Il Ritorno del Sovrano delle Tenebre

di violaserena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO.

Erano passati millenni, secoli, anni: il mondo era cambiato, così come la gente che lo abitava.
Ma vi era un luogo in cui era rimasto tutto com’era.
Quel luogo non si trova in un altro universo, galassia o pianeta. È proprio qui, a Torino, in mezzo a noi. Solo che nessuno ci ha mai fatto caso, nonostante sia esattamente davanti a noi.
Lì ci siamo stati tutti, dal prima all’ultimo, tuttavia non ne serbiamo memoria o almeno non coscientemente. Difatti, durante la notte, nei nostri sogni ricompaiono alcune immagini di quel posto meraviglioso, anche se noi crediamo che sia tutto frutto della nostra fantasia.
Forse serbavano un ricordo maggiore Lorenzo De Medici, autore del componimento poetico “Il trionfo di Bacco”, Antonio Vivaldi, compositore de “Le quattro stagioni”, James Matthew Barrie, il creatore di “Peter Pan”, John Ronald Reuel Tolkien, autore de “Lo Hobbit” e “Il Signore degli Anelli” e tutti i miti greci e latini.
In tutte le loro opere è presente qualcosa che rimanda al luogo di cui vi sto parlando.
Molti di coloro che vi sono stati non hanno fatto ritorno, altri, pur essendo tornati, hanno perduto la memoria dimenticando così quello che hanno visto e vissuto.
Quella che sto per raccontarvi è la vicenda di tre ragazzi, Giovanni, Federico e Giulio, e di una ragazza, Sonia, che inaspettatamente troveranno l’entrata per questo mondo e… daranno inizio alla nostra storia. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

Era una calda giornata di giugno. L’università era finita da qualche giorno e Giovanni si apprestava ad andare al Parco del Valentino per fare una partita di calcio.
Giovanni aveva i capelli castano chiaro, gli occhi color nocciola, era abbastanza alto e magro. Era spensierato, allegro, testardo.
Dopo essersi preparato, uscì di casa e si diresse in Piazza Solferino dove avrebbe dovuto incontrare i suoi amici. Mentre camminava si levò una leggera brezza e, per un singolo istante, gli sembrò di vedere un puntino luminoso all’orizzonte. Si fermò, ma non vedendo più nulla continuò per la sua strada.
«Ho vinto» disse una ragazza che si trovava davanti alla fontana angelica, fontana costituita da quattro gruppi di statue che si richiamavano alle quattro stagioni. Giovanni aveva letto da qualche parte che le due statue maschili rappresentavano i giganti Boaz e Jaquin, i sostenitori delle colonne d'Ercole, il luogo dopo il quale iniziava l'infinito. Boaz indicava il primo grado dell'iniziazione che il neofita doveva compiere nel suo lungo cammino. Mentre Jaquin rappresentava la perfezione, la conoscenza. Ed essa era rappresentata dall'acqua che usciva dalle otri che le due statue avevano in mano. Quindi la fontana metteva in evidenza la trasformazione interiore che l'iniziato doveva compiere per raggiungere la vera conoscenza in modo tale da aspirare alla perfezione.
«Hai avuto fortuna Sonia. Anzi, scommetto che sei appena arrivata!» disse Giovanni.
«Potrebbe essere così, ma potrebbe non esserlo. Tu non puoi esserne sicuro».
Sonia era una ragazza allegra dai capelli scuri, occhi grandi e marroni. Era leggermente più bassa di Giovanni e degli altri suoi amici del gruppo. Era puntigliosa e cercava di fare tutto per il meglio. Il suo unico difetto era arrivare in ritardo agli appuntamenti o almeno così pensavano tutti.
Difatti Sonia arrivava apposta dopo tutti gli altri per vedere chi si presentava e se, malauguratamente, c’erano più persone che non le piacevano non si presentava.
Negli ultimi tempi, comunque, arrivava sempre puntuale perché aveva promesso, per far piacere a Federico, che non si sarebbe più fatta aspettare.
«Vedo che ci siamo tutti!» disse Giulio, arrivando in quel momento con Federico.
«Ma gli altri non vengono?» chiese Sonia.
«Si, ma ci aspettano direttamente al Valentino, per cui muoviamoci» rispose Giovanni.
Giulio era un ragazzo affascinante, alto, biondo e gli occhi azzurri. Tutte le ragazze della scuola e non, si erano prese una cotta per lui. Era estroverso, simpatico, ma voleva sempre aver ragione, anche quando aveva torto. E, nonostante ciò, riusciva sempre a far prevalere il suo punto di vista. I Greci lo avrebbero definito un “sofista”.
Federico invece aveva i capelli castani, gli occhi marroni-verdi. Era riservato, intelligente, comprensivo, gentile. Tutti adoravano la sua personalità e tutti gli volevano bene. Era un vero è proprio tesoro, per questo Sonia lo chiamava “tesorino”.
Si levò una leggera brezza e Giovanni vide di nuovo un puntino luminoso. Anche i suoi amici se ne accorsero e rimasero a guardarlo affascinati.
«Che cos’è?» chiese Giulio.
«Forse è una lucciola» ipotizzò Sonia.
«Impossibile!» affermò Federico.
All’improvviso, così com’era apparsa, la luce svanì tra le due statue della fontana.
«Avete visto anche voi o me lo sono sognato che c’è stato un bagliore tra le statue quando la luce è scomparsa?» disse esterrefatto Giovanni.
«No, c’è stato davvero. Diamo un’occhiata più da vicino!» propose Sonia.
I ragazzi si avvicinarono, ma non videro nulla. Fecero il giro della fontana, ma non notarono nulla di strano. Quando stavano per andarsene si formò nuovamente un luccichio vicino alle statue. I giovani, attratti da esso, vi si diressero contro e, senza rendersene conto, portarono un braccio in avanti per poterlo toccare. Con loro sorpresa notarono che il braccio scompariva all’interno della luce. Si guardarono l’un l’altro e decisero di oltrepassare, con tutto il corpo, quello strato luminoso: qualcosa, non sapevano nemmeno loro cosa, li attraeva e li spingeva ad avanzare.
D’un tratto Piazza Solferino svanì ed essi si trovarono a percorrere un corridoio illuminato. Lungo le pareti erano appesi alcuni quadri che rappresentavano dai più svariati e fantastici personaggi: elfi, nani, fate, pirati, uomini e donne… Ammirati, non si resero conto di essere giunti dinanzi ad una porta.
«Che facciamo? La apriamo?» domandò Giulio.
«Visto che siamo arrivati fin qui dobbiamo. Voglio assolutamente vedere cosa c’è oltre!» esclamò ansiosa Sonia.
«Fede, tu che dici?» domandò Giovanni.
«Non so se sia un bene aprirla, però sono curioso anch’io di vedere cosa c’è al di là. Tanto possiamo sempre tornare indietro! ».
Detto questo Federico aprì la porta.
I ragazzi si trovarono di fronte qualcosa che avevano visto solo nei film o letto nei libri.
C’era un bosco, un bellissimo bosco, in cui nani, folletti, gnomi, elfi, uomini andavano avanti e indietro trasportando acqua, legna, cibo.
Quando si accorsero di loro, tutti si fermarono ad osservarli.
Interruppe il silenzio un nano che esclamò: «Che mi cada un martello in testa se quelli non giungono da oltre la porta!».
«Ma che ci fanno qui? Era da parecchio che non arrivava più nessuno» disse uno gnomo.
«Già, l’ultimo è stato John» asserì un uomo.
«Vi state rendendo conto che quegli esseri parlano?» affermò sconvolta Sonia «Non è che stiamo sognando? Datemi un pizzicotto! Ahia! Ok, siamo nella realtà: non ci posso credere!».
«Calma ragazzina, non c’è bisogno di agitarsi in questo modo! E poi noi non siamo “esseri”, io sono un nano e quelli lì pure, mentre loro sono…».
«Sisi, abbiamo capito! Sonia voleva solo esprimere il suo stupore. Non capita tutti i giorni di vedere un nano, un elfo o altro!» precisò Giovanni.
«Posso immaginarlo» asserì un giovane elfo dai lunghi capelli biondi, cui una parte delle ciocche era stata raccolta all’indietro in una piccola treccia, e gli occhi azzurri che fino a quel momento li aveva osservati in silenzio.
«Io sono Brandir di Bosco Verde, lui è mio fratello Curunìr con la sua compagna Calimon di Valle Azzurra, mentre il nano che vi ha parlato è Bossolo figlio di Bornolo, loro sono Ricciolo e Regolo figli di Pungolo, gli gnomi della Roccia Gerbo  e Glim e dell’Arcobaleno Bonchi e Coco, i folletti Asdrubaleo, Ria, Serena e Alessio, gli uomini Fabrizio, Lorenzo, Alessandro, Roberto, Caterina, Clelia e Veronica del clan dei Fortibraccia».
«Non so voi, ma io non credo che ricorderò mai tutti i loro nomi!» sussurrò Giulio.
«Sono d’accordo con te» disse Federico.
«È un piacere conoscervi. Io sono Giovanni, mentre questi sono i miei amici Giulio, Federico e Sonia».
«Se posso chiederlo, dove siamo? Fino a poco fa credevo che un posto come questo esistesse solo nei libri o nei film!» esclamò Sonia.
«Che domande fai, sei qui!» disse il folletto che si chiamava Asdrubaleo.
«Grazie per l’informazione. Senza di te non ci sarei arrivata!».
«È un piacere per me aver soddisfatto la tua curiosità!».
Sonia si stava innervosendo, non aveva mai avuto molta pazienza. Notandolo, Brandir disse che si trovavano nella Terra dell’Infinito. Essa era situata a metà tra il nostro mondo e la galassia delle Luci Blu: qui il tempo scorreva più lentamente rispetto al nostro pianeta Azzurro. Spiegò ai giovani che sulla Terra vi erano quattro porte che collegavano alla Terra dell’Infinito, una delle quali si trovava proprio a Torino, presso la fontana angelica di Piazza Solferino. Ognuna di esse si apriva solo in un preciso periodo dell’anno.
«Come mai la porta si è spalancata proprio adesso?» chiese Federico.
«Questo lo sa solo il Grande Mago. Dovete rivolgervi a lui per saperlo» affermò Fabrizio.
«Se volete posso accompagnarvi» si offerse Brandir.
«Perfetto! Portaci da lui allora! Voglio proprio sapere perché siamo finiti qui» esclamò Giulio. «Così poi possiamo tornarcene nel nostro mondo e fare la nostra partita di calcio. Gli altri ci staranno sicuramente aspettando!».
Giovanni notò lo sguardo, allo stesso tempo cupo e mesto, di quegli esseri fantastici e cominciò a temere che, forse, non se ne sarebbero potuti andare tanto presto.
Mentre seguivano l’elfo e Bossolo, che aveva deciso di accompagnarli anche lui dal Grande Mago, il giovane dai capelli castano chiaro sentì uno strano discorso degli gnomi Gerbo e Glim: «Secondo te sono giunti qui a causa SUA? Può essersi aperta la porta, dopo tanto tempo, per SUA opera?».
Non riuscì a sentire la risposta e non capì nemmeno il senso di quelle domande, ma una strana sensazione lo invase: era timore quello che provava. Tuttavia, timore per cosa?


 

Angolo autrice.
Ciao a tutti!
Io sono Violaserena e questa è la prima storia in assoluto che pubblico! Il "fantasy" è uno dei miei generi preferiti, per questo motivo ho deciso di scrivere un racconto di questo tipo!
So che questo capitolo non è il massimo, ma mi serviva per introdurre alcuni personaggi e, in generale, la storia.
Se avete voglia lasciate una recensione per farmi sapere cosa ne pensate, se vi piace o meno! :)
Che altro dire?
Ci vediamo al prossimo capitolo! xD

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

I quattro giovani, l’elfo ed il nano erano giunti di fronte ad un imponente palazzo in pietra. Esso si trovava in mezzo alla foresta ed era circondato da strani alberi che sembravano aver vita propria. Numerose finestre, insieme alle guglie ed ai merli, caratterizzavano la facciata. Sul lato destro vi era una scala a chiocciola che univa il palazzo ad una torre.
Brandir e Bossolo si avvicinarono al portone. L’elfo estrasse un flauto e incominciò a suonare una triste melodia. Con stupore dei giovani, la porta si aprì ed essi poterono entrare.
«Come hai fatto?» chiese Giovanni.
«È tutto merito di un incantesimo del Grande Mago: ogni razza può accedere solo se conosce il modo per sbloccarlo. Gli elfi devono suonare il flauto o l’arpa, gli uomini intonare una canzone, i folletti danzare, gli gnomi mostrare una pepita d’oro ed i nani una pietra preziosa. Ovviamente, prima che qualcuno di voi me lo chieda, serve una melodia, un canto, una danza od una pietra specifica per poter entrare. Solo pochi sono informati di ciò» rispose Brandir.
«E tu come fai a saperlo?» domandò circospetta Sonia.
L’elfo la guardò un momento e poi, sorridendo, affermò che ne era a conoscenza perché suo padre era amico e consigliere del re Amdir di Bosco Verde e, dal momento che egli aveva bisogno di svolgere alcune ricerche nella biblioteca del Grande Mago, era stato informato del modo in cui potervi accedere. Poi aggiunse: «Non fate parola a nessuno di quello che vi ho detto».
L’elfo ed il nano cominciarono a salire le scale a chiocciola seguiti dai quattro ragazzi.
L’interno del palazzo era meno sontuoso di quanto si aspettassero. Alcuni quadri erano appesi lungo le pareti e, per il resto, a parte la presenza di qualche lampada, era tutto piuttosto spoglio.
Giunti davanti ad una porta Bossolo bussò ed una calda voce li invitò ad entrare.
«Oh, non credevo che ci avreste messo così tanto ad arrivare. È già da un po’ che vi sto aspettando!» disse quello che doveva essere il Grande Mago. Egli indossava una lunga tunica mista tra il blu ed il color panna. Non aveva i capelli bianchi e la barba lunga come ci si aspetterebbe da un mago. Aveva i capelli castano scuro, niente barba e due splendidi occhi azzurri. A vederlo sembrava che avesse poco più di vent’anni.
I quattro ragazzi provarono una strana sensazione, ma non seppero spiegarsi il motivo.
«E tu dovresti essere il Grande Mago? Non mi sembri tanto diverso da noi e nemmeno molto più grande…» esclamò, ad un certo punto, Giulio.
«Non ci si rivolge così a Gregorio il Giusto, per tutte le fucine!» sbraitò Bossolo.
«Non preoccuparti, amico mio. Loro non mi conoscono e devo ammettere che il mio aspetto può indurre in errore. Anche se, mi chiedo, non vi hanno mai insegnato a guardare al di là delle apparenze?» domandò il mago.
«Ci scusi signore. Giulio non voleva essere scortese. Per lui, cioè per noi, non è esattamente normale trovarsi di fronte ad uno stregone!» asserì Federico prima che l’amico dicesse qualcosa di sgarbato.
«Si, forse è così. Comunque, come vi ha già anticipato Bossolo, io sono Gregorio il Giusto e ho 2989 anni» affermò il mago osservando sorridente Giulio. Quest’ultimo lo guardò con irritazione, ma non disse niente.
Giovanni ruppe il silenzio chiedendo: «Lei sa perché siamo finiti qui? Perché è comparsa all’improvviso una luce e la porta che conduce al vostro mondo si è aperta?».
«Calma ragazzo, risponderò a tutte le tue domande per quanto mi sarà possibile. Tutti voi, però, datemi pure del “tu”: non sono così vecchio!». «Dunque, innanzi tutto, dovete sapere che era dal secolo scorso che non accadeva più nulla di simile. Tuttavia, negli ultimi tempi, qualcosa di oscuro, nell’ombra, si sta muovendo. Molti uomini, elfi, nani… sono improvvisamente scomparsi. Le Terre dell’Est si stanno inaridendo, gli alberi appassiscono, la gente muore per mancanza di cibo. L’oscurità avanza velocemente e, temo, che presto arriverà anche qui. Per questo motivo, quando siete arrivati, avete visto tutte le razze insieme. Si sono riunite qui per fronteggiare il comune pericolo. Il vostro arrivo è collegato con tutto questo. La luce che avete visto è la luce della Primavera che, in origine, appariva il giorno del solstizio della stagione primaverile. Tuttavia, negli ultimi secoli, si è manifestata in situazioni di pericolo a coloro che, dal mondo esterno, avrebbero, con la loro conoscenza, portato un aiuto. E questo è il motivo per cui la porta si è aperta e voi siete qui» concluse il Grande Mago.
I ragazzi, sorpresi e preoccupati allo stesso tempo, rimasero in silenzio. Era una situazione estremamente grave ed essi non sapevano come comportarsi.
Ad un certo punto, Sonia, rivolgendosi a Gregorio il Giusto, chiese: «Come fai a sapere tutto questo?». Brandir sorrise pensando a quanto fosse sospettosa la ragazza.
«Sono o non sono un mago, signorina? È tutto merito dei miei poteri e dei miei fidi aiutanti: Andromalius, Astharot, Baal, Balam e Barbatos. Prima che tu me lo chieda, esse sono creature assai piccole e particolari. Si nascondono dalla luce del sole, vivono nelle profondità della terra e si nutrono dell’oscurità. Potreste pensare che siano esseri crudeli, votati al male e pensereste bene. Tuttavia, qualora si riesca a farseli amici, procurando loro le perle nere, possono diventare i più fedeli degli alleati. Si chiamano Darkoth. Ognuno di loro ha delle precise capacità!
Sono degli esseri molto utili. L’unico problema è che non vanno particolarmente d’accordo con i nani e gli gnomi della Roccia».
I quattro ragazzi videro nell’oscurità dieci piccoli puntini gialli e provarono un profondo senso di inquietudine e di ribrezzo. Se quelle erano le creature di cui parlava il mago, non comprendevano perché si fidasse così di loro: a primo impatto sembravano esseri tutt’altro che amichevoli e propensi a compiere il bene.
«Infatti non comprendo perché tu ti serva di loro. Si potrebbe tranquillamente agire da soli!» disse Bossolo.
«Ho le mie buone ragioni se lo faccio, mastro nano. Non credo ci sia nessuno di più adatto a portarci informazioni sul nostro nemico» rispose secco Gregorio il Giusto.
«E chi sarebbe il vostro nemico?» domandò Federico.
I tre si guardarono e, dopo un cenno di assenso da parte del mago, Brandir incominciò a parlare.
Molti secoli prima un uomo, scacciato dalla propria gente per la propria cupidigia e per aver tolto la vita al capo della propria città, vagò a lungo per la Terra dell’Infinito meditando vendetta contro coloro che gli si erano opposti e l’avevano esiliato. Ricordando un’antica leggenda che parlava di un luogo in cui sorgeva il cosiddetto Lago Nero, si diresse nelle terre del Nord. Lì conobbe un mercante che gli disse che all’interno del Monte Cherubino vi era effettivamente un lago dall’insolito colore.
L’uomo, nonostante le avvertenze ed i pericoli prospettatigli dal mercante, decise di dirigersi in quel luogo. Dopo numerose avversità egli trovò il Lago Nero.
Una voce soave emerse dalle profondità dell’acqua che irretì l’uomo promettendogli grande potere ed il dominio sulla Terra dell’Infinito.
Affascinato da quelle parole e constatando, in questo modo, la veridicità della leggenda, si immerse nelle acque nere. Lo scuro liquido entrò dentro di lui provocandogli, inizialmente, un grande fastidio. Le sue dita si allungarono, i denti divennero maggiormente appuntiti ed i suoi occhi si oscurarono. In questo modo nacque il Sovrano delle Tenebre, Enoren. Egli cominciò a radunare intorno a sé tutti i reietti, i desiderosi di un riscatto. Così creò una grande armata composta dagli orchi, dai troll, dai mezz’orchi, dai mezzo troll, dai mannari, dai giganti, dagli elfi oscuri, dai nani oscuri, dai Darkoth, dai pirati del Sud, dalle streghe di Valle Aguzza, dai draghi neri delle Montagne di Picco Fuoco, dai traditori degli gnomi e dei folletti, dagli uomini affascinati dal potere e da molti altri ancora.
Enoren costruì il suo palazzo nella Terra dell’Est, nel luogo in cui era stato cacciato dai suoi concittadini. Questi ultimi furono in parte uccisi, in parte tenuti prigionieri per permettere alle streghe di portare a compimento i loro esperimenti.
Il suo palazzo prese il nome di Lumbar, Dimora delle Ombre.
Il suo esercito divenne, di giorno in giorno, sempre più potente. Avrebbe conquistato il mondo intero se tutte le razze a lui contrapposte non si fossero unite. Caio il Grande guidò gli alleati e con il suo pugnale riuscì a sconfiggere Enoren, imprigionando l’oscurità in una sfera.
Tuttavia, dopo molti secoli, a causa della stoltezza di un uomo che rubò la sfera e la fece cadere, provocandone la rottura, il Sovrano delle Tenebre rifece la sua comparsa.
Egli si dedicò a riunire tutti i suoi scagnozzi che, dopo la battaglia, si erano rifugiati nelle parti più remote della Terra dell’Infinito.
«Nel secolo scorso vi sono stati alcuni piccoli incidenti e conflitti. Non si è mai giunti ad un vero e proprio scontro. Ma ora, Enoren si è riorganizzato e con il suo esercito si sta muovendo velocemente provocando desolazione e distruzione. Presto giungerà anche qui e, se nessuno lo fermerà, sarà la fine per tutta la Terra dell’Infinito e per il vostro mondo» concluse il Grande Mago.
I ragazzi rimasero turbati dalle loro parole. Se quello che avevano raccontato era vero, tutti loro erano in pericolo.
«Perché il Sovrano delle Tenebre dovrebbe causare la rovina anche della Terra?» chiese Federico.
«Perché dal vostro mondo, in passato, sono giunte alcune persone che hanno contribuito alla sua caduta. Ed egli non avrà pace finché non si vendicherà di tutti coloro che hanno posto fine al suo potere» rispose il nano.
«E che cosa dovremmo fare noi? Sono sicuro che non ci avete condotti qui senza un motivo» disse Giovanni.
Il Grande Mago li guardò uno ad uno e poi, sospirando, affermò: «Siete qui perché abbiamo bisogno del vostro aiuto. Purtroppo, quando Caio il Grande sconfisse Enoren perse il suo pugnale. Esso contiene una parte dell’oscurità del Sovrano delle Tenebre ed egli cerca disperatamente di averlo per poter tornare ad avere la sua massima potenza.
Quest’arma non è importante solo per questo motivo, ma anche perché è l’unico strumento che può porre fine al re di Lumbar.
Recentemente, grazie ai Darkoth, abbiamo scoperto che esso si trova all’interno del Monte Cherubino nei pressi del Lago Nero e…».
«Se sapete dove si trova, cosa aspettate ad andare a prenderlo?» chiese secco Giulio.
«L’avremmo già fatto se ci fosse stato possibile. Purtroppo, però, solo persone provenienti dalla Terra possono prenderlo, in quanto Caio apparteneva al vostro mondo. Per questo ci serve il vostro aiuto: siete gli unici che possano portare a termine questo compito» disse Gregorio il Giusto.
I quattro amici si guardarono, incerti sul da farsi. Poi Giovanni affermò che non potevano aiutarli perché era una missione al di sopra delle loro capacità.
«Perché non lo chiedi ai Darkoth di aiutarti, loro non sanno fare tutto?» domandò Giulio rivolgendosi al mago. Quest’ultimo lo ignorò e rispose che, se la Luce di Primavera li aveva scelti, sicuramente erano in grado di svolgere questo compito. Aggiunse, poi, che essi non avrebbero potuto lasciare la Terra dell’Infinito finché non avessero portato a termine questa “missione”.
«Cosa? Stai scherzando spero!?» urlò Sonia.
«Purtroppo no. È sempre stato così per tutti» disse afflitto Bossolo.
«Questo non può essere vero! Siamo bloccati qui e tutti si chiederanno dove siamo finiti…» esclamò Giovanni.
Brandir disse che per quello non c’era da preoccuparsi: lì il tempo scorreva molto più lentamente che sulla Terra.
«Non c’è da preoccuparsi? Dici davvero? Siamo qui per puro caso e, ora, ci venite a dire che siamo gli unici a poter salvare il VOSTRO mondo anche se noi non sappiamo praticamente niente di esso e nemmeno dove sia quel Monte Canterino o come si chiama!» gridò arrabbiato Giulio.
I suo amici, benché fossero anch’essi arrabbiati, cercarono di calmarlo.
«Mi rendo conto della responsabilità e del pesante fardello che vi sto dando. Se ci fosse un’altra soluzione, credetemi, non esiterei a sceglierla. Ma, purtroppo, non c’è ed è per questo che vi imploro, nuovamente, di aiutarci. Non sarete soli in questa avventura: con voi verranno anche Brandir e Bossolo ed alcuni altri che conoscono la strada e vi faranno da guida e vi proteggeranno dai pericoli. Però, solo voi, potete prendere il pugnale, nessun altro. Vi prego…» disse il Grande Mago prostrandosi ai piedi dei quattro giovani.
«Dopo che avremo preso l’arma di Caio, promettici, che potremo tornare a casa» disse Federico rivolgendosi a Gregorio il Giusto.
«Ve lo prometto. Avete la mia parola».
«La tua parola non basta. Non possiamo essere certi che tu non ci trattenga ancora qui. Ci vuole un contratto scritto o qualcosa di simile» affermò serio Giulio che del mago proprio non si fidava. Non sapeva nemmeno lui perché, ma da quando era entrato in quella stanza e lo aveva visto aveva pensato che ci fosse qualcosa che non andava, qualcosa di strano.
«Che insolenza. Per tutte le fucine, non puoi rivolgerti così al Grande Mago!» gridò Bossolo.
«Non preoccuparti. Credo che sia comprensibile la loro volontà di essere certi di non essere ingannati. Se ci fossi io al loro posto farei, esattamente, la stessa cosa. Questo è un contratto magico: firmatelo, recuperate il pugnale e potrete tornare nel vostro mondo».
I giovani lo lessero attentamente e, non notando nulla di ingannevole, lo firmarono.
Il mago disse loro che sarebbero partiti l’indomani al sorgere del sole. Disse che aveva fatto preparare loro una camera in cui potersi riposare e di avervi messo delle armi con cui potersi difendere durante la missione. Brandir e Bossolo, insieme agli altri che sarebbero andati con loro, avrebbero insegnato loro, lungo il cammino, a combattere in modo tale che, in caso di pericolo, fossero stati in grado di difendersi.
Uscendo dalla stanza, Giulio notò una strano sorriso comparire sul volto del Grande Mago.

