
Camminando attorno a Thranduil, la Regina di Gran Burrone lo guardò nuovamente negli occhi. Erano tristi, erano occhi di chi ormai aveva perso ogni speranza, di chi si era arreso…
“Thranduil tu sei meglio di così.” esclamò con foga.
Chiudendo gli occhi, il Re si voltò; non era ancora pronto ad affrontare una discussione simile. Conosceva le sue colpe, sapeva che non stava adempiendo al suo ruolo di padre e, se sua moglie fosse stata viva, al suo fianco, lo avrebbe rimproverato per le sue mancanze.
“No!” esclamò l’elfa, notando la reazione dell’amico. “Non te lo permetto! Non ti permetto di arrenderti! Legolas ha solo te. Devi affrontare la realtà! Tuo figlio ha bisogno di un padre e tu devi comportarti come tale!” afferrò le mani di Thranduil. “Io ed Elrond ti abbiamo supportato, ti siamo stati accanto dopo la Grande Guerra, ci siamo presi cura di tuo figlio mentre eri al fronte con i tuoi uomini e, quando sei tornato, spezzato e sfigurato, hai insistito per riprenderti tuo figlio… ricordi le parole che mi dicesti?”
Thranduil scosse il capo.
“E’ mio figlio. Ha solo me. E io ho solo lui.” ripeté Celebrìan. “Sono suo padre e, insieme, supereremo ogni cosa.” s’interruppe. “Queste parole ti hanno reso onore. Avevi compreso che lui aveva bisogno del tuo aiuto e non hai esitato nel prenderti carico delle tue responsabilità! Ma da quel giorno cosa è accaduto? Cosa è cambiato? Come mai non ti sei comportato come un padre? Aveva bisogno di te! È solo un ragazzo!”
L’elfo si lasciò cadere, sedendosi per terra contro la parete. Il freddo pavimento di marmo lo fece rabbrividire.
“Cosa è cambiato?” ripeté con un filo di voce, il volto nascosto tra le mani.
Celebrìan si accomodò al suo fianco: “Cos’è accaduto?”
“Sono rimasto solo.” sospirò. “Mi sono accorto che qui ad attendermi non c’era niente e nessuno… lei era morta e con lei erano morti anche i miei attimi di gioia…” sospirò. “Ogni volta che guardavo Legolas in volto, rivedevo lei… stare al suo fianco mi da tuttora un dolore straziante… il mio cuore sanguina ancora per la sua perdita, non riesco a superare questa sofferenza. Il dolore che sento mi permette di sentirla vicino, di pensare a lei…”
“Questo comportamento è sbagliato… ti porterà alla distruzione…”
Thranduil non rispose; nascose il volto dietro le mani nel tentativo di celare la sua vergogna. “Ho dimenticato il suono della sua voce.”
L’elfa lo guardò, impotente. Senza sapere cosa dire per alleviare la sua afflizione.
“Temo di scordarmi altro. Ogni giorno che passa, il tempo mi ruba un pezzo di lei… temo di perdere anche il ricordo del suo profumo, della sua risata, dei suoi sguardi… io non voglio perderla… la amo… i ricordi sono tutto ciò che mi resta…” due lacrime rigarono il volto, ormai perfetto, del Sovrano. “Io la amo…”
“Non potrai mai dimenticarla… l’amore che provi sarà sempre con te, la sentirai vicina in ogni momento e potrai portarla con te, nel tuo cuore. Riservale un posto speciale qui…” sussurrò, posando la mano sul petto del Re. “Tieni il suo ricordo… qui, dove lei sarà sempre viva e felice e bellissima…”
“Non capisci quanto suonano ridicole le tue parole? Tenere vivo il suo ricordo? Lei non sarà mai più viva… o felice! È morta! L’hanno uccisa!” concluse Thranduil scattando in piedi, le fattezze del suo volto mutarono. Divenne serio e nascose nuovamente il suo dolore dietro la maschera della freddezza. “Non ho bisogno del tuo aiuto. Presumo che domani dobbiate ripartire per Gran Burrone… le nostre strade si dividono qui. Siamo alleati, ma questa visita è giunta a termine.”
Allontanandosi dal mausoleo dell’amata moglie, il Sovrano di Bosco Atro, ritornò nelle sue stanze. Il suo unico pensiero era rivolto all’elaborata brocca di cristallo posata sul tavolo accanto alla finestra…


La porta era chiusa ma riusciva a sentire distintamente i sommossi singhiozzi dell’amica. Facendosi forza, Legolas bussò. Il rumore echeggiò nel corridoio deserto; non ottenne risposta. Si guardò attorno; non c’era nessuno nel palazzo, erano tutti nella Sala principale, troppo intenti a onorare la vittoria conquistata molto duramente.
“Alhena…”
Legolas aprì la porta e scivolò nella camera, senza far rumore.
Le tende erano tirate e le finestre erano tutte chiuse per impedire ai suoni dei festeggiamenti di raggiungere le sue orecchie. Appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, prese una candela e la accese; illuminando tenuemente la camera.
Alhena, seduta per terra in un angolo, piegata su sé stessa, nascondeva il viso tra le ginocchia; i singhiozzi giungevano alle sue orecchie, simili a dei lamenti.
Legolas chiuse la porta e, avvicinandosi all’amica, si piegò davanti a lei. La tenue luce della candela faceva brillare i suoi capelli, creando riflessi dorati.
“Alhena…” la chiamò nuovamente con un sussurro.
Avrebbe voluto sfiorarle il capo, per farle sentire la sua vicinanza, ma qualcosa nella giovane lo trattenne. Attorno a lei c’era solo oscurità, percepiva la sua disperazione, era palpabile nell’aria.
L’elfa alzò il volto, incrociando lo sguardo del Principe. Non disse nulla.
Aveva gli occhi arrossati, ma le sue guance erano asciutte. Per la morte di Haldir aveva già pianto ogni lacrima.
Legolas aveva già visto una persona in quello stato: suo padre.
“Spegni la luce…” sibilò lei, scandendo le parole.
Ignorando l’avvertimento dell’amica, Legolas posò la candela sul pavimento e continuò a guardare Alhena; si sentiva impotente. Non sapeva cosa dire o fare. Per lei avrebbe mosso mari e monti ma, vederla così, spezzata, priva di gioia, distrutta… ogni parola sarebbe stata vana.
“Spegnila.” ripeté lei.
“Non farti questo.” disse con dolcezza, carezzando il capo della giovane. “Non permettere che…” s’interrupe, scegliendo accuratamente le parole. “…il sacrificio di Haldir ti faccia precipitare nel baratro… sei una delle persone più forti che conosca… puoi…”
Ma Alhena lo interruppe: “Cosa non dovrei fare?” urlò con rabbia. “Non posso piangere la morte di Haldir? È stato come un padre per me! Mi è sempre stato accanto! Ha vegliato su di me per anni! Per secoli! È morto davanti a me! L’ho visto spegnersi! Ho visto la luce abbandonare i suoi occhi… ho visto il suo corpo svuotarsi dell’anima…” prese fiato, ansimava mentre parlava: “Con che diritto mi vieni a parlare di questo?”
“Lui non vorrebbe che tu soffrissi così!” ribatté Legolas.
“Lui non avrebbe voluto che accadessero molte cose.” concluse Alhena con freddezza, chinando nuovamente il capo. “Ora, spegni quella luce. Mi ferisce gli occhi.”
“Alhena…”
Ma la giovane, piegandosi in avanti, verso la candela, soffiò con forza spegnendo la fiamma. La camera ritornò immersa nel buio.
“E ora va via.” concluse, sistemandosi nuovamente nell’angolo, accanto al muro.
“Alhena!” la chiamò nuovamente Legolas.
“Vattene.”
Impotente, il giovane principe si alzò e, raggiungendo la porta, non gli rimase altra scelta se non quella di lasciare l’amica sola, nella sua disperazione.
“Noi partiremo presto per recarci a Isengard. Non potrai restare per sempre qui, dovrai prendere una scelta: puoi decidere se ritirarti dalla missione e tornare a casa, riprenderti da questa sofferenza, o puoi venire con noi.” prese fiato. “Non posso dirti cosa fare… ma voglio darti un consiglio da amico: se non sei in grado d’affrontare questo dolore, torna a casa, da tuo padre e dai tuoi fratelli. Non tutti sono fatti per affrontare la guerra.”
“Io sono forte!” sibilò.
“No, invece.” la contraddisse. “Hai dovuto affrontare troppe cose da sola… sei dovuta crescere così in fretta che hai dovuto chiudere il tuo cuore alle emozioni. Haldir è morto e anche mia madre è morta… c’è un tempo per vivere e c’è un tempo per morire… loro hanno vissuto i loro momenti appieno, senza rimpianti… non sprecare la tua vita piangendo… se davvero sei forte, come dici d’essere, allora dimostralo!”
Legolas tacque, sperando che l’amica parlasse, che dicesse qualcosa, qualunque cosa. Ma l’unica risposta che ottenne fu il silenzio.
Scuotendo il capo e guardando il pavimento sotto i suoi piedi, concluse: “Io non posso aiutarti, se non me lo permetti.”

Il sole stava tramontando su Gondor e, in lontananza, Estryd riusciva a sentire i rumori della guerra. Durante tutta la giornata aveva cercato di non pensare al suo futuro: doveva concentrarsi sul presente. Sulle azioni che avrebbe dovuto compiere… amava già il figlio che portava in grembo, ma non poteva tirarsi indietro. Se voleva dare al suo bambino una vita felice, lontana da guerre e dolore, doveva combattere per cambiare le cose o, almeno, doveva provare!
Sfiorandosi il ventre, Estryd si alzò e si sporse oltre la finestra. Il Monte Fato era in attività e una nube cupa ricopriva il cielo sopra Mordor. Dei brividi le attraversavano la schiena, aveva paura…
“Estryd… posso?”
Dopo aver bussato, Faramir entrò nella stanza, dove l’elfa era stata sistemata: “Cosa fai in piedi? Dovresti riposare! Torna a letto!”
L’elfa, voltandosi, sorrise: “Sto bene… sono incinta, non sto morendo!”
L’uomo sorrise e, avvicinandosi alla fanciulla, osservò il panorama.
“Cosa cattura la tua attenzione?”
Ma, la sua domanda non pretendeva una risposta; sapeva cosa stava osservando.
“La guerra giungerà fin qui! È inevitabile… nemmeno Gondor sarà al sicuro…” voltandosi, incrociò gli occhi del Capitano. “Sai molte cose su quello che portano gli Hobbit e non hai parlato con nessuno della loro missione… perché? Hai taciuto con il tuo stesso padre riguardo la posizione dell’Anello… tutti noi sappiamo cosa pensa… lui vorrebbe averlo… ma, nonostante fosse tuo padre, hai mantenuto il segreto… perché?”
Continuando a osservare l’orizzonte, Faramir rispose: “Perché penso sia giusto.”
Estryd lo guardò, aggrottando le sopracciglia.
“Mio padre si sbaglia a comportarsi così. Pensa che l’Anello risolverà tutti i problemi di Gondor… ma si sbaglia… potrà solo peggiorare la situazione… conosco la storia e so quanto possa essere debole e volubile il cuore dell’uomo… quando vi ho lasciati liberi, l’ho fatto perché ci credevo… e credo ancora nella vostra missione. Lo so che vuoi scappare per raggiungere Frodo e Sam…”
L’elfa lo guardò, sorpresa: “E che intendi fare? Mi lascerai andare?”
“E’ sbagliato e spero ardentemente di non pentirmene, ma ti aiuterò.” acconsentì. “Ti aiuterò a scappare.”
“Grazie!” esclamò l’elfa, abbracciando l’uomo.
“Una cosa…” sussurrò Faramir, allontanando Estryd. “Torna viva da mio fratello… tornate entrambi da lui… non me lo perdonerà mai se dovesse capitarvi qualcosa… verrei io stesso con te… lo farei più che volentieri, ma non posso abbandonare mio padre… e i miei uomini contano su di me. Sono il loro Capitano… il loro sostegno… non posso lasciarli ora che la guerra incombe.”
“Comprendo perfettamente e non preoccuparti torneremo, vivi e incolumi.”

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Capitolo 23
*** CAPITOLO 23 - AREDHEL ***


Ciao a tutti!
Ecco un nuovo capitolo... spero vi piaccia! Commentate!
Kisses
J
***

Scappare da Gondor si rivelò più facile del previsto.
Seguendo scrupolosamente le indicazioni di Faramir, Estryd passò per vie secondarie, raggiungendo il possente cancello di legno e ferro. Durante il giorno veniva lasciato aperto per permettere ai mercanti di entrare ed uscire dalla Cittadella.
Il figlio del Sovrintendente, prima di far uscire Estryd dalle Case di Guarigione, le aveva consegnato degli abiti da mercante da indossare per confondersi tra il popolo di Gondor e poter così uscire dalla città, senza destare sospetti. Un lungo mantello con il cappuccio calato sul volto completava l’opera, camuffando i suoi tratti.
L’elfa percorse le strade, camminando a testa bassa e cercando di non attirare l’attenzione e, infatti, nessuno la guardò. A stento riusciva a trattenere un sorriso d’eccitazione; si fermò dietro un angolo, accanto ad una bottega di pellame… il cancello era proprio davanti a lei, pochi metri e sarebbe stata libera!
Respirò a fondo, guardandosi attorno. Una decina di soldati lo sorvegliavano, guardavano in volto chiunque lo oltrepassasse. Estryd era consapevole che non poteva uscire da sola senza insospettirli, una fanciulla mai si sarebbe allontanata dalla città senza la compagnia di un uomo. Erano tempi pericolosi e le guardie le avrebbero intimato di fermarsi, impedendole di uscire. Osservó la piazza, c'era gente ma nessuno l’aveva vista, nessuno che pareva intenzionato ad allontanarsi da Minas Tirith.
Attese alcuni minuti, senza trovare una soluzione al suo problema… non poteva proseguire. Nervosamente si guardava attorno, in cerca di una scappatoia, e poi li vide; un gruppo di venti, tra uomini e donne, stavano avanzando verso il cancello, parevano dei contadini… spingevano pesanti carretti e, seguendoli, si sarebbe confusa a loro; sarebbe stato perfetto. Con movimenti naturali, Estryd uscì dalla via e, camminando con disinvoltura, si aggregò al gruppo…
“Mi scusi, signora…” disse l’elfa rivolgendosi a una donna dai lunghi capelli rossi.
La contadina si voltò, guardando l’elfa e sorridendole cordialmente.
“Devo raggiungere i porti di Pelargir…”. Di sfuggita Estryd guardò le guardie, erano a pochi metri da loro… “Conoscete la via più breve?”. Il cuore martellava nel petto della bruna, era in prossimità del cancello e i soldati erano intenti a parlare tra loro; ma, con gioia, notò che non le rivolsero nemmeno uno sguardo.
“Certo, Milady…” rispose la donna, dilungandosi poi nella dettagliata spiegazione della via migliore per raggiungere i porti.
Ma Estryd non ascoltò; la voce della rossa risuonava lontana alle orecchie dell'elfa. Ormai aveva ottenuto il suo scopo; uscire da Gondor inosservata, il resto non le importava.
Li seguì per alcune miglia e, quando fu sufficientemente lontana dalla Cittadella, salutò la gentile donna, ringraziandola per la sua disponibilità. Svoltò a sud e, cercando di mantenere un passo tranquillo, si allontanò dalla via principale che conduceva nelle campagne limitrofe a Minas Tirith... gli occhi fissi sulla sua meta, il suo obiettivo: Mordor.
L'elfa sapeva che avrebbe dovuto camminare ininterrottamente per riguadagnare terreno e raggiungere Frodo e Sam. Il viaggio che la separava dai compagni non la spaventata; il suo spirito era alimentato da una nuova e ritrovata determinazione.
Dopo aver parlato e visto i soldati di Gondor combattere, Estryd era certa che sarebbero usciti vittoriosi dalla guerra. Non perché gli eserciti degli uomini fossero più numerosi o forti o meglio addestrati, ma perché i loro ideali e le loro speranze ardevano nei cuori di tutti. Gli uomini avrebbero vinto perché non si sarebbero mai arresi, certi che altri avrebbero preso il posto dei caduti e avrebbero continuato a combattere; fedeli nelle loro convinzioni.
Più si allontanava dalla Cittadella, più Estryd sentiva aumentare la propria sicurezza. Nelle orecchie rimbombavano i battiti del proprio cuore, sembrava un tamburo che segnava il tempo dei suoi passi.
Mentre camminava, ripensava alle ultime settimane e alle decisioni che aveva preso e che l'avevano condotta a Gondor. Aveva avuto dei dubbi, soprattutto all’inizio; ogni scelta compiuta era stata guidata dall’istinto, senza pensare alle conseguenze dei propri gesti. Era scappata da casa, senza lasciare un biglietto e senza dare spiegazioni... si sentiva in colpa per il padre e le preoccupazioni che gli aveva procurato. Questo prima di conoscere Boromir; dopo essersi innamorata, i timori che assillavano la mente di Estryd erano sfumati... tutto era diverso, ogni cosa era cambiata... aveva scoperto un nuovo sentimento: forte, invincibile, capace di realizzare qualunque cosa; aveva scoperto l'amore. Nonostante le incertezze iniziali, si era abbandonata ad esso… inoltre, ora, c’era un bambino che cresceva in lei e quella creatura era diventata la sua priorità.

Camminava da alcune ore e il sole brillava alto nel cielo; la strada che doveva percorrere era ancora lunga. Voleva raggiungere il limitare della foresta prima del tramonto poi, una volta raggiunta, avrebbe proseguito tra gli alberi, nascosta da occhi nemici.
Due ore prima che il sole cadesse dietro le montagne, Estryd raggiunse il bosco: le piante erano molto vecchie e, anche se le loro cortecce si erano ingrigite col tempo, erano ancora robuste, vive… avevano superato millenni…
Al crepuscolo, la stanchezza iniziò a farsi sentire; decise di accamparsi, il giorno seguente avrebbe ripreso il viaggio, rinvigorita da una notte di sonno. Cercando tra l’erba e gli arbusti, l’elfa raccolse alcuni rami e, ammassandoli, accese un piccolo fuoco per scaldarsi dal vento freddo che proveniva dalle montagne.
Accomodandosi accanto alla fiamma, stese le braccia per assorbire il calore del fuoco. Adorava osservare l’ipnotica danza dei fuochi, per Estryd era la cosa più rilassante… fin da piccola, nei pomeriggi piovosi, quando non poteva uscire con i fratelli nei giardini, si sdraiava nello studio del padre, davanti al caminetto e osservava le fiamme.
Respirò a fondo e si guardò attorno; il silenzio che la circondava era opprimente, il buio stesso prendeva vita e si dilatava attorno a lei. Non si muoveva nulla tra gli alberi, ogni cosa era ferma, congelata. Anche ascoltando con attenzione, l’elfa non riusciva a udire alcun suono: un battito d’ali di gufo o il muoversi furtivo di qualche animale. Niente.
Cercando di controllare la paura, Estryd si voltò nuovamente, osservando lo scoppiettare delle fiamme e perdendosi nei suoi pensieri. Il fuoco era piacevole, confortante: il calore le penetrava dentro, sfiorandole l’anima.
Sussultò: dei rumori attirarono l’attenzione della bruna che scattò in piedi, impugnando la spada che teneva legata alla cinta. Ascoltò con maggior attenzione; rami spezzati ed erba schiacciata… qualcuno, in sella a dei cavalli, si stava avvicinando. Prese della terra e, gettandola sul fuoco, lo spense. Senza perdere tempo, si nascose tra gli alberi, arrampicandosi con agilità su uno di essi. Rimase in attesa, cercando di non far rumore…
“Non penso sia arrivata così a sud.”
Estryd udì le parole dell’uomo.
“L’abbiamo cercata ovunque.” rispose una seconda voce, molto simile alla prima. “Tanto vale continuare anche per questa via… non voglio tralasciare alcun dettaglio…”
Si sporse per osservare meglio i viaggiatori, i volti erano coperti da cappucci scuri premuti sul loro volto. Ritraendosi, si avvicinò al tronco dell’albero… osservò i loro movimenti, il volto schiacciato contro la ruvida corteccia… un odore forte di erba inumidita raggiunse il fine naso dell’elfa.
“Guarda… quella cosa… è una brace…?” disse uno dei due, fermando il trotto del cavallo.
Estryd vide l'uomo smontare dalla sella e avvicinarsi a quello che rimaneva del fuoco che l’elfa aveva acceso alcune ore prima.
“E’ ancora caldo… chiunque abbia spento il fuoco è qui vicino.” concluse, dopo aver avvicinato la mano alle ceneri.
Anche l’altro uomo smontò dal cavallo e raggiunse l’amico, chinandosi sulla brace ed esaminandola.
“Hai ragione... non più di pochi minuti fa…” convenne l’altro, estraendo la spada dalla fodera e osservando la foresta con attenzione per captare movimenti sospetti.
Anche l’altro impugnò la spada e, fianco a fianco, si addentrarono nel bosco.
Estryd osservava i due viaggiatori, erano a pochi metri dall’albero dove si nascondeva. Cercava di non emettere un fiato; doveva essere silenziosa, non conosceva la natura dei due uomini e, per quello che ne sapeva, potevano essere nemici.
Una strana sensazione però prese il sopravvento in Estryd; aveva ascoltato con attenzione quelle voci e non erano del tutto estranee, le aveva ancora udite… ma non riusciva ad associarle a dei volti… nonostante tentasse, non riusciva.
Per vederci meglio, uno dei due, abbassò il cappuccio e mostrò finalmente il proprio volto. Illuminato dalla tenue luce lunare, Estryd riuscì a distinguere i tratti del viaggiatore: non poteva crederci!
“Elladan…?”
Spostò lo sguardo all’altro, anche se non lo vedeva in viso, era certa che si trattasse di Elrhoir.
Alzandosi in piedi, sul ramo, Estryd guardò i fratelli e, sorridendo, chiamò i loro nomi.
“Anche a distanza di anni, sono io la migliore a nascondino!” scherzò.
Con agilità saltò a terra.
“Estryd!?”
La voce raggiunse le orecchie dell’elfa e un brivido la percorse, scuotendo il corpo. Chiuse gli occhi; era da settimane che desiderava vedere un volto amico e, i due visi che si trovò davanti, la lasciarono senza parole.
Un sorriso radioso illuminò il volto della principessa che con voce calda, sussurrò un saluto.
In piedi, davanti alla sorella, i gemelli primogeniti di Elrond e Celebrìan di Gran Burrone ricambiarono il sorriso.
“Ti abbiamo cercata per giorni…” esclamò Elrhoir, correndo verso Estryd e stringendola con forza.
Anche Elladan raggiunse i fratelli e, con voce grave, aggiunse: “Nostro padre era in pena per la tua sorte… ci ha pregato di partire per cercarti e riportarti a casa. È preoccupato... dal giorno della tua fuga a stento dorme la notte… sei stata imprudente! Scappare senza lasciare nemmeno un biglietto! Ha temuto per la tua vita… anche noi eravamo in ansia per la tua sorte… Elrond ha solo noi. Te, Arwen, Alhena e noi…”
Le parole di Elladan ferirono la giovane principessa, che si sentì terribilmente in colpa. Aveva pensato solo a sé stessa decidendo di scappare e unirsi alla Compagnia; certa che ogni cosa sarebbe andata per il meglio, non si era soffermata sulle conseguenze delle proprie azioni.
“Mi dispiace… mi dispiace davvero tantissimo… ma Elladan… io…”
“Dovevi farlo…” concluse l’elfo, interrompendo la sorella, sapeva già cosa aveva spinto Estryd a partire. “E noi lo capiamo… ma perché sei venuta fin qua? Dove sono Aragorn, Legolas, Frodo e gli altri? Cosa ti ha spinta a Gondor?”
La giovane non rispose, le domande avevano tutte risposte molto precise, ma non era certa che ai fratelli sarebbero piaciute le sue parole.
“Perché hai lasciato Gran Burrone?” chiese infine Elladan.
“Nostra nonna… ha avuto una visione, tempo fa… non ho mai avuto scelta se non quella di partire… di assecondare il mio destino… non capite? Non posso tornare a casa… non posso arrendermi, non adesso che sono arrivata fin qui. Non adesso che sono così vicina, così coinvolta!”
Elladan aggrottò la fronte e, per rispondere allo sguardo del fratello, Estryd aggiunse, chinando il capo: “Temo la gabbia… sapere che la mia vita ha un significato, uno scopo, mi fa sentire viva… voi potete combattere, vi rendete utili sul campo e dimostrate la vostra forza e il vostro valore ogni giorno… ma io? Cosa mi resterà? Che contributo ho dato a questo mondo per renderlo migliore?”
“Parli di cose che non comprendi.” continuò Elladan, severo. “Cosa ti lega a questo paese? A questa guerra?”
“Io vivo in questo mondo! Questo non mi coinvolge già abbastanza?” urlò la bruna.
Elrhoir posò una mano sulla spalla del gemello e, guardandolo negli occhi, s’intromise nella discussione: “Non essere così duro con lei. Ha diritto di scegliere, come noi tutti. È una ragazza forte. Non ha bisogno della nostra protezione o del nostro consenso per fare alcunché… è cresciuta e può prendere le decisioni autonomamente.”
“Grazie!” esclamò Estryd, incrociando poi lo sguardo di Elladan con occhi di sfida.
“Estryd, siamo solo preoccupati… sei qui, sola… la guerra incombe su questa terra… la morte si sta avvicinando e il prossimo scontro coinvolgerà tutti noi… vogliamo solo il meglio per te…” Elladan s’interruppe. “Stai bene, vero?”
“Sì, sto bene… ho viaggiato fianco a fianco con la Compagnia per settimane, ma alle Cascate di Rauros siamo stati costretti a prendere via diverse…”. S’interruppe abbassando lo sguardo, non era certa di voler dir loro la verità. L’avrebbero ostacolata, decise di mentire… celare parte della storia. “Abbiamo avuto dei problemi… io ho seguito Frodo e Sam fino ad Osgiliath…”
“E poi?” domandò Elrhoir. “Cos’è accaduto? Come mai non sono con te i due Hobbit?"
“Un imprevisto mi ha trattenuta nella capitale per alcuni giorni…”
I due guardarono Estryd con occhi interrogativi e, per rispondere ai loro volti, l’elfa si slacciò la maglia che portava quel che bastava per mostrare loro la ferita alla spalla: “Prima di scappare dalla città una freccia mi ha colpita…” abbozzò un sorriso, sperando di non farli preoccupare. “Semplicemente non l’ho vista arrivare… sono stata curata e ora sto bene.”
Sfiorando la ferita della sorella, Elrhoir la osservò attentamente: “Sì… è stata curata bene…”. Avvicinò il volto alla cicatrice e annusò a fondo il taglio, poi aggiunse: “Non c’è alcuna traccia di veleno.” concluse, rialzandosi.
“Ero in ottime mani!” rispose Estryd, fingendo noncuranza. “Ora mi sto dirigendo a Est… spero di raggiungere Frodo e Sam prima che raggiungano Mordor… avranno bisogno di tutto l’aiuto possibile per raggiungere il Monte Fato.”
Non aggiunse altro, era sicura che, se avesse detto ai fratelli la verità sulla gravidanza, l’avrebbero costretta a tornare a casa e, dai loro sguardi, già intuiva che erano contrariati dal suo desiderio di raggiungere Frodo e seguirlo fino a Mordor.
“Sei stata imprudente! Osgiliath è caduta sotto il controllo nemico alcuni giorni fa… non dovevi avvicinarti così alla battaglia…” esplose Elrhoir.
“Torni a casa. Adesso.” convenne Elladan. “Qualunque cosa tu abbia visto nello specchio di Galadriel anni fa, non vale la tua vita.”
“No!” esclamò Estryd, alzando il tono della voce. Era la prima volta che la ragazza perdeva la calma tipica del suo carattere, i due la osservarono senza parole. “No! Non torno a casa! Non posso! Perché non capite?” s’interruppe un secondo, respirava con affanno. “Io non posso e non voglio tornare a casa! Gran Burrone è vuota! Abitata solo dai fantasmi delle persone che ci abitavano! I miei amici… i guerrieri partiti per la guerra e che mai torneranno… Gran Burrone ha visto nostra madre logorarsi… ha visto Alhena essere esiliata!”
I gemelli non replicarono, Estryd aveva ragione; la guerra stava distruggendo ogni cosa.
La gioia era sempre più ardua da trovare nei cuori degli elfi che, ormai senza speranza, abbandonavano le rive della Terra di Mezzo per recarsi nelle Terre Immortali.
“Alhena ha viaggiato al mio fianco, con la Compagnia… si è unita a noi a Moria… ci siamo separate alle cascate…”
“Hai visto Alhena?” chiese Elladan raggiungendo la sorella e, afferrandola per le spalle, la strattonò. “Hai visto Alhena? Sta bene? Dov’è ora? Perché non l’hai portata con te?”
Estryd rimase senza parole davanti alla reazione spropositata del fratello.
“Rispondimi!” aggiunse, urlando.
“Sì!” esclamò l’elfa, cercando di liberarsi dalla presa di Elladan. “S-sta bene…”
“Perché non è venuta con te? Perché non ti ha seguita? Dove si trova?”
Estryd non rispose: le domande di Elladan, parevano accuse mascherate da preoccupazione.
“Ho cercato di ristabilire un contatto con lei… erano anni che non la vedevo e… qualcosa in lei è cambiato… si è spezzato…” continuò Estryd, spostando lo sguardo da un fratello all’altro. “Non ho potuto fare altro… ho dovuto seguire Frodo… Alhena è in buone, anzi, ottime mani! Con lei ci sono Aragorn, Legolas e…” per un secondo s’interruppe al pensiero dell’amato. “Boromir.”
“Saranno a Rohan.” continuò Elrhoir pensieroso, incrociando lo sguardo del gemello.
“Sì… la guerra ha già raggiunto quelle terre e, se non sono qui, a Gondor, per certo saranno nel Mark.” aggiunse Elladan, voltandosi e raggiungendo il suo cavallo.
“Dove vai?” chiese Estryd, seguendo l’elfo.
“Da lei… sono anni che attendo questo giorno…” rispose Elladan, ormai già in sella, pronto per il viaggio.
Il cuore del giovane principe aveva bramato da tempo il giorno in cui avrebbe rivisto la sorella minore e, sapere che si trovava a Rohan, o avere anche solo la vaga speranza, lo riempiva di gioia.
“Elladan siamo venuti fin qui per una ragione: trovare Estryd e riportarla a casa…” disse serio Elrhoir. “Gli ordini di nostro padre sono stati chiari… portare Estryd a casa.”
“Parliamo di Alhena! È a Rohan! A soli due giorni di cavallo da qui…!”
“Non ne siamo sicuri, fratello.” lo interruppe.
“Ma se c’è anche solo una speranza… io devo andare… devo almeno tentare…” continuò.
Estryd, voltandosi verso Elrhoir, lo affrontò con tono sicuro: “Lascialo andare. Io non ho intenzione di tornare a casa e la vostra missione possiamo considerarla sfumata. Siete qui per aiutarmi? Non ho bisogno del vostro aiuto… io percorrerò la mia strada… ma, se Alhena avesse bisogno di voi? Io devo proseguire… non ho alternative…” concluse con convinzione, afferrandolo per le spalle.
Seguire la Compagnia era stato un gesto impulsivo e lo aveva compiuto senza riflettere, agendo d’istinto… a guidarla era stato l’irrefrenabile desiderio di allontanarsi da Gran Burrone, di vivere avventure e sentire che aveva realmente vissuto! Anche alle cascate, attraversando il lago con Frodo e Sam, non era stata una scelta ponderata… anche in quell’occasione era stata spinta dal desiderio di avventurarsi con loro, di scoprire e far avverare la profezia di Galadriel… ma, solo in quel momento, Estryd fu cosciente della libertà che avesse conquistato con quelle decisioni istintive: lei, e solo lei, avrebbe deciso cosa fare della propria vita, plasmando con le proprie mani il suo futuro.


Davanti allo specchio dell’alloggio che Thranduil le aveva assegnato, Alhena si stava preparando per partecipare alla grande festa organizzata per il solstizio d’estate. Non era entusiasta dell’idea; anche se negli ultimi mesi era stato molto gentile con lei, la giovane continuava a non fidarsi. Il cambiamento del sovrano era stato radicale: le aveva non solo concesso una camera degna di una principessa, abiti e gioielli, le aveva perfino chiesto scusa per la reazione spropositata avuta per la fuga di Gollum. La bionda aveva apprezzato quel comportamento, ma era sempre diffidente; aveva imparato a conoscere Thranduil ed era un elfo troppo volubile. Dava e toglieva senza scrupoli, semplicemente perché aveva voglia di farlo e perché poteva.
Per quella sera, il Sovrano le aveva donato un bellissimo abito color avorio, di seta e pizzo, con diverse pietre a ornare lo scollo. Alhena era rimasta senza fiato nel vederlo, mai in vita sua aveva ammirato un abito così bello, di una fattura incredibile…
“Per me?” le aveva chiesto la bionda, mentre sfiorava con le mani l’abito.
Era incredibilmente morbido e quella tonalità le sarebbe stata d’incanto.
“Sì.” rispose con il solito tono che mascherava una finta indifferenza. “Indossi sempre abiti così ordinari… questa sera ai miei festeggiamenti voglio vederti con questo… sei una principessa, dopotutto…” s’interruppe un secondo. “E poi, credo che con questo sarai passabile…”
L’elfa fece una smorfia; sapeva essere così irritante…
“Grazie!” rispose Alhena, ignorando le provocazioni di Thranduil. “A più tardi dunque.” concluse voltandosi per raggiungere le proprie stanze.
Ma la voce dell’elfo la raggiunse, beffarda: “Quell’abito vale un ballo con me.”
La bionda si voltò, replicando: “Odio ballare…”, ma Thranduil era scomparso.
Rassegnata, Alhena ritornò nella sua stanza: detestava ballare, soprattutto tra la gente. Temeva sempre di inciampare nell’abito che indossava o picchiare contro qualcuno, dimostrando la sua goffaggine…
Mentre si preparava, i suoi pensieri andarono al biondo sovrano. Dopo lo schiaffo, Thranduil era cambiato; era gentile e premuroso, diverse volte aveva invitato la giovane ad accompagnarlo durante le lunghe cavalcate nelle sue terre e, in ogni occasione, si era dimostrato un buon amico e ascoltatore.
Mentre si pettinava i capelli, per la prima volta, Alhena pensò a Thranduil e alle sue mani… durante la danza avrebbero sfiorato le sue, un brivido percorse il corpo della ragazza. Si sentì incredibilmente sciocca per queste reazioni che non riusciva a comprendere…
Un tocco delicato alla porta, interruppe i pensieri della giovane che, voltandosi, si avvicinò ad essa per aprirla.
“Legolas!” esclamò delusa e allo stesso tempo sorpresa nel vedere l’amico. “Che fai qui? Credevo che ci saremmo visti nei giardini…”
“Sì… ma volevo parlarti… hai tempo o sei impegnata? Posso tornare più tardi…”
I loro sguardi s’incrociarono, Alhena sorrise e non poté evitare di notare la grande somiglianza tra Legolas e Thranduil. Portava un abito color blu notte e argento, gli donava molto, facendogli risaltare i tratti del viso. Facendosi da parte, la bionda permise al principe di entrare nel suo alloggio. Al suo passaggio, l’odore inebriante dell’amico invase le narici dell’elfa; portava lo stesso profumo del padre.
“Sediamoci in terrazza… è una serata così calda…” esclamò la bionda, facendogli strada.
Il panorama della camera di Alhena era uno dei più belli che si potessero avere a Bosco Atro. L’alloggio era situato in una posizione tale da poter vedere oltre gli alberi della foresta… il fiume e, nelle giornate più limpide, acuendo la vista, si riusciva perfino ad ammirare il profilo della Montagna Solitaria.
Una volta accomodati su delle piccole poltroncine, Alhena osservò l’amico, in silenzio, in attesa che parlasse; ma non accadde. Legolas continuava a guardarla, stropicciandosi le mani nervosamente.
“Cosa devi dirmi?” chiese Alhena per incoraggiarlo.
“Sono preoccupato…” rispose sussurrando.
“Preoccupato?” gli fece eco l’elfa, senza comprendere le sue parole.
“Per mio padre…” rispose, restando sempre sul vago.
Lo sguardo di Legolas vagò tutt’attorno a lui. Guardava qualunque altra cosa, pur di non incrociare gli occhi di Alhena.
“Non comprendo… cosa ti turba?”
La giovane inclinò lievemente il capo e guardò l’amico, iniziava a essere preoccupata. Era evidente che qualunque peso gravasse sul cuore del principe di Bosco Atro era doloroso, un vero fardello dell’anima.
“Mia…” s’interruppe e prese fiato, deglutendo. “Mia madre…” chiuse gli occhi e strinse le labbra con forza.
“Continua… ti prego… puoi fidarti di me…”
“Mia madre è morta oggi, questo giorno…”
“Legolas… io… non lo sapevo…” sussurrò Alhena.
“E’ stata assassinata mentre passeggiava nella foresta, poco fuori le mura… non so cosa sia accaduto… ma un gruppo di orchi credo l’abbia vista e uccisa…” respirò a fondo. “Era disarmata... per loro sarà stato un gioco divertente…”
Alhena dischiuse le labbra per parlare, ma non una parola uscì dalla sua bocca; ogni parola sarebbe stata inutile…
“Stava raccogliendo dei fiori per ornare la sala dove si sarebbero tenuti i festeggiamenti quando…” lasciò la frase in sospeso, gli occhi del principe si riempirono di lacrime, il dolore ancora vivo in lui.
L’amico non aveva superato il lutto, Alhena si avvicinò a Legolas e, indecisa su cosa fare, allungò un braccio per sfiorargli il volto.
“Legolas…” sussurrò.
Con un movimento brusco, il biondo scansò l’amica e, avvicinandosi al parapetto, osservò il bosco.
“Io sto bene… supererò la sua perdita… sono più forte e questi avvenimenti mi danno la forza per combattere… ma mio padre…” scosse il capo. “Mio padre… sono preoccupato… organizza sempre feste fantastiche per festeggiare il Solstizio… ogni anno sempre migliori… cerca di non pensare alla sua morte… ma poi…” sospirò. “Lui sparisce, non sopporta questo giorno senza lei… si allontana e la raggiunge…”
“La raggiunge?”

“Sì… nella cripta…” s’interruppe. “Anche questa sera accadrà ed io sono impotente… non posso far nulla per aiutarlo…”
“Non so cosa dire… la tua dev’essere stata un’infanzia difficile…”
Alhena si avvicinò a Legolas e osservò il panorama, al suo fianco.
“Difficile è un eufenismo…” rispose ironico il principe, abbozzando un mezzo sorriso beffardo. “Dopo la morte di mia madre non ha più voluto vedermi. Mi ha abbandonato alle cure di una balia e, anche durante le poche occasioni che trascorrevo al suo fianco, lui non mi degnava di uno sguardo… per lui ero invisibile… e anche adesso lo sono.”
“Ti vuole bene…” sussurrò Alhena, nel tentativo di consolarlo.
“Ma non lo dimostra. Non lo ha mai dimostrato… gli ricordo lei.”
Intenerita, Alhena abbracciò Legolas; voleva dargli conforto. Meritava avere un’amica vicino in quel momento e lei era certa che avrebbe potuto essergli di grande aiuto.
Più tardi, durante i festeggiamenti, Alhena e Legolas danzavano in mezzo la pista, attirando l’attenzione dei presenti. A tutti era chiara la forte sintonia che legava i due elfi, mai il principe di Bosco Atro aveva danzato con una fanciulla e il suo sguardo non riusciva a nascondere il sentimento che iniziava a nutrire per la bionda.
“Tuo padre non si è visto.” sussurrò Alhena, guardandosi attorno mentre volteggiava tra le braccia di Legolas al ritmo della musica.
“Sì… credo che non parteciperà quest’anno ai festeggiamenti…”
Il pensiero di Thranduil, solo nella cripta della moglie, strinse il cuore nel petto di Alhena.
“Gli avevo promesso un ballo… mi ha donato quest’abito ed ha chiesto in cambio un ballo.” sussurrò.
“Non possiamo fare niente per lui… è una sua scelta, questa. Non riuscire a superare la morte di mia madre… Thranduil ha tutto: ha un popolo che lo stima e un figlio che lo ama… ma non è stato abbastanza. Nulla sarà mai abbastanza per lui!”
Alhena si fermò e, allontanandosi dal principe, chiese: “Dove si trova? Dove riposa il suo corpo?”
“Nel mausoleo… a sud delle scuderie…”
Alhena si voltò, ma Legolas l’afferrò per il polso: “Non vorrai andare da lui?” domandò irritato.
“E invece è lì che voglio andare…”
“Ti caccerà!”
“Voglio almeno tentare.”

L’aria odorava di fiori marci e le torce accese davano ai locali un’aria spettrale. I lamenti di Thranduil rimbombavano nelle sale della cripta, stava piangendo… imbarazzata, la principessa, non sapeva cosa fare… forse doveva andare, concedergli il suo spazio per soffrire… ma poi, le parole di Legolas, le tornarono alla mente; stringendo le mani a pugno, si fece forza e si avvicinò alla fonte dei rumori.
Voltando l’angolo, Alhena vide il Sovrano controluce.
Era in piedi, davanti alla statua che raffigurava l’amata, in mano stringeva dei fiori… il corpo era scosso da singhiozzi.
“Ti dovevo un ballo.” sussurrò la bionda, avvicinandosi a Thranduil.
“S-si è già fatta notte?” chiese, voltandosi e incrociando lo sguardo della giovane principessa.
Il sovrano di Bosco Atro rimase senza parole; erano anni che non sentiva il proprio cuore battere così forte. Era bellissima… Alhena era davvero stupenda.
“I balli sono iniziati già da alcune ore… non dovresti isolarti. Sei un elfo saggio… questo comportamento alimenta il tuo dolore…”
Mentre parlava, si avvicinò a Thranduil e posò le mani sulla sua schiena. Quel contatto le procurò dei brividi inaspettati…
“Comprendo il vuoto che la sua morte ha creato nel tuo cuore… nella tua vita… ma lei non avrebbe mai voluto questo per te… ti vorrebbe felice… vorrebbe il meglio per te e per vostro figlio…”
Thranduil non rispose, continuava a osservare, ipnotizzato, le labbra dell’elfa muoversi mentre parlava.
“Non hai nemmeno il coraggio di pronunciare il suo nome…” continuò Alhena.
“Non capisci… non è che mi manca la forza di chiamarla per nome… il fatto è che non voglio udire quel nome.” la corresse.
Sfidandolo, Alhena lo afferrò con forza per le sue braccia.
“Dì il suo nome!” ripeté Alhena, sfidandolo.
“L’abito che porti era suo… doveva indossarlo la sera della sua morte.”
“Non cambiare discorso… dimmi il suo nome!” lo incoraggiò nuovamente, alzando la voce.

“Ti sta benissimo…” continuò Thranduil, come se non fosse mai stato interrotto.
Il Re alzò le braccia e, con movimenti delicati, posò entrambe le mani sul collo della principessa. Sfiorandola, seguì la linea delle clavicole, fino a posare le mani sulle spalle di Alhena.
“Dimmi il suo nome!”
Voltandosi, Thranduil urlò irato: “Aredhel!”
Alhena rimase senza fiato; non si aspettava una reazione simile… osservò la schiena del Sovrano, senza proferire parola. Poi, con un movimento inaspettato, afferrò il volto di Alhena e, chinandosi verso di lei, la baciò.
La principessa rimase senza parole per quel gesto, avrebbe voluto muoversi, ma non aveva la forza per reagire. Le gambe le tremavano e il suo cuore batteva frenetico nel suo petto.
“Mi sto innamorando di te…” sussurrò il Sovrano di Bosco Atro, accostando le labbra all’orecchio della giovane elfa.


Elladan incitava il cavallo ad andare veloce, sempre più veloce… voleva raggiungere la capitale di Rohan, voleva vedere l’adorata sorella! L’animale, incitato dal padrone, sfrecciava nella prateria, superando ogni ostacolo che si presentava. Dalle notizie che aveva udito, il popolo del Mark era ritornato ad Edoras dopo aver vinto la battaglia al Fosso di Helm. Il viaggio sarebbe durato due giorni, forse uno e mezzo, se non avesse riposato… Alhena era così vicina…
Ferma al limitare della foresta, Estryd osservava la figura del fratello diventare sempre più piccola, fino a scomparire nell’oscurità della notte.
Congiunse le mani e le portò al petto; in pensiero per la vita di sua sorella e per quella dell’uomo che amava, del quale, in grembo, portava il figlio.
Posando una mano sulla spalla dell’elfa, Elrhoir esclamò convinto: “Io vengo con te, Estryd. Insieme raggiungeremo Frodo e lo aiuteremo a compiere la sua missione.”.
La giovane si voltò, incrociando lo sguardo dell’elfo. Facendosi seria e attenuando il tono della voce, sussurrò: “Non posso obbligarti a seguirmi…”
“Non mi stai costringendo… io mi sono offerto volontariamente. Sei mia sorella, Estryd… non lascerò che ti accada qualcosa…”
“Nostro padre sarà contrariato.” replicò Estryd. “Forse dovresti raggiungere Elladan e ritornare entrambi a casa… ma, se davvero la guerra ha raggiunto Rohan, avranno bisogno di tutto l’aiuto possibile… avranno anche sconfitto le forze di Saruman al Fosso… ma lo Stregone Bianco è astuto… è potente… non si lascerà sconfiggere con tanta facilità… combatterà ancora… cercherà di riottenere la fiducia di Sauron, sfoderando un nuovo attacco micidiale.” fece una pausa. “Io starò bene. Considerati libero di andare, di seguire Elladan…”
“Non posso…” iniziò a dire Elrhoir, ma la principessa lo interruppe.
“Puoi, invece.” respirò a fondo, guardando il fratello negli occhi. “La mia meta è ancora lontana… troverò la via percorsa da Frodo e Sam e li seguirò fino al Monte Fato. Meno siamo e meno probabilità avremo di essere scoperti.” sorrise, cercando di essere convincente. Poi, aggiunse: “Segui Elladan e insieme recatevi a Rohan… le vostre abilità in battaglia non devono essere sprecate.”
Avvicinandosi alla sorella, l’elfo sfiorò il suo volto con dolcezza; era davvero generosa e, il suo carattere, la rendeva forte ed impavida.
“Puoi dire qualunque cosa, mia cara Estryd… ma io verrò con te.”

I festeggiamenti per la vittoria contro gli eserciti di Saruman erano iniziati già da alcune ore e la musica e le risa raggiungevano la camera di Alhena. L’elfa si avvicinò alla finestra e si affacciò per spiare gli uomini; spalandole, la fresca brezza notturna sfiorò il volto della principessa. Il popolo del Mark si era radunato attorno a dei grandi fuochi, accesi lungo le vie principali della città; bevevano, ballavano e si divertivano. Le danze erano guidate dalle allegre melodie suonate dai musici e coinvolgevano chiunque: donne, uomini, anziani e bambini. Tutti erano felici e tutti erano grati per la vittoria ottenuta.
Alhena sorrise, osservandoli. Da molto non partecipava a dei festeggiamenti tanto sfarzosi… si sentiva coinvolta, comprendeva la loro gioia; avevano lottato per questo giorno e avevano perso amici e parenti… ma avevano resistito, ottenendo combattuto per la loro libertà.
Solo alcune ore prima, Eowyn era entrata nella stanza dove riposava, con sé portava un abito verde scuro con ricami dorati. La dama di Rohan sperava che, quel gesto, avrebbe convinto l’amica a unirsi a loro, ma aveva ricevuto un rifiuto.
Alhena, mentre osservava gli abitanti divertirsi nelle piazze e vie di Edoras, iniziò a pensare allo sbaglio che aveva commesso. Si stava comportando come Thranduil, legandosi al dolore e nutrendo sé stessa con quella sofferenza… ma non voleva finire come lui. Sospirò; era scappata da Bosco Atro la notte del Solstizio Estivo… aveva cercato di aiutarlo, non sopportava vederlo soffrire… ma, solo in quel momento, comprese quanto forte fosse l’angoscia che sentiva… si sentì così vicina a lui… il bel volto del Re riaffiorò nei suoi pensieri e, istintivamente, Alhena si sfiorò le labbra con le dita… il bacio che le aveva dato, l’aveva lasciata senza parole e, nonostante fossero passati alcuni anni, ancora non aveva trovato le parole; quella sera era rimasta impietrita. Avrebbe potuto dire o fare qualunque cosa; invece era scappata, spaventata da quel gesto inaspettato.
Dando le spalle alla finestra, la bionda si sentì sciocca per aver reagito in quel modo; la perdita di Haldir l’aveva segnata, ma doveva farsi forza.
Avvicinandosi al letto sfiorò la veste che Eowyn le aveva lasciato. La ragazza aveva ragione; avrebbe dovuto unirsi ai festeggiamenti per salutare ed onorare il sacrificio dei guerrieri caduti. E così avrebbe fatto.
Iniziò a slacciare la maglia che portava e si sciolse i capelli, facendoli ricadere sulle spalle e sulla schiena nuda. Afferrò un pettine e, in piedi davanti allo specchio, iniziò a spazzolarsi. Haldir non avrebbe voluto che si struggesse dal dolore, avrebbe voluto solo il meglio per lei. La voce dell’amico risuonò nelle orecchie di Alhena; calda, viva, solare… sorrise.
Una volta pronta, scendendo le scale verso il salone, l’elfa iniziò a riflettere sul suo comportamento... si sentiva in colpa, aveva ignorato il lutto dei suoi Compagni, concentrandosi solo sul suo…
Fermandosi sulla balconata, a metà della scalinata, Alhena osservò le danze. Sorrise, la serenità che percepita era contagiosa. Posò le mani sul parapetto e si sporse, osservando i presenti. Aragorn, Legolas e Boromir stavano bevendo della birra, seduti ad una tavolata sulla quale Merry e Pipino stavano danzando e cantando a gran voce.
Respirando a fondo, pregò di ottenere il loro perdono.
Mentre li raggiungeva, l’elfa cercava le parole migliori per esprimere la miriade di sentimenti che provava in quel momento… ma le parole non erano sufficienti… erano così insignificanti… avanzando tra le persone che ballavano, continuava a osservare gli amici. Erano a pochi metri da lei e ancora non aveva trovato le parole…
“Ciao…” sussurrò con un filo di voce, raggiunto il tavolo.
I tre si voltarono, Legolas sorrise. Ai suoi occhi l’elfa apparve come un miraggio…
“Alhena… che gioia vederti qui!” disse alzandosi e abbracciando l’amica.
“Voglio parlarvi… vorrei… vorrei scusarmi con tutti voi…” disse, tutto d’un fiato appena il principe la sciolse dall’abbraccio. “Sono stata egoista… sono stata accecata dal mio dolore e non ho compreso il vostro.”
“Eri legata ad Haldir.” s’intromise Aragorn, sorridendo all’amica. “Non dobbiamo perdonare nulla.”
“Ma anche voi...” continuò Alhena, guardando il ramingo negli occhi. “Ricordo le storie che mi raccontava sui suoi viaggi… tu, Aragorn, eri in molte di queste. Sei stato un buon amico per Haldir.” Poi, guardando anche Boromir e Legolas, aggiunse: “Tutti noi eravamo legati a lui da una profonda amicizia.”
Boromir afferrò il suo boccale e, alzandolo, esclamò: “Ad Haldir! Grande guerriero e straordinario amico!”
Legolas porse ad Alhena un calice, pieno di vino rosso.
“Ad Haldir!” esclamarono all’unisono Legolas e Aragorn, alzando anche loro i boccali.
Alhena, guardando il vino nel suo calice, vide il suo riflesso. Sorrise e, alzandolo, esclamò: “Ad Haldir… per sempre nei nostri cuori!”

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Capitolo 24
*** CAPITOLO 24 - LA CERIMONIA DEL NOME ***


Rieccomi qui con un nuovo capitolo!
Spero vi piaccia! Buona lettura!
J
***


La festa organizzata per la vittoria ottenuta contro le armate di Isengard fu piacevole; Alhena danzò tutta la notte con chiunque la invitasse. Diversi soldati, facendosi coraggio, chiesero alla bionda elfa il permesso di un ballo e la giovane non rifiutò nemmeno un invito. La musica continuò ininterrottamente fino a notte fonda; ma già dopo la mezzanotte, alcuni si erano ritirati per tornare nelle proprie case, per trovare riposo dopo le fatiche della battaglia, altri, invece, si erano addormentati sul pavimento o contro i muri. Tra loro c’erano anche Merry e Pipino che dormivano beatamente tra i guerrieri Rohirrim.
Mentre Alhena volteggiava in mezzo alla pista, vide Aragorn e Boromir, insieme a Gandalf, concentrati in una discussione dai toni seri, sussurravano piegati gli uni agli altri. Nonostante la curiosità, cercò di non prestare attenzione alle loro parole… qualunque fosse l’argomento in questione non era stata coinvolta e, di conseguenza, avrebbe cercato di rispettare il loro desiderio. Legolas la guardava in disparte; la schiena posata contro una colonna di marmo e lo sguardo corrucciato… la bionda sorrise…
Quando il ballo terminò, Alhena ringraziò il giovane cavaliere che, galantemente, le baciò la mano.
“E’ stato un piacere danzare con voi, mia signora.” sussurrò l’uomo guardandola negli occhi, incantato da tanta bellezza.
“Il piacere è stato mio… vi siete distinto in battaglia… avete dimostrato il vostro valore.”
“Mi… mi avete visto?” domandò il guerriero, imbarazzato e compiaciuto allo stesso tempo.
“Certo! Sei abile con la spada… hai difeso con coraggio la tua terra.”
“Anche voi, mia signora. Vi siete battuta con valore per difendere Rohan, la mia terra!” concluse il giovane, sfiorando con le dita la mano dell’elfa.
Poi, chinandosi, si congedò, allontanandosi con passo fiero.
Rimasta sola, Alhena si guardò attorno. Ormai non c’erano altri cavalieri con cui danzare; sbuffò, aveva ancora tanta energia… ballare l’aveva aiutata a scaricare l’ansia accumulata in quei giorni, la rabbia che provava si era consumata… dopo alcuni secondi, i musici deposero gli strumenti a terra e, stanchi per la notte appena terminata, seguirono l’ultimo cavaliere.
“Lo conosci…?” sussurrò Legolas, camminando alle spalle di Alhena.
La giovane principessa, voltandosi, sorrise all’amico e, stendendo entrambe le braccia, afferrò le mani dell’elfo e, attirandolo a sé, lo guardò negli occhi.
“Da quando il valoroso principe di Bosco Atro è geloso? Perché quella che provi è gelosia…” domandò. “Di cosa sei geloso? Di questi ragazzi?”
“Potrei esserlo…” rispose, chinandosi verso Alhena e baciandole la fronte.
Quel contatto fece rabbrividire la giovane, istintivamente si ritrasse: “Potrei rimediare danzando con te…” convenne, afferrando la gonna del proprio abito e inchinandosi con eleganza. “…ma, purtroppo, non c’è più musica ad accompagnare il nostro ballo.”
“E questo è mai stato un problema?” chiese Legolas, sorridente. “Io la musica la sento nel cuore…”
Alhena sorrise e, accettando l’invito, si riavvicinò all’elfo e, porgendogli le mani, iniziarono a danzare per la sala; lentamente, con eleganza… movimenti fluidi, come foglie spinte dal vento… si guardavano negli occhi, senza perdere il contatto visivo…
“Erano anni che non danzavamo insieme…” sussurrò Alhena, ripensando alla festa del Solstizio.
“Quella sera sei scappata da Bosco Atro… cosa è accaduto? Cosa ti ha fatta fuggire?”
Fingendo indifferenza, la bionda rispose con tono tranquillo: “Ho pensato che fosse la cosa migliore… ho abusato della vostra ospitalità per troppo tempo…”
“Non scherzare…” la interruppe Legolas. “Mio padre ed io ti abbiamo chiesto di restare da noi.”
“Mi dispiace…” continuò la bionda. “Ma non posso parlarne… non voglio parlarne…”
“Non ho capito le tue motivazioni… saresti potuta restare senza problemi… eri la benvenuta e lo sarai sempre… ma, non fraintendere le mie parole, quello che voglio che tu sappia è che, quella notte, qualcosa è cambiato in mio padre… qualunque cosa tu gli abbia detto, l’hai scosso dal torpore e ha sortito il suo effetto. È cambiato da allora… si è interessato nuovamente alla sua vita, al suo popolo… in lui ho finalmente ritrovato mio padre…”
Sentendo quelle parole, le labbra di Alhena abbozzarono un sorriso; dunque Thranduil era cambiato; la notizia le fece piacere… ripensare alla solitudine che avvolgeva il Re di Bosco Atro fece tenerezza alla giovane principessa… aveva cercato di aiutarlo, come meglio poteva, e, sapere che aveva ricominciato a vivere, la fece sorridere.
“Mi ha chiesto di te, quando mi sono recato a Pontelagolungo per affari… se ti avevo vista o se avevo delle informazioni su dove ti trovassi…” continuò Legolas.
“Davvero?” chiese Alhena, sorpresa, senza controllare l’emozione crescente.
“Sì, credo si sia affezionato a te…” il principe s’interruppe. Mille dubbi tormentavano la sua mente, impedendogli di trovare il coraggio per parlare. “Vorrei chiederti una cosa…”
“Cosa ti turba?”
“Alhena…” iniziò Legolas, ma voltò il capo; non sopportava di guardare gli occhi della bionda. Respirò a fondo e tentò nuovamente: “Alhena…”. Ma la voce gli si spezzò in gola.
“Che cosa vuoi dirmi?” la giovane si fermò, senza però lasciare la presa dalle mani dell’amico.
“Il bacio… il nostro bacio prima dello scontro con i mannari…”
Le guance dell’elfa avvamparono a quel ricordo, Legolas non poté evitare di pensare che fosse bellissima con le gote arrossate.
“Voglio sapere se era vero, reale… voglio sapere se provi anche tu questi sentimenti… questa attrazione… senti… senti il mio cuore…?” aggiunse Legolas, portando le mani di Alhena all’altezza del proprio cuore. “…lo senti come batte forte? Mi sembra che da un momento all’altro possa esplodere! Mi capita solo con te… quando siamo insieme…”
“Io…” non sapeva che rispondere. Già da giorni l'elfa si aspettava delle spiegazioni per quel bacio e aveva cercato di evitarle, ma gli doveva la verità. “Legolas… io ti voglio bene… davvero… te ne voglio… ti sei dimostrato un amico sincero in questi anni…”
“Non aggiungere altro.” la interruppe, facendo un passo indietro e alzando una mano, frapponendola tra lui e l’amata.
“Legolas…” sussurrò Alhena, gli occhi inumiditi dalle lacrime.
Dargli quel dolore era l’ultima cosa che voleva, ma non poteva mentirgli; non poteva e non voleva.
“Ti prego…” aggiunse l’elfo. “Non voglio sentire quelle parole che hai paura di pronunciare. Non ora quando i sentimenti che nutro per te sono così vivi…” la voce gli si spezzò nella gola, tossì per mascherare la sua debolezza. “La tua amicizia è importante… ho creduto di vedere qualcosa che però non esisteva. Ora va a riposare… sei stanca e domani dovremo prendere decisioni importanti…”
L’elfa non aggiunse altro; era chiaro che quelle parole procuravano un forte dolore a Legolas. Cercò di sorridere, ma quella che apparve sul suo volto fu solo una mezza smorfia… chinando il capo, si congedò dall’amico e, allontanandosi dalla sala con passo tranquillo, s’incamminò verso la sua stanza per riposare, turbata per la conversazione appena avvenuta.
Cercando di mantenere la calma, Alhena allontanò quei pensieri dalla mente… il giorno seguente si sarebbe discusso circa le sorti della Compagnia; avevano trovato Merry e Pipino ed ora erano in salvo, sicuri tra le mura di Edoras… ma la loro missione non era conclusa. L’Anello era sempre più vicino al Monte Fato e le armate di Mordor si sarebbero movimentate contro Gondor… sospirò; le varie pedine erano state ormai poste sulla scacchiera, ferme, in attesa del momento più opportuno per compiere la prima mossa.
“Alhena!” la voce di Boromir raggiunse l’elfa dalle spalle, interrompendo i suoi tetri pensieri.
Fermandosi, si voltò, aspettando che l’uomo la raggiungesse.
“Vorrei parlarti…” continuò, raggiungendola.
“Parlarmi?” domandò lei. “Riguardo cosa?”
Non aveva mai chiacchierato con Boromir, se non per necessità. Di lui conosceva solo il grande valore sul campo di battaglia e l’amore che lo univa a sua sorella, ad Estryd.
Sistemandosi una ciocca ribelle di capelli dietro l’orecchio, Alhena guardò Boromir, aspettando che le parlasse.
“Che devi dirmi?” lo incoraggiò.
Guardandosi alle spalle, si assicurò che nessuno li avesse seguiti o che potesse origliare. Alhena sospettò che, qualunque fosse l’argomento, era una questione particolarmente delicata per richiedere tante accortezze.
“Non qui…” disse sussurrando Boromir. “Seguimi… discutiamo fuori…”
Senza obbiettare, Alhena seguì il guerriero di Gondor per le vie del palazzo fino ad arrivare sulla terrazza, fuori dal portone principale.
La brezza soffiava fresca da nord e il cielo notturno era limpido; si vedevano milioni di stelle brillare e la luce lunare illuminava il volto dei due. I fuochi della città ormai erano spenti, non una luce brillava per le vie o nelle case di Edoras.
Un soffio pungente fece rabbrividire l’elfa che, infreddolita, si strinse nelle spalle; la veste che indossava era troppo leggera per le temperature rigide del Mark. Con un gesto galante, Boromir offrì il proprio manto ad Alhena, posandolo con dolcezza sulle sue esili spalle.
“Grazie…” sussurrò la bionda, abbozzando un timido sorriso.
L’uomo si voltò e, guardando l’orizzonte, tacque. Pareva aver perso ogni intenzione di parlare...
“Boromir…” lo chiamò l’elfa. “Ora siamo soli… puoi parlarmi, ti ascolto…”
Il guerriero respirò a fondo e, girandosi, incrociò lo sguardo di Alhena.
“Sono preoccupato per tua sorella.”
“Estryd?” chiese Alhena, avvicinandosi all’uomo e posando le mani sulle sue spalle. “Avete saputo qualcosa che io ignoro?”
“No… non conosciamo nulla sulla sua sorte e di quella di Frodo e Sam… ciò che provo è più che altro un presentimento…” respirò a fondo. “L’altra notte ho avvertito qualcosa…” s’interruppe.
Il ricordo del dolore che lo aveva invaso era indescrivibile.
“Cosa? Cosa hai avvertito?” chiese la bionda con voce tremante.
“Non riesco a comprendere nemmeno io cosa sia accaduto… un dolore improvviso mi ha colpito… mi sono sentito mancare il fiato…” sussurrò Boromir. “Ora sto meglio… ma sono terribilmente preoccupato… Estryd ha intrapreso la via più dura seguendo Frodo…”
Alhena si accomodò per terra e fece segno all’amico di imitarla.
“Avrei dovuto seguirla…” concluse il guerriero, con tono rassegnato, crollando al fianco dell’elfa e prendendo il capo tra le mani. “Se le dovesse capitare qualcosa… se dovesse capitare qualcosa ad Estryd… io dovrei essere al suo fianco! Per proteggerla! Io la amo! Senza di lei la mia vita… la mia vita…” ma non riuscì a terminare la frase.
Alhena comprese lo strazio che assillava la mente e lo spirito del guerriero, amava sua sorella e le sue preoccupazioni erano giustificate. Stendendo un braccio, afferrò la mano dell’uomo e la strinse con forza, incrociando il suo sguardo, nel tentativo di confortarlo.
“Hai fatto una scelta alle Cascate. Hai deciso di proseguire per la via di Rohan… di seguirci per aiutare gli Hobbit.”
“E lo rifarei… è stata la cosa giusta da fare.” convenne Boromir, risoluto.
“Abbiamo compiuto la nostra missione, nessuno ormai ti obbliga a percorrere una via diversa da quella che il tuo cuore brama… puoi tentare la strada per Mordor… sei abile a seguire le tracce, troveresti mia sorella in pochi giorni e potrai aiutarla… aiutare lei, Frodo e Sam.” sussurrò Alhena.
“La via che mi suggerisci è quella che desidero…” s’interruppe un istante. “Ma non cambio idea… presto fede alle mie decisioni… la guerra incombe su ogni nazione libera… la prossima ad essere attaccata sarà Gondor e Minas Tirith avrà bisogno della guida dei suoi Comandanti, mia e di mio fratello. Il mio popolo ha fiducia in me, per anni i soldati della Cittadella hanno combattuto e sono morti seguendo i miei ordini… loro mi seguiranno, combatteranno per difendere la loro amata terra! Non posso abbandonarli… non posso…”
“Dunque ora tornerai a Gondor?” chiese Alhena.
“Sì, credo sia la cosa migliore. Gandalf ne stava discutendo con Re Théoden questo pomeriggio… gli orchi di Mordor si sono mobilitati… hanno già conquistato Osgiliath…”
“E Minas Tirith sarà il prossimo obbiettivo di Sauron…” concluse Alhena, consapevole della gravità della situazione.
L’elfa volse lo sguardo a sud, verso la città di Minas Tirith; se compiuto, l’attacco di Sauron sarebbe stato micidiale. Avrebbe svuotato le sue terre per cercare di conquistare l’ultima grande città umana ancora libera… se la Cittadella sarebbe caduta nelle mani nemiche, anche le altre terre libere sarebbero andate distrutte; una a una, nulla sarebbe sopravvissuto al passaggio degli orchi di Mordor.
“Estryd sta bene…” disse Alhena. “Lo sento. Ne sono sicura…” respirò a fondo. “Ora riposiamo… domani ci aspetteranno discussioni importanti e la strada che separa Rohan a Gondor è lunga.”
Boromir fissò smarrito il panorama, il desiderio che le parole di Alhena corrispondessero al vero era indescrivibile… non poteva averla persa… non poteva aver perso il suo amore prima del tempo… l’uomo chiuse gli occhi, cercando di arrestare le lacrime che avanzavano per i tetri pensieri che assillavano la sua mente… avevano già così poco tempo a loro disposizione…
Diede le spalle all’elfa, rimase fermo; non era pronto per rientrare… un altro dubbio, un altro pensiero, assillava la sua mente.
Voltandosi, Alhena intuì i turbamenti dell’uomo. Si fermò, guardandolo attentamente. Una crescente oppressione al cuore feriva l’elfa; comprendeva Boromir e lo commiserava.
“Boromir…” lo chiamò, attirando la sua attenzione e distraendolo dai suoi pensieri.
L’uomo guardò la bionda, Alhena gli sorrise amabile: “Entriamo, ormai è notte inoltrata… non appena il sole sorgerà, illuminando i cieli e i nostri cuori, anche le tue preoccupazioni spariranno.”
Ricambiando il sorriso dell’elfa, Boromir la raggiunse e stringendo le sue mani, la guardò negli occhi. Mai Alhena aveva visto uno sguardo così penetrante…
“Promettimi una cosa…” sussurrò il Comandante, senza distogliere lo sguardo.
“Che genere di promessa?”
“Alhena… io…” prese fiato. “Io amo tua sorella ma…” s’interruppe.
L’elfa comprese i pensieri dell’uomo e, forse con troppa durezza, disse: “Morirai… e lei non potrà far altro che piangere per sempre sulla tua tomba.”
Quelle parole sortirono l’effetto di una frustata che colpì Boromir dritto al cuore, lasciò la presa dalle mani della giovane e indietreggiò di due passi, come se la distanza lo aiutasse a difendersi dalla cruda realtà.
“Lo sai questo, vero?” insisté Alhena, avanzando verso l’uomo. “Tu morirai ed Estryd rimarrà sola… resterà viva per tutte le ere di questo mondo… vivrà con il vuoto nel cuore e l’ombra della morte dipinta sul volto…”
“Non dire questo…” sussurrò Boromir, voltando il capo.
Con furia, Alhena affrontò il guerriero, spingendolo contro il muro di pietra del palazzo, le mani posate contro il suo petto per impedirgli di divincolarsi dalla sua stretta. Lo guardò negli occhi: “Sì! Devo dire queste cose! Voglio che ti sia ben chiara la situazione! Perché lei ti ama! Perché ha deciso di amarti, nonostante la tua mortalità! Estryd ha deciso che questi pochi anni insieme valessero la pena… ha deciso che il vostro amore valesse un’immortalità di sofferenza, di solitudine, di dolore! Perché lo sai, vero?” l’elfa s’interruppe, riprendendo fiato. “Lo sai?” domandò nuovamente all’uomo che rimase in silenzio. “Per il vostro amore, lei sarà la sola a soffrire.”
“Io la amo.” mormorò Boromir, la voce rotta in gola.
L’uomo non riusciva a comprendere le ragioni che spingevano Alhena a dire quelle cose; non era ingenuo, era consapevole che sarebbe morto e che Estryd sarebbe vissuta per sempre… ma quelle cattiverie… perché di questo si trattava: di pura crudeltà.
“Sì.” concluse Alhena, allontanandosi da Boromir e stendendo le braccia lungo il suo corpo. “Sì.” ripeté la bionda, abbozzando un mezzo sorriso. “E’ mia sorella… non l’abbandonerò; sarò al suo fianco e in me troverà conforto per tutti i lunghi anni del suo lutto.”
A stento l’elfa riuscì a trattenere le lacrime, amava Estryd… amava tutti i suoi fratelli e sorelle e per loro desiderava solo il meglio. Per loro desiderava solo gioia e bei momenti.
“Grazie.” sussurrò Boromir.
Annuendo, Alhena strinse le labbra con forza, trattenendo il fiume di parole che stavano per straripare dalla sua bocca; ogni altra parola sarebbe stata superflua. Abbozzò un sorriso, nel tentativo di rincuorarlo.
“Buona notte, Boromir.” concluse l’elfa, voltandosi per ritornare nella sua stanza.
Mentre osservava la bionda allontanarsi, Boromir comprese che la severità delle sue parole… la sua non era cattiveria gratuita, Alhena stava dicendo la verità che, come spesso accade, è crudele e ti ferisce colpendoti direttamente al cuore… capì che aveva parlato da vera amica; voleva essere certa che fosse consapevole del destino che avrebbe dovuto affrontare Estryd per amore… voleva che fosse consapevole del loro futuro… del triste futuro che l’amata avrebbe vissuto per aver scelto un compagno mortale.

