Non dimenticare

di charliesstrawberry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Debole ***
Capitolo 2: *** Qual è la tua più grande paura? ***
Capitolo 3: *** Gente da buttare ***
Capitolo 4: *** Un bravo ragazzo cattivo ***
Capitolo 5: *** Sguardi ostili ***
Capitolo 6: *** Come una partita a scacchi ***
Capitolo 7: *** Urla ***
Capitolo 8: *** Le scogliere della rovina ***
Capitolo 9: *** Lasciar perdere ***
Capitolo 10: *** Più presente ***
Capitolo 11: *** Formule algebriche ***
Capitolo 12: *** Adesso passa ***
Capitolo 13: *** Come si fa ***
Capitolo 14: *** Guasti ***
Capitolo 15: *** Fino a qui ***
Capitolo 16: *** Paralleli ***
Capitolo 17: *** Aspettare per sempre ***
Capitolo 18: *** Nel bene o nel male ***
Capitolo 19: *** Fidarsi ***
Capitolo 20: *** Ruggine ***
Capitolo 21: *** Per una volta ***
Capitolo 22: *** – x – = + ***
Capitolo 23: *** Spezzati ***
Capitolo 24: *** Di porcellana ***



Capitolo 1
*** Debole ***




 

Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore all'inizio non capisco neanche cos'è. Ci vuole tempo.
- C. Bukowski


«Quindi è successo ancora?».
Lo sguardo del dottor Wilson è irritante. Mi fissa con aria di sufficienza dietro i suoi occhialetti da vista e fa ondeggiare la biro sul taccuino che ha di fronte, come a soppesare le parole da scrivere. I suoi occhi viaggiano dal foglio bianco a me, e vice versa: sta attendendo una risposta.
Non mi è mai piaciuto, Wilson: è il tipico psicologo freddo e distaccato che non fa troppo caso ai pazienti che ha di fronte, che, con le sue rapide e ripetute occhiate verso l'orologio a pendolo in ciliegio dall'altra parte della camera, ha tutta l'aria di star aspettando con impazienza l'ora di cena. Non credo che gli importi
davvero di me. La cosa tuttavia non mi ferisce, perché in fin dei conti so che è così che deve essere.
Quella di farmi psicoanalizzare da uno sconosciuto freddo e antipatico, però, non è stata una mia idea: mamma mi ha costretto a venire qui, perché dicono tutti che sia il migliore nel suo campo. Io non sono dello stesso avviso. Wilson è scorbutico, scontroso e per niente gentile, per non parlare del fatto che non possiede mai neanche una piccola parola d'incoraggiamento per i suoi pazienti; nessun dubbio, quindi, se sono sei mesi che passo il venerdì pomeriggio su questa poltrona fin troppo comoda a parlare e a vuoto per ore, ma non cambia nulla.
Sospiro, torturandomi l'orlo della camicetta. «Sì» rispondo semplicemente, il viso basso sulle mie ginocchia. È successo ancora. Sento lo sguardo di rimprovero del mio psicologo che mi penetra da parte a parte, e mi vergogno. Mi vergogno perché so cosa seguirà a questa confessione; mi vergogno perché non sono stata forte abbastanza neanche questa volta, perché ho fatto sì che ricapitasse di nuovo. Mi vergogno perché sono una debole.
«Quando?» domanda accarezzandosi la barba scura con la sua solita aria professionale. Mi chiedo perché non la smetta di fare il dottore gentile e disponibile e non passi direttamente alla parte in cui mi insulta e mi commisera perché sono senza speranza; e ancora una volta mi dirà che non ha senso che perda tempo con me, che non cambierò mai, che sono solo una ragazzina capricciosa. E io gli crederò.
«Ieri, con Kim» sbuffo incrociando le braccia al petto, come a volermi proteggere. Detesto parlare di quest'argomento con lui; lui lo sa e mi guarda divertito, beandosi del mio imbarazzo. Wilson è anche estremamente inopportuno.
Sembra annuire, comprensivo. In realtà sta analizzando le mie parole una ad una, come a cercare la chiave per capire il casino dentro la mia testa. A volte mi diverto a vederlo analizzare i miei pensieri tratto per tratto, come se stesse cercando di sciogliere un grosso groviglio di fili di lana colorati: prova con una strada, poi inciampa, torna indietro ed imbocca un'altra possibilità. È divertente fino a quando non trova il metodo giusto e mi scopre: a quel punto mi sento nuda e impotente. Smascherata.
«E come ti sei sentita?».
«Confusa» ammetto sinceramente. Il suo sguardo però mi intima a continuare, anche se a dir la verità non saprei cosa dirgli: non è che ci sia qualcosa di nuovo, al contrario, è sempre la stessa solfa. «Mi fischiavano le orecchie, e mi sentivo come da un'altra parte. Kim fortunatamente ha capito e mi ha fatta sedere, anche se continuavo a sbraitarle contro e a dirle di andare via».
Wilson apre leggermente la bocca e sospira, visibilmente deluso. Lo vedo lanciare un'altra occhiata verso l'orologio a pendolo e capisco di aver perso la sua attenzione. «Niente di nuovo» mormora poi annoiato mentre scribacchia qualcosa sul suo prendiappunti.
«Lei mi fa sempre le stesse domande, io rispondo allo stesso modo» dico seccata. Detesto quando fa così: quando mi psicoanalizza per un po' e poi mi tratta come un topino da cavia, scrivendo qualche appunto disordinato su di me con quell'aria di disappunto. «Cos'altro si aspetta?».
«Un miglioramento, forse?» replica lui con tono ovvio e scorbutico.
«Forse, se smettesse di trattarmi come una macchina e si decidesse a dirmi cosa diavolo devo fare, allora magari vedrebbe il miglioramento a cui tanto aspira».
L'uomo di fronte a me inarca un sopracciglio, improvvisamente interessato alla nostra conversazione. Posa il taccuino e la penna sul tavolino accanto alla sua poltrona e incrocia le dita, lanciandomi uno sguardo incuriosito: non sembra toccato dalle mie parole, piuttosto è... sorpreso, come se stesse guardando un film noioso e si fosse ritrovato di fronte ad un improvviso colpo di scena. «Ma io ti ho detto più volte ciò che devi fare, carissima. E avremmo già risolto il tuo problema se mi avessi ascoltato, questo lo sappiamo entrambi. Ma sei sempre la solita ragazzina caparbia e strafottente e sto rapidamente sviluppando l'idea che tu non voglia migliorare».
«La smetta!» sento la mia voce replicare immediatamente, in un tono che è ben lontano dal suo, sempre calmo e pacato. Ho i denti serrati e sento gli occhi pizzicare per quello che ha detto, ma so bene che non scoppierò in lacrime proprio davanti a lui... mi sento già troppo debole così. «È lei lo psicologo o sbaglio? Non riversi la colpa su di me! Vengo qui da mesi ormai e la situazione è sempre la stessa. Sempre. La. Stessa. Fottuta. Situazione» scandisco chiaramente, le unghia conficcate nel palmo delle mie mani, che al momento sono serrate in due pugni. «Dovrebbe essere lei a muoversi, lei dovrebbe aiutarmi, guarirmi... faccia qualcosa, cazzo! Sono stufa di vederla starsene seduto lì ad accarezzarsi la barba come se nulla fosse. E faccia almeno finta che le interessi di me. So di essere senza speranza, ma fino a prova contraria sono anche una sua paziente, e quindi la colpa è tutta sua».
Wilson a questo punto resta a fissarmi per un po', mentre ansimo: ho quasi gridato. Immagino di avergli appena detto cose davvero poco carine da sentire, eppure lui non sembra infastidito: al contrario, sorride e mi guarda rilassato.
«Ti senti meglio, adesso?» domanda e studia i miei atteggiamenti appoggiando un gomito alla sua poltrona di pelle rossa, mentre io nella mia mi faccio sempre più piccola, domandandomi dove diavolo ho preso il coraggio per urlargli in faccia quelle cose. Forse ho sognato tutto.
«Credo di sì» borbotto a stento, evitando il suo sguardo. No, è decisamente tutto vero.
Mi chiamo Helena Hawkins – Lena, per gli amici ed il dottor Wilson – e soffro di un disturbo della memoria chiamato amnesia lacunare. Da un anno a questa parte, tendo a dimenticare fatti o eventi per qualche minuto o addirittura ore; talvolta, nei momenti di forte stress, mi capita anche di dimenticare le persone. È cominciato tutto l'anno scorso, durante il nostro viaggio in Irlanda. Da quel momento la mia vita ha imboccato strade inesplorate, trascinandomi in luoghi spaventosi e sconosciuti. Da quel momento sono stata risucchiata nell'oblio più totale, e francamente credo che questa sia la metafora perfetta per descrivere la mia condizione.
Ieri ho dimenticato la mia migliore amica. Stavamo discutendo tranquillamente del più e del meno, quando ad un tratto l'ho guardata con sguardo vitreo e perso, e le ho detto qualcosa come: «Chi diavolo sei tu?». Vorrei poter dire che no, non c'è nulla di cui preoccuparsi perché non è una cosa che capita spesso e che tutto è sotto controllo, ma non è così. Va sempre peggio.
E, sebbene dimenticare non sia un atto volontario, Wilson si ostina a credere che in tutta questa faccenda io metta del mio: come se potessi dimenticare di proposito, insomma. E per quanto questo suo ragionamento non segua alcuna logica, lui ne è fermamente convinto: ecco il perché dei suoi continui rimproveri e dei “sei senza speranza” che mi rivolge con tono amareggiato; perché per lui è tutto un fatto di forza di volontà: come se per me dimenticare fosse un'invitante tentazione alla quale non so resistere.
Io credo che, fondamentalmente, Wilson sia pazzo. E credo che tratti i suoi pazienti più come delle sfide personali che come persone vere e proprie: lo capisco dal modo in cui mi guarda, quando parla con me è un po' come se tentasse di risolvere un cruciverba. E se capisce qualcosa in più, anche un piccolo dettaglio per me inutile o insignificante, lui è contento perché è una soddisfazione personale.
Devo essere proprio una bella gatta da pelare. Non solo ho un gran casino in testa, ma sono pure lunatica. Per un momento provo pena per il pover signor Wilson, che deve vedersela con me tutti i santi venerdì pomeriggio.
Eppure lui accenna ad una risata serena, proprio come se io fossi una di quelle barzellette divertenti che si raccontano davanti ad un caffè, magari da seduti in poltrone belle e comode come queste. Forse lo sono, in realtà. Forse la mia vita non è altro che una semplice barzelletta da quattro soldi, una di quelle per cui la gente deve sforzarsi di ridere perché fa troppa pena.
«Forse per oggi può bastare, Lena» annuncia. Stringo le labbra nell'ombra di un sorriso. Non vedo l'ora di tornare a casa; le sedute con Wilson sono sempre stressanti e, chissà perché, la gran parte delle volte, dopo aver parlato con lui mi ritrovo con le idee più confuse di prima – eppure da qualche parte ho letto che lo scopo degli psicologi è un altro.
Gli rivolgo un breve sorriso e mi alzo, recupero la mia borsa azzurra e finalmente mi dirigo verso la porta.
«Oh, Lena».
Mi blocco sull'uscio e mi volto, per vedere Wilson ancora comodamente seduto nella sua poltrona in pelle rossa.
«Sì?» domando impaziente. In questo momento bramo il mio letto più di qualsiasi altra cosa, più di quanto Wilson possa bramare l'ora di cena durante le numerose sedute che condivide con i suoi noiosissimi pazienti – o forse si annoia solo con me?
«Avrei una proposta da farti». Lo vedo esitare, mentre attendo che vada avanti. «Ho alcuni pazienti come te. Sai... ragazzi della tua età. E personalmente credo che la terapia di gruppo in questi casi sia efficentissima; e poi, chissà, potresti farti dei nuovi amici, che ti capiscono tra l'altro». L'uomo attende qualche istante prima di continuare. «Cominciamo martedì. Ovviamente sei invitata».
Stringo le labbra in una smorfia. Altri ragazzi come me? A fare terapia... insieme? Questa cosa fa tanto psicopatici incalliti; sollevo un angolo delle labbra a questo pensiero, quasi divertita.
Neanche tra un milione di anni.
«Ci penserò» dico invece.


La scuola è inutile.
Varco il corridoio della St. George Comprehensive School e questo è il primo pensiero che mi attraversa la mente. E non sono una di quelle deficienti che passano la propria esistenza a farsi le unghie durante le lezioni mentre chiacchierano, e vanno declamando quanto la scuola sia stupida, perché “tutto quello che si è fa è noioso”. Anzi, ero addirittura una secchiona fino all'anno scorso, prima dell'Irlanda. Adesso mi è un po' impossibile mantenere i voti di prima, considerato che ai test per me è già una gatta da pelare rispondere alla voce “Nome” senza dover effettuare sforzi considerevoli – okay, forse sto esagerando. Di certo conosco il mio nome, ma le difficoltà che incontro nel cercare di ricordare nozioni scolastiche varie in condizioni di stress sono davvero esorbitanti. Ciò nonostante Wilson si ostina a dire che non ho alcun bisogno di un insegnante di sostegno – vallo a capire.
Comunque, quello che voglio dire è: la scuola è inutile. Che si intenda la scuola come struttura di apprendimento, ovviamente. L'apprendimento, di per sé, è importante. Importantissimo. Ma non si potrebbe semplicemente imparare le cose a casa e poi fare un esame, così, senza essere per forza obbligati a frequentare giorno per giorno quest'orribile tortura?
È che mi sembra tutto un grande bluff. Tutto: i compiti di algebra, il polpettone di plastica che servono alla mensa, la divisa scolastica con quelle gonne a quadrettoni blu scozzesi, la campanella del corridoio del secondo piano che è rotta e suona ad intermittenza e che nessuno vuole riparare. La gente che ti squadra da capo a piedi con quell'occhiata di sufficienza, come se fossi l'ultimo scarto umano al mondo. Quelli popolari, che il venerdì sera si ubriacano in qualche squallido pub di periferia e fanno ritorno a casa alle quattro del mattino, dopo aver passato tutta la notte a vomitare in autostrada. Neanche gli sfigati hanno senso, quelli che invece il venerdì sera lo passano a studiare come matti perché lunedì c'è una verifica importantissima di letteratura inglese; quelli che sono abituati all'oscurità ed escono di casa solo per buttare la spazzatura o fare la spesa, ovviamente tutto ciò se non hanno compiti da fare.
Varco il corridoio della St. George Comprehensive School, e penso che tutto questo è aberrante. Penso che la scuola non abbia senso, che i professori siano tutti pazzi e che noi non siamo altro che un indistinto agglomerato di società che cresce e si autodistrugge.
Odio la scuola. Odio i compiti, i miei compagni, i professori.
E alla fine, se devo essere sincera, trovo che sia triste ricevere occhiatacce ambigue, sentire la gente che sussurra il tuo nome con tono chiaramente sarcastico alle tue spalle quando cammini, ritrovarti attaccati all'armadietto amichevoli bigliettini con su scritto “psicopatica”.
Non ho mai pensato di essere psicopatica. A volte dimentico le cose, ma per il resto posso giurare di essere a posto con la testa: nessun ritardo o disfunzione, né ho mai avuto qualche disturbo di apprendimento grave. Solo problemi a ricordare le cose. Ma chi non li ha?
La St. George Comprehensive School oggi mi sembra più affollata del solito. Cammino per i corridoi con fare insicuro, perché è questa la reazione che suscita in me questo luogo: mentre tutti gli studenti mi sfrecciano attorno, sbattono, spingono da ogni parte, sento di farmi sempre più piccola e insignificante.
La confusione crea caos anche nella mia testa. Ad un tratto mi sento strattonare per un braccio, e per poco non salto in aria. «Kim!» quasi grido, sospirando di sollievo nel vedere la mia migliore amica che mi sorride benevola.
A rigor di termini, Kim è l'unica amica che ho.
Fa passare un braccio oltre le mie spalle, e camminiamo verso l'aula di francese.
«Lena, come stai oggi?» domanda, e riesco a distinguere una nota d'apprensione nella sua voce.
Kim è anche l'unica persona, a parte i miei genitori, che si preoccupa della mia salute. Il dottor Wilson è un caso a parte, perché so che a lui non importa davvero di me – e me l'ha fatto anche notare più volte: curarmi è il suo lavoro, lo fa per soldi e per soddisfazione personale, e per questo non ce l'ho con lui. Immagino che, da parte sua, sia una cosa più che lecita.
Però è bello sapere che a qualcuno importa di te. Qualcuno al di fuori della tua famiglia: perché i tuoi parenti sono i tuoi parenti, e in un certo senso sono “obbligati” a prestarti attenzione. C'è sempre quella sorta di senso del dovere che li costringe a prendersi cura di te, oltre che a quel sentimento di profondo affetto che vi lega. Non ne dubito, è rassicurante vedere mia madre preoccuparsi per me, sentire mio padre una volta alla settimana farmi gli interrogatori al telefono «Stai bene? Le amnesie? Ne hai ancora? Quanto durano? Mangi?». Eppure diciamoci la verità: la famiglia non la scegliamo noi, gli amici sì. Quindi credo che sia un fenomeno meraviglioso quello per cui una persona estranea riesce a superare tutti i tuoi difetti e le tue debolezze, arrivando a toccarti il profondo dell'animo, e si affeziona a te: e di te le importa, ma le importa sul serio.
Kim è un'amica vera. E lo riconosco perché gli amici veri sono pochi, ma si intravedono immediatamente.
«Sto bene» scrollo le spalle, accennando un lieve sorriso alla ragazza. «Mi dispiace per ieri, sono completamente impazzita» mormoro a bassa voce, con una punta d'imbarazzo. Come ci si comporta quando ci si dimentica all'improvviso dell'esistenza di una persona?
«Ma figurati! L'importante è che adesso tu stia bene» mi sorride.
Kim l'ho conosciuta circa sei mesi fa. Lo so, si tratta di un tempo decisamente troppo breve e irrisorio per arrivare a considerare una persona “migliore amica”, ma bisogna sempre tenere in considerazione che, a parte lei, mia madre ed il dottor Wilson, io non ho altri rapporti con il mondo esterno. Chi socializzerebbe mai con una psicopatica?
Quindi, magari io non sarò una migliore amica per lei, ma ciò non toglie che lei lo è stata e lo è per me; indipendentemente dal tempo che abbiamo passato insieme.
«È che... ho avuto il test di fisica e poi quello di spagnolo. Ero molto stressata» spiego. Mi sento terribilmente a disagio di fronte a lei, adesso. Cerco di memorizzare per bene in testa i suoi capelli nero corvino, la sua pelle olivastra, i suoi denti bianchissimi, perché non voglio più dimenticarla. Forse è davvero un fatto di forza di volontà come dice Wilson. Vorrei prendere a calci il mio cervello per tutte le figure di merda che mi fa fare quotidianamente.
Kim mi sorride dolcemente. «Non devi giustificarti, Len. È tutto a posto, veramente. Adesso ti ricordi chi sono, no?». Abbozzo ad un sorriso, poi piego la testa ed annuisco, un po' in imbarazzo. «Questo è l'importante» replica lei tranquilla.
Sospiro leggermente: me ne vergogno molto, perché detesto perdere la memoria con lei più che con tutti gli altri; perché ho paura che prima o poi si stancherà di questa situazione, di me, della mia pazzia, e mi manderà a quel paese.
Deve essere stressante essere amica mia. Non so perché abbia deciso di diventarlo, in fin dei conti. È stata una scelta sua: l'anno scorso, dopo l'Irlanda, ho troncato i rapporti con tutti i miei ex “amici”; o meglio, sono stati loro ad aver troncato con me. In seguito ai primi episodi di amnesia hanno smesso di parlarmi, cominciando a dire in giro che ero diventata troppo strana per stare con loro.
Non è stato molto piacevole. Ma alla fine sono giunta alla conclusione che, di base, la verità è che alle persone non piaci mai veramente. E se poi hanno un motivo in più per denigrarti, allora quella è proprio la fine.


Note.
Credo che non riuscirò mai a smettere di inquinare questa sezione con le mie stronzate. E so che, pubblicando questa storia, risulterò ancora meno credibile di quanto non sono già in quanto a puntualità nel postare, ma non posso proprio farne a meno. Sono sommersa dalle mie fesserie.
Detto questo, il banner che sta sopra è stato fatto dalla bravissima
Harryhugsme che ringrazio tanto! Lo trovo meraviglioso (:
Spero che questo primo capitolo vi piaccia e, lo prometto già da subito, in questa fanfiction non ci saranno morti tragiche, ahaha
Un bacio xx

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Capitolo 2
*** Qual è la tua più grande paura? ***




 

Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente, è l'unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un'anima.
- J. Saramago

 

Uno, due.
Serro i denti e sento la fredda pioggia novembrina picchiettare incessantemente sul mio ombrello blu cobalto. Lo stringo forte sull'impugnatura, mentre mi guardo intorno alla ricerca di qualche automobile nei paraggi.
Le strade di Holmes Chapel sono deserte come al solito, per cui attraverso di corsa, le scarpe che ad ogni contatto con l'asfalto provocano un rumore fastidioso, e ad ogni squash sento i calzini inzupparsi sempre di più. Non faccio caso ad una pozzanghera accanto al marciapiede, e finisco per tuffarmici dentro con entrambi i piedi. Impreco ad alta voce ma tutto ciò che sento è l'eco della pioggia che scroscia sui tetti, sulla strada bagnata e sul mio ombrello, mentre avverto l'acqua che pervade completamente le mie Converse sgualcite da ogni parte, ed un agghiacciante brivido mi percorre la schiena.
Sento la mente annebbiata.
Tre, quattro.
I numeri. Devo stare concentrata sui numeri. Wilson dice che sono importantissimi, fondamentali addirittura. Ha detto tante cose al riguardo, cose che adesso non mi pervengono. Credo voglia che mi concentri sui numeri per mantenere il senso del reale, dell'adesso. Mi servono quando ho le mie amnesie, mi aiutano a tenere bene a mente la situazione, prima che i ricordi mi sfuggano di mano e l'oblio prenda il sopravvento. In realtà, se devo essere sincera, non so perché li sto usando, in questo momento.
Cinque, sei.
Ho litigato con mamma. Non ricordo neanche il motivo. Lei mi gridava cose e io facevo lo stesso con lei, poi ho preso giacca e ombrello e sono scappata via piangendo. È successo poco tempo fa, ma adesso pare tutto un sogno lontano e sbiadito nella mia testa. Sembrano passati anni luce.
Non sono sicura, ma credo di aver sentito dire a qualcuno, da qualche parte, che la pioggia spiazza via i brutti ricordi. Non potrei essere più d'accordo; anche se, nel mio caso, non si limita mai solo a quelli cattivi.
Forse i numeri non funzionano perché non ci metto il giusto impegno – Wilson me lo dice sempre. Mi blocco, piantando i piedi sull'asfalto bagnato, in mezzo alla strada: non so come, ma l'ombrello blu cobalto viene scagliato dall'altra parte, sul marciapiede di fronte. Pian piano la pioggia mi tocca da ogni parte, m'inzuppa i capelli, penetra i miei vestiti troppo leggeri e li fa aderire al mio corpo che ansima e trema. Picchia violenta sulla mia testa, mentre io piango con lei, sempre più forte, fino a quando i miei singhiozzi non sovrastano quelli degli scrosci d'acqua che mi circondano. Guardo il cielo scuro e nuvoloso, mentre sento le sue fredde lacrime mischiarsi alle mie, calde e dolorose, che mi bruciano il viso.
Apro gli occhi e mi guardo intorno, spaesata. La strada è familiare, ma non ho idea di quale sia la via da imboccare adesso.
Mi sono persa.
Sette, otto.
Tutto quello che desidero, ora, è dimenticare. Non aspetto altro, voglio sentire la mia mente pervasa dalla stessa foschia che adesso regna per le vie di Holmes Chapel, che mi confonde, che mi calma.
Sento i ricordi che scivolano via, e sono contenta.
Nove, dieci.


È martedì.
Ho pensato a lungo alla proposta di Wilson, quella riguardante gli incontri di gruppo con altri ragazzi; alla fine sono giunta alla conclusione che si tratti della cosa più stupida e insensata che si potesse proporre ad una come me. Già riscontro difficoltà ad aprirmi con Wilson – se quello che faccio con lui possa essere considerato “aprirsi” – figuriamoci di fronte ad un gruppo di sconosciuti della mia età, i quali disturbi psicologici probabilmente oscillano tra il gravissimo problema dell'essere in sovrappeso e l'uso eccessivo di alcool il sabato sera. Non sono fatta per stare in gruppo, io.
Finirei per detestare chiunque, e l'odio mi fa parecchio male, come sostiene Wilson stesso; odio uguale stress, e stress uguale amnesie. Ecco tutto, non posso permettermi di avere gente che mi sta sulle palle, o finisco per dimenticarmi il nome della mia migliore amica.
Quindi, un'ora fa sono giunta alla conclusione che non parteciperò all'interessantissima confraternita dei disadattati sociali di Wilson, perché sono dell'idea di non essere tagliata per queste cose.
Tutto questo, un'ora fa.
Mezz'ora fa, invece, ho cambiato idea, ho pensato che un po' m'interessa e che sono curiosa di vedere come si comporterà quel vecchio scorbutico di fronte ad una mandria di ragazzini problematici.
Sono fuori dallo studio di Wilson e – sotto suggerimento della segretaria, che ora se ne sta ad impilare scartoffie alla scrivania – busso alla sua porta, cercando di mantenere un cipiglio educato e non troppo impaziente al contempo. In realtà in questo momento vorrei scappare il più lontano possibile e non farmi vedere mai più.
Che stupida, stupida idea, quella di prendere parte a quest'idiozia collettiva.
Faccio un passo indietro, incerta. Magari faccio in tempo a tagliare la corda.
«Lena! Aspettavamo solo te. Pensavo non ti saresti fatta vedere». La porta si è spalancata, rivelando un dottor Wilson che, compiaciuto e sorridente – decisamente troppo compiaciuto, e sorridente oltre ogni suo standard abituale – mi si para davanti, polverizzando qualunque possibilità di fuga. Accidenti.
«In realtà stavo per scappare» ammetto sincera, stringendomi nelle spalle.
Lui ride e mi circonda le spalle con un braccio, spingendomi all'interno della stanza. Odio quando fa il carino: con me non ride mai, mi rimprovera, è scorbutico e maleducato; adesso, invece, sembra il prototipo dello psicologo perfetto, sorridente e gentile, ovviamente perché nel suo ufficio ci sono altre cinque persone. Mi guardo intorno spaesata, e passo in rassegna i loro volti, uno per uno. So già che li odierò tutti.
«Oh, non dire sciocchezze» mi canzona bonariamente, voltandosi verso gli altri malcapitati. Chissà quali sventure li hanno portati qui, e, in particolare, in questa seduta così stramba e improponibile. «Ragazzi, la nostra ritardataria si chiama Lena. Salutatela, da bravi».
All'inizio c'è un silenzio imbarazzante, poi qualcuno tossicchia piano o alza la mano in una sorta di saluto timido, senza accennare ad un minimo sorriso o altro. Wilson sembra comunque compiaciuto da questa calda accoglienza.
Ha disposto delle sedie in cerchio, aggiungendo ad una estremità una delle sue poltrone in pelle rossa, sopra la quale si accomoda lui stesso; forse questo per marcare il territorio, o ridefinire la linea che separa il paziente dal dottore. Lo vedo sprofondare nel suo lusso mentre noi siamo tutti seduti in pizzo alla sedia, timidi e inibiti, e mi lascio sfuggire una lieve smorfia. Non sarei mai dovuta venire qui.
Ho preso posto sulla sedia accanto alla sua poltrona, perché non conosco nessuno e ce ne vorrà molto prima che possa ricordarmi di tutti loro: in questa posizione mi sento più sicura. Anche perché mi sto pian piano accorgendo che ritrovarmi qui con queste altre persone mi fa sentire più “psicopatica” che mai. È tutto terribilmente surreale, e fa troppo gruppo di riabilitazione per alcolisti anonimi. Siamo seduti in cerchio e ci guardiamo l'un l'altra, in attesa che qualche coraggioso prenda la parola.
Magari mi farò avanti io, mostrando uno dei miei sorrisi falsi, che più mi riescono bene, e me ne uscirò con un tipico «Ciao, mi chiamo Lena, e sono ben sedici ore che non dimentico nulla». Molto teatrale. Trattengo una risata immaginando questa scena, e il tipo vestito da damerino dall'altra parte del cerchio mi squadra curioso. Fingo di tossicchiare, e scuoto la testa.
Accanto a me si è seduta una ragazza un po' in carne dai capelli chiari e gli occhi piccoli e, come apprendo in seguito alle presentazioni che ci fa fare Wilson, si chiama Taylor. Non smette di agitarsi sulla sedia, e trovo la cosa estremamente irritante. Mi rimprovero mentalmente: devo ripromettermi di non sviluppare alcun tipo di odio nei confronti di questi individui, o la terapia non servirà a nulla.
Pace, amore. Forse Wilson non fa per me, forse per superare il mio problema dovrei iscrivermi a qualche corso di yoga o di meditazione guidata, quelli in cui ti chiedono di "trovare il tuo posto felice" ed entrarci con la mente; chissà se esistono gruppi di sostegno anche per gli affetti da amnesie... ma ne dubito. Mi sforzo di pensare ai coniglietti rosa e ai pony, mentre il ragazzo dalla carnagione scura che sta accanto a Taylor si presenta: si chiama Adam, e sono sicura che, per lui in particolare, avrò bisogno di una buona dose di forza di volontà. Sembra essere incazzato nero, e sicuramente non ha un aspetto amichevole.
A seguire c'è il tipo biondo vestito come un damerino, con la camicia azzurra ed il pullover a quadri di mio nonno. Dice di chiamarsi Jean, e quando parla tutti sorridono: ha una vocetta esile, proprio come quella di un bambino. Vicino c'è Yurim, un ragazzino moro dai tratti asiatici che sorride, decisamente troppo per i miei gusti. Mi chiedo se la sua mascella abbia qualche problema. Poi, esattamente di fronte a me, c'è Harry: è un ragazzo dai ricci scuri e l'aria scorbutica e annoiata; indossa un paio di guanti senza dita, passa il tempo a tamburellare le mani sui jeans stracciati ed ogni tanto mi guarda: non so perché, non c'è niente di interessante dalla mia parte ad eccezione dell'orologio a pendolo alle mie spalle, e non mi pare di avere qualcosa sulla faccia.
Sto pensando agli arcobaleni e alle principesse, e mi obbligo a fissare il parquet sotto i miei piedi, o finirò per cedere all'odio e alla stizza, apostrofando questo ricciolino in malo modo. «Che hai da guardare?» vorrei dirgli per mettere a tacere i suoi sguardi impertinenti, ma la mia me interiore, quella calma e pacata, mi esorta a riflettere bene su quanto sia importante essere gentili con la gente. Specie qui dentro. Non vogliamo certo dare l'impressione di essere una psicolabile, non è vero Lena? Almeno non subito.
Mentre sono impegnata nella mia lotta interiore, il dottor Wilson si schiarisce la voce: «Dunque, adesso che ci siamo presentati tutti, vi propongo un gioco» dice con un gran sorriso. Vorrei fargli una foto in questo momento, giusto per avere una testimonianza, in futuro, che almeno una volta nella vita l'ho visto sorridere.
Un gioco? Quanti anni pensa che abbiamo? Non ne sono sicura, ma ad occhio e croce qui siamo tutti sopra i diciassette, fatta eccezione forse per il cinesino che continua a sorridere imperterrito, che non sembra superare i quindici, sedici anni. Vorrei domandargli cos'ha tanto da ridere, se è dallo strizzacervelli. Forse è bipolare. Tutti guardiamo Wilson con fare incuriosito, lui piuttosto incurva le labbra nell'ombra di un sorriso che ai miei occhi non è altro che terrificante; allunga un braccio fino ai piedi della poltrona, per poi afferrare una palla di spugna color giallo limone. Se la rigira tra le mani e io la osservo curiosa, chiedendomi cos'ha a che fare con il nostro piccolo gioco: è un po' più piccola delle dimensioni di una palla da basket, sembra un po' vecchiotta e le stelline che vi sono stampate sono quasi completamente sbiadite. Sembra quasi una palla per...
«Questa è la palla di Hamlet, il mio cane» esordisce Wilson, mostrandola a tutti. Ecco, appunto. Uno sguardo schifato attraversa tutti i nostri volti mentre osserviamo l'oggetto circolare che ha tra le mani, e io sinceramente non so se essere più inorridita per il fatto che abbia intenzione di farci giocare con la palla del suo animale o che abbia dato a quest'ultimo il nome del protagonista di una tragedia di Shakespeare.
«Starà scherzando, spero» sento Adam dire con fare parecchio scorbutico, e non posso fare altro che dargli ragione.
Wilson ride di gusto. «Su via, non fate gli schizzinosi! L'ho lavata e disinfettata per voi... ovviamente».
Io e gli altri ragazzi ci guardiamo negli occhi, tentennanti. È il caso di credergli?
Lui non se ne preoccupa più di tanto e continua con la sua spiegazione. «Lei si chiama Ophelia» continua, indicando la palla.
Posso decisamente affermare di essere più inorridita per il fatto che abbia dato alla palla del suo cane il nome dell'innamorata di Amleto. «Ha dato un nome ad una palla?» esordisce Taylor sconvolta, ma Wilson non le dà retta.
«Ophelia, d'ora in poi, sarà vostra amica. È tutto chiaro?» Sbaglio o quest'uomo dovrebbe curare le nostre pazzie? Sei paia d'occhi trafiggono il nostro psicologo da parte a parte, senza alcun sorriso o cenno d'assenso. Wilson, ancora una volta, non si perde d'animo e non vi presta attenzione. «Quello che voglio che facciate oggi è passarvi la palla a vicenda. Non appena Ophelia sarà tra le vostre mani, voglio che confessiate qual è la vostra paura più grande».
Adesso nella stanza è calato un silenzio tombale, che persiste anche dopo che Wilson ha tirato la palla ad Adam. Tutti abbiamo lo sguardo basso, e siamo quasi... spaventati. Devo confessare la mia più grande paura ad un gruppo di sconosciuti e l'unica cosa che voglio fare adesso è scappare il più lontano possibile da questa stanza: eppure rimango incollata alla sedia, gli occhi, insieme a quelli di tutti gli altri, fissi su Adam, che adesso si rigira Ophelia tra le mani e guarda per terra, pensieroso.
«Qual è la tua più grande paura, Adam?» intima Wilson, e lui solleva il viso per poter sostenere il suo sguardo. Lo fa con fermezza ed autorità, e per un attimo sembra quasi furioso, come se avesse voglia di alzarsi e strangolare l'uomo che gli sta di fronte. Ma il secondo successivo questa sensazione va via, e penso di averlo soltanto immaginato. Questo ragazzo mi dà i brividi.
«Io...» stringe un po' di più la palla tra le dita tozze, e lo vedo serrare la mascella «ho paura del passato» ammette infine nel silenzio assoluto della stanza, e Wilson sorride compiaciuto.
«Bene, passala a qualcun altro» intima, e lui porge la palla a Jean che è il suo vicino.
Il biondino deglutisce e si guarda intorno, prima di scrollare un po' le spalle, quasi come a scusarsi di quello che sta per dire. «Ho paura di me stesso» ammette, e mi lancia la palla, rivolgendomi un sorriso incoraggiante che non ricambio.
Osservo Ophelia che adesso è tra le mie mani, confusa. Vorrei dire tante cose, perché a dire la verità non credo di avere una paura più grande delle altre, credo di essere fatta da tante piccole paure che mi rendono inesorabilmente quella che sono; vorrei dire che ho paura dei ragni, dei terremoti, del futuro, della routine, delle automobili che vanno troppo veloce, delle persone, dei ricordi, della violenza, ma se ci penso bene preferirei starmene zitta e passare il mio turno, perché l'ultima cosa che voglio è permettere che degli sconosciuti scavino a fondo dentro di me.
«Oblio» dico in un sussurro stentato rivolta ad Ophelia, prima di sollevare lo sguardo e guardare Wilson, e con voce un po' più sicura stavolta ripeto: «Ho paura dell'oblio» e prima che possa essermene accorta ho passato la palla ad Harry, di fronte a me. Anche lui adesso guarda l'oggetto che ha per le mani, ed un attimo dopo lo vedo sollevare lo sguardo per incrociare il mio, confuso: aggrotta le sopracciglia e nei suoi occhi vedo una domanda inespressa, come se non si sarebbe aspettato che avrei tirato Ophelia a lui. Il mio è stato un gesto incondizionato.
«La paura» sillaba poi piano e per la prima volta sento la sua voce, calda e roca, che accarezza quelle parole quasi con timore. Socchiudo le labbra sorpresa, e Wilson inarca un sopracciglio, visibilmente stupito. Fino ad ora nessuna delle nostre risposte lo ha spiazzato come ha fatto Harry, anzi, sembrava quasi aspettarsi ciò che abbiamo detto; come se potesse anticipare le nostre mosse. Con lui, invece, non è così: non si aspettava di sentirlo dire una cosa del genere e ne è sorpreso, ma in un senso buono. È quasi contento – non che questo sia un buon segno, Wilson riesce a rallegrarsi per i motivi più strani.
«Hai paura... di avere paura?» domanda l'uomo accarezzandosi la barba, come fa sempre quando un argomento comincia ad interessarlo per davvero.
Harry annuisce piano; con noncuranza lancia Ophelia dall'altra parte della stanza, senza neanche guardare, e sarebbe finita a terra se Yurim non si fosse sporto di lato per afferrarla. Lui teme di sbagliare, mentre la più grande paura di Taylor sono i giudizi.
Non facciamo in tempo a riprenderci da questo gioco stupido, insensato ed imbarazzante, che Wilson riprende a parlare: «Bene, chi vuole cominciare a spiegarci la propria paura?» Nella stanza cala un gran silenzio. Yurim tossicchia, ed Adam si guarda intorno fischiettando leggermente.
«Lena, vuoi cominciare a parlarci di te?»
«Eh?» sobbalzo, ed Adam ridacchia nella sua sedia. Gli lancio uno sguardo assassino, prima di voltarmi verso Wilson, completamente spaesata dalla sua domanda.
«Ho detto» ripete in un tono calmo e pacato, lo stesso che si usa con i bambini «ti andrebbe di parlarci della tua paura? Perché proprio l'oblio?».
Lancio un'occhiata fugace al resto del gruppo, che mi scruta curioso. E io dovrei essere la prima a parlare di me, dell'Irlanda, delle mie amnesie, aprendomi completamente a questa combriccola? Scuoto la testa, lentamente. «In realtà...» balbetto, accarezzandomi la nuca, un po' in imbarazzo. «In realtà preferirei di no».
Guardo Wilson in quei suoi occhi scuri e tetri, e per un istante, ma uno solo, riesco a cogliere quell'ombra di disappunto che mi ricorda tanto il Wilson che vedo durante i nostri colloqui individuali.
Il momento successivo, però, sembra già essersi rilassato. «Non importa. Se non te la senti, non importa» si volta verso gli altri. «Qualcuno che voglia dare inizio al nostro dialogo? Andiamo, non vi mangiamo mica».
Sembra passare una quantità considerevole di tempo, nel quale ticchetto leggermente con le dita sui miei jeans scuri, prima che Jean alzi la mano timidamente.
Wilson sembra risvegliarsi da un sonno profondo. «Sì, Jean. Vuoi parlarcene tu? Perché hai paura di te stesso?».
Mi volto verso il ragazzo biondo che adesso esita, un po' insicuro. Cerco di sorridergli come posso, voglio incoraggiarlo. Ho appena deciso che, tra tutti i sociopatici che ho attorno, lui è quello che preferisco: sembra un bambino piccolo e, nonostante abbia le fattezze di un ragazzo di diciott'anni o giù di lì, il suo viso gracile potrebbe facilmente ingannare.
Si schiarisce la gola e, un po' in tensione, mormora poche parole, quasi sussurrate: «Io... io, ecco, sono gay» afferma con decisione, e nello stesso istante con la coda dell'occhio vedo Harry sogghignare.
Immediatamente lo fulmino con lo sguardo, rimproverandolo, e, al contrario di come mi aspetto che faccia, lui sostiene la mia occhiata con tranquillità. Sembra quasi divertito da tutto ciò, e rimane a fissarmi più del dovuto. Sbuffo irritata e scosto lo sguardo, tornando a prestare attenzione a Jean.
«L'ho capito quando avevo quattordici anni» dice «ma l'ho detto ai miei solo due anni dopo. A scuola tutti mi prendevano in giro, e lo fanno ancora: per come mi vesto, il modo in cui mi atteggio, per quello che dico. Mi piacerebbe cambiare per piacere a loro... davvero; e ho provato, più volte, ma non ci riesco. Perciò ho cominciato ad odiarmi, perché penso di essere sbagliato, di essere...» Jean si blocca, ed intravedo un luccichio nei suoi occhi. Sta piangendo? «...un errore» sibila piano, tanto che devo farmi in avanti col busto per riuscire a cogliere le sue parole. «A scuola alcuni ragazzi mi picchiano. Mio padre pensa che io sia una femminuccia perché non rispondo, ma la verità è che non riesco proprio! Man mano che vado avanti mi accorgo che le possibilità, per me, sono sempre di meno. E man mano che vado avanti la mia voglia di vivere diventa sempre minore. Ecco perché ho paura di me, perché non sono altro che una cosa fatta male, sbagliata!» sibila seccamente, e riesco ad udire tutta la sua amarezza in quelle parole tristi.
Adesso siamo tutti impietriti, con le mani sulle ginocchia e la testa bassa, mentre le parole di Jean ci rimbombano in testa come in un replay infinito. Errore è la parola che è penetrata nella mia pelle, e la sento da ogni parte, dalla punta dei capelli alle dita dei piedi. Per un attimo anch'io mi sento un errore, e per un attimo capisco cosa prova Jean: ripudio e completo odio nei confronti di se stessi.
«Bene» pronuncia Wilson, seguita la nostra breve pausa di riflessione. «Ragazzi, avete qualcosa da dire a Jean?» ci chiede, e poi quasi automaticamente guarda me. Ovvio. In qualche modo deve punirmi, no?
Mi schiarisco la gola, mentre tutti gli sguardi adesso passano a me. «Io vorrei dirti che “errore” è una parola grossa» comincio, non del tutto certa di dove questa affermazione mi porterà (probabilmente a qualche gaffe colossale) «che non è vero che sei uno sbaglio, perché nessuno di noi lo è. Forse è un po' cliché, ma la verità è che le cose più ripetute a volte si dimenticano. Insomma, tu sei tu, e io credo che questo basti. Non c'è bisogno di altre cose per renderti speciale o particolare o normale. Vai bene così» rivolgo un sorriso incoraggiante a Jean, e nello stesso istante Wilson sembra emettere una sorta di sospiro divertito.
Jean ricambia il mio sorriso, grato. «Grazie, Lena».
«Taylor?» Wilson si rivolge alla ragazza accanto a me, che scuote la testa e si stringe nelle spalle. Non ha niente da dire. Wilson passa avanti, e neanche Adam sembra aver voglia di proferir parola.
«Per me non ti devi far mettere i piedi in testa» comincia Yurim, alla sinistra di Jean. «Quando quei tipi vengono da te per menarli... menali anche tu. E se proprio non riesci, scappa, vai dal preside, non so, ma fai qualcosa. Non puoi subire passivamente quello che ti fanno, perché è una pura sottomissione volontaria». Ho appena deciso che Yurim mi piace. Sembra intelligente nonostante la sua età.
Harry in un primo momento sembra sul punto di parlare: si sfrega le mani coperte da quei guanti senza dita ed emette qualche colpo di tosse, poi si blocca guardandosi intorno. Guarda Wilson, poi me, poi Taylor e tutti gli altri. Il suo sguardo all'improvviso sembra essersi fatto incredibilmente triste, ed io non so che dire né pensare, perché di fronte a quegli occhi così chiari eppure così frustrati non riesco a pensare a quanto sia fastidioso.
Semplicemente, si rivolge a Wilson e scuote la testa.

 



Note.
Eccomi tornata con un nuovo osceno capitolo. Forse è perché in questi giorni c'è più caldo del solito, o forse perché questa mattina sono caduta all'indietro in cucina e ho sbattuto la testa contro la maniglia della porta (ha fatto parecchio male, ve lo garantisco) ma continuo a scrivere stronzate su stronzate. Apart from that, spero che, tutto sommato, questo capitolo vi sia piaciuto. 

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Inoltre, vi consiglio di passare a leggere questa fanfiction perché è davvero carina e ben scritta:

    

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Adesso vi lascio, con un'immagine dell'amato dottor Wilson ed una piccola preview del prossimo capitolo: 

Taylor, invece, si acciglia. «Harry? Harry Styles?»
Annuisco. «Sai qualcosa di lui?»

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Capitolo 3
*** Gente da buttare ***



 


Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre, però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro.
- L. Tenco




È il tramonto.
Il tramonto mi piace. Oserei dire che è il mio momento preferito della giornata, il momento in cui il sole crolla dietro ai palazzi. Mi piace guardare il cielo che bacia la terra, osservare meravigliata il momento magico in cui luce e buio s'incontrano, in uno strabiliante connubio di colori improbabili. È l'inizio della fine.
Credo che il tramonto sia così speciale perché è un attimo solo, irrisorio e passeggero: giusto pochi minuti prima che le tenebre prendano il sopravvento e si aprano nella notte. Mi piace cogliere quest'attimo con gli occhi che brillano mentre i colori più belli si mischiano nel cielo.
Tramonto è pace. È solitudine.
Io sono alla stazione, seduta sui binari del treno. Da sola. Osservo il mio momento preferito nel mio posto preferito, e mi lascio andare all'oblio della mente.
È sempre difficile mantenere tutto in testa, ricordare ogni singola cosa: come tirare di continuo un elastico corto, come tenere dei pantaloni troppo stretti tutto il giorno. Ogni tanto mi capita di sentire il bisogno di lasciar andare l'elastico.
Chiudo gli occhi, e dimentico: dimentico le nozioni imparate a scuola, la strada di casa, Kim, mia madre... dimentico me stessa.
So che non dovrei farlo, e che se continuo in questo modo non guarirò mai e poi mai. Wilson ha già capito che il mio è anche un problema di forza di volontà, e forse per questo è sempre così deluso dai miei scarsi sviluppi. Perché spera che io faccia qualcosa per me stessa.
Eppure quando guardo il tramonto seduta sui binari della stazione abbandonata di Holmes Chapel, non posso fare a meno di abbandonarmi al lusso del dimenticare, e mi lascio annebbiare da una foschia che ha gli stessi colori del tramonto.
L'unica cosa a cui penso è Jonah. Penso a quanto gli piacerebbe la visione di questo spettacolo, a quanto sarebbe bello passare ancora i nostri pomeriggi seduti su questi binari mentre mangiamo gelato al cioccolato, penso a quanto mi manca. I suoi occhi azzuri e vispi, le fossette che si formavano sulle sue guance ogni volta che sorrideva sono vividi nella mia mente ancora oggi, come segnali di fuoco, e so che non riuscirei a dimenticarlo mai, neanche se volessi.
Questo era il nostro posto preferito: ci venivamo nei pomeriggi torridi d'estate per godere dell'ombra della copertura sulla panchina accanto ai binari, della solitudine e del silenzio che ci avvolgevano.
Era bello. Era bello poter confidare in lui, potergli raccontare la mia giornata ed i miei problemi, e lui ci rideva sopra, perché gli era difficile capire, perché per lui era tutto più semplice e facile: ma mi ascoltava ugualmente, fornendomi i suoi piccoli consigli, forse un po' ovvi ma sempre tanto apprezzati.
Quando mi risveglio, è già sera. Il momento magico del tramonto è passato anche per oggi, e così tutti i ricordi di Jonah scivolano via lentamente, in un angolo remoto della mia mente. La notte sta arrivando, e devo tornare a casa. Mia madre si stara già chiedendo dove diavolo sono finita. Asciugo alcune lacrime dalle guance e mi alzo in piedi, per poi dirigermi verso casa.
Non ho molta fretta, e neanche troppa voglia di tornare: questa volta scelgo la strada più lunga, per poi prendere il passaggio tra il campetto da calcio e le villette residenziali.
Mi fermo accanto alla rete del campo, per osservarne l'interno. Jonah veniva sempre a giocare a pallone con i suoi amici. Ricordo ancora le domeniche passate a fare il tifo su quegli spalti.
Ogni tanto torno qui, semplicemente per dare un'occhiata: vedere i nuovi ragazzini che si divertono a giocare, proprio come faceva Jonah, mi fa tornare il sorriso. Mi ricorda che, per quanto sia triste, la vita va avanti, che le cose cambiano e nessuno si blocca ad un momento preciso.
Tranne me, ovviamente.
Adesso però è tardi, e l'unica fonte di luce che rischiara il posto è quella dei pallidi lampioni che circondano il campetto: i ragazzini che giocano abitualmente qui saranno andati via già da un pezzo, dopo le preghiere dei genitori i quali, stanchi di stare in questo piccolo campetto fino a tardi, li avranno trascinati con la forza a casa per fare una doccia. Però ci sono altri ragazzi, in un angolo del campo: stanno seduti sugli spalti più bassi in un luogo ben riparato dagli occhi indiscreti, eppure io li vedo lo stesso. Loro non sono ragazzini come quelli che vengo a vedere il pomeriggio, loro sono della mia età, se non addirittura più grandi. Alcuni sono occupati a fare qualche graffito sul muro vicino con delle bombolette spray, mentre altri ridono e schiamazzano, fumando roba che da qui non riesco a distinguere. Li osservo per un po', incuriosita.
Nell'esatto momento in cui sto per distogliere lo sguardo e proseguire per la mia strada, uno di loro si volta dalla mia parte e riesco a riconoscerlo: è Harry, il ragazzo riccio ed impertinente che durante l'incontro da Wilson mi fissava. In una mano tiene una birra, mentre nell'altra quella che all'apparenza non sembra esattamente una semplice sigaretta. Solo quando salgo con lo sguardo sul suo volto noto che anche lui sta guardando me; il modo in cui lo fa mi suggerisce che non sono gradita qui. Eppure mi osserva quasi con insistenza e curiosità, come se cercasse di scavarmi dentro e, al contempo, m'intimasse di scappare. Non saprei, sono confusa. E mi mette così in soggezione che sento le guance avvampare, e so di stare arrossendo.
Senza riflettere oltre, mi volto e corro via.



«Quel pollo sembra buono».
Sollevo lo sguardo dal piatto per ritrovarmi addosso gli occhi scuri di Kim, che mi fissano con fare indagatorio. Le sue occhiate scivolano da me al piatto, e vice versa. So perfettamente cosa sta per dire.
«Non mangi?» ripetiamo insieme, io in un tono sarcastico e canzonatorio, lei con fare apprensivo e con il suo solito sguardo preoccupato.
Mi lancia un'occhiata.
Scrollo le spalle. «Non ho molta fame» ammetto.
Lo so, il pollo sembra buono; in fondo, nonostante le numerosissime pecche della nostra scuola, la mensa fa parte di quelle poche cose che funzionano in maniera decente e – il più delle volte – il cibo è accettabile. Il pollo di oggi è, senza ombra di dubbio, uno dei pasti più invitanti mai serviti dalle enormi manone della signora Wycliff, ragion per cui non è certo l'aspetto che mi porta a giocherellare con la forchetta con i pezzi che ho tagliato ma mai assaggiato.
E Kim se n'è accorta.
«Che c'è che non va?» domanda, con la sua solita voce da madre apprensiva; le mie labbra si piegano in una smorfia, mentre continuo a tenere lo sguardo basso sui resti del povero pollo che ho torturato per quest'ora.
«Non c'è niente che non va» borbotto, con fare un po' isterico. «Ho solo un gran mal di pancia, una verifica di storia alla prossima ora e la mia penna preferita che ha appena esaurito l'inchiostro».
E Harry Styles che mi fissa da almeno dieci minuti dall'altra parte della sala.
Kim ride, rilassandosi. «Se ti calmi e mangi qualcosa il mal di stomaco passerà, e ti presto io una penna. Stai tranquilla, la verifica andrà benissimo; devi solo rilassarti!».
Kim è troppo positiva per i miei gusti. Vede sempre il lato bello delle cose, e per me è sbagliato perché il più delle volte l'ottimismo non porta ad altro che alla delusione. Per me l'ottimismo non serve a nulla, perché in ogni caso precipito sempre nel fondo, oltre ogni orribile prospettiva pessimista.
Sollevo leggermente lo sguardo dal libro di storia che ho accanto, azzardando un'occhiata verso l'altra parte della mensa. Harry ha smesso di fissarmi, e ora ride e scherza con i suoi amici. Sospiro di sollievo.
«Lena!» sposto lo sguardo dalla massa di capelli ricci verso la mia sinistra, dove, poco lontano, vedo Taylor in piedi con un vassoio in mano, che mi saluta sorridente.
Le sorrido, facendole cenno di sedersi con noi, e lei non sembra aver voglia di farselo ripetere un'altra volta.
Si siede accanto a me, e mi accingo a fare le presentazioni. «Taylor, lei è Kim, la mia migliore amica. Kim, lei è Taylor, noi...» sbatto le ciglia, lasciando la frase in sospeso. Cerco nello sguardo di Taylor una sorta di suggerimento, mentre balbetto in imbarazzo.
«...andiamo insieme dallo strizzacervelli» completa Taylor per me con un sorriso noncurante, e sia io che Kim non possiamo fare a meno di ridere. È divertente.
«Allora come va, Taylor?» domando con un sorriso inusuale stampato sul volto. Sono contenta che sia venuta a salutarmi. Mi fa sentire, in qualche modo, meno diversa. Meno strana. Meno “psicopatica”.
La bionda si stringe nelle spalle, con indifferenza. «Abbastanza bene, se non fosse per la B di chimica che mi ha tirato un po' giù, oggi».
Sollevo entrambe le sopracciglia. «Vuoi scherzare? Io non riuscirei a prendere una B in quella materia neanche nei miei sogni più sfrenati».
Taylor ride. «Lo so, è che sono un po' fissata con i voti... lo riconosco» fa una smorfia, mentre le sue guance s'imporporano leggermente.
«Dai, niente che non sia recuperabile» le sorride Kim. «Dopo tutto siamo ancora a Novembre. Ehi, ma tu l'anno scorso non eri al club di teatro del professor Spencer?» domanda poi indicandola e corrugando le sopracciglia.
«Sì, ricordo che c'eri anche tu» ammette Taylor. «Ho seguito solo i primi mesi però, poi ho smesso».
Kim annuisce. «È vero... perché non sei più venuta?» chiede in un tono disinteressato, mentre è intenta a sbucciare una mela.
«Diciamo che non apprezzavo più certi commenti» Taylor si stringe nelle spalle, ed io corrugo la fronte.
«Che tipo di commenti?».
«Solitamente mi prendono in giro per, sai... il mio peso. E l'anno scorso, a quel corso in particolare, c'era un gruppetto che proprio non mi dava pace. Così è diventato impossibile frequentarlo, ed ho preferito rinunciare, optando per qualcos'altro».
Taylor ha paura dei giudizi.
«Oh» sbatto le palpebre lentamente, mentre cerco di metabolizzare; ciò che mi ha colpito di più è il tono con cui Taylor ha parlato: con tranquillità, come se stesse descrivendo una giornata al parco, o come se ci stesse spiegando che il motivo per cui aveva deciso di cambiare corso era una semplice coincidenza di orario. Come se fosse un normale incidente di percorso.
«È vero, mi ricordo di come ti trattavano quegli idioti» s'intromette Kim, con un sospiro triste, e la vedo raccogliere le sue cose dal tavolo.
Taylor sorride, guardandoci. «Oh, non vi preoccupate per me! Non è nulla, ormai sono abituata».
Kim le rivolge un lieve sorriso malinconico, prima di lasciarmi una pacca sulla spalla. «Devo passare in segreteria, per cui ci vediamo dopo. Buona fortuna con il test» annuncia, prima di salutarci sventolando la mano ed allontanandosi verso l'uscita della sala, ancora gremita di gente e di rumori di posate.
«Non dovresti».
Taylor mi guarda curiosa e confusa al contempo, mastica il suo pasticcio di carne con riluttanza. «Scusa?».
«Non dovresti essere abituata a quei commenti che ti fanno» spiego, seria.
«Oh, ma ormai non ci faccio più caso».
«E questo è male!» ribatto severa a denti stretti. Sono quasi... arrabbiata.
«Lena, credimi, se fossi al posto mio faresti lo stesso. Non è così facile reagire quando tutti sono contro di te. Quando chiunque ti venga incontro ti squadra dalla testa ai piedi con espressione di disgusto, come se non fossi degno di andare in giro, di stare in mezzo a loro. È impossibile reagire quando il complimento più grazioso che hanno da farti è “balena bianca”. E se tu fossi in una situazione come la mia, Lena, ti abitueresti anche tu» Taylor sospira stancamente, ed io torno a balbettare, perdendo ogni traccia di audacia nella mia voce.
«Mi- mi dispiace» abbasso lo sguardo.
«Non fa nulla» la ragazza si stringe nelle spalle e si limita a sorridermi debolmente, come ad assicurarmi che è tutto a posto comunque.
«È per questo che vai da Wilson?» domando, la voce più piatta e debole.
Taylor sospira, prima di annuire. Mi sento mortificata, e lei mi poggia una pacca sulla spalla. «Non fa niente, dai. Ognuno ha la propria» cerca di sorridere, e poi scuote la testa. «Siamo un gruppo di psicopatici incalliti!».
Ridacchio. È vero. «Siamo tutti così strani» osservo.
«Jean l'altro giorno è stato così coraggioso, ammiro quello che ha fatto» nota Taylor, ed io mi ritrovo a darle ragione. «Deve essere così difficile per lui... A volte mi sento stupida, io sono solo sovrappeso».
Annuisco. Riesco a comprendere perfettamente ciò che vuole dire. «I tuoi problemi ad un tratto sembrano una nullità rispetto a quelli degli altri» mormoro, più rivolta a me stessa che a lei. E improvvisamente penso che, in fondo, Wilson forse ci ha visto giusto. Ridimensionare i propri problemi, sono sicura che questo sia uno degli obiettivi a cui mira con questi strambi incontri.
«E che mi dici di Harry?» domando di punto in bianco, ed il mio sguardo scivola quasi automaticamente a quell'ala della mensa, e a quel tavolo in particolare che adesso è sgombro.
Taylor, invece, si acciglia. «Harry? Harry Styles?».
Annuisco. «Sai qualcosa di lui?».
La ragazza si stringe nelle spalle. «Non so molto. Pensavo fosse uno di quei soliti teppisti che se ne vanno in giro la sera a drogarsi a destra e a manca... Ma evidentemente c'è qualcosa dietro. Non avrei mai immaginato di vederlo dal dottor Wilson».
«L'ho visto, l'altra sera. Al campetto da calcio... Non sembrava per nulla in ottima compagnia».
Taylor ride. «Certo che non lo era! Se ne va sempre in giro con gente come Zayn Malik o Niall Horan... quelli sono pericoli pubblici, non lo sai?».
Mi mordo il labbro inferiore, pensierosa. No, a dire il vero non lo so. E non so neanche chi diavolo siano questi due che Taylor ha appena nominato, perché non conosco proprio nessuno in questa scuola. Certo, ho sentito dire i loro nomi parecchio in giro e spesso sono associati a vetri rotti e loschi traffici, ma non riesco proprio a visualizzarli.
La bionda si accorge del mio sguardo perso e mi spiega, paziente. «Oh Lena, quelli non sono altro che ragazzacci. La combriccola di Styles, Malik, Horan e degli altri... è piena di mele marce. Passano il loro tempo a scrivere sui muri e rompere vetri alle auto. Una volta ho pure sentito dire che hanno arrestato alcuni di loro perché avevano rubato una macchina, a Manchester. È gente da buttare!».
Annuisco, senza proferire una parola. Poi lei cambia argomento, l'ascolto parlare e parlare di qualsiasi cosa: delle nuove divise scolastiche che stanno progettando, del giornalino che fallirà sicuramente il mese prossimo se non si trovano dei fondi, dei nuovi esperimenti del club di scienze. Sembra così interna alla vita della scuola, come se le interessasse davvero. Le interessa? Un po' la invidio, perché per me tutto quello che mi circonda sembra così lontano e irraggiungibile. Anche la scuola.
Taylor mi piace. Penso che potremmo diventare amiche, o almeno lo spero – sempre che a lei faccia piacere passare del tempo con una come me.
Il resto della giornata scorre in fretta, tra una verifica di storia durante la quale le mie capacità mnemoniche, tanto per cambiare, decidono di spegnersi, ed una spiegazione noiosissima di trigonometria.
Mentre torno a casa, non posso fare a meno di rimuginare sulla conversazione avuta con Taylor; e più ci ripenso, più mi sorgono nuovi dubbi. Perché Harry, a prima vista – forse sono stati i suoi profondi occhi cerulei, forse le sue guance da bambino, oppure i suoi ricci disordinati – non mi era sembrato un cattivo ragazzo; perché non riesco a capire il motivo delle sue continue occhiate e perché, per quanto mi possa sforzare in questo pensiero così contorto e confuso, e per quanto Taylor possa apparire una ragazza sveglia e intelligente, non riesco ancora a trovare quel metro di misura che stabilisce quando la gente è “da buttare”.




