Eclissi del cuore

di Nyktifaes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Pazzia ***
Capitolo 3: *** Verità ***
Capitolo 4: *** Legno ***
Capitolo 5: *** Vento e Mare ***
Capitolo 6: *** Come James e Victoria ***
Capitolo 7: *** Incontro ***
Capitolo 8: *** Jar of Hearts ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Capitolo betato da Joan Douglas
grazie, tesoro.

 

 

Eclissi del cuore

Prologo
 
D’estate, quando il caldo è appiccicoso e la pioggia rende l’asfalto viscido, non è conveniente percorrere a tutta velocità le autostrade dello stato di Washington. I rischi sono innumerevoli: si potrebbe perdere il controllo del mezzo e finire fuori carreggiata o contro un'altra auto, ritrovarsi costretti a sterzare improvvisamente per via di un animale dei boschi che decide di attraversa la strada. Per finire, in tutti i casi, con l’osso del collo spezzato.
Il tutto, ovviamente, se si è umani.
Infatti, pur trovandomi sul sedile del passeggero di un’auto che sfiorava i centoottanta chilometri orari, non provavo il benché minimo timore.
Osservavo il paesaggio oltre il finestrino senza vederlo davvero. Gli alberi si facevano sempre più vicini, i boschi sempre più fitti, mano a mano che ci avvicinavamo alla meta. Nonostante l’elevata velocità riuscivo a distinguere perfettamente ogni dettaglio del bosco, le fronde degli alberi, qualche scoiattolo coraggioso che si spingeva fino al confine dell’autostrada per trovare del cibo. Una parte del mio cervello era impegnata a catalogare le decine di fotogrammi che registravo. Una piccola parte.
Il resto della mia mente era fermamente intenzionata a tenermi lontano dalla miriade di ricordi, di sensazioni e di emozioni che quel paesaggio portava con sé. 
Temevo che i cassetti che avevano custodito così gelosamente le mie memorie di tali luoghi, celandoli perfino a me, potessero esplodere da un momento all’altro, causando enormi danni alla mia psiche.
Mollemente poggiato sul sedile, un braccio piegato sullo sportello e la testa abbandonata sulla mano, ero rivolto al finestrino ma avvertivo perfettamente gli ingranaggi della mente di mia sorella, al posto del conducente.
Alice era insolitamente silenziosa, non che dopo sei interi anni di lontananza mi aspettassi di meglio, ma sentirla così taciturna anche mentalmente era decisamente troppo strano. Non parlava, e la sua mente con lei. I suoi pensieri erano pressoché inesistenti, al loro posto aleggiava una particolare sensazione di rabbia malinconica mista a speranza.
Già, speranza.
Era convinta che, una volta arrivati , mi sarei ricongiunto a lei e che tutti i pezzi del puzzle immaginario che erano le nostre vite sarebbero tornati ai loro posti.
Non ero così ottimista a tal proposito, ma avrei tentato. Era ciò che volevo e ciò di cui avevo bisogno.
Era per questo che ci trovavamo, in pieno luglio, a percorrere una delle autostrade dello stato di Washington che porta direttamente alla cittadina più piovosa d’America: Forks.
Forks, che era stata per un anno intero il mio paradiso personale, ma al centro esatto dell’inferno.
Ed eravamo lì perché non ce l’avevo fatta.
L’avevo lasciata così, brutalmente, troppo spaventato dall’idea di essere io stesso o il mio mondo la causa delle sue sofferenze e, un giorno, della sua morte. Non volevo quel senso di colpa, non volevo essere il carnefice dell’unico raggio di sole della mia vita.
E dopo appena sei anni ero tornato sui mie passi. Ero stanco di sopravvivere, di continuare a soffrire e quindi avevo deciso che sarei tornato, che avrei ritentato.
Avevo giurato che l’avrei lasciata libera, che avrebbe avuto una vita umana serena, lunga e felice, lontano da me. Avevo promesso che sarei stato abbastanza forte da sopportare la sua mancanza, avrei tirato avanti fino al giorno in cui il suo cuore avesse risuonato il suo ultimo battito, dopo di che l’avrei raggiunta. Non sapevo cosa mi avrebbe atteso dall’altra parte, oltre la morte, ma confidavo in una qualche misericordia divina che mi avrebbe permesso di rivederla per un’ultima volta, prima di iniziare a scontare la mia pena eterna.
E invece ero lì, pronto a gettarmi ai suoi piedi per supplicarla di riprendermi nella sua vita. Non potevo nemmeno contemplare l’idea di un suo rifiuto, pur essendo consapevole della sua probabilità, mi ero sforzato di bloccare i miei pensieri, per evitare di sfociare nel realismo troppo amaro.
Codardo, egoista e debole.
Dopo il modo terribile in cui l’avevo abbandonata, così meschino e riprovevole, stavo tornando da lei. Dopo aver privato Carlisle ed Esme di una figlia ed Alice dell’amica che desiderava da sempre. Perfino Emmett e Jasper avevano sentito la sua mancanza.
E poi avevo scelto di abbandonare anche loro, moltiplicando il loro dolore.
Non avevo resistito più di qualche breve settimana a stretto contatto con la loro tristezza, la loro pena nei miei confronti e il loro amore. Non riuscivo a sopportare la vista delle tre coppie perfette di eterni innamorati, non dopo aver provato io stesso le gioie dell’amore ed essermene privato troppo presto. Avevo iniziato a covare invidia e rabbia e avevo deciso che era il momento di andare per conto mio, a riordinarmi le idee.
Quasi sei anni dopo mi ero ripresentato alla porta della loro casa - questa volta nei pressi di Calgary, in Canada - sporco, stanco e desideroso di essere riaccettato nella mia famiglia.
Nemmeno a dirlo, ero stato riaccolto come il figliol prodigo, ancora una volta.
Esme mi aveva gettato le braccia al collo, piangendo singhiozzi e gemiti, sulla mia camicia. Nella sua mente urlava di non farle mai più una cosa del genere, disperata e traboccante di felicità allo stesso tempo. Carlisle mi aveva cinto le spalle con un braccio e lasciato un bacio sulla fronte, nei pensieri solo il sollievo di riavere il suo primogenito a casa. Jasper ed Emmett erano stati un altro paio di maniche: il primo, reso entusiasta non solo dal mio ritorno ma anche dal clima emotivo, mi gravitava intorno entusiasta; Emmett mi aveva mollato un pugno sulla spalla, esclamando a gran voce il suo bentornato al “vecchio fratellino musone”. Rose mi si era avvicinata e mi aveva sfiorato la spalla che suo marito aveva appena colpito, in una carezza carica di affetto. Ci avevo messo quasi un minuto intero, stordito com’ero da tutto quell’affetto nei gesti e nei pensieri della mia famiglia, a rendermi conto di un’assenza.
Alice se ne stava in disparte, qualche passo indietro a Jasper, e non mi guardava. Puntai il mio sguardo sulla sua figura, desideroso come non mai di abbracciare mia sorella. Lei mi si avvicinò, alzando lo sguardo nel mio, solo nel momento in cui ci ritrovammo l’uno di fronte all’altra. Non feci nemmeno in tempo a registrare la sua espressione furiosa, perché una sua mano aveva colpito la mia guancia.
Mi aveva schiaffeggiato.
«Sei un coglione».
Alice non era mai stata volgare, né così infuriata. Non con me.
Puntò il suo sguardo d’ambra screziato del nero della rabbia nel mio e io potei vedere la sofferenza degli ultimi sei anni. E una delle pochissime visione che aveva avuto su di me, dato che non prendevo decisioni quasi mai, di pochi giorni prima. Semplicemente aveva visto il mio ritorno e la sua motivazione.
Ero ancora lì, immobile, in attesa che dicesse o facesse qualcosa, il senso di colpa troppo forte.
Aveva distolto lo sguardo e parlato con tono freddo, duro.
«Hai dieci minuti per farti una doccia e renderti presentabile, fai abbastanza schifo». “Muoviti, sono sei anni che aspetto”.
Nonostante tutto era felice del mio ritorno e, pur considerandolo in tremendo ritardo, del mio essermi ricreduto.
Esme, che aveva continuato a cingermi la vita con un braccio, si era vista costretta a lasciarmi andare, non prima di avere lanciato un’occhiataccia ad Alice.
Mi fiondai su per le scale, pur non conoscendo la nuova abitazione non ci misi più di una frazione di secondo a trovare il bagno e i vestiti che Alice mi aveva preparato. Sorrisi, ebbro di aspettative.
Ritornai al presente, non mi ero reso conto di stare fissando Alice finché non fu lei a parlare.
«So di essere bella, ma piantala di fissarmi. Sono sposata». Il suo tono era ancora indifferente ma nei suoi pensieri aleggiava un sorriso. Più i chilometri che ci dividevano da Forks diminuivano, più il buon umore di Alice cresceva.
Per quanto il quel momento fossi nervoso e decisamente troppo teso, mi scappò un sorriso. Non ero stato per niente sorpreso del fatto che Alice mi avrebbe accompagnato nel mio viaggio. Jasper non era stato così entusiasta all’idea di separarsi da lei, ma alla fine aveva ceduto alle moine di Alice. E soprattutto al desiderio di vederla di nuovo totalmente felice.
«Pensi che sia ancora a Forks?». Non ebbi bisogno di esprimere il soggetto della domanda. Alice si strinse nelle spalle.
«Forse sì. O forse è andata al college e ora vive da un’altra parte, questo comunque è il posto giusto da cui iniziare la ricerca». Alice non aveva più sue visioni da molto tempo, dal giorno in cui, andandomene, le avevo fatto giurare di non intromettersi mai più nella sua vita e neanche nel suo futuro.
Andrà tutto bene, fratello. Lo sento”.
Mentre osservava la strada davanti a sé un sorriso leggero si disegnò sulle sue labbra, mentre io pietrificai totalmente.
L’autostrada divenne una via principale, e le prima case ci sfrecciarono accanto.
Benvenuti a Forks.
 

 

 

 

 

Ta-dààn.Sì, sono tornata e, insieme a me, una nuova storia. ^^
Okaay, forse l’ambientazione post abbandono di NM non è il massimo dell’originalità, ma l’idea è questa e non ci ho potuto fare nulla.
Ho già qualche capitolo pronto, quindi – se vi va – posso andare avanti con la pubblicazione. Oppure no, dipende da voi.
Fatemi sapere se avete voglia di seguire una fic tutta IC e, come mio solito, super what if.
Basciotti,
Vero

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Capitolo 2
*** Pazzia ***


Capitolo betato da Joan Douglas. 

 

Pazzia

«Edward, calmati».
Gli ultimi raggi trapassarono per pochi istanti le coltri di nubi, prima di morire oltre l’orizzonte. Eccolo: uno dei pochi momenti della giornata in cui era possibile intravedere il sole, a Forks. Avevo osservato gli attimi di crepuscolo luminoso per anni, ma mai li avevo sentiti così familiari. O così dolorosi.
Tutto, in quel luogo, sapeva di una quotidianità lontana ma mai dimenticata, tanto vicina da poterla sfiorare quanto lontana da non poterla abbracciare.
L’immobilità si era impadronita nuovamente delle mie membra. Avvertivo il corpo rigido e, se avessi saputo che non era possibile, dolorante sul sedile.
Da quando avevamo superato i confini della città e le solite strade, e le solite case ci avevano accolto.
Tutto ciò che avevo tenuto incatenato per anni aveva minacciato di travolgermi.
Da quando avevamo raggiunto una delle strade più periferiche, le cui case sorgevano a ridosso del bosco, avevo avvertito l’aria bloccarsi nei polmoni. Ed era ancora lì, anche dopo l’ora buona passata in auto, abbastanza lontani da non essere visti, ma abbastanza vicini da permettermi di sentire con chiarezza Charlie Swan che rientrava a casa.
Aveva varcato la porta di casa, sfilato l’impermeabile e la fondina per poi appenderli all’attaccapanni che – ricordavo – stava accanto alla porta d’ingresso. Aveva acceso il televisore, scelto uno dei tanti canali sportivi e ora, dalla poltrona, guardava la replica della partita di football del giorno prima.
Nessuna traccia di lei.
«Sono calmo». Le mie labbra, a differenza del resto del corpo, ripresero vita.
«No, se lo fossi non cambieresti decisione continuamente. Mi fai venire il mal di testa».
Sciolsi l’irrigidimento e la fulminai con lo sguardo. Non rispose, ma sbuffò sonoramente.
Mossi appena le spalle, poi le braccia e le mani, le gambe, e feci sfregare le scarpe sulla moquette dell’auto, inspirai ed espirai profondamente.
Tutti gesti teoricamente rilassanti.
Lei non c’era.
Alice l’aveva detto: Forks era il posto in cui cercarla. E, anche se era pressoché scontato che non sarebbe stata più lì, non avevo potuto fare a meno di sentire qualcosa incrinarsi nel petto.
È andata avanti, l’hai persa.
Combattere contro la mia stessa coscienza si stava rivelando più difficile di quanto fosse mai stato. Avevo passato gli ultimi sei anni con l’unica compagnia di quella voce, senza che smettesse mai di ripetermi quanto fossi stato scellerato e masochista a volermi privare dalla mia unica fonte di vita. Quanto lei fosse andata avanti, senza di me. Forse aveva dei nuovi amici, una nuova casa, un altro uomo che poteva tenerla tra le braccia e che aveva il diritto di baciarla.
Faceva male, aveva sempre fatto male.
Ma ora, essere ad un passo da quello che era stato il suo – il nostro – nido, e saperlo vuoto, era insopportabile.
Non potevo andare avanti così. Dovevo fare ciò che la mia natura egoista mi imponeva di fare da ormai troppo tempo. Avrei provato, avrei tentato con tutte le mie forze e le mie capacità. La rivolevo per me.
«Va bene, andiamo».
Mossi la mano verso lo sportello e nel giro di un battito di ciglia mi trovai accanto ad Alice, fuori dall’auto.
“Ce l’hai fatta, coniglio”.
Soffocai un ringhio, fin troppo consapevole della veridicità delle sue parole. Alice non mi avrebbe perdonato tanto presto.
Prima che potessimo entrare nel campo visivo della casa, saltai sull’albero più vicino e mi nascosi tra le fronde. Balzai di ramo in ramo, fino ad arrivare a uno degli alberi che si affacciavano al giardino sul retro.
L’avevo vista lì, una delle prime volte che ero stato da lei, una delle prime volte che l’avevo osservata mentre dormiva. Ed era così bella. Il sole le accarezzava il volto e la pelle chiara delle braccia mentre lei, stesa su una coperta, si era abbandonata a Morfeo. Ah, quanto era stato forte il desiderio di sostituire le mie dita ai raggi del sole! Ricordavo con che intensità mi ero dovuto stringere all’albero per evitare che la carne scegliesse di non ascoltare più la ragione.
Mi resi conto tardi della forza che stavo mettendo nello stritolare il tronco dell’albero. Per un attimo lo sentii sbriciolarsi sotto le dita.
“Saresti potuto restare in auto”, pensò Alice.
«No, voglio stare qui», mormorai.
Il piccolo casolare non era cambiato, in quegli anni. Le finestre del pian terreno lasciavano ancora intravedere la cucina malamente ridipinta di giallo e il bianco dei muri esterni era ancora candido, nonostante le intemperie. Solo un particolare era fuori posto: i portelloni di una delle finestre del piano superiore erano sbarrati.
Strinsi i denti: Alice aveva appena suonato. Charlie, all’interno della casa, non era particolarmente contento di dover abbandonare la poltrona.
Percepii tutta la sua meraviglia nell’aprire la porta e trovarsi davanti Alice Cullen.
«Salve, Charlie!», Alice aveva tirato fuori tutto il buonumore di cui era in possesso. E anche un falsissimo sorriso a trentadue denti, ma Charlie non se ne accorse.
«Alice… Salve», borbottò.
Era sorpreso di vederla, ma anche… contento? Un po’. Nel breve tempo che avevano trascorso insieme, le si era affezionato più di quanto avessi compreso in precedenza. Mi sforzai di scavare più in profondità, ma trovai solo nebbia e immagini sfocate. Qualcos’altro aleggiava tra i suoi pensieri, ma era un’idea sfuggevole, a cui Charlie stesso cercava di non prestare attenzione.
In quel momento ricordai davvero la fastidiosa sensazione di non riuscire a leggere i pensieri e mi sorprese non essermi accorto prima di quanto la mente di Charlie fosse simile alla sua.
Una gioia feroce mi percosse il corpo.
Lei era lì, era vicina.
Non materialmente, ma c’era suo padre. E i suoi oggetti. E la sua stanza.
Qualcosa di suo, qualcosa che aveva conservato il suo odore, la sua essenza, la sua mente particolare.
C’erano dei pezzi di lei a pochi passi da me. Perché ero ancora fermo lì? Perché non li afferravo? Miei, dovevano essere miei.
Mi ritrovai la terra sotto i piedi e il ramo, a cui ero appoggiato sino a pochi secondi prima, sbriciolato tra le mani e sul terreno gelato. Ancora un passo e sarei stato perfettamente visibile.
Distrussi in fretta ciò che restava del ramo e mi protesi verso l’alto.
Forse sarei riuscito, con un solo balzo, a superare il giardino e a entrare dalla finestra. Dalla sua finestra e nella sua stanza, tra le sue cose.
Gongolai: sarebbe stato come se non me ne fossi mai andato.
E forse non avrei nemmeno fatto tanto rumore quando avrei sradicato la finestra dai cardini e frantumato il vetro.
Sarebbe stato tutto perfetto.
«No, sono qui da sola, Charlie. Tu come stai?».
M’immobilizzai.
Erano in cucina. Quando erano entrati? Perché non me ne ero accorto?
Ringhiai, inferocito.
Non potevano stare lì, io dovevo salire nella sua camera, io dovevo sentire il suo odore tra i suoi oggetti. Dovevo riaverla!
Con che diritto lui si frapponeva tra me e la mia meta? L’avrei spazzato via.
«Non bene, Alice».
Un senso di solitudine impalpabile mi avvolse la testa e le membra, penetrando a fondo dentro di me. In un primo momento pensai fosse scaturito dal mio stesso corpo, poi capii.
Charlie soffriva.
Ero immobile, congelato dalla repentinità di quel sentimento. Come una pugnalata che perfora la pelle e lacera la carne e i tessuti, affonda nel petto ma non arriva al cuore, non può toccarlo. Eppure logora le arterie, il sangue si riversa all’esterno e il cuore cessa di battere.
Tutto è però nascosto dalla pelle, niente è visibile dall’esterno finché i rivoli di sangue non imbrattano il costato. Il corpo è congelato, immobile nell’ultimo istante, inconsapevole della morte che lo abbraccia.
Il mio volto e le mie membra, che non attendevano alcun cambiamento, erano bloccate nell’ultimo istante di delirio.
 Passarono diversi istanti prima che riprendessi consapevolezza di me stesso. Avvertivo i muscoli del volto contratti in una posa non naturale. Con le dita sfiorai le guance tirate, poi le labbra e i denti scoperti.
Anche senza vedermi potevo immaginare il mio volto deformato dalla smorfia grottesca.
Cosa stavo facendo? Cosa mi prendeva?
Mossi un passo e poi un altro, finché non avvertii nuovamente la corteccia dell’albero contro la schiena. Rapidamente lo scalai e mi rannicchiai su un ramo alto.
Se c’erano i suoi oggetti, i suoi libri e i suoi vestiti, c’era lei. E li volevo, volevo tutto ciò che lei aveva toccato o anche solo guardato. Erano miei, miei di diritto. Per dei folli istanti avevo creduto addirittura che lei fosse lì, forse seduta sul letto, oppure a una delle sedie della cucina. O forse Charlie l’aveva tenuta da qualche parte, nascosta ai miei occhi e alle mie mani, in modo che non potessi toccarla. Ma ero stato certo che lei fosse lì e quando l’avrei trovata sarei stato di nuovo libero. Mi sarei dissetato guardandole il volto e ascoltando la sua voce melodiosa, e poi avrei affondato il volto nel suo collo e accarezzato il suo corpo, gustato il suo sapore.
Non m’importava chi avrei dovuto combattere, chiunque avessi avuto il sospetto che mi stesse allontanando da lei, sarebbe morto.
Infilai la testa tra le gambe, lasciandomi andare a un ringhio liberatorio, incurante del mondo.
Mi disgustava la morbosità dei miei pensieri e delle mie intenzioni. Avevo iniziato a vederla dove non c’era, a volerla anche quando sapevo di non poterla avere. Tutto ciò che avrei voluto in quei momenti era perdermi fra le sue cose, avrei aperto tutti suoi cassetti, frugato nella sua vita e rubato il suo profumo. Avrei allungato la mano verso qualcosa che non mi spettava e me ne sarei appropriato, di nuovo.
Mi resi conto solo in quel momento del respiro affannoso.
Conoscevo quelle sensazioni, le avevo già sentite corrompere le menti fino al punto di non ritorno. Morbosità e possessività, inacidite dalla rabbia e dal dolore. Avevo visto i loro risultati negli occhi e nelle azioni di quelle che, un tempo, erano state le mie prede.
Avevo voglia di correre, ma non sarei mai stato abbastanza veloce da sfuggire me stesso.
Sfregai le ginocchia, terrorizzato. Cosa mi stava succedendo? Era questo l’effetto della sua assenza? Dopo sei anni la mente aveva finalmente iniziato a manifestare sul corpo le ferite infette, ormai a uno stadio troppo avanzato per essere curate? No. Non mi sarei permesso di rovinare tutto, non ora che avevo sentito la speranza rimontarmi dentro. Non avrei tollerato che qualcosa corrompesse quel sentimento, benché meno la mia pazzia.
Dovevo solo respirare a fondo e calmarmi. Sì, calmarmi, si trattava di agitazione e ansia, dettate dalla vicinanza con la sua casa e suo padre. Nulla di più.
Abbandonai il capo contro il tronco e mi riempii i polmoni di aria pulita.
Vento freddo, pioggia, muschio e corteccia umida. Odore di casa.
Mi sorpresi a ghignare di quel pensiero. Per la prima volta, dopo un intero secolo, definivo un luogo come “casa”. Che stupido, avevo sprecato anni prima di tornare e pochi istanti per capire.
Lentamente, lasciai che anche gli altri sensi riprendessero a funzionare normalmente. Strofinai i palmi sui jeans ruvidi e mi misi in ascolto, lasciai che i suoni e i pensieri m’inondassero la mente.
“Edward, Edward!”, Alice mi chiamava mentalmente da diversi minuti. Vidi prendere forma tra i suoi pensieri la mia figura in ascolto e decisamente più presente, rispetto a prima. Si era spaventata, e più tardi le avrei chiesto scusa.
“Finalmente, almeno questo…”. Interruppe la litania del mio nome, anche la sua voce mentale sembrava incredibilmente provata. Cosa mi ero perso? Dannazione.
«E non hai più notizie da sei anni?», mormorò Alice.
L’eco delle parole di Charlie rimbombò ancora nella mente di mia sorella, fino ad arrivare a me. “Quando se n’è andato, era sconvolta. Ha passato diversi giorni chiusa in camera sua, non mangiava e non parlava. Pensavo che le servisse un po’ di tempo per metabolizzare la rottura, ma le cose sono degenerate prima che me ne rendessi conto. Nel giro di una settimana ha preso ad avere attacchi di vomito continui e a perdere peso. Non so cosa sia successo, ho tentato di aiutarla, le ho detto che l’avrei portata da un medico, ma lei niente, si rifiutava. Più passavano i giorni, più lei peggiorava, anche psicologicamente. Era in un continuo stato d’ansia e di allerta, non mi permetteva nemmeno di toccarla. E poi… è sparita. Un giorno sono andato a lavoro e al mio rientro lei non c’era più”.
«L’ho cercata, gli investigatori li hanno cercati per mesi, ma niente».
Avevo sentito il gelo pervadermi fino alle ossa e aprirsi un varco fino al mio cuore morto. Che situazione assurda. Ero l’essere dotato di movimento più freddo mai esistito, eppure non avevo mai pensato che il gelo potesse essere così doloroso.
Non riuscivo ad articolare alcun pensiero coerente.
Delle immagini lontane e sbiadite m’invasero la mente, catturandomi e pugnalandomi allo stesso tempo.
Un volto magro e di un pallore malato, ornato da fili simili a grano annerito e morto, gli zigomi che tentavano di trapassare la pelle sottile e gli occhi, contornati da pesanti macchie violacee, sembravano in procinto di essere risucchiati nelle orbite.
Ero stordito. Chi era? Com’era arrivata nella mia mente? Faticai a riconoscerla in mezzo alla foschia della confusione e dello shock.
No… No!
Non poteva essere lei, no!
«Bella è sparita e non è più tornata».
E tutto ciò che avevo tenuto incatenato esplose.
Miliardi di schegge gelide mi trafissero il cuore e i polmoni, la mente e gli arti fino a farmi credere di stare morendo. Ma la morte sarebbe stata una troppo dolce liberatrice per un essere immondo come me.
 