Angolo autrice
Ciao a tutti! Finalmente viene svelato il motivo per cui Giovanni, Giulio, Federico e Sonia sono giunti nella Terra dell'Infinito. Riusciranno a portare a termine l'incarico affidatogli dal Grande Mago?
Grazie a tutti per aver letto i precedenti capitoli! :)
Mi piacerebbe sapere il vostro parere sulla storia, così da poter migliorare qualcosa...
A presto Violaserena

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

Quella sera venne organizzata una festa in onore dei quattro giovani provenienti dalla Terra che si accingevano a recuperare il pugnale di Caio il Grande.
Federico, appoggiatosi ad una albero, osservava quelle strane creature divertirsi, ma per qualche strana ragione provava ribrezzo nel guardarle.
I suoi amici erano seduti, in silenzio, davanti ad una tavola imbandita.
Dopo che avevano lasciato la stanza del Grande Mago, lui ed i suoi compagni non avevano più proferito parola; ognuno di loro era immerso nei propri pensieri.
Continuava a ripensare alle parole di Gregorio il Giusto e, più ci ripensava, più si convinceva che c’era qualcosa che non tornava, ma non riusciva a spiegarsi che cosa fosse.
«Non ti stai divertendo?» gli chiese un uomo che, se ricordava bene, si chiamava Alessandro.
«È una bella festa, ma…».
«Niente ma, ragazzo! Questa sera tu ed i tuoi amici dovete divertirvi. Probabilmente non vi capiteranno più serate come queste quando partirete. Il che è un bene perché…».
«Perché?».
Alessandro balbettò qualcosa che Federico non riuscì a comprendere. Certo non poteva essere ubriaco, da quello che aveva potuto vedere aveva bevuto solo un bicchiere di birra.
«Massì, ragazzo, divertiti. È questo che conta, no? Divertirsi!».
Ok, quell’uomo si era decisamente bevuto il cervello, altro che la birra.
«Sai, posso capire che tu ti senta fuori posto. Però ci sono i tuoi amici con te, non tutti sono così fortunati».
O forse no? Com’era che da un discorso privo di senso si era passati ad un discorso serio?
Alessandro si allontanò e Federico rimase di nuovo solo accanto all’albero.
Poi andò dai suoi amici e si sedette con loro, sorridendo. Le parole di quell’uomo l’avevano colpito: forse c’era molto più da scoprire di quello che sembrava e, a lui, piacevano le sfide e le indagini.
Ad un certo punto Giulio disse: «Non so voi, ma io non mi fido di Gregorio. Trovo che abbia un’aria sinistra. Forse non dovremmo partire».
«L’ho pensato anch’io. Trovo molto strana tutta questa faccenda!» rispose Federico.
«Già. Sono stati tutti troppo gentili. E, poi, credo che non fosse neanche necessario andare dal Grande Mago: mi è sembrato che Brandir e Bossolo sapessero già che cosa volesse dirci» affermò Sonia.
I tre ragazzi si voltarono verso Giovanni aspettando che dicesse qualcosa.
Egli aveva riflettuto su tutto quanto era accaduto quel giorno e non gli sembrava ancora possibile non trovarsi più a casa sua, a Torino, ma in un altro mondo la cui entrata, di fatto, era sempre stata di fronte ai suoi occhi. Forse si trattava di un sogno e presto si sarebbe svegliato.
«Gigia? Riprenditi! È da un pezzo che fissi il vuoto» lo rimbeccò Giulio.
«Si, scusatemi. Mi sono distratto un attimo! Dicevamo… Secondo me, anche se nessuno di noi vorrebbe, dobbiamo recuperare quel pugnale, altrimenti non potremo più tornare a casa! Non so se il mago ha detto la verità, ma noi siamo comunque costretti a credergli! Non conosciamo nessuno qui e l’unica nostra possibilità per tornare a Torino è provare a fidarci di lui».
«D’accordo. Speriamo solo che tutto vada per il meglio» affermò Sonia.
Quest’ultima si alzò e andò a vedere la strana danza che stavano ballando i folletti. Non le piacque per niente. I loro movimenti, lenti e cadenzati, avevano qualcosa di spettrale.
«Non stupirti se non ti piace il loro balletto. Ria e Alessio sono sempre stati un po’ stravaganti: inventato i passi di danza in base a ciò che vedono o pensano di vedere» disse Brandir avvicinandosi a lei.
«Allora devono aver visto qualcosa di molto brutto! Il ballo dovrebbe trasmetterti serenità, tranquillità, allegria… Invece il loro trasmette solo tristezza, angoscia, paura».
«Provi tutto questo guardandoli?».
«Si, te l’ho appena detto. Tu cosa senti, invece?».
«Nulla, non sento nulla. Generalmente non mi faccio trasportare dalle emozioni per cui, quando suono il flauto o vedo qualcun altro fare lo stesso, cantare o danzare, io non provo mai niente. Eseguo solo e guardo solo».
«Quando andavo all’asilo facevamo, ogni anno, una recita scolastica. Io avevo avuto la parte di un angioletto che aveva il compito di insegnare agli altri che cosa fossero la pace e l’armonia. Io ripetevo le battute senza capirle e senza immedesimarmi. Era solo un compito che io dovevo eseguire perché così avevano deciso le maestre. Poi, però, ripetendo la parte ai miei genitori, essi mi hanno spiegato il significato di quelle parole e mi hanno detto che, se volevo far capire al pubblico che quello che stato dicendo era vero e far provare loro la sensazione di essere realmente di fronte ad un angelo, avrei dovuto immedesimarmi, provare le stesse sensazioni, emozioni del mio personaggio. Allora, mi sono lasciata andare e, durante tutta la recita, mi sono sentita, per la prima volta, un piccolo angioletto».
L’elfo guardò sorpreso la ragazza e sussurrò: «Io non potrò mai essere così, non riuscirò a lasciarmi trascinare dalle emozioni».
«Non devi farti trascinare, devi solo farti accompagnare da esse. Poi il resto verrà da sè».
Brandir non disse niente. Poi salutò la ragazza e si allontanò.
«Scoprirò cosa nascondi, mio caro elfo!» pensò Sonia.

*

Il giorno dopo, all’alba come stabilito, i quattro ragazzi si presentarono dal Grande Mago.
Si erano cambiati e avevano indossato gli abiti tipici della Terra dell’Infinito per non destare sospetti durante la missione.
Giovanni, Giulio e Federico, oltre alla cotta di maglia, indossavano una camicia bianco panna con le maniche lunghe sopra la quale vi era un gilet rispettivamente di colore beige, blu e grigio-argento. Attaccato alla cintura dei pantaloni avevano ciascuno una spada.
Sonia invece aveva un vestito azzurrino con del pizzo bianco lungo le braccia che le arrivava poco sopra le ginocchia. Come i suoi amici aveva uno spadino attaccato alla cintura. Aveva degli stivali bassi. Ognuno di loro, compresi i loro compagni, indossava un mantello e avevano uno zaino nel quale vi era tutto il necessario per la missione: cibo, bevande, mappe, altre armi, denaro…
Li accompagnavano, oltre Brandir e Bossolo, Alessandro, il folletto Asdrubaleo e lo gnomo dell’Arcobaleno Coco.
«Mi raccomando, fate attenzione. Il sentiero è pieno di ostacoli e pericoli!» disse Gregorio il Giusto.
«Ti assicuriamo che veglieremo su di loro» affermò Brandir.
«Ne sono certo. Ora andate, la strada da percorrere è lunga» asserì il Grande Mago.
Quest’ultimo, dopo che gli altri si furono allontanati, chiamò Andromalius e gli ordinò di seguirli.
Il pugnale andava assolutamente recuperato e non erano ammessi errori.
Quando il Darkoth, a sua volta, se ne fu andato riunì  Astharot, Baal, Balam e Barbatos.
Era ora di dare inizio ai preparativi per la guerra ormai imminente.



Angolo Autrice.
Ciao a tutti!
Per cominciare volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto questa storia! :)
In questo capitolo non succede molto, lo so. Ma, dal prossimo, entreremo nel vivo del racconto.
Chi ha voglia di lasciare un commento/recensione sappia che sono sempre ben accetti: mi piacerebbe conoscere la vostra opinione, i vostri consigli...
Che altro dire?
Al prossimo capitolo! :)
Violaserena

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

«Non ne posso più, possiamo fermarci a riposare per qualche minuto? È da stamattina che non facciamo altro che camminare e allenarci a combattere» esclamò esausta Sonia.
«Su con la vita, giovane amica! La strada è ancora lunga, prima che alla meta si giunga!» cantilenò Asdrubaleo.
«Non sei divertente. E poi, finiscila di parlare in rima, è davvero stressante».
«Non ci posso fare niente, parlare in rima è un vezzo della mia gente».
«Della tua famiglia vorrai dire. A parte voi, non conosco nessun altro folletto che parli in questo modo» asserì Coco.
«Avanti smettetela! Con tutto questo vociare ci sentiranno tutti! Volete forse attirare orde di orchi o mannari?» domandò Alessandro.
«Che vengano pure, assaggeranno la mia ascia!» affermò Bossolo con sguardo combattivo.
Brandir sospirò e decise di fare una breve sosta per far riposare tutti quanti.
Trovarono una piccola grotta e decisero di sistemarsi al suo interno e di consumare un pasto veloce.
«Senti un po’ Coco, come sono gli gnomi dell’Arcobaleno? Insomma, qual è la differenza tra voi e gli gnomi della Roccia?» chiese Federico, incuriosito dal piccolo compagno di missione.
«Non ci sono particolari differenze tra di noi. Generalmente i nostri cugini sono più curiosi e loquaci. Pur vivendo sottoterra amano andare in superficie e interagire con le altre razze, in particolar modo con i nani ed i folletti. Noi invece viviamo sulla terra e custodiamo una pentola piena di pepite e monete d’oro in attesa di consegnarla a colui che troverà la fine dell’arcobaleno. Proprio per questo motivo siamo più schivi ed evitiamo di mescolarci o di entrare in contatto con le altre razze. Nessuno, a parte noi, conosce il luogo in cui si trova l’arcobaleno e così deve essere. Solo chi lo troverà con le proprie forze sarà degno di ricevere il dono dagli gnomi del nostro clan» rispose Coco.
«Quindi esiste davvero una pentola con le monete d’oro!» esclamò sorpreso Giovanni.
Bossolo grugnì qualcosa e guardò Coco con disapprovazione.
«Invece noi folletti abbiamo nelle corolle dei fiori, sotto gli ombrelli picchiettati di bianco dei funghi, tra le rocce muscose, fra i rami degli alberi i nostri letti. Se ben trattati siamo allegri e benevoli, altrimenti siamo ben poco servizievoli. Chi ci offende, brutti e simpatici scherzi si prende!».
«Non mi sembra che qualcuno te l’abbia chiesto» disse Sonia.
«Ehm, non hai sentito quello che ha detto? Se qualcuno li tratta male subisce la loro vendetta» bisbigliò Federico.
«Non avrai paura di un esserino così piccolo, spero? Cosa vuoi che riesca a fare?».
«Non sottovalutarlo. Magari è più micidiale di qualsiasi altra creatura».
Dal momento che era calata la notte decisero di fermarsi in quella grotta e di riprendere il cammino il giorno successivo.
Ognuno di loro, a turno, avrebbe fatto la guardia.
Brandir si offerse di fare la guardia per primo.
Giunse poi il turno di Giovanni. Tutto era tranquillo, non si udiva alcun rumore ad eccezione di quello prodotto dalle foglie mosse dal vento.
Il giovane si soffermò, per la prima volta, ad osservare con attenzione l’ambiente circostante. Era molto simile e allo stesso tempo diverso da quello che era abituato a vedere. Le stelle, anche se il cielo era coperto da alcune nuvole, erano ben visibili. Fu a quel punto che, volgendo lo sguardo alla sua sinistra, vide due puntini gialli nell’oscurità. Subito provò una profonda sensazione di inquietudine e di ribrezzo, sensazione che aveva già provato numerose volte da quando era giunto nella Terra dell’Infinito.
Stava per svegliare i suoi compagni, ma, non vedendo più i due puntini luminosi, si disse che li avrebbe avvertiti solo se fossero ricomparsi. Per quella sera non ricomparvero più.
L’alba era giunta da poco, quando si sentì un urlo.
Giulio, svegliatosi di soprassalto, subito estrasse la spada, aspettandosi di vedere orde di orchi tutto intorno.
«Che cosa è successo ai miei capelli? Chi ha osato spargerci questa lurida cosa appiccicosa?» esclamò furente Sonia.
«Accidenti a te, ci hai fatto prendere un colpo!» affermò Giulio notando come tutti i suoi compagni fossero in piedi con la spada e l’ascia impugnata.
«Il colpo l’ho preso io! Voi non avete la testa ricoperta da questa cosa» si lamentò la ragazza.
«Però ti dona» disse sghignazzando Giovanni.
«Non sei divertente. E voi due finitela di ridere o vi prendo a calci!» rispose la ragazza guardando furente Federico e Giulio, divertiti da quella scena.
Poi, rivolgendosi agli altri membri del gruppo, chiese: «Che cos’è questa sottospecie di sostanza appiccicosa?»
«Quella è erba vischiosa. Viene utilizzata, normalmente, come colla per oggetti delicati. Viene prodotta dai folletti…» disse Brandir guardando Asdrubaleo che si era messo a fischiettare.
«Tu, brutto piccolo mostriciattolo! Come hai osato?» sibilò Sonia.
«La boccetta di erba vischiosa mi è, accidentalmente, caduta di mano ed è finita sulla tua testa».
«Accidentalmente eh? Vuoi vedere che cosa accadrà, per sbaglio si intende, se non mi levi subito questa cosa dalla testa?».
«Non sono sciocco, non ho la testa di cocco».
«Non incominciare a parlare in rima. Se vuoi, riesci benissimo a parlare normalmente, proprio come hai fatto prima».
«Questa volta sei stata tu a parlare in rima!»
«So parlare anch’io in rima, abbi un po’ più di stima! Non sei l’unico ad essere in grado di esprimersi in questo modo. Ora, avanti, toglimi dai capelli questa erba vischiosa».
Se, inizialmente, Asdrubaleo non aveva nessuna intenzione di rimediare al suo scherzo, divertito dalle parole di Sonia, decise di levarle la sostanza dalla testa.
«Credo proprio che diventerete ottimi amici» esclamò, sorridente, Coco.
«Questo è assolutamente impossibile!» ribatterono all’unisono la ragazza ed il folletto provocando le risate dei compagni.
Ripreso il cammino, percorsero un lungo sentiero in aperta campagna. Si sentiva il rumore prodotto dalle campane delle mucche e, talvolta, l’abbaiare di un cane. Ai quattro giovani vennero in menti i momenti sereni trascorsi in montagna e provarono nostalgia per tutto ciò che si trovava nel loro mondo: i loro genitori, i parenti, gli amici, ma anche i luoghi cari in cui erano soliti vivere o andare in vacanza.
Gli altri loro compagni conversavano amabilmente, anche se poteva notarsi un certo distacco tra Bossolo e Coco. Ma era cosa risaputa che i nani e gli Gnomi dell’Arcobaleno non andassero d’accordo. Da quello che avevano capito, in passato, vi era stata una contesa tra le due razze per il controllo di una miniera ricca di pepite d’oro, miniera che, dopo un’aspra battaglia, era passata sotto il controllo degli gnomi. Per questo il figlio di Bornolo mostrava una certa diffidenza nei confronti di Coco. Il rapporto tra Brandir e Bossolo invece, sorprendentemente, era buono. Difatti, come aveva loro raccontato lo stesso Bossolo, elfi e nani si erano avvicinati ai tempi di Caio il Grande per poter affrontare uniti il Sovrano delle Tenebre. Dopo la sua sconfitta erano sorti nuovamente alcuni contrasti tra le due razze, ma si era sempre riusciti a risanare tutto in maniera diplomatica. Ed ora che Enoren era tornato, gli elfi ed i nani erano più uniti che mai.
«Direi che possiamo fare una breve sosta e, nel mentre, migliorare il vostro uso della spada» propose Brandir.
Vennero formate delle coppie: Giovanni si sarebbe allenato con l’elfo, Giulio con Bossolo, Federico con Alessandro e Sonia con Asdrubaleo e Coco. Esse sarebbero, poi, cambiate nel corso degli allenamenti per preparare i quattro giovani a combattere con nemici di taglie e tecniche differenti.
Per i quattro ragazzi era molto difficile tenere testa ad i loro compagni e difatti finivano sempre per essere disarmati o per trovarsi le spade alla gola.
Erano già passate due settimane e mezzo da quando erano partiti per portare a compimento la missione che il Grande Mago aveva loro affidato. Avevano già percorso un bel tratto di strada, ma la meta era ancora molto lontana.
Gli allenamenti, invece, cominciavano a dare i loro frutti.
Giulio, che tra i suoi amici era indubbiamente il più forte, con un calcio poderoso fece perdere l’equilibrio al suo avversario ed a disarmarlo con la spada puntandogliela alla gola.
«Questa volta sono stato io il migliore» disse compiaciuto il ragazzo.
«Per tutte le fucine! Sei stato bravo, ma non sei ancora al mio livello. Se ci fossimo affrontati in un vero e proprio scontro avrei vinto io» rispose Bossolo.
«Non ne sarei così sicuro» lo riprese Giulio.
«Ok, ok, vediamo di non litigare! Ora è il mio turno: preparati Brandir, questa volta sarà più difficile battermi!».
Giovanni si fece avanti e cominciò ad attaccare l’elfo. Quest’ultimo era molto agile, ma lo era anche il ragazzo che, tra i suoi amici, era il più veloce. Riuscì a schivare numerosi colpi, ma, alla fine, fu Brandir ad avere la meglio. Tuttavia, quest’ultimo, si complimentò con Giovanni per i repentini miglioramenti.
A questo punto si affrontarono Alessandro e Federico. L’uomo del clan dei Fortibraccia aveva una forza notevole ed era anche molto veloce. Facendo questo genere di considerazioni il giovane, che tra i suoi compagni era il più riflessivo, aspettò che fosse il suo avversario ad attaccare per primo. Combattendo contro di lui e osservando tutti gli altri mentre si allenavano aveva scoperto quello che, a suo parere, era il punto debole di ognuno.
Alessandro colpì a destra e, prontamente, Federico si spostò e lo colpì sul lato opposto. L’uomo, tuttavia, riuscì a rimediare al suo errore volgendo il combattimento a suo favore. Anch’egli fece i suoi complimenti al ragazzo che era riuscito a sorprenderlo.
Toccava, infine, a Sonia. Asdrubaleo e Coco erano molto piccoli e rapidi, per cui per la ragazza era molto difficile muoversi e riuscire a colpirli. Tuttavia, ella, era piuttosto scaltra - sicuramente più di Giovanni e Giulio – e riuscì ad escogitare uno stratagemma che, forse, l’avrebbe condotta alla vittoria. Dapprincipio si limitò a parare i colpi del folletto e dello gnomo ma poi, quando essi l’ebbero circondata, all’ultimo momento si scostò, cosicché Coco ed Asdrubaleo si colpirono vicendevolmente.
«Direi che ho vinto» disse sorridente Sonia.
Prima che Asdrubaleo potesse dire qualcosa, Coco la elogiò per la sua astuzia e le disse che sarebbe divenuta un’ottima combattente.
I quattro giovani si complimentarono tra di loro, anche se erano consapevoli di non essere ancora all’altezza dei loro compagni. Erano, tuttavia, sicuri che presto avrebbero raggiunto l’abilità dei loro maestri e, forse, li avrebbero anche superati.



Angolo Autrice.
Per prima cosa volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto la storia! :)
Questo è un capitolo di passaggio: per l'azione vera e propria bisogna aspettare ancora un pochino! Ma non temete, presto arriverà!
Una piccola anticipazione: nel prossimo capitolo i nostri protagonisti incontreranno qualcuno che, con le sue parole, turberà il loro animo.
Detto questo, alla prossima!
Violaserena.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

All’alba del ventesimo giorno di viaggio giunsero finalmente in una città, Selvapiana. Fino a quel momento non avevano incontrato nessuna particolare difficoltà o qualche nemico pronto ad attaccarli.
La città era circondata da un alto muro e, intorno ad esso, era stato fatto passare del filo spinato. Dalle feritoie potevano notarsi, disposte una accanto all’altra, una serie di balestre. Probabilmente tutte queste difese erano state prese per cercare di contrastare un possibile attacco del Sovrano delle Tenebre.
Alessandro andò a parlare con la sentinella e, dopo poco, il portone che conduceva all’interno di Selvapiana fu aperto.
I quattro giovani rimasero stupiti dalla bellezza della città e dalla sua architettura. Ogni casa era costruita all’interno del tronco di un albero per poi allargarsi verso l’esterno. Davanti ad ogni abitazione vi era o un’aiuola o un orto. Si poteva percepire, nell’aria, il profumo dei fiori e in generale della natura. Non sembrava di trovarsi in una città, o per lo meno non in una di quelle che Giovanni ed i suoi amici erano abituati a vedere.
Nella piazza centrale vi era una grande e vecchia quercia da cui pendevano, stranamente, delle liane.
I giovani avrebbero voluto fare una serie di domande ai loro compagni, ma non ne ebbero la possibilità. Difatti Brandir consigliò loro di evitarle e di non manifestare la propria meraviglia in quanto gli abitanti avrebbero subito compreso che essi non appartenevano alla Terra dell’Infinito. E se la notizia fosse giunta ad Enoren sarebbe stato un grande problema. Per quanto possibile, la loro identità doveva rimanere segreta.
Selvapiana era una importante città commerciale: era famosa per la sua produzione di legname – ricavato dalla foresta che sorgeva dietro la città stessa - per la sua frutta e verdura e per i suoi fiori. Vi arrivavano mercanti provenienti da tutta la Terra dell’Infinito, anche dalla Terra dell’Est. Pertanto non era raro incontrare anche elfi oscuri, streghe di Valle Aguzza, pirati del Sud e così via.
I quattro ragazzi passarono la giornata alla locanda insieme a Bossolo, mentre gli altri loro compagni girarono per la città per fare rifornimento di cibo.
Giunta la sera chiesero a Brandir il permesso di andare ad assistere ad uno spettacolo teatrale, di cui avevano sentito parlare durante tutta la cena. L’elfo acconsentì a patto che, una volta finito lo spettacolo, fossero subito ritornati alla locanda.
Asdrubaleo e Coco andarono con loro, curiosi di vedere la tanto decantata piece.
La piazza centrale era gremita di gente, pertanto essi dovettero rimanere in fondo.
Dopo qualche minuto di attesa, sul palco, avvolto da un lungo mantello rosso, comparve un uomo.
Come i giovani intuirono, egli impersonava Caio il Grande. A dispetto di quanto pensavano, non fu rappresentata la sua vittoria sul Sovrano delle Tenebre, ma qualcosa che li lasciò di stucco.
Caio parlava a quattro ragazzi di un’antica profezia: quattro persone provenienti dal pianeta Terra sarebbero giunte nella Terra dell’Infinito, precisamente nel villaggio di Lucedorata, il giorno della festa in onore di colui che sconfisse Enoren. Essi avrebbero ricevuto il simbolo dell’Armata Azzurra e sarebbero partiti alla ricerca del pugnale, con il quale avrebbero definitivamente sconfitto il Sovrano delle Tenebre. Tuttavia, ciò sarebbe avvenuto non senza perdite. La guerra, infatti, avrebbe seminato morte e distruzione da entrambe le parti e solo uno dei quattro giovani sarebbe sopravvissuto.
Giovanni ed i suoi amici si guardarono l’un l’altro comprendendo come quella profezia parlasse di loro, ma anche come fosse profondamente diversa rispetto a quello che era successo a loro fino a quel momento.
Ad un certo punto notarono una luce provenire dalla grande quercia e, visto che tutti erano impegnati a guardare lo spettacolo e che Asdrubaleo e Coco erano scomparsi tra la folla, decisero di avvicinarsi.
Con loro sorpresa videro tanti piccoli esserini luminosi volare intorno all’albero e divertirsi a muovere le liane. Questi si fermarono di colpo ad osservarli e poi uno di loro si fece avanti.
«Che cosa siete?» chiese Sonia dimentica di ciò che aveva detto Brandir sul non fare domande.
«Siamo le fate della foresta di Selvapiana. Il mio nome è Lucia».
«Piacere, noi siamo…» tentò di dire Federico.
«So perfettamente chi siete: i giovani che salveranno il nostro mondo dalla malvagità del Sovrano delle Tenebre».
«Io non direi proprio così…» affermò Giovanni.
«Eppure è così. Ciò afferma la profezia».
«Ma la vostra profezia è sbagliata. Noi non siamo giunti a Lucedorata e non abbiamo nemmeno ricevuto il simbolo dell’Armata Azzurra! Ci siamo trovati in una foresta in cui erano riunite varie razze che ci hanno condotto da Gregorio il Giusto, il quale ci ha spiegato la situazione e ci ha ordinato di trovare il pugnale di Caio il Grande» disse Giulio.
Le fate rimasero in silenzio.
«Non ce l’ha proprio ordinato…» bisbigliò Federico.
«A no? Il se volete tornare a casa vostra recuperate il pugnale, mi sembra molto un ordine!».
Ancora silenzio da parte degli esserini luminosi.
«Perché non parlate più?» domandò Sonia.
«Li ha sconvolti il fatto che quel cosiddetto Grande Mago sia un…».
«Smettila Giulio!» lo rimproverò la ragazza.
Lucia riprese la parola: «Qualcosa o meglio qualcuno ha alterato il corso delle cose. Il nemico è vicino, più di quanto immaginiate. Ciò che sembra, non è. Non dimenticatelo. Prestate attenzione e guardate al di là delle persone. Prestate attenzione».
«Ehi, finalmente vi abbiamo trovati!» eslamò Brandir, accompagnato dallo gnomo e dal folletto.
Una sensazione di terrore invase i quattro ragazzi.
«Ad un certo punto siamo stati risucchiati dalla folla e non vi abbiamo più visto. Ci avete fatto preoccupare!» affermò Coco.
L’elfo osservò i giovani, notando il loro strano sguardo. «Avanti, torniamo alla locanda. Domani dobbiamo riprendere il viaggio e dobbiamo essere ben riposati».
I quattro ragazzi, svanita la sensazione di paura che avevano provato poco prima, seguirono i loro compagni. Contemporaneamente si voltarono a guardare la grande quercia, ma delle fate non vi era più neanche l’ombra.
Si incamminarono verso la locanda, riflettendo su quanto aveva detto Lucia e su tutto quello che era avvenuto fino a quel momento.
I giovani non riuscirono a chiudere occhio per tutta la notte. Pensarono allo strano spettacolo a cui avevano assistito, alla profezia e alle parole della fata. Avrebbero voluto chiedere ulteriori spiegazioni, ma sapevano di non poterlo fare: all’alba sarebbero partiti e, probabilmente, non avrebbero mai più rivisto Selvapiana.
Sorte le prime luci del mattino, nonostante la stanchezza, si misero in viaggio come stabilito. Lasciarono l’affascinante città e si diressero verso la foresta di Selvapiana.
Secondo i calcoli di Brandir, se non si fossero verificati incidenti, avrebbero impiegato pressoché due giorni prima di poterla definitivamente oltrepassare. Fu a quel punto che a Federico venne in mente che la foresta era abitata dalle strane creature che avevano incontrato la sera precedente: forse, con un po’ di fortuna, sarebbero riusciti a trovarle e ad ottenere maggiori spiegazioni.
Asdrubaleo, solitamente sempre allegro e loquace, era silenzioso e teso.
Non sopportando più il silenzio che era calato Sonia chiese che cosa turbasse il folletto. Quest’ultimo non rispose, facendo infuriare ancora di più la ragazza.
Ad un cero punto prese la parola Coco, affermando che la foresta di Selvapiana era stata abitata, anticamente, dalle fate e dai folletti. Essi vivevano in armonia, ma un giorno, per un futile motivo, sorse una contesa tra le due razze che si concluse con la morte del re delle fate e l’espulsione dei folletti dalla foresta Bianca, nota anche col nome di foresta di Selvapiana. Da quel momento in poi i folletti non avrebbero più dovuto mettervi piede: coloro che avessero trasgredito tale divieto sarebbero stati severamente puniti. Ovviamente i piccoli orecchie appuntite rifiutarono tale decisione e tentarono di tornare. Ciò scatenò due guerre che si conclusero a favore delle fate.
«Quindi è per questo che hai paura! Temi che delle fate ti possano assalire» esclamò Sonia.
«Io non ho paura! Sto solo attento a quello che succede intorno a noi, cosa che dovresti fare anche tu».
«Stai forse insinuando che ho la testa campata per aria?».
«Io non insinuo niente. Ne sono assolutamente sicuro, così mi suggerisce la mia arguta mente».
«Sai di che cosa sono sicura io? Che le fate ti troveranno e ti faranno qualche bello scherzetto».
Asdrubaleo impallidì, provocando la risata della ragazza. Quest’ultima, notando gli sguardi seri dei suoi compagni rivolti dietro le sue spalle, si girò e vide un manipolo di fate. Queste erano vestite con gli abiti da guerra ed impugnavano una lancia nella mano destra. Esse guardavano in maniera ostile il folletto che si era rifugiato dietro le gambe di Brandir.
Quello che, presumibilmente, era il capo guerriero delle fate si fece avanti e disse: «I folletti non sono ammessi nella nostra terra. Deve tornare indietro e voi con lui».
L’elfo si fece avanti a sua volta, facendo inciampare Asdrubaleo, sempre nascosto dietro la sua gamba, e rispose: «So cos’è accaduto in passato e comprendo il vostro odio verso la sua razza. Ma, posso assicurarvi che egli e nemmeno noi abbiamo cattive intenzioni. Vogliamo solo oltrepassare la foresta».
«Quello che volete è irrilevante. La nostra legge vieta l’entrata ai piccoli orecchie appuntite, quindi non siete autorizzati a proseguire».
«Comprendo il vostro scrupolo a voler seguire attentamente la legge. Ma questa è la via più breve per il raggiungimento della nostra meta, non possiamo che passare di qua».
«E invece di qua non passerete. Non insistere ulteriormente elfo, o te ne pentirai. Per di più, quelli della tua razza, non sono graditi nella nostra foresta».
I quattro ragazzi notarono l’espressione cupa di Brandir ed il formarsi di piccole strisce nere sotto i sui occhi, occhi che avevano assunto una colorazione scura per poi ritornare, un attimo dopo, esattamente come prima.
«Voglio farvi una proposta» affermò risoluto Giulio. «Siete liberi di accettarla o meno. Se la rifiuterete vi prometto che ci allontaneremo da questo luogo».
L’elfo ed il nano stavano per obiettare, ma Giovanni fece loro cenno di lasciar fare all’amico.
«Bene, sentiamo ragazzo».
«Voi odiate i folletti e la vostra legge stabilisce che essi non mettano piede nella vostra foresta. Ma non vieta l’entrata ad UNO di loro».
«Sciocchezze, essi non possono…».
«Esattamente, essi, non uno. La vostra legge suppone che non possano passare per di qua MOLTI piccole orecchie appuntite, ma non vieta l’accesso ad uno solo di essi. Per cui, essendoci un solo folletto, egli ha il diritto di trovarsi qui e di oltrepassare la foresta».
Le fate rimasero in silenzio guardandosi dubbiose l’una con l’altra.
Brandir, Bossolo, Alessandro, Asdrubaleo e Coco guardarono con ammirazione Giulio che, con poche parole, aveva insinuato il dubbio tra le fate. Il ragazzo otteneva sempre quello che voleva e riusciva sempre a ribaltare le cose a suo favore. Questo i suoi tre amici lo sapevano molto bene.
«Ebbene, quel che dici non è del tutto sbagliato. E, siccome, occorrerebbe troppo tempo per controllare accuratamente la nostra legge, potete passare. Tuttavia il folletto deve essere bendato: questo luogo deve rimanere a lui sconosciuto».
«Faremo come dite voi. Grazie per averci permesso di proseguire».
Come promesso Asdrubaleo, nonostante non ne fosse molto contento, fu bendato e le fate si allontanarono.
Giulio, intanto, ricevette i complimenti per il suo ingegno dai suoi compagni.
Il cammino proseguì senza intoppi ed il gruppo non incontrò più nessuna resistenza da parte delle fate. Con dispiacere di Federico, che voleva ottenere maggiori informazioni riguardo a quanto scoperto la sera precedente, esse non si fecero più vedere.
Calata la sera e, ormai, prossimi all’uscita dalla foresta si fermarono per riposare in un piccolo spiazzo. Quando tutti si furono addormentati alcuni piccoli puntini luminosi comparvero al chiarore della luna. I quattro ragazzi si svegliarono improvvisamente e decisero di seguire quella scia luminosa che li condusse in un luogo poco lontano da dove si erano accampati.
Tante fate volavano allegre da albero ad albero, da cespuglio a cespuglio. Molte danzavano intorno a dei funghi. Era tutto meraviglioso e tutto risplendeva di una candida luce. Giovanni pensò che fosse per questo che la foresta si chiamava anche foresta Bianca.
Stavano per rivelare la loro presenza alle fate, quando qualcuno li bloccò.
«Che cosa state facendo? Perché vi siete allontanati di nuovo?».
«Alessandro! Ci hai spaventati!» esclamò Sonia.
«Non avete idea di che cosa sia la paura, ma state pur certi che la proverete se non vi allontanate di qui! Questa è una cerimonia d’iniziazione e nessuno, tranne le fate, possono parteciparvi. Se vi vedono, si adireranno con voi e non saranno le uniche! Forza, allontaniamoci».
I quattro amici fecero come aveva detto loro l’uomo.
«Secondo te cosa intendeva con “non saranno le uniche”?» chiese bisbigliando Giovanni a Giulio.
L’amico indicò i loro compagni addormentati. C’era qualcosa che non quadrava: l’arrivo nella Terra dell’Infinito, il Grande Mago, la missione, la profezia, le parole di Lucia, i loro compagni… Tutta la situazione era strana e quasi paradossale. Forse, presto, sarebbero giunti alla verità vera perché Giulio, così come i suoi amici e forse più di essi, era sicuro che fosse stato loro nascosto qualcosa. Di una cosa era certo però: una volta trovato il pugnale di Caio il Grande tutto sarebbe stato svelato.