“Nessuna notizia di Frodo?” chiese Aragorn, sussurrando per non svegliare i soldati che dormivano nella sala dei festeggiamenti.
“Nessuna. Niente.” rispose lo stregone, scuotendo il capo con rassegnazione.
Aragorn, Legolas e Gandalf si erano spostati in disparte e stavano parlando, le sorti del Portatore erano importanti, cruciali per la buona riuscita della battaglia.
“Abbiamo tempo. Ogni giorno Frodo é più vicino a Mordor.” convenne Aragorn risoluto.
Le speranze di tutti loro erano appese ad un filo e, più precisamente, erano poste su Frodo… se avesse fallito, il Mondo intero, l’intera Terra di Mezzo, sarebbe stata sconfitta… sarebbe caduta nelle mani di Sauron e ogni cosa sarebbe sfumata. Dolore, disperazione, morte; questa sarebbe stata la sorte del mondo. Solo ombra.
“Ne siamo certi?” chiese Gandalf, scrutando lo sguardo chiaro del ramingo.
“Cosa ti dice il tuo cuore?”
“Che Frodo é vivo.” rispose lo Stregone sorridente, annuendo. “Sì. Sì, é vivo.”
“Dunque abbiamo ancora speranza…” s’intromise Legolas nel discorso.
“La speranza è l’unica cosa che ci rimarrà anche nei giorni più cupi.” convenne saggiamente Gandalf. “Ora riposiamo… recuperiamo le forze e la sobrietà… domani mattina il Re ha indetto un Consiglio… dobbiamo avere la mente lucida.”

Delle urla colme di terrore rimbombarono nelle ale del palazzo, raggiungendo la stanza assegnata ad Alhena. L’elfa sobbalzò nel letto, svegliandosi. Afferrando un lungo manto scuro e senza perdere altro tempo, corse verso la porta e, seguendo le voci, raggiunse la sala dove si erano tenuti i festeggiamenti.
I fuochi erano stati accesi e gli uomini si erano svegliati; tutti guardavano nello stesso punto, incuriositi da quanto accadeva.
Avanzando tra i soldati, Alhena vide Pipino steso a terra. Era sudato, spaventato… gli occhi sfuggenti che scrutavano ogni cosa attorno a lui, anche se pareva non vedessero nulla.
“Guardami. Che cosa hai visto?”
Gandalf, chino sullo Hobbit, teneva il suo volto tra le mani; la giovane non aveva mai visto lo stregone così preoccupato.
“Un albero… c'era un albero bianco in un cortile di pietra… era morto… la città era in fiamme…” farfugliò lo Hobbit.
Boromir raggiunse Alhena e, posando una mano sulla spalla dell’elfa, la fece voltare.
“Che cosa accade?” chiese la bionda, sussurrando all’orecchio del compagno, bramosa d’informazioni.
“Pipino ha guardato nel Palantìr.”
“Cosa ha fatto…?” chiese incredula l’elfa, spostando lo sguardo verso lo Hobbit e lo stregone. Iniziava a comprendere la preoccupazione di Gandalf; quel Palantìr, rubato dalla fortezza di Saruman, era uno strumento antico e permetteva al signore di Isengard di comunicare con Mordor, con Sauron.
“Minas Tirith… è questo che hai visto?” chiese Gandalf, avvicinando il volto a quello di Pipino.
“Ho visto…” lo Hobbit prese fiato, deglutendo la saliva, ancora troppo spaventato per parlare con calma. “Ho visto lui. Sentivo la sua voce nella mia testa.”
Legolas e Aragorn si scambiarono uno sguardo d’intesa, annuendo; l’intera missione di Frodo era in pericolo.
“E cosa gli hai detto? Parla!” lo incoraggiò Gandalf, con toni severi.
“Mi ha chiesto il mio nome. Non ho risposto… mi ha fatto male.”
“Cosa gli hai detto di Frodo e dell'Anello?” insisté lo stregone.
“N-nulla…” concluse Pipino, prima di perdere i sensi.
Alhena, seguita da Boromir, si avvicinò agli altri membri della Compagnia; erano stati molto fortunati e tutti ne erano consapevoli. Lo Hobbit avrebbe potuto rivelare ogni cosa, ogni piano congeniato… avrebbe potuto rivelare la posizione di Frodo e dell’Anello… ma si era dimostrato forte, sorprendendo tutti… erano stati davvero molto fortunati.
“Abbiamo rischiato di fallire… di perdere tutto!” sussurrò Boromir a denti stretti, cercando di trattenere la rabbia.
“Calmati…” disse Aragorn, posando una mano sulla spalla dell’amico.
“Calmarmi? Estryd è con Frodo! Sta rischiando la vita per salvarci tutti e… lui…” lo indicò con disprezzo. “…ci avrebbe serviti su un piatto d’oro!”
“Boromir calmati… non ha detto nulla a Sauron.” lo ammonì Alhena, affrontando il guerriero, incrociando il suo sguardo.
Il Comandante respirò a fondo, nel tentativo di riprendere il controllo: “Scusate… scusate la mia reazione… ma non possiamo commettere errori. Non ci possiamo permettere questo lusso… Estryd, Frodo e Sam stanno rischiando la loro vita! Dobbiamo aiutarli in tutti i modi possibili! Ha commesso un errore, ma non possiamo sbagliare ancora…”
Aragorn annuì, concordava con le parole di Boromir; erano stati davvero fortunati e, fortune simili, non capitano due volte.
“Di certo ha capito i suoi errori e non li ripeterà…” concluse Alhena. “sarebbe potuto capitare a chiunque… anche a me.”
“Come possiamo essere certi che non ha rivelato nulla? Abbiamo solo la sua parola!” continuò Boromir. “Non sono sicuro di volerci credere…”
Gandalf, tossicchiando, s’intromise nella discussione: “Non c'era menzogna negli occhi di Pipino.”
Lo stregone avanzò verso gli amici e, guardando negli occhi il Comandante di Gondor, aggiunse: “Uno sciocco, ma uno sciocco onesto lui rimane. Non ha detto niente a Sauron di Frodo e dell'Anello.” fece un’altra pausa, mentre camminava tra i presenti. “Siamo stati fortunati. Pipino ha visto nel Palantír una traccia dei piani del Nemico. Sauron si muove per colpire la città di Minas Tirith. La sconfitta al Fosso di Helm ha mostrato una cosa al nostro Nemico: sa che l'erede di Elendil si é fatto avanti. Gli Uomini non sono deboli come immaginava. C'é ancora coraggio. Forza a sufficienza per sfidarlo, magari. Sauron teme questo. Non rischierà che i Popoli della Terra di Mezzo si uniscano sotto un'unica bandiera. Ridurrà Minas Tirith al suolo, piuttosto che vedere un Re tornare sul trono degli Uomini. Se i segnali di Gondor sono accesi, Rohan deve prepararsi alla guerra.”
Con sorpresa dei presenti, Théoden avanzò verso Gandalf, scansando alcuni uomini della sua guardia. 
“Dimmi, perché dovremmo correre in aiuto di coloro che ce l'hanno rifiutato? Cosa dobbiamo a Gondor?” domandò con disprezzo.
Tutti lo guardarono sorpresi; era chiaro che l’assenza sul campo di battaglia delle truppe di Gondor, avevano lasciato un segno nell’orgoglio del sovrano del Mark.
“Io andrò.” disse Aragorn, avanzando verso il Re di Rohan.
“No!” disse risoluto Gandalf, contraddicendo il ramingo.
“Ma vanno avvertiti.” replicò il ramingo agitato, rivolgendosi allo stregone.
“E lo saranno. Andrai a Minas Tirith per un'altra strada. Segui il fiume. Cerca le navi nere. Tenete a mente: ci sono cose ora in movimento che non possono essere disfatte. Io cavalco verso Minas Tirith… E non ci andrò da solo.” concluse guardando Pipino.
Alhena seguì la discussione dei due in disparte; aveva capito a cosa alludesse Gandalf… ormai era giunta l’ora per Aragorn di abbandonare la sua vita di ramingo e di abbracciare il suo vero destino: diventare Re.
Quella stessa notte, senza perdere tempo, lo stregone partì per Minas Tirith, portando con sé anche Pipino. Il tempo stava scivolando dalle loro mani; lo scontro finale era ormai prossimo.
“Perché non partiamo anche noi? Perché non seguiamo Gandalf?” chiese Boromir, guardando i compagni.
“Nessuno ti obbliga a restare…” convenne Aragorn. “Sei libero di seguirlo, se lo desideri.”
Boromir rimase senza parole, non si aspettava una risposta simile. Annuì e avanzò per la sala, seguendo Gandalf.
“Aspetta!”
Tutti si voltarono verso Alhena che, raggiungendo il Capitano di Gondor, lo fermò, afferrandolo per un braccio.
“Non partire…” aggiunse.
“Perché? Perché non dovrei?”
“Comprendo il tuo desiderio di tornare a casa… ma hai deciso di far parte di questa Compagnia… non andartene ora… anche noi raggiungeremo Gondor, ma non prima d’aver aiutato Aragorn…”
“Aiutato?” le fece eco Boromir, guardando l’amico. “Aiutarlo a far cosa?” chiese rivolgendosi direttamente al ramingo.
“A percorrere la strada per il Dimholt…” rispose Aragorn, facendosi serio e abbassando lo sguardo.
“Seguire la via per la porta sotto la montagna?” chiese Boromir, sconvolto da quell’affermazione. “E’ follia! Conosco le leggende… non ti seguiranno mai… sono traditori… tutti loro!”
“Sono l’Erede di Isildur… vorrei almeno tentare…” concluse Aragorn, superando i compagni e sparendo oltre la porta per raggiungere le scuderie.
Rimasti soli, Boromir guardò Legolas e Alhena, era chiaro che i due appoggiavano la decisione del ramingo. Sbuffò; non sapeva cosa fare. Da un lato avrebbe percorso la via per Gondor insieme a Gandalf, per riunirsi il prima possibile al suo popolo, ma dall’altro sapeva che la cosa migliore era seguire Aragorn. Lo stimava e sarebbe stato un grande Re per Gondor.
“Che vuoi fare?” chiese Alhena, distraendolo dai suoi pensieri.
“Io… non sono sicuro…”
“Dovresti prendere una decisione, Boromir…” s’intromise Legolas.
Voltandosi e dando le spalle ai due elfi, Boromir rifletté su cosa fare. Non era ancora certo di quale fosse la via migliore, ma avevano ragione; una decisione doveva essere presa e il tempo che aveva a disposizione non era molto.
Chiuse gli occhi, pensando ad Estryd; per lui c’era anche un’altra strada e questa tentava il cuore del Comandate più delle precedenti… avrebbe seguito le tracce dell’amata e, una volta trovata, avrebbe percorso la via per Mordor con lei, Frodo e Sam… ma temeva che la tentazione di possedere l’Anello si sarebbe fatta viva nuovamente in lui.
Respirò a fondo, c’era una sola cosa da fare…
“Verrò con voi.” concluse Boromir, incrociando lo sguardo dei due immortali. “Prepariamoci. Non abbiamo tempo da perdere.”
Sorridendo, Alhena raggiunse l’uomo e lo abbracciò: “Hai preso la decisione giusta!” sussurrò al suo orecchio, riconoscente.

L’alba aveva illuminato i cieli di Gondor e il profilo dell'Ephel Dúath appariva tetro; un’ombra scura aleggiava sopra Mordor. Estryd rabbrividì, da qualche parte sotto quei cieli scuri si trovavano i due piccoli Hobbit; soli, con Gollum, e questo la spaventava ancora di più…
I due elfi si erano messi in viaggio già da alcune ore e, nonostante Estryd avesse riposato e bramasse dal desiderio di raggiungere Frodo, faticava a tenere il passo del fratello; era stanca, si sentiva priva di energie…
“Stai bene?” domandò preoccupato Elrhoir, guardando la sorella in volto.
Era pallida e boccheggiava.
“Forse dovremmo riposare.” continuò, raggiungendola e obbligandola a fermarsi.
“No… sto bene.” rispose, fingendo indifferenza. Poi, nel tentativo di tranquillizzare il fratello, aggiunse con tono pacato: “Non avresti dovuto venire con me! Dovevi seguire Elladan… andare a Rohan… la via che intraprenderò è ardua…”
“Hai forse dei dubbi sul mio valore?” domandò ilare Elrhoir, guardando la sorella negli occhi.
Sorridendo, l’elfa spinse il fratello con fare giocoso: “Sai che non intendevo questo… ma temo per te… per la tua vita!”
“Dolce sorella mia…” sussurrò sorridendo l’elfo. “Sono io che temo per la tua vita…” respirò a fondo e aggiunse: “Ho affrontato diverse battaglie e non vorrei essere altrove se non qui, con te. Ci guarderemo le spalle a vicenda fino a quando non raggiungeremo Frodo e Sam… poi, insieme scaleremo il Monte Fato e getteremo l’Anello nelle sue fiamme. Puoi contare su di me.”
“Non vedo l’ora che questo incubo finisca…” sospirò. “Mi manca casa… mi manca Gran Burrone… sento la nostalgia della mia stanza… delle mie cose… a volte mi chiedo se ho fatto la scelta giusta a partire.”
“E’ normale… ma ora siamo insieme. Ci possiamo supportare a vicenda…” fece una pausa: “Non voglio altre discussioni in proposito; sai benissimo che hai bisogno del mio aiuto e io sarò al tuo fianco, sempre…”
Estryd guardò il fratello; era difficile ammetterlo, ma gli era riconoscente per essere restato al suo fianco. Credeva nella propria forza e nelle proprie capacità ma, sapere di avere un amico, un fratello, accanto la faceva sentire ancora più sicura… ancora più fiduciosa sulla buona riuscita della missione.
Senza volerlo e senza riuscire a controllarsi, le si riempirono gli occhi di lacrime. Sentendosi sciocca, chinò il capo, per cercare di nascondere la sua debolezza… si asciugò le guance con la mano, augurandosi che Elrhoir non si fosse accorto di nulla.
Respirano a fondo, Estryd incrociò lo sguardo dell’elfo e, afferrandolo per la maglia, lo avvicinò, abbracciandolo con forza e affondando il volto nella sua scura chioma.
Elrhoir carezzò la nuca della sorella e, baciandola, disse: “Mi sono sempre sentito responsabile nei tuoi confronti…”
“Te ne sono riconoscente…” sussurrò lei.
“Sai che non ti avrei mai permesso di proseguire da sola, sorellina… soprattutto perché sei incinta!”


Estryd ha sempre incarnato le qualità della perfetta principessa: gentile con chiunque e disponibile verso i più deboli. È stata educata con sani principi; i suoi genitori avevano grandi aspettative per la loro bambina che, fin dall’infanzia, aveva dimostrato il suo valore e la sua saggezza.
Nacque la notte del primo giorno di primavera, il lieto evento fu accompagnato da una pioggia di stelle cadenti che, sfrecciando nel cielo, lo illuminarono creando scie argentate. Tutti erano d’accordo: la più giovane delle principesse di Gran Burrone era una neonata bellissima, con grandi occhi verdi e capelli color della terra.
Il parto fu particolarmente difficile per la Regina di Gran Burrone e, solo grazie alle conoscenze della Dama di Lothlorien, riuscì a superare il parto senza che la propria luce svanisse.
I festeggiamenti, dunque, si dilungarono per settimane; tutti erano felici per il lieto evento e per la buona salute della Regina. La notizia attraversò ogni regione della Terra di Mezzo: dall’estremo nord, terra dei raminghi, fino a sud.
Come la tradizione voleva, al compimento del primo mese di vita della piccola si sarebbe tenuta la Cerimonia del Nome durante la quale, i genitori, scrivevano il nome della figlia su un nastro di seta e, legandolo alla zampa di una colomba, la liberavano nel cielo notturno. L’animale avrebbe viaggiato per alcuni giorni, per poi ritornare al punto di partenza, dove sarebbe stata liberata dal fardello.
Elrond e Celebrìan avevano parlato per settimane nel tentativo di trovare il nome che meglio rappresentasse la piccola. In quel mese avevano imparato a conoscerla; era una scelta importante… il nome che le avrebbero dato doveva riflettere lo spirito nella neonata.
Fin dai primi giorni, avevano capito che la bambina sarebbe divenuta una giovane elfa forte e determinata, ma anche solare, disponibile e gentile… la degna figlia dei signori di Gran Burrone.
“Estryd…” sussurrò Celebrìan la sera prima della Cerimonia, mentre osservava il cielo dalla camera che divideva con il marito.
“Estryd?” le fece eco Elrond, alzando lo sguardo dalla scrivania e guardando l’amata, incuriosito dal nome inusuale scelto.
“Sì… mi piace… è un nome unico, come nostra figlia…” continuò raggiante, voltandosi verso il marito e incrociando il suo sguardo. “Estryd…” ripeté. “Mi viene da pensare alla notte della sua nascita… ricordi amor mio?” domandò la Regina, raggiungendo Elrond e sfiorando il volto dell’elfo.
Il Re di Gran Burrone non poté che rimanere senza fiato, ammaliato dalla bellezza della moglie. Celebrìan batté le lunghe ciglia scure e, sorridendo seducente, aggiunse: “Ricordi il cielo quella notte com’era bello?” posò le mani sulle spalle dell’amato. “Le stelle che brillavano nel cielo e le scie argentee che creavano… quella notte è stata un’opera meravigliosa, dono dei nostri Valar…”
Elrond sorrise; come poteva negare qualcosa a Celebrìan quando lo guardava con quegli occhi? Quando anche solo il suo tocco gli faceva perdere la ragione?
“Pensi che sia adatto a lei?” chiese infine la Regina, sedendosi sulle gambe di Elrond e perdendosi nella bellezza dei suoi occhi grigi.
“Penso che sia un nome bellissimo.” convenne, annuendo.
Dalla gioia, l’elfa baciò il marito e, voltandosi verso la culla della bambina, la guardò, sussurrando nuovamente il suo nome: “Estryd… la nostra piccola e bellissima Estryd…”
Elrond cinse la moglie per la vita e, scostandole dalla schiena la sua lunga chioma dorata, le baciò il collo, facendola rabbrividire.
“Ti amo… amo te e i nostri quattro bellissimi bambini…” 
Elrond, sfiorando i fianchi dell’elfa, la fece girare per guardarla negli occhi; si sentiva l’elfo più fortunato della Terra di Mezzo… sporgendosi verso Celebrìan, posò la fronte contro la sua…
“Ti amo…” mormorò, ripetendosi. “Ti amo, ogni giorno che passa sempre di più.”

La mattina seguente, appena il sole sorse dietro le montagne che circondavano la Valle di Gran Burrone, Galadriel fece visita alla figlia, si sarebbe trattenuta fino all’indomani mattina, assistendo così alla Cerimonia del Nome, per poi ritornare con il marito nella loro terra.
Celebrìan, seduta comodamente sulla terrazza, dipingeva su una grande tela. Elrond stava badando ad Estryd per concedere all’amata alcune ore con la madre.
“Sei sempre stata bravissima a dipingere ciò che all’occhio di solito sfugge.” sussurrò Galadriel raggiungendo la figlia e fermandosi alle sue spalle per ammirare il quadro.
“Purtroppo nessuno dei miei figli ha ereditato questa passione…”
“Magari è stata ereditata dalla neonata… o magari la prossima…”
“La prossima?” le fece eco Celebrìan guardando la madre, meravigliata.
Sorridendo, la Dama della Luce chinò il capo… Celebrìan capì che non avrebbe ottenuto risposta.
“Avete già scelto il nome?” domandò Galadriel, sviando il discorso.
“Estryd…” rispose con semplicità Celebrìan, guardando la madre.
“Estryd?” le fece eco la Dama della Luce.
“Sì. Abbiamo deciso di chiamarla così.” rispose la Regina di Gran Burrone, posando il pennello dentro un vaso di vetro contenente acqua.
“Un nome insolito… ma appropriato.” convenne.
“Come mai mi hai voluto vedere?”
“Mi conosci troppo bene…” rispose la Dama, sorridendo.
Celebrìan fece segno alla madre di accomodarsi al suo fianco.
“Ho avuto una visione…” esordì.
“Cosa hai visto?”.
Il cuore di Celebrìan iniziò a battere frenetico nel suo petto, il tono della madre non preannunciava nulla di buono. Piegandosi in avanti, posò una mano su quelle di Galadriel e, guardando nei suoi profondi occhi celesti, sussurrò con voce tremante: “Estryd? Riguarda mia figlia?”
La Dama respirò a fondo, non portava buone notizie: “Ci sono molte cose a noi sconosciute e altre che dovrebbero rimanere tali…”
“Mamma!” la chiamò Celebrìan, spazientita. “Se riguarda mia figlia voglio saperlo! Lo esigo! Non m’interessa la riservatezza… se riguarda Estryd devo saperlo! È mia figlia!”
Gli occhi della Regina di Gran Burrone si riempirono di lacrime; fissava la madre intensamente, senza battere ciglio.
“Per favore…” concluse, afferrando le mani di Galadriel e stringendole con forza.
La Dama annuì, prese fiato e liberandosi dalla stretta della figlia, si alzò, dandole le spalle: “Il futuro si presenta buio per questa Terra… l’ombra sta crescendo nuovamente a Est… ”
“Cos’ha a che fare questo con Estryd?” la interruppe Celebrìan.
“Tutto.” rispose Galadriel. “Tua figlia avrà un ruolo… entrambe le tue figlie lo avranno…”
“Arwen?” questa notizia fece mancare il fiato alla Regina di Gran Burrone. Entrambe le sue figlie sarebbero state vittime della guerra…
“E’ più complicato di come pensi… ma Estryd dovrà affrontare una scelta e da questa sua decisione dipenderanno molte cose… il futuro che vedo è tuttora mutevole.”
“Che scelta? Che scelta dovrà prendere?”
“Se dare speranza a questa Terra di Mezzo o no… se attraversare i confini nemici e raggiungere il Monte Fato…”
“Il Monte Fato…?” le fece eco Celebrìan.
Dunque l’Anello sarebbe stato ritrovato e la sua bambina avrebbe dovuto distruggerlo? La mente le doleva per la miriade di pensieri che l’assillavano… avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere le sue figlie… entrambe le sue figlie.
“Se partirà, Estryd dimostrerà il suo valore. È un’elfa coraggiosa e tenace… ma questa decisione non sarà semplice… conoscerà l’amore… conoscerà il dolore… se abbraccerà il suo destino, ella cesserà di essere una fanciulla, diventando una donna e una Regina per questo regno.”
“Potremmo non dirle nulla.” esordì Celebrìan, pensando alla sua piccola.
Galadriel si avvicinò alla figlia e con dolcezza prese il suo volto tra le mani: “Sia che lei sappia ogni cosa, sia che ne rimanga all’oscuro, questo è il suo destino. Esso non tarderà nel raggiungerla. Vairë la Tessitrice ha già scritto ogni cosa… Estryd compirà questa scelta.”
“E’ solo una bambina!” esclamò irata Celebrìan, alzando il tono della voce.
“A tempo debito lo scoprirà da sola… dopotutto è tua figlia e mia nipote; la mia magia, che scorre nel tuo sangue, è stata trasmessa anche a lei…” replicò Galadriel.


Allontanandosi dalle braccia del fratello e portando le braccia al ventre, Estryd guardò Elrhoir sorpresa: “Come lo sai?”
Il cuore batteva frenetico nel petto dell’elfa.
“Mia cara sorella…” iniziò a dire, ironizzando. “…ai miei occhi sei trasparente come l’acqua di un ruscello di montagna.”
Poi, stendendo un braccio, carezzò con dolcezza il volto di Estryd.
“Ti ho visto nascere e ti ho visto crescere… siamo legati dallo stesso sangue…”
“So cosa vuoi dirmi e forse hai ragione… dovrei tornare a casa… ora non devo preoccuparmi solo della mia vita, ma anche della sua…” continuò, abbassando lo sguardo e guardandosi l’addome. “Ma io devo proseguire… devo percorrere questa via… devo farlo… per me… per lui.”
“Non preoccuparti.” la interruppe l’elfo, sorridendo e avvicinandosi alla sorella. “Conosco le ragioni che ti hanno portata qui. Nostro padre è contrariato, ma io ti capisco. C’è un motivo se sono venuto fin qui… volevo trovarti… tranquilla, Es: veglierò su entrambi.”

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Capitolo 25
*** CAPITOLO 25 - RICONOSCERE L'AMORE ***


Ecco un nuovo capitolo! Vi ringrazio per i bellissimi commenti! Spero che continuate a seguire questa mia ff!
Buona lettura!
J
***


Gran Burrone non poteva essere più bella come nella stagione autunnale; gli alberi congedavano le foglie che, cadendo a terra, creavano un tappeto dai vermigli colori. Le temperature, pur abbassandosi di qualche grado, rimanevano miti e passeggiare per i parchi era il passatempo preferito del Signore di questa terra.
Amava il suo regno: ogni filo d’erba, ogni roccia, ogni albero e ogni fiore… era la sua ragione di vita… amava Gran Burrone e non si sarebbe mai stancato di proteggerla.
Purtroppo, quell’anno, i pensieri di Elrond erano tormentati e gravavano sul suo spirito, privandolo dei piccoli piaceri delle sue giornate: la guerra era arrivata, alla fine, e, a peggiorare la situazione, non aveva notizie di sua figlia Estryd dalla sera della sua fuga… sospirò, ormai quasi quattro settimane prima.
Era preoccupato: anni prima aveva promesso alla moglie che avrebbe vegliato sui loro figli e, non conoscere le sorti di Estryd, lo faceva sentire in colpa. Si sentiva colpevole; aveva tradito la fiducia di Celebrìan non riuscendo a proteggere i loro ragazzi e, la cosa peggiore, era che essendo partita per le Terre Immortali, non aveva occasione di parlarle e confidarle i suoi turbamenti.
Giunto al gazebo del giardino interno, Elrond si fermò e, osservando i figli, ripensò alle parole di Arwen.
Erano giorni che non la vedeva e, preoccupato, aveva raggiunto il suo alloggio. Dalla partenza di Aragorn per la missione dell’Anello, ella si era chiusa nel silenzio e si era abbandonata alla disperazione… era inquieto per la sua sorte, si stava lasciando morire…
“Riforgia la spada, padre…” gli disse, quel pomeriggio, pochi minuti prima, guardandolo negli occhi.
Non avrebbe mai potuto dimenticare quello sguardo… Arwen era disperata, quasi rassegnata… ma, nel profondo, quella richiesta rivelava che aveva ancora speranza…
Appena entrò nella stanza, Elrond percepì che le forze la stavano abbandonando, le pareva un ramoscello spezzato… priva di forza, Arwen cadde seduta sul letto.
Solo allora Elrond si accorse che aveva preso una scelta; stringendole le mani… si accorse che erano fredde… la vita degli Eldar la stava abbandonando. Sua figlia… la sua Arwen aveva scelto il suicidio.
“E’ stata una mia scelta.” disse l’elfa, faticava perfino a parlare… ogni parola le costava fatica… “Padre, con o senza la tua volontà, non c’è nessuna nave, ora, che possa portarmi via.”
Elrond chiuse gli occhi, stava perdendo anche lei… non poteva permetterlo… non lo avrebbe sopportato.
Entrando nel gazebo, guardò i gemelli: “Voglio che partiate. Voglio che andiate a sud e riportiate vostra sorella a casa.”
Avanzò verso i figli, in mano stringeva una coperta, avvolta in qualcosa dall’aria pesante. I gemelli abbandonarono la conversazione e guardarono il padre. Elrhoir osservò attentamente il fagotto che Elrond stringeva tra le mani ma, prima di poter parlare, il fratello lo anticipò.
Elladan, sfacciato come sempre da quando anche Estryd era partita, affrontò il padre: “Ed esattamente chi vuoi che portiamo a casa, padre? Estryd o Alhena? O entrambe, se le troviamo insieme?”
Elrhoir afferrò il polso del fratello e lo guardò truce; non era una buona idea contraddirlo… da alcune settimane era irascibile e qualunque tentativo di calmarlo era stata vana.
Elrond guardò i figli, dapprima con volto severo, contratto, sembrava che stesse per esplodere dalla rabbia… le rughe che contornavano i suoi occhi grigioblù erano accentuate. Osservava Elladan, lo sguardo indecifrabile.
I gemelli tacquero, spaventati; non sapevano che reazione avrebbe potuto avere. Fissarono il genitore, poi, sorprendendo i figli, Elrond rise, divertito da qualcosa.
Elrhoir guardò il fratello, senza comprendere il comportamento del padre.
“Non essere sciocco, Elladan… Estryd.” rispose, facendosi nuovamente serio. “Riportate Estryd a casa.”
Divincolandosi dalla stretta di Elrhoir, il giovane elfo raggiunse il padre: “Non pensi sia arrivata l’ora di perdonare Alhena? Sono passati quasi cent’anni!” esclamò arrabbiato.
Elrond chinò il capo, guardando per un istante la terra sotto i suoi piedi… contrasse le labbra in una smorfia, poi, con voce triste, incrociando lo sguardo di Elladan e avvicinandosi a lui, lo afferrò per le spalle: “Non capite perché non avete mai amato.”
Diede le spalle ai figli e continuò: “Potranno passare anche altri cento anni, ma lei sarà sempre l’unica che io abbia mai amato e che mai amerò! Vedere il volto di Alhena…” s’interruppe. Il nome della ragazza lo pronunciò con odio, quasi disgusto. Sospirò e aggiunse: “…non potete capire.”
“E’ pur sempre tua figlia… tua e di mamma… perché non ci provi? Cosa direbbe se sapesse? La tua testardaggine la farebbe soffrire…” s’intromise Elrhoir, cercando di far ragionare il genitore.
Elrond scosse il capo, quasi volesse allontanare il ricordo dell’amata moglie dalla mente: “Ora basta. Per favore, partite… riportate Estryd a casa… ma, prima che intraprendiate la via per il sud, voglio chiedervi un favore. Non per me, ma per questa nostra amata Terra.”
“Che favore?” chiese Elrhoir, superando il fratello e guardando il padre in volto.
Voltandosi e dando le spalle ai figli, Elrond posò il fagotto su un tavolo di legno: “E’ giunto il tempo per Aragorn di rivendicare il ruolo che gli spetta.”
Facendosi da parte, mostrò ai gemelli Narsil; la lama che fu spezzata durante la Guerra della Prima Era… la spada che sconfisse Sauron…
“Aragorn deve abbandonare il suo nome ramingo e abbracciare il Trono di Gondor… Re Elessar splenderà dal sud… darà speranza al suo popolo… a tutti i popoli della Terra di Mezzo… voglio che voi la riforgiate… ridate vita alla Lama che fu spezzata…”
Avanzando fino al tavolo e sfiorando le schegge della lama, Elrhoir guardò il padre e chiese: “Arwen lo sa? Sa cosa ci stai chiedendo?”
“È stata lei… lei mi ha chiesto,anzi supplicato, di farlo.” rispose, senza riuscire a nascondere la preoccupazione per la figlia.
Il giovane principe guardò il padre in volto come se lo vedesse per la prima volta dopo anni: “Arwen te lo ha chiesto?” domandò Elladan.
“Lo ha visto pochi minuti fa… con questo gesto mi ha chiesto di dare speranza agli uomini… voglio provare… vorrei provare a dare una speranza al mondo degli uomini…”
“Sei disposto a dare fiducia a loro e non sei ancora pronto a perdonare Alhena?” chiese Elladan, avanzando verso il padre e fermandosi a pochi passi da lui.
“Non comportarti da sciocco, Elladan!” lo contraddisse il Signore di Gran Burrone.
“Perché? Perché la razza mortale è meritevole della tua fiducia e non Alhena? Lei è sangue del tuo sangue!”
“L’uomo è di natura debole… ho assistito personalmente alla fragilità dello spirito umano quando Isildur tenne per sé l’Anello, ingannato dal desiderio di possedere il potere…”
“Alhena non ha colpe per il suo destino! Tu hai perso tua moglie… ma noi abbiamo perso una madre! Anche Alhena l’ha persa! Pensi che volesse questo? Lo credi davvero?”
Elrond scosse il capo con rassegnazione: “Se vostra sorella non si fosse allontanata, disubbidendo a vostra madre, ogni cosa sarebbe stata diversa… è stata educata per essere una principessa, per essere all’altezza del suo ruolo… i suoi comportamenti sono stati sconsiderati ed io non riesco… non posso e non voglio perdonare e dimenticare.”
“Era solo una fanciulla! Si è trattato di un tragico incidente! Non avrebbe mai voluto che accadesse questo!”
Il cuore batteva all’impazzata nel petto di Elladan; da anni tratteneva i pensieri, ingoiando le parole che avrebbe voluto dire ogni volta che vedeva il padre. Ma ora non poteva tacere oltre; era stanco, esasperato… tutto stava cadendo a rotoli, la mano di Mordor si stava estendendo e presto avrebbe raggiunto Gran Burrone ed Elrond, testardamente, non voleva comprendere i suoi sbagli…
Sostenendo lo sguardo accusatore del figlio, Elrond con calma disse: “Arwen ha scelto la sua strada… una via che percorrerà accanto ad Aragorn, giungendo infine alla stessa sorte… vi chiedo di riparate la spada, ora. Domani dovrò anch’io intraprendere un viaggio verso sud.”
Poi, voltandosi, Elrond lasciò il gazebo.
Osservandolo, Elrhoir provò pena per il padre; riusciva quasi a comprendere le sue sofferenze, le sue angosce… lo guardò con la tristezza nel cuore; era un elfo abituato alla perdita… Celebrìan, Alhena, Estryd… e ora Arwen… avrebbe voluto trovare le parole giuste per dargli conforto, ma quali sarebbero state appropriate? Ogni parola, alle sue orecchie, sarebbe parsa vuota…

Chiusa la porta delle sue stanze private, nelle orecchie di Elrond, rimbombavano ancora le parole dei figli… lo avevano colpito e non riusciva a ignorarle… spesso aveva ripensato alle sue scelte, soprattutto dopo la fuga di Estryd… avanzò e, avvicinandosi a una tela coperta da una coperta scura, la sfiorò con la punta delle dita… quel dipinto era rimasto celato per quasi centocinquant’anni; era l’ultimo ricordo che aveva della sua famiglia, quando poteva ancora definirsi tale.
Chiuse gli occhi, cercando di riportare alla mente i tratti dei volti sorridenti delle persone che più amava… ma erano sfuocati… ormai quei giorni erano solo dei ricordi.

“Le tracce sono fresche… due Hobbit e un’altra creatura… sono passati di qui… da non più di mezza giornata!” constatò Elrhoir, esaminando delle tracce sul terreno, sfiorandolo dolcemente.
Estryd, avvicinandosi alle sue spalle, osservò anch’ella lo stesso punto: “Sei davvero bravo… mi sarei persa già da giorni senza te…”
“Per questo non mi hai cacciato?” continuò, sorridendo l’elfo guardando la bruna.
Estryd sorrise, divertita: “Forse…”
Elrhoir si rialzò e, guardandosi attorno, sospirò.
“Cosa? Cos’hai? Sei preoccupato… lo intuisco…” disse Estryd agitata.
“Nulla…” rispose, cercando di non dare importanza ai suoi sospetti.
“Per favore, spiegami… non trattarmi come una stupida!”
“La via che penso abbiano preso…”
Spostandosi davanti al fratello, Estryd lo guardò negli occhi: “Quale via? Che via pensi abbiano preso?”
“Credo che Gollum li stia conducendo a Cirith Ungol.”
Cirith Ungol; quel nome fece rabbrividire Estryd.
L’elfa conosceva bene la geografia della Terra di Mezzo e sapeva che la via d’accesso per Mordor, superando la Torre di Cirith Ungol, avrebbe portato gli Hobbit troppo vicini a delle prigioni nemiche.
“Affrettiamo il passo! Non abbiamo tempo da perdere!” esclamò la bruna, avanzando lungo il sentiero, quasi correndo.
Elrhoir, al suo fianco, osservava ammirato la sorella; l’aveva sempre vista nelle vesti eleganti in Gran Burrone e, scoprire la sua forza, lo aveva sorpreso. Ma non si sarebbe dovuto meravigliare… conosceva perfettamente la profezia di Galadriel; sua madre, quando Estryd era appena nata, gli aveva fatto promettere di starle accanto, di proteggerla e aiutarla… allora aveva accettato, ma non aveva compreso appieno le parole materne. Solo anni dopo conobbe il destino della sorella e, in quel momento, prese ancora maggiormente a cuore il giuramento prestato secoli prima… avrebbe tenuto fede a quella promessa, a qualunque costo.
Il sentiero era in salita e il terreno roccioso… in caso di attacco nemico sarebbero stati esposti. Era preoccupato; gli orchi di Mordor avrebbero potuto individuarli facilmente, non c’erano ripari nelle vicinanze.
Seguendo Estryd e cercando di non lasciare tracce del loro passaggio, Elrhoir si guardava attorno, mostrandosi indifferente per non far preoccupare la sorella.
“E’ di Boromir?” domandò l’elfo nel tentativo di distrarla, affiancando Estryd.
Estryd arrossì. Sentir pronunciare il nome del guerriero le provocò un grande imbarazzo.
“Sì.” rispose in meno di un sussurro. “E’ così evidente?” aggiunse, guardandolo.
“Avevo notato degli sguardi tra voi a Gran Burrone… anche se cercavate di non farvi notare…  vi parlavate appena, ma l’intesa era evidente…”
Estryd osservò il fratello, la conosceva fin troppo bene.
“Almeno era chiaro per me.” concluse Elrhoir, con un’alzata di spalle.
“Credo di esserne innamorata.” confessò la bruna. “Anche se questi sentimenti mi spaventano…”
“E perché dovrebbero spaventarti?”
“Ti credevo più perspicace…” rispose, cercando di ironizzare. ”Mi pare scontato… Boromir è un mortale…” aggiunse, sospirando. “Temo il futuro o meglio quello che non potremo avere…”
“Permettimi di riciclare un consiglio già dato ad Arwen… non angosciarti prima del tempo, anche pochi anni saranno sufficienti se l’amore che provate l’uno per l’altra è sincero…”
Fece una pausa e la guardò: “Forse non lo sai…” continuò Elrhoir titubante. “…ma Arwen sta morendo… il dolore che l’amore per Aragorn le provoca è troppo per lei… per poterlo sopportare… ha scelto di abbandonare la vita degli Eldar.”
Estryd si fermò e guardò il fratello… Arwen… chiuse gli occhi… sarebbe capitato anche a lei? Anche lei avrebbe preferito una vita mortale, sacrificandosi e modendo accanto a Boromir?
“Te e Boromir forse avrete un futuro diverso…” aggiunse l’elfo.
“O la nostra fine sarà la medesima.” concluse lei, sfiorandosi istintivamente il ventre come per proteggere il bambino dalla cruda verità.
“Non avere timore. Sarò al tuo fianco… saremo al tuo fianco: io, Elladan, Alhena… e Arwen. Siamo fratelli… possiamo contare gli uni sugli altri… sempre!” convenne Elrhoir, abbracciando la sorella nel tentativo di darle conforto.

Elladan aveva cavalcato tutta la notte e anche il giorno successivo dalla partenza da Gondor; più la distanza da Edoras diminuiva, più bramava essere già arrivato a destinazione. Erano anni che seguiva le tracce e raccoglieva informazioni su Alhena, voleva trovarla per riportarla a casa… non gli era mai importato granché degli ordini del padre… a lui interessava solo il bene della sorellina; tra loro c’era sempre stato un legame speciale. Gli veniva naturale proteggerla, aiutarla…
Quando il sole tramontò, un vento gelido proveniente da nord iniziò a spirare portando anche fitte nubi cariche di pioggia. Piegandosi verso il muscoloso collo dell’animale, lo incitò a proseguire più veloce, sussurrando parole in lingua elfica.
Giunto nella Capitale del Mark, vide che le vie di Edoras erano deserte. Dei piccoli fiumi scendevano per le vie principali e scolavano fuori dalle mura… il rumore della pioggia che picchiettava sui tetti, rimbombava nella notte… avanzò lentamente, guardandosi attorno incuriosito. Solo tre volte nel corso della sua lunga vita aveva superato le possenti mura di Edoras e, in quei giorni, la città era ancora al pieno della sua bellezza… le case erano nuove e le vie pulite… mentre ora, ogni cosa era caduta in rovina, trascurata per la mancanza di tempo e braccia forti… avanzò senza fermarsi e, lasciando il cavallo ai piedi della scalinata che conduceva al Palazzo d’Oro, salì i gradini, due per volta.
Davanti al portone si scontrò con una decina di guardie che, avanzando verso lo straniero, stringendo in mano delle fiaccole, lo intimarono di fermarsi.
Elladan obbedì e, alzando le mani verso il cielo, disse con calma: “Lasciate che vi dica il mio nome…”. Abbassando il cappuccio del mantello che portava, continuò: “Il mio nome è Elladan, figlio di Elrond, Signore di Gran Burrone… vorrei incontrare il vostro Re.” Fece una pausa, poi continuò: “So che in questa terra si trova anche mia sorella… vorrei vederla.”
“Vostra sorella?” fece eco una guardia dai lunghi capelli biondi, avanzando sotto la pioggia e guardando da vicino l’elfo.
“Sì…” rispose Elladan, ma non terminò la frase.
Un altro soldato lo interruppe: “Alhena è vostra sorella?”
“E’ qui?” domandò concitato il principe, avanzando verso il Rohirrim e guardandolo in volto. “Alhena si trova qui?”
“Sì, mio signore… stanno cenando nella Sala Principale… seguitemi, vi condurrò da lei” continuò il soldato, facendo strada all’elfo lungo le vie del palazzo.
Mentre camminava, seguendo il Rohirrim, Elladan era agitato; avrebbe rivisto Alhena… era emozionato! Incredibilmente emozionato!


Dopo la morte della Regina di Bosco Atro, Thranduil era cambiato. Il suo popolo lo aveva visto cambiare e la corazza che aveva costruito attorno al suo cuore, per proteggerlo dal dolore, era invalicabile. Ormai si era rassegnato a condurre una vita vuota… ogni mattina si trascinava fuori dal proprio letto e, senza alcuna voglia, affrontava i vari doveri che gli competevano. La tragica morte dell’amata moglie, la sua Aredhel, lo aveva svuotato di ogni passione, di ogni desiderio… aveva perso la speranza di poter amare nuovamente, di poter sorridere o apprezzare ancora qualcosa… Thranduil si era arreso.
Ma, poi, qualcosa era cambiato; Alhena era entrata nella sua vita come una ventata d’aria fresca, portando nuovamente gioia e facendolo perfino sorridere con il suo carattere spontaneo, impulsivo… e la sua arguzia, il fatto che avesse sempre l’ultima parola su qualunque argomento… queste qualità aveva fatto nascere nel Re dei sentimenti… dapprima la giovane elfa lo aveva infastidito, la ragazza non poteva essere più diversa da Aredhel ma, poi, ogni cosa era cambiata.
Si era sentito così in colpa quando l’aveva colpita in volto qualche mese prima… non avrebbe voluto… non avrebbe dovuto… ma nessuno l’aveva mai contraddetto… nessuno aveva mai osato farlo. Dopo quel giorno, dopo che lei lo aveva guardato con tanto fuoco negli occhi, una miriade di sentimenti erano esplosi in Thranduil. Non riusciva a fare a meno di pensare alla giovane elfa… a pensare alla sua voce, alla sua risata, ai lineamenti del suo volto…
L’elfo, nonostante avesse cercato di soffocare le sue emozioni sul nascere e ignorarle,  queste si facevano sempre più forti… sempre più pressanti nel suo spirito… non poteva evitare di pensare a lei e di vederla; molte volte aveva cambiato le sue abitudini giornaliere proprio per poterla incrociare per i corridoi del suo palazzo… anche un semplice saluto riusciva a scuoterlo.
Si sentiva uno sciocco, lei lo faceva sentire un ingenuo giovane elfo e, quelle emozioni, ne era ormai certo, non sarebbero scomparse.

Una mattina soleggiata, approfittando del consueto caldo tipico di Reame Boscoso, Thranduil si era svegliato di buonora e, attraversando varie sale del proprio palazzo, si era appartato in una via laterale la biblioteca. Il sovrano sapeva che, quel giorno, Alhena vi sarebbe andata… la sera prima, durante la cena, l’aveva sentita dire al figlio che aveva terminato di leggere l’ennesimo libro e che ne avrebbe cercato uno nuovo. Appena udite quelle parole, nella mente, Thranduil iniziò a elaborare diversi scenari ipotetici per incrociare la principessa e, fingendo un incontro casuale, l’avrebbe invitata a cavallo…
Era in attesa da quasi un’ora, quando udì dei passi lontani avvicinarsi; il cuore fece una capriola nel petto del Re: doveva essere lei! Sporgendosi la vide percorrere il corridoio che conduceva alla biblioteca… il sole che entrava dalle vetrate illuminava il suo corpo e, solo in quel momento, osservandone le movenze e il portamento, Thranduil capì le ragioni che avevano spinto Elrond a ripudiare la figlia; era identica a Celebrìan. Chiudendo gli occhi, scosse il capo… alcuni giorni prima aveva parlato con i figli gemelli del Signore di Gran Burrone e aveva detto loro che non aveva ammesso nel suo Regno la giovane elfa. Nel volto di Elladan e Elrhoir lesse l’odio che nutrivano, ma non poteva confessare che Alhena si trovava nella sua Terra… non poteva far sapere all’amico Elrond che era andato contro la sua preghiera…
Riaprendo gli occhi la guardò nuovamente, cercando di allontanare quei pensieri… indossava un abito che sfiorava il pavimento e fasciava il suo corpo snello. Deglutì, soffermandosi sui suoi seni… scosse il capo, cercando di allontanare l’immagine di lei nuda.
“Alhena… ti stavo cercando…” esclamò Thranduil, uscendo dalla via laterale e camminando verso la giovane.
“Cercavate me?” domandò l’elfa, aggrottando la fronte e fermandosi, guardandolo in volto.
La giovane principessa era sorpresa; non aveva mai parlato molto con il Sovrano e, dopo l’increscioso incidente dello schiaffo, si erano parlati sempre meno.
Sorridendo, il Re rispose: “Sì, in effetti…” prese fiato e continuò. “Oggi mi sono svegliato con questa giornata davvero magnifica e si prevede un sole caldo per tutto il giorno…” prese tempo e, superando Alhena, si affacciò oltre la piccola balconata. “E’ da qualche giorno che ho intenzione di prendermi una pausa da tutto e da tutti… non trovo mai del tempo da dedicare a me… ma oggi mi sono liberato dagli impegni… non potevo rimandare ancora…”
“E’ importante, invece…” esclamò Alhena sorridente. Poi, osservando il cielo, aggiunse: “Una cavalcata sarebbe perfetta… non solo il sole, ma anche l’aria è calda!” concluse chiudendo gli occhi e godendosi il calore dei raggi sulla pelle.
“Vorresti farmi compagnia?” domandò l’elfo, cogliendo l’occasione.
Aprendo gli occhi, Alhena guardò sorpresa Thranduil. Non si sarebbe mai aspettata un invito e, considerando la sua clausura forzata all’interno dei confini di Bosco Atro, rispose, annuendo con entusiasmo: “Ma certo! Certo! Sì! Sarebbe bellissimo!”
Il sorriso dell’elfa, per un secondo, fece fermare il cuore del Re: era bellissima!
Le scuderie erano a pochi chilometri dal Palazzo dove risiedeva il Sovrano e, lungo il tragitto, gli elfi che incrociavano, s’inchinavano, dando il loro buongiorno. Thranduil sorrideva continuamente, pareva davvero di ottimo umore.
“Anche Legolas si unisce a noi?” chiese la ragazza, guardando il profilo dell’elfo.
“No… oggi è in perlustrazione… non rientrerà a palazzo prima di tre giorni…”
Avrebbe potuto affidare la missione a chiunque altro ma, se il figlio fosse stato presente, non avrebbe potuto godere della compagnia di Alhena… almeno non da soli.
“Oh…” esclamò l’elfa, turbata.
Thranduil guardò Alhena, non riusciva a decifrarla… si sentiva uno sciocco per i sentimenti che iniziava a provare… ma non poteva evitare di pensare a lei…
L’elfa superò il sovrano e, posando una mano sul petto del Re, fermò il loro cammino e, guardandolo negli occhi, sorrise: “Promettimi solo una cosa… Legolas mi ha detto che possiedi un alce… un’esemplare adulto proveniente dal nord…”
Il tocco della mano della ragazza lo fece sussultare.
“Sì, è stato un dono…” rispose. “Di mio padre…” aggiunse.
“P-potrei… potrei cavalcarlo io? Sono così rari che non ho mai avuto l’occasione di vederne uno da vicino…”
Thranduil annuì, felice di poterle concedere una piccola gioia: “Certo… non ci siano problemi!”

Il pelo bruno dell’animale era soffice… massaggiandolo, Alhena poteva perfino sentirlo tremare e il suo cuore… era un tamburo! L’alce la superava in altezza di diversi centimetri e le grandi corna erano perfettamente identiche…
“Quanti anni ha?” chiese, alzando lo sguardo e incrociando gli occhi di Thranduil.
“Era un cucciolo quando mi è stata donata…”
“E’ longevo… quasi quanto noi…” constatò, riportando l’attenzione sull’animale.
“E’ di una razza particolare. È stata la mia unica cavalcatura da quando ho avuto la forza di reggermi in groppa ad un animale… siamo legati…” concluse il Re, continuando a guardare Alhena.
Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, seguiva con attenzione i movimenti delle sue mani… scorrevano lente sulla pelliccia dell’alce, compiendo movimenti regolari…

Era da poco passato il mezzogiorno quando, fermandosi all’ombra di un albero, i due elfi si fermarono. Avevano cavalcato per diverse ore, spingendosi verso nord. La giornata era calda e anche l’aria che soffiava era soffocante. Liberarono gli animali dalle selle e li lasciarono liberi di pascolare e riposarsi.
Poco distante un piccolo ruscello scorreva tranquillo, l’acqua gorgogliava allegra e schizzava scontrandosi contro le rocce. Thranduil si accomodò per terra, posando la schiena contro la corteccia dell’albero e osservò il panorama… erano anni che non usciva dai suoi confini e aveva dimenticato quanto potesse essere bella la Terra di Mezzo.
“Che posti magnifici!” esclamò Alhena.
L’elfa si era avvicinata alla riva del corso d’acqua e, volgendo lo sguardo verso l’orizzonte, non riusciva a celare la meraviglia che provava guardandosi attorno. Tutt’intorno a lei era perfetto; pareva un quadro che rappresentava un paesaggio paradisiaco.
In lontananza poteva vedere il profilo di Erebor e, più distante, le Montagne Grigie… erano innevate in vetta e il sole l’abbagliava risplendendo sulla candida neve invernale che ancora non si era sciolta.
“Non ho mai visto questi posti…”sussurrò Alhena, perdendosi osservando nell’orizzonte. “Ogni volta che siamo venuti in visita nella tua Terra, ci siamo sempre fermati entro i confini di Reame Boscoso… vorrei vedere il mondo… lo desidero davvero!”
“Cosa ti piacerebbe vedere?” chiese incuriosito il Re.
“Ogni cosa di questa bellissima Terra!” rispose Alhena, voltandosi e incrociando lo sguardo di Thranduil.
L’elfo non rispose, ma osservò la giovane attentamente.
“Sai cos’altro non ho mai visto?” chiese Alhena.
“Cosa?” chiese l’elfo.
“La neve… l’ho sempre vista da lontano… so che è fredda e che se la prendi in mano diventa acqua… ma non l’ho mai toccata… ne assaporata…”
“Io l’ho vista e credi alle mie parole: è bellissima!” rispose il biondo.
Rimasero in silenzio alcuni minuti, poi Thranduil chiese: “Tuo padre non vi ha mai mostrato le meraviglie di questo mondo?”
“No…” rispose lei, allontanandosi dal fiume e raggiungendo l’elfo. “Era nostra madre che ci faceva scoprire questa Terra… Elrond è sempre stato troppo occupato a governare Gran Burrone. È un buon Re… ma spesso si dimenticava d’essere anche un buon padre…”
“Tua madre era un donna incredibile.”
“La conoscevi bene, vero?”
“Se la conoscevo?” le fece eco Thranduil, ripensando a Celebrìan. “Sì… eravamo amici… fin da ragazzi… ero legato a lei…” sospirò: “E’ stata Celebrìan ha presentarmi mia moglie.”
Alhena non seppe che rispondere, guardò Thranduil, temendo di aver gettato un’ombra sul cuore del Re ma non pareva triste, anzi i suoi occhi esprimevano serenità.
“E tu eri presente quando s’incontrarono… i miei genitori…” continuò.
“Sì... ero presente ed il loro è stato amore a prima vista!”
“Fa caldo…” aggiunse la bionda, cercando di cambiare discorso. Osservò il ruscello e, alzandosi di scatto, esclamò: “Ho un’idea…!”
Thranduil la osservò sorridendo; era così spontanea…
Senz’aspettare una risposta, la bionda aggiunse: “Fa davvero caldo… ti andrebbe di camminare nell’acqua?”
“Camminare nell’acqua? È una cosa sciocca…” rispose Thranduil, osservando il piccolo fiume dietro la giovane.
“No, invece!” lo contraddisse. “Viene dalla montagna e scommetto che è fresca! Dai!” insisté Alhena, stendendo un braccio verso Thranduil per invogliarlo a seguirla.
Arrendendosi, l’elfo si alzò e seguì la giovane principessa fino al fiumiciattolo.
Alhena, chinandosi in avanti, raccolse la veste che portava e, sollevandola da terra, per impedire che si bagnasse, la sistemò affrancandola in vita con un nastro, mostrando così le gambe fino le ginocchia. Poi si tolse le scarpe che portava e, tenendo i capelli scompigliati dal vento, entrò nel ruscello. Involontariamente emise un versetto di piacere; l’acqua era davvero ghiacciata!
Thranduil rimase senza fiato nel vederla… non si aspettava che sollevasse l’abito e quell’esclamazione… lo fece fremere dal desiderio di farla sua… era un sogno!
“Dai! Vieni!” esclamò Alhena, facendo nuovamente segno di seguirla.
“Non penso…” iniziò a dire il Re ma, l’elfa, sorprendendolo, si chinò in avanti e intingendo le mani nell’acqua la gettò verso Thranduil, bagnando l’elegante veste che portava.
L’elfo rimase senza parole mentre Alhena sorrideva divertita dall’espressione meravigliata del Re e coprendosi il volto con le mani.
Ma un’altra cosa sorprese Thranduil; non si sentì irritato per il comportamento immaturo di Alhena anzi, in quel momento dimenticò il suo ruolo e, spontaneo come non era da secoli, raggiunse la fanciulla. Entrò in acqua con gli stivali, schizzando acqua tutt’intorno a lui, e la rincorse mentre lei cercava di scappare risalendo il fiume. Le risa di Alhena alle orecchie di Thranduil erano ipnotiche; non poteva evitare di frenare il desiderio di raggiungerla.
Quando la raggiunse, con forza, la cinse per la vita e, sollevandola da terra, la fece girare su sé stesso… istintivamente lei si divincolò, facendo perdere l’equilibrio al Re e cadendo entrambi nell’acqua, bagnandosi fino alla vita.
Sorridendo si guardarono… alzando un braccio, Alhena si massaggiò un occhio, poi, con un movimento elegante, si sistemò i capelli, attorcigliandoli in un crocchio sopra la testa per evitare che si bagnassero.
In quel momento, Thranduil, seppe che il sentimento che nutriva per la ragazza era amore. Avrebbe voluto dirglielo, urlarglielo, ma si trattenne, spaventato dal futuro.


Seduti a tavola, Re Thèoden e i suoi ospiti chiacchieravano allegramente. Già da alcuni giorni stavano discutendo se unirsi ai combattimenti a Gondor o meno, ma ancora non si era giunti a una decisione unanime. Eomer voleva dirigersi, con i Rohirrim, a sud; era un guerriero dopotutto e, Gondor, doveva sapere che non era sola e che l’alleanza stretta secoli fa esisteva ancora… non potevano abbandonarli, continuava a ripetersi ma, suo zio, era di tutt’altro avviso. La Cittadella si era estraniata dalla loro battaglia contro Isengard e, questo comportamento, aveva ferito l’orgoglio del Re; egli avrebbe sacrificato anche l’ultimo dei suoi soldati in difesa di Gondor…
Aragorn era concentrato in una conversazione con Boromir, il guerriero fremeva dal desiderio di recarsi nella terra natia e non capiva come mai non proseguissero da soli… avevano già un piano; attraversare le Montagne e chiedere aiuto ai traditori e quindi perché aspettare?
“Non possiamo attardarci! Mordor ormai è pronta per sferrare l’attacco finale… Gondor ha bisogno di noi!” esclamò Boromir irritato, ma trattenendo il tono della voce.
“Concordo con lui.” intervenne Alhena. “Siamo qui… con le mani in mano, da quanto? Quattro, forse cinque giorni? Perché non facciamo qualcosa? Estryd ormai sarà giunta ai confini di Mordor… non possiamo permettere che Sauron vinca contro Gondor… non possiamo… dobbiamo dare a Frodo, Sam e mia sorella la possibilità di compiere la loro missione!”
Boromir guardò l’elfa, grato per il suo appoggio.
“Dobbiamo partire.” concluse il guerriero risoluto. “Se non verrà presa una decisione entro domani al crepuscolo, io partirò per Gondor. Anche da solo.”
“Non sarai solo. Io verrò con te.” confermò Alhena, guardando Boromir negli occhi e sorridendogli.
“Te ne sono grato…” concluse Boromir, sorridendo all’elfa e alzando un calice colmo di vino verso di lei, in segno di riconoscenza.
“Vorrei parlarti… è da giorni che penso alle parole che ti ho detto… ho parlato senza riflettere, senza considerare i tuoi sentimenti e il dolore che ti avrei causato…” disse la bionda, chinandosi verso l’uomo di Gondor e affievolendo la voce.
Boromir stava per parlare, ma Alhena lo anticipò: “Ho dato un consiglio a mia sorella, alcune settimane fa… di ignorare i timori che frenavano il suo cuore e seguire il suo istinto… non mi sono mai pentita del consiglio che le ho dato e mai lo farò… non bisognerebbe mai soffocare i sentimenti che proviamo… e, in questi giorni, ho potuto conoscendoti meglio… posso dire che mia sorella ha scelto bene. Sei un uomo di valore e sarai un perfetto marito al suo fianco.”
Il Comandante sorrise, allo stesso tempo sorpreso e riconoscente per il sostegno della bionda. Non disse nulla… non c’erano bisogno delle parole.
“Avremmo dovuto prendere una decisione già da alcuni giorni…” riprese parola Boromir, guardando Aragorn.
“Temo che solo Gandalf avrebbe potuto convincere il Re… sarebbe dovuto rest…” ma Alhena non terminò la frase.
Alle spalle di Aragorn, proprio davanti a lei, Elladan entrò nella Sala, preceduto da un Rohirrim con indosso un’armatura lucida. L’elfa rimase senza parole, dalla mano le cadde la forchetta che stringeva e, toccando il pavimento di pietra, provocò un suono metallico.
“Tutto bene?” chiese Legolas preoccupato, guardando l’elfa e posando una mano sulla sua spalla.
Ignorando l’amico, Alhena si alzò da tavola… gli occhi le pizzicavano per le lacrime… erano passati cent’anni… anzi, per l’esattezza erano passati centotre anni e dieci giorni…
“Alhena!” esclamò Elladan, superando il soldato del Mark e correndo verso la fanciulla.
Allontanandosi dalla tavolata, la bionda raggiunse il fratello e, abbracciandolo con forza, non riuscì più a trattenere le lacrime… non riusciva a celare la gioia che provava in quel momento… e, forse, non esistevano parole per esprimersi…
“Elladan…” sussurrò, stretta tra le braccia dell’elfo… non avrebbe mai voluto separarsi da lui… ogni cosa, ogni preoccupazione si allontanò dalla mente della giovane… esisteva solo lui… solo l’affetto che provava per l’amato fratello…

“Sam?”
Estryd guardò sopra le proprie teste e vide lo Hobbit, scendere lungo una scalinata ripida scavata nella roccia della montagna.
Elrhoir, al suo fianco, seguì lo sguardo della sorella: “E’ solo… dov’è Frodo?”
La risposta a quella domanda terrorizzava Estryd.
“Manca anche Gollum.”
“Queste montagne sono pericolose… non dovrebbe attraversarle… non da solo e soprattutto non per questa via…”
“Perché?” domandò Estryd, guardando il fratello.
“Shelob…” rispose, osservando il Mezzuomo. “E’ una creatura antica che, nei secoli, si è scavata delle gallerie sotto queste montagne… si nutre di orchi e di qualunque malcapitato cada nella rete che ha tessuto.”
Estryd rimase senza fiato… conosceva le leggende che circondavano questo mostro… guardò in alto e sussurrò il nome del Portatore, terrorizzata.
“Dovremmo salire…” suggerì Elrhoir. “Te la senti?”
“Sì, credo di potercela fare… andiamo.” concluse Estryd, superando il fratello e iniziando a risalire la scalinata.
In sole tre ore, i due elfi raggiunsero Sam, lo avevano raggiunto poco sopra la metà del tragitto; si era fermato per riposare, affaticato per la veloce discesa. Estryd raggiunse lo Hobbit e lo abbracciò, felice di saperlo vivo.
“Stai bene? E Frodo? Dov’è Frodo?” chiese Estryd, bombardandolo di domande.
“Mi ha cacciato… Gollum lo ha convinto che volessi l’Anello per me… quello sporco bugiardo…” concluse Sam, rancoroso. Non aveva ancora digerito l’allontanamento dall’amico.
“Quanto tempo fa vi siete separati?”
“Ieri… oramai saranno arrivati in vetta.”
“Estryd dobbiamo continuare e subito!” s’intromise Elrhoir. “Questa è una trappola ben congeniata da quella creatura…”
“Trappola?” chiese Sam, senza capire. “Di cosa sta parlando?”
“Il passaggio che Gollum ci voleva far attraversare è abitato da un mostro che si nutre di orchi, animali vari e…”
“E anche di Hobbit…” concluse Sam, alzando lo sguardo e precipitandosi verso le scale. “Veloci! Non possiamo perdere tempo!”

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Capitolo 26
*** CAPITOLO 26 - NEL PROFONDO ***


Buongiorno! Sono sparita per un pò, ma eccomi con un nuovo capitolo!
Spero vi piaccia!
Buona lettura!
J
***


Le gallerie scavate nella montagna dall’antico ragno Shelob si ramificavano fino al cuore di essa. Per millenni aveva vagato nelle sue costruzioni e, in ogni tunnel scavato, aveva tessuto le sue ragnatele per intrappolare chiunque entrasse nella sua tana. Malcapitati orchi, animali sventurati e chiunque del quale avesse potuto nutrirsi, ogni preda era ben accetta.
Nessuno ha memoria del giorno in cui nacque: nessuna creatura, ancora vivente, vi aveva assistito. Si era dimenticato l’anno, il mese ed il giorno… si vociferava che fosse nato durante i primi anni della Prima Era, ma erano solo supposizioni… il mostro Shelob era cresciuto nutrendosi di animali, persone ed orchi… non possedeva una coscienza; viveva per poter soddisfare la sua insaziabile fame.
Le gallerie erano buie e la terra era inumidita dalla neve che si scioglieva, diversi metri sopra, in vetta. I soffitti gocciolavano creando ticchettii che rimbombavano cupamente; erano suoni tetri, quasi opprimenti… decisamente troppo fastidiosi per le orecchie dei viaggiatori… ma, la cosa peggiore, era senza dubbio la puzza.
L’aria odorava di morte, di marcio… l’umidità, a lungo andare, aveva creato della muffa che diffondeva nell’aria un puzzo ristagnante… anni e anni di odori intrappolati in quelle gallerie.
Estryd cercava di respirare il meno possibile, era certa che avrebbe vomitato prima di raggiungere l’uscita, ma resisteva. Era un puzzo che si attaccava ai vestiti, entrandoti dentro… un odore rivoltante, difficile da scordare…
Mentre proseguiva, pensava a Frodo… il destino del Portatore era diventato per lei ormai un’ossessione… rimpiangeva l’incidente avuto a Osgiliath… in quel momento avrebbe potuto aver bisogno di aiuto e lei non era lì a dargli supporto. Il solo pensiero che il Portatore era a pochi passi da lei le infondeva forza… la faceva resistere, la faceva andare avanti… questo pensiero le impediva di mollare.
Per distrarsi dai pensieri che martellavano nella sua testa, l’elfa osservava la bruna chioma del fratello che camminava davanti a lei… era quasi magnetica e, grazie alla luce della fiaccola che teneva salda in mano, poteva vedere dei riflessi color fuoco.
Ad ogni passo, Estryd sentiva dei scricchiolii sinistri; cercava di ignorare il rumore delle ossa che si spezzavano sotto i suoi stivali. Quelle ossa erano l’unica cosa rimasta delle vittime di Shelob. Vincendo sulla sua curiosità, l’elfa non abbassava lo sguardo… fin da bambina, da quando si era imbattuta nei resti di un animale dilaniato, aveva sempre trovato la forma ed il colore degli scheletri inquietanti… “Sii forte… sii forte…” come un mantra Estryd ripeteva queste parole… ormai non aveva scelta: doveva essere forte!
Da ormai due ore, nessuno di loro parlava… erano piccole accortezze per evitare di essere sentiti dalla creatura…
Proseguivano il viaggio alla cieca sperando che, la via intrapresa, fosse quella giusta… ma era come trovare un ago in un pagliaio: c’erano troppe vie che si ramificavano, le opzioni erano troppe; Frodo poteva essere ovunque!
Dopo quelle che ad Estryd parvero ore, Elrhoir si fermò e, voltandosi verso la sorella e Sam, con la mano, fece loro segno di avvicinarsi.
“Stiamo girando alla cieca.” sussurrò sfiduciato, guardandoli negli occhi.
“Che suggerisci di fare?” chiese Estryd, parlando sempre a infima voce.
Elrhoir rimase in silenzio e abbassò lo sguardo; era chiaro che la sua mente era occupata da molti pensieri. Stava valutando la decisione migliore da prendere… proseguire senza una meta era la cosa peggiore; si sarebbero persi e, così, non sarebbero più usciti da quelle gallerie… l’elfo deglutì, massaggiandosi la fronte…
Alzando nuovamente lo sguardo, osservò i compagni: per lui, era fuori discussione morire così… mangiato vivo da quel mostro.
“Cosa dice il tuo istinto?” domandò l’elfa, sempre parlando piano e sfiorando il braccio del fratello per attirare la sua attenzione.
Gli sguardi dei due elfi si incrociarono… Elrhoir lesse negli occhi verdi di Estryd la disperazione… era chiaro che l’elfa cercava un appoggio, un sostegno, e lui non voleva deluderla.
Chiuse gli occhi e rifletté: non si sarebbe addentrato ulteriormente nelle gallerie di Shelob, avrebbero rischiato la vita inutilmente. Tutti loro l’avrebbero rischiata. C’era un’unica cosa da fare… l’unica che avesse davvero senso. Aprendo gli occhi, guardò la sorella e Sam e, con tono deciso, sussurrò: “Proseguiamo verso est. Ho notato che le gallerie proseguono leggermente in salita in quella direzione… forse portano ad un’uscita.”
“E Frodo?” chiese Sam.
“Frodo non è solo… se quello che mi avete detto corrisponde al vero, la creatura Gollum si trova con lui e conosce la via.”
Entrambi annuirono, concordi sulla decisione presa da Elrhoir.
“Va bene… proseguiamo veloci e senza parlare… nessun rumore… camminate con prudenza… non siamo nella posizione migliore per affrontare colei che dimora in questa montagna.”
Quelle parole riportarono alla mente di Estryd il ricordo del padre quando le disse ogni cosa su Shelob. Era una creatura antica e incredibilmente potente… capace di affrontare diversi nemici e vincere senza problemi… ma la cosa che più la spaventava erano le ultime parole di Elrond: l’opportunità di potersi nutrire di prede fresche l’avrebbe resa ancora più feroce.
Camminando con prudenza, la bruna seguiva il fratello; in una mano stringeva la fiaccola e l’altra era posata sull’elsa della spada. Impugnava la fiamma con tale forza che le doleva la mano… per la prima volta, dalla sua partenza da Gran Burrone, Estryd provò paura: non tanto per sé stessa, ma per il bambino che portava in grembo… non se lo sarebbe mai perdonata se accidentalmente gli fosse successo qualcosa. L’unico barlume di speranza era sapere di avere al suo fianco Elrhoir… da sola non ce l’avrebbe mai fatta; ne era certa.
“Spegniamo le luci… il calore del fuoco potrebbe essere avvertito da Lei.” sussurrò l’elfo lasciando cadere a terra la fiaccola e, con un movimento dello stivale, la coprì spingendoci sopra della terra.
Estryd e Sam si guardarono per un secondo; nessuno dei due pareva entusiasta all’idea, ma obbedirono, imitando Elrhoir.
Quando l’ultimo fuoco si spense il buio s’impadronì delle gallerie, diventando opprimente. Ad Estryd mancava l’aria.
“Proseguiamo.” sussurrò il principe, riprendendo il viaggio.
Chiudendo la fila, Estryd si guardava costantemente le spalle… contava mentalmente e, ogni venti numeri, si voltava nuovamente… contare si rivelò anche un modo efficace per distrarsi e calmarsi… il cuore nel petto rallentò, ricominciando a battere regolarmente…
cinquanta… cinquantuno… cinquantadue…
I minuti sembravano ore… si confondevano tra loro…
cinquatatre… cinquantaquattro…
Un rumore lontano, come qualcosa che cadeva, riecheggiò nella montagna. Estryd, fermandosi, perse il conto per l’ennesima volta e si voltò, osservando il buio. Strinse gli occhi per cercare di vedere meglio oltre l’oscurità… il cuore in gola… bramò uscire da quella galleria…
“Es, proseguiamo!” sussurrò Elrhoir, tornando sui suoi passi e posando una mano sulla spalla della sorella.
L’elfa sussultò per quel tocco improvviso. Guardò il fratello e, con il cuore in gola, annuì.
Il viaggio riprese ed Estryd ricominciò a contare.
unoduetrequattro
Era stanca, l’aria fresca le mancava; iniziava ad essere balorda. Ad ogni passo, sentiva l’anello di Boromir sfiorarle la pelle.
dieciundici… dodici… tred
Il filo dei suoi pensieri venne nuovamente interrotto da un zampettare; si stava avvicinando… Shelob si stava muovendo nell’ombra… questa volta, anche Elrhoir l’avevano sentito distintamente. Entrambi si fermarono di colpo ed incrociarono lo sguardo, preoccupati.
“Tutto bene?” chiese Sam, sussurrando e avvicinandosi agli elfi.
“Muoviamoci…” rispose Elrhoir, riprendendo a camminare però aumentando il passo. Aveva rinunciato alle precauzioni adottate, ormai non aveva più senso… Shelob gli aveva uditi!
Fini gocce di sudore scivolavano sulla fronte della bruna elfa, i capelli le si erano attaccati alla fronte…
“Ci stanno seguendo, vero?” chiese ingenuamente Sam.
Sempre camminando, Estryd si voltò verso lo Hobbit e, cercando di non preoccuparlo, gli sorrise e rispose con dolcezza: “No… ma non è prudente attardarci più del necessario.”
Sam, non del tutto convinto dalle parole della principessa, continuò a camminare, aumentando il passo per stare dietro i due elfi.

