Cronache del Sunflower

di Harriet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Fare amicizia col Drago ***
Capitolo 2: *** II - Figure in un sogno ***
Capitolo 3: *** III - Lo Sciocco Passato e Futuro ***
Capitolo 4: *** IV - Estate di rinascita ***
Capitolo 5: *** V - La signora di nebbia ***
Capitolo 6: *** VI - Crocevia del tempo ***
Capitolo 7: *** VII - Il ragazzo con due cuori ***
Capitolo 8: *** VIII - Tre sfide ***
Capitolo 9: *** IX - La musica del Drago ***
Capitolo 10: *** X - Dama e cavaliere ***
Capitolo 11: *** XI - Una promessa per cui vivere ***
Capitolo 12: *** XII - La notte del Cacciatore di Storie ***
Capitolo 13: *** XIII - Tutti i regali della città ***
Capitolo 14: *** XIV - L'altra via ***
Capitolo 15: *** XV - Infestatori ***
Capitolo 16: *** XVI - Stanca delle ombre ***
Capitolo 17: *** XVII - Ricordami ***
Capitolo 18: *** XVIII - Il bambino rapito dalle fate ***
Capitolo 19: *** XIX - La casa dei lupi ***
Capitolo 20: *** XX - Cerca meraviglie ***
Capitolo 21: *** XXI - Come siamo arrivati fino a qui ***
Capitolo 22: *** XXII - Vieni, entra ***
Capitolo 23: *** XXIII - Inverno segreto ***
Capitolo 24: *** XXIV - Il Raduno ***
Capitolo 25: *** XXV - La figlia del re ***
Capitolo 26: *** XXVI - Storie che devono essere ascoltate ***
Capitolo 27: *** XXVII - Il Cavaliere Verde ***
Capitolo 28: *** XXVIII - Il lato sbagliato della realtà ***
Capitolo 29: *** XXIX - La Battaglia del Sunflower ***
Capitolo 30: *** XXX - L'universo tra le mani ***



Capitolo 1
*** I - Fare amicizia col Drago ***


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Cronache del Sunflower diHarriet (Francesca Cappelli) è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
 

Capitoli: 30. La storia è completa e sarà aggiornata settimanalmente.

Avvertimenti: C'è una leggera presenza di temi delicati (problematiche religiose, depressione, suicidio, violenza sessuale)

Note:
1.
Questa storia è una canzone d'amore alla letteratura britannica, alla lingua inglese, ai teatri e a un posto che ho immaginato per parecchio tempo, prima di andarci e innamorarmene per com'è davvero. Se c'è un posto che “va di moda”, è Londra. Non vorrei andarci a vivere e non credo sia il paradiso in terra. Ma le sue storie e i suoi personaggi mi hanno tenuto compagnia per così tanto tempo (e continuano a farlo) che avevo voglia di dedicarle un po' di parole.

2. La lingua inglese non fa distinzione tra lei e tu. Ho scelto di usarla comunque, per rendere l'idea della progressiva trasformazione del modo di rivolgersi del protagonista agli altri personaggi: da un modo di parlare formale e un po' distante alla più totale confidenza.

3. Questa storia è stata pubblicata online da gennaio 2009 a gennaio 2013 (completa sul mio livejournal, mentre su EFP erano presenti alcuni capitoli autoconclusivi.) Questa è la "versione definitiva", che beneficia di tutti i lettori che in questi cinque anni l'hanno accompagnata e aiutata a migliorare.

4. Grazie di essere qui. Buon viaggio.


 

CRONACHE DEL SUNFLOWER

 

 

Of all cities London seems the most occupied by its dead, and the one which most resounds to the tread of passing generations.

In London the past is a form of occluded but fruitful memory, in which the presence of the earlier generations is felt rather than seen. It is an echoic city, filled with shadows.

 

(Peter Acroyd – London. The biography)

 

 

Remember your name.

Do not lose hope — what you seek will be found.

Trust ghosts. Trust those that you have helped

to help you in their turn.

Trust dreams.

Trust your heart, and trust your story.

When you come back, return the way you came.

Favors will be returned, debts will be repaid.

Do not forget your manners.

Do not look back.

 

(Neil Gaiman, Instructions)

 

 

*

 

 

 

 

 

Prologo

 

Liberazione

 

Il sole è appena sparito e l'altra anima della città si stira sotto le prime carezze della sera e apre gli occhi. È una ventosa serata di marzo e niente sembra preannunciare i grandi cambiamenti che di lì a poco seguiranno. Come accade sempre quando qualche novità galleggia nell'aria, del resto.

Pian piano, al vento portatore di umidità si aggiunge un'altra corrente, una di quelle che compaiono raramente, ma lasciano il segno. È quel messaggero di novità che serpeggia tra le case, e per le vie, passa accanto ai luoghi visibili e raggiunge quelli più nascosti e segreti (soprattutto quelli più nascosti e segreti), e mentre va, racconta di grandi cose a venire.

Quali grandi cose?

Chissà. Cose che, probabilmente, se venissero raccontate da una voce umana non sembrerebbero tanto grandi.

Ma il messaggio non è per orecchie umane. I pochi umani che ascoltano, non è detto che capiscano. I pochi che capiscono, non è detto che gioiscano.

I pochissimi che ascoltano, capiscono e gioiscono, conservano dentro sé quella sensazione di novità imminente e si dispongono a un'attesa colma di speranze, fragili e ostinate come tutte le speranze migliori.

Il messaggio, però, non è per orecchie umane. Il messaggio è per le ombre.

Quali ombre?

Tutte quelle che abitano le vie infinite dell'altra anima della città. Le ombre dietro le finestre del tempo, oltre le soglie perdute, serrate da sigilli invisibili negli angoli di luoghi irraggiungibili.

Per le ombre il messaggio è chiarissimo. È un canto tessuto di note discordanti e mille rumori, e ripete incessantemente poche parole.

Novità.

Promessa.

Liberazione.

 

*

 

PRIMA PARTE

Il Drago che dorme in città

 

 

Capitolo I

Fare amicizia con il drago

 

 

Touch the wooden gate in the wall you never

saw before.

Say "please" before you open the latch,

go through,

walk down the path.

 

(Neil Gaiman, Instructions)

 

I

 

Londra, 7 marzo 2008

 

Una volta c'era una finestra, da qualche parte, e dietro i vetri c'era una giornata stranamente primaverile e soleggiata, piacevole da vedere. Una volta, prima che arrivassero le scatole e i libri e le pile di oggetti dallo scopo non molto chiaro, a conquistare la stanza. Una marea di polvere e sconforto ricopriva tutte le cose presenti nello spazio affollato – compreso colui il cui compito era quello di ricreare l'ordine dal caos.

Lo studio del signor Bennett era un immenso brodo primordiale di follia, e ogni decisione, ogni spostamento di qualcosa finiva sempre per peggiorare la situazione. Per esempio: aveva pensato che togliere quei libri dalla sedia e metterli insieme agli altri libri sulla poltrona fosse una cosa sensata, ma adesso la pila sulla poltrona era instabile e minacciava un crollo imminente, mentre la sedia era stata prontamente occupata da un fascio di fogli cosparsi di cifre e segni matematici, e quindi era comunque inservibile.

Sospirò, mentre cercava di far stare in un codino i suoi capelli neri e la loro tendenza a imporsi sulla sua volontà. Si sentiva sporco, stanco e anche un po' preso in giro da quel posto. Pensò seriamente che più che di un custode, in quella casa ci fosse bisogno di un incendio.

Mentre rifletteva sull'utilizzo di sistemi meno drastici per risolvere il problema, sentì le chiavi nella serratura e il portone della casa che veniva aperto: una ventata fredda entrò insieme a due voci, una esaltata e una fin troppo quieta.

- Sul serio, Joel, devi ascoltarmi! È l'ultima possibilità che hai di tenere in piedi quel fallimento epico che è il tuo teatro.

- Sentiamo.

- Ho conosciuto una donna.

- Che novità.

- Risparmiami l'ironia. È la soluzione ideale, per te. Abigail si occupa di organizzare eventi di spettacolo, principalmente qui a Londra, ma in realtà ha degli addentellati anche altrove, e conosce un sacco di gente. Le ho parlato di te, e...

- Le hai parlato di me, James? Hai sprecato parte del tuo prezioso tempo insieme a una signora per parlarle di me e del mio teatro? Però. Mi sento onorato.

Finalmente le due voci si concretizzarono in due figure sulla soglia dello studio: un uomo alto, con i capelli chiari e l'atteggiamento rilassato, e un tipo basso, dagli occhi scuri e vivaci. Il primo raggiunse la scrivania e si affacciò oltre il caos che vi era ammassato sopra.

- Buongiorno, Amir. Come va il lavoro di ricognizione?

- Buongiorno, signor Bennett. Ci sono molte cose da fare, e alcune stanze in cui non ho ancora messo piede.

- Non preoccuparti. C'è tempo. Lascia che ti presenti James Bowden. Un vecchio amico.

L'altro rispose con un sorriso fin troppo gioviale sulle labbra. Aveva la stessa l'aria esaltata che la sua voce suggeriva.

- Salve, signor Bowden.

- Oh, Joel, è il famoso cameriere indonesiano, lui?

- In realtà è il custode della casa pakistano. Si chiama Amir.

- E con l'inglese se la cava?

- Meglio di te. Ed è un ottimo custode. È qui da pochi giorni e la casa ha già un altro aspetto.

- Io questa non l'ho mai capita, Joel. Hai una casa splendida e non ci abiti, passando la vita in un appartamento ai limiti della decenza!

- È più vicino all'università. Sto frequentando dei corsi, lo sai. E questa casa è troppo grande per me. Solo che è un peccato lasciare che diventi preda della polvere e dell'umidità.

- E quanto conti di tenere qui il ragazzo?

- Il tempo di riorganizzare la casa.

- E dopo potrai abbandonare di nuovo questo posto, fino al prossimo custode?

- Dopo mi laureerò e magari tornerò a vivere qui.

- Oh, certo. La tua terza laurea. Molto utile.

- Quarta. Non vuoi un caffè?

- Ce lo fa lui, il caffè? Non è che ci rifila qualche strana bevanda araba?

Amir sollevò la testa, piuttosto irritato dalla velocità con cui il signor Bowden parlava, velocità che evidentemente spiegava la sua totale assenza attenzione a ciò che gli usciva dalla bocca.

- Pakistana, semmai.- Rispose il signor Bennett. - No, il caffè te lo faccio io. Non è mica il mio cameriere!

- Non preoccupatevi, ci penso io!- Si affrettò a rispondere Amir, un po' per gentilezza, un po' per timore di rimanere da solo con lo sgradevole signor Bowden.

- D'accordo, grazie. Noi andiamo in salotto. L'altro salotto, intendo. Quello che hai già rimesso.

Si eclissarono, parlando ancora del teatro del signor Bennett. Frammenti della conversazione arrivavano ad Amir, mentre prendeva possesso della cucina. Il signor Bowden blaterava a caso e il signor Bennett discorreva con quella strana maniera che aveva lui di rivolgersi ai suoi amici, senza mai veramente arrivare al punto.

Lo conosco da meno di un mese e mi permetto già di giudicarlo, si rimproverò, anche se una parte di lui era piuttosto sicura di averci visto giusto. Il suo datore di lavoro era un elemento interessante della sua attuale situazione. Mi affida una villa enorme e completamente inservibile perché gliela rimetta in sesto, e probabilmente non ci verrà nemmeno ad abitare.

La voce di sua sorella si palesò tra i suoi pensieri: e allora? Ti paga bene! Potrai mantenerti egregiamente mentre fai l'università! Non è quello che volevi?

Lo sbuffo della caffettiera cancellò pensieri e voci.

- E così tu saresti il portinaio del vecchio maniero dei Bennett, eh?- Gli domandò il signor Bowden, quando Amir arrivò, portando il caffè. - Da quanto sei in Inghilterra? Non hai l'accento che hanno gli africani.

- Forse perché non è africano.- Rispose il signor Bennett, nascondendo un sorriso nella tazza di caffè.

- Sono qui da due anni, ma ho studiato inglese quando ero in Pakistan.

- Come sei finito nelle grinfie del vecchio Joel?

- Ci siamo conosciuti qualche tempo fa in un pub dove Amir lavorava part-time.- Spiegò il signor Bennett. - Un posto francamente atroce a Ilford.

- Un pub? Joel, sei davvero entrato di tua spontanea volontà in un pub?

- In realtà, no. È una storia lunga.

Il signor Bowden spostò lo sguardo dal suo vecchio amico ad Amir e lo squadrò per qualche momento. In quel momento Amir stabilì che, a dispetto dei suoi buoni propositi di civiltà e diplomazia, odiava di cuore il signor Bowden.

- E dimmi un po', ragazzo, ti sei accorto che lavori per un simpatico idiota, che invece di mettere a frutto la valanga di soldi ereditata da suo padre, ha deciso di buttarla via per tenere in vita quel teatro fatiscente?

- Io credo che...- No, non era saggio né educato partire con uno dei suoi comizi leggendari sull'importanza dell'arte e della cultura. Non lo era. Non con uno sconosciuto. - Io credo che il signor Bennett stia facendo qualcosa di ammirevole. Tiene molto a quel teatro. È facile usare i propri soldi per qualcosa che porta altro guadagno. È molto più difficile impiegarli per uno scopo meno utilitaristico ma più nobile.

Il signor Bowden soffocò una risata e si rivolse al signor Bennett, indicando Amir come se fosse stato qualcosa di molto buffo.

- Ma dove l'hai trovato? L'hai tirato fuori da qualche poema arturiano?

- Non tutte le persone sono tristemente materialiste come te, James.- Rispose il signor Bennett, mantenendo il suo sorriso quieto. - Personalmente, trovo l'idealismo di Amir piuttosto interessante.

- Beh, allora mi arrendo. Comunque, se vuoi salvare quel relitto di teatro, devi contattare Abigail. Mi ha detto che ti saprà suggerire qualche spettacolo, qualche compagnia che funziona e richiama pubblico. Ho il suo numero. Ti prego, chiamala. Guarda che lo sto dicendo per te!

- Vedremo. Ora finiamo la colazione senza pensare a questioni di lavoro.

- Quando mai pensi a questioni di lavoro, Joel?

- Più spesso di quanto tu non creda.

- Tu non lavori. Spendi la tua eredità per prendere lauree e fai finta di occuparti della gestione di un teatro che non ha motivo di esistere.- Il signor Bennett alzò le spalle e finì il suo caffè. - E tutto quel che tenti di farci va in fallimento dopo due giorni.

- Io sono uno scienziato. Non rientra nelle mie mansioni, capire qualcosa di teatro.

- Forse è per questo che il tuo teatro va di merda.

- Forse.

Il sorriso tranquillo del signor Bennett chiuse la faccenda. Poco dopo il signor Bowden finalmente si congedò.

- Grazie per aver sopportato con me la compagnia di James.- Il signor Bennett raggiunse di nuovo Amir, dopo aver accompagnato l'ospite alla porta, e tornò a sedersi. - È indelicato, rozzo e convinto di avere tutte le risposte del mondo.

- Non si preoccupi.

- Ma lo conosco da tanto. Lo so, forse penserai che è sciocco mantenere un rapporto traballante in nome dei vecchi tempi.

- Non lo penso assolutamente! Se si tratta di avere a cuore qualcosa o qualcuno, non posso che approvare. Che si tratti di amici o di teatri.

- Già.- Il signor Bennett tacque e prese a giocherellare con la tazza vuota. Aveva assunto un'espressione che Amir non gli aveva mai visto. Seria, venata di una malinconia quasi dolorosa.

- Ti sei mai chiesto perché mi ostino a volerlo tenere in vita?

- Beh, sì.

- E perché non me l'hai mai chiesto?

- Perché non erano affari miei.

- Io comunque te l'avrei detto.

Quest'uomo è peggio di un puzzle da un miliardo di pezzi tutti dello stesso colore, pensò Amir, chiedendosi se sarebbe riuscito a conoscerlo almeno un po', nei mesi successivi, o se avrebbe terminato il suo lavoro senza aver assolutamente capito nulla di quel fantasma gentile e distaccato.

- Vedi, il Sunflower mi è stato lasciato da una persona a cui devo molto.

Qualche momento di silenzio bastò a far riflettere Amir sul fatto che il signor Bennett gli aveva presentato alcuni amici, ma non aveva mai parlato con affetto di nessuno di loro. In quel momento, invece, era molto diverso.

- Quest'uomo, Arthur Headley, l'ho conosciuto perché tenne un seminario all'università, quando studiavo chimica.- Riprese il signor Bennett, senza concedere ad Amir di incrociare il suo sguardo. - Ci fece una serie di splendide lezioni sull'Umanesimo e il Rinascimento. Lui era come quei personaggi dell'Europa tra il XV e il XVI secolo di cui parlava. Letterato, scienziato, alchimista. Anche un po' mago, diceva. Finito il seminario restammo in contatto e lui si propose di aiutarmi con un esame complesso. Andavo a casa sua per studiare e restavo interi pomeriggi, e poi cenavo con la sua famiglia. Lui mi chiamava Benedict. All'inizio pensavo che si confondesse con il mio cognome. Non capivo. Ma poi mi spiegò che era il nome di un figlio morto pochi anni prima. Così mi lasciai ribattezzare. Tra tutte le sue mille arti e attività, Arthur trovava anche il tempo di gestire il Sunflower. Non ospitava molti spettacoli, ma sapeva sceglierli bene. Amava quel posto come se fosse stato un membro della famiglia anche lui.

- E lo ha lasciato a lei.

- Già. Quando è morto, nel 2001, sua figlia ha ereditato la sua biblioteca e io il teatro. Per questo non voglio disfarmene, nonostante mi porti via soldi e non riesca a gestirlo. Perché è appartenuto a qualcuno che mi era caro. La trovi una cosa stupida?

- No. È giusto.

- E per te questa è la parola definitiva, eh?

- Cosa intende dire?

- Hai notato quante volte usi il concetto di “giusto”, Amir? È la tua categoria per inquadrare il mondo.

Amir rimase in silenzio, un po' perplesso. Non aveva capito se c'era derisione o semplice curiosità, nelle parole dell'altro. Ma poi il signor Bennett gli fece un sorriso gentile, nel quale Amir non trovò traccia di disprezzo, e si rasserenò.

- Sono certo che anche altri le direbbero che sta facendo qualcosa di giusto.

- Chissà. Quando morirò di fame, forse potremo dire che invece era sbagliato.

- Non credo che morirà di fame.

- Perché ne sei così certo?

- Dovrebbe essere veramente bravo, per consumare tutta quanta la sua eredità.

Dopo essersi lasciato sfuggire quella battuta, Amir trattenne il respiro per qualche istante. Si rilassò quando l'altro fece una risata che durò abbastanza per dargli la conferma che quella piccola impertinenza non era dispiaciuta al signor Bennett.

- Grazie, Amir, mi sento rassicurato. Ora torniamo entrambi al nostro lavoro.

- Sì, io torno al mio.

- Mi stavi di nuovo prendendo in giro?

- Non mi permetterei mai.

Il signor Bennett rise di nuovo e Amir si ripromise di controllare meglio la sua tendenza a lasciarsi sfuggire commenti del genere. Tu sei tanto gentile, ma ogni tanto dici delle cose tremende senza nemmeno rendertene conto. Di nuovo la voce di sua sorella. Sì, forse era il caso di starci attento. Il signor Bennett era affabile, ma ciò non significava potersi prendere certe confidenze con lui. Era comunque un suo superiore. Non erano amici.

 

La cosa stupefacente di quella casa era la capacità di ogni stanza di inglobare interi mondi, trasformandosi in un guazzabuglio pazzesco, indipendentemente dallo scopo con cui era stata concepita in origine. Persino alcuni dei bagni erano diventati ammassi di cianfrusaglie più o meno funzionanti. Dei due salotti, solo uno era utilizzabile (quello più piccolo, dove il signor Bennett aveva ricevuto il suo amico.) La cucina era piuttosto sgombra di oggetti, ma la sala da pranzo era invivibile. Per non parlare della maggioranza delle camere da letto. Quindici stanze su tre piani. Un universo a parte.

Lo studio del signor Bennett era un capitolo speciale, ovviamente. Amir era partito da quello, pensando che fosse saggio cominciare dalla cosa peggiore. Peccato che avesse fatto male i suoi calcoli. Non esisteva una cosa peggiore: al peggio davvero non poteva esserci limite, e il peggio era stipato negli armadi, piazzato sugli scaffali più alti con forme di equilibrismo sorprendenti, infilato in ogni minimo spazio abbastanza vuoto. Il peggio era ovunque. E Amir si sentiva arreso, contro un simile nemico.

- Vorrei sapere com'è arrivato a questo punto.- Borbottò il ragazzo tra sé, arrancando tra le scatole ammucchiate in uno dei bagni.

- Potrei sapere cos'hai detto?

Amir si voltò di scatto, con un'esclamazione di sorpresa. Dietro di lui, il signor Bennett fece la sua risata cortese.

- Non volevo spaventarti. Cosa stavi mugugnando, prima, nella tua lingua madre?

- Oh. Mi scusi.

- Non sei obbligato a pensare in inglese, non preoccuparti.

- Mi chiedevo come ha fatto la casa a ridursi così.

- Me lo chiedo anch'io. Il tempo, la poca pazienza... Non lo so. È dal 2001 che non ci vivo. Chissà, magari le cose si sono animate e hanno fatto tutto questo caos da sole. La maggior parte delle stranezze che trovi in giro apparteneva ad Arthur. E questa non è una cosa da sottovalutare.

Amir si guardò attorno con un po' più di simpatia per quella rovinosa distesa di ogni cosa.

- Quei tappeti, lassù, erano del signor Arthur?

- Sì. Portati da uno dei suoi innumerevoli viaggi in giro per il mondo. Arthur ha vissuto qui, negli ultimi anni della sua vita, quindi la casa era diventata più sua che mia.

- Quella specie di... Uh... Collezione di clessidre?

- Non ricordo come mai sia qui, ma sono certo fosse sua.

- L'orologio a pendolo?

- No, quello era di mio zio. Se vuoi ti autorizzo a bruciarlo. Ce ne sono almeno altri quattro solo al primo piano, di orologi a pendolo. E non sono sicuro riguardo al secondo.

Amir rise, più che altro per arginare la nuova ondata di disperazione che lo stava assalendo.

- Signor Bennett, quanto pensa che io debba stare qui?

- Quanto ci vorrà per terminare il lavoro. Non preoccuparti.

- Ma non... Non è un problema per lei che un estraneo frughi tra la sua roba?

- Questo posto ha bisogno di ordine. Quindi non è un problema.

L'uomo si allontanò mormorando qualcosa tra sé, e Amir rimase da solo con la stanza piena di roba e la testa piena di pensieri. Incerto su quale dei due luoghi fosse più complesso da riordinare.

Stava esplorando il bagno-ripostiglio già da mezz'ora, quando si imbatté in un cesto di vimini, alto e stretto, incastrato sotto quello che un tempo era stato il lavandino. Quando riuscì ad aprirlo ci trovò quelli che sembravano costumi teatrali. Ne pescò qualcuno, più che altro per curiosità. Un mantello ricamato. Una corona con uno spesso velo nero. Una cotta di maglia. Cercò ancora, e quel che trovò fu qualcosa di solido, una forma complessa che non riusciva a decifrare. Quando l'oggetto venne alla luce si rivelò essere una lanterna di ferro battuto lavorato. La struttura rassomigliava ai rami di un arbusto, con foglie e gemme, e i vetri erano azzurro chiaro. Affascinato, il ragazzo la sollevò davanti al viso, sfiorandone i contorni delicati.

Lo sportello del lume si aprì all'improvviso.

La finestra si spalancò, come per un riscontro delle correnti d'aria, e un alito di vento, così vicino da sembrare il tocco di una mano, passò sul viso di Amir. Il ragazzo rimase immobile, a fissare lo stoppino bruciato della lanterna.

Sembrava assurdo, ma era certo che fosse appena accaduto qualcosa. Di importante, probabilmente.

Agitato senza motivo, si diresse in cucina, alla ricerca di un caffè e di un po' di riposo.

In cucina c'era il signor Bennett, che si alternava tra un microscopio e una brochure che illustrava le abilità di Abigail Corrigan, organizzatrice di eventi. Quando alzò la testa, vide la lanterna e parve scosso.

- L'hai ritrovata.

Amir realizzò solo in quel momento di averla portata con sé. La guardò con sospetto, senza capire come mai l'oggetto lo colpisse così.

- Ha un significato particolare?

- Arthur la teneva appesa fuori dalla porta. L'ho tolta quando è morto. Era significativa per lui.

- Devo rimetterla dove l'ho trovata?

- Mettila dove preferisci. Basta che non si rompa.

Il signor Bennett tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo prima, per qualche secondo. Poi sollevò di nuovo la testa verso Amir e lo fissò, come lo stesse studiando.

- Dovrei provare a chiamare questa organizzatrice amica di James, secondo te?

- Potrebbe essere una buona idea.

Una brezza comparsa dal nulla agitò le tende della finestra socchiusa e le pagine degli appunti del signor Bennett abbandonate sul tavolo. La brochure di Abigail Corrigan scivolò sul pavimento.

- Potresti occupartene tu, Amir. Uno studente di letteratura è meglio di uno scienziato, alle prese con faccende teatrali.

- Ma io non so se...

- Te la caverai.

 

Posò la lanterna su uno degli scaffali del bagno quasi riordinato. La squadrò con occhio critico e non gli piacque affatto. La tolse da lì e la portò in giro per tutto il piano, incerto sul luogo a cui destinarla.

Finì per portarsela in camera. Ce l'avrebbe tenuta finché non le avesse trovato il posto giusto. Sua madre riponeva in camera propria, vicino al letto, tutto ciò che considerava di valore, per proteggerlo. Quell'oggetto meritava un'attenzione speciale. Anche se probabilmente il suo segreto era ormai andato perduto insieme al signor Arthur Headley.

 

 

II

 

- Secondo te, perché la gente paga i soldi del biglietto?

- Perché c'è qualcosa che desidera vedere?

- Sbagliato. Perché vuole vedere qualcosa. Quale sia il loro desiderio, poi, sei tu che lo decidi. Tutto sta nella tua abilità di guidare il loro bisogno, di indirizzarli a te facendo credere loro che ciò per cui stanno pagando è esattamente ciò che desiderano vedere. Uno dei principi base della pubblicità, ovviamente, ma nel caso del teatro, più che mai è importante andare a giocare sulle necessità di quelli che vuoi costringere a venire a vedere ciò che proponi.

Amir rimase muto di fronte a tanto eloquio. Un po' perché era sicuro di aver perso qualche parola lungo la strada (con tutto l'amore che nutriva per l'inglese, restava comunque la sua terza lingua dopo sindhi e arabo.) Un po' perché il senso di quel discorso gli suonava decisamente sbagliato. Perché lui quantificava tutto in termini di giusto e sbagliato, avrebbe detto il signor Bennett.

Bene, se era così, allora era certo che quel che la signorina Abigail Corrigan stava blaterando fosse profondamente sbagliato. E forse poteva funzionare per un grande teatro o per una qualsiasi altra forma di intrattenimento, ma il Sunflower era una cosa piccolissima, sfortunata persino in una città che traboccava di teatri e gente che li riempiva.

- Ho contattato per te alcune compagnie. Ti ho fatto una lista di otto nomi. Se sarai capace, riuscirai a preparare una buona stagione teatrale, a partire da settembre prossimo.

- Grazie.

- Tu ringrazi troppo. E parli troppo poco. Sei eccessivamente ingenuo e gentile per gestire qualsiasi cosa. Trova un modo di interagire più sicuro e le opportunità si moltiplicheranno. Togliti dalla testa che gestire un teatro sia una cosa romantica. Non ha niente a che fare con letteratura e poesia. Stai vendendo qualcosa, e sarà bene che tu riesca a farla comprare, se non vuoi fallire nel giro di tre mesi.

Lui fece un vago cenno di assenso con la testa, seccato dallo sguardo difficilmente leggibile della donna, e dalle sue parole anche troppo chiare. Non che non fosse abituato ai giudizi sprezzanti altrui. Ma non erano mai piacevoli.

- Hai capito quel che ti sto dicendo?

No, non aveva capito, perché si era perso a osservare la parete alle spalle della donna e la scaffalatura di legno bianco, ricolma di libri, suppellettili graziose, piccoli animali di vetro, candele e immagini incorniciate, disposte con una perfezione quasi irritante.

- Sì, certo, signorina Corrigan.

- Dio, non puoi essere davvero così. Non hai bisogno di ripetere il nome di chi ti sta davanti ogni tre sillabe. Non sei un servitore di qualche romanzetto di epoca vittoriana. Quando discuti con qualcuno per portare uno spettacolo nel tuo teatro, tu e lui siete alla pari. Chiaro?

- Certo.

- Tu guarda se devo mettermi a dare lezioni di marketing! Lo faccio solo perché so che lavori per un amico del mio partner. D'accordo, puoi andare. Per qualsiasi cosa puoi chiamarmi.

- Va bene.- Le sorrise e si alzò, tendendole la mano. - Grazie.

- Ringrazi troppo.

- Oh, mi scusi. Arrivederci.

Prese la lista e sparì dall'ufficio in fretta, sentendosi addosso una goffaggine inarrestabile, figlia dell'imbarazzo che quella donna imponente e sofisticata gli causava. Sulla soglia della stanza si fermò, colto di sorpresa da un rumore alle sue spalle – il crack secco di qualcosa che si spezza. Si voltò a guardare la signorina Corrigan, intenta a raccogliere un vaso di vetro rosso e arancio, rotto esattamente in due parti, come tagliato da una lama invisibile.

- Tutto bene?- Le chiese. Gli rispose uno sguardo furioso, lo sguardo di qualcuno che è stato disturbato all'improvviso in un momento privato – o almeno, questo sembrò a lui. Un secondo dopo era passato: Abigail Corrigan era di nuovo la persona di poco prima. Gli fece una specie di sorriso seccato e Amir si affrettò a sparire dall'ufficio. Sperò di non doverla incontrare più.

 

Avrebbe ricordato quelle giornate come una collezione di incontri complicati e compiti adatti a persone più estroverse e brillanti di lui. Forse la saccente signorina Corrigan non aveva tutti i torti: non era fatto per le pubbliche relazioni. I primi tre che aveva incontrato erano gestori esterni di compagnie, funzionari interessati a piazzare meglio possibile i propri spettacoli, e nonostante i consigli della Corrigan e del signor Bennett, Amir non era sicuro di aver effettivamente combinato qualcosa di buono. La quarta era una donnina con l'aria trasognata e qualche evidente problema di concentrazione. Con lei però si era trovato benissimo. Sua sorella gli diceva sempre che com'era bravo lui con i pazzi e i bambini, nessun altro. Non aveva mai capito se fosse un complimento o il contrario.

C'erano stati altri incontri, difficili e un po' meno difficili. E tante cose da decidere. Così, all'improvviso, da custode di una casa disabitata era diventato uno con la facoltà di prendere decisioni. Ma via via che i giorni passavano, accanto ai nomi sulla lista comparivano date dell'autunno successivo. Senza sapere bene come, stava davvero organizzando una stagione teatrale.

 

Nella sera più ventosa di un aprile particolarmente freddo - e l'Inghilterra era sempre e comunque troppo umida e gelida, per lui - Amir stava tremando, fermo sotto i tabelloni che annunciavano gli arrivi e le partenze dei treni alla stazione di Clapham Junction. Con tre borse ricolme di acquisti di vario genere, neanche troppo leggere. Pensando al signor Bennett con un po' di risentimento. Non aveva problemi a fare un po' di straordinario – praticamente la maggior parte delle sue attività erano straordinari. Solo che... Faceva freddo. Davvero tanto freddo.

Finalmente sul tabellone comparve la notizia gioiosa dell'arrivo del treno giusto. Bene, poteva smettere di soffrire il freddo da fermo, per cominciare a soffrire il freddo camminando e tenendo in mano un cartello idiota con il nome della persona che stava aspettando.

In un istante fu inghiottito da un'ondata inarrestabile di passeggeri, tutti più veloci, furiosi e determinati di lui. A un certo punto la sua piccola costituzione non poté rimediare alla collisione contro una montagna umana armata di un bagaglio da guerra. A evitargli un impatto con il suolo fu un tizio tutto sommato magro e non troppo alto, che però riuscì a tirare su Amir compreso di borse come se fosse stato fatto di carta.

- Molto piacere di conoscerla. Sono Clyde Wendell. Stavo venendo verso di lei, perché avevo visto il suo cartello. Poi però lei è sparito nella folla.

Amir rimase in silenzio per qualche istante, giusto il tempo di stabilire che Clyde Wendell non era il vecchio attore navigato, dai capelli grigi e l'aria saccente, che si era immaginato. Non poteva avere più di trent'anni. Aveva un bel viso, un sorriso piacevole e i capelli biondi legati in una lunga coda.

- Lieto di conoscerla. Io sono il... Segretario del signor Joel Bennett.

- Non ti dispiace se abbattiamo le barriere e abbandoniamo le formalità, vero? Chiamami Clyde e dimmi come ti chiami. Non sopporto questo genere di convenzioni sociali. Le persone sono semplicemente persone.

- Oh. Certo. Mi chiamo Amir.

- Amir. Molto bene. Che ne dici di prendere un caffè e discutere al caldo gli accordi per il nostro spettacolo?

Sorrise e lo prese sottobraccio, con tutta la confidenza del mondo, incamminandosi verso una delle uscite della stazione – cosa che Amir non gradì, ma sopportò per amore del suo lavoro.

Clyde Wendell aveva un eloquio fluviale e parlava di un sacco di cose che in teoria interessavano anche ad Amir, solo che il signor Wendell riusciva a renderle sgradevoli da ascoltare. Troppe parole.

- Dimmi un po', che genere di posto è, il Sunflower? Qual è il suo spirito, qual è la sua storia, e che tipo di persona è il suo proprietario?

Per un secondo Amir ebbe l'impressione che dietro la domanda di Clyde ci fosse qualcos'altro. Rimase in silenzio, a scandagliare gli occhi ridenti dello sconosciuto. C'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, ne era sicuro, anche se non avrebbe saputo dire da dove veniva quella sensazione. C'era qualcosa di strano e confuso e molto sbagliato dietro gli occhi di Clyde Wendell, e...

Ti rendi conto di cosa stai pensando, vero? È solo un tizio chiacchierone, e questo non ti piace perché tu non sei in grado di relazionarti così bene con le persone più estroverse di te. Il problema sei tu, non lui.

- Un teatro poco usato.- Rispose, cacciando via le sensazioni.

- Questo è un po' triste, non trovi? Un teatro è un contenitore di meraviglie. Da secoli, alcune tra le più gloriose faccende umane avvengono nei teatri.

I caffè arrivarono, insieme alle bustine di zucchero. Clyde ne aprì una e la versò nella tazza di Amir, senza che lui avesse accennato di volere dello zucchero. Continuava a blaterare, qualcosa sul suo spettacolo, una rilettura del ciclo arturiano, e Amir non riusciva a impedirsi di avvertire qualcosa di stonato intorno a sé.

Quel tizio ha qualcosa che non va.

Il suo lato razionale redarguì quello intuitivo.

No, per davvero, aveva palesemente qualcosa di strano!

Smetti di pensare cose sciocche e concentrati su quelle serie. E reali.

Per esempio, il caffè era reale. Il peggior caffè di Londra. Una schifezza immonda bruciacchiata e accompagnata da un vago sapore di marcio.

La prima persona che incontrò in metropolitana, appena salutato (finalmente) Wendell, fu un tizio con la faccia vecchia e rugosissima, e i capelli ancora rossastri. Gli fece un cenno con la testa, nella direzione in cui era sparito Wendell.

- Robaccia.

- Come, mi scusi?

- Robaccia, quella. Meglio che tu prenda qualche precauzione.

L'ometto saltò giù meno di un secondo prima che le porte della metropolitana si chiudessero. Amir lo cercò con lo sguardo e non lo trovò più. La serata si faceva sempre più strana.

 

- Buonasera, Amir.

- Signor Bennett! Che ci fa qui?

- Che ci faccio in casa mia, dici?

Amir sospirò, mentre il suo datore di lavoro, sulla soglia di casa, gli offriva il suo abituale sorriso appena accennato.

- Di solito non viene in questa casa.

- Già. Ma avevo bisogno di alcune cose e mi sono attardato. Penso che ci dormirò. Sempre che la mia camera sia agibile.

- Non lo è, ma non si preoccupi, non lo è mai stata neppure la mia.

Il signor Bennet fece la sua risata quieta e lo seguì in cucina, osservando con interesse il processo di disposizione della spesa in dispensa e nel frigo.

- Potrei cucinare io, stasera.- Si propose il signor Bennett. - Anzi, credo che lo farò. Vai a riposarti. Dopo dovrai raccontarmi com'è andata con questo Wendell.

- È una persona sgradevole.

- Ti è sembrato poco affidabile dal punto di vista lavorativo?

- Non credo. Non penso sia un truffatore, e non saprei dirle se è un bravo attore o meno. Di certo non mi piace umanamente.

- Ho capito. Vai a metterti comodo, mentre preparo la cena. Non voglio che mi spii in fase creativa.

Amir obbedì e si allontanò dalla cucina. Pochi istanti dopo si sentì chiamare con una certa urgenza.

Si precipitò in cucina e lì trovò, con sua immensa sorpresa, il sorriso del signor Bennett con un'incrinatura dovuta ad un certo stupore e a qualcosa di simile a una goccia di spavento.

- Amir, questo burro l'hai comprato all'emporio Lovecraft?- Gli domandò l'altro, indicando il pacchetto del burro aperto, posato sul tavolo. Amir si affacciò sull'oggetto incriminato e fece un salto all'indietro, gridando come un bambino terrorizzato.

In effetti, terrorizzato lo era davvero.

Il burro si era sciolto per metà, ed aveva assunto un colorito verdastro decisamente poco sano. Ma la cosa peggiore era un'altra. Sciogliendosi, il burro aveva rivelato qualcosa al suo interno. Una specie di creatura, probabilmente. Una muffa parecchio avanzata, magari, o un insetto burrofago. Qualunque cosa fosse, era scura, viscida ed aveva dei piccoli tentacolini, che emergevano dalla sostanza sciolta e si agitavano nell'aria.

- Mi affascina molto. Quasi quasi me lo tengo e lo studio...

- No, la prego, no! Non sappiamo cosa sia, potrebbe essere pericoloso!

- Non temere l'ignoto, Amir. Solitamente è spiegabile dalla scienza.

- Non sono uno scienziato, signor Bennett, e l'ignoto mi ha sempre fatto paura.

- Come a tutti i poeti che si rispettino. Bene, per la tua sanità mentale getterò via quest'oggetto sconosciuto. E ti diffido dal tornare nel posto dove l'hai acquistato.

Amir annuì, mentre gli tornava in mente l'omino in metro. Robaccia, aveva detto.

C'è qualcosa che mi sta confondendo i pensieri, oggi, e sarà meglio che io non l'ascolti.

 

Quella notte sognò cose che per fortuna dimenticò prima dell'alba.

 

 

III

 

Il signor Bennett gli aveva dato l'indirizzo del teatro e qualche indicazione sommaria riguardo la sua ubicazione, e Amir era piuttosto sicuro di aver capito come arrivare al Sunflower. Alle dieci e quarantasette – ben diciassette minuti oltre l'orario nel quale avrebbe dovuto incontrare la signorina Raymond – Amir stava fissando sconfortato le chiavi del teatro, senza la minima idea di cosa fare.

- Ha bisogno di aiuto?

Una giovane donna gli si fece vicina: alta, con i capelli scuri raccolti in una piccola coda, un lungo cappotto turchese e la sigaretta accesa tra le dita.

- Ha mai sentito parlare di un teatro, in questa zona?

Lei sorrise e fece un cenno con la mano, indicando la facciata rovinata dell'anonimo edificio davanti a loro.

- Parla del Sunflower?

- Quello è il Sunflower?

La risata cortese di lei fu una risposta più che sufficiente. Amir si guardò attorno: era passato almeno quattro volte per quella piccola via. Il signor Bennett gli aveva dato qualche ragguaglio, ma non gli aveva detto di quella facciata screpolata, del portone di ferro verde rugginoso, delle scritte fatte da qualche vandalo lungo la parete. Si sarebbe aspettato una costruzione con un briciolo di dignità in più.

- Questo è l'ingresso principale del teatro. Ce n'è uno secondario in quel vicolo, a destra.- Spiegò la donna. - Scommetto che lei è la persona che stavo aspettando.

- Temo di sì. E dire che l'ho anche vista, seduta su quella panchina... Non ho assolutamente pensato che potesse essere lei!

- Non importa. Io sono Ophelia Raymond. Abbiamo parlato al telefono per il mio spettacolo musicale. Possiamo vedere il teatro, allora?

Il Sunflower li ingoiò. Oltre la porticina dell'ingresso secondario c'erano dei gradini da scendere: il teatro era sotto il livello della strada. Per trovare un interruttore della luce ci vollero innumerevoli minuti. Quando il buio sparì, il corridoio nel quale si trovavano s'illuminò di una miriade di luci verdi e viola.

- Ci sono venuta parecchi anni fa, quando ancora era aperto, sotto la gestione del signor Headley.- Disse la signorina Raymond, con un sorriso ammirato. - Mi ricordo queste luci non molto sobrie.

- Conosceva Arthur Headley?

- Non di persona. All'epoca parlai con la proprietaria del teatro, Esther Wilmore. Io ero una ragazzina, avevo il compito di gestire le relazioni pubbliche per la compagnia del mio liceo. La signora Wilmore era malata. Credo sia morta poco dopo. Mi disse che stava lasciando il teatro ad Arthur Headley, e che tutto ciò che mi poteva stupire, qui dentro, era colpa sua.

Amir immagazzinò con interesse quelle nuove informazioni. Per qualche ragione inspiegabile gli sembrava tutto così importante: quel posto, le persone che vi erano legate... Un'altra delle sensazioni che lo perseguitavano da qualche settimana.

Ophelia spostò la tenda rossa che li divideva dalla platea e lo invitò ad entrare. Era buio, eppure c'era una luminescenza che sembrava provenire da qualche parte, dietro il palco. Amir abbracciò con lo sguardo la sala dal soffitto alto, i cristalli dei lampadari, le orbite oscure che erano i palchetti.

- Da dove viene la luce?- Chiese la donna.

- Non lo so. Forse c'è qualche finestra aperta, nel retropalco.

C'erano degli ornamenti di stucco colorato, attorno alla bocca del palco, un intreccio ipnotico di onde che sfumava dal verde al bianco.

- Non ti sembrano le fauci di un drago?- Disse lei, indicando lo spazio davanti a loro. Amir ebbe la sensazione, all'improvviso, che quei ricami di stucco fossero davvero le squame dell'animale leggendario. Tutto il Sunflower assunse l'aspetto di una creatura massiccia e nobile.

- Sì. Anche se è un'immagine strana, per un teatro.

- È un drago che dorme. Quando ci sono stata la prima volta era sveglio. Adesso, invece, è in attesa.

Non aggiunse una spiegazione a quelle parole apparentemente insensate e lui non le chiese niente. Si stava abituando alle cose apparentemente insensate.

Proseguirono il giro del teatro, e Amir assorbì immagini e percezioni dal teatro senza elaborarle. Guardò ogni angolo e non si fermò a pensare a nessuno di essi. Non era un luogo bello né accogliente, tanto meno pulito. Soprattutto non era pulito. Eppure... Scendere nel sottopalco, per mostrare all'attrice i camerini, gli risvegliò un senso dell'avventura come quando da bambino si perdeva tra le case disabitate in fondo alla via, insieme a sua sorella. Dimenticò quasi la presenza di Ophelia, concentrato solo sui brividi di freddo e curiosità, le ragnatele sulle dita quando cercava gli interruttori, i frammenti di mura e scenografie sotto i suoi piedi. D'improvviso realizzò una semplice verità: adesso lavoro qui, vedrò questo caos affascinante ancora un milione di volte.

Fu solo quando ne emersero che si rese conto di una cosa. Senza alcun motivo, si era appena innamorato di quel posto.

Quando arrivò a chiudere la porta, notò la lanterna con i vetri arancio appesa lì fuori. C'erano strati di polvere e sporco, sopra, e un vetro era scheggiato.

- Ho bisogno di una serata adesso.- Ophelia lo riportò alla realtà.

- Ma ci eravamo accordati per dicembre. La stagione comincerà in autunno.

- Lo so. Posso rinunciare alla paga, se necessario, e mi occuperò personalmente della pubblicità. Ma ne ho bisogno. È importante. E non può essere in nessun altro teatro. Una serata sola. Sarà la riapertura del Sunflower. Per favore.

La guardò con stupore, toccato dall'urgenza che vibrava nella voce di lei. Era uno spettacolo teatrale: perché mai era così importante?

- Ne parlerò con il signor Bennett.

- Grazie. Sono sicura che comprendi, se ti dico che non può essere in nessun altro teatro.

- In realtà credo di non comprendere affatto.

Lei però fece un sorriso strano e scosse la testa, quasi volesse contraddire quell'ultima affermazione.

Prima di andare, Amir lanciò un ultimo sguardo al drago addormentato. Isolò l'edificio tra gli altri vicini, grigi e senz'anima, e gli sembrò un po' più bello che al primo sguardo.

 

Ad accoglierlo in casa ci fu solo il silenzio di quel luogo grande, umido e buio. Cercò di accende una luce, e prima che potesse riuscirci, qualcun altro gli venne incontro ed illuminò il corridoio per lui.

- Ehi. Ti sei perso?

C'era una donna dai capelli color miele, davanti a lui, spuntata dall'oscurità di altre stanze. Sorrideva, tranquilla come in casa propria.

- Uhm. Veramente abito qui.

- Lo so. Però capita di perdersi lo stesso anche se ci abiti, qui. Mi chiamo Angela. Sono un'amica di Joel.

Amir ricambiò il sorriso, tendendole la mano.

- Lieto di conoscerla. Io sono...

- Amir. Ti conosco di fama. Vieni, raggiungiamo Joel. Sta cercando qualcosa nel suo studio. Meglio andare a vedere quanto danno è riuscito a fare.

Quando raggiunsero il corridoio fuori dallo studio del signor Bennett, Amir dovette fermarsi, colto da una specie di vertigine.

- Signor Bennett.- Un sussurro disperato che sarebbe rimasto inascoltato.

- Qualcosa non va?- Gli gridò l'altro in risposta, dallo studio. Angela, dietro di lui, rideva sommessamente.

- Che è successo al corridoio?

- Sto cercando una cosa.

- Sì, ma tutte le altre cose che erano nello studio, come sono finite qui?

- Non ti preoccupare, ti aiuto a rimetterle dentro.

- No, grazie...

Il signor Bennett saltò in piedi su un mobiletto dall'aria malaticcia, che traballò violentemente sotto il suo peso.

- Secondo me quello è alla fine dei suoi giorni.- Commentò Angela, appoggiandosi allo stipite della porta. - Vieni giù e piantala di sentirti un ragazzino.

- A trentasei anni ti sembro vecchio?

- Con la tua accidia spaventosa mi sembri vecchio.

Il signor Bennett si decise a lasciar perdere la ricerca e scese dal mobiletto.

- Dimmi, Amir, com'è andato l'incontro di oggi?

- Bene. Però la signorina Raymond mi ha chiesto una cosa strana. Vorrebbe una serata adesso. Una sorta di inaugurazione del teatro, prima della stagione autunnale.

- Ah sì? Ti autorizzo a decidere se ti sembra opportuno o no.

- Joel, sei uno scandalo.- Commentò Angela. - La tua abilità nel delegare il lavoro è quasi una forma d'arte.

- Non esagerare, ora. Amir, vuoi salire qui al posto mio e cercare secondo le mie indicazioni?

- Ma lo fai apposta?

Amir spostò una pila di libri molesti e un paio di scatole, e raggiunse il signor Bennett per aiutarlo, ma la mano di Angela si serrò decisa sul suo braccio.

- Ora andiamo a cena. Basta lavoro, per oggi.

Lo disse con un sorriso e un tono che non lasciava spazio a repliche. Il signor Bennett si arrese e li precedette lungo la strada per la cucina.

Angela si attardò qualche istante, facendo capire ad Amir che gli voleva parlare.

- So che non mi conosci e forse non ho diritto di intromettermi, ma... Va tutto bene? Quando sei entrato, eri evidentemente preoccupato. Sono un'estranea, per te, lo so, e non ho il diritto di farmi gli affari tuoi. Ma conosco questa casa, il Sunflower e le loro storie. Non sottovalutare niente. Non rendere banale niente che non lo sia.

- Stavo solo pensando a certe cose che mi sembrano strane. Magari sono solo stanco. Quello che mi ha affidato il signor Bennett è un lavoro nuovo e difficile.

- Di cosa stai parlando?

- Non lo so. Solo sensazioni sciocche, probabilmente. E oggetti. Lanterne, luci dietro al palco, vasi che si rompono all'improvviso, mostri dentro al burro...

- Mostri dentro al burro?

- Mi scusi, dimentichi tutto quel che le ho detto!

- Amir, non sei in un luogo comune. E ci sono persone che entrano in risonanza con i luoghi e con le cose.- Nella luce soffusa del corridoio, Angela gli sembrò irreale come le sue parole. - Tu credi che esistano altre realtà oltre quella tangibile e immediata attorno a noi?

- Ho sempre dato una possibilità a tutto ciò che non si vede e non si tocca.

Angela si limitò a sorridere. Amir attese altre parole, ma non vennero. La donna gli fece cenno di proseguire verso la cucina.

- Mi sta dicendo che ci sono cose strane per davvero, attorno a me?

- Se vuoi metterla così...

 

Quella notte, in sogno, lo sentì, più che vederlo. Respirava nell'ombra alle sue spalle. Se faceva un passo, quello si muoveva appena, per non perderlo di vista. Se provava a voltarsi, però, l'ombra si infittiva e non c'era modo di penetrarla con lo sguardo.

Però c'era.

I suoi contorni erano confusi nell'oscurità, ma doveva essere immenso. E dormiva e vegliava al tempo stesso. Dormiva in attesa di qualcosa, ma teneva gli occhi puntati su Amir – per qualche motivo chiarissimo e fondamentale, solo che Amir non lo conosceva.

Dormiva e vegliava, e per quanto la sua grandezza fosse spaventosa, la sua forza aveva un che di rassicurante.

A un certo punto Amir smise di guardarsi indietro.

Nell'ombra, il drago continuava ad aspettare.

 

 

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Capitolo 2
*** II - Figure in un sogno ***


Capitolo II
Figure in un sogno


He made harp pins of her fingers fair
With a hey ho and a bonny o
He made harp strings of her golden hair
The swans swim so bonny o
He made a harp of her breast bone
With a hey ho and a bonny o
And straight it began to play alone
The swans swim so bonny o


(Ballata tradizionale inglese, rielaborata da Loreena McKennitt nella canzone The Bonny Swans)


Londra, 13 maggio 2008

Era una giornata così mite e soleggiata che perfino il Sunflower sembrava un posto sano, e tutta la sua secolare umidità prosciugata all'improvviso.
- Magari quelle quindici persone che stasera verranno allo spettacolo se ne torneranno a casa senza un raffreddore omaggio.- Joel Bennett si affacciò in platea, dette un'occhiata e si ritrasse subito.
- Perché è così poco ottimista, signor Bennett?- Sospirò Amir, con le braccia gravate dal peso di un misterioso scatolone. - D'accordo, è la serata di riapertura di un posto piccolo e sconosciuto, e non abbiamo fatto esattamente una gran pubblicità, ma...
- Mi stavo solo preparando al peggio. È un esercizio che comporta dei vantaggi.- Rispose lui, imperturbabile come sempre. - Cos'hai in quella scatola?
- Era all'ingresso, con un biglietto da parte della signorina Raymond che chiedeva di portarlo nei camerini. Ci sono dei costumi, dentro, a quanto c'è scritto.
- La band di Ophelia Raymond è già qui?
- Immagino di sì. Ho visto almeno due ragazze in giro.
- Bene. Adesso devo andare. Ci vediamo questa sera per lo spettacolo. Puoi cavartela da solo con le musiciste e tutto il resto, vero?
- Certo. Non si preoccupi.
Il signor Bennett fece uno dei suoi sorrisi rilassati, lo salutò con un cenno della testa e si allontanò in fretta.
- Poteva anche fare una pubblicità migliore.- Brontolò Amir, imboccando la via dei camerini.
Si fermò davanti alla porta che avrebbe dovuto aprire per giungere alla sua meta, intenzionato a posare il suo carico, e la porta gli fu aperta da una ragazza – una piccola persona con gli occhi chiari e le lentiggini. Gli sorrise e gli indicò dove posare la scatola, senza dire una parola.
- Oh. Salve. Lei è una dei membri della band della signorina Raymond, giusto?
La ragazza sorrideva in maniera gentile, ma continuava a non dire nulla. Lui abbandonò la scatola dove gli veniva indicato, sorridendo di rimando, piuttosto confuso.
- Posso fare qualcosa per voi?
Cenno di diniego. Un sorriso, un piccolo inchino, e poi la ragazza svanì dietro una porta. Amir, perplesso, per un istante ponderò di cedere alla curiosità e sbirciare i costumi nello scatolone, ma si trattenne, inorridendo un attimo dopo al suo stesso pensiero.
Appena fuori incontrò un'altra delle artiste.
- Salve. Benvenuta. Ha bisogno di qualcosa?
La ragazza scosse la testa e i lunghi capelli neri raccolti in una coda lenta. Fece per superarlo, poi però si fermò un istante e gli sorrise in risposta.
In corridoio incontrò una donna con i capelli rossi, infagottata in una veste che sembrava più adatta a un eremita del deserto che a una musicista britannica. Appena le passò accanto, prima che potesse dirle anche solo una sillaba, la donna piegò la testa, come per rendergli omaggio, mantenendo la sua espressione severa. Amir rimase immobile e muto, mentre lei si allontanava.
Forse quel silenzio era contagioso.

- Se quell'idiota di Joel Bennett spera di mettere insieme abbastanza pubblico da ripagare sia le spese che la compagnia, è davvero più stupido di quanto sembri.
- Io penso che il signor Bennett abbia fatto dei calcoli piuttosto realistici.
- Tu pensi proprio male.
Amir si impose di rimanere calmo e sopportare quella persona terribilmente molesta. Il signor Bennett aveva detto che era un vecchio amico. Il signor Bennett tendeva ad avere moltissimi vecchi amici assai discutibili. Ma non per questo Amir poteva permettersi di essere scortese con loro.
- Questo posto farebbe bene a bruciare.
- Signor Richard, posso sapere perché tutto questo astio verso il Sunflower?
- Perché ci strappavo i biglietti dieci anni fa e quel pazzo di Headley a malapena lo teneva in piedi. E prima di lui, quella visionaria della Wilmore era quasi costantemente in perdita. E per quanto questo posto stia a galla quanto il Titanic, non so perché tutti i suoi proprietari sono convinti che debba andare avanti.
- Evidentemente ci sono legati.
- Evidentemente sono dei rimbecilliti.
Amir pensò che il signor Richard conosceva davvero moltissime parole che esprimevano il concetto di stupidità.
- Che poi, il tuo amico Bennett ha una faccia tosta inimmaginabile, credimi.- Riprese l'uomo, dopo qualche minuto di silenzio nel quale si era dedicato a disporre in modo diverso i pochi mobili presenti nell'atrio del teatro. - Lo sai che il suo caro vecchio Headley mi aveva licenziato? Non me ne sono andato di mia spontanea volontà. E ora ha il coraggio di richiamarmi!
- Forse si è reso conto che lei è una persona affidabile.
- Forse è un cretino che aveva bisogno di qualcuno a salvargli il culo a poche ore dalla riapertura di questo posto, eh?
- Perché il signor Headley l'aveva licenziata?
- Per un'accusa infamante e assolutamente falsa.
Amir studiò per qualche istante la figura mingherlina del vecchio, un omino che sembrava fatto di fil di ferro, con un mastodontico cespuglio di capelli ricci e candidi.
- Non vuoi sapere cos'era successo?- Incalzò il signor Richard, che evidentemente moriva dalla voglia di raccontarlo.
- Certo.
- Sono stato accusato di un assassino.
Amir si lasciò sfuggire di mano lo sgabello che stava trasportando (per rimetterlo al suo posto e toglierlo dal cestino dei rifiuti, dove l'aveva incastrato a forza il signor Richard.)
- Che cosa?
- Fui accusato della morte di due conigli di Patrick Brennan, un prestigiatore.
Amir si lasciò cadere sullo sgabello redivivo, rilassandosi.
- Per quale ragione avrebbe dovuto uccidere due conigli?
- Ah, lo dovrebbe chiedere all'assistente di quel pazzoide, una tizia vestita in modo improponibile che mi denunciò a Headley e Bennett, accusandomi sulla base del ritrovamento di un oggetto nel mio ripostiglio. Oggetto che, secondo le sue ineffabili deduzioni, provava chiaramente la mia colpa.
- Ovvero?
- Un barbecue.
- Mi sta dicendo che fu accusato di aver arrostito i conigli qui dentro al teatro?
- Qualcuno testimoniò di aver visto il fumo da fuori. Poi che quell'intrigante di Vivien, la figlia di Headley, trovò delle macchie d'olio sul divanetto là nell'angolo, e per questo fui dichiarato colpevole!
- Ehm...
- Licenziato, così, per niente. Mi dovetti abbassare ad andare a strappare biglietti a un cinema, che non è per niente la stessa cosa che un teatro. Ah, questo posto è marcio, te lo dico io. Ma insomma, ragazzo, queste musiciste arrivano o no?
- Ci sono già.
- Io non le ho viste! Eppure sono sempre stato qui.
- Saranno entrate dall'ingresso secondario.
- Quella tizia che fuma, la signorina Raymond, è arrivata in pompa magna dall'ingresso principale: lei l'ho vista. Ma tutte le altre? Pare che siano più di venti. E non sento nemmeno le voci. Secondo me non ci sono e tu hai solo sognato di vederle.
- Sarebbe grave, se avessi sognato di vederle. Ne ho incontrate tre, e ci ho anche parlato.
In realtà, no, non ci ho parlato: non parlano affatto. Però le ho viste.
Adesso il signor Richard si era messo a cercare di grattare via dal bancone di legno una vecchia macchia, e pretendeva di farlo con un enorme trincetto arrugginito. Amir decise che era il momento buono per andare a controllare che tutto fosse in ordine.

Verso la metà del pomeriggio pensò di lasciare il teatro e fare un giro nei dintorni, ma poi rinunciò. Non sentiva il bisogno di allontanarsi. Stava bene. Stare lì dentro, in quel posto dalle luci strane e l'atmosfera ovattata, lo metteva a suo agio. Camminava rasente le pareti, lungo i corridoi, divertendosi a studiare le vecchie locandine appese ovunque, o gli intricati ricami della carta da parati. Voleva stare lì.
Lungo le ore che trascorse in compagnia del teatro incontrò altre due donne della band di Ophelia Raymond. Una di loro aveva i capelli stretti in due trecce che le scendevano ai lati del viso scavato, e scappò subito appena lo vide avvicinare. L'altra, rotonda e graziosa, gli fece un sorriso, mentre correva via – e Amir non riuscì a vedere che direzione avesse preso.

Forse avrebbe dovuto capirlo allora, quando si aprì il sipario e si fece avanti la ragazza piccolina con le lentiggini, avanzando con gli occhi bassi e una grazia strana, quasi innaturale, per sedersi di fronte all'arpa posta in un angolo del palco. Ma era troppo impegnato a guardarsi attorno, compiaciuto e sollevato per il buon afflusso di pubblico, per capire. Quasi non si rese conto che la ragazza aveva cominciato a suonare, finché la voce cupa di Ophelia arrivò a strapparlo da altri pensieri, per catalizzare l'attenzione su di sé.

Per strade invisibili, in mezzo alle ombre
Il loro corteo accompagno
Per strade notturne, dirette all'aurora
Il loro silenzio accompagno
Ascolto le loro parole non dette:
Esplodono in me, fiori e stelle
Se loro non possono più raccontare
Ancora io posso cantare


La ballata scivolò dalla dolcezza inquietante delle prime note ad un ritmo più concitato, la poesia diventò una storia di abbandono e dimenticanza. Incantato dalla melodia, Amir ascoltò fino all'ultima nota del racconto. Alla fine, la piccola arpista venne alla ribalta e fece appena un cenno con la testa, correndo via subito dalla scena.
Entrò un'altra ragazza, alta e robusta, con i capelli corti, e imbracciò una chitarra, sedendosi accanto ad Ophelia. La cantante aveva tra le mani lo stesso strumento. Iniziarono a suonare nello stesso istante, facendo dialogare le chitarre e scambiandosi uno sguardo, ogni tanto. Fu ancora Ophelia a cantare. Il pezzo sembrava più allegro, ma Amir era certo di cogliervi una sfumatura che spezzava il cuore, da qualche parte, tra le note.
La ragazza magrissima e quella paffuta salirono sul palco insieme, portando ognuna un tamburo. Ophelia cantò una sorta di danza che pareva non finire mai, accompagnata solo dalle percussioni. Le sue parole evocarono una donna abbandonata per un'altra, che però, in qualche modo, era ugualmente tradita. Alla fine le ragazze si presero per mano, fecero un inchino e se ne andarono. Un'altra percussionista arrivò insieme ad una violinista, e quando la musica si trasformò da tenue ballata in danza sfrenata, sul palco giunsero otto danzatrici, che si rincorsero a lungo, giocando con le loro vesti fatte di velo.
Ogni canto sembrava regalare un altro frammento di storia. Allo stesso tempo, ogni canto sembrava portare via qualcosa.
Dopo, forse avrebbe intuito qualcosa. Anche se avrebbe dovuto accorgersene, che le ragazze se ne andavano in maniera strana: entravano nell'ombra delle quinte, ma quelle non si muovevano, come accade quando qualcuno vi passa accanto. Non c'era spostamento d'aria. Le quinte restavano immobili. Come se le donne non avessero avuto un corpo solido, ma fossero state fatte di niente. L'ultima fu una ragazzina sui dodici anni: si sedette accanto a Ophelia e posò il viso sulle sue ginocchia. La cantante, senza alcuno strumento, le mormorò una ninna nanna. Amir fu sicuro di non ricordare affatto il momento in cui la ragazzina se n'era andata dalla scena.
Infine si fece buio. E dall'oscurità emerse la voce di Ophelia, accompagnata solo da qualche accordo straziante.

La strada è finita e l'alba è vicina
I passi dispersi nel vento
Nell'aria schiarita si perdono i visi
Rimangono solo i sorrisi
Nel sole rinato svanisce ogni pianto
Rimane un ricordo del canto


Quando ci fu di nuovo un po' di luce, Ophelia era sola al centro del palco. Fece un rapido inchino al pubblico e se ne andò, senza prestare alcuna attenzione agli applausi.

Corse nel retropalco spinto da una sensazione e nient'altro, ma di rado aveva sperimentato qualcosa di tanto urgente. Voleva capire il perché di tutta quella tristezza. Voleva capire se si stava lasciando contagiare da qualche psicosi, o se la sensazione che aveva avvertito nello stomaco ogni volta che una delle donne usciva dal palco era vera.
Trovò Ophelia inginocchiata in un angolo, in lacrime. Quando lo vide si sforzò di sorridere.
- Grazie. Senza di te, non avrebbero potuto farlo.
- Signorina Ophelia, si sente bene?
- Sì. Ora sì. Hai capito perché avevo bisogno di questa serata, vero? Erano così tante. Vado in giro e le raccolgo, ma hanno bisogno di una voce e un palco, per potersi liberare. Loro si lasciano chiamare, e mi seguono dove c'è qualcuno disposto ad ascoltare.
- Io non capisco cosa stia dicendo, mi dispiace.
- Davvero?- La donna si sollevò in piedi e gli si fece vicina. - Eppure c'è una lanterna appesa fuori dalla porta di questo teatro. Pensavo fosse lì per te.
- Per me? Cosa significa?
- Significa la disponibilità a prendersi a cuore le storie di quelli a metà.
Lui scosse la testa, combattuto tra il desiderio di riempirla di domande e quello di implorarla di smettere di dire cose sciocche e insensate.
- Alcune persone sono predilette dalle ombre. Tu le hai viste, no? Le ragazze.
- Tutti le hanno viste.
- Sul palco, sì. Ma prima dello spettacolo, loro si sono fatte vedere solo da te.
Stava per ripetere che non capiva, quando all'improvviso realizzò quanto fosse totale il silenzio. Avevano visto almeno una ventina di donne, sul palco, eppure nei camerini non si sentiva nemmeno una voce, né i suoni di una presenza.
- Dove sono, tutte quante?
- Se ne sono andate subito dopo aver suonato. So che te ne sei accorto, in qualche modo. Sono andate dove dovevano andare. Succede così, a quelli che restano sospesi tra gli strati della vita. Il vostro teatro le ha aiutate a trovare pace.
- Non credo di...
Lei sorrise e gli posò una mano sulla spalla.
- Vai a casa. Dormi. Sogna. Stai tranquillo. La prossima volta che ne vedrai uno, ci crederai.

- È stato molto bello, vero?- La voce del signor Bennett era insolitamente quieta. Una dolcezza strana sembrava aver avvolto ogni cosa attorno a lui. La macchina lo cullava, facendogli venire voglia di chiudere gli occhi, come fosse stato un bambino.
- Sì.
- Erano canzoni malinconiche. Chissà perché così tante ballate parlano di morte, perdita, abbandono.
- Forse perché una vita piena di queste cose fa paura. Ma se queste cose diventano una canzone, un po' di paura se ne va.
- Già. Forse.

A trovare il negozio di giocattoli ci mise molto meno di quanto aveva impiegato a raggiungere il Sunflower. Però anche il negozio aveva lo stesso aspetto poco attraente del teatro, a un primo colpo d'occhio. La vetrina era piccola, incastonata in una facciata vecchia e trasandata, con un'insegna quasi indecifrabile. L'interno, però, faceva perdonare tutto il resto. Lo spazio era piccolo e gremito di manufatti, ma c'erano così tante forme, colori, scintillii e piccole sorprese di ogni genere da riempire completamente la vista e far sembrare quel posto infinito.
Dietro il bancone, il sorriso di Angela.
- Che piacere vederti qui, Amir.
- Buongiorno, signorina Angela. Spero non le dispiaccia se mi sono fatto spiegare dal signor Bennett dove si trova il suo negozio.
- Nessun problema. Anche se questa premessa, insieme alla tua aria colpevole, mi fanno sospettare che tu non sia qui per acquisti o per compagnia.
Si allontanò qualche istante nel retrobottega e ricomparve con una brocca piena di un succo color arancio e dei bicchieri.
- Togliti il pensiero e dimmi da cosa sei turbato.
- Ha notato niente di strano ieri, durante lo spettacolo?
- Certo.
- Cosa?
- Sai quante cose che la gente comune cataloga abitualmente come “strane” ci sono, attorno a noi, ogni momento?
- Intendevo dire qualcosa...
- Di strano anche per me?
La donna si appoggiò al bancone, regalandogli una prospettiva ravvicinata del suo viso serio e pallido, quasi bello, con i capelli mossi color miele rossiccio.
- Il mondo è così ricolmo di cose invisibili che ovunque, con un po' di attenzione, potremmo trovarne traccia. E penso che ieri sera, durante lo spettacolo, alcune di queste cose invisibili fossero lì davanti ai nostri occhi.
- Lei ha visto le musiciste sul palco?
- Le ho viste.
- E prima, oppure dopo?
- No. Suppongo che le abbiano viste in pochi, prima e dopo.
- Avevano qualcosa di... Insomma, erano...
- Già.
- “Già” che cosa?
- Sei tu che hai lasciato in sospeso la frase. Come avresti voluto concluderla?
Sorrise in maniera malvagia e deliziosa allo stesso tempo, e Amir non riuscì ad essere arrabbiato con lei, nonostante l'esasperazione.
- Erano vive?- Riuscì a dire, sentendosi molto stupido per averlo anche solo pensato. Rimase con il fiato sospeso, in attesa della risata di Angela, di una sua eventuale parola di scherno...
- Immagino di no. Ma potrei anche sbagliarmi. Forse si trattava solo di musiciste molto silenziose e molto riservate.
- Perché non parla chiaramente?
- Perché sei tu a dover decidere se credi a certe cose oppure no.
Si sporse ancora di più sul bancone. I riccioli color miele scivolarono lungo le spalle scoperte. La casacca di seta blu che indossava assunse una piega tale da lasciargli intravedere il collo bianco e lungo, e un accenno dei seni. Angela sollevò una mano e gliela agitò davanti agli occhi, come per trarlo fuori dalla confusione in cui era finito.
- E se decidessi che erano solo musiciste riservate?
- Nessuna ombra verrebbe più a trovarti.
- Lei cosa ne sa, delle ombre e di queste certe cose?
- Se deciderai di crederci, magari in futuro ne riparleremo.
Amir sospese il vorticare dei pensieri e si concentrò sul luogo magico attorno a lui, sulla donna e i suoi occhi scuri, pieni di una consapevolezza che spaventava quasi.
- Joel ti ha offerto di continuare a lavorare per lui al Sunflower?- Gli chiese Angela, spezzando la tensione e versandogli da bere.
- Sì. È soddisfatto del mio lavoro.
- E tu?
- Anch'io lo sono. Mi è piaciuto svolgerlo. Mi piace il teatro. Ma non so per quanto tempo il signor Bennett sia intenzionato a tenermi tra i piedi in casa sua. Non si spiega mai, quando glielo chiedo.
- È segno che non sei così tanto di disturbo. Sai, mi ha raccontato di come vi siete conosciuti.
- E quindi?
- E quindi, Joel non parla mai dei suoi conoscenti. Al massimo ti dice che qualcuno è un suo vecchio amico. Se si è spinto fino a raccontarmi dello scorso dicembre, significa che devi averlo colpito. È contento che lavori per lui e si fida di te.
- Me lo auguro davvero.- Bevve un sorso e scostò bruscamente il bicchiere dalle labbra. - E questo cos'è?
- È tanto disgustoso?
- No. Solo che non riconosco il sapore.
- Non dovrebbe essere un problema, per te. Mi sembri il tipo che non si fa spaventare da ciò che non conosce.
Amir guardò il succo dal colore acceso, fece un sospiro e lo finì. In effetti era intenso e dolce, molto buono. Niente di cui essere spaventato.
- Ophelia Raymond mi ha detto che fuori dal teatro c'è una lanterna, e che è stata quella a richiamarla lì.
- Non credo. Non l'hai appesa tu.
- Però ne ho una simile. Era del signor Headley, l'ho ritrovata, e siccome il signor Bennett mi ha chiesto di custodirla con attenzione, in attesa di trovarle una sistemazione l'ho messa in camera.
Angela lo guardò con un certo stupore, prima di mettersi a ridere.
- Hai aperto lo sportellino, per caso?
- Mi si è aperto per sbaglio.
- Ora è tutto chiaro.
- Non per me!
- È quella lanterna ad aver attirato Ophelia e le sue donne. E non sarà la prima stranezza che dovrai affrontare, se continuerai a tenerla con te.
- Ma perché? Cosa significa?
- Decidi e saprai. Si torna sempre lì.
- Insomma... La scelta è tra una vita di lanterne e stranezze, e una vita tranquilla?
- E noiosa.
- Questo è un commento di parte!
- In effetti, sì.
Rise, poggiando il mento su una delle mani bianche, dalle unghie smaltate di blu. Sembrò molto più giovane dell'età che doveva avere, per un attimo. Di nuovo, Amir ebbe l'istinto di risentirsi con lei, ma qualcosa in quel modo di fare fece svanire ogni traccia di irritazione.
- Solo un'ultima cosa. Perché proprio io? Sarebbe stato lo stesso se quella lanterna l'avesse aperta chiunque altro?
- No. Ci sono persone che entrano in risonanza con i luoghi e le cose, te l'ho già detto. Così come ci sono persone con dei doni specifici. Joel l'ha avuta in casa per anni e non l'ha mai trovata. Tu, appena sei entrato, te la sei ritrovata tra le mani, e per sbaglio l'hai aperta.
- Da questo, cosa dovrei dedurre?
- Deduci quel che vuoi, a seconda della tua visione della vita e delle cose, mio caro amico. Oh, un cliente. Mi vedo costretta a concludere la nostra discussione. In attesa di riprenderla in futuro.
- Sembra certa di sapere già cosa deciderò.
- Niente affatto. Sto solo sperando per il meglio.
Mentre usciva dal negozio, sollevò la testa e solo allora se ne accorse. Accanto all'insegna illeggibile, una piccola lanterna dai vetri rossi e blu dondolava nella brezza.






***

Grazie a chi è qui. Un flashback sul passato del teatro e una love story improbabile in arrivo nel prossimo capitolo.

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Capitolo 3
*** III - Lo Sciocco Passato e Futuro ***


Capitolo III

Lo Sciocco passato e futuro

 

Her eyes believed in mysteries
She would lay amongst the leaves of amber
Her spirit wild, heart of a child,
yet gentle still and quiet and mild
and he loved her

(Blackmore's Night, Ghost of a rose)

 

Londra, 14 dicembre 1969

 

- Hai intenzione di restare qui tutto il giorno anche oggi?

- Perché, mia dolce signora, cos'ha oggi di differente da ieri?

- Oggi nevica.

- Bene.- Si sporse un po' di più fuori dall'apertura nel muro crollato. Aveva i capelli scuri sporchi di polvere di cemento e un taglio sulla fronte. - Potrò raccontare ai miei figli che ho lavorato sotto la neve.

- E i tuoi figli cosa ti diranno?

- Non lo so. Che sono un idiota, probabilmente. Ma va bene lo stesso.

Decise di non ridere per non umiliarlo. Fallì. Nascose la risata dietro un libro, prima di salutarlo e scappare via.

- È stato bello vederti!- La voce la rincorse per le vie, anche quando il teatro fatiscente e lui erano già distanti.

 

Il giorno dopo il muro era miracolosamente tornato in vita, e lui starnutiva ogni tre parole.

- Hai visto? Ce la sto facendo. E tu che dubitavi di me!

- Io dubito ancora di te. Mi sembra una grande sciocchezza.

- Ma questo tuo gentile disprezzo mi è gradito come fossero parole di stima.

- E smettila di parlare come se fossi in un poema! Siamo nel 1969, se non te ne fossi accorto. E il mondo sta cambiando. Mentre tu te ne stai sepolto in un vecchio teatro, invece di affacciarti sulla realtà.

- Mia signora, questo è il mio contributo alla rivoluzione.

- Se poi la piantassi di chiamarmi mia signora, lo gradirei. Comunque, cosa stai facendo di rivoluzionario?

- Non ti sembra rivoluzionario un palco dal quale gridare il tuo desiderio di cambiamento e trasformazione? Ti prometto che quando sarà finito, potrai tenerci tutti i comizi che vorrai!

Candice rispose solo con una risata. Lui le fece un sorriso deliziato.

Quel tipo... Giorno e notte tra le rovine del teatro che si era messo in testa di restaurare da solo. Folle il proposito, folle quel tipo.

E nonostante quella follia, non riusciva ad essere del tutto sprezzante, con lui.

Forse perché gli doveva qualcosa.

 

*

 

Due settimane prima

 

Se c'era una cosa che non mancava di stupire e urtare Candice, era la differenza abissale che intercorreva tra Louise quando era con le ragazze e quando si portava dietro Martin Dilmond, il suo fidanzato, eletto e benedetto dalle famiglie di entrambi. Louise aveva un eloquio moderato ma sempre brillante, e non aveva timore ad esprimere opinioni o dubbi azzardati, quando era con le ragazze. Appena compariva Martin la quantità di parole emesse dalla bocca della ragazza dimezzava. E soprattutto, le cose che diceva si riducevano a “sì”, “probabilmente”, “sono d'accordo” e poco altro. Candice non riusciva a concepirlo. Ci si può annullare così per amore?, si domandava.

Era una di quelle giornate in cui Martin si era cortesemente offerto di accompagnare le ragazze alla stazione, per raggiungere l'università, e non aveva perso l'occasione per invischiarsi in un'altra discussione riguardo le loro idee femministe e tutto il resto.

- È che partite da presupposti errati.

- Ah sì? Sarebbero?

- Io appoggio il vostro desiderio di uguaglianza tra i sessi, non fraintendermi. Ma mi lascia perplesso il fatto di voler affermare questa uguaglianza anche nell'arte. Se ci guardiamo alle spalle, l'arte è sempre stata appannaggio degli uomini.

- Non certo per merito loro.- Rispose Candice. - Noi non abbiamo mai avuto “una stanza tutta per noi”, dalla quale lavorare, perché eravamo troppo occupate a dover gestire casa e figli. Comunque, questo è un concetto di Virginia Woolf, per citarti solo una delle grandi donne che hanno contribuito all'arte.

Louise naturalmente non si espresse. Martin si prese tutto il suo tempo per squadrarle con il suo sorriso che faceva capitolare certe ragazze, di solito, e quando riprese a parlare aveva un'aria insopportabile da maestro sapiente che si abbassa a spiegare le grandi verità della vita.

- Siete sicure che la donna possa davvero diventare autrice dell'arte, quando nei secoli è sempre stata ispirazione di essa? Non potrebbe essere questo, il suo ruolo? Essere narrata nell'arte, al massimo esserne critica. Ma quando alla creazione...

- Se ripeti di nuovo che la creazione è un processo maschile, io me ne vado.- Lo interruppe Candice, fermandosi lungo la strada e incrociando le braccia. - Anzi, resto qui. Andate avanti voi. Meglio girare da sola per la città, piuttosto che dover sentire questo ammasso di sciocchezze.

- Indignati quanto vuoi, Candice, ma sappi che questo è un comportamento molto infantile.

- Cosa sarebbe infantile, esprimere la propria opinione?- Si risentì lei.

- No, negare la verità che la storia ti mostra piuttosto chiaramente.

- La verità sarebbe che la creazione artistica è riservata alla mente degli uomini?- Domandò lei, dando libero sfogo alla sua rabbia repressa da tempo. - Se proprio vuoi sostenere queste idiozie, vai a raccontarle ai tuoi amici, che passano la giornata a non fare niente e restano indietro con gli esami, mentre noi donne inferiori avanziamo negli studi e teniamo gli occhi aperti su quel che succede nel mondo!

- Candice, questo tuo atteggiamento aggressivo senza motivo è una cosa così tipicamente femminile che...

- Adesso smettila.

Tutti e tre si zittirono all'improvviso, voltandosi verso la voce che si era intromessa senza invito nella discussione. Dal palazzo in rovina davanti al quale si erano fermati era emerso un ragazzo che doveva avere la loro età o forse qualche anno in meno. Era un tipo lungo, dal fisico asciutto, con i capelli neri lunghi e gli occhi chiarissimi. Indossava abiti malridotti e sporchi. In una mano reggeva una spatola ancora per metà imbrattata di calcina, e la teneva sollevata a mezz'aria, quasi fosse stata un'arma.

- Potrei sapere chi è lei e perché ci interrompe?- Domandò Martin, facendogli il suo sorriso sicuro. L'altro non parve minimamente toccato né dal sorriso né da altro. Avanzò di qualche passo e puntò la spatola in direzione di Martin.

- Sono uno che non sopporta le idiozie, e più sono grandi, meno le sopporta.

- A cosa ti riferisci?

- La creazione artistica sarebbe solo maschile? Ma dove sei andato a raccoglierle, queste idee? E soprattutto, perché due ragazze devono essere costrette a subire la tua compagnia e la tua stupidità?

- Lei è la mia fidanzata.- Si difese Martin, prendendo Louise sottobraccio.

- In tal caso, se gradisce la tua prigionia, anche se mi dispiace per lei, faccia pure. Ma non mi sembra che la signorina, qui...- E fece una sorta di ridicolo inchino all'indirizzo di Candice. - Fosse particolarmente felice di ciò che stavi dicendo.

- Ma come parli?- Lo schernì Martin. - Non sembri meno un muratore, anche se usi parole complicate.

- Sono un muratore di cultura. Non ho i tuoi soldi per pagarmi gli studi. Se è una colpa, me la prendo volentieri. Comunque, non avresti il diritto di offendermi nemmeno se fossi un muratore ignorante.

- Si può sapere che cosa vuoi? Stavo passando di qui e facendomi i fatti miei, e tu mi sei spuntato davanti interrompendomi e offendendomi!

- In cosa ti avrei offeso, scusa?

- Mi hai dato dell'idiota.

- Te lo sei dato da solo, con l'ammasso di idiozie che stavi vomitando prima, riguardo le donne e l'arte...

Candice non riusciva a realizzare bene ciò che le accadeva davanti agli occhi. Poteva suonare stupido, ma stava davvero assistendo a un duello. Martin aveva dalla sua il sorriso superiore, il sarcasmo pungente e il disprezzo che sapeva gettare addosso agli altri, oltre che la sua corporatura, di certo più temibile rispetto alla costituzione spigolosa del ragazzo sconosciuto. Però il muratore cavaliere aveva una determinazione che non veniva scalfita dall'aggressività dell'altro. E la sua spatola sollevata a mo' di spada, ovviamente.

- Bene, ora puoi lasciarci alle nostre discussioni, e tornare a murare i tuoi mattoni.

- È anche la mia discussione, adesso.

- Nessuno ti ha invitato a partecipare.

- La stupidità altrui è un invito più che sufficiente, per me.

- Mi sto alterando, e sarebbe meglio che non fosse così, per te.

Il cavaliere fece l'errore di accennare un sorriso vagamente derisorio. Martin perse di colpo la sua calma così costruita, scattò in avanti e gli strappò di mano lo strumento di lavoro, scagliandolo lontano. Poi strinse la mano in un pugno, ma quando si trovò a un soffio dal colpirlo, aprì la mano e si limitò a spintonarlo, ricomponendosi in fretta.

- Non vale la pena perdere tempo con te.- Disse, traendo un lungo respiro.

- Martin, andiamo?- Piagnucolò Louise, con una vocina che Candice trovò insostenibile.

- Sì, andiamo.- Borbottò lui, prendendola nuovamente sottobraccio. - Vieni, Candice.

- No.

- Come sarebbe a dire, “no”?

Già, infatti, come le era venuto in mente di dire “no”?

- Ho altro da fare. Voi andate pure avanti. Ci vediamo in facoltà.

Silenzio e sguardi increduli.

- Ma Candice...- Tentò Louise. Martin però la trascinò via, scuotendo la testa.

- Fa' come vuoi. A dopo.

Candice li guardò sparire oltre la via nella quale si erano fermati, e via via che diventavano più piccoli, cresceva in lei una sensazione di orgoglio e fierezza di sé.

- Sei una donna ammirabile, mia signora.

Trasalì: per un attimo aveva dimenticato la presenza dello strano tipo. Si voltò verso di lui e lo vide che sorrideva. I suoi occhi conservavano quel qualcosa di esaltato, ma erano molto più dolci, adesso. Candice andò a recuperare la spatola gettata via da Martin e gliela restituì. Il ragazzo spalancò gli occhi per la sorpresa e fece un vero e proprio inchino, toccando quasi terra per inginocchiarsi.

- Ma cosa fai?

- Ti ringrazio come si deve!

- Non c'è bisogno di arrivare a tanto.

- È un mondo così triste che a volte c'è bisogno di arrivare a tanto, perché le cose abbiano un senso. Non credi?

Candice stava per rispondergli qualcosa, magari qualcosa con un po' di buonsenso, ma la tristezza improvvisa comparsa sul viso di lui cancellò ogni parola e ogni buonsenso.

- Beh.- Mormorò, un po' a disagio. - Stai bene, vero?

- Sì, certo. Non preoccuparti.

- Suppongo di doverti ringraziare per avermi difesa.

- Anche se ti stavi difendendo benissimo da sola,.- Finalmente lo strano tipo si rialzò e riassettò i suoi vestiti laceri con la stessa dignità con cui avrebbe risistemato un mantello o un'armatura. Candice rise, ma non per pietà. Semplicemente, le aveva messo addosso una genuina voglia di ridere. Lui la rimirò per qualche istante, poi rise con lei.

- Se stai pensando che sono un idiota, mia signora, fai bene.

- Non credo tu sia un idiota. Però potresti smetterla di chiamarmi mia signora?

- Va meglio mia dolce amica?

- Qui qualcuno è un po' fissato con il ciclo arturiano, eh?

- Mi piace giocare a fare il cavaliere. E mi piace molto che Iddio o il Fato mi abbiano fatto incontrare una splendida dama, ma non voglio trattenerti qui oltre, se devi andare. Solo... Vorrei informarti del fatto che lavoro qui e sto restaurando questo teatro, ecco.

- E perché mi informi di ciò?

- Perché sarei onorato se tu volessi tornare qui, qualche volta.

- E perché dovrei?

- Temo di essermi infatuato di te. Ma non temere, non ho cattive intenzioni! Sono una persona onorevole.

Candice si allontanò di qualche passo, istintivamente, e squadrò di nuovo il cavaliere improvvisato.

- Forse è meglio se ognuno di noi torna alla propria attività, dimenticando la cavalleria per un po'. Che ne dici?

- Certo.

- Buon lavoro.- Lo salutò seccamente Candice, riprendendo la sua strada a passo veloce.

- Come ti chiami? Almeno questo, posso saperlo?

Non gli rispose.

- Io sono Arthur!- Le gridò dietro, quando già Candice aveva voltato l'angolo ed aveva abbandonato la via dove risiedeva il teatro in rovina.

 

Era tornata, cinque giorni dopo. Era passata di lì per caso e l'aveva trovato intento a litigare con un sacco di cemento che si era spaccato e si era sparso ovunque. L'aveva colpita il modo aggraziato con cui offendeva il sacco. Nemmeno una volgarità, ma di certo quel tipo aveva una creatività fuori dal comune nel dipingere immagini mentali spaventose. Stava per andarsene, quando Arthur si era voltato e l'aveva vista. Si era illuminato come un bambino davanti alla cosa che desidera di più. E lei, già sul punto di fuggire, si era fermata.

Non aveva più smesso di visitare il matto e la sua impresa, da quel momento.

 

*

 

- Oggi è dura, mia diletta.

- Lo vedo.

Se ne stava seduto mestamente su un secchio di vernice rovesciato, con le maniche tirate su e la sciarpa al collo, i capelli raccolti in una specie di coda, pasticciati di cemento e vernice, e l'aria più depressa di sempre.

- Ma non mi tirerò indietro.

- Lo so.

Gli porse il thermos e la tazza, concedendogli un sorriso. Arthur si sciolse in una specie di commozione così genuina da farla quasi pentire di tutte le volte in cui era stata scortese con lui. Si guardò attorno, mentre lui si serviva il caffè che lei gli aveva portato, e recuperò un altro secchio vuoto. Lo spolverò e ci si accomodò sopra.

- Allora. Raccontami un po' meglio la storia di questo posto.

Arthur sembrò sorpreso di quella domanda. E naturalmente felice. Si tirò immediatamente su dal suo seggio e dalla sua depressione, e cominciò a raccontare, riprendendo in fretta il lavoro, quasi la richiesta di lei gli avesse infuso la determinazione di cui aveva bisogno.

- Questo teatro si chiama Sunflower, e appartiene alla signora Esther Wilmore. Lei è una donna meravigliosa, visionaria più di me, e sfortunatamente poco più abbiente di me. Io lavoro per la società di costruzioni di mio zio, e di recente abbiamo restaurato la sua casa. Lei mi ha parlato del suo teatro, del dispiacere che prova nel lasciarlo alla rovina. Io le ho raccontato delle mie aspirazioni universitarie impossibili. E così... Abbiamo fatto un patto. Io restaurerò il suo teatro per lei praticamente a metà prezzo e lavorando completamente da solo, e se lei riuscirà a riaprirlo e a guadagnarci qualcosa, mi pagherà gli studi.

- È una cosa molto bella.

- È il patto senza speranza di due sognatori fuori dal mondo.

Candice sorrise, con tutta la sincerità possibile.

- Credo di apprezzarli, i sognatori fuori dal mondo, allora.

Arthur non rispose. Si limitò a tenderle la mano, fermandosi a distanza di rispetto, però. Non l'aveva mai toccata, né aveva dato segno di volerlo fare. Era la prima volta che accennava ad un contatto tra loro, e non era detto che volesse davvero prenderle la mano. Candice rimase a fissarlo, senza comprendere.

- Vuoi venire?

- Dove?

- Nel teatro.- Poi sembrò accorgersi dei sottintesi possibili di quelle parole, e si affrettò a lasciar cadere la mano, facendo qualche passo indietro. - No. Perdonami. Fai conto che non ti abbia detto niente. Non voglio che pensi... Non... Scusami.

- Arthur.- Era la prima volta che lo chiamava per nome. - Adesso basta.

Lui tacque e abbassò la testa. Candice rimase a studiarne il viso in ombra.

- È un mondo così triste che uno non può permettersi di vivere in completa serenità. Non è vero?

- Temo di sì.- Rispose lei, imbarazzata e incerta sul da farsi. Si fidava abbastanza di quel ragazzo, era sicura che non avesse cattive intenzioni. Quella era una zona solitaria, ma lì attorno era pieno di case e la gente vi passava tutto il giorno. Non aveva mai avuto paura a fermarsi lì. Non era in pericolo.

Eppure... Se tutto quel modo di fare non fosse stato altro che una scena per indurla a fidarsi e poi...

Si alzò, rabbrividendo. Il sospetto aveva un potere terribile, sulle persone. Incrociò lo sguardo di lui, ferito. Si sentì in colpa, e allo stesso tempo si sentì del tutto giustificata per il proprio stato d'animo.

- Vai pure, se lo desideri.- Le disse lui, sforzandosi di sorridere.

- Ci vediamo presto.

Se lo lasciò alle spalle, con una sensazione indefinibile di perdita a stringerle il petto.

Aveva infranto la perfezione di un sogno un po' ingenuo per lasciare che la realtà vi facesse breccia, impietosamente, e probabilmente era stata la cosa giusta da fare.

 

*

 

Trovare la casa fu relativamente facile, così come arrampicarsi su per la stretta scala che conduceva di fronte alla porta. Più complesso diventò trovare il coraggio di sollevare la mano fino al campanello.

La porta si aprì e Candice si ritrovò a fissare gli occhi scuri di una donna sconosciuta.

- Salve, signorina.

- È la signora Esther Wilmore?-

- Sì. In cosa posso esserle utile?

- Ehm... Mi perdoni... È una domanda poco delicata, forse, ma...- Abbassò gli occhi, incapace di trattenere il terribile imbarazzo di quella situazione. - È vero che la sua casa è stata restaurata da una società di costruzioni nella quale lavora un ragazzo che...

- Non sarai mica la ragazza per cui Arthur ha una cotta senza speranza?

Candice sollevò la testa di scatto, sentendosi avvampare orribilmente.

- Ma come...

- Se quel ragazzo fosse un poeta, ti avrebbe già composto uno sproposito di versi. Per mia fortuna è solo un innamorato depresso, e quindi si limita ad inondarmi di ragguagli sulla tua lucente bellezza. Dimmi, eri venuta per avere una conferma di quel che lui ti ha detto? In tal caso, posso garantire per la buona fede e l'irreprensibilità di Arthur. È persino troppo serio, quel ragazzo.

- È una cosa brutta, che io abbia avuto bisogno di una prova?

- Io la trovo una cosa intelligente che denota il tuo buonsenso. Arthur è un affascinante buffone, e per quanto sia romantico chiacchierare con uno sconosciuto restauratore di teatri, comprendo che una persona voglia essere rassicurata sulle sue credenziali.

Candice si ritrovò le lacrime agli occhi, senza sapere perché. Era ancora impantanata nell'imbarazzo più disperato, e allo stesso tempo una sensazione di indicibile sollievo la stava riscaldando.

- Mi scusi, devo esserle sembrata...

- Molto carina.- Esther Wilmore sorrise e chiuse la porta dietro di sé. - Vuoi venire con me al teatro? Se preferisci tacere con Arthur riguardo questo nostro scambio, diremo che ci siamo incontrate per caso lungo la strada.

- Va bene. Grazie.- Balbettò lei, cedendo alle lacrime. Si asciugò gli occhi in fretta, sentendosi stupida e incapace di capire cosa stesse provando, e perché. La signora Wilmore, però, le sembrava un'altra di quelle persone di cui non solo ci si può fidare, ma ci si vuole fidare disperatamente.

 

Candice era stata lontana dal teatro per una settimana, e quando vide il muro completamente ricostruito, intonacato e dipinto, all'improvviso tutti i sospetti e l'angoscia dei giorni precedenti svanirono.

- C'è riuscito. Ha riparato l'esterno del teatro.

- Io non avevo dubbi al riguardo. Lo aiuterei, ma non so cosa posso fare, se non fornire quei pochi soldi per i materiali, portargli il pranzo e dargli sostegno. Ora però vorrei sapere dov'è.

La porta principale del teatro era socchiusa. Esther invitò Candice a seguirla nella penombra dell'edificio, e insieme si addentrarono oltre la soglia.

- Sta' ferma lì, Esther! Lasciami rimettere la luce! Se fai un passo di più rischi la vita, qui dentro!

Candice sorrise, al suono della voce allarmata di Arthur. Percorsa, come sempre, da quel brivido di agitazione costante che le piaceva, perché dava la misura di quanto quel ragazzo fosse coinvolto dalle cose.

- Cosa stai combinando?- Domandò Esther, trattenendo una risata. - Hai fatto saltare la luce?

- Non sono stato io, è saltata da sola!

- Certo. Saranno stati gli spiriti di questo posto.

- Guarda che non è un'ipotesi del tutto campata in aria...

Finalmente la luce ritornò, e l'atrio del teatro si rivelò loro. Pieno di polvere e macerie che coprivano il suo vero aspetto, che non doveva essere stato mai particolarmente bello – eppure Candice si sentì riempire di ammirazione lo stesso.

- Allora sei tornata.

Incrociò gli occhi azzurri di Arthur e rimase senza parole.

- Ci siamo incontrate venendo qui.- Spiegò Esther. - Ho capito subito chi fosse. Me ne hai parlato piuttosto spesso, sai. Adesso che ne dici di portarci un po' in giro?

Arthur annuì, riempiendosi del suo solito entusiasmo.

- Stanotte ho stuccato e riverniciato corridoi e camerini. Tutto sommato i danni erano relativi, lì. In pratica restano solo la platea, da sistemare, e i palchi. Sì, lo so, è la parte peggiore, ma... Lo sapete. Sono un megalomane.

- Ma no.- Lo contraddisse Esther. - Al massimo ti sei fatto dare alla testa dal tuo nome e dalle storie antiche.

- Se le vecchie idee sul nome come presagio fossero reali, avrei una bella responsabilità.- Rise lui. - Ma temo che non sarò mai un avventuriero o un re. Solo... Uno sciocco. Lo Sciocco passato e futuro. Questo mi si addice, no?

- Non credo.- Rispose con impeto Candice. - Non sei così sciocco.

- Anche se perdo tempo con un vecchio teatro, mentre il mondo attorno a noi sta cambiando?

- Se il mondo cambiasse a prezzo di dimenticare il proprio passato e tutto quel che di buono c'era un tempo, sarebbe un cambiamento terribile. Le novità in cui credo cominciano dal rispetto per le cose belle e buone.

Arthur si voltò e le fece un sorriso. Come sempre aveva il viso sporco di polvere e sangue, e Candice si trovò a pensare che aveva davvero l'aspetto di un cavaliere di ritorno da qualche impresa. Solo che il suo avversario non era un drago, ma un vecchio teatro.

O forse era entrambe le cose.

- Mia signora, cosa...

- Mi chiamo Candice.- Lo interruppe lei. - Penso che ti meriti di saperlo.

Sentì Esther che rideva alle loro spalle. Tornò a guardare Arthur, che sembrava avesse appena ricevuto una rivelazione divina.

- Candice.

- Esatto.

- Mi hai davvero detto il tuo nome.

- Già.

- Di tua spontanea volontà.

- Oh, per favore, metti via quel sorrisone scemo e andiamo avanti!

- Certo, Candice!- Riprese a guidare le due donne, saltellando come un ragazzino, per il divertimento di entrambe. - Dunque, sotto il palco ci ho appena messo piede, ma non c'è altro che polvere. Poi ho rimesso in ordine il piccolo ripostiglio vicino ai bagni. Lì c'era qualsiasi cosa possa venirvi in mente, invece. E ho sistemato anche quella strana stanza tra il magazzino e i camerini.

- Quale strana stanza?- Domandò Esther.

- Quella con il lampadario di vetro azzurro. A proposito, perché un oggetto così bello si trova in una stanza del genere?

- Quale lampadario di vetro azzurro?

- Dopo vi ci porto. Ora...- Si fermò davanti alla logora tenda che conduceva alla platea. - Vi presento il Sunflower.

Fiero come si fosse trattato di una sua personale creazione evocata dal nulla, le fece entrare nella platea ed accese le luci. Candice trattenne il respiro. Era tutto ricoperto dalla polvere e dagli anni, piccolo, trasandato e bruttino, eppure era meraviglioso.

- Non è ancora in forma, ma presto lo sarà.- Annunciò Arthur, alle loro spalle. - Vedrete. Riapriremo e lo terremo in vita.

- Intanto tu hai ridato a me non so quanti anni di vita.- Rispose Esther, con la voce infranta dalla commozione. - Grazie. Questo è un posto singolare. Sarebbe stata una perdita terribile, lasciarlo morire.

- Una perdita per chi?- Domandò Candice.

- Per l'anima della città, forse. Ci sono luoghi che non dovrebbero spegnersi mai.

Tra Esther e Arthur intercorse uno sguardo che Candice non comprese.

Avrebbe compreso, molto tempo dopo, ma quel giorno era soltanto una ragazza poco più che ventenne, in un mondo in trasformazione, con troppe speranze tra le mani. Quel giorno voleva soltanto scommettere su un sogno irreale che aveva preso vita dal niente e che le sembrava più bello di qualsiasi cosa avesse mai avuto, più vero di tutte le cose vere.

Cercò lo sguardo di Arthur e gli sorrise. Se lui voleva inventare un altro mondo, un'altra storia fuori da tutte le logiche comuni, allora l'avrebbe seguito fino all'ultima parola.

 

- Allora? Che te ne pare?

- Dove hai trovato quella roba?

- Era una vecchia tenda che ho recuperato... Sì, va bene, mia zia la voleva buttare via, ma con qualche rammendo...

- No. Non se ne parla. Vuoi che il pubblico si schifi appena vede questo coso e non entri nemmeno in platea?

- No, ma...

Candice gli strappò di mano il misero straccio e lo gettò via.

- Troveremo di meglio. Che altre novità strabilianti hai per me, oggi?

- Ho finito di pulire il primo ordine dei palchi e sono riuscito a far funzionare il lampadario di vetro azzurro.

- Arthur, quale lampadario di vetro azzurro?

- Quello della stanza...

- Che hai sognato tu. Forza, oggi ti aiuto con i palchi.

- Ma sto dicendo sul serio!

- Cielo, mi imbratterò in modo indegno. Ah, pazienza.

- Candice, pensi che questo posto sia infestato? No, perché ci sono cose che vedo solo io, e...

- Certo. Ci mancano solo i fantasmi, poi abbiamo proprio tutto.

Le loro risate attraversavano corridoi, rimbalzavano sotto soffitti altissimi e scivolavano fino all'anima del teatro. L'eco di quel suono nuovo cancellava brandelli di oscurità, guariva ferite e risvegliava milioni di sogni germogliati in più di due secoli tra quelle mura.



***
Grazie se siete arrivati fin qui.
Il prossimo capitolo porterà un letargo al contrario, altre donne inquietanti, molti spettri e un compito che si fa più chiaro.

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Capitolo 4
*** IV - Estate di rinascita ***


Capitolo IV

Estate di rinascita

 

If you ever feel like something's missing
Things you'll never understand
Little white shadows, sparkle and glisten
Part of a system plan

(Coldplay, White shadows)

 

I

Londra, luglio 2008


- Allora, sentiamo, una volta dato l'esame, come conti di sprecare i tuoi giorni estivi?

- A combattere con l'umidità del posto dove lavoro.

- E dove lavori?

Amir stava per rispondere, quando l'altro gli piazzò davanti un sacchetto pieno di carote e sedani tagliati in esili bastoncini.

- Che dovrei farci?- Borbottò, guardando alternativamente la verdura e il ragazzo, senza capire.

- Mangiane uno, se ti va. In alternativa, puoi cercare di accendertene uno per fumarlo.

- Non ti facevo tipo da verdure.

- Infatti mi fanno schifo. Ma era l'unica cosa che ho trovato nel frigo. L'unica da una settimana, praticamente.

- Grazie, no.

- Perché ti ho detto che è in frigo da una settimana? Non la miglior presentazione del mondo, in effetti.

- No. Lascia perdere. Insomma, stavamo parlando di dove lavoro, no? Lavoro in un teatro. Cioè, aiuto il proprietario di un teatro a gestire questo posto. Il Sunflower.

- Mai sentito.

- È piccolo, bruttino e periferico. Nella zona di Wandsworth. In un posto dove non ci passa nessuno. Però a me piace. Adesso stiamo cercando di risistemarlo, a settembre comincia una stagione vera e propria.

- Almeno è un lavoro più divertente che fare il cameriere al Gateway, eh? Dio, uno come te che viene spedito a interrompere le risse! Quello era un posto del cazzo, sia come locale che per il personale.

- Mi trovi d'accordo.- Rispose Amir, ridendo al ricordo delle sue passate disavventure. - La sera in cui hai... Discusso con quei tizi... Pensavo davvero che sarebbe finita molto male.

- Sì, discusso. Un bell'eufemismo. E quella cretina del tuo capo ha mandato te a farci smettere.- Commentò l'altro, battendogli una mano sulla spalla. - Ma sai che quello stronzo alto con i capelli sparati è venuto a cercarmi nel parcheggio, dopo?

- E tu che hai fatto?

- L'ho investito.

- Cosa?

- Ma dai, scemo, scherzo! Gli ho spruzzato addosso della schiuma da barba e sono schizzato via.

- Dove l'hai trovata, la schiuma da barba?

- Boh, era in macchina. Non so mica di chi è. Forse di Danny. Si fa la barba e un sacco di altre cose, in quella macchina. Dovrei comprare un mezzo tutto mio, invece di dividerlo con quei tre imbecilli. Già la casa va a puttane, vista la nostra abilità nell'economia domestica.

Amir rifletté con divertimento che la capacità dell'altro di mischiare il gergo più basso con termini ricercati era davvero affascinante.

- Non... Voglio dire, dopo quella serata, non è che ti sei cacciato in altri guai, vero?

- Ehi, senti, Amir, quella serata fu un caso. Non sono un tipo da risse. Non troppo, almeno. Non mi giudichi per questo, no?

- Non giudico nessuno. Ma mi dispiacerebbe che una persona intelligente come te si sprecasse in faccende del genere.

- Mah, intelligente. Se c'è uno che sopravvaluta la gente sempre e comunque, quello sei tu.

- Perché dici così, Aidan?

- Per esempio, sono riuscito a farmi buttare fuori dalla pasticceria dove lavoravo, e ora mi hanno preso in un'erboristeria. Penso che morirò avvelenato. Non è mica roba normale, quella che vendono lì. Ed è uno schifoso part-time, comunque, e non mi serve a niente. E quindi...

- Aidan Casey?

Il ragazzo scattò verso la voce che lo chiamava con un impeto tale da seminare le sue verdure ovunque.

- Prego.- Il professore sulla porta, armato della lista degli studenti, gli fece cenno di accomodarsi nell'aula dove si sarebbe svolto l'esame. Il ragazzo raccolse goffamente i suoi libri e un paio di carote.

- Lascia fare. Alla verdura ci penso io.- Lo rassicurò Amir.

- Grazie! Ehi, ehi, se ci va bene a tutti e due, dopo ti pago da bere!

Aidan sparì oltre la porta funesta e Amir rimase solo con i suoi shangai di carote e sedani da recuperare.

L'attesa durò poco e fu coronata dall'arrivo festante di Aidan, che sventolava il libretto universitario con una fierezza che faceva ben capire il risultato. Amir però non ebbe tempo di complimentarsi: la voce fatale del professore lo chiamò per sostenere la sua prova.

- Ti aspetto, eh!- Gli gridò dietro Aidan, sbracciandosi.

Sì, forse ce l'avrebbe fatta, a parlare della storia inglese senza infilare nel mezzo ai discorsi imbarazzanti uscite riguardo l'umidità nel Sunflower, l'eloquio del signor Richard o la malsana ossessione per il tè del signor Bennett. Di certo erano cose che gli avevano tenuto la mente più occupata rispetto allo studio.

 

- Allora, dovrei pagare io perché hai preso un voto migliore del mio, però tu lavori per un riccone e quindi avrai più soldi di me di sicuro, però ti avevo promesso che...

- Aidan. Grazie. Non prendo niente. Ti farò compagnia mentre bevi quello che vuoi, d'accordo. Se hai bisogno posso reggerti ancora il sacchetto della verdura. Se poi decidi di metterlo nello zaino...

Il ragazzo lo squadrò per qualche momento, come un severo censore della legge guarda un reietto della comunità che sta dando scandalo, e poi concluse agitandogli una mano davanti agli occhi.

- Eh? Stai bene? Ti offrono una bevuta gratis e rifiuti? No, questa me la devi spiegare.

- Te la spiego. Faccio il Ramadan.

- Cosa? Quella storia che tipo non puoi mangiare se c'è il sole?

- Non esattamente. Posso mangiare e bere dopo il tramonto.

- Ok. Come vuoi. Nessun problema, davvero. Le religioni sono tutte strane, ma va benissimo. Chiusa la faccenda, evviva l'ecumenismo, e, ehi, scusa, ci porti una birra? Grazie!

Se non altro, Aidan lo faceva ridere per la maggior parte del tempo che trascorrevano insieme.

- Stavo pensando una cosa. Potrei chiedere al signor Bennett se ti assume come mio aiutante per rimettere in sesto il teatro. Almeno per questa estate.

- E perché dovresti farlo?

- Per aiutarti.

Aidan riprese a fissarlo con quell'aria un po' fastidiosa di chi non crede ai propri occhi.

- Di' un po'. Ma tu sei vero?

- Eh?

- Lascia perdere. Beh, grazie dell'offerta. Ma non preoccuparti per me.

 

*

 

- Cazzo.

- Ho sempre commenti non lusinghieri, al primo colpo d'occhio di questo teatro, ma devo dire che il tuo è piuttosto interessante e soprattutto innovativo.

Amir dovette concedersi quella manciata di secondi per riprendersi dalla risata, e poi corse a stabilire dei rapporti pacifici tra il suo amico e il suo datore di lavoro. E il teatro, ovviamente.

- Signor Bennett, lui è Aidan Casey, mio compagno di corso. Aidan, il signor Joel Bennett. E quello è il Sunflower.

- Molto piacere, Aidan.

- Oh. Sì. Certo. Piacere, signor Bennett. Ehi, vecchio teatro, come butta?

Aidan aveva colto subito la natura attiva e socievole del Sunflower.

- Bene, sembra che andiate d'accordo.- Commentò il signor Bennett, appena sfiorato dal comportamento fin troppo socievole del ragazzo. - Comunque, come Amir ti avrà anticipato, sono felice di assumerti come aiuto custode del teatro. Organizzeremo un orario compatibile con i tuoi studi. Spero che ne sarai soddisfatto.

- Certo. Perfetto. Grande. Va benissimo.

- Credo di aver capito il concetto.- Rispose il signor Bennett, con evidente divertimento. - Adesso io devo andare. Amir ti farà fare il giro del teatro.

Appena il signor Bennett fu sparito dalla loro vista, Amir venne assalito da un Aidan nel panico. Quella era di certo una visione insolita.

- Senti, ma sorride sempre in quel modo? No, perché non si riesce a capire cosa pensa veramente, e non mi piace!

- Lo so. Dai, vieni, ti faccio conoscere per bene il Sunflower.

Entrarono, e come al solito il teatro li inglobò nel suo stomaco insalubre e poco illuminato.

- È un po' labirintico, questo posto.- Disse Amir, mentre portava l'altro nel buio mondo del piano inferiore. - Cioè, è una cosa strana, perché in realtà è piccolissimo e in teoria ci sono solo un paio di corridoi, qualche camerino e ripostiglio, e poi il sottopalco, però quando ci entri ti sembra sempre che sia...

- Un bel casino.

- Io però riesco ad orientarmi. Non so perché. Insomma, anche quando mi perdo in qualche maniera ne vengo fuori.

- Non ti inquieta, lavorare qui?

L'immagine fulminea di figure bianche che danzavano sul palco attraversò la mente di Amir.

- Mah, diciamo di sì.- Amir aprì la porta che dal sottopalco portava ad un piccolo cortile interno. - Un po' mi inquieta.- Poi lanciò un urlo, ritraendosi dentro l'edificio con un balzo.

- Cos'era quella, una dimostrazione di quanto sei inquieto?

- C'è qualcuno, fuori!

- Ehm...- Una voce maschile richiamò la loro attenzione dall'esterno. - Posso spiegare?

Amir e Aidan si scambiarono un'occhiata di qualche secondo. Dall'altra parte della porta socchiusa la voce maschile chiese nuovamente udienza.

- Chi è, lei?- Domandò Amir, aprendo uno spiraglio tra sé e il tizio misterioso.

- Sono il capo della squadra che il signor Bennett ha contattato per il trattamento anti-umidità.

- Oh.- Amir aprì la porta, imbarazzato. - Mi scusi. Non me l'aveva detto. Mi dispiace.

- Invece a noi aveva detto che avremmo trovato lei, qui.- Rispose l'uomo, un tipo piuttosto giovane, alto e robusto, con una massa di capelli neri tenuti raccolti in una coda alta. - Io sono Edward.- Sorrise, ma non tese loro la mano. - Il resto dei miei collaboratori è ancora fuori, stanno prendendo quello che ci serve per il lavoro.

- Sì, ma... Come avete fatto ad entrare? Credevo che il cortile fosse chiuso.

- Lo è. Ho trovato la porta secondaria aperta e sono entrato, poco fa.

- Sono sicuro di averla chiusa!

- Le sarà sembrato. Mi faccia vedere questo posto, Amir.

- Il signor Bennett le ha addirittura detto il mio nome?- Domandò il ragazzo, dubbioso. - E soprattutto, è riuscito ad assumervi da solo, senza bisogno di aiuto?- Borbottò tra sé, senza farsi sentire dallo sconosciuto.

- Questo posto ha un fascino enorme, per me.- Disse il signor Edward, all'improvviso, mentre esploravano i camerini degli attori, dietro il palco.

- Lei è già stato qui?- Chiese Amir.

- Sapete da chi è stato costruito?- Chiese Edward, ignorando la domanda. Prese la guida del gruppo e proseguì sicuro, come uno che conosce benissimo la strada.

- So che è della fine del Settecento.- Rispose Amir.

- 1778. Lo fece costruire una borghese ricca ed eccentrica. La signora Lydia White era innamorata di un attore, membro di una compagnia di passaggio a Londra, rifiutata da tutti i teatri perché portava in giro spettacoli ritenuti sconvenienti.

- Sconvenienti in che senso?

- Satira politica feroce. La signora White decise di dare alla compagnia del suo amato Albert Dillen un luogo dove mettere in scena la propria arte. Finì per sposare il regista della compagnia, Joseph Harper, cinque anni dopo l'apertura del Sunflower. Il nome viene dalla compagnia di Harper. Non si sa di preciso perché l'avesse scelto. Forse perché gli piaceva la simbologia del fiore che segue la luce solare: anche la sua compagnia era al servizio della luce della verità, almeno secondo le sue intenzioni. O forse per un motivo molto meno nobile, tipo l'apertura a caso di un dizionario. Mai romanticizzare eccessivamente le cose di cui non si sa troppo.

- E dopo il matrimonio il teatro rimase alla famiglia White?

- Sì. Non ricordo bene la successione, ma credo che se lo siano passati i White fino a metà Ottocento almeno. Non l'hanno sempre usato come teatro, però. Il Sunflower ne ha viste di tutte. Seminari scientifici con esperimenti, lezioni universitarie, e poi, compagnie reiette dal resto del mondo artistico londinese... Perfino il Grand Guignol, all'inizio degli anni Venti, quando andava di moda.

- Intende quel teatro horror splatter, o qualcosa di simile?

- Il Sunflower è sopravvissuto anche al Grand Guignol.- Proseguì Edward, proiettato nel suo racconto. - Qualcun altro no, però. Ci fu un'attrice che morì in scena durante una rappresentazione. E prima ancora c'era stato uno studente morto e altri due scomparsi, all'epoca in cui vi si tenevano lezioni. E credo che un membro della famiglia White, una ragazza, sia morta in un incendio domato appena in tempo prima che distruggesse ogni cosa.

Edward si fermò sulla soglia del vano principale del teatro. Dall'interno proveniva quella luminescenza a cui Amir non aveva ancora trovato una spiegazione, e una specie di bagliore sfiorava il viso di Edward.

Per qualche motivo incomprensibile Amir pensò alla lanterna del signor Arthur.

- Le storie vanno trasmesse. Sono parte dell'eredità dei luoghi.- Riprese Edward. - Le storie del Sunflower mi sono sempre piaciute.

Lo seguirono oltre la porta e trovarono alcune persone ad attenderli. Sedevano sulle poltroncine rosse e parevano più che altro spettatori che attendono l'inizio dello spettacolo, più che operai. C'erano due uomini piuttosto giovani, un altro che sedeva distante dando le spalle ai nuovi arrivati, una signora sui quarant'anni, molto bella, e una ragazza dall'aria cupa. Solo uno degli uomini li salutò con un cenno della testa, quando fecero il loro ingresso in sala. La signora sorrise in un modo che spinse Amir ad abbassare subito gli occhi. A un'occhiata più attenta, nessuno di loro aveva proprio l'aria o l'abbigliamento di un operaio, anche se c'era qualcosa che distraeva lo sguardo di Amir e non gli faceva cogliere il punto del problema...

- Sì. Va bene.- Disse Edward. - So cosa dobbiamo fare, qui.

- Ci saranno anche altri lavori di manutenzione.- Lo avvertì Amir. - Devono intonacare di nuovo un paio di stanze, e riparare l'impianto di riscaldamento.- E mentre parlava avvertiva il contrasto tra le sue parole così concrete, così banalmente reali, e qualcos'altro di indefinito che spirava lì dentro. Un alito prepotente che sembrava seguirlo.

- Amir?

Trasalì, avvertendo qualcuno che lo scrollava dolcemente. Aidan gli aveva posato una mano sulla spalla e lo guardava con aria interrogativa.

- Che c'è?

- Ti sei incantato?

- Eh? No.

Si guardò attorno: Edward e la sua compagnia si stavano preparando per andarsene. Gli sfilarono davanti in fretta, in silenzio, strappandogli ancora qualche pensiero confuso e incerto su cose che non riusciva a capire.

- Ci vediamo, allora, Amir.- Lo salutò Edward. Imboccò il corridoio delle luci verdi e viola, insieme agli altri, e Amir fu quasi sollevato quando li vide sparire.

- Che hai?- Chiese Aidan, perplesso.

- Le cose che ha detto.

- Chi?

- Edward.

- Ha detto tre parole sui trattamenti da fare. Non mi sono sembrate niente di tragico. Hai l'aria di chi ha appena avuto un'illuminazione sulla vacuità dell'esistenza.

- Tre parole? Ma tu non... Tutti quei discorsi su...

Aidan fece una faccia particolarmente ridicola nella sua non-comprensione, e scosse la testa.

- Dai, andiamo a bere qualcosa, che fa caldo. Cioè, io bevo mentre tu mi guardi. Poi organizzeremo per bene il lavoro. Vedrai che domeremo il teatro.

Mentre uscivano, Amir fu certo di aver sentito qualcosa che poteva essere uno scricchiolio del legno, o il rumore di qualcosa in precario equilibrio che cade, ma somigliava lo stesso ad una risata.

Non era poi molto sicuro che avessero potere su quel posto.

 

 

II

 

Agosto 2008

 

- Ti sei perso?

- Eh? No, no. So benissimo dove sono, grazie.

- È solo che non sai dov'è il resto del mondo.

Sospirò, ammettendo la sua sconfitta con un sorriso. La signora davanti a lui sembrava abbastanza gentile da non deriderlo per la sua inettitudine e semmai aiutarlo.

- Da che parte devo andare per raggiungere la stazione?

- Gira a destra e prosegui a diritto. Non è lontano.- Rispose lei. Era bionda e indossava un abito azzurro, un po' fuori moda ma fascinoso. - Ti ho visto entrare nel Sunflower. Vivo qui, sai, e lo vedo sempre chiuso.

- Lo stiamo riaprendo. C'è già stato uno spettacolo, in Maggio, e a Settembre ricomincerà una vera e propria stagione.- Lo disse con il suo entusiasmo più genuino, senza pensare che magari a quella sconosciuta non importava un bel niente della stagione del Sunflower. Però lei non smise di sorridere.

- È bello.- Rispose. - Sarà un letargo al contrario. Un'estate di sonno, ma un sonno buono, durante il quale si prepara la rinascita. E in autunno, il risveglio. Molto intonato all'anima di questo posto. Non dimenticatevi di riaccendere tutte le sue luci.

Bene, ecco un'altra frase di quelle senza senso – o con fin troppo senso – da mettere da parte e cercare di decifrare. Amir non seppe cosa risponderle. Rimasero a fissarsi nella luce dell'unico lampione superstite tra tutti quelli che avrebbero dovuto illuminare lo spiazzo davanti al teatro.

- Ora posso andare.- Disse la donna all'improvviso.

- Ma certo. Voglio dire, non la stavo... Non volevo trattenerla. Insomma, io...

Lei scoppiò a ridere e gli indicò qualcosa che gli stava arrivando alle spalle. Amir si voltò di scatto e si trovò di fronte una donna a un soffio dal viso.

La sconosciuta di prima uscì completamente dalla sua mente, perché la nuova sconosciuta superava in un colpo solo tutti gli standard di normalità e appropriatezza che Amir aveva avuto fino a quel momento.

Indossava un completo blu che le conoscenze di Amir ricondussero da qualche parte verso la fine dell'Ottocento. L'abito era complesso ed eccentrico, esagerato nello sfarzo e così insolito da attirare per primo l'attenzione. Quando Amir superò lo shock del costume e raggiunse il viso, dovette abbassare gli occhi. La signora in abiti stravaganti era una donna davvero molto bella e molto vicina. Non troppo alta, dalle forme aggraziate, con i capelli castani che le scendevano lungo le spalle e sul petto (molto bello ed esposto e vicino anche quello), riccioli graziosi. Aveva gli occhi color ambra, i lineamenti del viso delicati e la bocca, in contrasto, con labbra carnose e scure.

Soprattutto, aveva indosso un ghigno divertito che metteva a disagio il povero osservatore, schiacciato da tale esplosione di grazia e bizzarria.

- Ben non mi aveva detto che il suo servitore era anche carino. Ma suppongo che Ben non sia la persona che ti dà questo genere di informazioni. Giusto?

Amir fece tre passi indietro.

- Signora, temo che abbia sbagliato persona.- Balbettò, incespicando nei suoi stessi piedi.

- Probabile, e allora il mondo deve essere pieno di custodi pakistani che lavorano nei teatri di ricchi pesaculo.

Amir azzardò un'occhiata, giusto per capire se aveva sentito bene per davvero. La donna sospirò, alzando gli occhi al cielo.

- Sei il ragazzo pagato da Joel Bennett per tenere in vita quella desolazione di teatro o no?

- S-sì, ma...

- Allora non ho sbagliato. Sapevo che eri qui. Mi dispiace farti ritardare, ma ho bisogno di entrare lì dentro, nella desolazione. Questione di mezz'ora. Poi ti riporto a casa in macchina. Che ne dici? Ho il permesso di Ben, per sfruttarti. Ti dà un aumento per ogni servizio che mi fai.

- Ma chi è Ben?

- Joel Bennett, il tuo capo.

- E lei chi è?- Cercò di assumere un'aria sostenuta, per difendersi da quella tempesta di sfrontatezza.

- Vivien Headley. Un'amica del tuo capo.

- La figlia del signor Arthur?

- E figuriamoci se non ti ha costretto a subire le narrazioni delle imprese di re Arthur, eh?- Sospirò la donna. Sembrò molto più umana e accettabile, con quella goccia di irritazione in viso. - Perdonami per l'inizio brusco. È tardi, sono stanca e ho bisogno che tu apra il teatro per me.

- Per me non c'è problema.- Rispose lui. - Ma chi mi assicura che... Se facessi entrare un estraneo nel teatro...

- Più che giusto.- La donna tirò fuori un telefono da una delle tasche dell'abito e compose un numero. - Ben? Ti ho disturbato? Sì, lo so che ti ho disturbato, in realtà ci speravo. Vuoi dire al tuo segretario che può fidarsi di me? Grazie

Offrì il telefono ad Amir con un sorriso conciliante e lui lo accettò con circospezione.

- Pronto?

- Mi complimento per la scrupolosità.- Rispose la voce divertita del signor Bennett. - La signorina Headley è un'amica. Apri il Sunflower e fatti riaccompagnare qui con la sua auto. Se ti propone il treno, i suoi misteriosi autobus notturni o qualcosa di meno comune, rifiuta.

Succedeva di rado, ma qualche volta rimpiangeva il vecchio lavoro al pub. Così malpagato e umiliante, il più delle volte, ma così normale...

 

- Non ci metto piede da anni.- Commentò Vivien, oltrepassando la soglia del Sunflower.

Edward e la sua squadra potevano anche averci lavorato, ma l'umidità regnava sovrana, lì dentro, soprattutto di notte, considerò Amir, accendendo la schiera di luci verdi e viola.

- Ci sono ancora tante cose da fare. Stiamo ripulendo le stanze, sistemando i danni più piccoli...

- Tu e Ben?

- Io e un altro ragazzo assunto dal signor Bennett.

- Ah, ecco. Il giorno in cui vedrò Ben che lavora... No, probabilmente non lo vedrò mai.

Stava diventando un'abitudine che piaceva troppo a tutti, quella di farsi accompagnare da lui in giro per il teatro. Aprì la porta che conduceva ai camerini e lasciò che Vivien lo precedesse. In fondo non gli dispiaceva. Il Sunflower stava diventando un posto in cui era familiare e piacevole scivolare.

- Da quanto tempo sei al servizio di Ben?

- Perché lo chiama Ben?

- Le brutte abitudini di mio padre. Non chiamava mai nessuno con il suo vero nome.

- Lavoro per il signor Bennett da qualche mese.

- Ero in viaggio per lavoro, altrimenti ci saremmo conosciuti prima. Ben è una conoscenza di quelle dalle quali non si può stare lontano. Mi occupo di antiquariato. È per questo che siamo qua. Ci deve essere una cosa che voglio assolutamente. Sto riorganizzando il mio negozio di Londra con una settimana a tema e quello che mi serve è...

Perse la voce della donna oltre una porta e quando entrò nella stanza successiva Vivien non c'era.

Sulla sua testa pendeva un immenso lampadario di vetro azzurro. Una cascata di piccole gocce splendide che tremavano appena, mosse da una brezza che arrivava chissà da dove. Nella stanza c'era un armadio a otto ante, che occupava un'intera parete. Una di esse era sfasciata e si intravedevano scatole ammonticchiate e fagotti di stoffa e carta, oltre il legno in pezzi.

- Signorina Headley?

Niente. La sua voce galleggiò nell'aria per qualche attimo, prima di disperdersi. Il vento si animò e fece tintinnare i vetri del lampadario.

Il vento. Lì dentro.

Chiuse gli occhi istintivamente. Fece qualche passo e li riaprì, raggiungendo con le mani la maniglia della porta davanti a lui – non la stessa da cui era entrato, eppure non gli era sembrato che ci fossero due porte...

Era nella stanza adibita a magazzino, e c'era Vivien, inginocchiata davanti ad un orologio a pendolo da parete riportato alla luce.

- Ho sempre usato questo posto come dimenticatoio per le cose inutili. No, non inutili... Per le cose che non volevo avere tra i piedi.- Mormorò la donna, sfiorando l'orologio appoggiato a una catasta di oggetti meno fortunati. - Non credo che mi abbia mai accettata del tutto, questo teatro.- Si rialzò, scuotendo via la polvere dalla gonna. In mano aveva una borsa di plastica che aveva riempito con qualcosa rubato al mucchio di cose dimenticate. - Andiamo, per favore.

 

Per qualche motivo, vedere Angela fuori dalla casa del signor Bennett lo mise di buon umore. Sedeva in equilibrio sulla ringhiera delle scalette della veranda. Quando li vide sollevò una mano e sorrise. Indossava un abito grigio e uno scialle azzurro, e i boccoli color miele calavano con arte lungo la spalla sinistra.

