Persefone

di _Kore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Atto I ***
Capitolo 3: *** Atto II ***
Capitolo 4: *** Atto III ***
Capitolo 5: *** Atto IV ***
Capitolo 6: *** Atto V ***
Capitolo 7: *** Atto VI ***
Capitolo 8: *** Atto VII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

 

 

 

1.


Prologo

 

 

 

Oceano Atlantico, 14 aprile 1912

 

Una nave inaffondabile e un’interessante collezione di uomini e donne che davano sfoggio di sé: uomini che discutevano di affari bevendo brandy e fumando sigari pregiati e donne che sfoggiavano diamanti e cagnolini come se dovessero partecipare ad una serata organizzata dal re d’Inghilterra. Francis Millet, da artista quale era, amava sedersi in un angolo della sala da tè e osservare il genere umano, mentre nella sua mente si formavano le parole dell’articolo che avrebbe redatto una volta approdato a New York, o le immagini dei quadri che avrebbe dipinto.

Il Titanic ospitava un’incredibile varietà di essere umani di entrambi i sessi, ma Millet preferiva indiscutibilmente la compagnia maschile, trovando le donne troppo chiassose e irritanti, e assumeva atteggiamenti ostili al limite della misoginia.

Dopotutto, era difficile apprezzare un’arpia come Charlotte Drake Cardeza, di ritorno in Pennsylvania con tali e tanti vestiti e guanti degni della Regina consorte, o Myra Harper, i cui cagnolini erano una continua tortura per chi le stesse attorno, senza menzionare Edith Rosenbaum e le sue crisi isteriche.

Al contrario, adorava Margaret Brown, forse perché, tra tutte, sembrava essere l’unica donna a non indossare una maschera: di umili natali, era entrata a far parte di quell’elite grazie alla miniera di cui il marito era divenuto proprietario, ma la ricchezza non le aveva fatto perdere la schiettezza che la rendeva invisa alla maggior parte di quelle rigide signore che non si rassegnavano alla nuova era che il 1900 portava con sé. 

Stava entrando nella sala da tè in quel momento, scortando due fanciulle: Madeleine Talmage Astor non aveva neppure vent’anni e aveva fatto scandalo l’anno precedente sposando un uomo molto più vecchio di lei, nonché la persona più ricca a bordo; a braccetto con lei, Maia Core Myrthus era l’erede di una delle più importanti società newyorkesi, preda ambita di molti scapoli ma già fidanzata da anni con il pupillo del padre.

Millet aveva avuto modo di scambiare alcune parole con Maia sul molo di Cherbourg, mentre attendevano l’arrivo del Titanic, in ritardo da Southampton: la ragazza stava tornando a casa dopo anni trascorsi in un college inglese, ma prima di imbarcarsi si era recata a Parigi, per visitare le migliori sartorie da brava rampolla senza pensieri dell’alta società.

Caratteristica, quella, che gliel’avrebbe dovuta rendere odiosa, eppure, benché il giornalista non l’avrebbe mai ammesso pubblicamente, la sua compagnia era stata più piacevole di molte altre: sotto la patina di eleganza francese e buone maniere tipicamente inglesi, c’era in Maia un’esuberanza così adorabilmente americana da renderla ancor più luminosa del sole di mezzodì di quel 14 aprile 1912. Perché era bella, l’ereditiera, e persino un uomo che non apprezzava la bellezza femminile sapeva rendersene conto.

 

-Signor Millet,- la voce della signora Brown lo riscosse da quei pensieri, -sto accompagnando le ragazze nella cabina della signora Caseebeer, desiderosa di mostrarci le ultime tele che ha acquistato. Un artista come voi vorrà sicuramente esprimere un parere.

 

Millet sorrise, conscio, come lo era la sua interlocutrice, che la signora in questione non avrebbe apprezzato altro che pareri entusiasti e positivi. Cionondimeno si avviò con loro e si finse interessato a quei quadri di dubbio gusto, costati sicuramente quanto un biglietto di prima classe su quel transatlantico.

Maia condivideva il pensiero dell’uomo e si aggirava annoiata, desiderosa di poter fuggire e salire sul ponte per respirare di nuovo l’adorato profumo dell’oceano, finché il suo sguardo non fu catturato da un quadro diverso dagli altri, meno classico e pulito, più vivo e vissuto.

La vita imperfetta e palpitante. Che la scosse e le mozzò il fiato e le fece palpitare il cuore.

Millet le si avvicinò e sorrise.

 

- Bella, vero? Il pittore non è tra le mie persone preferite al mondo, ma è indiscutibilmente bravo. È stato uno delle ultime persone ad ammirare la bellezza della donna. Se la vedeste ora, sfigurata, il volto sempre velato per la vergogna…

 

Maia ascoltò quei discorsi senza udirli davvero: la donna del dipinto era bellissima, incastonata in quella perfezione per l'eternità, e le generazioni future l'avrebbero ricordata per come il pittore l'aveva raffigurata, non per ciò che era diventata. L’immortale bellezza, che solo l’arte sapeva conferire e che il tempo non avrebbe mai corrotto.

 

- Mi ricorda Manet, coglie la bellezza di questa donna e la fa vivere oltre la tela, eppure c’è qualcosa in più… Porta l’eco dell’Impressionismo.

 

Non avrebbe saputo spiegarlo.

Le parole, che mai le erano venute meno, in quel momento le apparivano insufficienti, come se solo il contemplativo silenzio potesse sciogliere i pensieri e le emozioni.

 

- Chi è l'autore?- si scoprì a chiedere.

- Gabriel Hasmal.

 

 

 

 ***

 

 

Hamptons, 4 agosto 1958


Un intrico di rami li sovrastava, gettando intorno a loro ombre tremolanti e luci sfuggenti. L’imponente villa che li accoglieva tutte le estati era lontana, talmente tanto che non si riusciva a scorgere la miriade di lampioncini disseminati per il parco. I giovani Core – così erano chiamati dalla servitù – si erano inoltrati per il bosco, senza prestare attenzione ai noiosi moniti dei genitori. Sapeva fin troppo bene che se uno di loro lo avesse trovato lì, James, il temutissimo cugino più grande, lo avrebbe malmenato. Ma Duncan, figlio dell’autista personale di Mrs. Core, non poteva fare a meno di seguirli e spiarli da lontano. Come sempre, James se ne stava mollemente seduto su una roccia, mentre la cugina Daphne gli bisbigliava qualcosa all’orecchio. Dai loro sguardi maliziosi e pieni di intesa, si poteva indovinare che presto qualcuno dei presenti sarebbe incappato in uno scherzo.

 

 - Quando i raggi del sole sfiorano la creatura, la sua malvagità impallidisce fino a diventare un’ombra nei sorprendenti occhi grigi, unico neo su un volto magnifico. L’illusione attrae a sé, inesorabile e beffarda. Ma quando il sole tramonta e la terra si fa buia, l’uomo risplende di un’ombra demoniaca che ne rivela la perversione e la crudeltà.


Dal posto in cui era nascosto, Duncan riusciva a scorgere a malapena il volto di chi era stato costretto a leggere uno stupido libro dell’orrore. Non poteva che trattarsi di lei…Merope Core Silvery: la tredicenne più bella che Duncan avesse mai visto, alla faccia di tutte le Brigitte Bardot e Anita Ekberg che popolavano il mondo. E come se la natura non avesse già fatto abbastanza con quei luminosi capelli biondi e splendidi occhi azzurri, la ragazza aveva anche un carattere che nulla aveva a che fare con gli odiosi cugini: era gentile e premurosa.

Sicuramente era per il suo buon carattere che non aveva mandato tutti al diavolo quando le avevano messo in mano quell’odioso libro, ma si era limitata a sedersi accanto alla grande sequoia e a mormorare il titolo dal significato inequivocabile: L’Averno sulla Terra. Rapimenti e sparizioni di A.J. Cuveé. Lo sapevano tutti che Mer era una fifona. Che odiava il buio, che non metteva mai piede nel bosco se non in compagnia di qualcuno.

 

- Vive all’ombra, sul ciglio dell’esistenza. E freme, freme… per quella luce che gli possa donare una parvenza di umanità. Sta nascosto dietro l’angolo, tra i cipressi, sotto terra e attende il suo arrivo. Per rapirla e nutrirsi di lei.


Mentre la voce di Merope iniziava a incrinarsi per la paura, Duncan prese la coraggiosa decisione di farla pagare a James e Daphne, andando a riempire un secchio al pozzo allo scopo di bagnarli tutti. Fu proprio per questo che non si rese conto di quale fosse l’effettivo scherzo ordito ai danni di Merope.

 

- La scorge mentre se ne sta su un piedistallo, immobile creatura luminosa, inconsapevole delle ombre che la circondano e degli occhi grigi che la scrutano. La vuole per sé e quella notte la prenderà.


Merope interruppe bruscamente la lettura, colta da un cattivo presentimento. Era come se qualcuno l’avesse chiamata per nome, senza però usare la voce per farlo. Ma era stato un richiamo talmente forte da distogliere la sua attenzione dalla lettura.

Fu con sgomento che si rese conto di essere rimasta sola, senza neanche una torcia a illuminarle la strada. Gli scherzi di Daphne e James si facevano sempre più crudeli, pensò mentre si sforzava di stare calma.

Strinse tra le mani il libricino che i cugini avevano preso dalla libreria dei nonni e si incamminò lungo il sentiero che portava a casa. Sapeva che se si fosse messa a correre tutte le sue paure si sarebbero amplificate, ma le parole appena lette erano ancora impresse nella sua mente e la sensazione che qualcuno si celasse tra le ombre generate dalla fitta vegetazione la spingeva ad affrettare il passo, a fuggire via da lì.

 

Corse a perdifiato. Dal buio che la circondava. Dai rami che la graffiavano. Dalla creatura oscura pronta a portarla indietro.

Finché andò a sbattere contro un petto caldo e un paio di braccia l’avvolse. Stava per cacciare fuori un urlo atterrito, quando riconobbe la voce.

 

- Stai tranquilla, Mer. Sono io, sono Duncan.

 

 

 

***

 



New York 21 settembre 1994


Nel buio, le mani dei suoi genitori sembravano quasi sfiorarsi.

I loro volti impietriti, opalescenti, nella luce argentea e ghiacciata dei fari che tagliavano l'oscurità del teatro le apparivano, invece, come quelli di due estranei, capitati per caso sullo stesso balconcino.

 

Quel pomeriggio Tai aveva pianto così a lungo che gli occhi le dolevano al punto da non riuscire nemmeno a tenerli fissi sul palco, dove un uomo dai capelli scuri e spettinati, coperti da una corona calzata di sbieco, recitava versi di cui non comprendeva il significato.

 

-Se te ne vai farò in modo che tu non veda più tua figlia.


Sapeva cosa ne sarebbe seguito. Nel corso della violenta lite pomeridiana fra i genitori, si era rifugiata con la testa dentro la casa delle Barbie, intonando, quasi impercettibile, la ninna nanna di Brahms che stava imparando al pianoforte. Aveva alzato la voce nell'esatto istante in cui la porta di casa era stata sbattuta violentemente, ignorando suo cugino Benjamin, che tentava di convincerla a sgattaiolare inosservati fuori dall'appartamento; lì, almeno, non vi era nessun fragore, solo la calma melodia della canzoncina che papà Ken cantava alla sua Katie dai capelli rossi, mentre la mamma preparava la cena.

 

Ciò che ci proponiamo in preda alla passione,
la passione finita, perde la sua intenzione.


Alla fine suo padre era rimasto, come sempre; aveva fumato un sigaro, bevuto uno scotch e, giunta la sera, issata la figlia sulle spalle, aveva preso per mano il nipote, ed era uscito per strada, incamminandosi a piedi per l'Upper East Side.

Taigete, Benjamin e Philip McDeer erano arrivati così al MET, l'uomo con la giacca scura stropicciata e i bambini scamiciati per la lunga passeggiata; scivolando nell'anonimato di quell'intimo e dimesso atteggiamento, erano passati inosservati dietro un variegato drappello di maschere, fotografi, giornalisti e semplici curiosi che si erano riuniti per accogliere il pubblico della prima teatrale dell'Amleto, che andava in scena quella sera.

 

Davanti a loro, Erin Core McDeer, la madre di Tai, impeccabile e impenetrabile, scendeva sola dall'automobile scura, quasi scultorea nella sua glaciale bellezza.

 

-Che smacco, per la famiglia Core. Un divorzio a così pochi anni dalla nascita dell' erede di due delle famiglie più influenti e ricche degli Stati Uniti...

 

A Tai pareva di sentirli, i mormorii che volavano sino al loro balconcino; il buio nascondeva i loro volti, ma non vi era nulla che impedisse alle voci di raggiungerli.

 

-Taigete, smettila di tirare su con il naso!

Nel silenzio, la voce di sua madre era secca, glaciale.

Philip, senza parlare, spostò la mano sul braccio fasciato di seta color giada, come per domandarle una tregua. Tai li osservò per qualche istante, sorpresa e incantata da quel gesto inusuale e così intimo, poi, senza pensarci, intrecciò le dita paffute a quelle sottili del padre. A quel tocco, sua madre distolse finalmente lo sguardo dal palcoscenico; accennò un sorriso, o quello che sembrava tale. Era così raro che ultimamente la si cogliesse in un simile atteggiamento, che la bambina non poté fare a meno di provare un moto di inusuale felicità, a quella fugace dimostrazione d'affetto.

D'improvviso, però, qualcosa la distrasse e la donna si sistemò di scatto sulla poltroncina di velluto, cominciando a giocare nervosamente con le pietre rosse della collana che indossava, nell'evidente tentativo di tenere occupate le dita tremanti. La bambina scrutò a lungo il suo viso dai lineamenti algidi, scolpito dal gioco di luci glaciali della sala, pregando che si voltasse di nuovo, che le sorridesse ancora. Questa però continuò ostinatamente a fissare il palco, dove ormai la lunga battuta dell'uomo dai capelli scuri e spettinati si stava concludendo.

 

Tai si rannicchiò sulle gambe di suo padre, affondò la testa fra le pieghe della sua giacca e, a labbra serrate, ricominciò a canticchiare la ninna nanna di Ken. E lì, protetta in quell'oscurità che profumava di sigaro e talco, non c'erano volti tirati, urla, valigie, luci fredde, uomini dai capelli scuri che recitavano parole incomprensibili; vi era solo una bambina di nome Katie, che era forte, spavalda e che affrontava le sue paure a testa alta.

 

-Katie non sarà mai come te, da grande,- aveva giurato con un ultimo sguardo rivolto a sua madre, chiudendo infine gli occhi.

 

Ma, a finire con ordine lì dove

ho cominciato, desideri e destini

vanno in senso contrario tanto

che i nostri calcoli son sempre

rovesciati: nostri sono i progetti,

ma non i risultati.

Così ora tu pensi che non avrai

altro sposo, ma, morto il primo,

forse muore anche il tuo proposito.







Note delle autrici



Ciao a tutti, eccoci giunti alla fine del Prologo di questa nuova avventura.
Un mesetto e mezzo fa, quando abbiamo cominciato a parlarne, sembrava tutto così lontano e vago che ci pare incredibile essere già a questo punto.

É doveroso, come primo pensiero, un ringraziamento: a tutto quelli che nell'ultimo mese sono stati dietro agli spoileri, alle fotografie, ai commenti deliranti. A chi, conoscendoci singolarmente, ha deciso di seguirci anche in questo viaggio a sei mani. A chi ha conosciuto la storia ancora prima che ne venisse scritta una riga e si é scervellato a trovare dettagli, volti, o semplicemente ad ascoltare i nostri deliri.
A Erica, che ha accettato senza fiatare di coordinare e betare tre persone che, in fin dei conti, hanno stili e caratteristiche difficili da far collimare.
E, infine, anche a chi é capitato qui per caso ed é giunto fino a questi ringraziamenti preliminari.
Grazie per la fiducia e per il calore con cui avete dimostrato di accogliere questa storia.

Giunti a questo punto, che rimane da dire?
Ci auguriamo che il prologo possa avervi stuzzicato a sufficienza da continuare a seguirci ancora, quando pubblicheremo i prossimi capitoli.

Piccola nota storica: tutti i personaggi presenti sul Titanic, tranne Maia, sono figure storiche realmente esistite, nonché, appunto, passeggeri del transatlantico.


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Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Il motto di questa storia, con buona pace della sua creatrice che non è molto d'accordo, è "Duncan we love you"! Tenete a mente!






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Capitolo 2
*** Atto I ***


 

 

 

 

 

 

Atto

1


 

 

 

New York, 20 aprile 1920

 

Perfetta.

Se avesse dovuto trovare un aggettivo per descriversi, Maia Core Myrthus non avrebbe scelto che quello. Non era mancanza di modestia o esagerata arroganza, quanto piuttosto una semplice presa di consapevolezza di una realtà indubitabile a chiunque la osservasse.

Ruotò su se stessa davanti al grande specchio e sorrise di sfuggita, mentre la luce delle lampade si rifletteva sull’abito di seta dorata: sua madre avrebbe detestato le braccia scoperte e la profonda scollatura sulla schiena, ma Lady Potnia, come erano soliti chiamarla nell’alta società benché non fosse più che la pronipote di un baronetto inglese, stentava a comprendere la nuova era, quel post-guerra che gridava allo scandalo e infrangeva le regole. Era l'epoca dei sopravvissuti, di chi aveva perso i propri cari in guerra ma aveva alzato la testa ed era andato avanti. L'epoca del jazz e dei sogni folli, l'epoca in cui l'odore del tabacco copriva quello della morte e l'immortalità era a portata di mano. Nei suoi ventiquattro anni Maia era sopravvissuta a un naufragio e a una guerra, e l'unico pensiero che le occupava la mente era la lunghezza del velo che le avrebbe coperto i capelli all'altare.

All’anulare della mano sinistra scintillava l’anello di fidanzamento che Nathanael le aveva donato cinque giorni prima, in una serata dedicata solo a loro, ben consapevole di come la festa di quel 20 aprile 1920 sarebbe stata la celebrazione della famiglia Core, del compleanno della rampolla e del fidanzamento della stessa con il pupillo del padre. Formalità, che ben poco avrebbero riguardato i sentimenti di Maia e Nathanael.

Un diamante centrale circondato da una doppia fila di diamanti più piccoli. L’anello ideale, il sogno di Maia, ma dopotutto non si sarebbe dovuta stupire: Nat la comprendeva come nessuno avrebbe fatto mai.

 

-Non approvo. Il vestito ti lascia troppo scoperta e quei capelli…

 

Anche senza guardarla Maia sapeva che sua madre, entrata in camera all’improvviso e ovviamente senza bussare, stava arricciando il naso nella sua famosa espressione di disapprovazione: se l’abito l’indisponeva, quei capelli troppo corti cinti da una tiara di cristalli la facevano infuriare.

Li aveva tagliati il mese prima, sacrificando i lunghi boccoli castani sull’altare della moda, benché avesse deciso di aspettare dopo le nozze per concedersi l’agognato taglio alla maschietta.

Non che la signora Core manifestasse quei sentimenti in maniera esplicita: non sarebbe stato opportuno per la donna che possedeva la Demeter, azienda di riferimento di tutti gli Stati Uniti d’America per la lavorazione, il confezionamento e la distribuzione di legumi e cereali secchi, e che l’aveva condotta con successo attraverso la guerra, riuscendo a trarre vantaggio laddove molte aziende erano collassate.

 

-Non crucciarti, madre.- le rispose la figlia, volteggiando in una nuvola di stoffe pregiate e profumo di limone. –Mi adoreranno.

 

E quella, lo sapeva entrambe, era una realtà incontrovertibile.

 

 ***

 

L’angolo tra la 5th Avenue e Central Park era una parata di vetture di ultima generazione e abiti scintillanti, mentre l’intero Plaza sembrava palpitare di vita quella notte: non vi era uomo, donna o bambino, di qualsiasi strato sociale, che non sapesse cosa stava accadendo tra quelle mura eleganti. Gli inviti erano stati spediti con un preavviso di sei mesi ed era dovuto trascorrere molto tempo prima che i pettegolezzi su chi era stato invitato e chi, al contrario, era rimasto escluso, si sopissero. Non c’era da stupirsi, dunque, se anche le strade limitrofe erano affollate di curiosi che si attardavano prima di rientrare a casa per cena e giornalisti a caccia di scoop: dopotutto, le feste di Lady Potnia nell’imponente Grand Ballroom del Plaza erano entrate nella storia sin dall’inaugurazione dell’hotel, tredici anni prima, e quella organizzata per il fidanzamento dell’anno prometteva di essere la migliore.

E poi c’era lei, l’ospite d’onore, la splendida Maia che della madre aveva ereditato solo la bellezza, mentre non vi era traccia in quel gioiello della società bene di New York dell’indisponenza e dell’alterigia di Potnia, sostituite da una leggerezza e una freschezza che rendevano Nathanael Rafael l’uomo più invidiato di Manhattan.

Abbie Rafael si guardava attorno soddisfatta, ammirando i riflessi di luce creati da cristalleria e argenteria sistemate su tovaglie pregiate, dispensando sorrisi e cenni del capo. Le candele profumavano l’aria di limone, quel profumo che ormai da anni Manhattan accostava alla piccola di casa Core, mentre sui tavoli scintillavano centrotavola di fiori che componevano le lettere N e M, in una celebrazione d’amore. Per Abbie quella sera era l’apice di un progetto lungo una vita intera ed era stata ben felice, in quei lunghi anni solitari, di accettare la superiorità e accondiscendenza dell’austera Lady verso la povera vedova pur di ottenere quel risultato. Maia, dopotutto, era tutto ciò che una madre potesse desiderare per il proprio figlio: bellissima e adorabilmente sciocca, abituata ad offrire al mondo ciò che il mondo voleva vedere, divenendo l’emblema stesso dell’elitè newyorkese. E se Nathanael fosse riuscito a spezzare la triste tradizione di famiglia avendo un figlio maschio, il nome dei Rafael sarebbe rimasto per generazioni all’interno di una delle più potenti famiglie d’America.

 

-Abbie, sei raggiante!

 

La donna si voltò verso il giovane uomo che le aveva rivolto parola e le occorsero alcuni istanti per riconoscere nel dandy che aveva davanti, il ragazzino partito anni prima per l’Inghilterra.

 

-Mike, mio caro, è una gioia rivederti.

 

-La zia ha dato il meglio di sé per il fidanzamento della bambina. Peccato solo per il XVIII Emendamento: queste prelibatezza,- aggiunse prendendo una tartina da un vassoio, -sarebbero state molto più gustose accompagnate da qualcosa di alcolico.

 

Abbie sorrise.

 

-La bambina ha sei mesi più di te e sì, immagino di sì, ma questi sono gli Stati Uniti d’America, mio caro, non l’Inghilterra.

 

Mike Core Bates, figlio della più giovane delle tre sorelle Core, osservò la signora Rafael con l’affetto di chi riconduceva a lei ricordi di un’infanzia felice: Nathanael non aveva mai trascorso molto tempo con i cugini Core, in parte perché era più grande, in parte perché il lavoro alla Demeter assorbiva tutto il suo tempo, ma Abbie era stata un’adorabile zia acquisita.

Le baciò la guancia e osservò sua zia Potnia al centro della sala, sfavillante al braccio di suo marito.

 

-È strano vederla senza collana, ma sono felice che passi finalmente a Maia.

 

-Sai, io c’ero quando la collana passò a lei. Ero sposata da neppure un anno e incinta di sei mesi: ricordo lo sguardo soddisfatto di Potnia come se fosse ieri, mentre la madre chiudeva il gancio… Deve essere un incubo per lei privarsene.

 

-Ne sono convinto, ma questa sera compenserà la perdita. Qualsiasi cosa lei possa pensare, comunque- aggiunse dopo un istante -questo è anche il tuo trionfo.

 

***

 

Nathanael Rafael non l’avrebbe mai ammesso, ma era nervoso: non che chiunque lo osservasse avrebbe notato tracce di qualcosa che non fosse una perfetta calma in raffinati abiti, ma pur essendo consapevole sin dalla più tenera età che quel momento sarebbe arrivato e benché tutto fosse perfetto, Nathanael era, in effetti, nervoso.

I Core, stranamente riuniti per l’occasione a New York dove la maggior parte di loro non viveva più da tempo, attendevano insieme a Abbie, Potnia e Olivier l’arrivo dei fidanzati, ma Maia ancora non era scesa dalla suite che la madre aveva prenotato per l’occasione e Nathanael stava meditando di andare a controllare che tutto andasse bene: si sarebbe certamente reso ridicolo, ma da otto anni viveva nel costante terrore che qualcosa potesse portarla via da lui. Maia fingeva di non ricordare, ma lui non poteva dimenticare l’angoscia provata alla notizia del naufragio e il dolore all’idea che lei non fosse riuscita a salvarsi: la sua vita, nonostante i soldi e il potere che negli anni aveva conquistato, non avrebbe avuto alcun valore senza Maia.

 

-Non credevo potessi raggiungere nuovi livelli di eleganza, ma riesci sempre a stupirmi.

 

-Non credevo potessi raggiungere nuovi livelli di insolenza, ma riesci sempre a stupirmi.

 

-Far sì che la tua vita non sia mai noiosa è lo scopo della mia!- esclamò Maia prendendo il fidanzato sottobraccio, l’anello scintillante all’anulare sinistro.

 

Nathanael sospirò, mascherando il sollievo con una finta rassegnazione.

 

–Sei pronta?

 

Maia annuì. –Diamo a New York ciò che New York vuole vedere.

 

Nathanael scortò Maia al centro della pista da ballo e attese che l’orchestra iniziasse a suonare,  incurante di qualsiasi cosa che non fosse la creatura che stringeva tra le braccia.

Almeno finché la musica non riempì l’aria.

 

-Sei un piccolo diavolo impenitente. 

 

Maia lo osservò divertita.

 

-Perché mai?

 

-Hai scelto per il nostro primo ballo da fidanzati una musica barocca! Se non fossi tu, domani saresti sulla bocca di tutti e non in maniera piacevole.

 

-Saremmo,- sottolineò lei. -Ma sei fortunato che io sia io e che domani tornerà in auge la musica barocca.

 

Nathanael nascose un sorriso tra i capelli di lei, stringendola a sé: sembrava così solida tra le sue braccia, così perfettamente giusta, eppure era e sempre sarebbe stata sfuggente, come se gli mancasse sempre un dettaglio per afferrarla davvero e tenerla legata a sé.

Non si faceva illusioni: Maia gli era affezionata, ma nonostante professasse amore, difficilmente era matura al punto da sviluppare un sentimento così intenso. Lui, d'altro canto, l'amava come non avrebbe mai creduto di poter amare qualcuno e soprattutto non lei, la bambina viziata e coccolata che aveva tutto, mentre lui doveva combattere con le unghie per conquistare il proprio posto nel mondo. La pelle di Maia brillava diafana alla luce dei grandi lampadari e lui dovette lottare con tutte le sue forze il desiderio di sfiorarla con le labbra: non era il luogo, non era il momento...
Strinse la presa e Maia lo lasciò fare, permettendogli di cullarsi nell'illusione di possederla davvero.

 

***

 

-Questa musica è pessima. Cos’ha che non va il jazz?

 

Mike si voltò verso la cugina e le sorrise divertito.

 

- È scontato, contrariamente a questa musica e ti dispiace non avere avuto tu quest’idea.

 

Corinne sbuffò, osservando l’ampio salone e i volti degli ospiti intenti ad osservare la coppia d’oro di New York. Doveva ammetterlo: Maia era scintillante in quell’abito dorato e Nathanael era impeccabile come sempre. Avrebbe dovuto odiare la cugina, avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo, ma era impossibile non amare una creatura come Maia e questo la indispettiva, se possibile, ancora di più.

 

-Per fortuna che dopo il ridicolo scambio della collana potremo andare via, ho bisogno di bere. Hai da bere, vero?

 

-Vuoi tacere, donna? Non è Parigi questa, Abbie mi ha appena ammonito severamente.

 

Corinne cercò la signora Rafael e la trovò, come tutti, in contemplazione del figlio e della futura nuora, e nei suoi occhi si leggeva un amore così sincero da stridere con la soddisfazione che palesava la zia Potnia, fredda e calcolatrice anche in quella circostanza. Stava per riferirlo a Mike quando una figura isolata e palesemente cupa in quella moltitudine sfavillante attirò la sua attenzione.

 

-Non è Hasmal quello?

 

Mike seguì lo sguardo della cugina.

 

-Sì, è lui. Come mai è qui? Non si fa vedere in giro da quando…

 

Non serviva continuare la frase perché entrambi ricordassero la festa nella villa dell’Ambasciatore, per celebrare la fine della guerra, quando il pittore, palesemente ubriaco, aveva inveito contro quella società la cui unica colpa era guardare avanti anziché crogiolarsi nei ricordi. Di Gabriel, così si chiamava, non si erano più avute notizie fino a quella sera.

-Sarebbe divertente vedere la faccia della zia se decidesse di urlarci contro nel momento della collana.

 

Corinne nascose una risata dietro il bicchiere pieno di qualche intruglio analcolico, poi tornò ad osservare la cugina, chiedendosi se la invidiasse davvero. Da piccola lei e sua sorella avevano fantasticato spesso su come sarebbe stato indossare la collana di diamanti, essere l’erede della Demeter, e non poteva negare che Maia fosse una ragazza fortunata: ricca, bella, benvoluta in società e con un fidanzato praticamente perfetto, eppure le mancava qualcosa a cui lei non avrebbe mai rinunciato. Era il 1920, il mondo stava cambiando e le donne iniziavano a possedere qualcosa che Corinne sfoggiava con orgoglio, ma di cui Maia non sembrava sentire affatto la mancanza: la possibilità di scelta.

Era figlia di una donna che aveva scandalizzato la società di fine ottocento scegliendo di non rimanere, come le altre donne Core, in disparte lasciando che fossero i mariti a dirigere l’impresa di famiglia, ma di prenderne in mano le redini e condurla non solo attraverso un nuovo secolo, ma anche attraverso una guerra, eppure Maia non aveva nulla del carattere della madre: era fogliame nei boschi, laddove Potnia era una roccia, forse sgradevole a vedersi, ma solida e immutata.

No, Corinne non avrebbe cambiato la propria vita per quella della cugina, ma quando un valletto fece il suo ingresso portando un cuscino di seta rossa, il suo cuore perse un battito: maledetta o meno che fosse, quella era La collana.

 

***

 

Erano cambiati gli abiti, lo champagne non scorreva più a fiumi ma quella che aveva davanti era la stessa gretta società che prima della guerra l'aveva osannato e pagato più soldi di quanto meritasse, che era stata più che contenta quando si era trasformato in un "pittore maledetto", ma che non gli aveva mai perdonato la verità. Perché tornare, dopo tutti quegli anni, proprio quella sera, Gabriel non avrebbe saputo dirlo, eppure quando Abbie, l'unica a non aver mai cambiato strada ogni volta che in quei due anni l'aveva incontrato, l'aveva invitato, un rifiuto non era mai stato contemplato. Nathanael Rafael era lo stesso uomo solido, impeccabile e apparentemente distaccato da tutto che ricordava: un uomo su cui fare affidamento. Svettava, tra tutti, come l'unico che non portasse una maschera, l'unico che comprendesse la vita. Eppure, un uomo così, da stella diventava mero satellite quando lei era presente. Maia Core Myrthus, il gioiello dell'alta società di Manhattan, la bambina viziata, l'erede di un impero. Per un istante una parte di lui si chiese quanto entusiasmante sarebbe stato ritrarre quegli occhi brillanti privi di dolore... Ma fu solo un attimo, prima di provare l'irrefrenabile desiderio di sporcarla e farle comprendere che la vita, quella vera, non era quella che conosceva lei, rinchiusa in un castello di bellezza e perfezione, ma era un intricato miscuglio di sangue e morte.

 

Non c’era da stupirsi che la bambina che ricordava si fosse trasformata in quella giovane donna: con una madre ingombrante come Lady Potnia, Maia sarebbe potuta diventare una sua brutta copia, oppure lasciare ad altri la direzione della Demeter per diventare la perla dell’alta società, la bambolina da coccolare. Un po’ di carattere, a giudicare dalla musica del primo ballo, doveva averlo, ma non abbastanza per scegliere di allontanarsi dalla strada che avevano tracciato per lei, per vivere davvero e non solo esistere.

Più che un gioiello, la collana che Potnia stava prendendo sembrava una condanna all’immutabilità, l’impossibilità di cambiare un destino deciso secoli prima e che si ripeteva con la stessa costanza con cui il sole continuava a sorgere ogni giorno. Maia non sarebbe stata che un nome su un albero genealogico, nulla più, come se non fosse mai esistita davvero. Cristallizzata nel tempo.

Da artista quale era, Gabriel sapeva bene che tutto cambiava, persino le opere d’arte con cui l’uomo cercava scioccamente di fermare il tempo.

 

-Signore e signori, vi ringrazio di essere qui a condividere questo momento speciale per la mia famiglia. Questa collana arriva da un mondo e un tempo lontano e viene tramandato di madre in figlia da generazioni. Quando mia madre me la diede il mondo era diverso, talmente diverso che se oggi fosse qui stenterebbe a riconoscerlo, ma l’invito che mi fece è lo stesso che io stasera rivolgo a mia figlia. Maia, cara, vieni qui.

 

Allungò la mano verso la figlia e la osservò staccarsi da Nathanael e avvicinarsi, mentre nella sala regnava il silenzio: l’abito, per quanto troppo sfacciato, la faceva risplendere nei suoi ventiquattro anni, con la luce di chi ha una vita davanti a sé e il mondo intero ai propri piedi.

 

-È tempo per te, mia adorata, di scegliere chi vuoi essere, di prendere in mano la Demeter, che è parte di te come di tutti noi. Il melograno era il simbolo di Caterina d’Aragona, una donna forte che, nonostante le difficoltà e i dolori, non si è mai fatta piegare dalla vita. La nostra antenata la onorò così, con questa collana, e noi la onoriamo tutt’oggi,- chiuse il gancio e osservò ciò che per tanti anni era stato suo. –Un domani tu compirai lo stesso gesto su tua figlia o su tua nuora e capirai l’emozione che provo io in questo momento.

 

Prese un calice, lo alzò verso i presenti. –A Nathanael, che il 31 dicembre entrerà ufficialmente a far parte della famiglia. E a mia figlia, che questo sia solo il primo passo per un futuro sfolgorante.

 

Tutti bevvero. Gabriel posò il bicchiere senza neppure toccarlo e uscì.

 

***

 

La luna non era che uno spicchio, in quel martedì di Aprile. Il Gabriel di un tempo avrebbe amato Central Park in quel periodo, mentre tornava alla vita dopo un lungo, gelido inverno. Avrebbe preso un foglio e un carboncino dalla tasca e avrebbe cristallizzato l’attimo, immoto in eterno, poi sarebbe tornato nell’attico tra la 57th Avenue e Broadway e avrebbe dipinto fino a crollare sul divano con le mani sporche di colore e l’odore di trementina a saturare l’aria.

Il Gabriel di quel tempo si limitò ad osservare la primavera con il distacco di chi nella vita non ha più nulla da perdere né da donare; prese il tagliasigari dalla tasca, ma il suono di tacchi sull’asfalto che, per qualche motivo, sembrava spiccare su qualsiasi altro rumore, lo bloccò.

Limone.

L’odore di quella stramaledettissima festa.

 

-Perdonate se vi importuno signore, ma credo vi sia caduto questo.

 

Un carboncino scivolato dalla tasca, l’unica abitudine che non era mai riuscito a perdere, il segno tangibile di quella parte di lui che non si rassegnava all’inevitabile. Quella parte che avrebbe voluto uccidere.

 

-Non è mio.

 

Lo sguardo chiaro della ragazza vacillò un istante, ma non replicò e sorrise, stringendo il carboncino tra nel pugno della mano: non serviva guardarle il collo per riconoscerla.

 

-Siete la giovane Core.

 

Una costatazione tinta di un’ostilità a cui la giovane non doveva essere abituata: cionondimeno il sorriso non svanì, ma si fece, se possibile, ancora più largo. -Maia.

 

-Maia Core,- replicò brusco. Davanti a lei aveva una delle tante donne Core, e Maia, se esisteva davvero da qualche parte dentro di lei, non riusciva ad emergere.

 

-Maia Core Myrthus, giacché vi piace essere preciso. Non voglio certo negare chi sono,- aggiunse poi, sfiorando distrattamente la collana e fraintendendo il pittore, – Con questa sarebbe leggermente difficile: mi etichetta come Core o come ladra. Ma ho un nome e mi piace usarlo.

 

Aveva un nome, ma chi si celava dietro di esso? Una rosa, anche se chiamata con un altro nome, avrebbe serbato pur sempre lo stesso dolce profumo, ma Maia senza quel cognome sarebbe stata la stessa persona, avrebbe avuto lo stesso odore? Limone.

 

-Voi eravate alla festa, vi ho visto parlare con Abbie. Chi siete, oltre che un artista?

 

Gabriel scoppiò a ridere, di una risata priva di qualsiasi gioia e calore e quasi non si accorse di Maia che indietreggiava appena.

 

-Artista?- domandò prendendo una fiaschetta dalla tasca.

- Carboncino. Lascia sulle mani segni inconfondibili.

 

Mani grandi, con le vene in rilievo che avevano attirato le sue attenzioni sin dal primo momento. Il motivo inconscio per cui si era avvicinata.

 

-Whisky.

 

Maia lasciò andare il fiato che non si era accorta di aver trattenuto, rilassandosi appena. –Vi chiamate Whisky o me lo state offrendo? Perché nella prima ipotesi è un nome ben strano, nella seconda…- si guardò appena attorno, ma poi prese la fiaschetta. –rischieremmo l’arresto.

 

-Io, forse, ma non la rampolla dei Core che non avrà mai il coraggio di berlo.

 

Eppure lo bevve e, nonostante i suoi occhi chiari fossero diventati lucidi, la ragazza ingollò l’alcol con la classe di chi è avvezzo a consumarlo.

 

–Se dovete disprezzare così il mio nome,- commentò con una freddezza di cui non l’avrebbe creduta capace, -abbiate almeno la decenza di dirmi il vostro.

 

-Gabriel Hasmal,- le rispose riprendendo la fiaschetta dal bordo appena sporco di rosso.

 

Per Maia fu come un lampo, un susseguirsi di immagini che la sua mente non voleva formare. Balli e cene di gala e odore di salsedine. E poi quel quadro. Quella donna.

 

-Ho visto una vostra opera, tanto tempo fa. Era… Non saprei neanche descriverlo. Era come se la vita fuoriuscisse dalla cornice e travolgesse lo spettatore.

 

Un tempo, quelle parole lo avrebbero emozionato, ma in quel tempo Gabriel Hasmal stava voltando le spalle alla ragazza, pronto ad andarsene.

 

-Era una donna in abito rosso. Era bellissima.

 

***

 

Nessuno sembrava sapere dove fosse la festeggiata, ma Nathanael, pur non avendola vista uscire, sapeva perfettamente che la sua fidanzata –ormai poteva usare quell’appellativo legittimamente- era uscita per controllare che i fuochisti fossero pronti ad illuminare la notte newyorkese: per Maia tutto doveva essere perfetto.

 

Uscì dall’hotel mentre i futuri suoceri invitavano gli ospiti a salire sul terrazzo per ammirare lo spettacolo e non si stupì nel trovarla sul marciapiede che si affacciava su Central Park, con addosso solo l’abito leggero nonostante il fresco. Ciò che lo spiazzò fu, però, trovarla in compagnia non solo di un uomo, ma di quell’uomo in particolare, l’artista che aveva fatto scandalo.

Nathanael lo comprendeva: anche lui, nonostante i Core fossero riusciti ad evitargli l’arruolamento, si chiedeva come potesse quella società comportarsi come se nulla fosse mai successo. Rimanere incastrati nel passato insieme ai propri mostri, perso in un vortice di alcol e rimpianti come faceva Gabriel, non era giusto, ma ignorare ciò che era stato, le lacrime versate e il terrore provato impediva a quel mondo di cambiare in meglio.

Ma, dopotutto, non era forse la guerra che aveva combattuto negli ultimi otto anni, lui da solo contro una realtà che qualcuno non aveva il coraggio di affrontare?

 

-Maia, mia cara, siamo tutti pronti, aspettiamo un tuo segnale.

 

La ragazza si voltò verso di lui con il sorriso stampato sulle belle labbra rosse. Hasmal, d’altro canto, sembrava pallido.

 

-Signor Hasmal, è un piacere rivedervi.

 

-Anche per me signor Rafael e congratulazione. Signorina Core,- aggiunse poi, -il quadro.

 

Nathanael non avrebbe saputo spiegarsene il motivo, ma il tono di Gabriel era tinto di una sofferenza che lo spinse a richiamare l’attenzione di Maia egli stesso, pur conscio dell’inutilità: i fuochi d’artificio avevano assorbito tutta l’attenzione della sua fidanzata e nulla di ciò che potevano dire l’avrebbe riportata da loro.

 

Fragilità, il tuo nome è donna.

 

-Ve lo racconterò un’altra volta. Nat, andiamo, stanno per iniziare.

 

Non ebbero il tempo di salire in terrazza. Il primo fuoco esplose in uno scintillio rosso che si rifletté negli occhi di Maia e se lei era luce sfolgorante, Gabriel che si allontanava era immerso nell’ombra più scura.

Nonostante fossero apparentemente così diversi, Nathanael stupì se stesso trovandoli al contrario irrimediabilmente simili: i loro mostri avrebbero mai smesso di schiacciarli? Posò la propria giacca sulle spalle di Maia e osservò quel volto così amato mentre gli altri osservavano il cielo, finché tutto tacque e rimasero soli.

 

-Di quale quadro parlava?- domandò dopo alcuni istanti, riprendendo il filo di un pensiero che l’aveva ossessionato per tutto il tempo, fuoco dopo fuoco.

 

-Di uno suo, che ho visto tempo fa. Vorrei essere ritratta da lui, è così bravo. Glielo chiederai?

 

Il tono di Maia era dolce come il miele e Nathanael sapeva che non avrebbe saputo dirle di no: cionondimeno quel quadro a cui lei non sembrava dare importanza aveva sconvolto profondamente il pittore ed egli voleva conoscere la ragione.

 

-Dove l’hai visto?

Gli bastò che lo sguardo di Maia vagasse distratto lontano dal suo, prima ancora che pronunciasse un non ricordo, proprio lei che poteva ricordare cosa indossava una qualsiasi signora a una qualsiasi festa celebratasi anni prima, per comprendere dove in effetti l’avesse visto. L’unico ostacolo tra di loro, tutto quel non detto che Nathanael provava inutilmente a colmare sin da quando era successo.

-Ci proverò, ma è risaputo che non accetta più lavori su commissione da anni…

Il volto di Maia tornò a brillare. –Oh, mio adorato, se qualcuno può convincerlo quello sei tu! Lo farai per me?

Nathanael annuì: qualsiasi cosa per vederla sorridere.

 

 

Il mare era calmo quella notte, così calmo che non lo si riusciva a sentire infrangersi sul Titanic.

E il cielo era pieno di stelle, così tante che quasi la soffocavano.

C'erano le pleiadi da qualche parte lì in alto.

Quiete.

Solenni. Silenziose.

Poi una campana infrange il silenzio. Qualcuno urla.

Il mondo sembra tremare per un istante infinito. Una luce rossa tinge il cielo. Un fuoco d'artificio?

Maia non avrebbe saputo dirlo.

 

 

 

 

 

 

New York, 7 aprile 1969



Quella sera, ogni cosa sembrava risplendere: i maestosi lampadari di cristallo per cui era famoso l’hotel, i favolosi gioielli e accendini d’argento degli invitati, il sorriso di sua madre quando aveva fatto l’annuncio, le coppe di champagne che si erano librate in aria, il diamante che le era scivolato lungo l’anulare. Tutto luccicava, ma nulla sembrava paragonabile allo sguardo di Duncan, i cui occhi celesti scintillavano di un passato in cui le era sempre stato vicino, come amico e protettore da bambini, come primo e unico amore da grandi.

Merope non poteva fare a meno di chiedersi come apparisse lei quella sera. Era il ritratto della felicità come lo era Duncan, mentre la stava conducendo al centro della sala? O risultava terribilmente ingessata come si sentiva in quel momento?

Si lasciò condurre dal fidanzato, senza neanche fare caso all’educato applauso mentre una mano veniva poggiata sulla sua schiena e un’altra le prendeva con gentile fermezza la sua, sollevandola. Solo quando quelle note iniziarono a risuonare, Merope venne distolta dai suoi pensieri.

 

-My funny valentine…- iniziò a mormorarle una voce familiare all’orecchio, -Sweet comic valentine…- continuò a canticchiare quando lei alzò la testa a guardarlo sorpresa, -You make me smile with my heart …

 

-Sono perdonato?- le sorrise sfrontato.

 

Merope sbuffò, sforzandosi di non abbandonarsi a quel sorriso contagioso. -Per cosa dovresti essere perdonato?

 

-Eri decisa a non voler festeggiare il fidanzamento…

 

-Stasera, Duncan,- lo interruppe infastidita,- È tanto difficile capire che avrei preferito avere il giorno del mio compleanno tutto per me?

 

-Te ne saresti stata tutta la sera a scrivere quel tuo diario e nessuno avrebbe potuto vedere quanto sai essere radiosa.- le disse, abbracciandola più stretta,- Ma soprattutto ti saresti persa qualcosa di sensazionale…

 

-E cosa?- domandò mentre il malumore se ne andava com’era venuto.

 

-Un uomo che ti dedica parole d’amore…

 

La baciò sulle labbra con tutta la delicatezza di cui era capace. Si avvicinò all’orecchio e, scostata una ciocca bionda con la punta del naso, tornò a mormorarle le parole della loro canzone.

 

- But dont change a hair for me, not if you care for me, stay little valentine stay.

 

Era una canzone strana, My Funny Valentine. A seconda dell’interprete poteva sembrare una delle più struggenti o stucchevoli canzoni jazz di sempre. Quella sera, però, alle orecchie stanche di Julian risuonava terribilmente melensa. La sala, con tutte le sue decorazioni scintillanti e sorrisi artefatti, sembrava racchiusa in una boccia di cristallo: dov’erano finiti i disordini e le tensioni che attraversavano New York in quei giorni? Dov’erano i resoconti sconfortanti di una guerra senza senso? Dov’erano le lacrime e la rabbia per la morte di grandi e piccoli uomini?

Quella sera d’aprile, tiepida e accogliente, sembrava di essere tornati indietro di almeno vent’anni. Non sembrava di essere alle porte di un nuovo oscuro decennio, che non si sapeva cosa avrebbe portato. Appariva tutto così rassicurante, così falso…

 

La splendida Francine gli era seduta accanto con la solita eleganza, senza nemmeno nascondere le occhiate divertite per il fastidio che doveva leggergli sul viso. Fastidio che, ovviamente, aumentava ad ogni sorriso della donna: se la memoria non lo ingannava, si erano conosciuti a una di quelle assurde feste organizzate da quel pittore e, mentre lei aveva iniziato a blaterare qualcosa sulle sue poesie, Julian non aveva perso tempo a portarsela a letto. Sapeva che donne come lei frequentavano gli ambienti underground solo per uno scopo. E se anche lei era solita dire che amava investire i suoi soldi nell’arte, entrambi sapevano che portarsi dietro un artista squattrinato era solo un capriccio, la moda del momento.

Forse avrebbe dovuto offendersi. Forse avrebbe dovuto dare una lezione a quella donna. Ma era vero, Julian Cuveé non aveva un soldo né la minima intenzione o capacità di fare qualcosa di diverso dallo scrivere poesie e romanzi che difficilmente lo avrebbero arricchito. Così lasciava che donne come Francine lo portassero dove più desideravano e l’unica piccola ribellione che si concedeva era quella di ostentare un silenzio scontroso, una maleducazione piena di sdegno. Così, era stato deludente scoprire che nessuno, al suo tavolo, aveva battuto ciglio quando aveva trangugiato lo champagne senza attendere il brindisi, chiedendo subito dopo che gli venisse portato qualcosa di più forte. Neppure avevano fiatato quando era rimasto seduto, mentre tutti ascoltavano la loro ospite annunciare il fidanzamento dell’adorata figliola con un tizio dal cognome sconosciuto.

 

-Caro, guarda chi arriva… quasi non lo riconoscevo vestito da damerino,— commentò Francine: James Core Palmer stava camminando verso di loro, con il sempiterno sorriso untuoso in pendant con un vestito su misura che qualcuno della famiglia doveva avergli imposto per l’occasione.

 

-Francine… temevo che non saresti venuta,- la salutò con un baciamano un po’ meno breve di quanto avrebbe dovuto, facendo poi un vago cenno a Julian. Ovviamente la sua famiglia non doveva sapere che Julian rientrava nel giro di conoscenze del loro rampollo.

 

-Oh, Julian non lo avrebbe sopportato,- rispose la donna divertita,- Come potevamo perderci il fidanzamento dell’erede di casa Core con… come hai detto che si chiama l’autista?- chiese marcando l’accento sull’ultima parola.

 

James scoppiò a ridere, prendendo posto accanto all’amica.

 

-Cattiva Francine… Il padre era l’autista, Duncan è a tutti gli effetti nell’amministrazione della società.

 

I due interruppero la loro conversazione, quando la loro ospite attirò nuovamente l’attenzione degli invitati.

 

-Parenti, amici, Merope e Duncan,-  iniziò con un sorriso artefatto e controllato, -Spero mi perdonerete se rubo altro tempo ai festeggiamenti, ma la tradizione è un richiamo troppo forte e non può essere ignorato.

 

A New York tutti conoscevano la Demeter e la donna che di fatto guidava quella società di fama mondiale. E se anche qualche sprovveduto avesse ignorato la sua fama, la forza che promanava da Chloe Core Silvery era così grande da soggiogare tutti intorno a lei. Non gli piaceva, decise Julian mentre la osservava: era una bellezza dai capelli castani e gli occhi chiari; eppure, le mancava qualcosa che era appartenuto – e tuttora apparteneva – alla madre, il cui nome Julian adesso non riusciva proprio a ricordare… Il nome di una stella, il nome di una Pleiade…ma quale?


Il punto era che Chloe emanava una luce che finiva con il relegare tutti nell’oscurità. E ora che Julian ci pensava, non c’era da stupirsi se non aveva ancora notato la festeggiata, l’ultima e più importante delle Core esistenti.

 

-È tradizione della nostra famiglia che alla primogenita venga fatto dono di un gioiello antico, che si dice essere stato creato per una lontana antenata dei Core. Ricordo ancora l’emozione di quando, la sera dei miei ventiquattro anni, mia madre lo accostò per la prima volta al mio collo, parlandomi  di quanta forza fosse necessaria per indossare una simile collana. Credo che fosse il suo modo di prepararmi al ruolo che una famiglia come la nostra ci impone. Così anch’io, cara Merope, voglio farti dono di questo simbolo, così che tu possa sempre ricordare che la tua famiglia ti ama ed è pronta a guidarti in questa nuova fase della tua vita.

 

Dal caloroso applauso che echeggiò per la sala, Julian poté soltanto indovinare che in quel momento Chloe stava prendendo la collana da un cofanetto per farla indossare alla figlia. In realtà, se avesse avuto un minimo di curiosità gli sarebbe bastato alzarsi dalla sedia come avevano fatto tutti gli invitati. Ma se c’era qualcosa che davvero detestava quelli erano proprio la retorica e l’orgoglio di classe che erano trapelati dalle parole della donna.

 

Mentre tornavano a sedersi, Francine buttò lì un altro commento in direzione di James.

 

-Non capisco come quello squalo di tua zia abbia accettato di affidare i suoi due tesori a qualcuno che non fa parte del nostro mondo.

 

-Oh beh, la zia non è esattamente una sciocca,- sorrise sarcastico l’altro, guardandosi intorno prima di continuare,- Hai visto mia cugina Mer: bella come una dea, ma delicata come una principessa delle fiabe. È sempre stata così come la vedi: timida, impacciata… Ora, credo che la cara zietta già da anni temeva che una persona così fragile sarebbe stata poco adatta alla guida della società. Così ha sfruttato la sua cotta per Duncan a suo vantaggio, investendo un bel gruzzolo nella formazione del figlio del suo autista. Le scuole più rinomate, le amicizie più altolocate, stage e master all’estero… Solo il meglio per il futuro della Demeter!

 

-E a te sta bene?- chiese l’altra scettica.

 

L’altro sollevò le spalle. -È uno squalo, la versione maschile e più giovane di mia zia. Finché i profitti spettanti alla mia famiglia aumenteranno, senza che io debba muovere un dito perché dovrei lamentarmi?

 

Francine scoppiò a ridere.

 

-Oh bene, qui ci vuole un brindisi all’autista–dirigente! Julian, da bravo, andresti a prenderci dell’altro champagne?

 

-Franckie,- l’apostrofò Julian, alzandosi dalla sedia,- dovresti ricordarti della parità dei sessi anche fuori dal letto.

 

Sapeva che quella battuta l’avrebbe pagata cara, ma era davvero risentito con lei per averlo condotto in un posto come quello. Lì tutti erano a conoscenza della storia dei Cuveé, avevano ben chiaro che se le cose fossero andate diversamente a Julian sarebbe spettato un posto fra loro. E il fatto poi che assomigliasse così tanto a suo padre non lo aiutava per niente: anche in quel momento, mentre si faceva spazio per raggiungere il bar, sentiva che continuavano ad osservarlo, scambiandosi commenti e aneddoti su episodi di circa vent’anni prima, aspettandosi forse che da un momento all’altro si mettesse a fare qualche scenata per cui suo padre era diventato tanto famoso.

Del resto, anche Julian era uno scrittore. Anche lui alternava lunghi momenti taciturni a scatti d’ira preoccupanti, incapace di tirarsi indietro quando qualcuno aveva la malaugurata idea di pestargli i piedi. Anche lui amava l’alcol, le droghe e una vita decadente. Lui, però, non aveva mai avuto il denaro che tutto sapeva giustificare…

 

Rimase accanto al bar a sorseggiare con tutta calma il suo whiskey. Per ignorare le occhiate che gli venivano rivolte, cominciò a guardare con più attenzione la pista da ballo e fu proprio in quel momento che la vide per la prima volta: una delle più rare collane esistenti al mondo. Non che lui ne capisse qualcosa: ai suoi occhi ignoranti quella serie di pietre altro non erano che dei rubini. E invece no: come gli aveva spiegato prima Francine, erano rarissimi diamanti rossi.

Non seppe dire il motivo, ma quell’intricata trama di diamanti esercitava in lui un’insolita attrazione, al punto da non riuscire a distoglierne lo sguardo. L’oro bianco avvolgeva il collo delicato della ragazza Core mentre i chicchi rossi si diramavano sulla pelle diafana del petto, come a volerla intrappolare in una morsa e trascinarla così in un luogo tetro.

Non aveva nulla di frivolo quel gioiello. E Julian pensò che per indossarlo senza farsi sopraffare dal suo peso ci volesse una grande forza, una luce interiore che di rado aveva scorto in una donna.

 

-Ti trovi alla sua festa di fidanzamento, non trovi un po’ inopportuno fissarla in quel modo?

 

-Di chi parli?- chiese senza degnare James di uno sguardo.

 

-Di mia cugina Mer.

 

Come colto da un presentimento, Julian sollevò lo sguardo dalla collana e rimase senza fiato. Lì, tra quella folla grigia di gente ordinaria, c’era lei… quella lei di cui Julian e, ancora prima di lui, suo padre avevano cercato invano di scrivere. Ne era sicuro: glielo dicevano quei capelli chiarissimi, gli occhi luminosi, il sorriso timido con cui si rivolgeva ai suoi vicini e l’allegra risata che sapeva irrompere inattesa. Era lei…

 

-Come hai detto che si chiama?

 

-Merope. Credo ci sia di mezzo un’altra tradizione della nostra famiglia…

 

La Pleiade meno luminosa…


-Presentaci.

 

In fin dei conti, doveva dare ragione a Duncan. Più passavano le ore, più si sentiva raggiante, al centro di quel piccolo mondo che si era riunito per festeggiare il loro fidanzamento. La coppa che teneva in mano era sempre piena di champagne – un piccolo strappo a una delle regole di casa Core –, la mano di Duncan era sempre sulla sua schiena, tutti erano pronti a farla ballare e divertire.

 

Si girò verso i tavoli, alla ricerca della persona cui in fondo doveva la felicità di quella sera. La trovò circondata dall’onnipresente combriccola di amiche e ammiratori. Se anche l’età iniziava a lasciare dei segni sul volto perfetto, la bellezza di sua nonna era in grado di andare oltre il tempo e di abbagliare i poveri sprovveduti che avevano l’ardire di posare gli occhi su di lei. Come sempre, quando si trovava nell’alta società, stava conversando serena, con l’amabile sorriso che sapeva conquistare chiunque.

 

Come se l’avesse chiamata a voce alta, la donna alzò lo sguardo e la sorprese a contemplarla. Il sorriso si fece più ampio – più genuino – e Merope si ritrovò inevitabilmente a ricambiarlo: prima di uscire, quella sera, la nonna era arrivata a casa e, trovandola piuttosto nervosa per la festa, le aveva dato dei preziosi consigli per affrontare la serata. “Non devi lasciare che siano gli altri a definirti, devi essere tu a dire loro come devono vederti”.

All’improvviso, un’ombra passò nello sguardo della donna, tanto da incrinare il sorriso in una smorfia turbata. Adesso non guardava più la nipote: la sua attenzione sembrava catturata da qualcosa che si trovava alle spalle di Merope. Come colta da un presentimento, la ragazza dovette voltarsi, trovandosi davanti la figura allampanata di suo cugino James e un volto che non aveva mai visto prima.

 

-Duncan, hai mai sentito parlare di Julian Cuveé?- iniziò James con un cenno allo sconosciuto.

 

Quel nome, che a Merope non diceva proprio nulla, sembrò catturare l’attenzione del fidanzato, i cui occhi si posarono sul nuovo arrivato.

 

-Certo, non mi intenderò di arte, ma è un nome piuttosto famoso,- disse con un sorriso affabile, mentre gli porgeva la mano,

-Duncan Ambroser.

 

-Anche il suo nome è piuttosto famoso,- lo salutò l’altro con un gesto impercettibile del capo.

 

La prima impressione di Merope fu che quell’uomo appariva incredibilmente fuori posto. Come gli altri, anche lui indossava un elegante quanto appropriato vestito nero. Ciononostante c’erano dei particolari che sembravano voler marcare la differenza tra lui e tutti quelli che lo circondavano: il papillon nero era un po’ storto e non abbastanza stretto alla gola, i capelli scuri non erano tirati indietro ma erano lasciati completamente disordinati, gli occhi poi…in origine dovevano essere di un insolito grigio…ma in quel momento erano terribilmente arrossati e lucidi.

 

-Sono rimasto talmente colpito da questa coppia così bella che ho sentito di dovervi fare le mie congratulazioni.  Lei e la sua fidanzata siete a dir poco abbaglianti, insieme.

 

Era un complimento cui Mer e Duncan erano abituati. Ma qualcosa sul volto affilato dell’artista – forse lo sguardo attento o forse il sorriso appena accennato – le suggerì che a quelle parole attribuiva un significato particolare.

 

Duncan sorrise orgoglioso, mentre la sua mano spingeva gentilmente la schiena di Merope per farla venire avanti.

 

-Mer, hai davanti uno degli scrittori più talentuosi di NY,- poi si rivolse nuovamente a lui ,-Dubito che lei la conosca. Fate parte di un ambiente completamente diverso e soprattutto scrive di cose che lei non leggerebbe mai. Comunque, Merope Core Silvery… Julian Cuveé.

 

Mer non si era nemmeno resa conto che mentre Duncan parlava si era portata una mano sulla collana, come se improvvisamente sentisse un’inspiegabile affinità con quel gioiello che poco prima le era parso così estraneo. Così dovette costringere la mano ad allungarsi verso quella affusolata che lo scrittore le stava porgendo.

 

Mentre ancora le due mani estranee si stringevano, Julian tornò a parlare. -Mi concede un ballo?

 

Fu semplice impulso per Merope lasciare quella mano incredibilmente fredda e dire un secco “no”. Tutti la guardarono imbarazzati: era raro che Merope dicesse no a una qualsiasi richiesta, figurarsi in un contesto del genere.

 

-Mer, sei forse stanca?- le domandò premuroso il fidanzato, -O forse credi che potrei ingelosirmi?

 

Lei scosse la testa e biascicò delle scuse.

 

-Non so cosa mi è preso, certo che ballerò con lei,- tentò di recuperare con un sorriso teso.

 

In mezzo a una serie di volti imbarazzati, lo sconosciuto continuava a guardarla per nulla turbato. Anzi le sembrò piuttosto divertito, quando tornò a rivolgerle la parola.

 

-Che sia stanca o non voglia turbare il fidanzato, preferisco aspettare che desideri ballare davvero prima di invitarla di nuovo. O magari sarà lei a chiedermelo…

 

Duncan si mise a ridere, seguito dai suoi amici. Merope, invece, continuò a fissare l’uomo: quelle parole avevano il sapore di una promessa.

 

-Visto che siamo stanchi di ballare, andiamo a sederci da qualche parte,- propose qualcuno.

 

Era sempre così alle feste organizzate dai loro genitori: i ragazzi aspettavano il momento più opportuno per fuggire dall’opprimente controllo dei padri e, soprattutto, per portare le ragazze lontano dagli sguardi attenti delle madri. Mentre seguiva Duncan, Merope ricordò che proprio in un’occasione come quella si erano scambiati qualcosa di più che i casti baci consentiti a casa.

 

Quando il gruppetto giunse in una grande terrazza buia, vennero accolti da una brezza fredda che fece rabbrividire le ragazze nei loro abiti scollati. Duncan fu subito pronto ad avvolgere Merope nella sua giacca, facendola poi sedere sulle sue gambe, quando prese posto su una panchina.

 

Qualcuno, Daphne o forse Elena, tirò fuori due bottiglie di Bourbon il cui contenuto sostituì lo champagne rimasto nelle coppe. Mentre qualche coppia iniziava ad allontanarsi e qualcun altro iniziava a sproloquiare, Duncan continuava a bere e a non mostrare segni di ebbrezza. Mer non aveva idea di come ci riuscisse, ma sembrava sempre tenere sotto controllo la sua mente. Era confortante, perché in quel modo sentiva di poter allentare la presa su se stessa e lasciarsi andare tranquilla, perché tra le quelle braccia non le sarebbe mai capitato nulla di male.

 

Mentre teneva la testa poggiata sulla spalla del fidanzato per combattere un violento capogiro, lo sentì rivolgersi di nuovo allo scrittore.

 

-Non sembra ubriaco, Mr. Cuveé.

 

-Neanche lei,- rispose una voce melliflua.

 

-Credo sia una questione di apparenze,- commentò Duncan, -Non è mai un bene mostrare agli altri le proprie debolezze.

 

Merope dovette trattenere un sospiro quando si sentì accarezzare i capelli e il viso.

 

-Di che debolezze stiamo parlando, Mr. Ambroser?

 

-Oh, di qualsiasi genere: l’ebbrezza, la tossicodipendenza, la miseria, un inopportuno interesse per la donna di un altro…

 

Julian Cuveé si mise a ridere, apparendo sinceramente divertito.

 

-Lei mi piace, Duncan. Eppure non ha considerato una cosa…

 

Duncan sbuffò, scettico.

 

-Di cosa si tratta?

 

-Dimentica che sono solo uno scrittore. Io vivo per mostrare le debolezze umane. Quelle mie, senza dubbio… ma preferisco mettere in luce quelle altrui. Lo definirei il leitmotiv della mia arte.

 

Un vento pungente le sferzava il viso, congelando le lacrime che le rigavano le guance. Correva, senza riuscire a evitare i rami che le ferivano le braccia e il collo. Guardò indietro, tra le sequoie e gli abeti: era tutto buio, ma lei sapeva che tra le ombre si celava lui. L’aveva vista, creatura luminosa su un piedistallo. E l’aveva reclamata come sua, per farne regina di un qualche regno oscuro. Fece un passo falso e si ritrovò a terra, con le ginocchia e i palmi doloranti. Si guardò intorno, atterrita: era lì. Camminava verso di lei, con una lentezza ipnotica. Man mano che si avvicinava, riusciva a scorgere qualcosa del suo volto: occhi grigi, un naso affilato, labbra sottili… Cacciò un urlo disperato.

                                                                                                         -Merope, svegliati.

Aprì gli occhi e non poté evitare di agitarsi tra le braccia di chi la teneva stretta.

-Stai tranquilla, Mer. Sono io, sono Duncan.

 

 

 


Hamptons, 31 luglio 2013


L'enorme veranda di Villa Core, negli Hamptons, era illuminata da colori mutevoli e sfuggenti.

Le lampade sottili, che si inerpicavano su tavoli in vetro e acciaio, culminavano con mille lucine dalle sfumature glaciali, che rimbalzavano sulle pareti candide, sui volti dei presenti, sui vasi centrotavola in cristallo di Tiffany, colmi di calle dai candidi petali.

Fra questi, come sospesi fra la moltitudine di bagliori, si muovevano i fortunati invitati dell'evento più atteso dell'estate, perlomeno di quella dell'alta società di New York. Tutti sembravano mescolarsi armonicamente in quell'intreccio di luci, profumi, voci e melodie dal sapore retrò, unica nota che addolciva l'ambientazione minimalista, avvolgendo la sala e l'immenso giardino botanico su cui questa si apriva.

 

Al centro della scena stavano i veri protagonisti della serata: Erin Core, presidentessa della Demeter come un argenteo bagliore in quell'atmosfera ghiacciata con il suo braccio destro, l'amministratore delegato Christopher Elliott; i due accoglievano con un sorrisi compiaciuti la piccola folla di persone che desiderava complimentarsi con loro per il tanto atteso annuncio che era da poco stato comunicato.

In un angolo del giardino, a pochi metri dalla piccola orchestra che aveva ripreso a suonare dopo l'annuncio, gli ospiti d'onore Taigete Core McDeer e Alistair Elliott ballavano indisturbati, finalmente lontani dai flash dei fotografi e dai rumori di calici levati per brindare alla salute della coppia dell'anno. Fintanto che tutti fossero stati impegnati a congratularsi con i loro genitori, nessuno li avrebbe disturbati.

 

-Io giuro che li strangolo entrambi con quella dannata collana di diamanti, fosse l'ultima cosa che faccio.

Alistair sbuffò, nascondendo un sorriso divertito fra i capelli della fidanzata, raccolti in una semplice coda fermata sulla nuca in modo da lasciarle scoperto il collo sottile.

 

-Aspetta almeno di essere tornata dal viaggio di nozze,- le rispose depositando un lieve bacio sulla tempia.

 

-Altrimenti saremo obbligati anticipare il ritorno per presiedere alle riunioni della Demeter.

 

Tai appoggiò la fronte sul suo petto, scuotendo impercettibilmente la testa.

 

-Doveva essere la nostra serata,- gli disse infine rabbuiandosi.

 

-Lo é, in fondo.

 

Tai scosse impercettibilmente la testa.

 

-Non così. Non con mia madre e tuo padre che ci esibiscono come dei purosangue da competizione, non in questo posto, con questo arredamento freddo, con gli invitati che sono qui solo per ammirare la magnificenza dei Core, non in mezzo ai fotografi, ai flash, agli sguardi dei presenti a cui non sappiamo nemmeno dare un nome. Guardami! Sono persino completamente fuori luogo, visto che mia madre non si é nemmeno degnata di comunicarmi che aveva scelto il bianco e l'argento come unici colori della serata!

 

Tai fece una piccola piroetta, per mostrare l'abito di impalpabile organza color pesca, che risaltava la pelle chiara, dorata dai raggi di un'estate che stava volgendo al termine. Alistair l'accompagnò con un gesto del braccio, beandosi del privilegio di poterla avere, per qualche breve minuto, tutta per sé.

 

-Ti direi che schiacci ogni algida bellezza che si aggiri per quella sala, se sapessi che é quello che desideri sentire. Siccome però so che non ti interessa assolutamente niente, ti dico che non potevi scegliere un abito più adatto per questa serata: sottolinea l'aspetto che amo di più di te.

 

-E sarebbe?

 

-Sei diversa da qualunque altra ragazza lì dentro, Taigete McDeer. Oltre che più bella,- aggiunse senza riuscire a trattenersi.

 

-Core McDeer,- puntualizzò lei, con un filo di amarezza della voce.

 

-McDeer, a me, basta.

 

La ragazza sbuffò con accondiscendenza.

 

-Sei l'unico a vedermi così, lo sai? Tutti i presenti sono qui per vedere un'altra erede dei Core impalmare l'ennesimo principe consorte.

 

-Hey tu, guardami. Alistair le sollevò il mento obbligandola ad alzare gli occhi su di lui.

 

-Ci sono qui io, respira. Hai ragione, é la serata più disastrosa a cui abbia mai presenziato, ma dobbiamo solo fingerci radiosi per qualche ora, poi festeggeremo noi due,- tentò di tranquillizzarla.

 

-È anche il nostro compleanno.- aggiunse lei, lasciando cadere improvvisamente il discorso.

 

Alistair appoggiò il mento sulla sua testa, sollevando gli occhi pensieroso. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato; avrebbe voluto allontanarlo, ma era ben consapevole che la mente di Tai, da quattro anni a quella parte, non era occupata che da un pensiero, specialmente in quel giorno così particolare.

 

-Lo so che ti manca,- le disse andando dritto al punto.

 

Tai sospirò rifugiando la testa fra il torace e il braccio del fidanzato; un gesto che, sin dalla più tenera età, la calmava e la tranquillizzava.

 

-É il sesto compleanno che non festeggiamo insieme,- gli disse infine.

 

-Ti ricordi quando eravamo bambini, quando la nonna ci preparava due identiche crostate alla crema e le finivamo praticamente tutte noi due, lasciando poco più che le briciole a voialtri?

 

Il giovane annuì ridendo, le labbra lievemente arricciate in un sorriso amaro

 

-Lo so. Una volta abbiamo persino fatto a botte, perché io avevo mangiato l'ultima fetta della tua torta, che avevi preservato per la colazione del mattino. Ben ci ha messo un bel po' a dividerci...

 

-Secondo te sono una sciocca a illudermi ancora, Al?- domandò lei, d'un tratto, esternando il dubbio che la tormentava.

 

Lui strinse la spalle, mentre un brivido gli percorreva la schiena, -Non so cosa pensare; per quanto conosco Ben, anche a me sembra impossibile che abbia potuto buttarsi volontariamente giù da un dirupo con la macchina, ma non vorrei incoraggiarti a nutrire false speranze.

 

-Tu e mio padre siete gli unici che non mi credete una pazza... Mia mamma sostiene che le mie convinzioni siano segno che non sono ancora riuscita a elaborare il lutto della sua perdita,- gli rispose lei, sospirando rumorosamente. Alistair avvertì la sua voce rotta e la strinse più forte a sé, facendo scorrere lentamente le dita sulla sua schiena scoperta.

 

-Non sei pazza, Tai. Sei solo una persona a cui la vita ha strappato via un pezzo di cuore e tenta di aggiustarlo, come può. E, per quel che può servire, lo sai che io sono sempre qui per aiutarti. So che non potrò mai sostituirlo, ma posso sempre giurarti che mi impegnerò ogni giorno a farti sentire meno la sua mancanza...

 

Tai sollevò lo sguardo, ritrovando infine nel suo viso la serenità perduta nell'attimo di tristezza a cui si era abbandonata; era quella la cosa che amava più di Alistair, la limpidezza e la purezza del suo carattere che si riflettevano negli occhi chiari, trasparenti, di un turchese così vivo che nemmeno il buio circostante riusciva a scolorirne la sfumatura. Gli sorrise, scompigliandogli i chiari capelli con un gesto rapido e baciandolo infine con trasporto.

 

-Questi pochi minuti da soli saranno ciò che di più bello conserverò del nostro fidanzamento,- gli sussurrò infine.

 

Alistair fermò la danza, nell'esatto istante in cui la cantante ingaggiata per l'occasione concludeva il pezzo che aveva fatto da colonna sonora a quei fugaci attimi di pace,  rabbuiandosi di colpo e piantando le mani sui fianchi, nel vano tentativo di mostrarsi estremamente offeso.

 

-Hai così poca fiducia nelle mie promesse di un migliore proseguimento di serata?

 

***

 

 

Tutto quel bianco gli avrebbe bruciato le cornee.

 

Appoggiato allo stipite di una delle enormi porte finestre che davano sul giardino, Ade buttò giù d'un fiato un calice di champagne, premurandosi di recuperarne immediatamente un altro con cui sostituirlo.

Con una smorfia di puro disgusto dipinta sul volto si diede un'occhiata intorno: calle, tovaglie immacolate, centrotavola e candelieri in cristallo, abiti candidi, impreziositi da dettagli argentati, sorrisi abbaglianti, finti, parole di adulazione.

Dopotutto la kermesse Newyorkese non era poi cambiata molto, per quel che poteva ricordare: un ammasso di gente tutta uguale ai suoi occhi che si fingeva felice e amichevole, quando la maggior parte di quelle donne si sarebbero azzannate come cani da combattimento in un arena, se gliene fosse stata data l'occasione, mentre i loro uomini sarebbero stati a guardare sorseggiando liquori.

 

-Un attimo di silenzio, per favore.

 

Ade concentrò la sua attenzione sul tavolo d'onore, passando le labbra assorto sul bordo del calice che stringeva in mano.

Erin Core era ancora una bellissima donna. Gli anni non avevano intaccato i suoi lineamenti scolpiti, gli occhi glaciali, il corpo statuario. Si muoveva con solennità richiamando l'attenzione, perfettamente a suo agio al centro della scenografia della serata, regina delle nevi in mezzo ai suoi sudditi che facevano da comparse.

Dietro di lei, un gruppo di giovani che vociavano e parlavano chiassosamente, non riusciva a zittirsi, nonostante sembrassero tutti troppo cresciuti per simili isolenze tipicamente adolescenziali. Anche loro apparivano tutti uguali alla sua vista, radiosi e sorridenti come se fossero usciti dal servizio fotografico di una rivista di moda, gli uomini incastrati dentro abiti scuri tagliati ad arte, le donne scintillanti nei loro abiti candidi, impreziositi da gioielli così magnificenti da apparire inappropriati anche in mezzo a quell'ambientazione ostentatamente lussuosa .

Ade abbassò la testa, sbattendo le palpebre per scacciare la fastidiosa sensazione di rivedere il suo viso in ognuno di quei volti anonimi, puliti, lisci, tirati da sorrisi che sembravano studiati per ore davanti allo specchio.

 

-Taigete, mia cara, potresti avvicinarti un secondo?

 

Fu allora che il gruppo di giovani si aprì per lasciare libero il passaggio e Ade sollevò nuovamente lo sguardo, incuriosito dal silenzio improvviso finalmente calato nella sala.

In mezzo a tutto quel candore, accentuato dalla sobria serietà dei completi scuri degli uomini, si faceva largo con titubante incertezza l'unica nota di colore di quella serata: Taigete Core McDeer.

Lei sì che era cambiata, da quando l'aveva vista l'ultima volta, poco più che una ragazzina. Avvolta da un abito color pesca che le lasciava scoperte le gambe sottili e atletiche -troppo corto- pensò ridacchiando con ammirazione, la giovane donna procedeva tendendo incerta la mano sinistra alla madre, su cui scintillava un brillante, unico e semplice gioiello sfoggiato con naturalezza. Quello che lo colpì, però, fu la sua espressione: non elargiva sorrisi, come gli altri presenti o come sua madre, ma non appariva nemmeno seria o imbarazzata. La sola cosa che il suo viso trasmetteva inequivocabilmente ai suoi occhi era quanto, in mezzo a tanta falsità, Taigete apparisse vera. Il solo dettaglio di vita reale in un immobile palcoscenico popolato di personaggi immobili, fissi e glaciali.

 

Fu un attimo prima che qualcuno lo urtasse, facendogli andare di trasverso il vino che stava sorseggiando.

 

-Mi scusi…,- balbettò imbarazzata una giovane dai capelli neri raccolti in una complicata acconciatura, che lasciava scoperte le orecchie ornate da pendenti che illuminavano l’ambiente più delle lampade installate per l’occasione. Scrutò incuriosita il viso dello sconosciuto urtato per errore, scuotendo il capo incredula.

 

-Tu non sei…,-   

 

-Non si preoccupi, non è niente- tagliò corto lui con il cuore in gola, sfoggiando un impeccabile accento londinese. Per precauzione abbassò d'istinto il viso verso la camicia, per controllare che non si fosse macchiata di vino.

 

-Chiedo perdono.- rispose la ragazza muovendo qualche passo incerto verso il centro della sala, -Devo averla scambiata per una vecchia conoscenza. Ma non è possibile, lui non è inglese… Lasci perdere, le auguro buona serata.

 

Solo quando fu certo che questa fosse sparita, inghiottita dalla folla di invitati stretti lungo le pareti in assorto ascolto del discorso di Erin, sollevò lo sguardo posandolo nuovamente sull'ospite d'onore; fu in quel momento che un ghigno divertito gli affiorò alle labbra, tanto che quasi si strozzò con il vino prontamente ingurgitato per mascherarlo. Lasciatasi alle spalle ogni incertezza, infatti, Taigete stringeva senza trasporto la mano della madre, impegnata in un pesantissimo discorso sulle tradizioni della famiglia Core. Il suo volto appariva impassibile, mentre fissava con intensità il cofanetto di velluto rosso che la madre stringeva nelle mani: ci si sarebbe aspettati, da una neo fidanzata sul punto di diventare la proprietaria di una gioiello che avrebbe fatto girare la testa a qualunque ragazza, che le brillassero gli occhi e che le labbra le tremassero per l'emozione. Tuttavia, pensò Ade, il suo sorriso risultava sì tremante, ma per tutt'altra ragione: appariva infatti chiaro che la sola emozione che lo spezzava fosse il manifesto disgusto di trovarsi al trovarsi nel centro di quella stucchevole commedia che sembrava divertire immensamente tutti, tranne lei.

 

***

 

-Parenti, amici, eccoci giunti al secondo momento più importante della serata.

Come forse non tutti sanno, oggi non celebriamo solo l’unione di due giovani innamorati, ma onoriamo anche il nome della nostra famiglia, così come é costume da quando i primi Core misero piede in questo Paese, più di cent'anni fa. Lo facciamo attraverso questo fidanzamento, che garantirà alla Demeter la guida di due giovani brillanti che sono sicura sapranno condurla con saggezza e lungimiranza, ma lo facciamo anche attraverso un dono che é divenuto nel tempo il simbolo della forza e della responsabilità che sono richiesti all'erede di un tale impero.

É tradizione, infatti, che per il suo ventiquattresimo compleanno la primogenita riceva in dono la collana di melograno, che si dice essere stata forgiata per una nostra antenata ai tempi di Enrico VIII. Possa questo gioiello ricordarti, ogni giorno della tua vita, chi sei e qual'é il tuo destino, mia cara-

 

Taigete osservò come a rallentatore le mani ingioiellate di sua madre avvicinarsi reggendo la collana, i cui diamanti rossi scintillavano illuminati dai bagliori delle luci della sala. Chiuse gli occhi infastidita, riaprendoli solo quando sentì il gioiello farsi pensante attorno al collo; portò una mano alla pietra centrale come per accertarsi che fosse davvero un pendente quello che sua madre le aveva agganciato attorno al collo, guardandosi attorno, smarrita. Attorno a lei, un identico ammasso di volti anonimi sorridevano, mentre fra gli applausi sua madre invitava i convitati a levare i calici in suo onore. Poi, in mezzo a tanta confusione, lo sguardo le cadde su sua nonna Merope, ancora splendida nonostante l'età: la donna, con il bicchiere a mezz'aria davanti a sé, la fissava con il capo lievemente reclinato senza sorridere, con un' indecifrabile espressione di tenerezza e di preoccupazione. Per alcuni attimi rimasero così, mentre Tai avvertiva il peso del gioiello farsi sempre più grave, come se si stesse lentamente trasformando nel lucchetto di un pesante catenaccio. Sembrava che attorno a lei qualcuno stesse gradualmente abbassando le luci, lasciando un debole riflettore puntato su sua nonna, esile figura opalescente in mezzo a tanto splendore.

 

-Tai...-

 

Sussultò di paura, non riconoscendo la voce di suo padre che, avvicinatosi, la cingeva in un abbraccio.

 

-Papà, non respiro.

 

-Calmati, ci sono io.

 

-Devo uscire di qui. Puoi distrarre un attimo Al? Ho bisogno di stare sola.

 

-Lascia fare a me. Vai a prendere una boccata d'aria.

 

Nessuno parve accorgersi della sua fuga in mezzo alla confusione che si era creata dopo il brindisi. Non appena ebbero svuotato i calici, infatti, tutti si strinsero intorno a Erin, ritornata immediatamente a essere il vero centro di gravità della festa, ansiosi di congratularsi di persona per il meraviglioso lavoro operato sulla figlia, brillante studentessa di Harvard, futura guida di una delle più fiorenti aziende di tutto il Paese e ora futura e radiosa sposa con una vita piena di felice e serena ad attenderla.

Fintanto che la calca fosse stata concentrata sulla madre, Tai poteva considerarsi libera.

 

***

 

La zona che ospitava il campo da tennis nel giardino della villa era un luogo appartato, nascosto da una fitta parete di piante rampicanti che si inerpicavano su una struttura di legno scuro. Un posto dove potevi tranquillamente sparire per ore, senza che nessuno di accorgesse della tua presenza; Tai vi si precipitò senza indugio, lasciandosi alle spalle le luci dei candelieri che rischiaravano la parte di giardino antistante la villa e la musica dell'orchestra che aveva ripreso a suonare dopo il brindisi.

 Nel correre si era tolta le scarpe, lasciando che l'erba fresca le accarezzasse i piedi scalzi, ma nemmeno quell'effimera sensazione di libertà le aveva giovato. Avvertiva il respiro farsi sempre più affannato mentre tentava di liberarsi della collana di melograno. Si sentiva in trappola, come se i diamanti rossi le si stessero lentamente stringendo attorno al collo, mozzandole il fiato; da un momento all'altro si aspettava che le penetrassero nella carne, fino a farla sanguinare. Per un istante, colta da un'ondata di panico, cominciò a piangere certa che quell'incubo si stesse avverando; smise di armeggiare freneticamente con il gioiello e si abbandonò in avanti, cercando appoggio nella staccionata di legno di fronte a lei. Improvvisamente qualcuno la tirò delicatamente dalla vita e, nel giro di pochi secondi, la liberò dal grave fardello che portava al collo.

 

-Alistair,- sospirò voltandosi di scatto.

 

-Non proprio-

 

Tai sussultò, sorpresa. Dinnanzi a lei, nella penombra di quell'angolo appartato, uno sconosciuto illuminato debolmente dalla luce di un lampione reggeva sul palmo aperto la collana di melograno, mentre con la destra le allungava una bottiglia di Moet Chandon già aperta.

 

-Suppongo che questo sia il momento in cui devo restituirti il suo gioiello, ma ho come l'impressione che tu sia più interessata all'alcol che alle pietre preziose,- la canzonò mentre lei, senza pensarci due volte, afferrava la bottiglia e ci si attaccava senza indugio alcuno. Dopo qualche istante, mentre il liquido frizzante le distendeva lievemente il corpo contratto dalla paura, l'abbassò per studiare incuriosita l'uomo che le era venuto in aiuto.

Alto e asciutto, dimostrava al massimo una trentina d'anni, si disse osservando attentamente quel viso parzialmente coperto da un accenno di barba lasciata incolta.

Una di quelle persone con l'irritante aria di essersi svegliati da dieci minuti e capitati poi in mezzo alla gente per caso, ma che appaiono comunque più interessanti di chi al contrario, ha passato ore davanti allo specchio nella disperata ricerca di apparire interessante, lo etichettò prima di realizzare che c'era qualcosa, in lui che le risultava familiare. Se non fosse stato che Tai conosceva tutti i ragazzi fra i venti e i trenta anni dell'alta società newyorkese, avrebbe stroncato ogni suo dubbio sul nascere, rispondendosi che probabilmente era uno di quei rampolli di buona famiglia, che si atteggia da radical chic mentre sperpera i soldi di papà in viaggi in giro per il mondo alla ricerca di sé stesso.

 

-La collana stregata ti ha tolto l'uso della parola?- le domandò lui grattandosi la nuca, imbarazzato da tanto attenzione.

 

Tai scosse la testa, senza staccare lo sguardo dal suo.

 

-Grazie tante. Fosse per me potresti pure tenerla, ma dubito che tale perdita passerebbe inosservata ai grandi capi,- gli rispose con un timido sorriso, indicando con un cenno del capo il punto dove si intravedevano le luci della sala in cui la festa continuava, senza l'ospite d'onore.

 

-Ho come l'impressione che ciò che pensano i grandi capi non ti interessi molto, visto che sei in qui in giardino da sola invece che a goderti il centro della scena e sfoggiare i tuoi nuovi gioielli,- disse facendo correre lo sguardo dalla collana che ancora stringeva fra le dita alla mano sinistra della giovane, dove splendeva il brillante con cui Alistair le aveva domandato di sposarlo.

 

-Ci conosciamo, scusa? Sono sicura di averti già incontrato. Vivi a New York?

 

Lui scrollò le spalle, con un gesto vago, -Vivo qua e là, un po' dove capita.

 

-Eppure sembri sapere molte cose di me,- continuò Tai, stupita dalla sua risposta.

 

-Non ci vuole Sherlock Holmes. Sei la protagonista di questo evento grandioso, no? Tutti smaniano per ammirare e complimentarsi con la splendida fidanzata.  Eppure tu sei qui con me...

 

Eppure, si continuava a ripetere lei senza ascoltarlo, c'é qualcosa di estremamente familiare in lui.

Aveva la fastidiosa e martellante percezione di averlo già visto da qualche parte, anche se non riusciva a collegare il suo viso con un episodio o con un luogo che l'aiutassero a riconoscerlo.

 

-Come hai detto di chiamarti? gli domandò, ignorando le sue insinuazioni.


-Non l'ho detto. Ade.


Tai sgranò gli occhi divertita, sorseggiando lentamente dell'altro champagne -Ade... E poi?


-Ade e basta.


La ragazza scoppiò in una risata apertamente canzonatoria, incapace di trattenersi oltre.


-Quindi, misterioso sconosciuto dall'aria di essere appena sceso dal letto, con la barba appositamente incolta, i capelli spettinati ad arte e l'atteggiamento di chi é piombato da queste parti per sbaglio, non solo mi stai dicendo che non provieni da nessuna parte e che vivi "di qua e di là, un po' dove capita”, ma ora aggiungi addirittura che non hai un nome? Da dove salti fuori, da uno di quei romanzi harmony che si trovano in vendita a una manciata di cents nelle bancarelle dell'usato?


Lui non replicò immediatamente, ma la scrutò con uno sguardo indecifrabile, tanto che Tai dovette passarsi una mano sul collo e distogliere lo sguardo per il profondo disagio nel quale l'aveva fatta piombare in pochi istanti.

 

-Mi chiamo Eugene Aderley,- le rispose infine spingendosi le mani in tasca quando lei, finalmente, si voltò a guardarlo,- Ade.


Tai sentì il sorriso gelarsi sulle labbra, mentre un brivido ghiacciato le percorreva la schiena scuotendola fino alla punta delle dita dei piedi.

 

-Aderley come... Aderley Corporation?

 

Gli domandò con un filo di voce.


-Esattamente,- rispose lui fingendo un'aria soddisfatta, -ce ne hai messo di tempo. Grazie per avermi risparmiato lo strazio di dieci minuti di artifizi e convenevoli nei quali si supponeva che io avrei dovuto spiegarti le ragioni per cui non mi presento più a nessuno con il mio nome di battesimo da sei anni.

 

-Tu... Eri il migliore amico di Ben all'Università,- replicò lei, cercando nei suoi tratti le tracce di quel ventenne con i ricci scuri troppo lunghi che aveva incontrato in occasione del diploma di suo cugino, sette prima, al Trinity College di Cambridge.

Ade la lasciò fare, incrociando le braccia in un gesto impaziente, come se si aspettasse che da un momento all'altro lei gli domandasse altro, andando più a fondo di quella semplice constatazione. Poi però, dal momento che la ragazza continuava a studiarlo senza profferir parola, sbottò.

 

-Si, sono io, quello che ha rischiato di ammazzarsi in un incendio che ha ucciso metà dei nostri amici, venendo poi accusato di averlo provocato insieme a tuo cugino e che é quasi finito in prigione, sempre con lui. Ah sì, dimenticavo. Sono lo stesso Eugene Aderley che per questa ragione é stato diseredato dalla sua famiglia, che in questo momento con ogni probabilità si trova riunita là dentro a brindare alla tua salute e felicità. Vedi, è semplice. Non c'é bisogno di esitare così a lungo, Taigete.

 

-Quindi tu ricordi di me?- gli domandò meravigliata. Per quello che sapeva lei, a quattordici anni Eugene era stato mandato in un collegio inglese a studiare, quindi non aveva frequentato molto gli ambienti in cui, al contrario, lei e Ben erano cresciuti. Forse si erano incrociati da bambini quando lei, di quattro anni più piccola, non attirava certo la sua attenzione. L'unica occasione in cui si erano parlati era stato il giorno della laurea dei due ragazzi, anche se Tai doveva ammettere per onestà che non possedeva che ricordi molto vaghi di quella serata ed era pronta a scommettere che nemmeno lui ne avesse molti, considerando gli avvenimenti che si erano susseguiti nelle poche ore che avevano condiviso.

 

-Non sei poi cambiata così molto, in fin dei conti. A parte l'abito elegante e tutto il resto, ovviamente. Dimmi, eludi ancora la sorveglianza dei tuoi genitori per fumare canne e bere birra di nascosto con un branco di ventunenni che fanno a gara per portarsi a letto la cugina diciassettenne di Benjamin McDeer?- gli rispose lui, ricordandole con decisamente poco tatto il motivo per cui così pochi frammenti della serata le erano impressi nella testa.

 

Un pub fumoso, pieno di gente chiaramente più grande di lei. Tutti che la osservavano, domandandosi probabilmente cosa ci faceva una ragazzina della sua età in un locale brulicante di neo diplomati e loro amici.

Un biondo altissimo, con il viso magro e tirato che provava a baciarla, mentre lei gli sfuggiva sotto il naso con abile maestria.

Le risate ammirate di suo cugino che le offriva una birra per premiare tanta agilità.

Il fumo di una canna che le bruciava in gola, nelle narici, facendola lacrimare.

E infine, un paio di occhi che, per qualche istante, avevano incrociato i suoi: grandi e profondi, scuri a tal punto da non distinguere quasi la pupilla dall'iride, con le ciglia così lunghe e folte che davano quasi l'impressione che fossero truccati...

 

Fu solo allora che lo riconobbe davvero; portava i capelli corti sfumati sulla nuca al posto dei boccoli eccessivamente lunghi che allora gli ricadevano sulla fronte, mentre i tratti del ragazzino che ricordava si erano induriti dandogli un'aria più matura, ma che non riusciva comunque a celare l'espressione da eterno bambino insolente che gli conferivano le due profonde fossette che gli segnavano le guance.

 

-Certo che no,- gli rispose fissandolo con aria di sfida, colpita sul vivo dalle sue parole -Tu hai ancora l'abitudine di sniffare qualunque cosa ti capiti a tiro, polverina del té compresa? Se non sbaglio era l'attività favorita da quel branco di ventunenni.

Ade sgranò gli occhi, aprendo la bocca più volte, senza trovare le parole adatte per risponderle a tono. Sembrava che, per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione, il giovane fosse rimasto senza niente da dire. 

 

-Io dovrei tornare dentro, si può sapere cosa vuoi?- gli domandò Tai con tono di sufficienza, spazientita dal suo silenzio.

 

-Ok, senti, non ha senso starci a girare troppo intorno,- le rispose lui senza perdersi dietro a inutili parole. -Credo che Ben sia vivo.

 

Fu come se qualcuno, improvvisamente, avesse abbassato il volume dei rumori intorno a loro. Per qualche istante Tai rimase impietrita, avvertendo solo il battito impazzito del sangue che le era schizzato nelle vene a quella rivelazione.

 

-Come lo sai? gli domandò tentando di nascondere il tremore che l'aveva colta.

 

-Le voci corrono,- rispose lui guardandosi intorno con aria vaga, -Ho bisogno di lui.

 

Tai sorrise amaramente, abbassando lo sguardo.

 

-Se é per questo anch'io, ma non vedo in cosa posso esserti d'aiuto. Non ho idea di dove possa trovarsi, ammesso che sia vero quello che dici.

 

Ade le si avvicinò lentamente. L'espressione impertinente che aveva mantenuto fino a quel momento era sparita; ora, pensava Tai, sembra davvero un ragazzino impaurito e insicuro.

 

-Ascolta, lo sai cos'é successo dopo l'incendio, no?- le chiese armeggiando nella tasca dei pantaloni, estraendovi infine un telefono cellulare.

 

-Ma mi credi scema?

 

Tai lasciò cadere le braccia per il disappunto.

