Out Of My Control

di Son of Jericho
(/viewuser.php?uid=691751)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


I

 

Quante volte avete sentito o letto la frase: "sembrava una mattina come tante, ma ancora non sapevo che sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe sconvolto la vita"?

Tante, ne sono certo, eppure... quella fu davvero quel genere di mattina.

E' passato un po' di tempo, ma se dovessi dire con precisione quanto o quando esattamente è successo, probabilmente non ci riuscirei. Magari è un disperato tentativo del mio subconscio di far sparire questo ricordo dalla mia memoria, anche se, fino a qui, non è che ci sia riuscito proprio bene.

Frammenti di quell'immagine, che a lungo ha continuato ad inseguirmi e a tormentarmi come un incubo, sono ancora presenti.

Pareva davvero una mattina come tante. La giornata era iniziata nello stesso banale modo delle precedenti, con la sveglia che trillava prima dell'alba e che per l'ennesima volta rischiava di finire frantumata sul pavimento o di spiccare il volo fuori dalla finestra.

Mentre il sole se ne stava ancora rintanato, prima di fare capolino da dietro le montagne che occupavano il panorama della mia terrazza, io svolgevo l'ormai consolidata routine mattutina di preparazione per andare al lavoro, muovendomi con la stessa agilità di un robot a cui non cambiano l'olio da anni.

Uscito da casa, mi aspettava il solito noiosissimo tragitto in auto. Avevo imparato le strade a memoria meglio di un navigatore satellitare, cosa che però non mi impediva, come ogni giorno, di imbattermi in quella coppia di semafori che sembravano avere i sensori satellitari puntati dritti su di me, e che puntualmente scattavano nel momento meno opportuno. Per non parlare dei classici individui in bicicletta, attempati personaggi che riescono con un semplice mezzo a due ruote a intralciare l'intero traffico di quelli a quattro, fissati come con la colla al centro della carreggiata, e che non accennano nemmeno per scherzo a scansarsi perché tu possa superarli. E poi, tanto per cominciare al meglio la giornata di lavoro, c'era da affrontare la proverbiale lotta per trovare un misero parcheggio.

L'ufficio in cui lavoravo contava sei persone, ed oltre me, era così composto: c'era Arianna, la segretaria, Sandro, il progettista, Edoardo, il tecnico elettronico, e Lorena, l'impiegata commerciale.

Infine, a completare la formazione, c'era "Il Capo", un essere infido e dal doppio volto stile Harvey "Due Facce" di Batman: un giorno era come il tuo migliore amico, l'altro diventava una figura oscura e crudele alla MegaDirettoreGalattico di Fantozzi.

Quel giorno, però, ricordo che tra le postazioni di lavoro si respirava un'aria molto più leggera. Il capo era impegnato in un viaggio d'affari in uno di quei paesi stranieri dal nome impronunciabile, e che finché non lo senti non sai nemmeno che esiste, e saperlo lontano faceva apparire l'ufficio automaticamente più largo e comodo.

Eravamo tutti liberi di adempiere ai nostri compiti come ritenevamo opportuno, senza fiato sul collo, senza cane a mordere le caviglie, senza ordini, e soprattutto senza possibilità che il nostro superiore potesse telefonare per impartirli, perché laggiù ovviamente non c'era campo, e perché se anche fosse riuscito per miracolo a trovare delle tacche, nessuno si sarebbe sognato minimamente di rispondere.

Insomma, sembrava tutto tranquillo, liscio e in pace come un fiume appena nato dalla sorgente che scorre spensierato lungo le pareti della sua montagna, per poi andare a tuffarsi nel mare.

Per quanto mi riguardava, alla mia scrivania i minuti passavano lenti tra un click del mouse e un tasto premuto sulla tastiera, davanti a quel monitor che come ogni giorno rifletteva il mio sguardo per ore. Il mio ruolo prevedeva che mi occupassi dei sistemi informatici aziendali, e quel computer, che dopo mesi ero riuscito a personalizzare ad ogni livello, era diventato il mio fedele compagno di viaggio.

- Credete che questi fenomeni riusciranno a pagare entro questo fine settimana? - fece a un certo punto Lorena, alzando una fattura e mostrandola da lontano a tutti.

- Sarebbe già qualcosa se pagassero entro la fine dell'anno. - replicò Sandro, tra il serio e l'ironico, senza staccare gli occhi dal video.