A cena terminata, Alhena uscì sulla terrazza per godere del tepore serale; era stata un’altra giornata soleggiata e la brezza non la infastidiva. Percorse il porticato e, girando attorno al perimetro del palazzo, cercava di far tacere le molte domande che assillavano la sua mente. L’arrivo di Elladan a Rohan non era una casualità: che Elrond l’avesse mandato a cercarla? Che l’avesse infine perdonata?
Non voleva però illudersi, erano passati già molti anni e ormai aveva perso ogni speranza di riappacificazione. Fermandosi all’ombra di alcune colonne di pietra scura, Alhena osservò le montagne, incantata dal riflesso della luna sul nevischio in vetto.
Il tempo era magnifico; le stelle brillavano numerose e nemmeno una nuvola sporcava il cielo. Chiuse gli occhi e, immaginando di trovarsi a Gran Burrone, nella sua amata terra natia, cercò di trattenere le lacrime. Le mancava casa e avrebbe fatto qualunque cosa pur di ripercorrere i magnifici corridoi del palazzo di suo padre e dormire ancora nel suo soffice letto, nella sua camera personale.
Riaprendo gli occhi, una lacrima rigò il suo volto… ormai molti dettagli stavano svanendo dalla sua mente… sfumavano, coperti da una leggera nebbiolina che le impediva di riassaporare appieno il ricordo di casa.
“Speravo di incontrarti sola.”
Elladan raggiunse la sorella e, posandosi al muro del palazzo accanto a lei, le sorrise, continuando: “Volevo parlarti in privato.”
“Riguardo cosa?” domandò lei con tono ingenuo, guardandolo negli occhi.
“Sei cambiata.” sussurrò l’elfo studiandola attentamente. Alhena notò che il volto di Elladan era contratto.
“E’ normale…” rispose lei, altrettanto seria. “Sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo visti… crescendo è naturale… non trovi?”
“Sai fin troppo bene che non parlo di questo tipo di cambiamento…” rispose l’elfo e, respirando a fondo, aggiunse, guardando il cielo: “Hai perso l’innocenza… lo vedo dal tuo sguardo… hai affrontato molte avversità che ti hanno cambiata nel profondo, distruggendo la fanciulla che conoscevo…”
Alhena sbuffò, infastidita dalle osservazioni del fratello.
“Non dovresti fingere che non t’importa… siamo sempre stati molto legati… saresti dovuta venire da me! Saresti dovuta restare a Gran Burrone… nostro padre non aveva il diritto di cacciarti… avrei lottato con te, al tuo fianco!”
“Il diritto l’aveva… anch’io, al suo posto, mi sarei comportata nello stesso modo. Ha perso ogni cosa per causa mia! Ha perso tutto quando nostra madre ha lasciato le sponde della Terra di Mezzo.”
Elladan non rispose.
Il silenzio scese tra i due fratelli; Alhena si morsicava nervosamente le labbra, nel tentativo di frenare la domanda che stava per sgorgare prepotentemente dalla sua bocca.
L’elfo spostò lo sguardo sulla bionda e sorrise vedendo che almeno i suoi vizi non erano mutati col tempo… anche da bambina si morsicava le labbra quando era nervosa…
“Non sa che sono qui.” sussurrò Elladan, intuendo le angosce della sorella.
“Allora perché sei a Rohan? Ti sapevo a Bosco Atro…”
Meravigliato dall’arguzia di Alhena, la guardò e allora comprese: “Eri lì, vero? Eri lì quando io e Elrhoir con gli eserciti di nostro padre siamo andati da Thranduil… tu eri lì… a Bosco Atro…”
Alhena incrociò gli occhi del fratello: “Non è semplice…”
“Cosa vuol dire che non è semplice? Perché non ti sei mostrata a noi?”
“Mi è stato proibito.”
“Ti è stato proibito?” fece eco Elladan. “Chi? Chi te lo ha proibito? Thranduil, forse?” domandò con voce colma d’ira. “Per quale motivo? Perché?”
“Aveva giurato a nostro padre che non mi avrebbe accolta nel suo regno…” rispose con semplicità l’elfa, accompagnando l’affermazione con un’alzata di spalle. “Thranduil ha pensato di celarmi a voi… non per mancanza di fiducia, ma non voleva che altri sapessero dove mi trovassi. L’ha fatto per proteggermi…” concluse affievolendo il tono della voce.
Il ricordo del sovrano di Bosco Atro fece arrossire Alhena che, nel tentativo di celare il rossore delle gote, chinò il capo facendo scivolare i capelli oltre le spalle, coprendole così il volto.
“Per favore, non parliamone più… questa ormai è storia passata.” aggiunse la bionda.
“Presto o tardi si ricrederà… nostro padre ti permetterà di tornare a casa.”
“Ho perso ogni speranza, ormai…” concluse Alhena respirando a fondo. “Ed Elrhoir? Dov’è?” chiese nel tentativo di cambiare definitivamente discorso.
“Credo sia ancora a sud… nei pressi di Gondor… lì abbiamo incrociato Estryd…”
“Estryd?” lo interruppe Alhena, guardando il fratello negli occhi. “Hai visto Es? Come sta? Sta bene? Era con Frodo e Sam? Stavano bene?”
Alzando le braccia per proteggersi dal bombardamento di domande dell’elfa, Elladan sorrise: “Sta bene! Sta bene! L’ho vista solo per pochi minuti prima di lasciare Gondor e raggiungere Edoras… ma Elrhoir è rimasto con lei… e, credimi, stava bene! Con lei, però, non c’erano Hobbit. Non c’era Frodo e non c’era Sam.”
“Come? Non… non erano con lei? Ma… ma Estryd li ha seguiti! Ci siamo separati alle Cascate e lei è andata con loro…” sussurrò Alhena, più a sé stessa che al fratello. Elladan la guardava preoccupato, la bionda non riusciva a celare il terrore nel tono della voce. “Dev’essere successo qualcosa…” aggiunse l’elfa guardandolo negli occhi. “Non avrebbe mai abbandonato Frodo… dobbiamo parlare con Aragorn… e anche Boromir deve essere avvisato!”
Senza aspettare, Alhena corse verso la Sala dove aveva consumato il pasto, nella speranza di incrociare lì i compagni.
I corridoi del palazzo erano bui, dopo la cena venivano spenti tutti i fuochi non necessari. L’elfa percorse le vie quasi correndo e, arrivata a destinazione, con forza, aprì la porta, ma non c’era nessuno; dovevano già essersi spostati ognuno nella propria camera da letto.
“Alhena cosa ti preoccupa?” chiese Elladan raggiunta la bionda e afferrandola per una spalla.
“Se lei non è con gli Hobbit temo che sia successo loro qualcosa… non eravamo soli… da Moria siamo stati seguiti dalla creatura Gollum…”
Elladan conosceva la storia di Gollum e conosceva fin troppo bene la sua ossessione per l’Anello; iniziava a comprendere i turbamenti della sorella.
“Dobbiamo prendere una decisione… conosciamo i piani che lo stregone aveva per noi… Aragorn saprà di certo cosa fare…” concluse Alhena, prima di dirigersi a passo svelto verso l’alloggio del ramingo.
“E’ incredibilmente fortunato…” sussurrò Elladan, camminando a fianco della bionda.
“Come?” chiese Alhena, voltandosi e, aggrottando la fronte, guardò il fratello in volto. “Di chi stai parlando?”
“Di Gollum… è stato catturato per ben due volte da Thranduil e, entrambe le volte, è riuscito a scappargli… si vanta tanto delle sue prigioni inviolabili…”
“La prima volta è stato aiutato…” lo interruppe Alhena, ripensando ai mesi trascorsi a Bosco Atro.
“Aiutato? E da chi?” domandò l’elfo.
“Da me.” rispose Alhena fermandosi e affrontando il fratello. “Thranduil gli aveva negato cibo e acqua… non potevo lasciarlo in balìa di quel…” non terminò la frase, una parte di lei avrebbe voluto apostrofare Thranduil come un mostro, ma una vocina glielo impediva… Thranduil non era un mostro… o almeno non lo era del tutto…
“Tu lo hai liberato?” chiese Elladan incredulo.
“Sì, sono stata io. Ma non ha importanza; è stato ricatturato, giusto? E stavolta non sono stata io ad aiutarlo…”
“Può essere… ma è fuggito nuovamente… il suo vagare è un pericolo per noi…”
“Non per causa mia.” convenne Alhena, indispettita.
Elladan guardò la sorella; non riusciva a crederci… l’aveva liberato? Più ci pensava e meno  comprendeva le ragioni di Alhena… cosa l’aveva spinta a comportarsi in quel modo? A cosa stava pensando?
“Non guardarmi come se fossi pazza.” continuò lei. “Non puoi capire… tu non puoi…” la voce si ruppe nella gola dell’elfa. Prese fiato: “Comprendevo il suo stato d’animo… io, come lui, siamo stati prigionieri dello stesso carceriere.”
“Prigioniera?” le fece eco l’elfo. “Alhena cosa ti ha fatto Thranduil? Cosa è successo durante il tuo soggiorno a Bosco Atro?”
“Nulla…” rispose Alhena, cercando di non incrociare lo sguardo del fratello. Non avrebbe potuto mentirgli guardandolo negli occhi… non lo avrebbe potuto fare, mai.
Con dolcezza, il principe sfiorò il mento della sorella e, costringendola ad alzare il capo, vide i suoi occhi inumiditi.
“Alhena…” la chiamò con dolcezza. “Alhena…” ripeté ancora più dolcemente, abbracciandola.
La giovane respirò a fondo e chiuse gli occhi per non essere costretta a guardare il fratello. “Cosa è accaduto in questi anni che non vuoi dirmi?” domandò, infine, Elladan incrociando lo sguardo della sorella.
Alhena fissò il fratello, mordendosi le labbra per frenare la lingua.
“Alhena… parlami!” insisté.
Scuotendo il capo, la bionda disse, divincolandosi dalla presa: “Smettila! No… non possiamo parlare… questo non è il luogo, né il momento opportuno. Abbiamo questioni più urgenti da affrontare…”
Elladan rimase senza parole mentre guardava Alhena allontanarsi percorrendo velocemente il corridoio verso l’alloggio di Aragorn.

“Dobbiamo muoverci… l’ora è più tarda di quello che Gandalf temeva…” sussurrò Aragorn, camminando avanti e indietro nella sua camera.
Le notizie appena udite rendevano la situazione ancora più urgente e pericolosa. Se Estryd non era in compagnia di Frodo e Sam doveva essere accaduto qualcosa… la mente del ramingo lavorava frenetica…
Bussarono alla porta e, i tre, si voltarono in tempo per vederla aprirsi ed incrociare gli sguardi di Boromir e Legolas.
“Cosa succede?” chiese subito il Comandante di Gondor, leggendo la preoccupazione sui volti dei compagni.
“Elladan ha visto Estryd… sta bene…” rispose Alhena, incrociando lo sguardo di Boromir. Poi, guardando anche Legolas, aggiunse: “…ma era sola… attraversava la via che separa Minas Tirith da Cirith Ungol.”
“Sola?” chiesero in coro Boromir e Legolas, spostando l’attenzione su Elladan.
“Mio fratello è rimasto con lei.” aggiunse, attenuando le ansie di Boromir. L’elfo guardava con attenzione i comportamenti del gondoriano… non riusciva a inquadrarlo, le sorti di Estryd gli stavano molto a cuore; non comprendeva le ragioni.
“Cosa intendiamo fare?” domandò Legolas interrompendo il silenzio e avvicinandosi al ramingo. “Aragorn che facciamo?”
Fermando il suo vagare, Aragorn, respirò a fondo e, incrociando lo sguardo verde dell’elfo, rispose al quesito con tono risoluto: “Domattina parto…”
Gli occhi di tutti si posarono sul ramingo, sorpresi per quell’affermazione.
“Parti? E per dove?” chiese Alhena.
“Per Gondor…” rispose meditabondo. “Dobbiamo riferire queste novità anche a Gandalf… la situazione è peggiore… gli eventi stanno evolvendosi in modo diverso da quanto previsto…”
“Gondor?” fece eco l’elfa, non comprendendo le scelte di Aragorn.
“Voglio venire con te. Potrei esserti d’aiuto…” s’intromise Legolas.
“Perché Gondor? Dovremmo percorrere i confini di Mordor e cercare Estryd… cercare Frodo!” aggiunse Boromir, alzando la voce, preda del terrore.
“Non penso sia la scelta migliore…” constatò il ramingo. “Girovagare a vuoto non ci aiuterà a portare a termine la nostra missione… se Gollum si è unito agli Hobbit li condurrà attraverso una sola via. La stessa utilizzata da lui per scappare anni fa dalle prigioni di Mordor: Cirith Ungol… sono più vicini di quanto Gandalf immaginasse… non abbiamo tempo da perdere… Gondor deve essere avvertita!”
“Avvertita? Cosa sta accadendo che ignoro?” domandò Elladan, intromettendosi nella discussione e guardando risoluto Aragorn.
“Pipino ha intravisto parte dei piani di Sauron… sta preparando un attacco micidiale contro la cittadella e se il Portatore è davvero così vicino… potrebbe addirittura aver varcato i confini nemici, dobbiamo distrarre l’Occhio… ormai sa che non sono morto e la sconfitta di Saruman lo renderà ancora più feroce… la sua ira sfocerà contro la Cittadella… hanno bisogno di noi…”
“Permettimi di venire con te! Avrai bisogno d’aiuto!” disse Alhena con fervore e, guardando i compagni, aggiunse: “Permetti a tutti noi di seguirti! Non varcherai le mura di Edoras solo! Abbiamo iniziato questo viaggio insieme e lo termineremo insieme… fianco a fianco, come compagni!”
Scese il silenzio.
Gli occhi di tutti fissi su Aragorn che, osservando gli amici, non poté evitare di sentirsi in imbarazzo ma, allo stesso tempo, era loro grato. Il ramingo, in quel momento, comprese che, tacitamente, lo avevano posto a capo della missione, nominandolo loro leader.
“Non posso chiedervi di venire con me… la via che intraprenderò mi condurrà solo alla fine a Gondor… Gandalf ha sempre avuto ragione: devo attraverserete il Sentiero dei Morti… non posso farvi correre questo rischio… è un compito che mi compete e lo porterò a termine da solo…”
“Questo è fuori discussione.” concluse Alhena, sorridendo e incrociando le braccia. “Attraverserai la Montagna e noi saremo al suo fianco!”
“Sì…” aggiunse Boromir.
Anche Legolas e Elladan annuirono.
Aragorn, sapendo che non sarebbe mai riuscito a dissuaderli, non ebbe altra scelta se non quella di permettere loro di seguirli.
La discussione si protrasse per tutta la notte… Aragorn interrogò Elladan senza sosta, desideroso di conoscere le novità e gli spostamenti delle armate di Sauron sui territori umani ed elfici. Legolas e Boromir seguivano interessati la discussione, intervenendo per porre altre domande. Alhena rimase per lo più in silenzio, seduta comoda su una piccola poltrona blu; cercò di ascoltare i discorsi, ma poco prima dell’alba cadde addormentata, il capo posato contro lo schienale.
Legolas, appena si accorse che l’elfa si era appisolata, stese una calda coperta sopra il corpo della fanciulla.
“Ho avuto modo di conoscerla meglio durante questo viaggio…” disse Aragorn, guardando la giovane elfa dormire pacifica.
Elladan seguì lo sguardo del ramingo e sorrise: “E’ stata messa alla dura prova. Le decisioni di nostro padre non spesso si rivelano sagge come tutti credono…”
“No… direi proprio di no…” convenne annuendo il ramingo. “Ho cercato di dissuaderlo… Arwen e io abbiamo tentato diverse volte, ma sa essere testardo…”
“Non cambierà mai, vero?” domandò Elladan incrociando gli occhi color cielo dell’uomo.
“Stiamo parlando di un dolore talmente grande… così grande che lo acceca… terminato questo conflitto nulla tratterrà Elrond in questa Terra… nulla… allora partirà per le Terre Immortali e, forse, in quel luogo troverà la sua pace e, se i Valar vorranno, riuscirà a perdonare Alhena.”
“Non ho mai compreso le decisioni di Lord Elrond… ha commesso un’imprudenza… ma non avrebbe mai voluto che accadesse tutto questo…” s’intromise Legolas. “Per un po’ ha vissuto a Bosco Atro… prima di spostarsi a Esgaroth…”
“Ha vissuto anche a nord, con noi raminghi…” concluse Aragorn, ricordando il loro breve incontro.
“Estryd sta soffrendo ancora molto per questa situazione… erano molto legate…” sussurrò Boromir, accomodandosi sul letto accanto al ramingo.
Elladan guardò il Comandante di Gondor, chiedendosi come potesse conoscere così bene la sorella.
Rimasero in silenzio alcuni minuti, poi Legolas riprese parola: “Lasciamola dormire… ha molte ragioni per desiderare di allontanarsi dalla realtà.”

All’alba, Aragorn lasciò il proprio alloggio per recarsi nelle scuderie e iniziare a preparare i cavalli. Aveva già discusso con il Re di Rohan e, Théoden, non era entusiasta della decisione del ramingo. Partire non era la scelta migliore, ma non si oppose; comprendeva il desiderio dell’Erede di Isildur… il popolo di Gondor era la sua gente… ne era affezionato… anche lui avrebbe dato la vita per i cittadini di Rohan… erano tutti figli suoi…
Mentre raggiungeva le stalle, Aragorn si fermò all’ombra di un porticato e, estraendo la pipa, accese un fiammifero per fumare. Erano mesi che non si concedeva questo vizio… Arwen odiava l’odore del fumo e, per darle piacere, aveva smesso di fumare in sua presenza… ma i tempi erano cambiati; seppur riprovevole, il suo vizio, infondeva all’animo del ramingo calma, quella pace che cercava da tempo e che mai otteneva. Mentre inspirava a pieni polmoni, alzò lo sguardo in tempo per vedere una grande e vivace fiamma avvampare sulla vetta della catena montuosa a sud di Edoras… tossicchiò, alzandosi e, strizzando gli occhi, osservò i fuochi di Minas Tirith ardere… rimase senza fiato: la cittadella era in pericolo e chiedeva aiuto!
Voltandosi, Aragorn si diresse verso il palazzo: nessuno pareva essersene accorto.
“I fuochi!” urlò Aragorn, mentre varcava il grande portone della Sala del Trono.
Diversi sguardi interrogativi guardarono il ramingo.
“I fuochi!” ripeté, avanzando correndo per raggiungere le Sale dove aveva lasciato Théoden pochi minuti prima.
Le urla di Aragorn, rimbombando nelle sale del Palazzo d’Oro, raggiunsero le orecchie di Legolas ed Elladan, interrompendo il loro discorso.
Il principe di Bosco Atro si alzò di scatto, imitato da Elladan.
“I fuochi!”
La voce del ramingo rimbombò, era più vicina…
“Elladan…” la voce di Alhena raggiunse gli elfi alle loro spalle.
Voltandosi guardarono la giovane.
“I fuochi?” sussurrò la bionda, il cuore batteva frenetico nel suo petto.
Boromir annuì: “Ciò che temevo; la guerra ormai è cominciata.”
Raggiunsero la Sala Principale in tempo per vedere Aragorn correre verso Re Théoden: “I fuochi di Minas Tirith! I fuochi sono accesi! Gondor chiede aiuto!”
Gli occhi di tutti si spostarono dall’uomo al Re di Rohan, bramosi di conoscere la sua decisione.
Théoden chiuse gli occhi e, con sguardo risoluto, convenne: “E Rohan risponderà. Radunate i Rohirrim!”


Legolas non aveva mai obbiettato una decisione di suo padre. Lo assecondava, qualunque fosse l’ordine che riceveva; anche se erano richieste, a suo parere, assurde. Il giovane principe era abituato alle stranezze del genitore e, come Capitano delle armate di Bosco Atro, non poteva far altro che obbedire al suo Re. Così, quando un giorno, quasi due anni dopo la partenza di Alhena senza lasciare informazioni sulla sua meta, Thranduil aveva convocato il figlio nelle sue camere private.
Nervosamente il giovane elfo bussò alla porta, aspettando il permesso di accedere agli alloggi del padre.
“Entra…” la voce del genitore era calma.
Aprì la porta, Thranduil guardava fuori dalla finestra del proprio studio privato e, senza guardare in faccia il figlio, respirò a fondo poi, con tono altrettanto piatto, gli chiese di recarsi a Esgaroth.
“Esgaroth?” fece eco Legolas. “Perché dovrei recarmi in quelle terre?”
“Il mio spirito è inquieto.” s’interruppe un secondo e, respirando a fondo, aggiunse: “Vorrei avere sue notizie. Notizie di Alhena.”
Questa richiesta parve strana a Legolas; Alhena e Thranduil non erano mai stati molto legati… da quel che ne sapeva, i due elfi erano sempre pronti a battibeccare e lanciarsi frecciatine acide… ma questi episodi facevano sorridere il padre, Legolas se n’era accorto. Soprattutto, dopo la sera della Festa, quando Alhena era partita, qualcosa era cambiato nel padre. Non sapeva esattamente perché ma Thranduil, quella notte, gli aveva parlato a cuore aperto; aveva dato sfogo ai propri sentimenti; era cambiato… da quella sera era cambiato: non solo lo sguardo, ma anche le parole… aveva ritrovato la speranza…
Per un attimo, Legolas ricordò le parole che il padre riservò alla principessa di Gran Burrone… erano state pronunciate parole gentili, come se cercasse di trattenere delle emozioni troppo grandi per lui.
“Come mai la cerchi?” chiese il principe, senza riuscire a trattenere la sua curiosità.
Osservò il padre per studiarne le reazioni e le espressioni del volto, ma Thranduil non si mosse. Dava ancora le spalle al figlio e, immobile, scrutava il panorama.
“Come mai cerchi Alhena?” domandò nuovamente Legolas.
Thranduil si voltò; le labbra del Re erano piegate in un sorriso… non un ghigno, ma un vero sorriso… uno di quelli sinceri… uno di quelli puri…
“Papà…!” esclamò l’elfo, distraendolo dai suoi pensieri.
Incrociando lo sguardo del figlio e chinando leggermente il capo verso destra, Thranduil sussurrò con semplicità: “Mi è cara…”
Legolas ponderò con cura le parole del padre… “gli era cara”… cosa volevano significare queste parole? Quale legame univa Alhena a suo padre? Quell’affermazione aveva colpito Legolas; perché il significato, altri non era che Alhena stava a cuore a suo padre.
Deglutì e, guardando Thranduil negli occhi senza battere ciglio, Legolas concluse: “E’ cara anche a me…”
Il Re sorrise con dolcezza e, annuendo, rispose: “Lo posso comprendere: è una fanciulla straordinaria.”
Peccando di ingenuità, Legolas non comprese quanto fossero profondi i sentimenti del padre nei confronti di Alhena.
“Mio caro figlio conosco il legame che vi unisce… ma io non posso non conoscere le sue sorti… recati a Esgaroth e chiedi di lei…” ripeté il Re con più dolcezza. “Per favore…”
Mentre parlava, Thranduil non poteva non pensare al magnifico pomeriggio trascorso con la fanciulla, ormai quasi sei mesi prima… era la prima volta che si divertiva da anni… secoli, si corresse mentalmente… con la sua spontaneità, Alhena era riuscita a far nuovamente breccia nel suo cuore e, seppur spaventato al solo pensiero, Thranduil era ormai certo di amarla.
“Per favore, Legolas… cercala… cercala, trovala e portala in salvo… temo per la sua incolumità. È sola e… e la guerra incombe…”
“Alla fine ti sei affezionato ad Alhena come se fosse figlia tua…” sussurrò Legolas, sorridendo.
Thranduil abbassò lo sguardo e, fissando il lucido pavimento di marmo, ponderò le parole di Legolas: Alhena una figlia… respirò a fondo, arrossendo al ricordo dei seni dell’elfa… anche sforzandosi, il Re non riusciva a vedere la bionda principessa di Gran Burrone come una figlia…
“Mi darai sue notizie?” domandò Thranduil, alzando nuovamente lo sguardo e avvicinandosi a Legolas.
“Sì… e grazie per avermi permesso di cercarla.” concluse prima di voltarsi per raggiungere le scuderie.
Rimasto solo, Thranduil si accomodò dietro la grande scrivania di quercia e, prendendo tra le mani alcuni documenti dall’aria ufficiale, si perse nei suoi pensieri… non riusciva a concentrarsi… da due mesi era preoccupato per la sorte di Alhena… aveva sperato, inutilmente, che tornasse da lui… che il suo bacio non l’avesse spaventata al punto da fuggire per sempre… ma ora, più il tempo passava, più iniziava a temere che Alhena non sarebbe tornata a Bosco Atro: l’aveva persa. E, ciò che più temeva, era il pensiero d’aveva persa per sempre.
“Mio Re!” esclamò una guardia, entrando nell’ufficio del Sovrano e inchinandosi.
“Sì?” domandò con finta aria annoiata Thranduil, felice però di potersi distrarre dai suoi pensieri.
“Novità giungono dai nostri confini… un ospite giunge da Nord.”
“Quali nuove? E chi è costui?” domandò.
“Aragorn figlio di Arathorn chiede udienza… e non è solo: con lui porta il prigioniero Gollum.”
Un sorriso si aprì sulle labbra del Re: “Bene… prendete in custodia la creatura e rinchiudetela nelle prigioni: sorveglianza continua. Conducete il ramingo da me: ho bisogno urgente di parlare con lui…”
“Mio Signore, riserviamo alla creatura lo stesso trattamento dell’ultima?” domandò la guardia.
Thranduil sorrise, ricordando la sfacciataggine di Alhena e l’imprudenza compiuta liberandolo. Aveva dimostrato grande coraggio contraddicendo ai suoi ordini; nessuno l’aveva fatto prima.
“No…” concluse il Re. “Anche se è prigioniero nella nostra Terra per gli atroci crimini commessi, desidero che gli vengano dati cibo ed acqua, ogni giorno.”
Inchinandosi nuovamente, l’elfo uscì dalla Sala pronto a obbedire agli ordini del suo Sovrano.
Quando la porta si chiuse alle spalle della guardia, Thranduil si mise nuovamente comodo e, posando i gomiti sui braccioli della sedia,si sfiorò il mento con le dita… osservava il sole che sfiorava gli alberi del suo regno, illuminando le foglie e tingendole di vermigli colori.
Era difficile da ammettere, ma Alhena lo aveva cambiato… prima del suo arrivo non avrebbe mai mostrato pietà per un prigioniero, anzi avrebbe sfogato il suo dolore sul malcapitato nel tentativo di alleviare, anche per pochi minuti, il vuoto che aveva nel cuore… nei pochi mesi vissuti nel suo Regno, la giovane elfa gli aveva insegnato la compassione e l’umanità…
Chiuse gli occhi e rivide il sorridente volto della bionda; più volte dalla sua partenza si era chiesto se si fosse comportato male nei suoi confronti… dichiararsi era stato un errore, lo aveva compreso solo quando non l’aveva più vista tornare. Sospirò; nessuno c’era mai riuscito prima di allora, ma Alhena era riuscita a vedere il suo lato più nascosto… aveva compreso i suoi timori, le sue paure ma anche le sue speranze… Alhena lo aveva guardato e l’aveva visto… l’aveva visto nei giorni migliori e anche nei peggiori e, nonostante tutto, lo accettava.
Una lacrima rigò il fine volto del Re… ormai era tutto inutile: si era esposto e lei era scappata…
Riaprendo gli occhi, Thranduil fu certo però di una cosa: anche lui era riuscito a scorgere il lato più nascosto di Alhena.


Le urla disperate di Frodo raggiunsero le orecchie dei tre viaggiatori, rimbombavano nelle gallerie, amplificandosi. Non doveva essere molto lontano da loro…
“Veloci!” urlò Elrhoir, dimenticando ogni prudenza e iniziando a correre per le gallerie seguendo il suono della voce del Portatore.
Estryd e Sam lo seguivano, facendosi largo a fatica tra la rete di ragnatele. Man mano proseguivano, l’aria diventava fresca e l’odore diminuiva… un solo pensiero risuonava fisso nelle loro menti: stavano per raggiungere l’uscita!
“Di qua!” esclamò Elrhoir, svoltando improvvisamente a sinistra, lungo una via laterale.
La voce di Frodo era sempre più nitida… erano vicini… molto vicini!
Si riusciva a vedere la luce in fondo alla galleria, si avvicinava veloce… pochi metri e sarebbero stati nuovamente all’aperto!
Con un movimento improvviso, Elrhoir alzò il braccio sinistro, bloccando la corsa di Estryd e Sam. La scena che si presentò ai loro occhi paralizzò l’elfa.
Shelob stava tessendo la sua ragnatela imprigionando Frodo al suo interno… era grande, più di quanto Estryd avesse potuto immaginare… sovrastava il Portatore che, indifeso, non controllava i movimenti del suo corpo… pareva una marionetta in balìa del mostro…
“Non dirmi che è…” sussurrò l’elfa, guardando la scena inorridita.
“No, non penso… spero di no…” rispose Elrhoir studiando la situazione ed estraendo l’arma dal fodero. “Estryd, resta qui. Non intervenire…”
“Ma…” lo interruppe lei.
“No.” esclamò l’elfo, facendola zittire. “Pensa al bambino.” concluse abbassando il tono della voce, perché solo lei lo potesse sentire.
Con agilità, Elrhoir saltò fino ad atterrare con grazia sulla pietra, alle spalle del mostro; gli occhi fissi su Shelob.
“Elrhoir!” lo chiamò la sorella.
Il principe si voltò; i loro sguardi si incrociarono per pochi istanti… Estryd teneva le mani giunte, all’altezza del cuore… era preoccupata, Elrhoir lo percepiva…
“Sii prudente!” apostrofò lei muovendo le labbra e senza emettere alcun suono.
L’elfo sorrise alla bruna nel tentativo di confortarla poi, voltandosi, riportò l’attenzione sulla creatura.
Spostando la spada da una mano all’altra, Elrhoir la fece roteare su sé stessa, camminando con sguardo risoluto fino a raggiungere l’enorme ragno. Con movimenti fluidi, raggiunse il lato sinistro della creatura e, piegandosi lo colpì alle zampe con forza, ferendola.
Il verso di Shelob fu talmente acuto che fece male alle orecchie all’elfo… poi, lasciando cadere a terra il corpo inerme di Frodo, si voltò guardando Elrhoir che, spada in mano, la stava sfidando.
Shelob riconobbe nelle fattezze del nuovo sfidante quelle di un elfo; erano secoli che non si nutriva della dolce carne di un immortale e non si sarebbe fatta fuggire l’occasione. Con brutalità attaccò Elrhoir, cercando di ferirlo con i suoi artigli ma l’elfo era troppo veloce e abile… nonostante i tentativi, Shelob non riusciva a colpirlo…
Estryd guardava terrorizzata il fratello, avrebbe voluto intervenire per aiutarlo ma si trattenne al pensiero del bambino che portava in grembo… le mani posate con dolcezza sull’addome con fare protettivo…
Dopo pochi minuti, che all’elfa parvero ore, Shelob in un tentativo disperato di uccidere l’elfo, si sbilanciò in avanti facendo cadere entrambi lungo un precipizio laterale al campo dove si era consumata la battaglia.
Quella scena fece gelare il sangue nelle vene di Estryd: “Elrhoir!” urlò, uscendo dal nascondiglio e raggiungendo il dirupo.
Sam, dietro di lei, si era piegato su Frodo che, pallido in modo innaturale, ricambiava lo sguardo del giardiniere con occhi vitrei.
“E’ morto…” sussurrò, disperandosi Sam.
Udendo quelle due parole, Estryd si voltò: non poteva essere vero, non poteva concludersi così! Non dopo tutta la fatica e tutti i pericoli affrontati! Corse verso gli Hobbit e, chinandosi su Frodo, gli sfiorò con delicatezza il volto… era ancora caldo… spostò le mani fino al collo e, facendo pressione con le dita, cercò di sentire il battito del cuore… attese… dieci secondi, contò mentalmente l’elfa… quindici… venti… ma non accadde nulla… alzò lo sguardo, incrociando gli occhi di Sam… lo Hobbit stava già piangendo; anche se l’elfa non aveva confermato i suoi sospetti era chiara a Sam la situazione; Frodo era morto.
“Per di qua!”
Una voce gracchiante raggiunse le orecchie dell’elfa… stavano per avere compagnia… istintivamente strappò dal collo del Portatore l’Anello e lo infilò nello stivale destro.
“Sam…” disse Estryd risoluta guardando negli occhi verdi lo Hobbit. “Sam, ascoltami bene… non dir loro una parola su chi siamo e le ragioni che ci hanno portati qui.”
Lo Hobbit guardò l’elfa senza comprendere le sue parole.
“Presto non saremo più soli… potremmo tentare un confronto e difenderci… ma non agiremo così: ho un piano… quindi lasciamo credere a quegli orchi che ci arrendiamo pacificamente… qui, ora, non abbiamo speranza di vittoria.”
Sam annuì e, volgendo lo sguardo verso la scalinata di pietra, attesero le armate nemiche.

Una ventina di orchi li accerchiò, puntando loro contro le armi. I due alzarono le braccia al cielo e, non tentando di opporre resistenza, furono catturati e condotti lungo la stessa scalinata verso la fortezza meridionale di Mordor.
“Questo qui non è morto!” gracchiò un orco, piegato su Frodo mentre lo toccava con una mano.
Sam ed Estryd incrociarono lo sguardo, lo stesso pensiero attraversò le loro menti: non era morto?
“Non è morto?” chiese Sam dando voce ai suoi pensieri.
“Oh, no… lei lo infilza col suo pungiglione e lui si affloscia come un pesce senza lisca! Ah! Poi lei procede con lui. Ah! E’ così che le piace nutrirsi. Sangue fresco! Ah!” parlava come se si eccitasse nel pronunciare quelle parole. Poi, rivolgendosi ai suoi soldati, sbraitò: “Portateli nella torre!”
Poi, guardando Frodo, aggiunse: “Anche questo…”

Elrhoir cadde malamente schiantandosi di lato contro la roccia… un anomalo rumore fece intuire all’elfo che l’ulna si era spezzata. Resistendo al dolore, traballante, si alzò. Shelob lo stava puntando ma, le zampe tremanti, gli suggerivano che era ancora stordita dalla caduta…
Prima che si riprendesse del tutto, Elrhoir decise di attaccare la creatura… con agilità saltò, e, con eleganza, atterrò sul dorso del ragno. Questo, contorcendosi, mosse le zampe nel tentativo di far perdere l’equilibrio all’avversario, ma ogni suo movimento risultò vano.
L’elfo, in piedi sul dorso di Shelob, manteneva un perfetto equilibrio… la creatura di muoveva frenetica, stridendo allarmata…
Impugnando la spada, Elrhoir alzò il braccio buono sopra il proprio capo e, prendendo la mira, con forza, inferse il colpo fatale, trafiggendo la creatura alla testa e trapassandola da parte a parte.
Un ultimo verso di dolore rimbombò nella valle poi, Shelob, cadde a terra morta.
Senza riprendere fiato, l’elfo scalò la parete della fossa dov’era caduto… il braccio gli doleva, ma ignorava la sofferenza; doveva raggiungere la sorella e assicurarsi che stesse bene!
“Estryd!” esclamò. “Estryd?” ripeté, guardandosi intorno, senza vedere nessuno.
Dei passi lontani attirarono la sua attenzione; contò almeno diciotto orchi e, con loro, distinse la leggera falcata della sorella e il passo più marcato di Sam…
“No…” sussurrò disperato: erano stati catturati.

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Capitolo 27
*** CAPITOLO 27 - FIORI CON SPINE ***



Sono sparita per mesi, ma nel frattempo ho continuato a scrivere ed ecco qui il risultato!
Spero di riuscire ad aggiornare prima...
Buona lettura!
J
***


Il viaggio che separava il passaggio di Shelob alla Torre di Cirith Ungol si rivelò più lungo di quanto Estryd immaginasse. La via era, per lo più, in salita e, sebbene non fosse particolarmente faticosa da percorrere, gli enormi e irregolari gradini facevano inciampare Estryd che, bendata, non vedeva la strada scorrere sotto i suoi piedi. Il vento soffiava prepotentemente, sollevando da terra della polvere fine che, sfiorando il viso dell’elfa, la feriva, irritando il suo volto dalla pelle delicata.
Privata della vista, Estryd faceva affidamento sugli altri sensi per proseguire lungo la via… sentiva un rombo lontano che cresceva di intensità fino a giungere le sue orecchie dall’udito fine; degli eserciti si stavano preparando alla guerra, erano numerosi e le loro urla esprimevano un grande odio… una miriade di pensieri tormentava la mente dell’elfa, scene di guerra e violenza… scorre leggermente il capo, cercando di concentrarsi su altri suoni… i suoi passi… i passi degli orchi tutt’attorno a lei, duri e pesanti, che proseguivano ferendo il terreno sottostante… distingueva chiaramente anche la falcata di Sam, molto più delicata… alla sua destra, a pochi passi… il respiro dello Hobbit era irregolare, era spaventato… si intuiva dai battiti del suo cuore, erano accelerati… era preda del terrore… respirando a fondo, cercò di distinguere altre falcate ma, anche concentrandosi, la giovane non riusciva a percepire la presenza del fratello; di Elrhoir non c’era traccia.
Respirando a fondo, l’elfa tossicchiò; la cosa peggiore, senza dubbio, era l’odore di cenere… l’aria stessa che si respirava era rada e ciò impediva ad Estryd di respirare bene.
Sudava e le fini gocce di sudore cadevano dalla sua fronte lungo il volto, i suoi respiri si amplificavano nelle sue orecchie, le labbra dischiuse, bramose di aria fresca...
Muovendo leggermente il capo, il nodo della benda che copriva gli occhi della bruna immortale si allentò, facendo scivolare la fascia lungo il volto della fanciulla, fermandosi all’altezza del naso.
In quel momento poté vedere il paesaggio che la circondava: roccia. Ogni cosa attorno era grigia e sfuocata dalle polveri del Monte Fato. Alzò gli occhi al cielo, il chiarore tenue dell’astro diurno brillavano sopra la sua testa… dovevano da poco essere passate le due del pomeriggio, ma i raggi del sole erano quasi del tutto bloccati da una cortina di nubi… e poi la vide: la Torre di Cirith Ungol si ergeva davanti ai suoi occhi… la scalinata conduceva alla fortezza, la loro meta… e, in cuor suo, Estryd temeva che quella fosse la fine del loro viaggio.
Distogliendo lo sguardo dalla Torre, Estryd vide Sam camminare pochi metri alla sua destra; a differenza di lei, non era stato bendato, ma delle pesanti catene avvolgevano il suo corpo partendo dal collo fino ai polsi e alle caviglie.
“Sam!” sussurrò la bruna principessa, cercando di attirare l’attenzione dello Hobbit.
Non ottenendo risposta, ripeté il suo nome: “Sam!”
Ma il compagno pareva non accorgersi della sua voce che lo chiamava.
Mordendosi il labbro inferiore e guardandolo con maggior attenzione, Estryd notò che l’amico camminava guardando fisso il terreno, lo sguardo smarrito e il volto sporco di sangue.
“Sam!” esclamò per l’ennesima volta alzando appena un poco il tono della voce.
Lo Hobbit si voltò e incrociò lo sguardo verde dell’elfa: “Sam… non una parola…” disse Estryd sussurrando e scandendo bene le parole. “Non una parola…” concluse, ripetendosi.
Sam guardò con intensità l’amica e, accennando un lieve sorriso, annuì.
Solo in quel momento, quando i loro sguardi s’incrociarono, Estryd notò un taglio particolarmente profondo sulla nuca dello Hobbit che sanguinava abbondantemente.
“Zitti schifosi!” urlò un orco, guardando i prigionieri e strattonando con forza le catene che li imprigionavano. “O saremo costretti a farvi stare zitti noi!”
Sam non replicò e, abbassando il capo, continuò a camminare in silenzio.
“Se muori dalla voglia di parlare, elfa, lo potrai fare… o si che lo farai… ma con il nostro Capitano… a lui dirai ogni cosa… e credimi lui ti farà cantare…” concluse malignamente.
“Potrai far di me ciò che vuoi, ma non una parola uscirà dalle mie labbra, schifosa creatura!” ribatté con prepotenza Estryd, fissandolo negli occhi e sfidandolo con coraggio.
L’orco fermò il suo cammino e, girandosi, ripercorse i suoi passi, raggiungendo l’elfa. Estryd sostenne lo sguardo del servo di Mordor, senza battere ciglio e senza far trapelare la paura che nutriva in quel momento.
“Oh, credi alle mie parole, mia cara…” sussurrò con voce gracchiante, l’alito gli puzzava di morte e fece storcere il fine naso di Estryd. “Credimi… tu parlerai… parlerai con il nostro Capitano perché l’unica scelta che avrai piccola principessina di Gran Burrone sarà parlare… o morire.”
Dunque sapevano chi lei fosse e il suo rango… dunque sapevano ogni cosa anche della loro missione? Il dubbio si fece strada nei pensieri dell’elfa che non ebbe più la forza di ribattere all’orco.
Lo stridio di un corvo, attirò l’attenzione di Estryd che, alzando lo sguardo verso il cielo, osservò il volteggiare dell’uccello sopra le proprie teste… riuscì a sentire i suoi occhi neri osservarla e, anche se solo per un breve istante, l’elfa percepì che il corvo non era la sola creatura che la stava osservando… Elrhoir era più vicino di quanto credesse.

Seguendo il gruppo di orchi, correndo con agilità tra le rocce sopra la scalinata, Elrhoir, in poco tempo, raggiunse la comitiva che scortava la sorella e Sam verso Cirith Ungol. Contò una ventina di orchi in totale, armati e pronti alla battaglia. Fermandosi, l’elfo si nascose all’ombra di alcune rocce scure e, sporgendosi oltre queste, osservò i loro spostamenti. Distinse subito la chioma scura della sorella che, lucente spiccava tra quegli esseri. Alla sua destra, con sguardo chino, camminava Sam, mentre Frodo era trasportato in bracci. Dei rumori metallici rimbombavano fino alle sue orecchie; gli orchi avevano incatenato i prigionieri con dei grandi collari di metallo che, stringendosi attorno al loro collo, impediva loro ogni movimento.
Anche se solo per fama, Elrhoir conosceva molto bene il Luogotenente che governava sulla Torre facendo le veci di Sauron ed era famosa, tra le altre cose, per la sua crudeltà. Nessuno sopravviveva una volta imprigionato e lui era il primo a vantarsi delle vite che sacrificava per Mordor e la causa del suo Signore.
Sverker si chiamava; era un elfo che, tradendo il suo popolo, aveva prestato fedeltà a Sauron. Prima del suo tradimento, che fece scalpore nel regno di Lothlorien, sua terra natìa, Sverker catturò, torturò e assassinò quattro suoi compagni. Elrhoir lo conosceva bene, avevano la medesima età. Un vero guerriero, ricordò il principe, pronto alla battaglia e impavido; con magnetici occhi blu notte e lunghi e lucidi capelli corvini.
“Oh, Es… in che guaio ti sei cacciata…” sussurrò il principe, guardando la chioma castana della sorella, allontanarsi lungo la via che conduceva a Cirith Ungol.
Chinandosi nuovamente e, posando la schiena, contro il masso, Elrhoir iniziò a elaborare un piano d’azione; entrare sarebbe stato complicato e uscirne vivi ancora di più. Non poteva lasciare nulla al fato.
Chiuse gli occhi e l’immagine della fortezza apparve nei suoi pensieri: la Torre era la roccaforte meridionale più forte di Mordor. La sua potenza non era dovuta dal numero di soldati che vi abitavano e che la difendevano; contava poco più di mille orchi ma questi erano tra i più abili e crudeli sotto il comando di Sauron, addestrati all’arte della guerra da Sverker stesso.
Elrhoir respirò a fondo e, con risolutezza, prese una decisione: sarebbe entrato nella Torre, nascosto alla vista degli orchi grazie all’oscurità della notte. Non mostrarsi sarebbe stato fondamentale… in un combattimento contro il Luogotenente avrebbe inevitabilmente perso.

Dopo la decisione presa da Re Théoden, Edoras era in subbuglio. I preparativi per l’imminente partenza erano iniziati e, prima del calar del sole, sarebbero partiti per Dunclivo. Ogni soldato in grado di cavalcare era pronto e bramava la guerra; ognuno di loro indossava con fierezza la loro armatura e si aiutavano tra loro, affilando le spade e preparando lance e frecce.
Con passo tranquillo, Aragorn camminava tra loro osservandoli ammirato. Senza paura sarebbero marciati verso Gondor per aiutare gli antichi alleati, consapevoli dei pericoli che avrebbero rischiato. Risalendo la scalinata, il ramingo entrò nel Palazzo d’Oro e, raggiungendo la Sala Principale, si fermò ammirando la Bianca Dama di Rohan.
Osservandola, non poté evitare di pensare che Eowyn fosse una donna di straordinaria bellezza e, oltre a possedere la grazia e le fattezze tipiche del popolo Rohirrim, era dotata anche di una forza che Aragorn aveva visto solo in poche persone, ancor meno se del gentil sesso.
“Cavalcherai con noi?” domandò con voce profonda, avvicinandosi a lei e guardandola negli occhi grigi.
Alzando lo sguardo verso l’uomo, la fanciulla sorrise: “Solo fino all'accampamento. E’ tradizione che le donne della corte salutino gli uomini. Gli uomini hanno trovato il loro capitano. Ti seguiranno in battaglia, fino alla morte. Tu ci hai dato speranza.”
Aragorn abbassò lo sguardo, imbarazzato dalle parole della dama; non era abituato alle lusinghe.
“Voi siete un grande popolo. Con valori e coraggio. Io vi avrò dato la speranza ma voi, in questa missione, ci metterete qualcosa di più importante: voi stessi. Sarà un grande onore per me cavalcare al vostro fianco…”
Le gote di Eowyn avvamparono quando Aragorn posò le sue forti mani da guerriero sulle sue, molto più esili. Poi, guardando la ragazza negli occhi, il ramingo sorrise con dolcezza e, chinandosi in un profondo inchino, le baciò la mano e si allontanò per raggiungere le scuderie.
“Potrai mentire a lui e a tutti in questo palazzo, ma non puoi mentire a me… non ne saresti in grado…”
Eowyn, voltandosi, sorrise ad Alhena: “Mentire? Perché dovrei mentirti?”
“Non dovresti venire con noi… è pericoloso e qualcuno dovrà badare al popolo del Mark.” disse l’elfa, avvicinandosi alla ragazza. “Ti conosco, Eowyn, e non penso che ti fermerai a Dunclivo…”
“Faccio il necessario per assicurare la pace alle generazioni che verranno.” rispose questa, dando le spalle all’elfa e impugnando la sua arma, carezzandone la fodera.
“Saresti utile anche qui… Rohan avrà bisogno di te! Il popolo volgerà qui il suo sguardo in cerca di sostegno, di aiuto… tu dovrai dar forza ai Rohirrim!”
“Verrò a Dunclivo.” concluse, testarda. “Come vogliono le tradizioni del mio popolo… quieta il tuo animo, amica mia… non proseguirò oltre il mio cammino.”
Rincuorata dalle parole di Eowyn, Alhena sorrise e abbracciò con affetto la fanciulla. Nei pochi mesi vissuti a Edoras, aveva cercato di scalfire la corazza che la scudiera di Rohan si era costruita per proteggersi… ma ogni tentativo era stato vano. Alhena aveva lasciato la capitale del Mark in silenzio, abbandonando un’amica fragile; era orgogliosa di lei. 
“Cavalcherai al mio fianco?” domandò la dama di Rohan.
“Se lo desideri, lo farò… lo farò con enorme piacere…” acconsentì Alhena, sorridendo.
Voltandosi, l’elfa stava per uscire da palazzo per raggiungere i Compagni di viaggio ma, chiamandola, Eowyn la fece fermare.
“Alhena…” ripeté la giovane scudiera di Rohan.
“Dimmi…” la incoraggiò Alhena, affrontandola.
“Cosa… cosa è accaduto a lui? A Grima?”
Pronunciare il nome di quel viscido era costato a Eowyn molta fatica e coraggio… Alhena sorrise tenuemente e, abbassando lo sguardo, rispose con infima voce. Provava ancora molto rancore per quanto accaduto… avrebbe preferito che le cose si fossero evolute diversamente…
“Non so… avrei voluto porre fine alla sua inutile vita qui… il giorno del nostro arrivo a Rohan… ma gli è stato permesso di vivere e di strisciare fino al suo padrone…” l’elfa s’interruppe per alcuni secondi, deglutendo la saliva e l’amaro che sentiva in bocca. “Non ho assistito all’assedio di Isengard…”
“No?” domandò Eowyn, guardando Alhena negli occhi e, meravigliata, vi scoprì una grande angoscia. “Perché no? Cosa cerchi di nascondermi? Che cosa ti è successo? Vedo solo dolore…”
“Ho perso un amico importante… un padre per me…”
“Pensavo non ci fossero segreti tra noi…” l’ammonì la fanciulla.
“Sì, forse un tempo era così… ma il tempo ci rende bugiarde e il numero di segreti che si cerca di custodire aumenta…”
“Cosa è cambiato? Cosa è cambiato da quei giorni quando ti consideravo mia sorella?” domandò Eowyn, sostenendo lo sguardo di Alhena e stringendola per le spalle.
Chinando il capo, Alhena nascose il suo dolore. “Non dev’essere stato semplice per te restare qui da sola.” convenne l’elfa, incrociando gli occhi della scudiera. “Perché non sei fuggita? Avevamo un piano… saresti scappata da Edoras… ti credevo lontana da qui… ti credevo al sicuro…”
La Dama di Edoras sorrise con tristezza e, voltandosi, si allontanò dal Salone principale, fece però segno all’amica di seguirla.
La mattina che vide Alhena, insieme ai suoi compagni, varcare i confini della Capitale del Mark, aveva cercato di evitarla; non era ancora pronta ad affrontare le domande che l’elfa le avrebbe fatto… non ancora… ma ormai che scelta aveva? Erano lì e si parlavano con dolcezza e onestà com’era sempre accaduto tra loro…
Alhena seguì la ragazza senza parlare; guardava il pavimento scorrere sotto i suoi piedi ad ogni passo che faceva.
“Eowyn non c’è nessuno qui!” esclamò l’elfa dopo che giravano senza meta da alcuni minuti.
La ragazza si fermò e, prendendo fiato, affrontò l’immortale.
Alhena sorrise, divertita dall’arguzia dell’amica. Chinò il capo e, alzando lo sguardo, incrociò gli occhi grigi della mortale; sì, era proprio cambiata…
Nella mente dell’elfa si fecero vivi i ricordi dei mesi trascorsi a Edoras; parevano passati secoli… Eowyn era cresciuta e aveva acquisito maggior sicurezza; in quei mesi, la bionda immortale aveva cercato di aiutarla come meglio poteva e ora, guardandola, Alhena era fiera della donna che era diventata.


Era inverno e la capitale di Rohan era coperta da una candida spolverata di neve. L’aria era fredda e soffiava prepotente da nord, i tetti erano tutti bianchi, completamente coperti da neve ormai ghiacciata e delle fini stalattiti si erano formate.
Le vie di Edoras erano deserte; nessuno rischiava ad avventurarsi nelle contrade della città. I fiocchi caduti sulle strade avevano coperto le vie tingendole di bianco, non un’orma rovinava la distesa di neve.
Alhena camminava lentamente mentre si allontanava dalle scuderie per tornare a palazzo. Il suo cavallo era stato male e la giovane elfa aveva badato alla creatura ininterrottamente per due giorni. Era stanca, ma si sentiva sollevata quando poche ore prima l’animale si era alzato e aveva cercato del cibo; stava meglio. Con passo felpato, la bionda si muoveva senza lasciare un’orma a sfregiare la distesa candida… sembrava volare mentre passeggiava silenziosa…
Il lungo mantello che portava piegato sul volto frusciava silenzioso sfiorando la terra… respirava l’aria gelida e piccole nuvole di fumo uscivano dalle sue labbra a ogni respiro. Non sentiva freddo; non era nella natura di un elfo provare freddo o caldo… riusciva sempre ad acclimatarsi qualunque temperatura trovasse.
Due sere prima, dopo i molti anni di vita, aveva visto cadere la neve dal cielo e, sfiorandola, aveva scoperto la sua natura fredda, delicata e leggera… sorridendo era uscita dalla stalla e correndo nella piccola piazza fuori dalla struttura, l’elfa aveva alzato lo sguardo al cielo e, perdendosi nel volteggiare dei fiocchi, aveva riso. Si era scoperta felice… felice nonostante fosse lontana da casa e lontana da Bosco Atro.
“Siete mattiniera, bellissimo fiore elfico…”
Una fredda voce, trascicata e priva di ogni sentimento, raggiunse le fini orecchie della bionda.
Alhena fermò il suo cammino. Senza voltarsi, rispose secca al suo interlocutore: “Non è nella mia natura dormire più del necessario.”
“Potrei aiutarti io a rilassarti un po.” aggiunse con tono viscido il Consigliere del Re, raggiungendo l’elfa e stendendo un braccio sfiorò con tocco leggero il manto della giovane. “Possiedo delle erbe davvero appropriate per indurre chiunque a un sonno profondo…”
Senza preavviso Alhena si voltò con furia e fulminò con lo sguardo l’uomo che, con il braccio ancora proteso, sostenne lo sguardo duro e colmo d’odio della giovane. Grima impazziva per il comportamento dell’elfa…
“Posso fare qualcosa per te?” chiese cercando di placare la sua rabbia. Non era mai stata molto diplomatica e, se qualcosa o qualcuno la infastidiva, non riusciva a mentire e fingersi superiore. E Grima Vermilinguo la infastidiva molto.
“Volevo solo deliziarmi dalla tua compagnia…” rispose quello, avvicinandosi alla bionda. “Ma ti vedo stanca… non voglio trattenerti oltre.” concluse sfiorando il volto della giovane.
Quel tocco, seppur leggero, fece rabbrividire l’elfa che, arretrando, si allontanò dall’uomo.
“Se è tutto, buona giornata…”
Detto ciò, Grima si voltò e si allontanò, il passo leggermente tremante. Alhena osservò il Consigliere camminare; trovò strano che il Consigliere del Re rientrasse a Edoras a quell’ora di mattina… non comprendeva quali affari lo avessero spinto fuori dalle mura della Capitale.
Fin dal loro primo incontro nella radura fuori Rohan, l’elfa aveva capito che quell’uomo non era ciò che appariva… la sua anima era affine solo a quella dei serpenti, sussurrava consigli al Re pieni di odio e parole ingannevoli che portavano il cuore del Sovrano di Rohan nell’oblio.
“Oh… un’ultima cosa, Principessa.” aggiunse Grima, fermando il suo passo e voltandosi, incrociando lo sguardo dell’immortale.
Alhena osservò l’uomo, in attesa d’ascoltare le sue parole.
“Ebbene?” chiese con sfrontatezza la principessa.
“Temo che il tuo soggiorno presso Rohan stia per terminare… dovrai allontanarti da questa povera terra.”
“Allontanarmi?” ripeté Alhena.
“Sì. Hai compreso bene… è volere del Re, e mia, un tuo allontanamento da Edoras.”
“Per quale ragione? Perché mi riferisci te questo messaggio e non il Re? O suo figlio? Che diritto hai te di chiedermi questo?”
Con un movimento improvviso il viscido Consigliere di Théoden si avvicinò ad Alhena che, colta alla sprovvista, indietreggiò fino a schiacciarsi contro la parete di una baracca… l’elfa riusciva a vedere nei suoi occhi le sfumature delle sue iridi, colme di odio e malignità. Respirava con affanno, l’alito gli odorava di marcio; un misto tra fumo e alcol.
L’immortale storse il naso, disgustata: “Non osare…” iniziò a dire, ma non terminò la frase.
Grima alzò un braccio e, spingendo Alhena contro un muro, sfiorò il suo fine volto pallido, segnando con un tocco delicato la linea dalla sua tempia, scendendo accanto all’occhio destro, sfiorando le ciglia, fino a cadere con delicatezza sul labbro inferiore.
Il cuore della bionda batteva all’impazzata, immobilizzata dal proprio terrore.
“Ho sempre pensato che tu sia un raggio di sole in questa desolata terra… ma non posso permettere che tu rimanga… mio dolcissimo fiore elfico…” fece una pausa. “Quindi prendi le tue cose e vattene.”
“Ed Eowyn?” domandò Alhena.
Non aveva intenzione di abbandonare l’amica, non dopo quando, in lacrime le aveva raccontato ogni cosa… quando con la disperazione nella voce aveva avuto il coraggio di raccontarsi.
“Non la abbandono qui… da sola… con te.” concluse la bionda con disprezzo.
“Non penso tu abbia alternative.” rispose con un’alzata di spalle Grima. Poi, con un movimento del braccio, una decina di guardie Rohirrim si avvicinarono al Consigliere, accerchiando lui e la giovane elfa e puntando robuste lance verso di lei.
Avvicinandosi all’orecchio di Alhena, sussurrò: “Puoi cercare di restare, ma dovrai batterti con loro e guardali… sono uomini innocenti… la loro unica colpa è servire un regno debole. Un regno sotto il dominio di qualcuno di più saggio.”
“E saresti tu quest’uomo più saggio?” domandò con disprezzo Alhena.
“No… non ho la sfacciataggine di considerarmi tale… ma colui che servo fedelmente è il più saggio che conosca.”
Alhena comprese che Grima non parlava del Re, stava per ribattere ma, afferrandola per la sottile gola, sussurrò con odio le ultime parole prima di congedarla: “Vattene e ti sarà risparmiata la vita. A te…” poi, accennando alle guardie, aggiunse: “…a loro…” e, infine, guardando il Palazzo alle loro spalle, concluse, dicendo: “…e alla tua nuova amica.”
Alhena fissò Grima, senza sapere cosa fare… aveva un pugnale nello stivale, sotto la lunga veste vermiglia che indossava, ma non poteva usarlo… le conseguenze sarebbero state troppo tragiche.
Respirò a fondo e, guardando l’uomo, sorrise sfidandolo: “Ti posso promettere che avrò la mia vendetta… so quello che dico… magari passeranno solo pochi giorni o alcuni anni… ma le nostre strade si incroceranno nuovamente e in quell’occasione sarò preparata. Nulla mi distoglierà dalla mia missione… hai fatto solo male nella tua patetica e inutile vita…”
Anche Grima sorrise, nessuna donna che aveva conosciuto era come Alhena… lo eccitava il continuo battibecco dell’elfa e la sua testardaggine… ghignò e, annusando il profumo della bionda chioma di quella, sussurrò al suo orecchio: “Che strano… ero convinto che i fiori elfici fossero del tutto privi di spine…”


“Hai ragione… sono partita e non ti ho salutata… ma non potevo restare… avevi bisogno di un’amica al tuo fianco ed io, nonostante mi considerassi tale, ti ho abbandonata… non ti sono stata vicina e so che dirti adesso queste cose non valgono la sofferenza che hai passato… me ne rammarico… ma non potevo restare… non più…”
“Non potevi restare?” ripeté Eowyn, con le lacrime agli occhi. “Io sono rimasta!” esclamò, sottolineando ogni singola parola. “Io sono restata qui, per mesi! Da sola! Con… lui!” concluse con crescente disprezzo. “Il suo sguardo mi ha seguita, tormentando le mie giornate e terrorizzando le mie notti! Ma sono restata! Per stare vicino a mio zio e a mio fratello… non potevo andarmene… non dopo che mio cugino… non potevo…”
Alhena tacque. In quasi mille anni di vita, questa era la prima volta che non trovava le parole per esprimere ciò che provava e, dopotutto, che parole avrebbe potuto trovare? Guardare gli occhi grigi di Eowyn fece smarrire l’elfa; anche volendo, non avrebbe mai potuto comprendere l’amica… i suoi occhi…
Alhena chinò lo sguardo, non sopportava il loro peso… erano colmi di dolore, angoscia, disperazione… notti insonni trascorse nella paura di udire anche il minimo movimento. L’elfa avrebbe voluto chiedere scusa… ma quella parola perdeva di significato davanti all’inferno che la bionda scudiera aveva dovuto affrontare.
“Quando ti ho vista… non pensavo… ero certa che… che tu…” farfugliò Alhena.
Era la prima volta che Alhena vedeva il dolore che la principessa di Rohan cercava di nascondere; si era sempre mostrata forte, non solo con lei, ma anche con chi chiamava famiglia… aveva celato per così tanto tempo nelle profondità del suo animo le angosce che la tormentavano che ormai erano diventate parte di lei, come fantasmi che non riescono a trovare pace…
“Sono diventata brava a fingere…” rispose Eowyn. “Ciò che ho passato mi ha resa forte. Oggi partiremo per Dunclivo e da lì proseguirò la cavalcata fino a Minas Tirith.”
“Non te lo permetteranno mai!” esclamò Alhena. “Tuo zio… tuo fratello… non te lo permetteranno… io non te lo permetterò!”
“Me lo permetteranno se non sapranno che sono io a cavalcare.” concluse la fanciulla con coraggio. “Non voglio restare qui… chiusa in questa gabbia…” s’interruppe guardandosi attorno. “Questo è ciò che temo…” aggiunse Eowyn, con tono di chi aveva perso ormai ogni speranza. “Temo di rimanere sola… in questo regno che ormai è diventato un cimitero… ad attendere cosa? Che il destino si compia… che la mia fine giunga?”
Scuotendo il capo, la dama di Rohan, aggiunse: “No! Io non mi arrenderò! Perché valorosi Rohirrim possono combattere per ciò che amano ed io no? Perché sono una donna? No! Io voglio combattere… voglio dimostrare il mio valore! Difendere il mio popolo…”
“Dimostri coraggio, amica mia. Più rispetto a molti uomini che ho incontrato…” Alhena guardò Eowyn negli occhi, non c’era timore… era risoluta nella sua decisione. L’elfa sorrise e, prendendo nelle sue mani quelle della scudiera di Rohan, concluse: “Io tacerò… non una parola uscirà dalle mie labbra… ma tu, cerca di aver cura di te stessa… voglio rivederti viva e incolume al termine di questa guerra.”
“Potrei dire lo stesso di te…” rispose ilare Eowyn.
Entrambe le fanciulle risero e, con affetto, si strinsero in un abbraccio.

Boromir, in compagnia di Aragorn, stavano discutendo con Re Théoden, Eomer e il suo fido Capitano, Gamling. La via che avrebbero dovuto percorrere era perigliosa e non priva di pericoli; avevano sconfitto Isengard, ma questo non equivaleva alla vittoria della guerra e alla pace nel regno di Rohan.
“Mio Signore…” una guardia interruppe i discorsi dei cinque, attirando i loro sguardi. “Mio Signore, mi hanno informato che i preparativi sono stati ultimati. Possiamo partire a un vostro ordine.”
Théoden annuì e, guardando i valorosi gondoriani, domandò loro: “Possiamo considerare la via che ci condurrà a Gondor decisa…”
Aragorn annuì, contento e grato della decisione del saggio Sovrano.
“Bene.” convenne il Re, prima di congedarsi e allontanarsi dal tavolo dove si era discusso per recarsi alle scuderie.
Dopo l’allontanamento di Grima da Edoras, Théoden aveva ritrovato il vigore perduto. Durante la battaglia al Fosso di Helm, nonostante avesse riacquistato il controllo sulle sue azioni e sulla sua mente, era ancora preda dalla paura. Temeva di non essere abbastanza forte per affrontare una guerra, ma si era dovuto ricredere. Aveva brandito la sua fida spada e aveva combattuto con fervore. E ora, solo pochi giorni dopo la vittoria sul campo di Rohan, Théoden bramava dal desiderio di tornare in battaglia… di stringere nella mano la dura e fredda elsa della sua amata arma… la sua Herugrim…
Mentre camminava per raggiungere le scuderie, con un movimento naturale sfiorò con le dita l’elsa… aveva imparato a combattere con quella spada… era importante per il Re, un prezioso dono di suo padre, tramandata da generazioni…
Rimasti soli, Aragorn si accomodò su una panca di legno e, studiando con attenzione la cartina posata davanti a lui, cercava di percorrere con lo sguardo la via migliore che l’avrebbe condotto fino a Minas Tirith… lontane, le voci di Legolas, Boromir ed Elladan raggiungevano le sue orecchie… ma non captava le parole, erano confuse; troppo concentrato sul suo obiettivo: vincere la guerra per poter tornare dalla sua amata Arwen… Arwen… solo pensare al suo nome faceva rabbrividire il valoroso ramingo…
Arwen era la creatura più affascinante, colta, bella che avesse mai visto o avuto il piacere di incontrare nei suoi lunghi anni di vita… spesso di smarriva nel ricordo degli attimi vissuti insieme… il dolce profumo del suo corpo e la profondità del suo sguardo… lei era tutto per Aragorn. Arwen era il suo mondo…
“Aragorn? Aragorn, che dici?”
La voce di Boromir raggiunse lontana i pensieri del ramingo che, alzando gli occhi dalla mappa, incrociò quelli grigi del Comandante.
“Come?”
“Il nostro prode ramingo sognava ad occhi aperti…” s’intromise sorridendo Elladan che conosceva bene il forte legame che univa Aragorn a sua sorella.
“I sogni sono l’unica cosa che potremo mai avere…” convenne con tristezza. “L’ho pregata di partire… di allontanarsi da questa Terra di Mezzo… merita una vita migliore… una vita felice nelle Terre Immortali, lontana da me.”
“Arwen ha compiuto la sua scelta.”
Aragorn, senza comprendere le parole del principe di Gran Burrone, lo guardò con occhi interrogativi. Solo in quel momento, Elladan comprese che Aragorn era ignaro della decisione di Arwen di condividere una vita mortale al suo fianco.
“Arwen non è partita…” aggiunse con un filo di voce l’elfo, guardando il ramingo negli occhi.
“Cosa?” Aragorn si alzò in piedi, ribaltando la panca su cui era seduto. “Non è partita? Ma… io… lei mi aveva detto… lei… e vostro padre?” farfugliò.
“Nostro padre è contrariato, ma non si oppone alla sua decisione.”
Legolas e Boromir rimasero in silenzio, incerti su cosa dire ma entrambi comprendevano quanto poteva essere difficile per il ramingo apprendere quelle decisioni.
“Arwen ti aspetterà… ti aspetterà per sempre, se necessario.”
Chinando il capo, un pensiero macabro avanzò nella mente di Aragorn… prendendo questa decisione, Arwen non l’avrebbe più aspettato… non per sempre, per lo meno.