 

-Poco tempo fa sono tornato nel nostro appartamento di Londra. Non vi mettevo piede da... Beh, da quando ci hanno rilasciato per mancanza di prove e i miei genitori hanno deciso di festeggiare diseredandomi,- le spiegò con tono piatto, che non tradiva alcun tipo di emozione.

 

-Comunque, dicevo, vi ho trovato il mio vecchio cellulare, che non usavo più dal giorno dell'incendio. Per curiosità l'ho acceso e dentro vi ho trovato questo video.

 

-Che cos'é?- gli domandò Tai, rapita dall'oggetto che continuava a rigirare nervoso fra le dita sottili e nervose.

 

Ade non rispose. Sbloccò lentamente la tastiera facendo correre le dita sullo schermo poi batté lievemente l'apparecchio sul palmo della mano sinistra, come se fosse ancora in dubbio sul mostrarglielo o meno e infine, glielo passò attendendo pazientemente che lei lo afferrasse e lo facesse partire.

 

-È la prova che io e Ben non abbiamo mai appiccato il fuoco che ha distrutto lo chalet dove eravamo in vacanza in cui sono rimasti uccisi più della metà dei nostri amici.

 

Sulle prime Tai non vide nulla, se non qualche bagliore sfuocato, delle luci tremolanti rosso giallastre con un sottofondo di musica martellante, il cui suono usciva dalle casse del telefono rotto e fastidioso. Ne dedusse immediatamente che doveva essere stato girato con un vecchio dispositivo e solo in seguito trasferito sullo smartphone che reggeva in mano.

D'improvviso, la telecamera cominciò a concentrarsi sui volti dei presenti: sudati, spettinati, con gli occhi semichiusi e le espressioni sconvolte, avevano tutti l'aria di chi fosse imbottito di alcol e sostanze stupefacenti di ogni tipo.


-Charlotte, vacci piano con quell'assenzio, l'ultima volta ho dovuto buttare via i pantaloni, dopo aver passato una notte a rianimarti.


Per tutta risposta, la ragazza, con una massa di capelli biondi e fluenti attaccati alla fronte imperlata, aveva lanciato un bacio alla telecamera e si era scolata un altro cicchetto, pulendosi la bocca lievemente sfumata di rosso con la manica della giacca matelassé di chiara foggia Chanel.
Altri visi confusi, smorfie rivolte all'improvvisato cineasta e finalmente l'obiettivo si posò su un tavolino, dove due coppie di mani maschili erano impegnate a tagliare quella che appariva inequivocabilmente come una dose di cocaina.


-Vedo che qui ci si diverte...


-Chuck, brutto coglione, vuoi spegnere quella telecamera?


Una mano che si avvicinava al dispositivo e questo puntò altrove, verso terra, inquadrando per qualche istante nient' altro che il vuoto.


Ade sfiorò lo schermo, bloccando l'immagine. Poi portò il video indietro di qualche secondo e avvicinò il cellulare al viso di Tai, indicandole un punto preciso dell'immagine.


-Guarda quelle mani. Non si vedono i volti, ma siamo io e Ben, lo si riconosce inequivocabilmente dai tatuaggi. Ora, la vedi la piccola fiamma, sullo sfondo? È il punto dove si è propagato l'incendio, il che testimonia che nessuno dei due può averlo appiccato, visto che eravamo impegnati a fare altro.


Il video ricominciò a scorrere, mentre le immagini si susseguivano, confuse, mostrando nuove inquadrature di presenti. Tre ragazzi in camicia chiara e bretelle, attorno a una brunetta con un foulard di seta che le cingeva la testa e le ricadeva morbido sulle spalle nude, ballavano passandosi una bottiglia di Keglevich, mentre una ragazza con un Panama che le copriva parzialmente il volto pallido rideva sguaiatamente, riversa su un divano scuro. Accanto a lei, quello che Tai riconobbe come la versione dei suoi ricordi di Ade, era evidentemente passato ad attività più stimolanti. Appoggiato al bracciolo, con le gambe lievemente divaricate distese davanti a sé, si passava un fazzoletto sotto il naso, mentre la bionda che prima beveva assenzio sedeva a cavalcioni di lui, baciandogli il collo.


-Basta così.

 

Ade le strappò di mano il cellulare bloccando nuovamente il video.


-Non c' è più nulla di interessante.

 

Ripose il telefono nella tasca, con studiata lentezza. Tai alzò lo sguardo al suo viso: tirato e pallido, teneva le labbra serrate, impietrite in un'espressione dura. Quello che la colpì, tuttavia, lasciandola ipnotizzata, furono i suoi occhi, quando lui si voltò finalmente a guardarla. Erano così scuri e impenetrabili che nemmeno la luce del lampione accanto a lui riusciva a sporcarli con un lieve bagliore; per un attimo Tai ne fu così spaventata che ebbe l’istinto di fuggire lasciandosi alle spalle quell’incontro e tutto ciò che ne era seguito. Fu un attimo, prima che il suo viso si contraesse in un sorriso vagamente imbarazzato e lui ritornasse l'uomo dai lineamenti di un ragazzino impertinente che l'aveva avvicinata pochi minuti prima. Sollevò il polsino della camicia, scoprendo il polso sinistro, dove in trasparenza si notava una lievissima cicatrice.


-Ce lo eravamo fatti dopo la laurea, Ben, Dwight e io. Stralci del monologo dell' Amleto, per ricordare il primo spettacolo in cui avevamo recitato insieme. Dopo che io e Ben siamo stati rilasciati me lo sono fatto cancellare, perché non volevo più avere nulla che mi ricordasse quella vita. Ora capisci perché ho bisogno di trovarlo? Non posso presentarmi alla polizia dicendo, Hey, liberatemi, quello con il tatuaggio sono io. Non posso provarlo perché l’ho fatto cancellare, ma le giuro che sto dicendo la verità.


Tai annuì, pensierosa.


-Continuo a non capire, in tutto ciò, cosa c'entro io. Se Ben è davvero vivo come dici e si è ricostruito un'identità altrove, facendo credere a tutti di essersi suicidato, niente e nessuno potrà convincerlo a tornare sui suoi passi.

 

-Niente e nessuno, tranne te. Ben ti amava, Tai, sopra ogni altra cosa. Sebbene vi foste allontanati, non ha mai smesso di parlare di sua cugina ed era evidente che ogni volta che si ricordava di come lei disapprovasse quello che era diventato, quelli erano gli unici momenti in cui si vergognava di sé stesso.

 

Attese qualche minuto, nel rendersi conto che, mentre parlava, la ragazza aveva cominciato a piangere silenziosamente.

 

-Allora, mi aiuterai a trovarlo? Ridarti tuo cugino mi pare un adeguato scambio, no?

 

-Eugene...


-Ade.


-Come vuoi. Senti la mia vita, in questo momento, è un casino. Sto per sposarmi, a giorni sarò ufficialmente integrata nell'amministrazione della Demeter, devo traslocare, pensare alle nozze. Alistair...


-Carino, il tuo principe consorte.- la interruppe lui, con un ghigno.


-Non è il mio principe consorte…- protestò lei di rimando.


Ade incrociò le braccia, sbuffando con aria di sufficienza.


-Tai, sei una Core. Voi siete le regine e, a meno che tu per prima non trovi il modo di toglierti quella corona… O meglio, collana,- disse rigirando il gioiello che ancora reggeva fra le dita sottili,- chi vi sposa sarà sempre e comunque legato al ruolo del principe consorte.


Tai lo osservò pensierosa.


-Comunque, dicevo, Alistair...


-Il principe consorte.


-La vuoi smettere?


Ade le rispose con un gesto scocciato della mano, sogghignando apertamente.


-Se il principe consorte ti ama, capirà. La domanda, a questo punto, è una sola: vuoi che Ben ti dia la sua benedizione per le nozze o vuoi restare qui, con il rimpianto di non aver fatto nulla di più trasgressivo di esserti ubriacata la sera del tuo fidanzamento con il ripudiato erede degli Aderley, in un angolo buio del giardino?


-Non sono ubriaca.


-Allora reggi l'alcol davvero bene,- le rispose sollevando la bottiglia ormai vuota di Moet Chandon che la ragazza aveva poggiato sulla panchina di marmo accanto a lei, dopo averla finita.


-Pensaci su,- continuò allungandole un biglietto ripiegato. -Se cambi idea, sai dove trovarmi.


Tai lo osservò allontanarsi, stropicciando pensierosa il biglietto fra le dita. Stava quasi per gettarlo a terra e tornare all'interno della sala quando, d'improvviso, Ade si bloccò, infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse la collana che vi aveva fatto scivolare sovrappensiero.


-Non dimenticarti della tua corona,- le disse lanciandole il gioiello, con il solito ghigno d'impertinenza dipinto sul volto.-Se poi decidi di venire con me, magari troviamo il modo di liberarcene e farlo sembrare un incidente.

 

Poi, detto questo, si allontanò sciogliendo il nodo della cravatta, se la sfilò con un gesto secco della mano e sparì infine alla sua vista, inghiottito dal buio del giardino.

 

Cosa leggi?

-Il diario di nonna Merope.

Un bacio sul collo, il viso di Alistair sulla sua spalla, le sue parole sussurrate.

-gli occhi poi… In origine dovevano essere di un insolito grigio… Ma in quel momento erano terribilmente arrossati e lucidi...Tua nonna sembra nascondere un passato decisamente poco noioso.-

-É strano, Al. Continuo a rileggere le prime pagine di questo diario, ma c'é qualcosa che mi sfugge. Questa non sembra la donna che ho conosciuto io...

-Tai, aveva ventiquattro anni e tutto il diritto di divertirsi.

-Non é quello che intendo. Dalle sue parole sembra davvero che nonna cercasse un modo per risplendere, ma che vi fosse sempre qualcosa che, alla fine, spegnesse il suo bagliore.

-Dovrei leggerlo meglio, per farmi un'idea. Ora dormi, che è tardi.

Le luci di New York, attraverso le persiane tirate, proiettavano ombre sinistre sul muro che sembravano muoversi, tremolanti, incerte.

Tai si strinse al fidanzato, chiudendo gli occhi.

-Posso chiederti una cosa, Al? Tu credi nei fantasmi?

-Non avrai esagerato con lo champagne?

-Sono seria. Ci credi o no?

-Io... No, certo, che domande sono! Perché tu sì?

-Non ne sono più tanto sicura...

 

 

 


 









Note delle autrici


Siete ancora vivi?


Ci auguriamo di sì, come ci auguriamo che la lettura vi sia piaciuta. Siamo giunti in fondo al primo capitolo; un capitolo particolare, perché sarà il primo e l'unico in cui le nostre protagoniste vivono lo stesso momento, le stesse senzazioni, dubbi e speranze.

Dunque, come vi sembrano le tre ragazze da cresciute? Ce n'è già qualcuna a cui vi sentite più affini?

Ognuna, come avete notato, vive questa occasione molto particolare a suo modo e sarà proprio per queste diversità che le tre svilupperanno poi caratteri completamente differenti e percorreranno cammini divergenti. 

E dei personaggi maschili, che ne pensate? Avete qualche preferenza? Noi (Emily e Lyra), ribadiamo il concetto fondamentale del "Tutte amano Duncan", che poi altro non é che lo slogan della nostra storia, quindi siamo ben felici di accogliere chiunque voglia unirsi al nostro club! Vi attendiamo, dunque, numerosi!

 

Per il resto, che dire...ringraziamo tutti per il calore con cui avete accolto questa storia: chi ha recensito, chi l'ha inserita fra le preferite/ricordate/seguite e chi, invece, capita qui per la prima volta. Scrivere Persefone ci entusiasma tantissimo, ma il vostro interesse é sicuramente un incentivo che riempie d'orgoglio tutte e tre. Grazie, davvero.


Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






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Capitolo 3
*** Atto II ***


 

 

 

 

 

 

Atto

2


 

 

 

Agosto 2013

 

 

Una mattina, circa dieci giorni dopo la festa di fidanzamento, Alistair si stava godendo il dormiveglia degli ultimi minuti di sonno, crogiolandosi nel tepore dei raggi che prepotenti filtravano attraverso le tende della camera quando, voltatosi verso il lato del letto nel quale dormiva Tai, lo trovò vuoto.

 

Rotolò sulla schiena e si stropicciò gli occhi, sospirando profondamente: qualcosa in Tai non andava, sebbene lei si ostinasse a liquidare la faccenda con la scusa delle troppe cose da gestire contemporaneamente. “Ed é proprio questo il problema”, si ripeteva giorno dopo giorno osservandola uscire di casa sempre prima il mattino e rientrare ogni giorno più tardi: Tai aveva sempre affrontato prima lo studio, poi il lavoro, con una costanza e un metodo che sfioravano lo stacanovismo, ma mai avrebbe rinunciato a quei piccoli momenti che le servivano a dimenticare, per qualche ora, gli oneri che comportava essere l'erede diretta di un'azienda come la Demeter. Mai avrebbe rinunciato all'ora di corsa a Central Park il mattino prima di andare in ufficio, o a rientrare in tempo per godersi qualche istante di meritato riposo a leggere o guardare un film o semplicemente a gustare un bicchiere di vino insieme a lui o agli amici di una vita. Tutte piccole cose, certo, che però facevano apparire chiaro a chiunque un aspetto fondamentale della personalità della ragazza: sin da quando aveva annunciato che avrebbe studiato Economia all'Università, per subentrare a sua madre in azienda, Tai non si era mai risparmiata dall'assumersi le responsabilità che le spettavano, ma aveva sempre cercato di sottolineare e precisare, con le sue scelte e il suo modo di fare, che la sua vita non erano né la Demeter né tantomeno gli eventi a cui sua madre si sarebbe sempre aspettata che prendesse parte, in quanto giovane debuttante dell'alta società newyorkese. Era per questo che non si era meravigliato e non aveva obiettato quando la fidanzata aveva lasciato che fosse la madre a gestire la loro festa di fidanzamento e le loro nozze regali, per dedicarsi interamente alla sistemazione dell'appartamento in Park Avenue di cui i suoi genitori avevano fatto loro dono per le nozze. Per una vita l'aveva osservata farsi scivolare le usanze di un mondo che le stava stretto addosso, giorno dopo giorno, ancorandosi alle piccole cose che le davano conferma di avere ancora un minimo di controllo sulla sua vita: casa, tempo libero, amici e lui, ovviamente.

 

Dal giorno della festa, invece, Tai si era buttata con frenesia e inusuale zelo nei preparativi del matrimonio, affiancando una sgomenta Erin in ogni dettaglio dell' organizzazione. Il fatto, pensava Alistair, già di per sé abbastanza sconvolgente, assumeva la portata di un cataclisma se si considerava che da quando avevano cominciato a lavorare per la Demeter, la sua fidanzata non si era assentata nemmeno quando, l'inverno precedente, era stata colpita dall'epidemia di influenza che aveva costretto a letto quasi l'intero ufficio amministrativo. O forse era il fatto che vederla rientrare con i campioni di colore delle tovaglie per il ricevimento lo straniva al punto che più e più volte si era domandato se per caso Taigete non fosse stata rapita e sostituita con un clone allevato dalla madre a sua immagine e somiglianza.

Persino il trasloco, che non doveva concludersi prima di un mese, era ormai ultimato, tanto che lui  stesso si era trovato a ricercare i suoi calzoncini da tennis per ore, prima di scoprire che erano già stati portati nel nuovo appartamento di Park Avenue. La furia con la quale lei, ad un debole tentativo di protesta, gli aveva risposto che il trasloco poteva farselo da solo se aveva qualcosa da obiettare, l'aveva convinto a tacere finché non avesse trovato il momento giusto per indagare sul motivo di tale rabbia.

Il tutto era avvenuto mentre la ragazza si faceva sempre più assente e rapita dalla frenesia degli eventi che si susseguivano giorno dopo giorno, senza che lui trovasse una via per fermarla e capire cosa la turbasse a tal punto da trasformarla, in pochi giorni, nell'esatto contrario di ciò che aveva sempre dimostrato di voler essere; sembrava che su di lei fosse gradualmente scesa un'ombra che l'angustiava a tal punto da dovere affrontare la quotidianità con il costante livello di ansia e frenesia che le permettevano di non fermarsi mai a pensare.

 

Fu proprio per questo che quando, alzatosi, si diresse verso la cucina per prepararsi la colazione prima di finire di inscatolare gli ultimi libri rimasti in sala, si sorprese di trovarla in assorta contemplazione del panorama immobile di quell'afosa mattina d'estate, con le gambe nude rannicchiate a sé e una tazza di caffè intoccato in mano.

 

-Niente bomboniere da ordinare o posti a tavola da decidere, stamattina?- le domandò depositandole un bacio leggero sulla guancia e sedendosi accanto a lei.

 

Tai sbuffò senza rispondergli.

 

-Tai, sai che non voglio forzarti, ma è evidente che c'è qualcosa che non va. Ti comporti in modo strano dal giorno della nostra festa di fidanzamento. Ora, capisco che ci siano state cose che nemmeno a me sono andate giù e non ti nascondo che ho avuto più volte l'istinto di usare modi poco galanti nei confronti dei nostri genitori, ma potresti dirmi qual è il problema? Comincio seriamente a pensare di essere io....

 

Nell'istante in cui formulò la domanda, si rese conto che non era così pronto alla risposta che la fidanzata avrebbe potuto dargli. Era così impegnato a pensare a cosa, nello svolgimento della serata, fosse andato storto, che non si era mai fermato a pensare seriamente che Tai nascondesse un malessere nei suoi confronti. E se lei si fosse buttata a capofitto nei preparativi delle nozze per convincersi di stare facendo la cosa giusta sposandolo? Se fosse stata una di quelle persone che, dopo anni e anni di fidanzamento, al momento decisivo si rendevanoq conto volere altro? Per un attimo ebbe la tentazione di pregarla di ignorare la sua richiesta, ma nell'esatto istante in cui prese coraggio lei, finalmente, gli rispose.

 

-Al, ti ricordi di Eugene Aderley?

 

Il respiro gli si mozzò in gola. Sentì uno strano calore propagarsi dal collo alle guance, fino alle orecchie, mentre il cuore gli rimbombava in petto.

 

-Hai...un altro?- le domandò con un filo di voce e la bocca prosciugata dall'angoscia.

 

Tai si voltò di scatto a guardarlo, fissandolo con sguardo incredulo.

 

-Ma sei serio?- gli domandò infine scoppiando a ridere nel vedere il suo viso terrorizzato.

 

-Ma non lo so! Prima ti comporti come una pazza, poi, quando ti chiedo spiegazioni tiri fuori...mi spieghi come ti é venuto in mente Aderley?

 

-Rispondimi,- lo esortò.

 

-Certo che me lo ricordo, Tai. Era il migliore amico di Ben a Cambridge. Da bambini frequentavamo persino la stessa scuola, ma poi lui e sua sorella sono stati mandati in Inghilterra a studiare e non ne ho più avuto notizie, se non da Ben, di tanto in tanto. 

 

-E dopo?

 

-Dopo...dopo l'incendio, intendi? Mah, quando ero alla London Business avrei giurato di averlo incrociato una volta nei dintorni di Soho, ma non credo che qualcuno ne abbia notizie da quando gli Aderley hanno depennato senza troppe cerimonie il suo nome dalla linea di successione. Poveretto...Se é davvero innocente gli é toccata una sorte peggiore di...- Alistair si interruppe, consapevole di star dicendo qualcosa che avrebbe fatto infuriare Tai oltre ogni dire.

 

-Stavi per dire di Ben?- gli domandò infatti lei con voce stridula, -Credi davvero che essere così disperato al punto di buttarsi giù per un dirupo con l'automobile sia un destino meno crudele?

 

-Non lo sappiamo se si é ucciso davvero, Tai... Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ancora vivo, lo hai sempre detto anche tu!

 

-Appunto!- gridò la ragazza balzando in piedi e cominciando a battere l'intero perimetro della sala, -Io non ci capisco più niente, Al, mi sembra di impazzire! Sono giorni che tento di venirne a capo, ma più ci penso, più qualcosa mi sfugge!

 

-Tai, calmati, non riesco a capire... A cosa ti riferisci?

 

Due identiche lacrime di stizza sfuggirono veloci dagli occhi di Tai, seguite immediatamente da altre due, finché la ragazza non proruppe, finalmente, in un pianto liberatorio:

 

-Al, quando sono sparita alla festa,- decifrò Alistair fra un singhiozzo e l'altro,- È apparso questo tizio. All'inizio non l'avevo riconosciuto, ma poi si è presentato e...era Ade...cioè, Eugene, che si era presentato come Ade, per questo non avevo capito chi fosse…

 

La ragazza fermò il suo confuso racconto, rendendosi conto che il discorso che nella sua testa aveva un senso, forse non appariva così chiaro, intervallato com’era da pause e lacrime. Si passò una mano sugli occhi respirando profondamente per calmarsi e infine cominciò a raccontare l'incontro avvenuto la sera della festa.

 

Alistair stette ad ascoltarla assorto, mordicchiandosi sempre più perplesso il labbro, fino a che lei non si sedette nuovamente accanto a lui e, strizzando freneticamente la tazza fra le mani, non gli domandò con un filo di voce: -Cosa ne pensi, allora?

 

Il giovane rimase interdetto qualche istante. Non si era aspettato una simile reazione né avrebbe mai potuto immaginare che il turbamento di Tai fosse dovuto a fantasmi del passato che si erano materializzati, così d'improvviso, nella sua vita.

 

-Io...penso che se quello che dice é vero, dovresti andare a fondo alla faccenda,- le rispose lentamente dopo una lunga pausa.

 

-Come?

 

-Partendo.

 

La ragazza sgranò gli occhi incredula: -Stai dicendo davvero?

 

-Certo. Tai, questa storia ti darà il tormento in eterno, ne sei consapevole? Ben é sempre stato il fratello che non hai mai avuto; il vostro era un legame così esclusivo e totalizzante che andava oltre persino a quello che io stesso ho sempre avuto con mia sorella. Perderlo ha significato perdere una parte di te stessa e non avrai pace finché non lo troverai. O finché non avrai la conferma che quella parte di te é morta davvero con lui.

 

Tai cominciò a martoriarsi una pellicina, dubbiosa.

 

-Taigete, per favore! Fai qualcosa di impulsivo, per una volta nella tua vita! Sei sempre così fottutamente controllata e impeccabile che prima o poi impazzirai davvero! Parti e vallo a cercare o passerai tutta la vita con il rimorso di non aver fatto nulla perché lui tornasse da te.

 

Erano esattamente le parole che le aveva rivolto Ade la sera della festa. Prive di impertinenza e scherno, ovviamente, ma che veicolavano lo stesso messaggio che, da giorni, l'aveva tormentata al punto da spingerla a buttarsi freneticamente in qualunque attività le permettesse di sedare la voce della sua coscienza: se vi era una possibilità, anche minima che Ben fosse vivo, doveva percorrerla a tutti i costi.

 

-Cosa dirò a mia madre?- gli domandò infine esitante.

-A quello penserò io. Le dirò che sei dovuta partire all'improvviso per Parigi  perché...perché quella piattola di Sam si é lasciata per l'ennesima volta con Guillaume e non sa come fare in una città sconosciuta senza di te.

 

La ragazza sorrise, tirando su con il naso in un gesto così infantile che Alistair non poté fare a meno di stringerla a sé, intenerito.

 

-Però facciamo un patto,- le domandò dopo averla baciata a lungo. Tai aprì gi occhi, incuriosita.

 

-Se tu e Aderley partite insieme, in aeroporto ti accompagno io.

 

-Non sarai mica geloso?- gli domandò lei facendo cascare le braccia che gli aveva buttato attorno al collo.

 

-Ti piacerebbe! No, povera anima tormentata, devo istruirlo su un paio di cosette necessarie da sapere prima di mettersi in viaggio con te. Sarà anche scampato a un incendio, ma non sono altrettanto sicuro che abbia le abilità necessarie per poter sopravvivere alla giovane marmotta maniaca di controllo che si impossessa di te, quando metti piede fuori da New York.

 

-Ma...- obiettò lei

 

-Niente ma. Adesso il maniaco del controllo voglio essere io. Ti ricordo che, visto l'atteggiamento da schizzata che hai assunto negli ultimi giorni, io e te non abbiamo ancora festeggiato a dovere...

 

Tai sorrise e lo tirò a sé, avvertendo con sollievo il nodo che le aveva attanagliato lo stomaco cominciare a sciogliersi, -Cosa avevi in mente?- gli domandò infine.

 

-Primo: neutralizzare il nemico. Il ragazzo si allungò sopra di lei, afferrò il telefono sul tavolino di legno scuro accanto al divano e compose il numero dell'ufficio del padre alla Demeter.

 

-Papà,- disse tappandole la bocca con la mano per soffocare la sua risata,- ci hanno appena chiamato dall'impresa edile che segue i lavori della casa nuova... C'è stato un malinteso e arriveranno a portare la cucina proprio oggi. Stamattina né io né Tai verremo in ufficio, tanto voi riuscite ad arrangiarvi comunque con i giapponesi, vero? Grazie, scappo ché sta arrivando il taxi!

 

-E secondo?- gli domandò Tai, mentre, abbandonati il telefono sul pavimento, Al cominciava a baciarle delicatamente la pancia scoperta.

-Improvviserò...

 

 

***

 

 

Stava volando verso l'ignoto.

 

Il cielo fuori dal finestrino era di un nero secco e brillante. Tai amava volare di notte, le dava l'impressione che tutta quell'oscurità cancellasse le coordinate spazio temporali che di norma scandivano un viaggio; erano gli unici attimi, nella vita, in cui le sembrava di potersi fermare, senza uno scopo preciso, chiudere gli occhi e immaginare di essere nel mezzo di una corsa senza meta o fine. Con gli occhi semichiusi e i pugni serrati fissava i bagliori tremolanti della pista dell'aeroporto di Heathrow allontanarsi sempre di più da loro, mentre le luci si facevano più rarefatte e divenivano infine invisibili man mano che prendevano quota. Se non fosse stato per l'immagine che le restituiva il vetro attraverso il quale aveva puntato lo sguardo avrebbe giurato di essersi smarrita, cullata dal ronzio continuo del motore, nell'oblio del nulla che li avvolgeva.

E invece il profilo di Ade che si rifletteva sul finestrino le ricordava, come un curioso monito, il folle motivo per cui si trovava seduta su quel sedile, con le gambe rannicchiate a sé e i piedi incastrati fra il suo sedile e quello dove lui dormiva profondamente. Non aveva fatto altro dal momento in cui avevano messo piede sull'aereo che li avrebbe condotti da New York a Londra, per poi dirigersi verso Atene, dove a quanto pareva vivevano degli amici del college in grado di fornire loro dettagli più puntuali su Ben. Tai lo fissava attraverso il suo riflesso con profonda invidia: più volte era scivolata nel sonno, ma ogni volta strani e inquietanti sogni a metà fra il subconscio e la realtà l'avevano turbata al punto che erano ormai ore che non riusciva a chiedere occhio. L'immagine di sua madre mentre sfilava dal cofanetto la collana di diamanti, che improvvisamente cominciava a muoversi avvolgendosi attorno al suo collo, fino a soffocarla, si accavallava a quella di mille volti dai lineamenti sfuocati, avvolti da bagliori rossastri che piano piano li facevano scomparire e riapparire, confusi nella moltitudine di rumori penetranti, finché, nitido fra tutti, non comparivano il viso di Ben e le sue mani tese verso di lei. Poi tutto si perdeva, nell'oscurità di uno sguardo scuro e profondo, da cui non riusciva a distogliere il pensiero. Più e più volte si era destata di soprassalto, finché, alla fine, non si era svegliata del tutto, tremante e con il respiro affannato, con la sensazione che qualcuno la stesse svegliando, scuotendola violentemente. Il più delle volte non era altro che un sussulto dell'aeromobile, o la voce di un' hostess che richiamava l'attenzione dei passeggeri per comunicazioni di servizio. Ma ogni volta che aveva aperto gli occhi, l'immagine di Ade profondamente addormentato riflessa sul finestrino l'aveva ricondotta bruscamente alla realtà: l'abbassarsi lento del suo petto e le labbra leggermente socchiuse avrebbero dovuto infonderle tranquillità, ma l'unica cosa che Tai riusciva a sentire era il crescere in sé dell' l'ansia per l'ignoto verso il quale si stava dirigendo, mossa dalla follia di un gesto che non aveva nulla di razionale.

 

-Signorina, le é caduto il taccuino.

 

Abbassò lo sguardo verso il diario di sua nonna, scivolato ai suoi piedi, rimanendo a fissarlo per qualche istante in silenzio.

La sera prima, mentre preparava lo zaino, aveva scorto l'oggetto che spuntava sotto la pila di calzini: se ne era quasi dimenticata, nella frenesia degli ultimi giorni. Eppure, quell'ammasso di pagine ingiallite esercitava un'attrazione magnetica ora che le era riapparso sotto gli occhi.

Sua nonna Merope aveva costituito, per lei, un mistero lungo una vita: appariva felice e realizzata, al fianco di suo nonno, eppure aveva sempre avuto l'impressione che ogni suo sorriso, ogni sua parola o gesto fossero velati dall'impalpabile malinconia di chi non era riuscito a vivere a pieno la sua vita. Era stata lei la prima a sussurrarle in un orecchio, il giorno del suo diciottesimo compleanno, di trovare la forza per essere ciò che voleva nella vita; e così Tai aveva fatto. Si era laureata a pieni voti ad Harvard, specializzata in Europa, aveva amato Al con tutta sé stessa, ignorando le malelingue che dicevano che stesse con lei solo perché obbligato dal padre, aveva viaggiato da sola e in compagnia del padre, girando il mondo spesso senza un vero scopo, aveva corso a perdifiato scalza per il bosco della tenuta della famiglia del padre, rientrando con le gambe livide e piene di graffi, cavalcato fino a lasciarsi andare esausta sull'erba umida, fatto il bagno nelle acque ghiacciate delle acque del Quebec, la regione d'origine della sua famiglia paterna. Tutte cose che avevano fatto infuriare, il più delle volte, sua madre, ma che la rendevano orgogliosamente diversa da lei. Eppure...eppure, guardando alla sua vita, spesso non riusciva a fare meno di sentirsi in trappola, come se dei fili lunghissimi la riportassero a una realtà a cui non desiderava appartenere. Per quanto lontana potesse andare, questi alla fine l'attanagliavano, l'avvolgevano, la soffocavano, finché non tornava indietro, vinta dall'angoscia e dalla paura di soccombere sotto la loro presa.

Non si era mai sentita realmente capita, o forse aveva sempre avuto l'impressione di non riuscire a comunicare a qualcuno le sue sensazioni fino a che, nel fondo di un baule nel sottotetto dell'appartamento di Park Avenue, non aveva trovato il diario di sua nonna: aveva cominciato a leggerlo, assaporandone piano piano ogni parola, trovando queste quasi fastidiosamente empatiche e confortevoli. Era stato così che, senza pensarci due volte, appena qualche istante prima di uscire da casa, aveva infilato il taccuino nella tasca esterna dello zaino, assieme all'inseparabile copia dell'Amleto che l'aveva accompagnata sin dal suo primo viaggio in Thailandia con il padre e Ben, e il Kindle pieno di libri: si era ripromessa di leggere un giorno, per ognuno trascorso in viaggio alla ricerca di suo cugino.

 

-Grazie,- rispose con un sorriso, chinandosi a raccogliere il diario ai suoi piedi, per poi assicurarselo in grembo, dove non avrebbe rischiando di perderlo di vista un'altra volta.

 

 

***

 

 

 

-Ade...Ade!

-Dannazione, vuoi darti una mossa?

-Ade!

Il fumo gli penetrava nelle narici, mozzandogli il fiato, il caldo lo atterriva mentre tentava di scostarsi il sudore che dalla fronte gli colava sugli occhi, bruciando, facendolo brancolare in un'oscurità tagliata da luci accecanti, bollenti. Una mano che lo tirava per la camicia, stracciandola con un rumore secco.

 

-Ade!

 

Era la camicia o il petto ad essersi squarciato?

 

-Vuoi svegliarti?

Si sollevò di scatto, sbattendo violentemente le ginocchia contro il sedile davanti a lui.

-Stai bene?

Nel sentire una mano appoggiarsi sulla sua, l'uomo si voltò con aria smarrita, senza capire dove si trovasse. Accanto a lui, Tai lo scrutava con aria perplessa e vagamente preoccupata.

-Ah sei tu,- le disse con tono scocciato, massaggiandosi le ginocchia e maledicendo mentalmente le compagnie low cost e tutti i loro mezzi a misura di Hobbit.

-Hai cominciato ad agitarti nel sonno e a mormorare cose incomprensibili. Mi sono preoccupata...vuoi un fazzoletto?- gli domandò accennando alla fronte imperlata e al ciuffo di capelli che gli si era incollato alla pelle madida.

 

Ade annuì in silenzio, tentando di ricordarsi il motivo che lo aveva destato di soprassalto. Più si sforzava, tuttavia, più le immagini sfuggivano, facendosi confuse e sfumate finché, ad un certo punto, tutto ciò che vide fu l'immagine del suo viso sconvolto riflessa sul vetro alle spalle di Tai.

 

-Un incubo, suppongo. Non ricordo, sinceramente,- rispose infine abbandonandosi indietro e chiudendo gli occhi per scacciare gli ultimi, inquietanti rumori che ancora aleggiavano nei suoi ricordi confusi.

 

-Siamo quasi arrivati.

 

Tai ora gli dava le spalle mentre, con il viso perso oltre il finestrino, guardava la pista di atterraggio avvicinarsi sempre di più, fino a divenire con uno scossone violento, suolo sotto le ruote dell'aereo. La osservò a lungo, mentre imperterrita, fissava la pista sulla quale erano appena atterrati, con una mano sotto al mento, l'altra ancora appoggiata sulla sua, come dimentica di chi fosse il suo compagno di viaggio. Sorrise imbarazzato, immobilizzato da quel gesto innocente, finché il piccolo oggetto che teneva in grembo non catturò la sua attenzione.

 

-Scrivi le tue memorie?- le domandò accennando al consunto taccuino.

 

-Come?- gli rispose lei sovrappensiero.

 

-Il diario...

 

-Oh...no, é solo...il diario di mia nonna Merope,- gli spiegò Tai stringendo le spalle.

 

-Ah. Non mi sembravi il tipo che si mette mille problemi su un diario, infatti.

 

-In che senso?

 

-Mi sembri più una di quelle persone impulsive, che prima agiscono, poi riflettono, piuttosto che una che si spara mille viaggi su un diario.

 

Tai lo fissò turbata: - E questa...è una cosa positiva?

 

Ade fece spallucce: -Boh.

 

Poi, senza lasciarle il tempo di replicare o di riflettere sull'osservazione fatta, si alzò e lasciò cadere la conversazione, cogliendo l'opportunità di aiutare la signora al suo fianco a recuperare la valigia dal vano porta oggetti sopra la loro testa.

 

-Sibillino,- commentò lei fissandolo dubbiosa. Scosse la testa perplessa poi, infilando il diario nella profonda tasca della felpa che indossava, si accinse a seguirlo, quando lo sguardo le cadde sulla tasca posteriore dei jeans di Ade da cui spuntava un libretto consunto e stracciato in più punti.

 

Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. (1) Recava la scritta familiare che spiccava sulla prima pagina, lasciata scoperta dalla copertina strappata. Affondò lentamente la mano nella tasca e ne estrasse un libricino identico a quello che Ade teneva nella tasca, ma meglio conservato.

 

Alla mia piccola Tai, per ricordare il primo viaggio con gli uomini della sua vita. La scrittura sbiadita di suo padre le bruciò gli occhi, al punto che dovette spalancarli, per respingere le lacrime che erano affiorate con prepotenza a intorbidire i suoi occhi chiari. Allungò tremante la mano verso la tasca di Ade, sperando che le chiacchiere con la vicina lo distraessero abbastanza perché lei riuscisse a scoprire completamente la scritta in copertina.

 

Al mio piccolo, grande nipote, nella speranza che questo libro lo accompagni sempre nel viaggio della vita.

 

La copia di Ben.

Incapace di trattenerla, una lacrima le corse infine lungo la guancia, prima che lei potesse anche solo accorgersi di aver cominciato a piangere in silenzio. Chiuse il libro in fretta e lo fece sparire asciugandosi il viso appena in tempo, prima che Ade si voltasse e la esortasse distrattamente a seguirlo, prima di rimanere incastrati nella comitiva di diciottenni che non avevano smesso di schiamazzare e urlare per tutta la durata del viaggio.

 

 

 

 

Una risata beffarda spiccò nitida su un’armonia di rumori dissonanti che lo nauseavano anche se intrappolati dietro la retina metallica del microfono di un cellulare.

-Potresti smettere di giocare con quella candela, per favore?

Nel buio, due mani pallide, un bagliore e quel tatuaggio. "Il buono e il cattivo dipendono dal pensiero di chi li rende tali," (2) recitava.

Ade distolse lo sguardo, fissando il nulla dinnanzi a lui: alla fine tutti loro, ragazzi immaturi e irresponsabili, avevano imparato a distinguere la sottile differenza fra il bene e il male, a loro spese. A qualche fortunato era stata data la fortuna di non vivere abbastanza a lungo per essere condannato a vedere tutto il buono che c'é nel mondo trasformarsi in marcio, sgretolandosi sotto le proprie, impotenti dita. A chi era rimasto, invece, tutto ciò che aveva riservato la vita altro non era stato che un' esistenza ai margini di un mondo che li avrebbe sempre ripudiati, disgustato, e un abisso fatto di errori, orrori, incubi e tormentati ricordi.

Sorrise amaramente, sfiorandosi l'impercettibile gonfiore che un tempo era stato un tatuaggio del tutto simile a quello che si vedeva sull polso dell'uomo del video: se solo avessero saputo che sarebbero stati condannati a rimanere, avrebbero bruciato quel copione, anziché eternarlo per sempre sulla loro stessa pelle.

-Dai, smettila! Non mi interessa se non senti dolore, finirai per bruciare tutto...-

 

-Respira, Ade...- mormorò fra sé e sé, strofinandosi gli occhi.

In fondo, avrebbe dovuto fare solo quello che gli riusciva meglio: raccontare, evocare un passato sepolto, che credeva di aver lasciato alle sue spalle.

E poi fare silenzio, finalmente libero.

 

-Ben, cosa fai lì in un angolo da solo?  Vieni qui ché penso ci sia qualcosa che ti interessa!

 

Un ultimo sguardo allo schermo, un sospiro. Gli girava la testa e aveva l'impressione che un martello pneumatico gli penetrasse lentamente le tempie; spense il telefono, facendolo sparire lentamente nella tasca dei jeans, poi si alzò e si accinse a raggiungere Tai, che lo attendeva impaziente all'entrata, stringendo al petto, come se fosse un tesoro dal valore inestimabile, il diario di sua nonna.

 

-...e poi potrai fare silenzio.








1969

Alla televisione, un’adorabile famiglia stava chiacchierando allegra intorno a una tavola piena di prelibatezze: tutti prodotti di cui la Demeter garantiva bontà e genuinità. Ogni volta che guardava quello spot, Merope cercava di dissimulare la sua insofferenza: spesso si ripeteva che quel moto di fastidio non aveva nulla a che fare con le abitudini di casa Core, dal momento che da quando aveva memoria aveva sempre fatto colazione in compagnia dei soli camerieri. Piuttosto, tendeva a imputare quella reazione all’evidente anacronismo della pubblicità voluta da sua madre: in un periodo in cui le donne cercavano di crearsi uno spazio in un mondo che fino a quel momento era stato pensato da e per soli uomini, l’immagine che usciva fuori da quello spot era quanto mai fastidiosa. Ancora di più se si pensava che a sceglierla era stata proprio Chloe Core, una donna pronta a relegare il marito alla gestione delle filiali più lontane e a condurre praticamente da sola l’impero Core.

 

-Miss Core, sua madre le ha lasciato il promemoria per la giornata.

 

Merope prese il biglietto dalle mani della cameriera e diede una rapida occhiata. Quel giorno avrebbe dato qualsiasi cosa per non uscire da casa, per spezzare quella routine che da qualche settimana le era stata imposta dalla sua famiglia, ma c’erano troppi impegni e lei doveva dimostrare di essere all’altezza delle aspettative di tutti: c’era un matrimonio sfarzoso da organizzare nei minimi dettagli; la ricandidatura spinosa del sindaco Lindsay, amico di lunga data dei Core; c’era un posto in amministrazione ad attenderla.

 

Merope provava a interessarsi, ad uscire fuori da quella campana in cui sembrava nata, ma tutte le volte sentiva il familiare senso di inadeguatezza, quel qualcosa di indefinito che riusciva sempre a insinuarsi nei suoi pensieri e a farla sentire minuscola dentro. Come qualche giorno prima, quando lei e Duncan avevano partecipato per la prima volta al consiglio d’amministrazione della società. Fino a quel momento loro si erano sempre trattati da pari a pari, scambiandosi opinioni su ciò che avrebbero fatto per la Demeter per adeguarla al mutare dei tempi: in quegli scambi Merope finiva sempre con l’offrire a Duncan punti di vista interessanti, innovativi, moderni. Eppure… Eppure durante quel consiglio d’amministrazione e per quelli successivi, aveva finito con lo stare in silenzio, accanto a un Duncan che le sembrava sicuro come non mai, brillante come lei non avrebbe mai saputo essere.

 

Fece un respiro profondo, un po’ tremolante e andò nella sua camera per scegliere gli abiti che avrebbe indossato quel giorno, ma a quanto pareva qualcosa di lei non riusciva proprio a non ribellarsi: era distratta da immagini che si rincorrevano nella sua mente, pensieri foschi che la portavano a fissare con aria assente la cabina armadio piena di abiti cipria e giacche pastello. Alla fine scelse qualcosa senza prestarci troppa attenzione e, in un moto di stizza, sentì di detestare tutto ciò che aveva davanti: sua madre le imponeva di indossare la collana dei Core, ma non aveva praticamente nulla da indossare che avesse abbastanza carattere per quel gioiello così cupo.

 

Si preparò con la solita calma e, una volta pronta, mise le mani sul portagioielli che la madre le aveva regalato insieme alla collana. Se la collana si tramandava di madre in figlia da diverse generazioni, quella del portagioielli era una tradizione di gran lunga più recente: era splendido e per Merope significava molto più della collana, perché quella fitta trama dorata su uno sfondo nero e il prezioso giglio intarsiato le parlavano di una persona cara quanto sfuggente. Nonostante per diversi anni il cofanetto fosse rimasto nelle mani di sua madre, quando si faceva scattare la chiusura si poteva avvertire un’essenza familiare, frizzante ma elusiva.

 

-È quasi una beffa,- aveva commentato Chloe quando l’aveva vista contemplarlo,— Lei non riesce a stare ferma per il tempo di un battito di ciglio, ma il suo profumo ti rimane comunque addosso.

 

-Non è solo il profumo,- aveva risposto lei, lisciando i contorni del giglio, -Nonna è ovunque in questo portagioielli.

 

Chloe l’aveva guardata stranita. -Mi ha raccontato che l’ha ideato lei e l’orefice ha dovuto accontentarla in ogni più piccolo particolare.

 

Era così assorta nei suoi pensieri che quando iniziò a squillare il telefono sobbalzò facendo cadere il cofanetto a terra. Nel panico, vide che qualcosa si era staccato e si piegò sulle ginocchia per contemplare il guaio che aveva fatto.

 

-Miss Merope, il suo fidanzato al telefono.

 

Fece un frettoloso cenno d’assenso alla cameriera, mentre affranta allungava le mani verso il pezzo che si era separato dallo scrigno nella caduta. Stranita, notò che in realtà si trattava di un cassettino e che forse non aveva fatto nulla di irreparabile.

Rincuorata, decise di non fare attendere Duncan e andò al telefono.

 

-Pronto.

 

-Ciao Silvery,- la salutò la voce familiare e rauca di Duncan.

 

-Ciao Ambroser,- gli fece il verso.

 

-Per oggi è meglio se ce ne stiamo a casa.

 

Merope si illuminò tutta, ma finse indifferenza quando chiese: -Come mai?

 

-I soliti scansafatiche hanno bloccato le strade e tua madre mi ha sconsigliato di farci vedere nei pressi della Demeter. A quanto pare, siamo troppo bianchi, troppo ricchi e troppo patriottici per passare tra loro indisturbati.

 

Merope sbuffò divertita: -Li detesti proprio, eh?

 

-Non li detesto, ma disprezzo chi va contro ciò che rende gli States il Paese più potente al mondo. Sono dei perdenti, Merope… Persone che si crogiolano in utopie irrealizzabili o nel loro basso status sociale, senza nemmeno provare a cambiarlo.

 

-Molti di loro sono reduci del Vietnam. Chi più di loro ha diritto di essere ascoltato?

 

Duncan sbuffò: -Non ti metterai anche tu a inneggiare all’amore, adesso?

 

Merope sollevò lo sguardo al cielo: -E se anche fosse?

 

-No, intendiamoci, per me va bene… sono un grande sostenitore dell’amore! Purché riguardi me e te, una bottiglia di champagne e un letto comodo.

 

-Duncan!- lo rimproverò, paonazza.

 

Lo sentì ridere dall’altra parte del telefono. Era quella risata bassa che le piaceva tanto, quella che sapeva trasmetterle dei brividi per lei poco familiari, come se fosse la promessa di qualcosa di proibito che lei non conosceva ancora.

 

-Silvery…- mormorò a voce bassa.

 

-Che c’è?- chiese mordendosi un labbro e guardandosi attorno con aria colpevole.

 

-Non vedo l’ora che tu sia mia.

 

-Ma lo sono già,- obiettò.

 

Di nuovo quella risata roca.-No, non ancora…

 

 

 

***

 

 

 

“Tra le dee, Demetra aveva il dono più prezioso: creava vita dove vita prima non c’era. Senza dolore, partoriva creature perfette pronte a venerarla per tutta la loro esistenza: robuste querce, pericolosi rovi, delicati gigli, succose mele. Tuttavia, l’armonia del suo creato non era sufficiente alla dea, desiderosa di qualcosa che non avrebbe dovuto mai desiderare: una creatura a sua immagine e somiglianza. La chiamò Persefone e, quando si rese conto che nascendo la nuova dea le aveva sottratto il suo dono, non ebbe modo di odiarla: era troppo perfetta, troppo uguale alla lei che era stata un tempo. Tramite Persefone, Demetra continuò a elargire il dono, illuminando la Terra di vita senza mai davvero posare i suoi occhi sulla figlia. Persefone sfioriva nel sonno, privata della luce che la sua stessa madre le aveva donato e poi tolto…”


Un suono insistente si fece strada nell’intricata trama di parole, immagini e pensieri che era la sua mente. Ci mise qualche momento per individuarne la fonte: prima si dovette stropicciare gli occhi, poi si obbligò a mettere giù la penna che aveva stretto fino ad allora, quindi si guardò intorno per qualche secondo. La realtà aveva la forma di una mano che bussava con forza alla porta, il suono di una voce che lo chiamava per nome.

Andò ad aprire, senza curarsi del fatto che fosse praticamente nudo.

 

-Cuveé, potrai attizzare le donne dell’alta società, ma ti prego di vestirti in mia presenza.

 

-James…— mormorò con voce arrochita dal mancato utilizzo,- Che ci fai qui a quest’ora?

 

-A quest’ora?- domandò il rampollo dei Core divertito, -Non sono ancora a conoscenza del fuso orario del Village, ma dalle mie parti mezzogiorno è un orario più che accettabile per fare visita a qualcuno che te ne ha fatto espressa richiesta.

Julian lo guardò senza capire bene cosa volesse dire.

 

-Si può sapere che stavi facendo?- domandò a quel punto, mentre con un’occhiata catturava l’intero monolocale. Era una stanza grigia, scarna di mobili ma piena di libri, dischi e fogli imbrattati di inchiostro. Gli unici beni di un qualche valore erano un giradischi che gli era stato regalato, un’opera d’arte di quello che per molto tempo era stato il suo mecenate e una macchina da scrivere risalente a prima della sua nascita.

 

Scosse la testa nel tentativo di schiarirsi le idee: -Credo di aver scritto tutta la notte.

 

Andò verso il letto e indossò i pantaloni che la sera prima vi aveva lasciato cadere. Fu allora che si rese conto che il corpo era infreddolito, che aveva bisogno di bere e mangiare qualcosa.

 

-Quando ti ho detto di venire qui?- gli chiese dopo essere tornato dal bagno.

 

James scosse la testa, incredulo. -Ieri sera!

 

Vedendo che non ricordava, si decise a raccontargli: -Sei venuto nel salottino privato del Max’s, mi hai interrotto mentre ero in compagnia di Giselle per dirmi che oggi dovevo fare qualcosa per te. Hai blaterato qualcosa su un regalo da consegnare. Quando ti ho mandato a fanculo e ti ho detto che un Core non fa da postino a nessuno, mi hai minacciato di far sapere ai giornali e alla mia famiglia delle mie prodezze alla Factory e mi hai dato appuntamento a stamattina, esattamente a mezzogiorno!

Mentre James blaterava nel suo solito modo insensato, Julian si era avvicinato alla cucina e aveva preso delle fragole che qualcuno gli aveva lasciato lì. Mentre le mangiava, soppesava con lo sguardo l’altro.

 

-Già, ho qualcosa per casa Core.

 

James strinse le labbra, infastidito. -Cosa vuoi dalla mia famiglia?

 

-Tranquillo, non mi interessa la tua famiglia, ma quella dei Core splendenti… Anzi, per la verità, me ne interessa una sola.

 

-Oh, Merope…— realizzò l’altro,— Te l’ho già detto, è fidanzata e non ha mai avuto occhi per qualcuno che non fosse Ambroser.

 

Julian sollevò le spalle indifferente. Non gliene fregava davvero nulla: non era un interesse fisico quello che provava per la ragazza Core. Era molto di più, ai suoi occhi: era quella spinta che lo aveva indotto a stare ore e ore con una penna in mano a cercare di descrivere la luce abbagliante che aveva scorto quella famosa sera, quella stessa luce che era sembrata affievolirsi man mano che la giovane stava a contatto con i suoi simili. La voleva per sé, in quella squallida stanza, per vedere se quella luce sarebbe stata in grado di illuminare lui o se invece sarebbe perita come tutto ciò che lui aveva toccato nella sua vita. La voleva, presto.

 

-Non importa. Dovrai solo farle avere questo pacchetto e gli altri che ti darò poi.

 

 

 

***

 

 

Dopo un’intera giornata trascorsa in casa, immersa nella lettura e nella musica, era stato particolarmente difficile il giorno dopo tornare alla routine ormai consolidata.

 

La mattina, aveva dato inizio a quella che prometteva di essere un’estenuante ricerca dell’abito da sposa, perché nulla sembrava convincere sua madre e l’immancabile cugina Daphne. Agli occhi divertiti di Merope, il cipiglio con cui sua madre accoglieva ogni abito era degno di uno stratega intento a pianificare una battaglia particolarmente difficile.

 

-Ti stanno tutti bene, Merope,- aveva commentato indispettita,-Ma cerco qualcosa che ti faccia brillare davvero.

 

Dopo pranzo, lei e Daphne avevano dovuto presenziare a un evento organizzato per la campagna elettorale del sindaco Lindsay. Quello stupido – così lo appellava sua madre in sua assenza – negli ultimi mesi del mandato aveva fatto una sciocchezza dietro l’altra, cominciando dalla manifesta incapacità a gestire scioperi e manifestazioni fino ad arrivare alla cattiva gestione della nevicata di febbraio, quella che gli aveva fatto guadagnare il nome di Lindsay Snowstorm e che rischiava di fargli perdere le nuove elezioni. Ciononostante i Core avrebbero continuato a credere in lui e a finanziare la sua candidatura. Tuttavia, per non compromettere eccessivamente la famiglia, Chloe aveva affidato alle due cugine il compito di stare sul palco insieme al sindaco.

 

Merope aveva fatto tutto ciò che le avevano chiesto, quel giorno: aveva sorriso, aveva indossato decine di abiti, aveva conversato e aveva parlato a un microfono. Ma la sua mente non era dove Chloe avrebbe voluto: era rimasta altrove, agli accadimenti del giorno prima.

Terminata la telefonata con Duncan, era tornata indietro per vedere se il danno al portagioielli era davvero risolvibile come aveva pensato in un primo momento. In effetti, non c’era stato alcun danno: la caduta doveva aver azionato un meccanismo che aveva fatto aprire uno scompartimento segreto. Lì dentro si trovava nascosto un autentico tesoro: un diario le cui pagine intatte – scritte in una calligrafia elegante e appariscente – recavano un lieve profumo di limone, tra le quali si celavano i pensieri e i segreti della giovane Maia Core Myrthus.

 

La prima tentazione era stata quella di farsi trascinare dalle pagine e di leggere il diario tutto d’un fiato, ma quello non era un libro, scritto per essere compreso da tutti. Era una raccolta di pensieri fugaci, frasi criptiche, opinioni su persone o eventi che l’autrice aveva ritenuto degni della sua volubile attenzione. Una lettura rapida non avrebbe mai permesso un’adeguata comprensione, cosa che per Merope aveva acquisito troppa importanza per rinunciarvi così facilmente. Così si era imposta una lettura più lenta, che le consentisse di riflettere meglio su ciò che leggeva e, dopo tutto quelle ore, non si era pentita affatto della sua decisione: sua nonna si approcciava alla scrittura con la stessa disposizione d’animo con cui viveva, cosicché finiva con il descrivere con dovizia di particolari abiti, pettegolezzi e scandali e con il liquidare con scarne ed ermetiche parole ciò che all’occhio attento di Merope sembrava colpirla davvero.

Tuttavia, non era stato solo il diario di sua nonna a distrarla nel corso di quella giornata impegnativa. Anche in quel momento, mentre stava seduta accanto a sua cugina Daphne, non riusciva a non pensare a ciò che era successo la sera prima e a come aveva trascorso gran parte della notte.

 

Merope si era appena ritirata in camera dopo una cena con sua madre, Duncan e i cugini, quando la cameriera le aveva portato un pacchetto sottile e leggero che qualcuno aveva lasciato sul mobile all’ingresso. Su di esso una calligrafia spigolosa recava il suo nome. Stranita, aveva strappato la carta senza troppe cerimonie, per ritrovarsi in mano quello che aveva tutta l’aria di essere un vinile. Ma c’era qualcosa di assurdo sulla copertina: innanzitutto, sapeva fin troppo bene che nonostante la sua versatilità Andy Warhol non era affatto un musicista; in secondo luogo, quella banana fin troppo matura che vi era disegnata non aveva nulla a che vedere con la musica.

 

Aveva dovuto ascoltare le prime tracce  per ricordare di un album che pochi anni prima aveva fatto scalpore per poi sparire subito dalle radio. Era un gruppo che si diceva avesse acquisito notorietà solo grazie all’appoggio di Warhol e alla modella che li affiancava, Nico, se ricordava bene.

 

Mentre ascoltava la voce maschile sottile e quella femminile piuttosto rauca cantare testi dal contenuto così indecente da ringraziare l’ennesimo impegno che aveva portato sua madre a uscire, Merope si era sentita sempre più imbarazzata, sempre più scossa. Eppure non era riuscita a indignarsi: c’era qualcosa di morbido in quella musica capace di toccarla dentro, in una carezza a cui non avrebbe saputo rinunciare. Quelle voci, che da decise si facevano basse e seducenti, le parlavano di un mondo a lei del tutto sconosciuto: un mondo sporco, sicuramente, fatto di droga e perversioni che avrebbero dovuto inorridirla, di donne fatali e veneri in pelliccia che avrebbero dovuto farle arricciare il naso. Ma era un mondo che la incuriosiva, spingendola ad ascoltare alcune canzoni più delle altre, nel tentativo di decifrare i significati più indecenti e oscuri.

Alla fine, era stato proprio il disegno sulla copertina a distogliere la sua attenzione dalle canzoni. Mentre lo studiava si era resa conto che si trattava di un adesivo e, una volta che aveva tolto la pellicola gialla, aveva strabuzzato gli occhi nel trovarsi la figura rosa shocking di quello che doveva essere senza dubbio un…

Scosse la testa per cacciare via l’imbarazzo che quel ricordo ancora le destava. Quel disegno era a dir poco osceno!

Sconcertata, si era alzata dal letto per nascondere il vinile, quando aveva notato che sul retro qualcuno aveva scritto: “And what costume shall the poor girl wear to all tomorrow’s parties?” Subito sotto, c’erano delle indicazioni per quello che sembrava essere un appuntamento: un indirizzo, una data, un’ora.

 

-Mer, sei sicura di non volere compagnia?

 

Daphne sembrava piuttosto preoccupata mentre guardava fuori dal finestrino. Che non fosse abituata all’atmosfera stravagante del Village si poteva indovinare facilmente da come stringeva le labbra e teneva gli occhi sbarrati. D’altronde, anche Merope doveva avere quell’espressione in viso mentre fissava il luogo che era stato indicato sul vinile.

 

-Starò dentro solo per qualche minuto.

 

Aprì lo sportello e scese dall’auto, con gli occhi fissi sul continuo via vai di gente colorata che entrava e usciva dalla palazzina dall’aria cadente che aveva di fronte.

 

Nessuno – né sua madre né Duncan né tantomeno i suoi cugini – avrebbe mai creduto Merope capace di avvicinarsi a un luogo a lei estraneo. Era sempre così terribilmente prevedibile, in fondo. Eppure avvertiva con estrema chiarezza che il giorno prima qualcosa era riuscito a innescare un impercettibile cambiamento: forse erano stati i fugaci pensieri di una donna spontanea e vitale; forse le note intense e sanguigne della musica di quel vinile. Il risultato era che, per una volta, anche Merope voleva osare.

Si avvicinò alla palazzina e, senza voltarsi indietro, ne varcò le porte.

 

 

 

Accanto al suggestivo dipinto che da anni occupava la parete della casa di campagna,

ne era apparso uno nuovo, che non riusciva ad essere altrettanto coinvolgente:

la cornice era deliziosa, finemente cesellata e decorata.

Il soggetto, però, le faceva storcere il naso.

Era un paesaggio dai colori tenui, senza alcun elemento degno di nota che potesse catturare l’attenzione.

Lo paragonò a quello ben più antico e interessante e, quando riportò l’attenzione su di esso, vide che il paesaggio era stato macchiato da una goccia di un rosso cupo.

Un cambiamento: un chicco di melograno.




 

1920

All’apparenza, le ville dei ricchi newyorkesi non erano cambiate poi molto con la guerra, ma bastava varcare le imponenti soglie per rendersi conto dei vuoti che avevano lasciato mobili e quadri che i proprietari erano stati costretti a vendere per rimanere a galla durante il conflitto. Con quasi tutte le imprese chiuse o modificate per usi bellici e la maggior parte dei giovani al fronte, anche gli Stati Uniti avevano risentito fortemente di quella guerra oltreoceano. Certo, in quegli ultimi due anni, chi poteva si era affrettato a riportare le abitazioni all’antico splendore ma il risultato, nella maggior parte dei casi, era lo stesso ottenuto con gli abiti cuciti più e più volte: apparentemente impeccabili, ma mai perfetti.

 

Villa Core, d’altro canto, non solo sembrava non aver risentito in alcun modo della crisi, ma si era addirittura ampliata, seguendo nelle nuove ale l’architettura neoclassica della dimora originaria. La Demeter, dopotutto, era stata una delle poche società a non aver chiuso, rifornendo i civili e i militari di beni alimentari di prima necessità e i Core ne avevano guadagnato in patrimonio e influenza; lo stesso Nathanael, chiamato alla leva obbligatoria, era stato dispensato perché necessario alla guida della società.

La sala da pranzo era l’angolo più illuminato dell’intera villa, con tre muri composti di sole vetrate e un enorme tavolo ottocentesco al centro. Come tutte le mattine, la colazione era stata serviva per tre, benché difficilmente la piccola di casa avrebbe desinato con il padre e il fidanzato alle otto del mattino; quanto alla signora, la colazione le veniva servita a letto, come era in uso tra le nobildonne inglesi.

Lady Potnia aveva lo spirito pragmatico delle sue connazionali, ma in cuor suo aveva sempre agognato di appartenere all’elite inglese, così elegante e sofisticata, carica di storia e tradizioni; diversamente dalle donne Core che l’avevano preceduta, così come da sua figlia, Potnia non si sentiva totalmente americana e attingeva alle usanze inglesi ogni qual volta ne aveva l’occasione.

 

Quella mattina, comunque, due giorni dopo la festa di fidanzamento, una delle porte-finestre si aprì all’improvviso, lasciando entrare la frizzante aria primaverile… E l’odore di limone. Olivier guardò per un istante la figlia, le gote imporporate dall’aria e i capelli che le cadevano scomposti sulle spalle, poi osservò lo sguardo adorante del futuro genero; non aveva mai osservato sua moglie in quel modo, il loro matrimonio era stato deciso  dal suo defunto suocero che aveva destinato l’erede della Demeter ad uno dei migliori rampolli della società newyorkese, ricco ed istruito nelle migliori scuole della nazione. Un’unione a cui entrambi avevano acconsentito, comprendendo i benefici che ne sarebbero derivati, ma che non aveva mai contemplato l’amore, né qualcosa che vi si avvicinasse: al contrario, aveva sempre avuto la sensazione che Maia e Nathanael, al contrario, benché il loro fidanzamento fosse stato deciso da altri, ad un certo punto delle loro vite si fossero scelti, innamorandosi l’uno dell’altra.

Lo si sarebbe potuto ritenere un bene, che da un’unione programmata fosse nato l’amore, ma Olivier si era sempre chiesto se l’amore fosse davvero una benedizione, o fosse, invece, una forza devastante che ottenebrasse il giudizio umano.

Le osservò il collo e, benché non si fosse ancora totalmente abituato alla presenza della collana, notò la sua mancanza nel medesimo istante in cui, invece, il futuro genero si preoccupò di dove fosse andata a quell’ora del mattino.

Maia sorrise e rispose ad entrambi guardando il fidanzato –Ero in un posto in cui non sarebbe stato indicato indossare la collana di melograno. In soffitta.- aggiunse dopo un istante.

Nathanael era perplesso: difficilmente Maia si avventurava in luoghi della casa che non fossero i soliti indispensabili per la sopravvivenza.

 

-Sono andata a cercare gli abiti dimenticati.- spiegò con semplicità.

 

Gli abiti dimenticati, quegli istanti di vita passati, frammenti di donne Core che nei secoli avevano camminato tra quelle mura: li avevano trovati una notte, quando Maia aveva tredici anni e Nathanael stava iniziando a non considerarla più una bambina. L’aveva invitata a provarli, ma la fanciulla si era rifiutata, preferendo conservarli per un’occasione particolare.

Gli bastò uno sguardo perché Maia comprendesse la sua muta domanda.

 

-Il ritratto.

 

-Hasmal non ha ancora acconsentito.

 

-Ma lo farà.- gli rispose lei, sedendosi a tavola e servendosi il tè. –Non ho alcun dubbio.

 

Nathanael aveva sempre affermato di essersi innamorato della fidanzata in un museo italiano. Era stato durante la Santa Pasqua del 1911: i Core e Abbie avevano ritenuto Maia abbastanza grande perché il promesso sposo si decidesse a conoscerla davvero, andando oltre i rapporti strettamente convenzionali che avevano tenuto fino ad allora, considerando la giovane età di lei, così lo avevano mandato in Inghilterra per tre settimane. Il programma era semplice: un viaggio sulle orme del Grand Tour, con camere separate e la cameriera di Maia sempre presente, in veste di chaperone

 

In quei giorni Nathanael e Maia avevano avuto modo di conoscersi e di visitare posti di cui fino a quel momento avevano solo sentito parlare: attraversarono la Manica e giunsero a Calais per proseguire fino Parigi, visitando la città e la reggia di Versailles, poi scesero verso Lione e Marsiglia e finalmente arrivarono in Italia, che ammirarono da Milano fino alla Sicilia, passando ovviamente attraverso Roma e il Vaticano.

Il mondo era ai loro piedi, le porte delle case nobiliari si aprivano davanti ai due sofisticati ospiti americani e la giovane coppia si avvicinava sempre di più, città dopo città; Rafael, amante dell’arte che però da sempre aveva avuto poco tempo da dedicarle, osservava con tenerezza Maia mentre cercava di contenere l’irrequietezza: la giovane Core apprezzava gli intrattenimenti in cui il fidanzato la coinvolgeva, eppure nessun libro, opera teatrale o concerto riusciva a catturare la sua attenzione per più di un quarto d’ora. Tuttavia, conscia di quanto questi fossero invece importanti per Nathanael, si sforzava di non darlo a vedere.

Eppure, nella Pinacoteca dell'Accademia di Brera, Maia era rimasta immobile per più di mezz’ora davanti al Bacio del pittore veneziano, contemplando estasiata la sensualità dei due innamorati, il contrasto tra il colore freddo dell’abito di lei e quello caldo degli indumenti del giovane, il piede di lui poggiato sul gradino come se fosse un bacio rubato al tempo sfuggente, un istante cristallizzato che trasmetteva più amore di quanto fiumi di parole non fossero capaci di fare.

E lì Nathanael l’aveva baciata per la prima volta, con buona pace delle convenzioni e del cuore della povera cameriera. E Maia si era lasciata baciare, sentendosi a casa per la prima volta in vita sua, tra le braccia dell’uomo che sarebbe stato suo marito e quel quadro come testimone dei loro sentimenti.

 

A Roma Nathanael aveva perso il conto degli artisti che avevano implorato Maia di poterla ritrarre, ma la fanciulla si era sempre rifiutata ed aveva mantenuto quella decisione ferma fino a pochi giorni prima. Fino ad Hasmal. Sembrava che quel ritratto avesse sconvolto entrambi: Rafael sapeva che, qualsiasi cosa li legasse, era sepolto negli abissi dell’oceano, e non comprendeva se la risposta ai molti interrogativi lo spaventasse o semplicemente lo incuriosisse.

 

-Quali sono i tuoi programmi per oggi?

 

Maia si voltò verso il padre, distogliendo finalmente l’attenzione dal fidanzato.

 

-Devo recarmi all’atelier di Thompson, credo voglia propormi un abito da indossare alla prossima sfilata, poi sono attesa per un tè all’Astoria ed infine devo andare a controllare che tutto sia in ordine per la mostra sulla Settima a cui farò da madrina domani.

 

Olivier Myrthus storse il naso alla prospettiva del primo incontro, ma sapeva che i tempi erano cambiati con la guerra e che sfilare per uno tra i più importanti stilisti di New York indossando l’abito di punta non era più ritenuto sconveniente; era solo visibilità per Maia e, dunque, per tutti loro.

 

-Stasera abbiamo appuntamento a casa di Ellie, te ne ricordi?

 

Maia annuì. –Certamente. Ora scusate, ma devo andare.

 

E con la stessa rapidità con cui era arrivata se ne andò, abbandonando una tazza di tè a metà.

 

***

La soffitta era un posto della villa che, chi vi viveva da più tempo, aveva dimenticato e della cui esistenza gli ultimi arrivati non erano affatto a conoscenza.

Il tempo l’aveva resa il deposito di tutto ciò che non serviva più, di cimeli appartenenti al passato, condannati all’oblio tra quelle mura ormai rese nere dallo sporco e destinati in scatole che, di tanto in tanto, qualcuno buttava senza neppure curarsi di cosa contenessero. La finestra di legno era chiusa, ma una persiana rotta permetteva ad una lama di luce di filtrare benché non fosse sufficiente per illuminare alcunché, né per far circolare l’aria che puzzava di polvere e sporco; non vi era elettricità lì su e Maia dovette faticare, respirando con la bocca nel tentativo non soffocare, per aprire la finestra e rendere quel posto vivibile almeno per il tempo necessario ai suoi scopi.

 

Alla fine, benché bisognosa di un bagno e con la netta sensazione di avere più di una ragnatela tra i capelli, aveva trovato ciò che cercava… E qualcosa che non stava cercando, che in quel momento giaceva sul pavimento della sua camera. L’abito prescelto era splendido, ma necessitava di essere affidato a mani esperte che lo riportassero all’antica bellezza, mentre il secondo cimelio sembrava talmente antico che non sapeva decidersi se aprirlo o meno.

La curiosità alla fine ebbe la meglio e, delicatamente per paura che le pagine si sbriciolassero tra le sue mani, lo aprì, svelandone un odore così antico da sembrare irreale e una data.

 

Londra 1553.

 

Le parole, fitte ed eleganti, le ricordavano le opere di Shakespeare che Nathanael aveva insistito per farle leggere, nonostante l’incostanza di Maia; alla fine, naturalmente, aveva vinto lui, almeno per le opere più famose, nonostante le avesse interrotte e riprese almeno una decina di volte l’una. Ad ogni modo, la data e la familiarità che poteva leggere tra quelle pagine lo segnalavano decisamente come un diario.

L’autrice, perché di donna si trattava, si firmava Pleis.

 

La cameriera richiamò la sua attenzione nel bel mezzo del ballo di fidanzamento della misteriosa autrice –che fosse anche il giorno del suo compleanno aveva destato in Maia una certa inquietudine, che però si era affrettata a scacciare-, e la giovane Core raggiunse l’auto che l’attendeva all’entrata per condurla da Thompson, ma portò il diario con sé, totalmente rapita dal racconto della giovane inglese.

 

Di quella giornata, degli incontri programmati, Maia ricordava poco, mentre nella sua mente si accavallavano di continuo le parole del diario, istanti di vita appartenuti ad una fanciulla vissuta moltissimi anni prima di lei che, però, per una serie di circostanze, sentiva particolarmente vicina.

 

Chiffon, tulle, seta e organza catturarono per alcuni istanti la sua attenzione all’atelier di Thompson il quale, sulla scia della moda di cui era regina incontrastata mademoiselle Coco, aveva abbandonato i rigidi abiti dell’anteguerra per cavalcare l’onda delle linee più morbide ed essenziali, che lasciavano alla donna maggiore libertà di movimento. Abiti da sera impalpabili, senza maniche e con spalline sottilissime, arricchiti da perline e frange: le donne erano cambiate molto di più in quei pochi anni rispetto a quanto non avessero fatto in decadi e Maia voleva essere parte di quel mondo. Essere regina della moda.

Gli abiti, dopotutto, erano la maschera perfetta per quel mondo in cui l’essenziale era apparire e in cui ciascuno mostrava alla società ciò che la società desiderava osservare: Maia, di quello, ne aveva fatta un’arte.

L’incontro per il tè nell’imponente Hotel Astoria fu noioso, ma socialmente doveroso, e d’altro canto le chiacchiere vuote delle matrone non necessitavano di risposte, permettendole di pensare liberamente al diario. L’unico momento rilevante era stato l’incontro, fortunatamente evitato, con Margaret Brown; si erano incrociate all’entrata dell’hotel, mentre Maia usciva e la donna entrava attraverso le imponenti porte ruotanti. Le separava solo un vetro e la signora Brown tentò di fermare la ragazza, di parlarle: prima che riuscisse ad uscire nuovamente per strada, però, Maia era già salita sull’auto.

Fu allora che una profonda inquietudine la colse, la necessità di qualcosa che non riusciva ad identificare finché, dal lato opposto della strada, un profilo familiare la riscosse.

 

-Fred, accosta per favore.

 

L’autista assecondò il volere di Maia senza replicare e attese in silenzio ulteriori istruzioni, apparentemente senza notare i minuti che trascorsero immobili.

 

-Io scendo qui.- disse infine, -Puoi passare alla galleria e dire che, per un contrattempo, li raggiungerò direttamente domani sera?

 

-Devo passarvi a prendere più tardi?

 

Maia scosse la testa e aprì la portiera, troncando sul nascere qualsiasi replica dell’apprensivo Fred; sapeva di averlo stupito, i cambi di programma non erano assolutamente da lei, ma non se ne curò. La sua mente vagava già lontana da lì.

Se esisteva qualcosa di cui l'incostante Maia non si sarebbe mai stancata, quella era Manhattan. Perché la città era come lei, febbrile e palpitante di vita, sempre in movimento, sempre scintillante. Avrebbe trascorso volentieri la vita solo passeggiando tra quelle strade, ma soprattutto Maia adorava Central Park e era difficile immaginare perché: con quei colori e quegli istanti di vita vissuta strappati allo scorrere del tempo, era un quadro in perenne mutamento.

Si sedette su una panchina godendosi semplicemente il tepore primaverile e svuotando la mente da qualsiasi pensiero. Poi prese il diario.

 

***

Aveva sempre saputo che avrebbe accettato, sin dal primo istante, ma aveva lasciato comunque che cercasse di convincerlo e Nathanael Rafael non l’aveva deluso. L’uomo gli aveva semplicemente esposto la richiesta e l’aveva pregato di accettare.

 

-La mia fidanzata sembra essere rimasta affascinata dalla vostra arte e io non so negarle nulla.

 

Un uomo con sufficiente fiducia in sé da non temere di risultare poco virile ammettendo di essere follemente innamorato della propria donna.

 

-So che non dipingete più su commissione e non ho alcun desiderio di impormi. Se ritenete di poter accettare ve ne sarò grato, perché è sempre più difficile trovare il regalo perfetto per qualcuno che possiede tutto ciò che desideri. Auspico di poterglielo donare per le nozze.

 

Non si era abbassato a mercanteggiare né si era imposto con arroganza come spesso facevano quei ricchi che credevano di potere avere tutto. Una richiesta, pulita e onesta, nonostante non fosse una novità che Hasmal, benché non potesse definirsi povero, non poteva neppure più godere dell’opulenza passata.

 

-Fatemi sapere come posso pagarvi e riferirò al mio avvocato.

 

Quando Rafael gli aveva esposto la richiesta, Gabriel sapeva che avrebbe accettato perché era il mezzo perfetto per avere notizie del quadro. Al termine dell’incontro, però, un’altra curiosità stuzzicava il pittore: chi era Maia Core e quali qualità possedeva per aver conquistato un uomo d’onore come Nathanael Rafael?

La sua vita era perfetta e lei si limitava a prenderne atto, incurante dei dolori del resto del mondo, incurante degli orrori e dei mostri che quotidianamente perseguitavano chi non aveva alle spalle una famiglia pronta a proteggerlo sotto una campana di oro e cristalli.

La giovane Core doveva essere grata, eppure sembrava che, nella sua ottica viziata ed egoista, fosse il resto della popolazione a dover essere grato a lei perché li onorava costantemente con la sua presenza. La sua apparente perfezione provocava in lui l’insano desiderio di sporcarla, di riversare in quella candida anima tutto il dolore che la sua, spezzata e nera, portava con sé.

 

La fioraia davanti il suo appartamento lo accolse con un mezzo sorriso, troppo povera per realizzare che l’uomo che le stava davanti in attesa di un giglio era lo stesso che tutti i giorni la superava senza neppure notarla, con lo sguardo nero e maledetto.

 

***

L’appartamento di Ellie Godwin aveva l’incredibile capacità di contenere senza troppo fastidio molta più gente di quanto ad una prima occhiata sarebbe sembrato possibile, in considerazione delle ridotte misure delle stanze; non che una delle ereditiere più ricche di Manhattan non avesse altre ville e altri appartamenti dentro e fuori la città, ma quello tra Madison Avenue e la Settantanovesima strada garantiva la riservatezza necessaria a far scorrere fiumi di alcol senza essere disturbati.

 

Nathanael si chinò a baciare sulla guancia la padrona di casa, che li aveva accolti sulla porta lieta di poter finalmente parlare con qualcuno che non avrebbe trascorso la serata nel vano tentativo di entrare nelle sue grazie, chi per la scalata sociale, chi auspicando nozze che non avrebbero mai avuto luogo, e Maia glielo affidò, raggiungendo gli amici di sempre ad un tavolo da gioco.

Ad essere onesti, la piccola Core non amava giocare, il rischio non scorreva nelle sue vene e di solito si limitava ad assistere alle perdite e alle vittorie altrui, bevendo champagne e fornendo commenti sui partecipanti alla festa, rendendo il tentativo di concentrarsi dei giocatori assolutamente vano. Quella sera, però, l’irrequietezza del pomeriggio aveva lasciato il posto ad una strana euforia e, se la fanciulla avesse avuto la costanza di soffermarsi a riflettere, avrebbe compreso che le parole contenute nel diario, nonostante avessero più di trecento anni, erano così attuali che se le sarebbe potute cucire addosso e le sarebbero calzate perfettamente.

 

Una vita perfetta. Un fidanzato perfetto.

 

E un organista, un compositore del re, che era entrato nella vita di Pleis senza scalpore, semplicemente offrendole un dolce.

 

-Ho voglia di giocare stasera, cosa aspettate?

 

Maia, però, non possedeva quella caratteristica e i pensieri sfuggirono nella sua mente senza neppure avere il tempo di prendere forma e se Nathanael si stupì per la decisione della fidanzata non lo fece trasparire.

 

Dopotutto, perché avrebbe dovuto?

 

***

Il cancello di ferro si aprì con un semplice gesto secco, consentendo al visitatore di varcare la soglia ed entrare in un luogo in cui regnava incontrastata un’unica regina: la morte.

 

Il cimitero di Green-Wood, al pari di tutti i cimiteri, la notte possedeva l’inquietante capacità di sembrare affollato nonostante fosse deserto, come se tutte le anime con il calare della notte uscissero dai propri giacigli per tornare a vivere una vita a metà, spezzata e apparente.

Forse per quel motivo l’uomo amava quel luogo: la sua vita, dopotutto, non era molto diversa. Camminò attraverso le lapidi e i monumenti con la sicurezza di chi conosce quelle strade e potrebbe percorrerle anche con una benda a coprirgli gli occhi.

 

Si fermò solo una volta, davanti alla tomba in cui riposavano i resti mortali di Lola Montez, cortigiana irlandese.

 

Dov’era?

 

La risposta alla domanda che l’aveva perseguitato negli ultimi nove anni era custodita nella memoria di una fanciulla viziata ed egoista; quasi riusciva ad immaginarla mentre osservava distrattamente la donna –quella donna!- senza avere la minima idea di chi fosse e di quale storia portasse con sé.

 

Lei non sapeva, non aveva idea, nella sua vita perfetta, di quali fossero i dolori umani, le perdite e i sensi di colpa che corrodono dall’interno fino a condurre alla follia.

 

-Ma lo saprà.- sussurrò nel silenzio del cimitero, davanti a quella tomba. –Saprà cosa vuol dire perdere tutto e continuare a vivere con solo i propri mostri come costante compagnia. Lo saprà.

 

Un’ossessione. Una stessa melodia ripetuta all’infinito, le stesse identiche note ancora e ancora e ancora, lo stesso colore e la stessa pennellata fino allo stremo, fino al delirio.

 

-Sarai il mio capolavoro, Maia Core.

 

***

Quando una mano sfilò la sigaretta dal bocchino, Maia seppe immediatamente a chi apparteneva. 


-Dovresti davvero smettere di torturare così il mio adorabile bocchino d'argento, non foss'altro che perché me l'hai regalato tu.

 

Nathanael sorrise, consapevole di come in realtà la sua fidanzata fosse più divertita che infastidita: in genere Maia lasciava che le sigarette si consumassero da sole, senza essere fumate. Il bocchino per le signore era come il tagliasigari per gli uomini, una manifestazione del proprio status e della propria ricchezza, uno dei molti vezzi che la società bene di quegli Stati Uniti post guerra non si faceva mancare. Nathanael li osservava con distacco, conscio di come la sua stessa persona, avvolta in abiti sempre impeccabili ma mai abbelliti da inutili fronzoli, mostrasse al mondo chi fosse: un uomo ricco, colto, posato. Un uomo d'affari, un uomo d’onore, una persona su cui fare affidamento.

 

-Io sto tornando a casa.

 

La ragazza piegò le labbra in una smorfia vezzosa -Ti prego, solo un'altra partita. 

 

-Non voglio trascinarti via. Se uno di questi gentili cavalieri mi promette di scortarti a casa, ti affido a loro.

 

-Oh sì, vi prego!

 

Entrambi i giovani seduti al tavolo annuirono davanti a quelle ciglia lunghe che sbattevano imploranti e Natahanel provò una sincera tenerezza per loro: amici di Maia sin dalla più tenera età, ancora non si erano abituati a lei ed erano succubi del suo fascino costantemente.

 

-Allora a domani mia adorata. Ah, e prima che mi dimentichi: il pittore ti attende alle undici da lui. Fred è già stato istruito.

 

Si chinò a baciarle la guancia e si voltò per andarsene, ma lei lo fermò e gli sfiorò le labbra con le proprie.

Anche lui sarebbe stato sempre succube del suo fascino. Irrimediabilmente.

 

Forse fu l’assenza di Rafael a spingere i ragazzi ad allontanarsi da casa di Ellie: non che Nathanael avesse mai posto dei limiti ai loro divertimenti, ma istintivamente si sentivano tutti in soggezione davanti a lui che, pur avendo pressappoco la stessa età, lavorava da sempre ed era in grado, al contrario della maggior parte dei giovane newyorkesi, di assumersi le proprie responsabilità. E Maia, dopotutto, lontana dal fidanzato sembrava assumere una connotazione diversa, come se indossasse la maschera della fanciulla spensierata smettendo quella della fidanzata modello. Quella sembrava essere la notte perfetta per l’Ades.

 

***

Un imponente uomo di colore aprì loro la porta sul retro di una lavanderia, immersa nel buio e nel silenzio al punto che il suono dei tacchi delle signore sembrava risuonare più e più volte. Maia respirò a pieni polmoni l’odore di pulito e sfiorò appena gli abiti appesi a lunghe sbarre di legno, lavati e pronti ad essere recapitati al mittente; aveva sempre pensato che vi fosse un abisso tra i vestiti mai indossati e quelli che, al contrario lo erano stati, come se assorbissero parte della vita –dell’anima- dei proprietari che irrimediabilmente li mutava. Era un dettaglio impercettibile, una sensazione che lì, tra quelle mura, era più viva che mai.

 

-Maia, darling, hai intenzione di rimanere qui oppure vuoi varcare le porte dell’inferno?

 

Un trono, uno scettro e un serpente, disegnati su una porta anonima che solo qualcuno che ne conosceva l’esistenza avrebbe notato. Simboli insignificanti per la maggior parte dei visitatori della lavanderia, domestici o borghesi che non avevano il minimo sentore dell’esistenza di quel locale clandestino celato tra quelle mura.

L’Ades era l’emblema stesso di quella società post guerra che, come se avesse dimenticato il vero inferno, o forse per dimenticarlo, lo aveva sostituito con le meraviglie peccaminose che quegli Stati Uniti contraddittori avevano apparentemente vietato.

 

Li accolse la voce della cantante al ritmo sinuoso del jazz e Maia si lasciò trascinare, perduta in un'estasi di bellezza. I locali clandestini non erano una novità per lei, ma prima di allora aveva sempre avuto Nathanael al suo fianco e quella libertà la esaltava e, al tempo stesso, la faceva sentire in colpa. Eppure la vita era lì, dietro le mura di una lavanderia, con lo champagne che scorreva a fiumi e l'odore di tabacco e profumi di donna; la cantante aveva ripreso l’esibizione e la giovane Core vide i suoi amici spostarsi sulla pista da ballo, pronti a perdersi in quella notte che pareva infinita. Maia iniziò a farsi strada tra donne splendenti e uomini alla moda, godendosi le occhiate di apprezzamento e i saluti che le venivano rivolti, finché qualcosa -un istinto?- non la fece fermare e voltare verso uno dei tanti angoli bui del locale, così stridenti con la luminosità del palco. Lui era lì, attorniato da persone eppure irrimediabilmente solo, come se nessuno potesse raggiungerlo. Lui era lì e la fissava e Maia rimase immobile, mentre il battito del proprio cuore impazzito le risuonava nelle orecchie. Dopo un eterno istante di immobilità Gabriel alzò il bicchiere verso di lei, in un muto brindisi, ma qualcuno la spinse e, in quell'attimo di distrazione, lui sparì.

 

 

 

L’ abito, bianco e oro, la mostrava in tutto il suo splendore virginale,

come si addiceva ad una dama del suo calibro. L’estate del 1553 era appena iniziata e gli inglesi sembravano come sospesi, in attesa di sapere se il giovane re sarebbe sopravvissuto.

Nella freschezza dei suoi sedici anni appena compiuti, però, Jane Pleis Clinton non se ne curava.

Quella sera tutta la nobiltà inglese era riunita a celebrare il suo fidanzamento con George Hastings, conte di Huntingdon,

compresa Lady Grey, l’erede al trono, di cui era stata dama di compagnia fino a poche settimane prima.

Tutto era perfetto, tutto era come sarebbe dovuto essere, finché un giovane che non aveva mai visto prima non le aveva offerto un pasticcio dolce al melograno.

-William Fitzherbert, mia signora. Per servirla.

E il mondo intero sembrava racchiuso in quegli occhi grigi.

 

Maia osservò l’abito che aveva scelto, l’abito con cui Gabriel l’avrebbe ritratta. Bianco e oro.

E una collana di melograno.

 

La stoffa era intrisa d’acqua, il blu sembrava così scuro da sembrare nero e il corpetto le toglieva il fiato.

Il gelo le era penetrato nelle ossa e neppure la coperta che qualcuno le aveva adagiato sule spalle era servito a riscaldarla.

Ma da dove proveniva tutta quell’acqua?


 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Note delle autrici


(1) John Steinbeck

(2) Amleto, Atto II, Scena II



Le strade delle nostre protagoniste finalmente si dividono: c'è chi sale su un aereo, chi partecipa a feste clandestine e chi... Si ritrova a casa regali osceni.
Per questo capitolo abbiamo deciso di invertire l'ordine delle protagoniste e l'idea era di farlo anche in futuro, così da rendere non solo la storia più dinamica, ma anche più in armonia con l'idea che vorremmo dare del susseguirsi temporale. Se, però, questo vi causi confusione, fatelo presente!
Grazie, ancora una volta, a chi ci ha recensite, a chi ci fa sapere cosa ne pensa di questa avventura in altri luoghi e a chi ha inserito la storia tra le ricordate/seguite/preferite. Grazie davvero!




 


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Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






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Capitolo 4
*** Atto III ***


 

 

 

 

 

 

Buonasera e tanti auguri a tutte! Vi ricordate di noi? E delle nostre tre protagoniste? Visto che é passato più di un mese dall'ultimo aggiornamento, abbiamo pensato di fare un breve riassunto di quello che é successo nei precendenti capitoli alle nostre Persefone, così da raccogliere le fila del discorso. Buona lettura!

 

Dopo le insistenze della fidanzata, Nathanael commissiona a Gabriel Hasmal un ritratto di Maia raffigurata come Afrodite. Gabriel accetta l'incarico, ma né Maia né Nathanael possono immaginare cosa si celi dietro l'assenso di un uomo che ha smesso di dipingere da anni e che, il giorno prima di iniziare il lavoro, compra un giglio.


 

Durante la festa di fidanzamento con Duncan, Merope viene presentata dal cugino James a Julian Cuveé, uno scrittore assai chiacchierato nel suo ambiente. Pochi giorni dopo, riceve un pacchetto contenente il vinile dei Velvet Underground, sul quale trova l’invito a un appuntamento a cui, nonostante ogni dubbio, decide di presentarsi.


Nel corso della sua festa di fidanzamento, organizzata in occasione del suo ventiquattresimo compleanno, Taigete non si sente bene. Esce in giardino, per prendere una boccata d'aria, senza immaginarsi che quei pochi minuti stravolgeranno le sue certezze e, forse, il suo stesso futuro. Viene infatti avvicinata da Eugene Aderley, migliore amico del cugino Benjamin, che tutti credono morto. Questi le rivela che gli sono giunte voci che il giovane sia vivo e le proprone di partire alla sua ricerca. Dopo un'iniziale indecisione Tai, esortata dal fidanzato Alistair, decide di seguirlo in questa avventura.




 

Atto

3


1920


 

Se avesse temperato ancora quel carboncino probabilmente si sarebbe consumato prima di essere mai stato usato, ma il nervosismo lo attanagliava dalla notte precedente, tanto che solo mezza bottiglia di brandy era riuscito a farlo cedere se non al sonno, almeno ad un dormiveglia poco appagante.

 

Non era Maia il problema, nonostante gli piacesse illudersi fosse così: la ragazza, con i suoi privilegi e la sua collana di melograni era un territorio rassicurante in cui avventurarsi, ma se si fosse lasciato andare alla consapevolezza di cosa effettivamente lo turbasse, avrebbe permesso ai suoi mostri di allontanarsi un po’ e non sapeva se, poi, sarebbe stato in grado di sopravvivere a quella lontananza. Erano come un’ombra, sempre presenti, pronti a ricordargli che di sogni non si viveva, che la vita era cruda come il suono di un fucile. L’arte non aveva più spazio nella sua.

Solo lei lo aveva spinto ad accettare quell’incarico, il pensiero di restituirle quel quadro, in un gesto che non l’avrebbe mai ripagata di ciò che aveva perso ma, forse, avrebbe potuto alleviare il peso.

 

Maia Core era la chiave per raggiungere quello scopo.

 

Posò finalmente il carboncino e si versò l’ennesimo bicchiere alcolico, ma lo stomaco si ribellò, ricordandogli che non aveva pranzato: in perfetto tempismo e probabilmente più consapevole di lui di quali fossero i suoi bisogni, la signora Calloway entrò con un vassoio di cibo che posò sulla tavola con molto più rumore di quanto fosse necessario.

La donna, piccola e ormai più vecchia di quanto entrambi volessero ammettere, lo guardava con occhi severi, le mani poggiate sui fianchi e il piede in movimento impaziente sotto l’ampia gonna.

 

-Dovete mangiare. E sistemare questa stanza,- aggiunse guadandosi intorno, -la signorina Core non può posare in questo stato.

-Perché no?

 

La governante non si prese neppure la briga di rispondere e iniziò rassettare quanto più poteva, lasciando però i fogli da disegno lì dov’erano, accartocciati e per terra: Gabriel li avrebbe bruciati entro la fine della giornata, ma quello era un rito che spettava a lui soltanto. Le fiamme avrebbero divorato quegli scarabocchi appena accennati, quegli abbozzi di disegni che non avrebbero mai visto la luce.

 

Erano trascorsi due anni da quando il suo bambino era rientrato dal fronte e da allora tutte le mattine la signora Calloway, prima di andare a fare la spesa, si recava in chiesa e accendeva una candela di ringraziamento: Gabriel era tornato in una notte di pioggia e non aveva parlato per oltre dieci giorni, chiudendosi in casa ed escludendo il mondo; poi, poco a poco, aveva ricominciato a vivere, ma qualcosa in lui si era spezzato in modo irreparabile e non si era stupita quando lui le aveva raccontato cosa avesse fatto né si era dispiaciuta poi molto, perché quel mondo, quella società ricca e frivola, per lui era diventato nocivo.

 

La visita dell’imprenditore, del signor Rafael, l’aveva stupita, e ancor di più l’aveva scossa sapere che Gabriel sarebbe tornato a disegnare ma, forse, che il soggetto fosse Maia Core sarebbe stato un bene: entrambi erano due sopravvissuti. Entrambi erano bambole rotte che nessuno, nonostante l’apparente perfezione, sarebbe mai riuscito ad aggiustare.

 

***

 

Gli uffici della Demeter erano il suo angolo di mondo, l’unico luogo che avesse mai chiamato casa sin da quanto non era che una bambina: i suoi genitori avevano tentato di farle comprendere che sale da thè e ville eleganti erano un luogo più consono ad una rampolla dell’alta società, ma si erano dovuti arrendere in fretta davanti all’evidente predisposizione della giovane figlia per quella che, in fondo, un giorno sarebbe divenuto il suo impero.

 

Potnia Core aveva votato la propria vita, anima e corpo, all’azienda di famiglia, incurante di qualsiasi chiacchiera e con un carattere forte e intimidatorio quanto bastava perché, dopo le iniziali perplessità, New York accettasse quella donna che lavorava come un uomo.

 

Quelle stanze parlavano di lei più di quanto qualsiasi villa di famiglia avrebbe mai potuto fare, con l’arredamento elegante e il profumo di gladioli a saturare l’aria: due comodi divani con stampe a fiori formavano una L davanti al camino, con un tavolo risalente al 1700 tra di loro; candelabri d’argento e specchi illuminavano l’atmosfera, ma l’intera stanza era dominata dalla scrivania in mogano su cui la donna lavorava.

 

Sul camino, due foto facevano bella mostra di sé e la vedevano neo sposa in una e madre felice la seconda: due dettagli, nel più ampio disegno della sua esistenza, che aveva plasmato e costruito a proprio piacimento.

 Olivier era stata la scelta di suo padre e, alla fine, si era rivelata più buona di quanto si fosse aspettata. Se Parigi valeva bene una messa, una moglie che non si sarebbe fatta da parte era un prezzo accettabile per entrare a far parte di una delle più potenti famiglie d’America, e così Olivier Mirthus aveva accettato di buon grado di dividere il controllo della società con l’erede dei Core.

 

Quanto a Maia, Potnia non aveva mai avuto un istinto materno molto spiccato: dicevano che una maledizione gravasse sulla sua famiglia, ma lei aveva fin troppo senso pratico per prestare ascolto alle dicerie popolari e quando il figlio che aveva portato in grembo si era rivelato l’ennesima femmina di famiglia, la donna aveva rifiutato di accanirsi come i suoi predecessori nella disperata e inutile ricerca del maschio, con l’unico risultato di dare i natali a fin troppe figlie, ed era tornata a dirigere la società consapevole che, un giorno, avrebbero trovato il marito adatto per Maia.