Angolo Autrice. Ciao! Come sempre, grazie a tutti quelli che hanno letto questa storia! :) I quattro giovani cominciano a nutrire i primi dubbi sulla loro missione. Che cosa ha voluto dire la fata Lucia? Mah. xD Lo scoprirete prossimamente! Al prossimo capitolo. Violaserena

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

Il sole era alto nel cielo e una leggera brezza rendeva più fresca una giornata piuttosto calda.
Il gruppo aveva oltrepassato la foresta non meno di due giorni prima e ora si dirigeva verso il Passo di Pratonevoso che li avrebbe portati alle Colline Nebbiose, una zona estremamente pericolosa per la presenza di numerosi acquitrini e paludi infestate da strane creature. Una volta superatele sarebbero giunti nella città di Biancofiore e da lì avrebbero raggiunto il Monte Cherubino e recuperato il pugnale di Caio il Grande.
Da quando erano partiti non avevano incontrato pericoli lungo il cammino e ciò era considerato strano dai quattro ragazzi dal momento che era stato loro raccontato che il Sovrano delle Tenebre avanzava sempre di più e che aveva causato morte e distruzione.
Giovanni non aveva più visto quei due puntini luminosi che lo avevano tanto inquietato e pensò di esserseli solo immaginati.
Il gruppo procedeva tranquillamente, quando, all’improvviso, comparve una piccola squadra di ricognizione di orchi. Evidentemente nessuno dei presenti si aspettava di trovarsi di fronte i propri nemici. Dopo qualche secondo di sgomento, gli orchi partirono all’attacco. Prontamente Brandir, Bossolo, Alessandro, Asdrubaleo e Coco si misero davanti ai quattro ragazzi per poterli proteggere. L’elfo, con le sue frecce, riuscì ad abbatterne un certo numero. I sopravvissuti si trovarono a fare i conti con gli altri: Bossolo agitava freneticamente la sua ascia, Coco e Asdrubaleo menavano fendenti. Solo Alessandro non colpiva i suoi avversari. Si limitava a schivarne i colpi e, Federico, ebbe l’impressione che, ogni qualvolta un orco cadeva trafitto, l’uomo provasse tristezza.
Prima che si potesse inneggiare alla vittoria, dietro le spalle dei quattro ragazzi, sbucarono sei mezz’orchi. I giovani riuscirono ad evitare di essere colpiti, indietreggiando. Poi si fecero avanti, un po’ intimoriti, ed incominciarono lo scontro. Il cuore batteva loro all’impazzata per tutta la tensione e l’adrenalina.
Giulio, abilmente, riuscì ad abbattere due mezz’orchi. Ferì un terzo al braccio e, prima di subire la sua ira, lo colpì alla testa facendogli perdere momentaneamente i sensi. Federico e Giovanni, dopo aver sistemato i loro due avversari, andarono ad aiutare Sonia, il cui avversario, nonostante le ferite riportate, continuava ad avanzare minacciosamente. I due ragazzi lo colpirono all’unisono alle gambe e, a quel punto, Sonia gli tirò un calcio poderoso allo stomaco.
La battaglia era terminata. I cinque abitanti della Terra dell’Infinito si complimentarono con i giovani per la loro prontezza di riflessi.
Tutti gli orchi erano stati uccisi, mentre i mezz’orchi erano ancora vivi perché Giovanni, Giulio, Federico e Sonia non avevano combattuto per uccidere, ma per difendersi.
«Bene, a voi il compito di finirli» disse il nano guardando i ragazzi.
Questi ultimi si guardarono sconvolti l’un l’altro e poi osservarono i loro compagni di missione.
«Noi non finiamo proprio nessuno» controbatté Giovanni.
«Invece lo farete. Essi appartengono all’esercito di Enoren e, se non verranno subito eliminati, gli riferiranno di voi e sarà per tutti la fine. In una battaglia o in una guerra la pietà non esiste. Il vostro nemico deve essere annientato. Prima lo imparate, meglio è».
«Se proprio ci tenete tanto a sbarazzarvi di loro, fatelo voi!» esclamò, stizzita, Sonia.
«Per tutte le fucine! Mai visto ragazzi così come voi che non hanno la forza di finire quello che hanno iniziato».
«Sai com’è, non è una cosa che facciamo tutti i giorni!» disse arrabbiato Giovanni.
Prima che qualcun altro potesse proferire altre parole, Giulio prese la spada e tagliò la testa ad un mezz’orco.
I suoi amici lo guardarono stupiti e sconvolti.
«Fatto» affermò il ragazzo dai biondi capelli.
«Tu, come hai potuto… Loro sono… Tu, hai appena…» farfugliò Federico guardando l’amico.
Giulio rimase in silenzio con la testa china.
Comprendendo la situazione, Alessandro prese la parola e disse: «È molto difficile togliere la vita a qualcuno, siano nemici o semplicemente persone che ostacolano il vostro cammino. Io combatto da molti anni e, tuttora, per me è molto complesso fare ciò. Tuttavia, in guerra, purtroppo è necessario che uno dei due avversari perisca. Questa non sarà la prima né l’ultima volta che incontrerete mezz’orchi o altre creature. Sappiate che esse non avranno pietà di voi. Combattono per uccidere e se voi non sarete più veloci di loro nel fare ciò, soccomberete».
Brandir continuò: «Non vogliamo obbligarvi a fare qualcosa che non volete, vogliamo solo che siate pronti ad affrontare il peggio».
Giovanni, Federico e Sonia, dopo essersi scambiati una breve occhiata, seppur riluttanti all’idea, impugnarono la spada e posero fine alla vita dei mezz’orchi.
Dopo essersi allontanati sufficientemente dal luogo in cui era avvenuto lo scontro, l’elfo, conscio della sofferenza dei quattro giovani, decise di fare una breve sosta.
I ragazzi non avevano più parlato ed il loro sguardo era avvilito.
«Su con la vita amici! Dopo l’oscurità ci sarà sempre la luce» affermò Asdrubaleo cercando di tirarli su di morale.
«Sorgerà un nuovo giorno e sarà molto più luminoso che il precedente. Tutte le cose brutte spariranno e rimarranno soltanto quelle belle, soltanto quelle che portano la felicità» concluse Coco.
Giovanni, Giulio, Federico e Sonia apprezzarono lo sforzo dei loro compagni di alleviare la loro tristezza. Decisero che avrebbero dovuto pensare a quella giornata il meno possibile, decisero cioè di dimenticarla. Perché nessuno vuole ricordare le cose brutte. Soltanto le cose belle ci appaiono degne di memoria o forse sono soltanto quelle che vogliamo ricordare per dimenticare un triste passato.
Se rimossero quanto avvenuto dalla loro mente, non lo rimossero, però, dal cuore.
«Che ne dite di dare un nome al nostro gruppo?» propose lo gnomo, cercando di distogliere ulteriormente l’attenzione dei quattro giovani rispetto a quanto era avvenuto poco tempo prima.
«Bella idea! Che ne dite di “Asdrubaleo ed i suoi alleati”?».
«La modestia non è proprio il tuo forte» lo punzecchiò Sonia.
«Se non ti piace, trova tu un nome migliore! Anche se non credo che riuscirà mai a colpire il mio cuore».
«Penso ci siano cose più importanti che dare un nome alla nostra compagnia» affermò scocciato Federico.
«Sono d’accordo» concluse Alessandro ponendo fine a quella inutile discussione.
La sera era calata rapidamente avvolgendo tutto quanto nelle tenebre.
Il gruppo aveva proseguito fino a notte inoltrata in modo da potersi avvicinare ulteriormente alla loro meta. Avevano deciso, infatti, che da quel momento in poi avrebbero viaggiato anche durante il calar delle ombre, sperando in questo modo di passare inosservati alle eventuali pattuglie del Sovrano delle Tenebre, tutt’altro che da escludere visto quanto era accaduto proprio quel giorno.
Mentre tutti dormivano, Brandir faceva la guardia.
Sonia, che a dispetto di quanto l’elfo pensasse non riusciva proprio a prendere sonno, si voltò nella sua direzione, senza che egli se ne accorgesse.
La ragazza notò il suo strano sguardo, c’era qualcosa di cupo in lui, qualcosa che metteva i brividi solo a guardarlo. In quel momento si accorse che gli occhi di Brandir non erano azzurri come al solito, ma neri, neri come quando aveva trattenuto la collera contro il capo guerriero delle fate. L’unica differenza era costituita dalla mancanza delle strisce nere sotto gli occhi.
Sonia ripensò ai libri che aveva letto in cui i personaggi principali o secondari erano elfi e si rese conto che Brandir era profondamente diverso da loro. Nelle storie essi erano presentati come esseri gentili e schivi, ostili ai nani, amanti della bellezza e della luce. Il loro bel volto infondeva fiducia, tranquillità e serenità. L’elfo di Bosco Verde invece era sì gentile, ma emanava un’aurea cupa di mistero e di…
«Devi continuare a fissarmi ancora a lungo?» chiese Brandir osservando la ragazza con una punta di fastidio.
Sonia, che non si era resa conto di essere stata scoperta talmente era concentrata nelle sue riflessioni, balbettò qualcosa di incomprensibile.
«Dovresti dormire, il viaggio è ancora lungo e domani dovremo muoverci molto più rapidamente».
«Si, hai ragione. Però non riesco a prendere sonno. Quindi potrei fare io la guardia al posto tuo».
«No, tu devi riposare».
«Anche tu. Credi che non l’abbia notato? Tu fai sempre il turno di guardia più lungo di tutti, perciò sei tu quello che dovrebbe andare a dormire ora».
«Tu vuoi sempre avere l’ultima parola, vero?».
La giovane corrugò il viso e, dopo un po’, rispose: «Io credo che si debba sempre dire quello che si pensa. Per cui, se tu mi dici una qualsiasi cosa, io devo esprimere la mia opinione. E, se questo la chiami avere “l’ultima parola”, allora è un problema tuo».
Brandir sorrise ed i suoi occhi tornarono ad essere di un profondo azzurro.
«I tuoi occhi cambiano colore come i camaleonti!».
A quell’affermazione il viso dell’elfo si rabbuiò e l’iride azzurra assunse una colorazione più scura.
Sonia fu invasa da una sensazione di paura e, per un attimo, pensò che l’elfo l’avrebbe attaccata.
Ma non fu così: pian piano gli occhi di Brandir tornarono alla loro solita colorazione ed il suo volto si distese.
«Non credevo ti fossi accorta di questo particolare».
La ragazza, ancora tesa, era incerta se dire qualcosa. Ma alla fine affermò: «Io osservo molto. Soprattutto ora che mi trovo in un mondo diverso dal mio. Un mondo che non conosco».
«E che cosa hai scoperto?».
«Non molto ancora. Ho visto così poco».
«Allora cosa hai notato di me e degli altri?».
«Che siete degli ottimi combattenti. Bossolo è impulsivo e feroce con la sua ascia, Alessandro è più cauto e riflessivo, Coco è un esserino che ha un notevole coraggio nonostante si trovi a dover combattere creature il doppio di lui, Asdrubaleo… Beh, è insopportabile, saccente, ma è anche gentile qualche volta e, mi sembra, sincero. Tu, invece, sei…».
«Non continuare. Un giorno, forse anche prima di quanto ci si possa aspettare, potrai dirmi cosa pensi di me. Ma non ora, non ora».
Brandir aveva un’espressione seria e Sonia capì che quelle parole avevano un peso molto più profondo di quanto si potesse pensare. La ragazza si alzò e si avvicinò all’elfo.
«Aspetterò quel giorno…» gli sorrise.
Brandir le sorrise a sua volta.
Si ritrovò a pensare, dopo che la ragazza si fu addormentata, che era da molto tempo che non si sentiva sereno. Era una bella sensazione, sensazione che avrebbe voluto provare per l’eternità. Forse, dopo aver svolto il suo compito, avrebbe trovato un po’ di tranquillità e avrebbe potuto finalmente vivere in pace.
Mentre pensava a queste cose due puntini gialli emersero dall’oscurità.

*

Dopo altri tre giorni di cammino, la compagnia giunse a Pratonevoso. Dinnanzi a loro si estendeva una piccola radura ricoperta di neve e circondata da bianche montagne. Raggiunsero rapidamente il Passo che avrebbe permesso loro di oltrepassare le montagne e arrivare alle Colline Nebbiose.
Dovettero procedere molto lentamente in quanto, come aveva spiegato Bossolo, i cunicoli erano abitati dai mezzo troll e dai giganti. Il minimo rumore avrebbe rivelato la loro posizione. Vi era, poi, il rischio di provocare una valanga nel caso in cui il rimbombo fosse stato relativamente forte, e lo sarebbe stato se gruppi di giganti e mezzo troll si fossero accorti di loro e avessero proceduto al loro inseguimento.
Il cammino era proseguito senza intoppi. Sonia, nonostante i continui scherzi di Asdrubaleo, aveva mantenuto la calma e si era ripromessa che avrebbe sistemato il folletto una volta usciti dal Passo di Pratonevoso. Federico, invece, conversava con Coco chiedendogli informazioni sul suo popolo e, in generale, sulla Terra dell’Infinito. Giulio e Giovanni non si rivolgevano la parola e stavano a debita distanza l’uno dall’altro. Il giovane dai capelli castano chiaro non riusciva a perdonare l’amico per aver stroncato la vita del mezz’orco tanto facilmente, anche se, in cuor suo, sapeva che il suo gesto non era dovuto a cattiveria o ad un istinto omicida. Tuttavia, a causa sua, anche lui era stato costretto a togliere la vita di un altro essere vivente e questo proprio non riusciva a sopportarlo.
Il gruppo, ormai prossimo all’uscita, si trovò la strada sbarrata da un gigante. Quest’ultimo era seduto dinnanzi all’apertura che conduceva al di là del Passo. Aveva gli occhi chiusi e vicino alla mano destra vi era una bottiglia vuota.
«E adesso cosa facciamo?» chiese turbato Coco.
«Lasciate fare a me, lo trafiggerò con la mia ascia» disse con una scintilla negli occhi Bossolo.
«Non essere sciocco. Per quanto tu possa essere forte, non lo sei abbastanza per abbattere un gigante» sentenziò Alessandro.
«Stai dicendo che sono debole?».
«Sai bene che non intendevo dire questo».
«No, non lo so. Non leggo nel pensiero».
«Finitela! Altrimenti sveglieremo il gigante!» affermò Giovanni.
«Cos’è, hai paura?» domandò Giulio con un sorriso di scherno.
«Perdonami se non sono impavido e coraggioso come te. Affrontalo pure, tanto non ti fai problemi ad uccidere le persone».
«Sei uno stronzo!».
«No, sei tu che lo sei».
Prima che i due giovani venissero alle mani, Federico e Sonia si misero in mezzo per fermarli.
«Si può sapere che vi prende? Vi state comportando come due bambini!» sbuffò Sonia.
«Non è colpa mia se Giovanni ha deciso di comportarsi da…»
«Certo, la colpa è mia! Sei un gran…».
«Finitela! Non risolverete nulla insultandovi a vicenda. Tu, Gigia, smettila di considerarlo come un assassino perché sai benissimo che non lo è. E tu, smettila di fare il guerriero senza macchia e senza paura perché proprio non lo sei. Noi non siamo combattenti, non abbiamo mai affrontato una battaglia o una guerra. Non dobbiamo, per forza, dare l’impressione del contrario. Siamo qui, non per nostro volere, ma per caso. Non lasciate che un episodio rovini la vostra amicizia… Siamo amici, siete amici» disse Federico.
Giulio e Giovanni si guardarono, poi si avvicinarono sorridendo e sbatterono le mani a pugno l’uno con l’altro.
«Maschi…» sospirò Sonia.
«Ehi, non per interrompervi, ma abbiamo ancora un grosso problema in sospeso» esclamò Bossolo indicando il gigante.
«Io ho un’idea: Brandir perché non provi ad usare il tuo flauto per svegliarlo?» propose Giovanni.
«Questo mi ricorda tanto una parte di un videogioco» affermò Giulio, guardando sorridente l’amico che gli rispose in maniera affermativa portando il pollice della mano in su.
«Cos’è un videogioco?» chiese Asdrubaleo.
«Sei proprio ignorante» rispose Sonia guardando beffarda il folletto.
Prima che quest’ultimo potesse ribattere, Brandir si fece avanti e riferì di conoscere una melodia che era particolarmente gradevole ai giganti.
Dopo aver concordato il piano d’azione, l’elfo incominciò a suonare. Si diffuse nell’aria un suono al tempo stesso armonico e stridulo che destò il gigante. Quest’ultimo, come in trans, si alzò e si avvicino all’elfo che incominciò ad indietreggiare, continuando sempre a suonare, insieme al nano. Intanto, liberatosi il passaggio, i sette membri restanti del gruppo oltrepassarono la soglia. Poco dopo li raggiunsero anche Brandir e Bossolo che, con abile maestria, erano riusciti a sopraffare il gigante. L’elfo lo avevo ipnotizzato con la sua melodia ed il nano ne aveva approfittato per colpirlo alle gambe per farlo cadere. A quel punto erano schizzati verso l’uscita.
«Occorre procedere rapidamente prima che si riprenda» affermò Alessandro.
Poco dopo avevano finalmente oltrepassato il Passo di Pratonevoso. Si stagliavano ora, dinnanzi a loro, le Colline Nebbiose.
 


Angolo Autrice.
Ciao a tutti!
Innanzitutto, grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia! 
Finalmente, anche se breve, c’è stata una prima battaglia che ha sconvolto i nostri quattro amici. Non sono proprio dei combattenti nati senza macchia e senza paura! xD
Ora si accingono ad oltrepassare le Colline Nebbiose e, potete starne certi, non sarà certo una passeggiata: oscure creature si annidano in quel luogo!
Che altro dire?
Al prossimo capitolo!
Violaserena.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

«Ora capisco perché si chiamano Colline Nebbiose. Con questa nebbia non si vede nulla!» esclamò Giovanni facendo attenzione a dove metteva i piedi.
Camminavano l’uno dietro l’altro per evitare di perdersi di vista.
Dopo qualche minuto arrivarono dinnanzi ad un ponte e Giulio, nonostante fosse in fondo alla fila, riuscì a scorgere una bassa figura.
«Quello è Gianni l’Ombroso» disse Alessandro. «Vive in questa zona da parecchi anni ormai. Senza il suo permesso non possiamo oltrepassare il ponte».
«Perché si è stabilito in questo orribile posto? E perché si chiama l’Ombroso?» chiese curiosa Sonia.
«Si dice che si sia allontanato dalla sua città natale per cercare un calice di una particolare forgia. Secondo la leggenda questo calice sarebbe in grado di produrre qualsiasi cosa uno desideri e si troverebbe proprio in questo territorio. Nessuno, però, lo ha mai trovato. Gianni viene detto l’Ombroso perché vive in questo luogo avvolto dalla nebbia e ciò contribuisce a conferirgli un’aura di mistero».
«Se nessuno lo ha mai trovato, perché lui non demorde nella ricerca?».
«È solo una leggenda, che lui crede sia vera» si intromise Bossolo.
«Non è una leggenda. È tutto vero» disse una voce proveniente da una figura avvolta nella nebbia.
«Come fai ad esserne sicuro?» domandò, scettico, Giulio.
«Perché ho trovato delle prove che possono confermarlo».
«Hai trovato il calice?» esclamò, sorpreso, Asdrubaleo.
«Non ancora, ma sono a buon punto. Presto sarà nelle mie mani».
«Calici a parte, noi dovremmo proseguire. Possiamo oltrepassare il ponte?» disse frettolosamente Coco, che proprio non amava quel luogo umido e tetro. Era abituato a vivere in una zona calda e luminosa, dove il sole rischiarava ogni cosa.
«Mmm… Per il vostro bene sarebbe meglio rimanere al di qua di esso. Orribili creature si trovano al di là».
Brandir si fece avanti e proferì tali parole: «Ne siamo consapevoli. Tuttavia questa è la nostra strada. Dobbiamo proseguire».
«Noi non ne siamo consapevoli» farfugliò Sonia.
«Concordo» concluse il folletto.
«Per tutte le fucine! Non ditemi che avete paura! Non vi lascerete impressionare da un po’ di nebbia e dalle storie di quest’uomo, spero».
«Chi? Noi? Assolutamente no! Per chi ci hai preso?» esclamò la ragazza cercando di mascherare la paura.
«Bene, se proprio volete proseguire, datemi una freccia nera».
«Perché proprio una freccia nera?» domandò Federico.
«Questo non ti riguarda. Elfo, dammi una freccia o non passerete».
Brandir, cercando di mantenere la calma e di non colpire Gianni l’Ombroso per il suo tono arrogante, obbedì e gli consegnò l’oggetto richiesto.
A questo punto poterono passare.
«Fate attenzione… Il male è vicino, più vicino di quanto crediate» avvertì il basso uomo osservando, in particolare, i quattro giovani che collegarono le sue parole con la presenza delle terribili creature in quel luogo.
Man mano che avanzavano la nebbia diventava sempre più fitta. Si sentivano lugubri lamenti provenire dalla zona circostante, cosa che aumentava il timore già insito nel cuore dei ragazzi.
«Fate attenzione. Siamo vicino a degli acquitrini» li avvisò Alessandro.
La conformazione del terreno, difatti, era cambiata: era diventata molto più molle rispetto a prima. Dovevano essere in prossimità anche delle paludi.
Camminarono ancora più lentamente in rigoroso silenzio.
Tutto era stranamente tranquillo. Non si udiva più alcun suono.
«C’è qualcosa che non va» esclamò ad un tratto l’elfo.
«Già, c’è troppa quiete» notò Federico.
Un grido riecheggiò nell’aria. Era il grido di Coco. Qualcosa lo aveva afferrato e ora lo stava trascinando lontano dai suoi compagni.
«Aiuto! Aiutatemi!» strillò lo gnomo.
«Di là!» disse l’elfo sguainando la spada. Con tutta quella nebbia era impossibile per lui fare uso del suo arco, o meglio, sfruttando il suo udito avrebbe potuto individuare la creatura, ma usandolo avrebbe rischiato di ferire il piccolo amico.
Nonostante la scarsa visibilità riuscirono a raggiungere Coco, stretto nella morsa di una grande chela. Da quel poco che riuscirono a vedere, la creatura che teneva prigioniero il loro compagno aveva due grandi chele al posto delle mani, ampie fauci e tre possenti zanne. Dei tentacoli spuntavano al posto delle gambe.
«Fate attenzione! È un mutante!» gridò Bossolo.
Il nano schivò l’attacco del mostro e riuscì a tagliargli la chela, liberando lo gnomo. Un lungo lamento perforò loro i timpani. Ma il mutante, nonostante il dolore per la perdita di un arto, si riprese e attaccò nuovamente. Con i suoi tentacoli riuscì ad afferrare Federico e Giovanni. Questi cercarono disperatamente un appiglio, ma furono trascinati sempre di più verso le fauci di quell’orrenda creatura.
Brandir e Alessandro cercarono di impedirlo, attaccandolo e tagliandogli i tentacoli. Bossolo e Giulio erano impegnati a recidere l’ultima chela, mentre Sonia, Coco ed Asdrubaleo tentarono di approfittare della situazione per liberare i loro compagni. Ma il mutante ruotò su se stesso, colpendo tutti i suoi aggressori, togliendoseli di torno.
Alzò i tentacoli e avvicinò alle fauci i corpi doloranti di Giovanni e Federico. Stava per divorarli, quando una freccia nera lo colpì in fronte. L’orrenda creatura cadde a terra priva di vita.
«Ragazzi!!» corse da loro Sonia abbracciandoli.
«Piano, siamo stati sballottati di qua e di là da quel mostro e… Grazie Brandir per averci salvati!» disse Federico.
«Non sono stato io».
«Ma allora chi è stato?»
«Io». Tutti si voltarono nella direzione in cui proveniva la voce.
Una bassa figura si avvicinò loro, rendendo chiaro chi fosse.
«Gianni l’Ombroso!» esclamò Giulio.
«Chi l’avrebbe mai detto che saresti accorso in nostro aiuto!» affermò sorpreso il folletto.
«Non era mia intenzione infatti. Stavo proseguendo nelle mie ricerche, quando ho sentito delle grida. Ho subito pensato che foste voi e che il mutante vi avesse attaccato. E non mi sbagliavo».
«Comunque grazie, anche se non sei venuto per noi ci hai salvato la vita» notò Giovanni.
«In realtà sono io che vi ringrazio. Era da tempo che cercavo di uccidere questa creatura. Mi disturbava sempre durante le mie ricerche, ma ora, finalmente, mi lascerà in pace».
Si avvicinò al mostro ed estrasse la freccia nera. Raccolse il sangue verdognolo che fuoriusciva dalla ferita mortale da lui infertagli e si accomiatò da coloro che aveva salvato.
«Che strano tipo» bisbigliò Asdrubaleo.
«Già, uno strano tipo che, nonostante la nebbia, è riuscito ad abbattere in un solo colpo questo mutante» commentò ironicamente Alessandro.
«Basta con le chiacchiere. Dobbiamo proseguire. Prima usciamo da questo posto, meglio sarà per tutti» disse Brandir riprendendo il cammino.
«Ehi tu… Grazie per avermi aiutato» affermò Coco rivolgendosi a Bossolo.
Quest’ultimo mugugnò qualcosa e seguì l’elfo.
«Siamo stati fortunati. Ancora un po’ e ci rimettevamo le penne!» esclamò Giovanni.
«Dobbiamo diventare più forti. Ora, però, muoviamoci altrimenti rischiamo di perderci» concluse Giulio incamminandosi, seguito a ruota dagli altri.

