Three Casual Encounters, Plus a Totally Set-up One

di tomtom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** Bonus ***



Capitolo 1
*** I ***


I

 
 

John Watson era incredibilmente in ritardo: il suo turno al S. Barts sarebbe dovuto inizizare dieci minuti fa, e il dottore, anziché trovarsi al Pronto Soccorso dell'ospedale si trovava bloccato sulla Central Line.
“Maledetta Hammersmith!” aveva imprecato mentalmente il giovane dottore, nel momento in cui aveva appreso la notizia del guasto che lo avrebbe costretto a prende l'infernale linea rossa proprio nell'ora di punta.
Camminando per la stazione di Wood Lane, mentre percorreva il sottopasso che lo avrebbe portato alla fermata di White City, John sentiva il proprio umore scivolare sempre più sotto i suoi piedi ad ogni passo affrettato che metteva avanti.
Come da previsione, la corsa della Central Line che raccolse il giovane uomo, quella delle otto e dieci era già straordinariamente piena, al punto che John dovette lottare e sgomitare per accaparrarsi un minuscolo spazio accanto la porta.
Ad ogni fermata sembrava che nessuno dovesse scendere e che, anzi, un fiume umano dovesse riversarsi dentro a suon di gomitate, borsettate e parolacce.
A Nottin Hill Gate l'ennesima orda di turisti e nervosi uomini di affari cercò di entrare e, tra i pochi fortunati e coraggiosi, un uomo riuscì ad intrufolarsi, letteralmente creandosi da solo uno spazio, gesto che spinse John Watson contro la sbarra laterale che correva accanto alla porta.
La prepotenza con cui il nuovo passeggero si aggrappò alla stessa sbarra, vide John sbattere il viso contro di essa.
La cosa infastdì indicibilmente il giovane dottore, il quale si trattenne dal trattare male il nuovo venuto solo perché impossibilitato fisicamente ad aprire bocca: il corpo dell'altro, infatti, non era receduto di un millimetro, facendo sì che John continuasse ad avere la propria guancia spalmata sul lurido passamano.
John Watson cercò di spingere indietro con il suo peso e fu così che che si rese conto della scomodissima posizione in cui si trovava: l'uomo, che si aggrappava alla stessa sbarra, era sì più alto e provvisto di braccia considerevolmente lunghe, ma lo stava intrappolando con il suo corpo, e – per il disagio di entrambi, avrebbe detto John – il dottore si trovava a dargli le spalle, dove l'altro la parte frontale di petto e inguine.
“Dio Santo!” urlò internamente Watson, facendosi rapidamente rosso in viso per l'imbarazzo generato dalla sua mossa.
Tutto ciò non tolse nulla al nervosismo e alla stizza che stavano montando nel cuore del dottore: era colpa dello sconosciuto se si trovava in una situazione del genere e sicuramente non sarebbe stato lui a chiedere scusa.
John si limitò a lanciare uno sguardo assassino nella direzione generale dell'altro uomo, il quale, gli sembrò di vedere con la coda dell'occhio, non rispose se non con quello che gli parve un sorriso malefico; indignato, Watson cercò rifugio nell'angolo felice della mente che riservava alle occasioni che richiedevano distacco e isolamento. Non poteva aver scorto una simile risposta.
Nel momento in cui il convoglio ripartì nel suo viaggio maledettamente affollato, il dottore si trovò a fare i conti con un altro fastidio, che lo riportò bruscamente indietro dal suo happy place.
Ogni piccolo sobbalzo che il percorso lungo i binari faceva fare a convoglio e passeggeri, risultava  in una gomitata dell'uomo sulla nuca del dottore: la posizione in cui erano entrambi vedeva il braccio dello sconosciuto precisamente angolato per colpirlo in pieno ad ogni vibrazione.
John Watson chiuse gli occhi, e trasse un respiro profondo.
“Ora capirà” si disse per tranquillizzarsi, “questo orco chiederà scusa e si allontanerà, sì, proprio così!”.
Dal canto suo l'altro passeggero sembrava ignaro del fastidio che stava causando al giovane dottore e, il solo rendersene conto, fece infuriare ancora di più John.
Ad un certo punto Watson si chiese se l'uomo non lo stesse facendo apposta, perché “dannazione, almeno provare ad evitare che il suo coso toccasse il suo didietro!” sarebbe stato gradito.
Tra il ritardo e la posizione imbarazzante  il dottore credette di essere sull'orlo di una crisi di nervi per qualche fermata; inoltre il caldo non sembrava aiutarlo, poiché stava contribuendo ad accrescere il suo senso di claustrofobia.
Per sette fermate John Watson lanciò maledizioni al comune di Londra, al penoso servizio delle metropolitane e all'uomo che gli stava appiccato e che con il suo odore di pipa -davvero c'era ancora gente che fumava la pipa nel 2014?!- stava seriamente minacciando di mandarlo al manicomio; quando ormai John stava per voltarsi e dirgliene quattro, si verificò il miracolo.
Il treno si fermò in corrispondenza della banchina di Holborn: molta gente scese e lo sconosciuto che lo aveva importunato fino a quel momento si unì a quella folla.
Figurate lacrime di gioia fecero appannare la vista del dottore, il quale con un sospiro di sollievo si godé lo spazio personale che aveva appena riacquistato.
Nello stesso momento, mentre le porte si chiudevano, notò dal finestrino che il viaggiatore che aveva avuto attaccato al sedere per tutto il tragitto si era attardato sulla banchina: incuriosito, Watson continuò a fissarlo, finché questi non si voltò e visibilmente gli lanciò un occhiolino.
Il giovane dottore sgranò gli occhi, mentre una piccola parte del suo cervello registrava ed archiviava l'odore di pipa, gli occhi grigi e i solidi muscoli che lo avevano schiacciato; quindi guardò l'orologio, lesse nove meno un  quarto, si riscosse dai propri pensieri e scese due fermate dopo.
Inutile dire che arrivò in ritardo.







Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, sono di proprietà di Sir A. C. Doyle. e non scrivo per scopi di lucro

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Capitolo 2
*** II ***


II
 
 

John si svestì del camice e lo ripose nello zaino che aveva appena recuperato dall'armadietto; indossò sciarpa e cappotto, chiuse a chiave i suoi oggetti personali custoditi nel mobile di latta e si accinse a lasciare la stanza del personale.
Il turno al pronto soccorso lo aveva distrutto e se fosse stato per lui sarebbe tornato a casa immediatamente, eppure quella sera aveva promesso di andare ad accompagnare Harry, sua sorella, all'aeroporto, per salutarla prima che questa partisse per chissà quale destinazione.
Camminando svelto, John si stava dirigendo alla stazione di Russel Square per prendere la Piccadilly che lo avrebbe portato direttamente ad Heathrow: ovviamente avrebbe impiegato molto tempo, ma sarebbe stato disposto a fare questo ed altro per la sua sorellina, vero?
Poco lontano dalle scale che portavano alla stazione il giovane dottore si fermò per accendere il telefono che vittoriosamente era riuscito a ripescare nello zaino mentre procedeva spedito nel suo passo; inserì PIN e codice di sblocco e riprese nel suo avanzare, stringendosi un po' di più nella sciarpa per ripararsi dal freddo di quel pomeriggio invernale.
Proprio mentre approcciava i primi due scalini, John avvertì una vibrazione nella sua tasca, e in automatico tuffò la mano per recuperare il cellulare e leggere il messaggio: aspettava un messaggio di Harry con i dettagli del volo e ci aveva visto giusto, perché sullo schermo campeggiava il nome di sua sorella accanto alla voce di notifica: aprì e lesse.
 