- La mia signora è di ritorno?- Domandò, quando Vivien ebbe raggiunto di corsa le scale.

- Non certo per te.- Rispose Vivien, fermandosi a poca distanza da lei. Angela non sembrò infastidita da quella risposta dura. Continuò a sorridere e prese a scendere le scale, ignorando Vivien.

- Ciao, Amir. Bentornato.

- Buonasera, signorina Angela.

- Come sta il Sunflower?

- Se la cava, direi.

Vivien si accomodò su una delle due poltroncine di vimini davanti all'ingresso. Amir pensò che la cosa più conveniente da fare fosse sparire in casa, ma non gli fu concesso.

- Che fine ha fatto la lanterna di mio padre?- Domandò Vivien, afferrandolo per il cappuccio della felpa.

- Ehm... È in camera mia.

- E perché?

Doveva esserle successo qualcosa in quei pochi minuti, perché era diventata improvvisamente sgradevole e ancor più imbarazzante di prima.

- L'ho trovata e il signor Bennett mi ha detto di tenerla al sicuro.

- Non dire idiozie. L'unico posto al sicuro è qui, appesa in veranda, dove dovrebbe stare.

- Lascialo fare.- Angela arginò quelle parole irritate. - Se preferisce tenerla in camera, non puoi forzarlo. Tuo padre l'ha lasciata in casa di Joel. Joel l'ha affidata ad Amir, e lui ne è il custode.

- Bel custode, uno che tiene una lanterna in camera.

- Ogni cosa a suo tempo.

- Non ti sembra che il tempo sia più che maturo?

- Non sta a noi deciderlo.

- Non sta mai a noi decidere!- Si alterò Vivien, scattando in piedi. I suoi boccoli lucenti sobbalzarono nell'aria, come le trine e gli ornamenti del suo abito fuori tempo.

- No. – Rispose Angela, volgendo lo sguardo altrove. – Non sta mai a noi decidere.

- Se volete...- Azzardò Amir, fermo sulla soglia. - Se volete posso appenderla. Vado subito.

- Non sei obbligato a farlo.- Ribatté Angela.

- No, io... Insomma, è solo...- Stava per dire “È solo una lanterna”, ma intuì che Vivien non avrebbe gradito.

Tornò con la lanterna ed il necessario per attaccarla. Compì il lavoro con attenzione, sentendosi addosso gli sguardi delle due donne. Finalmente la lanterna poteva nuovamente dondolare nel vento, nella veranda di casa Bennett, per la gioia di tutti.

Stava per rientrare in casa, quando qualcuno lo chiamò dalla strada. Era un ometto alto e magro, un po' curvo, né vecchio né giovane, vestito di verde, davanti alla casa. Aveva l'aria smarrita e una cartina vecchia di qualche secolo tra le mani. E non in senso metaforico.

- Ha bisogno di aiuto?- Domandò Amir.

- Se tu puoi darmelo, me lo prendo volentieri.

- Mi dica cosa posso fare per lei.

- Devo andare...- Agitò in modo vago una mano sulla cartina. - Di là.

- Di là dove?

- Di là, di là, ragazzino. Tu come ci arriveresti, di là?

- Ma... Vuole dire di là, dall'altra parte del quartiere? Se prosegue a diritto e gira a sinistra, continuando per quella strada arriverà all'altro capo di questa zona.

- Uhm. Come inizio può andare. Magari funziona. Però sarà faticoso. Non è che hai qualcosa da mangiare, per il viaggio?

- Sono sì e no dieci minuti a piedi.

- Certo, certo. Per te sarà anche facile, ma non siamo mica tutti belli vivi e scattanti come te!

L'ometto agitò la cartina e un angolo del foglio decrepito si polverizzò, liberando una nuvoletta di pulviscolo che fece starnutire il ragazzo.

- D'accordo. Vuole qualcosa da mangiare?- Sospirò Amir, convinto di essersi imbattuto in un mendicante particolarmente dotato di inventiva.

- Proviamo.- Rispose l'ometto, illuminandosi di un breve sorriso. - Proviamo con qualcosa da mangiare.

Amir continuava a non capire. Però rientrò in fretta in casa, per uscirne qualche minuto dopo con un sacchettino di carta bianca.

- Ecco qui.- Aprì il sacchetto e mostrò il contenuto allo strano viandante. - Biscotti, qualche mela e dell'acqua in una bottiglietta. Le darei anche altro, se potessi, ma non è casa mia, e...

- Lascia perdere.- L'uomo prese il sacchetto dalle mani del ragazzo. Ora sorrideva. Aveva gli occhi verdi e una strana cicatrice sotto un ciuffo di capelli ingrigiti sulla fronte. In quel momento sembrava più giovane di prima, ma anche più vissuto. - È molto, molto più di quel che immagini.- Fece qualche passo ed entrò nel cerchio di luce della luna piena, che si affacciava da una finestra tra le nuvole. - Grazie. Non ce l'avrei fatta, senza di te.

Le nuvole serrarono la luna dietro la loro schiera, per qualche istante, e la notte si rabbuiò. Il viandante all'improvviso non c'era più.

In quel momento le due donne scoppiarono a ridere insieme.

- Incredibile!- Esclamò Vivien. - Quanto ci è voluto? Quanto?

- Nemmeno un minuto.- Rispose Angela. - Straordinario.

- E tu dicevi che non doveva appenderla, eh?

- Dicevo che non siamo noi a dover stabilire quando è il momento giusto per altre persone.

- Io lo sapevo.- Continuò Vivien. - Ha fatto sparire l'Ombra. L'ho vista che se ne andava. Ci ha parlato un attimo e lei è sparita. E gli ha anche fatto una profezia. Quanti anni sono che l'Ombra non parla con nessuno?

- L'Ombra di Luna?

- Lei. Hanno scambiato due parole e lei se n'è andata via.

- Ma di cosa state parlando?- Si intromise Amir, un po' seccato.

Gli regalarono gli sguardi più innocenti del mondo.

- Vecchie storie.- Vivien scosse la testa, facendo ondeggiare ad arte la cascata di riccioli. - E nuove storie. Ora vai a dormire.

- Non è un bambino...

- Davvero? D'accordo. Ora vai a non dormire, se preferisci. Lasciaci sole.

Fu decisamente sollevato di dover obbedire a quella richiesta.

 

 

III

 

7 settembre 2008

 

- Allora? Hai finito?

- Aspetta un attimo.- Rispose dall'interno del corridoio, spegnendo le luci. Avanzò fino alla porta nel buio completo. Sapeva esattamente come muoversi, ormai.

- Ehi, senti, hai visto che ore sono? No, perché io sto morendo di sonno, e io non ho cenato, e guarda che... Aaaah, cazzo, Amir, mi hai fatto paura!

Aidan saltellò e borbottò ancora per qualche momento, mentre Amir serrava la porta secondaria del teatro.

- Smettila di agitarti così. Abbiamo passato tutta l'estate a rimettere a posto un teatro da incubo e tu ti spaventi per così poco?

- Così poco? Credi di essere poco spaventoso, tu?

- Ti faccio paura?

- Un po' sì.- Aidan rise e gli posò un braccio sulle spalle, spintonandolo amichevolmente prima di lasciarlo andare. - Ogni tanto sparisci nelle viscere del teatro e nemmeno te ne accorgi. Mi dispiace di aver finito il mio lavoro qui. Mi sono divertito.

- Ah. A proposito di questo. Ho parlato con il signor Bennett. Mi ha detto che puoi considerarti assunto come maschera durante gli spettacoli. Se vuoi.

- Eeeeeh? Ma siete scemi, tu e lui? Non ci so stare, tra la gente perbene che va a teatro!

Intanto Aidan aveva adocchiato una tavola calda e lo stava spingendo verso il locale.

- Te la caverai.

- Bennett mi butterà fuori dopo la prima figura di merda che farò.

- Spera di farla dopo aver guadagnato almeno un po'. E poi, a quanto pare questo posto non è mai stato un teatro per gente perbene. Così dice Edward, almeno.

- Chi, il tizio del trattamento anti-umidità?

- Già. Continua ad apparire in teatro, ogni tanto, anche se in teoria dovrebbe avere finito il lavoro. È fissato con la storia del Sunflower.

Il locale era piccolo e pieno di voci e musica. Il genere di posto che Aidan preferiva. Lui non ne era troppo entusiasta, ma quello in particolare non era male.

- Senti, ma non ti manca mai il Pakistan? La tua gente, la tua città.- Come sempre, Aidan tirava fuori i pensieri più profondi davanti ad un piatto abbondante, o a un bicchiere di alcool ancor più abbondante. - La tua cultura, anche. Immagino che qui si viva in modo diverso da come sei cresciuto tu. Se quest'ultima affermazione ti suona come l'ennesimo occidentale che appiccica stereotipi addosso agli islamici, sentiti libero di mandarmi a farmi fottere.

- Pensi che lo farei?

- No, in effetti no.

- A te manca l'Irlanda?- Chiese Amir, un po' restio a parlare di sé in quel caos.

- Sì, certo, ma non è mica la stessa cosa. È più vicino del Pakistan. E i miei sono qui. Anche se forse sarebbe meglio se fossero da un'altra parte.

- Perché ve ne siete andati?

- Chiedilo a mia madre. Ha piantato mio padre per un londinese e l'ha seguito fin qui. Con me e le mie sorelle. Poi ha piantato anche questo, però le mie sorelle si sono fatte la loro vita a Londra, e nessuno ne vuole sapere di tornare a casa. Mia madre dice che trasferirsi è stata l'idea migliore della sua vita. È una stronzata per consolarsi del fatto che le fa schifo tutto. Anche a me fa schifo tutto, ma almeno lo dico. È che la gente pensa sempre di dover fare chissà cosa, per essere felice.- Aidan continuava a parlare e mangiare, ignorando la persona davanti a lui. - Si fissa su una cosa, decide che è quello che gli serve per essere felice. E distrugge tutto il resto per arrivarci e poi non è felice nemmeno un po'. E quindi, o si accontenta, o fa finta di non vedere, o si fissa su qualcos'altro.

- Non si è felici mai, allora, secondo te?

- A volte penso di esserlo. Ma sono anche parecchio incazzato. Con mia madre, con lo stronzo che ci ha portati qui. Un po' troppo incazzato, per essere felice. Magari mi passa.

- Dovresti lavorarci su, per fartela passare.

- Tu ne sei in grado, di farti passare le incazzature grosse?

- Ci provo.

Aidan finalmente abbozzò un sorriso.

- Ovviamente: ci provi. Non sia mai che tu non tenti di fare una cosa buona.

- Mi stai prendendo in giro.

- Sì. Ma non offenderti. Sei buffo, quando non capisci l'ironia. Cioè, buffo in maniera carina. No, scusa, è che non ho mai avuto un amico tutto serio e composto e che parla così bene. Senti, confessa: ti consideravano strano anche a casa tua, eh?

- Siamo tutti un po' strani, nella mia famiglia. Mio padre e suo fratello hanno passato l'adolescenza in giro per il mondo, per il lavoro di mio nonno, che faceva il rappresentante di una ditta tessile. Poi mio nonno si ammalò e tornarono a Karachi, e nel giro di pochi mesi si trovarono una fidanzata tutti e due. Mio padre si è sposato. Mio zio no, e anche questa è una cosa un po' strana, dalle mie parti. Beh, insomma, questi due che avevano passato mezza vita a viaggiare, spiccavano di sicuro. Soprattutto mio zio.

- In che senso?

- È un po' fuori di testa. Ride sempre. Dove passa porta il caos. Parla una quantità di lingue. Ha delle idee molto progressiste su certi argomenti e molto arretrate su altri. In genere, ha idee religiose e politiche che lo fanno litigare con chiunque.

- E tu che sei così ligio, non ci hai mai litigato?

- Non sono d'accordo con tante delle cose che dice, ma gli voglio troppo bene per litigarci. Mio padre è morto quando ero un ragazzino e lui si è preso cura della nostra famiglia.

- In effetti, pare che la stranezza sia genetica.

- A proposito di genetica, mia nonna materna era indiana e sua madre siriana. Mi ha raccontato la storia della sua famiglia un miliardo di volte, sempre in modo diverso. Non so quale sia la verità.

- Anche il tuo cognome è strano, secondo me. Daryani non suona molto arabo. Credevo che dalle tue parti le famiglie musulmane avessero nomi arabi.

- In genere sì, ma le persone si mescolano, sai. Daryani è un cognome sindhi.

- Sarebbe?

- L'etnia principale del sud del Pakistan. Insomma, deve esserci stato qualche matrimonio misto, diverse generazioni fa.

- Hai svicolato la mia domanda sulla nostalgia di casa, ma ora sei tutto esaltato a raccontarmi della tua famiglia. Mancano anche a te.

Amir sospirò, sentendosi scoperto e ormai obbligato all'onestà.

- Non rimpiango la scelta di venire qui. Ma ancora non riesco a stare bene, in questa città. E mi sento in colpa. Perché sono andato via da un paese pieno di problemi, da una famiglia con i suoi problemi, per venire qui a realizzare i miei sogni. Però se li confronto con tutto quel che ho lasciato a casa, mi sembrano sogni stupidi ed egoisti.

Aidan annuì, come per dire che aveva capito, ma non fece commenti. Finirono di mangiare in silenzio e ugualmente in silenzio uscirono. Fuori il cielo era nerissimo e c'era un alito freddo che infastidiva e invogliava a cercare un riparo.

- Forse ho detto qualche cazzata, prima.- Cominciò Aidan, all'improvviso. - Non avevo nemmeno bevuto troppa birra. Scusa.

- Di che? Avevi bisogno di essere sincero.

- Mi dispiace.- Borbottò Aidan, confuso. - Cioè, mi dispiace di non averti risposto cose intelligenti, quando mi hai detto dei tuoi problemi. Però secondo me non dovresti sentirti in colpa. Mica sei venuto qui a non fare niente. Lavori, studi. Ci sarà qualcosa di buono per te, qui.

- Qualche volta penso di sì.

- Mh. Beh. Magari è allora che sei felice.

- Dovremmo riparlarne quando tu sarai più sobrio e io meno triste.

Risero, concordi su quell'osservazione. Amir fu certo che stessero condividendo lo stesso stato d'animo e pensò che anche quello poteva essere catalogato come un momento tutto sommato felice.

- Beh, andiamo, allora?- Aidan fece per aprire la macchina, quando Amir realizzò qualcosa.

- Ho dimenticato le chiavi di casa nel teatro. Ci metto un minuto. Tu puoi aspettarmi fuori, se vuoi. Lo so che hai paura dei fantasmi.

- Anche tu.

- No.

- Ma pensi che ci siano!

- Ma non ho paura.

 

Recuperò le chiavi in uno dei camerini e tornò indietro in fretta, ma nel corridoio delle luci verdi si fermò. Una delle luci era rotta. La plafoniera era a terra, in pezzi, la lampadina era fulminata. Si chinò per osservare i frammenti di vetro.

- È caduta stamattina. C'era una donna di nome Abigail Corrigan, insieme a Joel Bennett. Ci è passata accanto e la lampada è esplosa. La donna ha fatto uno schizzo per aria e un urlo assordante.

- E tu come fai a saperlo, Aidan? Non c'eri.- Rispose Amir, continuando a giocherellare con i pezzi di vetro.

- C'ero.

- E poi perché sei entrato? Credevo avessi paura dei fantasmi.

- Amir.

Il ragazzo alzò gli occhi e vide con chi stava parlando realmente.

- Edward? Come sei entrato?

- Te lo devo proprio spiegare?

Amir scosse la testa.

- Non puoi darmi un motivo razionale per cui tu sei qui?

- A che ti servirebbe?

- A dormire stanotte.

- Non sperare di poter avere un rapporto sereno con il sonno mai più, in vita tua. Mi dispiace dirtelo, ma è così. Sei entrato dentro a questa faccenda, ormai. E tutti hanno grandi aspettative su di te.

- Tutti... Tutti chi? C'entra qualcosa con i discorsi di Angela e Vivien, le lanterne e il fatto che ogni tanto parlo con gente che dice cose strane e poi sparisce, e intendo sparisce per davvero?

Edward annuì.

- Ti ricordi quella signora bionda che hai incontrato qui, un paio di mesi fa? La notte in cui hai conosciuto Vivien Headley. L'Ombra di Luna. Se n'è andata. Dopo anni che se ne stava qui, le è bastato parlarti per svanire.

- Tu la conoscevi?

- La conoscevo quando era viva. Quella che hai visto tu, però, era solo un ricordo del teatro. Tutti la vedevano, ma lei non vedeva nessuno. Tranne te. Due parole, e le hai dato pace.

Amir chiuse gli occhi e scosse la testa, come per rifiutare ciò che gli veniva detto.

- Anche tu lo sei?- Domandò, senza riaprire gli occhi. - Un ricordo?

- No. Ma nemmeno io sono vivo.

- Perché sei qui?- Un vago senso di nausea gli stava salendo su per lo stomaco.

- Per raccontare le storie di questo posto.

Aidan, là fuori, si stava chiedendo di sicuro che fine avesse fatto. E magari anche il signor Bennett, a casa. In realtà se lo stava chiedendo lui stesso, che fine avesse fatto.

- Chi eri, quando eri... vivo?- Chiese ancora, trovando la forza di riaprire gli occhi.

- Uno con del potenziale, come te.

- E come sei finito...

- Non lo so.- Edward si appoggiò al muro, con dei gesti tanto umani da far dubitare Amir di ogni singola parola che stava dicendo. - Dicono sia stato un incidente d'auto. Ma in un incidente d'auto non vedi scintille di luce che ti piovono addosso. Non senti risate che ti seguono, né lame d'argento che ti feriscono. Però non so cosa sia stato veramente. Forse dovrai capirlo tu.

- Così dopo potrai andartene? È per questo che sei ancora qui?

- No. Te l'ho detto, io devo raccontare la storia del teatro.

Amir preferì non chiedere altro. Radunò col piede i pezzi di vetro della plafoniera, osservando con occhio critico quelle ancora intatte. Praticamente impossibile reperirne una uguale.

- Sono venuti tutti a vederlo, il Sunflower rinato.- Disse Edward. - Te lo invidiano tutti, sai?

- A me? Al signor Bennett, semmai.

- Sei tu che ti dai da fare fino all'esaurimento per questo posto. Io direi che è molto tuo.

- Edward. Che legame avevi tu, con il Sunflower?

Edward gli si era fatto più vicino, quasi senza che Amir se ne fosse accorto.

- Io?- Gli stava di fronte. - Io ero...- La crepa di un sorriso si aprì sul viso privo di espressione. - Io sarei dovuto essere...

Amir fece un passo indietro e si trovò contro il muro. Edward abbassò la testa e la posò sulla spalla di Amir.

- Te.

- Me?

Edward poteva fare strani discorsi che suggerivano che lui non fosse esattamente vivo, ma la sensazione fisica del suo contatto era reale.

- Ci sono tante cose nelle tue mani, ora. Tanti sogni. Sacrifici che diventerebbero insensati, se tu lasciassi perdere ogni cosa. Ti prego. So che ti viene richiesto tanto, ma... Segui questa strada. Ascolta la città. Lascia la lanterna accesa e non fuggire.

D'istinto sollevò una mano e sfiorò la schiena di Edward. Voleva rassicurarlo, però non sapeva come fare perché ancora di più voleva essere rassicurato lui.

- Va bene.- Mormorò, anche se non andava bene per nulla. - Però voglio capire. Non posso continuare ad attraversare le cose in questo modo, fidandomi di mezze frasi e parole enigmatiche.

- Te lo prometto, capirai.

Quasi non si accorse di quando Edward dissolse l'abbraccio. Se lo ritrovò davanti, malinconico e sorridente, che gli tendeva le chiavi.

- Non te ne dimenticare.

- Ci mancherebbe. Sono venuto per questo.- Amir si interruppe, alla ricerca di qualcosa di gentile con cui congedarsi. Non riuscì a dire niente. Non era arrabbiato con Edward, ma avrebbe preferito mille volte non essere mai entrato nel teatro in quel momento.

Edward forse capì la sua confusione. Si limitò a fargli ancora un sorriso e scomparve. Scomparve davvero: lasciò vuoto lo spazio che occupava prima, e Amir non ebbe paura – non di quello, almeno. Ebbe paura semmai per la naturalezza con cui aveva accettato quel fatto.

- Scusa se ci ho messo tanto.- Disse, raggiungendo Aidan fuori dal teatro.

- Tanto? Al massimo tre minuti.

Gli era stato promesso che avrebbe capito, giusto?





***
Grazie di essere qui.
Prossimo capitolo: problemi di adattamento e una signora che non è quello che sembra....

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Capitolo 5
*** V - La signora di nebbia ***


Capitolo V

La signora di nebbia

 

Like anyone would be
I am flattered by your fascination with me

(Alanis Morrisette, Uninvited)

 

Londra, agosto 2008

 

- Non doveva pagarmi il pranzo, signor Bennett.

- Pagherai tu la prossima volta che andremo da qualche parte.

Il ragazzo lo guardò con la sua solita aria tra lo smarrito e il contrariato. Joel Bennett sorrise per tranquillizzarlo. Era una dinamica che si ripeteva spesso, con quella piccola persona divorata da un sacro senso del dovere e della decenza. Joel evitò di ricordargli che in fondo avrebbe offerto lui anche se avesse pagato il ragazzo: era un suo dipendente, dopo tutto, e i suoi soldi erano parte dello stipendio che riceveva. Ma non c'era bisogno di imbarazzarlo così. Già Amir aveva una tendenza allo sminuire il proprio ruolo e la propria importanza.

- Lasciamo perdere, ora. Va bene? Mi dispiace di essere arrivati così tardi al museo. Torneremo con calma un'altra volta. Se non sbaglio, mi hai detto di essere già stato al British Museum, giusto?

- Sì, ma ne ho visto un millesimo.

- Bene. Ne vedremo un altro millesimo, allora. Un millesimo alla volta, lo girerai tutto.

- Grazie per avermi fatto fare questo giro della città. Non è la stessa cosa che vederla da solo, visitarla con qualcuno che ci vive.

- Amir, la tua gratitudine mi fa piacere, ma è almeno l'ottava volta da stamattina che mi ringrazi. Penso di aver capito.

- Oh. Sì. Va bene.

- Allora rilassati e continuiamo la visita.

- Lei ci è già stato molte altre volte, immagino.

- Guarda che non è così scontato che gli abitanti di città piene di musei e luoghi storici conoscano bene il posto dove vivono. Tu sei stato in tutti i luoghi di interesse storico e culturale di Karachi?

- Sì.- Rispose Amir, serissimo.

- È una cosa di cui andare fieri. Anch'io posso dire che conosco piuttosto bene la mia città.

Cominciarono il giro vero e proprio, scambiandosi opinioni su quel che vedevano. Amir lo aveva sorpreso con la sua conoscenza minuziosa della storia, soprattutto di quella inglese. Alla fine Joel aveva smesso di fare la guida turistica e le conversazioni si erano trasformate in piccoli seminari di storia, letteratura e arte.

E se proprio doveva confessarlo, era del tempo che non trovava così piacevole il semplice parlare. Curioso come il suo giovane segretario pakistano fosse una compagnia più acculturata e intelligente che la maggior parte dei suoi vecchi amici e colleghi di studio.

- Come è nata questa tua passione per la Gran Bretagna, Amir?

- Con la letteratura, credo. Mi interessano le storie di tutto il mondo, ma gli autori inglesi sono sempre stati i miei preferiti. Non lo so perché. Sono quelle cose che succedono. È un po' colpa di uno dei miei zii, che mi ha sempre riempito di libri fin da quando ero piccolissimo.

- Mi piacerebbe stringergli la mano, a questo zio.

- È stato lui a farmi imparare l'inglese fin da bambino. Lo studiamo a scuola, ovviamente, ma lui mi raccontava le storie in inglese, mi faceva giocare... Ho cominciato a parlarlo bene perché lui me lo insegnava in modo divertente.

- Beh, ha fatto un ottimo lavoro.

Erano in mezzo alla sezione dedicata all'Egitto, quando Joel notò per la terza volta almeno durante la giornata un'espressione distante, quasi triste, sul viso serio del ragazzo. Considerato che Joel Bennett non era certo famoso per la sua sensibilità nei confronti del prossimo (come i più stretti amici amavano ripetergli spesso), doveva essere qualcosa di non trascurabile.

- Amir. C'è qualcosa che non va?

- Eh? No, no, non si preoccupi, signor Bennett.

- Ti ho proposto questo giro per farti riposare dai tuoi impegni di studio e lavoro, ma se non stai bene, lo scopo della giornata è fallito.

Il ragazzo alzò le spalle, come per dire che no, non importava proprio, oppure che non sapeva come affrontare il discorso.

- Solo... Sensazioni. Che forse è meglio lasciare inascoltate.- Rispose, chiaramente a disagio. - È una cosa molto sciocca.

- Vuoi provare a parlarne?

- No. Sì. Non lo so. È come cercare di far tornare insieme pezzi di immaginazione di realtà.

- Non credo di capire, Amir.

- Nemmeno io, signor Bennett.

Silenzio, tra i sarcofagi che li guardavano, impenetrabili, e l'orda di fantasmi evocata dai pensieri. Una trentina di secondi silenziosi, al massimo, ma pesanti come un giorno intero. Joel non era bravo a sostenere silenzi, e tutti i pensieri non detti che c'erano dentro. E avrebbe infranto l'assenza di parole con qualcosa di inadatto, se il ragazzo non avesse deciso di provare a spiegarsi.

- Questa città mi fa un po' paura. È grande. Antica. E io non so come muovermi.

- A me sembra che te la stia cavando benissimo. In questi mesi sei riuscito a trovare un lavoro, a portare avanti i tuoi studi...

- Lo so, ma non riesco a mandare via la sensazione che tutto corra troppo veloce per me.

- Amir, tu vieni da una città che è più grande e popolosa di questa. Di gran lunga più popolosa di questa.

- Non è la stessa cosa. Karachi la conosco. Non mi ha mai fatto paura. Lo so che suona strano: è un posto pieno di problemi, e immagino che a qualcuno che vive qui possa sembrare assurdo che io mi faccia spaventare da Londra, visto che a casa mia rischi la vita...

- Non volevo dire questo.

- Lo so. Sto cercando di spiegarmi e mi sto spiegando sempre meno.

Joel sorrise, sperando di togliere il ragazzo dalla confusione e dall'evidente disagio, ma lui non lo guardava nemmeno, troppo concentrato a trovare le parole giuste.

- Penso che un posto possa essere anche pieno di problemi gravi, ma se è casa tua, tu lo percepisci come... Casa tua.- Riprese. - Sto peggiorando la situazione?

- No, Amir: sei molto chiaro. La parola casa porta con sé una serie di significati e immagini che rende tutto semplice da capire.

- Ecco, appunto. Casa. E io me ne sono andato.

- Lo fanno molti tuoi connazionali. Lo fanno persone di tutto il mondo e raggiungono altri posti in tutto il mondo. E dubito che tutti riescano a integrarsi rapidamente come hai fatto tu.

- Non sono così integrato. E non so nemmeno se sono partito per un buon motivo o no. La mia famiglia è piuttosto benestante e la mia città ha tanta storia e cultura quanto questa. Avrei potuto studiare lì. Ma ho sempre pensato... Ho sempre sognato di venire qui. Studiare letteratura. Lavorare a qualche progetto di incontro tra letterature occidentali e orientali... Sto divagando. E sono un megalomane, lo so.

- Stai dicendo delle cose che trovo solamente ammirevoli.

- Ma sono poco concrete.

- La concretezza arriverà. Sei qui da poco.

- Sì, ma pensavo che ce l'avrei fatta in fretta, ad adattarmi, perché conoscevo bene Londra.

- Ed è vero. Me l'hai dimostrato. La conosci meglio di molti londinesi. Sembra che tu sia davvero innamorato di questa città.

- Ma un posto che si ama nei sogni non somiglia mai nemmeno lontanamente alla realtà. Non credevo fosse così grande. Mi sento... Non penso di potermi adattare del tutto a vivere qui, e mi fa paura. Ma se penso all'idea di tornare a casa e cercare di sistemarmi lì, mi fa paura lo stesso. È come se avessi passato vent'anni a disegnare un futuro altrove, e ora...

L'ondata di parole si prosciugò e il ragazzo prese a camminare, come per riprendere il loro giro al più presto e magari cancellare tutto quel discorso. E Joel avrebbe gradito davvero quella conclusione. Però non poteva ignorare la confessione di Amir, Finché si trattava dei suoi demoni personali, poteva anche invitarli per un tè e dimenticare che si trattava di demoni. Ma aveva imparato che non portava mai nulla di buono, ignorare i demoni altrui.

- Non è facile per nessuno lasciare la propria casa e andare a stabilirsi in un posto come Londra, pieno di novità e immerso in una cultura diversa da quella da cui provieni. Anche se tu sembri molto disposto ad ascoltare e capire il modo in cui si vive qui.

- Mi fa paura anche questo. Non è che poi, per adattarmi, finirò per perdere pezzi della mia storia?

- Non penso che tu corra il rischio di farlo.

Amir si sforzò di sorridere e di nuovo Joel desiderò di poter chiudere la faccenda così e continuare il loro giro con la serenità di tutta la giornata.

- Mi dispiace di aver detto tutte queste cose abbastanza sciocche, signor Bennett. Non volevo deprimere il clima. Cambiamo discorso, va bene?

Certo, avrebbe voluto dire, ma non lo fece. Si chiese perché la presenza del ragazzo lo contagiasse sempre con il senso del dovere.

- Amir, senti.- Con una mossa terribilmente goffa posò la mano sul braccio del ragazzo. - Credo che sia normale trovare differenze tra la nostra immaginazione e la realtà. Ma non è detto che questa città non ti piaccia ancora, dopo che ti ci sarai abituato. Non credi?

- Forse sì.

- E non farti problemi a parlare di tutto quel che non va.

- D'accordo. Grazie, signor Bennett.

Non era proprio un finale come si deve, per i dubbi del ragazzo, ma era meglio di niente. Joel aveva rinunciato anni prima a essere una persona empatica e comprensiva. Si ritenne molto soddisfatto del modo in cui aveva offerto conforto e sostegno.

 

Se Amir fosse stato un po' più cinico o superstizioso avrebbe pensato che quel guasto alla metropolitana fosse il modo di Londra di dirgli che non era soddisfatta di lui.

- Sono secoli che non mi trovo in un treno che si ferma.- Disse il signor Bennett, lievemente seccato. - Mi dispiace, torneremo a casa più tardi.

- Non è mica colpa sua.

- Spero non sia un problema, per te, stare fermi sotto terra.

- No. Non ho mai avuto disagi nei posti chiusi. Altrimenti dovrei andare nel panico ogni volta che scendo nel sottopalco, giù al teatro.

- Giusta osservazione. E il sottopalco del Sunflower è molto più spaventoso di qualsiasi tunnel della metropolitana.

- Non è così spaventoso.

- Se credessi ai fantasmi, direi che abitano tutti in quel posto.

Amir tacque per qualche istante, indeciso se ridere o meno.

Signor Bennett, se lei credesse ai fantasmi, la porterei con me nel sottopalco e le farei conoscere alcune persone interessanti che affermano di esserlo. E mi piacerebbe proprio avere la sua opinione in merito, perché io non so cosa pensare. Mi spaventa credere che io me li stia immaginando, e mi spaventa di più credere che siano reali.

- Sei davvero bravo, con il Sunflower.- Commentò il signor Bennett. - Aveva proprio bisogno di te. So che dovrei prendermene cura di persona, visto che è il mio teatro, ma non ho l'abilità per farlo.

- Basterebbe farci un giro ogni tanto.

- Ne parli come se fosse un animale domestico, invece che un teatro.

Amir fece cenno di sì con la testa. Un piccolo drago domestico, ecco cos'era quel teatro. In attesa della prima occasione per dimostrare tutta la sua natura selvaggia.

Il Sunflower era come Londra. Affascinante e troppo grande, perché una persona piccola come lui potesse trovare veramente un modo per sopravvivergli. Un giorno il teatro se lo sarebbe mangiato. O forse sarebbe stato ingoiato dalla gigantesca città, troppo veloce e vitale per gli ingenui come lui.

Il silenzio scese su di loro insieme al sonno. Erano le sette passate. Il treno restava ostinatamente fermo e i minuti scorrevano, noiosi e lenti. Le conversazioni languivano e tra i due permaneva quella nuvola di imbarazzo che non si scioglieva mai per davvero. Soprattutto adesso che Amir si era lasciato sfuggire quello sfogo sulla città. Gli dispiaceva aver riversato addosso al signor Bennett tutte quelle sensazioni negative.

Fino ad allora aveva vissuto senza pensare ad altro che al futuro, al momento in cui sarebbe arrivato in Inghilterra per iniziare i suoi studi. In Pakistan aveva fatto ogni cosa proiettato verso quel futuro. I primi mesi a Londra erano stati una corsa senza respiro per trovare un lavoro, una sistemazione, le condizioni che gli avrebbero permesso di accedere ai suoi sogni. Quando quel futuro se lo era ritrovato all'improvviso tra le mani, il volto della città che aveva creduto di conoscere si era trasformato.

L'angoscia di quel pensiero, nel silenzio, raggiunse uno dei suoi picchi più alti e andò a toccare qualcosa nel cuore, qualcosa che lo spinse a chiudere gli occhi, per un istante colto dal panico.

A occhi chiusi poteva immaginare di non essere lì.

Il tempo era fermo come il treno.

Non restava che aspettare.

Aspettare, mentre i pensieri si ripresentavano tutti, più grigi e maligni del solito. Se fosse riuscito a condensare quella sonnolenza in sonno vero e proprio, almeno! Poteva essere un modo per salvarsi dai pensieri. Dal tempo troppo lento. Da quella sensazione di grigio che pareva aver invaso lo spazio circostante.

Grigio, era tutto grigio, però a tratti c'era qualcosa che scintillava, nel grigio. E tutto diventava argenteo. Una nebbiolina leggerissima e argentata, l'incostante atmosfera di un sogno.

- Speriamo che riparino questo guasto al più presto. Non vorrei far tardi.

Amir si voltò alla sua sinistra. Non ricordava che ci fosse un passeggero, seduto lì.

Invece c'era una donna che gli sorrise, quando lui la guardò. Era una signora di mezza età, con dei segni profondi ai lati della bocca e i capelli biondi costretti in una stretta crocchia. Indossava un cappotto grigio scuro e dei guanti neri. Seria, distante.

- Speriamo.- Rispose lui, volendo essere cortese con la sconosciuta.

- Tu hai qualcuno che ti aspetta?- Chiese lei, con un sorriso gentile. Quando mosse le labbra per sorridere, Amir ne notò il disegno perfetto.

- No.

La donna si tolse i guanti ed allentò i primi bottoni del cappotto. Da sotto l'indumento occhieggiò una camicia candida, con un gioiello argentato appuntato sul petto. Qualcosa di vivace e inaspettato, dietro l'apparenza formale.

- La persona che mi aspetta penserà che io sia fredda e poco accogliente.- Continuò lei. Amir si chiese se la signora non fosse una di quelle persone deliziose ma purtroppo poco lucide che a volte si incontrano in giro. - Ma non è così.- Proseguì, guardando avanti. - Non sono fredda. È solo che è difficile farsi capire, a volte. Non trovi?

- Sì.

- È la cosa più difficile, farsi capire.

Aprì del tutto il cappotto. La camicia si rivelò ricamata di finissimi fiori. La gonna che la signora indossava era una cascata di veli.

- Sai, lui non lo sa, ma le sue attenzioni mi hanno fatto molto piacere. È giovane, è vero, ma ha un debole per me. E allora? Una signora della mia età non può avere un amante più giovane?

Un ricciolo scivolò lungo il viso della donna. Poi un altro ancora, e lei tolse il fermaglio che imprigionava i capelli. Amir decise che era una signora molto bella.

- Credo di sì.

- Sai una cosa? Avrei dovuto mostrarmi a lui con il mio vero viso fin dall'inizio. Ma come si fa? Il tempo, i giorni, le cose che si trasformano... Non è facile, vivere. È tutto troppo veloce. Non lo pensi anche tu?

Lui annuì di nuovo, ormai deciso a darle ragione anche se non capiva dove volesse andare a parare.

- Però il suo corteggiamento mi è arrivato al cuore. Non è vero che sono fredda e poco accogliente. Non sono insensibile. Nessuno di noi lo è. È tutta questione di tempo. Di conoscenza. Non è possibile sentirsi subito bene tra le nostre braccia, lo so. Ma basta poco...

Ora Amir era certo di essersi perso davvero. La donna parlava senza guardarlo. Nella luce strana di quel momento sospeso, gli sembrò quasi irreale. Vestita di nebbia, fatta di pensieri, tessuta dalle sue stesse parole misteriose, ornata con le gemme dell'intuizione e della follia.

- A volte mi chiedo se stia facendo la cosa giusta. Ho deciso di tenerlo per me.- Un sorriso da ragazzina sbocciò sulle sue belle labbra, mentre calcava su quelle parole, con una voce che sembrava ringiovanita all'improvviso. - Ma se gli faccio capire che il suo amore è ricambiato, ci saranno delle conseguenze. Lo porterò via da casa. Lui è straniero.

Tacque ancora, come per richiamare alla mente il paese lontano di quell'innamorato segreto.

- Però credo che potrei dargliela io, una casa.

E intanto Amir aveva la sensazione che tutti gli altri passeggeri fossero spariti, che ci fossero solamente lui e la signora, e che le sue parole echeggiassero nello spazio del treno, divenuto immenso all'improvviso...

- Lui mantiene l'ingenuità dei bambini. Forse è per questo che lo spavento. Gli sembro distante, enorme, antica, piena di storie e di persone. Ma se mi guardasse bene, vedrebbe solamente la ragazza che gli ha fatto battere il cuore anni fa. Quella che ha sognato prima ancora di conoscermi.

La guardò sorridere e qualcosa s'incrinò, da qualche parte, dentro di lui o attorno a loro. Il mondo argenteo che li avvolgeva ebbe un tremito e si dissolse in mille frammenti scintillanti. Amir fu colto da una vertigine che disegnò immagini incomprensibili nella sua mente e gli tolse il respiro per qualche momento.

- Non credi?- Stava dicendo la signora, ma la voce gli arrivò lontana, come proveniente da una dimensione che era riuscito ad incrociare solo per un breve istante.

 

Scosse con dolcezza il ragazzo, ma lui continuò a dormire. Erano scesi quasi tutti, ormai.

- Amir. Siamo arrivati.

Il ragazzo si svegliò di scatto, rabbrividendo.

- Quando mi sono addormentato?

- Non lo so. Una mezz'ora fa almeno.

- Davvero? Dopo aver parlato con la signora?

- Quale signora?

- Quella seduta qui...- Guardò il posto vuoto alla sua sinistra. - Era qui.

- Non lo so. Credo di aver dormito anch'io, per un po'. Forse è già scesa.

Scesero anche loro e raggiunsero l'aria aperta, tiepida e piacevole.

- Sei stato bene, oggi, Amir?

- Molto bene. Grazie di tutto.

- E... I pensieri?

Il ragazzo rifletté qualche istante, poi sorrise.

- Forse sono io che mi preoccupo troppo. Magari imparerò a conoscere la città. E mi piacerà di nuovo.

- Credo sia la cosa giusta. Aspetta. Vedrai che ritroverai nella realtà quel posto che hai sognato.

Joel Bennett non era particolarmente sentimentale né ottimista, ma mentre rifilava al ragazzo quelle parole di facile conforto desiderò che fossero vere.

 

 

***
Grazie di essere qui!
Se non sapete che fare, potreste ascoltare (e scaricare gratis, magari) questa canzone, che ho scritto io e che è la colonna sonora di questa storia.
Alla prossima - che riguarderà un viaggio nel tempo e una tragedia familiare dell'inizio del XX secolo.

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Capitolo 6
*** VI - Crocevia del tempo ***


Capitolo VI

Crocevia del tempo

 

Suddenly I knew that you'd have to go
My world was not yours, your eyes told me so
Yet it was there I felt the crossroads of time
And I wondered why

(Loreena McKennitt, The Old Ways)

 

Londra, settembre 2008

 

Sette mesi, eh?

Il ragazzo si fermò, scoraggiato, guardando quello scorcio di strada che non conosceva, sebbene quella fosse la zona da cui passava tutte le sere, una volta sceso dal treno, per tornare alla casa del signor Bennett. Ormai lavorava al teatro da sette mesi. Proprio una cosa di cui andare fieri, quella: dopo sette mesi si ritrovava a girare in tondo a dieci minuti da casa!

Provò a giustificarsi ricordando le parole di Aidan: Londra è fatta così, sei in una strada enorme, rassicurante e piena di luci, poi fai due passi, imbocchi un vicolo e finisci in un posto completamente diverso, non sembra neppure la stessa città.

Ciò non spiegava comunque la sua incapacità di memorizzare le vie, né come mai si trovava in un posto che era sicuro di non aver mai visto.

Non sembra neppure la stessa città. Altroché. Neppure lo stesso mondo. La zona elegante e tranquilla della villa del signor Bennett era anni luce distante dalla stradina buia e sporca in cui si era andato a perdere. Le case erano basse e scure, macchiate dall'umidità e dal tempo. Era un posto silenzioso e immobile, senza nemmeno un segno di vita dietro una qualsiasi finestra.

Non appena vide un negozio ancora aperto, nonostante fosse sera inoltrata, vi si rifugiò dentro in cerca di un'illuminazione su come tornare a casa.

- Desidera qualcosa, signore?

Dietro il bancone c'era una donna di mezza età, con tutti i capelli grigi raccolti in una crocchia, e un sorriso gentile. Alle spalle della donna c'era una scaffalatura piena di rotoli di nastri, fettucce, bordini di pizzo e trine, scatole di legno su cui erano disegnati bottoni e grossi barattoli colorati. Le pareti del negozio erano occupate da rotoli di stoffa di tutti i generi. Probabilmente di giorno le stoffe erano anche di tutti colori. Ma il negozio era appena rischiarato solo da un lume a olio posato sul bancone, e con quell'illuminazione pallida le stoffe sembravano tutte grigie, celestine e rosa smorto.

Il sorriso della signora gli ricordò che doveva darle una ragione per essersi lanciato di corsa nella merceria.

- Temo di essermi perso. Da che parte si trova Haven Crescent?

La donna scosse la testa, smarrita.

- Non saprei. Non ho mai sentito dire di nessun posto con quel nome.

Dal retrobottega spuntò una testa bionda. Un attimo dopo comparve una figura vestita di azzurro: una ragazzina sui quattordici anni, con il faccino grazioso pieno di lentiggini.

- Emma, tesoro, c'è qui un signore indiano che cerca uno strano posto.- Spiegò la signora. - Mi perdoni, lei è indiano, vero? Il fidanzato della nostra Emily è in India con l'Esercito Britannico. Quando vedo qualcosa che mi ricorda l'India, mi sento felice. Tra poco sarà di ritorno, e celebreremo il matrimonio.

- In realtà sono del Pakistan.

- Oh. Non conosco questo luogo.

Ora, non pretendo che uno conosca il mondo a memoria, ma insomma...

- Emma, senti un po' in che luogo deve andare questo signore.

- Haven Crescent.- Ci sono delle ville, e... Una fontana.

- La fontana quella con la statua dell'angelo?- Indovinò la ragazzina.

- Sì, esatto. Quella!

- È qui dietro l'angolo. Esca dal negozio, prosegua a destra e poi svolti alla seconda strada, sempre a destra. Troverà la piazzetta della fontana.

Bene, se quella ragazzina non aveva reinventato l'urbanistica londinese, la piazzetta della fontana era a pochissima distanza dalle ville che formavano Haven Crescent, in mezzo al quale si stagliava la splendida casa del signor Bennett.

- Grazie del vostro aiuto. Siete state davvero gentilissime. Se mi servirà qualcosa, terrò presente il vostro negozio.

Entrambe le donne scoppiarono a ridere, sebbene senza perdere quel velo di cortesia che avvolgeva i loro modi e le loro parole.

- Oh, signore!- Disse la madre. - Non mi dirà che si occupa lei del cucito e del rammendo?

Nella mente del ragazzo balenarono alcune camicie accatastate su una sedia: erano sue, per lo più, ma ce n'erano un paio del signor Bennett – lui non avrebbe mai voluto che Amir si mettesse a ricucire bottoni, ma Amir aveva insistito. A volte si sentiva ancora un ospite abusivo, in casa del signor Bennett, e collaborare alla vita domestica lo faceva sentire meno in colpa.

- In realtà, sì. Qualche volta mi capita di rammendare.

- È il domestico di qualche signore?- Chiese la ragazzina. - È vero che hanno delle case così grandi nelle quali ci si perde, se non si sta attenti?

A quel punto Amir era abbastanza sicuro che ci fosse qualcosa di molto strano, in quel posto dov'era capitato. Ma era tardi, faceva freddo e lui era abbastanza stanco, troppo per affrontare stranezze.

- Qualche volta mi ci perdo, sì.- Rispose. - Devo andare. Buona serata.

Uscì in fretta, sentendosi sollevato una volta all'aperto. Notò solo in quel momento che il negozio si trovava sotto un piccolo loggiato. L'arco del loggiato gli sembrò familiare, ma non riuscì a capire dove l'avesse già visto.

Seguì le istruzioni della ragazzina e ben presto la sagoma familiare della fontana comparve davanti ai suoi occhi.

La casa era immersa nel silenzio: il proprietario probabilmente non c'era. Bene, ora poteva decidere cosa fare. Prepararsi una cena veloce, riassettare la cucina e il bagno, rammendare camicie. E magari capire una volta per tutte cosa doveva pensare degli incontri bizzarri che continuava a fare.

 

Aveva quasi dimenticato la merceria sotto l'arco, e forse non ci avrebbe pensato più, se non avesse terminato il filo bianco da rammendo. Il signor Bennett aveva di nuovo tentato di proibirgli di dedicarsi a questa attività, ma Amir si era imposto. Era molto fiero della sua abilità con l'ago e il filo (l'unica faccenda domestica che avesse imparato in Pakistan, quando veniva su viziato e coccolato dalla madre e dalle tre sorelle.)

La merceria sotto l'arco gli sembrò una buona idea. Certo, la proprietaria sembrava uscita da un romanzo di Dickens e aveva un'abissale ignoranza in geografia, ma era stata molto gentile.

Nella mezza luce del tardo pomeriggio autunnale anche Haven Crescent e i suoi bei dintorni acquistavano un che di malinconico e decadente. La fontana dell'angelo gli fece venire un brivido quando le passò accanto. E nel momento in cui mise piede nella strada dell'arco, il cielo si fece molto più scuro.

- Buonasera, signore. Posso fare qualcosa per lei?

La giovane dietro il bancone era alta e snella, con un viso pulito e rassicurante. Portava i capelli biondi raccolti in una crocchia, ma i riccioli più corti sfuggivano da tutte le parti. Amir immaginò che fosse la sorella maggiore di Emma.

- Salve. Ho bisogno di un rocchetto di filo bianco per rammendare.

La ragazza tirò fuori una scatola di legno da sotto il bancone e gliela aprì davanti. I rocchetti esposti lì dentro non somigliavano per nulla a quelli che Amir usava di solito. La forma era diversa, e anche il colore, meno candido. Se lo rigirò tra le mani, sovrappensiero, finché lo sguardo gli cadde sull'abito nero della ragazza, un modello decisamente ottocentesco. Non poteva più ignorare la cosa. Anche i vestiti della madre e di Emma gli erano sembrati strani, ma aveva cercato di non farci caso, di immaginare una spiegazione razionale.

- Guarda il nero, signore?- Domandò lei.

- No. No, mi scusi, davvero, io...- Balbettò lui, confuso.

- Non si preoccupi. Immagino che possa rendere curiosi, il nero addosso a una ragazza giovane. Lei mi ricorda un po' i motivi del mio lutto. Il mio fidanzato era tenente nell'esercito. Era in India da tre anni. Aspettavamo il suo ritorno a breve, ma un mese fa ci hanno dato la notizia della sua morte.

Un mese fa? Ma se la madre ed Emma gli avevano parlato di questa faccenda appena tre giorni prima!

- Mi dispiace. Mi dispiace tanto.- Mormorò lui, aggrappandosi al bancone per non cadere. - Mi dispiace di ricordarle il suo dolore.

- Lei è una persona gentile. Mi perdoni per averla trattenuta e intristita con questa storia. Sembra che non riesca a fare a meno di raccontarlo a tutti. Chissà, forse spero che mi faccia stare meno male. Scelga il filo che desidera e riprenda pure la sua strada.

- Va bene questo.

- Sono nove scellini.

- Ehm...- Lo scellino era in disuso da qualche decennio, da che ricordava. Posò una sterlina sul bancone, avvertendo l'esigenza di fuggire da lì. - Ecco, tanto tornerò presto, faremo i conti la prossima volta, eh?

- Aspetti! Ma cosa...

Corse via senza nemmeno salutarla. Lo shock culturale monetario era stato terribile. Ci voleva un po' d'aria fredda per schiarire i pensieri.

Che la sua vita avesse preso un corso insolito, quello lo sapeva bene. E sapeva anche che quel corso includeva cose non esattamente comuni e incontri non esattamente umani.

Però...

- Ehi, stai attento a dove vai, figlio di puttana!

Non si era minimamente accorto dell'uomo che camminava nella direzione opposta alla sua. Non finché non fu bruscamente spintonato contro il muro dall'altro, che camminava con passo frettoloso, con gli occhi fissi sulla strada.

- Mi scusi.- Mormorò il ragazzo, seccato da quella scortesia. - Non ho fatto apposta.

- Stai zitto. Non ho voglia di litigare, oggi, altrimenti vedresti!

La smorfia di rabbia che gli contraeva i lineamenti lo rendeva particolarmente repellente. Era intabarrato in una palandrana rosso scuro e portava una sacca di cuoio sulle spalle. Un altro insolito passante di quella strada fuori dal tempo.

- Mi scusi.- Ripeté il ragazzo, turbato dall'aria aggressiva dell'altro.

- E smettila di piagnucolare!- L'uomo sollevò la mano sinistra, stretta in un pugno, ma Amir riuscì a correre via prima che l'altro potesse fare qualsiasi movimento.

Quando ebbe raggiunto la fontana fu colto da un terrore irrazionale che quel tipo violento fosse andato al negozio, a disturbare le donne. Tornò sui suoi passi e si affacciò sulla strada. L'uomo era sparito, la via era tranquilla. Camminò fino all'arco e al negozio. Il portone d'ingresso era serrato, la luce interna al negozio spenta.

Amir tornò indietro, sforzandosi di non pensare a Evelyn e al suo vestito. Nero. E fuori moda da circa un secolo.

 

Se li guardavi da vicino, i rammendi non erano proprio bianchi. C'era un che di lievemente giallastro. Non che fosse un così gran problema. Non sapeva decidere se si trattasse di una colorazione naturale del filo, magari non sbiancato con prodotti chimici, o se il filo fosse ingiallito.

Beh, comunque stessero le cose, lui voleva tornare dalle donne. Con la scusa di comprare qualcos'altro. Bottoni, magari. Perché voleva assicurarsi che stessero bene.

Il motivo di quella preoccupazione... No, non lo sapeva, e nemmeno gli interessava. Era l'istinto a suggerirgli di tenerle d'occhio. C'era qualcosa che gravava su di loro, un'ombra indecifrabile. Cosa poteva fare uno come lui, poi, non lo sapeva. Però se le era prese a cuore.

 

Quando entrò nell'alone di luce tenue del lume a olio che illuminava a stento il negozio, Emma lo salutò con un cenno della testa. Sembrava particolarmente sconsolata.

- Posso aiutarla?

- Mi servono dei bottoni. Si ricorda di me, signorina Emma?

- Il signor indiano, certo.

- Come stanno sua madre e sua sorella?

- Staremmo meglio tutte da un'altra parte, mi creda. Bottoni come?

- Bottoni neri, ricoperti di stoffa. Emma, vi è successo qualcosa?

La ragazza gli mise davanti la scatola giusta e tolse il coperchio. Amir prese a rovistarvi, più che altro per non insospettirla. Non gli importava granché dei bottoni.

- Sì, ci è capitato di essere donne sfortunate, ecco cosa. Tre donne da sole non vanno proprio da nessuna parte.

- C'è qualcosa che potrei fare per voi?

Emma alzò le spalle e scosse la testa.

- Non dovrei nemmeno annoiarla con le nostre disgrazie.

- Non mi sta annoiando, signorina Emma. Dico davvero. Posso aiutarvi in qualche modo?

- Meglio di no.- La ragazzina fece un sorriso amaro. - Pare che gli uomini attorno a noi siano contagiati da qualche sfortuna e muoiano tutti.

- Si riferisce al fidanzato di Evelyn?

- Nostro padre e nostro fratello, prima di lui. Finiamo per restare sempre sole. Senza nessuno che ci aiuti quando ne abbiamo bisogno. E ora c'è quel Carl che si presenta qui a tutte le ore e fa la corte a mia sorella, e per quanto lei gli dica di no, non c'è modo di cacciarlo.

- Intende dire che siete infastidite da quest'uomo?

- L'unica speranza è che se ne vada in fretta. È un marinaio e sembra che il suo mercantile sia in partenza. Almeno potremo uscire da qui. Siamo chiuse in casa da mesi! Al mattino scendiamo le scale e veniamo in negozio. La sera risaliamo e ci serriamo in casa. E basta. Dobbiamo lavorare. Dobbiamo stare attente a Carl Borden. Siamo sole. Non usciamo più nemmeno per la Messa della domenica, ormai, a meno che qualche anima buona del quartiere non ci scorti.

- Ma non avete pensato di chiamare la polizia, se quest'uomo vi spaventa così?

- La polizia non sta a perdere tempo con cose come questa. Ha finito, con i suoi bottoni?

Amir aveva pescato una manciata di bottoni dall'aria interessante, e li mise nelle mani della ragazza perché li avvolgesse in un pezzettino di stoffa, per portarli via.

- Tutto quel che chiedo sarebbe andare alla festa di Rose Wells.- Sospirò la ragazzina, voltandosi per mettere a posto la scatola.

- Chi è Rose Wells?

- Abita qui vicino. Si è fidanzata e ha invitato tutte le famiglie del vicinato per festeggiare. Sarà un festa vera, e per una volta che potremmo vivere un po', mia madre ha detto di no, perché anche se è vicino, siamo tre donne sole, e... Le solite storie. Siamo indifese. Non abbiamo nessuno.

Per una volta che potremmo vivere un po'.

- Quando si terrà, questa festa?

- Stasera.

Come sempre, Amir non si rendeva conto del momento preciso in cui una facoltà sconosciuta, che non era la razionalità, prendeva possesso di tutta la sua persona e parlava o agiva a sproposito.

- Posso portarvi io.

La scatola sfuggì dalle mani di Emma e precipitò a terra, con un tonfo seguito dal picchettare al suolo di una pioggia di bottoni. Il rumore attirò immediatamente la madre ed Evelyn, ancora vestita a lutto. Le due donne guardarono il disastro causato da Emma e poi Amir, per qualche lunghissimo e silenzioso momento di imbarazzo.

- Ha detto che ci porta alla festa!- Esclamò Emma, incredula, come se quella notizia potesse essere una spiegazione sensata ai bottoni rovesciati.

- Che cosa?- Mormorò la madre.

- L'ho detto davvero.- Amir si affacciò sul bancone. - Vi accompagno volentieri. Sono una persona tranquilla, onesta. Non voglio ingannarvi.

- Ma lei, chi è?- La madre gli si fece vicina, guardandolo con diffidenza e con la fierezza dell'animale feroce che difende i figli da un predatore.

- Mi chiamo Amir. Sono un... Domestico in casa Bennett.

- Adam Bennett e sua moglie Nora?

Amir annuì e sorrise, domandandosi chi fossero quelle persone.

- Li conosco. Perché il domestico di una famiglia importante dovrebbe interessarsi a tre donne conosciute per caso?

- Perché vi ho conosciute, anche se per caso. E ci tengo al fatto che possiate passare una serata felice.

Ci fu un attimo di gelo, ma la risata spontanea di Evelyn lo infranse subito.

- Mamma, sì, ti prego! Ha detto che verrà con noi. Possiamo andare? È così tanto tempo che siamo qui. La casa è qui vicino: al signore basterà accompagnarci, per tenere lontano Carl Borden, se per caso si presentasse. Rimarremo solo un pochino. Un'ora basterà. Ti prego, non possiamo...

- Non conosciamo questo signore. Potremmo metterci in qualche guaio.

- La prego. Ha detto che conosce i Bennett, no? Si fidi del nome della loro famiglia.

- E comunque Carl Borden è un po' più alto e grosso di questo signore.

- Ma noi saremmo in quattro, ed è meglio di niente. E poi il signore è comunque un uomo, magari sa lottare...

Alla fine la donna capitolò.

- E va bene. Se davvero quella di questo signore è solo carità cristiana verso tre donne sole, allora riceveremo la sua elemosina con gratitudine.

- Andiamo a vestirci!- Gridò Emma. - Mamma, ti prego, posso mettermi il vestito rosso? Quello di velluto. Ti prego!

- Certo, cara. Quello di velluto. E se proprio vuoi, ti farò indossare anche la mia collana con la perla. Guai a te se la perdi, però!

Emma fece un saltello di gioia e poi prese a ballare in tondo, pesticciando i poveri bottoni abbandonati a terra.

- Ci saranno tutte le ragazze del quartiere! E i ragazzi...

- Eh, già.- Commentò Evelyn, sfiorando la guancia arrossata della sorellina. - Io metterò l'abito nero migliore.

- No.- La madre posò una mano sul braccio della figlia maggiore. - Stasera no. Ti difenderò io da chiunque oserà dire qualcosa su di te.

Il sorriso di Evelyn si fece splendido.

- E tu, mamma?- Domandò la più piccola, infilandosi tra Evelyn e la madre, e abbracciandole entrambe. - Tu che metterai?

- Qualsiasi cosa possa indossare, non sarà mai bella quanto voi due!

Amir fece qualche passo indietro e contemplò le tre donne abbracciate. Se mai aveva meditato sul significato dell'espressione voglia di vivere, adesso poteva dire di averne capito il senso.

- Tra un'ora saremo pronte.- Gli disse Evelyn, voltandosi verso di lui.

- Tra un'ora sarò da voi.- Rispose Amir. Gli sembrò di sentire un altro suono, dietro le sue parole. Qualcosa di stridente, qualcosa che si infrangeva. Ma volle ignorarlo. Uscì dal negozio e tornò verso casa, tenendo d'occhio l'orologio. Tra un'ora sarebbe tornato.

 

La prima cosa che lo mise in allarme fu il lampione. Non c'erano lampioni, nella via del negozio sotto l'arco. Né panchine. La strada era più piccola, più sporca, più...

- Non è possibile.

La prima volta in cui aveva visto il loggiato sotto il quale si apriva il negozio, gli era sembrato familiare. Ora capiva perché. Ci era già passato davanti, mille volte. Solo che non c'era nessuna merceria, ma una gioielleria, lì sotto, e l'arco di pietra grezza era stato intonacato e dipinto di bianco. Da una finestra al piano di sopra scendeva un rampicante fiorito, che gettava i suoi rami pendenti lungo l'arco. La gioielleria, chiusa, aveva un'insegna frivola e colorata. Rassicurante. Amir riconosceva perfettamente i contorni di quel posto, così vicino a casa.

- Non è possibile.- Ripeté, con il cuore che batteva tanto veloce da impedirgli di respirare.

- È possibilissimo, direi.

Amir si voltò di scatto. C'era un uomo, alle sue spalle. Un tipo dall'aria comune, con i capelli scuri e lunghi, una felpa nera e dei jeans. Gli sorrise e gli fece un cenno con la mano.

- Pensavi di trovare la merceria?- Gli domandò, avvicinandosi e tirando fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della felpa.

- Tu chi sei e che ne sai della merceria?

- Io so tutto. Conosco questo quartiere da secoli. E so anche chi sei tu.

- Cosa sai, di me?

- Vedi roba che la gente comune non vede o non vuole vedere. Perché credi altrimenti di essere riuscito a trovare la merceria?

- Che... Cos'era?- Mormorò Amir, appena più calmo. Almeno qualcuno gli confermava che non era stata tutta un'allucinazione.

- Un crocevia del tempo.

- Non capisco.

- Hai trovato un passaggio nel tempo. Hai visto questo posto com'era circa cento anni fa.

- Cento?

- Non dirmi che non te n'eri accorto. Anche se non avessi notato arredamento e abbigliamento, il loro modo di parlare ti avrebbe dovuto insospettire. O il fatto che avessero bisogno di un accompagnatore per andarsene in giro.

Amir annuì lentamente, ammettendo finalmente che, sì, aveva notato ogni cosa, ma aveva preferito non soffermarsi su quei particolari...

- Chi erano?- Chiese.

- Magdalen Bailey e le sue figlie, Evelyn ed Emma. Gestivano la merceria di famiglia. Il marito era morto da sei anni. Il figlio secondogenito da tre. E l'ultimo colpo era stata la morte del fidanzato di Evelyn. Poi arrivò Carl Borden, con la sua corte sfacciata e le sue minacce. Nella sera del venticinque settembre 1907, Carl Borden si precipitò nel negozio e cercò di assalire Evelyn. Lei si difese con delle forbici da sarto e lo ferì. Carl, furioso, se ne andò, per tornare poco dopo armato di quanto gli serviva per bruciare il negozio. Le donne morirono tutte e tre, soffocate dal fumo, insieme ad altri quattro abitanti del caseggiato.

Amir rimase in silenzio, a fissare la gioielleria e la sua insegna colorata, così lontana dalla storia terribile che l'altro gli stava raccontando.

- Ti chiedi cosa c'entri tu, vero?- Domandò l'altro. - Sai, prima che arrivassi tu, questo non era un posto tranquillo. Quelle tre donne, dopo mesi di reclusione e struggimento per la vita che non potevano avere, erano morte all'improvviso, derubate del loro futuro. Immagini cosa possa essere successo?

- Sono... Rimaste?

- Già. Tre spettri inquieti tra questi vicoli. Fredde, insensibili, cattive, invidiose. La loro rabbia impregnava le mura di queste case. La loro ansia di vivere si trasformava in un desiderio senza sfogo, insalubre, soffocante.

Amir pensò che in fondo non avevano tutti i torti, ad essere così infuriate.

- Poi sei arrivato tu. Hai trovato un passaggio temporale e sei arrivato qui nel momento prima della fine. Hai dato loro una speranza. Non sei riuscito a salvarle, è vero, ma hai regalato loro un momento in cui hanno concentrato tutto il loro desiderio prepotente di vita.

L'uomo gettò via la sigaretta e si avvicinò al ragazzo. Amir notò che aveva gli occhi stranamente allungati, quasi felini, di un colore dorato innaturale.

- E cos'è successo?

- Se ne sono andate in pace. Hai cambiato questo posto, agendo sul suo passato. Hai dato il riposo meritato alle tre donne, e anche ad almeno tre generazioni di abitanti di questo posto.

Amir scosse la testa: aveva capito, ma voleva far finta di non capire, invece, per farsi rispiegare tutto, per vedere più chiaro in quelle parole folli che gli venivano date per vere.

- Fidati.- Insisté l'altro. - Io lo so. Sono il custode di questo posto da secoli.

- Ma se ho davvero... Ho cambiato...- Balbettò Amir, ancora in parte incredulo.

- Hai impedito due suicidi, un omicidio e diverse risse, se può farti piacere.- Rispose l'altro. - Non male. Adesso però torna a casa. Anche la casa di Bennett ha i suoi spettri. E non facili da esorcizzare.

- Tu chi sei?

- Uno che conosce bene la città e sa un sacco di cose, e ti sarà utile in futuro. Se avrai bisogno, chiedi in giro di Nevan.

Non gli disse altro: si tirò su il cappuccio della felpa e si diresse sotto l'arco. Sparì nelle ombre del loggiato e Amir non lo seguì.

Chiedi in giro di Nevan. Grazie, Nevan, ma a chi lo dovrei chiedere?

 

A casa rovesciò sul letto l'involto di stoffa fatto da Emma e guardò i bottoni.

Gli sembrò di cogliere ancora un guizzo di quella vitalità meravigliosa che aveva avvertito nel negozio delle tre donne. Come il riflesso di un sorriso, una rassicurazione che proveniva da lontano. Va tutto bene. Per un momento soltanto, ma siamo state felici.

Mise via i bottoni, con un sospiro. Si distese sotto le coperte e serrò gli occhi.

Va tutto bene.

- 1907.- Borbottò, scivolando nel sonno. - Ecco perché non sapeva cos'è il Pakistan.

E in quel momento tutto gli sembrò perfettamente logico e razionale.

 

 

***
Grazie di essere qui, davvero.
Questo capitolo è stato supportato dal duo Shu-Mia, che, ai tempi in cui lo scrissi, passarono una lunga notte su msn insieme a me, cercando dettagli sulla Londra di inizio Novecento (tra cui un meraviglioso convertitore sterlina attuale-sterlina di prima, una cosa da incubo che però non dimenticherò mai.) Il titolo del capitolo è stato rubato alla canzone di Loreena McKennitt dalla quale deriva la citazione iniziale.
Questo è uno dei miei capitoli preferiti di questa storia. Mi sento di dire che da quando l'ho scritto non ho più dimenticato la data dell'indipendenza dell'India dalla Gran Bretagna - e vista la mia capacità di scordare le date, questo è un enorme successo.
Se non sapete che fare, potreste ascoltare (e scaricare gratis, magari) questa canzone, che ho scritto io e che è la colonna sonora di questa storia.
Alla prossima - dove visiterete un mercato speciale, conoscerete una folla di spettri e incontrerete una creatura inquietante che da ora in poi avrà molto potere sulla vita di Amir.

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Capitolo 7
*** VII - Il ragazzo con due cuori ***


Capitolo VII
Il ragazzo con due cuori

 

Would you like my mask?
Would you like my mirror?
Cries the man in the shadowing hood
You can look at yourself
You can look at each other
Or you can look at the face of your God


(Loreena McKennitt, Marrakech night market)

 

Londra, settembre 2008

 

I colori non erano gli stessi.

Se ne accorse subito, appena si fu lasciato alle spalle l'entrata secondaria del teatro. Era tutto diverso, e non era l'effetto della luce del tramonto. I colori erano sbagliati. C'erano ombre azzurre sulle pareti degli edifici, tracce verdastre che spuntavano nel grigio dell'asfalto, riflessi rossi e arancio sui vetri delle finestre. Non aveva mai visto niente di simile, in quel vicolo con poco spazio e poca luce.

Quando svoltò, per ritrovarsi nella piazzetta di fronte all'ingresso principale del teatro si rese conto che i colori erano l'ultimo dei problemi.

C'era un mercato improvvisato fuori dal teatro. Il perimetro della piazzetta era disseminato da bancarelle, casse di legno rovesciate ricoperte da scampoli di stoffa, mercanzia gettata su tovaglie stese a terra, sedie, panche e mobili trasformati in espositori di cianfrusaglie. E gli articoli in vendita... Accessori antiquati, gioielli bruniti dal tempo, cappelli improbabili, vestiti incompleti, guanti spaiati, sciarpe e mantelli erano gettati un po' ovunque, sui banchi, insieme ad anticaglie di ogni genere. C'erano due bancarelle su cui era stato disposto del cibo, per la maggior parte a pezzi, in pessime condizioni o addirittura sbocconcellato. Un banco vendeva lucertole vive. Un altro era vuoto, solo che il venditore non la smetteva di parlare e c'era della gente che faceva l'atto di mettere qualcosa in una cassettina di legno lì vicina.

- Hai finito di guardare?- Una ragazza con un ombrellino parasole di trina bianca gli diede una spinta e lo risvegliò dalla contemplazione.

- E questo cos'è?- Mormorò lui, sconcertato. - Lavoro qui da mesi. Non l'ho mai visto.

- Perché non sei mai passato di qui all'ora precisa.- Rispose lei, con l'aria di chi dice ovvietà ad uno stupido. - È il mercato delle 19,61. No?

- Eh?

- Guarda l'orologio.

Non l'avrebbe guardato. Assolutamente no.

- Ma che mercato è, questo? Voglio dire...

- Tu non vuoi dire nulla. Tu sottintendi che non ti piace, perché non l'hai mai visto e quindi per te è strano, fuori dal comune, il che equivale a brutto, nella tua mentalità ristretta e antiquata.

- Invece mi piace!- Si difese lui. - Davvero. Mi piace moltissimo. È solo che...

- Sì, sì, sì, certo, ci credo. Ora però dovresti presentarti. Uno sconosciuto che abborda una bella ragazza in strada è sospetto, no?

- Ma se ha fatto tutto da sola!- Protestò debolmente il ragazzo. - Comunque io sono Amir. Lieto di conoscerti.

- Così tu sei il nuovo proprietario del teatro, eh?- Domandò la ragazza abbassando l'ombrellino e mostrandogli il suo viso pallido e paffuto. C'era qualcosa di insolito, nel modo in cui si muoveva, il modo in cui attraversava l'aria. Era graziosa, era a suo modo attraente, nel senso più ampio del termine. Eppure era come se fosse immobile. Come una bella illustrazione, che ti lascia qualcosa nel cuore e nella mente, ma non è niente di simile a una persona viva.

- Non sono il proprietario.- Rispose lui, cercando di non farle notare che la stava fissando. - Lavoro per lui. Gestisco il suo teatro. Il Sunflower. Ci è mai stata?

- Certo che ci sono stata!

- Le ha chiesto se c'è mai stata? No, dico, le ha chiesto se è mai stata dentro al Sunflower?- Un tipo alto e magro in giacca e cravatta, con un copricapo da giullare, affiancò la ragazza con l'ombrellino. - Chi di noi non è mai stato dentro al Sunflower? Ma questo qui, da che mondo viene?

- Pensa che non ha mai visto il mercato.- Disse la ragazza, indicando Amir come se non fosse stato nemmeno lì.

- Sembra pensieroso.- Notò un tipo anziano in tuta da ginnastica, appena spuntato tra la ragazza e l'uomo col copricapo da giullare. - O è solo scemo?

- Ma guardalo, che carino!- Una signora alta e larga quanto un albero secolare, fasciata in una stretta vestaglia porpora, si intromise nel gruppetto e fece veleggiare una mano verso il viso del ragazzo.

Amir rinunciò a protestare di fronte a quell'analisi spietata a cui era sottoposto. Passò in rassegna i loro visi: di nuovo quella sensazione di immobilità. Ciascuno di loro parlava di qualcosa, nessuno di loro sembrava essere veramente lì.

Aveva già visto persone con quelle caratteristiche. Se ne rese conto all'improvviso. Ne vedeva spesso, a dire il vero. Con alcuni si fermava a parlare a lungo. Altri li aveva solo guardati passare. Ma li vedeva ed erano tutti in quel modo.

Rabbrividì. Aveva appena imparato a riconoscerli.

- È il vostro mercato, questo?

- È uno dei mercati del quartiere.- Rispose la donnona. - Forse il migliore. E stasera è in tuo onore.

- Oh.- Fece un sorriso che voleva essere gentile, nonostante l'assurdità della situazione. - Beh. Grazie.

- Fammi capire. Tu quindi sei il servo di un tipo che è il padrone di quel posto cadente dietro di te?- Domandò un ragazzetto che parlava con una voce già molto matura.

- Non sono un servo. Sono un segretario. Faccio varie cose. Fisso gli spettacoli del teatro. Riordino la casa. Rammendo camicie. Quel che il signor Bennett mi chiede di fare, insomma.

- Tutto quel che ti chiede di fare?

- Sì.

- Qualsiasi cosa?

- Più o meno.

- Cioè, qualsiasi cosa? Qualsiasi qualsiasi?

- Capito, eh?- Convenne la ragazza con l'ombrellino. - Qualsiasi.

- Ma quindi anche...

- Già, anche...

- No!- Esclamò Amir, senza capire se quei due si stessero davvero imbarcando in qualche discorso assai poco conveniente. - Qualunque cosa stiate pensando, toglietevela dalla testa!

- Quel che pensavamo è portare uno stormo di formiche volanti a fare un giro.- Spiegò il ragazzo. - Tu a che pensavi?

- Il signor Bennett non alleva formiche volanti, per mia fortuna.

- Che uomo noioso.

- Mi chiedo se si diventa così, quando...- Cominciò il ragazzo, interrompendosi bruscamente non appena si accorse di dove l'avrebbe condotto, quel pensiero espresso a voce alta. I suoi ascoltatori si erano fatti muti all'improvviso. Amir pensò di aver appena combinato un disastro.

Poi il vecchietto in tuta esplose in una risata inarrestabile e uno dopo l'altro anche gli altri iniziarono a ridere. La situazione tornò a farsi imbarazzante. Se solo avessero smesso...

- Si chiede se si diventa così, quando!- Ululava il ragazzino, prendendo fiato a stento tra le risate.

- Così come? Quando quando?- Chiese il vecchio, mezzo soffocato. - Ma questo qui non capisce veramente niente!

- A stare in giro per tanto tempo si perde qualche pezzo.- Disse il giullare, sospirando, in un'improvvisa ricaduta di serietà. - Ma stasera ci stiamo divertendo a essere pazzi. Sai, è colpa tua. Tutti parlano di te: sei la novità del momento. Farti impazzire è un modo per darti il benvenuto.

- In... In che senso, tutti parlano di me?- Balbettò il ragazzo. Si beccò di nuovo una collezione di occhiate che esprimevano chiaramente il compatimento per la sua stupidità. - Voglio dire, il benvenuto è... Ehm. In fondo è una cosa carina.- Si corresse in fretta. Le facce dei suoi interlocutori si rilassarono di nuovo. Però non bastò a far svanire la sensazione inquietante di essere la novità del momento.

- Sapessi cosa fecero al vecchio proprietario del Sunflower.- Commentò la ragazza, nascondendosi dietro l'ombrellino e facendo una risatina perfida.

- Intendete dire il signor Arthur Headley?- Chiese Amir. - Chi gli fece cosa?

- Quelli come noi che erano qui anni fa gli fecero credere di essere un gruppo di pazzoidi con l'intenzione di assaltare il teatro e prenderne possesso.- Spiegò il giullare. - A dire il vero, li smascherò dopo tre minuti. Ma quei tre minuti devono essere stati divertenti.

- Voi non c'eravate allora?

- No.- Rispose la signora gigante. - Altrimenti forse Headley ci avrebbe liberati. Invece quando ci siamo ritrovati qui il signor Headley era già morto e non c'era nessuno per aiutarci. Ma ora ci sei tu.

Solo in quel momento Amir si rese conto che la platea dei suoi interlocutori era aumentata. C'erano almeno una ventina di loro, tutt'intorno a lui. C'erano anche un paio di facce che non gli erano nuove. Doveva averli visti dentro al teatro.

- Non so se avete fatto un buon acquisto.- Mormorò lui, scuotendo la testa.

- Stai scherzando?- Rispose la ragazza con il parasole, minacciando di sbattergli l'ombrellino in testa. - Senza di te, non ce ne andremo mai. E per quanto ci piaccia questo posto e tutto quanto, non è qui che dobbiamo stare.

- Ma io non sono un esorcista o qualcosa del genere.

- Eppure hai già spedito altrove alcuni di noi.

- Lo so. E sono felice se riesco a farlo, ma non ho idea di come...

Questa volta l'ombrellino gli arrivò direttamente sulla testa. Ecco, avrebbe avuto qualcosa da raccontare a chi sosteneva che gli spettri fossero incorporei.

- Forza, stupido!- Esclamò la ragazza. - Fatti un giro per il mercato e dimentica le tue lamentele. È in tuo onore, no?

- Va bene. Da dove mi consigliate di cominciare?

La ragazza puntò il parasole verso il banco senza niente esposto.

- Lui. Vai da lui.

- Ma cosa vende?

- Aria fritta. Fumo senza arrosto. Qualcosa del genere.

Poi la ragazza se ne andò, e, quasi stessero tutti aspettando quel segnale, anche il resto dei presenti si disperse in giro per il mercato.

Il venditore del banco senza merce era altissimo e ondeggiava su lunghe gambe magre che sembravano instabili trampoli circensi.

- Beh?- Domandò, chinandosi verso il ragazzo. Il viso dell'uomo era pallido e allungato, gli occhi verdi e i capelli color sabbia, lunghi e lisci. Amir non riuscì a dargli un'età.

- Vorrei acquistare... Qualcosa.

L'uomo indicò la cassettina.

- Si paga, prima.

- Va bene. Quanto...

- Per te, un nome sarà sufficiente.

- Un che?

- Un nome importante. Un nome che ti risveglia memorie e speranze quando lo pronunci.

- Oh. D'accordo.- Non era una scelta difficile, in fondo. - Shirin.

- Non male.- Commentò il venditore. - Una sorella, eh?

- E lei come ha fatto a capire che è il nome di mia sorella?

- Staremmo qui fino a domani, se dovessi spiegarti i miei trucchi. La tua sorella preferita, vero? Una vocina sarcastica che ti parla nella testa, o qualcosa del genere. Molto, molto intelligente. Mi sbaglio?

- No.

Il venditore fece un sorriso compiaciuto, poi si sedette su uno sgabello e tirò fuori dal niente un triangolo d'argento, completo di bacchettina. Batté un colpo e un tintinnio risuonò intorno a loro. L'uomo cominciò a mormorare una specie di cantilena. Pian piano altre voci sembrarono unirsi alla sua.

 

Ed ecco lo straniero

l'esiliato, il pellegrino

eppure la sua casa è sempre qui, lungo il cammino!

Noi siamo veri amici

gioiosa compagnia

e siamo affare suo, e lui non può mandarci via!

Ha un cuore di bambino

è tenero, uno spasso

e senza spettri e spiriti non può muovere un passo!

Le voci gli han parlato

gli han detto di cercare:

ai margini del mondo si domanda dove andare.

 

Qualcuno nell'ombra suonava uno strumento a corde e tutti cantavano. Alle voci erano mischiate risate che allungavano le sillabe e trasformavano il motivo da bambini in un ritornello spaventoso.

La strofa ripartì per la terza volta.

C'era qualcosa di rassicurante e qualcosa di terribile, nella canzone. Intuiva il senso di quelle parole, gli sembravano molto appropriate, eppure non voleva sentirle, per nessuna ragione, perché presagivano un futuro fatto di giorni assurdi e notti fuori dal mondo.

Amir desiderò che il canto tacesse. Allora le voci tacquero all'improvviso. Dal silenzio rinacque un canto, più dolce, mormorato soltanto dal venditore e scandito dal suo triangolo.

 

Figlio, stella

non aver paura:

per il cuore ferito esiste una cura

Luce tremante,

tu fidati e credi

a quello che noi siamo

a quello che non vedi

 

- È stato un buon affare, sì?- Chiese l'uomo, con una trepidazione che lo rendeva improvvisamente molto più simpatico.

Amir ci pensò qualche istante e decise che in fondo non poteva dire di no.

- Un buon affare.- Confermò.

- Allora spero che diventerai un cliente fisso.

- Chissà. La prossima volta che mi imbatterò nel mercato potrei tornare.

Il ragazzo lasciò la bancarella e si lasciò trascinare dalla folla, attraverso le vie di quel posto che probabilmente neppure esisteva.

Per un tratto fu scortato da una signora vestita con un tailleur arancio che portava in giro uno scoiattolo al guinzaglio.

- Vedi, non è che ci facciamo vedere da tutti, sai. Non crederai che ci piaccia che tutti ci guardino, eh? Dico. Insomma. Mica tutti sono uguali. Hai capito?

- Intende dire che potete rendervi invisibili alle persone che non vi piacciono?

- Eh, certo, certo, sì, sì. Ma non tutti quelli che ci piacciono ci possono vedere. Ci sono quelli che ci passano così, così vicini come sei tu, e mica ci vedono, eh.

- Come mai?

- Mah, sono un po' spenti.

- Spenti?

La donna alzò le spalle, come per dire che la parola era quella e non ce n'erano di migliori. Poi lo scoiattolo puntò un bancarella di cibarie e la padrona seguì la spinta della bestiola, abbandonando Amir.

- Spenti.- Ripeté il ragazzo. - Non che mi aiuti a capire.

- Se speri di capire qualcosa, sei un bell'illuso.

Quella voce la conosceva. Si voltò e si trovò davanti il viso sorridente di Edward, lo spettro che qualche tempo prima gli aveva raccontato la storia del teatro. Fuori dal Sunflower il giovane sembrava meno dimesso e malinconico, più rilassato. Quasi vivo.

- Vedi, Amir, il mercato serve solo per confonderti le idee.

- Grazie. Consolante. Ma come mai sei fuori dal teatro? Pensavo che...

- Di solito non possiamo allontanarci molto dai luoghi dove viviamo. Di solito. Alcuni di noi hanno delle storie particolari. Le musiciste di Ophelia Raymond potevano seguirla ovunque. Io non posso muovermi dal Sunflower. Ma il teatro ha una grazia tutta sua. Attira quelli come noi. Ciò che succede su questo suolo esula da ogni legge. Quindi, quando voglio, posso fare un giro al mercato.

- Ciò che succede su questo suolo esula da ogni legge. Mi sembra di averlo capito.

Edward rise bonariamente.

- Sai che riesco a intuire come mai piaci così tanto a tutti? Sei completamente spaesato, nel nostro mondo, eppure non ti tiri indietro. Sai accogliere le sfide e non ti fai vincere dalla paura o dal disprezzo.

- Paura, quella ce l'ho.- Confessò Amir. - Ma non potrei mai disprezzarvi. A volte mi sembra di essere più simile a voi che...

Sollevò gli occhi e incontrò quelli scuri e seri di Edward.

- Misura le parole, Amir. Non dire certe cose troppo forte. Potresti accorgerti di quanto sono vere.

Amir registrò il consiglio. Forse Edward gli avrebbe detto ancora qualcosa, ma arrivò una donna, una signora alta con i capelli biondi e un abito bianco sporcato da macchie scure. Anche lei era faccia nota. L'aveva vista in giro per il teatro. La signora gli fece un inchino e una risatina.

- Che brava persona, che è.- Disse, parlando a Edward. - Non è vero, Percy?

- Percy?- Chiese Amir.

- Uno dei miei tanti nomi. Nessuno mi ha mai chiamato col mio nome vero, in vita. Tuttora la gente non sa come chiamarmi.

- Pensa che hanno sbagliato anche la sua lapide!- Disse la donna, ridendo. - C'è scritto: qui riposa Edward PB...

- Basta, Emily!- La interruppe bruscamente il giovane. - Piantala.

- Volevo solo spiegargli che hanno invertito le iniziali del secondo e del terzo nome. E la gente che passa di lì non lo riconosce comunque, perché nessuno lo chiamava Edward, in vita, e se ci pensi bene è un nome noiosissimo, rispetto ai suoi altri nomi, che...

Edward la prese a braccetto e la trascinò via. Amir si rese conto solo dopo qualche minuto che la donna stava per pronunciare il nome completo di Edward, quando lui l'aveva interrotta. Forse era stato un caso. Forse. Inutile pensarci ancora.

Si guardò attorno per decidere dove andare e fu agguantato da una vecchietta poco pulita e per niente profumata che cominciò a parlare di frittelle. Frittelle di tutti i tipi. Frittelle e marmellata di more. Pastella fritta ripiena di miele. Le sue parole erano piene di una nostalgia struggente, quasi dolorosa.

- Hai mai preparato le frittelle?- Gli domandò alla fine, fissando un punto distante, nel quale forse vedeva cose dimenticate da tutti tranne che da lei.

- No, ma a volte aiutavo le mie sorelle maggiori a cucinare.- Le raccontò.

- Come si chiamano?

- Janaan, Nahla e Shirin.

- E tu sei il più piccino, eh? Scommetto che ti hanno viziato, eh? Loro tre, e la tua mamma. Me la immagino. Come si chiama, la tua mamma?

- Sehar.

- E che dolci cucinavi, con loro?

Il ragazzo ripescò dalla memoria alcuni frammenti lontani, pomeriggi passati a casa con le ragazze, in piedi su una sedia, a cercare di capire come quel pasticcio di ingredienti potesse dare origine a cose tanto buone. Alla fine gli sembrò di ricordare abbastanza da rimettere insieme una ricetta dignitosa e cercò di spiegarla alla donna.

Lei ascoltò con attenzione ogni parola.

- Grazie.- Sussurrò alla fine, come se Amir le avesse detto le parole più belle del mondo, invece che una semplice ricetta pakistana.

Quando accadde, una parte di lui l'aveva presentito. La signora non sparì. Semplicemente, non ci fu più. E lui avvertì lo spazio lì vicino che prima era pieno e dopo era vuoto.

Amir si fermò, rivivendo dentro di sé ancora per qualche istante la vertigine della scoperta di quello spazio senza più nessuno. Non riusciva a decidere se era una sensazione che poteva catalogare come piacere o sofferenza.

All'improvviso la piccola folla si aprì simmetricamente e rivelò una figura di spalle, un uomo alto e slanciato, con indosso un lungo trench blu scuro e i capelli ricci raccolti in una coda bassa.

- Ragazzo, lo sai cosa serve per parlare con il mondo dietro al mondo?- Chiese l'uomo, con una voce potente e tagliente, sebbene fosse quasi un sussurro.

Prima che Amir potesse rispondere, l'uomo si voltò.

Aveva una maschera nera che gli copriva la metà superiore del viso, guanti neri e stivali neri col tacco. Da sotto la maschera spuntavano labbra scarlatte. Poi l'uomo si tolse il trench con un solo gesto, e sotto indossava un abito da donna scollato, rosso, stretto in vita, che si apriva in una corolla rossa e nera, intessuta di perle. Le spalle erano larghe, ma la vita era stretta e i fianchi appena pronunciati. Amir non riuscì a capire se fosse un uomo o una donna. Si sciolse i capelli, e i ricci scivolarono ai lati del suo viso, lunghi fino alle spalle. Quando si tolse la maschera, la strana persona rivelò un viso splendido, con una simmetria nei tratti che creava una bellezza androgina, fuori dal comune. Il volto era bianchissimo e in esso spiccavano gli occhi cerchiati di nero e decorati con polvere rossa che dava alla creatura un'aria demoniaca.

- Vuoi essere uno che ha due cuori?- Gli chiese, alzando appena la voce, in bilico tra una voce maschile molto alta ed uno scuro timbro femminile da contralto.

- Che cosa?

- Due cuori. Uno per te, perché batta di passione per ciò che ti circonda. Uno per loro, perché tu glielo dia e glielo lasci spezzare. Il primo ti servirà per sentirli, per accoglierli, per stare in mezzo a loro. Il secondo lo faranno a brandelli con le loro parole, lo infiammeranno con i loro desideri, lo feriranno con i pezzi di vetro delle loro storie irrimediabili. Il primo ti ci vorrà per vivere, il secondo per morire. Se rinunci al primo cuore, ti spegnerai. Se rinunci al secondo, sarai una brava persona, ma non ci vedrai mai più. Se vuoi rimanere con noi, ti serviranno tutti e due.

C'era solo una risposta, e lui aveva già detto di sì molto prima che gli venisse posta la domanda.

- Vieni, allora.- Riprese la creatura, con una nota più dolce nella voce. - Entra pienamente nel nostro mondo. Tu decimerai la mia gente e io farò festa per ognuno di loro che se ne andrà. E se vorrai, ti darò tutte le cure di cui avrai bisogno.

Amir tentò di racimolare qualche parola sensata, ma non ne fu capace. Sentiva gli sguardi di tutti addosso, il tempo imprigionato in un solo istante, la consapevolezza angosciante di essere molto, molto lontano dalla vita come la conosceva la gente comune. E poi sentiva l'impressione confusa della loro accoglienza, che era bizzarra e spaventosa, ma anche piena di un calore autentico.

Voleva essere all'altezza, voleva capire e voleva anche essere da un'altra parte e dormire.

Bastò il tempo di formulare quel pensiero e tutto scomparve. Il cielo si fece scuro e la piazza fu vuota. Il mercato era finito. Poteva andare a casa.

Si lasciò il teatro alle spalle e cominciò a correre.

Il ritornello infestato continuò a seguirlo.

 

Figlio, stella

non aver paura:

per il cuore ferito esiste una cura

Luce tremante,

tu fidati e credi

a quello che noi siamo

a quello che non vedi...

 

 

***





Grazie di essere qui!
Se non sai cosa fare per tre minuti e mezzo, potresti ascoltare (e se vuoi scaricare gratis) una canzone che si chiama Fire and song, oppure ascoltare una canzone che si chiama La lanterna: le ho scritte io, sono le colonne sonore di questa storia. Le trovi qui e qui.

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Capitolo 8
*** VIII - Tre sfide ***


Capitolo VIII
Tre sfide

I'm in love with the darkness of the night
I'm in love with all that's out of sight
I'm in love with the magic of the new
And the darkness loves me too

(Xandria, In love with the darkness)

Londra, ottobre 2008

 

- Scacco matto.

Il sorriso sulla faccia del ragazzino era così largo e luminoso che Amir non poté fare a meno di ricambiarlo – un po' per contagio, un po' perché sapeva di essere stato veramente bravo.

- Hai vinto.- Disse Amir, raccogliendo il suo re bianco ormai sconfitto e porgendolo al giovanissimo avversario. - È stata una bella partita.

- Davvero? Pensi che sia stata una bella partita? Ti sei divertito? Sono un buon avversario?

- Oh, sì. Il migliore da quando sono arrivato a Londra, se devo essere onesto. Grazie.

- Grazie a te!

Fu l'ultima cosa che gli disse. Appena la sua mano paffuta si chiuse attorno al re, il ragazzino scomparve, con una specie di sospiro un po' malinconico e un po' soddisfatto. Il re bianco di legno rimbalzò sulla scacchiera, rovesciando un cavallo e una torre. Al rumore secco lo stomaco di Amir fece una giravolta non piacevole. Rimase immobile per qualche istante, a fissare lo sgabello sbilenco su cui fino a poco prima si era seduto il piccolo spettro.

- Davvero notevole.- La voce femminile profonda lo fece riscuotere dai pensieri. Si voltò verso la platea e la vide seduta in prima fila, con il suo abito bianco molto succinto macchiato di qualcosa di scuro a livello dell'addome. I capelli biondi erano lunghi e scarmigliati, e le ricadevano ai lati dell'ovale allungato del viso, carico di trucco.

Emily era la più socievole, lì dentro. Non mancava mai di venire a salutarlo, quando arrivava in teatro, e di tutti gli inquilini di sicuro era la più incline a spiegargli le cose che non capiva. Che erano molte.

- Notevole?- Le domandò, scuotendo la testa. - Ho perso.

- Hai perso apposta.- Scomparve dalla platea per riapparirgli accanto sul palco. Prese il posto del ragazzino, sullo sgabello, proprio di fronte a lui. I suoi capelli scomposti e il suo seno abbastanza visibile erano molto belli, e Amir non era sicuro che fosse opportuno soffermarcisi neanche per un attimo – tutto ciò rendeva un pochino più difficile la conversazione.

- Come lo sai, che ho perso apposta?

- Me la cavo, con gli scacchi. Potevi sconfiggerlo due volte, e hai evitato. Alla fine hai fatto una mossa abbastanza sciocca e l'hai messo in condizione di vincere.

- Aveva così tanta voglia di vincere. Sarebbe diventato un buon giocatore, se...- Si interruppe. Non era abituato a quelli molto giovani. Ne aveva visti tanti, di recente: dopo il suo giro al mercato fuori dal teatro, non c'era stato un giorno in cui non ne fosse arrivato qualcuno a bussare alla porta del Sunflower. In teoria quelli come loro erano legati a certi luoghi. In pratica, a quanto pareva il teatro aveva un potere particolare per cui li attirava, e loro si lasciavano attirare e venivano a chiedere un po' d'attenzione, ognuno a modo suo.

- Hai esorcizzato un fantasma con una partita a scacchi. Sei davvero bravo.

- Non sono bravo, siete voi che siete strani.- Borbottò lui, facendola ridere. - No, sul serio. L'altro giorno uno se n'è andato dopo avermi recitato una poesia. E la settimana scorsa ce n'era un'altra che per partire ha avuto bisogno che le raccontassi la trama di Sogno di una notte di mezza estate. Nella quale ho sbagliato i nomi dei personaggi almeno tre volte, ma lei è sembrata contenta comunque.

La risata bassa e quieta di Emily era maliziosa e bonaria al tempo stesso.

- Sai capire cosa vogliono e glielo sai offrire.

- In realtà non so bene cosa faccio. Li sto a sentire e mi invento qualcosa.

- E ti sembra poco?

- A te cosa dovrei offrire, Emily?

Lei poggiò i gomiti sulla scacchiera e gli si fece vicinissima. Lui ebbe l'impressione di avvertire per un istante un profumo intenso e la sensazione dei capelli di Emily che gli sfioravano una guancia.

- Quando lo vorrò, te lo dirò. Per ora tu e il Sunflower avete ancora bisogno di me. Che ne sarebbe di questo posto triste, senza una vera attrice che lo renda un po' più vitale?

- Sono felice che tu ci sia.- Le disse, ed era vero: l'idea che Emily volesse aspettare ad andarsene era consolante. Almeno era una persona piacevole con cui parlare sul posto di lavoro.

- Sei veramente adorabile. Dì un po': ti sei trovato degli amici vivi, qui a Londra, o pensi solo allo studio e al lavoro?

- Sì, ho degli amici. Grazie per la preoccupazione.

- Bravo. E una ragazza? O un ragazzo, magari?

Lui scosse la testa, sperando che Emily chiudesse lì il discorso. Non era un campo in cui si sentiva ferrato o tranquillo.

- Oh.- Sospirò lei. - Sei uno di quelli timidi?

- Sono uno di quelli imbranati.

- Guarda che ha un fascino anche quello. Sai con chi ti vedrei bene? Mmmmh... No, non riesco a decidere se ti preferisco con una brava ragazza dall'indole decisa, o con un uomo maturo che getta al vento carriera e progetti per te.

- Non... Penso che... Insomma, non penso che dovremmo parlare ancora di questo argomento, eh?

- Davvero, sarebbero entrambe storie perfette, per te. Chissà cosa ti capiterà. Magari in questo universo vivrai una di queste opzioni, mentre in qualche dimensione alternativa avrai l'altra. Ci credi, tu, alla teoria degli universi?

- Fino a qualche mese fa non molto. Ma ora...- Indicò Emily e tutto il teatro, e le rise.

- Già. Ma sei uno che impara in fretta. E non parlo solo di fantasmi. Ti lasci sfidare dalle novità che incontri e non ti tiri indietro. Né ti trinceri dietro le cose che hai sempre pensato.

- Non so nemmeno se sia una cosa buona. Non è che mi sto lasciando cambiare troppo dalla città?

Un altro sospiro di quelli molto teatrali, tipici di Emily.

- C'è una misura entro la quale dobbiamo farci cambiare. Ma senza perdere quello che siamo, la nostra storia, la nostra cultura. Non credi? O sto facendo discorsoni senza senso?- Lui scosse la testa. - Beh, anch'io mi sono lasciata cambiare. Dal tempo che ho passato qui.

- Sì, penso che anche tu abbia imparato tante cose, se davvero sei nata alla fine dell'Ottocento. L'ultimo spettro ottocentesco che è venuto da me faceva fatica a concepire concetti come televisione e donne in ruoli di autorità.

Qualcosa nel suo sorriso largo cambiò: senza sparire, si era macchiato di tristezza.

- Quelli che rimangono con il rimpianto di non aver vissuto abbastanza. Loro imparano benissimo. Altri sono bloccati in questa vita per accidente, come il tuo amico ottocentesco, e restano uguali a quando erano vivi. Ma lasciamo perdere questi discorsi. Torniamo a parlare di cose carine. Dove hai imparato a giocare a scacchi?

- Mi hanno insegnato i miei zii, quando ero più piccolo.

- Oh, sì, ti prego: raccontami uno stucchevole aneddoto di infanzia e vita familiare. Mi hai intristita, e ora me lo devi!

Lui scosse la testa, un po' a disagio. Si mise a riordinare i pezzi sulla scacchiera, sperando di riordinare anche le parole.

- In realtà anche questo è un discorso molto complicato e anche un po' triste. Mi dispiace. Posso parlarti di qualcos'altro della mia infanzia, se vuoi.

- Scusa, ma ormai mi hai incuriosita.- Gli rubò la regina nera dalle mani e cominciò a rigirarsela tra le dita. La pelle di Emily era bianchissima ovunque, tranne che sulle mani. Una volta lo aveva beccato che le guardava e gli aveva spiegato che la ricoprivano di trucco bianco, per andare in scena, ma sulle mani il trucco si consumava sempre prima della fine dello spettacolo.

- Dunque, ho due zii. Farid è il fratello di mio padre. È molto incasinato e molto amabile, pensa che tutto il mondo sia bello e se vede una cosa che gli piace, la compra e la regala a qualcuno. Ahsan è il fratello di mia madre. Non c'è niente che lo renda felice se non far soffrire gli altri, è enorme e incline alla violenza, e ha una voce che se sospira, lo senti dall'altra parte della città.

- D'accordo, me li vedo. Vai avanti.

- Mio padre è morto quando avevo tredici anni, quindi tutti e due hanno cominciato a frequentare sempre più assiduamente la mia famiglia, per aiutare mia mamma. Farid era il mio zio preferito, quindi ero felice di averlo sempre in casa, ma Ahsan... Non ne ero felice, per ovvi motivi. Non avevo il coraggio nemmeno di rivolgergli la parola. Però sapevo che gli piacevano scacchi, quindi chiesi a Farid di insegnarmi a giocare, e quando pensai di aver capito più o meno le basi, affrontai Ahsan e gli proposi una partita.

- Aspetta un attimo. Hai liberamente sfidato il mostro cattivo a scacchi perché volevi averci un rapporto? Sei veramente adorabile.

- Più che altro lo feci per mia mamma. Le dispiaceva che i suoi figli non avessero affetto per suo fratello.

- Come andò la partita?

- Fu tragica. Farid era un pessimo giocatore e io un novellino, quindi non solo persi in tre mosse, ma furono anche mosse veramente terribili, e Ahsan si infuriò. Colse l'occasione per sottolineare la mia stupidità e l'incapacità di Farid. Poi però pretese di insegnarmi. Era la prima volta che si offriva di fare una cosa carina per me, quindi gli dissi di sì, anche se l'idea di passare del tempo con lui che mi insegnava a fare qualcosa mi terrorizzava. E, insomma, le lezioni andarono avanti per quasi un anno.

- Furono divertenti?

- Furono terrificanti.

- Ma ti ha insegnato a giocare.

- Non proprio. Non era bravo a spiegare e si arrabbiava perché io non capivo niente. Lo confessai a Farid, che cominciò a darmi lezioni supplementari. Con lui capivo, solo che non era bravo a giocare.

Emily fece una delle sue risate sonore che fecero sembrare l'episodio meno deprimente di come se lo ricordava Amir. Forse era l'ora di smettere di pensare ai risvolti negativi di quel ricordo e cominciare a riderci su.

- In pratica, hai imparato da un bravo giocatore ma pessimo insegnate, e da un pessimo giocatore ma bravo insegnante?

- Già.

- Almeno, tutto questo ti è servito per recuperare un rapporto con tuo zio Ahsan?

- No, assolutamente no. È rimasto collerico e ostile come prima. Mi ha terrorizzato per anni, finché a un certo punto ho capito che non dovevo credere alle cose che mi diceva.

- Oh. Sei stato bravo, ad arrivare a questa consapevolezza.

- È che l'ho beccato a mangiare di nascosto nel retro della sua bottega durante il Ramadan. Ho capito che le persone incoerenti forse è meglio non ascoltarle.

Lei rimase a fissarlo in silenzio per qualche momento e Amir ebbe la sensazione che stesse leggendogli in viso il resto della storia, le parti meno divertenti da raccontare che aveva taciuto.

- Io penso che tu sia un bravo giocatore, e saresti anche un bravo insegnante.- Riprese poi, con un fortunato cambio di argomento. - Potresti insegnare a Hilda. Ha sempre desiderato imparare.

Amir fece un sorriso un po' sforzato. Aveva visto Hilda sì e no tre volte, e non le aveva mai parlato. Lui aveva tentato di farle un saluto – anche solo un vago cenno della testa, un mezzo sorriso, ma la ragazza spariva tutte le volte, dopo avergli lanciato un'occhiata che raggelava ogni sua speranza di farsela amica. Era uno spettro di quelli che si portano dietro molti sentimenti (era una cosa che ormai Amir stava imparando a distinguere) e non erano sentimenti positivi. Bastavano quei pochi incontri a intuire qualcosa di molto sbagliato nella sua storia. Ed era giovane: più giovane di Amir, di sicuro, con un viso serio ricoperto di macchie scure e una veste da festa strappata e bruciacchiata. Non aveva avuto il coraggio di chiedere a Emily o agli altri cosa fosse successo a Hilda, e in fondo pensava che non fosse nemmeno giusto: ciascuno spettro doveva decidere se svelargli la sua storia oppure no.

- Un giorno Hilda si fermerà con te e si farà conoscere.

- Come fai a sapere che...

- Che dietro quell'aria abbattuta si nasconde il dispiacere del tuo fallimento nel creare un rapporto con Hilda? È la faccia che fai sempre quando si parla di lei. Oh, ma non ti trattengo oltre, mio caro. Hai visite.

Qualcuno era appena comparso in platea. Amir la riconobbe: l'aveva già vista in giro per il teatro, sempre a borbottare qualcosa contro i suoi parenti.

- È tardi. Devo tornare a casa. Ho una relazione di letteratura tedesca da finire.

- Gli spettri non rispettano gli orari.- Emily si alzò dallo sgabello, chinandosi verso di lui per posargli un bacio sulla fronte prima di svanire. Non sentì niente sulla pelle, ma nel momento in cui fu sfiorato dalle labbra dello spettro, il palco si riempì di un odore da camerino di teatro: profumi, trucco di scena, stoffe polverose, umidità, sudore, fiori...

Amir abbassò gli occhi sulla scacchiera: Emily aveva accoppiato tutti i personaggi. Quando tornò a sollevare lo sguardo aveva la nuova arrivata davanti a sé. Era un'adolescente lunga e spigolosa, con lunghissimi capelli neri intrecciati di fiocchi candidi, un abito chiaro che suggeriva l'inizio del secolo e niente ai piedi, pieni di piccole ferite, come se avesse corso su un terreno roccioso. Non era particolarmente bella, con le sopracciglia marcate e molto diverse tra sé, uno sfogo enorme di acne e le labbra screpolate dal freddo. Il naso era pittosto lungo (cosa su cui Amir non si sentiva di dare un giudizio negativo, sentendosi chiamato in causa), gli occhi di un azzurro-grigio che sarebbe potuto essere bello, se non fossero stati pervasi di una luce cupa e febbrile.

- Non mi fanno andare.- Borbottò la ragazza, con un vocione scurito dal raffreddore, non appena si accorse che qualcuno la guardava. - Non mi fanno andare neanche stavolta!

- Mi dispiace, Agatha.

- Continuano a ripetere che sono malata, che potrei aggravarmi e così via. Non c'è niente da fare. Io li odio! Sono cattivi. Non sono mai stata così arrabbiata con qualcuno in vita mia!

- Dai, siediti, e cerchiamo di parlare di qualcosa di piacevole, così magari dopo sarai un po' meno arrabbiata.

- Non credo esista un modo di poter essere meno arrabbiata.

Però si sedette comunque. Poi notò gli scacchi disposti a coppiette, sparsi per la scacchiera, e all'improvviso scoppiò a piangere. - Ecco, vedi? Persino loro vanno a un ballo e si divertono, e io non posso uscire di casa! I miei parenti sono orribili!

- No, dai, Agatha, ti prego...- Con una mano distrusse il ballo degli scacchi, con l'altra si avvicinò a una delle mani troppo bianche della ragazzina. Provò a sfiorarla, ma le dita scivolarono attraverso la mano e toccarono solo il legno della scacchiera. - Agatha, ascoltami. I tuoi nonni e la tua zia ti tengono in casa perché hanno a cuore la tua salute.

- Me lo dici tutte le volte e non serve a niente!

- Ma è la verità.

- Beh, allora la verità non serve a niente!

Rovesciò la scacchiera senza quasi sfiorarla e sparì. Rimase il ticchettare dei pezzi che rotolavano sul palco e la risata di Emily, da qualche parte.

- Non mi prendere in giro.

- La tua faccia è impagabile!

- No, davvero, non ne posso più, oggi. Non riesco a pensare a una sola cosa intelligente da dire o da fare.

- Allora cercherò di essere intelligente per te.

Emily gli ricomparve alle spalle. Un attimo dopo la scacchiera era di nuovo al suo posto, con tutti i pezzi già pronti per una nuova partita.

- Grazie. Sai, mi piacerebbe capite come fate a fare certe cose, voi. Tipo rovesciare scacchiere e farle tornare perfettamente in ordine in un secondo.

- Mi auguro che tu non debba impararlo mai di persona. Bene, mio caro: perché non te ne vai a casa, visto che la ragazzina se n'è andata? Tanto tornerà a parlare male dei suoi parenti molto presto. Temo che con lei dovrai lavorare parecchio.

- Ieri l'altro le proposi di venire a teatro. C'è una rassegna di musical, nelle prossime settimane. Potrebbe divertirsi. Mi ha risposto che i suoi parenti non glielo permetteranno mai. Ho provato a dirle che i suoi parenti non sono più qui, e che si tratta solo di un ricordo della sua vita, ma...

- E se ci fossero? I suoi parenti, dico. Se fossero tutti morti e per davvero la controllassero?

- Ma è possibile, una cosa simile?

- Sei tu l'esperto, ragazzo. Potresti provare a seguirla.

- Sì, certo: mi insegni tu a sparire e riapparire?

Emily sbuffò e gli fece una smorfia.

- No, scemo: intendo seguirla quando se ne va in giro a piedi qui nei dintorni. L'hai notata, no? Deve essere morta da queste parti.

- In effetti sì. Va bene. Domani ci proverò. Grazie del consiglio. Adesso però devo andare.

- Vuoi che ti metta a posto la scacchiera?

- No, è un oggetto di scena della compagnia che viene qui a fare un corso di teatro il mercoledì. Lasciala lì. Grazie di tutto, Emily.

- Ma figurati, ragazzo. Non sai che piacere è, averti qui.

Le sorrise, un po' imbarazzato come tutte le volte in cui la donna gli diceva cose carine. Raccolse la giacca e la tracolla abbandonate in platea e uscì dal teatro.

Sotto un lampione c'era Agatha che girava in tondo e parlava da sola.

No. Sono quasi le sette. Devo lavorare alla relazione. Non oggi. Tanto non va da nessuna parte.

Non appena la ragazzina abbandonò il suo sfogo con il lampione e imboccò un vicolo tra le case che si affacciavano sulla piazza, dalla parte opposta del teatro, Amir le andò dietro.

Non c'era luce, ma Agatha emetteva una sorta di luminescenza pallidissima, appena sufficiente a non farlo inciampare e non perdere la strada. La seguì per tutto il vicolo e dentro un atrio buio, al quale accedettero tramite una porta di legno scardinata. Agatha vi passò attraverso, lui dovette spostarla: il rumore che fece gli sembrò un frastuono terribile, ma la ragazzina non si voltò, né comparve qualcun altro per vedere cosa succedeva nel palazzone immerso nel silenzio.

Sa benissimo di essere seguita, pensò, mentre saliva una scalinata molto vecchia e malmessa, con le mura dall'intonaco cadente che si sbriciolava e impolverava i gradini. Provò a tenersi al corrimano, ma dondolava così forte da farlo sentire meno sicuro che a proseguire senza sostegno.

Via via che salivano il buio si faceva sempre più completo e l'unica tenue luce era Agatha stessa. Raggiunsero l'ultimo piano, e lì la ragazzina oltrepassò la soglia di una stanza senza porta. Avanzò fino al fondo della stanza, dove si fermò, una candela vivente immobile in uno spazio ingoiato delle ombre. Impossibile stabilire quanto fosse grande la stanza. L'unica cosa che la luce di Agatha permetteva di vedere era un accenno di pavimento. Era piastrellato a larghi quadri bianchi e neri.

Una scacchiera, di nuovo.

Sul fondo della stanza all'improvviso si accesero altre tre luci, una dopo l'altra. Erano troppo distanti per distinguerne i tratti (ma quanto era grande, quel posto?) ma rilucevano ben più di Agatha. Un attimo dopo avevano fatto un passo avanti in diagonale, tutti e tre, lasciandosi la ragazzina alle spalle. Lui rimase immobile, sulla soglia della stanza, a guardare le tre figure in avvicinamento, che si spostavano con una grazia incredibile da una parte all'altra della stanza – che non poteva essere così immensa, andava contro le leggi della fisica e dell'architettura...

In diagonale, eh? Stiamo giocando a dama, allora.

Fece un passo dentro la stanza, in diagonale, fermandosi su una delle mattonelle scure. I tre spettri avanzarono ancora. La lucina di Agatha non si vedeva quasi più, distante e offuscata dal chiarore degli altri tre. Lui si spostò ancora allo stesso modo, seguendo le regole del gioco. I suoi avversari aspettarono la sua mossa, prima di avanzare ancora.

Sto giocando per andare a prendere la dama, allora?

Tra poco si sarebbero incontrati a metà della stanza.

Se vengo mangiato, cosa succede?

Ancora un passo. Un altro. Cercava di allontanarsi da loro, ma erano in tre, e la stanza sembrava cambiare, adattandosi al volere dei suoi avversari. All'improvviso non era più sicuro di quanta strada avesse fatto, o che direzione avesse preso. Nella foga del gioco aveva perso Agatha: non c'erano tracce della luce timida della ragazzina. Si era semplicemente offuscata, oppure era andata via?

- Scappa sempre, appena può.- Sibilò la voce velenosa di uno dei tre fantasmi. Anche adesso che erano vicini non riusciva a distinguerne i tratti: erano sfuggevoli, e guardarli troppo a lungo gli faceva esplodere un dolore insostenibile dietro gli occhi. Neppure la voce gli diede indizi sul sesso o l'età di coloro che lo sfidavano.

- Perché scappa?- Provò a chiedere, certo che non gli avrebbero risposto, se non con rinnovata ostilità.

- Perché la teniamo in casa.

- Sua madre ce l'ha lasciata.

- Un bel fardello.

- E quando può, se ne va. Anche l'altra notte è fuggita: pioveva e fuori la strada è tutta sconnessa. Ce l'hanno riportata che era svenuta, e aveva i piedi pieni di tagli.

- È morta dopo questo tentativo di fuga, allora?- Chiese lui, più che altro a se stesso. Le luci dei tre spettri si fecero più intense per un istante.

- Avevamo promesso di proteggerla. Di renderla tutta intera a sua madre e sua sorella, quando sarebbero tornate dall'America.

- Maledetti i ragazzini. Perché non possono essere obbedienti e mansueti?

- Sua madre si è infuriata.

- Oh, sì.

- E ora anche noi siamo infuriati.

E Amir si era ritrovato in mezzo ai tre, senza possibilità di fuga. Ogni direzione era presidiata. L'avversario stava per mangiare la sua pedina. Erano vicinissimi ed emettevano un calore pieno di rabbia. Un solo movimento e gli sarebbero stati addosso. E lui non sapeva cosa gli sarebbe successo, allora, ma sapeva che gli spettri sapevano fare cose inquietanti, spostavano gli oggetti e trasformavano le stanze, e magari facevano del male agli estranei che scoprivano i loro nascondigli...

Agatha ricomparve in quel momento, in fondo alla stanza, una piccola cosina pallida nel punto più buio di quel buio senza forma e senza fine. La stanza cambiò un'altra volta: Amir si rese conto di avere una casella di fuga proprio lì, a portata di passo. Vi si gettò di corsa, e gli sembrò di sentire un sospiro furioso alle sue spalle. Via, senza aspettare le mosse degli avversari, raggiunse Agatha e le tese le mani. Lei gli si rifugiò tra le braccia: provò a stringere, ma non avvertì alcuna sensazione solida. Solo un alito freddo, e odore di pioggia e medicinali.

I tre emisero un grido all'unisono.

- Lasciala!

- È nostra nipote!

- Sua madre non ci perdonerà mai!

Eccoli che andavano verso di lui, veloci, caldi e spaventosi.

Ma io ho la dama. Ho vinto, no?

Erano a un soffio da loro. Adesso distingueva occhi enormi e vacui, e bocche spalancate in un urlo.

- Se... Se sua madre non vi avesse davvero perdonati, adesso sarebbe qui con voi a infestare questo posto e a tormentarvi!- Gridò, serrando gli occhi. Per un istante sentì Agatha farsi reale tra le sue braccia. Un istante solamente. Poi tornò a essere aria e respiro leggero vicino al suo orecchio.

Il calore però era scomparso.

Aprì gli occhi con lentezza e vide che delle tre luci vivide non era rimasto che una vaga eco, tre fiammelle smunte sul punto di spegnersi.

- Mi dispiace che sia andata così. Mi dispiace davvero.- Mormorò, respirando a fondo per ritrovare la calma. - Ma è stato tanto tempo fa. I parenti cercano di fare il bene dei loro parenti, ma non è detto che ci riescano.

Non c'era rimasto quasi più niente delle tre luci, ma loro erano ancora lì. Anche Agatha era quasi scomparsa, solo che il suo respiro affannato era così forte da essere disturbante.

- A volte invece i parenti non ci provano nemmeno, a fare il bene dei loro parenti, e combinano dei guai enormi. Io non so a quale categoria apparteniate voi, ma la madre di Agatha è stata la più intelligente di tutti. Per favore, adesso...

Adesso cosa? Andatevene da qui? Sarà la cosa giusta da dire?

Non ci fu bisogno di dire altro, però. Una delle tre luci si spense da sola. Un'altra si avvicinò ad Amir e Agatha, ma poi si ritrasse e si disperse nella stanza, disfacendosi in tante piccole scintille. L'ultima si riaccese per un istante.

- Mi dispiace. Non volevo il tuo bene. Volevo il mio. Riconoscenza. Debito. Ho tenuto la chiave della tua stanza appesa alla mia catenina per tutto questo tempo perché pensavo che tua madre avrebbe dovuto ammettere che ero brava. Una brava tutrice per te.- La voce adesso era più chiara, una voce di donna anziana incrinata dalla rabbia e dal rimpianto. - Mi dispiace, Agatha.

- Ora però lasciami andare.- Rispose la ragazzina.

- Anche tu.

- Lasciala andare, Agatha.- Sussurrò Amir. - Se lo farai, ti porto a vedere una cosa bella, prima di...

Evidentemente la proposta le piacque. L'ultimo spettro si dissolse in un sospiro. La stanza tornò ad avere senso: era piccola, gelida e mezza devastata. La luminescenza di Agatha gli permise di distinguerne i contorni e la via per tornare indietro.

- Mi accompagni al teatro?- Le chiese.

- Hai paura del buio?

- Non ho paura. Ma non penso di poter uscire da qui, se tu non mi fai un po' di luce.

- Hai paura del buio!- Agatha scoppiò a ridere e lo prese per mano. Questa volta la sentì, la pelle tiepida e un po' sudata della ragazzina contro le sue dita gelate. Camminarono con circospezione fino alla piazza illuminata dai lampioni. Lì Agatha lo lasciò andare. Sembrava confusa sulla direzione da prendere.

- Vai al Sunflower. Fai un giro e divertiti. È un posto interessante. E domani sera c'è uno spettacolo. Io ti consiglio di vederlo.

- Tu ci sarai?

- Certo.

- Allora ti aspetto dopo lo spettacolo. Di cosa parla?

- Di una fioraia e un professore molto antipatico. Lui decide di insegnarle a parlare come si deve, e... Insomma, è divertente. Non voglio raccontarti come va a finire.

- A domani, allora.

 

Fu tutto molto semplice, la sera seguente. Mentre la gente applaudiva la strana versione di My Fair Lady ambientata negli anni Ottanta, Agatha andò da lui, che seguiva da una poltroncina in ultima fila. Gli si sedette accanto e gli fece un sorriso enorme.

- Ti è piaciuto?- Le chiese.

- Sì, tantissimo! Grazie di avermi portata a teatro!

- Non c'è di che.

- Ora posso andare. Credo.- Aggrottò le sopracciglia e assunse un'aria concentrata. - Come si fa?

- Hai voglia di andare?

- Sì. Voglio andare dalla mamma. Ma non dalla nonna.

- La nonna era... L'ultima dei tre?- Agatha annuì, facendosi seria. - Senti, l'importante è che ci sia tua mamma, no? Vedrai, se ne starà lì insieme ad altre persone che hanno nostalgia di te.

- Perché le famiglie devono sempre stare tutte insieme? Ti dicono che i tuoi parenti ti vogliono bene perché siete parte della stessa famiglia, ma non è vero.

- Già. A volte succede. L'importante è che uno ci provi, a volersi bene.

- Mia nonna non mi voleva bene.

- Anch'io ho uno zio che... Insomma, non credo mi voglia particolarmente bene.

- E tu cosa fai?

- Cerco di non volergli male. E cerco di non pensarci. E dovresti farlo anche tu, sai? Pensa a tua mamma e a tua sorella.

- Mia sorella è scema. Ma mi manca.

- Ecco. Stai per incontrarla. Chi se ne frega di tua nonna?

Agatha fece una risatina e annuì.

- D'accordo. Grazie di tutto, Amir.

- Buonanotte, Agatha.

Chiuse gli occhi per non vedere il momento in cui la sedia sarebbe rimasta vuota.

 

Stava per spegnere l'ultima luce dopo il giro di controllo finale del teatro, quando si trovò davanti una figura in rosso. La riconobbe e rimase immobile sul posto, un brivido gelido di paura artigliato alla schiena. Si ricordò la sua voce, quando l'aveva sentita la prima volta al mercato degli spiriti: né uomo né donna, o tutti e due insieme. Lo aveva chiamato, gli aveva parlato del suo futuro in mezzo a loro...

- Non tremare in quel modo. Non ho intenzione di farti del male. Non troppo, almeno. E non adesso.

Sorrise, sfoderando denti candidi e una goccia di follia negli occhi verdi. Aveva un volto di una bellezza strana, inquietante. I riccioli neri erano raccolti in un fermaglio di corallo e scendevano sulla spalla ambrata. Indossava un abito femminile rosso, che lasciava spalle, braccia e petto in gran parte scoperti, e rivestiva le gambe lunghe in una cascata di gale e pizzi.

- Ti ricordi di me, vero?

Lui annuì, cercando di ritrovare un po' di voce e fallendo. La creatura fece una mezza risata. Anche la sua voce era stupenda – pur nello scherno. Adesso sembrava più femminile che maschile. Chissà come sarebbe stata se l'avesse incontrata in un altro momento.

- Non sai come chiamarmi. Né come giudicarmi. Lo capisco. Pensi che io sia uno di loro?- Amir annuì di nuovo e l'altra tirò le labbra in una smorfia seccata. - Impara questo, intanto. Non sono uno di loro. Non dovrai mai occuparti di me, di riconciliarmi con il mio passato. Io nasco qui e qui rimango. Se ti serve un nome, puoi chiamarmi Stella. Non avrebbe senso dirti altro di me. C'è sempre qualcosa di diverso in quello che sono. Potrei raccontarti storie diverse ogni sera. Quindi, imparami volta per volta. Puoi farlo?

- Sì.

- Oh, ecco la tua voce. Hai mandato via una ragazzina, poco fa. Vero? Con un po' di discorsi sulla famiglia e sul paradiso. Credi davvero all'aldilà così come glielo hai dipinto? Ah, ma certo che ci credi: sei un uomo religioso, tu. E anche un uomo ingenuo. Davvero, sei tante cose che non mi sarei mai aspettata di vedere in uno dei miei guardiani.

- Guardiani?

- Tu sei qui per me, lo sai. Non è la tua storia, è la mia.- Stella lo guardò con una sorta di disprezzo bruciante, che però si dissolse presto. Gli occhi della creatura si fecero quasi dolci. Anche questo durò poco. - No. È anche la tua. Siamo il re e la regina degli scacchi a turno, Amir. Adesso io sono il re e tu devi proteggermi. Verranno i giorni in cui diventerai il re, attaccato da tutte le parti, e io dovrò lottare per tenerti al sicuro.

In quel momento, guardando quegli occhi verdi ardenti di rabbia e di storie, Amir cominciò a sospettare chi aveva davanti.

- Sei... Il teatro?

- Sono il suo spirito.

- Uno spirito è diverso dai fantasmi?

- Uno spirito è l'anima di qualcosa. Io sono l'accumulo di tutte le storie che si sono succedute sul palco, e dietro le quinte e nelle stanze nascoste. Sono la parte più importante del Sunflower.

- Dici che io devo proteggerti. Come posso farlo?

- Come stai già facendo. Qui si incrociano le storie spezzate di quelli che non possono finire la propria strada da soli. Tu puoi aiutarli. I luoghi come questo non devono mai sparire. Altrimenti la città si riempirebbe di ombre. Per questo tu mi devi proteggere. Io sono importante. Persino in una città che trabocca di teatri e cultura e anima come Londra, anche un frammento del tempo come me è prezioso.

- Perché hai detto che un giorno qualcuno mi attaccherà e tu dovrai difendermi? Chi potrebbe volerlo fare? Sono solo...

- Sei qualcuno che dissolve le ombre e costella le notti di fuochi. Esistono esseri che sfruttano le ombre, altri che vogliono la città sofferente e ferita, altri ancora che semplicemente non sopportano di vedere una cosa bella. Sono in molti, quelli che verranno a cercarti per farti del male. E troveranno me sulla loro strada. Re e regina. Vuoi giocare con me?

Cos'altro si può rispondere, a un teatro vecchio due secoli e mezzo che ti sfida a scacchi, se non sì?





***
Grazie di essere qui!
Se non sai cosa fare per tre minuti e mezzo, potresti ascoltare (e se vuoi scaricare gratis) una canzone che si chiama Fire and son, oppure ascoltare una canzone che si chiama La lanterna: le ho scritte io, sono le colonne sonore di questa storia. Le trovi qui e qui.

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Capitolo 9
*** IX - La musica del Drago ***


Capitolo IX
La musica del Drago

 

Let your mind start a journey to a strange new world
Leave all thoughts of the life you knew before
Let your soul take you where you long to be
Only then can you belong to me

(The music of the Night, da The Phantom of the Opera)
 

Londra, ottobre 2008

- Scusa, ragazzo, puoi spostare un po' la quinta, sì?

- Oh, e non vuoi sapere come l'hanno risolta, poi, tra l'avvocato e il guardiano del cimitero?

- Ehi! Tu, lassù! Mi senti? Mi sposti la quinta? No, non questa, l'altra!

- Allora, senti un po': l'avvocato ha detto...

Amir si voltò di scatto verso lo spettro e quello si smaterializzò con un guizzo offeso.

- Senti, Eric, sono due ore che quel pignolo là sotto mi fa spostare la quinta e rimetterla esattamente com'era prima. Il cordame del teatro è vecchio quanto il mondo e io non ho mai sofferto di vertigini, ma stare quassù in cima mi fa terrore. Se mi racconti le tue storie non riesco a concentrarmi.

- Posso raccontartele senza farmi vedere.

Lo scenografo urlò qualcos'altro e Amir si dedicò di nuovo alle corde che manovravano le quinte. Erano spesse, indurite dal tempo, ruvide e difficili da maneggiare; alcune non si muovevano quasi, altre minacciavano di sfaldarsi per un tocco troppo forte. Finalmente riuscì a ottenere l'approvazione dello scenografo, che era arrivato prestissimo quella mattina per buttare all'aria tutte le cose decise la sera precedente insieme alla compagnia.

- Va bene così, allora?- Gridò Amir, sporgendosi dalla sopraelevata di legno nascosta che si affacciava sul palco. - Posso scendere?

- Sì, va bene, ma facciamo una cosa: tu resta lassù ancora un po', per ogni evenienza, eh? Non ti dispiace, vero?

- No, va benissimo.

- Considerato che mettono in scena Il Fantasma dell'Opera, dovrebbe dispiacerti.

Ecco, ci mancava Edward. Il giovane comparve accucciato con le punte dei piedi in equilibrio sulla ringhiera della sopraelevata. Amir sapeva che non rischiava di cadere, ma dovette distogliere lo sguardo lo stesso.

- Ti prego, non lo fare.

- Hai paura che cada?

- Per favore.

- Come vuoi.