*

Biancofiore era una ridente cittadina situata alle pendici del Monte Cherubino.
Un prato ricoperto di fiori profumati si trovava dinnanzi alle bianche mura che proteggevano la città.
Quella lieta vista rasserenò i ragazzi che, dopo i pericoli delle cupe Colline Nebbiose, finalmente poterono tirare un sospiro di sollievo. Difatti, dopo che Gianni l’Ombroso aveva sconfitto il mutante, il gruppo si era imbattuto in altre inquietanti creature dalle quali erano riusciti a sfuggire sfruttando la nebbia ed il calar della sera.
Stavano scendendo il sentiero che li avrebbe condotti alle porte della città, quando un gruppo di goblin fece la sua comparsa. I goblin, piccole creature dalla pelle marroncino-rossastra, non erano famosi per la loro forza fisica, quanto per la compattezza del loro gruppo. Spesso cavalcavano mostruosi pipistrelli e, durante la notte, rapivano donne e bambini sostituendo questi ultimi con i propri osceni figli. Solitamente vivevano in grotte sotterranee e, infatti, i cinque membri della compagnia appartenenti alla Terra dell’Infinito, rimasero stupiti nel vederli in superficie alla luce del sole.
I goblin partirono all’attacco. Con le sue nere frecce Brandir riuscì ad abbatterne un certo numero, ma, dal momento che persistevano e si avvicinavano sempre di più, fu costretto a riporre l’arco e ad estrarre la spada. Bossolo ruotava l’ascia su se stessa e trafiggeva tutti i nemici che gli capitavano a tiro. Coco e Asdrubaleo sfruttavano la loro bassa statura per insinuarsi tra le fila degli avversari e coglierli alla sprovvista. Alessandro, come al solito – fatta eccezione che nei confronti delle creature delle Colline Nebbiose – si limitò a schivare i colpi dei nemici.
Mentre combatteva, Giulio si ritrovò a pensare che i goblin fossero più forti del previsto. Notò, poi, con sorpresa che, nonostante la loro bassa statura, la loro ombra era lunga il triplo. Mentre rifletteva su tutto ciò, vide uno di essi lanciarsi contro il nano e immediatamente scagliò la sua spada trafiggendolo.
Bossolo si voltò e disse: «Per tutte le fucine! Stavo per essere ucciso da un ignobile e codardo goblin! Grazie per il tuo aiuto, ti sono debitore».
«Non ce n’è bisogno!».
Intanto Giovanni, Federico e Sonia misero al tappeto gli ultimi nemici.
«Ottimo lavoro!» si complimentò con loro il nano. «Avete fatto notevoli progressi».
Sconfitti i nemici e giunti finalmente alle porte della città Federico si accorse di aver perso l’orologio. Anche se nella Terra dell’Infinito il tempo scorreva in maniera diversa dal suo mondo, aveva preferito non toglierselo.
«Deve essermi caduto durante lo scontro. Torno indietro a vedere se lo trovo».
«Lascia perdere, è improbabile che tu riesca a…» tentò di dire l’elfo.
«Vado a vedere. Se non lo trovo entro cinque minuti, prometto di lasciar stare e di tornare qui».
«Veniamo con te!» affermò Giovanni indicando se stesso, Sonia e Giulio. «Così se dov’esse spuntare qualche altro nemico non sarai solo».
Alla fine riuscirono a convincere i loro compagni e poterono tornare indietro.
«Capisco che vogliano proteggerci, ma fare tutte quelle storie solo perché…» si interruppe Sonia osservando scioccata quanto le si parava di fronte. I suoi amici rimasero altrettanto basiti.
«Allora, l’avete trovato?» chiese Coco vedendo di ritorno i quattro giovani.
«Si, eccolo qui» rispose Federico.
«Tutto bene?» domandò Brandir notando il volto strano dei ragazzi.
«Si, è tutto apposto. Solo, abbiamo trovato un po’ disgustoso dover cercare l’orologio tra i corpi inerti dei goblin. Tutto qui» disse Giovanni.
«Bene, allora che aspettiamo ad entrare in città?» saltellò allegro il folletto.
«Sei allegro più del solito» notò Coco.
«Si, questo posto mi piace molto! Quand’ero piccolo ci venivo spesso con la mia famiglia. Ricordo che c’era un fantastico negozio di scherzi dove c’erano oggetti assai interessanti. Voglio assolutamente farci un salto!».
«Ti ricordo che non siamo venuti qui per farci una vacanza» lo rimproverò Bossolo.
«Penso che un attimo di riposo e svago non faccia male a nessuno» asserì Alessandro.
L’elfo ed il nano lo guardarono. Un gelido silenzio calò sui presenti.
«Massì, un giorno o due di riposo non ci faranno male. In fondo dobbiamo recuperare le forze. Ci aspetta una dura prova all’interno del Monte Cherubino» concluse Brandir.
Il gruppo entrò all’interno della città.
Un fiume divideva in due parti Biancofiore. Numerosi ponti, tutti di colore bianco, collegavano le sponde le une con le altre.
Dopo aver trovato una locanda in cui pernottare, i quattro amici, accompagnati da Alessandro, Bossolo ed Asdrubaleo, decisero di fare un giro in città. Brandir e Coco si diressero, invece, nella biblioteca: il primo per svolgere delle ricerche, il secondo per cercare un libro su delle pietre preziose.
I sette membri della compagnia giunsero nella piazza del mercato. Dalle bancarelle provenivano le grida dei venditori che cercavano di attirare le persone per vendere i propri prodotti.
«Venghino, signori, venghino! Prezzi scontati. È la vostra ultima occasione!» gridava un mercante.
«Oggetti di alta fattura a prezzi bassi! Vasi, bicchieri, sedie provenienti dalla Rocca dei Re, venite, venite!!» urlava un altro.
«Allontaniamoci da qui, non si riesce a camminare senza essere spinti e… Ahi!! Fate più attenzione, accidenti!» proruppe Giovanni, stufo delle continue spinte e gomitate della folla.
Con molta fatica, uscirono dalla piazza del mercato.
«Ce l’abbiamo fatta!».
«Si, ma ci siamo persi Alessandro ed Asdrubaleo» fece notare loro Federico.
«Se la caveranno. Un po’ di folla non li fermerà di certo» disse Bossolo.
«Che facciamo? Stiamo qui ad aspettarli?» domandò Sonia.
«Io propongo di proseguire. Per quanto ne sappiamo potrebbero essere finiti dall’altra parte della piazza. Non ha senso rimanere qua fermi ad attenderli» affermò Giulio.
Dal momento che tutti erano d’accordo, proseguirono.
«Vi spiace aspettarmi un momento? Lì c’è un negozio di asce e mazze, vorrei darci un’occhiata» disse il nano avviandosi verso il negozio senza aspettare la loro risposta.
Giulio stava per ribattere, quando un elfo dai lunghi capelli biondi passò accanto a loro.
Era molto alto, aveva gli occhi verdi e sulla spalla aveva una faretra contenente frecce, presumibilmente in legno di tiglio, di colore chiaro.
«Seguitemi» sussurrò.
I quattro ragazzi si guardarono, incerti su che cosa fosse meglio fare: Bossolo sarebbe ricomparso a breve e se non li avesse trovati si sarebbe sicuramente arrabbiato.
Poi Giulio si ricordò di un particolare che, nello stesso momento, venne in mente anche a Federico. Cosicché, all’unisono, esclamarono: «Le frecce non sono nere!».
I loro due amici compresero all’istante e, concordemente, decisero di raggiungere l’elfo.
«Finalmente, credevo non mi avreste seguito».
«Perché ci hai chiamato? Che cosa vuoi? Chi sei?» chiese Sonia.
«Calma calma. Ora vi dirò tutto. Sono Galdor, figlio di Galador e Galathil, consiglieri del re Thalion e della regina Lothìriel di Lungobosco. Sono qui per illuminarvi su ciò che sapete, o credete di sapere».
I quattro ragazzi gli fecero cenno di continuare.

 



Angolo Autrice.
Ehilà!
Innanzi tutto grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia! :D
In questo capitolo succedono un po’ di cose strane: perché Gianni l’Ombroso vuole una freccia nera? Che cosa hanno visto i quattro giovani, dopo essere ritornati sul luogo dello scontro contro i goblin? Chi è Galdor? Ma, soprattutto, che cosa vuole dire ai nostri protagonisti?
Scoprirete tutto ciò nei prossimi capitoli!
Quindi… Alla prossima! :)
Violaserena.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

La locanda era gremita di gente. I camerieri erano indaffarati a portare le varie ordinazioni ai clienti e a cercare di non inciampare e ostacolarsi tra di loro.
Il gruppo era riunito per la cena in una piccola saletta vicino alla cucina.
Coco era intento ad elencare le qualità di molte pietre mai sentite nominare, Asdrubaleo era impegnato a provare gli oggetti che aveva comprato nel negozio degli scherzi contro Sonia, la quale tentava di mantenere la calma per evitare di strangolare il folletto.
Brandir e gli altri guardavano allegri il divertente siparietto.
Bossolo, contagiato dall’allegria generale o forse dall’aver bevuto troppo, cominciò ad intonare una canzone in lingua nanica. Tutti si voltarono divertiti verso di lui.
Il nano, ancora più euforico, salì sul tavolo cantando sempre più forte.
Poi si inciampò e cadde ruzzoloni per terra provocando una risata generale.
«Per tutte le fuc-fucine! Non ci si comporta così: ridere di un na-nano! Fi-fi-finitela o assaggerete la mia ascia!».
Le risate si fecero ancora più forti. Bossolo, indispettito, tentò di alzare la sua arma, ma non ci riuscì. Allora, barcollando, si avvicinò ad un uomo che continuava a sghignazzare.
«Ridi, ridi. O-ora vedrai que-quello che ti succede-de-rà! Hic!».
Per tutta risposta l’uomo gli rise in faccia.
Alessandro, per evitare che si scatenasse un putiferio, prese il nano e lo portò nella stanza superiore, mettendolo a letto.
«Ahahah, non ci possono credere! Non pensavo che avrei mai visto Bossolo in questo stato! Ahahah!» esclamò Giovanni.
«Fa proprio scassare» continuò Giulio.
«Si, è stata una scena epica!» affermò Federico.
«Ho male alla pancia per aver riso così tanto» concluse Sonia.
Asdrubaleo salì sul tavolo ed, innalzando il bicchiere, disse: «A Bossolo, per questa divertente serata!».
«A Bossolo!» gridarono tutti i presenti.
A prima vista poteva sembrare una serata normale, allegra, ma un occhio attento avrebbe potuto notare che, forse, non era così.
Il giorno seguente, mentre il nano era rimasto alla locanda a smaltire la sbornia, gli altri membri della compagnia si erano recati in biblioteca.
«Io e Asdrubaleo andiamo a fare rifornimenti di provviste, ci vediamo dopo!» disse Brandir, uscendo insieme al folletto.
I quattro ragazzi si guardarono e poi si avvicinarono ad Alessandro e Coco.
«Galdor…» bisbigliò Federico.
L’uomo e lo gnomo, a quel nome, rimasero stupiti e turbati. Non riuscirono a dire nulla. Fecero, però, un cenno ai giovani di continuare.
La sera era giunta in fretta. Tutto era pronto per la partenza. Brandir fece sapere di aver ingaggiato una guida che li avrebbe condotti fino al Monte Cherubino.
All’alba, un uomo tarchiato di mezza età, si presentò, come stabilito, davanti alla locanda dove il gruppo alloggiava.
In poco tempo si lasciarono la città alle spalle e proseguirono lungo un impervio sentiero di montagna.
Più si avvicinavano al Monte Cherubino, maggiore era la preoccupazione. L’aria diventava sempre più pesante e l’aura cupa che aleggiava si diffondeva da tutte le parti.
Una strana sensazione, mista di paura ed eccitazione, colse tutti i membri della compagnia.
Presto il pugnale di Caio il Grande sarebbe stato nelle loro mani e tutto sarebbe finito.
«Siamo arrivati. Questa è l’entrata» indicò la guida.
«Grazie per averci accompagnato, ci sei stato di grande aiuto» affermò Brandir.
«Ma come? Non prosegue con noi?» domandò stupito Giovanni.
«No» fu la secca risposta di Bossolo.
La guida, dopo aver ricevuto una ricompensa per averli condotti fin lì, se ne andò dicendo: «Buona fortuna. Che il cielo vi assista!».
Uno ad uno entrarono all’interno del Monte Cherubino. Percorsero un lungo cunicolo al termine del quale trovarono tre biforcazioni.
«Fantastico! E ora in che direzione andiamo?» chiese Sonia.
Il nano e lo gnomo tastarono le pareti di ognuna delle tre vie e decisero di percorrere quella centrale, in quanto era la più umida. Secondo la logica, quindi, doveva essere la strada giusta per arrivare al Lago Nero.
Delle piccole fiaccole erano accese lungo il percorso, il che fece supporre o meglio dimostrò quanto temevano, cioè che non erano soli: qualcuno abitava all’interno del monte.
«Occhio a dove mettete i piedi. Potrebbero esserci delle trappole» asserì Alessandro.
«È improbabile!» esclamarono all’unisono Coco e Bossolo.
I due si guardarono sorpresi e poi il nano disse sprezzante: «e che cosa può saperne uno gnomo dell’Arcobaleno?».
«Solo perché la mia razza vive all’aria aperta, non significa che non conosca le caratteristiche del sottosuolo o delle montagne. Dove pensi che troviamo le pietre preziose? Sotto le foglie?».
«Le vostre conoscenze sono cento volte inferiori a quelle di noi nani e…».
«Finitela. Non è questo il momento di decidere chi delle vostre razze sia più esperto in questa materia. Con le vostre urla non passeremo di certo inosservati» li sgridò Alessandro.
«Uomo, io non prendo ordini da te. E se voglio urlare lo faccio fin che voglio. Non ho paura di chi possa arrivare: chiunque sia dovrà affrontare la mia ascia!».
«Smettila» lo gelò l’elfo.
Il nano mugugnò qualcosa, ma poi fece silenzio. Lo gnomo sorrise soddisfatto per i rimproveri che il compagno aveva ricevuto.
«Anche tu» lo guardò torvo Brandir, cosicché anche Coco ammutolì.
«Che gente!» esclamò Asdrubaleo divertito dalle facce cupe dei suoi due compagni.
Il gruppo proseguì lentamente, prestando attenzione al più piccolo particolare e al più piccolo rumore che potesse rivelare la presenza di un potenziale nemico.
Camminavano ormai da un paio d’ore e la strada sembrava non finire mai.
Arrivarono in un piccolo spiazzo e con loro grande sorpresa scoprirono che era un vicolo cieco: non una via sembrava esserci.
«Accidenti, abbiamo preso il sentiero sbagliato» sbuffò Sonia stanca di camminare. «Ora ci tocca fare il percorso all’indietro e scegliere un’altra strada, uff».
«No, questa è la strada giusta» esclamarono Coco e Bossolo.
«Una cosa sensata l’hai detta, gnomo, finalmente».
«Ne ho dette tante di cose sensate, a differenza tua…».
Prima che il nano potesse ribattere, Federico si fece avanti e disse: «Magari il modo per proseguire c’è… Ci potrebbe essere un passaggio segreto o qualcosa di simile».
«All’interno di una montagna?» affermò scettico Giulio.
«Perché no? In fondo di cose strane ne abbiamo viste parecchie, basta guardare loro» - e indicò i quattro abitanti della Terra dell’Infinito, escludendo Alessandro - «senza offesa».
Ad un cenno di Brandir tutti si misero a tastare il terreno, sperando di trovare una qualche apertura nascosta.
«Niente, non c’è niente!» quasi gridò Giovanni per l’amarezza di non aver trovato nulla.
Stavano per tornare indietro quando sentirono un tremolio provenire dall’alto. All’improvviso il terreno sopra di loro si sgretolò e qualcosa, o meglio qualcuno, cadde.
Spostatisi in tempo per non venire travolti, sentirono un gran tonfo.
Si avvicinarono con cautela e scorsero la figura di un uomo.
«Forse mi sbaglio, ma quello non è un pirata?» domandò Asdrubaleo.
Gli altri otto membri della compagnia lo osservarono con attenzione, soprattutto i quattro giovani.
L’uomo aveva folti capelli neri raccolti in tante piccole trecce. La barba era del medesimo colore e parte di essa era stata raccolta per formare due trecce legate da un perla. Portava un orecchino d’oro all’orecchio destro e le sue mani erano piene di preziosi anelli. Legata alla cintura vi era una spada dall’ottima forgiatura: l’impugnatura era finemente lavorata ed al centro era incastonato un rubino. Da una seconda cintura pendevano tre pugnali sontuosamente rifiniti, un quarto era attaccato allo stivale. Probabilmente le armi erano molte di più: chi ha mai visto un pirata con solo cinque mortali strumenti? Un cappello nero gli copriva la testa.
«Si, sembra proprio un pirata» concordò Alessandro.
«E che ci fa qui? Non mi sembra un posto adatto ad uno come lui» disse Giulio.
«Ma secondo voi è vivo? Non si muove» notò Sonia.
Il folletto, curioso per natura, si avvicinò all’uomo e vide che stringeva tra le mani un grande sacco. Allungò la mano per vedere di che cosa si trattasse, quando qualcuno gliela afferrò.
«È vivo» urlarono tutti.
«Giù le mani dal mio tesoro piccoletto» affermò acidamente il pirata.
Quest’ultimo, dopo un po’, si accorse di essere circondato.
«Beh, perché mi guardate così? Che volete da me?».
«Che cosa c’è la sopra?» chiese Brandir. «Hai visto forse un lago?».
Il bucaniere non rispose.
«Ti conviene parlare se non vuoi assaggiare la mia ascia» si intromise Bossolo.
«O le nostre spade» continuò Giulio.
Ancora silenzio.
Sonia estrasse la spada e menò un fendente contro il sacco dell’uomo: fuoriuscirono alcune perle.
«Brutta mocciosa, come hai osato?» strillò il pirata alzandosi all’improvviso e cercando di colpire la ragazza con la sua sciabola. L’elfo si mise in mezzo, parò il colpo e lo disarmò.
«Grazie» sussurrò la giovane.
Brandir le sorrise e poi tornò a concentrasi sull’uomo: «O rispondi alle mie domande, o vedi quello che ti succederà».
«V-va bene». Il pirata raccontò di com’era entrato nel Monte Cherubino, di trovarsi lì perché aveva avuto notizia della presenza di un immenso tesoro e di averlo trovato. Tuttavia non aveva visto nessun lago.
«Però, forse, potrebbe trovarsi nell’altro cunicolo. Io sono andato in quello di sinistra, perciò provate ad andare in quello di destra».
«Bene, grazie per le informazioni. Bada che tu non ci abbia mentito però».
«Nono, lo giuro sul mio onore».
«Qual è il tuo nome?» chiese Alessandro.
«Sono Edoardo il Temerario».
«Non mi sembra tanto un nome da pirata» bisbigliò Federico.
«Possiamo fidarci. Ho sentito parlare di lui. Pare che sia il capitano di una delle migliori ciurme della Terra dell’Infinito. Il suo nome completo è Edoardo Insegna» raccontò Alessandro.
«Esattamente. Ora che ti guardo meglio, il tuo volto mi sembra familiare…».
«Ti stai confondendo con qualcun altro» si affrettò a rispondere.
Accomiatatisi dal pirata, si arrampicarono sulla corda fissata dall’elfo con una freccia e arrivarono dove si trovava Edoardo il Temerario prima di precipitare. L’ultimo a salire fu Alessandro.


*
 

Procedettero con calma, ma con un’ansia maggiore rispetto a prima. La meta era ormai vicina, a momenti avrebbero trovato ciò che stavano cercando da tanto tempo.
Come aveva indicato il pirata avevano svoltato nel cunicolo di destra e, mano a mano che proseguivano, notarono che l’umidità aumentava, segno che si avvicinavano sempre di più al Lago Nero. Poco lontano vi era una grande apertura, la raggiunsero e si trovarono dinnanzi ad una scala che portava ad un piccolo spiazzo affacciato sul lago. Quest’ultimo era nerissimo, sembrava una grande pozza di inchiostro. Un’aura cupa e misteriosa aleggiava nell’aria, aura che aveva fatto perdere l’allegria ai nove venuti, prima felici per aver raggiunto la fatidica meta.
«E ora?» chiese Asdrubaleo.
I membri della compagnia si guardarono intorno sperando di notare qualcosa che potesse loro suggerire la presenza in superficie del pugnale di Caio il Grande. Però, videro solo altre quattro aperture provenienti da cunicoli diversi. Per il resto vi era solo acqua, acqua nera che impediva di vedere il fondale e di comprendere la reale profondità del lago.
«Credo proprio che il pugnale sia nel fondo del lago» sospirò amareggiato Federico.
«Già. E ora come facciamo a trovarlo?» domandò stanco Giovanni.
«Dobbiamo immergerci» rispose risoluto Brandir.
Tutti lo guardarono sconvolti.
«Per tutte le fucine! Non si è mai visto un nano nuotare, e questo non sarà certo il giorno in cui ciò cambierà!».
«Io lì non ci entro, nemmeno per un milione di pepite» esclamò Coco.
«Nemmeno io» concordò il folletto.
«Calma calma. Ricordate cosa ha detto il Grande Mago? Che solo persone provenienti dalla Terra possono recuperare il pugnale di Caio il Grande, per cui…» cominciò a dire l’elfo.
«Non se ne parla proprio» lo interruppe Sonia.
«Noi lì dentro non ci entriamo! E poi non siamo dei pesci, come facciamo a respirare sott’acqua?» continuò Giovanni.
«Per questo non c’è problema» riprese la parola Brandir. «Mentre voi eravate impegnati a visitare Biancofiore, io sono andato in biblioteca a fare delle ricerche, prevedendo che potesse verificarsi un simile problema. Sono riuscito a trovare un libro che, purtroppo, parlava in maniera sommaria del Lago Nero. Tuttavia ho trovato qualcosa di interessante: esiste un’erba che permette di respirare sott’acqua per circa venti minuti. Questa particolare erba è molto difficile da reperire, ma per fortuna, l’uomo che ci ha condotti all’entrata del Monte Cherubino era un mercante e ne aveva un po’. Così l’ho comprata ed eccola qua».
L’elfo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcuni fili di erba verde scuro e la porse ai giovani.
«Io non voglio. Non mi piace questo lago, quest’erba e tutta questa situazione» brontolò Sonia.
«Se potessi recuperare io il pugnale, lo farei. Ma purtroppo non posso».
«Ma perché tutte le cose peggiori capitano sempre a noi?» disse rammaricato Federico.
«Quando rivedremo quel maledetto mago giuro che lo strozzo con le mie mani!» esclamò con un sorriso lugubre Giulio.
«Ti darò una mano anch’io!» affermò convinto Giovanni.
«Contate anche su di noi» si unirono Sonia e Federico.
«Ragazzi! Capisco che questa situazione non vi piaccia, ma siete gli unici che potete recuperare il pugnale. Noi vi copriremo le spalle. Non permetterò a nessuno che vi venga fatto del male. Fidatevi di me» disse con un sorriso sincero Alessandro.
I quattro giovani lo guardarono come rassicurati e si decisero a prendere i fili d’erba. Li stavano per ingerire, quando udirono un gorgoglio provenire dal lago.
Sentirono un lugubre sibilo e poi tornò il silenzio.
«State all’erta» sussurrò Bossolo estraendo l’ascia.
Una cupa risata risuonò lungo le pareti della montagna. Il gorgoglio riprese e dal lago spuntò una creatura mostruosa dal volto umano e dal corpo di serpente.
«Attenti, quello è un dracontopode!» gridò preoccupato Brandir.
«Un che?» chiese allarmato Coco.
«È una creatura che appartiene al terzo ordine dei serpenti e…».
«Terzo ordine, vuol dire che non è poi così temibile!» affermò sicuro di sé Bossolo.
«Non farti ingannare. Il suo morso è debole ed il suo veleno non è mortale, anche se può provocare piaghe e gonfiori. Tuttavia la sua stretta è micidiale. Se cattura una preda puoi stare certo che la stritolerà tanto forte da romperle tutte le ossa».
«Sssai molte cossse sssu di me, elfo» sibilò il dracontopode.
«S-sa parlare!» urlò stupito Asdrubaleo.
«Cosssa posso fare per voi, miei cari amici?» proseguì il mostro ignorando le parole del folletto.
«Andartene e lasciarci in pace!» rispose caparbio Giulio.
«Ragazzo coraggiossso o molto sssciocco».
«Perché dovresti fare qualcosa per noi?» domandò sospettoso Alessandro.
«Perché non dovrei, amici? Sssiete in nove ed io sssono sssolo. È da tanto che qualcuno non mi viene a trovare. È bello avere un po’ di compagnia».
Tutti loro si guardarono titubanti finché Brandir disse: «Visto che vuoi fare qualcosa per noi, hai mai visto nel lago un pugnale?».
«Ma che fai, sei impazzito?» bisbigliò lo gnomo, raccogliendo il consenso degli altri.
«Non possiamo farli immergere con questa creatura, quindi se loro – e indicò i quattro giovani - non possono cercarlo, sarà lui a trovarlo».
«Mmm, buona idea» concordò Federico sempre sussurrando.
«Un pugnale? Oh, sssi l’ho visto. Sssi trova tra le rocce e le alghe, vicino alla tana dei pesci martello, uno dei miei piatti preferiti. È racchiuso in un cofanetto. Vado a prenderlo» e così si immerse.
Tornò il silenzio per qualche breve secondo.
Tutti erano in ansia, non sapevano quello che li attendeva al ritorno della mostruosa creatura. Forse li avrebbe attaccati e avrebbe cercato di mangiarli.
Ad un tratto il dracontopode riapparve con uno scrigno in mano: «Qui c’è il pugnale, amici». Lo apri e mostrò il contenuto.
«E così quello è il pugnale di Caio il Grande» esclamarono meravigliati i quattro giovani.
Da lontano non riuscivano a vederlo bene, ma percepivano tutta la sua grandezza oltre ad un’aura sinistra.
«Ssse fossi in voi non lo toccherei, amici. Quando ho provato a prenderlo ho avvertito un grande dolore».
I membri della compagnia si guardarono l’un l’altro sicuri, ormai, che quello fosse proprio l’oggetto che stavano cercando.
«Ce lo puoi dare?» domandò Asdrubaleo con una sicurezza inaspettata.
«Certo, amici. Sssono andato a prenderlo proprio per voi. Ma prima… dovrete riuscire ad uccidermi!» strillò il mostro lanciandosi all’attacco.
La creatura si muoveva con notevole rapidità ed era molto difficile riuscire a colpirla.
«Presto, sulle scale!» gridò Alessandro.
«Mi abbandonate proprio ora, amici? Questo proprio non sssi fa, nono».
Il dracontopode con un movimento fulmineo riuscì a catturare Sonia.
«Uhm, che odorino. Sssono sssicuro che hai un ottimo sssapore».
«Sonia!!» urlarono preoccupati i suoi amici.
«Tranquilli, presssto raggiungerete la vostra amica, cosssì le farete compagnia, anzi mi farete compagnia».
Un grido risuonò nell’aria. Il folletto, senza farsi notare, aveva colpito con la sua spada la coda della mostruosa creatura. Gli occhi di quest’ultima guardarono infuriati il piccolo esserino.
Asdrubaleo cercò tutto il suo coraggio per non indietreggiare e per affrontare il nemico.
La ragazza guardò con gratitudine il piccolo amico ed esclamò: «Scappa! Non preoccuparti per me».
«Non sono preoccupato! Ma non voglio che tu finisca nella pancia di quel coso, sennò a chi farò i miei scherzi? Chi farò arrabbiare per il mio parlare in rima? Chi…». Il piccolo orecchie appuntite non riuscì a finire la frase che il dracontopode lo catturò e cominciò a stritolarlo.
Sonia morse la mano che la imprigionava con tutta la forza che aveva e, grazie all’aiuto delle frecce lanciate da Brandir, riuscì a liberarsi. A quel punto corse verso Asdrubaleo insieme a Bossolo, Federico ed Alessandro.
Il dracontopode, infuriato per il dolore alla mano, reagì cercando di attaccare i suoi aggressori. Durante la colluttazione allentò la presa sul folletto cosicché la ragazza riuscì a liberare il suo piccolo amico che, miracolosamente, era ancora in vita e non era ferito gravemente.
«Maledetti» disse infuriato il mostro.
Alessandro e Bossolo, aiutati da Giovanni, Federico e Coco, piantarono le loro armi nella coda, tentando di immobilizzarlo.
Brandir impugnava l’arco per incoccare le frecce e colpire il nemico in punti vitali.
Durante questo combattimento, nessuno, ad eccezione di una persona, si era accorto che il serpente dal volto umano aveva fatto cadere lo scrigno con il pugnale.
Giulio si avvicinò, senza paura prese l’oggetto di Caio il Grande e si fiondò sicuro di sé come non mai contro il dracontopode. Lo colpì al petto, lacerandoglielo.
L’urlo della creatura fu assordante e terrificante. Essa si accartocciò su se stessa, sibilò più volte e poi cadde a terra priva di vita.
Tutti guardarono stupiti quanto era accaduto e poi notarono Giulio e ciò che teneva in mano: il pugnale di Caio il Grande.