Note.
Salve! Questo capitolo è un po' stupido e soprattutto di passaggio, quindi non è nulla di speciale e non succede niente. Il prossimo magari, da questo punto di vista, sarà più interessante perché ci sono più sviluppi (: Spero che la figura di Taylor vi sia piaciuta, personalmente è un personaggio che adoro e magari adesso ancora non si capisce, ma più avanti nei capitoli avrò l'opportunità di parlare più di lei, e lo stesso vale per Kim.
Intanto, se per caso non avete niente da fare, ho postato una one shot originale abbastanza corta, se vi va di leggerla questo è il link.
Ringrazio tutti per le recensioni, e chiunque segue/preferisce/ricorda o semplicemente legge questa storia. Siete adorabili. Vi lascio con una preview del prossimo capitolo, as usual. Un bacio a tutti! Carla xx

 

«Perché hai paura di me, Lena?»
«Perché mi sembri un ragazzo cattivo»



 

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Capitolo 4
*** Un bravo ragazzo cattivo ***



 

 

E se ti innamori anche del peggio di una persona, sei spacciato.
- G. D'Orazio



 

Sono fermamente convinta che, da qualche parte dentro di me, ho sempre saputo che ad un certo punto della mia vita avrei finito per essere una psicolabile con disturbi mentali vari. Fin da piccola, e cioè da quando i miei passatempi preferiti consistevano nel saltare su e giù sul mio letto e camminare per strada facendo attenzione a non calpestare le giunture delle mattonelle, ero perfettamente consapevole del fatto che sarei diventata un'adolescente parecchio disturbata. Per forza: se no che razza di motivo avrei per salire nella macchina di Adam Walker senza fare una piega?
Il sedile è scomodo, l'abitacolo puzza di fumo e non appena mi rendo conto della cazzata che sto facendo vengo pervasa dall'istantaneo bisogno di aprire la portiera e scappare il più lontano possibile. Ma, si sa, la mia testa bacata, nel farmi ragionare, ha un tempismo peggiore del Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie: quando sto per catapultarmi fuori dall'automobile con la scusa meno credibile del mondo, avverto la portiera dalla parte del guidatore aprirsi e qualche secondo dopo Adam è alla mia destra e infila le chiavi nella toppa, e il cuore mi martella contro il petto.
In fin dei conti è stato gentile, lui. Quando siamo usciti dallo studio di Wilson mi ha vista incamminarmi da sola sul marciapiede e mi ha offerto un passaggio, proprio come una persona civile. Il punto è che di Adam non mi fido, che ho provato un fastidio a pelle nei suoi confronti dal primo istante che l'ho visto; il punto è che ho notato le sue fugaci occhiate omicide nei confronti di tutti, quando pensa che nessuno lo stia a guardare: è come fuoco che gli attraversa le pupille, in un attimo, e poi tutto passa velocemente e lui torna ad assumere il suo sguardo indifferente e annoiato. Ma io lo vedo. Il punto è che ho paura di Adam: sembra il tipo di ragazzo che con te potrebbe farci qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Sembra... pericoloso.
Eppure io gli ho mostrato un sorriso falso e l'ho ringraziato per il passaggio, surclassando Miss Stupidità in persona. Come si dice, quando un ragazzo ha tutta l'aria di essere uno stupratore, tu... non perdere tempo e sali in macchina con lui!
Devo calmarmi. Adam è solo un ragazzo un po' misterioso, non mi farà nulla. Cerco di convincermi e nel frattempo visualizzo arcobaleni e coniglietti rosa. Va tutto bene.
«Certo che Wilson è schizzato» Adam riempie il silenzio – parecchio imbarazzante, mi accorgo solo adesso – che fino a poco fa regnava tra di noi.
Lascio cadere le mani sulle ginocchia ed annuisco piano. «Oggi sembrava un po' su di giri» ammetto lasciandomi andare ad un lieve sorriso. Wilson e Ophelia oggi ci hanno proposto l'interessantissimo gioco del "Raccontami il tuo ricordo più bello e poi spiega per quale motivo per te è così importante"; in tutto questo, per qualche arcano motivo, il nostro psicologo non la smetteva di ridacchiare, come se ad ogni nostra parola o ad ogni lancio di Ophelia udisse una barzelletta divertente. Forse, ancora una volta, rideva di me.
«Per me gli serve una scopata» sento Adam ridere alla sua stessa battuta ed io non posso fare a meno di fare altrettanto, di fronte alla visione di un dottor Wilson frustrato perché in astinenza.
«Beh, ha sua moglie in casa... Sono certa che può soddisfare i suoi desideri ogni volta che vuole» ribatto rilassandomi un po' sul sedile.
Adam, tuttavia, scuote la testa. «Non lo sai? Wilson ha divorziato da poco».
Socchiudo le labbra, in un'espressione sorpresa. «Dici sul serio?» domando sconvolta, le immagini di quella bella donna dai capelli biondi e lucenti e dal sorriso gentile che ogni tanto vedevo seduta nella sala d'aspetto del dottor Wilson che bombardano la mia mente in quest'esatto istante. Mi salutava sempre con fare cordiale, e ogni volta che la vedevo mi domandavo come diavolo facesse una persona così a stare con un tipo come Wilson.
Evidentemente ha cominciato a porsi questa domanda anche lei. Quando Adam annuisce alle mie parole, confermando tutto, mi scopro incredibilmente dispiaciuta per il mio psicologo, più di quanto avrei mai immaginato di essere. Forse, in fin dei conti, ho cominciato a stringere una sorta di legame con lui: non sono certa che si tratti d'amicizia, d'affetto o di odio – anzi, a ripensarci si tratta decisamente di quest'ultimo – ma sono convinta che sia stato proprio il legame costruito con lui in questi mesi di terapia a farmi provare compassione nei suoi confronti.
«Mi dispiace» mi ritrovo a dire in un sussurro, le dita incrociate in grembo e le labbra serrate.
Adam annuisce, «Già, anche a me» e si inumidisce il labbro inferiore, concentrato sulla strada di fronte a noi. «Soprattutto perché sfoga tutta la sua frustrazione sui poveri pazienti!» e stavolta non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risata, sincera e liberatoria. Il suono della mia voce invade l'abitacolo e presto si unisce anche lui a questo mio piccolo momento di ilarità.
«Perché hai paura di me, Lena?» smette di ridere ma sorride ancora, e mi spiazza.
Resto ad osservarlo un istante, incerta. «Perché mi sembri un ragazzo cattivo» ammetto tentennante, e sento la sua risata forte e vigorosa spezzare questo momento di tensione.
«E cos'hanno i ragazzi cattivi che non va?» domanda incuriosito.
Mi stringo nelle spalle. Per quale assurdo motivo adesso stiamo discutendo di questo? «Non so, mi hanno sempre insegnato a temere le cose cattive».
Il suo sorriso breve e conciso mi suggerisce che non è offeso, solo divertito dalle mie ultime parole. «Non preoccuparti, Lena Hawkins. Ti assicuro che io sono un bravo ragazzo cattivo».
Sollevo un angolo delle labbra; forse dovrei rivalutare Adam, in fin dei conti è stato gentile con me... ed è anche simpatico. «Fermati qui» sento la mia voce pronunciare mentre mi accorgo in che punto siamo arrivati.
Adam aggrotta le sopracciglia ma non accenna a fermarsi. «Qui? Ne sei proprio sicura?» mi domanda confuso guardandosi intorno, probabilmente in cerca di case o altri complessi residenziali che qui non ci sono. Solo un supermercato, alcuni uffici ed un campetto da calcio, accanto al quale gli intimo di posteggiare.
«Sono sicura» affermo decisa, annuendo con forza. «Mi... mi va di fare una passeggiata».
Il ragazzo alla mia destra inarca un sopracciglio. «Lena, questa non è esattamente una bella zona in cui fare una passeggiata» dice in un tono po' diffidente lanciando un'occhiata fuori, verso i ragazzi che stanno sugli spalti del campo da calcio. «Guarda che posso tranquillamente accompagnarti fino a casa, non ci vuole niente...»
Gli sorrido e scuoto la testa. «No, davvero. Grazie del passaggio, Adam» dico infine mentre apro la portiera e scendo dalla macchina; una volta chiusa lo vedo sporgersi un po' di più verso il finestrino.
«Sta' attenta, okay? Non sono tutti bravi ragazzi cattivi come me!» scherza ma sembra sinceramente preoccupato. Mi sembra così strano. Io scuoto la testa tranquilla, come a volerlo rassicurare che starò bene, e rimango ferma per qualche istante mentre guardo la sua Volkswagen grigia sparire dietro l'angolo.
Mi fermo a pochi passi dalla rete che dà sul campetto da calcio. Stavolta c'è solo una coppia di ragazzi all'interno, e nessuno dei due è Harry. Un moro dalla carnagione scura è intento a completare uno strano disegno con la bomboletta spray sul muro accanto agli spalti, e un biondino lo osserva e gli parla mentre si fuma una sigaretta. Vengo improvvisamente colta da un moto di delusione, e non faccio neanche in tempo a litigare con me stessa sul perché effettivamente io sia delusa, che una terza figura si unisce alla scena. I ricci scuri ondeggiano ad ogni suo passo mentre si fa avanti e saluta gli altri due sbattendo i pugni contro i loro: socchiudo leggermente le labbra, osservando la sua figura slanciata. L'ho visto poco fa da Wilson, e, anche se farei meglio ad essere infastidita da lui e dalle sue continue occhiate antipatiche, non posso tuttavia fare a meno di esserne rapita.
Resto ad osservarlo per un po', studio i suoi movimenti, il modo in cui tira la testa all'indietro quando ride, in cui si scompiglia i capelli, in cui fuma la sigaretta che il biondo gli ha passato con riluttanza. Non mi chiedo perché faccio tutto questo, so che non vorrei udirne la risposta: rimango qui e basta, come un'impalata in piedi di fronte alla rete di cinta del campetto, che osservo a mo' di stalker le azioni del riccio. Almeno fino a quando il biondino non incrocia il mio sguardo: lo sostiene per un po' e poi aggrotta le sopracciglia, confuso; si rivolge ad Harry ed indica dalla mia parte. A questo punto dovrei scappare a gambe legate come da copione, far finta di essere solo di passaggio e non di starli osservando da almeno dieci minuti. E invece, da brava idiota quale sono, rimango ferma mentre un Harry Styles confuso – e anche parecchio incazzato, aggiungo mentalmente – si dirige dalla mia parte, e ad ogni suo passo il mio cuore perde un battito. Lo osservo cercando di assumere lo sguardo più duro ed indifferente che possa mettere su e sostengo il suo, che balena su di me, da capo a piedi. Si blocca ad un paio di metri, ed io guardo il suo corpo attraverso la rete che ci divide.
«Non puoi stare qui» esordisce in un tono secco e autoritario, che suscita reazioni contrastanti in me. C'è una parte che vorrebbe volentieri schiaffeggiarlo, mentre l'altra, per qualche motivo a me ancora oscuro, in questo momento si scioglierebbe tranquillamente al sole.
I suoi occhi verde-azzurro rimangono duri sui miei, la mascella serrata. Io resto a guardarlo, in silenzio. «Non mi hai sentito?» dice, stavolta a voce un po' più alta. «Devi andartene» scandisce bene quelle parole, quasi spazientito.
Mi specchio per un istante in quei suoi occhi cerulei che adesso sembrano di fuoco, proprio come quelli di Adam; e, senza dire nulla, faccio come mi dice.


Sono le due di notte. Indosso un paio di jeans sgualciti, gli stivaletti che porto tutti i giorni e la felpa che mi ha regalato papà a Natale; sono le due di notte e io sono alla stazione abbandonata, seduta sulla panchina che costeggia i binari immaginando che Jonah sia accanto a me.
Sono uscita di casa in punta di piedi guardandomi alle spalle ogni istante e ho infilato le scarpe solo nel vialetto. Ho preso due tazze di caffè prima di andare, perché, anche se non ho sonno, non voglio correre il rischio di addormentarmi fuori; è già successo a Marzo, sono crollata su questi binari e mi sono risvegliata in un letto d'ospedale, accerchiata da infermiera, dottore, madre e poliziotto. È stato qualche tempo prima che mamma decidesse di mandarmi da Wilson; «Ti farà bene», «Vedrai che guarirai» e un bacio sulla tempia prima di andare.
Sono le due di notte e, nonostante la felpa che mi ha regalato papà, sento i brividi. Lo sguardo apparentemente perso nei binari di fronte a me in realtà viaggia nei ricordi più lontani, e sento tutta la consapevolezza scivolare via; quando sono sola dimenticare è molto più facile, è come se fossi in un altro posto, lontana da tutto e da tutti. Mentre mi domando che giorno sia oggi la faccia barbuta e scorbutica del mio psicologo appare davanti ai miei occhi come un miraggio, e mi sento piccola piccola di fronte alla sua espressione di disappunto. Forse Wilson ha ragione, forse non voglio migliorare.
Serro le palpebre e raccolgo tutta la forza di volontà che ho in corpo pur di non far scivolare via il presente. Uno, due, tre, quattro...
«Oggi è il quattordici Novembre» mormoro piano a me stessa, gli occhi ancora chiusi e le guance arrossate per il freddo.
«Tecnicamente, oggi è il quindici». La voce accanto a me mi fa sobbalzare, e mi ritrovo in piedi in posizione di difesa ancor prima di aver aperto gli occhi. Sbatto le palpebre più di una volta, cercando di assicurarmi che la figura che ho davanti e che se ne sta seduta tranquilla sulla panchina non sia un'allucinazione.
«Vedi, è mezzanotte passata» spiega tranquillamente, e dopo scoppia in una risata roca e sonora, quasi isterica, e capisco dai suoi occhi rossi che non è pienamente in sé.
«Quante canne hai fumato?» domando, un sopracciglio sollevato mentre ancora il cuore mi martella nel petto per lo spavento.
«Non lo so, un paio» ammette e ridacchia di nuovo, picchiettando accanto a sé sullo spazio vuoto del sedile.
Sospiro e mi siedo, scuotendo leggermente la testa. «Mi hai spaventata a morte».
Sono le due di notte, fa un freddo cane, io ho bevuto due tazze di caffè ed Harry Styles è seduto accanto a me sulla panchina della vecchia stazione del treno. E ridacchia. «Non era mia intenzione» dice, e questo è uno di quei momenti in cui lo prenderei volentieri a sberle «Sembravi un po' fuori di te e pensavo avessi bisogno di aiuto».
«Non sono fuori di me» dico a denti stretti, un tono talmente basso che lui fatica a udirmi, anche se intorno a noi tutto è silenzio. «Che ci fai qui?».
I suoi occhi rossi e spiritati si spalancano un istante per la sorpresa, e per un istante vedo quelle sue iridi verdi luccicare sotto la flebile luce del lampione a pochi metri da noi. Adesso nell'oscurità riesco solo a distinguere i lineamenti morbidi della sua mandibola, i ricci bruni che gli ricoprono la fronte e parte degli occhi, il contorno delle sue labbra piene che hanno la forma di sorrisi beffardi, la sua sciarpa scura che gli copre quasi tutto il collo.
«Che ci fai tu qui!» replica in un tono di voce più alto e sorpreso, e aggrotto le sopracciglia al sorriso sulle sue labbra.
«Pensavo che non mi volessi tra i piedi» dico invece, e mi accorgo del risentimento nella mia voce.
Lui ride, forte. Mi scopro persa nella sua risata, che non è cristallina e leggera come la mia, ma mi piace comunque; anzi mi piace di più così, roca e metallica, graffiata da tutte le sue sigarette e dalle grida che fa quando schiamazza con i suoi amici del campetto.
Scuote la testa ripetutamente, più volte del dovuto. «Oh, no! No, no no: perché pensi una cosa del genere? Certo che no, Lena, certo che ti voglio!» in un gesto inaspettato allunga le braccia verso di me e mi stringe in un abbraccio del tutto innaturale, ma per qualche motivo avverto il cuore in gola e i brividi sulla pelle.
«Sei fumato» commento, stritolata tra le sue braccia, e mi divincolo rivolgendogli un'occhiataccia.
«E allora?» dice lui in un'altra risatina.
Vorrei andarmene e lasciarlo qui moribondo, ma è stato lui ad invadere il mio territorio, sarà lui il primo a levare le tende. «Devi andartene» mi ritrovo a dire, nello stesso tono che lui ha utilizzato poche ore fa con me.
Ma lui ride più forte, tira la testa all'indietro e si tiene la pancia, poi si lascia scivolare sul sedile, privo di forze, fino ad appoggiare la testa alla mia spalla.
«Vuoi che me ne vada, Lena? Dimmi che non vuoi almeno un po' che resti» lo mormora contro il tessuto della felpa sulla mia spalla, sembra quasi una preghiera, ed io sento il suo respiro così vicino a me che mi pietrifico istantaneamente. Sospiro. Lo riaccompagnerei a casa, ma non so neanche in che zona si trovi.
«Dove abiti, Harry?» chiedo con cautela, lo sguardo ancora lontano che costringo a tenere fisso davanti a me per non incrociare il suo. Ho abbandonato tutti i propositi di avercela con lui, perché non posso essere incazzata con uno che, ora come ora, chiaramente non ragiona.
Lui sospira sereno e si sposta, sdraiandosi sulla panchina e appoggiando la testa sulle mie gambe, e m'irrigidisco. Mi guarda furbo dal basso, e i suoi occhi verdi brillano nell'oscurità delle due di notte. «È un segreto» e si porta l'indice sulle labbra, proprio come i bambini. E io mi scopro a ridere piano.
«Dove sono i tuoi genitori? Sanno che sei qui?»
Sbuffa. Proprio come un bambino. Proprio come Jonah. «Sono a casa. Forse adesso stanno facendo sesso oppure litigano, oppure dormono e attendono un nuovo giorno». Lo guardo accigliata. «Non so se sanno che sono qui. Forse lo sanno e fanno finta di nulla, forse lo immaginano o forse non ne hanno la più pallida idea e dormono beati, convinti che il loro figlio sia nella stanza accanto. E forse mi dispiace, o forse non me ne importa nulla». Attimo di silenzio, mi guarda pensieroso e adesso non ride più. «Hai notato quanti forse ho detto?» ridacchia. Annuisco e sorrido alla sua osservazione, e cerco di reprimere la voglia di accarezzare i suoi ricci che adesso sono sparsi sui miei jeans e che sembrano essere così morbidi al tatto. «Non c'è mai niente di sicuro. È tutto un "forse", "magari", "può darsi"... La vita è tutta un continuo intreccio di possibilità infinite». Resto in silenzio ad osservare il suo viso farsi pian piano più serio, quasi... triste. «Quali sono le tue certezze, Lena?».
Stringo i denti e socchiudo di poco le labbra, mentre una leggera brezza notturna mi sferza il viso e mi fa rabbrividire nella mia felpa gigantesca. Lo guardo più del solito, con i suoi occhi curiosi che brillano, con le sue mani intrecciate sul suo addome come se stesse per addormentarsi sulle mie gambe, con il suo respiro pesante che sa di alcool e di marijuana. Quali sono le tue certezze? I miei occhi vagano da parte a parte perlustrando l'intero binario di fronte a noi, mentre la domanda di Harry mi riecheggia dentro alla ricerca di un appiglio, di una risposta sensata, ma continua a vagare indisturbata nei meandri della mia mente. Serro le labbra in evidente difficoltà, e lui lo capisce. È che io, di certezze, ne ho proprio poche.
Sorride compiaciuto, come se si aspettasse dall'inizio una reazione simile. «È difficile, non è vero?». Rispondo con un breve cenno del capo e avverto i brividi in ogni parte del corpo: stavolta, però, non è colpa del vento. «Il motivo per cui sei così. Per cui vai da Wilson e non parli tanto con la gente e per cui sei così... tu». L'incidente. Jonah. Le amnesie. Annuisco. «Quella è una certezza» aggiunge, e la sua non è una domanda. Mi sta spiegando, e io faccio di sì con la testa, come per dirgli che ho capito. «È la tua unica certezza, Lena?» chiede, e aspetta il mio segnale d'assenso per continuare. Quando faccio un breve cenno con la testa, lui sorride compiaciuto, «Allora sei fottuta», e stavolta lo fa in un modo inquietante e tenebroso che mi mette quasi paura. «Benvenuta nel club».
Sollevo un angolo delle labbra, in un mezzo sorriso forzato. Se lui è divertito, io sono terrorizzata. Si sistema meglio sulle mie gambe ed io mi sento come una mamma che cerca di cullare il proprio figlio con qualche ninna nanna.
«Perché mi fissi, Harry?» Le parole sono più veloci di me, escono dalle mie labbra prima che possa effettivamente pensarci sopra. Sospiro, aspettando una sua reazione, che si fa vedere con le labbra arricciate e le sopracciglia corrugate.
«Ti fisso?».
«Mi fissi. Da Wilson, a scuola... non fai altro che guardare nella mia direzione e la cosa mi da sui nervi».
Lui sorride, compiaciuto. È felice di starmi sui nervi? «Io non ti fisso» dice imperterrito mentre scuote la testa, e adesso mi sembra tanto un bambino testardo con la bocca sporca di marmellata che vuole negare di aver appena fatto uno spuntino fuori orario.
«Non negare l'evidenza».
«Sei tu che fissi me!» sbotta, e stavolta è arrabbiato. Non faccio neanche in tempo a rispondere che solleva il proprio busto e si mette a sedere, fronteggiandomi. «Perché dovrei fissarti, se no?».
Abbasso lo sguardo. «Non è vero».
«Oh, invece sì» ribatte sicuro, e sembra quasi che la sua voce metallica mi graffi la pelle. «Te ne stai sempre lì, ai margini dei campetti, a guardarmi. Sono due settimane che passi sempre alla stessa ora, e ti fermi là, dietro la rete, e mi osservi tutto il tempo. Non ti avvicini, non cambi postazione, non provi neanche a chiamarmi. Resti là e mi guardi, in silenzio». Adesso è in piedi e il suo sguardo è di nuovo di fuoco, come quello di qualche ora fa, come quello di Adam.
«Hai iniziato tu!» incrocio le braccia al petto e abbasso lo sguardo, mentre sento le guance arrossire per la vergogna. In questo momento vorrei tapparmi le orecchie per non sentire le sue parole e gridare, più forte che posso: "Non ti sento, non ti sento, non ti sento!". Proprio come una bambina.
Ma non mi sono tappata le orecchie, e comunque adesso tutto quello che riesco a sentire è silenzio. Perché Harry non parla e mi guarda accigliato, incazzato, annoiato, stanco, beffardo: i suoi occhi mi trapassano da parte a parte e io mi sento, di nuovo, piccola piccola. E, prima che possa aggiungere altro, lo vedo voltarsi e incamminarsi verso l'entrata. 



Note.
Innanzi tutto vorrei scusarmi per l'attesa ma come avrete immaginato la scuola è cominciata e risucchia ogni energia vitale barra ispirazione, mi duole dire che non ho scritto praticamente nulla di concreto negli ultimi venti giorni. Ad ogni modo sono un po' avanti con i capitoli, per cui non vedo il motivo di non postare :)
Diciamo che con questo capitolo si va un po' avanti, non credete? Spero vi sia piaciuto, al prossimo aggiornamento!
Per chi volesse contattarmi, potete trovarmi qui: twitter - ask - facebook
Vi lascio con un'anteprima del prossimo capitolo e una foto di Adam.
Un bacio,
Carla xx



 

«Mi dispiace, ma sono vincolato al segreto professionale» alza le mani, in segno di resa. «Tuttavia puoi sempre chiederglielo tu, no? Visto che sembrate essere così in sintonia...»



 

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Capitolo 5
*** Sguardi ostili ***



 

 

Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante.
- F. Nietzsche


Mia madre è la persona più allampanata che possa esistere. Di quelle che terrebbero il phon acceso con piedi e mani bagnati, che lasciano la cena in forno troppo a lungo e siamo costrette ad ordinare la pizza, quel tipo di mamma che non ricorda mai il nome dei miei insegnanti e dimentica puntualmente di fare la spesa. A sua difesa, posso comunque affermare che è sempre stata così; anche se, devo ammetterlo, nel corso dell'ultimo anno la sua indole ha subito dei peggioramenti: la scomparsa del suo figlio minore l'ha senza dubbio segnata, così come ha segnato tutti. Me con le amnesie, papà con la sua crisi depressiva... se mio padre fosse ancora qui, forse mia madre si comporterebbe diversamente. Più da mamma; ora come ora mi tratta come una convivente, una coinquilina per cui – certo – si preoccupa, ma non è più una madre. Se papà fosse qui molte cose sarebbero diverse, ma non ho intenzione di incolparlo per essersene andato... ognuno di noi ha reagito alla cosa in maniera diversa, e personalmente non vorrei mai che lui mi desse la colpa per le mie amnesie, per cui non vedo il motivo di prendermela con lui per le sue azioni: sarebbe da ipocriti. Le cose vanno come devono andare, è questo quello che ho imparato quest'anno, e serbare rancore non serve a niente. E poi papà paga tutte le sedute da Wilson, si preoccupa per la mia salute, chiama due volte alla settimana, con la sua voce apprensiva e piena d'amore; e forse lui, a chilometri di distanza, è più bravo a fare il genitore di quanto non lo sia mia madre nella mia stessa casa.
È per questo che non mi sorprendo più di tanto quando, appena uscita dal letto, sento il clangore incessante dei tacchi a spillo in cucina e trovo mia madre che sbraita e scalpita avanti e indietro per casa, infilando cose a casaccio nella borsa con una velocità immane.
«Cosa avevi dimenticato?» domando e mi sforzo di non sembrare divertita, perché i suoi occhi mi suggeriscono che questo non è esattamente il momento adatto per adoperare il sarcasmo.
Mia madre schizza verso il soggiorno inciampando su quegli stiletto troppo alti e professionali per lei, e poco dopo ritorna con le chiavi della macchina, che getta senza pietà nella sua tracolla nera. «Ho un colloquio di lavoro tra dieci minuti» bofonchia velocemente mentre infila un blazer scuro sulla camicia bianca.
«È per la biblioteca?» chiedo mentre mastico pigramente un toast e la guardo raccogliersi i capelli biondi e lucenti in una coda bassa molto elegante. È bella, mia mamma. Ha gli occhi azzurri dello stessa sfumatura che aveva Jonah, leggermente più chiari dei miei, ed un sorriso gentile sempre sul viso pronto anche per il primo sconosciuto che incontra per strada. È il tipo di donna sulla quarantina che ancora ogni tanto fa colpo per strada, alla quale gli uomini della sua età riservano più di qualche sguardo svogliato e che le mie amiche guardano con ammirazione, perché «Vorrei essere come tua madre, quando avrò la sua età!». Non è la tipica persona che apostroferebbero con un semplice «Si mantiene molto bene», perché mamma non ha nulla da “mantenere”. Ha quarantasette anni ed è di una bellezza folgorante.
Scuote la testa. «Il dottor Green ha bisogno di una nuova segretaria».
Annuisco. «Sei bellissima» dico, ma lei fa una smorfia di fronte allo specchio. Mamma sta cercando un altro lavoro. È già impiegata al supermercato ma la misera paga che riceve non basta, e detesta l'idea che papà le mandi i soldi ogni fine mese, perché lei è come me. Vuole essere indipendente. Così ha deciso di trovare un secondo lavoro, magari non a orario pieno, in modo da conciliare con il suo impiego mattutino. Non posso fare a meno di sentirmi come un peso. Vorrei aiutarla, trovare anch'io lavoro e cooperare in qualche modo, ma chi mai assumerebbe una ragazza senza alcuna esperienza lavorativa, e che per giunta di tanto in tanto dimentica anche la strada di casa? Non vado bene per le responsabilità.
Prima di andare mamma mi lascia un bacio sulla tempia come fa sempre, l'ultimo residuo dell'“essere mamma” che le è rimasto. Mia madre è una madre che si è abbandonata alla routine con ogni fibra del suo corpo, che ha lasciato cadere l'affetto negli abissi più oscuri della sua anima, è una mamma che con suo figlio ha perso anche la maternità, e non c'è nulla che io possa fare per risvegliarla da questo suo stato. «Mamma, guardami. Sono tua figlia e sono qui» vorrei dirle. «Io sono qui!». Ma è il suo modo di reagire, e chi sono io per giudicarla?
Ingoio troppo in fretta, e le fibre del toast che non ho masticato bene mi graffiano la gola.
Mi lavo e vesto come faccio ogni mattina, con gesti meccanici e premeditati. Al contrario di quello che penso io, Wilson dice che la routine mi aiuta, perché «È davvero difficile – anzi, quasi impossibile – che dimentichi le azioni abituali». A quanto pare lavarmi i denti sempre nello stesso modo prima o poi mi aiuterà a sconfiggere le mie amnesie. Non so ancora come; ma mi è stato detto di fidarmi ciecamente del mio analista, per cui sto zitta e recito il copione della brava ragazza che fa tutto ciò che il suo psicologo le dice. Il dottor Green, che è il mio medico curante, e anche il probabile futuro datore di lavoro di mia madre – non dovrò più aspettare settimane per potermi fare prescrivere le pillole contro lo stress! Sono al settimo cielo – ogni volta che mi vede dice che mi trova migliorata e che è tutto merito del dottor Wilson; sospetto segretamente che quest'ultimo lo paghi, anche perché sono convinta che non goda di una gran bella pubblicità al di fuori delle quattro mura del suo studio.
Mi domando se la moglie di Wilson abbia deciso di lasciarlo per tutte le volte che fingeva di ascoltarla e poi lo vedeva allungare il collo per controllare l'orologio, proprio come fa con me. Sospiro.
A scuola ci arrivo a piedi. La macchina non ce l'ho perché solitamente la usa mia madre, e comunque non potrei prendere la patente perché il dottor Green e Wilson hanno concordato che «Viste le condizioni, è meglio aspettare un altro anno prima di metterti al volante». Non mi dispiace. Tanto Holmes Chapel è piccola.
Oggi nel cortile non c'è molta gente perché pioviggina; io ho dimenticato l'ombrello, così adesso la mia divisa è piena di pois scuri d'acqua e i miei capelli sono umidicci, ma non ci faccio caso.
Spagnolo è noia, spiega tutto il tempo qualcosa su certi verbi irregolari che non prendo neanche la briga di appuntare.
Matematica: test a sorpresa, e passo il tempo a cercare di ragionare con quelle sequenze chilometriche e incomprensibili di numeri, perché ora come ora non riesco a ricordare le formule. Prenderò di nuovo il voto più basso della classe.
Inglese dura solo quarantacinque minuti, perché Miss Chapmann ha dimenticato le nostre fotocopie da qualche parte nella scuola e passa il resto dell'ora a cercarle nell'edificio.
Anche Educazione Fisica finisce presto, perché un ragazzo del mio anno vomita la colazione dopo aver ricevuto una pallonata in pieno stomaco, e io sono incaricata di accompagnarlo in infermeria.
E poi c'è il pranzo.
Non mi è mai piaciuta la mensa scolastica perché detesto i luoghi troppo affollati, ma da un po' di tempo questa parte è diventato il mio momento preferito della giornata; o meglio, lo è da quando Taylor viene a sedersi al tavolo insieme a me e a Kim. Mi sembra quasi di “appartenere” ad un gruppo, tanto più adesso, visto che da qualche giorno anche Jean si è unito a noi. Non ha deluso le mie aspettative, Jean: è lo stesso ragazzo timido ma incredibilmente sveglio che ho immaginato quando l'ho visto per la prima volta, e rimango piacevolmente sorpresa quando scopro che è campione nazionale di scacchi. L'avevo detto io, che era sveglio. «In realtà sono arrivato solo al terzo posto» ma io scuoto la testa e gli do una gomitata leggera, perché io non riesco neanche mai a vincere a dama. Lo prego di insegnarmi, ho sempre voluto imparare: non come si muovono i pezzi, quello lo so già, ma quei trucchetti subdoli e intelligenti che utilizzano i cervelloni come lui. Jean sorride mentre siamo in fila con i nostri vassoi vuoti e, certamente, dice, sarà felice di insegnarmi. Non so perché ma questa piccola promessa migliora la mia giornata e mi stampa un sorriso sulla faccia per tutto il tempo della coda in mensa. Almeno fino a quando una mano non si allunga oltre il mio viso per prendere un piatto poco lontano e «Scusa» dice una voce piatta e roca al mio orecchio.
Mi volto e vedo Harry, che con i suoi fari verde acqua mi lancia un'occhiata infastidita e posa il piatto di pollo sul suo vassoio. Sono troppo serena per ricambiare il suo sguardo poco amichevole, così mi volto ed intavolo una conversazione con Jean, e mi sento forte perché avverto i suoi occhi puntati sulla mia schiena ed io lo sto ignorando.
Non vado più ai campetti da una settimana. Ero anche parecchio tentata di saltare l'incontro di gruppo con Wilson martedì, dove invece sono andata perché non volevo essere infantile e dove non ho fatto altro che beccarmi occhiate poco carine da parte del riccio. Ha proseguito tutto ciò a scuola, dove ha sostituito le vecchie occhiate curiose con sguardi ostili, e io che non volevo essere quella infantile. Ho fatto di tutto pur di non ricambiare perché non voglio essere io quella che fissa, eppure continua a darmi sui nervi. È meno insolente e sfacciato di prima, ma, se possibile, mi dà più fastidio.
Taylor, che è una tipa esuberante ed espansiva, l'ha invitato al nostro tavolo a pranzo, ma lui ha rifiutato senza pensarci due volte. Peccato, perché «Avremmo potuto fondare il club degli “Psicopatici di Wilson”... più Kim!» a detta di Taylor. «Un po' come Ocean's Twelve, no?!» borbotta convinta masticando il suo pasticcio di carne mentre sia io che Jean la osserviamo con un sopracciglio sollevato ed un fare dubbioso. «Non capite niente».
Ridiamo. Forse Harry non si è unito al nostro gruppo improvvisato perché ha già degli amici, lui non ha bisogno del sentimento d'appartenenza che invece noi cerchiamo quasi disperatamente. Se ne sta dall'altra parte della mensa in un tavolo con quelli che ho imparato a riconoscere come Niall Horan e Zayn Malik, e altri ragazzi che non conosco. Ride, ride a crepapelle e tira la testa all'indietro facendo ondeggiare i suoi ricci bruni, e quando il suo sguardo criptico e curioso incontra il mio, mi accorgo che stavolta sono io a fissarlo.
Stringo la forchetta che ho tra le mani e la pianto con forza contro il tavolo, mentre abbasso lo sguardo in un moto di rabbia contro me stessa. «Ahi!» sospiro. «Scusa». Quella era la mano di Jean.



«Perché non mi ha detto che ha divorziato da sua moglie?». La domanda è stata sulla punta della lingua tutta la settimana, dal momento in cui Adam me l'ha rivelato non ho fatto altro che pensarci, e adesso mi sorge spontanea: è la prima cosa che oggi, appena entrata da sola nell'ufficio del dottor Wilson, dico ad alta voce. Non mi sono ancora accomodata sulla poltrona rossa fuoco di fronte alla sua scrivania, né ho ancora chiuso la porta alle mie spalle, eppure vedo Wilson distogliere lo sguardo dallo schermo del computer che tiene alla sua destra e mi guarda da capo a piedi, sorpreso.
«Non pensavo t'interessasse» dice, e io sento la porta sbattere sotto la mia spinta, e mi avvicino di qualche passo, senza sedermi. Lui esita qualche istante, pensieroso. Non è il tipico psicologo che ti invita a calmarti, Wilson; non è il classico analista che ti intima «Perché non ti siedi e ne parliamo con tranquillità?» mentre aspetta che la propria segretaria porti una tazza di té per lui ed il suo cliente. No; lui è un uomo di polso, uno che di fronte a pazienti in preda a crisi isteriche non ha paura di gridare, non si fa scrupoli a trattare male anche le persone più fragili. «Dobbiamo ammetterlo Lena, io e te non abbiamo certo il miglior rapporto dottore-paziente che possa eistere...»
«Non importa, lei avrebbe potuto dirmelo! Io... io...»
«Tu cosa, Lena?» e per la prima volta indica la sedia di fronte alla sua scrivania, io mi siedo senza fare una piega.
Già, io cosa? «Mi dispiace!» sbotto e gesticolo animatamente con le braccia e le mani, mi tocco i capelli, mi copro la faccia. Sono imbarazzata.
Wilson sospira, ma scorgo un'ombra di sorriso malinconico sulle sue labbra. «Dispiace anche a me».
«Sì ma io... se avessi saputo... non avrei...».
«Cosa? Non mi avresti urlato contro?» la sua risata sonora spezza il mio balbettio imbarazzato, e mi ritrovo ad annuire, mortificata. «Non sei la prima che mi urla in faccia, e non sarai nemmeno l'ultima; ma di sicuro essere insultato dalla gente che curo non mi tocca minimamente... e per di più non è certo la compassione dei miei pazienti, che cerco». Lui sorride divertito e io mi sento arrossire per la vergogna. «Come stai oggi, Lena?» è la domanda di rito; Wilson comincia sempre così le sue sedute e, ogni volta che sento queste parole pronunciate con la sua voce matura e annoiata, non posso fare a meno di pensare a mia madre, schiacciata dalla quotidianità proprio come queste tre parole che Wilson probabilmente utilizza dieci, quindici volte al giorno. Dipende dal numero di pazienti che incontra.
Come stai oggi? «Sono serena» rispondo senza pensarci troppo e mi preparo a spiegare il mio stato d'animo, conscia del fatto che Perché? sarà la domanda successiva. Sono serena perché ho dei nuovi amici, perché Jean mi ha promesso che mi spiegherà i trucchetti più subdoli degli scacchi e perché mia mamma è stata assunta dal dottor Green.
E invece «Bene. Parliamo un po' dei tuoi compagni di gruppo», e rimango spiazzata. Wilson abbandona la routine, salta i convenevoli perché evidentemente è troppo impaziente di passare al prossimo argomento. Mi chiedo se adesso comincerà effettivamente ad ascoltarmi quando parlo.
«Cosa vuole sapere?» chiedo, sinceramente incuriosita dalla piega che prenderà il discorso. Non ho mai parlato con Wilson degli altri, e sono curiosa di sentire cosa ha da dire, lui che li conosce così nel profondo come nessuno. Forse neanche come loro stessi credono di conoscersi.
«Perché sei così restia nel parlare dei tuoi problemi con loro?» Sospiro. Sapevo che Wilson aveva notato il modo in cui evito accuratamente di far trasparire troppi dettagli su di me con le mie confessioni al gruppo e a Ophelia, in cui cerco di tutto pur di non rispondere a domande troppo mirate che potrebbero smascherarmi. E in realtà mi aspettavo di vedere il suo sguardo di rimprovero e disappunto, perché devo imparare ad aprirmi, ma lui ora sembra solo... curioso.
«È che i problemi degli altri mi sembrano più... normali. No, aspetti, non volevo dire normali» scuoto velocemente la testa e mi correggo: «Quello che volevo dire è che sembrano più sensati, ecco tutto».
«Cosa intendi con “più sensati”?»
Sospiro, e mi trovo in difficoltà mentre cerco di spiegargli i miei pensieri. «Vede... Taylor ha un motivo per essere così insicura di sé. E Jean, lui si odia perché crede di essere un errore visto che è gay. Yurim... beh, non so esattamente che problema abbia Yurim, ma sembra incredibilmente maturo anche se ha solo quindici anni. Tutti loro sembrano avere dei disturbi molto più razionali dei miei. Quello che succede a me, invece, è del tutto irrazionale. E non so, ma mi sento sempre più una “matta” a questo pensiero. Io dimentico le cose di punto in bianco! Senza alcun motivo. Mi capisce?»
«Tuo fratello minore è morto l'anno scorso» mi ricorda Wilson.
Sospiro. «Sì, ma...»
«E se fossi in te, Lena, non trarrei delle conclusioni così semplici. I tuoi compagni sono molto simili a te, più di quanto immagini» esita un istante, mentre osserva la mia espressione che cambia «Sia Taylor che Yurim tengono nascoste cose che vanno ben al di là di quello che credi. E la mente di Jean è così complessa che sarebbe impossibile identificare la sua patologia come “razionale”. Vedi Lena, tutti i disturbi mentali sono irrazionali, perché se non lo fossero allora saremmo tutti in preda all'autolesionismo e alle amnesie lacunari, per un motivo o per un altro. Sono rari e colgono le persone più fragili, e sono quanto di più ci possa essere di insensato, assurdo e pazzesco: eppure avvengono. Possiamo giustificarli, sì, ma non possiamo mai spiegarli del tutto». Resto in silenzio, mentre rifletto sulle sue parole. «Il tuo non è l'unico disturbo irrazionale, i tuoi compagni sono nella stessa situazione e lo scoprirai conoscendo meglio le loro debolezze, e lo stesso vale per Harry ed Adam».
Mi accorgo solo qualche istante dopo della smorfia che si è formata sulle mie labbra. «Senza offesa, ma personalmente non penso che Harry sia così patologico» mi ritrovo a dire.
Il mio psicologo aggrotta le sopracciglia. «Che intendi?»
«Voglio dire che, almeno secondo me, ci vuole di più che farsi qualche spinello di troppo e tornare a casa ubriaco per aver bisogno dello psicologo» sbotto risentita, il mio tono più amaro e cattivo che mai.
Wilson solleva un angolo delle labbra e scuote ripetutamente la testa, sebbene io riesca a leggere sconcerto nei suoi occhi per quello che ho appena detto. Io serro la mascella. «Ancora una volta salti alle conclusioni troppo presto» dice piccato, come se avessi appena insultato lui in persona. Leggo tensione e delusione nei suoi occhi. Immaginavo questa reazione, perché ho avuto modo di notare l'atteggiamento paterno e iperprotettivo che assume Wilson nei confronti di Harry Styles, durante gli incontri di gruppo. Magari è un suo parente. «Credi davvero che il problema di quel ragazzo siano le cattive abitudini con le droghe?» scuote la testa di nuovo «Oh, Harry ha problemi ben più gravi di questo, fantasmi del passato che vanno oltre ogni immaginazione, ed una patologia che fa rabbrividire solo al pensiero. Non trovo per nulla gentile né corretto da parte tua insinuare certe cose nei suoi confronti».
Sbuffo. So che ha ragione e mi sento un po' stupida per quello che ho detto, ma sono anche troppo orgogliosa per ammetterlo. «Beh, cosa posso saperne io? Lui sembra l'ultima persona al mondo che potrebbe mai aver bisogno del suo aiuto» mi giustifico.
Wilson ride amaramente, è una risata consapevole e piena di significati nascosti, e io in quelle note basse ci leggo un chiaro “Se solo sapessi...” «Vorrei ricordarti, Lena, che anche tu sembri la ragazza più serena del mondo... fino a quando non vieni colpita da una delle tue amnesie».
«È diverso» borbotto e incrocio le braccia al petto, ma lui sorride e mi guarda divertito, perché sa di avermi in pugno. Non dice nulla, ma mi guarda e basta, in attesa di una reazione. «Allora mi dica cos'ha! Cos'ha questo povero Harry per essere considerato il suo pupillo d'eccellenza? Perché a me sembra solo un ragazzo troppo arrogante e testardo che si atteggia a fare il problematico» sbotto.
«Mi dispiace, ma sono vincolato dal segreto professionale» alza le mani, in segno di resa. «Tuttavia puoi sempre chiederglielo tu, no? Visto che sembrate essere così in sintonia...»
«Siamo tutt'altro che in sintonia» incrocio le braccia al petto e corrugo la fronte, ma Wilson se la ride sempre di più. È fin troppo felice negli ultimi giorni.
«Odi et amo...».
«Oh, stia zitto».




Note.
Salve! Scusate per il ritardo nell'aggiornare, e in particolar modo per questo capitolo un po' osceno e di passaggio, ma nel prossimo ci sarà una svolta, promesso (:
Voglio ringraziare tutti coloro che seguono, leggono, preferiscono questa storia e che soprattutto spendono un po' del loro tempo a recensire. Grazie, grazie davvero!
Comunque, di recente sono casualmente capitata su una storia parecchio simile alla mia. Fin troppo, a dire il vero, ma non abbastanza da poter dire che si tratta di un plagio. E anche se fosse, non mi piace segnalare le persone però non nascondo che la cosa mi abbia infastidita alquanto. Ho speso tante forze vitali in questa storia e vederla scopiazzata così mi dispiace, più che irritarmi.  Quindi ve ne prego, se avete voglia di praticare un'attività amanuense, o "ispirarvi liberamente" a qualcosa, non fatelo con la mia storia. Grazie mille. 
Per chi volesse contattarmi, potete trovarmi qui: twitter - ask - facebook
Vi lascio con un'anteprima del prossimo capitolo e una foto di Jean.
Un bacio,
Carla xx



 

«Dimmi cosa vuoi. E sii veloce, per favore».
Sento un profondo respiro dall'altra parte. «Vederti».

 



 

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Capitolo 6
*** Come una partita a scacchi ***



 

Sono pesante, sono permalosa.
Non ricordo date, non ricordo le capitali, non ricordo i nomi dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Non ricordo i nomi delle strade e non ricordo mai che lavoro fa la gente.
Ricordo bene se qualcuno mi ferisce, però.
- S. Casciani


 

«Aspetta un attimo, questo è il re vero?» domando incerta indicando uno dei pezzi scuri che mi sta di fronte, e Jean ride con quel suo tono gentile che ora sembra anche un po' spazientito.
«No, quella è la regina».
Sbuffo. È più di un'ora che il poveretto se ne sta qui di fronte a me a spiegarmi le regole fondamentali degli scacchi e io lo faccio esasperare, perché appena passa ad illustrarmi una cosa nuova io dimentico quasi meccanicamente quella che mi ha spiegato prima. E io che pensavo di saper giocare, di essere pronta ad accogliere nel mio scibile le mosse più subdole del gioco degli scacchi; mi sono ritrovata a confondere i pezzi tra loro e dimenticare le mosse più importanti. E Jean ride, con il suo sorriso calmo e sereno da campione nazionale, mi rassicura che in fin dei conti non è un gioco così semplice e va bene se dimentico qualche dettaglio ogni tanto.
«Non pensavo di essere così negata» e poi non è così complicato distinguere i pezzi del gioco: l'alfiere ha quello strano taglio, la torre sembra una torre e il cavallo ha proprio la forma da cavallo; le pedine sono tutte uguali... «E allora perché i creatori di questo stupido gioco non si sono impegnati un po' di più a distinguere re e regina?!» sbotto, e il mio compagno ride di nuovo. Questo ragazzo sembra divertirsi un po' troppo di fronte alle mie difficoltà.
«Ci vuole un po' di tempo per imparare» mi consola, e io so già che alla prossima lezione mi sarò stancata di tutti questi pezzi. È uno spreco di energie preziose.
Do un leggero colpetto alla scacchiera che ho di fronte con fare teatrale, e osservo i pezzi del gioco che si abbattono l'uno sull'altro, proprio come le tessere del domino.
«Sai, gli scacchi sono lo sport più violento che possa esistere». Inarco un sopracciglio alle parole di Jean e mi chiedo se stia scherzando o faccia sul serio.
«Hai mai provato a guardare una partita di Wrestling in TV?» è la mia risposta sardonica, anche se dubito che un tipetto come lui passi le sue serate sdraiato sul divano con una ciotola di popcorn a guardare gente che si picchia a sangue. O qualsiasi cosa facciano i tipi del Wrestling.
Il biondo scuote la testa e appoggia le braccia al tavolo, allungandosi un po' di più verso di me. Siamo nella biblioteca della scuola, la signora Philips ci ha concesso di prendere in prestito la scacchiera e io adesso ne ho riversato quasi tutti i pezzi sul tavolo; forse è per questo che ora mi fissa dall'altra parte della stanza, e il suo sguardo non sembra per nulla amichevole. «Pensi davvero che una sconfitta fisica possa essere più offensiva di una intellettuale?». Lo sguardo di Jean è curioso, quasi incerto, e inclina la testa in attesa, come se si aspettasse una risposta affermativa da parte mia ed una conseguente argomentazione.
«Hai vinto» mi ritrovo a dire sconfitta e sollevo leggermente le mani in segno di resa.
Lui sorride, soddisfatto. «La regina sarà anche il pezzo più potente, ma il più importante resta comunque il re».
Sbuffo sonoramente e tiro la testa all'indietro. «E questo adesso cosa vorrebbe dire?». È più di un'ora che mi riempie la testa con questi strani proverbi che hanno come metafore principali i pezzi della scacchiera, e che per me non hanno alcun senso perché sono una schiappa in questo gioco.
«Niente in particolare, al momento» il biondo scrolla le spalle e io gli rifilo un pugno amichevole sul braccio, mentre ridiamo all'unisono.
Stiamo diventando amici, io e Jean. In realtà non ho molti termini di paragone perché ora come ora sono pochi gli amici di cui posso vantare; ma sono fiera dei passi avanti fatti nelle ultime settimane, con Jean e Taylor in particolare. Adam adesso mi accompagna abitualmente quella singola volta alla settimana che usciamo insieme dallo studio di Wilson, dopo gli incontri di gruppo – ovviamente non faccio più la sosta al campetto e lui mi porta a casa. Sto cominciando a fidarmi di lui. Yurim parla molto poco ma ha l'aria di essere un ragazzino simpatico. Mi sembra impossibile pensare che sto fraternizzando con tutti loro. Certo, tranne...
«Ma hai per caso ucciso il gatto di Harry Styles o cosa?» M'irrigidisco alla domanda di Jean, e quando comincio a guardarmi intorno con frenesia lui mi tranquillizza: «Non è qui, ora» spiega, e sento le mie spalle rilassarsi. «Ma mi sono accorto di come ti guarda, di tanto in tanto. E non mi è sembrato per nulla amichevole».
Annuisco piano alle sue parole. «Non gli ho fatto assolutamente niente. È lui che continua a lanciarmi occhiatacce, e quando gliel'ho fatto notare ha pure avuto l'ardore di prendersela, perché pensa che sia io a fissare lui!».
«Beh, non si può certo dire che tu lo ignori...»
Sento l'improvviso bisogno di strangolare Jean. O di fargli ingoiare tutti i pezzi della sua amata scacchiera, uno per uno. «Ancora con questa storia?» borbotto esasperata. «Senti, non so perché mi detesti così tanto. Davvero, non gli ho fatto niente, quindi se si sente offeso nell'orgoglio per qualcosa che inconsciamente ho detto, per il modo in cui l'ho guardato o in cui ho calpestato lo stesso terreno sotto i suoi piedi... non ho intenzione di scusarmi».
Jean ridacchia sotto lo sguardo severo della bibliotecaria. «Oh, io non credo che ti odi» scuote la testa e gesticola. «Io credo, piuttosto, che sia attratto da te».
Il biondo non fa in tempo a continuare perché trancio il suo discorso con una risata sonora, una di quelle forti e vigorose, che riecheggia tra gli scaffali dei corridoi silenziosi della biblioteca. Mi tappo la bocca con le mani e mi chiedo tra quanto tempo la signora Philips verrà a buttarci fuori entrambi a calci nel sedere. «Ti sei bevuto il cervello?» sussurro piano mentre tengo d'occhio da lontano la bibliotecaria; poi sposto lo sguardo sul biondo, che adesso scuote la testa in segno di disapprovazione e rimette in piedi qualche pezzo degli scacchi.
«Oh Lena, Lena, Lena...» dice, e le sue dita giocherellano con il re bianco – o la regina? – mentre mi osserva con fare quasi furbo. «La vita è come una partita a scacchi...»
«Oh, non ricominciare».
«No – no, ascolta: sono serio stavolta».
Sbuffo, e «Sappi che sono stufa di queste tue metafore inutili: vai al sodo».
Jean rotea gli occhi al cielo. «Non apprezzi la mia poesia. Quello che voglio dirti è che non sempre lo scopo di tutto quello che facciamo è ben chiaro, capisci? Un po' come negli scacchi, la semplice mossa di una pedina può celare la più astuta architettura strategica. Le persone sono un po' come i pezzi di una scacchiera, dissimulano e nascondono le proprie vere intenzioni con mosse ingannatrici».
Tutto questo per farmi capire che... «Pensi che Harry stia fingendo?»
Lui sembra rifletterci un istante di più. «Non lo so. Però non penso che ti detesti, almeno non quanto credi tu».
«Tutto quello che so è che lo vedo lanciarmi occhiate assassine e poi cerca il mio sguardo... mi confonde» sospiro sincera.
«Dissimula» replica Jean, con chiarezza.
«Ne sei sicuro?»
«Nel gioco degli scacchi non ci sono sicurezze: solo possibilità infinite...»
«Jean, sto per farti ingoiare questo re se non la smetti all'istante».
«Quella è una regina!»