“È meglio se non diventiamo amici”.
“Peccato che tu non te ne sia reso conto prima”.
L’aggressiva comicità della sua testardaggine mi fece innamorare di lei per la prima volta.
 
“La mia mente non funziona come dovrebbe? Sono una specie di mostro?”.
“Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?”.
Avevo sempre trovato buffe le sue conclusioni, ed estremamente affascinanti i suoi ragionamenti. La sua mente, per me impenetrabile, mi fece innamorare di lei per la seconda volta.
 
“Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?”
“Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina”.
Con lei avevo imparato quanto potessi essere forte, quanto l’amore potesse togliere e restituire la vita. Avevo imparato ad amarla lì, in quella radura, per la terza e la quarta volta. Avevo compreso che la rosa più bella, quella più profumata e seducente, è contornata dalle spine più appuntite, che ne preservano il candore.
 
Non riuscivo nemmeno a elaborare la rassegnazione di Charlie, la certezza che, ormai, lei fosse perduta. Non era possibile.
Se lei aveva cessato di esistere, per quale ragione il sole era sorto ogni mattina e tramontato ogni crepuscolo in quei mesi eterni? Perché le stelle, inutili fari nella notte, non si erano rassegnate al gelo? E perché la luna, mia unica e maledetta compagna, non era precipitata nel vuoto, trascinando con sé la volta celeste?
Se lei non esisteva, non v’era ragione perché quel patetico mondo continuasse a essere. Come avevano potuto, le creature tutte, continuare a esalare i loro penosi respiri?
Un suono tremendo squarciò l’aria e fui certo che provenisse da me. Per un momento ne fui orgoglioso, nessuno avrebbe più potuto ignorare la sua assenza.
Sentivo il capo compresso tra due tenaglie e gli arti e il busto come incandescenti. Nemmeno i tre giorni del rogo della trasformazione erano stati terrificanti come quei pochi attimi. La mia esistenza, se quella che avevo vissuto poteva fregiarsi di tale nome, aveva perso la sua unica ragione.
Non c’era più nulla a cui potessi aggrapparmi, nessun appiglio da usare per restare a galla.
Nella disperazione, odiai la mia natura. Desideravo lasciarmi andare, permettere alle tenebre di risucchiarmi perché, senza lei, non avevo bisogno di esistere.
Eppure, non potei fare a meno di cogliere in lontananza la paura di Charlie nell’udire il mio verso disperato, né l’apprensione di Alice. Né, tanto meno, i suoi ragionamenti.
“Li?”.
Li?
«Li hanno cercati?», chiese, atona.
«Sì», balbettò lui. «Bella e Jacob, un suo amico. Dopo una settimana dal… Insomma, da quel giorno, Jacob aveva preso a frequentarla sempre più spesso, era qui a tutte le ore del giorno e della notte. E poi sono spariti, tutti e due».
Una pausa.
«Non so cosa sia successo, ma so che la mia Bells non se ne sarebbe mai andata in questo modo se qualcuno non l’avesse costretta. E Jacob era diventato estremamente pressante…».
Smisi di ascoltare, non ne avevo bisogno.
Jacob, Jacob Black. Il ragazzino che le aveva raccontato di noi, quello che aveva interrotto il nostro ballo. Quello che le sbavava dietro come un cane in calore.
Il nipote di Ephraim Black.
Allora la fine di tutto aveva avuto un artefice.
E trovai il mio trampolino di lancio, la base a cui aggrapparmi per risalire. Vendetta.
L’avrei usata per saltare, finalmente. Me ne sarei dissetato a sufficienza e, solo quando fossi stato soddisfatto, avrei lasciato che la forza di gravità mi lasciasse cadere. E mi sarei ricongiunto a lei.
Scesi dall’albero e corsi, smanioso di gettarmi sulla mia prossima preda.
Non avrei potuto attendere un momento di più, il mondo doveva pagare per aver posticipato la sua apocalisse.
 
 
 

 
 
Ehi, voi ^^
Sono davvero felice dell’accoglienza che avete riservato alla storia! Grazie mille a tutte per i complimenti, siete sempre dolcissime *^*
Allora, che ne pensate di questo Edward? Personalmente mi sono divertita un mondo a scrivere questo capitolo – e sì, se ve lo state chiedendo, sono sadica.
Come avete intuito dal prologo, la storia sarà una post abbandono particolare, non la classica fic di pucci pucci cucci cucci tra Edward e Bella che si ritrovano. Ma potete stare tranquille: amo il lieto fine e ‘sti due deficienti uwu
E, infine, un po’ di burocrazia: aggiornerò una volta alla settimana, tra il sabato e la domenica. Questo capitolo è arrivato prima perché non volevo farvi aspettare troppo dopo il prologo, e anche perché devo partire.
Penso sia tutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate continuare a dirmi la vostra!
Buone Feste e Buon 2015 a tutte! **
Vero

Ps. Le risposte alle recensioni arriveranno tra stasera e domani.

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Capitolo 3
*** Verità ***


Capitolo betato da Joan Douglas

 

Verità

Correvo, assuefatto dall’adrenalina che mi scorreva nelle vene.
Vedevo il mio obiettivo, scorgevo i cuori pulsanti nei ricordi: sapevo dove andare.
Nella corsa, finii per colpire un albero che, pochi secondi dopo, precipitò sul terreno trascinandone altri due con sé. Ero già lontano, ma potei avvertire gli strepiti degli animaletti del bosco. Forse avevo distrutto le loro tane e ne avrebbero dovute costruire di nuove per l’inverno. Forse, a causa mia, avevano perduto le scorte di cibo e i loro piccoli sarebbero morti di fame.
Scoppiai a ridere per quei pensieri e colpii altri due alberi.
A chi sarebbe mai importato? Di certo non a me. V’era una sola ragione a tenermi ancorato al mondo, ed era la morte. Perché mi sarei dovuto curare di qualche stupido animale?
Risi ancora. Che idea ridicola.
Avvertii un fruscio alle mie spalle. Sapevo che Alice mi aveva seguito, i suoi pensieri erano fin troppo rumorosi.
Si stava avvicinando, ma non mi avrebbe raggiunto. E lo sapeva anche lei.
Gridava e potevo scorgere le immagini che vorticavano nella sua mente.
Vedevo me stesso mettere fine a quel ridicolo patto e fare irruzione nel piccolo villaggio.
Vedevo teste cadere e il fuggi fuggi generale. Sangue, sangue ovunque. Sul terreno, sotto i cadaveri, nelle impronte sui muri lasciate da ingenui convinti di potermi sfuggire.
Sangue che macchiava le mie mani mentre imprimevo leggere pressioni sulle trachee. Quel tocco necessario perché l’ossigeno smettesse di affluire alla testa, il sangue impazzisse colorando di porpora e vinaccio la pelle e, infine, perché il fragile condotto si frantumasse in mille schegge interne.
Sangue che mi imbrattava di spruzzi indistinti quando schiacciavo loro le teste.
Sangue sul mio volto, quando baciavo le loro gole e mi nutrivo della loro morte.
“Ti prego, non farlo”, mormorò Alice.
Forse avrei potuto risparmiare le donne i bambini.
Le immagini si modificarono. Più urla, meno sangue.
“Non basta”.
In fondo, l’unica colpa delle donne era quella di non aver compreso che il mondo era finito a causa loro. Non potevano sapere di non avere più il diritto di esistere.
E i bambini erano troppo piccoli per vedere o capire, loro erano estranei alle faccende dei loro padri maledetti.
No! Se avessi permesso loro di vivere sarebbero cresciuti e diventati come loro! E le donne ne avrebbero potuti mettere al mondo altri: non sarebbe mai finita.
Non potevo permetterlo.
Alice gemette, senza smettere di supplicarmi con il pensiero.
Temeva che ci attaccassero, ma non m’importava.
Che ci provasse, che tentassero di fermarmi e di proteggere le loro insulse vite. Forse avrebbero potuto uccidermi, ma li avrei trascinati all’inferno con me.
Avevano spezzato la mia vita, distrutto l’unica fonte di purezza della mia esistenza e del mondo. Dovevano pagare.
“Pensa a Carlisle”, mi supplicò ancora Alice. “Pensa a Esme e all’enorme dispiacere che darai loro! Tu non vuoi deluderli”.
No, non avrei voluto deluderli. Ma lo dovevo a lei, e loro ed io passavamo in secondo piano quando di mezzo c’era lei. Probabilmente Carlisle sarebbe rimasto deluso ed Esme rattristata, ma non sarebbe durato a lungo. Non li avrei costretti a serbarmi rancore per molto, dopo il massacro. Avrei trovato la mia fine molto presto, se non ci avessero pensato i lupi.
“Ti prego”, Alice era distrutta, la voce mentale stava cadendo a pezzi. Ansimava, interiormente ed esteriormente. Stavo uccidendo anche lei, insieme a me, insieme a quel briciolo di umanità che pensavo mi fosse rimasto.
Non m’importava.
“Ti prego”, ripeté. Le immagini continuavano a schizzare da una parte all’altra della sua mente. “Se non per loro, per noi, almeno per lei. Bella non vorrebbe la tua morte, Edward. Non vorrebbe che ti macchiassi in questo modo”.
Avvertii una morsa stringermi il petto e un pugno impalpabile schiacciarmi lo stomaco. Non poteva farmi questo. Il suo nome, quanti anni erano che non mi permettevo più nemmeno di pensarlo, quel nome? Faceva male, troppo.
Ma presto l’avrei rivista, mi dissi.
Presto mi ricongiungerò a te, amore mio.
“Non funzionerà. Sai anche tu che se ti macchiassi di una colpa di simili dimensioni non la vedresti nemmeno per un momento”.
Sentii la bocca tendersi in una smorfia e un dolore sordo, peggiore del pugno allo stomaco, diffondersi nel petto. Non l’avrei rivista? Sapevo di non meritarlo, sapevo che, ovunque lei fosse, quel posto era popolato da anime troppo pure e belle – come la sua – perché l’aria fosse insozzata da un mostro come me. Ma qualcuno avrebbe dovuto dimostrare un po’ di pietà per me, no? Decenni di dolore, privazioni e solitudine sarebbero pur dovuti valere qualcosa.
No, cancellerai tutto con quest’ultimo gesto, mormorò una voce, dalle profondità della mia coscienza.
M’infuriai, perché sapevo che era così.
Perché doveva perseguitarmi proprio ora, la mia coscienza? Perché ora, ad un passo dalla fine? E perché diavolo Alice farneticava sull’Inferno e su colpe quando non aveva mai creduto in niente? Non era nessuno per dirmi cosa sarebbe successo.
E nemmeno quella stupida voce che mi perseguitava di tanto in tanto, che mi scherniva e mi derideva.
E poi, ormai, gli alberi si stavano diradando e potevo vedere, a poche centinai di metri, le prime case del villaggio.
Ghignai, di nuovo consapevole del mio compito.
Eccola, la giustizia che mi si offriva su un piatto d’argento e tra vecchie capanne.
“Deluderai lei. Ovunque lei sia, non ti vorrà più”.
Sentii il sorriso morirmi sulle labbra e le gambe incespicare per un momento.
Lei non mi avrebbe più voluto?
Ovunque lei sia.
Deluderai lei.
Non ti vorrà più.
Non mi avrebbe permesso di ammirare per un’ultima volta i suoi lineamenti perfetti. E non avrei potuto ascoltare la sua voce, nemmeno per un ultimo istante, prima di essere accolto nel fuoco eterno.
E mi sentii nudo.
Poteva vedermi? Sapeva cosa stavo per fare?
Lei non avrebbe mai voluto una cosa del genere, Alice aveva ragione. Lei si sarebbe arrabbiata a morte, mi avrebbe urlato contro e avrebbe pianto per il nervosismo. Mi avrebbe supplicato di non fare sciocchezze, mi avrebbe ricordato chi ero e perché.
Si sarebbe sentita in colpa, si sarebbe addossata tutte le responsabilità della situazione. Sciocca, irresistibile bambina.
Mi avrebbe riportato sulla retta via. Con lei avrei fatto la scelta giusta.
Ma lei non c’era più.
Avvertii la furia riprendere forza e ridare vigore ai miei muscoli. Se l’era portata via ed io l’avrei delusa. Colpa sua, del lurido bastardo.
Perdonami, amore mio.
Con poche falcate superai le prime casette, ma non mi fermai. Volevo arrivare nel centro, scatenare il loro terrore e sentire le loro urla, prima di ucciderli.
E poi eccomi lì, tra loro. Le poche persone in giro per le strade, intente nelle faccende all’interno dei loro giardini, mi guardavano. Qualcuno incuriosito, qualcuno terrorizzato. Sì, sapevano chi, cosa, ero.
Evidentemente c’era ancora qualcuno che dava retta alle vecchie leggende.
Bene, sarebbe stato ancora più divertente.
Sapevo che Alice era arrivata, che era pochi metri dietro di me, ma non la degnai di uno sguardo quando mi voltai. Avevo sentito un odore familiare, acre e irritante, molto simile al suo. Incrociai lo sguardo del ragazzo dal fetore incredibilmente ributtante. Era alto, capelli scuri: gli somigliava anche fisicamente. Sapevo che quelle similitudini non volevano dire nulla, lì erano tutti uguali e fetidi, eppure mi piacque pensare di stare iniziando la mia caccia da un suo parente, forse un fratello. Qualcuno di abbastanza vicino a lui da ferirlo, se ne avesse scoperto la morte.
Sorrisi, e scoprii i denti.
Gli balzai al collo.
Fu un secondo, e divenni consapevole di una massa informe di pensieri in avvicinamento.
Fui scaraventato contro la trave di una veranda, dall’altra parte della strada.
Sarei dovuto essere più attento.
Ringhiai, vagamente consapevole delle urla oltre le spalle dell’enorme lupo che si apprestava ad attaccarmi nuovamente.
Mi rialzai e sentii il tetto della veranda fracassarsi al suolo.
Ringhiai ancora e con un balzo superai il lupo.
Dannazione, erano stati più veloci del previsto. Dov’era finito il ragazzo?
Mi mossi di lato per evitare che il lupo potesse balzarmi addosso nuovamente. Scoprii i denti, pronto all’attacco. Ringhiò anche lui, ma non attese nemmeno un istante prima di scattare nuovamente.
Bene, ecco un combattente più rozzo di Emmett: sarebbe stato fin troppo facile ucciderlo. Quasi non avevo bisogno di leggergli nella mente, per prevedere i suoi attacchi. Erano tutti scoordinati e facilmente evitabili.
Quando scartai per l’ennesima volta, seppi di averlo fatto innervosire abbastanza. Avrei voluto essere più rapido, volevo tornare al mio piano di carneficina iniziale, tuttavia la rabbia che scaturiva dallo stupido cane grigio era diventata una fonte di euforia a cui non volevo rinunciare tanto frettolosamente.
Ma lui puntò ancora il mio collo ed io seppi che i giochi erano finiti.
Mi si scaraventò addosso, bloccandomi le braccia con le enormi zampe, le fauci spalancate e i denti a pochi centimetri dal mio costato. Mi avvicinai maggiormente a lui e ai suoi denti. Ebbe solo un millesimo di secondo per registrare il mio movimento ed esserne stupito, poi tirai le gambe al petto e lo colpii sull’addome. Il suono delle sue ossa in frantumi mi fece sorridere. Gli fui nuovamente addosso e, afferrata la mascella, gliela strappai con un solo movimento.
Non badai ai suoi guaiti agonizzanti e mi voltai.
Mia sorella era di nuovo dietro di me e, mi resi conto, il villaggio era deserto. Erano bastate poche manciate di minuti a far sgombrare tutta la popolazione.
Stupido cane, per colpa tua dovrò andare a cercare le mie prede. Non ho tempo da perdere, bastardo.
«Sei soddisfatto, ora?». Alice era apatica fuori, rabbiosa dentro. Le avevo dato un’altra ottima ragione per avercela con me e questo non le piaceva per niente. Povera sorellina.
«Affatto».
Annuì, voltando lo sguardo su un punto indistinto. Era disgustata.
«Non vedo più nulla, il nostro futuro è sparito».
Aggrottai le sopraciglia. Non vedeva più sé stessa? No, questo non andava bene. Io potevo, dovevo morire. Lei no.
«Da quando hai deciso di attaccare questo posto, non vedo più nulla», precisò senza guardarmi. «Non posso prevedere se ne arriveranno altri».
«Io sì», mormorai.
Il lupo grigio non era morto, anzi. Aveva ripreso sembianze umane, ma potevo avvertire i suoi tessuti rigenerarsi e le ossa saldarsi. Male, certo, ma non sarebbe morto così in fretta.
Non me ne curai, ma i suoi pensieri erano ancora più rumorosi di prima e ignorarli era pressappoco impossibile.
Sembrava che alle sue bestemmie mentali causate dal dolore si fossero unite altre due voci. Le sentivo tutt’e tre, distinte ma unite. Le potevo avvertire singolarmente, ma si fondevano nella sincronia perfetta di un’unica voce.
Rimasi interdetto. Comunicavano tutti telepaticamente?
Non ricordavo questa capacità nei loro antenati. In altre circostanze avrei studiato con curiosità la situazione, in quel momento avevo di meglio cui pensare.
Si stavano avvicinando, pochi istanti ancora e ci avrebbero raggiunti.
Mi avvicinai di qualche passo al lupo. Non volevo che pensassero che fosse stata Alice ad attaccarlo. Anche nel furore e nell’apatia non avrei permesso che mia sorella pagasse per me.
Di nuovo, i secondi sembrarono solo attimi immaginari. I due lupi, uno nero e uno bruno, sbucarono da una stradina laterale e non attesero un momento di più per attaccarmi.
Questa volta fu diverso, più difficile scartarli e studiarne le mosse. Non solo erano numericamente in vantaggio, ma i loro schemi erano più raffinati di quelli del lupo grigio. In più, poiché pensavano singolarmente e allo stesso tempo come un solo uomo, era più difficile prevedere gli attacchi.
Più complesso sì, ma di certo non impossibile.
Mi spostai di lato e, facendo leva su un albero vicino, mi issai sul tetto di una casa. Li osservai ringhiare sotto di me, irrequieti e in attesa che scendessi. Di rimando scoprii i denti. Alice si era volatilizzata, ma ne percepivo la presenza poco lontano. Bene, almeno non l’avevano notata.
Corsi verso l’estremità del tetto e seppi di essere stato troppo veloce perché mi vedessero.
Un attimo dopo era sulla groppa del lupo nero e gli stringevo il collo in una morsa fatale.
L’altro venne subito in suo soccorso, ma all’ultimo momento mi scansai e il bruno si ritrovò a mordere l’aria, per poi rovinare miseramente sull’altro.
Appollaiato su una ringhiera, risi della scena. Li stavo stordendo, ma anche innervosendo. Li avrei battuti e poi uccisi, più facile di quanto mi aspettassi.
Non permisi che si risollevassero del tutto e lanciai loro un piccolo furgone lì parcheggiato.
Fu comico osservarli mentre vedevano il furgone piovergli addosso. E avrei anche riso, se non fossero riusciti a distruggerlo prima che fracassasse le loro pelose teste.
“Perché è tornato?”.
“È lui il Cullen che ha fatto quello a Bella?”.
Osavano pensare il suo nome?
La furia lasciò il passo allo sbigottimento e poi al dolore.
Le loro menti rievocarono il suo volto e per un momento, mentre lei si muoveva in sincrono nel loro pensiero, m’illusi che fosse reale.
Ma il sogno lasciò spazio alla realtà e poi all’incubo.
Non era lei, non poteva essere lei.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato nelle sue gote incavate e nelle braccia così esili. E nel suo ventre mostruosamente gonfio.
Non mi resi nemmeno conto di essere rimasto bloccato da quell’immagine. Non mi resi conto dei lupi finché non mi furono addosso, finché non mi bloccarono a terra e fu troppo tardi per reagire.
Sentii Alice urlare e ringhiare, poi un dolore lancinante mai provato.
Gridai di dolore, mentre i due lupi mi schiacciavano sull’asfalto. I denti del più grosso erano ancora sulla mia carne.
Ansimai quando Alice mi liberò del loro peso e mi resi conto di non sentire più il braccio destro. Inorridito, voltai il capo e misi a fuoco l’arto, riverso sull’asfalto a dieci metri di distanza.
Mi rimisi in piedi, incurante di mia sorella e dei lupi a poca distanza. Stavano lottando? Eppure non sentivo i rumori di una battaglia.
Barcollai per la prima volta dopo oltre novant’anni.
Sbandai un paio di volte sulla destra e rischiai di cadere. Eppure, mi dissi, erano solo pochi metri. Dovevo riprendermi il mio braccio.
Ma era difficile muoversi in quello stato: mi sentivo sbilanciato da una parte e la mia mente non ne voleva sapere di collaborare. Perfino il mio corpo non rispondeva più ai comandi che gli impartivo.
Chissà se un vampiro può essere sotto shock, me lo chiesi diverse volte durante quei pochi metri.
Mi lasciai cadere in ginocchio sul terreno, davanti al braccio.
Era spaventosamente pallido, ora che potevo osservarlo da una diversa prospettiva. Continuai a fissarlo, evitando accuratamente la mia spalla. Chissà se un vampiro può avere la nausea.
Non c’era una goccia di sangue né sul terreno, né su di me. Non che ne fossi sorpreso. Ma il colore della mia pelle era orribilmente simile a quella dei suoi zigomi. Eppure lì il sangue c’era. Sotto forma di occhiaie peste, ma c’era.
E c’era anche nei lividi del suo ventre. Li aveva visti quello grosso, quando avevano provato a visitarla. Il suo ventre, gonfio e tumefatto, era ricoperto di grosse macchie violacee.
Sibilai, certo che i vampiri possono essere sotto shock e avere la nausea.
Anche perché altrimenti come si sarebbero spiegate le immagini inconcepibili che mi vorticavano nella testa? Dovevano essere delle proiezioni della mia mente annebbiata dal dolore.
Quelle immagini non erano reali, non potevano essere reali. Bella – quale dolore e quale inaspettato sollievo nel pensare il suo nome! – non poteva essere…
«…Incinta».
Perché avevo mormorato quella parola? Perché l’avevo pronunciata a voce alta invece che tenermela dentro?
Un brontolio arrivò da dietro le mie spalle e mi voltai, senza volerlo davvero.
Alice era in piedi davanti ai due lupi. Erano rigidi e vigili, ma non la stavano attaccando. Lei mi fissava, tra l’incredulità e la paura. Temeva avessi perso il senno definitivamente.
Anche i due lupi mi fissavano, ma i loro pensieri non parlavano, si limitavano a una raffica di immagini, l’una peggiore dell’altra.
Vidi Bella farsi sempre più magra in volto, il suo sguardo spegnersi lentamente, mentre qualcosa sembrava trascinarla sempre più lontano, in un’ombra oscura.
E più lei s’indeboliva, più il ventre s’ingrossava.
Poi una nuova immagine, la peggiore di tutte. Bella ansimante, il volto deturpato da una smorfia di dolore. Era stesa su un lettino, il ventre scoperto mentre qualcuno tentava di capire come medicarla: aveva delle costole rotte. All’improvviso si piegò in avanti, cacciando un urlo di dolore. E l’impronta di una minuscola mano sollevò la pelle del suo ventre.
Caddi in avanti, la nausea era tornata a sconvolgermi.
Cosa diavolo era quella cosa?
Gemetti, senza riuscire a rialzarmi.
«Cosa sta succedendo? Cosa gli state facendo?». Avvertii la voce di Alice accanto a me e la sua mano sulla spalla sana. Perché mi toccava in quel modo, lasciando che le dita rimbalzassero sulla mia pelle?
«Edward! È per il braccio? So riattaccarlo e sai farlo anche tu, andrà tutto bene», mormorò.
O forse non era Alice a muoversi a scatti.
Tremavo?
Un ringhio arrivò da poco più in là.
“Cosa diavolo vuoi, non è chiaro che non capisco un cazzo di quello che ringhi, stupido cane?”. Alice era imbestialita, ma la sua voce non rifletté nemmeno un decimo della rabbia mentale.
«Smetti di ringhiare. Ti ho già detto che siamo venuti qui solo per chiedere delle informazioni, c’è stato un fraintendimento con il tuo amico», scandì. «Cos’ha mio fratello?».
Di nuovo silenzio, quello reale per lo meno. I pensieri e le voci mentali non si fermarono nemmeno per un istante. Il lupo nero, quello più grosso, stava ordinando all’altro di portar via quello ferito. Discussero tra loro per pochi secondi, poi l’altro obbedì.
Un minuto dopo il lupo nero era diventato un ragazzo. Capelli neri, pelle scura e molto alto. L’avevo detto che erano tutti uguali.
Aveva avuto la decenza di andare dietro ad un cespuglio e poi infilarsi dei pantaloni, prima di mostrarsi. Alice sembrava soddisfatta.
Davvero credeva all’enorme balla che gli aveva raccontato?
«Avete rotto il patto e seminato il terrore nel villaggio», proruppe. Non era convinto delle parole di Alice, ma tentava di mostrarsi calmo. Continuava a fissarmi, mi vedevo riflesso nei suoi pensieri. «Dovrei uccidervi».
«Perché non lo fai, allora?», lo sfidò Alice.
«Non tentarmi. Sto cercando di essere un buon capo, e non sono impulsivo come Paul». Paul, quello che avevo quasi ammazzato. «Hai detto che siete qui per delle informazioni».
«Sì», mentì Alice.
«E non potevate aspettare al confine?», ringhiò.
«No».
«Cosa volete?», chiese, ma intuiva la risposta.
«Cosa mi sai dire di Isabella Swan, la figlia del capo Swan? So che un tuo amico l’ha fatta sparire sei anni fa».
“Un mio amico l’ha fatta sparire?”.
Sam – così si chiamava il lupo nero barra capo gruppo dei bastardi – scoppiò a ridere.
«Semmai è stato tuo fratello a farla sparire».
Alice era interdetta, lo sentivo nei suoi pensieri. Non capiva cosa intendesse.
Avevo smesso di tremare già da un po’ e avevo immobilizzato ogni muscolo. Temevo ciò che aveva già sfiorato i suoi pensieri, ciò che i suoi ricordi avevano gridato a gran voce, ciò che la mia voce interiore gracchiava da un po’.
«Cosa vuoi dire?».
«Lui se n’è andato, no? Beh, non l’ha lasciata mica sola. Leha fatto un bel regalo d’addio: un piccolo mostro che le cresceva dentro e che si nutriva di lei».
«Cosa vuoi dire?», ripeté.
«Tuo fratello l’ha messa incinta, prima di andarsene. E quella cosa, per commissione sua, se l’è portata via», affermò, funesto. «Voglio dire, fredda, che l’ha ammazzata».
 