 

Angolo Autrice.
Ehilà!
In questo capitolo, finalmente, i nostri amici riescono a recuperare il pugnale di Caio il Grande.
Che cosa succederà adesso? Perché i quattro giovani hanno parlato di Galdor ad Alessandro e Coco? Perché il pirata sembra conoscere Alessandro?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Saluti.
Violaserena.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

Finalmente ciò che avevano cercato per lungo tempo era nelle loro mani. La missione era quasi completata: bisognava solo più tornare dal Grande Mago e poi tutto sarebbe finito.
«Complimenti Giulio» lo elogiò Bossolo, non solo per aver trovato il pugnale, ma anche per aver combattuto valorosamente contro un nemico come il dracontopode.
«Ce l’abbiamo fatta! Ora possiamo tornare indietro: Gregorio il Giusto sarà fiero di noi!» esclamò soddisfatto Brandir.
«Non così in fretta» affermò tranquillo Giovanni.
L’elfo lo guardò stranito, poi notò che tutti i quattro giovani si erano fatti seri in volto e si erano avvicinati ad Alessandro e Coco.
Quello che era stato solo un sospetto, ora si tramutò in certezza: loro sapevano.
«Non sorridi più Brandir?» ghignò Alessandro.
Bossolo, che piano piano stava comprendendo ciò che stava accadendo, esclamò arrabbiato rivolgendosi all’uomo e allo gnomo: «Sporchi traditori!».
«Noi non siamo traditori perché non siamo mai stati dalla vostra parte. Ci siamo infiltrati nelle vostre fila per scoprire quello che tramavate, per aiutare i nostri famigliari e amici fatti da voi prigionieri o incantati dalle vostre oscure lusinghe. Non abbiamo mai creato problemi fino ad ora solo per entrare nelle vostre grazie e in quelle del Grande Mago, o meglio di Enoren. Così facendo siamo riusciti a partire con voi per recuperare il prezioso pugnale che rimarrà nelle nostre mani. Impediremo al Sovrano delle Tenebre e a voi luridi suoi servitori di dominare sulla Terra dell’Infinito» disse Coco.
«Pensavate che non ci saremmo accorti del vostro inganno?» domandò Giovanni con un sorriso di scherno.
«Sin da quando siamo giunti nel vostro mondo abbiamo avuto la strana sensazione che qualcosa non tornasse. E ne abbiamo, recentemente, avuto la conferma nonostante, molti, lungo il cammino ci avessero velatamente avvertito: dalla fata Lucia a Gianni l’Ombroso» continuò Sonia guardando seria e con un velo di tristezza l’elfo.
«Quando siamo tornati indietro sul campo di battaglia a recuperare il mio orologio, non abbiamo trovato i corpi inerti dei goblin, ma quelli di uomini. Ci siamo chiesti che cosa significasse tutto ciò. A Biancofiore abbiamo incontrato un elfo che sicuramente conoscerai Brandir. Si chiama Galdor» - a quel nome l’elfo sussultò - «Ci ha raccontato tutto: il villaggio di Lucedorata è caduta sotto il controllo del Sovrano delle Tenebre. Conoscendo la profezia, Enoren ha aspettato il nostro arrivo e, fingendosi Gregorio il Giusto, al quale aveva precedentemente sottratto la vita e si era impossessato del suo corpo, ci ha accolto e ci ha affidato la missione di trovare il pugnale di Caio il Grande con il solo scopo di recuperare la parte di sé imprigionata in questo oggetto e poi, una volta fatto ciò, distruggerlo. I puntini luminosi che Giovanni ha visto durante la notte erano quelli dei o del Darkoth che ci seguiva. I mostri contro cui abbiamo combattuto erano uomini, che a noi sembravano orchi, mezz’orchi o goblin a causa di una illusione provocata dal Sovrano delle Tenebre. Ho, finalmente, compreso perché Alessandro si limitava a schivare i colpi dei suoi avversari. Quando Gianni l’Ombroso ha chiesto una freccia nera non sono riuscito a capire il motivo, ma ora lo so: gli elfi usano frecce chiare a differenza di quelli oscuri. Tu, Brandir, sei un elfo oscuro. Questo spiega il perché ti compaiano delle strisce scure sotto gli occhi quando sei arrabbiato e perché le tue iridi siano, in realtà, nere. Tu, Bossolo, fisicamente non sei diverso dagli altri tuoi simili, ma la tua particolare aggressività denota il fatto che tu sia un nano oscuro» disse Federico.
«Non mi è mai piaciuto il Grande Mago, e ho avuto ragione a non fidarmi di lui. Mi sono chiesto come abbiate potuto mentirci così a lungo e fingere così tanto. Vi siete meritati tutto il mio disprezzo per averci costretto a togliere la vita a degli innocenti che volevano solo aiutarci. Ma, nonostante tutto, avete anche il mio ringraziamento per averci insegnato a combattere ed averci salvato contro le creature delle Colline Nebbiose» continuò Giulio.
«Abbiamo finalmente compreso le parole di Lucia: qualcosa o meglio qualcuno ha alterato il corso delle cose. Il nemico è vicino, più di quanto immaginiate. Ciò che sembra, non è. Non dimenticatelo. Prestate attenzione e guardate al di là delle persone. Galdor ci ha detto che non tutti voi eravate al servizio di Enoren. E così abbiamo scoperto la vera identità di Alessandro, figlio del re Filippo il Saggio, e di Coco» concluse Giovanni.
Asdrubaleo guardò tutti i suoi compagni. Lui non era al servizio del re di Lumbar, si era semplicemente trasferito con la sua famiglia vicino a Lucedorata. I folletti non facevano distinzioni tra uomini, orchi, elfi. Purché si trovassero a loro agio, niente era un problema. Fino a quel momento aveva considerato suoi amici tutti i membri di questo strano gruppo, ma ora era evidente che doveva scegliere.
Brandir e Bossolo emisero una sonora e crudele risata.
«Bene, avete scoperto la verità. Questo cambia qualcosa?» chiese con un ghigno malefico il nano.
«Con le buone o con le cattive il pugnale deve essere portato al Sovrano delle Tenebre. Decidete voi come preferite tornare…» proseguì l’elfo.
I quattro giovani, Alessandro e Coco estrassero le armi, dimostrando di non aver nessuna intenzione di seguirli spontaneamente.
«L’avete voluto voi» bisbigliò Brandir.
Quest’ultimo prese il flauto, suonò un’unica nota e, dopo pochi secondi, il luogo in cui si trovavano fu invaso da orchi. Alla loro guida vi era Andromalius.
«Accidenti, siamo circondati» affermò arrabbiato e, allo stesso tempo, preoccupato Giovanni.
«Non preoccupatevi. Siete diventati molto forti. Non tutto è perduto, fidatevi» cercò di rincuorarli il giovane principe.
«Per voi è la fine, invece» tuonò Bossolo lanciandosi all’attacco.
Era appena partito alla carica, quando si udì un rumore di passi provenire dal cunicolo. Sulla soglia comparvero Edoardo il Temerario e Galdor, alla testa della ciurma del pirata.
«Siamo arrivati giusto in tempo vedo» constatò il primo.
Bisogna sapere che Alessandro, in quanto figlio di Filippo il Saggio, conosceva Edoardo Insegna. Quest’ultimo aveva alcuni debiti in sospeso con il sovrano, per cui aveva assicurato il suo appoggio in qualunque cosa: pertanto il principe, incontratolo inaspettatamente all’interno del Monte Cherubino, temendo che la situazione con i seguaci di Enoren potesse precipitare, gli aveva ordinato di tornare dai suoi uomini, di avvisare Galdor che, come stabilito in precedenza, si era appostato all’entrata del monte e di raggiungere tutti insieme il Lago Nero per, eventualmente, aiutarli. E aveva fatto bene, difatti l’aiuto di qualche combattente in più non era affatto sgradito.
«Maledetti» grugnì furioso il nano cominciando a roteare velocemente l’ascia.
Il combattimento iniziò.
Il luogo in cui si trovavano non era molto largo, pertanto finivano per schiacciarsi gli uni con gli altri.
Sonia riuscì ad abbattere tre orchi e ad avanzare verso l’uscita.
Brandir incoccò l’arco e tirò.
Fu un attimo: la nera freccia perforò la carne rendendo in fin di vita colui che aveva colpito.
Tutti si fermarono. La ragazza rimase immobile, sconvolta osservando il corpicino trafitto di Asdrubaleo che si era letteralmente lanciato per evitare che Sonia venisse colpita.
Il piccolo orecchie appuntite aveva scelto.
«N-non piangere» parlò flebilmente il folletto.
«Sei uno sciocco. Perché ti sei messo in mezzo? La freccia doveva colpire me» disse piena di lacrime la giovane.
«T-tu sei mia a-amica. Dovevo, volevo salvarti».
«Asdrubaleo…».
«N-non rimpiango di averlo fatto. L’unica cosa che a-avrei voluto, era vivere ancora un po’ per poterti a-aiutare. E perché no, anche p-per farti degli s-scherzi».
«Tu vivrai ancora. E potrai farmi tutti gli scherzi che vorrai. Se vuoi, puoi rimettermi quella sostanza appiccicosa sulla testa, prometto che non mi arrabbierò. Però non lasciarmi, ti prego. I-io… Tu sei mio amico! Non voglio perderti!».
«S-sono felice di averti incontrato e di e-essere diventato tuo amico».
«Asdrubaleo…».
«N-non ti dimenticherò. Sconfiggete Enoren e riportate la felicità nella Terra dell’Infinito. P-per me…».
«No, tu non morirai! Noi ti salveremo e tornerai in forze come prima».
«Su con la vita, giovane amica! La strada, per te, è ancora lunga, prima che alla meta si giunga».
Il folletto chiuse gli occhi e sorrise. Con quel sorriso si spense la sua giovane vita.
«No… Asdrubaleo, Asdrubaleo!».
Sonia abbracciò, piangendo, il suo piccolo amico.
«Stolto» affermò tra i denti Brandir.
«Non meritava di morire» disse affranto Federico.
«Tutto questo è successo per colpa vostra. Solo per avere questo stupido pugnale! Lo volete? Lo volete? Bene, allora non vi dispiacerà fare una bella nuotata, visto che sto per rigettarlo nel lago» esclamò furibondo Giulio. «Cosa sono queste facce? Oh, giusto! Senza di noi voi non potete prendere il pugnale. Ma che bel guaio, eh? Se non volete che lo getti là dentro lasciateci uscire e non seguiteci».
Gli orchi guardarono l’elfo, non sapendo che cosa fare.
«Lasciateli andare».
«Ma…» tentò di dire Bossolo.
«Ho detto lasciateli andare».
Sonia, dopo aver raccolto il corpo inerte di Asdrubaleo, si avvicinò all’entrata del cunicolo, poi si voltò a guardare Brandir e disse: «Io ti ucciderò».
Poi scomparve insieme agli altri.

 


Angolo Autrice.
Ehilà!
In questo capitolo, finalmente, è stata svelata la verità!
Sorpresa! Gregorio il Giusto non è altri che Enoren, il Sovrano delle Tenebre.
Brandir e Bossolo sono sempre stati al suo servizio e, quindi, nemici di tutti gli altri.
Asdrubaleo muore per salvare la vita della sua giovane amica.
Quando ho scritto questo capitolo ero indecisa se farlo morire, ma poi ho capito che era giusto così.
Spero che la storia vi stia incuriosendo.
Alla prossima!
Violaserena.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 

Sonia adagiò Asdrubaleo in una piccola bara.
Tutti i presenti si riunirono in silenzio intorno ad essa e ad altre due dove erano stati posti i corpi di due membri della ciurma di Edoardo il Temerario, morti nello scontro contro gli orchi.
Dopo una breve preghiera, i tre feretri furono sepolti nel verde prato di Biancofiore.
Giovanni, Giulio e Federico si avvicinarono mesti a Sonia e poi la abbracciarono.
Calde lacrime ricoprivano le sue rosee guance.
La giovane si ritrovò a pensare ai momenti passati insieme al folletto, ai suoi continui scherzi e dispetti, ai loro litigi. Gli voleva bene, molto bene. Ma non era riuscita a dirglielo.
Federico, come se le avesse letto nel pensiero, le sussurrò: «Lui lo sa. Anche lui ti voleva bene»; poi le diede un bacio sulla guancia e con una carezza le asciugò le lacrime.
«Mi dispiace interrompervi, ma purtroppo dobbiamo andare. Non so se Brandir e Bossolo ci inseguiranno, ma non possiamo escludere questa eventualità» disse Alessandro.
Mentre gli altri si avviavano verso i carri, Sonia guardò il cumulo in cui era stato sepolto il suo piccolo amico.
«Ti voglio bene. E ti vendicherò» bisbigliò.
Lasciatisi alle spalle Biancofiore, i presenti si diressero nel luogo in cui era ormeggiata la nave di Edoardo il Temerario con la quale avrebbero raggiunto Albadorata, capitale del regno di Filippo il Saggio e di sua moglie Clotilde.
I quattro giovani non potevano ancora lasciare la Terra dell’Infinito in quanto, come era stato spiegato loro da Galdor, il pugnale di Caio il Grande poteva essere impugnato solo da un terrestre – cosa di cui erano, peraltro, già stati informati dal Grande Mago – e perciò solo uno di loro poteva sconfiggere il Sovrano delle Tenebre.
Coco, che non aveva più proferito una sola parola da quando Asdrubaleo era morto, andava avanti ed indietro sulla nave.
Già da un po’ stavano navigando lungo il fiume Lestacque e lo gnomo sembrava non riuscire a darsi pace.
«Calmati» gli disse avvicinandosi amichevolmente il principe Alessandro.
Coco sembrò voler dire qualcosa, ma poi ci ripensò.
Sonia, inaspettatamente, lo prese in braccio e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio.
Una piccola lacrima bagnò il volto dello gnomo. Poi sorrise ed affermò: «Mi impegnerò perché una cosa simile non accada mai più. Contate pure su di me».
Alessandro contraccambiò il sorriso e rispose: «Ne sono certo. C’è già troppa sofferenza in questo mondo. Dobbiamo fare di tutto per migliorare la situazione».
«Dobbiamo assolutamente sconfiggere Enoren» continuò Galdor. «Avete l’appoggio di tutto il mio popolo, tranne degli elfi oscuri, si intende».
«Ovviamente anche del mio» esclamò Coco che sembrava avesse riacquistato la voglia di parlare.
«Ne sono lieto. Una volta arrivati ad Albadorata informerò mio padre dei recenti avvenimenti e, insieme, metteremo appunto una strategia per sconfiggere il Sovrano delle Tenebre. Credo che potremmo contare anche sull’appoggio dei nani, delle streghe di Valle Nera, dei maghi di Rivablu e di molti altri ancora».   
«È già una buona cosa avere molti alleati dalla propria parte» affermò Giovanni.
«Si, e mi auguro siano tanti quanti spero. L’esercito di Enoren è immenso per cui è necessario un fronte compatto e altrettanto grande».
«Sono sicuro che sarà così».
«Cambiando discorso, che cosa devo fare esattamente con questo?» chiese Giulio indicando il pugnale di Caio il Grande.
Alessandro, Galdor e Coco si guardarono incerti, poi il primo disse: «Come sai solo un terrestre può utilizzarlo. Visto che sei stato tu a toccarlo per primo spetta a te tenerlo e…».
«Affrontare Enoren» concluse per lui Giulio.
«Si. Ma non preoccuparti, non sarai solo: tutti noi ti aiuteremo».
«Non sono preoccupato. Non vedo l’ora di farla pagare a quel cialtrone di Grande Mago. Sarà una soddisfazione personale sconfiggerlo».
I presenti, tranne i suoi tre amici, lo guardarono straniti.
«Ahah, tranquilli! Lui è sempre così. Quando si propone di fare una cosa, state pur certi che la farà. Poi se si tratta di prendere a calci qualcuno che non gli piace, allora potete essere certi del risultato» esclamò divertito Giovanni.
«Possiamo confermarlo» annuirono Federico e Sonia.
«Tanto peggio per Enoren allora» rise lo gnomo.
«Non so se vi rendete conto della situazione. Il Sovrano delle Tenebre non è uno qualunque. Non è così semplice riuscire a sconfiggerlo. In passato ha provocato morte e distruzione e…» tentò di dire Galdor, ma fu interrotto dal giovane dai capelli biondi: «So perfettamente che non sarà semplice batterlo. Abbiamo visto tutti che cosa è capace di fare e quanto siano forti i suoi seguaci. Ma non possiamo partire con l’idea di non essere alla sua altezza, altrimenti saremmo sconfitti in partenza».
«Sagge parole. Ho visto come combatti, come voi tutti combattete e sono certo che nessuno di voi si arrenderà, ma continuerà a combattere fino alla fine a differenza, forse, dei seguaci del re di Lumbar. E sapete perché? Perché loro agiscono per ordine e per volere del loro signore, noi invece combattiamo per la pace e per la libertà, per costruire un mondo migliore, per i nostri cari, per le persone che non ci sono più e per quelle che verranno. Noi abbiamo qualcuno o qualcosa per cui lottare, loro no» affermò Alessandro.
«E per l’oro, non dimenticarlo principe» aggiunse Edoardo il Temerario.
«Sono sicuro che non sei così materialista come vuoi far credere».
«Sono un pirata».
«Appunto».
I due uomini si guardarono l’uno negli occhi dell’altro come per dimostrare la veridicità delle loro affermazioni. Ma, in cuor loro, sapevano che solo uno di loro aveva ragione e quella persona era il figlio di Filippo il Saggio.
La traversata procedette senza intoppi. A quanto pareva, Brandir e Bossolo avevano rinunciato ad inseguirli.
L’acqua del fiume, cristallina, era calma. Un verde paesaggio si estendeva al di là degli argini lasciando immaginare un mondo tranquillo e sereno, un mondo senza il male.
Due colonne in marmo bianco si ergevano imponenti alle estremità del fiume: era quello l’inizio del regno di Filippo il Saggio. Il territorio circostante, infatti, faceva parte di un regno alleato a quello del padre di Alessandro che era il re dei re.
Una lieve brezza temperava la calura del giorno. Gli uccellini cinguettavano felici e volavano alto nel cielo. Le cicale frinivano e i pesci saltavano allegri nell’acqua.
Sembrava una giornata come tante. Tutto pareva limpido e sereno, ma in realtà una nera minaccia incombeva. Ad est il cielo era terso e, di giorno in giorno, diventava sempre più cupo, segno del rafforzamento continuo di Enoren.
Erano passati già due giorni da quando la compagnia stava navigando sul fiume Lestacque.
La nave attraccò al porto di Ondaforte, una piccola cittadina poco distante dalla capitale Albadorata.
Due carri erano già pronti per portare i passeggeri al cospetto del re.
Edoardo il Temerario, dopo aver dato alcune indicazioni alla sua ciurma, insieme a due sue uomini, salì sul carro insieme ad Alessandro e gli altri suoi compagni.
Il viaggio fu breve: in poco meno di mezzora raggiunsero Albadorata.
La città era imponente. Alte mura in pietra la circondavano e quattro torri di vedetta erano costruite sulla sua sommità. Grandi feritoie lasciavano intravedere le bocche dei cannoni.
Al di là delle mura vi erano le case dei cittadini e altre due torri che, in passato, erano state edificate per un’inutile ostentazione di ricchezza da parte di alcune famiglie rivali che basavano la loro forza nella costruzione del maggior numero possibile di edifici e nell’altezza delle loro torri.
Oltre le abitazioni dei singoli cittadini, su una piccola altura, svettava il palazzo reale.
Sopra il portone era stato posto lo stemma reale: vi erano rappresentate tre spade incrociate al centro delle quali vi era un sole con la corona d’alloro. 
Entrati ad Albadorata i carri furono circondati da una folla festante per il ritorno del principe.
Alessandro si mise in piedi e cominciò a salutare sorridente i presenti.
I quattro giovani pensarono che egli fosse davvero benvoluto dai suoi concittadini.
Raggiunto con un po’ di fatica il palazzo reale, furono accolti dal capo delle guardie, il quale li accompagnò al cospetto dei sovrani.
Entrati nella reggia, tutti tranne Alessandro, guardarono ammirati la bellezza dell’interno, i suoi ornamenti raffinati e la sua ricchezza.
La guardia aprì una porta e annunciò al re e alla regina l’arrivo del principe con i suoi compagni.
Filippo gli fece cenno di farli entrare.
La sala del trono era ancora più bella di quanto si aspettassero. Alti soffitti erano stati dipinti con immagini rappresentanti le imprese dei membri della famiglia reale. Le finestre erano ornate con leggeri finimenti d’oro. Un lampadario di cristallo rifletteva la luce e rendeva ancora più luminosa la stanza.
Al fondo della sala vi erano due troni su cui sedevano rispettivamente Filippo il Saggio e sua moglie Clotilde. Entrambi portavano una corona formata da un cerchio brunito, cordonato ai bordi e con al centro una gemma di colore rosso.
Il re era un uomo di alta statura, dai capelli e dalla folta barba castana. Aveva gli occhi scuri ed era robusto. Clotilde aveva lunghi capelli mossi castano chiaro, occhi color nocciola e un naso leggermente rivolto all’insù. Era poco più bassa del marito.
Alessandro assomigliava molto ai suoi genitori: dal padre aveva preso il colore dei capelli, dalla madre quello degli occhi. Il suo viso era, però, più delicato di quello di Filippo e non aveva la barba.
I sovrani indossavano, paradossalmente, abiti semplici rispetto alla sontuosità del palazzo.
«Bentornato, figlio mio» lo salutò il sovrano.
Alessandro si inchinò – cosa che fecero anche i suoi compagni – e presentò coloro che lo accompagnavano.
«E così voi siete i quattro giovani della profezia. È un piacere avervi qui nel mio palazzo».
«Il piacere è nostro, vostra maestà» proferì Federico facendo un lieve inchino.
«Ebbene, vorrei sentire tutto quello che vi è successo fino a questo momento».
Il principe raccontò minuziosamente tutto ciò che era capitato e ciò che aveva scoperto su Enoren stando ai suoi ordini per un certo tempo.
Ad un ordine di Filippo, Giulio estrasse il pugnale di Caio il Grande e glielo consegnò.
«Si, è proprio lui. Ottimo lavoro» esclamò riconsegnando l’arma al giovane.
«Padre, come procedono i preparativi per la guerra contro il Sovrano delle Tenebre?».
Clotilde guardò preoccupata il marito e poi sospirò.
«Purtroppo le cose non vanno bene come speravo. I nostri alleati sono inferiori rispetto al previsto. Molti di loro si sono rifiutati di appoggiarci, ritenendo che il conflitto non li toccasse».
«Come? Perché? Eppure dovrebbero conoscere la gravità della situazione. Dovrebbero sapere che cosa succederà se Enoren avrà il sopravvento».
«Sire, chi non vuole darvi una mano nella guerra?» chiese timidamente Coco.
«Troppi: dagli gnomi della Roccia ai folletti agli uomini del regno di Felceazzurra e di Pioggialenta».
«Andrò dagli gnomi della Roccia e, con l’aiuto del mio popolo, li convincerò ad aiutarvi».
«Allora ti auguro tutta la pazienza e la fortuna possibile».
«Non temete sire, riuscirò nel mio intento. Domani partirò e quando tornerò sarà per annunciarvi l’appoggio di tutti gli gnomi».
«Ti ringrazio, e prego che tu possa riuscire in questo intento. Ti farò preparare provviste e una scorta per il viaggio».
«Grazie, vostra maestà».
«Bravo Coco» lo elogiò, bisbigliando, Sonia.
«Per quanto riguarda i folletti, mi recherò personalmente da loro. I nostri popoli sono legati da una salda amicizia e sono sicuro che non ci rifiuteranno un aiuto» disse Galdor.
«Re Thalion ha già provato a convincerli, ma purtroppo non ha avuto successo».
«Non dovete preoccuparvi, maestà. Forse c’è una cosa che il re non ricorda: i folletti ci devono un favore».
«Un favore?».
«Esattamente. Non potranno rifiutarsi di rispettare un’antica promessa».
«Spero che tu abbia ragione».
«Non dubitatene. Tornerò qui con il loro appoggio alla guerra contro Enoren».
«Avrai tutto il mio riconoscimento per questo. Farò preparare una scorta anche per te».
«Grazie, sire».
«Potrei… potrei andare anch’io con Galdor?» chiese, un po’ imbarazzata, Sonia.
Tutti si voltarono stupiti a guardarla.
«Perché vuoi andare con lui?».
«Un folletto mio amico è morto per salvarmi. Voglio andare dal suo popolo per… Ecco… Per…».
«Puoi andare con Galdor» le sorrise il re.
«G-grazie!».
«Anche noi vogliamo andare. Non vogliamo starcene qui con le mani in mano!» esclamò Giovanni.
«Non urlare così. Sei al cospetto di due sovrani» gli sussurrò all’orecchio Federico.
«Credo di avere la soluzione che fa per voi» affermò la regina Clotilde.
Tutti si voltarono, in attesa, verso di lei.
«Ebbene, tu Federico andrai con mio figlio nel regno di Felceazzurra, mentre tu Giovanni andrai con Edoardo il Temerario nel regno di Pioggialenta e cercherete di convincere i rispettivi sovrani a non negarci il loro aiuto. Credo non sarà troppo difficile per te, Edoardo, questo compito: da quello che so lì ci sono importanti basi pirata ed il re, in passato, era un bucaniere. Per cui mi aspetto che tu sappia portare a termine egregiamente questo compito. Altrimenti i tuoi debiti con noi potrebbero ulteriormente salire».
«Non temete vostra maestà. Porterò a compimento ciò che mi avete chiesto. In cambio, però, i miei debiti saranno annullati».
«Va bene, ti concedo questo premio».
«Non vi deluderò» sogghignò il pirata.
«Io invece? Perché non mi avete nominato?» domandò infastidito Giulio.
Il re, capendo il progetto della moglie, disse: «Tu rimarrai qui. Andrai nella stanza dell’addestramento, ti allenerai con un grande guerriero ed aumenterai le tue abilità di combattente. Tu hai il pugnale di Caio il Grande, pertanto devi essere forte a sufficienza per affrontare Enoren».
«Ma, non potrei…».
«Niente ma. Vedrai, dopo quest’addestramento, diventerai un vero e proprio guerriero».
«Non potevo chiedere di meglio. Era proprio il sogno della mia vita» affermò ironicamente.
«E lo realizzerai» sorrise furbamente Filippo.
«D’accordo» si arrese il giovane dai capelli biondi.
«Bene. Visto che tutto è deciso, potete andare. Immagino sarete stanchi».
Detto questo, i presenti si accomiatarono. Nella sala del trono rimasero solo il re, la regina ed il principe.
 