Arianna smise di scrivere e si voltò verso di loro. - Io un po' di tempo fa ho parlato con... coso... come si chiama quel tizio, Peppe? -

- Pedro. - la corresse Lorena.

- E' uguale. Comunque non mi ha saputo dire niente. -

- Certo... - intervenne Sandro, alzando finalmente la testa ma mostrandosi piuttosto scettico. - Dipende da come si alza la mattina, e tu devi aver scelto quella sbagliata. -

- Sempre che decida di alzarsi. - si intromise Edoardo ridendo.

- Sì, perché messo male com'è, è capace di non mettere piede in azienda per una settimana. Io lo conosco, fa così. Poi magari un giorno si rivolta e ti tratta peggio di un cane. -

- Perché, cosa fa? - gli chiese incuriosita Arianna.

Sandro sogghignò sotto i baffi. - Lascia perdere. Se cominciassi a raccontare ogni cosa, finiremmo col saltare la pausa pranzo. E tu sai benissimo che non nessuna intenzione di perderla. -

- Ma allora perché continuiamo a vendere a questo qui? -

- Bella domanda. - si inserì di nuovo Edoardo. - Perché non provi a chiederlo a... - indicò con la testa l'ufficio privato vuoto adiacente al nostro. - al "signore". -

- Magari sono compagni di pub. - scherzò Lorena, mettendo definitivamente via la fattura e chiudendo rassegnata la questione.

Io mi stavo facendo i fatti miei, ripensando con una certa soddisfazione a come quell'impegno internazionale avrebbe tenuto il capo lontano dall'ufficio per circa una settimana, quando avvertii dei passi alle mie spalle.

All'inizio non detti molto peso alla cosa, dopotutto poteva essere uno dei miei colleghi che si era alzato, un cliente giunto da fuori, un distributore di volantini che aveva trovato la via per intrufolarsi nell'azienda. E invece no.

Era Mario, uno degli operai che lavorava nel reparto "manovalanza" dello stabilimento, e che, almeno in teoria, non avrebbe dovuto trovarsi lì. Ogni tanto lasciava l'officina per questioni meccaniche o delucidazioni tecniche da chiedere al progettista, ma non era quello il caso.

C'era qualcosa di strano in lui, non potei fare a meno di notarlo fin da subito. Si aggirava tra le scrivanie con fare schivo, cercando di passare inosservato il più possibile ed evitando ogni contatto visivo. Sembrava un'ombra che fluttuava cercando il favore delle tenebre.

E soprattutto, con mia enorme sorpresa, vidi che si stava dirigendo verso di me.

Mi accorsi che mi stava fissando con un'espressione non minacciosa, ma semplicemente seria, convinta e determinata.
Ancora sotto il mio sguardo interrogativo, Mario raggiunse la mia scrivania, afferrò una sedia e si sedette accanto a me.


- Ascolta, dovrei parlarti. -

Io tornai per un attimo ad osservare il monitor del computer, un desktop amaramente ricoperto di finestre vuote che stavano a testimoniare come non avessi poi molto da fare. Perciò, qualunque cosa fosse, avrei potuto occuparmene senza problemi.

E inoltre, ero abbastanza sicuro che dovesse esserci qualcosa di importante sotto. Mario era quel tipo di persona diretta, che parlava sempre senza mezzi termini, che non aveva paura di dirti le cose in faccia, e che certo non si metteva a fare lunghi e inutili giri di parole. Per come la vedevo io, anche quella frase d'esordio doveva essere stata per lui uno sforzo immane.

- Dimmi pure. -

Mario si guardò intorno sospettoso, come se dovesse stare attento a microfoni e microspie. Approfittò del fatto che Sandro si fosse alzato per andare al bagno e, quando si fu assicurato al 120% che né Arianna, né Edoardo, né Lorena potessero sentirlo, finalmente si decise a sputare il rospo.

Si sporse in avanti, non prima di aver ricontrollato i colleghi un'ultima volta, e assunse un tono estremamente confidenziale.

E, posso assicurarlo su qualsiasi cosa, tra tutte le eventualità a cui avrei potuto pensare, quella proprio non me l'aspettavo.

- Sono innamorato di Arianna. -

E fu proprio in quel momento che una giornata che sembrava assolutamente nella norma, assunse lo spaventoso aspetto di una spirale che ruotava vorticosamente su sé stessa, trascinando spietata, sul fondo con lei, me e tutto ciò che mi circondava.