Spero vi sia piacciuto!
A presto,spero! ;)
J

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Capitolo 28
*** CAPITOLO 28 - SVERKER ***


Mi dispiace essere sparita per così tanto tempo, ma impegni personali mi hanno impedito di aggiornare prima...
ora che ho un pò di tempo ecco a voi un nuovo capitolo... spero vi piaccia!
Recensite se volete, ogni opinione è sempre ben accetta!
J
***


Il sole brillava caldo sopra le teste delle armate di Edoras mentre cavalcavano per raggiungere Dunclivo. Prima del calar del sole sarebbero giunti a destinazione e, ad attenderli, Aragorn era certo che ci sarebbero stati altri scudieri di Rohan. Il ramingo cavalcava con postura regale; fremeva dal desiderio di impugnare la sua arma e combattere perché, seppur fosse stato educato per diventare Re, discendeva da una casata di valorosi guerrieri…
Avvicinandosi ad Aragorn, Boromir interruppe i suoi pensieri.
“Sono mesi che non vedo casa, sai? Mi manca Minas Tirith…”
Il ramingo sorrise con dolcezza e guardò Boromir negli occhi.
“E’ cosa tua… comprendo perfettamente i tuoi sentimenti… tuo padre sarà preoccupato per la tua sorte… sono certo che sarà felice di rivederti, di riabbracciarti…” Aragorn s’interruppe un istante e, deglutendo, aggiunse abbassando il tono della voce: “Si dicono molte cose del Sovrintendente, ma nessuno mette in dubbio il suo amore per te e per Faramir.”
Boromir ricambiò lo sguardo dell’amico e, con occhi colmi di rammarico, ripensò al padre: in molti conoscevano solo per fama la sua famiglia… erano in pochi a conoscere i difetti di Denethor… respirò a fondo; dopo la morte della moglie aveva puntato ogni cosa sul figlio primogenito, su di lui, su Boromir. Lo aveva cresciuto severamente per farlo suo successore, gli aveva impartito una rigida educazione… non solo come guerriero, istruendolo sull’arte del combattimento con ogni arma conosciuta, ma anche nell’arte più fine del dialogo e della legge.
“Ciò che fai per il mio… il nostro popolo è impagabile… mi sono sempre sbagliato… credevo nelle parole di mio padre… credevo in lui ciecamente… era la mia figura di riferimento… avrei sacrificato la vita per lui…”
“Non comprendo…”
Aragorn guardò il Comandante; anche se cavalcava al suo fianco non riusciva a guardarlo in volto, Boromir teneva il capo chino ed i capelli ricadendo sulle sue spalle celavano il suo volto.
“Mi ha mandato a Gran Burrone con il solo intento di portare l’Anello a lui… mi ha fatto credere che era la cosa migliore… dalla nostra partenza, molte delle mie azioni sono state spinte dal desiderio di compiacerlo… è mio padre… che altro potevo fare se non essere un devoto figlio? Un Comandante degno di essere chiamato tale? Minas Tirith… Gondor… il mio popolo… che scelta avevo? Farei ogni cosa per evitare loro la guerra… la miseria che essa rappresenta… salverei migliaia di vite… salverei persone… bambini innocenti… ma ora… dopo Estryd… non so più cosa sia giusto e cosa no… prima che ci separassimo… alle Cascate… ho ceduto alla mia debolezza. Ho tentato di strappare l’Anello dal collo di Frodo. Lei mi ha visto per quello che sono… un uomo… un debole… soggiogabile al potere.”
“Non sei debole.” lo corresse Aragorn.
Boromir guardò l’amico negli occhi, per un secondo, poi riabbassò lo sguardo. Non voleva mostrare la sua fragilità al ramingo, al suo futuro Re… il Comandante chiuse gli occhi e li riaprì nuovamente, sperando che le lacrime fossero scomparse.
“Ha visto un uomo che detesto. Farò qualunque cosa per riscattarmi… io la amo… voglio poterle donare il meglio… Estryd si merita solo il meglio da me…”
“Lei ti ama… ho conosciuto Estryd, anni fa… è sempre stata una fanciulla gentile, ma non è mai stata ingenua. Non ha mai amato qualcuno... ma ha scelto di amare te. Tra tutti ha scelto te. Non aver dubbi, tu sei meritevole del suo amore…”
Boromir guardò Aragorn con maggior attenzione; come poteva conoscere così bene la sua Estryd? Come poteva affermare quelle cose con così tanta sicurezza nella voce?
Intuendo i pensieri del Comandante di Gondor, il ramingo abbozzò un sorriso e con spensieratezza aggiunse: “Ti chiederai come conosca questi dettagli… beh, ho vissuto a Gran Burrone durante la mia giovinezza… ho conosciuto Arwen e le sue sorelle… Estryd è sempre stata la mia preferita… abbiamo studiato insieme per alcuni anni… eravamo amici e ci parlavamo liberamente… è stata lei a dirmelo… un pomeriggio mentre stavamo studiando nelle biblioteche di suo padre, abbiamo letto una poesia meravigliosa sull’amore e lei, quasi senza rendersene conto, mi ha confessato questo segreto… ricordo ancora la tristezza nella sua voce quando aggiunse che non era certa che avrebbe mai trovato un uomo con il quale poter essere sé stessa… Estryd, a differenza di Alhena e Arwen, è sempre stata più riservata… si fida poco delle persone e questo aspetto del suo carattere la rende schiva e diffidente…” il ramingo s’interruppe un istante, poi concluse: “Boromir, credi alle mie parole, se ha scelto te, se ha deciso di aprire il suo cuore a te è perché sei speciale. Questa guerra metterebbe anche lo spirito più forte in difficoltà, ma non per questo devi arrenderti. Devi combattere perché solo così avrai modo di rivederla…”
Ricambiando il sorriso e con la pace nel cuore, Boromir annuì con decisione; sbagliava a disperarsi, ogni cosa sarebbe andata per il meglio… ne era certo.
Osservando i Rohirrim al suo fianco, che senza paura marciavano verso la battaglia, si sentì rinvigorito. Aveva commesso molti errori negli ultimi giorni; aveva diffidato del valore del popolo del Mark, aveva diffidato di sé stesso e del suo valore, aveva diffidato del suo amore per Estryd… ma si era dovuto ricredere. Ogni cosa attorno a lui era forte e meritevole di fiducia.
“Grazie, amico mio…” disse. “Hai dato sollievo al mio cuore… te ne sono grato.”
“Siamo amici… sai che puoi parlarmi liberamente…” convenne Aragorn. Poi, spostando lo sguardo davanti a loro, vide il sole riflettere sulle lunghe chiome bionde delle due creature immortali membri della Compagnia. “Quello che temo è il dolore del nostro amico Legolas… lui deve preoccuparsi… rischia solo di rimanere scottato dall’amore che nutre per Alhena…”
Boromir strizzò gli occhi un secondo e guardò i due amici che, in sella ai propri cavalli, seguivano i cavalieri pochi metri davanti a lui. Legolas guardava attentamente Alhena che, con schiena dritta, assecondava i movimenti del suo destriero senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
“Magari puoi sbagliare?”
“Sbagliare?” fece eco Aragorn.
Durante il viaggio, Boromir aveva parlato con il giovane principe di Bosco Atro ed aveva imparato a conoscerlo… era dispiaciuto per lui; aveva capito che amava sinceramente la testarda principessa di Gran Burrone, la quale però, Aragorn aveva ragione, non ricambiava i suoi sentimenti.

“Quel bacio…” sussurrò Legolas, fissando il profilo di Alhena seduta accanto a lui per terra. I Rohirrim avevano cavalcato tutto il giorno e, per non giungere stanchi alla battaglia, Re Théoden aveva imposto una notte di riposo. Le risa dei guerrieri raggiungevano le orecchie dall’udito fine dei due elfi, erano rimasti soli e avevano passato diversi minuti in silenzio. La principessa aveva evitato per giorni l’amico, per timore di dover affrontare il discorso che pareva Legolas moriva dalla voglia d’affrontare.
L’elfa fece finta di non udire quelle parole, avrebbe preferito celare i suoi segreti nelle profondità della sua anima… condividere le era difficile, soprattutto se si trattava di sentimenti così fragili, che la terrorizzavano.
L’elfo conosceva fin troppo bene quest’aspetto di Alhena e, deciso a non lasciar cadere la conversazione, a non doversi rimangiare per l’ennesima volta i suoi pensieri, ripeté con voce più convinta: “Quel bacio, Alhena…”
La bionda rabbrividì e, chiudendo gli occhi, comprese che non avrebbe più potuto mentire.
“Leg, è stato solo un bacio…” ribatté lei, cercando di mostrarsi distaccata ma, allo stesso tempo, riassaporando per un secondo quel breve istante.
“Cosa non mi hai detto? Cosa cerchi di celare così accuratamente? Perché credevo davvero che ci fosse qualcosa tra noi… è stata solo una mia impressione o i sentimenti che ci legano sono più simili all’amore che all’amicizia? Mi sbaglio? Ti prego dimmi che ho equivocato ogni cosa… io ti vedo ogni giorno e ti desidero così tanto da farmi diventare pazzo! Alhena ogni notte ti sogno e per me è difficile continuare a celare tutto questo… fingere che questo amore non mi appartiene! Ti prego… ti prego…”
Chinandosi verso Legolas, Alhena lo sguardò nei suoi profondi occhi verdi; non avrebbe mai voluto mentirgli e, soprattutto, non avrebbe mai dovuto baciarlo quel giorno… lo aveva illuso e si era pentita. Quel bacio era destinato a qualcun altro…
“Ho sbagliato.” sussurrò, cercando di essere delicata. “Io non avrei dovuto baciarti. È stata tutta colpa mia… non avrei dovuto… ma quel giorno… ero così spaventata… così terrorizzata… che non ho pensato… che non ho considerato le conseguenze delle mie azioni…”
“Vorrei solo sentire la verità…” esclamò Legolas, interrompendola. “Permetti alle tue labbra di raccontare la verità e non sempre menzogne…”
Una forte nausea colse Alhena alla bocca dello stomaco… non aveva mai mentito a Legolas… non aveva mai mentito a nessuno se non a sé stessa… si alzò in piedi, sentiva l’aria stringersi attorno a lei… si sentiva soffocare.
Chiuse gli occhi e, mordendosi il labbro inferiore, cercò di trattenere quel nome che era diventato ormai un’ossessione.
“Thranduil…” mormorò.
Scattando in piedi, Legolas afferrò la bionda per un polso e, guardandola negli occhi, la trascinò lontana dall’accampamento; nessuno avrebbe dovuto sentire quelle parole. Sentire il nome di suo padre pronunciato da Alhena… non sapeva descrivere le emozioni che provava… dei sospetti li aveva sempre nutriti… dopotutto Alhena era riuscita a far ridere il padre, a smuoverlo dalla sua tristezza e depressione…
“Dove mi porti?” chiese la bionda, seguendo senza scelta l’amico. “Legolas!”
“No!” urlò il giovane principe, fermandosi di scatto e, voltandosi, puntò un dito conto il volto di Alhena. “Non… non pronunciare il mio nome… non farlo!” aggiunse con voce tremante dall’ira.
“Non capisco…” domandò Alhena, spaventata dalla reazione dell’amico.
“Perché non capisci? Perché non vuoi capire? Perché? Cosa ha lui che io non ho? Cosa ho in meno di lui?”
“Che stai dicendo? Non capisco… non capisco che vuoi dire? Legolas…”
“No!” ripeté lui.
“Ti prego…” lo supplicò la bionda. “Parlami… mi hai chiesto tu di essere sincera… volevi la verità! Siamo amici…”
Voltandosi, Legolas guardò l’amica negli occhi… amica… già da anni non considerava Alhena una semplice amica e, dopo il loro bacio, pensava che i loro sentimenti si sarebbero sviluppati… che anche lei ricambiasse… ma poi quella freddezza… dopo quel bacio, Legolas si era scontrato contro la freddezza della giovane elfa.
“Che dovrei dirti?” domandò Legolas, riprendendo il controllo.
“Spiegami che sta succedendo? Non capisco…”
“Quel nostro bacio… quel bacio che mi hai dato…”
Alhena annuì e, tristemente, iniziava a comprendere il turbamento di Legolas.
“Pensavo… speravo che ricambiassi i miei sentimenti…”
“Ma siamo amici…” sussurrò Alhena, in imbarazzo.
“Non siamo amici! Tu non lo sei mai stata per me! Sei più di un’amica! Dal nostro primo incontro… dal primo sguardo ho solo visto quanto tu fossi straordinaria! Quanto tu fossi speciale! Sei tutto ciò che ho sempre cercato in una compagna… Alhena…” Legolas afferrò l’elfa per le mani. “Io… io credo di…”
“Non dirlo…” lo interruppe lei, liberandosi dalla sua presa e accompagnando la frase con un movimento secco del braccio.
“Ti amo!”
L’elfa chiuse gli occhi, come se quel gesto bastasse a bloccare quelle parole… come se quel gesto fosse sufficiente per impedire d’ascoltare la triste e amara verità.
“Non devi rispondere…” continuò Legolas. “Mi hai fatto capire fin troppo bene che non ricambi i miei sentimenti…”
Mentre ascoltava la voce dell’elfo, Alhena si sentiva morire dentro, soffriva e non riusciva ad affrontare quella verità… ne era terrorizzata…
“Mio padre, Alhena! Mio padre!” sussurrò Legolas a denti stretti, cercando di trattenere la grande rabbia che nutriva. “E’ per lui che nutri dei sentimenti? È per lui?”
Alhena stava per rispondere, ma il principe di Bosco Atro l’anticipò dicendo: “No… non rispondermi… non voglio saperlo.”
“Legolas…”
“Ero convinto che quel bacio fosse per me…” concluse sconsolato. “Ma forse non ho capito nulla…”
“Legolas…” disse nuovamente Alhena. “Non era programmato e, se la cosa ti consola, non penso ci possa essere un futuro… a lui non interesso e lo ha dimostrato ampiamente il fatto che non mi cerca… che non mi ha mai cercata… quindi non rivanghiamo il passato…”
Carezzando il volto di Legolas, la bionda sorrise: “Non penso che io troverò mai l’amore… certe persone non hanno altra scelta se non quella di star da sole… penso di poter accettare una vita di solitudine… ma non posso accettare una vita senza un amico speciale come te… Legolas… mi dispiace… ma spero che tu possa accettare questi miei sentimenti…”
“Mi dispiace…” sussurrò Legolas, scuotendo il capo.
Come se fosse scottata dalla pelle dell’elfo, Alhena si ritrasse.
“Mi dispiace.” ripeté e, alzandosi, si allontanò dall’amica.
Soffriva mentre si allontanava da Alhena, ma non aveva scelta se non quella di dimenticarla, di lasciare i suoi sentimenti alle sue spalle… no. Non avrebbe atteso un amore non corrisposto… meritava di vivere… meritava l’amore e meritava la felicità. Soffriva mentre si allontanava da Alhena, ma Legolas sapeva di non aver altra scelta.

La Torre di Cirith Ungol era stata costruita scavando grezzamente la fredda roccia nera delle montagne, le finestre erano troppo piccole per illuminare i locali e l’unica luce buona proveniva dalle fiaccole che illuminavano tenuemente i corridoi. Estryd aveva osservato attentamente ogni cosa che la circondava, nessun dettaglio era scappato al suo sguardo mentre veniva trascinata nelle prigioni della fortezza. Dietro di lei, Sam camminava inciampando nei pavimenti, Frodo invece, ancora privo di sensi, era scortato tra le braccia di un orco. L’odore che Estryd avvertiva era nauseante; da secoli, quei corridoi non erano raggiunti da aria fresca.
“Dove ci state portando?” chiese l’elfa, scoprì solo in quel momento che parlava con affanno. Non era affaticata, ma sentiva che non aveva forza.
Incrociò gli sguardi iniettati di sangue dei due orchi che la stavano trascinando in catene, nessuno dei due le rispondeva. Pareva che non avvertissero nemmeno le sue parole, continuavano a camminare, lo sguardo fisso davanti a loro.
“Ditemelo!” urlò Estryd, cercando invano di divincolarsi dalla loro presa.
Strattonando le catene che legavano l’elfa ai polsi, fecero cadere la bruna a terra; colma d’ira Estryd si imputò e con fermezza, aggiunse: “Non mi muoverò da qui se prima non mi dite dove mi state portando!”
L’orco che pareva comandare, tornò sui suoi passi; era irritato dall’atteggiamento dell’elfa. Con rabbia sovrastò Estryd che, ferma ancora a terra, non aveva avuto il coraggio di muoversi, intimorita dalla creatura.
“Ora non parli più?” chiese questi, chinandosi verso la giovane e, afferrando le catene che la imprigionavano, la sollevò da terra senza il minimo sforzo. “Portate gli Hobbit nelle loro celle… Lui vuole parlare con questa.”
Estryd stava per ribattere, ma tenne a freno la lingua. Non era nella posizione migliore per replicare.
Senza emettere un fiato, guardò Sam e Frodo mentre venivano trascinati dai loro carcerieri lungo una scalinata; era rimasta sola e la cosa la terrorizzava.
“C-chi è colui che vuole parlare con me?” domandò con un filo di voce la giovane principessa.
L’orco sorrise, divertito dalla paura che avvertì nella voce della giovane: “Lo scoprirai presto, mia cara. Seguimi.”

Elrhoir conosceva bene il servo di Sauron; erano cresciuti entrambi a Gran Burrone e, come spesso accadeva quando pensava all’elfo, una forte rabbia s’impadroniva di lui.
Da anni desiderava di aver l’occasione per dar vita alla sua vendetta… mai avrebbe scordato quanto accaduto ormai secoli addietro e, il pensiero che avrebbe potuto fare qualcosa per evitare quegli eventi, lo tormentava ancora.


La notte era afosa e Gran Burrone, dopo l’ennesimo giorno di preparativi e di subbuglio per l’imminente festa, si stava addormentando. Ad ogni elfo era stato assegnato un compito; c’era chi aveva addobbato i giardini e i saloni con nastri, fiori e candele dai dolci profumi, altri avevano cucinato prelibatezze di ogni sorta, altri ancora avevano cucito abiti e altri avevano composto musiche… dopo tre giorni di ininterrotti preparativi, ora finalmente a Gran Burrone regnava la pace.
Nessun elfo sarebbe mancato all’evento e le guardie che sorvegliavano i confini si erano organizzate per alternarsi e poter partecipare tutti ai festeggiamenti. 
Camminando lentamente per i corridoi del palazzo, un giovane elfo dai lunghi capelli corvini, osservava l’oscurità attorno a lui. Erano giorni che desiderava un po’ di quiete, al contrario di molti che conosceva. Sbuffò; erano sempre i soliti volti quelli che vedeva… le solite persone… la solita vita monotona… ambiva a qualcosa di meglio… lontano dall’antica Gran Burrone. Si era reso conto che, con il passare dei secoli, ogni cosa era diventata grigia ai suoi occhi e, con desiderio crescente, aspirava a una vita nuova… bramava una scossa… un cambiamento… non riusciva a comprendere come per molti suoi amici era normale vivere così. Come potevano ogni giorno vivere nello stesso modo? Sempre la stessa monotonia… un giorno uguale al precedente, nessuna novità… nessun cambiamento…
L’elfo chinò il capo e, indossando per l’ennesima volta la maschera della felicità, si preparò alla serata.
“Ed eccolo qua, Sverker!” esclamò sorridendo Elrhoir, avvicinandosi al compagno dalle sue spalle.
L’elfo si fermò e, guardando dritto negli occhi il principe, sorrise, chinando il capo leggermente in segno di rispetto.
“Mio principe… non pensavo fossi presente… ti credevo in missione a sud, con tuo fratello.”
Elrhoir raggiunse Sverker e, posando una mano sulla spalla dell’amico, abbracciandolo, lo spinse lungo la via: “Sono rientrato prima. Volevo essere presente quando Estryd compirà cinquecento anni.”
“Già… cinquecento anni…” gli fece eco l’elfo, abbozzando un ghigno. “La ricordo fin troppo bene quando giocava per i corridoi del palazzo… con l’altra sorella, Alhena… ho sentito che è tornata dal Regno di Lothlorien e che è diventata bellissima… che somiglia incredibilmente a vostra madre, la Regina…”
“Sì…” rispose distrattamente Elrhoir. “Domani sarai presente?”
“Suppongo di sì.”
“In compagnia di qualcuno?” domandò il principe, incuriosito.
Sverker sorrise. “No… verrò da solo…”
“Come se tu avessi bisogno di un aiuto per trovare un’accompagnatrice… hai schiere di elfe che ambiscono anche solo ad un tuo sorriso…”
L’elfo non rispose a quella che pareva una provocazione, sorrise nuovamente e, fermandosi davanti ad una scalinata, si congedò da Elrhoir: “Le nostre strade si dividono qui… immagino, dunque, che ci vedremo domani.”
Sverker osservò l’elfo allontanarsi, domandandosi se anche lui provava i suoi stessi dubbi, la sua stessa noia per la vita di Gran Burrone.
“Un’ultima cosa… smettila con questi formalitismi… siamo amici!”

La sera del compleanno della giovane principessa di Gran Burrone, Sverker indossò una delle sue vesti migliori; blu notte con dettagli dorati, in tinta con i suoi occhi per risaltarne il colore. Si guardò allo specchio e, sistemandosi i capelli, sorrise al suo riflesso: le parole di Elrhoir gli risuonarono nelle orecchie… schiere di elfe ambivano ad un suo sorriso… non si era mai accorto di questo… voltando le spalle alla sua immagine, si avvicinò a un comodino di ebano e, aprendo il cassetto più alto, osservò un pugnale… la lama seghettata e l’elsa di madreperla con intagliato un leone con due rubini incastonati al posto degli occhi. Erano due anni che lo nascondeva; era un dono di un antico amico… il loro incontro lo aveva segnato e, da quel giorno, continuava a pensare alla sua proposta… alla sua richiesta di alleanza. Aveva ponderato attentamente questa opzione, ma non aveva ancora deciso nulla; non riusciva a prendere una decisione… non ci riusciva davvero. Aveva così tante opzioni; da un lato avrebbe voluto seguirlo nella sua terra, ma dall’altra parte c’era una voce che lo fermava, lo metteva in guardia… non poteva tornare indietro una volta presa questa scelta. Avrebbe mai avuto il coraggio di andare via da Gran Burrone, via da tutto quello che conosceva?
Con forza richiuse il cassetto e, voltandosi, si incamminò verso i giardini.
Come Sverker aveva previsto, la festa era stata organizzata al meglio, nessun dettaglio trascurato e, quest’accuratezza dei particolari, faceva sembrare il tutto così pacchiano. Poggiando la schiena ad una colonna, il giovane osservava gli elfi danzare e ridere… parevano così ignari della situazione drammatica che si stava sviluppando a sud, a Mordor.
Erano troppo impegnati a divertirsi, tra tutti quei volti sorridenti distinse la famiglia reale: Elrond e la sua bellissima Regina, Celebrìan… stavano seduti sui rispettivi troni e, con occhi colmi di gioia, osservavano le danze, tenendosi stretti per mano e sussurrando, di tanto in tanto, dolci dolci; erano così innamorati… lo intuiva… era così chiaro ai suoi occhi…
“Ehi, amico!” esclamò Elladan avvicinandosi al compagno d’infanzia. “Come mai stai qui solo? Dai, vieni e invita un’elfa a danzare…”
“Non sono un buon ballerino.” esclamò.
“Nemmeno Elrhoir lo è… ma guardalo! Danza da ore ormai…”
Sverker guardò il principe danzare con una giovane elfa bionda con i capelli raccolti in uno chignon morbido. Per le piroette che compiva, diversi capelli erano ricaduti sulle sue spalle. Una goccia di sudore rigava la fronte della giovane, riflettendo grazie alle luci delle candele che aleggiavano sopra le loro teste. La osservò senza fiato, mai aveva veduto una creatura più bella nei lunghi anni della sua vita.
“E credimi, la conosco… non è così gentile da non dirgli nulla se le pestasse un piede.”
Sverker guardò Elladan: “La conosci?”
“Se la conosco? Certo! E anche tu… è stata a Lothlorien per quasi un secolo durante il quale ha appreso ogni tipo d’arte adeguato ad una principessa…”
“Una principessa?” gli fece eco l’elfo.
“Ma certo! È mia sorella… è Alhena!”
“Alhena?”
Sverker non riusciva a credere alle parole di Elladan; quella deliziosa creatura era Alhena. Certo che la ricordava… una giovane e capricciosa fanciulla che non faceva altro che seguire i fratelli maggiori… la considerava invadente, ma ora era lì… davanti a lui… bella, delicata e affascinante. Con quella veste crema che le fasciava il corpo ancora acerbo, ma che presto sarebbe maturato, una farfalla che presto sarebbe uscita dal suo bozzolo per volare libera e far invidia a tutti.
“Credo che qualcuno si sia innamorato…” sussurrò Elladan, posando amichevolmente un braccio sulla spalla dell’amico.
“Innamorato? Non penso proprio… con permesso, vado a predere qualcosa da bere.”
Con queste parole, Sverker si divincolò dall’amico e, camminando tra la folla, si diresse verso la tavolata colma di prelibatezze e ottimi vini. Mentre camminava, non perdeva di vista la giovane fanciulla che piroettava nella pista insieme al fratello maggiore; ammaliato da lei, dalle sue movenze.
Fermandosi prese un calice di vino e, guardando ancora verso la pista, il sorriso scomparve dal suo volto quando non la vide. Chinando il capo, osservò il bicchiere di cristallo che stringeva in mano; il liquido opaco rifletteva il suo volto.
“Oh… scusami… io… non volevo…”
Prima ancora di rendersene conto, una giovane fanciulla cadde addosso a lui, rovesciando sulla sua veste un liquido chiaro.
“Mi dispiace… sono così goffa…”
Aiutandola ad alzarsi, Sverker si accorse che era Alhena.
“E’ acqua… non preoccuparti… non macchierà la veste… mi dispiace così tanto…”
“Non preoccuparti… non importa.” cercò di rassicurarla lui, posando il calice di vino sul tavolo. “Ma per sdebitarti, potresti concedermi un ballo…”
La giovane principessa sorrise, felice dell’invito appena ricevuto; da anni, in segreto Alhena aveva avuto una cotta per Sverker e quella sera lui l’aveva invitata a ballare.
“Certo! Con piacere…” rispose la giovane, cercando di non far trasparire i suoi sentimenti.
“Ma non qui… ti piacerebbe danzare in un posto più riservato?”
Afferrandola per mano, Sverker la trascinò lontano dalla pista. Raggiunsero una terrazza che dava sulle cascate, la musica risuonava leggera nell’aria…
“Mi piace questo posto… è così tranquillo…” sussurrò Sverker che, prendendola per mano, la condusse al centro della terrazza.
Poi, afferrandola con decisione in vita iniziarono a danzare… era la prima volta per Alhena; la prima volta che sentiva un corpo stretto al suo, quel contatto la eccitava… il suo profumo le riempiva i polmoni, inebriandola… era bellissimo…
“Come trovi la vita a Gran Burrone?” domandò alla giovane.
“E’ bello essere nuovamente a casa… mi mancava la mia famiglia.”
“Io invece non sopporto questo posto… è così ordinario… mi manca qualcosa.”
“Cosa?”
“Non so come spiegartelo… la mia è un’emozione che o la senti o no… non posso spiegartela…”
Chiudendo gli occhi, Alhena respirò a fondo: “Forse ti capisco più di quello che tu pensi… queste mura possono essere claustrofobiche… ti si chiudono attorno, facendoti mancare il respiro…”
Meravigliato perché anche lei provasse questi sentimenti, sorrise alla ragazza: “Sei davvero stupenda…”
A quelle parole Alhena arrossì.
“No… non sto mentendo.” continuò. “Sei davvero stupenda e non solo per la tua bellezza, e credimi sei davvero meravigliosa, ma anche perché sei anche intelligente, sagace”
“Mi fai troppi complimenti… sono solo una fanciulla. Non conosco nulla della vita!”
“La conosci più di molti altri elfi più anziani di te… sei saggia, ma cerchi di celare questo aspetto della tua anima.” fece una breve pausa. “Perché? Perché nascondi te stessa?”
“Io… io non so…”
Fermandosi, Sverker alzò il volto di Alhena posando una mano sotto il suo mento: “Sì, lo sai… lo sai benissimo, ma non lo ammetti.”
“Temo di non essere accettata dalla mia famiglia… da sempre celo me stessa… il mio desiderio di libertà… ma non mi è possibile… sono la figlia ultimogenita di Elrond e Celebrìan…”
“Le tue origini non dovrebbero costringerti a mentire… meriti molto di più… meriti d’essere te stessa…”
“Non mi è concesso questo lusso… mi dispiace.”
“Non sei ancora pronta per accettare questa verità… lo capisco… ma presto non ti accontenterai più… presto non ti accontenterai di questa vita, di questo palazzo…” fece una pausa. “Domani mattina, all’alba, partirò.”
“Partirai? E per dove?” chiese la giovane preoccupata.
“Per il sud. Ho deciso di accettare un’offerta che mi è stata fatta alcuni anni prima.”
“Potrei raggiungerti? Potrei venire con te!”
“Quando crescerai… quando sarai più grande… e io potrei aspettarti…”
“Ti raggiungerò!” esclamò lei.
Allontanandosi da Alhena, Sverker la guardò attentamente. In silenzio, stringendola ancora per le mani, si allontanò di tre passi.
“Cosa fai?”
“Memorizzo questo momento… cerco di renderlo indelebile nella mia mente…”
Alhena arrossì nuovamente, chinandosi il capo.
“No, non farlo… non abbassare il suo sguardo… guardami! Permettimi di ricordarti così… bella come oggi… mi aspetta un lungo viaggio…”
Lasciando le mani della principessa, Sverker sorrise.
Voltandosi si allontanò, senza aggiungere una sola parola. Alhena lo osservò mentre con passo fiero percorreva un lungo corridoio. La bionda udì i suoi passi, allontanarsi deciso, senza esitazioni.

Sverker raggiunse la sua camera e, entrando, chiuse la porta alle sue spalle. Rimasto solo, chiuse le finestre e prendendo una borsa da viaggio la riempì con pochi abiti. Poi, avvicinandosi all’armadio dove conservava il pugnale, aprì il cassetto superiore e lo prese, celandolo nella tasca interna del lungo mantello da viaggio che portava.
Il breve incontro con Alhena lo aveva smosso, gli aveva fatto prendere una decisione. Non importava nulla se la ragazzina lo avrebbe seguito o meno, quello che importava era che lui sarebbe partito. Si sentì sciocco quando si accorse che l’unica ragione che lo aveva trattenuto era la mancanza di coraggio, la paura dell’ignoto… ma ormai niente lo tratteneva ancora a Gran Burrone; niente e, soprattutto, nessuno.
Diede un’ultima occhiata alla sua camera, era piccola e, nonostante i lunghi anni vissuti in quel palazzo, non l’aveva mai considerata casa sua. Uscì, senza preoccuparsi di chiudere la porta a chiave… ciò che avrebbe lasciato non gli sarebbe servito dove aveva intenzione di dirigersi. Coprendo il volto con il cappuccio del suo mantello, Sverker percorse indisturbato i corridoi fino a raggiungere lo studio privato di Elrond. Sapeva che custodiva documenti prezioni e quelli sarebbero stati un ottimo dono per il suo nuovo alleato. Entrò senza essere visto e, senza accendere alcuna candela, frugò sulla scrivania fino a trovare quello che cercava. Ed eccola lì; la lettera che Elrond aveva ricevuto il giorno precedente, scritta dalla Dama della Luce. La prese e lesse velocemente il contenuto… erano ottime notizie… dunque l’Anello era stato ritrovato e la battaglia sarebbe stata consumata… felice per le notizie appena acquisite, Sverker si allontanò quasi correndo e, raggiungendo le scuderie, sellò il proprio cavallo.
Il pensiero di quanto stava facendo lo eccitava, era felice, si sentiva vivo… finalmente vivo dopo anni. Raggiunse i cancelli che conducevano fuori i confini di Gran Burrone; le guardie si alzarono in piedi, ma appena riconobbero il compagno d’armi, si rilassarono.
“Sverker, dove vai a quest’ora?”
“Ho voglia di fare un giro…” rispose evasivo.
“Ti perdi i festeggiamenti… io darei ogni cosa pur di potervi partecipare!”
“La solita festa… a breve dovrebbero darvi il cambio… giusto?”
“Esattamente!” rispose un elfo dalla lunga chioma bionda.
Sverker avanzava verso i compagni, erano in cinque… sarebbe riuscito a batterli senza problemi. Nessuno avrebbe dovuto sapere della sua partenza, non aveva possibilità. Estrasse il pugnale quando era a pochi passi da due soldati; con un movimento imprvviso, pugnalò un elfo dai capelli scuri al cuore, la vita abbandonò il suo corpo prima ancora che questi toccò il terreno. Poi, senza perdere tempo, tagliò la gola al secondo elfo, Melilon. Lo conosceva da anni, si erano addestrati insieme… erano dello stesso anno. Uno schizzando del suo sangue bagnò i volti dei compagni.
“Sverker… sei uscito di senno!? Cosa fai?” chiese una guardia, incredulo per le azioni del compagno d’armi.
“Vedete, amici miei, devo allontanarmi da questa terra… e non posso farlo con testimoni.”
“Allontanarti? E per dove? Dove dovresti andare? Ragiona… non lascerai mai inosservato Gran Burrone! Tutti sapranno quello che hai…” esclamò questo, ma non terminò la frase.
Sverker con uno scatto, sovrastò l’elfo e con un colpo secco recise la gola. Un caldo schizzo di sangue gli sporcò il volto, colando lungo il suo volto, bagnandogli le labbra e sporcandogli i vestiti.
Con sguardo folle, Sverker guardò i due soldati ancora vivi. Entrambi impugnavano le proprie armi e con coraggio sfidarono l’elfo traditore.
“Sverker, sono il suo Capitano e ti ordino di deporre le armi. Non vogliamo farti del male… sarai giudicato per le tue azioni… ma non peggiorare la situazione… risparmia le nostre vite e questo gesto non verrà dimenticato!”
Sverker sorrise e, incrociando lo sguardo del Capitano, sussurrò: “E’ davvero molto allettante la tua afforta, Ophern…” fece una pausa e, senza distogliere lo sguardo, lanciò il pugnale che colpì in gola l’altro soldato. “Ma rifiuto l’offerta.” concluse.
Il Capitano guardò il suo compagno, Ohtar, cadere a terra; il terrore negli occhi, respirava ancora, con affanno, soffocato dal proprio sangue.
“Sverker… hai superato il limite… ma solo io ora sono armato…”
“Non sarò armato, ma questo non importa… sono più abile di voi nel combattimento.”
Ophern sapeva che l’elfo non mentiva, ne sopravalutava le sue doti… Sverker era sempre stato uno spietato guerriero, portava a termine ogni missione che gli veniva affidata, lasciandosi sempre alle spalle una scia di sangue delle sue vittime.
Con passo rilassato, Sverker raggiunse il compagno, le mani leggermente divaricate e sollevate verso il cielo. Non aveva armi e il cielo era davvero meraviglioso quella notte… la luna era piena e le stelle, a migliaia, illuminavano il cielo.
“Che notte meravigliosa…” sussurrò Sverker, per un istante vide il volto di Alhena riflesso nella luna. Sperò ardentemente che lo seguisse… che prendesse la decisione giusta e abbandonasse Gran Burrone… presto avrebbe saputo dove lo poteva incontrare… anche se la scelta sarebbe stata la sua.
Distraendosi per un istante, Ophern fissò il cielo… la luna era proprio sopra il suo volto… era bellissima… poi, la vista gli si annebbiò, un dolore atroce partì dal suo petto, espandendosi in ogni vena del suo corpo… caldo e poi freddo… brividi… le forze lo stavano abbandonando e, mentre le ginocchia gli cedevano, cadde a terra, sfiorando con il volto la soffice erba… era bagnata dalla rugiada e il suo odore… l’odore dell’erba fu l’ultima cosa che sentì prima di morire, prima che ogni cosa divenne nebbia, prima che ogni cosa divenne buio…
Con forza, estrasse dalla gola dell’elfo il suo pugnale e lo ripulì nel mantello del soldato. Raggiunse il cavallo e salì con eleganza poi, come se nulla fosse, scavalcò i corpi dei compagni d’armi e, senza guardarsi indietro, abbandonò Gran Burrone.


Elrhoir strinse le mani a pugno: odiava Sverker, per le sue azioni e per il fatto che aveva mentito e ingannato tutti loro. Avrebbe fatto qualunque cosa per decretare giustizia… conosceva le cinque vittime che Sverker si era lasciato alle spalle: Ophern, Ohtar, Lóton, Lietur e Melilon. Cinque suo compagni, al fianco dei quali aveva combattuto e vinto diverse battaglie, accanto ai quali si era allenato per giorni e aveva cavalcato, accanto ai quali aveva trascorso serate indimenticabili… no… meritavano giustizia… tutti loro la meritavano.





Ed ecco qui il mio capitolo... spero vi sia piaciuto... spero di aggiornare presto.
J

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Capitolo 29
*** CAPITOLO 29 - LA LAMA RIFORGIATA ***



E rieccomi qui dopo una lunga assenza! Chiedo perdono e spero di poter aggiorare più velocemente!
Intanto buona lettura e commentate!
***


Estryd fu trascinata lungo i corridoi del palazzo di Cirith Ungol, si guardava attorno allo stesso tempo incuriosita e spaventata… gli orchi che la scortavano la spinsero lungo una ripida scala a chiocciola, stavano risalendo la torre. Ogni giro completo una piccola finestra faceva entrare uno spiraglio di luce e aria fresca, il panorama che si intravedeva era tetro; la natura attorno a quella fortezza era morta già da secoli.
Arrivati in cima, Estryd si ritrovò in un pianerottolo illuminato da un lampadario di ferro con solo alcune delle candele poste sopra gli appositi appoggi accese. Cercando di non farsi vedere, si guardò attorno; l’arredo era assente, fatta eccezione per una porta. Era una struttura di legno, rinforzata con del ferro lavorato davvero grezzamente. Con l’ennesimo strattone i due carcerieri spinsero l’elfa contro la porta; l’impatto produsse un rumore sordo che rimbombò nella torre. Deglutendo, un sapore metallico avvolse la bocca di Estryd; si doveva essere ferita morsicandosi il labbro per l’urto improvviso.
“Che aspetti, elfa? Entra!” grugnì sprezzante l’orco.
“D-dove mi trovo?” domandò lei, con il terrore nella voce.
L’altro aprì la porta e, con forza, spinsero Estryd nella stanza, richiudendo subito l’uscio alle sue spalle.
La bruna respirò la polvere che si era depositata strato dopo strato sul pavimento, l’aria era calda ma non era soffocante. Alzò lo sguardo e, spiando tra i capelli che le ricadevano sul volto, vide un caminetto con il fuoco acceso. Le fiamme danzavano allegramente, parevano veli di danzatrici che si muovevano seducenti. La giovane chiuse e riaprì gli occhi, solo allora, si accorse che davanti al caminetto, seduto comodo su una poltrona, una figura la stava osservando attentamente. Immobile sul suo trono, le braccia poggiate sui braccioli. Si alzò senza fare rumore; era alto, con un lungo manto che gli ricadeva dalle spalle fino a sfiorare il pavimento.
“Ben arrivata principessa di Gran Burrone nel mio regno.”
Quella voce risuonò vagamento famigliare alle orecchie di Estryd che, posando entrambe le mani sul pavimento, si alzò in piedi.
“Conosco la tua voce… perché non mi mostri il volto? Che cosa cerchi di nascondere?” chiese lei.
“Spero che il viaggio fin qui non sia stato troppo duro…” rispose, mentre con movimenti fluidi abbassava il manto, mostrandosi. “…dopotutto siete una principessa!”
“Voi!” esclamò Estryd ricolma d’odio.
Conosceva molto bene l’elfo che aveva davanti: Sverker. Era un amico dei suoi fratelli ed era stato una guardia di Gran Burrone sotto il comando di suo padre; questo fino alla notte in cui tradì tutti loro. Fuggì da palazzo, lasciando una scia di sangue alle sue spalle… Estryd non ci aveva mai parlato a lungo, ma conosceva bene le sue azioni che lo avevano fatto odiare dalla popolazione elfica.
“Sì, io.” confermò il giovane elfo. “E’ un vero piacere rivederla principessa!”
“Il sentimento non è reciproco!” rispose pacata Estryd, cercando di mascherare il timore che l’avvolgeva.
Sverker rise, divertito dalla spavalderia della bruna: “Sei incredibile! E i tuoi genitori ti hanno permesso di venire fin qui? Non ti troveresti più a tuo agio protetta tra le mura del palazzo di tuo padre?”
“Non sono la giovane elfa che conoscevi… decido io cosa fare del mio destino.”
“Certamente…” sussurrò Sverker, non molto convinto dalle parole appena udite.
“Sono qui di mia volontà!” esclamò Estryd. “Cosa vuoi da me? Perché non mi hai rinchiusa nelle tue prigioni insieme ai miei compagni?”
“Perche ho delle domande da farti… ma non ora. Guardati…” aggiunse, accennando con un movimento del braccio all’aspetto della ragazza. “Non sembri nemmeno più te stessa.”
Estryd rimase sorpresa da quell’affermazione; cosa voleva veramente da lei? Si ritrasse di un passo e strinse le mani a pugno per farsi forza.
“Ho predisposto che venga preparato un bagno caldo per te. Troverai anche un abito pulito con cui cambiarti.” aggiunse Sverker, accennando a una porta alle spalle dell’elfa. “Ti attendo qui e, ti prego, non perdere tempo per cercare una via di fuga, perché non c’è.”

Rimasta sola nella camera da bagno, Estryd osservò per un istante la vasca; era piena quasi fino all’orlo e dei delicati petali rossi galleggiavano sulla superficie. Chiuse la porta alle sue spalle e fece scattare la serratura. Non sapeva che fare: mille dubbi l’assalivano, cosa voleva da lei per riservarle tante attenzioni? Un grande specchio riflesse il suo volto, era davvero sporca; polvere e ragnatele le ricoprivano non solo gli abiti, ma anche i capelli e il volto… quello che ricambiava il suo sguardo era solo un suo riflesso sbiadito. Sapeva che quella gentilezza avrebbe dovuto ripagarla ma iniziò a spogliarsi lentamente; era restia nel sentirsi così vulnerabile, dopotutto Sverker si trovava dietro quella porta. Mentre si spogliava delle vesti da viaggio, sospirò sfiorandosi con dolcezza il ventre; era arrotondato, segno ormai evidente della gravidanza che, nonostante tutto, cercava ancora di celare al mondo… l’anello di Boromir appeso al collo le ricordava l’amore che nutriva per lui. Faceva tutto questo per lui, per loro e per il loro futuro… avrebbe dovuto conservare questo segreto per sé, per non dare a Sverker un’occasione di estorcerle informazioni cruciali.
Dando le spalle allo specchio, Estryd entrò nella vasca. L’acqua era calda, ma piacevole. Immergendosi, un po’ d’acqua cadde sul pavimento di pietra grigia, muovendosi come un fiume di piena che si espande in ogni dove.
Piano si stese, ogni muscolo del corpo le doleva, rimase ferma per alcuni minuti; era spaventata, ma non poteva mostrarlo al suo carceriere. Per Sverker sarebbe stato divertente giocarsi dei suoi sentimenti.
Incantata, Estryd giocava con l’anello di Boromir che teneva legato al collo, facendolo roteare tra un dito e l’altro. Rimase ferma per alcuni minuti, sognando ad occhi aperti la vita che avrebbe potuto condurre una volta terminato il conflitto.
Sussultò quando Sverker bussò con forza alla porta, ordinandole di uscire.
Obbediente, Estryd uscì dalla vasca e si asciugò con una tela posata su una sedia, accanto a una veste rosso fuoco. Storse il naso; avrebbe preferito indossare nuovamente i suoi abiti da viaggio, anche se sporchi e logori. Lo prese tra le mani, la stoffa era soffice e la fattura impeccabile, ma la scollatura era troppo profonda e il colore troppo vistoso.
“Sei pronta?” chiese Sverker da dietro la porta, con tono seccato.
“Sì.” rispose Estryd, uscendo dal bagno e mostrandosi al traditore.
“Incantevole.” sussurrò Sverker sorridendo, notando lo scollo.
Camminando spavaldo, si avvicinò a un tavolo che prima non c’era e, posando le mani sullo schienale di una pesante sedia di legno massello, disse: “Accomodati! Non restare in piedi… la cena verrà servita a breve.”
“La cena?” domandò Estryd, presa alla sprovvista.
“Siediti!” insisté Sverker, irrigidendosi e facendo spaventare l’elfa che, senza scelta, prese posto al tavolo.
“Serviti pure…” disse Sverker, dopo alcuni minuti, notando che Estryd non aveva ancora toccato cibo.
L’elfa abbozzò un timido sorriso, ma non si mosse, timorosa di essere avvelenata. Non riusciva a fidarsi di lui.
“Se non vuoi mangiare, allora parliamo.”
“Cosa vuoi sapere?” chiese Estryd.
“Cosa ti porta qui nelle desolate terre di Mordor?”
Estryd di mosse a disagio sulla sedia, Sverker non avrebbe accettato il silenzio; qualcosa avrebbe dovuto dirglielo, quanto meno per giustificare la sua presenza nelle terre del sud: “Dovevo raggiungere Minas Tirith, ma devo aver sbagliato strada.”
Sverker rise: “Spiritosa…” poi, facendosi nuovamente serio, aggiunse: “Rispondi alla mia domanda, Estryd.”
“Non ho altro da aggiungere.” iniziò Estryd, sporgendosi verso l’elfo. “Non ho scordato quello che hai fatto al mio popolo! Tu ci hai traditi!” la sua voce esplodeva d’odio. “Sei un bugiardo e un manipolatore, non sono io la persona che è immeritevole di fiducia. Te l’ho già detto: devo raggiungere Minas Tirith.”
“E perché dovresti raggiungere Minas Tirith? Che affari ti legano a quella città? Non penso che tuo padre ti permetta di viaggiare scortata solo da due piccoli Hobbit.”
“Elrond non sa nulla di questa mia decisione, anche se ormai avrà notato la mia assenza a Gran Burrone.” cercò di ironizzare la bruna. “Quanto alla tua domanda su cosa mi lega a Minas Tirith, Alhena si trova lì. Volevo vederla, parlarle…” Estryd fece una piccola pausa. “Anche tu vorresti vederla, vero? Conosco la proposta che tu le facesti e, lasciami essere chiara con te: lei non ti vuole.” concluse ponendo enfasi ad ogni singola parola. “E come potrebbe mai desiderare di avere te al suo fianco?” continuò, speranzosa di ferire i suoi sentimenti. “Sei solo un traditore, un rinnegato…”
Senza preavviso, Sverker si alzò e, raggiungendo l’elfa, l’afferrò per la gola. La sedia cadde a terra con un tonfo che rimbombò in tutta la torre. Con forza, la allontanò dal tavolo e la spinse fin contro il muro. L’urto fece annebbiare la vista alla giovane elfa che istintivamente alzò le braccia, toccandosi la nuca. Un tintinnio di metallo catturò l’attenzione di Estryd, che chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte prima di poter vedere con chiarezza cosa stava accadendo. Nel frattempo, qualcosa di freddo avvolse i suoi polsi; intuì subito cosa sarebbe accaduto tra pochi minuti.
Delle pesanti catene di ferro, chiuse con dei chiodi, anch’essi di ferro, l’avevano imprigionata contro la parete di roccia. Estryd seguì Sverker con lo sguardo mentre si allontanava di alcuni passi.
“Cosa vuoi? Vuoi delle informazioni? Non otterrai nulla da me! Nulla!” urlò l’elfa.
Voltandosi, Sverker sorrise alla prigioniera e, afferrando una corda, la tirò. Un grido di dolore uscì dalle labbra di Estryd quando, tirando la corda, l’elfo la sollevò da terra.  Le spalle le dolevano e, nel tentativo di concentrare tutto il peso sui polsi, afferrò la corda con le mani. Il respiro affannoso di Estryd era l’unico rumore; era spaventata e il cuore le pulsava frenetico nel petto.
“Urla pure quanto vuoi, principessina… nessuno potrà aiutarti! Nessuno ti aiuterà! Sei sola!”
Le spalle gli dolevano, sentiva ogni muscolo del corpo tendersi… cercava di toccare il pavimento con i piedi, ma solo il pollice sfiorava la pietra; non si era mai sentita così vulnerabile, così indifesa.
“Non urlerò.” rispose Estryd, l’ira prese il sopravvento sulla paura.
“Mi fa piacere.” disse Sverker, avvicinandosi all’elfa e sfiorandole il braccio destro. “Mia cara, detesto ragionare con i folli…”
Quel tocco fece rabbrividire la bruna che cercò di divincolarsi.
“Per l’ennesima volta, Estryd: mi piacerebbe sapere le ragioni che portano due Hobbit e un’elfa qui, nelle terre di Mordor.”
Estryd sostenne lo sguardo del traditore e, respirando a fondo, strinse le labbra con maggior forza. Non avrebbe parlato.
“Ora giochiamo al voto del silenzio?” sussurrò Sverker, accostando il volto all’orecchio della giovane. “Riuscirai a prestar fede a questa tua decisione?”
Estryd non parlò, ma guardò l’elfo con sfida.
Sverker sembrava un avvoltoio mentre le camminava davanti, senza perderla di vista. Uno, due, tre volte… Estryd sentiva il suo sguardo fisso su di lei… anche quando non lo vedeva in volto, sapeva che la osservava, lo avvertiva, come una tetra presenza.
“Te lo ripeto ancora una volta e questa sarà l’ultima: come mai sei qui?” domandò Sverker.
Silenzio.
Estryd sapeva di star irritando Sverker, ma non demorse.
“Basta!” urlò d’improvviso lui, facendola sussultare.
Con rabbia, sbatté un pugno contro il muro accanto al volto dell’elfa; Estryd non aveva previsto questo sfogo… terrorizzata dalla follia che brillava nei suoi occhi.
“Ora inizia a parlare o sarò costretto a farti male, molto male!”
“Non temo il dolore.” ribatté la principessa, ostentando coraggio.
“Lo temerai.” la contraddisse Sverker, afferrando dal camino un’attizzatoio con la punta rovente.

“Seimila lance. Meno della metà di quante speravo.” sospirò Thèoden, guardando i suoi uomini in volto. Temeva il loro sguardo; certo che avrebbe incrociato gli occhi di chi aveva perso la speranza.
Era incredulo; aveva convocato i suoi soldati da tutte le regioni del Mark, ma aveva ricevuto poche risposte. In molti si erano già arresi.
Théoden era disperato: come avrebbe potuto fronteggiare Mordor con così pochi soldati? Che speranza avrebbero avuto? Il suo popolo contava su di lui, non poteva dimostrarsi debole.
“Seimila soldati non basteranno per spezzare le linee di Mordor.” sussurrò Aragorn, avvicinandosi al Re di Rohan.
Quelle parole furono una doccia gelata per il sovrano del Mark; aveva ragione il ramingo. Voltò il volto, fiducioso di ricevere conforto dal compagno ma, nel momento stesso in cui vide Aragorn negli occhi, Thèoden comprese che la speranza l’aveva abbandonato; nei suoi occhi vide la malattia che si era impadronita del suo animo e, con il tempo, aveva iniziato a temerla. Perché nulla può un uomo quando perde la speranza.
Thèoden scosse il capo; era un Re. Doveva guidare il suo popolo, proteggerlo. Non poteva dichiararsi arreso. No, si disse con convinzione: la speranza avrebbe dato la forza a lui e ai suoi uomini. No, si ripeté mentalmente, non l’avrebbe mai persa. Avrebbe lottato e sarebbe morto da guerriero sul campo di battaglia.
“Ne arriveranno altri.” ribatté infine Thèoden, cercando di nascondere la scarsa fiducia che assillava il suo cuore.
Aragorn scosse il capo: “Ogni ora persa affretta la sconfitta di Gondor. Abbiamo fino all'alba, poi dobbiamo partire.”
Il Re di Rohan accosentì, annuendo; all’alba sarebbero partiti. Quel semplice gesto per il ramingo fu sufficiente; avvicinandosi a Thèoden, posò una mano sulla spalla dell’uomo e fece una lieve pressione, nel tentativo di infondergli forza. Abbozzò un sorriso e, cercando di essere convincente, sussurrò: “Ce la caveremo…”
Anche il sovrano del Mark sorrise, cercando così di celare i suoi timori al mondo; aveva davanti Aragorn, figlio di Arathorn: non poteva mostrarsi debole al futuro Re di Gondor.
“Prendo congedo. Ho decisioni da prendere. Il mio animo esige pace per potersi rinvigorire.” concluse Aragorn, allontanandosi dai compagni.
Legolas, Boromir ed Elladan seguirono Aragorn fuori dalla tenda del Re, nessuno credeva alle parole dell’uomo. Si erano accorti che stava fingendo, stava cercando di celare i suoi pensieri ma questo gli costava tanta, troppa fatica. Tutti loro si erano accorti della sua mancanza di speranza.
“Aragorn!” esclamò Elladan, nel tentativo di fermare la marcia dell’amico.
“Sbagli a perdere la speranza!” esclamò Legolas, quasi intuendo le parole che il principe di Gran Burrone stava per dire.
Il ramingo si fermò e, tornando sui suoi passi, rispose alla provocazione: “Non ho perso la speranza… solo che non ho fiducia che arrivino altri cavalieri. Volete darmi torto?“
“Aragorn la speranza è l’unica cosa che è rimasta a questi uomini… sono partiti per una guerra che non gli appartiene. Hanno combattuto contro Isengard con onore e hanno liberato il Mark. Ma ora stanno marciando verso Gondor per te! Perché hanno fiducia nel ritrovato Re!” esclamò Boromir.
Anche se il compagno aveva ragione, Aragorn non poteva ammetterlo. Non poteva e non voleva. Aveva avuto un sogno quella notte, un sogno che pareva più una visione del suo futuro; era così reale, così vero. Arwen aveva preso la sua decisione; sarebbe partita per le Terre Immortali, aveva perso la speranza negli uomini, in lui e nel loro futuro. Il ramingo aveva imparato a non dubitare delle sue sensazioni e, in cuor suo, sapeva che i timori che lo assillavano corrispondevano a realtà.
“Vi prego amici miei, datemi voi una ragione! Una speranza! Perché io ho perso la mia…” esclamò cercando di trattenere la rabbia che gli pulsava nelle vene. Poi, allontanandosi dagli amici, raggiunse la tenda per cercare un po’ di silenzio.
“Come sta?” domandò preoccupata Alhena, camminando furtiva verso di loro.
Aveva seguito il dialogo da lontano, non voleva intromettersi, ma le era chiaro che il dolore di Aragorn era molto profondo… riusciva a capirlo, a comprendere i sentimenti che pesavano sull’animo del guerriero. Guardando Aragorn sparire dentro la sua tenda, Alhena non poteva evitare di provare una gran pena per lui: si era ritrovato solo quando Arwen aveva deciso di lasciare la Terra di Mezzo e, insieme all’amata, aveva perso anche la fiducia.
“Non sta bene.” rispose Elladan, scuotendo il capo e avvicinandosi alla sorella. “Non sta reagendo bene. Non riesce a superare l’abbandono di Arwen…” sospirò, passando le mani tra i capelli, in segno di disperazione. “Ero convinto che lo sapesse. Ne ero certo.” sospirò. “Ne ero davvero sicuro…” concluse con amarezza.
“Arwen ha portato via la speranza dal cuore di Aragorn. Lei era la sua speranza, la sua ragione, il motivo per cui combatteva…” s’intromise Legolas, fissando Alhena. Nonostante cercasse di ostentare freddezza, i suoi occhi lo smentivano.
L’elfa, a disagio e non riuscendo a sostenere quello sguardo, chinò il capo e, alzando un braccio, si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie.
“Ha perso la fiducia…” convenne la ragazza, per distogliere l’attenzione al suo imbarazzo. “Ma può sempre trovare altro per cui combattere. Non può rinunciare, non lui.”
“E noi? Che possiamo fare?” domandò Boromir, guardando i compagni in volto uno alla volta.
Legolas guardò Elladan che, scuotendo il capo, abbassò gli occhi, fissando la punta dei suoi stivali: “Potrei parlargli…”
“Non penso che le tue parole possano aiutarlo.” s’intromise Alhena. “Parlereste di perdita… di coraggio e di forza… ma sapete davvero cosa vogliono dire queste parole? Avete mai provato la sensazione… quella sensazione che vi prende alla bocca dello stomaco e che vi fa mancare il respiro ma, allo stesso tempo, vi sentite stringere ogni cosa attorno a voi… vi sentite soffocare… avete mai provato a essere privi di speranza? Rifiutati da coloro che chiami famiglia?”. Gli occhi color del ghiaccio dell’elfa, s’inumidirano; quel dolore, il dolore di Aragorn era il suo. Arwen l’aveva abbandonato, come suo padre aveva abbandonato lei anni prima. “Gli parlerò io.” concluse Alhena respirando a pieni polmoni.
Elladan annuì, si avvicinò alla sorella e, posando le mani sulle sue spalle, le carezzò il volto. Annuì nuovamente; acconsentendo alla proposta di Alhena: “Va bene, prova. Ti auguro d’aver maggior fortuna.”


Era l’alba e, nonostante alcune sporadiche piogge, il caldo era ancora opprimente. Arwen passeggiava per i corridoi del palazzo di Gran Burrone, vagava senza meta con la lunga veste che sfiorava il pavimento di marmo bianco. Le maniche, ad ali di farfalla, si muovevano sospinte dal vento… adorava passeggiare di notte; non c’era nessuno nei corridoi e poteva camminare godendo della pace che spesso cercava, ma raramente trovava. Da giorni il suo animo era tormentato: doveva prendere una decisione e da questa sarebbe cambiata la sua vita.
Quattro sere prima, Elrond si era recato nella sua stanza per parlarle. Spesso capitava che il genitore facesse visita ad Arwen, erano molto legati ed entrambi godevano della compagnia reciproca. Ma, quella sera, quando il signore di Gran Burrone varcò la soglia della camera di Arwen, il suo volto era segnato da molti, troppi pensieri.
“Padre, entra!” esclamò la fanciulla, sentendo il genitore.
Si alzò a sedere sul letto e abbandonò il libro che stava leggendo fino a poco prima; sorrise stanca.
“Dobbiamo parlare.” disse Elrond avvicinandosi alla figlia.
“Parlare?” domandò Arwen. “Sei così serio, padre… cosa turba i tuoi pensieri?”
Elrond, si inginocchiò davanti alla figlia e la guardò negli occhi, stringendole le mani. Quel contatto lo fece sussultare; erano così fredde.
“Ho fatto la mia scelta.” sussurrò Arwen con dolcezza, sorridendo al padre che la guardava sconvolto.
“Egli non tornerà. Perché ti trattieni qui quando non c’è speranza?”
“C’è ancora speranza. Io ho abbastanza speranza per entrambi. Amo Aragorn. Lo amo e questa non sarebbe vita senza lui.”
“Parli di cose che non comprendi.” replicò Elrond, alzandosi e, dando le spalle alla figlia, guardò il panorama.
Senza perdere la calma, Arwen si avvicinò al padre. Notò che le sue spalle erano rigide. “Comprendo ciò che dico… parliamo di amore. Io amo Aragorn. Io resto perché ho visto il nostro futuro insieme e sbagli! Non è svanito c’è ancora! Devo solo dare una possibilità a noi due.”
Elrond si voltò verso la figlia e, carezzandole il volto con dolcezza, le baciò la fronte.
“Dalle ceneri la fiamma sarà risvegliata. Una luce dall'ombra spunterà. Rinnovata sarà la lama che fu spezzata. Il senza corona di nuovo Re sarà.”
Elrond guardò la figlia, comprese subito cosa Arwen gli avrebbe chiesto.
“Riforgia la spada, padre.” esclamò lei, guardandolo con sguardo fermo.
Chiudendo gli occhi, Arwen si fermò e godè della brezza mattutina. Rimase in silenzio, aspettando che il padre le rispondesse. Si guardarono per diversi minuti, che ad Arwen parvero ore.
Infine, chinando il capo, Elrond annuì, pronunciando con tono incerto: “Sì, lo farò.”
Alcuni rumori ruppero il silenzio di Gran Burrone; il palazzo si stava svegliando. Posando le mani sul corrimano, l’elfa osservò accanto al padre la cascata che, con forza, di infrangeva sulla pietra.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali i migliori artigiani di Gran Burrone lavorarono senza sosta per completare la spada. L’annuncio del termine dei lavori venne accolto con gioia e festeggiamenti ai quali però Elrond non vi partecipò; infatti, l’indomani mattina sarebbe partito personalmente per consegnarla ad Aragorn. Arwen osservò il padre allontanarsi a cavallo, allo stesso tempo fiera e orgogliosa di lui. Rimasta sola, si voltò; l’unica decisione che rimaneva non presa, era quella sulla sua partenza.
L’elfa non sapeva che fare: da un lato avrebbe voluto rimanere nella Terra di Mezzo, perché credeva in Aragorn e nel loro futuro insime ma, dall’altro, sapeva che il loro amore non avrebbe avuto un lieto fine.
“Non so cosa fare…” sussurrò Arwen, confidando i suoi dubbi al vento.


“Aragorn, posso entrare?” domandò Alhena, ferma davanti alla tenda dell’uomo.
Dal suo interno non provenì risposta ma, ascoltando con attenzione, distinse il suono di un pianto sommosso. L’elfa chiuse gli occhi; non aveva mai visto Aragorn così fragile. Privo di ogni speranza, in lacrime, arreso al suo destino. Questo aspetto del carattere del ramingo faceva paura alla giovane elfa; temeva l’incertezza che si stava ramificando nel suo cuore.
“Aragorn, parlami! Per favore…” insisté la bionda, nella speranza di avere una reazione.
Ma l’unica cosa che ottenne fu solo il silenzio, ancora e solo silenzio.
Con eleganza, Alhena si accomodò sul soffice terreno coperto d’erba verde e profumata; si guardò attorno. Nonostante i lunghi anni della sua vita, la terra era ancora magnifica ai suoi occhi, una meravigliosa opera in continuo movimento, così mutevole ma, allo stesso tempo, così perfetta. Con il palmo della mano accarezzò l’erba attorno a lei, assaporandone la delicatezza.
“Ti senti solo.” sussurrò l’elfa, guardando il cielo limpido. “Ti senti solo e svuotato da tutte le tue certezze. Quel vuoto che ti stringe, fino a farti soffocare, è straziante e ti posso capire… anzi ti capisco!”. Alhena prese fiato e ascoltò il silenzio; Aragorn aveva smesso di piangere. “Quando sono stata bandita da Gran Burrone mi sono sentita così. Il mio stesso sangue mi aveva rifiutata, cacciata come un animale rabbioso. Colui che avrebbe dovuto amarmi incondizionatamente mi aveva allontanata… ero spaventata e, anche solo per poco, ho pensato di abbandonare la Terra di Mezzo, volevo scappare da questo mondo. Non perché fossi pronta per vivere la mia vita nelle Terre Immortali, ma perché avevo perso la speranza… avevo paura e questa paura mi paralizzava.” Alhena fece una pausa e si asciugò le lacrime che rigavano le sue guance. “Ma il tempo mi ha cambiata e la decisione presa, ossia restare e combattere, è stata la cosa migliore. Ciò che devi capire è che Arwen non parte perché ha perso la speranza in te, non parte perché non ti ama… parte perché vuole lasciati libero d’abbracciare il tuo destino. Ho saputo che sei stato te a suggerirgli di imbarcarsi quando hai lasciato Gran Burrone dopo il Consiglio. Glielo hai chiesto nonostante se la sua assenza ti avrebbe fatto soffrire. Lo hai fatto perché sapevi che era la cosa migliore per lei. Conosco Arwen e deve aver sofferto per questa tua richiesta… ma ha capito che era la cosa migliore per entrambi. Parte per permetterti di diventare il grande Re che tu sei destinato ad essere.”
“La amo.” concluse Aragorn con un filo di voce, scostando di poco la tenda.
Alhena si voltò, guardandolo in volto: “Anche lei ti ama… ti ha donato la Stella del Vespro, ti ha donato il suo cuore.”
“Ho sbagliato a chiederle di partire, ne sono consapevole…  ma…” lasciò la frase in sospeso.
“Cosa? Cosa mi stavi per dire?” insisté Alhena.
“Vostro padre, Elrond, mi ha chiesto di farlo. Voleva saperla al sicuro, lontana dal dolore e dalla morte. La sua vita dipende dalle sorti di questo conflitto; una nostra vittoria le darà vita, una nostra sconfitta segnerà la sua fine.” concluse Aragorn, guardando Alhena negli occhi. Poi, con disperazione, le chiese: “Che altra scelta avevo? Dovevo essere io la causa della sua morte?” scosse il capo. “Non ho potuto. Non avevo altra scelta se non quella di farla partire, di darle una possibilità di vita, di felicità anche se non con me.”
“Quello che nostro padre non ha mai compreso in tutti questi anni e che tutt’oggi sbaglia è che crede di poterci controllare. Credere di sapere sempre cosa sia meglio per noi, ma non lo sa. Ha pensato a sé stesso e a ciò che voleva. Lui voleva che mia sorella partisse… tu gli sei stato complice, ma non avevi alternativa. Ami Arwen e non faresti mai nulla per nuocerle. Hai preso la decisione migliore per lei.”
“Credo tu abbia ragione. Proprio perché la amo devo lasciarla andare.” concluse Aragorn.
“Non sarà stata una scelta facile, avrei preferito sapervi insieme… l’amore dovrebbe prevalere sempre su qualunque cosa. Non sarebbe bello se l’amore prevalesse sempre su qualunque cosa? Beh… avrai la corona, alla fine, ma sarai solo su quel trono.” Alhena guardò Aragorn. “Ti basterà?”
“Penso che nulla potrà mai darmi gioia senza tua sorella al mio fianco. Lei è e sarà l’unica. Questa decisione mi renderà più forte e sarò un buon Re per il mio popolo… voglio essere il miglior sovrano che Gondor abbia mai avuto. Merita il meglio dopo tutti questi anni difficili e di guerra.”
“E io sono certa che sarai un grande Re; sei altruista, ma dovresti pensare anche a te.”
Aragorn guardò Alhena, seduta al suo fianco che lo fissava con uno sguardo talmente intenso che gli fece venire la pelle d’oca: “Un sovrano deve essere disposto a rinunciare alla sua felicità per quella dei suoi sudditi…”
“Molti Re sono stati ottimi Re, anche se non si sono privati dell’amore.” lo contraddisse Alhena.
L’uomo stava per replicare ma si distrasse, guardando un cavaliere di Rohan avvicinarsi a loro con passo sicuro. Il soldato si fermò a pochi passi dalla tenda e, chinando il capo, in segno di rispetto, guardò Aragorn negli occhi: “Mi perdoni, Re Théoden vi attende, mio signore.”
Aragorn e Alhena si guardarono alcuni istanti, chiedendosi entrambi cosa il Re del Mark volesse dal ramingo. Poi, l’elfa, sistemandosi i capelli dietro le orecchie, sorrise all’amico e, posando una mano sulla sua spalla, esclamò: “Va. Di certo vorrà discutere un piano per la partenza di domani.” fece un piccola pausa. Poi, aggiunse, abbassando il tono della voce: “Se vuoi, ti aspetto qui. Parlare potrebbe solo aiutarti. Anche solo per sentirti meno in colpa.”
Chinandosi verso la giovane principessa, Aragorn sussurrò, in modo tale che solo lei potesse udire quelle parole: “Sai, Alhena, non penso d’essere l’unico divorato dai sensi di colpa.” concluse accennando con il capo a Legolas che, seduto accanto a un fuoco insieme a Boromir e Elladan, stava parlando e ridendo con loro.
Con queste parole, il ramingo seguì il cavaliere verso la tenda reale, lasciando l’elfa sola a riflettere sui suoi sensi di colpa. Aragorn aveva perfettamente ragione; Legolas stava ancora soffrendo, era così evidente, e Alhena si sentiva in colpa per averlo illuso, ferendo così i suoi sentimenti, ma di una cosa era certa; il tempo lo avrebbe aiutato.

Raggiunta la tenda del Re, Aragorn entrò con passo fiero; l’aria era calda, quasi asfissiante. I raggi del sole che picchiavano sulla struttura tingevano ogni cosa di rosso; Aragorn vide Thèoden parlare ad un uomo incappucciato che dava le spalle all’ingresso. Quando gli occhi del Re incrociarono quelli di Aragorn, questo sorrise timidamente e, chinando il capo verso la misteriosa figura, esclamò con calma, mentre camminava verso l’uscio: “Bene, prendo congedo.”
Rimasto solo con l’uomo e insicuro sul da farsi, Aragorn si avvicinò al visitatore e, piegandosi in avanti, distinse i lineamenti regali del volto di sire Elrond. Rimase senza parole, non si aspettava di incontrare il sovrano elfico così lontano da Gran Burrone.
“Mio signore Elrond!” esclamò sorpreso, battendo gli occhi un paio di volte.
Scostando il cappuccio e mostrando il suo volto, l’elfo, con sguardo serio, affrontò Aragorn: “Vengo da parte di colei che io amo. Arwen sta morendo. Non sopravviverà a lungo al male che ora si sparge da Mordor. La luce della Stella del Vespro si affievolisce. Mentre il potere di Sauron aumenta, le sue forze diminuiscono. La vita di Arwen ora è legata al destino dell'Anello. L'Ombra è su di noi, Aragorn. La fine è giunta.”
“Non sarà la nostra fine, ma la sua.” lo contraddisse l’uomo, cercava di mascherare il tono di sfida. Non sopportava le accuse che il re elfico gli aveva mosso, dopotutto questa storia era stata una sua idea. Lui aveva chiesto ad Aragorn di convincere Arwen a partire per le Terre Immortali.
Elrond intuì l’astio in quelle parole, ma decise di sorvolare: “Tu vai verso la guerra, ma non verso la vittoria. Gli eserciti di Sauron marciano su Minas Tirith, questo lo sai. Ma in segreto egli invia un'altra forza che attaccherà dal Fiume. Una flotta di navi dei Corsari veleggia dal Sud. Entreranno nella Città tra due giorni. Siete numericamente inferiori. Vi occorrono più uomini.”
“Non ce ne sono.” ribatté Aragorn. “Quelle che abbiamo qui sono le nostre uniche forze.”
Con un movimento improvviso, Elrond si avvicinò ad Aragorn; l’uomo riusciva a distinguere le sfumature delle sue iridi grigie.
“Ci sono coloro che dimorano nella montagna.” sussurrò lentamente l’immortale.
Disgustato al solo pensiero, Aragorn si ritrasse e, con tono glaciale, esclamò: “Assassini… traditori… dovrei chiamarli a combattere? Non credono in nulla. Non rispondono a nessuno.”
Con eleganza, Elrond estrasse da sotto il manto una spada; l’elsa finemente elaborata e con la lama riforgiata. Nonostante gli accorgimenti e le migliorie apportato era inconfondibile; la spada dei Re, Narsil.
“Risponderanno al Re di Gondor.” disse mostrando la spada e porgendola all’uomo, tenendola con entrambe le mani. “Andùril, Fiamma dell’Occidente, forgiata dai frammenti di Narsil.”
Intimorito, Aragorn guardò l’arma che Elrond gli stava porgendo. Fu solo un attimo, l’uomo si riprese dalla sorpresa iniziale e, con mano ferma, stese le mani e prese la spada. Il cuore gli batteva all’impazzata; dunque era giunto il momento… nonostante per anni avesse cercato di rinnegarlo, nascondendosi al nord con i raminghi, alla fine il destino lo aveva trovato e lo avrebbe condotto verso il suo trono, il trono di Gondor.
“Sauron non avrà dimenticato la Spada di Elendil. La lama che fu spezzata farà ritorno a Minas Tirith.”
La estrasse dal fodero; era bellissima. Un’esemplare di perfezione: bilanciata, senza un graffio e con l’elsa solida. Nulla lasciava pensare che quella lama era stata riforgiata.
“L’uomo che può brandire il potere di questa spada, può chiamare a sé un esercito più micidiale di qualunque altro su questa terra. Metti da parte il Ramingo. Diventa ciò che sei nato per essere. Prendi la via del Dimholt.” Poi, in idioma elfico, aggiunse: “Ho dato speranza ai Dunedain.”
Aragorn rinfoderò Andùril e, guardando il Re elfico negli occhi, chiede: “Forse è giunto anche il tempo di dare speranza al vostro stesso sangue.”
Elrond aggrottò le sopracciglia, il cuore in gola al pensiero della figlia smarrita. Il volto della ragazza si stava sbiadendo nella memoria dell’elfo, ma l’avrebbe distinta tra mille volti: “Lei? Alhena… Alhena è qui?” chiese con tono tremante.
“E’ qui. Si è unita alla nostra Compagnia a Moria ed è stata una fedele e forte alleata.” rispose l’uomo, guardando con intensità l’elfo.
Lo sguardo di Elrond non lasciò trapelare alcuna emozione; rimase fermo e impassibile.
“Vostra figlia è qui.” esclamò Aragorn. “Si trova nella mia tenda… non vorreste parlarle? Non vorreste vederla? Ha affrontato una guerra al Fosso ed era presente quando Haldir è morto… questa potrebbe essere un’occasione di perdono. Parlatele, è qui a pochi passi da noi…”
“Parlarle?” ripeté Elrond, distaccato, interrompendo il ramingo.
“E’ vostra figlia!”
Sul volto del sovrano elfico si fece spazio una smorfia: “Non saprei che dirle.” xoncluse con freddezza, prima di voltandosi e uscire dalla tenda.