 
 
Ragazze e ragazzi, salve! ^^
Allora, com’è andato il capodanno? Io, come vi avevo annunciato, sono partita e ho incontrato per la prima volta la mia beta, nonché amica/sorella/futura coinquilina, Joan c’:
Bando alle ciance, che ve ne pare del capitolo? Eh, Edward da dei meravigliosi segnali di labile stabilità mentale, non trovate? AHAHAH
Cooomunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Immagino che vi aspettaste questo colpo di scena molto cliché, ma vi prometto che in seguito la storia sarà un meno vittima della poca originalità ^^
Grazie mille a tutti voi che recensite – vi adoro già, aww –, grazie anche a chi legge in silenzio e a chi aggiunge la storia tra preferiti/seguiti/ricordati!
Ah, rispondo qui ad una domanda che mi è stata posta in una recensione – ma che penso interessi un po’ tutti: l’intera storia sarà dal punto di vista di Edward, senza eccezioni (tranne, forse, l’epilogo).
Bonne, penso di aver terminato.
Alla settimana prossima, cari! ^^
Vero
 

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Capitolo 4
*** Legno ***


Capitolo betato da Joan Douglas
 

Legno

Le sottili linee scure tessevano trame intricate sullo sfondo chiaro.
A momenti erano onde, impronte di strani animali, increspature nell’acqua che si allontanavano dal loro centro. Erano bizzarre: alcune perfettamente parallele, altre continuamente intrecciate in ghirigori di colore. Speculari o imperfette nel verso, non sembravano seguire un ordine vero e proprio.
Con le dita, sfioravo i disegni delle venature del legno. In un punto le linee si univano in un cerchio perfetto, ne potevo sentire il solco leggero sotto i polpastrelli. Chissà qual era il nome delle venature che diventavano cerchi perfetti. Non l’avevo mai letto in nessun libro, né qualcuno l’aveva mai detto o pensato in mia presenza. Eppure i cerchietti adornano qualsiasi tipo di legno e il legno è presente in ogni casa.
Perché nessuno badava ai piccoli cerchietti senza nome?
«Hai intenzione di restare lì ancora per molto?».
Che strano, non mi ero reso conto che fosse nella stanza. Quando era arrivata?
Non mi curai di risponderle e continuai ad accarezzare il legno.
Sospirò e non avrei saputo dire quanto passò, prima che riprendesse a muoversi.
La sentii avvicinarsi, poi vidi le sue gambe e, solo dopo che si fu piegata, anche il capo.
“Edward”, sospirò mentalmente “non puoi restare per sempre sotto questa scrivania”.
Distolsi lo sguardo, non sopportavo i suoi occhi. Continuai a occuparmi dei cerchietti senza nome.
«Perché l’hai fatto?». Di quello sì che mi ero reso conto.
Alice soffiò l’aria fuori dal naso.
«Non potevo non dire loro nulla, lo sai anche tu. Dovevano sapere».
Certo, dovevano sapere anche loro. Dovevano sapere ciò che avevo fatto, in combutta con il mio egoismo e il demone che mi portavo dentro.
E io dovevo sapere quale fosse il nome dei cerchietti. Perché nessuno prestava attenzione ai cerchietti?
«Stanno… Carlisle sta arrivando».
Non li volevo lì, non sarebbero serviti a nulla. Non volevo vederli, non volevo vedere nessuno. Alice non poteva farmi quello, che lo meritassi o meno.
I suoi occhi mi fissarono e di nuovo non ressi il confronto. Mi voltai, premendo il volto contro il legno.
“Edward”.
Strinsi gli occhi; aspettavo che se ne andasse di nuovo. Quanto tempo era che faceva avanti e indietro tra qualsiasi parte della casa e lo studio di Carlisle? Minuti, ore o forse giorni. Non avrei saputo dirlo.
Digrignai i denti e voltai il capo, senza avere reale bisogno di vedere. Se n’era andata.
Andiamo a casa, anche di quelle parole mi ero reso conto. Le aveva dette dopo aver congedato Sam, o forse lui se n’era andato di sua volontà.
Casa, aveva detto.
Quella, di sicuro, non era la mia casa. Forse un tempo avevo avuto l’illusione di poterla chiamare così, che lì, tra quelle mura, in quel minuscolo paesino, avessi trovato il mio posto nel mondo.
Ma ormai era finita.
Ripresi a osservare i disegni sul legno. Erano così particolari e intricati, quasi infiniti nel piccolo spazio a loro disposizione. Continuavano, indisturbati, a coprire la superficie con i loro ghirigori ondulati. S’incontravano con altri, si univano e per un po’ proseguivano insieme, in un’unica parabola. Ma poi si abbandonavano di nuovo e sceglievano strade differenti. Infine, però, unite o separate, tutte convergevano in un unico destino finale, uno stesso tratto di diverso colore, che ne recideva l’esistenza. Un taglio netto, e le venature non si espandevano più. Restava solo l’ombra, sul legno più chiaro, oltre la loro fine. Tutto diventava incredibilmente monotono e per nulla interessante, eppure non tornai indietro ai disegni, ma mi soffermai sul quel nulla sbiadito.
Le venature dovevano conoscere la loro fine fin dal principio, eppure tutte sceglievano di colorare il legno delle loro sfumature e dei loro disegni, si fingevano libere per tutto lo spazio che avevano a disposizione, ma inesorabilmente terminavano brutalmente.
Forse anche le venature erano masochiste.
Forse anche loro inseguivano un sogno idilliaco, desideravano un’esistenza meravigliosa e un percorso diverso. Ma, alla fine, non potevano che arrendersi al loro destino e finire, distrutte dai loro stessi sogni. E portavano con sé, nella rottura definitiva, anche tutte le altre che si erano unite al loro cammino.
Avevo sempre saputo come sarebbe andata.
L’avrei trascinata in quel vortice di morte che era la mia natura, senza alcuna possibilità di tirarsi indietro, illudendomi che ce l’avremmo fatta.
Avevo distrutto entrambi.
Avevo ucciso lei, con le mie stesse mani.
E l’avevo uccisa amandola.
Lei meritava di dimenticarmi, di vivere serenamente lontano dall’oscurità del mio mondo. Eppure non ero riuscito ad andarmene senza qualcosa di suo, qualcosa di concreto che nessuno dei due avrebbe potuto cancellare. Nonostante tutti i buoni propositi e le frottole che mi raccontavo, non sopportavo l’idea di essere solo una comparsa nella sua vita.
L’avevo uccisa quando avevo scelto di essere egoista fino all’ultimo, pretendendo l’unica cosa che avrebbe potuto seppellire sotto mille altri ricordi, altri mille momenti, ma che non avrebbe mai potuto eliminare.
Avevo preteso di essere il primo, avrei voluto essere anche l’unico, ma questo non era possibile.
E lei era stata così buona con me, accondiscendente e calorosa, come in ogni momento insieme. Non si era opposta quando l’avevo baciata con forza nel bosco, e l’avevo intrappolata contro un albero. Né quando, nel bel mezzo della notte, le avevo sfilato la giacca e poi la maglia, con una frenesia che faticavo a controllare. Aveva anzi risposto a ogni mio bacio con altrettanto ardore, stringendomi a sé e sussurrando parole d’amore contro il mio collo. Mi aveva permesso di toccarla come non avevo mai fatto con nessun’altra donna ed io avevo creduto di morire quando, per la prima volta, le avevo accarezzato un seno. La mia mano si mosse contro la parete di legno della scrivania e potei avvertire la sua pelle morbida sotto i polpastrelli. Avevo sfiorato e toccato il suo corpo mille volte, quella notte, e mai mi ero sentito sazio di lei e del suo calore. Anche lei mi aveva privato della maglia e, con la stessa decisione, aveva percorso il mio petto con carezze infuocate. Ero soprafatto dall’emozione e dalle ondate di piacere che mi procurava il suo tocco, mi ci era voluto un po’ per rendermi conto che le dita tremavano. Allora le avevo preso le mani e le avevo baciate, e lei si era rilassata sempre di più tra le mie braccia.
Non era possibile dubitare del suo sguardo. Nei suoi occhi brillavano fiducia e amore, nei suoi gesti la passione e la dolcezza che avevo sempre sognato. Stavo perdendo di vista la razionalità.
Ben presto, ogni ostacolo tra noi era sparito e mi ero fermato ad ammirarla. Era la creatura più bella che avessi mai visto, il volto arrossato per le mie carezze e le labbra gonfie di baci. Ci eravamo guardati per un lungo istante, poi lei mi aveva attirato a sé e io non avevo più visto nulla che non fosse il suo viso o il suo corpo perfetto.
Avevo temuto di non riuscire a controllarmi davanti a lei, di essere brutale o, dovetti ammetterlo, di umiliare me stesso. Ma tutto era stato naturale, come se fossimo nati per completarci anche fisicamente. Eravamo complementari, ne avevo avuto la certezza quando ero stato in lei per la prima volta e aveva stretto le gambe attorno al mio bacino, invitandomi a proseguire.
Stretto a lei, mentre spingevo nel suo corpo caldo, l’idea di lasciarla aveva vacillato. Come avrei fatto a vivere lontano da lei, ora che avevo conosciuto anche la perfezione del suo corpo? L’avevo resa donna ed era giusto che stessi accanto a lei per il resto delle nostre vite, era mio diritto.
Fortunatamente il mattino mi aveva restituito un po’ di lucidità.
Avevo visto come sarebbe potuto essere il suo futuro nei rami spezzati e nel tronco scorticato alle sue spalle. La prossima volta sarebbe potuta essere lei a rimetterci la vita, non un albero della nostra radura. Ero riuscito a controllarmi, non l’avevo ferita e lei dormiva beata tra le mie braccia, ma niente mi avrebbe mai potuto assicurare che sarebbe stato così anche in futuro.
Avevo scelto di tenermi stretta quell’unica volta, il ricordo dei suoi occhi scintillanti e del suo corpo sotto il mio, senza chiedere di più.
Poi l’avevo abbandonata e condannata a morte.
Pensavo che il ricordo di quell’unica notte insieme avrebbe alleviato la sofferenza, ma tutto era stato macchiato dalle rivelazioni del licantropo.
Le avevo lasciato molto più del mio ricordo: un figlio.
Un figlio che, essendo mio, non poteva che essere un mostro. Niente di più, niente di meno. Quella cosa era cresciuta dentro di lei e lei era troppo fragile per lui. L’avevo visto nei ricordi del lupo, nelle immagini che aveva serbato di lei durante il breve periodo che aveva trascorso con loro. I suoi movimenti le avevano riempito il ventre di macchie violacee e i suoi calcetti le avevano rotto le ossa.
Un abominio, come suo padre.
Era cresciuto velocemente e si era nutrito della sua vita. A lei non aveva lasciato niente.
Avevo messo radici talmente profonde dentro di lei da ucciderla a distanza. Alla fine ero riuscito a prosciugare il suo corpo da ogni goccia di linfa vitale. Era così terribilmente ridicolo.
Non avrei più potuto vederla. Se durante quegli anni avevo conservato la segreta speranza di poterla riavere con me, un giorno, in un’altra vita, ora sapevo che non sarebbe mai stato possibile.
Avevo distrutto l’unica cosa pura della mia esistenza e non lo sapevo.
Per mesi e mesi avevo vissuto nella certezza che la mia esistenza avesse ancora uno scopo, quello di attendere la vita della sua vita, per ricongiungermi a lei. Invece era stata tutta un’enorme farsa.
Lei era morta da anni e io, ormai, non meritavo nemmeno la morte. No, la morte sarebbe stata una scelta troppo semplice, troppo misericordiosa.
O forse, anche se avessi scelto di morire, non avrei potuto. Niente aveva più senso, nemmeno i movimenti del mio corpo. Capivo finalmente cosa fosse lo stato catatonico e, in fondo, andava bene.
 