Anche Eric ricomparve, e stavolta insieme a lui c'era la sua ombra, Thomas. Amir non li aveva mai visti separati per più di cinque minuti. Thomas era silenzioso – ma non era un problema, visto che Eric ciarlava per cinque. Gli aveva raccontato la loro storia almeno un miliardo di volte: 1897, una sorta di esplosione aveva provocato la loro morte durante una lezione di scienze. Eric ci teneva ad aggiungere nuovi strabilianti particolari con ogni resoconto. Thomas in genere si limitava a scuotere la testa quando i particolari si facevano troppo fantasiosi. Erano una strana accoppiata: Eric era altissimo ed enorme, con una quantità di riccioli dorati, la faccia da bambino e un paio di denti particolarmente sporgenti. Thomas era minuscolo, con la faccia scavata, come se avesse sofferto la fame, e una persona generalmente poco curata. Scuro di capelli e occhi, abbastanza scuro di pelle da far supporre di essere figlio di una coppia interrazziale. Amir avrebbe voluto sapere qualcosa di più su di lui (in fondo gli sembrava educazione, conoscere gli abitanti fissi del teatro), ma ancora Thomas non gli aveva rivelato niente.

C'era Eric, comunque, che rivelava un sacco di cose, anche non richieste.

- Io ti stavo raccontando una faccenda interessante, prima...

- Gliela racconterai dopo.- Lo interruppe Edward. - C'è qualcuno che è venuto a trovarti.

- Proprio ora?- Amir lanciò un'occhiata allo scenografo che vagava per il palco. Saliva e scendeva febbrilmente la scala della struttura che divideva in due lo spazio, creando un piano superiore addobbato di velluti (il teatro) e una parte inferiore, scura e carica di lumi (le segrete del Fantasma.)

- Proprio il posto giusto dove rappresentare quest'opera.- Borbottò Amir. - Beh, chi è il nostro nuovo ospite?

- Parlavi con me?- Gridò lo scenografo.

- No, no, parlavo da solo.- Incrociò le braccia sul petto e guardò male il punto dove poco prima c'era Edward, e ora c'era l'eco di una risatina a galleggiare nell'aria. - Grazie, davvero, grazie di farmi passare sempre come un matto.

- Ci stiamo specializzando per farti diventare matto per davvero.

Ecco l'ospite. Amir rimase così stupito di vederlo che dimenticò lo scenografo, le corde impossibili e i macchinari arrugginiti del teatro. Era l'uomo che aveva incontrato qualche tempo prima, quando indagava sulla merceria persa nel tempo. Gli si era presentato come Nevan, uno che conosce bene la città. Gli si era avvicinato, senza nemmeno muovere un passo. Aveva l'aria tranquilla di un giovane uomo qualunque, ma i suoi occhi dorati dalle pupille feline rivelavano la sua natura misteriosa.

- Nevan?- Amir gli tese la mano, incerto su come accoglierlo, e Nevan gliela strinse, trasmettendogli un'ondata di piacevole calore. - Arrivi in un momento un po' affollato.

- È per questo che sono arrivato proprio ora. A che serve passare quando tutti sono fermi e nessuno fa niente di interessante?

- Perché sei qui?

- Avevo voglia di vedere com'è il Sunflower di giorno. Quando le persone normali ci fanno cose normali. O qualcosa del genere.

Amir avrebbe voluto riempirlo di domande, o almeno farsi spiegare chiaramente che cosa fosse, ma non era sicuro che fosse una buona idea, o un buon momento, e comunque sul palco c'era sempre il pignolo che spostava candelabri...

- C'è nessuno?- Chiamò una voce di donna dalla platea. - Sono la fattorina del fiorista. Ho un mazzo di rose per una delle cantanti che si esibiranno stasera. Vorrebbero farglielo trovare nel camerino.

- Sì. Arrivo. Ci penso io.- Amir cominciò la discesa della traballante scala di legno che lo avrebbe riportato sul palco. Edward gli comparve accanto a metà percorso, appollaiato sui gradini sopra di lui.

- Chi altri potrebbe arrivare?- Fece una faccia derisoria piuttosto irritante.

- Spero più nessuno!

Naturalmente la speranza fu delusa. Stava portando un bouquet di rose più grande di lui nei camerini, quando fu chiamato da una voce che gli sembrava di conoscere.

- Ehi. Sei Amir, vero?

Si voltò, emergendo a malapena tra le rose e desiderando ardentemente che la giornata finisse presto. Davanti a lui, nel corridoio delle luci verdi e viola, c'era Clyde Wendell, il regista che aveva incontrato alcuni mesi prima. Un tipo irritante che Amir avrebbe voluto vedere ben lontano dal Sunflower (cosa difficile, visto che lo aveva ingaggiato lui stesso per la settimana successiva.)

- Salve. Ha bisogno di qualcosa?

- Avrei bisogno di fare un paio di misurazioni del palco. Per il mio spettacolo di sabato prossimo.

- C'è la scenografia del Fantasma dell'Opera montata sul palco.

- È un buono spettacolo?

- È una piccola compagnia amatoriale che fa una versione ridotta con ambientazione steampunk. Però sono bravi.

Clyde fece un suono che poteva essere apprezzamento o scherno.

- Così hai davvero organizzato un'intera stagione teatrale in questo posto, eh? Non l'avrei scommesso, quando ti ho incontrato lo scorso maggio.

- Sì, grazie, senta: dovrei andare a posare questi fiori. Vada pure sul palco, ma se lo scenografo della compagnia si arrabbia, non è colpa mia.

Finalmente scaricò i fiori in camerino e tornò in platea a vedere cosa succedeva. Trovò lo scenografo che discuteva con Wendell, mentre Angela e Vivien passeggiavano tra le poltroncine rosse chiacchierando amabilmente, senza dare segno di accorgersi del litigio in corso. Vivien indossava uno dei suoi abiti vittoriani, bianco e azzurro, mentre Angela aveva indosso un completo nero da uomo, con il farfallino, il bastone e il cilindro. Quando si accorsero di lui lo raggiunsero, sorridendo e salutandolo come se si fossero incontrati per caso lungo la via, in un luogo pubblico, e non nel teatro che lui avrebbe dovuto precludere ai non addetti...

- Salve, Amir.- La signorina Vivien era sempre bellissima e lievemente indisponente, come se nascondesse una velata offesa dietro ogni sillaba. - Ci siamo permesse di fare un giro nel teatro. C'è una cosa che devo prendere nella stanza-magazzino. Questo posto è un pozzo di robaccia antiquaria senza molto valore che sugli scaffali del mio negozio fa la sua figura, se le trovi la posizione giusta.

- Un po' di rispetto per la robaccia di questo posto.- Disse Angela. - È sensibile. Giusto, Amir?

Lui pensò agli occhi verdi di Stella e rabbrividì.

- Più che sensibile, direi suscettibile.

- Faremo in fretta.- Angela gli sorrise, prese Vivien sottobraccio e la condusse fuori dalla platea. Nel frattempo per fortuna Wendell e lo scenografo avevano messo da parte le ostilità, e adesso erano in due a vagare per il palco.

- Angela e Vivien. Le storie che si raccontano su quelle due.- Bisbigliò Nevan alle sue spalle. - Amiche dalla culla, famiglia l'una dell'altra, sostegno nella disgrazia... E avversarie appassionate. Un duo interessantissimo.

- Credevo fossero solo due signore che condividono l'amicizia del signor Bennett e il gusto per la conversazione enfatica.

Nevan ghignò e gli posò una mano sulla spalla.

- Davvero credevi che fossero solo questo? Mi sembrava che avessi capito che condividono anche altro. L'interesse per ciò che è meno comune, per esempio.

- Come i fantasmi e i posti infestati?

- Cose così, sì. Dì un po', ti sembra normale, il negozio di Angela?

- È solo un vecchio negozio di giocattoli per lo più artigianali. Molto bello, ma...- Si interruppe quando vide il ghigno di Nevan che si allargava. - C'è qualcos'altro, eh?

- Si dice che Angela abbia vinto il negozio sfidando il precedente proprietario, un maestro dell'occulto che si sospettava avesse stipulato contratti poco nobili con creature di dubbia reputazione.

- C'è una sola cosa sicura e non ipotetica, tra tutte quelle che hai detto?- Domandò Amir, seccato e terribilmente curioso al tempo stesso. E – forse – anche un po' turbato.

- Io raccolgo storie di mestiere. E tutte, a modo loro, sono vere.

- Sì, certo. Quindi Angela avrebbe vinto il negozio. Perché?

- Oh, perché il giocattolaio aveva sedotto Vivien, e lei voleva salvare la sua amica da una storia pericolosa. Sconfisse l'uomo e lo cacciò dal negozio e dalla vita di Vivien. La quale si vendicò rubando il fidanzato di Angela. Una vendetta un po' meno magica, temo. Da allora si amano e si odiano in egual misura.

- Non ci credo. Ah, finalmente Wendell se ne va. Mi dà una sensazione sgradevole. Non so perché.

Nevan si fece un po' più serio e posò gli occhi dorati sull'uomo in procinto di abbandonare la sala.

- Perché sei intelligente. Ha qualcosa di strano. Ma nemmeno io conosco la sua storia. Non ancora, almeno. Comunque, mio caro, sei libero di non credere alle leggende, ma non puoi negare che Angela e Vivien siano due personaggi di rilievo, nel mondo del sovrannaturale londinese.

- E cosa fanno di speciale?

- Studiano. Guardano. Aspettano. Disegnano strani simboli sui muri per proteggere le persone all'interno dell'edificio. Inventano pozioni per guarire le malattie provocate dagli spiriti. Cose banali del genere.

- Banali? Malattie provocate dagli spiriti? Senti, Nevan, ma tu riempi le persone di informazioni assurde apposta per rintronarle, o hai un altro scopo?

Lui rise e poi gli indicò lo scenografo che guardava la platea – anzi, guardava Amir in mezzo alla platea – con gli occhi sgranati e la bocca mezza aperta.

- Ma con chi stai parlando?- Gli gridò lo scenografo. Amir scoccò un'occhiataccia a Nevan, che rise ancora, prima di fargli un cenno con la testa e tuffarsi nell'ombra di una delle tende che chiudevano un'uscita laterale della platea.

- Va tutto bene, non si preoccupi. Mi succede spesso.- Sospirò Amir. - Senta, quando ha finito mi chiami. Vado a controllare i camerini.

Si inabissò al piano inferiore, dove l'umidità regnava sovrana nonostante caloriferi sparati e trattamenti innumerevoli. Lui e Aidan avevano pulito le tre stanzette bianche, cariche di specchi, armadi e sedie sbilenche. Poi era passato il signor Richard mangiando noccioline, quindi avevano dovuto ripulire tutto una seconda volta. Però adesso era tutto in ordine, e...

No, qualcosa non lo era. Il mazzo di rose che aveva lasciato davanti a una specchiera, per la cantante. Quando lo aveva portato era perfetto. Adesso c'erano tre rose con i petali marroni e sgualciti, mentre una era completamente secca.

- Ma cosa...- Prese una boccata d'aria e si preparò a fare una ripassata a qualcuno. - Venite subito qui! Chi è stato a combinare questo disastro?

- Suvvia, disastro... Per tre o quattro roselline... Toglile, e nessuno si accorgerà che mancano.- Emily gli comparve alle spalle. - Comunque non è stato nessuno di noi. Ci teniamo, alla buona fama del teatro. Spettri che attentano ai doni per gli attori. Questa non si è mai sentita!

- Perché pensi che siamo stati noi, visto che da un'ora c'è mezzo mondo che gira per il teatro?- Questo era Eric. Si materializzò su una delle sedie davanti alla specchiera, che non rimandava la sua immagine nonostante lui stesse mimando in maniera esagerata l'atto di truccarsi. Alle sue spalle, Thomas borbottò qualcosa di inintelligibile – una difesa dall'accusa di Amir o un'infamata a Eric?

Edward comparve sullo stipite della porta, con aria un po' contrariata.

- Noi non c'entriamo nulla, Amir.

- Due, tre, quattro... Mancano Hilda e l'Uomo Nero.- Contò Amir.

- Hilda è nell'armadio.- Emily indicò una delle ante che non chiudevano bene, e da dietro il relitto venne fuori uno sbuffo irato. - Lasciamola lì, è meglio. E l'Uomo Nero forse gradirebbe un soprannome migliore, sai?

- Come fai a saperlo, se non ci hai mai parlato?- Chiese Amir, esasperato. L'ultimo degli inquilini del Sunflower non si era mai fatto conoscere neppure dai suoi simili. A volte ci avevano scambiato qualche parola, gli avevano detto, ma la sua identità rimaneva suo esclusivo appannaggio. Persino il suo aspetto non era ben visibile, sfumato nella luminescenza emessa dallo spettro.

- Non lo so, ma non è carino comunque.- Emily gli indicò il bouquet. - Su, dai, elimina le rose rovinate ed esci da qui. Vai fuori a fare un giro.

- Piove.

- Io dicevo per te, per farti rilassare un po'. Ma se vuoi rimanere in questo posto sovraffollato, fai pure. Noi siamo contenti, lo sai.

Lui stava per rispondere qualcosa sul fatto che era stufo che tutti andassero e venissero a loro piacimento dal teatro, vivi o morti o qualsiasi altra cosa fossero. Poi però si fermò.

- Evidentemente le persone si sentono a casa, qui dentro. No? Se li fa stare bene, allora è una buona cosa che ci vengano.

Emily finalmente gli sorrise e gli comparve vicinissima, per posargli un bacio sulla fronte (cosa che faceva piuttosto spesso e senza preavviso, e nonostante la faccenda avesse i suoi aspetti piacevoli, Amir ne era sempre colto di sorpresa.)

- Tu però stai attento a chi inviti.

 

Considerato che era una versione amatoriale e reinterpretata (e rappresentata in un posto minuscolo) di una delle opere in cartellone nel West End di Londra, avere una buona quantità di persone per la terza sera consecutiva non era male. Di sicuro dipendeva dal fatto che tra le comparse ci fossero i ragazzi di una scuola di musica, che avevano trascinato genitori e parenti fieri nel pubblico. Intanto portavano guadagno al Sunflower.

E portavano musica. La musica era splendida e gli interpreti bravi. Amir guardava la terza replica dello spettacolo dal fondo della sala. Aveva vegliato sul teatro per tutti e tre i giorni e si sentiva soddisfatto del suo operato.

Accadde nel momento in cui il Fantasma scrive ai direttori dell'Opera, chiedendo loro di invertire i ruoli di Christine e Carlotta nell'opera in procinto di essere rappresentata. Emily gli arrivò alle spalle, portando un disturbo di sottile inquietudine con sé.

- C'è qualcosa di strano. Potresti venire?

La seguì fuori dalla platea, giù per le scale che conducevano ai camerini.

- Che succede?

- Non lo so. È comparsa all'improvviso.

- Cosa?

- Una porta.

- Una porta? Dove?

- Nel corridoio dei camerini. In mezzo al corridoio.

Amir stava per dirle che non aveva capito, o che non era possibile, ma non lo fece perché avevano raggiunto la loro meta ed Emily aveva ragione: c'era una porta di legno eretta al centro del piccolo corridoio, sospesa a un palmo da terra, sostenuta da niente.

- Non avete idea di cosa sia?

- No. Abbiamo provato a studiarla, ma... C'è qualcosa di strano. Di brutto. Repellente. Non ci piace.

E quindi devo sperimentarla io, eh?, avrebbe voluto dire, ma poi fu invaso dal Senso Di Responsabilità Del Custode Del Teatro, e andò con passo rapido verso il nemico sospeso a mezz'aria, concentrandosi sul suo compito: provare ad aprire la maniglia.

- Bene. Se tra mezz'ora non torno, mandate qualcuno a cercarmi.- Disse, tentando un sorriso.

- No, aspetta. Non vogliamo che tu entri.- Questo era Edward. - Vogliamo solo che... Non so, che provi a capire cos'è?

Nel frattempo il luogo si era riempito delle presenze di tutti gli altri, più o meno visibili.

- Il modo migliore per capirlo è aprirla.- Asserì Amir, rendendosi conto che si stava fingendo molto più coraggioso di quanto si sentisse. Ma voleva dimostrare di essere all'altezza del compito, quindi posò la mano sulla maniglia e aprì, con il sorriso sulle labbra.

La porta lo portò via. Letteralmente. Fu risucchiato dall'altra parte senza neanche rendersi nemmeno conto di cosa fosse realmente, fisicamente successo. In tre secondi si ritrovò trascinato da una corrente d'aria prepotente che lo spingeva giù per una via in discesa. Era tutto troppo buio per capire dove fosse, e il vento non gli dava tregua e non gli permetteva di tornare indietro. Doveva correre per restare in piedi, correre su un terreno che sembrava roccioso, mentre la corrente gli ululava nelle orecchie e annegava ogni suo tentativo di gridare.

Poi tutto finì. Il vento, le rocce, il buio. Finì con una caduta: si ritrovò disteso a terra, a faccia in giù, e riuscì a malapena a protendere le mani in avanti per evitarsi danni. Cadde su un suolo morbido e sabbioso.

D'improvviso il buio e il vento tacquero e davanti a lui c'era il mare, in una delle giornate più limpide e dorate che si possano immaginare. Un mare infinitamente azzurro e tranquillo. Era disteso su una sabbia così chiara da sembrare argento, su un piccolo tratto di spiaggia racchiuso tra scogli bianchissimi. Alla sua sinistra c'era un ciuffo di oleandri fioriti, di tutte le sfumature di bianco e rosa. C'era una sensazione di estate, giorno, sole e serenità così pura che per un attimo gli mancò il respiro – com'era possibile che esistesse una simile perfezione?

Ebbe almeno un minuto di smarrimento completo, nel quale cedette alla tentazione dell'abbandonarsi al luogo che lo aveva accolto. Così caldo e protetto. Non caldo come le terre in cui era nato e cresciuto, ma sicuramente più caldo che Londra, e meno piovoso e soggetto agli sbalzi del tempo. In pochi istanti tutta l'umidità molesta del teatro si era volatilizzata, e c'era un tepore gradito che si faceva strada nelle sue ossa. Incapace di muoversi dal letto di sabbia, guardava la luce che colava dorata su tutte le cose, quel piccolo mondo affidabile che lo coccolava con una sicurezza che non aveva sperimentato da tempo.

Come sono finito qui, si chiedeva, ascoltando la voce del mare e dell'estate, e soprattutto, come posso rimanerci?

Gli tornarono alla mente stralci di una delle canzoni del Fantasma: Basta parlare di oscurità, dimentica queste paure dagli occhi spalancati... Fammi girare la testa parlandomi d'estate... Un mondo senza più notte...

Si lasciò andare a un sospiro rilassato, cercando di buttare fuori l'ansia di quei giorni così pieni di persone, persone interessanti ma mai chiare: erano nemici o alleati? Il mondo in cui stava trascorrendo la sua vita era...

Pieno di ombre. Freddo. Pericoloso. Senza mai una risposta.

- Non dire idiozie. Anzi, non pensare idiozie. Alzati da lì, prima che succeda qualcosa di brutto.

La voce era inconfondibile. Era il tono cupo e imperioso di Stella. Era lì? Come lo aveva raggiunto?

Stupido: questa è un'illusione. Sei ancora dentro al teatro. Per forza Stella è qui. Stella è il teatro.

- Alzati, ho detto!

Era un ordine, ma lui non aveva molta voglia di obbedire.

Non adesso. Tra un attimo. Lasciami riposare.

- Alzati!

Il ruggito di Stella lo riscosse quanto bastò per farlo muovere di un millimetro, e fu quello a salvarlo. La terra sotto di lui si disfece e si allargò, creando dal nulla un crepaccio sempre più grande. Ma ormai era allertato: riuscì a scattare in piedi e a balzare via dal cratere, un attimo prima di finirci dentro.

In quel momento l'incanto andò in pezzi: il mare si sollevò in un'onda alta quanto un edificio, con un rumore che lo raggelò. Gli scogli esplosero in una pioggia di schegge rocciose. I fiori furono trascinati via da una corrente impazzita e riempirono l'aria di un odore dolciastro e nauseante. Lui era lì, fermo in mezzo al caos, in cerca di un luogo di salvezza che non esisteva: corse per fuggire dal mare e fu bersagliato dalle rocce. Le sentì che gli sfrecciavano accanto e qualcuna lo colpiva, provocandogli scariche di piccole punture. Poi c'erano i fiori, che gli facevano girare la testa e gli portavano via quella poca lucidità che gli sembrava di avere, confondendogli i sensi e rigirandogli lo stomaco. Ovunque si voltasse c'era un pezzo dell'idillio che si ribellava contro di lui.

Un frammento appuntito di scoglio piuttosto grosso impattò con il suo braccio sinistro e tagliò giacca, camicia e pelle, strappandogli un grido. La sabbia sotto i suoi piedi iniziò a turbinare, sollevandosi ovunque e finendogli negli occhi. Tentò di restare in piedi, ma soffocava per l'odore dei fiori e non vedeva più dov'era. Scivolò giù con la consapevolezza che sotto di lui si stava aprendo un altro cratere...

Qualcuno lo recuperò dall'abisso. Mani gelide lo afferrarono per le spalle e lo tirarono su. Si sentì avvolgere da una stretta di braccia esili e fortissime, seta e organza.

- Sai cantare?- Gli sussurrò Stella.

- Sì.

- Bene. Canta.

Poi cominciò la musica. Era Stella a produrla, e non solo con la voce. C'era la sua voce, scura, potente, un timbro di contralto vibrante e pieno di un'energia feroce. Ma c'era anche un guizzare di violini e una superficie di violoncelli. C'era una manciata di note acute d'arpa e qualche corrente di pianoforte. Da dove veniva? Da Stella, non c'era dubbio. L'anima del Sunflower portava con sé una canzone ardente, arrabbiata e fiera, e Stella la stava usando per tenere lontana la natura impazzita della spiaggia.

Stella lasciava uscire la musica e la sabbia si rifaceva solida, il mare indietreggiava, i fiori planavano a terra, le rocce si disfacevano. L'aria densa di profumi mielosi e densi pian piano si trasformava, facendosi gonfia di umidità e polvere e odore di pioggia, legno, stoffe e trucco: l'odore nascosto di un teatro.

La canzone era in una lingua che Amir non conosceva o non sapeva distinguere, ma il tema principale gli si era già infilato in testa, e in breve stava cantando, avvolto dalle immense maniche di Stella che lo teneva stretto a sé. Gli stava alle spalle e gli stringeva il petto nella morsa del suo braccio sinistro. La mano di Stella era fermamente posata sulla sua spalla destra. La cascata di stoffe e riccioli lo avvolgeva con una delicatezza insolita. Stella sapeva degli odori e delle sensazioni del teatro, spigolose e strane, ma era la sua unica sicurezza in mezzo a quel caos, ed era felice che il Sunflower in persona fosse giunto a salvarlo.

Cantava, anche se la sua voce si perdeva nel flusso di musica che li circondava e domava le onde. Non sapeva le parole e cantava le prime che gli venivano in mente: si accorse che le stava rubando a un'altra delle canzoni del Fantasma: Distogli il viso dalla sgargiante luce del giorno, distogli i pensieri dalla luce fredda e insensibile... Dolcemente, abilmente la musica ti circonderà: ascoltala, sentila, ti sta circondando...

Poi la lotta finì. Una nota bassa riempì l'universo e l'illusione era svanita. Erano di nuovo nel corridoio del piano inferiore, circondati dagli spettri che proiettavano nell'aria la loro paura, e la porta non c'era più. Al suo posto rimaneva una piccola scatola di legno con il coperchio spezzato.

- Cos'è successo?- Gemette Emily. - Amir, stai bene?

- Certo che sta bene.- Rispose Stella, lasciandolo finalmente libero dal suo abbraccio. - L'ho salvato io.

- Sta sanguinando.- Notò Edward. - Che hai fatto al braccio?

- Una specie di tempesta di rocce.- Ansimò Amir, toccando la ferita e ritraendo la mano piena di sangue.

- Sarà bene che ci faccia l'abitudine, a sanguinare, se davvero vuole continuare a fare cose stupide come questa.- Ruggì Stella. - Aprire una porta che sembrava lasciata lì apposta per te?

- Gli altri erano spaventati.

- E tu dovevi fidarti di loro e chiedere aiuto a qualcuno.

- A chi avrei dovuto chiederlo?- Si riscaldò lui, nonostante si rendesse conto di quanto fosse pericoloso arrabbiarsi con Stella.

- Angela. Vivien. Me. Devi stare attento alle trappole, razza di sciocco!

- Una trappola?

- Un posto meraviglioso e accogliente nel quale si sta così bene da non accorgersi di quando comincia a cercare di ucciderti.

- Voleva uccidermi?- Borbottò lui, controllandosi di nuovo la ferita, che in effetti iniziava a bruciare.

- Oh, era piuttosto chiaro.

- Scusami. E grazie di avermi salvato.- Adesso si sentiva un completo idiota, anche se non pensava di meritare del tutto i richiami di Stella.

- Hai una bella voce.- Rispose la creatura, riservandogli finalmente un sorriso. - Ah, senti un po': sul palco sono arrivati al momento in cui Christine è al cimitero. Uno dei miei pezzi preferiti. Se solo dopo decidesse di seguire il Fantasma... Quella ragazza non ha capito proprio niente!

- Il Fantasma è uno stalker inquietante.- Protestò lui. - Può essere fascinoso, ma non le promette niente di buono.

- Già. E allora perché cantavi le parole del Fantasma, prima, mentre un luogo di perfetta gioia estiva cercava di mangiarti?

- Non lo so. Erano le prime che mi venivano in mente.

- E c'era un perché. A volte certi fantasmi hanno la risposta giusta, anche se è una risposta umida, oscura e polverosa. Dai, andiamo a vedere la fine dell'opera. Ci penseremo dopo, a ripulire qui.

- Ripulire?

- C'era un incantesimo. Hai resistito e sei fuggito dall'illusione, quindi non è più effettiva, ma sarà bene liberarsi della sua presenza del tutto. Potresti chiedere alla tua amica Angela di venire qui, domani, e compiere qualche rito per sistemare le cose.

- Lo farò.

- Dovremo indagare per capire chi l'ha portato dentro. Qualcuno che voleva metterti alla prova.

- Volevano mettere alla prova me? Ma chi... E come...

- Sono tre giorni che c'è un viavai infinito, in questo teatro. Non tutti sono amici, lo sai. Comunque adesso andiamo.

Stella li guidò tutti in platea, in tempo per vedere il finale della vicenda.

Certo che se invece di essere così sprezzante e geloso, il Fantasma si fosse spiegato meglio con Christine...

- Tipico. Volete che vi venga spiegato tutto quanto.- Sbuffò Stella, alla sua destra.

- Come?

- Lo sento, cosa pensi. Il Fantasma era semplicemente se stesso.

- Sì, beh, non puoi pretendere di ottenere granché da una persona, dopo che l'hai perseguitata e terrorizzata!

- Forse.- Stella gli prese il braccio tra le mani e toccò la ferita, donandogli una sensazione di immediato sollievo. - O forse certe creature esprimono l'affetto in maniere differenti dalle vostre, e voi dovreste imparare a capirli e a fidarvi di loro.

Per un istante, uno solo, gli fu tutto molto chiaro.

- Io mi fido di te.- Sussurrò lui. - Solo... Non del tutto. Non ancora.

Stella gli spostò un ciuffo di capelli dalla fronte, sfiorandolo appena con le sue dita lunghe e le stoffe sontuose della sua veste esagerata, rosso fuoco.

Poi le luci di sala si accesero, e lui era solo. Con una manica strappata, il braccio sanguinante avvolto in un nastro di seta rosso, e la sensazione di essere dalla parte sbagliata della storia.

 

Fuori dal teatro c'era un uomo, un tizio dall'aria dimessa che indossava un impermeabile verde e un cappello con la tesa grigio. Fumava, appoggiato alla parete del teatro, proprio a un passo dall'ingresso secondario. Amir si accorse di lui solo per il bagliore della sigaretta. Si affrettò a girare la chiave nella toppa, turbato da quella presenza. Stava per correre via, quando l'altro fece un passo e gli si piazzò davanti.

- Perdona l'impudenza. Credo che tu oggi abbia ricevuto un regalo da parte dei miei.

- I tuoi?

- Faccio parte di una piccola congrega di amici che si interessano alle cose singolari del mondo. Ti abbiamo fatto una piccola sorpresa. Una scatolina. Una porta solo per te.

- Perché?- Amir indietreggiò fino alla porta, con le chiavi ancora strette in pugno. - Cosa volete da me?

- Darti il benvenuto. Te l'avranno detto fino alla nausea: sei il nuovo esorcista prodigio e tutti parlano di te. Eravamo curiosi.

- Chi siete?

- Gente tranquilla. Nessuno di importante. Un gruppo di amici incuriositi dalle stranezze. Ci siamo permessi di lasciarti un pensierino. Perdona l'assenza di biglietto.

- Sei stato tu a mettere quella scatola nel teatro?

- Non io di persona. Il tuo teatro non mi vuole.

- E allora chi...

- Non importa, chi è stato. Importa il dono.

- Avete cercato di uccidermi!

L'uomo fece una risatina quieta. La sua sigaretta fumava e brillava, e sembrava non consumarsi mai.

- Che esagerazione! No: noi volevamo offrirti un'alternativa. Il teatro e i fantasmi ti hanno chiamato, e tu hai detto subito di sì. Hai detto di sì a un mondo cupo, complicato, freddo e pericoloso. Perché l'hai fatto? Non potrebbe esserci qualcos'altro per te? Qualcosa di caldo, dolce e senza doppi significati?

- Mi avete fatto vedere quelle cose per mostrarmi l'alternativa?

- Sì. D'accordo, il fatto che la spiaggia abbia cercato di mangiarti è stato uno scherzo un po' crudele, ma, sai, questo è il nostro senso dell'umorismo.

- Ma chi siete?- Aveva già infilato la chiave nella toppa, dietro la schiena, ed era pronto a rifugiarsi all'interno. L'uomo però restava fermo e non dava l'impressione di volersi avvicinare di nuovo.

- Devo ripetertelo di nuovo? Gente comune con interessi non comuni. Gente che non è molto favorevole alla tua presenza qui al teatro. Sai, a noi piace che gli spettri rimangano in giro per la città. Ma a parte questa piccola divergenza di idee, siamo amici. Ti abbiamo fatto un regalo, no?

- Ora vattene.

- Me ne vado, stai tranquillo. A due passi dal Sunflower non potrei farti del male nemmeno se volessi. Non ora, almeno. Suvvia, ragazzo, chiudiamo amichevolmente la nostra conversazione. Prendi tutta la faccenda come uno scherzo bonario. Volevamo farti riflettere su cos'è realmente il mondo a cui hai detto di sì.

Amir non rispose, le dita sempre serrate attorno alla chiave. L'uomo allora lo salutò con una mossa del cappello e si allontanò nella nebbia.

 

Volevamo farti riflettere su cos'è realmente il mondo a cui hai detto di sì.

Le parole lo seguirono fino a casa. Quando alzò gli occhi sulla lanterna appesa fuori dalla porta, ebbe anche la risposta.

Ho detto di sì agli spettri perché il più delle volte sono molto soli. Non mi piace lasciare le persone da sole. Non potevo fare altro che dire di sì. E ho detto di sì al teatro perché... È vero, è freddo, umido, caotico e sconclusionato, ma tutti ci entrano volentieri, vivi o morti o qualunque cosa siano. È pericoloso e spaventoso, ma... Penso di essermi innamorato della sua musica.

Quando si tolse i vestiti per dormire vide che sulla spalla destra, dove lo avevano toccato le dita di Stella, c'era un segno, come una specie di bruciatura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fine Prima Parte

 








***
Grazie di essere qui!

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Capitolo 10
*** X - Dama e cavaliere ***


SECONDA PARTE

Notti di ombre e promesse

 

 

Capitolo X

Dama e cavaliere

 

Un cuore può ancora spezzarsi, una volta che ha smesso di battere?

(“La Sposa Cadavere”)

 

Londra, novembre 2008

 

Il campanello suonava.

Il campanello? Chi suona il campanello, in questa casa?

Gli sembrò quasi di sentire l'alterazione dello sconosciuto fuori dalla porta, nel suono insistente. Chi andava a disturbare quel santuario di vita reclusa? In quella casa, gli abitanti (due) avevano le chiavi, e gli amici stretti (due, forse tre a voler esagerare) le avevano anche loro, oppure entravano a braccetto con il proprietario. Ora che ci pensava, da quando era lì non aveva mai sentito suonare il campanello. Forse era meglio smettere di pensarci e andare a rispondere.

- Chi è?

- Devo parlare con il capo.- Biascicò una voce maschile mezza impastata, al di là della porta.

- Con chi deve parlare?

- Con il capo. Non chiedere a me. Il capo di questo posto. Mi hanno detto così. Ehi, senti, affacciati, che questi due stanno iniziando a rompere le palle.

Con quelle premesse non avrebbe aperto nemmeno sotto la minaccia di qualche arma. Decise invece di affacciarsi ad una delle finestre del salotto, dalla quale si vedeva l'ingresso della casa. Meglio capire l'entità del problema.

Fuori dalla casa c'era un uomo di mezza età, sovrappeso, con i vestiti messi insieme a caso e i capelli spettinati. Sulla sua faccia spiccava un livello di seccatura davvero notevole.

- Ehm. Ehi. Signore. Mi scusi.- Aprì la finestra e si fece notare dal tipo. - Il padrone di casa non c'è, in questo momento. Di che cosa ha bisogno?

L'uomo arrancò fin sotto alla finestra del salotto e guardò su.

- Loro vogliono parlare con il capo. Tu chi sei?

- Il custode della casa. Il padrone non abita qui, in realtà. Ma chi sarebbero, “loro”?

- Quei due. Li vedi? Quelli vestiti come se fossero appena stati a una festa in maschera.

Sì, in effetti c'erano due figure, oltre lo steccato che circondava la casa. Ma era sera, e per qualche motivo misterioso le luci dei lampioni sembravano quasi scivolare addosso ai due, senza illuminarli affatto.

O forse il motivo non era misterioso, ma molto semplice.

- Insomma, sei il capo o no?- Insisté l'uomo, esasperato. - Me ne stavo a dormire e quei due esaltati mi hanno svegliato e obbligato a venire qui. Stanno al piano di sopra e li sento sempre che fanno casino. Non chiedermi che genere di casino, non lo so. E stasera... Oh, ma lo vedi come sono conciati? Io voglio solo tornarmene a dormire. Io non ho niente a che fare, con quelli come loro. Mi cercano sempre, ma io non ne voglio sapere. Ho già abbastanza problemi con i vivi, figuriamoci se mi voglio sorbire anche questi. Qualcuno ha detto ha questi due che qui ci abita uno che ci sa fare.

- Lei sta cercando il signor Bennett?- Domandò, certo che la risposta fosse negativa.

- Bennett? No. No, mi hanno detto un altro nome. Tipo, un nome arabo. Può essere?

- Amir?- Chiese, sospirando. Anche stavolta conosceva l'esito della domanda.

- Amir, ecco, esatto. Puoi portarli tu, da questo Amir? Io non so perché vengono da me. Io li vedo, ma non voglio vederli e tanto meno aiutarli. Allora mi hanno tirato fuori questo Amir. Tu lo conosci?

- Piuttosto bene.- Rispose. - Dica loro di aspettarmi fuori dalla porta.

L'uomo sembrò aprire realmente gli occhi per la prima volta.

- Tu? Sei tu? Senti, come si fa a tenerli lontani? Perché io ne ho abbastanza, di vedermeli girare fuori da casa mia, per tutto il quartiere, e poi mi chiamano, e...

- Non lo so.- Rispose Amir, facendo all'uomo un sorriso solidale. - Vengono e basta. Può mandarli da me, se le danno così tanto disturbo.

- Beh, intanto prenditi quei due, eh? Io ho fatto il mio dovere. Vero?

- Certo.- Amir si ritirò, chiudendo la finestra, e si diresse verso la porta. Eccone altri due. Ed erano venuti a cercarlo a casa. Stava diventando una cosa seria.

Quello, o era un caso di schizofrenia particolarmente grave.

Aprì la porta e si trovò qualcosa di inquietante puntato al petto. Una spada, realizzò. Una spada?

- Che... Cosa...- Balbettò, tentando di scostarsi. La punta della spada seguì i suoi movimenti. Quando Amir staccò gli occhi dalla lama, poté osservare colui che la impugnava. Altro che festa in maschera. Due metri di uomo, rivestito di un'armatura di metallo scuro, macchiata e ammaccata in più punti, ma ancora capace di risvegliare un certo senso di terrore in chi la guardava. Soprattutto se chi la guardava era un tranquillo studente del ventunesimo secolo, particolarmente esile e non versato in nessuna attività che implicasse l'uso della forza.

- Che ci fa un infedele nella casa del guaritore?- Abbaiò il cavaliere, da sotto il suo elmo.

- Un cosa nella casa di chi?- Piagnucolò Amir, indietreggiando. La spada, naturalmente, tornò subito a minacciare il suo collo indifeso.

- Dicono che qui abiti un guaritore!- Gridò il cavaliere. - Un messaggero di Dio, che conosce la via dell'aldilà e sa come indirizzare le anime intrappolate su quella via benedetta!

Le cose iniziavano a farsi più chiare. Forse.

- Tu... Voi siete... Fantasmi. E cercate qualcuno che vi aiuti ad andarvene.

Il cavaliere abbassò (poco, però) la spada e rimase immobile. A squadrarlo, probabilmente, da dietro la celata dell'elmo. Era una brutta sensazione, avere addosso gli occhi di qualcuno e non poterli vedere.

- Io e questa peccatrice.- Rispose il cavaliere, spostandosi per lasciar intravedere una donna piuttosto giovane, con il viso grazioso mortalmente serio, vestita di un mantello sotto il quale occhieggiava il rosso e l'oro dell'abito che portava. - Cerchiamo un guaritore che ci dia la pace. Sono secoli che ne cerchiamo un, ma tutto ciò che troviamo lunga la strada è feccia demoniaca!

- Perdonalo, non è mai riuscito ad abituarsi ai cambiamenti del mondo e parla come all'epoca in cui siamo vissuti.- Si intromise lei, sorridendo. - Ci hanno detto che da poco in questa zona di Londra c'è un giovane di nome Amir, capace di occuparsi dei problemi degli spiriti irrequieti. Anche l'uomo che ci ha condotti qui è noto per la sua capacità di comunicare con gli spettri, ma non è felice di questo suo dono.

E come biasimarlo, pensò il ragazzo. Avere a che fare con gente come il cavaliere di due metri era una cosa spiacevole. Però la signora era gentile.

- Sono io, Amir. Come posso aiutarvi?

- Tu? Giammai!- Tuonò il cavaliere, sdegnato. - Un seguace di Maometto che esercita le arti divine del Signore?

Ci mancava solo il cavaliere razzista, rimasto indietro di diversi secoli riguardo l'ecumenismo...

- Ehm.- Cominciò il ragazzo, trovandosi subito arreso. Come lo spiegava, a un tipo che poteva essere morto attorno al settimo secolo, che lui, sì, era asiatico ed era anche abbastanza musulmano, ma questo non c'entrava niente con la sua abilità di trattare con gli spettri? - Io. Voglio dire. Magari Dio ha pensato che... Uh... Concedere i suoi poteri a un infedele fosse un buon modo per mostrare la sua infinita misericordia?

Il cavaliere sollevò la spada, poi la riabbassò.

- Chi siamo noi per cercare di decifrare l'intelletto di Dio?

La spada non si mosse più. Ottimo.

- Già.- Rispose il ragazzo, anche se in quel momento, più che mai, avrebbe voluto avere Dio, lì, per farsi spiegare un paio di cose.

- Allora, giovane moro dell'Arabia, il tuo compito sarà quello di aiutarmi a portare a termine l'unica impresa rimastami in sospeso. Una volta che questo sarà fatto, io e questa peccatrice potremo andare di là, ognuno alla ricompensa che si merita.

- Sì, va bene, però io mi chiamo Amir, e in realtà vengo dal Pakistan, però va bene, chiamatemi come preferite.- Disse il ragazzo, dubitando che l'omone lo sarebbe stato a sentire. - E come posso chiamare voi?

- Io sono sir Drystan. E questa donna, non importa che tu conosca il suo nome.

- Ma io lo voglio conoscere.- Si impuntò il ragazzo. La spada tremò nella manona del cavaliere, ma non si mosse.

- Mi chiamo Branwen. Adesso ascolta ciò che il cavaliere ha da dirti e ti prego, accetta. È così tanto tempo che aspettiamo...

- Bene.- Rispose Amir, osservando i suoi ospiti, e poi i pochi che transitavano per la strada a quell'ora di sera, guardando la villa del signor Bennett e domandandosi perché c'era un idiota sulla soglia che parlava al nulla. - Venite dentro. Mi racconterete tutto.

Perfetto, adesso non si limitava ad imbattersi nei fantasmi: li invitava addirittura in casa! Una casa nemmeno sua, per giunta.

Non del tutto mia. Ci abito da una decina di mesi, quindi in fondo posso permettermi di portare dentro un paio di fantasmi.

Li condusse in uno dei due salotti della villa, il più ordinato. Pregando che sir Drystan tenesse ferma quella spada e non desse in escandescenze mettendo a rischio la collezione di strumenti scientifici del signor Bennett, in bella mostra su uno scaffale. Se c'era una cosa che aveva imparato, in quegli ultimi mesi in cui aveva scoperto la sua dote con gli spettri, era che non sempre questi erano incorporei. Occasionalmente si facevano solidi e problematici.

- Hai una casa ricca, per essere un moro. Hai fatto fortuna nei saccheggi della Terra Santa, eh?- Brontolò il cavaliere, guardandosi attorno. - E sei venuto a Londinium per conquistarla?

- Non ci sono mai nemmeno stato, in Terra Santa, e sono qui per studiare letteratura inglese all'università. E faccio il custode di questa casa, non è roba mia quella che vedete in giro, quindi state attenti a quel che toccate.

- Ah. Sei un servo, dunque.

- Sì. No. Una specie. Non potreste dirmi qual è il problema?- Sospirò il ragazzo, affondando in una delle poltrone. Poteva tollerare di avere a che fare con i fantasmi, ma che fossero almeno morti in un'epoca recente!

- Sai come si usa una spada?- Domandò la donna.

- Come pretendi che lo sappia, se è un servo?- Si intromise sir Drystan.

- Non lo so, in effetti. Perché?

- Ho bisogno di un avversario.- Rispose il cavaliere. - Uno che si batta con me, e mi aiuti una volta per tutte a stabilire la giustizia divina.

- Ah.- Che stava dicendo, quell'esaltato? - Se potesse spiegarsi meglio, ecco, ne sarei felice.

- Questa donna non è stata condannata, sebbene le sue colpe fossero evidenti. Io l'ho accusata di adulterio. Avrei combattuto contro il suo campione, per verificarne la colpevolezza, ma non si è trovato nessuno che volesse difenderla. La pestilenza ci ha uccisi tutti prima che il suo caso fosse condotto al cospetto degli uomini e di Dio. Ma non possiamo passare oltre, se prima questa faccenda non viene portata a compimento.

Amir spostò la sua attenzione su Branwen. La donna si era concentrata sugli strumenti scientifici del signor Bennett e nascondeva il viso sotto la cascata dei capelli scuri ed il velo azzurro che portava su di essi.

- Non capisco ancora.- Mormorò lui, intuendo invece qualcosa.

- Ma come si è ridotto il mondo?- Tuonò il cavaliere. - Non conosci l'usanza dello scontro, nel quale la giustizia superiore dona la vittoria a chi è nel giusto?

- Non va più molto di moda.- Rispose il ragazzo. - Mi sta dicendo che dovremmo combattere per giudicare il caso di questa signora? Lei è l'accusatore e io dovrei difenderla?

- Esattamente.

Adesso aveva una vaga idea del perché in quattordici secoli nessuno si era mai preoccupato di spedire al loro posto quei due.

- Io però non so neppure come si tiene in mano, una spada!

- Ti stai rifiutando anche tu, come tutti gli altri? Non vuoi difendere una tale peccatrice?

- Ehi, no, un momento. Non c'entra niente quello che ha fatto o non ha fatto la signora. Non so nemmeno i dettagli. Il problema è che davvero non so tenere in mano una spada.

- Quella che tu chiami signora era la moglie di mio fratello.- Cominciò il cavaliere, scoccando uno sguardo gelido alla donna. - Eppure, nonostante fosse sposata all'uomo più coraggioso e gentile che le potesse toccare, ebbe un amore con uno dei suoi scudieri. Io mi impegnai a prendere le difese di mio fratello, mentre l'uomo con cui aveva consumato il tradimento avrebbe dovuto difenderla. Il codardo fuggì la mattina del duello. Le fu dato un mese di tempo per trovare un nuovo campione, ma prima che potessimo trovarlo la pestilenza colse all'improvviso la nostra regione, ed entrambi lasciammo questo mondo con qualcosa in sospeso. Io non posso passare oltre senza aver fatto giustizia, a lei non è concesso di proseguire senza aver ricevuto il suo verdetto.

- Perché non si è trovato nessuno che volesse difenderla?- Chiese il ragazzo. - Signora Branwen, erano davvero tutti convinti che lei fosse colpevole?

- Ma lo è!- Gridò il cavaliere, battendo il piede a terra e facendo tremare ogni singolo oggetto posato su una superficie piana presente nella stanza.

- Qualunque fossero le ragioni, quattordici secoli sono abbastanza.- Rispose la donna, con un sorriso dimesso. - Sarete voi, quello che ci libererà?

Amir li guardò entrambi, spostando gli occhi dalla spada di sir Drystan al viso gentile di Branwen.

- Va bene. Prenderò le sue difese, signora.- Rispose. Dentro di sé, la sua stessa voce gli ripeteva che era un idiota.

- Bene. Tra cinque giorni, all'alba, nella radura retrostante il vostro castello, allora!- Esclamò il cavaliere, soddisfatto.

- Eh? Nel giardino della casa del signor Bennett? No, assolutamente no!

- Saremo lì ad attendervi!

- Cinque giorni?- Il ragazzo avrebbe voluto protestare ancora, ma i due ospiti iniziarono a farsi più evanescenti, meno reali, e in breve scomparvero del tutto.

Cambiava l'epoca, ma gli uomini e i problemi rimanevano sempre gli stessi. Amir aveva sempre pensato che gli uomini fossero bravissimi a dimenticare di essere uomini, imponendosi regole impossibili e rifiutando ogni nozione di perdono.

- Potresti farmi capire una cosa?.- Nel silenzio della casa la sua voce suonò fragile e minuscola. - Perché gli uomini hanno sempre pensato di sapere cosa ne pensi tu, di colpe, tradimenti e giudizi?

Dio non rispose, ma la sua mente produsse un caos confuso di voci conosciute e sgradevoli. Sentì il tono profondo e rabbioso del cavaliere che lo metteva in guardia dal rivolgersi in quel modo a Dio. Poi la voce si trasformò in un'altra, che aveva allontanato dalla sua mente per tanto tempo, ma ogni tanto tornava a portarvi scompiglio. Era la voce velenosa di suo zio, che lo accusava di una miriade di cose, come sempre: presunzione di conoscere tutto del mondo e di Dio, arroganza, sfacciataggine nell'affermare il proprio pensiero...

Scivolò a sedere sulla poltrona e chiuse gli occhi per un attimo. Aveva ancora paura di suo zio. Non voleva che Dio avesse la voce di quell'uomo. Voleva che Dio parlasse con la quiete e l'ironia bonaria di suo padre. Che avesse le mani di suo padre, spontaneamente portate a gesti d'affetto improvvisi. Che avesse il suo modo appassionato di raccontargli la storia dell'Islam, e la sua misericordia nel vivere tra gli uomini. E voleva che Dio somigliasse un po' anche a sua madre, che a Karachi aveva amiche musulmane, hindu e cristiane.

Riaprì gli occhi e si ritrovò a fissare il punto della stanza dove la donna si era fermata, nascondendo il viso.

- Prima o poi, fammi capire qualcosa di più della vita, per favore. Intanto, dimmi dove cavolo lo trovo, qualcuno che mi insegna a usare una spada in cinque giorni!

 

Se la trovò davanti la sera dopo. Lo stava aspettando sulla soglia della casa del signor Bennett, da sola. Teneva ancora la testa bassa e i capelli sciolti che le coprivano gran parte del viso. Amir si stupì di quanto naturale, quanto viva sembrasse la donna in quel momento. Eppure riusciva a percepire con chiarezza ciò che era veramente.

- Signora Branwen. Cosa ci fa, qui?

- Non sei costretto a farlo, se non vuoi.- Disse lei, senza guardarlo in viso.

- Dov'è lui?

- Non lo so. A infestare il quartiere. Siamo morti qui. Non possiamo allontanarci molto da questo incrocio di vie.

Amir rifletté che adesso Branwen era molto diversa. Parlava in modo più semplice, non utilizzava nessuna delle forme arcaiche che invece aveva pronunciato la sera prima. Come se quei quattordici secoli non le fossero passati sopra, ma le avessero insegnato qualcosa.

- Perché è venuta?

Finalmente la donna lo guardò in viso. Non era particolarmente bella, ma aveva un sorriso piacevole e rassicurante.

- Quattordici secoli o quattrocento, per me non cambia. Non voglio che ti succeda qualcosa. Proprio a te, l'unico che ha accettato di difendermi e portare a termine questo duello. Non sei costretto a farlo, davvero.

- Credo sia il mio compito, portare a termine le cose che quelli come voi sono costretti a lasciare a metà.- Rispose lui, ricambiando il sorriso. - Non mi pesa farlo.

Ecco, quella era una menzogna autentica. Gli pesava eccome. Lo terrorizzava. Ma lo disse per tirarla su di morale.

- Grazie.- Disse lei, tornando ad abbassare gli occhi. - Sai, quattordici secoli di rifiuti e dinieghi sono sconfortanti. - Cercò di ridere ma non le riuscì molto bene. Le venne fuori una cosa che sembrò una specie di lamento, e il vento la raccolse, facendola echeggiare negli anfratti della casa e della strada.

- Perché nessuno ha mai accettato di difenderla?

- Alcuni non sapevano usare la spada. Altri mi ritenevano colpevole.

- Ma lei è colpevole o no?

- Ti importa così tanto?

- No. Mi importa solo di liberarvi.

Branwen assunse un'aria finalmente serena.

- Mi sono sentita dire di no così tante volte che credevo non mi fosse rimasto più nemmeno un pezzettino di cuore intatto. Lo so, non ho proprio un cuore che batte come il vostro. Ma... Avevo l'impressione che si sbriciolasse un po' ogni volta che mi veniva negata una difesa.

- Vedrà, Branwen.- Tentò di rassicurarla Amir. - Vedrà, me la caverò. Non mi succederà niente. E riuscirò a dimostrare che era innocente.

Lei allungò la mano, come per fargli una carezza, ma era svanita prima di riuscire a toccarlo.

 

- Ti vedo pensieroso, Amir.

Il ragazzo sollevò la testa dai due libri che stava leggendo in contemporanea. Il suo datore di lavoro, appoggiato allo stipite della porta, con gli occhiali da lettura dimenticati sul naso, gli sorrise.

- Signor Bennett, buonasera.- Lo salutò il ragazzo. - Che ci fa qui? Sì, lo so che è casa sua, ma intendo dire...

- Mi tratterrò in questa casa per qualche giorno. La caldaia del mio appartamento vicino all'università è rotta, e non la ripareranno prima della prossima settimana. Spero che questo non crei problemi ai tuoi lavori.

- Si figuri. È casa sua, non mia.

- Penso che sia più tua, di questi tempi. Ci trascorri tanto tempo. Riesci a preparare i tuoi esami, anche se stai ridipingendo il secondo piano?

- Certo. Non deve preoccuparsi.

- Bene. Mi sembri un po' inquieto.

- Ma no.

- Se c'è qualche problema, non esitare a dirmelo. Ah, senti, per caso sei entrato nel salotto con le poltrone bianche?

Il ragazzo si sentì raggelare.

- Perché?

- Alcuni dei pezzi della collezione scientifica erano rovesciati. Magari hai lasciato una finestra aperta.- Il signor Bennett uscì dalla stanza, per tornare ad affacciarsi all'interno pochi minuti dopo, annunciato da un rumore inquietante. Aveva i capelli chiari spettinati e una vistosa macchia scura sulla camicia. E sembrava seccato.

- Amir. Sei davvero sicuro di non essere stato lì dentro?

- Che le è successo?

- All'improvviso mi è crollata in testa una famiglia di ampolle ornamentali contenenti innocue polverine colorate, per fortuna. Fortuna mia, non della camicia.

- Si è fatto male?- Domandò il ragazzo, scattando in piedi. L'uomo fece cenno di no.

- Quindi tu non sai cosa sia successo lì dentro? Ci è passato un fantasma?

- Forse.

Ogni tanto si chiedeva cosa avrebbe detto il signor Bennett, se gli avesse raccontato della sua occupazione segreta.

- Ricordami di chiedergli il conto, quando lo vediamo in giro per casa. Ho combinato un disastro, di là, ma ti proibisco di cercare di rimediare: lo farò io. Sono inciampato in una delle casse dei miei fioretti, per sfuggire alle ampolle, e ho finito per aggrapparmi a dei libri che non hanno gradito la cosa.

- Fioretti? In quelle casse sotto il tavolino ci sono dei fioretti?

- Ho fatto un po' scherma, qualche anno fa. Niente di serio, in realtà.

Scherma. Perfetto. Aveva trovato l'insegnante per il suo compito disperato, ma non poteva spiegargli a cosa gli servivano lezioni di scherma lampo. E se c'era una persona pessima nel trovare le scuse, era lui.

- Signor Bennett, senta, ho un problema. Devo imparare qualche rudimento di scherma. Ha a che fare con qualcosa di cui non posso parlarle chiaramente ma le assicuro che si tratta di una cosa legale. Non potrebbe aiutarmi?

L'uomo fissò il ragazzo come se fosse stato una piovra gigante aliena.

- Ho bisogno di imparare a tenere in mano una spada.

- Per quale motivo?

Ma il signor Bennett non era quello che se ne fregava di tutto e lasciava vivere l'universo in pace senza ficcanasare mai? Perché stavolta lo riempiva di domande?

- Per... Ha presente Aidan, il mio compagno di università, no? Sta facendo un corso di teatro e ne ha bisogno, ma non ha tempo per imparare lui stesso, così mi sono offerto di dargli una mano.

Il signor Bennett rifletté per qualche momento, poi fece una faccia abbastanza rassicurante.

- Perché no? Magari rispolvero un po' le mie poche nozioni.

 

La risata del signor Bennett era quel genere di riso bonario, quieto, mai troppo rumoroso, piacevole finché non ti accorgi che ride di te. Non sarebbe stata un brutto suono, ma siccome c'erano solo loro due, nel giardino della villa, con dei fioretti in mano, era ovvio che stesse ridendo di Amir.

- Non ho la stoffa, eh?

- Mmm... Magari sei più bravo con i lavori intellettuali.

- Grazie della consolazione.

Stava diventando una faccenda un po' umiliante. Dopo un'ora, non ne poteva più di vedere l'altro che se la rideva in quel modo. Per fortuna se ne accorse anche il signor Bennett. Posò a terra il fioretto e prese l'altro dalle mani di Amir.

- Dai, per oggi va bene così. Non ti scoraggiare. È la prima volta, no? E poi, guarda che mi ha fatto piacere farti da insegnante.

- Continuiamo domani?

- Se vuoi. E se vuoi, puoi dirmi anche qual è il vero scopo di tutto questo.

Amir abbassò gli occhi. La sua scusa non era stata creduta (effettivamente era un po' raffazzonata e improbabile), ma non poteva certo dirgli che c'entravano dei fantasmi. Teneva troppo alla stima del signor Bennett per farsi prendere per pazzo.

- Non insisto.- Disse l'uomo. - Non preoccuparti. Non riesco a capire cosa tu possa avere da fare di così imbarazzante da non potermelo dire, visto che sei la persona più corretta e trasparente che conosca. Ma va bene lo stesso.

Eppure, se avesse potuto, Amir gli avrebbe raccontato tutto. Degli spettri, del duello, della donna che doveva difendere, dei suoi problemi con Dio. Ma il signor Bennett faceva parte di un altro mondo, dove i fantasmi e le stranezze non erano contemplate. Chissà se sarebbe mai riuscito a coinvolgerlo nella sua dimensione di ombre. Una parte di lui lo desiderava davvero.

 

Il duello era fissato all'alba, ma Amir uscì di casa almeno due ore prima, assicurandosi che il signor Bennett stesse dormendo. Fortuna che il giardino fosse dalla parte opposta rispetto alla camera dell'uomo. Non che i fantasmi fossero udibili dal signor Bennett. Ma eventuali grida di terrore e disperazione prodotte da Amir, quelle sì, le avrebbe sentite benissimo.

Se parti subito con l'idea di perdere subito e in maniera vergognosa...

Se davvero voleva difendere Branwen, se ci teneva a liberarla dalle accuse e dal suo stato di spirito vagante, doveva almeno pensare che poteva avere una qualche remota possibilità. Magari il cavaliere era arrugginito dal tempo. Magari c'era la famosa fortuna del principiante dalla sua parte.

- Allora, infedele! Sei pronto?

La voce di sir Drystan lo svegliò bruscamente. Si era appisolato su una delle panchine del giardino, con il fioretto tra le mani. Aprì gli occhi e si trovò la consueta lama di spada a un soffio dal petto.

- Per fortuna che nessuno la sente, signor Drystan. Altrimenti avrebbe svegliato tutto il quartiere.

- Sarebbe stato meglio. Il duello dovrebbe essere pubblico!

- E invece è meglio così.- Il ragazzo spinse via con la mano la spada, un po' seccato da quel trattamento.

- Si vede proprio che sei un servo senza alcuna dignità. Andiamo, adesso!

- Primo sangue, vero?

- Te lo concederò.

Branwen rimase indietro. Non disse nulla, però sorrise.

Sir Drystan si dispose di fronte al ragazzo e abbassò la spada.

- Ti lascio la prima mossa.

Amir si concentrò, nonostante la voglia di gettare via il fioretto e arrendersi fosse il sentimento più forte. Tentò di ricordare il modo in cui il signor Bennett muoveva il polso e il braccio, e come spostava le gambe. Ridicolo. Un fioretto contro una spada a due mani. Però...

Però lo aveva promesso a Branwen, e quindi doveva provare.

Fece un movimento orribile, uno di quelli che avrebbero fatto ridere il signor Bennett. Il fioretto a malapena sfiorò la lama dell'altro. Il cavaliere fece appena un passo indietro e non fu minimamente scosso dall'attacco del ragazzo.

Poi venne il turno dello spettro. Sollevò la spada con entrambe le mani e si scagliò contro il ragazzo, imprimendo tutta la sua forza a quel colpo. Amir era così affascinato dalla tecnica dell'altro che praticamente si dimenticò di difendersi. Si ricordò che doveva tentare di parare quando ormai la lama era orribilmente vicina. Fece un saltello penoso e mosse il fioretto a casaccio. La lama di Drystan scivolò precisa sul suo braccio destro, incise la pelle poco sotto il gomito e tracciò una riga rossa fino alla mano. Il ragazzo soffocò un grido, mentre l'inutile fioretto cadeva a terra.

- Giustizia è fatta.- Sussurrò sir Drystan, con una sorta di reverenza religiosa. - La colpevolezza di questa donna è acclarata, finalmente. Dio ha parlato tramite la mia spada. Ora posso andare.

Il ragazzo alzò il viso verso il cavaliere e, tra le lacrime, vide che l'uomo si era tolto l'elmo. Vide l'aria solenne e la commozione negli occhi dell'altro e rabbrividì. Era così felice di avere trovato le prove di una colpa. Non era una cosa di cui qualcuno dovrebbe essere felice. Il fatto che gli altri commettano degli errori avrebbe dovuto intristire – almeno, per Amir. E poi era piuttosto sicuro che Dio non parlasse attraverso nessuna arma.

- Per favore.- Implorò, spinto da una specie di intuizione. - Pensi a qualcos'altro, mentre se ne va.

- Cosa?

Non so quanta pace tu possa trovare, se svanirai con questi pensieri in testa.

- Pensi a Dio. Ma non alle spade o ai colpevoli.

La figura del cavaliere era sempre meno distinguibile. Ora sembrava una sagoma umana, ora solamente una fronda d'albero confusa tra le ombre notturne.

- La giustizia. Dio è giustizia.- Mormorò l'uomo, come seguendo un flusso sconnesso di pensieri.

- E perdono.- Strinse con la sinistra il braccio ferito, che sanguinava e pulsava dolorosamente. - Non se lo dimentichi, signor Drystan. Per favore.

Forse l'uomo aveva sorriso. Forse le stelle si erano fatte più luminose, per un attimo.

Poi sir Drystan non c'era più.

Branwen però era lì accanto a lui, e l'aria era più fredda, vicino alle sue mani pallide.

- Come stai?

- Non si preoccupi, signora. Sto bene. Perché lei è ancora qui?

- Perché non sono rimasta sulla terra per quattordici secoli in attesa di un giudizio. Non ne avevo bisogno. Sapevo benissimo di essere colpevole. Quel che aspettavo era solo ciò che mi hai dato tu. Un po' di pietà, nonostante i miei errori. Dal momento in cui il mio tradimento venne rivelato, tutto l'amore per me si trasformò in disprezzo.

Era così vicina che i capelli, mossi dal vento sfioravano il viso di lui.

- Non so perché le persone a volte ricordano solo gli errori degli altri e li condannano per sempre.- Le disse. - Io ho le mie idee su quello che è giusto e sbagliato. Ma anche se considero sbagliata una cosa, non penso di poter giudicare nessuno. Non mi piace giudicare la gente.

- Dicono che sia giusto, additare i peccati. Io però pregavo un Dio che perdonava prostitute e adultere. Se mi pento del mio errore, non sono ancora degna di essere amica di Dio?

- Una volta, quando avevo undici anni, mia madre e mio padre nascosero in casa una donna accusata di aver tradito suo marito, e l'aiutarono a mettersi al sicuro. Mi dissero che lo facevano perché i propri simili vanno trattati come vorremmo essere trattati noi. Vengo da un posto meraviglioso, ma ci sono anche delle persone che la pensano come Drystan. Io però credo che i miei genitori avessero ragione.

- Grazie per avermi difesa. Ora che hai curato il mio cuore infranto, forse potrò andare in pace.

La donna si chinò di pochissimo ed era già fin troppo vicina. Posò le labbra su quelle di lui e premette per un istante. Amir sentì un'ondata di gelo. Stava ancora cercando di realizzare bene l'accaduto, quando la donna perse consistenza e svanì completamente.

Amir si distese a terra. Il braccio ferito gli faceva malissimo e il sudore freddo appiccicato alla schiena lo raggelava. Chiuse gli occhi e avvertì l'umidità del suolo che penetrava attraverso i vestiti, l'irregolarità del terreno che sembrava volerlo ingoiare.

Pensò al cavaliere e alla sua granitica e inamovibile idea di giustizia, che lo spaventava. Pensò a quattordici secoli di cuore spezzato, finché uno stupido imbranato come lui si era offerto di difendere la dama. Pregò perché quella notte folle fosse servita a qualcosa.

Pian piano si rialzò, istigato da un refolo dispettoso che continuava a scuoterlo, quasi volesse prenderlo per mano e riportarlo al sicuro. Si lasciò guidare fino alla sua camera, si medicò il braccio e si infilò a letto vestito.

 

- Che hai fatto al braccio?

Il signor Bennett in pantofole, intento a preparare la colazione, era quanto di più logico, sensato e rassicurante si potesse immaginare.

- Oh. Niente. Non si preoccupi.

- La tua risposta preferita, Amir. Caffè?

- Sì, grazie. Credo che non occorreranno altre lezioni di scherma.

- Almeno ti sono servite?

Il ragazzo guardò fuori dalla finestra, verso il giardino, e si sforzò di immaginare sir Drystan e Branwen nei giardini di un posto che doveva esistere. In pace.

- Sì. Penso proprio di sì.



***
Grazie di essere qui!

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Capitolo 11
*** XI - Una promessa per cui vivere ***


Capitolo XI

Una promessa per cui vivere

 

Tracing the trails through the mirrors of time
Spinning in circles with riddles in rhyme
We lose our way, trying to find
Searching to find our way home

(Blackmore's Night, Where are we going from here)

 

Londra, novembre 2008

 

C'erano momenti in cui gli sembrava tutto normale. Frammenti normali di una vita normale. Allora pensava di non essere così diverso da un qualsiasi studente universitario di Londra. O da un qualsiasi ragazzo del Pakistan.

Poi capitavano cose apparentemente insignificanti. Tipo, allungava il braccio per spegnere la sveglia e notava la ferita che risaliva dalla mano al gomito, una ferita ricevuta due settimane prima e non ancora guarita. Una ferita da spada.

Quelli erano i momenti in cui sapeva di essere irrimediabilmente diverso dalle persone raccomandabili.

Si sollevò sul letto e prese a studiare la ferita. Una persona normale sarebbe andata all'ospedale. Provò un moto di invidia per la banalità dell'andare all'ospedale, qualcosa che gli era negato. Non si può andare da un medico qualsiasi a dirgli “Mi scusi, ma ho una ferita da spada che non rimargina, probabilmente perché l'ho ricevuta da un fantasma.”

Finalmente si decise ad abbandonare il letto e i pensieri. Avrebbe chiesto consiglio all'unica persona della sua vita che sembrava capire cosa gli stesse succedendo, l'unica che riusciva a dargli un po' di tranquillità. O magari avrebbe inventato una scusa credibile da sciorinare a un medico.

 

- Preoccupante, direi.- La signorina Angela spuntò in mezzo ad una collezione di bambole, superò il plastico di una stazione ferroviaria e lo raggiunse, concentrandosi sul braccio del ragazzo. Toccò appena con la punta di un dito i bordi della ferita e lo fece trasalire.

- Pensa che non riesca a guarire perché è stato un una persona fuori dal comune, a ferirmi?- Le domandò, ritraendo il braccio.

- Temo di sì. Posso sapere come mai hai questa ferita? Credevo tu fossi una specie di amico dei fantasmi che risolve le loro angosce e i loro problemi, non un supereroe che combatte gli spettri molesti.

Amir sospirò e abbassò la testa.

- Lo credevo anch'io. A quanto pare, a volte devi fare cose particolarmente stupide e pericolose, per essere loro amico.

- Servirebbe un medico abituato a questo genere di cose.

- Esistono medici abituati a questo genere di cose?

- Ne conosco uno. Non lo vedo da un secolo, ma sono sicura che sia sempre lì, dov'era un secolo fa. È un vecchio abitudinario che ama il suo lavoro più di ogni cosa.- Angela si chinò sul bancone del negozio, cercò l'occorrente e scrisse l'indirizzo per il ragazzo.

- Dottor Allen Waymore.- Lesse lui. - Grazie, signorina Angela.

- Digli che ti ho mandato io. Sai, è passato un bel po' di tempo dall'ultima volta in cui sono andata a farmi curare una ferita strana come la tua.

- Va bene. Senta, quando mi ha detto che non lo vede da un secolo, era una metafora, vero?

La signorina Angela rise nel suo modo adorabile e un po' inquietante.

- Stai tranquillo. Sei abituato a trattare con cose fuori dal comune, ma il dottor Waymore è solo un vecchio medico in pensione che continua a curare i suoi pazienti. Niente di cui aver paura.

 

Sulla porta dello studio del dottore c'era un foglietto azzurro sbiadito. “Per i pazienti del dottor Waymore: contattate questo numero”. Seguiva un numero di telefono senza alcun nome. Amir telefonò, un po' abbattuto: forse il famoso amico di Angela, dopo un secolo di professione, aveva finalmente deciso di mollare. Gli rispose solo una segreteria telefonica che gli fornì un altro indirizzo.

L'altro indirizzo si rivelò un'abitazione privata. Fu accolto da una ragazza dall'aria poco amichevole. Era più alta di Amir, anche se più o meno dovevano essere coetanei. Aveva una chioma rossiccia voluminosa e crespa e occhi chiarissimi, di un azzurro-grigio quasi inconsistente.

- Lei è uno dei vecchi pazienti del dottor Waymore?

- No. Mi hanno dato il nome del dottore e...

- Allora il dottor Waymore non potrà aiutarla. Si occupa solo di quelli che erano suoi pazienti prima della pensione.

- Potrei avere la possibilità di vederlo solo una volta? È una cosa urgente.

- Il mondo è pieno di bravi medici.- La ragazza lo squadrò in un modo che lo mise a disagio.

- Mi ha mandato la signorina Angela Night. Mi ha detto che solo il dottor Waymore può aiutarmi.

- Capisco. Allora, in tal caso potremo fare un'eccezione. Le darò il nuovo indirizzo e il nuovo orario del dottore.- Tirò fuori di tasca un dépliant stampato a mano, con gli orari e la cartina. - Il nuovo studio è a Springmere. Ci arriva da dietro la chiesa di Santa Maria Maddalena. L'orario delle visite comincia alle 21,30.

La ragazza parlava come se stesse dicendo le cose più banali del mondo, ma Amir aveva la chiara sensazione di essersi appena infilato in un'altra delle sue avventure ben lontane dalla normalità.

- Non è un orario strano, per uno studio medico?

- L'importante è che sia congeniale al dottor Waymore, no?- Rispose lei, che aveva ripreso a fissarlo spudoratamente. - Arrivederci, signor...

- Amir Daryani.

- Io sono Annie. Saremo molto felici di averla tra i nostri pazienti. Almeno, io lo sarò di sicuro.

Amir la guardò sparire dietro la porta con un certo sollievo.

 

Se fosse stata una dignitosa ora del giorno, avrebbe chiesto a qualcuno dove si trovasse Springmere. Ma erano le nove di sera passate e nella zona della chiesa di Santa Maria Maddalena non c'era nessuno. L'edificio sacro era un relitto del tempo tra case e palazzi moderni. Non si riusciva a intuire cosa nascondesse lo spazio retrostante la chiesa, né in che genere di quartiere si trovasse il famoso studio medico notturno.

Amir non aveva fatto domande alla ragazza di quella mattina, riguardo l'orario delle visite (principalmente per il disagio che la ragazza riusciva a provocargli solo guardandolo), ma adesso si stava dando dello stupido. Ci deve essere qualche motivo grave, se ricevi i tuoi pazienti di notte.

Una signora attempata ma con un sorprendente passo scattante lo superò e passò oltre quasi correndo.

- Signora! Mi scusi, signora!

La donna si voltò e lo osservò, senza particolare cortesia nello sguardo.

- Che vuoi?- Borbottò lei.

- Sa dov'è lo studio del dottor Allen Waymore?

- Tu sei nuovo? Non ti ho mai visto tra i suoi pazienti. Comunque seguimi. Ci sto andando anch'io. E non pensare nemmeno di passarmi avanti!

- Non ci penso nemmeno, stia tranquilla. Signora, come mai il dottore riceve a quest'ora?

- Perché fa troppo caldo, di giorno, dice lui. A me sembra un po' una cosa da pazzi, ma lui è tanto bravo!

Seguì la signora fin sul retro della chiesa, dove poté scoprire cosa nascondesse l'edificio. Era uno spiazzo enorme, circondato da un muro sormontato da una ringhiera di ferro battuto nero. Muro e ringhiera erano ricoperti da una spessa coltre di rampicanti, molti dei quali gettavano verso la luna i loro fiori dai bocci chiusi. C'era un cancello aperto, oltre il quale si intravedevano un paio di persone.

- Ecco Springmere.- Disse la signora. - Ed ecco la fila. Mettiti al tuo posto.

- Ma cos'è, un parco?

- Un parco? Ragazzo, ma dove vivi? Mai sentito parlare del cimitero di Springmere?

- Il cosa?

La signora trotterellò verso la coda e lo abbandonò sulla soglia di quel luogo. Nella pallida luce della luna piena, sostenuta da un paio di lampioni, Amir distinse le sagome delle tombe e delle cappelle mortuarie, all'interno di quello che gli era sembrato un parco.

- Ehm. Scusatemi.- Raggiunse la coda e tentò timidamente di farsi notare. - Scusatemi, potrei sapere come mai il dottor Waymore riceve qui i suoi pazienti?

- Te l'ho detto.- Rispose la signora di prima. - Dice che è perché di giorno fa caldo, e qui almeno prendiamo un po' d'aria.

- È novembre...

- La verità è che l'hanno buttato fuori dal suo vecchio studio e lui è il proprietario di questo pezzo di terra.- Gli spiegò un vecchiettino basso, dall'aspetto fragile. - Ma stare in un cimitero di giorno attirerebbe troppo l'attenzione, mi capisce. Quindi ci dobbiamo adattare.

- Mah, io non lo so.- Confessò la terza dei presenti, una signora paffuta. - Però se riceve solo qui, io ci vengo. Non posso mica cercarmi un medico nuovo alla mia età!

Si guardò attorno: su una lapide poco distante stava seduto un uomo. Accanto a lui c'era la ragazza, Annie, vestita con un camice bianco. L'uomo parlava fitto con un'altra signora anziana, piccolina e fragile.

- Perché qui?- Domandò ancora, ma i tre signori in coda ignorarono la domanda, continuando a riempirlo di discorsi senza importanza, e lui li ascoltò perché non voleva essere scortese. Uno dopo l'altro furono chiamati dalla ragazza e andarono a parlare con l'uomo. Infine arrivò il suo turno di raggiungere la tomba.

- Amir, vero?- L'uomo gli fece cenno di avvicinarsi e lui obbedì. - Piacere di conoscerti. Sono il dottor Waymore, ma gli amici dei miei amici posso chiamarmi Allen.

Il medico era un uomo anziano, anche se era difficile dargli un'età: a tratti sembrava forte e vitale, mentre in alcuni momenti un'ombra di fatica e malattia gli gravava addosso. Aveva splendidi occhi azzurri e i capelli bianchi erano lunghi, raccolti in una coda che scendeva lungo la schiena. Sembrava più che altro un vecchio cavaliere o un pellegrino dei cicli delle leggende bretoni.

- Salve.- Mormorò il ragazzo, e la voce gli tremò.

C'era qualcos'altro, nell'uomo che gli stava di fronte. E forse gli anziani pazienti, che osservavano i movimenti della morte da lontano, non riuscivano a vederlo, ma lui sì. Lui aveva un tipo diverso di familiarità con la morte. Per lui quella scintilla dissonante dietro la normalità era semplicissima da afferrare. Il dottor Waymore era morto.

- Annie mi ha parlato molto di te.- Gli disse il dottore, indicando la ragazza con i capelli crespi, apparentemente incurante dello smarrimento di Amir. - Annie è un'appassionata studiosa delle caratteristiche fisiche della razza del subcontinente indiano.

Sorrisero tutti e due, il medico con l'aria di chi la sa lunga e la ragazza con l'aria di chi vorrebbe, probabilmente, un genere diverso di approccio con un esponente della razza del subcontinente indiano.

Amir non riuscì a ricambiare il sorriso. Il medico spettro con il suo ambulatorio tra le tombe si piazzava piuttosto in alto, tra le stranezze degli ultimi mesi.

- Lo so, che hai capito.- Disse Waymore. - Sei una persona speciale, eh? In fondo, ti ha mandato Angela. Nemmeno lei è una come tanti. E tu mi vedi per quello che sono. Sbaglio?

Amir scosse la testa.

- Non c'è niente di cui aver paura.- Gli disse Annie.

- Non ho paura.- Rispose il ragazzo. Il medico fece un sorriso triste.

- Non hai paura. Si vede. Hai solo il cuore che all'improvviso si è riempito di una strana sensazione desolata, e non sai cosa sia giusto dirmi. Dimmi, Amir. Sei dispiaciuto perché un disgraziato come me è costretto a rimanere legato a questa vita, senza poter andare verso la pace?

- No, è che...- Era più difficile di quanto pensasse, riuscire a spiegarlo. - Mi chiedevo se lei stesse aspettando uno come me.

- Uno come te?

- Sì, io...- Si interruppe, sentendosi piuttosto stupido. Cosa doveva dire? Io di mestiere risolvo le faccende lasciate a metà dei fantasmi, e il bello è che non so nemmeno come faccio?

- Tu aiuti i poveri disgraziati come me ad andare al loro posto?

Per fortuna che il dottore c'era arrivato da solo.

- Più o meno.

- Lo immaginavo. Ma non ho bisogno di te. Non stanotte, almeno.- Rise in modo abbastanza rassicurante. - Forse un giorno sì. Ma non ora. Non ho ancora tenuto fede alla mia promessa.

- Promessa?

- Il motivo per cui resto abbarbicato alla vita, ragazzo. Ho promesso che avrei continuato a seguire i miei pazienti più cari, fino alla guarigione, o alla fine. L'ho capito subito, quando mi sono ritrovato a gironzolare attorno al mio corpo disteso sul letto, due anni fa. Non potevo abbandonarli. Poi è arrivata Annie, e per fortuna ha deciso di aiutarmi.

- E perché non ha continuato a visitare le persone nel suo vecchio studio?

- Perché i miei parenti l'hanno rilevato, trasformandolo in altro. Mi sono accorto che non ero più legato a quel posto, completamente ripulito da tutto ciò che era la mia vita e la mia presenza. Non mi restava che il luogo della mia sepoltura. Lo sai, uno spettro non ha molta libertà di movimento. Annie ha organizzato tutto perché potessi fare le mie visite qui. Ci sono sei pazienti che ancora mi tengono nel mondo dei vivi.

Amir finalmente si lasciò vincere dal desiderio di sorridere. In fondo, era una storia che aveva qualche aspetto divertente.

- E nessuno dei sei si è insospettito?

- Oh, penso di sì. Una forse ha addirittura capito. Quella che ti ha intrattenuto più di tutti con le sue chiacchiere, stasera, non è proprio del tutto presente, quindi non si fa molti problemi. Uno è morto l'anno scorso. Gli altri li ho più o meno convinti con delle motivazioni abbastanza inverosimili.

- Io penso ai farmaci, alle ricette, alle apparecchiature e tutto il resto.- Spiegò Annie. - Lavoro come infermiera a domicilio, di giorno. Ho la possibilità di avere tutto ciò di cui c'è bisogno. Insomma, non ce la caviamo male.

- No, per niente. Ma tu sei qui per un consulto! Che ti è successo?

- Sì. Ecco. Io...- Amir sollevò il braccio e mostrò la ferita del fantasma. - Non rimargina. Mi è stata fatta due settimane fa.

- Con che cosa?- Chiese il medico, chinandosi sulla ferita.

- Con una spada. Da un fantasma.

- Ah. Faccenda noiosa. Niente di troppo grave, ma ci vuole il farmaco giusto, per curare una cosa del genere. Sapessi quanti ne ho curati, ai tempi in cui il caro, pazzo Arthur Headley era l'acchiappa-fantasmi più in voga di Londra! Conoscevi Headley?

- Di fama.

- Lui non sarebbe mai potuto diventare uno di noi. Uno spettro. Oh, no. Era un uomo senza compromessi. Un fantasma, in fondo, è il più eclatante dei compromessi, non trovi?

Amir non rispose: aveva paura di urtare la sensibilità dell'altro, a intromettersi in simili questioni.

- E dimmi un po', di dove sei originario e cosa fai nella vita?

- Sono del Pakistan. Studio letteratura inglese. E lavoro come segretario del proprietario di un teatro, il Sunflower.

- Non stai parlando di quel saccente ammasso di insopportabile accidia che risponde al nome di Joel Bennett, vero?

- Lei lo conosce?

- Era uno dei miei pazienti.- Rispose il dottor Waymore, con un sorriso che smentiva un po' il giudizio pesante sputato qualche istante prima. - E sua madre, prima di lui. L'ho visto quando era un neonato sovrappeso, per la prima volta.

Per qualche motivo l'immagine del suo datore di lavoro, il distinto, tranquillo, ironico signor Bennett, in versione neonato sovrappeso si rivelò alquanto disturbante.

- Caro ragazzo, ho quel che fa per te, ma è a casa di Annie.- Riprese il medico, interrompendo pietosamente le immagini mentali di Amir. - Annie, ti dispiacerebbe portarlo con te in auto e dargli quel composto speciale che sai?

- Va benissimo.

- Oh, perfetto. Metti un po' dell'unguento che ti darà Annie ogni sera prima di dormire.

- Che cos'è? Perché non si trova in una farmacia normale?

- Perché è una cosa particolare. La faceva una ragazza un po' strana. Non ho mai capito di dove fosse originaria. Si faceva chiamare Nova. Era un'erborista rara e aveva una serie di rimedi per le ferite come la tua. Ma non la vedo da tanto. Passava da casa mia ogni anno. Ah, il mondo è pieno di gente con talenti speciali, se cerchi bene, Amir. Se hai intenzione di continuare con questa carriera da esorcista, conoscerai molte persone incredibili. E molte altre piuttosto comuni. Ma ti piaceranno tutte, a giudicare da come trattavi i miei vecchietti, poco fa. Ma perdona le chiacchiere. È che sono felice di parlare con qualcuno che capisce. Ora però torna a casa: è tardi, e immagino che tu abbia una vita, oltre i fantasmi.- Gli offrì un sorriso gentile. - Tra una settimana torna a farti rivedere.

Amir ebbe l'impressione che tutte le cose avessero reagito alla gentilezza di Allen Waynore. Come un cambio di stagione improvviso. Tutto aveva respirato, tutto gli aveva sussurrato la stessa gentilezza del vecchio. Quel posto doveva avere qualcosa di speciale, come il Sunflower. Del resto era un cimitero che faceva da studio medico per un dottore fantasma.

 

Non si erano detti una parola per tutto il tragitto in auto e Amir avrebbe forse preferito che quel silenzio imbarazzato si protraesse, ma Annie cominciò a parlare, quando lo ebbe introdotto in casa sua.

- Allora, sei uno di quegli sfigati benedetti dal Cielo e amici degli spettri, eh? Guarda che non ti sto prendendo in giro. Anche a me piacciono. Penso sia per questo che sono riuscita a vedere subito Allen.

- Non ti pesa rimanergli accanto?

- Mah. Dormo poco, è vero, ma resisto.- Avevano attraversato il minuscolo appartamento di lei e ora avevano raggiunto un armadio bianco, tempestato di adesivi, piccoli oggetti magnetici e pupazzetti colorati. - Allen è sempre stato un amico.- Aprì l'armadio: c'era una farmacia portatile, lì dentro. Si mise a frugare nello scomparto più buio e caotico. - Forse mi consideri una squilibrata, per questo?

- No. Penso che sia una cosa bella, quella che fai. Giusta. Stai aiutando un amico, no?

Gli sorrise, porgendogli un vasetto.

- Mettila tutte le sere. Ti aspetto tra una settimana a Springmere.

 

Non conosceva Angela da molto, ma si era convinto che l'unica espressione che avesse fosse quel sorriso dolce, per metà rassicurante e per metà annunciatore di guai. Rimase male nel vedere la sua espressione di genuino e addolorato stupore quando le disse della morte di Allen Waymore.

- Non ne sapevo niente.

- Nessuno ne sa niente, a quanto pare. E le notizie non sono finite.

- Che intendi dire, Amir?

Prese una boccata d'aria e gettò fuori la storia incredibile del cimitero di Springmere. Se non altro, alla fine della storia Angela aveva di nuovo il suo sorriso.

- Oh, proprio una cosa da lui.- Commentò la donna, che sembrava risollevata. - È sempre stato ossessionato dai suoi pazienti. Non erano semplici clienti del suo studio: erano una missione.

- Signorina Angela, pensa che sia giusto, che il dottor Waymore resti attaccato alla vita?

- Perché mi fai questa domanda?

- Perché penso di aver capito che il mio compito è di aiutare i fantasmi ad andare via da qui. Ma non voglio farlo, con il dottor Waymore. Credo che la sua promessa sia qualcosa di importante.

- Non ti sei già risposto da solo?- Chiese la donna, offrendogli uno dei suoi tipici succhi di frutta ai gusti misteriosi e irriconoscibili.

- Ho solo capito che io non voglio farlo andare. Ma non so se questo è giusto. Il più delle volte mi sembra che desideriamo cose che poi si rivelano sbagliate. Il dotto Waymore non è il primo spettro che afferma di voler restare, e fino a oggi ho sempre accettato le loro scelte. Però mi domando se, invece, non dovrei insistere per liberarli. Ho paura che ci sia qualcosa di egoista, in questa accettazione. Come se mi dispiacesse troppo mandarli via.

- Ah, il nostro piccolo, adorabile Amir, sempre ligio al dovere. Ti dirò qualcosa per alleggerire il tuo cuoricino. Cosa pensi che accadrebbe, se provassi a costringere uno spettro ad andarsene?

- Esistono modi per farlo?

- Esistono, sì. Ed esistono persone che li mettono in pratica.

- Come si può mandare via uno spirito per forza?

Lo sguardo di Angela si incupì, come se stesse ricordando qualcosa in particolare, più che limitarsi a dare un'informazione.

- Non per farti sentire un novellino nel campo, Amir, ma devi sapere che gli uomini trovano modi per interagire con il sovrannaturale da quando il mondo esiste. Ci sono arti di ogni genere, cultura e tradizione, per purificare un luogo dalla presenza dei fantasmi. Ma non sempre questo metodo funziona o porta buoni risultati. Le persone con le tue capacità sono rare, ma sono la cura migliore. Cacciare via uno spettro con la violenza lascia sempre una scia, una traccia nel luogo che si intendeva liberare.

Il ragazzo assorbì l'informazione e rimase in silenzio, a ponderare tutte le cose che gli rimbalzavano in testa.

- D'accordo. Gli dirò di chiamarmi al momento giusto. Glielo dirò la settimana prossima. Devo tornare a Springmere.

- A Springmere? Che ci vai a fare, in un cimitero?

La porta del negozio si aprì e, a sorpresa, fece il suo ingresso il signor Bennett, con l'aria rilassata e noncurante che aveva sempre, anche se inquinata da una goccia di sconcerto di fronte all'idea che il suo segretario se ne andasse a spasso per i cimiteri.

- N-no, io intendevo...- Balbettò il ragazzo, senza sapere come giustificarsi.

- Non parla del cimitero.- Rispose Angela. - È un locale dove suonano musica dal vivo.

Il signor Bennett fece finta di credere alla menzogna, o semplicemente cessò di interessarsi alla faccenda. Forse era perché conosceva Angela e si fidava di lei. O trovava plausibile che Amir non volesse dirgli la verità sui luoghi che frequentava. O, molto più probabilmente, era come sempre disinteressato di tutto ciò che non faceva parte della sua modesta fetta di mondo personale. Il signor Bennett si bastava. Poteva provare dei sentimenti di simpatia verso i suoi simili, ma la cosa si fermava lì.

Amir realizzò quella cosa per la prima volta, guardando il suo capo che girellava pieno di finto interesse tra i banconi del negozio di giocattoli. Il signor Bennett non avrebbe mai concepito qualcosa di folle come la promessa di Allen Waymore, per esempio. Non l'avrebbe trovata giusta. Perché lui non ragionava in termini di giusto e sbagliato, ma solo secondo il principio di ciò che gli riusciva più vantaggioso.

Amir si sentì invadere da una tristezza infinita, che non somigliava nemmeno un po' alla malinconia struggente e solenne provocata in lui dagli spettri e dalle loro storie. Quella era proprio tristezza autentica. Il signor Bennett doveva essere una persona molto insoddisfatta, in fondo. Questo semplice fatto lo rendeva triste.

Si accorse quanto lo preoccupasse il signor Bennett. Perché era un capo premuroso, perché lo aveva sempre aiutato e perché gli piaceva. Non era una bella sensazione, intuirne l'insoddisfazione, né vedere quell'atteggiamento di cordiale distanza dalla vita che a volte sfoggiava.

Qualche volta mi sembra più morto di uno spettro. Sicuramente molto più morto del dottor Allen e della sua promessa.

 

Un lampione si era guastato e la luna aveva perso un po' della sua rotondità. Il cimitero era sempre più buio, ma qualcuno (Annie?) aveva disposto delle candele, due torce elettriche e una lampada da salotto, attorno alla tomba del dottor Waymore. Amir scrutò la foto sulla lapide: non rendeva giustizia al bel viso carico di storie e memorie di Allen Waymore.

- Come va quel braccio, Amir?

- Sta bene.- Rispose lui, entusiasta. Mostrò la ferita quasi cicatrizzata e il dottore sorrise e annuì, compiaciuto.

- Che ti avevo detto? Su, Annie, offri da bere al nostro ospite. Sai, è mio costume festeggiare le guarigioni dei miei pazienti.

- Whiskey scozzese o irlandese?- Domandò la ragazza, tirando fuori due bottiglie dall'enorme valigia che aveva con sé.

- No, grazie.

- Oh.- Sospirò lei. - Che peccato. Ho anche del tè freddo al limone. Posso servirti del tè freddo al limone?

Amir non aveva la minima voglia di tè freddo al limone, però aveva una paura terribile di Annie, quindi accettò.

- Dimmi, Amir, come sta adesso Joel, il tuo capo?- Gli domandò il dottore.

- Bene.- Rispose il ragazzo, confuso. - Non ha nessun problema di salute, che io sappia.

- Forse ne ha molti che tu non sai.

Amir tacque, imbarazzato. Il fatto che fosse affezionato al signor Bennett non significava conoscerlo davvero.

- Forse.- Rispose, mesto. Annie si precipitò a riempirgli il bicchiere di nuovo, quasi il tè fosse stato un alcolico pronto a tirarlo su di morale.

- Sicuro che non abbia più quei tremendi mal di testa?

- Se li ha, non me ne ha mai parlato.

- E l'insonnia?

- Non lo so.

- Speriamo che questi problemi siano passati.- Sospirò il dottore. - Parliamo d'altro. Mio caro letterato, posso farti una richiesta?

- Certo. Di che si tratta?

- Scopri perché questo borgo si chiama Springmere. Vedi, io e Annie sappiamo bene che molto probabilmente spring è una sorgente e mere si rifà ad un lago che deve essersi seccato nel tempo. Ma amiamo pensare a spring come alla primavera, e intessere storie al riguardo.

- Abbiamo elaborato teorie differenti.- Spiegò Annie. - Secondo me potrebbe davvero trattarsi di un riferimento alla primavera, un ricordo dei riti di primavera che si tenevano qui.

- A me piace pensare che sia un richiamo alla Pasqua.- Disse il dottore. - La festa della resurrezione, in primavera. È un bel nome per un cimitero, no?

- Beltane e Maria Maddalena.- Commentò Annie. - Una delle due protegge questo posto.

- O tutte e due. Bene, un giorno il nostro letterato elaborerà una brillante teoria filologica su questa faccenda.- Concluse il medico. - Ma ora vai, Amir. Vorrei dirti che spero di rivederti, ma in realtà ti auguro di non avere più bisogno di noi.

 

Si era lasciato la chiesa alle spalle da non più di tre secondi, quando sentì il grido della ragazza. Non pensò neanche per sbaglio alla fuga o alla ricerca di qualche aiuto: corse di nuovo verso il cimitero, più in fretta possibile.

Allen Waymore era immobile davanti alla propria lapide e guardava con aria triste una persona che dava le spalle ad Amir. La persona – una donna robusta o un uomo magro, con i capelli biondi e lunghi, non stava facendo nulla per minacciare il medico, eppure Annie, dietro la lapide, gridava come se ci fosse stato qualche pericolo.

- Che succede?- Amir entrò in mezzo alla scena, riflettendo che forse sarebbe stato meglio osservare, prima di buttarsi così, tra le braccia del nemico (sempre che ci fosse un nemico.)

- Ti prego, vattene!- Gridò ancora Annie, continuando a guardare la figura misteriosa. - Lasciaci in pace. Non stiamo dando noia a nessuno.- Solo in quel momento sembrò accorgersi della presenza di Amir. - Tu puoi aiutarlo, vero?

Fu allora che la persona si voltò e guardò Amir in viso. Era un giovane uomo, con indosso un impermeabile bianco, e un libretto aperto tra le mani. Quando vide Amir gli fece un sorriso, come se si fossero conosciuti da una vita.

- Ciao, amico degli spettri. Ero proprio curioso di vederti in faccia. Non sei un granché, sai? Mi aspettavo qualcuno dall'aria più carismatica.

- Chi chi cavolo sei, tu?

- Uno che ti tiene d'occhio.

- Cosa? Ma io non ti conosco!

- Per fortuna. Sai che bel lavoro, se mi fossi fatto scoprire a seguirti.

- Per favore, spiegati decentemente!- Il tipo misterioso si era appena guadagnato una rarissima ondata d'odio a prima vista da parte di Amir.

- In questa città piena di spettri ci sono quelli come te, che chiacchierano con i fantasmi, e quelli come me, che fanno il loro lavoro e rispediscono gli spettri dove dovrebbero stare.- Spiegò l'uomo, sospirando, come se gli pesasse dover spiegare una cosa tanto semplice ad un bambino. - Non penserai di essere l'unico ad avere a che fare con il sovrannaturale in una città tra le più magiche del mondo, vero?

- Intendi dire che sei come me?- Domandò Amir, senza troppa convinzione. Non gli sembrava di avere proprio nulla in comune con quello là.

- No.- L'uomo scosse la testa e fece un sorriso da persona saggia che si abbassa al livello di uno stupido. - Abbiamo idee molto diverse riguardo al modo di trattare con gli spettri.

- Vuole esorcizzare Allen e purificare questo posto!- Gridò Annie.

- Ma...- Amir scosse la testa, squadrando il tipo odioso e guardandosi attorno, smarrito. - Perché? Il dottore non è uno spirito dannoso. Non c'è niente di impuro, qui.

- Un fantasma è impuro per definizione. È un'anomalia.

- Non è vero. Un fantasma è...

- Cosa?

Amir lo odiò ancora di più, però odiò un po' anche se stesso per essere rimasto senza una risposta.

Cos'è, un fantasma?

Perché era importante che lui lo sapesse. Da mesi ormai la sua vita sembrava devoluta in gran parte ai fantasmi. E forse era un problema, se neppure lui sapeva con cosa aveva a che fare.

- Un fantasma non è un'anomalia.- Cominciò, ancora incerto su quel che avrebbe detto. - È un essere umano. Una parte di anima. È vero, tutte le anime a volte sono impure, ma ciò che è rimasto sulla terra del dottor Waymore è quanto di più puro io riesca a concepire.

Ebbe l'impressione di veder brillare di lacrime gli occhi chiari del dottore. E qualcosa attraversò le fronde degli alberi che circondavano il cimitero, qualcosa di potente e delicato, quasi come se le sue parole gettate fuori senza pensare avessero scosso anche l'anima di quel posto, oltre che quella del dottore. Forse era solo brezza, ma ad Amir sembrò di aver colto la commozione della terra.

- Quindi secondo te dovremmo lasciare i fantasmi in giro per la città, liberi di insozzarla con i rimasugli di meschinità, miseria, angoscia, dolore e follia che si portano addosso?- Gli domandò l'altro, impassibile di fronte a ciò che era appena successo.

- No. Però c'è un modo per farli andare via. Un modo giusto.

- Non credo di capire.

- Il dottor Waymore ha rinunciato alla sua pace dopo la morte per continuare a seguire i pazienti a cui era affezionato. Io penso che preservare la sua promessa sia giusto. Penso che se ne andrà da solo, quando la promessa si sarà esaurita.

- Ammirevole punto di vista, che non terrò in considerazione, purtroppo.- Rispose l'altro, sorridendo di nuovo in quel modo fastidioso da adulto comprensivo.

Amir fece qualche passo avanti, intenzionato più che altro a capire come l'altro intendesse esorcizzare il medico, e l'uomo indicò qualcosa a terra. C'era un sottile cerchio, al centro del quale stava il medico. Sembrava il riflesso di qualcosa, eppure non c'era luce che proiettasse una simile immagine sul suolo erboso. Amir spostò gli occhi sul libro che l'uomo teneva in mano, e lui gli lasciò dare appena uno sguardo alla copertina.

- Parole antiche, Amir. Per ridare aria all'anima dei luoghi. E ti consiglio di spostarti da lì. Magari non ti ammazza, ma non fa certo bene, a qualcuno che è vivo, trovarsi nella traiettoria di un simile rituale.

- Scoprirò cosa mi succederà, allora.- Rispose lui, raggiungendo il dottore e mettendoglisi davanti.

- Perché?- Domandò l'uomo, calmo, ma con un principio di esasperazione che si affacciava negli occhi. - Perché la promessa di un vecchio esaltato già morto è così importante?

- Perché penso sia giusto.

- E che cos'è questo “giusto” così impellente, per te?

- Non lo so ancora, ma ho una vita per scoprirlo, no? Beh, sì, a meno che qualunque cosa tu stia per fare non mi uccida.

L'uomo imprecò sottovoce.

- Togliti da lì.- Sibilò, infuriato. - Non ho tempo da perdere.

Amir allargò le braccia e scosse la testa, come per dire che purtroppo non poteva acconsentire in alcun modo a quella richiesta. L'uomo raccolse il libretto e ritrovò la pagina, con gesti stizzosi.

- Vattene, ragazzo.- Mormorò il dottore. - Non ne vale la pena.

- Vuoi davvero rischiare per qualcosa che è già morto?- La voce dell'uomo gli arrivò come una freccia in mezzo al buio.

- Voglio rischiare per qualcosa che può portare altra vita. Il dottore è morto ma la sua promessa è per i vivi.

E la sfida fu ripetuta dalla voce di quel posto, una cantilena fatta di vento e di echi senza origine, smarriti tra le tombe, antichi come i tempi in cui quella piana non aveva ancora nome. Amir si rese conto che stava succedendo qualcosa, nel modo in cui percepiva l'anima dei posti o l'essenza degli spettrti: prima ancora di aver chiara la realtà, l'intuizione aveva già visto i contorni di tutto.

Il vento si levò con forza. Si levò su tutto il cimitero, portando con sé una scia di odori prepotenti: i fiori del risveglio della terra, le tracce di una primavera appena nata, insieme ai nettari dell'esplosione della vita di aprile, il profumo delle rose e di maggio, l'aroma di miele dell'estate in potenza. Un altro refolo di vento li avvolse di petali. Il cerchio di luce a terra scomparve. Dalla terra si levò la radice di un giovane albero, scuotendo il suolo stabile su cui l'aggressore del cimitero posava i piedi. L'esorcista perse l'equilibrio e il libretto gli sfuggì dalle mani.

- Cosa stai facendo?- Urlò, ma Amir non rispose: non avrebbe potuto. Non era lui ad agire, era quel posto.

- Non sei ben accetto su questo terreno.- Disse Amir, incredibilmente tranquillo. In realtà una parte di lui era in preda al terrore, ma l'altra si fidava, e lasciò che fosse quella, a parlare. - Non sarai mai ben accetto qui. Non tornare.

L'esorcista corrucciò il viso in un'espressione di furia.

- Non illudetevi che questa sia la fine!- Gridò, mentre scappava via a grandi balzi, con gli occhi fissi sul suolo che continuava a cercare di farlo cadere.

- Che ultime parole banali.- Amir lo guardò fuggire via sconfitto e si concesse un sorriso.

Il vento continuò a soffiare finché nel cuore agitato del cimitero tornarono il silenzio e novembre.

 

- Ragazzo, speravo che non avessi più bisogno dei miei consulti.

Allen Waymore gli fece uno dei suoi sorrisi affabili, mentre Annie era già pronta con il tè freddo in un bicchiere di plastica.

- Sto bene.- Rispose Amir. - Sono venuto a vedere come stavate voi.

- Se non te ne fossi accorto, sono passati tre giorni da quando siamo stati assaliti. In tre giorni la paura passa, sai?- Rispose l'uomo. - Ma mi fa piacere rivederti.

- Forse a lui non è ancora passata, la paura.- Azzardò Annie.

- Uhm. Forse. Hai in mente qualche rimedio, cara?

- Un paio, sì, ma non sono particolarmente adatti a essere esposti.

- Capisco. Amir, perdona il nostro amore per gli scherzi. Hai ancora paura?

- Sì! C'è un esorcista pazzo che vuole purificare questo posto, e siamo stati salvati da qualcosa del quale nessuno di noi conosce l'identità. Ho diritto di aver paura, credo!

Subì le risate dei due senza protestare. In fondo doveva essere molto comico.

- Intanto l'esorcista non si è ripresentato.- Disse lei. - Credo che lui abbia avuto più paura di tutti.

- Ma cos'era, quel... Quello che è successo?

- Non lo sappiamo.- Rispose lei. - Secondo te cos'era?

- Credo che avesse a che fare con questo posto. Il vento, gli odori, i petali... Era come se fosse primavera. E si è scatenato quando ho parlato della vita nata dalla morte. Lo so, è stupido, ma ci ho pensato, ed è stato come se le mie parole avessero chiamato qualcosa.

Amir li guardò entrambi: erano stupiti, ma sembravano averlo preso sul serio.

- Oh, lasciate perdere.- Sospirò, scuotendo la testa. - Non sono attendibile. Del resto, vedo i fantasmi.

I due scoppiarono a ridere. E anche Amir rise, chiedendo perdono alla primavera nascosta nel cuore del cimitero se per caso le fosse sembrato inopportuno, e ringraziandola per aver risposto a quel che nemmeno lui sapeva di aver chiesto.

 

- Che ne pensi di quel ragazzo, Annie?

- Che è veramente un bel figliolo. E che ci farei volentieri...

- Basta così, cara, grazie, penso di aver capito. Intendevo in senso leggermente più spirituale, a dire il vero.

- È un ragazzo in gamba. Un po' ingenuo, ma in campo sovrannaturale è molto brillante.

- Ah, Annie, quel ragazzo abbrevierà la mia vita di spettro.

- A me sembra che te l'abbia appena allungata.

- Cara, ricordami chi sono i miei sei pazienti della promessa.

- Sono cinque, adesso. Harry Carrington, Christine Grey, Ted Joyce e Marion Dench. Non ho mai saputo chi fosse il quinto, però. Non viene mai.

- È Joel Bennett, l'uomo per cui lavora Amir. Il più giovane dei miei pazienti. Trentasei anni compiuti a settembre, se non sbaglio. Lo conosco fin da quando era piccolo: un bambino con una testona enorme e una totale incapacità di stare in equilibrio. Cielo, credo che abbia camminato quasi a due anni!

- Non vorrai dire che sei destinato a stare qui finché Bennett non morirà?

- No. Me ne andrò quando Bennett guarirà.

- Da che cosa?

- Sai, anni fa curavo Joel per dei mal di testa terribili che lo colpivano piuttosto spesso e gli davo vitamine e ricostituenti in certi periodi in cui mi diceva di essere stanco. Ora, considerato che Joel è un riccone sfaticato che vive di rendita, è difficile credere a quest'ultima cosa. E pian piano sono arrivato a capire che non credevo neppure a tutte le altre. Poi c'era la sua insonnia. Gli ho prescritto visite su visite a centri specializzati, ma non credo ci sia mai andato. Tutti sintomi che, secondo me, indicavano che il problema era altrove. Non nel suo corpo. Ho provato gentilmente a suggerirgli che io non ero il tipo di medico che gli serviva davvero, ma non mi ha ascoltato.

- Vuoi dire che se questo signor Bennett non ammetterà di non accetterà di farsi aiutare per rimettere in ordine la sua vita, tu non potrai andartene?

- Già. Ma vedrai ci penserà il ragazzo.

- E come?

- È bravo con gli spettri. Forse è bravo anche con gli esseri umani che sembrano un po' spettri.

 

Nel buio della notte senza luna, nel cimitero di Springmere ci sono due figure – una nascosta nell'ombra, una leggermente iridescente. Parlano sommessamente, ridono, sono – ognuna a suo modo – vive.



***
Grazie di essere qui!
Questo capitolo è dedicato a Mia e Kinnara, che l'hanno involontariamente ispirato. Colgo l'occasione per segnalare una lunga lista di credits e spiegazioni su questa storia.)
Buona Pasqua.
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Capitolo 12
*** XII - La notte del Cacciatore di Storie ***


Capitolo XII

La notte del Cacciatore di Storie

 

They've slain the man but not his heartbeat,
His spirit soars on the wind
They claim the day, but the fire inside remains,
While it burns his return begins
The beloved, Once and Future King

(Gary Hughes, Once and Future King)

 

Londra, 1 dicembre 2008

 

- E così, e così, sull'altare c'è un nuovo agnello del sacrificio, eh?

- Nessuno ti ha dato il permesso di varcare la mia soglia.

L'uomo fece una piccola risata e si accese la sigaretta che dondolava tra le labbra.

- La porta era aperta.

- Non era un invito, comunque.

- C'è una lanterna, sotto l'insegna del tuo negozio, signora mia. Vuoi dirmi che lasci entrare spettri e relitti del tempo, qui dentro, e non c'è posto per me?

- Ha ancora un po' di dignità, il mio negozio.

L'uomo scoppiò a ridere, esagerando la reazione alle parole graffianti di lei. Poi andò ad appoggiarsi al bancone, scuotendo la cenere della sigaretta nel posacenere che lei gli fece scivolare davanti appena in tempo.

- Bene, dopo questa accoglienza così gelida, mia cara, non vuoi raccontarmi qualcosa sul tuo nuovo piccolo prodigio?

- Ti sbagli. Non è un'accoglienza, questa. È sopportazione, nonché attesa della tua partenza.

- Mai socializzare col nemico, eh?

- La prima cosa giusta che hai detto da quando sei entrato.

- Oh, Angela. La tua compagnia, per quanto fredda, è piacevole. Non se ne trovano di donne come te, nelle nostre fila.

- Allora perché non cambi schieramento?

Lui fece una cosa che doveva essere un'altra risata. Lei si sedette sul bancone, dandogli in parte le spalle, e prese a giocare con il nastro che teneva legati i suoi riccioli color miele in una treccia.

- Mia deliziosa ingannatrice, per quanto io sia incantato da questi scambi così arguti, non vorrei che i tuoi strali d'ironia fossero un modo per aggirare la mia domanda iniziale.

- Non ricordo che tu mi abbia chiesto qualcosa.

Si voltò appena, a dargli un rapido sguardo. L'uomo, un tipo robusto, sui quarant'anni, con indosso un impermeabile verde scuro e un cappello a tesa grigio, continuava a fumare, ma la sigaretta non pareva consumarsi. Eppure la portava senza dubbio alle labbra e aspirava, e a ogni tiro un fioco bagliore gettava un po' di luce sul viso dall'aria bonaria e sugli occhi grigi.

Lo conosceva di nome e di fama. Julien Green. Apparenza banale e pungiglione nascosto.

- Ti ho chiesto se è vero o no che avete una nuova anima candida da sacrificare alla causa.

- Non sono i termini in cui ne parlerei.

- Va bene. Allora cambiamo tono. Che ne pensi di questo ragazzo che gira intorno a cose ben più grandi di lui, lasciandosi invischiare in maniera meravigliosamente ingenua?

- Noi abbiamo i nostri combattenti, voi avete i vostri, la guerra va avanti negli stessi modi da secoli, e così deve essere.

- Certo. Quanto durerà, secondo te? Sai, mi sembra particolarmente deboluccio. Avete avuto dei buoni talenti, tutti sfioriti anzitempo. È un lavoro duro. Una faccenda oscura. La persona che si fa coinvolgere dalle ombre finisce sempre per dover sopportare un carico di dolore troppo grande. Le ombre non recano mai sollievo, solo nuove angosce. Mi chiedo quanto resisterà il vostro nuovo protetto. Voglio dire, pensa ad Arthur Headley: uno con la sua esperienza, non è riuscito a...

- Non parlare di Arthur Headley. Non provarti mai più a pronunciare il suo nome qui dentro, o potrei dimenticare per un istante da che parte sto! Lo sappiamo benissimo tutti e due, come mai Arthur e la sua famiglia sono morti tanto presto!

Adesso lo stava guardando dritto negli occhi, con tutta la passione del suo odio.

- Mia cara, le tue accuse velate sono spiacevoli, per me. Arthur, la sua bella moglie e il suo giovane figlio sono morti per cause non imputabili a noi.

- Smetti di parlarne.

- Perché sei così suscettibile al riguardo?

- Come ti sentiresti, tu, se qualcuno cominciasse a blaterare idiozie sulla morte di qualcuno che hai considerato amico e maestro? Oh, ma dimenticavo: tu non hai mai provato niente di simile per nessuno!

- Ci sottovaluti, sai? Anche noi abbiamo dei sentimenti. Non siamo bravi come voi a caderne vittima in maniera ridicola, te lo concedo, ma...

- Hai qualcosa di serio di cui parlarmi oppure sei venuto solo per infastidirmi?

- Hai aperto il tuo negozio a mezzanotte e io sono l'unico cliente. Dovresti essere felice della mia presenza.

Lei tacque, tornando a voltargli le spalle. Aprì un cassetto nel bancone e cominciò a frugare, principalmente per infastidirlo con il rumore e la curiosità di non vedere cosa lei stesse facendo.

- Ve lo siete scelto bene, però.- Finalmente l'uomo ricominciò a parlare, con una scintilla di derisione ben nascosta dietro la calma della voce.

- Non l'abbiamo scelto.

- Certo. È arrivato da voi per caso.

- Non ho parlato di caso. Ma non è qui perché siamo andati a cercarci l'animo più puro disponibile sul mercato. È capitato qui, è entrato in risonanza con il teatro e tutto il resto, ed è rimasto. Non credo sia un caso, no. Credo sia opera di qualcosa che voi, solitamente, non considerate.

- Le “altre forze in gioco” di cui vi piace tanto parlare, per citare un vecchio professore fuori di testa appassionato di lingue inesistenti.

- Un vecchio professore che ha fatto molto danno alla vostra schiera, come tutti quelli che seguono le voci dei luoghi e del tempo, e cercano di tradurle. Il ragazzo è una persona rara, e grazie a lui ci saranno conseguenze per noi e per voi.

- Per lui, soprattutto.

- Questo era scontato.

- Le conseguenze peggiori. Lo sai bene. Ma ti prego, raccontami come hanno fatto le Altre Forze in Gioco a mettervelo tra i piedi!

- L'ha conosciuto Joel Bennett.

- Joel Bennett? Oh no, no, no, non ci credo! Il germoglio fallito del povero Headley, l'uomo più ottuso di Londra ha saputo riconoscere una perla tanto preziosa?

- Joel non è ottuso. Ha solo bisogno di aprire gli occhi.

- Sei sempre di parte, se si parla dei tuoi amici.

- Che razza di amica sarei, se non fossi di parte quando devo difenderli da voi?

- Eppure devi ammettere che Joel Bennett non ha mai capito nulla di Arthur Headley. Non ha voluto capire, forse. È un uomo buono, ma è chiuso di mente.

- Non è così. Ancora un po', e si sarebbe lasciato cadere nel mondo di Arthur. Poi siete arrivati voi e l'avete ucciso giusto in tempo per impedirgli di spalancare gli occhi al suo allievo.

- Ah, di nuovo queste accuse...

- Eccomi, Angela. Questo verme ti sta infastidendo?

Sulla soglia di delineò la figura alta ed esile di un'altra donna, con un cappuccio dal quale scivolavano fuori ciocche scure e ondulate.

- Stavi origliando?- Le chiese l'uomo, senza voltarsi.

- Sì. Mi piace sentire la voce di Angela quando s'indigna.

Vivien si fece avanti, raggiungendola al di là del bancone.

- E tu che ne pensi, del vostro nuovo cavaliere?

- È potente. Vi darà dei problemi.

- Sì, va bene, ma... Per quanto tempo? Gli si spezzerà il cuore per tutto ciò che sarà costretto a vedere e sentire, o magari verrà divorato da qualche lupo.

- Non è da solo.- Rispose Angela. - Ci siamo noi. Non abbiamo la sua purezza, ma possiamo cacciare i lupi per proteggerlo.

- Non potrete esserci sempre.

- Nemmeno i vostri lupi.

Julien Green e Angela si fronteggiarono per qualche istante. Poi lui abbassò lo sguardo, lasciandosi andare a una risata quieta.

- Così sicuri di voi. Così stupidamente convinti delle vostre idee da andare incontro alla morte con il sorriso in faccia.

- Non tutti vanno incontro alla morte.- Vivien si liberò del cappuccio. - Mio padre, mia madre e mio fratello li avete presi. Ma io sono ancora viva. Forse è perché non sono una persona buona, e non ho nemmeno un po' di quell'innocenza che vi spaventa. Ed è un bene: posso permettermi di uccidere i lupi e guardare i nostri confini.

- Se siete convinte voi... Chi sono io, per cercare di smontare le vostre certezze?

Rise senza rumore, e un bagliore inumano fece risplendere di una luce febbrile gli occhi divenuti innaturalmente grandi. Poi tornò a essere un uomo banale con un impermeabile verde. Le salutò con un cenno del capo e uscì dal negozio.

- Ti chiedi se avremmo dovuto agire, vero?- Vivien ruppe il silenzio. - Ti chiedi se avremmo dovuto uccidere Green adesso che era solo e vulnerabile contro noi due.

- Ti sbagli, Vivien. Io sono convinta che se cominciassimo a usare i loro stessi metodi, ci metteremmo poco tempo a perdere noi stessi. Noi siamo quelli che difendono e preservano. Non uccidiamo i nemici quando vengono in negozio a disturbare.

- Un giorno però lui cercherà di fare del male al ragazzo.

- Se l'avessimo ucciso, sarebbe stato un altro della sua congrega, a cercare di fare del male al ragazzo. Il nostro compito è proteggere il ragazzo.

Vivien spostò lo sguardo altrove e Angela ebbe la conferma di qualcosa che sospettava da tanto. La domanda di Vivien non era una provocazione. Era ciò che pensava davvero. Aveva sperato, forse, di indurre Angela a confessare che anche lei la pensava allo stesso modo.

- Mi chiedo semmai se sia giusto, di volta in volta, affidare il ruolo più pericoloso a persone candide e innocenti.- Mormorò Angela.

- L'innocenza è potere, nel nostro mondo.

- Ma è anche vulnerabilità. E queste persone...

- Finiscono sempre per morire giovani, eh? Distrutte da loro, come la mia famiglia, o consumate da ciò che si trovano ad affrontare, come Esther Wilmore.

- Sì. Ogni volta che otteniamo una vittoria è sempre a prezzo del dolore di un innocente.

Vivien non le rispose per un po'. Poi finalmente si sforzò di farle un sorriso stanco.

- Funziona così da quando è iniziato il mondo, sai. Ognuno ha il suo ruolo. Se vogliamo combattere per mantenere gli equilibri della città, dobbiamo seguire questa regola. Ci sono quelli come noi, che vegliano. E gli sciocchi come loro, che vanno in prima linea. È un principio folle, ma devo accettarlo, perché solo se la penso così allora anche la loro morte ha avuto un senso...

Era forse la prima volta che Angela la sentiva parlare così della sua famiglia. Si conoscevano da una vita, avevano condiviso così tanti dolori, si erano odiate più di chiunque altro e si erano ritrovate. Eppure Vivien non le aveva mai detto una cosa del genere. A giudicare dall'ombra cupa che le era scesa sul viso, si era già pentita delle sue parole.

- Non è la prima volta che qualcuno entra in risonanza con il teatro, e quel che viene dopo lo sai anche tu.- Fu di nuovo Vivien a ricominciare a parlare. - Perdona il paragone ridicolo e sentimentale, ma ci vuole un cavaliere puro, per sedere sul nostro Seggio Periglioso e trovare il Graal. Gli altri possono dare una mano, ammazzare qualche nemico, ma l'ultima missione è per quelli abbastanza temerari e idioti da compierla.

- Lo so che hai ragione. Peccato che i nostri Galahad non ci arrivino mai, al Graal.

- Già. Ma sono sempre dei personaggi interessanti. Talentuosi e divertenti. Vero?

- Vero. E magari, prima o poi ce ne sarà uno che riuscirà a sopravvivere, a stabilizzare la guerra e ottenere un po' di anni di tregua.

- Prima che la Morte venga a reclamarci, magari.

 

*

 

Nevan abbandona il portico nella cui ombra si riposava ed entra nell'ombra turbolenta e viva della notte. Indossa gli abiti comuni della gente comune, perché non è opportuno che si faccia notare. E fuma: un vizio che ha preso dagli uomini, a forza di stare tra di loro. L'unica testimonianza della sua alterità sta nascosta sotto il cappuccio della felpa che porta. I suoi occhi dalle sfumature dorate, allungati e inquietanti. Se si mostrasse al mondo col suo vero aspetto, sarebbe un caleidoscopio vivente di colori e caratteristiche mostruose e meravigliose.

Lui è il Cacciatore di Storie. Vaga per la città, si accosta ai luoghi, agli edifici, alle cose, e ascolta i loro sussurri e le loro grida. Raccoglie immagini, ruba echi e frammenti di parole, si fa carico di risate e dolori. Le storie rimaste impigliate nelle cose, le storie di cui sono impregnati certi luoghi, lui le prende, con pazienza, e le conserva. Prima o poi c'è sempre qualcuno che ha bisogno di sentirle raccontare. E Londra ne ha sempre una marea, di storie. Parlano tutte le lingue e contengono una miriade di sfumature. Che gliele raccontino i luoghi antichi come il mondo oppure i palazzi appena nati che svettano prepotenti, Nevan ha sempre qualcosa da portare via.

Per un po' segue un uomo con l'impermeabile verde e il cappello grigio, appena uscito da un negozio di giocattoli che ha una piccola lanterna appesa accanto alla porta. L'uomo cammina in fretta, emanando un misto di superbia e terrore. Nevan sa già tutto di lui, e anche se preferirebbe vederlo uscire per sempre dalla storia, sa che lo rivedrà presto – lui e quelli come lui. In ogni città ci sono quelli che dedicano tutta la vita alla sistematica distruzione di ciò che è prezioso.

Nevan conosce la storia di questa guerra: da una parte, quelli come Angela, Vivien e il loro nuovo, giovane esorcista. Loro cercano di preservare l'equilibrio dei vivi e dei morti, e lo fanno con delicatezza encomiabile. La città respira, quando persone come loro appendono le loro lanterne. E poi ci sono quelli come Julien Green. Anche loro conoscono la città e la sua anima, ma pensano che tutto appartenga a loro, e si nutrono delle storie degli altri. Lo scontro tra le due fazioni porta sempre sofferenza e perdita.

Nevan attraversa Londra passando di ombra in ombra, dirigendosi verso uno dei luoghi che gli ha regalato alcune delle migliori storie che la sua sconfinata memoria contenga. Il Sunflower è un teatro tanto spoglio e impersonale dal di fuori quanto splendide e sontuose sono le sue storie. Il Drago Dormiente, la creatura selvaggia figlia della fantasia di una donna che, due secoli prima, aveva pensato quel posto come dono d'amore. Il teatro è un crocevia del tempo. Così come lo è ogni spettro. Un luogo in cui il passato è non è un ricordo, ma è parte viva del presente.

Il teatro è felice che quel ragazzo sia il suo nuovo custode. Anche il Cacciatore ne è felice.

Al centro della sala principale, eternamente illuminata da un chiarore del quale non si conosce la provenienza, vede il più giovane degli spettri del Sunflower. Edward, con il suo sorriso criptico sempre indosso. Un attimo dopo compare Emily, con il viso imbiancato dal trucco di scena e il costume macchiato di sangue.

- Bentrovato, Nevan.- Lo saluta Edward. - Che ci fai qui?

- Quello che faccio sempre.

- Ci sono storie nuove, nel teatro?- Chiede Emily.

- Molte. Ora che c'è un nuovo custode le storie si moltiplicano. Mi piace ascoltare il suono delle aspettative dei morti. Il canto sussurrato dell'altra anima della città.

- La città dei morti e degli spiriti è euforica.- Conferma Edward. - Come sempre, quando emerge qualcuno capace di parlare con noi e liberarci.

- E poi da sempre il custode del Sunflower è speciale.- Aggiunge Emily. - E questo è così carino! Voglio dire, è un ragazzo adorabile e ha imparato il mestiere in pochi mesi. Farà grandi cose.

Nevan, il Cacciatore, si avvicina ai due spettri, pensieroso. Ascolta le loro voci e insieme le voci delle poltroncine, dei palchi, del lampadario di cristalli. C'è qualcosa che lo turba.

- Edward, perché non vuoi dire al ragazzo chi sei?

- Non voglio essere una presenza ingombrante, per lui. Io sarei dovuto essere al suo posto. Se gli raccontassi quello che mi è successo, ho paura che potrei metterlo in imbarazzo, creargli disagio.

- Oh, com'è cortese, il mio esorcista fallito!- Esclama Emily, cingendo Edward in un abbraccio a cui il giovane si sottrae con gentilezza.

- Non sono un esorcista fallito, sono un esorcista morto. Comunque ha una vita intera per scoprire la mia storia e tutte le altre, no?

- Se il suo destino non è di finire come te.- Risponde Nevan. Non lo fa per crudeltà. Semplicemente, è uno che vede le cose con razionalità. Secoli e secoli di osservazione della realtà conducono a ragionare in un certo modo. Sa che Edward non se la prenderà. Anzi, capirà perfettamente.

- Non finirà come me.

- No. Non finirà così. Noi lo proteggeremo.- È una voce cupa e bassa, vibrante di sentimenti contrastanti. Una voce che introduce bellissima figura di Stella, l'anima del teatro, alta e pallida, nel suo splendore androgino, scalza e vestita di un kimono rosso. L'inquietante creatura dagli occhi verde drago arriva dal nulla e sorride. Nevan china la testa in segno di rispetto.

- Lo proteggerai tu, Stella?

- Fosse l'ultima impresa del Sunflower prima di finire in polvere, lo proteggerò.

Nevan è felice che quell'essere superbo e temibile mostri quel moto di compassione testarda, di bizzarro attaccamento al ragazzo.

La visita è finita. Nevan ha saputo quel che c'era da sapere, perché il suo annuario di storie sia sempre aggiornato. Saluta gli spiriti e il teatro e se ne va, chiedendosi la stessa cosa che si chiede ogni volta che lascia quel luogo. Perché ci sono epoche in cui il Sunflower è benevolo e gentile, e altre in cui emerge la sua anima più terribile? Con tutto quel che il teatro gli ha raccontato, dovrebbe ormai essere in grado di capirlo. Eppure la risposta gli sfugge.

Forse non è lui, la persona destinata a risolvere quell'enigma.

Passa sotto la casa di uno di quelli che ha rinunciato. Sarebbe potuto essere come Amir e Arthur Headley, ma ha detto di no. L'uomo non vuole il legame che avrebbe potuto avere con l'altra anima della città. Non vuole saperne degli spiriti, dei morti e di tutto il resto.

Di una cosa Nevan è sicuro. Quell'uomo vivrà una vita tranquilla, e sarà infelice.

Il ragazzo invece soffrirà.

Però...

Springmere sussurra, eppure ogni sua parola si imprime nell'anima di Nevan come una ferita. Le storie di quel posto sono solenni, terribili e consolanti come una divinità. Nevan attraversa il cimitero e raggiunge la tomba su cui siede Allen Waymore, rilassato, con lo sguardo perso oltre i confini di questo mondo. Si scambiano un sorriso e si sono già detti molto.

- Come ti sembra?- Domanda Allen.

- Bellissimo.

Allen annuisce. Sa esattamente cosa intenda Nevan, perché ormai capisce il suo linguaggio. E nell'idioma di Nevan, quel ragazzo sradicato dalla sua terra, ingenuo e coraggioso, anima potenzialmente aperta alle virtù e alla distruzione, è bellissimo – come può esserlo un personaggio, un espediente narrativo, un capitolo, un paragone azzeccato, un ornamento del linguaggio. Perché Nevan è il Cacciatore di Storie e Amir è l'intuizione che dà una svolta alla trama, l'escamotage che rimette in moto l'azione, il deus-ex-machina che spalanca nuove meravigliose possibilità nel finale.

- Tutte le grandi città sono oppresse dalle ombre.- Mormora Allen, distogliendo lo sguardo. - Ce ne sono sempre di più, e sempre meno persone disposte ad aiutarle. Ma uno come lui può fare il lavoro di cento.

- Hai molta fiducia in lui.

- Ho voglia di avere fiducia.

Con questo desiderio Nevan chiude il libro della sua memoria e torna a dormire nel buio informe, in attesa delle prossime parole che ridaranno inizio al suo eterno registrare, eterno raccontare.

 

***
Grazie di essere qui! Grazie a chi passa, chi si ferma, chi segue, chi ascolta.
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Capitolo 13
*** XIII - Tutti i regali della città ***


Capitolo XIII

Tutti i regali della città

 

I want your warm, bright eyes

To never look away

(Vienna Teng, Never look away)

 

Londra, 7 dicembre 2008

 

- Hai notato che ho drasticamente ridotto il consumo di alcol e ho anche finito di studiare per l'esame della professoressa Blackpool con due giorni di anticipo?

- No, in realtà non l'avevo notato.

- È un modo per dirmi che non ti interessano i miei sforzi per diventare un essere umano migliore?

- No, scusami: era un modo per dirti che non l'avevo notato davvero, non c'era ironia... Dai, Aidan, non mi guardare in quel modo e non ridere. Lo sai che ogni tanto mi perdo nelle cose che dici.

Aidan continuò a ridere, naturalmente, ma Amir decise di ignorarlo. Era un bel pomeriggio, Aidan e gli altri avevano scelto finalmente un locale decente ed era il suo compleanno.

- Eccoli.- Aidan indicò due figure che si facevano largo tra i clienti. - Ritardatari del cavolo.