 



Angolo dell'autore

La vicenda narrata ha un'ispirazione reale o quantomeno realistica, ma come si suol dire: "ogni riferimento a cose, luoghi o persone è puramente casuale".

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte II ***


II

 

Sono innamorato di Arianna”.

A dire la verità, mi ci volle un po' per metabolizzare quella notizia e riprendere il pieno controllo delle mie facoltà cognitive. E a voler essere proprio franco, la prima sensazione che ricordo di aver provato fu quella di stare per cadere dalla sedia.

Stetti a fissare Mario per dei secondi, sbalordito, con la bocca che non voleva saperne di richiudersi, e come colpito da un fulmine a ciel sereno.

Poi mi resi conto che non potevo rimanere in quella posizione da cartone animato per sempre, e mi voltai verso Arianna, cercando di non farmi notare.

E in effetti, come potevo dar torto a quel povero diavolo di Mario?

Arianna era una bellissima ragazza, dal fisico atletico, lunghi capelli corvini e sguardo magnetico. Era sempre dolce, gentile, solare, brillante, e se avesse indossato anche un solo gioiello, sarebbe assomigliata ad un vero e proprio tesoro. Senza dubbio poteva essere definita, pur con tutto il rispetto per Lorena, la più affascinante dell'ufficio.

E non mi sorprendeva che, specialmente in un ambiente come quello, Mario si fosse innamorato di lei.

Ma io, per l'amor del Cielo, che c'entravo?

Stavo ancora guardando Arianna pensando a questo quando Mario, come se mi avesse letto nel pensiero, mi riportò al presente.

- Ho bisogno di un favore. -

Ah beh, così era molto più chiaro. Quasi all'improvviso mi ritrovai in difficoltà persino ad articolare un'intera frase. - Cosa? -

- Oggi voglio dirglielo. -

Ecco.

Riflettendoci, però, dovevo riconoscergli che aveva avuto una buona intuizione. L'assenza del “super capo” gli faceva buon gioco, perché permetteva di avere molte meno rogne in mezzo ai piedi, e regalava all'ambiente un clima molto più calmo e tranquillo. In questo modo lui avrebbe sfruttato questa serenità per farsi avanti, sperando ovviamente per il meglio.

D'accordo, ma tutto questo, continuavo a chiedermi, che aveva a che fare con me?

Per la seconda volta in pochi istanti Mario, che per l'occasione sembrava aver sviluppato poteri da chiaroveggente, parve comprendere i miei pensieri, e rispose senza che io dovessi formulare alcuna domanda.

- Mi serve il tuo aiuto. -

Stavamo salendo la scala lentamente e un gradino alla volta, con Mario che andava avanti a frammenti di frase, ma anche se la cosa cominciava a darmi sui nervi, forse c’eravamo.

Fece un cenno con la testa, esattamente come aveva fatto poco prima Edoardo verso l’ufficio del capo, e indicò il mio computer.

Perché ora voleva tirare in ballo anche lui?

Nei minuti successivi Mario iniziò a spiegarmi nei dettagli il suo piano, infondendoci la stessa intensità di un generale che illustra alle proprie truppe in guerra la strategia per attaccare. Ogni passo era valutato nei minimi particolari, ogni tipo di variabile calcolato, ogni movimento coordinato, ogni tempistica sincronizzata al millesimo. Si vedeva che ci aveva studiato parecchio sopra, che ci aveva dedicato del tempo, speso dei giorni, magari anche delle notti. Quello non era il proposito di uno che da un giorno all’altro si mette in testa di avere una determinata ragazza. Lì c’era qualcosa di più.

Chissà quanto tempo era che Mario era innamorato di Arianna.

Lui continuava a parlare e io, da brava recluta, stavo ad ascoltarlo senza interromperlo. Eppure… posso essere sincero?

Ero convinto che non avesse alcuna possibilità con lei.

Più lo sentivo parlare, e meno riuscivo a condividere la sua fiducia. Voglio dire: lei, elegante e colta, camicetta bianca, gonna nera, e pettinatura fresca di parrucchiere; lui, maglietta rossa sgualcita raffigurante lo stemma di un'azienda fornitrice ormai fallita, pantaloni verde marcio macchiati di qualche strana sostanza, a nascondere le ginocchia martoriate dagli anni passati a lavorare in fabbrica, e capelli unti e in disordine.