 
«Hai deciso di stare lì, quindi».
Di nuovo, non mi ero accorto dell’arrivo di Alice. Né di quanto tempo fosse passato dalla sua ultima visita.
Era china di fronte a me, e mi osservava.
«Posso?», mormorò, indicando il quasi inesistente spazio vicino a me. Non le risposi, dubitavo ci sarebbe stata, ma lei non si perse d’animo. La vidi avvicinarsi e districarsi tra le mie gambe e le pareti della scrivania, fino ad acciambellarsi a pochi centimetri dalle mie ginocchia.
Continuai a guardare le venature, non le perdevo mai di vista.
Passarono diversi minuti prima che decidesse di parlare.
«Smettila di giocare con le venature del legno».
La guardai per un momento, poi tornai ad accarezzare i ghirigori con le dita.
Sospirò. «Edward, ti prego. Voglio aiutarti!».
Aiutarmi? Davvero? Avrei riso, se non avessi sentito l’Inferno sulla pelle.
Non poteva riportare indietro la mia unica ragione di vita, né impedirmi di commettere il peggiore dei miei errori, o di fermare il mostro prima che la uccidesse.
«Perché resti qui? Non c’è spazio nemmeno per muoversi».
“Ti senti al sicuro, qui sotto, vero? Tra i libri di Carlisle e i suoi pensieri”.
«Ho detto loro di non venire, comunque, come volevi tu. Carlisle non è contento ed Esme è fuori di testa dalla preoccupazione. Siamo tutti preoccupati, fratello».
“Forse avrei fatto meglio a farli venire lo stesso, è in condizioni terribili…”. Mi vidi riflesso nei suoi pensieri: ero spaventoso. Se solo non avessi saputo che non era possibile, avrei detto di essere invecchiato di vent’anni in un colpo solo.
Attese ancora prima di parlare.
«Te lo ripeto, ho dovuto dirglielo. Carlisle è esterrefatto, non pensava che l’unione tra un vampiro e un’umana potesse essere fertile. È dispiaciuto per non averti potuto avvisare di ciò a cui andavate incontro». Altra pausa, nuova pena. Compassione e sofferenza guerreggiavano nei suoi pensieri.
«Vorrebbero starti accanto, stanno soffrendo per te e con te. Sono preoccupati che tu possa fare qualche stupidaggine».
“Ma io vedo che non vuoi fare assolutamente nulla. Il tuo futuro è qui, nascosto sotto una scrivania in una casa abbandonata”.
Alice si sentiva in dovere di informarmi di ciò di cui discutevano, lei e la mia famiglia, al telefono.
Pensavano che volessi suicidarmi. E l’avrei fatto, in altre circostanze, l’avrei fatto. Sarei andato in Italia e avrei chiesto questo piccolo favore ai Voluturi.
Ma ora no. Non dopo aver saputo di essere io la causa della sua morte. Morire sarebbe stato troppo veloce, indolore. Meritavo di peggio.
«Come va il braccio?».
Alice era alla ricerca disperata di una mia parola.
Non mi curai nemmeno di allontanare lo sguardo dalla venatura che diventava un cerchietto senza nome. Il braccio andava bene, si era curata lei di riattaccarmelo. Aveva fatto un ottimo lavoro con il veleno e la corda.
Non che l’avessi usato, ma sapevo che funzionava alla perfezione.
«Edward, ti prego. Perché non parli?», soffiò.
Era disperata. E mi dispiaceva saperla così addolorata, ma non potevo farci nulla.
Quella era la realtà e prima l’avrebbe accettata, prima sarebbe stata meglio.
Ce l’avrebbe fatta: aveva Jasper, la nostra famiglia, le sue passioni. Certo, l’avevo privata di una delle sue sorelle, ma aveva sempre Rose. Si sarebbe ripresa in un lasso di tempo relativamente breve.
La venatura più scura, quella che era diventata un cerchietto senza nome, aveva dato vita ad un’altra linea, più chiara e sottile.
«Edward! Edward! Dannazione, sono quattro giorni che resti qui, immobile e zitto. Fa’ qualcosa! Non puoi andare avanti così, lo capisci?! Perché non parli?», urlò.
Non era arrabbiata, solo addolorata e preoccupata. E si sentiva in colpa. Non aveva visto ciò che sarebbe successo dopo la nostra notte, non aveva nemmeno pensato di avere il diritto di fermarmi. Forse se si fosse accorta che la mia decisione avrebbe portato al nulla, avrebbe potuto impedirlo.
Ma io sapevo che non era così. Perché, nonostante tutto, ero io ad aver scelto. Ero io ad aver scelto di lasciarla subito dopo essermela portata a letto, ero io ad averla messa in pericolo ogni singolo istante della nostra relazione, ed ero io aver generato dentro di lei il mostro che l’aveva uccisa. Avevo chiesto ad Alice di mantenere il silenzio sulle mie intenzioni con lei, nessuno avrebbe dovuto sapere della nostra notte. A quei tempi, si sarebbero limitati a biasimarmi per le mie decisioni e forse Rose mi avrebbe anche accusato di approfittarmi di lei, Esme sarebbe rimasta delusa dalla volgarità delle mie intenzioni, ma nulla di più.
Forse se avessero saputo prima, Carlisle avrebbe potuto intuire qualcosa e salvarla.
Ero stato io a compiere ogni singola scelta che l’aveva portata alla morte, non Alice. Non c’era ragione perché si sentisse in colpa.
Mi voltai e, per la prima volta da quattro giorni a quella parte, riuscii a reggere il suo sguardo per qualche istante.
«Non ho nulla da dire», risposi.
La mia voce suonò strana perfino alle mie orecchie. Roca, diversa e terribilmente piatta. Apatia, ecco qual era il termine che vorticava tra i pensieri di Alice da quattro giorno a quella parte. Eppure era assurdamente sollevata del sentirmi emettere di nuovo dei suoni.
Abbozzò un sorriso – cosa aveva da sorridere? – e mi sfiorò un ginocchio.
Volsi nuovamente lo sguardo alle venature, pentendomi di ciò che avevo fatto.
Avevo lasciato che sperasse in qualcosa, pur sapendo che non avrei mai potuto – né voluto – mettere un piede fuori da lì.
“Ecco, forse Carlisle ha ragione, forse c’è una speranza… Forse questo potrebbe aiutarlo”.
Non capii.
«Ed, ho parlato a lungo con Carlisle. E, stando a ciò che ci ha detto Sam, il… bambino doveva essere molto più simile a noi, che agli umani. Quindi stavamo pensando che, se Bella è sopravvissuta abbastanza a lungo, il bambino potrebbe avercela fatta. Potremmo cercarlo, forse qualcuno si è preso cura di lui, magari lo stesso lupo che è fuggito con Bella!».
Continuai ad osservarla senza capire. Sembrava che, oltre le membra accartocciate sotto la scrivania, mi si fosse atrofizzato anche il cervello.
Cosa voleva dire?
«Tuo figlio potrebbe essere ancora vivo!».
Mio figlio?
Stava davvero sostenendo che quella cosa, quell’abominio, potesse essere sopravvissuto dopo aver ucciso la madre?! L’aveva chiamato bambino, come se fosse una creaturina dolce e paffutella, non un assassino che aveva iniziato a uccidere prima ancora di venire al mondo.
«Mio figlio?! Tu credi che, che davvero io… No! Mai! Se quella cosa dovesse essere ancora viva, allora mi occuperò io stesso di liberare il mondo dal suo flagello!».
Mi liberai dalla costrizione della scrivania, distruggendola con un solo colpo della mano. Le venature avevano incontrato qualcosa che aveva interrotto il loro viaggio ben prima del tempo stabilito: me.
«Sei pazza se pensi che possa permettere a quella cosa di vivere ancora!», ringhiai, inferocito.
Davvero pensava che avrei potuto accettare che chiunque o qualunque cosa le avesse fatto del male potesse essere ancora in vita? Non importava da chi era stato generato. Tutt’altro, sapere che proveniva da me, me lo faceva odiare ancora di più. Quel mostro ero io, ma lui sarebbe morto, io no. La morte era una scelta troppo semplice, caritatevole. Meritavo di convivere con il suo fantasma, ma il mostro, no. Lui doveva morire.
Alice fece un passo indietro, ma non si scompose.
«È tuo figlio, Edward».
Ringhiai ancora. «È solo un mostro, una creatura che ha ucciso sua madre quando ancora era nel suo ventre!».
«Qualsiasi cosa sia o abbia fatto, resta tuo figlio. Hai dei doveri nei suoi confronti», rispose, quasi apatica.
«Io l’ho generato e io devo fare in modo che non noccia più a nessuno».
«Bella non te lo permetterebbe. Lei lo voleva». “Hai visto ciò che i licantropi ci hanno raccontato. Bella non voleva abortire per nessuna ragione”. «Amava te e vostro figlio».
«E noi l’abbiamo uccisa», sibilai. «Te lo sei dimenticata? Quella cosa l’ha ammazzata! Io ho fatto in modo che quella cosa l’ammazzasse!»
«Io non penso che sia morta».
Le parole rimasero sospese in aria, tra di noi.
Lasciai che rimbalzassero nella mia mente, che colpissero ripetutamente le pareti della mia mente, le ripetei finché anche le lettere singole non iniziarono a suonare astratte e inarrivabili.
Di nuovo, come dopo la rivelazione di Sam, avvertii tutti i sensi abbandonarmi. Non sentivo, non percepivo nulla. Questa volta, però, impedii al buio di risucchiarmi. Mi aggrappai con tutte le forze al significato di quelle parole.
Non avevo mai allontanato lo sguardo da Alice, ma solo allora riuscii a vederla di nuovo. Mi fissava, in attesa.
Cercai i suoni giusti, tentai di rievocare i disegni delle lettere, ma non li trovai.
“Dico davvero, Edward. Ho la sensazione che lei possa essere ancora viva…”.
Ritentai e questa volta riuscii a mettere insieme qualche breve suono.
«Come… come puoi esserne certa?», soffiai.
Si strinse nelle spalle e assottigliò gli occhi, ma non smise di guardarmi.
«Non ne sono certa, ma ho la sensazione che sia così. Io», s’interruppe, nemmeno lei riusciva a parlare. Perfino i suoi pensieri erano caotici, non riuscivo a leggerli. O forse ce l’avrei fatta, se fossi stato almeno lontanamente in possesso delle mie facoltà mentali.
«Sai che quando muore qualcuno il suo futuro sparisce, non resta nulla. Una sorta di buio, circa. Mi è capitato in passato, con degli esseri umani. Ma Bella… Anche il suo futuro è sparito, certo, ma non come quello degli umani morti. Più come il nostro, quando abbiamo scelto di andare dai licantropi. È come se qualcuno avesse spento la luce, quindi io non posso più vedere nulla della stanza. Però la stanza esiste, non è stata disintegrata».
Battei le palpebre, incapace di proferire parola.
«So che suona assurdo e contraddittorio, anche perché entrambi i futuri spariscono. Ma spariscono in maniera diversa, capisci?».
Capivo, certo che capivo.
Impiegai diversi minuti per articolare una frase di senso compiuto.
«Non voglio andare alla ricerca di un fantasma».
«Non è un fantasma, lei è viva», sospirò.
Tacqui di nuovo.
«Hai detto di non esserne certa».
«Lo so, ma… Edward, fidati di me. È diverso, lo vedo».
Tentavo invano di arginare le emozioni, di impedire alla mia mente di ragionare e al mio cuore di sperare. Quel pezzo di pietra morto da un secolo non avrebbe retto un’altra pugnalata. Per la prima volta dopo troppo tempo, sentivo nascere un barlume di speranza. E insieme ad essa, nasceva anche la consapevolezza che non sarei riuscito a reggere un’altra disillusione. Avevo creduto di poterla riavere, ma poi mi era stato detto che era scomparsa, avevo pensato fosse stata uccisa da Black, poi avevo saputo di averla messa incinta e che era stato il mio abominio ad ucciderla. Mi ero arreso all’idea di non rivederla mai più, di vivere come il relitto che ero, e ora Alice veniva a dirmi che c’era ancora una possibilità.
No, se si fosse trattato di un’illusione, non sarei riuscito a superarla.
«Forse… Forse il lupo è rimasto con lei e quindi nasconde il suo futuro», tentai.
«Sì!», esclamò lei. «Proprio quello che intendo! Ricordi che Sam ha detto… No, di sicuro non lo ricordi. Comunque, Jacob, prima di fuggire si è ribellato a Sam. Ha rotto il legame con il resto del branco e per questo è riuscito a fare di testa sua e a portare via Bella. In questo modo si è rotto anche il legame telepatico e quindi loro non possono avere notizie di Bella e Jacob, se lui non vuole che le abbiano. E quindi loro danno per scontate le loro conclusioni!».
Parlava a raffica, senza fermarsi tra una parola e l’altra. Un sorriso cresceva, illuminandole il volto. «È sensato, no?».
La maggior parte degli eventi che mi aveva raccontato, mi risultavano estranei, ma ne capivo la logica. E quella logica era ferrea, dannazione. Più i secondi passavano, più mi rendevo conto che poteva essere realmente come diceva. In contemporanea, anche la speranza e la paura crescevano.
«Suppongo di sì», risposi, incerto.
Poteva essere così, doveva essere così.
Alice annuì e mi strinse le braccia al collo. Rimasi interdetto e non ricambiai il gesto, ma lei non se ne curò.
Sorrideva, non riusciva a smettere di sorridere.
«Non possiamo continuare a stare qui, dobbiamo andare. Dobbiamo cercarli!».
«Alice, non sappiamo nemmeno da dove partire, non abbiamo idea di dove possano essere».
Dentro di me sapevo che avrei battuto ogni centimetro del pianeta, per ritrovarla.
Alice mi sfiorò la spalla ferita, senza smettere di sorridere.
«Ce la faremo».
 
 



Buongiorno ^^
So che è prestissimo, ma pubblico ora perché più tardi – causa valanga di versi di letteratura greca da studiare – non ce la farò. Avrei voluto farlo già ieri notte, ma mi sono addormentata davanti al computer. Letteralmente ^^’
Ma passiamo alle cose serie: il legno. La mia beta ride ancora immaginandosi Edward con il naso appiccicato alle venature di una scrivania. Capite a che livelli di instabilità si trova Edward? Lool
Comunque, leggendo le vostre recensioni, mi sono resa conto che siete dei gran pessimisti – o forse sono stata io a rendere molto bene il punto di vista di Edward: Bella è viva. Non avrebbe senso, altrimenti, scrivere una long Bella/Edward. Anche perché io mi stancherei presto della depressione di Edward uwu
Bonne, il figlio. Edward, ovviamente, non è per niente felice di aver scoperto della sua esistenza. Ne dubitavate? Ahahah Spero di aver ben spiegato la questione dei due bui di visioni: uno è un vuoto, un assenza totale, mentre l’altro è un semplice oscuramento. Anche se Alice non ha chiare visioni, ho sempre pensato che fosse dotata comunque di un sesto senso – e intuito – da veggente, che le permettesse quindi di avere “sensazioni” piuttosto veritiere.
Bene, penso di aver terminato anche ‘sta volta.
Vi chiedo perdono per non aver ancora risposto alle recensioni dei precedenti capitoli. Purtroppo la scuola è ricominciata cinque volte peggio di com’è finita e non ho tempo nemmeno di aprire efp. Prometto che, entro la settimana, risponderò a tutti!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie a tutti voi che avete deciso di seguire la storia, specie ai recensori che godono del mio amore eterno :’)
Al prossimo fine settimana,
Vero

 

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Capitolo 5
*** Vento e Mare ***


Vento e Mare

Erano ben quattro giorni – stando a quanto riferito da Alice – che non cadeva una goccia d’acqua dal cielo. Una sorta di record storico, per la penisola di Olimpia. In compenso, il vento ululava senza sosta e travolgeva qualsiasi cosa si trovasse sul suo cammino. Probabilmente se ci fossimo trovati in città avremmo assistito a un’orchestra di persiane che sbattevano, cani che uggiolavano e strepiti infastiditi. Ma, essendo sulla scogliera, non v’erano imprecazione né suoni irritanti, solo lo sciabordio delle onde sugli scogli.
Lasciata Forks, avevamo proseguito per diversi chilometri, verso sud, seguendo l’autostrada 101.
Il suono del vento sul mare è forse uno delle musiche naturali più armoniose e voraci che esistano. Assolutamente perfetta. Più e più volte avevo tentato di ricrearla al pianoforte, specie durante i primi anni dopo la trasformazione – la noia era forte quasi quanto l’esuberanza per le capacità potenziate – senza mai riuscirci davvero. Ci ero andato vicino, ma la forza e l’eleganza delle onde erano impossibili da replicare. La rabbia, la bellezza, la potenza, la sofferenza e l’attesa del mare che si scaglia contro la roccia, poi si ritira e poi di nuovo s’infrange con più forza, ha bisogno di comprensione per essere ricreata.
In quel momento, lontano dal mondo e combattendo me stesso come le rocce respingono le rocce, sapevo di aver compreso. Avevo il mare dentro e fuori.
«Spiegami di nuovo cosa stiamo facendo», dissi.
Il vento coprì la mia voce, ma Alice sentì ugualmente.
«Tu non stai facendo nulla, io mi sto impegnando».
«A fare cosa, se posso saperlo?».
Avevo capito cosa stava facendo, potevo vederlo, ma continuavo a non afferrarne il senso.
«Cerco», mormorò, e continuò imperterrita a scavare nel buio del futuro, senza trovare nulla. Andava avanti così da quando avevamo terminato il colloquio con i licantropi: anche il nostro futuro era sparito. O meglio, per dirla giusta, era stato oscurato.
Li avevamo incontrati quella stessa mattina, dopo aver cancellato ogni traccia del nostro passaggio dalla casa a Forks.
Al confine, come ottant’anni prima, avevamo ristabilito la pace. Mi ero quasi dovuto scusare – quasi – e mia sorella con me. Avevamo parlato, loro avevano chiesto dell’assenza di Carlisle – il nostro capo, come l’aveva definito Sam, il loro alpha – e noi di Bella. Erano stati restii a raccontarci di lei, mi consideravano il suo assassino e, a dirla tutta, non avevano tutti i torti. Alice aveva avuto l’onere di trattenermi due volte durante l’incontro durato poco più di un’ora. La prima volta, quando le immagini del corpo della donna che sostenevo di amare erano tornate tra i pensieri dei lupi e, con loro, la sofferenza a stritolarmi le membra.
La seconda volta, Alice dovette proteggere i licantropi. Rievocando le immagini, avevano ripescato anche conversazioni lontane, le loro opinioni in merito alla gravidanza e al feto. Lo consideravano un errore, un abominio, una creatura pericolosa. Come me. Ma Bella lo amava, senza pensare a sé stessa e al suo destino, senza un perché logico, lei lo amava. Esattamente come amava me.
Nonostante ciò, volevano evitare che nascesse e avevano trovato un’unica soluzione: uccidere Bella. Forse, se avessero aspettato, il feto sarebbe stato troppo forte per essere fermato con facilità, il suo futuro sarebbe stato incontrollabile e imprevedibile. La gente del villaggio sarebbe potuta morire, le loro famiglie, i loro amici, e tutto perché un’umana si era fatta mettere incinta da un vampiro.
Sacrificare uno per molti, questo era stato il loro ragionamento. La vita di Bella era trascurabile, la protezione del loro prezioso villaggio indispensabile.
Avevo perso la ragione.
Quei bastardi sostenevano addirittura di essere protettori degli umani! Si riempivano la bocca di belle parole, ma erano pronti ad ammazzare una ragazza innocente solo per blando timore di un futuro ancora lontano.
Prima che riuscissi a scagliarmi contro di loro, prima ancora che Alice avesse il tempo di bloccarmi, mi avevano, senza volerlo, fatto avere l’unica ragione per cui Bella era ancora viva. Uno di loro, un loro fratello, Jacob Black, colui che per diritto di nascita li avrebbe dovuti guidare, li aveva abbandonati ed era scappato con lei. Era innamorato di Bella e non aveva permesso che venisse uccisa.
Avevo pensato che Jacob Black fosse il suo assassino, poi che avesse semplicemente assistito alla sua morte e, infine, mi ero ritrovato a scoprire che lui era stato il suo salvatore. Non una, ma due volte. Alice era arrivata a tale conclusione mentre Sam stava ancora tentando di mascherare il vero perché della loro fuga. Bella non sarebbe mai riuscita a sopravvivere da sola ma, con l’aiuto di un licantropo sì.
Avevano tergiversato sulle ragioni che avevano spinto Jacob a salvarle la vita, tuttavia anche Alice – che non aveva potuto sentire i loro pensieri – aveva intuito la verità. Non avevano voluto dirci dove fossero andati, temevano che volessi trovare Jacob per ucciderlo. Non sapevano della mia facoltà di leggere le menti – né sospettavano che Bella fosse ancora viva – ma era palese che avessimo capito. Pensavano che fossi geloso di Jacob, che volessi eliminarlo solo per i sentimenti che aveva provato per la mia ex fidanzata.
Non potevano essere più lontani dalla realtà. Non riuscivo nemmeno a elaborare il fastidio che, in condizioni normali, il sapere di un altro uomo interessato a lei avrebbe scaturito. Se quell’uomo le aveva salvato la vita – com’era tanto sicura Alice – allora io non potevo che essergli riconoscente.
No, se anche avessimo trovato Jacob Black, non avrei mai potuto fargli del male. Piuttosto, l’avrei ringraziato.
Ma questo, loro, non l’avrebbero capito, quindi Alice fu costretta a montare una giustificazione alle nostre intenzioni.
«La creatura che Bella portava in grembo potrebbe essere un problema anche per quelli della nostra specie», aveva detto. «Dobbiamo mantenere la segretezza e tenere un profilo basso, perché gli umani non si accorgano di noi. E non siamo certi che questa creatura, data la sua particolare natura, riesca a farlo. Lui è una nostra responsabilità, di mio fratello, di tutta la famiglia. Vogliamo assicurarci che non faccia del male a nessuno».
I licantropi erano più propensi all’idea che lo volessimo semplicemente perché era mio figlio e, da bravi esseri immondi ed egoisti, ora che avevamo saputo della sua esistenza, volevamo appropriarcene.
Non che ciò che creasse loro dei problemi, tutt’altro. Ma speravano che la cosa fosse morta già da tempo, uccisa da Jacob Black.
Comunque, non si fidavano di me e delle intenzioni nei confronti del loro vecchio fratello. Fu Alice, ancora una volta, a comprenderli senza che parlassero, e a farci trovare una via d’uscita.
«Siamo addolorati per la morte di Bella, se avessimo saputo ciò che stava passando saremmo tornati e l’avremmo aiutata, nonostante la fine del rapporto tra lei e mio fratello. Ma ora dobbiamo occuparci della creatura, non possiamo abbandonarla». Il modo in cui aveva liquidato i miei sentimenti, come se fossero solo un insignificante soffio di brezza che si spegne alla prima difficoltà, non mi era piaciuto. Ma sapevo che aveva dovuto farlo, perché credessero che non avrei mai potuto provare gelosia nei confronti di Jacob Black e ci dessero informazioni sulla loro fuga.
«Inoltre», aveva aggiunto «se dovessimo trovare Jacob, gli faremmo sapere che i suoi fratelli sentono la sua mancanza e che lo vorrebbero di nuovo con loro». Anche quelle parole erano un mezzo per ingraziarci i licantropi. Loro erano troppo pochi per riuscire a difendere il villaggio e, contemporaneamente, cercare Jacob. Vidi nei loro pensieri quanto quella proposta suonasse allettante e rincarai la dose.
«Sappiamo cosa si prova a essere separati, e anche per noi la famiglia è importante», avevo aggiunto.
Avevo ascoltato i loro tentennamenti per svariati minuti, attesi mentre rievocavano le parole degli anziani della tribù e provavano a convincersi che eravamo davvero mostri di parola, che potevano fidarsi di noi. Non ne erano certi, ma volevano farlo. L’idea di riavere Jacob Black con loro sembrava parecchio allettante ma, soprattutto, sapevano che ce ne saremmo andati. Se ci avessero aiutato, se ci avessero fornito le informazioni minime che possedevano, saremmo subito partiti e avremmo lasciato Forks, e la riserva.
Sam ci osservò a lungo, insieme al lupo che, dietro di lui, aveva mantenuto le sembianze animalesche.
Prima ancora che aprisse bocca, che realizzasse di aver preso una decisione, il futuro si schiarì ed io potei appropriarmi delle poche notizie che avevano.
 