 

La figlia era diversa da lei, non si era mai mostrata interessata all’impresa familiare, preferendo la vita mondana e sociale ai doveri d’ufficio, ma se il destino non le aveva donato un figlio maschio, aveva fatto sì, però, che Nathanael Rafael incrociasse la loro strada: lei e Olivier l’avevano cresciuto come loro erede e tale era diventato, perfetto complemento della loro giovane e vanesia figlia, perché laddove l’uno si sarebbe occupato di mandare avanti la società, l’altra si sarebbe occupata dell’immagine pubblica della Demeter.


-Signora Core, sua figlia è qui.

 

Martha, la segretaria, non si era mai rassegnata a chiamarla signora Myrthus, limitandosi a sostituire il signorina dopo il matrimonio e, come lei, quasi tutti i dipendenti della Demeter; Potnia ne era lieta, perché non avrebbe mai voluto rinunciare al proprio nome.

 

-Falla entrare e portaci del thè, per favore.

 

Era sempre strano vedere sua figlia lì, ma quel giorno l’aveva esplicitamente convocata e la stava attendendo. Maia entrò distribuendo sorrisi a chiunque incontrasse e tutti, come al solito, la guardavano ammirati, perché non importava quanto poco lei si curasse della società per renderla comunque la più amata tra tutti i Core.

 

Il ricordo di quel profumo di limone li avrebbe perseguitati per giorni.

 

-Madre, buongiorno.

 

Non la baciò, consapevole di quanto la madre fosse poco incline alle effusioni, e si accomodò su un divano, in attesa della lista di istruzioni e rimproveri che era certa sarebbe arrivata.

 

Al suo collo brillava la collana di melograno e Potnia non riuscì ad ignorare la fitta di gelosia nel vederla addosso ad un’altra persona, poco importava che fosse sua figlia e che avesse sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato: quella era la sua collana, lo sarebbe sempre stata.

 

-Tua nonna reclama la tua presenza al thè con la Società delle Rose Rosse domani pomeriggio: deve raccogliere fondi per finanziare la costruzione di un ospedale femminile non so dove,- aggiunse con un gesto noncurante della mano, restia come sempre a seguire le vicende sociali della suocera, - E vuole tutte le nipoti attorno a sé.

 

Maia annuì, felice di poter rivedere Nadia Myrthus, che era sempre stata la sua nonna preferita: americana fin nel midollo e fiera di esserlo, la donna aveva partecipato attivamente alla vita sociale e politica del paese, soprattutto per quanto riguardava l’emancipazione femminile, e non aveva lesinato il proprio aiuto durante la guerra, rendendo la propria casa, con grande costernazione di Potnia, un rifugio per le vedove di guerra. Apprezzava poco la nuora e il figlio, ma adorava la sua Maia.

Difficilmente avrebbe potuto immaginare una donna più diversa dalla nonna Core, che aveva trascorso i suoi settantanove anni di vita rintanata in casa a causa di continue emicranie e crisi di nervi: le tre gravidanze avevano provato la sua già debole salute e si era spenta senza troppo clamore quando Maia aveva undici anni. La ricordava appena.

 

-Stasera ricordati che siamo invitati da quegli orribili Rivera e fra due giorni sarà il compleanno della signora Rafael,- continuò sfogliando l’agenda, -Vuoi pensare tu al regalo o incarico qualcun altro?

 

-Ci penso io,- rispose facendo sentire per la prima volta la sua voce, per poi rimanere in attesa di quello che sapeva essere il punto più importante della lista materna, benché ovviamente si sarebbe impegnata a non farlo apparire tale.

 

-Vorrei sapere perché hai dovuto scegliere proprio Hasmal. Non è opportuno, è un ostracizzato, nessuno vuole avere a che fare con lui.

 

-Nessuno tranne me, allora. Mi piacciono i suoi lavori, mi piace la sua arte. Nathanael è d’accordo.

 

Potnia alzò un sopracciglio, evitando di farle notare che il fidanzato difficilmente non avrebbe assecondato i suoi capricci.

 

-Non approvo, ma se proprio non puoi evitarlo…

 

Maia non rispose, consapevole di aver vinto: sua madre stava solo lamentandosi, odiando che la figlia avesse preso l’ennesima decisione senza consultarla, ma non le avrebbe imposto alcunché. Si alzò e la salutò con un sorriso, ma l’attenzione di Potnia era già stata assorbita dal lavoro e non la udì neppure uscire.

 

***

 

Afrodite.

 

Pretenzioso.

 

Gabriel non poteva negare la bellezza di Maia, ma trovava farsi raffigurare come la dea della bellezza leggermente di cattivo gusto, ma dopotutto quelle giovani ricche erano abituate ad avere qualsiasi cosa desiderassero.

 

Arrivò in leggero ma prevedibile ritardo, con un libro antico tra le mani che sembrava starle molto a cuore; salutò con affetto la signora Calloway, benché la vedesse per la prima volta, e poi si rivolse a lui, affatto intimorita dai suoi modi bruschi.

 

-Sono così felice che abbiate accettato: adoro le vostre opere, non saprei neppure trovare le parole per descrivere quanta gioia mi trasmettano.

 

Commenti vuoti, frivoli, che Gabriel aveva udito centinaia di volte prima della guerra.

 

-Oggi farò solo alcuni schizzi, signorina Core, e da domani inizierò il ritratto.

 

Il sorriso di lei si incrinò appena, davanti a quello scarso entusiasmo, ma si riprese immediatamente.

 

-Va bene, dove volete che mi metta?

 

-Alla luce, lì, vicino alla finestra. Di profilo per favore.

 

Maia lo assecondò subito e Gabriel si ritrovò davanti a quel foglio bianco, in attesa di essere riempito, che lo terrorizzava. Giacché lei non avrebbe potuto vederlo, finse semplicemente di disegnare qualcosa, sperando che la loquacità della ragazza lo portasse, alla fine, a scoprire la verità sul quadro.

 

L’aveva lasciata parlare di arte, delle mostre che aveva curato e degli artisti di cui era stata madrina, ma mai un accenno all’unica opera di Hasmal che avesse visto, l’unico quadro di cui lui si curasse.

 

-Sembra antico quel libro,- commentò dopo un po’.

 

-Lo è, risale al 1500 ed è il diario di una mia antenata.

 

Donne e diari, un connubio che nessun uomo avrebbe mai compreso.

 

-E cosa racconta?

 

 Non che lo interessasse davvero, ma aveva bisogno di farla sentire a proprio agio.

 

-Si è appena fidanzata, deve sposarsi, ma ha incontrato un altro uomo che le piace molto.

 

Vicende amorose e banali, ma dopotutto se era davvero un’antenata dei Core, perché la cosa avrebbe dovuto stupirlo?

 

-E si trovano in America?

 

-Oh no, a Londra. Sembra che lei sia preoccupata per alcune questioni religiose, per una certa principessa Maria.

 

Liquidò la politica con un gesto della mano, più interessata alle avventure sentimentali, e Gabriel poté solo intuire che, data l’epoca, la principessa in questione era la tristemente famosa Maria la Sanguinaria; probabilmente suo padre o il fratello, entrambi protestanti, dipendeva da quale fosse esattamente l’anno in cui si trovavano, stava per morire e stava emergendo la questione spinosa della successione al trono.[1]

 

Non che importasse, comunque.

 

-Anche voi siete fidanzata da poco. Quando vi sposerete?

 

-Il prossimo 31 dicembre. Non lo trovate romantico?

 

Senza staccare lo sguardo dal foglio, Gabriel evitò dar voce ai suoi pensieri, ripiegando su una domanda più neutra.

 

-E poi?

 

-E poi?

 

La perplessità nella voce di Maia lo costrinse ad alzare lo sguardo. -Sì... e poi. Cambierà qualcosa, no?

 

-Certamente!- gli rispose sorridente, -Sarò una donna maritata, potrò entrare in locali che ora mi sono preclusi, ricevere e fare visite senza uno chaperone, indossare colori che non siano bianco e toni pastello, che mi sbattono tremendamente...

 

Eppure, rifletté Gabriel, il bianco, con il suo candore ingenuo, era il colore che più le si adattava.

 

-Essere maritata conta così tanto per voi?

 

Maia rifletté un istante, prima di rispondere. –Non sarò più solo la figlia dei miei genitori, ma diventerò soprattutto la moglie di Nathanael. È un grande cambiamento per me.

 

-E Maia? Esiste, oltre alla signorina Core o alla signora Rafael?

 

La domanda era sorta spontanea, prima di poter riflettere davvero su quale pensiero avesse formulato. Perché lo interessava? Perché lo sorprendeva? Conosceva bene la vita di quelle donne ricche ed era perfettamente conscio di come non fossero altro che un’appendice degli uomini, prima il padre e poi il marito. Singolarmente, loro semplicemente non esistevano. Eppure quella che a primo impatto gli era sembrata solo una bambina viziata aveva mostrato una sensibilità artistica rara e lo deludeva il pensiero che, alla fine, fosse esattamente come le altre.

 

-Certo che esiste. Si possono essere tante cose, nella vita, signor Hasmal, interpretare molti ruoli.

 

-Non si è veramente se stessi finché non si sceglie quale ruolo interpretare, signorina Core, e finora le maschere che avete portato o porterete sono state scelte da altri: siete stata una figlia modello, sposerete un uomo scelto da altri e magari continuerete a vivere nella casa di famiglia.

 

-Certo che vivremo nella dimora dei Core, come adesso. 

 

Il tono, da deciso che era stato, si era incrinato, divenendo quasi petulante. Un copione imparato male, un vestito troppo stretto.

 

-Molto intimo...

 

Era stato solo un borbottio, ma nel silenzio dell'appartamento Maia lo udì perfettamente.

 

-Non trovo opportuno conversare con un estraneo circa la mia vita coniugale, signor Hasmal. Potremo parlare del tempo,- aggiunse, improvvisamente gelida,- oppure tacere.

 

Le avrebbe lasciato credere di avere l'ultima parola, dopotutto aveva raggiunto il proprio scopo: conoscere Maia Core, scoprire le sue debolezze. Non dubitava che quelle parole avessero attecchito nella sua mente, per quanto frivola e superficiale fosse.

 

Dopo un’ora e senza che il carboncino avesse effettivamente toccato la tela, Gabriel riprese la parola; se lei si fosse chiusa in se stessa non sarebbe mai riuscito a scoprire l’ubicazione del quadro e non avrebbe sopportato un altro fallimento. Non mentre il ricordo di quella notte maledetta ancora lo ossessionava fino a togliergli il sonno.

 

-Il signor Rafael mi ha detto che desiderate essere ritratta come Afrodite.

 

-Esattamente,- rispose, di nuovo sorridente.

 

-La nascita dalla spuma del mare potrebbe essere un’idea adatta?

 

Non comprese le ragioni del turbamento, ma lo colse immediatamente in quegli occhi chiari e sempre limpidi che, in quel momento, si erano velati di un’ombra cupa e dolorosa. Gabriel era un artista, un osservatore per indole e natura. E Gabriel conosceva il dolore.

 

-Preferirei di no. Un paesaggio bucolico credo sia adatto.

 

Tentava di sorridere serena, eppure quella proposta l’aveva scossa. Il pittore aveva creduto che solo un taglio di capelli fatto male o un vestito troppo stretto potessero turbarla, ma quell’ombra nei suoi occhi cantava un dolore diverso. Più antico.

Familiare.

 

-Non volevo turbarvi.

 

-Affatto. Cosa ve lo fa pensare?

 

Era tornata ad essere frivola e superficiale, ad indossare la maschera di perfezione, ma quell’attimo era bastato perché lui scorgesse qualcosa che, forse, lo aveva scosso più di quanto non avesse scosso lei.

 

-Io per oggi ho finito,- commentò dopo un istante, nascondendo i fogli bianchi. –Vi aspetto domattina.

 

-Certamente. Grazie ancora per aver accettato.

 

Gabriel annuì appena, poi prese il giglio e gliene fece dono.

 

Quella purezza, quella perfezione. Far crollare quella maschera sarebbe stato il suo unico scopo.

 

Chi sei, Maia Core?

 

***

 

Tutto era stato decorato di bianco e rosso, nella villa dei Rivera. Di origine spagnola, ma trapiantati negli Stati Uniti da ormai tre generazioni, i Rivera possedevano dodici ristoranti di lusso, di cui cinque nella sola New York, e da tempo la R bianca in campo rosso, accompagnata dai frutti del corbezzolo, rappresentava una certezza per chiunque desiderasse organizzare eventi o, semplicemente, andare a cena e mangiare prelibatezze servite in un luogo raffinato ed elegante.

 

Certo, che tutto fosse di quei due colori persino nella villa aveva destato alcune perplessità negli invitati.

 

Maia non aveva mai frequentato molto i Rivera, ma dopotutto la figlia femmina, Aurelia Maria, era una creatura di sedici anni intimorita che viveva all’ombra del fratello maggiore, con i vestiti castigati di moda decadi prima e priva di qualsiasi hobby o pensiero personale.

 

Antonio, invece, era un vanesio dongiovanni, cresciuto nella certezza che tutto gli fosse dovuto solo in quanto erede dell’impero Rivera e non aveva mai lavorato in vita sua. Lui e Nathanael, così diversi, benché di estrazione pressoché simile, si sopportavano appena.

 

Quella sera i nomi più in vista di New York e alcuni membri dell’Ambasciata spagnola erano invitati a festeggiare il suo matrimonio con l’ennesima bambola dell’alta società che gli uomini Rivera avrebbero potuto manovrare a proprio piacimento.

 

D’altronde, quelle nozze erano il trionfo della signora Myers, moglie di un commerciante di stoffe di Boston e amante di Antonio Rivera senior da oltre dieci anni, con buona pace della signora Ruth, che sopportava stoicamente il tradimento pubblico del marito rifugiandosi nell’organizzazione di associazioni benefiche.

 

Maia non comprendeva quei rapporti: era cresciuta circondata da donne forti, come sua nonna Nadia o Abbie, e soprattutto come sua madre che, nonostante le diversità, le aveva sempre insegnato come farsi rispettare, soprattutto dagli uomini. Olivier rispettava Potnia e Nathanael rispettava Maia. Quell’America non era l’Inghilterra vittoriana e le donne, nonostante le disparità, erano forti e determinate, con un ruolo nella società che non era di mero abbellimento: come la signora Rivera sopportasse la presenza di un’amante ufficiale era al di là della comprensione di molti.

 

Nessuno degli invitati era davvero felice di essere lì, ma nessuno sarebbe potuto mancare senza causare un’offesa che li avrebbe privati delle delizie dei ristoranti Rivera, ragion per cui i centocinquanta invitati avevano indossato la solita maschera di elegante cortesia e si erano complimentati per il fidanzamento.

 

Mike Core detestava l’idea di essere stato incastrato a presenziare, benché gli fosse toccata in sorte una dama migliore di quella che si sarebbe potuto aspettare.

 

-Seriamente, bimba, mi ricordi perché mi sono lasciato convincere?

 

Maia sorrise al ragazzo che, con loro cugino George Ward, la stava scortando alla festa: con Nathanael trattenuto in ufficio, a loro era toccato il compito di scortare la prediletta di casa.

 

-Non avevi scelta, mio caro, e poi non avresti mai potuto abbandonarmi.

 

-Vi penserò mentre, tra un’ora, sarò su un taxi diretto dalla mia adorabile mogliettina bisognosa di cure.

 

Mike fulminò George con lo sguardo.-Onestamente, cugino, considerando lo stuolo di governanti che avete assunto non vedo come tu possa essere d’aiuto.

 

La signora Ward proveniva da una ricca famiglia di banchieri bostoniani: aveva incontrato George ad Harvard, dove l’uno stava studiando medicina e l’altra archeologia e si erano innamorati immediatamente. La madre di George aveva provato in ogni modo a distogliere il figlio, non ritenendola di famiglia abbastanza elevata, ma aveva miseramente fallito; si erano sposati il maggio precedente e lei aspettava un bambino.

 

-Sposati e metti incinta tua moglie, Mike, e anche tu avrai le scuse adatte a fuggire.

 

-Siete tremendi, tutti e due! Georgie, credi che tua moglie sia interessata a presenziare con me ad un evento organizzato da mia nonna?

 

Il giovane scoppiò a ridere, ma si zittì immediatamente quando alcuni Rivera lo guardarono indispettiti. –Credo di sì, tesoro, sai che tutti adoriamo Nadia almeno quanto Abbie. A essere onesto, credo che la famiglia migliore la sorte l’abbia destinata a te.

 

-Sì, se si escludono le Core,- rispose Maia, e i cugini le fecero immediatamente eco. Le loro madri non erano donne facili con cui trattare, ma nonostante tutto loro cugini erano sempre stati molto legati, forse proprio perché cresciuti nell’esasperata decantata importanza del loro lignaggio.

 

Quella sera, però, quella frase assumeva sulle labbra della ragazza un sapore diverso; per tutta la vita non si era mai interrogata sulla sua vita, prendendone semplicemente atto. La sua famiglia si aspettava che fosse educata ed elegante e che si dedicasse alle frivole attività femminili e lei aveva sempre soddisfatto le aspettative, concedendosi solo la scelta delle attività di beneficienza di cui occuparsi e diventando una novella mecenate per molti artisti.

 

Le parole di Gabriel, però, avevano instillato in lei il tarlo del dubbio.

 

Non si è veramente se stessi finché non si sceglie quale ruolo interpretare.


Sciocchezze. Maia sapeva perfettamente chi fosse: l’erede dei Core, la fidanzata di Nathanael.

 

Eppure, non aveva avuto il coraggio di dirlo al pittore, limitandosi a tacere indispettita, non tanto per le domande in sé, quanto per l’imbarazzo che esse le avevano causato: tutte le sue qualità includevano una relazione con qualcun altro, ma fino a quel momento non l’aveva davvero capito.

 

-Voglio ballare.

 

Molte coppie avevano raggiunto i neo-sposi al centro della pista, mentre la maggior parte delle persone si erano avvicinate, seppur con qualche perplessità, a quel barbaro buffet in piedi, che aveva sostituito la cena. Un ricevimento non convenzionale, ma dopotutto persino la cerimonia, cattolica e con pochissimi invitati, lo era stata.

 

Maia non voleva lasciare che la propria mente indugiasse su quei pensieri: la danza, la musica nelle orecchie e nel cuore l’avrebbe distratta e l’avrebbe fatta sentire protetta, come sempre era stato.

 

Forse era un dono di famiglia, perché anche la sua antenata, la sua Pleis, amava danzare.

 

George sciolse il suo braccio da quello della cugina e lasciò che Mike la portasse a ballare, ammirandola luminosa e splendida come sempre era stata: la più preziosa e la più fragile tra di loro, che avevano quasi perso e che, da allora, custodivano con ancora maggiore cura.

 

Maia, con la sua fresca ingenuità, era colei che li teneva uniti, perché era impossibile non adorarla e perché la sua serenità era da sempre la missione di tutti loro.

 

***

La serata, considerando i presupposti, sarebbe potuta essere peggiore, ed invece si era rivelata la cura migliore per scrollarle di dosso l’inquietudine che l’incontro con il pittore le aveva lasciato.

 

A Gabriel Hasmal lei non piaceva.

 

Era una verità che l’aveva sconvolta, perché nessuno, prima di allora, era rimasto insensibile al suo fascino: il pittore non solo la disprezzava, ma non aveva tentato in alcun modo di celarlo.

 

Si era spogliata e, con la sola veste da notte, i piedi scalzi e due diari tra le mani –il proprio e quello di Pleis- si era rintanata nel suo salottino, circondata dai suoi quadri preferiti, che aveva collezionato con amore in quegli anni.

 

Non era solo, pensò con stizza, la figlia o la fidanzata di qualcuno: aveva fatto qualcosa nella sua vita, qualcosa di bello e proprio lui, tra tutti, avrebbe dovuto comprenderlo. Prese il fiore tra le mani, quel regalo inaspettato e così contrastante con il suo atteggiamento, poi iniziò a scrivere il proprio diario e, al contempo, la sua mente formulò una decisione che, benché non lo comprendesse, avrebbe cambiato il corso della sua esistenza.

 

Se solo si fosse soffermata a pensare, se solo avesse compreso come le vicende si somigliassero… Era così innamorata di Nathanael da liquidare la storia di Pleis come una romantica avventura d’amore: l’artista bello e seducente che faceva evadere l’eroina dalla propria realtà rendeva quel diario quasi un romanzo, una storia narrata da qualcuno ma non realmente accaduta.

Ma Pleis Clinton era vissuta, e con lei William Fitzherbert  e George Hastings, in un triangolo che l’avrebbe dovuta portare ad interrogarsi sulla sua vita.

 

Non era da Maia, però. Non concentrarsi troppo a lungo su qualcosa. Porsi domande.

 

Scegliere.

 

Per lei, tutto era un atto dovuto, il flusso naturale della sua vita, senza imprevisti né distrazioni.

 

Gabriel Hasmal era solo un piccolo fastidio e Gabriel Hasmal, alla fine, l’avrebbe apprezzata e le avrebbe chiesto di uscire.

 

-Un giglio?

 

La voce profonda di Nathanael alle sue spalle la fece sussultare, ma non impiegò che un istante per nascondere il turbamento e sfoggiare il più dolce dei sorrisi.

 

-L'ho trovato già qui.

 

La menzogna le sfuggì dalle labbra prima che potesse fermarla e senza che riuscisse a spiegarsene il motivo: non aveva mai mentito a Nathanael, non ve ne era mai stata ragione. E non vi era neppure in quella circostanza, eppure la provenienza di quel fiore era qualcosa che non era pronta a condividere. Era solo una sciocchezza in fondo. Solo un fiore.

 

Se Nathanael si accorse di qualcosa, non lo mostrò.

 

Il ragazzo le si sedette accanto e la abbracciò, godendosi finalmente la quiete della casa e la compagnia della sua fidanzata.

-Nat?- lo chiamò dopo alcuni istanti, dando voce ad un tarlo che non la abbandonava da ore.

 

-Dimmi, mia adorata.

 

Maia tentennò, timorosa di dar davvero voce a quei pensieri, ma Nathanael se ne accorse e la incitò a continuare.

 

-Non ti piacerebbe trasferirti, dopo il matrimonio? Avere una casa tutta nostra?


Se gli avesse detto che voleva attraversare nuda la Quinta Strada probabilmente non avrebbe generato il medesimo stupore.

 

-Questa è casa nostra.

 

Le labbra di Maia si piegarono nel sorriso di circostanza che le era stato insegnato sin da bambina, la maschera di frivolezza che odiava indossare proprio con lui.

 

-Hai ragione, era solo un pensiero sciocco. Ti sei perso la fiera del cattivo gusto stasera. Dovevi vedere il cappellino della Myers… Quella donna è orribile.

 

 

Tutti i presenti la stavano osservando, ma non se ne curava. Tra le sue braccia, Pleis era felice.

Solo lui la chiamava così, preferendo quello strano secondo nome al più banale Jane, ma, dopotutto, nulla in William Fitzherbert era convenzionale, neppure la sua stessa esistenza, generata da una relazione clandestina. Un figlio non voluto, dimenticato dal proprio nobile padre, ma la sua arte, la sua musica, l’aveva reso un prediletto di re Enrico prima, e del giovane Edoardo in seguito.

-Comporrò una ballata per te. Un omaggio alla tua bellezza.

Pleis rise, nascondendo il volto nell’incavo del collo del marchese.

-Scandalizzerai l’Inghilterra!

-Non lo farò, se non lo vorrai.

Suo padre l’aveva minacciata. George Hastings l’aveva implorata di rinsavire.

Cinque settimane di follia e la giovane non era mai stata così felice.

 -Certo che lo voglio.- sussurrò. –Io voglio tutto.

Cosa sarebbe successo se si fosse presentata pubblicamente con Gabriel? Un parìa. Un uomo che nessuno voleva avere al proprio fianco. New York sarebbe rimasta sconvolta oppure a lei tutto era permesso, persino lui?

 Molly Brown sorrideva apertamente e batteva i piedi al ritmo della musica, mentre le matrone si fingevano sconvolte e le fanciulle la guardavano ammirata. Maia si era intestardita ad insegnare la danza ai camerieri, su invito divertito di Mr. Millet. E la giovane Core da tempo non rideva così tanto.

 



1969

 

La prima sensazione che la assalì fu un caldo asfissiante. Era stata una giornata appena un po’ tiepida, quella. Eppure, dentro quel salone affollato si soffocava. Nessuno aveva avuto l’accortezza di aprire le finestre che davano sulla strada né d’altronde nessuno dava segno di quell’insofferenza che aveva subito colto Merope, quando quell’aria pesante le si era appiccicata addosso e si era vista circondata da volti sfatti, pronti a sciogliersi da un momento all’altro: alcuni sorridevano solitari per una battuta che solo loro conoscevano, altri se ne stavano con gli occhi e la bocca socchiusi, in cerca di qualcosa che Merope non riusciva proprio a capire.

 

Forse ad essere soffocante non era il caldo, ma la sfacciata presenza di tutti quei corpi sconosciuti: c’erano gambe lasciate scoperte da minigonne imbarazzanti, seni che se ne stavano esposti dietro maglie trasparenti, petti maschili vestiti di ridicoli gilet.

Merope era una newyorkese e, come tale, si era sempre considerata una ragazza di mentalità aperta, al passo con una cultura in continua evoluzione. Ma quella volta dovette davvero costringersi a non tornare di corsa all’auto che la stava aspettando in strada.

Nonostante tutto, era sicura che la sua presenza lì non era frutto di un errore. La musica che aveva ascoltato la sera prima le aveva raccontato proprio di quel mondo che adesso avrebbe potuto toccare soltanto allungando una mano o fermandosi a parlare con uno di quelli che Duncan avrebbe etichettato hippie.

 

Guardandosi intorno, pensò che l’apparenza suggeriva che quel mondo fosse ricco di colori vivaci, un’esplosione cromatica che la invitava a buttarsi nella mischia, ad abbandonarsi alla musica assordante e alla folla chiassosa che si muoveva fuori tempo o – forse –  al tempo di una musica libera che risuonava dentro ciascuno. Ma quella era solo una patina per sprovveduti e, benché Merope non ne avesse mai avuto esperienza, riusciva comunque a capire con estrema chiarezza che quella miscela di colori nascondeva in sé degli squarci in bianco e nero, immagini tetre che tutti intorno a lei si ostinavano a ignorare: una giovane stava distesa a terra, incosciente; una coppia piena di tic nervosi fermava chiunque per chiedere qualcosa che diventava sempre più indispensabile; un uomo guardava la sua donna tra le braccia di un altro, e un altro ancora.

 

Doveva andarsene da quel posto, pensò per l’ennesima volta.

 

Poi però notò alcune persone dirigersi verso un’altra stanza e, dimentica degli squarci in bianco e nero, finì con il seguirle attraverso corridoi, scale e porte socchiuse.

 

Fu il silenzio di una piccola folla seduta per terra ad accoglierla, stavolta.

 

Al centro, su una sedia dall’aria scomoda, un uomo leggeva poesie.

 

Passarono alcuni instanti, prima che in quello sconosciuto riconoscesse la figura enigmatica di Julian Cuveé. La prima volta che lo aveva visto era vestito da sera, elegante, sebbene con qualche segno di ribellione che poteva essere scambiato per un semplice vezzo di stile. Stavolta, il poeta era nel suo regno e il suo aspetto non avrebbe potuto essere più significativo: era vestito interamente di nero – giacca, maglione a collo alto, pantaloni –; altrettanto scuri erano i capelli scompigliati, dove le dita sottili andavano a posarsi sempre più ossessivamente. In contrasto, la pelle del viso e delle mani appariva diafana, di quel biancore insano di chi non vede mai la luce del sole.

Era uno squarcio in bianco e nero… non fosse stato per quelle labbra rosse rosse da cui fluivano le parole che stavano ammaliando tutti i presenti.

 

Merope si rese conto che in realtà Julian non stava leggendo affatto il libro che teneva in mano: aveva gli occhi chiusi, profonde rughe di concentrazione gli segnavano la fronte e, un momento prima di iniziare ciascuna poesia, la mascella gli si irrigidiva e la bocca si tendeva in una linea severa.

 

Fu la voce, ancora prima che le parole, a rapire Merope e a condurla in un mondo fatto di bianco e nero: era una voce bassa, di chi è poco avvezzo a usarla. Eppure le parole risuonavano per la stanza con estrema chiarezza. Era una voce aspra, a tratti amara, di chi non ha mai sperimentato alcuna tenerezza in vita sua. Eppure, quando il silenzio si allungava indisturbato tra una parola e l’altra, era dolce la malinconia che attraversava la stanza e arrivava a Merope.

 

Poi furono le parole.

 

Un uomo accanto a lei le spiegò che non era mai accaduto prima: Cuveé aveva accettato di recitare le sue poesie secondo un preciso ordine che fino a quel momento era stato chiaro solo a lui. Ne era venuto fuori un racconto mitologico, dolorosa metafora della contestazione giovanile in atto.

 

Julian –Merope non seppe dire quando nella sua mente aveva iniziato a chiamarlo per nome – stava raccontando di una sanguinosa lotta tra le divinità, creature immutabili nella loro immortalità, e gli uomini, esseri fatti di pura passione. Vero protagonista della storia era Ade che, confinato nell’Averno, era costretto a non prendere parte al conflitto se non come impotente osservatore: uno dietro l’altro, i suoi fratelli e le sue sorelle cadevano, portandosi dietro centinaia e centinaia di nemici.

 

Ma Ade era fatto di morte e non riusciva a commuoversi né per gli uni né per gli altri.

 

Finché un giorno, unica tra tutte le divinità, la figlia di Demetra fece un gesto folle: scese sulla Terra, condannandosi a un’esistenza nell’Averno.

 

***

 

Julian chiuse il libro scritto da suo padre, il suo unico talismano.

 

La raccolta di poesie si concludeva lì, senza che Persefone facesse la sua comparsa se non nei pensieri di Ade. Così era stato per molto tempo, visto che fino a qualche settimana prima non aveva mai saputo che volto e spirito avesse la sua Persefone, l’unica donna in grado di dare una svolta alla sua raccolta e all’apatica esistenza del suo Ade.

 

Qualche idiota avrebbe pensato a una presenza salvifica. Non era così: Persefone avrebbe costretto Ade a scrollarsi l’indifferenza di dosso e a fare un passo. Se verso la vita o verso la morte, Julian non era ancora in grado di stabilirlo.

 

Adesso, la sua Persefone in carne e ossa si stava facendo largo tra la gente che lo aveva accerchiato. Impeccabile come la prima volta che l’aveva vista, chiedeva “permesso” come se fosse a una festa della sua famiglia. Era adorabile, nel suo vestito elegantemente fuori posto e nelle occhiate infastidite con cui accoglieva ogni spintone.

 

- Mr Cuveé, lei mi deve delle spiegazioni,- gli disse appena fu abbastanza vicina.

 

Lui allungò la mano e, trovato il polso ingioiellato, l’aiutò a superare le ultime persone e ad avvicinarsi ulteriormente.

 

-Miss Core, tutti qui starnazzano felici perché finalmente ho spiegato l’inspiegabile e lei non è ancora paga?

 

Si guadagnò un’occhiata spazientita, che gli rese chiaro che, lontana dall’opprimente presenza della madre e del fidanzato, Merope Core sapeva essere qualcosa di più di quella creatura spaurita e impacciata che aveva conosciuto qualche sera prima.

 

-Sa fin troppo bene a cosa mi riferisco: quella musica era a dir poco di cattivo gusto, per non parlare poi di quest’invito… Del tutto fuori luogo.

 

Disturbato dal chiacchiericcio della gente intorno a loro, le mise una mano su una spalla e la guidò in un angolo più isolato, ignorando saluti e cenni che gli venivano rivolti da più parti.

 

Quando tornò a guardarla, finse un’espressione contrita: -Ha ragione. È stato inopportuno da parte mia e senza dubbio le devo le mie scuse.

 

Lei per un attimo ci credette e apparve soddisfatta, e fu proprio in quel momento che lui aggiunse a bassa voce: -Anche se…

 

Lo guardò di nuovo sospettosa: -Anche se?

 

Julian sorrise, mentre si guardava intorno: -Ti ho vista poco fa… Te ne stavi laggiù, con gli occhi sgranati, così innocenti da non riuscire a nascondere questa scintilla che ti si è accesa dentro.

 

-Di cosa sta parlando?!

 

-Non fartene una colpa, su…- aggiunse vedendola smarrita,- Le parole di Lou Reed sono fatte così, ti si appiccicano addosso. Per non parlare poi della voce di Nico… quella sarebbe in grado di sciogliere anche il corpo più gelido e non credo che questo sia il tuo caso. E questo posto?- le domandò con un cenno alla stanza,  -È tutto nuovo per te, vero? La musica assordante, l’alcol, l’eroina, i corpi avvinghiati tra loro, uomini con uomini, donne con donne e, beffa tra le beffe, un gruppo di idioti che stanno ad ascoltare un ciarlatano qualunque con il capriccio di fare poesia.

 

Adesso Merope era molto più che infastidita. Era scossa.

 

La voleva così.

 

-E tu, creatura perfetta di una New York altrettanto perfetta, invece di chiederti cosa diavolo ci fai in un posto del genere, ti stai chiedendo… come sarebbe? Come sarebbe indossare una di quelle minigonne, mostrare un simile disinteresse per ogni pudore, abbandonarsi a questa musica, dimentica di ogni regola e restrizione che ti hanno  cresciuta. Come sarebbe abbandonare tutta quella perfezione per assaggiare una goccia di passione? Come sarebbe essere umana per una sola volta?

Non gli rispose. Peccato, ci aveva davvero sperato. Si limitò a guardarlo, con la testa eretta sulle spalle orgogliose, gli occhi pieni di risentimento e le labbra sparite in una linea dura.

 

– Va’ all’inferno.

 

Mentre la guardava farsi spazio tra la gente, stavolta meno educata di quanto lo era stata poco prima, Julian si concesse un sorriso divertito. A presto, pensò.

 

***

 

Nell’ambiente esclusivo in cui si muovevano, il nome di Chloe Core veniva pronunciato con un tono denso di timore reverenziale, sia che si trattasse di donne che di uomini. Non altrettanto rispetto era riservato a Edward Silvery, un uomo dall’abbagliante bellezza e fascino ma privo della tempra necessaria per arginare una donna così restia a fare il dovuto spazio al marito.

 

Benché tollerata, la presenza di Chloe nel mondo degli affari era vista come una delle stranezze di casa Core, un mero capriccio che si poteva perdonare solo a una delle famiglie più potenti degli States. Nonostante tutto, infatti, l’idea che la donna potesse trovare spazio anche nel mondo dell’alta finanza ripugnava a gran parte degli uomini.

 

Duncan non era di idee così ristrette. D’altra parte, benché da anni vivesse a stretto contatto con quegli  uomini privilegiati e potenti, aveva ben chiaro che se quelle idee avessero avuto la forza che avevano un tempo lui stesso non avrebbe mai avuto la possibilità di sfiorare quella vita che proprio Chloe Core gli aveva donato.

 

Aveva quindici anni quando tutto era cambiato. Era il 1954 e le cugine Core avevano imposto ai ragazzi la visione di uno stupido film sentimentale con Audrey Hepburn. Duncan era rimasto impietrito per minuti che sembravano sempre più lunghi e umilianti, mentre la figlia dell’autista di una ricca famiglia faceva di tutto per conquistare prima un figlio e poi un altro.

Era rimasto in silenzio anche quando qualcuno aveva iniziato a fare delle battute, ma appena avevano osato chiamarlo Sabrina, era questo il nome di quella stupida protagonista, Duncan si era alzato dal divano e aveva lasciato la grande casa per rifugiarsi in giardino, dove però aveva trovato la temibile Mrs Core intenta a fumare in segreto dal padre.

 

– Che c’è, Duncan? Il film non ti è piaciuto?

 

Davanti al suo silenzio aveva sorriso comprensiva: – Io lo trovo terribilmente ingenuo. Cos’ha fatto quella Sabrina per elevarsi al livello del suo innamorato? Qualche bel vestito e una canzone francese? Bah… Non avrà mai il loro rispetto.

 

Lui aveva annuito, ancora più depresso di quando aveva lasciato la casa: – Per loro sarà sempre la figlia dell’autista…

 

Era stato in quel momento che qualcosa in Chloe Core era cambiato: un sorriso appena un po’ più morbido, più umano.

 

– Senza dubbio, Duncan. Una persona più intelligente sa bene che per arrivare in alto dovrà faticare il doppio di chi ha avuto la fortuna di essere nato lì. Dopotutto, una donna sarà sempre soltanto una donna, ai loro occhi. E il figlio di un autista non sarà mai un loro pari. Guardami, Duncan,– gli chiese,– Sai cosa pensano gli uomini quando si trovano a dover fare un passo indietro davanti a me? Mi odiano… Ma lo fanno comunque e per un solo motivo al mondo: sanno che ho il potere per distruggerli. Non cercare di essere all’altezza di quei viziati lì dentro, cerca il potere che li costringa a starti un passo indietro.

 

Negli anni successivi, Duncan aveva sempre tenuto quelle parole come un tesoro prezioso, l’ispirazione di tutti quanti i suoi sacrifici e successi. Forse era proprio questo il motivo per cui non riusciva più a temere Chloe Core: la stima, la gratitudine e il rispetto avevano preso ogni spazio. A volte avrebbe voluto insegnare a Merope a vedere sua madre sotto quella stessa luce.

 

Come accadeva spesso, anche quella sera a cena c’era riunita tutta quanta la famiglia Core. Eccezionalmente non mancava neppure Edward, tornato a sorpresa quel pomeriggio per riportare alla moglie alcune importanti novità sulla filiale della North Carolina. Come tutte le volte, i ragazzi Core erano seduti a un angolo del tavolo, lontano dai genitori come quando erano bambini.

 

-Daphne, stasera dovresti proprio venire con noi…- disse a un certo punto James.

 

Daphne gli rivolse una smorfia annoiata, benché gli occhi tradissero una certa curiosità: - Andate al Max’s?

 

-Sì,- rispose l’altro, -Mi hanno detto che i Velvet Underground vanno assolutamente visti dal vivo.

 

Un rumore distolse l’attenzione di Duncan: accanto a lui, Merope aveva fatto cadere una posata.

 

-Ma sono così volgari,- commentò Daphne, mentre guardava con occhio critico la cugina abbassarsi alla ricerca della forchetta.

-Hai forse paura di sfigurare davanti alla bellezza di Nico?- la pungolò James. Strano da parte sua… non era da lui insistere con le cugine perché si unissero a loro.

 

-A me piacerebbe venire,- disse qualcuno accanto a lui.

 

Impossibile, se ricordava che accanto a lui c’era seduta una persona che non aveva mai mostrato alcuna curiosità verso uscite serali che non rientrassero nell’agenda di casa Core.

 

La guardò sorpreso: Merope aveva le guance un po’ arrossate e guardava lui e James un po’ a disagio.

 

-Non è un locale elegante, sei sicura?- le chiese a bassa voce.

 

Mer sollevò le spalle: -Se non sono di troppo, mi farebbe piacere.

 

Duncan le strinse la mano sotto il tavolo e ignorò il fatto che stesse continuando a tenere la forchetta stretta in un pugno: -Lo chiedo a tua madre.

 

Il Max’s era un posto in cui Duncan non riusciva a essere del tutto a suo agio. Preferiva muoversi tra i suoi simili, gli squali in giacca e cravatta di Wall Street, piuttosto che in luoghi come quello, dove il potere ruotava intorno a qualcosa di meno consistente del denaro. Lì Duncan Ambroser era soltanto uno dei tanti uomini d’affari che facevano da contorno a personaggi senza dubbio meno danarosi, ma più eccentrici: musicisti, pittori, fotografi, cantanti e scrittori. La passerella aveva inizio all’ingresso, dove gruppi di fans li attendevano per acclamarli, e proseguiva lì dentro, mentre se ne stavano seduti ai tavoli, accerchiati da gente ben più ricca e influente che non provava alcuna vergogna ad adularli apertamente.

 

Quella sera, poi, c’era un’atmosfera ancora più carica di aspettative. Quando si erano accomodati tutti e quattro al loro tavolo, una cameriera aveva spiegato che si attendeva l’arrivo della Factory al gran completo. Alla domanda di Daphne su cosa fosse la Factory, James rispose ridendo che era il gruppo di esaltati che ruotavano intorno a quel pazzoide di Andy Wharol.

 

Nulla di tutto questo interessava Duncan la cui attenzione era interamente concentrata sulla fidanzata: Merope sembrava una bambina, incapace com’era di nascondere la curiosità per un posto di cui lui e suo cugino parlavano da anni, ma che a lei era stato indifferente fino a qualche ora prima. Qualcosa doveva aver provocato quel cambiamento, ma si trattava di una novità così positiva che non gli interessava poi tanto capirne la causa.

 

Le mise un braccio intorno alle spalle scoperte e la spinse più vicina a sé, qualcosa che a casa non gli avrebbero mai consentito. Lei lo premiò con uno dei suoi più bei sorrisi.

 

-Sono felice che tu sia qui.

 

Lo guardò smarrita: -Perché non hai mai insistito allora?

 

Le toccò una guancia con le nocche: -A volte mi sembri così delicata che penso sia una necessità per te stare a casa…

 

Merope sembrò dispiacersi per quella risposta, ma il tempo per dirgli qualcosa venne e poi passò, mentre venivano raggiunti da un gruppo di amici, che non riuscirono a nascondere la sorpresa nel vedere Merope insieme a loro.

 

Mentre rispondeva a qualche battuta su quella novità, Duncan fu colto alla sprovvista da una voce che tardò a riconoscere.

 

-Mr Ambroser, è un piacere rivederla.

 

Lo scrittore. Julian Cuveé.

 

Quando stava per rispondere al saluto, Duncan colse un improvviso sussulto che attraversò il corpo della sua fidanzata e, con la coda dell’occhio, la vide muovere la testa alla ricerca di chi aveva appena parlato.

 

Interessante…


-Julian, non avevamo iniziato a chiamarci per nome io e te?

 

L’altro sorrise mentre si stringevano la mano.

 

-Signorine Core, James… è sempre un piacere,- salutò con consumata eleganza, - Ludmilla non parla l’inglese, purtroppo, -spiegò con un cenno alla sua accompagnatrice.

 

-Unitevi a noi, stavamo giusto per brindare,- lo invitò con un cenno al divano rimasto libero.

 

Cuveé rimase un attimo di troppo all’in piedi, per nulla imbarazzato in apparenza ma soltanto incuriosito da quell’invito. Sembrò studiarlo e a Duncan venne in mente le parole che gli aveva detto la sera del suo fidanzamento. Era in cerca di debolezze?

 

Quando ebbe preso posto e la cameriera ebbe distribuito le coppe, Julian tornò a rivolgersi a lui: -Cosa festeggiamo?

 

Duncan guardò sorridente la fidanzata, diventata ancora più taciturna del solito: -Dopo mesi Merope si è finalmente convinta a farmi compagnia senza che ci fosse qualcuno dei suoi genitori a controllarci. Certo, James e Daphne sanno essere altrettanto severe, ma confido nel fatto che lo champagne saprà tenerli buoni.

 

Risero tutti, mentre James e Daphne assicuravano che ci sarebbe voluto ben altro per corromperli. Julian, però, riportò l’attenzione su ciò che con ogni evidenzia gli interessava.

 

-Come mai questo cambiamento?- chiese direttamente a Merope.

 

Lei prese tempo, con la scusa dello champagne. Inaspettatamente, la sua voce suonò serena quando rispose: -Ho sentito dire che questo gruppo è piuttosto coinvolgente.

 

Cuveé sembrò fin troppo compiaciuto della risposta.

 

-Le assicuro che è proprio così. Le parole di Reed, la voce di Nico… direi che accendono una scintilla dentro, la voglia di un cambiamento.

 

Da ragazzino, Duncan aveva imparato a sopportare ogni tipo di provocazione da parte di James e gli altri cugini Core. Era stato allora che aveva iniziato a controllare le sue reazione  e a impedire che queste trapelassero all’esterno: per chissà quale capriccio, Cuveé aveva deciso di giocare con Merope e di conseguenza con lui. Se in un altro uomo questo avrebbe scatenato rabbia e gelosia, in Duncan invece aveva acceso quella scintilla di cui stava parlando. Aveva sfidato qualcuno che amava le sfide più di ogni altra cosa al mondo.

 

Lo champagne continuava a solleticarle le labbra e la bocca, confondendole la vista e l’udito.
Nella sua testa le voci dei cantanti si mescolavano a quella bassa di Julian.
Le raccontavano di un pittore intento a imbrattare un giglio.
Il più prezioso.


 

2013

 

Quella dannatissima strada non avrebbe mai avuto fine.

 

Ade appoggiò la testa allo schienale del sedile, scrollandola lievemente per svegliarsi. Stava guidando interrottamente da ore, con gli occhi che gli lacrimavano per lo sforzo di mantenerli fissi sulla jeep davanti a lui, a bordo della quale si trovavano Matt Chambers e sua moglie Caroline, gli amici dei tempi della scuola che li avevano ospitati nella loro prima settimana di viaggio, trascorsa ad Atene.

 

Avvertiva la testa pesante per la sbornia della sera precedente e il fegato che lanciava segnali di protesta. Abbassò il volume della radio, ringraziando mentalmente i The Fratellis per averlo tenuto sveglio fino a quel momento, sfilò il telefono dalla tasca e compose il numero di Caroline, per domandare di fermarsi al primo ristorante che avrebbero incontrato per riprendersi un poco dalla stanchezza.

 

A dispetto di ogni convinzione, era felice di averli ritrovati. Matt era stato un suo compagno al Winchestern College, il primo ad avvicinarlo quando i suoi genitori lo avevano spedito a studiare in Inghilterra, quattordicenne silenzioso e riservato in mezzo ad una classe di decisamente poco accoglienti adolescenti provenienti dalle famiglie più ricche del Paese. Avevano scelto indirizzi diversi al College, lui aveva studiato teatro, mentre l'amico si era diplomato in scienze politiche, ma nonostante tutto non si erano mai persi di vista durante quegli anni: era stato Matt il primo ad avvicinare Caroline e Charlotte Fairfax, in un pub di Cambridge, durante una delle prime settimane del College. Fra i primi due era stato amore a prima vista, mentre cosa ben più difficile era stata per lui conquistare Charlotte: affascinante, affabile, raffinata e mondana, la ragazza era tanto bella quanto ambita. Non era mai stato abituato a ricevere molti "no", perché se non fosse bastato il suo bell'aspetto, il suo nome e il suo fondo fiduciario avevano sempre contribuito a far capitolare qualunque ragazza su cui avesse puntato gli occhi. Lei era stata la prima a fargli sudare ognuna delle costose camicie che teneva ordinatamente allineate nell'armadio. Alla fine, però aveva ceduto: due anni erano stati tutto quello che la vita aveva loro concesso, prima che le loro sciocche scelte e la loro immaturità ne deviasse bruscamente il corso.

 

Rivedere Caroline aveva risvegliato in lui un groviglio di sentimenti che credeva ormai sopiti: rabbia, senso di colpa, una nostalgia che per giorni lo aveva tormentato, rendendolo spesso assente, perso in un passato che si risvegliava travolgendolo a ondate, lasciandolo spesso a corto di parole. Ritrovarsi sotto gli occhi la prova vivente che Charlotte era vissuta davvero lo atterriva; per anni aveva tentato con ostinazione e tenacia di cancellarne il ricordo, ma l'incontro con la sua gemella l'aveva violentemente spinto indietro, ricordandogli che erano davvero esistiti giorni in cui lei aveva riempito le sue giornate, lo aveva baciato, toccato, lo aveva amato.

 

Deglutì a fatica, concentrandosi sulla strada nel vano tentativo di scacciare i pensieri che lo tormentavano. Charlotte, Caroline, Matt, Ben e ogni altra persona viva nella sua mente in quei giorni appartenevano ad un mondo che lo aveva rigettato con ingiusta e inaspettata violenza: lasciarsi andare ai suoi richiami avrebbe significato lasciarsi vincere nuovamente dalla brama di una vita che ormai non poteva più appartenere a chi, come lui, era stato punito e condannato in via definitiva per gli errori che aveva commesso. A cosa erano serviti tutto il dolore, la forza di tirare avanti nonostante tutto se poi bastavano pochi giorni di debolezza per gettare all'aria il lavoro di anni?

 

Non poteva permettersi di perdere di vista il solo obiettivo che l'aveva spinto a intraprendere quel viaggio. Avrebbe trovato Ben, avrebbe pareggiato i conti una volta per tutte e poi sarebbe potuto tornare al suo girovagare, dimenticandosi di quei giorni, esattamente come aveva fatto con ogni giorno della sua vita precedente a quello che gliel'aveva rovinata per sempre.

 

Rialzò con un gesto secco della mano il volume dell'autoradio, sorridendo soddisfatto, mentre le note di Chelsea Dagger invadevano l'abitacolo. Accanto a lui, Taigete sembrava ancora profondamente addormentata, con le gambe incrociate sul cruscotto e il diario di sua nonna come sempre aperto in grembo: se l'avesse svegliata, avrebbe cominciato a protestare per la musica, avrebbe trovato da ridire sulla velocità, sui tempi di percorrenza e sul caldo per il puro gusto di fargli saltare i nervi. In fondo, se aveva resistito in silenzio fino a quel momento, poteva farlo ancora per qualche minuto. Abbassò il finestrino, lasciando che l'aria si portasse via un po' del suo torpore, cominciando a canticchiare sovrappensiero: decise che i pensieri, le preoccupazioni e i segreti, potevano attendere ancora qualche minuto. Almeno fino a che Tai non si fosse svegliata, ricominciando a tartassarlo con la sua parlantina.

 

Avevano suonato alla porta del piccolo hotel che Caroline e Matt gestivano ad Atene. Lo stabile si trovava vicino all'Agorà, in un palazzo della fine del XIX Secolo, che probabilmente apparteneva alla famiglia Chambers, esattamente come le molte ville di cui lui stesso era stato più di una volta ospite in passato. Ammoudia, Capo Tenaro, Santorini, Ios, Zante. Erano innumerevoli le località dove il padre e il nonno di Matt avevano investito, trasformando aree disabitate in lussuose case per ricchi inglesi in vacanza: la loro già immensa fortuna aveva subito un'impennata, loro si erano riempiti le tasche e i figli avevano goduto di tale patrimonio per anni. Non era mai stato però ad Atene, nel posto che Matt e Caroline avevano scelto per trovare la loro piccola fortuna, o forse la loro tranquillità, lontani dai fantasmi di un passato che aveva segnato tutti loro, squarciando ferite che nemmeno il tempo sarebbe stato in grado di rimarginare.

Quando Caroline aveva aperto la porta era sbiancata: erano anni che non faceva avere sue notizie a nessuno di loro e vi erano buone probabilità che persino loro avessero cominciato a pensare il peggio sul suo conto.


Lui, per parte sua, era rimasto a fissarla ammutolito: era bella come la ricordava, Caroline. Lei e Charlotte lo erano sempre state, ma la maturità le aveva conferito un'aria più adulta e seria, che la rendeva ancora più affascinante, se possibile: l'unica cosa che riusciva a pensare era che se Charlie fosse stata ancora viva, probabilmente avrebbe avuto l'aspetto della sorella. Per un attimo ebbe l'impressione di vederla davanti a sé, stretta in un semplice paio di jeans e in una camicia dai colori vivaci. E se fosse stato lui e non Matt l'uomo che si avvicinava con gli occhi sgranati dallo stupore di rivederlo? Dopotutto Charlie amava quei posti e lui amava quella che diventava quando si allontanava dalle rigide convenzioni dell'alta società inglese e, scalza, passeggiava in shorts stracciati e costume per le stradine di quei luoghi fuori dal tempo.


-Scusalo.- Tai lo aveva riportato alla realtà, scuotendolo per un braccio. -Suppongo che sia la stanchezza del viaggio. Dopotutto ha dormito solo...quindici ore, suppergiù.


Caroline era scoppiata in una risata, stringendogli, finalmente, le braccia attorno al collo.


-Sono felice di vedere che, alla fine, ti sei sistemato anche tu. L'ultima volta che ho avuto tue notizie, le voci dicevano che ti trovassi su una nave da crociera a fare il pagliaccio per coppie in viaggio di nozze e agiati pensionati,- lo canzonò baciandolo sulle guance ruvide di barba.


-Di qualcosa si deve pur vivere,- aveva obiettato con una scrollata di spalle.


-E vi siete conosciuti lì? Tu eri una sposina infelice e il bell'Amleto ti ha rubato il cuore?


Accanto a lui, Tai era scoppiata a ridere imbarazzata, tentando invano di mascherare il suo divertimento con colpetti di tosse.


 -Carrie, posso presentarti Taigete... McDeer? É la cugina di Ben, non la mia fidanzata.


 Carrie aveva annuito, scrutandola con curiosità, sempre più confusa. -Pensate di fermarvi in città? Fra due giorni chiudiamo, perché nel weekend raggiungiamo la sorella di Matt a Capo Tenaro. É il suo compleanno e noi dobbiamo comunque essere presenti alla chiusura del Bed & Breakfast che abbiamo aperto laggiù. È un peccato che siate arrivati così tardi, ma forse potreste godervi gli ultimi giorni di sole, se voleste venire con noi. In più sono sicura che Susan sarà contenta di vederti...


-Noi...- aveva obiettato Tai, cercando appoggio in Ade. Appoggio che, tuttavia, non era arrivato perché lui si era intromesso troncando il suo discorso. -Noi verremo volentierissimo. Tai, il complesso di Capo Tenaro dei Chambers é meraviglioso, devi assolutamente vederlo.


-Ma...


-Niente ma,- l'aveva interrotta Carrie. -Ormai é deciso. Almeno potremo prenderci qualche giorno per stare insieme. Ora, forza, andate a sistemarvi, che io finisco di sbrigare le ultime faccende e poi usciamo a cena.

 

-Mi spieghi che ti salta in mente?- lo aveva aggredito Tai quando si erano trovati soli in ascensore.-Siamo qui per trovare Ben, non per goderci le vacanze!


Ade l'aveva fissata a braccia conserte, scrutandola dall'altro in basso, per poi risponderle con tono di sufficienza: -"Sai Carrie, non ci vediamo da sei anni, tu sai per caso dirmi qualcosa di una persona che sta infrangendo la legge di almeno tre paesi, spacciandosi per morto? Ho bisogno di trovarlo e convincerlo a costituirsi." Pensi davvero che se qualcuno fra loro é a conoscenza di qualche informazione basti domandare per ottenerle?


Tai aveva aperto più volte la bocca, senza sapere come replicare: sapeva di non avere scelta, doveva seguirlo se desiderava davvero trovare suo cugino. Era stato allora che Ade si era avvicinato sollevandole il mento con le due dita della mano tesa, costringendola a sollevare gli occhi sul suo viso.


-Tai, questa cosa non può funzionare se non ti fidi di me e non fai quello che ti dico.


La ragazza lo aveva fissato smarrita per qualche istante, sostenendo il suo sguardo senza battere ciglio: era sicuro che si sarebbe ciecamente fidata di lui, nonostante sentisse di non piacerle fino in fondo. Ma il bisogno di trovare Ben, qualunque fosse la ragione che lo scatenava, era più forte di qualunque dubbio, timore o sentimento di repulsione che la sua presenza potesse provocare in lei. Per un attimo ebbe il fugace istinto di afferrarla per le spalle e scuoterla, intimandole di fuggire il più lontano possibile, ma fu un istante, prima che lei si sciogliesse in un sorriso, siglando nuovamente il patto che li aveva spinti a partire di tutta fretta per la Grecia.


-Questa Caroline quindi...- aveva insinuato con un sorriso divertito la ragazza, cambiando bruscamente argomento.


-Non é come pensi.


-Eppure sembravi ipnotizzato…


Lui l'aveva fissata in silenzio, dandole probabilmente l'impressione di non volere nemmeno rispondere. Poi, d'improvviso, aveva cominciato a parlare, ancor prima di riuscire a valutare con razionalità l'entità di ciò che stava per confessarle.


-Si chiamava Charlotte ed era identica a lei, tranne che per temperamento. Charlie era vitale, energica, affascinante, Carrie è riflessiva, seria e inquadrata. Siamo stati insieme quasi due anni prima...- aveva abbassato di colpo la voce, come se il solo pronunciare le parole "incidente" o "incendio" suonasse ancora troppo reale, nonostante fossero passati anni. -Forse, se non fosse morta, oggi sarei a Londra sposato, anziché qui ad Atene, incastrato dentro un ascensore senza possibilità di fuggire alle tue domande petulanti.


Tai aveva sgranato gli occhi, sorpresa da tanta schiettezza. Stava ancora cercando le parole con cui rispondergli quando le porte dell'ascensore si erano aperte alle sue spalle.


-É il tuo piano, credo,- le aveva detto aiutandola a sollevare il pesante zaino che si trascinava dietro nonostante fosse grande quasi quanto lei. -Ci vediamo dopo.




-I said, tell me your name is it sweet, she said my boys is dagger, oh yeah...(2)

 

Tai aprì gli occhi, rendendosi conto di essersi assopita senza volerlo. Rimase ad ascoltare in silenzio la voce flebile di Ade che, ignara che lei fosse sveglia, seguiva le parole di… come si chiamava quella canzone con cui l'aveva sfinita negli ultimi giorni? Trattenne uno sbadiglio e stropicciò più volte gli occhi per riprendersi, sentendosi in colpa per non avergli tenuto compagnia.

 

Alla partenza, l'avevano tenuta sveglia qualche iniziale battuta sullo stato pietoso del suo viso solcato da profonde occhiaie e del suo look da "bad girl reduce da festino a base di sesso droga meno che il rock&roll, visto che in fatto di musica sei ignorante come una capra" e, naturalmente i bassi e la batteria degli Smiths sparata dalle casse dell'autoradio. Aveva provato ad abbassare il volume, nel tentativo di sedare il martellante dolore alla testa che la tormentava: probabilmente Ade gliel'avrebbe anche lasciato fare senza profferir parola, se non fosse stato che quelli che stavano ascoltando erano, in realtà, i Cure. Ma questo, naturalmente, Tai l'aveva scoperto solo dopo che aveva detto che la voce di Robert Smith, nella sua testa notoriamente cantante dell'omonima band, le stava penetrando il cervello.

 

-Taigete McDeer. Se non fosse che probabilmente Caroline mi spedirebbe a calci a riprenderti, ti avrei già defenestrata, abbandonandoti al tuo triste destino nella periferia di Atene. Seriamente sei la cugina di Benjamin McDeer? Che facevi mentre lui divorava vinili, ti chiudevi in camera ballando sulle note delle Atomic Kitten?

 

Dopo quella piccola diatriba iniziale, però, Ade era piombato in uno di quei silenzi ostinati e prolungati che lo ammutolivano d'improvviso, il viso impassibile, gli occhi scuri fissi sulla strada davanti a lui, le labbra serrate. Picchiettava nervosamente con le dita della mano sinistra sul volante, tenendo il ritmo delle percussioni che scandivano il ritmo della colonna sonora del viaggio. Era stata a osservarlo accondiscendente, senza profferire parola, cercando di rispettare quella tacita richiesta di fare silenzio che le stava mandando.

Era ormai passata una settimana da quando erano partiti e ancora Tai non era riuscita a inquadrarlo: vi era qualcosa in quegli occhi scuri, profondi, che non riflettevano alcun bagliore, che la inquietava, ma che al contempo la attraeva come un enigmatico rompicapo di cui non riusciva a trovare una soluzione. Più lo guardava, tentando di decifrarne i pensieri e le intenzioni, più Ade le sfuggiva, senza farsi mai realmente comprendere. Pensava allo sguardo di Alistair, così limpido e cristallino, alla sicurezza che le dava osservarlo e intuire sempre a cosa stesse pensando. Con Ade era diverso: ogni volta che era certa di aver trovato la chiave per leggere il suo atteggiamento schivo, scostante ed enigmatico, a tratti estremamente riflessivo e capace di sorprenderla, ecco che si chiudeva in un mutismo ostinato, materializzando un'assenza che la metteva molto più a disagio del temperamento scontroso di cui amava dare sfoggio di tanto in tanto.

 

 

Era appena giunti ad Atene. Dopo essersi sistemata nella stanza assegnatale, Tai era uscita a passeggiare: aveva trascorso quel tardo pomeriggio girando a tempo perso nei pressi dell'Agorà, perdendosi fra i profumi e le spezie dei prodotti che tracimavano dalle bancarelle. Stava sgranocchiando una mela e ponderando se fosse lecito o meno comprare un sacchetto di olive e finirlo prima ancora del tramonto quando, alzando la testa, lo aveva scorto in mezzo alla folla. Sarebbe stato difficile non distinguerlo, visto che superava di almeno una spanna la media dei visitatori che si accalcavano fra i banchi.


-Hey, sei tu,- le aveva accennato quando aveva richiamato la sua attenzione, sfiorandogli un braccio.


-Piccolo il mondo, eh?-


Si era lasciata trascinare fuori dalla calca, ancorandosi al suo braccio per non perderlo di vista.


-Ti va una birra? Conosco un posto dove ne servono una che può quasi essere considerata tale...- le aveva domandato inaspettatamente, accennando a un piccolo Irish pub con piccoli tavolini dinnanzi all'entrata chiamato "The James Joyce". Era stato così che si erano ritrovati a chiacchierare davanti a una pinta di Guinness. Lo aveva ascoltato a lungo, mentre le raccontava dei suoi viaggi in Grecia con Matt, Caroline e Charlotte e di come ritornarvi fosse strano, dopo tutto quel tempo: l'ultima volta che vi si era recato, la compagnia nella quale lavorava, portava in scena le Eumendi per turisti disposti a pagare cifre assurde pur di poter sbandierare al ritorno di aver assistito alla messa in scena di una vera tragedia.


-É stato prima o dopo l'esperienza in crociera di cui parlava Caroline?- gli aveva domandato Tai allora.


-Dopo.


-E non li hai mai contattati, benché sapessi che vivevano qui?- aveva continuato stupita.


-Tu fai troppe domande per i miei gusti.


-Domandare é lecito, rispondere é cortesia. E tu, quella, non sai nemmeno dove sta di casa.


Era stato allora che Ade l'aveva colta di sorpresa scoppiando in una risata aperta e sincera, la prima da quando lo conosceva. Erano stati pochi attimi, ma Tai aveva avvertito tutta la tensione che si creava fra di loro ogni volta che si trovavano forzati a socializzare, svanire nell'esatto momento in cui anche lei si era lasciata andare a quel breve attimo di spensieratezza. Si era sentita sollevata a tal punto, che aveva cominciato a ridere ininterrottamente, senza un reale motivo. Era stato solo quando un sorso di Guinness le era andato di traverso che si era fermata a pensare a quanto assurda fosse l'intera situazione: si trovava all'altro capo dell'Oceano, seduta sotto un sole ancora estivo nonostante fosse ormai settembre inoltrato, a sorseggiare birra con un uomo di cui non sapeva nulla, ma con il quale, per qualche strana ragione, stava condividendo emozioni ed esperienze di cui nemmeno con alcuni dei suoi amici più cari si era mai trovata a discorrere.


-Non volevo sentirmi in obbligo di rivivere certe questioni.- le aveva risposto poi Ade, tornando improvvisamente serio. All'udire tale confessione, Tai aveva sentito di provare qualcosa di molto simile alla pena per lui: cosa poteva provare qualcuno che aveva visto il proprio mondo polverizzarsi, mangiato dalle fiamme di un fuoco capace di portarti via tutto, amici, amore, dignità, senno forse?


-Sei sempre così ossessionato dal tuo passato?- si era ritrovata a domandargli prima di riflettere.


-Tutti lo siamo, in fondo,- le aveva risposto lui scrollando le spalle. -Non mi sembra che tu sia da meno.


-Spiegati meglio.


-Ti ho osservata, Tai, in questi giorni. Te ne stai sempre a leggere le pagine di quella copia consunta dell'Amleto o le memorie di tua nonna racchiuse in quel diario. Come se la risposta alle tue incertezze si trovasse fra i rassicuranti tratti di quella penna o fra le parole di un'opera scritta cinquecento anni fa dalla mente più diabolicamente macchinosa mai conosciuta a memoria d'uomo. Credi che non sappia cosa significa per te quel libro? Ho vissuto quattro anni con Ben, anche lui conservava la sua copia nemmeno fosse una Bibbia di raro valore.


-Io non...


-Sei ossessionata a tal punto da quel passato che stai tentando di tornare indietro nel tempo pur di non dovere affrontare il futuro che ti attende.- l'aveva interrotta fissandola direttamente negli occhi.


-Non sono scappata.


-Vedila come vuoi.- Ade si era lasciato andare, appoggiandosi allo schienale in legno della panca su cui sedeva: non sembrava quasi più interessato a farle saltare i nervi: era come se, in qualche modo, fosse già consapevole di aver avuto la meglio, in quella piccola disputa.


-Sto solo cercando mio cugino.


-E la sua benedizione per lanciarti in qualcosa che non hai il coraggio di affrontare da sola.


D'un tratto tutta l'allegria che l'aveva pervasa qualche minuto prima, aveva lasciato lo spazio a un senso di frustrazione e rabbia improvvisi.


-Sai cosa ti dico?- gli aveva domandato con voce strozzata e aria di sfida. -Io farò troppe domande, ma tu ti prendi troppe libertà.


Ade l'aveva fissata intensamente per qualche istante, le sopracciglia inarcate, lo sguardo perplesso, rigirando pensieroso fra le labbra il boccale di birra. Poi, inaspettatamente, lo aveva posato e le aveva porto le sue scuse. Senza lasciarle il tempo per risponderle, si era poi alzato e si era diretto al bancone, dove aveva ordinato altre due pinte di birra che avevano consumato pianificando le tappe del viaggio, mutate a causa dell'invito di Caroline e Matt, ignorando quel piccolo diverbio.


Quando Tai si scrollò, riemergendo dai ricordi di quella settimana, Ade stava ancora canticchiando. Si sorprese a pensare che la sua voce le infondeva allegria e tranquillità: vi era una spensieratezza, nel suo tono e nell'espressione rilassata del suo viso, che contrastava nettamente con l'immagine misteriosa ed enigmatica che tentava di dare di sé. Rimase ad ascoltarlo rapita ancora qualche istante poi, incapace di trattenersi oltre, mormorò con parole impastate dal sonno: -Hai una bella voce.

 

Ade sussultò, arrossendo imbarazzato.

 

-E sei anche arrossito come un'educanda.

 

-Sai che si stava veramente bene, mentre dormivi?- le domandò sarcastico.

 

-Davvero? Immagino sia per questo che hai detto a Carrie che avevi bisogno di compagnia...

 

Ade non rispose, ma accennò un debole sorriso, il primo vero che le aveva rivolto quella mattina: -Ho bisogno di ingerire qualcosa per scacciare i postumi della sbornia di ieri sera, temo. Credo di avere ancora più alcol che plasma, nelle vene.

 

Alcol.


Ecco la ragione di quella strana confidenza che si era instaurata fra di loro in quei giorni: Cosa avevano fatto la notte prima? Riusciva a ricordare chiaramente tutto ciò che era successo a cena, ma non avrebbe saputo ricostruire esattamente le dinamiche successive della serata o, almeno, di quelle che avevano seguito il momento in cui Matt si era messo al pianoforte a biasciare Blue Moon e Caroline aveva tirato fuori una bottiglia ghiacciata di vodka alla menta. Come se non avessero già bevuto abbastanza a tavola.

 

-Ho ricordi un po' confusi di ieri sera.- ammise infine.

 

-Stai scherzando?- le domandò con tono così serio che la fece preoccupare.

 

-Dovrei… ricordarmi qualcosa?

 

Ade tacque, mordicchiandosi un labbro perplesso.

 

-Qualcosa che c'entra con il fatto che indosso i tuoi vestiti?- domandò esitante, indicando perplessa la felpa -o forse avrebbe dovuto dire vestito- che si era buttata addosso la mattina prima di partire.

 

Al prolungarsi del silenzio dell'uomo, Tai sbiancò: non era possibile che fosse successo qualcosa di strano.

 

-Ade io... Alistair... sto per sposarmi...- balbettò imbarazzata. -Devi capire, non faccio certe cose... cioè... perché stai ridendo??

 

-Ti prego, vai avanti...-

 

-Mi stai prendendo in giro?- sibilò, furente. -Non é successo niente, vero?

 

Ade negò con il capo, la schiena scossa da eccessi di risate, il viso arrossato per lo sforzo di trattenersi.

 

-Ho perso cent'anni di vita! Si può sapere che diavolo di salta in mente?? E. Smettila. Di. Ridere!- Se avesse potuto, avrebbe usato la sua copia dell'Amleto come arma contundente se non fosse stato che, fra i due, non sarebbe stata testa dura di Ade, quella a uscirne malconcia. E teneva troppo al quel ricordo per sacrificarlo, sebbene si trattasse di una più che nobile causa.

 

-Scusami, Tai. Era troppo divertente.

 

-Mi sembra che l'unico a divertirsi, qui sia stato tu...

 

Si appoggiò allo schienale imbronciata, meditando una vendetta che gli facesse rimpiangere quello scherzo puerile, quando lo sguardo le cadde infine sul taccuino di sua nonna che reggeva sulle gambe.

 

 

-Avanti.

-Volevo solo accertarmi che stessi bene e ti trovassi a letto, non abbracciata al gabinetto. Quella vodka finale ha messo KO persino me...


-Sto bene,- gli aveva risposto sollevando lievemente il diario di sua nonna. -Sto leggendo.


Senza domandarle il permesso, Ade si era seduto sul bordo del letto, accanto a lei.


-Sempre quel diario? Tai aveva annuito facendogli spazio. Non avrebbe saputo dire cosa ci fosse, in quella storia, che l'attirava tanto: eppure avvertiva un vago parallelismo fra i fatti narrati da Merope Core e quello che stava vivendo lei. E non si trattava della festa di fidanzamento, del matrimonio, del dono della dannatissima collana di diamanti, né tantomeno dell'irruzione nella sua vita di uno sconosciuto che ne stava inaspettatamente deviando il corso. Aveva l'impressione che sua nonna stesse cercando di comunicarle qualcosa che non riusciva ad afferrare: qualcosa che Merope stessa non trovava le parole per descrivere, come un sentimento così a lungo sopito e nascosto che non riusciva a trovare espressione.


-Posso leggerlo?- le aveva domandato timidamente fissandola negli occhi. Gliel'aveva allungato prima di rendersene conto, rimanendo a studiarlo a lungo mentre, sempre più rapito, si beveva una ad una le parole di sua nonna. Non aveva idea di quanto fossero rimasti così, il tempo le appariva come distorto e alterato: tutto ciò che riusciva a ricordare, prima del buio totale del sonno in cui era sprofondata, erano un improvviso aroma di bergamotto e fiori d'arancio accanto al suo viso e la sensazione di tepore di qualcosa che le aveva scaldato le gambe intorpidite dalla frizzante aria della notte settembrina.



-Hai letto il diario.

 

-Solo le prime pagine,- confessò Ade. -Ho notato che tu non ne leggi mai più di un paio al giorno...

 

Tai sorrise di quella piccola premura, stringendosi, come per proteggersi, nella felpa che indossava.

 

-Ora capisco perché ne sei così ossessionata. Tua nonna ha avuto un passato molto affascinante... e Julian Cuvée è una figura estremamente interessante.

 

-Nel passo che sto leggendo, sembra paragonare mia nonna a Persefone...- insinuò lei con tono perplesso, come se solo in quel momento si rendesse conto di quella curiosa coincidenza.

 

Il sorriso di Ade, per un attimo sembrò morire sulle sua labbra sottili. -Mi stai dicendo che questo farebbe di lui... Ade?

 

Tai fissò in silenzio le pagine ingiallite, sfiorandole con le dita che tremavano. Il cuore aveva accelerato d'improvviso i suoi battiti, tanto che temeva che prima o poi, essendo così vicini, il suo compagno di viaggio se ne sarebbe accorto: sospirò profondamente, tentando di calmarsi.

 

-Se la memoria non mi inganna...- mormorò infine voltandosi incerta verso di lui, per studiarne l'espressione. Con un pizzico di delusione notò però che Ade sembrava più interessato al trovare un posto libero nel parcheggio del ristorante in cui erano infine giunti piuttosto che alle parole della giovane Merope. Possibile che fosse lei, l'unica a farsi suggestionare in quel modo da quelle pagine?

 

-Vedi Tai,- cominciò a spiegarle infine lui, dissimulando serietà e compostezza. -Ci sono almeno due buoni motivi per cui questa cosa non potrebbe funzionare. Primo: non ho un regno da offrirti. E a dirla tutta nemmeno uno cui imprigionarti contro il tuo volere, a meno che non si possa considerare fortezza un bilocale vuoto a Greenwich. Secondo: Alistair deve avere un qualche potere magico per sopportare da mesi tutte quel mucchio di idiozie su centrotavola in argento e tovaglie ecru, perché io mi sono sentito male alla seconda telefonata fra te e tua madre. Ah, a proposito, dimenticavo la ragione più importante: ho troppo paura di Erin Core per rapirti e mettermela contro. Altro che lungo inverno, sarebbe capace di svegliare Obama e fargli scatenare la terza guerra mondiale per il solo gusto di potermi deferire a un tribunale di guerra e farmi fucilare con pubblica esecuzione a Times Square.

 

Poi senza darle il tempo per rispondere, uscì dalla macchina e si avviò verso il ristorante, scosso da eccessi di risate che non riusciva più a trattenere, lasciandola sola e senza parole a guardarlo allontanarsi. Forse aveva ragione lui, tutta quella storia era ridicola: il diario, il fascino che la storia di sua nonna stavano esercitando su di lei, erano mera suggestione. Sicuramente il suo sentirsi così stranamente libera e spensierata, lontana da New York, non significavano nulla, se non che aveva bisogno di distrarsi per qualche giorno dallo stress del lavoro, del trasloco, del matrimonio. E Eugene Aderley, lui non era altro che un compagno di viaggio, qualcuno che le era necessario per trovare Ben: presto avrebbero avuto sue notizie e allora ognuno sarebbe tornato sui suoi passi dimenticandosi per sempre l'uno dell'altro.

Si era appena chiusa lo sportello alle spalle quando, rialzati gli occhi verso Ade, lo vide bloccarsi di colpo nei pressi di una fila di piante che segnavano il confine fra l’area del piccolo ristorante dove si erano fermati e il campo retrostante, dove correva un duplice filare di ulivi. Senza vederlo in volto, la colpì la netta certezza che, d’improvviso, il sorriso gli si fosse gelato sulle labbra: davanti a lui, una fila di quattro piccoli alberi di melograno cominciava a mostrare i suoi frutti al tiepido autunno in arrivo.

 

Lo raggiunse, fermandosi ammutolita al suo fianco. Erano ancora piccoli e acerbi, ma senza dubbio di lì a breve sarebbero cresciuti trasformandosi in quei frutti succosi che da bambina si divertiva a spolpare per ore con le mani coperte dai guanti di plastica che le forniva Rose, la sua tata. Alzò gli occhi verso il viso di Ade: poteva avvertirne distintamente la mascella contratta, il lieve rossore che si stava espandendo sulle guance e, infine, il respiro lievemente affannato. E fu così che, vedendolo talmente turbato, fu lei a scoppiare in una lunga risata, nata forse più dal desiderio di stemperare la tensione che si era creata fra loro, che da un reale moto di divertimento. Poggiò la fronte alla sua spalla, scossa dai singhiozzi, sentendolo infine sciogliersi e lasciarsi andare e, d’improvviso, tutti i dubbi, il nervosismo e la perplessità sembrarono soccombere dinnanzi all’assurdo surrealismo di quell’istante.

 

-Vi volete dare una mossa?

 

La voce di Caroline giunse da lontano, ovattata, come proveniente da una realtà parallela.

 

Ade le cinse le spalle con un braccio e, delicatamente, la trascinò lontano da quel campo.

 

-Che ne dici, evitiamo la torta di melograno, se ce la propongono?-   

 

Dopotutto, l’idea, non sembrava così malvagia.

 

"Un giorno, unica tra tutte le divinità, la figlia di Demetra fece un gesto folle: scese sulla Terra, condannandosi a un’esistenza nell’Averno.

Parole frettolose, scarabocchiate come se non avessero un filo logico. Quella pagina di pensieri la inquietava: era come se sua nonna stesse vivendo senza coordinate, muovendosi in un mondo a lei ignoto e sconosciuto, che l'attraeva magneticamente, ma l'atterriva di paura al contempo. E, in quel mondo, infine, lui, che era fatto di morte e non riusciva a commuoversi. Ade.

 

-Ade? -

-Dimmi.-

-Conosci una canzone che contiene questi versi? "Sunday morning and I'm falling, I've got a feeling I don't want to know..."-

-Che i tuoi dei possano avere pietà della tua anima, Taigete...-

-Smettila di fare il cretino. La conosci?-

-Si intitola Sunday Morning, è forse la più famosa canzone dei Velvet Undergorund... perché?-

-Così...-

 

Scrollò le spalle sbadigliando, vinta nuovamente dalla stanchezza, mentre nella mente si materializzava un viso giovane, diafano, dai capelli scuri, illuminato da un faro bianco accecante. L'incubo ricorrente che, con angosciante ciclicità, la tormentava sin da bambina, quando scivolava inerme e indifesa nell'oscurità dei suoi sogni.


"puoi rimanere casta come ghiaccio,
candida e pura come fior di neve,
ma non potrai sfuggire alla calunnia."(3)

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Note delle autrici


(1)Maia fornisce una indicazione generica, perché non sarebbe molto da lei ricordare l’anno esatto, e Gabriel può solo ipotizzare. Si tratta, in realtà, degli ultimi mesi di vita di Edoardo VI, figlio di Enrico VIII e fratello di Maria: era protestante e i cattolici inglesi speravano di mettere sul trono la cattolica Maria dopo di lui. I protestanti desideravano Jane Grey. Successe in effetti Jane, ma regnò solo nove giorni prima che Maria la facesse decapitare. Il regno di Maria I fu segnato dalla persecuzione contro i protestanti, che le valse l’appellativo di “Sanguinaria”

 

(2) Chelsea Dagger, The fratellis

 

(3) Amleto, Atto III, Scena I



Eccoci giunte in fondo al terzo atto. Un atto denso di avvenimenti e che, soprattutto, vede il primo, vero avvicinamento delle nostre tre protagoniste con gli Ade. Cosa ne pensate di questi incontri? Vi preoccupano le deboli posizioni dei tre fidanzati?

Che dire...come forse avrete notato, noi tre ci stiamo appassionando sempre di più a questa storia. Chi ci conosce sa quanto sia importante per noi il suo sviluppo e soprattutto quanto ci teniamo a questo branco di esseri (un pochino disagiati, sì). Quindi ci raccomandiamo, continuate a farci sapere cosa ne pensate voi, come li vedete, qual'é la vostra opinione, insomma. Noi siamo troppo poco obiettive per farlo :D


Veniamo ora ai ringraziamenti più che dovuti: grazie, ancora una volta, a chi ci ha recensite, a chi ci fa sapere cosa ne pensa di questa avventura in altri luoghi e a chi ha inserito la storia tra le ricordate/seguite/preferite. Grazie a chi segue i nostri deliri, nei rispettivi gruppi, a chi ama Panca, lotta per la riabilitazione di Euscemo e pensa davvero che Gabriello abbia bisogno di un bravo psicanalista. E grazie anche a chi ci legge in silenzio, sostenendoci comunque.


Grazie a tutti!




Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

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Un abbraccio a tutti e, soprattutto, Buone Feste!

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






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Capitolo 5
*** Atto IV ***


 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

Atto

4

 

 

 

1920


 

Illuminate dal riverbero delle candele, le colonne di marmo sembravano muoversi gettando ombre irregolari lungo tutto il terrazzo, tremule e sospese nell’oscurità della notte; l’aria profumava di fragole dolci e succose, pronte per essere colte e gustate nell’intimità del talamo, tra lenzuola di seta e bicchieri di vino rosso come il sangue. L’edera si era arrampicata lungo il muro, risalendo ostinata i piani della villa,rendendo quel luogo quasi una selva incontaminata lontana da occhi indiscreti. L’uomo la stava aspettando seduto per terra, incurante di qualsiasi convenzione o cortesia, e neppure si alzò quando Maia arrivò di corsa, lasciandosi alle spalle una melodia che non riusciva a riconoscere, quasi non appartenesse a quel tempo. Ma quale tempo? Tutto attorno a lei  era estraneo e familiare al tempo stesso, l’eco di un ricordo, di un sogno, di un futuro e di un passato uniti insieme e confusi. Un tempo senza tempo.

 

Solo lui era fermo, in quel mondo in movimento che la circondava. Le ampie gonne le limitavano i movimenti, il corpetto le mozzava il fiato, ma nulla sembrava importante davanti a lui, a quella figura che la terrorizzava e attirava al tempo stesso, come un novello Icaro che agogna il sole pur consapevole di andare incontro alla morte. E poi i vestiti non furono più un impedimento, strappati e gettati lontano, a far compagnia alle ombre. Quelle mani. Avrebbe riconosciuto ovunque quelle mani. Maia aveva perso il controllo sulla propria mente, ma non era mai stata così consapevole del proprio corpo, di ogni centimetro toccato dai suoi polpastrelli. Era carboncino, quello?

 

I rintocchi regolari di un orologio. Il desiderio che si espandeva nel suo corpo. L’anima persa, abbandonata ad un diavolo fatto di carne e sangue.

 

Una voce. Dei versi. Quei versi. Le stelle ruotano, il tempo corre, l'orologio suonerà, verrà il demonio e Faust sarà dannato.

 

E lui su di lei, dentro di lei e in ogni fibra del suo essere.

 

 

 

Si svegliò di colpo, la camicia da notte appiccicata al corpo sudato. La presenza di Nathanael addormentato accanto a lei, di solito così rassicurante, le diede le vertigini.

 

 

 

***

 

L’orologio fece undici rintocchi, ma aspettarsi che il campanello suonasse immediatamente dopo avrebbe significato riporre troppa fiducia in una persona che tutto sapeva essere, fuorché puntuale.

 

Nadia Myrthus osservò attraverso le finestre quel sole di luglio inoltrato che splendeva su New York, sugli alberi di Central Park e sui tetti delle ville circostanti, rendendo finalmente l’inverno e la sua oscurità un mero ricordo.

Non sopportava il buio, era stata una delle ragioni per le quali non aveva mai dato il suo consenso per il matrimonio del figlio.

 

Una delle tante, almeno.

 

I continui mal di testa della ormai defunta signora Core avevano imposto il buio sull’intera villa, con le finestre perennemente serrate, e Nadia detestava l’atmosfera opprimente che creava attorno a sé e che non era mutata neppure dopo il trasferimento della donna e del marito nella villa degli Hamptons, perché Oliver e Potnia trascorrevano così poco tempo lontano dalla Demeter da non accorgersene neppure.

 

Era stata la nascita di Maia a mutare la situazione, perché Nadia aveva preteso che la nipote crescesse in un mondo di luce e colori e dopotutto, sin da piccola la giovane Core aveva sempre amato l’estate: dubitava che l’idea di quel matrimonio in pieno inverno fosse stata sua.

La nipote era una delle ultime gioie della sua vita, ma forse la più importante, perché se il figlio maschio era appartenuto a suo marito sin dalla più tenera età, il totale assorbimento di Olivier e Potnia per la Demeter le aveva permesso di crescere la nipotina a sua immagine e somiglianza, una bambina piena di gioia di vivere ed eccitazione, sempre in movimento e curiosa come lo era stata lei da giovane.

 

Il Titanic le aveva portato via una parte di quella bambina felice, restituendole una giovane donna che rifiutava di affrontare quella paura e quel dolore, i cui occhi, un tempo pieni di fiducia nell’avvenire, erano velati di una sottile melanconia che non sfuggiva a chi, come lei, la conosceva e l’amava da sempre.

New York la osannava e New York non si interrogava su quali fossero state le conseguenze del naufragio sulla loro beniamina, ma Nadia conosceva la fragilità di Maia, quell’unico dettaglio che non era stata in grado di cambiare.

 

Da giovane, Nadia era stata un’ereditiera che aveva deciso da sola, orfana e libera com’era, quale uomo sposare tra i molti che avevano chiesto la sua mano: aveva scelto uno dei pochi che non nascondeva il proprio interesse per la sua eredità ma che, al contempo, non ne aveva affatto bisogno: James Alexander Myrthus era più grande di lei ed erede di una ingente fortuna in ambito navale e le aveva sempre lasciato la più ampia libertà. Non si erano mai amati, ma erano stati amici e confidenti e non passava giorno che lei non sentisse la sua mancanza.

Sapeva che Maia non era innamorata di Nathanael, nonostante ella stessa fosse convinta del contrario, ma la mancanza d’amore non era un dettaglio negativo in un mondo che, nonostante si fingesse perfetto, aveva così tante crepe lasciate dalla guerra da lasciare aperta qualsiasi possibilità per il futuro, che fosse un secolo florido e in pace o un nuovo conflitto.

 

E Nadia sapeva che gli uomini non erano capaci di vivere nella pace troppo a lungo.

 

-Signora, vostra nipote è arrivata e il valletto sta caricando le vostre valigie in macchina.

 

La signora Myrthus raggiunse Maia che, sul marciapiede, dava indicazioni ai valletti; si era offerta di accompagnare la nonna a Boston, dove avrebbe tenuto il discorso di inaugurazione ad un congresso sulla situazione degli orfani di guerra.

 

Nonostante lo sfoggio di pragmatismo e il sorriso che le riservò, alla donna non sfuggirono le occhiaie che, seppur velate, ombreggiavano indiscutibilmente il suo sguardo chiaro.

 

Le erano giunte delle voci, chiacchiere appena accennate, comunicate con troppo rispetto, addolcite e alleggerite, ma cionondimeno, erano voci. Si sussurrava che Maia Core fosse sempre più elusiva, sfuggente, preoccupata per qualcosa che nessuno riusciva a comprendere, giacché cosa mai poteva impensierire una giovane che aveva tutto?

Potnia e Natahanel come sempre fingevano di non udire e non vedere, l’una per mancanza di tempo, l’altro per timore che un passo di troppo potesse spezzarla, e suo figlio era un inetto che non si curava minimamente della figlia. Qualcosa, però, stava indiscutibilmente succedendo.

 

 -Stai bene mia cara? Sembri pallida.

 

 -Sto bene.- un sorriso fuggevole, una risposta affrettata.

 

 -Come vanno le sedute per il quadro? Hasmal ti tratta bene?

 

 -Lui dipinge, io poso… Parliamo poco.

 

 -E ancora non è innamorato di te?- domandò scherzando, entrando in macchina.

 

 Nei suoi settantadue anni di vita Nadia Myrthus aveva visto cambiamenti che in gioventù non aveva neppure osato immaginare, con le carrozze che cedevano il posto alle macchine e le lampadine alle candele; aveva visto azzerare le distanze dall’introduzione del telefono e aerei prendere il volo. Era stata una delle prime a prestare aiuto durante la guerra e non si spaventava davanti a nulla, ma osservare il lento declino della nipote la terrorizzava. Era iniziato tutto con quel quadro e non serviva un’intelligenza particolare per rendersene conto. Forse Hasmal non era ancora innamorato di lei… Ma Maia?

 


 

***

 

La polvere non avrebbe mai abbandonato quella stanza, per quanto la signora Calloway si sforzasse; continuava a vorticare in piccoli mulinelli che si alzavano da terra per poi tornarvi, alcuni istanti dopo, in una grottesca similitudine di quella che sembrava essere la vita del padrone di quei luoghi.

 

 

Eppure le finestre erano aperte, rendendo l’aria meno pesante di quanto non fosse di solito; pur tuttavia, l’essenza di limone non aveva abbandonato del tutto la stanza, rendendo il tentativo di Gabriel quasi del tutto vano. Voleva disintossicarsi, liberarsi di lei l’istante stesso in cui metteva piede fuori di casa, ma quel profumo… quel profumo stava diventando la sua ossessione.

 

La governante era spaventata.

 

 

Non da lui, ovviamente. Aveva cresciuto il bambino, conosceva l’uomo, e sapeva che, nonostante quanto si dicesse in giro, non avrebbe mai davvero ferito intenzionalmente qualcuno, senza un motivo preciso.

 

Era spaventata perché si stava svolgendo un gioco, davanti ai suoi occhi, o due giochi concatenati che non promettevano alcun risvolto positivo per il futuro.

 

Maia aveva deciso di sedurre Gabriel, non perché volesse davvero che accadesse qualcosa ma perché non accettava l’idea che qualcuno potesse non adorarla; quanto al pittore, vedeva in lei l’emblema stesso della società che lo aveva respinto nel momento del bisogno e voleva distruggerla per distruggere tutti loro.

 

Partivano entrambi dall’assunto secondo il quale erano diversi come il giorno e la notte, ma la signora Calloway sapeva, ed era proprio ciò che la preoccupava di più, che somigliavano entrambi all’alba o al tramonto, un confine perennemente in bilico tra la luce e le ombre.

 

 

-Non dovreste essere così rigido con lei, sapete?

 

 

Vi aveva riflettuto a lungo e aveva compreso di dover intervenire, prima che quei giochi arrivassero ad un punto da cui non sarebbero più potuti tornare indietro.

 

 

-Perché no? Conoscere la crudezza della vita non può che farle bene, anziché continuare a vivere in quella prigione dorata senza mai una sola preoccupazione. La vita non è fatta di serate di gala e persone che la trattano come cristallo pronto a rompersi.

 

 

 

La donna lo osservò in silenzio per alcuni istanti, poi compì un gesto che non aveva mai osato fare: prese un foglio da terra e lo aprì. Abbozzi di guerra. Dolore in bianco e nero. 

 

 

-Non parlate mai di quei giorni, di quel dolore…

 

 

-Ne abbiamo già discusso.- ribatté impaziente.

 

 

Parlarne avrebbe reso quell’orrore infinito, lo avrebbe incastrato in quell’incubo senza via d’uscita, costringendolo alla follia.

 

 

 

-La trattano in quel modo perché Maia è davvero sul punto di spezzarsi, mio caro. Se solo vi foste preso la briga di capire chi è lei, invece di condannarla per chi credete sia… Dopo quattro mesi e cinque sedute, avrete scambiato mezza parola. No,- aggiunse quando lui fece per replicare, -non saprete nulla da me. Volete condannarla? Bene. Ma prima conoscete davvero Maia Core.        

 

 

 

E così fece. La ragazza sarebbe stata lontana da New York alcuni giorni, costringendoli ad una pausa forzata, così decise di usarli per accontentare la signora Calloway. Iniziò dalla biblioteca pubblica, perché pur non conoscendo le domande, sapeva che in quei luoghi avrebbe sicuramente trovato le risposte.

 

L’annuncio della sua nascita, le sue prime uscite pubbliche come l’erede della dinastia Core, le insinuazioni su un suo futuro matrimonio con il pupillo del padre quando non era che una bimbetta, gli studi in Inghilterra, il viaggio in Europa con il futuro marito… Tutto era stato documentato, tutto era sulla pubblica piazza; lui aveva potuto scegliere di ritirarsi a vita privata e riservata, ma quella stessa scelta non sarebbe mai stata riservata alla fanciulla la cui vita, lo desiderasse o meno, sarebbe sempre stata affare di tutti.

 

Eppure era stata una gran vita, senza mai una preoccupazione, mai un dolore, mai…

 

 

 

La giovane dipendente della biblioteca interruppe il flusso dei suoi pensieri. Sembrava imbarazzata.

 

-Signore, probabilmente già ne sarete a conoscenza, ma giacché mi avete chiesto tutti i documenti che riguardano la signorina Core…

 

 

 

Tentennò, porgendogli quei documenti, e Gabriel li prese mosso da una inspiegabile curiosità: cosa avrebbe dovuto sapere?

 

 

 

Quotidiani del 15 aprile 1912. Hasmal ricordava quel giorno, lo sgomento che aveva provato nell’apprendere la tragedia, nel leggere i nomi dei deceduti e accostarvi volti e voci, persone che aveva conosciuto, con cui aveva bevuto e giocato e vissuto.

 

Era stata soprattutto la morte di Francis Millet a colpirlo, perché nonostante fosse stato la sua nemesi, avrebbe sentito la mancanza di quegli scontri intellettuali che finivano sempre con un bicchiere di brandy ed una sbronza colossale.

 

 

 

Non pensava a lui da allora.

 

 

 

Perso tra quei ritagli aveva quasi dimenticato lo scopo della sua ricerca, finché una foto in bianco e nero non colpì la sua attenzione: una giovane Maia Core con i capelli lunghi e sciolti, una coperta sulle spalle e lo sguardo perso nel vuoto. Accanto a lei, Nathanael Rafael le circondava le spalle con un braccio, cavaliere senza macchia e senza paura, visibilmente provato ma anche, ne era sicuro, sollevato di riaverla con sé, sana e salva.

 

 

 

E la verità lo colpì come un fiume in piena, destabilizzandolo: Maia Core era sopravvissuta al naufragio del Titanic.

 

Maia Core era sul Titanic mentre il transatlantico colava a picco nelle gelide acque dell’Oceano.