Anche a costo di sembrare una carogna, ma oggettivamente, quante probabilità avrebbe potuto mai avere?

Quante chance c'erano che una segretaria, ma soprattutto una ragazza di quel livello, potesse “accontentarsi” di un umile operaio?

Quel che era certo era che io non avrei detto nulla, Mario era un mio amico e non volevo affossare la sua euforia o le sue nobili intenzioni. Purtroppo, però, era così che la pensavo.

Ma forse, riflettendoci oggi, fu proprio perché la ritenevo un’impresa impossibile che, ad un livello di pensiero più o meno consapevole, decisi di non rifiutare. In fondo sarebbe stata una “missione suicida” per lui, non per me. Avrei lasciato andare Mario da solo incontro ad un fallimento annunciato, mentre io mi sarei limitato ad essere il semplice braccio operativo.

E infatti, in quanto tale, poco dopo entrai in azione. Preparai quello che dovevo al computer, seguendo le direttive, le intuizioni e le idee di un Mario sempre più teso, e con la testa sempre più a ciò che sarebbe accaduto e a ciò che voleva accadesse.

Quando la mia creazione fu pronta, mezz’ora dopo, arrivò per me il momento di alzarmi da quella sedia e farmi da parte.

Il piano stava per cominciare.

Raggiunsi la parte opposta dell’ufficio, rimanendo quasi nascosto dietro una scrivania vuota, e fingendo di essere impegnatissimo con fascicoli e documenti della massima importanza. In pratica, quello che faceva il mio capo tutti i giorni, ma questa è un’altra storia.

Da lontano, saranno stati circa una decina di metri, vidi Mario prendere il mio posto davanti al desktop, per poi aprire il file che avevo creato per lui. E soprattutto, per Arianna.

- Arianna, puoi venire un secondo? - La chiamò, balbettando anche qualche sillaba.

Lei si avvicinò a quella che fino a pochi attimi prima era stata la mia postazione di lavoro. - Che c’è? -

Mario le indicò il monitor e, con una credibilità che rasentava quella di un politico beccato a intascarsi fondi pubblici, cercò di simulare dei gravi problemi con l’uso del computer.

Ma ad ogni modo, convincente o meno, aveva gettato l’amo.

Ciò che i due stavano guardando sullo schermo era una sorta di, perdonate la parola ma in questo caso è d’obbligo, moderno “Cavallo di Troia”.

Sfruttando uno dei tanti software avevo realizzato un database fasullo relativo a delle movimentazioni fittizie di magazzino, vuoto alla prima apparenza, ma in realtà contenente un’enorme sorpresa per Arianna.

- Mi potresti aiutare a compilarlo? - le chiese Mario, mostrandole i vari campi ancora da riempire.

Arianna si guardò intorno, non del tutto convinta. - Io però avrei un po’ di cose da fare. Non puoi chiedere a qualcun altro? -

Vidi Mario tentare di superare questo primo ostacolo aggrappandosi sugli specchi con la stessa noncuranza di un liceale all’interrogazione di latino per la quale non ha preso il libro nemmeno per dormirci sopra. Ricorse allora alla storia di background sul magazzino che avevano stabilito per dare un briciolo di veridicità a quel database.

- Tu sei l’unica che conosce le dinamiche del magazzino di là. - falso come una banconota da otto euro. - E poi ho bisogno di qualcuno che sappia usare il programma dei database. - Falsissimo come una Gioconda dipinta dal fornaio sotto casa.

Mentre Arianna si guardava ancora intorno alla ricerca del sottoscritto, perché dopotutto quello era il mio computer e non si spiegava perché io fossi scomparso lasciando quel disgraziato di Mario a fare a pugni con un database vuoto (per giunta), io mi accovacciai ulteriormente, come un soldato in trincea, fino a lasciare scoperta solo la fronte al di sopra del piano della scrivania.

Alla fine, non vedendo né me né alternative, Arianna accettò, un po’ per gentilezza e un po’ per sfinimento.

La prima fase, l’abbordaggio, era così andata in porto.

Ma adesso veniva il bello, e io potevo soltanto immaginare quale marea di pensieri potesse scorrere incontrollabile nella testa del mio amico.