Più i minuti passavano, più il mare si faceva audace contro gli scogli. Gli schizzi di salsedine arrivavano fino al promontorio, quindi fino ai miei capelli.
“Sto cercando”, aveva detto Alice. Accovacciata contro una sporgenza rocciosa, dava le spalle all’oceano. Lo sguardo vitreo, persa nei meandri di ciò che non è ancora accaduto.
«E hai trovato qualcosa, a parte il nulla?».
Sbuffò, ma si limitò a insultarmi mentalmente. «No, ma ho avuto l’ennesima conferma della mia tesi: ci sono due bui diversi, e quello di Bella è come il nostro».
Come il nostro, quindi causato non da una luce spenta, ma momentaneamente oscurata.
«Fantastico, perderai anche noi?», la derisi.
Mi osservò, riemergendo per un momento dal futuro. Inarcò un sopraciglio.
“Sei di buon umore. Come mai?”.
No, decisamente non ero di buon umore. Ma odiavo quella sensazione di assoluta immobilità interiore che mi aveva accompagnato per anni. Poi era arrivata lei, e tutto era diventato dinamico, si era colorato e aveva trovato un suo scopo. Ma lei era sparita, ed io ero piombato di nuovo nell’immobilità. Mi era stata gettata un’ancora, pensavo di poterla usare per riprendere il movimento, ma era troppo pesante e troppo naturalmente statica.
Staticità.
Apatia.
Immobilità.
Sinonimi di un unico grigio, freddo e compatto, lento e morto.
Tutto, fuori e dentro di me, rallentava. Il movimento forsennato delle onde si quietava, scorreva sempre più fiacco, arrivava alla barriera rocciosa, sommergeva le acque con altre acque, e poi si ritirava.
Il vento decelerava la sua collera, gemeva sempre più piano, sempre più piano, fino a fare di sé un sommesso sibilo.
Tutto perdeva di significato.
Ciò che provavo si stava assopendo, in un certo senso. Ogni singola emozione era potente e pronta ad esplodere, ma uno strato di polvere virtuale vi si depositava, istante dopo istante.
Odiavo tutto ciò, odiavo sentire il mio corpo e il mondo circostante rallentare e fermarsi, diventare un suono talmente ripetuto da rendere impossibile il riconoscimento delle singole note.
Lo odiavo, ma non trovavo un modo per evitarlo.
“No, non sei di buon umore”. Odiavo anche i sospiri mentali di Alice.
Scossi il capo, facendo in modo che qualche goccia schizzasse via dai miei capelli. E sperando che ciò bastasse a rimettere in moto qualcosa, al mio interno.
«Alice, siamo ad un punto morto».
Abbassò e alzò le palpebre, lentamente.
Basta.
«Hai ragione. Ed è colpa tua».
M’irrigidii, colto alla sprovvista. Colpa mia?
«Non sto facendo nulla, Alice».
«Appunto, non stai facendo nulla. Ci stiamo ripetendo», canticchiò, irosa. «E se tu non fai nulla, io non posso vedere nulla. È un circolo vizioso».
Strinsi le labbra quando mi resi conto di non capire cosa intendesse. Alice stava diventando troppo brava a nascondermi i suoi pensieri.
«I licantropi ci hanno detto dove cercare», continuò. «Ma sarebbe tutto dannatamente più facile se tu prendessi una decisione e mi permettessi di vedere».
«Io non devo prendere proprio nessuna decisione. Sono i licantropi a bloccare le tue visioni, per questo è tutto buio. Proprio come con Bella, no?», la provocai.
Mi fissò per lunghi istanti, poi volse il capo e spinse lo sguardo oltre, lontano dalla nostra realtà.
«È proprio questo che intendo: sei sarcastico, non credi davvero in ciò che stiamo facendo. Non pensi che Bella sia viva, quindi hai paura di cercarla».
«Non è vero! Io non penso che Bella non sia viva».
«Ma non sei sicuro che non sia morta, Edward. Nel tuo inconscio – e io lo so, dato che mi stai impedendo la vista – non sei convinto. Ora dobbiamo solo capire se la paura è il frutto o l’artefice di questa incertezza», soffiò.
«Io non ho paura». Ma seppi immediatamente di aver mentito.
Non ero intenzionato a farlo, perché davvero non sapevo di essere spaventato. Prima delle parole di Alice, non avevo riconosciuto la paura nei miei pensieri, nei muscoli impolverati e nei suoni ovattati.
No, non paura.
Nel mare lento, nel vento inconsistente e nelle mie emozioni atrofizzate.
La domanda giusta da porre era: di cosa avevo paura?
La risposta era altrettanto semplice: di tutto.
Di tutto e di niente.
Di Bella, di non riuscire a trovarla, del mostro, di quello che avrebbe potuto averle fatto – di quello che io le avevo fatto -, di non farcela, di non riuscire ad andare avanti, di non rivedere i suoi occhi cioccolato e di non sentire più il battito del suo cuore, del suo disprezzo. Della sua morte, della mia morte.
Alice si era voltata di nuovo e mi guardava. Teneva lo sguardo premuto contro il mio, indecifrabile. Anche i suoi pensieri erano indecifrabili, quasi nulli.
O forse era il panico a percepirli tali.
Di nuovo, fu lei a camminare fino a me, a prendermi una mano e a darmi conforto.
«Ti giuro che so ciò che vedo. So che Bella è viva, Edward. E so anche che se tu ora ti convinci che la vuoi trovare davvero, allora sarò in grado di fornirti ogni informazione per farlo», mormorò, prendendo una mia mano tra le sue.
 “Se non affronti ciò che ti spaventa, non riuscirai ad avere ciò che vuoi. Sei un uomo coraggioso, fratello. Non tradire la stima e l’affetto che provo per te”.
Alice, nonostante tutto, si fidava di me. Credeva in me.
Continuai a cercare nei suoi occhi qualcosa che anelavo, ma che lei ovviamente non avrebbe potuto dare: perdono.
Sapevo di non poter andare avanti così, di dover essere io a fare i passi avanti, a camminare da solo. Ma, in quel momento, unii entrambe le mani a quelle di mia sorella, e mi lasciai rassicurare dalla sua stretta e dal suo tepore.
«Ho paura», mormorai.
Sapevo che mi aveva sentito, nonostante avessi soffiato via quelle parole come un agonizzante. Le ripetei con più forza, perché odiavo sentire la mia voce così debole.
«Ho paura».
Alice si limitò ad annuire, senza rispondere.
«Ho paura di ciò che potrei trovare, dell’odio che potrebbe provare nei miei confronti. Ma sono stanco di aspettare e di lasciarmi travolgere dagli eventi. Se c’è anche solo una possibilità di trovarla, la troverò. E la supplicherò di perdonarmi. La rivoglio nella mia vita e, se lei me ne darà la possibilità, farò di tutto perché ciò accada».
Avevo bisogno di una scossa, di riprendere in mano la mia esistenza ed ero pronto a farlo. Non che la paura si fosse volatilizzata, c’era e ci sarebbe stata ancora, ma dovevo imparare a gestirla. Già una volta le avevo permesso di prendere il sopravento ed era finita che avevo smesso di vivere per sei anni.
Non mi sarei permesso di farmi ancora del male.
Alice aumentò la stretta sulle mie mani.
“Non sarà sola, lo sai”.
Tentava di figurarsi Bella con qualche anno in più, i capelli più lunghi e il volto più sottile. Un bambino, pallido e bellissimo, accanto a lei.
Ma Alice non aveva visto i ricordi di Sam. Non sapeva in che condizioni erano le sue ossa e il suo ventre dopo due sole settimane di gestazione. Se lei era viva, lui doveva essere automaticamente morto. Forse Jacob Black era riuscito a convincerla che la sua idea fosse una pazzia e l’aveva aiutata ad abortire.
Avrei dovuto aggiungere anche quella voce alla lista dei ringraziamenti.
«Prima troviamola, poi pensiamo al resto», risposi.
Lei sorrise e lasciò andare le mie mani. Era davvero convinta che potesse esserci un bambino paffutello ed incredibilmente pallido che aspettava suo padre.
«Ora che hai preso una decisione sarà tutto più facile».
Si sporse oltre il promontorio, osservando la roccia.
«Hanno detto che si sono diretti verso la costa, a sud. Se Bella stava male come dice Sam, non possono essere andati troppo lontano».
Saltò da una roccia all’altra, tenendo lo sguardo puntato sugli scogli.
La mente di Alice lavorava velocemente, ragionava e calcolava.
“Devono essere rimasti nelle vicinanze, almeno per un po’. Ci sono delle grotte naturali, lungo la scogliera…”
«Le insenature create dall’erosione sono troppo in basso e periodicamente sommerse dalla marea. Anche se fossero stati qui, non troveremmo più nulla».
Se c’era una cosa che però non comprendevo del suo piano, era il suo accanimento in quei luoghi. Perché cercare delle tracce vecchie di sei anni? Avremmo dovuto cercare lei, la sua posizione attuale, magari facendo delle ricerche. Non fissando l’oceano.
«Ricordami perché siamo ancora qui, però».
«Perché bisogna partire dall’inizio, per arrivare a qualcosa», rispose, senza distogliere lo sguardo dalla roccia.
«Vuoi partire da un indizio – che non troveremo – vecchio di sei anni?»
«Sì. Ora che hai preso una decisione, vedo con chiarezza. È la prospettiva sbagliata». Si tirò indietro e, con un balzo, mi tornò accanto. «Stiamo cercando dalla parte sbagliata», disse, voltandosi verso l’autostrada, seminascosta dagli alberi.
«Non ha senso, Alice. Perché? Se puoi vederci di nuovo, se dici che abbiamo preso una decisione, puoi vedere dove ci porterà. Cerca oltre, più lontano».
«No, ci vedo qui. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa qui».
Sospirai. La forza che avevo sentito pochi minuti prima era fuggita via.
«Perché?».
«Manca ancora qualcosa. Serve un’altra decisione, o non troveremo proprio nulla».
Mi fece segno di seguirla.
«Andiamo, andiamo all’avventura!», esclamò, sarcastica.
Il fatto che quella frase sembrasse uscita da uno scadente programma per bambini non mi rassicurò.
«Come fai a dire che dobbiamo andare lì?», le chiesi, seguendola comunque.
Non si fermò davanti all’autostrada, ma proseguii, accelerando la corsa e inoltrandosi nella foresta.
«Ci vedo qui».
L’acqua aveva ripreso a sferzare la roccia, senza tregua, e il vento ululava forte alla nostre spalle.
 
Passammo il pomeriggio a perlustrare la foresta, osservando ogni singolo abete, inoltrandoci sempre di più nel cuore verde. Poi il sole calò, i raggi si fecero orizzontali e, per pochi minuti, fecero breccia nella coltre di nubi. La luce era riuscì appena ad oltrepassare la barriera delle fronde secolari, gettando ombre insolite e quasi calde nel sottobosco.
L’ennesimo crepuscolo luminoso.
Mi ero reso conto solo allora di quanto quel posto, non solo la donna che vi aveva abitato, mi fosse mancato.
Quindi il sole precipitò oltre l’orizzonte ed era si levò la luna.
La coltre di nubi non permetteva la vista delle stelle, rendendo il cielo un’opprimente cappa oscura. Perlomeno il vento aveva perso d’intensità.
Il “qui” di Alice iniziava a suonarmi quantomeno utopistico. Il fatto che non sapessi nemmeno cosa stessimo cercando non aiutava.
«Prima che tu dica quello che stai per dire, zittisciti. So cosa stiamo facendo: cerchiamo tracce del loro passaggio».
Soffiai fuori l’aria immagazzinata e le lanciai un’occhiataccia.
«E le cerchiamo tra le radici degli abeti?».
«Certo che no», alzò le spalle. «Ma una donna incinta non può essere trasportata su un albero, giusto?».
«Ovviamente. Ma non può nemmeno essere lasciata ai suoi piedi. E qui non c’è assolutamente nulla».
«Appunto. Quindi sono stati da qualche parte, qui, nella foresta».
Alice rallentò, per poi fermarsi. La imitai, osservandola. Iniziavo ad innervosirmi.
«Temo di dovermi ripetere: qui non c’è niente».
Scosse il capo. “Non qui, qui, Edward. Qui nel bosco”. E vidi disegnarsi tra i suoi pensieri l’immagine di una cascina, di una frotta o di una qualche piccola struttura isolata e abbandonata.
«Pensi che l’abbia portata in una catapecchia? Nelle sue condizioni?!», esclamai.
Scrollò le spalle. «Non penso avessero grandi alternative, o quello o niente. Ed io sono sicura che si tratti di un posto nel bosco, quindi non può essere altrimenti».
«Perché non me l’hai detto prima?».
“Perché di solito non hai bisogno che le cose ti vengano dette. Sei stato assorto per tutto il tempo”.
La guardai, e lei guardò me. Non sapevo che dire, cosa rispondere, perché a dire il vero non mi ero accorto di nulla. Avevo agito meccanicamente, seguendola e imitando i suoi gesti. Avevo osservato ciò che avevo intorno, riflettuto e contemporaneamente, senza rendermene conto, mi ero estraniato da tutto.
“Cosa c’era di tanto interessante nel tramonto?”.
Non dissi nulla, e lei non attese una risposta.
«Ho seguito l’odore del vento, all’inizio era assolutamente indistinguibile, ma come ci siamo addentrati nella foresta si è fatto più forte. Lo senti?».
Inarcai un sopraciglio. Corteccia, muschio, fronde, quell’odore speziato e leggermente caldo dei temporali estivi, un minimo sentore dell’oceano salato.
Il vento non era d’aiuto, soffiava in diverse direzioni e la mescolanza degli odori maggiori copriva i minori. Alice però aveva individuato un’esalazione particolare, qualcosa di simile alla corteccia e al muschio, ma decaduto.
Legno che marcisce.
Riportai lo sguardo su Alice. «A est?».
Annuì e partimmo.
Mano a mano che ci avvicinavamo l’odore si faceva più forte, arricchendosi di particolari e sfumature. La prima che mi colpì, quando ci ritrovammo a pochi metri dalla cascina, fu la muffa.
Una piccola costruzione fatiscente, di pietra e legno, si ergeva in un piccolo spiazzo libero dagli alberi. Con tutta probabilità lo spazio era stato appositamente creato tagliando degli alberi. Era minuscola, aveva l’aria di essere più una grande rimessa, che una piccola cascina. Una finestrella – senza vetri, ma coperta con un foglio di nylon per evitare l’entrata del vento – faceva mostra di sé sul lato sinistro della catapecchia.
Ci avvicinammo a passo umano, studiandola.
Spinsi la porta – non c’era alcuna serratura anche se, a giudicare da dei ganci, un tempo doveva esserci stata una catena – di legno, malandata e umida nonostante l’assenza di pioggia. L’interno, se possibile, era anche peggio: il pavimento era di terra battuta – addirittura qualche ciuffetto d’erba era riuscito a crescere alla base dei muri – e non v’era assolutamente nulla. Né un mobile, né una sedia, né degli attrezzi. Soltanto, spostate verso la parete di sinistra, erano posizionate delle pietre in modo da formare un cerchio, e la terra era scavata. Probabilmente lì veniva fatto il fuoco.
“Hanno vissuto in questo posto? Dio mio…”.
Nell’angolo, addossate alla parete, c’erano delle coperte ammucchiate l’una nell’altra. L’odore, lì dentro, era terribile: muffa, chiuso, legno marcio e qualcosa di acre. Acre, ripugnante e vecchio.
Materiale organico decomposto.
Sapevo con esattezza da dove provenisse quest’ultimo odore, ma fu Alice ad avvicinarsi alle coperte. Sollevò la prima, la tirò verso di sé per separarla da mucchio, e l’aprì. Il suo colore originale doveva essere chiaro, forse beige, ma non si poteva più dire con certezza, dato che era sporca e ricoperta di macchie scure.
Non avevo bisogno di avvicinarmi per capire che si trattava di sangue, né per sapere a chi fosse appartenuto. Nonostante gli anni e lo stato di decomposizione organica, il suo odore era inconfondibile.
Il mio corpo si mosse prima ancora che la volontà glielo ordinasse. Strappai dalle mani di Alice la coperta, la studiai in fretta, poi tirai in malo modo le altre. Quattro coperte, l’una più insanguinata dell’altra.
Ne stringevo i lembi nei pugni, il suo odore era ancora così forte, così inconfondibile.
Ma non poteva essere ancora viva, non dopo aver perso tutto quel sangue.
«Dicevi che era viva…», mormorai.
«Lei… lei è viva, ne sono ancora sicura. Non è cambiato nulla, lei è viva», boccheggiò.
La speranza era cresciuta, aveva assoggettato tutto a sé, e ora annientava ciò che aveva seminato. Sapevo che sarebbe potuto succedere, sapevo che sarebbe successo. Eppure non sentii nessun moto di rabbia montarmi dentro, né dolore. Solo un vuoto sordo, assoluto.
Non c’era nulla. Per un momento trovai quasi inquietante l’assenza di tutto.
Mi dissi che andava bene così.
La quiete prima della tempesta. Il vuoto prima dell’agonia.
«Alice, tu non vedi nulla, non sei sicura di niente. Smettila di raccontare cazzate. Lei è morta».
Alice scuoteva la testa, incredula.
«No, no. No! Lei non può essere morta, ne sono certa».
«Alice…».
«No, Edward, guarda!», strillò, additando la coperta più scura di tutte. Mia sorella, nonostante le sue congetture e le sue convinzioni, era sconvolta. «Vedi quelle, quelle cose?».
Mio malgrado seguii i suoi gesti ed osservai le macchie nere. In alcune di esse, anzi, in tante, erano presenti degli spazi più chiari, delle striature più pallide. Anche la loro composizione sembrava diversa, più granellata rispetto al sangue.
Lasciai che i pensieri di Alice di unissero ai miei, e che le sue supposizioni si sovrapponessero alle mie.
Le striature granulose erano un’altra membrana, organica di sicuro, ma diversa dal sangue. E si hanno gravi perdite di sangue solo se feriti o durante…
«Il parto?», mormorai. «Pensi che abbia partorito… Qui?».
«Penso che sia l’unica possibilità. Sono venuti qui per scappare dal branco, ma Bella non poteva allontanarsi troppo, non ne avrebbe avuto le forze. Poi c’è la questione della gravidanza accelerata…».
Smisi di ascoltarla, conscio che doveva avere ragione.
Aveva partorito, quindi. Jacob Black non era riuscito nella sua impresa, non era riuscito a convincerla ad abortire. Se la cosa le aveva spezzato le ossa prima ancora di venire al mondo, durante il parto… Ecco il perché di tutto quel sangue.
Lei era morta, non c’erano più dubbi.
Di nuovo, la consapevolezza cadde nel vuoto.
Mi limitai ad annuire, lasciandomi scivolare sul terreno, senza riuscire a lasciare andare le coperte.
Aveva partorito lì, in quel tugurio. E lì era morta.
«È morta, qui. Lei è morta qui», sussurrai, atono.
Dove l’aveva portata, Jacob Black? Dov’era il suo corpo? Le aveva dato degna sepoltura?
Avrei voluto portarle dei fiori. Sì, un bel mazzo di fiori. Delle margherite di campo, magari.
Chissà se le sarebbero piaciute, le margherite. Non le avevo mai regalato dei fiori. Che sciocco. Lei meritava tutti i fiori del mondo.
«Edward, no! Te l’ho già detto, lei non è morta. Ora più che mai sono sicura di ciò che ti dico, lei non è morta!». Alice mi parlava, mi tirava per un braccio, ma le sue parole non avevano senso.
La guardai.
«Alice, è pieno di sangue. Non può essere sopravvissuta, nessun umano sopravvive a una tale perdita di sangue. È morta».
«Forse Jacob Black aveva con sé delle sacche per le trasfusioni, forse è riuscito a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non so come sia andata, ma so che lei è viva. Guarda, guarda tu stesso!».
Mi aprì la sua mente e mi mostrò il buio. Rievocò l’immagine del buio della morte e lo confrontò con il suo futuro. La morte era il nulla assoluto, un buco nero da cui è impossibile uscire. Il futuro – il nostro quando eravamo con i licantropi, e il suo – era coperto da una tenda oscura, profondamente nera, ma aggirabile.
La morte non esiste, non è. Il futuro è.
Alice aveva studiato a lungo il buio del futuro, nelle ultime settimane, ed era arrivata alla conclusione che, con i giusti appigli, avrebbe potuto imparare ad aggirare il potere dei licantropi di oscurare le sue visioni.
“Vedi? Non è cambiato nulla, nemmeno ora che sappiamo che lei ha partorito. Nulla, il suo futuro è ancora lì, intatto. È solo oscurato, solo oscurato!”.
Come un flash, una nuova immagine di sovrappose al buio, nitida e ben definita. Pianure estesissime, calde e allo stesso tempo minacciate dalle piogge, un fiume dall’enorme portata d’acqua, una base militare dell’aeronautica.
Alice riconobbe automaticamente il fiume come il Missouri.
Quello era il nostro futuro, mio e di Alice.
Poi un altro fotogramma. Una città sulle colline, un cartello “Benvenuti a Grand Forks”.
Il volto di Alice s’illuminò.
“È il Missouri. Andiamo nel Dakota del Nord”.
 