 

 

 

La luce del sole lo accecò per un istante, abituato ormai com’era alla penombra della biblioteca. La vita attorno a lui procedeva immutata, giovani flappers con i loro abiti sempre più corti e le fasce nei capelli percorrevano la Quinta Strada osservando le vetrine all’ultima moda e sorridendo sfacciate ai giovani in giacca e cravatta che incrociavano lungo il cammino. Il mondo era cambiato e Gabriel a volte ancora stentava a rendersene conto: era un artista, un visionario ed era sempre stato al passo con i tempi, adeguandosi perfettamente al nuovo secolo, ma quegli anni ’20 così contraddittori erano troppo lontani da lui perché potesse comprenderli davvero. L’uomo era fermo a due anni prima, alla fine di quella guerra che gli aveva portato via sogni e futuro, ma la società attorno a lui aveva iniziato una corsa sfrenata sulla scia di una inspiegabile euforia: l’alcol scorreva a fiumi, da solo o mischiato ai succhi di frutta in cocktails innovativi che non si curavano del Proibizionismo, le automobili avevano preso il posto dei carri e cinema, teatri e locali notturni affollavano ogni angolo e si aprivano a tutti gli strati della società, senza essere più priorità dei ricchi. La vita pulsava fuori dalle mura domestiche, come se si cercasse di recuperare il tempo perduto al fronte, come se non vi fosse un domani.

 

 

 

Erano soprattutto le donne ad essere diverse, avevano iniziato a pretendere il proprio posto nel mondo da quando, con i ragazzi e gli uomini impegnati al fronte, avevano iniziato a lavorare fuori casa: i tagli mascolini e gli abiti sempre meno elaborati avevano ristretto le differenze di ceto e le fanciulle più povere guardavano alle ricche e indipendenti figlie dell’alta società come un esempio da seguire.

 

 

 

Maia Core era l’emblema di quelle nuove donne, ma Gabriel iniziava ad intuire che vi fosse molto di più, in lei, oltre quello strato di paillettes dorate e perle costose visibile a tutti.

 

Aveva urlato alla società bene di New York di essere cieca e sorda davanti ai postumi della guerra. Era stato cieco e sordo allo stesso modo?

 

 

 

Nelle ultime ore aveva appreso che Maia era stata tra i pochi superstiti del naufragio, ma nei mesi successivi, contrariamente agli altri, non aveva mai rilasciato interviste o partecipato ad incontri commemorativi; era inizialmente sparita dalle prime pagine delle riviste, ma già nell’ottobre successivo presenziava splendente a cene e ricevimenti, come se nulla fosse mai accaduto.

 

 

 

Gabriel sapeva, però, che tragedie del genere non potevano semplicemente essere dimenticate, per quanto ci si sforzasse. La morte ti si appiccica addosso, come un’ombra perennemente presente che rimette in prospettiva qualsiasi gesto, qualsiasi scelta, persino la più banale e quotidiana.

 

Il tarlo ormai era penetrato nella sua mente e sapeva che non sarebbe riuscito a liberarsene: sembrava quasi che Maia Core, su quella nave, non vi fosse mai salita, così si recò dall’unica persona che sapeva gli avrebbe potuto fornire qualche risposta.

 

 

 

Margaret, o Molly come ormai la chiamavano, Brown non si fece attendere a lungo e non fece trasparire alcuno stupore per quella visita; non credette assolutamente alla menzogna di Gabriel, al suo desiderio di conoscere meglio Maia Core per raffigurarla al massimo delle sue possibilità, ma cionondimeno rispose alle sue domande.

 

 

 

-Non parlo con Maia dal 15 aprile 1912; la portarono via non appena mettemmo piede a terra e da allora hanno fatto scudo attorno a lei senza rendersi conto, quella sciocca madre troppo presa dal lavoro per realizzare il dramma della figlia, e quel fidanzato così innamorato da assecondare ogni suo capriccio, che finchè Maia non racconterà a qualcuno cosa accadde quella notte non troverà mai pace. Perdonate i miei modi bruschi, signor Hasmal, ma immagino siate qui perché volete la verità, senza abbellimenti o inutili delicatezze.

 

 

 

-Andate avanti, vi prego.

 

 

 

-Erano tutti affascinati da lei, sul Titanic… gli ospiti, l’equipaggio… Come non esserlo, dopotutto? Era dotata delle perfette maniere inglesi, degne di una principessa di sangue reale, ma riluceva di quel fulgore tipico delle fanciulle americane, schiette e curiose. Parlava con chiunque, priva della spocchia di molte matrone, ed era riuscita a stregare persino il signor Millet. Immagino che sappia quanto me, signor Hasmal, quanto poco egli apprezzasse lei donne. Quella notte…- la voce della donna si affievolì appena, ma si riprese immediatamente, -non posso raccontarvi l’orrore, ma voi avete combattuto in guerra, potete immaginarlo. Ci si sarebbe potuti aspettare che, dall’alto della sua influenza, la giovane rampolla dei Core fosse stata tra i primi a lasciare il transatlantico, ma la verità è che Maia salì sull’ultima scialuppa disponibile e solo perché Francis ve la buttò di peso. Lottò fino alla fine, con un sangue freddo di cui non la si crederebbe capace, perché le donne e i bambini di terza classe fossero fatti passare, perché fosse data loro una possibilità di salvezza. Le scialuppe erano quasi vuote, è storia tristemente nota. Persino dopo, sul Carpatia, si prodigò per tutti i superstiti, portando cioccolata calda e coperte, aiutando gli ufficiali a stillare le liste dei superstiti. Quando arrivammo a New York, nel momento esatto in cui scese dalla scaletta e finì tra le braccia di Rafael, Maia crollò; era prevedibile, dopotutto… il calo dell’adrenalina, la paura e il sollievo, l’orrore. Lascia trascorrere alcuni giorni, poi mi recai da lei: avevo creato un comitato per i superstiti del naufragio, per chiedere giustizia, risposte, e non dubitavo che lei sarebbe stata in prima linea. Non mi ricevette mai. Da allora, Maia si limita a negare che tutto questo sia mai successo e la sua famiglia vi si è adattata. Sapete che non vanno più agli Hamptons da allora? Non con lei almeno. Quella povera ragazza è terrorizzata dal mare.

 

 

 

Venere che nasce dalla spuma. Solo in quel momento Gabriel comprese.

 

 

 

-Non so se ho fatto bene a parlarvene, signor Hasmal, ma forse voi, tra tutti, potrete aiutarla.

 

 

 

***

 

 

Non aveva alcuna intenzione di aiutarla. Nessuno aveva aiutato lui, dopotutto.

 

 

 

Aveva un progetto in mente sin dal primo istante, preciso e lineare: avrebbe portato via Maia agli affetti più cari, a quella madre poco materna e a quel fidanzato perfetto e innamorato, ma non l’avrebbe tenuta con sé: l’avrebbe rovinata, le avrebbe fatto assaggiare il frutto proibito di una vita priva di regole e poi l’avrebbe abbandonata nuovamente a quella prigione dorata che le sarebbe divenuta odiosa. Nel frattempo, avrebbe scoperto l’ubicazione del quadro.

 

 

 

Dopo l’incontro con Molly Brown, però, qualcosa aveva vacillato in lui e aveva iniziato a provare il desiderio di non lasciarla andare, come se l’inferno, in due, sarebbe stato più sopportabile. 

 

Maia non aveva il minimo sentore che qualcosa in lui fosse cambiato, ma per qualche motivo sembrava più irrequieta di quanto non fosse solitamente; a volte si toccava la spalla con una mano o sistemava la collana, altre volte muoveva il piede, altre ancora si arricciava una ciocca di capelli attorno al dito. Piccoli gesti che avrebbero fatto impazzire qualsiasi pittore, ma non lui che dopotutto non aveva alcuna intenzione di completare quel quadro.

 

Nathanael Rafael sarebbe rimasto senza dono di nozze, ma Gabriel sarebbe stato troppo lontano, per allora: avrebbe restituito il quadro alla donna che l’aveva reso possibile, alla sua musa, e poi sarebbe semplicemente… sparito.

 

 

 

Ciò che il pittore non sapeva era quanto ancora Maia fosse turbata dal sogno di qualche notte prima; aveva tentato di dimenticarlo, ma rivederlo, rivedere quelle mani aveva risvegliato in lei il ricordo. Spezzoni, istanti dettati da una mente stanca e confusa.

 

Aveva letto il Faustus di Marlowe anni prima, per compiacere Nathanael, da sempre appassionato del periodo elisabettiano e che non si rassegnava alla totale incostanza della fidanzata nella lettura. Non che Maia non avesse adorato Shakespeare, a modo suo, benché preferisse l’amore di Bassanio a quello di Romeo, ma Marlowe, il suo eterno rivale, le era risultato così odioso, così cupo e angosciante da averlo dimenticato l’istante dopo aver terminato la lettura. Il diario di Pleis, però, benché appartenesse ad anni precedenti l’avvento di Elisabetta I e dei suoi autori, le aveva riportato alla mente quel periodo storico. Aveva sovrapposto le immagini. Il terrazzo descritto dall’antenata. Il patto tra Mephistophilis e Faustus. Gabriel. Soprattutto Gabriel.

 

 

 

Non si era reso conto di aver iniziato a disegnare. La tela, immacolata fino a quel momento, era sporca di un rosso talmente scuro da sembrare nero, lo stesso colore di quella dannatissima collana. 

 

Le sue labbra. La sua mano e un melograno che si avvicinava per essere gustato.

 

Non Afrodite ma Persefone, trascinata in quell’inferno personale che era la sua vita, in quell’Ade senza speranza che l’avrebbe privata di qualsiasi innocenza, come un giglio rovinato per sempre.

 

 

 

-Come prosegue la vicenda della vostra antenata?

 

 

 

Maia si voltò appena. 

 

 

 

-Non bene, il re è morto e Pleis è spaventata. Aspettate…

 

 

 

Si mosse e prese il diario: la domanda aveva risvegliato in lei i cupi pensieri suscitati dall’ultima lettura delle memorie della ragazza e la spinse ad un gesto che non aveva mai compiuto neppure con Nat.

 

 

 

-Non sapremo cosa accadrà, ora. William è preoccupato, ma in fondo lo siamo tutti. Ieri mi ha portato un dono, una collana con diamanti rossi, così scuri da sembrare neri… Sei chicci di melograno, perché io sono la sua Persefone e lui il mio Ade.

 

 

 

A Gabriel si gelò il sangue nelle vene.

 

 

 

-A quanto pare questa collana è davvero molto antica.- aggiunse, ma l’espressione del pittore le fece morire qualsiasi tentativo di essere spiritosa.

 

 

 

-Posso vedere, signor Hasmal?

 

 

 

-Ne abbiamo già parlato. Alla fine.

 

 

 

Maia sbuffò, per poi sorridere, -Va bene, ma devo essere bellissima, sappiatelo.

 

 

 

-Perché Persefone e Ade?- domandò, ignorando il commento, -Cosa ne pensate?

 

 

 

Non si era soffermata a lungo a riflettervi, in realtà, nonostante quel passaggio l’avesse scossa: essere consapevole di come fosse una collana molto antica era diverso dal leggere nero su bianco la sua origine… e in un contesto che non lasciava presagire alcuna nota positiva per il futuro.

 

La chiamavano la maledizione dei Core, la mancanza di un figlio maschio da generazioni; nessuno vi aveva mai creduto, lei per prima, ma la notte precedente non era riuscita a dormire per quel pensiero.

 

 

 

L’albero genealogico era appeso dietro la scrivania in mogano, nello studio dei suoi genitori, solenne e leggermente inquietante. Da piccola aveva trascorso le ore ad osservarlo, sorridendo entusiasta ogni volta che, scorrendolo dal principio alla sua fine, scorgeva il proprio nome; linee che si intrecciavano in legami nobili e importanti. La casa era silenziosa e buia e Maia aveva preferito lasciarla in quel modo, usando un candelabro al posto dell’elettricità; era scesa circondata alle ombre, mentre le parole del diario le risuonavano nella memoria.

 

 

 

Posò il candelabro sulla scrivania e iniziò a leggere l’albero, dal basso verso l’alto. Alla fine del 1700 emerse il nome Core, che altro non era che un errore di scrittura. L’albero era ancora in Inghilterra, all’epoca, e quando l’ultimo membro inglese della famiglia morì, scrissero al parente più prossimo, un cugino americano, inviando la collana nella sua scatola originaria. All’interno del coperchio vi era scritta la parola Core.

 

Il genio, dal momento che non aveva idea di quale fosse il cognome di famiglia e privato dell’albero genealogico che potesse aiutarlo, pensò che fosse quello e mutò il proprio cognome in Core, per darsi arie da nobile, e stabilì che gli eredi avrebbero usato tutti quel nome, maschi o femmine che fossero. Sua madre era sempre sconvolta quando narrava quella storia di totale stupidità maschile.

 

 

 

Il dito di Maia scorreva sul vetro della teca: da lei, a ritroso fino a quel mostro di intelligenza non vi erano state che figlie femmine, benché precedentemente fosse stata una famiglia prolifica di maschi; sapeva, però, di non dover più seguire quella linea familiare. Il cognome era mutato quando la collana era giunta in America, così seguì i sei chicchi di melograno. Due secoli di figlie femmine che si concludevano o, per meglio dire, iniziavano con Jane Pleis.

 

 

 

Tutto nasceva da quella collana. Kore. Persefone.

 

 

 

-Leggenda narrava che Persefone fosse la figlia di Demetra, dea del grano e dell’agricoltura, e che un giorno, mentre giocava sulle sponde del Lago di Pergusa, sia stata rapita dal dio degli inferi, Ade, che la voleva come sua sposa. Demetra, disperata, iniziò a cercare la figlia ovunque, trascurando così i propri doveri e rendendo la terra un luogo arido e inospitale, finché Zeus mandò Hermes, il messo degli dei, a riprendere Persefone. Ade, però, prima di lasciarla andare, le offrì della frutta e la fanciulla mangiò sei chicchi di melograno, senza sapere che colui che mangia la frutta degli inferi è costretto a permanervi. Zeus intervenne nuovamente e trovò un compromesso: sei mesi sulla terra, sei mesi con Ade. Persefone è sospesa tra due mondi: quello a cui appartiene e in cui vive con sua madre, e quello degli inferi, a cui il suo sposo l’ha condannata.

 

 

 

-Qualcuno dice che Persefone si condannò volontariamente, affezionatasi ad Ade.

 

 

 

Maia sorrise malinconia, sfiorando il diario. –Perché? Perché abbandonare la luce per le ombre? La certezza per l’ignoto?

 

 

 

Fu allora che comprese il parallelismo.

 

 

 

Pleis apparteneva al mondo nobile e ricco dell’Inghilterra del 1500, alla famiglia e al futuro marito, ma l’arrivo di William l’aveva trascinata in un mondo speculare, fatto di ombre e passione. Ade e Persefone.

 

Era nato come un gioco, una sfida, un vezzo femminile, ma quanto ancora sarebbe riuscita a negare l’attrazione che quell’artista enigmatico suscitava in lei? William Fitzherbert era avvolto dalle ombre e le ombre, per loro stessa natura, implicano una luce, per quanto flebile possa essere, ma in Gabriel vi era solo oscurità, profonda e asfissiante come le profondità di un oceano.

 

E Gabriel fece un passo verso di lei.

 

 

 

In quel momento, in quella stanza, dimenticò la propria vita, dimenticò Nathanael, persa in quella oscurità che avvolgeva Gabriel come un mantello, desiderosa di sentire le sue mani, quelle mani che aveva osservato ammaliata mentre dipingevano, sul proprio corpo. Persa, come se avesse mangiato quei sei chicchi di melograno che portava al collo.

 

 

 

Pochi minuti dopo, la signora Calloway la vide scendere di corsa le scale e chiudersi la porta alle spalle con un’urgenza che non le apparteneva.

 

 

 

***

 

C’era un momento, nella giornata, il momento in cui si chiudeva alle spalle la porta dell’ufficio in cui Nathanael sorrideva istintivamente perché sapeva, con una certezza matematica, che quindici minuti dopo, il tempo esatto di scendere al pian terreno, prendere la macchina e guidare lungo la trentaquattresima strada, Maia sarebbe stata all’ingresso di casa in attesa di augurargli il bentornato. Era il pensiero di quel momento esatto che gli dava la forza, ogni giorno, di affrontare stancanti ore lavorative e discussioni interminabili con i fornitori, i lavoratori e, soprattutto, la suocera; era l’idea che alla fine di tutto Maia sarebbe stato lì ad attenderlo.

 

 

 

Il desolante silenzio di quella sera, il freddo saluto del maggiordomo furono un colpo al cuore.

 

 

 

-La signorina Core è in casa?- domandò, preparandosi per una risposta negativa, perché solo l’essere stata trattenuta altrove poteva giustificare la sua assenza.

 

 

 

-Sì, signore, nel salottino.

 

 

 

Maia era lì, addormentata su uno dei divani con un giglio tra le mani, le gambe lasciate scoperte dalla vestaglia di seta e le labbra appena socchiuse; l’aveva osservata dormire mille e mille volte in quegli ultimi sei anni, da quando aveva preso l’abitudine di infilarsi di nascosto nel suo letto la notte, per poi tornare nel proprio la mattina dopo, ma in quel momento il suo volto, così familiare al punto che avrebbe potuto riconoscerlo ad occhi chiusi tra mille, gli apparve estraneo, come se quella giovane donna dormiente non fosse davvero la sua fidanzata.

 

 

 

Le labbra erano state tinte di viola dal succo di succo di mirtillo che doveva aver riempito il bicchiere, ormai vuoto, poggiato sul tavolino, e Nat si chinò a baciarle, spinto dall’irrefrenabile desiderio di sentirla sua.

 

Ma Maia non era mai stata di nessuno se non di se stessa e dei propri mostri, del proprio terrore di invecchiare e perdere quella bellezza a lei sì cara. Non riusciva a comprendere, nonostante Nathanael avesse tentato mille volte di aprirle gli occhi, che in lei esisteva molto di più.

 

Aveva interpretato per tutta la vita il ruolo della sciocca, frivola fanciulla priva di pensieri e preoccupazioni che potessero toccarla e l’uomo era stato forse l’unico a scorgere il suo volto sotto la maschera, ma da giorni, da settimane Maia sembrava recitare persino con lui.

 

 

 

-Cosa ti succede, mio amore?

 

 

 

Maia non rispose, continuando a fingere di dormire: lo aveva udito entrare, ma non aveva voglia di affrontarlo, non con il ricordo di quel pomeriggio che ancora le torturava l’animo: qualsiasi certezza era crollata e lei non sapeva come affrontare quella nuova, destabilizzante realtà.

 

 

 

L’aveva baciata con rabbia e lei aveva ricambiato, smettendo per un istante le vesti di fidanzata ideale, di donna perfetta. Era scesa dal suo podio di cristallo e si era lasciata andare, entrando in collisione con l’unica creatura che sapeva l’avrebbe compresa, perché l’oscurità di Gabriel era la stessa che lei portava con sé, fatta di silenzi assordanti e odore di sangue. Si era lasciata baciare, incurante del dolore che avrebbe causato, egoista e crudele nel cedere a quel desiderio come egoista e crudele era lui, come egoista e crudele era il mondo che aveva reclamato la loro innocenza e li aveva abbandonati a ricostruire quelle vite spezzate di cui non avrebbero mai trovato tutti i pezzi.

 

Un passo verso l’inferno, perché esisteva una fiamma in lei che attendeva solo la possibilità di bruciare, il desiderio incontrollabile di avere tutto, a qualsiasi prezzo, perché la sua anima si era perduta da più tempo di quanto riuscisse a ricordare.

 

Un passo verso l’inferno, perché Persefone aveva mangiato quei sei chicchi perfettamente consapevole di una incontestabile realtà: non avrebbe mai lasciato l’Ade. Non davvero. Non del tutto.

 

 

***

 

 

 

Il Mephistophilus era particolarmente affollato quella sera, ma la sua fama –e l’adorazione della cantante- gli garantivano sempre un tavolo in ottima posizione e costantemente dotato di bottiglie di champagne francese. Lui e Millet erano riusciti a litigare anche su quello, ma Gabriel non avrebbe saputo dire quale fosse stata la causa scatenante della discussione; di certo c’era che, come sempre, erano finiti così ubriachi che qualcuno avrebbe dovuto gettarli su un taxi di peso. Si sentiva la testa pesante e la bocca come addormentata. Quel dannato locale faceva onore al suo nome, risucchiava l’anima in alcol, sigari e donne. Aveva un quadro da finire, aveva progettato di lavorare tutta la notte, ma Ceridwen aveva insistito per uscire e alla fine, non troppi ricatti e implorazioni dopo, si era lasciato convincere. Ovviamente lei lo aveva abbandonato per sparire con qualche giovane adorante, lasciandolo in balia dell’alcol e delle disquisizioni di Millet.

 

 

 

Aveva voglia di dormire. Doveva tornare a casa, ma quando provò ad alzarsi ricadde sulla sedia come peso morto. D’un tratto sentì chiamare il nome di lei… il nome che lui aveva scelto per lei. Ceridwen. Conosceva quella voce rabbiosa. Conosceva l’uomo che l’aveva ossessionata per mesi.

 

 

 

-La uccido, quella puttana.

 

 

 

Il corpo lottava contro il sonno indotto dallo champagne, ma la mente, quella parte ancora vigile, aveva captato il pericolo. Quell’uomo era pericoloso. Doveva intervenire. Doveva…

 

 

 

Era svenuto e non aveva più alcuna memoria di quella notte. Era stata la signora Calloway a svegliarlo la mattina dopo. A dargli la notizia.

 

 

 

Maia si era innamorata di quel volto, di quel quadro, la sua opera migliore, perché tra tutti i ritratti in cui interpretava diversi ruoli, in quello Ceridwen era semplicemente se stessa. Solo per lui.

 

 

 

Ogni sera la lista di “se” era lì ad aspettarlo, come la preghiera prima di andare a dormire.

 

Se quella sera non avesse bevuto così tanto. Se fosse stato in grado di fermare Johnson. Se…

 

Se quel volto adorato non fosse mai stato sfigurato a causa sua.

 

 

 

 

 

 

 

Pleis aveva sempre adorato quel terrazzo, con l’edera che cresceva indisturbata e il profumo delle fragole del giardino che sfidava la distanza e arrivava fin lì. William la stava aspettando celato dalle ombre: sapeva che nessuno sarebbe stato felice di scoprirlo lì.

 

Il re è morto, evviva il re. Aveva sperato fino all’ultimo istante che l’astiosa figlia di Caterina la spagnola non salisse al trono, ma le sue speranze di erano infrante velocemente. Troppo velocemente.

 

 

 

Suo padre parlava di conversione, di tornare al cattolicesimo, ma Pleis sapeva che William non avrebbe mai rinnegato la religione protestante e quello… quello avrebbe significato morte certa, nel regno di Maria.

 

 

 

-Tutto è pronto per la fuga, mia adorata, ma ho bisogno di sapere che sei con me. Se non sei sicura di questa scelta partirò da solo e se potrò, ti verrò a prendere o tu verrai da me più in là.

 

 

 

-Non posso lasciarti.

 

 

 

Parole sincere di un cuore sincero. L’orologio scandiva i battiti del tempo che stava finendo. Non ne avevano da perdere.

 

 

 

Aveva dimenticato il diario. E il sesto giglio.

 

Era fuggita così di corsa, ma Gabriel sapeva che nessuna velocità sarebbe stata sufficiente: Maia scappava da se stessa, non da lui. Una corsa destinata al fallimento.

 

Capiva Ade, relegato a quell’oscuro destino da fratelli più potenti. L’inferno era davvero più sopportabile in due, dopotutto.

 

 

 

Avevano servito le fragole, quella sera a cena. Un frutto prelibato che aveva ricordato loro la bellezza della terra, così irreale mentre erano nel mezzo dell’oceano circondati solo dalle sue acque calme, quasi immobili. Sarebbero arrivati prima a New York, sussurravano per i corridoi, e Maia non vedeva l’ora di abbracciare Nathanael.

 

 



 

 

 

1969

 

Dopo il primo ne vennero altri. Per l’esattezza, furono quattro e vennero tutti riposti con grande cura dentro il baule ai piedi del letto. I pacchetti giunsero senza un ordine preciso: in alcuni casi passarono pochi giorni, in altri anche alcune settimane prima che una di quelle misteriose confezioni facesse la propria comparsa in casa Core. Merope non riusciva più a nascondere la profonda curiosità che si impadroniva di lei ogni volta che i suoi occhi si posavano sul pacchetto appena arrivato. Non c’era mai un mittente, ma lei riusciva sempre a immaginare il cenno di un sorriso e l’ironia negli occhi grigi di chi aveva confezionato quei regali misteriosi; fatto ancora più strano, riuscivano ad apparire sempre nei momenti più propizi, quando cioè né sua madre né Duncan erano nei paraggi.

 

Il secondo regalo la aspettava sul suo letto, di ritorno da un’uscita particolarmente snervante con sua madre. Aveva scelto l’abito che avrebbe indossato il giorno del suo matrimonio, ma non c’era stata alcuna gioia in quel momento, perché sua madre era stata troppo occupata a pensare se qualche loro conoscenza avesse già indossato qualcosa di simile. Era tornata e si era subito chiusa in camera, dove aveva trovato un pacchetto appena più grande del precedente. Era la riproduzione di un dipinto di Salvador Dalì. Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana. Lo aveva studiato anni prima, ma attraverso le parole che Julian aveva scritto sul retro riuscì per la prima volta a coglierne l’essenza. Le aveva scritto una domanda: riuscirai a dormire placida anche quando un’ape verrà a pungerti?

 

Successe una sera al Max’s, dopo che Duncan l’aveva presa per mano e avevano iniziato a ballare tra quella stessa folla che qualche sera prima si era limitata a osservare da lontano. James chiamò Duncan per presentargli qualcuno, Daphne venne distratta da un’amica e Merope temette di ritrovarsi sola, finché una mano le pizzicò il fianco e, voltandosi, incontrò gli occhi ironici di Julian. Fu spontaneo, come già era successo una volta, scostarsi subito da quella figura slanciata che sembrava incombere su di lei.

 

-Ti dà fastidio essere toccata o è una reazione che riservi solo a me?- le chiese avvicinandosi all’orecchio per sovrastare la musica.

 

Lei lo guardò male: -In realtà non sono abituata a una simile confidenza.

 

Per tutta risposta, lui le sorrise: – Se non avessi già scelto il tuo soprannome, inizierei a chiamarti Gala.

 

-Chi è Gala?

 

-La musa di Dalì, la splendida donna il cui sonno viene disturbato dall’ape–baionetta nel dipinto.

 

-È questo che vuoi da me? Vuoi che sia la tua musa?- domandò tra l’incredulo e il divertito.

 

-Non esattamente. Voglio che tu sia la mia Persefone.

 

Scosse la testa, ripensando al dipinto: -E tu saresti Ade? Ma Ade non portava Persefone nel mondo dei vivi, la obbligava al regno del sonno, all’Averno. Credo che tu abbia scelto il dipinto sbagliato, Julian, e che soprattutto il ruolo di ape–baionetta non ti si addica per nulla.

 

-In realtà, mi paragono più alla melagrana… l’inconscio irrazionale da cui nascono le tigri che aggrediscono il sonno di Gala.

 

Merope rimase ghiacciata sul posto: -La tua è un’aggressione, quindi…

 

Julian scosse la testa, guardandola con un’espressione che parve intenerita: -No, Persefone. Il mio è un rapimento.

 

-Da Duncan? Dalla mia famiglia?

 

-Mh…– sembrò rifletterci su,– Direi dall’ombra in cui qualcuno ti ha relegata.

 

-Resta il fatto che Ade portava Persefone nel regno dei morti,– ribadì guardandolo con attenzione.

 

Julian sorrise. Duncan stava chiamando Merope tra la folla, ma lei sentì comunque la sua risposta.

 

-Forse quest’Ade vuole qualcuno che lo aiuti a fuggire.

 

***

 

Il terzo pacchetto la aspettava sul sedile posteriore dell’auto, mentre era diretta in campagna a trovare i nonni. Inutile negarlo, era stato con genuina impazienza che Merope aveva strappato la carta e aveva posato gli occhi sulla nuova trovata di Julian Cuveé. Come le volte precedenti, non era rimasta delusa: si trattava di alcune foto e ritratti che in un primo momento non le suggerirono nulla, finché non le girò e lesse ciò che Julian aveva scritto su ognuna di esse. Erano delle storie che vedevano come protagoniste persone reali – donne per l’esattezza–, anche se nelle parole dell’artista apparivano come dei personaggi leggendari, così affascinanti da non poter essere esistiti davvero. Erano La Bella Otero, Mata Hari, Clèo de Mérode, Diane de Poitiers, Isadora Duncan e la Marchesa di Montespan.

 

Fu un vero privilegio trascorrere le ore del viaggio in macchina in compagnia di simili donne, che rappresentavano tutto ciò che lei avrebbe sognato di essere: volitive, ambiziose, seducenti. Avevano vissuto in un mondo forgiato dagli uomini, dove si erano adattate alle circostanze per sopravvivere, per ritagliarsi un posto che fosse solo loro: le avevano chiamate puttane e meretrici, ma la verità era che avevano dato agli uomini ciò che nella loro debolezza anelavano e in cambio avevano avuto soldi, potere e prestigio sociale.

 

Quando, qualche sera dopo, Duncan e James le proposero di tornare al Max’s rispose di sì con troppa facilità. Nemmeno diede molto peso allo sguardo attento con cui Duncan la studiò.

 

-Credevo che stasera ti avesse lasciata a casa.

 

La voce di Julian la raggiunse alle spalle, mentre era rimasta assorta a contemplare un Duncan particolarmente sorridente in mezzo alle sue nuove conoscenze del Max’s. Era strano che desse così tanta confidenza a quelle persone, con lui non c’entravano davvero nulla: erano musicisti, fotografi, modelle, attori e registi, una categoria di persone che solitamente il Duncan pragmatico che lei conosceva etichettava come gente priva di utilità. Eppure da qualche tempo aveva l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con loro, offrendo da bere a questo o a quell’altro.

 

–Ciao Julian…

 

Lui si sedette sulla poltrona accanto alla sua.

 

-Il principe amministratore sembra parecchio indaffarato stasera,– commentò con un cenno alla compagnia di Duncan: una donna molto bella gli stava praticamente appiccicata addosso.

Merope lo guardò sorridendo: – Mi dispiace, ma con me la gelosia non attacca. Duncan è sempre stato così, o quanto meno dai tempi delle superiori. È una di quelle persone che stanno al centro dell’attenzione in modo naturale, senza forzature. Lui soffrirebbe se stesse qui in disparte, anzi… si spegnerebbe. Quando sta lì, sotto i riflettori, si accende una luce dentro di lui che inevitabilmente desta l’ammirazione di chiunque.

 

-Merope… così arguta, eppure così ingenua. Esistono davvero persone che non hanno questo bisogno?

 

Sorrise alla sua espressione smarrita e continuò: – Quanto tempo hai trascorso davanti allo specchio prima di essere soddisfatta dell’acconciatura? Quante volte ti guardi intorno per vedere se qualcuno sta fissando le gambe che stasera hai lasciato un po’ più scoperte del solito? E cosa pensi quando gli uomini perdono il filo del discorso mentre…– si morse il labbro e strinse gli occhi come se stesse pensando a qualcosa,– Cosa stavo dicendo?

Merope non poté trattenere una risatina quando Julian continuò a fissarla fingendosi disorientato. E fu proprio in quel momento che qualcosa sembrò davvero cambiare nello sguardo dello scrittore e il silenzio finì con il protrarsi per qualche secondo in più.

 

–Lo ammetto, sono vanitosa,– disse più per spezzare il momento di imbarazzo che per un’effettiva voglia di confidarsi, – ma stare al centro dell’attenzione non mi viene affatto naturale come veniva a quelle donne dei ritratti.

 

–Ma lo vorresti… E scommetto che ormai sai a memoria le loro storie.

 

Lei gli sorrise senza ammettere o negare quella considerazione. Si sarebbe scoperta troppo.

 

–Eppure ti sei dimenticato di una donna, quella che rappresenta da sempre il mio più grande cruccio e desiderio…

 

–Tua madre?- domandò visibilmente incuriosito.

 

–Oh no…– scosse la testa con forza, immaginando la reazione di sua madre all’idea di essere accostata a simili donne, – Mai sentito parlare di Maia Core Myrthus?

 

–Il Giglio di New York… L’ideale di perfezione dell’alta società newyorkese degli anni ’20. Mh, non saprei: troppo dorata, poche sfumature…

 

Merope lo guardò male. Dopotutto lui che ne sapeva di sua nonna? Anche lui, come tutti gli altri, si era fermato all’apparenza.

 

–In lei c’è molto più di quello che mostra, Julian.

 

Lui le rivolse un sorriso che non gli aveva mai visto prima di quel momento: non era ironico, ma cattivo.

 

–Questa sarebbe un’autentica novità. La mia esperienza mi suggerisce che i membri dell’alta società oltre quella patina dorata nascondano nient’altro che il vuoto.

 

–Mi dispiace,– replicò piccata,– Ma questa è la solita osservazione semplicistica e rancorosa di chi non ne fa parte.

–È qui che ti sbagli, principessa… Solo perché non ho una collana di diamanti rossi da sfoggiare non significa che non appartenga anch’io al tuo prezioso Olimpo.

 

–Di cosa stai parlando adesso?- chiese confusa.

 

–Sono stato uno di voi… A un certo punto, però, un fato capriccioso ha deciso di cancellare il nome dei Cuveé dalla lista all’ingresso del vostro bel mondo: le porte si sono chiuse, una dietro l’altra, e gli ultimi Cuveé sono stati costretti a ripiegare in quel mondo così vicino eppure così lontano dal vostro. Un posto orribile, fatto di morte e dolore. Non te lo consiglio…

 

***

 

Il quarto regalo fu il più difficile da comprendere: alcune pagine tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, quelle dedicate al mito di Orfeo ed Euridice. Fu il regalo che si fece attendere più di ogni altro e ormai a Merope era chiaro che non avrebbe potuto più rinunciare a quel gioco a cui Julian aveva dato inizio. Fu un sollievo trovare il pacchetto sulla tavola apparecchiata per la sua colazione solitaria. E ancora più entusiasta fu la sua reazione quando Duncan, quella sera stessa, la portò al Max’s. : lì avrebbe incontrato Julian e avrebbe potuto chiedergli spiegazioni sul nuovo regalo.

 

–È il fascino del peccato?

 

Merope si volse a guardare Duncan. Stranamente quella sera non sembrava particolarmente in vena di stare tra la gente, si limitava piuttosto a sorseggiare il suo drink accanto a lei, in placido silenzio. Anche Julian aveva un comportamento insolito: non si era avvicinato per salutarli. Neanche un cenno a distanza.

 

–Di cosa parli?- chiese smarrita.

 

–Lo stai fissando, Mer,– disse senza alcuna particolare inflessione nella voce,– Non provare a negarlo perché offenderesti la mia intelligenza. E poi…– aggiunse con un sorriso storto,– Capisco che le lusinghe possano fare piacere, soprattutto se provengono da un personaggio del genere. Suo padre era l’erede di una famiglia simile alla tua, ma fu del tutto incapace di gestire la crisi che mise in difficoltà persino tuo nonno. Persero tutto e, da quanto ho visto, conservarono solo la spocchia che sembra nata con voi.

 

Merope lo guardò, attonita: – Dun, da quando mi vedi così?

 

Lui le prese una mano, di nuovo sorridente: – Non te la prendere, amore, il bello è che non ve ne rendete nemmeno conto. Quello che voglio farti capire è che capisco la tua attrazione, la voglia di giocare col fuoco… Non sono e non sarò mai uno di quegli uomini all’antica convinti che la donna non abbia gli stessi impulsi dell’uomo. Ho troppo rispetto per te, capisci?

Lei annuì incerta, ma aggiunse lentamente: – Non capisco dove vuoi andare a parare…

 

–Mi esalta,– disse dopo un attimo di silenzio,– Vederti ammirata e saperti mia. Sapere che se anche sei attratta da un altro uomo c’è qualcosa di ben superiore che ti porta indietro da me. In fondo non è questo che provi anche tu quando mi guardi da lontano?

 

Era stato sincero e Merope avrebbe dovuto apprezzarlo. Le parole di Duncan, però, davano spazio a nuovi dubbi che si aggiungevano a quelli nati dalle conversazioni prive di senso con Julian. Poteva spiegare tutto come una semplice attrazione nei confronti dello scrittore? Era soltanto il fascino del pericolo rappresentato da quell’uomo dalle abitudini così deleterie? O c’era qualcosa di più profondo in quel bisogno di cercarlo con lo sguardo, adesso che sembrava negarsi a lei?

 

La verità era che per una volta avrebbe voluto avvicinarsi di sua iniziativa, allontanarlo da tutte quelle persone che lo accerchiavano e chiedergli finalmente spiegazioni su quelle pagine che le aveva donato. Prima era stata Persefone, poi una Gala dormiente dal sonno disturbato, poi ancora una cortigiana alla stregua di Mata Hari. E adesso? Adesso era soltanto Euridice, la sposa di un poeta finita nell’Averno per il morso di una vipera? E poi chi era Orfeo? Julian o Duncan?

In quel momento, mentre Duncan la lasciava sola per andare a prendere da bere al bancone, Merope si sentiva davvero come morsa da una vipera – o punta da un’ape? –: stava abbandonando il mondo in cui era nata per dirigersi dove un’oscura divinità aveva decretato che andasse. Era inutile nasconderlo a se stessa: c’era un cambiamento in atto dentro di lei e solo Duncan avrebbe potuto salvarla.

 

Duncan sarebbe andato a cercarla, Merope ne era certa. L’avrebbe trovata e riportata indietro, tenendola per mano come Orfeo con Euridice. Duncan, però, non avrebbe mai commesso l’errore fatale: non si sarebbe mai voltato indietro a guardarla prima del tempo. Avrebbe atteso, tutto razionalità e calcolo com’era sempre stato. E per questo motivo l’avrebbe tratta in salvo, alla fine. Il suo era un amore prudente, che non l’avrebbe mai e poi mai messa in pericolo.

Ma l’amore di Orfeo era altro… Era quella forza irresistibile che toglieva senso a tutto ciò che non era amore. Era quell’inconscio che spingeva a non fidarsi neppure della parola di un dio. Era voltarsi indietro perché per quell’amore “troppo presto” era già “troppo tardi”.

 

Erano questi i suoi pensieri, mentre Duncan continuava a camminare verso il bancone e Julian Cuveé continuava a fissarla da lontano.

 

***

 

Il quinto regalo giunse in una busta sottile, che trovò sotto il cuscino del suo letto. Già quel gesto avrebbe dovuto suggerirle la natura di quel che avrebbe trovato una volta aperta la busta. Era una poesia, Il Lete di Baudelaire. Julian l’aveva trascritta in francese e accanto si era premurato di riportarle la traduzione in inglese. Non ne ebbe bisogno, ma fu comunque una gioia vedere altre parole scritte di suo pugno.

 

Erano parole che avrebbero dovuto farla arrossire, ma era passato diverso tempo da quando Julian le aveva inviato il primo scabroso regalo e adesso si considerava una Merope diversa, più sciolta. Una volta uscita dalla sfera di controllo della sua famiglia, aveva potuto sperimentare un mondo diverso, dove ogni inibizione veniva inesorabilmente fatta a pezzi. Immersa in quel mondo fatto di note vibranti e volti in penombra, Merope aveva imparato a sentire. Adesso capiva che gli sguardi di Duncan il più delle volte celavano un desiderio inappagato, che faticava a tenere sotto controllo; capiva che nonostante il carattere schivo la sua bellezza attraeva gli uomini più diversi, sia quelli tutti d’un pezzo come il suo fidanzato sia quelli più stravaganti della cerchia di Julian; capiva, più di ogni altra cosa, che in quei mesi lo scrittore aveva tracciato un percorso fatto di chicchi di melograno – ne mancava un sesto per giungere a destinazione – e poi l’aveva accompagnata a ogni passo, pungendo quella parte di lei che a suo parere era sempre stata sopita. Lei continuava a non capire le sue motivazioni, ma c’era una verità indiscutibile: lo aveva lasciato fare, era entrata nel suo mondo un passo alla volta, dapprima timorosa poi sempre più spavalda; ad uno ad uno, aveva assaggiato i chicchi che lui le aveva offerto, senza provare a chiedersi le conseguenze delle sue azioni. Anche in quel momento, con le parole di Baudelaire a toglierle il fiato, la sua mente (ma quale mente, poi? Non c’era alcuna razionalità in lei!) era martellata da una sola domanda: la desiderava? La desiderava davvero o per Julian Cuveé era tutto un gioco, un tentativo di cercare l’ispirazione per la sua arte?

 

La risposta giunse nel corso di una serata particolarmente turbolenta; Merope, però, non fu abbastanza lucida per comprenderla.

 

Non sapeva spiegarne il motivo, ma quella sera l’atmosfera al Max’s si era fatta ancora più sfrenata del solito. Forse era il gran caldo scoppiato negli ultimi giorni, ma l’alcol sembrava scorrere a fiumi tra i tavoli e i divanetti del locale. Anche Merope, catturata dalle risate e dalla musica, sembrava del tutto incapace di rifiutare i calici di vino e champagne che le venivano messi in mano senza alcuna sosta.

 

Poi si erano messi a ballare per quelle che a Merope erano parse delle ore o dei minuti a seconda del momento. La musica, poi, aveva portato a termine ciò che gli alcolici avevano iniziato: la mente era stordita e i suoi sensi sembravano essersi fusi in un’unica piacevole sensazione di annullamento. Così le immagini si accendevano e spegnevano nella sua mente come dei fotogrammi che non avrebbe potuto collegare tra loro secondo un filo logico: Daphne baciava un uomo dai capelli vergognosamente lunghi; Duncan abbracciava Merope stretta al suo corpo mentre le avvicinava alla bocca un bicchiere contenente un qualche intruglio sconosciuto; James spintonava arrabbiato l’uomo che aveva baciato Daphne; Julian prendeva per mano Merope e la faceva ballare al centro di un gruppo improvvisato; Duncan ballava con una donna che gli ronzava sempre intorno, ma le faceva l’occhiolino quando la notava.

 

Finalmente qualcuno le avvolse le spalle in un abbraccio e la fece allontanare dalla calca. Forse era stata lei a lamentarsi ad alta voce o forse avevano notato che faticava a reggersi all’in piedi. Non seppe dirlo, ma l’unica preoccupazione fu quella di appoggiare la testa su  una solida spalla non appena furono seduti.

 

–Se Chloe la vedesse in questo momento annullerebbe le nozze,– commentò una voce divertita.

 

–Perché è ubriaca o perché lasci che un altro la tocchi?, – domandò un’altra voce.

 

Erano entrambe familiari, anche se più strascicate del solito. Erano due voci che per Merope avevano un significato particolare, anche se in due modi del tutto diversi tra loro. Una le parlava di corse sfrenate tra i boschi, di timidi baci scambiati sul ciglio della porta e di qualcuno che l’avrebbe difesa ad ogni costo. L’altra le parlava di luoghi che non aveva mai visitato, di un piacere che avrebbe cancellato ogni traccia di tutto ciò che lei era stata prima d’allora e di un’ombra da cui avrebbe dovuto fuggire.

 

–È inutile che ti affanni, Cuveé. Puoi spingere tutte le tue amiche e amici a starmi intorno, puoi fare in modo che io sia perennemente al centro di questo palcoscenico, puoi darmi tutta l’ammirazione e gli elogi che ti pare, se ritieni che questa sia la mia più grande debolezza. Ma io ti vedo comunque: continua a giocare con lei, se ti diverte. Ti consiglio di non sottovalutarla, però: è una Core e vale troppo per questo mondo così piccolo che hai eretto a tuo regno personale. Alla fine dei giochi, tornerà comunque dalla sua famiglia e da me.

 

–Come al solito c’è un malinteso. Non ho mai detto di volerla per una vita insieme…

 

Due mani sottili le presero i fianchi e le fecero appoggiare la schiena su un torace maschile, in modo che potesse stare più comoda. Sospirò non appena sentì quelle stesse mani risalire lentamente lungo le braccia scoperte, per poi tornare giù fino ad accarezzare un dito dietro l’altro.

 

–Tutto qui, è sesso quello che cerchi?

 

Una risata scosse il petto su cui riposava.

 

–Per te è tutto molto semplice, vero? Per carità, lo capisco… So che nel tuo mondo non può esserci spazio per le sfaccettature. Il mio mondo è diverso. Hai conosciuto un po’ di gente di questo posto e sai benissimo che ciò che ci accomuna è la continua ricerca di significati che vanno oltre quelli apparenti. E abbiamo i mezzi, Duncan, i mezzi per sublimare quei sempre troppo pochi significati che riusciamo a scovare. Se è solo sesso, mi chiedi. Ma cos’è il sesso? Due corpi nudi che cercano un qualche sfogo fisico? No, se lo chiedi a me ti dirò di no. Nell’antica Grecia esisteva un fiume che consentiva di dimenticarsi di se stessi e del proprio passato. Ti immergevi e il Lete cancellava tutte le colpe, anche quelle dei tuoi avi. Dimenticavi tutto il male che avevi fatto e ricevuto, ti dimenticavi degli amori e degli affetti ma anche del dolore provato quando te li avevano tolti. E rinascevi libero, un altro uomo. Finalmente.

 

–Le cazzate da poeta propinale a Merope. Cosa vuoi dalla mia fidanzata?

 

–Che dimentichi di essere una Core, che sia desiderata solo per se stessa.

 

–Oh, non preoccuparti, lo è già. Se le circostanze mi impongono di frenarmi non significa che non passi un giorno senza che io la desideri.

 

–Davvero?

 

Le mani che prima l’avevano accarezzata le sfiorarono il collo e dopo un attimo Merope sentì distintamente che un familiare peso le veniva tolto. Poi una presa salda intorno ai polsi la costrinse a tenere le braccia lungo il corpo così da farla sentire terribilmente esposta. Come se fosse stata appena offerta.

 

–Nessuna collana di melograno, nessuna Core di mezzo. La vuoi davvero?

 

Fu un momento e un respiro appena affannato le solleticò le labbra. Si irrigidì, ma oltre l’aroma dell’alcol riuscì a percepire il profumo di Duncan. Ancora un momento di esitazione e poté avvertire la bocca del suo fidanzato sulla sua. Fu mero istinto rispondere al suo richiamo e poi muovere languidamente la testa per aiutarlo in quella scia di baci che le tracciò dalle labbra fino al collo nudo.

 

“L’oblio abita potente sulla tua bocca e dentro i tuoi baci il Lete scorre”,– le mormorò una voce all’orecchio, prima di darle un morbido bacio sulla tempia.

 

Un bagliore di lucidità le rivelò qualcosa che le fece orrore: Julian la teneva tra le braccia, mentre Duncan la baciava come mai si era permesso di fare.

 

A margine di una pagina qualunque del diario,

una frase aveva catturato la sua attenzione:

“Nelle sue labbra la figlia di Pleis è sparita.

Mai più Maia. Mai più Core.

 Un’illusione?”

Merope correva tra gli alberi, a perdifiato.

Non stava fuggendo: correva verso di lui.

Si fermò in una radura spoglia, al cui centro svettava un enorme albero di melograno.

In esso un unico frutto, da cui stillavano gocce di un rosso cupo.

Dietro l’albero, Orfeo componeva poesie per lei, lei che aveva mille volti:

Persefone e vergine, Gala e concubina, Euridice e sposa.

Fece un passo silenzioso verso di lui e gli occhi grigi si posarono lesti su di lei.

Poi l’acqua sommerse tutto. Lei fu tutto e non fu niente.

Mai più Merope. Mai più Core.

Un’illusione?

 

 

 

 

 

 

2013

 

 

La villa dei Chambers a Capo Tenaro era un antico casolare in sasso, costruito sul declivio di una collina, che si affacciava direttamente su una caletta privata. A vederlo così, silenzioso e illuminato dall'ormai debole sole del tramonto, pensava Ade, si sarebbe detto un luogo dove rifugiarsi alla ricerca di pace e serenità, dove ritrovare la propria tranquillità lontani dalla frenesia della vita di tutti i giorni.

 

Eppure, vi erano stati anni in cui quei corridoi silenziosi e vuoti, quel giardino ancora verdeggiante avevano risuonato di voci, schiamazzi, musica che rimbalzava fra le pareti fino agli scogli a picco. Serate che si prolungavano fino all'alba, mentre giorno dopo giorno, gli occupanti della villa trascinavano in un vortice di divertimenti, spingendosi oltre il limite di ogni desiderio, sogno proibito, libidine.

 

Erano stati quei giorni in cui avere vent'anni e il mondo ai propri piedi era la sola cosa che importava, dinnanzi a una vita che sembrava allora interminabile: quell'età non era abbastanza per mettere la testa a posto, sistemarsi, costruirsi un futuro. Non era abbastanza per voltare le spalle a quegli effimeri piaceri che sembravano allora così innocui, ma che li avevano resi tutti schiavi dei propri irrefrenabili istinti e desideri: alcol, droghe, serate interminabili, popolate da volti tutti uguali, inebrianti quanto fragili sicurezze, colori accecanti, suoni assordanti. Eppure evidentemente vent'anni  erano abbastanza per morire e rimanere per sempre quei bambini immaturi nel corpo di adulti che non conoscevano più il senso del limite. Erano abbastanza per guardare la propria vita andare in fumo in mezzo a una casa ridotta a un ammasso di assi bruciate, divenute in meno di un'ora la tomba di quindici persone, troppo giovani per andarsene, troppo grandi per potere ancora avere la presunzione di sentirsi immortali.

 

Di venti, in sei erano usciti vivi dal rogo dello chalet dei Pendleton: Caroline Fairfax, Matthew Chambers, Logan Greenwood, Luke Pendleton, Benjamin McDeer e lui, ovviamente. Di questi, solo Matt e Caroline erano riusciti a rimettere in piedi le basi per una vita normale. Logan, dopo aver testimoniato contro lui e Ben al processo che li vedeva accusati di aver provocato l'incendio, si era schiantato con la propria auto da corsa nei pressi della tenuta di famiglia, nel Dorset: si diceva che nel suo corpo circolasse un mix di alcol e droghe in grado di stendere tre uomini adulti. L'auto di Ben era stata ritrovata dopo un anno dall'incendio sul fondo delle acque che forgiavano le coste della Cornovaglia; all'interno dell'abitacolo non vi era traccia di lui, dato infine per disperso dopo mesi di inutili ricerche. Luke viveva di rendita in Italia, dilapidando il patrimonio di famiglia, troppo vile e debole per cambiare e trovare la forza di chiudere con tutto quello che l'aveva ridotto in quello stato: ne aveva assecondato il richiamo, aspettando semplicemente il giorno in cui finalmente anche lui ne sarebbe caduto vittima e forse avrebbe smesso di soffrire.

 

Quanto a lui, era stato ripudiato dalla sua stessa famiglia. Aveva visto sua madre chiudergli la porta in faccia, quando era tornato a casa atterrito da un dolore talmente grande da ridursi a chiedere aiuto a coloro che sin dalla più tenera età lo avevano allontanato da casa, per lasciarlo crescere in un paese straniero, lontano dalle premure di una famiglia che di affetto non conosceva nemmeno il significato.

 

Era tornato a Londra nell'appartamento che prima divideva con Ben e Dwight, lasciando che una delle poche persone rimaste al mondo a cui avrebbe associato la parola famiglia lo trascinasse fuori dalla disperazione in cui era piombato dopo l'incendio, dopo la morte di Charlie. Ma, alla fine, era stato proprio Ben dei due quello che aveva ceduto per primo, lasciandolo solo ad affrontare una vita che lo privava persino dell'ultima persona che non gli aveva voltato le spalle.

 

Era partito, per non doverne sentire troppo la mancanza e perché in ogni angolo di una Londra divenuta ormai vuota risuonava l'eco del bruciante senso di colpa che lo stava lentamente uccidendo, giorno dopo giorno: navi da crociera, compagnie teatrali erranti, un teatro in lingua a  Roma. Si era costruito una vita fragile, illusoria, la cui effimera consistenza di altro non era fatta se non dei sogni di coloro che si lasciavano rapire dalle mutevoli realtà a cui dava vita quando saliva su un palcoscenico. Nessuno lo vedeva più ormai come Eugene Aderley, ma come Amleto, Edipo, Puck. Come il semplice animatore di quella macchina teatrale che rendeva per qualche ora più fantastica, gioiosa, tragica la vita del pubblico.

 

Era così facile intrecciare rapporti fulminei, quando agli occhi di terzi non eri altro che il frutto della loro fantasia: tutti lo vedevano come un eroe, un principe, un Re, mentre dietro quella luce diversa che mostrava il suo volto al mondo, lui rimaneva libero di sentirsi un uomo alla deriva, sporco e colpevole, libero di vergognarsi di ciò che era stato senza mostrarlo al mondo. E così, giorno dopo giorno, si era condannato lui stesso ad una vita adulterata, intrappolata fra una realtà dipinta dalla fantasia altrui e la cruda consapevolezza della propria meschinità, mosso dal solo desiderio di poter tornare indietro, di rimanere bloccato in quello chalet mangiato dalle fiamme. Innumerevoli erano stati i giorni in cui aveva maledetto il destino o qualunque altra cosa muovesse l'immensa macchina teatrale che era la vita per non averlo fatto morire, piuttosto che affrontare quell'esistenza misera.

 

Poi, un giorno, lo stesso destino lo aveva messo davanti a una svolta.

 

O a due, per essere precisi.

 

Dopo anni di silenzio, di solitudine e lontananza, un caso fortuito, una tempesta di neve lo aveva lasciato a terra, a Heathrow, con la prospettiva di rimanere bloccato in Inghilterra finché la tormenta non si fosse placata: era rientrato a casa, dove nulla era cambiato dalla sua partenza, solo lo strato di polvere che immobilizzava ogni cosa. La libreria piena dei DVD di Ben, il suo giubbotto pesante appeso nell'attaccapanni, un accappatoio lasciato per anni ad asciugare in lavanderia, persino la bottiglia vuota di birra che aveva dimenticato di buttare prima di chiudersi per sempre la porta di casa alle spalle abbandonandola sul tavolo vuoto, erano rimasti gli stessi.

 

Il cellulare di Ben in fondo ad un cassetto e l'incontro fortuito con Alix, una vecchia conoscenza dei tempi del College che aveva avuto una storia con l'amico, avevano fatto il resto: un minuto era un relitto in balìa del dubbio e tormentato dai ricordi che quella città evocava, quello dopo un video gli aveva fornito l'appiglio che aveva agognato per anni: qualcuno da accusare per tutto quel dolore.

 

Qualcuno la cui inevitabile rovina, suggellata in quei pochi secondo confusi, avrebbe forse cancellato parte di quel senso di colpa che lo aveva spinto alla deriva, ogni giorno di più, durante quei sei anni. Forse solo allora si sarebbero placati tutto il dolore per la perdita di Charlie, la rabbia e lo stordente senso di impotenza, la profonda vergogna che gli avevano impedito di condurre una vita normale, fino a quel momento. Forse solo allora avrebbe potuto vestire i panni dell'attore che aveva sempre conosciuto, per tornare ad essere l'uomo che non aveva potuto diventare.

 

Digli questo,
insieme al più e il meno degli eventi
qui succedutisi... Il resto è silenzio. (1)

 

Recitava il suo tatuaggio, a differenza di quello di Ben, prima che se lo facesse cancellare, nel desiderio di dimenticare tutto ciò che lo aveva legato a quel passato che non desiderava più rivivere. Ma era ora di dissotterrare vecchi fantasmi e timori: era ora, nonostante tutto,  di onorare quella scritta, fino in fondo.

 

 ***

 

Se avesse dovuto usare la parola casa per indicare qualcosa di preciso, Alistair avrebbe scelto gli antichi uffici della Demeter.

Vi era qualcosa fra quei corridoi ricoperti di quadri di inestimabile valore, fra le pareti vetrate e il legno scuro delle scrivanie, che gli infondeva sicurezza, che lo faceva sentire sereno. Sentiva di essere nato per donare la propria vita a quel posto: sin da bambino suo padre, amministratore delegato dell'azienda, lo aveva condotto lassù, al trentesimo piano di quel grattacielo nel cuore di Manhattan, tenendolo in braccio e raccontandogli, come una fantastica fiaba, il futuro di un uomo forte e sicuro di sé, che un giorno avrebbe preso il suo posto accanto a Taigete Core McDeer, l'erede diretta della Demeter. La sua futura suocera, Erin Core, aveva contribuito ad alimentare in lui questo sogno, spronandolo negli studi, sostenendolo quasi come fosse stato un  figlio. Molte malelingue avevano contribuito a spargere la voce che l'affetto che la donna gli dimostrava fosse conseguenza dell'amore segreto che questa avrebbe provato per suo padre; appena raggiunta l'età della perdita dell'innocenza, lui per primo aveva sospettato che non fosse solo la Demeter a legare i due, ma aveva poi capito che un marito, sebbene il matrimonio con Philip McDeer fosse ormai solo una facciata, era più che sufficiente a una donna come Erin, sposata innanzi tutto al suo lavoro e alla sua azienda.

 

Era cresciuto per quell'azienda, Alistair: ogni giorno della sua vita, lo aveva speso buttando anima e corpo nello studio, per coronare il sogno di suo padre, che era ben presto divenuto il suo. E, infine, aveva anche contribuito a legare per sempre il nome degli Elliott a quello dei Core, domandando a Tai di sposarlo.

 

Erano cresciuti insieme, lui e l'erede dei Core. Da bambini, loro due e Ben, erano stati un trio inseparabile: i tre moschettieri, si facevano chiamare. Era stato così facile, una volta cresciuti, innamorarsi dell'amica: indipendente, intelligente e selvaggia, ma allo stesso tempo dolce e sensibile, un giorno aveva semplicemente smesso di rappresentare per lui una compagna di giochi, per diventare un'attrattiva decisamente meno innocente. Stavano insieme da quando avevano poco più che sedici anni e non vi era stato un giorno, da allora, in cui Alistair non aveva smesso di considerarla parte integrante di tutto ciò che considerava il suo mondo: New York, la Demeter, suo padre, la famiglia Core.

 

Eppure, sentiva che la ragazza non gli apparteneva completamente: se mai fosse appartenuta a qualcuno, quella sarebbe stata a solo sé stessa. Vi era un desiderio mai sopito di libertà in lei, che a volte lo metteva in soggezione: sapeva che la sua fidanzata non aveva occhi che per lui, eppure ogni giorno conviveva con la sensazione e la paura che sarebbe bastato un soffio per allontanarla da lui e da quella rassicurante realtà che aveva sempre conosciuto.

 

-Tai.

 

La voce della fidanzata gli appariva lontana, disturbata dal rumore del vento e del mare, dove gli aveva detto di trovarsi. Si ritrovò a raccontarle dei piccoli avvenimenti che segnavano la sua quotidianità, desiderando ardentemente di poterli condividere con lei: la cucina finalmente era stata montata, i cinesi ancora tergiversavano per chiudere l’accordo con la Demeter, Erin delirava sugli antipasti del loro matrimonio e non bastavano tutta la calma di suo padre né quella di Philip a farla calmare.

 

-E mi manchi. Quando torni alla vecchia vita, giramondo?- aveva aggiunto infine.

 

Per un attimo tutto quello che udì furono i rumori di Capo Tenaro, e la voce di qualcuno che chiamava la ragazza a gran voce.

 

-Non so nemmeno quando ce ne andremo di qui, Al.

 

-Non è che ci stai prendendo gusto, a folleggiare in giro per l’Europa?

 

-Non mi sto divertendo. Sto cercando Ben,- replicò salace.

 

-Tai calma, sto scherzando. Però non vedo l’ora che torni qui, a folleggiare con me. Gli uffici senza di te sono troppo seri.

La sentì ridere debolmente, mentre gli prometteva di rientrare a casa il prima possibile. In silenzio appoggiò il telefono alla scrivania, scivolando sulla sedia di pelle con un sospiro. Chiuse gli occhi, facendosi rapire dal sonno che lo vinceva sempre, a quell'ora della sera, quando doveva trattenersi in ufficio per sbrigare le ultime faccende.

 

-Signor Elliott?- Margareth, la sua assistente, interruppe il suo assopirsi, infilando la testa dentro l'ufficio. -Io ho finito, tutti i documenti sono pronti per domani, se non c'è più nulla da fare andrei a casa. Penso che farebbe bene anche a lei, le ricordo che domani la Signora Core l'attende per gli assaggi del buffet.

 

Le sorrise debolmente, strofinandosi il viso. -Vai pure. Chiudo io qui, non ti preoccupare. Buonanotte, Margareth, scusa se ti ho fatto fare così tardi.

 

***

 

-Eugene...

 

L'aveva cercato a lungo fra i corridoi deserti della villa, per poi trovarlo in una stanza vuota, con gli occhi arrossati, seduto a gambe incrociate sul letto a fissare ammutolito una fotografia increspata negli anni. L’aveva attaccata Charlie, durante una delle loro vacanze e lei, sebbene fossero passati tanti anni, non aveva mai avuto la forza di toglierla da quello specchio. Li ritraeva a vent'anni, spensierati e sorridenti, colti nella naturalità di una corsa sulla riva del mare.

 

Si inginocchiò sul letto alle sue spalle, gli cinse il petto con le braccia attorno, appoggiando la testa sulla sua spalla. Quando lo sentì singhiozzare in silenzio, gli baciò lievemente la tempia, stringendolo di più a sé.

 

-Non mi ricordavo più il suo viso, Carrie, prima di rivederti. Continuavo a pensare a lei e a chiedermi se fossero davvero trascorsi giorni in cui sono stato il centro della sua vita...e ora che me la trovo qui, sotto gli occhi, non posso fare a meno di maledire il giorno in cui l'ho incontrata.

 

Ade era sempre stato un ragazzo silenzioso e riservato, ma in quegli anni di lontananza un'ombra era scesa a velare la freschezza della persona che aveva conosciuto. La stessa da cui doveva essere fuggito tutti quegli anni e che lo avevano tenuto lontano da loro, da lei che ai suoi occhi doveva rappresentare l'amaro ricordo di ciò che aveva perduto. Un'ombra fatta di rimorso, senso di colpa, vergogna per quello che era stato, immaginava.

 

-Char ti amava davvero, Ade. Inspiegabilmente,- sorrise fra le lacrime nate dal vederlo così, spezzato e fragile. -Sono convinta che, se davvero qualcosa di lei è rimasto qui fra noi, stia sorridendo guardando quello che sei diventato.

 

Il giovane scosse la testa, reprimendo uno sbuffo. -Non sono una bella persona, Carrie.

 

-Ade. guardati. Hai perso Charlie, hai perso Ben. La tua vita, per come la conoscevi, è andata in frantumi, la tua famiglia ti ha tolto tutto quello che avevi e non parlo solo di beni materiali. Eppure sei ancora qui. Io credo che tu sia una bella persona, ma che per qualche motivo a me oscuro, continui ad autopunirti per aggrapparti a una logica spiegazione all'orrore che abbiamo guardato in faccia. Perché ammettere che non è stata colpa di nessuno se quella tenda ha preso fuoco significherebbe arrendersi al fatto che la vita fa così schifo da fare morire in meno di trenta minuti dieci ventenni senza una ragione precisa!

 

-Caroline...se non fossimo stati un gruppo di incoscienti imbottiti d'alcol e strafatti di cocaina, acidi o di chissà quale altra sostanza probabilmente tutto questo non sarebbe successo.

 

-Ade, è stato un incidente, chissà cosa aveva in testa Logan quando ha accusato te e Ben! Sarebbe successo anche se fossimo stati tutti attorno a un tavolo a giocare a Monopoli sorseggiando Coca Cola. Certe cose capitano e basta! Per quanto continuerai a incolparti per qualcosa che non hai commesso?

 

Ade scosse la testa con forza, incapace di sentire ragioni.

 

-Supponiamo che si siano sbagliati. Supponiamo che scoprissi che è stato davvero uno di noi ad appiccare l'incendio. Non vorresti che pagasse per quello che ci ha fatto?

-No, Ade,- rispose accarezzandogli il viso con fare materno,-Penserei che, se fosse ancora vivo, starebbe pagando uno scotto così alto che il rancore provato distruggerebbe solo me, senza potere nulla contro la sua disperazione.

 

-Nemmeno se questo servisse a riscattare me?

 

Lo fissò negli occhi, accorgendosi solo allora di quanto in realtà Ade apparisse stanco e stremato. Come se fosse coinvolto in una perenne lotta contro qualcosa di più forte di lui, ma stesse cominciando a cedere.

 

-E pensi davvero che trovare il colpevole dell'incendio ti aiuterà a trovare qualunque cosa tu stia cercando?- gli domandò infine scostandogli il ciuffo scuro di capelli che  gli era crollato sulla fronte.

 

Ade tacque, stringendo le dita sulle ginocchia spigolose.

 

-Sai cosa potrebbe aiutarti, brutto testone che non sei altro? Smettere di crogiolarti nel tuo malessere. Trovarti un lavoro stabile, anche qui, se lo desideri: io e Matt abbiamo sempre bisogno di una mano. Vuoi continuare a fare l'attore? Benissimo, trova il coraggio di presentarti a un provino in una compagnia seria, visto che hai la fortuna di "vivere" nell'unica città al mondo dove ci sono più teatri che ristoranti italiani. Vuoi tornare a New York? Fallo e sbatti il tuo coraggio in faccia a chi ti ha rifiutato. Vuoi l' affetto che, in fondo, ti meriti? Svegliati, bel tenebroso.

 

Ade inarcò le sopracciglia, con sguardo interrogativo.

 

-Tai pende dalle tue labbra. O vuoi dirmi che non te ne sei accorto?

 

-Tai sta organizzando il suo matrimonio,- le rispose ridendo dell'assurdità di quell'affermazione.

 

-Un matrimonio a cui in fondo deve tenere moltissimo, visto che ha mollato tutto per seguire uno sconosciuto in giro per il mondo alla ricerca di una persona dichiarata morta da anni. Se non te ne sei accorto, allora sei proprio tonto.

 

- Tacque per qualche secondo, godendosi il suo rimanere, per una volta, senza parole sufficientemente taglienti per risponderle a tono.

 

-Anche se adesso che ci penso,- rincominciò per sollevarlo dall'imbarazzo che lo aveva ammutolito,- Io davvero non so cosa ci trovino in te, tutte quante, da perdere così la testa.

 

Ade si fissò le unghie distrattamente, stendendosi sul letto con i piedi incrociati:- Sono maledettamente bello.

 

Caroline scoppiò a ridere, sdraiandosi accanto a lui. -Sei anche maledettamente stupido, se è per questo.

 

Lasciò che Ade la stringesse a sé, perdendosi per qualche secondo nella pace di quell'abbraccio.

 

-Ade. C'é una cosa che devi sapere.

 

L'uomo rimase per qualche secondo in silenzio. Con il viso appoggiato al suo petto non le fu difficile notare che il suo battito fosse mutato d'improvviso, come se già sapesse quello che stava per rivelargli.

 

-Prima che Ben sparisse nel nulla, è stato qui. Disse di aver bisogno di Luke e di non sapere come rintracciarlo, ma sospetto che volesse solo salutarci un'ultima volta. "Ho fatto un casino e non posso più riparare", mi disse. Mi fece giurare di non dirti nulla, perché aveva paura che facessi qualcosa di estremamente folle, come andarlo a cercare. Ha detto che sarebbe sparito per un po', che forse non avremmo avuto sue notizie per molto, ma che non appena gli fosse stato possibile ci avrebbe contattato. Quando ci hai telefonato per dirci che era sparito da giorni, non sapevo cosa fare. Ero terrorizzata, Ade, pensavo di aver interpretato male le sue parole, temevo che si fosse buttato davvero giù da quella scogliera. Poi, dopo qualche tempo, ci è arrivata questa.

 

Caroline estrasse una cartolina dalla tasca dei pantaloni e gliela passò. La fotografia riportava una foresta innevata, che digradava fino alle rive di un lago ghiacciato, dove qualche avventuroso pattinatore scivolava lasciando armoniose scie sul sottile strato di neve che si era depositato sulla superficie.

 

-Canada...- mormorò Ade, sorridendo. Come sei prevedibile, Benjamin. La cartolina non riportava nulla, se non l'indirizzo di Carrie e Matt ad Atene, scritto con l'inconfondibile tratto nervoso e spigoloso di Ben. -Perché aveva bisogno di Luke?

-Non lo so, Ade. Forse aveva bisogno di qualcuno più disperato di lui che lo aiutasse a qualunque costo senza avere la forza di fermarlo, di farlo ragionare...forse...

 

-Carrie, sai bene che tra me Ben e Luke non è mai corso buon sangue. Ben non l'avrebbe mai cercato a meno che...- Ade batté più volte la cartolina sulla mano, - A meno che non gli servisse protezione. E immagino che, in un caso simile, il figlio di una delle teste più importanti del SIS, con le sue conoscenze, potrebbe tornare utile.

 

Carrie lo squadrò impensierita. -Cosa pensi di fare adesso?

 

-Suppongo che farò una visitina a Luke.

 

-Sei sicuro di volerlo fare?

 

Ade annuì, senza staccare lo sguardo da quella cartolina.

 

-Questo non é un gioco, lo sai vero? Un conto é ritrovare me e Matt, ma vedere Luke,- Carrie deglutì, cercando parole per descrivere una realtà il cui solo pensiero la atterriva. -Lo troverai molto cambiato, Ade. Quanto a Ben, sei consapevole di quanto sia rischioso andare avanti con questa faccenda? Potresti rovinarlo.

 

-Lo so, Carrie… Lo so, ma ho bisogno di lui per confermare il fatto che non c'entro niente con quell'incendio!- quasi urlò, incapace di trattenersi oltre.

 

Carrie lo scrutò sorpresa dal suo comportamento, visto che di norma non era il tipo di persona che si lasciava trasportare dall'impulsività, perdendo la calma. La tormentava la strana sensazione che l'amico le stesse nascondendo qualche dettaglio fondamentale della faccenda: era possibile che si prendesse la briga di smobilitare mezzo mondo, Taigete Core McDeer compresa, solo per pulirsi una coscienza già alleggerita dalle conclusioni delle indagini sulle cause che avevano scatenato quell'inferno?

 

Fu in quel momento che una voce dal basso li chiamò a gran voce, per annunciare che i gamberi alla brace erano quasi cotti. Carrie decise che, dopotutto, fosse il caso di lasciarlo in pace. Gli accarezzò una mano sorridendo debolmente. -Andiamo?

 

-Tu vai, io vi raggiungo,- mormorò lasciandosi cadere nuovamente sul letto, esausto. -Mi do una sciacquata al viso e scendo subito.

 

Carrie si avviò verso la porta, voltandosi solo nell'istante in cui stava per lasciarsela alle spalle. Ade era ancora lì, immobile, con lo sguardo fisso al soffitto e le dita che, nervose, tormentavano i capelli scuri.

 

-Ade, un'ultima cosa. Nemmeno Tai é un gioco. Se vuoi andare fino in fondo, non sarò io a fermarti, perché siete entrambi abbastanza adulti per prendere le vostre decisioni, ma ricordati che in questa faccenda, quella che ha più da perderci, é lei.

 

 

***

 

 

-Tai posso chiederti una cosa a cui sei libera di non rispondere?

 

Rientrata dalla telefonata con Alistair, Carrie l'aveva fissata a lungo con fare inquisitorio, da dietro la montagna di farina che avevano rovesciato sul tavolo per preparare la torta di compleanno di Susan, la sorella di Matt.

 

-Cosa ci fai qui?

 

-Cerco Ben,- aveva ripetuto meccanicamente, tentando di distogliere il pensiero dalla strana sensazione che la turbava.

 

-Sei sicura di non essere più alla ricerca di te stessa? O meglio, di quello che avresti potuto essere se non avessi lasciato che la famiglia, le convenzioni sociali e il corso degli eventi ti impedissero di lasciare andare tuo cugino, senza fare nulla per riportarlo da te?

 

Aveva taciuto, incapace di risponderle sinceramente. Più volte, da quando erano giunti in Grecia, si era ritrovata a pensare quanto tutto quello che avrebbe dovuto essere la sua vita, le apparisse così lontano, come se fosse cosa di altro mondo. Era possibile che dieci soli giorni di assenza, rendessero tutto così sfuocato e apparentemente irreale? E che lei stessa si sentisse un'estranea rispetto alla ragazza che era partita dal JFK?

 

-Non è che un attore a caso ha un ruolo in tutto questo?- le aveva domandato diretta Carrie.

 

-Cosa intendi?

 

Fuori dalla finestra della cucina, gli uomini si adoperavano per apparecchiare la tavola, fra un sorso di birra e un altro. Era stato in quel momento che aveva incrociato lo sguardo di Ade, catturando la sua attenzione. Aveva sentito il rumore del sangue pulsarle improvvisamente nelle orecchie, mentre lui le sorrideva impercettibilmente, alzando la bottiglia che stava sorseggiando nella sua direzione.

 

-Io credo che tu lo sappia.

 

La cena di compleanno di Susan si era svolta nel migliore dei modi, a dispetto delle sue ansie e delle sue preoccupazioni. All’ennesimo gambero, Tai si era dichiarata così piena da non voler più toccare nemmeno un angolino della torta che lei e Caroline avevano preparato la mattina stessa.

 

Si era sentita in famiglia, fra Caroline, Matt, Susan e Ade, come se si trovasse in un nucleo atipico che, senza che nemmeno lei lo domandasse, l'aveva accettata senza riserve. La loro presenza l'aveva tranquillizzata, specialmente dopo l'inquietudine che la telefonata di Al aveva scatenato. O forse erano state le domande che Carrie le aveva rivolto quel pomeriggio a turbarla al punto di sfuggire lo sguardo di Ade tutta la sera?

 

Sebbene tormentata dai pensieri, con lo scorrere del tempo, i racconti, il cibo, le risate, la musica e l’ambiente avevano fatto da sfondo a quella serenità che infine era riuscita a catturarla. Tutto sarebbe stato perfetto se non fosse stato per un piccolo dettaglio: era, di nuovo, brilla. Non così tanto da dichiararsi ubriaca, ma sicuramente abbastanza da farle fare qualcosa di ancora più stupido che dare corda a Matt che, dall'alto dei suoi quasi trent'anni, stava usando i bastoncini dei gamberi come denti da tricheco.

 

-Mi chiedevo...hai voglia di fare due passi?

 

Qualcosa come accettare l’invito di Ade, per esempio.

 

Camminarono a lungo, i piedi immersi nella sabbia umida e fredda della notte, risalendo lentamente la collina che conduceva al piccolo molo privato della proprietà dei Chambers. Tai si sedette sulla roccia ancora calda per il sole che vi aveva battuto tutto il giorno, facendogli spazio accanto a sé.

 

-Troppi ricordi in una sera?- gli domandò infine.

 

Ade annuì, giocando con le punte dei piedi scalzi.

 

-Perché lo fai Ade? Rivivere tutto questo, dico.

 

-Ho bisogno di credere che ci sia una seconda possibilità, per me.

 

Tai si voltò a fissarlo, stupita ancora una volta dalla cristallina semplicità della sua risposta. Eppure, velata fra la calma delle sue parole, vi era una sottile vena di una rabbia sopita, una forza che raramente aveva colto nel suo tono di voce. Per un momento ebbe la certezza che tale tono fosse animato dalla disperazione, ma fu un attimo, prima che lui parlasse rivolgendole quella domanda a cui lei per prima non riusciva a trovare risposta alcuna.

 

-E tu perché lo fai, Tai? Hai una vita perfetta, ad attenderti a New York. Non hai bisogno di tutto questo.

 

Continuava a ripetersi che doveva trovare Ben, per perdonarsi l’errore di averlo lasciato andare, di aver rinunciato a cercarlo, a lottare per lui. Eppure…eppure cominciava a capire che forse quello che Carrie le aveva detto, non era poi così lontano dalla realtà: era anche di se stessa che stava andando alla ricerca. Di quella persona che sarebbe stata se avesse avuto il coraggio di sfidare i voleri di sua madre, le tradizioni stantie di una famiglia che di solido aveva solo l’immenso patrimonio e di perseguire quella libertà che sua nonna stessa aveva agognato, vent'anni prima di lei.

 

Stava per cominciare a parlare quando alzò gli occhi sul viso di Ade, che continuava a fissarla con quel suo sguardo scuro, indecifrabile, privo di ogni bagliore, in attesa di una risposta. E fu allora che capì, d’un tratto, le parole di sua nonna.

 

Orfeo ed Euridice, quell'attrazione dinnanzi alla quale soccombeva persino la parola di un Dio, crollando rovinosamente per un solo minuto di debolezza.

 

Persefone e Ade, la discesa da un Olimpo luminoso e rassicurante, sostegno di cristallo tosto abbandonato per la magnetica attrazione dell'ignoto.

 

Ma lei non era la fragile e delicata Merope Core. A lei non sarebbe toccato in sorte il Dio dei morti, l'attrazione fatale di chi, cresciuto in una prigione dorata, agogna il torbido mondo reale, con la sua crudezza e i suoi pericoli.

 A lei, il patetico umorismo della sorte aveva riservato Amleto, il dubbio, il rompicapo. Il magnetico richiamo di chi come lei aveva sempre vissuto nella certezza di sé e, convinto di avere il mondo sotto al proprio controllo, non riesce a gestire ciò che sfugge da ogni schema razionale.

 

Chi sei, Eugene?

 

Si alzò in piedi di scatto, sentendo il sangue gelarsi alla luce di quell'inquietante epifania, e corse veloce verso il molo, trovandosi ben presto a sporgere verso l'acqua scura.

 

Ai suoi piedi, il mare aveva il colore del tempo perduto: scuro, misterioso, profondo, ipnotico. Buttarvisi poteva essere la sua sola salvezza, o la sua condanna.

Allungò la punta del piede scalzo, rimanendo in bilico sul legno consunto e pericolante di quel luogo che sembrava dimenticato da tutti; il richiamo era così forte che, senza pensarci, si sfilò il vestito leggero, senza curarsi di rimanere quasi nuda, mentre  deboli schizzi di acqua le picchiettavano le gambe sottili e lei chiudeva gli occhi, alzando il viso al cielo.

 

Prima fu il fruscio di stoffa inumidita dall'acqua salmastra.

Poi l’arrestarsi subitaneo del respiro di Ade alle sue spalle, quel silenzio piombato su quel minuscolo spazio di terra prima del vuoto.

Il battito assordante del cuore nelle orecchie.

Il faticoso deglutire di due gole identicamente prosciugate dal timore dell'ignoto.

L'inarrestabile sciabordio cadenzato delle onde contro il molo.

 

Un'armonia perfetta. L'ultima sinfonia di un'estate che si accingeva a morire, su quella spiaggia all'estremo confine di un mondo andato perduto, amplificata dall'avvolgente oscurità che tutto faceva suo, loro compresi.

Per qualche istante Tai rimase bloccata, in bilico fra la claudicante sicurezza della fatiscente struttura lignea e il vuoto di quel mare che la catturava e la richiamava, suggerendole che non vi era nulla di male in ciò che stava facendo, se non soddisfare il desiderio di un richiamo viscerale.

 

Un lento e lieve rumore di passi la costrinse ad aprire gli occhi. Colta da un senso di vertigine, per un momento tutto ciò che vide fu un'oscurità perpetua e onnipresente. Poi, d'improvviso, luminoso e nitido dinnanzi a lei, apparve l'ammasso delle Pleiadi, splendente dopo che il vento aveva spazzato via la nuvola che l'avevo coperto fino a quel momento.

 

-Lo sapevi che le Pleiadi dominano le notti d'autunno e d'inverno del nostro emisfero?

 

Il respiro di Ade s'insinuò nell'incavo fra la spalla e il collo, mentre il suo corpo, così vicino che ne poteva percepire il calore, la proteggeva dal vento che soffiava da terra come se volesse spingerla ad abbandonarsi all'abisso davanti a lei. Un brivido le corse lungo la schiena, scuotendola fino alla punta delle dita, nel momento in cui la sua mano le cominciò a sfiorare il collo, là dove il vento le aveva sollevato i capelli.

 

-Buttati da sola, prima che sia troppo tardi.

 

Un sussurro, una preghiera, formulata prima che le sue labbra le accarezzassero l'orecchio, la guancia, per poi seguire la linea della mascella, fino all'estremità delle labbra.

 

Tai si voltò a guardarlo, sfuggendo al rapimento in cui quei baci l'avevano fatta sprofondare. I capelli sconvolti dalla brezza, le labbra ancora socchiuse, gli occhi scuri e profondi, come il mare che li circondava. Non li aveva mai visti così, mutevoli e impazienti, arresi a quel desiderio che paralizzava entrambi, i corpi serrati l'uno contro l'altro, tanto che Tai poteva percepire il sangue pulsare come impazzito sotto la pelle di lui. Avvicinò il volto al suo, facendo risalire la mano lungo la schiena, studiando gli impercettibili movimenti di quegli occhi sfuggevoli, che la fissavano quasi imploranti. E fu solo allora che riuscì a scorgervi qualcosa, attraverso l'opalescente luce delle lampadine incrostate che illuminavano deboli e stanche il molo: il suo viso.

 

Il rumore ovattato della maglietta di Ade che cadeva sul legno umido del molo, quello attutito dei jeans che vi si depositavano sopra, lo scricchiolio dei loro passi sulla passerella, si aggiunsero ai rumori di quella notte, mentre Tai piombava nuovamente in quell'onirico smarrimento che le aveva dato le vertigini poco prima, quando non aveva più saputo distinguere se i suoi piedi poggiassero a terra o percorressero, leggeri, il percorso fra le costellazioni che facevano da spettatrici immobili di quella notte fuori dal tempo.

 

E infine, assordante, stordente, il rumore del mare che copriva ogni altro suono, l'acqua tiepida che le distendeva il corpo, contratto dalla paura che le aveva impedito di buttarsi, la pelle di Ade che aveva il sapore del sale, del sole di quella terra a lei sconosciuta, le sue braccia serrate attorno alla schiena che le impedivano di perdersi nella corrente che li stava spingendo lontani dal molo; l'aveva baciato continuando a fissarlo negli occhi, ipnotizzata e stordita da quel nero sporcato dalle luci che rimbalzavano sull'acqua, attorno ai loro corpi serrati, sopra i loro volti ormai confusi in un unico intreccio di labbra e dita incapaci di fermarsi.

 

-Ti avevo detto di buttarti da sola,- le sussurrò tirandola ancora più a sé facendola affondare impercettibilmente mentre le accarezzava le gambe nude, serrate attorno alla sua vita.

 

Tai si scostò leggermente, allontanandogli il viso con le dita premute sulle labbra.

 

-Non mi avresti seguita comunque?- gli domandò lasciando la presa attorno al suo corpo.- Perché è per questo che siamo qui, no? Tu hai bisogno di me, io so dove andare senza di te. Fine della storia.

 

Ade non rispose, ma continuò a fissarla in silenzio, il volto impassibile, le labbra serrate.

 

-Non verrò meno ai patti, se é questo che temi. Potevi anche evitarti il tuffetto di mezzanotte,– lo rimbeccò infine voltandosi di scatto e cominciando a nuotare verso la riva, sollevando volontariamente schizzi che mettessero più distanza possibile fra loro.

 

Come aveva potuto essere così ingenua da lasciarsi trascinare dalla follia di quella notte, dall'oscurità in cui poteva solo smarrirsi, da quella terra che le dava l'illusione di essere una persona diversa?

 

Di colpo, sentì la mano di Ade serrarsi attorno alla sua vita, impedendole la fuga.

 

-Ti avrei seguita comunque,- le disse mentre con le dita della mano libera la costringeva a voltarsi verso di lui e a sollevare il mento, - Anche solo per domandarti una cosa.

 

-Sarebbe?- domandò lei sentendo la forza di volontà abbandonarla nuovamente, nel momento in cui lui tornò a intrecciare le gambe alle sue.

 

-Fai l'amore con me.

 

 

 

Di nuovo quell’incubo. Un'aula di un tribunale bollente, che lo soffocava, impedendogli di respirare. Gli occhi di suo padre fissi su di lui, impassibili, freddi, vuoti. Sua madre che fissava fuori dalla finestra, ignorando il suo disperato richiamo.

 

-Non..no, è Ben, io non c’entro niente, per favore!

 

Poi qualcosa, nel corso immutato del sogno, cambiò. -Lo giuri?

 

Un volto anonimo, privo di lineamenti, lo fissava porgendogli un libro su cui stendere la mano. Era piccolo e consumato dal tempo, e fra le pagine poteva scorgere scorci di vecchie fotografie, biglietti, ricordi. Una mano cerea lo aprì, mostrandogli la prima pagina, occupata da un solo nome, scritto più volte con inchiostro colorato. Merope.

Si destò di soprassalto, senza capire dove si trovava. Aveva capelli appiccicati alla fronte, il lenzuolo madido incastrato fra le gambe. Lo colpì tuttavia, la sensazione di calore di un corpo attaccato al suo, il respiro disteso e rilassato di qualcuno a pochi centimetri dal collo. Sospirò profondamente, appoggiando la testa sul cuscino. Sdraiata parzialmente su di lui, con le gambe intrecciate alle sue, Tai dormiva profondamente, nonostante il suo sonno agitato.

 

Merda.

 

-Ade…puoi rimetterti a dormire, per favore? Mi stai facendo venire la nausea a furia di agitarti. E smettila di blaterare nel sonno, tanto in questa stanza ti sento solo io, grazie al cielo. E, per la cronaca, non ho intenzione di darti corda.

Percorse il profilo della ragazza con gli occhi, scostandole una ciocca dalla fronte, tranquillizzandosi lentamente man mano che la sentiva riprendere sonno, socchiudendo le labbra e abbandonandosi alla sua stretta.  Tai, un viaggio senza una meta conosciuta, l’affetto di una famiglia andata perduta, la prospettiva di una vita diversa. La quiete, dopo una vita a scappare. Era reale tutto quello che gli stava capitando, o era ancora frutto della fragile e menzognera realtà in cui si perpetuava, giorno dopo giorno, la sua vita?

 

“Basta una stilla di male per gettare un'ombra infamante su qualunque virtù.”(2)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note delle autrici


*Parola ad Agnes Dayle*

Come avrete notato, nella parte dedicata a Merope sono state inserite diverse citazioni che spero non abbiano creato troppa confusione. Per qualche chiarimento, andiamo con ordine.

Innanzitutto l’album citato nei precedenti capitoli, The Velvet Underground & Nico ( http://www.youtube.com/watch?v=Zw4tHPUK6ig): considerato una delle pietre miliari del rock, in realtà nei primi anni dalla sua uscita non riscosse un particolare successo.

Il secondo regalo è un’opera di Salvador Dalì dal titolo lunghissimo che ho voluto accorciare per esigenze di trama: Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un istante prima del risveglio (http://1.bp.blogspot.com/-aiuziRYkXZE/T1ymOWTfA1I/AAAAAAAABik/9wORpNy9mZI/s1600/sogno.jpg).

Il terzo regalo è composto dalle storie di cortigiane (per cui si ringrazia nonna Emi ovviamente), ballerine e spie che hanno fatto della loro bellezza uno strumento di potere (http://it.wikipedia.org/wiki/Mata_Hari).

Il quarto regalo è un brano tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, dedicato al mito di Orfeo ed Euridice (http://it.wikipedia.org/wiki/Euridice_(ninfa) ).

Mentre il quinto è la poesia Il Lete di Baudelaire, che viene poi citata direttamente da Julian quando bacia Merope sulla tempia (http://www.teresaventrone.it/lete.htm).

Spero di non avervi annoiate. ^_^


 

(1)Amleto, Atto V

 

 

(2) Amleto, Atto III




Cucù!

 

 

Ci siete?

 

 

É stato un capitolo bello pieno, vero? (pieno come le nostre pance post abbuffate natalizie).

 

 

Dunque, dunque, dunque. "La caduta di Persefone", infine, é arrivata. Ognuna a suo modo, ovviamente, ma ormai le nostre tre protagoniste, sono nelle mani di Ade. Che succederà ora? Come reagiranno le famiglie? E i fidanzati? Ma soprattutto, la domanda é...come proseguirà l'evoluzione delle ragazze? (non ce lo chiedete mica, tanto non lo sappiamo! AHAHAHAH...)

 

Scherzi a parte, ci auguriamo davvero che questo capitolo vi sia piaciuto: se dobbiamo essere sincere, noi eravamo decisamente emozionate quando l'abbiamo finito di scrivere. Sono state le due settimane più frenetiche della storia dal punto di vista di commenti, fotografie, pareri, correzioni. (Tendiniti da pc e cellulare in arrivo!)

 

 

Ma, soprattutto, ci auguriamo che  la storia vi stia prendendo e che vi stiate affezionando ai personaggi e ai mille intrecci esattamente come lo stiamo facendo noi. Ne approfittiamo dunque per ringraziare chi ha recensito, chi ha mipiacciato, inserito la storia fra seguite e ricordate, chi ci da corda nei nostri gruppi e nella pagina di Persefone. E anche chi passa di qui in silenzio, ovviamente.

 

 

 

Con la speranza di avervi tenuto piacevole compagnia per il tempo della lettura, vi salutiamo e vi diamo appuntamento alla prossima, oppure nei nostri gruppi e nella pagina dedicata a Persefone, dove siete sempre i benvenuti!

 

 

 

 

 

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti!

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Lyra segnala che oltre al fanclub "Tutte amano Duncan" é stato aperto il C.R.E.S.B. (Comitato riabilitativo Euscemo sfigati e bullizzati). Chiunque voglia sostenerlo, é libero di unirsi. In premio una cantatina del suddetto disagiato -tanto lo convinciamo-.

Se invece é la beneficienza che vi interessa, questa domenica partecipate all'iniziativa "un euro per una parola" organizzata per fare ritrovare la favella a Gabriel. In dono un chicchetto di whisky per tutti i donatori.


 




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Capitolo 6
*** Atto V ***


 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

Atto

5


1920

 

 

Era una sensazione particolare sentirsi estranei in quella che era, a conti fatti, casa propria: eppure, nonostante il nome Rafael troneggiasse a grandi lettere sulla cassetta delle posta all’entrata, Nathanael non si era mai sentito davvero a suo agio lì. Quella era la casa di Abbie, in cui si era trasferita dopo la morte del marito ma in cui il figlio non aveva mai trascorso molto tempo, prima perché i dormitori di Harvard erano la sua dimora e poi perché i Core lo avevano reclamato per sé. Persino i domestici non sapevano come comportarsi con lui, perché per quanto lo riconoscessero come il proprietario di quella casa lo incontravano talmente poco che persone estranee alla famiglia ma ospiti assidui della signora Rafael erano figure molto più conosciute e familiari.

Nathanael non era un Core, ma non era neppure totalmente un Rafael e quella sensazione l’aveva sempre disturbato, portandolo a dimenarsi in entrambe le realtà nel tentativo di farle convivere, ma solo Maia riusciva a farlo sentire a suo agio in qualunque luogo e con qualsiasi nome.

Nathanael allontanò quel pensiero con un gesto infastidito e si avvicinò a sua madre, sorridendo davanti allo stupore della donna per quella visita inattesa e in pieno orario lavorativo, sapendo come si sarebbe immediatamente preoccupata, ma di come ne fosse anche intimamente lieta: passavano sempre troppo poco tempo insieme.

La signora Rafael congedò in pochi attimi la sua segretaria e ordinò ai camerieri di portare del thè mentre il figlio veniva distratto dai fogli sparsi sul tavolino, decorazioni floreali rosse e verdi e così invernali da stridere con il caldo che regnava incontrastato in quei giorni a New York.

 

-Fiori per la festa?

 

Abbie annuì: –Bisogna muoversi per tempo, dicembre arriverà in un battito d’ali e considerando che Potnia ha già tutto organizzato nei minimi dettagli, io non posso essere da meno.

 

La voce leggera della madre non lo illuse neppure un attimo: la celebrazione religiosa e la seguente cena, che avrebbe unito i festeggiamenti per il matrimonio e per il capodanno, era stata orchestrata interamente da Lady Core, senza che Maia o Abbie avessero alcuna voce in capitolo.

Se la futura sposa sembrava aver accettato quella realtà senza troppi problemi, la madre dello sposo invece desiderava una sera per festeggiare quelle nozze senza che questa diventasse un evento mediatico, con giornalisti ad assediare gli invitati e gli sposi, senza che ogni gesto dovesse essere pesato e ogni parola misurata, e così aveva organizzato una cena per pochi intimi la sera dell’Immacolata, poche settimane prima delle nozze.

Nathanael non dubitava che sia lui che Maia sarebbero stati molto più felici quella sera che il 31 dicembre.

 

-Agrifoglio?- fu tutto ciò che si limitò a commentare.

 

Abbie annuì. Non era stata una scelta casuale la sua, anche se la maggior parte delle persone avrebbe accostato quella scelta semplicemente al Natale imminente. Suo figlio, però, avrebbe dovuto sapere.

-Ancor prima dell’avvento del Cristianesimo l’agrifoglio era un simbolo costante nelle feste pagane che si celebravano il 25 dicembre e le bacche rosse rappresentavano la fertilità durante la profonda oscurità invernale, una promessa di ritorno di luce e calore. Ho pensato che fosse opportuno, mio caro. Per molti sarà un semplice simbolo natalizio, ma per me è un augurio: sai quanto sono stata in pena per Maia dopo… Però spero che il matrimonio le dia una nuova serenità. Che la dia ad entrambi,- commentò prendendogli le mani tra le proprie.