Sono avvolta dal buio. Il caldo abbraccio delle coperte sembra incredibilmente scomodo ora come ora, e qualcosa mi dice che è decisamente troppo presto per la scuola. Sono destata da un rumore fin troppo familiare alle mie orecchie e l'orologio digitale poco lontano dal mio letto, che adesso fa lampeggiare a caratteri verdi e brillanti le due e cinquantasette di notte – o del mattino? – mi suggerisce due cose. La prima è che a quest'ora io non dovrei essere sveglia per nessun motivo al mondo; eppure sono quasi certa che stessi sognando pochi minuti fa o, per lo meno, dormendo. La seconda è che non dovrei ricevere certe chiamate notturne così improvvise. Con un grugnito pesante che farebbe invidia a qualsiasi camionista mi accingo ad allungare il braccio verso il comodino il più velocemente possibile, e copro le casse del cellulare con una mano, in modo da attutire il rumore della suoneria; dentro di me prego che mia madre nella stanza accanto sia troppo occupata in qualche sogno per dar conto alle mie telefonate notturne. Il numero che appare sullo schermo non è salvato sul mio cellulare, e per un momento quasi cedo alla tentazione di cliccare sulla cornetta rossa e tornare a dormire, beata. Ma il telefono mi squilla nelle mani in attesa di una decisione e io, inevitabilmente, lo porto all'orecchio.
«Pronto?» risponde in un sussurro la mia voce impastata di sonno e d'ira.
«Lena?»
«Chiunque tu sia, sappi che hai scelto un orario veramente indecente per disturbarmi» mi ritrovo a dire, e a parlare è senza dubbio la parte di me ancora in dormiveglia.
Il Qualcuno dall'altra parte del telefono ride di gusto. «Sono Harry».
«Oh» solo adesso riconosco il tono basso e roco della sua voce, e solo adesso mi accorgo di essere arrossita.
«Ti ho svegliata?» mormora, e quasi quasi leggerei un senso di colpa in queste sue parole, se non fosse... se non fosse che lui è Harry.
«Tu che dici?». No, stavo giusto facendo una piccola veglia solitaria in attesa dell'alba... così, tanto per. Lui però non coglie la stizza e l'irritazione nel mio tono – o forse lo fa e non gliene importa – e piuttosto ride divertito. «Perché mi stai chiamando?» il mio lato scorbutico si fa avanti.
«Volevo sentire la tua voce...» sto per mollargli un pugno virtuale «...che mi insulta alle tre di notte». Ecco appunto.
Incrocio le gambe e appoggio la nuca alla testiera del letto. Sbadiglio. «Bene, eccoti accontentato: sei un coglione, Harry Styles. Buonanotte».
«Stavo scherzando, aspetta» la sua voce si fa improvvisamente urgente, come se temesse davvero che stessi per riattaccare; cosa che, effettivamente, stavo per fare.
«Cosa vuoi?» esalo un sospiro sconsolato, e mi arrendo al fatto che per colpa sua mi sarà impossibile riprendere sonno. «Un attimo, come hai avuto il mio numero?»
Lui sbuffa. «Una cosa alla volta – me l'ha dato Jean».
«È stato Jean a darti il mio numero?!» scoppio in un moto di rabbia a voce un po' troppo alta, e quasi simultaneamente mi copro la bocca con la mano; lancio un'occhiata verso il corridoio per accertarmi che mia madre sia ancora nel suo letto e non vaghi per casa.
«Diciamo che è stato più che altro costretto a darmelo» precisa Harry in una delle sue risate irritanti.
«Non ci credo, l'hai minacciato! Razza di deficiente patentato, quando ti deciderai a lasciare in pace me e-»
«Vuoi stare calma? Non gli ho fatto niente!»
Esalo un breve sospiro. Deve essere un incubo questo. «Dimmi cosa vuoi. E sii veloce, per favore».
Sento un profondo respiro dall'altra parte. «Vederti».
«Eh?!».
«Voglio vederti» ripete, più chiaramente. «Adesso. Alla stazione. Vieni?».
Inarco un sopracciglio e mi guardo intorno nella mia stanza sommersa nella semioscurità, cerco qualche dettaglio che possa suggerirmi che è solo un sogno. Questo ragazzo è pazzo. «E perché mai dovresti volermi vedere?»
Lo sento sbuffare. «Uffa, deve esserci per forza un motivo? Forse ho solo voglia di vederti e... e basta».
«Tu sei fuori» borbotto con voce impastata e attacco la telefonata scagliando con poca grazia il cellulare sul comodino. Mi volto dall'altra parte fronteggiando il muro e passano cinque minuti, o forse dieci, o forse un'ora intera o un istante e mezzo, e sto per riaddormentarmi quando sento nuovamente quell'irritante suoneria nelle orecchie. Cazzo, ora mamma si sveglia sul serio. Porto nuovamente il cellulare accanto al viso e sospiro stanca. Sono le tre e quattordici.
«E forse voglio anche chiederti scusa» dice Harry nel mio orecchio, la sua voce ora più leggera e... gentile? «Per come mi sono comportato la settimana scorsa, le cose che ho detto... Sono un coglione. Ma già faccio schifo in queste cose, ti prego, non obbligarmi a dirlo al telefono. Vieni, per favore?».



Non posso credere che lo sto facendo davvero.
Sono le tre e ventisette e fuori fa più freddo di quanto pensassi, ma ho già rischiato grosso quando la porta di casa si è chiusa di botto per colpa del vento, non potevo certo rientrare e prendere una giacca. Non che lasciare casa nel cuore della notte sia per me una novità, ma stasera non ero preparata e ho fatto più rumore del solito. Mentre attraverso una delle stradine deserte di Holmes Chapel mi rifilo un pizzicotto sul braccio, come a volermi punire da sola per la stupidaggine che sto per fare. Sono sicura che Harry non è nemmeno lì, mi ha solo chiamata nel cuore della notte per farmi un brutto scherzo. Oppure è tutto un sogno.
E invece quando svolto l'angolo e supero il piccolo cancello della stazione abbandonata, c'è un ragazzo seduto sulla panchina, con la camicia sgualcita e lo sguardo perso nel vuoto, che non si volta a guardarmi anche se si è accorto di me.
«Cosa vuoi?» mi fermo a pochi passi da lui, le braccia conserte ed un tono glaciale.
Lui solleva un angolo delle labbra in un'espressione beffarda. Se ne sta seduto con fare indifferente, le mani scivolate dentro alle tasche dei suoi jeans scuri e larghi, i suoi ricci spettinati che vorrei solo poter far pace con lui per accarezzarli. Mi sento ridicola. «Lo sai, no?» dice con quel suo tono ovvio per cui lo prenderei a cazzotti. «Chiederti scusa».
«Quindi?». Il mio piede picchietta incessantemente sul pavimento in attesa di una risposta decente.
«Quindi scusa» ripete sereno, abbandonando le spalle allo schienale della panchina.
Sospiro. «È davvero tutto quello che hai da dire?» allargo leggermente le braccia, e più che arrabbiata suono delusa. Offesa.
Gli occhi di Harry si specchiano nei miei e io sono dura e decisa, perché lo so che c'è dell'altro; perché in fin dei conti un po' l'ho capita, quella strategia di gioco dietro ai suoi verdi occhi acquosi. Lui sbuffa, a conferma di quello che pensavo. «Sono stato un idiota, okay? È questo che vuoi sentirti dire?» sbotta esasperato, e quando annuisco ci ritroviamo entrambi a ridere, piano. «Non dovevo dirti quelle cose, l'altra sera. Ma ero completamente sballato... e penso te ne sarai accorta».
Roteo gli occhi al cielo. «Sì, era abbastanza visibile». Adesso i suoi occhi non sono rossi e non utilizza quel tono strascicato che aveva l'altra sera. Devo quindi supporre che sia sobrio?
«Non ero pienamente in me, e...»
«Va bene»
«Va bene?»
«Sì» ripeto «In fin dei conti è un po' anche colpa mia, non dovevo essere così testarda» sollevo un angolo delle labbra e mi siedo sulla panchina, a qualche spanna da lui.
«Perché non sei più venuta al campetto?» chiede, e aggrotto le sopracciglia. Per un attimo mi balena per la mente il pensiero che forse non è poi così sobrio; oppure soffre di amnesie anche lui.
«Sbaglio o mi hai detto di stare alla larga?» inarco un sopracciglio e fisso la sua sagoma avvolta dalla semioscurità.
Lo vedo ridere piano e scuotere la testa. «Io dico tante cose». Probabilmente deve essere divertito dal mio sguardo perché continua a ridacchiare indisturbato, almeno fino a quando non gli rifilo un pugno sul braccio.
Il respiro che esalo si condensa nell'aria e abbasso leggermente il viso verso la superficie dei miei jeans. «Harry, si può sapere che diavolo stai facendo?» domando in un sospiro sconsolato; il mio tono non è arrabbiato né accusatorio, solo... esasperato. «Prima mi osservi, quando mi avvicino mi mandi via, poi vieni tu e mi parli, e il giorno dopo è di nuovo come se non mi conoscessi; e adesso mi chiami alle tre di notte chiedendomi di venire qui... e io ci vengo pure! Devo essere impazzita» sospiro amaramente e lascio crollare anche la mia schiena sul sedile, sotto il suo sguardo attento.
Harry solleva le spalle, a mo' di scuse. Non dice niente. Sono fatto così, vuole farmi capire.
Gli rivolgo un sorriso amaro. «Capito. Allora domani tornerai a far finta di non conoscermi e a guardarmi come se ti avessi ammazzato il gatto» dico sarcastica.
«Io non ti conosco, Lena»
«Neanch'io ti conosco!» sbotto piccata, ruotando leggermente il busto nella sua direzione, in posizione di difesa. «Ma vuoi dirmi che cavolo ti passa per la testa?»
Harry sbuffa e si passa una mano tra i capelli, e per la prima volta mi sembra in difficoltà. «Non lo so, non lo so» borbotta. «Sai che c'è? È che tu sembri così... strana». Abbasso lo sguardo. Ero sicura che prima o poi avrei dato l'impressione della pazza psicopatica. L'ho detto a Wilson! «E non lo intendo in maniera negativa» si affretta a precisare non appena nota la mia espressione. «Sei strana perché sembri fuori dal mondo, perché con il tuo sguardo assente e le tue poche parole sembri uscita dalle pagine di un libro. Sembri tante persone in una volta, e... non so, m'incuriosisci».
Socchiudo le labbra a questa sua confessione e seguo il suo sguardo che si posa su di me. «Continuo a non capire» mormoro e avverto la bocca secca e i brividi sul collo.
«È che-» esita un istante, come se stesse cercando le parole giuste «È che io sono così, okay? Un attimo ci sono e quello dopo non ci sono più, mi arrabbio e mi calmo dopo un secondo. Funziono così. E non lo so perché ce l'ho con te, probabilmente tra una settimana o tra due giorni ti avrò scordata, ma per me sei così curiosa. Il tuo sguardo sfuggente, il tuo fare così disinteressato, le tue visite al campetto, la tua abitudine di venire in questa stazione nel cuore della notte – sono venuto qui ogni tanto, sai? Non so, forse volevo controllare che tu ci fossi. E una volta ti ho pure vista, era notte fonda e io ti ho guardata da lontano, non ne vado fiero ma so che mi avresti mandato via, altrimenti. E stasera, non so perché ero qui. Ma volevo parlarti e non c'eri... così ti ho chiamata».
Scuoto la testa. «Tutto questo non ha senso» dico e rido piano, e lui mi segue.
«Non dirlo a me» sorride placido mentre guarda di fronte a sé, e sospira.
«È stato Wilson a dirti di farlo, non è vero?» dico ad un tratto.
«Cosa?»
«Chiamarmi, chiedermi scusa. È stato lui?»
«Oh, sì» lo guardo mentre si stropiccia un occhio «Se non fosse stato per lui non avrei fatto niente di tutto questo, perché mai avrebbe dovuto importarmi? Ma "Devi aprirti di più, affronta le tue incertezze"» ridacchia, dopo essersi dilettato in un'imitazione parecchio realistica del nostro psicologo.
«Sul serio ascolti i consigli di Wilson?»; sono divertita. Io al massimo annuisco più volte quando mi rimprovera e mi ammonisce di nuovo che devo fare quello che dice lui se voglio guarire, ma una volta fuori non ci faccio davvero troppo caso. Sono passiva.
Harry spalanca gli occhi alle mie parole, sorpreso. «Certo che lo faccio! Se non avessi bisogno di consigli non spenderei settimanalmente un patrimonio dallo psicologo» ride divertito a quest'idea per lui assurda.
Mi stringo nelle spalle. «Io sono costretta». Se non fosse per l'imposizione del dottor Green e dei miei genitori eviterei senza problemi le stressanti sedute con quel pazzo isterico.
Lo osservo, forse un po' troppo rapita dalla sua figura, mentre un leggero sorriso sghembo si forma sulle sue labbra. «Mia madre crede che io sia alla pista di skateboard, ogni volta che vado da lui».
Aggrotto le sopracciglia. «Fammi capire... tua madre non sa che frequenti uno psicologo?» scuote la testa, «E ci vai di tua spontanea volontà?» annuisce, «E come... come fai a pagarlo?» farfuglio confusa.
«Lavoro nella libreria di mia zia, tutti i pomeriggi a settimana» spiega, un angolo della bocca sollevato in un sorriso furbo.
«Ma... Ma Wilson costa un capitale!» ribatto sconvolta. Di certo è difficile coprire il prezzo pieno con il misero stipendio che può prendere un ragazzo diciottenne lavorando part-time in una libreria.
Harry ridacchia divertito. «Perché credi che vada in giro sempre con queste scarpe sgualcite?» mi domanda, facendo un cenno verso le sue Converse consumate.
Sospiro. «I tuoi genitori non sanno che hai dei... problemi?» chiedo, e lui di nuovo fa cenno di no con la testa.
«O meglio, lo sanno, ma non credono che siano così gravi... sono bravo a dissimulare» scherza, ed io sbatto le palpebre.
Lo ascolto prendere una boccata d'aria e lo sento scivolare al mio fianco sulla panchina. Appoggia un braccio sullo schienale dietro le mie spalle e distende le gambe lunghe e magre verso l'asfalto.
«E così... domani ti dimenticherai già di chi sono».
Lui sorride. «Probabile».
Mi ritrovo anch'io a sorridere, persa nei suoi occhi di un colore così particolare che, lo ammetto, definirli solo "verdi" mi sembra quasi un delitto. Penso che in fondo sto cominciando a capirci un po' di più, su Harry Styles; e che forse Jean ha ragione, forse lui è un po' come una partita di scacchi. Perché lui recita, inganna; le sue espressioni beffarde nascondono un milione di mosse premeditate, i suoi sguardi attenti tradiscono l'esperienza del vissuto, perché lui è bravo a dissimulare.
Proprio come a scacchi.
«Allora, che hai fatto tu? Hai dato fuoco a qualcosa?».
Aggrotto le sopracciglia, «Scusa?» e lui ride.
«Perché sei dentro?» domanda ancora e, non so come, ma istantaneamente capisco che il suo "essere dentro" si riferisce alla terapia di Wilson.
«No, non ho dato fuoco a nulla» rido piano.
«Allora cos'è? Sei anoressica? Autolesionista?»
Continuo a ridere, anche se con fare un po' piatto e triste. «No, no. Il mio corpo è l'ultimo dei miei problemi».
«Eh, lo vedo». Sollevo le sopracciglia di fronte al sorrisino beffardo e al complimento velato che si è appena lasciato scappare. Scuoto la testa e mi lascio andare ad una lieve risata, alla quale lui si unisce; e, ancora una volta, mi sembra che la sua sia la più bella risata che abbia mai sentito. «Buon per te» aggiunge sereno.
Sollevo le spalle. «Non lo so, credo che preferirei di gran lunga avere problemi con il mio corpo che con la mia testa bacata».
Sposto lo sguardo su di lui, e per un attimo percepisco quelle iridi verdi affogare in qualcosa di più scuro e tetro; il suo sguardo mi trapassa da parte a parte, come se si trovasse in un altro luogo. Ma è solo un istante, poi lo vedo tornare a sorridermi di nuovo, enigmatico. «Oh, io non ne sarei così sicuro».




Note.
Probabilmente ora mi vorrete uccidere. Lo so, lo so, è da un sacco che non aggiorno e francamente non ho neanche molta voglia di controllare effettivamente quanto tempo è passato dall'ultimo aggiornamento ad ora. Ad ogni modo, il capitolo è qui per chi vorrà ancora leggere. Chiedo scusa perché non è un granché, o per lo meno non è uscito come volevo io - ma in fin dei conti è sempre così.
Spero che ci sia ancora qualcuno che segue questa storia.
Potete trovarmi qui: ask - facebook
Un bacio!


 

[...] il sangue mi si raggela nelle vene, perché adesso entrambi hanno negli occhi quel fuoco di cui ho paura.
Sospiro tenendo le braccia conserte, come a volermi riparare da quest'aria gelida, da un possibile attacco e da loro due.



 

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Capitolo 7
*** Urla ***



 

Dicono che il mare sia profondo.
Allora prova ad immergerti in una persona, prova a lambirne le pareti e toccarne i limiti, prova a scrutarne i confini e a sfiorarne i margini.
E ti accorgi che non c'è bisogno di volgere lo sguardo alle stelle per scorgere l'infinito.
- P. Melone


 

Ecco, il fatto è che non penso di essere una persona piacevole. Sono la classica lunatica, scontrosa, scorbutica ragazza che spesso si dimostra anche parecchio testarda; non sono, quindi, esattamente il tipo di individuo che tutti vorrebbero conoscere. Forse è per questo – e anche un po' per il fatto che dal primo momento ero convinta che qui dentro avrei odiato tutti senza distinzione – che sono così sorpresa quando Adam oggi mi saluta con un sorriso caldo e simpatico. Jean prima mi ha dato una pacca sulla spalla e Taylor mi ha abbracciata con il suo fare sempre così dolce e amichevole. Oggi mi sento contenta, perché sono sicura di essere circondata da gente che forse non sarà mia amica, ma per lo meno non mi reputa una pazza menomata – e questo è già un passo avanti.
Oggi c'è aria di novità all'incontro col gruppo: c'è un nuovo deodorante per ambienti alla pesca, Wilson si è fatto la barba ed Harry è seduto accanto a me. È entrato nello studio con la sua solita aria da ritardatario, il sorriso beffardo e le maniche della t-shirt arrotolate fino alle spalle, e ha sorriso; solo a me, però, con uno dei suoi sorrisi brevi e sfuggenti, uno di quelli che avrei anche potuto perdermi se avessi sbattuto le palpebre in quell'istante. Ma non l'ho fatto, e l'ho visto, quel sorriso accennato ma sincero che era tutto per me. E, non so, per qualche motivo mi sembra strano e irriverente andare contro l'indiscutibile legge delle farfalle nello stomaco indetta dalla fiaba di Cenerentola e dai libri di Nicholas Sparks, ma io ho solo sentito i pensieri fondersi come ghiaccio al sole nella mia testa e le guance avvampare. Spero sia lo stesso.
Lui non ha detto niente, ha semplicemente preso la sedia di Taylor di fianco alla mia mentre lei era in piedi a chiacchierare con Jean, e si è seduto senza fare troppi complimenti. Ora i posti sono un po' sfalsati, Taylor si è seduta accanto ad Harry e così via, quindi di fronte a me, al posto originario del riccio, adesso c'è Yurim che mi sorride benevolo, con i suoi occhi a mandorla e le sue guance da bambino.
Il nuovo assetto confonde anche Wilson il quale, appena entrato nella stanza, si posiziona al centro del nostro cerchio di sedie e fa un lento giro su se stesso; si arresta del tutto quando comprende la natura del cambiamento, una volta posato lo sguardo sul mio vicino, e lo fa scivolare velocemente su di me. Un ghigno rapido si forma sulle sue labbra ma, proprio come il sorriso di Harry di poco fa, scompare ancora prima che io me ne possa accorgere.
Sarò io, sarà il nuovo deodorante alla pesca, ma oggi Wilson mi sembra un po' su di giri. Deve essersi finalmente alzato con il piede giusto, oppure ha appena vinto un milione di sterline alla lotteria e sta per annunciarci che presto lascerà il paese.
«Oggi Ophelia non c'è» esordisce accomodandosi nella sua poltrona alla mia destra, e per un secondo leggo una nota malinconica nelle sue parole. «Hamlet aveva una seduta dal veterinario, e ho deciso che serviva più a lui che a noi». Sento Harry sospirare rassegnato alla mia sinistra, mentre io mi domando se quest'uomo, oltre ad asfissiare la gente con i suoi giochetti sadici ed il suo cane, abbia effettivamente una sorta di hobby. Evidentemente no. «Parliamo di dolore, oggi» comincia l'uomo e le sei anime di fronte a lui trasaliscono simultaneamente. A nessuno piace parlare di dolore, perché rappresenta la parte più oscura di noi, perché parlare delle proprie sofferenze significa mettersi a nudo completamente. E io non sono pronta per questo.
«Qual è la cosa che più vi fa soffrire?» dice Wilson con la sua aria da pseudo-filosofo, mentre si accarezza quella barbetta che ormai non ha più.
L'uomo passa in rassegna tutti i nostri volti e, mentre gli altri si guardano intorno con sguardi pensierosi, io mi torturo le mani ad occhi bassi. Cos'è che mi fa soffrire?
«L'incomprensione» Jean riempie il silenzio con la sua voce delicata e gentile, e tutti noi ci voltiamo verso di lui. Wilson gli sorride, come per ringraziarlo di questo incipit.
«Lo specchio» proclama Taylor, ed io stringo i denti.
«Il tempo» questa volta a parlare è Adam, e personalmente penso che abbia preso una parola bella tosta. Se ci avessi pensato prima, l'avrei sicuramente detto io.
Colta dall'atmosfera di questo brain-storming improvvisato, mi ritrovo a parlare. «Jonah» dico. Con la sofferenza mi viene in mente lui; quando penso a Jonah soffro, perché mi manca. Suppongo quindi che sia una risposta valida. Taylor mi guarda curiosa e solleva un sopracciglio, Wilson annuisce comprensivo.
Harry sospira. «Le urla» dice.
Mi volto di scatto verso di lui, verso i suoi occhi verdi-azzurri, ma non faccio in tempo ad incrociarli, perché stanno già osservando Yurim che ha preso la parola e dice «I ricordi».
Il nostro psicologo si lascia andare ad un sospiro liberatorio ed appoggia le spalle allo schienale della poltrona che si piega sotto il suo peso. «Va bene Yurim, perché non cominci tu a parlarci di questo tuo dolore in particolare?» e la stanza cade nel ghiaccio.
Mi paralizzo al pensiero di dover spiegare perché Jonah mi fa soffrire.
Yurim deglutisce, sorpreso quanto noi, e potrei giurare che questa è una delle poche volte in cui non l'ho visto sorridere. «Mi fanno male i ricordi» comincia in un sussurro, che sembra tremendamente lontano dalla sua voce abituale, sempre squillante e serena «perché non si possono cambiare. Mi fanno male i ricordi che si concludono con un "avresti potuto", tutte le volte che ho urlato contro i miei genitori senza dir loro che gli volevo bene... la sera che sono morti, quando mi avevano accompagnato al cinema senza darmi il permesso di uscire anche più tardi. Mi fa male quella portiera che ho sbattuto quand'ero arrabbiato, la stessa portiera che si è schiacciata contro i loro corpi, poche ore dopo, nell'incidente».
Nella stanza, ora, c'è silenzio. Adam ha smesso di dondolarsi su due gambe della sedia, Taylor fissa il pavimento ed Harry il soffitto. Io guardo Yurim, le sue guance da bambino rigate di lacrime, i suoi occhi persi nel vuoto e i suoi pugni stretti che tremano, lungo i fianchi. E siamo tutti sorpresi, tranne Wilson, che scribacchia qualcosa sul suo taccuino, noncurante di questa storia della quale già conoscerà a memoria tutti i dettagli. «Lena, continua tu» dice, e il suo tono mi suggerisce che in realtà non sta prestando molta attenzione a questa nostra discussione. È solo un modo per metterci in difficoltà l'uno con l'altro, per farci ritrovare nudi di fronte agli sguardi avidi dei nostri compagni... a lui, queste nostre confessioni, non servono. Lui sa già tutto.
Aspetto qualche istante, perché cerco di metabolizzare ciò che ha detto Yurim e al contempo trovare le parole giuste da dire. «Jonah mi fa soffrire» dico, e scopro la mia gola secca e la voce spezzata. Tossisco. «Jonah mi fa soffire perché per colpa sua non riesco ad andare avanti. Non riesco a dimenticare le interminabili giornate estive passate con lui, la sua risata esile, i nostri giochi. Mi fa soffrire il fatto che potrebbe essere ancora qui e che invece non c'è, è caduto, è caduto e non è tornato più...» dico, e solo adesso mi accorgo di aver chiuso gli occhi nel parlare. Non posso, non voglio guardarli in faccia.
«Chi è Jonah?» sento Taylor sussurrare piano a qualcuno, ma Wilson richiama prontamente l'attenzione su di sé.
«Harry, prosegui» dice freddamente.
Il riccio annuisce piano, e posa sulle ginocchia le mani, per metà nascoste dai guanti senza dita. «Le urla» sospira. Lo vedo stringere i denti in un'espressione contrita di dolore, e per un attimo sembra in procinto di alzarsi ed andarsene, sbattendo la porta della stanza maledicendoci tutti. E invece continua a parlare. «In realtà non so perché mi provocano dolore, credo sia un riflesso incondizionato. Ma mi fanno male le urla isteriche, quelle incontrollate e troppo forti. Le urla che t'inseguono la notte e a cui sai che non potrai mai dare aiuto; le urla agghiaccianti, quelle che sento in testa e negli incubi, quelle urla che sono come una lama affilata e ti perforano il petto, ti lacerano le membra. Perché... perché anche lei urlava, quella notte. E io non ho potuto fare nulla».



Il marciapiede oggi è affollato, perché stavolta siamo scesi tutti insieme dall'ufficio del dottor Wilson: un po' come una classe di scuola che, compatta, si dirige verso i cancelli al suono dell'ultima campanella della giornata. È quasi surreale. Sento che questi incontri ci stanno facendo avvicinare sempre di più, e comincio a riconsiderare l'idea di aprirmi con le persone... o meglio, con queste persone.
«Mi accompagni?»
Mi volto ed Harry è alle mie spalle, che mi guarda curioso e stranamente sereno, prima di rivolgermi un sorriso, più lungo e caloroso di quello che mi ha riservato da Wilson, all'inizio del nostro incontro.
Al contrario di tutti i pronostici catastrofici fatti da entrambi, Harry non si è dimenticato di me il giorno dopo la stazione, e abbiamo passato una settimana piena di saluti veloci per i corridoi, di «Martedì ci sei da Wilson, vero?», di sorrisi sfuggenti e nascosti quando i nostri sguardi s'incontravano, di «Prego, passa prima tu» alla fila della mensa, e poi «Vuoi sederti al tavolo con noi?», ma «Ci sono Zayn e Niall che aspettano...», e quindi «Magari un'altra volta». Una settimana in cui ho sperato, ardentemente, per qualche motivo, che non si scordasse tanto facilmente di me, della notte alla stazione e dell'unica certezza che mi ha dato; una settimana in cui non ho fatto altro che temere l'oblio e il punto e a capo.
Lo guardo e aggrotto le sopracciglia alla sua richiesta insolita. «Dove vuoi che ti accompagni?»
Si stringe nelle spalle e si scompiglia i capelli ricci, un sorriso sghembo si forma sulle sue labbra mentre parla. «Al campo, dove se no?»
«Ma io non ho la macchina...» ribatto accigliata.
«Nemmeno io. Ma, fino a prova contraria, i piedi li hai ancora... o sbaglio?» sogghigna, indicando le mie gambe. «Quello che volevo dire è: fai la strada insieme a me? Tanto a quanto ho capito quel posto ti è di passaggio» ridacchia divertito.
Roteo gli occhi al cielo alla sua smorfia divertita, ma non faccio in tempo a rispondere che all'improvviso un altro braccio mi circonda le spalle, e io sussulto di colpo; solo quando mi volto mi accorgo della presenza di Adam al mio fianco, che mi sorride sereno.
«Andiamo o no, brunetta?»
«Veramente-»
«In realtà stava per venire con me» replica Harry piuttosto, e il suo tono non mi piace: è freddo, quasi glaciale; il suo braccio si allunga in maniera repentina verso il mio polso per poi afferrarmi e tirarmi a sé, sciogliendomi dall'abbraccio di Adam. Quest'ultimo solleva le braccia in segno di resa e ride.
«Amico, è tutto a posto. Solitamente sono io ad accompagnarla a casa» spiega tranquillo il moro.
«Non oggi» sento dire ad Harry e il sangue mi si raggela nelle vene, perché adesso entrambi hanno negli occhi quel fuoco di cui ho paura.
Sospiro tenendo le braccia conserte, come a volermi riparare da quest'aria gelida, da un possibile attacco e da loro due. Perché adesso sembrano estremamente pericolosi, come due leoni che... si contendono una preda. Trasalisco. «È tutto a posto» m'intrometto con semplicità, ripetendo le parole del primo. «Adam, grazie per la disponibilità... oggi faccio quattro passi con Harry. Ci vediamo la prossima settimana?» mormoro e percepisco i loro sguardi affievolirsi. Il nodo che ho alla gola, invece, persiste ancora per questi ultimi istanti di tensione. E continuo a domandarmi per quale motivo.
«Non preoccuparti, ci vediamo!» Adam sorride di colpo e sventola una mano prima di voltarci le spalle e andare via.
E ora siamo soli, io ed Harry.
Io, la mia confusione mentale, i miei capelli crespi e le mie mani che tremano. E lui, i suoi guanti con le dita scoperte, gli occhi verdi un po' più tranquilli e le labbra arricciate in una smorfia momentanea. Io e lui, gli sguardi persi nell'asfalto del marciapiede sul quale camminiamo senza proferir parola, a un metro di distanza, il respiro pesante e affannoso come quello di chi ha appena affrontato una salita troppo ripida. Io e lui e le sue braccia che dondolano ad ogni passo, i nostri corpi che ora non hanno più un metro di distanza e le sue dita che ogni tanto, casualmente, sfiorano le mie mentre camminiamo. Io, lui, e il mio cuore che batte forte, così forte che probabilmente il sorriso che ora appare sul suo volto è perché è riuscito a sentirlo.
«Perché non ti piace Adam?» e il sorriso sparisce, al suo posto ci sono due labbra sottili strette in un'espressione indecifrabile, che per un po' non accennano a parlare. Ora la sua mano sfiora la mia di sfuggita e io incrocio le braccia al petto, come se facesse freddo, e lo osservo di sottecchi.
«Non lo so, non ci siamo mai piaciuti molto e basta» borbotta e non mi aspettavo di sentirlo così insicuro, così tentennante, così... poco Harry.
Aggrotto le sopracciglia. «Vuoi dire che vi conoscete da più tempo?» e lui ride piano, con il suo tono calmo e pacato, mentre sfila una sigaretta dal suo pacchetto di Winston blu e se la sistema tra le labbra.
«Tu sei troppo curiosa» bofonchia a labbra serrate ed un'espressione divertita.
Sbuffo. Me l'hanno detto in tanti, che sono troppo curiosa; che le parole non mi bastano mai e che sono sempre alla ricerca di nuove certezze, ma ho imparato a non farmene una colpa. Anzi, credo che essere troppo curiosi sia un pregio e che vada rispettato, ed è proprio questo quello che dico in risposta a Harry, che ride divertito ed esala una piccola nuvola di fumo dalla sigaretta appena accesa.
Quando l'odore raggiunge le mie narici tossisco piano, e «Che c'è?» chiede lui.
«È che non sopporto l'odore del fumo» spiego con il naso arricciato, e lui ride di nuovo. Però lo vedo allontanare la sigaretta.
Non so perché non mi arrabbi per nulla quando lui ride di ciò che dico o faccio, almeno non come quando è Wilson a ridere di me. Forse è perché il suono della sua risata bassa e roca mi piace così tanto, oppure è per il fatto che lui non sembra farlo in modo canzonatorio, non mi giudica. È solo divertito.
«Tu sei incredibilmente strana» dice ad un tratto guardandomi, ma capisco dalla luce nei suoi occhi che è un complimento; e sento già le guance arrossire.
«Me l'hanno detto in molti» è la mia risposta.
«Sei strana in un modo bello».
«Anche tu, sei strano in un modo bello» rido piano e prima di abbassare gli occhi colgo i suoi, curiosi e meravigliati, e il modo in cui mi sta guardando mi mette a nudo. So esattamente cos'è quello sguardo, e che i suoi occhi color smeraldo adesso brillano di curiosità e desiderano la mia storia come non mai. È lo stesso sguardo che gli ho rivolto poco fa, nell'ufficio di Wilson, quando parlava delle urla. È lo sguardo dell'impotenza e della determinazione, del rispetto degli spazi altrui, ma della volontà di abbattere tutte le mura dell'altro con un soffio. È lo sguardo del «Ti prego, fammi entrare nella tua vita», ma entrambi sappiamo che è una supplica vana.
Lo osservo, mentre sospira e fuma quella sua sigaretta in silenzio, e so già che bramo i suoi segreti. Bramo le sue nottate insonni, i suoi incubi e le urla che lo fanno soffrire tanto; bramo il momento in cui tutto è cambiato, la ragazza che avrebbe voluto proteggere, così come lui brama Jonah. So che vuole chiedermelo, che la domanda ora è sulla punta della sua lingua ma non ha il coraggio di pronunciarla.
Neanch'io ce l'ho, Harry, neanch'io.
Così restiamo a guardarci in silenzio, consci che questo non è il momento adatto; il nostro passo è lento e rilassato ma le nostre menti saettano velocemente di pensiero in pensiero, i nostri occhi che ogni tanto s'incrociano... smarriti.
«Tu... tu sapevi di quello che è successo ai genitori di Yurim?» spezzo il ghiaccio che si è creato tra queste occhiate, e lo vedo scuotere la testa.
«È sempre stato un tipo silenzioso. E mi sorprende che sia sempre sorridente, quando ha un passato del genere».
Annuisco. «Io non ne avevo idea» mormoro in un breve sospiro, adocchiando i campetti da lontano, e sento il cuore sprofondare. Siamo già arrivati? «Quello che ho capito è che tutti noi nascondiamo molto più di quello che diamo a vedere» e il mio sguardo automaticamente saetta su di lui, e non sono per nulla sorpresa nel notare che anche lui sta guardando me. E so già che sta pensando esattamente a quello che penso io.
Sorride. «È un po' come parlare a degli specchi. Quando siamo da Wilson... Non sai mai davvero chi è la persona che hai di fronte».
Mi blocco un istante, a pochi passi dall'entrata del campetto, e guardo la schiena di lui, che è avanzato. «Harry... tu dici che siamo senza speranza?»
Lui arresta il passo qualche metro più avanti e quando si volta mi fronteggia, sorpreso. Lascia cadere per terra la cicca che teneva tra le dita e la pesta con il piede contro l'asfalto, per spegnerla. «Io credo piuttosto che siamo senza qualcosa per cui vale la pena sperare» mormora, lo sguardo basso e pensieroso.
«Io-»
Non ho neanche il tempo di formulare una frase di senso compiuto, che «Harry!» due ragazzi con gli abiti un po' trasandati ed il sorriso insolente sono contro la rete di cinta del campetto, e ci guardano curiosi. Sono Zayn e Niall.
«Io devo andare» dice lui semplicemente, ma per ora non accenna a muoversi.
Trattengo il respiro, e «Magari qualche volta posso restare?» azzardo e immediatamente mi mordo la lingua.
Harry sospira, prima di guardarsi alle spalle. «Forse è meglio che ci vediamo domani a scuola» mormora ed io annuisco in modo meccanico, mentre mi do mentalmente della stupida.
«Già, forse è meglio» dico soltanto, e lui si volta per poi correre all'interno del campetto, dai suoi amici che non hanno fatto altro che guardare la scena da lontano, oltre la sua spalla, con fare confuso.
Sospiro e m'incammino dall'altra parte, verso casa, quando un «Perché stai con quella malata?» giunge alle mie orecchie tra scherzi e risate varie. Con la coda dell'occhio vedo i due ragazzi ridere, ed Harry che si volta verso di me, si sfrega i capelli sulla nuca, imbarazzato. Forse spera che io non abbia sentito. O forse sta cercando una buona scusa per spiegare ai suoi amici perché stesse girovagando per Holmes Chapel con una malata come me.




Note.
Non sono pienamente - quasi per nulla - soddisfatta di questo capitolo. Si tratta di un capitolo di passaggio, perché il boom avverrà nel prossimo, che francamente non vedo l'ora di postare. Intanto qui c'è qualche indizio in più sul passato di Harry: chi sarà mai questa persona che urlava e per cui lui non ha potuto fare nulla? Lo scoprirete nei prossimi capitoli (:
Detto questo, vi prometto che cercherò - per quanto mi sarà possibile - di essere più celere nell'aggiornamento. Spero il capitolo vi sia piaciuto.
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Un bacio!


 

«Lasciami andare!» grido ancora e mi allontano di più, pentendomi di non aver messo in borsa lo spray al peperoncino. 
 

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Capitolo 8
*** Le scogliere della rovina ***



 

Perché il passato non si seppellisce da solo
invece di star lì ad aspettare di essere animato dal presente?
- D. H. Lawrence


 

L'erba qui è alta e incolta. Faccio fatica a camminarci, e mi domando quand'è stata l'ultima volta che chi di dovere ha dato una ripulita a questo posto. Non ho mai visto addetti veri e propri girovagare tra questi prati, adesso che ci penso. Mi chiedo se il sindaco di Holmes Chapel abbia intenzione di fare qualcosa per quel cancello arrugginito, per il personale che non si fa vedere o per gli uccellacci che ormai hanno fatto di questo posto una residenza definitiva; so già che la risposta è no, perché in fondo a chi importa di luoghi come questo o la stazione abbandonata?
Sospiro stancamente e mi siedo per terra, a gambe incrociate, e probabilmente sono l'unico individuo vivente nei dintorni.
«Ciao» dico semplicemente tenendo gli occhi fissi su quel nome familiare impresso sulla pietra. «Mi dispiace non essere venuta spesso in questi giorni, ma ho avuto un po' da fare, sai... Wilson ha cominciato un gruppo di sostegno per ragazzi della mia età» racconto e la lapide di Jonah Hawkins mi guarda, assente. Gli racconto delle nostre sedute, di Kim, delle cose che ho scoperto e di come va la scuola. Gli parlo dei sorrisi di Yurim, di Jean che sta tentando di insegnarmi a giocare a scacchi, dell'ironia inguaribile di Taylor, di Adam e dei passaggi che mi dà fino a casa, di Harry e tutte le volte che mi fa arrossire, dei nostri sbalzi d'umore; gli racconto della notte alla stazione, di quando mi ha detto che sono strana in un modo bello, e quando mi ha fatto capire che la mia unica certezza sono le amnesie. Ricordo quando anche Jonah era una certezza per me, e adesso è solo un'ombra evanescente che si allontana sempre di più. Anche la mia famiglia era una certezza, una volta. «È carino, sai?» mi ritrovo a dire pateticamente mentre penso ad Harry, e mi sento una quindicenne in preda agli ormoni e alla sua prima cotta. «Ha le tue stesse fossette» aggiungo intenerita, visualizzando le guance piccole di Jonah e quelle di Harry, che quando ride lo fanno sembrare molto più giovane della sua vera età. Peccato che lui sorrida poco e niente.
Il nome di mio fratello e le sue date di nascita e morte, così orribilmente vicine, mi fissano di rimando senza proferir parola. Eppure a volte mi sembra quasi di sentirlo, in quella sua risata chiara e cristallina che riempiva i silenzi, con il suo tono infantile e strascicato di quando pregava la mamma per lasciarlo rimanere ai campetti, «Altri dieci minuti, solo quelli, ti prego!»
Sistemo bene nel piccolo vasetto il mazzo di fiori freschi accanto alla lapide. Sono girasoli, perché a lui piaceva il colore, e lo affascinava l'idea che seguissero il sole durante tutta la giornata.
«La mamma ha trovato un nuovo lavoro» lo informo, poi strappo alcune erbacce intorno alla pietra e le getto alle mie spalle. Porto le ginocchia al petto e mi abbraccio le gambe, mentre sorrido rivolta verso la lapide. «E papà ha chiamato ieri. È a Dover. Ti ricordi quando ci siamo andati con mamma e papà in vacanza, due estati fa?»


«Non se ne parla»
«Dai Len, non fare la stupida... vai benissimo così!»
Scuoteva la testa ripetutamente, le braccia conserte e le gambe incrociate sulla sedia a sdraio. Era irremovibile. «Non voglio, mamma... mi vergogno troppo» sbottò ad un tratto la ragazza, le sopracciglia corrugate mentre osservava con risentimento le onde cristalline che si infrangevano sulla battigia, e tutta quella gente in costume che passeggiava sulla sabbia bianca di fronte a lei.
La donna dai capelli biondi e lucenti sbuffò, tornando in piedi. «Fai come vuoi... ma sei troppo testarda, non sai che ti perdi!» Lena scosse nuovamente la testa, convinta, mentre la madre si dirigeva in acqua insieme al figlio più piccolo e al marito.
In realtà, lei sapeva bene cosa si stava perdendo. C'era un caldo infernale ed era rimasta in spiaggia, sotto un ombrellone che non aiutava molto a ripararsi dalle alte temperature, in maglietta e pantaloncini. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tuffarsi in quelle acque ghiacciate, in modo da rinfrescarsi un po', ma la sua timidezza glielo impediva. Aveva appena raggiunto i sedici anni e detestava il proprio corpo con tutta se stessa; certo, era una cosa normale pensare queste cose alla sua età, ma si sentiva terribilmente inadeguata a starsene lì in costume in mezzo a tutti. L'idea di poter essere vista in punti che odiava di sé stessa la indisponeva e non poco.
Stava sfogliando le pagine del nuovo libro che aveva portato con sé in vacanza, quando si ritrovò investita da un fiotto gelido, e pochi istanti dopo si accorse di essere completamente bagnata, da capo a piedi. Sbatté le palpebre più volte prima di realizzare a pieno la sua nuova condizione, e ruotò di poco la testa, giusto per fulminare con lo sguardo il bambino che adesso le stava accanto, un sorriso beffardo in volto ed un secchiello vuoto per le mani.
«Sembravi avere caldo» si giustificò, mentre lei posava il libro, ormai inzuppato, sulla sdraio.
I suoi vestiti erano fradici, e non fece in tempo a mettersi in piedi che già il piccoletto aveva preso a correre via, il più velocemente possibile, per non essere acciuffato. «Sei un nano morto, Jonah!» strillava la ragazza rincorrendolo tra sdraio ed ombrelloni. Quando finalmente lo raggiunse gli saltò addosso con poca grazia, ed entrambi finirono sulla sabbia morbida. La punizione per il piccoletto fu solletico senza pietà, dal quale cercò di liberarsi in vari modi, rotolando o implorando perdono, e poco dopo Lena rise lasciandolo andare.
«Adesso vieni o no a fare il bagno con mamma, papà e me?» domandò il piccolo tirandola per un braccio.
Lei sbuffò. «Tanto mi hai già bagnata tutta...» borbottò liberandosi di canotta e pantaloncini, restando quindi in costume. Mentre si dirigeva verso la battigia, tenendo ben salda la mano del fratello minore, i suoi occhi incrociarono casualmente quelli di un ragazzo seduto sulla sabbia. Era bello, moro e con gli occhi chiari, la pelle leggermente abbronzata: lui sostenne il suo sguardo per qualche istante e, infine, le sorrise, mentre lei sentiva le sue guance avvampare violentemente.
«Hai visto?» mormorò Jonah al suo orecchio, dopo averla strattonata fino a farla piegare alla sua altezza. «Anche lui pensa che tu sia bellissima».


Quell'anno Jonah non aveva apprezzato particolarmente il Natale. Certo, si era sforzato di comportarsi bene come ogni anno per poter ritrovare, quella fatidica mattina, i regali sotto l'albero colmo di decorazioni; ma neanche l'aereoplano telecomandato, la betoniera gigantesca e i due modellini di automobili d'epoca erano riuscito a consolarlo, o, per lo meno, a fargli dimenticare il suo cattivo umore.
Era la mattina del ventisei dicembre, e Jonah compiva esattamente otto anni. Non aveva voglia di alzarsi dal letto, perché già prospettava una giornata orribile. Tutti i suoi migliori amici erano partiti per le vacanze, e lui non avrebbe potuto festeggiare perché era solo, solo come quel rametto di vischio che la mamma aveva appeso alla porta ma sotto al quale nessuno si era ancora baciato. Che sciagura, compire gli anni nel periodo natalizio! E poi cos'era un compleanno senza una festa? Non era un vero compleanno; sarebbe rimasto di sette anni per sempre, perché non aveva potuto festeggiare, e mentre tutti i suoi amichetti ne avrebbero avuti otto lui sarebbe restato indietro, e l'avrebbero per sempre trattato come "Quello più piccolo".
Per questo Jonah non voleva alzarsi dal letto, rimaneva intrappolato nel caldo abbraccio delle coperte, aspettando che la giornata si consumasse il più presto possibile.
Tuttavia fu costretto ad issarsi a sedere, per lo spavento, quando udì la porta della sua camera spalancarsi di botto. «Tanti auguri a te!» intonavano la canzoncina tre voci a lui ben note, che non erano quelle dei suoi amichetti di scuola... ma andava bene lo stesso. Entrambi i suoi genitori e Lena fecero capolino nella stanza, portando con sé quella che probabilmente era la torta più grande che Jonah avesse mai visto. Non era una di quelle comprate nei ristoranti, ma era fatta in casa, ed era la torta più bella e coloratissima di sempre: era ricoperta da uno strato di smarties colorati, e Jonah avvertiva da lontano l'odore della nutella, proprio come piaceva a lui. Sorrise a trentadue denti.
«È bellissima!» fu il suo commento dopo che sua madre l'ebbe appoggiata sulle sue ginocchia, sopra il copriletto.
«Non possiamo assicurarti che sia buona... visto che l'ha fatta tua sorella» scherzò il padre, ma gli occhi del bambino s'illuminarono a quelle parole.
«L'hai fatta davvero tu?» domandò rivolto alla sorella maggiore, meravigliato. «Grazie grazie grazie! Ti voglio un mondo di bene».
La mora sorrise e gli scompigliò i capelli biondi con tenerezza, mentre si ritrovava stritolata nell'abbraccio del fratellino. «Di nulla, pulce. Non sai che faticaccia... quindi ora soffia quelle candeline perché ne voglio subito un pezzo!»
Jonah non riusciva a smettere di sorridere, era troppo felice. Soffiò in fretta e furia le candeline – che erano otto, porca miseria! – e prese una fetta gigantesca, e si sporcò la bocca e il naso di nutella; sua madre lo rimproverò con fare rassegnato, ma a lui non importava, perché quella era la torta più buona che avesse mai mangiato e voleva godersela per bene.


«Questo posto è pazzesco!» Jonah rideva e correva oltre la recinzione, inciampando ogni tanto e cadendo sul prato incolto che rivestiva in maniera rada le rocce di pietra bianca sotto ai suoi piedi. Sua madre lo seguiva, dall'altra parte della recinzione, con lo sguardo preoccupato e ansioso; e sussultava ogni volta che lo vedeva inciampare o rallentare.
«Jonah, ti dispiacerebbe venire dentro la recinzione? È pericoloso lì». Il bambino sbuffò mentre correva, ma non accennò a venire dall'altra parte.
Lena e suo padre camminavano poco più in là, in un posto "sicuro", uno accanto all'altro, e osservavano il paesaggio meravigliati. L'Irlanda, a detta di entrambi, era uno dei posti più belli al mondo. Ecco perché Lena era stata così entusiasta all'idea di passare le vacanze estive lì con la sua famiglia, perché adorava quei prati sconfinati e quei paesaggi mozzafiato. Come quello che avevano di fronte adesso.
Le scogliere di Moher erano uno dei luoghi turistici più battuti dell'Irlanda, e solo adesso Lena capiva davvero il perché: erano delle rocce altissime, a strapiombo sul mare, le quali offrivano una panoramica semplicemente favolosa; i turisti osservavano sempre a bocca aperta quel verde che scivolava violento sull'azzurro del mare, che quel pomeriggio sembrava stranamente burrascoso.
«Jonah, adesso basta, okay? Torna immediatamente qui!» urlò la madre, quasi furiosa, indicando un punto accanto a sé. Il bambino roteò gli occhi al cielo.
«Ma qui è più molto bello, mamma! Vieni anche tu, si vede meglio il mare... è bellissimo!» rise e continuò a correre indisturbato.
Le scogliere erano alte oltre duecento metri, e per questo sulle rocce, ad un certo punto, erano state poste delle recinzioni in legno per dare un'indicazione orientativa ai turisti, così che non potessero avventurarsi troppo oltre e rischiare. Jonah le aveva bellamente ignorate passandovi al di sotto, e ora correva indisturbato su quelle rocce scoscese e pericolanti, mentre sua madre lo minacciava in tutti i modi per farlo passare alla parte sicura.
Ma a lui non importava, e continuò a correre liberamente sulla scogliera, fino a quando il suo piede non incontrò una roccia inaspettata, e perse l'equilibro in un punto decisamente non troppo favorevole.
E cadde giù.
Le scogliere di Moher si trovano nella costa occidentale del Clare, una contea dell'Irlanda; il nome originale in gaelico irlandese è "Aillte an Mhothair". Significa "Scogliere della rovina".


L'aria mi sferza violenta il viso mentre corro, ho il respiro pesante e sento le gambe cedere, ma devo sbrigarmi perché sono in estremo ritardo. Non immaginavo di aver perso così tanto tempo, e, per quanto possa correre adesso e cerchi di fare più in fretta possibile, avrei già dovuto essere lì dieci minuti fa. Mi fermo davanti al campetto da calcio e ansimo pesantemente, mentre guardo all'interno: lui non c'è.
Non ci sono nemmeno gli altri bambini, il che vuol dire che hanno finito di giocare già da un po'. Spero che non si sia rifugiato in quel sudicio spogliatoio che c'è qui, lo sa benissimo che la mamma detesta quando va lì, perché è sporco e pieno di germi. E non si sa mai chi si può trovare all'interno. È già tanto che nostra madre gli conceda di venire a giocare in questo posto, che non è esattamente ben frequentato.
Corro all'interno del campetto, ma gli unici che ora riesco a vedere sono dei ragazzi, appartati in un angolo degli spalti, che ridono e fumano qualche sigaretta. Sospiro, non ho nessun altro a cui chiedere. Mi faccio coraggio e mi avvicino, spero soltanto che non siano dei maniaci.
«Scusate» balbetto imbarazzata, cercando di attirare la loro attenzione.
Il primo a voltarsi è un riccio dagli occhi chiari che ha l'aria vagamente familiare. Forse l'ho visto a scuola. Subito dopo si voltano un biondo che ha indosso un cappellino con la visiera messo al contrario ed un moro pieni di tatuaggi che ha tra le mani una bomboletta spray. Quando mi vedono, gli ultimi due si voltano meccanicamente verso il primo, il quale non ha smesso di guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un fare un po' sorpreso. «Che ci fai qui?» chiede in un tono un po' rude, e si avvicina di qualche passo.
M'irrigidisco e faccio un passo indietro, e lui per qualche motivo sembra sorpreso da questa mia reazione. Io spero solo che non voglia picchiarmi. «Sto cercando mio fratello» dico.
«Tu hai un fratello?» chiede confuso, e io aggrotto le sopracciglia alla sua sorpresa. Che razza di domanda è?
«È bassino, cioè in realtà è parecchio alto per la sua età, più o meno così» dico indicando un punto sotto il mio seno «ha otto anni, i capelli biondi, gli occhi chiari e le fossette... non è che lo avete visto qui intorno?»
«Noi non abbiamo visto nessuno» sbotta il biondo in un tono scorbutico, liberando una nuvola di fumo dalle labbra, mentre brandisce una sigaretta. «Harry, andiamo, mandala via».
Ma il ragazzo più vicino guarda l'amico per un secondo e scuote la testa quando ritorna a posare gli occhi su di me. «Tuo fratello... era qui?» dice, e il suo tono è decisamente più calmo e paziente di quello del biondino.
Annuisco. «Era con i suoi amici a giocare a calcio... Sarei dovuta venire a prenderlo io, ma sono in ritardo, e adesso lui chissà dov'è» mi passo una mano tra i capelli, disperata. Mamma mi ucciderà.
Il ragazzo dai ricci scuri si guarda intorno, poi torna a posare lo sguardo su di me. «Hai idea di dove possa essere andato?» dice risoluto.
«Oh mio Dio, Harry dimmi che stai scherzando» si lamenta il suo amico moro, scuotendo la testa, e si siede sugli spalti accanto all'altro. Nessuno dei due, mi fanno capire, ha intenzione di aiutarmi. Decido di ignorarli e torno a concentrarmi sul mio buon samaritano che, nonostante non mi conosca, si sta dimostrando parecchio gentile nei miei confronti. Non l'avrei mai detto, specie considerati gli amici che si ritrova.
«Non so, magari è dentro lo spogliatoio» indico il piccolo edificio diroccato ai lati del campo, e lui si volta da quella parte.
«Diamo un'occhiata dentro».
Perlustriamo insieme l'intero spogliatoio, i bagni, e pure gli armadietti, nel caso gli sia venuta voglia di fare uno dei suoi scherzi stupidi. Ma di Jonah nemmeno l'ombra.
Sbuffo, e adesso sono anche irritata, oltre che preoccupata. «Ma dove diavolo si è cacciato?» sbotto mentre torniamo all'esterno e tiro il cellulare fuori dalla tasca. Devo almeno avvertire mia madre che non lo trovo.
«Stai tranquilla, si troverà... C'è qualche altro posto in cui gli piace andare?» mi domanda mentre mi dirigo fuori dal campetto, e lui per qualche motivo non accenna a fermarsi, ma mi segue.
Mi fermo sul marciapiede. «Beh, potrebbe essere andato al parco qui vicino... Oppure ha deciso di tornare a casa a piedi» penso ad alta voce.
«Allora forza, andiamo» proclama lui, ma quando mi prende per mano e mi tira da una parte io lo strattono e faccio qualche passo indietro, tentennante. Questo ragazzo mi mette paura. È stato parecchio disponibile ad aiutarmi, certo, ma l'ultima cosa che voglio è che uno sconosciuto mi accompagni per la città a cercare mio fratello.
«Oh non devi disturbarti... davvero. Anzi, sei già stato molto gentile ad aiutarmi prima. Ti ringrazio» dico semplicemente, e simultaneamente lo vedo sollevare un angolo delle labbra.
«Dai Lena, non fare la sostenuta. Adesso prendo la macchina di Zayn e lo andiamo a cercare»
«Non c'è alcun...» mi paralizzo, quando mi rendo conto delle parole che ha appena pronunciato. «Come sai il mio nome?».
Lui aggrotta le sopracciglia e mi osserva confuso. «Stai scherzando, vero?» e ride, scuotendo la testa.
Faccio qualche passo indietro. «No, sono seria. Io non ti ho detto come mi chiamo» sento la mia voce tremare leggermente, e lui sembra allarmato alle mie parole.
Eppure si sforza di tirare indietro la testa e ridere. «Non fare la stupida, Len». Lo vedo avvicinarsi e mi prende un polso; mi ritrovo a lanciare un urlo. Un urlo che lo immobilizza sul posto e lo lascia lì, con gli occhi spalancati e sconvolto.
«Lasciami andare!» grido ancora e mi allontano di più, pentendomi di non aver messo in borsa lo spray al peperoncino.
«Lena, sono Harry, cazzo!» agita le braccia come per farsi vedere, come se fossi cieca, ma io scuoto più volte la testa.
«Io non ti conosco» sbotto spaventata, e indietreggio sempre di più mentre lui si avvicina. Mi fa paura. «Non so neanche chi sei!»
«Lena, ma che diavolo-»
«Stammi alla larga, okay? Se non vuoi che chiami la polizia, non devi più toccarmi» dico a voce alta e l'ultima cosa che vedo, prima di voltarmi e correre via, sono i suoi occhi chiari, distrutti e spezzati, che s'immergono nei miei.
«Io te l'avevo detto che era schizzata» dice qualcuno, ma le voci alle mie spalle sono già un eco lontano e indistinto.



Note.
Stavolta non vi ho fatto attendere troppo per il capitolo, vero? Vero? Mi sono impegnata, ahahah
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, shock a parte; e poi in questo capitolo si scoprono più cose riguardanti il piccolo Jonah e la sua morte. Grazie mille a tutti voi che leggete e seguite la storia, e un grazie speciale soprattutto a chi prende il tempo di recensire <33
Inoltre vorrei suggerirvi la nuova storia della mia amica Anna (con la quale scrivo The Game a quattro mani) che è appena stata pubblicata ma, vi assicuro, è davvero bella. Click

Per il resto, mi trovate qua: ask - facebook
Un bacio!

 

Dal capitolo 9
«Stammi alla larga, okay?»
«Sarà meglio per tutti e due
»

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Capitolo 9
*** Lasciar perdere ***


 

Io "scordare" è un verbo che non conosco.
Scordare è più crudele di dimenticare: chi è dimenticato viene tolto dalla mente, chi è scordato viene tolto dal cuore.

- G. Carcasi



Sospiro stancamente mentre attraverso il piccolo cortile del liceo di Holmes Chapel. Ho i capelli disordinati, i collant della divisa strappati e la stanchezza sotto gli occhi.
«Che hai fatto, stanotte?» mi domanda giustamente Kim quando mi vede, la sua solita aria da mamma apprensiva che traspare dagli occhi scuri. Di norma sbufferei di fronte a quest'atteggiamento, ma non oggi. Oggi, a discapito delle mie calze strappate e delle profonde occhiaie che fanno del mio viso niente meno che la brutta copia di uno degli zombie de "La notte dei morti viventi", sono di buon umore. Non so il perché, ma è una di quelle giornate in cui tutto va bene a prescindere, in cui nemmeno qualche terribile verifica a sorpresa da parte di quell'arpia della professoressa Ross potrebbe mai smontare quel profondo sentimento di gioia che – no, d'accordo, cercherò di essere più realista. Ma quello che voglio dire è che le cose vanno bene.
«Non riuscivo a dormire» scrollo le spalle e mi sistemo meglio lo zaino sulla schiena, mentre ci dirigiamo all'interno dell'edificio. Ci sono abituata, all'insonnia. È una cosa con cui convivo ormai da un po' e, francamente, non mi dispiace così tanto; si è rivelata una buona amica, soprattutto quando si tratta di tenere lontani determinati incubi. Anche Kim ci è abituata, alle mie stranezze: al mio perenne mal di testa, ai miei «Per caso ricordi in che mese siamo?», alle lacrime, ai sospiri, alla rassegnazione. Non credevo che ci si potesse mai abituare a certe cose.
«Dovresti prendere qualcosa prima di andare a letto, che so una camomilla o...» sento Kim borbottare contrariata prima che il mio cervello cominci a sostituire il resto della sua filippica con un continuo e monotono Zzzzzz; le sue labbra blaterano parole che per me al momento non hanno senso, e non mi ci vuole molto a realizzare che lo stesso fenomeno avverrà con le interessantissime lezioni che mi aspettano quest'oggi. Sbatto le palpebre: ripensandoci, forse Kim non ha tutti i torti riguardo al prendere qualcosa prima di dormire.
Ma va tutto bene, oggi è una bella giornata.
«...Stai almeno ascoltando una parola di quello che dico, Helena Hawkins?» la voce di Kim torna ad essere più chiara e distinta alle mie orecchie, e scuoto piano la testa, come per risvegliarmi dallo stato di trance in cui sono caduta. «Oh, scusami. Non avevo realizzato che eri occupata a guardare il tuo nuovo ragazzo».
Sento le mie sopracciglia corrugarsi sulla fronte, e «Ma di che stai parlando?» dico.
Kim, per tutta risposta, si limita a farmi un cenno della testa, indicando proprio davanti a me: solo adesso mi accorgo della presenza di tre ragazzi, dalle facce ben conosciute, seduti sul muretto di fronte a noi. Quasi non faccio caso alla frecciatina che la mia migliore amica mi ha mandato qualche istante fa, e piuttosto dico: «Ti dispiace se, ecco, io...»
Lei rotea gli occhi, e: «Ci vediamo in classe». L'abbraccio velocemente, perché sappia che è la migliore del mondo.
Mentre Kim si allontana, io mi sistemo meglio lo zaino sulla spalla e mi avvicino al muretto timidamente, perché, anche se adesso io ed Harry abbiamo un po' più di confidenza, i suoi amici continuano ad intimorirmi, con i loro sguardi d'odio e di sufficienza ed il loro fare indifferente. M'intimoriscono quando, non appena mi notano, si affrettano a dare una gomitata ad Harry ed indicarmi con il mento, una sorta di disgusto misto ad odio represso nei loro sguardi.
Eppure, imperterrita, io avanzo. Harry indossa la divisa scolastica, la giacca blu abbandonata sul muretto, la camicia leggermente sbottonata sul davanti con le maniche arrotolate fino ai gomiti, in testa un berretto di lana che gli copre i ricci i bruni e che in classe non è concesso portare. Mentre mi avvicino anche lui mi guarda, e per un istante rimango sorpresa dai suoi occhi, freddi e lontani, che ora come ora sembrano così simili a quelli di Niall e Zayn. Anche lui sembra disgustato.
«Ciao» mormoro quando sono a debita distanza, una mano che penzola stupidamente lungo il fianco e l'altra che sorregge lo zaino sulla spalla.
Harry mi osserva per un istante, sospira. E poi torna a parlare con Zayn, che lo ascolta mentre aspira da una sigaretta, come se nulla fosse.
Io inspiro ed espiro, decisa a far entrare più aria possibile nei polmoni, in modo da sovrastare le loro voci. Prendo un po' di coraggio, gonfio il petto e «Dove sei stato?» vorrei chiedere. Ma le parole mi muoiono in gola, si sciolgono nella bocca come una pillola amara e faccio fatica anche a ricacciarle indietro. «Io ero alla stazione, avevi detto che saresti venuto», «Ti ho aspettato per tre ore intere, cazzo!», «Vuoi almeno guardarmi in faccia mentre parlo?» mi ronzano in mente, e mentre questi pensieri si aggrovigliano dentro di me nella maniera più disordinata e confusa, l'unica cosa che riesco a vedere è la figura di Harry che mi ignora bellamente. E resto a bocca aperta, in procinto di parlare, ma mai un suono lascia le mie corde vocali.
Così mi volto e m'incammino verso l'entrata, senza più dire nulla.
Perché lui non mi ha nemmeno detto "Ciao".