 
 
Salve, gente! ^^
Beh, spero che il capitolo vi sia piaciuto, pur essendo fondamentalmente di passaggio. E io odio/amo i capitoli di passaggio. È sempre un’impresa colossale scriverli, e questo non è stato da meno. A volte un capitolo riesco a terminarlo in qualche giorno, questo mi ha preso almeno due settimane. Oserei definirlo un parto plurigemellare.
Quindi spero lo apprezziate, in caso contrario: ammiriate almeno la perseveranza nel non mandare tutto all’aria ahahah.
Durante la settimana non sto riuscendo ad entrare su efp, tanto meno quindi a rispondere alle recensioni (che ovviamente adoro, gnaww **), quindi vi anticipo che risponderò appena riuscirò a ritagliarmi un’oretta.
Il capitolo non è betato, domando venia per eventuali errori/orrori. Purtroppo la tecnologia si diverte a trollare sia me, sia la povera Joan. A proposito, grazie per aver sopportato i miei scleri durante la stesura di questo – e non solo – capitolo. Come farei senza i tuoi respiri profondi? loool
Bien, ho terminato. ^^
Buona settimana a tutti!
Vero

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Capitolo 6
*** Come James e Victoria ***


Come James e Victoria

Arrivare a Grand Forks in meno di due giorni – e con tre pieni di carburante – era stato facile. Anche trovare l’abitazione di Bella, era stato facile. Ciò che non era facile, ma proprio per niente, fu raggiungerla.
Più ci pensavo e più mi dicevo che era davvero stato troppo semplice, trovarla. Era bastato fare qualche domanda in giro alle persone giuste – e con i modi giusti – e dare un’occhiata – di notte – agli elenchi giusti.
Il che, la facilità con cui eravamo riusciti a risalire a lei, al suo indirizzo, alle sue informazioni primarie, mi aveva riportato indietro, ai tempi di James. Anche lui aveva pedinato e cercato Bella in quel modo. E, anche lui, non aveva avuto la benché minima difficoltà nel trovarla.
Come James e Victoria, anche io e Alice eravamo riusciti a rintracciarla in un battito di ciglia. Così come avrebbe potuto fare chiunque altro.
Più ci pensavo, più sentivo montare l’irritazione.
A dire il vero, non c’era un minimo di logica nei miei ragionamenti.
Non mi sentivo in colpa per essere ricorso a vie più o meno legali per trovarla, né mi immedesimavo in James, o rivedevo Victoria in Alice. Tuttavia, mi infastidiva la facilità con cui ero riuscito a trovarla. Con cui chiunque avrebbe potuto trovarla. Non era sicuro, non doveva essere così. Avevano provato a ucciderla talmente tante volte, c’erano state diverse persone – vampiri, licantropi e umani ancor più mostruosi – che avevano attentato alla sua vita, tanto da far apparire quella mancanza di circospezione come un’imperdonabile negligenza. Certo, con tutta probabilità viveva con un licantropo, ma non poteva essere una garanzia di totale protezione.
Il mio istinto protettivo, il desiderio di tenerla lontana da qualsiasi pericolo, non si era mai sopito. O forse, semplicemente, sragionavo in preda all’ansia.
Ed ecco perché, combinata alla paura crescente, l’ansia m’impediva di andare direttamente da lei.
Alice, accanto a me, borbottava un vecchio successo. Era nervosa: il buio aveva circondato il nostro futuro e tentava di aggirarlo. Il lato positivo era che avevamo la certezza di incontrarli di lì a poco. Il negativo? Non avere nemmeno una minima visione del futuro m’innervosiva. E il motivetto di Alice m’innervosiva ancora di più.
«È qui?», mormorai.
Sterzai, evitando l’ennesimo quartiere chiuso di villette a schiera. La loro casa, com’era prevedibile, non si trovava nel centro urbano vero e proprio, ma leggermente spostata, in periferia.
Mi inserii nell’ennesima via, questa volta niente villette a schiera.
Mano a mano che ci avvicinavamo alla campagna, le case si facevano più grandi e i giardini più verdi. Percorsi la strada fino all’ultima casetta rosata incorniciata da un curato roseto giallo – i colori pastello predominavano su ogni singolo muro di quei quartieri –, mentre una vecchia signora ripuliva il marciapiede dalla polvere.
Svoltai, proseguii dritto, quindi svoltai ancora, a sinistra.
Il cielo era coperto da un sottile strato di nuvole, non abbastanza da assicurarci una copertura a lunga durata, ma momentaneamente sufficienti. Dubitavo avrebbe piovuto.
Mi ritrovai di nuovo all’inizio della stradina. Costeggiai ancora la villetta rosata e la signora che puliva.
Svoltai, proseguii dritto, svoltai – a destra.
Di nuovo l’ultima via, la villetta rosata e la signora che puliva.
Per altre due volte girai in tondo, e per altre due volte passai per l’ultima via.
Sbuffai: anche il labirinto di villette m’innervosiva.
Possibile che non riuscissi a trovare l’uscita?
«So che gli uomini lo odiano», Alice smise di canticchiare «ma dovresti chiedere informazioni. Io non vedo niente e tu hai perduto tutto il tuo senso dell’orientamento». Si sporse in avanti, inclinando il capo.
«Vai da quella signora», disse, indicandola.
Eseguii, consapevole della veridicità delle parole di Alice. In quel momento non sarei stato in grado di orientarmi nemmeno nella mia stanza.
Tale cognizione, ovviamente, non aiutò i miei nervi feriti.
Accostai accanto alla donna che, fingendo di non averci visti girare in tondo come due deficienti, spazzava il marciapiede davanti casa sua. Rideva sotto i baffi, ma si premurò di nasconderlo, specie quando mi fermai a due metri da lei.
«Mi scusi», dissi «posso avere un’informazione?».
Mi sporsi verso il finestrino di Alice, e la signora si avvicinò, incuriosita. Alice le rivolse un cenno del capo, mentre lei ci osservava, ora stupita.
Si riscosse presto dal torpore causato dal nostro aspetto e scosse il capo. Mi chiesi se fosse un segno di assenso o negazione, ma nemmeno lei lo sapeva.
«Buongiorno», rispose sorridendo. «Mi dica».
«Stiamo cercando una ragazza, si chiama Isabella Swan. Dovrebbe vivere da queste parti», risposi, tendendo le labbra in un sorriso. Mi costò più sforzo di quanto immaginassi, tentare di corrompere l’umana con la gentilezza.
Titubò, ondeggiando sui talloni: non era sicura che fosse prudente dare l’indicazioni su una ragazza a due sconosciuti.
Presi immediatamente la donna in simpatia.
L’unica pecca della sua mente – tanto gentile quanto semplice – era che non aveva la benché minima idea di chi stessi parlando.
«Swan, ha detto? Non conosco nessuna Swan, mi spiace…», rispose.
«Isabella, Isabella Swan. È una ragazza di ventiquattro anni», Alice aveva fatto migliaia di volte il conto dei mesi passati «mora, non particolarmente alta».
La donna scosse il capo, corrucciata. «Mi spiace, temo di non-».
«Si fa chiamare Bella, dovrebbe abitare un po’ oltre questo quartiere, in periferia», aggiunsi.
Nel giro di pochi attimi gli occhi della donna s’illuminarono. I suoi pensieri si focalizzarono su un volto, pallido, angelico, incorniciato da una chioma d’ebano. Due gemme di topazio lo accendevano, nei suoi ricordi.
Era lei, la mia Bella. Ed era una vampira.
Com’era accaduto fin troppe volte nelle ultime settimane, m’immobilizzai, raggelato dalle novità.
Era un ricordo recente, il suo. Le iridi di topazio, tanto singolari da aver incuriosito la donna, sorridevano, gentili, mentre passeggiava proprio lì, dove ci trovavamo noi.
Bella era una vampira.
Non riuscivo a pormi alcun interrogativo, non mi chiesi né il come né il perché della trasformazione.
Rimasi a contemplare l’immagine che, involontariamente, la donna mi aveva regalato. Non v’era alcun dubbio.
Bella era una vampira.
Una risata rauca e imperfetta mi riscosse. Né la donna né Alice si erano accorte dal mio momentaneo distacco?
«Oh, ma ho capito di chi parlate! Perdonatemi, la mia memoria non è più quella di una volta», ridacchiò ancora, scuotendo il capo. Improvvisamente sembrava aver abbandonato ogni remora nel parlare di una donna con degli sconosciuti. «Ma quella ragazza non ha ventiquattro anni. Credo non arrivi nemmeno ai venti!».
Volse lo sguardo da Alice a me e sembrò vedermi davvero solo allora.
Mi squadrò a lungo, e mi chiesi se potesse leggermi lo sgomento in volto.
Vidi il mio volto sfocarsi e sovrapporsi ad un altro e poi ad un altro ancora. Non erano immagini nitide come quelle di Bella, i dettagli variavano e i tratti più particolareggiati erano vaghi, nei suoi ricordi. Un ragazzo e una ragazza, probabilmente non li aveva visti abbastanza di frequente da memorizzarne le caratteristiche.
Eppure il ricordo fumeggiante bastava a riconoscere delle atroci rassomiglianze tra i nostri volti. Ne ero certo, almeno quanto lei: non sbagliava nell’identificare le similitudini.
S’illuminò. «Ma lei è un parente! Ah, come ho fatto a non notarlo prima? La somiglianza è stupefacente!», sorrise tra sé, soddisfatta della conclusione a cui era giunta. «Quindi non ho fatto male a parlarvi di lei! Meno male, non si dovrebbero dare informazioni su una ragazza a degli estranei».
Gli umani adorano trovare delle giustificazioni ai loro errori e scagionare se stessi.
«Perché lei è un parente…no? Un fratello?», chiese ancora.
«Sì».
Avevo risposto di getto, senza riflettere, ma cosa avrei potuto fare? In che altro modo avrei potuto giustificare una somiglia tanto serrata che può essere data solo dalla stretta correlazione genetica? Sfruttai la via di fuga che mi veniva offerta, incapace di cercarne una migliore.
La donna sorrise ancora, rimarcando le rughe attorno agli occhi e sulle guance.
Ci fornì le indicazioni per arrivare a casa di Bella, poi chiusi il finestrino e ripartii.
Alice si voltò di scatto.
«Cosa diavolo è successo?».
Non tentai di mettere insieme un discorso o di riflettere sulle nuove informazioni. Mi limitai a sputarle fuori, separatamente. Alice le avrebbe riordinate come meglio credeva.
«Bella è una vampira. Vive insieme a tre ragazzi, uno di loro è Jacob Black. Ce ne sono altri due, una femmina e un maschio, più giovani. Le somigliano molto, la signora pensa che siano i suoi fratelli. Somigliano a lei, somigliano a me. Quindi ha pensato fossi un altro fratello».
Serrai le labbra, in attesa. Non avevo bisogno del mio potere per sentire gli ingranaggi lavorare, nella testa di Alice.
«Somigliano a te?», mormorò, dopo un po’.
«Lei ha i capelli rossi, lunghi e boccolati. L’ha colpita, è un colore singolare. È il mio. In lui non ha trovato un tratto particolarmente distintivo da associarmi, ma nel complesso sembra somigliarmi fin troppo».
Lasciai defluire tutta l’aria dai polmoni, prima di inspirarne un altro soffio e riprendere a parlare.
«Non deve averli visti spesso, oppure è passato più tempo rispetto all’ultima volta che ha incontrato Bella. Il suo volto è molto più nitido, nei suoi ricordi».
«Quanto tempo?».
«Per Bella una settimana fa, il cielo era scuro ed era quasi il crepuscolo. Gli altri due non lo so».
Attesi ancora mentre, finalmente, riuscivo a uscire dal centro abitato.
«Hai visto anche tu la somiglianza, quindi?».
Annuii meccanicamente.
“Una gravidanza gemellare?”.
«Non lo so», sibilai. «Sono passati solo sei anni, maledizione! Quei due non ne hanno meno di quindici!».
Alice voltò il capo verso di me, inarcando le sopraciglia.
“Calmati. Qual è il problema? Bella è viva, sta bene. E anche i vostri… figli”.
Era incredibilmente serena e, davvero, non capiva cosa mi prendesse. Come poteva? Dopo tutto quello che le avevo detto, dopo tutte le assurdità che avevamo appena scoperto, lei era calma. Impaziente di trovarli, sorpresa, stranita, ma calma.
Perché io no?
«Bella è una vampira», rimarcai, ringhiando. «Per quale ragione?».
«Non lo so».
Espirai, irrequieto.
«Sei anni, solo sei anni! Non è normale!».
«Sai che non poteva esserlo, la vostra relazione non è mai stata tradizionale».
Si rilassò sul sedile, indirizzando lo sguardo oltre il parabrezza.
“Edward, stiamo arrivando. Andrà tutto bene. Vedrai, andrà tutto bene”.
Deglutii il nulla, svoltando. Tra gli alberi, a qualche centinaio di metri, intravidi un tetto e, tra il fogliame, dei muri chiari.
«Quindi lui, cioè il… la creatura che bella portava in grembo… Sono due? Sono loro?», sussurrai. Conoscevo già la risposta, l’avevo compresa nell’esatto istante in i pensieri della donna erano penetrati tra i miei. Eppure avevo bisogno di un appiglio, qualcuno che mi confortasse.
“Evidentemente sì. Se la gravidanza è stata acceleratissima, lo deve essere stata anche la crescita dopo la nascita”, pensò.
Annuii, senza più parlare.
Parcheggiai sul ciglio della strada, o sentiero, data la quasi mancanza d’asfalto.
Lanciai uno sguardo ad Alice poi, simultaneamente, scendemmo.
Ci avviammo, a passo d’uomo, tra gli alberi. La piccola casetta non poteva essere raggiunta in auto.
Lo era davvero, piccola: un cottage riportato in buono stato. Le pareti chiare, di un colore indistinto tra il pesca pallido e il salmone, si aprivano in qualche finestrella, di tanto in tanto.
Tre rumori, ben lontani dall’appartenere a qualche piccolo animale del bosco, ci accolsero. Erano umidi e quasi invitanti, quasi. Tre cuori, non del tutto umani.
Mi voltai indietro, rendendomi conto solo allora che Alice era rimasta un passo indietro. Fece un cenno sbrigativo con la mano.
“Vai, su”.
Osservai il piccolo portoncino di legno.
Feci un passo, poi un altro, e infine salii uno dei due gradini che rialzavano di qualche centimetro il cottage.
Non c’era alcun campanello.
Alzai la mano, sentendomi improvvisamente un cretino. Per due volte battei le nocche sul legno scuro, poi riportai il braccio lungo il fianco.
Quando avevo smesso di respirare?
Contai.
Sette secondi e due millesimi dopo, dei passi quasi inudibili si avvicinarono alla porta.
Un altro secondo. La porta si aprì.
All’interno, a un quarto di metro da me, con la mano ancora stretta alla maniglia, c’era Bella.
Bellissima, come la ricordavo. Fu strano, ma non mi resi conto dei cambiamenti della sua pelle, dei suoi occhi.
Era lei, la mia Bella.
Ci scrutammo a lungo, senza riuscire a distogliere lo sguardo l’uno dagli occhi dell’altra.
Mosse appena le labbra.
«Edward».
 


 
Salve! ^^
E ci siamo, finalmente! Il tanto atteso incontro è arrivato e nel prossimo capitolo potrete leggere di come si svolgerà. Allora, ve lo aspettavate? Gemelli, già. Qualcuno già c’era arrivato, lo so per certo, ma voi altri? Beh, è qui che si inizia ad entrare nel vivo della storia. Non vedo l’ora di leggere delle vostre macchinazioni. Cosa vi aspettate che succeda? :’)
So che il capitolo è corto, ma non sono riuscita a tirar fuori nient’altro e aggiungere altre parti così, giusto per “far pagine”, mi sembrava un’idiozia.
Oggi aggiorno con un leggero ritardo, o meglio, non al solito orario. Questa appena passata è stata una delle settimane più infernali di sempre. Oltre alla scuola che, come sempre, s’impegna per rovinarmi ogni singolo minuto, ho avuto un problema familiare che ha fatto spaventare davvero davvero tanto tutti. Tutta la pappardella di fatti miei per dirvi che, purtroppo, non sono riuscita a portarmi avanti con i capitoli come invece avevo sperato di fare. Questo è il penultimo pronto, poi, tra due settimane, la frequenza di aggiornamento sarà costretta a modifiche. Vi avviso già da ora, così che non abbiate brutte sorprese. Ma, keep calm, sono troppo affezionata a Eclissiper non trovare uno spazietto di tempo per scriverla.
Bene, penso sia tutto.
Come sempre grazie a tuuuutti voi che leggete, commentate e inserite la storia nei soliti, vecchi elenchi. <3
Al prossimo week-end,
Vero ^^
Ps. Le recensione, lo so, non me ne scordo. Appena potrò, risponderò, lo giuro.