Il piano proseguì per la sua strada, con Mario che iniziò ad inventarsi delle fantomatiche uscite o entrate di magazzino per permettere ad Arianna di scrivere qualcosa in quel database, aumentando il livello di assurdità ogni volta che lei scendeva di un campo.

Perche ad ogni campo il cuore batteva sempre più forte, e perché fu uno di questi, il 12 per la precisione, a cambiare tutte le carte in tavola. Anzi, per meglio dire, a rovesciare il tavolo e a far volare via tutte le carte che c’erano sopra.

Sotto lo sguardo ansioso, nervoso, agitato e a tratti pure spiritato di un Mario che pareva aver perso anche la capacità di respirare, Arianna arrivò finalmente al fatidico campo numero 12. E quando lo fece, al posto della casella di testo vuota, scoprì che c’era già qualcosa scritto dentro.

Era giunto il momento. Una frase.

AriTiAmo”.

E fu un attimo. Il silenzio si abbatté pesante come una scure sulla stanza, mentre una cappa di fumo invisibile sembrò avvolgere l’atmosfera intorno alla mia postazione, isolandola e tagliandola fuori da tutto ciò che la circondava.

Io mi rialzai dalla mia posizione, rimanendo comunque ad osservare la scena a debita distanza. E per un secondo mi sentii anch’io isolato.

Fu come assistere a un fermo immagine: lei continuava a fissare ipnotizzata quella manciata di lettere che l’aveva lasciata senza fiato, mentre lui continuava a fissare lei, con un sorriso difficilmente descrivibile, in attesa di una sua qualsiasi reazione.

Reazione che non arrivò.

L’ufficio era stato messo letteralmente in pausa, nell’aria non volava una mosca, quei due non si muovevano di un centimetro e anch’io restavo immobile a guardarli, senza nemmeno accorgermi del tempo che passava.

Fino a che, quasi per caso, l’occhio non mi cadde sull’orologio appeso alla parete dell’ufficio, che come se volesse chiamare un time out, indicava come l’orario di lavoro fosse terminato per quella mattina.

Era l’ora della pausa pranzo, per l’immensa gioia di Sandro.

Dopo aver fatto scorrere via i miei colleghi, Lorena, Sandro ed Edoardo, lentamente e senza fare rumore mi allontanai dal mio appostamento, voltando le spalle alle due statue di Mario e Arianna, e dirigendomi verso l’uscita.

E mentre camminavo, mi rendevo conto di essere sempre più sicuro di una cosa, e cioè che prima o poi il ghiaccio intorno ad Arianna si sarebbe sciolto, e allora Mario avrebbe ricevuto quello che doveva: un secco, deludente, amaro e irreversibile rifiuto.

Un rifiuto che forse lo avrebbe distrutto, ma che come ho già detto, non sarebbe stato un mio problema.

Mi voltai un’ultima volta verso di loro prima di attraversare la soglia, e chiudermi la porta alle spalle.

Era così che doveva andare. Sì, era così che doveva andare.

Ne ero certo.

La lezione, per quanto semplice, che quel giorno avrebbe insegnato è che non sempre si riesce ad ottenere quello che si desidera, e che quando le cose prendono una piega esattamente opposta a quella che speriamo, a noi non resta che incassare il colpo e realizzare che non siamo abbastanza forti per sostenere e orientare da soli il destino di ogni persona.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III - Epilogo ***


III - Epilogo

 

Ricordo di essere ritornato verso l’ufficio, un’oretta dopo, con lo stomaco pieno e la testa sgombra. Quattro chiacchiere e otto risate (perché con loro non si limitavano mai a quattro) con i miei colleghi erano riusciti nell’impresa di allentare la tensione che si era venuta a creare e che rischiava di diventare davvero soffocante. Almeno per me, perché per quanto ne sapevo loro ignoravano completamente quello che era successo tra Mario e Arianna.

La pausa pranzo quel giorno fu una liberazione. Stare lontano dall’ufficio per quegli ormai canonici cinquanta/cinquantacinque minuti non aveva fatto altro che bene. Ero persino riuscito a scroccare qualcosa dal banchetto regale che Sandro era solito portarsi da casa, occupando di fatto metà tavola solo con le sue vettovaglie.