L'ora soporifera della professoressa Ross mi permette di concedermi il mio meritato riposo, e quando esco dall'aula di matematica sono come nuova – o quasi. Kim ha tentato di parlarmi, chiedermi di Harry – chissà perché è così interessata all'argomento! – ma dopo i primi quesiti del suo interrogatorio ha capito che ero su tutt'altro pianeta, e piuttosto ha deciso di prestare attenzione ai radicali scritti alla lavagna. Penso che dovrei provare a migliorare in matematica, ma l'idea di pagare un professore privato è fuori discussione, per cui ho il sentore che dovrò cavarmela da sola; oppure potrei corrompere la Ross, ma neanche quello rientrerebbe nel mio budget purtroppo.
È il cambio dell'ora, e il corridoio brulica di studenti che vanno a destra e a manca come formiche, ed è in questi momenti che mi sento davvero piccola. Devo star andando parecchio piano, perché qualcuno mi spintona da una parte, e sto per voltarmi e imprecargli contro ma non ne ho il tempo perché finisco a sbattere contro qualcun altro. Due mani grandi mi sorreggono per qualche istante, poi, come fossi la peste in persona, mi allontanano con fare repentino. Sollevo lo sguardo e non sono per nulla sorpresa nel vedere le iridi verdi di Harry che mi scrutano attraverso un velo di ghiaccio.
Piuttosto mi sorprendo di me, delle mie mani che si allungano per afferrare i polsi di lui, che lo strattonano da una parte, fino agli armadietti. «Senti» mi ritrovo a dire. Evito accuratamente di incrociare i suoi occhi, m'inumidisco le labbra.
Lui si appoggia al muro con le braccia conserte, l'espressione beffarda e strafottente. «Oh, io ti ascolto» e la sua risata risulta quasi canzonatoria, come se adesso si stesse prendendo gioco di me.
Sbuffo. «Sono stanca, Harry» dico, e lui sembra sorpreso.
Tira la testa all'indietro e ride sonoramente. «Tu sei stanca?».
Incrocio le braccia al petto, intimidita dal suo tono. «Sono stanca dei tuoi atteggiamenti» preciso. «Forse è colpa mia, forse semplicemente avrei dovuto darti ascolto all'inizio e lasciarti perdere, ma pensavo che, dopo la scorsa settimana...» Pensavo cosa? Che saremmo diventati amici, usciti insieme, ci saremmo raccontati i nostri segreti più profondi? Non c'è nulla di amichevole tra me e Harry, nulla. Mi guarda in attesa, un sopracciglio sollevato e l'aria spazientita. «Non sopporto quando fai così! Un secondo prima sembri volermi leggere dentro, e quello dopo m'ignori. Sei estenuante» sbotto.
Mi aspetto che adesso rida, come ha fatto fin'ora, eppure lo vedo serrare la mascella e indurire lo sguardo. «Così sono io che t'ignoro, eh?» replica in un tono più alto del normale. «Lena, vai a raccontare le tue balle a qualcun altro. Non puoi prendere in giro me».
Serro i denti, e i pugni si chiudono automaticamente lungo i fianchi. Vorrei dirgli che non può comportarsi in questo modo, che è sleale, ma in fin dei conti lui mi aveva avvertito. «E non lo so perché ce l'ho con te, probabilmente tra una settimana o tra due giorni ti avrò scordata» ha detto quella sera. Ed è questo quello che sta facendo, ora? Mi sta dimenticando? È stato davvero così facile, per lui? Mi ha avvertita, e io non gli ho dato ascolto. «Ascolta, non sono dell'umore giusto per i tuoi sbalzi d'umore o-»
«Sbalzi d'umore? Ma ti vedi?» lo sguardo di Harry adesso è scocciato, come se questa fosse l'ultima goccia. «È che non sei altro che una ragazzina viziata. Ti piace giocare? Sappi che non puoi farlo con me».
«Tu deliri!»
Lui rotea gli occhi al cielo. «Senti chi parla! Sbaglio o tu "neanche mi conosci"? Anzi, è meglio che mi allontani ora, prima che faccia di nuovo la figura del maniaco» sputa indignato.
«Ma di che diavolo parli!» aggrotto le sopracciglia, non capendo le sue ultime parole. Solo adesso mi accorgo che qualcuno degli studenti che prima ci passavano accanto si è fermato per assistere alla nostra discussione. Sento le guance avvampare, ma Harry quasi non ci fa caso.
«Stammi alla larga, okay?»
«Sarà meglio per tutti e due»
«Bene».
«Bene!».
Mi volto ed entrambi andiamo in direzioni opposte, gli sguardi corrucciati e la mente confusa, mentre lo sciame di studenti torna ad occuparsi dei propri affari. Lo spettacolo è finito.


«Non ci credo. Sta scherzando. Stai scherzando?»
«Certo che no!»
«In fondo c'era da aspettarselo, da uno come lui»
«È vero, però lei e Harry sembravano aver legato, nell'ultimo periodo»
«Noi non...»
«Vi siete baciati, almeno?»
«Ma sei pazza o cosa?»
«Chiedevo solo...»
«Certo che non ci siamo baciati, per chi mi hai presa?»
«Lascia perdere Taylor, te l'ho detto che quel ragazzo è una causa persa!»
«Aspetta, ripetimi quello che ti ha detto»
«Te l'ho già ripetuto mille volte!»
«Vuole che lei gli stia alla larga»
«È pazzo!»
«Secondo me era sotto l'effetto di chissà quali droghe»
«No, lui non era...»
«Io te l'avevo detto Lena, che lui era da evitare come la peste»
«Sì, ma-»
«Tanto, qualsiasi cosa tu le dica, lei non ti ascolta a prescindere»
«Questo non è vero!»
«Sta' tranquilla, Len. Ti sistemo io con qualche bel ragazzo. Vediamo... Adam! Che ne pensi di lui? Secondo me gli piaci»
Sbuffo. Nella mia camera ci siamo io, Kim, Taylor, e i nostri rispettivi libri di fisica aperti su pagine a caso, gli astucci ancora chiusi e la nostra buona volontà che fa un sonnellino sul mio letto. C'è la merenda a base di té e biscotti che stiamo divorando, ci sono le nostre chiacchiere che vanno avanti da più di mezz'ora, a discapito del test di domani. L'intenzione, in principio, era quella di studiare.
Mia madre oggi è dal dottor Green e ha il turno fino a tardi, per cui Kim e Taylor si fermano a dormire qui, stanotte. Nel mio letto entrano bene due persone, e il divano della mia camera è molto comodo; dovremo stringerci un po', ma va bene lo stesso. Ci sarebbe anche la stanza di Jonah in effetti, ma io in quella non entro mai.
«Ma Adam non mi piace» sospiro stancamente e volto una pagina del libro che ho di fronte, con fare svogliato.
Con la coda dell'occhio vedo le sopracciglia di Taylor sollevarsi dalla curiosità. «Allora Harry ti piace!»
«No, lui...»
«Non mentire» mi intima Kim prima di nascondere il viso nella sua tazza di té, l'aria di chi la sa lunga.
«Okay, d'accordo. Forse un po' mi piace». Le mie due amiche si sorridono vittoriose e si scambiano il cinque, di fronte al mio sguardo rassegnato.
Da quando Taylor e Kim si conoscono, hanno stravolto la mia quotidianità: sono il giorno e la notte, la quiete e la tempesta. Kim è come un bagno caldo, parlare con lei è rilassante, ti fa sentire a casa, protetta. Taylor è una giornata al mare, le montagne russe, il vento che ti sferza il viso; il suo sarcasmo e le sue battute ti fanno dimenticare i momenti peggiori. Entrambe sono un toccasana, per una come me.
«Ce ne hai messo di tempo, per ammetterlo» sorride Kim.
«Ahimé, ragazza, ti sei appena gettata di peso nelle sabbie mobili» è il commento più pratico di Taylor, e sono sicura che, scherzi a parte, lo intenda davvero.
Rido. «Ma tanto non ha più importanza, ora». Per quanto Harry mi possa piacere – piacere, è una parola grossa – qualsiasi cosa esistesse tra di noi è stata troncata in definitiva questa mattina, dal suo sguardo indignato e dalla sua esplicita richiesta di "stargli alla larga".
La bionda rotea gli occhi al cielo. «Oh, lo sai com'è, quello Styles. Tra una settimana tornerà con la coda tra le gambe».
«Oh sì, sicuramente» dico, e il sarcasmo trasuda da tutte le mie parole. Perché mai dovrebbe aver voglia di parlarmi nuovamente? È stato molto chiaro oggi, e non c'è davvero altro da dire. Per di più, non riesco ad immaginarmi la figura di Harry Styles che torna con la coda tra le gambe.
«Forse Lena dovrebbe semplicemente lasciarlo perdere». Già, forse.
«Tu dici?» Taylor solleva un sopracciglio, ed è confusa; mi chiedo da che parte stia.
«L'hai detto anche tu, che Styles è una canaglia» ribatte la mora, e qui riesco a percepire il suo sguardo apprensivo e preoccupato addosso, lo stesso sguardo che mia madre non mi rivolge mai.
Taylor annuisce con fare sapiente. «È vero. In effetti al posto tuo io non vorrei averci mai niente a che fare».
«Non capisco perché siete così severe con lui» sposto gli occhi sul tavolo, mi sento giudicata. Come se avessi fatto qualcosa di proibito. «Forse è un po' scapestrato, ma...»
«Scapestrato?» Taylor scoppia a ridere «Te l'ho detto, io, che è un pericolo pubblico. Secondo te perché tutti gli stanno alla larga? Specie dopo quello che è successo a Manchester l'anno scorso...»
Inarco le sopracciglia. «Di che parli?» e lei spalanca gli occhi.
«Non lo sai?» dice, e per un attimo i suoi occhi si beano della possibilità di raccontare la cosa anche a me. Kim sembra indifferente, e deduco che conosca già questa storia. «Fino all'anno scorso, Harry era amico di gente pessima» comincia, appoggiando la propria tazza sul tavolo che sta fra di noi «Pessima, davvero! E se pensi a Niall e Zayn sei sulla strada sbagliata, perché un paio di vetri rotti e qualche spinello di troppo non sono niente in confronto alla roba di cui erano capaci i fratelli Tomlinson». Sollevo le sopracciglia, mentre Kim sospira e mastica l'ultimo biscotto. «Rapine nei negozi, auto rubate... Matt e Louis erano più che vandali, erano veri e propri delinquenti. Credo che Harry li abbia conosciuti proprio a scuola, loro erano un po' più grandi, ma erano sempre all'uscita, in modo da vendere l'erba ai ragazzi; Harry credo comprasse la roba da loro. Non so bene come, ma sta di fatto che hanno cominciato a passare più tempo insieme. In quel periodo Harry era in punizione un giorno sì e l'altro pure, oppure sospeso da scuola. Un sabato sera andarono a Manchester, Harry, Matt, Louis ed altri amici, ed è lì che successe qualcosa. Non ne sono sicura, nessuno ha mai detto niente... Ci sono un sacco di voci in giro, ma potrebbero anche essere tutte false, per quello che sappiamo. Tutto quello che so è che il lunedì Harry non era a scuola, ed è stato via per tre settimane intere. Oh, e Matt e Louis Tomlinson non sono più stati visti ad Holmes Chapel da quella gita».
Socchiudo le labbra al racconto di Taylor. Non so cosa dire, Harry non mi ha mai detto niente al riguardo; ma, a pensarci bene, cos'è che mi ha davvero detto di sé? Niente. Non so niente di Harry Styles, se non che ha quasi diciott'anni, detesta le urla e trascorre tutti i pomeriggi della sua vita sugli spalti del campetto da calcio di Holmes Chapel con i suoi amici a fumare, oppure a fare qualcosa di illegale da qualche parte. Cosa so del suo passato? Dei suoi desideri? Delle sue paure?
Taylor si stringe nelle spalle. «Forse ha ragione Kim, sai. Forse in questo caso la cosa migliore da fare è lasciar perdere».

Note.
Salve! Stavolta non mi sono fatta attendere troppo con questo capitolo, visto? Anche perché un po' mi dispiaceva abbandonarvi in una situazione di precarietà ahaha E poi vorrei ringraziarvi per le numerose recensioni dello scorso capitolo, a cui spero di riuscire a rispondere non appena posto!
Grazie a tutti coloro che leggono questa storia <3
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Dal capitolo 10
[...] non so se essere più sconvolta per il fatto che i due si siano fermati a chiacchierare per le corsie del supermercato o per l'idea di Wilson che fa la spesa. Lui mangia?



 

 
   

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Capitolo 10
*** Più presente ***


 


E' come se socchiudesse gli occhi di fronte alla sua vita per non vederla.
- L. Tolstoj



L'ufficio della professoressa White è rettangolare e molto luminoso: alle spalle della cattedra, che è parallela al lato più corto della stanza, un'enorme finestra occupa l'intera parete, regalando alla camera la vista di tutto il campo da tennis della scuola. Alla sinistra della scrivania, la parete più lunga è occupata da una grande libreria che copre il muro per intero, stracolma di libri da ogni parte; variano da sociologia, a filosofia, a psicologia, e credo che da qualche parte ci siano anche vari romanzi d'autore perché la White, come mi ha sempre spiegato lei stessa, è «una che legge anche e soprattutto per diletto». Le poltrone che sono qui, proprio di fronte alla scrivania, sono di un azzurro scuro che fa pensare al mare in tempesta, eppure quando ci sprofondo a me vengono in mente solo quelle comode dell'ufficio di Wilson, e la cosa mi terrorizza e mi rasserena, contemporaneamente.
Di solito quando sono qui ad attendere mi ritrovo sempre a camminare su e giù per la stanza, e mi perdo nei titoli dell'infinità di volumi che stanno sulle mensole, e quasi non mi accorgo dello scorrere del tempo. Oggi piuttosto, sono subito sprofondata nella poltrona esageratemente comoda e ho cominciato a guardarmi intorno con impazienza. Adesso sbatto incessantemente la punta del piede contro il pavimento e fisso la porta, chiusa, da almeno dieci minuti. «Aspetta qui» è tutto quello che mi è stato detto in risposta alle mie domande curiose; e io aspetto.
La professoressa White è l'insegnate di sociologia, nonché la psicologa della scuola. Fino a qualche mese fa essere convocata nel suo ufficio non sarebbe stata una grande novità per me, anzi, si trattava di una cosa all'ordine del giorno; addirittura spesso ero io ad attraversare l'ampio corridoio che conduceva agli uffici e alla presidenza, per poi fermarmi e aprire la porta scura di quella stanza dalla luce sempre troppo accecante, senza preoccuparmi minimamente di bussare, e sbatterla alle mie spalle. Fino a qualche mese fa, sarei stata io a desiderare disperatamente un colloquio con la White, mi sarei infilata nel suo ufficio piangendo e pregandola di dirmi cosa diavolo mi stesse succedendo.
È stata proprio lei a capire delle amnesie, lei a consigliarmi il dottor Wilson – da quel momento ho smesso di frequentare con tanta assiduità il suo ufficio, in quanto «Uno strizzacervelli basta e avanza!».
Ecco perché adesso sono così perplessa, e picchietto nervosamente con il piede sul pavimento: non me lo aspettavo. È successo oggi, proprio durante la lezione di sociologia con lei: ho avuto una lieve amnesia, nulla di grave, e ho domandato al mio compagno che giorno fosse. Nell'udire la sua risposta, «Cinque Dicembre», ho spalancato gli occhi e ho riso: «Davvero? Io ero convinta fossimo ad Ottobre». Perfino il mio vicino di banco non ha fatto troppo caso a quella risposta, perché ormai è abituato alle mie stranezze. Ma la White stava guardando, e mi ha lanciato un'occhiata perplessa, quasi preoccupata; e alla fine dell'ora mi ha invitata per un viaggetto nel suo ufficio.
Probabilmente era convinta che stessi migliorando, che Wilson mi stesse effettivamente dando una mano. Pregusto mentalmente il momento in cui scuoterò la testa sconsolata al cospetto della donnina esile dai capelli grigi, e «A quel vecchio pazzo interessano solo i soldi!» dirò; e sarà soddisfacente vedere il volto indignato della White, che mi guarda con comprensione. Magari convincerà anche mia madre a farmi interrompere le sedute con lui.
Proprio mentre sviluppo questi pensieri sento la porta aprirsi con uno scatto ed una donna piccola ed esile fa il suo ingresso nella camera, i tacchi bassi che sbattono contro il parquet scuro della camera; indossa un'elegante camicetta bianca, una gonna da tailleur color grigio topo che s'intona perfettamente con i suoi capelli un po' troppo disordinati, ed un'espressione piuttosto stanca.
«Buon pomeriggio» dice tuttavia con un tono stranamente sereno, mentre lascia cadere con noncuranza alcune scartoffie sul tavolo di fronte a me.
Io non le rispondo: resto in silenzio e le rivolgo un breve cenno con la testa, mentre la guardo accomodarsi sulla poltrona dietro alla scrivania. «Come stai?» domanda ancora, appoggiandosi allo schienale azzurro e concedendomi un sorriso pacato.
Sollevo le spalle. «Bene» è la mia risposta spicciola, che sembra quasi deludere le aspettative della donna. Non si ricorda, per caso, che non sono esattamente una persona loquace?
«Raccontami... Come sta andando con le amnesie?» chiede ad un tratto, ed io deglutisco. So che, in fin dei conti, sono qui per questo, ma avrei preferito evitare il discorso il più a lungo possibile.
Faccio spallucce per tutta risposta, e la donna sospira, appoggiando il mento sul palmo della mano, sostenendosi sul tavolo.
«Ci sono stati miglioramenti?».
Scuoto la testa.
«Ed il dottor Wilson...»
«A Wilson non interessa granché» mi ritrovo a dire con gli occhi bassi, mentre mi torturo le mani. Forse mi sento in colpa per quello che ho appena detto, forse non sono altro che una piccola ingrata.
La White scuote la testa. «Ho parlato con lui due giorni fa, e non sono del tuo stesso avviso».
Spalanco gli occhi, e sento una morsa allo stomaco. «Lei ha... ha parlato con Wilson?» deglutisco di nuovo, e quasi simultaneamente la White allunga verso di me il vassoio che ha accanto, contenente una caraffa piena d'acqua e qualche bicchiere di vetro.
«L'ho incontrato al supermercato» dice mentre mi guarda versare dell'acqua in un bicchiere, ed io non so se essere più sconvolta per il fatto che i due si siano fermati a chiacchierare tra le corsie del supermercato o per l'idea di Wilson che fa la spesa. Lui mangia?
«E... e cosa vi siete detti?».
La donna sospira. «Abbiamo parlato di te». Lo immaginavo, eppure devo comunque sforzarmi di non sputarle addosso l'acqua che sto bevendo. «Mi ha detto che non vede miglioramenti, ma è convinto che sia principalmente colpa tua».
Tiro la testa all'indietro. «Sono tutte... mh, idiozie» mi blocco giusto in tempo, prima di pronunciare qualche parola poco elegante di fronte ad una professoressa. «Mi dica, come sarebbe possibile controllare delle amnesie? È un'idea assurda!».
La White tuttavia sembra riflettere qualche istante. «Io credo sia possibile» dice, ed io sbuffo, come a voler dire Non mi dica che anche lei crede sul serio a quel vecchio pazzo! Si schiarisce la voce mentre giocherella con la penna che ha tra le mani. «Forse, Lena, tu sei troppo concentrata sul passato, su quello che è successo nell'ultimo anno, e credi che dimenticare sia la cosa migliore. So che avvengono all'improvviso e apparentemente tu non ne sei responsabile, ma noi – io ed il dottor Wilson – crediamo che le amnesie siano semplicemente il tuo modo di rifiutare il presente».
L'acqua che sto bevendo sembra non finire mai e, anche quando è esaurita, continuo a nascondere il viso dietro al bicchiedere di vetro trasparente. «Non ne ha le prove» è tutto ciò che riesco a dire in risposta, e solo quando smetto di parlare mi accorgo di quanto suono patetica.
La donna mi guarda attentamente, studia ogni mia mossa, ogni espressione. Anche lei, ora, mi sta psicoanalizzando. «Ti ho vista, Lena, il modo in cui interagisci con i tuoi compagni è...» si blocca, e sospira. «Cerca solo di essere un po' più presente. D'accordo?».
Non ho mai pensato a quest'eventualità. All'idea che fossi io stessa a volermi precludere le memorie del presente perché, semplicemente, non riesco ad accettarlo. O forse sì. Forse l'idea mi è balenata per la mente, una o due volte, ma puntualmente l'ho cacciata via come si fa con i cani randagi e sporchi, perché chissà quale malattia terribile possono contagiarti. Forse anch'io allontano il presente perché ha gli occhi cattivi e spiritati di un cane randagio, è solitario e triste proprio come lui.
«Lo farò» dico rivolta alla professoressa White, e so che entrambe adesso speriamo ardentemente che io segua il suo consiglio.


Fuori piove. Wilson blatera cose che né io né gli altri abbiamo la forza di ascoltare, Jean sbadiglia stancamente ed il posto accanto a me è vuoto. Io fisso la finestra dietro a Yurim, proprio alle spalle della scrivania, e il mio sguardo si perde nella foschia grigia che c'è dall'altra parte del vetro, mentre le parole del nostro psicologo fungono da lento sottofondo a quest'atmosfera apatica e triste.
Dopo svariati minuti la porta alle mie spalle si apre in uno scatto e, mentre tutti lanciano un'occhiata, io resto ferma sul posto; perché so già che, se non si tratta di Jillian, l'assistente bionda e avvenente del dottor Wilson, il nuovo arrivato è qualcuno che non desidero vedere.
«Alla buon'ora, Harry». Wilson ha un'aria corrucciata; so che non gli piacciono i ritardatari, e stavolta neanche il suo pupillo si salva da una delle sue occhiate truci.
Gli indica la sedia libera alla mia sinistra con fare scocciato e aspetta che il ragazzo si accomodi per continuare; Harry, però, dopo aver lanciato un'occhiata annoiata al posto accanto al mio, attraversa il cerchio e si ferma davanti a Yurim, che è esattamente di fronte a me. Vedo il riccio fare un cenno veloce con la testa e so che le sue labbra, anche se non le vedo, adesso sillabano un «Muoviti» chiaro e conciso. Yurim, un po' timoroso, non se lo fa ripetere due volte, e senza dire una parola raccoglie il suo zaino e viene a sedersi accanto a me.
La stanza adesso è silenziosa, Harry è seduto in maniera scomposta, le braccia conserte e la nuca che quasi arriva a poggiare alla spalliera, le gambe lunghe che invadono lo spazio libero del cerchio e lo sguardo perso da qualche parte. Non è una gran sorpresa, che non abbia voluto sedersi accanto a me. Tutti adesso lo guardiamo, ma lui ci ignora bellamente, e Wilson dimostra di voler fare altrettanto quando riprende a parlare.
«Come abbiamo detto, l'autostima non è altro che un processo soggettivo che porta un individuo a valutare se stesso. E, sebbene si tratti di una "stima", è pur sempre, e nella maggior parte dei casi, qualcosa di poco attendibile ed irrimediabilmente sbagliato. La concezione che una persona può avere di sé si basa sempre su molti fattori, e questi...» la voce di Wilson scema pian piano nella mia testa mentre blatera qualcosa che non riesco ad ascoltare; ma ad un tratto l'uomo si blocca e si guarda intorno. «D'accordo, stasera non ci siete proprio con la testa» passa in rassegna i nostri volti e nessuno sembra effettivamente star ascoltando. Pare riflettere qualche istante, poi: «Cambio di programma» dice. La sua mano si allunga all'interno della valigetta, e «Indovinate chi è tornata!» e Ophelia è tra le sue mani.
Qualcuno sbuffa, qualcun altro sospira sconfitto. Ormai abbiamo capito che è impossibile sfuggire alle pazzie del dottor Wilson, perché lui altro non è che un pazzo che cura i pazzi. Lancia la palla a Yurim, mentre spiega le regole del nuovo "gioco". Dobbiamo tirare la palla ad un nostro compagno a scelta, ponendo loro una domanda qualsiasi; chi riceve la palla deve rispondere con sincerità, tirare la palla ad un altro e fare una nuova domanda – e così via.
Jean sbuffa scocciato, mentre «Tipo obbligo o verità?» dice Tayor.
«Una specie. Ma questo è solo "Verità"».
«Molto originale» borbotta Adam lanciandomi un'occhiata fugace, ed io gli sorrido divertita. Sento lo sguardo di Harry sulla guancia e mi sforzo di non sembrare troppo tesa.
Yurim si rigira la palla tra le mani, e riflette più del dovuto; poi sospira e rivolge un sorriso timido a Taylor, prima di tirarle la palla. «Verresti al ballo della scuola con me?».
La ragazza che adesso regge Ophelia appare scioccata, mentre io e Jean ci ritroviamo a sorridere, inteneriti. «Sì» dice lei e arrossisce, così come fa Yurim. Poi tira la palla a Jean chiedendogli se ha parlato con Nick, il ragazzo per cui ha una cotta; lui risponde che no, non ha ancora trovato il coraggio, ma ci penserà entro questa settimana. Tutti ridiamo quando Jean chiede ad Adam se è vergine e lui scoppia in una risata in tutta risposta, e «Tu che dici?» aggiunge dopo. Il gioco sembra quasi divertente; probabilmente non è questo il genere di domande che Wilson si aspettava da noi, eppure anche lui appare stranamente divertito dalle nostre assurde curiosità. Forse tutto ciò che ci serviva era un po' di relax da tutti questi argomenti così soffocanti.
Sono piegata in due dalle risate quando Adam confessa che è stato lui, l'anno scorso, a dar fuoco al capannone degli attrezzi della scuola, e prima che possa accorgermene la palla è tra le mie mani.
In questo momento avrei voglia di lanciarla di nuovo ad Adam, magari imitare Yurim e chiedergli se anche lui ha voglia di venire al ballo con me. Così, per gioco. Invece, non so come, Ophelia dalle mie mani finisce in quelle di Harry, e sento la mia voce pronunciare, piuttosto chiaramente: «Perché hai smesso di parlarmi?». Sulle mie labbra non aleggia più un sorriso, ma una smorfia seria e triste, o meglio, irata.
Vorrei tapparmi la bocca, rimangiarmi quello che ho appena detto; ma ormai quel che è fatto è fatto. Il riccio di fronte a me, più che sorpreso, sembra allampanato, come se si fosse appena svegliato da un lungo letargo. Mi guarda con un'espressione nuova, le sopracciglia aggrottate per lo stupore; stringe le labbra e «Perché tu hai smesso di parlarmi» è la sua risposta, ma anche la sua domanda, e ritrovo nuovamente Ophelia sulle mie ginocchia.
«Io non ho smesso di parlarti! Sei tu che hai cominciato ad ignorarmi di punto in bianco» alzo la voce e gli scaravento la palla addosso con più forza possibile, tanto che lo colpisce in pieno stomaco e gli mozza il fiato. I presenti seguono la scena senza fiatare, e le loro teste balzano da destra a sinistra, seguendo i movimenti di Ophelia.
Gli occhi di Harry s'infuocano all'improvviso, e quel verde azzurro adesso sembra mare in tempesta. «L'ho fatto perché tu mi hai trattato di merda!» dice e mi scaglia nuovamente la palla addosso.
Riesco ad intercettare Ophelia appena prima che mi colpisca in viso. Dov'è finita la cavalleria? «Sentiamo, e quando l'avrei fatto?».
«Al campetto, la scorsa settimana. Non ricordi?» Ophelia mi atterra bruscamente sulle ginocchia ed io aggrotto le sopracciglia, prima di lanciargliela contro nuovamente.
«Non so di cosa tu stia parlando». Io non ci entro mai, al campetto. Lo osservo da fuori, ma da quando Jonah non c'è più ho smesso di metterci piede. E, comunque, Harry mi ha fatto capire molto chiaramente che la mia presenza lì non è gradita.
Prendo la palla al primo balzo ed Harry mi guarda, visibilmente offeso. «Oh, adesso non far finta di averlo dimenticato».
Sbuffo, irritata. Gli lancio l'oggetto con poca grazia, e alzo la voce. «Certo che non ricordo! Come potrei? Soffro di amnesie, razza di idiota!» ansimo e stavolta Ophelia cade per terra e rotola in un angolo, ma nessuno sembra preoccuparsi di recuperarla. La stanza è improvvisamente silenziosa, Wilson tossisce piano e sento le mie guance avvampare, mentre l'impulso di tapparmi la bocca si fa sempre più presente. Tanto è inutile, mi dico, ho appena sganciato la bomba, e devo solo aspettare che scoppi.
Harry ha lo sguardo basso, è pensieroso. «Soffri di amnesie?» domanda nel silenzio più assoluto, ed io lo guardo un po' spaesata, per poi annuire semplicemente. «È per questo che non ti ricordavi di me, l'altra sera?» chiede ancora, e leggo una sorta di sospiro di sollievo nella sua voce. Oppure è... senso di colpa?
Lo osservo, confusa. Wilson fa passare lo sguardo da me a lui, senza perdersi una virgola. È parecchio interessato alle dinamiche inter-gruppo che si stanno creando, specie a quelle che riguardano me ed Harry. «Io... io non so di cosa tu stia parlando» affermo di nuovo con sincerità ed una scrollata di spalle; ma, conoscendomi, e conoscendo le orribile cose che fa fare la mia patologia, se l'altra sera ho incontrato Harry e non l'ho riconosciuto, allora non devo essere stata per niente cortese nei suoi confronti – specie a giudicare dall'espressione che ha adesso.
«Harry, hai visto Lena di recente, e lei non ti ha riconosciuto?» s'intromette Wilson, cercando di chiarire la situazione.
Il ragazzo fa un cenno d'assenso, e non smette di tenere gli occhi puntati su di me. È irritante. «Stava cercando suo fratello, l'aveva perso di vista e io l'ho aiutata, ma lui non si trovava. E poi ha pensato che fossi un maniaco sessuale» sospira e leggo nei suoi occhi uno stralcio di confusione mista a frustrazione, si passa una mano tra i capelli con fare nervoso mentre mi osserva, in attesa.
Io sono impietrita. Ovviamente non riuscivo a trovare mio fratello minore, perché lui è morto.
Fortunatamente Wilson si decide a parlare, e alle parole di Harry sospira e mi guarda: «Lena, forse è il caso che ci racconti la tua storia».


Sto camminando per l'aria fredda di Dicembre a Holmes Chapel e, nonostante la canottiera, il maglione, il cappotto e la sciarpa di lana mi sento nuda, spogliata di tutti i miei strati; forse sono i guanti che ho lasciato a casa, o forse è l'aver appena spiattellato di fronte a cinque persone – quasi – estranee tutti gli avvenimenti che hanno sconvolto la mia vita nell'ultimo anno.
Dall'ufficio di Wilson sono uscita per prima, rifiutando il passaggio di Adam, mentre tutti gli altri ancora si alzavano dalle sedie e si sistemavano. Jean mi ha chiesto se era tutto a posto, e io: «Ho solo bisogno di stare un po' da sola».
Quando sento dei passi alle mie spalle sospiro sconsolata ma non mi volto, perché so già di chi si tratta, e non credo di aver voglia della sua compagnia, ora come ora.
«Posso accompagnarti?».
Sollevo lo sguardo dall'asfalto ed Harry è accanto a me, i suoi ricci bruni che ondeggiano sotto il suo cappello di lana, il naso rosso per il freddo, il sorriso di nuovo smagliante. Lo guardo, un po' incerta.
«Non si sa mai che dimentichi la via di casa» scherza, ed io roteo gli occhi al cielo. Eppure mi ritrovo a nascondere dietro la mia sciarpa spessa il sorriso che, inevitabilmente, mi si forma sulle labbra. Sarà il suo tono scherzoso, saranno le fossette che gli si formano ai lati delle labbra che mi ricordano tanto quelle di Jonah, o sarà che, semplicemente, quando si tratta di lui io vado fuori di testa.
«Molto divertente» borbotto e cammino più velocemente, ma lui ha le gambe lunghe e nessun problema a tenere il mio passo. Mi cammina accanto come un cane fidato, come un papà che cerca di stare sempre al passo della figlia piccola, che corre per i marciapiedi spericolata, e lui ha una paura matta che lei si faccia male.
Annuisce e guarda di fronte a noi. «Mi dispiace per tuo fratello» lo sento dire, lo sguardo basso verso l'asfalto e la voce improvvisamente bassa.
«Non fa niente. Ci sono abituata ormai» scrollo le spalle.
Lui scuote la testa, prontamente. Per un istante si ferma sul marciapiede e ho il sentore che stia per dire qualcosa, ma poi riprende a camminare come se niente fosse, e per un po' rimane in silenzio. Io lo guardo sottecchi, mentre attraversiamo il piccolo arco creato dal ponte sopra di noi, accanto ad un paio di villette residenziali. «Non ci si abitua mai alla morte» dice.
«Ma la si può accettare» ribatto.
Lo vedo sollevare un angolo delle labbra, quasi ironicamente. «Allora fammi un fischio quando tu l'avrai fatto».
«Io-» sono senza parole, perché non ho mai visto nessuno giocare con tanta leggerezza con una cosa del genere, eppure... eppure per qualche motivo non mi dà fastidio. Lo fa con una cura ed un tatto incredibile, e mi chiedo come diavolo ci riesca. Sorrido, a mia volta. «Ti farò sapere».
«Senti, per quello che ti ho detto l'altro giorno a scuola...» comincia dopo un sospiro sonoro, ma io scuoto prontamente la testa.
«Non intendevi. Non c'è problema. Tranquillo».
Inarca un sopracciglio. Sembra voler dire "È davvero così semplice?". «Sul serio?» scruta la mia espressione curioso, come a voler decifrare il mio stato d'animo.
«Dopo tutto, neanch'io intendevo dimenticarmi di te».
Harry allarga il sorriso, inaspettatamente. «Quindi possiamo tornare ad essere...».
«Cosa?» non resisto alla tentazione di chiederglielo, perché probabilmente è la domanda che più mi ha assillato in questi giorni.
Lui aggrotta le sopracciglia. «...Amici?» domanda incerto, attendendo una mia reazione.
Io mi ritrovo a sorridere a trentadue denti, sorprendentemente. Harry ha appena detto che vorrebbe essere mio amico, e mi sorride. E, sarà, forse in questo momento sembro una quindicenne in preda agli ormoni e alla prima cotta, ma non posso fare a meno di sentire lo stomaco che si contorce alle sue parole. «Vorresti davvero essere mio amico?» chiedo, ingenuamente.
Lui ride piano, probabilmente per la mia reazione un po' troppo euforica. «Mi piacerebbe molto».
Sorrido. «Piacerebbe molto anche a me».

 


Note.
Buonasera! Spero stiate passando tutti una buona domenica e che il capitolo vi sia piaciuto. Vi avevo detto che questa situazione tra Harry e Lena non sarebbe durata troppo. Ad ogni modo i prossimi capitoli saranno più movimentati, prometto!
Grazie a chi legge <3
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Dal capitolo 11
Perché di scheletri nell'armadio, lui, ne ha proprio tanti. Glielo leggi negli occhi, quando sono umidi di un pianto che non vuole liberare, nelle labbra che si serrano per le confessioni che si terrà dentro.


 

 

 
   

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Capitolo 11
*** Formule algebriche ***


 


Variegati sono i mali degli uomini, e non vedrai mai
gli stessi colori sulle ali del dolore.

- Eschilo



Nevica. Siamo seduti sulle scale anti-incendio della scuola, il nostro gruppo improvvisato di psicopatici, e consumiamo il pranzo in un silenzio religioso perché tanto non c'è nulla da dire. Indossiamo i nostri cappotti pesanti perché qui fuori è il diciannove Dicembre ed il freddo è pungente, la coltre di neve bianca ghiacciata ricopre ogni angolo visibile del piccolo cortile della St. George Comprehensive School; è il diciannove Dicembre e non c'è anima viva, a parte noi, gli unici studenti che non hanno troppo freddo per passare la pausa pranzo in cortile.
«Che fine ha fatto Jean?» chiede Taylor, la bocca piena del suo panino al tonno e la voce soffocata. Oggi il biondino non si è fatto vedere: ero sicura di averlo visto in corridoio, non molto tempo fa.
«Io non l'ho visto» risponde Kim, pulendosi le labbra con un fazzoletto.
In compenso, anche se oggi Jean non c'è, Harry, in assenza dei suoi migliori amici – «Zayn avrà trovato qualche muro pulito per la sua nuova opera d'arte» – ci ha degnati della sua presenza. È seduto accanto a me sul gradino, la gamba che sfiora la mia ed il mio stomaco che si contorce ad ogni suo movimento. Non dice nulla, tiene la bocca chiusa e mastica quello che rimane del suo sandwich, lo sguardo assente di chi non vorrebbe essere qui. Io tengo gli occhi bassi, cerco di mimetizzare con un sospiro pesante o uno spostamento dei capelli le fugaci occhiate che gli rivolgo; eppure lui che, puntualmente, sembra accorgersene, nasconde un sorriso compiaciuto. E io sento le guance arrossire.
Siamo "amici" da qualche settimana ormai, ma è davvero difficile dire se effettivamente ci adattiamo a questo ruolo. La metà delle volte in cui lo vedo è di ritorno da una delle sue riunioni al campo con Zayn e Niall, troppo sballato e mai completamente in sé; e l'altra porzione del tempo che passo con lui non è poi molto diversa, perché sto imparando che Harry è così: assente, scostante, lontano. Distratto, annoiato; è l'ultima nota di sonno leggero prima di una sveglia improvvisa, è i capelli sempre scompigliati perché «L'ultima cosa a cui penso, la mattina, è a pettinarli», è le sue palpebre stanche, le sue mani grandi sempre appoggiate da qualche parte perché da solo non sa reggersi.
Perché di scheletri nell'armadio, lui, ne ha proprio tanti. Glielo leggi negli occhi, quando sono umidi di un pianto che non vuole liberare, nelle labbra che si serrano per le confessioni che si terrà dentro. Ma gli va bene così, è soddisfatto di questo. E a me va bene così, perché è questo il nostro tacito accordo, Harry non fa domande a me ed io ricambio il favore.
Anche se lui, ora, sa già tutto di me: ho fatto la mia confessione in quel piccolo studio psichiatrico più di una settimana fa, e lui era presente; e ormai le mie difese sono crollate. Jonah costituisce il mio punto debole e la muraglia cinese al contempo: ora mi sento sola, smascherata, nuda delle mie mura, del mio corpo, sola con la mia anima scoperta e visibile a tutti. Visibile anche a Harry, che da quel pomeriggio piovoso mi guarda più a fondo e mi abbraccia più stretta, con le sue mani forti che mi penetrano nella pelle, dentro. E a me, per qualche motivo, questa cosa non piace.
È che adesso mi gira la testa, è che ha allungato le mani oltre i miei fianchi e mi ha sollevata, sulle sue ginocchia. È che ad ogni suo respiro sento i movimenti del suo addome contro la schiena, le sue mani incrociate sullo stomaco ed il suo fiato sul collo, mentre dice qualcosa a Kim. È che forse "amici" è troppo poco, che trovo che le sue dita, incrociate sul mio stomaco, sarebbero perfette per trovare gli spazi tra le mie.
«Stasera da Wilson...» Taylor sospira, e poi sorride piano mentre mi guarda, e so che non lo fa perché trova divertente l'idea dell'incontro pomeridiano che ci aspetta col nostro psicologo. Fingo di non accorgermi della malizia nel suo sguardo, delle sue occhiate alle mani di Harry ferme sul mio stomaco.
«Io non vengo». Mi volto quasi di scatto quando avverto il suo alito sul collo, e mi scontro con gli occhi di Harry in piena tempesta.
«Perché no?» è quello che vorrei chiedere, ma mi blocco proprio quando avverto la domanda nascere sulla punta della lingua: "perché" non esiste. L'abbiamo abolito, così come abbiamo abolito le spiegazioni, le scuse, le ragioni. Perché È così e basta, non c'è altro da dire. Siamo due formule algebriche, di quelle lunghe e complicatissime, piene di lettere, numeri e radici; siamo quelle formule scritte in disordine sul quaderno a quadri di un liceale svampito, quelle che i ragazzi guardano grattandosi il capo, e quando osano chiedere «Ma perché?» al professore, l'unica risposta che ricevono, come una costante, è «Tu imparala a memoria e basta, non hai bisogno di capirla».
Lo guardo sottecchi, con le sue profonde occhiaie ed i suoi capelli scompigliati che non vuole pettinare, e sono certa che siamo così. Ci impariamo a memoria ma non ci capiamo.
Alla fine è Taylor a dar voce ai miei pensieri e a rompere quel patto silenzioso in cui lei non è inclusa. «Ho altro da fare» è la risposta spicciola di Harry, e non mi sorprende, perché sa come preservare se stesso anche se interpellato.
Delle risate ci interrompono nel momento esatto in cui vedo un gruppo di ragazzi in lontananza uscire dall'edificio. Gridano e schiamazzano cose che capisco a tratti, due di loro trasportano di peso un ragazzo che ha sulla testa un sacchetto di carta, reggendolo per braccia e gambe.
«Che stanno facendo?» è la domanda spontanea di Kim, e sento la presa di Harry farsi più salda sul mio stomaco.
«Lo scherzo di Natale» dice, e avverto la sua voce cambiare, mentre ruoto il collo nella sua direzione.
«E cosa sarebbe?» chiede Taylor accigliata, mentre il povero malcapitato viene trasportato dall'altra parte del cortile.
«Ogni anno, in prossimità delle vacanze, i ragazzi della squadra di calcio prendono qualcuno a caso della scuola e lo gettano nel laghetto qui vicino, con mani e piedi legati. Aspettano sempre che nevichi, così l'acqua è più fredda».
Spalanco gli occhi. «Ma è orribile!».
Harry solleva un angolo delle labbra. «Non lo invidio per niente, quel poveraccio. Per nulla al mondo passerei altri dieci giorni della mia vita con dita di mani e piedi atrofizzate».
«È successo anche a te?» domanda Kim, la sorpresa palpabile nella sua voce.
Lui scrolla le spalle. «Al primo anno ero uno sfigato. È comprensibile» dice con naturalezza, e sembra quasi voler giustificare l'avvenimento; sento il suo addome piegarsi più volte sotto la sua risata leggera.
«E adesso lo getteranno nel laghetto? Dobbiamo fare qualcosa!» esordisco, ma la presa di Harry su di me si fa più salda.
«Non puoi fare niente, o finirai nel lago anche tu» mi ammonisce e mi tiene stretta, come se fosse certo che io stia per scappare da un momento all'altro. E forse ha ragione, forse lo sto per fare; forse ho voglia di alzarmi e correre verso quei deficienti e picchiarli tutti, con tutte le forze che ho. Non importa che un mio pugno sia per loro una carezza, non importa che mi getterebbero nel laghetto insieme alla loro preda.
Senza neanche rendermene conto sono in piedi, e «Ma quello non è...?» sento dire a Taylor, ma la voce le muore in gola; così come ogni parola mi muore in gola quando mi volto e vedo Jean che scalcia e si dimena tra le braccia grosse di quegli energumeni. Il sacchetto che aveva in testa è scivolato, e solo ora posso vedere il suo viso fragile e delicato coperto di lividi e graffi, contrito in una smorfia di dolore.
Ancora una volta, non faccio caso alle mie gambe che avanzano con velocità verso il gruppo di ragazzi, non faccio caso a Taylor che mi raggiunge e mi cammina a fianco, ai miei denti serrati, a Kim che è a qualche passo da noi. Non mi accorgo di Harry che mi insegue e mi blocca per un polso, ma mi lascia subito andare non appena nota il mio sguardo.
«Stai zitto, brutto frocio» sta dicendo uno di quei ragazzi, appena prima che io mi avventi su di lui, alle sue spalle. L'ho preso alla sprovvista e l'ho fatto cadere, e adesso lo sto pestando con i piedi con tutta la forza che ho. Gli altri ragazzi e Jean, un occhio nero e i capelli scompigliati, si voltano sconvolti, e io sento la mia voce urlare cose che neanche capisco.
Sento un tonfo e qualcuno alla mia sinistra cade a terra, «Vi conviene andarvene subito» dice una voce familiare, profonda e roca. Due braccia mi afferrano da dietro e mi sollevano da terra, allontanandomi dal ragazzo di prima. Quest'ultimo si alza e mi rivolge un'occhiata attonita. «Tu sei matta» dice prima di correre via insieme agli altri, mentre io mi dimeno tra braccia sconosciute. Sto piangendo.
Non so come cado a terra con un tonfo, e rimango sdraiata sull'asfalto nevoso e freddo per non so quanto tempo. Un ragazzo mi osserva, ha i capelli bruni e dei ricci disordinati, gli occhi verdi ed un labbro sanguinante di chi l'ha appena vista brutta. Ansima un po', con le sue guance rosse per lo sforzo e per il freddo, e mi rivolge uno sguardo che non comprendo, le sopracciglia aggrottate e le labbra strette.
«Ci conosciamo?» domando timida, e quasi simultaneamente lo sento sospirare. Non capisco quello che succede, ci sono altre persone intorno ed io mi sento così stanca. Il ragazzo dagli occhi verdi per un attimo mi sembra sconsolato, perso, triste: ho fatto qualcosa?
L'istante dopo il suo viso si rilassa e lo vedo formulare un sorriso breve e stentato, che, sebbene non raggiunga gli occhi, freddi e lontani, mi sembra così grazioso. È avvilito, eppure sorride lo stesso, con le fossette ai lati della bocca e una mano protesa verso di me. «Mi chiamo Harry» dice mentre mi aiuta ad alzarmi, e una volta in piedi non lascia più andare la mia mano. Mi tiene stretta e mi attira a sé. «E adesso ti accompagno a casa».


Il cielo è scuro e solitario. Sono le due di una notte particolarmente serena, oserei dire noiosa, e l'unico rumore che si avverte all'interno della stazione è il rombo di qualche macchina che ogni tanto passa nella strada qui vicino. Siamo sdraiati sui binari del treno come due barboni o aspiranti suicidi, gli occhi rivolti verso un cielo vuoto di stelle, ma non è importante perché tanto quelle riusciamo ad immaginarle anche da soli.
Ad eccezione dello sbattere d'ali di un pipistrello in lontananza, ora tutto è pace: i nostri respiri calmi e regolari si mischiano alla brezza fredda che soffia da Est, e si condensano nell'aria gelida di fine Dicembre. Siamo distesi vicini, un po' per riscaldarci e un po' perché ci va, la mia spalla attaccata alla sua e le nostre mani che si sfiorano, di striscio e per caso, lungo i nostri fianchi.
Stasera è stato facile capire, dalla telefonata che mi ha fatto, che Harry fosse sobrio. Funziona spesso così tra di noi, ormai, perché l'insonnia è una cosa che abbiamo in comune e questo posto è il preferito di entrambi. Harry non sa che ci venivo con Jonah; o magari sì, magari l'ha intuito, ma non me lo chiederebbe mai. Io sento invece le mie domande contorcersi nella testa per essere pronunciate, la curiosità che cresce in ogni istante: vorrei sapere perché si comporta così, cos'è successo a Manchester, quella sera, che ne è stato dei fratelli Tomlinson. Ma il mio spirito di conservazione batte la curiosità, perché fare certe domande mi costerebbe troppo, e ci sono cose che non sono ancora pronta a rivelare.
«Da piccolo avevo paura del buio». Mi volto ed Harry guarda le stelle che questa sera non ci sono, e la luna nuova, invisibile nel cielo, che ci lasciano ciechi di ogni luce. A parte quel lampione pallido lontano lontano...
«Tutti da piccoli avevamo paura del buio, Harry» dico in una leggera risata.
«No» ribatte lui «tutti avevano paura dei mostri cattivi che sarebbero potuti spuntare non appena spente le luci». Annuisco, e stavolta volto la testa per guardarlo. Il suo viso è scuro e indecifrabile, solo i suoi occhi e le sue labbra si distinguono bene mentre parla, e li proietto nella mia mente come una fotografia istantanea. «Io ho sempre avuto paura del buio e basta. Non temevo i mostri – solo l'oscurità; l'idea di dover vagare senza una meta, uno spiraglio di luce. Non avevo capito che sarebbe stato quello il mio destino». Lo sento sorridere amaramente, e rivolgo di nuovo lo sguardo verso il cielo. Anch'io avevo paura del buio, o meglio, dei mostri notturni: spesso immaginavo che qualcuno mi afferrasse per le spalle e mi portasse via, lontano. Temevo il mio essere piccola e indifesa più dei mostri sotto al letto, e forse lo faccio ancora.
«È questo che senti di fare adesso, Harry? Arranchi nel buio?». Non so come, ma le nostre mani adesso sono intrecciate. Mi godo lo spazio tra le sue dita che tanto ho bramato, mentre lui sorride in silenzio, e io mi beo dell'oscurità perché non può vedermi arrossire.
«Con te, sì» la sua voce mi accarezza come la folata di vento freddo che adesso ci investe, i miei polpastrelli impressi nel dorso della sua mano, la mia nuca, coperta da quest'orribile sciarpa di lana che vorrei non aver mai messo.
«Anch'io con te, se è per questo» è tutto ciò che riesco a pensare e a dire, perché il cuore quasi si è fermato, e se lui arranca nel buio io sono sepolta sotto metri di sabbia. Avanziamo l'uno verso l'altra a tentoni, gli occhi ben aperti che non possono vedere quelli dell'altro, le braccia protese in avanti perché qua dentro non si vede niente. Perché siamo due pazzi più complicati delle formule algebriche, con i nostri dubbi inespressi che sono segni di moltiplicazione, le parentesi delle nostre delusioni nascoste, le radici quadrate che siamo noi due, tutti i casini che abbiamo attraversato, tutte le lacrime versate.
«Ti piace?» mi chiede lui, e io lo guardo con le sopracciglia aggrottate, confusa. «Arrancare nel buio insieme a me» spiega, e come al solito mi spiazza.
Lo guardo. «No» vorrei dire. No che non mi piace perché vorrei saperti vicino, presente, vorrei conoscerti anche quando salti la scuola e rispondi male, vorrei poter dire agli altri «Lascia perdere, lui è fatto così» quando te la prendi. Vorrei, è che non lo so proprio come sei fatto tu, Harry. Così come?
Scuoto la testa e «Non lo so, come sei» rispondo alla sua domanda inespressa. «Dimmi qualcosa di te» vorrei chiedergli ancora, ma stavolta resto in silenzio.
«È così importante?» dice lui.
No, forse non lo è. «Neanche a me piace arrancare nel buio».
Lui non dice niente, io lo guardo ma lui guarda il cielo, forse vede le stelle che non ci sono, forse si sta addormentando. Esamino il suo profilo, le labbra piene e sporgenti, il naso dritto, le ciglia lunghe. I suoi ricci stasera sono soffocati da un berretto di lana che mi ha offerto più volte perché «Ti prenderà un malanno, fa un freddo cane», ma che ho rifiutato sempre. Più lo osservo e più mi dico che insieme non c'entriamo niente, che siamo sconosciuti. Cosa sa di me? Glielo chiedo, perché io non me ne capacito.
Ride. È una risata leggera e fugace, ma è vera. Sento le sue corde vocali spezzarsi e risuonare forti e chiare nel silenzio di questo posto deserto. «So che sai fare a botte».
Anch'io rido perché mi torna in mente la scena dell'altro giorno, che adesso suscita in noi ilarità, ma in quel momento non è stato per nulla piacevole o divertente. Jean se l'è cavata con una visita in infermeria, ma io sono stata rimandata a casa perché continuavo a "delirare" – o, come hanno ben capito Kim, Harry e gli altri, ero in preda ad un'amnesia abbastanza forte. Se Harry e Kim – che fa Karate e, adesso che cerco di visualizzare la scena, ricordo di averla vista stenderne due in un sol colpo – non fossero stati lì, probabilmente sarei finita nel lago insieme a Jean. E invece i quattro bulli sono stati denunciati alla preside e sospesi per un paio di giorni. Jean mi ha regalato una scacchiera nuova per ringraziarmi, ma «Se fossi stata da sola saremmo finiti in acqua entrambi» gli ho detto; lui dice che non importa, è il gesto che conta. E quando sorride con quel suo visino d'angelo, l'occhio nero che gli sta pian piano guarendo, non posso fare a meno di domandarmi come diavolo si faccia a prendere un ragazzo così e pensare che sia "sbagliato" solo perché è gay.
Che Harry non sia intervenuto subito non mi sono sorpresa. Ho imparato che non è un tipo rivoluzionario. Non si alza in piedi sui tavoli a dire «È ora di cambiare», non fa una smorfia indignata per chi salta la fila al supermercato, non aggrotta le sopracciglia se qualcuno, dall'altra parte del mondo, muore ingiustamente. Lui è quello che nell'ingiustizia ci vive, ci si crogiola dentro e ne è felice perché «Tanto la vita non è mai giusta» e «Allora che senso ha?». Non gli interessa cambiare il mondo, sta bene così com'è, con le sue sigarette speciali e le sue birre fredde di prima mattina che spesso ruba, perché costano troppo. Si è abituato alla vita.
«Dimmi come fare, Lena». Le sue parole, pronunciate chiare e forti nel cuore della notte, mi fanno sussultare.
«Cosa?» chiedo nel silenzio più assoluto, con una mano sul petto ancora avverto il cuore che va all'impazzata.
«Smettere di pensare a te».
Forse ora non batte così forte per il sussulto di prima, forse ora il motivo è un altro. Mi ricordo solo adesso che le nostre mani sono ancora intrecciate perché la sua presa si fa più forte.
«Non lo so» balbetto, confusa dalla sua sfacciataggine. Subito dopo mi maledico perché, tra l'oceano di risposte che avrei potuto dargli, "Non lo so" è senza dubbio la meno provocante. Che sono una frana in queste cose, l'avrà già capito da solo, in fin dei conti.
Harry esala un breve respiro. Capisco che non si aspettava una risposta particolare quando porta le nostre mani, ancora intrecciate, sul suo addome e con la mano libera gioca con le mie dita.
«Venivo qui insieme a Jonah, fino all'anno scorso» dico ad un tratto, e sento Harry sospirare accanto a me. Lui non risponde, ma non è una gran sorpresa. «Anche a lui piaceva sdraiarsi sui binari, fingeva sempre di essere stato legato dai banditi e giocava così» spiego con un sospiro leggero. «Oppure ci siedevamo sulla panchina e mangiavamo del gelato; al cioccolato, perché era l'unico gusto che riusciva a mangiare. Gli parlavo della scuola e dei ragazzi, sai? Lui ascoltava e capiva tutto, perché era incredibilmente maturo per la sua età».
Harry annuisce, come a farmi capire che ha seguito ciò che ho detto. Gli attimi passano lentamente, non faccio troppo caso all'orologio ma sono più che certa che ormai siano le tre passate. Il silenzio tra noi due è così rumoroso da non aver bisogno di essere spezzato, perché tanto riusciamo a dirci tutto anche così.
«Immagina» dice ad un tratto, lo sguardo perso nel cielo scuro «che questa stazione funzioni ancora. Che da un momento all'altro si avvertiranno il rumore delle rotaie e le luci notturne, che tu sia sdraiata qui in attesa del prossimo treno». Trattengo il respiro. «Quali sono le tue ultime parole?».
Lo scruto attentamente, prima di lasciarmi andare ad un lieve sospiro. Torno a guardare il cielo plumbeo sopra di noi. «Fanculo» dico piano, in un sussurro. Se Harry non fosse stato così vicino a me probabilmente non avrebbe neanche sentito.
«Più forte». Lo guardo incuriosita. «Dillo più forte» ripete, in un sussurro tanto deciso che mi mozza il fiato. Io aggrotto le sopracciglia alle sue parole, un po' esitante. «So che lo intendi. Più forte, gridalo». La sua presa sulla mia mano si fa più salda, come se tentasse di sorreggermi.
Ricambio il suo sguardo e sorrido. «Fanculo!» grido in risposta, al cielo placido e sereno. «Fanculo fanculo fanculo».
Harry mi segue a ruota e, con le mani a coppa intorno alla bocca, grida: «FANCULO!» più di una volta, sempre più forte. «Siamo due disastri, stiamo per essere investiti da un treno e, cazzo, fanculo» ride.
Lo gridiamo a voce sempre più alta, sempre più convinti, fino a quando la parola non arriva a perdere significato nelle nostre orecchie e ci ritroviamo a ridere a crepapelle, le nuche che sbattono ripetutamente contro la linea dei binari del treno. Guardo il cielo e rido come non ho mai fatto in vita mia, mi volto verso Harry e nessuno dei due riesce a smettere. Non lo so perché ridiamo, sembriamo due stupidi che hanno sul serio intenzioni suicide, e tutto questo non ha senso.
Sento la pancia tirare, gli occhi che lacrimano e le guance doloranti. E il cuore che a poco a poco s'innamora.