*
 

Il mattino era arrivato presto. I quattro giovani avevano passato la serata tra di loro, consapevoli che per un certo periodo non si sarebbero più visti.
Si trovavano in un mondo diverso dal loro e, da quando erano arrivati nella Terra dell’Infinito, non si erano mai divisi. Ognuno di loro aveva tratto coraggio e determinazione dal fatto di poter contare sull’appoggio di persone amiche. Ma, ora, era giunto il momento di dividersi. Da questo momento in poi avrebbero dovuto contare solo sulle proprie forze.
«Buona fortuna» augurò loro Giulio.
«Tranquillo, sono in buone mani» disse sorridente Alessandro indicando se stesso, Edoardo il Temerario e Galdor.
«E poi non è così facile liberarsi di noi» affermò scherzosamente Giovanni.
Si salutarono con una stretta di mano, poi, uno ad uno, si allontanarono.
«Ci rivedremo presto» si girò Sonia salutando con la mano il ragazzo dai capelli biondi.
«Più forti di prima e con nuovi alleati!» aggiunse Federico.
Giulio li osservò fino a quando non scomparvero all’orizzonte.
Era rimasto solo. I suoi amici erano partiti per intraprendere ciascuno una missione e lui era rimasto a palazzo per diventare un guerriero. Ma lui non voleva esserlo. Voleva solo… tornare a casa.
«Vieni Giulio. Devo presentarti quello che d’ora in poi sarà il tuo maestro» affermò il re avvicinandosi e mettendogli una mano sulla spalla come per rassicurarlo.
Percorsero un lungo corridoio sulle cui pareti erano esposte armi di ogni genere: spade, sciabole, mazze, pugnali, alabarde, mazzafrusti, asce e così via.
Giunsero dinnanzi ad una porta. Senza bussare il re la aprì ed entrò, seguito a ruota dal ragazzo.
Si trovarono di fronte un uomo sui trent’anni che si stava allenando con la spada.
Era alto e muscoloso, capelli scuri fino alle spalle e leggera barba sul viso.
Non appena si accorse dei nuovi arrivati, fece un inchino in segno di rispetto nei confronti di Filippo e poi la sua attenzione si concentrò su Giulio.
«Ti chiedo scusa per aver disturbato i tuoi allenamenti, ma ti ho portato il ragazzo di cui ti ho parlato ieri» disse il sovrano.
«E così tu sei colui che è riuscito ad impugnare il pugnale di Caio il Grande. Sei diverso da come mi immaginavo» notò l’uomo rivolgendosi al giovane.
«Sono più bello» lo schernì Giulio.
«Mmm… no. Sei meno robusto di quanto pensassi».
«Sono normale».
«Suvvia, non è il momento di parlare di cose di poco conto come queste. Siamo qui per un motivo ben preciso. Non voglio perdite di tempo. Giulio, lui è Messer Carlo, cavaliere d’onore e miglior guerriero al mondo. Ti addestrerà e ti farà diventare più forte. Ora cominciate». Detto questo il re li lasciò da soli.
Messer Carlo indossò il bracciale nell’arto destro, prese la spada e disse: «In questi giorni dovrai affrontare un allenamento estremamente impegnativo. Se supererai tutte le prove a cui ti sottoporrò potrai entrare nella stanza dell’addestramento, dove dovrai affrontare la prova più difficile. Per questo, prima che tu me lo chieda, è necessario che io ti alleni e ti faccia diventare forte a sufficienza per poter superare tutti gli ostacoli che avrai davanti. Se avrai successo nella stanza dell’addestramento diventerai un vero guerriero. Hai capito?».
Giulio non ebbe il tempo di rispondere che l’uomo lo attaccò con la spada.
Per un soffio il giovane riuscì a schivarlo.
«Però, non sei poi così male» esclamò ironicamente Messer Carlo.
«No, infatti. Sono migliore di te» sogghignò il ragazzo.
Il guerriero riprese ad attaccare e Giulio cercò di contrastarlo. All’inizio ci riuscì, ma poi l’uomo lo colpì e lo fece cadere.
«Bisogna migliorare la tua concentrazione, oltre che la tua forza. Alzati e continua a combattere».
L’allenamento durò tutta la giornata.
Giulio era stremato. Aveva combattuto con tutta la sua forza, ma nonostante ciò era riuscito a colpire il suo avversario solo due volte. Il suo corpo era esausto ed era pieno di lividi e di tagli.
Quando giunse nella sua stanza, una infermiera gli medicò e gli fasciò le ferite.
Si addormentò con il proposito di mettere al tappeto quell’uomo arrogante che era Messer Carlo.
Il mattino successivo il giovane fu svegliato dal suono di uno strumento musicale, probabilmente proveniente dal giardino che si trovava poco distante dalla sua stanza.
Incuriosito da quell’allegra melodia si vestì e si diresse nel luogo in cui proveniva.
Vide seduto sul muretto del piccolo giardino un uomo di mezza età che suonava il liuto. Rimase in silenzio ad ascoltarlo, poi gli si avvicinò e gli fece i complimenti per la sua bravura.
«Siete troppo gentile! Io sono il musico Zeffirello e voi?».
«Mi chiamo Giulio».
«Quindi voi siete il ragazzo che possiede il pugnale di Caio il Grande e che si sta allenando con Messer Carlo? È un piacere conoscervi!».
«Non mi dia del “voi”, mi può tranquillamente dare del “tu”».
«Non credevo che vi avrei mai incontrato. Sapete sono stati composti vari pezzi musicali, teatrali e letterari su di voi, o meglio, su quello che diceva la profezia» continuò Zeffirello ignorando ciò che gli aveva detto Giulio.
«E si, ho visto personalmente uno spettacolo teatrale a Selvapiana».
«Allora avrete potuto notare la bravura dei nostri artisti».
«Eh… certo».
«Se me lo permettete vorrei scrivere musicalmente un’opera che riguardi le vostre avventure d’ora in poi. Che ne dite?».
«Non saprei…».
Notando il volto pieno di aspettativa del musico si affrettò ad accettare e poi si accomiatò per andare ad allenarsi con Messer Carlo.
Mentre si dirigeva dal suo maestro guerriero incontrò un frate che correva tutto trafelato.
Quest’ultimo si fermò, lo osservò e lo salutò tutto sorridente come se fosse stato un suo amico.
«Ci rivedremo presto» gli disse e poi si allontanò.
Il giovane rimase ad osservarlo stupito.
Egli pensò che la giornata fosse iniziata in modo strano, ma ben presto questo pensiero fu soppiantato dal dovere che lo attendeva: diventare un vero guerriero.


 

Angolo Autrice.
Ciao a tutti!
Allora, in questo capitolo cambiano un po’ di cose: i nostri protagonisti fanno la conoscenza di nuovi personaggi e si dividono, ognuno con un compito ben preciso.
Riusciranno a convincere ad aiutarli coloro che si sono rifiutati di appoggiare re Filippo nella guerra contro il Sovrano delle Tenebre? Giulio diventerà forte a sufficienza da poter entrare nella stanza dell’addestramento? Mah, chi lo sa! xD
Lo scoprirete nel prossimo/i capitolo/i!
Saluti.
Violaserena.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 

Erano già passati alcuni giorni da quando Giovanni, Federico e Sonia avevano lasciato il palazzo reale di Albadorata. Ognuno di loro aveva poi preso strade diverse per giungere alla meta stabilita.
Giovanni aveva preso il mare insieme a Edoardo il Temerario e la sua ciurma.
Alessandro e Federico avevano proseguito per le campagne, mentre Sonia, Galdor e Coco si erano inoltrati nelle foreste. Lo gnomo aveva, poi, raggiunto un piccolo bosco protetto dalle montagne e si era ricongiunto con il suo popolo. 
Fungoalto era la più grande città degli gnomi dell’Arcobaleno. La sua peculiarità consisteva nel fatto che i funghi, caratteristiche abitazioni del popolo di Coco, erano molto più alti del normale. Proprio per questo motivo la città aveva assunto il nome di Fungoalto.
Foglie colorate e piccoli rami ornavano le case, conferendo all’ambiente un non so che di fantastico.
Coco si era fermato poco, giusto il tempo di raccontare tutto quello che era successo. Era, poi, ripartito insieme ad una delegazione di circa venti membri alla volta di Terraprofonda, città nella quale avrebbe incontrato gli gnomi della Roccia e avrebbe cercato di convincerli a non rimanere passivi e a combattere contro Enoren.
Dopo due giorni da quando si erano separati da Coco, Galdor e Sonia erano finalmente arrivati nel luogo in cui si trovavano i folletti, nel luogo in cui, un tempo, aveva abitato anche Asdrubaleo.
La ragazza, osservando ciò che aveva davanti, ripensò alle parole del suo piccolo amico:  «Invece noi folletti abbiamo nelle corolle dei fiori, sotto gli ombrelli picchiettati di bianco dei funghi, tra le rocce muscose, fra i rami degli alberi i nostri letti».
Quello che aveva detto era vero. Vedere quel posto e tanti piccoli orecchie appuntite la emozionò tanto che, senza accorgersene, cominciò a piangere.
Galdor le mise una mano sulla spalla cercando di consolarla, poi le disse di alzare lo sguardo e di guardare davanti a sé. Sonia fece come l’elfo le aveva detto e vide un gruppo di folletti che la osservavano curiosi e che avevano incominciato a fare facce buffe per farla ridere. Essi infatti amavano l’allegria e non volevano che nessuno la perdesse. Sempre felici e con il sorriso era il loro motto. La giovane sorrise ed i folletti applaudirono contenti.
Uno di questi ultimi le si avvicinò e disse: «Su con la vita, giovane amica. Sorridi e vedrai che la vita farà altrettanto».
Sonia si chinò e, istintivamente, abbracciò il folletto.
«So di essere molto attraente ed un grande poeta, ma non mi aspettavo un così rapido successo».
I suoi simili risero divertiti. Normalmente, la ragazza avrebbe risposto male, ma questa volta non lo fece. Si limitò a ridere anche lei.
Galdor prese poi la parola, avendo notato che tra i presenti vi era anche il capo dei folletti.
Dopo aver loro ricordato il favore che dovevano agli elfi, si levò un notevole brusio.
Alcuni erano favorevoli all’intervento, altri invece non ne volevano proprio sapere.
Sonia notò il volto preoccupato di Galdor e, a quel punto, prese coraggio e raccontò la sua avventura fino a quel momento, raccontò di Asdrubaleo e di come fosse morto onorevolmente salvandole la vita.
I folletti rimasero in silenzio, anche dopo che la fanciulla ebbe finito di parlare.
Alcuni di essi si raccolsero intorno a due loro confratelli che avevano cominciato a piangere sommessamente: erano i genitori di Asdrubaleo.
La giovane umana si avvicinò e porse loro una mano. I due si guardarono esitanti, ma poi salirono sul palmo della sua mano. Sonia diede un bacio ad ognuno di loro e disse: «Vostro figlio è stato un grande folletto. Ha sempre combattuto con onore e cercato di aiutare me ed i miei amici. All’inizio, io e lui, non andavamo molto d’accordo, ma poi, non so come, siamo riusciti ad instaurare un forte legame e siamo diventati amici. A lui devo la mia vita, a voi di aver generato un folletto come lui. I-io…». Sentì che presto sarebbe scoppiata a piangere, ma non voleva che ciò succedesse. Non aveva mai versato tante lacrime come in quel periodo, e non voleva che ciò diventasse un’abitudine. Asdrubaleo non avrebbe voluta vederla così.
Si fece forza e sorrise sinceramente ai genitori del suo piccolo amico, a tutti i folletti presenti.
«Non lasciate che la sua morte sia stata vana. Affrontate Enoren con noi e onorate, così, la memoria del vostro compagno» proseguì Galdor.
A questo punto si levò un grido di approvazione: i genitori di Asdrubaleo abbracciarono Sonia e il capo dei folletti proclamò solennemente il loro aiuto nella guerra contro il Sovrano delle Tenebre.
L’elfo e l’umana furono invitati a fermarsi, mentre delegazioni di piccoli orecchie appuntite partivano per comunicare la notizia ai loro confratelli.
Mentre accadeva tutto ciò, Alessandro e Federico erano giunti nel regno di Felceazzurra.
Dopo aver percorso vaste campagne, caratterizzate tutte dalla costante presenza di una felce azzurra, erano arrivati nella capitale dall’omonimo nome del regno.
All’ingresso di ogni edificio e al centro di ogni aiuola era presente la caratteristica pianta che dava nome al reame di re Gabriele. Lo stemma reale, neanche a dirlo, era una felce azzurra.
Dopo un’ora di attesa, finalmente i due uomini furono ricevuti dal sovrano.
Re Gabriele era seduto su di un trono dorato con finissimi ornamenti azzurri in cui erano incastonati una serie di zaffiri. La corona rispecchiava le caratteristiche del trono.
Il sovrano era poco più vecchio di Alessandro, aveva i capelli castani né troppo scuri né troppo chiari, gli occhi marroncini e un fisico statuario.
«Perdonatemi se vi ho fatto aspettare, ma sono stato impegnato fino a questo momento».
«Credo di sapere qual era il tuo impegno» gli rispose divertito il figlio di re Filippo il Saggio.
Il sovrano sogghignò, poi si alzò ed andò ad abbracciare Alessandro, lasciando completamente interdetto Federico.
Notando il suo sguardo interrogativo, il principe di Albadorata gli spiegò che lui e re Gabriele erano amici di lunga data e compagni di “avventura”.
«Che vuol dire compagni di avventura? Non è come penso io, vero?» chiese il ragazzo.
I due uomini si guardarono e scoppiarono a ridere.
«È come penso io» si disse mentalmente Federico, sorridendo.
«Tornando alle cose serie, si può sapere perché non vuoi aiutarci nella guerra contro Enoren?» domandò Alessandro tornando serio.
L’altro si incupì e tornò a sedersi sul trono.
«Un po’ di tempo fa, abbiamo subito l’attacco da parte di un contingente del Sovrano delle Tenebre. I miei uomini sono stati massacrati, le case distrutte ed i campi incendiati. Le sentinelle avevano avvistato i nostri nemici ed io avevo provveduto a mandare messi nel regno di tuo padre per chiedere un aiuto. Ma non è arrivato niente, neanche uno straccio di risposta. Ora dimmi, perché io dovrei rischiare la vita dei miei soldati per aiutare chi, a me, soccorso non ha dato?».
Il principe, stupito, rispose: «Mio padre non mi ha parlato di nessun messaggio da parte tua. Conoscendo i miei genitori, non ti avrebbero mai negato un supporto e dovresti saperlo anche tu. E poi, non pensi che i messi possano non essere mai giunti nel nostro regno?».
Re Gabriele rimase in silenzio.
«I nostri regni sono sempre stati alleati, non puoi pensare che se l’avessimo saputo non ti avremmo dato una mano» proseguì Alessandro.
«Forse hai ragione. Mi sono lasciato trascinare da quello che è successo e da stupide voci».
«Una voce può trarre in inganno molto più di quanto si possa pensare. Sapete perché? Perché non si può essere certi della sua veridicità o della sua falsità: il dubbio rimane, ti perseguita, ti logora e può indurre in errore, può farti compiere azioni sbagliate. Per questo bisogna sempre andare in fondo alle cose, per scoprire la verità» proferì Federico.
Il re lo osservò ammirato e, poi, chiese ad Alessandro se fosse il suo consigliere.
Il giovane ed il principe si guardarono e poi scoppiarono a ridere. Subito si unì a loro anche il sovrano.
«Sei molto saggio per la tua età, sai?» disse Gabriele rivolto al ragazzo che proveniva dalla Terra.
«Non è che sono saggio, chiunque arriverebbe ad un simile ragionamento. Piuttosto sei tu ad essere stupido» pensò Federico tra sé e sé.
«Allora, cosa pensi di fare?» domandò il figlio di Filippo.
«Questa guerra ci coinvolge tutti, quindi avrete il mio aiuto. Porrò le mie scuse personalmente a tuo padre per avere rifiutato precedentemente».
Prima che Alessandro potesse dire qualcosa, re Gabriele li invitò a fermarsi e a discutere la strategia da adottare contro Enoren nei giorni successivi.
«Ora possiamo dedicarci a qualcosa di meno faticoso. Ho qualche distrazione che fa al caso vostro» sogghignò il sovrano.
«Me lo immagino» si disse mentalmente il giovane.
Una settimana dopo l’arrivo di Federico e Alessandro a Felceazzurra, Giovanni si trovava ancora in mare, alle prese con un gruppo di corsari che avevano attaccato la nave di Edoardo il Temerario.
Era già la terza volta che accadeva ed il giovane cominciava a non poterne più.
“All’arrembaggio” di qua, “all’arrembaggio” di là, cominciava ad essere una vera rottura.
«All’arrembaggio!» gridò il capitano della nave che li aveva attaccati.
Giovanni prese la spada, sconfisse i nemici che gli si paravano davanti e raggiunse l’uomo che li aveva attaccati.
Con sguardo truce, gli disse: «Ora mi sono stufato. Perdonami le espressioni, ma me le perdonerai sicuramente visto che sei un pirata. Mi avete proprio rotto i coglioni. Quindi, soffocatevi tutti con il rum e affogatevi in un punto qualsiasi del mare: insomma, levatevi dai piedi!».
Detto ciò colpì l’uomo, gli diede una gomitata allo stomaco e lo fece cadere in acqua.
«Cosa non vi è chiaro di ciò che ho detto? Ne volete, forse, anche voi?».
Gli uomini si guardarono l’un l’altro e, considerando la loro critica situazione, batterono in ritirata.
«Complimenti! Nessuno era mai scappato così in fretta. Giovanni, ti nomino ufficialmente cocapitano!» sentenziò allegro Edoardo.
«Ne faccio volentieri a meno. Insomma, quando arriviamo a Pioggialenta?».
«Tranquillo, siamo quasi arrivati».
Era passata un’ora da quando la ciurma del capitano Insegna aveva sconfitto coloro che li avevano attaccati.
Il cielo si era scurito ed aveva cominciato a piovere. Il mare aveva iniziato ad essere agitato ed il vento era aumentato.
«Laggiù c’è un faro! Siamo vicino alla città» gridò il pirata che era sull’albero maestro.
«Perfetto, seguiamo la luce e arriveremo al porto» urlò il capitano per farsi udire da tutti.
In poco tempo, nonostante la pioggia fosse aumentata, riuscirono ad attraccare.
Giovanni, Edoardo ed altri due uomini della ciurma scesero a terra per andare dal re di Pioggialenta, altri andarono a fare rifornimenti, altri ancora rimasero sulla nave.
«Allora, com’è il re di questo posto?» domandò il giovane al pirata.
«Non male. Essendo stato anche lui un corsaro, ha sempre avuto un occhio di riguardo per tutti noi. Come vedi, la città è piena di bucanieri».
«Come è diventato re?».
«Lui era figlio del fratello del sovrano di questo regno. Da giovane si rifiutò di entrare nell’esercito regolare e scelse la strada della pirateria. Solcò i mari per molti anni, divenne rispettato e temuto da tutti. Un giorno, però, gli giunse la notizia della morte del padre e decise di tornare a Pioggialenta per porgergli l’estremo saluto. Giunto qui, seppe che il figlio del re era morto durante una battuta di caccia. Essendo il parente più prossimo, rimasto in vita, del sovrano il regno passò a lui. Inizialmente non volle accettare, ma poi si ricordò di un’antica promessa fatta al padre. Pertanto abbandonò la pirateria e divenne re. Devo dire che è stato, anzi che è uno dei migliori sovrani che questo regno abbia mai avuto, secondo il mio modesto parere».
«Già, solo perché aiuta voi pirati».
«Pff, non è solo per questo».
«Siamo arrivati» li interruppe uno dei due uomini della ciurma.
Edoardo il Temerario si avvicinò alle guardie, le salutò e poi passò oltre, facendo cenno agli altri di seguirlo.
«Tutto qua? Non ci chiedono niente?».
«Mi conoscono. Non c’è bisogno».
Il capitano entrò nel palazzo, fece strada lungo un immenso corridoio, girò a destra ed aprì una porta. Al di là di essa un uomo robusto con i capelli neri era seduto a tavola con una donna dai capelli corti rossi ed un’altra ragazza più giovane con i capelli castani.
«Ehilà, capitano Giacomo! È da un po’ che non ci si vede».
«Edoardo! Vecchio marpione, dove sei stato tutto questo tempo?».
«All’avventura!».
«Ma sentitelo, all’avventura! Ma dimmi, hai trovato qualche bel tesoro?».
«Oh dai papà, lascia perdere i tesori» disse la giovane dai capelli castani.
«Si, hai ragione Maria. Niente tesori, niente».
«Edoardo, non ci presenti il tuo nuovo amico?» chiese la donna dai capelli rossi.
«Ma certo Anna. Lui è Giovanni, proviene dalla Terra ed è uno dei quattro ragazzi della profezia».
Piombò il silenzio e tutti gli occhi si puntarono su Giovanni.
«Salve. Non guardatemi così. È imbarazzante».
«Scusaci, ma non vediamo tutti i giorni persone provenienti dalla Terra. Averti qui per noi è un fatto eccezionale» gli spiegò Anna.
«Credo di avere capito perché sei qui, capitano Insegna. E la mia risposta è no. Non combatterò contro Enoren» continuò re Giacomo.
«Sapevo che sarebbe stato difficile convincerti, a dispetto di quello che pensava la regina Clotilde».
«Potevi non venire allora, ti saresti risparmiato la fatica. Ma, conoscendoti, avrai contratto qualche debito con re Filippo e, quindi, eccoti qui».
«Perché pensi che sia sempre in debito con qualcuno?».
«Non è così?».
Edoardo il Temerario sbuffò e Maria cominciò a ridacchiare.
«Perché non ci volete aiutare?» domandò con aria cupa Giovanni.
«Vedi, i pirati del Sud stanno dalla parte del Sovrano delle Tenebre. I commerci con loro sono molto importanti e, poi, hanno alcune basi qui. In quanto ex bucanieri, sia io sia mio marito, ci siamo impegnati ad assicurare la libertà a tutti i pirati, indipendentemente dalle loro scelte in materia di alleati» rispose la regina Anna.
«In parole povere, se ci schieriamo contro Enoren, dovremmo schierarci anche contro i pirati del Sud» concluse re Giacomo.
Giovanni pensò che, per quanto avessero tentato, i sovrani non avrebbero cambiato opinione. Poi ebbe un’idea. Guardò Edoardo che era giunto alla sua stessa conclusione.
«Peccato. Vi perderete una grande avventura e grandi tesori. Ma che dico grandi! Grandissimi, immensi!».
«Che stai farneticando, capitano Insegna?» domandò incuriosito il re.
«Non lo sai? Nella Rocca dei Re sono custodite immense ricchezze: oro, perle, gemme, pietre preziose. Chi più ne ha, chi più ne metta».
«Posso confermarlo. Re Filippo ha detto che chi parteciperà alla guerra contro il Sovrano delle Tenebre potrà prendere una parte del tesoro».
«Davvero ha detto così?» si illuminarono gli occhi, non solo di Giacomo, ma anche di Anna.
«Certo!».
«Ma non lo capite che stanno cercando di imbrogliarvi?» si intromise Maria.
Il giovane ed il capitano le lanciarono uno sguardo di fuoco e si affrettarono a confermare la veridicità delle loro parole.
«Mi fido di te, Edoardo il Temerario. Hai compiuto azioni notevoli da pirata, ti sei distinto tra molti. E tu sei uno dei ragazzi della profezia che dovrebbe portare pace e serenità nel nostro mondo. Per cui… E sia! Appoggerò re Filippo contro Enoren. Ma sia chiaro, voglio la ricompensa che mi avete promesso».
«Ovviamente, non te ne pentirai».
Presa questa decisione, il re invitò i suoi ospiti ad unirsi a loro per la cena.
La missione era compiuta. Bisognava solo più informare Filippo il Saggio del successo ottenuto e, poi, tutto sarebbe stato pronto per la guerra.


*
 

Il palazzo di Lumbar si ergeva in tutta la sua maestosità in una nera landa desolata, in cui spuntavano scuri arbusti e, tutto intorno al palazzo, rovi che rendevano difficoltoso l’accesso.
Nuvole nere si addensavano per tutto il territorio, si udivano ululati e oscuri lamenti.
Risate malvagie provenivano dagli antri, un bagliore rosso dalle nere montagne.
Il Sovrano delle Tenebre passeggiava lungo il corridoio del suo palazzo, seguito dai Darkoth, Brandir e Bossolo.
Quando questi ultimi erano tornati e avevano riferito ciò che era accaduto, avevano dovuto affrontare l’ira del loro signore.
I quattro giovani erano ancora nella Terra dell’Infinito e, cosa ancora peggiore, erano in possesso dell’arma che avrebbe potuto sconfiggerlo.
Lui, però, non sarebbe caduto tanto facilmente. Il suo piano originario era, in parte, fallito, ma non tutto era perduto.
Il terrore era stato diffuso, il suo nome ricordato con timore.
L’esercito era pronto: presto avrebbe sferrato il suo attacco e si sarebbe vendicato.
Poi avrebbe recuperato il pugnale e, dopo essersi ricongiunto con la sua parte ivi racchiusa, l’avrebbe distrutto.
«Brandir, Bossolo! Sapete quel che dovete fare: uccidere i traditori. Niente errori questa volta».
«Non ti deluderemo» disse l’elfo.
«La mia ascia è ansiosa di bagnarsi col loro sangue» continuò il nano.
«Molto bene. La fine è vicina. Il mio regno inizierà presto».