Mi sentivo più tranquillo e più rilassato mentre attraversavo il sentiero adiacente allo stabilimento, quasi senza neanche sentire il peso delle ore pomeridiane che ero consapevole avrei perso lì dentro; non che nuotassi nella voglia di lavorare, perché non era assolutamente vero, ma almeno era un inizio.

Prendevo distrattamente a calci la ghiaia, disseminata per il viottolo che conduceva al portellone di metallo, lasciando cavalcare liberamente quella manciata di pensieri che avevo in testa.

Ce n’era uno in particolare, però, che viaggiava più veloce di tutti gli altri e che continuava a superarli.
Ancora Mario e Arianna. La scena che avevo lasciato prima di staccare continuava a ritrasmettersi nella mia mente, dandomi come la sensazione che mancasse qualcosa, come in un puzzle di cui non si riesce a trovare l’ultimo pezzo.

Devo riconoscerlo, ero incredibilmente curioso di conoscere la fine della storia tra Mario e Arianna. O più precisamente, di conoscere il modo in cui lei lo aveva respinto.

Perché, escludendo che fossero ancora ibernati nella stessa posizione di fronte al mio computer da un’ora, ormai doveva averlo già fatto.

Aveva fatto una scenata, lo aveva allontanato con durezza e indifferenza, o aveva mantenuto la sua solita eleganza e dolcezza e lo aveva deluso con parole tenere e comprensive?

Nessuno dei due si era fatto vedere a pranzo, quindi per adesso non ne avevo idea, ma ero comunque sicuro che presto qualcosa sarebbe saltato fuori.

Non avevo dubbi che Arianna, magari già quel pomeriggio, si sarebbe confidata sulla faccenda con Lorena, con la quale nel tempo aveva sviluppato un buon rapporto d’amicizia. E Lorena, riservata come la più classica delle portinaie, non avrebbe resistito a tenersi dentro questo scoop e si sarebbe sentita in dovere di rivelarlo il prima possibile a tutti quelli che conosceva.

E di conseguenza, anche al sottoscritto.

Altrimenti, opzione che tuttavia preferivo di meno, potevo chiedere direttamente a Mario, sempre che non avesse deciso di spendere il pomeriggio spaccando lamiere a martellate. In quel caso, magari sarebbe stato meglio girargli alla larga.

Arrivai alla porta dell’ufficio, afferrai la fredda maniglia color argento con la stessa voglia di un marito che accompagna la moglie a fare shopping quando la domenica in tv trasmettono il campionato, la ruotai verso il basso e la tirai verso di me. Come attraversai la soglia di quel grande stanzone che ogni maledetta giornata ospitava lavoratori e computer, mi accorsi subito di essere solo. A quanto pareva ero un po’ in anticipo rispetto agli altri, che ancora non erano rientrati.

Meglio così. Ancora un po’ di pace.

Ma in mezzo alle riflessioni che stavo facendo e a tutte quelle domande che mi stavo ponendo da solo, di una cosa ero certo: il rapporto tra Arianna e Mario non sarebbe mai stato più lo stesso.

E fu mentre ripetevo a me stesso questa frase, che fui colto da un flashback che mi colpì come una scossa elettrica.

Inspiegabilmente mi tornarono in mente diverse scene risalenti a qualche tempo prima, dislocate in quasi tutto il periodo in cui avevo lavorato lì.

Per lo più momenti in cui Mario veniva in ufficio, apparentemente senza motivo, e si metteva a scherzare e a fare battute con tutti. Mettendo a fuoco, però, realizzai come cercasse sempre più Arianna, tentando di instaurare un maggior dialogo, una maggior confidenza, un maggior rapporto rispetto agli altri. E lei spesso stava al gioco, magari interpretando quegli approcci come quelli di un collega o al massimo di un amico.

- Mario, ho bisogno dei tuoi dati per farti questo documento. -
- Ti lascio la carta d'identità. -
- Non ti serve? -
- Ancora ricordo il mio cognome a memoria. -

Scambi come questo tornarono a galla quasi dal nulla, come a voler farmi capire che, forse, Mario poteva essere interessato ad Arianna da più di quanto avessi immaginato.

Segnali che avrei potuto comprendere molto prima.

Andai verso l’obliteratrice, cercando di mettere in disparte queste idee, e mentre mi accingevo a timbrare il cartellino, mi accorsi che, nonostante tutto, potevo dire di sentirmi fiducioso.

Fiducioso che tutto stesse andando per il verso giusto.