 

-È solo il Titanic che vi ha spinta a scegliere l’agrifoglio, madre?

 

Sapeva perfettamente che non fosse solo il Titanic il problema, ma qualcosa di molto più vicino e presente, potenzialmente devastante.

 

-Hai letto l’Harper's magazine stamattina.

 

Non era una domanda, perché il giornale si trovata in bella vista sul tavolo vicino la finestra e Natahanael si alzò a prenderlo.

Abbie sospirò, -Sì, l’ho letto, ma…

 

-Non esistono ma, madre. Cito testualmente,- continuò aprendo la rivista, -“Sembra che l’ultimo capriccio della splendida Maia Core sia Gabriel Hasmal, che i nostri lettori ricorderanno per i fiumi di inchiostro che abbiamo speso per decantarne le lodi e che da anni vive ai margini della società. Se inizialmente l’idea del regalo di nozze di Nathanael Rafael era parsa terribilmente romantica, dopo che la giovane Core è stata vista fuggire dall’abitazione di Hasmal scossa e scarmigliata, ci si domanda fin dove si sia spinto il loro rapporto. Dopotutto, noi conosciamo bene il temperamento del nostro pittore.”

 

-Parlano di capriccio, Nathanael…

 

Nathanael si alzò di scatto, –Certo che parlano di capriccio, sono pronti a giustificarle qualsiasi cosa, loro non la conoscono!

 

Rabbia. Orgoglio. Per la prima volta in vita sua aveva voglia di scuotere Maia e farle affrontare la realtà, perché non era un capriccio quello, lui lo sapeva bene, ma qualsiasi cosa fosse rischiava di ferire tutti loro: Hasmal, che di certo non aveva bisogno di ulteriore pubblicità negativa, lui perché avrebbe dovuto sopportare insinuazioni e pettegolezzi e lei stessa, perché se c’era qualcosa che Maia detestava era che le sue azioni ferissero gli altri.

Eppure, in quel contesto sembrava aver perso totalmente il lume della ragione, allontanandosi da lui e giocando con delle fiamme più potenti di quanto immaginasse. Si era chiesto mille volte se non avesse sbagliato assecondando il suo rifiuto categorico di parlare del Titanic, se costringerla non l’avrebbe sì fatta soffrire ma le avrebbe anche permesso di liberarsi, almeno in parte, di quei fantasmi. Quell’articolo aveva riproposto per l’ennesima volta quel vortice di domande.

 

-Lotta per lei, Nathanael. Per anni hai lottato per la Demeter, per dimostrare ai Core di esserne il degno erede, ma Maia è sempre stata scontata nel quadro, destinata a te da scelte altrui che è stata felice di seguire. Forse è giunto il momento di lottare per questo rapporto, mio caro. Combatti per Maia e combatti per te.

 

***

 

Per tutta la vita, Maia Core Myrthus aveva interpretato il ruolo che le era stato assegnato, diventando la pupilla dell’alta società, l’emblema di quel mondo che viveva di corsa, spinto dal desiderio di non perdere neppure un istante e che fingeva che la guerra non fosse esistita, benché tutto fosse dettato dal ricordo –consapevole o meno che fosse- del conflitto mondiale.

Aveva spesso pensato alla sua esistenza come quelle sale di attesa in cui le persone perdono istanti preziosi in attesa di essere ricevuti.

Donne come lei non avevano una vita, ma trascorrevano le giornate partecipando alla stagione, scegliendo vestiti e gioielli e facendo beneficienza fino al giorno del matrimonio, quando sarebbero diventate autonome dalla famiglia d’origine, avrebbero avuto una casa da gestire e hobby da coltivare.

Le donne americane erano più fortunate rispetto alle inglesi, più libere, eppure proprio lei, privilegiata tra i privilegiati, sentiva che neppure il matrimonio avrebbe cambiato poi molto la sua vita: la casa, l’azienda sarebbero continuate ad appartenere a Potnia, che non aveva alcuna intenzione di dividere il proprio potere con la figlia.

E Maia, ogni giorno di più, diventava insofferente e stanca, sull’orlo di un precipizio da cui neppure Nathanael sembrava in grado di condurla lontano.

Voleva vivere, voleva provare cosa significasse ubriacarsi fino a star male e urlare senza ritegno sulle montagne russe e fare il bagno nuda a mezzanotte. Voleva smettere di interpretare quel ruolo per seguire l’ordine che la propria immagine riflessa le dava ogni mattina: vivi. Maia non viveva, non davvero, e forse era stato proprio quello ad avvicinarla a Gabriel, perché se era iniziato come un gioco di innocente seduzione, l’uomo era diventato, seduta dopo seduta, l’emblema di ciò che lei sarebbe voluta essere, la possibilità di urlare al mondo il proprio malessere e la propria rabbia senza curarsi delle conseguenze. Ed era stata la stessa sensazione che l’aveva avvicinata a Pleis, perché la sua antenata aveva alzato la testa e stava progettando di fuggire da un mondo in cui professare una religione diversa implicava la morte. Era così diversa quell’Inghilterra dall’America del Proibizionismo, che non lasciava ai propri cittadini neppure il sacrosanto diritto di ubriacarsi senza che questo implicasse infrangere la legge?

Gli Stati Uniti volevano averli sotto controllo, ma bere nei locali clandestini non li rendeva comunque succubi di quel perverso meccanismo? Bere all’aria aperta, consapevoli dei rischi… Quello era opporsi. Era contrastare le aspettative della società che li voleva diversi da chi fossero realmente, costringendoli ad interpretare un ruolo per così tanto tempo da farli dimenticare la vera identità. Nessun sogno, nessun progetto che non fosse già stato approvato da altri.

Ma Maia era stanca e Gabriel sembrava, con la sua oscurità, l’unico faro nella nebbia e lo era diventato, ormai lo sapeva, nel primo istante in cui si erano conosciuti perché Gabriel non era stato solo l’uomo che aveva dipinto quello splendido quadro, ma anche –e soprattutto- colui che le aveva offerto da bere del whisky, incurante di qualsiasi proibizione. E lei aveva accettato, condannandosi. In cosa differiva quell’offerta dai sei chicchi di melograno che Ade aveva offerto a Persefone?

 

-Allungherei leggermente il velo, signorina Core.

 

La voce della sarta la riportò bruscamente alla realtà e la ragazza ammirò l’immagine che le rimandava lo specchio davanti a sé: l’abito da sposa era stato oggetto di lunghe discussioni con sua madre, desiderosa che la figlia seguisse la tradizione familiare indossando un vestito imponente e ricco, sfoggio dell’opulenza delle Core. Era stato forse l’unico dettaglio del matrimonio su cui Maia aveva opposto strenua resistenza, imponendo un abito a maniche lunghe in seta color crema e pizzo argento, bordato interamente con perle di riso e cristalli per compensare la linea morbida e lineare di moda in quegli anni; la collana di melograno sarebbe stato l’unico gioiello, giacché solo una spilla di cristalli avrebbe tenuto fermo il velo, rinunciando alla tradizionale tiara familiare. Un coprispalle di pelliccia bianca, da indossare negli spostamenti all’esterno, avrebbe completato l’opera.

Era un abito romantico ed elegante e sapeva che Nathanael lo avrebbe adorato quanto lei.

Avrebbe meritato una descrizione nel diario, dopotutto era un pezzo importante della sua vita. Avrebbe dovuto recuperarlo, scrivere a Gabriel o alla governante affinché glielo restituissero… Non era mai stata molto costante nella scrittura come non lo era in centinaia di altre cose, ma negli ultimi mesi era diventato un pezzo fondamentale della sua vita, l’unico mezzo che possedeva per dar voce ai pensieri che l’angustiavano, soffocata com’era da quanto era accaduto con Gabriel e l’inquietante parallelismo con la sua antenata. Aveva lasciato Pleis divisa tra la confortante certezza della vita in seno alla propria famiglia e il desiderio di fuggire con l’uomo che amava, un uomo marchiato come eretico e condannato a morte per questo. Voleva conoscere la sua scelta e, al tempo stesso, ne era terrorizzata.

 

-Avete scelto il bouquet?-le chiese ancora la donna, mentre si muoveva attorno a lei per sistemare gli ultimi dettagli.

 

Maia si ricosse e, dal momento che il vestito le copriva i piedi ma non aveva alcuno strascico, concordò per allungare il velo, ma si rifiutò di rinunciare alla scollatura sulla schiena, unico movimento dell’abito che davanti le copriva interamente il petto.

-Il bouquet saranno cinque calle a stelo lungo, tenute insieme da una fascia di seta dello stesso colore dell’abito, per cui penso verrà da voi a breve.

 

Vide la donna aprire la bocca per rispondere, per poi sbiancare e tacere: attraverso lo specchio Maia vide i suoi genitori avanzare e, a giudicare dalle loro espressioni, non erano lì per ammirare l’abito.

Come sempre, Potnia Core precedeva il marito, semplice satellite perennemente nell’ombra di una donna che, nonostante si atteggiasse ad inglese, aveva lo stampo delle americane, forti e fiere della propria libertà. Maia era bella, sapeva di esserlo, ma era una bellezza dettata più dal personaggio che aveva creato attorno a sé che da un semplice fattore esteriore; Sua madre, al contrario, era sempre stata ai suoi occhi l’incarnazione stessa della bellezza, con quella pelle di porcellana, il fisico filiforme e i lunghi capelli biondi che le cadevano sulla schiena voluttuosi e incantatori; l’abito color champagne su una qualsiasi altra donna sarebbe risultato fuori moda, con la gonna troppo lunga e la scollatura poco profonda, ma nessuno avrebbe mai potuto definire  lei fuori moda.

Non era mai stata molto amata, Lady Potnia, ma possedeva qualcosa che in pochi potevano vantare in quel mondo: il rispetto del prossimo, uomo o donna che fosse, perché la signora della Demeter era una donna che aveva conquistato il proprio posto nel mondo con le proprie forze, segnando una rivoluzione in quell’antica famiglia che, benché apparentemente matriarcale, aveva sempre relegato le donne sulle sfondo, lasciando che fossero i mariti a guidarle.

Se Maia era una sciocca e deliziosa fanciulla, Potnia Core non sarebbe mai stata un semplice orpello al braccio di un uomo.

 

-Hai letto l’Harper's magazine, suppongo.

 

Maia annuì appena: era stata una sciocca, sapeva di essere costantemente seguita dai fotografi in attesa di un suo passo falso che quel giorno aveva servito loro con disarmante leggerezza, troppo sconvolta da quel bacio per riflettere sulle conseguenze della sua folle corsa per allontanarsi da Gabriel.

I giornalisti erano stati insinuanti, più vicini alla realtà di quanto non credessero loro stessi, e lei non aveva idea di come giustificarsi. E Nathanael… Del giudizio dei genitori si curava ben poco, ma cosa avrebbe pensato lui all’idea che lei potesse averlo tradito con il pittore da cui egli stesso l’aveva mandata?

Spezzata.

Una parte di lei voleva solo poter dimenticare ciò che avevano condiviso ed era sciocco perché in fondo era stato solo un bacio che per lui probabilmente non aveva avuto alcun significato, ma che per lei era stato l’apice di un percorso interiore che aveva compiuto grazie all’animo torturato di quel pittore che le era entrato dentro tanto, troppo tempo prima. L’altra parte sapeva che nulla sarebbe mai tornato come era stato, né lo desiderava.

 

-Ho letto, sono solo sciocchezze.

 

-Sciocchezze di cui New York parlerà per giorni.

La voce di sua madre era un sibilo furioso da cui Maia istintivamente si allontanò.

-Non so a che gioco tu stia giocando, bambina, ma qualunque esso sia deve finire ora. Non vedrai più quel pittore e camminerai lungo la navata con la reputazione intonsa degna di una Core. Mi comprendi?

 

Maia non rispose, spostando lo sguardo oltre la finestra, verso una New York soffocata dal caldo: il 31 dicembre sarebbe arrivato sin troppo presto e non vi era modo per fermare il tempo.

 

-Guarda tua madre.

 

La voce di Oliver la fece sussultare e la ragazza si costrinse a guardare la madre, leggendovi tutta la delusione che sapeva vi avrebbe trovato.

 

-Nathanael?- chiese scioccamente.

 

-Non ha commentato e se conosco l’uomo che è non lo farà, purché questo non si ripeta. Non lo merita, lo sai.

 

La ragazza annuì. Avrebbe sistemato le cose, in qualche modo, ma quell’abito non le sembrò mai così pesante.

 

***

Ogni volta che entrava in quei locali clandestini si chiedeva perché si ostinasse a frequentare quelle persone che mal sopportava e che lo detestavano, ma immediatamente si rispondeva che non era la compagnia di quei ricchi newyorkesi che cercava lì dentro, bensì l’accesso agli alcolici che non sempre riusciva a procurarsi di contrabbando autonomamente: una buona dose di whisky e un taxi che lo accompagnasse a casa era tutto ciò che chiedeva a New York in quelle serate.

Un oblio indotto.

Le rade luci del locale proiettavano ombre di varie forme sulle pareti, nella zona del bar e tra i tavoli affollati di vecchi e nuovi ricchi che si godevano senza remore il proprio denaro; solo il palco era interamente bagnato dalla luce e, ai suoi piedi, Maia Core lo stava osservando con un calice di champagne tenuto distrattamente in mano e gli occhi che sembravano enormi tra quelle ombre. Gabriel si ritrovò a ridere della grottesca ironia del destino che li aveva fatti incontrare per la prima volta dopo il bacio in quel locale dietro la lavanderia, l’Ades.

Aveva ripreso in mano il carboncino così tante volte da averne perso il conto dall’ultimo giorno di posa, ma nonostante il febbrile bisogno di sfogare ciò che lo torturava attraverso l’amore di tutta una vita, la pittura sembrava avergli nuovamente voltato le spalle.

Ade aveva bisogno di Persefone per sopravvivere.

Non era stato così, prima. Prima, in quel mondo che si lasciava alle spalle il 1800 per incedere maestosamente in un’era moderna che prometteva meraviglie Gabriel Hasmal aveva lavorato senza sosta, producendo forse pochi dipinti ma infinite bozze nella sua incapacità di rimanere senza disegnare troppo a lungo. Persino quanto accaduto a Ceridwen non gli aveva fatto abbandonare ciò che non era solo una passione, ma una necessità spasmodica senza la quale era impossibile vivere: aveva perso la sua musa, ma non se stesso.

Poi era arrivata la guerra e la sua mano sembrava capace di disegnare su carta solo il dolore: l’orrore che i ricordi portavano con sé e la consapevolezza devastante di aver perso la sua parte migliore , la più vera. Gabriel Hasmal era un uomo mutilato, in modo forse meno palese rispetto a tutte quelle anime che avevano sacrificato sull’altare di Signora Guerra una parte del corpo, ma non con meno dolore.

Dopotutto, il carboncino era sempre stato un prolungamento della sua mano.

Poi, imprevedibilmente, l’arte era tornata e aveva assunto le forme di ciò che più detestava, per punire la sua tracotanza, la sua arroganza, la cecità che non lo rendeva poi così diverso da quella New York a cui aveva urlato contro anni prima, perché Maia Core, sotto quella patina di perfezione e perbenismo, era spezzata quanto lui.

 

La cameriera gli si avvicinò portandogli il solito bicchiere di whisky, ma Gabriel neppure la guardò: Maia si era alzata e stava ballando con le sue amiche seguendo la voce del cantante di colore che riempiva l’aria, eppure per quanto si sforzasse di ignorarlo, tra una risata e un passo di danza, il suo sguardo incrociava costantemente il suo.

Non ballava per lui. Ballava per New York, per mostrare agli avventori del locale ciò che volevano vedere, una ragazza spensierata che si muoveva sensuale sulla pista, mentre le labbra componevano le parole della canzone; lo evitava ostentatamente, si era limitata a salutarlo con distacco quando si erano incrociati poco dopo il suo arrivo, desiderosa di dimostrare a tutti come le parole del giornalista non fossero altro che chiacchiere vuote.

Quando la signora Calloway glieli aveva mostrati quella mattina, le mani suoi fianchi e un’espressione di rimprovero dipinta sul volto; non aveva fatto domande, non gli aveva chiesto di confermare o smentire, si era semplicemente limitata a ricordargli che Maia si sarebbe sposata in pochi mesi e che lui, di scandali, ne aveva avuti a sufficienza.

Non che avesse tutti i torti, dopotutto; i giornalisti non avevano insinuato nulla di più di quanto non fosse di fatto successo, perché neppure loro potevano pensare che Maia Core si fosse spinta più in là di un bacio, privando Nathanael Rafael del privilegio, che gli spettava di diritto, di prendersi la sua virtù. Eppure, non poteva fermarsi, non se lei non glielo avesse chiesto espressamente, e dagli sguardi furtivi che gli rivolgeva dubitava fosse di quell’opinione. Non era più l’iniziale desiderio di distruggerla, perché qualcuno –l’arroganza dell’uomo che pensa di poter sfidare la natura e uscirne indenne- l’aveva già fatto.

Non era neppure per il quadro perché semplicemente non esisteva più nessun quadro.

Non lo aveva compreso subito, ma aveva composto i pezzi di quel puzzle poco a poco, comprendendo come il silenzio che seguiva le sue domande non fosse l'egoismo di una ragazzina viziata, ma celasse piuttosto un dolore più profondo, antico come il mondo. Aveva bisogno di sentirselo dire, però, prima di rinunciare a quell'ultimo barlume di redenzione. Non lo attendeva l'Ade greco, che tra tutto il dolore che vi dimorava celava comunque un angolo di speranza, quasi fosse il fondo del vaso di quella sciocca Pandora, quei Campi Elisi che non permettevano di definire gli inferi un luogo di puro dolore. Il suo era l'inferno cristiano, il luogo da cui non avrebbe mai potuto posare lo sguardo sulla figura divina. Senza speranza.

Eppure lei era lì, non Beatrice, speranza dantesca di trovare la pace e la saggezza, ma Persefone, compagna di solitudine e dolore.

Al contrario della sua controparte divina, però, Maia non poteva dividersi tra due mondi e Gabriel sapeva che, alla fine, la scelta non sarebbe mai ricaduta su di lui; non vedeva Natahanel, ma non dubitava che il cavalier servente fosse più vicino di quanto non sembrasse.

 

Era talmente perso nelle sue elucubrazioni che si accorse solo dopo molto tempo che qualcosa stava succedendo non molto lontano da lui: sembrava che una decina di uomini festeggiasse il ritorno di qualcuno ma non era stato il chiasso ad attirare la sua attenzione, quanto piuttosto una parola, un nome, che gli ghiacciò il sangue nelle vene.

Johnson.

Era un giovane di neppure vent’anni, ma i suoi lineamenti erano così inequivocabili da scacciare qualsiasi ipotesi di omonimia.

 

-Era ora tornassi da quelle lande sperdute!

 

Qualcuno gli offrì da bere, lo fece accomodare. Gabriel ascoltava in silenzio, la mano stretta sul bicchiere e il respiro mozzo.

 

-Il tuo vecchio si è deciso a tirare le cuoia?

 

-Il suo vecchio è qui, vivo e vegeto.

 

Le risate si spensero un istante, ma il nuovo arrivato, un uomo sulla cinquantina che ancora non aveva evidentemente perso il vizio di godersi la vita, offrì da bere a tutti, sciogliendo il gelo che aveva fatto calare sugli amici del figlio.

E Gabriel comprese, con una lucidità perfetta, così diversa dall’oblio che lo aveva soffocato quella sera maledetta, che lo avrebbe ucciso, perché non aveva più nulla da perdere. Lo avrebbe ucciso, perché aspettava da anni il momento in cui quel mostro avrebbe rimesso piede a New York.

Si alzò facendo cadere la sedia e attirando su di sé l’attenzione del gruppo; qualcuno lo riconobbe e gli chiese ironicamente contro chi avesse voglia di urlare quella sera, qualcun altro non comprese e si limitò a ridacchiare, ma Gabriel sapeva che lui l’aveva riconosciuto. Glielo aveva letto in quegli occhi viscidi, nel lampo di paura che li aveva attraversati, perché Johnson comprese l’errore e comprese che il giuramento che il pittore aveva fatto anni prima non erano mere parole al vento. Non sarebbe mai stato troppo lontano dalla sua vendetta.

Il primo pugno lo fece vacillare, ma non lo stordì al punto da non fargli percepire il silenzio che era calato nell’intero locale, spiazzato da quella rabbia: in pochi, lì dentro, potevano ricordare Ceridwen, ma se avesse avuto la forza di guardarsi attorno li avrebbe riconosciuti in quelle figure lontane, ferme nell’ombra senza la minima intenzione di calmare la furia di Hasmal, consapevoli di come lui la meritasse.

Il secondo pugno lo colpì allo stomaco, mozzandogli il fiato, e Johnson si accasciò a terra rimpiangendo la propria stupidità; si sarebbe dovuto informare, non fidarsi semplicemente delle parole di chi gli aveva fatto sapere che raramente Hasmal si faceva vedere in pubblico. Eppure, anche se fosse potuto tornare indietro avrebbe ricompiuto le stesse scelte: quella puttana meritava quello che le aveva fatto.

Il terzo pugno gli fece perdere conoscenza.

 

Fu una mano ferma sul suo braccio, una voce che lo implorava di smetterla e riportarlo alla realtà, ad impedirgli di ucciderlo. Maia.

 

-Vieni via, per l’amor del Cielo! Lo ammazzerai!

 

Il terrore le aveva fatto perdere qualsiasi formalismo e Gabriel dovette lottare contro l’impulso di baciarla lì, davanti a tutti, perché era la sua Persefone in quell’inferno in terra che non lo avrebbe mai abbandonato.

Si fece trascinare fuori, la mano in quella di lei ed il collo bianco ed eretto come punto di riferimento per non perdersi, per non tornare indietro a finire ciò che aveva iniziato, che avrebbe dovuto fare molto tempo prima.

 

-Cos’è successo?

 

Ho bisogno di te, voleva rispondere. Ho bisogno di te perché non posso sopportare che la pittura mi abbandoni di nuovo.

 

E quei pensieri non fecero che aumentare la rabbia che già provava, perché la vita gli aveva tolto troppo, gli aveva tolto tutto, e sapeva che l’avrebbe privato anche di lei.

 

-Manderò un taxi. Domani, alle cinque del pomeriggio.- rispose invece, stupendo se stesso per primo.

 

Maia sussultò e nel suo sguardo poteva leggere il suo tormento, divisa tra ciò che la legava a Nathanael e il desiderio di assecondare il proprio istinto.

Rafael, d’altro canto, doveva aver saputo che la sua fidanzata aveva trascinato il presunto amante all’esterno per impedire che uccidesse un uomo, perché stava andando loro incontro ed era livido di rabbia. Un’altra vita, forse loro due sarebbero potuti andare d’accordo.

-Cosa?

-Volevi uscire con me. Sei davvero in grado di farlo o non sei altro che un’ipocrita, come tutti loro? Alle cinque, domani.

E salì nel taxi senza darle la possibilità di replicare, sparendo nell’oscurità e lasciandola totalmente spiazzata.

 

-Vieni dentro.

 

La voce di Nat, brusca come mai era stata, riportò Maia alla realtà, spingendola a sfoggiare il suo miglior sorriso nonostante la freddezza nello sguardo del suo fidanzato.

 

-Stavo…

 

-Io so cosa stavi facendo, Maia, sei tu che non lo sai. Per salvare Hasmal da una rissa hai reso me lo zimbello dell’intera New York. Ti ho sempre lasciata libera di compiere le tue scelte, libera di frequentare chiunque tu desiderassi, ma questa volta hai superato qualsiasi limite. Li hai letti i giornali? Sai cosa dicono di voi due? Di me?

 

Era furioso, avrebbe solo voluto urlare ma non poteva, o chiunque avrebbe compreso che era un uomo ferito e tradito, e Nathanael era pronto a giurare che più di un paparazzo fosse appostato a spiare la scena. Lo era? Maia, la sua Maia, l’aveva davvero tradito con quel pittore? Aveva sempre pensato di essere l’unica persona in grado di leggerla, sotto tutte le maschere che indossava quotidianamente, ma in quel momento neppure lui era in grado di capire se quell’espressione da fidanzata preoccupata fosse sincera o non fosse altro che l’ennesimo travestimento che alla fine era giunta ad indossare persino con lui.

 

-Mi dispiace.

 

-Lo so. Torniamo dentro,- aggiunse cingendole le spalle con un braccio, -Sorridi,- l’ennesima pantomima. –Non lo vedrai mai più,- Parole di ghiaccio, le medesime di sua madre, sulle labbra dell’ultima persona che credeva le avrebbe mai pronunciate.

 

E Maia comprese davvero come tutto fosse ormai sfuggito dal suo controllo: la sua immagine perfetta, il suo fidanzamento perfetto, la sua vita perfetta. Le maschere stavano crollando e lei non sapeva se avrebbe avuto la forze di rimettere al loro posto.

 

***

Il sole tentava di fare capolino tra le nuvole di quel pomeriggio estivo, ma sembrava non riuscire a vincere quella battaglia. Le cinque stavano arrivando e Maia si osservava allo specchio divisa tra il desiderio di andare all’appuntamento e l’istinto di gettare la cloche sul letto e sciogliere l’elaborata acconciatura, di riporre l’abito bianco nell’armadio e tornare in biblioteca a far finta di sfogliare libri che non avrebbero attratto la sua concentrazione per più di cinque minuti.

Quando la cameriera bussò alla porta per annunciarle l’arrivo del taxi la ragazza sobbalzò, ma subito riacquistò compostezza e, rifiutando l’offerta del maggiordomo di farla portare dall’autista di famiglia ovunque stesse andando anziché usare la vettura pubblica, salì nel veicolo, non sorprendendosi di trovarlo vuoto. D’altro canto, né lei né Gabriel avevano voglia di ulteriori scandali.

Sul sedile accanto a lei giacevano il diario e un giglio, forse quello che aveva abbandonato a casa del pittore dopo il bacio, forse un altro. Aveva importanza? Il sesto fiore, il sesto chicco di melograno che aveva tracciato la strada che li aveva condotti a quel momento, a quell’incontro clandestino che, lo sapeva, non avrebbe portato alcuna nota positiva. Notò che l’autista, già edotto su dove andare, cercava volutamente le strade più affollate, a volte facendo anche giri inutili volti a seminare qualsiasi fotografo che, appostato fuori casa Core, avesse deciso di seguirli per scoprire la sua meta. Qual era la meta, comunque? Gabriel aveva taciuto e, nella frenesia del momento, lei neppure aveva avuto modo di indagare; con il fiore in grembo sapeva che, dopo quel giorno, non si sarebbero più rivisti, perché era una Core, perché stava per sposarsi e non voleva far soffrire nessuno per i suoi capricci, soprattutto non Nathanael, l’unico compagno che desiderasse accanto, il suo angolo di mondo felice e spensierato, la cui presenza era l’unica ragione che le permetteva di credere che la serenità potesse esistere anche per lei. Gabriel era solo una parentesi, forse quello di cui aveva bisogno per lasciarsi alle spalle quella parte della sua vita prima di percorrere la navata nell’abito da sposa. Ironico, che anche per quel giorno avesse scelto il bianco.

Aveva quasi raggiunto una condizione di calma quando l’auto si fermò e lei, scostando i tendaggi, vide per la prima volta dove fossero giunti.

Il cimitero di Green-Wood si estendeva davanti a lei, ma quello non era l’ingresso principale, bensì uno secondario che permetteva l’accesso alle tombe attraverso un intricato groviglio di rami, quasi una piccola selva talmente fitta da creare un luogo oscuro per chiunque vi passasse sotto.

Il suo primo istinto fu fuggire, ordinare all’autista di tornare indietro, di riportarla a casa lontana da quel luogo di morte e dolore, ma prima che potesse reagire questi le aprì la portiera e le tese una mano invitandola a scendere.

 

-Il signor Hasmal vi attende oltre gli alberi.

 

-Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

 

Fu solo un sussurro, il suo, in una lingua che le era estranea, ma l’incipit dell’opera del fiorentino Dante l’aveva sempre affascinata. Dopotutto, non era anche lei nel mezzo del cammino della sua vita? Il matrimonio non sarebbe stato forse uno spartiacque?

E Beatrice, la donna amata dall’esimio poeta, non era morta a ventiquattro anni, la stessa età in cui lei aveva ricevuto la collana di diamanti rossi?

Aveva pensato davvero a tutto, Gabriel?

E fu allora che lo vide, al termine di quei pensieri e della selva, davanti ad una tomba la cui sola vista le mozzò il fiato per il terrore.

 

-Perché siamo qui?

 

Lui si limitò a sorriderle: –Dove altro potremmo andare, io e te? Dove altro potremmo incontrarci se non in un luogo in cui solo i morti possono essere testimoni?

 

In mille altri posti, pensò Maia, o forse in nessuno, perché quel luogo che per anni aveva evitato sembrava essere paradossalmente perfetto per loro.

 

Sentì il braccio cingerle la vita, la mano –quella mano- insinuarsi tra le pieghe dell’abito e seppe, come lo comprese lui, che quel giorno avrebbe segnato le loro vite, perché non potevano continuare a sfiorarsi ancora a lungo senza collidere miseramente: Maia gli avrebbe voltato le spalle o sarebbe rimasta con lui in quell’Ade, in quell’inferno dantesco senza speranza alcuna?

 

-Qual è il tuo girone, Maia Core?

 

-Cosa?

 

-Il tuo girone, qual è? Hai studiato Dante, sei una signorina istruita, sei persino stata a Firenze, nella sua patria. Quale girone ti appartiene di più, peccatrice? Il limbo?

Il luogo di coloro che erano privi di fede perché non avevano avuto modo di conoscere Cristo. E Maia non aveva forse perso la sua fede molto tempo prima?

 

-Il secondo, forse? Il vento della lussuria ti trascina nel suo vortice di dolore?

Le notti trascorse insieme a Nathanael senza mai sfiorarsi. Il desiderio che si impossessava di lei non appena Gabriel era vicino. Galeotto fu il quadro. Galeotto fu il suo desiderio di diventare immortale attraverso la pittura.

 

L’uomo abbandonò il suo fianco girandole attorno e costringendola a ruotare su se stessa per non staccare i propri occhi da quelli del pittore. Quel luogo del cimitero, tra i resti mortali di una cortigiana e la gelida scultura di un angelo piangente, era deserto e quasi buio senza il sole, ormai interamente coperto dalle nuvole.

 

-Tra i golosi, avari e prodighi.

La vita di lusso che aveva condotto, il cibo pregiato, i fiumi di champagne illegale. Avara d’amore, che non concedeva a nessuno.

 

-Iracondi e accidiosi?

L’immobilità dello spirito. Aveva mai scelto, in vita sua? Aveva mai scelto, dopo quella notte maledetta nelle acque dell’Atlantico?

 

Ogni parola era uno strattone alla sua maschera, ogni parola era un incubo di dolore, non perché appartenesse davvero a quei gironi, ma perché le ricordavano la fragilità umana, le debolezze tanto a lungo nascoste da chi, come lei, come il signor Andrews, avevano avuto l’ardire di aver realizzato qualcosa di indistruttibile, l’una se stessa, l’altro un transatlantico.

 

-Son le Bolge il tuo luogo? Ruffiani e seduttori, adulatori e lusingatori, simoniaci, maghi ed indovini? Lo sai anche tu, non è l’Ade greco il nostro luogo.

Non era forse iniziato tutto dal suo sciocco ed egoistico desiderio di sedurlo? Di ammaliarlo? Di renderlo in sui potere come qualsiasi altro uomo?

Maia crollò a terra, il volto rigato dalle lacrime e il corpo tremante. Perché le stava infliggendo quella tortura?

 

-Traditori. Non lo senti il freddo? Non lo vedi Lucifero? E Giuda, Bruto e Cassio? Resta qui con me.

Con le mani sulle orecchie e le ginocchia ferite dal terriccio della strada, lo implorò di smetterla.

-Resta qui con me.

 

-Tu vorresti essere la regina dell'Olimpo, vorresti che io fossi l'Ares per la tua Afrodite.

 

Maia scosse la testa, spaventata: l'ombra dell'angelo piangente sembrava ricoprirla e soffocarla, in quel luogo di morte e dolore in cui Gabriel sembrava trovarsi così a suo agio.

 

-Il regno che io posso offrirti è l'Ade. Vuoi essere la mia Persefone?

 

-Per favore, mi fai paura.

 

La voce tremante, il cuore che le batteva furioso nel petto.

 

-Fuggi allora. Vai via da me.

 

Avrebbe voluto scappare, lontano da quel luogo, lontana da lui, ma il corpo di Gabriel era come una calamita e Maia si sentì svuotata, ormai irrimediabilmente persa.

 

-Ti prego falla smettere, non lo sopporto, falla smettere.

 

-Cosa?- la domanda gli morì sulle labbra e il terrore gli ghiacciò il sangue: voleva trascinarla con sé nel proprio inferno personale, ma solo in quel momento comprese che il buio che circondava Maia era molto più fitto del proprio. Gabriel aveva imparato a conviverci, ma la ragazza l’aveva rinnegato fino a quel momento. –Cosa devo far smettere, Maia?

 

-La musica! Falla smettere! Continuano a suonare, ti prego falli smettere.

 

Gabriel si chinò vicino a lei e le allontanò le mani serrate sulla collana, così strette fino a far sbiancare le nocche. –Non sta suonando nessuno, Maia. Non c’è alcuna musica.

 

Lo sguardo che gli rivolse era completamente disarmato, come se ogni difesa fosse infine crollata tranne l’ultimo, tremulo, baluardo. Sussultò, serrando gli occhi, stringendo così forte la collana da spezzarne il gancio e lasciando scivolare un’unica, solitaria lacrima.

 

-L’aveva acquistato la signora Caseebeer a Parigi da un mercante d’arte. Lo vidi nella sua cabina.

 

La voce, isterica fino a quel momento, era velata da una calma tremula e Gabriel avrebbe quasi potuto pensare che avesse trovato la pace se non avesse saputo che la pace, per loro, non sarebbe mai giunta.

 

-Dove, Maia? Dove hai visto la mia Ceridwen?

 

La ragazza aprì gli occhi e fissò la collana che le giaceva in grembo, abbandonata. Sei maledetti chicchi di melograno, un luogo di morte, un dio degli inferi e una Persefone che doveva scegliere la strada da intraprendere.

 

-Lo sai.

 

-Dove?

 

Un’unica, ossessiva domanda.

 

-Perché mi stai facendo questo?

 

-Perché non ti libererai mai di quei fantasmi, Maia Core, ma puoi imparare a convivere con loro.

 

Era cambiato, Gabriel Hasmal: se fino a pochi istanti prima sembrava deciso a distruggerla, in quel momento nei suoi occhi non vi era che una profonda compassione e un’empatia che Maia non aveva mai scorto in nessuno. Gabriel sarebbe sempre stato Ade, signore di quel suo inferno personale fatto di rimpianti e dolore, di trincee e sangue,così come il proprio era composto di ghiaccio e acqua.

 

-Sul Titanic.

Non pronunciava quel nome dalla notte del 15 aprile 1912 quando, seduta su una scialuppa, implorava il marinaio di andare a salvare chiunque fosse sopravvissuto al tracollo del transatlantico. Il Titanic era appena colato a picco e solo i detriti e i corpi di chi, dotato di salvagente, era rimasto a galla segnalavano che lì, in quelle acque lisce come l’olio, aveva transitato l’inaffondabile.

 

-L’ho visto in quella cabina, insieme a Francis Millet… E l’ho rivisto dopo, mentre una donna tentava disperatamente di salirvi sopra insieme al proprio bambino.

 

L’immagine la scosse come uno schiaffo. Una donna disperata. Un bambino piangente. La tela che cede sotto il loro peso. Il bel viso della modella distrutto per sempre. Due vite destinate a spezzarsi nel gelo di quelle acque.

 

-Non siamo arrivati in tempo per salvarli.

 

-Come puoi essere certa che fosse quello il quadro?

 

Una domanda sciocca, perché se anche Maia si fosse sbagliata, nessun quadro dei molti presenti a bordo era stato recuperato in seguito. Eppure…

 

-La proprietaria era una donna strana, circondava le tele di cornici bizzarre e quello mi aveva colpito, tra le altre cose, per la scelta.

 

-Melograno?- domandò allora, esasperato da quel destino che continuava a ripetersi ossessivamente.

 

-No… Agrifoglio.

 

L’uomo crollò a terra, accanto a lei. Non avrebbe mai potuto restituire a Ceridwen l’ultimo barlume della sua bellezza perduta. Non avrebbe mai potuto chiedere perdono. Non esisteva alcuna speranza per loro, nessuna possibilità di redenzione e quell’inferno non gli era mai sembrato così desolato.

 

Si chinò in avanti per prenderle la mano, ma la ragazza si alzò all’improvviso, pulendosi inutilmente la terra dal vestito candido come se fosse la cosa più importante del mondo, incapace di accettare come fosse ormai irrimediabilmente sporco e rovinato, come lei. Eppure, al di là dell’apparente calma, tremava, con la collana stretta nel pugno.

La verità era che tra tutti i nomi di divinità, semidei e mortali che erano stati pronunciati, mancava quello che nella testa di Maia risuonava come una disperata cantilena. 
Atlante
Precipitare all'inferno, per quanto terrificante fosse, implicava una caduta libera che l'avrebbe liberata dal peso che mondo che portava sulle spalle da così tanto tempo che aveva dimenticato cosa significasse esserne priva.

 

-Non ne avevate il diritto…

 

Di nuovo quel voi, quel muro tra loro. Fu allora che comprese che Maia, nonostante tutto quello che avevano condiviso, gli avrebbe voltato le spalle, fingendo che nulla fosse accaduto, continuando quella parade.

 

-Li rinnegherai tre volte.

 

Li. Gabriel era ricorso al plurale consapevole di come non sarebbe stato solo Nathanael ad essere rinnegato, ma tutti loro e soprattutto se stessa o, almeno, quel personaggio che aveva costruito da mostrare al mondo. Avrebbe rinnegato tutti loro, perché Gabriel non era lo sfizio di una ricca fanciulla annoiata: l'uomo era, più di tutto, l'immagine riflessa della parte di Maia morta il 15 aprile 1912. Attraverso lo specchio. 

 

-Non potrei mai,- mentì, consapevole di mentire. 

 

-Lo hai già fatto.

 

Il bacio, la prima volta. 

Quell'uscita, la seconda volta.

Ma se Pietro alla fine aveva ritrovato la via, lei sarebbe stata in grado di fare altrettanto?

 

 

Era arrivato il momento. Quella notte sarebbero dovuti fuggire. Avrebbero cavalcato fino alla costa e poi si sarebbero imbarcati anonimamente su una nave diretta in Danimarca, dove il Luteranesimo era stato dichiarato religione di Stato.

Sarebbero stati al sicuro, lì. William aveva amici in quei luoghi, persone che li avrebbero aiutati.

Se solo i protestanti in Inghilterra avessero avuto abbastanza potere per mettere sul trono Elisabetta, la figlia della Bolena.

Le mani le tremavano mentre chiudeva il diario e lo riponeva nella piccola sacca preparata per il viaggio. Avrebbero viaggiato verso l’ignoto e lei lo amava. Lo amava e voleva solo che fosse felice. Che fosse vivo.

Il terrore, però, sembrava non volerla abbandonare. Era pronta a lasciare tutto? Tutte le certezze, la sua casa, la sua famiglia?

Scese al piano inferiore e si fermò davanti alla porta di servizio: avrebbe raggiunto William, gli avrebbe dato la sua benedizione e gli avrebbe promesso che l’avrebbe raggiunto non appena si fosse sistemato, non appena avesse saputo cosa ne sarebbe stato di loro. Sarebbe stato meglio per tutti.

-Torna a letto.

La voce di suo padre la gelò.

-Torna a letto con i tuoi piedi o ti ci trascinerò e ti ci legherò io. Torna a letto e dimenticheremo che tu sia mai stata in procinto di fuggire in piena notte come una donna di strada.

Il panico la colse, non per sé, ma per William. L’avrebbe aspettata e ogni minuto in più avrebbe significato la morte.

L’alba la colse prostrata a terra sotto la finestra. La candida veste da notte sporca di lacrime e sensi di colpa.

 

L’alba lo colse in catene.

 

Abbandonò il giglio nel taxi ed entrò correndo in casa, gettando il diario sul letto e togliendosi freneticamente l’abito ormai sporco. L’avrebbe potuto lavare, avrebbe potuto cancellare qualsiasi traccia di quel giorno, dall’abito e da se stessa.

Con la sola biancheria addosso, aprì il diario di Pleis.

 

La musica saturava l’aria e i piedi le dolevano per quanto a lungo aveva danzato. Si sedette accanto a Miller e, coperta dall’ampia tovaglia, si tolse le scarpe. Fu allora che lo sentì. Un forte scossone, poi il silenzio dei motori. A piedi scalzi corse fino al parapetto, riuscendo appena a distingue l’enorme massa di giaccio alle loro spalle.

I sussurri si tramutarono in urla. Le domande in richieste d’aiuto.

E l’orchestra continuò a suonare.

 

 

 

 



1969


I go-go boys si muovevano al tempo di quella stupida canzone in voga anni prima, Give him a great big kiss, mentre in pista le donne con la sorpresina tra le gambe stavano dando il meglio di sé nell’imitazione delle Shangri-Las, senza che le parrucche e le tette finte si muovessero di un centimetro a svelare l’inganno. Allo Stonewall, nulla era come appariva: una donna bellissima poteva avere una voce mascolina e profonda; un uomo muscoloso poteva nascondere dei seni sotto la maglia larga.

 

Dopo i moti di fine giugno, ogni sera il locale brulicava di gente di ogni tipo: vecchi attivisti del movimento omofilo, transgender appariscenti, gay e lesbiche stanchi di un’integrazione fittizia che li snaturava. Anche quella minoranza aveva iniziato a credere in qualcosa, pensava Julian guardandoli ballare con ancora più foga e gioia del passato.

 

C’era un gran chiasso e la musica pessima e le urla sguaiate gli impedivano di chiacchierare con gli amici seduti al tavolo con lui. Ma a Julian andava bene così.

 

Da quando aveva memoria, l’unico silenzio che riusciva a tollerare era quello interrotto dal sibilo della penna che scorreva frenetica su un foglio di carta o dal battere delle dita sulla tastiera della macchina. Non era una creatura solitaria, Julian, e quando non era in grado di scrivere cercava quanto più possibile di non stare solo. Temeva a tal punto la solitudine che, in quei momenti, si metteva a vagare da un posto all’altro, alla disperata quanto vana ricerca di qualcosa che riuscisse a fermare i suoi pensieri confusi. Non c’era verso, però: l’unico rimedio possibile era fatto di inchiostro e carta e, quando la sua arte lo abbandonava lasciandolo nudo davanti all’infinità di parole, lui non poteva fare altro che vagabondare senza nulla con cui orientarsi.

 

Era da giorni in quelle condizioni. Aveva visto la sua Persefone diverse settimane prima e non ricordava molto di ciò che era successo quella famosa sera, se non che a un certo punto l’aveva tenuta tra le braccia e l’aveva accarezzata come mai prima d’allora. Nonostante l’alcol e le droghe, lo sapeva con assoluta certezza perché le sue dita e la sua pelle ne avevano conservato il ricordo, consentendogli di continuare a scrivere di Ade risvegliato dalla vitalità di Persefone. Il ricordo, però, era presto sfumato e da quel momento Julian non era stato più in grado di scrivere.

 

Più Merope gli si negava più lui si sentiva annichilito, un uomo in balia delle correnti.

 

– Cercane un’altra.

 

– Un’altra?

 

– Musa. O Persefone… come la chiami tu, insomma.

 

Furono in tre a sbuffare davanti a quella proposta così terribilmente superficiale. Delle quattro persone sedute a un tavolo appartato dello Stonewall, quella che aveva parlato era sicuramente la meno sensibile all’ispirazione artistica.

 

– Sibylle, non è così semplice. Non si tratta di un capriccio passeggero, Persefone ai suoi occhi non è una musa o che so altro… è più…– Virgile cercò di spiegarle la differenza ma sembrò in difficoltà,– come posso dire…

 

– Un’idea fatta realtà,– gli venne in aiuto Julian.

 

Sibylle sollevò le sopracciglia nere e dritte in un’espressione di sufficienza. Non era bella, pensò Julian distratto, ma il suo fascino ruvido era comunque in grado di oscurare ogni altra attrice dal volto meno spigoloso e il naso più dritto.

 

– Di’ la verità, Julian, ti sei incapricciato e l’arte è solo una scusa,– gli sorrise tagliente, mentre gettava sul tavolo un giornale, – Eccola qui la tua Persefone, in tutta la sua candida bellezza.

 

Julian diede un’occhiata all’immagine in bianco e nero dell’ingresso del Max’s, dove una Jaguar sostava mentre una distante Merope scendeva accompagnata da Duncan e James.

 

Scosse la testa: – Sono pur sempre un uomo, Sib.

 

Sarebbe stato stupido negarlo: era davvero attratto da Merope. Tuttavia, quell’ammissione non faceva alcuna differenza: in lui l’ispirazione e l’attrazione erano sempre stati indissolubilmente legati in qualcosa che finiva con l’accecarlo. Era assai probabile che, una volta soddisfatta la sua vena artistica, quella divinità avrebbe smesso di brillare e i suoi occhi si sarebbero posati altrove.

 

– Dovresti portarla a casa.

 

Aveva parlato la quarta persona seduta tra loro. Qualcuno che non alzava mai la voce, talmente era abituato ad essere ascoltato anche nel bel mezzo di proteste e retate. Da anni lo chiamavano The Blind, benché le lenti scure che non toglieva mai non avessero nulla a che fare con un qualche problema di vista. Lo sapevano tutti che Blind non era cieco e tutti credevano di conoscere l’aneddoto che lo aveva generato. Julian, in quegli anni, ne aveva sentito almeno dieci diversi, senza che Blind si prendesse mai la briga di confermarne o negarne la veridicità. Quando poi gli aveva chiesto spiegazioni, lui aveva sogghignato mentre gli rispondeva: “Siamo scrittori: la gente da noi vuole solo storie, non la verità”.


- Sì, certo, illudetevi che il sesso possa risolvere ogni cosa,- commentò aspra Sibylle.

 

Virgile le fece un cenno con la mano per farla tacere: - Non sta parlando del monolocale di Julian. Si riferisce al suo posto, il regno in cui intrappolarla…se vogliamo seguire il mito che lo ispira.

 

Julian guardò le lenti scure di Blind: - Non è quello che ho fatto, facendola venire al Max’s?

 

L’altro scosse la testa: - Quello è stato solo un passo nella tua direzione.

 

Diciamo pure che sei riuscito a catturare la sua attenzione, ma in fin dei conti alla fine di quelle serate lei ti ha voltato comunque le spalle per tornare al suo mondo dorato. E guarda adesso: c’eri quasi, ma lei non è stupida e ha capito che se continuasse a frequentarti potresti sconvolgerle la vita.

 

- Quindi che dovrei fare?- domandò dopo aver mandato giù una lunga sorsata di whiskey,- Rapirla davvero?

 

La bocca scura di Blind si aprì in un sorriso lento, mostrando i denti perfetti e candidi a contrasto con la pelle scura: - Devi creare una situazione in cui lei si illuda di poter scegliere se seguirti o no. Ovviamente…devi prima eliminare ogni effettiva possibilità di scelta.

 

Julian rimase assorto per un momento, con la mano sulla mascella ispida. Lasciò che un’altra sorsata di whiskey gli schiarisse le idee e poi sorrise.

 

- Devo trovare James Core.

 

***

 

Dopo il caldo patito nelle ultime settimane, era un autentico sollievo lasciare che il vento le premesse sul viso e si insinuasse tra i capelli raccolti. Da un pezzo, ormai, la Shelby Cobra si era lasciata dietro l’asfissiante traffico newyorkese, per immettersi in strade ampie e meno transitate.

 

Attraverso le lenti scure diede un’occhiata alle poche parole che era riuscita a scrivere sul suo diario. Non era facile farlo con il sole, la polvere e gli occasionali sobbalzi dell’auto. Eppure aveva cercato di imprimere su quelle poche righe il senso di libertà che finalmente provava, nonché la speranza all’idea di poter finalmente confidarsi con qualcuno che l’avrebbe certamente capita.

 

- Avevi ragione,- disse, chiudendo il diario,- Avevo proprio bisogno di questo.

 

Lui sorrise con lo sguardo fisso sulla strada, ma tacque. Strano, non era da James quel silenzio.

 

Quella mattina, James l’aveva trovata intenta a rimuginare sul diario di sua nonna. Benché non avesse confidato mai a nessuno quel ritrovamento, qualcosa l’aveva spinta a fidarsi di suo cugino e rivelargli che qualcosa di quel diario la tormentava. A differenza sua, Maia era stata una scrittrice svogliata, che non si preoccupava mai che tra un pensiero e l’altro vi fosse un filo logico. Vi era un’unica storia, che aveva voluto raccontare dall’inizio alla fine, soffermandosi su particolari che altri avrebbero ignorato. Tutte le volte che Merope aveva letto quella storia, aveva sentito qualcosa insinuarsi in ogni nervo, strisciarle sotto pelle e scuoterla fino nel profondo. Narrava le origini della collana che adesso Merope portava al collo e, se non era tutto frutto della fantasia della giovane Maia Core, allora quella collana doveva essere stata forgiata nel sangue e nel fuoco.

 

- Chissà se riusciremo a trovare nonna a casa,- commentò un po’ preoccupata.

 

Più il tempo passava più temeva che qualcosa andasse storto. A casa sapevano tutti quanto fossero imprevedibili gli spostamenti di Maia, come spesso bastasse una telefonata da parte di un museo sperduto nel mondo perché lasciasse tutto e tutti e partisse via per una manciata di giorni o per un mese intero.

 

Era stata quell’incostanza a non permettere a Merope di conoscere davvero sua nonna, ma adesso doveva farlo e subito. Da quanto aveva letto, a un certo punto della sua vita, anche Maia Core era stata sospesa in un limbo, costretta in un crocevia. Voleva sapere, e lo voleva sapere con urgenza, come fosse riuscita a scegliere tra una via e l’altra, se si fosse mai pentita, se avesse mai avuto la tentazione di tornare indietro.

 

- Dovrai rinviare l’incontro con nonna, Mer.

 

Presa dai suoi pensieri, faticò a comprendere le parole di James.

 

- Che vuoi dire?

 

- Non ti accompagnerò dai nonni.

 

La confusione si trasformò in sconcerto: - Come no? Ti sei offerto tu di portarmi da loro!

 

I suoi occhi continuarono a guardare la strada, ma per un attimo si chiusero colpevoli.

 

- Era una scusa per farti salire in macchina senza costringerti.

 

- James, che diavolo ti prende?

 

Finalmente le rivolse una seppur rapida occhiata. Poi la macchina prese a rallentare, fino a fermarsi del tutto davanti a una sperduta aria di servizio.

 

- Il nostro è un bel mondo, vero? Tutto dorato, con la felicità così a portata di mano. A un certo punto, però, tutta quella perfezione ti viene a noia, ti opprime e inizi a cercare qualcosa che ti faccia sentire davvero vivo. Abbiamo bisogno di sporcarci, Mer. Io… Io l’ho fatto: l’alcol, gli acidi, persino qualche dose…mi sono trovato solo quando mi sono perso.

 

- Che c’entra tutto questo con me?

 

- Ha delle mie foto compromettenti, qualcosa che potrebbe imbarazzare i Core.

 

- Chi, James? Chi ha queste foto?- domandò improvvisamente attenta.

 

- Una cosa non ho mai capito: cosa c’era in quei pacchetti che portavo a casa tua?

 

Merope chiuse gli occhi, incredula.

 

- Cosa ti ha detto di fare stavolta?

 

Lui le prese la borsa e le fece un cenno verso l’esterno.

 

- Scendi dall’auto.

 

- James, sei impazzito?- domandò afferrandogli il braccio con rabbia, - Questo non è uno stupido scherzo, non mi stai abbandonando nel bosco vicino casa con un libro horror in mano. Come fai a sapere che non mi farà del male?

 

- Scendi, Merope.

 

E lo fece. Scese dall’auto e si disse che lo stava facendo per la rabbia, l’incredulità e l’indignazione per essere stata trattata come un oggetto di poco conto, qualcosa da passarsi di mano in mano senza alcun rispetto per lei. Scese dall’auto, soprattutto,  negando che questo avesse a che vedere con quella curiosità che nelle ultime settimane si era trasformata in autentica ossessione.

 

Julian era già lì ad aspettarla, elegantemente poggiato contro una decappottabile piena di persone. Le fece un cenno e stava per incamminarsi verso di lei, quando Merope gli voltò le spalle per dirigersi come una furia in direzione del benzinaio.

 

Mentre l’auto di James andava via, Merope affrettò il passo sentendo che la rabbia si faceva sempre più forte. Un unico pensiero fisso occupava la sua mente: doveva fare qualsiasi cosa per allontanarsi da Julian Cuveé.

 

Arrivata a pochi passi dal benzinaio e sentendo qualcuno alle sue spalle, alzò la mano per richiamare l’attenzione dell’attempato uomo che se ne stava seduto davanti a una minuscola costruzione.

 

- Senta, può aiutarmi?

 

L’uomo, che senza alcun dubbio non si era perso neanche un momento del suo arrivo in quel posto sperduto, finse di rivolgerle l’attenzione per la prima volta. E fu senza dubbio un’attenzione contrariata e piena di biasimo, dall’occhiata che lanciò alle gambe scoperte e al leggero abitino bianco.

 

- Non ho nulla da darti,- gracchiò infastidito.

 

- Dovrei fare soltanto una telefonata a casa,- cercò di spiegargli, sforzandosi di recuperare la pazienza e la gentilezza che sembrava aver lasciato nell’auto di James insieme a tutti i suoi soldi.

 

Per tutta risposta, l’uomo le gettò in faccia una risata cattiva: - Devi telefonare a casa?! Ma fammi il piacere!  Sono giorni che voi depravati passate da qui, prendendovi tutto quello che vi pare. La povera Maude dice di averne visti due tutti nudi, mentre fornicavano all’aria aperta. Non c’è rimasto più niente in tutto il circondario, non possiamo neanche muoverci di un passo per paura di trovarci davanti delle chiappe al vento o sa solo Dio che altro.

 

- Senta, c’è un malinteso...- provò a insistere, mentre le dita della mano destra andavano a posarsi sul collo nel consueto gesto di esasperazione.

 

- Merope.

 

Quella voce, la sua voce. Aveva passato ore e ore a ricordarne ogni sfumatura e inflessione: come diventava profonda quando voleva provocarla, com’era ruvida quando fumava o beveva troppo, come suonava leziosamente falsa se si rivolgeva ad altri. Ma su ogni cosa, un unico ricordo: come si era trasformata in qualcosa di delizioso la volta che le aveva mormorato il verso di una poesia.

 

Era il suo personale Inferno, quella voce.

 

Risoluta nel non volerlo guardare, fece qualcosa di assolutamente impulsivo e stupido. Si tolse la collana e la strinse in un pugno.

 

- Mi dispiace, presumo che i miei soldi stiano andando in direzione di New York, - disse nel suo tono più raffinato, - Tuttavia ho urgenza di telefonare a casa perché mi vengano a prendere. Vede…- aggiunse, alzando la voce indispettita, - Anch’io ho un problema con questi hippie che tendono a prendere le cose senza chiedere il permesso.

 

- Merope, smettila.

 

Continuò a ignorarlo, rivolgendosi al vecchio che improvvisamente si era fatto attento.

 

- Magari potrebbe accettare di accogliere me e la mia collana mentre attendo che mi vengano a prendere?- domandò, avvicinandogli il gioiello, i cui diamanti si esibirono negli ammalianti scintillii rossi per cui erano famosi.

 

- Non è un dannato rapimento, se non vuoi venire te li darò io i soldi per tornare a casa.

 

Il tono era talmente infastidito che quasi la fece sentire una ragazzina in vena di capricci. Fece un respiro profondo nel tentativo di calmarsi e si girò verso di lui. Lui che non la stava nemmeno guardando, perché occupato a prendere delle banconote dal portafogli.

 

- Questi dovrebbero bastarti,- disse mentre sollevava la testa, togliendole il respiro.

 

L’aveva mai visto alla luce del sole? Le era mai apparso così evanescente come in quel momento, coi vestiti scuri e sobri a intensificare il pallore del viso imberbe? E gli occhi… gli occhi le erano mai parsi di un grigio così luminoso e vivido?

 

Rimase inerme mentre lui le prendeva la mano con cui stringeva la collana per lasciarle il suo denaro. Non disse nulla quando lui la guardò per un momento in silenzio, deglutendo tutto il suo disagio e neppure quando le voltò le spalle e iniziò a camminare verso l’auto. Non disse nulla, sapendo che in quel modo gli avrebbe detto addio per sempre. Non disse nulla, ma si mise a correre. Verso di lui.

 

- Julian.

 

Era una pazzia, lo sapeva. Ma per la prima volta il suo pugno stringeva qualcosa su cui sentiva di avere il controllo: la famiglia, Duncan, Julian… Era lei a scegliere e voleva vedere dove quella scelta l’avrebbe portata.

 

***

 

- Non riesci proprio a non guardarli, eh?

 

Merope sembrò sorpresa e imbarazzata. Aveva camminato al suo fianco per più di un’ora senza mai lamentarsi per il gran caldo di metà agosto, serena nonostante lo strombazzare dei clacson e gli occasionali spintoni che si beccava tra la folla. Non lo ingannava, però: non era affatto indifferente a ciò che vedeva. I suoi occhi correvano senza sosta dagli uomini dai capelli lunghi alle donne a petto scoperto, da quelli che si contorcevano a terra in  preda a una qualche estasi a quelli che ballavano al tempo di una musica che gli altri non potevano udire.

 

- Non sono abituata a questo,- ammise con semplicità.

 

Da parte sua, Julian era fin troppo abituato a quel genere di persone per prestarci attenzione, anche se in effetti neanche lui aveva mai visto una simile folla ad un concerto. Da mesi, si parlava di Woodstock e dei tre giorni di pace e musica che avrebbero unito migliaia e migliaia di giovani. Se fosse stato un altro, avrebbe ammesso di non essersi aspettato una simile affluenza e di esserne rimasto colpito. Ma Julian era Julian e nei suoi ventisette anni aveva provato troppe cose per farsi cogliere di sorpresa: troppe volte si era ubriacato fino a perdere i sensi; troppe volte aveva ingerito qualcosa che lo aveva condotto oltre quegli stessi sensi; aveva provato ogni tipo di esperienza, dalle più blande alle più estreme.

 

Eppure doveva ammettere almeno a se stesso che esisteva qualcosa in grado di catturare la sua attenzione: Merope. Non riusciva a distogliere lo sguardo da lei e dalla curiosità che trapelava da ogni suo gesto; si trovava, suo malgrado, a trattenere il fiato tutte le volte che quell’abitino bianco spariva tra le macchie impazzite di colore; senza nemmeno accorgersene, si scopriva nel gesto di prenderle la mano o di accarezzarle la nuca o a ridere insieme a lei quando una specie di santone era andato loro incontro per baciare la fronte di Merope e posarle una coroncina di fiori sul capo.

 

Fu la musica a salvarlo dalle domande che stava per porsi su quel cambiamento, su quella novità. Finalmente, erano arrivati nei pressi del palco, anche se purtroppo erano ancora troppo lontani per poter riconoscere i musicisti che si esibivano. Non che per quello in particolare vi fossero grosse difficoltà: era il suono della chitarra a dire a gran voce il suo nome.

 

- Jingo,- urlavano tutti.

 

Accanto a lui, Merope non sembrava capace di stare ferma. Si guardava intorno, osservava la gente per terra muovere la testa al tempo imposto dalla chitarra di Santana e senza nemmeno rendersene conto si muoveva anche lei, impaziente. Julian non trattenne un sorriso divertito e, buttando a terra lo zaino, si avvicinò a lei e le poggiò le mani sulla vita.

 

- Voglio ballare con te,- le disse.

 

- Non sarebbe la prima volta.

 

Le rivolse un altro sorriso, più malizioso: - Voglio ballare come non ho mai potuto fare finora.

 

Lei lo guardò senza capire.

 

Senza dire altro, rafforzò la presa sui fianchi e si fece più vicino. Lei sembrò irrigidirsi, ma fu solo un attimo e poi si fece morbida tra le mani, muovendosi anche lei al tempo che il corpo di lui le imponeva. Gustandosi la sensazione dei loro corpi così vicini, Julian chinò la testa sul suo collo e le diede una carezza con le labbra, sospirando quando la pelle morbida si increspò appena.

 

Ballarono per quella che sembrò un’eternità, sempre più indifferenti a ciò che avveniva intorno a loro e, se era ancora possibile, sembravano farsi sempre più vicini. A volte qualcuno li interrompeva per passare uno spinello o una birra e, in quei momenti, mentre fumava o beveva, Julian non le toglieva lo sguardo di dosso, sfidandola a fare qualcosa che lei era troppo ingenua per comprenderla. Finché allungò la mano e provò a fare un tiro e fu sconvolta dalla tosse. Julian si mise a ridere e, mentre l’aiutava a bere, le disse che non c’era bisogno di strafare.

 

- Julian, Mer,- li chiamarono, mentre la musica di Santana scemava in un assordante applauso, - Ci hanno detto che di là c’è uno stagno. Noi stiamo andando a farci un bagno,- spiegò Sibylle, con uno dei suoi soliti sorrisi carichi di malizia, - Voi venite?

 

Julian prese per mano Merope e, recuperato lo zaino, si fece spazio tra la folla. Dovettero camminare per almeno mezzora e, quando arrivarono allo stagno, erano ancora più accaldati di prima. Fu per questo che Julian non perse tempo a levarsi la maglia e aveva già le mani sulla cerniera dei pantaloni quando si rese conto che Merope era rimasta a fissarlo per tutto il tempo, senza dare segno di volersi spogliare.

 

- Mer, non fare la schizzinosa. Fa troppo caldo,- le disse, mentre si toglieva le scarpe.

 

Lei scosse la testa e fece un sorriso forzato:- Mi rinfrescherò a riva, non preoccuparti.

 

Quasi ci cascò, ma Merope finì con il tradirsi con l’occhiata carica di imbarazzo che rivolse alle chiappe al vento che le passarono accanto proprio in quel momento.

 

Le sorrise intenerito e si lasciò andare a una sonora risata quando la vide chiudere gli occhi non appena lui si tolse i pantaloni.

 

- Mi dispiace, principessa, ma rischi un’insolazione,- le spiegò andandole incontro.

 

Lei teneva gli occhi chiusi e la testa girata dall’altra parte e neanche si rese conto del momento in cui lui la sollevò e se la caricò su una spalla. Rise ancora più forte, sentendola gridare indignata e intimargli di lasciarla andare. Lo fece, a un certo punto. La lasciò cadere in acqua e si immerse anche lui.

Nonostante l’occhiataccia con cui lo fulminò quando riemersero, fu evidente che gli era grata. In realtà, fu proprio Julian a pentirsi della sua trovata, quando decisero di asciugarsi e posò gli occhi per la prima volta sul corpo bagnato di Merope: il vestito bianco le si era incollato addosso e Julian non riusciva più a distogliere lo sguardo. Quante volte aveva immaginato il corpo flessuoso di Merope? Quante volte aveva sognato di toglierle uno dei suoi casti abiti e lasciarla con la sola collana addosso? Eccola lì, in tutto il suo candido e accecante splendore…

 

- Fatti prestare qualcosa da Sibylle,- le disse più brusco di quanto avrebbe voluto.

 

Lei sollevò le spalle: - Con questo caldo, presto sarò asciutta.

 

Quasi si mise a ridere, non fosse stato per quella tensione che gli attraversava tutto il corpo: - Meglio evitare di raffreddarti. E poi… il vestito si è sporcato,- le fece notare con un cenno a una macchia di terra.

 

Si tenne a distanza mentre Sibylle e Merope si vestivano. Una a suo agio nei movimenti languidi con cui copriva a malapena il corpo gloriosamente nudo, un’altra visibilmente nervosa e preoccupata di non mostrare neanche un lembo di pelle. Preoccupazione inutile visto il risultato finale: una canotta e una minigonna degne della loro proprietaria. Era strano, in tutta la sua vita non aveva mai avuto quella voglia di ridere che aveva quel giorno e in quel particolare momento, mentre Merope cercava di abbassare quanto più possibile quella mini così scabrosa.

 

Le andò incontro e, per farla pensare a qualcosa che non fosse il suo scarso abbigliamento, le prese una mano e la fece ballare al tempo di Going up the country, una canzone particolarmente movimentata e allegra che fino a quel momento lo aveva sempre lasciato indifferente.

 

- Non ti ho ancora chiesto cosa ti ha convinta a venire,- le disse a un certo punto.

 

Lei rimase un attimo in silenzio, poi sollevò la testa e lo guardò dritto negli occhi: - Non accettavo l’idea che non ti avrei visto mai più.

 

L’onestà con cui aveva risposto gli tolse il respiro, facendogli venire in mente come si fosse sentito la morte nel cuore quando le aveva voltato le spalle e aveva preso a camminare verso l’auto: - Non credo che ti saresti liberata di me,- riconobbe con un sorriso sfrontato. Sorriso che in qualche modo si spezzò quando continuò a guardarla nei suoi occhi incredibilmente luminosi.

Cos’aveva di diverso da tutte le donne che aveva conosciuto in vita sua? Cos’era che lo commuoveva e gli faceva male tutte le volte che pensava a lei? Perché tutte le donne della sua vita, a iniziare da sua madre, gli erano sembrate a un passo dalla morte, dal disfacimento e lei no?

 

- Baciami, Persefone.

 

Non fu l’ordine di un Dio nel suo Regno, ma la preghiera di un postulante ai piedi della sua Dea.

 

Vide la sua decisione negli occhi chiari e tornò a respirare, in attesa che lei si sollevasse sulle punte dei piedi e gli posasse un bacio a fior di labbra, delicato e intenso come solo lei sembrava in grado di essere.

 

Furono questi i baci che si scambiarono per il resto della giornata, mentre Julian lasciava che Merope prendesse sempre più confidenza con la libertà che si respirava in quel luogo fuori dal tempo, dimentica di tutte le restrizioni e le regole con cui era cresciuta. Fino ad arrivare a sera e alla voce rauca di Janis Joplin, che cantava quella che ormai era la sua Summertime.


- Io conosco questa canzone!

 

Julian sorrise, baciandole una tempia: - Credo sia una delle cover più famose di sempre. Vieni con me?

 

- Dove?- chiese, mordendosi un labbro.

 

- Devo andare in macchina perché non ci è rimasto nulla da mangiare.

Si guardarono per un momento e lei annuì, come se avesse preso una qualche importante decisione: - Andiamo.

 

Camminarono in silenzio, accompagnati dalle parole ruvide di Janis.

 

- Così è irriconoscibile,- commentò Merope,- Sembra che la cantante…

 

- Janis Joplin,- la corresse lui.

 

- La sua è un’estate infelice, tragica…

 

- E non è forse così?- le domandò prendendole la mano,- Janis vi sta avvisando tutti che quest’estate non tornerà mai più, che quando tornerete alle vostre vite, quando sarete nei vostri piccoli uffici, nelle vostre ordinate case, il ricordo vi verrà a trovare e allora, solo allora, saprete con assoluta certezza che l’estate può essere vissuta in un solo perfetto momento. Quando lo avrete realizzato, il ricordo di questo luogo che adesso vi pare così perfetto, di questa libertà che sembra così a portata di mano e di tutto ciò che siete stati qui diventeranno il vostro personale Averno, la condanna a ricordare qualcosa che non potrà mai più ripetersi.

 

- Fai sembrare tutto molto triste,- commentò Merope.

 

Lui le sorrise colpevole: - Lo so, è una mia particolare dote.

 

Camminarono in silenzio fino a quando lei prese di nuovo parola: - Quello che vuoi dire è che oggi siamo felici solo perché ogni istante sparisce nello stesso momento in cui lo viviamo?

 

Julian annuì e lei lo guardò assorta: - E tu, Julian, tu dove sarai quando tutti gli altri torneranno alle loro vite ordinate?

 

- Chi lo sa,- rispose sorridendole,- Magari anch’io sarò nel mio ufficio o nella mia bella casa…

 

Lo guardò ancora, mentre Janis in lontananza continuava a cantare la sua estate: - Questa canzone mi fa venire voglia di piangere,- mormorò senza distogliere gli occhi da lui.

 

Gli apparve così fragile che quando le posò una mano sulla guancia quasi neppure la sfiorò: - Perché mai dovresti piangere, Persefone, tu sei nel pieno della tua estate.

 

- E tu, Ade? Non parli mai di te.

 

- Io la mia estate l’ho davanti a me proprio adesso,- le rispose con la stessa identica onestà che lei gli aveva donato, - E non so se qualcosa in me la potrà consumare, e non è nemmeno questione di ciò che io voglio, so solo che ne ho bisogno.

 

La baciò e fu un altro di quei baci a fior di labbra, ma stavolta non riuscì a fermarsi lì e, mentre Merope gli portava le braccia al collo per trattenerlo, lui le strinse la vita e la baciò davvero, come aveva desiderato fare tante volte in passato. Non era un bacio rubato, quello, e Julian si prese tutto il tempo per assaporare ogni istante che gli veniva concesso.

 

Poi si separarono e lei gli sembrò davvero adorabile, con le labbra arrossate e umide, appena un po’ aperte a cercare quell’aria che lui le aveva tolto. Le prese la mano e continuò a camminare verso la macchina e quando furono lì, lontani dal chiasso, dalla luce, dalla musica, il silenzio sembrò protrarsi a dismisura tra loro.

 

- Julian…

 

Bastò quello e lui tornò a cercarla. Le spalle delicate, le braccia sottili, la vita impalpabile… Le tolse quella ridicola canotta e la schiacciò contro la macchina, per baciarla sulle labbra, sul collo, tra i seni. La sentì muoversi impaziente sotto le sue mani e trattenere il respiro quando le abbassò la gonna, lasciandola praticamente nuda davanti a lui. Sentendola tremare la abbracciò, ricordandosi di fare con calma, di essere più paziente.

 

- Senti freddo?- le bisbigliò all’orecchio.

 

Lei fece no con la testa e qualche ciocca di capelli gli solleticò il naso.

 

- Sali in macchina, sarà più…

 

La guardò sedersi sul sedile posteriore e, appena ebbe tolto la maglietta, la seguì. Il silenzio e l’imbarazzo erano interrotti unicamente dai loro respiri affannati.

 

Appena la baciò il bisogno di lei tornò a crescere come un istante prima, ma qualcosa era cambiato e quel corpo era così sottile e vulnerabile da farlo stare male per il solo fatto di desiderarlo. Merope era sotto di lui, nuda se non per quella dannata collana dai diamanti rossi. La baciava e si ritraeva, facendole perdere ogni controllo di sé. Ma c’era quel maledetto scintillio rosso a distrarlo, a ricordargli che lei non sarebbe mai stata sua, che non avrebbe mai rinunciato al mondo dorato da cui veniva. Quel momento tra loro, quei baci, quel bisogno che lei provava per lui erano destinati a sparire per sempre, a trascinarlo in un inferno di gran lunga più doloroso di tutto ciò che aveva provato fino a quel momento.

 

- Merope,- la chiamò.

 

Lei continuò a cercarlo, senza ancora aver capito.

 

- Meglio non andare oltre, - le disse scostandosi.

 

Sentì distintamente il momento in cui lei comprese il significato delle sue parole. Si sollevò appena, indossò con calma misurata la biancheria intima e scese dall’auto alla ricerca dei vestiti.

 

- In fondo è come se avessi già ottenuto quello per cui ti sei tanto impegnato,- disse senza alzare la voce, - Nuda e ai tuoi piedi, ma a quanto pare incapace di smuovere l’indifferenza di Ade.

 

- L’indifferenza di Ade… in questo momento mi sento tutto tranne che indifferente,- commentò scuotendo la testa, - Merope, guardiamo in faccia la realtà: tu sposerai il tuo principe amministratore e sicuramente lui si aspetta che per quel tempo sarai ancora vergine. Non complichiamoci la vita, ok?

 

Rimase a fissarlo per quella che gli sembrò un’eternità, facendolo vergognare per quel commento meschino. Poi gli diede le spalle e andò via.

 

***

 

Trascorse quel che restava della notte seduto per terra, con la sola compagnia della birra e di qualche tavoletta di lsd e quando arrivò l’alba fu un’esplosione di colori, che gli accecò la vista e lo illuse di stare bene. Poi, però, due figure minacciose gli occuparono la visuale, creando ombre sempre più scure e spaventose nella sua mente e nei suoi occhi. Le bocche erano deformi, nei loro sorrisi che aprendosi si facevano sempre più crudeli.

 

- Cuveé, gentile da parte tua aspettarmi davanti la macchina,- parlò una voce metallica.

 

- È in pieno trip, non ti darà retta,- disse qualcuno, dopo essersi avvicinato a scrutargli il viso.

 

- Vuoi scommettere?

 

Julian si sentì afferrare per le spalle nude con forza.

 

- Dov’è?

 

- Chi?- mormorò a fatica.

 

- Dov’è Merope? Dove cazzo hai portato la mia fidanzata?

 

Alzò le braccia per allontanare le tenebre che lo avevano avvolto: - Lei… l’estate…non l’ho conosciuta neanche una volta.

 

- Ma che cazzo sta blaterando?

 

- È andata via,- mormorò affranto.

 

- Dun, sarà con gli altri vicino al palco, non è meglio così?

 

- Tu taci, mi devi ancora delle spiegazioni, James.

 

La voce metallica si fece più vicina: - A quanto pare, anche il nostro poeta ha un punto debole… Fossi in te, inizierei a tenere d’occhio la buca delle lettere, ho sentito dire che lo Zio Sam vuole tanto conoscerti.

 

Seguirono due colpi al viso: uno dritto al naso, uno allo zigomo. Un’esplosione di dolore che sul momento non fu in grado di spiegare. Vide solo rosso, il suo stesso sangue.

 

Guardò il suo riflesso sull’acqua dello stagno:

ora bionda, ora castana, ora Merope, ora Maia.

Solo gli occhi restavano immobili, immutabili.

Era inutile che quelle mani si preoccupassero di raccoglierla da terra o che quella voce cercasse di tranquillizzarla (“ci sono io”, “starai bene”), Persefone non sarebbe mai più tornata a casa. Adesso sapeva, lei apparteneva a quel luogo, in cui un istante spariva nello stesso momento in cui viveva. Non importava che Ade non l’avesse voluta per sé, ormai l’aveva condannata per l’eternità.

 



 

2013


Il rumore rotto del suono di casse a un volume troppo alto aveva interrotto la piatta tranquillità del suo sonno.


Si era trovato d'improvviso seduto sul divano di pelle del salone dei Pendleton, come succedeva sempre, in quell'incubo ricorrente. Bagliori rossastri proiettavano ombre che sembravano tremare al ritmo di quella musica che squarciava le orecchie, scuotendo ogni sua fibra. Il caldo si era fatto insopportabile, forse aumentato da quell'ammasso di corpi sudati e stravolti che si accalcava nell'ambiente, intrecciandosi, perdendosi, creando un groviglio attraverso il quale il suo sguardo non riusciva a penetrare. Accasciata su di lui, Charlotte si dava da fare, con le poche forze che l'alcol le aveva lasciato, per trovare con le labbra l'incavo spigoloso fra il suo collo e la scapola, coperto dal colletto della camicia fradicia che indossava. Aveva sbattuto gli occhi più volte, sorprendendosi stranamente lucido, a differenza del solito. Alzarsi non era mai stato così facile, nell'incubo che si ripeteva notte dopo notte, da anni. Gli era sembrato di muoversi stranamente sospeso, incorporeo fra quella cortina apparentemente impenetrabile di corpi.


Si era ben presto reso conto di non aver mai visto quella scena: lui camminava nella mischia, spingendo Matt per farsi largo, separando Luke e Logan sul punto di azzuffarsi, come sempre, eppure il ragazzo che era stato continuava a stare seduto sul divano, asciugandosi il naso impolverato di bianco, mentre Charlotte lo baciava.


D'un tratto, il campo visivo era cambiato e si era ritrovato a osservare un paio di mani che si muovevano incuranti dei richiami, giocherellando con la cera di una candela vicina, troppo vicina, all'arazzo vittoriano sistemato con cura dalla Signora Pendleton sopra al tavolo in mogano.


-Non mi interessa se non senti dolore, finirai per bruciarci tutti. Vieni via.- Una risata, incurante, incosciente, beffarda. Non ne riconosceva il proprietario. Eppure, il tatuaggio sul polso destro, quello era inequivocabile.


"Il buono e il cattivo dipendono dal pensiero di chi li rende tali." La battuta di Ben.


Era stato come in un inquietante deja-vu che si era ritrovato a pronunciare a mezza voce le parole che lui stesso, dall'altra parte della sala, stava urlando in sua direzione.


-Ben, che ci fai lì tutto solo? Vieni qui che penso ci sia qualcosa che ti interessi!


Poi, d'improvviso, non aveva visto più nulla. Era stato nuovamente scaraventato su quel divano, mentre tutto intorno a lui si ingrigiva e perdeva consistenza. I capelli di Charlie, nel buio e nel fumo, erano quasi irriconoscibili e non riusciva nemmeno a distinguerne il volto delicato. E poi il rumore di uno strappo, i bottoni ovunque, la stoffa della sua camicia ridotta a brandelli, mentre perdeva il contatto con le dita di Charlie.


L'ultima cosa che ricordava era la mano di Ben che si avvicinava afferrandolo all'altezza del petto e lo trascinava via, prima che perdesse i sensi, mentre quella della sua fidanzata scivolava per sempre in quel mare di fumo e fiamme.

 

-Aderley, farai meglio a muovere quel culo e venirmi ad aprire, prima che sfondi la porta!

 

A quel rumore aprì gli occhi a fatica, afferrando la mano appoggiata sul suo petto. Tai. Doveva essersi intrufolata nella sua camera la notte prima, mentre già dormiva, e lì essere rimasta.

 

Erano giunti a Taormina la sera precedente, trovando ad accoglierli solo la governante della splendida villa che Sir John Pendleton aveva messo a disposizione dello scapestrato erede. Il Signor Luke é fuori, si scusa profondamente, ma affari improrogabili gli impediscono di rientrare a fare gli onori di casa. Ho già fatto preparare le vostre stanze, se volete seguirmi.


Scivolò silenziosamente fuori dal letto e si avvicinò alla porta. Appena la aprì un pungente odore di fumo e aroma di arancio lo colpirono, facendolo lacrimare.

 

-Luke.- salutò tossicchiando. Dinnanzi a lui, l'amico di un tempo attendeva pazientemente che lui gli aprisse la porta, vestito, o svestito a seconda dei punti di vista, con una camicia tagliata a mano lasciata slacciata, un paio di pantaloncini da mare dai disegni astratti e un Panama calato sulla testa riccioluta.

 

-Vorrei dirti che ti trovo bene, ma la realtà é che sei ridotto uno schifo,- lo canzonò questo, scrutando la sua decisamente meno impeccabile tenuta da notte.

 

-Il tempo non ha mutato la tua simpatia, vedo. Non mi sembra che tu sia ridotto meglio.

 

Sotto il cappello infatti, il viso di Luke, appariva pallido e imperlato da un sottile strato di sudore. Due profonde occhiaie segnavano gli occhi scuri, lievemente gonfi e socchiusi. Sembrava lo spettro del ragazzo che aveva conosciuto un tempo. L'uomo alzò il mento con un sorriso beffardo, invitandolo a seguirlo in giardino, dove stavano servendo la colazione.

 

-Allora, innanzi tutto scusa se non vi ho accolto all'arrivo ieri sera. Ero impegnato in un'importante...iunione.- cominciò quando ebbero preso posto sui divani candidi a bordo piscina. -Poi dimmi, qual buon vento ti porta da queste parti con la tua fidanzata?

 

-Non é la mia fidanzata,- rispose freddo Ade. -É solo la cugina di Benjamin McDeer.

 

Luke lo fissò sogghignando. -Immagino che sia solo per questo, dunque, che ora sta placidamente dormendo nel tuo letto.

 

-Non sono affari che ti riguardano.

 

-Come vuoi,- rispose sfilandosi un pacchetto di Philip Morris dalla tasca della camicia. Ne tirò fuori una canna, che si accese con teatrale lentezza, incrociando le gambe sul tavolino di legno chiaro.

 

-Vuoi favorire?

 

-Cristo, Luke, sono le dieci del mattino.

 

-E sono comunque ridotto meglio di te.- rispose schioccando la lingua, mentre un lampo di sfida gli percorreva gli occhi arrossati. -Dunque. Non mi hai ancora detto perché sei qui con Miss Core.

 

-Devo trovare Ben.- Dopotutto, era la verità.

 

-Mi hai scambiato per un santone che invoca le anime dei morti?

 

-Smettila di fare il coglione. So che é in Canada e so che sei stato tu, ad aiutarlo a sparirci.

 

Luke lo fissò intensamente, con il volto impassibile. -E questo lo sai...? Certo, Carrie,- concluse con una nota di sarcasmo nella voce. -Sei andato fare gli occhi dolci alla quasi cognatina e lei ti ha sbrodolato tutto, non é vero?

 

Ade irrigidì la schiena, piantando le mani nelle ginocchia nel tentativo di non rispondergli come si meritava.

 

-Perché hai bisogno di lui? continuò l'amico palesemente divertito dal vederlo sulle spine.

 

-É per Tai.-

 

Lo sguardo indagatore con cui Luke lo squadrò, lo fece sentire improvvisamente nudo e inerme. -Certo... Immagino che la tua fidanzata muoia dalla voglia di rivedere il cuginetto.

 

-Non é la mia...

 

-Lo so, lo so.- lo interruppe con un gesto vago della mano. -Dillo un'altra volta e mi avrai convinto completamente del contrario.

 

Ade non fece in tempo a replicare che il discorso venne brutalmente interrotto dall'arrivo di una cameriera in divisa che portava con sé delle focacce con la granita alla mandorla e al caffé.

 

-E tu, anima solitaria, come te la passi senza l'altra metà della tua bromance? Deve essere stata dura per te, tirare avanti solo tutti questi anni...- gli domandò Luke addentando una pasta e ritrovando la sua posizione stravaccata sul divano candido.

 

-Bene. Avrei voluto dire lo stesso di te, ma é evidente che non sia così.

 

-Parli di me? Oh io sto bene, Aderley. Non vedo come potrei stare meglio. Mi rinchiudo qui, dentro il mio Eldorado, traendo il meglio dalla vita in attesa che venga la mia seconda occasione di andarmene per sempre. Ma penso che tu, fra tutti, possa capirmi. Io mi proteggo in una fortezza dorata, tu su un palcoscenico. O forse dovrei dire su una nave da crociera?- aggiunse con un ghigno di disprezzo accennando alla scritta sbiadita sulla sua maglietta.

 

Ade decise di ignorare la palese provocazione dell'amico. -Non dire stronzate, Luke. Stai marcendo. Vuoi finire come Logan impalato contro un albero con il cervello così in pappa da non rendersi nemmeno conto di stare guidando alle 200 miglia orarie su una strada di campagna del Surrey?

 

-Che brutte cose da dire... Ma sono tutti così dolci i tuoi vecchi amici, bambino?

 

La conversazione fu interrotta dalla comparsa di una bellissima donna dal forte accento italiano, con i capelli scuri e il corpo statuario fasciato da un accappatoio immacolato. Lo superò con un sorriso malizioso, per poi avvicinarsi a Luke e depositargli un bacio languido sulle labbra, lasciando cadere l'accappatoio accanto a lui. Poi, dopo avergli rivolto un'occhiata divertita e provocante, si tuffò rapida in piscina, scomparendo alla loro vista.

 

-Non é la mia fidanzata.- scimmiottò Luke ammiccando in sua direzione. -É incredibile quante cose puoi ottenere con un conto in banca continuamente rimpinguato dalle entrate di papà, vero? Appena realizzano a quanti zero ammonta sono disposte ad aprire qualunque porta tu desideri. Se vuoi le chiedo se ha un'amica da presentarti.

 

Ade distolse lo sguardo, nauseato.

 

-Si può sapere che ti prende?- domandò scocciato Luke. -Sei sicuro di essere Eugene Aderley e non il suo gemello sfigato?

 

-Tu non cresci mai, vero?

 

-Oh, io sono cresciuto fin troppo, piccolo Eugenio. Tu invece sembri regredito allo status di una quattordicenne in balia delle sue pene amorose.- Poi, senza attendere una sua risposta, si alzò sfilandosi lentamente la camicia, pronto a seguire la ragazza che si era appena buttata in acqua.

 

-Vedi di riprenderti per la festa di stasera, eh?

 

-Festa?- domandò Ade alzando gli occhi.

 

Un lampo malizioso percorse lo sguardo di Luke. -Una cosa discreta. Pochi intimi. Sarà tutto come ai vecchi tempi, Aderley.

 

***

 

Erano da poco passate le due del pomeriggio quando Tai, la musica a tutto volume nelle orecchie e il diario di sua nonna Merope sulle gambe, si era assopita sotto il sole di quel pomeriggio di ottobre così caldo da dare l'impressione di trovarsi ancora in piena estate. Al suo fianco, Ade dormiva profondamente, con la schiena lievemente abbronzata rivolta al sole e un quotidiano sulla testa a proteggerlo dai raggi.

 

D'improvviso, il rumore insistente del suo cellulare che squillava li aveva destati entrambi, strappando ad Ade acidi improperi contro quei peccatori recidivi che si ostinavano ad ascoltare chi, come gli autori di Glee, violentava deliberatamente mostri sacri della storia musicale, come You can't always get what you want.

 

Tai, scossa la testa con una risata, si voltò sulla pancia e si mise alla ricerca del suo cellulare perduto nel fondo della borsa. Naturalmente, appena lo prese in mano, smise di suonare. Sbloccò la tastiera, notando con stupore cinque chiamate perse, dieci messaggi di Al. Poi, il buio. Il suo cellulare si spense senza che lei riuscisse a cogliere il motivo di tanta urgenza.

 

-Ade, mi si è scaricato il telfono, prendo il tuo.

 

Allungò la mano sull'apparecchio che lui aveva lasciato abbandonato sul suo telo, afferrandolo senza attendere una risposta. Destatosi dal torpore nel quale era ripiombato in pochi istanti, l'uomo si alzò di scatto, strappandoglielo senza troppe cerimonie di mano.

 

-Che ci devi fare?

 

-Io... Avevo solo bisogno di fare una telefonata...- replicò imbarazzata da tale comportamento.

 

-E chiedilo, no?

 

Le riallungò il telefono, voltandole le spalle e rimettendosi a dormire. Tai lo osservò stranita per qualche secondo, poi compose il numero di Alistair.

 

-Pronto, Al, scusa, sono in spiaggia non sentivo il tele...

 

-Taigete.- La voce di suo padre la fece sussultare. -Non sapevo ci fossero spiagge, a Parigi.

 

-Ehm... A l'Ile de Saint Louis hanno attrezzato... la riva. É una bella giornata, siamo venute a goderci il sole.- mentì con scarsa convinzione.

 

All'udire quella frase, Ade si voltò verso di lei, sgranando gli occhi sorpreso.

 

-Capisco...- rispose Philip con una calma quasi inquietante nel frattempo. -E negli scorsi giorni, cosa avete fatto di bello?

 

-Mah, niente di che... abbiamo visto alcuni amici, ho girato per la città. Non sai quanto mi era mancata Parigi.

 

-Immagino, tesoro. E dimmi, ti é mancata anche quando sei stata ad Atene?

Se il calcio che Tai aveva rifilato ad Ade quando aveva cominciato a ridacchiare non fosse bastato a fargli comprendere la gravità situazione, fu lo sbiancare improvviso del suo viso a fargli gelare il sorriso sulle labbra.

 

-Io...

 

-Vuoi forse dirmi che era il tuo clone, quello le cui foto sono comparse stamattina su People, quello che passeggiava per la capitale greca con il figlio di Edward e Maureen Aderley?

 

Merda. Pensò Tai colta da un'ondata di panico.

 

-Un articolo sulla pagina di una delle riviste di gossip più vendute in tutto il paese, Tai! Mi spieghi cosa ti dice il cervello? Ti sembra plausibile che l'erede neo fidanzata della Demeter possa andarsene in giro per l'Europa con il figlio dei proprietari di una delle più redditizie compagnie telefoniche degli Stati Uniti e sperare che la questione passi inosservata? Taigete, santiddio, mi sembra che a volte tu non capisca che ruolo occupi la nostra famiglia nella società! E ad Alistair, non ci pensi?

 

-Ma io...

 

-Si, lo so. Non sei nel mezzo di una vacanza romantica, Al me lo ha detto, ma questo non cambia le cose! Dannazione, Tai, credi che ai giornali gliene freghi qualcosa? Una settimana ti fidanzi, la notizia e le fotografie finiscono ovunque e neanche un mese dopo passeggi in Grecia con un altro uomo. E non con un uomo qualsiasi, ma con Eugene Aderley! A loro non interessa quale nobile motivo ti spinga a farlo, basta che serva a vendere più copie possibili!

 

-E Ben non conta niente, per te?- azzardò nel tentativo di aggrapparsi a una qualunque giustificazione razionale all'imperdonabile leggerezza che aveva commesso.

 

-Tai, mi sembra di avere a che fare con una bambina immatura. Sai bene che Benjamin é come un figlio per me. Sai qual é la cosa che mi fa più arrabbiare? É che tu non me ne abbia parlato. Avremmo potuto affrontare la questione insieme, risolverla senza sollevare tutto questo polverone. E invece hai voluto fare di testa tua, per qualche assurda ragione. Tai, io spero che tu capisca che non provieni da una famiglia qualunque. Essere una Core comporta dei doveri, innanzi tutto. E il tuo, in questo momento, é quello di prendere il primo aereo diretto a New York e venire a sistemare la situazione, senza pararsi dietro tua madre, me, o peggio, Alistair.

 

-Quando fa comodo a te sono una Core, non una McDeer, vero?

 

Tai ascoltò suo padre sospirare, forse esasperato, all'altro capo del telefono.

-Nemmeno una McDeer si comporta come una bambina, quando si suppone abbia l'età per riflettere sulle conseguenze delle sue azioni. Per me l'argomento é chiuso. Ora, se vuoi scusarmi, devo aiutare tua madre nel tentativo di calmare gli Aderley che sono piombati qui più velocemente delle loro fibre ottiche. Facci sapere quando torni.

 

-Tai?

 

La voce di Al le mise più angoscia di quanto non avesse già fatto il discorso di suo padre. Scegli, o Benjamin, o il tuo mondo, le aveva detto implicitamente, senza ricorrere a mezzi termini. Sollevò lo sguardo verso Ade, che la fissava preoccupato, ma lo distolse subito quando si rese conto di essere sul punto di scoppiare a piangere.

 

-Mi dispiace, io ho tentato di spiegare ma... forse tuo padre ha ragione.

 

Torna indietro e sistema questa faccenda. Ti prometto che quando si saranno calmate le acque e tutti si saranno dimenticati di questa storia, ti aiuterò io per primo a trovare Ben.

 

Senza sapere come rispondere, la ragazza si ritrovò ad annuire, mugugnando il suo assenso fra le lacrime silenziose che avevano cominciato a rigarle il volto.

 

-Ci vediamo presto, allora?

 

Annuì ancora, abbassando il telefono.

 

-Ti amo, Tai.

 

Poi la chiamata si interruppe d'improvviso. Si lasciò crollare sul telo, libera di dar sfogo finalmente al proprio pianto. Ben presto avvertì la mano di Ade scostarle i capelli dal viso, e le sue labbra depositarle un bacio sulla tempia.

 

-Mi dici che é successo?- le domandò.

 

Con un lampo di lucidità misto al crescente senso di terrore, Tai pensò che se li avevano trovati ad Atene, nulla impediva che ci fosse qualche maledetto fotografo persino lì, su quella spiaggia. E se per qualche caso fortuito le foto pubblicate non erano così compromettenti da destare sospetti in suo padre o in Alistair, si rese conto che se li avessero immortalati abbracciati su un telo in una delle località turistiche più rinomate d'Italia, difficilmente avrebbe potuto provare che non vi era nulla, fra lei e Ade. Si allontanò di scatto, sciogliendosi dal suo abbraccio, e si mise a sedere a distanza di sicurezza, strappandogli uno sguardo sorpreso.

 

-Tieni.- gli disse lanciandogli il telefono. -Prova ad associare sulla ricerca di Google i nostri nomi a quelli di People e scoprilo da solo.

 

Ade la osservò perplesso  mentre si allontanava correndo, fino a che non fu sparita dalla sua vista, poi fece quello che gli aveva intimato. Fu con crescente panico che osservò le immagini che si caricavano lentamente davanti ai suoi occhi: nelle fotografie, scattate da lontano, una sua versione serena che passeggiava con Tai per il mercato di Atene, in riva al mare poco prima di tuffarsi per un bagno e infine in quel ristorantino sulla spiaggia dove li avevano portati Matt e Carrie a mangiare il pesce.