“Padre!”
Elrond, nella foga di abbandonare quella conversazione, uscì dalla tenda quasi correndo e, senza poterlo evitare, si scontrò con Alhena.
La guardò negli occhi e rimase senza fiato; il cuore gli si fermò nel petto. La osservò attentamente e vide che era cambiata. Non era più una fanciulla, era cresciuta diventando una donna. Ormai era alta quasi quanto lui e i lineamenti del suo volto si erano maggiormente definiti, facendola come non mai assomigliare alla sua amata Celebrìan.
“Padre…” sussurrò ancora lei, quasi senza fiato per l’emozione di rivedere il genitore.
L’elfo continuava a guardare la figlia, i suoi occhi si erano concentrati sui suoi capelli; raccolti disordinatamente in una treccia arrotolata sulla nuca e, nonostante fossero sporchi, incorniciavano il suo viso dalla carnagione di porcellana.
Alhena fece un passo verso il padre, ma questo si ritrasse e guardò la figlia negli occhi; non una parola uscì dalla sua bocca.
La bionda non si lasciò abbattere e, allungando un braccio, cercò di sfiorare il braccio del genitore: “Padre…” ripeté lei per la terza volta.
Reagendo d’istinto, Elrond schivò la mano di Alhena e, voltandosi, s’incamminò verso il proprio cavallo per ritornare a Gran Burrone. Ogni passo ad Elrond costava un’enorme fatica; avrebbe dovuto e voleva parlare alla figlia, cercare di chiarirsi ma non ebbe la forza. Chiuse gli occhi mentre camminava, erano passati così tanti anni e molte domande assillavano la mente del Re. Avrebbe voluto chiederle come stava e cosa aveva fatto, ma non riuscì a pronunciare nemmeno una parola. Avrebbe voluto abbracciarla e dirle che si era pentito… gli era bastato vederla per capire tutti gli errori che aveva commesso. Non era nemmeno più certo se provava ancora astio e risentimento verso di lei.
Mentre Elrond si allontanava da Alhena, la giovane elfa non riuscì a trattenere le lacrime. Ormai ne era certa: non l’avrebbe mai perdonata, mai.
Legolas, che seguì il dialogo da lontano, corse verso l’amica, giusto in tempo per afferrarla per le spalle, mentre le sue ginocchia cedevano. Una piccola nuvola di polvere si alzò attorno ai due elfi quando toccarono terra.
“Papà…” sussurrò lei con voce spezzata dai singhiozzi mentre guardava il genitore allontanarsi, piegata in avanti non aveva nemmeno più la forza di respirare.
Legolas strinse Alhena tra le sue braccia, nel tentativo di dargli conforto. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di aiutarla, pur di farle capire che era lì per lei, che l’amava e che non sarebbe mai stata sola.
Ma, le uniche parole che riuscì a dirle, furono: “Ti perdonerà.”


 

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Capitolo 30
*** CAPITOLO 30 - VIVI ***



Ed eccomi con un nuovo capitolo... buona lettura!



Nonostante Aragorn avesse deciso di partire da solo non era riuscito a dissuadere i suoi compagni che, senza accettare obiezioni, decisero di seguire il ramingo nel suo viaggio sotto la montagna.
Dwimorberg, o il Monte Invasato, era da secoli infestato dai fantasmi di guerrieri che, durante la prima grande guerra contro Mordor, avevano giurato al Re di Gondor di combattere al suo fianco contro le forze di Sauron ma, al momento decisivo, vennero meno al loro impegno. Nonostante la vittoria, Isildur non dimenticò il loro gesto e maledisse il loro nome; incatenandoli alla non morte. Da secoli nessuno si avventurava per quelle vie dall’aria spettrale e, i pochi che avevano il coraggio di percorrere quella valle, non vi facevano più ritorno.
Aragorn apriva la fila della comitiva, in sella al suo fidato cavallo Brego e avanzava guardingo, in silenzio, concentrato sul percorso che avrebbe dovuto compiere. Conosceva la leggenda e sapeva che solo un erede di Isildur li avrebbe liberati, ma questo non era sufficiente per il ramingo. Intraprendere quella strada equivaleva ad abbracciare il suo futuro da Re.
Subito dietro di lui, sempre a cavallo, Boromir ed Elladan discorrevano tranquilli seppure ad infima voce per non disturbare i morti. A chiudere la fila, c’erano Alhena e Legolas che avanzavano in silenzio lungo la via, ognuno impegnato nei propri turbamenti.
“Legolas…” esordì lei, guardando l’amico e interrompendo la quiete.
L’elfo si voltò, il viso inespressivo, quasi seccato dalla voce di Alhena.
“Vorrei parlarti, spiegarti quanto accaduto.” continuò la bionda, ignorando l’astio dell’amico.
“Riguardo cosa?” chiese freddo lui, fingendo superiorità al dolore che provava.
“Sai riguardo cosa.” incalzò lei, cercando però di controllare il tono della voce. “Legolas, non volevo ferirti.” continuò, ed era vero. Era davvero dispiaciuta per la reazione del principe, teneva a Legolas e non avrebbe mai rischiato di perdere la loro amicizia. Amicizia che glielo aveva fatto diventare indispensabile nella sua vita, legandoli per sempre.
“Ma lo hai fatto. Forse non volevi, ma mi hai ferito.”
“Non era mia intenzione e sto male per quanto accaduto! Mi rendo conto solo ora di quanto sia stata ingenua. Non dovevo illuderti, ricambiando il tuo bacio.”
“E che colpa avresti? Come hai sottolineato molto chiaramente: sono stato io a baciare te.” convenne Legolas. “Volevo sapere se eri innamorata di me… ma penso di aver sempre saputo che non lo eri, che non provavi i miei stessi sentimenti.”
“Vorrei davvero poter essere capace di amarti… vorrei davvero che fossi tu l’uomo giusto per me… sei meraviglioso e non potrei desiderare nulla di più, ma…”
“Ma non lo sono.” la interruppe Legolas con freddezza, senza distogliere lo sguardo dalla via davanti a sé.
“Troverai la compagna giusta, che ricambi il tuo amore. Perché sei un uomo forte, dolce e chiunque sarebbe fortunato ad averti al suo fianco… ma io non sono quella persona, non per te! Legolas meriti d’essere amato e, per te, desidero solo il meglio.”
Legolas guardò Alhena e la ragazza lesse nei suoi occhi una tristezza così profonda che non riuscì a mantenere il contatto visivo. La giovane si sentì morire dentro, schiacciata davanti a quel dolore che era stata lei a causare; era stata lei a farlo soffrire, lei a spezzargli il cuore… come anni prima, anche questa volta, era sempre tutta colpa sua.
“E dimmi, Alhena, chiariscimi una cosa… mio padre… lui merita il tuo amore?” sibilò Legolas a denti stretti, la tristezza aveva lasciato spazio al rancore.
L’elfa non seppe che dire; avrebbe desiderato conoscere i pensieri del principe di Bosco Atro, ma non le era possibile e, in parte, ne era felice.
“Non so che sentimenti lui nutri per me ed onestamente…” lasciò la frase in sospeso, il volto del Re si fece strada nei pensieri di Alhena. Deglutì, stringendo le mandivole, e concluse: “Non so, non mi interessa… di una cosa sono certa: io non lo amo.”
“No? Davvero?” ribatté con ira.
Ancora una volta, rimase sorpresa dal tono accusatorio celato dietro quelle parole. Non trovò una risposta a quella domanda; avrebbe voluto poter dire qualcosa, ma le parole giuste le erano sconosciute. Chinò dunque il capo, cercando di celare i propri pensieri. Chiuse gli occhi e, con forza, strinse le redini, agli anni trascorsi a Bosco Atro erano stati piacevoli e non solo per la presenza di Legolas, ma anche grazie a Thranduil che, non solo l’aveva fatta sorridere, ma l’aveva fatta sentire bella e desiderata. Verso di lei aveva dimostrato sentimenti contrastanti; dall’iniziale rifiuto nel prestarle soccorso, fino a quando si era ricreduto e l’aveva accettata alla sua presenza, nel suo palazzo. Con un brivido lungo la schiena, Alhena rammentò il bacio che si scambiarono nella cripta della Regina Aredhel ma, subito dopo, ricordò anche lo schiaffo che il Re le diede in occasione di una lite.
Il silenzio di Alhena fu abbastanza chiaro per Legolas, che sbuffò e concluse: “Già, come sospettavo.”
La bionda osservò l’elfo, un lieve sorriso si aprì sul suo volto, come avesse ottenuto una piccola vittoria personale. Lo osservò chinare il capo e scuoterlo debolmente.
Legolas ripensò alla sua vita e alla risposta che la bionda non gli aveva dato. Ormai gli restava una sola certezza; a lui non interessava altro se non avere Alhena al suo fianco e, se non l’avesse potuta avere, dopo la battaglia imminente che li attendeva, era certo sul da farsi. Inspirò; sarebbe partito per le Terre Immortali. Avrebbe abbandonato le rive della Terra di Mezzo che gli avevano procurato solo dolore.
“Sbrigatevi voi due!” s’intromise Boromir quando, voltandosi verso i due elfi, notò che si erano attardati.
Con un movimento secco delle braccia, Legolas incitò il cavallo ad aumentare la falcata, superando Alhena senza voltarsi.
“Siamo quasi arrivati all’ingresso del passaggio sotto la montagna.” sussurrò Elladan, quando Legolas gli fu accanto.
“L’aria è malata… avverti anche te questa rabbia?” chiese Legolas al principe di Gran Burrone.
Il giovane annuì, era una sensazione indescrivibile. Avvertiva il vuoto attorno a sé, ma allo stesso tempo questo si dilatava, riempendosi di odio e desiderio di vendetta.
Rimasta sola, Alhena osservò i compagni di viaggio di schiena muoversi assecondando i movimenti dei cavalli.
Si sentiva, per l’ennesima volta, una delusione. Da alcuni anni desiderava cambiare alcune scelte compiute in passato. Sapeva di aver commesso errori, ma cercava di rimediare come meglio poteva. Aveva deluso molte persone; il primo tra tutti era suo padre. Nonostante gli anni trascorsi non era ancora riuscita a trovare un modo per farsi perdonare, ma era sicura che, una volta terminato il conflitto, lo avrebbe affrontato. Sarebbe andata a Gran Burrone e avrebbe fatto qualunque cosa pur di farsi ascoltare; gli avrebbe parlato a cuore aperto, sperando nella sua comprensione. Sorrise, immaginando l’ipotetica riconciliazione ma, presto il sorriso si spense sul volto dell’elfa quando il panorama attorno a sé mutò.
Si guardava attorno, cercando di captare ogni particolare; il paesaggio non poteva essere più tetro, quasi pareva di aver varcato i confini di Mordor. I pochi alberi presenti erano secchi, morti, e la terra era coperta di rami spezzati e foglie appassite. La parete di roccia grigia si alzava ripida per diversi metri, impedendo al sole di superare la cima della montagna ed illuminare la strada.
“No…” sussurrò Alhena, facendo cadere le redini e portandosi le mani sulla bocca. Un brivido le percorse il corpo, trattenne il fiato.
Boromir e Aragorn la guardarono senza comprendere la sua reazione. Elladan si avvicinò alla sorella e, prendendo le redini che erano cadute sul dorso del cavallo, posò una mano sulle sue cercando di infondergli coraggio. Legolas la guardò, avrebbe voluto anche lui starle vicino, ma resistette al desiderio e proseguì per la via.
“Forza, andiamo.” sussurrò con dolcezza Elladan, sorridendole.
I due uomini, dopo alcuni minuti, compresero la reazione di Alhena; infatti, accanto all’ingresso, scavato grezzamente nella roccia, vi erano diversi teschi umani alcuni impilati accanto alla porta e altri incastrati tra le crepe naturali della montagna.
Avanzarono con i cavalli fino all’ingresso, Aragorn smontò e si avvicinò al passaggio; l’aria che soffiava era debole e odorava di morte. Anche gli altri compagni scesero dai destrieri e seguirono il ramingo fino alla porta, restando però alle sue spalle.
Legolas alzò lo sguardo e indicò dei geroglifici intagliati nella roccia: “La via è chiusa. Fu creata da coloro che sono morti. E i Morti la custodiscono. La via è chiusa”.
Improvvisamente, un soffio di vento proveniente dall’interno della montagna, più simile ad un sussurro spettrale, raggiunse la compagnia, spaventando i cavalli che, terrorizzati, si liberarono per far ritorno all’accampamento degli eserciti di Rohan.
Voltandosi, Aragorn richiamò il suo cavallo, ma comprese subito la natura della sua paura e lo lasciò libero; era stato un fedele compagno, non poteva chiedergli di più. Poi, voltandosi nuovamente verso l’ingresso della montagna, con risolutezza, osservando il buio, Aragorn disse: “Non ho timore della morte.” E, senza attendere risposta dagli amici, s’incamminò varcando la soglia e sparendo nel buio.
Boromir guardò i compagni e, annuendo, seguì Aragorn dentro la montagna, accompagnato da Legolas. Elladan stava per seguire gli amici ma, voltandosi, vide sul volto della sorella il terrore dell’ignoto che la caverna nascondeva. La raggiunse e, allungando un braccio verso di lei, sorrise dolcemente: “Non avere paura, sarò al tuo fianco.”
“Promesso?”
“Alhena, io sarò sempre al tuo fianco. Sei mia sorella… già una volta ti ho abbandonata, ma ora che ti ho ritrovata non ti perderò mai di vista. Insieme… ricordi?”
Alhena ripensò a quando suo fratello Elladan le aveva promesso che sarebbero stati sempre insieme. Era accaduto quando era poco più di una bambina ed era caduta da cavallo durante una delle sue prime gite. In quell’occasione aveva pianto tanto per il dolore causato dalla caduta e aveva giurato che non sarebbe più salita in sella ad un cavallo. Elladan, allora, ridendo aveva giurato alla sorellina che sarebbe stato sempre presente per lei e, prendendola in braccio, erano saliti in groppa dello stesso animale. Quella volta la giovane elfa vinse tutte le sue paure e comprese il significato della parola coraggio; non si sarebbe mai più data per vinta. Era forte ed Elladan glielo aveva dimostrato.
Alhena annuì: “Insieme.”
Quelle parole riscaldarono il cuore della giovane che, come quand’era bambina, ritrò il proprio coraggio e, afferrando la mano dell’amato fratello, insieme seguirono i compagni.

Uno straziante urlo di dolore riecheggiò nella torre di Cirith Ungol, raggiungendo le prigioni dove Sam e Frodo erano stati condotti dopo il loro arrivo alla fortezza. Il portatore si era ripreso dopo che il veleno di Shelob aveva perso ogni effetto, ma provava ancora una lieve nausea e gli arti, soprattutto quelli inferiori, non avevano ancora riacquistato la forza.
Appoggiato al muro, il capo posato sulla spalla di Sam, osservava una piccola fiammella che brillava accanto all’ingresso delle prigioni.
Le tre guardie che erano rimaste fino a un’ora prima si erano allontanate, sicure della solidità delle sbarre.
“Noooo!”
La voce di Estryd raggiunse le loro orecchie, i due Hobbit erano in pena per le sue sorti, Sverker stava cercando di avere informazioni dalla principessa che non stava ottenendo. Sam si stropicciava le mani, ricolmo di rabbia ma impotente.
“Dobbiamo fare qualcosa.” sussurrò infine Sam, dopo l’ennesimo urlo della bruna.
Frodo tremò e si coprì le orecchie con le mani, non sopportando quelle urla; avrebbe fatto qualunque cosa pur di aiutare l’elfa.
“Siamo soli… non abbiamo via di fuga…” sussurrò con voce tremante il Portatore, aveva perso ogni speranza e, con lo sguardo chino, guardava i piedi posati sulla pietra impolverata.
“Frodo, no!” esclamò Sam, attirando l’attenzione dell’amico. “No! Non possiamo arrenderci. Lei sta subendo tutto questo per tenere i nostri segreti! Lo sta facendo per te.” concluse, alzandosi e raggiungendo le sbarre della prigione. “Non possiamo arrenderci! Mi rifiuto!” urlò scagliandosi contro la superficie di ferro delle sbarre e strattonandole con tutta la forza che aveva in corpo.
“E cosa possiamo fare per aiutarla? Siamo disarmati e quelle sbarre…” Frodo lasciò la frase in sospeso.
Sam sfiorò con la mano il duro e possente metallo. “Non possiamo uscire. Non c’è via di fuga per noi. Ma un modo lo troveremo. Se solo…” ma non completò la frase.
Un movimento attirò l’attenzione dello Hobbit che, zittendosi, osservò attentamente la porta che conduceva alle prigioni. Silenzio… poi, seguì un rumore sordo e un lieve fruscio; un’ombra passò davanti la porta.
Sentirono il rumore di una chiave che entrava a fatica nella serratura; forzava nel girarsi, gracchiando.
Allontanandosi dalle sbarre, i due Hobbit si posarono con le schiene contro la roccia.
“Forse Estryd non ha parlato e ora vengono a prendere noi. Cercheranno informazioni da noi!” sussurrò Frodo, spaventato.
“Ma anche da noi non otterranno risposte.” asserì Sam. “Impedirò che ti prendano quando verranno. Cercherò di scappare e, quando saranno concentrati su di me, tu fuggirai verso la via opposta la mia… scappa e nasconditi. Io non sono importante per questa missione… tu sei il Portatore e tu solo hai il compito di distruggere l’Anello.”
“Non ti lascio indietro!” esclamò Frodo.
“Non capisci? Non importa che ne sarà di me… tu devi raggiungere il Monte Fato e tu devi distruggere l’Anello.”
“Ma Sam…” iniziò a dire.
“Frodo.” lo interruppe lo Hobbit. “Ci rivedremo. Ce la farò a scappare e con Estryd ti raggiungeremo.”
“E’ una promessa?” chiese Frodo, voltandosi e guardando l’amico in volto.
La serratura scattò, la luce del corridoio inondò la prigione, accecando i due Hobbit. Dei passi fluidi avanzarono fino alla cella dove erano stati rinchiusi.
“Eccovi finalmente!” la voce di Elrhoir parve risuonare soave in quel luogo, così calda e rincuorante.
Con i cuori colmi di ritrovata fiducia, Sam e Frodo riconobbero il figlio di Elrond conosciuto durante il Consiglio a Gran Burrono.
“Estryd… Estryd sta bene?” chiese subito Sam.
“Non è qui? Con voi?” domandò l’elfo.
“Sverker l’ha presa! Non sappiamo dove sia, ma la sentiamo urlare…” rispose Sam. “Dobbiamo trovarla…”
Annuendo Elrhoir, iniziò a studiare la stanza in cerca di una soluzione per liberare gli hobbit. I muri erano coperti da sporcizia accumulata da anni, delle ragnatele pendevano dal soffitto e due topi morti si stavano decomponendo in silenzio in un angolo accanto al camino spento. L’unico arredo era una scrivania di legno, posata accanto al muro. Avvicinandosi Elrhoir vide
un mazzo di vecchie chiavi tenute insieme da un portachiavi di metallo, afferrandole tornò dagli hobbit.
“Ora preoccupiamoci di voi… una volta liberi andremo da mia sorella… è forte e terrà duro.” osservando il mazzo che stringeva in mano, infilò una possente chiave di metallo nella serratura, cercando di aprire il cancello. Ne fece passare altre quattro prima di trovare quella giusta, liberando i due. “Ora muoviamoci, non possiamo attardarci. Armatevi come meglio potete e seguitemi senza far rumore.”

Boromir, accanto ad Aragorn, avanzavano nella montagna, addentrandosi sempre di più nel suo cuore. L’aria era gelida e i sospiri dei morti rimbombavano nelle vie, acuendosi attraverso i muri di roccia fredda e umida. Il Comandante di Gondor non guardava la strada davanti a sé; la sua mente era piena di altri pensieri. Pensieri ricolmi di preoccupazione che lo assillavano senza sosta dalla separazione con Estryd dalle Cascate di Rauros. Estryd… erano passate già alcune settimane e ancora non aveva rivisto l’amata elfa. Il suo ricordo era ancora così nitido nella sua mente, l’amava come non aveva mai amato una donna prima. Sapeva che l’avrebbe sposata, ne era certo. Anzi più che certo! Involontariamente sfiorò con il pollice destro il suo indice, rimasto spoglio del suo anello.
“Avverto la tua angoscia.” sussurrò Elladan, notando l’inquietudine dell’uomo.
“Sono preoccupato.” rispose il guerriero.
“Non dovresti… queste preoccupazioni ti distraggono. Stiamo rischiando molto attraversando questa montagna. Abbiamo bisogno di occhi vigili.” asserì Alhena; non era intenzionata a ferire i sentimenti del gondoriano, ma non voleva che gli accadesse qualcosa.
Fermandosi, l’elfa posò una mano sulla spalla dell’uomo.
“Boromir…” esordì guardando l’amico negli occhi. “Cerco solo di proteggerti. Es non mi perdonerebbe mai se ti accadesse qualcosa. Tengo a te.”
Boromir non ne era certo, la luce era scarsa, ma pareva che Alhena stesse sorridendo; quell’espressione, anche se l’aveva solo immaginata, lo rincuorò, dandogli la forza di andare avanti.
“Permettimi di riciclare un consiglio che mi diedero alcuni anni fa: non devi arrenderti perché l’unica persona sulla quale puoi e potrai sempre contare sei te stesso. Sii l’eroe della tua vita. E, presto o tardi, tornerai a casa. Vivi e resta vivo.” concluse Alhena, superandolo e seguendo i compagni.


Edoras si era dimostrata l’ennesima scelta errata della sua vita. Alhena aveva cercato di aiutare Eowyn, ma aveva solo peggiorato le cose. Sentiva l’influenza maligna di Sauron raggiungere il palazzo e non poteva restare oltre. E poi c’era quell’essere sgradevole: Grima. Il solo pensiero le provocava i brividi. Quell’insulto uomo si era impadronito del potere, soggiogando il volere del saggio Re Thèoden. Era una situazione intollerabile e nessuno pareva poter fare qualcosa… Eomer e Theodred erano partiti per la guerra e in quel palazzo erano rimaste solo lei ed Eowyn ad affrontarlo.
Mentre varcava i confini di Rohan raggiungendo le Terre Selvagge, Alhena ripensava al giorno precedente; in cuor suo sperava che allontanarsi si sarebbe rivelata la cosa migliore che potesse fare.
“Oh, buongiorno mio delicatissimo fiore elfico.”
La pelle di Alhena perse calore mentre la spettrale voce di Grima giungeva alle sue orecchie. Il sole era sorto da poco e la giornata si preannunciava piovosa e fredda. Stringendosi nel caldo manto di lana, la principessa si voltò, incrociando lo sguardo del consigliere reale.
“Buongiorno.” rispose fredda e, senza attardarsi, riprese subito a camminare.
Raggiungendola e ignorando la freddezza riservatagli dalla ragazza, l’uomo continuò: “Quest’oggi voi e la nostra signora avevate in programma una cavalcata nelle praterie?”
L’elfa non replicò, qualcosa le diceva che Grima sapeva già la risposta.
“Temo dovrete annullare la vostra uscita… il tempo sarà cupo.”
“Troveremo altro da fare.” convenne Alhena. “Con permesso.” concluse, superando Grima.
Con un movimento improvviso però, afferrò l’elfa per un braccio, e con forza la spinse contro una colonna di roccia. Anche se era più forte di Grima, Alhena non riuscì a muovere un solo dito, terrorizzata dalla situazione. Gli occhi trasparenti dell’uomo la fissavano e il suo alito le soffiava caldo sul collo. Le gambe le tremavano e, anche se voleva reagire, non riusciva; era paralizzata dalle sue paure.
“Ora voglio confidarti un piccolo segreto… abbiamo intercettato una missiva di vostro padre diretta a Re Thranduil. Non riuscivo a capire le ragioni che avevano spinto messer Elrond ad allontanarti da Gran Burrone, ma poi ho capito… a lui non interessi. Pensavo che ci saresti tornata utile; saresti stata uno splendido ostaggio per forzare la resa delle armate di tuo padre… ma ora non ci servi più a nulla. Hai perso il tuo valore…” fece una pausa, durante la quale osservò la ragazza con attenzione, cercando di captare la paura nel suo sguardo. “Strano, nei tuoi occhi non vedo la paura di ciò che potrebbe capitarti… voglio fare un accordo con te, mia cara.”
“U-un accordo?” fece eco Alhena.
“Precisamente. Abbandona Edoras, oggi stesso. Hai la mia parola che non ti sarà fatto alcun male.”
“Ed Eowyn?” domandò con un filo di voce l’elfa.
“Eowyn?”
“E’ mai amica. Io me ne andrò, senza obiettare, senza clamore. In silenzio. Hai la mia parola. Ma non voglio che Eowyn debba soffrire di questa situazione. So cosa sta accadendo tra queste mura e sono consapevole dell’influenza che stai esercitando su suo zio… ma ti prego: io non dirò nulla, non farò nulla… ma tu non far male a Eowyn.”
Grima la guardò a fondo; mai Alhena si sarebbe scordata quello sguardo, era privo di sentimenti, apatico, calcolatore. La guardò con disprezzo per secondi che alla bionda parvero ore.
“Direi che abbiamo un accordo.” concluse porgendole una mano. Alhena osservò con attenzione la mano di Grima. “Tacerai su qualunque cosa tu abbia visto tra queste mura. Non una parola su di me, sui miei piani e i piani del mio Signore.”
“Abbiamo dunque un accordo.” concluse l’elfa.
Con questi ricordi ancora freschi nella mente, stringendo con forza le redini del cavallo, Alhena incitò il destriero ad aumentare il passo. A malincuore aveva abbandonato l’amica, sperando che la decisione presa fosse quella giusta.

“Chi siete? Rispondete o saremo costretti ad uccidervi!”
Alhena si alzò, il piccolo fuoco che aveva acceso doveva aver attirato sguardi indesiderate. Mentre si alzava in piedi, respirò profondamente; l’elfa si sentiva terribilmente stupida per essersi fatta trovare così facilmente. Ma aveva freddo e non aveva altro con sé se non un mantello leggero.
Lentamente Alhena alzò le mani verso il cielo stellato, in segno di resa.
“Parla!” incitò un altro uomo, dalla voce profonda ma colma di paura.
“Alhena.” Sussurrò lei.
“Parla più forte, donna!” esclamò lo stesso.
“Mi chiamo Alhena!” urlò lei, perdendo la calma.
Un brusio si alzò. Le fiamme del fuoco brillavano nell’oscurità, mostrando solo il profilo della ragazza mentre si voltava lentamente, cercando di non fare movimenti bruschi.
“Da dove vieni?” chiese una voce famigliare.
“Chi sei?” domandò subito lei.
“Voi siete Alhena? Vero? Alhena di Gran Burrone?” domandò la stessa voce.
L’elfa fece un passo indietro; la conosceva, ma lei non sapeva chi fosse costui. Mordicchiandosi il labbro inferiore, disse cercando di restare calma: “Voi sapete chi sono, ma io non conosco né il vostro nome né il vostro volto…” fece una pausa. “Cosa celate?”
Facendosi avanti, l’uomo si mostrò. Subito la giovane elfa riconobbe Aragorn, figlio di Arathorn ed erede al trono di Gondor. Ma, il vero motivo per cui Alhena conosceva Aragorn era per l’amore che sua sorella nutriva per lui.
“Abbassate le armi. Non è una minaccia.” convenne il ramingo, rivolgendosi ai suoi uomini che prontamente obbedirono, e accompagnando l’affermazione con un gesto del braccio.
Superando Alhena, il ramingo spense il fuoco spostando della terra con lo stivale.
“Sei stata imprudente… potevi essere vista e non da noi.”
Alhena si sentì mortificata per quella affermazione; l’aveva fatta sentire una idiota.
“Dove state andando?” cambiò discorso la bionda.
Accettando la scappatoia creata dall’elfa, Aragorn sorrise dolcemente: “Vaghiamo senza meta. Noi non abbiamo un posto da chiamare casa…”
Alhena sorrise, pensando alle molte volte che aveva incontrato Aragorn per le vie di Gran Burrone; lui aveva una casa, la terra dove viveva la donna da lui amata, ma ancora non se ne accorgeva.
“Tu piuttosto, come mai ti trovi qui? Così lontana da Gran Burrone?” chiese Aragorn.
“Non sapevo dove andare.” sussurrò Alhena.
Con un segno d’assenso, gli uomini che accompagnavano l’uomo nel viaggio si dispersero, cercando un buon posto dove accamparsi per la notte.
Restati soli, Aragorn si accomodò per terra accanto alla brace spenta del fuoco e, facendo segno ad Alhena di imitarlo, la osservò con attenzione muoversi.
“Non sapevi dove andare? E perché non torni a casa?” domandò infine.
“Perché non posso.” rispose Alhena. “Mio padre non mi vuole vedere e di certo saprai cosa è successo.”
Aragorn, abbassò il capo: sapeva perfettamente le ragioni che avevano spinto Lord Elrond all’allontanamento di Alhena dalle sue terre, ma non riusciva a credere che quel rancore era perdurato per tutti quegli anni.
“Hai provato a parlargli?” chiese guardando la giovane elfa negli occhi, dopo alcuni minuti di silenzio.
“E che senso avrebbe? So già che non sarei accettata. Tanto vale vagare per la Terra di Mezzo. Il mondo è così grande… troverò il posto giusto per me.”
“A me pare che siano tutte scuse… in realtà ti sei arresa.” convenne Aragorn. “Ti ho conosciuta quand’eri solo una ragazzina, sei sempre stata forte e vitale… nulla ti abbatteva e il sorriso illuminava sempre il suo volto.”
“Mi hai conosciuta in tempi migliori… ormai non sono più quella ragazzina.” lo interruppe Alhena.
“E’ vero, sei cresciuta. Ma non sempre quello che diventiamo è la cosa migliore per noi. Compiamo scelte che ci portano ad affrontare le più svariate situazioni: alcune belle, altre meno… ma dobbiamo andare avanti! Dobbiamo avere la forza di andar avanti.”
“Andare avanti…” sussurrò Alhena, senza crederci troppo.
“E fin’ora? Dove hai vissuto?”
“Per un periodo sono stata accolta nel regno di Bosco Atro, ma poi sono andata via.”
“Thranduil e la sua leggendaria irascibilità?” scherzò Aragorn, facendo sorridere Alhena.
“Non proprio...” mentì. “E’ stata una mia scelta.”
Aragorn stava per ribattere, ma Alhena lo anticipò: “Non voglio parlare, Aragorn. Sono stanca e vorrei solo riposare.”
Senza aspettare una risposta, stendendosi sul terreno coperto da foglie secche, Alhena diede le spalle ad Aragorn.
Rimase ferma a fissare il buio, la mente invasa da molti pensieri; raramente dormiva da quando era partita da Bosco Atro. Trasscorsero alcuni istanti finchè l’elfa sentì il ramingo accendere la pipa ed inspirare a fondo; Alhena restò in attesa per almeno una mezzora, fino a quando lo sentì muoversi dietro di lei… nessun rumore percettibile ad un orecchio umano, un leggero scricchiolio mentre si coricava.
Alhena fingendo di dormire, ascoltò il respiro di Aragorn fino a quando si fece calmo e regolare, segno che ormai si era assopito.
Il cielo iniziò a rischiararsi, le nuvole erano rade e l’aria frizzante; sarebbe stata una giornata serena. La bionda si alzò senza far rumore e, con passo felpato, raccolse le poche cose che le appartenevano.
“Dove andrete?” chiese Aragorn, mentre Alhena camminava verso il suo cavallo.
Spaventata, la giovane si voltò, le gote arrossate; il ramingo la osservava con sguardo smarrito.
“Pensavo dormissi ancora.”
“Non dormo mai davvero. Non mi sento tranquillo in queste terre.”
“Ti capisco.” sussurrò Alhena.
“Dove andrete?” ripeté.
Facendo spallucce, l’elfa rispose: “Non so ancora. Forse a nord o forse a sud…”
“E perché non a casa?”
Alhena sorrise: “Per me, quella, non è e non sarà mai un’opzione.”
Chinando il capo, Aragorn lo scosse; non avrebbe mai convinto l’elfa a tornare a Gran Burrone; troppo testarda per accettare un consiglio. Con passo lento e traballante, si avvicinò a lei, era incerto su cosa dirle e su cosa fare.
In cuor suo, Aragorn sapeva che avrebbe dovuto impedirle di scappare ancora, sarebbe rimasto con lei e sapeva che era la cosa migliore… in un certo senso, si sentiva responsabile nei suoi confronti. Ma, guardando Alhena negli occhi, capì che non avrebbe accettato la sua compagnia, la ragazza era alla ricerca di qualcosa che avrebbe trovato solo restando sola.
“Abbi cura di te. Sono certo che ci rivedremo.” convenne sorridendo. “Sei una ragazza forte e sai badare a te stessa. Ma vorrei comunque darti un consiglio Alhena. Ricorda le mie parole: non devi arrenderti perché l’unica persona sulla quale puoi e potrai sempre contare sei te stessa. Sii l’eroe della tua vita. E, presto o tardi, tornerai a casa. Quando sarai pronta. Vivi, cerca le risposte che ti occorrono e resta viva.”


“Queste parole ti hanno aiutata? Ti hanno davvero aiutata?” chiese Boromir, fermando Alhena afferrandola per un braccio.
La bionda guardò Aragorn che camminava davanti a loro, non sa ancora se quelle parole l’avessero sostenuta nei momenti difficili della sua vita. Ma, di certo, l’avevano resa più forte; era maturata e aveva capito che per riuscire a sopravvivere avrebbe dovuto contare sulle sue sole forze.
“Sì, mi hanno aiutata a crescere.” rispose Alhena. “Devi farti forza e combattere. Una volta che tutta questa follia sarà terminata, potrai vivere in pace… potrai tornare da Estryd e sono certa che avrete una vita serena.”
“E’ quello che mi auguro… ciò che sogno! Io la amo, la amo così tanto che non trovo nemmeno le parole per descrivere ciò che provo… vorrei stare con lei, anche ora, e sono preoccupato perché non so dove sia, se non sta bene o no.” sussurrò lui.
Sorridendo, l’elfa concluse: “E’ normale ciò che stai passando. Sono certa che sta bene! Ne sono certa! Presto la potrai rivedere e presto potrai dirle, guarndandola in volto, ciò che provi per lei… ne sono certa!”



***
Ed ecco qui, anche per oggi questo è tutto! Alla prossima, spero presto!!!!

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Capitolo 31
*** CAPITOLO 31 - FINO ALLA FINE ***




“Ascoltatemi bene, amici miei. Dovete proseguire verso il Monte Fato… seguite vie secondarie e non mostratevi a nessuno. Fate molta, molta attenzione; la nostra presenza in questa terra non è passata inosservata e Sverker avrà già lanciato l’allarme a ogni luogotenente che divide questa fortezza al Monte Fato. Camuffatevi come meglio potete, anche con vesti e armature di orchi e proseguite senza mai fermarvi. Non fermatevi finchè non raggiungete il Monte Fato… la via sarà ardua, ma dovete proseguire. Non fermatevi. Non aspettate né me né Estryd. La vostra missione è troppo importante… proseguite.”
“Proseguire? Da soli? E voi? Ed Estryd?” domandò Frodo preoccupato, guardando l’elfo negli occhi.
“Non siate in pena per lei o per me. Ho un piano per liberarla e non ho intenzione di abbandonarla qui.”
I due Hobbit guardarono Elrhoir con occhi colmi di interrogativi: quale piano aveva ideato? Sam, come Frodo, voleva essere di maggior aiuto. Ma il giardiniere comprendeva l’urgenza della missione; non potevano perdere altro tempo, non ora che erano così vicini al baratro infuocato.
“Piccoli amici miei, so benissimo che bramate dal desiderio di aiutare mia sorella… ma il vostro compito è molto più importante. Dovete distruggere l’Anello e io terrò impegnato Sverker… voglio darvi una possibilità. Meritate la migliore possibilità che io posso darvi.”
“Ma…” iniziò a dire Sam.
“Samvise… Frodo… “ interruppe gli Hobbit. “Il mio, non so se è un buon piano. Ma resta pur sempre la miglior opportunità che abbiamo.” Fece una pausa e, posando le mani sulle spalle degli Hobbit, concluse abbozzando un timido sorriso nella speranza di rincuorare i due: “Che voi avete.”

Ormai sfinita, con la testa piegata sul petto, Estryd respirava con affanno.
Non riusciva a deglutire; in bocca aveva l’amaro sapore del proprio sangue. Inoltre, il sudore che le cadeva lento lungo la fronte, raggiungendo il collo, le solleticava in modo fastidioso. Gli occhi erano quasi chiusi; non riusciva a tenerli aperti, era stanca. Troppo stanca. Ogni muscolo del suo corpo le doleva, avrebbe urlato se avesse avuto ancora forza.
Sverker camminava lento per la sala, ripercorrendo i propri passi di continuo; avanti e indietro, cinque passi per direzione. Nelle mani stringeva un pugnale sporco di sangue che luccicava alla luce del camino, brillando di un inquietante rosso vermiglio.
Mentre lo fissava, senza quasi battere ciglio, Sverker lo rigirava maniacalmente tra le dita. Non riusciva a capire perché l’elfa non parlasse… cosa le costava dargli le informazioni che chiedeva? Era certo che, presto o tardi, avrebbe ottenuto la risposta che tanto agoniava ottenere. Ma stava perdendo troppo tempo, troppo. Voleva delle risposte e le esigeva subito.
Di scatto si fermò e, irritato, si voltò verso Estryd guardandola con odio.
“Adesso basta!” disse, rimarcando la seconda parola e alzando il tono della voce.
Con forza conficcò il pugnale nel tavolo e, con uno scatto, si avventò contro la bruna, avvicinandosi tanto che riusciva a distinguere le varie sfumature verdi delle iridi della principessa.
“Ora…” iniziò a dire a denti stretti, cercando di controllare il tono della voce. “Mi dirai ciò che voglio sapere o, quello che hai subito finora, sarà stato solo un piacevole passatempo per entrambi.”
Colta dal panico, Estryd ricambiò lo sguardo del traditore. Il cuore le pulsava frenetico nel petto. Da un lato avrebbe voluto dirgli ciò che voleva sapere, per salvare la vita del suo bambino e anche la propria, ma, allo stesso tempo, si rifiutava di dimostrarsi debole. Chiuse gli occhi, aveva una forte nausea.
“Io…” sussurrò lei, quella parola le costava un’enorme fatica. Aveva la bocca secca. “Io…” ritentò, ma ancora nulla; tossì.
“Tu?” la incoraggiò Sverker, ormai certo di aver raggiunto il suo scopo. “Dimmi quello che voglio sapere e, mia dolce principessina, hai la mia parola che ti lascerò libera.”
Estryd boccheggiava; sfinita, stanca, spaventata. Ogni cosa attorno a lei si muoveva a rallentatore, anche le parole di Sverker erano confuse.
Ogni respiro le costava fatica. Le braccia le formicolavano, non le sentiva; era debole, sempre più debole.
“Elrhoir…” sussurrò infine Estryd prima di perdere conoscenza.
Con un tonfo, la porta si spalancò, schiantandosi contro il muro con violenza. Il rumore rimbombò nella stanza e i fini vetri delle finestre tremarono.
Sverker si voltò con occhi colmi d’ira per l’ennesima distrazione ma, quando incrociò lo sguardo di Elrhoir, ogni risentimento svanì.
Un sorriso beffardo si aprì sul volto spigoloso del signore di Cirith Ungol; erano secoli che non vedeva Elrhoir e, anche allora, non erano mai stati grandi amici. 
“Mi chiedevo quando uno di voi sarebbe spuntato per salvarla.” esclamò sorridendo, mostrando una perfetta dentatura.
Il principe di Gran Burrone non mutò espressione e continuò a guardare Sverker serio. Conosceva la forza del traditore e non avrebbe preso sottogamba la sfida che stava per compiere.
“Da Estryd non otterrai nulla, perché lei non sa nulla.” sussurrò Elrhoir, dando così il via al suo piano.
“E dovrei credere alla sua storiellina che si trova lontano da Gran Burrone per motivi di piacere?” domandò ilare. “Non credere che sia uno sciocco, Elrhoir.”
“Ma ti comporti e pensi come tale.” convenne, sperando che il tono della voce non tradisse l’ansia. “Credi davvero che una missione importante come questa venga affidata a due Hobbit e da una Princessa elfica? Sottovaluti così la nostra intelligenza e il buonsenso di mio padre?”
Silenzio. Sverker guardò il principe; il sorriso spavaldo che aveva sulle labbra, lo abbandonò all’istante. Si stava sbagliando?
“Cerchi solo di instaurare il dubbio nella mia mente.” sussurrò, con voce tremante.
Elrhoir impugnava con mano ferma la lunga lama forgiata dal suo popolo.
“Lascia libera mia sorella, non trasformarla nell’ennesima vittima innocente in questo conflitto.”

Fermandosi, Legolas si guardo attorno. Lo sguardo terrorizzato che vagava scrutando il buio.
Qualcosa che non vedeva chiaramente li stava seguendo ormai da alcuni minuti; guardò Elladan che camminava al suo fianco. Anche l’amico era spaventato da qualcosa, Legolas avvertiva la sua paura e la vedeva nei suoi occhi che vagavano osservando le ombre attorno a loro.
Voltandosi, Legolas guardò Aragorn che camminava tranquillo, brandendo una fiaccola, dietro il ramingo vide Alhena parlare con Boromir; nessun altro eccetto loro si era accorto di qualcosa.
Alzando un braccio, fermò il cammino di Aragorn e, guardandolo negli occhi, sussurrò: “Vedo sagome di Uomini. E di cavalli.”
Elladan annuì: “Sono qui. Tutt’attorno a noi!”
Il ramingo guardò l’amico con aria preoccupata; conosceva molto bene le storie dei Morti che dimoravano sotto la montagna e mai aveva sottovalutato una diceria così spaventosa.
Boromir e Alhena si avvicinarono ai compagni.
“Ci sono dei problemi?” chiese sussurrando Boromir, spostando lo sguardo da Elladan a Legolas.
L’aria era diventata improvvisamente più gelida, facendo rabbrividire l’uomo nonostante le pesanti vesti che lo coprivano.
“Sono loro?” chiese Alhena, guardando il fratello e posando entrambe le mani al suo braccio.
“Vessilli pallidi come brandelli di nuvole… lance si innalzano come boschetti d’inverno attraverso una coltre di nebbia… i Morti le seguono. Sono stati convocati.”
“Convocati?” gli fece eco Boromir, avvicinandosi a lui in solo due falcate. “Convocati da chi esattamente?”
“Probabilmente da me.” rispose Aragorn, chinando il capo. “Per questa…” continuò sfiorando con la punta delle dita l’elsa della spada che Sire Elrond gli aveva consegnato solo il giorno prima.
Alhena fissò l’elsa, era inconfondibile. Per anni aveva visto i frammenti di Narsil nel palazzo di Gran Burrone, posata sul vassoio tenuto in grembo da una statua antica.
“La spada che vostro padre mi ha donato è stata riforgiata da Narsil. Questa è la lama del Re, Andúril , e, questa lama, ha il potere di richiamare una forza che ci permetterà di vincere contro Sauron.”
“E’ di questo che si tratta, dunque?” chiese Alhena. “Hai intenzione di richiamare l’esercito dei morti per aiutarci nella guerra contro Mordor? E in cambio di cosa? Cosa concederai loro per l’aiuto che ci daranno?”
Un pensiero attraversò la mente di Alhena, come un lampo: ”Vuoi donar loro la libertà? La pace?”
Nessuno le rispose, Elladan si avvicinò alla sorella: “Questo è stato il piano di nostro padre fin dall’inizio.”
“Credete davvero che funzionerà?” chiese Boromir, dubbioso. “Che accadrà se… che accadrà se…” ma non riusciva a terminare la frase, troppo intimorito dal pensiero.
“Se i Morti non riconosceranno Aragorn come Re…?” s’intromise Alhena, guardando dapprima Boromir e poi Aragorn. Respirò a fondo e, deglutendo, scosse il capo. “Saremo arrivati fin qui per niente.”
Elladan stava per rimproverare la sorella, ma ella continuò: “Avremmo potuto essere di maggior aiuto ai Rohirrim! Loro sono partiti per la guerra e…”
“Noi li aiuteremo… potremmo vincere! È questo il nostro obiettivo, il mio obiettivo.” concluse Aragorn. “E sono felice di non essere giunto fin qui da solo.”
“Non ti avremmo mai permesso di proseguire solo. Siamo amici: siamo partiti insieme e giungeremo a Gondor insieme.” convenne Legolas, posando una mano sulla spalla del ramingo. “Puoi contare su di noi.” Poi, guardando Alhena e sorridendole con complicità, aggiunse: “Su tutti noi.”
Sorridendo, l’elfa annuì; per secoli aveva diffidato delle scelte di suo padre, considerandole sconsiderate e prive di senso e, appena aveva scoperto le sue reali intenzioni, aveva deciso di contravvenire al suo piano. 
“Non sono partita con voi, ma raggiungerò Gondor al vostro fianco.” convenne. “Aragorn sei il Re legittimo di Gondor e il Trono di Minas Tirith è tuo per diritto di sangue. Avrai il mio completo appoggio. Fino alla fine.”
Ricambiando il sorriso della bionda, Aragorn si avvicinò alla ragazza abbracciandola con sincero affetto.
“Grazie.” le sussurrò con dolcezza, la stessa che si riserva ad una sorella.

Elrhoir non aveva intenzione si cedere; da quando aveva saputo della fuga di Estryd, aveva promesso al padre di trovare la sorella e riportarla a casa, sana e salvo. Avrebbe prestato fede alla parola data. Avrebbe salvato Estryd e poi, insieme, avrebbero raggiunto gli Hobbit che già procedevano verso il Monte Fato. Sentiva il proprio cuore battere frenetico nel petto; era nervoso, molte cose dipendevano da lui e dal risultato di questo duello.
“Sverker ragiona: quali vantaggi avrai uccidendola?”
“L’ira e il dolore di tuo padre sono un buon movente per tagliarle quel collo così fine e delicato.” sussurrò divertito l’elfo, facendo roteare tra le mani una lama affilata.
“Ma al tuo Signore non sarebbe di alcun giovamento. Gran Burrone sta combattendo insieme alle armate di sire Thranduil… pensi davvero che ti lasceranno impunito se la ucciderai? Lei è una Principessa… tutti gli elfi, non solo di Gran Burrone, ma anche di Lothlorien e Bosco Atro, sposteranno le loro forze qui. Contro di te. Sarà semplice per loro aprire una breccia nella tua fortezza e, se cade Cirith Ungol nessuno fermerà le armate elfiche… raggiungeranno il palazzo del tuo Signore… Sauron non sarebbe lieto di questa eventualità… in tutti questi anni non sei cambiato. Sei sempre il solito: crei danni, non sei affidabile. Non pensi con razionalità. Agisci comportandoti da sciocco.”
Ribollente di rabbia, Sverker s’irrigidì guardando con odio Elrhoir.
“Ora basta!” sbraitò, accompagnando l’affermazione con un gesto secco delle braccia. “Le tue parole sono inutili! Non creerai il dubbio nella mia mente! Io sono il suo più fido servitore e Lui ha piena fiducia in me e nelle mie decisioni! So che Estryd è qui per uno scopo e anche quei due inutili esseri!”
Elrhoir sorrise, divertito dalla reazione che aveva avuto il traditore: “Se davvero pensi che mia sorella o gli Hobbit celano l’Anello, se davvero pensi che siano loro a custodirlo, allora dimmi: perché non li hai perquisiti? Perché non hai controllato se lo nascondono?”
“Sono miei prigionieri… che importanza ha se cerco l’Unico Anello ora o dopo? Non vanno da nessuna parte! Più importanti sono le informazioni che voglio avere da lei…” concluse accennando alla giovane.
“Prigionieri? Sicuro che siano ancora nelle tue segrete gli Hobbit?” chiese Elrhoir, con tono di sfida.
Subito il sorriso spavaldo di Sverker scomparve dal suo volto affilato; guardò il principe di Gran Burrone. Una vena gli pulsava sulla fronte e la pelle gli bruciava. Non ci credeva. Non poteva essere vero!
“Menti…” sussurrò a denti stretti, esaminando Elrhoir nella speranza di trovare un segno di menzogna nelle sue parole.
Elrhoir scosse leggermente il capo in segno di diniego.
“Tu menti!” si ripeté con tono anor più irritato Sverker, scaraventando a terra il pugnale che stringeva e, avvicinandosi al camino, dove teneva il fodero, brandì la sua fida spada. Poi, stendendo il braccio verso il principe, ogni muscolo teso, lo sfidò.
“Non mi sei mai stato simpatico… inoltre non mi interessa se quei due esserini sono scappati dalla mia fortezza. Pensi davvero che riusciranno a lasciare Mordor incolumi? Tutti li stanno cercando… sappiamo che l’Anello è custodito da un mezzuomo. Dei quattro che sono partiti da Gran Burrone, sappiamo che due erano qui e ora gironzolano per la terra di Sauron, uno è a Gondor e l’altro è in movimento con i Rohirrim verso Minas Tirith.” notando l’espressione sconvolta apparsa sul volto di Elrhoir, aggiunse. “Pensavi davvero che non sapessimo nulla? Vi stiamo osservando fin dalla vostra partenza. Il Grande Occhio vede ogni cosa… non avete segreti per Lui.”
Terminata la frase, senza perdere tempo, con violenza, Sverker si scagliò contro l’elfo. Con abilità Elrhoir fermava ogni attacco di Sverker, i suoi attacchi erano prevedibili; per nulla mutati da quando era una guardia di Gran Burrone. I tocchi violenti delle due spade rimbombavano nella sala, metallo contro metallo… quel suono fece rabbrividire il principe; era legato a un ricordo orribile del suo passato.


Il cielo era grigio ed il tempo minacciava tempesta. Dei violenti lampi illuminavano il cielo ormai imbrunito e riflettevano tetri sulla superficie blu dell’acqua. Il vento soffiava violento facendo piegare i fini rami degli alberi. Le foglie si staccavano stanche e, in balia della brezza, volavano mezz’aria fino a cadere sul pavimento di roccia. Alcune piccole gocce d’acqua cadevano dal cielo, sfiorando i volti caldi della corte di Gran Burrone che, nonostante il tempo avverso, si era riunita per dare l’addio alla regina.
Elrhoir, accanto ai fratelli, osservava i Porti Grigi. Gli occhi gli bruciavano, ma cercava di tenere duro. Accanto a lui Alhena singhiozzava, erano tre giorni che piangeva incessantemente, da quando aveva appreso la notizia della partenza di Celebrìan.
In silenzio, il principe, osservava le grandi onde che s’infrangevano contro la roccia e che facevano vibrare le grandi catene di ferro che tenevano le barche ancorate al molo; quel picchiare violento creava un forte rumore metallico che lo faceva rabbrividire. Spostò nuovamente lo sguardo sulla sorella minore; Elrhoir era preoccupato per lei. Non aveva più parlato. Temeva che s’incolpasse di ogni cosa, riusciva a leggerlo nei suoi occhi di ghiaccio; Alhena si dava la colpa di quanto accaduto. La vide singhiozzare sommessamente. Ogni cosa era così deprimente.
L’elfo alzando il capo, fissò il cielo e non poté evitare di pensare che le fini gocce che bagnavano il suo viso e la pesante veste che portava, parevano lacrime. Anche il cielo era triste per la perdita dell’amata regina di Gran Burrone.

Elrond, stringendo con forza entrambe le mani della moglie, la guardava negli occhi. Era bellissima ed era stato estremamente fortunato ad averla conosciuta, ad aver condiviso con lei tanti secoli felici. Sarebbe stato così difficile per lui dirle addio, lasciarla andare; lei era la sua vita. Ogni giorno sarebbe stata una tortura per Elrond svegliarsi e non poter ammirare in silenzio il suo dolce viso mentre ancora dormiva. Carezzò il suo volto.
“Devo andare. Il mare minaccia tempesta…” sussurrò con voce calda Celebrìan, senza distogliere lo sguardo dagli occhi grigi dell’amato.
“Ripensaci…” le sussurrò lui, avvicinandosi di poco al volto di lei. “Non abbandonarmi… resta con me. Insieme ce la possiamo fare.”
La regina scosse il capo, lentamente… ormai si era completamente arresa. Non aveva più la forza di continuare. Era stanca di fingere, voleva scappare da quella terra di dolore.
“Elrond…” disse lei, posando la fronte sul petto dello sposo. “Cuore mio… anima mia…”
“Non abbandonarmi.” la pregò lui.
“Ne abbiamo già parlato e non posso… non riesco… mi sento soffocare ogni volta che respiro. Ogni istante vivo con la paura, il dolore e la rabbia che quel momento mi ha lasciato.”

Alhena distolse lo sguardo dai genitori; la scena era troppo penosa, si sentiva responsabile della loro sofferenza.
Voltando il capo osservò con cura i suoi fratelli. Elladan e Elrhoir erano alla sua destra e, con occhi fissi, scrutavano l’orizzonte. Era chiaro che soffrivano molto, anche se cercavano di resistere, di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni. La bionda chiuse gli occhi e guardando l’orlo della veste che portava chiuse gli occhi; cercando di non essere vista, si asciugò le lacrime.
Un gemito improvviso attirò l’attenzione di Alhena e, volgendo il capo a sinistra, vide Estryd piegata tra le braccia di Arwen. Con dolcezza materna la sorella maggiore, carezzava il capo della bruna, sussurrandole parole affettuose e consolatorie.
“Resta con noi… non ti chiedo di farlo per me… fallo anche per loro, i nostri figli! Hanno bisogno di una madre…” implorò Elrond.
Quelle parole ferirono ancora di più il cuore già straziato di Alhena.
“Ti aspetterò.” rispose Celebrìan. “Hai ancora molto da vivere, molte cose ti legano a questo magnifico mondo… Gran Burrone è casa tua, il tuo regno, la tua terra.” fece una pausa e, accarezzando il volto del marito, abbozzò un timido sorriso. “Ogni giorno che mi sveglio qui, ogni respiro per me è diventato faticoso… ho l’anima straziata…”
Con dolcezza, baciò le labbra del marito.
“Questo non è un addio, è solo un arrivederci a presto. Ci rivedremo, amor mio… i nostri cuori sono legati. Ci siamo promessi amore eterno e non voglio infrangere questa promessa. Sei nel mio cuore. Lo sei stato ogni giorno, sempre.”
“Ti amo e ti amerò per sempre, fino alla fine. Finchè ci sarà vita in noi.”
“Fino alla fine.” concluse Celebrìan, annuendo e baciando Elrond.

Mentre la barca abbandonava i Porti Grigi, Elrond rimase fermo ad osservarla. Si allontanò velocemente, aiutata anche dal forte vento che soffiava con prepotenza nelle vele spiegate. Il Re guardava la costruzione in legno chiaro, senza battere ciglio; presto non poté più distinguere il volto e la figura della sua amata poi, anche la barca stessa, fu solo un piccolo puntino chiaro all’orizzonte ed, infine, sparì tra le nuvole colme di pioggia e i lampi.
Elrond non riusciva a muoversi; anche respirare, gli costava molta fatica. I muscoli del suo corpo parevano essersi addormentati. Il frastuono del vento e delle onde si erano fatti sordi alle sue orecchie… altro non esisteva se non l’orizzonte, oltre il quale c’era la sua amata Celebrìan.
“Padre, si è fatto tardi.” disse Elrhoir, avvicinandosi con passo tremante al genitore. “Dobbiamo rientrare a palazzo.”
Elrond non si mosse, non diede nemmeno segno di aver sentito le parole pronunciate dal figlio. Rigido, come una statua, scrutava il mare; il vento muoveva con eleganza il lungo manto nero che portava e scompigliava i suoi capelli scuri, inumiditi da una fine pioggia fredda.
“Padre!”
Ancora nessuna risposta.
“Credo sia meglio avviarci verso casa. L’ora si è fatta tarda e le vie non sono sicure.”
Haldir raggiunse i principi con passo deciso. Indossava l’uniforme dorata dei Galadhrim ma, invece del consueto manto vermiglio, ne portava uno scuro, in segno di lutto. Raggiunse i giovani elfi con un sorriso triste sul volto: “Ho promesso a vostra madre di vegliare su di voi.” convenne, facendo loro segno di seguirli.
“E nostro padre? Non possiamo lasciarlo qui.” s’intromise Arwen, osservando le spalle del genitore.
“Concediamogli ancora qualche minuto… concedi a noi ancora qualche minuto.” sussurrò Estryd, raggiugendolo e fissando il suo sguardo blu.
“Ci raggiungerà presto.” rispose con dolcezza. “Quando sarà pronto. Ha busigno di un po’ di spazio. Sta affrontando un momento difficile, molto difficile… sta dicendo addio all’amore della sua vita.”

“Amico mio… ho fatto prima che potevo.” esclamò Gandalf, avvicinandosi ad Elrond. “Sono già partiti?” domandò infine.
Il Signore di Gran Burrone non rispose.
“Mi dispiace molto, Elrond. Ma devi promettermi di reagire. Celebrìan ti ha fatto dono dei beni più preziosi che tu possa desiderare: ti ha concesso il suo cuore e ti ha dato cinque figli bellissimi.”
Posando una mano sulla spalla di Elrond, aggiunse: “Soffri ed è normale, ma vedrai che presto andrà meglio. Celebrìan ha preso la decisione migliore… conosceva i suoi limiti e non poteva restare qui…”
“Silenzio.” sibilò, stringendo le mani a pugno.
Gandalf guardò l’amico sorpreso dall’ira nella sua voce. Non l’aveva mai visto così.
“Elrond…” iniziò a dire.
“Non fingere che tutto vada bene. Perché nulla va bene! Nulla andrà più bene, da oggi in avanti!” concluse urlando, guardando lo stregone negli occhi. “Lei era tutto per me! Tutto!”
“Non permettere alla rabbia di prendere il sopravvento!” lo implorò Gandalf.
“No! Troppo a lungo ho taciuto… mi sono controllato perché lei me lo ha chiesto! Ma ora basta! Ora basta!” continuò fuori di sé.
Gandalf, senza parole, guardò l’amico.
“E’ stata colpa sua… ogni disgrazia che è accaduta, è stata per causa sua!”
“Elrond… non comprendo… sei uscito di senno…” sussurrò, smarrito lo stregone.
“Lei… se solo non si fosse allontanata, comportandosi da immatura… se avesse obbedito alla madre… è stata colpa sua! Sua!”
“Di chi parli? Di che colpa parli?” chiese Gandalf, non sicuro di voler conoscere la risposta.
“Di lei… di Alhena!” rispose con odio e disgusto.


“Non perdiamo altro tempo!” esclamò Elrhoir, guardando con occhi colmi d’ira il suo avversario. “Mi sento buono e ti concedo un’ultima possibilità. Libera mia sorella e lasciaci andare… ti risparmierò la vita. Puoi fidarti di me. Hai la mia parola!”
Ridendo di gusto, Sverker guardò il principe: “Mi risparmierai la vita? Ho la tua parola?” rise divertito. “Oh, Elrhoir… non renderti ridicolo. Le tue parole sono una barzelletta, davvero infelice!”
Stringendo con maggior forza la spada, Elrhoir guardò Sverker; almeno aveva tentato di trovare un’altra strada.
Non aveva altra scelta; con passo sicuro si avvicinò al traditore. Lo sguardo impassibile, senza battere ciglio. Il primo attacco fu violento; i due elfi combattevano, muovendosi con eleganza. Le due lame si scontravano con una forza tale da creare fini scintille ad ogni impatto.
Parevano danzare, mentre giravano in tondo, studiandosi l’un l’altro per carpire il punto debole dell’avversario e, allo stesso tempo, parevano due felini, mentre attaccavano con il chiaro obiettivo di ferire per uccidere.
Erano stati addestrati dallo stesso maestro ed entrambi possedevano la medesima tecnica. Con il tempo, però, Elrhoir si era distinto da Sverker, grazie soprattutto alle numerose battaglie combattute e vinte e, questa superiorità, era evidente nello scontro.
Il combattimento si stava consumando da alcuni minuti quando, sorprendendo Elrhoir, Sverker sferrò un attacco improvviso, squarciò l’aria con la lama della spada e, per un soffio, non ferì il principe al petto. Solo grazie alla prontezza di riflessi, Elrhoir evitò la lama e, flettendosi all’indietro, schivò il colpo del signore di Cirith Ungol. Senza concedergli tempo, con un movimento improvviso, Elrhoir sferrò un calcio, colpendo l’avversario al petto e facendogli perdere l’equilibrio. Sverker cadde per terra con un tonfo sordo.
“Maledetto!” sussurrò Sverker, arrossato in volto per l’imbarazzo di essere in difficoltà contro Elrhoir.
Con le braccia stese lungo il corpo e la spada salda in pugno, raggiunse Sverker e, sovrastandolo, lo osservò attentamente: “Sei in netta difficoltà… e, dal tuo sguardo, mi è chiaro che l’hai capito anche te.”
Alzandosi, l’alleato di Sauron ricambiò lo sguardo del principe con tutto l’odio che provava e, ormai accecato dall’ira, si scagliò con violenza contro l’elfo. Sverker attaccava, ma i suoi movimenti si erano fatti lenti ed imprecisi; mancava l’avversario e, i pochi colpi che andavano a segno, venivano parati con fin troppa facilità da Elrhoir.
“Ammetti la sconfitta.”
“Mai!” rispose l’elfo urlando. “Non mi hai sconfitto!”
“Come desideri.” concluse il principe, ormai arreso davanti all’ostinazione di Sverker. Nonostante i crimini da lui commessi, nonostante le malvagità ed il tradimento, non era nello spirito di un elfo uccidere. Privare un essere vivente della propria fiamma vitale, della propria luce, era impensabile. Qualunque vita per un elfo era sacra e, ancor di più, se ad essere strappata da un crpo era un’anima immortale.
“Non vincerai mai… non hai il coraggio! Non hai la forza per andare fino in fondo.” sibilò Sverker. “Guardati adesso!” continuò, accennando al principe. “La vita di tua sorella è appesa ad un filo… mi basta così poco, quasi un nulla, per ucciderla. Se tu sarai sconfitto, tale sorte spetterà anche alla tua adorata Estryd.”
Il sangue ribollì nelle vene del principe; non avrebbe mai permesso a Sverker di completare i suoi piani. Con rinnovata risolutezza, Elrhoir strinse la spada e, allungando le braccia verso il suo avversario, si scagliò contro di lui. Aveva ragione; se voleva vincere, avrebbe dovuto combattere con rabbia, con convinzione. Ogni cosa per salvare sua sorella. Si sarebbe giocato il tutto per tutto.
Questa violenza sorprese Sverker che, impreparato, indietreggiò nel vano tentativo di fermare i micidiali colpi dell’avversario. Teneva a malapena testa al principe.
Arretrò ancora, fermato infine dalla fredda roccia contro la quale picchiò violentemente le spalle; Sverker era stato colto alla sprovvista. Corrugò la fronte; sopreso. Per un soffio, bloccò l’ennesimo colpo.
Alzò la propria arma in tempo; le lame si scontrarono a pochi centimetri dal suo volto… erano vicine, così vicine… guardò oltre e si spaventò vedendo il fuoco che brillava nelle iridi di Elrhoir. Un istante, un battito di ciglia, ed Elrhoir attaccò nuovamente, mosse la spada, impugnandola con entrambe le mani e poi, con forza, trafisse il torace del traditore.
La violenza fu tale che la lama trapassò Sverker e, urtando la roccia, si spezzò con un suono secco.
Un rivolo di sague colò dalla ferita, dove l’arma aveva colpito il signore di Cirith Ungol. Il sorriso sul suo volto svanì e, per la prima volta dopo secoli, Sverker provò paura. Il dolore era forte, pungente, un bruciore costante che provocava forti spasi al suo corpo. La vista annebbiata gli impediva di vedere chiaramente.
Faticava a respirare; aveva qualcosa in gola che gli impediva di deglutire, tossì. Uno spruzzo di sangue colpì Elrhoir in volto. Il principe non si mosse, restò vicino a Sverker, le mani ancora ben saldo sull’elsa della spada, non sarebbe arretrato. Riusciva a sentire i respiri di Sverker, erano lenti e gli costavano un’enorme fatica.
“Mi dispiace.” sussurrò infine Elrhoir, indietreggiando solo quando l’elfo esalò l’ultimo respiro.

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Capitolo 32
*** CAPITOLO 32 - NON CON QUELLA VOCE... NON CON QUELLO SGUARDO... ***


Ciao di nuovo a tutti! Sono sparita per tanto, anche troppo tempo... ma ora rieccomi con un nuovo capitolo!
Vi auguro buona lettura!



“Chi entra nei miei domini?”
Una voce spettrale rimbombò nella caverna; i muri vibrarono e l’aria divenne gelida. Alhena si guardò attorno, senza sapere cosa aspettarsi, odiava sentirsi così fragile. Istintivamente si avvicinò al fratello, in cerca di un contatto con lui. Non sapeva cosa aspettarsi, ma era chiaro che anche i suoi amici erano intimoriti da quella voce.
Un rivolo di sudore rigò la fronte della giovane elfa, era freddo e la fece rabbrividire mentre percorreva lentamente le linee del suo volto. Chiuse gli occhi; sapeva cosa si celava nell’ombra ma, come ogni immortale, lo temeva più di ogni altra cosa. Elladan, con affetto, sorrise alla sorella minore e le strinse la mano nel tentativo di infonderle forza.
“Non aver paura… sono qui.” le sussurrò in modo tale che solo lei potesse udire quelle parole.
Aragorn si fece avanti con coraggio, lo sguardo fiero che scrutava l’oscurità. Poi, una risata malefica si amplificò attorno a loro, rimbombando nella caverna e facendo cadere fini fili di polvere dal soffitto.
Accadde velocemente, quasi non si accorsero della fine nebbiolina che strisciava verso di loro. Non avevano mai visto nulla di simile; era strana, verde cupo e pareva muoversi tutt’intorno a loro, quasi si riusciva a distinguere dei volti, lievi tratti quasi umani. Lentamente la nebbia circondò i cinque, tenendosi comunque a distanza.
L’aria si fece ancora più pungente, tanto che del fumo bianco usciva dalle loro bocche mentre respiravano con maggior affanno. Era tutto così irreale; non capivano cosa stava accadendo attorno a loro. Dopo quella risata, il silenzio li circondò.
Alhena percepì che nella sua mente stava strisciando il dubbio; chi aveva parlato loro poco prima? Conosceva molte leggende che venivano narrate su quel luogo, ma non poteva essere reale… aveva sempre creduto che fossero storie perlopiù raccontate per far capire l’importanza della fedeltà e che un patto è vincolante ma, forse, c’era un fondo di verità in tutto questo. Forse, l’avvertimento che aveva udito era di un dannato.
“Ma cosa…” sussurrà Boromir guardandosi attorno con cipiglio incerto.
La foschia iniziò a prendere forma; fermando il suo strisciare e trasformandosi in figure tetre… Alhena deglutì comprendendo cosa stata spaventando il valoroso guerriero; stavano prendendo la forma di uomini, vestiti da guerrieri… ma erano tutti morti. Morti e consumati dal tempo. Ricorse a tutta la sua forza per non scappare perché erano circondati dai fantasmi dei traditori che avevano abbandonato Isildur durante la Prima Grande Guerra del Regno di Gondor contro Sauron.
Cercò con gli occhi i suoi amici, erano tutti smarriti, tranne Aragorn che ricambiò lo sguardo di tutti loro. Il ramingo sentiva una forte rabbia pulsare nelle sue vene: per colpa loro a Sauron era stato permesso di sopravvivere. Il loro tradimento aveva colpito il suo popolo, lasciando le ultime armate di Gondor stremate ed indifese. Era stata solo fortuna quella che aveva permesso ad Isildur di vincere la battaglia… solo fortuna.
Alhena percepì il respiro profondo di Aragorn, stava cercando di placare il disprezzo. Lo vide stringere i pugni con forza, tanto che le nocche divennero bianche.
Legolas si avvicinò all’amico e posando una mano sulla sua spalle, gli fece un cenno col capo e abbozzando un lieve sorriso. Aragorn si guardò attorno, cercando di capire chi aveva parlato prima. I loro volti erano orripilanti; scavati dal tempo, la pelle si stringeva contro le ossa, i corpi semitrasparenti e vestiti con armature arrugginite dal tempo e da stracci strappati. Gli sguardi erano vitrei e si poteva percepire anche la profonda tristezza che regnava in quella caverna che, altro non era, che la loro tomba.
“Avanti! Parlate!” esclamò, nuovamente la stessa voce spettrale.
I cinque guardarono quello che doveva essere il Comandante dei traditori; quand’era vivo doveva essere stato un uomo davvero imponente. Aragorn si fece avanti, cercando di mantenere un passo dignitoso e guardò negli occhi lo spettro, certo che mai nella sua vita avrebbe scordato quegli occhi vitrei e completamente bianchi.
Il Comandante sorrise nuovamente quando notò che non c’era timore nei viaggiatori; negli anni in pochi avevano avuto tale audacia e, questa strana compagnia, non solo era entrata nella sua terra senza invito, ma questi elfi e uomini erano giunti fino a lui e, uno di loro, lo stava guardava con aria quasi di sfida. Sorrise maligno; nessuno era mai sopravvissuto e la stessa sorte sarebbe presto toccata anche a loro.
Facendo ricorso a tutto il coraggio di cui disponeva, Aragorn fece un ultimo passo in avanti, trovandosi dunque a faccia a faccia con lo spettro: “Uno che avrà la vostra lealtà.”
“I morti non consentono ai vivi di passare.” esclamò con disprezzo, guardando l’uomo anonimo che aveva davanti.
“Invece lo consentirai a me. Io sono Aragorn, figlio di Arathorn. Io vi invito a rispettare il giuramento.” rispose con calma.
“Una sola stirpe potrebbe richiedere il nostro aiuto e questa si è spezzata anni fa.”
“Non è spezzata!” esclamò il ramingo con vigore, estraendo dalla fodera la spada donatagli da Sire Elrond.
Nonostante Narsil fosse forgiata dalla Lama Spezzata, il Comandante dei traditori seppe che era Lei. Lei era la spada del Re di Gondor… i suoi occhi la osservarono increduli. Non poteva essere vero… con ferocia si fece avanti e, impugnando la sua fida arma, affrontò l’irriverente umano; pronto a colpire e, quasi certo, che il suo attacco sarebbe andato a segno, uccidendolo.
Ma accadde qualcosa che lo spettro non aveva previsto; la lama della sua spada si scontrò contro quella che impugnava l’uomo che rispondeva al nome di Aragorn, producendo un suono metalicco che echeggiò nella caverna. Una scintilla di paura attraversò lo sguardo del Comandante dei traditori; non poteva essere vero.
“Non può essere! Non ci credo! Quella discendenza è stata spezzata!” urlò con rabbia, ancora incredulo.
“Sbagli! Si è ricostituita ed io ho il potere di chiedere il vostro aiuto!” rispose con calma Aragorn.
Nessuno rispose. Lo spettro osservò l’uomo in silenzio; non sapeva che fare. Era un’affermazione azzardata quella che aveva udito, ma possibile che corrispondesse al vero?
Attese per qualche istante la reazione del comandante dei traditori ma, non ottenendo alcuna reazione, Aragorn si voltò verso i suoi amici e, annuendo, li avvisò che avrebbe chiesto il loro aiuto.
Riportando infine l’attenzione allo spettro, il ramingo respirò a fondo e, approfittando della sorpresa che la sua affermazione aveva creato, riprese parola:
“Vi offro un’opportunità di riscatto. Aiutate Minas Tirith, aiutate Gondor in questo scontro e io vi prometto che vi libererò dalla maledizione di Isildur.”
“Cosa mi assicura che manterrai la parola data?”
“Sono venuto qui perché non ho altra scelta. La minaccia di Mordor incombe su tutti noi e ho bisogno del vostro aiuto per avere una possibilità di vittoria. Avete la mia parola; non posso darvi altro oltre questa.”
Il Re dei morti stava per sparire quando, quasi urlando, Boromir intervenì: “Avete la parola di Aragorn, futuro Re di Gondor! Che altro volete? Un Re mantiene sempre la parola data!”
Il Comandante si avvicinò all’uomo che aveva parlato; quanta spavalderia aveva!
“Vi preghiamo! Tutti noi qui presenti...” aggiunse Boromir controllando il tono della voce. “Tutti noi siamo venuti fin qui senza aspettarci nulla. Ma vi offriamo comunque una possibilità di riscatto! Non sprecatela… potrete avere la pace che da secoli agoniate!”
Lo spettro osservò nuovamente Aragorn; negli occhi dell’uomo vi leggeva una grande onestà. Non mentiva, avrebbe prestato fede alla parola data. Annuì debolmente: “Ci penseremo.” convenne infine, prima di svanire nella stessa nebbia verde che aveva accompagnato il suo e l’arrivo dei suoi compagni.