 


Note.
'Sera! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche perché è uno di quelli di cui vado più fiera. Insomma spero che non vi faccia tutto questo schifo perché poi mi sentirei stupida ad aver detto che questo capitolo mi piace ahahah
Inoltre, spero che la storia continui ad interessarvi visto che ho notato un calo di recensioni ultimamente... ma sono comunque contenta! (:
Grazie a tutti quelli che leggono la mia storia.
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Dal capitolo 12
«Se mi vede in questo stato sono finito»
«Chi, Harry, chi?»
«Corri!»


 

 

 
   

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Capitolo 12
*** Adesso passa ***


 

Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.
- A. Baricco



Jean tiene le scarpe slacciate mentre attraversa altezzoso i corridoi della Holmes Chapel Comprehensive School, un cappellino da Babbo Natale in testa e qualche libro tra le mani anche se non serve, ma i secchioni come lui si ostinano a portare materiale anche l'ultimo giorno prima delle vacanze.
«Non ho mai amato il Natale» sospira il biondo appoggiando una spalla all'armadietto accanto al mio, col suo solito fare beffardo e scherzoso che lo contraddistingue.
«E il cappello?» ribatto, un lieve sorriso sulle labbra mentre indico il copricapo che indossa, il quale ha decisamente un intento celebrativo.
Jean annuisce alla domanda. «Non fraintendere: non è per conformismo. Il Natale non è mai stato uno dei miei periodi preferiti dell'anno – i miei si ostinavano a regalarmi auto telecomandate e aereoplanini, ignorando bellamente le mie richieste di servizi da té giocattolo e bambole nuove. Non avevo un'alta considerazione del signor Babbo Natale, che, in qualche modo, con me sbagliava tutti gli ordini. Eppure oggi indosso questo cappello in segno di protesta, per boicottare qualsiasi forma di razzismo o omofobia che porta i genitori di tutti il mondo a selezionare i regali di Natale per i figli. Io auspico in un mondo migliore, in una società che non si chiuda nel suo tradizionalismo bigotto e-»
«...Certo, Jean. Scrivilo nel tuo discorso alla candidatura per Primo Ministro» borbotto quasi sovrappensiero io, che ho smesso di ascoltarlo già al "conformismo".
Il ragazzo ride di fronte alla mia espressione corrucciata e distratta e dopo che mi ha circondato le spalle con un braccio ci avviamo insieme per il corridoio. «Puoi scommetterci milioni, Len. Sarò il migliore Primo Ministro della storia. Altro che Winston Churchill o Margaret Thatcher».
«E prenderai il té con la regina».
«E prenderò il té con la regina».
Penso che se non ci fosse un Jean dovrebbero inventarlo; è sempre dolce, di buon umore, non conserva cattive parole per nessuno – certo, eccetto quei cafoni che qualche giorno fa stavano per gettarlo nel laghetto, per i quali si è sbizzarrito, dedicando loro la sfilza d'insulti più coloriti e volgari che io abbia mai sentito uscire dalle sue labbra. Trattengo una risata al solo pensiero.
«Che farai per Natale?» mi domanda, arrestando il passo di fronte alla porta della sua aula; manca esattamente un'ora al suono ultimo della campanella, un'ora alle vacanze natalizie, un'ora alla libertà. Intorno a noi c'è aria di festa, con le ghirlande appese in giro e gli addobbi nelle varie aule, i maglioni con le renne che tutti si ostinano a portare e le foglie di vischio disseminate per i corridoi, sotto alle quali tutte le ragazze sostano per un tempo imbarazzante, nella speranza di scontrare il ragazzo giusto.
«Passerò le feste con mio padre. Lui abita a Dover, ho un treno stasera» affermo sorridente. Sono contenta di rivedere mio padre, e di cambiare aria, soprattutto; perfino Wilson ha detto che Holmes Chapel mi soffoca, per cui queste vacanze, e la proposta di mio padre, mi calzano a pennello.
Jean annuisce. «Allora ti saluto adesso. Buon Natale, Len» mi abbraccia.
«Non vieni da Wilson, questo pomeriggio?» domando sorpresa, e lui scuote prontamente la testa.
«C'è il concerto di Natale, stasera. Devo dare una mano a mia madre se non voglio ritrovarmi senza qualche arto» scherza.
Annuisco. La madre di Jean dirige il coro della chiesa di Holmes Chapel e non fa che parlare di questo evento ormai da mesi. «Ci vediamo a Gennaio allora» sorrido e gli lascio un bacio sulla guancia prima di vederlo sparire all'interno dell'aula.
Mi volto dall'altra parte, per poco non vado a sbattere con una ragazza di fronte a me: i corridoi sono stracolmi di gente, nessuno – a parte Jean – ha intenzione di passare in classe l'ultima ora a scuola, e i professori a questo punto non vi fanno più troppo caso; intravedo una coppia che si scambia effusioni in un angolo, e dall'altra parte un gruppo di ragazzi con lo zaino già in spalla, diretti verso l'uscita.
Scorgo la porta della mia aula e nell'esatto istante in cui la campanella suona avverto qualcuno tenermi per le spalle; trattengo un grido solo perché riconosco la voce che, istantaneamente, cerca di tranquillizzarmi. «Lena» dice Harry mentre mi volto per vederlo e non faccio caso all'espressione ansiosa che indossa, non faccio caso ai suoi ricci scompigliati, a discapito del beanie scuro che li copre, non mi accorgo nemmeno del suo sguardo quasi sollevato di vedermi perché sono impegnata ad osservare e sgranare gli occhi per l'enorme livido violaceo che gli incornicia l'occhio sinistro.
«Che diavolo hai fatto?» sbotto, facendo, istintivamente, un passo in avanti per esaminare meglio il danno.
«Lena» ripete lui, e solo quando apre bocca mi accorgo anche del suo labbro che sanguina. Prendo un enorme sospiro mentre lui parla. «Ho fatto un gran casino» dice, e resto interdetta. Non l'ho mai visto così, sembra che tutta la strafottenza e l'indifferenza di cui si veste abitualmente l'abbiano abbandonato di colpo e che adesso, davanti a me, non resti che l'Harry sorpreso, scoperto; indifeso?
«Lo vedo, che hai fatto un casino» dico perentoria, incrociando le braccia al petto. Mi mostro sicura di me, eppure più osservo il livido violaceo sulla faccia del ragazzo più sono terrorizzata.
«Ho bisogno del tuo aiuto» afferma esalando un lungo sospiro, liberando una debolezza che, forse, avrebbe preferito di gran lunga tenere per sé. Harry non dice mai "aiuto", non supplica, non chiede. Ora, però, mentre si gratta la nuca mi guarda cauto, in attesa, e quando annuisco brevemente sembra sputare fuori tutto il respiro trattenuto, tutta l'ansia che lo attanagliava – o meglio, solo una parte di essa. «Tu puoi coprire questa roba?» chiede, mentre in modo confusionario indica il suo occhio.
Inarco un sopracciglio, sospiro. «Potrei provare... con un po' di trucco, forse...»
«Perfetto». Il riccio mi prende prende per mano e, con forza, mi trascina verso l'uscita.
Mio malgrado, come sempre – lo seguo.
«Io avrei lezione» borbotto impotente mentre insieme corriamo verso il cortile.
«Non c'è tempo per andare a lezione. Sta per arrivare» ansima, trascinandomi con forza.
«Chi?»
«Se mi vede in questo stato sono finito»
«Chi, Harry, chi?»
«Corri!»


Casa di Harry è diversa da come l'avevo immaginata. Per qualche motivo, nelle mie fantasie Harry Styles viveva e si muoveva in un ambiente scuro e tetro come il suo sguardo ed il suo passato, pieno di angoli bui e sorprese inaspettate; e invece, con mia enorme sorpresa, casa Styles si presenta come una dimora luminosa e ben arredata, dai mobili in legno chiaro e i centrini ricamati all'uncinetto, con le tende bianche che lasciano passare la luce del sole e le scale che scricchiolano rumorose ad ogni passo. È piuttosto piccola, lo spazio vitale perché tre persone riescano a starci insieme; Harry storce la bocca quando mi complimento per il posto, «Se ti piacciono le topaie...» dice con il suo solito fare strafottente e menefreghista. Io la trovo accogliente.
Anche camera sua è diversa da come la immaginavo: è stretta, percorsa da un lungo tappeto dai colori scuri e vanta una finestra sul muro più corto. Le tende della stanza sono di un blu scuro che ricorda quello del mare in tempesta, gli occhi di Harry quando s'incupisce e del cielo d'inverno quando si fa sera. Sugli scaffali della piccola libreria padroneggiano una quantità innumerevole di fumetti e qualche libro qua e là, un trofeo di qualcosa che mi è difficile leggere; c'è una scrivania piena di cartacce, vestiti e giornali, uno in particolare, vecchio e malandato, cattura la mia attenzione, ma Harry fa in tempo a coprirlo con un quaderno e non riesco a leggere nulla.
«Vuoi dirmi come hai fatto a ridurti così?» mormoro ad un tratto. Il silenzio già da un po' è calato nella stanza, mentre tengo il suo viso fra le mani e applico del fondotinta intorno all'occhio. Quest'impresa è praticamente impossibile, perché rischio di lasciar intravedere la macchia violacea o, al contrario, di far sembrare Harry una maschera di plastica, e quindi di far notare ad un primo sguardo il trucco che porta addosso.
Harry, seduto sul letto di fronte a me e con la faccia immobilizzata dalle mie mani, solleva le spalle con fare noncurante. «Zayn è andato a letto con la ragazza di un tipo, che è venuto per suonargliele di santa ragione» spiega.
«E tu ti sei immischiato nella rissa» continuo, scuotendo la testa e picchiettando leggermente un po' di fondotinta sulla sua guancia.
«Ovviamente» mi rivolge un sorriso sornione, divertito dalla mia espressione contrariata.
Sollevo gli occhi al cielo. «Perché lo fai, Harry? Avresti potuto farti molto più male, e qualcuno sarebbe potuto finire in ospedale».
«Come sei catastrofica».
«Le botte non portano mai a niente di buono».
Sospira, con fare pesante. «Credimi, lo so».
Faccio un passo indietro, osservo il lavoro quasi ultimato. «E allora perché hai preso a picchiare anche tu?» domando, mi avvicino, gli sposto un ricciolo in prossimità dell'occhio perché il livido non si veda troppo. «Dovrebbe andar bene così» mormoro tra me e me, lui sospira, quasi rincuorato.
«Erano in cinque. Io e Niall non potevamo certo stare a guardare mentre Zayn veniva pestato da quei deficienti. Li avremmo stesi, ma eravamo in svantaggio numerico».
Lo guardo, contrariata. Non voglio ascoltarlo, scuoto la testa. «E adesso non vuoi che tua madre ti veda in questo stato» ribatto fredda mentre ripongo i trucchi in borsa.
Harry mi guarda e segue con la testa i miei movimenti. «Normalmente non mi preoccuperei, mia madre è abituata a vedermi tornare a casa così, ogni tanto. È che oggi ho scelto proprio il giorno più sbagliato per farmi un occhio nero...» mormora tra sé e sé. È preoccupato.
«Se non è tua madre che ti preoccupa, allora chi?» chiedo, paziente, portandomi la borsa sulla spalla.
«Non puoi fare nulla per le labbra, vero?» indica la ferita ancora visibile sulla bocca, ma io scuoto la testa, arrendendomi all'idea che non mi dirà nulla. «Credo proprio di no» sospiro e lui annuisce.
«Non fa niente, m'inventerò qualcosa. Però è tardi e devi andartene» mi esorta, aprendo la porta della sua stanza.
Senza darmi il tempo d'infilare bene il cappotto addosso mi spinge giù per le scale e mi trascina fino alla porta di casa. «Grazie per la riconoscenza, eh» borbotto piccata, e lo sento sospirare piano alle mie spalle.
«Grazie, Len. Ti devo un favore enorme» sorride e si avvicina per lasciarmi un bacio sulla guancia. «Credimi, ti farei restare, ma ora non è proprio il momento. Preferirei non ti trovasse qui...»
«Harry, mi vuoi spiegare che diavolo-»
Non faccio in tempo a parlare che uno scatto ci fa voltare entrambi, riesco a percepire solo un «Oh, merda» sussurrato da Harry mentre la porta si spalanca e ci ritroviamo di fronte a due figure adulte, entrambe sulla cinquantina.
«Si accomodi, signor Pollock» dice la donna, alta e dai capelli lunghi, gli occhi dello stesso verde smeraldo di Harry e un sorriso a trentadue denti che è un inno alla falsità. Accanto a lei sta un uomo dall'aspetto gentile, i capelli brizzolati, gli zigomi alti e gli occhi di un azzurro chiaro, quasi di ghiaccio; anche lui sorride e sta parlando con la donna, i due impiegano qualche secondo prima di accorgersi della nostra presenza e arretare il loro discorso, per poi osservarci interessati.
Mi volto verso il mio vicino, che è visibilmente in difficoltà. Non voleva che i suoi genitori vedessero me?
«Tu devi essere Harry!» esordisce l'uomo e, dopo essersi avvicinato al riccio, gli stringe calorosamente la mano.
«Sì signore» replica in un tono formale il ragazzo, un sorriso nervoso che si distende forzatamente sulle sue labbra.
Non mi ci vuole molto, a questo punto, per capire che questo non è il padre di Harry.
L'uomo, il signor Pollock, come ha detto quella che appare come la madre di Harry poco fa, si rivolge subito a me, interessato alla mia persona forse più di quanto dovrebbe. «Tu sei la ragazza di Harry» afferma, sicuro, e sta per continuare ma «Veramente no» e «Certo che no!» ribattiamo simultaneamente io e il mio vicino.
Lui ride, eppure sembra quasi... deluso. Harry sospira, benché ancora in tensione. Lo guardo, confusa e preoccupata: chi è quest'uomo?
«Sono solo un'amica. Sono passata a restituire un libro che Harry mi aveva prestato. Scusate, tolgo il disturbo» invento, piuttosto imbarazzata.
«Come ti chiami?» chiede ancora l'uomo dagli occhi che adesso, più che gentili ed educati, si sono fatti insistenti.
«Lena, signore».
«Lena, ti dispiacerebbe restare a fare quattro chiacchiere con noi?» l'uomo indica il divano del salotto come se si trovasse a casa sua, io, confusa, mi guardo intorno e trovo Harry che, gli occhi ben spalancati, mi fa silenziosamente cenno di no con la testa.
«Mi piacerebbe moltissimo, purtroppo però sono già in estremo ritardo» tento e l'uomo, suo malgrado, sembra non avere più voglia di insistere.
«Buona serata, signora Styles» saluto con un cenno della testa la donna che è rimasta all'entrata ad osservare la scena, confusa e in tensione, in qualche modo. Tiene ancora la porta aperta ed io, appena fuori la soglia di casa, i piedi ancora piantati sullo zerbino, mi volto.
Sembra la scena di un film. Guardo Harry, ma lui sembra quasi non far più caso alla mia presenza, sono fuori, assente, come avvolta da una bolla di sapone. Osservo i suoi occhi verdi che si sono fatti scuri e uggiosi e agitati, non sembra l'Harry che conosco.
«Allora... buone feste, Harry» pronuncio in un anelito indistinguibile tra la tensione che vedo nella stanza. L'uomo sorride ancora, indifferente, e ogni su gesto è al centro dell'attenzione. Nessuno ascolta le mie parole, e il sipario della scena che ho davanti si chiude con il tonfo pesante della porta in legno scuro che sbatte contro lo stipite.
Mi abbandono ad un sospiro sconfitto che si condensa nell'aria ghiacciata di Dicembre, e, con un milione di domande che mi affollano la testa, mi avvio lungo il breve vialetto di casa Styles. Appena fuori, accanto al muretto che ne delinea i confini, fredda e imponente, sta parcheggiata l'automobile bianca dei servizi sociali di Manchester.


«Non ne sono sicura».
Taylor sbuffa. «Harry non ha ancora compiuto diciott'anni, no? È possibile» ipotizza la bionda, gli occhi piccoli ridotti a due fessure quasi invisibili ed il corpo spostato verso la mia figura perché nessun altro senta.
«Ma perché mai i servizi sociali dovrebbero far visita a casa sua? Non mi risulta che i suoi genitori...».
«Sì, ma lui potrebbe avere precedenti penali. In questi casi capita che la polizia mandi i servizi sociali a dare un'occhiata».
Aggrotto le sopracciglia. «Dici che ha precedenti penali?».
Osservo la ragazza di fronte a me arricciare le labbra con fare combattuto. «C'è la storia della macchina rubata a Manchester, e poi i fratelli Tomlinson... ricordi, no? Ci deve essere un fondo di verità, qualcosa sarà pur successo! E non dimentichiamoci quella volta in cui lui e il biondino Horan hanno dato a fuoco al camion del signor Anderson».
Mi stropiccio gli occhi, quasi incredula. «Ma perché pensi che siano venuti così, di punto in bianco?».
«Magari è successo qualcosa».
Scuoto la testa. «No, lo sapeva. Harry sapeva che quell'uomo stava arrivando, mi ha chiesto di coprirgli l'occhio nero». Ora tutto trova un senso. Il livido che Harry aveva addosso era la chiara testimonianza che non aveva messo la testa a posto, e cosa mai avrebbe potuto dire un assistente sociale di fronte a quella prova tangibile?
Taylor scuote le spalle, come a volersi scrollare di dosso un argomento che poco le interessa. «Allora sarà un semplice controllo periodico. Non dimenticare che Styles è pur sempre un piccolo delinquente, di che ti meravigli? Francamente io sono sorpresa che non sia mai finito in carcere fino ad ora. E poi, perché te la prendi tanto a cuore?».
Sbuffo, fatico a visualizzare l'immagine di Harry teppista, forse perché con me sembra un'altra persona; ma è quello vero?
Non faccio in tempo a rispondere alla domanda di Taylor – e ciò mi rincuora – perché Wilson entra nella stanza a passo rapido e rumoroso, dopo aver spalancato la porta con quel suo solito fare teatrale.
Oggi, malgrado le mie preoccupazioni ultime, c'è un'aria serena, quasi rilassata, nell'ufficio del dottor Wilson, che non si è mai vista prima. Adam se ne sta seduto da una parte e ha abbandonato la sua solita aria da ragazzo imbronciato, ma ride mentre legge qualcosa dal cellulare; Yurim è assente, la scorsa settimana ci ha annunciato che avrebbe passato le festività in Corea, dai suoi nonni.
«Noto piacevolmente che siamo dimezzati, stasera» osserva Wilson con un fare ironico e rilassato che non gli appartiene, volgendo lo sguardo verso le sedie vuote di Yurim, Jean e di Harry.
«Jean doveva dare una mano a sua madre...» m'intrometto, ma il nostro psicologo mi precede.
«...per il concerto di Natale, sì, me l'ha detto. Anche Yurim mi aveva avvisato. Nessuna notizia da parte di Harry, ma considerato il soggetto non sono troppo sorpreso» dice e lo sento ridere in un tono leggero.
«Idiota» avverto il sibilo della voce di Adam al mio fianco, e quando mi volto nei suoi occhi scovo quel tono d'arroganza e di sfida che non vedevo da tanto in lui. Resto a fissarlo per qualche istante mentre i suoi occhi, duri e freddi, mi penetrano la pelle come la punta di un diamante affilato.
In un breve sospiro raccolgo tutto il coraggio e la buona volontà che ho in corpo, e «Mi spieghi qual è il tuo problema?» pronuncio, breve, secca, decisa.
La stanza per un istante si fa silenziosa, Wilson smette di blaterare cose riguardanti i dolci di Natale e Taylor, alla mia destra, si sporge per assistere meglio alla scena.
Adam, colto quasi alla sprovvista, accenna ad una breve risata e scuote la testa. «Ma di che parli?».
Aggrotto le sopracciglia. «Perché odi così tanto Harry?» domando, in una via di mezzo tra il curioso ed il provocatorio.
Lui sorride, divertito. «Se mai sarà lui ad odiare me, ricordi?».
Roteo gli occhi al cielo. «Sono più che sicura che il sentimento è reciproco».
Lo vedo sospirare. «Ascolta, Lena. Harry non è quello che credi tu, d'accordo? Cos'è, ti sei innamorata del ragazzo di provincia, bello e dannato, quello che si ribella alle convenzioni sociali?» ride, e contemporaneamente Wilson esala un sospiro che al momento non riesco ad interpretare. «Peccato, perché credevo fossi più intelligente di così, troppo intelligente per farti abbindolare dalle sue storielle. Non vedi che ti fa il lavaggio del cervello? Credi che sia perfetto? Che nasconda qualche segreto di fronte al quale ti scioglierai come ghiaccio al sole, qualche debolezza che te lo farà amare sempre di più? Sei stupida, Helena, se credi questo. La verità è che non è un semplice teppistello da quattro soldi, ma un criminale. Perché mai credi che si ritrovi con la polizia e l'assistente sociale sempre in casa, il tuo amichetto?».
«E che diavolo ne sai tu?» ribatto piccata
«Lo so e basta».
«Lo sai e... basta? Come ti permetti a buttare merda su una persona che neanche conosci? Non ti vergogni?» quasi urlo, e sento la mano di Taylor che mi stringe il braccio, cerca di calmarmi. Wilson, dal canto suo, ci osserva interessato e quasi divertito. Non cambierà mai, penso.
Adam sbuffa annoiato e stanco di fronte alla mia affermazione debole. La verità è che non so cosa dire, come difendermi – difenderlo. Come si nasconde un masso così grande con due braccia strette e piccole come le mie?
Lo vedo scuotere la testa. «Forza, dottore, glielo dica» mi indica, mentre parla con Wilson che, sebbene colto alla sprovvista, si mostra imperturbabile, le spalle attaccate allo schienale della sua poltrona comoda e le braccia incrociate al petto. «Le dica chi è veramente quel ragazzo, cosa ha fatto. Come ora meriterebbe di stare dietro le sbarre, quel farabutto, e invece se ne va in giro per Holmes Chapel a recitare la parte del bello e impossibile. Glielo dica!».
Ho provato a fermarlo, a chiedergli di smettere di parlare e di urlare così forte, che faceva male, avevo le orecchie che fischiavano e sentivo il cuore che batteva forte, la mente sempre più confusa. I «Ti prego», «basta», «smettila!» non hanno funzionato, e sentivo qualcuno sussurrare accanto a me, «Dai Lena, ricorda i numeri; i numeri, contiamo insieme, dai: uno, due, tre, quattro, sei nello studio, cinque, sei, sette, te lo ricordi? Lo sai, no, lo sai? Otto nove dieci. Siamo insieme».
Ora una ragazza dai capelli biondi mi guarda preoccupata e questo ragazzo che, non lo so, forse ho visto da qualche altra parte, ha gli occhi di fuoco e continua a gridare cose di cui faccio fatica a capire il senso, blatera e blatera, non m'interessa, mi dà fastidio, fatelo smettere. L'uomo che prima era sulla poltrona e che poi si è alzato per sussurrarmi quelle cose lo rimprovera, zitto, stai zitto, smettila razza di idiota.
«Lena?» dice, voltandosi verso di me, in un tono che assomiglia a quello che usava papà quando avevo la febbre da bambina, e mi portava il brodo di pollo a letto e quando arrivava l'ora della medicina mi rassicurava che sarebbe finito presto tutto, tranquilla, finisci, adesso passa.
Lena. Sì, sì. Sono Lena. Aggrotto le sopracciglia. Annuisco.
«Sono il dottor Wilson. Rilassati. Puoi sdraiarti sul divano e ti faccio portare una camomilla. Rilassati. È tutto a posto. Stai bene».
Mi rilasso. È tutto a posto. Sto bene.
Sto bene?


Note.
Va beh. Partendo dal fatto che sono in estremo ritardo: scusatemi, sono stata un po' pigra ultimamente e al mio continuo desiderio di otium si è sommata l'ingente quantità di compiti che sto accomulando. Per cui chiedo venia.
In secondo luogo, non sono per niente soddisfatta del sovrastante capitolo, è stato un po' una sofferenza rileggerlo ma amen, non ho né la testa né la voglia per riscriverlo da capo in questo periodo, per cui mi sa che dovrete sopportare questa schifezza... spero di rifarmi nel futuro. Quindi grazie se siete riusciti ad arrivare alla fine di questa cosa senza vomitare.
Ad ogni modo qui comincia a delinearsi di più la storia, e si scopre un po' in più circa la situazione di Harry. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, quali sono i vostri pensieri sul "problema" di Harry. Cosa credete che sia?
Fatemi sapere (:
Grazie a chiunque legga!

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Dal capitolo 13
Abbandono quella chiamata persa lì, dove ha deciso di lasciarla lui. Cambiare idea è il suo biglietto da visita, dopo tutto.
 


 

 

 
   

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Capitolo 13
*** Come si fa ***


 

 Succede che a un certo punto ti chiudi. Non ci fai neanche caso, è il riflesso incondizionato di un corpo che incassa troppi colpi e ha capito come funziona il mondo. 



Un improvviso fascio di luce artificiale s'insinua nella fessura tra le tende che coprono il finestrino e mi costringe ad aprire gli occhi, infastidita. Per un secondo ero quasi riuscita a convincermi di potermi assopire e abbandonare tutti i pensieri, giusto per qualche istante ancora. Sbatto ripetutamente le palpebre, mentre cerco di abituare la vista a distinguere qualcosa nell'oscurità. Fuori è buio, all'interno del treno restano illuminate solo le uscite d'emergenza e la faccia pallida di un ragazzino che, alla fine del vagone, sembra occupato a inviare messaggi con il cellulare. Il resto dei passeggeri al momento dorme, o per lo meno finge di dormire; io non sono mai riuscita a prendere sonno in movimento, la tensione è troppa per poter riuscire ad assopirmi. Al contrario mi dedico, come il ragazzino al cellulare, all'inutilità più totale: per l'ennesima volta faccio il calcolo del tempo che manca al mio arrivo a Dover – a dormire. Avverto già le palpebre pesanti e le mani stanche, il corpo rigido che, a questo punto, implora solamente pietà ed un letto comodo.
Sono incantata nell'osservare il ragazzino imprecare sottovoce di fronte a qualche gioco sul cellulare, quando avverto il mio vibrare in tasca. Dentro di me prego che non sia mio padre pronto a dirmi che ritarderà nel venirmi a prendere, perché in quel caso sento già di poter svenire; aggrotto le sopracciglia, invece, quando leggo il nome di Adam sullo schermo.
Stringo le labbra, mi guardo intorno incerta. Vorrei dire che non ce l'ho con lui, che in fin dei conti sono fatti che non mi riguardano in prima persona e che possiamo far finta che non sia successo nulla. Ma ho ancora le sue grida in testa, «Come ora meriterebbe di stare dietro le sbarre, quel criminale!», il suo volto rosso di furia, le sue vene che pulsavano sul collo sotto la voce tenante sono ancora vividi davanti a me, e sento il suo timbro roco vicino alle orecchie che mi rimprovera «Non vedi che ti fa il lavaggio del cervello?». Con la lingua tra i denti sfioro la cornetta rossa e la schermata di chiamata scompare sotto il mio sguardo, per dar spazio allo sfondo del mio cellulare.
Adam non è cattivo. Ne sono certa. Me l'ha detto Jean, una volta, lui che riesce a leggere il mondo dentro le persone, quasi come fosse un segreto inconfessabile: «È la violenza repressa» ha detto, mentro lo osservavamo da lontano stringere i denti e sospirare, sconsolato. «è la violenza repressa perché ha capito cos'è sbagliato». A quel punto ho detto a Jean che dovrebbe fare lo psicologo, perché capisce le persone come nessuno, ma lui ha arricciato il naso, scuotendo la testa, e ha risposto di avere tante altre cose in cantiere e nessuna intenzione di diventare come Wilson. Non lo biasimo.
Credo di voler pure bene, ad Adam. A parte i suoi occhi che s'infuocano quando qualcosa non va, a parte la voce tuonante, a parte la prepotenza che vuole ostentare ma che non ho ancora trovato davvero; a parte tutto gli voglio bene.
Ho bisogno di tempo.
Il cammino del treno è dritto e lineare, il silenzio assordante, nell'oscurità fatico a distinguere anche i tratti somatici della donna addormentata di fronte a me.
Sono quasi sul punto di addormentarmi quando il cellulare vibra nuovamente. Faccio appena in tempo ad estrarlo dalla tasca e a leggere il nome del mittente perché giusto un istante dopo la chiamata s'interrompe. Esalo un breve sospiro mentre rileggo il nome di Harry Styles nella lista delle chiamate perse, e sollevo un angolo delle labbra nell'immaginarlo seduto sul suo letto azzurro, in quella camera avvolta dalla penombra, una mano che regge il cellulare accanto all'orecchio e l'altra che si disordina i ricci per il nervosismo; lo immagino ascoltare, teso, il primo squillo della chiamata e, nell'udire il secondo, in un impeto di frustrazione, premere di botto la cornetta rossa per poi scagliare il cellulare dall'altra parte della stanza. Non so perché mai Harry dovrebbe poter fare una cosa del genere, e soprattutto non so per quale motivo al mondo lo farebbe per me: ma sono abbastanza certa che l'immagine che ho creato sia vera. Sto ancora cercando di imparare Harry Styles, e forse non avrò capito i suoi perché, ma i come li ho memorizzati e vividi nella mente. Abbandono quella chiamata persa lì, dove ha deciso di lasciarla lui. Cambiare idea è il suo biglietto da visita, dopo tutto.
Stancamente, riservo una breve occhiata ai numeri digitali sulla schermata del mio cellulare, che segnano le ventitré e trentadue: la vista dell'orario mi costringe a sbadigliare. Mi abbandono nel mio sedile con fare sconsolato, conscia che mancano ancora tre quarti d'ora pieni di viaggio prima del mio arrivo a Dover. L'uomo di fianco a me ha cominciato a russare e ormai anche il ragazzino di prima ha spento il cellulare e ha chiuso gli occhi.
Mentre mi domando se anch'io riuscirò a prendere sonno o, quanto meno, a entrare in fase di dormiveglia, avverto nuovamente la vibrazione nella tasca dei pantaloni. È uno scherzo, mi dico. Impreco sotto voce, pronta a prendermela con chiunque, stasera, abbia intenzione di prendersi gioco di me; ma non appena riconosco un terzo numero sullo schermo del cellulare aggrotto le sopracciglia, confusa.
Con un breve sospiro, questa volta clicco sulla cornetta verde. «Pronto?»
«Lena, sono il dottor Wilson» risponde la voce ruvida e grave del mio psicologo.
«Buona sera, dottore. Mi dica» cerco di risultare calma e tranquilla, e, soprattutto, mi sforzo di non suonare tanto sorpresa quanto in realtà sono.
«Come stai?»
«Perché, le interessa?» sarei tentata di chiedergli. Ma, un po' per educazione, un po' perché in fin dei conti gli sono grata di avermi aiutata questo pomeriggio, e un po' per buon senso, «Bene, grazie» mi limito a dire.
Lo sento indugiare dall'altra parte. So che vuole dire qualcosa di gentile, che non gli risulta affatto semplice da pronunciare. «Non dar retta ad Adam» dice solo e, sotto quel suo tono così autoritario e deciso, da "grande", lo sento insicuro, come se non fosse del tutto certo di cosa dire per farmi stare meglio; come se farmi stare meglio fosse compito suo.
«Oh, non è un problema» dico piano, attenta a non alzare troppo la voce per non disturbare i miei compagni di viaggio «E poi, insomma... potrebbe anche avere ragione» ammetto ad alta voce la mia paura. Mi lascio sfuggire un sospiro leggero, come un segreto impronunciabile, una debolezza nascosta.
«Credi che Adam abbia ragione?»
«Non lo so» dico, spicciola. Un criminale ha detto, i denti serrati ed un'espressione di disgusto che non gli avevo mai visto addosso. E se fosse vero? E se Harry non avesse fatto altro che prendermi in giro, tutto questo tempo? Se non fosse quello che dice di essere? Ma poi, esattamente, cos'è che mi ha detto di essere? E se, nonostante tutto, fossi finita per cadere nella sua ragnatela come una qualunque ragazzina sprovveduta in cerca di attenzioni? «Lei lo sa?» è la mia domanda automatica, a questo punto.
«Ti stai innamorando, Lena?» mi chiede piuttosto, con la sua irritante voce da psicanalista incallito, che però stavolta è inquinata da qualcos'altro... qualcosa di paterno.
Sorrido fra me e me. «Lei crede, dottor Wilson, che sia possibile, per me, innamorarmi?»
«Questo devi dirmelo tu»
«Fino a prova contraria è lei il mio psicologo» ribatto. Sto davvero intrattenendo una tranquilla conversazione al telefono con la persona che più detesto?
Per qualche strana ragione, lo sento sorridere dall'altra parte della cornetta, e lo immagino annegare nell'immensa poltrona del suo studio mentre gioca al solitario al computer. «Io credo che sia possibile» dice.
«E crede anche che sia possibile che m'innamori della persona sbagliata?» mi ritrovo a chiedere, il tono inaspettatamente infantile e malinconico.
Sospira. «Lena, non credere alle cose che ti vengono dette».
«A cosa dovrei credere? Non voglio essere presa in giro, dottor Wilson. Mi dica lei a che devo credere» sollevo un poco la voce per il nervosismo e avverto l'uomo accanto a me spostarsi nel sonno. Trattengo il respiro.
«Non posso essere certo io a dirti quello che vuoi sapere. Chiedi a Harry, Lena. Spetta a lui farlo, se sarà pronto a raccontarti la sua storia»
«Ma se non volesse-»
«Allora dovrai decidere se fidarti di lui o no» risponde prontamente.
«E io, dottor Wilson, io come faccio? Come si fa a fidarsi?»
Lo sento indugiare. «Bella domanda» dice, e capisco dal suo tono che non ha intenzione di spendere una parola di più sull'argomento.
Sorrido. Forse non lo detesto poi così tanto. Forse io e lui abbiamo trovato un punto d'incontro, alla fine.
«Come passerà le vacanze?» chiedo ad un tratto, quasi senza rendermene conto.
«Resterò qui a Holmes Chapel... ma mia nipote verrà a farmi visita» dice.
«Ne sono contenta. Allora le auguro buon Natale»
«Buon Natale»
«Ah, dottor Wilson?»
«Sì?»
«Grazie»


La mia camera ha le tende dello stesso colore del mare che si vede se mi affaccio dalla finestra. Sarà al massimo la terza volta che passo qualche giorno in questa casa coi pavimenti in parquet e la tappezzeria azzurrina, eppure qui ho una camera tutta per me anche più grande di quella che ho a Holmes Chapel. Papà, quando si è trasferito qui, ha insistito perché avessi una camera mia nella sua nuova casa, come a dire «Ti voglio ancora nella mia vita», «Io ci sono».
Cerco di passare tutte le vacanze qui, perché papà è così solo e poi anch'io voglio lui nella mia vita. Dopo tutto, non avevo mai messo in conto tutto questo: che Jonah morisse, che mia madre fosse presa da violenti attacchi di depressione e che lei e mio padre si separassero, perché sopportare la perdita di un figlio insieme è ancora più dura. Non ho mai capito la logica di tutto questo, ma accetto passivamente perché non ho la forza di biasimare, e se dovessi farlo sarebbe bene che cominciassi da me stessa.
Siamo una famiglia spezzata: non l'uno dall'altro, bensì noi, ognuno di noi, è un nucleo spezzato che ha sprigionato l'energia dell'autodistruzione. Come fai a vivere se hai la sofferenza dentro, nelle viscere?
Non l'avevo messo in conto.
Seduta all'isola della cucina osservo mio padre fischiettare un motivo allegro mentre prepara la colazione, e mi domando se anche lui ogni tanto non si chieda come sarebbe andata se. Io, i "come sarebbe andata se" ho smesso di considerarli perché ho scoperto che hanno una lama a doppio taglio, che ti fanno gioire momentaneamente di una fantasia impossibile e poi ti colpiscono con l'amarezza della realtà, come con un pugno in pieno stomaco. Però sono sicura che neanche mio padre, lui che è esperto di calcoli e bilanci, aveva mai messo in conto una cosa simile.
«Sciroppo d'acero?» lo sento domandare ad un tratto, e solo adesso mi accorgo che si è seduto anche lui al bancone, e che ora di fronte a me c'è un piatto pieno di pancakes caldi.
«Sì, grazie» dico e lascio che faccia lui, proprio come quando ero piccola ed era meglio che fosse lui a condirli per me, o altrimenti avrei combinato un pasticcio.
«Quanto mi manca la tua cucina» sospiro dopo aver ingoiato il primo boccone.
Mio padre sorride, e le rughe che ha intorno agli occhi sembrano più profonde dell'ultima volta. «La mamma si ostina a non imparare a cucinare, eh?» scherza.
«Di solito cucino io» spiego «ma anche così è un casino perché mi capita di dimenticare quello che sto facendo, o che ho il forno acceso, e finisce che brucio tutto» rido.
Lui sorride mentre mi guarda e mastica. «Hai ancora le amnesie, vero Lena?» mi domanda, e il suo sguardo si fa un po' più serio: non pesante, però. È sempre sereno, e mi fa capire che non ha intenzione di affrontare questa conversazione con la nota tragica che solitamente le attribuisce mia madre.
Sollevo le spalle. «Ancora sì» ammetto «però devo dire che sto migliorando, sai?»
Annuisce. «La mamma mi ha detto che ti sei fatta dei nuovi amici»
«Quello aiuta» concedo. Se ci penso, è vero. Da quando ci sono Harry, Taylor e Jean nella mia vita è tutto un po' più semplice; è come se ognuno di loro avesse tolto un piccolo peso che mi portavo dietro, come se tutti insieme mi aiutassero a respirare.
«Sono contento» dice «vedrai che presto passerà tutto»
Sorrido, stavolta un po' amaramente. «Non lo so» dico; non lo so davvero, se questo tutto passerà, e non so se voglio che capiti. Abbasso lo sguardo, improvvisamente più pensierosa. «E Jonah, papà? Jonah passa?» chiedo con gli occhi fissi sul piatto ancora pieno, cercando di nascondere gli occhi che pizzicano di lacrime nuove. Sento solo le gambe della sedia di mio padre strisciare sul pavimento, i suoi passi e poi le braccia che mi avvolgono.
«Papà» borbotto stretta dalla sua morsa affettuosa, dalla quale non mi scardinerei mai.
«Tesoro» dice, e sento la sua voce potente vibrare accanto al mio orecchio. «tuo fratello Jonah c'è sempre, te lo assicuro. È sempre con te. Però devi andare avanti; non significa che ti scorderai di lui».
Sbatto le palpebre, mentre osservo le macchie più scure di lacrime che bagnano la camicia di mio padre. Non so se lui è riuscito ad andare avanti; mia madre chiaramente non l'ha fatto, e io mi trovo in bilico tra le braccia calde dei ricordi che mi logorano e il futuro dell'azzardo. E Jonah posso tenerlo con me?
Non rispondo a mio padre perché la stretta con cui lo sto ricambiando dice tutto: lo so, grazie, ti voglio bene. Ci provo.
Ci proverò.
Il telefono di casa squilla e mio padre scioglie l'abbraccio per andare a rispondere, non prima di avermi lasciato un bacio sulla tempia.
Mi appoggio al davanzale della cucina, e penso che mi piacerebbe vivere qui a Dover, per il mare che si vede dalle finestre delle case, per papà, per l'affetto, perché non è Holmes Chapel e camminare qua è più facile.
«Lena, è per te» sento dire a mio padre, che si avvicina per porgermi il cordless.
Aggrotto le sopracciglia. «Pronto?» dico al telefono, sedendomi sui primi gradini delle scale mentre guardo mio padre lavare i piatti. Ho insistito per farlo io ma lui ormai è così abituato alla vita da solo che questi piccoli lavoretti di casa non gli pesano per nulla.
«Allora sei viva» risponde la voce roca e serena dall'altra parte.
«Come hai fatto ad avere anche questo numero?» mi fingo esasperata, anche se una parte di me sta già arrossendo.
La voce mattutina di Harry – sono più che sicura che non si sia svegliato da poi molto tempo – ride. «Me l'ha dato Taylor. Ti dà fastidio?»
Tiro su col naso. «Non lo so. Dipende. Che ti serve?»
«Stai piangendo?» la sua voce, per un istante, sembra quasi apprensiva, e io non posso fare a meno di sentirmi lusingata per una tale attenzione.
«No» mento. Non ho intenzione di raccontargli i motivi delle mie lacrime, che ormai sono seppellite in quell'abbraccio tra me e mio padre.
«...»
«Harry, che c'è?» roteo gli occhi al cielo.
Lo sento ridere sommessamente. «Volevo solo augurarti buon Natale»
A questo punto, rido anch'io. «Harry, è il ventotto Dicembre»
«Oh»
«Non dirmi che non lo sapevi»
«Non faccio molto caso a queste cose. Facciamo che sono un po' in ritardo»
Non riesco a trattenere un'altra risata. «Facciamo che ci credo» Lui resta qualche istante in silenzio, a tal punto che mi ritrovo a pensare di averlo offeso in qualche modo. «Harry?» domando, e lui ancora non risponde. Osservo il display del telefono per capire se la chiamata è ancora aperta, e aggrotto le sopracciglia quando sento il suo respiro regolare dall'altra parte.
«Facciamo che volevo chiederti scusa» dice ad un tratto.
Rimango in attesa.
«Per come mi sono comportato l'altro giorno. E poi, non lo so, Taylor mi ha raccontato quello che è successo da Wilson con Adam, e non voglio che tu pensi che io sia...» resto in ascolto ma lui non completa il pensiero.
«...un criminale?» cerco di concludere la frase che sembra aver lasciato deliberatamente in sospeso, e aggiungo volutamente un tono sarcastico per tentare di smorzare questa tensione di cui non comprendo l'origine.
Harry rimane in silenzio. «Io...»
«Harry?»
Lo sento prendere un enorme sospiro. «Facciamo che non ti ho detto niente?»
Annuisco. Lo so, Wilson me l'ha detto. Io aspetto, stringo i denti e mi mordo le labbra di fronte ai suoi sospiri sconsolati, ai suoi occhi spenti e alle mani disperate tra i capelli, ingoio una curiosità che non mi è concessa. «Facciamo così» sospiro piano.
«Ci vediamo a scuola» dice, e io non faccio in tempo neanche a salutarlo che sento la chiamata interrompersi. Stringo le labbra in un sorriso amaro.
Dopo tutto stavolta è riuscito ad aspettare che rispondessi al telefono.



Note.
Salve a tutti! Mi scuso per il ritardo nel postare, e perdonatemi se ci sono degli errori. Di norma rileggo sempre i capitoli prima di postarli ma stavolta proprio non ce l'ho fatta, per cui perdonatemi.
Ad ogni modo, spero che la storia continui a incuriosirvi nonostante le notifiche un po' altalenanti che spero non siano indice di un calo d'interesse. Mi dispiacerebbe un po', in quel caso.
Spero il capitolo vi sia piaciuto! Non vedo l'ora di postare il prossimo (:
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Dal capitolo 14
Quando salgo sulla Volkswagen riservo un ultimo sguardo alla strada e, di sfuggita, colgo gli occhi verdi e spenti di Harry Styles che mi penetrano da parte a parte.

 


 

 

 
   

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Capitolo 14
*** Guasti ***


 

A una vaghezza nera ne hai sostituita una colorata, non so come hai fatto, hai dipinto il buio e le ombre sono diventate onde.
- G. Carcasi



«Scusa, che giorno è oggi?».
«Nove Gennaio».
Annuisco, con la penna picchietto sul foglio e scrivo. Nome: Helena Hawkins. Accanto a me sento qualcuno che sussurra e già cerca di passare la risposta giusta ad un compagno della fila avanti; io sospiro rassegnata e osservo alla lavagna gli orari d'inizio e di consegna del test, in parte coperti dai capelli voluminosi e grigi della professoressa Green. La biologia non è mai stata il mio forte e, se già l'idea di dover frequentare un corso di questa materia a scuola poco mi allettava, non mi ritrovo a fare i salti di gioia quando, appena qualche giorno dopo l'inizio della scuola a seguito delle vacanze natalizie, la nostra adorabile professoressa si presenta con un malloppo di test a sorpresa per tutti noi.
Sconsolata, osservo nuovamente il foglio e mi accingo a completare il campo ancora vuoto: data. «Scusa, che giorno è oggi?» domando a Phoebe che è seduta accanto a me, e mi rivolge uno sguardo a metà tra l'esasperato e lo scioccato.
«Ma sei matta o cosa? È la terza volta che me lo chiedi, è il nove Gennaio per la miseria!».
«Scusa, l'avevo dimenticato» dico facendomi piccola piccola, e avverto le guance avvampare. Mi piego sul foglio che ho davanti e per l'ora successiva mi sforzo di indirizzare tutta la mia attenzione verso i quesiti di biologia ancora senza risposta.
Al suono della campana dell'ultima ora, sono riuscita – grazie a chissà quale divinità del cielo – a dare una risposta, anche se incerta e assolutamente improponibile, ad ognuna delle domande. La professoressa Green mi sorride quando le consegno il compito, e anche se con un fare un po' freddo e distaccato, mi chiede se va tutto bene.
Accenno ad un sorriso. «Sì» dico, e per una volta sono quasi sicura che questa non sarà un'insufficienza – o almeno lo spero ardentemente.
Appena fuori il cancello della scuola, mentre cento altri studenti ci sfreccano intorno, più determinati che mai a lasciare l'edificio, mi fermo a parlare con Kim, che solitamente in biologia è un asso.
«E alla numero 5? Cos'hai risposto?».
«Mhm... credo di aver segnato la B» dice lei pensierosa.
«Accidenti, io ho segnato la D... Sarà un altro votaccio» sospiro stancamente, mentre la mia amica scuote la testa e cerca di tranquillizzarmi.
«Non essere così avventata, non è ancora detto nulla».
«Non lo so...» borbotto con fare inconsistente e lascio correre lo sguardo tra la folla, rendendomi conto che ormai è inutile fare pronostici. I miei occhi si bloccano e restano fissi in un punto nell'esatto istante in cui incontrano una figura familiare, seduta sul muretto poco lontano. Nel momento in cui anche lui si accorge di me, salta giù e si pulisce i jeans dalla polvere con una mossa repentina delle mani, appena prima d'incamminarsi verso di me a passo veloce.
Adam è bello, dopo tutto: è alto e imponente, ha le spalle larghe di chi ti può proteggere o rompere le ossa con un semplice abbraccio. Non sono mai riuscita a concepire quell'espressione d'ira perenne che si porta dietro, ma i suoi occhi scuri sono due buchi neri dentro cui perdersi e annullarsi, e le poche volte in cui sorride mostra due file di denti da bambino che fanno a pugni con tutto il resto.
«Ciao» dico quando è abbastanza vicino da potermi sentire, perché ormai sono certa che sia qui per me.
«Ciao» risponde semplicemente guardandomi da capo a piedi, come in attesa. Contemporaneamente vedo Kim allontanarsi mentre mi fa un breve cenno con la mano. Nell'educazione che la contraddistingue ha deciso di lasciarci soli, e vorrei gridarle dietro che preferirei averla con me, che forse ricomincio a temere Adam come all'inizio, quando l'ho incontrato – ma farlo risulterebbe estremamente maleducato da parte mia. No?
«Che ci fai qui?» domando dunque, concentrandomi sul mio interlocutore.
«Volevo venirti a prendere» risponde con la sua solita noncuranza, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo.
«Venirmi a prendere?» ripeto, la fronte aggrottata.
«Devo parlare con te. Ti va se ti accompagno a casa?» propone lui osservando le mie reazioni, anche se sa già che non riceverà una risposta negativa da parte mia.
Annuisco. Dopo tutto non ho intenzione di portar rancore ancora per molto: sono giunta alla conclusione che non è il caso di intromettermi in faide che non mi appartengono. Cammino accanto a lui, lungo il marciapiede e fino alla sua macchina, gli occhi fissi sul pavimento e sulle pieghe della gonna della mia divisa che si sollevano ad ogni passo. Quando salgo sulla Volkswagen riservo un ultimo sguardo alla strada e, di sfuggita, colgo gli occhi verdi e spenti di Harry Styles che mi penetrano da parte a parte.


Resto ad osservare due ciclisti che superano la nostra macchina, in attesa. Adam è in silenzio da almeno cinque minuti, le mani ferme sul volante anche se l'auto è spenta e adesso tutto tace. Devo ammettere che comincio a sentirmi a disagio, e se fossi un po' più orgogliosa sarei addirittura arrabbiata perché ha detto di dovermi parlare ma, adesso che ha parcheggiato appena qualche strada prima di casa mia, sembra essere affetto da mutismo.
«Dunque?» dico, e cerco di nasconere l'esasperazione nella mia voce con un breve sorriso.
Lui, a questo punto, sembra risvegliarsi da un lungo periodo di letargo. «Mi dispiace per quello che è successo» dice di colpo e la sua voce, così nitida e così improvvisa, quasi mi spaventa.
Sollevo le spalle. «Non preoccuparti. È stato un momento di nervosismo, lo capisco» dico io in risposta. «E dopo tutto io non ho aiutato... I problemi tra te e Harry non sono fatti miei».
Con la coda dell'occhio vedo le dita di Adam che si stringono più sul volante, e la sua mascella che si serra. «Già» dice «Non dovevi intrometterti».
Arriccio le labbra. «Effettivamente neanche tu avresti dovuto intrometterti, però» ribatto piccata. Di certo non mi ha fatto piacere sentirmi dire che sono una stupida che si lascia abbindolare dal primo ragazzo di turno.
Lui si volta di scatto dalla mia parte, le sopracciglia aggrottate. «E con questo che intendi?».
«Intendo dire che devi farti gli affari tuoi anche tu, Adam. Con chi decido di passare il mio tempo non deve riguardarti, o sbaglio?» spiego, calma.
Sembra sorpreso, come se non si aspettasse una risposta tanto audace da parte mia; come se, ai suoi occhi, dovessi rimanere sempre la Lena un po' incerta che evita di dire cose scomode.
«L'ho fatto per te» dice serio mentre continua a scrutarmi.
Assumo un'espressione divertita e fingo una risata. «Dai, raccontalo a qualcun altro. L'hai fatto perché odi Harry e basta».
«Tu non hai idea di che razza di-»
«La vuoi smettere? Decido io con chi stare, d'accordo? Non credo sia una cosa che ti riguarda».
Chiude gli occhi e lo osservo massaggiarsi le tempie; in questo momento ha l'aria di un uomo d'affari sotto stress che cerca di liberare la mente da ogni pensiero. Magari in un altro momento sarei riuscita a ridere di fronte ad una visione del genere. «Voglio solo metterti in guardia» dice.
«E da cosa? Da lui? Sono grande abbastanza da distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato da sola. Non ho bisogno di nessuno che mi metta in guardia».
«Se solo tu sapessi quanto-»
«...tanto meno ho bisogno che tu mi metta in guardia da lui. Tutto questo è ridicolo!» sbotto esasperata, gesticolando animatamente.
«Non voglio litigare».
«E poi non ho la benché minima intenzione di prendere ordini da te. Faccio quello che voglio e-»
«Lena!» m'interrompe di colpo, la sua voce tuona rumorosa all'interno dell'abitacolo e io, per lo spavento e la sorpresa, mi ritrovo con le spalle attaccate al sedile ed il fiato corto. Lo osservo, quasi spaurita. «Non ho intenzione di litigare con te, almeno non di nuovo. Se ritieni che per te sia giusto frequentarlo, allora puoi fare quello che vuoi. Io ti ho dato la mia opinione».
«Se quella era un'opinione...» borbotto con le braccia incrociate al petto ed un cenno di broncio quasi bambinesco sulle labbra.
«Diciamo che ho provato a persuaderti» si corregge. «Che ne diresti, ora, di far finta di nulla e fare pace?» propone, e mentre il mio sguardo è fisso sulla strada di fronte a noi, avverto il suo che scruta il mio profilo, attento ad ogni dettaglio.
Mi abbandono per qualche istante al silenzio piacevole di questo momento, interrotto soltanto da un mio breve sospiro.
«Ce l'hai con me?» domanda tentennante.
Scuoto la testa, poi mi volto verso di lui e gli tendo la mano.


Sbuffo sonoramente e deposito con poca grazia il libro, che prima avevo sulle ginocchia, sul letto, per alzarmi e scendere le scale in tutta fretta. Entro in cucina quasi correndo e mi arresto di botto solo quando mi accorgo che i fornelli sono tutti spenti.
Grazie a Dio.
Prendo un respiro profondo, sollevata.
Malgrado gli ultimi miglioramenti riscontrati con le mie amnesie, la paranoia che da sempre mi – le – accompagna persiste ancora, e forse è questa la cosa che più detesto della mia situazione. Non è la prima volta che mi capita di dover correre da qualche parte della casa per accertarmi di non aver dimenticato nulla acceso o in forno, o per assicurarmi di non aver lasciato l'acqua del rubinetto aperta. La parte peggiore è il continuo stato d'irrequietezza in cui sono costretta a vivere, quella tremenda insicurezza che mi porto dietro perché chi può mai assicurarmi che io non abbia appena accidentalmente dato fuoco alla casa e l'abbia dimenticato giusto qualche istante dopo? Trascorro i pomeriggi in continue maratone di presentimenti da una parte all'altra della casa a maledire il mio cervello che non riesco a controllare, e quella dannata lavatrice che con i suoi rumori inquietanti sembra volermi dare funesti presagi.
La vita non è mai semplice, quando sono sola: le paranoie sono tante e non è facile non potersi fidare di se stessi. Wilson mi ripete sempre che devo avere più fiducia nei miei confronti, e forse ha ragione, ma come faccio se rischio di uccidermi con un semplice incidente domestico? E se qualche giorno dovessi dimenticare, per strada, anche che il semaforo è rosso?
La presenza di mia madre, seppure scostante e svampita, mi rassicura. Sono meno iperattiva quando lei è incasa, perché so che c'è un altro cervello a controllare quello guasto che ho io. Lei però lavora instancabilmente tutti i pomeriggi, e mi ritrovo perennemente immersa nel silenzio dei miei pensieri e nei dubbi sulla mia sanità mentale.
All'essere sola, in fin dei conti, mi sono abituata. La solitudine s'impara a poco a poco, si esercita tra gli sbadigli e la noia quotidiana, ti avvolge completamente e ti annebbia la vista fino a quando smetti di far caso alle persone.
Decido di trasferire il mio studio in cucina, così da poter essere certa, almeno per un po', di non star combinando alcun guaio. Con l'intenzione di recuperare il libro di storia dal mio letto, faccio in tempo giusto a poggiare il piede sul primo gradino delle scale, perché nel medesimo istante sento il campanello suonare.
Apro la porta con una smorfia sulle labbra, già pronta a spiegare al postino di turno che non ho intenzione di firmare nulla perché non ho ordinato proprio niente, e sollevo le sopracciglia per lo stupore quando di fronte a me invece trovo la figura magra e slanciata di Harry. Indossa una camicia a quadri e un giaccone pesante per ripararsi dal freddo, tra i capelli porta una bandana scura e tiene le mani nelle tasche e gli occhi su di me.
«Ciao» dico, senza preoccuparmi di mostrare il mio stupore. In fin dei conti non dovrei neanche più meravigliarmi: ho imparato che Harry è così, che il consono e lo scontato per lui non esistono, fa quello che ha voglia di fare senza troppi scrupoli.
«Ciao» ha lo sguardo incerto e lancia un'occhiata alla strada prima di tornare a posare gli occhi su di me. «Ti va di fare un giro?».
Mi mordo leggermente il labbro inferiore, mentre lo scruto attenta, tentando di capire se possa esistere un motivo di fondo a tutto questo o lo faccia solo perché gli va.
Alla fine sospiro. «Prendo il cappotto».