Fiducioso che le cose tra Mario e Arianna fossero andate come previsto.

Fiducioso che la giornata potesse finire bene, così come era iniziata.

Ma proprio quando la macchina emise lo stesso clac che fanno quelle degli autobus, udii qualcosa. Sembravano dei rumori simili a mobili spostati, movimenti scoordinati e passi generici, provenienti dall’ufficio del capo.

Un momento: dall’ufficio del capo?!

Doveva essere dall’altro lato del pianeta, non gli sarà mica venuta la brillante idea di tornare in anticipo e di farci una bella sorpresa di ritorno dalla pausa pranzo? No, perché un avvenimento del genere sarebbe stato capace di farci andare di traverso anche il pasto del giorno prima.

Perciò, vediamo di non fare scherzi.

Mi diressi verso la porta chiusa dell’ufficio più grande (neanche a dirlo) dello stabilimento per controllare, con passo felpato e il più in silenzio possibile, con quella strana agitazione di chi preferirebbe vedere il re degli inferi in persona, piuttosto che il proprio boss.

Come mi avvicinavo, i rumori si intensificavano.

Raggiunsi la soglia, e notai che la porta era stata solo socchiusa. Perfetto, avrei potuto dare un’occhiata all’interno senza farmi beccare. Anche perché farsi trovare a spiare il capo non è proprio tra le 10 cose che si raccomandano di fare sul posto di lavoro.

Scostai leggermente la porta di una ventina di centimetri, allargando un sufficiente spiraglio per poter vedere.

Ma fu quando scoprii cosa stava accadendo lì dentro, che mi bloccai completamente. Blackout mentale, corpo pietrificato, movimenti inibiti, impulsi inefficaci. Ero un computer in tilt.

Esiste nella vita di tutti un momento in cui ci si chiede se quello che abbiamo davanti agli occhi sia reale o se sia frutto della nostra immaginazione, ma nel mio caso, in quell’istante, il dubbio era se si trattasse di un sogno o di un incubo.

Probabilmente mi rifiutavo di crederci.

Nei pressi della scrivania, al centro della stanza, si muovevano sinuosi due corpi nudi e avvinghiati tra loro, sopraffatti da un travolgente impeto carnale a cui non avevano opposto alcuna resistenza. Due figure unite in un’armoniosa danza piena di lussuria e perdizione, a tratti perse nell’estasi del contatto.

I vestiti letteralmente scomparsi dal quadro: lui, completamente spogliato, tutt’altro che un adone; lei, con solo un sottile perizoma nero rimastole indosso, assomigliava ad un’incantevole musa greca. Era straordinariamente bella, tanto che avrebbe potuto calamitare lo sguardo di chiunque per ore. Eppure, nello shock del momento, non riuscivo a godermi appieno la sua magnificenza.

Vidi gli adunchi artigli di lui vagare sulla morbida pelle di lei, accarezzandone avidamente ogni centimetro, mentre il membro pendeva pericolosamente vicino al favoloso, rotondo e sodo fondoschiena della ragazza.

Entrambi in piedi, lei stava aggrappata con le mani al tavolo, lasciando che il suo aguzzino, minaccioso alle sue spalle, la conquistasse interamente secondo dopo secondo.

Cosa mi passò per la testa in quel frangente proprio non saprei spiegarlo.

Mi limitai a richiudere cautamente la porta, rimettendola nell’esatta posizione in cui l’avevo trovata, e nonostante avessi un’incredibile voglia di sbatterla più forte che potevo.

Basta. Non potevo più sopportare quella scena.

A conti fatti, sarebbe stato decisamente meglio trovarci il mio capo dentro quella stanza, invece di… Arianna e Mario.

Mi allontanai, voltando le spalle in maniera forse più simbolica che altro, e mi diressi, nella desolazione dell’ufficio ancora vuoto, verso la porta.

Con la disarmante consapevolezza che non c’era altro da fare, se non andarsene da lì.

Forse, se io non fossi stato così cieco e mi fossi accorto prima di quello che mi stava succedendo intorno, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ma se non l’avevano fatto, era stato anche, o soprattutto, per colpa mia.

E ormai, se mai fosse esistita anche una sola possibilità, era troppo tardi per me.

Perché la verità era che, anche se non avevo mai trovato il coraggio di dirlo, anch’io ero innamorato di Arianna.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2902829