Sono al Gate B-  volo BA1524. Mi imbarco alle 8:30. Baci xoxo”
 
Pensò che mancavano poco meno di due ore e che ce l'avrebbe fatta tranquillamente.
Quando sollevò gli occhi dal piccolo schermo luminoso era ormai troppo tardi per evitare la figura che, giungendo nel senso contrario, avrebbe travolto nel suo procedere distratto; la figura si rivelò essere un uomo, il quale, inerme, lanciò un grido mozzato e annaspò con le braccia in cerca di un appiglio nella sua caduta.
Watson agì d'istinto e ringraziò i suoi riflessi da medico di pronto soccorso: con un gesto fulmineo afferrò l'uomo per un lembo del suo cappotto, quindi lo trasse a sé e avvicinò entrambi al corrimano laterale, cercando di liberare il passaggio per le altre persone.
«Sta bene?» chiese insicuro e colpevole il dottore?
L'uomo che per un pelo non uccideva sembrò finalmente recuperare dallo spavento, poiché  riaprì infine gli occhi e trafisse Watson con uno sguardo omicida.
Con un senso di stupore, John riconobbe quegli occhi grigi e quel naso aquilino, anche alla debole luce dei lampioni: fu riportato in un battibaleno a quella mattina di qualche settimana prima dove per una buona mezzora aveva rischiato di commettere un atto per il quale avrebbe in seguito dovuto pagare  con il carcere.
“Oh” pensò.
Lo sconosciuto, che ora non dava segno di averlo riconosciuto, era chiaramente su tutte le furie, eppure l'invettiva che era da aspettarsi dopo un episodio del genere, tardava ad arrivare; l'uomo si limitava a fissarlo, gli occhi una fessura e un'espressione che da sola raccontava quanto potesse reputare stupido e fastidioso John.
Difficile conciliare, pensava Watson, questa immagine con quella che aveva dato sulla metro nel loro incontro precedente: se allora gli era parso di scorgere – forse anche  con piacere- una scintilla di divertimento nel profondo grigio di quegli occhi, ora l'acciaio gelido che lo stava inchiodando sul suo posto e gli impediva di aprire bocca lo stava decisamente intimorendo.
Watson credette di essere stato sottoposto a quella tortura per un'eternità, e quasi si stava risolvendo ad inginocchiarsi sconfitto e implorare quello strano sconosciuto per il suo perdono, quando questi finalmente distolse lo sguardo dagli occhi del dottore e, con una spallata, si fece strada per andare via.
Fu il colpo a risvegliare John, il quale si accorse di non aver nemmeno chiesto scusa.
Si lanciò in una corsa lungo le scale nel tentativo di raggiungere l'uomo che lo aveva appena lasciato: arrivò in cima con il fiato corto, tuttavia, malgrado i suoi sforzi, fece solamente in tempo a scorgere la figura flessuosa e alta, mentre girava l'angolo e scompariva dalla sua vista.
Per qualche momento, Watson si lasciò sopraffare dal senso di vergogna per il suo orribilr comportamento, poi gli tornò in mente come quell'uomo lo avesse preso in giro sul treno: sì, si disse, si era preso gioco di lui e la cosa non gli era piaciuta molto. Non era forse questa la volta della sua vendetta? Certamente non aveva agito intenzionalmente, ma, si chiedeva: “mi dispiace veramente?”.
Scosse la testa e rise: sebbene non fosse nella sua indole l'essere vendicativo o rancoroso, ben gli stava a quello strano personaggio!
Erano uno pari ora: palla al centro.

 

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Capitolo 3
*** III ***


III
 
 