 

 


Angolo Autrice.
Ehilà!
I quattro giovani si sono separati e ad ognuno di loro è stato affidato un compito preciso.
Sonia, Federico e Giovanni sono riusciti a portarlo a termine. Andrà bene anche agli altri?
Riusciranno ad essere pronti prima dell’attacco del Sovrano delle Tenebre?
Piccolo spoiler: nel prossimo capitolo Giulio incontrerà una persona importante.
Bene, alla prossima!
Saluti.
Violaserena.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12

 

L’addestramento era diventato sempre più difficile e faticoso. Tuttavia, piano piano, Giulio era riuscito ad abituarsi ed aveva aumentato le sue abilità di guerriero.
Tutti i giorni Zeffirello assisteva agli allenamenti e componeva le sue melodie.
Messer Carlo usava tutti i metodi più brutali che conosceva per testare la resistenza e la forza del suo allievo.
«Sta venendo fuori proprio una bella opera, ne sarete proprio contento Messer Giulio» esclamò entusiasta il musico.
«Non ne dubito, d’altronde sei il migliore» lo elogiò il giovane.
«Ovvio, nessuno è in grado di eguagliare la mia bravura».
Il guerriero sorrise, poi rivolgendosi a Giulio gli disse che era pronto ad entrare nella stanza dell’addestramento ed ad affrontare la prova più grande.
«Che tipo di prova è?».
«Lo saprai appena entrerai. Ricordati tutto quello che ti ho insegnato, rifletti e torna vincitore».
Il maestro e l’allievo si strinsero la mano, poi il ragazzo si diresse verso la porta indicatagli ed entrò.
Un attimo dopo arrivarono il re e la regina.
«È già entrato?» chiese Filippo il Saggio.
«Si, giusto un momento fa» gli rispose Messer Carlo.
«Speriamo vada tutto bene».
«È più forte di quanto si possa pensare. Sono certo che ce la farà».
Giulio, intanto, era immerso nell’oscurità ed avanzava a tentoni.
Si fermò quando sentì un leggero fruscio, ma non estrasse la spada.
Poco a poco il buio si attenuò e poté distinguere una figura famigliare che veniva verso di lui.
Appena essa si avvicinò, il giovane ebbe un sussulto: quello che aveva davanti era una esatta copia di se stesso.
«Cos’è, uno scherzo?» domandò poco convinto.
L’altro non gli rispose, sorrise e fece un altro passo verso di lui.
«Finalmente ci vediamo, amico» disse la sua copia.
«Non ci vediamo tutti i giorni? Tu sei uguale a me».
«Sbagliato. Io sono diverso da te. Sono la tua parte oscura».
«Cos’è, un’altra di quelle cose filosofiche?».
«Direi di no visto che tu non rappresenti il bene».
«Vuoi forse dire che sono malvagio?».
«Esattamente».
«Ma non sei tu la mia parte oscura? Quindi, secondo la logica, tu sei il cattivo ed io il buono».
«Sbagliato di nuovo. Tu sei malvagio tanto quanto me».
«Dici? E perché lo sarei?».
«Lo sai. Ma posso rinfrescarti la memoria. Quando, per la prima volta, hai ucciso un mezz’orco hai provato una sensazione di appagamento. Ti sei sentito potente, superiore, capace di incutere timore e…».
«Ma cosa dici? Io non volevo ucciderlo. Se Bossolo non avesse insistito non lo avrei mai fatto».
«Hai visto che ho ragione?».
«Eh?».
«Hai detto che non avresti voluto ucciderlo, ma non che non ti sia piaciuto farlo».
«Era sottointeso» balbettò il giovane.
«No, non lo era. Sappiamo tutti e due che sto dicendo la verità».
«Ah, stai dicendo solo un mucchio di sciocchezze!».
«La verità fa male».
Giulio estrasse la spada e si lanciò contro la sua copia, sul volto della quale comparve un sorriso vittorioso. Pian piano, però, quel sorriso svanì lasciando il posto ad un’espressione stupita.
Il giovane si era fermato, aveva abbassato lo sguardo e poi l’aveva rialzato sull’altro se stesso.
«È vero. È vero che ho provato una strana sensazione di appagamento quando ho ucciso il mezz’orco. Ho desiderato di farlo ancora, di vedere il sangue bagnare la mia spada, di sentirmi potente come in quel momento. Ma, poi, ho capito che la vera forza sta nel fermarsi, nel valutare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ed io ho sbagliato a provare piacere nell’uccidere un essere vivente. Non voglio che ciò accada di nuovo».
«Avresti potuto colpirmi, ma non l’hai fatto. Questo significa che hai capito».
Detto ciò la copia si avvicinò a Giulio e lo attraversò.
Il giovane non sentì nulla, se non la sensazione di essersi ricongiunto con un’altra parte di sé che, forse, non era poi così oscura.
Era nuovamente calato il silenzio. La prova sembrava terminata, ma egli sentiva che c’era ancora qualcosa che doveva fare per diventare un vero guerriero.
All’improvviso udì dei passi che, piano piano, si avvicinavano sempre di più.
La stanza si illuminò completamente e Giulio vide un uomo davanti a sé, un uomo che conosceva.
«N-non può essere» balbettò stupito.
«Che cosa?».
«Parli pure in un italiano corrente! Non ci credo. Quando, come… Tu?».
«Non credo di aver capito».
«Tu sei Caio il Grande?».
«Si, sono io».
«Lo sai di essere estremamente famoso? Sei su tutti i libri di storia, su di te hanno scritto molti libri e fatto molti film e… Non riesco davvero a credere che sia tu l’eroe della Terra dell’Infinito. Ma avrei dovuto capirlo dal tuo nome e da come era vestito l’uomo che ti impersonava a Selvapiana».
«Ero già famoso ai miei tempi. Ma da quello che dici la mia nomea è ulteriormente aumentata».
«Come sei giunto qui?».
«Non è questo il momento per parlare di ciò. Enoren è tornato e tu, a quanto pare, sei il mio erede ed hai il compito di sconfiggerlo».
«Erede?».
«Tu hai il pugnale. Non tutte le persone che provengono dalla Terra possono impugnarlo, quindi si, sei tu il mio erede».
Caio il Grande sorrise nel vedere la faccia sconvolta del giovane.
«Io non sono alla tua altezza. Non sono uno stratego abile come te e tanto meno un combattete forte quanto te».
«Questo è normale, tu non sei me. Sei Giulio. Ed è questo ciò che conta. Ricordalo sempre».
«Va bene. Mi stavo chiedendo una cosa: se tu sei morto, allora perché sei davanti a me? Sei un fantasma?».
«Non mi definirei così. Sono una specie di visione. Si, visione mi piace».
«Ora puoi andare» - continuò Caio il Grande - «hai superato la prova. E ricordati ciò che ti ho detto: non dimenticare chi sei».
«Non lo farò».
L’uomo scomparve, si alzò una leggera brezza che sospinse il giovane fino ad una porta. Egli la aprì e si ritrovò nel luogo in cui si era allenato per lungo tempo. Lo attendevano il re e la regina, Messer Carlo e Zeffirello.
Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il suo maestro gli si avvicinò, lo guardò e gli batté una mano sulla spalla dicendo: «Complimenti, ce l’hai fatta. Ora sei un vero guerriero».
Egli sorrise e confermò agli altri il superamento della prova.
«Giulio!» gridò felice una ragazza correndo ad abbracciarlo.
«Sonia! Che ci fai qui? Sei già tornata dalla missione?».
«Si, esattamente due giorni fa».
«Eh? Ma…».
«Se te lo stai chiedendo sei rimasto chiuso in quella stanza per tre giorni» disse Federico sbucando all’improvviso.
«Fede!» si avvicinò felice stringendo la mano dell’amico.
«Comunque, per tre giorni? Non me ne sono reso conto».
«È normale. La stanza dell’addestramento annulla le percezioni temporali» affermò Alessandro, arrivando accompagnato da Galdor e Coco.
«Ora capisco. È bello rivedervi. Come sono andate le vostre missioni».
«Alla grande. Io ed il mio popolo abbiamo avuto un po’ di problemi a convincere gli gnomi della Roccia, ma alla fine siamo riusciti a portare dalla nostra la maggior parte di essi» esclamò Coco.
«Ne sono contento! E Gigia? Edoardo il Temerario? Loro non sono ancora tornati?».
«No. Da quando sono partiti abbiamo ricevuto solo la notizia del loro arrivo a Pioggialenta e poi più nulla» disse incerto Filippo il Saggio.
«Sono sicuro che stanno bene. Gigia non si lascia abbattere tanto facilmente».
Il re e gli altri si ritirarono nella Sala del Consiglio per discutere ulteriormente le strategie di guerra insieme ai sovrani ed ai capi dei vari popoli.
I tre giovani, rimasti da soli, si raccontarono tutto ciò che avevano visto e fatto.
Erano passati due giorni da quando si erano riuniti.
Il re, Alessandro, Coco ed i tre giovani si trovavano al porto di Ondaforte avendo saputo dell’arrivo imminente di Edoardo il Temerario e di Giovanni.
Comparve all’orizzonte un’immensa flotta, quasi tutta con la bandiera del pirata Insegna.
Le navi attraccarono ed il giovane e il capitano scesero trionfalmente, accompagnati da un uomo robusto con i capelli neri.
«Gigia!» esclamarono i suoi amici andandogli incontro.
«Scusateci per il ritardo, ma abbiamo avuto qualche complicazione» spiegò Edoardo.
«Bentornati. Deduco che abbiate avuto successo vedendo qui re Giacomo. È un piacere averti qui» disse Filippo il Saggio indicando l’ex pirata.
«Il piacere è mio. Dobbiamo discutere su un po’ di cose, ma sappi che hai il mio completo appoggio: presto arriveranno anche altre navi».
«Perfetto, allora seguimi. Tutti gli altri sono già arrivati».
«Ehm, ehm! Vostra altezza non dimentica qualcosa? Riguardo ai miei debiti…» cominciò a dire Insegna.
«Certo certo. Ma di questo ne discuteremo dopo la guerra. Se ti sarai comportato lealmente allora provvederò ad annullarli».
«Ehi, non era questo…».
«Non discutere. Ti ricompenserò a dovere per il tuo aiuto, stanne certo. Ora, però, dobbiamo occuparci di cose più importanti».
Re Giacomo ed Alessandro sorrisero divertiti.
«Non te la prendere» bisbigliò Giovanni.
«Ehi, loro sono i tuoi amici terrestri?» chiese il re di Pioggialenta al giovane.
«Si, sono loro».
«È un piacere conoscervi. Se uscirò vivo da questa guerra, potrò dire di aver incontrato i ragazzi della profezia! Non è che potrei vedere il pugnale? Ho sempre desiderato vedere com’è fatto».
Edoardo si parò davanti ai giovani prima che Giulio potesse estrarre l’arma ed esaudire la richiesta dell’uomo.
«Ho capito, lo vedrò un’altra volta». Detto questo salì sul carro insieme a Filippo.
«Perché ti sei comportato così?» domandò Sonia.
«Perché lui è un ex pirata ed è sempre stato attratto dall’idea di possedere il pugnale di Caio il Grande. È meglio che non sappia chi di voi ce l’abbia, altrimenti potrebbe cercare di rubarvelo».
«Sono d’accordo. Anche se ora è re, ho notato che non ha abbandonato il suo istinto da corsaro» confermò Giovanni.
«D’accordo, allora non glielo faremo vedere. Tieni gli occhi aperti, Giulio» propose Federico.
«Certo. In ogni caso non me lo farò sottrarre tanto facilmente».
«Non so perché, ma ho come la sensazione che tu sia diventato molto più sicuro di te. E non so se è un bene o un male» sorrise Giovanni.
«Ma smettila».
«È un male».
«Pff, tutta invidia».
«Non direi. Non sono mai stato più sicuro di me in questo momento».
«Confermo. Ha fatto fuori da solo una ciurma nemica che ci ha attaccato» aggiunse Edoardo il Temerario.
«Grande! A quanto pare siamo diventati più forti tutti quanti!».
«Non abbassate la guardia solo per questo» consigliò Alessandro.
«Forza, dobbiamo andare. I re ci stanno aspettando» disse Coco indicando i due sovrani sul carro.
Quella giornata passò in fretta così come i giorni successivi.
Erano arrivate notizie circa l’esercito di Enoren. Filippo il Saggio aveva rafforzato le truppe al confine sperando di rallentarne l’avanzata, in modo tale da ultimare gli ultimi preparativi ed affrontare i nemici in campo aperto, nella pianura vicino ad Albadorata.
Se tutto andava come previsto, entro una settimana si sarebbero scontrati.
I quattro giovani passarono insieme tutte le giornate, allenandosi e cercando di svagarsi un po’.
Alla sera si ritrovarono in un piccolo parco dove, poco prima, si era tenuta una festa.
Essi si sedettero intorno ad un fuoco e cominciarono a parlare, mentre le fate danzavano vicino ai rami degli alberi.
Non erano riusciti a vedere Lucia, ma erano sicuri che ci fosse anche lei.
Galdor stava chiacchierando con un gruppo di elfi, Coco ed altri gnomi avevano sfidato a poker Alessandro ed Edoardo il Temerario mettendo in palio tre pepite d’oro.
I folletti si divertivano a fare scherzi a chiunque capitasse loro a tiro, evitando, però, accuratamente le fate.
I nani bevevano birra insieme agli gnomi della Roccia e ad alcuni uomini.
I maghi e le streghe eseguivano giochi pirotecnici allietando gli spettatori.
Zeffirello aveva intonato una soave melodia con il liuto, diffondendo nell’aria la sua musica.
Sembrava una normale serata, allegra, come se non ci fosse il pericolo di non rivedersi più.
Ma, in realtà, questa possibilità c’era: non tutti loro sarebbero sopravvissuti alla guerra, non tutti loro sarebbero tornati vivi a casa, dalle loro famiglie.
«Dovremo scontrarci anche con Brandir e Bossolo» disse, ad un certo punto, Federico rivolgendosi ai suoi amici.
«Già. Nonostante tutto, un po’ mi dispiace» affermò Giovanni.
«Anche a me. Però, ora non sono più nostri compagni. Anzi, forse non lo sono mai stati. Credo si preoccupassero per noi, non per il nostro bene, ma solo perché gli servivamo» continuò Giulio.
«Si, forse è vero. Ma è anche vero che, in certi momenti, sembravano davvero preoccupati per noi, e non per interesse» obiettò Federico.
«Potrà anche essere così, ma sta di fatto che ora sono nostri nemici. E poi, se ci avessero considerati un minimo degli amici non ci avrebbero attaccato e cercato di ucciderci. E Asdrubaleo non sarebbe morto» esclamò irritata Sonia.
I ragazzi, non sapendo cosa dire, rimasero in silenzio.
Poi Giulio prese la parola: «In sostanza non dobbiamo avere nessuna pietà nei loro confronti, perché loro non ne avranno per noi».
«Esatto».
«Sei agguerrita, Sonia» esclamò, con lieve ironia, Giovanni.
«Si, non perdonerò mai Brandir per aver ucciso Asdrubaleo. Io voglio vendicarlo e…».
«La vendetta non porta da nessuna parte, dovresti saperlo» la interruppe Federico.
«Forse. Ma voglio che lui provi tutto il dolore che ho provato io e, se ucciderlo è l’unico modo per farlo, allora non esiterò».
Giulio sussultò a quelle parole e ripensò a ciò che gli avevano detto la sua copia e Caio il Grande.
«Ma ti senti quando parli?» le urlò contro Federico.
La ragazza non gli rispose, ma lui continuò: «Se ti comporti così, allora non sei poi tanto diversa da lui. Non è agendo in questo modo che ti sentirai sollevata. Anzi, dovrai portarti sulla coscienza tutti i danni che provocherà la tua sciocca smania di vendetta!».
Le lacrime cominciarono a rigare il volto di Sonia.
«Piangi pure, non mi importa».
«Fede, smettila» lo guardò storto Giovanni.
«È lei che dice cazzate e poi si mette a piangere, non io».
«Sei un’idiota!» gli urlò contro la ragazza.
«Tu non sei da meno».
«Cazzo, la volete finire? Non avete due anni! Anche tu, Fede! Non l’hai capito che per lei è stato uno shock la morte di Asdrubaleo? E tu, Sonia, le tue parole sono stupide e lo sai anche tu» sbottò Giulio.
I due giovani si guardarono.
Sonia si asciugò le lacrime e, con la testa bassa, disse: «Lo so. Lo so anch’io che non dovrei provare così tanta rabbia nei confronti di Brandir tanto da desiderare di fargli patire atroci sofferenze, ma non riesco ad accettare che, cercando di colpire me, abbia tolto la vita ad Asdrubaleo».
«Lo so, so cosa stai provando in questo momento. Mi dispiace essermi arrabbiato così tanto, ma non voglio che tu commetta qualche sciocchezza, qualche cosa di cui poi potresti pentirti» le si avvicinò Federico abbracciandola.
Giovanni e Giulio si unirono all’abbraccio e rimasero così a lungo, sapendo che un gesto d’affetto poteva dire molto di più che semplici parole.
 

*
 

Le truppe stanziate sul confine da Filippo il Saggio, dopo un aspro combattimento, erano state costrette alla ritirata.
L’esercito di Enoren, forte delle vittorie ottenute, marciò in fretta ed in poco tempo arrivò poco lontano dalla pianura di Albadorata. Nel giro di un’ora sarebbe giunto lì.
Tutto era pronto per l’imminente battaglia.
Giulio indossò velocemente l’armatura e prese lo scudo con il simbolo della famiglia reale.
Raggiunse gli altri e con essi si diresse nel luogo in cui si sarebbe svolto lo scontro.
I vari eserciti erano schierati: gli arcieri degli elfi e degli uomini erano nelle retrovie insieme ai maghi, più avanti vi erano gli uomini, gli elfi, i folletti, le streghe e le fate, in prima linea vi erano gli gnomi ed i nani. La cavalleria sarebbe stata guidata da Alessandro e sarebbe giunta in un secondo momento insieme ai draghi e ad alcuni dei pirati. Il grosso di questi ultimi, infatti, avrebbe combattuto per mare contro i pirati del Sud.
Sarebbero poi giunti, dalla parte da dove proveniva il nemico, gli elfi capitanati dal re Thalion e dalla regina Lothìriel di Lungobosco, in modo tale da accerchiare gli avversari.
Per volontà di re Filippo, i quattro giovani sarebbero rimasti nelle retrovie. Anche Messer Carlo e Galdor si trovavano lì per ordine del sovrano.
Tutti i re, tranne Giacomo che si trovava al comando della flotta insieme ad Edoardo il Temerario ed Anna, si erano schierati, a cavallo, in prima linea.
Comparve una grande macchia nera all’orizzonte: l’esercito nemico era arrivato.
Giulio guardò i suoi compagni.
«Buona fortuna. Speriamo che tutto vada nel verso giusto» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Vedrai, andrà tutto bene, come sempre» sorrise Federico.
«Esatto. Presto tutto sarà finito e potremo ritornare a casa» continuò Sonia.
«Torneremo tutti insieme» concluse Giovanni.
Giulio annuì, rassicurato da quelle semplici parole. Ma poi vide i suoi amici mettersi in posizione ed ebbe l’impressione che quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe visti.
Una nuova angoscia gli attanagliò la mente, ma prima che potesse fare qualcosa vide gli arcieri tirare. La battaglia aveva inizio e lui non era pronto.
Tutto il coraggio che aveva avuto fino a quel momento l’aveva abbandonato.
Messer Carlo lo notò e gli posò una mano sulla spalla per incoraggiarlo.
Senza neanche accorgersene si ritrovò con la spada impugnata a difendersi dagli attacchi nemici.
Gli sembrò che tutto fosse buio intorno a sè, che tutto e tutti fossero scomparsi.
Prima di essere colpito alla testa, schivò il suo avversario e lo colpì all’addome.
Trafisse altri due mezz’orchi ed un goblin.
«A quanto pare non sei un cattivo combattente» disse qualcuno che aveva una voce familiare.
Giulio si voltò e poi lo vide: era in piedi su un masso, indossava un’armatura nera senza elmo, un mantello lungo del medesimo colore ed impugnava una spada – sulla quale erano incise strane scritte - dall’elsa scura con incastonata una pietra verde all’interno della bocca di un teschio. Era Gregorio il Giusto, o meglio il Sovrano delle Tenebre.
«Tu!».
«Proprio io. Ci siano rincontrati in circostanze diverse da quelle che speravo, ma va bene lo stesso. Ora posso finalmente avere ciò che mi spetta».
«Io non credo».
«Io si. Dammi il pugnale e, forse, ti risparmierò la vita. Anzi, te la risparmierò. Mi piace il tuo atteggiamento, potremmo fare grandi cose insieme».
«Scordatelo! Non potrei mai passare dalla tua parte!».
«E perché no? In fondo, che cosa sai di me?».
Era vero, lui non sapeva molte cose sul suo conto. Gli era sempre stato presentato come un personaggio negativo e lui non aveva mai dubitato che fosse così.
«Non ricordi? Tu stesso mi hai parlato male di te».
«Ovvio, era per indurti ad accettare di aiutarmi».
«Questo dimostra che non ci si può fidare di te. Agisci solo per ottenere qualcosa in cambio».
«E che male c’è? Sto agendo solo per recuperare la parte di me che mi è stata ingiustamente sottratta. E per cosa, poi? Per essermi ribellato ad una società che mi aveva allontanato».
Giulio, senza accorgersene, si guardò intorno e notò che i suoi amici non erano con lui.
«Che c’è? Hai perso qualcosa? Forse i tuoi amichetti? Non preoccuparti, sono sicuro che i miei seguaci si stanno prendendo cura di loro».
«Maledetto. Sei stato tu a separarci!».
«No, sei stato tu. Tu ti sei allontanato da loro. E sai perché? Perché volevi trovarmi».
«Io non ho… Il pugnale! È stato il pugnale!».
Enoren sorrise. «Sai com’è, la parte che è racchiusa là dentro vuole disperatamente riunirsi a me».
«Questo non avverrà mai, io lo impedirò!».
«Sei molto divertente, ma mi sono stufato di scherzare».
Il Sovrano delle Tenebre, con rapidità, balzò in avanti e colpì Giulio.
Lo prese per i capelli e gli diede un pugno nello stomaco con l’elsa della spada.
«Come immaginavo, sei debole. Non sei per niente all’altezza di Caio il Grande».
Stava per colpirlo nuovamente, quando qualcuno glielo impedì: era Alessandro.
A quanto pareva era già arrivato con la cavalleria.
Enoren lasciò andare il giovane e si concentrò sul nuovo arrivato.
«Ma chi abbiamo qui? Il principe traditore!».
«Non sono mai stato un tuo alleato».
«Io non sopporto i traditori. Sai che cosa aspetta a coloro che osano tradirmi? La morte».
Detto questo attaccò Alessandro che, abilmente, riuscì a parare il colpo.
Giulio, dolorante, osservava il combattimento: Alessandro stava affrontando a testa alta il Sovrano delle Tenebre, e lui, invece, non era stato capace di fare nulla dopo tutti gli allenamenti che aveva fatto.
Enoren aveva ragione: lui non era come Caio il Grande, non era forte abbastanza. Si chiese come avesse anche solo potuto pensare di esserlo. Era stato battuto subito. Era davvero così debole?
Mentre Giulio pensava queste cose Sonia stava combattendo contro un gruppo di streghe.
Aveva perso di vista, anche lei, i suoi amici.
Si abbassò in tempo per schivare un incantesimo. Pensò che se avesse continuato così, prima o poi l’avrebbero colpita. Le venne un’idea.
Le streghe lanciarono il loro sortilegio e lei lo parò con la spada rispedendolo indietro, incenerendole.
«Bella mossa. Sei sempre stata molto intelligente» disse una voce.
«Brandir!».
L’elfo la guardò, poi, lentamente, si avvicinò.
«A quanto pare siamo giunti alla resa dei conti».
«Te la farò pagare per aver ucciso Asdrubaleo».
«Non era nelle mie intenzioni. Ma si è messo in mezzo, se l’è cercata!».
«Come puoi dire così? Era un tuo amico!».
«Amico? No, non direi proprio».
Sonia si morse forte il labbro facendoselo sanguinare, poi guardò con rabbia l’elfo.
«Non puoi dire così!».
Brandir fece segno che non gli importava. Prese l’arco e tirò, uccidendo il mannaro che stava per attaccare la ragazza. Quest’ultima lo guardò sorpresa.
«Tu sei mia. Nessuno può ucciderti tranne me!».
Un boato risuonò nell’aria: i draghi di Picco Fuoco erano arrivati! I draghi neri erano al servizio di Enoren, mentre quelli rossi combattevano come alleati di Filippo il Saggio.
Essi cominciarono a combattere tra di loro, ma fiammate e folate di vento colpivano anche coloro che si trovavano a terra, aumentando il numero dei caduti.
Intanto lo scontro tra Sonia e Brandir era cominciato.
Era evidente che l’elfo fosse superiore a lei per forza e velocità, ma la ragazza contava di poterlo sconfiggere usando l’ingegno.
Brandir colpì la giovane alla spalla e le provocò un grido di dolore.
Per un attimo gli occhi del primo tornarono ad essere azzurri, ma poi ripresero il loro vero colore: il nero.
Notando l’esitazione di quello che un tempo aveva considerato suo amico, con tutta la forza che aveva, la giovane scattò in avanti. Fu un attimo. La spada si tinse di rosso.
Aveva ferito l’elfo allo stomaco e lo stesso aveva fatto lui con lei.
Caddero entrambi sulle ginocchia. Il respiro si era fatto affannoso, la ferita bruciava ed il sangue continuava a fuoriuscire.
«È così, per essermi lasciato trascinare da qualcosa di incomprensibile per me, sto per…» sussurrò Brandir.
«E-emozioni».
«C-come?».
«Emozioni. Quello hai provato».
«Io non provo emozioni».
«Invece si. Hai cercato di soffocare tutti i tuoi sentimenti, con me, con Asdrubaleo, con tutti. Ma, alla fine, le tue emozioni sono venute fuori. Forse perché non volevi farmi del male?».
«Io devo ucciderti».
«Devi, ma forse non vuoi».
Brandir la guardò intensamente ed i suoi occhi, lentamente, diventarono azzurri e rimasero tali.
Sonia sorrise. «Come i camaleonti, ricordi?».
L’elfo chinò la testa e ripensò ai momenti che aveva passato con i suoi compagni e realizzò che erano stati i più sereni della sua vita.
Ripensò alla sera della festa fatta quando i giovani terrestri erano appena arrivati nella Terra dell’Infinito, alle sue parole e a quelle della giovane: «Io non potrò mai essere così, non riuscirò a lasciarmi trascinare dalle emozioni».
«Non devi farti trascinare, devi solo farti accompagnare da esse. Poi il resto verrà da sè».
Era vero. L’aveva capito troppo tardi però.
Aveva ucciso un amico ed, ora, un’altra persona a cui voleva bene stava per morire a causa sua.
«Ricordi quando mi hai chiesto di dirti quello che pensavo di te? Beh, credo che questo sia il momento giusto per dirtelo. Tu ti sei sempre comportato come un leader che non ha tempo per pensare a se stesso, che non vuole far trasparire i propri sentimenti. Anche se eri al servizio di Enoren, io credo che tu, in un certo qual modo, ti sia affezionato a noi. Hai sempre cercato di confortarci e ci hai protetto nelle battaglie. Questo vuol dire voler bene a qualcuno: aiutarlo nei momenti difficili. Questo vuol dire molto per me. Confesso di averti odiato profondamente quando hai ucciso Asdrubaleo. Ma, ora, capisco di aver sbagliato. Guardandoti, mi accorgo che devi aver sofferto anche tu. E, quindi, non è vero che tu non abbia dei sentimenti. Quello che voglio dirti è… Grazie, grazie per essermi stato amico».
Brandir alzò la testa e guardò stupito Sonia. Dopo tutto quello che aveva fatto lo considerava ancora un amico. Com’era possibile?
La ragazza cominciò a tossire e sputò sangue.
«Grazie. Grazie per essermi amica nonostante tutto».
Lei gli sorrise stancamente. Il suo volto era sempre più pallido.
L’elfo la abbracciò, la coricò delicatamente a terra e si stese accanto a lei.
«A quanto pare moriremo insieme» disse flebilmente Brandir, sempre più pallido anche lui.
«Già. Presto rivedremo Asdrubaleo. Ho un solo rammarico. Non poter stare accanto ancora un po’ ai miei amici ed ai miei genitori».
«Lo puoi fare. Sembrerà strano detto da me, ma finché il tuo ricordo rimarrà nei loro cuori, tu sarai sempre presente e sarai loro vicina».
«Grazie Brandir».
«Grazie a te, Sonia».
E così la loro vita si spense: l’uno accanto all’altro, con il sorriso sulle labbra.
Un’amica persa, due amici che si sono ritrovati.