Camminiamo uno accanto all'altra in silenzio, le braccia che si sfiorano casualmente ormai senza troppo imbarazzo, le impronte delle nostre scarpe sulla neve che seguono i nostri passi accidentati. Harry è più taciturno del solito, mantiene lo sguardo basso e fino ad ora non ha pronunciato nessuna parola, neanche una di quelle battute terribili di fronte alle quali io scuoto la testa e rido solo perché fanno troppa pena. Piuttosto tace e cammina in una linea quasi retta, lo sguardo perso in pensieri che – mi sono arresa – non saranno mai miei.
«Harry, perché l'arancia non dorme?» propongo allora, voltandomi verso di lui e rivolgendogli un breve sorriso complice.
«Non lo so; perché l'arancia non dorme?» chiede lui, e per la prima volta in questa passeggiata lo sento interessato a qualcosa che ci riguarda.
«Perché l'insalata russa!» dico ed entrambi scoppiamo a ridere simultaneamente.
«Senti questa: cosa ci fa uno sputo sulle scale?» dice lui e sorrido nel vederlo un po' più rilassato.
«Non so» dico in attesa della sua risposta, dando un calcio ad una pietra per terra.
«Saliva!».
«Questa era davvero tremenda».
Harry ride tra sé e sé dondolando il braccio e sfiorando accidentalmente la mia mano con la sua. «Dai, devi ammettere che merita»
Scuoto la testa decisa e «Un muto dice ad un sordo che un cieco li sta spiando».
«Non puoi essere seria! Questa è più vecchia della Bibbia» tuttavia non può fare a meno di ridere insieme a me, io mi stringo nelle spalle. «Okay, allora senti questa: Dio disse Kung, e Kung fu».
Scoppio a ridere e andiamo avanti così per minuti, a raccontarci battute squallide e aneddoti idioti e ad un certo punto, non so neanche come, ritrovo le mie dita tra le sue e le nostre mani intrecciate, mentre camminiamo. Mi ritrovo a nascondere un sorriso compiaciuto perché, in qualche modo, questa sembra la cosa più naturale del mondo. Lui non ci fa troppo caso, o forse se n'è accorto e come me finge indifferenza, ma nessuno dei due sembra avere voglia di sciogliere la presa.
Ci sediamo su una panchina appena fuori dal piccolo parco di Holmes Chapel, Harry torna a mettere le mani in tasca e io incrocio le braccia al petto, nel tentativo di riscaldarmi.
«Adam è venuto a prenderti a scuola, oggi» dice ad un tratto, la sua voce roca un po' più seria, ma pur sempre rilassata.
«Sì» dico «Voleva chiedermi scusa, lui...»
«Ti ha parlato di me?» chiede con fare impaziente e forse anche un po' nervoso.
«Ha detto che dovrei starti alla larga» dico con sincerità, scrutando il suo profilo.
«E ti ha detto anche il motivo?».
Mi stringo nelle spalle e scuoto la testa. «Spettava a lui dirmelo?» dico semplicemente e lo sento sospirare, quasi sollevato.
Io mi concentro sull'asfalto umido sotto ai miei piedi, e sollevo lo sguardo solo quando lo vedo alzarsi dalla panchina con fare repentino; gli rivolgo un'occhiata curiosa, per cercare di capire cosa stia facendo, ma lui rimane all'impiedi di fronte a me per un po', poi comincia a camminare avanti e indietro, sembra voler scaricare i nervi. Appare sul punto di parlare ma richiude la bocca di scatto, scuotendo la testa.
«C'è qualcosa che devi dirmi?» cerco di aiutarlo.
Lui mi lancia uno sguardo veloce, teso, dubbioso: «Non so da dove cominciare» dice, e sembra sinceramente confuso.
«Perché non ti siedi?» provo io, che comincio a confondermi ancor di più nel vederlo camminare avanti e indietro di continuo.
«Preferisco di no». Si ferma un attimo per guardarmi mentre parla «Adam ti avrà detto cose tipo che sono un criminale, che dovrei finire bruciato vivo per la roba che ho fatto, vero?»
Stringo le labbra. «In realtà non è stato così cattivo. Ha detto solo che meriteresti la prigione».
«Piuttosto mi brucio vivo da solo» lo sento sussurrare mentre cammina con il suo fare ansioso.
«Quello che mi chiedo è: perché mai dovrebbe voler dire una cosa del genere?» dico ad un tratto, e osservo le sue scarpe bagnate e sgualcite muoversi ancora sull'asfalto.
«Non ho intenzione di discolparmi con te. Non sono un criminale, Lena, e non voglio esserlo. Sta a te decidere se credermi o no».
«Harry...»
«Allora, mi credi?».
Mi lascio andare ad un breve sospiro, rassegnandomi alla sua voce tesa ma determinata (e forse un po' spaventata?) e a quello che ha in mente. «Ti credo».
«Bene. Io... io non posso dirti tutto. Lo sai questo vero, Lena? Lo sai?».
Annuisco, «Lo so» dico lentamente.
«Almeno non per ora. Non per ora...»
«Harry, non fa niente. Non sei costretto a dirmi nulla»
«No – no!» scuote la testa meccanicamente, e mi domando se in questo istante sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. È divertente, mi dico, siamo due cervelli guasti che cercano di ripararsi a vicenda. «Io voglio dirtelo. Solo che ora non... non...»
I suoi occhi verdi incontrano i miei e, per un istante, uno solo, vi leggo dentro tutta la sofferenza e tutte le parole nascoste, tutti i silenzi rumorosi, tutta l'ansia e la tensione che conserva dentro e che fatica a tirar fuori. «Ho capito» sussurro piano, quasi dolcemente. «Non c'è alcuna fretta» lo incoraggio.
Lui sospira, e finalmente si siede di nuovo accanto a me. A giudicare dalla sua espressione, sembra invecchiato di quasi dieci anni in pochi minuti. 
«Sono venuto per dirti questo. Non voglio che pensi quelle cose di me... e poi volevo fare una cosa».
Annuisco. «Cioè?»
Si volta verso di me ed accenna ad un sorriso teso e nervoso. Prima che possa chiedergli che diavolo gli è preso, lui riprende a parlare con quella velocità frenetica e ansiosa che ha caratterizzato tutto il suo discorso. «Ti confesso che ho paura. Spero davvero che tu non ti faccia cogliere da una delle tue amnesie proprio adesso».
Non faccio in tempo ad aggrottare le sopracciglia, mettere su uno sguardo curioso o domandargli di che diavolo stia parlando perché prima che possa accorgermene trovo le sue labbra sulle mie. E ci stiamo baciando.
Incapace di formulare un pensiero logico mi aggrappo semplicemente al suo cappotto per sentirlo più vicino, e avverto le sue braccia che circondano il mio corpo in un abbraccio caldo e affettuoso. Le sue labbra sono più morbide, le sue braccia perfette ad accogliermi; ad un tratto lo sento sorridere e non posso fare a meno di fare lo stesso, ho la testa che ronza e le mani che cercano solo lui.
«Adesso non hai voglia di schiaffeggiarmi, vero?» mormora a bassa voce, come se questa strada deserta fosse affolata di persone e noi due fossimo gli unici a poter sentire le sue parole.
«Non ti voglio schiaffeggiare» lo rassicuro.
Lui sorride, di nuovo, e sento tutta la sua tensione scivolare via insieme alla mia inquietudine. «Di questo non dimenticare, però» mormora sulle mie labbra, prima di lasciarmi un altro bacio leggero.



Note.
Ma bonsoir! Scommetto che siete tutti ancora sconvolti/compiaciuti da questo bel finale, non è vero? Pensavate tutti che questo fantomatico bacio non sarebbe mai arrivato, e invece eccolo qua! Lo so, vi ho fatto aspettare molto, ma spero ne sia valsa la pena.
Rileggendo il capitolo, devo ammettere che oggi abbia avuto l'impellente desiderio di cestinarlo tutto quanto, ma siccome sono troppo pigra mi sa che dovrete accettarlo così com'è. Ad ogni modo, ringrazio chiunque legga/recensisca questa storia. Siete tanto carini con i vostri commenti su facebook, su ask e twitter, mi fate sentire amata <3 ahaha grazie, davvero.
Allora che dite, vi aspettavate il bacio in questo modo? Cosa pensate accadrà dopo? E quale sarà mai il segreto di Harry? Tutto questo, nei prossimi capitoli di Non Dimenticare! (Mi sento in una serie televisiva, ahahah)
Un bacio a tutti! <3

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Dal capitolo 15
[...] e mi faccio bastare le sue carezze inconsistenti, i sorrisi che non sono mai troppo pieni e le mani che hanno paura.

 


 

 

 
   

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Capitolo 15
*** Fino a qui ***


 

Poiché sono come sono; poiché avverto esigenze e problemi che a tanti altri sembrano essere risparmiati, cosa devo fare per sopportare la vita, malgrado tutto, e farne, per quanto possibile, qualcosa di bello?
- H. Hesse


Il caldo buono e l'odore d'ebano e di libri m'investono all'improvviso quando varco la soglia della piccola libreria Icarus, l'unica a Holmes Chapel. Gli scaffali in legno sono sempre ben lucidati, i libri sono pochi ma tra quelli più interessanti, e l'ambiente solitario e tranquillo concilia i pensieri. Mi lascio avvolgere dal tepore dei riscaldamenti mentre sfrego le mani, gelide dal freddo delle strade, cercando di riscaldarmi. La luce è soffusa e le vetrate sono appannate per il freddo esterno, in sottofondo si avverte, soffice, la musica classica di qualcuno degli autori preferiti della zia di Harry.
Quando mi volto verso la cassa, Jane Styles mi osserva con il suo solito sorriso benevolo e accogliente: è sempre stata così, ma adesso che ha scoperto che io e suo nipote siamo «così uniti», come dice lei, ha cominciato a fare sui libri che compro io sconti che m'imbarazzano e a offrirmi, nelle serate più fredde, cioccolate calde che non so rifiutare. Le sorrido in un cenno di saluto; è una cara signora, i capelli grigi e corti che si sposano alla perfezione con la sua carnagione chiara, e poi quel sorriso e quelle fossette che sono di famiglia non possono fare altro che attirare la simpatia delle persone. La signora Jane gestisce questo posto da sola e, pur essendo una piccola libreria poco fornita, è anche l'unica di Holmes Chapel, per cui gli affari vanno indubbiamente bene, specie in periodo natalizio.
«Ciao Lena» mi saluta con fare accogliente, e mi sorprendo nel vederla alzarsi dallo sgabello per venirmi ad abbracciare.
Per qualche istante resto interdetta, ma decido di ricambiare il suo saluto caloroso. «Buonasera, signora. Sono contenta di rivederla, come sta?»
«Tutto bene, cara. Harry è di sotto» m'informa, e io sollevo un angolo delle labbra.
«In realtà sono passata perché vorrei un libro» spiego e lei sorride facendomi l'occhiolino, probabilmente perché anche lei sa perfettamente che non resisterò all'idea di scendere le scale.
La figura alta e slanciata di Harry, al piano di sotto, è inginocchiata per terra con la testa quasi completamente dentro ad uno scatolo di cartone, troppo impegnata per accorgersi del mio arrivo. Mi schiarisco la gola mentre lui ripone qualche libro per bambini nei ripiani più bassi, «Sono subito da lei» lo sento dire ancora a testa bassa, mentre recupera i volumi restanti dallo scatolone e li ripone al proprio posto.
Quando mi ha confessato di lavorare tutti i weekend nella libreria di sua zia, solo per riuscire a pagare le sedute da Wilson – visto che i suoi non ne sanno nulla – mi risultava estremamente difficile immaginarlo in queste vesti. E ancora sorrido nel vederlo così impegnato, la lingua fra i denti nello sforzo di aprire il nuovo scatolone sigillato; mi abbandono ad una risata leggera, lui si volta di scatto e quando mi vede pare accennare ad un sorriso. Oggi ha gli occhi più verdi e i capelli più disordinati e le labbra più piene.
«Sono venuta per un libro» m'inginocchio accanto a lui e recupero dalla scatola qualche volume dalla copertina cartonata e vivace, per poi porgerlo nelle sue mani.
Si lecca il labbro inferiore, concentrato sugli scaffali. «Che cosa cerchi?» ne sistema un altro: siamo diventati una catena di montaggio, io prendo i libri e lui li posa sulle mensole.
«Non lo so» in pochi minuti finiamo il lavoro, che in due è molto più facile, lui si scompiglia i capelli sedendosi a terra, le spalle rivolte verso le mensole. Faccio lo stesso e mi posiziono accanto a lui, le gambe incrociate e il braccio che sfiora il suo.
«Sai» dice ad un tratto, dopo svariati minuti di silenzio «potresti venire a lavorare qui. Mia zia sta cercando qualcun altro che le dia una mano».
Arriccio le labbra. «Non penso che sarei molto utile, specie se cominciassi a scordare titolo o posizione di tutti i libri qui dentro».
Il tappeto di fronte a noi è una scacchiera colorata e pelosa con dei numeri all'interno, un po' come il gioco della campana: nelle buie giornate invernali la signora Jane organizza i "pomeriggi delle fiabe" e i bambini di tutta Holmes Chapel si riuniscono qui per giocare e ascoltare dei racconti. Ricordo che anche Jonah ci veniva.
«Non necessariamente» Harry appoggia il palmo dell mano sul mio ginocchio, con delicatezza. «Allora a cosa servono i registri che abbiamo sul computer? E poi tu sei ordinata, al contrario di me che sono un disastro. Se vado avanti così mia zia licenzierà me» la sua risata riempie l'aria per qualche istante, e mi beo dell'armonia di questo suono chiudendo gli occhi; giusto qualche istante dopo sento le labbra morbide di Harry che si poggiano sulle mie, con una delicatezza immane. Sorrido contro il suo viso «Hai un buon profumo» mormoro piano e non so se è qualche prodotto che usa o l'odore del deodorante per ambienti della libreria che, mischiato alla sua pelle, mi sembra buonissimo, o ancora io che per l'ennesima volta mi lascio ingannare dai sensi quando sono accanto a lui. Harry si distacca dalle mie labbra per ridere piano, lo osservo e mi chiedo come abbiamo fatto ad arrivare fino a qui.
Glielo chiedo, e lui per tutta risposta mi bacia di nuovo, come a volersi accertare della mia presenza. Lo fa con la sua solita dolcezza, le dita bloccate sotto al mio mento mentre io cerco di attirarlo più a me. Mi tocca sempre con cautela ed estrema attenzione: le sue mani, che in un primo momento mi sembravano tanto aggraziate e rispettose, le ho scoperte spaventate, tremano quando intreccio le dita con le sue o gioco con i suoi capelli se ci baciamo, i suoi abbracci sono rari e sfuggenti, come se in qualche modo temesse di spezzarmi.
A scuola, quando siamo a mensa Harry mi prende per mano sotto il tavolo, lo fa di nascosto perché è un segreto che ci vogliamo così bene; siamo quegli alberi secolari che uniscono le radici sotto terra, intrecciando indissolubilmente tutte le diramazioni della vita, le sue dita trovano gli spazi tra le mie solo in incognito. Come due pezzi di un puzzle di colori e forme diverse che trovano un incastro improvvisato, sbagliato; quelli che i bambini testardi forzano a stare insieme anche se non sono fatti per essere uniti e che, alla fine, trovano un punto in comune, e nonostante gli spazi vuoti, nonostante i cigolii e la superficie non perfettamente liscia, restano insieme. Perché, tolte le improvvisate, tolti gli accidenti e tutte quelle parole filosofiche inutili restiamo noi che non siamo altro che un caso fortunato (forse).
Ho gli occhi che brillano del verde che c'è nei suoi e quando mi prende per mano stringo la sua più forte che posso per tutti e due, perché lui, l'ho capito, la forza non ce l'ha; e mi faccio bastare le sue carezze inconsistenti, i sorrisi che non sono mai troppo pieni e le mani che hanno paura.
«Allora, questo libro?».
Mi alzo all'impiedi e osservo gli scaffali con fare minuzioso, alla ricerca del titolo che mi è appena balenato per la mente. Quando lo trovo sorrido, soddisfatta, e dopo averlo sfilato dalla mensola glielo mostro.
Lui, che è ancora seduto, aguzza lo sguardo e «Vuoi leggere Il piccolo principe?» il suo tono è curioso.
«È il libro preferito di Jonah» dico osservando la copertina dell'edizione che ho in mano.
Harry annuisce piano, senza sorridere; sembra sul punto di dire qualcosa ma si blocca, per poi abbassare lo sguardo e scuote la testa. Poi si alza e mi tende la mano, abbozzando un sorriso sincero. «Vieni, te lo regalo».
Lo seguo (mi lascio trascinare dalla sua mano) fino alla sala principale della libreria, mentre cerco di ripetergli in tutte le salse che stavolta pagherò il libro da sola e non ho la minima intenzione di lasciarmi corrompere ancora dalla sua gentilezza e da quella di sua zia.
In libreria c'è solo un ragazzo in disparte che osserva gli scaffali, mentre la zia di Harry è occupata a digitare qualcosa al computer. «Harry, hai visto chi c'è?» dice non appena si accorge della nostra presenza. Lui aggrotta le sopracciglia e lascia andare la mia mano, nello stesso istante in cui l'altro ragazzo si volta.
«Harry» dice contento. Ha un tono elegante e posato, i capelli scuri e un accenno di barba che gli conferisce un che di quasi adulto.
«Liam» risponde il primo, più sorpreso dell'altro, ma non con lo stesso entusiasmo. «Credevo fossi ad Oxford».
Il moro si avvicina e sorride gentile ad entrambi. «Ho una pausa per qualche settimana. Tu come stai?».
«Sto bene» dice semplicemente, e avverto una certa durezza nella sua voce.
Liam, che ha lo sguardo profondo e apprensivo, non si lascia convincere troppo dalle sue parole. «Ne sei sicuro?» i suoi occhi balenano da me alla signora Jane alle nostre spalle, che a questo punto fa finta di non far troppo caso alla conversazione. «Forse dovremmo parlare, Harry. Sono stato via molto, e dopo quello che-».
«Io sto bene. Non ce n'è alcun bisogno Liam, sul serio» suona duro e freddo, io aggrotto le sopracciglia sorpresa, ma il ragazzo che mi sta di fronte sospira semplicemente, come se già si aspettasse una reazione del genere. Compatisco il suo sorriso dispiaciuto, e quando lui mi guarda Harry si sente in dovere di fare le presentazioni. «Liam, lei è Lena. Lena, lui è Liam, un mio...»
«...amico?» provo a dire.
«Una specie».
«D'infanzia» precisa Liam, e io sorrido alle sue parole.
«Davvero?» dico e mentre lui annuisce Harry sbuffa, scocciato.
«...È meglio che vada» annuncia ad un tratto, avvicinandosi alla porta. «Buona serata, signora Styles. Harry, io e te parleremo, che tu lo voglia o no» e lo dice con un sorriso sereno e cordiale sulle labbra, prima di scomparire dietro la porta.


Non so se mi sento a mio agio. Ho una borsa troppo pesante e dei capelli che non sono venuti fuori come volevo, un qualcosa che mi attorciglia lo stomaco e le unghie tutte rovinate. Poi, per quanto questo possa contare, credo di essere pure in ritardo: non ho perso tempo a prepararmi, quanto più a riuscire di scovare l'esatta collocazione del locale che mi era stato indicato – fortuna che avevo appuntato l'indirizzo tra le note del cellulare.
Quando varco la soglia, la prima impressione che ho è quella di un posto squallido e malconcio, con le sedie dalle imbottiture vecchie e strappate e le scritte di pennarelli indelebili alle pareti che nessuno si cura di cancellare – o di vietare. Il locale odora di sigarette e qualcos'altro, è avvolto da una penombra nebbiosa, e la musica rock che si sente è sovrastata da un chiacchiericcio rilassato e profondo; in un angolo c'è un ragazzo che vomita in un cestino, qualche tavolino qua e là e le ragazze che in questo pub si contano sulla punta delle dita. La stragrande maggioranza maschile, chi al bancone, chi ai tavolini, mi osserva con una curiosità perversa mentre attraverso – con una certa fretta – la sala, alla ricerca di una persona in particolare.
Non appena scorgo i ricci bruni spuntare da un divanetto poco lontano mi abbandono ad un sospiro di sollievo. «Ciao» dico un po' timidamente quando arrivo al suo tavolo e mi accorgo degli sguardi indigatori di Zayn e Niall, seduti di fronte a lui.
Harry non sembra farci caso, mi sorride e mi fa posto sul divanetto vicino a lui, e quando mi siedo mi lascia un bacio sulla guancia che, sotto gli occhi di tutti, mi fa arrossire. «Loro sono Zayn e Niall» dice circondandomi il collo con un braccio e mettendo su un sorriso di circostanza. Sta cercando di ostentare sicurezza, lo vedo. Si mostra disinvolto ma le sue labbra tremano sempre quando mi sfiorano e non so perché. «Loro sono Bill e Candy» aggiunge indicando con la testa il ragazzo e la ragazza seduti all'angolo, entrambi troppo occupati a slinguazzarsi per degnarci di un minimo sguardo. «Lei è Lena» si rivolge agli altri e il viso corrucciato di Niall mi mette in soggezione; cerco di sorridere ma le sue sopracciglia corrugate e il suo sguardo affilato mi costringono in una smorfia finta che non riesco a tramutare in nulla di più naturale.
Zayn, piuttosto, osserva Candy e Bill che si baciano con il disgusto sul volto, prima di pronunciarsi: «Voi due, smettetela o prendetevi una stanza. La ragazza di Harry è appena arrivata, non fate i maleducati e salutate».
I due per qualche istante separano le bocche e si guardano intorno, curiosi – qualcosa mi dice che siano già ubriachi – e quando notano me mi rivolgono dei confusi cenni di saluto, prima di tornare l'uno ad esplorare la bocca dell'altro. Zayn tira la testa all'indietro, esasperato, e sento Harry ridere accanto a me. «Lascia perdere, è una causa persa» dice mentre mi accarezza i capelli, e mi domando se si tratti di un cambiamento repentino o se sia la presenza dei suoi amici che lo rende così voglioso di apparire disinvolto con me.
Io, da parte mia, sono ancora bloccata alle parole di Zayn – la ragazza di Harry. Non avevo pensato a me i questi termini ma, a rigor di logica, cos'altro dovrei essere? Mi chiedo se sia stato proprio lui a parlare di me in questo modo con loro.
Il cameriere si avvicina e tutti ordinano alcolici vari e qualche birra contro la mia Coca Cola, che suscita un paio di risatine qua e là.
«Sono astemia» dico per giustificarmi, ma nessuno fa troppo caso alle mie parole, coperte dalla musica che si è fatta più assordante e dalle chiacchiere di una folla che ora è più numerosa.
Candy e Bill presto si perdono tra la folla del locale, con una canna per le mani e le labbra ancora inspiegabilmente incollate.
«E come vi siete conosciuti?» domanda Niall ad un tratto, sorseggiando la sua birra ormai quasi vuota.
«A scuola» dice prontamente Harry. Sono certa che nessuno dei suoi amici sa di Wilson né dei suoi problemi; mi viene da ridere, perché, in fin dei conti, neanch'io so quali siano i problemi di Harry.
Il biondo mi scruta in una maniera che non mi piace, quasi fossi l'intruso della situazione; Zayn sembra non farci troppo caso, ma la verità è che lui pare non voler fare troppo caso a nulla. Si limita a sorseggiare il suo alcolico e a guardarsi intorno (e a guardarmi) con aria di sufficienza, come se fosse superiore a tutto ciò che lo circonda – francamente non so se sia più fastidioso il suo atteggiamento o quello di Niall.
«Ma tu non eri quella schizzata?» dice ad un tratto l'ultimo, e la presa di Harry sulla mia mano si fa più salda.
«Niall, non rompere il cazzo».
«Ti hanno detto che sono schizzata?» dico piuttosto io in risposta, calma, ignorando l'intervento del ragazzo che mi sta accanto.
Niall sorride e si allunga sul tavolo per accertarsi che io senta bene quello che sta per dire: «Dicono che sei una psicopatica. Che una volta hai provato a suicidarti e che adesso ti tagli i polsi nei bagni della scuola» il suo sorriso sadico s'impadronisce del mio sgurdo, lo vedo gioire della mia espressione sbigottita e confusa.
«Sai invece cosa dicono di te, Horan?» mi ricompongo in fretta e il biondo pare interessato. Zayn, con il viso rivolto alla pista da ballo, tende le orecchie per captare la nostra discussione. «Dicono che sei un drogato senza speranza, un barbone che passa le proprie nottate per strada a delirare, che non sei altro che un pezzo di merda. E su questo posso confermare» quando pronuncio l'ultima frase sono già in piedi con la borsa tra le mani, il biondo mi osserva sorpreso, e mentre mi allontano dal tavolo sento la risata rumorosa di Zayn che riecheggia, e il suo «Ti ha buttato nel fango, amico!»
Quasi non mi accorgo dei passi che mi seguono, appena fuori dal locale, e mi rendo conto della presenza di Harry al mio fianco solo quando prende la parola: «Niall è un coglione» dice solo, e la mia espressione dura si scioglie un po' nell'udire il suo tono dispiaciuto.
«Ho avuto modo di constatarlo» borbotto stringendomi nel mio cappotto per il freddo, ma lui infila una mano nella mia tasca e intreccia le dita con le mie.
«Mi dispiace» lo sento dire ad un tratto, dopo qualche istante di silenzio nelle strade deserte e bagnate di Holmes Chapel.
Sollevo le spalle. Non fa niente, vorrei dire, ma sono stanca di dire che non fa niente anche se le cose fanno male.
«Ti riaccompagno a casa» dice dopo un breve sospiro, e a me viene da ridere a pensarci.
«Ricordi dov'è casa mia?» chiedo.
«Sì».
«Bene, perché io no» e rido di nuovo, come se fossi ubriaca, ma in realtà sono solo tremendamente nervosa.
Harry solleva le sopracciglia. «Niall ti ha fatta incazzare davvero così tanto?» chiede, io annuisco piano e abbozzo ad un lieve sorriso. Non posso farci nulla. «E cosa fai quando ti capita? Come torni a casa?».
Scrollo le spalle. Harry sembra così interessato a come conduco la mia vita dai ricordi latitanti. «Niente di particolare. Vagabondo un po' per Holmes Chapel fino a quando me la ritrovo davanti. In alternativa chiamo mia madre».
Sospira, scuote la testa e ride. «Come diavolo fai a vivere in queste condizioni, tu?».
Mi ritrovo a sorridere, quasi stupidamente, nell'udire il suo tono così apprensivo. Di colpo mi stacco da lui e faccio qualche passo indietro, mi sforzo di assumere uno sguardo vitreo e confuso: «E tu chi diavolo sei?» dico, e osservo il suo volto abbandonare l'espressione d'ilarità, per lasciar spazio ad una di panico.
«Oh, cazzo...» lo sento mormorare piano mentre mi guarda, probabilmente alla ricerca di parole giuste per cominciare il suo discorso.
In quest'esatto istante scoppio a ridere, di fronte alla sua espressione incredula. «Ci sei cascato!» dico ridendo, e lui tira la testa all'indietro, facendo lo stesso.
«Non ci posso credere» ride piano e scuote la testa «Mi era preso un infarto, giusto perché tu lo sappia».
Sorrido, un po' tristemente, riesco a mala pena ad immaginare l'imbarazzo e la confusione delle persone che mi circondano e sono state costrette a venire a contatto con le mie orribili realtà, Harry compreso. Mi aggrappo al suo braccio mentre camminiamo, come si fa con un salvagente in alto mare; non mi lasciare, voglio dirgli, io so nuotare da sola ma è meglio se lasci che mi aggrappi a te, così è più facile.
Mentre camminiamo su uno dei tanti marciapiedi poco illuminati, Harry estrae una sigaretta con la mano libera e, dopo averla posizionata tra le labbra, l'accende.
Osservo i suoi movimenti con estrema attenzione, il fumo grigio che si distingue bene nel buio, e «Dovresti davvero smetterla con quelle» dico. Lui abbassa lo sguardo per poter incrociare il mio. «Lo sai che nel 2020 il settanta percento delle morti sarà causato dal fumo di sigarette? Possono causare malattie cardiovascolari, problemi gravi all'apparato respiratorio...»
«Ah, questo te lo ricordi» mi schernisce con fare ironico. Ridiamo insieme mentre camminiamo e svoltiamo strade che non conosco, ma mi fido perché so che lui mi porta a casa.
«Ho fatto una piccola ricerca» spiego, sollevando le spalle.
«E per quale motivo?».
«Perché mi preoccupo».
«Per me?».
«Per te».
Lo osservo di nascosto mentre, a queste mie parole, sorride, perché non vuole farsi vedere e vuole fingersi apatico, ma so bene che non lo è; e vuole sembrare quello forte e disinvolto ma il suo tocco su di me è sempre incerto e spaventato, perché prova a ridere in modo piatto come fanno gli altri ma qualcosa dentro ai suoi occhi c'è sempre. 


Note.
Salve! Innanzi tutto mi scuso per il ritardo, ma in questo periodo sono stata un po' incasinata, tra gita con la scuola, compiti in classe e interrogazioni varie.
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Per la prima volta qui appare Liam, che avrà un ruolo non importantissimo nella storia in generale, ma in un determinato momento segnerà una sorta di "svolta". Poi che ne pensate del confronto tra Niall e Lena? E del rapporto che si sta sviluppando tra lei e Harry?
Fatemi sapere i vostri pareri (:
Alla prossima!

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Dal capitolo 16
«Vai benissimo così»

 


 

 

 
   

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Capitolo 16
*** Paralleli ***


 

La sanità mentale è un'imperfezione.
- C. Bukowski


La stanza è avvolta dalla penombra e devo aguzzare gli occhi per riuscire a distinguere le forme che mi circondano: non so esattamente dove mi trovo, oppure sono troppo confusa, o magari sono vittima dell'ennesima amnesia che non mi fa riconoscere un posto per me familiare. Per ora, indipendentemente dalle condizioni della mia sanità mentale, sono in una stanza vuota e scura che non riconosco, e mi guardo intorno, impaurita e anche parecchio stordita.
«Lena»
Mi sembra una voce familiare, questa, quella cristallina e soffice che non sento da troppo tempo – ma probabilmente ho solo le allucinazioni. Forse l'ho solo immaginato, di nuovo. Mi guardo ancora intorno e qui non c'è nessuno.
«Lena», la voce si ripete, questa volta con più urgenza. Mi chiama da lontano e non riesco a distinguerne la fonte, cerco con lo sguardo un qualche suggerimento, con l'ansia che monta gradatamente e lo sguardo che si affila sempre di più per riuscire a vedere nell'oscurità.
«Lena! Che fine avevi fatto?» adesso una figura esile e magrolina, piccola, si avvicina a me, i capelli biondi più lisci dell'ultima volta e il sorriso malandrino che ricordavo non c'è più.
Spalanco gli occhi per la sorpresa e «Jonah, sei tornato allora!» quasi grido e, nel disperato tentativo di abbracciarlo, mi getto sulla sua figura che scopro essere evanescente, e che nello stesso istante appare qualche metro più lontana. Io cado a terra e non riesco ad avvertire nemmeno il dolore delle ginocchia che cozzano con il pavimento con poca grazia, troppo impegnata ad osservare il mio interlocutore. «Jonah, non mi abbracci?» sento la mia voce piegarsi sotto la delusione, in una supplica disperata e patetica. Guardo il bambino biondo che mi osserva, di rimando, con gli occhi freddi e i pugni serrati, quasi in posizione di combattimento; indossa gli stessi vestiti dell'ultima volta e sono sicura che mi vuole bene come prima, che non è cambiato nulla, che possiamo tornare ad essere fratello e sorella senza problemi perché è stato tutto un errore.
«Non è vero» dice lui ad alta voce, più duro che mai, come a voler rispondere ai miei pensieri, che forse ho espresso ad alta voce senza accorgermene. «Tu mi stai dimenticando, non è vero Lena? Mi stai dimenticando».
No, no, no!
«Non è vero niente!» ribatto con prontezza e mi avvicino per afferrargli una mano e stringerla nella mia, ma al suo posto ne trovo una più grande e più forte, e quando sollevo lo sguardo al posto di Jonah c'è il viso sorridente di Harry, incorniciato dai suoi capelli folti e scompigliati, che mi sorride benevolo e pronuncia il mio nome come fosse una preghiera.
Mi volto dall'altra parte e lui è lì, a pochi metri di distanza. «Vieni da me, Jonah» gli dico teneramente tendendogli la mano, ma quando cerco di avvicinarmi Harry mi abbraccia da dietro, tenendomi stretta.
«Stai con me...» sussurra al mio orecchio e m'impedisce di avanzare, io stringo i denti e scalcio e do gomitate ma lui non mi lascia andare; mi stringe in una morsa dolorosa e inespugnabile, mentre vedo la figura di mio fratello sbiadire sempre di più davanti a me.
«Jonah! Jonah!» imploro a gran voce cercando di combattere le mani grandi di Harry.
«Mi stai dimenticando, mi stai dimenticando» sono le ultime parole che odo prima che l'oblio mi risucchi nuovamente.
In un terribile singhiozzo finale spalanco gli occhi, e stavolta la stanza avvolta dalla penombra è la mia camera, tutte le cose al proprio posto e né Harry né Jonah da nessuna parte intorno a me. Mi sforzo di effettuare qualche respiro profondo mentre la mia attenzione viene colta dall'orologio digitale poco lontano, che segna le cinque del mattino.
A discapito di tutto, stavolta il mio sogno lo ricordo perfettamente.


«Non so se complimentarmi con te per i miglioramenti che hai fatto ultimamente o buttarti fuori a calci da questo studio, perché è evidente che mi stai raccontando balle».
Il dottor Wilson tiene i propri occhiali da vista in mano mentre gioca con le asticelle rilassato, e questa è una delle poche volte in cui punta i suoi occhi di quel castano scuro, nudi, su di me: lo sguardo è sempre quello indagatorio e scettico di una volta, per lui sono sempre una barzelletta divertentissima e, in fin dei conti, sono più che sicura che non vede l'ora che sia l'ora di cena per abbandonare tutti i miei problemi stupidi per mettere qualcosa sotto i denti.
E io, come sempre, sospiro stancamente prima di ripetere: «Le giuro che è la verità, che motivo avrei per mentirle?».
Wilson digita qualcosa al computer, senza far troppo caso a me. «Perché sei subdola e manipolatrice. Perché non hai mai voluto seguire i miei consigli e trovo impossibile che adesso, tutto ad un tratto, cominci a fare certi miglioramenti che neanche un miracolato si sognerebbe».
Rido piano quando mi definisce subdola e manipolatrice. Ho imparato a prendere con più leggerezza le parole del mio psicologo, perché sono dette con la noncuranza e la strafottenza di chi, mentre vive, cerca di non far troppo caso alle persone – anche se il suo lavoro è quello di curarle. Osservo il suo tono freddo e burbero che in realtà nasconde una nota paterna e che, in fondo, mi fa piacere. Annuisco piano e abbasso lo sguardo, poi gli rivolgo un sorriso sincero: «Andiamo, non faccia finta di non essere contento un po' anche lei, per me».
Lui scrolla le spalle, «Dovrei?» scribacchia qualcosa sul suo taccuino e poi appoggia i gomiti alla scrivania, decidendosi – finalmente – a concedere tutta la sua attenzione alla mia figura.
Annuisco decisa. «Certo. Una sola amnesia nel giro di due settimane è un record, e lei mi ha aiutata in tutto questo» mi risolvo a dire, anche se tutto ciò mi costa particolarmente. Per quanto sia noioso, irritante, antipatico e scorbutico, il dottor Wilson è forse la causa principale per cui le mie amnesie adesso stanno sparendo – quasi – e sono arrivata alla conclusione che, nonostante tutto, devo essergli grata.
«Non credo, Helena» ride rilassato. «Questi miglioramenti non sono certo un risultato delle mie terapie».
Aggrotto le sopracciglia: da quando in qua decide di non prendersi il merito di qualcosa? Egocentrico e narcisista per com'è, ero certa che avrebbe fatto i salti di gioia e si sarebbe congratulato con se stesso per la propria bravura, una volta saputa la notizia.
«Sempre ammesso che tu sia dicendo la verità» concede, le mani intrecciate sotto il mento e i gomiti appoggiati alla scrivania di legno, «tu sei la paziente più testarda e dura che io abbia mai avuto, non hai mai seguito i miei consigli, non ti è mai interessato più di tanto guarire. Perché mai dovrebbe essere merito mio?».
Guardo il dottor Wilson esitante, piego la testa di lato mentre mi domando se in questo momento abbia deciso di prendermi per i fondelli o stia parlando seriamente. Forse sta solo cercando, a modo suo, di farmi confessare una verità che non esiste, qualche altra amnesia che – a detta sua – sto cercando di nascondergli per far sembrare dorato l'esito di queste ultime due settimane. Ma io sono sincera e fiera di me stessa, la disavventura causata dallo scambio di battute poco cordiale con Niall è stata l'unica a turbare la mia serenità nelle ultime due settimane. «Dottore, le assicuro che non sto mentendo» sbotto in un sospiro esasperato, appoggiando le spalle allo schienale della poltrona e massaggiandomi una tempia. Parlare con il mio psicologo è come tentare di risolvere un enigma della sfinge tebana.
«Come va con Harry?» dice ad un tratto, mentre si accarezza la barba corta.
«Cosa c'entra adesso Harry?».
Solleva le spalle, noncurante. «Come vanno le cose, con lui?».
Scuoto leggermente la testa, ridendo. Un giorno o l'altro i voli pindarici di Wilson mi manderanno in manicomio. «Come vanno le cose... cosa?».
«In generale» dice mentre si concentra a ripulire le lenti dei suoi occhiali con una pezza apposita. Vorrei recuperare il cellulare dalla tasca solo per riuscire a dare un'occhiata fugace all'orario, per poter capire quanto ancora mi resta da passare su questa poltrona a parlare di roba che non c'entra nulla con i miei problemi.
«In generale... bene» mi ritrovo a dire semplicemente, e mi sforzo di non lasciar trapelare troppo. È furbo, lui. Leggo nei suoi occhi curiosi che sa già qualcosa, che probabilmente Harry ha parlato e che adesso vuole sentire le opinioni dell'altra parte. Fatico ad immaginarli insieme, mentre il primo parla e racconta di me, del nostro bacio, delle cose che ci diciamo e di come ci teniamo per mano, e l'altro si appunta tutto sul taccuino piccolo e a quadri. È sempre stato così, Wilson: incredibilmente curioso e ficcanaso – è questa la caratteristica che distingue tutti gli psicologi? – con la noiosa presunzione di poter tradurre l'anima di una persona in caratteri tondeggianti su quel taccuino pieno di scarabocchi, nero su bianco e qualche schema qua e là. Wilson è il fumo di una teoria troppo pretenziosa che asfissia il suo ufficio, tanti libri alle pareti e lo sguardo annoiato che mi chiedo come faccia ad arrivare tanto in profondità.
Lo vedo osservarmi per un po', in silenzio. Scrive qualcosa sul suo prendiappunti, poi torna a guardarmi e scrive di nuovo. Io ormai sono abituata a questo suo atteggiamento e lo lascio fare, in attesa del momento in cui avrà esaurito le cose da scrivere e mi porrà una delle sue domande articolate e impossibili; a quel punto rifletterò cinque minuti buoni sul significato di esse (per poterle capire), nei quali lui passerà il proprio tempo a scrivere altre cose sul taccuino, e quando finalmente avrò capito il senso della sua domanda e sarò in grado di rispondere, lui cambierà idea e mi porrà un altro quesito.
«È una bella distrazione Harry, vero?» dice, e siccome la domanda suona troppo semplice alle mie orecchie resto in silenzio, alla ricerca di un subdolo doppio senso, una qualche ragione nascosta che finirà per farmi ricredere su tante cose.
«Una distrazione da...?»
«Da tutto il resto».
«Vuole dirmi che è per merito suo che sto migliorando?».
Wilson alza le braccia in aria. «In via ipotetica, ovviamente. Io sono ancora fermamente convinto che tu mi voglia prendere in giro, ragazzina».
Sbuffo e roteo gli occhi al cielo. «Non è una distrazione, allora» dico certa. «Di certo non è per via di Harry che mi sto dimenticando di Jonah...» ho lo sguardo basso e suono pensierosa, Wilson è impegnato a scrivere qualcos'altro quando io poso i miei occhi su di lui e «non è per questo, vero?» chiedo, quasi speranzosa. Forse dovrei desiderare che sia così, ma non è questo quello che voglio.
Lui sembra accorgersi del mio sguardo malinconico e «Beh, che importanza ha?» dice facendosi un po' più indietro con la poltrona e mimando uno sbadiglio. «Stai migliorando, il resto è superfluo. E adesso fuori dal mio ufficio, sono già le otto».


Certe situazioni mi riportano alla mente momenti passati che ero convinta di aver sepolto definitivamente nei meandri della mia testa; e poi io, che in fatto di archiviazione di ricordi sono un'esperta, mi sorprendo nell'accorgermi che certe memorie, così lontane e sbiadite, possano riaffiorare con tanta facilità ed una tale naturalezza.
I miei occhi verdi mi osservano, incuriositi, dal riflesso dello specchio del bagno, mentre l'immagine di una me quindicenne, ansiosa per il primo appuntamento con Eric Smith, balena tra le voci confuse nella mia testa.
Profumo. Ci vuole del profumo. Annuendo tra me e me recupero la boccetta dal piccolo mobiletto sopra al lavandino e spruzzo un po' del contenuto sul mio collo, con l'intenzione di eliminare il fastidioso odore d'insicurezza che mi porto dietro.
Non che vedere Harry sia una grande novità. Mi ripeto questa frase per l'ennesima volta, ma non riesco a non pensare che lui non è mai entrato in casa mia e che saremo soli e che sono nervosa e che questo profumo non lo nasconderà per nulla.
Non che io abbia aspettative: non so come ci si comporta in questi casi e preferirei non avergli mai proposto di venire perché con tutta quest'ansia non ne vale la pena. L'immagine allo specchio vorrebbe gridarmi che sono un'idiota ma si trattiene perché forse faccio pena pure a lei.
Al suono del campanello indugio sulla porta, ma quando apro c'è Harry con quel sorriso che gli vedo addosso così raramente che non posso fare a meno di ricambiare, e le scarpe e i pantaloni sgualciti che, al contrario, sono per lui come una seconda pelle, e io mi sciolgo un po'.
Non sono mai davvero a mio agio quando mostro la mia camera a qualcuno per la prima volta, e forse Harry se ne è accorto perché si guarda intorno con un sorriso divertito e intercala al suo osservare la stanza occhiate curiose verso di me. «Non pensavo fossi un tipo da Aereosmith» dice ad un tratto indicando uno dei CD impolverati che tengo su una mensola.
Io sollevo le spalle. «Capita» dico soltanto e mi siedo sul letto.
Lui cammina per un po' in giro con la sua andatura lenta e io penso che non può fare a meno di mettermi a disagio, eppure qualcosa mi dice che non lo fa apposta.
«Questo è Jonah?» domanda ad un tratto mentre osserva una foto sulla bacheca che ritrae me, qualche anno fa, che tengo sulle spalle un bimbo biondo dagli occhi brillanti, ed entrambi sorridiamo verso l'obiettivo.
«Sì» dico e lui annuisce piano.
«Ti somigliava moltissimo» aggiunge mentre si siede accanto a me, le mani ferme sulle proprie ginocchia. Senza dire nulla poggio la testa sulla sua spalla, lasciandomi andare ad un sospiro leggero.
Jonah aveva le tue stesse fossette, penso e sono in procinto di dirlo, ma per qualche motivo mi blocco e mi costringo a chiudere la bocca. Jonah è un po' come il tesoro chiuso a chiave dentro ad un forziere blindato, non so se mi sento sicura a lasciarlo uscire, a parlare di lui come se fosse un argomento di conversazione qualsiasi. Lo tengo sotto chiave in un angolo della mia testa e forse è proprio lui che caccia via i nuovi ricordi.
«Vuoi sapere la bella novità?» dice ad un tratto Harry e si volta dalla mia parte. «Mia zia vorrebbe assumerti. Ha detto che ho fatto bene a dirle di te, perché aveva davvero bisogno di qualcun altro».
«Stai scherzando».
Lo vedo sorridere a pieno, e per la prima volta stasera mette in mostra le sue fossette. «Cominci la settimana prossima».
Annuisce contento, ma io non ho la medesima reazione. «Harry, ma... io non sono in grado» dico abbassando lo sguardo, incerta. «Dimentico le cose, potrei combinare casini colossali. In più sono sbadata e maldestra, sarei solo un peso in più-»
«Vuoi starmi a sentire un attimo?» la voce roca e profonda di Harry m'interrompe, mentre le sue mani fredde e delicate prendono il mio volto, i suoi pollici mi accarezzano piano le guance. «Tu sei intelligente. E sveglia. E non c'è alcun motivo per cui non dovresti sentirti tale; sei in grado di fare tantissime cose, e un lavoro in una libreria sarà un gioco per una come te. E la vuoi smettere di sottovalutarti? Non sei maldestra né incapace né psicopatica né irrecuperabile. Vai benissimo così» dice, e quasi nello stesso istante si china per far combaciare le mie labbra con le sue. Gli accarezzo i capelli e sorrido mentre lo bacio in segno di gratitudine, prima con quella dolcezza cauta che ci riserviamo l'un l'altra, poi la foga e il desiderio prendono il sopravvento e lui si sdraia sul letto e mi trascina con sé, senza mai permettere alle nostre labbra di allontanarsi.
Il suo profumo è inebriante e mi chiedo se anche a lui piaccia quello che indosso io, o se riesca a sentire i miei nervi che si sciolgono ad ogni suo tocco e le mie mani che saettano frenetiche da tutte le parti perché non so dove metterle e ho paura di sbagliare.
Mi stacco dalla sua bocca per lasciargli una scia di baci sul collo, lì dove il profumo è più forte. Il suo respiro è pesante e calmo mentre mormora piano il mio nome e le sue mani che tremano per un sentimento che non so distinguere si insinuano sotto la mia maglietta. Una scia di brividi mi percorre la schiena quando avverto i suoi polpastrelli freddi sfiorare le vertebre della mia spina dorsale una ad una; nel momento in cui raggiunge l'altezza del seno, le mani di Harry si arrestano e si fermano lì, aggrappate alla mia schiena, e non mi sorprenderei se non fosse per i suoi occhi aperti e vitrei, il suo collo rigido e le labbra che se ne stanno serrate e non cercano più le mie.
Istintivamente arrossisco. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiedo nel pieno dell'imbarazzo, ma lui sembra non ascoltarmi e mentre si mette a sedere, appoggiando le spalle alla testiera del letto, biascica un «Basta» confuso e stremato. Lo imito e mi siedo di fianco a lui, sospiro piano di fronte al suo sguardo spento e alle mani di nuovo ferme sulle sue ginocchia.
«Harry...» provo a dire e nell'esatto istante in cui apro bocca lui affonda il viso nel mio petto, mozzandomi il fiato, le braccia lunghe che si aggrappano ai miei fianchi alla ricerca di un appiglio; qualche istante dopo la mia maglia è bagnata dalle lacrime e la stanza è pervasa dal suono dei suoi singhiozzi.

 


Note.
Scusatemi tantissimo per il ritardo! Ho avuto moltissimo da fare con la scuola, e in più francamente ho cercato di rimandare questo momento perché speravo di ottenere qualche parere in più, ma va beh! Un po' mi dispiace se devo essere sincera, non tanto per le recensioni di per sé quanto più per il fatto che ultimamente ricevo pochi pareri in generale, e, boh, so che leggete ma non so se vi piace, che ne pensate, cosa vorreste che accadesse o se mi avete trovato scontata o non saprei! Mi piacerebbe ricevere qualche parere in più, non per forza attraverso una recensione ma magari anche con ask o facebook, semplicemente ditemi che ne pensate :) Mi dispiacerebbe se la storia smettesse di piacervi!
Ad ogni modo mi scuso un po' per questo capitolo che personalmente detesto, perché avrei dovuto riscriverlo e la parte finale non mi piace per nulla però va beh, amen.
Per il resto, mi trovate qua:
ask - facebook

 

Dal capitolo 17
«Non è mica sempre stato così, Harry. Quella corazza che si porta in giro adesso se l'è forgiata pian piano...»



 


 

 

 
   

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Capitolo 17
*** Aspettare per sempre ***


 

Scusami se sono rimasto seduto quel giorno,
se non ho avuto sospetti e non sono salito,
se non ho capito che volevi salvarmi,
se sono stato zitto e tu combattevi.
- G. Carcasi


Fuori piove e le parole di Wilson mi scivolano addosso con la stessa rapidità delle gocce di pioggia sul vetro della finestra.
Di fronte a me Yurim sta tentando di non farsi notare mentre manda un messaggio al cellulare; l'aria oggi profuma di cannella e serenità, il nostro psicologo si abbandona a quei lunghi monologhi che siamo liberi di non ascoltare, e il breve esonero ci rasserena per qualche minuto.
«Taylor, perché non condividi le tue belle notizie con gli altri?».
Wilson la osserva con calma mentre sorride nell'imbarazzo e si schiarisce la voce, sommersa dalle occhiate curiose di tutti. «Ho ottenuto una borsa di studio per Cambridge» la sua voce, all'ultimo, crolla in una risata incontrollata e felice, che viene coperta quasi subito da qualche applauso e dai nostri complimenti.
«Ma è fantastico, perché non mi hai detto nulla prima?» mi fingo offesa mentre la stringo in uno di quegli abbracci spaccaossa, quelli pieni d'orgoglio e affetto e felicità che non sono mai solo di circostanza.
Jean le bacia una guancia e Harry le sorride sbattendo il pugno contro il suo, Yurim arrossisce quando le si avvicina per abbracciarla e Adam borbotta un «congratulazioni» poco convinto dalla sua sedia.
«Cosa studierai?» domanda Jean, seduto accanto a lei.
«Storia e filosofia. Sempre che io riesca a passare il test d'ammissione!»
«Certo che lo passerai. Ti avverto, se cominci a farti prendere dalle paranoie ti declasso dalla mia lista di amici».
Rido alle parole del biondo, e quando Wilson riprende la parola il chiacchiericcio e l'euforia sono ancora troppo freschi nella stanza per poter crollare del tutto, e l'avvolgono per qualche minuto ancora. Dopo appena qualche istante si schiarisce la voce.
«E a te Harry, le cose come vanno?».
Il mio vicino sorride e «Tutto regolare» dice sotto lo sguardo attento dell'uomo, che analizza ogni suo movimento dietro il vetro dei suoi occhiali da lettura.
Esita qualche istante. «Sicuro di non voler parlare agli altri un po' di te?».
L'esortazione di Wilson – dovuta sicuramente al fatto che Harry è l'unico che non si è ancora confidato con il gruppo – irrigidisce il ragazzo, e riesco a leggere la sua tensione nella mascella serrata e nella vena che gli pulsa sul collo. Scuote la testa con tranquillità e suggella il tutto con quel sorriso che ho imparato a riconoscere come falso.
Sa tutto di lui. Lo guardo e vedo la consapevolezza nei suoi occhi, qualcosa che assomiglia ad un affetto paterno ricambiato a forza. Wilson conosce anche le più lievi sfumature di Harry, si legge nelle sue esortazioni calme e nelle parole che seleziona con estrema cura quando si rivolge a lui.
Per esempio, sono più che sicura che Wilson sappia quello che è successo a casa mia, qualche sera fa; forse, dopo essere rimasto a piangere per un quarto d'ora buono aggrappato a me, Harry aveva bisogno di qualcuno con cui confidarsi apertamente – visto che evidentemente io non andavo bene.
Non che sia contro tutto ciò: ma di certo il sorriso divertito che Wilson mi ha rivolto durante il mio incontro individuale, e il suo «Non preoccuparti Lena, la prossima volta andrà meglio; e se non puoi proprio aspettare, credo che Adam sarebbe ben disposto ad accontentarti» non mi hanno certo fatto sentire a mio agio. Si sa, il tatto non è la materia preferita di Wilson, e farmi arrossire d'imbarazzo, al contrario, è lo sport che più lo aggrada. Eppure avrei preferito che non venisse a conoscenza di certi dettagli; ma noi siamo come i problemi di geometria analitica, dobbiamo per forza rendere difficile tutto ciò che non lo è.
Le sei scoccano presto ed evidentemente Wilson non vede l'ora di mandarci tutti via, perché non indugia un attimo di più nei suoi discorsi filosofici che né in qualche altra domanda assurda.
Nessuno di noi, analogamente, ha la minima voglia di restare ancora per molto, e in poco tempo affolliamo l'atrio dello studio: tutti tranne Harry, che resta a parlare di qualcosa insieme al dottor Wilson. Nell'attesa mi rivolgo a Jillian, la sua assistente, e dopo aver estratto il portafoglio dalla mia borsa celeste conto con somma cura le banconote che mi ha dato mia madre per saldare il conto di questo mese. Mi sembra quasi assurdo che, il mese prossimo, riuscirò a pagare le sedute di Wilson da sola, con i soldi che guadagnerò dalla zia di Harry: è un sogno. Non dovrò più chiedere denaro a mio padre, e mia madre smetterà – si presume – di trattarmi come una neonata incapace.
«Andiamo?» la voce alle mie spalle mi costringe a voltarmi, e Adam mi rivolge un'espressione in qualche modo tesa.
Stringo le labbra in un sorriso dispiaciuto e «Grazie Adam, ma credo che aspetterò Harry oggi» dico cordiale.
Lo vedo sbuffare e roteare gli occhi al cielo. «Certo, adesso c'è lui e io non conto più niente».
Sollevo lentamente lo sguardo e incrocio il suo, cercando di dare un senso alle sue parole. «Non conti più niente? Ma che dici?» aggrotto le sopracciglia.
«Ti fai accompagnare da lui e a me non fai più caso» il suo tono di voce è più alto di un'ottava, e sia Taylor che Yurim, Jean e Jillian ci guardano curiosi; nello stesso istante la porta dell'ufficio di Wilson si apre e anche quest'ultimo e Harry diventano spettatori della scena.
«Ma eravamo d'accordo, avevi detto che avresti smesso d'intrometterti-»
«E allora perché mi hai baciato?» sputa all'improvviso. La stanza ora, crolla in un gelo asfissiante. Sento il respiro affannato di Adam quasi addosso e gli occhi di Harry che ardono sulla mia guancia. La mia mente ronza tra i ricordi più recenti e ad ogni risposta sembra dichiararsi sconfitta. «Credi che io sia il tuo giocattolo personale, che abbia intenzione di piegarmi alla tua volontà?» aggiunge.
Sospiro e non mi preoccupo neanche troppo di negare, perché cosa posso saperne io?
«Adam... io non ricordo nulla» dico piuttosto, sincera.
Le sue iridi diventano più scure del solito, e non faccio nemmeno caso alla battuta ironica di Wilson – «Io lo sapevo che quella ragazzina mi stava prendendo in giro! Altro che miglioramenti con le amnesie...» – perché troppo occupata ad osservare la parete bianca di fronte a me.
Adam deglutisce, nervoso. «Guarda caso ti è presa una delle tue amnesie proprio in quel momento, eh? Ti rinfresco la mente, allora. Mi hai baciato tu, l'altra sera, ti ho incontrata alla stazione abbandonata e hai detto che volevi farlo. Sei stata tu, hai capito?» serra la mascella e i suoi occhi scuri ardono di rabbia e frustrazione.
Scuoto la testa, abbandonandomi ad un breve ed impercettibile sospiro. Avverto lo sguardo di Harry che mi giudica, ed è possibile sentirsi colpevole per qualcosa che non si ricorda di aver fatto?
«Mi dispiace, se è successo l'ho rimosso. Non voglio che tu fraintenda certe cose, io non avevo intenzione-»
Il mio discorso è improvvisamente interrotto da un rumore acuto e agghiacciante; non riesco a rendermi pienamente conto di ciò che accade fino a qualche istante dopo, quando avverto la guancia bruciare e qualche lacrima di dolore che mi riga il viso, e vedo gli occhi sbarrati e increduli di Adam insieme alla sua mano ancora protesa in aria; il silenzio della stanza ora è invaso dall'eco dello schiaffo che lascia la mia guancia in fiamme e gli altri col fiato sospeso.
Adam non dice nulla. Non fa in tempo a dire nulla perché dopo appena qualche istante la figura di Harry si avventa su di lui.
Succede tutto troppo in fretta perché io possa distinguere le azioni che mi circondano: un istante i due sono a terra a gridare cose e tirarsi pugni l'un l'altro, quello dopo sono in piedi, ai due estremi della sala, Harry che cerca di districarsi dalla presa salda di Wilson, e Adam, il naso sanguinante e l'aria furiosa, che si dimena tra le braccia di Jean e Yurim.
«Figlio di puttana» sputa il primo con il suo tono indignato e rabbioso mentre il dottore cerca di sussurrargli qualcosa all'orecchio, probabilmente per calmarlo.
«Oh, andiamo. Come se tu non avessi mai fatto del male ad una ragazza» l'altro ride e avverto il voltastomaco, a mala pena mi accorgo di Taylor che mi ha raggiunta e mi asciuga le lacrime e con una mano mi accarezza la schiena.
«Stai zitto! Tu non sai niente di me».
«Ti conosco abbastanza per mettere Lena in guardia da uno come te».
«Ma se l'hai appena schiaffeggiata!»
Solo in quest'istante sembra ricordarsi di me. Prova a sciogliere la presa di Jean e Yurim ma, impotente, si limita a guardarmi. «Mi dispiace, Lena. Non volevo, sul serio» dice rivolgendomi uno sguardo triste; fossi in un altro momento lo manderei a quel paese, ma adesso non riesco ad aprire bocca e lo fisso in tralice, impenetrabile, sperando che per lo meno il mio sguardo valga quanto un sonoro vaffanculo.
«Devi sempre rovinare tutto ciò che mi rende felice, non è vero?» sbotta Harry ad un tratto, e mi accorgo che il suo tono è cambiato. È quasi... disperato, il suo respiro si fa sempre più affannato, come se avesse difficoltà ad accogliere l'aria nei polmoni. «Non sei felice se non mi riduci all'osso, vero? Vuoi vedermi soffrire, ti diverti a rubare quello che mi appartiene. Se per una volta trovo qualcosa di sano e genuino, tu me lo porti via. Ti odio, ti odio».
«Harry, calmati» gli intima Wilson accanto all'orecchio, una mano ferma sulla sua spalla ed il tono basso e sicuro.
«No che non mi calmo! Deve sempre rovinare ogni cosa, ogni cosa...» scuote la testa e i ricci si scompigliano leggermente, compie lunghi respiri nel tentativo di prendere più aria; come se le forze gli mancassero tutte all'improvviso, come se quell'ultimo grido contro Adam gli avesse prosciugato tutta la linfa vitale.
Sento lo stomaco attorcigliarsi nel vederlo così. Nel momento in cui cerco di avvicinarmi, però, Wilson mi blocca con una mano, facendo cenno di no con la testa. «Lascia stare» mormora e sostiene con un braccio Harry, che pare sul punto di accasciarsi a terra. «Ha un attacco di panico. Adam, voglio te e lui nel mio ufficio. Immediatamente». L'uomo apre la porta della stanza, e mentre i due ragazzi entrano «Jillian, prepara una camomilla per Harry e chiama sua zia: è meglio che lo venga a prendere lei» dice, per poi rivolgersi dalla nostra parte. «Voi è meglio che andiate... Anche tu, Lena. Vai a casa» e qui il suo sguardo si addolcisce, quasi a mo' di scuse.