- Detto da te, dopo avermi lasciato al freddo ad aspettare per venti minuti...

- Era per farti desiderare più ardentemente la mia illustre compagnia. Ehi, ciao gente!

Daniel, intento a districarsi con cortesia tra tavolini e clienti, mormorando “mi scusi” e “permesso” innumerevoli volte, ci mise una vita a raggiungere il tavolo. La ragazza invece, armata con uno zaino enorme e involta in una spessa sciarpa di lana a strisce colorate, si fece largo senza tanti complimenti e rovesciò sul tavolo una busta di carta azzurra e verde.

- Ci siamo. Scusate il ritardo. Buon compleanno, Amir!

- Ciao Virginia. Grazie.

Amir si alzò e le offrì la propria sedia. Lei lo mandò a quel paese, gli gettò in braccio cappotto, sciarpa e zaino e andò a prendersi da sola una sedia, finendo poi per rubare uno degli sgabelli alti che stavano vicino al bancone e salendoci con una grazia incredibile. Amir notò che aveva scorciato i capelli e ora sfoggiava un caschetto nerissimo e una frangia con alcune ciocche blu. Indossava una felpona nera, su cui spiccava uno smile giallo con una specie di macchia rossa piuttosto inquietante, una gonna lunga fino al ginocchio e calze a righe verticali.

- Sei minacciosa, da lassù!- Protestò Aidan.

- Sono sempre minacciosa.- Replicò lei. - Quello stronzo là dietro mi ha detto che lo sgabello non regge il mio peso. Ma chi lo conosce? Ma la gente che si fa i cazzi propri non esiste più da nessuna parte? Che palle. Oh, cazzo, dimenticavo che siamo in compagnia dei lord. Scusate, ragazzi. Cazzo, Aidan: ma dovevamo proprio trovarci questi due tizi rifiniti che parlano bene, come amici?

Daniel si sistemò gli occhiali sul naso e rimise in ordine il ciuffo biondo. Poi alzò gli occhi e sorrise, come se solo dopo tutte quelle piccole operazioni fosse stato pronto ad affrontare il mondo.

- Mi sto abituando al tuo turpiloquio, ormai, Virginia.

- Allora, genio, hai parlato con il professor Weiss?- Chiese lei, compiendo il gesto quasi sacrilego di scompigliare i capelli appena riordinati dell'altro.

- Sì. Credo che la mia idea per l'articolo gli piaccia.

- Gli hai chiesto il numero di telefono?

- Cosa? No!- Daniel avvampò. - Come ti viene in mente?

- Comunque non avresti avuto speranze: l'ho visto scambiarsi effusioni in biblioteca con Helena Sand, la professoressa di Letterature Comparate che continua a regalare voti esagerati ad Amir.- Disse Aidan.

- Veramente mi sembra di meritarmeli un pochino, quei voti...

- D'accordo, chiuso l'argomento università. E dire che l'ho cominciato io. Che idiota.- Li interruppe Virginia. - Voglio un pezzo di torta. Vai, rosso, vai a ordinare torta per tutti. E anche una cioccolata calda per me, grazie. Poi Amir dovrà aprire i regali.

- Ma perché devo andarci io?- Protestò Aidan. Però si alzò subito. Amir aveva notato che l'enorme pigrizia di Aidan e la sua proverbiale lentezza subivano sempre bruschi cambiamenti di tendenza, quando si trattava di obbedire alle richieste di Virginia.

Arrivarono torta e cioccolato, e Daniel tirò un esercito di candeline colorate, di tutti i tipi, per la maggior parte usate o consumate fino a metà.

- Non ho trovato di meglio. Comunque sono ventiquattro.

Virginia prese i quattro piattini e riunì i quattro spicchi di torta su uno solo. Poi divise pazientemente le candeline, infilandone sei per ogni fetta. Infine fece un sorriso trionfante ad Aidan, gettando il suo accendino a Daniel, perché compisse il rito e accendesse le candele.

- Si vede che studi informatica.- Commentò Aidan, con un certo sprezzo. - Roba da menti scientifiche.

- Parla il genio della letteratura, che però non sa leggere l'orologio e fa i conti con le dita.

- Ehi, non è vero che non so leggere l'orologio!

- Allora che ora sono? No, non vale guardare il tuo! Guarda quello di Amir.

- Ehm... Continuate a offendervi a vicenda o soffio?

Silenzio. Virginia lo guardò con entusiasmo e gli fece cenno di sì. E lui soffiò, spegnendo metà delle candele e lasciando in vita l'altra metà. Ritentò: riempì di zucchero a velo gli altri tre. Infine ebbe la meglio sulle fiammelle, tra le risate degli altri.

- Hai espresso un desiderio?- Chiese Viriginia.

- Non ci ho pensato.

E invece ci aveva pensato eccome, ma un po' si vergognava a rivelarlo agli altri. Era stato un desiderio molto vago che riguardava quei tre e la loro presenza nella sua vita. Era incredibile quanto poco ci fosse voluto per sentirsi a suo agio con persone che vivevano e pensavano in modi spesso tanto diverso dal suo, dalla sua cultura e dalla sua storia. Loro tre avevano molte caratteristiche che non si sarebbe mai aspettato di arrivare a conoscere e apprezzare. C'era voluto un po'. Ma loro erano accoglienti, e lui imparava in fretta.

Mangiarono le loro fette di torta e poi Amir aprì i tre regali, di dimensioni differenti ma tutti della stessa piacevole forma rettangolare. I ragazzi avevano ben chiaro l'amore di Amir per i libri.

- Te li ha fatti gli auguri, mio zio, o se n'è scordato?- Chiese Virginia. Amir quasi aveva dimenticato la straordinaria parentela che legava la ragazza al signor Bennett. Erano davvero le persone più diverse che si potessero immaginare. Eppure erano zio e nipote, e Amir aveva conosciuto Virginia un giorno in cui la ragazza era piombata a casa dello zio, in cerca di un libro di matematica, proprio mentre lui e i suoi due compagni di facoltà stavano svolgendo un lavoro per il corso di Storia Inglese. Da quel pomeriggio casuale era nato un gruppetto che si frequentava abitualmente.

- Veramente se n'è scordato.- Disse Amir. - Però la signorina Angela mi ha telefonato per farmeli, e mi ha promesso che avrebbe richiamato il signor Bennett per la sua dimenticanza.

- Non preoccuparti, zio Joel lo fa anche con la famiglia.- Rise Virginia.

- E i fantasmi del Sunflower te li hanno fatti gli auguri?- Chiese Aidan.

- Non ancora. Vi farò sapere che festa mi hanno preparato.

- Pensate se Amir all'improvviso cominciasse a vedere i fantasmi.- Gli occhi di Aidan si accesero della luce esaltata di quando stava per sparare un'idiozia notevole. - Sarebbe il tipico personaggio dei telefilm a contatto con il sovrannaturale, quello che non viene capito da nessuno. Quello che sa, ma non può dire la verità, e se la dice ottiene solo di farsi rinchiudere.

- In genere quello che vede i fantasmi prima o poi coinvolge i suoi fedeli amici.- Disse Virginia. - Amir, quando ci fai conoscere questi presunti spettri?

Non lo so. Mi piacerebbe, davvero. Lo troverei molto normale. Voi siete miei amici, loro sono miei amici. Mia mamma dice sempre che se hai due amici che non si conoscono tra sé, devi presentarli per forza, e allungare la catena di persone che si incontrano.

- Chissà.- Rispose, incapace di trovare una battuta per cambiare discorso. Ci pensò Aidan, a cambiare discorso, con la sua incredibile incapacità di rimanere concentrato su qualsiasi cosa per più di venti secondi. Amir si unì alla nuova conversazione con entusiasmo, avvertendo ogni tanto il desiderio che la serata andasse avanti per un millennio.

 

Rientrare in casa e trovarsi di fronte il viso sorridente di Angela era rassicurante e inquietante al tempo stesso. Angela aveva in sé l'essenza di ciò che era rassicurante. Lei consigliava quando ce n'era bisogno. Lei spiegava le cose (non del tutto, ma di sicuro più di tutti gli altri che continuavano a riempire la vita e la testa di Amir con mezze parole e strani presagi.) Lei, soprattutto, aveva quel modo di fare materno che ti faceva sentire al centro di un'attenzione sincera.

Certo, il fatto che se la ritrovassero in casa senza che la donna facesse il minimo rumore, con il suo sorriso di chi è perfettamente a proprio agio, ecco, quello era anche un po' inquietante.

- Buon compleanno di nuovo, Amir, e bentornato. Sono venuta per porre rimedio alla scortesia abissale di Joel.

- Oh, grazie, signorina Angela.

- Ecco, cominciamo subito con il primo dei miei regali di compleanno. Smetti di trattarmi con formalità e chiamami soltanto Angela. Ne sarò immensamente felice.

- Grazie. Va bene. Ci posso provare.- Balbettò lui, un po' a disagio. Realizzò quanto fosse semplice e confortante poter mantenere quel briciolo di distanza con le persone attorno a sé. Lo metteva sempre in una condizione di difesa. La formalità era un piccolo scudo che però lo faceva sentire tanto protetto. Ma non se la sentiva certo di dire no ad Angela.

- Spero proprio tu ci riesca. Allora, hai passato un bel pomeriggio con i tuoi amici?

E chi mai le aveva detto dov'era stato, quel pomeriggio?

- Sì. Molto divertente.

- E hai sentito i tuoi familiari?

- Mia madre mi ha svegliato stamattina alle cinque. Non ha ancora imparato a fare i calcoli del fuso orario. In Pakistan erano le dieci del mattino. E alla fine ho dovuto parlare con tutte le mie sorelle, il marito della maggiore e tre vicini di casa. Non sono più tornato a dormire.

Angela rise con cortesia, poi gli posò un braccio sulle spalle e lo condusse via dall'atrio.

- Vieni. Joel è di là che prepara la cena.

In cucina c'era tanto fumo da rivaleggiare con una mattina londinese particolarmente nebbiosa, e in mezzo alle nuvole bianche galleggianti si intravedeva la figura del signor Bennett, con la sua armatura composta da un grembiule e un guanto di stoffa, e un invincibile cucchiaio stretto in mano. Quando li sentì arrivare si voltò per un istante, sorrise e tornò a combattere contro qualsiasi cosa fosse quella che saltellava e sfrigolava nella padella davanti a lui.

- C'è da fidarsi, signor Bennett?- Domandò Amir.

- Perché non abbandoni le formalità anche con lui?- Suggerì Angela.

- Non credo di riuscirci.- Ammise, chiedendosi come mai avesse tanto bisogno di mantenere le distanze con una persona che era stata solo buona e accogliente con lui.

- Ci riproveremo al tuo prossimo compleanno.- Rispose lei, ridendo. - Vieni, andiamo in salotto, al nostro tavolo. Lasciamo che Joel si tiri fuori da solo dal guaio in cui si è cacciato.

- Siete orribili, sapete?- Gridò una voce divertita dalla landa desolata e indistinguibile dentro il fumo. - Vi stupirò.

- Lo hai già fatto, Joel. Siamo sconcertati da come hai ridotto la tua casa.

- Si ricordi chi pulisce, signor Bennett.

- Amir, stai continuando a dire cose alquanto sgradevoli!- Protestò il signor Bennett. Di lui era visibile solo il cucchiaio.

- Tanto lei non si arrabbia mai.

- Le cose cambieranno.

- Nella prossima vita, forse.

Amir si accorse che Angela se la stava ridendo quietamente, di fronte a quello scambio, e rifletté che forse stava sbagliando atteggiamento, forse un bravo dipendente non si spinge al punto di fare battute simili al proprio datore di lavoro, forse...

- Amir, ti prego, metti via quella faccia imbarazzata.- Disse lei. - Non sei disdicevole, sei solo divertente.

Meglio non chiedersi come avesse fatto a capire.

Finalmente il signor Bennett emerse dal fumo con una teglia di qualcosa che sembrava alquanto commestibile. Raggiunsero il tavolo in salotto, agghindato a festa. E apparecchiato con quattro posti.

- Chi altri è invitato?- Domandò Amir.

- Oh, noi lo apparecchiamo sempre per sicurezza.- Rispose Angela. - Non si può mai sapere.

Perfettamente in tono con tutte le risposte che la gente gli dava di solito. Amir sospirò e si sedette. Il signor Bennett insisté per servire tutta la cena, dicendo che era il suo modo di fare ammenda per essersi dimenticato di augurargli buon compleanno quella mattina.

Durante la cena Amir si stupì di quanto potesse divertirsi a discutere con loro, senza riuscire però a perdere la fastidiosa sensazione di essere fuori posto. Si lasciava prendere dall'impeto della conversazione, finché non si ricordava che era solo un ragazzo straniero, nella casa di chi gli dava lavoro, insieme a persone più grandi, più sagge e più rispettabili di lui. Allora tornava precipitosamente indietro, a riparare dietro il suo silenzio. E gli altri due dovevano pazientemente andarlo a ricercare, per trascinarlo di nuovo nel discorso.

Erano arrivati al dolce, quando l'ultimo commensale si palesò sulla soglia del salotto. Bella ed eccentrica come sempre, Vivien indossava un abito che sembrava uscito dagli anni Venti, verde chiaro, decorato con piccoli fiori bianchi e rosa, e portava i capelli raccolti in una crocchia da cui sfuggivano alcuni riccioli, che scivolavano dolcemente lungo le spalle. Senza presentarsi o scusarsi in alcun modo, se non con il suo mezzo sorriso un po' affascinante, un po' prepotente, la donna occupò l'ultimo posto e si servì il dolce da sola. Ne mangiò un pezzo e poi sollevò gli occhi verso Amir.

- A proposito. Buon compleanno.

- Grazie, signorina Vivien.

- Vedi che il posto in più è servito?- Disse Angela, senza guardare l'altra negli occhi.

- Vivien ama gli ingressi a sorpresa.- Commentò il signor Bennett, con un leggero imbarazzo.

L'equilibrio della mensa si ristabilì, in qualche modo, e la conversazione riprese. Vivien la farciva di osservazioni ironiche e mezze allusioni che Amir non capiva in alcun modo. E via via che la serata scivolava nella notte, il ragazzo fu certo di una cosa. Non c'era un insieme di persone, attorno a quel tavolo. Non c'era la confidenza della famiglia. E non c'era neppure niente di ciò che aveva sperimentato quel pomeriggio con Aidan, Virginia e Daniel. Non erano un insieme, erano tre solitudini. Quattro, se ci si aggiungeva anche lui.

Avrebbe voluto che fossero qualcos'altro. Una famiglia, forse. Avrebbe voluto poter dire di aver trovato una specie di famiglia, a Londra, ma i mondi attorno a quel tavolo si incontravano solo per poco. C'era troppo passato che pesava sui rapporti tra quelle persone, ne era sicuro. Gli sarebbe piaciuto essere più brillante e decifrare frecciate e allusioni. Angela e Vivien si scambiavano offese velate che lui non avrebbe mai riservato a un amico (soprattutto Vivien.) A un certo punto vennero citati Abigail Corrigan e Clyde Wendell, l'agente teatrale e il regista amici degli amici di Bennett, e Vivien gli domandò se avesse una relazione con uno di loro o con entrambi. Lui le chiese se fosse gelosa. Lei ribatté con qualche parola sprezzante. Scese un silenzio profondamente imbarazzato e disagevole.

Queste persone passano moltissimo tempo insieme, e preferiscono sprecarlo rivangando il passato e sottolineandosi i difetti a vicenda. Non credo che lo capirò mai.

Poi la conversazione si spostò sul Sunflower, sugli ultimi spettacoli e su alcuni aneddoti curiosi. E tutti scordarono il loro passato e sembrarono davvero interessati solo a uno scambio di opinioni sull'argomento. Furono pochi minuti di intesa soltanto, ma furono un bel regalo di compleanno. Amir decise di tenersi quel momento come unico ricordo della cena

Dopo cena si scusò con tutti e annunciò che sarebbe uscito.

- Credevo tu avessi visto i tuoi amici oggi pomeriggio.- Notò il signor Bennett.

- Joel, non sei suo padre.- Ribatté Angela. - Avrà diritto alla sua privacy. Hai mai pensato di prendere la patente, Amir? Potresti aver bisogno di una tua auto, prima o poi. Soprattutto se continuerai a lavorare al Sunflower. Wandsworth non è dietro l'angolo.

- Stai andando al Sunflower?- Ecco, adesso l'aria sempre disinteressata all'universo del signor Bennett pareva lievemente scalfita.

- No. No, assolutamente no.

- Non intendevo questo.- Angela sorrise e si alzò da tavola. - Dicevo così, per dire. Ora vai, Amir. Vai a fare quel che vuoi, in pace, senza sorbirti altre domande impertinenti.

 

- Si può sapere come mai avete preteso che venissi qui, stasera?- Chiese Amir, non appena ebbe messo piede nel teatro. Gli comparve davanti Emily, bella come sempre, con i suoi capelli scarmigliati e il vestito macchiato di sangue, e lo guardò storto.

- Non si usa passare il proprio compleanno con gli amici?

- Oh.

- Oh che cosa, ragazzo?

- Mi aspettavo qualche faccenda meno normale.

- Sei incredibilmente lagnoso, a volte. Dai, vai a sederti in platea. Ti abbiamo preparato un regalo.

Sedette in prima fila. Il buio era quasi completo, tranne che per quella luce rompicapo che arrivava chissà da dove, dal retropalco.

Lo spettacolo cominciò: un minestrone di frammenti di opere teatrali, canzoni e improvvisazioni. Sarebbe stato abbastanza terribile, se non fosse stato un omaggio per lui. Quindi si sforzò di ascoltare e apprezzare. Emily tentò un'interpretazione di Ofelia, recitando in maniera sforzata, innaturale. La voce arrivava alle stelle e si spegneva in un fastidioso lamento miagolante un attimo dopo. La gestualità era esagerata e frenetica. Forse era così che si recitava, se facevi spettacoli nello stile del Grand Guignol, pensò lui.

Quando Emily uscì, sul palco salirono Eric e Thomas, il logorroico e il taciturno, che gli annunciarono la loro incapacità di recitare.

- Per questo ti regaleremo qualcosa che sappiamo fare.- Disse Eric, mentre Thomas si limitava a muovere la testa.

Gli spiegarono una complicatissima teoria scientifica della quale Amir capì meno di nulla. Se ne andarono con un inchino, lasciando il posto a Hilda, la ragazza con la veste mezza bruciata, che si sedette sul bordo del palco e prese a raccontare una storia di morte e desolazione, una specie di giallo con molti omicidi e molti oscuri segreti. Finì con un incendio in cui morivano quasi tutti i personaggi, ma almeno i cattivi venivano puniti e fermati, mentre i buoni – beh, almeno i due che erano sopravvissuti – vivevano abbastanza felicemente.

Quando Hilda uscì, qualcuno dal retropalco abbozzò il ritornello di una canzone in una lingua che poteva essere francese. Era un vocione maschile, intonato ma appena percettibile. Che fosse l'Uomo Nero, lo spettro che non rivelava mai la sua identità, nemmeno ai suoi simili? Sarebbe stata la prima volta che comunicava direttamente con Amir.

Lo spettacolo finì con Stella, ovviamente. Comparve sul palco, più maschile del solito, con i riccioli neri sciolti lungo le spalle e indosso un completo nero che metteva in risalto le linee eleganti e fini del suo corpo.

- Hanno organizzato tutto loro.- Disse, con un sorriso un po' sprezzante. - Li ho lasciati fare. Sei il tipo che apprezza questo genere di cose. Raffazzonate e sconnesse, ma così piene di buoni sentimenti. Buon compleanno, allora.

Cominciò a cantare con la sua voce cupa, vibrante, e incantevole. Amir riconobbe il pezzo: era un brano del Fantasma dell'Opera, la canzone con cui il Fantasma parla a Christine del suo mondo notturno e della sua musica meravigliosa, destinata a chi abbandona la luce del giorno per rifugiarsi nelle tenebre.

Ho capito il messaggio, pensò, e in quel momento Stella gli sorrise.

- Non ci deludere anche tu.- Disse Stella, quando ebbe finito di cantare. Poi il palco rimase vuoto.

Solo in quel momento Amir si accorse che c'era Edward seduto accanto a lui.

- Piaciuto lo show?- Gli chiese. - Scusami se non ti offro nulla, ma sono negato per l'arte.

- È stato originale, come regalo.

- Indubbiamente.

- Senti, fammi capire una cosa. Quando ti ho conosciuto, mi hai raccontato la storia del teatro. Mi hai detto che ci sono morte o scomparse diverse persone. Una giovane donna che tentò di bruciarlo, degli studenti scomparsi, un'attrice del Grand Guignol. Sono loro, vero? Hilda è quella che ha tentato di incendiarlo, ed Emily è morta in scena. E gli altri tre... A giudicare dalle chiacchiere scientifiche che mi hanno regalato, Eric e Thomas sono studenti. Non ho ancora capito chi sia l'Uomo Nero. Il terzo studente, l'unico che fu ritrovato dopo l'esplosione? Ma allora perché non si palesa? Non lo so, dovrò indagare.

Edward fece un sorriso compiaciuto.

- Bravo.

- Non mi hai parlato di te.

- Tanto prima o poi lo scoprirai da solo. Dì un po', che ti hanno regalato Bennett e gli altri?

- Il signor Bennett mi ha comprato tre libri. Angela mi ha regalato una cravatta verde e una miniatura di un cavaliere della Tavola Rotonda.

- La miniatura proviene dal suo negozio, immagino.

- Ma quindi tu li conoscevi?

- Sì. Andiamo avanti. Vivien?

- La signorina Vivien mi ha regalato un cilindro. Dice che dovrei vestirmi in maniera più eccentrica.

Edward scoppiò a ridere e scosse la testa.

- Abbastanza tipico di lei. Indossalo, se vuoi, ma rifiuta quando ti chiederà di accompagnarla a qualche festa. Sto parlando sul serio. Non ha ancora cominciato a chiamarti in modi strani?

- No. In realtà mi chiama solo “ragazzo”. Eppure non credo di essere tanto più giovane di lei.

- Vivien ha trentasei anni. Se li porta molto bene, e però. Sappi che sta solo cercando il soprannome migliore per te.

- Ho notato che chiama il signor Bennett “Ben”. Mi ha spiegato che è perché suo padre chiamava “Benedict” il signor Bennett. E questo è perché gli ricordava un suo figlio, morto molto giovane.

Edward scosse la testa, con un sorriso strano che Amir non riuscì a decifrare.

- La verità è che Arthur Headley non chiamava mai nessuno con il suo vero nome e Vivien ha solo ricevuto in eredità questa pessima abitudine. Strana famiglia.

- Sarà per questo che mi stanno particolarmente simpatici. Sai, penso che sia destino che io mi trovi in mezzo a cose e persone strane.

- Sono anche le più divertenti, di solito.- Rispose Edward, distendendo il viso in un sorriso meno enigmatico e più dolce. - E tu ci stai benissimo, qui in mezzo. Sei sufficientemente strano per essere dei nostri, e abbastanza normale da far sentire un po' più normali anche noi.

- Mi fa piacere.

Edward posò una mano sulla spalla dell'altro e strinse appena.

- Sai... Credevo che i fantasmi fossero incorporei.- Notò Amir.

- Anch'io. La prima volta che un fantasma mi ha abbracciato, ho capito che erano un po' più complessi di quel che si crede.

- Sì, ecco. Il fatto è che... Ehi. Edward. Un fantasma ti ha abbracciato? Quindi quando dicevi che tu saresti dovuto essere me, intendevi dire che eri un esorcista?

Ma era solo, nell'immenso teatro in penombra.

- Non capirò mai.- Brontolò il ragazzo, cercando a tentoni una via d'uscita dalla platea. - E secondo me, vi divertite, tutti quanti, a non dirmi chiaramente le cose come stanno. Avete capito? Vi divertite.

Riuscì a raggiungere l'uscita e il corridoio. Prima di andarsene, però, si affacciò di nuovo sulla platea.

- Però grazie. Grazie del regalo. Di tutto. Davvero. Grazie.

 

- Strano edificio, quello, non è vero?

- Mi scusi?

L'uomo lo raggiunse con un paio di lunghe falcate. Sorrise, o così sembrò, da sotto il cappello a tesa. Fumava una sigaretta che non sembrava risentire della pioggerellina che non smetteva di cadere fin da quella mattina.

- Quello là. Guarda bene.

L'ombra del cappello impediva di distinguere bene i lineamenti dello sconosciuto. Però Amir lo riconobbe lo stesso. Il cappello, l'impermeabile, la sigaretta, i modi fin troppo gentili...

- Lei era fuori dal teatro la notte del Fantasma dell'Opera.

- Lieto che tu mi abbia riconosciuto.

- Cosa vuole da me?

- Volevo farti vedere quella casa. Magari vuoi farci un giro. Sai, è normale che quelli come te avvertano come una missione il fatto di liberare le ombre della città.

- Sì, ma...

- Non ha bisogno dei consigli di nessuno, per svolgere il suo compito.

Amir si voltò, per identificare la fonte di quelle parole. Si trovò davanti una figura, anche questa conosciuta: Nevan. Aveva sempre lo stesso aspetto comune: jeans e felpa, capelli lunghi e, in quel momento, anche un ombrello.

- Non si rifiuta mai un consiglio.- Rispose l'uomo con la sigaretta.

- Si può decidere se accettarlo o no.- Ribatté l'altro.

- E io non ho voglia di accettare consigli, stasera.- Concluse Amir. - Ora posso tornare a casa?

- Come vuoi.- L'uomo con la sigaretta si tolse il cappello, però fece una specie di inchino, come cenno di saluto, e riuscì a nascondere comunque il proprio viso. Poi si allontanò nella pioggia e dopo qualche istante non fu più visibile.

- Chi è?- Domandò Amir.

- Ti stai fidando di me, allora.

- È che tra i due mi sembri quello meno sospetto, Nevan. E piaci agli spettri e al Sunflower.

- Mi sembra una scelta intelligente. Ti accompagno a casa, Amir? Non hai un ombrello.

- Preferirei di no. Ho la giacca e un cappuccio, e casa è qui vicina.

- Come vuoi. Comunque quell'uomo è un luogotenente del Ragno.

- Non che adesso ne sappia più di prima... Cos'è il Ragno?

- Tutti vorremmo saperlo. È un gruppo antico quanto il mondo. Raccoglie persone come te. Loro però non vogliono aiutare le ombre e ristabilire gli equilibri, come fai tu, ma sfruttano il potere delle ombre e delle creature sovrannaturali.

- Lo sfruttano per cosa?

- Molteplici scopi. Nessuno dei quali ti piacerebbe.

- E perché quel tipo era interessato a me?

- Vedi, la gente come te, Angela, Vivien è un fastidio, per loro. Voi mandate all'aria i loro piani. Liberate le ombre. Date un corso differente alla magia che infesta questa città. Ogni ombra che lasciate andare, per loro è una perdita di energia.

La pioggia aveva quasi smesso di cadere, ma l'ombrello blu di Nevan era un cielo più rassicurante sotto il quale fermarsi. Le parole dell'altro sembravano stranamente logiche, naturali e sensate.

- Per questo ce l'hanno con me? Hanno già tentato di mettermi in pericolo. Un paio di mesi fa mi hanno lasciato una specie di trappola nel teatro. Per poco una spiaggia non mi mangia.

Nevan sembrò preoccupato da quelle parole.

- Quell'uomo è riuscito a entrare nel teatro?

Amir scosse la testa.

- Mi disse che non poteva entrare. Deve aver mandato qualcun altro. Ma in quei giorni il teatro era sempre pieno di gente, e non sono mai riuscito a capire come hanno fatto a lasciare l'incantesimo. Era una specie di scatolina che poi ha creato una specie di illusione. Credo. Non ci capisco molto. Angela è dovuta venire il giorno dopo, a fare...

- Una specie di rito di purificazione?

- Non prendermi in giro! Non lo so cos'ha fatto. Ha disegnato per terra con un gesso e sparso dei pezzettini di carta bruciacchiata.

Nevan annuì, poi indicò l'edificio che l'uomo della sigaretta gli aveva mostrato.

- Ha tentato di metterti in pericolo. Un giorno avrai abbastanza esperienza e forza da affrontarlo. Non adesso, però. Ti farebbero solo male, e forse in maniera irreparabile. Sei bravo, ma sei giovane. Non tutte le ombre sono gentili come Allen Waymore o i tuoi amici del teatro.

- Una delle ombre con cui ho parlato mi ha sfidato a duello e mi ha ferito. Non era troppo gentile.

Nevan scosse la testa. Il suo umore era completamente mutato: continuava a guardare la casa, con le sopracciglia aggrottate e le labbra tese in un'espressione di turbamento.

- Non è la stessa cosa. Io sono un Cacciatore di Storie, Amir. Il mio compito è quello di girare la città e raccogliere ciò che ha da dirmi, dalla più inutile delle faccende private al più epico accadimento pubblico. So cosa racconta quella casa. Non solo non devi entrarci ora, ma non dovrai farlo per molto tempo. Per quanto tu possa essere coraggioso e potente, non è alla tua portata. Le ombre che sono lì ti lascerebbero ferite inimmaginabili. Ammesso che ne usciresti.

Amir non aggiunse altro. Guardò la casa ancora una volta, poi tornò a voltarsi verso Nevan. Il Cacciatore di Storie.

- È così che hai saputo la storia della merceria, il mio nome e quello che faccio, e tutto il resto? Ascoltando le storie dei posti? Mi sembra così strano che le cose raccontino anche la mia storia.

- Raccontano le storie di tutti.

Amir finalmente distolse lo sguardo dalla casa, così comune e muta. Non era per niente come il teatro, o tutti gli altri posti nei quali si affacciavano le presenze degli spettri. Si ripromise di dimenticarla, almeno per il momento.

- Seguirò il tuo consiglio, Nevan, e lascerò perdere. Ne hai altri, da darmi?

- Prima hai detto che stasera non eri in vena di accettare consigli.

- Non è detto che lo accetterò. Ma stai dicendo cose che mi sembrano molto sensate. Oggi siete tutti così chiari e diretti, con me. Sarà che è il mio compleanno.

Nevan rise, in maniera cortese. I suoi occhi dorati assunsero per un attimo un aspetto più umano, la tensione del suo viso si sciolse in un'espressione benevola.

- Cerca di capire chi ti è amico e fidati di quelli che benedirai con la tua amicizia. Continua a non negare a nessuno un po' di strada insieme. Ascolta quello che tutti hanno da dirti. Temi la città, ma non avere troppa paura. Ricordati che sei un'autorità e hai dell'autorità.

Amir guardava oltre le spalle di Nevan, nel buio, immaginando le persone dietro le finestre, dentro le case: giovani e vecchie, gentili e crudeli, buone e cattive, esuberanti e quiete. Vive e morte.

- Grazie.

- Posso almeno lasciarti l'ombrello, per tornare a casa?

- Non credo che stia piovendo.

- Mi farebbe piacere se lo prendessi comunque.

- Va bene.

- Buon compleanno.

 

 

 

***
Grazie di essere qui, come sempre!
Il 7 dicembre 2008, durante una sessione di gioco di ruolo, dovetti inventare dal nulla un personaggio per risolvere una situazione inaspettata. Era una versione vittoriana di Amir. Un mese dopo cominciai a progettare questa storia. Ricordo sempre con immenso divertimento la nascita di Amir, nato per caso, eppure uno di quelli, tra i miei personaggi, che più di tutti mi ha fatta divertire a scriverne le storie
.

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Capitolo 14
*** XIV - L'altra via ***


Capitolo XIV

L'altra via

 

You bathed in my wine
Drank from my cup, mocked my rhyme
Your slit tongues licked my aching wounds


(Nightwish, Slaying the dreamer)

 

Londra, gennaio 2009

 

Se c'era una cosa che gli piaceva particolarmente era il clima speciale che avvertiva all'arrivo di ogni nuova compagnia. I furgoni che si fermavano nel vicolo laterale del Sunflower e la gente che ne usciva, le scatole e le borse di ogni tipo che si portavano dietro, l'intreccio di voci e risate, i frammenti di conversazione colti tra il trasporto di una cassa e il montaggio di una scenografia, la sensazione della complicità che esisteva tra quelle persone.

Non tutti i gruppi erano uguali. Alcuni erano più silenziosi, alcuni fin troppo professionali, alcuni sembravano un po' raffazzonati, e poi smentivano quell'impressione in scena. Gli attori erano sempre persone straordinariamente normali, di cui era entusiasmante scoprire la trasformazione sul palco. I musicisti, il custode del Sunflower li guardava con una reverenza speciale, riconoscendo loro una dote quasi divina. Soprattutto, gli piaceva il suo ruolo di guardiano di tutta quella bellezza e bravura. Non avrebbe mai potuto farne parte, non era la sua storia. Ma vegliare dal fondo della platea, offrire supporto e accoglienza, essere colui che assicurava all'arte un modo per esprimersi... Quello gli dava una certa soddisfazione.

Quando vide arrivare la compagnia di Margaret Melier ebbe subito l'impressione che ci fosse qualcosa di strano. Il gruppo era composto da sette persone in tutto, nessuna delle quali parlava. Margaret Melier lo salutò con una cortesia distante. Amir li condusse nel teatro e si mise in ascolto, per rubare qualche pezzo di vita a quelle persone, come tante volte faceva. Non c'era proprio niente da rubare, solo un mutismo fastidioso. Non sembrava ci fosse intesa, tra di loro. Non sembravano una compagnia: più che altro erano un insieme casuale di persone.

Si disse che forse era solo l'antipatia che provava per la signora Melier. Non gli era piaciuta al primo incontro: troppo fredda e severa, con quegli occhi indecifrabili che scrutavano e scavavano, e la voce priva di inflessioni. La sua compagnia sembrava proprio in tono con lei.

Li lasciò nei camerini e scappò a lezione.

 

- Uno spettacolo mediocre.- Commentò il signor Bennett, alzandosi dalla poltroncina quando ormai il suono degli applausi si spegneva. - Il peggiore della stagione, fino a ora.

- Non è piaciuto neanche a me. Il copione era buono, ma gli attori sono strani. Sono freddi.- Rispose Amir.

- Molto impostati, direi, e per nulla spontanei.

- Secondo me è perché non si trovano bene tra sé.

- Ah sì?- Chiese il signor Bennett, divertito. Si stavano avviando verso l'uscita del teatro, mescolati al flusso degli spettatori.

- Li ho visti fare le prove. Mi sono sembrati molto distaccati. Non come le altre compagnie. Sono sempre interessanti, gli attori. Questi qui invece se ne stavano zitti e pensierosi.

- Beh, magari hai ragione. La complicità è importante, quando si lavora insieme.

Amir ebbe l'impressione che il signor Bennett avesse solo ripetuto una frase fatta. Non dava l'idea di aver mai lavorato insieme a qualcuno. In realtà non dava proprio l'idea di aver mai lavorato.

Si chiese cosa lo spingesse a essere tanto critico nei confronti del suo datore di lavoro, e al tempo stesso a stimarlo e trovare tanto piacevole la sua compagnia.

- Comunque, era la loro terza e ultima data.- Riprese il signor Bennett. - Ci rifaremo tra due settimane con qualcosa di meglio.

- Sicuramente. C'è di nuovo Ophelia Raymond.

- Oh, benissimo. Porterà ancora le sue musiciste e ballerine con sé?

- Uhm. Ne dubito fortemente, signor Bennett.

Chiacchieravano ed erano già all'uscita, quando vennero raggiunti da Richard, il vecchio bigliettaio, nervoso come sempre.

- Ehi, ehi, e dove credi di andare, ragazzo? C'è da fare il giro di ricognizione dei camerini e chiudere il teatro!

- Credevo che ci pensasse lei, stasera.

- Sì, l'avevo detto, ma ho cambiato idea.

- Non mi sembra molto corretto.- Notò il signor Bennett, ma Amir gli fece cenno di lasciar perdere.

- Va bene, Richard. Vada pure. Ci penso io.

L'uomo se ne andò senza farselo ripetere. Il signor Bennett guardò Amir con aria contrariata.

- Non dovresti farti comandare dalle persone prepotenti.

- Non lo faccio.

- Sì, lo fai.

- D'accordo, a volte lo faccio, ma è solo per preservare la pace e la serenità. Il signor Richard è un po' polemico, e se gli avessimo imposto di rimanere, me l'avrebbe fatto scontare per le prossime tre settimane, riparlandone fino all'esasperazione.

- Mi dispiace. Vuoi che cerchi qualcun altro? Se davvero ti è così di disturbo...

- No!- Amir si sentì avvampare dalla vergogna. Una mezza parola di troppo e aveva rischiato di far licenziare qualcuno! Scosse la testa, inorridito. - No, no, davvero, non volevo...

- Amir. Calmati. Non avrai sulla coscienza il licenziamento di Richard, stai tranquillo. Non lo manderò via. Lo lascerò qui, a renderti spiacevole il lavoro, così tu e il tuo spirito da martire sarete contenti. Bene, vuoi che ti aspetti, per riportarti a casa?

- No, non si preoccupi. Se non sbaglio, non aveva neanche intenzione di tornare a Haven Crescent. Mi pareva volesse andare al suo appartamento.

- Sì, ma posso...

- No. Torno con la metro. Va benissimo così.

- Giusto perché non ti sei già sacrificato abbastanza, per stasera.- Sorrise, un misto di bonarietà e lieve disapprovazione. - Buonanotte.

- Ci vediamo presto, signor Bennett.

 

Il teatro era buio e silenzioso. Amir accese qualche luce giusto per non inciampare, ma ormai conosceva bene quegli spazi. Era sicuro che ci avrebbe messo pochissimo. Gli attori se n'erano andati, bastava solo controllare che fosse tutto a posto.

Dai camerini provenivano voci sommesse. Magari erano Edward o gli altri. Però non gli sembravano le voci degli abitanti del teatro. Senza contare il fatto che loro avrebbero parlato ad alta voce senza problemi: l'unico da cui si facevano vedere e sentire era Amir.

Sarà qualcun altro di loro. Ho visto ripartire il furgone della compagnia. Niente di preoccupante. Magari gli dirò di ricomparire domani.

Entrò e non guardò a terra. Non vide su cosa si posavano i suoi piedi. Non si accorse di nulla, finché non si ritrovò fermo, completamente bloccato, come se all'improvviso i suoi muscoli e le sue ossa avessero deciso che appartenevano a un altro proprietario.

- Bentrovato.- La signora Melier, ancora con l'abito di scena indosso, lo guardava con la sua abituale freddezza. - Speravo che ti avessimo ingannato, facendoti credere che ce n'eravamo andati. Non mi aspettavo che tornassi. Però ci eravamo preparati comunque.

Amir abbassò lo sguardo e vide che i suoi piedi posavano su uno strano simbolo tracciato sul pavimento con un pigmento rosso.

- E questo cos'è?

- Il comitato di benvenuto.- Disse uno degli attori, raggiungendo la signora Melier. Amir allora lo riconobbe. L'aveva già incontrato, solo che era stato di notte e qualche tempo prima, e allora l'uomo non portava gli occhiali e aveva i capelli di un altro colore. Però aveva in mano lo stesso libretto.

- Sei l'esorcista, quello che ha tentato di mandare via il dottor Allen.

- Già. Quello che hai cacciato dal cimitero con i tuoi trucchi.

- Non sono stato io a cacciarti, è stato il cimitero!

- Certo. Comunque non ci siamo mai presentati. Io sono Simon. Avrai capito che non siamo una vera compagnia teatrale.

- La compagnia è una copertura.- Spiegò Margaret. - Ci serve per per visitare teatri e purificarli.

- Purificarli da cosa?

Ma era una di quelle domande che si fanno anche se si sa benissimo qual è la risposta. Ricordava le parole che Angela gli aveva detto, proprio nei giorni in cui aveva conosciuto il dottor Waymore. C'erano persone convinte che le ombre dovessero essere mandate via dal mondo senza ripensamenti. Persone che interagivano con il sovrannaturale in modo diverso da lui, con rituali e parole che affrettavano il corso naturale delle cose. Loro sapevano far sparire gli spettri con cerimonie che il più delle lasciavano delle tracce nel luogo infestato, una carica esplosiva di risentimento residuo.

- Purificarli dagli spettri.- Disse la donna, confermando le paure di Amir. - Le ombre sono troppo pericolose, per restare nel mondo. Hai idea di quante persone e creature malvagie siano capaci di piegare le ombre alla loro volontà? Per questo vanno spedite là dove devono stare, al più presto. I vostri atti caritatevoli verso i fantasmi non sono che una stupida perdita di tempo e un favore che fate ai nostri comuni nemici.

- Ma non è vero!- Protestò il ragazzo. - Non potete parlare dei fantasmi in questi termini. Non sono cose: sono persone! L'unico modo per garantire loro la pace è aiutarli ad andarsene, e non cacciarli come fate voi. Non li mandate via del tutto, resta sempre qualcosa e fa male alla città!

- Meglio che un po' di risentimento rimanga attaccato a un luogo, piuttosto che ci sia un vero e proprio fantasma a infestarlo.

- Gli spettri influenzano le persone, e se un posto è pieno di sentimenti cattivi, anche i vivi che ci vanno ne saranno toccati. È un ciclo continuo di cose brutte.

La donna lo guardò come se fosse stato uno stupido impossibilitato a capire anche la più semplice delle verità.

- Non ho intenzione di lasciare in libertà ombre che altre persone potrebbero usare per scopi tanto oscuri che tu non puoi nemmeno immaginare.

- È un modo di fare orribile!- Gridò Amir, sentendosi molto sciocco e infantile, e soprattutto molto inutile. Poi realizzò bene la situazione e il sudore freddo lo ricoprì in un istante, insieme al manto gelido della paura. Erano lì per fare del male agli spettri del Sunflower, e lui era imprigionato in quell'incantesimo e non poteva fare niente per loro! Certo, non avrebbe potuto fare granché, se fosse stato libero. Ma almeno avrebbe avuto l'illusione di essere attivo e in grado di combinare qualcosa. In quel modo, invece, rischiava di dover assistere, mentre quella gente si accaniva contro i suoi amici.

- Non provate a fare i vostri riti qui dentro.- Disse, guardando la donna con rabbia. - Sarà peggio per voi. Si difenderanno. Non sono creature stupide né vulnerabili.

- Ma sono comunque deboli di fronte a noi.

Intanto gli altri membri del suo gruppo l'avevano raggiunta. Amir li guardò: c'erano tre donne, e sembravano copie di Margart Melier, serie e distanti. Poi c'era un ragazzo sicuramente più piccolo di Amir, un tipo magro con i capelli rossicci e l'aria invasata. Amir incrociò il suo sguardo per un attimo e rabbrividì. C'era un uomo anziano, basso e scheletrico, con la faccia scavata e una cicatrice che gli tagliava un labbro a metà. Aveva le mani e la camicia macchiate di rosso: doveva essere l'artefice dell'incantesimo che teneva fermo Amir. Appoggiato al muro, Simon lo guardava con un sorriso derisorio.

- Andatevene.- Disse Amir, con tutto il veleno di cui era capace. - Fuori da qui.

- Perché, è tuo, forse, questo posto?- Sibilò il vecchio con la cicatrice, sorridendo.

- Sicuramente è più mio che vostro.

- A parole, sono tutti bravi custodi.

Amir rinunciò a dire altro: poteva urlare e ciò non avrebbe risolto proprio niente, il vecchio aveva ragione. Per la prima volta da quando si era trovato aggrovigliato nella storia del teatro avvertì un'orribile sensazione di sconfitta, ancor prima di aver fatto qualsiasi cosa per difendersi. Nemmeno con il suo misero fioretto contro la spada di sir Drystan si era sentito così.

- Cominciamo il rito.- Margaret fece un cenno e il suo gruppo si mosse, compatto. Tornò a guardare Amir con aria di compatimento. - Faremo un esorcismo di massa. E tu potrai guardare e imparare.

- Non potete permettervi di venire qui e fare loro del male!

- Ah no? E come mai? Sono sotto la tua giurisdizione?- Chiese una delle ragazze, ridendo. - Mi fai pena. Ti hanno trascinato in questo posto e le ombre ti hanno reclamato per sé. E tu, stupido, hai detto di sì a tutto e tutti, senza nemmeno sapere cosa stai facendo. Chi ti credi di essere? Noi ci interessiamo di sovrannaturale e magia da sempre. Tu sei qui da neanche un anno e già ti atteggi a grande esperto di spettri. Bene, guarda come si distruggono, gli spettri!

Per un attimo le credette. Si sentì davvero minuscolo e presuntuoso, un idiota coinvolto in faccende troppo più grandi di lui. Per un attimo. Poi la sua dignità scalpitò e lo fece ribellare.

- E tu che ne sai, di me, di questo posto e di cosa ho vissuto qui?

Gli ci volle un po' per rendersene conto, ma mentre le gridava contro quelle parole, aveva mosso una gamba. Di un soffio appena, uno spostamento minimo. Ma si era mosso.

- Basta, smetti di parlare.- Gli ordinò lei. - Non disturbare la nostra preparazione.

Lui tacque, ma non smise di cercare di spostarsi. I tentativi erano faticosi e frustranti: dava ordini al suo corpo e quello rifiutava di ascoltarlo, se non per fare movimenti così piccoli da non essere nemmeno percettibili. Ma doveva continuare a provare, perché era l'unica cosa che poteva fare, se voleva aiutarli.

- Siamo pronti.- Disse Margaret.

Le rispose una risata.

- Amir ha ragione. Pensate di poter venire qui e imporci la vostra magia?

- No, no, vattene!- Sussurrò Amir, ma ormai Edward gli era comparso accanto, immune al cerchio dell'incantesimo, e guardava con odio Margaret Melier e i suoi. - Edward, vai via subito!

- Non ho paura di loro.

- Tu non hai paura di noi?- Margart Melier fece un sorriso odioso, lento e carico di soddisfazione. - Mio caro, noi ti abbiamo già ucciso una volta. Sarebbe saggio, aver paura.

Amir vide gli occhi di Edward spalancarsi, colmi di doloroso stupore.

- Voi?

- Noi. Volevamo occuparci del Sunflower, ma c'erano sempre guardiani superiori alle nostre forze. Non avremmo potuto fare niente contro tuo padre, ma sapevamo che ti stava allevando per diventare come lui. Così decidemmo di eliminare te. Era più semplice. Con la tua scomparsa avremmo colpito e indebolito anche tuo padre, oltre che togliere di mezzo una minaccia sul nascere. Non credere che sia stata una decisione facile. Non siamo assassini, e non votammo la tua morte a cuor leggero. Ma questa è una guerra, Edward... O Benedict, o come altro vuoi essere chiamato adesso. Lo è sempre stata. Una guerra per l'anima della città e del mondo. Una sola morte era fondamentale per la nostra causa, e per questo decidemmo di colpire la tua auto con un incantesimo.

- E mia madre?- Mormorò Edward, la voce svuotata di ogni energia, ridotta a un filo tremolante.

- Tua madre è stata un imprevisto.- Rispose la donna. - Non sapevamo che sarebbe stata in auto con te.

- Così lei è morta per errore, e io perché un branco di esorcisti esaltati volevano cancellare la magia dal Sunflower?

Amir avvertì una vampata di calore e subito dopo un turbinare di vento gelido. Sentì i brividi che gli scendevano addosso, lungo la schiena, come pioggia, e un grido imprigionato in gola, un nodo che non sapeva se trasformarsi in urlo furioso o pianto disperato. E capì che era Edward – erano le sue sensazioni, i suoi sentimenti così forti da non poter esistere solo all'interno del suo corpo di spettro. Li gettava fuori e Amir li raccoglieva in sé.

- In guerra si muore, ed è ciò che è successo a voi.- Minimizzò Margaret Melier. - Noi siamo l'Ordine del Riposo ed esistiamo da secoli. E da secoli combattiamo con quelli come voi.

- E mio padre? Avete ucciso anche lui?

- Arthur Headley era fuori dalla nostra portata, te l'ho detto.- Disse lei. - Da che ricordo, è morto di un tumore alle ossa. Non ci vedo niente di magico, ma se la malattia gli fosse stata mandata da qualcuno, sarebbe davvero qualcuno di temibile.

Edward era il figlio del signor Headley. Quello che sarebbe dovuto essere me, cioè un esorcista, il custode del teatro, e invece è stato ucciso...

Il teatro fu scosso da un brivido, un terremoto invisibile che afferrò le radici di quel posto, i mattoni fatti di storie e persone, le fondamenta di sogni e desideri tenaci. L'urlo nacque dal cuore infranto di uno spettro e riverberò ovunque, rimbalzando per le pareti, echeggiando nei corridoi. L'urlo gettò a terra Amir, incapace di sopportare la violenza dei sentimenti di Edward e la protesta che stava contagiando tutto il teatro. E poi il tremito spirituale del luogo diventò reale e il pavimento sobbalzò davvero, gettando a terra Simon e una delle ragazze. Un'altra scossa, e un pezzo d'intonaco si staccò dal soffitto, schiantandosi a terra e sollevando una nuvola di polvere. Il danno era piccolo ma la polvere sembrava infinita. Nuovi sbuffi bianchi si sollevavano da terra, scatenando una piccola tempesta che faceva tossire i presenti e confondeva la loro visione.

- Fai qualcosa, Edward. Chiama gli altri.- Lo implorò Amir, ma lo spettro era perso nella propria follia e non pareva nemmeno ricordarsi che il ragazzo fosse lì. Eppure gli altri non potevano non accorgersi di quel che stava accadendo: i sentimenti di Edward erano spaventosi, erano un richiamo, un grido di battaglia.

- Cominciamo con il terminare il lavoro lasciato a metà.- Disse Margaret, emergendo dalla polvere e puntando una specie di lunga bacchetta di vetro contro Edward.

Una pioggia di scintille d'argento riempì l'aria. E subito dopo qualcosa esplose, qualcosa che Margaret non si aspettava, perché fece un goffo balzo all'indietro e fu salvata da una caduta solo grazie a una delle ragazze. Tra la donna e Edward c'era uno degli spettri del teatro: Hilda, con il suo abito rosa e i capelli rossi bruciacchiati. Alla polvere nella stanza si era mischiato il fumo prodotto dalla piccola esplosione, di cui lei sembrava essere l'artefice.

- Vuoi essere tu la prima a sparire?- Gridò Margaret.

- Io non sparisco.- Rispose lei, serrando le labbra e concentrandosi. Un attimo dopo quella strana esplosione avvenne di nuovo, tra le sue mani vuote. Amir riuscì a capirne meglio la dinamica: la ragazza accendeva un piccolo fuoco. Qualcosa di etereo che non riusciva a durare molto, ma produceva degli effetti. La sua morte era stata legata al fuoco: sembrava che fosse riuscita a portarsene un po' con sé, in questa sua nuova condizione.

Poi fu la volta di un nauseante odore di componenti chimici, disinfettante, l'odore dei laboratori sterili e dei corridoi di ospedale. Invase la stanza, annebbiando i sensi di Amir e di tutti i presenti vivi. Nella nebbia di polvere e fumo riuscì a scorgere Eric e Thomas. Con loro c'era anche l'Uomo Nero. Comparve anche Emily, e Amir la sentì fomentare la tempesta di polvere, solo che non era polvere: aveva l'odore penetrante del trucco teatrale e irritava gli occhi e la gola.

Amir avrebbe dovuto ricordare di aggiornare le sue definizioni di com'è e come si comporta uno spettro. Erano abbastanza corporei da toccare (e piangere, magari), ma non fino al punto di poter combattere Margaret e i suoi semplicemente lottando contro di loro. Eppure avevano la capacità di difendere a modo loro il posto che li ospitava. Solo che... Sarebbe stato sufficiente?

Qualcuno aveva cominciato a borbottare le parole di un incantesimo o un esorcismo, le sentiva e non riusciva a decifrarne il linguaggio. La polvere poteva essere fastidiosa per i nemici, ma era frustrante anche per lui non riuscire a capire quanto la situazione fosse pericolosa. Però le piccole grida isteriche di una delle ragazze erano in qualche modo consolanti: anche gli avversari erano confusi e non capivano cosa stesse succedendo. Gli spettri continuavano a difendersi, evidentemente. Una delle voci cantilenanti a un tratto si interruppe, spezzandosi bruscamente in un'imprecazione. Un tonfo avvertì Amir che qualcuno era a terra, e un secondo dopo vide il corpo di una delle ragazze sul pavimento: si era portata le mani alla bocca e faticava a respirare.

La pioggia d'argento, il segnale della magia di Margaret, sbucò dalla nebbia. Lo spettro della ragazzina incendiaria produsse ancora fuoco, l'odore si intensificò e il lampadario tremò e dondolò sulla testa della donna. Lei mosse la bacchetta alla cieca, articolando a fatica parole in un inglese arcaico che Amir capiva solo a metà.

- Ti prego, falla smettere!- Gli urlò Eric, comparendogli vicino. - Fa già male così. Falla smettere!

- Non posso muovermi. Come faccio?

- Non lo so!

Fu investito dalla rabbia per la sua inutilità che andò a cozzare con l'ondata di disperazione riversatagli addosso da Eric. L'unica cosa che poteva fare era parlare, e aveva già visto che non serviva a niente.

Magari si distrae. Magari la irrito così tanto che è costretta a rispondermi e smette di fare l'incantesimo...

- Ehi, mi ascolti! Margaret! Perché arrivare a uccidere una persona? Perché questo posto è così pericoloso, per voi? Vi arroccate nelle vostre idee, ma io non riesco a capire, potremmo anche collaborare, in fondo vogliamo la stessa...

- Ora piantala!- Simon lo raggiunse a tentoni e lo afferrò per la camicia. - I tuoi tentativi di distrarla non serviranno a nulla. E se vuoi una risposta, te la do io: no, non vogliamo la stessa cosa. L'esistenza delle ombre è un pericolo costante. Meglio distruggerle, anche con tutte le possibilità positive che hanno, se questo significa impedire altrettante possibilità negative. Ti basta?

- È una follia e voi siete dei fondamentalisti!

- Tu guarda se un ragazzino islamico deve venire a parlare a me di fondamentalismo...

- Io non ho mai ucciso nessuno, a differenza di voi!

Sentì una risata nel caos del fumo, poi un'altra voce che si univa a quella di Margaret. Sentì Hilda che piangeva, la voce di Emily che gli chiedeva aiuto. Lui si agitò per sfuggire all'esorcista, ma la presa dell'uomo e la forza residua dell'incantesimo disegnato a terra continuavano a impedirgli di muoversi liberamente. Ma il sorriso di Simon e le sue parole gli erano così intollerabili da riempirlo di una furia spaventosa, che non sapeva di essere in grado di provare. Tentò di nuovo di muoversi, e questa volta riuscì a spostarsi all'indietro, sottraendosi da Simon che continuava a tenere stretto il risvolto della sua camicia. Ancora uno strappo, un altro sforzo, ed era quasi fuori dal cerchio...

Vide Emily intenta a soffiare dolcemente a terra. Soffiava sulla polvere rossa che lo imprigionava, provocando un movimento appena percettibile che spostava i granelli rossi, li conduceva via dal loro ordine e scombinava le loro fila che formavano quei segni precisi...

Bastò un ultimo passo e fu fuori dal cerchio. Simon gli gettò le mani attorno al collo, ma lui raccolse tutta la sua forza e lo spintonò via. Era più grosso di lui, ma non si aspettava quel contrattacco e lasciò la presa. Amir scattò in avanti per raggiungere Margaret, che continuava la sua cantilena. Le si gettò contro, strappandole di mano la bacchetta di vetro con una violenza di cui non si credeva capace. Appena ebbe l'oggetto tra le dita, lo spezzò con una foga tale da ferirsi. L'incantesimo si fermò, la pioggia d'argento disparve e fu ingoiata da fumo e polvere.

Nel caos della stanza si levò una risata terribile – Stella.

Una delle piccole fiamme di Hilda si attaccò alle vesti di Margaret. La fiamma raggiunse il braccio destro della donna, facendola gridare. Gli altri le si affaccendarono intorno per spegnere il fuoco e strapparle di dosso brandelli di veste in fiamme. Amir rimase a fissare la scena, senza focalizzarsi su nessuna delle emozioni che lo attraversavano in quel momento.

- Andiamo, dobbiamo ritirarci!

Chi lo aveva detto? Non lo sapeva, ma sapeva che era stato uno dei vivi, a parlare, e questo bastava. Se ne andarono: Margaret era sostenuta da uno degli uomini, mentre Simon teneva tra le braccia la ragazza svenuta, e i rimanenti membri del gruppo correvano scomposti, tossendo e ansimando.

Amir si lasciò scivolare a terra, aprendo finalmente le dita che avevano stretto convulsamente la bacchetta infranta.

- Stai bene?

La voce di Emily.

- Se ne sono andati davvero?

- Sì.- Questa era Hilda.

- Devo vederli. Devo controllare che siano andati. Devo...

- Calmati.- Emily lo investì con il suo odore di trucco e il suo abituale calore. - Siamo al sicuro.

Avrebbe voluto dire loro qualcosa di consolante, oppure dire quanto aveva apprezzato la loro energia nel difendere la loro casa, ma quello che gli venne fuori dalla bocca fu tutt'altro.

- Se non fossi stato bloccato, avrei fatto del male a Simon.

- Mi sembra il minimo.- Disse Edward. - Non incolparti dei tuoi sentimenti. Chiunque avrebbe rischiato di impazzire.

Finalmente Amir trovò il coraggio di guardarli, e quando li vide tutti quanti schierati, silenziosi e confusi, come in attesa di un suo segnale (c'era persino l'Uomo Nero, una sagoma confusa, del quale non si identificavano i lineamenti), diede fondo alla sua ultima riserva di forza di volontà e sorrise.

- Mi dispiace di non avervi potuti aiutare più di così.

- Siamo ancora qui ed è merito tuo.- Gli disse Emily.

- Ma Stella dov'è? Sono sicuro che c'era.

- Possiamo fare qualcosa per te?- Disse ancora lei, ignorando completamente la domanda.

Amir scosse la testa e spostò lo sguardo su Edward.

- Come stai?

- Solo tu potevi preoccuparti di un povero fantasma come me, in una situazione del genere.- Rispose Edward, ridendo. - Tu, o mio padre.

- Non mi hai risposto.

Un nuovo tremito, anche se più leggero dei precedenti, scosse il teatro.

- È una guerra, no? L'ha detto lei. Siamo morti in guerra. La prenderò così.

Ma la poca quiete di Edward era stata seriamente compromessa. Amir realizzò in quel momento che il figlio del signor Headley era sempre stato uno spettro agitato, più turbato degli altri. Ciò che aveva scoperto quella notte, la rivelazione sulla propria morte e quella di sua madre lo avrebbero resto ulteriormente preda di agitazione palpabile. Amir si domandò cosa avrebbe dovuto fare per riuscire a calmarlo. Era una sua responsabilità, perché lui era il custode di quel posto. E anche di quelle creature, sì, e loro contavano su di lui, perché li capiva e capiva come funzionavano sentimenti e avvenimenti, in quel mondo.

- Di sicuro ne so più di loro.- Borbottò.

- Qualunque cosa tu intenda, di certo è vera.- Disse Emily, carezzandogli il viso e facendogli avvertire chiaramente quel contatto. - Io però credo che tu debba andare a casa. Noi ci riprenderemo in fretta. Tu invece devi riposarti. Guardati: hai un taglio sulla mano. Te lo sei fatto rompendo la bacchetta di quella donna. Dì un po': è una mia impressione, o hai un vero talento per farti male in tutte le situazioni?

Serrò le dita attorno al palmo, per non farla preoccupare. Si accorse che Emily aveva ragione: era svuotato di ogni energia e desideroso solo di un letto.

- Credo che chiamerò la signorina Angela. Che non sarà felice di venirmi a prendere. Ma io...

Non riuscì a concludere, ma tanto avevano capito tutti. Aveva bisogno di vedere qualcuno a cui fare un po' di domande – qualcuno vivo, possibilmente.

Li salutò con un cenno della mano e uscì nella notte fredda e piovigginosa. Diede diverse mandate alla porta e quando infilò le mani nelle tasche, per ripararsi dal freddo, strinse forte la chiave e non la lasciò nemmeno quando la vecchia auto verde di Angela si fermò davanti a lui.

- Amir, cos'è successo?

- Non lo so.- Rispose lui, scivolando a sedere e lasciandosi andare contro il sedile. - La compagnia era una falsa compagnia. Erano gli altri. Quelli che vogliono cancellare le ombre con dei riti. L'Ordine del Riposo. Lei li ha chiamati così. Hanno cercato di fare del male agli abitanti del teatro. E io che sono il custode per poco non li ho lasciati morire tutti!

- Come siete riusciti a cacciarli?

- Hanno fatto tutto da soli.

- Per spingere uno spettro a lottare ci vuole un buon motivo e una grande fonte di energia spirituale e mentale. Volevano difendere la loro casa, ma forse volevano difendere anche te.

Angela guidava in fretta, quasi avesse capito il suo desiderio di poter dormire il prima possibile. Si domandò se poteva rivelarle la verità su Edward, ma concluse che non era giusto.

Edward, il figlio del signor Headley - che non chiamava nessuno per nome: infatti chiamava suo figlio Benedict, nome che poi aveva passato al signor Bennett.

Pensare al signor Headley gli fece venire in mente una cosa importante.

- Il signor Bennett non sa nulla di tutto questo, vero? Anche se era così affezionato al signor Headley...

Angela fece un lungo sospiro e scosse la testa, senza dire nulla. Quando furono arrivati a Haven Crescent si voltò verso di lui, mentre fermava l'auto.

- Joel sa tutto, ma non gli interessa. Cerca di tenersene fuori, e qualche volta fabbrica delle consolanti spiegazioni scientifiche per ciò che vede. Ha deciso così: è giusto che sia lasciato in pace.

- Grazie di tutto.- Le disse lui. - Grazie, signorina Angela, e mi perdoni per...

- Mi sembrava di averti chiesto una maggior confidenza, Amir.

- Grazie, Angela.

 

*

 

- Pronto? Oh, ciao, Angela.

- Joel, come sta il ragazzo?

- Ma di cosa stai parlando?

- Non l'hai visto stamattina?

- No. Sono all'appartamento, non a casa. L'ho sentito per telefono, poco fa, e non mi ha detto nulla. Cos'è successo?

- Tu non hai notato nulla.

- Ma cosa dovevo notare?- Joel alzò appena la voce: si stava lasciando contagiare dall'ansia che avvertiva nelle parole di Angela.

- Ieri notte l'ho riportato a casa. Joel, sono successe alcune cose nel teatro. Cose simili a quelle che capitavano ad Arthur.

Joel non ripose. Non ce n'era bisogno. Angela sapeva bene cosa ne pensasse, di tutta quella storia. Continuava a succedere: la gente che entrava nella sua vita, inevitabilmente entrava anche in quell'ombra che lui non amava guardare.

- Gli è capitato qualcosa di grave?

- Diciamo che ha subito una specie di aggressione, nel teatro.

- Un'aggressione? Da parte di chi?

- Qui si entra nel territorio di quelle cose di cui preferisci non sentir parlare.

- Ma come sta?

- Non lo so. Penso che starà bene presto. Tu non vuoi saperne, ma lasciati dire che lui c'è entrato subito dentro, a tutto quello che...

- Va bene. Grazie per avermi informato.

Riattaccò e sedette al tavolo della cucina, con un sospiro un po' seccato. Ecco che tutta quella faccenda ricominciava. Era veramente incredibile. Angela, Vivien, Arthur... Tutti persi in quell'intricata ragnatela di parole non dette e misteri insensati. Com'era possibile che ci fosse finito perfino un ragazzo qualunque, capitato solo per caso in casa sua?

 

Quella sera trovò il ragazzo intento a riordinare la propria camera. Dimesso come sempre, con una felpa e dei jeans, e i capelli sciolti particolarmente arricciati e spettinati. Gli rivolse un sorriso più breve e meno convincente di quelli che faceva di solito.

- Ho parlato con Angela. Mi ha detto che è successo qualcosa, al teatro.

- Già. Ma lei può stare tranquillo.

- Tu stai bene?

- Certo. Davvero.

- Sei molto serio. Mi farebbe piacere che tu mi raccontassi com'è andata.

- Signor Bennett.- Il ragazzo abbassò gli occhi e assunse l'aria di chi sta per dire qualcosa di sgradevole ma necessario. - È quel genere di cosa che forse lei preferisce non sapere. Se volesse entrare in questo mondo, ne sarei contento. Ma non posso essere io a portarcela dentro.

Non seppe cosa rispondergli. Cosa si poteva dire di fronte a una simile dichiarazione? Grazie della delicatezza? Grazie per avermi risparmiato?

- Non posso fare qualcosa per te?

- Non si preoccupi, signor Bennett. Non ce n'è motivo.

- Un caffè, un tè...

- Va bene. Quello va bene. Grazie.

- Perfetto.

Guardò il ragazzo che scendeva le scale, pensò alla quiete gentile che riusciva a portare ovunque – anche nella sua vita. Si domandò come un simile animo tranquillo potesse essere finito nel mondo caotico in cui si rigirava Arthur.

Se volesse entrare, aveva detto Amir.

Voleva entrare?

- Tè o caffè, Amir?

Lasciò che la più banale quotidianità spazzasse via ogni pensiero non desiderato e ancora una volta quella domanda pressante si disperse nel nulla.



***


Grazie di essere qui!
(amorevole reminder che mi diverto anche a cantare e suonare in giro, e che scrivo canzoni per accompagnare le mie storie, che le trovate qui e che alcune di esse sono scaricabili gratis se si va.)

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Capitolo 15
*** XV - Infestatori ***


Capitolo XV

Infestatori

 

There's the wind and the rain
And the mercy of the fallen
Who say, "Hey, it's not my place to know what's right"

There's the weak and the strong
And the many stars that guide us
We have some of them inside us

(Dar Williams, Mercy of the fallen)

 

Londra, febbraio 2009

 

Il carcere aveva un aspetto da tipico luogo infestato dai fantasmi, di quelli che si vedono nei film o nelle illustrazioni dei libri. Amir stava imparando numerose nozioni sui luoghi infestati per davvero, e con tutto il suo amore per le tipiche storie di fantasmi inglesi, la realtà era molto diversa – e molto più variegata.

L'edificio sorgeva ai margini della città, infossato tra altre costruzioni ugualmente trasandate, sebbene almeno in quelle vi fossero le tracce di una vita. Il carcere era vuoto: erano in procinto di ristrutturarlo e cambiargli uso. Se ne stava lì, con le sue pareti sporche e le finestre dai vetri infranti, oltre i quali si potevano intravedere soffitti mezzi crollati, macerie e sagome confuse nella penombra. Una breve ricerca online aveva rivelato ad Amir che quel posto era vuoto dal 1917.

Parcheggiati davanti al carcere c'erano un furgoncino blu metallizzato e un'auto rossa. Amir si fermò a osservare i mezzi di trasporto, e poi la porticina socchiusa che introduceva all'interno del penitenziario. Aveva un paio di scuse da sciorinare a chiunque avrebbe trovato dentro. Non era certo che sarebbe riuscito a venderle con una faccia convincente, però.

Gli spettri avevano delle risorse inimmaginabili. L'avevano convocato lì con un passaparola e una sibillina richiesta d'aiuto. Amir aveva accettato quel compito senza pensarci troppo. Mentre entrava, però, cominciava ad avere qualche dubbio al riguardo. Forse avrebbe dovuto pensarci un po' di più.

C'era un'umidità innaturale, nell'edificio. Quel qualcosa di poco sano appiccicato alle pareti poteva essere un segno dell'incuria e del tempo, ma più probabilmente era un messaggio degli abitanti non vivi. Attraversò un atrio completamente vuoto e si diresse verso le voci che provenivano da una stanza attigua. Qualcuno stava dicendo, in tono molto seccato, che quell'idiota di un medium si fa i cazzi suoi e non sa un cazzo dei tempi televisivi! Che ci faceva gente che parlava di medium e televisione, in un penitenziario abbandonato?

Amir raggiunse l'altra stanza e vi si affacciò con cautela. C'erano tre persone: l'uomo (grosso e rosso in faccia) che sbraitava offese all'indirizzo di un medium, un tipo giovane con i capelli rasati intento a frugare in una valigia rigida piena di cavi, e una giovane donna con un trucco pesante e la bocca piegata in una smorfia di insofferenza. Nella stanza c'era un tavolo di plastica su cui stavano due computer, una telecamera e una serie di macchinari di cui Amir ignorava l'utilità.

- Ti immagini avere casa tua invasa da questi merdosi qua?- Disse qualcuno alle sue spalle. Amir fece un sobbalzo e inciampò in una piastrella sconnessa, producendo un misero rumore che però gli sembrò un frastuono insopportabile.

Fu la persona che aveva parlato a salvarlo dalla caduta, afferrandolo per il cappuccio della felpa. E i tre nella stanza videro la strana scena di uno sconosciuto che inciampava, vacillava e poi si riprendeva, mentre una forza misteriosa teneva sollevato il suo cappuccio.

- Tu chi cazzo sei?- Chiese il tipo infuriato, avvicinandosi ad Amir con un'andatura sostenuta che denotava intenzioni poco cortesi. - Che vuoi? Che ci fai qui?

- Spero tu abbia pronta una bella scusa, ragazzo.- Gli sussurrò all'orecchio il suo salvatore invisibile.

Amir si voltò e guardò la persona alle sue spalle. Era un uomo alto e magro, sebbene dotato di braccia muscolose e mani grandi. Indossava un mucchio di cenci laceri tenuti insieme miracolosamente da un paio di cinture di cuoio, aveva stivali sfondati da cui si intravedevano i piedi sporchi e feriti, e portava i capelli biondi lunghi legati in una specie di treccia mezza sfatta. Alcuni ciuffi gli ricadevano sul viso allungato e scarno, sugli occhi di un indefinito color grigio, sulle labbra ricoperte dei segni di qualche malattia. Quando incontrò lo sguardo di Amir, gli sorrise.

- Ti ho chiesto chi sei!- Gridò di nuovo l'uomo di fronte ad Amir. Il ragazzo tornò a guardarlo: piuttosto robusto, insacchettato in un completo nero, col viso arrossato dalla rabbia e i capelli scuri tirati indietro da un'alluvione di gel.

- Lavoro per l'impresa edile che ristrutturerà questo posto.- Rispose Amir, col tono di uno studente che spiega come mai non ha fatto i compiti. - Sono qui per un controllo.

- Ci hanno dato il permesso di stare qua dentro per tutto il mese!- Ruggì l'uomo. - Che significa questo controllo?

- Oh, ma certo che avete il permesso. Mi hanno detto che voi sareste stati qui, signor... Ehm...

- Stevens.

- Sì, ecco, signor Stevens, certo. Devo solo prendere qualche misura. Non disturberò il vostro lavoro.

- Sarà bene.- Borbottò il signor Stevens, indietreggiando di qualche passo. - Vai dove cazzo ti pare, ma se trovi quell'imbecille di un medium, vedi di lasciarlo in pace, perché se si convince che gli hai spaventato gli spettri e non se ne fa nulla nemmeno oggi, giuro che quel che farò non ti piacerà. Hai capito?

- Ti ha appena minacciato, ragazzo.- Commentò l'altro, alle spalle di Amir. - Ti lasci trattare così? Rispondigli!

- Certo. Non si preoccupi.

Amir attraversò in fretta la stanza e corse via da quella gente molto più spaventosa di qualunque spettro avesse mai visto. Lo sconosciuto vestito di stracci lo seguì. Amir se l'era aspettato, o meglio, ci aveva sperato. Aveva molte cose da chiedergli. Appena svoltati un paio d'angoli se lo trovò davanti, che rideva.

- Sei un bel tipo, tu, piccolo.

- Non sono piccolo.

- Lo sembri. Hai la faccia da ragazzino e miagoli come uno che ha paura di quelli più forti.

- Io non miagolo.- Protestò Amir. - Ho qualcosa da fare, qui, e non mi sembrava una buona idea litigare con quelli là.

- Allora sei tu, il famoso esorcista che ci hanno recuperato? Non ti aspettavo così scuro.

- Scusa?

- Non che io mi faccia troppi problemi per la razza, eh. Pensa che sono stato in cella con un cinese, ai miei tempi.

- Bene, una volta messo in chiaro questo, mi puoi dire perché sono qui? Ieri uno spettro che vive nel teatro in cui lavoro è venuto da me, dicendo che gli era arrivato un messaggio, e che gli abitanti di questo carcere avevano bisogno di aiuto.

- Sei stato convocato al vecchio Saint Raphael per disinfestarlo.

- Disinfestarlo?

- Dai vivi.

- Io penso di non aver capito.

L'uomo rise e Amir si trovò a pensare che gli piaceva quel modo di ridere totale, che scuoteva quella persona in tutta la sua altezza, gli faceva agitare i capelli spettinati e riempiva di luce gli occhi un po' distanti e fissi. Quando rideva sembrava attutirsi anche l'umidità fredda dell'edificio.

- Li hai visti, quelli là?- Gli domandò lo spettro, assumendo un'aria schifata. - Hanno delle cose che servono per imprigionare le immagini e le voci da qualche parte.

Amir ripensò ai computer, alle telecamere e alle parole del tipo iroso di nome Stevens.

- Devono essere una troupe televisiva. Sì, è qualcosa di simile a ciò che hai detto tu. Catturano le immagini di questo posto, per farle vedere ad altre persone.

- E poi ci sono altri due. Dicono di essere dei maghi e di poter sentire la nostra presenza, ma non ci vedono e non si accorgono di quando noi siamo lì a due passi da loro. Io li trovo stupidi. E ci siamo stufati di averli tra i piedi. Così il vecchio Noel ha pensato di spargere la voce tra gli spettri e le creature dei dintorni, sperando di trovare qualcuno che ci aiutasse.

Dunque, probabilmente in giro per il carcere c'erano un paio di quei tipi che si fanno passare per sensitivi e raccontano storie per niente credibili in televisione. E avevano programmato di girare lì dentro per un mese intero.

- Immagino che sia davvero fastidioso, vivere con quella gente che vi disturba. Vedremo cosa possiamo fare. Intanto presentiamoci. Io sono Amir.

- Brendan Casey per servirti.

- Casey? Conosco un irlandese con questo cognome.

- Una brava persona di sicuro.- Ghignò Brendan. - Anch'io lo sono.

- È un mio caro amico.- Rispose Amir, divertito da quella coincidenza. - Gli chiederò se aveva antenati imprigionati a Londra.

- Brindate a me, se è mio parente. E se non lo è, brindate lo stesso.

- Va bene. Quanti siete, qui dentro?

- Dunque, vediamo... Io, Roderick, Willie e il vecchio Noel. Ah, e poi c'è l'altro, ma non so dove sia né cosa faccia: non parla mai con noi. So che si chiama Haidar e che è enorme. Siamo tutta gente che ci è schiattata, qui dentro. E io sono il veterano, spettro fin dal 1815. Penso di essere morto in una rissa a marzo. Voglio dire, mi ricordo della rissa, non sono sicuro che fosse marzo, però successero delle cose interessanti, tipo quel cretino puzzolente di George che cacciava un pezzo di vetro preciso nell'occhio di Ned, e Jonas che tirava fuori una quantità di budella a quell'altro senza un braccio, con...

- Grazie. Va bene così. Dov'è il medium?

- Ti porterò da quell'imbecille. Ehi, senti, non è che poi ci esorcizzi e ci scacci?

Amir scosse la testa.

- Non so farlo.

- Mi prendi per il culo o cosa? Non sei un esorcista, tu?

- Non sono quel tipo di esorcista che fa qualche segno a terra e manda via gli spettri. Io non posso mandarvi via, se non siete voi a volerlo.

- Allora va bene. Forza, piccolo, seguimi!

- Non sono piccolo. Ho ventiquattro anni.

- Io ne ho venti più di te, e già per questo mi devi rispetto. Anzi, venti, più quasi duecento. Mi devi ancora più rispetto. Poi hai una faccia da scemo che non si può guardare.

Discutere con lo spettro di un carcerato irlandese morto in una rissa violenta due secoli prima non era proprio una delle priorità di Amir. Sospirò e lo seguì in silenzio.

 

Incontrarono il medium e la sua assistente al piano superiore dell'edificio, in una delle celle della prigione, un minuscolo tugurio con la porta divelta gettata a terra e un ammasso di legni spezzettati ammucchiato sul pavimento. Amir si avvicinò con curiosità e si mise a osservare.

La donna reggeva un macchinario simile a una grossa radio, carico di fili e pulsanti. Indossava un paio di occhiali dalle lenti verdi, su cui era montato una specie di rilevatore di qualcosa. Muoveva il macchinario su e giù, tenendolo vicino alle pareti. Con lei c'era quello che indubbiamente doveva essere il medium: un uomo con i capelli rossicci e la barba piuttosto lunghi, che indossava una tunica azzurra e numerose collane di pietre colorate. Teneva gli occhi socchiusi e cantilenava parole senza senso, muovendo le braccia in maniera ridicola e ballettando sul posto, al centro della cella. Poco distante da loro c'era un altro membro della troupe, un uomo giovane con i capelli tutti grigi, che filmava la scena.

- Quando mi hanno detto che veniva un esorcista, ho temuto che fossi come lui.- Disse Brendan, indicando il medium. - Ti avrei fatto cadere una tegola in testa.

- Non ho niente a che spartire con lui!- Esclamò Amir con impeto, dimenticandosi che era vicinissimo a quelle persone. Brendan rise senza alcun riguardo, mentre Amir si dava dello stupido. E naturalmente i due si volsero subito verso di lui, e la donna gli puntò contro lo strano macchinario. Il cameraman si limitò a spegnere la telecamera e imprecare.

- Sei tu vivo, o non lo sei più?- Gli domandò lei, con voce tremolante.

- Sono vivo. Lavoro per l'impresa edile che ristrutturerà questo posto, devo fare delle misurazioni. Non vi darò alcun fastidio. Continuate pure.

- Tieniti lontano da qui.- Mormorò il medium, avanzando. - Non è per la gente comune come te. È così pieno di orribile odio, così colmo della potenza di tutti i crimini commessi da coloro che erano qui... Se non sei abituato, rischi grosso, a camminare tra queste mura che grondano oscurità!

Amir impiegò qualche momento a riconoscere cos'era il sentimento che lo aveva invaso. Rabbia, improvvisa e inspiegabile. Avrebbe voluto gridare a quell'uomo che stava dicendo un mucchio di stupidaggini.

Lì c'erano solo umidità appiccicosa, una traccia di sentimenti inquieti, una quantità di rimpianto e qualcosa simile alla mancanza d'aria. C'era l'eco di parole distorte e c'era l'ombra di cose malate e cattive, ma era distante e non aveva più molto potere. C'era la voce fievole di un rancore mai sopito. C'erano risate nascoste in tutti gli angoli, nate dall'ironia, dal cameratismo e dalla disperazione.

C'era tutto quello ed era inesprimibile, e Amir lo respirava e se lo sentiva addosso a ogni passo, e in qualche modo era contento di essere lì e riuscire a comprendere quel linguaggio. Un linguaggio che di certo il tipo ridicolo con la sua tunica azzurra non aveva mai sentito e non avrebbe mai potuto afferrare.

Poi Amir abbassò gli occhi, combattendo per liberarsi di quel moto di fierezza che somigliava un po' troppo alla superbia.

- Non mi succederà niente.- Disse, prima di voltarsi e correre via.

- Ehi, ehi! Ehi, piccolo, che ti è preso, lì?

Brendan lo raggiunse e lo agguantò per un braccio, ma lo fece con una strana gentilezza rude. Amir era abituato al fatto che gli spettri potessero toccare, in alcune occasioni, ma non smetteva mai di stupirsene.

- Parla senza sapere cosa sta dicendo.- Rispose, ancora ansimante per la corsa e per la rabbia.

- È uno che pensa di vedere i fantasmi. Che vuoi aspettarti da lui?

- Già. Mai fidarsi di chi dice di vedere i fantasmi.

Brendan scoppiò a ridere e gli posò un braccio sulle spalle, con fare amichevole.

- Buona, questa. Non te la prendere se quello lì ti ruba il mestiere. Puoi sempre metterti una tunica come la sua e andare in giro a farti pagare per quello che fai.

- Non ci penso nemmeno.

- Menomale. Dicevo così per dire. Ehi, andiamo da quei pezzi di merda dei miei amici. Ti devo presentare! E poi dobbiamo decidere come ammazzare meglio questi qua... Ah, scherzo, scherzo, non fare quella faccia, sembra che ti stai per sentire male!

Amir rinunciò di nuovo ad altri commenti e si fece condurre attraverso i corridoi del penitenziario.

 

Si lasciò studiare e squadrare dagli spettri con pazienza. Il tipo pallidissimo, dall'aria malaticcia, Roderick, gli puntava in faccia due occhi azzurri e sfacciati. Il vecchio Noel scambiava bisbigli e risatine con Willie, un adolescente dalla faccia lentigginosa piuttosto brutta e un sorriso inquietante che metteva in mostra tutti i denti.

- Ehm.- Iniziò Amir, dopo almeno un minuto di imbarazzante esame.

- Zitti, zitti!- Lo interruppe Brendan. - Il ragazzino vuole fare una specie di riunione vera dove chiederà a ognuno il parere sulla faccenda!

- Ma io, veramente...

- Una riunione vera? Con i voti?- Chiese Willie. - Io voto per far crollare un soffitto! E schiacciarli tutti! Sì, tutti, schiacciati come dei vermi in un...

- Per favore!- Lo implorò Amir. - Per favore, ascoltatemi. Non voglio fare una riunione con i voti.

- Ah, vuoi decidere tutto da solo, eh?- Chiese Roderick, sgranando gli occhi chiari.

- No, no, aspettate! Insomma, voglio dire che ne possiamo parlare.

- E di cosa vorresti parlare?- Chiese Willie, sfoderando tutti i denti che aveva in un altro dei suoi sorrisi sgradevoli.

- Ho bisogno di sapere cosa avete fatto finora.- Disse Amir.

- Io ho ammazzato un paio di tipi in un'osteria.- Rispose Roderick, trasognato.

- Non in quel senso. Avete cercato di spaventare la troupe o il medium?

- Volevamo.- Rispose Willie. - Ma Noel ce l'ha impedito.

- Io ero dell'idea di staccare un pezzo del muro e schiantarlo sulla zucca del medium.- Disse il ragazzo, pensieroso. - Non so perché non l'ho mai fatto. È che poi stai qui, e fai tanti propositi, però poi ti annoi, e non lo so, alla fine non abbiamo mai fatto nulla.

- Io non ho fatto nulla perché non volevo dar ragione al medium.- Rispose Brendan. - Se ci fossimo fatti vedere, avrebbero creduto tutti che qui dentro c'è qualcosa di strano, come dice lui.

- Io penso che invece dovremmo farci vedere.- Disse Amir.

- E come? Apparendogli davanti e dicendo buongiorno?- Bofonchiò Willie.

- I membri della troupe non credono agli spettri. Stanno qui solo perché sono pagati per farlo. E sono sicuro che il medium e la sua assistente non abbiano mai visto un fantasma in vita loro. Fingono oppure si illudono.

- Ha fatto un discorso che sembra quasi intelligente.- Commentò l'adolescente.

- Per cui tu dici, andiamo lì e facciamogli paura. Ho capito bene?- Domandò Brendan, con un brillio d'entusiasmo negli occhi.

- Esatto.- Rispose Amir. - Se ci organizziamo bene forse riusciremo a spaventarli a tal punto da cacciarli per sempre da qui e da qualsiasi altro luogo dove ci sono degli spettri. È quello che i fantasmi fanno in ogni buona storia, in fondo. Paura.

Lo capì dal calore che si era diffuso nella stanza, ancor prima che dalle grida di approvazione. Capì che la sua idea era stata accettata.

 

Aveva organizzato uno scherzo ai danni di un sedicente medium e stava dando indicazioni a quattro fantasmi perché lo portassero a termine. Certo, aveva immaginato di tutto, prima di arrivare a Londra, ma di sicuro non quello.

Ecco che il medium si avvicinava a un'altra delle celle, roteando le braccia quasi fosse stato una specie di antenna alla ricerca di un segnale, seguito dalla donna con il macchinario pieno di pulsanti e dal cameraman svogliato. Amir fece un cenno agli spettri che subito comparvero alle spalle delle loro vittime.

In quel momento il medium si piegò in due e crollò a terra, ansimando e cercando di sputare fuori un grido che non riusciva ad articolare.

- Ehi!- Esclamò Amir. - Non erano questi gli accordi!

- Non siamo noi!- Rispose Brendan.

Nel frattempo la donna aveva gettato a terra il suo marchingegno e fissava l'uomo a terra come se davvero avesse visto il primo spettro della sua vita. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di lanciare un urlo di terrore acutissimo.

- Non siete voi?- Chiese Amir, angosciato. L'uomo a terra sembrava sempre più allo stremo delle forze, come se fosse stato progressivamente soffocato da qualcosa.

- Te lo giuro, non c'entriamo!- Assicurò Willie.

- È lui.- Asserì il vecchio Noel, indicando qualcosa di invisibile nell'ombra della cella in cui il medium aveva cercato di entrare. - Se non siamo noi, per forza deve essere lui.

- Intendete dire quello che non si mescola a voi? Haidar?

Noel fece cenno di sì con la testa. Willie si nascose dietro a Roderick, come se temesse quella presenza. Intanto la donna si era gettata a terra e cercava di rianimare il medium, che rimaneva attaccato alla vita solo per un esile soffio d'aria che gli arrivava nella gola bloccata.

Amir corse verso la cella e spalancò la porta.

- Haidar.- Chiamò. Mentre pronunciava quel nome ebbe un'intuizione e decise de seguirla. - Haidar, se sei tu, ti prego di fermarti.- Disse, in arabo. Valeva la pena di tentare. Haidar era un nome arabo.

Dal buio qualcuno rispose, nella stessa lingua.

- Chi sei?

- Sono qui per cacciare queste persone che vi disturbano.

- Loro parlano. Parlano tanto. Parlano di cose che non conoscono. Non sanno cos'è la sofferenza. Non dovrebbero parlare.

- Lo so. È vero. Però, ti prego, non fargli del male.

- Perché dovrei ascoltare te?

- Perché io forse posso capire un po'.

- Capisci quelli che non sono più vivi, oppure gli esuli, oppure chi viene imprigionato anche se è innocente?

- Di spettri ne conosco molti. E anch'io sono uno straniero. Ti prego, lascia andare quest'uomo e rimani innocente. Ti prometto che lo manderò via.

Haidar si rese visibile: un uomo altissimo e robusto, con la pelle scura e i capelli neri e lunghi.

- Lascialo andare.- Insisté Amir, e l'uomo fece un cenno con la testa.

Il medium trasse un lungo respiro rumoroso e liberò un urlo. La sua assistente si aggrappò all'uomo, stringendoglisi contro convulsamente.

- Che cos... Che cos'è, quello?- Balbettò.

- Un fantasma.- Rispose Amir. - Credevo ne foste esperti.

- E ci siamo anche noi!- Esclamò Brendan, comparendo proprio davanti ai due a terra. - Che dite, siamo come ci immaginavate?

Il medium si tirò in piedi, inciampando nella tunica, afferrò per un braccio la donna e la trascinò dall'altra parte del corridoio, incapace di staccare gli occhi dagli spiriti.

- Oh, cazzo.- Un tonfo. La telecamera era scivolata dalle mani dell'operatore e si era distrutta tra i detriti nella cella. - Oh, cazzo, è vero! È tutto vero!

- Mi dispiace, ma devo chiedervi di andare via.- Disse Amir. - È che voi avete invaso la loro casa.

- Riesci a essere gentile anche quando mandi via qualcuno!- Rise Brendan. - Non ti prenderanno mai sul serio, nella vita. Sta' a vedere!

Si piazzò di fronte ai tre, rimasti pietrificati, e sollevò in un istante un intero secolo di polvere, gettandola addosso agli invasori. Fu l'atto decisivo per la vittoria: fuggirono, inseguiti dalle risate degli abitanti del penitenziario.

- Ah, ce l'abbiamo fatta!- Gridò Willie, saltellando. - Mi sono divertito! Era una vita che non facevo qualcosa di divertente! Ehi, in fondo ho dodici anni, ho bisogno di divertirmi!

Fece un sorriso quasi grazioso, stavolta, prima di sparire. Sparire definitivamente. Amir allungò una mano, come per cercare di trattenerlo, sgomento per la rapidità con cui il ragazzo se n'era andato. Gli era bastato così poco. Una cosa divertente. Non chiedeva molto.

- Te l'avevo detto che avresti fatto piazza pulita.- Disse Brendan, battendo una mano sulla spalla di Amir. - Che hai, ti dispiace?

- No. Sì. Non lo so.

- Non è quello che fai di solito?

- Non volevo.

Brendan scosse la testa, facendosi serio per un istante. Noel invece fece un mezzo sorriso.

- Era piccolo davvero, Willie. Magari gli hai fatto un favore.

- Forza, andiamo a spaventare anche quegli idioti di sotto!- Li incitò Roderick, e prese la guida del gruppetto, a cui si era unito anche Haidar.

Raggiunsero i membri della troupe, che erano appena stati investiti dall'uragano di parole sconnesse e isteriche del medium e degli altri due. Il signor Stevens, sempre più rosso e infuriato, gridava offese e parolacce disgustose contro il medium, gli altri due chiedevano spiegazioni, senza ottenerne. Il clima ideale per mandarli ancor più in confusione. Brendan raggiunse il centro del gruppo e solo in quel momento si fece visibile.

- Che cos'è, questo?- Urlò la ragazza, facendo un balzo all'indietro che la portò a cozzare con la telecamera. Quella si schiantò al suolo e Noel sfruttò il frastuono della caduta per apparire proprio alle spalle di lei. Bastò per farla fuggire di corsa dalla stanza.

- Che razza di scherzo del cazzo!- Sbraitò Stevens, brandendo un pezzo della telecamera in frantumi. - Voglio sapere cosa sta succedendo!

L'unica risposta che ebbe fu una spallata da parte del medium in fuga, seguito dalla sua assistente.

- Andiamocene.- Lo incalzò l'ultimo membro della troupe, raccogliendo quanta più roba poteva. - Torneremo. Chiederemo spiegazioni per tutto questo casino.

- Non crederai ai fantasmi anche tu? Torna qui, brutto stronzo!

Il tipo non tornò. Stevens era rimasto da solo a combattere contro quella gente che appariva e scompariva. Amir osservava la scena dalla stanza attigua, affacciato sulla porta. Gli scettici sono difficili da smontare. Stevens doveva essere uno scettico dei più coriacei.

Brendan sputò fuori un paio di parolacce che facevano concorrenza a quelle di Stevens e riapparve proprio alle spalle dell'uomo. Roderick e il vecchio Noel presero a corrergli intorno, e perfino Haidar si fece vedere, in un angolo. Stevens gettò la sua arma improvvisata addosso a Noel, con un urlo, ma il pezzo di telecamera finì a terra, senza provocare il minimo danno alla sua vittima. Tutti i frammenti dell'oggetto rotto, tutti i pezzi di pietra staccati dal piastrellamento in rovina, tutti i rimasugli di muro franato si sollevarono nello stesso istante. Stevens li guardò, con un grido muto sulla bocca spalancata. Poi finalmente si arrese e corse via anche lui.

Gli spettri si erano ripresi la loro casa e lo urlarono al mondo, ridendo e riempiendo quel posto di luce e calore come non ce n'erano mai stati.

- Siete stati bravi.- Disse Amir. - Vado a controllare che se ne siano andati davvero.

Aveva appena messo la testa fuori dalla porta quando fu afferrato rudemente per un braccio e spinto con violenza con le spalle contro il muro.

- Tu chi sei? Cos'è questa buffonata del cazzo?- Ruggì Stevens.

- Sono fantasmi. Veri.- Rispose Amir, tentando di liberarsi. L'uomo lanciò un grido di frustrazione e lo spinse di nuovo, tenendolo bloccato contro il muro con le sue mani enormi.

- Giuro che se non mi dai una spiegazione sensata...

Sollevò una mano, le dita chiuse in un pugno, e Amir serrò gli occhi.

Non successe nulla. Stevens emise un lamento strozzato, la sua presenza aggressiva si allontanò da Amir, e il ragazzo ebbe la strana sensazione di essere al sicuro. Riaprì gli occhi: tra lui e il suo aggressore c'era l'enorme Haidar. Amir si affacciò oltre lo spettro: la faccia terrorizzata di Stevens era soddisfacente.

- Preparati a morire!- Gridò Brendan, comparendo dal nulla e gettandosi contro Stevens. Bastò a farlo correre via. Balzò sul furgoncino, che partì al massimo della velocità.

- Grazie.- Amir cercò un appiglio e trovò il braccio di Haidar, che si fece solido per pochi secondi, il tempo di evitargli di cadere. - Grazie di avermi aiutato.

- Tu hai aiutato noi. Siamo pari, allora.- Disse il vecchio Noel, prima di sparire con un sorriso, senza ricomparire.

- Io non volevo!- Esclamò Amir, allungando la mano per raggiungere il punto preciso nell'aria dove prima c'era Noel.

- Povero vecchio. Ecco perché voleva così tanto un esorcista. Non vedeva l'ora di sparire- Sospirò Brendan. - Ehi, ragazzo, non ci prendere troppo gusto, eh! Io non me ne vado, non ancora. Ti va di prendermi al tuo servizio? In fondo mi hai fatto divertire.

- Io rimango qui.- Disse Roderick. - Vuoi prendere anche me al tuo servizio?

- D'accordo.- Rispose Amir. Non era sicuro che fosse una buona idea, ma era in debito con loro, e in fondo quella buffa cortesia da parte degli spettri gli faceva piacere. - E tu, Haidar? Vuoi...

L'uomo scosse la testa.

- Non so dove devo andare.- Disse, in un inglese stentato. - Non so niente.

- Va bene. Rimanete ancora un po' qui. Tornerò a trovarvi. Ve ne andrete quando vorrete.

- Certo. Io, Rod e la montagna, qui, diventeremo amiconi!- Assicurò Brendan. - Vero, montagna? Ci divertiremo più di prima, ora che nessuno verrà a disturbarci, saremo di nuovo i padroni unici e assoluti di questo posto, e...

Haidar posò una mano sulla bocca di Brendan e con l'altra afferrò la casacca lisa di Roderick. Salutò Amir con un cenno della testa e si portò via gli altri, sparendo all'interno del penitenziario.

- Beh.- Mormorò Amir, dopo qualche minuto in cui aveva soltanto respirato e riordinando le idee. - Non è da tutti avere tre carcerati morti prima del 1917 al proprio servizio.


***
Grazie di essere qui! Grazie a chi si ferma, chi resta, chi segue, chi si affaccia, chi lascia due parole, chi dedica qualche momento al Sunflower.

Questo probabilmente è il mio capitolo preferito. Forse non è quello scritto meglio, né ha la trama più sorprendente, ma... Credo sia il "più Amir" di tutti. La rapidità con cui si è schierato con i morti invece che con i vivi ha stupito e divertito persino me, quando ho riletto quel che avevo scritto.
Un grazie riluttante va a non so quale programma televisivo-cialtroneria che mi sono trovata davanti facendo zapping. C'erano sedicenti medium che esploravano un carcere abbandonato, e guardandolo mi trovai a pensare: "Chissà che noia, poveri fantasmi..."

 
 

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Capitolo 16
*** XVI - Stanca delle ombre ***


Capitolo XVI

Stanca delle ombre

 

I'm half sick of shadows – she said

The Lady of Shalott


She left the web, she left the loom

She made three paces through the room

She saw the water lily bloom

She saw the helmet and the plume

of bold sir Lancelot

 

Out flew the web and floated wide

The mirror cracked from side to side

The curse has come upon me! - cried

The Lady of Shalott


(A. Tennyson - The Lady of Shalott)

 

Londra, febbraio 2009

 

Il volantino aveva un aspetto inquietante. Era scritto a mano e fotocopiato, ma la grafia era perfetta: lettere minute ed eleganti, tutte della stessa grandezza, ornate da riccioli e svolazzi. Un lessico antiquato e formale annunciava che la signoria Monica Covell cercava un assistente domestico che si occupasse delle piccole faccende quotidiane per due donne impossibilitate a lasciare la casa. Sembrava uscito direttamente da un romanzo ambientato nell'Ottocento. Un romanzo horror, per essere precisi.

E poi quel volantino glielo aveva trovato Amir. Non per essere cattivi, ma Amir era la cosa più inquietante del mondo. Lavorava in un teatro che era chiaramente l'edificio più infestato di tutta l'Inghilterra e forse anche di tutta l'Europa, e nonostante ciò non sembrava mai aver paura di niente, ma se ne andava in giro quell'aria sempre un po' trasognata e distante. Se c'era qualcuno che nascondeva segreti, quello era lui.

La metropolitana si fermò e il ragazzo scese in fretta. Si fece largo tra la gente con poca cortesia e raggiunse in fretta l'uscita. Primo giorno di lavoro, ed era già in ritardo.

L'abitazione della signora Covell era una bella casa nel distretto di Angel, a Islington, vicina alla fermata della metro. Sul volantino c'era l'indirizzo preciso, incorniciato da una specie di rampicante fiorito. Il ritardatario salì al secondo piano e si trovò la padrona di casa ad attenderlo sulla porta, ma il sorriso con cui la signora lo accolse fu rassicurante.

- Benvenuto.- Lo salutò lei. - Tu sei Aidan Casey, non è vero?

- Sì, sono io. Salve, signora Covell.

Lei allargò ancor più il suo sorriso e gli strinse la mano. A prima vista sembrava una donna di mezza età, ma a guardarla con attenzione s'intuiva che era piuttosto una signora giovane invecchiata in fretta e non troppo bene. I capelli scuri avevano ancora tutto il loro colore, la mano che stringeva quella di Aidan era liscia e forte. Però c'era qualcosa di rovinato, in quel viso. Segni nel punto sbagliato, rughe portate dai troppi pensieri. Perfino uno come lui, che non era il miglior osservatore del mondo, coglieva quei particolari dissonanti.

- Vieni, Aidan. Parlami un po' di te. Quanti anni hai?- Gli chiese lei, nonostante glielo avesse già domandato per telefono. - Cosa fai nella vita?

- Ventidue. Studio letteratura inglese all'università. Vivo con degli amici. Un lavoro fa davvero comodo. Sa, per pagare l'affitto, gli studi, tutto quanto.

- Letteratura. Che bello. Mi racconterai qualcosa dei tuoi studi, allora. Sei originario di Londra? A sentirti parlare, direi che sei irlandese.

- Eh, già.- In fondo c'era da esserne fieri, se tutti azzeccavano al volto la tua terra d'origine dopo tre sillabe.

- E come hai fatto a scoprire il mio avviso? L'ho appeso in giro, vicino alle stazioni della metropolitana e alle fermate del bus, sai, ma era piccolo, bianco e nero tra mille altri, tutti colorati, e temevo che non l'avrebbe mai visto nessuno.

- È stato un mio amico a trovarlo.

- Oh. La fortuna ha guidato il suo occhio proprio sul mio annuncio!

Che era una frase poco piacevole da sentire, trattandosi di Amir...

La casa sembrava grande e ordinata, ma c'era una tale penombra che Aidan faticava a distinguere bene ciò che vedeva attorno a sé. Le stanze si aprivano lungo un corridoio che terminava con una finestra riparata da una tenda fatta di uno spesso velluto verde scuro. Le porte erano tutte aperte, tranne due. Monica lo portò fino in fondo al corridoio, indicandogli la cucina, la sala da pranzo, il salotto e la sua camera. Di ciascuna stanza Aidan rubò uno sguardo, ottenendo la solita impressione di precisione e ordine, nella poca luce.

- Vedi, in questa casa ci siamo solo io e mia sorella. Io lavoro in casa, rammendo e ricamo. E lei, povera creatura, è malata da anni. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia la spesa due volte alla settimana, e che ogni lunedì porti in lavanderia i nostri panni, riprendendo quelli puliti. Non è certo un lavoro troppo gravoso, per uno studente, vero?

- No, va benissimo.

Monica poi gli mostrò il bagno, una delle stanze chiuse. Dell'ultima non disse nulla.

- È la camera di sua sorella?

La donna abbassò lo sguardo e annuì. Aidan ebbe la strana tentazione di allungare la mano e sfiorare il legno lavorato della porta, senza un motivo, ma si trattenne. Spostò lo sguardo su un quadro che adornava il corridoio – una scena di danza, un dipinto confuso e poco attraente. Notò lo strato di polvere sul vetro e sulla cornice. Abituatosi alla penombra, distinse macchie di umidità sulla carta da parati color panna, con disegni verdi in parte scoloriti.

- Vieni in salotto.- Lo invitò Monica. - Ti spiegherò di cosa abbiamo bisogno e dove dovrai andare a comprare queste cose.

La seguì in una stanza sobria, dotata di una certa eleganza, con poltroncine attorno a un tavolino al centro e un pianoforte chiuso, in un angolo. La finestra era bloccata da una tenda color oro, con una fantasia floreale sull'arancio spento. Non c'erano altri mobili, né suppellettili di alcun genere, tranne la piccola statua di un angelo di vetro sul pianoforte. Accanto a essa c'era un fascio di libri ingialliti: Aidan riconobbe in essi degli spartiti musicali. La luce elettrica, accesa dalla signora, proveniva da un lampadario a forma di fiore, il cui paralume ocra dava un che di giallastro a tutto l'ambiente.

Mentre la signora Covell parlava, Aidan cercava di cogliere qualche suono proveniente dalla casa. Le tracce di un'altra presenza umana, o semplicemente la protesta di legno vecchio, il rumore di qualcosa che cadeva. Non avvertì niente. Le mura stesse sembravano essere ricoperte di uno strato di silenzio che proteggeva quell'abitazione antiquata dai suoni e dalla vita del mondo.

 

- Ehi, Amir. Senti. Ti posso fare una domanda?

- Mentre il professore sta spiegando?

Aidan sospirò e scosse la testa: non era possibile essere amici di una persona così terribilmente corretta e ligia!

- Dai. Tanto tu sai già quello che il professore sta dicendo. Ti sei letto tutti i libri del mondo in inglese e in pakistano.

- Non esiste il “pakistano”, in ogni zona si parla una lingua diversa e io parlo il sindhi e l'arabo. Ed è almeno l'ottava volta che te lo spiego, da quando ti conosco.

- Sì, va bene. Posso farti una domanda?

- No.

- Certo che tu sei molto più testardo di quello che sembri, con quella faccia da persona tranquilla.

Amir puntò gli occhi sul professore e cominciò a prendere appunti con più lena e impegno di prima. Aidan chiuse il quaderno e frugò in tasca, alla ricerca del cellulare. Controllò l'ora: tre minuti al massimo alla fine di quella palla di lezione. Poi avrebbe potuto chiedere al suo amico inquietante ciò che gli stava a cuore.

Fuori dall'aula Aidan costrinse l'altro ragazzo a seguirlo al bar, ignorando le sue proteste per la lezione imminente.

- Ora mi offri un caffè.

- Ti offro anche il pranzo, se vuoi, ma non adesso.

- Amir, piantala e trasgredisci con me, per una volta. La storia inglese la sai benissimo, se ti perdi un quarto d'ora non succede nulla.

- Sì, ma...

Aidan lo spinse bruscamente all'interno del piccolo bar della facoltà umanistica, e poi, quasi pentito dei suoi modi, andò a ordinare il caffè per entrambi e decise che poteva pagare lui, nonostante le sue scarse finanze.

- Cosa vuoi chiedermi?- Domandò Amir, rassegnato, quando Aidan si fu seduto di fronte a lui e alle due tazze.

- Magari mi prenderai per un idiota, dopo. Ma devo domandartelo in tutti i modi. Amir, seriamente: tu credi ai fantasmi?

Si era aspettato di tutto, ma non quello che vide. Aveva immaginato che Amir avrebbe fatto la sua faccia esasperata e l'avrebbe liquidato con un “tu guardi troppa televisione”, oppure aveva pensato anche che gli avrebbe potuto rifilare un discorso socio-religioso-filosofico sul sovrannaturale. Era capacissimo di entrambe le cose. E invece il ragazzo fece una faccia sconcertata, quasi spaventata. Come se l'avesse appena visto, un fantasma.

- Perché lo chiedi a me?- Rispose infine, nascondendosi dietro un frettoloso sorso al caffè.

- Mi sembri la persona giusta a cui chiederlo. Prendi sul serio tutto quello che ti viene detto. Lavori in un posto strano. Credi in Dio e sei la persona più religiosa tra i miei amici. E poi questo lavoro me l'hai trovato tu.

- Ti è successo qualcosa al lavoro?

- Ah, vedi?- Esclamò Aidan, battendo una mano sul tavolo, soddisfatto. La sua tazza si agitò e spruzzò fuori una quantità di caffè. - Hai glissato sui fantasmi ma ti sei interessato alla faccenda! Come se sapessi che c'è la possibilità che io abbia incontrato qualcosa di insolito al lavoro!

- Stai attento!- Protestò Amir, spostando la sua sciarpa dall'inondazione.

- Allora? Forza, arriva fino in fondo e rispondi. A tutto quello che voglio sapere.

- Perché, altrimenti cosa fai?- Borbottò Amir, tastando la sciarpa inzuppata di caffè. Mise su un'espressione seccata e buffa.

- Ti impedisco di andare a lezione.- Rispose, alzandosi in piedi e piazzandosi dietro la sedia di Amir. Quello si voltò, cercando di spostarsi, ma Aidan lo trattenne a sedere, ridendo. - Eh, no! È un ricatto in piena regola. Rispondimi e sarai libero.

- Sei più sciocco di un bambino di cinque anni e questa situazione è imbarazzante. Facciamo così: tu mi dici cosa ti è successo al lavoro, e io ti spiego cosa ne penso dei fantasmi.

- Affare fatto.- Aidan tornò a sedersi, poi prese una bottiglietta d'acqua dalla borsa e cercò maldestramente di smacchiare la sciarpa di Amir, mentre si accingeva a parlare. - Allora, la signora Monica Covell è gentile. Sorride sempre. Però non parla mai di sua sorella invalida, né mi lascia entrare nella sua stanza.

- Mi sembrano cose normalissime. E molla la mia sciarpa, ormai hai fatto danno.

- Quando entro in casa loro, avverto una sensazione che non saprei spiegarti bene. È come se lì dentro non esistessero le caratteristiche normali di tutti gli ambienti. Mi spiego: per esempio, non ci sono odori. Nessuno. Io faccio la spesa e sento il profumo del pane o della frutta. Poi arrivo in casa, poso le borse sul tavolo della cucina e all'improvviso gli odori sono spariti. Lo so, sono lì solo da una settimana, ma è capitato entrambe le volte in cui ci sono andato. E anche con il bucato preso dalla lavanderia: fuori aveva un profumo forte, piacevole. Dentro casa... Niente.

- Non tutti gli odori sono duraturi.

- Ho preso una pagnotta e l'ho portata vicinissima al naso. Nulla. Questo è fuori dal comune, ammettilo.

- Diciamo di sì.

- Poi, i suoni. Lì dentro c'è un silenzio assoluto. Assoluto per davvero. Non si sente nemmeno il rumore dei propri passi o del respiro. Ho provato anche a tossire forte. È come se la casa inghiottisse i suoni. Si sente solo la voce, e anche quella arriva appena. Perfino la mia. Parlo tra me e me e... Non so più se ho parlato davvero o se ho solo pensato.

- Non è solo un'impressione dovuta alla casa troppo grande?

- Non è grande. Per niente. E l'edificio non è silenzioso: nell'appartamento davanti c'è gente che tiene la televisione a un volume altissimo. La sento quando esco e quando entro in casa delle signore Covell. Almeno nell'ingress, dovrei essere in grado di sentirla. Non ci sono rumori, te lo giuro. Passo davanti alla porta della signora malata e... Niente. Secondo me è vuota e la signora Covell se la sta immaginando, sua sorella.

Amir distolse lo sguardo e non commentò in alcun modo. Cercava un modo carino per dargli del visionario oppure prendeva per buone le sue parole?

Aidan si chiese se esprimere a voce alta quei dubbi lo aveva aiutato a renderli più evanescenti, oppure se invece parlarne a qualcuno non li rendeva più concreti. Forse tutto dipendeva da Amir: se avesse dato credito a quelle fantasie, anche Aidan si sarebbe fidato di esse.

- Ammettiamo che la signora Covell finga di avere una sorella.- Cominciò Amir. - Non significa per forza che c'entrino i fantasmi. Forse l'unico fantasma è nella mente della tua datrice di lavoro.

- Non stai dicendo che sono completamente pazzo, allora.

- Perché dovrei? Anche se esiste una soluzione razionale a ciò che hai notato, non vuol dire che non ci sia comunque qualcosa di insolito.

Aidan sorrise sinceramente, felice di quelle parole. Era bello avere un amico che non partiva mai dal presupposto che tu avessi torto o fossi stupido.

- Beh, per finire la storia delle mie stranezze, un'altra cosa che lì dentro non esiste è la temperatura. Non fa né caldo né freddo. E non è perché la signora Covell è brava a gestire i caloriferi. Non sono mai accesi, mai. Eppure non si congela. E allo stesso tempo non c'è caldo. Non so spiegartelo, è come se tutto fosse sospeso. Lì dentro non ci sono le tipiche cose che rendono vivo un posto. Voglio dire, un vicolo di notte è gelido, c'è puzza di piscio e di alcol magari, e senti gli schiamazzi di chi sta lì a ubriacarsi. In un'aula, durante la lezione, avverti i bisbigli, i sospiri, qualche risata, e c'è l'odore di tante persone che riempiono un luogo e di sicuro fa caldo d'estate e freddissimo d'inverno. Un luogo non è fatto solo dal luogo. Scusami, non so cosa sto dicendo.

- Io ho capito perfettamente.

- E poi c'è l'ultima cosa. La più folle di tutte, probabilmente. Sai, ho una zia suora a Limerick. Quando ero piccolo e lei era una ragazza, era già molto religiosa. Mi portava in chiesa e mi diceva che entravamo in un posto speciale, diverso da tutti gli altri. Anche lei si trasformava: diventava silenziosa e assorta. Mi faceva pensare a qualcosa di magico. Era una suggestione, forse, ma sentivo che aveva ragione, l'interno di una chiesa era diverso dall'esterno. Beh, quella casa è simile a una chiesa. Io entro e so che è un posto diverso da quello dov'ero prima. Ma non c'è la sensazione rassicurante di pace, di cose antiche e magari anche di cose belle che senti in una chiesa.

Amir lo ascoltava con il massimo della concentrazione, il viso posato sulle mani, attento a non perdere una parola.

- Cosa senti, lì?

- È come se fosse un posto che non dovrebbe esistere.

Amir non commentò. Rimase pensieroso, per qualche momento, prima di scuotere appena la testa.

- Mi dispiace. Non so cosa consigliarti. E riguardo i fantasmi, posso dirti che non credo si debba mai escludere qualcosa a priori. Ci sono cose che non si vedono, ma non per questo sono meno reali di quelle che tocchiamo.

- È un po' vago, sai...

- Però credo a quello che dici.

- Ti ringrazio. Mi fa sentire meno stupido. Secondo te cosa devo fare? Continuare come se niente fosse, facendo il mio lavoro e basta?

Amir sorrise. Sembrava il sorriso di chi sa benissimo di cosa sta parlando.

- Credo di sì. Se per caso ci fosse davvero qualcosa di sovrannaturale, allora si manifesterà quando e come vuole.

 

La spesa era posata sul tavolo. Due buste piene di ottimo cibo, profumato. Aidan si assicurò che la signora Monica non fosse lì per vederlo e pescò un sacchetto di biscotti alla mandorla presi in pasticceria meno di mezz'ora prima. Aprì il sacchetto e lo avvicinò al viso, inspirando.

Niente.

Quel posto fuori dallo scorrere del tempo cancellava le tracce della vita.

Aidan posò il sacchetto, con un brivido. Era semplicemente impossibile ed era anche molto, molto sciocco soffermarsi su quei pensieri. E se il suo amico mistico pakistano diceva che forse i fantasmi esistevano, beh, non era comunque un buon motivo per credere che davvero lì succedesse qualcosa...

Si spostò bruscamente dalla spesa infestata e uscì dalla cucina. In punta di piedi raggiunse il salotto e spiò il suo interno: la signora Monica non era lì. Avanzò verso la camera di lei, rendendosi conto che non aveva senso cercare di fare piano: i suoi passi non risuonavano comunque. Raggiunse la camera: la porta era chiusa. Vi poggiò contro l'orecchio e non udì niente. Come sempre.

Si voltò e si trovò di fronte la porta della sorella misteriosa. Per sfidare ancora una volta quel luogo e quell'enigma, vi si avvicinò.

Non aveva mai sentito alcun suono in quella casa, mai colto una traccia di vita, ma ora era sicuro di quello che le sue orecchie percepivano: uno sferragliare ritmico che non sapeva riconoscere, ma gli ricordava qualcosa. Un'immagine di sua nonna, della loro vecchia casa. Il suono gli risvegliava sensazioni note, che pian piano si concretizzarono, e allora intuì: qualcuno stava usando una macchina da cucire, al di là della porta, e il pestare sul pedale, l'incessante su e giù dell'ago producevano il rumore rivelatore di una presenza umana reale.

Dimentico di tutto – dov'era, chi c'era in casa con lui – aprì la porta.

La stanza era in penombra, come tutte le altre. La finestra era nascosta da una tenda blu scuro, della stessa stoffa greve e polverosa che occludeva tutti gli spiragli d'aria e luce della casa. Incastrata tra un lettino ricoperto di povere coperte dall'aria antiquata e un piccolo armadio con le ante riparate da strisce di scotch scuro, stava una macchina da cucire, e di fronte alla macchina, con le spalle rivolte alla porta, c'era una donna. I suoi capelli erano chiari e mossi, raccolti in una lunga treccia che scendeva sulla schiena. Indossava una veste grigia e larga. Oltre la sua figura, alta ma ingobbita, esile, fragile, si intravedeva un tessuto azzurro, con grandi fiori bianchi e celesti, che la donna stava cucendo. Accanto alla macchina, su un traballante tavolino, c'era un piccolo televisore acceso, che rimandava le immagini un po' sciupate di un vecchio film. Il volume era basso, le voci degli attori appena percettibili, però si sentivano, e si sentiva anche un tema musicale dolce e struggente. La donna aveva il volto chino sul lavoro, ma ogni tanto lo distoglieva, per guardare le ombre di vita che la televisione le donava.

Aidan la guardava, stupito, immobile sulla soglia. Respirava la realtà di quell'esistenza. Nella stanza c'era caldo. Nella stanza c'era odore di caffè e di tenue profumo da donna. Nella stanza c'era il rumore della macchina da cucire, c'erano i suoni del film, c'era – nei brevi istanti in cui lei si fermava per controllare il lavoro – il ritmo dell'espirare ed inspirare di lei.

A un tratto la donna si immobilizzò del tutto. Allungò una mano candida e spense il televisore. Le immagini furono risucchiate dal buio dello schermo vuoto. E su quello che improvvisamente era diventato uno specchio si rifletté, incerto e sfumato, il viso ovale di Aidan, il ciuffo rosso sugli occhi, il naso aquilino, la figura alta, con le spalle larghe, infagottata in un maglione verde.

La donna emise un sospiro. Poi lentamente si girò, fino a rivolgere il viso verso Aidan.

Era giovane, pur con i segni del tempo e del dolore sul viso. Aveva gli occhi azzurri, i lineamenti delicati e belli, le labbra fini increspate in un sorriso meraviglioso, pieno di tutta la vita che mancava alla casa, pieno di aspettative e sogni mai realizzati, ma non per questo meno splendidi. Gli sorrise per pochi secondi, ma bastarono a riempire il ragazzo di una pena infinita e allo stesso tempo di uno struggente desiderio di felicità, di pace.

- Lo sapevo, che gli somigliavi.- Mormorò lei, senza abbandonare quell'espressione distante e dolcissima. - Ho fatto bene a volerti guardare. L'ho conosciuto su un treno. Strana cosa, un principe su un treno. Ma le fiabe cambiano con il tempo, suppongo. Aveva i capelli rossi come i tuoi e la tua bella faccia impertinente. Mi piaceva tanto. Mi ha resa felice per molto tempo.

Poi il sorriso si affievolì, senza però sparire del tutto. Aidan era muto e la guardava, senza comprendere ciò che quegli occhi stanchi ed emozionati volevano raccontargli davvero. Si domandava quale fosse il dolore e quale la gioia che s'intrecciavano nella creatura eterea che gli aveva regalato forse il suo segreto più intimo.

In quel momento udì un grido che lo fece trasalire. Un urlo disumano di rabbia e frustrazione, qualcosa che si spaccava cadendo all'improvviso, qualcosa che esplodeva. Mani gelide e crudeli come artigli si serrarono sulle sue spalle, trascinandolo via dalla stanza, e la porta si chiuse da sola, come spinta da un violento alito di tempesta che non c'era.

- Perché sei entrato?- Gridò Monica, strattonandolo con una forza difficile da immaginare per una piccola donna. - Perché? Non dovevi entrare! Ti era proibito!

Aidan tentò di sottrarsi a quella presa e di girarsi, per guardarla in viso, ma non ci riuscì. Le mani della donna erano ferme addosso a lui, e lo spingevano via, lungo il corridoio, verso la porta.

- Mi lasci, signora!

- Perché sei entrato? Hai disobbedito! Fuori da qui! Fuori! Non venire mai più!

Lo lasciò andare con uno spintone più brusco degli altri, gettandolo contro la porta. Aidan perse l'equilibrio e si riprese un attimo prima di inciampare. Si resse alla porta e fece per voltarsi, ma la donna alle sue spalle gettò un altro dei suoi urli animaleschi, così stridulo e folle che ghiacciò il cuore di Aidan. Il ragazzo armeggiò disperatamente con la serratura e la fece scattare. Si lanciò fuori e chiuse la porta dietro di sé, con le orecchie ancora piene di quella voce.

 

Sul tavolo del bar c'era il giornale e nessuno dei due ragazzi aveva una mezza parola da dire al riguardo.

 

Donna trovata morta nel suo appartamento

 

Londra, 28 febbraio 2009. Mathilda Covell, 40 anni, è stata ritrovata morta nel suo appartamento nel distretto di Angel, Islington. La causa della morte è da imputarsi a un'inspiegabile soffocamento. La signora Covell era rinchiusa in casa da anni per un grave caso di agorafobia. Sua sorella maggiore, Monica Covell, 46 anni, era morta un anno prima in un incidente d'auto. Il fratello Robert Covell si occupava di lei, portandole la spesa e pulendo la casa una volta alla settimana. Da circa venti giorni era in cerca di un collaboratore domestico che potesse aiutare la donna più assiduamente, ma non era riuscito a trovare nessuno. Così Matilda Covell è rimasta da sola, ed è stato il fratello e trovarla, quando ormai la donna era morta da tre giorni. Si spera che l'autopsia possa fornire indicazioni precise quanto alla causa della morte.

 

- Io l'ho vista, sua sorella Monica.- Disse Aidan, quando non ne poté più del silenzio.

- Ti credo.

- Stando a questo articolo, Mathilda è morta esattamente il giorno in cui l'ho vista. Sua sorella l'ha uccisa! Non è vero che è morta un anno fa, non ci credo. L'avresti dovuta vedere, Amir. Ho pensato che avrebbe ucciso anche me. Era furiosa!

Nascose il viso tra le mani e si strofinò gli occhi, come per costringersi a tornare alla tranquilla realtà di sempre, dove non esistevano signore folli e sorelle segregate che morivano misteriosamente.

- Aidan. Ascoltami. Vuoi tornare in quella casa con me, stanotte?

- Che cosa?- Sollevò lo sguardo verso Amir e lo trovò serio come sempre, perfettamente convinto di quel che diceva. - Ma che cavolo stai dicendo?

- Ti sei rivolto a me per i tuoi dubbi, no? Fidati di me.

- Va bene.- Si chiese quanto fosse stupida quell'idea. - Va bene, verrò. Ma poi voglio una spiegazione sensata da te, o è l'ultima volta che ci parliamo.

 

Nessuno li aveva visti. Bene. Erano proprio davanti alla porta, sulla quale c'erano i sigilli della polizia.

- Come entriamo?- Bisbigliò ad Amir, chiedendosi per la millesima volta come mai l'aveva seguito.

- Così.- Rispose l'altro, toccando appena la porta. Quella si aprì da sola, gettando su di loro un raggio di luce inaspettato dall'interno. Aidan trattenne a stento un grido. Amir, che sembrava a suo agio, mosse il primo passo, seguito da Aidan.

C'era una luce incredibile, nel corridoio. Veniva dalla finestra in fondo, spalancata sulla più bella giornata di primavera mai esistita. Il sole e l'aria tiepida si riversavano all'interno, e si udivano i suoni della natura, i richiami animali e lo stormire del vento tra le fronde. Si intravedevano cime d'alberi fioriti, oltre i vetri aperti.

E davanti alla finestra, bella e malinconica come quando l'aveva vista per la prima volta, c'era Mathilda, con i capelli biondi sciolti e mossi dal vento, e un vestito azzurro a fiori, fatto della stoffa che la donna cuciva nella sua stanza triste.

- Oh. Il cavaliere è tornato.- Disse lei, facendo un cenno di saluto ai ragazzi.

- Cos'è successo, signora?- Domandò Amir, avvicinandosi senza paura. Aidan rimase in fondo al corridoio, raggelato.

- Io volevo uscire, ma lei non me lo permetteva. All'inizio mi teneva rinchiusa qui e basta, con qualche potere perverso che non capivo, ma mi lasciava comunicare con il mondo. Quando ha capito che potevo essere felice lo stesso, ha minacciato di uccidermi, se mi fossi rivolta ancora a qualcuno. Così ho smesso di parlare al telefono, di usare il computer, di aprire la porta. Anche a Robert, mio fratello, dicevo appena “ciao” e “grazie”. Tutti mi ritenevano malata, nessuno sapeva che lei era qui e mi teneva prigioniera.

- Sua sorella Monica?- Chiese Amir. Mathilda fece cenno di sì con la testa. - È sempre stata gelosa di me, di ogni mia minuscola felicità. Non mi ha perdonato di non essere morta al posto suo. Quel giorno dovevo andare ad acquistare un regalo. Volle andarci lei: aveva desiderio di svagarsi, e io la lasciai fare. Era sempre cupa, sempre sola. Pensai che potesse essere felice per quella piccola uscita. E invece trovò la morte. Poi però lei tornò qui, ed era un concentrato di rancore e risentimento. Mi si attaccò addosso come una malattia. Diventò la mia maledizione.

- Monica non la faceva uscire da qui...- Mormorò Aidan, incredulo. Lei allora tornò a guardarlo e a sorridergli.

- Ero costretta a stare in camera, guardando il mondo attraverso la televisione soltanto, e cucivo l'abito che mi sarei messa il giorno in cui lei finalmente si sarebbe stancata di farmi da carceriera e sarebbe andata a cercare la pace.

- Ma quell'avviso per il lavoro?- Insisté lui. - È stato suo fratello ad appenderlo? E come mai io ho parlato con Monica, al telefono?

- Perché chiamasti mentre Robert era qui. Allora Monica s'impossessò di lui e ti parlò. Voleva controllare gli accessi a questa casa. Non voleva che Robert presentasse a me una presenza del mondo esterno. Io ero la sua prigioniera, non ero di nessun altro. È sempre stato tutto un intreccio di desideri: lei desiderava vivere la mia vita e alla fine, quando non ha più potuto farlo, ha deciso di annientare tutti i miei desideri e impedirmi di vivere.

- E poi cos'è successo?- Chiese Aidan, avvicinandosi.

- Sei entrato nella mia stanza e non ho resistito. Ho sentito il tuo passo e ho pensato di dirti qualcosa. Ho spento la televisione. Sapevo che era stupido e che lei mi avrebbe fatto del male. Ma il tuo riflesso sullo schermo... Mi hai ricordato tanto quella persona. Mi ha presa un'infinita nostalgia del mondo e non ho più pensato: mi sono voltata!- E aveva di nuovo quell'aria persa, da personaggio di una ballata, quella che Aidan le aveva visto in volto quando si erano incontrati nella piccola camera.

- Monica l'ha punita per aver comunicato con me?

- Me l'aveva promesso. Era la mia maledizione: morte, se mi fossi voltata a guardare la vita. Però non ho potuto resistere. Non mi sono resa conto di ciò che facevo. C'eri tu e c'era il mio desiderio. Per una volta il mio specchio mi aveva mostrato qualcosa di vero, che io volevo vedere.

- Mi dispiace! Se l'avessi saputo, non sarei mai entrato!- Gridò il ragazzo. La donna scosse la testa, allungando una mano bianca come per toccarlo.