Rimasti soli, i cinque si guardarono increduli per quanto appena accaduto. Boromir si avvicinò ad Aragorn, seguito da Legolas.
“Che vuol dire? Che possiamo contare su di loro?” chiese il capitano di Gondor.
Aragorn guardò i compagni, ma non sapeva cosa rispondere loro. La risposta che avevano ottenuto era enigmatica.
Con sguardo sconfitto, respirò a fondo…
“Mi dispiace avervi trascinati fin qui. È stata una missione inutile.” convenne Aragorn, privato di ogni speranza.
Riflettendo, pensò al comportamento degli spettri. Si erano già arresi secoli addietro. Cosa impediva loro di fuggire anche questa volta? La loro vita era stata segnata dall’infamia ed erano morti da traditori, quali erano. A spingerli al tradimento era stata la codardia e, nemmeno tutti i secoli trascorsi, potevano dar coraggio a uomini che avevano preferito scappare piuttosto che combattere, piuttosto che prestar fede al giuramento dato.
“Non è stato un viaggio inutile, abbiamo tentato.” s’intromise con saggezza Elladan che, seguito da Alhena, raggiunsero i tre amici. “Inoltre il loro non è stato un rifiuto. Potrebbero sorprenderci e accettare la nostra richiesta d’aiuto. Avremo una risposta solo quando ormai la battaglia sarà in atto. Ma dubito che rinunceranno a un’opportunità di riscatto e di pace. Vivono da traditori, confinati in questo posto, ormai da molto tempo. non hanno nulla da perdere, solo da guadagnarci.”
“Elladan sei sempre stato troppo buono. Vedi sempre il meglio nelle persone, anche, e forse soprattutto, in coloro che non meritano nulla… ho ascoltato anche io le loro parole e mi dispiace ammettere ma non erano parole di coloro che sono pronti alla guerra.” intervenne Alhena che aveva seguito con attenzione il discorso. “Quanto a noi, conviene proseguire. Abbiamo perso fin troppo tempo e le armate di Sauron non attenderanno il nostro arrivo per l’inizio della battaglia.”
Aragorn annuì; la giovane principessa aveva ragione.
“Va bene.” asserì. “Proseguiamo. Non abbiamo altra scelta, per ora. Inoltre, vostro padre mi ha riferito dell’avvicinarsi di nemici anche dal mare… risaliranno il fiume fino ad arrivare ai porti di Osgiliath. Possiamo cercare di far qualcosa per rallentarli. Creare un diversivo. Siamo in pochi, ma con un pizzico di astuzia… Gondor non ha bisogno di altri nemici… avrà già il suo da fare affrontando gli orchi provenienti da Mordor.”

Senza prendere tempo, i cinque iniziarono a percorrere le gallerie quasi correndo. I cubicoli erano stretti e, senza sapere con esattezza se le vie intraprese fossero quelle giuste, avanzavano senza guardarsi indietro. Era difficile orientarsi e spesso si trovarono in vicoli ciechi, costringendoli a ripercorrere i propri passi.
Si fermavano a intervalli abbastanza regolari, cercando di riposare e mangiare quel poco che avevano preso con loro. Erano stanchi e il perenne buio affliggeva i loro spiriti, privandoli a poco a poco della speranza.
Durante una di queste pause, mentre Aragorn, Boromir ed Elladan riposavano stesi sulla fredda roccia, Legolas stava osservando l’oscurità che lo circondava, incantato dal rumore prodotto da piccole gocce d’acqua che cadevano a intervalli abbastanza regolari dal soffitto poco più avanti a loro. Quel piccolo suono si amplificava attorno a loro, incantando il giovane principe elfo.
“Ti disturbo se mi accomodo qui accanto a te?”
Legolas si voltò, incrociando lo sguardo cristallino di Alhena. La giovane gli stava sorridendo tenuamente, con la testa lievemente china a destra e tenendo una piccola fiaccola stretta in mano.
Il principe annuì e, facendo segno all’amica, di accomodarsi accanto a lui, riprese ad osservare il buio. Era da molto che la giovane principessa non si rivolgeva a lui con parole così dolci e, quel tono, aveva spaesato Legolas.
Accomodandosi con grazia accanto all’elfo, Alhena sorrise ancora all’amico e posando la testa sulla spalla del principe, sussurrò: “Alcuni giorni fa mi hai fatto una domanda alla quale non ho risposto.” Fece una pausa, respirando a fondo. “Ci ho pensato a lungo alla risposta che avrei dovuto darti… mi hai chiesto se merita il mio amore. Se vale la pena amarlo, nonostante tutto. Nonostante lui.”
Legolas si mosse facendo spostare Alhena; la guardò negli occhi, smarrendosi in essi.
“Hai trovato una risposta?”
La bionda annuì debolmente, chinando il capo.
“Credo di averla sempre avuta. La risposta.”
Legolas sorrise, amareggiato.
“Perché allora? Perché mi hai baciato? Perché mi hai illuso così?”
“Credevo che fossi tu colui che dominava nel mio cuore… ne ero così certa…” sospirò, triste. “E’ straziante combattere contro gli scherzi che il cuore fa. Sembrerà sciocco, ma negavo i sentimenti che provavo per timore di essere ferita…” una lacrima rigò la guancia candida di Alhena. “Sono ancora spaventata per quello che provo, non mi è mai capitato di sentire una tale emozione… così forte, così… vera!”.
Guardò Legolas negli occhi; cercava di nascondere le lacrime.
Carezzandogli il volto: “Non penso però di essere corrisposta.” concluse con tono triste pensando al bel volto del Re di Bosco Atro. “Per lui chiunque è una ripicca per soddisfare i suoi capricci. Ha bisogno di sentirsi importante, di condividere bei momenti con una persona che possiede una bellezza paragonabile a quella che possedeva tua madre… ha solo bisogno di provare qualcosa, di provare piacere nelle cose che lo circondano… per farlo sentire vivo. Non voglio essere un’alternativa a un qualunque suo vizio.”
Legolas guardò la ragazza come se la vedesse per la prima volta: era amore allora quello che Alhena provava per suo padre. Amore. Questa scoperta lo aveva colpito. Una vitta al petto, una pugnalata dritta nel cuore.
“Questo non risponde alle mie domande.”
Respirando a fondo, Alhena concluse: “Credo di sì… ma tu vuoi sentirmelo dire. Vuoi che sia la mia voce a pronunciare la risposta che ormai penso tu abbia compreso.” deglutì e, prendendo tra le sue mani quelle di Legolas, continuò: “Mi hai chiesto se lo amo? Credo di sì. Ma questo non ha alcuna importanza. Quello che c’è stato tra noi sono stati solo attimi rubati: bei momenti e anche litigi… ma non sono nulla. Non sono contati nulla per lui.”
“Cosa è successo tra voi?”
Alhena guardò Legolas, non sapendo cosa rispondere.
“Un bacio.” Legolas interruppe i pensieri dell’elfa.
Guardò l’amico, sorpresa: “Come lo sai?”
“Ero presente.” rispose, storcendo le labbra quasi disgustato dal ricordo.
“Non… non sapevo… ”
“Mi ero recato dai miei avi per pregare. Per stare un po’ con mia madre… ma poi, mentre scendevo le scale per raggiungere la cripta, ho sentito dei passi alle mie spalle, mi sono nascosto perché non avevo voglia di parlare con nessuno. Ho visto mio padre superarmi e raggiungere la tomba di mia madre… stavo per parlargli, ma sei arrivata tu. Ho visto come vi siete guardati, come vi siete parlati… i movimenti dei vostri corpi mentre vi guardavate, avvicinandovi… le sue parole e la passione di quel momento…” scosse il capo, come per allontanare quel pensiero.
“Non era passione quella che hai visto, ma ira. Era incredibilmente arrabbiato con me. Non mi ha mai sopportata… penso lo divertisse il tentativo di domarmi… ero un gioco, per lui.”
“No.” la corresse Legolas. “Conosco mio padre: era passione quella che ho visto. E poi… quel bacio rubato… ho capito quanto lo attendeva, quanto lo desiderava… ti ha afferrata e stretta a lui, ti ha presa per i capelli… lo faceva sempre con mia madre… si è tormentato per mesi dopo la tua fuga.”
Sentire quelle parole colpirono Alhena; mai si sarebbe aspettata questa sofferenza da parte di Thranduil.
“Si è nuovamente rinchiuso in se stesso e ha negato nuovamente il suo cuore a chiunque. Perfino a me, suo figlio. Lo hai ferito, proprio quando si stava per rialzare… stava per superare la precedente ferita.”
“Io… io non sapevo. Pensavo d’essere solo un capriccio per lui. Una delle tante.”
“Non eri una delle tante. Sei stata l’unica dopo mia madre.”
Senza parole, Alhena guardò i suoi piedi e il terreno sotto di essi. Era stata così cieca da non capirlo? Con il palmo di una mano sfiorò il terreno, spostando la polvere e la sabbiolina grigia attorno a lei.
“Ha sussurrato una cosa quando sei fuggita.” continuò Legolas. Quest’ultima confessione costava un enorme sacrificio al principe perché avrebbe definitivamente spinto Alhena tra le braccia del padre.
“Cosa? Cosa ha detto?” lo incalzò Alhena, posando entrambe le mani sul braccio dell’amico.
“Ha detto che ti ama.”
Legolas ricordava fin troppo bene cos’era accaduto dopo la fuga di Alhena da Bosco Atro. Ogni cosa era precipitata nel buio, ogni cosa era andata nuovamente in frantumi nella vita di suo padre.


Erano passate due settimane da quando Alhena era fuggita da Bosco Atro senza dare spiegazione alcuna e, con l’inizio del nuovo mese, come di consueto, si sarebbe dovuta tenere la riunione con i membri del Consiglio. Avrebbero dovuto discutere di argomenti delicati; una nuova forza si stava muovendo a Sud e si iniziava a temere un attacco da Mordor.
Da anni si vociferava la possibilità di un ritorno del Signore di Mordor, ma Thranduil era tra quelli che non avevano mai dato troppo credito a queste voci. 
“Padre…” Legolas bussò un paio di volte alla porta dell’alloggio privato del padre. “Ti attendono i Consiglieri nella Sala del Trono. È tardi…”
Non ottenendo risposta, il principe bussò ancora un paio di volte chiamando il genitore con insistenza.
Preoccupato per il silenzio, Legolas entrò nella stanza privata di Thranduil senza invito. Nei mesi prima della partenza di Alhena, avevano appianato ogni divergenza e tra loro si stava ricreando la complicità che dovrebbe caratterizzare il rapporto tra un padre e il proprio figlio. Ma, da quella sera, ogni cosa era nuovamente cambiata; fuggendo da Bosco Atro, Alhena aveva portato con sé la ritrovata pace del Re.
La camera era immersa nel buio; le tende erano tirate per impedire alla luce del sole di penetrare.
Legolas entrò e, senza parlare, si diresse verso la grande portafinestra che dava sulla terrazza, afferrò con decisione le tende e, con un movimento forte, le spalancò. I caldi raggi del sole irruppero con prepotenza nella camera, illuminando il mobilio pregiato e Thranduil seduto sulla grande poltrona, un calice in mano.
“Padre…” sussurrò nuovamente il principe, sorpreso dalla postura del genitore. Sembrava così infelice, con le spalle piegate e i capelli sporghi che gli ricadevano sul viso. “Stai bene?”
Gli dava le spalle e, preoccupato, avanzò verso di lui che, come se nulla forse, restò chino sulla grande scrivania cosparsa da documenti macchiati di rosso. Allineate accanto al muro, c’erano sette bottiglie e una, appena stappata, era posata davanti al volto di Thranduil.
“Come osi entrare nella mia stanza senza invito?” sbiascicò, alzando gradualmente il tono della voce fino quasi a urlare.
Legolas si fermò, spaventato dall’ira del padre. Alzandosi di scatto, con veemenza, il sovrano scaraventò il calice di cristallo contro il figlio, non colpendolo solo grazie alla prontezza di questo che si scostò, schivandolo.
“Vattene!” disse calmo, rimettendosi a sedere e, accostando la bottiglia alle labbra, bevve un gran sorso. “Vattene e lasciami solo!"
Senza parole, il giovane principe di Bosco Atro, non ebbe scelta se non quella di acconsentire alla supplica del padre e, voltandosi, s’incamminò verso la porta.
“Richiudi la tenda.” sussurrò Thranuil e, posando la bottiglia di vino sul tavolo, spostò lo sguardo dai cocci del calice che aveva appena rotto al caminetto davanti al letto.
“Posso esserti d’aiuto?” chiede Legolas, notando il rammarico con cui il padre osservava il bicchiere. “Sono io, padre. Tuo figlio. Legolas! Parlami. Parlami!”
Scuotendo il capo, accostò nuovamente la bottiglia direttamente alla bocca e fece un lungo sorso.
Consapevole di non aver alcun potere sulla situazione, Legoals raggiunse l’uscio e, posando la mano sulla maniglia, osservò il padre.
Come aveva potuto permettere che accadesse di nuovo? Lo aveva lasciato cadere nuovamente nella disperazione, senza far nulla per aiutarlo.
“Papà…” disse con afflizzione Legolas, le lacrime negli occhi. “Per favore…”
Le spalle di Thranduil tremarono appena, un movimento quasi impercettibile. Un lamento soffocato.
“Io…” sussurrò.
Legolas, camminò verso il padre.
“Io la amo…” concluse, prima di riprendere la bottiglia e bere da essa un abbondante sorso.
L’affermazione di Thranduil gelò il sangue nelle vene a Legolas. Ripase senza parole… aveva intuito che a suo padre importava, ma non fino a questo punto.
Dischiuse le labbra, ma non seppe che dire.
“Vattene e lasciami solo.” ordinò il Re.
Percorrendo i corridoi del palazzo di Bosco Atro, Legolas raggiunse i propri alloggi. Le parole di suo padre rimbombavano nelle sue orecchie. La amava. La ama. Sospettava la ragione che turbava il cuore del genitore. Ma udire quelle parole… dalla sua bocca… rendeva tutto così reale. Così vero.
Da giorni Legolas stava soffocando i suoi sentimenti; troppo preoccupato per Thranduil. Ma, vedere quel bacio e ora sapere i reali sentimenti del padre, aveva lasciato tanto amaro nella bocca del principe. Per la prima volta, si era reso conto che non solo si era affezionato alla giovane principessa di Gran Burrone, ma se ne era innamorando.
Non sapeva che fare. Si sentiva impotente. Si considerava uno sciocco per non essersi accorto prima che il tempo trascorso in compagnia di Alhena aveva fatto nascere verso la bionda dei profondi sentimenti. Ma, soprattutto, mai si sarebbe aspettato che anche il padre provava emozioni simili.
Guardò il panorama oltre la propria finestra; avrebbe potuto fermare Alhena, impedirle di fuggire. Ma aveva scelto di non far nulla, timoroso che lei ricambiasse Thranduil
.

Rispettando i desideri del Re, Legolas non disturbò il padre nei giorni seguenti. Ma, con l’avvicinarsi del decimo giorno di silenzio da parte del sovrano, Legolas non potè evitare di preoccuparsi seriamente per lui; così, approfittando di un futile motivo, bussò alla porta del padre.
Non si aspettava di ottenere una risposta e, davanti al silenzio più ostinato, entrò comunque.
Sorpreso vide che le finestre della stanza erano spalancate e una calda brezza entrava nella camera. Meravigliato, si guardò attorno, ma di Thranduil non c’era traccia.
Entrò e studiando la brace nel camino, decretò che l’alloggio era ormai deserto da un paio di giorni. Come mai non l’aveva visto uscire? Aveva controllato personalmente gli spostamenti del padre e non lo aveva visto abbandonare le sue stanze. Non capiva cosa stava accadendo e, soprattutto, dove si trovasse in quel momento.


“Ma tu non gli hai risposto e sei fuggita. Ha passato l’inferno. Non solo lui, anche io. È scomparso per giorni e nessuno sapeva dove si trovasse.” continuò Legolas.
Alhena chiudendo gli occhi ripensò a quel momento della sua vita. Dopo aver abbandonato Bosco Atro aveva raggiunto Pontelagolungo, ma a nessuno aveva raccontato cosa era accaduto in quella terra. A nessuno aveva narrato cosa era successo prima di dirigersi a Sud, verso Edoras.
Legolas, percependo lo stato d’animo dell’amica si avvicinò a lei e, afferrandola per le spalle, la guardò in volto. Sapeva qualcosa, lo intuiva… aveva nascosto qualcosa a tutti.
“Dimmi cos’è successo! Sai qualcosa…”
La bionda non replicò, ma questo ennesimo silenzio fece scattare Legolas che, alzando di poco il tono della voce, incalzò: “Cosa sai? Parlami!”
Alhena piegò il collo, per poter evitare lo sguardo dell’elfo; forse aveva nascosto la verità per troppo tempo e, dopotutto, Legolas la meritava.
Passò le mani tra i capelli e, sospirando, guardò i meravigliosi occhi di Legolas, così simili a quelli di Thranduil. Meritava la verità.


“Cosa ci fai qui?” domandò Alhena, vedendo Thranduil seduto sul letto della camera che aveva affittato nella locanda del paese.
“Ho cercato… ho davvero tentato di essere superiore a tutto questo…”
Alhena studiò il Re; era rigido e indossava comuni abiti da viaggio.
“Superiore a cosa?” lo incoraggiò Alhena, chiudendo la porta alle sue spalle.
“Siediti, per favore.”
Obbedendo la bionda si accomodò accanto all’elfo.
“Superiore a cosa?” richiese la principessa, senza aver comunque coraggio di guardarlo in volto.
“Superiore a quello che sento qui.” rispose, posando una mano all’altezza del cuore.
Alhena rimase in silenzio.
“Non mi pento di quanto accaduto quella notte. Lo desideravo da tempo.” continuò, afferrando le mani di Alhena.
“No!” esclamò lei, alzandosi in piedi e allontanandosi dal letto.
Thranduil la imitò: “Alhena…”
“Non chiamare il mio nome… non con quella voce… non con quello sguardo…” lo supplicò.
“Alhena…” ripeté lui, avvicinandosi alla giovane.
“Perché? Perché io?”
“Non lo so.”
La raggiunse e, carezzandole il volto con il dorso della mano destra, si piegò verso di lei.
Spaventata, Alhena si divincolò dalla presa del Re e, senza guardarsi indietro, scappò dalla stanza, dalla locanda, dalla città.

 

“Bene direi che possiamo procedere.”
La voce di Aragorn raggiunse i due elfi, interrompendo il loro discorso. Alhena, sollevata, si alzò, divincolandosi dalla presa del principe e, raggiungendo il fratello, prese il mantello che gli porgeva, pronta a ripartire.

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Capitolo 33
*** CAPITOLO 33 - PERDONAMI ***




Il corpo di Sverker giaceva immobile sul pavimento di roccia, lo sguardo perso nel vuoto. Estryd si impose di non guardarlo, temeva di incrociare quello sguardo privo di luce, di vita. Strinse i pugni e, come faceva sempre dopo aver scoperto la gravidanza, si sfiorò il ventre con dolcezza. Lo considerava un modo per sentirsi più vicina a Boromir, il suo ricordo le dava forza.
“Elrohir…” sussurrò la bruna, avvicinandosi al fratello con passo tremante.
Ma non ottenne risposta; l’elfo osservava incantato il Monte Fato da una finestra i cui vetri erano sporchi da diversi strati di polvere. Anche Estryd osservò nella stessa direzione del fratello. Quella montagna metteva soggezione a chiunque: era alta, cupa, priva di qualsiasi forma di vita e il fumo… essa al suo interno celava un vulcano ancora attivo. Dalle sue fiamme era stato forgiato l’Unico Anello e solo restituendolo alla montagna poteva essere distrutto. Perfino il cielo sopra essa era rosso, il fumo creava una tetra nebbiolina che rifletteva il colore della lava.
La principessa si voltò udendo dei passi alle sue spalle avvicinarsi velocemente; Frodo e Sam svoltarono l’angolo del corridoio che portava alla sala dove si era consumato il combattimento e, vedendola, la raggiunsero sorridenti. Ma, arrivati al suo fianco, si fermarono;  Frodo sussultò, guardando oltre la giovane elfa e vedendo Sverker immerso nel suo stesso sangue. Lo hobbit rimase senza fianto quando incrociò i suoi occhi, erano ancora spalancati e un ghigno maligno era dipinto sul suo volto.
“Estryd... andiamo…” disse Frodo, ma l’elfa lo interruppe, posando una mano sulla sua spalla e scuotendo il capo.
“Un secondo, Frodo. Per favore, aspettate qui… voglio parlare a mio fratello.”
I due hobbit annuirono e, indietreggiando, si lasciarono cadere per terra contro la parete, stremati.
Facendosi coraggio, Estryd avanzò verso Elrohir e, raggiunto, posò il volto sulla sua schiena, abbracciandolo con forza.
“Non preoccuparti… andrà tutto bene.” sussurrò lei con amore. “Ne sono certa! Hai me al tuo fianco. Puoi contare su di me!”
“Eravamo amici… un tempo… eravamo amici… com’è potuto succedere? Com’è potuto cambiare così tanto? Non mi sono accorto di nulla quando era una guardia di Gran Burrone. Eppure... non so... un segnale... avrei potuto capirlo?”
“Non avevi altra scelta. Hai fatto la cosa giusta.” disse la principessa, cercando di infondergli parte del suo coraggio. “Hai salvato me e mio figlio…” conclude sfiorandosi il ventre pieno.
Spostandosi davanti ad Elrohir, Estryd lo guardò negli occhi: “Saremmo morti senza te… senza il tuo aiuto.”
Ricambiando il sorriso della sorella, le sfiorò il volto, asciugandole le lacrime. Estryd era così dolce e sensibile... annuì debolmente.
“Non possiamo attardarci oltre.” convenne Elrohir, posando la fronte contro quella della sorella e abbracciandola forte.
Le scostò i capelli dal volto e la baciò sulla fronte, dove poco prima s’era posato: “Manca poco, davvero poco. Guarda… nessuno è mai stato così vicino al Monte Fato dai tempi di Isildur. Dovremmo proseguire ora che siamo forti, ora che nessuno sa della nostra presenza. Un giorno, forse due di cammino e arriveremo ai piedi della montagna...”
“Aspetta…” disse Estryd, prendendo il fratello per mano e conducendolo accanto al caminetto. Afferrò una brocca d’acqua e tingendo un fazzoletto, lo porse all’elfo: “Pulisciti il volto, sei sporco in volto. Tieni… usa pure questo.” concluse.
Notando l’esitazione del fratello, Estryd sorrise con dolcezza e alzando il braccio, posò il candido fazzoletto sul volto di Elrohir, cercando di togliere il sangue che lo macchiava.
“Grazie…” esclamò lui, sorridendo. “Sono davvero felice che stai bene… davvero felice… non oso immaginare… se… se solo non fossi giunto in tempo…”
“Non dirlo nemmeno. Sono qui e sono viva. Entrambi siamo vivi, grazie a te. Ti devo tutto. Ti devo ogni cosa.”
Mentre riponeva il fazzoletto nella tasca, Estryd notò che il fratello era molto pallido in volto e sotto gli occhi aveva profondi segni scuri.
“Stai bene?” chiese preoccupata, posando il palmo con fare materno sulla fronte del fratello. Era accaldato.
“Bene.” rispose, sorridendole e scostando la sua mano. Poi, con passo lento, attraversò la sala e, fermandosi accanto al corpo di Sverker, si chinò chiudendo gli occhi dell’elfo: “Trova la tua pace.”
 
Raggiunsero Frodo e Sam nel corridoio e, percorrendolo attenti a non far rumore, raggiunsero l’uscita dalla fortezza senza incontrare nessuno. L’aria della notte colpì i loro volti con violenza, era calda… insopportabile da respirare.
Frodo si posò alla roccia della fortezza e tossì forte, gli girava la testa e boccheggiava. Sam afferrò l’amico, impedendogli di cadere a terra.
Estryd si fermò e guardò lo hobbit in volto; il peso dell’anello si stava facendo sentire.
“Ce la faccio.” esclamò Frodo, sostenendo lo sguardo della bruna.
L’elfa guardò Sam che, annuendo, strinse il portatore con forza, sorreggendo anche il suo peso. e proseguirono, uno accanto all’altro, seguendo Estryd che era pochi passi davanti loro.
“Si sono mossi tutti poche ore fa.” disse Estryd, giustificando l’assenza di guardie. “Sverker avrebbe raggiunto le armate di Sauron l’indomani sera. È stato l’unico ad attardarsi.”
“Siamo stato fortunati…” esclamò Sam, serio.
Con un gemito, Frodo strinse l’anello che teneva legato ad una catena attorno al collo. Il peso dell’Anello lo stremava, faticava a respirare, a parlare, a mangiare… ogni cosa, anche la più semplice, era diventata faticosa per il portatore.
“Vero, padron Frodo? La prima dopo giorni!” continuò  Sam, sorreggendo l’amico e sorridendogli con dolcezza. Poi, guardando Estryd, chiese preoccupato: “Dista ancora molto? Quanti giorni?”
“Non saprei… uno, forse due…” rispose subito Estryd.
Entrambi guardarono Frodo; era pallido, peggio di un fantasma. Lo stesso pensiero percorse le loro menti; non avrebbe retto. Non per così tanti giorni: era troppo, troppo debole.
“Credo sia opportuno riposare. Almeno un giorno.” propose Estryd, chianandosi davanti al Portatore e studiandolo attentamente.
“Elrohir sei d’accordo?” chiese, alzando lo sguardo oltre lo hobbit in cerca del famigliare volto del fratello. Non vedendolo, si alzò in piedi: “Elrohir?” chiamò nuovamente il suo nome. Una nota di terrore nella voce.
Anche Sam e Frodo si voltarono.
“Dov’è?” chiese Sam, preoccupato.
“Era… era dietro di noi…” rispose Estryd, avanzando verso la fortezza e guardandosi intorno.
Frodo si lasciò cadere per terra privo di forza, mentre i due ripercorsero il piazzale cercando l’elfo.
Percorse pochi passi quando Sam intravide, celato da alcuni sacchi ammassati, la figura del giovane principe di Gran Burrone stesa per terra.
“Estryd! È qui!” urlò Sam precipitandosi verso Elrohir. “Estryd!”
Gettandosi accanto a Sam, Estryd guardò il fratello steso per terra. Era sveglio, ma tremante. Allungò le mani, sfiorandolo in volto.
“Elrohir?” sussurrò l’elfa spaventata, chinandosi su di lui. Poi, alzando lo sguardo ed incrociando quello di Sam, chiese: “Non capisco… stava bene…”
Sam non seppe che rispondere; scosse il capo e guardò l’elfo. Era sudato e la carnagione stava diventando grigia, anche gli occhi erano spenti e vagavano da un lato all’altro persi.
“Veleno…” sussurrò il principe.
“Veleno?” ripeté Estryd. Non era certa d’aver capito bene. “Sverker avrà usato armi intrinse di veleno…” rifletté a voce bassa, spostando lo sguardo da Sam al fratello.
Alzandosi in piedi, Estryd si girò su se stessa. Non sapeva cosa fare: erano così vicini… non potevano attardarsi ancora per molto. Non potevano permetterselo. Guardò Frodo, accovacciato per terra con lo sguardo smarrito nel vuoto; ciondolava avanti e indietro, perso nel suo mondo, nei suoi pensieri. No. Non potevano fermarsi.
“Resto io con lui.”
La voce di Sam interruppe i pensieri della giovane che, voltandosi, disse: “Dovrei restare io… è mio fratello.”
“Non dire sciocchezze. Entrambi sappiamo che Frodo ha più probabilità di arrivare al Monte Fato con te, piuttosto che con me.” sorrise con dolcezza alla ragazza, posando una mano sul suo braccio nel tentativo di infonderle coraggio. “Mi è già capitato in passato di dover curare una ferita infetta da veleno. So che erbe cercare e come trattarle affinché abbiano effetto.”
Colta da gratitudine, Estryd strinse con forza Sam, sussurrandogli, tra le lacrime: “Grazie! Grazie davvero!”


Ci impiegarono altri tre giorni di cammino prima di riuscire a vedere la fine della galleria sotto la montagna, che sbucava a Morthond. Tre giorni durante i quali Alhena aveva cercato, con successo, di evitare Legolas; tutto pur di non dover rispondere alle sue domande, pur di non dover interrogarsi sul futuro che l’avrebbe attesa una volta che la loro missione fosse volta al termine.
Le parole del principe di Bosco Atro l’avevano disorientata. Possibile che i sentimenti di Thranduil fossero veri? Possibile che fosse davvero innamorato di lei? A volte, le capitava di perdersi nei ricordi dei giorni vissuti nel palazzo di Bosco Atro… erano stati giorni intensi, non tutti felici, ma ogni giorno era stato intenso.
Ad ogni modo, Alhena continuava a ripetersi che era scappata da Bosco Atro per una ragione e non poteva pentirsi della decisione presa.
Legolas aveva notato che Alhena era diventata pensierosa. Aveva cercato più di una volta di avvicinarsi a lei ma, in ogni occasione, la principessa aumentava il passo, facendo finta di non vederlo o udirlo chiamare il suo nome e, noncurante, raggiungeva il fratello o Boromir o Aragorn. Era seccato da questo suo comportamento, voleva solo delle risposte. Anzi, le esigeva!
“Morthond…” sussurrò Aragorn con voce tremante dall’emozione, quando uscirono dalle gallerie.
Per il ramingo era la prima volta, dopo quasi sessant’anni, che varcava i confini di Gondor; la casa dei suoi avi.
Boromir raggiunse l’amico e, posando una mano sulla sua spalla, strinse poco la presa, sorridendogli.
“Lascia senza parole… Gondor ha mantenuto molto della sua antica bellezza.”
Il panorama era davvero incantevole; anche i tre elfi, nonostante erano abituati alla bellezza della natura e dei loro palazzi, rimasero incantati. Alhena si voltò, incrociando lo sguardo di Legolas, e, vedendolo avvicinarsi a lei, si spostò con naturalezza verso il fratello, continuando a studiare i dettagli del paesaggio.
La vallata, attraversata dal fiume Morthond, si estendeva come una macchia verde fino a perdita d’occhio; pini millenari si ergevano fieri e il loro profumo si diffondeva nell’aria. Ettari di boschi incontaminati che si diradavano dov’erano stati edificati i pochi villaggi, ormai disabitati.
“Se siamo fortunati, troveremo delle imbarcazioni nei villaggi e raggiungeremo il mare entro domani mattina. Prenderemo poi il fiume, risalendo fino ad Osgiliath…” meditò Boromir, senza troppo entusiasmo. Erano anni che suo padre, il Sovrintendente, aveva chiesto a lui e suo fratello di evacuare ogni paese per condurre gli abitanti al sicuro dentro le mura di Minas Tirith; dubitava ci fosse qualunque cosa di utile.
“Prima però dovremo superare i corsari di Umbar....” si intromise Alhena, avvicinandosi a Boromir.
Il comandante di Gondor annuì debolmente: “Pensate che i morti... pensate che ci aiuteranno?”
Aragorn vide i compagni rivolgergli lo sguardo, non voleva dar loro false speranze. Senza proferire parola iniziò la discesa lungo il versante della montagna, facendo smuovere diversi sassi al suo passaggio che rotolavano rumorosamente fino a raggiungere la valle. In silenzio anche gli altri lo seguirono.
Il viaggio procedette tranquillo fino al calar del sole, avevano raggiungo un piccolo villaggio costruito accanto al fiume. Le case,  di legno e roccia, erano vecchie, logorate dal tempo e dall’assenza di abitanti.
“Abbiamo evacuato questa zona tre anni fa.” spiegò Boromir, avanzando con sicurezza tra le vie del villaggio. “Mi sono occupato io di questa missione. Troveremo, con un po’ di fortuna, delle imbarcazioni. Il porto è a pochi minuti da dove ci troviamo, oltre quella locanda.”
Percorsero le vie in silenzio, la desolazione che regnava nel villaggio, dopo giorni nella montagna, era pesante da sopportare. Avevano bisogno di riposo; non dormivano una notte intera da mesi e i segni della stanchezza iniziavano a farsi evidenti sui loro volti e nei loro animi.
Il molo era costruito con legno scuro, sporco di melma e, in vari punti, aveva caduto. Una leggera nebbiolina si stava alzando, dando a quel luogo un aspetto spettrale.
“Una nave.” sussurrò Boromir, commosso nel vedere la loro via di fuga. Correndo raggiunse l’imbarcazione e sfiorandone la superficie, studiò la resistenza. “È qui da diversi anni... ma pare aver resistito bene allo scorrere del tempo.” Poi, volandosi verso i compagni, sorrise: “Si, sono certo che può navigare!”
 
La barca era abbastanza capiente per ospitare dieci persone; non possedeva un riparo sottocoperta, doveva essere stata una nave commerciale. C’erano ancora delle grandi casse sparpagliate sul ponte e, ogni cosa, era coperta da polvere e ragnatele. Ogni movimento della compagnia era accompagnato da uno scricchiolio sinistro, il legno era vecchio ma pareva sorreggere il loro peso.
Lentamente spostarono le casse, gettandole nell’acqua; di sicuro il ponte non avrebbe retto il loro peso. La prima galleggiò alcuni minuti e poi scomparve nell’oscurità del fiume. Alcuni minuti dopo, quando ormai il sole era morto all’orizzonte, il lavoro fu terminato.
Muovendosi con disinvoltura, Boromir raggiunse l’albero maestro e, controllando le corde, dispiegò le vele che, seppur logore, si gonfiarono, l’imbarcazione si mosse, tirata dal vento.
“Boromir, nessuno meglio di te conosce questo fiume... possiamo contare su di te per portarci fino al mare?” domandò Aragorn, avvicinandosi all’amico che nel frattempo aveva preso posto dietro il timone.
“Non preoccuparti... attendevo da giorni questo momento.” rispose. “Avrò bisogno però di un aiuto... ma non preoccupatevi. Raggiungeremo il mare, senza intoppi, entro l’alba!”
Elladan, esperto di navigazione, avanzò raggiungendo l’uomo e, insieme, iniziarono la discesa lungo il fiume, lasciando ai compagni tempo per riposare.
Senza farsi ripetere l’occasione di un riposo, Legolas e Aragorn si stesero sul ponte, accanto all’albero maestro e subito il sonno sopraggiunse per l’elfo.
Stesa supina sul ponte, Alhena era persa nei suoi pensieri; aveva cercato di addormentarsi, ma la sua mente lavorava frenetica. Si era fatta notte e le stelle brillavano illuminando il cielo. Sorrise ammirando la volta celeste; ogni cosa, attorno a loro, era silenzio. Si riusciva a distinguere solo il rumore dell’acqua che picchiava con forza contro l’imbarcazione. La giovane si era dimenticata di quanto fosse bello osservare un cielo stellato... non lo faceva da tempo e solo allora ricordò l’ultima volta che si era persa mirando le stelle. Era a Gran Burrone e la sua famiglia poteva essere ancora chiamata tale, prima che ogni cosa andasse persa. 
“Alhena…” Aragorn, accomodandosi accanto all’elfa, le sorrise. “Dovresti riposare....”
La giovane si sedette, sistemandosi i capelli dietro le spalle e annuì: “Sono agitata per domani... domani inizieremo la battaglia; ogni cosa avrà inizio.”
Aragorn sorrise: “Penso sia normale... domani...” sospirò il ramingo. “Fatico anche io a prendere sonno.”
Restarono in silenzio alcuni minuti, Alhena era certa che c’era una ragione precisa se l’uomo era venuto da lei;  forse voleva parlarle di qualcosa. Attese poco e, come previsto, Aragorn prese nuovamente parola: “Ricordi il nostro incontro, anni fa?”
L’elfa annuì con un lieve cenno del capo.
“Scappavi da qualcosa… non parlasti, non mi dicesti nulla, ma lo sapevo.”
Alhena guardò il ramingo, sospettosa.
“Avevi quello sguardo spaventato ma allo stesso tempo attento… come ora. Capisco quando un pensiero ti sta assillando… so che non ci conosciamo a fondo, ma durante questi mesi ho imparato a volerti bene, come ad una sorella.”
“Aragorn io…” iniziò a dire lei, ma il ramingo la interruppe.
“Avevo chiesto a tua sorella di lasciarmi andare…” iniziò a parlare, guardando l’orizzonte. Il vento scompigliava i capelli dell’uomo; era davvero bello. I suoi occhi erano dell’azzurro più profondo, ci si poteva perdere al loro interno. “Le avevo chiesto di dimenticare il nostro amore… ero convinto che fosse la cosa migliore per lei; l’amavo troppo per imporle una vita di dolore e morte al mio fianco. Ma lei ha lottato per me. Per noi. Per avere un futuro insieme... lei ha deciso di aspettarmi e questa prospettiva mi da coraggio, mi da la forza di continuare, di andare avanti.”
“Non capisco...”
Sorridendole, Aragorn continuò: “Capirai.”
Respirò a fondo.
“La cosa principale è che noi ci amiamo, ci siamo amati dal primo momento che i nostri sguardi s’incrociarono. La cosa difficile è stata ammettere i miei sentimenti. Anche se sembravano sbagliati e inopportuni... anche se pareva che ogni cosa era contro di noi... io stesso ero il primo che non ci credevo abbastanza, forse perché non lo ammettevo... mi nascondevo dietro le bugie che mi raccontavo... ma abbiamo tentato e ora non posso, e non voglio, vivere la mia vita senza Arwen.”
L’uomo volse lo sguardo verso Legolas che stava riposando poco lontano loro.
“Non amerai lui, ma il tuo cuore è legato a qualcuno che anche lui ama... devi affrontare la verità dei tuoi sentimenti. Sta soffrendo e penso la meriti. Tutti meritano la verità. Io ho ammesso a me stesso la verità dei miei sentimenti verso tua sorella e ora non potrei esser più felice. A ogni sentimento vale la pena dare un’opportunità.”
Alhena studiò l’uomo cercando di capire cosa sapesse, ma era stanca e senza cercare troppi giri di parole, chiese:
“Cosa ti ha raccontato?”
“Legolas ed io siamo amici da lunghi anni. Mi ha confidato il bacio che vi siete scambiati a Rohan... e della freddezza che gli hai riservato da allora.”
“Ho sbagliato a baciarlo…”
“Hai commesso un errore, sei giovane e tutti commettono degli sbagli.” fece una pausa e poi continuò “Non volevi baciare lui.”
“No.” ammise Alhena più a se stessa.
“Allora parla con Legolas. Merita la verità. Anche se soffrirà all’inizio, è la cosa giusta da fare…”
“E se ammettere ciò mi portasse solo altro dolore? Se venissi…” si morsicò il labbro inferiore, quell’eventualità la stava ferendo più di quello che si aspettava. “Se mi rifiuta?”


Aragorn era nato nella terra di nessuno. Aveva iniziato a vagare per le terre fin dalla più giovane età e, quando i suoi genitori erano morti, era cresciuto sotto la guida di Messer Elrond a Gran Burrone. Gli era stato insegnato non solo l’arte del combattimento, ma anche le lingue antiche, la storia, la bellezza delle cose che lo circondavano e, soprattutto, la saggezza. Era stato cresciuto per diventare Re.
Elrond aveva preso a cuore il giovane Dunadain e, col tempo, si era affezionato a lui. Quando, appena trent’enne, Aragorn decise di lasciare Gran Burrone per dirigersi a nord in cerca della sua stirpe, Elrond non poté che approvare la sua decisione. Era giusto che incontrasse quello che sarebbe diventato il suo popolo.
Per Aragorn, lasciare Gran Burrone, era stato un vero dolore. Da poco si era accorto dei sentimenti che iniziava a nutrire per la figlia più grande di Elrond, Arwen, e dopo il loro incontro nel palazzo aveva perso la ragione per lei.

Prima di varcare i confini, in sella al suo cavallo, la guardò negli occhi, leggendo in essi le stesse emozioni che lui provava.
Trascorse poco più di un mese prima che il giovane raggiungesse, prima Lothlorien e poi Rohan. Era deciso a raggiungere Gondor ma, più la strada tra lui e la sua terra si accorciava, più era terrorizzato. I suoi antenati avevano rinunciato al dominio su quelle terre dopo la sconfitta di Isildur, lasciando la regione sotto la guida di un Sovrintendente che avrebbe regnato fino al ritorno del Re.

Era ormai estate e Aragorn vagava da alcune settimane lungo i confini delle Montagne Nebbiose, indeciso sul da farsi. Le praterie che si estendevano per miglia lasciavano il ragazzo senza fiato; cavalcare libero era un passatempo che adorava. Sentiva che il peso del suo ruolo era meno opprimente.
Una sera, mentre stava cercando degli arbusti per accendere un fuoco, Aragorn sentì le falcate di un cavallo avvicinarsi alla sua posizione. Un singolo esemplare e, dalla pesantezza dell’impatto sul terreno, intuì che portava una persona con un carico.
Si nascose dietro un albero e osservò l’esemplare avvicinarsi; proveniva da Est e, al suo passaggio, alzava della polvere.
Udì la voce di una donna fermare la falcata del cavallo, sussurrando parole in elfico. Aragorn, ormai padrone di quell’idioma a molti sconosciuto, si mostrò e, avanzando, guardò il cavallo fermo a pochi metri da lui.
Cercò di capire chi cavalcasse l’animale, ma il mantello calato sul volto impediva al ramingo di distinguere le fattezze dell’elfo.
“Salve.” esclamò la stessa voce femminile.
Aragorn rispose al saluto con un cenno di capo. Notò che la fanciulla; lo stava osservando sospettosa e la mano era posata sull’impugnatura della spada che portava legata all’imbrago del cavallo.
“Salve.” le fece eco e, cercando di non sembrare minaccioso, alzò le mani al cielo. “Non temete. Non ho intenzione di farle del male. Sono amico degli elfi.”
“Chi siete?” domandò lei, incuriosita restando comunque in sella al cavallo.
“Il mio nome è Aragorn…”
“…figlio di Aratorh… ed erede al trono.” concluse lei, interrompendolo.
“Dunque conoscete il mio nome.” disse. “Ma io non conosco ancora il vostro.”
Con un movimento elegante, l’elfa smontò da cavallo e calando il cappuccio mostrò il suo volto.
Aragorn notò subito che era molto giovane e doveva essere in viaggio da alcuni giorni. Il suo viso era sporco di polvere ed i capelli erano stati legati in uno stretto chignon.
“Io sono Alhena.”
Appena sentì la voce dell’elfa pronunciare il nome che le apparteneva, Aragorn rimase senza fiato. Conosceva Alhena e mai si sarebbe aspettato di incontrarla. Arwen le aveva raccontato la triste storia che riguardava la sorella e l’ingiustizia che aveva subito. Udire quelle parole aveva spiazzato l’uomo; durante la sua infanzia trascorsa a Gran Burrone, credeva di aver imparato a conoscere Messer Elrond ma, questa sua decisione, era stata inaccettabile. La figlia aveva solo commesso un’imprudenza e la sfortuna aveva giocato un ruolo importante nel corso degli eventi.
“Ti ho lasciato senza parole…” sorrise la giovane elfa, guardando attentamente l’uomo.
Anche Alhena conosceva Aragorn e sapeva del legame che lo univa alla sorella.
“Oso solo immaginare cosa pensi di me… hai vissuto per anni sotto la guida di mio padre. Non ha gran stima di me…” continuò lei, con amarezza.
“Ciò che tuo padre pensa non è condiviso da tutti.”
“E tu? Condividi la sua decisione?”
“No.” rispose Aragorn con semplicità, guardando la ragazza negli occhi.
Prese le briglie dalle mani di Alhena e legò il cavallo all’albero dietro il quale si era nascosto, accanto al suo. Voltandosi studiò la giovane elfa; aveva uno sguardo stanco e l’esilio aveva reso senz’altro il suo spirito più duro.
“Puoi restare con me tutto il tempo che vuoi. Non sono luoghi sicuri…”
La giovane principessa sorrise: “Sono solo di passaggio.”
“Per dove?” domandò Aragorn, curioso.
Alhena fece spallucce, non aveva ancora una meta precisa. Ma di certo non sarebbe rimasta più troppo a lungo in un posto.

Mentre il sole all’orizzonte si celava dietro le montagne e il cielo imbruniva tingendosi dei toni più intensi di rosso, Alhena si era coricata sul terreno.
Aragorn aveva acceso un piccolo fuoco e, seduto per terra, ora osservava la bionda dormire illuminata dalle fiamme. Doveva essere provata, appena si era stesa, i suoi occhi si erano chiusi.
Ricordò le parole di Arwen, era molto in pena per lei… sarebbe stata felice nel saperla viva.
Le prime stelle iniziavano a illuminare il cielo quando Alhena, sussultando, si svegliò. L’elfa scattò in piedi, spaventando Aragorn che, a sua volta, si alzò guardandosi intorno.
La bionda respirava con affanno e si voltava su se stessa scrutando l’oscurità.
“Alhena…?” la chiamò il ramingo, avvicinandosi a lei.
Con uno scatto si voltò e i loro sguardi s’incrociarono; gli occhi dell’elfa erano gonfi di lacrime. Cercando di nascondere la sua debolezza, Alhena si stropicciò gli occhi, voltandosi e dando le spalle al ramingo.
“Perdonami…” disse lei. “Ti devo aver spaventato.”
“Stai bene?” chiese, preoccupato.
L’elfa non rispose, non era semplice per Alhena ammettere che nulla andava bene… la testa le doleva per i molti pensieri che l’assillavano, ma non si sentiva pronta per parlare. Era fuggita da Bosco Atro per una ragione e, quella ragione, sarebbe posseduta solo a lei.
Debolmente, l’elfa annuì.
“Perdonami…” ripeté lei.
“Non te l’ho chiesto prima perchè non ne ero sicuro… ma sembra che tu stia scappando da qualcosa…”
Alhena scosse il capo, abbassandolo: “Possiamo non parlarne?”
“Certo… quando vorrai…”

Da quella notte, trascorsero un paio di giorni, ma Alhena continuava a tacere e questo silenzio preoccupava Aragorn. Poteva solo immaginare quello che aveva vissuto negli anni lontana da casa; si sentiva impotente. Non poteva aiutarla, come invece avrebbe tanto voluto. Si erano mossi di parecchie miglia, cavalcando lungo le Montagne Nebbiose; Aragorn era intenzionato a condurre la fanciulla, a sua insaputa, fino a Lothlorien. Cercava di non insospettire la ragazza, era certo che i suoi parenti l’avrebbero accolta.
Spense il fuoco, per evitare che degli orchi individuassero la loro posizione e, stendendosi, si addormentò, cercando di tracciare mentalmente la via più breve verso Lorien.
Lo sbattere degli zoccoli sul terreno di un cavallo, fece sussultare Aragorn che si svegliò, scattando in piedi. Si guardò attorno, ma non vide minacce incombere, probabilmente si era spaventato senza una ragione.
Il sole era già alto nel cielo, si rimproverò di non essersi svegliato prima.
“Bene… procediamo!” disse, voltandosi certo di vedere Alhena al suo fianco.
Ma era solo. Dell’elfa nessuna traccia.
“Alhena?” la chiamò.
Notò subito che non c’era il suo cavallo e le sue cose… doveva essere fuggita durante la notte. Dispiaciuto, raggiunse il suo fido compagno di viaggio. L’avrebbe cercata, anche se sarebbe stato tempo sprecato; a quell’ora poteva essere ovunque. Solo allora, notò un biglietto, incastrato sotto la sella.

Non sono ancora pronta. Perdonami. Ci rivedremo.

 

Le sorrise, solo una volta aveva visto questo lato fragile della bionda.
“Restare nel dubbio è forse meglio? Per certe cose vale la pena tentare…”
Aragorn si alzò per raggiungere Boromir ed Elladan.
“Aragorn?” lo richiamò Alhena.
Si voltò guardandola stendersi nuovamente.
“Grazie.”

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Capitolo 34
*** CAPITOLO 34 - TU MI VEDI ***


E rieccomi qui, prima di quando pensassi, con un nuovo capitolo!
Buona lettura e buon halloween!


La strada, se tale poteva definirsi, che conduceva fino al Monte Fato attraverso l’altopiano di Gorgoroth, era pericolosa; non solo per la minaccia degli orchi che disseminavano l’intera regione, ma anche per la difficoltà del percorso che attraversava Mordor fino a condurre alla montagna infuocata. 
Migliaia erano gli orchi che si stavano armando, pronti per affrontare la guerra e, a controllare tutto, c’era il grande occhio. Spostandosi da un lato all’altro del proprio esercito, osservava le sue truppe. Presto, i grandi cancelli, si sarebbero spalancati e gli orchi avrebbero marciato verso Minas Tirith con l’unico scopo quello di uccidere ogni uomo, donna o bambino che avrebbero incrociato nel loro cammino.
La guerra ormai incombeva sui popoli liberi.
Estryd e Frodo osservavano ogni cosa nascosti dietro alcune pietre a poche miglia dal Monte Fato; nell’altopiano diversi fuochi  erano stati accesi e degli accampamenti erano stati sistemati in punti strategici. Diversi grugniti rimbombavano nella vallata, raggiungendo l’elfa e lo hobbit. Finché la via non si sarebbe liberata, non avrebbero potuto continuare il loro cammino fino alla meta finale, il Monte Fato. Sedendosi sul terreno scuro e freddo, l’elfa guardò il portatore; era preoccupata per lui, molto in effetti.
Di Frodo; lo hobbit felice, spiritoso e di compagnia che aveva conosciuto a Gran Burrone, non era rimasto più nulla. Un guscio vuoto; ossessionato dai suoi pensieri, ossessionato dall’Anello.
“Frodo?” lo chiamò lei, sussurrando e chinandosi verso l’amico.
Lentamente lo hobbit voltò il capo, incrociando gli occhi verdi dell’elfa. La guardava, ma pareva non vederla nemmeno. 
“Penso che presto la via sarà libera e potremmo proseguire... guarda laggiù; il Monte Fato è vicinissimo.... al massimo un giorno di cammino da noi.” sussurrò, sperando di ricevere un qualunque segno di vita, un qualunque indizio che Frodo c’era ancora. Ma, non ottenendo risposta, Estryd continuò: “Penso che dovresti toglierti l’Anello dal collo, anche solo per qualche ora... almeno mentre siamo qui in attesa di proseguire. Non ti fa bene… sta avvelenando la tua mente.”
La bruna attese alcuni minuti, Frodo non si mosse. Allora, insistendo, ordinò allo hobbit: “Togliti l’anello, Frodo! Ora!”
Senza attendere una risposta, con uno scatto felino, Estryd afferrò la catena legata al collo del portatore e gliela strappò con forza.
La reazione di Frodo, questa volta, fu immediata; infervorato dall’ira, dapprima urlò e poi si scagliò contro l’elfa... contro colei che gli aveva rubato il suo prezioso Anello.
Spaventata, Estryd schivò l’amico ed indietreggiò, cercando di calmare il portatore. Ma, Frodo sembrava un folle; guardava la mano nella quale l’elfa stringeva la catena con il suo Anello come se volesse strapparglieli. Il suo capo penzolava, seguendo i movimenti della collana, seguendo attentament l’Unico.
“Frodo...” Estryd chiamò il suo nome con tono di supplica, per la prima volta spaventata dall’amico.
Poi, improvvisamente, proprio com’era iniziato, l’attimo di follia svanì e, lo sguardo di Frodo, divenne vitreo. Ormai privato di energia, il portatore si accasciò a terra; tremante e ansimante per lo sforzo fatto.
La bruna lo raggiunse e, prendendo con delicatezza tra le mani il suo capo, lo adagiò in grembo.
Estryd osservava Frodo; teneva le mani alzate verso il cielo, lo hobbit cercava di scacciare qualcosa... continuava a sussurrare parole senza senso, guardando fantasmi che esistevano solo nella sua mente.
L’elfa era preoccupata, non sapeva cosa fare per dargli sollievo. Prese la borraccia dallo zaino posato accanto alle pietre dietro le quali si nascondevano e, aprendola, la posò sulle sue labbra versando il contenuto; Frodo non bevve. L’acqua scorreva dalla sua bocca serrata, lungo il mento fino a raggiungere le sue vesti, bagnandole.
Sospirò, non sapeva cosa fare; versò dell’acqua nella sua mano per poi passarla sulla fronte di Frodo e sopra i suoi occhi.
Il contatto con il liquido fresco, scatenò una reazione; il portatore si svegliò dallo stato di incoscienza e, tossendo, cerco di alzarsi a sedere. L’elfa lo sboccò, costringendolo ancora sdraiato: “Resta disteso... riposa ancora qualche minuto.”
“Estryd…” chiamò il nome dell’elfa, come se la vedesse per la prima volta dopo molto tempo. “Dove.... dove siamo? Non ricordo nulla... cos’è successo?” domandò, guardandosi intorno e capendo di provarsi a Mordor, nel regno nemico.
La principessa inarcò le sopracciglia.
“Non ricordi? Non ricordi nulla? Frodo... qual’è il tuo ultimo ricordo?” chiese infine iniziando a intuire cos’era accaduto.
Lo hobbit rimase alcuni secondi in silenzio. Estryd intuì che stava cercando di recuperare i suoi ultimi ricordi e, a giudicare dall’espresione impaziente sul volto di Frodo, dovevano essere molto confusi.
“Stavamo percorrendo la via… quella per il passaggio sotto la montagna che ci aveva suggerito Smeagol.” rispose, ma non pareva convinto. La sua fronte era aggrottata nel tentativo di riportare alla mente un ricordo passato. Ma, anche questo, faceva fatica a tenerselo stretto, pareva che gli scivolasse dalle mani come fumo. “E’ davvero accaduto tutto? Nel senso… è realmente accaduto? Non è solo nella mia mente?”
“Frodo è accaduto… ma è passata una settimana da quel giorno...”
“Una settimana?” fece eco Frodo, incredulo.
Estryd annuì con un lieve cenno di capo.
“Siamo stati catturati da Sverker e poi mio fratello ci ha salvati... hanno combattuto e ha vinto… ricordi?” insisté lei. “Ricordi?”
Il portatore scosse il capo; poi, un pensiero avanzò nella sua mente. Sam. Dov’era Sam?
Di scatto si mise seduto, un giramento di testa gli impedì di alzarsi in piedi.
“Sam?” chiese all’elfa guardandola negli occhi, preoccupato per l’amico.
“Non angosciarti, sta bene.”
“Dove... dov’è adesso?” chiese subito Frodo, il tono della voce più forte; chiaramente in pena per l’amico.
“È rimasto indietro.... mio fratello... Elrohir è stato ferito durante lo scontro con Sverker... una spada con la lama avvelenata…”
“È grave? Starà bene?”
Estryd abbassò il capo, non era certa che sarebbe stato bene; il veleno di Morgoth era letale se non curato tempestivamente nel modo giusto.
“Estryd? Sta bene?” insistè Frodo, posando una mano sulla spalla dell’amica e guardandola con attenzione.
“Non lo so.” ammise lei con un filo di voce, mentre cercava di trattenere le lacrime. “Sam si sta occupando di lui… cercava delle erbe… dice di sapere cosa fare…”
“Aragorn mi aveva curato quando sono stato attaccato a Colle Vento. Sam si era occupato delle erbe… non preoccuparti; sa ciò che fa.” tentò di tranquillizzare l’elfa.
Ricadde il silenzio tra i due.
Lo hobbit non sapeva che fare o cosa dire; era per causa sua se tante persone erano morte e, alcune, stavano perdendo la vita in quel momento. I popoli della Terra di Mezzo si battevano coraggiosamente per la libertà, per la pace… questa era la guerra… non avevano alternative. Per avere la pace avrebbero dato ogni cosa, perfino la vita. Tutto per dare a lui un’occasione di distruggere l’Anello del potere.
Trattenne a stento le lacrime; ancora non riusciva a capacitarsi della morte di Gandalf, Moria era stata una sua decisione...
“Ci pensi mai, Frodo?”
L’elfa, che aveva imparato a capire quando l’amico si perdeva nei suoi pensieri, cercò di distrarlo e, osservando la reazione del portatore, soddisfatta, capì immediatamente che era riuscita nel suo intento.
Lo hobbit guardò la principessa con attenzione. Estryd sorrise; per la prima volta, dopo giorni, sembrava che Frodo fosse realmente interessato alla conversazione.
“Pensare? A cosa?” domandò.
“A casa... alla tua vita prima di tutto questo...” rispose con dolcezza la bruna, accennando al paesaggio attorno a loro; a Mordor, che altro non era che una landa desolata, dove perfino degli arbusti faticavano a crescere, e agli orchi che si stavano preparando alla guerra a poche miglia da loro.
Frodo sorrise al pensiero di casa sua… la Contea… era sempre nel suo cuore: le colline verdi, il profumo degli alberi da frutto ed i campi coltivati… corrugò la fronte, cercando di ricordare altri dettagli… intravide il villaggio e la taverna dove trascorreva intere serate con gli amici a ridere, cantare e bere una birra fresca…
“Sì... anche se i ricordi si fanno sempre più sbiaditi... anche se mi sto dimenticando alcune cose...”
Estryd, per la prima volta, provò una gran pena per Frodo. Per lei, i ricordi erano la sua forza, le davano le motivazioni per proseguire.
“E tu?” chiese lo hobbit. “Pensi mai a casa? Alla tua famiglia? A...” le guance gli divennero rosse. “A Boromir?”
Sentire il nome del guerriero fece sorridere l’elfa che, istintivamente, si sfiorò il ventre.
“Ogni secondo di ogni giorno...” ammise sincera, chinando il capo.
Frodo guardò la pancia di Estryd; aveva dimostrato di possedere un gran coraggio quando aveva deciso di proseguire il viaggio nel suo stato. Estryd era diventata un’amica e una fedele compagna nel periodo più difficile della sua vita.
“Boromir sarà un bravissimo padre... si vede quanto ti ama.” concluse Frodo, porgendo all’elfa la borraccia.
Estryd guardò lo hobbit e, mostrandogli la catena che portava al collo, aggiunse: “Ogni giorno spero che sia ancora vivo... spero di rivederlo presto, appena questo incubo sarà finito… a volte ancora non ci credo; sembra ancora tutto così assurdo...” respirò a fondo. “Siamo nella tana del nemico, così vicini ad essere scoperti e, allo stesso tempo, così vicini alla vittoria, alla distruzione dell’Unico...”
“Entrambi sapevamo che sarebbe stato un compito arduo.”
Estryd annuì: “Sono felice che tu mi abbia permesso di rimanere al tuo fianco.”
“Ti devo ogni cosa. Da solo avrei fallito… senza te, Sam e anche tuo fratello… mi sarei fatto corrompere dal potere… dalla voce che, come miele, mi sussurra… mi istiga…”
“Sei più forte di quanto tu creda: ci siamo fatti forza reciprocamente.” concluse l’elfa. “Riposiamoci qualche ora e aspettiamo. Presto gli orchi abbandoneranno Mordor… dobbiamo recuperare le forze.”
Mentre Frodo si stendeva supino, Estryd lo osservava riposare. Meritava un po’ di pace senza l’Anello al collo… osservò lo strumento di Sauron con attenzione; sembrava innocuo, posato sul terreno… ma, nella sua lega, custodiva il male. Migliaia di vite erano state stroncate per quel piccolo oggetto… chiuse gli occhi e, posando la schiena contro la roccia, pensò a Boromir nella speranza di trovare ancora un po’ forza nel suo cuore…
Era spaventata, anzi terrorizzata e, come se non bastasse, perennemente preoccupata: per Boromir, per sua sorella Alhena, per la sua famiglia… Elladan, Arwen, suo padre e i suoi nonni... preoccupata per Elrohir... respirò a fondo cercando di trattenere le lacrime... non se lo sarebbe mai perdonato se fosse accaduto qualcosa al fratello.
Passarono alcune ore quando i due, sussultarono udendo un forte boato in lontananza. Scattarono in piedi e, spiando da dietro il loro nascondiglio, videro le armate di Sauron muoversi. Si stavano radunando in gruppi ordinati e, tra urla d’incitazione, iniziarono la loro marcia verso i grandi cancelli neri.
“Si muovono!” esclamò Frodo, emozionato spostando lo sguardo verso l’amica.
Estryd annuì; i nervi a fior di pelle.
Posò una mano sulla spalla di Frodo: “Dovremo muoverci velocemente, celati dall’oscurità. L’altopiano sarà libero da qualunque intralcio ma, il grande occhio di Sauron, osserva ogni cosa. Riusciremo ad attraversarlo solo essendo prudenti.” fece una pausa e, guardando oltre il loro nascondiglio, continuò: “Tra qualche ora gli orchi saranno in marcia verso Gondor… e, con buone probabilità, Sauron sarà distratto dalla guerra… guarderà verso Minas Tirith e, allora, procederemo verso il Monte Fato da est… sperando di passare inosservati.” concluse.
Afferrando lo zaino e le armi che aveva posato accanto alla roccia dietro la quale si nascondevano, iniziò a prepararsi.
Dopo aver lasciato la fortezza di Sverker, viaggiavano con un solo zaino che conteneva cibo e acqua sufficienti per, al massimo, tre giorni. Estryd era preoccupata per questo; non sapeva come avrebbero fatto a sopravvivere per il viaggio di ritorno con provviste così scarse… l’unica probabilità che avevano era raggiungere Gondor…
“Permettimi di aiutarti.” disse Frodo, cercando di prendere lo zaino che l’elfa si era caricata in spalla.
“Porti già un grande peso, amico mio.” rispose lei, abbozzando un timido sorriso mentre gli porgeva la catena con l’Anello.
Esso penzolò mezz’aria per alcuni secondi; Frodo lo guardò, riluttante nel riprenderlo.
“Frodo, se non lo farai te, nessun altro potrà farlo.” sorrise, posando sulla mano dello hobbit l’Unico. “Ho fiducia in te.”


Il garrito dei gabbiani svegliò Alhena che, stroppicciandosi gli occhi, si alzò a sedere. Il paesaggio che scoprì era incantevole; il sole stava sorgendo all’orizzonte, tingendo il mare di rosa e facendo sparire l’oscurità della notte. L’elfa raggiunse e si sporse oltre il parapetto, erano ancorati vicino alla foce del fiume; guardò verso poppa e vide i compagni discutere.
Elladan, appena si accorse che la sorella era sveglia, la salutò con un cenno della mano.
Prima di raggiungerli, l’elfa si guardò attorno; la costa era rigogliosa e la foresta era cresciuta, arrivando fino ai villaggi disabitati che erano stati edificati lungo le coste. Ognuno di essi aveva almeno un molo che custodiva ancora piccole imbarcazioni di pescatori, ormai logorate dal tempo.
Gondor, salvo la capitale Minas Tirith, era diventata una regione fantasma.
Con passo sicuro, Alhena si avvicinò ai compagni e, posando una mano sul braccio del fratello, ascoltò i discorsi degli amici.
Aragorn si era allontanato e, guardando il mare davanti a loro, lo studiava attentamente. Poi, irrompendo nei loro discorsi, disse: “Boromir ha ragione; i corsari di Umbar non sono ancora stati qui... avrebbero bruciato ogni cosa al loro passaggio.”
Il Capitano annuì mentre raggiungeva l’amico vicino al timone: “Che proponi di fare? Li aspettiamo qui?”
Aragorn, che aveva ideato un piano, non era più certo della sua buona riuscita. Era incerto sul da farsi; magari avrebbero atteso invano per ore mentre la guerra si stava consumando a Minas Tirith.
Elladan interruppe i pensieri dell’uomo e, affiancandolo, esclamò: “Non angosciarti... riesco a sentire l’acqua che urta le loro barche...”
“Ne conto circa cinquanta e saranno qui tra al massimo un’ora.” si intromise Legolas, raggiungendo gli amici.
Estraendo la spada dalla fodera, Aragorn guardò i suoi compagni.
“Amici miei, non posso chiedervi di restare al mio fianco, non questa volta. Abbiamo scarse possibilità di vittoria e…”
“Aragorn, siamo arrivati fin qui perché crediamo in te.” lo interruppe Legolas.
Con occhi inumiditi da lacrime di commozione, Aragorn ringraziò gli amici; non avrebbe potuto trovarsi con compagni migliori.

Ormeggiarono la nave in un piccolo molo nascosto in una baia, confondendola tra altre imbarcazioni. Scesi sulla terra, attraversarono correndo due villaggi e, salendo lungo la scogliera, giunsero in vetta ad una collina che offriva una visuale panoramica sul mare. I tre elfi guardarono l’orizzonte; il blu del mare si estendeva a perdita d’occhio. Alhena era attratta da quell’infinità; le dava una sensazione di calma… nel mare, era certa, avrebbe trovato la sua pace. 
“Le vedo...”
“Eccole!”
Elladan e Legolas parlarono contemporaneamente, il principe di Gran Burrone puntò anche il dito all’orizzonte.
“Bene... ormai ci siamo...” disse Boromir, incrociando lo sguardo del Dunadain. Poi, guardando verso le montagne alle loro spalle, continuò con tono abbattuto: “Ci hanno abbandonati, ancora una volta.”
Aragorn guardò nella sua stessa direzione; nel profondo sperava che avessero deciso di aiutarli. Ci credeva davvero…
“Eccoli!” esclamò Boromir, dopo qualche minuto, additando l’orizzonte, lo stesso punto indicato da Elladan.
I corsari si stavano avvicinando velocemente, agevolati dal vento a loro favorevole.
Alhena guardò Legolas impugnare l’arco ed estrarre una freccia dal fodero; avrebbe tanto voluto parlargli. Aragorn aveva ragione: meritava la verità ma, come molte cose, per ora era meglio tener tutto in sospeso.
“Aspetta, amico mio.” disse Aragorn, intuendo le intenzioni dell’elfo e, posando la mano sull’arco, glielo fece abbassare.
Quando le navi furono abbastanza vicine alla costa, Aragorn avanzò verso il precipizio mostrandosi ai corsari.
L’imbarcazione in testa rallentò l’avanzata; il capitano si avvicinò alla prua e, guardando la costa, comandò ad uno dei suoi uomini di suonare il corno, ordinando alla flotta di fermarsi. A bordo di ogni singola imbarcazione, Alhena contò una ventina di uomini; tutti armati e pronti alla guerra.
“Non potete proseguire. Voi non entrerete a Gondor.” dichiarò risoluto Aragorn, puntando la spada riforgiata contro i corsari.
Subito iniziarono a ridere, divertiti che un uomo e altri quattro guerrieri avanzassero pretese tanto ridicole verso loro; un esercito che contava fino a 200 uomini.
“Chi sei tu per negarci il passaggio?” chiese il capitano della flotta. Un uomo abbastanza alto e robusto di costituzione, con una folta barba nera e vestito con pelli d’animale.
Aragorn si voltò, guardando i suoi compagni; sapeva che agli occhi dei corsari erano ridicoli. Erano in cinque e, anche se tutti valorosi guerrieri, non avrebbero mai potuto fermare l’avanzata della flotta di Umbar.
Legolas si avvicinò ad Aragorn, arco in mano, e fece un cenno all’amico.
“Legolas, Elladan, Alhena... un avvertimento che sfiori le loro orecchie.” sussurrò Aragorn, incrociando i loro sguardi e facendo loro un cenno d’intesa.
Prontamente, i tre elfi alzarono i loro archi verso la nave nemica e, incoccando una freccia ciascuno, presero attentamente la mira e, contemporaneamente, scoccarono.
Le tre frecce tagliarono l’aria producendo dei sibili. Mentre due sfiorarono volutamente il volto di due corsari in piedi ai lati del Capitano, la terza centrò il nostromo al petto che cadde sul ponte, morto.
Elladan e Legolas si voltarono verso Alhena che, con un’alzata di spalle, disse: “Loro non si farebbero tanti scrupoli nell’ucciderci... uno in meno da affrontare.”
Boromir trattenne a stento un sorriso, anche lui, come Alhena, sarebbe andato a segno; conosceva la crudeltà dei corsari di Umbar e nessuno meritava la loro pietà.
“Andatevene fintantoché diamo a voi ancora un’opportunità di resa!” esclamò Aragorn, rivolgendo nuovamente l’attenzione alla flotta e allungando davanti a lui il braccio col quale impugnava la spada di Isildur.
Come se nulla fosse successo, il capitano dei corsari rise nuovamente davanti alle pretese dei cinque e, sputando sul ponte, rise maligno: “Davvero credete di poterci fermare?”