 

Fidanzamento lampo per l'erede dei Core

Il badboy del jet set newyorkese rapisce il cuore della principessa della Demeter e le sue promesse nuziali?

 

Non é passato nemmeno un mese da quando Taigete Core McDeer, unica erede dell'immenso impero della Demeter, ha annunciato ufficialmente il suo fidanzamento con Alistair Elliot, figlio dell'amministratore delegato dello stesso, che già sembra tirare una brutta aria, ai vertici dell'azienda.

La giovane infatti é stata avvistata in vacanza ad Atene in compagnia di Eugene Aderley, erede (o ripudiato, secondo alcune voci di corridoio) dell'Aderley Corporation. Dopo anni di assenza dalle copertine, ritorna dunque a far parlare di sé il badboy del jet set newyorkese, scomparso nel nulla dopo che l' "Affare Pendleton" che lo vedeva coinvolto (ricorderete tutti l'incendio dello chalet svizzero di proprietà di Sir John Pendleton in cui rimasero vittime quindici rampolli dell'alta società inglese) si era concluso con l'assoluzione di Benjamin McDeer, cugino della stessa Miss Core e sua da ogni capo d'accusa.

Ora rimane solo da chiedersi chi avrà la meglio in questa tenzone amorosa che sporca l'aura dorata dell'alta società newyorkese, se il principe azzurro già destinato alla mano della bella ereditiera, o il misterioso cavaliere dal passato oscuro.

Di tanti dubbi e perplessità, una sola cosa rimane certa: l'erba cattiva non muore mai...

 

D'improvviso mille immagini gli si accavallarono in testa. Le sue foto sul Times, sul Tribune, ovunque. Le giornate chiuso nella camera ancora imperniata di un'adolescenza che non gli apparteneva più, in un mutismo che nemmeno i suoi genitori riuscivano a penetrare. Le domande, sempre più pressanti, i continui posteggiamenti dei giornalisti sotto casa, sua madre, come mai prima di allora, sfuggevole agli obiettivi che risuonavano come un'angosciante cantilena. Gli incubi in cui riviveva ogni minuto della serata che aveva posto fine alla sua vita per come la conosceva, anche da sveglio, come se già non bastassero quelli che prendevano vita in quelle giornate assurde.

 

Spense in fretta il cellulare, e si abbandonò sul telo, strofinandosi il viso con il volto imperlato di sudore con le mani, incapace di elaborare pensieri razionali. Aveva infangato il suo nome e aveva scontato la sua pena con l'esilio. Quale pena lo avrebbe atteso, ora che aveva trascinato con il suo anche quello di Tai?

 

***

 

Le pietre rosse della collana di melograno sembravano gelate sotto le sue dita tremanti. Le aveva conservate tutto quel tempo sul fondo del suo zaino, senza mai trovare il coraggio di indossarle. Sembrava quasi che la stessero attendendo, pronte a ricordarle chi era e da dove proveniva. Le aveva sfiorate con il polpastrello, tentando di ricordare chi fosse la persona che le aveva indossate per l'ultima volta: poi, chiusi gli occhi, con un gesto rapido se le era assicurate al collo.


L'immagine riflessa allo specchio le aveva dato le vertigini. Chi era quella ragazza che la fissava ammutolita al di la dello specchio? Il vetro le restituiva l’immagine di una sconosciuta, fasciata in un vestito candido che cascava morbido fino alle caviglie, lasciando due profondi, simmetrici tagli ai lati della pancia, fin sotto alla vita. Gli occhi lucidi, il viso pallido, reso quasi diafano dal violento contrasto con le pietre rosse della collana, simbolo del suo essere. Pensò a tutte le donne che l'avevano indossata prima di lei: sua madre, Erin, l'algida e impenetrabile fortezza alla quale non avrebbe mai somigliato, sua nonna Merope, la delicata ed eterea donna della quale condivideva la delicatezza dei lineamenti, fino a sua nonna Maia, lo splendida, quella di cui tutti dicevano fosse una goccia d'acqua. Chi era a condividere qualcosa con loro? La Persefone ormai perduta che quella mattina si era svegliata di soprassalto, non trovando più il suo Ade accanto a sé, o quella ragazza che la fissava senza pietà attraverso lo specchio, con la risolutezza di chi sa di essere giunta al capolinea di un viaggio che non può più protrarsi oltre?


Era stato in quel momento che il cigolio della porta alle sue spalle l'aveva distolta dai suoi pensieri, mentre attraverso lo specchio, stava ad osservare Ade che si avvicinava, con le mani affondate nelle tasche, silenzioso. Anche lui, stretto in quell'elegantissimo completo scuro, la barba finalmente sistemata e i capelli ribelli riavviati, sembrava un'altra persona. Non vi era traccia, nel suo sguardo, del ragazzo che aveva baciato al buio del molo di Capo Tenaro, ma solo rassegnazione. Anche lui, in cuor suo, doveva essere consapevole che comunque si fosse conclusa quella serata e qualunque decisione avesse preso Tai, stavano ormai giungendo al capolinea di quel viaggio, per come lo avevano conosciuto.


- ἐλευθερία. Libertà.- Aveva mormorato lui scostando con le dita il gancio che teneva chiusa la collana di melograno che nascondeva la scritta che portava tatuata sul collo. -É un peccato coprirlo con la collana, per quanto splendente essa sia. É il gioiello più prezioso che potresti mai indossare. É ciò che ti rappresenta, più di qualsiasi cimelio di famiglia.


Gli aveva sorriso impercettibilmente, incapace persino di assecondare il tocco delle sue dita.


-Chiunque sostenga che la bellezza e la forza di tua madre non conoscono rivali é un folle. O forse non ha mai avuto la fortuna di osservarti da questa prospettiva, Tai.- Poi, dopo averle sfiorato il collo per un 'ultima volta, le aveva voltato le spalle ed era sparito, chiudendosi la porta della stanze alle spalle.


Nell'immenso giardino a picco sul mare, sembrava calata l'oscurità. Un buio rotto solo da faretti accecanti che squarciavano secchi quel nero nel quale si perdeva. Tutt'intorno, corpi che si muovevano appiccicati, sincroni, bottiglie che passavano di mano in mano, in un fiume di alcol che scorreva nelle vene, pulsanti al ritmo della musica assordante che le penetrava le orecchie, facendola tremare. Tai si mosse lentamente in quel marasma, cercando nel volto di ogni persona che incrociava quello di Ade, che sembrava sparito nel nulla nei pochi minuti che lei aveva impiegato a finirsi di preparare.

 

In un angolo, attorno a un bancone illuminato a giorno, si accalcava un gruppo eterogeneo di persone, i volti stravolti, imperlati di sudore; fra questi, Luke Pendleton, con ricci capelli appiccicati alla fronte, la fissava con un sorriso criptico che si faceva largo fra le guance ceree. D'improvviso Tai si sentì nuda e indifesa, mentre lo sguardo dell'uomo correva dalla pancia lasciata scoperta dai tagli simmetrici dell'abito candido che indossava, fino al collo dove la collana di melograno splendeva, illuminata dai riflessi delle luci del bancone.

 

-Miss Core, si é decisa ad abbandonare i lidi sicuri dei suoi appartamenti e scendere fra queste anime in pena? Alt.- la ammonì cingendole la vita per bloccarla. -È nell'Inferno che stai entrando e, come tale, devi pagare pegno. Giovanni, servi da bere alla mia ospite.

 

-Luke, scusa, ma non reggo il rum.

 

Un guizzo di malizia, uno schiocco di dita. -Doppio giro per la signorina, allora!

 

Pagò il suo pegno chiudendo gli occhi, lasciando che l'alcol le scorresse attraverso la gola contratta. Un fiume di ghiaccio. Il battesimo del primo shot la lasciò senza fiato: il succo di pera gelato le provocò un brivido lungo la schiena nuda, facendola tremare. 

 

-Un altro giro?

 

I due bicchieri che seguirono, le bruciarono la gola. Un fiume di fuoco. Si crogiolò nel lieve stordimento che quei primi sorsi le avevano provocato, seguendo Luke nella folle sfida che le aveva lanciato, incapace di arrestarsi. Davanti a lei, il solo ghigno dell'uomo, pronto a vederla cadere fra quella marea di corpi alla deriva.

 

Quanti shot aveva bevuto? La sola cosa che continuava ad osservare, sinistra nella sua nitidezza, era il liquido ambrato nel suo bicchiere, mentre la sua mente si annebbiava sempre di più, istante dopo istante.

 

Senza sapere come, si trovò sul bordo della piscina, con una bottiglia in mano, muovendosi lievemente a ritmo di quella musica che penetrava ovunque, stordendola più di quanto non avesse già fatto l'alcol. E fu allora che alzò gli occhi oltre la piscina lo vide.

 

Cos'era, esattamente, che stava bevendo? L'ennesimo sorso, ingordo, ghiacciato, le provocò una fitta penetrante al petto, che la costrinse a smettere di bere. Il fiume del dolore. Impietrita, osservò Ade fermo a parlare con una donna dai lunghi capelli mori, in bilico su un paio di tacchi alti come tutte le sue gambe, probabilmente. Si guardava intorno con aria assente, martoriandosi il ciuffo ribellatosi al gel che ricadeva sulla fronte con le dita sottili.

 

Le sue mani bruciavano, mentre si insinuavano sul collo, fin sotto la maglietta, sulla pancia, sulle cosce lasciate scoperte dai leggeri pantaloncini del pigiama. Lo aveva lasciato libero di fare ciò che desiderava, chiudendo gli occhi, mentre con le dita gli sconvolgeva i capelli scuri, abbandonandosi contro la porta che si era richiusa silenziosamente alle spalle, timorosa che qualcuno potesse sentirla entrare nella sua stanza.


Chiuse gli occhi per un istante, incapace di comprendere dove finisse il sogno e cominciasse quella realtà confusa e assordante. Poi, cogliendola di sorpresa, una voce strascicata alle sue spalle ruppe quel frastuono continuo che le rimbombava nelle orecchie, sin dentro al petto.

 

-Non ti dispiace, vero? Gli ho presentato un'amica.

 

L'aveva tirato a sé, abbandonandosi completamente al desiderio di sentire il contatto con la sua pelle, il suo profumo delicato sulle labbra, quel profumo che aveva imparato a conoscere così bene, al punto che le sembrava di non averne mai sentito altro nella vita.


-Tanto tu stai per sposarti, no?

 

Una risata beffarda, un soffio caldo, l'aroma di vodka che le penetrava le narici, mentre sorseggiava ancora, attingendo avidamente dal bicchiere che si era materializzato davanti a lei. Il fiume dell'oblio. Chi l'aveva detto che l'alcol aiutava a dimenticare?

 

I vestiti erano ormai un mucchio di stoffa abbandonata sul pavimento. Si era lasciata cadere sul letto, avvinghiata alle sue spalle, crollando rovinosamente assieme a quel senso di rimorso che scivolava lungo il corpo contratto dal desiderio, abbandonandola gradualmente a ogni tocco, a ogni sospiro, ad ogni gemito.


-Sei innamorata di lui, Miss Core?

 

La vodka le bagnava le labbra, mentre ghiacciato, il bicchiere le sfiorava la bocca, la guancia, il collo. Il liquido le bruciava la gola, impedendole di respirare, di parlare. Si dice che se un dio fosse sospettato di mentire, Zeus prendesse una brocca piena d'acqua dello Stige e gliela facesse bere. Fu con sgomento che si ritrovò ad annuire, prima che il cervello potesse ricordarle di fermarsi.

 

Aveva aperto gli occhi, riempiendosi del viso che la sfiorava, dei suoi occhi lievemente socchiusi, della sensazione del suo corpo ovunque, su di lei, dentro di lei, su ogni centimetro di pelle. Aveva cercato le sue labbra, saggiandone il sapore salato, lasciando che le sfiorassero le guance, il mento, il collo...


L'odore di vodka e fumo vicino, asfissiante, la sensazione di un corpo estraneo incollato al suo mentre braccia sconosciute che le cingevano la pancia. Si sentiva soffocare, ma non riusciva a muoversi, impietrita com'era in quel brusco risveglio dall'onirico stordimento in cui era piombata.

 

-C'é qualche problema?

 

Aprì gli occhi di colpo, realizzando con sgomento che quello che le aveva lasciato quel sapore di vodka e tabacco sul collo, altri non era che Luke.

 

-Certo che no, Aderley. Stavamo ballando.

 

-La mia idea di ballare non comprende anche il passare la lingua sul collo della mia compagna. A meno che non abbia sbattuto la testa e mi sia rincoglionito.

 

Luke lo guardò con un lampo di malizia negli occhi annebbiati. -A meno che tu non abbia goduto dei regalini che ho messo a disposizione degli ospiti e abbia un po' le idee confuse.

 

Ade rimase impietrito. Tai sgusciò dalla presa che Luke teneva salda attorno alla sua vita, parandosi davanti a Ade, terrorizzata: incertezza, turbamento, disgusto, tutto aveva trovato nei suoi occhi, tranne che quella rabbia cieca che ora li sconvolgeva.

 

-Che c'é, vuoi dirmi che non ne hai più voglia?- continuò a provocarlo Luke estraendo un sacchettino trasparente pieno di polvere bianca. -O vuoi dirmi che sei così pezzente adesso che papà ti ha diseredato che hai smesso perché non puoi più permetterti certi lussi?

 

-Ade...- Tai continuava a fissarlo, incapace di muoversi.

 

-O forse sei innamorato e vuoi fare il bravo ragazzo?

 

Per un attimo lo sguardo di Luke corse dal viso di Ade al suo, mentre il suo si contraeva in un ghigno compiaciuto: aveva finalmente trovato il suo punto debole.

 

-Ma che tenero...-scimmiottò con voce falsamente dolce. -Ti sei innamorato della piccola Core... E sentiamo, il principe consorte che dice che la sua fidanzata si scopa un altro?

 

-Luke, per favore, hai bevuto e chissà che cazzo hai tirato su, possiamo darci una calmata?

 

-Io sono calmissimo. Qui, l'unico a disagio, mio caro, sembri tu. Ho detto qualcosa che ti ha ferito, poverino? Vuoi davvero venirmi a dire che adesso sei un bravo ragazzo? Speri davvero che due sguardi teneri e qualche parola dolce ti rendano una persona migliore? Quelli come noi non cambiano, Aderley. Prima te ne accorgerai, meno male farai alla gente che ti sta attorno. E magari non manderai la vita della signorina qui presente a puttane, come hai già fatto con quella di Char...-

 

Fu un attimo.

 

Tai non fece nemmeno in tempo ad alzare un braccio per fermarlo che il pugno chiuso di Ade si abbatté sulla mascella di Luke, facendolo crollare contro i lettini di legno ordinatamente disposti a bordo piscina. Questo era talmente fuori di sé che, dopo essersi ripreso dallo shock del pugno, non riuscì nemmeno a rialzarsi da solo. Alla fine si buttò esausto su un lettino, massaggiandosi la mascella, il respiro affannato, il viso sudato e stravolto.

 

Ade si avvicinò lentamente, lo osservò per qualche secondo tentando di calmarsi, poi sfoggiando un tono così freddo che Tai quasi ne ebbe paura, gli disse: -Qui il solo che ha mandato a puttane qualcosa sei stato tu, con la tua dignità. Mi fai pena, Luke.

 

Poi, voltate le spalle al drappello di curiosi riunitisi sul luogo, si allontanò a grandi passi, sparendo in pochi secondi inghiottito dall'oscurità e dal fumo dei faretti che si muovevano impazziti a bordo piscina.

 

***

 

La strada ai suoi piedi non le era mai sembrata più facile da percorrere. Correva, apparentemente priva di peso, lungo quella lunghissima discesa che conduceva dal paese fino alla spiaggia. La gonna leggera del vestito candido le sfiorava le gambe, luminosa nel buio della strada e della notte, la collana di melograno le sfiorava la gola, muovendosi ad ogni suo passo.

 

Correva lontano da quella musica, da quelle luci. Dall'odore di vodka, dalle braccia di Luke che la soffocavano, dal suo fiato sul collo. Correva lontano da Ade, da un mondo che aveva saggiato e che la spaventava, dalla persona che non avrebbe mai potuto essere.

 

Non sarebbe mai stata in grado di lasciarsi la sua vita alle spalle, lo sapeva bene. Eppure l'idea che non avrebbe mai più rivisto Ade le toglieva il respiro ancora più di quanto non lo facesse quella folle corsa che la conduceva dritta alla certezza che, qualunque decisione avrebbe preso, nulla sarebbe stato più come prima.

 

Si arrestò quando si rese conto di essere giunta in fondo alla strada, nella stessa spiaggia dove aveva trascorso il pomeriggio. Alla sua sinistra, splendente nella sua antica bellezza, il teatro di Taormina illuminava appena la spiaggia deserta. Davanti a lei, il mare non le era mai sembrato più calmo, eppure non riusciva ad avvicinarsi. Senza rendersene conto, ricominciò a piangere silenziosamente; le lacrime che le scorrevano sul viso avevano lo stesso sapore della salsedine e delle labbra di Ade. Il vento e l'umidità le spostavano il vestito e le appiccicavano la pelle. Tutto era come la notte a Capo Tenaro, tranne lei.

 

Persefone aveva perso la sua purezza ed era rimasta intrappolata nel suo Averno.


Pensò a quelle settimane appena trascorse, a ciò che aveva provato, a Ade. Pensò a come si sentiva quando aveva messo piede sull'aereo che l'aveva condotta verso quel viaggio. Era scappata da un mondo di certezze, sicuro, tranquillo, per sprofondare lungo un sentiero pieno di dubbi e insicurezze. Sarebbe mai potuta tornare davvero, dopo averne saggiato l'essenza? Sarebbe mai stata nuovamente la stessa ragazza che si era fidanzata negli Hamptons?

 

Scosse la testa, forte della consapevolezza che non desiderava nulla di ciò che era stato prima di quel viaggio. Sarebbe tornata, perché non poteva fare altrimenti. In qualche modo avrebbe dimenticato Ade e ciò che aveva provato accanto a lui, ma non avrebbe mai dimenticato la persona che era diventata dopo di lui.

 

D'improvviso, sentì che la collana di diamanti non le stringeva più. Quel gioiello, che fino a quel momento le era apparso un peso, una costrizione, alla luce di questa nuova consapevolezza le sembrava ora un inutile orpello. Una nota stonata nell'armonia distorta di quella notte. Erano finiti i giorni in cui aveva rappresentato una maledizione, per lei, per nonna Merope, per Maia. La sganciò con un gesto secco, rigirandola per qualche secondo fra le dita poi, senza indugio, la gettò lontano e restò ad osservarla mentre spariva fra i flutti.

 

-Ti senti meglio adesso?

 

Sussultò, voltandosi di scatto. Era solo Ade. Si asciugò in fretta le lacrime, sbavando l'impeccabile trucco che aveva steso con cura.

 

-Ho appena gettato un cimelio del Cinquecento in mare, come credi possa sentirmi?

 

-Lo sai che tua madre farà lo stesso giochino con la tua testa quando tornerai a casa senza collana, vero?

 

Tornare. Perché quella parola, pronunciata da Ade, sembrava così terribile?

 

-Perché è questo che non hai avuto il coraggio di dirmi oggi in camera tua. Stai tornando a New York, non é vero?

 

-Ade, sapevamo che sarebbe successo prima o poi...

 

L'uomo la fissò, abbassando la testa. Poi con un filo di voce, come per volersi togliere un peso, le disse: -Non ho mai avuto intenzione di provarci con quella ragazza, in piscina.

 

-Ade, non ha importanza. Sto tornando alla mia vita, da Alistair...

 

-Ne ha per me.- la interruppe secco.

 

Tai sollevò gli occhi sul suo viso, tentando di carpire ogni linea, ogni imperfezione. Sapeva che quella era l'ultima volta che lo avrebbe guardato in quel modo, che la sua immagine stava svanendo, assieme a quel mondo che moriva lì, su quella spiaggia.

 

-Vai da Ben, Ade. Fallo per me, trovalo. Digli che lo raggiungerò appena potrò. Ne hai più bisogno tu di me. Io... suppongo che dovrò tornare ad attendere i doveri che spettano a una Core. E magari a tirarti fuori dai guai.

 

-Tai, è un cognome, santiddio. Possibile che tu ti senta così in obbligo verso la tua famiglia? Hai gettato quella collana, porti tatuata la parola libertà sul collo... non puoi seriamente pensare che sia un cognome a decidere per te.

 

-Cosa dovrei fare, Ade? Mollare tutto? Trasferirmi a Londra con te? Girare il mondo finché non saremo due patetici hippie pieni di rughe, tatuaggi e con il cervello fritto dalla marjuana?

 

Il viso di Ade si contrasse per qualche secondo in un ghigno divertito.

 

-Non sto dicendo questo, Tai. Sai benissimo che non ti chiederei mai di rinunciare alla tua vita per me. Ti sto solo pregando di essere te stessa. Entrambi conosciamo il peso che hanno i nostri cognomi e ne paghiamo lo scotto sin dalla nascita, ma non puoi pensare di lasciarti soffocare da quei doveri che ti vengono imposti dall'alto e che tu accetti, senza nemmeno fermarti a riflettere cosa sia giusto per te. Torna a casa, fa vedere a tutti di cosa sei capace. Non essere Persefone, non essere Ofelia. Sii semplicemente Taigete, quel concentrato di forza che ho conosciuto in questo viaggio.

 

-Non sono così forte come credi.

 

-Stronzate. Tai… ho sempre pensato che al mondo esistono due categorie di persone: sono come due flussi sulle pedane mobili che ci sono negli aeroporti, o nelle stazioni della metropolitana. C'é chi, come te, ne asseconda il percorso e sfreccia veloce attraverso la vita e chi, invece, come me sta fermo e aspetta pazientemente che il percorso finisca, perché privo di forza per correre. Vanno avanti perché così deve essere, ma di fatto rimangono immobili e si lasciano trasportare dagli eventi, finchè quella pedana non finirà. E Luke, in un certo senso, ha ragione: le persone come me non cambieranno mai. Ma per te... per te é diverso. Sei tosta, sei intelligente, ma allo stesso tempo dolce e sensibile, come tuo cugino. E sei libera. Sei una McDeer più di quanto tu non creda. E se un giorno dovesse capitare che le nostre pedane si incroceranno nuovamente, spero di vederti ancora correre, esattamente come oggi.

 

-Almeno metterò su un fisico da paura.- tentò di scherzare, rendendosi conto di aver perso la voglia di ridere.

 

-Torna a casa, sappiamo entrambi che è meglio così. Quello che é successo in questo viaggio, rimarrà fra noi. Considerala una follia di addio al nubilato... senza spogliarelli, né tanga commestibili. E...

 

-Penso che possa bastare.- lo interruppe lei. -L'idea di te unto come un cordon bleu mi sta facendo risalire gli effetti del rum.

 

-Vuoi forse dire che non mi vedresti nel cast di Magic Mike?

 

Tai aggrottò un sopracciglio, fissandolo perplessa. -Si, immagino che i tuoi pettorali da culturista farebbero strage.

 

Scoppiarono a ridere entrambi, lasciandosi trasportare da quello che entrambi sapevano essere l'ultimo istante prima di un inevitabile addio.

 

Poi, d'improvviso, Tai sollevò gli occhi e incrociò lo sguardo di Ade, rendendosi conto di non averne più paura. Così vestito, l'uomo sembrava davvero un bambino eccessivamente cresciuto. Ne sfiorò per un'ultima volta il profilo della mascella, la fossetta che gli ingentiliva il sorriso e la guancia liscia. Poi, sollevatasi sulle punte, lo baciò impercettibilmente e si allontanò in fretta, sparendo alla sua vista.

 

Spesso dalle intenzioni sue l'uomo è sviato. Tutti i nostri propositi dipendono dalla memoria: se nascendo quindi sono robusti, poi si indeboliscono. Acerbo il frutto sta ben saldo al ramo; maturo, da sé cade, senza scuoterlo.


Ade stette ad ascoltare il rumore dei passi di Tai morire alle sue spalle poi spinse le mani in tasca, la schiena percorsa da un brivido di freddo. Gettò un'ultima occhiata al mare, al punto dove aveva visto sparire la collana e infine oltre la riva, verso il teatro illuminato.

 

Le dita sottili si strinsero attorno alla forma squadrata del telefono. Lo tirò fuori, giocandoci a lungo prima di sbloccare la tastiera, indeciso sul da farsi. La galleria era sotto le sue dita: una foto di Tai che dormiva, una in cui lei faceva una linguaccia mentre lui la guardava perplesso, qualche scatto di Capo Tenaro e di Atene. E poi quel video, quello che continuava a nascondere a Tai, la vera prova della sua innocenza, ma che avrebbe inevitabilmente rovinato il fragile equilibrio di Ben. Lo stesso che continuava a rivivere nei suoi incubi. Premette sul cestino, rimanendo a lungo ad osservare il riquadro rosso che gli chiedeva di cancellarlo. Poi, d'un tratto cambiò idea e, seguendo il gesto di Tai, lanciò il telefono verso il punto in cui aveva visto affondare la collana, osservando la sua unica possibilità di ritorno svanire inghiottita dai flutti.

 

Persefone se ne era andata, ma Ade, dopotutto, sarebbe per sempre rimasto nell'Averno.


Fu allora che, per la prima volta dopo sei anni, si sentì stanco. Era come se tutto quel girovagare, tutto quel fingere, tutto quel soffrire, l'avessero condotto sin lì per uno scopo. Aveva diciannove anni quando aveva votato la sua vita al teatro. Ma passati dieci anni, si era reso conto che non aveva fatto altro che cercare una via di fuga nel palcoscenico e nei personaggi di cui aveva vestito i panni, giorno dopo giorno, in tutti quegli anni più che una ragione d’essere.

 

Pensò al suo appartamento di Greenwich e immediatamente la mente corse a quell'accappatoio fermo ad asciugare per anni, al giubbotto pesante appeso all'attaccapanni, alla porta socchiusa della camera di Ben, alla bottiglia impolverata di Guinness abbandonata vuota sul tavolo. Era giunta l'ora che qualcuno la buttasse via.

 

Era giunta di smettere di scappare. Sarebbe tornato a casa.

 

Le braccia di Alistair la proteggevano dalle sue stesse colpe.


I flash, le domande inopportune, le voci assordanti. Era stata Persefone ad evocarli o lei?

Il cappuccio della felpa le copriva i capelli castani, lasciandole scoperto il volto, gli occhi chiari accecati dai bagliori, dalle lacrime che non potevano scendere, dalle immagini che continuavano a scorrerle dinnanzi senza che lei potesse interromperle.


I suoi passi la conducevano a casa, ma la sua mente quella la bloccava su una spiaggia, illuminato dalla sola luce in lontananza di un teatro. E, per quanto Al la sorreggesse, Tai sapeva che Persefone non sarebbe mai entrata con lui in quella casa.


Lei sarebbe stata eternamente in viaggio, diretta ovunque il suo Averno l’avrebbe condotta.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

Note delle autrici

 

 

Buonaseeeeeeeeeeera!

Le promesse vanno mantenute, ed eccoci qui, con il quinto atto. Un capitolo lungo e bello denso, che si potrebbe initolare "tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino". E in un certo senso, le nostre Persefone ci hanno lasciato ben più dello zampino: ci hanno lasciato una bella fetta di cuore. Voi che ne dite? Come pensate potrà evolvere la situazione?

Lo scoprirete nella prossima puntata!


Per il resto...non ci/vi resta che attendere che riuniamo i cervellini e ci avviamo alla conclusione: manca moooooooolto poco alla fine (che cosa triste) e i cerchi stanno per chiudersi. La sola domanda è...come?


Per ipotesi, congetture spoiler o altro, vi aspettiamo, come sempre nei nostri gruppi e nella pagina di Persefone, per commentare, scherzare e, naturalmente, per ridicolizzare un po' la nostra banda di disagiati, cosa che fa sempre bene.



- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti!

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






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Capitolo 7
*** Atto VI ***


 

 

 

 

 

 

Atto

VI


 

 

 

1920

 


Tredici. Quattordici. Ventotto.
Aveva puntato trentacinque dollari su tre numeri e ne aveva appena vinti quattrocentoventi grazie al ventotto.
131428, il numero di identificazione del Titanic.
28 settembre, il giorno del funerale di suo padre, la prima volta che aveva incontrato Maia.
Lei era lì, ma non giocava, come invece era solita fare ogni volta che si ritrovavano davanti a un tappeto verde, puntando con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere e tanto da guadagnare, senza pensare, solo sorridendo.
Dov'era quel sorriso, quella notte?
Da settimane ormai Maia sembrava come spenta, la luce che irradiava, quel sorriso che faceva sentire chiunque lo ricevesse importante e unico, era svanita lasciando il posto ad un pallore quasi mortale. Per la prima volta in molti anni, neppure fingeva che tutto andasse bene. Si era arresa.

 

Sarà colpa dell’imminente matrimonio, sussurravano i newyorkesi davanti alla loro beniamina che perdeva peso e lucentezza, che era sempre impeccabile e presente, ma che al tempo stesso sembrava mille miglia lontana da loro, da lì.Il nome di Hasmal non aveva mai sfiorato, in quel momento, quelle stesse labbra che prima ne avevano abusato, spettegolando sul loro rapporto, come se avessero ricordato solo in quel momento di chi stavano parlando. Hasmal era diventatocome Titanic, parole impronunciabili davanti a lei.

 

Sarà colpa dell’imminente matrimonio, sussurravano i newyorkesi davanti alla loro beniamina che perdeva peso e lucentezza, che era sempre impeccabile e presente, ma che al tempo stesso sembrava mille miglia lontana da loro, da lì.Il nome di Hasmal non aveva mai sfiorato, in quel momento, quelle stesse labbra che prima ne avevano abusato, spettegolando sul loro rapporto, come se avessero ricordato solo in quel momento di chi stavano parlando. Hasmal era diventatocome Titanic, parole impronunciabili davanti a lei.

 

Nathanael, però, sapeva perfettamente che non erano le nozze ciò che affliggeva Maia, e per la prima volta, testò la sensazione di essere un intruso nella sua stessa vita, perché se fino a quel momento era stato l’ancora della sua fidanzata, il porto sicuro in cui lei potesse tornare, letteralmente, in quel frangente sapeva di essere il problema, sapeva che Maia, che mai l’aveva fatto da quando era stato deciso il loro fidanzamento, si stava chiedendo se fosse la scelta giusta, se sposarlo l’avrebbe resa felice. Ed era una consapevolezza che lo faceva impazzire, perché renderla felice era l’unica cosa che per lui contasse davvero.
Aveva sempre accettato che Maia non l’avrebbe mai amato quanto era amata, ma gli sarebbe stata devota e sarebbe stato abbastanza, per lui.
Eppure Maia amava, e amava con uno struggimento drammatico che l’aveva resa, in pochissimo tempo, lo spettro di ciò che era, e la sua scelta -il suo essere rimasta a casa, al proprio posto- non era stata dettata dall’affetto per Nathanael, ma dalla paura dell’ignoto che Hasmal portava con sé.
Parte della colpa era sua, per essere stato così accecato dal desiderio di farla felice da non aver fermato quella follia sin dal principio, dal giorno del loro fidanzamento ufficiale: qualsiasi cosa fosse successa tra loro, anche se si fossero sposati e fossero vissuti insieme altri cinquant’anni, il ricordo di quei mesi non li avrebbe mai abbandonati del tutto e sarebbe rimasto lì, taciuto e mai dimenticato, fino alla fine.

 

-Nat, vorrei andare a casa.

 

Pochi secondi dopo si era rintanato nello studio, incapace di dormire e senza alcuna intenzione di auto commiserarsi rigirandosi nel letto, ma dopo un’ora l’istinto ebbe la meglio sul raziocinio, così entrò nell’altra camera da letto, dove Maia dormiva un sonno apparentemente quieto.
Sul comodino stava un diario dall’aspetto talmente consumato da non far dubitare neppure un istante che non fosse quello della sua fidanzata: gli bastò una rapida occhiata alla pagina in cui Maia aveva interrotto la lettura, per fargli comprendere che se Hasmal aveva interpretato un ruolo importante in quella frattura, quella ragazza, quella Pleis, ne aveva recitato uno ancora maggiore. Raccontava di una scelta che l’avrebbe perseguitata tutta la vita, di un amore abbandonato al peggiore dei destini per la promessa di un futuro apparentemente privo di dolore.
Era questo, lui, per Maia? Un futuro sicuro, privo di qualsiasi emozione, di gioie e dolori?

 

-Ho sbagliato tutto con te, vero?

 

 

 

-Non possiamo parlarne alla luce del giorno?

 

 

 

Non l’aveva mai sfiorata senza che lei non volesse, trattandola come un vaso di cristallo troppo prezioso anche solo per essere sfiorato, ma se la sua venerazione li aveva condotti a quel punto, probabilmente era stato un errore. Aveva sbagliato tutto con lei.

 

Scostò il lenzuolo e la fece alzare, fronteggiandola da suo pari e impedendole di fuggire.

 

 

 

-Cosa sta succedendo? Mi ignori per giorni, settimane, vengo a trovarti perché questa distanza mi sta facendo impazzire e tu mi allontani come il peggiore dei fidanzati, come se fossi venuto a reclamare a forza qualcosa! Potrei farlo, sai? Sarai mia moglie, Maia, e potrei chiederti in qualsiasi momento ciò che sarà comunque mio.

 

 

 

Parole velenose di cui si pentì nel momento stesso in cui le pronunciò, un istante troppo tardi per rimangiarle.

 

 

 

-Sarò tua moglie, Nathanael? Certo, avrò una fede al dito e tu potrai reclamare la mia verginità, ma la mia vita non cambierà affatto! Non vedi la follia nelle nostre scelte, non ti rendi conto di quanto siano ridicole? Sarò una donna sposata che continuerà a vivere nella casa di famiglia, con gli orari scanditi dai programmi di altre persone. Tu hai passato la vita ad accontentare me ed io a compiacere te. È ora di smetterla! Vuoi sapere cosa voglio? Voglio una casa da chiamare mia, una casa di cui sia la signora e padrona, in cui non sarò perennemente sorvegliata e giudicata da mia madre, in cui potrò organizzare cene e serate culturali, e accogliere gli artisti ed essere la loro mecenate. Tu hai la Demeter, Nathanael, sei la Demeter, ma io non ho nulla e sono stanca di essere la bambolina carina che tutti ammirano solo perché fa esattamente ciò che loro vogliono. Avevo mille sogni, prima. Avevo dei progetti.

 

 

 

Prima. Prima del Titanic. E in quel momento capì ciò che da tempo aveva iniziato a sospettare e dovette arrendersi alla dolorosa evidenza che Hasmal era arrivato dove lui mai aveva potuto.

 

-Non ti ho chiesto io di rinunciare, Maia. È questo quello che vuoi? Una casa tutta nostra?

 

-Voglio essere Maia, non solo l’erede della Demeter che, comunque, non sarà mai mia… E non mi interessa,- aggiunse fermando la sua replica, - Non la voglio, l’azienda di famiglia, con quel suo dannatissimo nome greco. Ma voglio avere la possibilità di crescere e di scegliere che tipo di donna diventerò.

 

 

 

Era stato facile esternare quei desideri, facile e doloroso e terribilmente liberatorio, perché Gabriel non avrebbe mai dovuto costringerla a rivivere quei ricordi, ma dopo averlo fatto lei sapeva che non sarebbe mai potuta tornare alla vita precedente, perché prima di imbarcarsi in quel maledetto viaggio, Maia aveva la mente piena di progetti per il suo futuro ed era stato facile dimenticarli, dopo, abbandonandosi ad un futuro privo di pericoli, ma era stato altrettanto facile ricordarli nel momento in cui qualcuno l’aveva costretta a farlo.

 

 

 

Si avvicinò a Nathanael, al suo porto sicuro: aveva accettato di diventare sua moglie, anni prima, non solo perché era ciò che tutti si aspettavano, ma anche perché in lui aveva visto un appoggio costante, un marito che avrebbe fatto qualsiasi cosa per la sua felicità. Il male che gli stava facendo, lui non lo meritava.

 

Ma proprio nel momento in cui pensava di poter ricominciare a ricostruire il rapporto con Nathanael, di poter plasmare un futuro nuovo, lui le pose un’ultima domanda.

 

 

 

-Ed è con me che desideri tutto questo? È me che vedi al tuo fianco?

 

 

 

E Maia non seppe cosa rispondere.

 

***

 

Un istante di silenzio. Due. La signora Calloway contò fino a trenta, poi prese atto del silenzio al di là della porta, dell’assenza di un rifiuto, segno che, quella sera, Gabriel non desiderava allontanarla per rimanere solo a commiserarsi.

 

La donna entrò lentamente nella stanza e si sentì soffocare, sopraffatta dalla puzza di vino e sigarette, di polvere e pittura, di buio, così denso che neppure la luce artificiale riusciva a diradare; il caos regnava sovrano tra quelle mura, il vassoio di cibo che gli aveva lasciato davanti la porta quella mattina giaceva appena spiluccato in un angolo, mentre numerose bottiglie di vino erano riverse ormai vuote sui mobili, macchiandoli di rosso, in una scomposta natura morta.

 

La donna ricordò il giorno in cui lui era tornato dalla guerra, piegato ma ancora non spezzato. E ricordò un momento ancora precedente, il giorno del funerale dei suoi genitori, morti nel modo più banale, investiti da un ubriaco mentre tornavano a casa dopo una serata mondana: erano persone altolocate, gli Hasmal, nuovi ricchi che potevano permettersi di far inseguire al figlio la passione per l’arte convinti che, quando il momento fosse giunto, avrebbe preso il posto del padre nell’azienda di famiglia, produttrice di tessuti.

 

Alla morte dei genitori, però, Gabriel aveva venduto tutto, destinandosi solo una rendita vitalizia: una reazione istintiva che avrebbe rimpianto per tutta la vita, non perché fosse in qualche modo legato a quell’eredità, ma perché, cinque anni dopo, sarebbe stato il suo lasciapassare per evitare la guerra, perché lo avrebbero lasciato a dirigere l’azienda e a produrre equipaggiamento per i soldati. Sarebbe stato un membro di quella cerchia di eletti contro cui aveva urlato il proprio disprezzo, mentre la sua qualità di artista non era stato ritenuto in alcun modo un motivo degno per evitare la leva.

 

Eppure, né la morte dei genitori né, ironicamente, la guerra, lo avevano distrutto come ne era stata capace Maia Core, se la desolazione dell’autore di quel caos era anche solo simile a quella della stanza; quando infine si voltò ciò che le si presentò fu, se possibile, anche peggio di qualsiasi previsione: il volto di Gabriel era pallido e scavato, quasi opalescente in quella penombra, e gli occhi iniettati di sangue erano circondati da profonde occhiaie scure. E le mani, quelle belle mani, erano macchiate di pittura al punto che viso e capelli erano striati di colore laddove si erano posate.

 

Aveva le sembianze di un folle, di chi aveva la mente persa in luoghi accessibili solo a lui, avulsi dalla realtà, ma quando parlò lo fece con imprevedibile calma.

 

 

 

-Ho finito.

 

 

 

Non aveva bisogno di specificare cosa avesse finito, cosa lo avesse assorbito al punto da dimenticare tutto il resto, perché non vi era che una donna che avesse quel potere, una donna mutevole e capricciosa che poteva assumere infinite forme, sfuggevole e impalpabile. Una donna che era stata lontana a lungo.

 

Madonna Arte.

 

 

 

Ciò che era finito troneggiava al centro della stanza, solenne nella sua immensità.

 

Persefone, non Afrodite.

 

A modo suo, anche la figlia di Demetra era stata una dea dell’amore, spingendo il re degli Inferi a sfidare chiunque, persino suo fratello, il re dell’Olimpo, pur di averla.

 

Afrodite sceglieva i suoi uomini e ad essi si concedeva, ma Persefone… Lei era una dea per cui valesse la pena lottare, sovvertire l’ordine naturale delle cose, portare l’inverno sulla terra. E Maia Core, che così tanto Gabriel aveva disprezzato all’inizio credendola come tutti loro, come quegli dei coperti dall’oro scintillante dello champagne di contrabbando, si era rivelata un’anima affine, compagna nell’oscurità. Una donna per cui valesse la pena lottare, cosa che non dubitava stesse facendo Rafael in quei giorni, pur di riavere la sua fidanzata, e Gabriel si chiedeva se sarebbe stato in grado di comprenderla e di camminare con lei tra le ombre che avrebbe sempre portato con sé, per quanto si sforzasse di colorarle di luce.

 

Quelle ombre erano parte di Maia: lui non avrebbe potuto che trascinarla definitivamente nel buio, ma Nathanael, con il suo tentativo di farla vivere in un’estate perenne, l’avrebbe condannata ad un destino ben peggiore. Il melograno, Maia l’aveva mangiato da molto prima che giungesse lui, ed era stata la morte in persona ad offrirlo mostrandosi in tutta la sua crudele maestà a una ragazza che non aveva conosciuto altro che gioie.

 

Le ombre, le sue ombre, erano la metà perfetta tra loro due, tra l’estate di Demetra e l’inverno di Ade, e sapeva che gli sarebbe bastato tendere la mano per trascinarla con sé in quel regno sotterraneo che era la sua vita, ma non ne aveva il coraggio: Ade non può sopravvivere senza la sua Persefone, ma Persefone poteva sopravvivere in un inverno perenne?

 

 

 

-È splendida.

 

-Non avevo mai usato il chiaroscuro prima, ma l’ho trovato calzante.

 

 

 

La signora Calloway annuì, ammirando il primo quadro completo da molti, troppi anni: una splendida Maia, i capelli castani intrecciati da rovi, le labbra rosse, dello stesso colore della melagrana che teneva in mano. Grazie alla gradazione delle luci e delle ombre nella stesura dei colori, Gabriel aveva conferito alla figura naturalezza e volume, al punto che sembrava emergere dal piano dell’affresco per proiettarsi verso l’affascinato spettatore. Alle sue spalle, per accrescere la profondità della raffigurazione, vi era un paesaggio roccioso e due colline opposte, l’una illuminata dal sole e l’altra avvolta dalle nubi.

 

Gabriel aveva abbracciato la tecnica di Giotto, dipingendo un personaggio che sulla tela palpitava di emozioni, e così come il pittore italiano aveva spezzato il ritmo costante dei suoi predecessori, quei fondali d’oro e i volti privi di espressione, così Gabriel aveva abbandonato l’arte frettolosa e incompleta che aveva caratterizzato gli ultimi anni per tornare alle origini e superare se stesso, creando un’opera davanti alla quale qualsiasi suo precedente dipinto impallidisse.

 

Il pittore aveva trovato la sua musa e tutto, in lei, era un gioco di luci ed ombre, di tinte fosche a tratti appena illuminate: estate e inverno, Demetra e Ade, Nathanael e Gabriel.

 

Maia, però, non si sarebbe potuta dividere, ma avrebbe dovuto scegliere. Lo aveva già fatto?

 

 

 

-Manca un dettaglio,- commentò lui dopo alcuni istanti, riprendendo il pennello in mano e aggiungendo una scritta all’opera, lettere greche nell’angolo in basso.

 

τλφα κα τ. Alfa ed Omega. Il principio e la fine.

 

 

 

-Non deve per forza finire qui.

 

-Deve, invece. Credo che lei mi odi

 

 

 

La signora Calloway sorrise, di quei sorrisi amari e rassegnati.

 

 

 

-L’hai costretta a ripercorrere i momenti più dolorosi della sua esistenza.

 

 

 

-Ma non capisci? Lei doveva farlo, per poter andare avanti. Lei non è perduta, non ancora, e quegli sciocchi di Rafael e di Lady Core sono così ciechi da non accorgersene: non è in quella prigione dorata che Maia potrà superare quel trauma. Glielo dovevo. Lei mi ha restituito la mia arte… Restituirle i suoi ricordi era il minimo che potessi fare. Ma non so cosa fare ora,- aggiunse dopo un istante.

 

 

 

E il consiglio nacque dal cuore, davanti a quegli occhi desolati.

 

-Vai dallunica persona che può aiutarti a capirlo.


 

***

 

 

 

Gli eventi di beneficienza, in quell’America piena di contraddizioni, solitamente non erano altro che l’occasione perfetta, per i ricchi, di sfoggiare abiti e gioielli e staccare assegni con apparente noncuranza, sentendosi in pace con se stessi sapendo di aver fatto del bene… E sapendo, soprattutto, che la cifra sarebbe stata accuratamente riportata nelle cronache e sarebbe passata di bocca in bocca, con invidia o ammirazione.

 

A Lady Core non erano mai piaciute, benché si fosse ritrovata a organizzarne lei stessa svariate, nel corso degli anni: questioni sociali che le impedivano di esimersi, benché molta della sua beneficenza passasse sotto silenzio, conosciuta solo ai suoi familiari.

 

-È così deprimente,- commentò mentre New York si rifletteva nel finestrino oscurato della limousine, –La maggior parte di quei damerini neppure sa dove si trovi Blackwell's Island.

 

Eppure, proprio in quel quartiere dimenticato persino da Dio era divampato un incendio che aveva distrutto, tra i tanti edifici, una costruzione fatiscente che ospitava gli orfani di guerra, tutti coloro che avevano perso il padre al fronte e la madre tra le strade di quella città, mentre cercava di racimolare un tozzo di pane vendendo l’unica merce che avesse, il proprio corpo.

 

Era per loro, quel cocktail pomeridiano che si sarebbe trascinato fino a notte inoltrata, per assicurarsi che avessero un tetto sopra la testa; nessuno sapeva che Potnia Core aveva affittato delle stanze negli ostelli sopravvissuti all’incendio per ospitare i sedici bambini in attesa che la loro casa fosse ricostruita: al di là di qualsiasi apparenza e velleità, la donna aveva sempre avuto a cuore il destino di chi era nato meno fortunato di lei e sua figlia non era stata da meno, prima, nonostante la giovane età, finché non avevano deciso di celarle le brutture del mondo.

 

Quella sera sedeva davanti a lei, impeccabile nel suo abito verde che era stato necessario stringere, e Potnia si ritrovò a pensare, come sempre accadeva quando gli uomini non le accompagnavano, a quanto alto fosse il muro che negli anni, più o meno inconsciamente, avevano alzato tra di loro. Non aveva idea di come si facesse la madre, Potnia, perché la sua era sempre stata una figura assente, avvolta nell’ombra della camera da letto e dall’odore delle medicine che assumeva per le emicranie: era cresciuta con il desiderio di non essere come lei, di non farsi annichilire da nessuno e aveva mantenuto la promessa fatta a se stessa senza rendersi conto, però, che il tempo trascorso alla Demeter era tempo tolto alla maternità. Se avesse partecipato ad una riunione in meno… Se fosse rientrata un po’ prima a casa…

 

Aveva mandato Maia a studiare lontano da casa, in parte per garantirle l’istruzione migliore, in parte per sentirsi meno in colpa sapendo di trascurarla, sperando di poter recuperare il rapporto quando fosse tornata e, chissà, magari avrebbe trovato interessante la gestione dell’impresa di famiglia.

 

Poi, però, il Titanic era affondato trascinando con sé ogni cosa. Ricordava ancora con orrore le ore trascorse al molo ad attendere notizie: era rimasta immobile a fissare l’orizzonte, perfetta come sempre tanto che qualche maligno aveva interpretato quella posa come non curanza, senza capire quanto fosse semplicemente annichilita.

 

Al suo rientro lei e Nathanael, senza parlarne, le avevano costruito attorno una teca di cristallo e Maia vi si era adattata: non una preoccupazione, non una scelta, e il muro tra loro era diventato sempre più alto e spesso, fino a renderle due estranee. Potnia l’aggrediva. Maia la trattava con accondiscendenza.

 

 

 

-Non ci tratterremo a lungo. Charles Pierre è un amico e non ho potuto dirgli di no, è uno dei primi eventi nel suo nuovo hotel e noi Core abbiamo degli obblighi da rispettare.

 

 

 

Doveri, obblighi, frasi di circostanza.

 

 

 

-Lo so. Ci tratteremo quanto riterrai opportuno, non ho impegni di alcun genere.

 

 

 

Aveva usato un tono privo di qualsiasi inflessione che scosse Potnia, abituata com’era all’allegria fuori luogo della figlia: nel momento in cui tutto ciò che prima di lei la infastidiva era venuto meno, ne sentiva la mancanza.

 

Avrebbe voluto prenderle la mano, chiederle cosa le stesse succedendo, ma non lo fece, incapace com’era di rapportarsi con quella creatura che aveva messo al mondo, trovando molto più semplice occuparsi dei figli degli altri, come nel caso di quella serata.

 

Quando la vettura si fermò uscì senza voltarsi indietro, lasciando che i fotografi catturassero brevi istantanee della sua vita, e non si accorse di essere sola perché Maia non si era mossa.

 

 

 

Con la mano stretta sulla maniglia della limousine, Maia impedì alla sua mente di dare un nome al senso di soffocamento che l’aveva investita, benché non fosse affatto una situazione a lei estranea: una favola raccontava di un nano e di una regina e di un nome che doveva essere scoperto perché la fanciulla potesse essere libera da lui, ma per Maia dare un nome a quei mostri che la ossessionavano avrebbe significato esserne schiava per sempre e così,ancora una volta, aveva scelto di fuggire.

 

Nessuna paglia da mutare in oro, solo una collana di diamanti rossi così scuri da sembrare neri.

 

L'aveva fatta aggiustare immediatamente, trascorrendo due giorni con le uniche persone che sapeva che, pur notandone la mancanza, non avrebbero fatto domande, sua nonna e Abbie. Ed infine i sei chicchi di melograno erano tornati al loro posto, gelidi sulla sua pelle accaldata da quel sole di inizio settembre. Tutto era come prima. E tutto era cambiato.

 

 

 

Sistemò con mani tremanti le insistenti pieghe della gonna e poi respirò a fondo, lentamente, cercando di indossare quella maschera ormai così familiare, per sé e per gli altri. E gli altri la aspettavano con le macchine fotografiche puntate nella sua direzione, perché dopo Lady Core, di cui erano riusciti a conquistare solo fugaci scatti a causa della poca predisposizione della donna a concedersi al pubblico, non desideravano che la figlia, sempre disponibile a concedere sorrisi vezzosi ai loro sguardi adoranti. Eppure Maia quella sera non si fermò, lasciando alle sue spalle solo il profumo di limone e una scia di stoffa verde, e in pochi riuscirono a coglierne lo sguardo prima che le porte dell’hotel si chiudessero alle sue spalle.

 

 

 

La tragedia di Blackwell's Island aveva scosso l’opinione pubblica e la borghesia aveva accusato senza troppi giri di parole tutti quei ricchi che vivevano nelle loro regge dorate senza curarsi della povertà che avevano attorno, appena girato l’angolo, e così la cerimonia organizzata da Charles Pierre aveva attirato persone da tutti gli Stati Uniti, famiglie di antica tradizione e nuovi ricchi che il secolo appena iniziato aveva fatto ascendere nell’Olimpo terrestre.

 

Guardandosi attorno Maia incrociò lo sguardo sfrontato di Christopher Campbell, rampollo di Chicago la cui fama di donnaiolo aveva varcato le soglie della città natale e che in quel momento, per non smentirsi, era circondato da tre giovani ereditiere di New York, ragazze che Maia conosceva e che immaginava avessero visto in lui un’ottima preda da accalappiare. Poco lontano, il più giovane dei Campbell, Paul, portava da bere alla sua fidanzata, una ragazza cresciuta secondo i rigidi dettami vittoriani che la giovane Core aveva incrociato durante alcune cerimonie senza mai trovare molto di cui parlare.

 

Dopotutto, Maia dell’Inghilterra aveva adottato l’impeccabile accento e i modi eleganti, ma aveva un cuore americano.

 

Stava iniziando a chiedersi quanto si sarebbe protratta quell’agonia quando la luce di un lampadario si specchiò su un abito che, benché nero, era cosparso da così tanti diamanti da assorbire gran parte della luce della sala… E la ragazza sorrise.

 

I coniugi Fitzgerald si erano sposati l’aprile precedente nella Cattedrale di San Patrizio, in una cerimonia così fastosa che, si vociferava, forse neppure il matrimonio di Maia Core avrebbe potuto superare.

 

Giovani e belli, erano l’emblema di quegli anni ’20, di quella generazione che, per affrontare i mostri della guerra, si abbandonava a feste sfrenate e a giornate vissute come se fossero le ultime, tra esaltanti avventure e sentimenti brucianti.

 

Nonostante Potnia Core non la sopportasse, a Maia Zelda piaceva, così le si avvicinò, ricevendo baci e sorrisi a profusione.

 

 

 

-Mia cara, come stai? Sembri pallida, - disse quella senza neppure darle il tempo di rispondere, -Ma lo capisco, sai? Le nozze si avvicinano ed è sempre stressante per una sposa… Così tante cose da organizzare, la cerimonia, l’abito, il viaggio, e ovviamente gli uomini non sono di alcun aiuto. Alcuno! Vero, Francis?

 

Il marito annuì accondiscendente, poi fuggì divertito dalla moglie, sorridendo comprensivo a Maia.

 

-Ci pensi? Non avevo alcuna intenzione di sposare Francis quando l’ho conosciuto, ma alla fine l’amore vince sempre. E poi, tu e Nathanael vi conoscete da così tanto tempo che sono sicura sarete una coppia meravigliosamente innamorata per moltissimi anni.

 

 

 

Maia evitò di far presente che ciò che l’aveva convinta, alla fine, dopo un lunghissimo corteggiamento da parte di Fitzgerald, non era stato l’amore ma il successo che Francis stava avendo come scrittore – e i conseguenti guadagni.

 

D’altro canto, chi era lei per parlare d’amore? Zelda, se non altro, quali che fossero le motivazioni, aveva scelto il marito, mentre lei non aveva mai scelto Nathanael, limitandosi a prendere atto delle decisioni dei suoi genitori. In un’altra vita, senza queicognomi ingombranti e quel passato, avrebbe mai scelto liberamente e spontaneamente l’uomo che, in quella vita, le era stato destinato?

 

 

 

Si congedò con un sorriso, sapendo che l’altra non si aspettava affatto una risposta, e uscì su una terrazza, distribuendo sorrisi di circostanza e parole vuote, agognando con tutta se stessa il sapore del vino rosso, assaggiato solo una volta e che mai, neppure nelle serate illecite in compagnia di Nathanael, aveva avuto il coraggio di bere, perché tutto in quella bevanda, dal colore sanguigno alla densità seducente le ricordava a chi lo aveva rubato quella volta, mentre il proprietario era distratto, troppo intento a dipingere, con le mani sporche di inchiostro che Maia sin troppo spesso aveva immaginato su di sé. Il vino rosso era lui, il peccato che portava con sé.

 

Non le rimaneva che una bevanda analcolica, troppo dolce per placare la sete, troppo vergine per concederle quel leggero stordimento che forse avrebbe reso quella pagliacciata più sopportabile. A nessuno di loro interessava davvero di quei bambini, sordi e ciechi com’erano davanti al dolore del mondo. Oltre la ringhiera Manhattan si estendeva ai suoi piedi, perennemente vibrante di vita, soprattutto al tramonto, mentre l’arancio del sole morente si specchiava sui grattacieli moltiplicandosi mille e mille volte; oltre i ponti iniziava una New York diversa, più povera, ma più ricca di verità, che non aveva mai avuto spazio in quella nobiltà assuefatta dalla finzione.

 

La luna si vedeva appena, in quel cielo ancora chiaro, e Maia si chiese dove fossero le Pleiadi, in quel cielo, e dove fosse la stella sua omonima: aveva avuto una bella vita, quella ninfa? Una vita felice? Sicuramente Nathanael avrebbe avuto la risposta, ma lei non ne aveva idea perché la sua cultura nasceva e moriva tra le pennellate su una tela o nelle rughe di un volto scolpito: l’arte era l’unica sapienza che le fosse mai interessata.

 

Com’era sopravvissuta, Pleis, dopo aver abbandonato William a morte certa? Sapendo che lo avrebbero arso vivo come eretico? Fiamme. Calde e dirompenti fiamme.

 

Il bicchiere le scivolò dalle mani e si dovette sostenere alla balaustra per non crollare, finché qualcuno non le posò una pelliccia sulle spalle, qualcuno che non vedeva da tantissimo tempo, da quando l’aveva presa per mano trascinandola via dall’inferno.

 

Molly Brown avrebbe potuto salvarla un’altra volta? Qualcuno l’avrebbe salvata?

 

Nessuno aveva salvato Pleis, dopotutto. La collana non le era sembrata mai così pesante.

 

La donna le sorrise, senza rinfacciarle le innumerevoli volte in cui non era stata richiamata, o era stata deliberatamente evitata lungo la strada. E glielo lesse negli occhi, che lei sapeva, di lui, di loro.

 

 

 

-Ade può sopravvivere senza Persefone, signora Brown?

 

 

 

Pur trovando strana la domanda, la donna non le chiese cosa intendesse, ma si limitò a guardare il panorama di quella notte di settembre, in cui gli ultimi istanti di quell’estate stavano lasciando spazio alle fresche brezze autunnali, la stagione dell’anno in cui New York si mostrava all’apice della sua bellezza.

 

 

 

E Maia seguì il suo sguardo, mentre le parole della discussione con Nathanael ancora le risuonavano nella memoria, frasi disperate appena sussurrate a un muro di dolore che non aveva avuto il coraggio di rispondere.

 

Dio, che vigliacca era stata.

 

Nathanael non meritava quel dolore. Meritava una donna felice che stesse al suo fianco, che lo amasse e rispettasse fino alla fine dei loro giorni.

 

 

 

-Francis è sempre il solito guastafeste!

 

 

 

Zelda le aveva raggiunte sulla terrazza, facendo sussultare Maia, ormai abituatasi al silenzio interrotto solo da suoni lontani; la signora Brown, da parte sua, le sorrise con accondiscendenza, chiedendole cose accadesse.

 

 

 

-Voglio dare una festa, nella villa agli Hamptons! L’estate è praticamente finita, dobbiamo goderne gli ultimi sussulti. Ma non vuole, dice che deve scrivere, eppure mi chiedo cosa mai potrebbe ispirarlo più di una festa! Ma quel suo Gotsby o Gatsby o comunque si chiami è così malinconico…

 

 

 

-Gatsby, mia cara?

 

 

 

-Il nuovo personaggio! Una creatura così angosciante, a parer mio, che non so davvero perché debba scrivere di un personaggio del genere. La vita è così bella e ricca e lui è così drammaticamente innamorato non corrisposto…

 

 

 

Molly non rispose, limitandosi a sorridere senza trovare la forza di disilludere quella sciocca ragazza, spiegandole che la vita, in verità, non era affatto così bella e ricca come lei voleva credere e che forse suo marito, dipingendo quel personaggio, aveva toccato le note più intime di quel mondo. Non replicò, però, limitandosi a guardare Maia, che si era assentata ancor di più non appena la località marittima era stata nominata.

 

 

 

Permettimi di aiutarti.

 

 

 

-Ad ogni modo,- continuò con leggerezza mentre mangiava le ciliegie che aveva portato con sé, - Ora che ci penso, non avete idea di chi ho visto! Sabato scorso ero nella villa a King’s Point… Sapete che Francis ha comprato una villa anche lì, vero? Comunque…

 

 

 

Lasciati amare, lasciami ricostruire la nostra vita insieme.

 

 

 

-Non l’ho visto davvero, in realtà, ma c’era indiscutibilmente la sua macchina. Davanti la villa di quella… - la signora Fitzgerald si fermò, cercando la parola adatta, -Di quella poco di buono, quella sfregiata.

 

 

 

Possiamo essere felici, circondati dai nostri figli e dalle persone che amiamo. Torna da me, Maia, torna da me.

 

 

 

-Gabriel Hasmal è tornato dalla sua modella, da Ceridwen. Maia, cara, sbaglio o tu lo conosci?

 

 

 

Il sangue le si ghiacciò nelle vene. Se Zelda si accorse di averla turbata non lo diede a vedere e Molly la fece allontanare con una scusa qualsiasi.

 

-Non è cattiva, sai? Solo molto sciocca.

 

Ma Maia non rispose, incapace di pensare alcunché se non a Gabriel e alla donna del quadro: persino Nathanael era ormai lontano dai suoi pensieri e con lui qualsiasi senso di colpa, qualsiasi paura, qualsiasi mostro che negli anni le aveva fatto compagnia.

 

Strano, come la vita incastri i momenti quasi fossero pezzi di un puzzle. Ad una festa aveva incontrato Gabriel e ad una festa lo ritrovava, benché pensasse di averlo escluso per sempre dalla sua vita.

 

E nel mare aveva salutato Molly Brown l’ultima volta e Molly Brown al mare la rimandava, quella sera, scortandola all’esterno e chiamandole un taxi.

 

Vai da lui, le sussurrava, vai da lui e trova te stessa.

 

E Maia neppure rifletté quando diede al taxi l’indirizzo, perché vi era solo un posto al mondo in cui desiderasse trovarsi in quel momento. Verso il tramonto.


 

-Direzione Hamptons, per favore.



 

La notizia l’aveva stravolta, ma non stupita.

 

L’aveva aspettata inutilmente, l’aveva aspettata anche quando aveva capito che non l’avrebbe raggiunto e per colpa del suo egoismo lo avevano arrestato, condannandolo al peggiore dei destini.

 

Il rogo.

 

Maria la Sanguinaria li aveva condannati alla morte degli eretici e Pleis era annichilita: pubblicamente si comportava normalmente, ma dentro di sé non vi era che vuoto e desolazione e devastante dolore.

 

L’amore della sua vita stava per morire e quella collana non le era mai sembrata così pesante.

 

-Quello che mi avete chiesto, signora.

 

-Non sono una signora. Non sono nessuno.

 

Si mosse rapida in quelle vie sporche e maleodoranti, con il cappuccio ben calato a celare il volto, e lo specchio di una carrozza che passava velocemente le riflesse l’immagine di una mendicante, di un’anima persa e dimenticata. Il pugno stretto su una fiala. Una morte rapida e indolore.

 

 

 

La villa era lì, immutata, intatta, inalterata rispetto a quella dei suoi ricordi come se il tempo non fosse mai trascorso, con l’elegante facciata che si specchiava sul mare e l’enorme parco alle sue spalle, quello in cui lei e i suoi cugini si erano persi mille e mille volte per poi tornare sporchi di erba e terra cercando di evitare le rispettive madri.

 

Era tornata a casa.

 

 

 

l’oceano, che fino a pochi istanti prima sembrava l’inferno, si era fatto improvvisamente quieto.

 

Dopo che l’ultimo pezzo del Titanic era andato a fondo,trascinando con sé centinaia di vite umane, la superficie dell’acqua si era fatta immobile, spezzata di tanto in tanto dalle scialuppe.

 

Qualcuno stava arrivando a recuperarli, troppo tardi. In quanti si erano salvati, su quelle scialuppe carice neppure a metà?

 

In quanti erano morti e in quanti stavano morendo immersi nell’acqua ghiacciata.

 

Faceva freddo, ma Maia non lo sentiva, mentre la sua mente si soffermava sulle persone che non avrebbe mai più rivisto, su chi era morto volontariamente per lasciar spazio e donne e bambini e a chi era morto perché non aveva mai avuto scelta.

 

Una nave inaffondabile, inabissata.

 

Una vita perfetta, spezzata. Nulla sarebbe mai stato come prima.

 

Poi i suoi occhi si posarono su un quadro: galleggiò alcuni istanti,prima che qualcuno cercasse di salvarsi e si inabissasse con lui.


 

 

 

 

 

 

1969



 

Successe una notte, durante il suo soggiorno estivo negli Hamptons. Quel giorno aveva fatto cattivo tempo e Merope aveva dovuto rinunciare alle sue placide letture all’aperto e alle passeggiate nel bosco della sua infanzia. Troppa pioggia, troppo vento…


 

All’ora di andare a dormire, però, il tempo si era ormai rasserenato: poche nubi si muovevano languide nel cielo nero e l’aria ferma era satura di un profumo umido, intriso di terra, foglie e bella di notte. Una notte come tante, all’apparenza. Ma poi, appena fu sdraiata sul letto ed ebbe spento tutte le luci, ci fu un suono che da mormorio sommesso si fece fin troppo invadente. No, si disse improvvisamente inquieta, era impossibile dormire con quel clangore di onde. Si avvicinò alla porta finestra lasciata aperta e bastò scostare le tende perché quel rumore la investisse, con un trascinare violento d’acqua e sabbia, uno schiantarsi liquido contro rocce immobili, un tornare indietro per farsi ancora più brutale e irresistibile.


 

Il paesaggio intorno a lei sembrava del tutto asservito a quella forza oscura che spezzava ogni parvenza di quiete e pervadeva tutto ciò che si poneva al suo cospetto. Non avrebbe mai chiuso occhio, si ripeté ancora una volta. Presa da un impulso, lasciò la camera e scese al piano di sotto, diretta verso la biblioteca. Fu in quel momento che la raggiunse un altro suono, stavolta prodotto dal genio creativo dell’uomo: una tromba vecchia forse di cinquant’anni, suonata in modo appassionato e struggente. Fu spontaneo per lei seguirne le note e altrettanto spontaneo fu fermarsi all’uscio del salone, quando ebbe riconosciuto la persona di spalle che stava ascoltando Sidney Bechet al grammofono. Le porte finestre erano spalancate sulla veranda e, avvolta in una vestaglia di seta che la faceva apparire più snella e slanciata che mai, sua nonna Maia stava all’in piedi, con le braccia racchiuse sotto il seno e il volto fisso sul mare. Era immobile, eppure tutto in lei parlava di una tensione oscura, influenzata dai moti delle onde. Presto partirà di nuovo, si disse Merope senza sapersi spiegare quell’improvvisa certezza, e non la vedremo per molto tempo.


 

Avrebbe voluto raggiungerla lì fuori, prendere anche lei un calice di vino rosso e chiederle se in quel mare sconvolto riuscisse a vedere ciò che vedeva lei. Non lo fece, tuttavia. Maia sembrava preda di un incantesimo, che l’aveva ricondotta in un mondo cronologicamente inaccessibile, il mondo che aveva dipinto nel suo diario, quello fatto di balli, bevande proibite e fughe notturne.


 

Proseguì verso la biblioteca e, quando fu lì, cominciò a leggere i titoli, sebbene fosse ancora assorta nell’atmosfera rarefatta che poco prima aveva colto nel salone. Fu una parola scritta in grassetto a trascinarla brutalmente nella sua realtà: era scritta sul dorso di un libro sottile, uno che difficilmente avrebbe notato se non fosse stato per quel nome a lei così familiare, e il titolo… il titolo in qualche oscuro modo fu in grado di risvegliare un ricordo da tempo sopito nella sua memoria. Un ricordo di alberi alti alti, di gambe graffiate dai rovi, di una corsa atterrita nel bosco buio… L’Averno sulla Terra. Rapimenti e sparizioni di A.J. Cuveé. Atterrita, prese il libro e iniziò a sfogliarlo freneticamente, finché un barlume di lucidità la spinse a controllare l’anno di pubblicazione: il 1948. Non è lui, si disse con un sospiro, all’epoca era poco più che un bambino.


 

A. J. Cuveéchi era?, si domandò mentre andava a sedersi su una poltrona. Forse il padre, pensò mentre gli occhi le cadevano sulla prima pagina: “Vive all’ombra, sul ciglio dell’esistenza. E freme, freme… per quella luce che gli possa donare una parvenza di umanità. Sta nascosto dietro l’angolo, tra i cipressi, sotto terra e attende il suo arrivo. Per rapirla e nutrirsi di lei. La scorge mentre se ne sta su un piedistallo, immobile creatura luminosa, inconsapevole delle ombre che la circondano e degli occhi grigi che la scrutano. La vuole per sé e quella notte la prenderà.”

 

 

 

***

 

Da quando Chloe Core lo aveva portato per la prima volta lì, Duncan aveva sempre visto gli uffici della Demeter come una massaia industriosa e piena di vita. Benché qualche uomo all’antica avrebbe storto il naso a sentirglielo dire, trovava che quel nome tutto femminile della società fosse quanto mai azzeccato. C’erano volte che, guardando i suoi dipendenti affaccendarsi da un ufficio all’altro e i membri del consiglio riuniti intorno al tavolo della sala conferenze, a Duncan venivano in mente le donne della sua vita: sua madre, instancabile segretaria per uno studio legale rinomato; sua nonna, cuoca di un ristorante facoltoso; la stessa Chloe Core, insostituibile ed energica manager e ovviamente Merope, solerte studentessa prima e attenta amministratrice poi. Donne di estrazione sociale diversa, sicuramente, ma che non avevano bisogno di bruciare un capo intimo né di indossare qualcosa di indecente per mostrare agli uomini il loro valore.


 

Eccole lì, invece, le donne che ai suoi occhi non avevano più diritto di definirsi in quel modo: avevano bloccato il traffico e senza alcun ritegno si dimenavano per la strada con i loro slogan ridicoli e provocatori.


 

- Guarda che spettacolo obbrobrioso…- commentò, mentre una ragazza dai capelli lunghi e cespugliosi passava davanti la sua macchina e gli mandava baci attraverso il vetro.


 

Dalla sua destra lo raggiunse una risatina bassa: - Non ne sei conquistato?


 

- No, affatto,- rispose con una smorfia,- Vorrei capire quanto durerà ancora questa pantomima, ci aspettano per il pranzo.


 

- Francine, cerca di capirlo,- intervenne il suo ormai quasi cugino dal sedile posteriore,- Non vede Merope da un mese.


 

James Core come al solito si sbagliava, lui e Merope non si vedevano da due mesi e precisamente da quando l’aveva trovata sfinita tra una massa di accattoni e l’aveva messa in un elicottero, l’unico mezzo con cui era stato possibile raggiungere e poi lasciare quel luogo infernale che era Woodstock. Dopo tutto quel tempo, ancora non riusciva a credere che quel viso dagli occhi arrossati e sfatti e quelle braccia e gambe scoperte appartenessero alla sua Merope, ma, sopra ogni cosa, non capiva cosa l’avesse spinto a nascondere Merope da sua madre e a portarla negli Hamptons anziché a New York. Quando poi Chloe gli aveva chiesto spiegazioni, si era limitato a dire che Merope e James avevano deciso di fare una deviazione prima di raggiungere la casa dei nonni, ma che non avevano pensato di avvertire nessuno. Tutto un malinteso, aveva concluso con un sorriso tirato.


 

- Non mi sei mai sembrato un tipo romantico, Mr. Ambroser,- lo stuzzicò Francine, posando una mano sottile e curata sul suo braccio.


 

Duncan fece un mezzo sorriso:- Ci conosciamo da poco, dopotutto.


 

Era odiosa, quella donna: tutta spocchia e poco cervello. Ma non poteva essere scortese con lei e non solo perché da qualche settimana faceva coppia fissa con James Core, ma anche perché gli era piuttosto utile per i suoi fini.


 

- Com’è finita con quella faccenda?- domandò, mentre finalmente il traffico cominciava a defluire.


 

- Quale?- domandò lei spaesata.


 

- Parla di Cuveé, tesoro,- si intromise James, - Parla sempre di Cuveé, ultimamente.


 

Duncan si limitò ad alzare le spalle, per simulare niente più che una semplice curiosità, un innocuo capriccio.


 

- Beh, è stato semplice,- iniziò lei, accendendosi una sigaretta, - Ho semplicemente chiamato mio fratello e gli ho detto che poteva depennare dalla lista dei miei protetti Julian Cuveé. Dopotutto non vedo il motivo per cui un giovane americano dovrebbe rifiutare di servire il suo Paese…

 

Quel commento pungolò la coscienza di Duncan, ma fu sufficiente pensare a Merope e ai suoi occhi sfuggenti di agosto perché la rabbia trovasse nuova linfa: sarebbe andato fino in fondo.


 

- E lui?- domandò James,- Ha semplicemente acconsentito senza chiederti spiegazioni?


 

Francine alzò le dita in un gesto di noncuranza e ridacchiò:- Mi ha solo avvertita che presto ci sarà un nuovo rafforzamento delle truppe e se questa persona mi ha particolarmente infastidita potrebbe ricevere la chiamata a breve… magari anche in questo preciso momento.


 

Duncan tese le labbra e si concentrò sulla guida. Mentre Francine e James continuavano a parlare, l’elegante auto passò sopra un cartello lasciato per terra dai manifestanti: “Give peace a chance”.


 

***


 

Merope e Duncan erano cresciuti insieme. Era una considerazione, questa, che chi li conosceva buttava lì senza pensarci troppo, con superficialità. Anche Duncan lo ripeteva spesso, ma a differenza di chiunque altro era fin troppo consapevole di quanto fosse straordinaria quella circostanza: loro c’erano sempre stati l’uno per l’altra, avevano affrontato ogni momento delle loro esistenze insieme, amanti e complici. Eppure, qualcosa a un certo punto era cambiato: qualcuno aveva catturato l’attenzione della sua Merope e lui aveva voluto mettere alla prova quel legame prezioso come poche cose al mondo.


 

Quando era arrivato a casa Core, diverse ore prima, ad accoglierlo c’era stata una donna che per quanto assomigliasse alla sua fidanzata non sembrava del tutto lei. Gli aveva sorriso, lo aveva abbracciato e baciato, gli aveva chiesto novità della Demeter e di certi loro amici, aveva raccontato delle sue vacanze insieme alle cugine, ma il suo sguardo continuava a scivolare per la stanza, la bocca a tirarsi in una linea sottile sottile, le dita a tamburellare frenetiche sul divano in pelle. E poi… certo, poi c’era stata la lite.


 

Erano seduti a tavola, quando tra i più giovani la conversazione era caduta sulla musica e sugli eccessi di certi musicisti tanto in voga al momento. James aveva appena fatto una battuta infelice, qualcosa come “Non mi sorprenderei se Lou o Iggy si bucassero durante un concerto”, quando era intervenuta una gelida Chloe Core: - È questa la gente che frequentate in quei locali che vi piacciono tanto?


 

James aveva fatto uno dei sorrisi per cui era tanto famoso in famiglia, uno di quelli che da bambino metteva su quando veniva scoperto a fare scherzi a questo o quel cugino: - Certo che no, zia, ma siamo pur sempre giovani e abbiamo bisogno di divertirci anche noi.


 

Lo sguardo attento di Chloe li aveva scandagliati uno per uno per posarsi, infine, su Merope.


 

- Capisco che Duncan stia approfittando delle ultime settimane per fare ciò che non potrà più fare da sposato, ma preferirei che tu non andassi più in luoghi del genere.


 

La Merope che conosceva lui avrebbe annuito e rinviato eventuali polemiche a un momento successivo, quando avrebbe potuto parlare da sola con la madre. Questa Merope, un po’ familiare e un po’ estranea, invece aveva deciso di domandare “per quale motivo?”


 

- Tu sei una Core, Merope,- aveva iniziato un’irritata Chloe,- Non voglio che davanti ai prodotti Demeter le casalinghe pensino a te che folleggi con quei drogati o ubriaconi che si spacciano per musicisti.


 

Erano state parole definitive e il tono con cui le aveva pronunciate era quello capace di ammutolire chiunque fosse il malaugurato destinatario. Merope, però, non aveva rinunciato a dire la sua.


 

- A me risulta che le serate di nonna Maia giovassero all’immagine della Demeter e che persino la bisnonna Potnia le tollerasse per questo motivo, - aveva obiettato con calma, prima di aggiungere qualcosa che aveva avuto l’effetto di gelare tutti i presenti: - Ma forse è questo il punto, tu non vuoi un’altra Maia con cui competere. Beh, stai tranquilla, se vuoi posso anche restituirti la collana… A me non importa nulla.


 

Dopo quelle parole, il pranzo si era trascinato nell’imbarazzo generale ed era stato un autentico sollievo lasciare la tavola e, per la maggior parte, persino casa Core-Silvery. Non Duncan, però, lui era rimasto lì, decidendo suo malgrado di sacrificare un pomeriggio di lavoro per mantenere la pace tra madre e figlia.

 

In quel momento, mentre le cameriere iniziavano a preparare la tavola per la cena, ogni divergenza sembrava appianata. Lui e la fidanzata si erano seduti sul divano, scambiandosi commenti di poco conto davanti il televisore e, quando i genitori di lei si erano finalmente decisi a lasciarli soli, qualche rapido bacio. Fu Merope a spezzare quell’armonia che si rivelò essere del tutto fittizia.


 

- Stasera voglio andare al Max’s.


 

Fu come se avesse pronunciato il nome di Cuveé, come se avesse detto “ti lascio per lui, Duncan”.


 

- Vuoi che ti procuri una minigonna per l’occasione?- domandò, fingendo un’indifferenza che era ben lontano dal provare.


 

Merope lo guardò per un attimo, con una strana smorfia in viso: - Vorrei andarci con te, Dun.


 

Lui le accarezzò il viso e le portò qualche ciocca bionda dietro l’orecchio.


 

- Merope, io e te siamo cresciuti insieme,- mormorò ed ebbe la sensazione che quelle parole un tempo così rasserenanti adesso gli graffiassero la gola, - Non provare a ingannarmi: non sarei dove sono se fossi un bamboccio da prendere in giro a tuo piacimento.


 

Gli occhi chiari di lei – prima così cheti, adesso così infidi – gli apparvero sinceramente sperduti. Fu un attimo e si fecero pungenti, proprio come un attimo prima che rispondesse a Chloe, affondando la lama dove sapeva che avrebbe fatto più male: il senso di inadeguatezza rispetto all’amata e venerata Maia Core.


 

- Siamo cresciuti insieme, ma a volte credo che tu non mi capisca affatto,- disse con voce tesa, - Ho solo bisogno di uscire da questa boccia di cristallo che mi hanno costruito intorno, Duncan.


 

Guardò le labbra di lei scosse da un tremito e socchiuse gli occhi, mentre sentiva nascere un sorriso sarcastico al pensiero di cosa – o meglio, di chi – sentisse bisogno Merope.


 

- È tutta colpa mia, in fondo,- riconobbe, alzandosi dal divano, - L’ho lasciato condurre il suo gioco, convinto che tu fossi più intelligente delle donne che ti hanno preceduta.


 

- Adesso sei crudele,- disse, mentre tutto in lei si faceva tensione e rabbia e lo raggiungeva all’in piedi, - Non ho intenzione di andare alla ricerca di un altro uomo, voglio soltanto…- si guardò intorno come cercando le parole, - Voglio soltanto vivere come una qualsiasi ragazza della mia età.


 

La guardò e per un momento cercò di crederle, senza riuscirci.


 

- Tua madre non meritava quelle parole, sai,- si ritrovò a dirle, - Non accade spesso, ma a volte le sfugge qualche aneddoto della sua infanzia ed è facile intuire come sia stato crescere con una madre superficiale e vanesia come tua nonna, una prima donna pronta a fuggire chissà dove ogni volta che riceveva una telefonata…


 

- Tu non sai nulla di mia nonna,- lo interruppe lei e i suoi occhi… i suoi occhi erano stretti in modo odioso, irriconoscibile.


 

- E tu? Quanti giorni è rimasta a casa mentre eri negli Hamptons?- domandò lui, sorridendole sarcastico,- Oh, certo, ti sei convinta che siete due anime affini per quella faccenda del diario… il poeta e il pittore… tutto molto suggestivo, Merope, davvero,- e rise, rise di una risata maligna che alle sue stesse orecchie suonò stonata.


 

Non si preoccupò nemmeno di nascondere la profonda soddisfazione mentre nel viso di lei la genuina confusione faceva spazio alla comprensione.


 

- Che ne sai tu del diario?

 

La guardò ancora e scosse la testa, mentre la mascella cominciava a fargli male per quel sorriso che continuava a buttarle in faccia, quello che sapeva l’avrebbe ferita più di ogni altra parola.


 

Il diario… lo aveva scoperto quando l’aveva portata via da Woodstock e lei si era addormentata sfinita accanto a lui. Erano cresciuti insieme, loro due, e Duncan ricordava ancora lo sguardo trasognato della piccola Merope quando parlava dei suoi Edward e Jane o di quella stupida Scarlett o dell’illusa Emma Bovary. Era una romantica, dopotutto. E non ci voleva molto a capire cosa avesse trovato di tanto ammaliante tra le memorie della giovane e volubile Maia Core. Il pittore, il poeta… e due giovani donne cresciute dentro una teca di cristallo.


 

- Immagino che per te il punto sia questo,- commentò aspramente, - Per me, invece, è del tutto secondario.


 

Non le avrebbe mai detto come aveva fatto quella scoperta, decise all’improvviso: quella donna - che non era Merope, che non poteva essere la sua Merope - non meritava di sapere la verità né di scorgere il dolore che lo aveva colto quando aveva realizzato che c’era un mondo, dentro la testa e il cuore della sua fidanzata, che non era accessibile a lui. No, non meritava alcuna tenerezza, si disse ancora una volta.


 

- Dimmi quel che hai da dire e facciamola finita.


 

Davanti quel tono di sfida, Duncan avrebbe voluto alzare la voce e sfogarsi come un uomo comune, ma lui non era fatto in quel modo e alla fine non colse la provocazione e decise di chiudere lì la lite.


 

- Devi ascoltare tua madre,- disse calmo, - Non sarai mai come tua nonna, non ti si addice e, se ci provassi, ti copriresti di ridicolo. Sii te stessa, Merope.


 

Una cameriera venne a chiamarli per la cena e, dal tono imbarazzato con cui si rivolse loro, fu facile intuire che tutti avevano udito la discussione.


 

Mentre Duncan si muoveva per raggiungere la sala da pranzo, Merope tornò a parlare alle sue spalle.


 

- Voi volete solo che rimanga al mio posto.


 

Si fermò e, senza girarsi a guardarla, le rispose: - Sì, in fin dei conti si tratta di questo.


 

- E qual è il mio posto, Dun?- domandò lei, - Un passo dietro di te e il tuo complesso di inferiorità?


 

***


 

Non era lo stesso posto. Oh, stesso indirizzo, stessa atmosfera buia e disinibita, stesse persone allegre, ma nei mesi lontani in cui lo aveva frequentato insieme a Duncan, James e Daphne, il Max’s Kansas City non le era mai apparso come quella sera. E dire che aveva fatto tanto per essere proprio lì…


 

Dopo la cena tesa e silenziosa che era seguita al loro litigio, aveva atteso impaziente che Duncan lasciasse l’appartamento per fare un giro di telefonate e trovare qualcuno interessato ad uscire insieme a lei. Dopotutto, Duncan e sua madre le avevano solo consigliato di evitare quel posto e lei era troppo grande per l’atteggiamento condiscendente con cui aveva sempre accolto quei particolari tipi di consigli.


 

Non appena i suoi genitori se ne erano andati a letto, le era bastato indossare un abitino nero, prendere in mano gli stivali e la borsa, entrambi laccati di bianco, per lasciare la casa nel più completo silenzio e nell’assurda consapevolezza che, se anche l’avessero scoperta, non le sarebbe importato poi molto.


 

E adesso che era lì, a sorseggiare qualcosa di troppo alcolico al tempo di una musica dai toni tetri, si chiedeva che senso avesse la sua presenza lì. Accanto a lei, Sibylle la scrutava attenta mentre si guardava intorno.


 

- Cosa cerchi, Persefone?


 

Merope le rivolse uno sguardo obliquo, accompagnato dal cenno di un sorriso. Ad agosto, a Sibylle era stata presentata come Persefone e a nulla era valso spiegarle che quello non era il suo nome.


 

- Sembra diverso,- le spiegò con un vago cenno al locale.


 

Sibylle buttò un’occhiata indifferente alla gente che beveva e cicalava allegra ai tavoli, poi a quella che ballava in pista e finì con il sollevare le spalle.


 

- Nulla di diverso,- concluse.


 

Si sbagliava. Quando aveva pensato al Max’s, nei mesi in cui era stata lontana da New York, lo aveva visto con gli occhi della memoria come un luogo intriso di vita, libertà e arte: militanti della pace si riunivano per dare vita a un mondo nuovo che aveva la consistenza delle loro parole e dei loro sogni, ma anche il sapore di una promessa non troppo lontana; artisti di ogni genere si raccoglievano per dare sostanza a quella nuova idea di creatività che li accomunava e che si fondava sulla condivisione; la gente comune, quella a cui la natura non aveva fatto alcun particolare dono, si abbeverava delle parole di quegli uomini e di quelle donne cui veniva naturale fare promesse di grandezza.


 

- È come se lo vedessi per la prima volta,- mormorò più a se stessa che a Sibylle.


 

- Uno come Blind o come Julian spiegherebbe questa sensazione usando parole ad effetto,- commentò l’altra sorridendo,- Ti direbbero che hai svelato l’inganno, che gli occhi vedono ciò che il cuore comanda loro… No, questa è troppo melensa anche per loro,- ridacchiò,- Ma, vedi, il punto è proprio questo: siamo tutti dei poveracci. Balliamo fino allo sfinimento, beviamo schifezze che ci uccideranno, fumiamo in maniera ossessiva, parliamo a ruota libera di tutto ciò che ci passa per la testa, alziamo la voce nella speranza che qualcuno senta quello che vorremmo davvero dire… e tutto questo perché?


 

Si guardarono, mentre quella scomoda domanda di frapponeva tra loro, senza che nessuna delle due provasse a dare una risposta all’altra.


 

- Come tutti qui dentro sei venuta stasera alla ricerca di qualcosa. Abbi almeno il coraggio di cercarla fino in fondo.


 

Merope fece un respiro profondo, si toccò con le dita la collana di melograno e decise di dare ascolto a quella sconosciuta che la scrutava con ironia.


 

- Tempo fa ho trovato un libro,- disse e subito cercò sollievo nel bicchiere posato sul tavolo,- L’Averno sulla Terra,- scandì e sentì gli occhi tradire un certo turbamento, - di A.J. Cuveé.


 

- E cosa vorresti sapere?


 

Un altro sorso, stavolta più profondo, e si decise a spiegare: - Si tratta di una raccolta di poesie e so che non possono essere di Julian, ma… Sibylle, parlano di un assassino, un uomo che porta morte ovunque vada, qualcuno che sente di aver perso la sua umanità e si illude di poterla ritrovare solo tramite una donna… una donna che ha idealizzato come la sua unica fonte di luce, di salvezza…


 

- Persefone…- mormorò l’altra, che sembrava aver capito la fonte del suo turbamento.


 

Lei annuì. Quelle poesie, e soprattutto la smania che trapelava da quei versi, l’avevano spaventata, facendole pensare ai regali di Julian, agli inganni e al rapimento di agosto.


 

- Puoi stare tranquilla,- le disse con un sorriso che per la prima volta fu davvero gentile, - Quelle poesie parlano di morte, ma di quella morte a cui assistiamo ogni giorno.


 

- A che ti riferisci?- domandò confusa.


 

- Alla guerra,- rispose l’altra,- Cos’altro?


 

- Sibylle,- disse dopo aver assimilato quelle parole, - Parlami di A. J. Cuveé.

 

 

 

***


 

A un certo punto della serata – non avrebbe saputo dire né quando né come – Merope era sprofondata in un buio di gomiti appuntiti, mani viscide e labbra umide. L’alcol bevuto l’aveva resa cieca alla razionalità, gettandola in un luogo fatto di note martellanti e immagini indecifrabili, un posto in cui sprazzi del racconto di Sibylle la raggiungevano come dei flash improvvisi, accecandola e turbandola.


 

Non voleva pensarci. Non voleva. E per questo motivo si era ostinata a ballare con una foga a lei sconosciuta, a parlare di qualsiasi cosa le venisse in mente – arte, musica, guerra e poesia -, aveva riso di una risata che le faceva male, aveva cantato a squarciagola canzoni che pensava di aver dimenticato. E per tutto il tempo, per ogni singolo momento che aveva trascorso lì dentro, i suoi occhi non avevano smesso di guardarsi intorno, alla continua ricerca… Di cosa? Di chi?


 

Non voleva fare il suo nome. Non voleva. Ma lui era lì, nelle braccia che si alzavano al tempo della musica, nelle urla stonate che buttava fuori insieme al cantante, nell’alcol che le scuoteva le vene e le offuscava la mente. Voleva che la vedesse in quel modo, finalmente libera, finalmente consapevole.


 

Ma lui non c’era ed era come se i ruoli si fossero invertiti: Julian – alla fine lo aveva fatto, aveva pensato al suo nome - adesso era la luce che lei, novella creatura del buio, anelava. Il suo volto, che avrebbe saputo dare un senso a ciò che Merope vedeva, le si negava, ma lei continuava ossessivamente a cercarlo.


 

Adesso che era lì senza di lui, per la prima volta riusciva a vedere quel mondo con i suoi occhi: i militanti della pace avevano visi tumefatti e un ghigno rabbioso sulla bocca, le donne che avevano fatto da musa alla Factory avevano il vuoto dell’lsd negli occhi e nelle risate, gli uomini potenti che avevano tanto adulato questo o quell’artista adesso sembravano prendersi gioco di loro. Erano questi gli ultimi resti di quegli anni sessanta che tanto avevano promesso e poco sembravano aver mantenuto?


 

L’estate non le era mai apparsa così lontana, così breve.


 

E poi lo vide.


 

Era in un angolo, vestito tutto di nero e le mani in faccia, come se volesse nascondere a se stesso la fine di quella generazione visionaria di cui non aveva mai fatto veramente parte. Lo vide accasciarsi contro la parete, come se la disperazione che tutti quanti si ostinavano a celare fosse infine giunta a lui.


 

Merope si fece spazio tra la gente, dimentica di ogni gentilezza e garbo. Doveva raggiungere Julian, doveva consolarlo, doveva dirgli che l’estate in fondo sarebbe tornata, doveva…


 

Lo trovò a terra, privo di sensi e con una strana sostanza bianca che gli usciva dalle labbra. Urlò più forte che poteva, mentre lo scuoteva e senza sapere cos’altro fare per svegliarlo. Poi qualcuno la spinse lontano, lo chiamò per nome e fu il nome sbagliato: Virgile, Virgile svegliati, cazzo Virgile

 

Ma Merope non riusciva a capire il suo errore e continuava a urlare, a piangere, a cercare aria per chiamare aiuto, mentre mani gentili la portavano lontana e la facevano sedere da qualche parte.


 

- Smetti subito di dire quel nome,- le ordinarono, - Julian non c’è, capisci?


 

Trovò la forza per scuotere la testa. Non capiva.


 

- Perfone, sta venendo a prenderti il tuo fidanzato,- le spiegarono, - Ti accompagnerei io, ma devo andare in ospedale per Virgile e non posso badare a te, ok?


 

Annuì. Le stava parlando Sibylle, ecco, e la voce era spezzata, ansiosa, ma non per Julian… Lui non c’era. Non c’era.


 

Continuò a ripeterselo ogni volta che il panico tornava a crescere e ingrossarsi dentro di lei e mentre beveva un sorso d’acqua e mentre asciugava gli occhi indolenziti con le mani.


 

- Merope.


 

Era Duncan e, nel momento esatto in cui sentì le sue mani rassicuranti sulle spalle ancora scosse da tremiti, le venne in mente un ricordo della sua infanzia: una corsa nella penombra di un bosco, il terrore di essere inseguita da qualcosa di terribile e alla fine, alla fine… le braccia e la voce di Duncan, che ancora ragazzino era già pronto a proteggerla.


 

- Portami via da questo posto,- biascicò, - Mi dispiace Dun, per tutto…


 

- Non preoccuparti,- la interruppe, - Forse è meglio così, dovevi vedere con i tuoi occhi.


 

La aiutò ad alzarsi e la condusse fuori dal locale.


 

- Non ho idea di come farti entrare in casa senza svegliare i tuoi, - le disse, mentre camminavano a fatica verso l’auto.


 

- Non farlo,- mormorò lei, schermandosi gli occhi dalle luci che li abbagliavano, - Portami da te.


 

- Merope…- iniziò lui, con tono spazientito.


 

Lei si fermò bruscamente e gli strinse un braccio per tenersi in equilibrio: - Dun, guardami.


 

- Ti guardo, Mer,- le disse teso, - Per tutta la vita non ho fatto altro che questo, prima da lontano, poi da vicino. E l’ho fatto così tanto da illudermi di conoscerti come nessun altro in questo fottuto mondo. Ma adesso…adesso non so chi diavolo sia questa donna ubriaca o fatta che ogni volta sono costretto a riportare a casa.


 

Lei scosse la testa, sconfitta: - Neanch’io lo so.


 

Lui sbuffò, la prese per un braccio e tornò a camminare verso l’auto.


 

- Ti sto chiedendo di aiutarmi,- si lamentò lei.


 

Tornò a fermarsi e, senza voltarsi, sbuffò di nuovo : - Lo sto facendo, mi pare di non aver fatto altro nell’ultimo anno.


 

- E allora portami da te.


 

- Perché dovrei?


 

- Dun, portami da te.


 

***


 

Il motore acceso alle sue spalle le suggeriva che Duncan stava aspettando che entrasse nell’atrio del palazzo per tornare indietro di qualche isolato, a casa sua, e mettere così fine a quella folle notte. Dopo le ultime ore trascorse insieme – prima in auto, poi nel suo appartamento, poi ancora in auto – era stata un’autentica agonia separarsi dal corpo solido di Duncan e fare quei pochi passi all’aria gelida, in quel breve sprazzo di tempo che separava la notte dall’alba. Eppure poteva ancora avvertire lo sguardo chiaro e attento del suo fidanzato seguirla in ogni passo incerto, movimento stanco e brivido infreddolito.