- Per quanto mi dispiaccia di non aver potuto vivere ancora, almeno mi porterò via da questa vita il tuo viso e tutta la folla di ricordi e doni dei tempi passati che la tua vista mi ha riportato. Mi hai fatto rivivere la parte più bella della mia esistenza in un momento solo. Non è cosa da poco.

- Lei dov'è?- Chiese Amir, preoccupato. - Monica. Se n'è andata?

- Sì. Con la mia morte cessava il suo motivo di esistere. Pregate per lei, per la sua anima piena di rancore. Invece io sono rimasta perché volevo raccontare la mia storia a qualcuno.

Guardò fuori dalla finestra, come attratta all'improvviso dal mondo che vedeva oltre i vetri. La luce si fece più forte, quasi accecante, per un attimo. Poi il corridoio fu di nuovo buio e inospitale, e la casa si riempì di suoni, odori e freddo umidiccio che aggrediva le ossa. La finestra era sparita, al suo posto c'era solo la tenda pesante. L'unica tenue luce proveniva dal pianerottolo alle loro spalle, fuori dall'appartamento.

- Andiamo.- Amir prese Aidan per un braccio e lo obbligò a correre, lasciandosi alle spalle quella casa e quella storia.

Appena furono fuori Aidan si staccò bruscamente da Amir e gli si piazzò davanti.

- Adesso tu mi dici che cazzo è successo realmente là dentro! È tutto vero? È uno stupido scherzo organizzato da te o da qualcun altro?

- Puoi decidere che sia tutto vero, o puoi inventare una spiegazione razionale e prenderla per vera. Dipende da te.

Aidan abbassò la testa, respirando a fondo.

- Scusa. Me la sto facendo sotto dalla paura. Non so cos'è successo, in quella casa.

- Io sì. Ma è un genere di cosa che non puoi spiegare. Uno deve vederla da solo, e decidere se ci crede o no. Avrei potuto dirti subito: sì, c'entrano i fantasmi, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

Aidan si mise a sedere sul bordo del marciapiede. Il sudore gli si era congelato addosso, il cuore continuava a battere troppo forte. Amir andò ad accoccolarglisi accanto.

- Allora, Amir. Spiegami un po'. Hai incontrato altre cose strane?

- Altroché.

- È per questo che sembri sempre su un altro pianeta?

- Veramente quello me lo dicevano sempre anche prima di arrivare qui e vedere tutte queste cose.

Aidan sbuffò, poi si passò le mani sul viso, stropicciandosi gli occhi.

- Ho sempre sospettato che la nostra sarebbe stata un'amicizia complicata.

- Vuoi ancora essere mio amico, anche dopo questa rivelazione?

Aidan si voltò a guardarlo. I capelli ricci di Amir facevano sempre strane cose, sfuggendo a qualunque tentativo di tenerli raccolti. In quel momento erano sciolti sulle spalle del ragazzo e sparati in tutte le direzioni. Un effetto piuttosto comico.

- Sei uno in gamba.- Rispose Aidan, posando un braccio sulle spalle dell'altro. - Lo penso davvero. Voglio essere tuo amico, ma ti prego, non portarmi più avvisi di lavori fantasma!

- Mi dispiace, non avevo certo idea che quell'annuncio fosse...

- E dai! Scherzo. Va bene, diciamo che in futuro potrei anche aiutarti, se fossi nei guai seri. Ma solo in caso di questione di vita o di morte.

- Cercherò di non coinvolgerti.

- Ma no. Magari si scopre che è anche divertente.

- Divertente... Non lo so.- Amir si fermò qualche momento a riflettere, poi finalmente sorrise. - Però ne vale la pena.

Si avviarono verso la metropolitana in silenzio.

- Mathilda.- Mormorò Aidan all'improvviso. - Sembrava felice, alla fine. Era così bella.

 

 

Lancelot mused a little space

He said – She had a lovely face

God in His mercy lend her grace

The Lady of Shalott





***

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Capitolo 17
*** XVII - Ricordami ***


Capitolo XVII

Ricordami

 

Think of me long enough

To make a memory

(Nightwish, Bless the child)

 

Londra, marzo 2009

 

La cosa peggiore era non riuscire a capire gli insulti.

Non che correre come un folle per una piccola strada deserta imboccata senza alcuna cognizione di causa, ansimando e guardandosi alle spalle ogni tre secondi, fosse una gran cosa. Però gli sarebbe piaciuto sapere perché due tizi enormi e arrabbiati lo stavano inseguendo. I due si premuravano di farglielo sapere, gridandogli dietro raffiche di parole dal tono aggressivo. Solo che non esistono scuole pakistane dove si insegna lo slang londinese agli studenti. Poteva fare qualche ipotesi: era incappato in due razzisti? Lo avevano scambiato per qualcun altro?

Si voltò ancora: erano terribilmente vicini. La paura che pian piano gli stava montando dentro si trasformò in panico in un istante. Si impose di restare lucido, di concentrarsi solo sulla corsa. E sull'orientamento, magari.

Si era perso cercando una fantomatica biblioteca privata, abbandonando un viale luminoso e rassicurante per ritrovarsi in una strada piccola, disseminata di case dall'aspetto trasandato. Nel tentativo di tornare sul viale luminoso aveva imboccato un'altra strada poco piacevole, e poi erano spuntati fuori quei due. Si era messo a correre con qualche secondo di ritardo, incredulo di fronte alla semplice realtà che i ragazzi (probabilmente entrambi più giovani di lui) ce l'avessero con lui.

Il problema era capire quanto ce l'avessero con lui.

Purtroppo dovette capirlo, e piuttosto in fretta. Lo raggiunsero, com'era logico. Il più robusto dei due gli arrivò addosso, lo prese per un braccio e lo strattonò con una forza tale da fargli perdere l'equilibrio. L'altro completò l'opera, spintonandolo a terra. Amir chiuse gli occhi e si riparò istintivamente il viso. Arrivò il primo calcio. Lui cercò di rotolare via, anche se ormai si era dato per vinto. Poteva solo sperare che si stufassero alla svelta.

Poi ci fu un rumore piuttosto forte, seguito dal grido di uno degli aggressori. Tutto si fermò. Anche l'altro gridò, una sfilza di parolacce, urlate con un misto di rabbia e paura. Amir sollevò le mani con cui nascondeva il viso e vide che uno dei due si reggeva la testa grondante sangue, mentre l'altro gli saltellava attorno, incapace di decidere come agire. A terra c'era un pezzo di tegola, probabilmente staccatasi da uno dei tetti circostanti.

- Fermi!- Esclamò qualcuno che Amir non riuscì a vedere.

I due smisero il turpiloquio e cercarono l'origine di quella voce. Davanti a loro improvvisamente c'era un tipo alto e robusto, con un lungo impermeabile nero e i capelli lunghi, neri con strisce viola. Era giovane, aveva la faccia bianchissima e l'orecchino al naso, e i suoi occhi erano truccati di nero.

I due rivolsero la loro rabbia – almeno quella verbale – verso lo sconosciuto. Amir però riuscì a balzare in piedi e cominciare a correre prima che loro realizzassero la sua fuga. Li sentì gridare, li sentì muoversi, ma non si voltò a guardare. Corse senza capire dove andava, focalizzato solo sul movimento delle sue gambe. L'unico pensiero, oltre a quello della fuga, era rivolto allo strano tipo col cappotto nero, che era rimasto solo con i suoi aggressori, ma tanto non aveva problemi perché era morto.

La corsa si interruppe quando Amir dovette darla vinta al dolore improvviso che gli era esploso nel petto. Forse era colpa della caduta, forse della corsa: non riusciva più a respirare. Si accasciò su una scalinata, domandandosi se fosse abbastanza lontano da ritenersi al sicuro.

- Stai bene?

Il tipo con il cappotto nero e i capelli viola era davanti a lui.

- Perché mi hai aiutato?- Chiese Amir, provando a tossire per vedere se riusciva a rimettere in moto quel che s'era inceppato lì da qualche parte, tra le costole e il suo apparato respiratorio.

- Non ho fatto niente di che.

- Lo so che sei stato tu. Perché? Io sono...

- Straniero? Sì, lo vedo. E allora?- Rispose il giovane, con un sorriso conciliante.

- No, intendo dire che sono...

- Clandestino? Non ci sono problemi. Non sono il tipo che va a denunciare i clandestini alle autorità.

- Ma no, voglio dire...

- Musulmano? Ebreo? Gay? Anarchico? Non sono razzista con nessuno, credimi!

- Io sono vivo, e tu no!

- Oh.- Fece l'altro, tacendo finalmente. Lo guardò, pensieroso. Sembrò cercare risposte nel viso di Amir. - Come lo sai?

- Ho a che fare con quelli come te.- Rispose Amir. Aveva afferrato con una mano la ringhiera che costeggiava le scale su cui si era lasciato cadere, mentre teneva l'altra mano sul petto, sperando che il dolore passasse.

- Stai così male?- Domandò lo spettro, angosciato. - Dobbiamo chiamare aiuto immediatamente!

- Lascia fare. Sto bene.

- No che non stai bene!- Protestò lo spettro. Aveva una faccia tanto preoccupata che fece sorridere Amir. Era bello, in fondo, non ritrovarsi completamente da soli in una situazione del genere.

- Se ti calmi tu, mi calmo anch'io.- Disse Amir. Si aggrappò alla ringhiera, contò mentalmente fino a tre e scattò in piedi. Voleva dimostrare allo spettro che andava tutto bene. - Vedi? Mi reggo in piedi. Mi fa un po' male qua, nient'altro.- Spiegò, toccandosi il petto. L'altro sembrò raggelarsi.

- Cosa? E se ti fossi incrinato una costola? Lo sai che è pericolosissimo? Potresti morire nel giro di un'ora!

- E tu come lo sai? Studiavi medicina?

- No, ma ho visto un sacco di telefilm.- Rispose lo spettro. Amir si trattenne a stento dal ridere: non voleva sembrargli sgarbato. Però quel tipo era davvero originale. Gli piaceva molto, a primo impatto, anche se lo capiva poco.

- Senti, facciamo così. Adesso mi riposo un attimo e poi vado a cercare un bus o una stazione della metropolitana che mi riporti a casa.

- Assolutamente no! Non crederai che se ne siano andati?

Quello era un bel problema. Amir si mise di nuovo a sedere, avvertendo che la paura di poco prima stava tornando.

- Magari telefono a una persona che possa venire a prendermi.- Rifletté a voce alta.

- Ottima idea.- Rispose lo spettro. - Però lo sai, dove sei? Perché altrimenti sarà complicato farti venire a prendere.

Amir si guardò attorno, sconsolato. No, decisamente non lo sapeva.

- Ehm. Ecco. Tu lo sai, dove siamo?

- Troppo vicino a quei due tipi e ai loro amici.- Rispose lo spettro, triste. - Che cercavi, da queste parti?

- La biblioteca Saint Augustine.

- Ah, quella?- L'altro indicò l'edificio alle spalle di Amir. Notevole ironia, davvero.

Almeno aveva capito dov'era. Tirò fuori il telefono e chiamò Aidan, ma il ragazzo non rispose. Sapeva che la signorina Angela era fuori città. Gli rimaneva solo il signor Bennett. Certo, era tardi e l'avrebbe disturbato. Probabilmente era a cena. Non aveva mai chiesto aiuto al signor Bennett. Si sarebbe arrabbiato? Però non aveva voglia di avventurarsi da solo di nuovo tra quelle strade.

- Amir?

- Mi scusi se la disturbo. Ho avuto un piccolo problema. Mi dispiace. Sono davanti alla biblioteca Saint Augustine, quella di cui parlavamo stamattina, e non so come tornare a casa. Sono... Insomma, è successo un incidente. Niente di particolare.

- Ma stai bene?

- Sì. No. Avrei bisogno di un passaggio, ma non... Lasci perdere. Cercherò di trovare un modo per... Mi dispiace. È che è una zona molto...

- Come ti è venuto in mente di andarci di sera?- Il signor Bennett gli sembrò piuttosto seccato. - Ti avevo avvisato che non era una bella zona.

- Sì. Scusi. Pensavo di...

- Vengo a prenderti.

L'uomo riattaccò senza altre parole e Amir rimase a fissare il nulla, chiedendosi cosa ci fosse di tanto sbagliato in quel che aveva fatto.

- Dalla faccia che hai sembra che quello a cui hai telefonato si sia un po' incazzato.- Commentò lo spettro.

- In fondo ha ragione, l'ho disturbato. È il mio datore di lavoro, non un mio familiare o un mio amico.

- I datori di lavoro sono una brutta razza.- Concordò lo spirito, sedendosi sulle scale. - Il mio non voleva che mettessi gli orecchini, che mi tingessi i capelli e mi vestissi di nero. Che cazzo, siamo a Londra, mica in qualche paesino di benpensanti puritani! Conoscevo una tipa che faceva la commessa in una libreria vestita da gothic lolita.

- Dove lavoravi?

- Facevo le pulizie in una scuola di musica per bambini. I miei genitori erano convinti che avessi qualcosa di sbagliato, visti i miei interessi e il mio abbigliamento, quindi mi avevano imposto un lavoro. Per “rimettermi in carreggiata”, dicevano.- Fece una risata poco convincente. - E tu, togliti dalla testa che io c'entri qualcosa con quelli! Il mio stile significa è tutta un'altra cosa!

- Lo so. Ho visto tanta gente che si veste come te. Ho un'amica che ha cercato di spiegarmi un sacco di cose sul gothic, però credo di non aver capito granché.

- Noi goth siamo gente tranquilla.- Rispose lo spirito, bonario. - Lo sai chi sono quelli che ti hanno inseguito? Dei teppisti di estrema destra. Pensano di dover proteggere la città da quelli che ritengono rifiuti della società.

- Tipo gli stranieri?- Indovinò Amir.

- Già. Io non ho niente a che spartire con loro.

- Come mai sei finito qui?

- Giocavo di ruolo dal vivo. Un anno fa col mio gruppo ci siamo spinti qui per una sessione di Vampires, senza sapere che non era una zona tranquilla. Mi sono perso, come te. Sono praticamente finito in mezzo a una rissa e mentre cercavo di uscirmene mi sono beccato una coltellata.

Amir non seppe che altro dirgli. Era turbato per quel che era successo, per la telefonata, per la storia che aveva appena sentito. Va bene, era l'amico degli spiriti, ma era un povero essere umano come tanti. Non aveva voglia di cercare qualche bella parola appropriata, sebbene ciò che era successo allo spirito lo rendesse triste.

- Insomma, tu hai a che fare con gli spettri, eh?- Riprese l'altro. - Dimmi, è più come Ghost Whisperer o come Supernatural?

- Che cosa?

- Dai, sono due telefilm famosissimi! Insomma, tu esorcizzi i fantasmi gettando sale sui loro cadaveri e bruciandoli?

- Ma... No!

- Allora li mandi verso la luce?

- Quale luce?

- Cerchi di risolvere le loro faccende in sospeso?

- In realtà li ascolto e basta. Insomma, io non capisco cosa faccio. Di solito gli spiriti si fidano di me, dicono un mucchio di cose e magari alla fine spariscono senza spiegare nulla. E tutti pensano che sia merito mio.

Lo spettro meditò un po' su quella risposta, poi scoppiò a ridere.

- Incredibile. Una vita a guardare questa roba, per poi scoprire che i fantasmi esistono. Io comunque sono Derek.

- Mi chiamo Amir.

- Anche se, quando sono morto, ero Hiroyuki, vampiro Assamita. Hai mai giocato di ruolo?

- Una volta. L'amica che mi ha parlato dei goth, Virginia, ha provato a far giocare me e altri due ragazzi a Dungeons and Dragons. Lei faceva il master

- E com'è finita?

- Siamo morti tutti molto presto.

- Un classico.

- E tu invece eri qui a giocare dal vivo? Vuoi dire che giocavi come si fa da bambini, interpretando i personaggi?

- Stupido, eh?

- Non ci ho mai provato, non posso sapere com'è.

- Un sacco di gente la ritiene una cosa stupida.- Disse Derek. - Forse un po' lo è davvero. I miei genitori e mia sorella ne erano sicuri. Avevo cominciato a giocare di ruolo online, solo che i miei si erano convinti che avessi trovato una specie di setta satanica, o qualcosa del genere. Io non sono capace di schiacciare un ragnetto, figurati entrare in una setta. Ma, sai, la gente non sempre capisce bene le cose strane.

- Una grande verità.

- Però almeno sono morto durante un signor gioco, eh sì. Una splendida sessione, ben organizzata e soddisfacente. Era un giallo, con degli omicidi da risolvere. Bellissimo. E tu pensa che uno dei miei più grandi rimpianti è non sapere com'è andato a finire. Vedi, c'erano questi delitti stranissimi, che richiamavano Jack lo Squartatore e la teoria massonica. La conosci questa faccenda?

- Non è quella faccenda di cui si parla in un fumetto?

- Hai letto From Hell?

- È sempre la mia amica Virginia che me ne ha parlato. Mi ha mostrato una foto di questo tipo barbuto con un sacco di anelli e mi ha raccontato nel dettaglio tutti i suoi fumetti. Tranne uno, che secondo lei è il più bello del mondo e vuole che lo legga.

- Oh, fantastico! Devi farti prestare Watchmen subito!

- Come fai a sapere che si tratta proprio di quello?

- Senti, noi nerd ci intendiamo telepaticamente con la gente della nostra razza!

Amir rise e pensò che non sarebbe mai potuto essere un nerd, e poi pensò che comunque erano una categoria che gli piaceva, specie quando erano spontanei ed entusiasti come Virginia e Derek.

- Avrei sempre voluto fare un cosplay di Night Owl.- Sospirò Derek. - È uno dei personaggi di Watchmen. In fondo ho la stazza giusta. Sai cos'è un cosplay?

- Sono mesi che Virginia mi propone di interpretare tutti i personaggi con la pelle scura dei fumetti che legge. Ma non voglio fare una cosa del genere.

- Dovresti!- Esclamò l'altro. - È la cosa più bella del mondo!

- Ehm. Ci penserò.

- Beh, senti, intanto che aspettiamo il tuo datore di lavoro, ti racconto la storia della sessione. Insomma, cominciava tutto con questi delitti...

La seguente mezz'ora sfidò la mente di Amir: Derek partì a raccontare una trama complicatissima, piena di nomi difficili e situazioni poco comprensibili. Però in fondo era piuttosto divertente.

- Insomma, alla fine non ho saputo se il colpevole fosse il mago oppure Ivy Magdalen Price.

- Uhm. Ma se gli omicidi citavano delle teorie storiche, forse la colpevole era Ivy. Non mi hai detto che era una vampira di quelli molto amanti della cultura e dell'arte?

- Una Toreador. Avrebbe senso. Se consideriamo lei come colpevole, allora...- Derek si perse dietro a quel pensiero, finché lanciò un grido di esultanza che quasi spaventò Amir. - Ma certo! Torna tutto! Pensavo che sarei morto senza saperlo! Cioè, sono morto senza saperlo, va bene, ma ora lo so. E senza di te non ci sarei mai arrivato! Grazie, Amir!

- Sono felice.- Rispose Amir, un po' sconcertato.

- Se ti avessi conosciuto da vivo, saremmo diventati amici. E forse mia madre avrebbe capito che non ero satanista.

- L'avrebbe capito?

- Se glielo avessi spiegato tu, l'avrebbe capito di sicuro. Sei proprio un tipo che sa le cose giuste da dire.

- Ma io veramente non dico nulla di che!

- È che non è facile spiegare le cose a chi ha tanti pregiudizi. Sai, dopo la mia morte ci sono venuti i gli inviati del telegiornale a girare dei servizi, qui. Parlavano del disagio giovanile e tutte quelle storie. Hanno creduto che fossi un membro dei gruppi violenti che stanno da queste parti. Hanno detto che ero un ragazzo di buona famiglia con una seconda vita. Che ero strano e cupo, che avevo mostrato tendenze preoccupanti. Hanno intervistato persino i ragazzi che quella sera giocavano con me: hanno detto che mi avevano incontrato online e che non sapevano nulla del mio coinvolgimento con questi gruppi estremi. Ma non è vero niente! Io studiavo, lavoravo, facevo volontariato! E mi piacevano il metal e i vampiri. Ho solo avuto sfiga a finire in questo posto. Com'è che certa gente non capisce l'evidenza e vede il marcio dappertutto?

- Succede. Da sempre. In tutti i posti.

- Già. Però se non altro ho visto qualche poliziotto, qualche assistente sociale girellare da queste parti, dopo la rissa. Penso che, se almeno schiattare è servito a questo, almeno... Insomma, se la mia morte ha portato il disagio di questa zona all'attenzione della gente... Ti sembro patetico? Sto cercando un senso alla mia morte, eh?

- Non sei patetico. Sei una delle persone più mature con cui mi è capitato di parlare. E non capisco come mai sei ancora qui.

- Nessuno si ricorda di me com'ero.

Arrivò un brivido di freddo innaturale, tristezza profondissima, inevitabilità, cose rotte e progetti rovinati, la sensazione di un'immagine coperta da cenere e fango.

- Io mi ricorderò di te com'eri.- Disse Amir. - Non so se basterà, ma lo farò di sicuro.

- Perché dovresti farlo?

- Mi hai salvato. Ho capito che sei una brava persona. Non importa se ti ho conosciuto che eri già uno spirito. Mi ricorderò di te.

Il sorriso di Derek, il calore e insieme il vento fresco improvviso, le luci che sembravano più forti, la faccia di quel posto resa bella da qualcosa di indefinibile e sfuggente.

- Grazie.

- Puoi contarci, Derek. Davvero.

- Lo so.

Poi più niente e nessuno, nel silenzio.

Amir strinse le ginocchia al petto, vi posò sopra le braccia e ci nascose il viso, stanco.

Alzò gli occhi quando sentì il rumore di un'auto: il signor Bennett era arrivato. L'uomo si precipitò giù dall'auto, con un'espressione ansiosa e dispiaciuta.

- Amir, cos'è successo?- Gli disse, tendendogli la mano. - Come stai?

- Non si preoccupi.- Prese la mano dell'altro e si lasciò rimettere in piedi. Mentre salivano in auto spiegò rapidamente l'accaduto, glissando su Derek.

- Perdonami per come ti ho risposto al telefono.- Riprese il signor Bennett, una volta che furono in auto. - Ero preoccupato. Non arrabbiato. Devo esserti sembrato molto sgradevole. Ma non intendevo farti pesare il fatto di doverti venire a prendere. Ero realmente molto in pensiero, e ora che so che anche tu ti occupi di...

Tacque, scosse la testa. Doveva avere davvero un grosso blocco sull'argomento, se non riusciva nemmeno a dirlo.

- Non importa. Non me la sono presa.

- Non ho scusanti, Amir, e mi dispiace davvero. Eri qui, da solo, dopo un'aggressione, e io ti ho trattato in quel modo. Comunque ora ti porto a fare una denuncia verso ignoti per l'aggressione.

- Ma non importa, non deve...

- Importa moltissimo, e non voglio sentire altro sulla questione.- Il signor Bennett gli rivolse uno sguardo fermo, addolcito da un po' di ansia che ora gli si leggeva chiara in viso.

- Va bene.- Rispose Amir, rilassandosi contro il sedile dell'auto. - Signor Bennett. Non... So che non ama sentirne parlare, ma volevo rassicurarla. Non ero solo.

Lui fece un vago cenno della testa.

- Oh. Beh, meglio.

- Posso raccontarle una cosa?- Riprese Amir, dopo qualche minuto silenzioso. - Si ricorda che un anno fa ci fu un omicidio, qui?

- Una specie di rissa tra teppisti?

- Già. La rissa ci fu davvero, ma il morto era solo un ragazzo normale finito nella periferia sbagliata. Era una persona in gamba. Non so perché le persone in gamba a volte muoiano in maniera così stupida e inutile. Mi piacerebbe che lei si ricordasse di questa cosa. Questa persona.

Non sapeva perché l'aveva detto. Si rendeva conto che era un discorso assurdo, senza spiegazioni. Soprattutto da fare al signor Bennett. Soprattutto dopo che aveva deciso di non dirgli cose che lui preferiva non sentire.

Ma l'altro rispose con un sorriso.

- Va bene. Me lo ricorderò, visto che sembra una cosa che ti sta molto a cuore. Vorrei chiederti come fai a saperlo, ma la prudenza mi dice che è meglio non farlo.

- Già.- Mormorò Amir, guardando dal finestrino il quartiere che si allontanava. - È meglio così.



***

Grazie grazie grazie a chiunque passi di qui,

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Capitolo 18
*** XVIII - Il bambino rapito dalle fate ***


Capitolo XVIII

Il bambino rapito dalle fate

 

For he comes, the human child

To the waters and the wild

With a fairy hand in hand

For the world's more full of weeping

Than he can understand

(W. B. Yeats – The stolen child)

 

Londra, marzo 2009

 

E ora dov'erano finiti, tutti gli altri?

Amir si guardò attorno, spaesato. Per quanto non disdegnasse affatto la voce potente della cantante e le chitarre elettriche sparate della band che suonava sul piccolo palco, nel locale (“epic metal”, aveva detto Virginia, insieme a una serie di altre spiegazioni che Amir aveva già dimenticato), rimanere lì da solo non era proprio nei suoi programmi per la serata. Il locale era stracolmo, e se c'erano tante persone dall'aria comune, come lui e i suoi amici, c'erano anche dei personaggi che non gli piacevano granché. Ogni tanto dal tavolo più vicino a quello di Amir qualcuno gridava un'oscenità a cui seguivano scrosci di risate sguaiate. Odiava ammetterlo, ma era turbato dalla situazione. Rivendicava il diritto di essere una persona moderata e amante della quiete. E se poteva concedere ai suoi migliori amici la scelta del locale, avrebbe però gradito non essere mollato in solitudine.

Il problema principale era l'amore. Aidan e Virginia erano spariti una mezz'ora prima. Amir era contento: erano almeno tre mesi che Aidan si struggeva d'amore per Virginia, senza aver mai avuto il coraggio di dirle nulla, e in quei mesi Amir si era dovuto sorbire i patemi dell'amico. Incredibile quanto un tipo giocherellone ed estroverso come Aidan potesse diventare depresso e deprimente, quando si trattava di sentimenti. E poi, quella sera la band aveva suonato la cover di un pezzo che, a quanto pareva, era particolarmente significativo per Virginia. Mentre lei ballava, quasi in trance, Aidan le si era avvicinato e le aveva detto qualcosa. Dal tavolo Amir li aveva visti e aveva pregato che finalmente quel tormento finisse. Il fatto che se ne fossero andati insieme e che tardassero a tornare poteva essere un buon segno.

Gli altri compagni della serata erano due amici di Virginia che si erano aggregati all'ultimo momento. Ed erano scomparsi da quando avevano annunciato la loro intenzione di darsi all'alcol. Amir non aveva certo intenzione di unirsi a loro. Almeno ci fosse stato anche Daniel... Lui somigliava ad Amir, nella timidezza di fronte a quei luoghi affollati. E invece il ragazzo si era scusato con la sua abituale onestà cortese ma brutale: l'amicizia era una bella cosa, ma il metal no, e quindi era rimasto a casa.

D'accordo, l'avevano piantato lì. L'amore travolgente poteva anche essere perdonato. Ma quei due tipi, per quanto noiosi e banali e pure un po' razzisti (gli avevano fatto un paio di domande così stupide che Amir si era vergognato per loro) avrebbero potuto pensare che non era molto educato lasciarlo da solo.

A un tratto una ragazza che rideva forte, dondolando mentre camminava, priva di equilibrio, andò a crollare sulla sedia vuota accanto ad Amir. Lui si scostò, colto alla sprovvista da quell'arrivo. Lei prese a indicarlo, come se quel gesto spontaneo di lui fosse stata la cosa più divertente del mondo. Era una ragazza molto bella, con una marea di boccoli scuri e una maglia corta che le lasciava scoperta la pancia e mostrava buona parte del seno. Gli occhi erano pesantemente truccati di un viola e la bocca era tinta di una forte tonalità di rosso. Amir provò un moto insopprimibile di fastidio, per quanto non poté impedirsi di ammettere che avesse un bel corpo.

Nello stesso istante un'altra ragazza si avvicinò al tavolo. Alta e con un che di imponente nonostante il fisico scheletrico, con gli occhi verdi, e i capelli scuri corti fin sotto l'orecchio, indossava una maglia larga sulla quale spiccava la foto di qualche band e un paio di jeans su cui portava il grembiule scuro da cameriera.

- C'è qualcosa che non va?- Domandò all'altra. - Ehi, ti senti bene? Vuoi che ti faccia un caffè?

- Eh, cosa?- Gridò l'altra, scuotendo la testa. - No, sto bene, sto be-nis-si-mo!

- Ci pensi tu, a lei?- Chiese la cameriera ad Amir. Lui scosse vigorosamente la testa.

- Lei non è con me!

- Oh, scusa. L'ho vista al tuo tavolo...

- Ci è venuta adesso. Non la conosco. Non so chi sia.

- Non ti crea problemi, vero?

In quel momento Amir si accorse di una cosa piuttosto bizzarra. Lì vicino c'era una persona non viva, ma lui non era in grado di capire chi fosse. Forse era tutta quella confusione, la musica alta, le risate, il caldo e l'oppressione del luogo chiuso e affollato, che gli avevano fatto venire un mal di testa forte che gli stringeva le tempie e non gli faceva vedere chiaramente la situazione. Una delle due ragazze non era viva. Ma quale?

- Ehi.- La cameriera richiamò la sua attenzione. - Vuoi che la porti via da qui? Temo che abbia esagerato con il bere.

- Non... Non lo so.

Amir spostò lo sguardo dall'una all'altra. La cameriera aveva uno sguardo gentile, ma un po' distante. Teneva le mani ferme a mezz'aria, come se avesse avuto intenzione di toccare le cose, le persone attorno a sé, ma non ne fosse stata capace. A un certo punto si accorse che Amir la stava esaminando e gli fece un mezzo sorriso un po' perplesso.

- Hai bisogno di un caffè anche tu?- Gli chiese.

- No. Non ho bevuto niente.

Quale delle due?, continuava a chiedersi lui. La ragazza con i riccioli scuri era un tipico personaggio da locale notturno. La cameriera, invece, pur essendo in un contesto giusto, aveva qualcosa di particolare che lo colpiva, anche se non riusciva a identificare cosa fosse.

- Non ho bisogno di un caffè.- Biascicò l'altra, sollevandosi dalla sedia e appoggiando i gomiti sul tavolo. Li guardò entrambi, i suoi occhi sembrarono farsi meno assenti. - No, non ho bisogno di questo.- C'era una vena di desolazione straziante, nella sua voce. I capelli ricadevano disordinati sul viso, afflosciati e spettinati, tristi come una festa finita male. Il trucco si scioglieva e le macchiava la pelle sudata. Le mani tremavano leggermente: cercava di stringerle insieme per tenerle ferme, ma quelle sfuggivano al suo controllo.

- Di che cosa hai bisogno?- Domandò la cameriera, sedendosi di fronte all'altra e tendendole le mani. Quella le afferrò e le strinse, vi si aggrappò con forza ma poi le lasciò subito andare. Amir guardò il viso della cameriera riempirsi di sorpresa, come se il tocco dell'altra le avesse fatto provare qualcosa di inatteso.

Non ti aspettavi di riuscire a toccare un essere umano ancora vivo?, pensò, guardando la cameriera. Quindi sei in questa condizione da poco.

- Ho bisogno che qualcuno mi dica una cosa diversa da tutte le altre.

Amir spostava lo sguardo dall'una all'altra e non capiva. La ragazza con i riccioli gli provocava allo stesso tempo fastidio e pena. Non aveva troppa simpatia per le esagerazioni, soprattutto quelle dannose per sé e per gli altri, però allo stesso tempo intuiva qualcosa di ferito. La cameriera era un tipo apparentemente comune, senza particolari che spiccavano, però sembrava davvero preoccupata per l'altra: la guardava, con le labbra tese, come concentrata a capire il perché di quell'angoscia.

- Dimmi cosa vuoi sentire.- Disse la cameriera, riprovando a prendere le mani dell'altra. Ci riuscì e le strinse, impedendole di lasciarla. Con una mano prese a carezzarle lievemente, come per calmarla.

- Mi dicono tutti le stesse cose. Mi chiedono di andare via con loro. In qualsiasi posto è sempre uguale. Qualunque musica vogliano ballare, mi dicono tutti le stesse cose. Mai uno che mi dica una cosa dolce e basta.

- Io trovo che tu sia molto bella.- Disse la cameriera, sorridendo e illuminandosi ancora. Non si poteva non credere a un sorriso simile, pensò Amir.

Poi guardò il viso stanco della ragazza con i riccioli. Il suo trucco in rovina, quei vestiti che lo turbavano. Cercò di decidere se doveva prevalere la disapprovazione o il desiderio di aiutarla.

- Io... Credo che...- Cominciò, imbarazzato – Ti basterebbe trovare un posto con meno confusione. Così potresti incontrare qualcuno con cui fare due chiacchiere. Di sicuro sei una persona interessante.

- Oh. Questa sì che è una cosa originale. Grazie per avermelo detto.- Rise, in maniera più lucida e presente di prima. Si mandò indietro i capelli, se li spostò dietro le orecchie, cercò di darsi un contegno. Sfregò le mani sotto gli occhi, come per portare via le tracce del trucco colato, ma non ci riuscì. Anzi, non cambiò proprio niente sulla sua faccia.

Ma allora...

- Come ti chiami?- Le domandò, ancora incredulo per averci messo tanto a capire la verità.

- Diana. Se mi avessi incontrata da un'altra parte, in un altro tempo, avresti parlato con me?

- Certo. Ti sto parlando anche ora, no?

Lei fece un sorriso mesto, spostando lo sguardo da qualche parte nella folla.

- Continuo a venire qui.- Mormorando, parlando a nessuno in particolare. - Mi faccio vedere da tutti. Ma tanto non cambia niente. Non è diverso da com'era prima.

- Perché non vai da un'altra parte, allora?

- E dove?- Diana scosse la testa. Le brillavano gli occhi di un'eco di lacrime.

- Facciamo che ti accompagno fuori a prendere un po' d'aria?

- Se vuoi ti chiamo un taxi.- Si offrì la cameriera.

- Ci penso io.- Disse lui, alzandosi in piedi e offrendo la mano a Diana. Lei l'accettò e insieme uscirono dallo spazio caldissimo e stracolmo.

Fuori si moriva di freddo, ma la mano della ragazza era ancora più fredda del vento. Rimasero in silenzio per qualche momento, mentre lei scrutava il parcheggio deserto e i lampioni lungo la strada.

- Ho perso tanto tempo.- Disse all'improvviso. - Non so fare altro che questo. Perdere tempo.

- Ma no. Non è vero.

- Oh, sì, lo è. Ma tu chi sei?

- Uno che vorrebbe fare due chiacchiere con te in un luogo più tranquillo. Sai, c'è un teatro... Non so se tu ci puoi venire. A volte quelli come te ci arrivano. Lì è tranquillo. Se vuoi...

Lei scosse la testa.

- Non credo che verrò, ma grazie lo stesso. Penso... Penso che sia il caso di andare. Non voglio perdere tempo anche in questo.

Si sorrisero un'altra volta. Lui le strinse di più la mano gelida, incerto su cosa dovesse fare. Alla fine Diana scomparve con una specie di sospiro e un addensarsi della nebbia. Amir rientrò nel locale infreddolito e stanco, desideroso solo di tornare a casa in fretta e dormire.

La cameriera con gli occhi verdi lo raggiunse.

- L'hai messa su un taxi?

- Sì. È andata via.

Lei gli sorrise. Era molto alta, più alta di lui, e aveva le spalle larghe e le braccia lunghe ed esili. Gli occhi erano leggermente cerchiati di nero e aveva un cerchietto d'argento al sopracciglio destro. Al collo portava una catenina lunga alla quale erano appesi diversi ciondoli: una chiave, una croce, una specie di triangolo con un cerchio e un'asta verticale inscritti dentro, e altre cose che non riuscì a identificare.

- Qualcosa non va? Hai lo sguardo fisso.

- Oh, scusami! Non ti stavo fissando. Cioè, voglio dire, non stavo... Scusami. Ti lascio in pace.

- Ehi, senti, grazie per esserti preso cura d quella ragazza. Cavolo, sei veramente uno gentile, sai? Non è da tutti sobbarcarsi una sconosciuta ubriaca che crolla sul tuo tavolo.

Lui fece un'alzata di spalle, sentendosi all'improvviso una creatura molto inutile e stupida e totalmente incapace di mettere in fila parole sensate.

- Ma no.

- E le hai detto delle cose belle. Anche se per un attimo ho pensato che avessi bevuto anche tu, visto che riuscivi a stare dietro ai suoi discorsi un po' strani. Scherzavo, non volevo offenderti!

- Ma no.- Ripeté lui, che avrebbe voluto dirle cose molto diverse e sicuramente più interessanti.

- Io sono Faith, comunque. Piacere. Dovrei tornare al lavoro, ma se ti va, ti offro il prossimo giro. Le persone gentili vanno premiate!

- Ma no, grazie... Faith. Io sono Amir. Devo trovare i miei amici. Mi hanno mollato lì da solo. Due stanno ballando e due bevendo.

- Ah, mi dispiace. Sgradevole situazione. A volte capita. Tu non bevi, allora?

- Un succo di frutta, magari.

- Sei l'autista del gruppo, eh? Dai, siediti, te lo porto subito!

Tornò davvero subito e gli piazzò un bicchiere davanti.

- Ecco qua! Offre la casa. Beh, tolgo il disturbo. Ne avrai avuto abbastanza, di ragazze sconosciute che arrivano al tuo tavolo, stasera!

- No! Voglio dire, grazie. Io... Faith. Grazie.

Lei sorrise, fece per andarsene e poi si voltò di nuovo verso di lui.

- Tutto bene? Sembri molto stanco. Sei sicuro che ce la fai a guidare?

- Non devo guidare. Sono solo... Sì, stanco. Non ti devi preoccupare per me. Hai già molte cose da fare. Cioè, voglio dire, non che non mi faccia piacere che tu...

Si fermò e ingoiò una sorsata di succo, arrendendosi. Lei sorrise di nuovo e gli si sedette davanti.

- Dai, ti faccio compagnia per un minuto. Non di più: qui continua ad arrivare gente. Ma le mie colleghe spariscono regolarmente per stare al telefono, quindi posso permettermi un attimo di pausa.

- Anch'io ho lavorato in un pub, due anni fa. Era peggio di questo. Più piccolo e più sporco. Tutte le sere c'era una rissa, o un fiume di vomito da ripulire.

- Capita anche qui. Hai trovato un lavoro migliore, poi?

- Decisamente. Mi occupo di un teatro.

- Che bello. Almeno non ci saranno risse, lì.

- No. Solo fantasmi.- Azzardò lui, guardandola subito dopo per capire l'effetto che aveva fatto la sua sciocca battuta. Ma Faith rise, senza sospettare quanta verità ci fosse in quelle parole.

- Un teatro infestato è molto affascinante.- Poi la ragazza tacque, appoggiò il viso a una mano e perse lo sguardo tra le persone affollate attorno al palco. - Più affascinante che ricacciare ubriachi su un taxi. La ragazza di prima era almeno la terza della serata. Io capisco l'allegria e il volersi togliere i pensieri, ma senza scadere nell'idiozia.

- Le persone preferiscono fare idiozie, per dimenticare il fatto che non sono felici, invece che cercare di capire come mai non sono felici.- Rispose Amir, felice e agitato allo stesso tempo per la piega che aveva preso la conversazione.

- Hai perfettamente ragione! E anche se... Oh, scusa, non volevo annoiarti con queste faccende. Hai beccato la cameriera filosofa e fuori dal mondo, temo.

- Io sono d'accordo con te!- Si affrettò a esclamare lui. - E non è così male essere fuori dal mondo.

In quel momento due persone giunsero ai lati del tavolo e simultaneamente scostarono due sedie e si accomodarono tranquillamente.

- Vedo che è tornato il resto del tuo gruppo.- Commentò Faith. - Me ne vado subito.

- No, puoi restare.- Rispose Amir.

Quello non era per niente il resto del suo gruppo.

Guardò la creatura alla sua destra, poi l'altra. La prima era una donna con una veste blu decorata da ricami d'argento, un abbigliamento piuttosto insolito per un'uscita a un locale notturno. Quando incontrò lo sguardo di Amir, i suoi capelli neri ebbero una sorta di scintillio che li fece sembrare azzurri, come i suoi occhi. Invece dall'altra parte era seduto un giovane uomo altissimo, con la pelle nera. Aveva indosso una tunica nera con un unicorno ricamato sul petto. Il giovane aveva un mantello rosso sulle spalle, chiuso al collo con una spilla di argento scuro. A terra aveva posato una sacca di cuoio, da cui però spuntava il manico di uno strumento a corde.

Quei due non erano spettri e non erano umani. Gli ricordavano più la sensazione che provava alla presenza di Stella o di Nevan. Gli provocavano anche quella specie di deja-vu che si prova leggendo una fiaba di cui si conosce la trama, o un episodio mitologico in cui si ritrovano personaggi tradizionali, antichi, nati con la prima delle leggende all'alba dei tempi.

- Appassionati di fantasy?- Domandò Faith, guardando gli sconosciuti con una certa ammirazione.

- Loro sono... Ehm...- Cominciò Amir. - Due vecchi amici incontrati qui per caso. Già. Come state? Sono felice di vedervi.

Fece un sorriso esagerato, spostando gli occhi da lei a lui, sperando che reggessero il gioco. Ma in realtà non ci sperava per niente.

- Queste canzoni invocano il nostro nome.- Rispose la donna. Era impossibile sbagliarsi: aveva proprio i capelli azzurri. - Ma sono pochi quelli che conoscono il significato profondo delle sue sillabe. Coloro che cantano pronunciano una parola vuota per loro. Non ricordano l'immensità di cose con cui il tempo ha riempito il nostro nome.

- Almeno così qualcuno ci chiama ancora, però.- Mormorò il giovane, e la sua voce suonò malinconica e melodiosa. - Tu, che parli le lingue delle ombre, puoi darci una parola d'incoraggiamento per riprendere il cammino nel tempo?

Qualcosa cambiò attorno a loro. La voce della cantante della band all'improvviso seguiva un'altra musica, un inno risvegliato dalla semplice presenza dei due, che riempiva tutta la sala, divenuta all'improvviso una corte in festa, un bosco incantato, l'ultima locanda accogliente sulla strada per l'ignoto.

Amir non conosceva i loro nomi ma di sicuro aveva sentito la loro storia. In un libro di scuola, in una poesia, in un film. Nomi anglosassoni, ma forse anche nomi arabi o indiani, nomi di quelli che uccidono draghi e salvano innocenti in tutte le leggende del mondo.

- Anche se la vostra storia viene raccontata in maniera diversa, rimane nella mente delle persone.- Disse Amir, scordandosi quanto tenesse a mantenere un'apparenza di normalità per Faith.

Ai due quelle parole parvero bastare. Lui sorrise, lei chinò la testa. Si alzarono in contemporanea e sparirono così com'erano arrivati.

- Sono tipi strani, loro!- Si affrettò a dire Amir, aspettandosi qualche domanda incuriosita. Ma Faith non sembrò particolarmente sconcertata.

- Ah, tranquillo, ero distratta: non ho sentito quel che ti hanno detto. Però mentre erano qui... Mi è venuta in mente una vecchia canzone che non riesco a ricordare. Poche note, ma molto belle. Chissà dove l'ho sentita. Era così chiara, nella mia mente, che non ascoltavo più la musica della band.

- Succede, a volte.

Come no. Succedeva, certo. Quando avevi a che fare con spiriti usciti dai poemi antichi. Una cosa piuttosto comune, indubbiamente. A chi non capitava trovarsi seduti a un tavolino insieme a un cantastorie e una signora dai capelli azzurri, così, all'improvviso?

- Sai.- Cominciò lei, con una risata che vibrava nella voce. - Mi sembra di stare facendo degli incontri un po' strani, stasera. Esisti, vero? Non è che alla fine sono impazzita e ti sto sognando?

Lui negò, ridendo, senza però capire se fosse una cosa lusinghiera o no, quella che lei aveva detto.

- Hai presente quella poesia di Yeats che parla del bambino rubato dalle fate?

- The stolen child.

- Secondo me sei tu. Hai qualcosa che sembra di un altro mondo.- Poi abbassò la testa, arrossendo. - Scusa. Mi sono lasciata andare. È che io dico sempre quello che penso. Ma è un complimento, davvero.

Una voce poco cortese gridò il nome di Faith. La ragazza si voltò verso il bancone: le facevano dei cenni.

- Mi sono trattenuta fin troppo. Mi ha fatto piacere conoscerti. Se capiti in una serata meno affollata, ti offro di nuovo qualcosa. Io sono sempre qui. Almeno finché non avrò pagato l'ultima rata per acquistare un posto meraviglioso in Kensington Church Street dove aprirò un locale con musica folk dal vivo. Ah, sto ricominciando a chiacchierare!

- Grazie di tutto. Ciao, Faith.

- Ciao Amir. A presto!

Gli fece la grazia di sorridere ancora una volta e poi si allontanò. Amir rimase a fissare la gente in movimento e la band, senza vedere realmente niente, né sentire una sola nota, una sola voce.

Pensò che a volte avrebbe desiderato una manciata di giorni senza fatica, senza storie di tristezza e occhi confusi, senza voci spezzate e faccende da risolvere. Pensò anche che doveva sembrare molto ridicolo e spaesato a tutti, lontano da casa, incapace di adattarsi del tutto al mondo nuovo in cui aveva desiderato vivere. Forse anche chi gli si rivolgeva con gentilezza e un sorriso in realtà lo riteneva un personaggio divertente, una piccola persona smarrita un po' da compatire.

In fondo Faith aveva ragione: era davvero stato portato via dalla realtà e gettato in un altrove che solo lui poteva conoscere veramente. Un posto meraviglioso, in cui troppo spesso era solo.

Pensò ai carcerati del Saint Raphael, alla signora Mathilda, a Derek, a Diana...

Hanno finito tutti per rimanere imprigionati tra la vita e la morte perché erano soli. Non per colpa loro, però non c'era nessuno davvero interessato a capirli.

Gli tornò in mente casa sua e la quotidianità che viveva prima di arrivare a Londra. I problemi e la sofferenza erano simili e profondamente diversi. La vita della gente di Londra gli sembrava più facile per certi versi, però anche più caotica e insensata. Nonostante la sua terra non fosse mai stata tranquilla e in pace, non si era mai accorto che il mondo fosse così impregnato di tristezza – una tristezza le cui cause spesso erano per lui incomprensibili, soprattutto quando le persone sembravano andarsela a cercare, l'infelicità.

Aveva deciso di partire, inseguendo un sogno che gli sembrava sempre meno logico. E si era un po' condannato da solo. La maledizione della solitudine se l'era attirata semplicemente scegliendo di diventare un esiliato, incapace di integrarsi del tutto con la terra che lo ospitava. Poi ci si era messo anche il teatro con la sua popolazione e i suoi segreti che sembravano non volerlo lasciare in pace...

Si mise a ridere da solo: non era molto comune, avere quei pensieri in un locale dove si andava per divertirsi, proprio mentre il chitarrista si esibiva in un assolo spaccavetri.

Amir aveva cercato di confortare la ragazza triste, e aveva dato una parola di fiducia alla dama con i capelli azzurri e al menestrello. Non c'era nessuno che gli ricambiasse il favore?

 

Uscirono dal locale a un'ora improponibile per gli standard morigerati di Amir. Mentre si avviavano alla macchina Virgina protestò con i due ragazzi che avevano lasciato Amir da solo. Aidan invece gli rivolse uno sguardo sognante, un sorrisone ebete e un gesto di esultanza: un discorso assai eloquente. Amir fu contento di entrambe le cose.

Si voltò, all'improvviso. La porta del locale era ancora vicina e scorse la cameriera sulla soglia, con un ragazzetto sottobraccio, mentre lungo la strada avanzava un taxi. Amir le fece un cenno di saluto, che lei ricambiò.

E più in là, quasi confusi con la fragile luce di un lampione distante, il menestrello accoccolato a terra suonava il suo strumento, mentre la dama con i capelli azzurri parlava a una figura ammantata di bianco, e se Amir si sforzava gli sembrava quasi di distinguere delle parole, una vaga risata, il risuonare di una corda...

In quel momento pensò che forse, nonostante tutte le follie che era costretto a vivere, nonostante fosse lacerato tra due universi, alla fine la maledizione della solitudine l'avrebbe evitata. Perché c'erano persone che avevano a cuore la sua storia. C'erano, in entrambi gli universi. E questo gli bastava. E siccome aveva tanto, poteva permettersi di spendere un po' di quel tanto per chi invece era solo, che fosse un vivente oppure uno spettro.

E poi si domandò se ai bambini rubati dalle fate fosse permesso di tornare in un locale e offrire un succo di frutta a una cameriera con un sorriso meraviglioso.



***
Grazie di essere qui.
I prossimi due capitoli compongono l'arco narrativo più difficile da scrivere, probabilmente il più cupo della saga. Ma segnano anche l'ingresso nel mondo degli spettri di... Beh, vedremo.

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Capitolo 19
*** XIX - La casa dei lupi ***


(Warning per questo capitolo e il seguente: si parla di violenza sessuale, depressione, attacchi di panico. Non c'è niente di eccessivamente grafico e tutto è affrontato in maniera piuttosto delicata, ma io avverto comunque per correttezza.)



Capitolo XIX

La casa dei lupi

 

The bride will lure you, cook you, eat you
Your dear innocence boiled to feed the evil in need of fear

(Nightwish, Scaretale)

 

Londra, 12 aprile 2009

 

- Ehi. Ehi, ragazzo. Tu, sì, tu, l'unico che se ne va in giro a quest'ora da queste parti!

Amir si voltò per capire chi lo chiamava e vide un uomo che gli faceva cenno di avvicinarsi, dietro la ringhiera di ferro di un giardinetto. Lo raggiunse, un po' sospettoso. L'uomo indossava una giacca scura rattoppata, aveva la barba folta e un paio di occhiali da vista. Aveva un'aria familiare, ma Amir non riusciva a ricordare dove potesse averlo visto. Se ne stava appoggiato alla ringhiera, e alle sue spalle c'era il retro di una delle tante villette antiquate che costeggiavano il viale. Cosa strana, per essere uno interessato ad Amir: l'uomo era vivo.

- Io penso che lei possa aiutarmi. C'è qualcosa di molto sbagliato. Ed è proprio qui, dietro di me.

Amir azzardò un altro passo verso l'uomo e la casa. Il viso dello sconosciuto familiare era contratto in una strana smorfia, come se ci fosse stato qualcosa che lo teneva in tensione. La sua voce era vaga, distante, poco lucida. Era vivo, sì, ma non era detto che non ci fosse qualcuno di non vivo che lo disturbava.

- Ha bisogno di aiuto?- Chiese Amir. Era proprio davanti all'uomo, e un brivido gli scese lungo la schiena. Sbagliato. L'uomo aveva ragione. C'era qualcosa di sbagliato, lì.

- Aiuto. Ho bisogno d'aiuto.

- Cosa vuole che faccia?

- Non mi lascia andare.

- Non può uscire da lì?

Lentamente, l'uomo scosse la testa. Amir spostò lo sguardo sulla casa dietro di lui. Era un edificio che poteva avere un paio di secoli: il ragazzo stava imparando a riconoscere certi tratti dell'architettura cittadina. Le finestre erano chiuse, non si vedevano luci, non c'erano suoni. Il giardino era lasciato a se stesso.

- La casa è vuota?- Domandò. Però l'uomo parve non aver sentito. Amir tornò a concentrarsi sull'edificio e notò che la porta a vetri sul retro della casa era aperta.

- Provi a chiudere quella porta.- Suggerì, sporgendo il braccio oltre la ringhiera. - Se c'è qualcosa di strano nella casa, magari lo ricaccerà indietro.

L'uomo scosse la testa ancora e fece un'espressione sconsolata.

- Non riesce a muoversi?

Nessuna risposta. L'uomo si avvicinò ancora di più alla ringhiera e afferrò le sbarre con le mani. Mani raggrinzite, infilate in mezzi guanti sfilacciati e sporchi. Strinse forte il ferro, emettendo una specie di lamento gutturale. Amir quasi gridò per la sorpresa. L'uomo sembrava voler tentare di sradicare le sbarre della sua prigione, ma quelle rimanevano immobili. Il lamento non cessava. Era una vista miserevole.

- Mi aiuti. Mi può aiutare? Per favore. Per favore.

- Va bene, va bene. Cercherò di venire di là a chiudere la porta.

L'uomo smise di mugolare e lasciò le sbarre. Amir si guardò attorno: la strada era deserta. Poteva provare a commettere un'effrazione. Era per un buon motivo.

Un attimo prima di tentare la scalata della ringhiera realizzò dove si trovava.

È il retro della casa in cui Nevan mi aveva detto di non entrare!

Razionalmente, era giusto e sensato rinunciare e andarsene. Ma l'uomo sembrava così spaventato, e lasciarlo lì da solo...

Potrei chiamare aiuto. Telefonare ad Angela.

E se all'uomo fosse successo qualcosa, mentre lui cercava aiuto? Se davvero ciò che c'era in quella casa era tanto oscuro...

Devo provare a tirarlo fuori. Non posso lasciarlo lì. Tra i due, è meglio che la casa se la prenda con me. Almeno ho qualche esperienza di sovrannaturale.

Si aggrappò alla ringhiera e si arrampicò, riuscendo a scavalcarla agevolmente. Appena mise piede nel giardino avvertì di nuovo quella sensazione confusa di qualcosa di fuori posto. Si domandò come mai l'uomo fosse finito lì. Forse era stata un'imprudenza, fidarsi. Era una situazione piuttosto strana. Beh, ormai c'era: quattro o cinque passi per chiudere la porta, poi via veloce.

Era davanti alla porta e aveva appena allungato la mano per tirarla verso di sé, quando sentì la presenza dell'uomo alle sue spalle. Trattenne il respiro, dandosi dell'idiota. Una mano si chiuse attorno al suo braccio sinistro, l'altra si posò sulla sua schiena e spinse avanti con forza. Si ritrovò oltre la soglia in un attimo. Si voltò immediatamente, pronto a correre fuori, e allora vide il brillio crudele negli occhi dell'uomo, lucidi e consapevoli di ciò che stavano commettendo.

- Buon viaggio.- Disse l'uomo, e Amir lo riconobbe: l'aveva visto ben due volte, ma sempre vestito in un altro modo, con una sigaretta che sembrava non finire mai...

Il buio della casa se lo inghiottì completamente. Tentò di aprire la porta, ma la maniglia era serrata. Il terrore primigenio e irrazionale del buio, pieno di cose ignote e orribili, gli si rovesciò addosso. Si accorse che tremava come un bambino convinto di avere i mostri sotto il letto. Solo che non era un bambino, ma i mostri c'erano davvero, da qualche parte nella casa. E la porta era chiusa.

Doveva stare calmo. Respirare. Non pensare alla sensazione umida e maleodorante che riempiva l'ambiente attorno a lui. Doveva trovare un interruttore...

Tastò con cautela il muro alla sua destra. Era freddo e ruvido. Poi trovò qualcosa di molle e ritrasse la mano immediatamente. Riprovò: il muro era gelido come la parete di una grotta sotterranea. Tentò dall'altra parte e gli sembrò di passare la pelle su una superficie più comune. Raggiunse qualcosa che somigliava davvero a un interruttore e lo premette.

Ci fu un lampo di luce giallastra che durò solo un istante, illuminando un salotto al centro del quale troneggiava un enorme tavolo rovesciato: la sontuosa tovaglia bianca era strappata e macchiata, le stoviglie erano in frantumi, le pietanze erano orribili grumi sparsi sul pavimento, e poi c'era un... Qualcosa di pallidissimo, lungo, ritorto e spezzato che sembrava terribilmente umano. Stava lì in mezzo al caos, come fosse stato una portata della cena distrutta. Non si capiva bene in che posizione stesse, ma si intuivano arti scomposti e un ciuffo di capelli biondi macchiati di qualcosa di scuro e denso.

Amir chiuse gli occhi, ingoiando un grido. Li riaprì una ventina di secondi dopo: era tutto buio di nuovo.

È un anno che ho a che fare con queste cose. Ce la posso fare. Non c'è niente di vero. Sono solo ricordi degli abitanti di questo posto. E gli abitanti di questo posto sono morti. Con i vivi non sono molto bravo, ma con i morti sì. Devo calmarmi.

Tornò la luce, una lucina pallida che a malapena gli mostrava i contorni del luogo. Si trovava in un piccolo andito; davanti a lui c'era un arco oltre il quale si intravedeva lo stesso salotto della visione di prima, solo che era ordinato. Sedie attorno a un tavolo coperto da una tovaglia bianca, sulla quale c'era solo un centrotavola piuttosto brutto di ceramica blu. Tutto era carico di polvere e tempo.

Amir mosse qualche passo e cercò di capire come uscire da lì. C'era una scala che conduceva a un piano superiore che Amir non aveva alcuna voglia di esplorare. E c'era una porta, dal lato opposto a quello da cui proveniva lui. Se procedeva da quella parte magari avrebbe trovato la strada per l'ingresso principale.

Avanzò in fretta e aprì la porta, piuttosto sicuro di sé. Il buio dall'altra parte lo spaventò di nuovo. Cercò di individuare un altro interruttore ma non lo trovò. Lasciò aperta la porta, sperando che la luce malaticcia del salotto potesse aiutarlo a capire dov'era e dove stava andando.

Mosse qualche passo. Gli occhi si sarebbero abituati al buio, si sarebbero...

All'improvviso non c'era più, il buio: c'era un bagliore spettrale, uno scintillare etereo di qualcosa che non si vedeva, ma era tutt'intorno, e due voci s'inseguivano in un girotondo infernale attorno ad Amir. Il luogo – un corridoio dalle mura screpolate – si allargò e si restrinse vertiginosamente, poi si ingrandì di nuovo e diventò un immenso salone con il pavimento a riquadri di tutti i colori.

- Lo portiamo con noi?- Cantilenava una voce di donna.

- Uno in più, uno in meno...- Rispondeva una voce maschile, e alle parole seguì un tuono di risata.

D'un tratto li vide. Giravano vorticosamente attorno a lui. Gli stavano facendo salire la nausea. Lei era una donna grassa, completamente nuda. Lui era un uomo giovane, con degli abiti dall'aspetto antiquato e una pipa fumante in mano. Lei aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata, lui aveva lo sguardo distante di chi ha le percezioni falsate. Gli giravano attorno e non lo lasciavano andare.

La sala si allargava e si estendeva a dismisura, all'infinito. Non lo lasciavano andare. L'odore di muffa e umidità della casa si mischiava a profumi di cibo e bevande, e poi alla puzza del fumo che s'infila ovunque e si attacca alle cose. Fumo di sigaretta, poi un altro tipo di fumo, un odore penetrante che confondeva i sensi. Odore d'alcol. Odore forte di tante persone pigiate nella stessa stanza, un misto di tutti gli odori che vengono fuori dai corpi delle persone.

- Vieni, vieni con noi!- Cantava la donna, e intanto lo avevano afferrato per le spalle e lo facevano girare sempre più veloce. Le mani della donna erano calde e sudate. Le mani dell'uomo premevano nella carne come artigli. Sentiva il loro respiro alcolico sulla faccia, il loro ansimare furioso, il battito impazzito del cuore di lei, l'eco di qualcosa di inquieto e pressante e insopprimibile che gli trasmetteva la vicinanza di lui.

- Uno in più, uno in meno...- Ripeteva l'uomo, e il suo tocco portava in superficie cose che di solito Amir teneva nascoste e protette. La donna ardeva di fame e sete ed ebbrezza che scorreva nel sangue. L'uomo vibrava di desiderio, ansia di toccare, afferrare, stringere, spingere, colpire.

Lo facevano girare, mentre la sala si riempiva di voci, e bagliori d'occhi, fugaci visioni di persone che si affacciavano dagli angoli, ma non erano lì, erano solo un ricordo dei due che non lo lasciavano andare.

Gli arrivavano nella mente immagini di quel posto: una danza furiosa. La donna inginocchiata per terra spargeva manciate di petali mentre cantava qualcosa di lamentoso. L'uomo stringeva tra le mani enormi il collo minuscolo di una ragazzina. Un corpo troppo bianco di una figura dall'identità indistinguibile era sul pavimento, e anche quello che di solito dovrebbe stare dentro a un corpo era sul pavimento: tutti gli organi disposti con ordine, uno accanto all'altro.

- Vieni con noi?- Gli urlò la donna all'orecchio, e lui tentò di gridare, di sottrarsi alla scarica di ricordi, ma non era possibile, perché i due spiriti lo stringevano in un abbraccio grottesco, viscido, qualcosa che emetteva una secrezione schifosa e te la lasciava addosso, attaccandoti l'odore e la sporcizia.

- Vuoi partecipare alla festa?- Sussurrò la voce di lei. E Amir vide un tavolo su cui erano sparsi gessi colorati, libri, ciotole, mazzetti di fiori, piccoli sassi colorati. Al centro del tavolo c'era un polmone che continuava a respirare.

- Uno in più, uno in meno...- L'uomo gli trasmetteva scariche di desiderio. Nella mente di Amir c'erano mani che toccavano e scioglievano nastri, strappavano via stoffe, graffiavano qualcuno che gridava, piegato su un letto gridava mentre dita lunghe continuavano a togliere strati di velo, di stoffa, di pelle, di carne. La creatura sul letto non aveva un viso. Solo un corpo, che l'uomo voleva addentare, voleva consumare, voleva inglobare.

La bocca della donna sfiorò il suo orecchio. Amir si trovò la testa piena di parole magiche e avvertì il potere fluirgli tra le mani. Stava maledicendo qualcuno. Stava augurando la morte. Ne era felice, profondamente e disperatamente felice.

Anche l'uomo gli si avvicinò finché la sua bocca non incontrò il viso di Amir: il corpo del ragazzo fu investito da una valanga di incontrollabile desiderio sessuale. In quel posto c'era qualcuno che accendeva i sensi. Qualcuno che non aveva un viso e non voleva essere lì, e questo rendeva l'esperienza migliore. Uno più, uno in meno, non faceva differenza. Meglio uno in più.

Amir gridò fino a sentire che la voce si spezzava. Cercò di sfuggire ai due rotolando per terra. Urtò il pavimento con le ginocchia e i palmi delle mani, ma quello scontro con una realtà concreta non bastò a strapparlo del tutto dall'ondata di ricordi malati.

Si rialzò a fatica e cominciò a correre. Non sapeva dove andava, era tutto buio. Si scontrò con le mura più di una volta, barcollando penosamente. Le voci lo inseguivano, lo chiamavano, gli ordinavano di tornare. Lui correva senza capire dove stesse andando, e continuava a trovare mura e mobili che gli intralciavano il cammino, e nessuna via d'uscita. A un certo punto sbatté una spalla contro lo stipite di una porta. Si dovette fermare, sopraffatto dal dolore e dal panico. Doveva uscire. Non voleva essere toccato ancora da loro. Doveva uscire immediatamente.

Una luce bianchiccia si accese pian piano davanti ai suoi occhi. Da un angolo della stanza emerse qualcosa. Sembrava una figura umana, ma era troppo filiforme e fragile. Non aveva colori, non emetteva alcun suono. Aveva un viso nel quale spiccavano solo due immensi occhi color luna, rotondi e vacui. Non aveva bocca. Le braccia si confondevano con le pieghe degli stracci bianchi di cui lo spettro era vestito. Non si capiva se fosse maschio o femmina, vecchio o giovane. Era un abbozzo di essere umano con due abissi di orrore come occhi.

Amir indietreggiò di colpo. La figura però non fece niente, non gli si avvicinò, non dette segno di voler parlare con lui. Si limitò a guardarlo. In quelle lune spente c'era tutto il dolore dell'universo e Amir fu costretto a ricambiare lo sguardo.

Poi arrivarono loro. Se li sentì alle spalle, se li sentì nella testa. La creatura emise un gemito struggente, un fievole lamento da animale morente. Dagli occhi di luna sfuggirono due scintille lucenti che presero a scorrere lungo la faccia come rivoli di sangue argentato.

Ci fu, per un istante, un'ombra di umanità, in quegli occhi. E Amir seppe che quella persona era morta nella casa, prigioniera di chi ce l'aveva trascinata contro la sua volontà. Era una persona, però quando era morta non era niente, per chi l'aveva portata lì e uccisa. Senza volto, senza nome, senza niente, solo una traccia bianca nel nero di quel posto.

Da quanto tempo sei qui, insieme a chi ti hanno ridotto così?

Lo spettro continuò a guardarlo e lui fu sicuro che l'avrebbe implorato di aiutarlo, se solo avesse avuto una voce.

- Vieni, andiamo via!- Gridò Amir, tendendogli la mano.

Quello fece uno squittio disperato, incapace di muoversi. Un attimo dopo l'uomo e la donna erano arrivati nella stanza. Giravano a mezz'aria e ridevano, e lo spettro senza volto rispondeva con la sua specie di pianto stridente. Presero a vorticargli attorno, schernendo il suo panico e il suo dolore.

Non posso lasciarlo qui.

Amir si gettò in mezzo all'uragano dei due fantasmi che ridevano e raggiunse l'essere con gli occhi vuoti, fino a toccarlo. Sentì il momento preciso in cui gli si artigliò alla mente. Poi tutto si spense per un secondo.

Per un secondo non era più se stesso. Era qualcun altro, senza nome e senza voce. Era un essere fatto di terrore, sofferenza e umiliazione. Non gli rimaneva altro. Quello – e un'immagine fissa: un materasso sul pavimento, la faccia premuta su un materasso sul pavimento, il calore febbricitante del corpo di qualcuno sopra il suo. Poi l'immagine si infranse e lasciò il posto a una punta di dolore acutissimo, qualcosa di tagliente che scavava e succhiava via la vita.

Per un secondo, l'universo fu concentrato in un ricordo. Quando il tempo ricominciò a scorrere, Amir ebbe appena il tempo di realizzare che lo spettro era dentro di lui, e che gli altri due lo stavano circondando di nuovo.

Il puro spirito di sopravvivenza gli dette la forza di gettarsi in avanti e correre, correre senza sapere dove, con la speranza che lo spettro dentro di lui sapesse trovare la strada nel buio. Ogni passo era un inferno di ricordi che gli comparivano all'improvviso nella mente. Condivideva la testa con lo spetto e tutto ciò che rimaneva di lui era quella marea di dolore insanabile. Correva e vedeva e sentiva e supplicava Dio, che gli facesse trovare una porta al più presto, prima di essere preso di nuovo...

La mano si chiuse su una maniglia. Un attimo dopo avvertì un alito freddo spirargli in faccia. Gli sembrò di aver trattenuto il respiro per un'ora intera. Il marciume di quel posto si dissolse nel vento notturno. Amir uscì fuori e si chiuse la porta alle spalle. Poi si lasciò cadere in ginocchio e si passò una mano sul viso. C'erano tracce di una sostanza bagnata e argentea, sulla mano.

- Ti prego, lasciami andare, adesso!- Gridò, colto da un irrazionale terrore che il fantasma si rifiutasse di uscire dalla sua mente. Un attimo dopo si accorse che era già uscito: era davanti a lui e lo guardava. Eppure la sensazione di essere pieno dei suoi ricordi non svaniva. Ricambiò lo sguardo vuoto, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime.

Per un attimo l'altro parve acquistare dei contorni meno sfumati, anche se rimaneva impossibile intuirne i tratti precisi. Però aveva delle braccia e delle mani, che allargava, come per sentire il vento e godere dell'aria.

- Andiamo via da qui.- Amir si rialzò e tese la mano allo spettro, che vi posò sopra la sua, fine riflesso pallido. Si lasciarono alle spalle la casa. Uscirono dal giardino e furono sulla strada, distanti da quel posto e dalle sue storie.

Lo spettro fece un inchino. Un tintinnio strano, un brivido di luce e suono.

- Non ce la facevi a uscire da solo?- Mormorò Amir. L'essere rispose con un altro tremolio di luce. - Adesso puoi andartene? Devo fare qualcosa per te?

Nessuna reazione. Solo due occhi un po' meno vacui che lo guardavano. Poi lo spettro si dissolse in un pulviscolo di luce argentata.

Almeno è libero.

Non gli era di nessuna consolazione. Voleva che qualcuno liberasse anche lui.

Si accorse di essere raggelato dal freddo fin nelle ossa. Aveva di nuovo la nausea e un mal di testa pulsante. Era privo di energie e molle come un pupazzo. Muovendosi a fatica, camminò verso casa, che era così vicina, e chissà come mai gli era venuto in mente di fermarsi, inseguire una voce, entrare in quel posto...

Raggiunse Haven Crescent e la porta della sua casa – no, non era sua, non lo era mai stata, ed era vuota e silenziosa. Strisciò penosamente attraverso le stanze e si infilò nel suo letto, invocando il sonno.

 

Aprì gli occhi e vide il soffitto decrepito della stanza con il materasso sul pavimento. Il materasso sul quale era disteso. Aveva le braccia e le caviglie legate e uno straccio sporco a tenergli chiusa la bocca. Era nudo e congelato. Tra poco lui sarebbe arrivato.

Riuscì a lanciare un grido, come un neonato che cerca l'aria, e finalmente i colori stinti del ricordo svanirono, lasciando il posto alla realtà familiare della bella stanza che il signor Bennett gli aveva assegnato nella sua casa. Era nel suo letto, era al sicuro, i ricordi appartenevano a qualcun altro.

Si rigirò tra le coperte, assalito dal freddo e dal terrore. Rotolò fuori a fatica e si trascinò sotto la doccia, ripetendosi che doveva smettere di pensare alla sera precedente. L'acqua gli scendeva addosso e i vetri della cabina si annebbiavano. Per un attimo fu convinto che fuori avrebbe trovato l'uomo e la donna che ridevano.

Calmati. Sei fuori da quella casa. Non c'è niente di cui aver paura.

E invece no, pensò, uscendo dal calore rassicurante dell'acqua e involgendosi in un asciugamano. C'erano un sacco di cose di cui aver paura, nel mondo.

Cercò conforto nei gesti abituali: vestirsi, fare colazione, preparare la borsa con le cose che gli servivano per andare in facoltà. Appena si deconcentrava un attimo, la mente gli si riempiva delle immagini che lo spettro gli aveva lasciato addosso.

Era una cosa sciocca, restarne così turbato. Non ignorava certo che il mondo fosse pieno di persone che soffrivano e persone che trovavano soddisfazione nel far soffrire gli altri. L'aveva visto. L'aveva sperimentato.

Ma ieri, per un momento, io ero loro.

E forse, forse era ancora un po' loro. Qualcosa era rimasto. Era rimasta la memoria di ciò che gli avevano inviato l'uomo e la donna. Erano rimasti i ricordi dello spettro che aveva portato via dalla casa, così chiari e veri e

potrei raccontare com'è andata raccontare le sensazioni l'odore le parole che mi ha detto il dolore potrei raccontare tutto, non sono ricordi miei ma

Si mise la giacca e si infilò la tracolla, dirigendosi verso la porta. L'aprì, guardò la strada e fu colto da una vertigine. Una paura irrazionale gli aumentò a dismisura il battito del cuore e il ritmo del respiro. Alla fine l'unica cosa che fu capace di fare fu rientrare, chiudere la porta, sedersi sulla sedia più vicina e scoppiare a piangere.

Non riuscì a uscire di casa per i sei giorni successivi.

 

 

II

 

19 aprile 2009

 

- Pronto? Angela?

- Ciao, Amir. Tutto bene?

- No. Per favore, può venire subito a casa mia? Voglio dire a casa del signor Bennett. Per favore. Le spiego tutto quando arriva. Faccia in fretta, se può.

Mezz'ora dopo Angela era nell'atrio della casa di Joel e davanti a lei c'era Amir, con indosso vestiti spiegazzati e palesemente non cambiati da qualche giorno. Era spettinato, stranamente non rasato, con solo i calzini ai piedi e l'aria di chi non dorme da un secolo.

- Che ti succede?- Gli si avvicinò di corsa e lui indietreggiò. - Amir, ti senti male?

- Forse sì. Mi dispiace di non essere... Angela, aiutami, per favore.

Riuscì a metterlo a sedere sul divano e a tirargli fuori spezzoni confusi di una storia.

- La casa in cui sei finito è quella villetta disabitata con le mura azzurrine, quella con la ringhiera della terrazza del secondo piano storta e arrugginita?

Lui annuì, continuando a guardare nel vuoto.

- Lo so che non ci dovevo entrare. Ma ho visto quell'uomo e ho pensato che dovevo aiutarlo. Ho pensato di riuscire a sfidare la casa. Tanto erano morti. Non potevano farmi del male. Niente che non potessi sopportare. Invece ho proprio sbagliato tutto.

Angela sollevò una mano e fece per posarla sulla spalla del ragazzo, ma lui si ritrasse. Continuava a non guardarla in faccia.

- Hai delle occhiaie terribili.

- Sto sempre a letto, ma non riesco a dormire.

- Vuoi che ti aiuti? Potremmo fare così: tu vai di sopra, ti lavi e ti cambi, e io ti porto una tazza di camomilla e qualcosa per dormire.

- Sono le sei del pomeriggio.

- E tu hai molto bisogno di dormire, indipendentemente dall'ora. Fai come ti dico, per favore. Io rimarrò in casa con te. Va bene?

- Va bene. Come faccio a uscire? Perché mi succede questo, ogni volta che apro la porta?

- Credo siano attacchi di panico. Non è niente di strano. L'esperienza in quella casa ti ha scosso. Pian piano passerà tutto. Fidati.

Lui si fidò, o almeno così sembrò. Finalmente si lasciò toccare e accompagnare in camera, come un bambino. Più tardi bevve quel che Angela gli diede e si infilò a letto.

Angela gli si avvicinò, quando ormai dormiva, e si piegò fino a sfiorargli il viso con i suoi capelli color miele. Le sbocciò dentro una specie di preghiera, qualcosa di molto insolito, molto da madre: fammi prendere qualunque sofferenza lui stia provando ora. Poi si concentrò e richiamò a sé la forza di empatia che aveva imparato a esercitare sui luoghi e sulle persone da anni. Era in grado di leggere le sensazioni che vagavano per la stanza, emesse dal dormiente e dai suoi sogni.

Fu come guardare una distesa di neve infinita, sotto la quale c'erano rovine che si estendevano fino a oltre l'orizzonte, una terra devastata in modo irreparabile. Amir stava tentando di coprire qualcosa di terribile che lo aveva ferito. Ma cosa? Angela vedeva solo frammenti incomprensibili di ricordi, molti dei quali sembravano provenire da lontano, oltre la mente del ragazzo. Cos'erano quelle immagini distorte? Dove le aveva raccolte.

Qualcuno gliele aveva date. Qualcuno...

Oh, no. No. Cos'hai fatto? Ti sei lasciato possedere da un fantasma, senza sapere come si fa a farlo e a non rimanerne schiacciati? E che spettro terribile era, questo, per darti dei ricordi così?

Il suo potere si sciolse pian piano. Rimase solo la donna china sul letto, dove il ragazzo si agitava nel sonno.

Tante promesse di starti vicino, ma questa volta non c'eravamo per proteggerti.

Posò le labbra sulla fronte del ragazzo e cercò di soffiare pensieri distesi e colori rassicuranti nei suoi sogni. Non sapeva se sarebbe bastato, ma sperò che servisse a qualcosa. Quando ebbe concluso quel rito uscì più piano che poté.

 

Un'ora dopo aver messo il ragazzo a dormire, arrivò Joel.

- Angela, tu che ci fai qui?

- Mi ha chiamata Amir.

- Allora sta bene! Mi hanno telefonato i suoi amici, dicono che non si fa vivo da giorni e non risponde al telefono, ed erano preoccupati. Cos'è successo?

- Non lo so di preciso, ma non è una cosa buona.

Joel la guardò senza capire – o senza voler capire – e scosse la testa.

- Non è malato. Ma non sta bene. Joel, è successa una cosa di quelle di cui non vuoi sentire parlare. Quindi eviterò di dirtela.

- Lui dov'è? Posso parlargli?

- Dorme. Penso che dormirà fino a domani. Dì ai suoi amici che avranno sue notizie al più presto. E... Per favore, puoi rimanere qui per qualche giorno? Sarà meglio che non resti solo.

Joel annuì, confuso. All'improvviso Angela fu pervasa da una rabbia inaspettata, un desiderio insano di riversargli addosso colpe che non aveva (non del tutto.) Avrebbe voluto dirgli che era un vigliacco per non aver mai voluto condividere il loro mondo segreto. Che molte cose sarebbero state diverse, se non si fosse rifiutato di vedere. Che avevano bisogno d'aiuto, anche del suo. Avrebbe voluto accusarlo di tutti i mali passati, tutte le cose andate storte. Se ci fosse stato, se avesse capito...

Invece tu rimani lì, nel tuo piccolo spazio, con i tuoi libri e le tue certezze e le tue relazioni fallite, e la tua incapacità di capire veramente chi ti sta vicino!

Non gli disse niente, però lui si ritirò in cucina senza un'altra parola, come se avesse percepito l'ostilità nel suo sguardo. Angela si lasciò cadere contro lo schienale del divano e respirò a fondo. Qualche minuto dopo chiamò Vivien e le chiese di raggiungerli a casa di Joel.

- Cos'ha combinato?- Vivien si precipitò in salotto e si lanciò sulla poltrona di fronte ad Angela. - Sarà bene che il problema sia abbastanza grave da giustificare questa riunione.

Angela le raccontò il sunto della vicenda, godendo un po' nel vedere l'espressione seccata di Vivien sciogliersi nello sgomento.

- Si tratta della casa in cui mio padre non ha mai messo piede perché diceva che era troppo anche per lui, almeno per il momento?

- Sì. Il momento non è mai arrivato, per tuo padre. Non ha mai trovato il modo di purificare un po' il posto, prima di entrarci.

- E il ragazzo ci è andato da solo.

- Mi ha descritto l'uomo che l'ha spinto dentro: è Julien Green.

- Julien Green. Tutte le volte che ti ho proposto di eliminarlo, e tu mi hai rifilato le solite frasi sull'etica e sul rispetto!

- Basta, Vivien. Non ricominciamo, adesso. Dobbiamo pensare a come aiutare il ragazzo.

- E come vuoi aiutarlo? Si è andato a cacciare in un casino. Non ho mai capito cosa ci sia successo, in quella casa, ma...

- Io sì. Ho fatto delle ricerche. Ci fu uno scandalo nel 1929. Il padrone di casa morì per un banale incidente domestico, e scavando in giardino furono ritrovati i corpi di sei persone, ragazzi e ragazze tra i tredici e i sedici anni. Indagando tra domestici e vicini ricostruirono la storia. Rapiva ragazzini nei sobborghi della città con l'aiuto del suo giardiniere, li violentava e li uccideva. Dopo quel fatto la casa è rimasta vuota, anche se, come potrai immaginarti, ogni tanto ci va qualcuno a fare qualche rito magico. Con tutto il potenziale negativo che ha, per le cerimonie di cattiva fortuna è un luogo perfetto. Alla fine degli anni cinquanta c'è morta una donna che era andata lì con la sua congrega. Si è avvelenata con i fumi di alcune erbe che stava usando per un rito.

- Un accumulo di sentimenti negativi, rimasugli di magia nera e spettri.

- È già tanto che ne sia venuto fuori.

Vivien scosse la testa.

- Non esagerare. Si è lasciato possedere da uno spettro, d'accordo, ed è un esorcista novellino, quindi non lo sa fare. Ma non è niente di drammatico. Farsi venire un attacco di panico per questo...

- Vivien, non è una faccenda semplice. Cose come questa lasciano delle ferite mentali terribili. Per un po' è stato realmente lo spettro di una vittima di uno stupratore e assassino. Non so cosa possa aver visto, ma non mi stupisco che sia in questo stato.

- Beh, imparerà qualcosa dall'esperienza. Deve fortificarsi, se vuole continuare a fare quel che fa. Siamo in guerra e i nemici sono dappertutto. Sarà bene che lo impari.

- Ma non era necessario che imparasse in questo modo!

- Vedete di farlo rientrare in sé.- Vivien si alzò dal divano e cominciò a rivestirsi. - Ripasserò tra qualche giorno. Tenetemi informata sugli sviluppi della cosa. Se ho bisogno di te, dove posso trovarti?

- Qui. Ma evita di chiamarmi, se non sta per esplodere la città. Tu pensi che il problema del ragazzo sia di poco conto, forse, ma io no.

 

 

III

 

29 aprile 2009

 

- Pronto?- Joel chiuse il libro che aveva davanti a sé e si rassegnò al numero sconosciuto che continuava a chiamarlo sul cellulare.

- Ehm... Signor Bennett? Sono Aidan. Aidan Casey. L'amico di Amir. Posso parlarle un attimo?

- Stiamo parlando, mi sembra.

- No, dal vivo, intendo.

- D'accordo. Quando vuoi.

- Tipo, ora? No, perché sarei davanti alla sua villa, e... Insomma... Però solo se Amir non è in giro.

- Vengo ad aprirti.

Si ritrovò davanti lo spilungone rossiccio che ogni tanto aiutava al Sunflower. Lo fece accomodare in salotto. Il ragazzo era cortese e imbarazzato, pervaso dall'agitazione.

- Amir è in camera sua. Posso offrirti un tè, Aidan?

- No, grazie. Senta, cos'è successo ad Amir? Quando è sparito per una settimana, lei ci ha detto di stare tranquilli, che era solo una brutta influenza. Ci abbiamo creduto. Più o meno. Poi ha ricominciato a farsi vedere, e... È un'altra persona. Non parla quasi più. Cerca tutte le scuse possibili per stare da solo. Esce pochissimo, rimane con noi per un'ora, senza spiccicare parola, e poi se ne va. Tre giorni fa aveva un esame, ma ha rinunciato all'ultimo momento. Sembra che non gli importi più di nulla. Noi abbiamo provato a parlargli mille volte, però lui dice che va tutto bene. Solo che è così distante che sembra non arrivargli nessuna parola.

Joel annuì. Aidan non gli stava dicendo niente di nuovo.

- Signor Bennett. Senta...- Riprese il ragazzo, col tono di chi sta per dire qualcosa di grosso. - Insomma, voglio dire, io non so se lei lo sa.

- Che cosa?

- Amir ha... Cioè, fa... Ci sono delle cose che lui...

Joel sospirò, appoggiandosi contro lo schienale della poltrona. Naturalmente. Anche Aidan era coinvolto.

- Ti ha raccontato cose su presunte esperienze sovrannaturali?

- È che non sono presunte.

- Ti ha portato in giro a profanare tombe o qualcosa di simile?

- No, no assolutamente no. Non c'entrano i cimiteri. È più tipo...

- So di cosa stai parlando. Non sforzarti.

- Mi domando se il suo cambiamento dipenda da qualcosa di sovrannaturale.

Joel si tolse gli occhiali da lettura e prese a pulirli strofinandoli contro il maglione azzurro che indossava. Visto che Aidan sapeva, tanto valeva dirgli la verità.

- Angela dice che ha vissuto un'esperienza sovrannaturale negativa che non è riuscito a superare. A quanto pare, dobbiamo solo stargli vicino e aspettare che gli passi.

- Il problema è che lui non vuole nessuno vicino.

- Hai ragione. Ma non posso esserti più d'aiuto di così. Mi sento arreso quanto voi.

- E non si può fare nulla di... Insomma... Sovrannaturale? Parlare con qualcuno. Fare una magia. Non che ci capisca qualcosa. Non so cosa sto dicendo. Sono davvero preoccupato.

- Lo siamo anche noi. Mi dispiace di non poterti aiutare granché. Ma ti terrò aggiornato sulle novità.

Aidan continuava ad agitarsi sulla poltrona: sembrava incapace di tenere tutti i suoi arti lunghi sotto controllo. Si guardava attorno come se si aspettasse di veder spuntare una di quelle faccende sovrannaturali da ogni angolo della casa. Chissà, forse faceva bene a temerlo.

- Vuoi che vada a chiamarti Amir?- Gli chiese Joel - Sempre che sia sveglio.

- No. Ho notato che non apprezza le improvvisate. Preferisco chiamarlo, prima, e dirgli che vorrei vederlo. Io e gli altri abbiamo adottato questa tattica. È come se si dovesse preparare a stare in mezzo alle persone.

- È bello che Amir abbia trovato amici come voi. A proposito, come sta mia nipote Virginia?

- Oh...- La faccia di Aidan si tinse completamente di rosso. - Bene. Molto bene.

- Vorrei vederla o sentirla di più. Non sono molto bravo a tenere i contatti con i parenti. Suo padre mi ha detto che gli studi vanno alla grande, e che sospetta si sia trovata un ragazzo.

Aidan voltò precipitosamente la testa e mugugnò qualcosa di incomprensibile. Però fu una risposta piuttosto precisa, in realtà. Strappò un sorriso a Joel.

- Beh, direi che è una buona cosa.

Mentre accompagnava Aidan fuori dalla casa sollevò gli occhi e guardò la tettoia di legno che copriva la veranda della villa. Guardò il vuoto dove prima c'era la lanterna.

 

 

IV

 

30 aprile 2009

 

- Dov'è? Gli devo parlare!

- Lascialo stare, Vivien, per favore.

- Adesso non ricominciate a urlare, voi due.

Vivien, i capelli scarmigliati e il giaccone gettato sulle spalle come un mantello, cercava invano di superare lo sbarramento di Angela e Joel che le impedivano di lasciare l'atrio della casa per avventurarsi all'interno, alla ricerca di Amir.

- Perché non posso parlargli?

Joel le prese un braccio con gentilezza e cercò di trattenerla, ma lei se ne liberò.

- Non penso sia una buona idea.

- Non sono io, il nemico. Voglio solo fargli una domanda.

Passi alle loro spalle, così deboli che nessuno dei tre li aveva sentiti. L'unico segnale che rivelò la presenza del ragazzo fu la sua voce, dimessa e timida come sempre.

- Quale domanda, signorina Vivien?

Si voltarono tutti e tre, imbarazzati per essere stati colti in flagrante.

- Perché hai tolto la lanterna?

Glielo chiese con una voce stranamente calma e priva di aggressività, ma Amir abbassò gli occhi e fece un passo indietro, quasi avesse avvertito una minaccia latente in quelle parole.

- Mi dispiace.

- Non puoi costringerlo, se non vuole tenerla.- Si intromise Angela. Vivien però la spinse da parte e si avvicinò al ragazzo.

- Hai intenzione di rimanere ancora il silenzio?

- È che non voglio che succeda più. Le ombre. Le loro storie. Uno non può sopportare certe cose per sempre. È evidente che non posso farcela.

- Ti rendi conto di cosa...- Iniziò Vivien, apertamente furiosa. Ma Joel fece un passo tra le lei e il ragazzo e le posò le mani sulle spalle.

- Se vorrete affrontare l'argomento, questo non è il modo di farlo. Almeno, non nella mia casa.

Vivien se ne andò senza aggiungere altro se non il tonfo rabbioso con cui chiuse la porta.

- Mi dispiace davvero.- Ripeté il ragazzo, quando furono rimasti in tre. - Non avrei mai dovuto lasciarmi coinvolgere da tutto questo. Mi sembra di essermi appena svegliato dopo un sogno molto strano che è finito in un incubo.

- La scelta è tua.- Gli disse Angela. - Solo... Pensaci bene.

Il ragazzo le rispose con uno dei sorrisi poco efficaci che era solito fare in quei giorni.

 

Continuavano a tornare alla casa di Joel. Potevano discutere e urlarsi contro, ma alla fine tornavano sempre lì. Attorno al tavolo c'era quel misto di confidenza e freddezza di sempre. Strana cosa, pensava sempre Angela, come tre adulti, che non avevano alcuna famiglia se non gli altri due, avessero sempre tanto bisogno di rinfacciarsi errori e colpirsi i punti deboli a vicenda.

- Avremmo dovuto aspettarcelo.- Vivien fece un sorriso esagerato da persona che aveva già capito tutto prima di tutti. - L'abbiamo mandato allo sbaraglio da solo e si è messo nei casini.

- Ne parli come se fosse morto.- Notò Angela. - Ha vissuto una cosa terribile, ma non è detto che sia irreparabile. Non è passato neanche un mese.

- Ma ha tolto la lanterna.

- Vi prego, basta.- Joel battè una mano sul tavolo, senza mettervi troppa forza. Ma il gesto fu così sorprendente e insolito che sembrò un frastuono. Angela e Vivien tacquero all'unisono. - Non l'ho mai sopportato, questo vostro modo di fare. Parlate di cose che non capisco e continuate a tenermi fuori. Come avete sempre fatto. Però questa volta la faccenda mi riguarda, perché sono sinceramente preoccupato per il ragazzo.

- Credevo fossero cose di cui preferisci non sentir parlare.- Ribatté Vivien.

- Non voglio saperne di ombre e cose del genere, è vero. Ma mi interessa sapere come posso aiutare Amir. Se questo è un segno d'affetto disinteressato o il solito egoismo che mi rimproverate sempre, beh, lo ignoro. Può essere che io voglia aiutarlo solo perché mi secca l'idea di perdere un collaboratore capace. O magari mi sono affezionato davvero. Non lo so.

Angela si lasciò andare a un moto di tenerezza e gli scostò una ciocca bionda dalla fronte.

- Non è che prendi troppo sul serio quello che io e Vivien ti diciamo?

- Chi altri devo stare a sentire?- Rispose, e Angela sentì una voragine di solitudine in quelle parole.

- Se ti interessa così tanto, come mai gli parli a stento?- Sputò Vivien.

- È lui che non parla con nessuno. Esce a malapena, dice a tutti che sta bene, ma è spento. Sta con gli altri perché deve, perché non vuole farci preoccupare, ma è chiaro che la sua mente è a un miliardo di anni luce da qui. E io non so cosa posso fare per lui.

- Nessuno lo sa.- Rispose Vivien. - Li odio, gli esorcisti. Sono tutti uguali. Hanno sempre qualche disastro interiore da fronteggiare. Mio padre era intollerabile, a volte.

- Per favore, non entriamo in questo argomento.- Joel distolse lo sguardo dal viso feroce di lei.

- Come vuoi. Non parliamo di mio padre. Non parliamo del ragazzo. Non parliamo di niente.

Non parlarono più per davvero. Angela cominciò a rimettere in ordine i resti della cena, ma Joel le fece cenno di smettere.

- Ci penso io. Stai facendo anche troppo, in questi giorni.

- Sta facendo anche troppo. Passeggia per la casa con l'aria smorta e compatisce il ragazzo.

Angela ignorò entrambi: finì di riordinare e uscì senza salutarli.

 

- Sono troppo fredda per capire i grandi movimenti degli universi.- Sospirò Vivien.

Joel non le rispose. Avrebbe preferito rimanere solo e andare a dormire, ma Vivien non sembrava avere intenzione di andarsene. La lasciò seduta al tavolo e andò a sedersi sul divano, prendendo un libro dal tavolino (uno di quelli universitari di Amir) e fingendo di mettersi a leggere.

Un minuto dopo Vivien gli si era seduta vicinissima. Aveva sempre avuto una presenza capace di deconcentrare. Era profumata e distraente. Joel chiuse il libro, inspirò l'odore e ricordò giorni perduti – non così distanti, ma apparentemente lontanissimi.

- Com'è che quando siamo insieme, noi tre, finiamo sempre per sciupare tutto?

- Perché non funzioniamo, insieme. Angela è patetica e terrorizzata dalla vita. Tu sei interessato solo ai tuoi libri e alle tue tre idee. E io odio tutti. Non potremmo mai funzionare, ma non abbiamo nessun altro, quindi ci tocca arrangiarci.

Lui fece una mezza risata e scosse la testa.

- Come sei positiva.

- È la verità.

La verità, la verità, la verità era che Vivien emanava un calore fin troppo gradevole e familiare. Joel lasciò cadere il libro a terra e continuò a fissare il vuoto, mentre la sua mano cercava la pelle di Vivien sotto la sua gonna di seta grigia. La sentì ridere sommessamente. La sentì avvicinarsi. Ancora un po'. Gli scivolò addosso mentre lui si abbandonava tra i cuscini del divano. Era confuso e gli girava la testa ed era contento della piega che avevano preso gli eventi. Vivien prese in mano la situazione, gli tolse gli occhiali e iniziò a sbottonargli la camicia.

 

Molto tardi, o molto presto, a seconda dei punti di vista, si alzarono dal divano e si ricomposero, quasi senza guardarsi.

- Credevo tu avessi una relazione con Abigail Corrigan. O Clyde Wendell.- Commentò lei, ricercando il suo fermaglio tra i cuscini. Lui si chiuse nel suo solito no comment sull'argomento. Non voleva parlarne con lei. Ora meno che mai.

- Domani dovrò andare a fare la spesa. Non c'è più nulla in casa.

- Sei strano, Joel Bennett. Non ho mai conosciuto nessun altro come te. Per fortuna. Tu non sai proprio amare le persone. I libri, forse. Le scienze. Ma le persone...

Lui le lanciò un'occhiata di traverso, sforzandosi di mantenere la calma.

- Tu ami solo col cervello.- Continuò lei. - Ti innamori intellettualmente di qualche amico, ogni tanto. Di quelli con cui puoi fare lunghe chiacchierate. Per loro faresti di tutto, per non perdere quel po' di piacere intellettuale che ti danno. L'hai fatto con mio padre. Forse lo stai facendo adesso con il ragazzo. Ma non li ami davvero. Il tuo cervello li vuole accanto a sé, perché ti danno una bella sensazione. È il massimo a cui puoi ambire, per cui, davvero, io ti auguro che queste persone non si accorgano mai davvero di come sei fatto realmente.

Lui si infilò le scarpe e si piegò a riassettare il divano.

- Vai a dormire, Vivien. Prenditi una stanza al piano di sopra. Ce ne sono fin troppe. Dormi, e domattina, quando sarai lucida, tornerai a casa.

- Sono lucidissima. Ti sto dicendo la verità proprio perché sono lucida. Lo sai anche tu, che è la verità. Ogni tanto scegli qualcuno dalla massa delle tue conoscenze e decidi che è diventato importante. Non sei geloso: ti basta parlarci, regalargli libri e sapere che ti stima. Finché dura. Poi magari quella persona muore, e tu ti strafai di tranquillanti e sonniferi per un po'.

- O vai a letto di sopra, o vai a casa. Immediatamente.

Lei fece una specie di risata derisoria, poi si infilò la giacca e uscì sbattendo forte la porta, riempiendo per un momento l'atrio di vento e della luce strana dell'alba.

 

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Capitolo 20
*** XX - Cerca meraviglie ***


Capitolo XX

Cerca meraviglie

 

Gaze no more in the bitter glass

The demons, with their subtle guile

Lift up before us, when they pass

Or only gaze a little while

For there a fatal image grows

That the stormy night receives:

Roots half hidden under the snow

Broken boughs and blackened leaves

(W. B. Yeats – The two trees)

 

I

Londra, 12 maggio 2009

 

Rigirandosi nel letto, Angela riconnetteva i punti della sua vita fino a quel momento.

Era stata felice con sua madre – il padre non c'era mai stato. Poi la morte prematura della madre e il suo piccolo e freddo appartamento solitario, quando Angela aveva diciannove anni. Ricordò il sorriso di Vivien, la sua amica di sempre, e gli Headley che le davano un letto e l'impressione di avere ancora una famiglia. Candice Headley, giornalista e studiosa dei movimenti femministi a livello sociale e letterario. I libri di Candice e le sue parole sagge, il suo ammirevole equilibrio e la sua genuina passione per la materia dei suoi studi. Le giornate luminose piene di idee e prospettive. Una relazione affettiva soddisfacente. La sensazione delle cose che andavano per il verso giusto.

Poi cos'era successo?

Vivien aveva cominciato a interessarsi di magia, nelle direzioni più varie e pericolose. E Angela allora, per non lasciarla sola, per paura che si perdesse, si era messa a studiare insieme a lei. Le porte del Sunflower si erano socchiuse anche per loro, insieme al mondo multicolore di Arthur e Benedict Headley. Un mondo nel quale era un privilegio essere accolte. Un mondo a cui potevano offrire il loro contributo. Angela si era lasciata trascinare dentro e aveva scommesso la sua anima per quell'equilibrio di luce e ombre che bruciava al centro della città.

Poi Benedict e Candice avevano perso la vita in un incidente. Vivien si era messa nei guai con una serie di conoscenze poco affidabili. Angela era riuscita ad allontanarla da loro, ma Vivien non le aveva perdonato l'intromissione nella sua vita: prima era riuscita a rovinare e distruggere la sua relazione, poi era diventata quella creatura gelida, che però le era sempre e comunque vicina, in maniera morbosa. La ferita per il lacerarsi del loro legame non si poteva sanare mai.

C'era stato un barlume di speranza, con l'arrivo di quello strano tipo, sognante e svagato, teorico di tutto ed esperto di niente: Joel Bennett, allievo di Arthur Headley, e poi fidanzato di Vivien. Intravedere il buono in quell'anima addormentata e tentare di portarlo fuori era diventata l'attività preferita di tutti e tre – Angela, Vivien e Arthur.

Però Arthur era morto e ogni vivacità in Joel si era spenta. Angela aveva perso la voglia di combattere per una guerra in cui erano destinati a fallire sempre, a quanto pareva, lungo una strada disseminata di morti. Vivien aveva perso quel che restava della sua famiglia. Erano rimasti soli. Tutti e tre, sempre insieme e sempre soli.

Una vita non è mai un fallimento, a meno che tu non la faccia fallire togliendoti da solo tutte le possibilità, le aveva detto Arthur una volta. Ma finché c'è anche un solo passaggio aperto, hai sempre un po' di forza per imboccarlo, no?

Chiuse gli occhi e pensò ai fantasmi, al teatro, alla magia seminata nel suo negozio, a tutti i misteri del tempo e alle persone come loro, che appendevano lanterne fuori dalla porta e si mettevano a disposizione dell'universo per dirimere quei misteri.

Arthur Headley, ci hai fatto da padre a tutti e ci hai rovinati. Eri troppo fiducioso nei mondi, nelle persone, nella capacità delle cose di rimettersi in funzione. Tu e i tuoi grandi trionfi. Gli spettri ripetevano il tuo nome, i maghi ti stimavano, le creature millenarie ti rispettavano come una divinità. Pensavamo che nessuno ti avrebbe mai sconfitto.

Credevamo a tutte le tue parole, Arthur, ma non eravamo come te, e ci hai lasciati da soli.

 

La giornata era iniziata bene: il ragazzo era sceso a fare colazione con lei e Joel, e le era sembrato più vitale del solito. Joel era uscito e Amir aveva comunicato la sua intenzione di andare in università. Poi, al momento di aprire la porta, le aveva borbottato una scusa ed era corso via.

Ferma davanti alla porta della camera di Amir, si chiedeva se si stesse intromettendo nella sua vita o lo stesse davvero aiutando.

- Potrei entrare?

- Sì, certo, Angela. Vieni.

Lo trovò seduto sul letto, libri sparsi tutt'attorno a sé e l'aria distante.

- Hai avuto di nuovo un attacco di panico?

- No. Mi è solo venuta tristezza.

- Tristezza? Per cosa?

- Non lo so. Penso che... Mi ero abituato a un modo di vivere, prima. Poi tutto è cambiato. Lo so, ho deciso io che doveva cambiare. Ho tolto la lanterna. Ho capito che non sono abbastanza forte per gestire tutte queste cose. Non è che mi sono arreso al primo fallimento. Non voglio che tu pensi questo di me.

- Non lo penso.- Gli si accostò e lui liberò un angolo di letto, per permetterle di sederglisi accanto.

- Continuo a svegliarmi tutte le mattine e a credere di essere quello spirito. Sto pensando che sarà così per sempre, ormai. Tutte le notti faccio incubi su quella casa. Ogni volta che mi sembra di migliorare, dopo peggiora sempre tutto quanto.

- Amir, hai visto delle cose orribili, e nessuno potrebbe mai biasimarti per quello che provi adesso. Hai bisogno di calma e di tempo. Avresti anche bisogno di qualcuno con cui parlarne. Piano piano lo supererai.

- Anche se lo superassi, non potrei sopportare che accadesse di nuovo qualcosa del genere. Servono persone molto più resistenti di me, per fare questa cosa... Questa cosa con le ombre. Non so perché ho pensato di poterlo fare. Non so neanche cosa io abbia fatto, di preciso, in tutti questi mesi.

- Hai ascoltato storie. Nomi. Vicende che avevano bisogno solo di questo: un ascoltatore paziente. E questa è una cosa che sai fare benissimo.

Lui scosse la testa.

- Sì, forse è vero. Ma evidentemente non sono fatto per ascoltare certi tipi di storia.

- E perché sei triste, se sei convinto della decisione che hai preso?

- Non lo so. Forse mi manca qualcosa.

Lei aspettò che lo dicesse da solo: non voleva incalzarlo, ma era chiaro quello che sottintendeva. La cosa che lo rendeva triste, la cosa che gli mancava era quella di cui aveva deciso di privarsi togliendo la lanterna, e insieme a essa la sua disponibilità a incontrare le ombre.

- Non lo so cos'è.- Sedeva con i piedi sul letto e le ginocchia al petto. Posò la testa sulle gambe e cominciò a piangere piano. - Mi dispiace.

Angela gli posò una mano sulla schiena e lo ascoltò singhiozzare, senza dirgli altro. La verità era così evidente che di sicuro la vedeva anche lui. Era inutile mortificarlo gettandogliela in faccia.

Ma dovrai affrontarla, questa cosa. La conseguenza della tua scelta. Hai paura degli spettri, adesso, ma la vita senza di loro ti rende triste. Prima o poi dovrai affrontarla.

 

 

II

13 maggio 2009

 

Joel guardò il librettino rivestito di cuoio che Angela aveva gettato sul tavolino del salotto.

- Si chiama Nevan.- Disse lei. - È un personaggio eminente della vita sovrannaturale londinese. Arthur ricorreva a lui quando c'erano problemi che riguardavano per metà gli spettri e per metà i vivi.

- Pensi di contattarlo?- Vivien le lanciò un'occhiata scettica. Toccò appena il librettino con la punta di un'unghia cobalto. - Con quello? Un sistema antiquato.

- Con Arthur funzionava.

- Tu non sei Arthur.

- Proverò lo stesso. Non so cosa potrà dirci che non sappiamo già, ma magari...

Joel allungò la mano e raccolse il libretto. La pelle che lo rivestiva era vecchia e logora, ruvida al tatto e lacerata in alcuni punti. Lo aprì e scorse rapidamente le pagine: erano ingiallite e prive di qualsiasi segno.

- A che serve?- Chiese.

- A contattare gente che non vuol farsi trovare.- Vivien estese lo sguardo scettico dal libretto alla persona che lo teneva in mano. - Ci scrivi sopra il nome, e presto trovi in giro per la casa un messaggio con il giorno, l'ora e il luogo dell'appuntamento. Ammesso che tu riesca a vederlo. Il più delle volte compare su un vetro appannato, o sulla lavagnetta con la lista della spesa. Un sistema affidabilissimo, come no.

- Beh, io voglio provare.- Angela prese il libretto dalle mani di Joel e lo aprì.

- No, aspetta. Voglio farlo io.- Joel si ritrovò gli occhi scettici di entrambe le donne che lo fissavano, e per un attimo dubitò della sua idea. Per un attimo soltanto.

- Vuoi fare cosa?- Il tono acido di Vivien si tinse di incredulità. - Vuoi contattare Nevan?

- Sì. E voglio parlarci di persona.

- Incredibile. Anni e anni a darci degli idioti, a fingere di non vedere quello che facevamo, e adesso...

- Sì. Adesso sì.

Angela gli porse il libretto e una penna, con un sorriso. Lui scrisse il nome di Nevan, ignorando il ghigno di Vivien.

Angela se ne andò dopo cena, Vivien si era piazzata sul divano e sembrava non volerlo lasciare. Joel si sentiva avvolto da una strana agitazione. Voleva cercare il messaggio che, a quanto pareva, avrebbe dovuto ricevere. Avere Vivien per la casa, con il suo disprezzo palese, lo metteva a disagio.

- Certe cose le fai solo per le tue persone preferite.- Gli disse lei, all'improvviso.

- Vivien, se devi ricominciare come l'altra volta...

- Per questo ragazzo addirittura hai deciso di immischiarti nel nostro mondo. Non pensavo che avrei mai visto questo giorno.

- Basta così, d'accordo?

- Per mio padre non l'hai fatto. Però te lo sei tenuto in casa e l'hai accudito mentre moriva. Una brutta morte, credo. E tu l'hai sopportato per quasi un anno, quando era malato. Lo hai curato tutto da solo. Una bella prova, per uno come te, che preferisce tenersi lontano dalle cose sporche e problematiche.

- Sai com'è, non c'era nessun altro della sua famiglia ad accudirlo, quindi ho dovuto fare tutto da solo!

Rimpianse la foga con cui quelle parole gli erano uscite. Vide le linee fini del bel viso di Vivien farsi di ghiaccio, gli occhi lampeggiare di furia.

- Lo sai perché ho lasciato mio padre mentre moriva? Perché se l'è cercata! Sappiamo benissimo entrambi che è morto per colpa dei nemici che si era fatto, mentre passava il suo tempo tra gli spettri. Io lo avevo implorato di ritirarsi, o almeno di sparire per un po'. Mamma e Benedict erano morti. Eravamo soli, io e lui. Gli ho chiesto di allentare i suoi impegni, di dedicarsi un po' a se stesso e a me, ma lui ovviamente non mi ha ascoltata: ora più che mai gli spiriti hanno bisogno di me! E così si è ammalato. Se mi avesse ascoltata, se non fosse stato così convinto di essere indispensabile...

- Vivien, è morto di cancro alle ossa. Cosa stai dicendo? La magia non c'entra!- Si accorse che la sua voce si stava riempiendo di rabbia. Tra poco sarebbe esploso.

- Andiamo, c'era qualcosa di strano, nella sua malattia! Da mesi gli succedevano cose strane intorno, anche prima di cominciare a stare male. Non te lo ricordi? C'erano fiori che sfiorivano quando gli passava accanto, frutta che marciva, la terra che gli spariva da sotto i piedi... Oh, ma tu di queste cose non ti sei mai accorto!- Era scattata in piedi e lo guardava con tutto l'odio di cui era capace. La sua voce rimaneva bassa e tagliente, un sibilo feroce. - Tu, lo scienziato, l'uomo razionale che non vuole saperne dei fantasmi. I fantasmi continuano a portarti via le persone di cui ti frega vagamente qualcosa, lo sai?

Avrebbe potuto gridare, adesso. Avrebbe desiderato farlo, sì. Non lo fece: rimase in silenzio, tirando lunghissimi respiri, imponendosi la calma, anche se lo sguardo di lei non lo abbandonava, rischiando di riaccendere il fuoco da un momento all'altro.

Finalmente Vivien si voltò da un'altra parte e lui si sentì abbastanza sicuro di essersi calmato. Si accorse che si stava sbottonando il vestito. Un tempo era una cosa abbastanza tipica di loro. Offendersi e accusarsi, e poi finire a letto.

- No, per favore.- Le disse. Lei si voltò a guardarlo e inarcò un sopracciglio.

- Cos'è, ti sei ricordato all'improvviso che hai una relazione e hai deciso di essere fedele?

Lui scosse la testa.

- Non ho più una relazione. Da cinque giorni.

- Oh. Adesso puoi dirmi chi era dei due?

- No.

- Allora posso rimanere, no?

- Ti ho detto di no.

- Hai fatto voto di castità per ottenere la salute mentale del ragazzo?

- Vivien, basta, ti prego. Ho bisogno di stare in pace per un po'.

- E il sesso ti agita?

- Tu mi agiti, Vivien.

Alla fine lo lasciò da solo. Lui affondò tra i cuscini del divano e cercò di pensare a persone che rispondessero a due requisiti: essere morte, e da più di tre secoli. Ci stava quasi riuscendo, quando notò il post-it rosa che qualcuno aveva appeso allo schermo del televisore.

Westminster Abbey

Domani

Ore 15

 

 

III

14 maggio 2009

 

Starsene lì davanti all'abbazia di Westminster, spintonato qua e là dalle folle di turisti e dal flusso continuo di gente, senza sapere nemmeno chi stava aspettando lo faceva sentire un idiota. Però aspettava, con una fiducia che forse aveva avuto solo da piccolo nei confronti di Babbo Natale.

- Ma guarda chi abbiamo qui. La scommessa persa. Il fiore morto prima di germogliare. Il più grande fallimento del secolo. Niente di personale: sono loro a dirlo, non io.

Joel si voltò di scatto. Non c'era nessuno. Si guardò attorno piuttosto seccato e si accorse che la voce proveniva da un punto indefinito alla sua destra. Si avvicinò a una signora robusta armata di ombrello parasole e all'improvviso si trovò davanti un uomo con una felpa scura col cappuccio tirato su e la sigaretta accesa. In vita portava un ombrello azzurro chiuso, come una specie di spada. Da sotto il cappuccio Joel intuì un viso giovanile, capelli scuri piuttosto lunghi e un sorriso divertito.

- Sei Nevan?- Domandò, titubante. L'altro annuì e fece un inchino.

- Nevan per servirti, signor Joel Matthew Bennett. Scusa il ritardo, ma io mi muovo con le ombre, e non è facile trovare un'ombra conveniente con questo sole. Certo, potevamo vederci di notte, ma io di notte lavoro e la mia agenda era già quasi del tutto occupata.

- Come mai mi hai fatto venire proprio qui?

- Il modo migliore per nascondersi è andare dove c'è tanta gente. Vieni, aggreghiamoci al gruppo e facciamo la visita guidata dell'abbazia. Quelle belle ombre là dentro faranno al caso mio.

Si infilò tra i turisti in gruppo, in attesa della guida, e Joel fu costretto a seguirlo. Pian piano la coda si mosse verso l'interno della chiesa, e in effetti nessuno fece domande sui due infiltrati.

- Allora.- Non appena furono al chiuso il tipo abbassò il cappuccio e rivolse a Joel due inquietanti occhi color oro, dalla strana forma felina. - Dicevamo che ti danno tutti per perso, ma non io.

- Ma di che stai parlando?

- Quelli del Ragno. Sono sicuri che tu sia stato il più grande spreco di tempo del mondo, per Arthur Headley. Lui voleva far di te il suo discepolo, tu l'hai lasciato schiattare senza nemmeno...

- Io non l'ho lasciato morire.- Rispose Joel, scostandosi bruscamente da Nevan. Quello lo prese per la manica della giacca e se lo riportò vicino.

- Se ti allontani da me, ti vedranno. Restami accanto. La folla e le sue ombre ci nascondono.

- Perché dovremmo nasconderci? Siamo due uomini che visitano l'abbazia.

- Sei proprio ingenuo. Essere visto con me non è consigliabile, per te. Ma torniamo a noi. Non sono io che dico che tu hai deluso Arthur. Sono loro. Il Ragno. Ma non è vero: infatti sei qui.

- Chi diavolo sono quelli del Ragno?- Borbottò Joel, calmandosi a stento dopo quelle parole.

- Il tuo attuale grosso problema. Sei qui perché vuoi capire cos'è successo al nostro amabile custode del teatro, vero? Risparmiami il “come fai a saperlo”, ti prego. I morti parlano quanto i vivi.

Sotto il tetto di quel luogo antico e impregnato di storia era quasi semplice, credere a spettri, spiriti e tutto ciò che Arthur aveva sempre cercato di raccontargli.

- È colpa di questo Ragno se Amir si è messo nei guai e ora ne paga le conseguenze?

- In parte. Loro sono gente deprecabile e temibile. Sono una specie di setta. E fanno le stesse cose che faceva Arthur, le stesse cose che fa Amir, solo al contrario. Sono il rovescio della medaglia. Il negativo del positivo. La concavità della convessità. Il...

- Ho capito.

- Mettiamola così. Tra i custodi del Sunflower e il Ragno c'è la stessa differenza che corre tra un assistente sociale e un trafficante d'organi, di fronte ai bambini di strada.

- Amir è l'assistente sociale e quelli del Ragno sono i trafficanti. Però mi sfugge chi siano i bambini di strada.

- Andiamo, hai capito benissimo.

- Diciamo di sì. Cosa hanno fatto ad Amir, quelli del Ragno?

- Lo hanno ingannato, spingendolo a entrare in un luogo oltre le sue possibilità. Un posto inzuppato di cose malate. Neppure Arthur Headley ha mai provato a sfidarlo: sapeva che ne sarebbe stato sconfitto e cercava una maniera per indebolirne i poteri, prima di metterci piede.

- E cosa gli è successo, lì dentro?

- Deve aver provato i sentimenti di coloro che sono rimasti lì.- Nevan sembrò incupirsi. L'oro dei suoi occhi si fece più scuro. Strinse i denti in un ghigno feroce, piegò le mani come fossero state artigli. - Aggressori e vittime.- Ringhiò a bassa voce. - Un concentrato di desiderio impazzito e l'impotenza di chi subisce il male senza poter neppure alzare la voce per chiedere aiuto. Un'ondata di sporco che farebbe male a chiunque. Più si è capaci di far entrare gli altri dentro il proprio mondo, più si assorbe qualsiasi cosa.

- Quindi una persona sensibile come Amir si è fatto ferire da questi sentimenti negativi.

- Sono una tempesta. Avrebbero spezzato un cuore forte come quello di Arthur. Amir non li ha semplicemente avvertiti. Per un attimo è stato quelle persone. Conosce l'eccitazione dell'istante della crudeltà e la disperazione di chi la subisce. E quando è tornato in sé la sua natura pietosa non è stata capace di sopportare il carico delle memorie. Lui è una di quelle persone che hanno bisogno di credere alla parte buona degli esseri umani. Non riesce a guarire.

La luce tremante delle candele di un altare laterale si rifletteva negli occhi di Nevan, colmi di una rabbia spaventosa, come l'uragano d'ira di una divinità mitologica. I suoi canini sembravano allungati e posavano sul labbro come i denti di una belva pronta a scagliarsi contro il nemico. Le unghie erano incurvate e forti. L'uomo – la creatura – era all'erta, sul punto di balzare. Ma non era un predatore in cerca di cibo. Era più che altro una madre in difesa di un cucciolo.

- E noi cosa possiamo fare?

Gli occhi di Nevan si addolcirono e si fecero nuovamente quasi umani.

- Non esistono riti, non esistono magie. Esistono solo voci che confortano, luoghi benedetti e strade piene di doni inaspettati. Sacrificate tempo e pazienza. Dovete tessere di nuovo una trama di fiducia con cui avvolgerlo. E non è detto che finirà bene. Ma se non vi arrenderete, forse qualcosa cambierà. Cercate meraviglie. Riservategli il meglio. Dategli motivi di credere nelle persone.

Indietreggiò fino a raggiungere una colonna e svanì dietro di essa, perdendosi nella sua ombra. Joel rimase a guardare il vuoto, ascoltando l'eco di quelle parole nella mente.

 

Una cena dignitosa poteva essere un buon inizio, per aiutarlo a riprendersi? Forse no. Forse era un'idea stupida.

Lo vide passare oltre la porta, meno vivo e reale di Nevan. Joel corse ad affacciarsi alla porta della cucina.

- Amir. Ho preparato la cena.

- Non ho molta fame, signor Bennett, grazie.

- Ti va di sederti con me lo stesso?

- Come vuole.

Lo seguì in cucina e si sedette, in silenzio. Joel stava tornando ai fornelli, quando fu bloccato dallo squillo del cellulare. Sbuffò, spazientito, quando vide il nome di chi lo chiamava.

- Evan, che c'è?- Rispose, con un po' di scortesia.

- Joel, per quella conferenza, allora? Ti prego, alza il culo dal divano e vieni. Tutte le tue lauree servono solo ad addobbarti il salotto? Ci hai fatto la tesi, sull'argomento. E ci saranno solo professori e studenti di astronomia: nessun profano che ti farà domande imbarazzanti.

- È che non è proprio dietro l'angolo, sai.

- Mica devi venirci a nuoto. Esiste una cosa che si chiama aereo. E poi avresti l'albergo prenotato e pagato.

- Sì, ma...- All'improvviso ebbe un'idea per cui si sentì veramente fiero di sé. Guardò il ragazzo e sorrise. - Va bene.

- Cosa? Hai cambiato idea da un secondo all'altro?

- Già. Però potrei portarmi dietro un assistente?

- Per fare cosa?

- Per reggermi la valigia e porgermi il pennarello quando dovrò scrivere alla lavagna. Non posso proprio farne a meno.

- Joel, comincio a pensare che tu sia rincoglionito tutto insieme proprio adesso. Ma va bene, non credo ci siano problemi. Mi informo e ti faccio sapere. Non so se la sua quota sarà gratis, però.

- Non c'è problema. Quanti giorni dovremmo rimanere?

- Il convegno dura quattro giorni. La prenotazione che ti viene offerta è di una settimana. Così, se vuoi fare un giro...

- Perfetto. Aspetto notizie, allora.

- Va bene, li avviso che ci sei e ti richiamo. Saranno furiosi: li hai tenuti sulla corda per mesi. Non credo che l'università di Tel Aviv sia solita organizzare convegni nei quali uno dei relatori non è sicuro fino a dieci giorni prima.

- Colpa tua che mi hai impegnato senza prima chiedermelo. Però grazie, Evan.

- Grazie di che?

- Non importa. Ma grazie.

L'unica risposta fu un brontolio esasperato. Poi la telefonata terminò e Joel si rivolse ad Amir, cercando di assumere un'aria seria e professionale.

- Ho bisogno del tuo aiuto. Considera questa richiesta come una parte del tuo lavoro. Naturalmente hai la possibilità di rifiutare, ma una tua risposta affermativa mi sarebbe molto utile.

- Mi dica pure, signor Bennett.

- A fine maggio devo andare una settimana in Israele per un convegno di astronomia. Posso domandarti di venire con me? Ho bisogno di qualcuno che mi tenga in ordine libri e scartoffie. Non farti problemi per i soldi: l'organizzazione del convegno ci offrirà la permanenza. Dei problemi di visto, documenti ed espatrio me ne preoccuperò personalmente. Ovviamente avrai un pagamento extra, se deciderai di venire.

- Io? Vuole che l'accompagni io? Perché?

- Sei affidabile. Come persona e come segretario. Sei una compagnia piacevole e conosci bene i miei ritmi e il mio disordine. Non saprei a chi altro chiederlo.

Un tenue sorriso comparve sulle labbra del ragazzo, un po' più vero di quello che Amir rifilava a tutti da un mese a quella parte.

- La ringrazio. Però... È sicuro...

- Sicurissimo.

- Non ci saranno problemi con il permesso di soggiorno?

- Ti ho detto che me ne occuperò io. Tu non dovrai fare altro che seguirmi e sopportare il mio noioso modo di fare. Il convegno durerà solo quattro giorni, e avremo tutto il tempo di visitare quello che vuoi. Non è detto che tu debba venire in giro con me. Puoi fare ciò che desideri. Non credo tu sia mai stato a Gerusalemme.

Un bagliore d'entusiasmo passò negli occhi del ragazzo.

- Non pensavo che ci sarei mai andato in tutta la vita.

- Come mai?

- Non lo so. Non pensavo e basta. Va bene. Se vuole, l'accompagnerò.

Cercate meraviglie, aveva detto Nevan. Quel viaggio poteva essere una meraviglia abbastanza grande da riparare quello che si era infranto?

 

 

IV

Gerusalemme, 31 maggio 2009

 

Angela amava molto far presente al mondo intero quanto Joel Bennett fosse abile nell'evitare qualsiasi responsabilità, e quanto il suo cuore si tenesse lontano da ogni patetica commozione, preferendo la prosaica sicurezza di filosofie astratte e distanti dalla vita. Joel ribatteva sempre con qualche scherzo, quando l'amica gli faceva presente quella realtà. Però sapeva che Angela aveva ragione, e tutto sommato non vedeva perché avrebbe dovuto preoccuparsene.

Bene, Angela forse sarebbe stata felice di sapere che c'erano posti capaci di sfidare anche l'universo razionale di Joel.

Il convegno all'università di Tel Aviv era stato divertente. Non immaginava di poter trarre soddisfazione dall'illustrare a qualcuno le cose che sapeva, e soprattutto non immaginava che la parte migliore della cosa fosse rendersi conto che gli ascoltatori avevano capito.

Poi erano arrivati a Gerusalemme, uno di quei posti che Joel aveva sempre liquidato come “un importante luogo archeologico, fondamentale per lo sviluppo di tre religioni che hanno influenzato la storia del mondo, oltre che una terra contesa, il nucleo di un problema dei tempi attuali.” In realtà non c'era definizione che potesse racchiudere tutta la storia e la vita che sommergevano i visitatori di quel posto. Perfino la religione gli sembrava qualcosa di più sensato, mentre percorrevano le vie attorno al Muro Occidentale, e poi lungo la Spianata delle Moschee, e infine addentrandosi per i vicoli della città vecchia, verso i luoghi del cristianesimo.

Un'altra delle sorprese di quei giorni era lo sguardo di Amir, che continuava a riempirsi di stupore genuino. Era quasi la persona che Joel Bennett aveva incontrato un anno e mezzo prima. Era di nuovo vitale e loquace, e il suo continuo meravigliarsi di poter essere lì faceva tenerezza a Joel.

Sì, insomma, ce n'erano, di cose che avrebbero stupito Angela.

Dalla parte alta della città si dominava ogni cosa e si vedevano tutti i luoghi sacri più importanti. Seduti su un muretto di pietre bianche, sotto il sole forte, accompagnati però da una brezza piacevole, i due compagni di viaggio avevano intavolato una delle loro tipiche discussioni dal tono leggero, una di quelle che finivano molto lontano.

- Tu hai un amore incredibile per le culture e le religioni diverse dalla tua.- Notò Joel, dopo che Amir si fu lanciato in un'appassionata descrizione di una celebrazione cristiana ortodossa a cui aveva assistito la sera prima, girovagando da solo per la città.

- Nel Corano si dice che è stato Dio a volere l'esistenza di altre religioni.- Rispose il ragazzo. - Quindi penso sia buono, interessarsene. Ci sono cose belle e cose incomprensibili in tutte.

- Sai, una delle cose che mi allontanano di più dalla fede è l'idea dell'aldilà.- Confessò Joel, percorrendo con lo sguardo il tratto che comprendeva il Muro del Tempio, la Moschea della Roccia e il Santo Sepolcro. - Qualcosa di eterno e infinito. Non è inquietante?

- Io mi fido di Dio. È più intelligente e creativo di me. Sono sicuro che ci ha preparato cose meritevoli.

- Pensi che solo chi ha la tua fede ci arriverà, in questo bel posto?

Amir scosse la testa e rise.

- Da quando sono a Londra non posso fare a meno di credere che ci sia qualcosa per tutte le persone buone. Per tutte le persone.

Ecco che cominciava anche il ragazzo. Joel increspò le labbra in un sorriso, ricordando Arthur e la sua fissazione sul Paradiso. Ne parlava spesso, come se avesse avuto bisogno di raffigurarselo chiaramente, e gli piaceva riempirlo di volti e nomi che a Joel non dicevano niente. Però Arthur voleva davvero convincersi che tutta quella strana gente che gli infestava i ricordi fosse in un luogo bellissimo.

- Tu, Amir, mi sembri il tipo di credente che si fa molte domande.

Il ragazzo rise di nuovo. Era una soddisfazione, sentirlo ridere dopo più di un mese di silenzio.

- Io mi faccio sempre domande su tutto, signor Bennett. Non riesco a non farmi domande. Dovrei farmene molte meno, sarebbe meglio. Non sai mai dove ti portano, le domande.

- La cultura comincia dove cominciano le domande.- Sentenziò Joel, ripetendo meccanicamente qualcosa che aveva letto molto tempo prima. - Non ci sarebbero scienza, filosofia e arte, senza domande.

- Forse. Non lo so. Mi piacciono, le domande. Però mi spaventano. Non so quali siano i limiti, i confini davanti a cui sarebbe giusto fermarsi. A volte preferisco rimanere con le domande, senza cercare davvero una risposta.

- E riesci davvero a vivere così? Non ti imponi dei tormenti inutili?

- Non è detto che siano inutili.

- Ma ti fanno male.

- Magari sarebbe peggio se non avessi nessuno scrupolo, no?

Ostinato davvero, il ragazzo. Quel modo di vivere, quello sì che era l'opposto di Joel.

- Non lo capisco.- Riprese l'uomo, dubbioso. - Io ho bisogno di sentirmi libero interiormente. Non ho molte guide per il mio comportamento, se non qualche principio d'etica e di rispetto e convivenza civile. Rigirarmi nei dubbi senza mai arrivare a una soluzione è solo una sofferenza senza sbocco.

- Qualche volta si arriva a una soluzione.