Gli altri mi offrono un passaggio perché è impossibile affrontare tutta questa pioggia senza ombrello, ma decido di posizionarmi sul gradino dell'edificio dello studio di Wilson, sotto un balcone, perché «Preferisco aspettare che finiscano» dico con un breve cenno all'interno.
Taylor tenta di convincermi che è inutile e che la cosa sicuramente si protarrà per le lunghe, ma io cerco silenzio e solitudine e questo scalino umido e freddo adesso mi sembra l'unico luogo di pace esistente in tutta Holmes Chapel.
Quando, passata un'ora, mi accorgo che effettivamente la questione si sta protraendo per le lunghe, smetto di sperare in una comparsa di Adam ed Harry, bensì limito la mia concentrazione al diluvio che ho di fronte. Nell'attesa (speranza) che la pioggia si faccia più leggera e il cielo schiarisca, mi metto a contare.
Questo pomeriggio sono stata anche troppo vicina al punto di non ritorno ma contare e serrare i pugni mi ha aiutato a restare in me, mantenere vivido e chiaro ogni dettaglio e vivere, mio malgrado, anche un momento che avrei preferito subire passivamente, senza alcuna consapevolezza. Ma crescere e guarire è fatto anche di questo, no? Accettare le parti peggiori. Perfino adesso, sebbene il momentaccio sia passato, avverto i ricordi scivolare via e mi sforzo di tenerli incatenati alla mia testa, rinchiusi nella prigione dorata di una cornice che – me lo riprometto – non devo spezzare mai più.
Tra le tante automobili che affollano la strada sulla quale mi affaccio, una di colore blu scuro accosta e mi accorgo di chi sta all'interno solo dopo che il finestrino si è abbassato e il guidatore si è sporto dalla mia parte.
«Ehi!» dice richiamando la mia attenzione, e un miscuglio d'incredulità e sollievo s'impossessa di me quando scorgo la figura di Liam che mi sorride cordiale, una mano sul volante e le sopracciglia aggrottate. «Lena, giusto?» domanda l'amico di Harry indicandomi, la sua voce che a stento riesce a sovrastare lo scroscio potente della pioggia. «Sali, ti do un passaggio».
Non sono una persona che si fida subito della gente. Normalmente rifiutere il suo invito senza pensarci due volte, ma adesso, con questa pioggia che minaccia di durare fino a sera e questa solitudine che comincia a starmi stretta, non mi faccio pregare troppo.
L'abitacolo della macchina di Liam è caldo e accogliente e il sedile morbido non ha niente a che vedere con la dura pietra umidiccia che ha ospitato il mio di dietro fino a pochi secondi fa.
«Grazie mille, Liam. Ti devo un favore gigantesco» dico e lui sorride, mentre mette di nuovo in moto.
«Figurati! Questo e altro. Avresti preso un brutto malanno a rimanere lì sotto».
Mi sistemo la cintura di sicurezza, e non posso fare a meno di chiedermi come faccia ad essere così gentile e disponibile anche con gli sconosciuti. Mi ritorna in mente la sua reazione calma e pacata in libreria di fronte ad un Harry chiaramente rigido ed infastidito che, a detta mia, sarebbe stato da schiaffeggiare. Invece Liam è rimasto impassibile con il suo sguardo educato e cordiale, senza scomporsi troppo
«E così vai ad Oxford?» cerco di riempire il silenzio nell'abitacolo.
Annuisce. «Sì, studio economia aziendale. Sono ancora al primo anno, però mi trovo molto bene».
«È stato difficile lasciare Holmes Chapel di punto in bianco?».
Le mani del ragazzo picchiettano sul volante con impazienza mentre siamo fermi al semaforo. «Non poi così tanto. Oxford è grande, niente a che vedere con questo posto. Certo, è stata dura lasciare la mia famiglia e alcuni amici...»
«Tipo Harry?»
Il suo viso si contrae in una smorfia fugace. «A dir la verità io ed Harry non eravamo esattamente in buoni rapporti quando sono partito per l'università».
«Oh, scusami. Io pensavo...»
Vengo interrotta dalla sua breve risata. «Non devi scusarti... anzi. Non sai quanto mi dispiaccia non esserci stato per Harry, in questo periodo. Specialmente dopo tutto quello che è successo l'anno scorso. Vorrei parlargli, sapere come sta, ma hai visto anche tu che è tremendamente testardo. Harry è uno che fa tanto il duro, ma ha sempre bisogno di una spalla su cui piangere».
Annuisco. Questo, sicuramente, io lo so bene. La curiosità mi divora, e sono tentata di chiedere a Liam cosa sia successo l'anno scorso, ma mi freno da sola perché, se riesco a interpretare com'è fatto, di certo non si prenderà la responsabilità di raccontarmi qualcosa di cui avrebbe dovuto parlarmi Harry.
Opto per la via più semplice, e cioè fingere di sapere tutto, nella speranza che, a furia di parlare, qualcosa possa emergere. «Ma com'era prima? Prima che accadesse tutto quanto?».
Liam svolta in una strada poco trafficata, e io m'incanto a guardare le piccole goccioline di pioggia che vengono spazzate senza pietà dai tergicristalli, lui sospira. «Era tutto diverso» mormora, quasi sovrappensiero. Mi volto e osservo il suo profilo corrucciato e pensieroso. «Ci conosciamo da sempre, io e lui. Mia madre e la sua sono amiche da prima che nascessimo, e da piccoli passavamo i pomeriggi nel mio giardino a far volare gli aereoplanini telecomandati. Ci divertivamo un mondo, allora!» sorrido nel vederlo fare altrettanto, perso in ricordi di giorni felici e spensierati che non sapevo nemmeno esistere nel passato di Harry. Per me non è altro che un punto interrogativo, un confuso buco nero che può provenire solo dall'oscurità: lui è oblio, insieme ai suoi occhi fatti di ombre e alle labbra tremanti di peccato. «Quando Harry è entrato al liceo io ero già al secondo. Non è stato un anno facile per lui, ma la nostra amicizia persisteva... e lui non si arrendeva, nonostante i bulli e i votacci».
«I bulli lo prendevano di mira?» chiedo istintivamente perché, anche se Harry qualche volta ha accennato alla cosa, mi risulta impossibile immaginare una realtà in cui qualche balordo lo picchia per rubargli i soldi del pranzo.
Fa cenno di sì con la testa. «Non è mica sempre stato così, Harry. Quella corazza che si porta in giro adesso se l'è forgiata pian piano... Ricordo ancora quella volta in cui fecero a lui lo scherzo di Natale e dovetti tirarlo fuori dal laghetto vicino alla scuola, tutto tremante. Stava per andare in congestione, il poveretto. Non sono mai stato un tipo violento ma ricordo che feci un occhio nero ad Adam Walker il giorno dopo, per quello che gli aveva fatto».
«È stato Adam a gettarlo nel laghetto?!» esclamo di colpo con un tono un po' troppo alto che, sul momento, fa sussultare perfino Liam.
«Sì» aggrotta le spracciglia «Quell'idiota non gli dava mai pace, i primi due anni. Harry ha fatto l'indifferente per un po', ma l'anno scorso è scoppiato. Ed è stato lì che io e lui abbiamo troncato i rapporti».
Annuisco piano, mentre cerco di canalizzare velocemente tutte queste informazioni. Tento di concentrarmi unicamente su quello che Liam dice, ma le parole di Harry di poco fa, «Deve sempre rovinare ogni cosa, ogni cosa...» mi martellano il cervello con insistenza
«Quindi ha smesso di farsi mettere i piedi in testa da Adam?» chiedo.
«In un certo senso. Sai come si dice, "Se non puoi batterli, unisciti a loro"; e Harry cominciò a frequentarli davvero, gli amici di Adam. Lui in particolare non gli fu mai davvero amico, si sono sempre odiati, in realtà. Però Harry cominciò a farsi vedere in pub poco rispettabili, ad abusare di alcool e droghe; fu così che conobbe Matt e Louis».
Aggrotto le sopracciglia, al ricordo del racconto di Taylor, che avevo in qualche modo rimosso. «Stai parlando dei fratelli Tomlinson?».
Liam mi lancia un'occhiata breve, poi torna a prestare attenzione alla strada. «Proprio loro. Spacciavano marijuana all'uscita della scuola e credo sia così che Harry li abbia conosciuti. Ad ogni modo, lo trascinarono in un giro pericoloso. Io e lui a quel punto passavamo sempre meno tempo insieme, ma quando venni a sapere dei guai nei quali si stava per cacciare cercai di avvertirlo. Gli dissi che stava giocando con il fuoco, che prima o poi sarebbe successo qualcosa di brutto, e infatti...! Però lui non voleva ascoltarmi, mi disse di farmi i cazzi miei e occuparmi della mia fottuta media scolastica o non sarei riuscito ad entrare a Oxford. Penso che in un certo senso lo intendesse davvero, sai? Ci teneva sul serio, a me, mi ripeteva che dovevo studiare perché sarei diventato "uno importante", e ci credeva, forse più di me. Forse perché Harry non ha mai creduto davvero in se stesso». La macchina adesso è ferma di fronte a casa mia, ma non ho la minima intenzione di scendere, e lui sembra stare per continuare. Osservo il suo sguardo triste, e leggo nei suoi occhi l'impotenza di un amico che sa di non poter fare proprio nulla, ma che non si arrende. «Ad ogni modo, lasciai perdere. Lui cominciava a mancare sempre di più da scuola, a essere sospeso o a finire in punizione. Anne e Des erano preoccupati e mi chiesero d'intervenire, ma a quel punto che potevo fare? E poi ci fu quella notte a Manchester...»
Nonostante io, di fatto, non sappia cosa sia successo quella notte l'anno scorso, il suo tono mi fa rabbrividire, e riesco ad avvertire addosso la paura e la tensione di un ignoto che si rivela pian piano, e che risulta sempre più inquietante.
«Non deve essere stato facile» mormoro, nascondendo il viso nella mia sciarpa di lana.
Scuote la testa. «I primi tempi sono stati tremendi. Harry non ha parlato per un mese intero per via dello shock. E so che adesso le cose vanno meglio, che ha trovato altri amici e si sta stabilizzando ma io lo conosco. So che si sente in colpa per quella sera; ed effettivamente è anche colpa sua, ma le cose vanno come devono andare. E sono preoccupato perché lui non vuole parlarmi, ma so per certo che c'è qualcosa che non va».
Sospiro leggermente. Le parole, a questo punto, risultano più superflue che mai. Mi arrendo al fatto che non scoprirò mai cosa è avvenuto, piuttosto mi limito a sollevare le spalle. «Harry non me ne parla» dico soltanto, e lui coglie il mio sguardo.
«Immaginavo che non lo facesse. Se lo conosco bene, il suo obiettivo adesso è dimenticare e andare avanti; per farlo, però, preferisce rinnegare quello che è successo, chiudere tutto in una scatola e non parlarne più».
Annuisco. In fin dei conti io posso aspettare. Aspetto sempre: i suoi baci che tardano ad arrivare, le mani che si bloccano all'improvviso a mezz'aria, impaurite, aspetto che le sue lacrime si asciughino e aspetto che le sigarette si consumino insieme ai pensieri che lo logorano dall'interno. Posso aspettare per sempre, anche se ha gli attacchi di panico e fa a botte con Adam e questo mi fa imbestialire: aspetto per sgridarlo e abbracciarlo e baciarlo e aspetto perché un giorno mi conceda di ascoltarlo.
«Tornerai ad Oxford?» chiedo, voltandomi verso il guidatore.
«Questo Sabato».
Gli sorrido. «Beh, allora ci vediamo. Sei un buon amico, Liam. Non devi preoccuparti» lo rassicuro.
Lui mi sorride in risposta. «Sono contento che Harry abbia trovato una brava ragazza come te. Tienimelo d'occhio, okay?»
«Lo farò» dico aprendo la portiera della macchina, ma all'improvviso la mia mano si arresta, e rimane sospesa, lo sportello aperto a metà. «Liam?» domando, in preda ad un'ultima curiosità.
«Mh?»
«Dove sono adesso, Matt e Louis Tomlinson?»
Aggrotta le sopracciglia, come se la risposta ad una domanda del genere fosse praticamente ovvia. «Nella prigione di Manchester».

 

Note.
Saaaalve! Come prima cosa mi scuso immensamente per il ritardo (comincio a notare che lo faccio sempre di più, dovrei mettermi in riga!) ma questo è il periodo peggiore con la scuola e sicuramente mi compatirete tutti! Anzi, approfitto dell'occasione per fare in bocca al lupo a tutti voi per le ultime interrogazioni para-culo dell'anno :D 
Ad ogni modo, vi voglio ringraziare davvero tantissimissimo per le recensioni che avete lasciato nello scorso capitolo, sono bellissime e mi fa davvero piacere sapere cosa ne pensate dei miei capitoli. 
Quest'ultimo è abbastanza... dinamico: spero non mi vogliate uccidere per la piega che hanno preso le cose, ma, d'altra parte, adesso sapete qualcosa in più sul passato di Harry grazie a Liam! 
Spero il capitolo vi sia piaciuto :)
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Vi lascio con una piccola anteprima come al solito e con una gif di Adam che akjdfsk

 

Dal capitolo 18
Pensavo che, forse, avrebbe potuto smettere di far caso a me.



 


 

 

 
   

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Capitolo 18
*** Nel bene o nel male ***


 

Eravamo percorsi da impulsi opposti, caldo e gelo e distacco e frenesia;
ci sembrava di essere in ritardo su tutto e di essere ancora in tempo per qualsiasi cosa, di andare molto veloci e di restare incollati all'asfalto.
- A. De Carlo



«L'hai picchiato»
«Lo so» – «Mi dispiace»
«Non è con me che dovresti scusarti»
«Lui dovrebbe chiedere scusa a te»
«Adesso cosa c'entra?»
«Ti ha picchiata»
«Mi ha già chiesto scusa, per quello»
«Penso che dovrebbe farlo di nuovo, allora»
«Dovresti farlo anche tu»
«Se l'è meritato»
«Gli hai fatto un occhio nero»
«Ti ha picchiata»


La penna blu sospesa fra i denti, osservo il foglio bianco e abissale che mi fissa di rimando. A dire il vero, un po' di idee per questo saggio sulla Prima Guerra Mondiale, inizialmente, le avevo: sono più che certa di aver stilato perfino una scaletta qalche giorno fa, eppure, per quanto abbia frugato tra le carte che affollano la mia scrivania, non sono riuscita a trovarla. Non so dire se si tratti di un'altra amnesia momentanea o di una semplice dimenticanza ma, se una parte di me spera che si tratti dell'ultima opzione, l'altra se ne infischia ampiamente.
Quasi sussulto quando la superficie del divano accanto a me si piega e avverto un altro corpo vicino al mio. «Non mi ero accorta che fossi in casa» mormoro a bassa voce, a giustificaizone del mio piccolo trasalimento, il tappo della penna ancora tra le labbra e la voglia di parlare improvvisamente da un'altra parte.
«Oggi smontavo prima da lavoro» spiega mia madre mentre slaccia i tronchetti neri che tiene ai piedi e li sposta di lato con un calcio.
Annuisco piano con fare distratto, ma evidentemente la mia recita la convince poco – forse perché il mio sguardo vitreo è fisso su un foglio bianco che porta come unica iscrizione "Saggio breve" in cima? – e non riesco a sembrare in alcun modo concentrata sullo studio.
«Passato una buona giornata?» mi chiede, come da copione. A volte sorrido a queste parole, quando alle mie orecchie risuonano con un'eco d'interesse; oggi stringo le labbra perché non c'è curiosità nella sua voce strascicata e monotona, impastata dalla stanchezza e da un senso del dovere che fatico a mandar giù.
Rispondo con un grugnito perché mi sento improvvisamente scontrosa, evito perfino di pronunciare il cordiale (falso) «E tu?» che le rivolgo tutte le volte, perché, davvero, non m'interessa.
In qualche modo, però, attraverso quel breve sospiro rassegnato che fa tra sé e sé, avverto qualcosa di diverso rispetto al solito.
«Volevi dirmi qualcosa in particolare?» dico con una punta di acidità, finalmente sollevando lo sguardo dal foglio vuoto e posandolo sul suo volto stanco e sciupato. Sta invecchiando in fretta, mia madre. A dire il vero questo termine non è nemmeno tecnicamente corretto, perché, per quello che le riguarda, mia madre ha smesso di essere "madre" dopo l'anno scorso; adesso è una semplice convivente che ogni tanto s'interessa del mio stato di salute e della mia vita. Così, a titolo informativo.
Annuisce piano, e una ciocca di capelli biondo cenere le scivola dalla crocchia elegante e ricade sul suo viso delicato. Vorrei essere bella come lei, penso. Da giovane faceva strage di ragazzi, era la più desiderata della città e non mi risulta assolutamente difficile da credere. Vorrei essere bella come lei, ma non mi interesserebbero le file di ragazzi con fiori e cioccolatini tra le mani, gli inviti alle feste e le proposte romantiche, anzi forse proprio quelle cose le detesterei. Vorrei essere bella come mia madre per poter guardarmi allo specchio senza pensare alle occhiaie, ai capelli in disordine o alla pelle orribile che mi ritrovo. Vorrei poter trovare una qualche risorsa immediata di autostima, potermi consolare con un «Beh, almeno sono bellissima» nei pomeriggi difficili in cui il mio cervello mi gioca brutti scherzi.
«Ho parlato con il dottor Wilson».
Le parole di mia madre mi fanno riemergere alla realtà. «Di cosa avete parlato?» è la mia domanda immediata, quasi frenetica, un sopracciglio sollevato mentre con le mani torturo i margini del foglio.
«Mi ha detto che stai migliorando, che le amnesie spariscono» dice, e il suo sorriso – orgoglioso? – si allarga leggermente.
Sollevo un angolo delle labbra, scuoto la testa. «E hai dovuto aspettare di incontrare il mio psicologo per saperlo? Sono sempre stata qua, mamma. Potevi chiedere» rido piano.
«Volevo parlare con lui per essere sicura...» la sua espressione si fa più incerta, forse colpita dalla mia durezza.
«A che pro? Non ti avrei mentito» dico a bassa voce, poi scuoto la testa osservandola. «Quando la smetterai, mamma?» domando stavolta, mentre un lieve sospiro sconsolato sfugge alle mie labbra, in sincrono con le sue pupille che si focalizzano sul tappeto persiano ai nostri piedi.
«Lo so che non sono una brava madre, Lena» ammette piano, come un segreto rivelato ad un confessore personale. «Ma ce la sto mettendo tutta...»
«Anch'io» sollevo le spalle con fare impotente, e abbandono foglio e penna sul divano accanto a me. «Anch'io ce la metto tutta ogni giorno, ed è passato un anno e mezzo e sto mettendo insieme i cocci solo ora, ma ci provo davvero».
Le sue mani torturano l'orlo della gonna e lo sguardo rimane basso a fissare chissà quale incubo o ricordo.
«Preferiresti... preferiresti stare con tuo padre, non è vero?» pronuncia piano e, quando avverto la sua voce spezzare quella maschera d'indifferenza e vacillare, il cuore perde un battito e l'aria diventa più pesante.
«A volte» ammetto con sincerità, però mi avvicino di più sul divano e appoggio la testa alla sua spalla ossuta. «Però non ti lascerei mai da sola».
Nel medesimo istante il mio cellulare vibra sul tavolino di fronte a noi e sullo schermo compare il nome di Harry; colgo gli occhi di mia madre intenti ad osservarlo, pensierosi.
«Sono contenta dei tuoi nuovi amici» dice «ma c'è qualcosa su questo ragazzo che dovresti dirmi?» e la sento sogghignare divertita.
Affilo lo sguardo in un chiaro punto di domanda, poi, improvvisamente colta dall'illuminazione, scuoto la testa rassegnata e rido. «Wilson è davvero una canaglia» borbotto, coperta dall'imbarazzo.
«Quindi deduco, dal tuo esserti trasformata in un pomodoro, che è tutto vero quello che mi ha detto?» sorride semplicemente lei.
Sollevo le spalle, incapace di formulare una risposta concreta. Da quando in qua io e mia madre parliamo di queste cose?
«Beh, almeno deciditi ad invitarlo qui prima del ballo di fine anno, così posso farvi le foto in smoking e abito da sera» dice all'improvviso estasiata, prima di lasciarmi un bacio sulla fronte e allontanarsi verso la cucina.
Sbuffo, ancora imbarazzata per una conversazione che avrei preferito rimandare, e sconvolta all'idea di me in un abito elegante e striminzito e di Harry in smoking – fantascienza, più che altro.
Mi ricordo improvvisamente del cellulare e mi allungo verso il tavolino per recuperarlo e leggere il suo messaggio.
Esci?


Ad essere sinceri, l'idea di vedere Harry mi mette in agitazione. Non che non ci parliamo, ma dopo l'episodio avvenuto nell'ufficio di Wilson stiamo insieme il minimo indispensabile; non so neanche perché, visto che io ho smesso di essere arrabbiata e lui è rimasto lo stesso, ogni tanto freddo e scostante, indifferente Harry. Non c'è stata tensione o altro tra di noi, ma un progressivo allontanamento dovuto ai troppi pensieri che ronzano per la testa di entrambi, e non so se mi va bene così o vorrei cambiare le cose; proprio non lo capisco.
Per questo, quando oggi varco la soglia e lo trovo seduto sul muretto davanti a casa mia, con solo una felpa leggera addosso ed il suo inseparabile beanie, sono sorpresa. Pensavo che, forse, avrebbe potuto smettere di far caso a me.
«Come mai questa visita improvvisa?» è il mio saluto mentre mi accomodo sul muretto accanto a lui, ed evidentemente lo colgo di sorpresa perché lo sento trasalire alle mie parole.
Solleva le spalle. «Ti disturbo?». Il suo sguardo è perso verso la strada, come se per lui la mia fosse solo una voce in lontananza che fa fatica a distinguere tra le tante.
Scuoto la testa. «Mi fa piacere. Ma è un po' che non ci vediamo e pensavo...»
«Che volessi vederti per un motivo particolare?».
Annuisco.
Aggrotta le sopracciglia, le mani infilate nella tasca della felpa e lo sguardo ancora smarrito altrove – ho perso troppo tempo a sperare che quell'altrove si trasformasse nei miei occhi e ho capito che gli sforzi sono vani. «Non deve esserci per forza un motivo per vederci, giusto? Posso chiederti di uscire anche se mi va e basta oppure se mi annoio o non c'è niente di interessante in TV» dice, ma non ne sembra del tutto sicuro, e le sue parole suonano come un punto di domanda.
«Certo, Harry» mi sforzo di assecondarlo.
Sospira, e il suo alito caldo si condensa in una nuvoletta biancastra nell'aria gelida, io mi stringo nel mio cappotto e osservo la sua mise decisamente poco adatta alla situazione atmosferica attuale. «Non hai freddo?» domando indicando la sua felpa azzurra, ma lui scuote lentamente la testa.
So che al silenzio con lui dovrei essere abituata, ma quest'aria sembra ancora più agghiacciante senza le sue parole tiepide ed io non riesco a dire nulla nonostante mi schiarisca la gola più volte. Rapidamente la mia mano raggiunge la sua: sul momento rabbrividisco per il divario di temperatura che c'è tra le sue dita ghiacciate e le mie più calde, ma le intreccio lo stesso e cerco di riscaldarlo con l'altra mano.
Al mio tocco, il viso di Harry si solleva e i suoi occhi, prima di posarsi sul mio volto, sostano sulle nostre mani intrecciate.
«Se ti dicessi che sono venuto perché mi mancavi, risulterei troppo sdolcinato?».
Sorrido. «Meno male, cominciavo davvero a pensare che fossi qui solo perché non c'era niente in televisione». Scuote la testa e ride, mentre io mi stringo nelle spalle, «Forse risulteresti umano». Un fiotto d'aria gelida mi sferza il viso, mi stringo nel cappotto e istintivamente mi volto verso di lui «Ma sei proprio sicuro di non avere freddo?»; i ricci bruni che sfuggono al suo cappello gli ondeggiano morbidi sulle guance sotto l'aria pungente, ed io sono più che certa che abbia freddo ma è troppo orgoglioso per ammetterlo. Allora gli accarezzo la mano più energicamente perché tra di noi funziona così, stiamo in silenzio e cerchiamo di leggerci nella mente a vicenda: e forse dovremmo chiederci cosa c'è che non va ma facciamo finta di niente e andiamo avanti così, è più semplice.
«Non so se è questo quello che voglio sembrare» dice piuttosto, voltandosi dalla mia parte. Osservo con attenzione i suoi occhi verdi acquosi che paiono volermi dire qualcosa in più delle parole. «Gli esseri umani mi disgustano, a volte» dice prima di lasciarsi andare ad una breve risata, e la sua mano fredda stringe la mia, come a volersi accertare che ci sono.
Sollevo le spalle. «Nel bene o nel male, è quello che sei» dico, poco certa di dove questa conversazione ci porterà.
Si morde il labbro inferiore, poi sbuffa. «E se lo rifiutassi? Se decidessi di mandare tutto a fanculo e basta? Se ti dicessi che non ne posso più di queste cazzate Lena, dell'ipocrisia e di chi mi guarda in modo strano perché chissà cosa pensa di me, di Wilson che non fa altro che confondermi, di chi pretende di aggiustarmi, di mia madre che non capisce e delle punizioni e delle cose che m'inseguono?».
Il suo tono, improvvisamente più serio, mi spiazza. Inarco le sopracciglia e annuisco leggermente, in questa nuova consapevolezza. C'è sempre una ragione, mi dico, c'è sempre una ragione per tutto. «Wilson confonde anche me» dico sottovoce, un sorriso impercettibile sulle labbra, quasi fosse un segreto irripetibile.
Avverto il suo sospiro leggero e la sua testa che si appoggia lentamente sulla mia spalla, con la stanchezza di un vecchio che ha vissuto troppo e si vuole arrendere. «È che a volte non so controllarmi e tutto risulta difficile» ammette.
La sua voce bassa e roca è carica di malinconia, e io resto in silenzio ad ascoltarlo respirare prima di parlare di nuovo: «Ti capita spesso di avere attacchi di panico?» chiedo, mentre ripenso a quando ha perso il controllo da Wilson.
Lo sento irrigidirsi. «Molto spesso» confessa piano, eppure con voce chiara e distinta. «Ti ricordi quando mi hai detto che avresti preferito avere problemi con il tuo corpo piuttosto che con le amnesie? Eravamo alla stazione, qualche mese fa».
Annuisco, lentamente.
«A me capita di perdere il controllo di me stesso: faccio cose che in un altro momento non farei. Non avrei mai picchiato Adam, ma in quel momento non ho capito più nulla».
Sospiro. Ripenso a Liam e alle parole che mi ha detto, alla storia dei fratelli Tomlinson e di Manchester, alla prigione e a tutte quelle cose che ancora non so e che non posso più far finta di voler ignorare. Se devo andare avanti, mi incito, non posso non sapere. Mi faccio coraggio e «Raccontami cosa è successo» propongo con un tono calmo e gentile, quasi un invito di cortesia.
Harry sospira piano, la stretta tra le nostre mani, ormai della stessa temperatura, si fa più serrata, i suoi occhi più assenti per poi riemergere di colpo.
Solleva la testa e mi guarda per qualche istante, stanco. Poi, con il suo solito sguardo sfuggente, «Me lo dai un bacio?» chiede.
Osservo il verde dei suoi occhi e capisco che vacilla; con estrema gentilezza gli accarezzo entrambe le guance e avvicino il suo viso al mio, per poi unire le nostre labbra in un bacio breve e delicato come un fiore in primavera appena sbocciato. Sento le sua bocca incerta sostare sulla mia per un istante quasi impercettibile e le sue mani che s'intrecciano alle mie, forse perché adesso, finalmente, ha capito che ha bisogno di me per riscaldarsi.
«Allora è vero quello che ha detto Adam?» mormora piano, senza guardarmi. «È vero che l'hai baciato?»
Sospiro. «Non lo so, Harry. Non me lo ricordo».
 

Note
Diciamo che fondamentalmente comincio sempre questo spazio con quella che potremmo chiamare una vera e propria struttura formulare delle mie note, ma, ahimè, mi finisce sempre a dovermi scusare per il ritardo. Questa volta spero mi possiate capire: siamo a fine anno e gli ultimi compiti&interrogazioni richiedono un'attenzione maggiore del solito! Per cui ringraziatemi, perché sto qua a postare quando dovrei cercare di studiare Kant (oddio).
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Presto arriverà il capitolo a cui io solitamente mi riferisco come il "big", perché è quello centrale di tutta la storia! Non vedo l'ora di postarlo e di sapere che cosa ne pensate. 
Per quanto riguarda questo, mi piacerebbe sapere quali sono i vostri pensieri: cosa pensate succederà dopo? Qualche riflessione sulla madre di Lena? Sul rapporto tra lei e Harry, che si fa sempre più complesso e strano?
Ringrazio, come sempre, tutti quelli che seguono/preferiscono/recensiscono.
Ah, dimenticavo! Vi annuncio che presto pubblicherò una one shot (missing moment? spin off? insomma una cosa del genere ahah) interamente dedicata al dottor Wilson, ma anche a Harry. Fatemi sapere che ne pensate di quest'idea (:
Mi trovate qui:
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Un bacio, 
Carla

 

Dal capitolo 19
«L'ultima volta che ho controllato eravamo al di sotto del club degli scacchi nella piramide sociale - con tutto il rispetto per Jean»



 


 

 

 
   

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Capitolo 19
*** Fidarsi ***


 

Rapiscimi, vagone! Portami con te, nave!
Lontano! Lontano! Qui il fango è fatto dalle nostre lacrime! 
- C. Baudelaire



«C'è qualcosa che non va». 
Le mie pupille sostano disinteressate sul riflesso del corpo di Kim, stretto nell'ennesimo vestito che non comprerà. 
«Credo mi faccia i fianchi larghi. Mi fa i fianchi larghi?». 
Taylor, al mio fianco, imita perfettamente il mio sguardo ed insieme ci perdiamo in una contemplazione mistica del vuoto per qualche minuto, almeno fino a quando non ci accorgiamo che la nostra amica ci ha rivolto la parola. 
«Questo ti sta bene» biascica la bionda, appena uscita dal suo stato di trance. 
Effettivamente, essere trascinata fino a Manchester per fare shopping alle otto di un sabato mattina non è mai l'ideale, specie se cercavi di recuperare del sonno arretrato – come me e Taylor. Non sono mai stata un tipo mattutino, al contrario della mia amica qui presente, la quale, alle nove e dodici del mattino, ha già provato quattro vestiti, sette magliette, due camicie e scartate altrettante cose. In fatto di vestiti né io né la bionda che mi affianca siamo vanitose quanto Kim, che ha l'armadio pieno di roba, eppure «Non ho proprio niente da mettere». 
Dopo un'altra lunga occhiata al proprio riflesso sullo specchio, si decide a parlare. «Non ce la faccio, non mi convince. Provo quello rosa» proclama e simultaneamente nel piccolo salotto del negozio risuona lo sbuffo di una Taylor esasperata. 
«Perché non provate qualcosa anche voi?» tenta la voce dall'interno del camerino, e qualche istante dopo ricompare la figura di Kim avvolta da un abito corto rosa confetto che le fa risaltare il seno e la valorizza i punti giusti, sposandosi alla perfezione con il colore ambrato della sua pelle.  
«È perfetto» mi complimento. 
«Ti prego, prendi questo e andiamocene». 
La mora storce il naso. «Dovresti cercare qualcosa anche tu, Taylor – si guarda intorno e, all'improvviso illuminata, estrae tra gli altri un abito blu cobalto, stretto in vita e poi più svasato verso il basso – Ecco, questo ti starebbe benissimo addosso». 
Annuisco, riconoscendo che il colore del vestito che Kim ha selezionato – è un asso in queste cose – si sposerebbe perfettamente con gli occhi oceano mare di Taylor, che luccicano sempre sulla sua pelle chiara. «Perché non lo provi?» la incoraggio con una gomitata e un sorriso, ma lei scuote la testa decisa.  
«Non ho bisogno di un vestito» dice sicura, ma il modo in cui guarda ciò che regge la gruccia in mano a Kim la tradisce.  
«Potresti metterlo stasera, che dici? Faresti un figurone». 
Taylor si stringe nelle spalle, arriccia il naso e guarda da un'altra parte. «Non credo di venire stasera» annuncia e Kim corruga subito le sopracciglia, contrariata. 
«E perché mai?». 
«Non conosco nessuno. Jeremy Beckett non sa neanche quale sia il mio nome. Non mi va di presentarmi ad una festa in casa sua, mi sentirei un'imbucata». 
«Ma se ti ha invitata! E in più ci sarà mezza scuola». 
«Ecco: mi spieghi perché noi siamo state invitate? L'ultima volta che ho controllato eravamo al di sotto del club di scacchi nella piramide sociale – con tutto il rispetto per Jean». 
Kim ride piano e scuote la testa, poi solleva le spalle. «Che importanza ha? Andiamo e ci divertiamo. E poi, lo sai, da quando Lena sta con Harry siamo diventati tutti popolari, noi sfigati». 
«Molto divertente» dico io, abbandonandomi ad una breve risata. 
«Dico sul serio. La gente mi saluta perché sa che sono tua amica. Forse hanno paura che possa dire ad Harry di picchiarli». Roteo gli occhi al cielo, evitando di commentare l'ultima frase della mia amica. 
«Allora dovreste ringraziarmi, tutte e due – mi alzo all'impiedi e prendo il vestito dalle mani di Kim, per poi tenderlo verso Taylor – venendo alla festa di stasera. Provalo, prima che Kim possa cambiare idea sul suo e intrappolarci qui dentro per altre due ore». 


Harry stasera indossa una camicia, un paio di blue jeans e un blazer; porta le sue solite Converse nere sgualcite che dovrebbe sostituire, ma i soldi gli servono per pagare le sedute dallo psicologo. Ha i capelli disordinati come al solito ma gli stanno bene, un mozzicone tra le labbra ma il fumo non mi dà fastidio, perché da poco fuma delle sigarette alla menta che hanno un buon odore, e mi ha detto che me le avrebbe fatte provare ma poi forse si è dimenticato o si è pentito.  
È passato a prendermi a casa con l'auto di suo padre che sapeva di deodorante per ambienti e spazzatura dimenticata nel cofano, e quando mi ha vista ha solo sorriso in silenzio e mi ha dato un bacio sulla guancia.
«Sei bellissima, stasera»; me l'ha detto un chilometro più tardi, mentre aspettavamo al semaforo, le mani sul volante e lo sguardo che sbirciava curioso dalla mia parte, come se avesse rimuginato più di qualche minuto su una piccola frase da dirmi. Io ho solo sorriso e ho detto «Grazie» un po' timidamente, mentre con due dita mi accarezzava leggermente la guancia, quasi fossi qualcosa di irraggiungibile. 

Avrei fermato tutto lì, ai miei occhi chiusi e al suo tocco delicato e spaurito, in quella macchina dall'odore nauseante ma con il suo sguardo magnetico puntato su di me, a chiedermi cosa gli passa per la testa in questo silenzio che bisbiglia qualcosa che devo ancora imparare a distinguere. 
La festa di Jeremy, invece, è assordante, e di lui avverto solo le dita intrecciate alle mie che mi trascinano tra la folla, verso un posto più tranquillo. 
In cucina ci siamo noi due e un ragazzo in disparte che balbetta frasi senza senso, la musica che risuona forte dal salotto. 
«Non ho ancora visto nessuno del gruppo di Wilson» dico ad alta voce perché mi senta, mentre mischia roba da varie bottiglie dentro ad un bicchiere di carta.  
«Forse ho visto Kim da qualche parte» risponde assorto e quando completa il suo cocktail solleva lo sguardo verso di me. «Tu cosa prendi?» chiede. 
Osservo le varie bottiglie che mi stanno di fronte e arriccio il naso. «C'è dell'acqua?» domando. 
Lui mi sorride, poi scuote la testa. «Com'è che non bevi mai?». 
Sollevo le spalle, incerta. «Non... mi fido, dell'alcool. L'idea di perdere il controllo non mi piace, e in più Wilson e il dottor Green me l'hanno vivamente sconsigliato». 
Harry ride divertito e poi scuote la testa, recuperando un altro bicchiere, per poi vagare con lo sguardo tra le altre bottiglie con fare esperto. «Vaffanculo a Wilson e a Green – sorride, e mi fa un occhiolino – non ti farà niente. Puoi non fidarti dell'alcool, ma ti fidi di me?» dice mentre versa del succo di frutta dentro a qualcos'altro.  
Io, quasi rapita dai suoi movimenti, cerco di comprendere quali siano gli ingredienti di quell'intruglio che adesso mi sta tendendo, ma il suo sguardo e il suo sorriso mi convincono che è meglio fidarsi. 
«Non preoccuparti – dice, dopo che ho afferrato il bicchiere e mentre lo osservo curiosa – Ne ho messo davvero pochissimo. Questo non farebbe nulla nemmeno un bambino». 
Rido, bevendone un sorso. «Sicuro di non volermi fare ubriacare per portarmi chissà dove mentre sono incosciente?». 
Un breve sorriso si fa largo sul suo volto, e i suoi occhi sembrano luccicare per un istante. «Per portarti chissà dove non avrei bisogno di farti ubriacare» dice scherzosamente, e devo dargli ragione. Anche lui se n'è accorto, che un po' mi ha stregata. «Allora, ti piace?» chiede, in impaziente attesa. 
Annuisco, prima di prendere un altro sorso di questo cocktail che sa di frutta ma ha anche uno strano retrogusto amaro. «È buono» confermo, e sento la sua risata calda avvolgere la stanza.  
«Vieni» la sua mano trova di nuovo la mia, e per un momento penso voglia portarmi a ballare ma attraversiamo la massa di gente che balla in salotto, per poi dirigerci verso il giardino sul retro.  
«Scusa – dice, sedendosi sull'erba scura, poco lontano da una coppia impegnata a fare ben altro che parlare – non amo la confusione». 
«E io che credevo che fossi un animale da festa» scherzo mentre mi siedo accanto a lui. 
«Forse una volta» scrolla le spalle mentre estrae una sigaretta dalla tasca e se la infila tra le labbra. Ha depositato il suo bicchiere già vuoto accanto a lui con poca grazia, appena prima di frugare nelle proprie tasche alla ricerca di un accendino. Io lancio un'occhiata poco speranzosa verso il bicchiere che mi ritrovo tra le mani, ancora pieno fino all'orlo.  
Guardo Harry, che ha gli occhi persi in qualcos'altro – come sempre – eppure stavolta sorride, e magari pecco di tracotanza ma mi piace pensare che quella fila di denti bianchi sia esposta alla notte un po' anche per me. 
«E poi cos'è successo?» domando, con l'intenzione di apparire disinteressata. Ma lui sorride di più, perché in questo poco tempo ha imparato a capirmi, a piccoli passi e con difficoltà, sta risolvendo la mia equazione sempre con maggiore convinzione. Capisce gli sguardi, le intonazioni, i silenzi, la mia tosse finta che in realtà è solo nervosismo o imbarazzo; io invece sto ancora osservando i suoi numeri chiedendomi quale operazione usare, con la mente annebbiata e la bandiera bianca. 
«Magari un altro giorno ti racconto». 
E a volte mi chiedo se ci si può arrendere in amore, e mi rispondo che no, solitamente non è così che funziona. In amore si combatte e si piange, si incassano colpi bassi e si rimane in campo feriti; ma si resta. Sempre. Con le labbra o con una foto o con il ricordo, l'amore non accetta i codardi e la ritirata non è messa in conto.  
Ma mi chiedevo se ci si può arrendere con Harry. Harry che non è "amore", che è tanti baci buoni e sorrisi che sono un pugno allo stomaco e delicatezza e ricci che riempiono le mani; Harry che è, soprattutto, dita impaurite e parole non dette, sguardi evitati e "poi" che non arrivano mai. 
Mi chiedevo, ci si può arrendere di punto in bianco, lanciare le mani in aria e dire «Io non gioco più»? Posso farlo liberamente? O sono i ricordi e il dolore il prezzo da pagare questa volta? Posso arrendermi?, perché sono esausta e non so se voglio più continuare, chiedere, indagare su qualcosa che non avrò mai. 
Piuttosto sorrido e fingo indifferenza imitandolo, lui che consuma la sua sigaretta pensando agli scheletri nell'armadio e alle urla che lo inseguono la notte, però mi sorride benevolo come se nulla fosse, e un perché proprio non lo trovo.  
«Ehi, lo sai che Jean si è trovato un ragazzo?». 
La sua voce, pronunciata nel silenzio, mi fa trasalire. Mi volto dalla sua parte, vogliosa più che mai di distrarmi. «Scherzi?!» dico incredula. 
Scuote la testa. «L'ho visto entrare prima nella camera dei genitori di Jeremy con questo ragazzo che non conosco. Si tenevano per mano». 
«Non ci credo!» dico, mentre un enorme sorriso si fa largo sul mio volto, quasi istantaneamente.  
«Si staranno dando alla pazza gioia» commenta lui con un sorriso sghembo sulle labbra, io rido intrecciando le dita con le sue e appoggiando la testa sulla sua spalla. 
«Meglio così, Jean ne aveva bisogno, per se stesso. Sono davvero contenta per lui» mormoro e istintivamente lascio un lieve bacio sul dorso della sua mano, ancora intrecciata con la mia. Al tocco lui sembra quasi irrigidirsi, e io corrugo le sopracciglia.  
«Harry...» provo a dire, un lungo sospiro che anticipa un discorso che non ho idea di come cominciare. Piuttosto mi avvicino al suo volto e unisco le sue labbra alle mie, in un bacio che s'intensifica pian piano. Sciolgo la stretta tra le nostre mani per abbracciarlo e sentirlo più vicino. Mi aggrappo alle sue spalle, al suo collo, cerco di stringerlo e attirarlo a me nella maniera più dolce ma l'unica risposta che ottengo sono delle labbra che si muovono meccanicamente e quasi con pigrizia: è disagio. Il suo viso si allontana di poco, tentennante, e avverto il suo respiro caldo a pochi centimetri. 
«Va bene» sussurro sulle sue labbra, e afferro le sue mani insicure per guidarle sui miei fianchi. «Va tutto bene, Harry» gli accarezzo una guancia con delicatezza e lo guardo negli occhi prima di baciarlo ancora, sento addosso le sue mani che tremano e le sue labbra lontane. 
Improvvisamente non c'è più, e provo a intrecciare le dita con le sue ma sono irraggiungibili e il suo sguardo è troppo perso in altro per poterlo rassicurare. Che io sto bene. Che va bene tutto. Che me ne può parlare. Che dei baci non si deve aver paura. 
«Forse è meglio se rientriamo». 


Io, invece, ho paura del buio, della solitudine e di perdere il controllo. Sì, perché, lo spazio angusto della cucina è poco luminoso, Harry stasera parla poco ed è uscito fuori con Niall per fumare una canna, io ho bevuto altri cocktail colorati, e sento le gambe molli e se cammino non riesco più a farlo in linea retta. 
«Almeno io non ho paura delle persone a cui voglio bene» borbotto tra me e me mentre mi alzo dalla sedia e mi dirigo, a fatica, verso il bagno. 
Non mi preoccupo troppo di bussare e quando apro la porta scopro la figura di Taylor, avvolta in quel grazioso abito blu che le ha consigliato Kim stamattina, piegata sul water, intenta a vomitare. «Wooh, scusami» biascico in un tono lamentoso che in realtà poco mi appartiene. «Qualche drink di troppo? Spero di non dovermi ridurre anch'io così» ridacchio a bassa voce, ma Taylor ansima e sembra decisamente più imbarazzata e preoccupata del solito. Io, dal canto mio, non ci faccio troppo caso. «Beh dai, butta tutto fuori e starai meglio! E quel vestito ti sta d'incanto» le sorrido facendole il pollice all'in su, prima di chiudere la porta. Mi siedo in cima alle scale, sperando che faccia presto, perché non riuscirò a trattenere tutti quei cocktail tanto a lungo.  
In quest'esatto istante una figura alta e magra si dirige verso di me, quasi tentennante. «Oh» dico sorpresa, poi scuoto la testa quando si fa più vicino, e per poco non rischio di cadere a forza d'indietreggiare. «Che ci fai qui?». 
Lui solleva le spalle e mi sorride in un cenno di saluto. «Sono amico di Jeremy» spiega, e quando si siede accanto a me m'irrigidisco. 
«Cosa vuoi, darmi un altro ceffone? Oppure sparare altre balle di fronte al mio ragazzo?». 
Adam mi osserva incuriosito senza proferir parola, ma il suo sguardo innocente basta a farmi scattare. 
«Non credere che io non lo sappia: ti sei inventato quella stronzata del bacio perché non sopporti il fatto che io stia con Harry. Guarda che so tutto! Non l'hai mai sopportato. L'hai sempre odiato, dai tempi in cui eri al liceo e gli rendevi la vita impossibile. Scommetto che è tutta colpa tua se adesso è diventato così». 
Il ragazzo che ho di fronte inarca un sopracciglio, senza neanche avere il pudore di mascherare un risolino divertito. Sono così buffa? «Così come?» domanda, facendosi più interessato alla nostra conversazione. 
«Così... sbagliato! Così diverso, spaventato, strano! Scostante, distratto... Ha paura di tante cose e fa finta di essere un duro, ma la verità è che è più fragile di te e di me e poi, oh, non vuole mai dirmi niente...» scoppio, e sento una lacrima rigarmi il volto.  
Adam continua a ridere sotto i baffi e vorrei picchiarlo, se non fosse che non ho la forza nelle braccia e mi sento troppo triste per fare a botte. «Quanto hai bevuto, Lena?». 
«Harry mi ha fatto dei drink. Ne ho presi tipo quattro, e ora ho mal di stomaco» mi lamento. 
«Lo immagino» ridacchia, guardandomi. 
«Aveva detto che non mi avrebbero fatto niente». 
«Harry dice tante cose». 
Sbuffo. «Ho sonno». 
«Se vuoi posso portarti a casa». 
«Non vengo da nessuna parte con te». 
«Esagerata». 
«Ti ricordo che ti devo ancora uno schiaffo». Circondo le ginocchia con le braccia e lo osservo, in attesa di reazione. Se Harry fosse qui forse lo picchierebbe e mi porterebbe via dicendo che non devo stare con lui, che può farmi ancora male e che è pericoloso; oppure magari ci passarebbe di fronte lanciandoci un'occhiata fugace, ma non farebbe nulla perché in fondo che gliene importa? Se ne andrebbe dai suoi amici a fumare qualcosa senza pensare troppo a me. 
«Senti, Len, mi-». 
«Non chiamarmi Len». 
«Lena, mi dispiace. Te l'ho già detto, ma forse non bastava. Quindi te lo ripeto: non volevo». 
«Sì invece, che volevi. Sei uno sporco maiale che picchia le ragazze!». 
Si passa una mano tra i capelli, incredulo. «Mh, così sarei io quello che picchia le ragazze? Perché invece non lo chiedi al tuo adorato Harry, cos'ha fatto. Perché non gli chiedi cos'è successo a Rachel Evans, quella sera a Manchester. Scommetto che ti ricrederesti su tante cose». 
«Tu non sai niente-» 
«No! Sei tu che non sai niente, Lena. Fai finta di sapere ma in realtà sei ignorante in materia, e ti fai rimpinzare dalle sue stronzate giorno per giorno – alza la voce sempre di più, ed è l'unica cosa che si sente nel corridoio piccolo, oltre al rimbombo della musica del piano di sotto – come se fosse credibile! Il povero ragazzo vittima del passato che gli fa troppo male ricordare. Scommetto che non risponde mai alle tue domande. Ti ha mai parlato di Rachel? Dei fratelli Tomlinson, e di quello che facevano? – sospira  brevemente, si passa una mano tra i capelli e poi torna a guardarmi, concentrato – Perché non gli chiedi di loro? Perché non lo chiedi al dottor Wilson, lui che appoggia tanto il vostro rapporto deve volerti davvero molto male per permettere che tu passi il tuo tempo con un criminale del genere e corra questo rischio – trasalisco – Lo sai che rischi, vero? Ogni minuto che passi con lui. Io scapperei a gambe levate». 
Resto in silenzio per svariati minuti. Le orecchie mi fanno male per la musica e le parole di Adam, entrambe troppo forti perché io riesca a sopportarle. Osservo un punto imprecisato di fronte a me, il cuore che sprofonda nelle viscere e le labbra che si serrano.  
Non so cosa sia peggio tra delusione, rabbia e paura, ma di certo un mix che le combina insieme è letale.  
«Vaffanculo Adam». 

Note
Come al solito comincio scusandomi per quanto vi ho fatto aspettare per questo capitolo (ormai è un rito); spero di essere più puntuale adesso che la scuola è finita, ma non faccio nessuna promessa.
Ah, per tutte quelle che si sono interessate (siete gentilissime davvero <33) con Kant poi è andata parecchio bene :))
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ultimamente le recensioni sono sempre meno per cui spero davvero che la storia continui a piacervi... mi piacerebbe sapere che ne pensate, quale credete sia il segreto di Harry e cosa pensate che succederà nel prossimo capitolo, che è quello importante di cui vi parlavo (:
Grazie a chiunque segue e recensisce la storia <3

Mi trovate qui: ask - facebook
Un bacio, 
Carla

 

Dal capitolo 20
«Era un po' delirante, sai com'è strano lui. Ha cominciato a sparare stronzate, del tipo che la sua vita è una merda e che doveva finirla subito, che ha fatto troppe cazzate per continuare così».



 


 

 

 
   

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Capitolo 20
*** Ruggine ***


 

No dico io, tutto a posto. Puntami una pistola alla testa e pittura le pareti con le mie cervella. Strepitoso, dico io, davvero. 
- C. Palahniuk


«Cosa vuoi che ti dica? Si chiama Robin, ha vent'anni e bacia da Dio». 
La professoressa Green gracchia qualcosa mentre il gesso stride prepotentemente contro la lavagna, e devo sforzarmi per riuscire ad udire i sussurri di Jean, che ha sempre troppa paura di essere scoperto a parlare. 
«E tu perché diavolo non mi hai detto niente?!». La mia risposta, decisamente meno pacata, distoglie dal suo lavoro la professoressa Green, la quale tuttavia non comprende l'origine del disturbo della lezione. Si guarda intorno confusa, gli occhietti piccoli e indagatori che bramano di scovare qualcosa di losco; dopo qualche istante torna a prestare attenzione ai numeri scritti bianco su nero sulla lavagna. 
Jean, il cui battito cardiaco riesco a distinguere chiaramente, si accosta di più a me e, con lentezza estrema, mormora: «Parla più piano, per la miseria».
«Allora, cosa ancora non mi hai detto?» lo ignoro. 
Gonfia le guance e sbuffa piano, prima di sollevare cautamente lo sguardo per controllare i movimenti della Green. «Non c'è poi molto da dire. È stato fantastico, sì, ma lui frequenta l'università a Manchester e già non si ricorderà più di me. È stata una cosa di una sera e niente di più». 
Annuisco. «La prossima volta che hai un'avventura notturna, però, avvertimi. Se Harry non mi avesse detto di averti visto con lui alla festa, sarei ancora all'oscuro di tutto». 
Ride. «La prossima volta ti avvertirò in corso d'opera». Appoggia il mento sul palmo della mano, e mi osserva interessato. «Come va con Harry, a proposito?». 
Serro le labbra e abbasso lo sguardo. «Prossima domanda?». 
«Avete litigato?». Il tono di Jean sembra sconvolto, eppure non il tipo di sconvolto non-posso-crederci-quanto-mi-dispiace, quanto più lo sconvolto o-mio-dio-ho-bisogno-di-gossip-dimmi-tutto; ciò nonostante, riesce comunque, e inaspettatamente, a sembrare rispettoso in qualche modo. 
«No, è che... – sbuffo, alla ricerca di parole giuste. Forse la verità è che non esistono quelle esatte per descriverci, forse le definizioni a due casi strani come noi le devono ancora inventare – C'è poco dialogo? – mi sforzo di utilizzare una terminologia che tutte le coppie usano per descrivere i propri problemi, ma so che non è propriamente esatta – Non credo che lui si fidi di me, in realtà». Sospiro. 
«Tu ti fidi di lui?». 
«Non lo so – mi ritrovo a corrugare la fronte, nella disperata ricerca delle mie reali sensazioni – forse. È difficile. Ma lui sa tutto di me (o quasi), e invece la sua vita mi sembra così lontana. Come se facesse di tutto pur di non farmi entrare...». 
«Forse non devi forzare la serratura. Forse devi solo pazientare e aspettare che sia lui ad aprirti, quando sarà pronto. Passerà del tempo ma poi vedrai, butterà tutto fuori». 
«Lo so, è che-» all'improvviso mi blocco, lo sguardo vitreo e le ultime parole di Jean che riecheggiano nella mia testa per qualche istante, riportandomi alla mente altre immagini, che credevo di avere rimosso completamente. «Jean! – dico, forse a voce un po' troppo alta – ti devo parlare di una cosa importante, decisamente più di questo». 
Annuisce, interessato. «Okay, di che si tratta?». 
Sospiro, insicura. Mi sento in colpa perché ho compreso solo molto dopo il significato di quello sguardo e quella situazione, ma adesso, a mente lucida, è tutto più chiaro – e fa quasi paura.  
«Di Taylor». 



«E poi Harry ha detto che-» 
«Harry! Come sta? Non lo vedo da settimane». 
«Dice sul serio?». 
Il dottor Wilson esita qualche istante, il pollice e l'indice che accarezzano cautamente la barbetta incolta, e lo sguardo chissà dove. 
«Ormai ha esaurito anche le scuse più improponibili per saltare le sue sedute; e come avrai notato ultimamente ha evitato gli incontri di gruppo». 
Eccome se l'ho notato. Con me non deve inventare poi così tante scuse, gli basta dire «Non vengo» o «Ho di meglio da fare» e dall'altra parte non trova nessuno a ribattere. 
Ma forse sbaglio. Forse dovrei impormi e chiedergli dove va, perché manca e si nasconde così spesso. E, per quanto io possa essere determinata nella mia quotidianità, con lui è tutto diverso: mi sento più insicura e non so mai quale sarà la sua reazione. 
«Cosa crede che abbia?» domando a Wilson, torturandomi il labbro inferiore con le dita. 
Il dottore aggrotta le sopracciglia e rivolge lo sguardo verso l'orologio a pendolo dello studio. «Penso sia solo imbarazzato per quello che è successo con Adam. Tuttavia preferirei si facesse vivo, anche solo per una breve seduta». 
«Ultimamente è così strano...» osservo, ripensando ai suoi silenzi che si sono fatti più frequenti e alle mani che sfuggono quando cerco di stringerle tra le mie, a tutte le volte che va via ore prima della chiusura della libreria, chissà dove, e «Non dirlo a mia zia», e io me ne sto in silenzio ad ordinare pile di libri e a lavorare per entrambi. E mi faccio andare bene tutto ma ultimamente comincio a chiedermi perché.  
«Ti confesso che sono un po' preoccupato, Lena. È instabile, e Dio solo sa quanto questi incontri gli facciano bene». 
Scuoto la testa, decisa. «Mi creda, dottor Wilson. Lo so anch'io». 



ORE 19.16 
Stringo il cappotto tra le braccia perché oggi c'è più caldo del solito e anche perché un po' mi fa da scudo, e non che io sia paranoica, ma preferirei non entrare nel posto in cui sono diretta. 
Tengo il cellulare stretto all'orecchio e lo ascolto squillare a vuoto fino a quando non compare la voce della segreteria. Impreco e sbuffo ripetutamente, digitando di nuovo il numero che, a furia di chiamare a vuoto, conosco perfettamente a memoria. «Il cellulare è un optional» borbotto tra me e me mentre, a passo deciso, supero l'entrata dei campetti di Holmes Chapel. 
È l'orario perfetto ed ero certa che li avrei trovati tutti lì, certo, eccetto uno. La testa riccia e bruna, come da previsione, non spunta tra le altre, ma in compenso ottengo cinque paia di occhi – più della metà a me sconosciuti – che, dal momento in cui varco il loro territorio, seguono ogni mio passo con estrema attenzione, quasi fossi un'antilope appena entrata nella fossa dei leoni. 
«Guarda chi c'è, la psicopatica!». A rompere il silenzio, in maniera più che prevedibile, è il biondino in cima agli spalti, una sigaretta spenta in bocca e lo sguardo estremamente divertito.  
«Come sei originale, Horan». 
Si alza in piedi e scende di qualche gradino, senza interrompere il contatto visivo con me. «Ragazzi, lei è Lena... Lena, giusto? – dice rivolgendosi ai tre ragazzi più in basso, poi mi guarda, come a chiedere conferma. Io resto in silenzio, e piuttosto lo osservo con calma e pacatezza, cercando di ricordare a me stessa che non sono qui per litigare con nessuno – La nuova troietta di Harry». 
Sollevo lo sguardo di scatto, e sono in procinto di ribattere quando un'altra voce mi precede. «Niall, non ti stanchi mai di fare il coglione?». Zayn, seduto in disparte, parla con gli occhi ancora fissi sul proprio cellulare, intento a digitare qualcosa. 
Vorrei ringraziarlo ma non appena solleva lo sguardo i suoi occhi, neri come la pece, mi penetrano da parte a parte, e «Che vuoi?» chiede con fare scorbutico. 
«Cercavo Harry» dico soltanto, mantenendo lo sguardo fisso su di lui. 
Si limita a portare la sigaretta alla bocca e a guardare da un'altra parte. «Styles non c'è» risponde semplicemente, espirando un po' di fumo e tornando a prestare la sua attenzione al proprio cellulare. 
«Oh, lo so io dov'è andato» canticchia Horan divertito, e con un balzo scende qualche altro scalino. I suoi occhi ghiacciati si bloccano su di me, e mi guarda come se fossi la sua scena preferita di un film. «Si è fatto un paio di drink al bar di Lucius, prima di venire qui. Era un po' delirante, sai com'è strano lui. Ha cominciato a sparare stronzate del tipo che la sua vita è una merda e che doveva finirla subito, che ha fatto troppe cazzate per continuare così. Forse era l'alcool – Niall ride sadico, come se mi stesse raccontando l'ultima barzelletta letta su internet – o forse no». 
Gli altri ragazzi ridono sonoramente, solo Zayn mi guarda silenzioso e si accorge del cambiamento repentino della mia espressione. «Dove è andato?» chiedo, il respiro che si fa più affannoso. 
Il biondo ridacchia. «Anche se te lo dicessi, non potresti andarci. Harry preferisce stare solo e non ti vuole fra i piedi». 
«Forse non hai capito bene – dico, diminuisco le distanze che ci separano e, senza alcun ritegno né troppi scrupoli, con uno spintone poco gentile sul suo petto lascio che cada all'indietro e la sua schiena sbatta con i gradini di ferro – devi dirmi dove cazzo è andato!». 
Adesso è sorpreso e solleva un angolo delle labbra per mascherare la smorfia di dolore, «Però, che grinta, ragazzina», ma prima che possa dire altro Zayn si alza dalla sua posizione e, tenendomi per un braccio, mi trascina via. Cerco di dimenarmi per quel che posso ma lui non fa caso alla delicatezza e le sue dita stringono forte intorno al mio braccio, tanto da farmi male e impedire qualsiasi mia ribellione. 
«Andava verso Middlewich Park! – grida Niall quando sono quasi all'entrata dei campetti, le mani intorno alla bocca per farsi sentire da lontano – Se lo conosco bene è andato allo sfascio di automobili di Randall. Prova a cercarlo lì». 
Contemporaneamente sento Zayn sbuffare al mio fianco. 
«Ma si può sapere che problemi hai?!» gli domando nel momento in cui, una volta fuori dai campetti, molla la presa del mio braccio. 
«Ma che problemi hai tu! Sei o no la ragazza di Harry? Dovresti sapere come funziona, con lui. Vuole stare solo e non vuole nessuno tra i piedi. Perché non lo capisci?». 
Strabuzzo gli occhi, incredula. «Dico, hai sentito o no le parole di Niall? E sei o no amico di Harry? Dovresti conoscere la sua condizione. E chi se ne frega se vuole stare da solo!» il mio tono è più alto di qualche ottava, il moro mi ascolta con un fare un po' meno disinteressato del solito, e gli altri, dagli spalti, ci guardano curiosi. 
All'improvviso i suoi occhi si spalancano nel realizzare qualcosa di nuovo. «Tu dici che...» 
«Non lo so – dico velocemente, perché sento che sto soltanto perdendo del tempo prezioso qui – Voglio solo trovarlo e assicurarmi che stia bene». 
Zayn annuisce, all'improvviso più teso del solito. «Prendiamo la mia macchina». 