 

Era quasi arrivata al portone quando un rumore catturò la sua attenzione. Con la coda dell’occhio vide che alla sua sinistra, a pochi metri di distanza, qualcuno la stava fissando. Non lo riconobbe, avvolto com’era in un pesante cappotto nero e con il bavero sollevato per combattere il freddo della notte, ma sapeva con estrema chiarezza che era lì per lei e che proveniva dal mondo di Julian. Per non destare alcun sospetto in Duncan, fece finta di nulla e proseguì verso il portone, infilò la chiave ed entrò.


 

Furono momenti di estenuante attesa, quei pochi minuti che trascorse nell’atrio silenzioso, e quando finalmente poté tornare fuori lo fece con frenesia, guardando a sinistra e poi a destra alla ricerca di chi era rimasto ad attenderla lì fuori per tutto quel tempo.


 

Ciò che trovò furono solo due buste, lasciate davanti l’ingresso del palazzo.


 

La prima non era altro che un biglietto scritto di tutta fretta, in una grafia poco curata e spigolosa.


Stasera Virgile è morto come un reietto, in un angolo buio di un brutto locale. Se avessi visto gli occhi di Julian stasera, capiresti perché ho deciso di venire qui… Non li ho mai capiti, gli uomini come Julian e Virgile, ma li conosco da tempo e so che vivono in un mondo tutto loro e, vedi, credo che nel mondo di Julian Ade non potrebbe mai sopravvivere senza Persefone.


 

Va’ da lui, Merope.


 

Sib”


 

La seconda busta – di un colore grigiastro e dall’aspetto malconcio - conteneva dei versi di una poesia che Merope non conosceva. Era piena di cancellature - segni netti di inchiostro nero che avevano rimosso le parole ritenute inadeguate- e la grafia sembrava vibrare delle emozioni di chi aveva scritto. Fu per questo che dovette leggerla più volte prima di riuscire a comprenderne il significato.


 

Alla fine, seppe di avere trovato finalmente se stessa. Era in ognuna delle parole che Julian aveva scelto per lei.


 

Va’ da lui…



 

Nella sua mente vedeva la folle corsa di un taxi in direzione degli Hamptons,

 

per raggiungere chi inconsapevolmente aveva lasciato dietro di sé l’ultimo chicco di melograno,

 

quello in grado di cancellare il ricordo dell’estate e della luce di Demetra,

 

quell’unico chicco che avrebbe condannato Persefone a un eterno legame con l’Ade.

 

Era bastato quel nome – Gabriel – perché Maia rispondesse al richiamo e anche Merope,

 

mentre guardava la luce del giorno divorare i resti di quella notte indimenticabile,

 

faticava a ignorare il richiamo contenuto nei versi di Julian.

 

Restava immobile sul letto, ma dentro di sé lasciava che quell’ultimo chicco di melograno attecchisse e germogliasse.

 

Sarebbe andata da lui, presto.



2013

 


 

 

La sala dell’appartamento in Park Avenue era illuminata dal sole che, prepotente, filtrava attraverso le grandi finestre. Ovunque, i raggi si riflettevano sulle decorazioni natalizie che Tai aveva sparso per l’ambiente ancora un po’ freddo e spoglio a causa del recente trasferimento. Stavano attendendo alcuni mobili e i quadri a loro regalati dagli Elliott giacevano nello sgabuzzino in attesa di essere appesi. L’appartamento profumava di vernice fresca, di legno appena dipinto e ovunque si trovavano tracce di una vita ai suoi esordi.


 

Tai si era data da fare in tutti i modi, nelle ultime settimane, affinché quegli spazi potessero parlare di loro quanto il vecchio appartamento del Village. Più volte Alistair aveva avuto l’impressione che la sua fidanzata si sentisse un’estranea, fra quelle mura e che mettesse tutto il suo impegno nel tentare di trovare qualcosa che la facesse sentire a casa: le decorazioni natalizie, fotografie della loro vita insieme disseminate in ogni angolo, persino il vecchio giradischi di Benjamin era comparso nel salotto. Non aveva commentato la questione, anche se sapeva che la fidanzata non era mai stata interessata alla musica, perché capiva che l'aver dovuto rinunciato di colpo a trovare il cugino, quando vi era andata così vicina, l'aveva segnata profondamente. Sembrava che dall'arrivo a New York su di lei fosse scesa un'ombra, che né lui, né alcun altro riuscivano a scacciare. Un'ombra che spesso la rapiva in un mondo al quale non gli era permesso di accedere, nel quale sembrava rifugiarsi ogni volta che riusciva: la vecchia soffitta polverosa, la lettura, l'ascolto di vecchi vinili scovati fra le illimitate riserve del padre. Eppure, nonostante questi atteggiamenti di difesa e di evasione lo turbassero al punto da spaventarlo, Alistair era perfettamente conscio che non vi era nulla da fare, se non assecondare i suoi desideri e sperare che quel periodo vissuto sotto i riflettori finisse presto: di li a poco sarebbero stati sposati, i giornalisti avrebbero avuto pane per i loro denti e loro sarebbero lentamente tornati alla loro vecchia vita, fra gli amici e i locali del Village e gli affari aziendali. La vita che aveva conosciuto fino al momento della partenza di Tai.


 

La mattina del ventitré dicembre, nel giradischi aveva smesso di girare un vecchio 45 giri di Eva Cassidy, la tazza di cioccolata calda era rimasta sul tavolino di cristallo, lasciando un piccolo alone seminascosto dalla copia dell’ultimo libro di Helen Humphrey che Tai stava divorando prima di addormentarsi.

 

Giunto in salotto dopo il primo sonno ristoratore delle vacanze natalizie, Alistair sorrise, strofinando con la punta delle dita il piccolo cerchio marrone, chiuse il libro e spostò la leva dell’apparecchio, da cui immediatamente si levò la voce delicata della cantante di Washington.


 

Fu in quel momento che il campanello trillò, incuriosendolo.


 

Gli unici che facevano loro visita a quell’ora del mattino erano i loro genitori, ma sapeva che i McDeer erano con Tai a provare il vestito da sposa, quanto a suo padre si trovava fuori dal paese per affari della Demeter e avrebbe fatto ritorno solo il giorno seguente. Fu per questo che quando vide delinearsi nell’immagine video il profilo delicato di Merope Core, non poté fare a meno di domandarsi quale stranezza fosse mai quella. Erano ormai anni che i nonni di Tai si erano trasferiti nella casa degli Hamptons, ritirandosi dalla vita dell’alta società newyorkese e lasciando alla figlia Erin e al suo braccio destro, Brian Elliott, pieno potere decisionale sulle questioni aziendali.


 

-Alistair, è sempre un piacere vederti.- lo salutò la donna uscendo dall'ascensore che conduceva direttamente dentro l'appartamento.


 

-Mrs. Core, se avessi saputo che ci avrebbe fatto visita mi sarei fatto trovare vestito. Il piacere è tutto mio…


 

-Non dispiacerti, mio caro, il bello di avere ventisette anni è quello di presentarsi bene anche con in pigiama. Ti trovo in magnifica forma.


 

-Non posso che ricambiare il complimento, Mrs. Core.


 

Lo pensava sinceramente. Merope a sessant’anni rimaneva ancora una delle donne più belle su cui avesse mai posato lo sguardo: il collo sottile, i capelli argentati ancora lucidi e morbidi, gli occhi azzurri profondi e sfuggevoli. Gli stessi occhi di Tai. La sua era una bellezza impalpabile, opalescente, quasi dimessa rispetto all’algida figlia, ma a suo avviso vi era in lei una delicatezza e un'eleganza in grado di annichilire il fascino di qualunque splendente donna dell'alta società newyorkese.


 

-Io e mio marito siamo appena giunti in città, ci tenevo a salutare Taigete per prima, non la vedo da quando…


 

Le parole le morirono in gola, forse per il timore di dire qualcosa che potesse ferire il futuro sposo.


 

-Da quando è tornata dal suo viaggio, lo so. È stato un periodo duro per lei fra quegli articoli su People, lo stress del matrimonio e tutti gli affari aziendali. Ma ormai è finito, grazie al cielo. Ora dobbiamo solo pensare a goderci le vacanze di Natale, il matrimonio e il viaggio di nozze.


 

-Posso immaginare.


 

Alistair rimase in silenzio per qualche minuto. Poi sembrò ricordarsi dell'ospite che gli stava di fronte e le domandò se desiderasse qualcosa per colazione.


 

-Con piacere, mio caro.


 

Sparì in cucina, mentre la donna rimase ad osservare il salotto della nuova casa della nipote e del suo futuro sposo. Era evidente che Tai avesse ereditato da lei l'amore per gli oggetti carichi di significato, come i libri, le fotografie, i dischi. Grandi classici, cataloghi d'arte, romanzi moderni scandivano in maniera ordinata gli spazi della libreria in legno chiaro, su cui spiccavano cornici con le immagini di un'infanzia e di un'adolescenza vissuta giorno per giorno con il ragazzo che aveva scelto come compagno di vita.


 

Uno dopo l'altro, sotto i suoi occhi si susseguivano dapprima i libri, poi i CD, i DVD e infine i vinili collezionati dalla giovane coppia ordinati per argomento quasi in maniera maniacale. Letteratura classica, romanzi contemporanei, cataloghi di mostre e musei, musica jazz, rock, fino al pop. Ma il suo sguardo fu catturato quasi immediatamente dall'unica piccola incongruenza, proprio sull'ultimo scaffale, quello meno visibile. Uno strano errore, che agli occhi di tutti sarebbe potuto inosservato, ma che lei non poté fare a meno di cogliere. Le Metamorfosi di Ovidio, una copia sgualcita dell'Amleto, dei vecchi vinili dei Velvet Underground e infine uno di un gruppo che non conosceva, i The Fratellis. E poi, nascosto dalla copertina del disco, un insieme di carte, tenute strette da un laccetto rosso fiammante.


 

-Ci vuole lo zucchero, nel caffè, Mrs. Core?


 

Merope non rispose, ancora catturata da quel singolare accostamento e dalla forma familiare di quell' oggetto.


 

-Mrs. Core?


 

-Si? Scusa, Alistair, mi ero distratta.


 

Fu con enorme fatica staccò lo sguardo dalla libreria e si diresse verso il grande tavolo in cristallo, dove il giovane era riuscito, in pochi minuti ad allestire un'eccellente colazione.


 

-Alistair, posso domandarti una cosa, a proposito di ciò che dicevi prima?- gli domandò sorseggiando il suo caffè. -Come sta Tai? Voglio dire... come ha preso la faccenda dello scandalo con il figlio degli Aderley, il ritorno a casa, e soprattutto l'obbligo a rinunciare a trovare suo cugino?


 

-Come fa a sapere di Benjamin?


 

Merope sorrise amaramente, sorseggiando il suo caffè con aria quasi rassegnata. -Poche cose sfuggono all'attenzione di mio marito.


 

Alistair annuì impercettibilmente con aria assorta.


 

-In realtà avevo notato qualche stranezza già prima.- cominciò con lo sguardo basso.-Tutto è cominciato quando ha trovato quel diario…anche se suppongo che la parte di Ben abbia giocato la sua parte.


 

-Che diario?- Merope irrigidì la schiena, sporgendosi verso il giovane. Sorrideva, del suo solito sorriso malinconico, ma Alistair non poté fare a meno di notare che gli occhi tradivano una certa preoccupazione.


 

-Il diario… Il suo, Mrs. Core. Quello dell’anno in cui le è stata donata la collana. Taigete lo ha trovato su in soffitta durante il trasloco.


 

Gli occhi di Merope tremarono per qualche istante, forse di stupore, forse di paura, Alistair non avrebbe saputo dirlo. Ma fu un attimo, poi la donna ritrovò la compostezza di sempre, liquidando la faccenda con un gesto vago. -Sono solo gli infantilismi di una giovane sciocca, Alistair. Sono sicura che dopo il matrimonio e quando finalmente riuscirà a trovare Benjamin tutto passerà.


 

Lo erano davvero? D’improvviso, una piccolo dettaglio gli schiarì la mente: Tai non aveva più letto o menzionato in alcun modo il diario di sua nonna dal giorno che era tornata in gran fretta a New York. Lo aveva buttato nell'ultimo scaffale della libreria, legandolo con un nastro rosso affinché le carte non si disperdessero e lì lo aveva dimenticato. Qualunque cosa rappresentasse per lei quel taccuino, se la ragazza lo aveva volutamente segregato su quello scaffale per non averlo sotto gli occhi ogni giorno, qualcosa doveva significare. D'improvviso si rese conto che, se desiderava avere qualche risposta sul comportamento della sua fidanzata, quel diario poteva essere una chiave.


 

Dopo quasi un'ora di conversazione sui preparativi del matrimonio e sulla situazione in azienda, Merope si alzò scusandosi per la scortesia e promettendo di tornare entro sera per salutare Tai. Purtroppo l'attendevano alcune visite e un pranzo con la figlia e non poteva più trattenersi oltre.


 

Alistair la salutò e aspettò che sparisse nell’ascensore, prima di voltare le spalle, dirigersi a grandi passi verso la libreria e recuperare dallo scaffale più alto quel mucchio di vecchie carte che lui stesso aveva dimenticato fino a quel momento. Si sollevò sulle punte dei piedi, allungò la mano e afferrò i fogli ingialliti e strappati, rimanendo ad osservarli per qualche istante con il cuore in gola.


 

Sfogliò distrattamente le pagine increspate, fitte delle parole e delle note a testimonianza della giovinezza di Merope Core. Passandovi sopra le dita, sfiorò la carta indurita dall'umidità, finché non si accorse che una parte della copertina era più spessa dell’altra, segno che vi era una tasca, dove conservare i fogli più importanti. Con il cuore che continuava a battere come impazzito estrasse l'opuscolo che vi si trovava ripiegato, aprendolo a fatica con le dita che tremavano. Era il libretto di uno spettacolo in scena in uno dei tanti teatri di Londra: sulla copertina, un viso familiare fissava il profilo di una ragazza bruna, con la pelle scura. Non ci fu bisogno di aprire la prima pagina per riconoscerne l'identità.


 

Amleto: Eugene Aderley.


***

 

 

Una sola pietra blu pendeva dalla sottile catena di oro bianco. Semplice, leggera, essenziale. Il regalo di Alistair di Natale, che andava a sostituire la collana che giaceva sul fondo del mare, a migliaia di chilometri.


 

-Secondo me l'hai fatto apposta a farla scivolare...- scherzò il fidanzato chiudendole il ciondolo attorno al collo. Appariva così incredibilmente sua che per un attimo Tai dimenticò di indossare dei semplici indumenti da casa ed ebbe l'impressione di essere vestita solo di quel semplice gioiello.


 

-Te l'avrò ripetuto mille volte, Al... il gancio probabilmente era vecchio e non ha retto. Stavo appoggiata su una balaustra a strapiombo sul mare ed è scivolato.

 

-Sto scherzando! E comunque questo ti sta molto meglio.


 

Tai si sfiorò il collo fissandosi il collo attraverso lo specchio. Alle sue spalle Alistair le passava una mano fra i capelli, sfiorandole una tempia con le labbra.


 

-Volevo dartela ora che siamo noi due, nella speranza di vedertelo indossare stasera. É un modo per chiederti scusa, Tai per questi mesi. Da quando sei tornata dall'Europa è stato un viaggiare continuo, una riunione dietro l'altra e non sono riuscito a dedicarmi a te come avrei dovuto. Non vedo l'ora che arrivi il matrimonio per poterci godere un po' di tempo solo per noi due.


 

Tai lo osservò attraverso lo specchio. Vi era qualcosa, nel suo parlare, normalmente calmo e sicuro, che tradiva turbamento, ma sperava fosse solo per il dispiacere di quei due mesi da incubo. Dal suo ritorno si erano entrambi lanciati nel lavoro, un po' per reale necessità, ma forse anche per bisogno di dimenticare in fretta quello che era successo. Più volte era stata sul punto di parlargli, quantomeno di Ben, e del suo bisogno di raggiungerlo in Canada, ma più volte si era forzata ad allontanarne il ricordo. Aveva bisogno di dimenticare lui, quanto Ade e tutti quei mesi, se voleva proseguire con la sua vita. E Alistair meritava qualcuno al suo fianco che lo volesse con tutta sé stessa, quindi la necessità di rimuovere quel viaggio che aveva per sempre mutato la sua esistenza si era fatta così impellente, che non aveva potuto fare altro che assecondarla, riempiendo della sua vita a New York tutti i vuoti che i giorni in Europa le avevano lasciato. Eppure, più si avvicinava la data del matrimonio, più il terrore di trovarsi al centro della commedia studiata nel dettaglio da sua madre e Gillian, l'organizzatrice di matrimoni più famosa di tutta la città, la terrorizzava al punto da non riuscire a respirare.


 

-Non voglio che arrivi il matrimonio, Al. Non voglio sfilare sotto gli occhi di quattrocento invitati di cui non mi ricordo nemmeno il nome, non voglio che tutti mi guardino mentre ti giuro di amarti per tutta la vita. Posso farlo ora? Giuro di amarti e onorarti per tutta la vita, ecco. E così semplice qui, mentre siamo noi due. Ti prego boicottiamo questa cosa.


 

Al le sorrise debolmente: -Non sai quanto lo vorrei, Tai. Sposarti ora, qui, davanti a questo specchio e portarti lontano da New York, almeno fino a che gli sguardi di tutti non si saranno rivolti al prossimo matrimonio mondano.- le cinse la vita con le braccia, invitandola a voltarsi. -E vorrei poterti dare quello che più desideri, Tai. Vorrei portarti da Ben, vorrei aiutarti a superare questo momento. Vorrei capire cosa c'è che non va.


 

-Nessuno può.


 

Per un attimo le sembrò di sentire la stretta del fidanzato meno forte attorno alla vita. Poi la sua presa si fece di nuovo salda. Parlami, le stava dicendo. Fa si che io ti aiuti. Eppure, non fece nulla. Rimase aggrappata a quell'abbraccio, senza riuscirne a carpire il calore, senza trovarvi il conforto che l'aveva sempre sorretta, in tutti quegli anni. Si limitò a lasciarsi cullare, mentre una sola lacrima le correva lungo la guancia. Si portò una mano alla pietra blu che le pendeva attorno al collo, e immediatamente le immagini della spiaggia di Taormina, del teatro illuminato a giorno, del viso di Ade così vicino, le si accavallarono in testa. E, esattamente come aveva fatto in tutti quei mesi, chiuse gli occhi, deglutì a fatica e sollevò il viso verso Alistair, per baciargli una guancia.


 

-Passerà, Al, come ogni altra cosa.


 

Il fidanzato annuì in silenzio, rispondendo al bacio.


 

-La collana è bellissima. Stasera sarà perfetta con il vestito che ho scelto. E farà infuriare mia madre che ancora non sa che ho perso quella di melograno.

 

Per un attimo tutto sembrò tornare com'era prima della sua partenza. Entrambi si lasciarono andare a una risata, lunga e liberatoria, crollando nuovamente sul letto come due ragazzini in preda a un momento di euforia. Poi il telefono di Tai squillò, mostrando il volto di suo padre in cerca di rinforzi per tenere a bada la madre e la sua iperattività.


 

-Ora muoviti, pigrona, o avrai Philip sulla coscienza.


 

Detto questo, Alistair la baciò e si alzò, sparendo a breve lungo il corridoio. Rimasta sola, Tai attese un poco, poi prese in mano il cellulare e, incerta, scorse la rubrica fino alla E. Per qualche istante stette a fissare il nome di Eugene Aderley, sfiorando lo schermo con il pollice, poi con un sospiro aprì la conversazione, ancora ferma a quel giorno di ottobre.


 

Ciao.

 

Qualche giorno fa sono passata a Brooklin e in un mercatino ho trovato il vinile dei The Fratellis in offerta, mi sei venuto in mente. Come stai?


 

Che assurdità, era una delle cose più stupide che avesse mai letto. Una patetica scusa da quattordicenne intimorita. Cancellò il messaggio con un gesto secco, lasciandosi cadere indietro, sui cuscini sprimacciati. Non doveva scrivergli, era sbagliato. Concretamente parlando equivaleva a mettersi a saggiare la superficie di un vaso di cristallo di Boemia con un puntello, per cercarne il punto di rottura. Eppure non poté fare a meno di riprendere in mano il cellulare e aprire nuovamente la conversazione.


 

-Ciao. Sei vivo? Volevo sapere come ti andava e in quale parte del mondo ti trovi.


 

Ancora più idiota. Era legittimo, dopo due mesi di silenzio, esordire con un simile messaggio? Quelle erano le parole di chi si è lasciato qualche giorno prima con un sorriso, non con un bacio non concluso e un addio mai pronunciato sulle labbra. Per la seconda volta, con un gesto secco, si trovò a cancellare quelle parole. False, stonate, inopportune.


 

-Tai!! Muoviti o farai tardi!- la chiamò Al a gran voce dalla cucina.


 

La ragazza sospirò, fissò lo schermo un'ultima volta e poi abbandonò il telefono sul letto, senza nemmeno premurarsi di chiudere la conversazione.


 

-Ciao, tu. Mi manchi.


 

E infine, dopo mesi passati nel tentativo di rimozione, la verità.


***



Il salone della grande casa dei Core, quel ventitré dicembre, risplendeva a festa.

La tradizionale cena nell'appartamento dei Core, che dava inizio ai grandi festeggiamenti del Natale, quell'anno più che mai doveva riuscire perfetta. E tale sembrava, a una prima occhiata. Erin Core aveva desiderava che l'atmosfera fosse il più possibile domestica, accogliente e calda e così era stato. Luci rosse e argento che illuminavano l'enorme salone, le decorazioni erano state fatte arrivare direttamente dalla Svizzera, e vecchie carole natalizie si sprigionavano dall'impianto stereo di Philip. Poco più di una cinquantina di invitati, parenti e amici, tutti intimi; fra loro un paio di giornalisti, o di presunti tali, che avrebbero casualmente lasciato trapelare le notizie verso le giuste orecchie. La solidità del nome della famiglia, dopo lo scandalo suscitato dalla bravata di sua figlia, aveva vacillato e aveva quasi rischiato di rompersi, ma miracolosamente Taigete ed Alistair erano riusciti a convincere tutti che fossero più uniti e solidi che mai e quella sera tutto era stato studiato sino all'ultimo dettaglio per darne conferma al mondo intero.

Eppure conosceva sua figlia così bene da capire che qualcosa, nella sua determinazione, si era incrinato. Non sapeva fino a che punto si fosse spinta la storia con il figlio di Maureen e Robert Aderley, e non aveva nemmeno la benché minima intenzione di domandarselo, sebbene sentisse in cuor suo che la versione che Tai le aveva fornito dei fatti non poteva essere vera. Ne era sicura perché quella che stava facendo la sua entrata al braccio del suo fidanzato non era la ragazza che aveva cresciuto. Vi era una risolutezza quasi disperata nei suoi occhi, che non poteva essere provocata solamente dal desiderio di dimostrare a tutti che quello che era stato scritto dai giornali fosse un' enorme malinteso.

Con sguardo preoccupato ne seguì le mosse, mentre al braccio di Alistair porgeva i suo saluti agli invitati. Sapeva che prima o poi avrebbe scorto gli Aderley fra questi e desiderava osservare la sua reazione. Il loro invito era stato necessario, per non alimentare ulteriormente le voci sulla presunta scappatella degli eredi delle due famiglie: gli Aderley facevano parte della cerchia di amici dei Core da tempo immemore e la loro assenza non avrebbe fatto altro che confermare le voci messe in giro dai giornalisti di People. Dunque, nonostante tutto, la coppia era stata invitata e, forse spinta dalle stesse ragioni che avevano obbligato Erin ad includerli fra gli ospiti della serata, avevano accettato.

Fu con il cuore in gola che osservò la figlia avvicinarsi e porgere educatamente i suoi saluti a Maureen e Robert. Accanto a lei, Alistair, fino ad allora sereno e rilassato, si guardava intorno nervoso, porgendo solamente un orecchio distratto a quello che i tre si stavano dicendo. Tai, per parte sua, sembrava voler fare di tutto per evitare di fissare il volto della donna di fronte a lei, come se il solo incrociare i suoi occhi scurissimi e profondi la turbasse al punto da non riuscire a sostenere la conversazione.

Maureen, è un bene che abbiate spedito Eugene in Inghilterra a studiare. Ben presto quegli occhi sarebbero stati più che un problema per la nostra cerchia e per le nostre figlie.

Commenti futili fra amiche, sepolti da anni nel fondo della sua memoria, ma che ora riascoltava nella sua mente come se a pronunciarli fosse qualcuno al suo fianco. Lanciò un'ultima occhiata alla figlia, al suo viso puntato verso la punta delle scarpe, al suo lieve arrossire e d'improvviso, un brivido gelato le percorse la schiena e ogni tassello sembrò andare al suo posto.

-Vi dispiace se vi rubo un secondo Alistair?

Senza sapere cosa fare, irruppe nella conversazione, cercando appiglio nell'unica persona che forse in quel momento poteva dare una visione razionale del tutto. Lo condusse lontano, in un angolo nascosto della stanza e lo invitò a sedersi.

-Erin, ti senti bene?- le domandò questo nel vederla così turbata.

-La stai perdendo, te ne rendi conto?

Alistair distolse lo sguardo, lasciandolo correre fuori dalla finestra, sulle luci abbaglianti dei grattacieli di Manhattan. -Non so più cosa fare.

-Devi lottare per lei, Al. É sempre stata tua, fin da bambini. Se fossimo ancora ai tempi di mia nonna Maia direi che sei l'erede diretto di Nathanael Rafael, ma la verità è che voi due vi siete scelti a vicenda, quando ancora eravate troppo piccoli per comprendere questi giochi di potere e famiglie. È una delle cose più pure che esistano al mondo, la vostra relazione. Non puoi lasciare che un Aderley qualunque arrivi a rovinarla.

-Posso convincerla a restare fisicamente al mio fianco, Erin, sperando che non riesca a trovare la forza di andarsene, un giorno. Ma non posso fare nulla perché lei voglia davvero tutto questo, lo sai bene.

-Se c'è anche solo una minima speranza, devi farlo. Pensa alla famiglia, pensa alla Demeter. Taigete ha dimostrato di non essere sufficientemente forte per volere davvero tutto questo, per meritarsi un simile fardello, quindi tu devi esserlo per entrambi. Non desidera abbastanza tutto quello che le spetta, per nascita. Fai in modo che dimentichi Eugene Aderley e salverai non solo la donna che ami, ma anche te stesso l'azienda e entrambe le famiglie.

Alistair fissò la donna dritto negli occhi che in quel momento, nonostante le luci calde che illuminavano il salotto, apparivano colore del ghiaccio. Il suo sguardo era così risoluto, così freddo e sprezzante che, per un attimo, Erin ne fu turbata.

-Se deciderò di lottare, lo farò solo per me e per Tai, Erin. Non sarà per il bene dell'azienda, né per il nome dei Core. Ti prego di non insultare i miei sentimenti nei confronti di tua figlia sminuendoli come se fossi un arrivista che desidera solo legare il suo nome e quello dei suoi figli alla Demeter. Mi auguro che il discorso, con questo, sia chiuso.

La donna rimase ad osservarlo a lungo mentre si allontanava e, ritrovata la compostezza che lo contraddistingueva, si mescolava nuovamente fra la folla, distribuendo ai convitati il suo sorriso allegro e contagioso.

Poi, riavviatasi i lunghi capelli biondi perfettamente acconciati, si concesse un ultimo attimo di debolezza nel fissare con aria preoccupata Taigete, ancora intenta a parlare con gli Aderley che sembravano fingere che nulla fosse successo fra lei e il figlio, e si rialzò, ritornando ai suoi doveri di padrona di casa e splendente signora dei salotti newyorkesi.

 

***

 

-Sapete chi ho incontrato a un party a Bloomsbury?


Tai lanciò un'occhiata distratta al gruppo di ragazze riunite attorno al tavolino degli stuzzichini che precedevano la cena. Melany, Sarah, Bethany, le amiche di una vita. Era cresciuta con quelle ragazze, aveva condiviso tutto, gioie, successi, dolori. Sarah era persino stata la sua compagna di stanza al College e lei le aveva fatto da damigella d'onore, l'estate precedente, quando aveva sposato il suo Justin. Ma nessuna di loro in quel momento poteva sembrarle più lontana. Non una l'aveva chiamata per sapere come stesse, non una le aveva prestato un'attenzione quando era tornata di tutta fretta dall'Europa. L'avevano chiamata invece per serate mondane, per lo shopping, i brunch, la palestra, persino per i tornei di tennis organizzati dal circolo di cui i genitori erano soci. Volevano essere associate al suo nome, volevano la fama che la sua bravata le aveva conferito. Volevano sapere come ci si sentisse a vivere un mese con Eugene Aderley, il badboy dell'alta società, come l'aveva definito People, dopo tutto quello che gli era successo. Nessuno che si domandasse il perché le loro strade si erano incrociate, nessuno che collegasse i loro nomi e quelli di Ben. Aveva accettato uno ad uno quegli inviti, solo per mettere a tacere tutti, per dimostrare che nella sua vita non era cambiato nulla, che lei era sempre Taigete Core McDeer, l'intelligentissima erede della Demeter, la fidanzata di quell'angelo di Alistair Elliot.


-Eugene Aderley.


All'udire quel nome la stanza intera le sembrò sparire e concentrarsi sulle labbra dipinte di rosso Chanel di Melany, distorse in un ghigno sprezzante.


-Sembra che sia tornato dall'oltretomba...- commentó Sarah con una risatina. -Anni e anni senza avere sue notizie e poi eccolo che sbuca ovunque.


-Sapete che ha quasi fatto finta di non riconoscermi?- continuò a ciarlare Melany, senza curarsi di essere udita. -Poveretto, lo capisco. Non era mica fra gli invitati! Era li con un gruppo di attori del West End, a fare cabaret. Non sapevo che fosse caduto così in basso...


-Come minimo, con il tuo savoir-faire l'avrai trattato come un gigolo che si raccatta per strada.


Melany si portò una mano alla bocca, sorridendo maliziosa. -Beh, diciamo che avevo bevuto abbastanza champagne da non ricordarmi quale tipo di avances gli ho fatto.


Le altre tre la fissarono con aria di finto rimprovero.


-Non guardatemi così! Come minimo, vista la gente che frequenterà ora, una come me non gli capita da almeno cinque anni, poteva anche risparmiarsi di fare il disgustato!


-Pensate a che Natale starà passando, tutto solo... Mel, potevi insistere e rimanere a consolarlo per le feste.


Risatine di scherno, commenti stupidi. Tai chiuse gli occhi e appoggiò la testa alla colonna, lasciandosi andare con la schiena, ritrovandosi a sorridere fra sé e sé di quel disgustato rifiuto che Ade aveva porto a Mel. E, mentre le note di White Christmas di Otis Redding la catturavano, si lasciò andare alla piccola fantasia che la stanza intorno a lei sparisse e d'improvviso per farla ritrovare lontano, con la mente a una casa tipicamente inglese di cui nemmeno riconosceva le fattezze, a festeggiare un Natale più dimesso, forse solitario di quello a cui stava partecipando, ma che le riusciva a dare tutto il calore e il conforto che non aveva trovato in un singolo istante di quegli ultimi due mesi. Fu quello il primo momento in cui si rese conto che il pensiero di Ade era ormai definitivamente ripiombato, più reale che mai, nella sua vita. Fintanto che si era rifugiata nella protezione della sua famiglia, lui le era sembrato qualcosa di appartenente a un'altra realtà, che solo lei conosceva. Un mondo sospeso fra due vite, quella che si era costruita e quella che poteva avere, un mondo al quale solo lei e la sua fantasia potevano avere accesso. Ma sentire il suo nome pronunciato così, mentre rimbalzava sulle labbra delle sue amiche, lo avevano reso più vero che mai. In quel momento Ade non si trovava nella sua mente, ma all'altra capo del mondo, camminava per le strade di Londra, si ricostruiva una vita. Una vita in cui rifiutava le Melany del caso.


In quel momento la canzone terminò e Tai aprì gli occhi con un sorriso sereno dipinto in volto. Rivolse dunque la sua attenzione alla sala gremita di persone alle spalle delle sue amiche, quando si ritrovò ad incrociare lo sguardo di Alistair, fisso su di lei da chissà quanto.


Il ragazzo non sorrideva, ma la fissava tremante e le labbra serrate: aveva udito ogni parola e osservato la sua reazione e appariva chiaro che non riuscisse più a riconoscere la persona che le stava dinnanzi. Fu allora, per la prima volta, che a Tai sembrò di non ritrovare più le sue coordinate in quella cascata di azzurro splendente.


E, infine, abbassò il suo.



Quando, qualche ora dopo, Alistair rientrò in casa dopo aver vagato a lungo, senza meta, per le strade innevate di New York, non si sorprese di trovarla deserta e silenziosa.


Aprì la porta del ripostiglio, notando immediatamente che qualcosa non quadrava. Si diresse nella camera da letto, immobile, immutata, silenziosa, se non fosse stato per un piccolissimo dettaglio: un'anta dell'armadio era rimasta leggermente socchiusa.


Fu dunque con il cuore in gola, ma ormai consapevole di quello che era successo, che si diresse in salotto e sollevò lo sguardo verso lo scaffale più alto. Al posto del diario rimaneva solo il laccetto che lo teneva fermo e le pagine di una fotografia. Ritraeva Merope Core da giovane, la pelle lievemente abbronzata dal sole e un vestito bianco, morbido che le copriva il corpo sottile. Accanto a lei, Julian Cuvée, colto in uno dei suoi rari sorrisi la fissava, con il viso semicoperto dai capelli castani bagnati. Sembrava che lui le avesse appena fatto una battuta e lei non riuscisse a nascondere il suo divertimento nel fissarlo. Non aveva mai visto il viso di Merope Core disteso in una simile espressione.


Strinse il cartoncino fra le dita e chiuse la mano in silenzio, sentendo la fotografia accartocciarsi lentamente sotto le sue dita. Poi, con un gesto secco, la lasciò rotolare per terra e abbandonò la casa.


Persefone era tornata nell'Ade.


***


 

 

 

Lavorare la sera del ventiquattro dicembre sarebbe stato denigrante per chiunque.


Ma per un attore, Natale significava pienone. Nei camerini, tutti i suoi colleghi, entusiasti per il calore dimostrato dal giovane pubblico, discutevano animatamente del pranzo del giorno dopo, di quanto le rispettive mogli e fidanzate fossero stressate dai preparativi, di quanto sarebbe stato difficile mettere a letto i bambini quella sera; un paio gli domandarono quali fossero i suoi programmi per l'indomani e Ade rispose che sarebbe stato a casa di amici solo per non dover sopportare le loro facce stravolte all'idea che avrebbe passato il pranzo di Natale stravaccato sul divano a mangiare spaghetti di soia con pollo e verdure, bevendo birra e sciroppandosi una dopo l'altra le dieci puntate della seconda serie di The Game of thrones.


-Esci con noi a bere qualcosa?- gli domandò timidamente Tess, con gli occhi pieni di speranza.


Perché no, si era risposto: in fondo era carina, piacevole e sufficientemente persa di lui da accontentarsi di averlo per una notte soltanto, nel caso avesse voluto. E aveva appena detto che avrebbe trascorso l'indomani a casa, nel Surrey, quindi non avrebbe rischiato di rovinare i suoi piani di conquista dei Sette Regni con assurde pretese.


Quando aprì la porta, una folata di vento pungente gli colpì il viso. La strada era interamente ricoperta di bianco: aveva cominciato a nevicare poco prima che entrasse in teatro per le ultime prove dello spettacolo e in poche ore un bianco manto uniforme aveva ricoperto le strade e le macchine.


Il marciapiede davanti alla stage door era, grazie al cielo, deserto: il ventiquattro dicembre non erano in molti a passeggiare per strada, anche una di norma affollata come Shaftesbury Avenue, figuriamoci in quanti si sarebbero avventurati nel freddo, in mezzo alla neve ancora non spalata. Nessun bambino ad aspettare un autografo, una fotografia con Peter. Nessuno a rivolgergli sorrisi che non sentiva di meritare. Gli spettacoli nei teatri delle vicinanze sarebbero terminati più tardi del loro, quindi tutto il vicinato era immerso in una quiete irreale, una dimensione ovattata, sporcata solo dal lieve rumore dei suoi passi sulla neve. Si guardò intorno, rapito dall'atmosfera che lo circondava: il centro di Londra era un luogo dai mille rumori, frenetico, chiassoso: non era abituato a viverlo così, muto, immobile, come se si fosse fermato anche lui ad ammirare i fiocchi che copiosi si depositavano a terra in mille e mille mulinelli candidi. Di fronte a lui, parzialmente coperta da una bicicletta abbandonata, una ragazza con il viso seminascosto dal cappuccio della giacca a vento, stava poggiata al muro, muovendo lievemente la testa a ritmo di musica. Le gettò uno sguardo veloce, prima di distogliere l'attenzione, ma qualche istante si ritrovò a pensare con una stretta al cuore a chi stesse attendendo, così tenace nonostante il freddo e la neve. Alla sua destra, un uomo attendeva paziente che il piccolo barboncino che aveva appena depositato a terra, facesse i suoi bisogni: accanto a lui, una bambina che doveva avere poco più che due anni, saltellava eccitata nei suoi stivali di gomma a pois gialli nuovi fiammanti.


-Allora, andiamo? Sto morendo di fame!- Dietro di lui, i suoi colleghi erano usciti in massa dalla stage door, rompendo la quiete con il loro chiacchiericcio concitato. Sospirò profondamente sfiorando con le dita la piccola montagna di neve depositata sul paletto che divideva il marciapiede dalla carreggiata, sorrise alla bambina che lo fissava dal basso, intimorita dalla sua altezza, dal suo viso serio e probabilmente dal trucco che nonostante il detergente miracoloso di Tess non era riuscito a rimuovere completamente e seguì il resto del gruppo, addentrandosi nelle stradine di Soho.


Il viso di Tess era buffo, gli metteva allegria. La ragazza se ne stava in piedi al centro del locale affollato, con il boccale di birra semipieno sollevato, muovendosi a ritmo di musica, fissandolo intensamente. Aveva la netta percezione che sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa, se glielo avesse chiesto. Qualcosa di ancora più stupido che mettersi a ballare All I want for Christmas is you per fargli capire che la sua idea di notte di Natale non prevedeva innocenti tradizioni come lasciare viveri per le renne di Babbo Natale in cambio dei regali.


-Sei gay?


-C… cosa?- sussultò sorpreso, assorto com'era nei suoi pensieri.



Minnie, un'altra delle sue colleghe, incrociò il suo boccale di birra con il suo, prendendo posto accanto a lui.

-Accontentala, per favore, prima che si appenda un cartello in testa con su scritto scopami.- lo pregò accennando con il capo a Tess. -A meno che tu non sia gay. Nel caso sappi che c'é un moretto niente male che ti sta mangiando con gli occhi da quando siamo entrati nel locale. Dannato, fammi capire qual é il tuo segreto.

-Non sono fidanzato.- le rispose Ade sorridendo.


-Capisco...quindi devo dedurne che c'é qualcuno...qualcuna?


-Non c'é nessuno... nessuna.- le rispose piatto.


-E allora non vedo quale sia il problema.


Il problema é che non é Tai. Sarebbe bastato ammetterlo per scrollarsi di dosso quel senso di colpa che provava alla sola idea di avvicinarsi a Tess e darle ciò che più desiderava. Sarebbe bastato essere onesti, per provare a lasciarsi alle spalle quell'assurda esperienza e continuare a vivere come aveva fatto sino a quel momento.


-Ade, senza offesa, ma sono quasi due mesi che fai parte della nostra compagnia. Arrivi, provi, sei gentile con tutti quanto basta, ma te ne stai sempre sulle tue. I primi giorni mi incutevi quasi timore, poi mi sono detta che forse sei solo timido. Passiamo le giornate insieme e hai pure cominciato a uscire con noi. Eppure nessuno é riuscito a conoscerti davvero. Tess ti sta offrendo un'occasione di uscire dal ruolo di principe del ghiaccio che ti sei guadagnato e ti sta offrendo una mano... fra le altre cose insomma...-


Era vero. Da quando era tornato da Taormina non si era fermato un istante: quasi miracolosamente aveva incontrato Jimmy Dale, una vecchia conoscenza dei tempi in cui ancora lavorava in città, con Ben. Gli aveva detto che nella compagnia in cui suonava, dovevano sostituire il personaggio principale, Peter Pan, che aveva avuto la brillante idea di scivolare da un' impalcatura su cui stavano montando la scenografia, rompendosi tibia e perone in un sol colpo.


-É uno spettacolo principalmente per bambini e famiglie, ma la produzione é importante. É un nuovo inizio, Aderley.


Aveva accettato, buttandosi nel lavoro a testa bassa, senza lasciarsi un minuto libero per pensare. Giorno dopo giorno, si era fatto benvolere da tutti, per i suoi modi educati, la sua posatezza, la sua riservatezza. Eppure non si era mai lasciato andare, non aveva stretto davvero amicizia con nessuno. Non voleva che nessuno entrasse a stravolgere nuovamente i fragili meccanismi della sua vita. O, forse, non era semplicemente pronto a sostituire chi, inaspettatamente, era sopraggiunta a rimetterli in moto. Eppure... Natale da soli faceva davvero schifo, lo aveva sempre pensato. E Tess se ne stava lì, con il suo viso buffo carico di speranza e gli stava offrendo una scappatoia: una notte per non pensare, una notte per essere solo un ventinovenne come tutti. Una notte per non restare solo.


Terminò con un unico sorso il calice di birra, poi lo posò e si alzò lentamente, avvicinandosi a Tess. Alle sue spalle, Minnie, esultò di gioia, battendo lievemente le mani.


Fu in quel momento che quella stupida canzone natalizia cessò e la musica cambiò d'improvviso mentre il ritmo di una batteria invase il locale.


Poi, a seguire, il basso di Barry Wallace, sempre più forte e fino a che l'urlo di John Lawler non riempì l'ambiente.


-Oh mio Dio, io adoro questa canzone!!- Tess si buttò in avanti, afferrandolo per una mano, trascinandolo con sé nel ritmo della danza.

Chelsea Dagger.


D'improvviso le pareti della stanza cominciarono a stringersi, soffocandolo, come se volessero inglobarlo, e tutto intorno a lui cominciò a girare vorticosamente e lui si ritrovò catapultato in una superstrada greca, alla guida dell'auto di Matt&Caroline, a canticchiare mentre Tai gli domandava con disappunto di abbassare quella roba che chiamava musica.


-Tess...scusami... devo prendere un boccata d'aria.


-Vuoi che ti accompagni?- gli domandò questa accarezzandogli il viso.


Scappò fuori scuotendo la testa, coperto da una leggera tshirt, senza premurarsi di recuperare nemmeno il maglione con cui coprirsi e si fermò in mezzo alla strada, respirando profondamente, nel tentativo di calmarsi. Fu allora che d'improvviso, si ricordò della ragazza ferma all'angolo di Rupert Street. Cominciò a correre a perdifiato lungo Old Compton Road, rischiando di scivolare sulla neve fresca, senza fermarsi se non prima di avere raggiunto la stage door del teatro: sudato e con il fiato corto, si era poggiò ansante sulle ginocchia, cercandola disperatamente con lo sguardo.


Ma la ragazza non c'era. Chissà se era mai stata davvero lì o era solo frutto di una sua stupida fantasia. Estrasse il cellulare dalla tasca, compose il numero di Tai e rimase in ascolto del messaggio vocale che gli diceva che il cliente contattato non era al momento raggiungibile.


Risponde la segreteria telefonica di Taigete Core McDeer. Al momento non posso rispondere, ma se volete lasciare un messaggio, mi premurerò di ricontattarvi al più presto.


-Tai, sono io, Ade.- rimase a lungo immobile, senza sapere bene cosa dire. La realtà era che non sapeva nemmeno da dove partire, a raccontarle tutto, ma nemmeno capiva se sarebbe stato giusto farlo. Alla fine, dopo aver esitato a lungo, sospirò profondamente e disse solo: -Buon Natale.


Che stupido ingenuo che era stato. A quell'ora, con ogni probabilità, Tai si stava preparando per la cena di famiglia. Se la immaginava sola davanti allo specchio, a sbuffare per le assurde pretese della madre che la voleva perfetta, il giorno della Vigilia più che mai. Poteva quasi vederla vestirsi controvoglia, lamentandosi senza sosta. Eppure, nonostante tutto quello che era successo, sapeva che stava sorridendo, allegra. Perché era Natale e lei era sicuramente il tipo da trasformarsi in un malefico elfo al sopraggiungere di dicembre e perché quel branco di idioti di Glee dallo stereo a tutto volume, avrebbero cantato le loro stupide canzoncine natalizie, contagiandola con le loro voci zuccherose e perfette. E perché... perché era fatta così e non poteva essere diversamente.


Abbassò il telefono, battendo i denti dal freddo, incamminandosi lentamente verso il pub.


-Tu devi essere suonato! Stai cercando di morire prima dei trent'anni per assideramento?


Ade si bloccò all'udire quella voce indignata. Sorrise fra sé e sé nel riconoscerla e si voltò lentamente.


Tai era lì. Avvolta in una giacca a vento scura fradicio di neve, il cappuccio calato sulla testa, e un pesante berretto di lana che le copriva la fronte. Se ne stava lì, in mezzo alla strada, fissandolo con uno sguardo severo, ma il sorriso dipinto sulle labbra.


-Sono molto delusa da te, Peter,- gli domandò alludendo evidentemente al ruolo che interpretava nello spettacolo da poco conclusosi. -Niente pantacalze verdi?


Ade sorrise impercettibilmente avvicinandosi a lei. -Non in borghese.


-Peccato,- gli rispose delusa. -Trovo che donassero particolarmente alle tue gambe da giraffa.


Ade sorrise, abbassando lo sguardo.


-Che cosa ci fai qui, Tai?


-Davvero non te lo immagini?-domandò con gli occhi che lo squadravano incerti. -Voglio che mi porti da Ben.- concluse dando voce a quello che non avrebbe mai voluto sentire.


-Ne abbiamo già parlato. Se Ben ha deciso di sparire dalla mia vita, senza premurarsi nemmeno di farmi sapere che è vivo, una ragione c'è e io devo rispettarla. Tu sei libera di fare ciò che desideri.


-Io desidero che tu venga con me. É una cosa che sento di dovere portare a termine insieme, Ade, lo capisci?


Lo capisco. Avrebbe voluto risponderle. Ma non posso.


Ritrovare Ben avrebbe significato sfondare senza mezzi termini una porta che, nonostante Tai, non era ancora sicuro di voler riaprire. Riaffrontare quell'eterno inverno che era stata la sua vita dalla notte dell'incendio, fino al momento in cui aveva incontrato Tai, quello sarebbe stato il prezzo da pagare se avesse deciso di seguire la ragazza. Avrebbe dovuto confrontarsi con l'amico di un tempo e, nonostante tutto capire perché. Perché dopo quello che avevano passato insieme Ben l'aveva escluso dalla sua vita, decidendo di renderne invece partecipe Luke Pendleton. Perché non si era confidato con lui rivelandogli la verità sulla notte dell'incendio. Perché non gli aveva domandato aiuto per affrontare l'orrore di quella realtà, come aveva fatto lui. Troppe domande che equivalevano ad altrettante paure da affrontare, troppi nodi da sciogliere, ai quali si era tenuto aggrappato in balia di quella tempesta che era stato il nulla vissuto negli ultimi anni. E ora che davvero aveva la possibilità di invertire la rotta, non sapeva più se avrebbe avuto la forza, o la voglia di farlo.


Eppure era ben conscio che Tai ne aveva bisogno al punto che aveva abbandonato la sua famiglia e il suo fidanzato a Natale, solo per salire su un aereo e pregarlo sotto una tormenta di neve di accompagnarla. Fra tutti, aveva scelto lui per scendere più in basso di quanto avesse mai fatto nella sua vita, per saltare giù al piedistallo dorato sul quale aveva vissuto protetta tutti quegli anni, sotto l'aura splendente del nome dei Core.


E infine, sollevando nuovamente lo sguardo verso gli occhi di Tai ancora in paziente attesa di una risposta, fu quello il momento in cui d'improvviso capì che se c'era una persona accanto alla quale sarebbe stato in grado di aprire quella porta, di sciogliere quell'eterno inverno al quale si era autocondannato, quella era lei. Perché aveva bisogno di lui quanto lui aveva bisogno di lei e perché in fondo sapeva che, sebbene tutta quella storia non fosse che uno stupido mito, Ade, senza la sua Persefone, non sarebbe mai potuto sopravvivere.


Annuì in silenzio, fissandola negli occhi.


-Verrò con te.


"Non li ho mai capiti, gli uomini come Julian e Virgile, ma li conosco da tempo e so che vivono in un mondo tutto loro e, vedi, credo che nel mondo di Julian Ade non potrebbe mai sopravvivere senza Persefone.

Va’ da lui, Merope".

Uomini come Julian Cuvée, uomini come lui.

Tutti, a New York, conoscevano il destino che avrebbe atteso Merope Core. Ma la vera storia di Julian Cuvée qual era?

"Ade, senza la sua Persefone, non sarebbe mai potuto sopravvivere".

Cosa volevano dire, realmente, quelle parole che si sentiva appiccicate addosso, che lo tormentavano dal momento in cui aveva rivisto Tai e che ora leggeva nero su bianco, nelle memorie di sua nonna?

Ade fissò il vecchio diario aperto fra le sue mani.

"Volta pagina," gli diceva l'istinto. Sarebbero bastate due parole per conoscere il suo destino. Ade infilò le dita sottili fra le pagine ancora sconosciute a lui, a Tai, indeciso sul da farsi.

Poi, con uno scatto, chiuse il diario e lo ripose sulla scrivania. Gettò un ultimo sguardo a Tai profondamente addormentata sul suo divano, si chiuse la porta alle spalle e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle i richiami di una sorte che non era ancora pronto per conoscere.

 

 

 




 

 

 

 

 

 

 

 









Note delle autrici


Che razza di brutte persone che siamo.

Tre orribili donne. Sono passati mesi prima di questo aggiornamento.

Vi chiediamo scusa e ci impegnamo ufficialmente affinchè questo non succeda più fino alla fine che, ahinoi, arriverà presto.

Mancano infatto due atti prima di arrivare alla conclusione definitiva, alla chiusura del cerchio. Cominciate a fare ipotesi sul futuro dei nostri eroi? (che di eroico non hanno poi molto, ma vabbè).

Cosa ne pensate della "fuga" delle nostre Persefone per riavvicinarsi agli Ade? E quale destino è riservato invece, ai tre promessi sposi?

 

 

 

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






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Capitolo 8
*** Atto VII ***


 

 

 

 

 

 

Atto

VII

 

 

 

 

1920

 

La villa era lì, davanti a lei, immutata; Maia aveva sempre pensato che quando il suo primogenito, o la primogenita, fosse stata abbastanza grande da prendere le redini della Demeter, avrebbe trascinato Nathanael negli Hamptons e non se ne sarebbe più allontanata. L’ennesimo sogno spezzato, l’ennesima certezza che quella notte del 1912 aveva spazzato via, finché qualcosa di altrettanto devastante non era entrato nella sua vita rimescolando tutte le carte, di nuovo.

Le bastò un istante, però, per dimenticare la ragione che l'aveva spinta a compiere quel viaggio, per sentire le lacrime agli occhi che si beavano di quelle sfumature di blu e il cuore colmo di così tanti sentimenti che sembrava esplodesse. Il mare era sempre stato la sua casa, quel grembo materno e accogliente che le aveva regalato attimi di pura gioia sin da quando non era che una bambina, instabile sulla terraferma ma perfettamente a suo agio tra quelle onde al punto che balia aveva preso l'abitudine, ad un certo punto, di poggiarle sul comodino un bicchiere di acqua dell'oceano, così che si addormentasse con il profumo della salsedine a cullarla. 

Era l’unico posto in cui si fosse mai sentita completamente, totalmente felice, al punto che se molte sue amiche non tornavano a casa per anni pur di non affrontare giorni di viaggio attraverso l’oceano, Maia aspettava trepidante il momento in cui avrebbe lasciato la terra per abbandonarsi al mare, perfetta congiunzione tra il vecchio e il nuovo mondo, l’unico luogo in cui Maia era semplicemente Maia, e non la studentessa modello o la pupilla di New York.

Il mare, oltre il molo, era una promessa di infinito. Era stato il suo peccato, credersi inaffondabile, ed era il peccato di tutta la loro generazione, che coltivava il sogno americano e poi falliva miseramente, perché tutto ciò che avevano non era che una grottesca imitazione di vita perfetta.
Il Titanic non aveva insegnato loro nulla.

Si tolse le scarpe e si sedette lasciando che le onde le sfiorassero i piedi coperti solo da calze leggere: era stata così impegnata a fuggire che aveva dimenticato quanto amore vi fosse in quei luoghi. Il mare l'aveva tradita e quella ferita non si era mai rimarginata, come quella degli orfani abbandonati dai genitori che non si sentiranno mai davvero completi. Si era chiesta mille e mille volte perché avesse tradito proprio lei, ma in quel momento la risposta a quella domanda non aveva più importanza. 
Quando si ama qualcuno fino a star male si finisce per perdonarlo, perché non vi sono alternative possibili. Aveva perdonato il mare così come Nathanael, alla fine, avrebbe perdonato lei.
Maia era tornata a casa.
 
Il sole era tramontato quando infine si alzò e, dando le spalle a Villa Core, camminò costeggiando il mare finché non trovò la casa che stava cercando, piccola ma accogliente, così diversa da casa sua eppure al contempo così simile, profumata di salsedine: un rifugio.
Lei era lì, in giardino, il volto coperto da un velo azzurro. Ceridwen. La donna del quadro che tanto l’aveva colpita quella sera sul Titanic. L’immortale bellezza, che solo l’arte sapeva conferire e che il tempo non avrebbe mai corrotto.
Nonostante il volto sfigurato, Ceridwen sarebbe stata sempre bella agli occhi del mondo, perché anche se il quadro più bello giaceva sul fondo dell’Atlantico, molti altri adornavano case e musei, conferendole l’immortalità che Maia aveva sempre inseguito.
E quando la donna alzò il capo e la vide, pur non potendole leggere lo sguardo, la giovane Core sapeva che era stata riconosciuta. Lei sapeva.

Aspettò che le si avvicinasse, poi si alzò in piedi in silenzio, lasciando che l’altra si chiedesse cosa fosse rimasto della donna che aveva ammirato anni prima, immobile nella tela, e studiando la creatura che aveva davanti, a piedi scalzi e con l’orlo dell’abito bagnato.
 
-Non comprendevo come Gabriel potesse essersi innamorato della pupilla di New York, ma ora che ti vedo non fatico a crederlo. Ben arrivata, Maia Core Myrthus. Ti stavo aspettando.
 
Quel cognome, l’amore di Gabriel, il fatto che lei la stesse aspettando. La modella osservava il mondo attraverso un velo e sembrava comprenderlo perfettamente, più di tutti loro; la stava aspettando e Maia fino a pochi minuti prima neppure sapeva che lo avrebbe rincorso, così come dubitava che lui se lo aspettasse. Ma lei li aveva compresi.
 
-Ho visto il tuo quadro, l’ultimo.

Non avrebbe saputo spiegarsi il perché di quel commento, soprattutto dal momento che, sicuramente, ricordare la bellezza perduta era doloroso per l’altra. Eppure la voce di Ceridwen sembrava quasi sorridere.
 
-Lo so, è per questo che lui ti ha trovata. Era ossessionato da quel quadro, voleva riportarmelo ad ogni costo. Io non l’ho mai voluto.
 
Le fece cenno di sedersi e Maia acconsentì: più che la gelosia, era stata la curiosità a condurla lì, perché Gabriel era tornato dalla sua musa e lei aveva bisogno di conoscere la donna che, involontariamente, li aveva uniti, perché Hasmal era entrato nella sua vita sin da quella notte sul Titanic.
 
-Si sentiva in colpa per… questo.- sfiorò il velo con una mano, –Inseguivo la bellezza proprio come Gabriel, ma se lui la trovava nella tela, per me risiedeva nell’amore. Ogni notte inventavo me stessa, tra braccia sempre diverse, ma sceglievo il mio compagno, sempre, e non mi sono mai fatta pagare. Di giorno posavo per pittori, scultori, scrittori, per chiunque avesse bisogno di una musa, e quello mi permetteva di vivere e di godermi la notte, libera da qualsiasi legame. Forse non puoi capire, ma per me quella era la vita, la massima espressione della Dea bellezza ed ero felice, totalmente felice. Poi arrivò quell’uomo e io compresi subito che c’era qualcosa, in lui, di crudele; lo rifiutai e lui non lo accettò mai. Una notte venne a casa mia e ci colse nudi, disarmati: colpì l’uomo che era con me, che per poco non morì, e poi si voltò verso di me. Nel tragitto aveva trovato dell’acido, non so se lo avesse sempre avuto con sé o in che modo se lo sia procurato, fatto sta che…

Tremò impercettibilmente sotto il velo e la voce si incrinò: Maia era raggelata, senza trovare parole per esprimere ciò che aveva dentro. Fin dove poteva spingersi la crudeltà dell’uomo…

-L’intervento dei domestici ha impedito che la situazione degenerasse ancor di più, ma nessuno ha potuto fare nulla per il mio volto. Gabriel era impazzito di dolore, mi ha trascinato di medico in medico per oltre un anno, finché non ho detto basta. Ero stanca, capisci? E lui, per qualche motivo, si mise in testa che riportarmi quel quadro mi avrebbe in qualche modo ricompensato. Dopo la guerra aveva smesso di cercare, comprendendo come non mi avrebbe fatto bene rivedere ciò che avevo perso, ma poi sei arrivata tu e hai risvegliato l’antico desiderio. O forse, in qualche modo, era la scusa per rivederti.
 
-Mi odiava.
 
-Sì, ti odiava, certo che ti odiava, tu eri tutto ciò che lui era stato e anche di più. E poi sei diventata ciò che lui era, è, perché avevi conosciuto la morte violenta, quella che ti si appiccica addosso e non ti abbandona più, e l’odio è mutato in amore.
 
-Non credo mi ami,- sussurrò appena. Era vero: aveva sempre pensato che Gabriel fosse ossessionato da lei, ma non innamorato.
 
-Lo credo io e questo basta. Conosco Gabriel come la mia stessa anima. Siamo cresciuti insieme, io e lui: mia madre era la cuoca degli Hasmal e Gabriel si incapricciò per quella bimbetta poco più piccola di lui, così la signora Calloway finì per badare anche a me. È stato un rapporto simbiotico, totalizzante, finché i suoi genitori non morirono: a quel punto lasciammo entrambi la sua casa, ma non perdemmo mai i contatti.
 
-Voi due…

Non aveva il coraggio di chiederlo fino in fondo, ma Ceridwen comprese il suo turbamento.
 
-Mai, Maia. Siamo come fratello e sorella. Ma tu perché sei qui? Cosa vuoi da lui? Sei fidanzata, tra pochi mesi ti sposerai e non ci sarà più posto per Gabriel nella tua vita, perché non credo vi potrete mai accontentare della clandestinità.
 
O tutto o niente.
 
-Ho bisogno di parlargli, di capire… Non può finire così.
 
Ceridwen sospirò e poi, con mano ferma, alzò il velo, permettendo a Maia di osservare quel volto sfigurato, deforme, ma in cui, in qualche modo, risiedeva l’eco della bellezza di un tempo, quella bellezza così a lungo inseguita. Non era ciò che, da sempre, faceva anche lei? La bellezza cristallizzata nei dipinti. La guardò negli occhi senza il minimo turbamento, rispettando profondamente quel gesto: solo una volta lei era stata capace di mostrare la propria tragedia, in quel cimitero con Gabriel, mentre Ceridwen si scopriva davanti ad un’estranea, per indicarle la via.

-Voglio che tu capisca la situazione. Esistono anime che possono essere salvate e anime che sono perdute per sempre, che neppure l’amore può far ritrovare perché, vedi, sono semplicemente troppo in là. Dicono che l’amore possa tutto, ma io credo piuttosto che l’amore possa molto, ma che vi siano luoghi irraggiungibili anche a lui. Luoghi troppo lontani e bui. Un Ade senza uscita.
 
-Persefone ha portato l’amore negli inferi.
 
-Persefone si è dannata nell’amore e per l’amore. Se è quello che cerchi, sii pronta ad andare fino in fondo.
 
-Lui dov’è?
 
-Dopo la curva, al molo.
 
***
-Allora Pietro si ricordò di quello che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte». Ed egli uscì, e pianse amaramente.

Udì i suoi passi prima di quelle parole, ne riconobbe l’odore di limone che si mischiava con quello della salsedine e lasciò che il suo cuore, che così a lungo si era nutrito solo di sangue e rabbia, ritornasse alla bellezza che così a lungo aveva inseguito e che lei gli aveva donato. Ogni pennellata, ogni dipinto era stato un passo inconsapevole verso di lei, verso la sua Persefone di colori chiari e colori scuri, verso quella ragazza su cui si era sbagliato sin dal primo istante, comprendendolo troppo tardi.
 
-Dal Vangelo di Matteo, 26,69-75.
 
Si alzò lentamente, quasi non volesse spezzare quel momento, quasi temendo che, se si fosse voltato, lei sarebbe sparita.
 
-Avevi ragione. Hai sempre avuto ragione.
 
Il vento le muoveva i capelli che un tempo erano stati elegantemente legati e l’orlo bagnato dell’abito verde lo fece sorridere, comprendendo come Maia, finalmente, avesse vinto la paura del mare.
 
-È stato Francis a salvarmi, quella notte. Volevo rimanere, aiutare tutte quelle povere donne delle classi inferiori, quei bambini disperati, ma le scialuppe stavano finendo e il Titanic…- si fermò un istante, poi scosse la testa come se volesse rimuovere un brutto ricordo. –Tu dovevi imbarcarti con lui, vero?
 
Gabriel annuì: Millet aveva comprato due biglietti, per sé e per il suo ultimo amante, ma all’ultimo minuto questi lo aveva lasciato e così Francis aveva offerto a lui il secondo biglietto. Vite intrecciate da fili invisibili. Se si fosse imbarcato, si sarebbero incontrate due persone prive di mostri e di dolore e forse l’arte li avrebbe uniti comunque… O forse si sarebbero sfiorati senza sentirsi mai davvero.
 
-Dopo l’incidente di Ceridwen, mi rifiutai di lasciarla da sola, così saltò il mio viaggio a Londra e il conseguente rientro sul Titanic.
Maia lo sapeva già, Francis vi aveva scherzato su la sera in cui videro il quadro.
 
-Mi ricorda Manet, coglie la bellezza di questa donna e la fa vivere oltre la tela, eppure c’è qualcosa in più… Porta l’eco dell’Impressionismo.
Non avrebbe saputo spiegarlo.
Le parole, che mai le erano venute meno, in quel momento le apparivano insufficienti, come se solo il contemplativo silenzio potesse sciogliere i pensieri e le emozioni.
-Chi è l'autore?- si scoprì a chiedere.
-Gabriel Hasmal. Avete rischiato di conoscerlo, sapete? Sarebbe dovuto venire con me.
-Magari potreste presentarmelo, quando torneremo a casa. Mi piacerebbe conoscerlo.
 
Francis aveva sorriso e lei aveva compreso come, nonostante avesse affermato che non fosse una delle persone che preferisse al mondo, a legarli fosse un affetto profondo.
 
-Balla con me.
-Non c’è musica.
 
Ma nulla poteva impedire a Maia di ottenere ciò che volesse e Gabriel non l’aveva mai vista più bella, così serena come mai era stata con lui. Gli prese le mani, portandone una sul fianco e stringendo l’altra con la propria, poi iniziò a muoversi sulle note di una canzone immaginaria, una di quelle languide sinfonie di moda nei locali clandestini, posando la guancia sul suo petto.
Era un addio, quello? O era tornata per restare?
 
Maia era entrata nella sua vita dopo anni di rabbia e dolore e non li aveva portati via, non avrebbe potuto anche se lo avesse desiderato, perché troppo a fondo erano penetrati in lui, ma aveva condiviso quel peso, facendogli comprendere di non essere solo.
Insieme si erano assolti, perdonandosi l’essere sopravvissuti mentre tutti attorno a loro morivano. Insieme avevano camminato tra i mostri, mano nella mano, imparando a non temerli più. Insieme avevano deciso di vivere quella vita assaporandone ogni istante e non perché credessero, come la maggior parte della loro generazione, di essere immortali, ma proprio perché sapevano di non esserlo.
E fu per questo che la baciò, perché lei gli sarebbe appartenuta solo in quel momento, solo il tempo di quel ballo, di quel bacio. Lo sapeva. Lo accettava.
Non fu violento e imprevisto, come la prima volta, ma lento e consapevole, perché entrambi lo desideravano, perché non importava se fosse una promessa o un addio. Si immobilizzarono lasciando che la natura attorno a loro sfumasse, che il mare alle loro spalle li cullasse con il lento andamento delle sue onde.

Gabriel risalì con la mano lungo il fianco fino ad arrivare a quella collana, ai sei chicchi di melograno che appartenevano alle Core da sempre, così come l’eterna scelta tra l’essere Persefone o l’essere Demetra, o il non essere nessuna delle due, condannandosi ad un limbo perenne.
 
Ma Persefone aveva mangiato quei sei chicchi perfettamente consapevole di una incontestabile realtà: non avrebbe mai lasciato l’Ade. Non davvero. Non del tutto.
 
La baciò respirando il suo odore, stringendola a sé stropicciando la stoffa del vestito tra le dita e comprendendo come la Bellezza fosse tutta lì, in quel gesto antico come l’uomo, nel cedere completamente e senza remore a qualcuno, fidandosi; Maia si era fidata di lui quando lui voleva distruggerla e si stava fidando di lui anche in quel momento.

L’aveva inseguita per tutta la vita, la Bellezza, e l’aveva trovata alla fine, un ultimo regalo di quella vita che gli aveva tolto tutto, persino la sua arte finché un’anima affine non gliel’aveva restituita. Figli degli agi e della ricchezza, distrutti dalle vite che avevano osservato spezzarsi per la tracotanza umana, salvati dall’arte. E se chi non la conosceva poteva pensare che Maia non fosse altro che un bel fiore, il fogliame tra i boschi che incantavano la vista, lui sapeva che bastava scostare una foglia per trovare la roccia. Che la Maia che aveva lottato quella notte sul Titanic non era morta, non del tutto, e che sarebbe tornata a splendere, conquistando quell’immortalità così a lungo agognata.

Nonostante Maia, lui era perduto, ma lei aveva ancora molto da donare e vivere.
 
-Grazie.
Non aggiunse altro, ma sapeva che lei aveva compreso.
 
Maia lo guardò sorridendo, mentre il cuore le si spezzava nel petto: gli scostò i capelli dalla fronte, gli baciò quelle mani perennemente sporche, quelle mani che l’avevano toccata e ritratta e che l’avevano incantata sin dal primo istante, da quando il carboncino gli era caduto dalla tasca e lui aveva negato gli appartenesse.

Era fragile e immortale, Gabriel, come l'epoca in cui vivevano. Uomini e donne resi fragili da ciò che avevano vissuto, dagli orrori della guerra, dagli incubi che ancora li perseguitavano, ma che sarebbero divenuti immortali per il coraggio con cui si erano rialzati. Maia non dubitava neppure per un istante che il ricordo quei gloriosi anni '20 sarebbe riecheggiato nell'eternità. Fragili e immortali.
 
E in quel momento, mentre gli occhi di lui sembravano dirle addio, Maia comprese che la scelta non era mai stata tra Gabriel e Nathanael. La scelta riguardava solo lei, la possibilità di cambiare la propria vita oppure lasciarla così com’era, beandosi di quel bozzolo di sicurezza che le avevano creato attorno.

Non era, dopotutto, la scelta di ogni essere umano? Abbandonarsi all’ignoto o rimanere fermi nella certezza. Era come se esistesse un confine invisibile, una linea immaginaria che creava una netta separazione tra certo e incerto, tra ragione e istinto: alcuni uomini non avrebbero mai pensato di valicarla, altri muovevano un timido passo per poi tornare dov’erano, altri ancora si convincevano di essersi mossi mentre in realtà rimanevano ben ancorati a terra, al proprio posto.
Solo in pochi attraversavano quella linea e il segreto stava nel non voltarsi mai indietro, nel non perdere mai di vista ciò che li attendeva davanti, un nuovo inizio, un futuro diverso, forse non migliore, ma senza dubbio alcuno un futuro che avevano scelto.
Era necessaria una incrollabile fiducia per andare avanti senza mai voltarsi indietro.

Non aveva compreso, Maia, come avesse già scelto, anche prima di allora: aveva scelto Gabriel per il quadro e l’aveva scelto ancora quando l’aveva baciato, quando l’aveva seguito nel luogo che più temeva al mondo, quando l’aveva raggiunto al mare. In un’altra vita, senza quei cognomi ingombranti e quel passato, avrebbe scelto liberamente e spontaneamente Gabriel altre mille volte ancora, ma in quella vita, quel giorno, Maia scelse se stessa, scelse di proseguire il cammino che lui aveva tracciato per lei, perché sapeva, come lo sapeva Gabriel, che non esisteva futuro per loro due insieme.

Ma sapevano anche che Maia non sarebbe mai tornata ad essere la bambolina degli ultimi otto anni perché Gabriel aveva tracciato un percorso che l’aveva portata indietro, alla ragazza che era prima di attraversare l’Atlantico sul Titanic, per permetterle di andare avanti. L’Ade le aveva restituito la vita, così come lo aveva fatto il mare.
La dea dell’amore, quella Afrodite che Maia tanto amava, non era forse nata dalla sua spuma?
A pensarci bene, era così strano che proprio quel mare si fosse trasformato in una condanna a morte? Ciò che dava, a un certo punto lo chiedeva indietro.

-Stai lontano…

La voce le morì in gola. Stai lontano dall’acqua.

Quando si voltò, lì dove poco prima stava Gabriel non rimaneva che il sordo gorgoglio di un vortice nel mare.
 
***
Le strade di Manhattan pullulavano di vita, quel pomeriggio, e tutti erano in fermento per la notte che stava arrivando: gli adulti faticavano a contenere l’esuberanza dei bambini alla prospettiva di tanti dolci e maschere spettrali, mentre loro già pregustavano le feste a cui avrebbero partecipato quando i figli fossero stati soddisfatti e addormentati. Davanti alle Chiese i preti inveivano contro quelle tradizioni pagane che oscuravano la ricorrenza cristiana, ma in pochi prestavano loro attenzione, solo i più anziani, che ancora non si erano rassegnati al tempo che scorreva.

Maia salutò il vescovo della Cattedrale di San Patrizio con affetto: era uno dei pochi che aveva appena terminato di celebrare la messa senza perdersi in chiacchiere inutili contro una festa che, in fondo, era totalmente innocua e non era che l’ennesimo modo che l’uomo aveva trovato per esorcizzare la morte.
 
-Manca poco, mia cara. Sei pronta?
 
La ragazza sorrise, poi chiese al vescovo ciò che desiderava, le modifiche che aveva apportato alle musiche che l’organista avrebbe suonato durante la celebrazione, l’ultima tappa di un viaggio che l’aveva condotta lungo i più celebri negozi di Manhattan –il fioraio, la pasticceria-, modificando leggermente ciò che Potnia aveva programmato ossessivamente per mesi e mesi. Non le importava: forse sua madre si sarebbe infuriata, ma il giorno dopo il matrimonio sarebbero partiti per il viaggio di nozze e, al loro rientro, un nuovo appartamento li avrebbe aspettati. Nathanael aveva mantenuto la promessa e, una settimana dopo la sua fuga agli Hamptons, rimasta segreta, le aveva fatto trovare le chiavi di un appartamento a Chelsea, molto più piccolo rispetto alla casa in cui era cresciuta, ma perfetto per loro. Aveva iniziato ad arredarlo, soffermandosi soprattutto sui beni di prima necessità e riservando il resto al loro ritorno dall’Europa.

L’Europa…

Otto anni dopo, Maia sarebbe tornata ad attraversare l’Atlantico, dal nuovo mondo al vecchio: nessuno aveva commentato, ma sapeva che tanto Nat quanto i suoi genitori, Abbie e sua nonna erano rimasti sconvolti e perplessi. O, almeno, tutti perplessi tranne il suo fidanzato.
 
Salutò il vescovo ed uscì, soffiando sulle mani guantate per cercare di vincere il freddo che era infine giunto a New York, e passeggiò senza particolare fretta, sapendo che lei, al contrario di quasi tutte le persone che le correvano accanto, quella sera non sarebbe uscita; in quelle settimane non era mancata ad un solo evento, tornando apparentemente la Maia che tutti conoscevano e amavano, ma per quella festa particolare aveva declinato ogni proposta, lieta di avere la casa tutta per sé. Natahanael sarebbe voluto rimanere con lei, ma l’aveva convinto ad unirsi alla madre nella festa che aveva organizzato, non foss’altro che per scusare la sua assenza con qualche menzogna; non lo meritava, non meritava nulla di quello che gli era capitato nell’ultimo periodo e soprattutto non quello, ma Maia era stanca di chiedere scusa, di essere perfetta…  Aveva bisogno di ricostruire la sua vita da dove l’aveva lasciata quel 15 aprile del 1912, perché solo in quel modo sarebbe stata in grado di essere una brava moglie e di diventare la donna che desiderava essere, che aveva promesso di essere.
 
La vide quasi per caso, attirata dalle decorazioni della vetrina di quella sala da thé: Molly Brown, seduta da sola e rapita dalla lettura di un romanzo, ma quando le si sedette davanti lo chiuse e la fissò come se la stesse aspettando.
 
-Thè verde al gelsomino e limone, se non ricordo male.
 
La ragazza annuì e chiamò con un cenno un cameriere per ordinare, poi tornò a voltarsi verso la donna il cui sguardo non l’aveva abbandonata un attimo.
Molly Brown era stata una compagnia in quei giorni sulla nave; Potnia non l’aveva mai sopportata, ritenendola troppo esuberante, poco compita e soprattutto di una ricchezza troppo nuova, così difficilmente si erano frequentate a New York, ma sul Titanic avevano trascorso molto tempo assieme, passeggiando lungo i ponti della prima classe o sedendo leziose nelle sale. Thè verde al gelsomino e limone.

Maia si era aperta con lei, le aveva confidato i proprio progetti con la gioia che solo i sedici anni sanno conferire, con l’esuberanza di chi ha il mondo ai propri piedi e sa di poter fare qualsiasi cosa desideri. Da quando avevano lasciato il Carpatia, da quando si era ritrovata tra le braccia di Nathanael, aveva fatto di tutto per evitarla, per impedirle di costringerla a ricordare.
 
-Sembrate diversa.

Schietta. Diretta. Il motivo per cui Potnia non la sopportava, il motivo perché la maggior parte delle vecchie signore della “nobiltà” non la sopportavano: Molly Brown non aveva peli sulla lingua, soprattutto non da quando aveva conosciuto la morte e l’aveva evitata per un pelo. Era una sopravvissuta anche lei.
 
-Lo sono.

Perché fingere? Lo era e la Brown sapeva anche perché. Per chi.

Maia si guardò attorno, cercando di sfuggire allo sguardo inquisitore della donna.
Conosceva la maggior parte delle persone presenti nel locale, ragazze della sua età che sfoggiavano un caschetto ribelle ma al cui dito brillava una fede o un anello di fidanzamento, donne che non riuscivano a stare al passo con i tempi e che guardavano le ragazze con disprezzo e, forse, con invidia. Due tavoli dopo il loro riconobbe la signora Cuveé insieme al figlio, un bambino di cinque anni, l’erede dell’impero familiare che in quel momento piangeva disperato perché la cioccolata calda non era abbastanza dolce: contrariamente a quanto facevano Lady Potnia e il signor Myrthus, il signor Cuveé dirigeva l’azienda senza curarsi minimamente del domani, sperperando in donne, alcol e gioco tutti i loro beni e sentendosi, da degno figlio di quel tempo, immortale. La moglie, d’altro canto, era una donna che accettava l’eccentricità del marito, le amanti e l’arroganza di quel bambino viziato in perfetto silenzio. Alain Julian Cuveé, ecco come si chiamava.
Sorrise quando realizzò che lo sbuffo infastidito davanti ai capricci del piccolo A. J. era sua cugina Corinne, che beveva thé insieme ad un gruppo di amiche: l’aveva invitata spesso, negli anni, a quelle riunioni femminili, ma il suo continuo declinare l’aveva fatta desistere. Ricordò quanto ne avesse invidiato la libertà, quando era più giovane: i suoi cugini avevano i privilegi di un cognome importante senza subirne le pressioni, perché era lei l’erede, quella sulle cui spalle poggiava il futuro della Demeter.
 
Non avrebbe saputo dire quanto a lungo fosse rimasta assorta nei propri pensieri e quanto a lungo la donna avesse rispettato il suo silenzio.
 
-So di avervi evitata in questi ultimi anni, ma non volevo ricordare quella notte, tutte quelle morti.
 
-Lo so, ho provato mille volte a parlare con vostra madre o con Rafael, a spiegare che non era nascondendovi che vi avrebbero aiutata a superare quell’incubo, ma loro…
 
Il sorriso di Maia si incrinò appena, - Hanno fatto ciò che ritenevano giusto per me e io li ringrazio per questo. Mi hanno donato anni di spensieratezza. Non ero pronta ad affrontare tutto.
 
Vedeva gli occhi della donna scrutare nei suoi, cercando di comprenderla, ma lo sguardo di Maia era un’intricata ragnatela di pensieri, come sempre e più di sempre.
 
-Ora lo siete? Grazie ad Hasmal?
 
-Sto per sposarmi, signora Brown, sto per intraprendere un nuovo percorso nella mia vita, ecco perché è arrivato il momento, ma non negherò che sia stato Gabriel a farmelo comprendere.
 
Pronunciare quel nome ad alta voce era stata una liberazione. Gabriel Gabriel Gabriel. Gabriel, per l’ultima volta.
 
-Eppure non lascerete Nathanael.

Irriverente, sfacciata. In un altro momento, forse solo pochi giorni prima, Maia si sarebbe alzata, mortalmente offesa per quel giudizio poco velato, e se ne sarebbe andata, ma rimase lì, a rispondere alle domande di una donna che aveva ignorato troppo a lungo, per un ultimo giro di vite.
 
-Non potrei mai ferire Nathanael, anche se l’ho fatto ripetutamente in questi ultimi mesi, ma sono destinata a lui e ho intenzione di essere la moglie che merita di avere, perché lui è la mia salvezza. Io e Gabriel ci saremmo distrutti a vicenda, ma abbiamo capito in tempo che dovevamo fermarci e abbiamo trovato la pace. Entrambi. E io gli devo così tanto… Non avrei mai potuto immaginare, quella sera sul Titanic, quando sentii per la prima volta il suo nome, il ruolo che avrebbe svolto nella mia vita, ma per la prima volta dopo anni ringrazio Francis per avermi permesso di vivere e di incontrarlo. Ora so cosa devo fare.
 
C’era una risoluzione nuova in lei, una gratitudine che fino a quel momento non aveva mai provato perché troppe volte aveva pensato che, piuttosto che sognare ogni notte quei volti congelati sul filo dell’acqua, avrebbe preferito essere morta lei stessa.
 
-Avete trovato la risposta alla vostra domanda? Ade può sopravvivere senza Persefone?- quando Maia non rispose, volgendo altrove lo sguardo, Molly le prese la mano e continuò: -Ricordo cosa mi disse di lui Francis, quella sera, mentre osservavamo il quadro di Ceridwen. Lo ricordo così bene, dopo così tanti anni, in parte perché non c’è dettaglio che abbia rimosso di quel viaggio, in parte perché pronunciò quelle parole estasiato, con profondo rispetto nei confronti dell’amico. Disse: Gabriel ha trasformato il dolore per ciò che era accaduto alla sua musa in estatica bellezza. È sempre stato sublime, ma c’è un netto stacco tra i quadri precedenti e quelli successivi: se prima dipingeva la bellezza o il dolore, in modo sublime, è vero, ma quasi impersonale… Successivamente, però, ha usato la passione e il dolore per rappresentare la magnificenza di ciò che lo circondava ed è un dono che pochi hanno. È un peccato, per lui e per noi, che la guerra lo abbia allontanato dalla sua arte, ma sono sicura che il vostro ritratto, Maia Core, sia il suo capolavoro. Quindi ora vi chiedo, se è vero ciò che mi avete detto finora, se lui ha davvero fatto la differenza, verrete con me alla riunione dei superstiti del Titanic?
 
Maia non rispose subito, perché un nodo in gola le impediva di parlare. Era davvero il suo capolavoro, quel quadro che mai aveva visto? O era lei stessa la sua creazione migliore? La donna che era diventata grazie a lui, mai più terrorizzata dai mostri del passato. Mai più annichilita dalla paura.
 
-Non lo farò.
 
Fu come se l’avesse schiaffeggiata. Molly Brown aprì la bocca più volte prima di trovare le parole giuste.
 
-Quindi Hasmal non ha cambiato nulla? Volete dimenticarlo, come avete dimenticato il resto?
 
-Vorrei potervi rispondere di sì, signora Brown, vorrei potervi dire che lui non ha cambiato nulla nella mia vita, ma mentirei: ha cambiato tutto, mi ha ricordato chi ero, chi sono. C’è una maledizione, legata a questa collana. Non sono solita credere a certe cose, ma se avete cinque minuti per me ve la racconterò.
Molly Brown annuì.
 –Jane Pleis Clinton è una mia antenata, vissuta all’epoca dei Tudors, fidanzata con il conte di Huntingdon. Una vita perfetta, finché non incontra William Fitzherbert, un figlio bastardo che si guadagnava da vivere con la sua musica. Si innamorano perdutamente e lui le dona questa collana, sei chicchi di melograno perché lui era l’Ade che la rapiva dalla sua vita alla luce del sole, ma nel frattempo sale al trono Maria la Sanguinaria. La famiglia di Pleis e il conte fanno in fretta a rinnegare il protestantesimo, ma William non vuole e deve scappare, o sarà bruciato come eretico. Pleis vuole scappare con lui, ma la notte stabilita il padre la ferma e lei non ha la forza di ribellarsi; William, però, l’aspetta e quell’attesa è fatale. Viene arrestato e condannato a morte. La notte prima dell’esecuzione, corrompendo le guardie, Pleis va da lui e viene maledetta: nella sua famiglia non sarebbero più nati figli maschi e le femmine sarebbero state donne Persefone o donne Demetra, finché una non avesse spezzato la maledizione. Per quanto ridondante sia, la storia ci dice che Pleis mise al mondo solo quattro figlie femmine e così le loro eredi e quando la collana giunse in America, a seguito dell’estinzione del ramo inglese, una famiglia prolifica di figli maschi iniziò ad avere solo femmine, fino a me. Io sono una donna Persefone, e avrò solo figlie femmine.
Chloe. Il pensiero la scosse all’improvviso. Chloe. Aveva sempre pensato che le sarebbe piaciuto chiamare così sua figlia. Chloe Core Rafael e, in cuor suo, sperava che fosse una donna Demetra: una vita d’estate, perché avere lei come madre sarebbe stata già una sfida.
-Per quanto moderni siano questi anni ’20, non sono ancora così moderni: verrà il tempo in cui una donna Core saprà sciogliere il gancio di questa collana, spezzerà la maledizione e sceglierà una vita diversa, ma quel tempo non è ancora arrivato e io ho dei doveri verso la mia famiglia e verso il mio fidanzato. Ma non lo dimenticherò, non potrei mai. Non ricordare non significa dimenticare.
 
***
 
La notte di Halloween, l’antica festa celtica che segnava la fine di un anno e l’inizio del successivo, era il momento in cui il velo che separava il regno dei vivi da quello dei morti cadeva e i defunti tornavano a camminare in superficie.

Una candela sul davanzale, per indicare la strada e far sapere loro di essere i benvenuti.
Nel silenzio di quella notte senza tempo, nel buio di un’abitazione deserta mentre le feste venivano celebrate nelle altre case, quella fiammella tremolante era l’unica cosa che per Maia fosse importante.
Non sapeva dove fosse Gabriel, preferiva credere che fosse tornato da Ceridwen piuttosto che contemplare qualsiasi altra prospettiva, ma era pur sempre il suo Ade, il dio dei morti, e chi più di lui aveva diritto a varcare quel confine e tornare tra i vivi?
Non avrebbe dimenticato, troppo a lungo si era nascosta, impedendosi di vivere davvero.
 
-Quella candela è per lui?
 
Maia sobbalzò, presa alla sprovvista: non l’aveva sentito rientrare, persa com’era in mondi troppo lontani da lì, ma negare sarebbe stata un’offesa all’intelligenza del suo fidanzato, così si limitò al silenzio.
 
Ascoltò i suoi passi sempre più vicini, il calore del suo respiro sul collo nudo e quando si voltò seguì il suo sguardo che si posava sugli oggetti che aveva davanti, la candela e i due diari, di Pleis e il proprio. Aveva affidato la sua storia a quelle pagine, così come aveva fatto l’antenata.

-Lui sa, vero? A lui hai raccontato ogni cosa di quella notte maledetta. Ho ragione?
 
Non negò, e davanti quella tacita conferma di ciò che aveva sempre sospettato, Nathanael crollò. -Vorrei un istante dei ricordi che hai donato a lui. Vorrei che una volta, una volta sola tu guardassi me come hai guardato lui quella sera al locale. C'era il mondo nei tuoi occhi e nulla attorno a voi, nessuno di noi. 

La fiamma tremò, forse mossa dai movimenti dell’uomo, forse solo per farle capire che non era sola, che lui sarebbe sempre stato al suo fianco.
 
-Potrei rompere il fidanzamento, sai? Credi che non ne avrei il coraggio? 

Fu quella parola a riscuoterla? O il tono gelido di Nathanael? Una rabbia focosa avrebbe saputo affrontarla, forse, ma quella freddezza la spinse a voltarsi verso di lui. 
 
-Tu non lo farai, né lo farò io. Il coraggio, Nathanael, è a me che fa difetto: il coraggio di scegliere e non lasciarmi semplicemente andare in balia degli eventi. Ho fatto una scelta sul Titanic quella notte: la scelta di rimanere, di lottare perché tutti avessero una possibilità, ma Millet mi ha tolto quella possibilità, condannandomi a vivere. 
 
-È una condanna per te, questa vita dorata?
 
-Era la vita di una persona che non conosceva il dolore e quelle persona, Nathanael, è morta il 15 aprile 1912, lasciando che ciò che rimaneva di me proseguisse quel cammino. Perché credi che sia terrorizzata dalla morte? Io l'ho conosciuta, Nat, e non è più la donna vestita di nero che mi avrebbe portato via bellezza e successo. Sono le acque gelide dell'Atlantico che hanno inghiottito donne e bambini e l'immortalità degli uomini che si credevano intoccabili, me compresa. Io non ho mai avuto il coraggio di affrontare questa realtà, vivendo a metà e comportandomi come se nulla fosse successo. In fondo è per questo che mi amano, sai? Se io sono io, dopo il Titanic, loro possono essere tutto ciò che vogliono dopo la guerra.
 
-Tranne Hasmal. 
 
-Lui non ha mai accettato la finzione in cui viviamo... E ha compreso che neanche io l'avevo mai fatto totalmente. Siamo due anime perse, Nathanael.
 
L'uomo si inginocchiò ai suoi piedi, prendendole le mani tra le proprie.
 
-Perché non me l'hai mai detto?
 
-Perché non volevo corromperti.

Eccola, la verità.
Nathanael era sempre stato, e tale sarebbe rimasto per sempre ai suoi occhi, la promessa di una vita diversa, non corrotta dal dolore e dalla morte. Se Gabriel era Ade, Nathanael era l’estate, era la speranza nel fondo del vaso di Pandora che aveva scoperchiato.
Nathanael era la bellezza che cercava e Gabriel l’aveva aiutata a comprenderlo.

-C'è così tanto amore, in te, che credevo potesse bastare per entrambi. E basterà, mio adorato, perché se Gabriel è l'angelo del cambiamento, tu hai il nome di un angelo salvatore, di colui che viene dopo l'apocalisse. Tu avrai il coraggio di starmi vicino finché morte non ci separi.
 
L’unico uomo che avrebbe mai potuto sposare, l’uomo che l’avrebbe aspettata, sempre.
Gabriel,l’arcangelo, colui che governa le acque, custode della creatività in tutti i campi dello scibile.
Nathanael, l’angelo che presiede il fuoco e salva i giusti dalla fornace di Baal.
 
-Il nome Nathanael, - concluse l’uomo con la voce intrisa di dolore-è anche una versione apocrifa di Gabriel.


 

Corrompere le guardie non era stato facile, ma Pleis doveva vederlo un’ultima volta, per chiedere un perdono che sapeva non sarebbe mai arrivato.
 Alle sue spalle, mentre percorreva i luridi corridoi della prigione, sentiva i falegnami armeggiare con i pali delle esecuzioni.
-Potete parlargli da qui.- disse la guardia indicando una finestrella sulla porta di una cella,-ma non posso farvi entrare.
Pleis annuì e lo pagò metà del dovuto, lasciando il restante per quanto fosse uscita salva da lì.
Era gelida, la prigione, eppure le sembrava quasi di poter vedere le fiamme dell’inferno che si chiudevano attorno a loro.
Ironico che colui che si era sempre definito il suo Ade, andasse incontro alla morte sul rogo.
L’uomo che si trovò davanti quando aprì la finestrella era lo spettro di colui che aveva amato.
Le si avvicinò lentamente, osservandola con un solo occhio grigio perché l’altro era troppo tumefatto perché potesse aprirlo.
-William…
-Non distogliere lo sguardo, Pleis.- La voce, nonostante tutto, era forte. –Guarda la tua opera. Sarei potuto essere in salvo, se tu avessi avuto il coraggio di dirmi che non saresti fuggita con me.
Qualcosa si spezzò in Pleis.
-William, amore…
-Che tu sia maledetta, Jane Pleis Clinton. Che quella collana di melograno perpetui la mia maledizione finchè una tua discendente non sarà in grado di spezzarla.
Mentre il fuoco lo divorava, purificando il mondo dai protestanti, William continuò a maledire la donna che lo aveva condotto alla morte per cercare di non impazzire dal dolore.
 
 
-Avevo scelto Amanti costanti di Mozart come marcia nuziale, ma ho visto altri spartiti.
Maia non la guardò neppure. –L’ho chiesto io.
-Tu?- Lo stupore che trapelò dalla voce di Potnia fu un motivo sufficiente per farle alzare il capo dalla rivista.
-Io, madre. È il mio matrimonio, dopotutto. Niente Mozart.
Potnia non replicò. Aveva udito le voci, ovviamente, aveva sentito raccontare dell’orchestra che aveva continuato a suonare mentre il transatlantico si inabissava nell’oceano.
Songe d’Automne, di Archibald Joyce, l’ultima canzone.
Era un addio ad Hasmal, al loro sogno d’autunno che l’inverno ormai inoltrato avrebbe seppellito sotto la neve?
O era un modo per chiedere perdono su quelle note che parevano danzavano sulle onde dell’ Atlantico?

 

1969

 

 

I suoi occhi sono fissi su di lei, mentre la fa sedere sul letto e si china per sfilarle prima uno stivale, poi l’altro; non le concedono un attimo di tregua neanche quando le mani si insinuano sotto la gonna e tornano indietro insieme ai collant, in un movimento sicuro e senza ripensamenti. Solo quando l’aiuta a togliere l’abito, quegli occhi perennemente imperturbabili tradiscono un sentimento che Merope fatica a riconoscere: incertezza, emozione, paura… Ma lei è così fragile rispetto a quel corpo statuario che la sovrasta da non poter credere di provocargli qualcosa di simile a un turbamento. Poi entrambe le mani di lui raggiungono il suo viso e la sfiorano appena, una delicatezza che lei sente di non meritare, che la fa ribellare e la spinge ad allungare le braccia e a portare quel corpo solido sopra di lei. Lo spoglia con movimenti goffi, lo bacia, si muove impaziente. Ma lui vuole delicatezza, vuole lentezza e glielo bisbiglia all’orecchio: “piano”, “aspetta”, “piano”… e la bacia e la accarezza, mentre finisce di spogliarla e torna sopra di lei, poi le fa male… Non fisicamente, quello è solo un fastidio passeggero e necessario; le fa male più profondamente, perché in quel momento torna di nuovo a guardarla alla luce soffusa della lampada e lei lo vede con estrema chiarezza: capelli biondi, chiarissimi intorno alle tempie; occhi azzurri determinati e soprattutto… soprattutto vede l’amore, quello vero.

A metà cerimonia aveva iniziato a piovere, come le dense nuvole che coprivano il cielo avevano promesso fin dalle prime ore del mattino. Qualcuno aveva aperto un ombrello sopra la testa del sacerdote e questi aveva proseguito, imperturbabile, senza asciugare gli occhiali screziati d’acqua e senza guardare i numerosi ombrelli che venivano aperti uno dopo l’altro.