Con un sospiro il giovane dottore si abbandonò al suo posto sul treno della Hammersmith che lo avrebbe portato a casa.
Controllò l'orologio e lesse l'ora, sprofondando impercettibilmente nel sedile: erano le otto e venti e normalmente sarebbe dovuto essere già a casa da un pezzo; quel giorno invece c'erano stati parecchi problemi al pronto soccorso del S. Barts e tra questi, una ciclista travolta da una macchina e portata d'emergenza proprio un quarto d'ora prima della fine del suo turno, lo aveva costretto a fermarsi ben oltre il proprio orario di lavoro.
Fortunatamente era riuscito a stabilizzare le condizioni della ragazza e ne aveva approfittato per andarsene ed affidarla al reparto di rianimazione; stancamente  aveva trascinato i propri passi fino alla fermata di Barbican, la stazione più vicina, appunto, e ora si trovava in direzione di Hammersmith, stanco, ma nel profondo felice, deciso a rilassarsi nel suo tragitto di ritorno verso casa.
Mentre le stazioni si susseguivano, Watson si godé il silenzio e la calma del treno semivuoto: accanto a lui non c'era nessuno e il passeggero più vicino si trovava a tre banchine più a destra della sua.
Ad ogni fermata il dottore studiava pigramente il flusso di passeggeri che salivano e scendevano,   favorito tra l'altro dalla posizione frontale rispetto la porta più prossima.
Fu quasi distrattamente che Watson si accorse quando a Baker Street salì quell'uomo.
Le sopracciglia partirono in automatico e quasi rischiarono di perdersi tra i suoi capelli: non poteva credere che lo sconosciuto che aveva precedentemente incontrato altre due volte nel mese scorso stesse salendo proprio in quel momento dalla porta che dava sulla sua visuale.
L'uomo camminava a testa bassa, sovrappensiero, ed era palese che si stesse dirigendo verso i posti liberi vicini a John Watson, quando ad un tratto si fermò e fissò il dottore come se avesse visto un fantasma; con un movimento fluido fece dietrofront e andò a sedersi tre panchine più giù, davanti la signora che Watson aveva osservato per un po' alla sua destra.
Stupidamente il giovane dottore registrò la cosa come un'offesa personale e iniziò a chiedersi se l'ultima volta fosse risultato davvero così sgradevole. Ogni tanto lanciava degli sguardi in direzione dello sconosciuto e una volta lo sorprese a fare la stessa cosa: allora sorrise e vide l'altro imitarlo.
Alleggerito dal peso di aver dato una così terribile impressione, Watson si prese qualche tempo per apprezzare la fisicità dell'uomo: come ricordava molto bene dal loro primo incontro, lo sconosciuto era alto, e sapeva che sotto quell'elegante cappotto di lana grigio a doppiopetto si celava un corpo nervoso e solido; da lontano era difficile studiare con precisione i lineamenti di quel volto: si rese conto per la prima volta che appariva serio, se non austero, eppure sapeva che sotto quegli occhi grigi si poteva nascondere una scintilla di divertimento, e su quelle labbra sottili disegnare un sorriso provocante; l'uomo era di carnagione pallida e da lontano il nero dei capelli e della barba risaltavano ulteriormente: proprio questi due ultimi particolari, barba e capelli, sembravano confermare l'intuizione del giovane dottore, poiché disordinati come erano, costituivano una contraddizione alla generale aura di ossessivo compulsivo che egli emanava.
John distolse lo sguardo qualche secondo, sbadigliò e non si accorse che nel frattempo l'altro si era alzato ed avvicinato alla porta di fronte a Watson, pronto per scendere.
Il treno si fermò con qualche stridio e le porte si aprirono: fu in quel preciso istante che il dottore si risvegliò dal suo torpore e fece l'unica cosa che si sentiva in dovere di fare.
«Mi dispiace!» urlò alla figura che silenziosamente si era già allontanata dalla carrozza.
Questi si girò e, proprio mentre le porte si richiudevano, Watson riuscì a scorgere un sorriso divertito e un occhiolino rivolto nella sua direzione.

 

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Capitolo 4
*** Bonus ***


BONUS
 
 