- Sai, mi sono appena reso conto di una tua caratteristica che ignoravo del tutto. Sei più testardo e attaccato alle tue idee di quel che credevo. Sei mite, ma non sei una persona manovrabile. Credo che tu sappia chi sei.

- Mi sembrava di saperlo, non molto tempo fa. Poi è cambiato tutto.- Il ragazzo si intristì improvvisamente. - Ho deciso di fare a meno di alcune cose, nella mia vita. Ma senza di esse non so se... Signor Bennett, pensa che si possa vivere, eliminando qualcosa dalla nostra vita che però ci rende profondamente felici e ci fa sentire noi stessi?

- Temo di non essere la persona giusta a cui chiederlo. Non sono onesto come te, e non sono incline ad affezionarmi troppo a niente. Ma credo che se qualcosa ti fa sentire te stesso, è importante. Come la tua fede o tutte le tue domande.

E i fantasmi, avrebbe voluto aggiungere, ma era sicuro che il ragazzo lo sapesse già.

Amir fece cenno di sì, gli occhi fissi sulla città. Poi per la prima volta in quella conversazione alzò gli occhi sul suo interlocutore.

- Era un po' di tempo che non pensavo a queste cose, signor Bennett. Grazie per avermene fatto parlare.

- Grazie a te per avermi risposto sinceramente. Sai, io non ne parlo e basta.

 

Di sera non c'era molta gente, nel quartiere cristiano della città, che di giorno era disseminato di botteghe e bancarelle, piena di visi e voci. Per la maggior parte c'erano gruppi di pellegrini, magliette o cappellini identici, idiomi di tutto il mondo. Giocarono a indovinarne la provenienza finché non furono risucchiati dal fascino notturno della città. Le vie fatte di piccole piastrelle quadrate salivano e scendevano, a gradoni, sempre circondate dalle mura di case e chiese. Joel ringraziò l'idea del ragazzo di trovare un posto per dormire in città, nell'ultima notte del loro viaggio. Non sarebbero riusciti a godere di quello spettacolo, altrimenti.

Un giovane li raggiunse in corsa e si fermò di fronte a loro, ansimante. Chiese qualcosa in arabo, e Amir rispose.

- Dice che si è perso.- Spiegò Amir. - Che non sa come tornare al Sepolcro.

- È piuttosto vicino. Sarà a un paio di svolte da qui... Credo.

Amir confabulò con il giovane, poi tornò a rivolgersi a Joel.

- Chiede se possiamo accompagnarlo.

- Perché dovremmo? Ci sarà da fidarsi?

Amir aveva un sorriso strano. Come se avesse appena capito qualcosa, qualcosa di molto bello.

- Sì, assolutamente.

- Se lo dici tu. Non sappiamo neanche chi sia, questa persona.

- Io sì.

E Joel lo lasciò fare, preferendo non indagare, perché aveva riconosciuto quel tono di voce, quel modo che aveva Amir di guardare lo sconosciuto, come se volesse analizzarlo, leggergli dentro di cos'era fatto. Annuì e li guidò verso il luogo dove ipotizzava che si trovasse il Santo Sepolcro.

Le due svolte diventarono almeno otto, ma alla fine raggiunsero la chiesa infossata tra gli edifici, la sua facciata spoglia e le grandi porte di legno. Sul lato destro della facciata c'era una scala, e lì, sul primo gradino, stava seduta una ragazza. Indossava un semplice abito azzurro e portava il velo, come le donne musulmane. Il giovane la salutò con un cenno della mano e un sorriso gioioso, a cui lei rispose allo stesso modo.

- Non ne vedevo da un mese.- Mormorò Amir, incapace di staccare lo sguardo dai due. - E mi è sembrata un'eternità.

Il giovane sconosciuto disse qualcosa ad Amir e lui fece cenno di sì con la testa. La ragazza li raggiunse (spostandosi così velocemente che Joel quasi non la vide muoversi) e diede la mano al giovane. Sollevarono le mani unite, come a voler mostrare quel legame.

Amir disse qualcosa.

Un attimo dopo i due non c'erano più.

- Cosa... Cos'è successo?- Gridò Joel, raggelato.

- Niente di cui aver paura.

- Ma dove...

- Va tutto bene. È solo che volevano dei testimoni per le loro nozze.

- Dove sono finiti? Erano reali?- Mormorò Joel. Se aveva qualche certezza sull'esistenza, in quel momento era ben lontana da lì.

- Sono andati dove dovevano andare. Erano reali, sì. E non li vedevo più. Non li sapevo più riconoscere. Che idiota, sono stato. Perché ho tolto la lanterna? Non ne posso fare a meno. Io voglio continuare a incontrarli, a portare a buon fine le loro storie!

Ripresero a camminare in silenzio. Proseguirono lasciandosi alle spalle l'intreccio di vicoli, per raggiungere la piazza del Muro Occidentale e le strade bianche e ampie di quella parte della città. La cupola d'oro della moschea svettava su di loro. La piazza del Muro era illuminata, c'erano passanti e pellegrini, c'erano voci e movimento.

- Per ogni mille cose oscure ce n'è una, minuscola e fragile, ma così bella che attira per forza lo sguardo di Dio e dei puri di cuore.

Una donna aveva preso a camminare con loro. Joel provò a capire di quale dei tanti mondi di Gerusalemme fosse parte, ma non ci riuscì. Aveva qualcosa di sfuggente. Portava una veste lunga e candida, sotto alla quale si intravedeva una gonna multicolore. I capelli neri erano raccolti e riparati sotto un velo quasi trasparente, ma c'erano ciocche che sfuggivano, e tra esse balenavano orecchini d'oro e pietre azzurre. Gli occhi erano scuri e profondi, i lineamenti severi, lineari, con la bellezza delle statue e dei dipinti. Pareva resistente come le mura di una città e antica come la più antica delle storie.

- Così c'è sempre uno sguardo d'amore sul mondo, nonostante tutto.

Joel pensò alla sensazione che gli avevano dato poco prima i due sposi fantasma. Era differente da ciò che provava di fronte alla donna, alla sua voce bassa e autorevole, incrinata appena da una nota di risata limpida. Però non avrebbe mai potuto credere che quella fosse una donna comune.

- Chi è così sciocco da voler rinunciare a una strada costellata di fuochi, di scoperte entusiasmanti, di tesori indicibili, per imprigionarsi da solo nella torre della disperazione?

Amir la guardava con ammirazione e timore. Non osava avvicinarsi, anche se non sembrava spaventato. Quando la donna ebbe finito di parlare, lui trovò il coraggio di fare un timido passo incontro a lei.

- Io non lo farò.

Lei accennò un sorriso.

- C'era bisogno che fossi io, a dirti queste cose.

Poi li lasciò e si confuse in fretta con un piccolo gruppo di gente che transitava davanti a loro.

- Tu sai chi era?- Chiese Joel, avvicinandosi ad Amir. Si era levato un vento non forte ma persistente, che risvegliava brividi di freddo e di timore nel trovarsi lontani da casa e da ogni sicurezza. Joel si accorse in quel momento del tremito che scuoteva le spalle del ragazzo. Allora, con tutta la fatica degli uomini poco affettuosi, gli regalò un abbraccio sicuramente poco convincente. Però Amir si asciugò le lacrime e sembrò contento.

- Mi scusi. Credo di aver appena capito una cosa. Ho capito chi era quella donna, e di conseguenza anche chi era un'altra donna che... Beh, non è che piango ogni volta che mi succede di capire qualcosa.

- Oh. In effetti potrebbe diventare complicato, se così fosse. Stai bene?

- Ah, sì, non si deve preoccupare.

- La tua frase preferita, alla quale non crederò mai più.- Commentò Joel, posando un braccio sulle spalle del ragazzo. Amir fece una piccola risata che sembrò sincera. - Chi era, quella donna?

- Questa città.

- Cosa?

Il ragazzo rise e scosse la testa.

- Prima o poi riuscirò a spiegarle le cose come stanno, signor Bennett. Glielo prometto. Per questa volta si accontenti.

- Senti, Amir, pensi che riusciresti a chiamarmi per nome e a trattarmi in maniera informale?

- No. Non ci riuscirei mai. Posso provarci, però. Grazie.

- È già qualcosa. Torniamo all'albergo, adesso. Non ci saranno altri strani incontri stanotte, vero?

- E chi può dirlo?

- Ma è tutta così la tua vita? Giri l'angolo e ti trovi di fronte persone evanescenti e belle donne che fanno discorsi incomprensibili...

- Ogni tanto incontro anche normali esseri umani, Joel.

 

 

 

 

Fine Seconda Parte





***
E' finito l'arco narrativo più difficile da scrivere di tutta la storia. Il risultato è che Amir chiama Joel per nome. Ci sono voluti venti capitoli, ma ce l'ha fatta, alla fine.
Mi fa un po' effetto pubblicare un pezzo di storia ambientato a Gerusalemme, di questi tempi terribili.
Io non finirò mai di ringraziarvi di essere qui.

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Capitolo 21
*** XXI - Come siamo arrivati fino a qui ***


TERZA PARTE

L'eco della fiamma

 

 

Capitolo XXI

Come siamo arrivati fino a qui

 

Well we're all rotten and we're pure

And we're just looking for the cure

That feels like spring snow

And what we have is what we are

And where we've been got us this far

(Charlotte Martin, Redeemed)

 

Di tutti quelli che sono passati da qui, alcuni li ho amati di più, forse. Ma non c'è nessuno che io abbia rifiutato. Le mie porte erano aperte. Sempre.

Siete voi, che avete deciso di non entrare. E allora io l'ho presa come una sfida.

Ma quelli che sono scivolati tra le mie braccia, quelli li ho chiamati figli e amanti, preziosi come nient'altro, degni della fatica che ho fatto per tenerli vivi. Quelli che sono entrati, io li ho amati con il mio amore di fuoco e di tenebra. Anche quando le loro vite sono svanite da questa terra, io ho conservato per loro un posto dentro di me, nella mia anima enorme che con ogni storia si allarga un po' di più.

 

I

Londra, 14 aprile 1991


- Devo dirti una cosa.

Esther Wilmore era ridotta a una misera forma fatta di ossa e un filo di respiro, la cui vista era terribile, nel bianco delle lenzuola d'ospedale. Ma l'autorevolezza nella sua voce non veniva mai meno. La voce poteva essere un filo appena udibile, lo spirito dietro ogni sillaba era chiarissimo.

- La so, questa cosa, Esther.- Rispose Arthur, sforzandosi di sorridere. - Puoi fidarti di me, come sempre. Sono un idiota, ma non quando si tratta delle cose serie.

- Non sei per nulla un idiota.- Una mano di lei andò a carezzare il viso dell'uomo e i suoi capelli neri e lunghi. Cercò di sollevarsi, gli sorrise con fatica, poi abbandonò la testa all'indietro sul cuscino e chiuse gli occhi. Aspettò qualche minuto, e quando li riaprì, sembrò che le fossero tornate un po' di forze.

- Vedi di non metterti nei guai come me, ragazzo.- Gli disse, indicandosi e facendo una specie di risata. Arthur rise con lei, sedendosi sul bordo del letto.

- Che sciocca, sei.

Però era vero. Chissà quali incubi stava inseguendo, Esther, quando si era ammalata. Quale ombra aveva provocato tanta angoscia in lei da non lasciarle via di fuga? I dottori dicevano che Esther stava morendo di una malattia scoperta troppo tardi, ma lui e la donna sapevano che non era così. C'era qualcos'altro, qualcosa dentro di lei che si era arreso prima del tempo. Troppa oscurità che la donna non era riuscita a smaltire. Troppa angoscia trattenuta sulle spalle esili dell'esorcista, che custodiva il suo teatro e si prendeva cura dei suoi fantasmi, senza sapere come scrollarsi via tristezza residua e dolore non suo. La malattia era arrivata e aveva trovato un fisico perfettamente indifeso in cui insediarsi.

Arthur distolse un attimo lo sguardo dalla sua amica e maestra, per osservare la sera che avanzava fuori dalla finestra, immaginando la sagoma del teatro nel buio e il suo cuore, a volte innocente, a volte terribile.

- Non tenere mai per te le cose peggiori. Ti consumeranno.- Disse Esther. Una cosa che doveva avergli ripetuto un numero incalcolabile di volte, in quei mesi di malattia.

- Non lo farò.

- Sei fortunato. Candice capisce più di quanto le dici, sai? Le si legge in viso. E i tuoi ragazzi... Vivien è sfuggente, ma è anche molto giovane. E quella povera creatura che nessuno chiama con lo stesso nome per due volte di fila, Benedict, sembra te quando ti ho conosciuto.

- Poveretto, allora.

- Già. Speriamo che migliori col tempo.

Scoppiarono a ridere insieme, e Arthur si chinò per darle un bacio leggero sulla fronte. Sentiva il bisogno di concentrare nei momenti che passavano insieme tutto l'affetto che avrebbe potuto darle negli anni futuri, quelli che non ci sarebbero stati. E voleva che i giorni finali della storia di Esther fossero belli e luminosi come tutti gli altri.

Dovrebbe essere così per tutti.

- Arthur.- La risata si smorzò e un'ombra di tristezza le comparve in viso, in un istante. - Tu non pensi che io ti abbia rovinato la vita, vero?

- Ma come ti viene in mente una cosa del genere?- Domandò lui, alzando la voce al punto di far infuriare l'altra occupante della stanza, una signora più vecchia di Esther, ma che a differenza di lei sarebbe tornata a casa.

- Senza di me, non avresti incontrato il Sunflower.- Bisbigliò Esther. - E le ombre, tutto il loro mondo, l'altra anima della città...

- Esther, ma mi hai visto? Sarei morto, senza queste cose! Sono nato per perdermi tra fantasmi e stranezze. È stata una delle cose migliori della mia vita, quella che tu mi hai fatto vedere. E continuerà a esserlo. E poi tu mi hai regalato qualcosa, e nessun regalo è da disprezzare.

Esther sorrise, rasserenata.

- Questo mi basta. Arthur, nel sottopalco, nell'armadio della stanza con il lampadario azzurro...

- Quella che Candice sostiene che non esista?

- Lì c'è un elenco. L'ho compilato io. È la cronologia del teatro. È...- L'affaticamento tornò: Esther fu costretta a chiudere gli occhi e prendere una boccata d'aria, che però sembrò non arrivarle.

Il medico fece il suo ingresso nella stanza e quando vide la donna in quello stato si precipitò al letto e posò una mano sulla spalla di Arthur, invitandolo con quel gesto ad allontanarsi.

- La signora Wilmore ha bisogno di riposarsi.

- Aspetti un attimo!- Implorò Esther. - L'elenco. Capirai perché ti ho lasciato il teatro due anni fa. È la chiave della storia del Sunflower. Capirai perché in alcune epoche è buono, in altre cattivo.

- Signora, lei deve riposarsi e il signor Headley la lascerà subito.

- Sì, me ne vado. Esther, torno domani.

- La cronologia è...- La donna tentò di sollevarsi sul cuscino, ma vi ricadde con un respiro doloroso.

- Stai tranquilla.- Arthur si chinò per darle un bacio veloce. - Prenderò la cronologia. Riposati, ora. Ci vediamo domani.

Esther fece un debole sorriso e sembrò calmarsi. Arthur si voltò e raccolse la sua roba in fretta, mormorando un saluto al dottore e all'altra signora nella stanza. Fece qualche passo verso la porta, quando lo raggiunsero le parole di Esther, chiare come se le avesse pronunciate con la sua voce di sempre.

- Allora sei felice di avermi incontrata?

Si impose di non piangere e si voltò verso di lei, decidendo che era più importante risponderle, piuttosto che evitare di dire cose segrete davanti al dottore.

- Esther, qualunque cosa tu stia pensando, la verità è che non sei un fallimento. Ti sei fatta abbattere dal tuo compito, d'accordo. Ma è stato l'errore di un attimo. Per anni hai protetto ogni cosa, e quando è stato il momento hai affidato tutto a me. E io sono felice di averti incontrata. Non hai niente da rimproverarti, e niente da temere.

- Va bene. Grazie.

Nel parco fuori dall'ospedale c'erano Candice e i ragazzi, Vivien seduta su una panchina, annoiata e seria, e Benedict completamente immerso in un libro. Arthur sfiorò i capelli della sua indisponente figlia adolescente, poi chiuse per dispetto il libro tra le mani di Benedict (in risposta, il ragazzo glielo lanciò, e lui riuscì a prenderlo per un pelo, prima che gli finisse in faccia.)

Candice lo abbracciò senza dire nulla, prese il comando della spedizione e li ricondusse a casa.

 

Di notte gli era sempre sembrato tutto molto meno reale.

Forse non era reale neanche la telefonata dell'ospedale che annunciava la morte di Esther Wilmore.

 

 

II

Londra, 18 maggio 1997

 

- Mi scusi, Benedict, mi può riportare una copia del suo lavoro? È stata inglobata da un magazzino.

Joel trattenne una risatina esasperata e riuscì ad appiccicarsi in viso un mezzo sorriso cortese e disponibile.

- Certo, professor Headley. Domani le riporterò la ricerca.

- Grazie. Mi dispiace, avevo portato la borsa del lavoro in teatro e l'ho scioccamente appoggiata in una delle stanze che usiamo come soluzione per tutti i problemi di spazio: ci mettiamo quel che non ci occorre, ci gettiamo gli oggetti che non sappiamo deciderci a buttare... Oh, non mi stupirei se ci fosse anche qualche attore rimasto incastrato là dentro! Sì, lo so, non ti interessa niente del teatro sgangherato del tuo povero professore ben avviato sulla via della pazzia, eh?

A quel punto Joel non riuscì più a tenerlo buono, il sorriso. Il professor Arthur Headley era un fuoco d'artificio di linguaggio elevato, aneddoti curiosi, modi fuori dal comune, gentilezza e un po' di pazzia. Tra gli studenti del corso c'era chi lo amava e chi lo odiava, e poche vie di mezzo.

Joel fino a tre secondi prima non era certo di quel che sentiva nei riguardi del professore, ma quell'uscita sul teatro gli aveva fatto tenerezza. Forse, in fondo, il Headley gli piaceva. E lui aveva l'impressione di piacere al bizzarro professore (una cinquantina e qualcosa d'anni, anche se aveva i capelli lunghi tutti grigi e una certa aria da magico vegliardo delle leggende medievali.)

Doveva solo fargli capire che si chiamava “Joel Bennett” e non “Benedict”.

- Bene, ragazzo, mi aiuti a portare i libri nell'altra aula?

- D'accordo.

- Grazie, Benedict.

Joel prese saldamente tra le braccia la pila pericolante di fogli sparsi e volumi che Headley si portava sempre in giro, mentre il professore si caricava di tre borsoni straripanti di chissà cosa.

- Bennett.- Disse Joel, imboccando la porta per primo.

- Come?

- Mi chiamo Bennett. Penso che lei si sia...

- Lo so.

Headley chiuse la porta dell'aula vuota trascinandola con il piede e fece cenno col mento a Joel di non fermarsi.

- Lei sa che...

- Lo so che ti chiami Joel Matthew Bennett. Lo scrivi su tutte le relazioni che mi consegni. Ti chiedo perdono, mi viene spontaneo chiamarti Benedict. Mi ricordi una persona che aveva questo nome. La più classica delle sciocchezze sentimentali, eh?

Joel scosse la testa, spiazzato dalla rivelazione.

Il professor Headley lo spiazzava sempre. Non avrebbe saputo giudicare lui, le sue stranezze, le sue lezioni che partivano dall'astronomia e passavano per tutte le materie scientifiche e umanistiche del mondo. Soprattutto, non sapeva cosa dire di fronte alla simpatia spontanea e inspiegabile che il professore gli dimostrava.

Raggiunsero l'aula dove Headley avrebbe avuto una lezione nel giro di mezz'ora. Joel posò la pila di libri sulla cattedra e la sistemò in modo che non ci fossero crolli. Headley si liberò con poca grazia dei suoi borsoni, gettandoli sul pavimento e ottenendo uno svolazzio di fogli sbucati fuori da tasche semiaperte.

- La prima parte della tua ricerca l'ho letta, sai.- Disse l'uomo, traendo un lungo respiro e lasciandosi scivolare sulla sedia dietro la cattedra. - Mi è piaciuta. Hai una sorprendente capacità di riflessione sulle cose più semplici e una proprietà di linguaggio molto piacevole da leggere.

- Grazie, professore.

- Quando discutiamo in aula sembri più distante e meno coinvolto.

Joel si ritrovò di nuovo senza parole. Tentò di imbastire una risposta, ma Headley lo prevenne e riprese a parlare.

- Qualunque cosa ti trattenga, credo tu sia una persona di valore, Benedict... Joel. Non hai motivo di startene nel tuo mondo, senza condividere le splendide visioni che ci sono là dentro.

- Va bene.- Rispose lui, meccanicamente, senza aver capito bene cosa intendesse Headley.

- Posso chiamarti Benedict, sì?

- Certo. Ma solo se lei mi rivela chi era, il Benedict che mi somiglia.

- Mio figlio. È morto l'anno scorso in un incidente stradale. Aveva ventisei anni. Era un divertente, presuntuoso intellettuale e faceva perdere la pazienza a tutti con la sua ironia. Però era una persona buona. Non so come mai, ma c'è qualcosa in te che me lo ricorda. Lascia fare, non sentirti in dovere di dirti che ti dispiace o cose del genere.

- Può chiamarmi Benedict, se vuole.

Si salutarono con un sorriso e un momento di silenzio. Poi Headley si perse in uno dei tanti fogli che erano volati fuori dalla sua borsa: una locandina teatrale. Joel era già fuori dalla stanza, quando si sentì chiamare di nuovo.

- Benedict. Prendi questa. Potrebbe venirti voglia di fare un salto al mio teatro, il Sunflower.

Joel prese la locandina disegnata a mano e fotocopiata, che pubblicizzava una versione teatrale di L'uomo che fu Giovedì di Chesterton per la domenica successiva. Sorrise e annuì.

- Perché no?

 

 

III

Karachi, 8 giugno 2007

 

La casa è quieta, ma non silenziosa. Non lo è mai stata. Le voci del mondo trovano sempre il modo di farsi strada tra le pareti, oltre le finestre, e rimbalzare dolcemente da un muro all'altro, da una stanza all'altra. Sono le voci della strada, delle case vicine, e poi quelle degli abitanti della casa stessa – quelli che parlano spesso, almeno.

Lui non parla spesso, perché preferisce ascoltare. Di norma ascolta lo scorrere dei pensieri nella sua testa e il suono delle immagini che si formano dietro i suoi occhi chiusi. Poi ascolta le voci, e anche le parole non dette, gli sguardi eloquenti, le valanghe di sentimenti trattenuti, oppure i sentimenti reali celati dietro rabbia, nervosismo e parole fuori posto. È bravissimo in questo. Trova la verità dietro le parole, scavando con la propria sincerità bruciante.

Non sa perché ci sia questa esigenza di verità, in lui. È sempre stato così. Forse è colpa di suo padre, che era come lui. Forse è solo un dono di Dio.

La casa gli rimanda suoni frammentari, incomprensibili, piacevoli. Un alito di vento muove la tenda azzurra che separa la zona notte dalla grande cucina, giù, oltre pochi gradini. È una bella casa, la sua. L'abitazione di una famiglia che vive dignitosamente, che si potrebbe definire benestante.

Una risata. Ci sono le sue sorelle, in cucina. Si appoggia con la schiena al muro del corridoio, mentre sta seduto per terra ad ascoltare. Un'altra risata.

Pensa a quello che deve dire.

Chiude gli occhi e ascolta l'immagine da regina indomabile di sua madre, Sehar, signora della casa e anche del quartiere, donna pia e modesta, ma anche creatura che non ha paura di nulla.

Poi ascolta la figura alta e fragile di Janaan, l'ombra quieta e cortese di suo marito, la sagoma dolce del ventre rotondo di lei.

Ascolta il viso non proprio bello ma carico di vitalità di Nahla, la sua voce cupa che esplode in risate incontrollabili, l'effetto buffo che fa vicino al suo promesso sposo, un ragazzo magro e dimesso.

Ascolta il mondo colorato e caldo di Shirin, che fa un po' disperare sua madre perché non è fidanzata, ascolta le sue lezioni all'università femminile di Karachi e i suoi gruppi femministi, il suo impegno sociale con chi è più povero tra i poveri nella città, la sua voce chiara che si alza e s'infiamma di una desiderio di giustizia forte come quello di suo fratello per la verità.

Non sono sole. Sono forti, sono coraggiose. Se la caveranno anche senza di lui.

Qualcosa viene a turbare la serenità di quelle immagini. Altre due figure che non ha calcolato. La prima lo costringe a un sorriso. C'è suo zio Farid, il fratello del padre, e può quasi sentire il suono tintinnante degli oggetti inutili che porta sempre con sé, la sua voce inarrestabile che magnifica la tecnologia e le nuove scoperte che fioriscono ogni giorno, da ogni parte del mondo.

Lo zio Farid non vede l'ora che suo nipote parta. Non perché non lo vuole lì, ma perché... Forse perché lui tanti anni prima è partito, ma poi è tornato a casa e non ha potuto continuare a viaggiare ed esplorare ogni angolo dell'universo.

E alla fine arriva il brivido di paura che ha macchiato dieci anni di vita e ancora non vuole andarsene. Ahsan, il fratello della madre, che avrà sicuramente ancora molto da dire, su questa partenza. Non è d'accordo sul fatto che il figlio lasci la casa. Non è d'accordo con niente. Il problema non è la partenza: il problema è che lui ha bisogno di creare infelicità attorno a sé, per sentirsi realizzato. La prima volta in cui il nipote ha ipotizzato vagamente l'idea di andarsene, Ahsan ha risposto con uno schiaffo e con poche parole, precise e terribili: come sempre pensi a te stesso, vuoi fuggire dalle tue responsabilità e andartene a spendere i soldi della tua famiglia lontano da qui. Non ti interessa delle persone che lasci. Non ti interessa niente, se non te stesso. È il suo modo di fare, quello: disapprovare, distruggere, sempre. L'ha fatto per così tanto tempo da insegnare a suo nipote come mimetizzarsi e sparire, per evitare di finire sotto alla tempesta della sua rabbia e del suo disprezzo.

Questa volta, però, c'è qualcosa di concreto: una data, un posto dove stare, a Londra. La partenza è reale. Deve dirlo, senza preoccuparsi di quello che accadrà. Deve annunciarlo e basta. Parte. Per davvero. A settembre.

Va a Londra.

Le voci – quelle reali, in cucina – si fanno più vivaci e infrangono i pensieri. Sono arrivati tutti: se si sofferma su ciascuna voce, li sa distinguere. Tutti e sei. È il momento di dire a voce alta che parte, e una volta dopo averlo detto sarà ancora più vero.

 

È una giornata caldissima e la luce è così intensa che sembra spezzare in due la realtà. Lui corre lungo la strada che si allontana da casa sua.

- Amir! Vuoi fermarti o no?

No, non vorrebbe fermarsi, altrimenti non starebbe correndo così. Invece si ferma e si volta verso suo zio Farid, nascondendo il fastidio di essere stato inseguito.

- Ehi, senti, ragazzo, lo sapevi che arrivati a questo punto sarebbe andata così, no?

Farid sorride. È vero, quello che dicono tutti: Amir gli somiglia molto, sia nei lineamenti del viso, sia perché Farid è alto e magro, come Amir. Però l'uomo ha un portamento sicuro di sé che il ragazzo probabilmente non avrà mai.

Il sorriso passa ad Amir come un contagio.

È vero. Arrivati al punto di annunciare la sua partenza, lo sapeva che le donne di casa l'avrebbero benedetto, pur piangendo, e che Ahsan si sarebbe infuriato di nuovo. Non è quello il punto, non sono state le lacrime o le solite parole cattive a farlo scappare.

È solo che...

- Mi sembra impossibile che sia vero.

- Sono almeno sei anni che ti prepari per andare studiare a Londra.- Risponde Farid. - Sono sei anni che lavori per pagarti il viaggio e gli studi. Andiamo, ti sei sorbito quattro anni di lavoro nell'emporio di Ahsan, e sappiamo tutti quanto sia stato spiacevole. E ora che hai una data precisa, sembra che ti sia spaventato tutto insieme!

- Non sono spaventato.

- E allora?

Non lo sa spiegare nemmeno lui, e probabilmente, con tutto l'affetto che prova per Farid, anche se sapesse spiegarlo, non è a lui che vorrebbe dirlo. Magari preferirebbe la compagnia di Shirin, la sua sorellina troppo intelligente. Forse avrebbe bisogno di qualcuno dei suoi amici, quelli che hanno deciso di dedicarsi alla politica e al cambiamento, lì, nella loro città, senza andarsene, come sta facendo lui (ah, riecco i rimorsi per il mondo che si lascia alle spalle...)

Oppure vorrebbe la vicinanza di qualcuno che non è ancora arrivato, nella sua vita, qualcuno di cui un giorno imparerà il nome, il viso, la storia.

- Non ti preoccupare, va tutto bene. Voglio andare all'aeroporto. Ho una data e una sistemazione. Manca un biglietto aereo.

Il più vicino alla sua casa, tra i due aeroporti di Karachi, è comunque distante, deve prendere un mezzo pubblico e perderci quasi due ore.

- Mi sembra giusto. Vuoi che ti dia un passaggio?

- No. Devo andarci da solo. Prenderò il tram.

- Ti ci vorrà un sacco di tempo.

- Lo so. Ma devo andarci da solo.

- Devi? Come vuoi. Sei più strano di tuo padre!- Dice Farid, e sa bene che è un complimento che Amir gradisce molto.

 

Perdersi nella propria città non è proprio una cosa lusinghiera. Però è appena successo. Non sa più da che parte deve andare, per prendere il secondo tram che lo condurrà all'aeroporto.

- Hai bisogno di qualcosa?

L'uomo che ha parlato è un tipo perfettamente comune, con un vestito tradizionale verde scuro, i capelli portati lunghi fin sotto l'orecchio, un accenno di barba e un sorriso gentile.

Eppure...

Amir non riesce a guardarlo negli occhi, perché ha l'impressione sconcertante di vedervi qualcosa, oltre. Come un mondo che lo inquieta. Non saprebbe chiarire in modo migliore quella sensazione. Così abbassa lo sguardo e mormora un “grazie, no.”

- Io penso di sì.

L'uomo è giovane o vecchio? Si avvicina di qualche passo e porta con sé un movimento di tutta l'aria, un respiro di vento caldo, un tintinnare di frammenti colorati di cose antiche e misteriose, l'eco di un canto tragico che sfocia in un inno per un futuro magnifico e desiderato.

Amir lo guarda per un istante e ha l'impressione di scivolare in un luogo conosciuto ma irriconoscibile, in un oceano di stelle lontanissime.

- L'aeroporto è da quella parte.- Dice l'uomo, indicando la via. Sicuro e rassicurante. Le cose acquistano il loro senso. Amir muove il primo passo, forse ringrazia, forse saluta, sta già camminando, ha preso la direzione giusta e lo sconosciuto non c'è più, né sulla strada, né nei suoi pensieri.

 

 

IV

Ilford, 29 dicembre 2007

 

- Per favore, posso usare il telefono?

L'unica risposta furono gli strepiti della cameriera all'indirizzo di qualcuno di indefinito, insieme a uno sgradevole cozzare di bicchieri, sullo sfondo del vociare confuso dei clienti che riempivano il pub.

- Per favore...- Uno dei camerieri, un tipo enorme, gli passò davanti, spingendolo via dal bancone sul quale si era affacciato.

- Pearl, dove cazzo sta Liam?

- Pensa a dove cazzo stai tu, piuttosto, e muoviti!- Lo rimbeccò la cameriera strepitante. Ed entrambi continuavano ad ignorarlo. Forse avrebbe fatto meglio a uscire e chiedere aiuto altrove. L'avrebbe fatto, se quello non fosse stato l'unico pub aperto in quella zona, e soprattutto, se fuori non ci fosse stata una tormenta che aveva l'aria di volersi mutare in autentica tempesta di neve.

- Per favore, posso...- Tentò di nuovo, cercando di posare la mano sul braccio del cameriere possente, ma quello se lo scrollò di dosso, quasi non fosse esistito. Si guardò attorno, sconfortato. Nella marea umana della stanza era difficile individuare i membri del personale. Che poi, se erano tutti di buon umore come quei due, probabilmente non avrebbe ottenuto nulla comunque.

Si fermò, appoggiandosi di nuovo al bancone. Magari poteva restare lì in attesa. Attesa di cosa, poi? In quel momento non aveva molta voglia di pensare. Era affaticato e completamente bagnato di sudore, sotto il cappotto pesante che lo infastidiva. Era seccato per l'inconveniente che gli era capitato, e soprattutto per la propria idiozia che gli aveva fatto dimenticare il cellulare chissà dove.

Anche se avesse voluto pensare, lì dentro sarebbe stato difficile. Le voci erano così tante da riempirgli completamente la testa, facendolo sentire come se avesse avuto un'immensa cassa di risonanza a contenere il suo cervello sofferente. Poi c'era la musica, una ritmica infernale che gli rimbombava nel petto. Poco distante, la televisione posta in un angolo vomitava le immagini delle notizie, il resoconto di qualche dramma politico consumatosi in un paese lontano, un evento che doveva aver registrato un paio di giorni prima e quasi dimenticato.

- Posso servirle qualcosa?

All'improvviso una voce incredibilmente gentile in tutto quel caos. Sollevò lo sguardo e incontrò il viso serio di un ragazzo dalla pelle scura, con i capelli mossi e incolti che gli scendevano fin sotto l'orecchio.

- Un telefono.- Rispose, senza pensare. Si rese conto di ciò che aveva detto solo per via dell'espressione perplessa dell'altro. - Mi si è fermata l'auto qui fuori e non ho il cellulare con me. Ho bisogno di fare una telefonata. E nel frattempo, vorrei un tè.

- Un tè caldo?

Sì, non era la scelta più tipica, in un pub, forse.

- Esatto.

- Adesso vado a chiedere se può usare il telefono. E le faccio subito il tè.

Il ragazzo sparì in fretta, per ricomparire poco dopo con un'espressione rammaricata.

- Ho chiesto se poteva venire nel retro, per il telefono, ma mi hanno detto che c'è troppa confusione e non è possibile.

- Ho capito. Beh, grazie lo stesso.

- Vuole usare il mio telefono?

- Ma no, non mi permetterei mai.

- Se non ci deve fare una chiamata internazionale, non c'è problema.

- D'accordo. Farò in fretta. Grazie.

Si sentiva un po' in colpa, mentre digitava il numero di Evan, nello sfruttare quella persona così gentile. Ma non vedeva l'ora di andarsene da lì, e quindi smise di farsi scrupoli. Sbrigò la telefonata in meno di un minuto: l'amico rispose al volo e promise di arrivare prima possibile.

- Grazie.- Restituì il telefono con un sorriso.

- Le ho portato il tè, nel frattempo.

- Che cazzo aspetti?- La cameriera strepitante spuntò all'improvviso, strattonando il ragazzo. - C'è gente, vai a sentire cosa vogliono.

Lui non le rispose, sgusciò via da lei per dirigersi verso i nuovi clienti, in silenzio. La strana oasi si tranquillità che si era creata in quel posto si sgretolò e il caos tornò a fluire, impietoso.

 

“Appena possibile”, per Evan, doveva essere un concetto filosofico dai contorni molto vaghi.

Era lì da più di un'ora, ormai. Si era trovato un misero tavolinetto, spiaccicato tra due tavoli più grandi e un muro, ed era già al secondo tè della nottata. Tra qualche minuto sarebbe arrivato il trenta dicembre.

- Ancora niente?

Il ragazzo di prima ricomparve, con una preoccupazione genuina negli occhi.

- Niente. Arriverà.

- Vuole richiamare?

- No, non importa.

Quella persona composta e gentile continuava a sembrargli terribilmente fuori posto, ma la sua cortesia era comunque qualcosa di gradito.

- Ehi. Scusa. Puoi portarmi ancora un tè?

Dalla risata trattenuta del ragazzo, sospettò che trovasse divertente quella dipendenza dalla teina. Ma non disse nulla e ritornò in fretta con ciò che gli era richiesto.

 

Dopo un'ora e mezzo dalla prima telefonata, il locale non accennava a svuotarsi, né la confusione pareva attenuarsi in alcun modo. Aveva iniziato a sviluppare un mal di testa di quelli che si preannunciavano brutti davvero, quando la porta del locale fu spalancata da un tipo che sbraitava qualcosa riguardo un'auto blu in mezzo alla strada che “era davvero molesta”, per dirla in modo educato. E neanche a farlo apposta, il cameriere troppo gentile fu spedito a quietare il nuovo arrivato. Non gli sembrò opportuno lasciarlo da solo.

- L'auto è la mia.- Si intromise nella conversazione accesa, proprio in mezzo ad una scarica di parole volgari piuttosto originali. - Ma temo di dover chiedere l'aiuto di qualcuno per spingerla in un posto dove sia meno di disturbo.

- Se aspetta un attimo, chiedo il permesso di uscire e vengo con lei.

Il ragazzo ottenne il permesso e insieme uscirono nel gelo e nel nevischio. Lui era involto nel suo cappotto, ma il ragazzo gli sembrò esposto al freddo, con una giacca dall'aria particolarmente insignificante. Non era neanche un campione di forza fisica, ma se la cavò dignitosamente, e riuscirono a spostare la macchina in modo che non creasse problemi a nessuno.

- Grazie.- Si scostò i capelli appiccicosi dalla fronte e fece un sorriso grato al suo aiutante. - Come ti chiami?

- Amir.

- Io sono Joel Bennett. E adesso ho intenzione di rientrare e bere qualcosa.

- Un altro tè?

- Naturalmente.

Si diresse verso il pub a passo veloce, per cacciare il freddo, e un attimo dopo si sentì raggiungere dalla voce allarmata del ragazzo.

- Signor Bennett, aspetti!

- Qualcosa non va?

- Le è caduto questo!- Lo raggiunse di corsa e gli porse il portafoglio, gettandoglielo tra le mani quasi avesse provato disgusto nel reggerlo. - Controlli che ci sia tutto, per favore.

- Non penso che tu...

- Per favore, lo faccia: mi sentirò più tranquillo.

Eseguì il controllo con una risatina a fior di labbra. Era tutto a posto, e quando lo comunicò al ragazzo, quello si rilassò come se avesse ricevuto una buona notizia improvvisa.

- Sei un tipo ligio, tu, eh?

- Preferisco fare le cose come vanno fatte. E non vorrei incappare in spiacevoli incidenti. Una volta un cliente si è fissato che gli avessi rubato una banconota da dieci sterline, e ha strepitato così tanto che la signora Kyle, la proprietaria, quasi gli credeva.

- E com'è finita?

- Abbiamo ricontrollato bene in cassa, e ci siamo resi conto che il cliente si era scordato di aver già pagato, e che quindi la banconota era stata cambiata in una manciata di spiccioli.

Un'ondata di calore li investì, mentre entravano nel pub. Fu allo stesso tempo piacevole e fastidioso.

- La proprietaria si sarà ricreduta, spero.

- In realtà ha concluso che è stata comunque colpa mia perché ho l'aria così stupida che non riesco a difendermi e sembro colpevole.

- Una cosa molto scortese da dire.

- Sì. Ma per adesso mi affitta due stanze nel retrobottega, quindi non posso farglielo presente.- Il ragazzo rise, mentre gli offriva quello scorcio poco roseo sulla sua condizione. - Ora però si sieda, che le porto un altro tè.

 

Finalmente un paio di gruppi numerosi uscirono dal locale e il suo mal di testa ringraziò. Il ragazzo era arrivato con il tè, e Joel lo aveva invitato a sedersi.

- Prendi qualcosa. Te lo offro io, per ringraziarti del tuo aiuto.

- Non posso. Sto lavorando.

Tutto quel tè, insieme al freddo e al mal di testa, dovevano avergli tolto qualche inibizione. Fermò al volo la cameriera sgradevole e le domandò se poteva concedere un minuto libero all'altro. Quella borbottò un “sì” piuttosto perplesso. Il ragazzo, stupito, si accomodò al tavolino, rifiutando però di prendere qualsiasi cosa.

- Sei davvero di una gentilezza incredibile, Amir. Nessuno mi stava considerando.

- È perfettamente normale, qui dentro.

- Non sei di qui, vero? Parli un inglese così privo di inflessioni che sospetto tu l'abbia studiato all'estero.

- Sono del Pakistan.

Il Pakistan risvegliò qualcosa nella mente di Joel. Immagini, qualcosa che aveva visto poco prima, le notizie... Realizzò in quell'istante la notizia colta al volo un paio di giorni prima, l'assassinio di una leader politica pakistana. Uno strano imbarazzo lo colse, quando tornò a guardare il ragazzo.

- Hai parlato con i tuoi familiari, riguardo a... Insomma, ci sono stati dei problemi, per loro, con le manifestazioni e tutta la confusione...

Il ragazzo ebbe un attimo di stupore per la domanda, poi si fece triste.

- Sono cose che oscurano ogni possibile futuro che riesci a vedere per il tuo paese. E adesso vorrei essere lì. È come quando succede un problema nella tua famiglia e tu sei distante. Se fossi lì, non potresti comunque fare niente, ma ti sembra che sarebbe molto meglio. Ho parlato con alcuni amici che erano presenti, quando è avvenuto l'omicidio. Uno di loro ha preso parte alle manifestazioni dei sostenitori, dopo. Non sarebbe cambiato niente, se fossi stato lì, per parlare con loro, magari, però...- Il ragazzo si fermò all'improvviso, colto da una specie di imbarazzo. - Sto parlando di cose di cui probabilmente non le interessa niente. Mi scusi.

- Non preoccuparti. Ti ascolto volentieri. Hai avuto occasione di parlarne con qualcuno, qui, qualche amico?

- Non ho amici, a Londra.- Fece una risatina. - Il tempo libero mi serve per lavorare.

- Da quanto tempo sei qui?

- Da settembre. Sono venuto per fare l'università. Mi piace, il vostro paese. I libri, i poeti, le leggende...

- È una cosa bella. I tuoi genitori sono contenti che tu sia a Londra?

- Mio padre è morto quando avevo tredici anni. Mia madre e le mie sorelle sperano da una vita che faccia carriera, qui. Sognano tanto. Sognano più di me. Ma... Sto parlando di nuovo di me.

- Te l'ho chiesto io.- Sorrise, per rassicurarlo. Immaginò che quelle confidenze fossero chiuse nel ragazzo da moltissimo tempo, in attesa di qualcuno che potesse raccoglierle. - Quanti anni hai?

- Ventitré. Compiuti il sette dicembre.

- Allora, buon compleanno in ritardo. Hai festeggiato qui al pub?

- No. Ho evitato di dirlo. Già trovano motivi per prendermi in giro in ogni cosa. Ci mancava solo che organizzassero qualche scherzo.

- Chi è che ti prende in giro?

- Pearl, Liam e Toby, gli altri camerieri. E alcuni clienti fissi. Li faccio ridere.- Non sembrava particolarmente seccato né triste, della cosa. Solo rassegnato. - Se vogliono ridere, non posso farci niente.

- Perché li fai ridere?

- Dicono che non capisco le loro battute. Ma non è vero. Le capisco benissimo. Se non mi fanno sghignazzare come un idiota, non è colpa mia.

- Che genere di battute?

- Non potremmo evitare di parlarne?

Joel sorrise e annuì. Non lo trovava ingenuo né divertente. Lo trovava insolito.

- Che cosa studi?

- Letteratura inglese. Ho appena cominciato, ma non so se dovrò fermarmi per un po'. Non ho i soldi per l'affitto e per tutti i libri. Vengo da una famiglia che a Karachi è piuttosto benestante, ma qui è tutto diverso. Però si tira avanti come si può. Magari capiterà un lavoro migliore, in futuro.

Quante storie come quella c'erano, sotto il cielo di Londra e di ogni grande città, tutte ugualmente struggenti, e non sempre destinate a finire bene?

- Magari sì.- Rispose, sforzandosi di sorridere. - Magari capiterà.

Pochi istanti di silenzio ancora, prima che la porta si spalancasse, lasciando entrare Evan e il mondo di Joel che veniva a strapparlo da quella strana e inaspettata parentesi.

- Grazie di tutto, allora.- Tese la mano al ragazzo. - Grazie, Amir.

- Si figuri, signor Bennett. Le direi di tornare a bere qualcosa da noi, ma non mi sento di farle un simile invito.

 

*

 

Ilford, 19 febbraio 2008

 

Arrivò davanti al pub una mezz'ora prima dell'apertura, che trascorse con un libro, seduto nella sua auto. Quando le luci di quel posto da incubo balenarono nella sera già avanzata, lasciò il suo rifugio e si diresse verso il suo obiettivo.

- Salve. Vuole un tavolino?- Gli domandò la cameriera sgradevole, transitandogli davanti senza guardarlo in faccia.

- Cerco quel ragazzo pakistano che lavorava qui un paio di mesi fa.

- Amir. È da qualche parte.

Come evocato da quelle parole, il ragazzo spuntò dalla cucina. Quando Joel lo vide, sollevò la mano in segno di saluto, pronto a ricordare all'altro chi fosse. Il ragazzo lo precedette, con un sorriso stupito.

- Lei è il signor Joel Bennett. Mi ricordo di lei! Come va la sua auto?

- L'ho cambiata. E tu? L'università?

- Ho dato un esame ieri.

- Pensate di restare qui a chiacchierare in mezzo al locale per molto?- Brontolò la cameriera.

- Ci metto un attimo, mi perdoni.- Si scusò Joel. - Amir, ti interessa un lavoro come custode di una casa?

- Eh? La casa di chi?

- Mia. Si tratta di domarla, senza farsi scoraggiare. Ti offro lavoro, alloggio e qualsiasi sostegno di cui tu abbia bisogno.

- Ma... Insomma... Voglio dire...

- Possiamo accordarci per il pagamento.

- No, cioè sì, intendo dire che... Perché io?

Ecco, quella era un'ottima domanda.

Joel sorrise, un po' al ragazzo, un po' a se stesso.

- Penso tu sia una buona scelta.

 

*

 

Londra, 29 febbraio 2008

 

Il viso spaurito di Amir si sporse oltre la soglia della casa, per sparire di nuovo all'esterno. Joel rise e uscì, per aiutarlo a compiere il rito dell'ingresso.

- Signor Bennett, è sicuro che...

- Sono sicuro. Dai, entra.

 

 

V

Cronologia del Sunflower redatta da Esther Wilmore nel 1991

 

1778 – Viene costruito per volere di Lydia Alice White, eccentrica figlia di un parlamentare. Esistono lettere della White nelle quali si dice che il teatro è stato eretto come dono a un giovane attore del quale Lydia era innamorata. I documenti però riferiscono che tre anni dopo Lydia sposò Joseph Harper, un altro attore. Un registro dell'epoca indica La Tempesta di Shakespeare come prima opera rappresentata. Nel registro ho trovato anche una locandina del 1779 che pubblicizzava una messa in scena del Doctor Faustus di Marlowe.

 

1798 – Jeremy White, nipote di Lydia, eredita il teatro dopo la morte di entrambi i coniugi Harper. Il Sunflower diventa un punto di ritrovo per compagnie e artisti legati all'ideologia romantica.

 

1818 – Hilda White, figlia di Jeremy, proprietaria del teatro, a due giorni dalla vendita, tenta di incendiarlo e muore per asfissia. Suo fratello minore, Harold, eredita il teatro e lo chiude.

 

1829 – Harold White affitta il teatro all'associazione scientifica Kraken, per conferenze e dimostrazioni. Nel 1845 la società si scioglie e il teatro viene chiuso.

 

1847 – Matthew White, figlio di Harold, affitta il teatro alla Compagnia delle Isole Lontane, che ripropone il ciclo arturiano in una serie di drammi. La Compagnia resta al Sunflower per dieci anni, poi il teatro viene chiuso di nuovo.

 

1869 – Grazie a Robert White, figlio di Matthew, per due anni il Sunflower riapre con due regolari stagioni di spettacoli di magia, ma la cosa non è redditizia e non ha seguito.

 

1871 – Il teatro viene affittato da Donald White (fratello di Robert, che eredita il teatro quando Robert entra in un seminario cattolico) all'Università, per lezioni dimostrative di fisica.

 

1897 – Durante una lezione, lo studente Harry Constable muore, mentre di altri due studenti, Thomas Morris ed Eric Worthing, si perde ogni traccia. Il mistero su questi eventi non verrà mai risolto. Il teatro, attualmente di proprietà di Donald White, figlio di Robert, viene chiuso.

 

1919 – Milo Egbert ottiene il teatro da Frank White come pagamento di un debito di gioco. Per sette anni il Sunflower ospita spettacoli Grand Guignol.

 

1926 – Un'attrice del Grand Guignol, Emily Stone, muore davvero in scena e il teatro viene chiuso.

 

1932 – Milo Egbert vende il teatro al giovane regista Tobias Wilmore, che lo riapre, ma poi lo manda in fallimento in meno di un anno. Lo cede legalmente alla moglie.

 

1939 – Mary Ness Wilmore, moglie di Tobias Wilmore, riapre il teatro per un anno, per una scuola femminile, perché le studenti possano assistere a rappresentazioni edificanti.

 

1945 – Tobias Wilmore muore in guerra. Nello stesso anno Mary muore di malattia. Non avendo figli, il teatro passa al parente più prossimo, John Wilmore, fratello di Tobias – mio padre. Lui e Tobias non si parlavano da anni. Mio padre mi ha intestato il teatro quando ero adolescente.

 

1955 – Al Sunflower si tengono alcuni sporadici spettacoli, sotto la mia direzione.

 

1968 – Conoscenza con Arthur Headley.

 

1971 – Io e Arthur riapriamo definitivamente il teatro.

 

1988 – Cessione ufficiale del teatro ad Arthur.

 

 

Appunto scritto da Arthur Headley dopo la morte di Esther:

 

Cos'aveva capito, Esther?

L'unica cosa che mi viene in mente, guardando questa cronologia e le sue sottolineature, è che il problema su cui stava indagando, e cioè la diversa “natura” (positiva o negativa) del teatro nei vari momenti della sua storia, possa dipendere dal modo in cui il teatro è stato passato in

 

(Il resto del foglio è strappato.)

 






***
Grazie di essere qui.

 

 

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Capitolo 22
*** XXII - Vieni, entra ***


Capitolo XXII

Vieni, entra

 

We […] swear by the Living and the Dead, by the Past and the Future, by Memories and Hopes, that if a Vision comes begging at our door we will take it in and warm it at our hearth, and that we will not be wiser than the foolish nor more cunning than the simple, and that we will remember that he who rides the Wind needs must go where his Steed carries him.

(Hope Mirrlees, Lud-in-the-Mist)

 

I

 

Londra, 3 giugno 2009

 

Non ricordava un tempo in cui non c'era stata la lanterna.

Eppure era assurdo: viveva lì da sempre, da quando era nato, e a nessuno era venuto in mente di piazzare un lumino dondolante proprio sotto il portico, davanti alla porta d'ingresso, prima di Arthur, che aveva voluto la lanterna poco più di un anno prima di morire. Ed era stato sempre Arthur, in punto di morte, a chiedere che venisse tolta e riposta in attesa di tempi migliori.

Tempi migliori, che avevano il nome e il viso di Amir. Insomma, la lanterna era stata lì complessivamente per meno di due anni. Ma Joel non ricordava un tempo in cui non c'era stata.

Pazzi, erano tutti pazzi, intorno a lui, e stavano facendo impazzire anche lui.

Non sarebbe voluto entrare in quel mondo vicinissimo e intricato, ma era stato costretto a farlo, per tirare fuori dal silenzio il ragazzo. E così ora si trovava a guardare una lanterna con un qualche incomprensibile valore spirituale che ondeggiava sulla sua testa e sembrava annunciare giorni densi di stranezze, pericolo e mistero.

Il ragazzo scese dalla sedia e gli fece un piccolo sorriso. Joel ricambiò, sinceramente felice. Amir sembrava aver perso qualcosa che ancora stentava a recuperare. La sua gentilezza spontanea, la sua correttezza eccessiva erano sempre al loro posto, e così l'intelligenza brillante, tenuta costantemente a bada dai modi quieti. Il sorriso però era un po' meno rapido, meno pronto a sbocciare. Come se il mondo gli avesse insegnato qualcosa di nuovo, nel modo peggiore possibile.

Probabilmente il ragazzo era solo cresciuto. E magari non era un male. Però Joel non era sicuro di poter giudicare: troppe cose oscure, in tutta quella faccenda. Non era il suo mondo, quello.

E si tornava lì, ancora. Al fatto che, alla fine, lo era diventato, il suo mondo. Joel era entrato.

- Dovremmo metterne una anche al teatro.- Amir interruppe il flusso senza uscita dei pensieri di Joel.

- Al teatro?- Ripeté Joel, senza focalizzare le parole che lui stesso stava dicendo.

- Un'altra lanterna, fuori dall'ingresso secondario.

- Non ce n'è già una? Arancione, credo.

- Ma non ce l'ho messa io.

- Fa differenza?

Poi si pentì di averlo chiesto. Certo che faceva differenza. Erano cose che lui non poteva capire, giusto?

- Credo proprio di sì, Joel.- Rispose il ragazzo, con la sua ineccepibile cortesia.

- Senti, dove hai trovato quell'ombrello blu, che quando lo apri, vedi una specie di volta celeste?

Amir si diresse verso il porta-ombrelli a fianco della porta, e frugò finché trovò esattamente ciò di cui Joel stava parlando. Lo aprì: sulle loro teste c'era una replica del cielo stellato notturno.

- Me lo ha prestato una persona, una sera. Si chiama Nevan.

- Oh. Lui.

Amir sgranò gli occhi, sconcertato, e Joel rise: per una volta l'aveva stupito.

- Lei conosce Nevan?

- Ci ho parlato. Prima del nostro viaggio in Israele.

Joel voltò le spalle al ragazzo, all'improvviso, spostando lo sguardo sulla pioggia leggera, appena percepibile nel cielo buio. Non sapeva come spiegargli che si era rivolto a Nevan perché non sapeva come fare ad affrontare il male che sembrava aver contagiato Amir, il mese precedente.

- Come mai ci ha parlato? E dove l'ha incontrato?

- Avevo bisogno di una consulenza. Angela mi ha aiutato a trovarlo.

- Una consulenza con Nevan? Lei?

- Sai. Una persona che mi sta a cuore aveva bisogno d'aiuto.

Amir tacque, imbarazzato. Joel gli posò una mano sulla spalla.

- Vuoi che andiamo adesso, al teatro? Immagino che tu voglia vedere come sta. Non ci metti piede da un po'. Non vorrei che il Sunflower se la prendesse. Arthur diceva sempre che era un posto molto umorale. Prendiamo la mia auto.

- Ma non mi permetterei mai di chiederle di portarmici!

- Non me lo stai chiedendo, infatti: te lo offro io. Se ti fa piacere, ti accompagno. Anzi, sai una cosa? Ci fermiamo da Angela: sono appena le otto e quaranta, di sicuro il negozio sarà aperto. I suoi orari li conosci. Compriamo una lanterna, e potrai appenderla subito. Troveremo una scala, nel caos del teatro, no?

Amir sembrava travolto e ammutolito da tanta generosità. Joel prese l'ombrello stellato dalle mani del ragazzo.

- Forza, prepariamoci. Così magari metti una parola buona per me con il Sunflower.

 

Angela era seduta sul bancone, intenta a staccare da una scatolina di legno le minuscole e numerose pietruzze verdi che la ornavano.

- Perché questo passatempo iconoclasta?- Chiese Joel, affacciandosi nel vano del negozio, come sempre gremito di oggetti singolari e della strana sensazione di cose vive.

- Ho i miei motivi. Ciao, Joel. E, oh, ciao Amir, lieta di vederti!

- E me? Non sei lieta di vedere anche me?

- Joel, come mai sei così incline all'umorismo, oggi?

Finalmente lasciò perdere la sua scatolina e sollevò gli occhi scuri sui suoi ospiti, donando loro un sorriso d'accoglienza.

- Buonasera, Angela.- La salutò Amir. - Anch'io sono felice di vederla.

- Cosa fate in giro a quest'ora?- Chiese lei, balzando giù dal bancone in un frusciare di strati e strati di gonne blu, ricamate d'argento. Sulle spalle aveva un golfino nero, portato come una specie di scialle, e i riccioli erano raccolti in una crocchia disordinata grazie a una matita.

- Andiamo al teatro.- Rispose Joel. - Amir vuole vedere come sta.

- Ottima idea.

- E vorremmo fare un acquisto. Una lanterna.

Angela sorrise, come chi ha già capito tutto senza bisogno di ulteriori spiegazioni.

- Ah, allora hai deciso di conquistare del tutto anche il Sunflower, eh, Amir?

Ecco, ora era Joel, ad avere bisogno di ulteriori spiegazioni.

- È importante che io metta una lanterna anche lì, vero?- Domandò il ragazzo. Angela annuì, con l'aria soddisfatta del maestro di fronte all'allievo più preparato e acuto. - Insomma, fino a ora ho usato quella di Arthur, ma se è mia, è meglio. Credo.

- Sai cosa devi fare, prima di appenderla?

- No. Temo di aver bisogno del suo aiuto, Angela.

- Cos'hai fatto, quando hai trovato la lanterna che adesso è a casa di Joel?

- Non ricordo.

- Era un po' più anno fa, e tu lavoravi a casa di Joel da poco.

- Trovasti la lanterna riordinando una delle stanze.- Suggerì Joel, che ricordava quei momenti in maniera confusa, come si ricordano le cose che hanno qualche rilievo, magari una qualche curiosità, ma non troppa importanza.

- Sì.- Rispose Amir. - Mi si aprì lo sportellino della lanterna. E allora fu come se ci fosse stato un alito di vento, anche se le finestre erano chiuse. Forse. Non lo so. Non ricordo niente di preciso, tranne il vento.

- Sai cos'è successo?- Gli chiese Angela. - Il tuo respiro in quel momento è stato imprigionato nella lanterna. È per questo che loro vengono da te. Perché c'è un frammento del tuo cuore, lì dentro. Questa è la magia della lanterna, una tradizione antica quanto i mondi. Se metti un briciolo di cuore nella lanterna, quella farà luce a chi ne ha bisogno, anche se è spenta. L'unica fiamma che loro possono vedere è il tuo cuore, aperto a lasciar entrare le loro storie.

- Qualcuno una volta, mi ha detto che io ne avevo due, di cuori.

- Forse è per questo che la lanterna stessa si è aperta, per te, senza che tu dovessi fare nulla. Io non credo al destino, ma se c'era qualcuno destinato a finire così, quello sei tu.

Joel fece un passo indietro, rabbrividendo. Era entrato, era vero, ma non era ancora ammesso a quei discorsi, e forse non sarebbe mai venuto il momento in cui avrebbe capito del tutto.

- Angela, è definitivo, vero? Se io metto la lanterna al Sunflower, non potrò più tornare indietro.

- Si può sempre tornare indietro. Però se metti la lanterna al Sunflower, allora fai una promessa reale e impegnativa con questa città e con la sua anima segreta. E non è una cosa da poco.

- Lo so. E penso che sia la cosa giusta. Però mi sembra di capire neanche la metà di quello che sto facendo.

- Non ti preoccupare.- Angela infranse quell'asfissiante atmosfera sacrale, abbandonando l'aria da sacerdotessa e sorridendo come dovrebbe sorridere – forse – una madre. - Capirai pian piano. E noi capiremo con te. Ma ora parliamo di cose importanti: pensi di usare la lanterna che c'è già, al teatro, o ne vuoi una nuova?

- Potrei usare anche quella?

- Certo. Ti basterà aprirla e sarà come nuova. Però, se vuoi sceglierne una tu, magari con un colore che si addice a te, per celebrare questa tua decisione di rovinarti la vita per la città, te ne regalerò una molto volentieri.

- Io... Forse è meglio se ne prendo una nuova.

- Di che colore la vuoi?

- Uh... Non lo so. Verde?

- Verde. Perfetto. Te ne trovo una adatta e te la porto subito.

Dieci minuti dopo erano di nuovo fuori, Joel che reggeva l'ombrello stellato per proteggerli dalla pioggia che si era fatta più insistente, e Amir con la sua lanterna tra le braccia, stretta come se fosse stata la cosa più preziosa dell'universo.

 

Appendere una lanterna sotto la pioggia è più complesso di quanto possa sembrare, e soprattutto è molto scomodo, ma Amir non si lamentò. Trovò da solo la scala, negli sgabuzzini del sottopalco, la portò fuori e la appoggiò alla parete scarna del Sunflower, ignorando le offerte d'aiuto da parte di Joel. Vi salì sopra e tolse con qualche fatica la piccola lanterna arancione, incrostata di sporco e con un vetro incrinato. Scese dalla scala, portando l'oggetto al sicuro, da Joel.

- Dobbiamo metterla da qualche parte, in teatro.

- Certo. Ti stai bagnando completamente.

- Piove.

- Grazie per questa ovvia precisazione. Vuoi che salga io, adesso? Mi fai paura, lassù in cima alla scala, con questo buio.

- Se salisse lei, sarei io, ad aver paura. Quindi, no, grazie: meglio il rischio che la paura. Ci metto un istante.

Prima di salire aprì lo sportello della lanterna e guardò lo stoppino che non sarebbe mai stato acceso – eppure quell'oggetto avrebbe avuto un destino ben più nobile che quello di una comune lanterna, probabilmente. Lo guardò come si guarda un enigma che ci sfida, e per un istante di durata infinitesimale Joel si domandò se ci sarebbe potuto essere lui, al posto del ragazzo, magari in una vita in cui Arthur era ancora vivo.

Amir portò l'oggetto ancora più vicino al suo viso. Joel interruppe i pensieri per seguire ciò che stava avvenendo. Il ragazzo soffiò dentro la lanterna, gli occhi aperti e le mani tese e nervose a stringere quella cosa senza vita fatta di metallo e vetro, ma carica di significati tali da darle quasi un'anima.

Gli sembrò di essere in un luogo, in un tempo molto diversi dai suoi, dove i gesti avevano uno scopo e i giorni avevano un nome, dove nel buio di una piccola via, alle porte di un teatro senza importanza, poteva consumarsi un rito potente e antichissimo.

Prima di salire, Amir si fermò a fargli un sorriso.

- Verrebbe con me nel teatro a riportare la scala?- Gli chiese poi, tornando a terra.

Sembrava una cosa tanto banale, ma Joel non era così sciocco da non capire cosa significasse quell'invito. Si lasciò guidare nel teatro, più umido che mai, con la sua schiera di luci verdi e viola, ben poco sobrie ad accoglierli.

- Ce n'è una bruciata.- Notò, e il ragazzo fece un sospiro.

- Ci è venuta di nuovo la signorina Abigail Corrigan, vero? Il mese scorso, quando ero... Quando non stavo bene. Lo so che è venuta.

- Sì, le ho chiesto di venire a darmi una mano, una sera. Che c'entra lei con le luci?

- Il teatro non la trova simpatica. Non so se sia una reazione del Sunflower, o se invece sia qualcosa che viene da lei, ma ogni volta che la signorina Corrigan entra qui dentro si fulmina una lampadina.

Joel fece una risatina cortese e non molto convinta.

- Mi sembra alquanto bizzarro.

- Più o meno di tutto il resto?

Il ragazzo non aveva torto, in effetti.

- Povera Abigail. È una persona così disponibile. Forse ha una mentalità più improntata al marketing che all'arte, e per questo non la trovi simpatica. Ma servono anche persone come lei, per far prosperare un teatro.

- Non ho detto che io non la trovo simpatica. Sto parlando del teatro.

Il ragazzo scostò le tende di uno degli ingressi laterali e lo invitò a entrare in platea. La sala era silenziosa, buia tranne che per una luminescenza emessa da qualcosa di indefinito nel retropalco.

- Tu hai capito cos'è quella luce, Amir?

Il ragazzo scosse la testa.

- Neanche Arthur lo sapeva. Suppongo sia solo uno dei tanti misteri del teatro. E neanche il più grande.

- Suppone bene, sì.

Con stupore, Joel seguì con lo sguardo il ragazzo che avanzava tra le poltroncine. Si sedette e poi lo guardò, come per chiedergli di fare altrettanto. Joel obbedì, curioso riguardo il perché di quella richiesta. Voleva parlargli di qualcosa? Cosa c'era di tanto solenne da meritare una conversazione nella platea del Sunflower?

- Joel, dovrebbe parlarmi di Arthur.

- Davvero?- Alleggerì la tensione che lo aveva colto a tradimento con una risatina forzata. - Mi accusano sempre tutti di parlarne troppo.

- Mi ha detto molte cose su di lui, è vero. Vorrei che mi parlasse di quello che faceva qui. So che lei se ne è sempre tenuto fuori, ma qualcosa avrà visto... No?

- Come mai questa richiesta?

- Ho bisogno di capire. Mi sento molto a disagio a parlargliene, perché mi sembra di entrare in un territorio a cui non dovrei nemmeno avvicinarmi. Arthur era suo amico. Lo ha conosciuto, gli è stato vicino per tanti anni. Per me è solamente un nome, ma è un nome importante. Ne sento parlare spesso, e non solo da lei. Arthur Headley è...

- Il tuo predecessore.- Concluse Joel. Il ragazzo annuì. C'era qualcosa di bloccato, nello stomaco di Joel, come se la domanda così delicata di Amir fosse stata una sorta di imperdonabile violazione della sua privacy.

- Se non vuole rispondere, non glielo chiederò più.

- Cosa ti dicono di lui, tutti gli altri?- Si meravigliò di quanto tirata e sottile uscisse la sua voce.

- Che era geniale, estroverso, capace di farsi amici ovunque in poco tempo. Conosceva tantissime persone e le faceva conoscere tra sé. Non era solo un esorcista: aveva creato una specie di rete degli esorcisti e dei maghi di Londra, e quando c'era un problema, lui sapeva sempre a chi ci si doveva rivolgere.

- Mi sembra molto da lui.

- Dicono anche che ha compiuto alcune cose memorabili. Almeno, memorabili per loro. Ha liberato migliaia di spettri, e quelli che non è riuscito ad aiutare sono quelli che per qualche motivo non sono mai arrivati a incontrarlo. Era capace di liberare un fantasma anche solo facendo una battuta e facendolo ridere. Se le raccontano ancora, le battute di Arthur Headley.

Joel annuiva senza quasi accorgersene. Tutto tornava. Arthur era lo stesso con i vivi e con i morti, a quanto pareva. Il ragazzo gli offriva un altro pezzo di quella vita che conosceva e che aveva amato – o almeno, così credeva. Forse aveva ragione Vivien, riguardo la sua incapacità di amare realmente. Ma quando c'era Arthur nella sua vita, padre adottivo, amico e maestro, Joel era stato piuttosto sicuro di averlo amato.

- Arthur era molto discreto con me, su tutto questo.- Disse, rispondendo allo sguardo esigente del ragazzo. - Provò solo una volta a parlarmene. Mi portò qui e mi disse che c'erano... Certi abitanti. Mi disse di guardare bene e io vidi qualcosa, sul palco, ma poi mi rifiutai di restare qui, e lui mi riportò a casa, senza insistere. Non ne parlò più, anche se ogni tanto vedevo e sentivo cose che... Erano strane. Cose dette o fatte da lui, e da Angela e Vivien. Diventò una faccenda sottintesa delle loro vite. Io la evitavo e basta. Mi sembrava assurda. Una complicazione.

Ancora silenzio. Se conosceva un po' il ragazzo, si stava preparando un'altra domanda, più difficile da esporre. Guardava fisso il palco, le sopracciglia dritte e fini increspate appena, la bocca serrata in un'espressione di immensa concentrazione. Le mani lunghe erano strette attorno ai braccioli della poltrona e tutto il suo corpo era imprigionato in una tensione percepibile.

- Prima, quando sono entrato a prendere la scala, ho incontrato uno degli abitanti di questo posto. Non è uno spettro. È... Difficile da spiegare. È qui da sempre. Non ci vedevamo da prima che io entrassi in quella casa, e quando ci siamo incontrati... Aveva paura che mi fosse successo qualcosa di brutto. E definitivo. Mi ha detto queste parole: pensavamo tutti che i nostri nemici fossero riusciti a farti del male. Io ho risposto che non dovevano avere paura, che comunque non ero da solo, che voi mi avevate aiutato.

Tacque, cambiando posizione sulla poltrona. Era evidentemente a disagio.

- Dove vuoi arrivare, Amir? Cosa ti ha risposto, questa persona?

- Chiedi a Joel Bennett che fine ha fatto Arthur. Mi ha risposto così. E io non volevo chiederglielo, davvero, perché penso che sia una cosa dolorosa, però ho bisogno di saperlo, perché...

Joel strinse tra le dita gli occhiali da lettura, così forte che avvertì la montatura fragile sul punto di rompersi.

Cosa importa, agli spiriti, di che fine ha fatto Arthur?

- Se non vuole dirmelo non...

- È morto di un tumore alle ossa, ma io sono l'unico a credere a questa versione.- Sputò fuori, e sentì che le parole gli erano uscite più rabbiose di quel che avrebbe voluto.

- Mi dispiace. Non avrei dovuto permettermi di domandare.

- No.- Respirò a fondo e tornò a guardare il ragazzo. - Rilassati, Amir. Non mi hai chiesto niente di inopportuno. Non ne parlo volentieri, è vero, ma forse hai ragione: hai il diritto di sapere. Nei mesi prima della malattia era sempre circondato da qualcosa di strano. Se ne accorgevano tutti. Era distratto, a volte confuso, spesso insonne. Quando dormiva, faceva incubi che lo terrorizzavano, anche se non ci raccontava mai di cosa si trattasse. Ed era diventato ipocondriaco. L'idea della malattia lo aveva sempre un po' spaventato, ma a quel punto era un'ossessione. Si faceva controllare per tutto. Stava fisso nell'ambulatorio del povero Allen Waymore. Angela e Vivien dicono anche che c'era dell'altro. Che quando entrava in una stanza dove c'erano dei fiori, quelli appassivano, e altre cose del genere, ma io non me ne sono mai accorto. Infine gli diagnosticarono il tumore, e io lo presi in casa con me, perché Vivien era in viaggio per il suo lavoro di antiquaria e non poteva accudirlo. Il decorso della malattia però fu normale. Non ci furono stranezze. Solo... Sofferenza per tutti e due. Fine della storia. Non so cosa credano i tuoi amici spiriti, ma quella che ti ho raccontato io è la verità.

- Va bene. Grazie. Mi dispiace.

- Amir.- Posò una mano sulla spalla del ragazzo, ancora bloccato nella tensione dell'imbarazzo per quell'interrogatorio. - Non dispiacerti di niente. Non so se gli spiriti pensino che anche tu rischi la vita, ma non voglio che tu viva nella paura. Non avrebbe senso.

- Non ho paura. Ho bisogno di sapere la verità, questo sì. Ma non ho paura. Altrimenti avrei davvero lasciato perdere tutto. Joel, le farò l'ultima domanda. L'ultima, glielo giuro. Vuole... Vuole veramente continuare a interessarsi di quello che faccio, o preferisce uscirne? Sia sincero. Non la giudicherò. Accetterò la sua decisione e mi andrà bene. Glielo prometto.

- Sono qui, no?

- Non è obbligato a restarci.

- Ma io voglio restarci. Solo, devo avvisarti di una cosa, Amir. Non sono una persona molto affidabile. Mi viene spesso fatto notare quanto io tenda a chiudermi nei miei studi e nei miei interessi. Adesso ti prometto aiuto e comprensione, ma potrebbe arrivare il giorno in cui ti deluderò profondamente.

- Certo che arriverà. Così come lo farò io. Non so che rapporti abbia avuto lei fino a ora, Joel, ma io non ne ho mai avuti di perfetti. Gli esseri umani sono tutti uguali, vivi o morti che siano. E anche gli esseri non umani, in realtà.

Il ragazzo sorrideva, sembrava sereno e soprattutto finalmente sembrava sicuro di sé, non più teso e a disagio, ma padrone delle sue parole. Del suo mondo.

- Va bene. Farò del mio meglio.

- Così come tutti, Joel.

Poco dopo uscirono e si allontanarono, lasciandosi il teatro alle spalle. La lanterna, disturbata dalla pioggia e dal vento, aveva cominciato a essere parte della storia di quel posto.

 

 

II

 

Londra, 13 giugno 2009

 

La situazione era alquanto bizzarra.

- Certo, tu sei quello con le soluzioni perfette per tutto. Devo ricordarti dove ci hanno portati negli ultimi dieci anni, le tue soluzioni perfette?

- Mi permetto di ribattere che se avessi accettato l'ultima delle mie soluzioni, attualmente ci troveremmo in uno stato di certo più... Apprezzabile.

- Ah, ora è colpa mia se siamo qui?

- Al solito tu corri sempre troppo in fretta e trovi significati improbabili nelle mie parole, mia cara.

Sì, la situazione era decisamente bizzarra, inquietante e fuori controllo. Joel fece un passo avanti e si inserì nella linea di fuoco di sguardi e parole dei due signori ben vestiti seduti nel salotto di casa sua. Li guardò per un istante, accennò un sorriso imbarazzato e allargò le braccia come per dividerli. Non che si stessero accapigliando. Non era sicuro neppure che ne sarebbero stati effettivamente capaci, ma era meglio prendere precauzioni comunque.

- Signori Ward, ascoltatemi.- Cominciò, con il tono più conciliante di cui era capace. - Avrei alcune cose da dire riguardo la vostra situazione.

- No!

Il coro della voce acida e risentita di lei, insieme a quella più quieta ma irremovibile del marito, fece arretrare Joel di tre o quattro passi. La situazione continuava a essere bizzarra e preoccupante, e lui sospettava di non essere la persona più adatta a gestirla.

Nei pochi istanti di silenzio che seguirono quel tentativo di pacificazione, dall'ingresso giunsero i suoni in crescendo di due voci conosciute. E molto rassicuranti.

- ... sì, insomma, che poi ora ho un lavoro serio e quindi magari le cose cominceranno a funzionare meglio!

- Se continui a darti malato per finta come oggi, il lavoro, dubito che la cosa potrà durare, Aidan.

Poi la disputa tra i coniugi Ward esplose di nuovo. La signora si sbottonò l'impermeabile beige e si sciolse il foulard blu, cominciando a rigirarselo tra le mani con stizza.

- Che poi, chi ha voluto comprare quella dannata macchina?

- Se davvero l'auto ti creava tanti problemi, perché sei rimasta zitta e me l'hai lasciato fare?- Rispose lui, incrociando le mani e assumendo l'aria di chi è costretto ad ascoltare i vaneggiamenti di un pazzo.

La porta del salotto si aprì e Joel tirò un sospiro di sollievo. Abbandonò i coniugi seduti sulle poltrone bianche, l'uno di fronte all'altra, e corse a dare il benvenuto ai suoi salvatori, inzuppati di pioggia e carichi di libri.

- Salve, ragazzi.

- Oh, mi dispiace, ci sono ospiti.- Esclamò Amir, indicando i coniugi Ward. - Ce ne andiamo subito!

- Il punto è che non desidero rimanere solo con loro.- Rispose Joel, con un sorriso esasperato. - Temo di aver bisogno del tuo aiuto illuminato, Amir.

Amir si fermò a fissare la coppia, e quelli, quasi avessero percepito il suo sguardo addosso, si voltarono di scatto verso di lui, muti e feroci, ricambiando l'analisi con aria aggressiva.

- Comprendi il problema, adesso?- Domandò Joel. Amir assunse la sua abituale espressione malinconica e sospirò.

- Sì, comprendo il problema che hanno quei due signori. Ma non capisco come siano finiti qui.

- Cosa fa, quello, sparla di noi?- Ringhiò la signora Ward, scattando in piedi. - E chi è, poi? Credevo che saremmo stati aiutati da uno psicologo di coppia decente, e invece ci hanno portati in questa stupida casa, con uno stupido incompetente, e adesso arrivano anche due stupidi ragazzi con delle stupide facce imbecilli!

- Grazie, signora.- Rispose Aidan, offeso. - Sa una cosa? Lei è proprio...

Amir gli mise una mano sulla bocca, impedendo ulteriori disastri. Poi si voltò verso Joel, con l'aria di chi stenta a raccapezzarsi nella situazione.

- Psicologo?- Domandò. Joel abbassò la testa per nascondere una risata.

- Un tizio che abita qui davanti ha suonato il campanello, portandomi questi due. Mi ha detto che facevano confusione davanti alla sua porta e che lui non li sopportava più. Mi ha detto anche che in passato aveva portato a te altri due tizi molesti.

- Sir Drystan e Branwen!

- Chi?- Chiese Aidan.

- Si ricorda quando le chiesi di darmi lezioni di scherma, Joel? Beh, c'entravano queste persone.

- Avevo sempre sospettato che non mi avessi detto la verità su quella faccenda.

- Scherma?- Tentò di nuovo Aidan, ma Amir non si degnò di chiarire la cosa.

- Il vicino ha convinto quei due a entrare dicendo che questo era lo studio di uno psicologo esperto in terapie di coppia.- Riprese Joel. - Non sapevo cosa fare, e quelli avevano ricominciato a discutere sulla soglia di casa. Il vicino è corso via, piantandomi lì con loro, e quando cercavo di calmarli, mi sono accorto che i passanti si fermavano a guardarci. La cosa mi ha infastidito e li ho fatti entrare.

Amir si fece sfuggire una risatina.

- I passanti non possono vederli, Joel.

- Oh. Avrei preferito non saperlo. Temo di aver perso molta credibilità agli occhi del vicinato. Questo però conferma ciò che sospettavo: si tratta di persone in uno stato particolare.

- Esatto.- Rispose Amir. - Ma come mai sono in questo stato?

- Non ne ho idea.

Amir scaricò i suoi libri tra le braccia di Aidan, già gravato del peso dai suoi. Il ragazzo tentò una debole protesta, ma Amir non lo sentì: avanzava sicuro verso i coniugi Ward, come una persona che ha intravisto la possibilità di mettere in pratica la sua arte specifica e sa che in quel campo non può fallire.

Per essere un tipo così modesto e dimesso, quando si tratta delle cose che sa fare bene ha dei notevoli picchi di orgoglio, pensò Joel, con un certo divertimento.

- Signori.- Cominciò Amir, sedendosi sul divano, di fronte alle poltrone che ospitavano i due. - Mi dispiace, non voglio intromettermi nei vostri problemi. Però, ecco, magari posso provare ad ascoltare la vostra storia, no?

I due lo guardarono storto per qualche istante, poi lei borbottò qualche offesa. L'uomo, invece, mise su un risolino superiore e scosse la testa.

- A che servirebbe, raccontarti la nostra storia?

- Serve sempre.

- Che teorie insensate. Proprio da psicologo convinto di essere bravo!- Abbaiò lei. - Non ti racconterò proprio niente!

L'uomo si drizzò sulla poltrona e studiò per qualche istante la faccia cupa di sua moglie.

- Visto che la mia cara Janice non si fida, e visto che solitamente il suo intuito si rivela disastroso, proverò a fare il contrario di quello che lei propone. Racconterò come siamo finiti qui. Eravamo in partenza per le vacanze, ma proprio all'altezza di Haven Crescent, a causa di una lite che mi ha deconcentrato, la nostra auto ha centrato il muro di una casa, qui davanti, ponendo fine alla lite. E a tutte le altre, passate e future.

- Non c'entra la distrazione, c'entra il fatto che quell'auto l'avevi comprata tu e faceva schifo!- Gridò Janice, alzandosi in piedi.

- Tu non mi avevi detto che ti faceva schifo.

- Tu non capisci mai quello che dovresti capire!

Joel osservava lo scambio a distanza. I due si stavano ancora scontrando, ma la rabbia nelle voci, negli sguardi e nei gesti era diminuita. Le mani della donna, strette furiosamente attorno al suo foulard ormai ridotto a uno straccio, andavano allentandosi, il suo corpo magro perdeva pian piano la tensione da cui era pervaso, la voce si faceva meno stridula e fastidiosa alle orecchie. Anche l'atteggiamento superiore del marito pareva meno pronunciato: la maschera perdeva forza e sul viso cominciava ad apparire un'ombra malinconica.

- Io li avrei già mandati a quel paese tutti e due.- Bisbigliò Aidan.

- Forse dovremmo stare zitti, e metterci ad ascoltarli anche noi.- Rispose Joel.

Lo scontro dei coniugi Ward raggiunse una vetta sonora che culminò con un momento di gelido silenzio. Distolsero lo sguardo l'uno dall'altra. Poi, con estenuante lentezza, tornarono a guardarsi di nuovo. Lei mormorò qualcosa di incomprensibile. Lui fece un sospiro un po' esagerato e si passò le mani tra i capelli grigi. Timidamente, le chiese di ripetere quel che aveva detto. Lei riprese a parlare, velocemente, con le parole che si inseguivano e la voce spezzata, e Joel, che ascoltava, ebbe l'impressione di una sincerità dolorosa, in quel che la donna diceva.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo passò, effettivamente, prima del silenzio definitivo, quasi pacifico. Però quando i due tacquero Joel guardò Amir e vide che sorrideva. Fu in quel momento che le poltrone rimasero vuote all'improvviso. Aidan si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore. Joel avvertì un brivido gelido, insieme a una strana sensazione indefinita, un misto di sollievo e rassegnazione.

- Era così banale, la soluzione?- Mormorò, a disagio. - Erano semplicemente due persone che non avevano mai chiarito un solo problema in tutta la loro vita?

- Non mi sembra banale.- Rispose Amir.

- Le solitudini sono tutte uguali.

- Mi creda, non è vero.

Joel registrò appena quelle parole. Era altrove, in quel momento. Molto lontano nel tempo.

- Ehm, scusate...- La voce di Aidan lo riportò al presente. - Ci siete ancora?

- Scusaci tu. Ci siamo persi nei pensieri.- Disse Joel, trovando la forza per sorridere.

- Sono suo amico.- Rispose Aidan, indicando Amir. - Ci sono abituato.

- Lo immagino. Vi prego, andiamo in cucina. Vi preparo un caffè. Allora, hai un lavoro, Aidan? Mi fa piacere.

- Faccio le pulizie in alcuni uffici in Belgrave Road. Più che altro, pulisco le finestre.

- Stamattina saranno rimaste sporche.- Commentò Amir.

- Ehi, senti, cos'è questa storia? Ho saltato il lavoro per una volta, va bene. Vuoi prendere il posto di mia madre e rompermi le scatole?

- Se nessun altro ha intenzione di farlo, sì.

- Te l'ha mai detto nessuno che sei così ligio da fare schifo?

- Tu, molte volte.

- No, ragazzi, per favore. C'è già stata troppa guerra, in questa casa, per oggi.

- Noi facciamo per scherzo.- Rispose Aidan. - Facciamo sempre per scherzo. Tranne quando parliamo sul serio. Ovviamente. Ora che ci penso: signor Bennett, ha dato lezioni di scherma ad Amir? E com'è andata?

Amir sollevò la manica della felpa scura che indossava, indicando una cicatrice che andava dal palmo della mano destra al gomito.

- Oh, cavolo. Quella?- Aidan sgranò gli occhi. - Mi ero sempre chiesto come te la fossi fatta!

- Ho difeso l'onore di una dama tramite un'ordalia.- Spiegò il ragazzo, e dal sorriso che gli si disegnò in volto era palese che godeva della sorpresa dei suoi ascoltatori. - Abbiamo duellato nel giardino sul retro della sua casa, Joel. Ho perso miseramente, ma ho risolto la situazione in qualche modo.

Aidan fece scorrere la mani nei capelli rossicci e scompigliati, con l'aria di chi è indeciso se ridere o mettersi a urlare.

- A essere tuoi amici non ci si annoia mai per davvero.

 

Aidan se n'era andato e la luce del giorno era quasi svanita del tutto, mentre la pioggia si era intensificata e si infrangeva con fragore contro i vetri della casa. Joel guardava fuori dalla finestra e pensava agli spettri nel suo salotto, quando sentì i passi del ragazzo alle sue spalle.

- Mi dispiace per averla coinvolta in queste faccende al punto tale da invaderle la casa.

- Non è un problema. Va bene così. Avrei potuto lasciarli fuori, invece li ho fatti entrare. E poi li vedo, ormai. Vorrà dire qualcosa, no?

- Non è mai del tutto piacevole quando se ne vanno, vero?- Il ragazzo lo raggiunse alla finestra e gli si mise accanto, distante quanto bastava per non essere invadente.

- In realtà, ho trovato tutto quanto molto educativo. Sono partito chiedendo loro di ascoltarmi e ho fallito. Tu li hai ascoltati, invece, e la cosa ha funzionato.

- Sì. È così. Joel, prima ha detto qualcosa di strano sulle solitudini. Mi è sembrato triste. C'è qualcosa che non va?

Scosse la testa, pronto a negare e rassicurare, poi pensò che tanto valeva andare del tutto contro se stesso e concedersi un po' di onestà.

- La maggior parte delle persone è come quei due, Amir. Io non faccio differenza. Non diciamo mai quello che pensiamo veramente e finiamo per rovinare i rapporti, anche quelli più importanti. Non sei uno sciocco: l'avrai notato anche tu che io non ho altri amici che Angela e Vivien. Eppure il più delle volte ci diciamo cose orribili, siamo freddi e ci facciamo pesare a vicenda ogni cosa.

- Se ha imparato qualcosa da quello che ha visto oggi...

- È che dovremmo sempre parlare di quello che non va, invece di tacere e covare in silenzio. Lo so. Sarebbe sano. Ma non tutti sono sani come te.

Amir scosse la testa.

- Guardi che è un'abitudine anche questa. Se cominci a dire la verità, poi ti abitui.

- Insomma, secondo te non sono irrecuperabile?

- Certo che no!

- Ti hanno mai detto che sei un po' troppo ottimista per questo mondo, Amir?

Dalla faccia un po' contrariata del ragazzo, Joel intuì che dovevano averglielo detto in molti e molto spesso. Tacquero per un po', senza imbarazzo o disagio. Fu Joel a riprendere la conversazione, anche se dovette forzare le parole. Ma Amir meritava di sapere.

- Quei due mi hanno fatto pensare un po' alla mia famiglia.

- Non mi ha mai parlato dei suoi genitori.

- Non che ci sia molto da dire. Mio padre è morto, lasciando la sua immensa compagnia edile a mio fratello Isaac, e a me la proprietà di un palazzo in Victoria Street. Il palazzo è in affitto: ci sono centinaia di uffici, e io vivo grazie a questo. Era una persona quieta e un po' noiosa. Ci siamo voluti bene, ma... Insomma, ognuno andava per la sua strada. E mia madre è viva.

- Non l'ho mai vista, né sentita nominare.

Joel fece un sorriso amaro, colpito dallo stupore del ragazzo. Stupore giustificato, in effetti.

- Non ci parliamo da anni.

- E perché?

Lo stupore si era trasformato in scandalo, e quello feriva un po'.

- I miei somigliavano molto agli spettri di oggi pomeriggio, Amir. A un certo punto mia madre se n'è andata, quando avevo quindici anni, e mio fratello ventitré. All'epoca ogni tanto tornava a trovarci. Poi ha smesso di farsi vedere, però telefonava. Ma... Sai, non è che uno se ne faccia molto, delle telefonate, magari frettolose e confusionarie, mentre lei era dall'altra parte del mondo, felice come non lo era mai stata prima. Mio padre poi si è ammalato, quando avevo ventiquattro anni, ed è morto poco dopo. Qualche anno dopo ho smesso di sentire mia madre. Ho saltato la chiamata di Natale, e... Però nemmeno lei ha pensato di chiamarmi. Forse era solo una cosa logica.

Silenzio. Il ragazzo non disse nulla, però non sembrava più scandalizzato, e Joel si rilassò. Poteva pensare di meritare tutto il biasimo del mondo, ma non voleva riceverlo da Amir.

- Non mi mancano loro.- Riprese. - Mi mancano i ricordi di cose che non ci sono mai state. Quello che sarebbe potuto essere, se tutti avessimo agito in modo diverso. Ma credo ormai di essermi abituato alle cose così come stanno. So di non comportarmi bene, ma mi sembrerebbe solamente inutile, adesso, riallacciare i contatti con lei, perché...

Non trovò un perché.

- Potrebbe provarci. Più avanti.- Suggerì il ragazzo, con dolcezza.

- Chissà. Più avanti. Può succedere di tutto, no?

- Se uno vuole farlo succedere, allora sì.

 

***
Grazie di essere qui.
(Angolo pubblicitario ormai scontato: se volete, qui trovate la mia musica, e ci sono varie canzoni che potete scaricare gratis, alcune delle quali scritte per accompagnare questa storia.)

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Capitolo 23
*** XXIII - Inverno segreto ***


Capitolo XXIII

Inverno segreto

 

I only want to see if I can shake you out of sleep

And bring you out under this flooded sky at any price

Wouldn't be enough to go by if we could sail on the wind in the dark,

Cut those chains, in the middle of the night, that had you pulled apart?

(Vienna Teng, Enough to go by)

 

Londra, 25 luglio 2009

 

- Così ora ha assunto un ragazzino a pulirgli la casa.

Per poco Amir non si fece sfuggire di mano la busta della spesa. A fianco del cancello della villetta a Haven Crescent c'era una donna, ben vestita, con sobri orecchini e una collana di perle, e i capelli ingrigiti raccolti in una pettinatura elaborata. La signora probabilmente aveva tra i cinquanta e i sessant'anni, e sarebbe stata graziosa, se non avesse avuto un sorriso piuttosto sgradevole.

- Parla con me, signora?- Le chiese il ragazzo, strappato bruscamente ai suoi pensieri, che erano di una qualità leggera e pacifica, come non gli capitava da tempo.

- Non lo so: sei tu il domestico di casa Headley?

- No. Ma il nome Headley ha molte connessioni con la persona per la quale lavoro.

- Lavori per Joel Bennett, no? Beh, quello là si è fatto rovinare la vita da tutti gli Headley di Londra!

- Mi scusi, signora, ma lei chi è?

Lei scosse la testa ed emise un suono feroce che doveva essere una risata.

- Guarda dietro l'armadio nel corridoio al secondo piano.

- Che cosa?

La donna gli volse le spalle e si allontanò dalla casa in fretta. Amir fu tentato di inseguirla, ma qualcosa gli suggerì di lasciarla perdere, dimenticarla. Aveva la spesa da rimettere a posto, la cena da preparare, mezzo libro di Letterature Comparate da leggere e soprattutto aveva un'inclinazione al buon umore che voleva preservare il più a lungo possibile.

In casa faceva caldo e c'era una confusione terribile. Amir riordinò meticolosamente, godendo di quei momenti di solitudine e lavoro poco impegnativo intellettualmente. Lasciava vagare i pensieri, ed erano di nuovo pensieri piacevoli, non troppo pesanti da portare in testa, che parlavano due o tre lingue, e ogni tanto canticchiavano arie rasserenanti.

Per l'ora di cena la donna fuori dalla porta era dimenticata.

 

- Mi chiedevo se ti sarebbe di disturbo concedermi qualche momento, Amir.

- Certo che no, Joel. È il mio lavoro, no?

Amir si alzò dalla scrivania affollata di carte nella sua stanza e infilò un foglio pieno di appunti scritti in tutte le direzioni in mezzo al libro che stava studiando. Joel lo aspettava sulla porta, con un sorriso quieto simile a quello che indossava di solito, però con una sfumatura più seria.

- Non mi piace considerarti un mio dipendente, sai.

- Ma è quello che sono, no?

- Però io sono felice che tu abiti nella mia casa.

Amir fece un sorriso imbarazzato, incapace di rispondere. Da qualche tempo, dalla sera in cui si era confidato riguardo i suoi familiari, Joel era strano. Più taciturno e sfuggente del solito, se parlava lo faceva solo per lasciarsi scappare frasi colme di inquietudine, difficilmente comprensibili e intime in maniera quasi disturbante.

- Cosa volevi chiedermi, Joel?

- Vorresti essere annoiato da me, mentre ti ripeto le nozioni di base per il mio esame di Fisica? È l'ultimo esame della mia carriera universitaria, quindi ci tengo particolarmente. In cambio, posso offrirmi di risentirti qualche interessante capitolo di Letterature Comparate.

- Molto volentieri.

Studiarono insieme per più di un'ora, finché non si accorsero che erano quasi le otto e che avevano abbastanza fame tutti e due. Durante la cena ricordarono il ritrovamento di uno strano animale tentacoloso nel burro, risalente a più di un anno prima, e fecero ipotesi scherzose relative alla futura vita matrimoniale di Aidan Casey e Virginia Bennett. Nel rimettere la cucina Joel distrusse una brocca di porcellana, ma l'incidente fu comunque fonte di ilarità.

Dopo cena, Amir si trovò costretto ad abbandonare la piacevole leggerezza della giornata, sentendosi in dovere di esporre a Joel un problema che gli gravava i pensieri in quei giorni.

- Joel, io ho praticamente finito il lavoro, qui a casa. Ho rimesso tutto. La settimana prossima porterò via le ultime scatole con le cose da gettare, e poi la casa sarà a posto.

- Ti aspetti che io ti butti fuori?

- No, ma... Eravamo d'accordo che sarei rimasto finché non avessi finito.

- Sbaglio, o sei ancora assunto come gestore e custode del Sunflower?

- Sì, e mi paghi benissimo, quindi posso cercarmi una sistemazione diversa.

Joel lo guardò in una maniera che Amir non riuscì a decifrare. Sembrava quasi avvilito.

- Puoi fare quello che desideri. Se preferisci cercare casa altrove, ti aiuterò a trovarla. Se lo stai dicendo solo perché hai paura di disturbarmi, togliti questa idea dalla testa.

- No, assolutamente... Cioè, sì... Voglio dire, io sto benissimo, qui, ma è casa tua.

- Una casa dove abito pochi mesi all'anno. E comunque, è piacevole avere un coinquilino.

- Sì, ma... Che senso ha? Sono un estraneo in casa sua e ci abito come se fosse mia.

- Estraneo? Pensi davvero di essere questo? Allora sono veramente un fallimento nel trattare con le persone, come mi fanno notare tutti.

- No, no, Joel, assolutamente no! Non sei tu a farmi sentire un estraneo. Anzi, non è così che mi sento, assolutamente no! Ma non posso rimanere qui per sempre.

- Certo. Quando troverai il posto giusto e il motivo giusto per andartene, te ne andrai. Per adesso, puoi restare quanto ti pare. Se vuoi.

- Va bene. Però voglio contribuire all'economia familiare.

- Tu contribuisci alla mia sanità mentale, Amir, dando un senso a questo posto. Mi basta.

Sorrise, senza riuscire a fargli capire quanto di serio e quanto di scherzoso ci fosse, in quell'ultima osservazione.

Più tardi Amir raggiunse il primo piano e la sua camera. E davanti alla porta si fermò e guardò in fondo, alla sua sinistra, dove c'era l'armadio.

Quella donna dalla risata terribile. Aveva detto di guardarci dietro.

È un armadio, e nei giorni in cui ho rimesso la casa l'ho anche aperto. Ci sono solo libri. Non è niente di importante.

Si impose di non pensarci più. Entrò in camera, si aggrappò allo studio e dimenticò di nuovo quell'avvertimento.

 

Si può essere felici e leggeri, oppure forti e determinati, ma certe cose continueranno a perseguitarci finché non avranno risposta. Un anno tra gli spettri gli aveva insegnato quel fatto, se non altro.

Aveva trascorso una bella mattinata con Aidan, Virginia e Daniel. Aveva finito di studiare per l'esame con una settimana di anticipo rispetto al suo programma personale. Era appena rientrato in casa, c'era tempo prima di cena e poteva rilassarsi e leggere qualcosa. Andava tutto bene.

Andava tutto benissimo.

Che bisogno c'era di pensare all'armadio?

Eppure, eccolo lì, davanti al maledetto oggetto, a domandarsi se proprio non poteva dare un'occhiatina, così, per togliersi la curiosità in maniera innocente, tanto Joel non c'era...

Naturalmente l'armadio doveva essere troppo pesante anche solo per pensare di spostarlo. Certo, non era di legno: lo sembrava soltanto. Doveva essere uno di quei materiali ricavati da trucioli di legno e carta, qualcosa di molto scadente. Un oggetto insolito, in quella casa piena di cose preziose e scelte con cura. Era alto e stretto, con due ante soltanto. Forse era uno di quei mobili che si comprano a pezzi e ci si montano da soli.

Amir posò timidamente la mano sul lato del mobile. Poi vi si appoggiò con tutto il suo peso, e il mobile si spostò con molta più facilità del previsto. Amir trattenne un grido di sorpresa, quando si ritrovò a muoversi insieme all'armadio. E poi vide qualcosa. Si diede dell'idiota mille volte per non aver trattenuto la curiosità, perché ormai aveva le prove che c'era davvero qualcosa dietro l'armadio. E non avrebbe potuto fare finta di non saperlo, perché ormai aveva visto.

Aveva visto la porta.

Il mobile era messo in quella precisa posizione per nascondere una porta, dalla quale era stata sradicata la maniglia. Joel non gli aveva mai parlato di quella stanza. Pensò al giardino, a tutte le finestre: non si era mai accorto dell'esistenza di un vano in più,

Questa casa è enorme. Troppe finestre.

E se l'armadio si era mosso così facilmente, forse Amir poteva farcela, a spostarlo del tutto per entrare...

Si sentì un verme durante tutto il processo faticoso di movimento del mobile. Però era più forte di lui. Non era mai stato bravo a combattere con la curiosità. In fondo, la curiosità aveva sempre deciso della sua vita.

Con quella scusa che sembrava tanto logica e confortante, pian piano riuscì a spostare l'armadio a sufficienza. Si appoggiò alla porta e quella si aprì in dentro con estrema facilità. Era entrato nella stanza che Joel doveva aver nascosto per un motivo.

Ma lui era curioso, giusto? Oh, quando era cambiato così tanto da arrivare a tradire la fiducia di una persona a cui voleva bene, pur di soddisfare la curiosità?

Accese la luce era una camera piuttosto spoglia. C'erano un armadio di legno scuro con rifiniture in ferro battuto, una piccola libreria piena per metà, un letto a una piazza e mezzo, completo di coperte e cuscini, e accanto a esso un piccolo comodino.

La stanza aveva un'apparenza così comune e banale da rendere particolarmente inquietante il fatto che il suo accesso fosse stato nascosto. C'era un solo particolare disturbante, lì dentro: il fortissimo odore di polvere e di luogo chiuso da tempo. A guardare bene i mobili, lo strato di polvere che vi stazionava sopra era molto spesso, e se si respirava a bocca aperta si poteva avvertire la sensazione spiacevole di ingoiare polvere antica.

A dire la verità, c'era un'altra cosa strana. I libri. Perché Joel avrebbe chiuso l'accesso a una stanza con dei libri? Vi si avvicinò con cautela, con un orecchio sempre attento a percepire eventuali rumori annunciatori del ritorno di Joel. I libri in tutto erano una trentina, e una prima occhiata rivelò che si trattava per la maggior parte di romanzi. Alcuni autori Amir li conosceva: C. S. Lewis, Hope Mirrlees, Aldous Huxley, Thomas Hardy. C'era qualche testo di storia moderna, una raccolta sui poeti romantici inglesi, un paio di libri con titoli in spagnolo, un dizionario inglese-greco antico.

Un rumore indefinito lo fece trasalire e lo spaventò al punto di farlo correre via dalla stanza. Rimase in ascolto: niente, non gli sembrava che Joel fosse rientrato. Era stato un falso allarme. O forse, un monito della sua coscienza: non avrebbe dovuto frugare nei segreti di Joel.

Rimise a posto l'armadio e rimase a fissarlo, assaporando la sensazione amara di meritarsi tutto il biasimo del mondo. Era curioso, sì, lo sapeva, lo era sempre stato. Però lui voleva essere onesto con Joel, e rispettarlo in tutto e per tutto. E invece era andato a cercare cose nascoste, e tutto per il suggerimento di una persona che evidentemente non era proprio un'amica.

Il suono della porta che sbatteva, al piano di sotto. Quello era reale. Corse via, a rifugiarsi nella sua stanza, nei suoi libri, col cuore che batteva troppo forte e il desiderio poco sano di incontrare di nuovo quella donna.

 

- Come stai, domestico?

Questa volta la donna sedeva sul marciapiede, con un piccolo parasole rosso appoggiato alla spalla e il solito sorriso distorto a rovinarle il viso. Amir si fermò a guardarla e fu investito dalla chiarissima sensazione di qualcosa di fuori posto, di non umano. Perché non l'aveva sentita, due giorni prima?

Perché ero distratto. E perché lei sta facendo di tutto per nascondersi.

- Non sono il domestico. E voglio sapere perché mi ha detto dell'armadio.

- Io sì. Io ero la domestica. Chiedi di Nancy. Sono stata la domestica di metà delle famiglie di Haven Crescent, sai. Proprio un bel lavoro, pulire i cessi e culi di un branco di benestanti imbecilli.

- Cosa vuole da noi?

- Noi?- La donna gracchiò una risata, come se Amir avesse appena detto qualcosa di terribilmente ridicolo. - Pensi di far parte di questo mondo? Di contare qualcosa per Bennett?

- Perché voleva che guardassi dietro l'armadio?- Amir avvertì la sua voce che s'incupiva, e la rabbia che vi strisciava dentro e la faceva vibrare.

- L'hai fatto, vero? E ora ti rodi nel dubbio, chiedendoti come mai il tuo caro padrone di casa abbia deciso di bloccare l'accesso a quella camera.

- Lei cosa...

- Una brava domestica sa tutto e non dice niente. Ma ora posso permettermi di dire tutto a tutti. Ed è quello che intendo fare. Ho visto così tanta merda ricoperta d'oro, in queste case. Mi toglierò la soddisfazione di tirarla fuori, adesso.

Fece un'altra delle sue disgustose risate e si alzò in piedi, posando una mano gelida sul braccio destro di Amir. Toccò la cicatrice della ferita della spada di sir Drystan e quella fu attraversata da una scintilla istantanea di dolore.

- Hanno sempre pensato di essere migliori di me.- Sibilò, prima di sparire.

- Non è possibile che me ne sia accorto solo ora.- Borbottò, irritato con se stesso. - Non è concepibile che mi abbia ingannato in questo modo.

In quel momento la porta di una delle villette della mezzaluna di Haven Crescent si aprì, e una donna ne venne fuori correndo e gridando parole sconnesse. Un uomo la inseguì fino alla soglia, sulla quale si fermò, con aria desolata e le mani tese ad afferrare il nulla. La donna gli urlò contro qualche offesa particolarmente volgare, poi uscì dal giardino, si infilò in un'auto e partì a tutta velocità. L'uomo sulla soglia si accasciò a terra e nascose il viso tra le mani. Amir corse e raggiunse il giardino della casa, timoroso che l'uomo si fosse sentito male.

- Tutto bene?- Domandò, affacciandosi oltre il cancello aperto.

- Chi diavolo gliel'ha detto?- Gemette l'altro, scattando in piedi e tirando un pugno contro lo stipite della porta.

- No, si fermi!- Amir avanzò di qualche passo, incerto sul da farsi. L'uomo colpì ancora una volta lo stipite, poi vi poggiò contro la fronte.

- Qualcuno le ha detto Molly. Ma sono passati quattro anni. Chi poteva saperlo? Chi gliel'ha detto, proprio ora che le cose stavano andando bene?

E i pezzi cominciarono a disporsi in una sequenza sensata. Amir ricordò all'improvviso che qualche giorno prima aveva sentito i suoni di un litigio provenire da un'altra delle villette del Crescent. Ora l'uomo che si domandava chi avesse rivelato il suo segreto alla moglie.

E c'era l'armadio...

Una brava domestica sa tutto e non dice niente. Ma ora posso permettermi di dire tutto a tutti.

- Avete avuto una domestica di nome Nancy?- Domandò Amir. L'uomo si voltò a guardarlo, spiazzato dalla domanda.

- Nancy? Sì, credo. Anni fa. Che c'entra, adesso?

- Niente. Mi dispiace per quello che è successo. Spero che si risolva.

Corse via e si rifugiò in casa. Quando Joel sarebbe tornato, gli avrebbe chiesto notizie di Nancy. Doveva capire chi era e perché covasse tutto quell'odio verso i suoi precedenti datori di lavoro, tanto da infestare Haven Crescent al solo scopo di rivelare segreti e mancanze tenute nascoste.

Forse si fa passare per viva, con quelli che incontra. Ha ingannato persino me, all'inizio. Si fa credere una vecchia conoscente passata di lì per caso e rivela loro cose che nessuno avrebbe dovuto sapere.

Perché gli aveva detto dell'armadio?

Perché quella stanza nasconde qualcosa. O meglio, Joel nasconde qualcosa a proposito di quella stanza, e Nancy vuole che io lo scopra.

Perché Nancy voleva che lui lo scoprisse?

Rivela segreti per far litigare le persone. Cosa può esserci in quella stanza di tanto grave da farmi litigare con Joel?

Con la consapevolezza che stava facendo il gioco dello spirito, corse al piano di sopra e fronteggiò di nuovo l'armadio. Se voleva capire, se voleva risolvere la faccenda, doveva rientrare nella stanza.

No! Devi solo aspettare Joel e parlargli di Nancy.

Fece forza contro il mobile e lo spostò.

No, è una cosa stupida!

Aprì la porta e si infilò nella stanza.

Non è giusto!

Accese la luce e gridò.

La stanza, gelida, era satura di un odore terribile, un misto di aria viziata, sudore, medicinali e ferite infette. Il letto era disfatto, le lenzuola cosparse di aloni giallastri, il pavimento era disseminato di oggetti: cuscini, libri, indumenti spiegazzati e appallottolati, pieni di macchie. Sul comodino c'erano bicchieri colmi di sostanze di colori diversi, con colate appiccicose lungo i bordi.

Eppure era la stessa stanza del giorno prima! Cosa l'aveva ridotta in quel modo?

Amir avvertì la fiducia piena in Joel logorarsi a velocità spaventosa e la serenità della sua mente farsi così sottile e inconsistente da sbriciolarsi in un istante.

- Che succede? Chi c'è qui dentro? Amir, sei tu?

La voce agitata di Joel lo fece riscuotere. Si ricordò che aveva gridato, quando aveva visto quel nuovo volto della stanza. Si voltò e trovò Joel alle sue spalle, sulla soglia: aveva la faccia bianchissima e lo sguardo fisso sul letto.

- Cosa ci fai, qui?

Non era arrabbiato. Era in preda al panico. Amir si accorse del tremito che lo pervadeva completamente. Non aveva mai visto niente del genere, in Joel.

- Joel, cos'è questo posto?

- Come sapevi della stanza?- La voce di Joel era incrinata. - Non doveva esistere più.

Amir fece un respiro profondo e si impose di riprendere il controllo di sé.

Il giorno prima c'era una stanza normale, nella quale nessuno entrava da molto tempo. Perché si era trasformata in quello scenario terribile? Cosa c'era di diverso, rispetto alla prima volta in cui era entrato? L'ora del giorno era più o meno la stessa. Non aveva oggetti particolari con sé. Che la donna, Nancy, avesse fatto qualcosa? Ma allora, perché non farlo subito dopo avergli suggerito di entrare nella stanza la prima volta? No, c'era qualcos'altro...

Cosa c'è di diverso, tra ieri e oggi?

Joel.

Ieri ero solo in casa, quando sono entrato. Questa volta Joel era in casa.

Era logico. Se quello era un segreto del signor Bennett, allora lui era la differenza. Con la presenza di Joel quel posto assumeva contorni spaventosi.

- Non è reale.- Disse, ad alta voce per farsi coraggio.

Non è reale, è solo il modo in cui Joel vede questo posto.

Posò le mani sulle spalle dell'uomo tremante davanti a lui e strinse appena, per dargli conforto.

- Joel, calmati. Questo posto è un'illusione. Non c'è niente di vero.

- Continuo a vedere la stanza come l'ultima volta in cui ci sono entrato, anche se l'avevo fatta rimettere!- Joel chiuse gli occhi. - È per questo che ho messo l'armadio davanti all'ingresso. Stavo male anche solo a vedere la porta.

- Che stanza è, questa? Cos'è successo, qui?

Sentire il corpo di Joel scosso dai tremiti, sotto le mani, era una sensazione disturbante. L'uomo rimaneva immobile, a occhi chiusi, respirando in rantoli affannati.

- Sono uscito, anche se nevicava, perché non ne potevo più di stare qui.- Cominciò a raccontare con concitazione. - Ma non l'ho mai detto a Vivien.

- Che cosa non le hai mai detto?

- Nevicava. Ogni volta che entro, vedo la neve fuori dalla finestra.

Amir si voltò e guardò oltre i vetri: c'era una sera invernale senza luce, e la neve impazzita nascondeva il mondo esterno.

- Ma ora è estate.

- Se ci fosse stata lei, almeno!- Gemette Joel, aggrappandosi alle braccia di Amir. - Ma no: se n'è dovuta andare in uno dei suoi viaggi così importanti. Mi ha lasciato da solo con lui. I dottori avevano detto che sarebbe vissuto ancora qualche mese. Così sono rimasto con lui, ma non sapevo prendermene cura. Non riuscivo a stargli vicino. Non sono mai stato bravo con la gente che soffre, anche con quella di cui mi importa. Poi una sera lui stava davvero male, e a un certo punto sono uscito nella neve, perché non ce la facevo. Sono stato fuori mezz'ora al massimo. Quando sono rientrato, lui era morto. Ma non l'ho mai detto a Vivien. Le ho mentito, le ho detto che ero con suo padre, quando è morto. L'ho detto a tutti. Però non è vero. E ho fatto rimettere la stanza dalla domestica, ma poi ogni volta che ci tornavo vedevo ancora tutto come quando c'era lui morente. Allora ho chiesto alla domestica di comprarmi l'armadio e l'ho messo lì. Non vedere la porta mi faceva stare meglio.

- Era la stanza del signor Arthur.

- Non volevo lasciarlo morire da solo.

- Non l'hai lasciato morire da solo! Gli sei stato accanto per tanto tempo. Eri uscito per riposarti un attimo.

- Sono stato un vigliacco. Lo sono sempre stato.

- Ti puoi incolpare di tante cose, Joel, ma non di questa. L'hai detto tu: non sei bravo con quelli che soffrono, ma per Arthur hai superato la tua difficoltà.

L'uomo continuava a tenere gli occhi chiusi. La stanza attorno a loro restava imprigionata nella morsa del tempo e della memoria. Era uno spettro anche quello, in fondo: lo spettro di un ricordo, che infestava la mente di Joel da anni.

Come faccio a farti capire che puoi liberartene?

Strinse le dita sulle spalle dell'uomo, teso fino allo spasmo, ancora con gli occhi chiusi.

- Arthur era una persona speciale.- Riprese Amir, trovando le parole all'improvviso, in abbondanza, da qualche parte dentro di sé. - Magari... Non lo so, magari è morto proprio in quel momento perché gli andava bene così. Ti aveva già detto tutto quello che aveva da dirti. Ha preferito andarsene senza disturbare.

Joel aprì gli occhi.

In quel momento la patina orribile dell'allucinazione cominciò a svanire, e Amir vide le cose che si facevano nebbiose e si dissolvevano pian piano, sfilacciandosi e disfacendosi, sparendo come nuvole di polvere e lasciando sotto di sé la realtà rassicurante della stanza com'era davvero. Il letto tornò rifatto, il pavimento pulito, i libri al loro posto, la finestra chiusa e l'inverno lontano.

- Cosa vedi, ora?- Domandò Amir. Joel si guardò attorno, incredulo.

- La stanza. Com'è davvero.

Bastarono pochi istanti a ritrasformarlo in una creatura più somigliante al Joel Bennett di sempre. Si staccò bruscamente da Amir, si spostò dal viso i capelli chiari, troppo lunghi e non curati, rimise a posto gli occhiali squadrati da lettura che aveva la tendenza a dimenticare sul naso.

- Ti chiedo perdono, Amir. Questo posto mi riempie di sentimenti sgradevoli.- Disse, nuovamente padrone della sua voce.

- Togli l'armadio dalla porta. Altrimenti non starai mai bene.

- È stata una cosa sciocca, tenerlo lì, eh?

- Da parte mia, è stata una cosa scorretta entrare. Mi dispiace.

- Ma no. Forse è un bene che tu sia entrato. Devo essere stato uno spettacolo pietoso, poco fa. Dimenticalo.

- Non si va mai da nessuna parte, dimenticando le cose.

Joel perse un po' del contegno che si era imposto e avanzò verso il letto, con un'espressione desolata in viso.

- È la prima volta che vedo la stanza com'è. Quando la domestica la rimise in ordine, dopo la morte di Arthur, io entrai e... Mi sembrò uguale a quando c'era lui. Corsi fuori urlando contro la domestica. Lei protestò, mi disse che era a posto. La rispedii a lavorarci e me ne andai a letto. Poi tornai qui, e vidi le stesse cose. Non capivo. Pensai di essere pazzo.

- E ti sembrò una buona idea, chiudere per sempre la porta?

- Mi sembrò un buon modo per non affrontare a fondo il problema. Amir, io non capisco molto di queste cose. Sono davvero pazzo? C'è qualche altro motivo per cui continuavo a vedere la stanza in quel modo?

- Credo che fosse una specie fantasma creato dai tuoi ricordi. Erano attaccati alla stanza e la rivestivano. Quando non eri in casa, la stanza era perfettamente normale.

- Credo che ora dovremmo uscire.- Disse Joel, con uno sforzato tono tranquillo.

Amir sorrise e spinse via delicatamente l'uomo dalla stanza, accompagnandolo fuori dalla porta.

- Non sei arrabbiato perché sono entrato?

Joel scosse la testa. Guardò la porta emersa dall'armadio, poi guardò Amir.

- Non credo che riuscirò a entrarci di nuovo, comunque.

- Non devi farlo.

- Lo sogno ancora, sai? Sogno che mi chiama mentre io sono nella neve. Lo sento ma non ci vado. Lui è morto in gennaio. Tutti gli anni a gennaio devo ricorrere ai sonniferi, altrimenti non riesco a chiudere occhio per più di due ore a notte. L'inverno mi affatica. Non lo so perché. Il mio medico dice che è una leggera forma depressiva, ma io non ho mai fatto niente per affrontare il problema. Cerco solamente di andare avanti, pensare ai miei studi, immaginare che le cose vadano bene. Ma non posso dimenticare la fine di Arthur. Mi ricorda i miei fallimenti in tutti i rapporti importanti della mia vita. È solo giusto, che io non dimentichi. È la verità di quello che sono.

Amir non disse niente, stupito per la valanga di confidenza che l'uomo gli stava donando. E Joel, con gli occhi fissi sulla porta, non sembrava aver intenzione di smettere di parlare.

- Sono cose che non dico a nessuno, mai. Da tanto tempo. Da così tanto tempo che pensavo fossero sparite. Sono una persona che si accontenta di stare abbastanza bene ogni tanto, convivendo con gli incubi. Non sono coraggioso come te.

- Non sono così coraggioso, Joel. L'unica differenza è che io chiedo aiuto. Ai vivi, ai morti, alla città.

- Io non so neanche come si fa.

- Si fa così come stai facendo adesso. Stai parlando con me. Io non sono granché a dare consigli, ma almeno ti posso ascoltare.

- Tu non sai dare consigli?- Amir avvertì l'ombra di un sorriso nella voce di Joel. - Mezza Londra le pensa diversamente.

- No, davvero, Joel, credimi! Le persone, vive e morte, vengono da me e cominciano a parlare. Io sto zitto. Poi loro prendono una decisione, e se quella decisione è giusta dicono che è merito mio.

Joel fece una piccola risata. Poi, senza nessun preavviso, abbracciò Amir, una stretta rapida e leggera, dalla quale lui stesso si ritrasse in fretta. - Grazie.

- Grazie... E di cosa?- Balbettò Amir, colto di sorpresa dal gesto.

- Non lo so. Di aver mandato via il fantasma, credo.

- Hai fatto tutto da solo.

- Mi piacerebbe essere come te, Amir. Uno che lotta per la propria felicità. Ma sono solo un idiota che preferisce la tranquillità immediata e falsa, invece che quella duratura e profonda. Tutto sommato, temo di essere fatto così, irrimediabilmente.

- Non mi piace pensare che ci siano cose irrimediabili.

- Sei un testardo megalomane. E io sono una causa persa.- Joel fece un piccolo sorriso e gli batté una mano sulla spalla, invitandolo a seguirlo lontano dalla porta. - Non puoi cambiare certe cose. Se è inverno, farà freddo e probabilmente nevicherà. È una cosa naturale. E la mia natura è questa. Però, se ti vado bene anche così, allora spero tu ti possa accontentare.

- Se è inverno, si può accendere un fuoco e preparare un tè. E comunque ricordati che dalle mie parti l'inverno è molto diverso da qui. Forse dipende dai punti di vista.

- Megalomane.

- Grazie.

 

*

 

Restava da capire come addolcire Nancy, impedendole di continuare a svendere i segreti dei suoi vecchi padroni come suo ultimo atto sulla terra.

Amir lasciò passare qualche giorno, prima di parlarne con Joel. Sapeva di dover mantenere la calma e la serenità, perché in quel momento aveva la responsabilità di Joel: aveva promesso che gli sarebbe stato di conforto e così avrebbe fatto.

Affrontò la questione in una mattinata particolarmente calda e silenziosa.

- La sua domestica. Quella dell'armadio, intendo. Si chiamava Nancy, vero?

- E tu come lo sai?

- L'ho incontrata. Mi ha detto lei di guardare dietro l'armadio. Credo che sia la responsabile di tutte le liti e i problemi di questi giorni, nelle famiglie di Haven Crescent.

- Cosa? Perché?

- Suppongo perché è morta e arrabbiata.

- Morta?

- Decisamente sì. Mi dispiace, mi sento in colpa, a essermi fidato di quella donna. Cercherò di capire perché Nancy è qui e cosa vuole.

Un sorriso addolcì il viso serio di Joel.

- Hai intenzione di salvare anche lei, eh?

 

*

 

Rientrò in casa ben dopo l'orario della cena, con la sensazione che la positività dei giorni passati, anche quella conquistata al prezzo delle confidenze dolorose di Joel, non fosse mai esistita.

Trovò Joel che leggeva un libro in poltrona.

- Agatha Christie?- Domandò Amir, ricacciando dentro di sé l'abbattimento.

- Ricordi di infanzia. Un cavallo per la strega era il mio libro preferito, da ragazzino. All'epoca mi piaceva risolvere gli enigmi. A differenza di ora, temo. Ma c'è un enigma che mi piacerebbe risolvere, adesso: la tua faccia triste. Cos'è successo?

- Niente. Non ti preoccupare.

- Dice quello che mi tormenta con la richiesta di parlare, esprimermi e sfogarmi.- Chiuse il libro e lo gettò sul divano. - Cos'hai?

Amir si arrese.

- Ho incontrato Nancy e ho provato a parlarle. Le ho detto che se era arrabbiata con i suoi vecchi datori di lavoro per qualche motivo, quello che stava facendo non l'avrebbe fatta sentire meglio. le ho offerto il mio aiuto, e lei mi ha risposto che non le interessava. Io pensavo che loro desiderassero tutti...- Tacque e scosse la testa. - Sono davvero un megalomane. E un ingenuo, anche. Lei mi ha detto che non voleva niente da me. Che voleva rimanere qui, e che se ne sarebbe andata senza l'aiuto di nessuno, all'inferno. Perché l'inferno uno se lo sceglie. Ha detto così.

- Non ti arrendere. Magari dice così, ma con calma, con pazienza, riuscirai a fare qualcosa per lei. Me l'hai detto tu, no? Non c'è niente di irrimediabile.

- Grazie.

- Per che cosa: per averti rivenduto le tue stesse parole? Sai che sforzo...

 

*

 

Non ci sarebbe riuscito, a salvarla.

Tre giorni dopo che il ragazzo aveva provato a parlare con Nancy, qualcuno la mandò via - probabilmente all'inferno, dove lei stessa aveva già deciso di andare.

- Hai cercato di fare loro del male. Non posso permettertelo.- Sussurrò una voce di donna, prima di mormorare un incantesimo dell'Ordine del Riposo e disperdere l'anima inquieta di Nancy in una miriade di frammenti di notte.

Haven Crescent rimase cupa e pensierosa per il resto dell'estate.

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Capitolo 24
*** XXIV - Il Raduno ***


Capitolo XXIV

Il Raduno

 

Your childish dreams are all in vain
To me your kind is all the same

(Xandria, Black and Silver)


I

 

Londra, 12 Agosto 2009

 

- Cos'è?

- L'ho trovato stamattina fuori dalla porta. Puoi pulirti le mani prima di toccarlo, per favore?

Aidan ignorò quella richiesta e afferrò senza molte cerimonie il foglio dai bordi irregolari che Amir gli aveva mostrato. Riuscì a macchiarlo del cioccolato del muffin che stava smembrando per colazione (perché Aidan non riusciva a mangiare ordinatamente come tutte le persone normali?)

- La pietra di Londra per prima. La Cattedrale sulla riva. La Grande Raccolta delle Cose Sottratte. Il Collegamento dei tempi della Regina. A Sud-Ovest c'è un fiore nell'ombra. Che cazzo vuol dire, questa lista? E perché è scritta su un pezzo strappato di una mappa di Londra? E anche una di quelle schifose da turista.

- Se ne avessi avuto idea, non ti avrei chiesto consiglio.

- Ah no? Non mi avresti chiesto consiglio? Grazie, eh!

- No, insomma... Volevo dire...

Aidan scoppiò a ridere e gli lanciò il messaggio.

- E dai! Ti prendevo per il culo come sempre. Insomma, l'hai trovata fuori dalla porta e non sai cos'è. Roba dei tuoi amici spettri?

Amir scosse la testa.

- Non scrivono, di solito. Non so cosa sia e non so nemmeno se sia diretto a me, ma mi sembra piuttosto logico. Non credo che Joel riceva abitualmente messaggi del genere.

- Adesso lo chiami Joel. Ci ho fatto caso da un po'. Mi fa piacere che ti trovi meglio con quella mummia esasperante. E poi, se diventi di famiglia con Bennett, diventiamo parenti. Insomma, se io sto con Virginia sono un po' nipote di Bennett anch'io, e se tu sei un Bennett acquisito, allora tu diventi mio... Cugino? Zio? Tutto dipende dal modo in cui entri in famiglia.

- Aidan. Basta, ti prego. Fermati qui. Torniamo alla lettera?

- Oh, senti, mi hai fatto alzare all'alba in piena estate: apprezza il fatto che io sia qui, seduto con te da Starbucks a cercare di decifrare un messaggio che avresti potuto benissimo far leggere al mio futuro suocero!

- Non è il padre di Virginia, non diventerà mai tuo suocero.

- Ok, scusa. Allora... Joel che ti ha detto della lettera?

- È con alcuni amici a un convegno a Glasgow. Angela è fuori fino a settembre. E non ho idea di dove sia Vivien, ma non risponde al telefono.

- Hai già detto che gli spettri non c'entrano.- Disse Aidan, tornando a esaminare il messaggio. - Potrebbe essere da parte di Angela?

- Mi sembra strano. Avrebbe messo qualche piccola indicazione per farmi capire che si tratta di lei, credo. O mi avrebbe semplicemente telefonato.

- Bene, due mittenti in meno. Andiamo avanti. Quel tizio strano di cui mi hai raccontato, quello che raccoglie le storie o qualcosa del genere?

- Nevan? Potrebbe essere. Solo che... Non so, avrei immaginato qualcosa di diverso, da parte sua.

- Lasciamo Nevan da parte, senza eliminarlo del tutto.

- Forse dovrei andare in ciascuno di questi posti, ammesso che riesca a capire di cosa si tratta, e controllare.

Aidan sentolò la lettera, come se così avesse potuto tirarne fuori qualche informazione in più.

- Se qualche tuo amico misterioso voleva informarti di qualcosa di importante, poteva anche sforzarsi un po' di più! A meno che non sia un tuo nemico, che ti ha mandato questa roba cifrata per prenderti in giro. Intanto proviamo a capire cosa sono questi luoghi.

- "La pietra di Londra" so cos'è L'ho letto in un libro che mi ha regalato Joel. Potrei andarci.

- Vengo con te. A meno che tu non preferisca andare da solo.

- Perché dovrei preferire di andarci da solo?

- È che qualche volta sei un po' individualista. Cioè, voglio dire: questo è il tuo campo e tu te la cavi bene. È roba tua. Ma ai tuoi amici fa piacere dare una mano, sai.

- Ma se sono qui a chiedere consiglio a te!- Protestò Amir, un po' irritato da quella confessione che gli sembrava alquanto fuori posto. - Io mi sento molto più sollevato, da quando tu e Joel sapete tutto delle mie faccende.

- Sì, lo so.- Aidan gli fece uno dei suoi rari sorrisi seri. - È una cosa che fai senza accorgertene. Sei felice di condividere, ma sotto sotto pensi che i compiti più grossi e complicati siano sempre roba tua e solo tua. Non ho ancora capito se sei un martire o solo molto presuntuoso. Non prendertela, dai. Sono cose dette senza rancore.