Legolas era partito per Gran Burrone da un paio di giorni e Thranduil, nel suo palazzo a Bosco Atro, stava armando il proprio esercito. Secondo le sue spie stanziate a sud, le truppe di Mordor si erano mosse quella mattina prima dell’alba e si stavano dirigendo verso Reame Boscoso.
Rintanato nel proprio studio, Thranduil studiava attentamente una cartina disegnata a mano su della pergamena ingiallita. Sul tavolo erano stati posati tre candelabri per illuminare meglio la stanza. Chino sulla mappa, le mani posate alla scrivania, cercava di capire la via che avrebbero seguito gli orchi per fermarli il prima possibile.
Spazientito, si allontanò e, raggiungendo le ampie finestre, pensò al figlio. Elrond aveva chiesto il suo intervento per far parte ad un concilio. Avrebbe voluto partire lui stesso per Gran Burrone, sperava di avere notizie di Alhena e, magari, vederla... forse era tornata a casa e, l’ipotesi di saperla al sicuro, lo tranquillizzava.
Si accomodò su una grande poltrona ricoperta di pregiata seta bordeaux e chiuse gli occhi, cercando di ricordare il loro ultimo incontro a Pontelagolungo, ormai avvenuto diversi mesi prima. Si domandava se aveva osato troppo nel seguirla, ma aveva bisogno di risposte e solo lei poteva dargliele.
Così, quella notte, l’aveva seguita subito dopo la sua fuga dalla locanda e, seguendo le tracce che aveva lasciato, il Re aveva raggiunto Dale. Thranduil sospettava che Alhena avrebbe cavalcato fino al regno di Rohan, passando a nord del suo regno.
Smontò da cavallo appena arrivò al ponte che conduceva alla fortezza e, lentamente, risalì le vie del paese; dal mercato completamente distrutto durante la battaglia delle cinque armate, fino a raggiungere i livelli superiori.
Nelle strade erano ancora evidenti le tracce della guerra che si era consumata anni prima... nessuno, dopo quegli eventi, ci aveva rimesso piede; gli uomini di Pontelagolungo, piuttosto che ritornare a Dale, avevano preferito ricostruire la città distrutta dal drago grazie all’oro che i nani avevano donato loro. Avevano perso molti amici a Dale e, si vociferava, che quella fortezza fosse maledetta.
Anche per Thranduil percorrere quelle vie era doloroso; aveva perso valorosi guerrieri ed anche il suo fido compagno di cavalcata. Mentre saliva verso il palazzo, si fermò appena udì un rumore provenire da un vicolo laterale, conosceva quel posto molto bene... la strada avrebbe condotto ad una terrazza che si apriva sul precipizio e mostrava, in lontananza, il regno dei nani, Erebor.
Camminò senza far rumore, il lungo manto da viaggio sfiorava la strada; il cuore gli batteva frenetico nel petto. Svoltando l’angolo, la vide; era seduta sulla roccia e gli dava le spalle. Rimase alcuni istanti ad osservarla, i capelli sciolti le ricadevano sulle sue spalle, mossi dal vento.
“Alhena.” la chiamò il re.
La giovane elfa scattò in piedi e, voltandosi, impugnò la propria spada.
“Non hai bisogno di quella...” sussurrò sorridendo l’elfo, accennando all’arma che Alhena stringeva con forza.
“Perché? Perché mi hai seguita?” chiese lei arrabbiata, abbassando la guardia ma senza rifoderare la spada.
“Volevo parlarti. Dobbiamo parlare... non puoi fuggire così!”
Alhena rise, piegandosi di lato per sottrarsi dai magnetici occhi di Thranduil.
“Proprio tu parli di fuggire! Ti sei nascosto per secoli!” esclamò lei, ilare. “Sei davvero ridicolo! Posso comprendere il dolore che hai provato per la morte di Aredhel, ma questo non giustifica nessuna delle crudeltà che hai inflitto a chi ti sta accanto, a chi ti voleva e vuole bene!”
L’espressione sullo sguardo del Re mutò, si fece d’improvviso serio.
Alhena sostenne il suo sguardo: se voleva che lei parasse, non si sarebbe sottratta a tale compito. Avrebbe detto tutto, ogni cosa che pensava di lui!
“Legolas era un bambino quando ha perso la madre e tu l’hai ignorato! Ti sei curato solo delle ferite del tuo cuore e hai abbandonato un figlio che ti adorava! Avresti dovuto vivere per lui! Avresti dovuto stargli accanto e crescerlo come lei avrebbe fatto!”
La bionda sapeva di star esagerando; Thranduil stava per arrabbiarsi ma, a lei, non importava. Credeva davvero ad ogni singola parola detta e, questo, sarebbe stato un modo per ricordare a se stessa chi aveva realmente davanti.
“Dai! Comportati come fai sempre! Rapiscimi e rinchiudimi nelle segrete del tuo Regno! Comportati da borioso sovrano…imprigionami come hai fatto con Thorin e i suoi compagni... come hai fatto con Sméagol! Dai! Fallo! Schiaffeggiami ancora! Sei solo un mostro!”
“Un mostro?” ripeté lui, pacato.
Alhena non rispose; per la foga le erano venute le lacrime agli occhi e, ad ogni parola, si era avvicinata sempre più a Thranduil, arrivandogli talmente vicino da poter distinguere le varie sfumature dei suoi occhi azzurri.
“Mi consideri un mostro?” chiese, nuovamente.
Alhena distolse lo sguardo; aveva deciso che sarebbe andata via. Non poteva restare con lui ed ascoltare le sue parole… si sarebbe fatta convincere dalla sua voce… avrebbe coperto meglio le proprie tracce.

“Addio, Thranduil.” disse lei voltandosi, risoluta sul da farsi. “Ormai, non abbiamo più nulla da dirci.”
Ma l’elfo, con tono freddo, colmo di dolore, disse: “Se volevi il mostro, eccolo qui... ecco il mostro…”
Alhena si fermò, senza però voltarsi.
“Sei l’unica persona che riesce a farmi perdere il controllo.” continuò Thranduil. “Con te al mio fianco sento che potrei dare il meglio di me ma, allo stesso tempo, potrei diventare ciò che tu odi di più... mi chiami mostro, ebbene voltati e guardami… guardami davvero. Guarda chi sono e giudicami per le mie debolezze!”
Di scatto la principessa si girò, incrociango gli occhi di Thranduil… rimase senza fiato; il lato destro del suo volto era sfregiato e, in alcuni punti, scarnificato… l’occhio era vitreo…
Alhena conosceva la storia del Re e sapeva che era stato ferito durante una battaglia, ormai secoli prima… ma ciò che la bionda ignorava era che il Re celava le proprie ferite con la magia.
“Sono davvero il mostro che tu pensi io sia.” fece una pausa e, mentre la raggiungeva, il suo viso tornò perfetto, come sempre. Le prese le mani e continuò: “Ho imparato a celare al mondo chi io realmente sia... ma non sono solo il mostro… io… io…” chiuse gli occhi e, prendendo fiato, continuò: “Io ti amo. Ti amo così tanto… sei riuscita ad abbattere le mie difese e ora conosci ogni aspetto di me, anche il più terrificante.”

Alhena ricambiò il suo sguardo, non sapeva cosa dire. Farfugliò confusa parole senza senso, distogliendo poi lo sguardo.
Non sapeva cosa fare.
Non sapeva cosa dire.
“Baciami ancora una volta...” chiese con dolcezza l’elfo, chinando il capo leggermente a destra.
Alhena guardò le forti mani del re stringere le proprie; i battiti del suo cuore le rimbombavano nelle orecchie.


Successe velocemente, Aragorn udì dei rumori alle sue spalle e l’aria si fece d’improvviso più fredda. Sorrise, cercando di non farsi vedere. Le foglie degli alberi si mossero, come tirate dal vento, ma non un filo d’aria spirava. In quel momento comprese che avevano una possibilità di vincere la guerra.
Uscirono dal bosco, impugnando le loro armi e, superando i cinque, l’esercito dei morti, in sella ai propri cavalli, si riversarono come un fiume in piena verso la flotta dei corsari.
Dalle imbarcazioni provenivano urla di dolore e suppliche gridate.
“Sono loro! Hanno accettato! Hanno accettato l’accordo!” esclamò entusiasta Alhena, abbracciando, in un moto di gioia, il fratello.
Anche Aragorn sorrise e, guardando il cielo, sussurrò mentre guardava la sconfitta dei propri nemici: “Grazie ai Valar!”

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Capitolo 35
*** CAPITOLO 35 - OCCASIONI ***


Ciao! Ed ecco qui un nuovo capitolo... buona lettura, alla prossima!
Mi inizia a dispiacere che ormai sono quasi giunta alla fine... beh, spero di non deludere nessuno con il finale che ho scelto!
A presto!
J



Dal mare, dove si era consumata la battaglia tra gli spettri e i corsari, la capitale di Gondor, Minas Tirith, distava, con vento favorevole, poco più di mezza giornata in barca. Lo scontro era andato bene, anzi magnificamente! Gli spettri avevano tenuto fede al loro giuramento e, una volta arrivati sul campo di battaglia, avevano sopraffatto l’esercito di Umbar con fin troppa facilità. Dopotutto i dannati non avevano nulla da perdere; tuttaltro, quest’alleanza avrebbe arrecato loro solo vantaggi. Avrebbero ottenuto la loro libertà, il meritato riposo che da secoli tanto agoniavano… da quando avevano voltato le spalle alla richiesta d’aiuto di Isildur, quand’erano ancora vivi.
Terminato il conflitto, Aragorn aveva chiesto al loro Capitano di seguirli fino a Minas Tirith e combattere anche quella guerra al suo fianco; senza indugio aveva accettato, bramoso di ottenere il suo riscatto e quello dei suoi uomini.
Prima che il giorno lasciasse spazio alla notte, Aragorn, con l’aiuto dei suoi compagni, legò delle robuste cime da un’imbarcazione all’altra; avrebbero guidato l’intera flotta governando la nave più robusta che sarebbe stata collocata in testa. Gli spettri avrebbero viaggiato a bordo delle imbarcazioni minori, nascosti nelle stive.
La nave in testa era governata da Aragorn con l’aiuto di Boromir, esperto della zona. Dopo aver imboccato la via per Minas Tirith, il clima sulla barca era cambiato. La tensione nell’aria era palpabile... la guerra, che avrebbe avuto luogo sulla prateria fuori dai confini murati della Cittadella, chiamava in raccolta gli eserciti più forti della Terra di Mezzo.
Da un lato avrebbero combattuto gli uomini di Gondor e di Rohan, dall’altro le armate di Mordor, composte non solo da orchi, ma anche dai nove; ben più temibili e micidiali... soprattutto in sella ai loro draghi alati.
Gli elfi, invece, non avevano raggiunto il campo di Gondor; già da mesi erano impegnati a contrastare le armate di Mordor presenti sui confini nord. Combattevano nei pressi di Dagorlad dove, già nella prima era, i popoli liberi avevano affrontato Sauron.
“Sei nervoso, amico mio...” disse Boromir, avvicinandosi ad Aragorn e studiando il volto contratto dell’uomo. “Presto rivedrai il tuo regno… la corona di Gondor sarà, come di diritto, tua...” sospirò. “Il palazzo bianco, in questa stagione, è davvero incantevole.”
L’uomo annuì; non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva nemmeno se avrebbe accettato di rivendicare la corona dei Re. Dopo Isildur, per intere generazioni, il popolo di Gondor era stato governato dal Sovrintendente; Aragorn temeva che il popolo non l’avrebbe mai accolto volentieri... dopotutto lui era solo un ramingo del nord, non lo conoscevano e, quindi, come si sarebbero potuti fidare di lui?
“Non angosciarti...” continuò Boromir, intuendo le preoccupazioni di Aragorn. “Sono secoli che la tua gente attende il ritorno del legittimo Re... durante questo viaggio ho capito che tu sei degno d’essere l’erede al trono. Il popolo di Gondor non potrebbe sperare di meglio. Sei saggio, leale e umile... tutte doti che fanno di un Re, un grande Re.”
“Anche tu, all’inizio, eri diffidente nei miei confronti...” disse Aragorn.
“In questo viaggio, ho imparato a conoscerti. Tutti, con il tempo, impareranno. E ti apprezzeranno come io ho iniziato a stimare te.”
Boromir posò una mano sulla spalla dell’amico e gli sorrise con affetto; Gondor non poteva sperare in un Re migliore. “Con te, porti la speranza per Gondor...”

Con l’arrivo della notte, il cielo si tinse di blu e milioni di stelle brillavano tenuemente nel cielo. Per precauzione, Aragorn, decise di ormeggiare le barche in prossimità di un villaggio; la stagione era stata arida ed il fiume si era ritirato, rendendo difficoltosa la navigazione soprattutto di notte.
Nessuno riusciva a prendere sonno, tutti erano troppo agitati per la battaglia imminente.
Aragorn e Boromir si erano coricati accanto al timone, ma continuavano a fissare l’oscurità con occhi pieni di paure. Gli elfi, invece, erano seduti vicino all’albero maestro e si erano persi nei loro pensieri, osservando le stelle.
“Scendo a terra.” annunciò Alhena ad infima voce, alzandosi in piedi e interrompendo il silenzio.
Il fratello e Legolas la guardarono senza parlare. Elladan si alzò, ma la bionda scosse il capo e, guardandolo, continuò: “Vorrei scendere a terra sola. Ho bisogno di pensare... ho bisogno di restar sola.”
“Non credo sia prudente...” iniziò a dire Elladan.
“Non mi allontano.” promise lei. “Per favore.” aggiunse guardando il fratello negli occhi.
Elladan non era mai riuscito a negare qualcosa alla sorella, soprattutto quando lo guardava negli occhi abbassando il capo.
“Va bene... ma se ci sono dei problemi, urla... correremo in tuo soccorso.”
Legolas annuì.
Mentre la bionda scendeva a terra, percorrendo il barcarizzo di legno posato al molo, Elladan tornò ad accomodarsi accanto all’amico e, guardando dove poco prima Alhena era scomparsa, posò la testa contro l’albero maestro.
“Sono così felice d’averla ritrovata...” sussurrò. “Avevo perso le speranze… l’ho cercata per anni… mi stavo preparando al peggio.”
“Posso solo immaginare quanto hai sofferto durante questi viaggi... per un periodo è rimasta a Bosco Atro per poi fuggire nel cuore della notte...”
“Bosco Atro?” fece eco Elladan. “Alhena è stata a Bosco Atro? Nel tuo regno?”
“Si... per un periodo.” rispose Legolas, guardando l’amico chiaramente irritato. “Non lo sapevi?”
“No!” rispose a denti stretti il principe di Gran Burrone per non disturbare il riposo dei due uomini. “Sono stato a reame boscoso e… e tuo padre mi ha detto che lei non era mai stata ospite nelle vostre terre!”
Legolas guardò l’amico; probabilmente era accaduto prima che Alhena arrivasse o subito dopo la sua fuga.
“Avevo intuito che mi stava nascondendo qualcosa quando l’avevo incontrato... ma non pensavo... non credevo fosse capace di mentire su questioni così delicate... ero disperato quando sono giunto ai confini di Bosco Atro...”  continuò Elladan. “Sono stato in pena per lei per anni! L’ho cercata per tutta la Terra di Mezzo senza trovarla! Credevo fosse morta o peggio! Aveva scritto ad Estryd alcune lettere… ma così raramente che...” prese fiato e, guardando Legolas negli occhi, concluse: “E lei.... e lei si nascondeva nei confini di reame boscoso... a casa tua...”
“Credimi, non sapevo nulla di tutto questo... non sapevo che tu fossi venuto a cercarla... ti avrei subito condotto da lei...”
Elladan osservò con attenzione l’amico, cercando di capire i suoi pensieri... di una cosa era certo, Legolas diceva il vero.
“Come mai Thranduil mi ha mentito?” domandò Elladan.
Il biondo chinò il capo; la risposta a questa domanda era la ragione per cui lui temeva di parlare con la bionda.
“Io gli ho chiesto di mentirti.” rispose Alhena.
Era in piedi a pochi metri dai due e li osservava attentamente; il cappuccio del mantello tirato sul volto.
Entrambi la guardarono.
“Non volevo creare problemi a Thranduil che era stato così gentile nell’ospitarmi... nostro padre non avrebbe approvato questa sua cordialità nei miei riguardi.” continuò lei.
“Gentile?” chiese Legolas, irritato. Thranduil l’aveva cacciata, era stato lui a nasconderla per mesi, contravvenendo agli ordini del Re.
“Si. Ricordo perfettamente ogni cosa.” rispose Alhena, intuendo ciò che Legolas pensava. “Ricordo l’inizio... ma ricordo anche il seguito... mi è stato vicino e abbiamo parlato molto mentre tu, Legolas, eri in missione... ho scoperto aspetti di lui che non conoscevo... aspetti che mi hanno fatto vedere quanto straordinario sia...”
Legolas si alzò; dunque le risposte alle sue domande stavano per giungere... nel petto sentiva il cuore andare in frantumi. Cercava di farsi forza, di non piangere... ma gli occhi gli bruciavano... stava per perdere l’amore... l’unica donna che era mai contata davvero qualcosa per lui, la stava perdendo… in quel momento; distolse lo sguardo per un secondo, non riusciva a sostenere i suoi occhi azzurri.
Elladan guardò la sorella e, intuendo la delicatezza del discorso, si alzò e si allontanò dai due; avevano bisogno di restare soli... da giorni aveva notato la tensione tra loro e, solo ora, iniziava a capirne le ragioni.
“Dunque mi stai dicendo ciò che penso?” chiese Legolas, incrociando lo sguardo dell’amica. “Ciò che temo?”
“Legolas...”
Avvicinandosi, Alhena prese tra le sue mani quelle dell’amico: “Ho cercato… ho tentato con tutta me stessa... ci ho provato davvero, ma non sono riuscita... non ho potuto… io lo amo.”
“Lo ami...” ripeté Legolas, con un filo di voce.
Alhena annuì: “Ma ciò non ha importanza alcuna... io per lui sono solo una ripicca... mi ha confessato i suoi sentimenti e, per un attimo, ci ho anche creduto, ma erano solo un abbaglio... non penso abbia mai dimenticato tua madre.”
L’elfo rimase in silenzio, non sapeva cosa fare. I sentimenti di Thranduil non erano un abbaglio... amava davvero Alhena... la guardò, indeciso sul da farsi. Lei lo stava osservando; gli occhi colmi di speranza.
“Lui ha amato mia madre... solo lei in tutta la sua vita.” mentì.
Lo sguardo della bionda si rabbuiò udendo quelle parole. Legolas abbassò il capo; si sentì subito in colpa per la bugia detta, non l’aveva mai fatto prima.
“Alhena...” la chiamò, intenzionato a dirle la verità, ma lei posò una mano sulle sue labbra e, scuotendo il capo e abbozzando un sorriso tirato e finto, lo interruppe.
“Non dire altro... in fondo penso d’averlo sempre saputo. Scusami, ma ora desidero riposare.”
Senza aspettare una risposta, Alhena si voltò e, attraversando il ponte della nave, scese nuovamente a terra. Superò le poche capanne del villaggio e si addentrò per alcuni metri nel bosco, camminando tra gli alberi tutti dall’aria antica... i pugni stretti così forti che le nocche le erano diventate bianche, le facevano male i palmi delle mani feriti dalle unghie...
Si arrampicò su una collina e, superando dei massi, si lasciò cadere a terra, tra le foglie secche che coprivano del muschio... respirava a fatica mentre due grosse lacrime silenziose bagnavano le sue guance... era così doloroso... aprì la bocca e un urlo silenzioso ne uscì... avrebbe voluto che tutta quella sofferenza cessasse, faceva così male... si passò le mani tra i capelli, afferrandoli con forza dietro la nuca e, celando il volto al mondo, pianse in silenzio.


Il campo ai piedi del Monte Fato si svuotò; dei migliaia di orchi ormai non era rimasto nessuno. Estryd e Frodo scesero con cautela la collina, cercando di non far rumore. L’erba dell’altopiano era ingiallita e schiacciata sotto il peso degli orchi; varie braci, ancora fumanti, erano posizionate a intervalli regolari. Frodo era sfinito; annaspava ad ogni passo. Solo grazie ad Estryd riusciva a proseguire. L’elfa lo trascinava utilizzando tutta la forza di cui disponeva. L’aria era asfissiante per il fumo e per il caldo che proveniva dal Monte Fato; ad ogni passo, Estryd controllava il grande occhio... voleva essere certa che la sua attenzione fosse indirizzata sempre verso Gondor.
Attraversarono l’altopiano in silenzio, senza scambiare nemmeno una parola. Proseguirono lentamente e, dopo due ore di cammino, Frodo si fermò... non riusciva più a proseguire, era troppo stanco... troppo.
Estryd intuì che lo hobbit aveva raggiunto il suo limite e, con cura, lo adagiò per terra accanto a un falò spento.
Tremava e stringeva nel pugno la collana e l’Anello; faceva una gran pena all’elfa.
Restando in piedi la bruna si guardò attorno; il Monte Fato era così vicino... riusciva a distinguere chiaramente la via che saliva zigzagando fino a raggiungere il passaggio scavato nella roccia e che avrebbe condotto nel cuore della montagna. Elrond aveva raccontato alla figlia la storia della battaglia contro Sauron e del vano tentativo di convincere Isildur a distruggere l’Unico. Le aveva descritto ogni dettaglio del sentiero, ogni scavatura nella toccia o intaglio...
“Mi dispiace...” sussurrò Frodo, interrompendo i pensieri di Estryd.
L’elfa guardò l’amico e gli sorrise con affetto.
“Non scusarti... sei forte, ma sei stanco... sei stato messo alla prova infinite volte in questo viaggio. E ora il suo potere si fa sempre più intenso... indebolenti... succhiando la tua vita...”
Si accomodò al suo fianco e, carezzandogli il capo, concluse: “Hai dimostrato il tuo coraggio. Sei un piccolo uomo, ma sei davvero grande.”
Gli occhi del portatore s’inumidirono; era davvero grato ad Estryd.
“Dormi... tra qualche ora ti sveglio… proseguiremo al calar della notte.” convenne la bruna.
Mentre Frodo si addormentava, Estryd afferrò l’anello di Boromir e lo strinse forte. Gli mancava tantissimo... gli mancava sentire la sua voce, la sua risata... gli mancavano i suoi occhi quando la guardavano e le sue mani quando la sfioravano... gli mancava lui.
Avevano vissuto così pochi attimi insieme che poteva contarli sulle dita delle sue mani, momenti che purtroppo erano volati...
L’elfa chiuse gli occhi e riportò alla mente il suo volto; era bellissimo... per la prima volta pensò all’eventualità di presentarlo a suo padre... avrebbe approvato o avrebbe ostacolato il loro amore come aveva fatto all’inizio tra Arwen e Aragorn? Si sfiorò il ventre; era diverso, per loro... lei portava in grembo il suo bambino... suo e di Boromir.
Guardò Frodo riposare al suo fianco; sembrava così stanco... erano fermi già da due ore, Estryd si alzò lentamente e spiò l’altopiano e il Monte Fato; incredibilmente non c’erano orchi che sorvegliavano il passaggio, una leggerezza che avrebbe agevolato la loro missione.
Un gemito fece voltare l’elfa, Frodo si stava alzando in piedi; tremante e pallido.
“Frodo...” sussurrò Estryd, cercando di farlo sedere.
“Estryd no... dobbiamo procedere. Dobbiamo. Non ci capiterà mai un’occasione simile.”
Frodo annuì debolmente ma non si mosse, ricadde a terra seduto; troppo stanco per alzarsi.
Chinandosi verso di lui, l’elfa disse: “ Mangia qualcosa... hai bisogno di forze...”
Tolse dallo zaino una galletta elfica e gliela porse: “Forza, mangiala. Ti farà bene...”
Il portatore la prese e la avvicinò alle labbra, l’elfa lo osservò con attenzione; sembrava nauseato all’idea. La bruna gli sorrise e Frodo annuì, addentando la galletta. Sapeva che Estryd aveva ragione; senza forze non avrebbe mai raggiunto il Monte Fato.

 

“Dove sei stato?”
Legolas raggiunse il padre non appena fu avvisato del suo rientro a Bosco Atro, era sparito per due giorni senza lasciare a nessuno informazioni su dove si trovasse. Era stato in pena per lui, l’aveva cercato dentro e fuori i confini di Bosco Atro.
Appena lo vide, intuì che aveva sbagliato i posti dove l’aveva cercato; era chiaramente ubriaco.
“Da quando devo riferire a te, o a chiunque altro, i miei spostamenti?” ribatté, guardando solo di sfuggita il figlio.
Il giovane principe si avvicinò al padre e, guardandolo attentamente in volto, trovò i segni della stanchezza e nei suoi occhi vide una profonda delusione.
Legolas rispose, sostenendo lo sguardo del genitore: “Ero preoccupato per te. E, da ciò che vedo, ne avevo tutte le ragioni...”
“Non devi...” replicò Thranduil, mentre si avvicinava alla mensola sulla quale c’era sempre un decanter contenente il più pregiato vino elfico.
“Pensavo avessi smesso... è mattina.”
Thranduil fulminò il figlio con lo sguardo; nei suoi occhi però non vide odio, ritrovò ancora la delusione.
“Sai che puoi parlarmi... dimmi dove sei stato... dimmi cos’è successo!” lo supplicò il principe.
“Puoi andare.” concluse il Re con tono freddo.
“Padre...” tentò ancora.
“Vattene!” urlò, accompagnando la parole con un gesto secco, indicando la porta.
“Bene. Credo che andrò a Gran Burrone per un paio di settimane...”
“Gran Burrone?” chiese il re, ritrovando il controllo del tono della sua voce.
“Si. Ci saranno i festeggiamenti per il compleanno dei gemelli Elladan e Elrohir...”
Annuendo, Thranduil si avvicinò al figlio: “Vengo con te.”
“Non ti è mai interessato partecipare a eventi simili... quale ragione hai per venire?” chiese Legolas, anche se sospettava che le motivazioni del padre potessero riguardare Alhena.
“Legolas...” disse strascicato. “Le mie ragioni, mi appartengono.”

Il viaggio verso Gran Burrone durò un paio di giorni, durante i quali Thranduil non rivolse parola al figlio. Legolas soffriva per quel silenzio e non riusciva a comprendere le ragioni che l’avevano portato a questa crisi... aveva dei sospetti, ma nulla di più.
Questa era la stagione migliore per recarsi nella terra di Elrond; c’era caldo e i giardini erano fioriti, donando al palazzo un’aria incredibilmente romantica.
Elrond attendeva gli ospiti nella piazza che conduceva al cancello, al suo fianco i quattro figli osservavano nella sua stessa direzione. Avevano ricevuto conferma poche ore prima che anche il Re di reame boscoso gli avrebbe fatto visita... erano anni che Thranduil non si recava a Gran Burrone ed Elrond era felice di rivedere l’amico... ma, quando lo vide seduto sull’alce, lo sguardo trasognato e la postura morbida, intuì che aveva abusato del vino e che un peso gravava sul suo cuore.
Con discrezione si chinò verso Arwen e, cercando di non farsi sentire, sussurrò: “Porta delle gallette e un infuso di zenzero nelle stanze di Thranduil...”
La bruna, dopo aver guardato il Re, annuì e si allontanò dal padre, portando con sé anche la sorella minore.
“Legolas che piacere averti qui a Gran Burrone!” esclamò Elrond avvicinandosi al principe. “Elladan ed Elrohir erano ansioni di averti qui...” continuò mentre i gemelli, sorridenti, si avvicinarono all'amico. “Thranduil, amico mio... ero sorpreso quando mi è stata annunciata la tua presenza...”
Il Re di Bosco Atro scese dall’alce con, nonostante tutto, innata eleganza e con passo non altrettanto aggraziato, raggiunse il signore di Gran Burrone.
“È una gioia anche per me!” rispose.
“Legolas, i miei figli ti accompagneranno nelle stanze che abbiamo preparato per te...”
Il biondo, senza replicare, seguì gli amici chiacchierando allegramente e ridendo.
Una volta rimasti soli; Elrond guardò Thranduil e, scuotendo il capo, raggiunse l’elfo.
“Vieni... permettimi di accompagnarti...”
Tenendo Thranduil per un braccio, lo guidò lungo varie scalinate e per le vie del palazzo fino a raggiungere una grande porta di legno intagliata a mano.
“Pensavo ti fossi ripreso...” disse Elrond, mentre apriva la porta ed entrava nella camera.
La luce filtrava dalle ampie finestre, corniciare da fini tendaggi di lino bianco. La stanza offriva un magnifico panorama sulla cascata e, il più piccolo dettaglio era risaltato dal sole che illuminava i muri dipinti di bianco e i mobili di pregiato legno.
Thranduil seguì l’amico e iniziò a girare per la camera, osservando ogni cosa.
“Lembas e infuso allo zenzero?” domandò quando, avvicinandosi ad un vassoio posato sul tavolo, annusò il contenuto del calice.
“Sì, niente vino... penso che tu ne abbia già abusato a sufficienza...” rispose Elrond, accomodandosi su una sedia, davanti all’elfo. Lo guardò preoccupato; chinandosi verso di lui, gli domandò: “Cosa sta succedendo?”
“Cosa intendi?” chiese Thranduil. “Cosa dovrebbe succedere?”
“Thranduil... era da quando Aredhel...” Elrond s’interruppe ed osservò le reazioni dell’amico. Sul volto dell’elfo non vide alcuna emozione; anzi, il Re sorrise leggermente, senza però esprimere gioia.
“Siamo entrambi Re... ed entrambi abbiamo perso la donna che amavamo... ognuno di noi reagisce al dolore come crede... Aredhel è la madre di mio figlio... e ho disperato per lunghi anni la sua morte.”
Il biondo si accomodò sulla sedia libera, davanti al signore di Gran Burrone. Afferrò con entrambe le mani la tazza e, avvicinandola al volto, inspirò il profumo piccante dell’infuso.
“Avevo trovato una persona che mi faceva sentire me stesso... mi faceva sentire vivo... mi faceva sorridere…”
Elrond attese alcuni secondi che l’amico continuasse.
“Thranduil...” lo incoraggiò.
“Se n’è andata appena ha visto in me il mostro.”
Elrond si sistemò meglio sulla sedia: “Il mostro era morto ormai da tempo... le cicatrici della guerra erano state curate da lady Galadriel e il segno sul tuo volto era diventato minimo… oserei dire impercettibile. Hai mostrato solo quello che ritenevi potesse spaventare costei.”
“Mi aveva appellato in quel modo un giorno mentre litigavamo... se credeva che io fossi un mostro; non l’avrei delusa!”
Elrond rise: “Mentre litigavate? Hai conosciuto qualcuno che sa tenerti testa?”
“Ormai non ha importanza alcuna. È andata e penso non tornerà più.”
“Non se n’è andata. L’hai allontanata, amico mio... sono due cose molto diverse.”
“Allontanata, andata; il risultato è il medesimo. Ma ora ho compreso l’importanza che lei aveva nella mia vita. Se solo avrò ancora un’occasione… credimi: non la sprecherò!”

 

La cittadella era in fiamme; il fumo si alzava da dentro le mura diradandosi nel cielo. Gli orchi avevano abbattuto il portone di robusto legno e ferro, iniziando a saccheggiare e uccidere chiunque incontrassero: uomini, donne e, perfino, i bambini. Alcune urla erano così forti, così strazianti, che attraversavano varie miglia fino a raggiungere le fini orecchie dei tre elfi.
Dal fiume Aragorn osservò senza parole lo svolgersi degli eventi... forse avevano tardato troppo, forse non avevano più tempo. Sul campo, oltre agli orchi di Mordor e ai nove, c’erano anche uomini del sud, in sella a degli olifanti; quelle creature, per molti, erano solo leggenda ma incredibilmente erano lì.
I cinque li guardarono da lontano senza fiato... erano creature maestose ma, allo stesso tempo, micidiali. Erano stati armati, legando alle loro corna, delle travi chiodate che non lasciavano scampo né agli uomini di Gondor né ai cavalieri di Rohan.
“Siamo con te, amico.” esclamò Legolas, impugnando la spada.
Accanto al biondo, anche Elladan, Boromir e Alhena annuirono, mentre stringevano le proprie armi. Questo era il loro destino, questo era quello per cui avevano intrapreso quel viaggio; combattere per dare a Frodo una possibilità, per dare al mondo una possibilità.
Mentre si avvicinavano al porto, alcuni orchi di Mordor che sorvegliavano il fiume, avanzarono verso di loro con andatura spavalda.
Il loro Capitano superò i suoi soldati, fino ad arrivare davanti alla nave mentre si posava con un tonfo contro il molo di pietra.
“In ritardo come al solito, feccia dei pirati! Ci aspetta un lavoro di coltello! Forza, topi di fogna! Scendete dalla nave!”
I cinque si guardarono negli occhi; Alhena strinse la mano del fratello, come sempre era nervosa.
“Sarò al tuo fianco, sempre.” sussurrò lui, premuroso.
Poi, tutti insieme avanzarono fino al parapetto e, salendovi sopra, saltarono oltre l’imbarcazione, atterrando sul molo di pietra.
Alhena alzò la spada e, avanzando con passo sicuro, incrociò gli occhi spalancati dalla sorpresa del Capitano di Mordor.
Un movimento sciolto, la lama tagliò l’aria e la testa dell’orco.
“Che la guerra abbia inizio!”

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Capitolo 36
*** CAPITOLO 36 - LA FINE ***


Mi scuso per il ritardo... ecco qui il terzultimo capitolo, spero vi piaccia!
Non ho avuto modo di inserire un flashback, ma rimedio col prossimo!
***


Frodo cercava di resistere, ma ogni passo che faceva era più difficile rispetto al precedente. Anche il più piccolo movimento, per il portatore, era diventato doloroso. Tentava di non pensare al male che sentiva… ogni muscolo gli doleva… cercava di ricordare casa sua, la Contea, e i suoi amici, perfino i parenti… ma nulla era rimasto, nemmeno un ricordo era restato nella sua mente. Erano tutti svaniti, tutti perduti. Ogni tentativo era vano; i suoi pensieri erano neri e, ogni ricordo che cercava di riposare alla luce, era solo ombra...
Aprì la bocca e, solo in quel momento, si accorse che anche parlare gli era ormai impossibile, aveva dimenticato come parlare, come formulare frasi o suoni... nella sua testa c’era solo nebbia.
Tremava, aveva freddo, nonostante l’aria fosse quasi soffocante. L’unico sollievo, l’unica cosa che sentiva era la propria mano sinistra che stringeva quella di Estryd; così calda e vera, così reale.
Guardandola riusciva a vedere quanto fosse bella, delicata, candida... l’opposto di Mordor, l’opposto di quello che ormai c’era dentro di lui.
Più la distanza dalla montagna diminuiva, più peggiorava la sensazione di oppressione che sentiva nel petto. Gradualmente, iniziò anche a non distingueva la via che percorreva e, le parole che l’elfa gli diceva, per distarlo dal peso dell’Anello, erano un ronzio indistinguibile nella sua testa.
Aveva bisogno di riposarsi, di fermarsi… ma, nonostante cercasse di parlare, dalle sue labbra non usciva nemmeno una parola, nemmeno un suono. Annaspava nel tentativo di ricordare le ragioni che l’avevano condotto in quel luogo, a Mordor... ma non ricordava nemmeno questo. L’Anello, caldo contro il suo petto, si muoveva ad ogni passo... il suo Anello... il suo prezioso Anello.
“Frodo...”
La voce di Estryd giunse remota alle orecchie del portatore; batté le palpebre un paio di volte senza svegliarsi dal torpore. Quasi si scontrò contro la bruna quando questa, senza alcun preavviso, arrestò il suo cammino.
“Sta dietro di me. Ti prometto che andrà tutto bene.” sussurrò lei, senza alcuna convinzione nel tono della voce.
Cercando di vedere oltre l’elfa, il portatore distinse solo una sagoma ricurva in avanti che si muoveva lenta verso di loro, alzando, al suo passaggio, una scia di polvere.
“È il mio tesoro!”
Quella voce… così fredda e gracchiante, si fece largo nei pensieri, tra la nebbia che regnava nella mente del portatore, destando Frodo. Conosceva quella voce, la conosceva bene e, col tempo, aveva imparato a temerla perché Gollum bramava ciò che lui aveva... Gollum voleva il suo Anello e avrebbe fatto qualunque cosa puir di riaverlo...
“Un avvertimento...” disse Estryd risoluta. “Vattene e permettici di proseguire per la nostra strada! Non ti permetterò di fermarci! Non accadrà mai!”
La principessa aveva impugnato la propria spada e, tenendola con entrambe le mani, la puntava contro la creatura. Nonostante cercasse d’essere risoluta, Estryd era molto spaventata… temeva per la propria vita e, soprattutto, per quella del proprio bambino.
“Voi non capite! No… non capite… noi lo vogliamo!” urlò Gollum, mentre si avvicinava carponi ai due. “È nostro! Ci è stato rubato dall’hobbit! Ladro! Ladro!”
“Non è tuo! L’Anello non può essere di nessuno... L’Anello obbedisce solo a una persona... a colui che l’ha creato… l’Unico Anello appartiene a Sauron! A Lui obbedisce… solo a lui va la sua lealtà!”
Approfittando della distrazione dell’amica, Frodo si allontanò da lei e, dopo aver impugnato Pungolo, avvertì il suo cervello riattivarsi nel tentativo di trovare una soluzione, di capire cosa fare per scappare da Gollum. Frodo non poteva consegnare a quell’essere il suo prezioso Anello... era tutta la sua vita... l’Anello; il suo unico pensiero, l’unica cosa che davvero gli importava… la sua ossessione! Il portatore chinò il capo…. nella sua mente si fece largo un’eventualità a cui non aveva mai pensato prima; Estryd. Magari lei voleva il suo Anello. Due contendenti volevano il suo bene più presioso! Mai l’avrebbe consegnato a Gollum… ma, d’altro canto, non poteva nemmeno consegnarlo ad Estryd... la studiò; nelle settimane passate da soli, Estryd non glielo aveva mai chiesto ma, presto, anche lei lo avrebbe voluto... l’avrebbe preso e tenuto per sé; ne era certo. Avrebbe cercato di rubarglielo anche lei.
“Frodo scappa!” urlò Estryd, voltandosi e incrociando lo sguardo del portatore, distraendolo dai suoi pensieri insani.
Quella disattenzione dell’elfa, diede a Gollum l’opportunità di attaccarla. Con un balzo scattò verso la bruna, urlando come un folle e, con le mani allungate in avanti, tentò di aggredire la giovane attaccandola al collo.
Un movimento improvviso dell’aria, fece voltare Estryd giusto in tempo per schivare l'attacco di Gollum che, rotolando su sé stesso, precipitò per alcuni metri,  schiantandosi con un tonfo contro delle rocce.
Senza perdere tempo, Estryd afferrò Frodo per il braccio libero e, senza dargli l’occasione di ribellarsi, lo trascinò lungo la via che conduceva al passaggio per il cuore del Monte Fato.
Il portatore continuava a voltarsi, voleva controllare dove si trovasse la creatura. Era solo un ladro; ecco cos’era Gollum! Un ladro che voleva il suo amato tesoro!
“Nooooo!”
Un urlo infranse il silenzio e raggiunse le orecchie di Estryd e Frodo, subito si fermarono. L’elfa si voltò; Gollum stava avanzando verso di loro, strisciando lentamente... lo sguardo fisso su di loro; nei suoi occhi, iniettati di sangue, si vedeva distintamente tutto il disprezzo che provava per lo hobbit, verso colui che reputava responsabile della perdita del suo tesoro.
Allungando la spada contro l’essere, Estryd lo intimò nuovamente: “Vattene! Non seguirci!”
Scuotendo il capo e, continuando ad avanzare verso di loro, Gollum sibilò maligno: “Non vi permetterò di rovinare tutto... noi lo vogliamo! È nostro e né un piccolo hobbit né una schifosa elfa potranno fermarci!”
Con un balzo, Gollum si scagliò contro Frodo; intenzionato a riprendersi ciò che gli apparteneva.
“Scappa!” ordinò Estryd. “Raggiungi il Monte Fato e distruggilo!”
Il portatore non riusciva a distogliere lo sguardo da Gollum... era una minaccia; quando lo vide lanciarsi contro di lui, chiuse gli occhi spaventato e si voltò, dando le spalle a Estryd. Stringendo in mano la catena e l’Unico, iniziò a correre lontano dai due e, soprattutto, lontano dal ladro che cercava di rubargli il suo Anello.
Appena la bruna accertò che il portatore era abbastanza lontano, tirò un sospiro di sollievo e, con un gesto brusco, conficcò la spada nella terra ai suoi piedi. Prese dalla cintura un nastro che teneva sempre in caso di bisogno, si legò i lunghi capelli scuri; ora era pronta per combattere al meglio senza l’ingombro della chioma.


Il sole brillava alto nel cielo azzurro e nemmeno una nuvola macchiava la sua perfetta superficie. L’aria era frizzante e soffiava leggermente verso est; nessuno pareva accorgersi di quella magnifica giornata autunnale... i raggi del sole toccavano il terreno, riscaldandolo forse per l’ultima volta prima dell’inverno. Poche miglia a nord della capitale, gli alberi perdevano le ultime foglie ormai ingiallite che, tirate dal vento, danzavano su sé stesse fino a posarsi a terra... gli uccellini cantavano allegri dai loro nidi, nascosti tra i rami, e molti animali si preparavano per affrontare il letargo cercando cibo nella foresta... a infrangere la quiete si udivano dei boati provenire da sud che attiravano l’attenzione degli abitanti del bosco, distraendoli da loro lavoro; la tensione, anche a miglia, era palpabile nell’aria... ogni tanto volgevano lo sguardo a sud, cercando di capire cosa stava accadendo, ignari che a Minas Tirith si stava combattendo la più grande guerra della Terra di Mezzo...
I campi di Pelennor si erano tinti di sangue; c’erano state già molte vittime e la guerra era solo all’inizio. Ovunque le urla di uomini ed orchi squarciavano l’aria e una leggera polvere si era alzata sul campo, rendendo difficile distinguere gli uomini di Sauron dai guerrieri di Gondor e Rohan.
Osgiliath era stata liberata dal controllo di Sauron fin troppo facilmente, l’esercito dei dannati aveva fatto piazza pulita di ogni nemico e aveva aperto un passaggio per i cinque verso il cuore del conflitto. Avanzavano correndo tra le macerie della città; le armi in mano, pronti alla guerra. Subito dopo aver conquistato Osgiliath, gli spettri avevano superato i compagni gettandosi nella mischia.
Aragorn in testa, avanzavano tra le macerie della cittadina costiera e, superati dei massi che costituivano un arco, vide Minas Tirith. In un secondo, il suo cuore gli si spezzò nel petto... la Capitale era devastata. Non c’era altra parola per descriverla... le mura erano state abbattute in vari punti e del fumo si alzava dalle sue vie... anche Boromir rimase senza parole; aveva lasciato casa sua che era bellissima ed ora... era irriconoscibile.
“Chi siete voi?” urlò una voce di un uomo. “Non potete procedere! Identificatevi!”
Alcuni soldati che stavano cercando di entrare ad Osgiliath, erano rimasti senza parole nel vedere i dannati avanzare verso di loro e superarli, lasciandoli incolumi, per raggiungere i campi di Pelennor. Non riuscivano a comprendere cosa avevano appena visto... ma poi, dalle macerie di Osgiliath, avevano visto avanzare, correndo, altre cinque figure: quattro uomini e una fanciulla.
Timorosi di incrociare nuovi nemici, avevano impugnato le armi e, il loro comandante, era avanzato verso di loro per capire le intenzioni della strana compagnia che avevano davanti. Strinse appena gli occhi, nel tentativo di distinguere i loro volti… c’erano due elfi e la donna era anche lei un’immortale… ma poi, mentre vagava da un volto all’altro, sorrise… scorse e riconobbero il volto famigliare del figlio maggiore del sovrintendente. Anche altri lo riconobbero e, additandolo, sussurrarono il suo nome... alcuni lo osservavano come fosse un fantasma; l’avevano dato per perduto, tutti loro pensavano fosse morto... Denethor era talmente convinto della perdita del figlio che aveva riferito la sua disfatta e, loro, avevano creduto alle sue parole.
Il comandate, un uomo alto con corti capelli grigi tendenti al bianco, mentre si avvicinava a Boromir, depose nel fodero la spada che teneva in mano e, togliendo l’elmo, lo abbracciò con forza.
“Che gioia riaverti qui… a casa! Tuo padre era certo della tua morte...”
“Ma, come puoi vedere, sto molto bene!” rispose ilare Boromir, ricambiando l’abbraccio dell’amico ritrovato.
“Come hai convinto i morti a venire fin qui? Come li hai convinti ad onorare l’accordo con Isildur?” chiese, sciogliendo l’abbraccio e guardando alle sue spalle l’esercito degli spettri che stava avanzando furente verso la città, uccidendo ogni alleato di Mordor che incontrasse.
“Non li ho convinti io... nulla di tutto questo è merito mio.” rispose il capitano e, voltandosi e guardando Aragorn, lo raggiunse. Posò una mano sulla spalla dell’amico e sussurrò al suo orecchio: “Siamo qui per questo. Per combattere e per salvare il nostro, il tuo popolo.”
Volgendo nuovamente l’attenzione verso le armate di Gondor, Boromir si erse imponente e, con voce profonda, tenendo una mano ben salda sulla spalla dell’amico, disse: “Amici miei e miei compagni di armi sono così felice di vedervi! Per me è un onore combattere al vostro fianco ancora una volta! Ma quest’oggi vi chiedo di affidarvi a quest’uomo. Il suo nome è Aragorn ed è l’unico figlio di Arathorn.... vi state chiedendo le ragioni che hanno portato i dannati a combattere al nostro fianco? Ebbene questo non è merito mio, ma suo! Di Aragorn! Aragorn è l’erede di Isildur ed erede al trono di Gondor!”
Un crescente vociare si alzò tra gli uomini che spostarono l’attenzione da Boromir al dunedain.
“Vi chiedo di seguirmi... di seguire il vostro Re verso la guerra, verso la vittoria e la pace!” concluse Boromir, alzando la mano con la quale stringeva la propria spada verso il cielo.
Un urlo collettivo accompagnò la sua dichiarazione, il popolo di Gondor era con lui... era con il suo legittimo Re!
Aragorn si fece avanti e, chinando il capo verso i suoi uomini, disse: “La mia vita è vostra! Fino all’ultimo mio respiro combatterò per voi, per Gondor e per ogni popolo libero di questa magnifica terra!”

I campi di Pelennor erano una distesa di orchi e uomini morti, il terreno era intriso del loro stesso sangue. Migliaia di corpi privi di vita, ormai senza un futuro, giacevano immobili… gli occhi spalancati ed un’unica espressione sui loro volti.
Avanzando verso la cittadella, Aragorn, insieme ai suoi amici e seguito dagli eserciti di Gondor, sempre più numerosi man mano la voce del ritorno del Re si diffondeva, correva con la spada donatagli da Elrond ben salda tra le mani. Non riusciva a credere che lo stavano seguendo… Gondor stava seguendo lui: il loro Re! Si voltò ed incrociò lo sguardo di Boromir che, alla sua sinistra, lo aiutava guardandogli le spalle. Poco più indietro, alla sua destra, Aragorn distinse i volti amici di Alhena ed Elladan.
Senza rallentare l’avanzata, il Re di Gondor si faceva largo con la forza tra le armate nemiche… la carne degli orchi si lacerava come burro quando veniva colpita dalla sua spada; a Gran Burrone era stato fatto un ottimo lavoro, la lama spezzata era ritornata quella di un tempo, se non migliore!
 
Legolas si era distanziato dal gruppo e, guidando i fantasmi verso nord, tentava di accerchiare gli eserciti di Mordor per impedir loro di raggiungere la cittadella o la fuga verso la terra di Sauron. A lui si erano uniti i cavalieri di Rohan che, insieme al loro Capitano Éomer, erano pronti a tutto pur di aiutare gli alleati. Il giovane principe elfico doveva molto a proprio padre; era stato Thranduil ad insegnargli l’arte del combattimento e le strategie di guerra. Era diventato molto abile, col tempo e la pratica, e solo ora se ne accorse. Con facilità, fronteggiava qualunque nemico si parasse davanti a lui, riuscendo ad abbattere da solo un olifante.
Voltandosi, Alhena vide l’azione di Legolas e, rimanendo senza parole, si fermò, ammirando la forza dell’amico. Aragorn e i suoi proseguirono senza accorgersi che la bionda era rimasta indietro... accadde allora; le urla della guerra vennero sovrastate dallo stridio di un gigantesco drago alato, nero come la pece e con la pelle ricoperta da squame. La bionda vide Éowyn porsi tra il signore dei Nazgûl e suo zio, il re di Rohan, che, ferito gravemente, era bloccato sotto il peso del suo cavallo.
Il sangue si gelò nelle vene dell'elfa. Senza perdere tempo, Alhena iniziò a correre verso l’amica, schivando i nemici che le venivano incontro, colpendoli senza fermare la sua avanzata. Lo sguardo fisso davanti a lei: doveva aiutarla, nessuno aveva sfidato un Nazgûl ed era sopravvissuto!
“Éowyn!” urlò Alhena, ormai a pochi passi dall’amica.
Ma, il suo richiamo, venne sovrastato da un’altra voce.
“Dove credi di andare, lurida elfa!”
Un possente uomo, che superava d’altezza la giovane di diversi centimetri, con la pelle dipinta di rosso e diversi anelli di metallo conficcati nella pelle del volto, si frappose tra le due amiche. A torso nudo, mostrava i forti muscoli ben scolpiti del suo torace e alcune vecchie cicatrici di guerra. Alhena si fermò, scivolando appena e facendo alzare dalla terra un po’ di polvere. Guardandolo, comprese subito che sarebbe stato arduo sconfiggerlo.
“Una donna... un’elfa sul campo di battaglia...” rise l’uomo con odio. “Adorerò penetrare e lacerante la tua carne con la mia spada...” concluse, facendo roteare l’arma davanti a lui mentre iniziava ad accorciare la distanza dalla bionda.
Alhena guardò Éowyn dietro le spalle dell’uomo; aveva appena decapitato il drago e ora stava sfidando il Nazgûl. Chiuse gli occhi e pregò i Valar che vegliassero sulla sua vita.
“Non sarò una preda tanto facile!” esclamò la principessa, volgendo l’attenzione verso il nemico.
Egli rise ancora; nei suoi anni di vita, non aveva mai visto un’elfa prima e, doveva ammettere, che l’esemplare che aveva davanti era davvero meraviglioso. Forse non l’avrebbe uccisa, forse l’avrebbe condotta nelle sue terre e l’avrebbe fatta sua... il solo pensiero lo eccitò...
“Mostrami dunque la tua forza, giovane elfa!” la sfidò, fingendo cavalleria.
Stringendo con forza la propria spada, Alhena si scagliò contro l’uomo che, prontamente, parò il colpo della giovane. La forza dello scontro tra le due armi fu talmente forte che produsse delle scintille; sorpreso, ammise con sé stesso che aveva sottovalutato la giovane elfa. Era forte... ed anche abile con la spada; riusciva a schivare i suoi attacchi, anche i migliori, con facilità… come se prevedesse le sue mosse… sorrise nuovamente: ogni futuro istante vissuto con lei ne sarebbe valsa la pena.
La risata maligna del Nazgûl, raggiunse le orecchie dell’elfa che, per un solo secondo, si distrasse dal suo avversario. Éowyn stringeva la spada con una mano, la punta della lama sfiorava l’erba... un braccio stretto al petto; era ferita! Approfittando di questa distrazione, l’uomo afferrò della terra ai suoi piedi e la gettò negli occhi di Alhena.
La giovane urlò, portando istintivamente entrambe le mani agli occhi, lasciando cadere la spada che colpì il terreno con un tonfo. L’uomo, con passo spavaldo, si avvicinò alla bionda e, prendendola per i capelli, la schiaffeggiò con forza, facendole perdere l’equilibrio e cadere.
Ignorando la situazione attorno a lui, ignorando gli spettri che stavano distruggendo le armate di Mordo, l’uomo la sovrastò e, chinandosi, le sfiorò il viso con una mano, scendendo fino a toccarle i seni.
“Adoro le gatte selvatiche...” le sussurrò nell’orecchio.
Alhena urlò ancora, divincolandosi con energia e cercando di allontanarlo da lei. L’uomo la colpì nuovamente in volto, facendole voltare il capo... aveva il sapore del sangue in bocca e sentiva che gli stava colando dalla bocca sulla guancia... teneva gli occhi chiusi, le bruciavano ancora... con le mani tastava il terreno attorno a lei, mentre le viscide mani dell’uomo toccavano con forza il suo corpo.
Piegandosi contro la giovane, le sussurrò all’orecchio: “Sei così bella... senti cosa mi fai!” concluse posando l’inguine al corpo della giovane, per farle sentire il proprio membro duro.
Alhena stava perdendo la speranza... le sue mani toccavano solo terra, arbusti spezzati e fili d’erba… nulla che potesse esserle d’aiuto… degli orchi corsero accanto a loro e, uno di loro, calciò un sasso che, rotolando si fermò contro le dita di Alhena. Il cuore le esplose nel petto quando lo sfiorò; piegando il capo, a fatica aprì gli occhi e distinse quello che sembrava una pietra... non troppo grande, ma sufficiente per afferrarla e colpire l’uomo... cercando di allungarsi il più possibile, tentò di avvicinare il sasso facendolo rotolare... doveva prenderlo… non si sarebbe arresa senza lottare!


Aragorn raggiunse il cancello, distrutto sotto il peso di un ariete abbandonato accanto all’ingresso. Senza quel cancello nulla avrebbe fermato i nemici nella loro avanzata verso il palazzo. Quella che avevano distrutto, era l’unica via di accesso che portava oltre le mura di Minas Tirith. Mentre avanzava con i compagni, abbattevano chiunque li sfidasse; si sentiva forte grazie anche al loro sostegno. Sapeva che, senza di loro, senza i suoi amici, non sarebbe mai arrivato fino a Gondor; era grato loro, gli avevano dato la forza per arrivare dov’era, sostenendolo e incoraggiandolo.
Sentiva alle sue spalle la battaglia che si stava consumando... si voltò e vide che le truppe di Mordor stavano ripiegando; scappando, senza successo, dagli spettri. Pochi coraggiosi orchi erano rimasti a combattere, ma venivano soppraffatti con facilità dai cavalieri di Rohan, guidati da Éomer.
Aragorn aveva un altro compito; seguito dai fedeli amici e dagli uomini di Gondor, doveva ripulire le strade di Minas Tirith dagli invasori che avevano superato le alte mura di pietra e che stavano avanzando indisturbati per le vie della città, uccidendo chiunque incontrassero.
Le donne ed i bambini si erano rifugiati dietro le seconda mura, costruite all’interno della cittadella. Quest’accortezza aveva salvato loro la vita... le seconde mura erano state edificate per proteggere gli indifesi in caso di attacco, qualora il grande cancello fosse stato abbattuto.
Dividendosi in gruppetti da dieci uomini, Aragorn e i suoi si separarono in modo tale da poter coprire un più vasto terreno. Correndo per le vie di Minas Tirith, gli uomini inseguirono e uccisero gli orchi che incontravano; non concedevano a nessuno di loro la pietà perché, nemmeno loro, gliel’avrebbero concessa. In meno di un’ora, avevano ripulito le strade e avevano raggiunto il secondo cancello che, con gioia, scoprirono essere ancora intatto.


La guerra era ormai vinta; Legolas, guidando gli spettri, aveva fatto ripiegare le armate di Sauron e, senza lasciar loro scampo, li avevano seguiti, raggiunti ed uccisi. Senza l’aiuto dei dannati non avrebbero mai potuto sconfiggere il nemico, di gran lunga più numeroso.
Anche quando l’ultimo orco e uomo fedele a Mordor cadde a terra, privo di vita, il principe di Bosco Atro si sentì al sicuro. Dopo secoli vissuti nella paura costante della guerra, ora l’avevano combattuta e l’avevano perfino vinta.
“C’è l’abbiamo fatta!” esclamò Éomer, tenendo il proprio cavallo per le redini, mentre si avvicinava all’elfo.
Legolas annuì sorridendo; non aveva e non trovava parole per esprimere la gioia che aveva nel petto. Volse lo sguardo al campo di battaglia e vide ciò che quella vittoria era costato loro… vide quello che avevano perso, si scontrò con la morte ed il sacrificio che si era compiuto per la pace… vide i corpi di migliaia di soldati, migliaia di vite spezzate... quelle immagini rabbuiarono il suo animo ma poi vide qualcosa che non si aspettava; scorse Alhena, stesa a terra, supina, ferma... i capelli sciolti aperti attorno al suo volto, non la vedeva chiaramente in viso...
“Alhena…” sussurrò. Un uomo del sud, un alleato di Sauron, era chinato sopra di lei... grosso almeno il doppio della bionda e possente di corporatura.
“Alhena!” la chiamò, urlando.
Un solo pensiero attraversò la mente del principe, un brivido lungo la schiena: non poteva... non poteva essere morta...!


“Cosa credevi di fare sciocca ragazzina?”
L’uomo aveva fermato il braccio di Alhena prima che potesse stringere la pietra.
“Credevi davvero di potermi colpire?”
I rumori della battaglia erano terminati e, poco distante, la bionda vide Éowyn sconfiggere il Nazgûl... non lo credeva possibile ma, da sola, Éowyn c’era riuscita dove molti valorosi guerrieri avevano fallito.
Chiuse gli occhi... era così stanca... l’uomo la colpì una terza volta, con ancora più forza.
“Credevi davvero di essere migliore di me?! Lo credevi davvero?” urlò, mentre alzava il braccio per l’ennesima volta.
Alhena chiuse gli occhi, pronta a ricevere un altro colpo che, però, non arrivò. Lentamente dischiuse gli occhi e rimase senza parole... una freccia spuntava dal petto dell’uomo; tossì e un rivolo di sangue si fece largo sul suo mento, sporcandogli il volto... con occhi pieni di sorpresa, chinò il capo ed osservò la punta metallica, sporca del proprio sangue, uscire dal suo torace. L’uomo tossì nuovamente, sporcando il volto dell’elfa di macchioline rosse. Una seconda freccia lo trapassò, leggermente più a destra rispetto alla precedente.
Si alzò, tremante dal dolore e dalla rabbia; voltandosi, cercò di capire da dove provenissero le frecce... di capire chi avesse osato colpirlo!
Alhena si alzò a sedere e, muovendosi lentamente, senza far rumore, prese dalla cintura che l’uomo portava in vita il suo pugnale. Si accorse subito che era stato derubato della propria arma, si voltò ma, con un movimento abile di polso, Alhena lo ferì alla caviglia tagliandogli i legamenti.
L’uomo urlò di dolore e, non sopportando più il proprio peso, posò per terra la gamba ferita. Il suo sguardo si incrociò con quello di Alhena che, senza battere ciglio, si alzò in piedi. Si spaventò nel vedere gli occhi impassibili dell’elfa e il suo volto sporco di sangue contratto dall’odio.
“E se, invece, ora io mi divertissi un po’ con te?” gli sussurrò lei, piegandosi in avanti e accostando il viso all’orecchio del nemico.
L’uomo, spaventato, non rispose; spostò lo sguardo dalla giovane immortale a un secondo elfo, anche lui biondo, che, con arco in mano, aveva raggiunto l’amica.
“Alhena...” disse Legolas, scuotendo il capo appena intuì le sue intenzioni. Poteva comprendere il grande odio che in quel momento provava, ma non poteva permettergli di commettere un’azione simile... avrebbe corrotto la sua anima...
“Ma sei fortunato...” continuò Alhena, gettando per terra il pugnale dell’uomo. “Non sono quel genere di persona… mi reputo migliore di te e, dunque, ti concedo una morte veloce.”
Guardò Legolas ed annuì; l’elfo comprese che la principessa non voleva sporcarsi le mani del sangue di quello schifoso... non meritava tanta attenzione... porse l’arco ad Alhena e, prendendo la propria spada, si avvicinò all’uomo. Iniziò a supplicare pietà ma, ogni sua preghiera, fu vana. La spada tagliò l’aria e, con un colpo secco, lo decapitò.


“Ti concedo ancora un’occasione...” disse Estryd. “Frodo, per qualche ragione, ha a cuore il tuo destino... vede in te quello che lui potrebbe diventare...”
Gollum sputò per terra e, carponi, continuò ad avvicinarsi all’elfa.
Estryd indietreggiò di un passo, senza perderlo di vista... sentiva i passi di Frodo alle sue spalle... camminava e, a tratti, perfino correva verso il passaggio.
“Mia sorella è stata buona con te!” esclamò l’elfa, cercando di prendere tempo. “Ti ha aiutato in passato... Alhena ti ha aiutato a fuggire dalla tua prigione...”
La creatura scosse il capo, come se volesse scacciare un pensiero.
“No!” urlò. “Tu cerchi di confonderci!”
“Affatto! Sto cercando di aiutarti! Per favore!” lo supplicò Estryd. Volontà più ferree di quella di Gollum erano state corrotte dall’Anello... meritava un’opportunità, una seconda occasione.
“Aiutarci?” ripeté.
“Si! Cerco di aiutarti...” ribadì Estryd, abbassando l’arma. “Non voglio farti del male ma devi capire che stiamo facendo la cosa giusta! Gettare l’Anello nel Monte Fato è la cosa giusta da fare!”
“Gettare l’Anello vuol dire...” Gollum prese tempo, chinando il capo. “Distruggerlo!” concluse con rabbia nella voce e, saltando verso l’elfa, urlò l’odio che provava verso quella creatura che aveva davanti e che voleva togliergli per sempre il suo Anello.
Accadde in un secondo; Estryd alzò la spada sopra la propria testa e, schivando di lato la creatura, attese che fosse al suo fianco per poi colpirlo con tutta la forza che gli restava.
La lama trafisse Gollum alle spalle, fermandosi solo quando si scontrò contro la spina dorsale… l’elfa rimase in piedi, la spada ancora conficcata nel corpo esanime della creatura… respirava con affanno e, poi, cadde a terra, stremata. Osservò il corpo di Gollum; i suoi occhi la fissavano aperti, ormai privi di vita.
Portando le mani al volto, chiuse gli occhi e, cercando di riprendere il controllo, si imponeva di respirava più lentamente… ma il cuore le batteva come un tamburo nel petto... si sfiorò il ventre, quel gesto la calmava sempre… sorrise: c’è l'aveva fatta!
Non attese che pochi secondi prima di alzarsi e seguire Frodo; doveva accertarsi che l’Anello fosse distrutto e, questa volta, per sempre.

Il passaggio scavato nella pietra del Monte Fato era antico; costruito da Sauron stesso secoli addietro quando aveva forgiato dalle sue fiamme l’Unico. Questo passaggio, a forma di arco, conduceva ad un ponte scavato nella roccia che avanzava fino al cuore della montagna. La luce, che proveniva dalla lava sotto di loro, tingeva ogni cosa di rosso e l’aria odorava di zolfo.
Estryd avanzò lentamente, il fumo era fitto e faticava a distinguere ciò che aveva davanti.
“Frodo!” urlò a gran voce, cercando di sovrastare il boato che proveniva dal cuore del Monte Fato.
Attese alcuni istanti, ma non ottenne risposta. Avanzò ancora, lentamente, guardandosi attorno con attenzione.
“Frodo!” urlò nuovamente.
Fece altri due passi e lo vide; vide una figura ferma, pochi metri davanti a lei. Doveva essere il portatore... accellerò il passo e, raggiunto lo hobbit, si inginocchiò ai suoi piedi. Lo  afferrò per le spalle e lo guardò in volto... sembrava dormire, perso nell’oscurità dei suoi pensieri… l'anello lo stava uccidendo.
L’elfa lo strattonò con forza, chiamandolo più volte per nome, ma nulla. Frodo continuava a guardare l’Anello, facendolo roteare tra le dita.
Estryd afferrò l’amico per il volto e lo alzò, incrociando il suo sguardo.
“Ascoltami amico mio... ascolta la mia voce...” disse con dolcezza. “Ti ricordi di me? Sai chi sono io?”
Frodo rimase fermo, le parole dell’elfa parevano non raggiungerlo.
“Sono Estryd e siamo amici... ricordi? Ci siamo conosciuti a Gran Burrone e abbiamo viaggiato fino ad arrivare qui... a Mordor... ricordi Sam? Aragorn, Legolas? Ricordi Boromir? Mia sorella Alhena? Mio fratello Elrohir?”
Il portatore rimase impassibile.
“Ricordi perché siamo qui?”
“L’Anello...” sussurrò Frodo con un filo di voce.
“Si! Per l’Anello!” gli fece eco l’elfa, entusiasta.
“Noi… credo che dobbiamo distruggerlo...” continuò Frodo.
“Si... siamo qui per questo!” esclamò entusiasta. “Gettalo e ogni cosa finirà! Gettalo e potremo tornare a casa... ricordi casa tua? La Contea?”
Frodo scosse il capo: “Ci ho provato... per giorni a ricordarla...”
“Getta l’Anello e ogni cosa tornerà!”
Lo hobbit chinò il capo osservando l’Anello; una voce nella sua testa, una voce remota e debole, gli sussurrava di distruggerlo... che questa era la scelta giusta... ma Lui... l’Anello non voleva... era forte... così forte che cosa poteva un piccolo hobbit contro esso?
“Frodo, distruggilo e ricorderai ogni cosa... vedrai ancora il bello nel mondo...”
Estryd guardava il portatore, gli occhi colmi di lacrime... non poteva aver rischiato la sua vita per arrivare fin lì e fallire.
“Frodo...”
Il nome del portatore suonava come una supplica.
Frodo guardò la bruna negli occhi e, lentamente, alzò un braccio, sfiorandole il viso sporco di cenere e asciugandole una lacrima. Quel contatto smosse qualcosa nel profondo dello hobbit che, stringendo l’Unico nell’altra mano, superò Estryd fino a raggiungere la fine del ponte. Si voltò e, guardando l’elfa negli occhi, allungò il braccio nella cui mano stringeva l’Anello.
“Finirà ogni cosa?” domandò, la voce colma di dolore e disperazione.
“Solo le cose brutte.” lo rincuorò Estryd, sorridendogli.
Il portatore aprì il palmo della mano ed osservò per l’ultima volta l’Anello... quel piccolo, e all’apparenza, innocuo oggetto che l’aveva privato di così tante cose... l’Unico cadde nel baratro, quasi a rallentatore... Frodo lo osservò attentamente... era finita! Era tutto davvero finito!
Estryd, correndo, raggiunse l’amico e lo abbracciò con forza. Non ci credeva, ancora non le sembrava vero! Era finita! L’Unico era stato distrutto e, con esso, anche Sauron avrebbe perso ogni potere!


La guerra era dunque finita e, sorprendentemente, i popoli liberi avevano ottenuto una vittoria schiacciante. Avevano lottato, sacrificando le loro stesse vite ed ora avevano vinto… avevano sconfitto Sauron! La vittoria, conquistata tanto faticosamente, era stata meritata.
Alhena chinò il capo, guardando il corpo dell’uomo decapitato ai suoi piedi... gli occhi spalancati che la fissavano privi di vita. Non si sentiva in colpa per la sorte da lui subita; era una persona orribile. Sorridendo si guardò attorno, parando con la mano i raggi del sole che colpivano i suoi occhi.
I campi di Pelennor, svuotati dopo la battaglia, erano irriconoscibili; i dannati erano scomparsi, avevano ottenuto la libertà e il riposo eterno. Le carcasse degli olifanti stavano bruciando e, solo le urla di mogli, madri, figli, amici interrompevano il silenzio mentre chiamavano a gran voce i nomi del loro cari.
Legolas, avvicinandosi alla bionda, le posò sulle spalle il mantello che portava. Guardandola era evidente che era ancora sconvolta; le tremavano le gambe e le mani ed il suo volto era sporco di sangue e terra... gli occhi gonfi di lacrime che scendevano lente lungo le sue guance.
“Sei ferita... dobbiamo curarti.” sussurrò, prendendola per mano.
Alhena però non si mosse, continuava a guardare le figure degli uomini e donne attorno a lei... sentiva il loro dolore, lo riusciva a comprendere.
Volse l’attenzione a Legolas e, con voce rotta, chiese: “Dove saranno Elladan? E Boromir? Aragorn? Li hai visti?”
Il biondo scosse il capo.
“Non da quando ci siamo separati ad Osgiliath... ti credevo con loro...”
“Io...”
La voce si spezzò nella gola dell’elfa.
“Vieni... andiamo a cercarli... saranno preoccupati per noi... soprattutto Elladan.”
Con dolcezza Legolas la prese in vita e, voltandosi verso Minas Tirith, iniziarono a camminare.
Un rumore alle loro spalle attirò l’attenzione di Alhena che si voltò; Éomer aveva trovato la sorella e la stava sollevando da terra. La vide muoversi e abbracciare il fratello col braccio non ferito; quell’immagine di gioia riscaldò il suo cuore.
“Grazie...” disse la bionda, fermandosi e incrociando lo sguardo dell’amico.
Legolas non rispose, carezzò il volto della principessa e, deciso a dirle la verità, sostenne il suo sguardo.
“Alhena io...”
“Come stai?” chiese l’elfa interrompendolo, quando  Éomer ed Éowyn li raggiunsero.
Il cavaliere la stava portando verso la cittadella, al loro seguito c’erano alcuni Rohirrim che, spostato il cavallo morto, avevano deposto il corpo del loro amato Re su delle assi di legno per condurlo a Minas Tirith.
Alhena raggiunse l’amica e, sottraendosi dalla presa di Legolas, carezzò il suo volto, spostandole i capelli dagli occhi. Era ferita ma, fortunatamente, non gravemente.
“Éowyn...” sussurrò Alhena.
La ragazza alzò il capo e sorrise alla bionda.
“Ce l’ho fatta...” disse senza voce.
“È debole... la sto conducendo alle Case di Guarigione...” s’intromise Éomer, procedendo verso la città.
Rimasta sola con Legolas, Alhena si lasciò cadere per terra e, sdraiandosi supina, osservò il sole e lasciò che i suoi raggi le scaldassero il viso. Il giovane principe si stese accanto a lei; era una bella giornata... la prima dopo molte.