 


Angolo Autrice.
Ehilà!
Finalmente Giulio è entrato nella stanza dell’addestramento ed ha incontrato Caio il Grande che, a quanto pare, è un personaggio della storia molto conosciuto!
Avete capito chi è?
Incomincia, poi, la tanto attesa battaglia: Sonia e Brandir perdono la vita dopo essersi riappacificati.
Ho ritenuto giusto concludere la loro storia in questo modo: ritornare ad essere amici – per davvero – nonostante tutto.
Bene, alla prossima! :)
Saluti.
Violaserena.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

 

La battaglia infuriava. Il numero dei caduti e dei feriti era ingente da entrambe le parti.
Sangue, spade, morte, fango, fuoco erano solo alcuni dei dettagli che caratterizzavano lo scontro.
Filippo il Saggio e re Gabriele, nonostante fossero entrambi feriti, continuavano a combattere valorosamente.
La flotta di Edoardo il Temerario e di re Giacomo, dopo un’iniziale svantaggio, stava avendo la meglio grazie alla strategia del primo: aveva attirato le grandi navi del Sovrano delle Tenebre in uno stretto in modo tale che non avessero grandi capacità di manovra. Molte si erano incagliate, altre erano state affondate dai cannoni delle navi avversarie.
Federico era impegnato in un duro scontro con Andromalius. Il Darkoth era un avversario temibile nonostante le sue piccole dimensioni. Continuava a lanciare sfere nere che esplodevano non appena entravano in contatto con qualcosa.
Il giovane faceva di tutto per scansarle, ma sapeva che non poteva evitarle all’infinito.
Non poteva nemmeno sperare di rimandarle indietro con la spada perché appena l’avessero toccata sarebbero esplose.
Egli notò che i draghi stavano combattendo proprio sopra di lui e gli venne un’idea ricordandosi che, quand’era a Felceazzurra, aveva trovato un libro su quelle maestose creature e aveva scoperto come riuscire a farsi obbedire. Fischiò. Il drago rosso si voltò nella sua direzione e lo guardò intensamente negli occhi.
Andromalius intanto lanciò le sue sfere, ma esse furono rispedite al mittente. Il drago, infatti, aveva aperto le sue grandi ali e aveva cominciato a muoverle nella direzione del Darkoth provocando una folata di vento.
Ci fu una grande esplosione, dalla quale il servo di Enoren ne uscì sconfitto.
Federico non ebbe il tempo di esultare poichè sentì un dolore lancinante al braccio sinistro. Si accorse che un’ascia era infilzata nel suo arto insanguinato.
«Chi si rivede» si sentì dire.
«Bossolo! Proprio tu mi hai attaccato alle spalle?».
«Non è colpa mia se tu ti sei girato».
«Io non mi sono girato!».
«Si che l’hai fatto!».
«No invece».
«Si».
«No».
«Si».
«Va beh, come vuoi tu. La tua cocciutaggine non ti farà cambiare idea».
Il giovane estrasse lentamente l’ascia dal suo braccio, dal quale uscì un getto di sangue.
Il dolore era tanto, ma doveva stringere i denti se voleva sconfiggere il nano.
«Ridammi la mia arma».
«Perché? Non ne hai un’altra?».
«Ho un mazzafrusto, ma non mi piace usarlo».
«La vuoi? Bene, vienitela a prendere!».
Bossolo scattò in avanti, ma Federico lo evitò.
Riuscì a dargli un calcio stendendolo a terra.
Si girò appena in tempo per evitare di essere colpito da un mezzo troll. Si abbassò velocemente e ferì il mostro alle gambe, facendolo cadere. Poi gli lanciò l’ascia nello stomaco aprendoglielo.
Il ragazzo fece una smorfia di ripugnanza ed estrasse l’arma, uccidendo poi un orco che si stava avvicinando.
Sentì una nuova fitta al braccio sinistro. Bossolo, intanto, si era rialzato ed impugnava il mazzafrusto.
«L’hai voluto tu. Mi spiace eliminarti: sei diventato un buon combattente».
Giovanni, nel frattempo, aveva scorto l’amico ed il nano e si apprestava ad andare ad aiutare il primo.
Un troll, però, gli si parò davanti.
«Non ho tempo da perdere con te, perciò levati» esclamò il giovane.
Il troll grugnì qualcosa e poi tentò di colpirlo con una mazza.
Giovanni parò il colpo con la spada e, con un rapido movimento, lo trafisse al petto.
Mentre il suo avversario cadeva privo di vita, il ragazzo vide una scena che non avrebbe mai dimenticato: Bossolo aveva colpito col mazzafrusto Federico, prima in faccia poi allo stomaco.
Il corpo, ricoperto di sangue dell’amico, cadde a terra.
Giovanni restò paralizzato, poi corse piangendo verso di lui.
«Fede, Fede, Federicooo!!».
Bossolo, che intanto aveva recuperato la sua ascia, disse: «Ormai è finita per lui».
«G-Gigia…».
«Federico! Non sforzarti a parlare, sei troppo debole. Ora trovo qualcuno che ti possa curare, così potrai rimetterti in piedi».
«È troppo tardi, o-ormai».
«No, non è vero. Maghi, streghe, dove siete? Qui c’è bisogno del vostro aiuto!!».
«G-Gigia, sappi che sono stato e sono felice. Anche se la mia v-vita è stata breve, n-non ho rimpianti. Tu, Giulio e S-Sonia siete stati i migliori amici che abbia mai avuto, ci siete sempre stati per me. Per questo… G-grazie, grazie davvero». Detto questo la sua vita volò via. Un’altra giovane anima si era spenta negli orrori della guerra.
«No, no, nooooo!! Federico, tu non puoi lasciarci! Non puoi farci questo, ti prego! Ti prego! Non puoi andartene così!! Non è giusto! Ti prego svegliati, ti scongiuro! Ti prego…».
«Sei patetico» affermò tagliente Bossolo.
Giovanni, con il volto rigato dalle lacrime, si girò con aria crudele verso il nano: «Tu, sei stato tu. È colpa tua se lui è morto. Io ti uccido!».
«Provaci».
Il giovane non se lo fece ripetere due volte e saltò addosso al suo nemico.
Venne colpito più volte alle braccia, alle gambe, allo stomaco, ma non si fermò. Era come se non sentisse il dolore, tanta era la rabbia dentro di lui.
Diede una testata al nano e gli tagliò una mano con la spada. Prima che Bossolo potesse riprendersi dalla sofferenza, gli sottrasse il mazzafrusto e cominciò ad usarlo contro di lui, colpendolo ovunque gli capitasse, sfigurandolo. Continuò come una furia ad infierire sul suo corpo, anche quando era evidente che, ormai, il suo nemico era morto.
Esausto si lasciò cadere. Guardò ancora una volta Federico e, poi, perse i sensi.
Intanto Alessandro era alle prese col Sovrano delle Tenebre. Nonostante i suoi sforzi non riusciva a battere il suo avversario: ogni volta le sue ferite si rimarginavano. Era più che evidente che avrebbe perso se Giulio non fosse intervenuto al più presto con il pugnale di Caio il Grande. Ma, il giovane, non sembrava intenzionato a muoversi. Era come in trans.
Enoren atterrò il principe e lo immobilizzò pronunciando una strana formula che fece illuminare le scritte sulla sua spada e partire un raggio verde.
Poi si rivolse a Giulio: «Sei un codardo incapace. Non meriti nemmeno di tenere tra le tue mani quel pugnale. Caio il Grande si rivolterà nella tomba sapendo di avere un erede come te».
Il ragazzo non disse e non fece niente. Non riusciva più a muoversi.
«Mi sarebbe piaciuto battermi con un degno avversario, così la mia vittoria sarebbe risultata ancora più gloriosa ma, a quanto pare, non sarà così. Pazienza, sarà comunque una soddisfazione farti fuori: l’erede del grande Caio sconfitto subito. Bello no?».
Giulio strinse i pugni talmente tanto da ferirsi.
«Cos’è, hai perso la lingua? Beh, posso capirlo. Trovandosi di fronte alla morte non si ha molta voglia di parlare. Voglio essere clemente con te: ucciderò tutti i tuoi amici, così nell’aldilà non ti sentirai solo. Non sono una brava persona?». Enoren proruppe in una sonora risata.
Sei Giulio. Ed è questo ciò che conta. Ricordalo sempre.
Le parole di Caio il Grande risuonarono nella mente del giovane, risvegliandolo.
Egli estrasse il pugnale che, fino ad allora, aveva tenuto nascosto e, con rabbia, disse: «Forse non sarò forte come il tuo antico avversario, forse non sarò considerato alla tua altezza, ma sono sicuro di una cosa: io sono Giulio, non sono nessun altro. Combatterò fino alla morte se necessario e, giuro, che ti impedirò di fare del male ai miei amici e ad altre persone. Hai già causato troppa sofferenza per i miei gusti. Io ti sconfiggerò e libererò la Terra dell’Infinito dall’oscurità».
«Quindi ucciderai anche te stesso: l’oscurità è anche dentro di te».
Il Sovrano delle Tenebre attaccò, ma questa volta Giulio parò il colpo.
«Stupito?» ghignò.
«No, visto che perderai comunque».
Enoren girò su se stesso, si allontanò e poi ripartì all’attacco.
Il giovane riuscì a difendersi egregiamente e sfiorò col pugnale il volto del suo nemico che, per un breve istante, divenne rosso. Era come se, quel leggero contatto, l’avesse bruciato.
«Maledizione!» urlò il re di Lumbar. «Devo, forse, pensare che quella di prima era una tattica? ».
«Potrebbe esserlo stata».
«Non mi importa ora. Ciò che conta è farti fuori una volta per tutte. Preparati a morire!».
Il cielo si oscurò e tutto divenne buio: non un filo di luce illuminava il campo di battaglia.
Un’aura cupa avvolse il corpo del Sovrano delle Tenebre, i suoi denti divennero maggiormente appuntiti, le sue dita si allungarono ed i suoi occhi divennero ancora più neri. Fino a quel momento egli aveva mantenuto l’aspetto di Gregorio il Giusto, fatta eccezione per le iridi.
Giulio ebbe paura, una paura che non aveva mai provato.
Le scritte della spada di Enoren si illuminarono e crearono una nebbia verde che si diresse nella direzione del giovane, avvolgendolo.
«Giulio!» gridò disperato Alessandro.
Il giovane fu colpito, da ogni parte, da lame invisibili. La mano in cui teneva il pugnale gli doleva: esso, infatti, aveva incominciato a bruciare. Nonostante il dolore, non lasciò la presa.
Sentiva chiaramente la parte del re di Lumbar, racchiusa nell’arma, premere per uscire e riunirsi con la sua metà.
Il dolore era sempre più forte, le ferite sempre più numerose.
Provò rabbia e frustrazione per non riuscire ad opporsi ad una simile situazione.
Fu in quel momento che sentì la voce di quella che pensò fosse la sua parte oscura: «Dobbiamo ucciderlo e farlo soffrire tanto quanto lui sta facendo con noi».
Giulio, provato dal dolore, pensò che non fosse una cattiva idea.
La potenza delle lame insieme al calore del pugnale aumentò ancora di più.
«Deve pagarla per tutto il male che ci sta facendo. La nostra lama bagnata del suo sangue sarà il primo passo per la nostra vendetta» sentì dire dalla voce nella sua testa.
Fu a quel punto che, ricordandosi dell’incontro con la sua copia oscura nella stanza dell’addestramento, capì.
«T-tu non sei me! Sei l’altra parte di Enoren. N-non ti lascerò vincermi» affermò con fatica.
Con tutta l’energia che gli era rimasta alzò la mano e tranciò la nebbia che lo avvolgeva.
«Non è possibile!» urlò il Sovrano delle Tenebre.
Quest’ultimo si avventò su Giulio, il quale colpì la sua spada distruggendola e poi affondò il pugnale nel suo corpo.
Enoren divenne tutto rosso: la sua armatura e la sua pelle bruciavano.
Ci fu una piccola esplosione in cui risuonarono i lamenti del re di Lumbar.
L’incantesimo che teneva bloccato Alessandro si spezzò, l’oscurità si disperse ed il cielo tornò sereno.
I mostri ancora vivi, avvertendo la scomparsa del loro padrone, fuggirono.
Del Signore delle Tenebre non rimaneva che un mucchietto di cenere.
Giulio aveva vinto, aveva sconfitto la più grande minaccia della Terra dell’Infinito.
Egli si lasciò cadere, esausto e ferito. Prima di chiudere gli occhi gli sembrò di vedere il volto sorridente di Caio il Grande.
 

*
 

Quando Giulio di risvegliò non era più sul campo di battaglia, ma nella camera in cui aveva dormito nel periodo di allenamento con Messer Carlo.
Le finestre erano leggermente aperte e da esse filtrava la luce del sole.
Tutto intorno regnava la calma.
Il giovane notò di avere molte fasciature: a quanto pareva le ferite infertegli da Enoren erano più numerose di quanto ricordasse.
La porta della stanza si aprì ed Alessandro e Coco fecero la loro comparsa.
«Ti sei svegliato!» strillò allegro lo gnomo saltando sul letto e abbracciandolo.
«Perché, quanto ho dormito?».
«Due giorni».
«Cavolo, dovevo proprio essere esausto!».
«Come ti senti?» gli chiese Alessandro.
«Direi bene, ho solo un po’ male al petto, ma nulla di cui preoccuparsi».
Nella camera entrò Messer Carlo, seguito a ruota da Zeffirello. Il primo aveva una fasciatura alla mano, per il resto sembrava non avesse subito altro tipo di ferite.
«Oh Messer Giulio, finalmente vi siete svegliato! Sarete lieto di sapere che sto componendo un’opera degna delle vostre gesta. Tutti canteranno la gloria di colui che ha sconfitto il Sovrano delle Tenebre» lo elogiò il musico.
Il ragazzo sorrise.
«Perdonalo, Zeffirello è sempre troppo agitato. Comunque, complimenti. Hai combattuto bene da quello che mi hanno detto. E cosa più importante hai vinto» disse Messer Carlo.
«Grazie, ma non merito tutti questi complimenti. Mi sono comportato come avrebbe fatto chiunque di voi».
«Non proprio chiunque» lo corresse il principe.
«Gli altri dove sono? Stanno bene, vero?».
Le facce dei presenti si rattristarono di colpo e Giulio ebbe un brutto presentimento.
«Ascolta…» tentò di dire Alessandro.
«Dimmi cosa è successo» lo interruppe il giovane sempre più agitato.
«Va bene. Come sai abbiamo vinto la guerra, ma a costo di numerose perdite e di un alto numero di feriti. Mio padre ha un braccio slogato, re Gabriele è ferito alla mano, re Giacomo ha perso un occhio ed è ferito ad una gamba. Edoardo il Temerario ha dei piccoli tagli sull’avambraccio, Anna alla spalla, Galdor è stato avvelenato da una freccia, ma grazie ad un antidoto si sta riprendendo in fretta…».
Il ragazzo gli fece cenno con la testa di continuare.
«Purtroppo le cose non sono andate così bene per tutti. Giulio… Sonia e Federico sono morti, mentre Giovanni è gravemente ferito».
Giulio rimase immobile, paralizzato, il suo cuore cominciò a battere velocemente come se volesse uscirgli dal petto.
«Come…Cosa…Perché…?» balbettò.
«Non ne siamo sicuri, ma i loro corpi sono stati trovati vicino a quelli di Brandir e Bossolo, quindi crediamo che li abbiamo affrontati e…» cercò di continuare il principe, ma le parole gli morirono in gola.
«Portami da loro» affermò con voce rotta il giovane.
Alessandro, insieme agli altri, lo portò in una stanza dove su di un letto erano adagiati i corpi inerti di Federico e Sonia.
Giulio lentamente si avvicinò e li osservò intensamente come a volersi accertare che fossero i suoi due amici. I loro corpi erano stati puliti, ma si potevano vedere i tagli provocati dai colpi subiti.
«È uno scherzo, vero? Deve esserlo. Avanti, alzatevi. Dobbiamo ritornare a casa, ricordate? Dobbiamo tornare dai nostri genitori, dai nostri amici e fare ancora la nostra partita di calcio».
Messer Carlo stava per dire qualcosa, ma il figlio di Filippo il Saggio lo bloccò.
«Vi p-prego, dovete alzarvi! Dobbiamo tornare a casa. Tutti insieme come mi avete promesso. D-dobbiamo t-tornare a… casa».
«Vedrai, andrà tutto bene, come sempre».
«Esatto. Presto tutto sarà finito e potremo ritornare a casa».
«Torneremo tutti insieme».
Nella sua mente rimbombarono le ultime frasi dei suoi amici.
«Mi avete mentito, mi avete mentito!» urlò disperato incominciando a piangere.
Lui che non piangeva mai, lui che aveva sempre odiato piangere ora lo stava facendo.
Le lacrime gli scendevano copiose sul volto e non accennavano a diminuire.
Il giovane entrò nella stanza adiacente dove si trovava Giovanni.
Quest’ultimo era ancora vivo, ma le sue ferite erano gravi. I medici avevano fatto del loro meglio per curarle, ma il ragazzo non accennava a riprendersi o a svegliarsi.
«Perché? Non doveva andare a finire così. Non è giusto!».
Alessandro gli si avvicinò e lo abbracciò.
«Andiamo» gli sussurrò.
Giulio uscì e si diresse verso il giardino. Si buttò a terra e cominciò a strappare l’erba accecato dalla rabbia e dal dolore.
Un frate gli passò accanto, lo benedisse e si allontanò: era quel frate che aveva incontrato tempo addietro mentre si dirigeva da Messer Carlo per allenarsi.
Si calmò, tornò nella sua stanza e prese tra le mani il pugnale di Caio il Grande.
«È successo tutto per colpa tua. Una guerra per questo stupido oggetto. Sono morti, sono morti per un pugnale!» urlò e lanciò l’arma contro la parete.
Sentì male al petto, ma non ci badò. Il dolore per la perdita dei suoi migliori amici era più forte di una qualsiasi ferita fisica.
Nei giorni successivi fu costretto a partecipare alla cerimonia di celebrazione della vittoria: ricevette gli applausi da parte di tutto il popolo che lo acclamava come eroe. Il re gli diede in dono una gemma azzurra, appartenuta all’Armata Azzurra, scomparsa dopo la distruzione di Lucedorata causata da Enoren.
Furono poi celebrati solennemente i funerali dei caduti.
Le bare furono sepolte nella pianura dove si era tenuta la battaglia in memoria dei combattenti che erano morti con onore.
Fu una triste cerimonia. Giulio non credeva che avrebbe mai assistito ai funerali dei suoi amici. Questi ultimi non erano più lì con lui ed egli non riusciva ancora a capacitarsene, o meglio, non riusciva ad accettarlo.
Giovanni non si svegliava e le sue possibilità di sopravvivenza diminuivano sempre di più.
Giulio si trovava nella stanza del suo amico, quando gli giunse una speranza inaspettata.

 



Angolo Autrice.
Ciao a tutti!
In questo capitolo si conclude la battaglia contro il Sovrano delle Tenebre.
Anche Federico perde la vita, mentre Giovanni rimane gravemente ferito.
Giulio, dopo che con difficoltà ha sconfitto il suo nemico, spera di poter tornare a casa insieme ad i suoi amici, ma purtroppo scopre che non sarà così.
Ho cercato di descrivere al meglio la sua sofferenza e la sua rabbia.
Alla fine, quando tutto sembra perduto, giunge una speranza inaspettata: che cosa sarà?
I suoi amici torneranno in vita? Giovanni si risveglierà? Torneranno, tutti insieme, a casa?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo che sarà anche l’ultimo!
Perciò… Alla prossima!
Saluti.
Violaserena.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

 

Giulio, Alessandro, Coco, Edoardo il Temerario e Galdor avevano lasciato il palazzo reale già da qualche giorno e si stavano dirigendo nel regno degli gnomi dell’Arcobaleno.
Coco, infatti, aveva detto loro che chi avesse trovato la fine dell’arcobaleno avrebbe trovato una pentola piena di monete d’oro o, in alternativa, avrebbe potuto esprimere un desiderio.
Questo voleva dire che Giulio avrebbe potuto chiedere di riportare in vita Sonia e Federico e risvegliare Giovanni.
«Ci vuole ancora molto?» domandò il giovane.
«No, siamo quasi arrivati. Tuttavia, prima di proseguire, dovete farmi una promessa» disse lo gnomo.
«Si, certo! Tutto quello che vuoi» lo incalzò il pirata.
«Come sapete la fine dell’arcobaleno non dovrebbe essere mostrata, ma andrebbe trovata. Però, dal momento che Giulio ha salvato tutti noi, è meritevole di vederla. Nessuno di voi, qualora riconosca il luogo, dovrà farne menzione. Ho la vostra parola d’onore?».
«Hai la mia parola» annuì il principe. Lo stesso affermarono gli altri.
«Bene, ora vi devo bendare. Non dovete sapere quale strada percorreremo».
Uno dietro l’altro, privi della vista, proseguirono lentamente.
Dall’odore di aghi di pino Giulio dedusse di star camminando in un bosco.
Procedettero ancora per alcune ore, senza fare alcuna sosta.
«Siamo arrivati».
Ognuno di loro si tolse la benda. Si accorsero di trovarsi su di una rupe e di avere davanti a loro la fine dell’arcobaleno. Quest’ultimo si riversava al di là di un fitto numero di alberi.
«Allora, dov’è la pentola con le monete d’oro?» chiese con una strana luce negli occhi Edoardo il Temerario.
Alessandro aveva portato la mano alla spada, mentre Galdor era pronto ad incoccare l’arco.
Notando il gesto dei suoi compagni, il pirata sbuffò e poi, senza volerlo, spostò lo sguardo su Giulio.
Tristezza e speranza potevano essere letti sul volto provato del giovane.
«Eh va bene, lo ammetto! Non mi sarebbe dispiaciuto prendere per me la pentola, ma non lo farò. C’è qualcuno che, in questo momento, ne ha più bisogno di me» affermò Edoardo, alzando le mani in segno di resa.
«Ero sicuro che, in fondo, avessi un buon cuore» gli disse il figlio di Filippo.
Il pirata voltò la testa da un altro lato e borbottò qualcosa.
«Abbiamo trovato un bucaniere generoso!» continuò l’elfo.
«Potrei cambiare idea se non la smettete».
Coco, intanto, si era avvicinato all’arcobaleno. Toccò tutti i colori secondo una precisa sequenza e poi indietreggiò.
Un lampo di luce invase la rupe, abbagliando i presenti.
Quando tutto tornò alla normalità, una nera pentola si trovava davanti a loro.
Uno gnomo vestito di verde, molto più piccolo di Coco, sbucò fuori da essa.
«Benvenuti! Per essere giunti fin qui, riceverete un premio. Oro o un desiderio: qual è la vostra scelta?» domandò il piccolo esserino.
Galdor fece segno a Giulio di farsi avanti. «Desiderio».
«Bene, la scelta è stata fatta. Ora dimmi, che cosa desideri, mio giovane amico?».
Il ragazzo stava per parlare quando una strana nebbiolina nera ricoprì la rupe.
Tutto diventò buio e la visibilità si ridusse notevolmente.
I presenti estrassero le loro armi, tentando di individuare il possibile nemico che si celava nell’oscurità.
Giulio sentì, di nuovo, una fitta al petto e la mano in cui teneva il pugnale bruciargli.
«Enoren!» gridò il giovane.
Una lugubre risata rimbombò tutt’intorno.
«Ma com’è possibile? Non dovrebbe essere morto?» domandò stupito Galdor.
Un urlo agghiacciante raggelò il sangue dei presenti.
Man mano la nebbia si diradò, lasciando intravedere il corpo senza vita dello gnomo della pentola d’oro.
«No, non può essere…» esclamò esterrefatto Giulio.
La rabbia gli ribollì nelle vene. Avevano raggiunto la fine dell’arcobaleno e, ora, tutto era perduto.
Senza neanche accorgersene scattò in avanti colpendo con il pugnale la figura che si stava componendo nella nebbia.
«Questa è la mia vendetta» gli sussurrò il Sovrano delle Tenebre prima di scomparire per sempre.
La parte di Enoren che era racchiusa nell’arma di Caio il Grande si era manifestata in un momento totalmente inatteso e aveva distrutto la speranza di riportare in vita Sonia e Federico e di risvegliare Giovanni. Quella parte, ora, si era definitivamente estinta: il pugnale era stato privato dell’essenza malvagia del re di Lumbar.
Giulio si buttò a terra battendo i pugni.
Tutto era finito, finito in maniera diversa da come si aspettava.
Era partito con la convinzione di rivedere i suoi amici, tornava con la consapevolezza di non poterli più avere accanto.
Alessandro e gli altri erano sgomenti per quello che era accaduto ed erano arrabbiati con se stessi per non essere riusciti ad evitare una simile situazione.
Il ritorno ad Albadorata procedette senza allegria.
Giunti a palazzo riferirono al re quel che era accaduto e poi andarono nella stanza in cui si trovava Giovanni.
«So che quello che sto per dirti non colmerà il tuo dolore, ma voglio che tu non lo dimentichi. I tuoi amici, anche se non sono fisicamente qui presenti, saranno sempre con te. Fino a quando tu ti ricorderai di loro, essi non ti abbandoneranno. Preserva la loro memoria e continua a vivere per loro» gli disse il principe.
Il ragazzo gli sorrise. «Lo farò».
Dopo qualche giorno, Giulio fu condotto davanti ad una porta che l’avrebbe riportato nel suo mondo, sulla Terra.
«Abbi cura di te» affermò Coco.
«Certo. Statemi bene anche voi».
«Quando tornerai?» domandò Edoardo il Temerario.
«Non lo so. Prima devo andare dai genitori di Federico, Sonia e Giovanni e dare loro la brutta notizia. Appena avrò fatto ciò, tornerò. Gigia è ancora vivo e, finché ci sarà speranza, io sarò con lui».
«A presto» lo salutò Galdor.
«Oh Messer Giulio, quando tornerete vi farò sentire la mia opera! Sono sicuro che la apprezzerete» esclamò Zeffirello.
«Ne sono sicuro. Non c’è nessun musico migliore di te».
Giulio abbracciò tutti, strinse la mano al re, alla regina e a Messer Carlo.
«Ricorda» gli sussurrò Alessandro.
Il ragazzo gli fece un cenno di assenso con la testa, poi si voltò ed oltrepassò la porta, accompagnato dalla melodia prodotta dal liuto che Zeffirello aveva incominciato a suonare.
Percorse un lungo corridoio, molto simile a quello che aveva attraversato quando era arrivato nella Terra dell’Infinito. C’era però qualcosa di diverso: quattro quadri.
Giulio, vedendoli, sorrise: quei quadri rappresentavano lui ed i suoi tre amici.
Una luce, in fondo, segnava il confine tra i due mondi. La oltrepassò e si trovò nel luogo da cui era partito: Piazza Solferino, davanti alla fontana.
Ripensò a tutto quello che era accaduto, a com’era e a come era diventato.
Quell’avventura l’aveva cambiato, l’aveva reso più consapevole.
Improvvisamente, gli venne in mente una poesia di Giorgio Caproni che una sua professoressa aveva letto in classe l’ultimo giorno di scuola, quando lui faceva ancora il liceo.
Si intitolava “Congedo del viaggiatore cerimonioso”.

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio)’ confidare.

(Scusate. E una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Giulio sorrise. Come le quattro stagioni erano unite, benché ognuna fosse presente in un periodo diverso, così lo erano lui ed i suoi amici. Ora, però, questo era il suo momento, la sua stagione. Tuttavia era sicuro che, presto, sarebbe arrivata anche la stagione degli altri.
«Sono tornato» disse incamminandosi verso casa.
 

 

Angolo Autrice.
Ehilà!
Siamo giunti alla fine di questa storia.
Io non amo particolarmente il “lieto fine”, per cui ho deciso di far finire il racconto in questo modo: lasciando com’era tutto dopo la guerra contro il Sovrano delle Tenebre.
Purtroppo, non sempre le cose vanno come ci aspettiamo.
Per questa storia, io credo che questo sia il finale migliore. Giulio torna, solo, a casa con una nuova consapevolezza: non sempre i propri desideri si realizzano.
Ho deciso di inserire la poesia di Caproni perché penso che descriva molto bene la separazione dai propri amici.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto questa storia! :)
Un grazie speciale va a alessandroago_94 che ha sempre lasciato una recensione e mi ha supportata! :)
Detto questo, spero che questo racconto vi sia piaciuto.
Saluti.
Violaserena.

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