Amir si impose di passare sopra a quell'appunto, anche se in realtà continuava a ripetere nel retro della propria mente l'analisi inaspettata che Aidan gli aveva appena fatto.

- Vediamo.- Riprese Aidan, ricominciando ad analizzare le parole scarabocchiate sul frammento di cartina. - "La Cattedrale sulla riva": St. Paul? Southwark? "La Grande Raccolta delle Cose Sottratte": secondo me è casa tua.

- Casa di Joel.

- Appunto, casa tua.

- Ma non ci sono cose sottratte!

- Però è una grande raccolta. Senti, vai a prendermi un altro cappuccino: se dobbiamo giocare ai detective, facciamolo secondo i canoni di tutti i telefilm polizieschi del mondo. Con la panna, eh.

Amir decise di sottostare ai capricci di Aidan: era l'unico modo per garantirsi la sua attenzione e la sua collaborazione. Soprattutto dopo che gli aveva rifilato quella lezione di vita indesiderata. Tornò al tavolino qualche minuto dopo, offrendo il cappuccino all'altro, che lo aspettava con un sorriso trionfante.

- Il British Museum. La Grande Raccolta. Se pensi a Londra, qual è il posto più grande dove si raccolgono cose che in realtà non appartengono alla città? Sembra che chi ha inviato questo messaggio non approvi il colonialismo inglese. Ehi, tu dovresti avercela, con gli inglesi, sai?

- Non mi piace avercela con nessuno per nessun motivo. Mantenere il rancore, anche per una buona ragione, è la maniera migliore per non far mai finire una guerra.

- Non so se sei solo troppo innamorato di questo posto, o se sei davvero saggio come sembri.

- Mi prendi in giro? Tre minuti fa ero un individualista, e ora mi fai i complimenti?

- Io ti prendo sempre in giro. Ogni tanto mi ricordo anche di dirti la verità. Dai, cerchiamo di capire cos'è "Il Collegamento dei tempi della Regina" e che cavolo vuol dire che “A Sud-Ovest c'è un fiore nell'ombra.” Forse ci verrà in mente girando per la città.

 

*

 

Glasgow, 12 Agosto 2009

 

Il mondo fuori dalla sua finestra chiusa era una serie di strisce di colori intensi che facevano capolino dalle persiane. La stanza era ordinata e confortevole, con il suo arredamento minimale ed elegante. Tutto, intorno a lui, aveva un'aria di sobrietà e precisione che erano un ristoro per lo spirito.

Tutto era come sarebbe dovuto essere. Come era nella sua vita prima di

(prima della morte, prima della solitudine, prima dei mondi di Arthur, prima delle labbra di Vivien, prima delle lanterne e prima del ragazzo)

quegli ultimi anni confusi.

Stare lì per una settimana avrebbe fatto bene a Joel. Ne aveva bisogno.

La compagnia di Evan e James non era male, e poi era molto tempo che non stava con loro. Anche quel tipo strano di Clyde Wendell non era del tutto sgradevole. Un ambiente diverso dalla sua casa, sempre più colorata e incomprensibile con ogni giorno che passava, lo avrebbe rilassato e calmato.

 

*

 

Londra, The City, 12 Agosto 2009

 

- Ok, penso che dovresti ignorare quel messaggio perché probabilmente non è niente di importante.

Amir gli lanciò un'occhiata contrariata.

- È di sicuro qualcosa di importante.

- Lo so. Ma fa caldo e non ne posso più di girare a vuoto per la città.

- Ma se abbiamo fatto a malapena una passeggiatina lungo la riva senza nemmeno fermarci più di tre minuti alla cattedrale di Southwark!

- Sì, ma tu hai detto che non c'era nulla di strano.

- Solo perché lungo il Tower Bridge non sono arrivati fantasmi a dirci ciao, non significa che sia tutto a posto. Oh.

- “Oh” cosa?

- E se il “Collegamento dei tempi della Regina” fosse il Tower Bridge? Di sicuro collega due rive. Magari la Regina in questione è Vittoria.

- Io voto questa ipotesi.

- Perché così abbiamo un posto in meno da controllare, eh?

Aidan fece una smorfia di sopportazione e annuì.

- Allora, Amir, andiamo alla “Pietra di Londra”? Hai detto che è in zona. E spiegami cos'è.

- Una pietra riparata da una grata in Cannon Street. Non si sa bene cosa sia. Un tempo pensavano che fosse un resto romano, o magari druidico. Nessuno dei due, probabilmente. È una cosa simbolica. Una di quelle attribuite a tempi mai esistiti.

- Mai esistiti, eh? E chi lo sa? Voglio dire, ho visto i fantasmi con i miei occhi. In confronto, l'idea di Excalibur mi sembra molto sensata. Dai, muoviamoci. Non è che posso perdere tutta la giornata in giro per la città. Sto sprecando una perfetta mattinata di studio per te.

- Studio...

- Ehi! Sono a quattro capitoli di tesi già scritti! Non mi guardare in quel modo, dai! Va bene, tre capitoli di tesi. E ho un Final Fantasy da finire. Solo perché devo renderlo a Virginia.

- La vostra vita familiare sarà una delizia. Non mangerete niente, ma vi divertirete un sacco.

Aidan fece una faccia strana e Amir intuì che involontariamente l'aveva urtato.

- Ho detto qualcosa che non dovevo?

- No, figurati. No, è che... Non so mica cosa vogliamo fare, io e lei.

- È un modo per dirmi che siete in crisi?

- No. Noi stiamo proprio bene. Sono io che sono in crisi. Non penso mi sia mai seriamente piaciuto qualcuno così tanto come lei in tutta la mia vita.

- Fatico a capire perché questo ti metta in crisi.

- Perché ho sempre pensato che non avrei mai davvero dovuto pensare di stabilirmi con qualcuno, perché, dai, andiamo, mi hai visto? Hai visto lo stato della mia camera?

- Ci dormite in tre.

- Sì, lo so. Il fatto è un altro. Non ho voglia di pensare a organizzare le cose in maniera seria. Però, sai, se vuoi fare qualcosa della tua vita, e questo qualcosa include anche un'altra persona... Non è che posso sperare che Virginia diventi un genio dell'informatica, o venga assunta dalla BBC perché è la migliore del suo corso di sceneggiatura, e così potrà mantenermi mentre io cazzeggio.

- No. Decisamente no. Però tu lavori e stai facendo la tesi. E almeno adesso hai un'auto tua, dove i tuoi amici non fanno cose orribili come quando avevate quel rottame condiviso. Secondo me sei molto più organizzato di quello che ti piace pensare.

- Non è che mi piace pensare che sono disorganizzato.

- Invece sì. Sei abituato a pensarlo.

- Va bene, basta psicanalisi per oggi, eh? Dai, ci siamo quasi.

La pietra misteriosa era lì dietro la sua grata, in un luogo tutto sommato banale e senza particolari attrattive. Amir tentò di pensare alle sensazioni che gli davano i posti speciali, segnati da eventi o sentimenti particolari. Niente, lì non c'era niente. Niente di diverso dal resto della città, almeno per lui. Certo, poteva darsi che ultimamente la sua percezione della città fosse variata. Magari si era così abituato a sentire le cose più nascoste, che ormai gli erano diventate normali.

- Come cavolo si fa a capire se c'è qualcosa di invisibile che non funziona in un posto?- Gli chiese Aidan.

- Dipende dall'occasione. Nemmeno io mi accorgo subito delle cose invisibili. Il più delle volte sono loro che si fanno vedere, o te ne fanno accorgere. Di solito quando è già tardi.

Aidan rise e posò una mano sulla spalla di Amir, spingendolo a prendere la direzione della fermata della metro, non distante.

- Andiamo al British, allora?

- Potremmo farci un giro. Magari il nostro problema invisibile si farà vivo lì. E forse capiremo qualcosa riguardo al “fiore nell'ombra”.

Quando furono a bordo della metro Aidan recuperò una cartina che avevano preso da un espositore alla stazione, una di quelle tipiche offerte gratuitamente ai turisti. La studiò per qualche momento, prima di accartocciarsela in tasca.

- Sei sicuro che non dovremmo chiedere aiuto a Nevan? Tu sai come fare a contattarlo, no?- Amir scosse la testa. - Ma come no?

- No, e questo mi sconcerta. Insomma, l'ha trovato persino Joel.

Aidan fu sbigottito dalla rivelazione.

- Joel Bennett è andato a cercare Nevan? Come, quando e perché?

- Non so come. L'ha fatto lo scorso aprile. Quando non stavo bene. Era preoccupato per me.

- Cavolo, tutti quelli che ti conoscono erano preoccupati per te!- Gli rivelò Aidan. - All'improvviso eri diventato cupo e apatico. E non ho mai capito cosa ti fosse successo. Joel ti ha portato a Gerusalemme a quel convegno, e quando sei tornato eri più o meno normale.

- Ho solo vissuto una brutta esperienza.

- Eh, sì, grazie al... Quello l'avevano capito tutti. Però, sai, uno vorrebbe sapere. Cioè, no, io farei anche a meno di sapere e mi piacerebbe fregarmene, visto che ora stai bene, ma non è giusto.

Amir rise. La sincerità di Aidan smuoveva sempre le situazioni più complicate. E gli doveva altrettanta sincerità, adesso.

- Sono entrato per sbaglio in un posto che non sapevo gestire.

- Troppo infestato anche per te?

- Qualcosa di simile. È un posto in cui sono successe cose terribili. C'è lo spirito di una maga che operava riti per augurare la morte alle persone. E poi c'è il fantasma di un assassino e violentatore, e quello di una sua vittima. I primi due mi hanno inseguito e mi hanno mandato in confusione. Poi ho incontrato il terzo, la vittima, e volevo aiutarlo, portarlo via. Così mi sono lasciato possedere. Per poco, il tempo di correre fuori da lì. Ma aveva addosso un secolo di paura e si ricordava solo quello che gli era successo prima di morire. Non sono riuscito a togliermi dalla testa i suoi ricordi.

- Cazzo, ci credo che eri di fuori.

- Forse se avessi avuto più esperienza me la sarei cavata meglio. Ma non mi aspettavo una cosa del genere. Non avevo mai lasciato che uno spirito entrasse proprio dentro di me, nemmeno per poco tempo. Ho passato settimane a svegliarmi convinto di essere quella persona, e mi ci voleva un po' per tornare a capire chi fossi davvero.

- Perché non ne hai parlato con noi?

- Perché era la cosa più difficile da raccontare che mi fosse mai successa.

Aidan abbandonò il discorso e lo seguì tra le sale del British Museum, dove, ovviamente, non c'era niente di strano. Smisero di parlare di cose troppo serie per il resto della giornata. Verso le cinque del pomeriggio si separarono alla stazione della metro dove dovevano prendere treni diversi per tornare a casa.

- Amir, grazie di avermi raccontato quello che ti era successo.

- Hai ragione. Te lo dovevo. Beh, se ti viene in mente qualcosa riguardo “A Sud-Ovest c'è un fiore nell'ombra”, sentiamoci.

Aidan sparì sul suo treno e Amir si incamminò verso quello che lo avrebbe ricondotto verso Haven Crescent, quando ebbe l'illuminazione. Ovviamente, l'ultimo era l'indovinello più semplice. Pensò di chiamare Aidan e comunicargli la scoperta, oppure addirittura di chiedergli di seguirlo, ma poi decise che poteva cavarsela da solo, e che di sicuro non avrebbe trovato niente di strano proprio lì. O meglio, avrebbe trovato un sacco di cose strane, com'era nella natura del luogo. Prese un altro treno, che lo portò a Sud-Ovest, nel distretto di Wandsworth, dove all'ombra di una foresta di edifici più alti si trovava il Sunflower. Che era il solito di sempre, naturalmente.

Potrei entrare e chiedere a Stella o agli altri se hanno qualche idea su questo messaggio.

A tre passi dalla porta secondaria, il piede destro affondò in qualcosa che solitamente non c'era. Una specie di pozzanghera che sembrava non avere fine. Furioso per non aver saputo evitare quella trappola, mentre scivolava afferrò il telefono e cercò il primo numero delle chiamate rapide. Nessuna risposta. Ebbe un secondo per lanciare il telefono sul marciapiede, poi ogni sensazione si spense. Rimase solo il suono di una risata che, per essere crudele, aveva una sua bizzarra gentilezza.

 

 

II

 

Glasgow, 12 agosto 2009

 

La libreria era di dimensioni modeste e gremita, ma tutto sommato era un luogo piacevole. Evan, James e Clyde erano da qualche parte, Joel non se ne preoccupava. Stava immerso nella suo stato mentale preferito, distante dai pensieri. Quando uscirono erano le sette e mezzo passate e Joel era l'unico che aveva con sé una busta con alcuni acquisti.

- Non puoi proprio fare a meno di comprare libri, eh?- Commentò Evan.

- Sono per il ragazzo.- Rispose Joel, distrattamente. Gli altri ridacchiarono e lo riportarono alla triste realtà di essere in compagnia di persone prosaiche e non inclini alle sottigliezze della vita e dei sentimenti.

- Senti, Joel, noi ci abbiamo pensato parecchio, e siamo arrivati a una conclusione.- Gli annunciò James, finto-serio, in quella maniera che Joel non aveva mai sopportato.

- Ovvero?- Chiese lui, sperando che l'argomento fosse virato dai libri (e il loro destinatario) a qualcosa di meno personale.

- Ovvero, questo ragazzo che ti tieni in casa può essere solo due cose: il tuo amante o un figlio illegittimo di Arthur Headley.

Vana speranza di uscire incolume dalla cosa, quindi.

- Siete degli idioti.- Rispose Joel, gentile, ignorando altre risate.

Il problema è proprio questo. Se fosse il mio amante o un figlio illegittimo di Arthur, almeno avrei un nome da dare al suo ruolo nella mia casa e nella mia vita. Ma non è così semplice.

 

Più tardi, nella camera dell'hotel in centro, Joel si domandò se fosse il caso di telefonare ad Amir, per accertarsi che andasse tutto bene. Poi però decise di no. Non era il caso. Del resto, Amir non era suo figlio (o il suo amante o un figlio illegittimo di Arthur.)

Rientrò nella sua stanza che erano le undici passate e accese il telefono. Un messaggio del gestore telefonico lo avvisò che Amir aveva tentato di contattarlo. Lo richiamò, ma non rispose nessuno, né al cellulare né in casa. Joel avvertì un'ondata di preoccupazione, della quale si irritò subito.

Amir fa anche delle cose normali, da ragazzo normale. Esce la sera, tentò di dirsi. Ha i suoi amici. Magari è la volta buona che è riuscito ad avere un appuntamento con qualcuno.

Dieci secondi dopo quel pensiero rassicurante, il telefono squillò.

- Joel, buonasera, cioè buonanotte, mi scusi per l'ora. Sono Aidan. Lei mica ha sentito Amir?

- No. Ho provato a chiamarlo, ma non risponde. Ho trovato una sua telefonata attorno alle cinque e mezza del pomeriggio. Perché?

- Oh, cavolo. No, è che oggi siamo stati in giro per la città, risolvendo una specie di caccia al tesoro. Poi ci siamo separati, e io ho capito l'ultimo indizio, ma non riuscivo a contattare Amir per dirglielo. Così sono andato al Sunflower. Lì per terra c'era il telefono di Amir. Ho pensato che l'avesse perso, e sono andato a casa vostra per renderglielo, ma lui non c'era. Sono andato per i fatti miei, non mi volevo allarmare, ma ora forse è il caso di allarmarsi, eh? Ho provato a chiamare gli altri del nostro gruppo e nessuno sa dove sia. Lo so che è adulto e maturo, ma oggi abbiamo fatto questo giro, e ho paura che ci fosse qualcosa di strano dietro, e che si sia messo nei guai, tanto per cambiare, e di sicuro lei non ha capito una parola di tutte quelle che ho detto, mi dispiace.

- Ha pensato di chiedere aiuto al teatro? Dovresti cercare Stella.

- Chi diavolo è Stella?
- Un... Drago? È Amir che la chiama così. È tutto quello che so.

- Senta, il fatto è che sono qui con sua nipote. Pensa che sia una buona idea, dire tutto a Virginia?

- Se può servire ad aiutare Amir, allora sì, dille tutto.

 

*

 

Londra, un luogo sconosciuto, ore 23,19

 

Era rinchiuso nel ripostiglio di un posto umido e probabilmente sottoterra, vista l'atmosfera ovattata che lo avvolgeva. Non gli arrivavano rumori né sensazioni, a parte l'umidità che penetrava dalle mura nei suoi vestiti e nelle sue ossa. Aveva tentato di scassinare la porta, ma senza successo. Quante ore erano passate? Chi lo aveva portato lì?

La soluzione gli arrivò quando si degnarono di aprire la porta. Ad accoglierlo c'erano una donna magra e una ragazzina bionda. Un uomo con gli occhiali e un vecchio scheletrico con una cicatrice sul labbro lo trascinarono fuori. Li conosceva tutti.

- L'Ordine del Riposo.

Poi arrivò il resto dell'Ordine: un'altra giovane donna, un ragazzino con i capelli rossi e infine Margaret Melier, la donna acida e severa che una volta si era finta il capo di una compagnia teatrale per entrare nel Sunflower e cercare di distruggere violentemente i suoi abitanti non-vivi.

- Ci rivediamo.- Lo salutò Margaret. - Come vedi, ho nuovi adepti per l'Ordine. E nuovi metodi.

- Come mi avete portato qui?

- Con una polvere e un rito che vengono da una regione remota del Nepal. Lo sai, siamo esperti di magie e riti di mezzo mondo. Per essere uno che vuole mischiarsi al sovrannaturale, sei incredibilmente indifeso.

- Quel messaggio l'avete lasciato voi?

- Certo. Non ci aspettavamo che risolvessi gli enigmi così in fretta, però. Abbiamo dovuto accelerare i nostri piani. Per fortuna il portale di fronte al teatro era programmato per attivarsi solo dopo che tu fossi stato in tutti gli altri luoghi. Era importante che tu ci andassi, sai.

- Mi avete mandato in quei luoghi non perché c'era qualcosa, ma perché io ci portassi qualcosa, giusto?- Indovinò lui. Aveva avuto tempo per rifletterci, durante le ore precedenti.

Margaret fece una faccia stupita e compiaciuta.

- Peccato averti come avversario: sei perspicace. Abbiamo tracciato dei simboli rituali in ciascuno di quei luoghi, ma avevamo bisogno di una scintilla per attivare l'incantesimo. Quale scintilla è più poente della presenza del miglior esorcista di Londra?

- Non sono un esorcista. Io ascolto i fantasmi.

- Chiamati come vuoi: in ogni caso hai fatto partire il Rito dell'Abbattimento. Abbiamo scelto una serie di luoghi significativi della città. Luoghi storici, pieni di credenze, oppure abitati da una bella quantità dei tuoi amici non-vivi. Credo tu lo sappia: i luoghi speciali sono potenti. Abbiamo creato un incantesimo capace di abbassare le difese della città. Londra ha un'anima combattiva, ci tiene a proteggere i suoi fantasmi. Ma con questo Rito siamo riusciti ad addormentarla almeno per un po'. Beh... Ci sei riuscito tu.

Amir avvertì il calore della rabbia che si diffondeva nel suo corpo e tra i pensieri, e la sua mente si riempì di immagini infuocate in cui gettava le mani attorno al collo di Margaret e stringeva.

- Ora però manca l'ultima parte.- La donna gli indicò il pavimento: c'erano dei disegni tracciati con un gesso blu, sotto i suoi piedi. - Ti chiederemo gentilmente di inginocchiarti e posare le mani su quei segni. Siccome tu rifiuterai, ti faremo male. Immagino che persisterai nel rifiutarti, e quindi noi ti ricatteremo con una motivazione che ti svelerò a tempo debito. E tu allora obbedirai. Quindi ti conviene risparmiare un sacco di fatica a te e a noi, e obbedire subito.

Amir cercò di studiare i simboli, ma gli erano totalmente ignoti.

Se esco vivo da qui, devo farmi fare qualche lezione di magia da Angela e Vivien.

- Che cosa farò, se poserò le mani su quei segni? Se sono costretto a obbedire, tanto vale dirmelo.

- E privarmi del piacere di vedere la tua faccia quando avrai modo di scoprirne gli effetti da solo?

Il viso serio di Margaret era segnato dalla stanchezza, ma gli occhi scuri erano vivi di una luce esaltata. Le mani di lei, percorse da un tremito nervoso, erano strette attorno a un nastro che pendeva dal suo semplice vestito rosso. Il suo sguardo eccitato continuava a sposarsi da Amir ai segni sul pavimento. Attorno a lei, i seguaci ascoltavano in silenzio riverente, inespressivi, a parte il ragazzo rossiccio che sorrideva, e la donna magra: lei aveva gli occhi fissi su Amir e un'aria che sembrava quasi dispiaciuta.

- Non ho intenzione di fare proprio niente.- Disse Amir, sperando in un'idea, una soluzione fattibile che gli venisse in mente in fretta. Poteva prendere un po' di tempo, negando.

Simon, l'uomo con gli occhiali, si mosse fulmineamente e gli sferrò un colpo allo stomaco, costringendolo a piegarsi in avanti, a corto d'aria.

- Te l'avevo detto.- Commentò Margaret. - Abbiamo intenzione di farti male e di ricattarti. Prima o poi ci obbedirai.

Amir ascoltava le parole e percorreva con lo sguardo i segni, con la foga di quando ci si incaponisce su un gioco di enigmistica e non si riesce a vederne la soluzione.

- Allora?- Incalzò Margaret.

- Fottetevi.- Rispose Amir, usando quel termine probabilmente per la terza volta in vita sua.

- Prevedibile.- Commentò Margaret.

Il vecchio scheletrico gli immobilizzò le braccia e Simon gli si scagliò contro.

 

*

 

Sunflower, ore 23,27

 

La sagoma slavata del teatro infossato tra gli altri edifici era appena distinguibile. A Virginia non era mai piaciuto granché, almeno all'esterno. Scesero dall'auto di Aidan (che fu abbandonata in divieto di sosta e con uno sportello aperto) e lui la prese per mano, trascinandola davanti al Sunflower. La testa di Virginia era ancora piena di tutte le parole che Aidan aveva vomitato fuori nella corsa in auto, cose sui fantasmi e su Amir, cose che se le fossero state dette da chiunque altro alla luce del sole l'avrebbero fatta ridere e rispondere con un amichevole vaffanculo e un'alzata di spalle.

- Stella!- Chiamò Aidan, di fronte alla porta del teatro. - Stella, siamo noi. Cioè, immagino che tu lo sappia. Siamo gli amici di Amir. E siccome anche voi siete gli amici di Amir, mi devi dire se si è messo nei guai. Perché io penso di sì. Ti prego!

Virginia gli stringeva la mano, chiedendosi se la stesse prendendo in giro, o se fosse convinto davvero di quel che faceva.

- Stella, ti prego. Per favore, rispondimi. Uno di voi, mi risponda, cazzo! Non è normale che lui sia sparito così. Gli è successo per forza qualcosa, e siccome quando si mette nei casini di solito è per aiutare voi, ora dovete aiutare lui!

Il teatro, la porta, l'universo rimasero muti.

 

*

 

Un luogo sconosciuto, ore 23,34

 

Il pavimento era malridotto e umido come tutto il resto, ma quello era l'ultimo dei suoi problemi: il primo dei suoi problemi era una costola messa male, e in posizione piuttosto alta nella classifica dei suoi problemi c'erano il labbro spaccato che continuava a sanguinare, una quantità di parti del corpo doloranti e l'incapacità di alzarsi in piedi.

- Va bene. Basta così.- Margaret si voltò verso le donne alla sua sinistra e fece loro un cenno. - Come previsto, sei molto meno preoccupato per te stesso che per tutti gli altri, quindi...

La più giovane delle tre si avvicinò a una porticina alle spalle di Margaret e la aprì: dentro c'erano creaturine pallidissime, quasi trasparenti, accoccolate per terra e strette l'una con l'altra, i lineamenti che quasi si confondevano tra sé. Erano imprigionate in una serie di simboli rossi disegnati a terra.

- Questa è un'ex-scuola elementare, abbandonata nel 1927 dopo un incendio dove ci furono quindici vittime.- Spiegò Margaret. - Abbiamo scelto questo posto proprio perché sapevamo che sarebbe stato funzionale alla nostra necessità di ricattarti. Attiva l'incantesimo oppure le distruggiamo immediatamente.

 

*

 

Sunflower, ore 23,36

 

Aidan aveva smesso di gridare e guardava la porta con rabbia. Virginia continuava a stringere forte la mano di Aidan e a domandarsi quanto sarebbe durato quel momento assurdo e penoso.

E poi di fronte a loro, appoggiata alla porta con nonchalance e un'aria un po' seccata, comparve una donna. Alta, con le spalle larghe, poco seno e una cascata di riccioli neri, con indosso solo una specie di vestaglia nera abbassata sulle spalle, e una sigaretta tra le dita lunghe. Ma era una donna? O era un uomo?

- Quanta confusione.- Disse il nuovo arrivato, con una voce dal timbro profondo.

- Qualcuno si è degnato di rispondere!- Gridò Aidan.

- Oh Dio.- Virginia gli strinse la mano con tutta la sua forza. - Cazzo. È tutto vero.

 

*

 

Un luogo sconosciuto, ore 23,37

 

Mettere le mani su quei simboli significava di certo attivare qualche rito che avrebbe fatto del male alla città. Quello era chiaro. Ma lasciare che le bambine venissero distrutte così... Uno spirito che veniva polverizzato senza la possibilità di risolvere i propri conflitti lasciava sulla terra una traccia arrabbiata e triste. E se lo spettro era davvero confuso, a volte non raggiungeva il riposo, ma rimaneva sulla terra in una forma più impercettibile di fantasma, quasi impossibile da ritrovare e da liberare. Non poteva condannare le bambine a una cosa del genere.

- Dammi un momento.- Mormorò, parlando a fatica, con la bocca piena di sangue.

- Stai venendo a patti con la tua coscienza?

- Tanto sarò costretto ad aiutarti, no? Lasciami pensare un attimo.

Margaret fece una risatina quieta.

- Tre minuti, non di più. Pensa, decidi e prenditi una responsabilità.

Lui fissò gli occhi sui segni a terra. La rabbia che gli bruciava i pensieri aumentò, annebbiandogli la capacità di ragionare. La sensazione del tempo che finiva, la sentiva tutta nello stomaco, e nel respiro sempre più faticoso.

 

*

 

Sunflower, ore 23,39

 

- Così l'avete perso.

- Non l'abbiamo perso! Non è un bambino di tre anni da tenere sott'occhio ogni minuto. È adulto e può fare quel che cazzo gli pare!

- Però non sapete dov'è.

- Beh...

- Quindi l'avete perso.

Aidan imprecò e smise di discutere con la persona che aveva chiamato Stella, che sorrise, fece un'alzata di sopracciglia e spense la sigaretta contro il portone del teatro.

- Allora, mettiamola così: io posso trovarlo, ma questo comporterà diversi problemi. Dislivelli negli equilibri del mondo. Non dovrei farlo. Ma lo farò, per lui. Poi ci sarà un proliferare di fantasmi impazziti e creature problematiche che scorrazzeranno per la città, nei prossimi tre mesi.- Sospirò e spostò lo sguardo su Virginia. - E tu hai appena scoperto tutto quanto, eh? Benvenuta. Bene, ora datemi il tempo di trovarlo.

- Vogliamo venire con te.- Disse Virginia. - Non possiamo aspettare qui senza fare niente.

- D'accordo. Seguite la luce.

- Quale luce?

E poi Stella non ci fu più: al suo posto comparve uno sbuffo di fumo che emetteva una luminescenza verdastra. Si innalzò verso il cielo e schizzò via, come una cometa impazzita.

- Forza, andiamo!- Aidan la trascinò di nuovo verso la macchina. - Io guido, tu guarda dove sta andando quel coso e indicami la strada!

L'auto partì con un sobbalzo. Virginia sporse la testa fuori dal finestrino, gli occhi fissi sulla luce sfuggevole che saettava sulle loro teste, sopra i tetti della città.

 

*

 

Ore 23,40

 

- I tre minuti sono passati.- La voce di Margaret Melier lo costrinse a fronteggiare il fatto che ancora non aveva pensato a una soluzione.

- Come sei finito qui?

- Cosa?

- Ho detto che i tre minuti sono passati.

- Lo so. È che...

- Non è lei che parla, stupido. Sono io.

Lui, ancora accoccolato sul pavimento, incapace di rialzarsi, sollevò la testa di scatto, cercando la fonte della voce nella stanza.

- Non puoi vedermi. Il mio corpo non è ancora lì. Ho dei limiti anch'io, sai. Pochi, a dire il vero, ma... Oh, ti prego, non dirmi che non mi riconosci. Con tutta la fatica che ho fatto per raggiungerti, mi merito almeno che tu mi chiami per nome.

- Stella?- Mormorò lui, incerto.

- Con chi stai parlando?- Margaret gli si inginocchiò di fronte. Lui tacque, concentrandosi solo sulla voce nella sua mente.

- Quei segni per terra sono un esorcismo di massa. Con la tua forza, farai fuori tre quarti dei fantasmi di tutta la nazione, e forse persino un po' di quelli irlandesi. E provocherai un paio di terremoti e una quantità di voragini e frane in mezza Europa. La magia dell'Ordine è proprio delicata e gentile, eh?

- Che devo fare?- Pensò lui, continuando a tenere gli occhi fissi su quelli scuri e sospettosi di Margaret.

- Cosa sta succedendo?- Sibilò la donna.

- Se ti tocca, è morta.- Disse Stella, nella mente di Amir. - Adesso tu ti chinerai su quel disegno e ci metterai le mani sopra. Prima, però, cerca di cancellare l'ultimo simbolo, quello che sembra una specie di stellina a otto punte. Stai tranquillo, so cosa ti sto dicendo di fare.

La mano di Margaret si mosse come un fulmine a schiaffeggiare Amir.

- Dimmi cosa succede! Non sarò un'esorcista, ma capisco quando stai facendo qualcosa di strano!

- D'accordo. È morta.- Sospirò la voce di Stella.

- Va bene.- Disse Amir, indicando i segni.

Cercò di indagare lo sguardo di Margaret, per capire se sospettasse che lui aveva trovato un modo per uscire da quella situazione. Lei però si limitò a spostarsi, e così fecero gli altri dell'Ordine: accerchiarono Amir, lasciandolo da solo, a terra, a fronteggiare i simboli. Lui si accucciò ancora di più sul pavimento, e passò con il gomito sulla stellina a otto punte, pregando di averla davvero cancellata, e che nessuno l'avesse visto. Poi posò le mani contro i segni.

- Se sei lì, Stella, ti prego, aiutami!- Gridò mentalmente, mentre avvertiva la scarica di qualcosa di impalpabile e potentissimo che lo attraversava, trasmettendosi dalle sue dita all'incantesimo.

- Ci sono.- Rispose Stella, e questa volta la sentirono tutti. Amir sollevò il viso e se la trovò davanti, solo che non era come se l'aspettava.

Era una creatura altissima e ricoperta di un manto verde, e la sua figura instabile guizzava come una fiamma e si trasformava, un'immagine indefinita e scomposta in una miriade di frammenti, che Amir però sapeva identificare: era un drago. L'anima del Sunflower era sempre stata un drago. Scaglie luccicanti e occhi gelidi. Il cuore del mostro batteva furioso nelle orecchie del ragazzo.

Margaret Melier urlò e Amir per un attimo fu riempito di una gioia feroce.

- Grazie di avermi aperto la porta.- Disse Stella. - A me e a tutti quanti.

- Tutti quanti?- Chiese lui, alzandosi in piedi a fatica. Sarebbe crollato di nuovo, le gambe doloranti non lo reggevano, ma qualcuno lo sorresse. Sentì il tocco strano, freddo e liquido di uno spettro, poi di un altro e un altro ancora. Facce che non conosceva si accalcavano attorno a lui e in ogni angolo della stanza.

Ecco lo spettro di una donna vestita di stracci apparire dietro Margaret. Un bambino in bicicletta. Un uomo vestito da cuoco con un coltello da cucina che gli spuntava dallo stomaco squarciato. Una donna che rideva istericamente. Un ragazzo con la faccia sfregiata. Un uomo completamente nudo tranne che per un paio di calzini. Due adolescenti bionde che si tenevano per mano. Una donna grassa con un ventaglio in una mano e un'accetta nell'altra. Tre uomini con vesti malridotte, che Amir riconobbe: erano gli spettri del penitenziario che aveva incontrato qualche mese prima. Uno di loro – Brendan – gli fece un sorriso e un cenno con la testa.

Poi arrivarono gli abitanti del Sunflower: Edward Headley comparve per primo e si piantò di fronte a Margaret Melier, furibondo e spaventoso. Ecco Emily col suo abito bianco di scena insanguinato, poi i due studenti, l'Uomo Nero, stranamente definito (era un tizio in grigio con un cilindro in testa), infine Hilda. La stanza traboccava di fantasmi: si affacciavano dietro le porte e oltre i mobili, ridevano nelle ombre, gridavano offese all'indirizzo dell'Ordine, si stringevano intorno ad Amir e sussurravano una marea di parole confuse, che però volevano dire una sola cosa: siamo qui per te, siamo il tuo esercito e sono loro che devono avere paura.

- Quel rito avrebbe esorcizzato un bel po' di spettri, se Amir lo avesse compiuto.- Disse Stella. - Ma io gli ho fatto cancellare una runa specifica, e ho cambiato l'esito della magia. Gli ho fatto compiere un incantesimo di Raduno. Ha aperto la porta a tutti i fantasmi di Londra. Non potranno rimanere qui per sempre, certo, ma rimarranno quanto basta per devastare il vostro spregevole Ordine.

E allora Amir ebbe paura: capì che se non li avesse fermati, l'unico a uscire vivo da quel posto sarebbe stato lui. Ma le parole gli si erano seccate in bocca, e una parte di lui lo voleva veramente, voleva che Margaret Melier tacesse per sempre, voleva che quella donna, che aveva ucciso Edward Headley e sua madre, morisse e pagasse per quegli omicidi e per tutte le cose orribili che aveva fatto. Lei, con tutto l'Ordine.

Gli spettri cominciarono a ridere tutti insieme. Il frastuono si conficcava nella mente di Amir, impedendogli di decidere cosa voleva davvero. La folla dei morti aumentava: la stanza stava per esplodere, incapace di contenere tanta energia, tanta vita.

Avanti. Uccideteli. Potrò sempre dire che non ho fatto in tempo a fermarvi.

- Non fate loro del male!- Gli venne fuori una specie di urlo strozzato che andò perso alle mille voci che invadevano lo spazio.

Oppure sì. Fatelo.

- Temo che sarà un po' difficile.- Stella fece un sospiro teatrale e un sorriso crudele.

Io vorrei, vorrei che lo faceste, ma non dovete. Non dobbiamo.

- Stella, non possiamo farlo, non possiamo diventare come loro!- Alla sua implorazione rispose una mossa seccata di sopracciglio.

- Come pensi di risolverla, allora?

- Portateli via.

Che cosa sto dicendo?

- Dove vorresti che li portassimo?- Stella lo incalzava con le parole e con lo sguardo.

- Via da qui. Portateli nei posti che infestate di solito. Fategli vedere casa vostra. Fategli vedere di cosa siete capaci. Terrorizzateli, ma lasciateli vivi. Devono capire che il più disgraziato di voi è migliore di loro!

Ci fu un secondo di silenzio, totale e completo. Poi ritornarono le urla, ma questa volta erano di vittoria e di approvazione nei confronti di quello che il loro comandante aveva ordinato.

Seguì uno degli spettacoli più pazzeschi a cui Amir avesse mai assistito: gli spettri sparivano, chi con una risata, chi facendo l'occhiolino, chi con la faccia seria e concentrata, e portavano con sé i membri dell'Ordine. Vide le tre donne scomparire gridando. Vide Simon trascinato via da un gruppo di bambini. Il vecchio disparve sotto il peso della donna grassa con l'accetta e il ventaglio, che gli si gettò addosso. Uno dopo l'altro, il suo esercito portò via i suoi nemici.

Rimase solo Margaret Melier, circondata dagli abitanti del Sunflower. E Amir capì cosa stava per succedere.

- Edward.

Lo spettro si voltò a guardarlo, ma anche senza vederne il viso Amir sentiva tutto quello che stava provando, lo avvertiva nell'aria e contro la pelle e al centro dello stomaco. Stava lottando con tutto se stesso, il più agitato degli spiriti del Sunflower. Voleva vendicarsi e voleva riconciliarsi con la vita e con la morte. Lo sguardo di sfida di Margaret Melier gli accendeva dentro il conflitto, lo faceva bruciare di dubbio.

- Edward, lasciala stare.- Amir fece un passo avanti. La tempesta di Edward gli si trasmetteva dentro e faceva male. - Lo so, cosa vorresti fare. So che puoi. Ma non è...

- Non è quello che facciamo noi, certo,- Lo interruppe Edward, beffardo. - Lo so. Noi stiamo dalla parte dell'equilibrio. Rispettiamo i vivi e i morti. E ci lasciamo ammazzare. Lo so benissimo.

- Se la uccidi adesso...

- Me ne andrò nella gloria della vendetta.- Sorrise, mostrando i denti e la rabbia. - Oppure mi condannerò a restare qui per un altro millennio, a scontare questo crimine. Che dici, esorcista prodigio: riusciresti a mandarmi via, se mi vendicassi?

La tempesta ardeva. L'universo ardeva. Un falò di possibilità spezzate e di rabbia tanto giusta.

- Non ti sto dicendo di non farlo perché sono un esorcista, Edward. Tu sei mio amico. E stai per fare un'idiozia. Non voglio che tu lo faccia. Sei una brava persona. Ti sei preso cura di me. Mi hai raccontato le storie del teatro. Forse pensi di essere un fallimento, ma non è vero. Hai fatto del tuo meglio nella condizione in cui sei, e non voglio che nella tua storia ci sia un omicidio. È una buona storia. Non voglio che finisca così.

Ci fu un picco di calore, nell'aria e dentro Edward, e di riflesso dentro Amir. Poi la tempesta si risolse in un refolo d'aria, improvvisamente chiarissima e leggera.

- Oh, Amir.- Edward diede le spalle alla donna e scomparve. Riapparve vicinissimo ad Amir e gli posò una mano ghiacciata sulle labbra, che ancora bruciavano per il taglio. - Tu non stai mai attento a quello che dici.

Amir avrebbe potuto ringraziarlo per averlo in qualche modo curato, o ripetergli che ci teneva a lui e che non voleva vederlo commettere un errore. Ma non lo fece, perché avvertì una sensazione inconfondibile, la consapevolezza violenta di ciò che stava per succedere.

- No, ti prego, no. Edward, no, non andartene. Perché? Perché ora?

Edward rise e abbassò lo sguardo.

- Ho vinto, no? L'assassina mia e di mia madre è qui davanti a me. Sconfitta. E io ho rinunciato alla vendetta. È un buon modo per concludere la mia storia. Hai detto tu che è una buona storia.

- Sì.- Amir ingoiò le lacrime, desiderando riprendersi tutte le parole che aveva detto. - È una buona storia, Edward. Benedict. Come preferisci essere chiamato. E io la racconterò a tutti quelli che verranno dopo di me.- Cominciò a piangere, mentre la certezza di quel che sarebbe avvenuto cominciò a farsi reale.

- Spero che esista un universo in cui proteggiamo la città insieme, da vivi. E magari un universo in cui accetti un mio invito a uscire. Da questa parte è andata così. Ma non è andata male, credo. Grazie di tutto.

Amir lo guardò per l'ultima volta: un giovane uomo alto, con un bel viso, i capelli scuri e lunghi raccolti in una coda, gli occhi neri, un sorriso amichevole, l'impressione di un animo amabile, l'abitudine a infrangere gli spazi personali degli altri, una folla di segreti dietro gli occhi gentili. Tese la mano per farsi toccare, ma non ci riuscì: Edward Headley gli aveva già detto tutto ciò che c'era da dire, e da quell'istante non fece più parte del mondo di qua.

Rimanevano Emily in lacrime e gli altri spiriti, silenziosi come statue, più freddi e spenti di sempre.

- Tornate a casa.- Intimò Stella, adesso in forma umana, appena visibile sotto il manto verde. E loro obbedirono a quella madre pazza e temibile, ma così rassicurante. Uno dopo l'altro sparirono, lasciando la stanza vuota e Margaret Melier, immobile tra Amir e Stella.

- Andiamo a casa anche noi.- Mormorò lui, intuendo il finale che quella notte rischiava di avere.

- Mi dispiace. Io devo proteggere i miei investimenti.- Rispose il drago, prima di ruggire e premere una mano artigliata contro la schiena della donna. Margaret Melier lanciò un urlo orribile e crollò a terra con una serie di piccoli gemiti d'agonia strazianti, mentre gli artigli della mano di Stella le attraversavano carne e ossa, fino a sporgere dal petto. Si ritrassero, gocciolanti di sangue. Il corpo di Margaret si mosse in una convulsione, poi rimase immobile, con il petto completamente devastato, carne squarciata e frammenti di ossa disseminati sul pavimento.

- Ora possiamo andare a casa.- Stella gli tese la mano insanguinata e lui si scostò con violenza. - È guerra, Amir. Non mostrarmi quell'aria disgustata.

- Non era necessario!

- Per te. Ma non tutti ragionano come te. Lei voleva fare del male alla mia gente e al mio custode.

- C'erano altri modi. Non è così che facciamo noi.

- A chi ti riferisci, con quel noi, esattamente? A te e ai tuoi amici?- Un'ira fredda e tagliente irradiava da Stella. Si avvicinò a grandi passi, spingendo Amir contro la parete, finché lui non ebbe via d'uscita. - Chiedi a Vivien cos'è successo a Nancy, l'ex-domestica di Bennett, quella che non ha voluto il tuo aiuto per andarsene. Chiedile che fine fanno gli spettri temibili che si aggirano intorno a te, e poi spariscono. Chiedile di Julien Green, l'uomo con la sigaretta che non si consuma.

- Cosa vuoi dire?

- Vivien Headley usa gli stessi metodi dell'Ordine per distruggere tutti i fantasmi che tu non riesci a liberare, o quelli che ti minacciano. È guerra, te l'ho detto, e la tua sensibilità ti rende indifeso.

- E a te sta bene che Vivien faccia questo?

- No, certo che no. Ma capisco perché lo fa. Se voglio che la mia gente e il mio teatro vivano in pace, se voglio che tu, il mio custode, sia al sicuro, devo sporcarmi le mani.- Tacque e trasse un lungo respiro, come per calmarsi. - Devi tornare nei luoghi in cui sei stato stamani, e disattivare il loro incantesimo di indebolimento delle difese magiche cittadine. Trova le rune disegnate dall'Ordine e cancellale.

- Va bene. Tu però devi dirmi cos'è successo agli altri membri dell'Ordine.

Stella fece una risata esasperata.

- Non sono morti, non preoccuparti. Gli spiriti fanno tutto ciò che tu dici. Li spaventeranno, poi li lasceranno andare. È la gente che ha ammazzato Edward e sua madre, la gente che ti ha picchiato e ti ha ricattato, cercando di farti compiere un sacrilegio. Ma tu li vuoi salvare, quindi nessuno farà loro del male.

- Dove siamo? In che parte della città? Fammi tornare a casa!

- Ci sono i tuoi amici Aidan e Virginia, qui fuori. Fatti riaccompagnare da loro. Loro almeno sono buoni, anche se non sono in grado di proteggerti.

Poi Stella scomparve e lui fu costretto a trovare da solo la via per uscire, zoppicando al buio lungo rampe di scale infinite, immaginando artigli insanguinati dietro tutte le ombre.

 

 

III

 

Le uniche cose che Amir avrebbe ricordato con chiarezza delle ore che seguirono lo scontro sarebbero state la spalla di Virginia, su cui aveva poggiato la testa, il fazzoletto bagnato che la ragazza gli teneva premuto sul labbro inferiore e la guida schizzata di Aidan, che lo portava da un posto all'altro della città, a caccia di rune.

Cancellare i segni al British e al Sunflower fu abbastanza semplice. Quelli al Tower Bridge erano esattamente dal lato opposto rispetto a quello dal quale erano partiti loro: li trovarono subito, ma intanto si erano fatti tutto il ponte a piedi. I segni alla Pietra di Londra erano nascosti sotto un sasso microscopico, davanti ai loro occhi. Solo che ci volle un'ora perché a Virginia venisse in mente di sollevarlo. Southwark poi fu quasi impossibile: trovarono le rune dopo aver fatto tre giri intorno alla cattedrale. Le cancellarono mentre il cielo si riempiva del sole delle sei e mezzo. Poi si accoccolarono su una delle panchine fuori dalla chiesa e si appoggiarono gli uni agli altri, appisolandosi.

Aidan si svegliò per primo, con un sobbalzo e un'imprecazione.

- Cazzo, ci siamo scordati di Bennett!

Amir spalancò gli occhi, si guardò attorno e ci mise un po' a focalizzare il luogo, le persone e la situazione in cui si trovava.

- Eh?- Biascicò Virginia, aprendo gli occhi.

- Tuo zio. Non gli abbiamo detto che abbiamo ritrovato Amir. Aspetta, gli mando un messaggio. Glui dico di chiamarti più tardi, eh?

Amir annuì, grato. Constatò tristemente che la notte precedente non era stata solo un incubo: gli incubi non ti lasciano con quella quantità di dolori addosso.

- Dovremmo portarti da un medico.- Disse Virginia.

- E cosa gli raccontiamo? Che è stato picchiato da un gruppo di acchiappa-fantasmi fondamentalisti?- Domandò Aidan.

- C'è un dottore fantasma al cimitero di Springmere. È una brava persona.

- Ok.- Aidan si alzò in piedi. - Ci andiamo adesso. Sono le sette. Magari ci prendiamo un caffè.

- Amir potrebbe spiegarci cos'è successo.- Disse Virginia. - Perché intendi spiegarcelo, vero? A me, soprattutto. Pare che mi sia persa un sacco di cose.

- Scusa. Non è che non volevo dirtelo. Ma non sono cose semplici.

Virginia gli diede un abbraccio improvviso (molto leggero e discreto, per la gioia delle sue costole offese.)

- Con calma, se vorrai, mi spiegherai tutto quanto.

- Non scapperai, dopo, vero?

- Stai parlando con qualcuno che aspetta da una vita che un alieno viaggiatore del tempo e dello spazio atterri nel mio giardino con la sua cabina telefonica blu. Avere un amico che vede i fantasmi è molto in alto nella lista delle mie priorità.

 

Al cimitero di Springmere trovarono l'amabile dottor Allen Waymore con i suoi lunghi capelli grigi, intento a chiacchierare con la sua assistente Annie. La donna beveva un cappuccino in un bicchiere di carta e trafficava con un mucchio di cartelle. Quando Amir si fece vedere davanti alla tomba di Waymore tacquero per un istante, poi sorrisero all'unisono.

- Il custode del buon Joel Bennett.- Disse il dottore. - E chi sono i tuoi amici?

- Aidan e Virginia.- Li presentò Amir. - Bentrovati.

- Tu guarda, il tipo carino. Amir.- Lo salutò Annie. - Pensa un po', stavo giusto dicendo ad Allen che mi pentivo di essere rimasta tutta la notte a riordinare cartelle, qui insieme a lui, e che sarei dovuta andare a dormire ore fa. Per fortuna, per destino o per Provvidenza sono rimasta.

- Che ti è capitato?- Chiese il dottore, indicando il labbro ferito del ragazzo.

- Problemi con l'Ordine del Riposo.

Annie lo invitò a sedersi sul bordo della tomba del dottore, poi recuperò un borsone nero e lo aprì, immergendocisi dentro per recuperare bende e disinfettante.

- L'Ordine, eh?- Waymore fece una faccia grave. - Gentaglia. Almeno, è finita bene?

Era finita bene? Amir alzò le spalle e scosse la testa.

- Non so cosa dire. Credo di sì.

Annie gli passò le mani sul viso, con le sopracciglia contratte e le labbra strette.

- Hai beccato qualche pugno, vedo. Oh, il tuo labbro ha ripreso a sanguinare.

- Sulla mia tomba.- Borbottò Allen Waymore, appoggiato alla propria lapide. - Ragazzo, va bene che ti sei fatto picchiare per una buona causa, ma insomma, un po' di rispetto!

- Mi dispiace.

- Ma dai, sto scherzando. È per tirarti su. E poi, sai, non si sa mai: potrebbe essere una benedizione.

- In che modo una macchia del mio sangue sulla sua tomba potrebbe essere una benedizione?

- Il sangue è molto potente, quando si tratta di magia e di patti. Chi lo sa.

Le mani fredde di Annie lo controllarono dappertutto, e alla fine lei gli fece un sorriso sollevato.

- Ti hanno fatto abbastanza male, ma non c'è niente di grave. Sarà solo un po' noioso da sopportare. Ti lascio un antidolorifico. La prossima volta che vedo uno dell'Ordine, lo ammazzo. No, dai, non fare quella faccia allarmata. Sto scherzando.

- È che per oggi ne ho abbastanza, di gente che vorrebbe ammazzare altra gente.

- Scusami. Non lo farei mai, credimi. Senti, Amir, avrai di sicuro un migliaio di amici migliori di me, ma se hai bisogno di qualcosa, io sono qui. E anche Allen.

Amir sorrise e annuì, incapace di esprimere la gratitudine meglio che in quel modo. Lasciarono il cimitero e salirono nuovamente sull'auto di Aidan, questa volta diretti verso la casa di Joel, dove furono colti da un attacco di fame che li portò a svuotare il frigo. Poi si abbandonarono sul divano, dove si addormentarono di nuovo.

 

*

 

I quattro giorni successivi furono molto silenziosi. Amir parlò al telefono con Angela, accennandole qualcosa, senza spingersi nei dettagli. Aspettò il ritorno di Joel e il riprendere dello scorrere regolare della sua vita, ma c'era qualcosa che era tragicamente cambiato, ovvero la scomparsa di Edward.

Alla fine di tutto, oltre lo shock per l'avvenuto e per come si era concluso lo scontro, rimaneva una cosa, semplice e chiarissima: c'era una persona a cui Amir era affezionato che non sarebbe tornata più. E non importava che Edward fosse stato già morto, quando lui l'aveva conosciuto: era una delle prime persone che Amir si era sentito di chiamare amico, a Londra. E se n'era andato senza preavviso.

E poi c'era Stella, che non era un amico né era mai stata una figura limpida nella vita di Amir, ma di sicuro lui non avrebbe mai creduto di vedere lo spirito commettere un omicidio a sangue freddo davanti ai suoi occhi. Ancora più che l'orrore dei ricordi, a fare male era il tradimento di Stella.

Stava pensando a questo per la millesima volta, quando la chiave girò nella serratura, annunciando il ritorno di Joel. Amir lo raggiunse in fretta, sinceramente felice di vederlo.

Più tardi, mentre preparavano la cena, Amir buttò fuori tutte le cose più importanti di quattro giorni prima. Raccontò di Edward Headley, nei dettagli. Raccontò della morte di Margaret (c'era un giornale del giorno prima, su una sedia della cucina, e in un trafiletto si parlava dell'omicidio di un'attrice ritrovata nello scantinato di una scuola abbandonata) e cercò di liberarsi dalle immagini crudeli degli artigli di Stella.

Raccontò tutto, ma non disse nulla delle parole di Stella riguardo a Vivien.

 

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Capitolo 25
*** XXV - La figlia del re ***


Capitolo XXV

La figlia del re

 

Seven stars in the sill water,

And seven in the sky;

Seven sins on the King's Daughter,

Deep in her soul to lie

(Oscar Wilde, The Dole of the King's Daughter)

 

I

 

Londra, 4 settembre 2009

 

- Tu che mi offri un caffè. Insolito.

I capelli di Vivien erano lucenti e le ricadevano in splendide onde sulle belle spalle bianche, appena coperte da uno scialle di velo azzurro. Il sorriso abituale era più gentile del solito, ma il giudizio di Amir su di lei era ormai macchiato.

- Mi dispiace per quello che sto per dire.- Esplose lui, incapace di approcciarsi alla questione in maniera più delicata. - So che che lei sta usando i suoi poteri contro gli spiriti più pericolosi, signorina Vivien. Con i riti dell'Ordine del Riposo.

Per la prima volta in vita sua, Amir fu sicuro di aver sconcertato la donna che gli sedeva di fronte.

- Cosa?

- È la verità?

Lei bevve un sorso, posò la tazza, strinse le labbra e sollevò appena un sopracciglio.

- Cosa vuoi sentirti dire? “Scusami, Amir, mi sono fatta prendere la mano, ma non succederà più”?

- Voglio solo sapere perché.

- Se sei così sciocco da non capire perché, allora abbiamo davvero un custode indegno.

Lui ingoiò la frecciata e tentò di raccogliere le parole, per riunire in una sola frase, intelligente ed efficace, il motivo per cui riteneva sbagliato ciò che faceva Vivien.

- Questa è una guerra.- Vivien interruppe il filo dei suoi pensieri. - Lo è sempre stata. Gli spiriti e i loro amici da una parte. Quelli come l'Ordine o il Ragno dall'altra. Il conflitto è una delle strutture basilari della vita.

- Usare i riti dell'Ordine provoca grossi problemi alla città!- Lui strinse le mani attorno alla tazza, per sfogare la rabbia che lo stava cogliendo, di fronte all'incapacità della donna di capire. - A che serve difendersi da loro, se poi creiamo altri problemi?

- Preferisco che sulla terra resti la traccia di qualche spirito inquieto, piuttosto che vederti morto.

- Ma se ci mettiamo al loro livello, in cosa siamo migliori?

Lei rise.

- Non mi interessa essere migliore, Amir. Mi interessa vincere. Ho già perso troppo, non credi?

E siccome di fronte a quelle parole c'era poco da rispondere, lui non rispose. Vivien finì il caffè, si alzò e lo lasciò solo.

 

 

II

 

14 settembre 2009, ore 20,15

 

- Così sono mesi che vai in giro per la città a distruggere gli spiriti che secondo te sono pericolosi? Con i riti dell'Ordine del Riposo?

- Te l'ha detto Amir?

Angela la fulminò con lo sguardo.

- Non me l'ha detto nessuno. Me ne sono accorta da sola. Lo sospettavo da un po', ma non pensavo che saresti arrivata a tanto. E comunque, perché avrebbe dovuto dirmelo Amir? Glielo hai confidato?

- No. Gliel'hanno rivelato gli spiriti. Mi ha chiesto di incontrarlo, mi ha fatto la morale, tutto compunto e gentile, e mi ha pregato di non farlo più.

- E tu cosa gli hai risposto?

Vivien fece un'alzata di spalle.

- La verità. Non l'ha presa bene. Già prima mi parlava poco, adesso a malapena mi rivolge la parola.

- Prima ti parlava poco perché ti sei sempre divertita a metterlo in imbarazzo.

Vivien sbuffò, abbandonando lo sgabello sul quale stava appollaiata, nel retrobottega di Angela. L'interrogatorio era appena cominciato e già era stanca.

- Voi lo proteggete come se fosse fatto di vetro.

- Sì, beh, tu lo provochi. Gli dici cose che lo imbarazzano e lo metti a disagio con la tua vicinanza.

- Ne ha veramente bisogno, di un po' di vicinanza umana. I contatti fisici maggiori che ha, li ha con gli spettri. Non gli farebbe male, sciogliersi un po'.

Angela scosse la testa. Anche lei abbandonò la sua sedia e si piazzò a gambe incrociate per terra, davanti a una cassa di legno piena di anticaglie. Cominciò a tirarle fuori una per una, scrutandole con attenzione.

- Non puoi permetterti di parlare così. Non conosci tutto della vita del ragazzo, e comunque lui è libero di vivere come preferisce.

- Ma certo, non sto cercando di farmi gli affari suoi. Ma non ho mai avuto molti riguardi per nessuno, lo sai benissimo. Il ragazzo mi fa ridere, quando si imbarazza per una battuta o per uno scherzo.

- Sì, va bene, fai quel che vuoi con il ragazzo. Ma lascia stare gli spettri. Quelli sono il suo dominio, non il tuo.

- Il mio qual è?

Angela si voltò di scatto e le lanciò qualcosa, che Vivien afferrò al volo, un secondo prima che si schiantasse a terra. Era una scatolina di madreperla, con una minuscola toppa nella quale era infilata una chiave di metallo.

- Non ne vedevo da un secolo.- Vivien ci passò sopra le dita, ammirata. - Ne hai trovata una?

- Ne ho trovate tre.

- Dove?

- L'antiquario, Hitoshi. Quello che traffica nella sacrestia del prete di Springmere. Te lo ricordi?

Vivien annuì, ancora conquistata dallo stupore per l'oggetto, la sua fattura perfetta e i ricordi che le risvegliava.

- Ci ho imparato gli incantesimi di protezione di base, con queste. Hanno smesso di produrle, quei coglioni. Non esiste un sistema migliore di questo. Sono lente ad agire e complicate da attivare, ma sono durature come poco altro.

- Quando avrai finito di entusiasmarti, ti darò un compito.

- Include la possibilità di usarne una?

- Sì. Fai un incantesimo protettivo attorno ad Haven Crescent.

- Non ce ne sono già almeno due o tre?

- Ma nessuno fatto con quella. Non può tenere lontani tutti gli spiriti negativi del mondo, ma è meglio di niente.

Vivien sorrise e annuì, infilando l'artefatto in una tasca della sua giacca stretta. La prospettiva di testare la sua magia con quell'oggetto le aveva un po' risollevato l'umore. Fece per uscire dalla stanza, quando la mano di Angela afferrò la sua gonna e la tirò di nuovo dentro.

- Aspetta. Non ho finito.

- Non hai finito di farmi la predica anche tu?

- Vivien, il tuo è un comportamento irresponsabile. Distruggere gli spiriti con i riti dell'Ordine del Riposo non purifica i luoghi.

- Oh, una cosa che non avevo mai sentito dire...

- Noi non ci comportiamo così! Non sono i nostri metodi, questi, non lo sono mai stati!

- Ma con questi metodi non rischieremo di perdere l'ennesimo custode!

Avrebbe dovuto andarsene e basta. Era stufa di dover ripetere quella conversazione con chiunque.

- Essere saggi e previdenti non significa cedere totalmente all'idiozia.- Insisté Angela.

- Essere saggi e previdenti significa non perdere le occasioni per proteggere quello che ci sta a cuore.

- In che modo fare a pezzi Julien Green è stato un modo di proteggere Amir, esattamente?

Vivien esibì il suo miglior sorriso soddisfatto.

- Ah, quello è stato un capolavoro. Tutto si aspettava, fuorché me. Che essere vomitevole. No, non fare quella faccia. Non era neanche un essere umano! Non del tutto, almeno. Lo sai cos'era?

L'altra scosse la testa.

- Immagino fosse una sorta di spirito.

- E invece no. Era un uomo infestato. Viveva in simbiosi con uno spettro nel cervello. Andava avanti da così tanto tempo che ormai i confini si erano confusi, e quei due erano diventati una cosa sola. Pensa che quando l'ho ucciso, lo spettro ha mantenuto attivo il corpo. E Green ovviamente non se n'è andato subito: è rimasto. Uno spettro dentro l'altro. Interessante per la scienza. Avevo quasi pensato di tenerlo.

- Smettila.

- Invece ho esorcizzato tutti e due con uno dei riti più devastanti dell'Ordine. Così ora la stazione della metro di Elephant & Castle è permanentemente segnata dalla presenza fastidiosa di due mostri. Una cosa terribile, eh?

Angela rimase immobile per qualche istante, con una bambola senza testa tra le mani. Poi la lasciò cadere nella cassa con gli altri oggetti e si alzò lentamente, pulendo le mani polverose sulla gonna scura.

- Tu non ti rendi conto, vero?- Chiese, gelida.

- Proprio perché mi rendo conto, faccio tutto questo. Anni che ci occupiamo di magia, e tutto quello che vediamo è il Ragno che acquista adepti e fa quello che vuole, indipendentemente dai nostri sforzi e dai nostri esorcisti. Pensa alla casa che ha mandato il ragazzo fuori di testa, lo scorso aprile. Dal 1929 a oggi, quanti maghi sono andati lì per fare riti di cattiva fortuna e magia nera? Lo sai che era il Ragno, a gestirla?

- Certo che lo so.

- Julien Green è stato per due mandati nella giunta comunale di Londra. Ha fatto quello che voleva, manovrando a suo piacimento un bel numero di persone, grazie ai riti che metteva in atto in quella casa. Green ha un patrimonio immobiliare sterminato in mezza Europa e se l'è acquistato principalmente incasinando le menti dei venditori o capovolgendo le regole dell'urbanistica ai suoi desideri.

- Tu come fai a saperlo?

- Ho indagato. Mi sono avvicinata a persone che...

- Vivien.- Le dita di Angela si serrarono sul suo polso e strinsero, così forte da sorprenderla. - Vivien, ti sei avvicinata al Ragno? Di nuovo?

- Solo per capirli meglio, ed evitare che uccidano qualcun altro di noi, di nuovo.

- Non sono cose da cui si torna indietro, queste.

- Non sono passata al nemico, se è questo che pensi. So che non mi hai mai perdonato una storia che risale ad almeno tredici anni fa, ma...

- Io non ti ho mai perdonata?- La lasciò andare di scatto, voltandole le spalle. Le parole le erano uscite come uno strepito furioso, una cosa così rara per lei, sempre misurata. Vivien godette del potere che aveva di intaccare la pazienza di Angela.

- Non ho voglia di tornare sull'argomento.

- Strano, perché da tredici anni tutto quello che fai e dici è legato a quell'argomento, Vivien!

Non le rispose: reputò di averla agitata abbastanza. Lasciò il negozio e si immerse nella serata tiepida. Non era ancora del tutto buio e le strade erano piene di gente. Vivien prese a camminare con estrema lentezza, osservando i volti e chiedendosi se dietro gli occhi chiari della donna anziana con il cane, dietro la fronte corrucciata del ragazzo con la giacca verde ci fossero segreti – segreti come i suoi.

I segreti l'affascinavano, il modo maldestro in cui la gente li nascondeva, sperando di pigiarli da qualche parte, dentro di sé, senza rendersi conto che venivano fuori da un'altra parte. C'era sempre un modo di cogliere i segreti degli altri.

Lo aveva imparato da piccola. La sua famiglia era stata l'esempio più eclatante: ci avevano provato, Arthur e Candice, a mantenere segreta la magia ai loro bambini, ma come fai a nascondere una cosa che spunta dietro ogni angolo, si affaccia dai cassetti, batte contro le porte chiuse e guizza in una lanterna appesa fuori dalla porta?

Il suo primo fantasma lo aveva visto a sei anni. Un bimbo più piccolo di lei, in braccio a suo padre. Evidentemente aveva sentito la presenza di una bambina e si era fatto vedere. Avevano giocato insieme per un pomeriggio intero, poi il fantasma era svanito davanti ai suoi occhi, e lei era corsa da Candice urlando, mentre Arthur cercava di venderle una spiegazione rassicurante.

Ma non ci potevano essere cose rassicuranti, nella famiglia Headley. La magia, le ombre, erano tutto fuorché rassicuranti. Potevano essere belle, entusiasmanti, piene di significati profondi e momenti di allegria irriverente, eppure rimaneva un mondo confuso e pericoloso, in cui era facile perdersi.

Benedict ci si era perso con gioia, imitando Arthur in tutto e per tutto. Era buffo: suo fratello aveva sempre affermato la propria indipendenza (per esempio, scegliendo di farsi chiamare Edward, per il gusto di sfidare suo padre, che lo chiamava Benedict, e sua madre, che preferiva Percy. La famiglia Headley e i nomi: una storia nonsense dai molti capitoli.) Eppure quando Arthur aveva raccontato la storia delle ombre ai suoi figli, lui aveva subito detto di sì e aveva cominciato a trasformarsi nella copia di suo padre. O così era sembrato a Vivien.

Lei aveva cercato altre strade. Era curiosa, era brillante, era interessata a vedere oltre le parole e l'esempio di Arthur. Tutto il sotto-mondo della città lo acclamava come re, ma lei voleva sapere se esistevano anche altri modi di vivere la magia.

A ventidue anni aveva conosciuto un uomo interessante. Si chiamava Eghan Goldrise e faceva parte di una congrega di amici – così li definiva – che usava il nome di Ragno. L'aveva introdotta ad ambienti della città pieni di persone che traboccavano di segreti. Persone che partecipavano dello stesso mondo di Arthur, eppure non potevano essere più distanti da lui. Era una compagnia strana. L'affascinava e la repelleva allo stesso tempo. La guida di Eghan Goldrise era salda e difficile da abbandonare. Lui, i suoi occhi verdi enigmatici, il fumo della sua pipa e il suo negozio di giocattoli.

Era durata finché Angela non aveva scoperto tutto. Angela, la sua migliore amica storica, la sua quasi sorella adottiva, che aveva finto di ignorare la magia per poi studiarla di nascosto, per non perdere di vista Vivien (perché voleva restarle accanto o perché non si fidava di lei?)

Angela aveva fatto le sue ricerche sul Ragno. Usano la magia per i loro scopi e sfruttano i fantasmi e la loro sofferenza per aumentare i propri poteri!, le aveva gridato contro, e Vivien lo sapeva benissimo e ne era turbata, certo, ma l'idea che Angela si intromettesse nella sua vita era intollerabile. L'idea che Angela volesse riportarla al modo di vivere la magia che insegnava quella persona ingombrante di nome Arthur Headley.

Angela l'aveva stupita, sfidando Eghan Goldrise e vincendogli addirittura il negozio. Una storia incredibile. Lui aveva lasciato Londra. Vivien aveva giurato che avrebbe odiato Angela per il resto della sua vita. Però poi i membri della sua famiglia avevano iniziato a morire uno a uno, e Angela era tutto quel che le era rimasto, ed era stata costretta a tenersela.

Intanto era arrivata ad Haven Crescent, un quartiere luminoso e sereno anche di notte. Vivien rinchiuse i ricordi e si dedicò alla magia, godendo del semplice atto di mettere in pratica il suo potere e le sue conoscenze in maniera competente. La scatolina di madreperla tra le mani, una fila di parole antiche sulle labbra: le strade attorno alla casa di Joel Bennett erano doppiamente protette contro sconosciuti portatori di minacce, adesso.

Aveva già ripreso la via della metro, che l'avrebbe riportata al suo appartamento a Lambeth, quando realizzò che la casa del Ragno, quella che era quasi costata la sanità mentale al ragazzo, era lì a due passi.

Visto che nessun esorcista è in grado di affrontarla, forse è il caso che lo faccia io.

Raggiunse la casa con il cuore che le batteva in gola, metà terrorizzata e metà eccitata da quello che aveva intenzione di fare.

Era una casa come tante, vecchia di un paio di secoli come molte altre lì intorno, e l'unica cosa che la rendeva unica era l'incuria e il fatto che fosse disabitata. Spiccava per la sua solitudine e il suo silenzio, in mezzo al bel quartiere nella zona di Kensington. Vivien si avvicinò e posò le mani sulla ringhiera arrugginita e infestata dal vilucchio che circondava il giardino. Respirò l'aria immobile e il senso di minaccia sospeso nell'aria. Conosceva bene le tracce che atti e pensieri lasciavano attaccate ai posti. Immaginò suo padre che fronteggiava la casa, conscio delle proprie forze e debolezze, e poi immaginò Amir, tanto umile e modesto, che si era fatto prendere da un attacco di superbia proprio davanti alla casa, ed era entrato, convinto di potersela cavare nonostante tutti lo avessero messo in guardia su quel che c'era oltre la porta.

Adesso sarebbe finito tutto.

Si accorse del problema non appena ebbe messo piede nel giardino, dopo aver scavalcato agilmente la ringhiera, nonostante l'impiccio della gonna. Sentì una sfumatura diversa nell'aria. Qualcosa di nuovo, seminato da poco, che emergeva dalle onde malate emesse dalla casa. Era un incantesimo discreto, posato sul suolo del giardino, non troppo forte ma fastidioso. E parlava chiaro.

Un incantesimo di protezione. Qualcuno ha messo delle difese intorno alla casa. Difese contro gli esorcismi e i riti di purificazione. Non posso distruggere gli spettri che abitano questo posto. O meglio, potrei provare, ma mi farei male.

Rimase a fissare la casa, a bocca aperta, maledicendo e ammirando l'operato di quella persona misteriosa che si era premunita contro eventuali tentativi di manomettere l'oscurità che gravava su quel posto.

Non è una magia del Ragno, questa. Troppo gentile. Un tipo di protezione che somiglia tanto al genere di cose che fa Angela. Ma perché l'avrebbe fatto? Proteggere questo posto schifoso, perché?

Lo stupore si mescolò alla rabbia. Lasciò andare una risata, per buttare fuori quel contrasto di sentimenti che le si rigirava nel petto. Era divertita, meravigliata, sinceramente ammirata e furiosa.

Abbandonò il giardino e la quiete ordinata di Haven Crescent, prese la metro e tornò da Angela.

Il negozio era aperto, come sempre, in piena notte. Un tempo lo lasciava aperto per gli spettri, ma erano anni che Angela aveva smesso di vederli. Dalla morte di Arthur. Vivien lo sapeva. Arthur Headley aveva fatto una serie di danni incalcolabili, con la sua vita e con la sua morte. Peccato che nessuno fosse disposto ad ammetterlo.

Entrò sbattendo la porta: stupore e ammirazione erano svaniti, lasciando campo libero alla rabbia. Angela era seduta sul bancone e intrecciava fili di rafia colorati. Lei e le sue magie incomprensibili, i suoi amuleti improbabili e i suoi segreti che nessuno era abbastanza degno da ascoltare!

- Vivien, che hai?

- Tu non sei felice, se non ti intrometti nella mia vita, eh?

- Di cosa mi stai accusando, esattamente?

- Hai protetto la casa. Quella casa. Perché sapevi che io avrei tentato di cancellare quei due spettri con i riti dell'Ordine del Riposo!

Gli occhi di Angela si allargarono, le mani si immobilizzarono e le dita si strinsero convulsamente attorno ai fili colorati. Aprì la bocca con una lentezza esasperante – sarebbe stata comica, quell'espressione, in un altro momento.

- Hai cercato di distruggere quegli spettri? Vivien, sei pazza?

- Qualcuno dovrà pur farlo, prima o poi.

- Ma non tu, e non così! Cosa pensavi di ottenere?

- E tu cosa pensavi di ottenere, quando hai protetto uno dei luoghi più marci di tutta Londra?

La rabbia tinse di rosso il viso di Angela. Lasciò cadere a terra i suoi fili e saltò giù dal bancone, avvicinandosi a Vivien e fermandosi a un soffio da lei, le braccia lungo i fianchi e le mani chiuse attorno alla stoffa della sua gonna.

- Ho protetto quella casa perché me l'ha chiesto Amir. Aveva paura che qualcuno dei superstiti dell'Ordine del Riposto riunisse il gruppo e tentasse di distruggere gli spettri. Sa che sarebbe un disastro, se accadesse. Sa anche che il Ragno la sfrutta per i suoi incantesimi, quindi mi ha chiesto di proteggerla con una magia positiva, che possa danneggiare i riti del Ragno e allo stesso tempo tenga lontani i membri dell'Ordine. E io l'ho fatto, perché è un'idea sensata e intelligente. E mi sarei aspettata di tutto, ma non che proprio tu provassi ad avvicinarti a quel posto!

Vivien zittì tutte le parole che le erano arrivate alle labbra, quelle che avrebbe voluto urlare in faccia all'altra. Un dubbio strisciava tra di esse, e fu l'unica cosa che riuscì a buttare fuori.

- Pensi che Amir ti abbia chiesto questo incantesimo perché temeva l'Ordine o me?

Angela scosse la testa.

- Non lo so. Non mi ha detto nulla di te, è stato corretto. E sai che non è bravo a mentire. Forse temeva tutti e due. E a quanto pare, faceva bene a temervi.

- Certo. Così ora la casa è sempre lì, pronta per essere utilizzata di nuovo come trappola. Prima o poi qualcuno del Ragno ce lo ributterà dentro, e saremo da capo un'altra volta. Ma è libero di vivere con una minaccia così vicina, se vuole.

- Lui vuole diventare abbastanza forte da esorcizzarla nel modo giusto, prima o poi. Me l'ha detto.

- E mentre diventa forte, il Ragno cerca di ucciderlo.

- Sì. E noi lo proteggiamo. Così come deve essere.

Vivien cercò di convogliare tutto il disprezzo di cui era capace in una risata. Passò oltre Angela, premurandosi di urtarla mentre attraversava il vano del negozio, affollato di cose e memorie scomode, e andò a piazzarsi sulla sedia a dondolo in un angolo.

- Come deve essere. Perché tu fai tutte le cose come devono essere, no? Peccato che da quando è morto mio padre tu sia perfettamente inutile. Non vedi più i fantasmi, non parli con gli spiriti, la tua magia è dimezzata e hai paura anche dell'eco della tua voce.

Anche Angela rise.

- Hai ragione. Mi sono lasciata andare, quando Arthur è morto. Ma poi le cose sono cambiate. Un nuovo custode è arrivato, il Sunflower si è riacceso e io ho capito che avevo ancora molto da fare. Non so se te ne sei accorta.

- Risparmiami l'ironia.

- Va bene. Comunque ho ricominciato a vedere i fantasmi e parlare con gli spiriti, sai. Da questa estate. Ci sono molte creature che trovano rifugio nel negozio. Anche adesso.

Vivien si guardò attorno istintivamente, come a cercare le tracce di una miriade di piccoli occhi che non volevano farsi vedere da lei, ma la osservavano nascosti tra i giocattoli e dietro i mobili.

- Insomma, siete tutti molto bravi. Tranne me.- Mormorò, mentre anche le ultime tracce di rabbia la abbandonavano. - Perché non mi hai detto che avevi ricominciato a vedere i fantasmi?

- Perché ogni volta che tento di parlarti della magia e della città tu diventi intrattabile.

Angela sparì nel retrobottega e ricomparve poco dopo con un vassoio con due tazze che posò a terra. Si mise a sedere a gambe incrociate sul pavimento, su un cuscino, e offrì una tazza piena di un succo violaceo a Vivien. Lei accettò quella sorta di offerta di pace – o almeno, decise di interpretarla così.

- Non mi importa come mi considerate.- Disse. Bevve un sorso, si domandò che cosa ci fosse nella bevanda (come sempre, con Angela) e si sentì pervadere da una sensazione nostalgica di casa e di cose che andavano per il verso giusto: lei e la sua amica, nel negozio, a parlare dei loro segreti. - Non ho mai agito per me. Ho usato i riti dell'Ordine del Riposo per proteggere Amir e la città. Potrete non credermi, ma questa è la verità.

- Lo so. E io continuerò a volerti impedire di usarli finché vivo, perché anch'io voglio proteggere Amir e la città. E te. Vorrei proteggere te. Tu però non me lo lasci fare.

- La tua idea di protezione include cacciare da Londra i miei fidanzati.

- Vivien, è successo tredici anni fa, e quell'uomo era un folle, nonché un omicida comprovato. Aveva sterminato mezzo Ragno, per arrivare alla sua posizione di luogotenente.

- D'accordo. Immagino che tu mi abbia fatto un favore. Ma erano affari miei in ogni caso.

- Ho accettato la possibilità del tuo odio, pur di salvarti dal Ragno. Preferisco che tu mi odi, piuttosto che doverti combattere.

Vivian finì la bevanda e posò la tazza, incapace di gestire ciò che quelle ultime parole le avevano acceso dentro. Rimase in silenzio, immaginando schiere di esseri sovrannaturali che scorrazzavano negli angoli bui del negozio.

- Qualche volta penso che sarebbe stato bello se almeno uno di loro fosse rimasto qui, come fantasma.- Riprese poco dopo, inseguendo un pensiero disconnesso da tutti i discorsi che avevano fatto fino a quel momento.

- Un membro della tua famiglia? Beh, l'Ombra di Luna che vagava intorno al Sunflower era il ricordo che il teatro aveva di tua madre.

- Sì, ma non era lei. Le ho parlato: era solo una sorta di riflesso gentile. Non era niente. Non aveva consistenza. Lo so, il mio discorso è egoista: se mio padre o mio fratello fossero rimasti come spettri, sarebbe stata una sconfitta. E io mi sarei sentita malissimo per loro, oppure mi sarei sentita perseguitata. Erano due persone ingombranti. A voi piace molto ricordarne i pregi, ma ero io che ci vivevo insieme. L'entusiasmo di mio padre era soffocante, e l'ironia di Benedict... A volte avevo voglia di lanciargli una maledizione del silenzio e farlo tacere per un mese.

Un sorriso increspò le labbra di Angela.

- Tendiamo tutti a ricordare solo il meglio degli amici morti. Non significa che fossero perfetti.

- La città intera sembra pensarla così. Arthur Headley, il re di Londra.

- Era perfetto per la città, questo sì. Per il suo ruolo di custode del Sunflower. Ma nessuno di noi era così cieco da non vedere le sue esagerazioni, le sue manie e la sua incapacità di vedere quanto tu fossi diversa da Benedict.

Vivien annuì, distratta da un ricordo. Suo fratello che parlava concitato, come suo padre, e le raccontava di un esorcismo strabiliante, della misteriosa luce che proveniva dal retropalco del Sunflower, di come fosse bello lo spirito del teatro stesso, un essere dagli occhi verdi che si faceva chiamare Stella e aveva una voce prodigiosa.

- Benedict sarebbe stato il degno erede di mio padre. Magari sarebbe riuscito a scrollare Joel dalla sua apatia. Non so cosa avrebbe detto di Amir. Probabilmente se ne sarebbe innamorato nel giro di quindici secondi. E si sarebbe divertito a imbarazzarlo, molto più di me. Saremmo stati felici, credo.

- Vivien, il fatto che non siamo potuti essere così felici è ingiusto. Però la nostra storia è andata così. Non possiamo provare a essere felici in qualche altro modo?

La mano di Angela afferrò una delle sue e la tenne prigioniera tra le sue dita, grandi per essere quelle di una donna, e piacevolmente tiepide. Vivian si sentì come fatta di ghiaccio, toccata da una cosa troppo calda. Fu faticoso non sottrarsi alla stretta, o alla risonanza di quelle parole tra i suoi pensieri.

- Forse.- Concesse, alla fine. Si alzò dalla sedia e Angela la imitò. Sorrideva, e Vivien si trovò quasi costretta a sorriderle a sua volta, in maniera onesta. Era così tanto che non le offriva qualcosa di onesto. Fece per allontanarsi, poi tornò indietro e posò le labbra sulla guancia di Angela. - Buonanotte.

Uscì senza aspettare risposta. La notte era chiara, e se si ascoltava bene, si distinguevano le voci delle cose, il mormorio dei morti, il canticchiare costante degli spiriti, il ribollire eterno dei pensieri della città. Vivien camminò per ore, cercando di perdersi, cercando di trattenere per sé solamente il ricordo di quei momenti nel negozio di Angela, cercando di dimenticare le ultime parole che Julien Green le aveva lasciato, prima che lo uccidesse.

Ora sei una maledizione vivente. Puoi tenerlo nascosto, puoi anche lottare e impedirti di fare male alla città. Ma alla tua morte, avvelenerai la città irrimediabilmente, e nemmeno il vostro esorcista prodigio o la tua amica maga potranno fare niente per purificare la tua macchia.









***

Grazie di essere qui.

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Capitolo 26
*** XXVI - Storie che devono essere ascoltate ***


Capitolo XXVI

Storie che devono essere ascoltate

 

Well, we all write our own endings

And we all have our own scars

But tonight I think I see what it's all about

(Vienna Teng, Homecoming)

 

I

 

6 dicembre 2009, ore 20,45

 

- Io non l'ho mai voluto, questo teatro.

Amir sollevò gli occhi dalla cassetta di lampadine che aveva di fronte e guardò in viso la giovane con i vestiti bruciati. Era sorpreso: Hilda non gli rivolgeva praticamente mai la parola, se non per fare qualche raro commento seccato su tutto e tutti. Ora però gli sorrideva in maniera insolitamente dolce. A voler essere onesti, era cambiata da quando Edward se n'era andato. Erano cambiati tutti, un po' perché erano tristi, un po' perché sembravano preoccupati per Amir. Si sforzavano di riempire il teatro di pace e calore, per rimediare all'assenza di Edward. E Amir era infinitamente grato a tutti loro. Erano passati alcuni mesi, ma non aveva ancora accettato del tutto la partenza di Edward, anche se gli era difficile ammetterlo.

- Come mai non volevi il teatro?- Le domandò, tornando a cercare la lampadina giusta per il corridoio nello scatolone di legno.

- Che stai facendo?- Gli chiese lei. Un bel cambio di discorso improvviso. Forse si era pentita di quella sincerità.

- Cerco una lampada da sostituire. Ieri sono venuti qui quei due. Abigail e Clyde. Li conosci, no?

- Certo. Sono odiosi. Mi sono nascosta più lontano possibile. Puzzano.

- Puzzano?

- Di cose non chiare.

Lui sorrise: un punto di vista interessante, di sicuro. E non troppo diverso da quelle che erano le sue idee. Lui sosteneva la teoria che il viscido Clyde Wendell facesse andare a male le cose con cui veniva in contatto, e aveva ormai sufficienti prove per affermare che dove passava la signorina Abigail Corrigan si rompessero gli oggetti.

- Diciamo che, secondo me, il teatro non li ama particolarmente.- Rifletté Amir.

- Già. Dobbiamo per forza farli esibire con questo spettacolo? Non c'erano già stati?

Lui esultò, tirando fuori la lampada che gli serviva. La posò a terra con cura e rimise a posto lo scatolone. Poi si immerse nuovamente nel ripostiglio dove aveva trovato le lampade di riserva, in cerca di una scala. Hilda continuava ad aleggiargli intorno, con la sua luminescenza graziosa che gli rendeva più piacevole la penombra dello stanzino male illuminato.

- Pare che abbiano preparato una rilettura della storia di Mordred. Sai, non mi resta simpatico, quell'uomo, e ora meno che mai, visto che a quanto pare si è messo insieme ad Abigail Corrigan. Ma non è facile gestire un piccolo teatro come il nostro, quindi quando una compagnia viene qui volentieri e chiede poco per esibirsi...

- Mi piace quando dici il nostro teatro. Tu, Edward e gli altri me lo avete fatto piacere, sai. Non sono mai stata così contenta di essere qui, quando ero viva. Per questo voglio restare ancora un po'. Qualche anno, magari. Puoi avere ancora bisogno di me.

- Va bene.

Lei sorrise e annuì e lui la trovò deliziosa e gentile, per la prima volta da quando la conosceva.

- Lo sai perché me ne vado in giro con i miei abiti bruciacchiati?- Gli domandò, mentre lui usciva fuori dalla stanza, con la scala in mano e la lampada in tasca.

Lui annuì.

- Perché tu sei Hilda White, la proprietaria del teatro che tentò di incendiarlo due giorni prima di venderlo?- Disse lui, con tutta la dolcezza di cui era capace. Lei spalancò gli occhi e lasciò andare un mugolio di sorpresa.

- Come hai fatto a scoprirlo?

- L'ho capito quasi subito. Lo sai, Edward mi aveva raccontato le vicissitudini del teatro. Non era difficile capire chi fossi.

- Mi dispiace! Io non volevo bruciarlo e non volevo nemmeno morire, ma mio padre me lo diede in eredità e mi impose di tenerlo e di farlo prosperare e io... Oh, Cielo, io volevo convertirmi al cattolicesimo ed entrare in convento, ma lui me lo impedì, e io mi rassegnai a rimanere qui, a sposare chi voleva lui, e... E poi mi arrabbiai e pensai che se avessi bruciato il teatro magari... Dio, che stupida. Pensai che mi sarei liberata di questo peso che interessava a mio padre, ma non a me. Solo che rimasi imprigionata nell'incendio, e... Eccomi qui. Ah, non è che adesso sparisco perché ti ho raccontato tutto, vero?

- No, se non lo vuoi, Hilda. Ognuno di voi ha i suoi tempi.

- Grazie, Amir. Sono contenta di rimanere ancora. Però sarai tu a mandarmi via, tu e nessun altro.

- Te lo prometto. Ora vieni ad aiutarmi a cambiare questa lampadina?

Lo seguì in silenzio, e lui la vedeva scintillare e si sentiva pervaso da una sensazione calda di soddisfazione e vittoria, di aver ottenuto qualcosa di buono.

Mentre sistemava la scala ebbe un secondo di epifania.

- Hilda, tu sai chi è l'Uomo Nero?

- No. Non si è mai fatto vedere realmente. Con me avrà scambiato tre parole al massimo, da quando è qui.

- E da quando è qui?

- Più o meno dall'epoca di Eric Worthing e Thomas Morris. Erano gli ultimi anni dell'Ottocento.

- Tu cosa sai, della loro morte?

- Ci fu un'esplosione, nel periodo in cui un'università usava il Sunflower per lezioni e dimostrazioni scientifiche. Al momento dell'esplosione Eric e Thomas erano nel ripostiglio dove hai preso le lampadine, e rimasero uccisi. Non furono mai ritrovati, tanto che qualcuno sospettò addirittura che non fossero morti, ma semplicemente fuggiti.

- Che ci facevano, nello stanzino?

Un sorriso divertito accese il viso sempre serio di Hilda.

- Vuoi saperlo davvero?

- Altrimenti non te lo avrei chiesto. Ehi, perché ridi in quel modo?

- Sperimentavano una posizione un po' scomoda, per essere messa in pratica in uno stanzino. Ma erano figli di famiglie benestanti e benpensanti, e non avevano modo di dilettarsi nelle gioie dell'amore a casa loro. Erano molto sorvegliati. Il teatro si prestava benissimo. Ora, non pensare che io sia una guardona, per favore. Erano loro due, a essere inopportuni e rumorosi. Li ho beccati così tante volte. E alla fine mi ero un po' appassionata alla loro storia. Ogni tanto ascoltavo qualche conversazione. Speravo davvero che fuggissero insieme, prima o poi.

Amir era considerevolmente imbarazzato, ma tentò di nasconderlo, visto che già mezzo mondo lo prendeva in giro per la sua timidezza e reticenza di fronte a certi argomenti.

- Pensavo che alla tua epoca due ragazzi che... Insomma, due uomini non... Non ti creavano problemi?

- All'inizio ero un po' schifata. Ma poi, a forza di trovarli in giro, sentirli parlare, e vederli così innamorati... Uno si ricrede. Anche una persona morta nel 1818. Dovresti averlo imparato che gli spettri assorbono molte cose, infestando i posti.

- Sì, certo.

- Non è quello che succede a tutti, in fondo? Magari all'inizio pensi che gli altri non siano molto a posto, perché sono omosessuali, donne, londinesi, pakistani, fantasmi... Poi li conosci e cambi idea. Oppure non la cambi, ma gli vuoi bene lo stesso.

Lui annuì, pensieroso. Hilda parlava poco, ma quando lo faceva, centrava perfettamente la verità.

- Comunque, non li spiavo. Mi capitava solo di vederli ogni tanto.

- Se insisti sull'argomento, fai sembrare che in realtà ti piacesse spiarli.

- Ma no! Certo, avevano una capacità di appartarsi dappertutto che, davvero, era ammirevole. Un vero talento per dedicarsi ad attività altamente ricreative in tutti gli angoli del teatro. Oh, no, Amir: sei molto a disagio, adesso, perché sono entrata in dettagli intimi.

- Sì, lo sono. Torniamo all'Uomo Nero.

- Non vuoi altri dettagli intimi?

Lui distolse lo sguardo, sentendosi addosso un'immensa voglia di inabissarsi nel punto più profondo degli oceani, lontano dalla risatina maliziosa di Hilda.

- Hilda, ti prego, no. Posso sapere perché tutti quanti trovano così entusiasmante mettermi in imbarazzo?

- Perché sei carino. Perché la maggior parte delle persone non ha paura ad ammettere che ha desideri sessuali, e tu invece sì. Ti passerà, prima o poi. Oppure no. Emily dice sempre che dobbiamo lasciarti fare quello che vuoi, e accettarti sia che tu preferisca rimanere così, sia che tu decida di esplorare quello che c'è nella tua testa con più libertà.

- Ma che razza di discorsi fate, tra di voi?- Sbottò, incredulo.

- Parliamo molto di te, del tuo benessere fisico e mentale, delle tue caratteristiche migliori e dei tuoi difetti. Facciamo scommesse su di te, a volta.

- Cosa... Cosa?

- Se preferisci la crema o il cioccolato. Se ti piace il calcio. Qual è la tua opinione politica. Se sei vergine oppure no. Se sposerai un uomo o una donna. Cose normali.

- No. No. Non è normale che parliate così di una persona. Non lo è, mi dispiace, e dovreste veramente smetterla di... Io non sono una celebrità su cui fare gossip, Hilda!

- Invece è esattamente quello che sei, per gli spiriti. Una celebrità.

Lui tornò a inabissarsi nello stanzino, per rimettere a posto la scala e anche per nascondersi un attimo a riprendere fiato e accettare la sfilza di assurdità rivelate da Hilda.

Sei stata senza parlare per mesi, e appena diventi loquace, mi dici questo genere di cose? Forse ti preferivo quando mi evitavi, Hilda.

Come se avesse sentito i suoi pensieri, Hilda scoppiò a ridere.

- Guarda che sei proprio miracoloso. Ci sono così poche cose che mi rendono allegra!

- Sì, beh, lieto di essere abbastanza ridicolo da rallegrarti.- Emerse dal ripostiglio e ammirò il corridoio nuovamente dotato di tutte le sue lampadine funzionanti.

- Non sei ridicolo, sei carino. Va bene, la smetto di importunarti. Mi stavi facendo domande sull'Uomo Nero. Che altro volevi sapere?

- Se lui è qui più o meno da quando ci sono Eric e Thomas.- Tacque, avvertendo lo spostamento d'aria alle sue spalle. - Durante quell'esplosione morì un altro studente, Henry Constable. Mi sono sempre chiesto se l'Uomo Nero fosse lui. Sarebbe logico, no?

- E perché si nasconderebbe a tutti, scusa? Soprattutto a Thomas ed Eric. Studiavano insieme.

- Per questo non ero sicuro della sua identità. Mi chiedevo anch'io come mai si sarebbe nascosto ai suoi compagni di studio.

- E cosa ti sei risposto?

- Che forse non l'ha fatto perché non erano amici. Forse lo prendevano in giro e gli rendevano la vita impossibile. O era lui, a tormentare loro. Non sempre studiare insieme significa essere amici. Comunque, io in realtà sospetto che abbia provocato la morte degli altri due. Penso che Henry sia stato l'artefice dell'esplosione, e il senso di colpa per aver ucciso Eric e Thomas lo blocchi qui.

Hilda rise.

- Lo sai che sono tutti e tre dietro di te, vero?

- Certo che lo so. Altrimenti perché avrei cominciato a parlarne?

Amir si voltò e si trovò davanti Henry, mentre gli altri due erano più distanti, appena visibili.

- Ti facevo più scemo.- Disse l'Uomo Nero, ovvero Henry Constable, che finalmente si mostrò per com'era: un tizio enorme dal viso particolarmente giovane, i capelli scuri sparati in tutte le direzioni e un cilindro in testa.

- Come mai sei morto con un cilindro? Non stavi facendo esperimenti?- Domandò Amir.

- Pensavo mi desse un'aria seria.

- Beh, ti sta bene.

- Non mentire per farmi sentire meglio, ragazzo.

- Piacere di conoscerti, finalmente, Henry.

- Piacere mio.

- Come mai Arthur Headley non ha mai capito chi fossi?

Henry giocherellò con i bottoni della sua giacca, un po' imbarazzato.

- Vabbè, insomma, sì, l'aveva capito anche lui. Ma... Non mi andava molto di... Parlarci. Mi faceva paura.

- Paura? Ma se tutta Londra tesse le lodi del signor Headley!- Amir cercò di studiare le molteplici e varie emozioni che passavano attraverso un rapido movimento di sopracciglio sulla faccia confusa di Henry.

- Mica era come te, lui. Tu sei tutto buono e pietoso e subito pronto a perdonare anche quelli che non ti piacciono granché. Lui si arrabbiava. Faceva delle ramanzine ai fantasmi che... Poi alla fine perdonava anche lui, eh. Ma ci voleva un po'. Aveva un vocione, sai. Non faceva piacere, sentirlo che ti rimbrottava per questa o quella cosa. Tu sei tranquillo e amorevole e non fai paura. Beh, ora che mi sono fatto vedere, immagino che mi manderai via.

- Se lo vuoi tu.

Henry fece un cenno vago con la testa verso i due che confabulavano poco distanti.

- È solo che non ho mai trovato il coraggio di chiedere scusa.

- Guarda che sei proprio un idiota.- Rispose Eric. - Sei rimasto nell'ombra per tutti questi anni, solo per paura di dirci che l'esplosione in cui siamo morti l'hai provocata tu con i tuoi esperimenti?

- Lo sapevate già?

- Non eri proprio il più brillante del nostro corso. Ci eravamo arrivati.

- Ma per una volta volevo fare qualcosa di strabiliante.

- Oh, io sono rimasto strabiliato, credimi.- Commentò Eric. - Un minuto stiamo sperimentando in un ripostiglio, quello dopo siamo morti, ricoperti dalle macerie!

- Non vi hanno mai ritrovati.- Notò Amir. - Com'è possibile? Avranno ricostruito il pezzo crollato del teatro, no?

- I miei esperimenti facevano veramente schifo.- Ammise Henry. - Stavo provando una cosa che doveva avere un effetto... Insomma, ero qui nel corridoio a pasticciare e tutto mi è sfuggito di mano. Ho portato via mezzo soffitto. Il ripostiglio è stato polverizzato.

- Io non sono arrabbiato con te.- Borbottò Thomas, guardando Henry. - I nostri anni da fantasmi non sono stati così male. Almeno non sono morto da solo.

Eric posò un braccio sulle spalle di Thomas e sorrise.

- Già. Se hai voglia di andartene, puoi farlo, signor Henry Constable. Vai tranquillo. Nessun rancore, da parte nostra. Non dopo tutto questo tempo, almeno. In fondo, è stato quasi meglio così. Dubito che saremmo potuti rimanere insieme, se avessimo continuato a vivere. In questo modo ci siamo goduti più di un secolo di vita matrimoniale.

Henry annuì, serio. Si tolse il cilindro, fece un inchino per ciascuno dei presenti e poi sparì molto lentamente, lasciando la sua immagine sempre più debole a fluttuare di fronte a loro per diversi secondi, prima di essersene andato davvero.

- E voi due?- Chiese Amir, con sforzo. L'ultima cosa che voleva era perdere altri membri di quella comunità segreta. Fare la cosa giusta non gli era mai sembrato così difficile e crudele.

- Io aspettavo che volesse andarsene lui.- Rispose Eric.

- Io aspettavo te.

- E non ve lo siete mai detti?- Commentò Hilda. Aveva le lacrime agli occhi ma sorrideva. - Siete scemi quasi quanto Amir, lasciatevelo dire!

- Volete andarvene, allora?- Insisté Amir, pregando perché gli dicessero di no, che volevano aspettare ancora qualche anno, magari.

- Mi sembra un buon momento. Tu che dici?- Rispose Eric, passando una mano tra i capelli scuri di Thomas. L'altro annuì, e Amir fu sicuro di avvertire attorno allo spirito come un'ondata di sollievo e calma tanto desiderata.

- Sì. Il teatro è in buone mani. Ci siamo divertiti. Possiamo riposarci, adesso.

Amir sentì il cuore che si stringeva penosamente.

Tre tutti insieme no, vi prego!

- Ci fai andare, allora?- Eric sorrise e Amir annuì, continuando irrazionalmente a sperare in un ripensamento dell'ultimo secondo.

Non successe. Eric li salutò con la mano, Thomas con un cenno della testa.

- Buon viaggio.

Sparirono in fretta, lasciando vuoto e freddo per un attimo il posto dov'erano stati fino a quel momento. Amir si asciugò rapidamente le lacrime, solo che ne arrivarono subito altre, e non riuscì a nasconderle a Hilda. Sembrava triste anche lei.

- Io non me ne vado ancora, te l'ho detto.

- Vorrei sperarlo.- Borbottò lui, seccato con le proprie emozioni.

- Neanche io.- Le mani fredde di Emily si posarono sulle spalle di Amir e la donna gli comparve pian piano davanti, seria. - Hilda avrà bisogno di compagnia. E poi io me ne andrò solo quando avrai risolto il giallo della mia morte.

- Non è stato un pugnale di scena, a ucciderti?- Chiese Amir. - Sarebbe dovuto essere finto, invece era vero.

- Credi sia stato un caso? Assolutamente no! Risolvi il mio omicidio e me ne andrò. Con calma, però.

- Certo. Con calma. E tra un bel po' di tempo. Non credo che riuscirei a mandare via qualcun altro di voi a breve.

Le due donne gli si strinsero attorno e lui le avvertì entrambe molto solide e molto calde, per qualche minuto. Si sentì autorizzato a spendere qualche altra lacrima.

- Hai dato una fine alle loro vicende.- Gli sussurrò Emily all'orecchio.

- Non rende la cosa meno triste.

- Triste non vuol dire brutto.- Disse Hilda. - Ci sono tante cose tristi e belle.

- Cercherò di vederla così. Sei saggia, Hilda. Perché hai aspettato così tanto a parlarmi?

Lei scosse la testa, prima di svanire, accompagnata da un lieve sentore di fumo.

- Torna, domani.- Gli disse Emily. - Dobbiamo farti gli auguri di buon compleanno.

- Amir.- La voce di Hilda lo rincorse, anche se lei non si faceva vedere. - Sono saggia perché tu mi hai aiutata a diventarlo.

 

 

II

 

7 dicembre 2009, ore 17,21

 

Ormai sapeva quando stava per perdersi. Ogni tanto gli succedeva ancora, e quando si perdeva di solito finiva lì, nella stanza con il lampadario azzurro, quella che nessuno sembrava conoscere.

Anzi, nessuno sembrava poterla raggiungere, a parte lui.

Ecco la stanza. Piccola, umida, abitata solo da un immenso armadio (pieno di caos) e illuminata da un lampadario di cristallo azzurro (un po' eccessivo, ma con il suo fascino.)

Solo che stavolta non era vuota.

- E tu chi sei?

La ragazza avrà avuto una ventina d'anni. Aveva i capelli di un bel rosso intenso, molto lunghi, raccolti in una coda, e indossava un maglione bianco su una gonna verde. Era alta e piuttosto robusta, con un viso grazioso, gli occhi scuri e il naso lungo. Ed era indubbiamente viva.

- Io sono Amir. Come sei entrata?

Il volto di lei si accese di un sorriso entusiasta.

- Amir? Quando?

- Scusa?

- Oh. Forse non dovremmo parlare.

- Chi sei? Perché dici che non dovremmo parlare?

Lei intrecciò le mani, spostò lo sguardo sul lampadario e alzò le spalle, mentre un sorriso che aveva qualcosa di molto familiare le si insinuava sulle labbra.

- Io sono Amy. Non penso di poterti dire altro. Mi dispiace. Un giorno capirai. Tra un po' di tempo. Un bel po'. Ma va tutto bene, davvero. È questa stanza.

- Cos'ha questa stanza di speciale? Ogni tanto mi ci ritrovo, e nessun altro può vederla.

La ragazza annuì.

- Esatto. È un posto che trovano solo quelli che il Sunflower si è scelto come custodi. È una specie di passaggio. Puoi usarla per andare in altri mondi o in altri tempi, se vuoi. È un po' complicato. Ma penso che ci riuscirai. Cioè, lo so. Insomma, non posso farti spoiler.

- Tu mi conosci, giusto?

- Tu mi conoscerai. Non mi fare parlare più di queste cose.

- Va bene. Ma come si fa a usare questa stanza per tutte le cose che hai detto tu?

- Cerca nell'armadio e affidati all'intuito. Credo che funzioni in maniera diversa per ciascuno di noi, questo posto.

- Tu sei una custode futura di questo posto? Hai qualcosa di familiare, però. Conosco i tuoi genitori?

Il sorriso della ragazza si allargò.

- Li conoscerai. Però conosci almeno tre dei miei nonni. Per ora.

- È un bel posto, questo futuro in cui vivi tu?

- Sì, lo è.

- Quindi devo stare tranquillo?

Lei si incupì.

- Non lo so. Dipende da quello che farai da ora in poi. Io per te sono un futuro possibile, credo. Ma se tu domani decidessi di dare fuoco al Sunflower, suppongo che io potrei anche non esistere più. Non lo so. È tutto un po' strano. E la cosa più strana è che tutto questo me lo hai spiegato tu.

- D'accordo, Amy, forse è meglio se me ne vado. Grazie di tutto quel che mi hai detto su questa stanza. Altri mondi, dici? Tu ci sei mai stata?

- Sì! All'inizio non ci credi. Ma dopo è come se ti si aprissero tutte le porte che puoi immaginare. Come se tutto fosse infinito. Ti piacerà tantissimo.

- Come mai ci siamo trovati?

- Non lo so. Forse è stato il Sunflower. Lui decide spesso per i suoi custodi. Magari voleva che io ti insegnassi a usare la stanza.

- Ha senso. Rimarrei ancora qui con te, ma non voglio farti dire altre cose.

- Buon ritorno.

- Buon... Tutto quanto. Abbi cura di te, Amy, e salutami quelli che conosco.

Lei gli fece un cenno con la mano, prima di voltarsi. Anche lui si girò e fece qualche passo. Poi tornò a guardarsi indietro: Amy era sparita.

Almeno c'era un futuro buono, da qualche parte.

Cercherò di impegnarmi perché tu esista, Amy.

 

 

III

 

13 dicembre 2009

 

- Pronto, Amir?

- Ciao, Virginia. Che c'è?

- Senti, ti devo raccontare una cosa. Hai presente lo Starbucks davanti alla libreria dove lavora Daniel? Pensi che sia plausibile che ci sia un... Insomma, un...

- Un fantasma? Sì. È un filosofo illuminista un po' seccante. Non sono mai riuscito a farci due chiacchiere con calma: c'è sempre qualcuno che mi guarda strano, quando parlo da solo. E poi è uno spettro indisponente. Vorrei proprio sapere come liberarlo.

- Credo di... Secondo te è possibile che ce l'abbia fatta io?

- Può darsi. Com'è andata?

- Abbiamo litigato pesantemente su una decina di argomenti diversi. Io avevo notato l'abbigliamento antiquato, ma non avevo capito che non era vivo. Alla fine ha fatto una sparata un po' razzista e sessista e io l'ho zittito. In modo brusco. Allora lui mi ha detto che non aveva mai trovato qualcuno in grado di farlo tacere e convincerlo di aver sbagliato. Io ho cominciato a ridere e ho provato a dirgli che è colpa del fatto che io sono prepotente, ma lui in quel momento è sparito.

- Virginia, stai bene?

- Non lo so. È normale essere felici e avere voglia di piangere?

- Perfettamente normale.

- Ma non sono quelli come te, che vedono i fantasmi?

- A volte anche gli amici di quelli come me fanno qualche incontro fuori dal comune. Spero non ti abbia turbata.

- Sì, cazzo, mi ha turbata un sacco. Ma sono felice se quell'idiota razzista se n'è andato in pace. E poi almeno ho capito un po' come ti senti. Ehi, Amir, grazie.

- Di cosa?

- Di cacciarci in questi casini che rendono la vita più interessante.

 

 

IV

 

14 dicembre 2009

 

Fermo in fondo alla platea, guardava il palco e pensava che c'erano rimaste solo Emily e Hilda. Era tutto così tanto silenzioso, adesso. Perché aveva dovuto mandarli via, quegli inquilini secolari, che avevano molto più diritto di lui di restare tra le braccia del teatro?

- Lo sapevi, che prima o poi avresti dovuto scrivere la fine delle loro storie.

Accanto a lui comparve Stella, giacca militare agganciata per metà e gonna rossa larga. I riccioli erano liberi e furiosi, attorno al viso bianco e severo. Amir rabbrividì e combatté con la tentazione di scostarsi.

- Sapevi anche che avresti dovuto riparlare con me, anche se mi consideri un omicida immorale, adesso.

- Non ti considero così.

- Ah no?

- No. Non potrei mai. Tu sei il teatro. Una parte del teatro, almeno. Non potrei mai odiarti o disprezzarti. Ma non voglio che tu lo faccia più. Uccidere una persona senza motivo.

Stella sbuffò e piantò le mani sui fianchi, lanciandogli un'occhiata di traverso.

- Il motivo c'era. Margaret Melier era una tua nemica e minacciava la tua vita. E poi avevo visto come ti aveva ridotto. Nessuno si può permettere di mettere le mani addosso al mio custode.

Lui rise a bassa voce, onorato e terrorizzato da quell'affermazione.

- Non voglio che tu mi difenda a costo della vita degli altri.

- Come vuoi essere difeso, allora?

- Non lo so. Parliamone.

- Pensi sempre di risolvere tutto parlandone, tu.

- Sì. Sì, è così. Credevo che un teatro lo capisse. Non è quello che fai anche tu, scusa? La gente viene qui, e sul tuo palco avvengono delle storie che parlano agli spettatori, e risolvono i loro dubbi. O gliene fanno venire ancora di più.

Questa volta fu Stella, a ridere, e la risata fu amichevole e genuina. Strana, sulle sue labbra.

- Tu mi fai morire, Amir. Sei unico, tra tutti quelli che ho visto passare tra le mie stanze. In realtà, tutti erano unici, ma tu... Non credo che ti capirò mai.

- Io non credo che capirò mai te. Sei gentile e sei terribile. Ho ascoltato tante storie su di te: dicono che in certi periodi sei stato un posto buono e accogliente, in altri invece eri cattivo. Vorrei sapere da cosa dipende.

- E perché?

- Perché voglio che tu resti come sei ora. Un luogo buono. Dipende anche da me, la tua natura? Posso fare qualcosa per te?

Si voltò a guardare Stella, e Stella gli prese il viso tra le mani e si protese verso di lui, baciandolo a tradimento.

Per i primi tre secondi cercò di sottrarsi. Le labbra di Stella erano gelide. La vicinanza della creatura gli faceva girare la testa in una maniera che lui non riusciva a identificare come piacevole o disturbante. Pian piano accettò l'offerta del bacio e si lasciò invadere da un flusso di calore, desiderio e una strana pace inquieta. Si chiese dove l'avrebbe portato Stella se...

Stella si staccò e indietreggiò. Sembrava stranamente in preda al turbamento.

- Ti ho fatto male?- Domandò. Amir scosse la testa. - Avresti preferito che non lo facessi?

- Non lo so.

- Se questo regalo ti ha ferito, mi dispiace. Non ho pensato, prima di agire. Non è nella mia natura, temo. Forse sta a te, insegnarmi la moderazione e l'equilibrio.

Lui non sapeva più cosa rispondere e Stella sembrò capirlo, perché gli rivolse un ultimo sorriso e cominciò a dissolversi.

- I tempi del dolore sono molto vicini. Cerca di resistere. E di non lasciarmi.

- Che vuoi dire?

Ma non c'era più nessuno ad ascoltarlo.

 

 

V

 

20 dicembre 2009

 

- Ehi, stai bene? Dammi la mano.

- Cosa?

- Sei caduto, mi sembra. O forse ti piace stare disteso per terra, di notte, col freddo.

- Sì. Sono caduto. C'erano... Delle ombre. Mi inseguivano. Ma alla fine erano solo foglie, credo.

- Oh. Mi dispiace. Non è bello, essere inseguiti. E le foglie sono terribili, quando sono arrabbiate.

- Non pensi che io sia pazzo?

- Pazzo? Perché?

- Perché è notte, si congela e io sono qui a terra davanti alla cattedrale di Southwark, blaterando di ombre e foglie.

- È la notte del solstizio. Riti, passaggi, misteri. Capisci, no? E poi, se ci rendessimo conto di cosa si nasconde nelle ombre, saremmo tutti pazzi. Non aver paura, dammi la mano.

- Grazie.

- Di niente. È quasi mezzanotte. Salutiamo l'autunno insieme. Non lasciare la mia mano.

Scocca la mezzanotte e nelle ombre intorno a loro si combatte una piccola guerra di un istante: un volo di foglie impazzite, di ali incantate, che si scontrano con l'improvviso accendersi di una schiera di fiamme calde, vive, colorate. Queste dissolvono l'ombra, poi avanzano danzando, in processione. Imboccano la porta della cattedrale, che, spalancata, lascia intravedere un cuore di luce.

Per un attimo soltanto, tutte le cose hanno senso.

Poi Amir è di nuovo solo e la creatura che l'ha salvato dandogli la mano è corsa via. Non ricorda più com'era. Gli è sembrato un bambino, prima, e poi una donna incinta. Non lo sa. Non importa. Ormai sa che la città gli parla così. Con incontri e notti e misteri. E lui non potrebbe chiedere di meglio.




***
Grazie di essere qui. Perdonate il ritardo enorme nell'aggiornamento. Grazie a chi ha lasciato parole di commento, a chi segue la storia e a chi passa per caso. Il teatro è felice (e io vi ricordo che esistono canzoni per questa storia. Una la trovate qui. La potete prendere.)

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Capitolo 27
*** XXVII - Il Cavaliere Verde ***


Capitolo XXVII

Il Cavaliere Verde

 

All this fear falls away to leave me naked

Hold me close

'Cause I need you to guide me to safety

(Snow Patrol, Signal fire)

 

2 febbraio 2010

 

- È una faccenda curiosa, in effetti. Dai, Amir, lascia fare quelle uova. Temo di averle rovinate.

- Ehm... Non vorrei mai essere troppo drastico, Joel, però, sì, non credo siano salvabili.

- Mangeremo della marmellata su qualcosa.

- Ci manca il qualcosa. Se mi dai due minuti, posso provare a fare...

- Un recupero?

- Un miracolo. Continua pure a parlare della faccenda curiosa.

Joel si rilassò sulla sedia e aggiunse un paio di arbitrari cucchiaini di zucchero al suo tè.

- Oggi vado a pranzo con un collega che ho incontrato un anno fa durante un convegno di biotecnologie e sviluppo sostenibile. Un tipo un po' fuori di testa, per l'ambiente accademico. Per esempio, sfoggia una splendida chioma verde.

- Immagino che sia considerato un po' bizzarro, in effetti. Ecco qui il miracolo.

Amir portò in tavola una colazione arrangiata ma dignitosa. Era sempre un piacere avere per casa una persona tanto capace di rimediare ai tuoi danni.

- Insomma, uno studioso con i capelli verdi.

- E un grande giocatore di scacchi. L'anno scorso abbiamo sostenuto una partita epica. Che io ho vinto. Lui mi ha assicurato che mi avrebbe chiesto la rivincita, e un paio di giorni fa mi ha contattato via e-mail, per propormi di pranzare insieme e giocare. Esattamente un anno dopo il nostro scontro, tra l'altro. Immagino che per lui ci sia una qualche simbologia, dietro. Ma è stato una compagnia piacevole, quindi... Perché no?

- Allora, buona fortuna.

- Grazie.

Si dedicarono al cibo in silenzio per un paio di minuti, finché Amir non spalancò gli occhi, come se avesse appena ricordato qualcosa.

- Joel. Un tipo con i capelli verdi che ti chiede una rivincita esattamente un anno dopo il vostro primo scontro? Non ti viene in mente...

- Cosa, la storia di Gawain e il Cavaliere Verde?- Joel fece una risata cortese, realizzando quanto i pezzi combaciassero davvero. - Interessante parallelo. Non che io mi sia mai sentito un eroico cavaliere. E non ci sono belle donne tentatrici lungo la mia strada.

- In ogni caso, non è che vuoi portarti dietro una cintura? Voglio dire, con le cose che facciamo noi di solito, non è così strano preoccuparsi di fronte a un incontro che sembra uscito direttamente da una storia del ciclo arturiano.

Joel rise e si alzò dal tavolo, portando via la sua parte di stoviglie sporche.

- Non ho una bella donna che possa donarmi la sua, di cinture, purtroppo, e temo che una qualsiasi non sarebbe buona a niente. Ci vediamo stasera, Amir. Sempre ammesso che ritorni con la testa ancora attaccata al collo. Tu devi incontrare Abigail Corrigan e Clyde Wendell, vero?

- Purtroppo sì. Devono farmi l'elenco di tutto quello di cui hanno bisogno per il loro spettacolo del mese prossimo. Io non li sopporto più! Qualche settimana fa si sono piazzati per una giornata intera dentro al Sunflower. Tra poco lo conoscono meglio di me.

- Non è che vedi qualcosa di poco chiaro e molto arturiano anche dietro la loro visita, vero?

- Wendell porta in scena uno spettacolo dedicato a Mordred.

- Ti prego, Amir: una leggenda al giorno può bastare. Buona giornata.

*

La mattinata passò con calma estenuante, in un grigiore indefinito di cielo imbronciato e pensieri incerti. La casa a volte era silenziosa in maniera insopportabile. Aveva i suoi umori, e spesso non dipendeva dagli abitanti. C'erano giorni in cui Amir era sicuro di sapere perché la casa si rifiutasse di mostrare il suo volto accogliente. Altre volte – come quella – non c'era verso di capire cosa le fosse accaduto. Se ne stava zitta, fredda e offesa, e lui vagava tra le troppe stanze, alla ricerca di qualcosa da fare, rigettando qualsiasi iniziativa un secondo dopo averla pensata.

Alla fine prese dalla libreria un'edizione recente della versione di Tolkien di Sir Gawain e il Cavaliere Verde e si mise a sfogliarla distrattamente, appoggiato alla parete. Il più onorevole dei cavalieri di Artù accettava la sfida di un guerriero tutto verde e gli tagliava la testa. Quello usciva dalla sala con la testa sottobraccio, promettendo che un anno dopo avrebbe incontrato di nuovo Gawain, per restituirgli esattamente lo stesso colpo. Un anno dopo il cavaliere partiva per tenere fiducia alla parola data. Lungo la strada trovava un ospite bizzarro con una moglie seccante, e si trovava diviso tra la fedeltà all'ospite e le regole della cortesia amorosa del tempo. Alla fine si salvava la vita grazie a una piccolissima mancanza d'onore. Lui la prendeva male, annegando nei sensi di colpa, ma la corte intera di Artù lo perdonava tra le risate.

Di tutte le storie arturiane, non era una delle preferite di Amir, anche se lo affascinava la figura di questo strano personaggio verde, che elaborava un piano complicatissimo per mettere alla prova Gawain.

Beh, se non altro Joel è molto diverso da Gawain, concluse, rimettendo a posto il libro e tornando a non fare niente.

 

Nel pomeriggio arrivò il suo impegno per la giornata. Lui, biondo, pallido, vestito di bianco, lei con i capelli rosso scuro raccolti e un tailleur color carminio. Sembrano Inquinamento e Guerra di “Good Omens”, pensò, avvertendo la sua atavica antipatia per la manager e il regista.

Eccoli alla porta. Amir andò ad aprire, imponendosi tutta la gentilezza di cui era capace.

- I vostri fiori hanno bisogno di un dottore, temo.- Lo salutò Abigail, porgendogli una mano guantata di rosso scuro.

- È febbraio.- Rispose lui, toccandola con un lieve velo di disgusto.

Abigail indicò una conca di coccio a fianco della porta: c'era una piantina di gerani totalmente fiorita, con i fiori ormai passati e mezzi marci, come se avesse subito un'esplosione improvvisa d'estate, tutta insieme. Gli occhi di Amir saettarono subito a Clyde, che però stava guardando la lanterna sulla sua testa.

- Grazie della possibilità che ci offri di trascorrere del tempo con te.- Abigail fece cenno che avrebbe desiderato entrare in casa e Amir realizzò che non poteva tenerli sulla soglia tutto il giorno, anche se gli sarebbe piaciuto. Li portò in salotto e si assentò per andare a preparare del caffè, pregando che facessero in fretta. Ogni tanto dava uno sguardo al suo cellulare, settato sulla modalità silenziosa. In caso che Joel avesse problemi con il Cavaliere Verde.

Se li sorbì per un'ora, mentre gli raccontavano un progetto delirante di mostri meccanici che cantavano in scena. Non riusciva a concentrarsi. Continuava a dividersi tra la noia, il disgusto immotivato e vaghi pensieri di disgrazia imminente. Quando se ne andarono fu una liberazione.

Decise di aprire il frigorifero per pensare alla cena. Dentro ci trovò una devastazione di cibi andati a male, con un qualcosa di vivo che balzava da un ripiano all'altro. Chiuse lo sportello di scatto, rimanendo per un minuto buono a guardare il vuoto.

Devo arrivare fino in fondo a questa storia. Cibi che marciscono e lampadine bruciate. Devo capire chi o che cosa sono quei due.

Con calma poi ripulì il frigo, catturò l'insetto che saltellava tra i relitti della sua spesa del giorno primo e lo cacciò fuori dalla finestra. Si rassegnò a uscire per procurarsi altro cibo e ci mise un'eternità, rientrando in casa che era completamente buio, con la testa pesante e i riflessi rallentati.

*

Joel rientrò quasi alle nove, tanto silenzioso che Amir, addormentato sul divano, non lo sentì. Sul tavolino c'era un libro da bambini piuttosto antiquato. Sulla copertina c'era un cavaliere in armatura che reggeva il ritratto di un tizio in abiti ottocenteschi. Qualcuno aveva scritto Gilly W. con l'inchiostro nero in basso a sinistra. Lo sfogliò, incuriosito dal relitto (dove lo aveva recuperato, Amir?)

Dal libro scivolò fuori un foglio ingiallito, carico di tre calligrafie diverse.

 

Cronologia del Sunflower fino al 1991

 

Seguiva una lista di date e nomi, vergate in un'ordinata calligrafia tondeggiante. Una mano sicura, dalla grafia secca e appuntita, aveva scritto, in blu:

 

Cos'aveva capito, Esther?

L'unica cosa che mi viene in mente, guardando questa cronologia e le sue sottolineature, è che il problema su cui stava indagando, e cioè la diversa “natura” (positiva o negativa) del teatro nei vari momenti della sua storia, possa dipendere dal modo in cui il teatro è stato passato in

 

Il foglio era strappato e il resto della frase mancante, ma Joel lo registrò a malapena: aveva riconosciuto la calligrafia di Arthur. Sul bordo destro del foglio un'altra mano conosciuta aveva provato a concludere la frase. Amir aveva scritto, a matita:

 

in eredità? Chi riceve il teatro con amore viene accolto come custode. Chi lo rifiuta crea i presupposti per un'epoca negativa.

 

Quel documento a tre mani lo riempì di una tranquillità strana. Il peso della giornata gli premeva ancora addosso. Si rilassò sul divano, gli occhi socchiusi, il foglio tra le mani.

*

Aprì gli occhi e realizzò che poco distante da lui c'era Joel che dormiva.

Almeno la sfida con il Cavaliere Verde è andata bene.

Toccò la spalla dell'uomo e lui si svegliò di scatto.

- Amir. Buonasera. Devo essermi addormentato.

- Decisamente sì.- Amir sbadigliò e si passò una mano sugli occhi, sentendosi sempre imprigionato nell'umore di ovatta che lo aveva tenuto bloccato per tutto il giorno. - Hai letto i miei appunti sul Sunflower?

- Scusa, non dovevo frugare tra la tua roba.

- Non è mia. Ho trovato il libro e gli appunti in un armadio del teatro. Quello nella stanza con il lampadario azzurro.

- Quella che non esiste.

Amir rise, ormai abituato a quella risposta.

- Esatto. Il libro era della nipotina della signora Esther Wilmore.

- Come fai a saperlo?

- Come faccio io di solito a sapere le cose.

Joel annuì, rigirandosi i fogli tra le mani per qualche istante, prima di riporli di nuovo all'interno del libro.

- Ho visto le borse della spesa in cucina.- Gli disse, dopo un po'. Era strano, notò Amir. Aveva qualcosa di strano nello sguardo, nel portamento stranamente dimesso.

- In frigo era andato tutto a male. Clyde Wendell ha fatto marcire tutto un'altra volta.

- Sei un po' fissato con questa storia, eh?

- Lui e Abigail non sono umani, secondo me.

- Abigail è umana.- Rispose Joel, con una mezza risata. - Te lo garantisco. Poco dopo che ha lasciato James Bowden... Abbiamo provato ad avere una specie di... Chiamiamola storia. Beh, è finita subito. Non è che adesso mi disapproverai, vero?

- Posso però dire che sono sollevato che la storia sia finita?

- Te lo concedo. Ma se ti piacciono così poco, perché hai accettato, quando ti hanno proposto di tornare a esibirsi al Sunflower?

- Io l'ho fatto per te. Pensavo che Abigail stesse ancora con il tuo amico, e che dovessimo fargli un piacere.

- Ah. Mi dispiace. Te ne avrei dovuto parlare.

Rimasero in silenzio per un po', finché Amir si voltò verso Joel e cercò di studiarne il viso e gli occhi verdi, distanti.

- Tutto bene?

L'uomo alzò le spalle e tentò un sorriso, fallendo miseramente nel renderlo convincente.

- Joel, è successo qualcosa?

- Non lo so. Stavamo giocando a scacchi e all'improvviso, non so come, ecco che gli sto raccontando la storia della mia vita. Mi mangia un alfiere e io sono lì che gli parlo di te, di come vederti sempre attivo mi ha fatto venire voglia di avere un'esistenza più significativa.- La voce di Joel si incrinò appena. - Non gli ho detto i dettagli di ciò che fai. Ma mi sono uscite fuori così tante cose... La mia vacanza della scorsa estate. Una fuga bella e buona. E proprio quando tu avevi bisogno di aiuto.

- Ma tu non lo sapevi.

- Non sarei dovuto scappare comunque.

- Ma no, non è vero!

- Quando mi ha messo in scacco, gli stavo parlando dei miei sonniferi. Di questa specie di depressione stagionale che non voglio mai affrontare. Di giorno lo studio è sempre riuscito a tenere lontani i pensieri. Però la notte a volte viene fuori. Una specie di stretta al petto. L'idea molto chiara di avere un'esistenza inutile. Sai, sono arrivato a una conclusione. Non credo che si possa vivere solo di quello che ci piace. Abbiamo bisogno di costruire qualcosa. Delle relazioni. O un lavoro. Un impegno che duri, che voglia dire qualcosa. Comunque da giugno riesco a dormire abbastanza bene, senza nessun aiuto. Credo che dipenda anche dai rumori di un'altra persona che abita questa casa.

Amir non trovò niente da dire e rimase a guardare le mani dell'altro, strette febbrilmente attorno ai propri occhiali. I capelli biondi (tendenti verso il grigio sulla tempia sinistra, ora che Amir ci faceva caso) erano spettinati, i vestiti solitamente ordinatissimi avevano una certa aria di trascuratezza.

- Poi mi ha ucciso il re, e io mi sono messo a ridere, perché insomma, pensaci: stavo giocando a scacchi con uno sconosciuto, e tu stamattina avevi paura che qualche creatura mitologica ce l'avesse con me, e forse lui non era il Cavaliere Verde, ma di sicuro quello a cui mi stava sottoponendo era un test.- Rise sottovoce, e non fu un bel suono. - Dopo averlo salutato sono entrato in una libreria e sono rimasto lì fino alla chiusura. Poi ho camminato a piedi per un paio d'ore almeno. E sono tornato qui. Quindi, sì, è successo qualcosa, e io non so cos'è, ma ora sono a casa.

Ancora silenzio – delicato, però. Amir taceva perché sapeva che era la cosa giusta da fare, ed era la prima volta in tutta la giornata che era sicuro di stare facendo la cosa giusta. Aspettò a parlare, finché non seppe di avere anche le parole giuste.

- Tu mi hai dato un lavoro e la mia vita è cambiata.

- Amir, se stai cercando per l'ennesima volta di dirmi quanto sei grato, per confortarmi, non...

- No, aspetta. Fammi finire. Tu avresti potuto assumere chiunque, ma sei tornato a cercare me, un tizio che avevi conosciuto per caso. Una volta mi hai detto che l'hai fatto perché volevi sfidare la sorte. La mia storia sembrava complicata, e tu volevi cambiarla.

- Sì.

- E l'hai cambiata. Hai costruito qualcosa. Una relazione. Un impegno che dura. Sono successe tante cose, da quando sono qui, ed è cominciato tutto da te. Perché hai deciso di fare una cosa che ti sembrava sensata.

- Dove vuoi arrivare?

- È la dimostrazione che, se vuoi, puoi avere quello di cui hai bisogno. Relazioni, impegno. L'hai già fatto una volta.

- Vuoi dire che dovrei diventare una specie di supereroe che recluta giovani stranieri brillanti che lavorano sottopagati in orribili pub?

- Non mi prendere in giro!