Un boato assordante fece tremare la terra sotto i piedi di Estryd e Frodo; il Monte Fato stava urlando, la lava iniziò a muoversi sotto di loro... la montagna stava eruttando.
Afferrando lo hobbit per un braccio, l’elfa iniziò a correre verso il passaggio che li aveva condotti nel suo cuore, non aveva previsto una tale eventualità. Sentiva alle sue spalle dei crescenti rumori che venivano accompagnati da terremoti... pezzi di roccia si staccavano dalla montagna, cadendo nella lava prima di venir inghiottiti dalla stessa... videro la torre che sorreggeva il grande occhio di Sauron crollare, cedere sotto il peso della sconfitta. Mordor esisteva ancora grazie all’Unico e questo era stato distrutto.
“Estryd! Frodo!”
Fermandosi, i due si voltarono alla loro destra; videro Sam trascinare Elrohir, lo hobbit sorridente agitava un braccio per farsi vedere.
Un morso allo stomaco, fece temere il peggio ad Estryd; suo fratello era insieme a Sam, ma non si muoveva. Era stato trascinato dallo hobbit fin lì, la bruna lasciò la presa dal braccio di Frodo e corse verso di loro.
“Sta male... non riesco a curare il veleno che ha nel corpo! Deve aver raggiunto il sangue...” disse Sam, preoccupato guardando il giovane elfo.
Era pallido e tremava, aveva gli occhi lividi e respirava a fatica.
“Dobbiamo scappare!” si intromise Frodo, una volta raggiunti e accennando al Monte.
La lava strisciava verso di loro, prendendo sempre più velocità e divorando qualunque cosa incontrasse.
Guardandosi attorno, Estryd non vedeva una via di fuga; erano in trappola. Chinò il capo osservando il fratello e i due hobbit... doveva trovare una soluzione... non poteva finire così! Il viso di Boromir avanzò nella sua mente, non l’avrebbe più rivisto... non avrebbe più potuto dirgli quanto lo amava... 
“Laggiù!”  urlò Sam, indicando delle pietre abbastanza alte da poter sfuggire dalla lava.
Aiutandosi a vicenda, raggiunsero e si arrampicarono sui massi giusto in tempo per sfuggire dal pericolo imminente.
Frodo era sdraiato e stava male, l’influenza dell’anello era più grande di quello che tutti loro pensavano. Annaspava e tossiva, sembrava sul punto di vomitare ma il suo stomaco era vuoto. Estryd gli passò la borraccia che conteneva ancora qualche goccia di liquido, Frodo la bevve avido... ne aveva proprio bisogno...
“Come faremo ad andare via?” chiese Sam a bassa voce, avvicinandosi all’elfa.
“Non so. Quanto cibo avete con voi? E l’acqua? L’avete?”
Lo hobbit scosse il capo; per poter trasportare Elrohir aveva dovuto abbandonare il proprio zaino.
Estryd chiuse gli occhi, cercando di mantenere la calma... la lava, che scorreva veloce attorno a loro, illuminava a giorno Mordor. Il cielo era ancora scuro; la coltre di nuvole, che perennemente sovrastava quella terra, iniziava a diradarsi ma il fumo che fuoriusciva dalla montagna impediva comunque al sole di raggiungerli.
“Verrà qualcuno?” domandò Sam, insistente anche se nel suo cuore conosceva già la triste risposta.
“Qualcuno verrà... le armate di Sauron sono andate a Gondor per combattere... qualcuno, alla fine, verrà...” concluse senza alcun entusiasmo.
La mano di Frodo sfiorò il braccio della giovane, Estryd lo guardò.
“Ora ricordo...” sussurrò, con un gran sorriso sul volto sporco di cenere. “Ora ricordo ogni cosa... ricordo casa mia... e ricordo i colori dell’erba e il profumo dei fiori... ricordo il sapore del cibo... ricordo ogni cosa...!”
Ricambiando il sorriso dello hobbit, Estryd prese la sua mano nelle sue. Sarebbero stati insieme, loro quattro fino alla fine.


Il boato che provenì da est raggiunse Gondor, fecendo tremare la cittadella e molte miglia ancora dopo questa.
Gandalf, raggiunse correndo Aragorn fino al giardino fuori il palazzo di Minas Tirith e, entrambi, volsero lo sguardo a Mordor. Riuscivano a vedere, tra le nuvole cupe sopra quella terra, il bagliore prodotto dal Monte Fato che stava eruttando.
“Ce l’ha fatta... Frodo ha distrutto l’Anello.” disse Gandalf, commosso.
Aragorn non disse nulla, nessuno sarebbe sopravvissuto a tanta violenza...
“Se è ancora vivo devo andare...” continuò lo stregone.
Il Re annuì; non avrebbero abbandonato i loro amici a morte certa, se c’era anche solo una possibilità dovevano andare a salvarli.


Il fumo della montagna rendeva difficile respirare; il caldo era insopportabile e gli schizzi della lava che si infrangeva contro le pietre sulle quali erano saliti, ustionava la loro pelle.
Più le ore passavano, sempre più velocemente i quattro  vedevano la speranza di essere salvati svanire. Ormai erano trascorse un paio d’ore dalla distruzione dell’Unico e ancora nessuno era venuto in loro soccorso. Estryd, anche se non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, iniziava a temere che la battaglia a Gondor fosse stata persa...
“Guardate!” urlò Frodo, additando il cielo verso ovest es alzandosi in piedi. “Guardate! Laggiù!”
Estryd e Sam guardarono nella stessa direzione; l’elfa vide subito cosa stava avanzando verso di loro.  Sorrise e raggiunse il fratello poi, chinandosi verso di lui, gli sussurrò all’orecchio: “Tieni duro, Elrohir... tieni duro... ora ogni cosa andrà bene.”
Alcuni istanti dopo Sam esclamò colmo di gioia: “Sono loro! Sono loro!”
“Arrivano le aquile!”

 

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Capitolo 37
*** CAPITOLO 37 - L'AMORE NON BASTA ***


Ed ecco il penultimo capitolo!
Buona lettura e lasciate un commento ;)
 

Una leggera brezza autunnale di Gondor entrava dalla finestra spalancata e, soffiando, sfiorava il viso di Estryd, muovendole i capelli che le ricadevano come fili sulla fronte. Era sveglia già da alcuni minuti ma non aveva voglia di aprire gli occhi; il letto era così soffice e le lenzuola profumavano di pulito, credeva fosse un sogno... mosse le dita di entrambe le mani: non era un sogno... sorrise; aveva dimenticato quanto potesse essere bello riposare su un materasso e con un cuscino!
“Dorme ancora...?”
La voce familiare di sua sorella Alhena raggiunse le sue orecchie... si sentì sollevata sapendola viva... dischiuse gli occhi quel poco che bastava per intravedere le figure di altre tre persone oltre la sorella... la luce, che filtrava dalle tende, illuminava le sagome dei tre.
“Non ancora... dorme da due giorni ormai. Inizio ad essere preoccupato...”
Un balzo al cuore: Boromir!
Cercò di alzarsi a sedere, ma era ancora indolenzita e non riuscì a muoversi. Tossì, nel tentativo di attirare la loro attenzione... i quattro si voltarono, accanto a Boromir scorse i suoi fratelli, Elladan ed Elrohir... Estryd cercò di abbozzare un sorriso ma subito Boromir si gettò su di lei, abbracciandola. La lontananza era stata pesante per entrambi.
“Boromir...” sussurrò lei con il poco fiato che aveva, baciandolo.
Sentiva il suo cuore esploderle nel petto; era qui, erano di nuovo insieme e ogni cosa da quel giorno sarebbe andata per il meglio.
Incrociando lo sguardo grigio dell’uomo, Estryd sorrise colma di gioia... non riusciva a trattenere la felicità che provava in quel momento!
“Boromir io...” iniziò a dire, ma la interruppe.
“Lo so... lo so amore mio...” disse, sfiorandole il ventre. “Sono così felice!” continuò, abbracciandola nuovamente.
“Sarò padre...” sussurrò Boromir all’orecchio dell’amata, mentre si immaginava già la sua vita  insieme alla sua famiglia. Vedeva un futuro roseo davanti a sé... un figlio era ciò che aveva sempre desiderato... e poi avrebbe avuto lei; Estryd...
Dietro i due, i tre fratelli guardavano la scena. Alhena, il capo posato contro il petto di Elrohir, era felice per la sorella, non smetteva di sorridere; meritava questa gioia.
Quando Gandalf e le aquile aveva portato Frodo, Sam, Estryd ed Elrohir, era stata subito visitata dai migliori guaritori di Minas Tirith, perfino Gandalf aveva usato la propria magia nel tentativo di dar sollievo alla giovane elfa... ma lei continuava a dormire... erano stati in pena per lei per giorni. Sembrava che la bruna fosse svenuta; le fatiche del viaggio l’avevano provata al punto tale d’averla condotta a un passo dalla morte.
Boromir era stato il primo ad accorrere al suo capezzale e, quando aveva saputo che era viva e stava riposando, non si era mosso. La osservava riposare giorno e notte, mangiava al suo fianco e, le poche ore di sonno che si concedeva, le passava al suo fianco... temeva per la vita dell’elfa e di suo figlio. Controllava che continuasse a respirare, osservava il soffice lenzuolo muoversi ad ogni suo respiro.
“È stato al tuo fianco per tutto il tempo.” disse Alhena, avvicinandosi al letto, dalla parte opposta dove si trovava Boromir.
Si accomodò accanto alla sorella e le sorrise: “Ci hai fatto preoccupare.”
Estryd guardò la bionda; aveva dei graffi sul viso, ma erano già quasi guariti. Accorgendosi dove lo sguardo della sorella si era soffermato, Alhena sorrise e, scuotendo il capo, disse: “Non preoccuparti... sto bene... stiamo tutti bene... Frodo si è svegliato ieri pomeriggio, anche lui ha dormito molto... e, grazie a Sam, anche Elrohir sta bene... il veleno era più forte di quello che pensava, ma le erbe hanno fatto il loro dovere... anche Aragorn e Legolas stanno bene...”
“Domani arriverà nostro padre.” s’intromise Elladan, seguendo i passi di Alhena. “Aragorn ha rivendicato il suo trono e, tra due giorni, sarà incoronato Re di Gondor.”
Estryd guardò i fratelli, i volti amici che aveva sempre portato nel suo cuore... era andato tutto bene. Erano sopravvissuti, tutti loro. Ancora non ci credeva... aveva la testa piena di mille domande da far loro... voleva sapere com’era stata la battaglia e voleva ogni dettaglio del loro viaggio che li aveva condotti fino a Minas Tirith... le sue domande avrebbero trovato risposta ma, in quel momento, l’unica cosa che davvero le importava era Boromir e il loro bambino.
“Ti lasciamo riposare... ci vedremo più tardi... stasera sono in programma dei festeggiamenti.” esclamò Alhena, baciando la sorella sulla fronte prima di uscire dalla camera, insieme ai fratelli.

I giardini di Minas Tirith avevano mantenuto la loro bellezza, la guerra non era giunta a loro e le aiuole erano fiorite... piante di lavanda erano cresciute ricogliose, nell’aria c’era un profumo dolce.
Alhena e i suoi fratelli percorsero una via ciottolata di bianco e, passando tra i fiori e alcune piccole piantine verdi, raggiunsero Aragorn e Legolas che stavano discorrendo seduti all’ombra di un antico ulivo.
“Estryd si è svegliata....” annunciò Alhena, piena di entusiasmo, accomodandosi accanto agli amici.
Entrambi sorrisero, felici delle nuove.
“Stavamo parlando proprio di lei... la consideravamo una cosa insolita... ad ogni modo, attendiamo l’arrivo di Lady Galadriel, saremo tutti più tranquilli dopo che l’avrà visitata... sicuramente se ha un male nascosto lo saprà curare.” convenne Aragorn.
“Giungerà anche mio padre in serata.” s’intromise Legolas, guardando attentamente la bionda nel tentativo di carpire la sua reazione alla notizia. Ma, sorprendendosi, non vedi in lei alcun turbamento... continuò a guardare il cielo, persa nei suoi pensieri... Legolas desiderò conoscerli, sapere se lei lo pensava, se lei lo considerava ancora un amico... sosprirò; quando Alhena avrebbe saputo la verità riguardo la bugia da lui detta, ogni cosa sarebbe di certo cambiata tra loro... non escludeva un rifiuto totale della bionda.
“Stò valutando di partite per le Terre Immortali...”
Tutti guardarono Alhena che, sforzandosi di sorridere, continuò: “Non credo di aver ragioni per restare... o almeno non così tante come quelle che mi spingerebbero a partire... durante gli anni lontana da Gran Burrone ho sempre desiderato partire... e questi mesi, nonostante abbia trovato amici straordinari, so di lasciare tutti voi in ottime mani...”
“Ci hai riflettuto?!” domandò Legolas allarmato.
“Si. Molto, in questi mesi... quando ci siamo incrociati a Moria io stavo per recarmi ai Porti Grigi... ma non ho potuto partire... sentivo che dovevo restare... rivedere mia sorella... mi ha fatta desistere... ma ormai...”
Fece un’altra pausa e, abbassando lo sguardo per non mostrare le lacrime che inumidivano i suoi occhi, continuò: “Mi manca la mamma... voglio rivederla e sapere che ora sta bene...”
Elladan abbracciò la sorella. Lui non sarebbe partito; aveva deciso di restare a Gran Burrone e regnare al posto del padre, insieme al fratello. Elrond, già da tempo, aveva in programma di lasciare la Terra di Mezzo... il suo popolo sarebbe stato in ottime mani sotto la guida dei suoi figli e, ormai, con la disfatta di Sauron, era per lui giunto il momento di ricongiungersi all’amata.
“Mi mancherai tantissimo...” le sussurrò Elladan, era legato alla bionda; più rispetto alle altre sorelle.
“Non essere in pena per me, fratello mio. Ci rivedremo... ne sono certa!” rispose lei, con un filo di voce e le lacrime sulle guance.

Il crepuscolo tinse i cieli di un viola intenso, le nubi che per secoli avevano coperto Mordor erano svanite, lasciando all’orizzonte solo la catena montuosa di Ephel Dúath. Il palazzo di Minas Tirith era illuminato a giorno, grandi falò erano stati accesi nei giardini, disposti in fila per guidare gli ospiti verso il grande portone del palazzo.  Anche nella sala principale, dove si stava tenendo un ricco banchetto e dei balli, diverse candele erano state accese.
Mentre si stavano sistemando gli ultimi dettagli prima dell’inizio della serata, Alhena ed Estryd erano nella camera da letto di quest’ultima. La bionda spazzolava i lunghi capelli bruni della sorella poi, posando la spazzola, iniziò a intrecciarli utilizzando anche alcuni nastri verdi ricamati con perline bianche.
Alhena era taciturna e, nonostante Estryd cercasse di capire cosa turbasse la sorella, ogni suo tentativo era vano.
“Alhena...” disse, voltandosi.
I suoi capelli scivolarono tra le dita dell’elfa che, sbuffò: “Avevo quasi finito...”
“Non importa... e in ogni caso detesto le trecce...” convenne Estryd, sciogliendo anche quel poco che restava del lavoro della sorella.
“Sei preoccupata.” esclamò, guardando Alhena. “E non fingere di non esserlo perché sei trasparente ai miei occhi... cosa ti pesa sul cuore?”
La bionda scese dal letto sul quale erano sedute e, avvicinandosi allo specchio vicino ad un armadio, osservò la sua immagine. L’abito che portava le era stato donato da Aragorn per l’occasione; color crema e con dettagli vermigli.
Estryd raggiunse la sorella e, fermandosi alle sue spalle, l'abbracciò.
“Guardaci... siamo così diverse da quando tutto ha avuto inizio...” fece una pausa e, ponendosi tra la sorella minore e lo specchio, la prese per le spalle e continuò. “Parlami Alhena! Parlami come quando eravamo bambine!”
“Ho visto papà... a Dunclivo... non mi ha voluto vedere...”
“Avrai capito male...” tentò di consolarla.
“Credimi, ho capito benissimo.” ribatté. “Resterò fino alla nascita di tuo figlio e poi partirò...”
“Partire? Per... per dove?”
La voce di Estryd era tremante... in cuor suo aveva già capito verso quale meta sarebbe partita Alhena...
“Non piangere, ti prego!” esclamò la bionda, abbracciando la sorella. “Ci sarò sempre per te... ma qui... se restassi, io non saprei cosa fare... dove vivere...”
“Potresti restare qui! A Minas Tirith con me!”
“Con te e Boromir e il bambino? Non penso proprio... e poi... mi manca nostra madre...”
Estryd sorrise; comprendeva la sorella e la sua scelta... aprì le braccia e, avvicinandosi a lei, la strinse. “Non sarà un addio, questo... verrò anch’io un giorno....”  
Mentre insieme percorrevano gli ampi corridoi del palazzo per raggiungere la festa, le due sorelle discorrevano tranquille circa l’incoronazione che si sarebbe tenuta l’indomani mattina. Alhena temeva l’incontro col padre, avrebbe voluto parlargli per chiedere scusa delle sue azioni passate... voleva che ogni questione, prima di partire, fosse risolta...
“Vedrai che chiarirete... nostro padre non è duro come sembra... a Dunclivo non era pronto a vederti... tu non sai quanto ha sofferto dopo la tua fuga... quando ti ha bandita da Gran Burrone avrà parlato nell’impeto della collera...  ti ama e...” 
Accadde in quel momento, la voce di Legolas giunse fino alle orecchie di Alhena; distinse chiaramente la parola padre... l’elfa si fermò, paralizzata...
“Alhena?”
Estryd la guardava senza comprendere la sua reazione. Si fermò anche lei e, incrociando il suo sguardo, chiese: “Alhena... ma che succede?”
Alhena era pallida e, camminando all’indietro, si allontanava dalla bruna.
“Alhena...” la chiamò ancora Estryd.
“Scusami... non posso...” disse lei, si voltò, intenzionata a ripercorrere i suoi passi per tornare nella sua stanza, ma la sorella la prese per un braccio.
“Spiegami!”
Chinando il capo, Alhena cercava di trattenere il fiume di parole che le stava salendo in gola...
“Legolas che gioia rivederti!”
La sua voce, la sua voce profonda e moderata... la sua voce come musica... la sua voce che riusciva a riempire una stanza... così magnetica...
“Alhena spiegami!”
“Non credo di riuscire a vederlo.”
“Vederlo?” le fece eco Estryd. “Vedere chi? Thranduil?”
“Scusami... devo andare!” concluse la bionda, liberandosi dalla presa della sorella e scappando.
Il cuore le ballava nel petto... non era pronta a rivederlo, non riusciva... non ancora!
Le parole di Legolas le risuonavano nelle orecchie; una ripicca. Lei era stato questo per lui... solo una ripicca, mentre Thranduil per Alhena era stato ed era tutto.
Si chiuse la porta della sua stanza alle spalle e chiuse le finestre dalle quali giungeva la musica  dei festeggiamenti. Tirò le tende e, accendendo una candela, si avvicinò allo specchio. Si reputava una sciocca a comportarsi così... avrebbe dovuto ignorare il dolore, ma la ferita era ancora troppo recente.
“Ammettilo...” sussurrò al suo riflesso. “Parti anche per non doverlo più vedere...”

“Buona sera!” salutò Estryd il Re di Bosco Atro, mentre lo raggiungeva a testa alta ma con mille dubbi nella testa.
Nonostante cercasse di valutare le ragioni di Alhena, ancora non capiva cosa l’aveva spinta a scappare... era dispiaciuta per questo, per come la loro confidenza fosse sfumata col passare del tempo... avrebbe tanto voluto parlarle, ma la conosceva anche troppo bene e sapeva che vani sarebbero stati i suoi tentativi.
Thranduil e Legolas si voltarono, il principe sorrise all’amica.
“Sono felice di vederti in piedi!” esclamò, raggiungendola. “Boromir? Dov’è? Vorrei presentarlo a mio padre! Pochi sono gli uomini valorosi come lui!”
Estryd non rispose e guardò Thranduil. Alhena era fuggita quando aveva udito la sua voce, che fosse lui la causa di tutto?
“Estryd ho saputo grandi cose su di te... hai dimostrato ampiamente il tuo coraggio.” si intromise il Re, cambiando discorso.
“Ho solo fatto la mia parte, sostenendo Frodo.”
“Sei molto modesta, mia cara... l’opposto di tua sorella...” fece una pausa. “Non ho ancora avuto il piacere di vederla. A lungo ho atteso per poter parlare ancora con lei.”
L’elfa valutò le parole di Thranduil, la sconcertava questo atteggiamento bizzarro del re. Sapeva che Alhena aveva vissuto alcuni anni nella sua terra, ma lei aveva taciuto ogni volta che aveva tentato di ottenere maggiori informazioni. Abbozzò un timido sorriso e rispose: “Credo verrà più tardi...”
Un’ombra attraversò lo sguardo di Thranduil.
“Me ne dispiaccio. Spero di vederla...” concluse, porgendo il braccio all’elfa per condurla verso la sala del ricevimento.
Legolas rimase indietro, osservò il padre ed Estryd camminare lungo il corridoio e sparire oltre una grande porta. Aveva visto Alhena, pochi istanti prima dell’arrivo di Estryd: si era fermata vicino alla balconata che si apriva sull’atrio del palazzo. Si era fermata appena aveva visto suo padre. Aveva visto il bellissimo sorriso della bionda svanire; l’aveva vista stravolta, umiliata perfino.
Chinò il capo, guardando la punta dei suoi stivali; aveva commesso un grave errore e le conseguenze le stava osservando con i propri occhi...
Aragorn uscì dal salone e rimase sorpreso nel vedere Legolas a pochi passi da lui... era assorto nei suoi pensieri; un peso gravava sul suo cuore. Osservava l’amico già da alcuni secondi quando si decise a raggiungerlo; qualcosa lo turbava e aveva il sospetto che riguardasse Alhena. Aragorn aveva visto con i propri occhi il bacio tra loro, prima dello scontro con i mannari e, dopo quell’unico bacio, più nulla. Lei, inizialmente, aveva schivato l’elfo per poi comportarsi civilmente nei suoi confronti, quasi come fossero fratelli... al Re bastava davvero poco per capire dove fosse il cuore di Legolas.
“La stai aspettando?” domandò Aragorn a pochi passi da lui.
Legolas alzò il capo: “Alcune attese sono inutili.” fece una pausa e continuò: “Credo... anzi sono certo di aver commesso un grave errore. Come posso porvi rimedio? Perché davanti all’amore si diventa sciocchi?”
Aragorn sorrise.
“Credo che tu lo sappia già.”
L’elfo sospirò; sapeva cosa doveva fare, ma gli mancava il coraggio. Quel passo avrebbe spinto Alhena tra le braccia di suo padre... e lui l’avrebbe persa per sempre.

Il suo riflesso nello specchio era sbiadito per le lacrime che inumidivano i suoi occhi; Alhena era confusa. Aveva considerato l’eventualità di vedere Thranduil, ma non si era mai davvero preoccupata di cosa avrebbe provato quando quel momento sarebbe arrivato. E ora lui era lì, a Minas Tirith, e lei era una codarda nascosta dall’oscurità della sua camera...
Prese fiato e, con un soffio, spense la candela che teneva in mano, gettando la stanza nel buio. Posò la mano libera contro la superficie fredda dello specchio e, posando il capo su essa prese una decisione: non sarebbe scappata, mai più!
 
La serata era fresca e il viaggio verso Minas Tirith era stato lungo; ma finalmente erano giunti a destinazione. Arwen fremeva nel rivedere Aragorn, il suo unico amore... aveva viaggiato senza sosta accompagnata dal padre e da alcuni elfi di Gran Burrone. Al loro arrivo, nonostante fosse previsto per la mattina seguente, vennero avvisati tutti.
Aragorn corse incontro alla delegazione e rimase senza parole quando la vide; osservò Arwen camminare verso di lui... era bellissima, vestita di verde e con pietre preziose tra i lunghi capelli castani. Sorrideva; lei sorrideva come non aveva mai fatto prima... le lacrime agli occhi, per la gioia di rivederlo finalmente!
“Arwen!” sussurrò lui, prendendola per le mani. L’emozione tradiva entrambi... si guardavano sorridenti, senza riuscire a muoversi... si guardavano con amore e speranza per il loro futuro, speranza per la prima volta da quando si erano innamorati.
Elrond osservava la gioia della figlia maggiore, era stato uno sciocco quando aveva tentato di separarli... si amavano e nulla avrebbe potuto dividerli...
Risalirono la scalinata che conduceva nel palazzo; ancora mano nella mano, ancora sorridenti... l’ampio salone era illuminato da grandi fuochi che, illuminando la corona dell’elfa, creavano un effetto magnetico... Aragorn non riusciva a distogliere lo sguardo; ancora non ci credeva!
Stavano per arrivare al salone dove si stava festeggiando, quando Arwen si fermò.
“Alhena...” disse senza fiato.
Era passato più di un secolo dal loro addio e vederla a Minas Tirith era una sorpresa. L’elfa si portò entrambe le mani al volto per l’emozione...
Dalla scalinata anche la bionda si fermò... Arwen! Scese gli ultimi gradini correndo... “Arwen!” la chiamò.
Si abbracciarono con forza, la bionda pianse... “Mi sei mancata così tanto!” sussurrò.
“Alhena...” ripeté lei, senza sciogliere l’abbraccio.
Alle loro spalle, Aragorn guardava le due sorelle... sapeva quanto erano legate, Arwen era stata una seconda mamma per Alhena. Guardò Elrond al suo fianco; l’espressione sul suo viso era indecifrabile.
“Sono giorni di grande gioia...” gli disse Aragorn, attento a non farsi sentire da altri.
Elrond annuì... per anni era stato in collera con la figlia minore e vederla dopo tanto tempo lo aveva fatto riflettere. Si era comportato male, aveva peccato come padre... lei aveva sofferto la mancanza della madre quanto lui l’assenza dell’amata moglie, invece di sostenersi a vicenda l’aveva accusata e allontanata. Celebrìan si sarebbe vergognata di lui.
“Alhena...”
Era da tanto che non pronunciava quel nome e faceva uno strano effetto sentirlo... la giovane guardò il padre, lo sguardo duro, pronta al peggio.
“Vorrei parlarti.” continuò lui con voce dolce.
Arwen annuì nel tentativo di incoraggiare la sorella a seguire il genitore.
Aragorn raggiunse Arwen e insieme si diressero verso il salone, seguiti dalla delegazione di Gran Burrone.
Rimasti soli, Alhena era in imbarazzo; non sapeva cosa dire e, soprattutto, non aveva il coraggio di guardare Elrond negli occhi.
Entrambi tacquero fino a quando anche l’ultimo elfo entrò nella sala dei festeggiamenti; una volta rimasti soli Alhena sentì Elrond sospirare.
Alzò lo sguardo e vide che il tempo non era stato clemente con lui; i segni della sofferenza erano visibili sul suo volto.
“Mi dispiace.” disse lui, sostenendo lo sguardo della figlia.
Quelle parole fecero tremare Alhena che mai si sarebbe aspettata sentirle.
“Mi dispiace per tutto... non ho giustificazioni per quello che ti ho fatto... ho mancato come padre e ho peccato d’ira... tua madre... Celebrìan non avrebbe mai voluto che accadesse questo... ho deluso te e ho deluso lei...”
Gli occhi color ghiaccio di Alhena si sciolsero.
“È stata colpa mia... nulla di tutto ciò sarebbe accaduto se io...”
Elrond scosse il capo: “Non accusarti di alcunché.” concluse abbracciando la figlia.
“Perdonami se puoi...” sussurrò il signore di Gran Burrone.
“Non c’è nulla da perdonare... ho atteso questo  giorno così a lungo!”
Baciò la fronte della bionda e, sorridendole, disse: “Sei uguale a tua madre... hai nello spirito la forza del mare e la dolcezza dell’alba... vieni, figlia mia, raggiungiamo i nostri amici e festeggiamo... questo giorno non è solo per la vittoria, ma anche per noi... un padre e una figlia che si sono ritrovati.”

Estryd stava ballando stretta a Boromir, i loro sogni si stavano realizzando... avevano parlato molto quel giorno e, anche mentre danzavano, continuavano a parlare... sentire la voce di Boromir ormai non era più un miraggio; entrambi avevano visto l’oscurità ed alla fine si erano ritrovati, uscendone vincitori.
Avevano deciso di restare a vivere a Minas Tirith fino alla nascita del bambino, poi si sarebbero recati ai Porti Grigi... Boromir aveva capito quanto importante fosse per Estryd partire insieme alla sua famiglia; voleva ritrovarsi con la madre e non voleva separarsi dalla sorella appena ritrovata... Boromir la capiva ed aveva accettato di seguirla. Sarebbe stato il primo uomo a varcare i confini delle Terre Immortali.
“Sei sempre stata con me... ti ho portata nel mio cuore ogni giorno...” le sussurrò, avvicinando il suo volto all’orecchio di lei.
L’elfa sorrise, anche lui era stato sempre nel suo. Posò il capo al suo petto e chiuse gli occhi, lasciandosi ipnotizzare dai battiti del cuore dell’uomo che amava.
Ogni cosa attorno a loro era scomparsa; la musica, le persone, le risa e il parlare... esistevano solo loro due in quella sala...
“Estryd!”
La voce di Arwen irruppe nei sogni ad occhi aperti dei due e, voltandosi, videro l’elfa farsi largo tra le persone in festa verso di loro.
“Ma... cosa... cosa ci fai qui? Ti aspettavamo non prima di domani!” esclamò Estryd col sorriso sulle labbra.
“Non potevo attendere oltre!” rispose quando furono faccia a faccia. “Sei stata imprudente a partire quel giorno...” disse fingendosi arrabbiata. “Oh, sono così felice di vederti...” il tono della voce diminuì, quando il suo sguardo celeste cadde sul ventre della sorella. “Ma sei... Estryd! Sei in attesa?” domandò senza fiato.
Estryd sorrise, sfiorando il proprio bambino... quel giorno lo aveva sentito per la prima volta muoversi... aveva pianto per ore per l’emozione. Arwen guardò Boromir, alle spalle della sorella; era chiaramente in imbarazzo... l’elfa abbozzò un sorriso dolce e, dopo aver abbracciato Estryd, si rivolse all’uomo: “Non sentirti in imbarazzo... questa è una notizia felice! La terza che ricevo oggi!”
“La terza?” chiese Estryd.
“Aragorn ed il ci siamo fidanzati... e nostro padre ha rivisto Alhena... si sono parlati e ora...” concluse guardando verso l’ingresso del salone dove stavano avanzando i due elfi, Alhena a braccetto del padre.
L’ingresso del signore di Gran Burrone non passò inosservato nemmeno da Thranduil. I suoi occhi si illuminarono vedendo Alhena; era bella oltre ogni parola... aveva quasi dimenticato quanto fosse bella... Legolas gli stava parlando, ma le sue parole si sfumarono alle orecchie del padre. Il giovane principe si voltò e capì subito chi aveva attirato la sua attenzione.
“Scusa...” sussurrò, mentre superava il figlio per raggiungere l’amico e Alhena; lo sguardo però fisso su di lei.
Anche la bionda notò subito Thranduil avanzare e rimase senza fiato... era proprio lui e stava camminando verso di loro!
“Amico mio!” esclamò Elrond quando li raggiunse.
“Che gioia vederti! Ho saputo che hai avuto un bel da farsi per proteggere i confini di Lothlorien insieme ai galadhrim...”
“Sì, ma eravamo superiori numericamente... la maggior parte delle forze di Sauron si erano concentrate a Gondor.”
Thranduil sorrise e, volgendo finalmente lo sguardo verso Alhena, la salutò con un cenno del capo. Aveva paura di essere tradito dalle proprie emozioni...
“Ho saputo che per un lungo periodo mia figlia è stata tua ospite...” disse Elrond, posando una mano sulla spalla dell’amico. “Te ne sono grato... sarò sempre tuo debitore per aver badato a lei in quegli anni.”
Il re di Bosco Atro scosse leggermente la testa: “L’ho fatto con piacere... la compagnia di tua figlia ha rallegrato le mie giornate altrimenti grigie e vuote... è stata educata bene e avevo bisogno di uno stimolo per uscire dal mio torpore...”
Elrond guardò Thranduil, senza capire le sue parole... si voltò verso la figlia, Alhena stava guardando da tutt’altra parte.
“Potrei osare nel chiedere a vostra figlia un ballo?” continuò l’elfo, porgendo la mano dalle lunghe dita fini verso la fanciulla.
Alhena, senza attendere la risposta di Elrond e guardandolo ipnotizzata, posò la sua mano su quella di Thranduil; era calda e morbida...
Chinando il capo ad Elrond, l’elfo e Alhena camminarono, fianco a fianco, verso il centro della sala dove molte altre coppie stavano già danzando, guidati dalla melodia di arpe e flauti.
Thranduil si fermò e, volgendosi verso Alhena, la tirò contro di lui; riusciva a vedere l’imbarazzo dipinto sul volto della ragazza, le sue gote arrossate.
“Adoravi danzare quando hai vissuto nel mio regno...” sussurrò Thranduil, chinandosi verso l’elfa. “Durante i balli eri l’ultima che lasciava la sala... danzavi anche da sola, anche quando la musica era terminata...”
“Mi hai spiata?”
“Non avevo scelta... non avevo occhi che per te.”
Iniziarono a volteggiare, girando su sé stessi: Alhena non riusciva a guardarlo negli occhi... se fosse successo, ne sarebbe stata stregata.
“Questo abito ti dona... risalta la tua carnagione...” disse il re.
La principessa ignorò le sue parole, non riusciva a sopportare le sue lusinghe... le parole di Legolas risuonavano ancora nelle sue orecchie...
“Ero in pena per te... quando sei fuggita da...”
“Basta!” esclamò Alhena fermandosi e, allontanandosi dall’elfo, abbandonò il salone.

“È colpa mia.”
Elrond, voltandosi, vide Legolas fermo alla sua destra. Entrambi guardavano Alhena allontanarsi dalla sala e scappare verso i giardini del palazzo.
“Cosa intendi con queste parole? Che colpa hai?”
“La mia colpa è questo... osservare l’elfa che amo innamorarsi di un altro elfo... la mia colpa è aver distrutto ogni loro speranza... aver intralciato il loro amore...”
Elrond spostò lo sguardo verso Thranduil che, fermo in mezzo alla sala, osservava affranto Alhena scappare da lui... fuggirgli ancora una volta. Ora iniziava a comprendere alcune cose... comprese l’incontro con Thranduil avvenuto alcuni mesi prima, gli aveva parlato di un’elfa che aveva fatto cadere le sue difese, alla quale aveva mostrato il mostro e, alla fine, era scappata... comprese in quel momento che quell’elfa di cui parlava era sua figlia, era Alhena.
“Lei ha deciso di andarsene da lui... anche adesso lo schiva per colpa delle mie parole, delle mie bugie... sono stato egoista... volevo solo che lei amasse me...”
“Non dovresti dirle a me queste parole...” convenne Elrond. “Ma a lei... e a tuo padre...”
Legolas non rispose; meditò sulle parole di Elrond. Aveva ragione però era difficile... aveva mentito e poi taciuto ed ora...
Thranduil li raggiunse e, fingendo indifferenza, osservò le coppie danzare.
Un movimento attirò la loro attenzione; Aragorn, stringendo la mano di Arwen, si erano avvicinati al trono del Re e, salito il grandino che li rialzava da tutti, chiamò l’attenzione dei suoi invitati ed amici.
“Amici miei!” esordì. “Vi ringrazio per essere venuti fin qui... per anni ho dubitato di me stesso, chi mi conosceva sa che ho vagato per la Terra di Mezzo con il cuore pieno di domande e privo di speranza... ho cercato di capire chi io fossi e se ero davvero degno del mio nome... sono stato cresciuto da mia madre che ha cercato di proteggermi come meglio poteva... lei era certa che avrei avuto un grande futuro... in me vedeva l’uomo che avrebbe potuto rivendicare il trono di Gondor...” disse accennando al trono alle sue spalle. “Ma le sue parole e le sue certezze erano fumo nelle mie orecchie... non mi davano nulla, solo altre domande e dubbi... ma poi un giorno conobbi l’amore!” si fermò un secondo, guardando Arwen. “Da quel giorno ho saputo chi ero e ho trovato in me il coraggio di crescere e di trovare le risposte alle mie domande! Se oggi sono qui è perché ho continuato a credere nell’amore... di credere in me e lei... nel nostro futuro! Sono grato ad ognuno di voi per avermi accettato come vostro Re e giuro sul mio amore per questa incantevole elfa che farò ogni cosa in mio potere per essere un sovrano giusto, saggio e leale verso voi, abitanti di Gondor!”
Un applauso si alzò tra i presenti; molto acclamavano Aragorn urlando a gran voce il suo nome.
“Perdonatemi...” disse Thranduil a Elrond e Legolas, si voltò e, seguendo i passi di Alhena, uscì dal salone.
Le parole di Aragorn l’avevano colpito e, anche se era dura ammetterlo, aveva ragione. Lui ed Arwen avevano perseverato e superato diversi ostacoli, ma ora stavano vivendo il loro amore... bisogna avere coraggio per amare una persona e l’elfo capì che lui non aveva dimostrato i suoi sentimenti e le sue reali intenzioni... le aveva detto d’amarla ma le parole, si rese conto, non bastano.
“Padre...” Estryd si avvicinò ad Elrond, accompagnata da Boromir. Era nervosa e stava per dare a suo padre la notizia che mai si sarebbe aspettato.
“Estryd... Boromir...” disse, chinando leggermente il capo verso il guerriero in segno di rispetto. “Sono stato in ansia per te, figlia mia. Ho saputo delle tue azioni e sono orgoglioso di te.”
L’elfa sorrise e, voltando la testa, guardò Boromir.
“Padre, io devo confessarti una cosa...” iniziò, ma si interruppe. Era agitata e continuava a spostare lo sguardo da Elrond a Boromir.
“Non ho intenzione di rimproverarti nulla. Ho già sbagliato una volta quando ho ostacolato l’unione tra Arwen ed Aragorn... sono felice che anche te, figlia mia, abbia conosciuto l’amore.” concluse sorridendo ad entrambi. “Inoltre porti in grembo il vostro futuro... non potrei essere più felice!”
La bruna rimase senza parole, sorrise colma di gioia e, d’istinto, abbracciò il padre; non si sarebbe mai aspettata la sua approvazione...
“Boromir sono felice che entrerai a far parte della nostra famiglia.” disse Elrond quando l’abbraccio dalla figlia si sciolse. “Ed eccomi qui... sono un padre orgoglioso di tutte e tre le sue figlie... un padre che guarda ognuna di voi e vede che, nonostante gli sbagli da me commessi, ha saputo crescervi bene rendendovi tre donne uniche.” concluse spostando lo sguardo da Estryd, ad Arwen seduta sul trono accanto al Re e, infine, guardando Legolas.
Il giovane principe comprese, se davvero voleva fare la cosa giusta non sarebbe dovuto restare fermo con le mani in mano. Scusa che avrebbe parlato ad Alhena il giorno seguente.

Nei giardini c’erano troppe persone e Alhena aveva bisogno di restare sola; camminò per il palazzo fino a raggiungere una terrazza posteriore coperta da un gazebo costruito intagliando la pietra viva. In quel posto remoto trovò la solitudine di cui aveva bisogno, si posò con la schiena ad una colonna e, accomodandosi a terra, osservò il panorama... era stata una sciocca a innamorarsi di Thranduil, sapeva che era un errore ma aveva permesso al suo cuore di legarsi a lui... era stata ingannata dalle sue parole e dal suo carisma.
Chiuse gli occhi, ripercorrendo nella mente i momenti che aveva vissuto con lui.
Il canto di alcuni uccellini distolse l’elfa dai suoi pensieri e, aprendo gli occhi, notò che l’alba stava giungendo. Si alzò; sorpresa che il tempo fosse passato così velocemente, si sistemò la gonna dell’abito alla quale si erano attaccate delle foglie secche cadute da due piccole piante ornamentali.
“Alhena...”
Il sangue le si gelò nelle vene; non poteva essere lui... rimase ferma, un braccio sospeso mezz’aria mentre stava per afferrare l’ultima foglia.
“Alhena...” ripeté. “Ti prego guardami.”
Obbedendo alla sua supplica, la giovane alzò la testa e lo vide. Era così bello...
“Ti ho cercata ovunque, ma dovevo saperlo che ti avrei trovata qui... adori la solitudine e i panorami...” continuò Thranduil, avvicinandosi a lei. “Volevo vederti per parlare... avevo bisogno di parlarti...”
“Ho deciso di partire per le Terre Immortali.” disse lei, interrompendolo. “Ho deciso che questa è la cosa migliore per me.”
“Forse scappi da qualcosa.”
“Non scappo.”
“Sei già scappata in passato.”
“Avevo le mie ragioni.”
Scese il silenzio... per Alhena era difficile fingere indifferenza, avrebbe voluto corrergli incontro e baciarlo... avrebbe voluto sentire ancora il suo sapore sulle sue labbra...
“Aragorn ha tenuto un bel discorso... ha parlato dell’amore...”
“L’amore...” sospiro lei. “L’amore a volte da solo non basta... lui e mia sorella hanno lottato per stare insieme... hanno dimostrato di possedere una grande forza...”
“Amare una persona a volte dovrebbe semplicemente bastare...”
Alhena scosse il capo.
“Purtroppo l’amore da solo non basta... bisogna crederci... entrambi devono crederci e, a volte, si hanno delle delusioni tali da perdere la fiducia nell’altra persona...”
“La fiducia...” sospirò Thranduil. “È soggettiva, la fiducia. Alcuni commettono errori senza nemmeno rendersene conto...”
“Alcuni errori non si possono fare involontariamente.” esclamò arrabbiata, alzando il tono della voce.
“Potrei crederci io... potrei crederci io per entrambi!”
“Non funziona così...” sussurrò Alhena, cercava di trattenere le lacrime. Avrebbe voluto dar retta al suo cuore, ma non riusciva... non riusciva a fidarsi di lui. L’aveva ingannata già una volta facendole credere che era speciale...
Restarono in silenzio per alcuni minuti; entrambi assorti nei loro pensieri...
Thranduil la guardava e fremeva dalla voglia di dirle che era vero! Che lui l’amava e che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di averla al suo fianco! Lei lo rendeva una persona migliore!
“Alhena, io ti amo. E vorrei tanto che questo bastasse per entrambi.”
Quelle parole fecero tremare la giovane elfa... ed eccole qui; le parole che avrebbero sciolto il suo cuore... alzò lo sguardo incrociando il suo, la guardava così intensamente che dovette distogliere lo sguardo... un mare di parole le stavano salendo per la gola, si morsicò il labbro inferiore per frenarle.
Respirò a pieni polmoni e si voltò dandogli le spalle.
“Cosa ti ho fatto per meritarmi questo?” domandò Thranduil.
Due grandi lacrime caddero dagli occhi di Alhena; non poteva sopportare oltre. Si girò nuovamente, ormai non le importava che lui la vedesse in lavrime.
“Non importa... partirò non appena Estryd darà alla luce suo figlio...” poi, avvicinandosi a lui si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò sulla guancia.... lo sfiorò per quella che sarebbe stata l’ultima volta. “Addio.”
Senza attendere una risposta o reazione, Alhena superò Thranduil e, correndo, fuggì dalla terrazza, da quella situazione insostenibile... fuggì dall’unico elfo che abbia mai amato.
Il Re di Bosco Atro si voltò, non poteva lasciarla andare! Entrò nel palazzo ma lei non c’era più. Chinò il capo, si sentiva sconfitto... non capiva perché l’aveva rifiutato... l’amava e questo sarebbe dovuto bastare! Stava per andarsene quando notò un nastro rosso, uno dei nastri che Alhena aveva nei capelli... lo osservò per alcuni secondi prima di chinarsi e raccoglierlo... lo avvicinò al volto, annusandolo per sentire il suo profumo... nient’altro gli era rimasto di Alhena... solo i ricordi e quel nastro...

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Capitolo 38
*** CAPITOLO 38 - DESTINAZIONI ***


Ed eccoci arrivati all'ultimo capitolo!
Spero vi piaccia! Presto inizierò una nuova ff... a presto e intanto buona lettura!



Erano già tradirsi alcuni mesi dall’incoronazione di Aragorn e, subito dopo l’evento che aveva portato nella capitale delegazioni e sovrani da tutta la Terra di Mezzo, Gondor si era svuotata. La ricostruzione della cittadella fu lunga ma, grazie al contributo di artigiani elfici, venne riportata alla sua antica bellezza. Al posto delle macerie vennero edificate nuove mura di pietra bianca e le case distrutte vennero sistemate imitando lo stile delle costruzioni elfiche di Gran Burrone.
Elrond si trattenne a Gondor ancora alcune settimane dopo l’incoronazione e il matrimonio tra il nuovo re e Arwen, voleva recuperare il tempo perso con Alhena. Ma, quando il giorno della sua partenza per Gran Burrone giunse, accompagnato dai figli maschi che, come deciso, avrebbero preso le redini del reame, si sentiva più sereno. La separazione dalle figlie fu comunque molto dura, ma era grato di saperle tutte e tre felici.
Quella mattina, Alhena si sveglio all’alba e raggiunse il padre nelle sue stanze... aveva sognato per anni un riavvicinamento con lui e ora non riusciva a separarsene. Accompagnò Elrond a piedi fino alle mura di Minas Tirith; anche pochi minuti erano importanti per entrambi. Mentre camminavano, fianco a fianco, Elrond guardava la giovane figlia al suo fianco; era chiaro che, anche per la principessa, separarsi nuovamente dal genitore era doloroso. In quel poco tempo avevano parlato molto e Elrond aveva potuto conoscere meglio Alhena... aveva superato molte prove ed era orgoglioso di quanto forte fosse diventata anche senza l’aiuto della famiglia. Aveva gioito quando la bionda gli rivelò la sua decisione di partire per le Terre Immortali... avrebbero vissuto insieme come una famiglia...
Mentre scendevamo lungo le vie della capitale, Alhena però era stranamente taciturna. La sera prima Legolas e Thranduil erano partiti per Bosco Atro e non aveva ricevuto, da nessuno dei due, i loro saluti; non si aspettava molto dal Re, ma Legolas era sua amico... questo suo silenzio l’aveva turbata... non riusciva a capire il suo comportamento...
“Cosa affligge il tuo cuore?” le domandò Elrond, quando gli fu chiaro che qualcosa turbava la figlia.
“Nulla...” rispose lei.
“Non sono stato un buon padre, ma riconosco quando  hai delle preoccupazioni.” fece una breve pausa e, fermandosi, affrontò la bionda. “Parlamene!”
Alhena guardò il padre, non era facile ammettere che soffriva perché aveva il cuore spezzato... e, ancor meno semplice, era spiegargli a causa di chi si era spezzato.
“Ho il cuore che sanguina.” sussurrò lei.
“Hai perso l’elfo che amavi...” disse Elrond, restando sul vago. Non voleva esporsi troppo, voleva che fosse lei a parlargli di Thranduil.
Alhena lo guardò sorpresa che avesse intuito le cause delle sue lacrime: “Si. Hai indovinato.”
Il signore di Gran Burrone stava per dire altro, ma Alhena lo interruppe.
“Non importa più, ormai. Non ero e non sono tuttora certa del suo amore e quindi non voglio rischiare di ferirmi più avanti, quando potrei essere ancora più innamorata di lui... tra meno di un anno in ogni modo partiremo per le Terre Immortali... che senso ha amarlo?”
“C’è sempre un’ottima ragione per amare una persona...”
“Si... ma dev’essere quella giusta...”
Ormai i cancelli erano a pochi metri da loro; Alhena si fermò, guardò Elrond negli occhi, e lo abbracciò,  sussurrandogli all’orecchio: “Starò bene... il mio cuore guarirà...” prese fiato ed aggiunse. “A presto, papà...”
“A presto, piccola mia. Ti voglio bene.”


Nei mesi successivi vennero istituiti dei tribunali nei quali furono processati i seguaci di Sauron catturati. I pochi rimasti vivi dopo la grande guerra, si nascondevano come ratti; cercavano di vivere una vita tranquilla e nell’ombra, lontani dalla gente della Terra di Mezzo. Celavano la loro presenza nei cuori delle foreste e sulle montagne più alte; ma i loro crimini non furono dimenticati, uno ad uno vennero stanati dagli eserciti dei popoli liberi per poi essere giustiziati. “Nessuna pietà” era il nuovo motto comune.
L’autunno diede spazio all’inverno, le foglie caddero e dal cielo cadde la neve... i fiumi ghiacciarono e il panorama si tinse di bianco... altri giorni passarono e la neve iniziò lentamente a sciogliersi sotto il calore del sole dando la possibilità ai primi fiori di crescere, dei miracoli che annunciavamo l’arrivo della nuova stagione.
Con il tempo, molte ferite di rimarginarono ed i giorni di pace parevano ormai arrivati.
Minas Tirith fu ricostruita in meno di un anno e, il giorno del solstizio di primavera, Estryd diede alla luce un maschio forte e con profondi occhi grigi. La nuova nascita fu festeggiata per giorni; Elrond, Elrohir ed Elladan raggiunsero la capitale appena appresero la notizia e, con loro, arrivarono anche Lady Galadriel e dire Celeborn. I novelli genitori non potevano essere più orgogliosi del loro bambino; durante la cerimonia del nome, decisero di chiamare il piccolo Estél perché lui era la loro speranza.
Alhena cercava di rimanere accanto al piccolo il più possibile, vedeva la sua nascita come un nuovo inizio, come se dalla guerra fosse avvenuto infine qualcosa di bello.
Trascorsero ancora alcuni mesi prima che si iniziasse a parlare della partenza verso le Terre Immortali; era metà estate quando, mentre giocavano con il piccolo neo giardini di Minas Tirith, Estryd guardò Alhena e disse: “Ormai il tempo è giunto.”
La bionda guardò la sorella, comprese subito cosa voleva dire.
“Boromir ed io abbiamo deciso che prima dell’arrivo dell’autunno partiremo... nostro padre ci ha scritto che per fine agosto una nave partirà e noi prenderemo quella.”
“Non è troppo presto?” domandò Alhena, mentre guardava il nipote giocare. “Estél ha solo pochi mesi...”
“Presto inizierà ad avere dei ricordi... non vogliamo che soffra per la mancanza di questa terra. Era giusto che nascesse qui... ma ora nulla ci trattiene.”
Alhena comprendeva, ma vedere la prospettiva della partenza così imminente la sconcertava... avrebbe tanto voluto rivedere ancora una volta Thranduil. Ogni notte lo sognava e ogni notte si svegliava piangendo... lo amava davvero molto e, nonostante i mesi passati e i suoi innumerevoli tentativi di dimenticare tutto, non riusciva... non avrebbe mai allontanato il suo ricordo dal suo cuore perché se ne era innamorata così intensamente come solo un elfo può amare. Sospirò e si ripeté mentalmente che la decisione presa era quella giusta; ne avrebbe sofferto per sempre ma ormai non poteva più tornare indietro.
“Credo che anche a te farà bene...” disse Estryd.
“Cosa intendi?”
“Restare qui ti sta logorando... partire potrebbe essere per te una rinascita.”
Alhena chiuse gli occhi, non aveva parlato della sua delusione con nessuno... ma sapeva di essere trasparente agli occhi della sorella maggiore.
“Hai ragione... restare non mi fa bene...”
Approfittando della situazione, Alhena non aveva mai parlato del suo dolore, Estryd continuò:
“Non mi hai mai detto cosa è accaduto durante quegli anni... qualcosa ti ha cambiata, non riconosco più la mia sorellina!”
Estryd ricordava bene quanto fosse distrutta la sorella dopo la festa di fidanzamento tra Aragorn ed Arwen; qualcosa aveva turbato il suo spirito. Per giorni era rimasta chiusa nella sua stanza senza mangiare, le tende sempre tirate per impedire ai raggi del sole di illuminare qualunque cosa... aveva cercato di farle visita, pensando ad un malanno passeggero ma lei si rifiutava di parlare, di vederla.
“Ho celato anche troppo a lungo una cosa... o meglio, ho celato i miei sentimenti verso una persona... pensavo che lo scorrere dei giorni avrebbe aiutato il mio cuore a guarire... quanto mi sbagliavo...” sospirò infine Alhena.
“Che sentimenti? Di che sentimenti parli? Per chi?” domandò, curiosa, Estryd. “Per Legolas?”
La bionda scosse il capo: “Per Thranduil...”
Pronunciare il suo nome era stato doloroso per Alhena, chinò il capo per celare le lacrime che inumidivano i suoi occhi.
“Thranduil?” le fece eco Estryd, sorpresa.
Non si sarebbe mai aspettata che la sorella potesse innamorarsi di un elfo come Thranduil; la bruna non lo considerava una brutta persona, anzi era un grande re, ma i suoi atteggiamenti e le sue stranezze... era sorpresa... avrebbe visto meglio la sorella al fianco di Legolas...
“Non dirlo come se fosse una cosa orribile... è diverso da come appare a chi non lo conosce bene...”
“Scusami... ma sono senza parole... vi siete conosciuti quando hai vissuto nel suo regno?”
“Sì... all’inizio non ci sopportavamo... lui era così freddo e superbo... avevamo sempre una scusa per litigare... una notte mi ha schiaffeggiata...”
Estryd dischiuse le labbra e trattenne il fiato: “Perché? E tu? Cosa hai fatto?”
“Avevo nutrito di nascosto un suo prigioniero... lo maltrattava per carpirne informazioni... era disumano! Gliel’ho detto... aggiungendo anche che il vero mostro era lui!”
Alhena rise al ricordo... non aveva mai visto un elfo così adirato... era così chiaro che non riusciva a credere che qualcuno osasse tenergli testa...
“Ma poi si scusò e da quel giorno ogni cosa è cambiata... ha iniziato ad essere gentile con me e, anche se non penso lui lo sapesse, mi ero accorta che iniziava a seguire i miei movimenti... cercava di creare l’occasione per vedermi...”
“Probabilmente davvero mai una persona gli ha tenuto testa!” rise Estryd. “Sarà stato questo a farlo innamorare di te...”
“No!” esclamò Alhena, il sorriso abbandonò il suo volto. “Lui non mi ha mai amata. In me avrà visto una sfida... per lui sono solo stata un gioco...”
La bruna scosse il capo; non credeva alle parole che stava udendo.
“E ne sei sicura? Sei sicura di questo o lo pensi soltanto?”
“Ne sono certa. Legolas me l’ha confermato...” sospirò. “Non importa... sono stata una sciocca a credere che avesse dimenticato sua moglie... anche se è morta lui continua ad amarla e tutto quello che fa: il vizio del vino, i suoi atteggiamenti superficiali... è per celare il suo dolore... è stata colpa mia alla fine; non avrei dovuto innamorarmi di lui!”
“Alhena tu non hai colpa alcuna! Avrà fatto qualcosa per indurti a credere nei suoi sentimenti...”
“Mi ha baciata.” rispose. “Due volte.”
“Si è preso gioco di te... e ora mi spiego molte cose...”
Estryd abbracciò la sorella, con forza... avrebbe fatto qualunque cosa per curare il suo cuore spezzato.
“Partiremo presto e sono certa che starai meglio! Hai me... hai nostro padre e i nostri fratelli e Arwen... ti sosterremo...”
 
 
Come il giorno della partenza di Celebrìan per le Terre Immortali, anche quella mattina di fine agosto il cielo era grigio e, dal mare, le nuvole minacciavano tempesta. L’aria era fredda e pungente; soffiava violenta muovendo i vessilli di Gran Burrone affrancati alla nave. Poche persone erano presenti e tutte indossavano abiti scuri e lunghi manti con cappucci tirati sul volto.
I Porti Grigi erano cambiati con il passare degli anni; il lento scivolare del tempo aveva rovinato le magnifiche edificazioni e l’edera si era arrampicata lungo le pareti, raggiungendo i tetti.
Due navi erano in partenza quel giorno, due imponenti vascelli edificati dagli elfi appositamente per quell’ultimo viaggio dei loro passeggeri. Si era tenuto un concilio pochi mesi prima nelle grandi capitali elfiche, durante il quale si aveva dato scelta a tutti gli elfi se partire o restare. La decisione fu ardua per chiunque, la Terra di Mezzo era comunque nel cuore degli Immortali... era casa loro, dove erano nati e cresciuti... per altri invece la scelta fu anche troppo facile... molte erano state le perdite durante la guerra e, nonostante la vittoria, era per loro difficile dimenticare che la terra sulla quale camminavano era stata macchiata del sangue di mariti, padri o figli...
In fila, gli elfi salivano sulle imbarcazioni, portando con loro delle borse contenti gli abiti e gli oggetti di valore. Sarebbe stato un viaggio lungo un giorno, dal quale non avrebbero più fatto ritorno.
Sul molo c’era silenzio, nessuno parlava; la decisione di partire arrecava un peso nei cuori di tutti loro.
Estryd stringeva il suo bambino tra le braccia, lo cullava nel tentativo di fermare i suoi singhiozzi. Aveva da poco compiuto sette mesi di vita e, in quel poco tempo, l’elfa aveva capito cosa significava l’amore che si può provare per un figlio. Boromir, al suo fianco, teneva in mano le borse per il viaggio; il giorno prima si era congedato dal fratello, era stato un addio difficile... non si sarebbero più rivisti. In quell’occasione Faramir gli aveva presentato Éowyn, rivelandogli anche che si sarebbero sposati a breve.
Boromir, avvicinandosi all’amata, le sussurrò: “Inizio a salire a bordo...”
Prese Estél dalle braccia della moglie e, con l’altra, afferrò i loro bagagli.
Alhena, accanto alla sorella, guardava verso l’accesso al molo... attendevano l’arrivo del padre e dei fratelli. Un lontano rumore di zoccoli, preannunciò il loro avvicinarsi.
“Avrai una sorpresa...” disse Estryd, sorridendo alla sorella.
Alhena la guardò: “Una sorpresa!?”
“Sì, l’altra settimana ho ricevuto un messaggio... ne sarai felice!”
Volsero lo sguardo verso la via e videro avanzare verso di loro il padre a cavallo, seguito da Elladan ed Elrohir... poi, dopo alcuni elfi a piedi, Alhena scorse il volto famigliare di Legolas.
“Perché è qui?”
“Ha deciso di partire... forse per seguirti...” ipotizzò Estryd.
“Avevi ragione: sono davvero sorpresa... pensavo restasse a Bosco Atro con...” s’interruppe prima di pronunciare il suo nome.
“Spero che questa sia per te una bella sorpresa...”
“Senz’altro lo è!” esclamò sorridendo Alhena.
Mentre gli altri elfi di Gran Burrone superavano le principesse, chinando il capo, i quattro si fermarono davanti alle due elfe.
Alhena stringeva una grande borsa e, affidandola ad un elfo del seguito di Gran Burrone, raggiunse i fratelli, abbracciando prima Elladan e poi Elrhoir.
“Dov’è Estél?” chiese Elrond.
“Boromir e lui sono già saliti sulla barca.... ti sorprenderai nel vederlo! È cresciuto in questi mesi...” disse sorridendo ad Estryd, abbracciando il padre.
“Si... il tempo vola sempre quando sono così piccoli. Ricordo l’infanzia di ognuno di voi, figli miei... sono stati giorni felici!”
Elrond posò una mano sulla spalla della figlia maggiore e, disse: “Ti aspetto a bordo della nave... il vento è favorevole per la nostra partenza.”
“Mi mancherete...” sussurrò Elladan, abbracciando prima Estryd e poi nuovamente Alhena. “I Valar sapranno guidarvi a destinazione, vegliando sul vostro viaggio.”
Guardando i fratelli, Alhena ed Estryd a stento riuscivano a trattenere le lacrime. Il giorno della partenza era alla fine giunto e l’addio sarebbe stato difficile per tutti loro.
“Addio sorella mia.” disse Elrohir, stringendo Estryd. “Abbi cura di te!”
“Anche tu!” rispose lei, mentre le lacrime rigavano il suo volto. “Ti aspetteremo... aspetteremo entrambi! Un giorno, sono certa, che ci ritroveremo!”
Alhena annuì; Elladan le stava accanto e le stringeva la mano nella sua.
“Siamo legati...” disse Elrohir. “Questo sarà per sempre!”
Legolas, rimasto in disparte per lasciare agli amici tempo di congedarsi dalle sorelle, si avvicinò a loro e, salutando Estryd, rimase fermo a guardare Alhena. Nei mesi trascorsi lontani era diventata, se possibile, ancora più bella.
“Legolas non sapevo che saresti partito con noi!” esclamò Alhena, sorridendogli.
“Si, la mia è stata una decisione sofferta ma l’ho presa col cuore.”
Mentre i gemelli salutavano Lady Galadriel e sire Celeborn, Estryd iniziò a parlare con Legolas.
Alhena si voltò e camminò fino a raggiungere il parapetto sul mare; sapeva che era la scelta migliore, partire, ma era comunque difficile... una parte di lei bramava restare, ma non aveva più forza. Respirò a fondo e, chiudendo gli occhi, alzò di poco il collo verso il cielo. L’aria le si bloccava in gola. Sapeva di meritare il meglio ma, non per questo, era facile.
Voltò il capo e osservò la Terra di Mezzo; il lungo manto nero calato sul volto e gli occhi arrossati per le troppe lacrime versate.
Allungando la mano destra, carezzò la superficie fredda e ruvida della pietra.
“Sei proprio sicura, sorella?”
Estryd, ferma accanto a lei, la osservava; annuì.
Per mesi Alhena aveva pensato attentamente alle varie possibilità che aveva e, questa, era la scelta migliore. Per lei e per la sua felicità. Soffriva nell’abbandonare la terra che per i secoli aveva tanto amato; era casa sua, lei era nata su quella terra e separarsene era straziante.
Strazio. Che strana parola, ogni giorno Alhena aveva provato solo un incessante vuoto nel cuore. La decisione di lasciare Thranduil aveva privato la bionda di ogni desiderio di restare. Thranduil era diventato la sua casa, il suo amore, il suo mondo… perderlo, aveva significato  perdere ogni cosa.
Continuando a guardare Estryd, Alhena ormai era sicura. L’unica scelta che potesse prendere per avere la speranza di una vita migliore era questa: partire e lasciare sulle sponde della Terra di Mezzo il suo dolore.
“Sì. Sono sicura.” rispose infine. “Nulla mi trattiene in questo mondo.” respirò a fondo e, con maggior convinzione, disse: “Per me non c’è niente qui… in questo mondo… in queste terre…” concluse.
“Devi esserne certa. Se parti non tornerai più indietro...”
“Che scelta ho?” domandò Alhena guardando la sorella con la disperazione nel cuore.
Le lacrime inumidirono gli occhi di Alhena; pensare al suo amore perduto le avrebbe procurato per sempre un dolore atroce che mai sarebbe passato. Ogni cosa glielo ricordava, tutto.
Estryd sorrise timidamente, comprendeva i desideri della sorella. L’abbracciò cercando di infondergli forza.
“Ora è meglio salire a bordo o temo di non aver più la forza di partire…”
Estryd annuì e prendendo la mano della sorella, iniziarono a camminare verso le due barche.
“Non farlo... non partire.” s’intromise Legolas, avvicinandosi alle ragazze e baciando Alhena sulla guancia. “Non sei ancora pronta per le Terre Immortali.”
“Tu credi? Esatamente cosa mi trattiene qui?” chiese lei irritata, guardando Legolas negli occhi. “Sei sparito e non sai quanto io sia stata male in questi mesi! Cosa ne sai te?”
Alhena era arrabbiata ma, come ogni volta, quando parlava con Legolas, sembrava che lui le leggesse dentro; come se la conoscesse meglio di chiunque altro e, anche questa volta, l’elfo aveva ragione. Si stupiva di essere l’unico a vederlo, l’unico a sapere.
“Molte cose possono trattenerti ancora qui. Ma a volte ne basta solo una, di ragione.”
“Non penso di avere ragioni per restare. Non ne vedo nemmeno una.” concluse fissando l’amico negli occhi.
“Le stesse ragioni che mi hanno spinto a partire, sono le stesse che dovrebbero convincerti a restare.”
“Legolas, davvero io non comprendo.”
Afferrando la bionda per un braccio,  si allontanarono dalla folla di gente. Poi, prendendo tutto il coraggio che aveva, le sussurrò: “L’amore. L’amore è l’unico motivo che spinge le persone a fare qualcosa.”
Alhena avvampò.
“L’amore.... sai non credo di avere amore qui...”
“Ma tu hai amato qualcuno e credo che tu continui ad amarlo tutt’ora...”
“Parli senza sapere quello che dici.” lo ammonì Alhena.
“Hai ascoltato le mie parole mesi fa... ma devi sapere che alcune parole sono ingannevoli... ho parlato per egoismo... ti  sono amico, anzi penso di provare dei sentimenti per te che vanno oltre l’amicizia... quando mi hai baciato ho capito cosa volevo! Volevo te!” Legolas prese fiato e continuò: “Vorrei poterti avere al mio fianco, oltre il mare… ma ciò che il tuo cuore desidera non è nelle Terre Immortali, non sono io... ciò che brami lo trovi qui. In questo mondo.”
Alhena dischiuse le labbra per rispondere, ma il principe di Bosco Atro anticipò la bionda: “In me, hai sempre visto una persona migliore di quella che realmente sono.”
“Basta! Non sai quello che dici…” disse Alhena, irritata.
“Credimi ti sono stato amico per molto tempo e so quello che dico.” Poi, prendendo le mani di Alhena tra le sue, si avvicinò a lei. “Ti ho mentito: lui ti ama... ti ama sinceramente... ti ama follemente... lui ti ama così tanto che è disposto a perderti pur di vederti felice...”
“Ma tu... tu mi hai detto...”
Legolas la interruppe: “So quello che ti ho detto. Ho parlato senza considerare le conseguenze... ma ora le vedo... le ho viste... ho visto il vuoto che hai lasciato nella sua vita...”
Alhena rimase senza parole, il cuore iniziava a batterle più forte nel petto.
“Fammi un favore…” disse Legolas.
La bionda alzò gli occhi al cielo, sembrava esasperata.
“Per favore, ascoltami. So che non sono degno della tua fiducia, ti ho mentito e me ne dispiaccio... ti ho portato solo dolore in questi mesi... ma per favore, chiudi gli occhi...” continuò.
Alhena annuì, incrociando lo sguardo dell’elfo.
“Chiudi gli occhi e pensa a dove vorresti essere adesso. Pensa a un posto che possa renderti felice… a un posto che puoi chiamare casa… dove potresti vivere per sempre…”
Obbedì, dapprima vide casa sua. Gran Burrone. Adorava la sua terra natia ma, poi, accadde qualcosa che non aveva previsto. Le sue narici vennero invase dall’odore di muschio ed erba. L’immagine di Gran Burrone svanì e i suoi occhi furono accecati dalla bellezza delle stelle che brillavano tra le fronde degli alberi, sopra di lei nel cielo... vide i suoi occhi ed il suo profilo fiero...
“Ora apri gli occhi.” aggiunse Legolas. “Dove sei?”
 
Con forza, Alhena incitava il cavallo ad andare veloce, sempre più veloce. Non poteva credere di essere stata così cieca per tutto quel tempo. E lei? Aveva creduto che fosse una finzione, un capriccio per lui… o, forse, aveva solo preferito non vedere l’ovvio e accettare le parole di Legolas.
La notte sopraggiunse lentamente; spinse il sole a cadere dietro le alte montagne che separavano il confine tra Moria e Lothlorien. Era stanca, ma non si fermò. Doveva proseguire.
Solo verso il tardo pomeriggio del giorno seguente, Alhena frenò la lunga cavalcata del suo destriero. Smontò con eleganza e, carezzando la liscia criniera candida, sussurrò all’orecchio del fedele compagno di viaggio: “Riposa… hai fatto più di quello che avresti dovuto…”
Con passo deciso, la bionda entrò nella foresta e percorse emozionata le vie che aveva imparato a conoscere, nonostante le insidie che erano in agguato.
Tenendo la veste sollevata da terra, Alhena raggiunse le grandi e possenti mura che proteggevano il reame di Bosco Atro. Il cuore della principessa fece un sussulto nel suo petto: era arrivata! Finalmente era arrivata!
Avanzò, camminando attorno alle mura della città e, raggiunto l’ingresso secondario che Legolas le aveva mostrato anni prima, varcò i confini del regno. Invisibile agli occhi delle guardie che sorvegliavano le vie del palazzo, raggiunse la sala del trono. Era certa che l’avrebbe trovato lì. Se lo immaginò seduto sul suo trono, con quell’aria annoiata che lo rendeva così irresistibile ai suoi occhi.
Il cuore le pulsava frenetico nel petto, sarebbe stata una grande emozione rivederlo. Posò una mano all’altezza del cuore e respirò a fondo, sussurrando a se stessa: “Mantieni la calma! Respira e sta calma!”
E poi accadde; udì la sua voce. Posata e tranquilla, eppure così seducente.
“… quindi, alla luce della lettera che mio figlio mi ha lasciato prima di partire e con la sua rinuncia definitiva di salire sul trono, succedendomi, non …”
Alhena posò le mani sulla grande porta di legno intagliata e, con forza, la aprì.
“…vedo alternative. Rimarrò nella mia terra. Prendi appunti: ho intenzione di bonificare le mie terre definitivamente. Ho sentito che quelle orride creature si aggirano ancora nei miei confini e…”
Quel rumore inaspettato fece calare il silenzio. I consiglieri e il Re di Bosco Atro guardarono l’uscio incrociando gli occhi di ghiaccio di Alhena, figlia minore di Elrond di Gran Burrone.
I consiglieri si alzarono e chinarono il capo, in segno di rispetto; conoscevano bene la giovane principessa, grazie al suo soggiorno nella loro terra.
“Alhena…” sussurrò Thranduil, guardandola. Era una visione meravigliosa per il sovrano. Sorrise; era incantevole, nonostante fosse spettinata, stanca e sporca di polvere e terra.
“Dobbiamo parlare… io devo parlarti.” lo interruppe lei, avvicinandosi al Re e ignorando i presenti.
Alhena non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi occhi color del cielo estivo; in quel momento comprese, chiaro come era non mai in vita sua, che per lei esisteva solo lui. Era esistito lui, sempre e solo lui. Thranduil.
Il Re si alzò, sentiva le gambe leggere; era un sogno o Alhena era davvero davanti a lui? Chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, per essere certo che si trattasse della realtà.
“Miei signori, volete concederci un istante?” domandò senza distogliere lo sguardo da Alhena.
I consiglieri si  congedarono, chiudendo la porta alle loro spalle.
Rimasti soli, Alhena lo raggiunse… Thranduil riusciva a sentire il battito accelerato del cuore della fanciulla… inspirò il suo profumo e, quando furono a pochi centimetri, afferrò una ciocca dei suoi biondi capelli e la fece rigirare tra le sue dita, annusando estasiato il suo profumo. No, non stava sognando. Era tutto vero. Lei era lì.
Uno davanti all’altra, Alhena carezzò il volto perfetto del sovrano. Con delicatezza, sfiorò la pelle di Thranduil, passando accanto agli occhi e scendendo fino alle sue labbra perfette, piegate in un sorriso.
Sorrise anche lei.
“Perché sei qui? Dovevi partire...”
L’elfo stava per parlare, ma lei lo zittì, posando due dita sulle sue labbra.
“Ero spaventata.” sussurrò. “Ero terrorizzata quando mi hai baciato. Non me lo aspettavo. Non sapevo cosa dire e sono fuggita. Sono sempre fuggita da te... ma ora so cosa voglio. Io voglio te! Mi sono innamorata di te dalla prima volta che ti ho visto... non mi interessa cosa celi al mondo, tu sei perfetto qualunque volto decidi di mostrare!”
Morsicandosi il labbro inferiore, Alhena continuò a guardare Thranduil. Entrambi non smettevano di sorridere.
“Ho negato per troppo tempo i miei sentimenti.” continuò lei. “Thranduil, ti amo anch’io.”

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