Era come se ogni goccia sottile avesse dipinto il paesaggio di un grigio acquoso, come se questo avesse sostituito ogni altro colore esistito fino a quel momento. Tutto sparito, tranne il nero, che in qualche modo adesso spiccava più profondo che mai.

Neri erano gli impermeabili e i cappotti con cui ci si proteggeva dal vento autunnale, così come i copricapo e gli ombrelli da cui gocciolava altra acqua grigia.

Neri erano stati anche gli occhi del defunto, quando era stato in vita, pensò Merope improvvisamente. Non ricordava molto altro di Virgile, se non un volto magro e sfatto su un corpo fatto di ossa troppo lunghe e sottili. Ricordava come quel nero si fosse acceso in una luce abbagliante quando lei gli aveva chiesto della sua arte, un tempo che sembrava così distante; ricordava come il nero fosse diventato una pallida ombra, mentre lo aveva visto ballare tra gli amici di una vita a Woodstock; ricordava…tutti quei colori, dov’erano spariti?, si domandò trattenendo delle lacrime fuori posto.

Non aveva mai saputo il cognome di Virgile ed era assurdo che lo avesse scoperto solo lì, al suo funerale. Ancora più assurdo se pensava a come quel cognome per i Core avesse un significato ben preciso: i Cybel, infatti, controllavano una società loro omonima, la concorrente più agguerrita della Demeter.

Avevano fama di persone spigolose, rigide e ligie al dovere e Merope, mentre guardava le loro facce imperscrutabili di fronte alla bara, trovò impossibile conciliare l’immagine di Virgile con quella famiglia che apparteneva alla sua stessa cerchia dorata. Per lei, Virgile non era stato altro che una delle interessanti creature che popolavano il mondo oscuro di Julian.

Poi riconobbe i tratti di Virgile in una bambina di fronte a lei e dovette arrendersi all’evidenza: era alta, così tanto da sembrare quasi una ragazza, ma la tradivano quei segni di un’infanzia che sembrava voler nascondere a tutti i costi; aveva cercato di mantenere un’espressione distaccata per tutta la durata del funerale, ma c’erano stati dei momenti in cui la sua bocca si era piegata in una smorfia di disappunto, di disprezzo. Sì, doveva essere un’autentica tortura per una famiglia orgogliosa come i Cybel presenziare al funerale di un ventisettenne morto per overdose e la loro piccola sprezzante erede non era brava quanto loro in quell’arte che era la recitazione dell’alta società.

Chissà cosa avrebbe detto la piccola… Maureen, ecco come si chiamava!, chissà cosa avrebbe detto se le fosse andata vicino e le avesse detto che aveva gli stessi occhi del suo parente scapestrato e che forse, dopotutto, quella tara poteva essersi tramandata anche a lei. Chissà come avrebbe reagito se le avesse detto che magari anche lei un giorno avrebbe sentito il bisogno di uscire da quella teca luccicante e sporcarsi con il mondo reale.

Come se le avesse letto nel pensiero, Maureen alzò il viso nella sua direzione e i suoi occhi neri – profondi, gelidi, terrificanti – le risposero che no, a lei non sarebbe mai capitato.

Merope deglutì con difficoltà, sentendosi costretta a distogliere gli occhi da quel muro di indifferenza e andare alla ricerca di qualcuno che fosse davvero addolorato per la morte dell’artista. Li individuò – erano un po’ distanti, come se non volessero prendere parte a quella farsa portata avanti dai Cybel – e se anche sui loro volti non vi era traccia dei tratti di Virgile, Merope poté riconoscervi un’autentica familiarità: Virgile era passato su ognuno di quei visi, che adesso erano tirati, ma prima avevano riso, discusso, sognato insieme a lui.

Nel frattempo il prete, conclusa la cerimonia, si era avvicinato ai parenti del defunto per stringere le loro mani in un inutile gesto di conforto, presto seguito da altri sconosciuti che con Virgile non avevano nulla a che fare. Merope invece non ci riuscì, rimase ferma a guardare Sibylle prendere per mano un Blind assente e condurlo vicino alla bara.

Alle loro spalle, vide Julian.

La vista di quella pelle bianca bianca circondata dal nero dell’ombrello, dell’impermeabile e del dolcevita le tolse il respiro, mentre lo osservava avanzare ad occhi bassi. Quando fu abbastanza vicino alla bara, una mano altrettanto bianca scomparve nel nero della tasca per ricomparire subito dopo con qualcosa stretto nel pugno, che posò con cura sul legno scuro e lavorato. Non era altro che un semplice pennello dalla punta macchiata di colori, l’arte di Virgile, lo strumento con cui aveva abbandonato la vita dorata tra i Cybel per immergersi in quel mondo terribile in cui la libertà gli era costata la vita.

Indifferente alla reazione provocata nei familiari, Julian sollevò lo sguardo e finalmente lo posò su Merope, che si sentì come se tutto quel nero e quel grigio opaco si fossero condensati in lui e, attraverso i suoi occhi di piombo, fossero infine giunti a lei.

Le fece un cenno e si allontanò verso l’uscita del cimitero. Lei lo seguì senza un ripensamento.
***
Quando aprì la porta di casa non badò al buio in cui era immersa. Non si vedeva nulla, ma lui cercava solo l’oblio che gli avrebbe donato il letto e stava proprio per dirigersi in quella direzione, quando avvertì un tocco leggero sulla schiena e realizzò di non essere solo. Trattenne un sospiro e si diresse alla sua sinistra dove a fatica trovò la lampada della scrivania e poi a destra dove accese quella sul comodino, luci sufficienti per illuminare la stanza ma abbastanza tenui perché il suo mal di testa non lo opprimesse troppo.

Si guardò alle spalle e vide che lei era rimasta vicino alla porta, con un’espressione incerta sul bel viso. Non poté che seguire il suo sguardo e un moto di imbarazzo lo colse quando vide il posto con gli occhi di lei: piatti di cibo intatto sulla scrivania e sul tavolo, bottiglie piene e vuote ovunque, le lenzuola e le coperte gettate a terra…

- Se avessi saputo che saresti venuta avrei chiamato la colf.

Ironico, pungente… l’unica difesa rimastagli.

Lei sobbalzò leggermente e lo guardò smarrita, in un primo momento senza capire a cosa si riferisse. Poi dovette realizzarlo perché annuì e fece un sorrisetto divertito.

- Vedo che hai scritto.

Non guardava il disordine intorno a lei. Forse non si era resa conto nemmeno dell’enorme macchia di vino rosso che spiccava sulla parete né del vetro rotto che era rimasto a terra lì vicino. No, Merope guardava quel fiume di parole che riempivano il suo monolocale: fogli, fogli ovunque… il risultato di giorni e giorni in cui Julian aveva perso se stesso per ritrovarsi in ogni più piccola parola che aveva riversato sulla carta. Erano ovunque: ai piedi del letto, sul materasso, sulla macchina da scrivere, sulle sedie.

Adesso si sentiva come svuotato, come se dentro di lui non fosse rimasto neanche un briciolo della sua arte, come se fosse riuscito a liberarsi una volta e per tutte di ciò che per lui era condanna e dono insieme.

- Sì, ero ispirato,- e la voce gli uscì roca, fin troppo rivelatrice.

Lei sorrise di nuovo, mentre faceva qualche passo verso di lui, si toglieva il cappotto e lo posava insieme alla borsa su una sedia rimasta indenne dalla smania degli ultimi giorni. La osservò, nel suo abito nero e nei suoi capelli tirati in una morsa che sembrava assai dolorosa, e qualcosa gli si agitò dentro: aveva di nuovo voglia di scrivere, dannazione, ma non con lei lì, non poteva se lei lo guardava.

- Di nuovo nei bassi fondi?- le domandò, muovendosi per la stanza alla ricerca di qualcosa.

Lei lo guardò stranita: - La poesia…

Fu allora che Julian ricordò: la notte scorsa Sibylle era andata da lui per dirgli di Virgile e, preoccupata dallo stato in cui lo aveva trovato, lo aveva quasi costretto a scegliere una delle sue poesie da far avere alla sua Persefone. Lui aveva detto più volte di no, che non la voleva lì con lui, ma Sibylle aveva detto quelle parole…Non è questione di ciò che vuoi, Julian, ma di ciò di cui hai bisogno per sopravvivere.

- Un altro chicco di melograno, quindi,- commentò lui con un sorriso sarcastico, - Un altro passo verso la dannazione della nostra candida Persefone.

Lei accusò il colpo, strizzando gli occhi e distogliendo lo sguardo, poi prese uno dei fogli da terra e fece per leggere.

- Io starei attento, fossi in te. Tra quella roba ce n’è qualcuna un po’ troppo… spinta, per te,- la avvisò, mentre finalmente trovava ciò che cercava: una bottiglia di assenzio semipiena, qualche zolletta di zucchero e il necessario cucchiaino bucato.

Portò il tutto alla scrivania, andò a reperire un bicchiere e dell’acqua e si sedette, dandole le spalle.

- Hai mai bevuto l’assenzio?- le domandò, versando il liquido verde nel bicchiere.

- No, credo di no.

Lui sorrise: - No, certo che no,- e scosse la testa mentre posava la zolletta sul cucchiaino, - Oscar Wilde diceva che dopo il primo bicchiere di assenzio, vedi le cose come vorresti che fossero; dopo il secondo, le vedi per quello che non sono. Infine, le vedi per quello che sono realmente, ed è la cosa più orribile del mondo.

Prese l’accendino, lo avvicinò al cucchiaino e, dopo il clic, la zolletta prese fuoco.

- Cosa vedrai dopo il primo bicchiere?- gli domandò piano alle sue spalle.

- Vedrò te,- le rispose onestamente, - Ma senza quell’espressione…

- Quale espressione?- domandò e la sua voce tradì il fastidio che lui aveva voluto provocare.

Lo zucchero fuso gocciolava lento all’interno del bicchiere, senza che Julian riuscisse a distoglierne lo sguardo.

- Quella che mi fa sentire un pervertito perché ti desidero.

L’assenzio prese fuoco e, dopo un attimo di esitazione, Julian ci gettò sopra l’acqua gelida. Quasi trattenne una risata: il perenne candore di Merope riusciva sempre a mandarlo a fuoco e a bloccarlo in una morsa gelida.

- Non…,- iniziò lei, senza riuscire a proseguire, - Non c’è bisogno dell’assenzio per questo.

Stava girando il cucchiaino dentro il bicchiere, quando il significato di quelle parole lo raggiunse. Lentamente, si girò e, come se ce ne fosse bisogno, quel significato lo lesse negli occhi colpevoli e nelle labbra tese.

Annuì e la bocca gli si strinse in una smorfia divertita: - Il principe amministratore non ha saputo aspettare, dopotutto.

Strinse il bicchiere tra le mani per nasconderle ciò che gli aveva provocato quel pensiero, poi aggiunse: - E adesso cosa vuoi?

- Nulla, voglio solo dire che… sì, insomma, sono una persona diversa.

Merope non sarebbe mai cambiata. Anche dopo vent’anni, avrebbe continuato ad essere una ragazzina a un passo dall’età matura, una tenue primavera che non avrebbe mai visto maturare i suoi frutti. Perché si ostinava in quel gioco? Per provocarlo, forse, e allora anche lui l’avrebbe provocata, per mostrarle che si stava illudendo e che non sarebbe mai cambiata.

- Dunque avvicinati,- la invitò con un cenno della testa, - Questo l’ho preparato per te. Dimmi cosa vedi dopo.

Merope prese il bicchiere che le porgeva e, dopo un attimo di esitazione, ne mandò giù un profondo sorso. Poi un altro e un altro ancora, mentre il silenzio si tendeva tra loro.
Julian non aveva voglia di prendere un altro bicchiere, ma doveva pur bere e decise di farlo direttamente dalla bottiglia, un’altra provocazione diretta stavolta alle sue buone maniere.
Poi allungò la mano verso di lei, facendole trattenere il respiro, ma si limitò a toglierle il bicchiere quasi vuoto dalle mani.

- Sciogliti i capelli,- le disse.

Ubbidì ancora, senza tradire alcuna incertezza. I suoi occhi non riuscirono a trattenersi dal carezzare le ciocche bionde che scivolarono sulle spalle, finalmente libere.

- La collana…

Lei sfiorò ciascuno dei diamanti rossi che le circondavano il collo sottile, il simbolo dei Core, ciò che ad agosto aveva spinto Julian a non proseguire oltre. Voleva che le fosse chiaro che quella volta non ci sarebbero stati ripensamenti e, a quanto pareva, dovette intuirlo, perché un lampo di comprensione attraversò gli occhi chiari, ma subito dopo Merope aprì il gancetto della collana e la posò da qualche parte.

- Adesso i vestiti,- mormorò, sentendosi quasi crudele. Lei non l’avrebbe fatto, lo sapeva, voleva solo provocarla, solo…

Le mani sottili, appena scosse da un tremito, sbottonarono il cardigan e lo fecero cadere a terra, poi fu il turno del vestito, delle scarpe e delle calze e ogni gesto - lento e misurato -  ebbe su di lui l’effetto di un pugno nello stomaco.

Il gioco gli si era ritorto contro e adesso non riusciva più a ragionare lucidamente, davanti a quella pelle morbida e chiara, alle ossa che sporgevano invitanti dal bacino, alle gambe sottili e lunghe. Poi un barlume di razionalità: lei aveva appena tolto il reggiseno e un braccio sembrava sul punto di celare ciò che lei stessa aveva scoperto ma si tratteneva. Un segno di fragilità, questo, che lo riportò alla realtà…

- Vieni più vicina,- bisbigliò, toccandole quello stesso braccio.

Ubbidì ancora, ma non nascose il suo stupore quando lui le passò le braccia intorno alla vita e le diede un piccolo bacio sullo stomaco, una carezza grata per tutto quel coraggio.

- È stato gentile?

Trascorse un istante prima che Merope comprendesse la domanda e, quando prevedibilmente si ribellò ad essa, Julian dovette rafforzare la stretta intorno a lei.

- Questa è una domanda volgare,- bisbigliò lei, risentita,- Non è da te.

Lui scosse appena le spalle e poggiò la fronte sul suo ventre: - Non importa.

- Sì, comunque,- rispose dopo un silenzio interminabile.

- E sei comunque qui?

Lei sbuffò, posando le braccia sulle sue spalle: - Non costringermi a spiegarti tutto, sono qui e basta.
Julian chiuse gli occhi, circondato da tutto quel calore: - Vai a letto.

Si costrinse a lasciarla andare e, mentre lei attraversava la stanza, si tolse il dolcevita, mandò giù altro assenzio dalla bottiglia e infine la raggiunse.

Lì accanto a lei, si sentiva impacciato nei movimenti e nelle intenzioni, ma poi la vide distesa tra tutti quei fogli pieni di inchiostro e si sentì improvvisamente sicuro: Merope era nel posto giusto, circondata da parole che Julian aveva cercato e modellato solo per lei.

Gli sembrò che il suo stesso respiro si placasse, mentre intrappolava i capelli biondi tra le  dita, catturava i grandi occhi azzurri nei suoi e reclamava la bocca e il collo sottile con baci lenti e profondi e tutto questo senza che la sua vittima si ribellasse a quel rapimento: il corpo si faceva sempre più malleabile tra le mani, la bocca morbida si abbandonava ai suoi baci, il respiro si spezzava in ansiti carichi di attesa.

Perse il contatto con la realtà – forse era colpa dell’assenzio, forse era nella sua natura – e avvertì soltanto la sensazione di parole che fluivano per la mente e per le labbra, mentre continuava a baciare, a prendere, a intrappolare. Erano le parole che nei giorni passati aveva riversato sulla carta e che adesso, con la stessa smania e ossessione, sentiva di dover donare a lei. L’aveva scelta come sua Persefone, poi ne aveva decifrato i mille volti che sapeva assumere per fare contenti tutti quelli che la intrappolavano e alla fine… alla fine l’aveva rapita davvero, spogliandola di ogni volto fasullo e lasciando nient’altro che Merope.

- Merope…- la chiamò. Nessuna Euridice né Gala né Persefone. Solo Merope.

La mano strinse la pelle morbida della coscia, i denti sfiorarono quella sottile della clavicola e un ansito gli ruppe il respiro, per il piacere che gli provocò l’incastro tra i loro corpi.

- Julian…

Un mormorio basso, un movimento appena accennato di labbra e poi anche il suo respiro si fece difficoltoso, per il piacere, solo il piacere…
***
Era distesa su di lui, troppo intenta a mormorare le parole di Mrs. Robinson per curarsi dell’effetto che gli facevano le sue ossa appuntite e il suo bisbigliare stonato sul petto. Sebbene non la vedesse in viso, non ci voleva molto a capire che Merope era felice di stare lì dov’era e quel pensiero, nonostante tutto, lo fece sorridere, mentre le accarezzava i capelli sciolti e guardava la grande macchia di vino sulla parete.

- Questa non la conosci?- le chiese quando, attraverso il giradischi, Simon e Garfunkel iniziarono a cantare una nuova canzone.

La sentì scuotere la testa piano.

- Una delle mie preferite,- le disse lui.

Continuò ad accarezzarle i capelli e la schiena, mormorando di tanto in tanto qualche parola di Scarborough Fair. Gli occhi sempre fissi sulla macchia rossa.

- Generals order their soldiers to kill, And to fight for a cause they've long ago forgotten.

- Nelle tue poesie non parli mai di guerra.

La macchia era più scura in centro, probabilmente il punto in cui si era frantumata la bottiglia, e da lì si espandeva da ogni lato, allungandosi poi verso il basso. Vista la situazione gli venne spontaneo immaginarlo come un melograno ormai guasto, qualcosa che nessuno avrebbe più osato assaggiare.

- La guerra ha condizionato tutta la mia esistenza,- disse, - Ogni mia parola, ogni mio pensiero, ogni mia scelta, il mio stesso modo di essere. Sono nato mentre il mondo era sconvolto da una guerra e, davvero, non te lo so spiegare in altro modo, ma è come se tutto quel terrore, quell’odio, quella morte mi fossero stati trasmessi, quasi fossero i capelli neri di mia madre e gli occhi chiari di mio padre. Non parlo di guerra, dici?,- sbuffò, - È ovunque…

Merope si sollevò sui gomiti e lo guardò dall’alto, visibilmente perplessa.

- Julian, non hai mai partecipato alle proteste contro la guerra nel Vietnam, ti ho visto deridere Blind e altri scrittori per il loro impegno politico, non hai mai fatto nulla…

- Semplicemente perché non ci credo,- le sorrise, mentre la faceva abbassare di nuovo su di sé, - Non fermeremo questa guerra, né quelle che la seguiranno: dovremo solo combattere per l’ennesima causa che ci verrà propinata e che finiremo col dimenticare, sotto il peso del terrore, dell’odio, della morte.

- Tuo padre,- la sentì bisbigliare, - Parli così per tuo padre.

- Mio padre…

- Parlami di lui.

Si costrinse a ridacchiare.

- Qualcuno l’avrà sicuramente fatto, per metterti in guardia contro i viziosi Cuveé.

- A me interessa quello che hai da dire tu.

Studiò di nuovo i tratti sfumati di quella macchia sulla parete, mente ripensava ai ritratti in bianco e nero di Alain Julian Cuveé, lo sguardo di sua madre quando passava un aereo in cielo e le medaglie, soprattutto le medaglie…

- Amava scrivere, non che fosse molto bravo, ma amava farlo e, visto che era nato in una famiglia come la tua, poteva permettersi il lusso di illudersi che avrebbe vissuto di questo. Quando però il cadavere di suo padre venne ritrovato a galleggiare sull’Hudson, dissero suicidio, ma viste le conoscenze che vantava mio nonno nessuno ci credette, Alain fu costretto ad aprire gli occhi, mentre i creditori rosicchiavano gli ultimi resti dell’impero dei Cuveé e centinaia di persone perdevano il loro lavoro.

Dovette scegliere una carriera nell’aviazione, contando sulle poche conoscenze che gli erano rimaste e nel frattempo si innamorò della cameriera che ogni giorno gli serviva il caffè, un tale e scontato cliché per gli uomini della mia famiglia, e finì per sposarla. Poi ci fu Pearl Harbor e tutto cambiò: Alain dovette partire e seppe di me solo per lettera.

Scomparve in una qualche missione in Giappone…- stava mentendo, sapeva ogni particolare della morte di suo padre, ma quel tono vago e indifferente era l’unico modo che conosceva per poter raccontare quella storia.

- E il libro?- domandò lei a voce bassissima.

- L’Averno sulla terra, intendi? A mia madre portarono dei taccuini che mio padre portava sempre con sé e lei si convinse che erano poesie bellissime e che tutti dovevano conoscere l’orrore di un uomo costretto a portare morte attraverso il cielo. Si era convinta anche che la creatura luminosa di cui parlava in quelle poesie, l’unica cosa che avrebbe potuto salvare la sua anima, era lei, sua moglie, e che era suo compito far pubblicare quella raccolta.

- E non era lei?

Scosse la testa:- No, mia madre era così debole da non poter salvare nemmeno se stessa.

Un’ombra scura passò nello sguardo di Merope e fu facile per lui indovinare cosa stesse pensando.

- Tu non sei come lei. La tua forza scorre oltre l’apparenza di un volto delicato e di parole ben educate. Sei qui, dopotutto, no?

Si sorrisero per un attimo, complici come non lo erano mai stati fino a quel momento.

- Eppure c’è riuscita,- commentò lei mentre si stiracchiava, - A pubblicare il libro, dico.

- Sì, ma a che prezzo? Per farlo dovette spendere gli ultimi risparmi della famiglia e credette di aver salvato mio padre.

Si alzò dal letto per andare alla ricerca delle sigarette. Ne accese una, fingendo di non accorgersi dell’imbarazzo e della curiosità che provocava in Merope il suo muoversi per la stanza completamente nudo e rilassato. Tornò a letto, con lo stesso passo tranquillo e le si sdraiò accanto passandole la sigaretta. La prese con naturalezza e altrettanto naturale fu il gesto con cui la portò alla bocca e cacciò fuori il fumo dalle labbra.

- Non solo la guerra, quindi…- disse, passandogli la sigaretta. Lui, però, non la prese, limitandosi ad avvicinare la bocca e a sfiorarle le dita mentre aspirava.

- Che intendi?- domandò, trovando fatica a concentrarsi sulle parole.

- Ad aver condizionato la tua esistenza non è stata solo la guerra, ma anche le parole,- gli spiegò, portando la sigaretta alla bocca,- C’è la guerra, sì, e forse hai ragione e la guerra non finirà mai, ma ti hanno fatto dono della scrittura e, se solo lo volessi, stasera potresti portarmi in un mondo in cui è sempre estate, un luogo in cui noi stiamo ballando e sappiamo che lo potremo fare per sempre, un posto in cui Orfeo si potrà girare senza la paura di non trovare la sua Euridice…

- L’assenzio sta facendo il suo effetto,- commentò lui, preso da una tenerezza che non aveva mai conosciuto prima di incontrare quella donna-ragazzina, - O forse sarà la sigaretta, visto che non contiene solo tabacco.

Lei ridacchiò, facendo un altro tiro e lui la costrinse a restituirgliela.

- Dove vorresti andare, quindi? Al Max’s? Vediamo…- si fermò, cercando un’immagine nella sua mente
e, una volta trovata, riprese a parlare:- Indossi vestiti provocanti e ogni artista presente ti sta pregando di posare per lui o lei, ma tu sei una Gala fedele al suo Dalì, dici di no a tutti e pensi a quando saremo a casa e farai l’amore con me, tra poesie che ti vedono come unica e incontrastata musa.

Spense la sigaretta, andò alla ricerca dell’assenzio e lo portò con sé a letto. Lei glielo prese dalle mani e ne mandò giù un sorso.

- Vuoi proprio mettere alla prova quello che diceva Wilde?- commentò ridendo lui.

Lei scosse la testa, adagiandosi sui cuscini con un’espressione molle sul viso.

- Oppure potremmo essere a Woodstock. Indosso quell’abitino bianco e…

- Quello trasparente?- la interruppe per stuzzicarla.

 Lei lo guardò maliziosa, mentre proseguiva: - Ho dei fiori tra i capelli, c’è della musica … percussioni, chitarre elettriche, una voce intensa…Fa così caldo che mi spoglio davanti a te e, con tutta calma, mi immergo in acqua, mentre tu mi guardi da lontano.

- Non così lontano, spero,- disse dandole un rapido bacio sulle labbra sorridenti, - Sarebbe bello, mi ci potrei abituare…

- Perché parli in via ipotetica?- lo rimproverò, rabbuiandosi, - Lo faremo.

- Avrai assaggiato pure i sei chicchi di melograno, ma Persefone doveva comunque tornare da Demetra per sei mesi l’anno… Hai intenzione di fare così? Un po’ signora Ambroser, un po’ amante di Cuveé?
Lo spinse via, indispettita.

- Credevo fosse ovvio,- disse a labbra strette, - Io ho scelto, Julian. Ho scelto di…

La baciò e fu per la gioia e la paura che quelle parole gli avevano acceso dentro: in fondo, non aveva mai creduto che alla fine Merope avrebbe potuto fare una simile scelta né ci aveva mai sperato e adesso, adesso non riusciva a sentirglielo dire.

Senza interrompere il contatto delle loro labbra, le passò le mani sulla schiena e stringendosela addosso la aiutò a distendersi sul materasso. Si sollevò appena perché i suoi occhi potessero assaporare l’ampio sorriso che illuminava il volto e gli occhi di Merope, quando una forza inspiegabile lo costrinse a guardare alla sua destra, lì dove la macchia di vino rosso – un melograno a pezzi – restava muto ricordo di eventi appena trascorsi.

Scosse la testa, come a voler cacciare via l’immagine e rivolgere così tutta la sua attenzione alla donna stesa sotto di lui. Non ci riuscì del tutto: l’assenzio infine aveva fatto il suo effetto e ormai vedeva le cose per come stavano davvero. Era la cosa più orribile del mondo.
***
Era poco più che un’eco, una sensazione annidata da qualche parte nella testa e più si sforzava di ricordare quel momento, di capire se fosse realmente accaduto o no, più le sfuggiva di mente, apparendole come un fotogramma tremolante dall’audio disturbato.
Ricordava di essersi addormentata accanto a Julian, con la testa sul suo petto e le braccia di lui intorno al corpo. Ma c’era stato quel momento, poco prima: delle parole che lui le aveva detto e delle sue domande preoccupate, ma adesso… Adesso erano nascoste sotto i fumi dell’assenzio bevuto la notte prima.
Appena svegli, si erano subito preparati per uscire: lui diretto chissà dove – aveva biascicato di un incontro con qualcuno -, lei verso casa Core per prendere lo stretto necessario per lasciarsi tutto alle spalle. Subito prima di lasciare da casa, Julian le si era avvicinato e le aveva dato un bacio sulla tempia destra.

- Lasciali sciolti,- le aveva detto, sfiorando con le labbra i capelli.

Così aveva fatto e adesso i lunghi capelli biondi le solleticavano il viso, mentre il vento autunnale li ravvivava e lei si lasciava indietro il taxi che l’aveva accompagnata a casa.

Ignorò lo sguardo curioso del portiere e si diresse a passo sicuro verso l’ascensore, dove, mentre i piani si susseguivano uno dopo l’altro, iniziò a domandarsi chi avrebbe trovato e a pensare alle parole con cui avrebbe spiegato l’assenza di quella notte.

Non bussò, usò le chiavi per aprire e quasi rimase delusa quando ad accoglierla trovò solo il silenzio. Credeva che avrebbe trovato tutta quanta la sua famiglia, pronta ad accusarla e a muoverle improperi di ogni tipo. Invece no, pensò incrociando lo sguardo di una cameriera, sembrava una mattina come tante, sembrava che l’unica erede dei Core avesse dormito nel suo letto come sempre.

- Mia madre è in casa?

La cameriera si limitò ad annuire e a mormorare qualcosa di incomprensibile.
Merope si diresse verso la sua camera, finendo con il fermarsi bruscamente non appena fu davanti alla porta aperta e vide il disordine al suo interno: il contenuto dei cassetti se ne stava in bella vista sulla scrivania, il baule grigio chiaro ai piedi del letto era rimasto aperto e diversi oggetti personali erano stati gettati a terra con noncuranza. Ma ciò che davvero la indispettì fu la vista di tutto ciò che era stato lasciato sopra il suo letto e della persona che era responsabile di tutto ciò: Chloe Core Silvery, sua madre.
Era intenta a leggere qualcosa, qualcosa che sembrava turbarla profondamente, se si prestava attenzione alle spalle contratte e all’espressione dura del viso. Ma Merope non aveva intenzione di indagare, voleva solo prendere le sue cose e lasciare la casa al più presto.
Entrò e sua madre si rese conto per la prima volta della sua presenza.

- Dove hai passato la notte?- le domandò, alzando il viso verso di lei.

Merope distolse lo sguardo per posarlo sugli oggetti che sua madre aveva lasciato intorno a sé. Erano tutti lì, esposti al giudizio della morale e Merope avrebbe tanto voluto prenderli e nasconderli a quegli occhi accusatori che la fissavano impassibili. C’era il vinile dei Velvet Underground, con il disegno sfacciato sulla copertina;  poco più in là, spiccava la riproduzione del dipinto di Dalì, con la domanda maliziosa che la penna di Julian vi aveva inciso; e poi tutti quei ritratti - La Bella Otero, Mata Hari, Clèo de Mérode, Diane de Poitiers, - con le loro scandalose biografie; da qualche parte dovevano esserci anche le tracce dell’amore impaziente di Orfeo per Euridice e dell’oblio anelato da Baudelaire nella bocca e nei baci di una donna.

- Dove sei stata?- tornò a chiederle Chloe, tradendo finalmente un briciolo di impazienza.

Era arrivato il momento di dirle la verità, di raccontarle tutto dei mesi passati e di comunicarle la sua scelta. La sua scelta…

- Anzi,- disse sua madre dopo un attimo di silenzio,- Ho cambiato idea, non voglio nemmeno saperlo. Parlerò io e tu mi starai a sentire.

No, si disse Merope, era indispensabile che a parlare fosse lei, ma c’era qualcosa che continuava a distrarla: era tornata quella fastidiosa eco che aveva disturbato il suo risveglio la mattina e che poi aveva avvolto di tristezza il suo saluto a Julian. Era un ricordo sfumato della notte appena trascorsa: lui le aveva fatto promettere qualcosa, ma cosa?

- Sei invaghita di un uomo che non fa parte del tuo mondo e non sei certo la prima Core a cui capita qualcosa del genere; ma vedi, a un certo punto, chi ti ha preceduto ha capito,- disse marcando l’ultima parola,- Ha capito che la vita è già troppo complicata per abbandonare il ruolo per cui siamo nati. Fino ad oggi, tu sei stata una Core e sei stata cresciuta ed educata per vivere tra di noi. I capricci – tuoi e di un uomo che ti ha dedicato poesie e canzoni volgari – ti hanno portata a questo punto.

Alle parole di sua madre, il ricordo sfumato che tanto la stava torturando sembrò finalmente acquisire tratti più netti: “Merope, hai qui con te la mia poesia?”, “No, l’ho lasciata a casa”, “Quando domani andrai lì, prendila e… guarda la busta, ok?”, “Di che stai parlando, Julian?”, “La busta, Merope, promettimi che guarderai la busta”, “Lo farò, adesso dormi”.

- Ma sei ancora in tempo, Merope,- continuò e il tono con cui parlò stavolta tradì tutta quanta la sua preoccupazione, - Dopotutto sei tornata a casa, sei qui e questo significherà pur qualcosa.

Era quello il momento giusto: le avrebbe detto che no, non c’era più alcuna scelta da fare e che avrebbe vissuto con Julian, in un mondo certo più difficile ma anche più vivo, un mondo in cui le uniche aspettative a contare erano quelle sue e dell’uomo di cui si era innamorata, un mondo pieno di libertà.

Eppure, adesso, tra lei e quel mondo c’era il ricordo della notte precedente, c’era quella busta. Lasciò quindi che sua madre continuasse a parlare di ruoli che la attendevano, di un uomo che la venerava, di una famiglia che la proteggeva e si mise a pensare alla busta. Dov’era quella maledetta busta? Perché era così importante che la vedesse?

- Pensa al futuro, Merope,- stava continuando sua madre, - Quelli come lui, quelli come quel Gabriel Hasmal non hanno nulla da garantire a nessuna donna. Forse adesso, giovane come sei e com’era Maia alla tua età, potranno apparirti splendenti…

Splendenti? Julian e Gabriel? Sua madre non aveva capito nulla e lei glielo avrebbe anche urlato addosso se non fosse stata così occupata a rovistare tra gli abiti che aveva indossato qualche sera prima. Così si limitò a scuotere la testa e a sbuffare ironica.

- Sì, certo, convinciti che sia vero amore, ma cosa ne puoi sapere tu? Era amore voler costringere una ragazza a ricordare un’esperienza terribile che aveva faticato tanto a rimuovere dalla sua esistenza? Era amore farle ricordare di come avesse sfiorato la morte, lì sul Titanic, di come quella stessa morte le avesse lasciato un’impronta addosso?

No, si disse mentre infilava le mani dentro la tasca di un cappotto, quello non era amore. Ma era amore permetterle di dire addio alla Maia che era stata prima di salire sul Titanic e di accettare, finalmente e dopo tutto quel tempo, la nuova che ne era scesa.

C’era qualcosa dentro quella tasca e, trattenendo il fiato, lo tirò fuori.

La poesia di Julian.

La busta, finalmente.

- Cosa farai quando lui ti abbandonerà? Non dico che lo farà per un’altra donna, ma con la vita che conduce non ci vuole molto a immaginare che fine possa fare uno come Julian Cuveé. Hai sentito di quel Virgile, il figlio dei Cybel? Ecco, dimmi: cosa farai quando non ci sarà più nessuno dei Core accanto a te? Quando Duncan avrà trovato un’altra donna, quando sarai rimasta sola in quel mondo che hai tanto idealizzato? Tu non hai mezzi per sopravvivere lì, Merope.

- Mamma,- voleva solo che tacesse, voleva solo…- Mamma, sono stati tutti quei regali… Lui li chiamava chicchi di melograno, come in quel mito e, so che ti sembrerà assurdo, ma la verità è che hanno fatto proprio quell’effetto. Non ho mai avuto molta esperienza, mamma, ed è bastato che lui mi dedicasse poesie e dipinti perché mi dimenticassi di me stessa. 

C’era riuscita, sua madre tacque per un momento che sembrò stiracchiarsi sempre di più, in un silenzio carico di domande e pensieri. Forse Chloe si stava sforzando di capire le sue parole, che sembravano del tutto in contrasto con le azioni della notte passata. Per quanto riguardava lei, invece, c’era un unico pensiero. E lo sentiva, come se fosse qualcosa di fisico, mentre si propagava nella sua mente e ne occupava ogni più piccolo spazio, pressando ogni nervo e provocandole un dolore che le fece strizzare gli occhi. Lo sentiva, con ancora più chiarezza, mentre si faceva spazio in tutto il suo corpo e trascinava via con sé tutto ciò che trovava nel suo violento cammino: lo champagne bevuto al suo fidanzamento, una voce maschile che leggeva poesie, una musica liberatoria, baci a fior di labbra, baci esigenti, le mani sul corpo, l’assenzio, altra musica, altre poesie…Tutto sparito, tutto distrutto.

- Stai dicendo che è tutta colpa sua?- sentì che sua madre le stava domandando.

- E della mia inesperienza,- rispose, ignorando quella voce che le urlava contro parole come tradimentobugiarda.

Si girò a guardare sua madre e le sembrò di vederla per la prima volta dopo un tempo lunghissimo: era pallida, visibilmente terrorizzata da quella figlia che non le aveva mai dato una preoccupazione e che adesso tutto a un tratto faticava a comprendere. Le parve bellissima.

- Non preoccuparti, mamma,- cercò di sorridere, ma non ci riuscì, - Puoi andare a lavoro, mi troverai qui al ritorno.

Sua madre continuò a fissarla con quell’aria smarrita e, temendo altre domande, Merope le diede le spalle e iniziò a fare ordine nella stanza.

Ancora altro silenzio, poi Chloe tornò a parlare e il suo tono sembrò quello di sempre, sicuro e controllato: - Non voglio vedere mai più questi oggetti, ma ho troppo rispetto per te e lascerò che sia tu a occupartene. Questo, però, non ti appartiene.

Allarmata, si girò e vide che tra le tante cose che sua madre aveva scovato nel baule, adesso teneva tra le mani quella più antica: il diario di sua nonna, ciò che custodiva la Maia che nessuno aveva mai conosciuto, la chiave per comprenderne ogni gesto, ogni fuga, ogni scelta. A Merope, quello apparve come l’ennesimo tradimento di cui si era resa responsabile quel giorno. Stavolta non nei confronti di Julian, ma verso Maia e Gabriel.

- Non ti appartiene,- disse di nuovo sua madre, con una certa durezza,- E non hai alcun diritto di intrometterti nel passato dei nonni.

Un moto di ribellione tornò a baluginare dentro di lei, ma poi le venne in mente la busta, le parole che vi aveva letto, e quel moto si spense come tutto il resto. Annuì soltanto.
Quando sua madre la lasciò sola, Merope continuò a fare ordine nella stanza. Prese ogni regalo di Julian, lo guardò come un qualsiasi oggetto impersonale e lo ripose in una scatola che avrebbe lasciato nella cabina armadio, lì tra le bambole che aveva collezionato da bambina e i quaderni dei suoi temi più brillanti.

Oggetto dopo oggetto, si rese conto che non erano poi molti e che quella scatola era fin troppo grande; così, innervosita da quel pensiero, si alzò in piedi e, mentre andava alla scrivania, decise che alla fine dell’anno in quella scatola vi avrebbe messo anche il suo diario.

Gli occhi si posarono sulla poesia che Julian aveva scritto per lei, l’ultimo oggetto da riporre nella scatola, l’ultimo chicco di melograno. Si fece coraggio e la prese in mano; con le dita accarezzò l’inchiostro nero, scivolando su ogni singola lettera appuntita e su ogni tratto nervoso, mentre provava a immaginare lo sguardo di Julian posarsi su quella certa parola, che a lui e al suo pugno doveva la sua esistenza. Poi, con ancora più fatica, prese la busta. Quando le era stata recapitata da Sybille non ci aveva fatto attenzione, perché sì, in fondo che importanza può mai avere una busta? È così impersonale rispetto al suo contenuto.

E come ogni busta, anche quella era anonima e nulla diceva se paragonata a ciò che aveva contenuto. Non c’erano parole vergate dal pugno umano, ma solo timbri che si sovrapponevano l’uno sull’altro, spietati nel loro inequivocabile significato. Se infatti qualche dubbio poteva restare leggendo le parole “Order to Report for Induction”, lo stesso non si poteva dire per la familiare sigla apposta sulla carta, quella sigla che ogni americano in quegli anni aveva imparato a temere: U.S. Army.

Nessuna serata sfrenata al tempo di rock e al sapore alcolico.

Nessun gioco di seduzione alla luce del sole.

Nessuna notte passata a fare l’amore tra poesie scritte per lei.

Non ci sarebbe stata alcuna estate, per Merope e Julian: lui era diretto verso l’inverno, lei aveva scelto la primavera.
Un’eterna primavera.
 

“Ti hanno condotta a me, in un baluginio di lacrime rosse.
A me, che sono nato nella gelida nera terra e che mi appresto a farvi ritorno.
Ma ti ho conosciuta, infine, anche se per il tempo di un sospiro.
Ti ho conosciuta, mia primavera.
Nulla importa se non hai colori accesi o luci accecanti.
Tu sei una primavera contenuta, sei il primo fiore del ciliegio spoglio.
Sei vita, ma una vita che scorre sotto una superficie fredda.
Sei una giornata pungente rischiarata da un sole appena appena tiepido.
E se quell’unico fiore sembra sul punto di morire e quel sole sul punto di sparire, alla fine…
Alla fine no, per quanto fragili possano sembrare, alla fine riescono a sopravvivere.
 Così anche tu, Merope… anche tu infine potrai sopravvivere.
Alla gelida terra, al gelido Averno, ad Ade.
Mai inverno, mai estate.
Un’eterna primavera.”
J.C.


 

2013

 

 
 

-Ma sei sicuro che sia questo il posto?

Tai gettò un'occhiata attorno a sé perplessa, nello scendere dall'auto presa a noleggio a Williams Lake. Avevano lasciato la città da quasi un'ora, e attorno a loro non avevano visto nulla, se non la neve che ricopriva ogni cosa, alberi, strade, prati, fin dove occhio spaziava. Poi, davanti a lei, si delineò il profilo di una casa bassa, dalle pareti di legno chiaro, quasi si perdeva in tutto quel bianco. Quel posto le metteva pace: il nulla attorno a lei le dava l'impressione di trovarsi in un altro mondo, ai confini di una realtà che soccombeva dinnanzi alla pace e al silenzio più totale.

-Così ci hanno detto giù in città. Sempre dritto, fino alla fine della statale, finché non vi trovate dentro il confine di una proprietà.

Avanzarono un poco a fatica verso la casa, della quale ora si poteva vedere chiaramente l'interno, illuminato dalle decorazioni natalizie appese dietro i vetri delle finestre. A metà della strada, un gruppo di una decina di alberi celava un piccolo ruscello: era stato bloccato con degli assi di legno perché ghiacciasse e si era così creato un piccolo laghetto.

-Tai...- Ade si bloccò ammutolito, tirandola per la manica della giacca.

La ragazza si voltò a guardare nella direzione indicatale. Laggiù, un bambino con la testa coronata da un caschetto di riccioli biondi muoveva i primi passi incerti in bilico un paio di pattini così piccoli che probabilmente sarebbero stati tranquillamente nella mano di Ade. Accanto a lui, un uomo dai capelli scuri lo incitava, piegato sulle ginocchia, la sicurezza e la compostezza di chi, sulle lame, ci é nato.

-Forza, Pat. Dai che diventi più bravo di tuo padre! Non che ci voglia molto...

L' altro uomo, quello che dava loro le spalle, pattinando all'indietro con le mani tese in avanti pronte ad acchiappare il piccolo in caso di caduta, si alzò di poco, palesemente scosso dalle risate. Un brivido percorse la schiena di Tai: in mezzo a mille ne avrebbe riconosciuto il collo sottile, la figura slanciata, i capelli chiarissimi, anche se più corti di quelli che ricordava.

Ben.
 
Si voltò verso Ade, incerta e lui le sorrise, sfiorandole la guancia con un dito per incoraggiarla. Non fecero in tempo a muoversi, però, che l'uomo dai capelli scuri parve accorgersi della loro presenza e si sollevò fissandoli con l'aria incuriosita di chi, vivendo in mezzo al nulla, vede due estranei giungere a piedi lungo il viale principale della propria casa. Il suo gesto dovette attirare l'attenzione di Ben, che si voltò verso i nuovi arrivati, rimanendo impietrito nel riconoscerne i volti.

Tai non riusciva a muovere un passo, ancora incapace di realizzare che, dopo tutta quella fatica, suo cugino fosse lì. Forse aveva le guance più piene e un'espressione più serena, ma era sempre lo stesso ragazzo che aveva visto seduto nel salotto di casa sei anni prima per l'ultima volta. Il viso le bruciava per il freddo ma si accorse, d'improvviso, di aver cominciato a piangere. Non sapeva esattamente cosa si era aspettata, nel trovarlo: solitudine o forse tristezza e malinconia, sul suo volto magro. Invece Ben appariva inequivocabilmente felice, mentre si avvicinava con quello che doveva per forza essere suo figlio in braccio; non le ci volle molto per capire che in quella terra sperduta ai confini della realtà, il cugino si trovasse esattamente dove doveva stare.

-Sei sempre stata troppo brava a Scotland Yard. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi,- le sussurrò quando si trovarono, finalmente, uno di fronte all'altro. Poi chinò il viso verso il bambino che teneva in braccio, sorridendo.

-Tai, lui é Patrick. Patrick Spencer.

-E da grande sarò un portiere.

-Non credo proprio!- protestò l'uomo che aveva seguito in silenzio Ben, fermandosi alle sue spalle. -Io sono Jonathan Spencer. Ho la sfortuna di essere il suocero di questo yankee.

-Suocero...- mormorò Tai incredula, sgranando gli occhi.

Fortunatamente, Ben ebbe l'acume di cogliere il suo sgomento, per cui, senza aspettarsi una risposta le sfiorò la spalla in un gesto affettuoso. -Forse é meglio se entriamo e ne parliamo con calma. Così magari il bel tenebroso laggiù si degnerà pure di venirmi a salutare. Mi spieghi che ci fai in giro con questa brutta gente, Tai?

Fu così che i due uomini si avvicinarono lentamente, incerti sul da farsi. Dopo quella che a tutti parve un'eternità, Ben allungò le braccia e strinse l'amico. E, mentre si abbracciavano, Tai notò infine qualcosa: quando aveva incontrato Caroline, Ade era sconvolto. Nel momento in cui l'aveva lasciata invece, aveva sì letto una traccia di malinconia, ma quello di cui aveva avuto la netta percezione immediatamente dopo, era stato il sollievo. Probabilmente la ragazza gli ricordava troppo sua sorella Charlotte, si diceva. Con Luke si era mostrato schivo, quasi impaurito di guardare quello che era diventato l'amico di un tempo. Invece, nell'osservarlo ricambiare l'abbraccio di Ben, Tai giurò di vederlo esausto. Come se qualcuno che, alla fine di un lunghissimo viaggio, fosse infine riuscito a tornare a casa. E, fra la sciarpa che gli copriva parzialmente il volto, avrebbe potuto giurare di aver visto scendere una lacrima.
***
La casa degli Spencer sembrava un luogo strappato al tempo che scorreva. Jonathan ne aveva fatto la sua dimora, dopo essersi ritirato al termine della carriera da giocatore di hockey professionista. In quella casa alle porta di Williams Lake, nella Columbia Britannica, aveva cresciuto i suoi figli, Aaron, Chris e Laura. I primi due avevano seguito le orme del padre, Laura invece era divenuta la maestra della scuola elementare del paese. Era lì che, nell'unico pub della zona, aveva conosciuto Benjamin McCauley, l'affascinante e misterioso tuttofare dell'Outlander, uno dei pub della città. Aveva sentito dire che fosse laureato in letteratura in Inghilterra e che, di tanto in tanto, desse qualche ripetizione per arrotondare e la cosa l'affascinava oltremodo. In lei, Ben aveva trovato tutto ciò a cui aveva dovuto rinunciare, dopo la sua levata di testa: affetto, calore, famiglia. Quando fra loro le cose si erano fatte serie al punto da necessitare delle risposte su quel passato che non aveva mai voluto rivelare completamente, lui aveva optato per la completa sincerità: sarebbe stato disposto a cambiare nuovamente vita, abitudini, lavoro, ma non poteva mentirle e, d'altronde, nutriva la speranza che lei non l'avrebbe mai tradito. Con suo grande stupore invece, la ragazza aveva accettato ogni sua parola, riponendo cieca fiducia in lui e nella sua promessa di aver chiuso con la vita passata. Si erano così trasferiti nella fattoria di Jonathan Spencer: due braccia in più non avrebbero fatto male e in quel modo non avrebbero rischiato che troppe domande o cavilli burocratici rivelassero il fragile segreto di Ben. Inoltre, la fama del nonno aveva fatto sì che, una volta nati Patrick e Zoey, l'adozione del cognome materno non destasse sospetto alcuno. Gli Spencer, da quelle parti, erano un'istituzione.

Laura era una ragazza dolce e affettuosa, molto diversa dalle conquiste che Tai e Ade ricordavano aver popolato il passato di Ben. Tutte uguali, belle da fare impallidire, capaci di far sentire in soggezione qualunque essere di sesso femminile si trovasse nei paraggi. Era piccola e atletica, in forma smagliante nonostante Zoey fosse nata da soli pochi mesi, aveva due profondi occhi verdi e un sorriso rassicurante. Ma la cosa che più faceva stringere il cuore a Tai era come Ben la guardava: sembrava che in lei, suo cugino riuscisse a trovare tutto quello a cui aveva rinunciato, fingendosi morto fra i flutti di una scogliera della Cornovaglia.

-Sei felice?- gli domandò accarezzandogli il viso coperto da un lieve strato di barba bionda. Avevano appena finito di cenare, Pat si era alzato e stava giocando con il trenino nuovo fiammante che gli aveva portato Babbo Natale qualche giorno prima mentre Zoey si stava placidamente addormentando fra le braccia di Ade, immobile sul divano, come se avesse paura che anche solo un piccolo movimento potesse romperla. Laura e sua madre preparavano la cioccolata calda aromatizzata alla cannella e il profumo di sprigionava per tutta la casa addobbata a festa. Con una stretta al cuore, Tai si rese conto della stupidità della sua domanda: non era li che da qualche ora, ma già aveva capito che suo cugino apparteneva molto più a quel posto che a qualsiasi ricco salotto dell'alta società avesse mai frequentato in passato.

L'uomo annuì assecondando con la guancia quel gesto e cingendole le spalle con un braccio. -É dura sapere che non potrò mai tornare indietro, però.

-Non vuoi che lo dica nemmeno agli zii? Vuoi che li lasci nella convinzione che loro figlio sia morto? Posso parlarne a mio padre, ci penserebbe lui...

Ben non le rispose subito. Appoggiò la fronte alla sua tempia, poi la baciò affettuosamente. -Magari un giorno. Un passo alla volta. É già troppo grande da superare il trauma di vederti qui con Eugene Aderley.

Tai lo fissò seria: -Noi non siamo... Voglio dire, penso che tu abbia frainteso il fatto che siamo arrivati qui insieme...

-Io non ho frainteso nulla. Però forse vorrai spiegarmi perché non porti al dito il famoso solitario di Tiffany con cui Al ti ha chiesto di sposarlo, tanto cantato sulle pagine di People dedicate al vostro fidanzamento. O il perché, per esempio, non hai staccato gli occhi di dosso a Ade nemmeno quando sono arrivati in tavola i resti della cheesecake che Laura ha fatto per merenda. Se non ricordo male, saresti stata in grado di uccidere, per quella torta.

Tai sorrise, guardandosi intorno imbarazzata in cerca di un diversivo.

-Se vuoi puoi spiegarmi anche perché, oggi pomeriggio, sulle scale la tua bocca si trovava esattamente sulla sua, ma per favore ometti i dettagli di quello che è successo dopo che vi siete chiusi la porta alle spalle.

Il pugno che gli tirò fu così forte che si fece male da sola. -Ma mi stai spiando come quando avevamo quattordici anni?

-Hey, cerco di proteggere mia cugina dai brutti ceffi che le girano intorno.

-Non ho bisogno di alcuna protezione, grazie. E, per la cronaca, non è successo nulla, prima.

Ben la scrutò aggrottando le sopracciglia, dubbioso.

-Non è successo nulla perché ci hai chiamato per la merenda. Cheesecake. E io uccido per la cheesecake, ricordi?
***
Gli occhi di Zoey erano ancora dipinti del lattiginoso grigio bluastro dei bambini di pochi mesi.

Ade l'aveva presa in braccio mentre era ancora sveglia e si era seduto su una poltrona all'angolo della sala non appena l'aveva vista sbadigliare. Fra le sue braccia sembrava così piccola che quasi aveva paura di spezzarne le piccole dita che gli stringevano l' indice, nonostante il sonno la stesse ormai catturando. E fu così che, invitato dagli sbadigli della piccola, cominciò a cantare, a bassa voce, una ninna nanna che nemmeno pensava di ricordare più. Era quella che intonava sua madre, nei rarissimi momenti in cui si sedeva sul suo letto e lo fissava mentre già dormiva, cullato dalle parole delle storie del giradischi. Non ricordava di averglielo mai sentito fare, quando ancora era sveglio: di norma, il sonno lo catturava prima ancora che lei tornasse dalle serate mondane, da una cena con suo padre, dalla palestra con le amiche. Però c'erano dei momenti che, nel dormiveglia, aveva avvertito il profumo fruttato della donna e ne aveva sentito il peso gravare sul materasso del suo piccolo lettino della stanza di New York. E infine la voce, quasi sussurrata, spezzata dalla paura che lui si svegliasse e la trovasse al suo fianco.

-Era una vita che non ti sentivo cantare.

Ben si era seduto sul bracciolo della poltrona su cui sedeva e fissava, oltre la sua spalla, la figlia finalmente addormentata fra le sue braccia.

-Sembra che al mostro piaccia. Dovresti farlo più spesso, magari riesci a fare un piccolo mostro anche tu.

-Mi manca la materia prima, Ben.

-Ah, davvero?

Entrambi sollevarono istintivamente gli occhi verso Tai, che stava fissando assorta Ade da lontano, martoriando la tazza di cioccolata calda che reggeva in mano. Quando incrociò il suo sguardo arrossì lievemente e poi distolse l'attenzione, rivolgendola improvvisamente a Pat, seduto ai suoi piedi a giocare con un paio di macchinine.

-Se hai fortuna puoi essere il primo a spezzare la maledizione.

Ade aggrottò le sopracciglia, guardandolo con aria smarrita. -Che maledizione?

-Non venirmi a dire che non la sai. La questione della collana di melograno, del principe consorte, dell'amante misterioso, delle eredi femmine e tutte quelle stupidaggini che ruotano attorno al nome delle Core. É la storia più vecchia e assurda del mondo, ma pare che in famiglia ci credano seriamente. É partito tutto da un'antenata... un'inglese, credo. Poi si è tramandato di figlia in figlia, fino alla trisnonna di Tai, Maia e anche Merope, evidentemente, ne è stata vittima...- ridacchiò Ben.

La conosceva, quella storia, meglio di quanto l'amico credesse, ma non gli era mai passato per la testa di vederla come una maledizione, piuttosto come uno strano scherzo del destino che accomunava le storie di Taigete e di sua nonna, la fortuna sfacciata di Duncan Ambroser e quella di Alistair Elliott.  E il suo soprannome con quello del dio greco con cui, per una strana ragione, si era identificato Julian Cuvée, naturalmente.

-Non ne ero a conoscenza,- mentì spudoratamente sentendo le pulsazioni aumentare e la gola farsi secca.

-Beh, tanto meglio, allora. Tanto sono tutte idiozie.

Ben si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. -Senti, puoi restare li a cantare per altri... beh si, per almeno altri cinque giorni? Forse così io e Laura riusciamo a dormire. Sono tre mesi che non riesco a farlo per tre ore di fila, grazie al piccolo mostro.

Ade gli mostrò un sorriso tirato e annuì con la testa, voltandosi a cercare nel viso di Zoey quella serenità che vi aveva trovato qualche istante prima che Ben rovinasse tutto con le sue insinuazioni.
Cosa volevano dire le sue parole? Alludevano per caso al destino che attendeva Julian Cuvée? E se tutte quelle idiozie che gli aveva elencato e che aveva letto nel diario fossero state vere, cose ne sarebbe stato di lui?

Fu con il cuore il gola che salì le scale, qualche ora dopo e si diresse nella stanza di Tai: il diario era lì, sulla scrivania, accanto al fuoco che scoppiettava. C'era una tacita promessa fra di loro, suggellata nel momento in cui le aveva rivelato di aver dato un'occhiata ad alcune pagine del cimelio di famiglia: non leggere più di quanto non abbia letto l'altro. E, a sentire Tai, non aveva mai superato il punto in cui Merope Core parlava del suo matrimonio. In cuor suo sapeva che lo aveva fatto perché ne era spaventata al punto che sarebbe stato meglio non conoscere i dettagli di quella storia. O forse perché ormai credeva a quella stupidissima maledizione così tanto che temeva davvero di leggere il proprio destino, fra quelle righe.

D'improvviso, il bisogno di sapere cosa lo attendeva si fece così forte che, con un gesto secco, spalancò il diario e cominciò a leggerne avidamente le ultime pagine. Erano più accartocciate delle altre, segno che la giovane Merope aveva pianto quando aveva steso quelle parole, sempre più tremolanti e incerte. Le lesse d'un fiato, sgranando gli occhi man mano che proseguiva con la lettura e ciò che in cuor suo già sapeva, si materializzava davanti ai suoi occhi. A lettura terminata, rimase qualche secondo a fissare la pagina bianca, come se sperasse ancora che il diario gli portasse risposte differenti. Poi, con un gesto rapido della mano, strappò l'ultimo capitolo e lo gettò nel fuoco davanti a lui, rimanendo a guardarlo mentre, con atroce lentezza, si distruggeva. Fu in quel momento che sentì la porta schiudersi alle sue spalle e vide Tai entrare nella stanza.

-Speravo fossi qui,- gli disse chiudendosi la porta alle spalle. -Dobbiamo parlare di quello che sta succedendo, Ade. Non possiamo continuare a fare finta di niente e rimandare questo discorso.

 

 

Sono molto orgoglioso, vendicativo, ambizioso, con più malefatte in attesa di uscire che pensieri da far entrare, fantasia per dar loro forma, o tempo per porli in atto. Cosa fanno i tipi come me, che strisciano tra la terra e il cielo? Siamo dei furfanti matricolati tutti quanti, non credere a nessuno di noi. Vattene in un convento.
 

***
-Stai tremando.

Ade si affrettò a passarle sulle spalle la pesante coperta variopinta, ma Tai lo respinse: non sarebbe stata quella a farla smettere di tremare convulsamente. Era la paura che la scuoteva, tanto che poteva avvertirne gli effetti dalla punta dei piedi fino al cuoio capelluto. Aveva provato mille volte quel discorso. Per ore e ore aveva scelto accuratamente ogni parola, perché così l'aveva abituata Ade: con lui ogni parola andava studiata e soppesata, dal momento che non potevi mai sapere cosa stesse pensando, dietro quegli occhi scuri e impenetrabili. Ma in quel momento, nel buio di una stanza che odorava di umido e sapone da bucato, si accorse che tutte le belle parole, tutti i discorsi, soccombevano nella distanza di uno sguardo che non sembrava terrorizzato da ciò che aveva da dire.

-Il giorno prima di arrivare a Londra ero alla tradizionale festa di Natale dei Core e me ne stavo appoggiata a una delle colonne del salone dei miei genitori. Tutto era stato studiato con precisione certosina da mia madre, per dar prova che la nostra famiglia fosse più unita che mai, che tutto ciò che dicevano i giornali sulla nostra vacanza in Europa erano castelli in aria costruiti su un semplice equivoco. C'erano persino i tuoi genitori, sai, a prova del fatto che nulla era cambiato e che gli unici rapporti che intercorrono fra le nostre famiglie sono costituiti dai punti messi a segno dall'infallibile servizio di tuo padre in doppio con il mio sul campo da tennis e dai fondi raccolti dalle nostre madri durante le cene di beneficienza. Tutto era perfetto: il cibo, le decorazioni natalizie che l'assistente personale di mia madre aveva confezionato per lei, perché sotto Natale la sua agenda è così piena che non ha mai trovato un minuto nemmeno per infilare una delle palline che io e papà, anno dopo anno, abbiamo scelto accuratamente. Alistair, elegantissimo nel suo completo di Prada nero con la cravatta blu di Hermes che i miei gli hanno regalato per il compleanno, affettuoso e allegro come lo é sempre stato, perché lui è nato così, solare, e non può farci nulla: lui sorride, Ade. E quando lo fa gli si illuminano gli occhi e io riesco a vedere tutto quello a cui pensa. Ed è bello, è rassicurante e contagioso. Attorno a noi, parenti, amici che chiacchieravano, discutevano dell'ultima partita dei Kniks, gli uomini sorseggiavano whiskey, le mie amiche spettegolavano su un certo attore del West End, sorpreso ad esibirsi a una festa a Soho, non so se lo conosci. Melany si lamentava del fatto che, nonostante tutto, aveva rifiutato la sua compagnia. E io non ho potuto fare a meno di lasciarmi prendere dall'infantile speranza che...

-Tai...- la voce di Ade suonava come una supplica. Una parte di lui non voleva ascoltarla, terrorizzata dalla ciclicità con cui un ignoto futuro lo chiamava a sé. Sapeva ormai che il prosieguo di quella confessione lo avrebbe condotto dinnanzi a una scelta che non poteva fare. Era al punto in cui la storia di Julian Cuvée si era conclusa e, sebbene si ripetesse che tutta quella storia non era altro che un mucchio di idiozie o credenze consolidate nel tempo, sapeva che, in quel momento, stava condividendo la sorte di quell'uomo.

-Me ne stavo lì e pensavo a quella casa, alla mia famiglia apparentemente perfetta, a una vita patinata, invidiata, ambita. Alla presunta felicità che mi si attribuiva. Dopotutto, chi non sarebbe stata felice al posto mio? É bastato il sentir pronunciare il tuo nome da Melany, a far crollare tutto quel fragile sistema. Ed è stata quella la prima volta, in tutti quei mesi, che mi sono lasciata andare a una piccola fantasia. Ho fissato l'albero con le palline che avevo comprato da bambina, quelle che avevo sempre voluto attaccare una ad una mentre mio padre al pianoforte strimpellava carole natalizie solo per me e, piano piano, mi sono resa conto che nella mia fantasia non c'era nessun appartamento a Park Avenue, con le finestre grandi e luminose. Non c'era nessuna festa in mio onore, non c'erano i miei genitori e nemmeno i tuoi. Non c'era Alistair. C'era un appartamento di cui non conoscevo nemmeno il colore delle pareti, o la posizione dei mobili. Ma sapevo che era intimo, bello e illuminato dalle luci che io avrei comprato ai mercatini di Winter Wonderland e che sì, c'erano le canzoni di Natale come avrei voluto, ma erano Baby please come home cantata da Bono, o Have yourself a Merry little Christmas nella versione di Bob Dylan, perché se avessi messo su quelle di Glee chi avrebbe sopportato il padrone di casa? E sì, forse non c'erano centrotavola in argento, raffinati piatti francesi, né camerieri con la giacca inamidata che servivano le pietanze ma, guardando bene, avrei visto che quello in cucina a controllare il tacchino ripieno, eri tu. E magari non saresti stato costretto in un completo di Prada con cravatta Hermes abbinata, perché a che serve un simile vestiario per un Natale così? Ma avresti canticchiato sovrappensiero, come fai sempre quando credi che nessuno ti stia ascoltando. E avremmo litigato, sempre e comunque sul vino troppo forte, sul mio trasformarmi in un elfo di Babbo Natale all'arrivo di dicembre, sui tempi di cottura dei miei biscotti, perché ammettiamolo, io sarò anche negata, ma tu non me ne fai passare una!

Senza volerlo, la voce le si ruppe e, inarrestabili, le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance pallide.

-Sarebbe stato un casino, Ade, ma saremmo stati io e te. E mi sono resa conto di quanto questo sarebbe valso più di ogni altra cosa scintillante e perfetta si trovasse in quella stanza. É stato in quel momento che ho alzato gli occhi e ho incrociato lo sguardo di Al e lui...ha smesso di sorridere.

-Sei innamorata di lui?
-Al io...
-Tai ho bisogno di saperlo. Sei innamorata di Eugene Aderley?
Aveva abbassato la testa, incapace di fornire altra risposta che non fossero le lacrime provocate dal bruciante senso di colpa, di vergogna per il calore con cui quella piccola puerile fantasia l'aveva confortata.
Era fuggita di corsa perché non poteva dargliene una, perché sapeva che finché non fosse andata a fondo a quella storia, non avrebbe potuto darne a sé stessa, figuriamoci ad altri.
"Non è che un attore a caso ha un ruolo in tutto questo?" le aveva domandato Caroline la notte in cui tutto era cambiato, a Capo Tenaro.
Allora le aveva risposto che non capiva cosa intendesse. Ora non più.

-Io...sono innamorata di te, Ade.

-Tai...- riuscì a mormorare senza convinzione. Sapeva che avrebbe dovuto fermarla molto prima: non avrebbe nemmeno dovuto permetterle di arrivare a quel punto. La notte a Capo Tenaro, la debolezza del rivedere Caroline, lo stupido desiderio di una vita che non era fatta per lui: le parole di Tai, la sua illusione, non erano altro che la prova tangibile del fatto che negli ultimi mesi non aveva fatto che accumulare un errore dopo l'altro, a partire dal momento in cui, accecato, da un inutile desiderio di vendetta, era partito per quell'assurdo viaggio. "Quelli come noi non cambiano, Aderley. Prima te ne renderai conto, meglio sarà", gli aveva rinfacciato Luke un attimo prima che gli stampasse l'orma della mano destra sul labbro. Quelli come lui, come Luke, come Julian Cuvée. Uomini che la vita aveva rigettato, trascinandoli alla deriva di un mondo che li aveva rifiutati e dal quale erano volontariamente fuggiti, assieme al peso delle proprie colpe.

Solo in quel momento si rese conto di aver rovinato tutto, ancora una volta. La sua vita era stato un continuo distruggere tutto quello che di bello gli veniva concesso. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a sentire la voce di Charlotte, la prima volta in cui gli aveva detto che lo amava: ricordava come si era sentito, come si era ripromesso di mettere la testa a posto, per diventare degno di starle accanto. Ma, la notte in cui l'aveva baciata l'ultima volta, la sua mente era annebbiata dalla cocaina e l'unica cosa che riusciva a ricordare era il sapore del fumo, ovunque e la sua voce che lo chiamava disperatamente prima che Ben lo trascinasse via e lui perdesse conoscenza. Riusciva a vedere gli occhi di sua sorella Scarlett, la sola della sua famiglia che avesse mai considerato tale, illuminarsi quando lo vedeva comparire dal fondo del viale del collegio inglese dove i loro genitori l'avevano spedita, come avevano fatto quattro anni prima con lui. Riusciva a leggere ancora la cocente delusione sul suo volto quando, settimana dopo settimana, si trovava davanti a un ragazzo sempre più disfatto e silenzioso. Quando suo padre, vergognandosi di quel figlio che aveva infangato così tanto il buon nome degli Aderley lo aveva cancellato dalla linea ereditaria, lei aveva tentato di convincerlo a rimanere, ma lui aveva risposto di odiarla e di considerarla morta, come il resto della famiglia. E infine tutto il male che era disposto a infliggere a Ben, il migliore amico che avesse mai avuto, in nome di una puerile vendetta che mai avrebbe cancellato il senso di colpa che lo divorava.

Ma non poteva fare lo stesso a Tai. L'amava anche lui, almeno aveva l'onestà di ammetterlo. Se ne era reso conto poco prima, quando l'istinto di proteggerla dalla verità lo aveva spinto a strappare le pagine di quel diario e a gettarle nel fuoco. Se Tai avesse saputo cosa successe prima del matrimonio di sua nonna, cocciuta com'era, avrebbe tentato di fare qualcosa di più stupido di quello che stava facendo lui per allontanarla da sé.

Ma non c'era rimedio, la storia di Julian parlava chiaro. Doveva lasciarla andare, nella speranza che si dimenticasse di lui il prima possibile, e tornasse alla sua vita di sempre.

-É  davvero per questo che hai lasciato tutto?

La ragazza annuì scossa dai singhiozzi.

-Tu sei pazza.- disse scuotendo la testa. -Tai, hai una vita perfetta, un fidanzato che ti ama molto di più di quanto potrei fare io, una famiglia che con tutti i suoi difetti, ti ha sempre sostenuto. Hai ritrovato Ben. Mi spieghi cosa vuoi? E prova a rispondere "voglio te" e ti metto alla porta.

-Beh...é vero.

-Che cosa ti aspetti? Che ti dica che ti amo, ci baciamo, ci sposiamo e viviamo per sempre felici e contenti? Che ti lasci gettare all'aria la tua vita in questo modo?

-Non capisco come potresti...

-Io distruggo le persone, Tai! Non te ne sei ancora resa conto? Charlotte, mia sorella, il nome  della mia famiglia. É durato qualcosa in mano mia? Quanto ci metterai a renderti conto di quello che sono davvero? Allora sarà troppo tardi per tornare indietro e tu rimarrai intrappolata in una vita a metà fra quella che sei nata per condurre e un'esistenza lontana da tutti, come la mia.

-Ade, smettila, per favore...

-É così e la storia parla chiaro. La maledizione delle Core esiste davvero Tai, ma non è una strana stregoneria che si avvera, è semplicemente perché gli uomini come me, come Julian Cuvée non possono cambiare! Alla fine la vita viene a reclamare i suoi prestiti e noi non possiamo fare altro che rimanere immobili a guardare, mentre ci viene portato via tutto, perché è questo che ci meritiamo. E io non posso chiedere anche a te di pagare per quello che sono. Finiresti per odiarmi e io non potrei vivere sapendo di averti inflitto tanto dolore.

-Non potresti mai...- cercò di interromperlo lei.

-Lo sai perché ti ho cercata, Tai? Perché volevo distruggere la vita di tuo cugino, quella bella vita che si era costruito tagliandomi fuori, mentre io rimanevo solo, senza nessuno su cui contare in un momento in cui tutto il mondo accanto a me si sgretolava. Sapevo che senza di te non ce l'avrei mai fatta: eri la carta da giocarmi per trovare informazioni su di lui.

-Ma mi credi scema?- gli rispose Tai con sguardo di sufficienza. -Ti sei mai accorto di quanto parli nel sonno? Alla terza volta che ti ho sentito infilare di seguito le parole "Ben", "incendio" e "non é colpa mia", mi é venuto il sospetto che quella sera non mi avessi mostrato tutto il contenuto del video che avevi trovato. E ho visto il tatuaggio di Ben. Perché era il suo, vero?

Ade annuì, abbassando il capo. -Ma non gli dirò nulla, tranquilla, anche perché... ho perso il telefono quella notte in spiaggia a Taormina.- mentì con scarsa convinzione.

-E allora non capisco di cosa stiamo parlando.

-Tai, non cambia nulla! Ti rendi conto di quello che ho fatto? Sarei stato disposto a distruggere la vita del mio migliore amico e la tua con lui, pur di sentirmi la coscienza pulita!

Tai sentì la pazienza venire meno. -Saresti stato disposto, ma non l'hai fatto. Sono passati due mesi da quando Luke ti ha dato il suo indirizzo, eppure a meno che la memoria non mi inganni, ti ho trovato su un palcoscenico a Londra con un paio di pantacalze verdi a combattere contro Capitan Uncino e non qui, a mettere in atto i tuoi crudeli piani di vendetta.

-Chi ti assicura che non lo avrei fatto, se non avessi perso le prove?

Se non fosse stata così infuriata, sarebbe scoppiata a ridergli in faccia. Invece si limitò a fissarlo con aria di sufficienza, come per sfidarlo a sostenere il contrario. Ade aprì la bocca più volte, senza sapere come rispondere al suo sguardo. Si alzò dal letto, piantandosi le mani nella tasca della felpa e dandole le spalle.- Torna a casa Tai, fai pace con Alistair finché puoi. Sposalo e vivi la vita che ti spetta. Io non posso dartela.

-Sei davvero così tanto idiota da credere al mucchio di stronzate che stai farneticando? Guardami, Eugene.

Finalmente Ade voltò si voltò verso di lei. Il fatto che lo avesse chiamato con il suo vero nome, slegandolo per la prima volta da quell'assurdo paragone che gli pendeva come una spada di Damocle sul collo, gli faceva saltare i nervi. Era come se Tai stesse rigettando la profezia stessa nella quale lui si era rifugiato, cercando una comoda via di fuga da ciò che lo spaventava di più: ricominciare la sua vita là dove l'incendio l'aveva interrotta. Rimase a fissarla in preda ad un soffocante senso di impotenza: la seconda possibilità che aveva agognato, per tutti quegli anni, stava davanti a lui, immobile, impassibile. Sarebbe bastato allungare il braccio e trascinarla con sé su quel letto colorato per ricominciare daccapo: niente più solitudine, viaggi, lavori saltuari. Niente più rapporti destinati a concludersi nel giro di una notte e, forse, con il tempo, niente più rimorsi, incubi o sensi di colpa. Tai stava li, stretta nel suo pigiama a quadretti e gli stava offrendo, su un piatto d'argento, tutto questo. Solo un pazzo, o uno stupido, si diceva, avrebbe potuto lasciarsela scappare e lui doveva necessariamente esserlo perché, preso un respiro per infondersi coraggio, la fissò impassibile e alla fine, con tono duro e secco, le rispose: -Si.

-E allora credo che io e te non abbiamo più niente da dirci. Ora se non ti dispiace, vorrei dormire, quindi puoi tornare nella tua stanza.
***

-Non riesci a dormire?

Ade sussultò, facendosi andare di traverso il sorso di acqua. Erano da poco passate le undici, il che da quelle parti equivaleva a notte fonda, ma lui non riusciva a dormire e così era sceso in cucina a schiarirsi le idee.

-Ade, io credo che noi due dobbiamo parlare di un bel po' di cose.- Ben si avvicinò al frigorifero, estrasse due bottiglie di birra e le depositò sul bancone, facendone scivolare una verso l'amico. Poi prese posto su uno sgabello e si mise a sorseggiare l'alcolico, in paziente attesa di una risposta.

-Non c'è molto da dire.- gli rispose infine. -Sono contento che tu sia vivo, io in qualche modo me la sono cavata, stiamo entrambi bene e mi sembra che questo liquidi la faccenda, no?

Era ancora turbato dalla discussione con Tai e non sopportava l'idea di dover affrontare anche quella con Ben.

-Ade, per favore, lascia che ti spieghi...- cominciò, ignorando il suo tentativo di troncare il discorso.

-Cosa vuoi spiegarmi, Ben?- Non voleva risultare aggressivo, ma le parole uscirono dalla sua bocca con una violenza inaspettata. -Vuoi illuminarmi per caso sulla ragione per cui hai fatto credere a tutti di essere morto? O forse sul perché sei scappato, senza nemmeno premurarti di scrivere un biglietto, lasciandomi da solo con il senso di colpa di non aver capito che stavi male al punto da buttarti con l'auto giù da un dirupo? O sul perché, fra tutti, ti sei rivolto a quel relitto umano di Luke Pendleton?

-Ade, io...- balbettò Ben colto di sorpresa.

-O forse non hai il coraggio di spiegarmi nulla di tutto questo perché ti senti una merda per esserti rifatto una vita, avere messo su una casa e una famiglia meravigliosa quando hai sulla coscienza venti vite? Come fai ad andare a letto la notte con questo peso, eh Ben? Avevamo vent'anni, santiddio!

-Cosa diavolo vai blaterando?- domandò Ben sgranando gli occhi perplesso.

-Vuoi dirmi che non hai mai visto il video sul tuo telefono?

-Quale video?

-Quello che ha girato Chuck pochi istanti prima che lo chalet prendesse fuoco. Era nel tuo telefono, non puoi non averlo visto.

Ben tacque mordicchiandosi il labbro, dando conferma a Ade che le sue accuse erano fondate.

-Direi che questo silenzio dice molto più di mille parole. Perché non me lo hai mai mostrato, Ben? Potevi fidarti di me, sapevi che non ti avrei mai accusato!

L'amico lo fissò deformando il viso in una smorfia perplessa. -Io non capisco davvero cosa tu stia dicendo.

-Nel video si vedono chiaramente le tue mani mentre giochi con le candele dalle quali si è sprigionato l'incendio. Eravamo strafatti, tu non sentivi nulla e continuavi a far muovere la fiamma...- la voce di Ade si spezzò e le lacrime gli salirono agli occhi senza che riuscisse a fermarle.

-Ade...- Ben allungò la mano attraverso il tavolo, sfiorandogli il braccio. -Vuoi sapere davvero perché non ho mai mostrato quel video?

L'uomo annuì, senza spostare il braccio.

-Innanzi tutto ne sono entrato in possesso molto tempo dopo la conclusione del processo. Luke lo ha trovato infilato chissà dove e me lo ha ridato. Pensava fosse un cimelio divertente da conservare, povero idiota.

Ben si prese una pausa, bevette un sorso della sua birra e non riprese con il suo racconto finché non vide apparire sulle labbra di Ade un accenno di sorriso.

-E vuoi sapere davvero qual è stato il mio primo pensiero quando mi sono reso conto del contenuto? Sei stato tu. Per la stragrande maggioranza del filmato ti si vedeva con Charlie e se non riuscivo a guardarlo io, come avresti potuto reggere tu? Secondo motivo, quel video confermava le conclusioni tratte a termine delle indagini. É stato tutto un incidente.

Ade si sollevò in piedi e si avvicinò all'amico, urlando infuriato. -E lo chiami incidente? Hanno confermato che l'incendio si è propagato dal tavolo dove tu giocavi con quelle candele! Lo si vede nel video...-

-Da dove, Sherlock?- gli domandò ridendo Ben nel farsi indietro con la sedia.

-Dal tatuaggio. E poi dal mio richiamo a lasciare perdere quella roba e passare ad attività più dilettevoli.

-Ok che sei sempre stato un po' tardo, ma ti ricordo che io e Dwight avevamo lo stesso tatuaggio ad eccezione della lettera finale. La mia diventa una piuma, la sua un semplice ghirigoro. E quello che appare nel video è chiaramente il suo. Mostramelo e avrai conferma che ho ragione. Come puoi essertelo dimenticato? Dovevamo tatuarci tutti e tre lo stesso estratto, ma tu alla fine hai fatto di testa tua come al solito e hai optato per la fine dell'Amleto. Digli questo, insieme al più e il meno degli eventi qui succedutisi… Il resto è silenzio. Hai cancellato la memoria, oltre che al tatuaggio?

-Io...- mormorò sfiorandosi la cicatrice che splendeva sul polso, senza sapere cosa rispondere.

-Ade, non nego di essere stato con lui in quel momento, quindi per come la vedo io non cambia nulla. In molti quella sera, se ben ricordi, avevamo preso della Ketamina, fra le altre, quindi non sentivamo nulla. Ero alle sue spalle, se non fossi stato strafatto mi sarei accorto della pericolosità di quello che stava facendo e l'avrei fermato. Invece sono venuto da te e l'ho lasciato a giocare vicino agli arazzi della Signora Pendleton. Ha davvero importanza adesso di chi è la colpa? Per come la vedo io siamo tutti colpevoli, perché chiunque di noi sarebbe potuto essere Dwight, in quel momento. E se una parte di noi è davvero sopravvissuta a quella notte, non potrà mai perdonarsi per quello che è successo.

-Perché non lo hai mai detto?- gli domandò Ade con un filo di voce.

-A cosa sarebbe servito? Noi due eravamo stati assolti. Dwight era morto, gli altri pure. Anche accusandolo non ci sarebbero state ridate indietro le nostre vite, Ade. Non la mia, non la tua, non quella di Charlie...

Ade si lasciò scivolare lungo la sedia e si nascose il viso fra le mani, scosso dai singhiozzi.

-Dio, Ade, mi dispiace. Avrei dovuto distruggere quel video, non so perché non l'ho fatto.

-Devi smetterla di scusarti!- quasi urlò Ade, con voce spezzata, sentendo la rabbia crescere dentro di lui.

-Si può sapere che cosa ti prende adesso?

-Lo sai perché io e Tai siamo qui, Ben? Credi che un giorno sia andato da lei a dirle che eri vivo per filantropia? Andiamo, mi conosci abbastanza per sapere che non può reggere questa scusa. Sapevo che era l'unica via per arrivare a te, e non mi sbagliavo. Se non ci fosse stata lei, Luke non mi avrebbe mai rivelato il tuo indirizzo. Non dopo come ho onorato la sua ospitalità a Taormina...

-Cosa hai combinato?- gli domandò Ben celando una risata.

-L'ho preso a pugni.- sorrise soddisfatto Ade.

-Hai fatto bene. Allora, mi vuoi dire tutta la storia o devo cavartela di bocca fra un pianto e l'altro?

Ade sospirò, si asciugò le lacrime e, infine cominciò a parlare.

-Quando ho trovato il video e ho saputo che eri vivo, l'unico desiderio che avevo era quello di scoprire dove ti nascondevi e denunciarti, per quello che avevi fatto. Dopo anni in cui mi trascinavo, vivendo alla giornata, finalmente qualcosa mi faceva sentire più vivo che mai. La rabbia nei tuoi confronti. Speravo che così mi sarei sentito meno in colpa, meno solo, meno ferito. Speravo che avrei vendicato la morte di Charlie, in qualche modo. Così ho usato Tai per arrivare a te, ma...dio che razza di idiota...

Ben proruppe in una risata fragorosa e domandò: -Ma mi stai prendendo in giro?

-Cosa dovevo fare Ben, eh? Quando te ne sei andato... beh non mi era rimasto nulla se non tu! Come pensi che mi sia sentito quando ho ricevuto la telefonata che mi diceva che avevano ritrovato la tua auto, eh? Per anni mi sono domandato se avrei mai potuto perdonarmi il fatto di non essermi accorto del fatto che stavi così male da buttarti giù da un dirupo per la disperazione? Mi sono sentito in colpa per il dolore che provavo, per essere stato debole, per averti lasciato morire giorno dopo giorno, sotto i miei occhi! E poi scopro quel video e contemporaneamente il fatto che sei vivo e vegeto, da qualche parte del mondo. E guardati. Ti sei rifatto una vita, sei felice, mentre io sono rimasto a navigare nel fango, nello schifo, nel rimorso, per anni. Non ho una vera casa, non ho un amico, non ho una Laura Spencer che mi ha accettato per quello che sono, né due figli con i capelli biondi, perché l'unica folle che mi aveva accettato è morta in quel maledetto chalet. Cosa avrei dovuto fare, secondo te?

-Certo che sei proprio un coglione se la pensi così. Credi davvero che io sia felice? Come pensi che sia convivere con il costante terrore di svegliarsi una mattina e scoprire che la fragile bugia sulla quale sta in bilico la tua vita crolli, portandoti tutto via un'altra volta? Come credi che mi senta ogni volta che mi sveglio di notte, dopo aver sognato che mi strappino via i miei figli, eh? Non ci hai mai pensato? Svegliati, Ade! Se fra noi due c'è qualcuno che ha l'occasione di rimediare agli errori del passato e rifarsi una vita, non sono certo io!

Ade scoppiò in una risata amara. -Le persone come me non cambiano, Ben. Quelli come me vivono in appartamenti popolati di fantasmi a Greenwich e si continuano a nascondere su un palco, perché almeno lì possono illudersi per qualche ora di essere uomini migliori di quello che sono nella realtà.

Ben riprese a ridere, e per un attimo non riuscì a trovare il fiato per riprendersi. -Ma ti ascolti mai, quando parli? Sei così tanto impegnato a crogiolarti nel tuo dolore che non ti rendi nemmeno conto che la tua seconda possibilità ti sta sotto il naso.

-La mia seconda possibilità mi ha appena chiesto di uscire dalla sua stanza e lasciarla dormire.- rispose Ade risentito.

-Perché le avrai propinato qualcuna delle stronzate che stai snocciolando senza sosta con me! Ade, ascoltami bene. La Tai che conoscevo io, era così presa dal tentativo di non disattendere mai a nessuna delle aspettative che si erano create su di lei che non si è mai nemmeno accorta di prendere da sola le scelte che la sua famiglia le aveva già imposto. Si compiaceva delle sue piccole e inutili ribellioni senza rendersi conto che in realtà non muoveva un passo fuori dai confini tracciati dal nome che le gravava addosso. Si imprigionava da sola, in poche parole. Aveva un fidanzato meraviglioso, ma - e che Dio mi perdoni per quello che sto dicendo perché Alistair è come un fratello per me- che era esattamente quello che la sua famiglia aveva scelto per lei.

-Un ragazzo dal quale dovrebbe tornare, se avesse un briciolo di spirito di auto...

-Mi lasci finire?- gli domandò spazientito Ben, mettendolo a tacere.

-La ragazza che ho visto oggi, invece, ha avuto il coraggio di mollare tutto. É stata pronta a voltare le spalle a una vita apparentemente perfetta, perché finalmente si è resa conto che non era quella per cui era nata. É una persona forte, determinata come non l'ho mai vista. Ed è stata così straordinaria, che è riuscita a renderti l'uomo che oggi ha trovato il coraggio di venire qui e raccontarmi tutto. Lo stesso che, dopo anni di vita nomade, senza una casa, un affetto, un punto fermo, ha riaperto il nostro appartamento di Greenwich e si sta ricostruendo una vita, tentando di non cadere più nello schifo che ha infangato la sua vita passata. Tai ti ha reso una persona migliore, Ade e tu in cambio, l'hai resa libera. Lasciala andare e non ti dimostrerai migliore del bambino immaturo che ho trascinato mezzo tramortito fuori da quel maledetto chalet.

-Papino...non riesco a dormire. Sei arrabbiato?

Ben si voltò di scatto verso la porta. Attraverso le gambe del grande tavolo di legno, Pat li osservava assonnato, con i piedini scalzi e un orsacchiotto stretto nella mano.

-Non é niente, tesoro. Adesso papà ti riporta a dormire.

Si alzò e si diresse a prenderlo in braccio, depositandogli un bacio lieve sulla tempia. Poi, mettendo fine alla discussione, si voltò verso Ade e lo ammonì: -Ricordati di quello che ti ho detto. Se la rifiuti lei andrà avanti, nonostante tutto. La domanda è, sarai in grado di farlo tu?
***
Quando, il mattino, i raggi del sole la svegliarono, Tai saltò sul letto, con il fiato corto.

Aveva sognato tutta notte Alistair che tentava di fermarla, alternando il suo viso a quello di Ade che le voltava le spalle. E poi il diario di sua nonna, il suo viso spento, le guance terree del giovane Julian Cuvée, e di nuovo Ade. Nel sogno continuava ad allungare la mano, senza riuscire ad afferrarlo, come se il suo fosse solo un ricordo, o un fantasma.

Scese scalza al piano di sotto, in cucina, dove trovò Ben intento a preparare il latte con i cereali per Pat e i gemelli. Non ebbe nemmeno bisogno di guardarlo in viso, per capire quello che era successo. Corse a perdifiato su per le scale, spalancando la porta della camera di Ade, con il letto perfettamente tirato, come se nessuno lo avesse usato.

Appoggiata sopra a questo, la copia dell'Amleto di Ben si perdeva nel mare di colori della coperta che ricopriva il letto. La sollevò, accorgendosi che nascondeva un pacchetto più piccolo, avvolto in fretta in un figlio di carta da giornale. Lo aprì con il cuore in gola e immediatamente un taccuino dalla copertina nera le cadde in grembo. Le sue pagine erano intonse, ancora incollate fra di loro e profumavano di nuovo, tranne che per la prima, dove stava infilata una polaroid voltata, così che non poteva vederne il soggetto ritratto. La voltò con dita tremanti, timorosa di scoprire cosa celasse: sulla superficie patinata erano ritratti lei e Ade, nel giardino della villa dei Chambers a Capo Tenaro, in un momento di spensieratezza. Lei rideva apertamente con la testa lievemente reclinata e lui la guardava compiaciuto, probabilmente fiero di averle strappato quella risata.

Sotto a questa, la sola pagina del taccuino non immacolata, il cui candore era sporcato da tre versi frettolosi, scritti con una penna blu.

Digli questo,
insieme al più e il meno degli eventi
qui succedutisi… Il resto è silenzio.

Si sedette sul letto incapace di muoversi, mentre il diario e la fotografia le cadevano dalle mani. Poi furono il rumore dei passi di Ben, il calore del suo corpo, così vicino e le sue braccia che la proteggevano e la sorreggevano. La storia si era appena ripetuta davanti ai suoi occhi e lei non aveva potuto fare nulla per mutarne il corso. Abbandonò la testa sulla spalla del cugino e li rimase, finché non sentì di aver pianto anche l'ultima delle lacrime che aveva in corpo.

 

 

 

-Io credo che sia ora che tu vada.
-E dove? A New York? O forse a Londra? O forse ovunque non sia casa, per dimenticare di essere rimasta completamente sola?
-Devi andare da te stessa. Ovunque tu ti trovi.
-Odio quello che sono diventata, Ben.
- Non puoi odiare quello che sei diventata. Sei libera, ora. Hai fatto così tanta strada che nulla ti lega più alla piccola e perfetta erede dei Core. Puoi scegliere ciò che vuoi essere, Tai. Puoi andartene di qui e decidere di vivere la vita che più desideri.
-Io... Desidero solo rimanere qui ancora un po', se me lo permetterai.
-Sai bene che questa è casa tua e che non c'è cosa ora che mi rende più felice di averti intorno. Ma la tua vita è altrove. Prima o poi questo vento che ora soffia leggero si alzerà davvero, Tai, ti porterà via da qui e ti condurrà verso una scelta. E per quanto vorrei che tu restassi per sempre, non potrò fare niente per impedirti di andartene. Perché tu sei nata per questo: cambiare il corso della storia. E non ci saranno cugini, fidanzati, genitori, nonne o amanti che potranno impedirtelo. Tu sarai ciò che desideri, a differenza mia, di tuo padre, di tua nonna, di Al e persino di Ade.
Davanti a lei, la strada bianca, libera, immacolata. Dietro, il solo vento che le sferzava i capelli, che posava la sua invisibile mano sulla sua schiena, come per invitarla a muovere i piedi e sporcare quell'intonso candore che le si apriva dinnanzi. Mai più legata a un destino già scritto. Mai più forzata a percorrere orme già tracciate per lei da qualcun'altro. Mai più erede, mai più figlia, fidanzata, nipote o qualunque altra etichetta l'avesse classificata sin dal giorno della sua nascita. Tai alzò lo sguardo verso il cugino e voltò la schiena alla strada, per accarezzargli il viso pallido.
-Dove vai?
-L'hai detto tu, no? Vado a essere ciò che desidero. Sempre che non mi perda nella desolazione dei dintorni di Williams Lake e finisca in pasto a un orso bruno.
-Mmmm... Sono quasi convinto che ci riuscirai. Specie se ti accompagnerò io.
-Torni a casa?
-Penso che sia ora che mamma e papà sappiano che sono vivo e che, finalmente, mi sono tagliato i capelli.  Che ne dici?
-Dico che ora non ho più paura.
-Non ne avevi nemmeno prima. Avevi solo bisogno di qualcuno che ti desse il coraggio di prendere in mano la tua vita e cambiarla.
-Per fortuna che ti ho ritrovato, allora.
-Non parlo di me.

 


Note Autrici

Finalmente siamo tornate, con l'ultimo capitolo di Maia e Mer: mancano, infatti, alla fine, un capitolo che sarà ambientato solo nel 2013 e l'epilogo, ed è per questo motivo che io, Emily (che ho litigato con l'html per ore. Letteralmente. Ore. -.-) e Agnes rubiamo qualche istante del vostro tempo.

Rubo un angolino di queste note per spiegare il finale di Merope, prendetela come una specie di apologia della debolezza. 
Come la nonna prima e la nipote poi, anche Merope fa del male a chi le sta intorno, si comporta in maniera discutibile e commette errori. Ma se nel corso della storia lo ha fatto più perché gli altri (Duncan, Julian, la madre, lo stesso James) glielo imponevano, trascinandola senza che mai osasse protestare, alla fine in questo capitolo Merope ha compiuto ogni scelta di testa sua. Lo ha fatto seguendo Julian fino a casa, lo ha fatto dandosi a lui completamente e lo ha fatto anche alla fine, davanti all'evidenza di un futuro impossibile insieme a Julian. 
Non è molto, probabilmente e forse una donna diversa da Merope avrebbe fatto di più, sarebbe corsa fuori di casa e sarebbe andata a cercare Julian. Ma questa è la storia di Merope e come dice Julian lei non sarà mai estate né inverno, ma forse potrà trovare un altro modo per sopravvivere... questo, però, lo vedremo nell'epilogo.
Come le mie colleghe, aspetto impaziente i vostri pareri e sì, anche eventuali parolacce contro Merope e il sempre più odiato Duncan, il grande assente (ma non troppo, se ci fate caso) di questo capitolo.
Agnes.

Per quel che mi riguarda (sempre Emily!) Maia ha compiuto l'unica scelta possibile: contrariamente a Merope, che sceglie Julian anche se alla fine non va fino in fondo, Maia non ha mai pensato ad una vita con Gabriel perché sa, e spero di averlo fatto trasparire, che loro due insieme non avrebbero fatto altro che distruggersi a vicenda, mentre Nat è la sua ancòra. La sua Bellezza. Ma Maia dimenticherà Gabriel, come ha dimenticato il Titanic, o il pittore l'ha davvero cambiata?
Chissà.
Una nota più o meno storica: ci sono varie teorie su quale sia stata l'ultima canzone suonata dall'orchestra sul Titanic: ho scelto quella più accreditata, nonché più adatta alla storia.

E avete conosciuto Ben! Sono sempre Emily mentre Lyra vi manda la seguente citazione:

"Se noi, ombre, vi abbiamo scontentato,
pensate allora - e tutto è accomodato -
che avete qui soltanto sonnecchiato
mentre queste visioni sono apparse.
Ed il tema, ozioso e vano,
che non più d'un sogno è stato,
signori, vi prego, non venga biasimato.
Se clementi voi sarete
migliori poi ci troverete.
E - parola di folletto -
se alle lingue di serpente
per fortuna siam sfuggiti,
noi faremo presto ammende
- o chiamatemi bugiardo!
Dunque a tutti buonanotte,
e batteteci le mani,
se ora siamo buoni amici.
Ed in cambio, Robertino
metterà tutto a puntino."


Detto ciò, noi ci inchiniamo al nostro pubblico, vi diamo appuntamento ai prossimi capitoli e vi auguriamo un felice anno nuovo. Che sia una buona fine e un buon inizio!


Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!

 

 

 

 

 

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