- No, seriamente, Amir: mi stai aprendo delle prospettive tutte nuove.

- Sto parlando sul serio.

- Anch'io. Diventerò l'Impiegatore.

- Va bene. Lavoreremo insieme. Io scandaglierò la città in cerca di potenziali persone da aiutare e tu le assumerai.

- Ottimo. Magari che questi potenziali impiegati siano vivi, però. Vista la tua propensione per le persone non esattamente respiranti...

In quel momento la casa smise di essere arrabbiata.

*

Quando passa il Cacciatore di Storie, la casa gli racconta il motivo dei suoi sbalzi di umore. Lui assorbe tutto e trema, fissando occhi stranamente umani sulla striscia di luce che sbuca dalle tapparelle del salotto. Se ascolta bene, sente la vibrazione che le risate all'interno trasmettono alle pareti.

Se ascolta bene, sente il tempo che corre e va inevitabilmente verso una parte della storia che non vorrebbe mai essere costretto ad ascoltare.

Nella notte, ogni cosa contribuisce alla canzone. Se solo fosse una lingua che tutti capiscono...


Figlio

a cui la città ha dato fiducia

senti la casa che ride

senti il rumore di un cuore che brucia

Ma sotto la luce c'è il vuoto che stride

Chiamano, cantano voci di nebbia

una richiesta gridano forte:

vogliono spegnere tutte le fiamme

chiamano, cantano, chiedono morte

Molti si uniscono, stretti, in segreto

le loro voci, un sussurro distante

le loro sillabe, punte taglienti

le loro labbra, veleno stillante

Eccoli:

tessono, tessono reti

tessono reti per imprigionare

Figlio

sei tu, e il tuo regno di luce

che la loro rete vorrà devastare

Tessono reti e tessono piani

tramano intrecci senza fermarsi

Figlio

invocano la tua caduta

Che sia ferito e non possa curarsi

Che sia perduto in un tempo mai stato

Che sia disperso e senza ritorno”

Figlio

se solo potessi sentire,

metterti in salvo prima del giorno

Figli

la vostra città vi sorregge

vi tiene, preziosi, in palmo di mano

Eppure nessuno, nessuno lo sa

come farvi fuggire lontano

Raccogliamo storie e cuciamo sussurri

scrutiamo i segni dei giorni a venire

Ma niente, niente di questo potrà

salvarvi, coprirvi, non farvi soffrire

Figlio di notti stellate

ascolta

ascolta

ascoltaci ora:

nei giorni di perdita, buio e dolore

che almeno resista

la tua fiamma

ancora.

 

***
Grazie di essere qui!
Ci avviciniamo al momento finale - lo dice la canzone al termine di questo capitolo - e non sarà facile venirne fuori...

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Capitolo 28
*** XXVIII - Il lato sbagliato della realtà ***


Capitolo XXVIII

Il lato sbagliato della realtà

 

Goodnight, goodnight London

The long grey out of the West

It's not just the bridge that is burning

There's fire in the street

Where your two hearts meet

(Thea Gilmore, Goodnight Copenhagen)

 

I

 

20 marzo 2010

 

- Virginia?

- Scusa. Ti disturbo?

- No, no, figurati. Che hai? Stai bene?

- Sì. No. Ma tu stai correndo.

- Un secondo... Ecco. Sono nella metro. Dimmi tutto. Cos'è successo?

- Scusami, sono un'idiota, avrai di sicuro cose più importanti a cui pensare. È che... Cazzo, ho litigato pesantemente con Aidan e... Non so bene come siamo arrivati lì, ma credo che ci siamo lasciati. Lo so, non dovrei chiamare te, è il tuo migliore amico, ma...

- Calmati. Non ti preoccupare, hai fatto bene a chiamare me. Mi dispiace tanto. Ma com'è andata?

- Parlavamo di futuro, andare a vivere insieme, persino di sposarsi, e poi... Non lo so. È stato come se all'improvviso mi fosse venuto voglia di rinfacciargli tutte le stronzate che è riuscito a combinare in quest'anno, e... Prima che me ne rendessi conto ci stavamo urlando contro.

Il treno era stracolmo e rumoroso e Amir doveva premere il telefono contro l'orecchio, per distinguere le parole spezzate di Virginia.

- Senti, se mi dai un paio d'ore posso venire da te e ne parliamo, d'accordo?

- Vengo io, Amir, non preoccuparti.

- Sto andando al cimitero di Springmere. Sarò a casa tra un'ora e mezzo, penso.

- Springmere? Dal dottore fantasma? Ti sei fatto male?

- No. Joel non sta bene da due giorni e il suo medico gli ha detto che è una cosa psicosomatica. Però lui sembra poco convinto di questa teoria. Ha un mal di testa strano e continua a vomitare. Volevo portarlo con me, ma stamattina non riesce ad alzarsi da letto. Vorrei portare Annie da lui.

- Scusa, tu sei preoccupato per Joel e io ti stresso con questa faccenda.

- Stai scherzando? È ugualmente seria e importante, quindi, per favore, appena ho finito al cimitero voglio vederti a tutti i costi.

- Ok. Ti raggiungo a casa di mio zio. Sicuro che non lo disturbo?

- È in camera sua e dorme. Possiamo stare quanto tempo vogliamo giù in salotto e lui non si accorgerà nemmeno che ci siamo. Ti aspetto, allora.

- Grazie, Amir.

Per quale legge dell'universo quando sei preoccupato per qualcuno, immediatamente ti squilla il telefono e tu finisci per essere preoccupato anche per qualcun altro?

Saltò giù dal treno e il cellulare suonò di nuovo. Era sicuro del nome che avrebbe visto lampeggiare sul display, quando ripescò il telefono dalla tasca dei pantaloni.

- Ciao, Aidan.

- Ehi. Senti. Lo so che avrai da fare tremilacinquecento cose serie, ma... Ti rompe se ti parlo due minuti?

- No, non c'è problema.

- Ho litigato con Virginia. Di brutto. A un certo punto si è incazzata per una cosa da nulla e io le ho risposto... Oddio, non ricordo nemmeno cosa le ho risposto, ma abbiamo cominciato a ricordare tutti quei particolari idioti, incazzature inutili degli scorsi mesi e roba del genere. E a un certo punto mi ha praticamente detto che potevo proprio andarmene. E io me ne sono andato, ma non ho capito cosa voleva dire di preciso, e... Ehi, ma dove sei? Perché sento il suono dell'ambulanza?

- No. È la polizia.

- Dove sei?

- Springmere. È pieno di polizia. Oh, Dio, sembra che abbiano devastato mezzo cimitero. C'è un lenzuolo bianco per terra.

- Cazzo. Ma tu che ci fai lì?

- Il dottore.

- Stai male?

- Joel sta male. Aidan, mi dispiace per il vostro litigio. Dammi un po' di tempo e ti richiamo, va bene? Ne parliamo come si deve.

- Certo. Vai a vedere cosa succede. Ma cos'ha Joel?

- Non ne ho idea. Scusami. C'è della gente e...

Si bloccò quando vide il fantasma dietro uno degli alberi che abbracciavano il piccolo cimitero.

- No, no, no!- Mormorò, dimentico del telefono e di tutto il resto.

- Che succede?- Lo incalzò Aidan dall'altra parte.

- La persona morta... Non è possibile!

Invece era possibile, perché lei era proprio lì, appoggiata all'albero, con i suoi capelli crespi e la sua aria un po' seccata e il suo camice da infermiera. E uno squarcio in mezzo al petto.

- Annie. La persona morta è Annie.

- L'assistente del dottor Allen?

- Scusami Aidan, ti richiamo dopo.

Riattaccò e cacciò il telefono in tasca, correndo verso la ragazza nascosta, che quando lo vide arrivare arretrò nel rifugio offerto dai pochi alberi.

- Ehi.- Lo salutò, quando lui le fu davanti. - Avrei avuto piacere di incontrarti in un altro modo. Un po' meno... Morta. Ma, sai, non è che si può sempre avere quello che si vuole.

- Annie.- Gli si bloccarono le parole in gola, annegate da un bisogno tremendo di mettersi a piangere.

- Un superstite dei nostri amici dell'Ordine del Riposo. La scorsa estate avete tolto di mezzo il capo, ma non deve essere bastato.

- L'Ordine? Esiste ancora?

- Beh, esiste Simon, quel tizio che aveva già provato a far fuori il dottore. È arrivato qui con un SUV. È proprio entrato dentro, con il SUV: ha buttato giù il cancello e ha disfatto mezzo cimitero. Ha polverizzato un paio di spiriti di vecchiette che non davano noia a nessuno. Allora il cimitero si è arrabbiato... Lo sai com'è, no? Era quasi riuscito a mandarlo via, quando all'ultimo momento lui ha tentato di esorcizzare Allen. Io gli sono saltata al collo, lui ha tirato fuori un pugnale e... Buonanotte.

- E ora lui dov'è?

- Eh. È un po' morto anche lui. Si è reso conto di quel che ha fatto, è saltato sul macchinone ed è schizzato via. Si è schiantato contro un muro nella strada qui dietro. La cosa buffa è che lo sento piangere. È diventato uno spettro. Ci sarebbe quasi da ridere, se non mi girassero le palle perché sono stata ammazzata. E da un cretino del genere! Almeno fossi morta dignitosamente. Ma uno stronzo invasato come lui... No, dai, non ti mettere a piangere anche tu, ti prego! Mi fai sentire ancora più morta.

L'ultima frase peggiorò la situazione. Amir tentò di asciugarsi gli occhi per farle un piacere, ma continuava a guardarla, a ricordarsi dell'ultima volta in cui lo aveva curato, del suo modo eccessivo di flirtare, della sua fedeltà al vecchio dottore spettro...

- Allen sta bene.- Disse Annie. - Si merita di andarsene via in pace, almeno lui.

- Annie. Mi dispiace tanto.

- Eh, che ci vuoi fare. Non è colpa tua.

- Se fossi stato qui...

- Va bene che sei l'esorcista più potente di Londra, ma non puoi essere dappertutto. Non ce l'ho con te perché non sei comparso magicamente a salvarmi. Hai già aiutato Allen e questo posto un anno fa. Anzi, mi fa piacere vederti almeno ora. Allen ha provato a confortarmi, ma io ero così incavolata che l'ho mandato a quel paese. Ora andrò a farmi perdonare. Pover'uomo. Tu come mai sei qui, comunque?

- Cercavo Allen.

- Stai male?

- Joel sta male. Non riusciamo a capire cosa abbia. Il suo medico dice che è un problema psicosomatico, ma Joel è sicuro che il suo cervello non c'entri.

- Cos'ha?

- Mal di testa e vomito da qualche giorno.

- Angela cosa ne dice?

- Angela non c'è. Vivien è sparita da una settimana e lei la sta inseguendo.

- Sparita?

- Se n'è andata. Ha lasciato Londra senza dare spiegazioni. Ma Angela non riesce ad accettarlo.

Annie fece una risata terribilmente fuori posto.

- Ci manca solo che succeda qualcosa ai tuoi due migliori amici, poi hai fatto il pieno, oggi.

- Si sono appena lasciati.

- Guarda che è strano. Tante cose negative, tutte insieme... Stai attento. Somiglia molto a un piano.

- Un piano?

- Per fare del male a te e alla tua gente. Ehi, vedo un poliziotto venire verso di te. Se ti becca a parlare con l'aria, come minimo ti arresta. Ci manca solo questo, eh? Senti, quando questa gente se ne sarà andata, torna pure e faremo due chiacchiere. Mi sa che avrò bisogno del tuo aiuto, prima o poi.

Il poliziotto lo chiamò e Amir lo ignorò totalmente. Cominciò a correre tra gli alberi radi e raggiunse i margini del cimitero e lo steccato di ferro battuto ritorto. Lo scavalcò e continuò a correre, concentrandosi solo sul correre e respirare e cercare di andare più veloce dell'ammasso di pensieri orribili che lo inseguivano.

Quando si fermò, era di fronte a un muro sul quale campeggiava una scritta.

 

Se non vuole perdere altre vite

non dovrà perdere altro tempo:

e sbrigarsi a vendere tutto il suo tempo

 

Rimase a fissare la scritta finché un suono proveniente dal suo telefono non lo fece sobbalzare. Un messaggio. Guardò lo schermo e si sentì il cuore affondare nel petto ancora di più.

 

Sei sicuro che mio zio non si sia beccato qualche virus? Devo essermelo presa anch'io. Mi sa che non vengo. Ti chiamo più tardi.

 

- Se c'è qualcuno che sta facendo tutto questo...- Mormorò, furioso, soprattutto con se stesso, per essere tanto inutile. Rilesse la scritta, rilesse il messaggio di Virginia, ripensò a tutte le sue opzioni, che alla fine si riducevano a una: tornare a casa, prendersi cura di Joel, calmarsi e meditare su come aiutare i suoi amici a risolvere i loro problemi.

Il tragitto fino alla metro e poi sul treno fino a Haven Crescent fu pieno di idee confuse e morbide, su cui i pensieri peggiori rimbalzavano. Scese meccanicamente, pensando a cose pragmatiche come la necessità di ricomprare le uova e il detergente per i pavimenti. Camminò fino a casa e salì le scalette, con le chiavi in mano, pronto ad aprire la porta, ma quella era già aperta e...

Le conche sulla veranda erano tutte fiorite e marcite. I fiori erano esplosi di vita ed erano morti tutti insieme. A marzo. Improvvisamente Amir seppe chi avrebbe trovato in casa sua.

- Un tè?- Propose Abigail, tutta in rosso e viola, seduta al tavolinetto rotondo dove Joel solitamente offriva da bere ai suoi ospiti. Amir rimase congelato sulla soglia, a fissare incredulo i due invasori che usavano le sue cose e riempivano le sue stanze con la più sfacciata tranquillità del mondo.

- Secondo me non lo vuole.- Commentò Clyde, disteso sul divano. Tutto bianco, con i capelli biondissimi e lunghi, si confondeva tra la stoffa e i cuscini.

- Cosa volete da noi?- Mormorò Amir, le mani strette attorno alle chiavi di casa, come fossero state una difesa contro gli intrusi.

- Entra, chiudi la porta, mettiti comodo.- Abigail sorrideva, untuosa. Dietro gli occhi c'era una luce strana, così poco umana. Un'immagine del passato transitò nella mente di Amir. La prima volta che l'aveva incontrata, quando era uscito dal suo ufficio lei l'aveva guardato in quel modo animalesco, come se lui fosse stato una preda, o un altro predatore da sfidare.

- È una battuta triste, ma te la farò lo stesso.- Clyde si sollevò appena per mostrargli un odioso ghigno compiaciuto. - Fai come se fossi a casa tua.- Sprofondò nuovamente tra i cuscini, bianco in mezzo al bianco.

- Cosa volete?- Ripeté Amir. Era strano: tutta la rabbia con cui era entrato, l'istinto a ribellarsi a quell'invasione si erano spenti all'improvviso, ingolfati nella cortina di silenzio e immobilità che sembrava avvolgere la casa. Non che non fosse più infuriato o deciso a difendersi. Ma quei sentimenti caldi non trovavano sbocco e venivano prosciugati da qualcosa che gli galleggiava attorno. Come uno stato di sospensione di tutte le cose. Il tempo, la vita, i sentimenti. La casa era ferma, imbavagliata, addormentata.

- Vogliamo proporti un patto.- Rispose Abigail. - L'avevamo proposto anche al tuo amico Joel, ma lui ha detto di no. Peccato. Mi auguro che tu sia più intelligente.

- Dov'è Joel?

- A vomitare in bagno.- Clyde si sporse dal divano e indicò vagamente in direzione delle altre stanze. - Immagino che tu abbia notato che oggi non è la miglior giornata del mondo.

- Siete stati voi?

Abigail annuì, soddisfatta.

- Manipolare l'umore di quegli imbecilli dei tuoi amici è stato facile. Vedi, quando hanno litigato erano seduti ai tavolini di un caffè dove quei geni dell'Ordine hanno brutalmente spazzato via lo spettro di un cameriere irascibile. C'è rimasta una quantità di astio irrisolto, in quel posto, che mi è bastato soffiare appena sulla polvere, per provocare un'esplosione.

- Perché?

- Perché con tutti i tuoi amici lontani o impegnati a pensare ad altro, e la tua mente piena dei loro problemi, ci sarebbe stato più facile entrarti in casa. C'è molta magia, qua attorno, ma la preoccupazione che i tuoi cari hanno per te la rende molto forte.

- Avete ucciso voi anche Annie?

- Annie è stata un bel colpo di fortuna.- Riprese Abigail. - Ho recuperato quell'idiota dell'Ordine, dopo il tuo indegno trattamento di questa estate. Dico, io: sono degli alleati così carini, per noi, e tu sei andato a traumatizzarmeli tutti in quel modo! Comunque, Simon ha acconsentito ad aiutarci. Certo, ho mentito un pochino. Gli ho detto che facevo parte dell'Ordine del Riposo di Edimburgo, e che volevo aiutarlo. Beh, in ogni modo, gli ho chiesto di fare qualche danno a Springmere. E cavolo, se ne ha fatti, di danni! Pure un bell'omicidio! Oh, proprio perfetto!

- E Vivien? Le avete fatto qualcosa?

I due scoppiarono a ridere all'unisono.

- No, piccino.- Abigail si alzò dalla sedia al tavolino e lo raggiunse, sfiorandogli il viso con una mano dalle unghie lunghissime. - Lei e Angela, come sempre, hanno fatto tutto da sole.

- Voglio vedere Joel. Adesso.

Abigail gli bloccava il passaggio. La sola idea di fare un passo in avanti e avvicinarsi a lei lo terrorizzava.

- Te l'ho detto.- Ripeté Clyde, seccato. - È di là che vomita. Tra poco smetterà di vomitare. E di respirare, anche. L'ho contagiato.

- Allora è vero. Tu fai ammalare le cose.

- Sì, ammetto che in questo campo sono un'eccellenza.

- Perché? Chi sei? È mai esistito davvero Clyde Wendell?

- Oh, sì, è esistito, ma io ormai me lo sono mangiato da un po'. Era un regista neanche malaccio, Ma della sua abilità non me ne fregava niente. Mi serviva qualcuno vicino ad Arthur Headley. Chi meglio di un frequentatore abituale del suo teatro? Così Abigail mi ha aiutato a innestarmi del corpo di Wendell.

- Cosa sei in realtà?

- Io sono Mordred. Sono nato da Arthur Headley. Ero un suo incubo ricorrente. Abigail mi ha fatto nascere dai pensieri contorti di quel vecchio pazzo.

- Un incubo?

- Arthur era terrorizzato dalla malattia. L'idea del tuo corpo che marcisce da dentro. Aveva visto morire suo padre da ragazzino e non l'aveva mai scordato. Il suo incubo ha generato questa splendida creatura!- Ora la voce di Abigail si era fatta un cinguettio stridente. - Io tenevo d'occhio Headley, e ho capito subito che i suoi sogni oscuri mi sarebbero serviti. E guarda un po' che meraviglia: ho un diffusore di infezioni e pestilenza tutto per me!

- Tenevi d'occhio Headley?

- All'epoca non ero nel corpo di questa donna, ma abitavo un impresario teatrale. Sono passato in lei quando il Sunflower è stato ereditato da Bennett. Ho scelto un altro membro dell'ambiente del teatro, uno che avesse dei contatti con gli amici di Bennett. Tutto per stare vicino al Sunflower. Quel posto ci ha fatti penare per così tanto tempo...

Si avvicinò ad Amir e gli sfiorò il viso con dita dalle unghie lunghe. La donna profumava di qualcosa di troppo dolce, e sotto si avvertiva come un sentore di freddo e umido, cantine buie e sale scavate nella roccia. Le sue mani erano calde, ma ogni tanto vi scorreva dentro come una corrente gelida, che arrivava alla pelle di Amir a onde e lo faceva rabbrividire.

- Cosa sei?- Sussurrò lui, scostandosi bruscamente dal tocco.

- Io guido il Ragno. Anzi, io sono il Ragno. Ho dormito dentro Abigail Corrigan per anni, affacciandomi alla sua coscienza solo di tanto in tanto, per manipolarla secondo i miei bisogni.

- E quali sono i tuoi bisogni?

La creatura gli scivolò di nuovo accanto e cominciò a parlargli all'orecchio, un discorso fitto, atono, pronunciato da una voce neutra e disturbante.

- Faccio parte della città anch'io. Sono uno spirito del tempo. Mi nutro dei resti andati a male dei sentimenti di questo posto. E la gente come te, con la sua fascinazione per le ombre e le loro storie, mi intralcia. Preferisco l'Ordine del Riposo, stupido e ottuso. Preferisco i maghi che sfruttano i rimasugli oscuri delle storie della gente per ottenere più potenza nei loro incantesimi non proprio innocenti. Preferisco i trafficanti di creature sovrannaturali, preferisco quelli che trovano piacere nel cacciarle e nel farle a pezzettini. Preferisco gli evocatori di demoni e i domatori di fantasmi, quelli che legano i tuoi amici spettri e li riducono a schiavi piagnucolanti. Preferisco chi nutre gli appetiti inconfessabili della città. Sai, tu e i tuoi siete degli illusi: non si può liberare una città, mai: sarà sempre infestata, sempre incatenata dal suo passato. Sarà sempre brutta, crudele e maleodorante. Per questo preferisco chi cerca di sfruttare la rabbia di una città, piuttosto che quelli come te, che pensano di poter dare un compimento degno alle sue storie.

- Da quanto tempo hai ucciso Abigail?- Sibilò Amir, imponendosi di non cedere al terrore che quella piena di parole aveva cercato di fargli esplodere nell'anima.

L'essere rise, deliziato dalla prospettiva di rispondere a quella domanda. Avvicinò le labbra ancora di più all'orecchio di Amir.

- Dalla scorsa primavera. Sarai lieto di sapere quando è cominciato tutto. Nel momento preciso in cui Abigail Corrigan aveva tra le gambe l'uccello del tuo amico Joel Bennett. Allora l'ho uccisa. Ero felice. Avevo catturato il tuo amico, il figlio adottivo di Arthur Headley. L'avrei manovrato secondo i miei gusti. Pensavo che ci sarei riuscito. Ma poi tu entrasti in una casa troppo forte per te e ne rimanesti ferito. E proprio allora, ecco che Joel Bennett decise di prendersi cura di te. E per questo troncò la relazione con Abigail. Per te. Se non avessi saputo che mi sarebbe tornato utile, quasi quasi l'avrei ucciso!

Amir arretrò ancora, finché si scontrò con la porta chiusa. Voleva chiamare Joel, ma non riusciva a raccogliere abbastanza voce da gridare. Perché, perché ci siamo fidati di questi due?, urlava una parte della sua mente. Le labbra di Abigail (no, non era Abigail, era il Ragno) si piegarono in un sorriso largo.

- Ti sei fidato di noi per un motivo. Perché Joel si fidava di noi. Tu ripetevi che eravamo strani, i tuoi amici spettri e persino il teatro ti mettevano in guardia, eppure tu ti fidavi, perché Joel non credeva che fossimo nient'altro che esseri umani discutibili. Non è così? Oh, Amir, tu sei un paradosso delizioso. Così umile e gentile, capace di puntate di superbia che ti spingono a fare cose più grandi di te. Così moderato e incline alla riflessione, eppure così di parte se si tratta dei tuoi amici. Quando entrano in gioco loro, tu non ragioni più. Eppure il Sunflower ha fatto di tutto per cacciarmi. Ha rotto non so quante lampadine! E io mi dovevo rifugiare nelle profondità di Abigail, perché se fossi entrato con la mia vera essenza, il teatro avrebbe cercato di mangiarmi. Ho dovuto lavorare così tanto e con tanta attenzione. Lo odio davvero, il tuo Sunflower!

- Per fortuna tu non sei proprio così sveglio.- Clyde si alzò dal divano e lo raggiunse, mettendosi specularmente al Ragno. - Ti sei fidato dei tuoi amici e hai tralasciato gli indizi. E ora siamo qui.

- E tu ci dovrai ascoltare.- Un sospiro gelido gli fece venire la pelle d'oca.

- Tu devi sparire.- Disse lui. - Abbiamo provato ad ammazzarti, ma il tuo teatro e una parte della città non sono d'accordo. E poi uccidere un custode del Sunflower è sempre una gran seccatura. Il contraccolpo sovrannaturale è particolarmente odioso.

- Una gran seccatura, uccidere custodi, già. La città si vendica e mette i bastoni tra le ruote per anni.

Amir si ritrovò le mani di entrambi sulle spalle, le loro voci sbagliate a un soffio dal viso, la volontà inchiodata lì, incapace di farlo fuggire dalle loro parole.

- La soluzione è semplice.- Disse il Ragno. - Non puoi morire, ma puoi far sì che tutto questo non sia mai successo.

- Tutto cosa?

- Tu.- Risposero all'unisono.

- Non ci pensare nemmeno, Amir!

Joel emerse dal corridoio, entrando nella stanza a passo vacillante, appoggiandosi penosamente contro il muro. Era bianchissimo, con delle occhiaie spaventose e un rivolo di sangue che gli colava dalla bocca e gli insozzava la camicia.

- Amir, non li ascoltare. Non importa quanto ti sembrerà convincente il patto!

- Abbiamo proposto il patto a Joel, in cambio della guarigione.- Spiegò Clyde. - Ha detto di no. Spero che tu sarai più sensato.

- È molto, molto semplice.- Sibilò il Ragno. - Ho portato in questa stanza una creatura che si chiama Oblio. Un piccolo spirito del tempo, microscopico rispetto a me, che posso comandare. Questo essere può riportare la tua coscienza indietro nel tempo, fino a un momento preciso. Tornerai a quella notte di dicembre 2007 e cambierai qualcosa, in modo che la tua relazione con Joel Bennett non venga mai creata. In cambio avrai la vita di Joel e degli altri. Se accetterai, noi faremo sparire il contagio dai loro corpi e li lasceremo in pace per sempre.

- E lasceremo in pace anche te.- Disse Clyde. - La tua storia sarà un po' diversa. Ma voi sarete vivi.

- No, Amir, ti prego, no! Le cose che hai fatto in questi due anni...- Joel fu colto da un accesso terribile di tosse. Amir lo vide scivolare a terra, le mani piene di sangue. Si contorceva sul pavimento, cercando di trarre fuori delle parole dalla gola, tra i colpi di tosse e l'inesorabile sputare sangue, a ogni sussulto del suo corpo.

- Per favore, lasciatelo stare.- Tentò di fare un passo in direzione di Joel. Il Ragno sollevò una mano di fronte ad Amir e lui si accorse di essere immobilizzato. - Almeno fatemi andare vicino a lui. Per favore, ha bisogno di aiuto!

- C'è solo un modo per aiutarlo.

- Accetta il patto e lui starà bene. Rifiuta, e non solo lui morirà, ma anche gli altri tuoi amici che abbiamo contagiato.- Abigail gli scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. - Virginia, Aidan, quel ragazzino biondo tutto timido... Daniel, giusto?

- Ma tu puoi salvarli. Joel starà bene. Anche Virginia starà bene. E Aidan, e tutti gli altri. Accetta il patto e loro saranno sani e salvi e felici. E, chissà, se il futuro cambierà, forse anche la cara Annie non sarà più morta.

- Pensi di essere così importante per loro e per la città, da meritare di esistere ancora in questa storia, a scapito delle loro vite?- Sibilò il Ragno, e quella fu l'ultima cosa che dovette dire, perché Amir serrò gli occhi e portò le mani sulle orecchie, distrutto dalla visione dell'uomo morente di fronte a lui.

- Va bene. Va bene, accetto.

 

 

II

 

20 marzo 2010

 

La tomba di suo zio era molto anonima e non c'erano fiori, sopra. Virginia sospettava che non ci fosse più andato nessuno, dopo il funerale, poco meno di un anno prima. Beh, non c'era andata nemmeno lei. Non era andata nemmeno al funerale. Le era sempre importato poco di quello zio per niente incline ai contatti umani. Poi si era sentita in colpa, però.

Beh, adesso era lì.

Chissà perché Springmere, poi. Non era la sua parrocchia. Ma aveva una parrocchia? Non penso che abbia mai creduto in niente.

Era stata l'amica di suo zio, Angela, a scegliere quel posto. Aveva detto che di sicuro Joel non avrebbe apprezzato di riposare nella tomba di famiglia. Non aveva mai amato nessuno, della sua famiglia (Virginia compresa.)

Insomma, visto che sono qui, tanto vale provare a essere più gentile. Almeno ora che è morto.

Posò i fiori bianchi davanti alla lapide, con poca grazia. All'improvviso non era più convinta di trovarsi lì, a salutare quella persona della quale si era sempre curata poco. Quella persona che era morta in maniera silenziosa come era vissuta. Troppi sonniferi, avevano detto i dottori. Troppa voglia di dormire, di spegnersi dall'esistenza.

Cosa gli dico?

Chissà come sarebbero cambiate le cose, se suo zio avesse avuto qualcosa a cui tenere. A Virginia piaceva la sensazione di avere qualcosa a cui tenere. Lei aveva tanti interessi, tante idee, e vi si aggrappava con forza. Anche se da quando suo zio era morto, su tutta la sua famiglia era sceso un velo di minore cura per la vita che un po' aveva toccato anche lei.

Forse una volta suo zio aveva tenuto ad Angela. Una volta. Poi avevano litigato. Angela aveva sofferto della morte di Joel, ma per fortuna aveva dovuto soffrire poco. Grazie all'impianto elettrico scadente di una stanza d'hotel in cui era andata a cacciarsi, qualche mese prima, nel tentativo di ritrovare la sua amica Vivien, che, al solito, era sparita senza dare notizie. Mezzo palazzo in fuoco, quattro morti.

Vivien non si era mai più fatta viva, dopo quell'evento. Virginia aveva ponderato di andare al funerale di Angela, per fare ammenda di aver mancato quello di suo zio, ma poi ci aveva rinunciato.

Con che coraggio giudico te, Joel Bennett, quando mi ritrovo a ventuno anni che sono sola quasi quanto lo eri tu? Non sarà che questa voglia di dormire è genetica, e che io ho preso da te più di quanto vorrei ammettere?

La tomba non rispose e Virginia se n'ebbe a male. Voltò le spalle alla lapide e trotterellò via, senza guardarsi indietro.

Per calmarsi, mentre risaliva il vialetto che l'avrebbe condotta fuori dal cimitero, si mise a guardare le tombe, a leggere le frasi che c'erano scritte sopra, a ridere dell'ingenuità datata di alcune di esse.

Meredith Browning. Figlia, moglie, madre, amica e animo misericordioso. E poi, che altro? Gordon Carlton Merton. Dio, che razza di nome del cazzo. Charles Augustus Milverton. Gli amici posero. Amici tirchi: guarda che tomba di merda ti hanno fatto. Allen Waymore.

C'era un ciuffo di violette che spuntava accanto alla lapide di Allen Waymore. Di un viola scuro, pieno, delizioso. Istintivamente Virginia si inginocchiò per rubarne una. Ad Allen non sarebbe dispiaciuto, ne era certa.

La sua mano sfiorò la lapide e una macchia rossastra lì sopra, a un soffio dalla e di Waymore.

Durò un istante ma fu reale in maniera dolorosa. La certezza che c'era qualcosa di sbagliato, lì, e non si trattava del fatto che una ventunenne triste stesse rubando un fiore a un morto. Era tutto sbagliato, la realtà era sbagliata, perché le cose non dovevano andare in quel modo, e da qualche parte esisteva una storia diversa, dove c'era qualcuno che adesso mancava...

Si riscosse da quella sensazione e si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime. Per un attimo la sua mente le aveva regalato una specie di deja-vu crudele, nel quale aveva creduto che potesse esistere qualcosa che sicuramente aveva molto più gusto dell'esistenza nella quale si trascinava adesso.

Guardò la violetta che aveva tra le mani. Se la infilò tra i capelli neri e ispidi. Fece un cenno di saluto con la testa ad Allen Waymore e fece per alzarsi.

La macchia rossa.

- Perché questa cosa continua ad attrarmi?

Allungò un dito per toccarla.

Perché tu c'eri. Tu eri qui, quando è successo.

- Successo cosa?

Non ti ricordi?

- No. Sì. Non lo so. Cosa dovrei ricordarmi?

La scorsa estate. Di mattina presto. Eri qui.

- Sì, ma con chi?

Con le due persone più importanti della tua vita.

- Io non ho persone importanti, nella mia vita.

Perché questa è la vita sbagliata.

La mano di Virginia si spalancò e si premette contro la macchia.

- È una macchia di sangue.

Il sangue è una cosa potente, se si tratta di magia e di patti. Il sangue è una cosa potente. Chi l'ha detto? Te lo ricordi?

- Allen Waymore. Ma non può averlo detto: è morto!

E allora? Quando mai è stato un ostacolo, per voi?

- Noi?

Pensa ai visi, ai nomi di quelle persone. Cominciano tutti e due con la A...

Chiuse gli occhi e vide una corsa in macchina per le vie della città, lei nel sedile posteriore con una persona sanguinante appoggiata sulla spalla, mentre un'altra persona (strana sciocca lunga rossa di capelli deliziosa splendida come nessun altro mai in nessun altro universo) guidava come un pazzo a caccia di... Rune?

- Aidan?- Mormorò, mentre cominciavano a scenderle le lacrime. - Aidan. Tu esistevi. E io ero innamorata di te. Non ti ho inventato io. Tu c'eri. E c'era anche Amir. Lui era speciale. Lui ci ha fatti conoscere. Era amico di mio zio e amico tuo. Ci ha presentati. Ci ha parlato dell'altra anima della città. Mi ricordo di voi. Perché non ci siete, adesso?

Perché è successo qualcosa e ora è tutto sbagliato.

Virginia scattò in piedi, artigliandosi con tutte le sue forze a quei ricordi improvvisi. Il viso lungo di Aidan, il suo linguaggio a metà tra lo sboccato e il raffinato, il suo umorismo che oscillava dal triviale al geniale, la sua capacità di prendersi a cuore le cose. Aidan che la ascoltava infiammarsi per i fumetti e i libri. Aidan che le comprava fermagli colorati e orecchini dalle forme improbabili. Aidan che imparava a suonare (male) sulla chitarra scassata del suo coinquilino le canzoni preferite di Virginia. Aidan che la chiamava Bennett, Aidan che la aspettava nei posti più impensati per farle paura per scherzo. Non era una sua invenzione, lui esisteva davvero! Non si può inventare una cosa tanto genuina e perfetta.

E poi Amir, uno di quegli amici a cui pensi come a un privilegio quasi immeritato, come a una cosa preziosa da conservare e tenere al sicuro. Un viso gentile, una voce capace di addolcire le vibrazioni dell'ansia e del panico. Un animo carico di responsabilità e segreti. Amir aveva fatto diventare più amabile e sensibile persino suo zio. Amir aveva ridato la voglia di impegnarsi ad Angela.

Angela, che non era morta nell'incendio di un hotel, ma lavorava ancora alla bottega di giocattoli. E suo zio, assolutamente vivo, che cercava di lottare con la sua depressione: glielo aveva detto lui, aveva ricominciato a farsi seguire da un terapeuta perché non aveva più paura di vivere, ora voleva vivere bene ed era tutto per via del teatro...

- Il teatro l'ha comprato una certa Abigail Corrigan, due anni fa.

No, non è vero! È successo in questa realtà, ma questa realtà è sbagliata! Io rivoglio la nostra storia così com'è per davvero.

- Anche tu hai l'impressione che ci sia qualcosa che non va?

Virginia si voltò di scatto e trovò davanti una ragazza con i capelli biondi, molto ricci e crespi, con indosso un camice bianco da infermiera macchiato di rosso.

- Chi sei?

- Non ti ricordi di me?

- Ti conosco?

- Mi conoscevi. Da viva. Dall'altra parte. Nell'altra storia, intendo. Mi chiamo Annie ed ero l'assistente di un medico. Lavoravo qui.

- Al cimitero?

- Non ti ricordi di Allen Waymore?

- Il dottore fantasma.- Mormorò Virginia. - Sì. Me lo ricordo. Ho portato qui Amir, una mattina presto d'estate. Si era scontrato con l'Ordine...

- L'Ordine del Riposo. Hai ragione. Ecco come si chiamava.

- Ma come mai ci stiamo ricordando tutto questo?

- Non lo so. Per me è cominciato da quando ho notato quella macchia di sangue sulla lapide di Allen Waymore. Io sono morta, mi hanno seppellita qui un anno fa.

- Cosa?

Annie rise.

- Non ti spaventare così. Nell'altra storia hai già incontrato altri spettri.

- Sei viva, nell'altra storia?

- No, purtroppo no. Ma almeno sono morta in un altro modo. Qui mi ha uccisa il mio ragazzo. Nell'altra storia lo avevo mollato grazie ai consigli del dottor Waymore. Che palle. Non mi piace essere morta. Però preferisco l'altra storia.

- Mi ricordo di te. Siamo venuti qui e tu hai medicato Amir.

- Ha sanguinato sulla lapide di Allen e lui ci ha scherzato sopra.

Gli occhi di entrambe andarono alla macchiolina rossastra accanto alla e di Waymore.

- È come se in questa storia Amir non ci fosse.- Disse Virginia. - Ma allora come mai il suo sangue è sulla lapide?

- Il sangue è potente, quando si tratta di magia e patti. L'ha detto Allen. La storia è cambiata, ma il sangue è rimasto lì. Perché forse questa storia è una riscrittura e non è la verità.

- Io rivoglio l'altra vita. Non voglio rimanere qui!

- Già. Non credere che non ci abbia pensato. Piacerebbe anche a me. Ma come facciamo a riprenderla? A chi chiedevamo aiuto, nell'altra storia?

Virginia scosse lentamente la testa, mentre la realizzazione della verità le arrivava addosso, schiacciandola.

- Sono tutti morti o spariti, quelli a cui chiedevamo aiuto. Angela. Vivien. Il tuo dottore fantasma. E Amir non c'è. Lui avrebbe saputo cosa fare. Conosceva le creature sovrannaturali. Sapeva a chi rivolgersi. Io non lo so.

Scivolò a sedere sulla tomba di Allen Waymore, con il peso di una disperazione terribile addosso.

- Non è possibile. Perché ho dovuto ricordare? Sarebbe stato meglio non saperlo. Dobbiamo rimanere qui, quando invece sappiamo che esiste un altro mondo.

Virginia tacque. Annie si accoccolò accanto a lei, lo sguardo fisso sulla macchia di sangue.

Il sangue è potente, se si tratta di magia e patti.

Non so neanche cosa sto pensando. Vedo ricordi di qualcun altro e forse sto solo impazzendo, ma se fosse vero...

Se fosse vero, allora io devo riavere le cose com'era prima. Rivoglio l'altra storia.

- Io ne ho sempre avute tante, di storie, ma quella che volete voi è persa, ormai, temo.

L'uomo appena comparso era magro, con una felpa nera e jeans indosso, i capelli scuri e occhi dorati dalla forma inquietante. Simili a quelli di un gatto. Portava un ombrello agganciato alla cintura e fumava. Di fronte allo sconcerto delle ragazze, la viva e la morta, sorrise.

- Tu chi sei? Non credo di averti mai visto neppure di là.- Disse Virginia.

- No. Ma tutto questo parlare di storie mi ha evocato. Sono Nevan, il Cacciatore di Storie, e so di cosa state parlando. L'altra storia è... Come sarebbero dovute andare le cose. Ma poi quello sciocco del vostro amico Amir ha fatto un patto con della gente poco raccomandabile. Per salvarvi la vita.

- Salvare la vita a noi?

- Eravate minacciati dai suoi nemici. In cambio della vostra vita, lui ha accettato di modificare il suo passato, e non compiere un piccolo gesto, in una notte di dicembre del 2007. Quando Joel Bennett è entrato in cerca di aiuto nel locale nel quale Amir lavorava, lui non gli ha dato il suo telefono per chiedere assistenza per la sua auto ferma. Così Joel non gli ha parlato, non gli ha offerto un tè, non ha ascoltato la sua storia e non è tornato a cercarlo per assumerlo, qualche tempo dopo. In questo modo Amir è sparito dalla vita della città e di tutti voi.

- Era così importante, questa persona, perché la sua assenza abbia trasformato così le nostre vite?- Mormorò Virginia.

- Sì. No. Chi lo sa. Le storie sono fatte di tanti particolari così piccoli. Lui smuove le acque. Ha messo in relazione persone differenti. Ha ridato vita a Joel Bennett. Ha presentato Aidan a Virginia. Ha salvato Allen Waymore, che poi ha salvato Annie. Cioè, avrebbe dovuto fare queste cose. Le ha fatte nell'altra storia.

- E come facciamo a riavere quella storia?- Domandò Annie.

- Cosa cambia, per te? Sei morta comunque.

- Sono morta dopo aver denunciato un pazzo per stalking ed essermene liberata. È un vanto e vorrei tenermelo, grazie. E poi non voglio tutta questa desolazione.

- Amir è tornato indietro grazie a un Oblio. Un filamento di tempo comandato dalle intenzioni poco gentili di quelli che gli hanno proposto il patto.- Spiegò Nevan. - Io posso provare a cercare l'Oblio e affrontarlo. Ma potrebbe costarmi molto.

- Lo affrontiamo noi.- Disse Virginia. - Dicci dov'è e cosa dobbiamo fare!

Nevan fece una risata triste.

- Ah. Lo sapevo che sarei arrivato a questo. No, mie signore: non è sfida per voi. Ma la vostra tenacia nel desiderare una bella storia perduta mi stringe il cuore. Il mio cuore di non-umano. Lo sapevo che a mischiarmi troppo con voi... Basta. Va bene. Mi avete convinto. Aspettatemi qui. Se c'è una possibilità di restituirvi la storia giusta, ve la conquisterò.

Poi l'uomo si infilò nell'ombra della tomba più vicina e vi sparì dentro. Virginia e Annie si scambiarono uno sguardo sconcertato. La ragazza morta tese la mano a quella viva e l'altra gliela prese. Rimasero ferme, sotto il vento, ad aspettare.

 

Erano passate quasi due ore e il cielo era quello stanco del tardo pomeriggio, quando il Cacciatore di Storie tornò, vacillando, ansimando, ridendo la risata di un folle. Fece un inchino barcollante alle due ragazze e poi scivolò in ginocchio di fronte a loro. Un occhio era spento, scuro, grondante di sangue. C'era un graffio che gli attraversava le labbra. La mano sinistra era ritorta e spezzata. Ma la mano destra era stretta intorno a qualcosa.

- Cosa ti è successo?- Virginia fece per toccarlo, ma lui si ritrasse.

- No. Non mi toccare. Ma porgimi la mano, Virginia Bennett, perché ho qui la tua storia.

Lei tese la mano e lui aprì la sua, contratta e tremante. Una goccia rossa le piovve sul palmo.

- Stringi forte.- Sussurrò Nevan, scivolando a terra. - Devi raggiungerlo. Non perdere quello che ti ho dato. È il suo tempo già vissuto, quello che ha dato via. Riportaglielo.

- Ma lui dov'è?

- Al locale del primo incontro con Joel.

- Ma tu...

- Io morirò, com'era ovvio. Mai mischiarsi con gli affari di voi stupidi uomini!- Nevan fece una risata macchiata dal dolore e Virginia fece di nuovo per toccarlo. Lui urlò. - Stammi lontana, Virginia Bennett! Se mi tocchi ora, diventerai me.

- Cosa? Perché?

- Perché sto morendo, te l'ho detto. Tutte le mie storie... E nessuno a cui lasciarle! A meno che la ragazza morta non le voglia prendere. Cosa ne dici, Anne Elise Ackroyd? Nella mia disgrazia, ho trovato un'erede?

- Io?- Mormorò Annie. - Ma io sono...

- Morta, sì.

- E tu non sei umano.

- Tu sì. Forse funzionerai anche meglio di me.

- Significa che continuerò a esserci?

- Sì. Per un tempo molto lungo. Potresti pentirtene.

- Ma se ti dico di no, cosa succederà?

- Più di un millennio di storie conservate andrà perduto.

Annie sollevò lentamente una mano e la posò sul viso insanguinato di Nevan.

- Grazie.- Sussurrò lui, chiudendo gli occhi.

- Grazie di aver ritrovato la nostra storia vera.- Rispose lei, con lo stesso tono dolce. - Grazie di aver camminato per le vie di Londra per millecentosettantaquattro anni, raccogliendo cose preziose. Sarò all'altezza del compito, credimi.

Il corpo di Nevan fu visibile ancora per un attimo, poi si disfece in uno sbuffo di petali e cenere.

- Che aspetti, Virginia Bennett?- Chiese Annie dagli occhi viola, seria e splendida e antica. - Corri!

 

I ricordi le grandinarono addosso sulla metro e mentre correva per le strade poco illuminate che l'avrebbero condotta al pub. Un posto brutto, sporco e gestito male a Ilford. Ricordò i racconti. La mia datrice di lavoro era una specie di strega. “Strega” era una delle cose più cattive che Virginia avesse mai sentito dire ad Amir riguardo qualcuno (che non facesse parte dell'Ordine del Riposo.)

Eccolo lì, con la sua insegna mezza fulminata: il Gateway Pub. Virginia si fermò, ansimante per la corsa, la mano destra sempre serrata, a proteggere la cosa più importante del mondo.

Dove sei?

Entrò nel locale e si avvicinò al bancone.

- Scusa. Ehi, scusa!

Una donna magra si voltò verso di lei, con la faccia accigliata.

- Hai bisogno di qualcosa?

- Cerco un ragazzo pakistano di nome Amir. Lavora qui, no?

La donna fece una faccia strana.

- Non lo sai?

- Sapere cosa?

- C'è stata una rissa. Più di due anni fa. Febbraio 2008. Lui ha tentato di mettersi nel mezzo e si è preso tre coltellate. È morto.

 



***
Grazie di essere qui.
(Il 7 dicembre 2008, durante una sessione di gioco di ruolo masterizzata da me, il personaggio di Amir venne inventato in tre secondi, per risolvere un problema di trama. Non avrei mai immaginato di portarlo fin qui.)
Mancano due capitoli soltanto al finale, che sarà pubblicato entro Natale.

 

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Capitolo 29
*** XXIX - La Battaglia del Sunflower ***


Capitolo XXIX

La Battaglia del Sunflower

 

My fall will be for you
My love will be in you
You were the one to cut me
So I'll bleed forever

(Nightwish, Ghost love score)

 

20 marzo 2010

 

È morto.

Le parole rimbombavano nella mente di Virginia, ferma al centro della stanza. Il tempo stava ancora scorrendo? Forse. Il pub si riempiva. Persone le camminavano intorno. Lei restava immobile e pensava

è morto.

- Perché chiedevi di me?

Fu come aprire gli occhi, pur non avendoli mai chiusi. Si trovò lo spettro davanti, fragile e tremolante, poco chiaro, confuso nella penombra e nelle luci della sala, più basso, esile e dimesso di com'era Amir nella realtà vera. Una creaturina smarrita che si sente in colpa per lo spazio che occupa – anche se è uno spazio incorporeo. Per un attimo il cuore di Virginia fu inondato da una pena devastante.

- Chi sei?- Chiese ancora lui.

- Virginia. Non ti ricordi di me?

- Non ti conosco. Mi dispiace.

- Io sì. Amir. Dammi la mano.

Il fantasma aprì la mano, titubante. Lei spalancò la sua e lasciò che la goccia rossa scivolasse su quella del ragazzo.

- Ti prego.- Mormorò, serrando le palpebre. - Ti prego, fai tornare la storia giusta.- Il respiro le si bloccò in gola, insieme a una tempesta di pianto - Ti prego, riportami a casa!

I rumori sparirono tutti insieme. Il mondo era vuoto di rumori. Vuoto di tutto. Virginia teneva gli occhi chiusi e sentiva il mondo che veniva cancellato.

Poi qualcuno le gettò le braccia al collo.

- Che ci facciamo al Gateway?

Virginia Bennett cacciò l'urlo di gioia più forte della sua vita.

- Sei vivo!- Abbracciò Amir, saltellando come una bambina, tirandogli i capelli, singhiozzando contro la sua spalla.

- Certo che sono vivo. Perché non dovrei esserlo? Ti prego, Virginia, smetti di piangere, va bene? Spiegami cos'è successo.

- Qual è l'ultima cosa che ti ricordi?

- Io ero... Oh, Dio. Ero nel salotto di casa nostra e loro sono venuti a propormi un patto.- Virginia finalmente si staccò da lui e lo guardò in viso: era terrorizzato.

- Hai fatto un patto con non so bene chi. Te lo ricordi, questo?

- Che cazzo, volete parlare piano?- Intimò uno dei camerieri. Virginia prese Amir per mano e lo trascinò fuori dal locale: era notte e faceva freddo, ma l'aria sul viso la fece sentire più sveglia e presente.

- Tu hai accettato di uscire dalla nostra vita. Di non esserci mai entrato.- Gli disse. Gli stringeva la mano con tutte le sue forze, incurante di fargli male: era troppo importante appigliarsi a lui, al fatto che fosse vivo, vero e lì.

- Ho visto Joel sul punto di morire. Virginia, stava morendo e io ho fatto il patto perché lo volevo salvare!

- E il patto ha creato un'altra realtà. Dove eravamo quasi tutti morti, compreso te. Saresti morto tentando di sedare una rissa nel pub. Joel sarebbe morto per aver ecceduto con i sonniferi, Angela sarebbe morta in un incendio, e io avrei avuto una vita di merda. Il tuo arrivo ha smosso così tante cose, e senza di te...

Amir la abbracciò di nuovo.

- Mi ricordo qualcosa.

- L'altra realtà? Ti ricordi l'altra realtà? Perché io sì, ed era un incubo.- Affondò il viso nei capelli di Amir. Reale, solido, tangibile. Magro, teso come sempre quando qualcuno lo stringeva. Profumava vagamente di sapone, della lana del suo maglione, dell'umidità nell'aria e del fumo del pub. E anche di qualcos'altro di indefinito, che per Virginia era l'odore del Sunflower. Era infreddolito e la pelle del suo viso era gelida, ma il suo corpo emetteva calore, perché era vivo. Non era mai stata così felice di constatare l'esistenza di qualcuno.

- Mi ricordo la solitudine. E la sera in cui sono morto. Come hai fatto a rimettere le cose a posto, Virginia?

- Il sangue è una cosa potente, se si tratta di magia o di patti. Ce l'ha detto Allen Waymore, te lo ricordi?

- Sì, ce l'ha detto quando gli ho sanguinato sulla tomba, la scorsa estate. Che c'entra?

- Nell'altra realtà ero al cimitero di Springmere per portare i fiori sulla tomba di mio zio. Ho visto la macchia del tuo sangue sulla sua tomba e ho ricordato. E anche Annie.

- Annie! È viva?

- No. Sì. Non sono sicura. Non si è salvata, ma non è morta e non è nemmeno un fantasma, adesso.- Si sciolse dall'abbraccio e lo riprese per mano, trascinandolo in una corsa. - È stato Nevan ad aiutarci. È venuto da noi e ci ha detto che avrebbe trovato il modo per recuperare la tua storia. Ha detto che la creatura che ti ha rispedito qui si chiama Oblio. Nevan l'ha affrontato. Mi dispiace, Nevan è morto. Ma ha ritrovato la tua storia, e Annie ha ereditato le storie di Nevan.

Lanciò un'occhiata ad Amir, totalmente spaesato di fronte a quella valanga di informazioni. Non poteva fermarsi a confortarlo, a spiegargli le cose con più calma. Dovevano correre, e lo sapeva anche lui. Ne ammirò la determinazione nel tenere il passo furioso di lei.

- Virginia, ti prego, dimmi che giorno è. Il mio ultimo ricordo risale alla mattina del 20 marzo.

- Adesso è la sera del 20 marzo.

- La sera? Oh, Dio, dobbiamo andare al teatro! La sera del 20 marzo è previsto lo spettacolo di Clyde Wendell al Sunflower! Clyde Wendell è... Un'infezione. Non so come spiegartelo, ma lui e Abigail Corrigan sono nemici. Lei è il Ragno. Sono loro che vi hanno fatto del male. Dobbiamo andare al teatro, e... Tu stai bene?

- Io sto bene.

- Cambiare la realtà deve avere cancellato il morbo.

- Che morbo?

- Vi avevano contagiati tutti. Se non facciamo qualcosa, lo faranno di nuovo. Portami al teatro. Sto morendo di freddo. E mi stai stritolando la mano.

- Non mi importa. Ho bisogno di stringere. Dai, corri!

Corsero, infilandosi nella metro ancora mezzi abbracciati. Lo sentiva tremare e sapeva che non era solo il freddo. Era qualcos'altro. Il ricordo della realtà alternativa, forse. O forse sentiva che il teatro era in pericolo.

- Dobbiamo radunare tutti, Virginia. Portarli al Sunflower. Devo trovare Angela: ho bisogno di quella magia. Quella che... Insomma, so cosa possiamo fare per salvare il teatro, forse.

- Telefono ad Aidan. Cazzo, stamattina abbiamo litigato!

- Non era colpa vostra.

- Cosa?

- Te lo spiego domani. Se ci arriviamo, a domani.

 

*

 

Perché cazzo sono disteso sul letto? Dov'ero, prima di collassare? A cosa stavo pensando?

Il telefono distolse Aidan dalle domande.

Virginia.

Virginia? Dopo la litigata di stamattina? Credevo non mi avrebbe rivolto la parola mai più, a meno che non fossi andato a strisciare davanti a casa sua...

- Ehi.- Iniziò, timidamente, in attesa di capire cosa lo aspettava dall'altra parte.

- Stai bene?- Gli urlò Virginia, con il tono di voce di chi ha appena ritrovato un parente dopo una tragedia.

- Sì, certo. Mi hai visto due ore fa.

- È notte.

- Cazzo. Un po' più di due ore fa. Che ci facevo a letto?

- Te lo spiego dopo. Vai al Sunflower e aspettaci lì.

- Aspetto chi?

Un suono esasperato dall'altra parte del telefono.

- Tu ricordi tutto, vero? Amir, mio zio, il Sunflower... Me.

- Eh, cazzo, avrei dei problemi, se mi fossi scordato tipo delle cose più consistenti della mia vita negli ultimi due anni.

- Non sai quanto è vero quel che hai detto. Vai al teatro e aspettaci. Non entrare. Sta succedendo un grosso casino. E... Aidan, Amir dice che non è colpa nostra se stamattina abbiamo litigato, ma ce lo spiega meglio un'altra volta.

- Wow. Quindi sarà molto più facile del previsto rimetterci insieme?

- Cretino. Muoviti e vai al teatro!

Virginia riattaccò e Aidan rimase a fissare il telefono, assonnato e confuso. Si passò una mano sugli occhi ripetute volte, tirò indietro i capelli rossi arruffatissimi, tentò di ripescare nella memoria passaggi di quella giornata fuori posto. Aveva litigato con Virginia... Per cosa, poi? Si erano lasciati. Più o meno. Aveva telefonato ad Amir per avere un consiglio e...

- La sua amica Annie è morta.- Si disse, ricollegando i pezzi degli eventi.

E dopo?

Dopo si era buttato sul letto, aveva la testa che gli sembrava fasciata di gommapiuma, i rumori gli arrivavano distorti e gli stava salendo una nausea bestiale.

E dopo...

Perché aveva l'impressione che per il resto della giornata

(non esistevo. per il resto della giornata non sono esistito)

- Dio, che casino.- Si alzò in piedi, corse in bagno e si lavò il viso diverse volte, ripetendosi che presto avrebbe saputo la verità e che Amir e Virginia avevano bisogno di lui. Funzionava, ripetersi le cose importanti. Glielo aveva insegnato sua mamma alle elementari e lui non aveva mai smesso. Quando l'accidia ti imprigiona, tu prova a dirti cosa ti stai perdendo, a rimanere fermo.

Perché sto rivangando queste cose proprio adesso?

Perché hai bisogno di ricordarti che esisti. Perché eri morto, nell'altra storia. Eri morto mentre combinavi qualche puttanata insieme a quegli idioti irresponsabili dei tuoi inquilini, con quel cazzo di rottame di auto.

Ma ora siete ritornati alla storia giusta.

 

*

 

Joel si rigirò sulla schiena e guardò il soffitto del suo salotto. Si sentiva meglio, adesso, ma doveva essere svenuto. Quando era successo, però? Il suo senso del tempo non gli veniva in aiuto: era tutto molto caotico, nella sua testa, e per giunta i suoi ultimi ricordi risalivano alla mattina, mentre fuori dalle finestre c'era buio.

Si tirò su e si ritrovò a fissare sgomento le macchie rosse sulla propria camicia. Aveva addosso un odore sgradevole di sangue e succhi gastrici. Aveva passato la mattina a vomitare. Ora però stava bene. Quanto tempo era rimasto incosciente sul pavimento?

Salì in camera, si spogliò e si infilò nella doccia, cercando di calmare i pensieri inquietanti e le domande inopportune, concentrandosi solo sulla sensazione rilassante dell'acqua. Il suo telefono cominciò a squillare, ma lui decise che per cinque minuti poteva concedersi il lusso di ignorarlo. Tanto, chi poteva essere così disperato da avere bisogno del suo aiuto immediatamente?

 

*

 

Amir cacciò il telefono in tasca con stizza. Virginia, accanto a lui, intuì che Joel non doveva aver risposto. Stava continuando ad aggrapparsi al braccio di lui, come per sincerarsi che fosse proprio lì e non ci fossero più dubbi sulla sua meravigliosa realtà e solidità.

- E se lui non fosse guarito?- Mormorò il ragazzo, appoggiando la fronte contro il finestrino del treno che li stava conducendo al teatro.

- Io e Aidan stiamo bene. Il tuo patto ha cambiato il tempo e ci ha tolto il contagio.

- Sì, ma ora siamo tornati al tempo normale. Se lui non fosse guarito?

- E dai, magari non ti risponde perché è sotto la doccia. Non ti angosciare così.

- L'ho visto quasi morire.

Virginia gli si strinse contro, posando il mento sulla spalla di lui.

- Ci credo, che hai accettato il patto. Ma ne siamo venuti fuori. Adesso andiamo a difendere il teatro.

- Devo tentare di contattare Angela.

Amir riprese il telefono e richiamò, ma la donna non rispose. Lui scrisse un messaggio e lo inviò. Virginia si sporse per cercare di leggere cosa avesse scritto e distinse solo le parole “Sunflower” e “Raduno”.

- Riprovo a chiamare Joel.

Nemmeno questa volta ci fu risposta.

 

*

 

Nelle viscere del Sunflower c'erano poteri di cui ben pochi avevano un'idea precisa. Amir meno di tutti.

Ecco perché sei voluta venire qui.

Cinque giorni a inseguire indizi concreti e tracce di magia, tra hotel e treni, tutto per ritrovarsi lì. Angela aveva voglia di prendere Vivien a schiaffi. Forse l'avrebbe fatto, una volta che l'avesse recuperata.

Speravi che non ti trovassi? Ti ho sempre raggiunta. E prima che tu facessi dei grossi danni.

Vivien le ripeteva che Angela non era la sua custode e non era obbligata a ripescarla ovunque lei andasse, ma non era vero, perché quando non vi resta nessuno, alla fine siete voi due, a dovervi considerare famiglia a vicenda, a dovervi custodire l'una l'altra.

Ma che cosa sei venuta a fare qui sotto?

Un brivido scosse la terra, le mura e l'aria attorno alla donna. La sua capacità di cogliere la magia e i movimenti dell'anima delle cose le suggerì che c'era un pericolo vicino. Lì, all'interno di quello spazio dal linguaggio incomprensibile. Era Vivien? Era uno degli altri mille assurdi nemici del teatro e della città?

Guarda il telefono, idiota.

- Chi ha parlato?

Nessuno le rispose, ovviamente. Però lei obbedì, e trovò una decina di chiamate da parte di Amir e di Virginia, e un messaggio del ragazzo:

 

sta succedendo una cosa grave vai al sunflower, nasconditi e disegna un incantesimo di raduno se lo sai fare è quella magia che apre la porta per tutti gli spettri della città per farli andare tutti nello stesso posto corri

 

- E se Amir dimentica la punteggiatura e le maiuscole, è davvero un segno dell'Apocalisse.- Mormorò, inginocchiandosi per cominciare a lavorare all'incantesimo.

 

*

 

Joel uscì dalla doccia e dimenticò il telefono. Si cambiò e si sedette sul letto, pensando con calma al fatto che gli sembrava di avere un immenso buco nella memoria, e che la giornata era scorsa via quasi come se non ci fosse stata. A un certo punto notò con curiosità il volume alla base della pila di libri posata sul suo comodino. Era polveroso. I libri di Joel non si impolveravano mai: li leggeva rapidamente, in successione, e poi li rimetteva al loro posto negli scaffali delle librerie che popolavano la casa. E allora come mai quel libro pareva lì fermo da così tanto tempo?

Il telefono squillò di nuovo. Lo recuperò con calma dalla tasca dei pantaloni sporchi che aveva lasciato per terra.

- Amir, tutto bene?

- No!- Esplose la voce arrabbiata dall'altra parte. - Tu stai bene?

- Sì.

- E perché non hai risposto?

- Ehi, calmati. Ero sotto la doccia. Che ti prende?

- A me? Stamattina stavi per morire!

- Ma cosa stai dicendo? Stamattina stavo... Oh. Oh, Dio. Abigail Corrigan e Clyde Wendell. Loro erano qui. Hanno detto di essere il Ragno e Mordred. Ti hanno proposto un patto, e onestamente avresti dovuto capire che era un'enorme fregatura.

- Sì, beh, fortunatamente hai una nipote sveglia.

- Virginia?

- Le dobbiamo la vita tutti quanti.

- Addirittura la vita?

- Non c'è tempo per spiegare. Vieni al Sunflower, subito. Noi siamo qui. Ho bisogno di più persone possibile, e anche se vi voglio fuori dai guai, io... Non penso di riuscire a risolvere tutto quanto da solo. Aiutatemi, per favore!

- Stai tranquillo. Dammi il tempo di arrivare. Qualunque cosa sia successa, vedrai che la risolveremo.

- Non lo so. Non so come fare. Come si sconfiggono un Ragno e una pestilenza?

- Cosa?

- Sono gli unici indizi che abbiamo su di loro.

Joel spostò lo sguardo sulla pila di libri in equilibrio sul suo comodino.

- Beh, di schiacciare un Ragno sei capace anche tu.- E... Oh.

- Joel?

- Aspetta un attimo.

- Tutto bene?- Lo incalzò la voce di Amir.

- Arthur.- Joel si mise a ridere, stringendo il telefono tra l'orecchio e la spalla, in modo da avere le mani libere per recuperare il libro polveroso. - Una volta Arthur mi ha dato un trattato di medicina medievale, senza spiegarmi bene perché. Io l'ho messo sul comodino e l'ho dimenticato. È rimasto qui per quasi dieci anni, e ci ho messo gli occhi sopra solo ora, esattamente quando tu mi hai chiesto come si fa a sconfiggere una malattia. Aspettami, sto arrivando.

Vestirsi, balzare in macchina e guidare senza far caso nemmeno a un segnale stradale fu questione di una dozzina di minuti: ma in vita sua Joel Matthew Bennett aveva compiuto un'azione con tanta foga e velocità. Quando arrivò di fronte al teatro, si trovò davanti una folla di gente che ne veniva fuori urlando.

- Che succede?- Gridò, afferrando una fuggitiva per un braccio.

- Stanno devastando tutto. Hanno ucciso un uomo. Oh, Dio, ci sono dei mostri, lì dentro!

 

 

II

 

21 marzo 2010

 

Nel silenzio del tempo cresciamo

Dentro gli angoli in ombra il germoglio

I tuoi pezzi perduti mangiamo

La tua voce macchiata d'orgoglio

I tuoi gesti spogliati di gioia

Il tuo passo che ormai si trascina

La tua dolce apatia, la tua noia

Un respiro di fine vicina

Marionette scolpite in segreto

Ma di noi la città ora è piena

Scena prima: un inizio discreto

Vittoriosi nell'ultima scena

 

- Avevate bisogno della canzoncina?

La donna sul palco si voltò. Non era una donna, e rideva come un ammasso di vetri agitati dentro una scatola di latta.

- Siamo una compagnia teatrale, Amir. Avevamo bisogno di uno spettacolo.

- Beh, come esperto di teatro posso dirvi che fate veramente schifo.

- Non ti piacciono le nostre rime?

- Scendi dal mio palco.

La donna, che non era una donna (anche se un tempo era stata Abigail Corrigan) ma era il Ragno, rise di nuovo.

- Sei stato bravo ad aggirare il patto. Non ti avrei creduto capace di tanto.

- È che continuate a sottovalutare i miei amici.

- Tu però non fare lo stesso errore. Non sottovalutare i miei... Oh, suvvia, “amici” è una parola da te e non da me, però, ecco, in questo momento sono così felice che potrei addirittura arrivare a definirli così.

Un dito lungo e artigliato indicò le creature sul palco. Erano tante e impossibili da contare, perché continuavano a muoversi, in cerchi irregolari, salendosi addosso, saltando sulle pareti e arrampicandosi sul sipario a brandelli. C'era un cane con la testa di donna e un occhio che pendeva lungo la faccia, dondolando a ogni movimento. Una ragazza con una gamba sola e una croce nera disegnata in mezzo al viso. Un uomo che camminava sulle mani e aveva due pesci al posto dei piedi. Una faccia rotonda che si muoveva saltellando, balzando e rimbalzando addosso ai suoi compagni. Una ragazzina con due punte di compasso che spuntavano dalle caviglie. Un vecchio senza gambe che strisciava su una specie di coda serpentina, con indosso dei lunghissimi stracci grigi secernenti qualcosa di scuro. Una ballerina in vesti rosa ferma sul bordo del palco, la bocca aperta in un sorriso troppo ampio, a rivelare dentini bianchi ricoperti di sangue.

E c'erano delle voci. Parlavano, si sovrapponevano, schiamazzavano. Una voce femminile, molto bassa, emetteva note lunghe e ripetute. Una voce maschile aggiungeva parole incomprensibili, una melodia semplice e quasi accattivante. Un'altra voce distorta ripeteva le parole e vi aggiungeva lunghe risate singhiozzanti. Una vocina di bimbo faceva una parodia stonata del canto.

- Cosa sono?- Domandò Virginia, stringendo la mano di Amir.

- I resti del vostro schifo.- Rispose il Ragno. - Pezzi di storie finite male. Rancore e odio residui. Rimasugli di fantasmi spazzati via dai riti dell'Ordine. Creature tirate fuori dai vostri sogni peggiori. Siete una razza così perfetta, per partorire mostri. Gli spiriti come me, e i vostri simili inclini all'uso di magie poco gentili: noi usiamo queste splendide creature per rimodernare le città, di tanto in tanto. Per esempio, adesso penso che ci sia bisogno di un grosso rinnovamento. Basta con questa stupida eredità, questo posto così ingombrante di storie. Questa sarà la sua serata finale.

C'era un gatto con cinque zampe che feriva le orecchie con un miagolio stridente, e saltava da una fila all'altra delle sedie: dove si posava, il legno e la stoffa si scioglievano in un ammasso scuro, che esalava un odore nauseante. Una donna completamente ricoperta di una mistura nera, come pece, si trascinava contro le pareti della sala, lasciandovi tracce che scorticavano la pelle del teatro. Un uomo con le braccia al posto delle gambe e la bocca piena di denti enormi azzannava ripetutamente le assi della struttura del palco: aveva già disfatto un pezzo della buca dell'orchestra e ora saliva su, imperterrito, tritando e sbriciolando ed emettendo mugolii soddisfatti inframezzati da un suono come di un gigantesco sciame di termiti.

- Pensi che basti devastare il luogo, per fare del male al Sunflower?- Disse Amir. La rabbia furiosa che lo aveva colto quando era entrato e aveva visto lo scempio ora si era stranamente placata, lasciando spazio a una disposizione d'animo innaturalmente calma e terribile.

- No, non lo penso, ma è un buon inizio, per un atto finale come si deve.

- Come pensi di fare, allora?

- Penso di farlo ammalare.

Da dietro le quinte emerse Clyde Wendell, accompagnato da tre figure lunghe dalla pelle verdastra, tre esseri dai lineamenti non ben definiti, come abbozzati nella creta. In mano tenevano un sacco che vuotarono al centro del palco. Ne venne fuori una colonia di serpentini, bianchi, gialli, verdi, marroni, tutti annodati e tutti sibilanti: in un attimo il saettare delle loro piccole lingue e il suono dei loro corpicini sul legno aveva sovrastato i rumori grotteschi delle creature del Ragno. I serpentini cominciarono a spargersi per il palco, giù fino al pavimento, e presto avevano riempito gran parte della sala. E il sacco sembrava non svuotarsi mai del tutto.

- State indietro.- Intimò Amir agli amici. - Non vi fate toccare.

- Che cos'è?- Mormorò Aidan.

- La malattia di Mordred.

- Questo può fare del male al teatro?

- Credo di sì.

- Come si combatte una malattia che attacca il corpo di un posto?- Chiese Virginia.

- Ho sempre amato le grandi città.- La voce del Ragno assunse una tonalità quasi sognante. - È più facile intromettersi. Più la città è grande, più voi vi fate ciechi. E il teatro... Un grande assembramento di gente, ignara, distratta, con gli occhi puntati su un qualche altrove. Ho sempre amato anche i teatri. Il palco, l'altare sul quale si celebrano i vostri vizi e i vostri mostri!

- Anche le malattie comuni, un tempo, si trasmettevano facilmente dove la folla si radunava. Come nei teatri.- Aggiunse Clyde. - Non ho mai contagiato un teatro. Ma la sensazione è magnifica. Non lo senti? Vibra, si vuole ribellare, ma io sono già in circolo. Non lo avverti, il brivido di sofferenza della creatura febbricitante?

Amir spalancò gli occhi brucianti. Sopra di lui, il soffitto rosso rivelava grandi macchie scure. I lampadari avevano smesso di funzionare, salvo per qualche sparuta lampadina che ancora dava sprazzi di luce intermittente. Le piccole nicchie in ombra dei palchi erano una miriade di orbite vuote, le pareti bianche ornate di ricami rossi ed oro erano pelle solcata da ferite sanguinanti e infette. Sotto il loro piedi il pavimento era umido. La terra non era immobile. Il suolo si sollevava nei singhiozzi isterici di un uomo senz'aria. Sentiva chiaramente il respiro spezzato dell'edificio, i brividi delle mura, il tremito di una creatura che perdeva le ultime forze.

- Ci sarà qualcosa che possiamo fare!- Gridò Virginia, scostandosi bruscamente prima che uno dei serpentini le transitasse sui piedi.

- Ildegarda di Bingen.- Rispose Joel, arrivando di corsa da una delle uscite d'emergenza della sala, in pantaloni del pigiama, camicia mezza aperta e infradito, con i capelli bagnati, gli occhiali storti e un mazzetto d'erba in mano.

Clyde gli piantò gli occhi addosso, seccato.

- Pensavo di averti ammazzato una volta per tutte.

- Dovresti interessarti di medicina medievale. I medievali avevano degli splendidi rimedi anche per le malattie più gravi.

- Ora, parliamone, Joel Bennett: pensi veramente di potermi fare qualcosa con tre foglie di menta e due di basilico?

- E anche salvia, ipericum e passiflora. Sì, penso di poterti fare qualcosa.

- Oh. Uno sviluppo inatteso.

- Non sai quanto.

Joel si voltò e sussurrò qualcosa all'orecchio di Virginia. Lei fece cenno di sì, prese per mano Aidan e scappò via dalla stanza. Amir guardò gli amici fuggire e le erbe in mano a Joel, e per un secondo fu colto da un impeto di gratitudine per non essere lì a fronteggiare tutto da solo.

- Fidati di me.- Joel gli posò una mano sul braccio e strinse. - Non sono bravo come te, ma per la prima volta in vita mia sono veramente convinto di quello che sto facendo.

- Mi fido.

- Allora tu fai quello che devi fare e lasciami qui.

Cosa devo fare, però?

La risposta era piuttosto banale: trovare Stella. Sollevò una mano, avrebbe voluto fare un gesto d'affetto verso Joel, o dirgli che era felice che quella notte di dicembre 2007 fossero diventati amici.

Se Dio avrà misericordia, avrai tempo di dirgli tutto all'alba di domani.

Lasciò Joel a fronteggiare i mostri e corse via dalla sala.

 

*

 

- Cosa dobbiamo fare?- Aidan stringeva la mano di Virginia e correre insieme li rallentava, ma ancora lei non riusciva a lasciarlo andare. - Che ti ha detto Joel?

- Luce e aria!- Urlò Virginia, inciampando in quel che restava di un appendiabiti, nell'atrio del teatro. - Mio zio ha detto che dobbiamo procurare luce e aria, che aiuteranno a mandare via la malattia.

- Ok, per l'aria ce la possiamo fare. Ma la luce? Si sono fulminate quasi tutte le lampade, come cazzo facciamo? E fuori è notte.

- Cominciamo con l'aria. Dobbiamo aprire tutte le finestre. E la porta d'ingresso. Oddio, no.

Il banco dei biglietti era rovesciato, biglietti e locandine sparsi da tutte le parti, macchiati e strappati. La tenda che nascondeva una delle porte d'accesso al teatro era a brandelli. Il muro era annerito, come se qualcuno avesse tentato di incendiare la stanza.

Sul banco c'era un corpo, trafitto da un'enorme scheggia di legno che doveva essere stata una gamba della sua sedia. Di Richard, il bigliettaio del teatro, era rimasto un ammasso contorto a braccia aperte, con gli occhi e la bocca spalancati.

- Voglio ammazzare uno di quei cosi con le mie mani.- Sibilò Aidan, abbracciando Virginia. - Quando Amir li avrà sconfitti, ti giuro che me ne faccio lasciare uno da parte per farlo a pezzi.

- Ti aiuterò.

- Forza, andiamo alla porta.

Spalancarono le due ante del portone d'ingresso e furono investiti da un refolo d'aria pulita e fresca. Virginia realizzò in quell'istante quanto fosse pigiata, viziata e piena di cattivi odori l'atmosfera lì dentro.

- Dove troviamo la luce?- Mormorò, guardando la piazzetta male illuminata sui cui si affacciava il Sunflower.

- Intanto potremmo fare una cosa. Aspettami.

Aidan corse fuori, e tre minuti dopo Virginia sentì il rumore di un motore e fu accecata dagli abbaglianti dell'auto di Aidan, piazzata proprio di fronte all'ingresso. La luce dei fari si riversò nell'atrio.

- Finché la batteria regge, qui siamo a posto.- Gridò lui, scendendo a raggiungerla.

- Bene. Forse ho un'idea anch'io. Te lo ricordi? Lo scorso Natale, quando Amir ci ha raccontato di quelle casse che aveva ritrovato in un armadio di metallo in uno dei camerini.

- Cazzo, sì, e io so anche qual è il camerino. Dai, andiamo!

Corsero via, fuori dall'atrio, e imboccarono un corridoio nero, caldo e soffocante, con l'unica illuminazione che proveniva da una lucina incerta, sul fondo, che sembrava allontanarsi sempre di più, nonostante loro le stessero correndo incontro.

 

*

 

Il lampadario azzurro, con tutte le sue luci accese, dondolava pericolosamente sulla sua testa, ma la stanza era al sicuro, non ancora profanata dalla malattia o dai mostri. Amir chiuse la porta e vi si appoggiò contro, respirando profondamente per un minuto.

- Stella!- Chiamò forte, pensando che avrebbe sentito anche se lui avesse sussurrato, ma che in quel momento aveva davvero bisogno di gridarle contro. - Stella, fatti vedere. Ora!

- Razza di moccioso pieno di pretese!- Tuonò la voce di Stella. - Pensi che io non stia soffrendo, adesso? Ci sono delle creature disgustose che mangiano il mio corpo e una malattia che fa marcire la mia anima. E tu gridi come se fosse colpa mia, che non corro subito ad aiutarti!

- Possiamo rimandare la discussione a un altro momento? Dobbiamo fare qualcosa per cacciare via gli invasori.

La risata di Stella riempì il piccolo spazio della stanza e fece muovere il lampadario ancora più in fretta.

- Pensi che non avrei già agito, se fossi stata in grado di fare qualcosa? Il Ragno è più potente anche di me. Io sono lo spirito del teatro, lui è uno spirito del tempo. Ha troppi più anni di me, e troppi più trucchi e risorse.

- Non ti ho mai sentito parlare così.

- Sono realista.

- Va bene.- Amir chiuse gli occhi, ingoiò la delusione e cercò di raffigurarsi Stella, tutte le volte in cui aveva visto la creatura, le aveva parlato, ne aveva subito i capricci e aveva goduto della sua attenzione... - Va bene. Farò tutto da solo.

- Vai a farti ammazzare, bravo.

- Cos'altro dovrei fare? Scappare e lasciarti morire?

- Sarebbe una scelta intelligente. Potresti trovarti un altro posto abbastanza magico e folle da accoglierti come suo custode, e continuare lì a essere quel che devi essere.

- Sai una cosa interessante di noi stupidi umani? Quando ci affezioniamo per davvero a qualcuno, siamo disposti a fare delle cose poco intelligenti per salvarlo. Tipo rimanere qui a farsi contagiare o ammazzare. Ed è quello che farò io. Quindi, deciditi: mi aiuti a salvarti, o torno là fuori da solo?

- Io ti odio!

E poi gli comparve davanti, e lui non riuscì a non gridare.

L'essere era nudo e coperto di ferite, e con la mano si copriva l'occhio sinistro. Tra le dita veniva fuori una cascata di sangue.

- Che cosa...

- Te l'ho detto. Sono più forti di me.

- Anche più di te e me insieme?

- Sì, Amir. Sono più forti di me e di te insieme, ma se vuoi potremo andare a morire tutti e due, come due eroi di qualche ciclo mitologico, stupidi e tronfi nella nostra pretesa di fare la cosa giusta. Se la prospettiva ti piace, io ci sto.

Lui si avvicinò piano e chinò la testa, fino a posarla sulla spalla insanguinata della creatura.

- Va bene.- Sussurrò. - Magari moriremo davvero, ma ti prometto che farò tutto quello che posso per salvarti e per guarirti. Tu l'hai fatto così tante volte, con me!

- Io ti ho fatto male come nessun altro. Ti ho messo nei guai, ti ho trattato da stupido, ti ho nascosto cose importanti e ho preteso che tu accettassi i miei metodi.

- Ma sei casa mia comunque.

- E ora riesco solo a dirti qualche sciocca parola sulla morte imminente, eh?

Amir si scostò dalla creatura, poi si tolse il maglione e glielo porse. Stella scoppiò a ridere, però accettò il dono, e se lo drappeggiò sulle spalle. Amir rimase a contemplarla per un istante: era penoso vederla in quel modo, ma c'era sempre bellezza nonostante le ferite, nel corpo candido di Stella, splendido essere androgino, infinitamente distante da tutto ciò che era umano.

- Portami dal Ragno.- Le disse Amir. - Sei un drago, no?

- Sciocco. Credi che se avessi avuto abbastanza forza da essere il drago, non avrei già distrutto tutti gli invasori?

- Di cosa hai bisogno, per trasformarti?

Stella scosse la testa.

- Di qualcosa di potente.

- Una cosa potente... Come il sangue?

- Che ne sai, tu, del sangue?

- So che ne è bastata una goccia per riparare a un disastro. Allora, il sangue ti può servire? Non farti scrupoli a chiedere. Siamo in una situazione un po' tragica.

- Oh, guarda, non me ne ero accorto...

Poi tacque e lo guardò per alcuni secondi, lasciandolo turbato, a domandarsi cosa gli stesse leggendo in viso e cosa si stesse preparando a chiedergli.

- Va bene. Accetto la tua offerta.- Gli prese la mano nelle sue e strinse, una pressione leggera, quasi piacevole. Un attimo dopo dalle dita di Amir scorreva un rivolo rosso, scorreva lungo la pelle bianchissima della creatura, risaliva le sue braccia, le sue spalle, il suo viso; scendeva lungo la schiena e le gambe, macchiandola, all'inizio, e poi svanendo come assorbito dalla pelle, che riprendeva colore.

- Dimmi tu quando è troppo.- Disse Stella. Lui strinse le labbra e scosse la testa.

- Dimmi tu quando è abbastanza.

- Che magnifico idiota, sei.

- Il tuo degno custode.

Stella fece una delle sue risate roboanti e lo lasciò andare. Gli occhi verdi brillavano di una gioia feroce. Allargò le braccia e si dissolse in una tempesta di scintille verdi. La sua voce echeggiò intorno al ragazzo: Andiamo a cacciare gli invasori!

Poi Amir fu sollevato da una corrente invisibile e trascinato via dalla stanza segreta, per saloni e corridoi, oltre porte divelte e tende strappate, dritto attraverso le viscere del Sunflower, fino a raggiungere la sala del palcoscenico violato, dove il Ragno e i suoi figli continuavano a mangiare.

 

*

 

Il corridoio risplendeva di tutte le lucine natalizie che lui e Virginia erano riusciti a recuperare. Non c'era più una sola finestra che fosse chiusa in tutta la struttura: dalle finestrine dei bagni ai finestroni enormi lungo i corridoi, ovunque c'era circolazione d'aria e i fumi della pestilenza si dissolvevano a contatto con l'alito di primavera prepotente che entrava a forza nel teatro.

- Ho l'accendino con me.- Disse all'improvviso Virginia.

- Vuoi dare fuoco a qualcosa?

- No, voglio trovare delle candele.

- Ok, ritentiamo nei camerini.

Si rituffarono in una delle stanze tra le cui cianfrusaglie avevano già frugato e trovarono una manciata di candele bianche più alcune a forma di fiore. Virginia le piazzò sul tavolo da trucco, di fronte allo specchio per gli attori, e cominciò ad accenderle una per una.

Dietro di loro qualcuno applaudì.

- Geniale. No, davvero, geniale. Luce e aria.

Una donna in abito elegante, con una brutta macchia di sangue, li guardava con ammirazione. Dietro di lei c'era una ragazza con le vesti bruciacchiate.

- Voi siete gli amici di Amir.- Disse Aidan agli spiriti.

- Anche voi.- Rispose la ragazza. - Cosa possiamo fare? Sono arrivati a tradimento nel nostro teatro e noi ci siamo nascoste. Non un gran bell'atteggiamento, lo so. Ma tutto quello che stanno facendo al Sunflower ci fa male.

- Luce.- Disse Virginia. - Avete qualche modo per fare luce?

- Io risplendo di luce propria.- Disse la donna, ed era vero: prese a scintillare, con una risata.

- Che primadonna.- Commentò l'altra, e lei fece un'alzata di spalle.

- Ringrazia, che sono tanto primadonna da brillare.

- Trova un posto del teatro che è ancora al buio e piazzati lì.- Disse Virginia.

- Anch'io so come fare, per illuminare questo posto. - Disse la ragazza, e avvampò in un'enorme fiamma. Aidan fece un balzo all'indietro e lei scoppiò a ridere. - Tranquillo, non faccio male a nessuno. Vado subito a cercare l'angolo più scuro di tutto il teatro!

 

*

 

Quando Joel ebbe raggiunto il palco, era già stato morso da una ventina almeno dei serpentini, e ogni morso era stato più doloroso dell'altro. Sentiva il veleno che gli riempiva le vene e gli gonfiava la gola, rendendogli l'atto del respirare qualcosa di impossibile. Lui però avanzava imperterrito, disseminando la sala con le sue erbe. I rimedi antichi per le pestilenze erano quelli. Non sapeva se avrebbero funzionato anche per il teatro, ma si fidava di Arthur, e si fidava del suo trattato di medicina medievale. Il libro si era aperto da solo al capitolo su Santa Ildegarda di Bingen e ne erano volati fuori alcuni appunti. Troppo perfetto, per essere una coincidenza.

- Bene, e ora cosa speri di ottenere?- Gli domandò Clyde, seduto sul bordo del palco, con le gambe lunghe che dondolavano nel vuoto.

- Che tu vada al diavolo.

- Sbagliato.

- Vedremo.

Un serpentino si arrampicò lungo il braccio di Joel e lo morse. Lui vacillò e si piegò in avanti, cercando un appiglio che non trovò. Franò a terra, lasciando cadere l'ultimo ciuffo d'erba che stringeva tra le dita.

Il serpentino si contorse sul pavimento e poi morì.

 

*

 

Nel cuore segreto del teatro, Angela disegnò un incantesimo che aveva imparato tanto tempo prima.

Ci vogliono le mani di un esorcista per attivarlo. Io lo sono solo in parte. Amir riuscirebbe a farci meraviglie, su un rito come questo. Il Raduno. Amir radunerebbe gli spettri di mezza Europa.

Vi posò le mani sopra lo stesso, perché una mezza esorcista era meglio di niente, e i fantasmi di mezza Londra erano meglio di niente anche loro.

La risposta della magia fu accecante e per poco non la sbalzò lontano. Il pavimento tremò per un istante e la porta si spalancò, lasciando che una quantità di spettri sbucassero fuori come una mandria, tutti nella stanza, e più ne uscivano fuori, più ce n'erano altri dietro, pronti a fare il loro ingresso nel teatro.

Molti più di quanti se ne aspettasse Angela.

- Non credevo di riuscire...

Questo è il Sunflower, e tu sei un'amica del nostro custode. Non c'è niente di logico, qui.

 

*

 

Sulle ali di quel vento invisibile che era il Drago, Amir attraversò tutto il corpo del teatro, con le sue svolte misteriose e i suoi corridoi inesistenti se non per pochi eletti, le sue stanze dallo scopo mai compreso, e i resti di altri tempi e altre storie disegnati su tutti i muri. Nutrito dal sangue e dalla rabbia, il Drago raggiunse il palco e lì si fece più visibile, come se il nulla che teneva Amir in volo all'improvviso avesse ottenuto una consistenza e dei contorni.

Il Ragno li vide arrivare e rise, ma ad Amir non sfuggì il secondo di stupore prima della risata.

- Cosa pensi di fare?- Tuonò il Ragno. - Tu sei un niente, di fronte a me, e persino il tuo Drago è un bambino del tempo e ha meno della metà della metà dei miei anni! E ti dimentichi del mio esercito!

- Tu non conosci il suo, di esercito.- Ruggì Stella.

- Il mio?- Amir strinse le mani attorno al niente – il niente che però lo sosteneva, il niente del quale si fidava. Stella, ovviamente, rise. La sua risposta universale.

E tutt'attorno a lui all'improvviso cominciarono a germogliare spettri: grandi, piccoli, vecchi, giovani, rapiti dalla morte che erano ancora bellissimi, antichi e pencolanti, feriti e morenti, distrutti e malridotti, silenziosi e ridanciani, occhi spalancati o sguardi gentili, mani protese per combattere e piccole mani che distruggevano imperi col gesto rivoluzionario di una carezza.

Il Ragno imprecò. Gli spettri si lanciarono contro le creature mostruose, strappandole dal corpo ferito del teatro, gettandole lontano, facendole a pezzi. Il Drago si scagliò contro il Ragno e quello fuggì.

Sulle ali invisibili di Stella, Amir vide i mostri disfarsi in lunghi fili d'ombra e i fantasmi esultare in lingue sconosciute. Vide i piccoli serpenti velenosi morire, mentre l'odore limpido di menta e di salvia purificava la stanza. Vide Clyde – no, Mordred – che si ergeva su Joel, gli chiudeva le mani attorno alla gola e stringeva e...

E allora arrivò Vivien, di corsa, tra le sedie della platea in pezzi, e corse fino a Clyde, gettandoglisi addosso e trascinandolo lontano da Joel. La vide sollevare le braccia e creare una fiamma bianchissima, che si infranse sull'essere e lo ridusse a un cumulo di cenere candida in un istante.

Poi la vide accasciarsi per terra, piccolissima, esausta.

Il Ragno fuggiva e Stella lo inseguiva, sul campo di battaglia che un tempo era stato il palco del Sunflower. Amir si stringeva al Drago e si chiedeva cosa sarebbe servito, per distruggere il loro nemico definitivamente.

È antico, uno spirito del tempo, più vecchio del teatro...

Che cos'hai, tu, che ti ha sempre permesso di riuscire in quello che fai, figlio delle ombre, bambino del teatro? Che cos'hai raccolto di prezioso in questi anni? Di che cosa sei ricco, così ricco da rivaleggiare con il Ragno in quanto a potenza e mistero?

Era Stella, che gli gridava nella mente.

Di che cos'era ricco? Cos'aveva raccolto?

- Storie.- Mormorò. - Ho tante storie. Le storie di tutti quelli che mi hanno parlato. È l'unica cosa che ho.

Allora abbiamo vinto.

Stella si lanciò in picchiata contro il Ragno e Amir immaginò di avere tutte quelle storie in mano, frammenti uniti a formare un'arma senza uguali, per penetrare la carne fatta di tempo del loro nemico.

Il Ragno lanciò l'ultimo urlo, che spezzò tutti i vetri del teatro, poi si ripiegò su se stesso, ritrasse gli arti in una convulsione d'agonia e si disfece in una manciatina di misera fuliggine, una macchia scura sul palco. Il Drago urlò di vittoria e di dolore, prima di discendere a terra, posare il suo cavaliere e svanire insieme alla corrente che arrivava nella sala da qualche parte, aria di primavera e di cose nuove e di guerra finita.

Amir chiuse gli occhi. Quando li riaprì la sala era vuota. Vide solo uno spettro di bambino, che rideva e gli faceva ciao con la mano. Il Raduno era terminato, il suo esercito aveva ripulito il suo regno e ora se ne tornava a casa.

Da solo, in mezzo al palco in rovina, Amir si accoccolò per terra e cercò di trovare un ritmo normale del respiro, per calmare il battito del cuore e la testa che girava.

Lo svegliò una carezza leggera. Si riscosse, stava tremando. Accanto a lui c'era Joel, nella sua tenuta ridicola. Vivo. Sano. Amir avrebbe urlato per il sollievo, se avesse avuto ancora voce.

- Hai vinto.- Gli disse Joel. - Come ti senti?

- Non lo so. Voi siete... Gli altri... Cosa...

- Calmati. Ci siamo tutti. Non ti preoccupare. Per una volta, lascia fare a noi.

Joel gli tese la mano e lui si lasciò rimettere in piedi e sostenere lungo la discesa della scala che lo condusse in platea. Vide Aidan e Virginia seduti per terra, appoggiati l'uno all'altra. Hilda bruciava allegramente in fondo alla sala. Emily si affacciava oltre i brandelli di una tenda.

Angela era inginocchiata per terra e sosteneva il corpo di Vivien.

- Cos'è successo?- Amir tentò di sfuggire alla presa di Joel per raggiungere la donna, ma l'uomo non lo lasciò andare e lo aiutò a sedersi sul pavimento, accanto a Vivien.

- Clyde mi ha fatto male.- Rispose lei, a fatica.

- Ma dovremmo aver guarito il teatro. Il contagio... Le erbe di Joel...

- L'ho toccato direttamente. Questo va oltre le vostre erbe.- Poi gli fece un sorriso e Amir si sentì morire, perché non aveva mai visto Vivien sorridere così e sapeva che non poteva essere un buon segno.

- Cosa posso fare per aiutarti?

- Mandami via.

- Come?

- Io mi ero nascosta qui, nel teatro. Perché so che c'è un posto dove puoi aprire altre porte. Tu lo sai, no?

- Sì. Lo so. L'ho trovato. Dove volevi andare?

- Via. In un altro mondo.

- Perché?

- Non posso morire qui. Ho fatto troppe cose... Cose con la magia. Non ho tempo di spiegare. Ho ucciso un uomo del Ragno, Julien Green, e lui mi ha maledetta. Se morissi qui, in questa città, vi farebbe del male. Avvelenerei tutto. Mandami via, ti prego. Lasciami fare una cosa buona, alla fine.

Angela piegò la testa e posò la fronte su quella di Vivien, prima di cominciare a piangere in silenzio.

- Va bene.- Amir si alzò in piedi e fece cenno a Joel di aiutarlo. - Va bene, Vivien: proverò a mandarti da un'altra parte.

Insieme, lui, Joel e Angela raccolsero la donna, e seguiti dagli altri, vivi e non vivi, si diressero verso la stanza segreta. Amir li condusse fino alla porta che in teoria avrebbe potuto vedere solo lui, ma quando la aprì, gli altri furono in grado di entrare. Il lampadario azzurro li accolse con lo scintillio delle sue luci e dei suoi cristalli.

Amir aprì l'armadio di legno scuro, l'unico mobile presente nella stanza, e cominciò a cercare, sperando che l'intuito o la saggezza del luogo gli suggerissero il metodo giusto per realizzare il desiderio di Vivien. Sugli scaffali dentro l'armadio c'era un mondo: scatoloni di libri, un cestello pieno di piccoli sassi dipinti, un calamaio incrostato di vecchio inchiostro, un candelabro a nove bracci color rame, una forchetta, una specie di calice di legno piuttosto malridotto, un piccolo pugnale nascosto da un fodero tempestato di gemme e ricoperto di polvere, un barattolo pieno di chiavi...

- Chiavi. Suppongo che per aprire una porta, serva una di queste.

Cercò nel barattolo e ne prese una, affidando la scelta a una preghiera.

- Mettete Vivien lì, dove c'è quel cerchio azzurro tra i motivi del pavimento.- Disse. Quando aveva incontrato la ragazzina di nome Amy, lì dentro, avevano calpestato entrambi il cerchio. Doveva sperare di aver capito bene come funzionava quel posto.

Si chinò accanto a Vivien, con la chiave tra le dita, e le spostò un ciuffo di capelli dagli occhi. Era bellissima anche in punto di morte.

- Sono sempre stata una stupida.- Gli disse, senza smettere di sorridere.

- Hai avuto una storia terribile e hai perso tutti quelli a cui volevi bene. Chiunque avrebbe fatto qualcosa di stupido, al posto tuo.- Le rispose.

- Non avevo perso tutti. Quelli che mi sono rimasti... Li ho trattati in maniera davvero sciocca.

- Alla fine però senza di te forse non saremmo riusciti a sconfiggere Mordred. Quindi, per favore, ritieniti riconciliata.

- Grazie, ragazzo prodigio. Una tua parola ha molto peso. Ciò che mi hai detto è importante.- Poi spostò gli occhi su Angela che piangeva. - Smettila, per favore. Non me lo merito. Ti ho sempre amata, lo sai, anche se ho fatto di tutto per farti pensare il contrario. Cercate di prendervi cura della mia città. Buonanotte.

- Buon viaggio.- Mormorò Amir, mettendo la chiave tra le mani fredde di Vivien.

- Aprimi le porte di Avalon.- Scherzò lei, e mentre si sforzava di offrire loro un'ultima risata, il suo corpo perse consistenza e scomparve. Rimase solo la chiave, al centro del cerchio azzurro sul pavimento.

 

Fuori dal teatro c'era l'alba. Joel e Angela parlavano piano, Aidan e Virginia erano zitti e abbracciati. Amir si fermò sulla soglia e si voltò indietro. Emily gli posò il solito bacio sulla fronte, prima di infilarsi di nuovo tra le stanze della loro casa devastata. Hilda gli passò attraverso, riscaldandolo per un istante.

- Stella.- Chiamò lui, guardando il buio, e nessuno gli rispose. - Stai bene?

Quasi, rispose un'eco distante, nella sua testa. Dammi tempo.

- Mi prenderò cura di te, mentre ti rimetti.

Lo so. Come sempre.




***
Grazie, grazie, grazie di essere ancora qui.

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Capitolo 30
*** XXX - L'universo tra le mani ***


Capitolo XXX

L'universo tra le mani

 

Just because everything's changing

Doesn't mean it's never been this way before

All you can do is try to know who your friends are

As you head off to the war

Pick a star on the dark horizon and follow her light

You'll come back when it's over

No need to say goodbye

(Regina Spektor, The Call)

 

I

 

Londra, primavera 2010

 

L'incidente al Sunflower fu archiviato in fretta da una polizia sconcertata e incerta sul modo migliore di agire. Era stato un episodio di follia collettiva, quello che aveva lasciato il teatro semidistrutto e il suo bigliettaio morto?

Della compagnia teatrale che era andata in scena quella sera, Astaroth, diretta da un certo Clyde Wendell, non se n'era saputo più niente. I nomi erano falsi. Persino Clyde Wendell era un'identità rubata: apparteneva a un attore scomparso nel nulla molti anni prima – troppi, perché il vero Wendell potesse essere l'appena trentenne Clyde che gli spettatori avevano intravisto nel teatro.

I presenti all'invasione del teatro avevano insistito nel parlare di mostri, ma già al terzo interrogatorio pareva che avessero cominciato ad ammettere che poteva trattarsi di altro. Maschere. Allucinazioni. Restava il fatto che un uomo era morto. Il detective capo dell'indagine si chiamava Timothy Mirrlees e aveva preso di punta la faccenda. Dopo due settimane però, anche spinto dai suoi capi che volevano togliersi di mezzo la cosa alla svelta, il detective aveva parlato con Joel e Angela, piuttosto turbato e dispiaciuto, facendo loro capire che sarebbe rimasta in sospeso un'accusa contro ignoti, e che più di ricercare i membri della compagnia teatrale non si poteva fare. Che era quello che loro volevano, anche se non potevano dirlo allo zelante poliziotto. Lo avevano ringraziato per l'impegno. Lo avevano rassicurato che comprendevano. Poi, quando se n'era andato, avevano tirato un sospiro di sollievo all'unisono.

Il teatro aveva bisogno di tempo e di silenzio per rimettersi in salute, e così anche loro.

Il Sunflower era assicurato e i lavori di riparazione cominciarono subito. Joel e Amir fecero una riunione con Emily e Hilda, il giorno prima dell'inizio: chiesero la loro collaborazione e molta pazienza per almeno un mese. In effetti le due si comportarono in modo ineccepibile.

La città sembrava aver capito che il suo giovane esorcista e il suo piccolo esercito avevano bisogno di un po' di respiro. C'erano stati lunghi giorni vuoti di eventi e di parole, in cui Joel, Amir e a volte anche gli altri si erano limitati a passare del tempo insieme, con l'unico scopo di avvertire il sollievo dei secondi che scorrevano e delle loro vite ancora tutte lì, mentre cercavano di venire a patti con il fatto che altre vite, invece, non facevano più parte di quel mondo.
C'era un'assenza in particolare che pesava su di loro. Se Angela gestiva la mancanza di Vivien con un mezzo sorriso e una giornata di mutismo ogni volta che il discorso verteva su di lei, Joel avrebbe voluto davvero trovare un modo sereno per congedare Vivien e tenersi un ricordo tutto sommato dolce con cui convivere. Ma la sensazione (la certezza, anzi) che la sua scomparsa avesse come sollevato un velo dalle loro vite, quella distruggeva i suoi deboli tentativi di risolvere la questione.
Angela aveva preso Vivien come una missione, ma Joel si rendeva conto che adesso, libera da quel rapporto, la sua amica sembrava respirare di nuovo. Vivien era quella parte della loro storia che conteneva una vena di follia, e per quanto la mancanza fosse forte, a volte Joel si domandava se non c'era da considerare un aspetto positivo, nell'assenza di quella persona complicata nelle loro esistenze.
Riuscì a parlarne ad Amir (che taceva e nascondeva quali fossero i suoi pensieri al riguardo) solo dopo più di un mese dalla battaglia del Sunflower, una sera di aprile leggera e delicata, una di quelle in cui la casa era particolarmente benevola (secondo Amir.)
- Non credo che ammettere che Vivien a volte facesse del male alle persone sia sbagliato.- Aveva risposto il ragazzo.
- Non è orribile, pensare che in fondo adesso siamo liberi?
- Non lo so. Credo sia umano. Ma non penso che per te Vivien sia solo un peso che non c'è più.
- No. Questo no. Però non credo di riuscire a riconciliarmi con la parte che lei ha giocato nelle nostre vite.
- Immagino che verrà col tempo. Ho conosciuto gente che ci ha messo secoli, a riconciliarsi con se stessa o con qualcun altro.- Poi aveva sorriso. - Però a noi ci vorrà molto meno, non ti preoccupare. E poi, alla fine, Vivien ci ha aiutati. Sarebbe potuta fuggire da qualche parte, lasciandoci da soli a combattere.
- Non l'avrebbe mai fatto!
Amir allora aveva sorriso di nuovo.
- Vedi? Ti stai già riconciliando.
Ed era vero.

 

La vita stava ricominciando ad avere dei contorni rassicuranti e sereni, quando la sera del 24 aprile squillò il telefono di Amir, durante la cena. Lui rispose, tranquillo, per zittirsi immediatamente, e nella sua espressione Joel lesse subito una disgrazia imminente.

- La mia mamma sta male.- Annunciò, smarrito. - Le hanno trovato un tumore al pancreas. Gliel'hanno diagnosticato qualche ora fa. Dicono che è una cosa gravissima e che vivrà ancora per un paio di mesi al massimo.

- Oh, Dio, Amir. Mi dispiace tanto.

Questa volta Joel ingoiò il suo imbarazzo verso l'affetto fisico e tenne stretto per diversi minuti il ragazzo che piangeva.

- Devo partire subito.

- Certo. Cerchiamo subito un volo. Posso offrirtelo io? Ti prego. Anzi, vuoi che venga con te?

- Joel, lo so che tu verresti, e io sarei sollevato se tu venissi con me. Ma non ti chiederei mai di lasciare casa tua per chissà quanto tempo. Per alcuni mesi, magari. Sarò più felice se saprò che sei qui, a fare quel che devi fare.

C'era un volo il giorno dopo a mezzogiorno. Amir ringraziò Joel dell'acquisto, promise mille volte che gli avrebbe reso i soldi, poi telefonò a sua sorella per annunciarle il suo arrivo prossimo e non disse più una parola per il resto della serata.

 

*

 

24 maggio 2010

 

Il telefono di Joel squillò tre o quattro volte, prima che lui se ne accorgesse. Si svegliò di soprassalto, cercò di accendere la luce e alla fine rispose al buio, chiedendosi che ora della notte fosse.

- Sono io.

- Amir?

- Sono in ospedale. La mia mamma è morta poco fa.

Il resto della telefonata fu praticamente un lungo silenzio, con il ragazzo che piangeva piano e Joel incapace di raccogliere una mezza parola decente di conforto. Prima di riattaccare, però, il ragazzo lo ringraziò comunque.

 

*

 

25 maggio 2010

 

- Se vuoi, posso prendere un volo e raggiungerti.

- No, Joel, davvero. Va bene così.

- Mi sento inutile. Io, e tutti gli altri. Vorremmo essere con te.

- Anch'io vorrei che foste con me, ma non è che si può avere sempre quello che si vuole, no? Io lo so, che siete preoccupati e che mi pensate. Mi basta. Tu stai bene? Dormi?

- Dormo benissimo. Ma guarda se devi essere tu, che stai in pensiero per me...

- Certo che sto in pensiero per te.

- Tu e la tua incapacità congenita di stare due minuti senza preoccuparti per qualcuno!

Il ragazzo fece una risata timida.

- Ci sentiamo presto, Joel. Prenditi cura del teatro e di tutti loro, mi raccomando.

- Non sono bravo come te, ma ti giuro che mi sto impegnando.

 

*

 

25 giugno 2010

 

- Quando pensi che tornerà?

- Non lo so. Non ne abbiamo parlato, Angela. A volte mi sembra persino che non abbia proprio voglia di parlare proprio, quando ci sentiamo. So che ha smesso quasi del tutto di farsi sentire anche con Aidan e Virginia.

- Sei preoccupato?

- Sto esagerando?

Angela gli versò altro whiskey e scosse la testa.

- No. Penso che abbia solo voglia di stare con la sua famiglia e vivere il lutto insieme a loro. Non credo che ce l'abbia con noi per qualche motivo.

- No, certo che no. Solo che...

- Ti eri abituato ad averlo qui?

- Mi ero abituato ad avere nella mia vita una presenza che smuoveva le cose. Qualcuno che mi stimolasse ad agire. Ho paura di ritornare a essere l'apatico di sempre, senza di lui.

- Io non credo che ritornerai a essere l'apatico di sempre. Sei cambiato tanto.

- Davvero?

Lei si prese qualche momento per bere, prima di lanciargli la bomba.

- E soprattutto, sembri felice.

- E tu? Sei felice con quel detective?

Tentò un azzardato cambio di argomento per sottrarsi all'introspezione, e la manovra riuscì. Fu così repentina che Angela non seppe difendersi, e lui sorrise, trionfante.

- Ah, Angela Night che arrossisce come un'adolescente. Questa ancora mi mancava. Io so tutto, mia cara.

- Chi te l'ha detto?- Si infiammò lei, imbarazzata come non l'aveva mai vista.

- Uno spettro che infesta la metro a Stratford. Vi ha visti. Mi ha riferito che il detective Timothy Mirrlees è alto, biondo, carino e sfoggia un signor vocabolario.

- Razza di spettro ficcanaso!

- Eh, poveretto, era una brava persona. Ora se n'è andato in pace. Mi ci sono volute otto sessioni di chiacchiere. Otto. Amir se lo sarebbe sbrigato in otto minuti, ma io non sono lui.

- Sciocco. Stai facendo un ottimo lavoro.

- E tu stai cambiando discorso. Com'è, questo detective?

- In gamba.

- Hai intenzione di dirgli che sei una maga?

- Per ora no.

- Dovrai farlo, prima o poi. Ha indagato sul Sunflower con tanta passione che se lo merita, no?

 

*

 

25 luglio 2010

 

- Gennaio 2012?- Joel sollevò gli occhi dal piatto e guardò sua nipote e il suo ragazzo, entrambi colti da un attacco di deliziose risatine adolescenziali.

- Potrebbe essere un'idea.- Disse Aidan. - Ci dai la tua benedizione?

- Vi posso dare anche una casa. Ho un appartamento in centro, lo usavo quando studiavo all'università. Non credo che mi servirà più. Mi sono stabilito definitivamente in questa casa.

- Cavolo...- Commentò Aidan, cacciandosi in bocca una forchettata di cous-cous. - Abbiamo l'idea e abbiamo la casa. Stai a vedere che mi tocca sposarti sul serio.

- Idiota.

- No, dai, è fico. Una casa. Da qui a marzo 2012 troverò un lavoro migliore che il bigliettaio del Sunflower.

- Cos'ha che non va, il lavoro di bigliettaio del mio teatro, scusa?

- No, niente, eh. È che... Insomma, lavoro da te. In casa di amici. Voglio trovare una cosa che mi piace. Se prima mi sbrigo a finire l'università, sì. Ma mi manca poco. Tipo, a settembre mi laureo. E poi non posso rimanere indietro, se voglio sposare una programmatrice seria. No, no, ti prego, Bennett, stai tranquilla: non sto per dire una di quelle cose maschiliste che tu odi riguardo l'uomo che non può avere un lavoro inferiore a quello di sua moglie!

- Idiota.- Ribadì Virginia. - Comunque per ora sono in prova. Vedremo.

- Hai spedito il tuo copione per quel concorso per giovani sceneggiatori indetto dalla BBC?- Domandò Joel, sentendosi molto soddisfatto con se stesso per aver ricordato che sua nipote intendeva partecipare a quell'evento. L'entusiasmo con cui Virginia annuì lo fece sentire ancora più soddisfatto. - Non si sa mai, no? Magari troverai uno sbocco anche lì.

- Ha scritto un copione sui mostri.- Borbottò Aidan. - Come se ne vedessimo pochi...

- Ho scritto su un argomento di cui sono esperta. Quanti altri possono dirlo?

 

*

 

9 agosto 2010

 

Allen Waymore si mise a piangere, quando riconobbe Joel Bennett. Poi si riprese, e lo tenne lì un'ora, a rimembrare l'epoca in cui Joel era un bambino piccolo con la testa grossa, tanto pigro da aver imparato a camminare a un anno e tre mesi.

- Di che cos'hai bisogno?- Gli domandò finalmente il medico.

- Di niente. Volevo salutarti. Sapevo che eri qui.

- Dov'è il ragazzo?

- È tornato in Pakistan.

- Cosa? Definitivamente?

- Non lo so. Ad aprile hanno diagnosticato un tumore a sua madre ed è partito. Lei è morta a maggio e lui ha deciso di rimanere per un periodo piuttosto lungo.

- Ma non ha ancora finito gli studi, giusto?

- No. Ha anche smesso di farsi sentire. L'ultima volta mi ha detto qualcosa che mi ha fatto pensare. Che gli sembra di essersi occupato poco di casa sua. Ho paura che si senta in colpa per essere venuto a studiare a Londra, inseguendo i suoi desideri, lasciandosi alle spalle un paese complesso.

- Beh, non è che il destino di tutti sia diventare politici o qualcosa del genere, e salvare il proprio paese. Un posto lo si salva in tanti modi.

- Lo credo anch'io. Lo credo perché me l'ha insegnato Amir. Ma lui è così: senza qualche pensiero con il quale scandagliarsi o farsi del male, non è contento.

Allen Waymore fece una piccola risata e annuì.

- Tu lo conosci meglio di me, ma anche a me ha dato quell'impressione.

- E io credo che non si faccia sentire perché le nostre voci gli ricordano la vita che aveva qui.

- Se decidesse di rimanere là, lo biasimeresti, Joel?

- Assolutamente no. E nemmeno se tornasse. Uno come lui... Il modo giusto di salvare il mondo lo trova di sicuro.

- Intanto mi sembra che abbia salvato te.

Joel tacque, inizialmente un po' seccato dall'onestà del vecchio. Poi però pensò che stava parlando con un medico fantasma che lo conosceva da quando era nato, e che era una situazione troppo bella e assurda per rovinarla con la stizza.

- Immagino di sì.

- Stai lavorando sulla tua testa, sì?

- Sì. Sono in terapia da qualche mese. Le cose stanno migliorando. Intanto dormo. E di giorno sono spesso felice, anche senza estraniarmi dalla realtà. Sai, mi sono persino trovato un lavoro. Diciassette anni di studio, e ora, alla veneranda età di trentotto anni comincio a lavorare.

- Non è mai troppo tardi. Poi ti appassioni alla professione e finisce che continui a farla anche da morto. Che lavoro è?

- Me l'ha trovato la sorella del fidanzato di Angela Night. Farò ripetizioni di scienze e matematica in una scuola serale per ragazzini problematici. Comincerò a settembre. No, non ridere. Lo so: pensare a me in un posto del genere è assurdo, ma...

- No, rido perché è un po' un adorabile cliché.

- Che cosa?

- Il solitario che si ritrova a lavorare con i ragazzini.

- Oh, Dio. È terribile e sdolcinato. Voglio morire adesso.

- No, ragazzo. Tu hai ancora molto tempo da vivere. Vivere bene. Sai, invece, chi può anche permettersi di morire adesso? Io.

Joel tese la mano istintivamente, come per acchiappare lo spettro del dottore prima che decidesse di sparire davvero. Waymore rise nel suo modo gentile e scosse la testa.

- Perché vuoi andare?- Chiese Joel, onestamente sconcertato.

- Perché stavo aspettando il giorno in cui ti avrei visto stare bene. Il giorno è arrivato. Mi sono guadagnato il mio riposo, no?

- Direi di sì. Scusa se ti ho fatto aspettare così tanto.

Gli rispose una risata che echeggiò a lungo sulle tombe e sull'erba.

 

 

II

 

Karachi, 21 novembre 2010

 

Sedevano sugli scalini dietro la tenda, quelli che portavano al piano di sopra, come da bambini. Lui e Shirin, sullo stesso gradino, pigiati l'uno contro l'altra, pronti a darsi noia e ad abbracciarsi un secondo dopo. Dalla finestra aperta della cucina proveniva un alito d'aria che smuoveva la tenda, le scale erano illuminate dal bell'azzurro del vetro di un lume a forma di fiore che pendeva proprio sulle loro teste, e non c'erano intorno a loro cose che facevano troppo male, dopo un bel po' di tempo.

- Ma tu quando hai intenzione di tornare a Londra?- Chiese Shirin all'improvviso, appoggiando la testa contro la spalla di suo fratello.

- Vuoi mandarmi via?

- Sciocco. Lo so che ti manca.

- Mi mancava anche Karachi, quando ero lì.

- Com'è giusto che sia. Ma tu sei fatto per quel progetto, sai. Fare il letterato a Londra. Chi altri, se non tu?

- Non ti sembra che io sia ingiusto verso tutti, se me ne scappo dietro un sogno a Londra?

- Tutti chi, esattamente? La nazione, la città, la famiglia?

Lui accennò vagamente di sì e lei scosse la testa.

- E l'ordine mondiale, il sistema solare, l'universo? Non è ingiusto verso di loro?

- Per favore, Shirin. Sono serio.

- Lo so. Tu sei sempre serio. Ascoltami bene: sono io, quella che vuole entrare in politica. Non tu. Dammi il tempo di finire di allattare il mostriciattolo e mi laureo. Poi vedrai. Il lavoro con il giornale sta andando benissimo.

- Hai una vita difficile.

- E bella. Non ti scordare bella. Ed è la mia. Non la devi vivere tu, perché hai paura di non fare abbastanza per il mondo.

- Ma se tu e Janaan e Nahla aveste bisogno di me...

- Siamo adulte, indipendenti, sposate e abbiamo un sacco di amici. A che ci servi tu, scusa?

- Avete dei bambini piccoli.

- Che cresceranno e andranno a trovare il loro zio a Londra.

- Non pensi che io sia scappato dalle mie responsabilità, vero?

- Magari le tue responsabilità erano a Londra.

 

Più tardi uscì di casa e cercò di perdersi in mezzo alla città, come aveva fatto tante volte. Finiva sempre per ritrovarsi, ma immaginare di essersi perso era comunque abbastanza gratificante.
Stava meditando di tornare a casa, quando si ritrovò nei presi della fermata per il tram che portava all'aeroporto. E lì, proprio dove l'aveva visto l'otto giugno 2007, ecco lo straniero che tre anni prima gli aveva indicato la strada, il giorno in cui era fuggito di casa dopo aver annunciato la sua partenza, ed era andato a comprare il biglietto dell'aereo.
Era lì, giovane e vecchio insieme, accompagnato da un respiro di vento caldo, un tintinnare di frammenti colorati di cose antiche e misteriose, l'eco di un canto tragico che sfocia in un inno per un futuro magnifico e desiderato.
Solo che ora non era più uno straniero, perché Amir ne aveva conosciuti altri, come lui. Gli sorrise, improvvisamente commosso.
- Io lo so, chi sei.- Disse, e l'altro rise, pieno di divertimento e lacrime e segreti.
- Anch'io. Sei uno che ha bisogno di un'indicazione per arrivare all'aeroporto.
- Già. Forse. Non lo so. Questa volta ho bisogno di un consiglio. Devo comprarlo, un biglietto aereo, oppure no?
- Ah, queste grandi domande. Dovresti conoscerci abbastanza da sapere che noi non diamo risposte. Semmai ve le facciamo trovare.
- Perché mi hai indicato la strada, tre anni fa? Eri così ansioso di mandarmi lontano da qui? Lontano da te, dalla mia città?
- Io ti ho solo indicato la strada. Tu saresti potuto arrivare all'aeroporto, cambiare idea e andartene.
Amir lo guardò negli occhi e si sentì a casa, e allo stesso tempo fu colto da una nostalgia lancinante di una piccola signora vestita di nebbia, dolce e inquietante.
- Aiutami a trovare questa risposta, allora.
- Tu sei uno di quelli che non avrà mai una casa soltanto. Questo non significa che tu non possa sentirti comunque a casa dappertutto, o che non possa aiutare altri a trovarne una.
- Se partissi, allora, ci rivedremmo?
- Per quelli come me te c'è del buon vino alla locanda alla fine del mondo. Quindi, se non altro, ci rivedremo lì di sicuro.
Amir rise di stupore.
- Conosci Chesterton?
- Conosco te, che stai preparando una tesi sulle locande. Sbaglio? Com'è, di preciso? Il tema della locanda...
- Nella letteratura britannica dalle origini a oggi.
- Era solo una citazione per vederti spalancare gli occhi dalla sorpresa, e dimostrarti che i miei figli li conosco tutti, ovunque abitino. So che ti rivedrò anche prima della fine del mondo, o della tua fine. Quando avrò bisogno di te. E ora posso regalarti un'altra citazione, se vuoi. I vostri figli non sono i vostri figli, diceva un poeta libanese. Non tutti i figli si tengono tra le braccia per sempre. Qualcuno parte, ed è un bene, perché semina pezzi della nostra storia in altre terre. Ti ho affidato un compito importante.

E su quella voce vitale se ne innestava un'altra, delicata e distante, come proveniente da un'altra stanza, una voce di donna che ripeteva un invito.

- Che fai, ancora qui?- Lo straniero, che non lo era più, indicò una direzione precisa. - La tua altra casa ti sta aspettando.
 

*

 

7 dicembre 2010

 

Non si aspettava che il telefono squillasse, né il nome sul display, ma in fondo avrebbe dovuto saperlo, e fu felice quando rispose.
- Pronto? Joel?
- Ciao, Amir. Sono a pranzo con Angela e i ragazzi. Perdonaci, ti stiamo chiamando a un orario improbabile? Abbiamo perso il conto del fuso orario. Volevamo farti gli auguri di buon compleanno.

Lo raggiunse il suono di una schermaglia scherzosa dall'altra parte. Amir rise, passando le dita sul biglietto aereo posato sul tavolo della cucina.

- Grazie. Sai, in realtà avrei dovuto chiamarvi io. Dì a tutti che torno. Il ventuno dicembre alle nove e mezzo arriverò a Heathrow.

- E me lo dici così?

- Scusa. Non sapevo bene come fare. Sono sparito. Non è che volessi sparire. Infatti sto tornando.

- Vengo a prenderti.

- Non importa, posso arrangiar...

- Non dire idiozie. Sappi che qui tutti hanno cominciato a brindare al tuo ritorno. Saranno ubriachi nel giro di mezz'ora e sarà tutta colpa tua.

Risate, voci stonate, schiamazzi, parole incomprensibili. Amir bevve tutto con l'avidità con cui si prende ciò di cui si ha bisogno.

 

Quella notte sognò due occhi verdi e vividi nell'oscurità, che lo stavano aspettando.

 

*

 

Londra, 14 dicembre 2010

 

La Cacciatrice di Storie arrotolò un'altra pagina di vita, scivolando tra le vie di Londra, nelle sue vesti nere vittoriane, riparata da un ombrello di trine. Salutò un refolo di vento, balzò su una carrozza inesistente e si fece portare fino al Sunflower, che sonnecchiava, rilassato. La lanterna verde era lì, al suo posto.

Più avanti si fermò a scambiare due parole con tre carcerati ridanciani, e assicurò loro che c'erano buone notizie nell'aria. Dinanzi alle porte benedette di Springmere si concesse solo uno sguardo affettuoso. Proseguì fino al negozio di giocattoli, che riposava protetto da una lanterna che dondolava sulla soglia.

Arrivò fino a Haven Crescent, per controllare l'ultima lanterna: era lì, dove sarebbe sempre dovuta essere. Perfetto. Era raro che l'universo fosse allineato così bene. Lei era giovane, ma aveva tutte le memorie dei suoi predecessori, quindi lo sapeva.

L'indomani magari sarebbe cambiato tutto: un vento straniero avrebbe scombinato le carte, portando un annuncio di incertezze e sofferenza, e forse l'inizio di una nuova guerra.

Stanotte no, e lei scrisse la fine del giorno nei suoi annali.

 

Fiamma, fiamma nella notte
brucia e non ti addormentare
Mostra a quelli senza rotte
un rifugio dove andare
Mostra a chi quaggiù s'è perso
una via per il riposo
Mostra ai vivi l'universo
vivo, grande e misterioso

 

*

 

Heathrow, 21 dicembre 2010

 

Joel lo stava aspettando al recupero bagagli. Fu colto da una felicità così totale di rivederlo che dimenticò il proprio borsone e andò subito ad abbracciarlo.

- Possiamo anche andare, ma forse hai qualcosa da prendere.

- Oh. Sì. Devo essere un po' stanco dal viaggio.

- Perdonabile. Guarda, vedo il tuo orribile borsone grigio marcio che passa proprio adesso sul nastro trasportatore. Vado a prendertelo.

- Non è orribile.- Protestò lui, debolmente, mentre Joel si faceva largo tra la gente e riemergeva un attimo dopo con il bagaglio di Amir.

- Andiamo?

- Fa molto freddo?

- Nevica. Ti ho portato la tua giacca. Immaginavo che non avresti avuto niente di pesante. Sei partito in aprile.

Joel gli porse l'indumento e Amir pensò di dirgli che era diventato straordinariamente responsabile, in quei mesi, ma poi evitò di farlo, perché avrebbe avuto modo di prenderlo in giro su quell'argomento con calma, una volta arrivati a casa. Si immerse nella giacca e non protestò quando Joel gli volle portare la borsa.

- Abbiamo una valanga di novità da raccontarti. E anche tu avrai un bel po' di cose da dire, immagino.

- Forse ho più voglia di ascoltare voi.

- Eh, che novità...

- Ma vi racconterò anche di me, va bene. Come va il tuo lavoro, Joel?

- Preferisco i più pazzi dei tuoi spettri ai più tranquilli dei miei ragazzini. A parte questo, va molto bene.

Risero, mentre uscivano nella notte ghiacciata, per ritrovarsi in mezzo a un turbinio di fiocchi di neve.

- Lo so che ho compiuto ventisei anni due settimane fa, ma... È sciocco che io mi senta esaltato per la neve?

- È perfettamente normale, per te. E adorabile.

- Se dici così, mi fai sentire sciocco.

- Non c'è bisogno di sentirsi sciocco. Ciò non toglie che sia adorabile lo stesso.

- Sei davvero di buon umore, stasera, Joel.

- Dai, andiamo. Puoi ammirare la neve anche dal finestrino della macchina. A proposito: al più presto ricominceremo le lezioni di guida.

- Anche se durante il nostro unico disastroso tentativo ho rotto un faro?

- Ti farò diventare il miglior autista di Londra.

Salirono in macchina e Joel cominciò a guidare piano, mentre i fiocchi bianchi non volevano smettere di scendere. Amir era stanco, ma la stanchezza non era abbastanza da non fargli sentire quanto fosse felice.

Poi notò sul cruscotto la busta con il suo nome.

- Quella cos'è?

- Una sorpresa.

- Ovvero?

- Un regalo di compleanno. Sai, una volta mi hai spiegato una complessa faccenda riguardo la polarità del Sunflower. Diventa buono o cattivo a seconda di uno specifico fattore. Per cui ho deciso che potevamo giocare d'anticipo sul teatro e assicurarci la sua amicizia per la prossima generazione.

- Cosa...

- Naturalmente quella è solo una prima bozza del documento. Dovremo andare dal notaio, tu, io e un paio di testimoni. Ma sarà molto semplice. E no, non esiste modo di farmi cambiare idea. Non mi guardare così. So che hai già capito cosa c'è lì dentro e so che sei intelligente, e quindi accetterai.
- Joel. Non so cosa dirti.
- Non è a me che devi rispondere, lo sai.
Amir aprì la busta e trovò i suoi sospetti confermati fin dal titolo.
- Joel. Sei sicuro che...
- Niente storie. Cosa rispondi?
- Sì.


Atto di donazione

In data __________, di fronte al sottoscritto notaio __________ e ai testimoni ___________ e __________, il signor Joel Matthew Bennett, nato a Londra il 7/09/1970, cede l'immobile al numero 13 in Riven Road, il teatro Sunflower, ad Amir Daryani, nato a Karachi il 7/12/1984, che accetta la donazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

Grazie, grazie, grazie di essere qui.

La storia è finita, finita come ho saputo che sarebbe finita fin dalla prima parola.

Ci sarebbe di sicuro tanto da raccontare – cosa cambierà al Sunflower adesso, come evolverà il legame atipico tra Amir e il signor Bennett, quali altri incontri significativi caratterizzeranno la storia di questo posto e di queste persone... Però questa storia finisce qui, com'è giusto che sia. Chissà, se il tempo e la vita me lo permettono, forse ci saranno altri frammenti di questa vicenda da raccontare.

Ringraziamenti e spiegazioni riguardo questa storia, se volete, li trovate qui.

Qui c'è una specie di capitolo speciale, secondo le regole della sfida di una storia costruita su 50 frasi, ciascuna con un prompt.


Ho scritto anche tre ulteriori epiloghi, anni dopo: per il momento li lascio fuori dalla storia ma ve li linko. Magari un giorno farò un restyling totale del racconto e li inserirò. Uno di essi svela l'evoluzione (che comunque penso fosse abbastanza allusiva) del legame tra Amir e Joel. Sono qui:
Notturno
La verità è nel sottopalco del Sunflower
Un messaggio dalle ombre

Esistono due canzoni, scritte apposta per questa storia: una potete ascoltarla qui, l'altra potete ascoltarla e scaricarla gratuitamente qui.

Ancora un grazie a ciascuno di voi.

Il teatro è sempre aperto e le storie non si fermano mai.

 

Harriet

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