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Capitolo 7
*** Incontro ***


Incontro

Per l’ennesima volta allontanai lo sguardo dall’ennesimo oggetto.
Sedevamo lì, nel piccolo salotto della piccola casa, gli uni davanti agli altri.
Nessuno parlava, nessuno accennava a voler iniziare un discorso. Solo tre respiri rumorosi rompevano il silenzio.
Avevo avuto tutto il tempo di guardarmi intorno, di osservare ogni dettaglio: il tavolino quadrato sulla parte sinistra della stanza, quella che fungeva da cucina, i modesti elettrodomestici sulla parete opposta a quella del portoncino, oltre il tavolo. I vetri smerigliati della porta del corridoio, tra le due zone della stanza. La parte destra, quella in cui ci trovavamo noi, costituiva il piccolo salottino. Era arredato con un divano a due posti e due poltroncine – coordinati, di un pallido beige – al centro un tavolino basso, anch’esso di legno scuro. Sotto una finestra scorreva una piccola cassapanca, graziosa e ben intagliata, dall’aria antica.
Alice ed io sedevamo sul divanetto, spalla contro spalla. Davanti a noi, sulle due poltroncine, Bella e la ragazza. Jacob era rimasto in piedi contro il muro, teneva le braccia conserte e il naso arricciato: gli dava fastidio il nostro odore. Il ragazzo, su una sedia, era accanto a Bella.
Renesmee ed EJ, così Bella li aveva presentati.
Non c’era stato bisogno di dire chi fossero, era terribilmente ovvio.
Non c’era stato bisogno di dire chi fossi, nemmeno il mio nome, era ancora più ovvio.
Aveva presentato Alice in un borbottio, e poi ci aveva invitati ad entrare.
Ed eravamo lì, da cinque minuti e quarantasette secondi esatti.
In silenzio.
La tensione si sarebbe potuta tagliare con un coltello.
Ognuno immerso nei propri pensieri – nel proprio vuoto di pensieri –, ognuno impegnato ad aspettare che qualcun altro parlasse.
Allontanai l’attenzione dal vaso di fiori posato sul tavolo della cucina e, per un instante, incontrai lo sguardo della ragazza.
Gli occhi di Renesmee, i profondi occhi di cioccolato di Bella, si allontanarono in fretta dai miei. Arrossì violentemente e il suo cuore, già veloce, accelerò. Tutti nella stanza poterono sentirlo.
L’aveva già fatto quattro volte, negli ultimi sei minuti. Non l’avevo vista, ma gliel’avevo letto dentro. Fu quasi un sollievo rendermi conto che, a differenza di sua madre, la sua mente era un mondo aperto.
Molto bella, angelica e graziosa, somigliava a una bambola di porcellana, i tratti infantili abbracciavano ancora il volto delicato. Era molto simile a Bella, nei gesti, nelle reazioni, nelle espressioni. Eppure c’era qualcosa di incredibilmente familiare nel taglio degli occhi e nelle labbra sottili, qualcosa di mio.
Per non parlare dei capelli.
Ed era l’unica – che potessi sentire – a desiderare che la situazioni si sbloccasse.
Era curiosa e intimorita, terribilmente speranzosa. Tentava di bloccare i suoi pensieri – sapeva del mio potere – ma non ci riusciva.
Un orologio, posato sulla mensola del camino, segnava l’ora: le diciotto e quarantatré.
Alice si mosse, irrequieta, al mio fianco. Il licantropo bloccava le sue visione e lei non aveva idea di cosa dire, né di come farlo.
Però era intenzionata a iniziare un discorso.
Renesmee ne sarebbe stata felice.
Alice si schiarì la voce e intrecciò le dita grembo, sporgendosi un po’ in avanti.
«Bella… ti trovo bene», tentò. Quando le rivolse lo sguardo, le sorrise. Bella impiegò qualche secondo a ricambiarla, titubante. Abbassò lo sguardo e attesi di sentire il suo cuore accelerare il battito, come quello di sua figlia. Ovviamente non accadde.
Puntò le iridi dorate su Alice, poi sorrise con maggiore sicurezza.
«Anche tu… anche voi, state bene», aggiunse infine. Spostò lo sguardo su di me e, com’era già successo all’ingresso, restai incatenato a lei. Quindi si voltò, questa volta verso il figlio, per poi tornare su Alice. Buffo come avesse scelto di non guardarmi, mentre io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Avevo già memorizzato ogni nuovo dettaglio della sua pelle e del suo corpo.  Anche del suo volto, ma non quanto avrei voluto, dato che l’aveva tenuto nascosto tra i capelli per la maggior parte del tempo.
«L’immortalità ti sta d’incanto», riprese Alice, tenendo ben stretto il sorriso. Era immensamente felice di rivederla, la gioia e la tenerezza che provava erano quasi fastidiose, tanto erano intense.
Bella sorrise con più convinzione, scuotendo lievemente i capelli. Indovinai che continuasse a non amare i complimenti.
«Come stanno gli altri?», chiese. Poi aggrottò le sopraciglia, come se si fosse appena ricordata di una questione importante. «Dov’è Jasper?».
«Stanno tutti bene, sai com’è: Carlisle è sempre alle prese con i suoi pazienti, Esme e noi altri lo sopportano e lo seguono nel suo pellegrinaggio di ospedale in ospedale. Ora sono a Calgary».
Il tentativo di alleggerire la tensione andò in porto, almeno in parte. Il sorriso di Bella contagiò gli occhi e Renesmee non riuscì a trattenere un risolino. Jacob, che aveva ascoltato e osservato tutta la situazione da lontano, in silenzio, inarcò un sopraciglio. La prospettiva di un vampiro dottore gli sembrava ancora troppo strana, anche se Bella gliene aveva già parlato. Fui sorpreso di ritrovare quella conversazione tra i suoi ricordi – ricordi piuttosto lontani, risalenti al periodo della gravidanza.
Ovviamente l’attenzione di tutti fu subito spostata verso destra, quando EJ sbuffò.
Per la seconda volta da quando eravamo arrivati, lo guardai. Sapevo perfettamente perché non ero riuscito a osservarlo ancora: mi inquietava. Guardare lui era quasi come guardare me stesso allo specchio, ma la mia immagine riflessa faceva ciò che mi aspettavo facesse, ciò che volevo facesse. Lui no.
Incontrò il mio sguardo e, a differenza della sorella, lo sostenne. Quegli occhi, erano quegli occhi ad atterrirmi. Erano verdi, intensi e quasi felini.
Guardavo i suoi occhi, ed erano i miei.
Era me, prima che Carlisle mi cambiasse.
Anche la sua mente mi turbava: era un ammasso di sentimenti e reazioni, nebulosa e senza un vero e proprio pensiero leggibile. Più provavo a soffermarmi su qualcosa, più questa si faceva confusa.
Non riuscivo a leggerlo con certezza e questo, com’era successo con sua madre, mi creava problemi.
Una cosa, però, era chiara: mi era ostile. Probabilmente non mi sarebbe servito nemmeno quel poco di conoscenza che avevo della sua mente, per capirlo. Trapelava dagli occhi di smeraldo e dalle spalle rigide.
Non ci voleva lì. Soprattutto, non voleva me lì.
Fui costretto a distogliere lo sguardo per primo. Non mi piacque per niente, specie perché avvertii un moto di soddisfazione da parte sua.
Bella gli lanciò un’occhiata ammonitrice in risposta allo sbuffo. Non era contenta di lui.
Gioii interiormente per quella piccola rivincita.
Bella tornò a guardare Alice, il sorriso di nuovo più lieve.
«Calgary è lontana… Come mai da queste parti?».
Come se non fosse ovvio.
Alice sorrise, beata, mantenendo il silenzio.
“Ecco, ora tocca a te. Non hai spiccicato parola”.
Annuii interiormente: era giusto.
Mi schiarii la voce, alternando lo sguardo tra Bella, i suoi figli e il licantropo.
«Io», iniziai, ma non continuai. Improvvisamente mi sentii nudo di fronte a tre paia di occhi estranei. Osservai per un lungo istante Jacob Black. Lui, dopo sei anni, viveva ancora con Bella, ed era stato innamorato di lei. Mi chiesi se stessero insieme. Non avevano il comportamento di due compagni, nemmeno lontanamente. Lui non le era accanto, non provava alcun tipo di gelosia nei miei confronti. Io non sarei riuscito a mantenere tanta calma se le parti fossero state invertite. Era relativamente quieto, anche se rancoroso nei miei confronti.
E poi, lui era un licantropo e lei una vampira. Decisamente contro natura.
Forse ero un po’ ipocrita.
No, non stavano insieme.
Decisi comunque che non era il caso di parlare – o anche solo lasciare intuire – certi sentimenti davanti ad altri. Non era giusto, specie nei confronti dei suoi figli.
«Noi», mi corressi «siamo venuti a cercarti, Bella. A Forks». La guardai, vincendo la battaglia contro il magnetismo dei suoi occhi. «Ma abbiamo saputo in linea generale cos’è successo. Quindi abbiamo iniziato a cercarvi, e oggi vi abbiamo trovati».
La gioia di Renesmee per il plurale inatteso procreò anche la mia gioia.
Bella era stupita e, come lei, Jacob.
«Siete stati a Forks?», chiese.
Annuii. «Sì, abbiamo chiesto informazioni ai licantropi».
«E loro vi hanno detto dove trovarci? Non è possibile. Sono stato attento quando l’ho portata via». Jacob Black era, se possibile, ancora più esterrefatto di prima.
«No, infatti. Loro ti pensano morta». Mi rivolsi direttamente a Bella, senza badare al licantropo.
«Oh, capisco», mormorò.
Aggrottai le sopraciglia. «Sei stupita di quello che hanno dedotto? So che non è stata una gravidanza facile».
«Certo che no, dato che è stata abbandonata in un mondo estraneo».
Non ebbi il tempo di risentirmi – o di provare dolore – per la frecciatina, né di assaporare a pieno il timbro della voce di EJ, perché Bella rispose.
«No, sono stupita del fatto che tu sia venuto a cercarmi».
Colpito e affondato.
Non l’aveva fatto di proposito, non voleva ferirmi o rinfacciarmi qualcosa, non era arrabbiata. Ma il suo stupore, così genuino e senza sottintesi, fu molto più doloroso.
Credeva davvero a quello che le avevo detto, sei anni prima. Pensava che non l’amassi, e questa consapevolezza non le causava alcuna reazione.
Fece davvero troppo male.
«L’avrei voluto fare tanto tempo fa», mormorai mestamente.
«Sei solo in leggero ritardo, infatti», sibilò EJ.
Bella voltò di scatto il capo, rifilando un’occhiataccia al figlio.
«EJ, non credi che tua madre sia in grado di parlare da sola?».
Il ragazzo non gradì essere sgridato in quel modo davanti ad altri. Imbarazzato e risentito, si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Incrociò le braccia al petto, ma non smise di incenerirmi con lo sguardo.
Di nuovo, sentii montarmi dentro un moto di soddisfazione, ma non durò a lungo: Bella si voltò nuovamente, ma questa volta le sue labbra non si curvarono in un sorriso.
«Dopo Forks, come avete fatto a trovarci? Perché siete qui?», chiese.
«Sono riuscita ad aggirare il vuoto di visioni che mi causa Jacob», spiegò Alice, accennando con il capo al lupo. «I licantropi hanno questa strana particolarità: non posso vedere il loro futuro e quindi nemmeno quello delle persone le cui vite sono da loro influenzate. Voi, in questo caso. Comunque avevamo preso la decisione di trovarvi, quindi non è stato per niente difficile arrivare a voi, specie perché non fate nulla per nascondervi particolarmente».
Bella sollevò le sopraciglia, presa in contropiede.
«E, comunque, una volta da queste parti, è stata una signora della città a indicarci come raggiungere casa vostra», aggiunse Alice, ridacchiando. Aveva ignorato la seconda domanda ed io con lei.
Bella sollevò ancora di più le sopraciglia, sempre più stupita.
«Una signora? Chi?».
«Oh, una donna che abita nell’ultima via di uno dei quartieri chiusi, in periferia. Ha una bella casetta rosa pastello, e un roseto di rose gialle», spiegò Alice.
Bella non fu la sola a capire di chi stesse parlando.
«La signora Barnes è una grande impicciona», borbottò EJ.
Bella scosse il capo, ma non rifilò nessuna occhiataccia al figlio. Anzi sorrise, comprensiva.
«Alla signora Barnes piace essere sempre ben informata, ma è anche tanto gentile», trillò una vocetta squillante. Renesmee sorrise, soddisfatta di essere riuscita a inserirsi nel discorso. «Peccato non aver potuto accettare il suo invito, qualche settimana fa. Aveva appena fatto i biscotti, e avevano un così buon odore!».
«Li mangi?», chiesi, senza riuscire a trattenere la curiosità.
Renesmee s’illuminò, entusiasta per il mio interessamento. Sentii un sorriso allargarsi sul mio volto: provavo uno strano senso di appagamento nel rendere felice quella ragazzina con dei gesti insignificanti come un sorriso o una domanda. Poi, però, il riso fu sostituito da una morsa in pieno petto. Perché mi resi conto che aveva anelato una piccolezza, un niente, per tutta la vita e suo padre non c’era mai stato per dargliela. Io non c’ero mai stato.
Eppure tutto ciò che provava per me era venerazione.
Annuì vigorosamente. «Sì, certo. Mi piacciono, specie quelli al cioccolato». Lanciò un’occhiata a suo fratello, per poi aggiungere: «Anche a EJ piacciono, ma più quelli alla cannella».
Continuò a sorridere – non aveva mai smesso. Voleva coinvolgere anche suo fratello nella nostra piccola conversazione, voleva che fosse parte della situazione, qualsiasi essa fosse. Lui, però, si limitò ad alzare le spalle con indifferenza.
«E mangiate anche altro cibo umano?», chiese Alice.
Renesmee annuì di nuovo. «Sì, a parte la verdura. La verdura non ci piace, il cibo umano sì. Ma preferiamo il sangue».
«Comprensibile», rise Alice.
«Neanche un po’», soggiunse Jacob. Storse il naso, osservando Renesmee. Era in attesa di una risposta, magari di una battuta ironica, com’era accaduto tante volte.
«Non sai cosa ti perdi, Jake», disse invece EJ, arricciando le labbra e voltandosi verso di lui.
«Ben felice di perdermelo, succhiasangue», gli rispose, mollandogli uno scappellotto sulla nuca. EJ rise, scuotendo la testa per allontanare il lupo.
Bella, accanto a loro, sorrideva beata. Li osservava, e sembrava che l’arrabbiatura nei confronti del figlio fosse evaporata nella condensa estiva.
«Una perfetta via di mezzo tra le due razze, quindi», sorrise Alice.
«Già», rispose Renesmee, laconica. Cercava un argomento da trattare, per impedire che ci ritrovassimo nuovamente in silenzio troppo a lungo.
«Corriamo anche, e lottiamo. Non con la stessa forza dei vampiri, ma non ce la caviamo male. E possiamo uscire anche con il sole», ridacchio.
«Sì? Beh, sembra proprio che abbiate preso il meglio da entrambi i vostri genitori», rispose Alice.
Il silenzio piombò sulla stanza, ancora più pesante di quando eravamo arrivati. Era strano come il significato di quelle parole, che avevano sussurrato e ronzato per tutto il pomeriggio tra noi, fosse improvvisamente diventato tanto denso da isolarci gli uni dagli altri. Dire quella parola – genitori – apertamente e sottintendere, altrettanto apertamente, che anche io fossi parte di quell’insieme di sole due persone, era stato avventato.
Come quando, dopo un pomeriggio plumbeo, d’improvviso inizia a piovere. Tutti sapevano che, presto o tardi, sarebbe successo, eppure nessuno è pronto.
Nessuno, in quella stanza, era preparato alle parole di Alice. Nessuno si aspettava che le avrebbe dette.
Tutti sapevano che erano vere prima ancora che prendessero forma.
Dopo un tempo fatto di secondi e ore, minuti e decenni, fu Bella a rompere il silenzio.
«Credo si sia fatto tardi», mormorò. Voltò lo sguardo verso una delle finestre: il sole, ancora seminascosto dietro alle nuvole, aveva iniziato il suo declino, ma avrebbe impiegato ancora delle ore prima di raggiungere l’orizzonte. Premette le dita esili sulle ginocchia, poi si alzò. «EJ e Renesmee vanno a letto presto», si giustificò.
Annuii, consapevole del pretesto. Avvertii una morsa stringermi il petto all’altezza dello sterno, mentre comprendevo che Bella non ci voleva lì. Non mi voleva lì. Chiedeva che ce ne andassimo e non aveva il coraggio di mandarmi via di malo modo. Sapevo di meritarlo, eppure avrei dato mille anni di vita solo perché mi volesse ancora lì, con lei, così che avessi il diritto di ammirarla. Ma questo non era ciò ch voleva, ed io non sarei riuscito a recarle altro danno.
Alice, però, non sembrava intenzionata a demordere.
«Dormite, quindi?», domandò.
Non c’era alcuna inflessione nella sua voce, nulla che facesse trasparire imbarazzo o agitazione per le parole di poco prima, solo un leggero e sincero stupore.
Perché continuava a prolungare quei momenti? Perché non faceva ciò che tre persone su quattro, in quella stanza, ci invitavano a fare?
Bella s’irrigidì.
La osservai stringere la mascella e immobilizzare il peso su una gamba, in piedi davanti al divano. Era tesa, per nulla contenta della determinazione di Alice, e bellissima.
Vidi le sue iridi scattare per un momento di lato, senza però posarsi davvero sulla mia figura. Voleva guardarmi? Si era accorta che io non potevo fare a meno di guardare lei? Probabile, dato che tenne ben fissi gli occhi su Alice.
Renesmee si limitò ad annuire, passando lo sguardo da me a mia sorella.
Mi alzai anch’io e attesi che Alice facesse lo stesso. Bella non accennava a muoversi né a parlare, e mia sorella aspettava.
«Credo che quindi sia il caso di andare», dissi.
Avvertii il cuore di Renesmee accelerare la sua già forsennata corsa, mentre afferrava la mano di Jacob: non voleva che ce ne andassimo, ma non sapeva come dirlo a sua madre.
Simultaneamente l’immagine di noi che uscivamo dalla porta – la stessa che vedeva Renesmee nella sua mente e che tentava di allontanare – comparve tra i pensieri di Jacob. Sentii provenire dal licantropo non solo i suoi pensieri, ma anche la cristallina voce mentale di Renesmee. La cosa più assurda fu che anche Jacob la sentii e cercò di risponderle con uno sguardo, aumentando la stretta delle loro mani. Non voleva che restassimo, non mi voleva nella loro vita. Tuttavia, non appena Renesmee trasferì il suo pensiero nella mente di Jacob, tentennò, impaziente di soddisfare il suo desiderio.
Renesmee era capace di trasmettere i suoi pensieri con il tocco delle mani.
Fui sorpreso nel constatare che, certamente, anche quel particolare potere legato alla telepatia provenisse da me.
Lo scambio tra Jacob e Renesmee durò una frazione di secondo ed io distolsi in fretta lo sguardo. Sondai velocemente le menti dei presenti, ma nessuno sembrava essersi accorto della mia piccola scoperta.
Bella ci aprì la porta, restando accanto ad essa, in attesa che uscissimo.
Alice si fermò sull’uscio e, con un movimento repentino, abbracciò Bella.
«Sono davvero felice di averti ritrovata, sorellina», mormorò, prima di scoccarle un bacio sula guancia.
Ritrovata, non rincontrata o rivista, ma ritrovata. Mi chiesi se Bella avesse compreso il sottinteso delle sue parole: non l’avrebbe – non l’avremmo – più lasciata andare.
Rimase interdetta, ma Alice prolungò l’abbraccio abbastanza da consentirle di accettarlo e contraccambiarlo. Non rispose, ma le sorrise.
Poi Alice si voltò e con un movimento della mano salutò gli altri. Solo Renesmee le rispose.
Uscì e fu il mio turno.
Guardai Bella e lei guardò me, avrei voluto abbracciarla come aveva fatto Alice, stringerla e impedirle di andare via di nuovo. Anche se, in realtà, ero stato io ad andarmene.
Erano anni che non ci trovavamo così vicini l’uno all’altra e, nonostante tutto ciò che era accaduto e tutti i presenti attorno a noi, l’unica cosa che riuscivo a pensare era il desiderio impellente di baciarla. Quanto mi erano mancate quelle labbra? Le volevo di nuovo sulle mie molto più di quanto avessi mai voluto il suo sangue, e la nostalgia era difficile da tenere a freno.
«Sono lieta di averti rivisto», disse, salvandomi dall’incantesimo del desiderio.
Mi concentrai sui suoi occhi di topazio compatto, impenetrabili, e non mi chiesi nemmeno se avesse potuto leggere la smania nei miei.
«Mi sei mancata», risposi. Optai per la verità, perché in quel momento non avrei saputo dire nient’altro.
Lei non rispose e prima che potessi scorgere l’ombra di un rifiuto anche sul suo viso, oltre che su quelli di suo figlio e Jacob Black, rivolsi un veloce sorriso a Renesmee, e uscii.
«Tornerete, vero?».
Di nuovo quella voce squillante intrisa di speranza e imbarazzo. Mi voltai ancora e incontrai le iridi di cioccolato di Renesmee. Mi pregava di non sparire, di tornare da lei.
«Anche domani, anche domani va bene. Mi piacerebbe che mi raccontaste di più su Calgary», disse.
Sapeva di aver tirato fuori la prima scusa che le era capitata a tiro, esattamente come sapeva di aver tradito sua madre e suo fratello. Si sentiva in colpa, eppure non riusciva a non essere sicura della sua volontà.
Guardai Bella e poi EJ, seminascosto dietro Jacob, ascoltai le speranze di Renesmee.
Annuii. Sarei tornato, pur non essendo mai stato a Calgary.
 

 

 

Buongiorno! ^^
Allora, gente, come state? Io ho – alleluiaaa –  terminato il quadrimestre e sono libeeera (si fa per dire, ma non importa). Ovviamente, quando io posso finalmente uscire dopo mesi di segregazione forzata, decide di venir già il diluvio universale. Se questa non è sfiga  -.-“
Coomunque, che ve ne pare del tanto atteso incontro? Ce l’abbiamo fatta ahahah  I gemelli, Jacob e Bella ve li aspettavate così? Non dico nulla, voglio conoscere i vostri pensieri senza che siate influenzati da me ^^
Come sempre, grazie mille a tutti per i commenti e per la lettura del capitolo!
In questi giorni di tanto agognato riposo risponderò a tuuutte le vostre recensioni. **
Un bacione,
a domenica!
Vero
Ps. Già, a domenica. Ho terminato il capitolo settimo e quindi riuscirò a postarlo nel prossimo week-end. **

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Capitolo 8
*** Jar of Hearts ***


 
«I hear you’re asking all around
If I am anywhere to be found
But I have grown too strong
To ever fall back in your arms

And I learned to live, half-alive
And now you want me one more time

Who do you think you are?
Runnin’ round leaving scars
Collecting your jar of hearts
And tearing love apart
You’re gonna catch a cold
From the ice inside your soul
So don’t come back for me
Who do you think you are?

Dear, it took so long just to feel alright
Remember how to put back the light in my eyes
I wish I had missed the first time that we kissed
Cause you broke all your promises
And now you’re back
You don’t get to get me back».

Christina Perri – Jar of Hearts 

 

 

Jar of Hearts

«Perché l’hai detto?», chiesi, mentre Alice trafficava con il telefono. Guidavo costeggiando la campagna, secondo le istruzioni di mia sorella.
«Ecco, ci siamo: guarda là», disse.
Seguii la direzione del suo sguardo e potei vedere dal vivo il soggetto della sua ultima visione: una costruzione dai colori chiari si arrampicava su una delle tante colline attorno alla città. L’edificio, compatto e dalle dimensioni importanti,
doveva essere stato la villa di un qualche importante uomo del posto, un paio di secoli prima. Era in ottime condizioni, come se fosse stato appena ristrutturato. Per un momento l’idea che Alice avesse già progettato tutto mi balenò in testa.
Era una struttura piuttosto imponente, su due piani. Il tetto a due falde era sorretto sulla facciata frontale da due massicce colonne in stile ionico, lasciando sul pian terreno lo spazio per un porticato e per un lungo balcone sul piano superiore.
Diverse finestre – tutte chiuse, per il momento – si aprivano su due piani, e i muri esterni erano di un bianco incredibilmente pulito e luminoso. Ad Esme sarebbe piaciuta.
Percorsi un piccolo sentiero che, dalla strada di compagna, portava direttamente al cancello della villa. Lo costeggiai ed Alice non attese nemmeno che avessi spento il motore, per scendere.
«Non è stupenda? Piacerà a tutti, l’ho visto», canticchiò, entusiasta.
Mi chiusi lo sportello dietro e l’affiancai.
«Alice», sbuffai. «Dobbiamo parlare».
«Sì, sì», mi liquidò «dammi solo un paio di minuti: il proprietario mi deve richiamare tra quarantasette secondi e vedrai che nel giro di qualche ora la casa sarà legalmente nostra».
«Alice…», esclamai.
«Sei minuti, dai!».
Sparì oltre degli alberi, sul lato ovest della casa, infischiandosene altamente delle mie parole.
Scavalcai la recinzione e presi a studiare la casa, alla ricerca di un ingresso non sbarrato.
Dopo svariati tentativi inutili, capii che non ne avrei trovato nemmeno uno. Continuai a osservare il posto – il giardino, gli alberi secolari e la porta di una vecchia rimessa – impedendomi di riflettere.
Mi persi addirittura nell’analisi della particolarità della casa: si arrampicava su un’altura e, di sicuro, dal tetto di godeva di un’ottima visuale del circondario. Non avevo mai visto una casa coloniale non in piano.
«Eccomi, ho fatto».
Alice spuntò da dietro un angolo, soddisfatta per l’accordo appena concluso.
«Hai battuto i record mondiali di velocità di acquisto di immobile», mormorai.
«Beh, in realtà non ho ancora fatto il versamento. Però sì, dovrebbero inserirmi ne libro dei primati», rise.
«Sì, e vinceresti anche nella categoria “peggiori uscite nel momento sbaglio al momento sbagliato”. Te lo ripeto: perché l’hai detto?».
Ero nervoso e la sua gioiosa imperturbabilità mi irritava terribilmente.
Sbuffò. «Ne stai facendo un dramma. Ho semplicemente detto la verità».
«Non ce n’era bisogno, era sottintesa».
«Edward, non ho detto niente di scandaloso o di sbagliato. Ho semplicemente parlato di loro come figli di Bella e tuoi», rispose. «Perché lo sono, mi sembra piuttosto evidente».
«Hai visto cosa ha creato la tua uscita non scandalosa e non sbagliata?», la interruppi.
«Sarebbe successo lo stesso, fratello. Tuo figlio non può vederti e Bella… Beh, lei non era contenta».
«Di avermi lì, non era contenta di avermi lì».
«Sì, probabile».
Alzai di scatto la testa, ma Alice stava riflettendo. Proprio non si rendeva conto di quando avrebbe dovuto tenere le sue osservazioni per sé? Non c’era bisogno che mi aiutasse a sbattere la testa con la verità più volte di quanto non facessi da solo.
Incontrò il mio sguardo e lo sostenne, neutra.
«Non ho intenzione di mentirti, però non era solo questo. L’ho trovata piuttosto preoccupata. Per i suoi figli, suppongo».
Ci fu un momento di silenzio che forse avrei dovuto riempire, ma niente di ciò che avevo in mente si trasformò in parole.
«Sono una bella famiglia, vero?».
Alice sorrideva, intenerita dal ricordo di Bella che rideva delle battute di Renesmee ed EJ, e poi di Jacob che stringeva una spalla di EJ per rassicurarlo – o forse calmarlo – quando nessun altro guardava. Aggrottò le sopraciglia, pensierosa. Quel gesto le era sembrato molto paterno.
«No, Bella e Jacob non stanno insieme», risposi alla sua domanda muta. Ignorai le altre parole: non mi piaceva pensare più del dovuto a Bella come appartenente ad un insieme chiuso, di cui io non facevo parte. Né ero invitato ad entrare. «Perché pensi fosse preoccupata?».
«Suppongo sia preoccupata per la tua ricomparsa, o per quello che potrebbe causare nei figli. Sarebbe normale». Scrollò le spalle.
«Pensi che mi veda come un intralcio?».
Ci pensò su per un momento. «No», pronunciò lentamente «non come un intralcio. Più come una sorpresa inattesa e dai risvolti imprevedibili».
Aggrottai le sopraciglia. Aveva censurato la parte del “portatore di problematiche”. Tra quello e l’intralcio la differenza era sottile.
Volsi lo sguardo oltre la recinzione, verso la città.
“Ti stai comportando come un dodicenne insicuro”.
Mi voltai di scatto, lanciandole un’occhiata d’avvertimento. Non era vero.
“Sì, invece. E lo sai anche tu. Non pensi di aver qualcosa di più importante a cui pensare, oltre al possibile rifiuto di Bella?”.
Aggrottai le sopraciglia. «Bella è importante».
Alice scosse il capo, senza allontanare lo sguardo dal mio.
“Certo che lo è”, sillabò con il pensiero. “Ma non c’è solo Bella”.
Renesmee ed EJ. Certo che lo sapevo, ma non poteva pretendere che io riuscissi a non temere la reazione di Bella. Ero lì per lei, per riaverla con me.
«So che ci sono anche loro, e sto cercando di accettarlo».
Alice inarcò un sopraciglio e se possibile il suo sguardo si gelò.
«Non c’è proprio niente da accettare», sputò fuori l’ultima parola con ribrezzo. «Devi trovare un modo per rimediare ai tuoi errori».
Continuò a inchiodarmi con lo sguardo, senza parlare più.
“Ti stai comportando come un dodicenne insicuro ed egoista. Lo capisci, vero?».
Abbassai lo sguardo, improvvisamente consapevole della veridicità delle sue parole. Sapevo che non era corretto, ma non riuscivo a pensare a quei due ragazzi come qualcosa di vicino a me. Mi somigliavano, avevano parte del mio DNA, ma per il resto erano due estranei. E per il momento non ero in grado di trattarli come qualcosa di più.
Per questo decisi di spostare la conversazione su un altro livello, ben più impersonale.
«Hai visto che età dimostrano, avevamo ragione. Dovremmo… Penso che sarebbe il caso di parlarne. Insomma, non è normale che dopo sei anni ne dimostrino sedici».
Alice mi osservò per qualche frazione di secondo, poi scosse il capo e decise di assecondare il mio cambio di rotta.
«Concordo. Sono certa che Carlisle sarà incredibilmente interessato dalle loro particolarità». Aveva accuratamente evitato il termine “anomalie”.
Strinsi le labbra. «Quindi arriveranno anche gli altri?».
Alice inarcò di nuovo un sopraciglio. “Rivedrò Jasper tra trenta ore esatte”. Era sicura.
«Saranno piuttosto veloci», tergiversai.
Alice continuò a osservarmi, l’espressione torva solo leggermente calata. Si chiedeva perché non li volessi lì. Non era così. In realtà era sollevato all’idea della loro presenza: avevo bisogno del loro sostegno e, soprattutto, anelavo l’aiuto di Carlisle. Tuttavia, temevo il loro biasimo. Ero razionalmente consapevole che non avrebbero mai potuto disprezzarmi, ma non volevo scontrarmi con la loro delusione. Perché quello che avevo fatto, l’aver abbandonato una donna incinta dei miei figli, ero certo me l’avesse fatto guadagnare tutta.
«Meglio così», aggiunsi.
Poi mi voltai, e mi allontanai. Continuai a girovagare per la tenuta e i boschi vicini, fino a che non arrivò il vecchio proprietario con le chiavi e potemmo entrare nella villa.
 