John Watson stava raccogliendo le ultime cose dal suo armadietto nella stanza del personale, quando udì qualcuno entrare dentro.
Si girò e trovò Irene Adler che lo fissava dall'uscio della porta con uno strano sorriso; durante tutti i turni che avevano condiviso, il dottore aveva imparato ad ammirare la sua tagliente intelligenza e sapeva quanto la ragazza potesse essere scaltra. Perciò la vista di quell'enigmatico sorrisetto lo immobilizzò.
«Irene» disse a mo' di saluto, cercando di apparire il più rilassato possibile; tornò quindi al suo armadio e al suo zaino, facendo movimenti piuttosto bruschi, così da fare abbastanza rumore da dare l'impressione che fosse occupato.
La donna rise divertita e con pochi passi gli fu alle spalle.
«Dottor Watson, c'è qui fuori un mio amico che desidererebbe conoscerla».
Watson rabbrividì sia al tono che all'implicazione che quella frase portava con sé: ricordava ancora quella volta che aveva accettato di farsi coinvolgere in un appuntamento al buio con uno dei suoi amici; non era finita per niente bene e fu proprio da quel momento che aveva iniziato a temere le macchinazioni di quella donna che puntavano unicamente a “dargli un uomo su cui fare affidamento”.
«Irene...» ripeté, questa volta quasi una supplica.
«La prego, dottore, si fidi di me»
«Irene, ti prego, voglio solo andare a casa».
E con ciò chiuse – con forse troppa violenza - lo sportello dell'armadietto e si precipitò fuori dalla stanza.
Nel desiderio di allontanarsi dall'intrusiva infermiera, Watson non considerò che, nello spalancare la porta, avrebbe potuto colpire chiunque si trovasse in quel momento dietro di essa; quando questa chiaramente colpì qualcuno, John si lasciò scappare un «cazzo!» e accorse in aiuto della sua povera vittima.
«Voglia moderare il linguaggio, dottore»
Di tutte le persone che Watson pensava potessero trovarsi dietro quella porta, il dottore mai avrebbe pensato di posare lo sguardo  sulla figura del suo sconosciuto della metro: questi sorrideva divertito e tale visione richiese qualche tempo per elaborare esattamente cosa fosse accaduto. Vide il piede dell'uomo vicino la porta e capì di non aver colpito nessuno, ed anzi, di essere stato salvato dai riflessi acuti dell'uomo.
«Oh mio Dio... Mi scusi tanto» fece imbarazzato il giovane dottore, cercando di evitare di fissare lo straniero negli occhi.
Inconsciamente registrò il momento in cui la Adler sgattaiolò fuori dallo stanzino e quasi gli sembrò di vedere i due scambiarsi sorrisi compiaciuti.
«Dottore, non si preoccupi, sarebbe scappato a chiunque» tornò a concentrarsi su di lui l'uomo.
Watson annuì, e decise di darsi un contegno.
«Perlomeno, mi permetta di ringraziarla per i suoi pronti riflessi, signor...»
«Sherlock Holmes» concluse l'uomo, porgendo la mano che il dottore prontamente strinse.
«Dovrei ringraziarla anche io, allora, per i riflessi, dottor Watson» ammiccò alla targhetta e proseguì: «è un piacere conoscerla, John Watson»
«Anche per me, signor Sherlock Holmes».
I due si scambiarono uno sguardo di complicità e Watson quasi sentiva il cervello esplodere per l'euforia e l'adrenalina che questo incontro gli stava causando.
«Posso chiederle come è andato il viaggio in India?» domandò Sherlock Holmes.
Il giovane dottore impallidì e scrutò quegli occhi grigi che davano l'impressione di stare studiandolo attentamente: per un attimo pensò ad uno stalker, poi si ricordò che quest'uomo doveva conoscere Irene Adler e la luce nei suoi occhi sembrava più divertita che minacciosa.
Watson balbettò qualcosa, ma fu interrotto prima che potesse compromettere ulteriormente la sua integrità.
«La prego, non si spaventi, Watson: piuttosto, se accetta il mio invito a cena, mi darà l'occasione per spiegarle come ho fatto a rintracciarla e come so dell'India».
Parlò con una voce elegante che poco aveva a che fare con l'occhiolino amichevole che la accompagnò.
Confuso, il dottore abbassò lo sguardo e passò qualche istante a soppesare la proposta: accettare l'invito si sarebbe potuto rivelare pericoloso, d'altro canto la prospettiva di poter fare la conoscenza di un così intrigante uomo lo allettava e perché no, si chiedeva, perché non permettere ancora che questo Holmes stravolgesse la sua vita un'ultima volta con la sua imprevedibilità?
«Accetto l'invito, Holmes» esclamò solennemente, «ma deve promettermi di finirla con i “lei” e di non essere un serial killer in incognito».
I due risero divertiti e dopo qualche tempo iniziarono a consultarsi, ognuno sentendosi sempre più a proprio agio con l'altro, per decidere dove e come andare.
Sul dove ebbero qualche problema a trovare un accordo, ma sul come non ci furono dubbi: sarebbero andati con la metro.



Fin

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