 
Composi il numero e rimasi in attesa, ascoltando il lamento del telefono. Era sera ormai, ma ero certo che Carlisle non fosse ancora tornato dall’ospedale. Infatti, dopo sei squilli, la voce di Esme rispose dall’altro capo del telefono.
«Pronto, Alice?». Avevo usato il suo telefono per chiamare, dato che non ne avevo più uno mio da diversi anni.
«No, Esme, sono Edward», risposi.
Per pochi attimi, Esme rimase in silenzio. Poi sospirò e fui in grado di immaginare la sua espressione tenera e contrita, quando parlò.
«Edward, come stai?».
«Bene», risposi automaticamente. Avevo chiamato perché ne avevo bisogno, non solo per metterli a corrente delle novità. Mi concessi un po’ di verità. «Meglio, rispetto a prima».
«Meno male, caro. Sono sollevata».
Di nuovo silenzio. «L’avete trovata?».
«Sì».
Questa volta il silenzio durò più a lungo. Lei non parlava ed io non sapevo come fare. C’erano talmente tante cose da dire che non me ne venne in mente nemmeno una. Sapeva già che Bella era rimasta incinta di me, che era stata una gravidanza orribile, e ora che era viva. Avrei dovuto parlare di Renesmee ed EJ, avrei dovuto cominciare dal fatto che Bella era una vampira. Ma nemmeno io conoscevo le circostanze della trasformazione e, alla fine, tutto ciò che sapevo sui figli di Bella era che amavano i biscotti al cioccolato e alla cannella.
«Come sta?», domandò gentilmente.
«Bene».
Bloccato, ecco come mi sentivo. Proprio come le mille parole che volevo dire, ma che non trovavo.
«Edward», mi rimproverò: voleva che le dicessi di più.
«È una vampira».
«Cosa?», esclamò, sorpresa. «Come mai? Chi l’ha trasformata?».
«Non lo so, non ne abbiamo parlato», risposi semplicemente.
«L’hai incontrata?».
«Sì».
«Oh… tesoro. E com’è andata?», ecco di nuovo la dolcezza. Eppure, anche se non si mostrava arrabbiata, sapevo di averla delusa.
«C’era anche Alice, abbiamo conosciuto i suoi figli».
Ecco, bomba sganciata. Peccato che l’avessi sganciata su di me, dato che nemmeno tutto l’amore che Esme provava nei miei confronti mi avrebbe salvato dalla sua amarezza.
«E come sono? Stanno bene? Come ha fatto Bella ha crescerli da sola per così tanto tempo? Povera bambina...».
Evidentemente Esme aveva deciso che non mi sentissi abbastanza in colpa per conto mio e quindi di rigirare il coltello nella piaga. Bene, come se mi servisse altro oltre a gli occhi di Renesmee.
«Stanno bene, loro… Beh, non sono soli: Jacob Black, uno dei licantropi, è rimasto con lei per tutto questo tempo. Non so bene come siano andate le cose», tergiversai.
«Ne parleremo meglio quando verremo lì, va bene?», disse in un mormorio di rassicurazione.
Annuì, anche se non poteva vedermi. «Certo».
«Non vedo l’ora di conoscerli», sospirò e fui certo che sorridesse. «Ti somigliano, caro?».
«Sì».
La sentii sorridere ancora, mentre diceva che sarebbe andata ad avvertire Carlisle.
«Alice tra quante ore dice che-».
«Arriverete tra ventotto ore circa», risposi, prima che potesse terminare la domanda. «Ti mando un messaggio con tutte le informazioni sul posto».
«Va bene, allora a tra poco più di un giorno», disse. «Salutami tua sorella».
«Certo», risposi.
«A presto, caro».
«Ciao, Esme».
 
Alice gironzolava per la casa, canticchiando tra sé, senza una meta precisa. Sentivo i suoi passi cadenzati ai piani superiori: passava da una stanza all’altra e studiava ogni angolo e ogni parete, visualizzando gli  arredi che Esme avrebbe scelto. Di questo passo, la casa sarebbe stata ammobiliata nel giro di pochi giorni.
Distesi il collo all’indietro, fino a scontrarmi con il muro, e allungai le gambe sul pavimento.
Sentivo la testa incredibilmente leggera, svuotata di qualsiasi pensiero. Come un palloncino gonfiato a elio, mi perdevo nella moltitudine del nulla che sfociava nel tutto. Troppe preoccupazioni e questioni da affrontare si annullavano nello spazio indefinito.
Bella era una vampira, e non sapevo né come, né quando, né perché lo fosse diventata. Né avevo idea di chi l’avesse trasformata. E poi restavano i mille e più interrogativi sui gemelli: la crescita, le caratteristiche della loro razza, la loro unicità, i loro sentimenti. Avrebbero accettato l’arrivo della mia famiglia? Come avrebbero reagito alla mia presenza? Come avevano vissuto fino ad allora? Come mi sarei dovuto comportare con loro, con Bella? Mi avrebbe perdonato? Aveva davvero smesso di amarmi, come avevo sperato anni prima?
Il palloncino era repentinamente diventato una pesante zavorra che mi aveva scaraventato a terra. Impiegai qualche secondo a ricollegare del tutto il corpo e la mente. Al piano di sopra Alice si bloccò e un’immagine saettò tra i suoi pensieri. Un futuro si era rischiarato, distaccandosi dalla membrana oscurante: Bella stava venendo lì.
Non ebbi neppure bisogno di chiederle quanto tempo mancasse: era stata una decisione improvvisa ed entro pochi minuti si sarebbe avverata.
“Metti a nanna il dodicenne, ci siamo capiti?”, e con queste parole si eclissò, lontana dalla casa. Apprezzai il suo tentativo di lasciarci un minimo di privacy, ma sapevo che avrebbe visto tutto.
Per un momento mi preoccupai di non aver un posto in cui accoglierla: la casa era vuota e spoglia di qualsiasi arredo. Non avrei potuto invitarla a sedersi su un comodo divano, anche se lei non ne avevo più il bisogno.
Mi vergognai perché non avevo niente da offrirle.
Ma poi arrivò. La vidi attraverso il vetro di una delle finestre dell’ingresso – in cui mi ero precipitato – e seppi che anche lei mi aveva visto. Non attesi oltre ed aprii la porta. Era rigida, ad appena un metro dall’ingresso, in tensione.
«Bella, benvenuta», la salutai, facendomi da parte per permetterle di entrare.
«Edward», rispose, senza però muovere un passo. «Preferirei restare qui fuori, dobbiamo parlare».
Puntai i miei occhi nei suoi, ma lei non abbassò lo sguardo.
«Come desideri».
Socchiusi la porta alle mie spalle e le feci cenno di spostarci verso il giardino laterale della casa. Di nuovo, mi sentii in difetto: il giardino era spento e vuoto quanto l’interno.
«Così», iniziò con tono vago «questa è vostra?», chiese, alludendo con un’occhiata all’edificio.
Annuii. «Sì».
«Ed è una delle tante case che possedete da decenni o-».
Risposi prima che terminasse la frase: «L’abbiamo acquistata di recente», quindi tergiversai per un istante, «oggi».
In un primo momento sembrò quasi stupita, ma poi scosse il capo, lasciando ondeggiare i lunghi capelli. Sorrideva, ma non sembrava contenta.
«Oggi… Ma, in fondo, siete voi. Non ho motivo di stupirmi di niente».
Rimasi interdetto, senza sapere che senso dare a tale affermazione.
«Quindi resterete qui».
«Non sembra una domanda».
«Mi pare abbastanza ovvio, visto il modo in cui state agendo».
«Se per te non è un problema, resteremo qui», dissi. Scelsi poi di optare nuovamente per la verità, nella sua totalità. Anche se forse “scegliere” non è il verbo giusto, in quanto esprime una libertà decisionale che io, in quel momento, non possedevo. «Mi piacerebbe poterti stare vicino».
Strinse le labbra e lasciò immediatamente il mio sguardo.
L’avevo messa alle strette: forse avrei dovuto tenere per me i miei veri sentimenti. Ma mi riusciva difficile, se non impossibile, nasconderle qualcosa. Né tanto meno lo volevo. Che buffo, sei anni prima ero abituato a filtrare e censurare ogni parola per paura di terrorizzarla, e ora non riuscivo a non rigettare ogni pensiero – razionale o meno.
«Non era mia intenzione metterti a disagio, ti chi-».
«Edward», m’interruppe. «Qualsiasi cosa volessi dire, o fare… Non è questo l’importante. I miei figli vengono prima di tutto».
«Ne sono consapevole, ma-».
M’interruppe di nuovo. «No. Non lo sai, invece. Esattamente come io non ho idea di cosa tu voglia davvero. Ti sarei grata se me lo dicessi, ora».
Rimasi stupito. Era una Bella totalmente diversa da quella del pomeriggio: molto più combattiva e determinata. Molto diversa dalla Bella dei miei ricordi: la calma aveva ceduto il passo al nervosismo.
«Perché sei venuto a cercarci?».
«Te l’ho già spiegato: volevo ritrovarti». Di nuovo, quella mezza verità sembrava volermi logorare. «Mi sei mancata terribilmente in questi anni».
Puntò il suo sguardo nel mio, e temetti di poter affogare nelle sue iridi profonde.
«Pensavo di non essere la persona adatta a te, o sbaglio? Amarmi non ha mai avuto senso per te».
Ed eccolo, finalmente, quel rancore che aveva agognato a casa sua. Fu paradossale: mi sentii sollevato nel constatare la sua rabbia nei miei confronti. Almeno significava che provava ancora qualcosa nei miei confronti. Decisamente meglio dell’indifferenza del pomeriggio.
«Cosa? No! Non ricordi ciò che ti ho sempre detto?».
«Ricordo bene le tue parole». E se seppi che alludeva all’ultimo giorno insieme.
«Frottole! Ho mentito, Bella, perché temevo per la tua vita! Allora ho scelto di sacrificare anche me, così che tu potessi avere un’esistenza umana. Ma, giorno dopo giorno, la vita senza te era sempre più insopportabile: così ho iniziato a cercarti».
Avevo messo a nudo la mia anima, il mio cuore ma – lo vedevo – lei non mi credeva.
«Anche se questo fosse vero…».
«Lo è, lo giuro. Non potrei mai smettere di amarti».
Vidi l’oro dei suoi occhi indurirsi, fino a somigliare al topazio splendente e impenetrabile. Non era così che doveva andare. Non così velocemente, con così tanta rabbia. Non era quello il modo in cui avrei voluto dichiararle i miei sentimenti.
«Dopo tutto quello che c’era stato tra noi, dopo tutte le volte che avevo giurato di amarti… Ero certo che mi avresti scoperto subito, che avrei dovuto mentire per ore prima di riuscire a insinuare il dubbio in te».
«Avevi anche giurato che mi saresti sempre stato accanto».
«Solo finché fosse stata la cosa migliore per te».
Sorrise, ostile. «Sei sempre stato molto bravo con le parole».
Continuai a guardarla, senza trovare qualcosa per replicare. Forse iniziavo a rimpiangere l’indifferenza.
«Ah, a proposito: come stanno le tue distrazioni?».
Impiegai una manciata di secondi per capire cosa intendesse. «Non c’è mai stata alcuna distrazione, Isabella. Nessuna donna potrebbe mai prendere il tuo posto. Sono stati anni d’inferno, quelli senza di te».
«Già, posso immaginare. Anche se io non ho avuto molto tempo per soffrirci: sai com’è, avevo ben due distrazioni di una certa rilevanza».
Chinai il capo sotto il suo sguardo accusatore, consapevole di non aver alcun diritto di replicare. Avevo sbagliato tutto, ogni singola decisione presa era stata un enorme errore.
«Come hai potuto pensare di avere il diritto di scegliere anche per me? Valevo davvero così poco per te?».
«No, certo che no».
«Ti ho creduto subito, invece. Perché ho sempre avuto grande stima di te, perché mi sono sempre sentita inferiore e immeritevole di starti accanto. Ma soprattutto credevo che, nonostante non mi amassi come ti amavo io, mi fossi guadagnata almeno il tuo rispetto». Fece una pausa e rilassò le spalle, distogliendo lo sguardo dal mio. «Evidentemente mi sbagliavo. Mi hai usata, e poi te ne sei andato».
«Bella», non riuscii a parlare, mi si ruppe la voce. Senza nemmeno rendermene conto allungai un braccio verso di lei: era così vicina e in quel momento più che mai avevo bisogno di stringerla. Mi sarebbe bastato anche solo accarezzarle una guancia, anelavo un contatto. Tuttavia, quando incrociai il suo sguardo, lasciai ricadere il braccio lungo il fianco. «Bella, ho sbagliato. Ho sbagliato così tanto in così poco tempo… Per quanto io abbia agito pensando a te, non ho scusanti». Raddrizzai la schiena, non mi ero reso conto di essermi incurvato sotto il peso del suo sguardo. «Mi hai chiesto perché sono venuto qui, ecco perché: vorrei rimediare. Quando ho deciso di cercarti per supplicarti di riprendermi con te e tuo padre mi ha detto che ti credeva morta… Pensavo che sarei morto anch’io, di lì a poco».
«Hai parlato con mio padre?», mormorò. «Come sta?».
Avvertii un moto di calore mentre leggevo la preoccupazione sul suo volto. «Sta bene. Gli manchi, ma sta bene». Forse non avrei dovuto mascherare a tal punto la realtà, ma ero abbastanza certo che rivelarle il dolore che già da sé immaginava provasse Charlie, l’avrebbe fatta sentire in colpa per qualcosa che non aveva commesso.
Annuì, mentre sulla sua fronte si formavano tante piccole increspature. «Perché sei andato da lui? Hai appena detto che mi volevi lasciare vivere una vita umana, in pace. Perché sei tornato?».
«Perché sono un essere fondamentalmente egoista, e temo di avertelo dimostrato fin troppe volte. Non riuscivo più a vivere… No, a sopravvivere – dato che avevo smesso di vivere dal momento esatto in cui ti ho lasciata – senza di te. Quando sono arrivato allo stremo, ho deciso che avrei tentato. Sapevo che probabilmente ti eri rifatta una vita, ma… Non potevo non tentare. Mi sarei accontentato di qualsiasi cosa, anche solo di poterti vedere, ogni tanto».
Alzò di scatto il capo, fissandomi. «Io ho una nuova vita».
Annuii. «Lo so, e non c’è niente al mondo che desideri più che farne parte».
Inarcò un sopraciglio. «Farne parte? In quale ruolo?».
«Nei ruoli che tu… Che voi, vorrete darmi».
Le increspature sulla sua fronte si fecero più profonde. «Non è così facile. Non puoi arrivare da un momento all’altro e sconvolgere così la loro vita».
«Me ne rendo conto, e lo capisco. Ma se me ne voleste dare l’opportunità, vorrei tentare».
«Non riguarda ciò che vuoi tu, ma ciò che vogliono EJ e Renesmee. Te l’ho già detto, i miei figli vengono prima di tutto», sentenziò.
«Se loro lo vorranno e me ne daranno l’opportunità, io», mi bloccai, incapace di trovare una conclusione. Cosa sarei riuscito a fare? A essere loro amico? Un fratello, un padre? «Entrerò nelle loro vite».
«Non si diventa genitore così facilmente».
«Sarò qualsiasi cosa loro vogliano che io sia».
Per un lungo istante restammo in silenzio, occhi negli occhi. Poi lei distolse lo sguardo.
«È tardi, i bambini dormono. Non posso lasciarli ancora soli».
Fece un passo indietro, e poi un altro. Si voltò, ma prima che potesse indietreggiare ancora, la raggiunsi e le presi una mano. Stavo rischiando il tutto per tutto, temevo la sua reazione, ma non potei impedirmi di compiere quei gesti. Alzò di scatto il capo e potei vedere le sue pupille allargarsi per l’improvvisa vicinanza tra i nostri corpi. «E tu, nonostante tutto, vuoi che entri di nuovo nella tua vita?», soffiai. Il suo odore mi stordiva.
Per un istante eterno, restammo così, occhi negli occhi, mentre le mie parole si perdevano nella frescura della sera.
Poi allontanò la sua mano dalla mia, mettendo distanza tra i nostri corpi e i nostri sguardi.
«Non sono sicura di ricordare perché prima avessi così tanto bisogno di te», mormorò, i capelli le coprivano il volto.
Mi lasciò così, bloccato sul posto dalle sue parole.
Prima che potesse allontanarsi troppo, dissi le prime parole che mi passarono per la testa. Inconsciamente speravo di trovare qualcosa a cui aggrapparmi per trattenerla a me.
«Bella», la chiamai, «la mia famiglia sta arrivando».
Si fermò per un istante, già lontana diversi metri, e volse leggermente il capo, senza però permettermi l’accesso ai suoi occhi.
«Non correre troppo, per favore. Cadendo tu probabilmente non ti faresti male, ma i miei figli non sono immortali».

 

 

 

Sono in ritardo, mi spiace çç
Ho passato il weekend a studiare, ogni minuto, e non ho avuto tempo di postare il capitolo, né di chiedere a Joan di betare.
Ma ora sono qui e, dato che il capitolo è anche un po’ più lunghetto del solito, mi perdonate? ** Non sono riuscita nemmeno a rispondere alle recensioni (la settimana di relax era uno scherzo, in realtà hanno ricominciato subito ad ammazzarci).
Bene, passiamo al capitolo: siamo arrivati non solo all’incontro, ma anche ad un primo momento tutto per Edward e Bella. Cosa ne dite? Com’è evidente, Bella è davvero diventata una donna, un’adulta consapevole delle sue responsabilità e capace di mettere davanti a sé la sua famiglia. E Edward? Non prendetevela troppo con lui, mi raccomando, perché hanno seguito due processi di crescita – o di non crescita – differenti e ora si scontrano con due realtà ben diverse dalla loro ultima realtà condivisa, vecchia di anni.
Eee stanno arrivando i Cullen, già. Chissà come interagiranno con EJ e Nessie, e come loro reagiranno alla loro presenza. Per non parlare di tutte le questioni aperte riguardanti la vita e la natura dei gemelli e di Bella.
Tutto questo nei prossimi capitoli. ^^ Quando arriveranno? Non ne ho idea.
So che quest’ultima frase non è particolarmente incoraggiante ahahah Ho terminato i capitoli pronti e ora devo scrivere i nuovi e, essendo nel bel mezzo dell’anno scolastico, non so dire ogni quanto sarò in grado di aggiornare. Forse ogni due settimane, forse una volta al mese, forse più spesso. Per questo vi chiedo di non darmi per dispersa – o di abbandonare la storia –  troppo velocemente.
Lentamente risponderò anche a tutte le recensioni arretrate ^^
Grazie a Joan per avermi sostenuta anche in questo parto plurigemellare che io continuo a trovare orribile uwu
Grazie mille a tutti coloro che leggono e, soprattutto, a voi che commentate! **
A presto!
Vero

Ps. Come già annunciato, l’intera storia sarà narrata dal punto di vista di Edward, quindi l’unico pov Bella che mi sento di darvi sono delle canzoni. Alcune di queste hanno ispirato la storia in sé, quindi vi consiglio di ascoltarle – anche perché sono molto belle. Rappresentano alla perfezione le sensazioni e i pensieri di Bella che, altrimenti, vi sarebbero preclusi. Quella di oggi è, come avrete capito, Jar of Hearts, di Christina Perri.

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