ORE 20.07
Zayn ha una Range Rover nera e gigantesca. Sono più che certa che un'auto del genere implichi una grossa somma di denaro, per cui la domanda che – negli attimi in cui non sono impegnata a chiedermi dove diavolo si sia cacciato Harry – sorge spontanea è come mai vada in giro sempre con quelle scarpe bucate e quella macchia indecifrabile sulla camicia. Mi ritrovo a chiedermi cosa pensino del suo modus vivendi i suoi genitori, che immagino stretti rispettivamente in smoking e tailleur, amanti delle collane di perle e dei gemelli firmati, sempre pronti a mostrarsi risentiti e schifati di fronte alla barba incolta del figlio, ai suoi orecchini e alle sue sigarette nascoste nelle tasche dei jeans. 
È silenzioso: guida con prudenza eppure con una certa fretta, forse perché anche lui sente il peso di Harry e dell'ignoto sulle spalle. 
Perlustriamo Middlewich Park in ogni angolo, ma non siamo sorpresi quando constatiamo che è deserto. «Sicuramente è allo sfascio di Randall – osserva Zayn mentre rientriamo in macchina e mette in moto – ci va sempre, quando si stanca di tutto il resto. Ci sono pezzi di automobili accumulati da tutte le parti e gli piace perché può nascondersi da qualche parte. Non l'abbiamo mai trovato, quand'è là dentro». 
Allaccio la cintura e mi abbandono ad un breve sospiro, appoggiando la fronte al vetro del finestrino. «Questo è incoraggiante». 
Zayn mi riserva un'occhiata veloce, prima di tornare a guardare la strada. «Non preoccuparti. Quando l'avremo trovato lo picchierò a sangue per quello che ci sta facendo passare». 
Sorride leggermente e io, mio malgrado, non riesco a sforzarmi più di tanto. 

 

 

ORE 20.42 
Randall non c'è, ha detto Zayn, era un anziano che lavorava qui ma qualche anno fa è passato a miglior vita. Adesso non resta che una discarica gigantesca piena di pezzi di automobili – «Puoi ancora trovare qualche ricambio funzionante, se cerchi bene» – e topi che sbucano dal nulla. 
Siamo qui da venti minuti e, sebbene ci siamo divisi per rendere la ricerca più fruttuosa, ancora nessuna traccia di Harry. Ho provato a chiamarlo a gran voce ma so che anche se fosse qui non risponderebbe, per cui ho lasciato perdere. Mi sposto da un mucchio di ferraglia arrugginita ad un altro, nella speranza di trovarlo seduto da qualche parte, lo sguardo assente perché è troppo assorto a pensare. 
«Ancora niente – grida la voce di Zayn da lontano – tu?». 
«Lo stesso» grido in risposta mentre m'immergo in un labirinto di ferro e ruggine e sussulto nel momento in cui un topo grigio e piccolo mi taglia la strada. 
Qualche istante più tardi avverto un rumore acuto e stridente, come quello del vetro che s'infrange contro qualcosa. 
«Harry» dico istantaneamente, mentre il mio passo volge subito in quella direzione. C'è un altro rumore, stavolta sordo, e mi ritrovo a correre, rischiando di inciampare con vari pezzi di ricambio per terra. Lo chiamo di nuovo, nella speranza di ricevere una risposta stavolta. C'è un altro rumore. Le mie gambe si arrestano all'improvviso quando mi accorgo del sangue sul terriccio; c'è una bottiglia di birra rotta poco lontano, e un altro rumore sordo mi riempie le orecchie. 
«Harry...» mormoro stavolta, piano, quando, non appena svoltato l'angolo, scorgo la sua figura magra inginocchiata, le spalle curve, intenta a prendere a pugni... qualcosa. 
«È tutta colpa mia, tutta colpa mia...» lo sento mormorare. 
Mi avvicino cautamente, inginocchiandomi accanto a lui. Osservo il suo volto: gli occhi rossi e sanguinosi sono sostenuti da un paio di occhiaie profonde. Lo sguardo è assente, perso – non si accorge della mia presenza né sembra volermi rivolgere alcuna attenzione, piuttosto continua a dare pugni contro uno sportello verde e arrugginito. 
Le sue mani sono violacee di lividi e graffi, per tutti i colpi che deve aver dato, e la visione delle ferite sulle sue nocche sanguinanti mi fa sussultare. 
Si accorge di me solo nel momento in cui, con estrema delicatezza, prendo una sua mano tra le mie e l'accarezzo. «Che stai facendo, Harry?» chiedo in un tono quasi implorante, e solo adesso si volta verso di me e mi guarda davvero. 
Attendo un suo cenno, una parola... ma niente. Mi osserva soltanto, lo sguardo carico di rancore e paura. Paura? 
Istantaneamente, allontana la sua mano da me e si alza all'impiedi, per poi fare qualche passo indietro. Io faccio lo stesso, e guardandolo da qui scorgo anche i suoi jeans strappati e macchiati di rosso all'altezza del ginocchio, e della ferita profonda sul braccio che s'intravede dalla sua camicia lacerata, e che continua a sanguinare. Mi accorgo anche dei suoi occhi che adesso si riempiono di lacrime, che mi guardano e fanno cenno di no.  
«Devi andartene» dice, e le parole sono le stesse dell'ultima volta. 
Scuoto la testa, decisa, compiendo qualche passo nella sua direzione. «Io... ne possiamo parlare, cosa c'è che non-» 
«Non voglio parlare proprio di niente!» sbotta. Il tono della sua voce mi fa sussultare e quando, con le braccia insanguinate, afferra un pezzo di paraurti e lo scaraventa da una parte, non riesco nemmeno a gridare. L'eco agghiacciante riempie lo spazio tra di noi, il suo grido disperato resta sospeso per qualche istante e per la prima volta, di fronte a lui, provo terrore. Quelle profonde occhiaie, quegli occhi scuri e matti non sono gli stessi delle altre volte.  
Resto, ansimante, al mio posto, mentre lo guardo accasciarsi a terra e appoggiare la nuca all'ammasso di ferro dietro di lui. È... esausto. 
«Sono stato io, è colpa mia» rantola affannosamente, e scuote la testa, gli occhi socchiusi e persi. 
Lo osservo, incapace di proferir parola. «Mi dispiace» riesco solo a dire, perché è in questo istante che mi accorgo che conoscere non importa. Che sono stata egoista e che sapere tutto non avrebbe cambiato niente, perché c'è qualcosa che lo distrugge e lo consuma dall'interno, e non è importante sapere ma sentire; le parole di conforto non servono ma gli abbracci aiutano, e allora cammino silenziosamente fino a lui, gli circondo il collo con le braccia e lo stringo a me. 
Lo abbraccio più forte possibile, 'ché non posso cancellare quel dolore che dentro lo consuma come fa la ruggine con queste vecchie ferraglie che ci circondano, ma forse posso alleviare il male. «Mi dispiace così tanto, Harry» mormoro piano contro la sua spalla, ma lui continua a mormorare cose troppo piano e troppo in fretta perché possa capire. 
Il suo respiro caldo sa di alcool e qualcos'altro, e lo sento farsi sempre più rado e affannoso. Harry non piange però, il suo sguardo perso e addolorato è abbastanza, e con una mano avverto il suo cuore battere forte contro il petto. 
Zayn arriva qualche minuto dopo, quando il silenzio è calato tra di noi e io resto ad ascoltare il suo mormorare incomprensibile e ad accarezzare le nocche ferite, anche se ho le mani sporche di sangue e bloccato in gola un grido che non voglio abbandonare, perché almeno io devo restare, e se cadiamo insieme poi chi può farci risalire? 
Zayn osserva la scena preoccupato, e si avvicina a passo veloce. «Come... sta?» domanda, guardando Harry che adesso respira ancora più a fatica e parla sempre più piano. 
«Io non lo so – dico confusa e gli accarezzo una guancia – Harry?» lo richiamo ma lui non sembra darmi retta: fissa il vuoto e ansima più forte, scuotendo ripetutamente la testa. 
«È un attacco di panico – esordisce Zayn e io lo guardo, sorpresa che possa conoscere anche questa realtà del suo amico – Dobbiamo portarlo all'ospedale» dice avvicinandosi, e insieme riusciamo a metterlo all'impiedi. 
«No – scuoto la testa decisa, mentre ci dirigiamo verso la macchina – Portiamolo dal dottor Wilson» 
«Chi?» 
«Ti mostro io la strada». 



ORE 21.23 
«Questo dottore sta al piano terra?» 
«In realtà è al terzo piano» mi mordo leggermente un labbro, mentre tiro fuori dalla borsa una fascia per capelli. Non è il massimo per una ferita, ma in qualche modo posso accomodare; nel frattempo spero che Wilson abbia nel suo ufficio un kit di pronto soccorso – o meglio, prima di tutto spero che lui ci sia, nel suo ufficio, data l'ora tarda. 
Osservo con fare rassegnato la ferita ancora aperta sul braccio di Harry, e anche se le domande sono troppe mi limito a pensare all'adesso, a come posso fare per fasciarla e a cos'altro posso trovare nella mia borsa per improvvisare una medicazione.  
«Dimmi almeno che ha l'ascensore» ribatte Zayn e il suo sguardo s'incrocia con il mio sullo specchietto retrovisore. Poi lo vedo dare un'occhiata ad Harry, poco convinto. 
«Non proprio» dico, mentre sbottono la camicia del ragazzo e libero il suo braccio ferito. Ho trovato un nastro per capelli nella borsa e lo lego appena sopra la zona interessata, pregando che fosse questa la procedura che mi avevano insegnato al corso di pronto soccorso. Una ragazza affetta da amnesie non dovrebbe mai fare l'infermiera, penso. 
Sento il moro sospirare forte dal sedile del guidatore e «Tienilo sveglio, almeno. Se dovesse svenire non riusciremmo mai a trascinarlo su per tre piani di scale».



ORE 21.35 
Il campanello trilla.  
Quando, qualche minuto fa, al citofono ha risposto la voce cupa e infastidita del dottor Wilson, quasi non volevo crederci. Non credo di essere mai stata tanto sollevata in vita mia nell'udire quel timbro di suoni burberi e incazzati.  
«Sono Lena – ho detto – sono con Harry. C'è... un problema». 
Non ho ricevuto alcuna risposta. Ho sentito un rumore dall'altra parte e il portone si è spalancato di fronte a noi. I tre piani li abbiamo dovuti comunque sudare, perché Harry è, sì, in piedi, ma voglia di camminare non ne ha proprio. «Alla fine – ho detto a Zayn, nel tentativo di sdrammatizzare – trascinare è meglio di portare in braccio». 
Wilson apre la porta con qualche minuto di ritardo. Lo studio alle sue spalle è quasi completamente avvolto nella penombra, eccetto che per il suo studio, in lontananza, illuminato dalla luce del computer e dalla lampada sulla scrivania.  
Il suoi occhi scuri e indagatori ci scannerizzano tutti e tre, sostano qualche istante in più sulla figura di Zayn, a lui sconosciuta, e poi si arrestano su Harry. «Cos'è successo?» chiede con fare pacato, senza scomporsi più di tanto. 
Zayn asciuga una goccia di sudore dalla fronte, mentre io cerco di smettere di ansimare per poter parlare. «Io... non lo so, credo abbia avuto un attacco di panico... L'abbiamo trovato alla discarica di automobili, stava delirando... ed è ubriaco. Adesso ha smesso di parlare, si è ferito, e... – parlo a raffica, per quel che il mio fiato mi concede, e sento lo sguardo di pietra di Wilson che pare volermi giudicare – non so più che fare. La prego, lo aiuti».  
Nella foga quasi non mi accorgo delle lacrime che pian piano hanno cominciato a imperlare i miei occhi e a sfocare la mia vista, e adesso la figura del dottore non è più tanto nitida. Tiro su col naso e blocco un singhiozzo sul nascere, imponendomi più rigore. 
Lui annuisce, impercettibilmente. «Entra, testa di cazzo» dice infine in un sospiro stanco, prendendo per un braccio (fortunatamente quello buono) il ragazzo accanto a me e trascinandolo all'interno.  
«Tornate a casa – dice, una volta rivoltosi verso di noi – è una seduta privata».


Note.
Io lo so che cosa vi aspettavate... vi aspettavate tutti che in questo capitolo ci sarebbe stata la confessione di Harry. E invece! 
Spero che adesso non mi odiate troppo perché vi sto facendo penare per scoprire i segreti del nostro protagonista, ma secondo me è necessario che sia così! Inoltre, questo capitolo è DAVVERO importante per la storia, per cui spero lo abbiate apprezzato lo stesso anche se - lo so - adesso non sarete contente visto che vi aspettavate altro. 
Spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto.
Ad ogni modo, se riesco a ricevere un numero decente di recensioni entro il 28 posterò il prossimo capitolo, altrimenti, visto che il 29 parto, mi toccherà aggiornare dopo il 21 luglio. Considerato che sto via tre settimane preferirei aggiornare prima del 29, mi sentirei in colpa a lasciarvi così sulle spine per un mese intero ahahahah
Voi fatemi sapere che ne pensate del capitolo :)

Mi trovate qui: ask - facebook
Un bacio, 
Carla

 

Dal capitolo 21
«Comunque non è vero che sei una psicopatica».



 


 

 

 
   

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Capitolo 21
*** Per una volta ***


 

Fa paura, ma adesso, quando vedo qualcuno arrossire, la mia reazione non è: oh, che carino; mi ricorda solo che il sangue è proprio sotto la superficie di ogni cosa. 
- C. Palahniuk


Le mattine, ultimamente, non sono mai piacevoli. 
Sarà l’arrivo della primavera che rincoglionisce un po’ tutti quanti e in particolar modo me, ma l’apatia e la poca costanza in tutte le cose sembrano essere ormai diventati i miei segni distintivi. 
In più, la solitudine non aiuta. Il campionato di scacchi occupa a Jean tutti i pomeriggi, Kim e Taylor studiano per i test dell’università, e, ovviamente, di Harry nemmeno l’ombra. Non è una gran sorpresa dopo tutto, e, sebbene non riceva ormai una sua notizia da giorni, sono quasi… serena. 
Wilson mi ha tranquillizzata e per una volta, forse, gli credo. Potrebbe anche solo essere un modo per non pensare a tutta questa situazione stranissima, che, in un modo o nell’altro, continua a riproporsi senza sosta; non lo so. Non che io non ci voglia più pensare: piuttosto, però, preferirei evitare di farlo adesso, considerato che so poco e niente, e che rischierei soltanto di alimentare fantasie che non hanno niente di vero. E poi ho smesso di farmi domande inutili, perché non sono altro che un martello continuo nella mia testa, che non giunge a conclusione alcuna. 
«Possiamo parlare un attimo?» 
Quando distolgo lo sguardo dal mio libro di biologia, impiego più di qualche istante per rendermi conto della figura che mi sta di fronte: aggrotto la fronte, accigliata. Zayn mi guarda in attesa, una sigaretta spenta tra le labbra e al posto della tradizionale giacca blu un giubbotto di pelle che stona incredibilmente con la divisa scolastica. Mi guardo intorno, incerta. 
«Non preoccuparti – esordisce lui, gli occhi quasi divertiti ed un breve accenno di sorriso sulle labbra sottili – i miei amici non ci sono. Siamo solo tu ed io» ride, e il suo tono, in qualche modo, finisce per farmi arrossire. 
«Cosa vuoi?» chiedo, forse un po’ troppo freddamente; in teoria dovrei essergli riconoscente per tutto quello che ha fatto l’altra sera, per Harry, per la disponibilità, e perché alla fine di tutto si è perfino premurato di accompagnarmi a casa. 
«Ehi, calmati un attimo, piccola. Non voglio mica mangiarti – ride di nuovo, e si appoggia con il bacino al muretto su cui sono seduta, proprio accanto a me – Biologia eh? Penso sia la materia più stupida del mondo» osserva con un sorriso sulle labbra che non sembra nemmeno suo, e forse lo fa per farmi sentire a mio agio; forse ha capito che un po' mi spaventa. L’altra sera non ha più spiccicato parola, dopo aver portato Harry da Wilson: piuttosto è rimasto in silenzio a guidare, e non sembrava per nulla amichevole. 
«Cosa volevi dirmi, Zayn?» è la mia risposta immediata, perché proprio in questi casi detesto che si temporeggi; lo sento sospirare quasi subito, incrocia le braccia al petto e mi rivolge un’occhiata veloce, prima di tornare a guardare il cortile della scuola, assorto. 
«Volevo sapere se hai idea di che fine abbia fatto quel coglione del tuo ragazzo» dice soltanto, e lo fa con una stizza nella voce che mai avrei immaginato di sentire rivolta proprio nei confronti di Harry. 
Sollevo le spalle, osservando una mattonella rotta ai miei piedi. «Non so molto. Ho parlato con il dottor Wilson, e lui ha voluto dirmi solo che per adesso Harry è da sua zia. E che sta bene». 
Con la coda dell’occhio vedo le sopracciglia di Zayn aggrottarsi in un’espressione che non mi sembra del tutto pacifica. «Tutto qui? – dice, e il suo tono irato è la conferma delle mie ipotesi – Quel coglione manca da più di una settimana e tu sai dirmi solo che uno strizzacervelli da quattro soldi ti ha assicurata che lui “sta bene”? E tu gli credi? Chi ti assicura davvero che sia da sua zia, che sia tutto a posto? L’hai visto l’altra sera, no? Ti sembrava stesse bene? Cazzo». Il suo viso è contrito in una smorfia di disgusto nei miei confronti, e per un attimo anch’io mi ritrovo a dubitare delle mie stesse azioni. 
«Mi fido del dottor Wilson – dichiaro dopo qualche istante, con un tono calmo e diplomatico – Harry si fida. E dovresti farlo anche tu, Zayn». 
Sospira, passandosi una mano tra i capelli folti. «Sono solo preoccupato» confessa, e, sebbene fossi già giunta da sola a questa conclusione, sentirla pronunciare dalle sue labbra fa comunque un certo effetto. 
«Lo so. E sono preoccupata anch’io, credimi. Ma adesso l’ultima cosa che possiamo fare è cercare di forzarlo in qualche modo. Quando sarà pronto a parlare con noi, tornare a scuola e vedere persone, lo farà» o almeno è quello che spero, penso tra me e me. 
Annuisce, tentando di mostrarsi per lo meno comprensivo di fronte alle mie parole. Forse non le accetta o le condivide, ma le capisce: e, dopo tutto, sono convinta che non sia stupido – almeno non quanto il resto della sua combriccola – e avrà già compreso che il problema di Harry non riguarda certo qualche birra di troppo, né manie di protagonismo. 
«Comunque non è vero che sei una psicopatica» dice di punto in bianco, appena prima di rivolgermi un sorriso fugace, uno di quelli che sembrano proprio una visione e che quando finiscono, quando non resta nient’altro che il ricordo sbiadito di un paio di labbra incurvate verso l’alto, sembrano quasi una fantasia irreale, qualcosa di mai accaduto. 
«Ti ringrazio» è il mio timido modo di mostrarmi riconoscente, le guance lievemente arrossite perché cose di questo genere è raro che mi vengano dette. «Posso farti una domanda?» sollevo lo sguardo e lo osservo sottecchi. 
«Mh?» mormora lui mentre estrae un accendino dalla tasca dei jeans e accende la sigaretta. 
«Come facevi a sapere degli attacchi di panico di Harry? Credevo non ne parlasse». La curiosità che ho espresso non è un dubbio improvviso, guanto più una domanda che mi pongo dalla sera stessa in cui, di fronte al respiro affannoso del suo amico, aveva riconosciuto subito i sintomi di un attacco di panico e aveva suggerito di portarlo in ospedale immediatamente. Non che io sia gelosa o altro, però Harry non mi aveva mai parlato dei suoi attacchi di panico prima che io assistessi ad uno, mentre Zayn sembrava essere ben informato in materia. 
«Infatti non ne parla» esordisce lui, espirando una nuvola di fumo grigiastra. «È che a furia di starci insieme te ne accorgi. Niall e gli altri sono troppo stupidi per farci caso, e forse neanche ci provano, ma Harry è un libro aperto, in fin dei conti. È impossibile non accorgersi di tutte le volte che smette di respirare con regolarità, di quando gli prudono le mani perché tutto quello che vuole è prendere a pugni qualcosa. L’ho capito lentamente, ma ci sono arrivato. E poi una volta, ad una festa, l’ho trovato in un angolo con le ginocchia al petto, come un bambino. Mormorava cose senza senso, e non aveva nemmeno incominciato a bere! Da quel momento ho capito che c’era qualcosa che non andava, anche se lui non ha mai voluto dirlo apertamente». 
Serro le labbra leggermente, per la sorpresa: non sono tanto stupita dal contenuto del racconto di Zayn quanto più dal suo significato. Non lo avrei mai immaginato così attento o così premuroso nei confronti del suo amico, mi è sempre sembrato uno stronzo insensibile come Niall, come tutti gli altri. «Però – dico con fare riflessivo – non ti avrei mai immaginato così sensibile, Malik». 
Lui aggrotta le sopracciglia e mi rivolge un'occhiata obliqua, poco convinto. Poi, senza aggiungere altro, getta la cicca sull'asfalto, la spegne con la suola e si allontana. 


Sul davanzale della finestra della mia stanza due uccellini cinguettano allegri con veemenza, come se l'unico scopo nella loro vita da volatili fosse quello di distrarmi dal lavoro che ho da fare. Osservo per l'ennesima volta, senza capire, una parola sul libro di letteratura inglese, mentre mi sforzo di rimanere concentrata, nonostante il caldo ed il cinguettio al di fuori della finestra. Il cielo si sta schiarendo, il tempo va sciogliendosi e, mentre il mio livello d'attenzione cala ulteriormente, gli esami di fine anno si avvicinano sempre di più. 
Nessuno dei miei amici è preoccupato più di tanto, ma io so che, da parte mia, dovrei impegnarmi molto di più. Wilson si è offerto di firmare una dichiarazione, nel caso dovessi essere affetta da un'amnesia improvvisa durante una delle prove, ma ho rifiutato. Sto guarendo, lentamente e con grandi sforzi, ma è sempre più raro che dimentichi qualcosa di punto in bianco, e perché mai dovrei trovare una scusa? Ho deciso che sono perfettamente in grado di farcela da sola, e non voglio essere giustificata per nulla. 
Mentre torno a concedere la mia attenzione al libro di testo, il cellulare accanto a me vibra per qualche istante. Quando, con un'occhiata fugace verso lo schermo, vedo che si tratta di un messaggio di Harry, aggrotto le sopracciglia e avverto il cuore accelerare. Non appena apro la chat, la prima cosa che attira la mia attenzione è il triangolino rovesciato sulla sinistra, a indicare la presenza di un nuovo messaggio vocale. 
Indugio qualche istante, poi decido di schiacciare play. 
La registrazione parte e tutto quello che sento per i primi dieci secondi è il respiro calmo e regolare di Harry. 
«Ciao – pronuncia la sua voce roca e profonda, e dopo svariati attimi di silenzio continua – Wilson mi ha detto che hai chiesto di me. Per adesso sto da mia zia, tra qualche giorno tornerò a casa – si arresta qualche istante, come per riflettere sulle cose da dire – mi... mi dispiace per quello che è successo la scorsa settimana. Ho perso la testa. Appena mi ha visto, il dottor Wilson mi ha insultato per una buona mezz'ora prima di aiutarmi: era incazzatissimo. Ed era più preoccupato per te che per me – per un istante il suo tono si fa più leggero, e riesco quasi ad avvertire l'ombra di un sorriso tra le sue parole troppo amare – sul serio! Voleva che ti facessi sapere che sto bene. O almeno, credo di stare bene. Mi sto riprendendo. Non vuole che ti preoccupi troppo, comunque: dice che non farebbe bene al tuo stato mentale» lo sento sorridere piano, nel tentativo di celare l'imbarazzo. 
Avverto una morsa allo stomaco, dettata non tanto dall'udire la sua voce, quanto più dalla delusione: l'idea che lui, nel bel mezzo della giornata, abbia rivolto un pensiero a me e abbia deciso di farmi sapere come sta si frantuma nell'esatto istante in cui pronuncia il nome di Wilson. 
È chiaro, penso tra me e me, con un sospiro leggero, dopo tutto cosa avrei dovuto aspettarmi? Che di punto in bianco si sentisse in colpa nei miei confronti e decidesse di sua iniziativa di darmi qualche notizia sulla sua condizione? Avrebbe dovuto essere quasi palese che era stato Wilson a spronarlo, lui che era consapevole della latitanza e del menefreghismo del suo paziente nei confronti del mondo intero.  
Sono sul punto di gettare il cellulare dall'altra parte della stanza, in un impeto di rabbia, quando quest'ultimo suona di nuovo tra le mie mani e vedo apparire un nuovo messaggio vocale in chat. Sospiro, prima di farlo partire. 
Dopo i primi dieci secondi di silenzio, Harry ricomincia a parlare. «...E poi volevo chiederti scusa. Ma scusa sul serio, per tutte le cazzate che ho fatto in questi mesi e tutte le volte che mi sono comportato da stronzo quando non te lo meritavi. E lo so che questo è il modo peggiore per farlo, ma dopo tutto questo tempo, e dopo tutta la tua pazienza, ti devo una spiegazione. Penserai che sono un vigliacco a farlo attraverso dei messaggi vocali e forse un po' questo è vero ed è uno dei motivi per cui non ti ho mai raccontato nulla, e per cui, una volta che avrò inviato questo, me ne pentirò per il resto della mia giornata: sono un vigliacco, Len, e non ce la faccio a dirti tutto di presenza perché guardarti negli occhi mi farebbe male e perché forse dopo sarai schifata da me, mi odierai e non vorrai più vedermi. Ecco, avevo paura anche di questo – sospira, lentamente – ma è giusto che tu sappia; e quello che succede dopo è solo una conseguenza che accetto di subire». 
Batto le ciglia, cercando di canalizzare tutte le informazioni. Posso vedere dal suo stato in chat che sta registrando un nuovo messaggio, e resto a fissare quella scritta per svariati minuti, fino a quado non appare un nuovo messaggio e io avverto il cuore in gola mentre schiaccio play. 
«Ho conosciuto Matt e Louis due anni fa, circa. Erano amici di Brad, quel ragazzo pieno di piercing che adesso lavora al Knight's, hai presente? Avevano qualche anno in più di me, ma erano uno spasso; vendevano l'erba poco lontano da scuola, e siamo diventati amici un po' per caso. Frequentavano lo stesso locale della mia comitiva, e abbiamo cominciato a vederci più spesso. Loro potevano guidare, quindi capitava che andassimo fuori città nei week-end, noi tre con altri amici. 
«Erano fortissimi. Avevano un senso dell'umorismo incredibile e sapevano proprio come divertirsi. Non godevano di una bella fama in città, ma a me non importava più di tanto, se erano miei amici. Una sera, inaspettatamente, si sono presentati di fronte a casa mia a bordo di una Lamborghini rosso fiammante; ho riconosciuto subito la macchina del signor Adams, ma non ho detto nulla: con loro era meglio non parlare, e in più preferivo rimanere ignaro di certe cose... Era più "comodo", capisci?, così che non si potesse dire che era colpa mia. Ce ne andiamo a Manchester, mi ha detto Louis dal sedile del passeggero, sventolandosi con un paio di banconote da cento sterline: anche quelle dovevano appartenere al signor Adams, suppongo. Ad ogni modo ho preferito tacere anche in quel momento, limitandomi a guardare Matt che, al volante, ci faceva sfrecciare a tutta velocità fuori da Holmes Chapel». 
Interrompo la registrazione, bloccando la voce atona e malinconica di un Harry stanco e debole proprio sul più bello. Lo faccio perché devo immagazzinare le nuove informazioni, riflettere e... rendermi effettivamente conto del fatto che stia per parlarmi proprio di quella notte, di Manchester, del momento in cui è cambiato tutto. 
«Non era una discoteca poi tanto grande, quella in cui ci siamo ritrovati quella notte. Matt e Louis avevano speso lì dentro quasi tutti i soldi che avevano rubato, tra alcool e pasticche – ormai da un po' avevo cominciato a preferire all'erba roba più pesante, come la coca o l'ecstasy, e quella sera in particolar modo non ero quasi per nulla cosciente, così come Matt e Louis». 
La registrazione si ferma, e faccio partire subito quella successiva. 
«È successo nel vicolo dietro alla discoteca. Eravamo lì fuori a fumare quando ho visto avvicinarsi una ragazza bellissima: lo era davvero, bellissima, tanto che mi sono avvicinato e ho cominciato a provarci. Forse ero troppo ubriaco per i suoi gusti, e forse ho sparato qualche cazzata, perché mi ha respinto in malo modo, con uno schiaffo sulla guancia ed un "maiale" sussurrato a denti stretti. Io sono scoppiato a ridere, non mi importava più di tanto e comunque ero troppo fatto per prendere la cosa sul serio. 
«Matt e Louis l'hanno sentita e si sono avvicinati ridendo, ho pensato che volessero provarci pure loro. Lei, Rachel si chiamava, piuttosto ha dato a Matt un calcio sulle palle e ha fatto per andarsene, dicendo di lasciarla stare; ma Louis l'ha trattenuta per un polso. Puttanella, le ha detto, devi morire all'inferno; e le ha dato uno schiaffo. Io ho riso, da lontano, appoggiato al muro sudicio del vicolo, ancora ignaro di quello che stava per accadere: e ho continuato a ridere divertito, almeno fino a quando Matt non le ha sferrato un pugno in pieno stomaco, facendola piegare su se stessa. Ma sei impazzito? Non ti pare di esagerare? Le hai fatto male, Cristo santo!, ho detto con il panico nella voce. Ti ha chiamato maiale Haz, non vuoi vendicarti anche tu?, mi ha risposto Louis, ma io restavo con le spalle attaccate al muro, per la troppa paura. La ragazza gemeva di dolore per terra e io non sapevo come aiutarla: basta, basta!, gridavo ma tanto non mi sentivano e si stavano divertendo così tanto! Li ho presi per le spalle, dalle braccia, ho provato in tutti i modi a tirarli via ma erano troppo forti e troppo invasati.  
«Smettetela, le fate male, dicevo, e continuavano con calci e pugni nello stomaco e nel petto mentre lei era accasciata a terra e implorava aiuto, vi prego, lasciatemi stare, diceva. Non vi ho fatto niente. E io di nuovo li imploravo di piantarla, così può bastare, non vedete che la state uccidendo? E tiravano calci e pugni, sei una puttana, non sei altro che una stupida sgualdrina dicevano, e io ho cominciato a gridare più forte, basta, basta, vi prego, adesso basta, la uccidete, basta, basta; la uccidete. Le loro mani si sono sporcate di rosso nello stesso istante in cui ho sentito le voci in fondo alla stradina. Aiuto, fateli smettere, sono pazzi, io e il proprietario del locale ed altri due ragazzi li abbiamo allontanati. Basta, basta, la uccidete. L'avete uccisa. 
«Louis aveva tra le mani un coltellino sporco di sangue quando li abbiamo allontanati, e lei uno squarcio rosso all'altezza dell'addome. C'era una pozza di sangue a terra e ho sporcato le Converse, le macchie non sono più sparite neanche dopo mesi – le macchie non sono più sparite neanche su di me. Non lo vedi, non lo senti? È colpa mia». 
La registrazione s'interrompe con un sospiro lungo e stanco dell'interlocutore. Incapace di formulare un pensiero sensato, lascio che l'eco delle sue ultime parole, le stesse che mormorava tra sé e sé una settimana fa allo sfascio di automobili, si propaghi nella mia testa come l'onda concentrica formata da un sassolino che cade sull'acqua di un mare piatto.  
«Avrei potuto – esordisce il nuovo messaggio – avrei dovuto fare qualcosa. Chiamare qualcuno, tirare più pugni e sanguinare di più. E lei mi guardava, in quel momento non sapevo neanche qual era il suo nome; eppure prima volevo solo farci sesso, ma adesso "Rachel" ce l'ho tatuato nelle ossa e neanche questo va più via dopo mesi. Rimarrà sempre. E come mi guardava Rachel, Lena, aveva gli occhi pieni di lacrime e gridava pietà, per favore, aiutami, ah, mi uccidono, aiuto. Ho guardato i suoi occhi sofferenti spegnersi sempre più lentamente, perdere la luce... e l'ho vista esalare l'ultimo respiro dopo aver sputato del sangue per terra, proprio accanto a me. 
«La polizia ci ha arrestati tutti. Il proprietario del locale e gli altri ragazzi che sono arrivati dopo hanno testimoniato in mio favore, così sono stato dichiarato innocente. Ho trascorso l'estate in reabilitazione e a svolgere servizi socialmente utili. L'assistente sociale mi fa visita ogni tanto, come avrai potuto notare tu stessa. Matt e Louis sono dietro le sbarre – omicidio colposo, ha detto il giudice: sono dodici anni. Wilson dice che la mia non è stata solo fortuna, che non sono un assassino, che sono solo capitato nel posto sbagliato nel momento sbagliato: io non la vedo così. Se non avessi provocato quella ragazza, se non avessi cercato di... cazzo, sarebbe stato tutto diverso. 
«Lo so quello che stai pensando adesso. E lo so che mi odi, per non averti detto niente prima e per quello che ho fatto. Io volevo solo dirti grazie, perché sei paziente e perché a me ci tieni forse più di quanto dovresti.  
«E poi ho pensato a lungo e ho capito che se devo perderti, voglio che accada facendo la cosa giusta... almeno per una volta».




Note.
Hello! Visto, sono stata puntuale! :) Vi ringrazio per le recensioni che avete lasciato; d'altra parte non credo sarei riuscita a stare via un mese senza prima alleviare un po' le vostre curiosità. Anche perché dovrete aspettare la fine di luglio prima che il prossimo capitolo di ND veda la luce, purtroppo.
Detto questo, spero che questo capitolo sia stato abbastanza soddisfacente, e qualsiasi dubbio abbiate potete sempre contattarmi su facebook o su ask dove continuerò a collegarmi ogni tanto. La storia di Harry, dei fratelli Tomlinson e di Manchester sarà comunque approfondita nei prossimi capitoli. 
Ci tengo a dire che l'ultima cosa che voglio è essere irrispettosa con questa storia, quindi ho "dato" a Matt e Louis una pena di dodici anni ma non so se questa è riduttiva o meno... se ne sapete più di me, fatemi sapere! Ho cercato un po' ovunque in giro e ho provato a documentarmi meglio ma in queste cose sono una frana, davvero.
Comunque sia, vi voglio ringraziare perché continuate a leggere e a interessarvi alla storia, e un bacio in particolare a chi trova il tempo per recensire!
Detto questo vi saluto, vi auguro buone vacanze e ci sentiamo presto <3

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Un bacio, 
Carla

 

Dal capitolo 22
«Non mi fai schifo» dico e lo vedo voltarsi un poco, così da permettermi di distinguere il suo profilo.
«Allora che sei venuta a fare?».

 

 

 
   

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Capitolo 22
*** – x – = + ***



Sinceramente vorrei esser morta;
lei mi lasciò, tra le lacrime
e mi disse: come è terribile,
Saffo, questa nostra sorte,
perché è contro il mio volere
che ti abbandono.
- Saffo

 

Un ronzio intermittente e quasi insopportabile accompagna la mosca che perlustra la stanza sopra la mia testa.
Le mosche di solito volano in tondo o, più caratteristicamente, seguendo dei movimenti irregolari che formano un triangolo o un quadrilatero. Il loro volo non è elegante come quello di una farfalla o di un'aquila, questo perché hanno ali piccole e il corpo troppo pesante: una mosca è in continua lotta con la forza di gravità e, incapace di planare dolcemente come tutti gli altri volatili, è costretta ad un volo brusco e disordinato e ad uno sforzo energetico immane, pur di non precipitare.
Me l'ha detto Jean, una volta. La cosa mi ha colpito, forse perché allora io mi sentivo così: confusa, pesante, costretta ad essere sballottata da una parte all'altra pur di rimanere in piedi. Oggi guardo l'animale che vola sopra la mia testa, disorganizzato, scostante, sempre in procinto di cadere... e penso a qualcun altro.
«Hai intenzione di prestarmi attenzione o preferisci che ti getti subito fuori dal mio ufficio?».
I miei occhi, ancora rivolti all'insù, si abbassano fino a sostare sulla figura del mio psicologo. La mia espressione resta atona, poco concentrata.
«È un incontro straordinario, questo. Te l'ho concesso perché sono estremamente magnanimo».
«Ma le ho solo chiesto di anticipare la seduta di Venerdì a oggi... Non c'è nulla di aggiuntivo» ribatto, le braccia incrociate al petto e l'espressione contrariata.
«Non ha importanza»
«Perché non mi ha detto niente?»
Gli occhiali sul naso di Wilson vengono aggiustati con un gesto meccanico delle dita. «Perché mai avrei dovuto parlartene io? Non sono affari tuoi».
Sospiro, con calma. Ho sentito ripetere questa frase un innumerevole quantità di volte, negli ultimi mesi; eppure, ora più che mai, la sento come una grande bugia. Perché in un modo o nell'altro quelli che "non sono affari miei" finiscono sempre per riguardarmi da vicino.
«Era... Era importante! È morta una ragazza. È una faccenda seria» sussurro, come per paura che qualcuno possa sentire la nostra conversazione. A discapito dello shock e della delusione per tutte le parole non dette – o dette troppo tardi – sento ancora di dover preservare Harry, a maggior ragione adesso che conosco la sua storia, sento il peso di questo segreto sulle spalle.
Solleva un sopracciglio, improvvisamente più interessato alla conversazione. «E questo cambia qualcosa?».
«Cambia tutto!» esclamo, sconcertata. Riesco solo ad immaginare le scene orrende che mi sono state descritte: il sangue, il dolore, le urla, la morte... Come fa, tutto ciò, ad essere irrilevante per Wilson? Come fa, un omicidio, ad essere considerato qualcosa "che non mi riguarda"?
«Cambia anche quello che pensi di Harry?». L'immediata domanda di Wilson, fedelmente accompagnata da un sopracciglio sollevato e da un'espressione più seria del solito, mi prende in contropiede.
«Io...» borbotto qualcosa di incomprensibile anche per me. Mi guarda e sorride, consapevole di aver colto il mio punto debole. La verità è che ho paura: paura di giudicare quando non sarebbe mia prerogativa, paura di fidarmi troppo di qualcuno che, in fin dei conti, conosco troppo poco. «Io... non lo so».
«Sei confusa» completa lui per me, ed io mi lascio andare ad un breve sospiro sconfitto. Avverto una lacrima rigarmi il volto e mi affretto ad asciugarla.
Lo vedo accennare ad un breve sorriso, quasi compassionevole. Pian piano, mi dico, in questi mesi ho scoperto che anche Wilson ha un cuore – e funziona (quasi) come tutti gli altri. «Partiamo da una cosa: io ho letto i verbali e parlato con alcuni testimoni di quella sera, e posso assicurarti che Harry non è un assassino. La versione che ti ha raccontato è quella vera, senza filtri né menzogne».
Inspiro lentamente, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona e il palmo della mano che sostiene il capo. All'improvviso comincio ad avvertire un gran mal di testa. «Questo lo so – confermo, in un sussurro spezzato – è solo che...»
«Non avrebbe fatto nulla neanche in un altro caso. È vero che è stato la causa della morte di quella ragazza, ma questo non vuol dire che sia colpa sua – mi studia attentamente, gli occhiali da vista tra le mani e i gomiti appoggiati alla scrivania – Non devi cominciare a dubitare di qualsiasi cosa lui abbia mai detto o fatto, Helena. Harry non è un bugiardo, e sono certo che è stato sincero con te. Forse ha omesso qualche verità, negli ultimi mesi, ma puoi biasimarlo?».
Gli occhi scuri di Wilson mi penetrano da parte a parte, so che mi vuole leggere dentro e forse per una volta non ho niente in contrario.
«Ha detto che aveva paura di perdermi» dico fissando il vuoto, mentre la mia mente ritorna a quelle parole e a quei messaggi che avrò ascoltato un migliaio di volte ma a cui non ho ancora dato risposta.
«E tu credi che sia una paura fondata, la sua?»
Abbasso lo sguardo. «Forse – confesso – neanch'io non voglio perderlo, dottor Wilson. Ma...»
«Ma è più complicato di così».
Annuisco, in un cenno d'assenso. «È che non posso fare a meno di farmi un milione di domande, e chiedermi se ne vale la pena, e dirmi che non sono in grado di sostenere un peso così grande – la mia voce viene spezzata da un singhiozzo, ma, ancora una volta, mi trattengo – voglio dire... mi guardi, dottor Wilson: sono un casino. Come posso aiutarlo a risolvere la sua vita se non so nemmeno tenere in piedi la mia?».
I capelli brizzolati di Wilson tremano leggermente mentre una brezza di metà primavera entra dalla finestra alle sue spalle e m'investe in pieno viso.
Mi rivolge un cenno d'assenso. «Credo tu abbia ragione. E sai benissimo che non ti costringe nessuno, vero? Sei capace di prendere le tue decisioni e Harry lo capirà – annuisco – eppure io credo che ti sottovaluti. Harry ha fatto enormi progressi negli ultimi mesi, e sono in gran parte dovuti a te. Forse non te ne sei accorta, ma ha resistito soprattutto grazie al tuo aiuto. Non credo tu debba lasciarti condizionare dalla sua storia: dopo tutto non mi pare lui l'abbia fatto con te, o sbaglio?
«Non ha smesso di parlarti dopo aver scoperto delle tue amnesie perché credeva fossi un peso troppo grande; è rimasto e, lasciatelo dire Helena, perché so bene che non vuoi ammetterlo, ma stai guarendo grazie a lui. Vi fate bene a vicenda. E sì, siete due casini ambulanti, ma non è forse vero che due segni negativi, insieme, ne fanno uno positivo?».
La sua voce, meno decisa ed autoritaria che mai, ma, per una volta, morbida e paterna, riecheggia nella mia testa. Sbatto le palpebre più volte, prima di pronunciarmi.
«È meglio che vada».
Annuisce, prima di inforcare gli occhiali e rivolgere la sua attenzione allo schermo del computer alla sua destra.
«Pensaci su, mi raccomando» dice non appena le mie dita sfiorano la maniglia della porta.
Sollevo un angolo delle labbra, uscendo dall'ufficio, perché non posso fare a meno di notare il suo affetto nei confronti di Harry, che non riesce a celare in nessun modo.
«Prego, il dottore è libero» pronuncia Jillian quando mi vede emergere dall'ufficio, rivolta ad una figura sul divano della sala d'attesa. Quando questa si volta, gli occhi di Adam si scontrano con i miei per un istante troppo lungo, che mi impedisce di ignorarlo.
«Ciao» mormoro in un sorriso di circostanza, tanto impacciato quanto imbarazzato. Lui mi rivolge un mezzo sorriso a labbra serrate, con uno sguardo indecifrabile. Mi passa accanto, diretto verso l'ufficio di Wilson, ma si blocca quando si accorge della mia mano ferma sul suo braccio.
«Quella notte, a Manchester... c'eri anche tu, non è vero?» domando in un rantolo, come se tenessi dentro questo interrogativo da sempre.
Lui mi guarda con fare curioso, poi annuisce lentamente. Ero certa che tutti i suoi avvertimenti, i suoi "criminale" e "dovrebbe stare dietro le sbarre" rivolti ad Harry non erano casuali. Abbasso lentamente lo sguardo, incerta se formulare o no la prossima domanda. Adam, dal canto suo, gli occhi scuri puntati su di me ed i capelli neri scompigliati, forse dal vento leggero che c'è oggi, resta in attesa.
«Cosa... cosa hai visto?»
Si lecca il labbro inferiore, «Non mi pare il momento giusto per parlarne» e si guarda intorno, in difficoltà. Nella sala si ode solo il ticchettio delle dita esili di Jillian sulla tastiera del computer, che finge indifferenza; la porta è semiaperta e sicuramente Wilson starà origliando la nostra conversazione, ma di lui poco m'importa.
«Per favore» sussurro ancora più piano, in un'espressione implorante.
Sbuffa. «Sono arrivato tardi... Lei era già morta. C'era una pozza di sangue a terra e la polizia stava arrestando Matt, Louis ed Harry» aggrotta le sopracciglia non appena si accorge del mio sospiro di sollievo. «Io credo che Harry abbia contribuito» dice convito, lo sguardo più serio che mai.
Scuoto la testa. «Non credo tu abbia il diritto di sentenziare».
«Non vuoi dirmi che hai intenzione di credere alla sua stupida versione!» ribatte, il tono di voce più alto di un'ottava. Jillian si volta di scatto, curiosa e forse anche un po' preoccupata, memore dell'ultima discussione poco amichevole avvenuta tra me ed Adam.
Sospiro pesantemente, facendo spallucce. «Io non so nulla. E da quello che ho capito, tu sei solo poco più informato di me».
Rotea gli occhi al cielo, e vedo quell'espressione di rabbia che tante volte gli ho visto addosso balenargli sul volto. Apre la porta e scopre la figura di Wilson intenta a scrivere qualcosa al computer: quest'ultimo solleva il capo e, sorpreso, ci guarda interessato.
«Un'ultima cosa» dico, fermandolo dal varcare la soglia. Mi osserva a braccia conserte, con fare poco amichevole. «È importante per me – mi giustifico – È... È vero che ti ho baciato?» domando, con le mani torturo l'orlo della mia sciarpa e attenziono lo spostamento di ogni suo muscolo facciale.
Abbassa lo sguardo e scuote la testa, sembra incredulo: a palpebre abbassate, si massaggia le meningi con il pollice ed il medio. Quando si rivolge nuovamente a me, gli occhi di fuoco e l'espressione quasi... esausta?, per poco non sussulto. «No, okay? Mi sono inventato tutto io, non è successo niente e mi sono preso gioco delle tue amnesie. Sei contenta adesso?» quasi urla d'impazienza, prima di varcare la soglia dell'ufficio e sbattere la porta alle sue spalle.
Osservo la superficie liscia di legno di fronte a me, che ancora riecheggia di delusione, rabbia, e forse anche di bugie.



La nebbia notturna è svanita nel tepore primaverile e i miei occhi, abituati ormai all'oscurità delle due di notte, riescono a distinguere perfettamente i contorni del cartello all'entrata, i binari arrugginiti e perfino quella panchina solitaria quasi alla fine della stazione.
Inspiro ed espiro lentamente, prima di avvicinarmi e sedermi.
«Sei venuta a prendermi a schiaffi?»
Mi volto alla mia destra, esaminando il profilo che conosco a memoria. «Perché così catastrofico?» domando in un sussurro.
Harry abbassa lo sguardo, pensieroso. «Allora sei venuta a rompere con me».
Serro le labbra, esitante. Il suo sguardo è perso nel vuoto di fronte a lui, e, nonostante tutto, non posso fare a meno di pensare quanto i suoi occhi mi manchino e a come darei qualunque cosa perché si voltasse e le sue iridi cristalline s'incrociassero con le mie.
Lo osservo, mentre si sforza d'ignorarmi. «Siamo mai davvero stati qualcosa noi due, Harry?» sospiro, sollevando le spalle.
Lo vedo voltarsi di scatto dalla mia parte, e questa volta sono io ad evitare il suo sguardo, che sento addosso quasi come un'accusa. «Certo che sì! O almeno... Così è stato per me». Il suo tono, amaro e deluso, mi penetra sotto la pelle, e mi fa rabbrividire.
«Perché non mi hai detto tutto subito, allora? Perché hai aspettato tutto questo tempo?»
«Lo sai, il perché! – la sua voce è più alta di un'ottava, e la sento risuonare ovunque intorno a me – Avevo paura, okay?, di essere giudicato e che tu... mi lasciassi. E forse sarò stato egoista, ma avevo troppo bisogno di te per rischiare». I suoi occhi verdi ora bruciano di rabbia e rancore, e sembra quasi surreale che queste emozioni siano rivolte a me.
Sento il rumore di un'automobile solitaria passare proprio fuori dalla stazione. «Ma... perché questo pensiero? Davvero immaginavi che ti avrei lasciato dopo che mi avresti raccontato tutto?»
Sbuffa, e lo sento lasciarsi andare ad una risata sostenuta, ricca di stanchezza e forse un po' di astio. «Non fare l'ipocrita, Lena. Io e te sappiamo benissimo cosa hai pensato; e non dirmi che neanche per un istante non ti è venuto in mente di lasciarmi perdere perché sono troppo incasinato. E che in fin dei conti potrei essere anch'io un assassino, insomma: chi ti può assicurare che io abbia detto la verità? Che non sia riuscito a prendere tutti in giro? – ansima, l'ira nel volto e sulle labbra, che tremano leggermente; sta gridando e io mi costringo a non chiudere gli occhi per la paura – È questo che hai pensato, non è vero?».
«Io...» mi arresto. Come faccio a mentire? A dire che no, sono sempre stata certa di lui, non ho avuto bisogno di consultare Wilson né di interrogare Adam sulla faccenda? Come posso mentire così spudoratamente proprio adesso che lui a deciso di tirar fuori la verità? Abbasso lo sguardo, incapace di sostenere il suo.
«Come pensavo – pronuncia dopo svariati secondi, e subito dopo lo sento tirare sul col naso. Sollevo lo sguardo, per scontrarmi con un paio di occhi lucidi e delusi – tutto quello che chiedo è un po' di sincerità – scuote la testa, sospira e si alza in piedi, così da impedirmi di guardarlo in volto – e io non ti biasimo Lena, okay? Non ti biasimo per niente, perché ho fatto un casino ed è tutta colpa mia ma, cazzo, dopo tutto quello che c'è stato, almeno abbi il coraggio di guardami in faccia e dirmi che ti faccio schifo».
Osservo la sua figura in silenzio. Le sue gambe lunghe, la schiena avvolta da una felpa troppo vecchia, le spalle larghe, la nuca in parte coperta dai ricci ribelli che stasera non sono nascosti sotto uno dei suoi soliti beanie, eppure non sono neanche troppo scompigliati.
«Non mi fai schifo» dico e lo vedo voltarsi un poco, così da permettermi di distinguere il suo profilo.
«Allora che sei venuta a fare?» chiede, la voce più roca del solito, tipica di quando piange ma non vuole darlo a vedere.
«Sono venuta per dirti che ti credo, Harry; che neanche io voglio perderti e che sono convinta che ce la faremo nonostante tutto. E che è vero, hai ragione e ho dubitato di te ma perché non posso lasciare che miei sentimenti comandino da soli, e so che in questo puoi capirmi, non è vero? Ma sono venuta perché a te ci tengo e perché anche se sei nei casini te lo devo, perché neanche tu mi hai abbandonata nel peggiore dei momenti. Sono venuta per tutte le volte che mi hai portata a casa quando non ricordavo più dove fosse, quando non ricordavo più neanche chi fossi tu, e mi hai preso la mano e ti sei presentato di nuovo come la prima volta, e ancora e ancora; e poi perché mi sono innamorata, e a questo non so dare una spiegazione logica, ma spero che basti comunque».
Sono in piedi adesso e stringo la sua mano, inerte, nella mia. I suoi occhi lucidi balenano nei miei e non posso fare a meno di notare il sospiro di sollievo che lascia le sue labbra.
Mi avvicino a lui con cautela, circondo la sua vita con le braccia e appoggio una guancia al suo petto in un abbraccio tanto malinconico quanto liberatorio. Risponde a stento, le sue mani sono appoggiate ai miei fianchi con estrema cautela e adesso, finalmente capisco: che Harry, quando mi sfiora, e trema, e esita, non ha paura per sé. Ha paura di farmi del male come il male che crede di aver fatto un anno fa. I tentennamenti, i pianti ed i rifiuti avevano tutti un fondamento comune, e rispondevano tutti ad un solo nome: Rachel. Sospiro e mi avvicino di più, per fargli capire che io non ho paura, che può stringermi quanto vuole perché so che non può farmi del male.
«Mi sei mancato» sussurro, rivolta al suo sorriso ammaccato e triste che, a discapito del resto, compare comunque.
«Non credevo fosse possibile, considerata la scena penosa alla quale ti ho costretta ad assistere due settimane fa».
Scuoto la testa. «Non è un problema – gli rivolgo un sorriso sincero – detto tra noi, non vedevo l'ora che dessi di matto anche tu. Così io mi sento più... normale, sai?»
Ride piano e scioglie l'abbraccio, prima di sedersi per terra. «Di certo in questi giorni mi sento più matto che mai – dice, gli avambracci poggiati sulle ginocchia e le gambe incrociate – con le sedute giornaliere da Wilson e tutti gli antidepressivi che mi ha prescritto».
Mi siedo accanto a lui. «Lui ti ha dato... cosa?!»
Annuisce, come per confermare. «Ne avevo bisogno – mi guarda negli occhi, in un'espressione incredibilmente seria – non voglio diventare dipendente da questa roba, Len. Ma per adesso ne ho veramente bisogno. Sono stanco di non avere il controllo del mio corpo, non voglio più avere crolli emotivi».
Serro le labbra in un sorriso breve. «Suppongo che dovremo fidarci di Wilson, allora».
Mi guarda, e lo vedo sorridere davvero per la prima volta. «Io mi fido già da tempo; quando comincerai tu?» dice.
E a questo non ho il tempo di rispondere, perché mi bacia.
E ci sono ancora tante cose da dire, tante questioni in sospeso, tanti perché da chiedere e tanti rimproveri da fare. Ma per adesso va bene così.




Note.
Ebbene sì, sono ancora viva! Come ho scritto nelle note precedenti, che forse non tutti avete letto, sono stata via tre settimane per cui è stato impossibile per me postare.
Considerata l'importanza del capitolo scorso, e il tempo che è passato, se devo essere sincera speravo in qualche recensione in più... mi piacerebbe sapere che ne pensate del segreto di Harry, se credete sia qualcosa di stupido o troppo scontato o che so io!
Ad ogni modo, questo capitolo non avrà un'anteprima del prossimo perché - ahimè - non l'ho ancora scritto, però presto posterò una os che avrà come protagonisti Wilson ed Harry, per cui non disperate, organizzerò meglio il mio tempo (:
Detto questo, spero che stiate passando delle belle vacanze. Le mie, fin'ora, sono state meravigliose.

Un bacio!
Carla
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Capitolo 23
*** Spezzati ***



Sento spesso il bisogno di ruminare il passato e di rendere digeribile il presente con quel condimento.
- F. Nietzsche

 

C'è sempre un che di misterioso e agghiacciante in un cielo plumbeo di Aprile. Il presagio di pioggia è visibile in quelle nuvole grigiastre e nell'aria umida e scura, eppure c'è una parte di me che dubita l'avvento di qualsiasi tipo di precipitazione.
La strada sulla quale si affaccia l'ufficio del dottor Wilson è sempre silenziosa e poco trafficata, l'eco lontano del motore e dei pneumatici sull'asfalto proveniente da qualche altra via.
Il muro al quale sono appoggiata è freddo, nonostante la felpa che io indossi faccia da tramite tra la mia pelle e superficie ruvida dell'edificio alle mie spalle. Il palazzo, quattro piani più terrazza, è il più alto di tutta Holmes Chapel: dall'ultimo piano si possono contare bene tutti i tetti delle piccole case in mattone rosso della città, ci si sente come su di un grattacielo – in versione ridotta, ovviamente.
Penso che non sono mai stata su un grattacielo, di quelli importanti, intendo: francamente non so se un'esperienza del genere potrebbe piacermi, o se ne sarei terrificata. Se ci penso bene in effetti, conoscendomi, in una situazione simile potrei facilmente scoprire solo le vertigini.
Il portoncino del palazzo, a pochi metri da me, si apre con uno scatto, ed io, istintivamente, mi volto da quella parte e sorrido.
«Che ci fai qui?» è la domanda confusa di Harry mentre mi raggiunge, accompagnata da un paio di sopracciglia aggrottate ma un sorriso – che sembra – piacevolmente sorpreso.
Sollevo le spalle, innocentemente. «Passavo di qui, e ho ricordato che mi avevi detto di avere un appuntamento con Wilson questo pomeriggio. Ho pensato che avremmo potuto fare una passeggiata... Avevi altro da fare?».
Il suo sguardo s'illumina in un istante e scuote la testa, prima di sorridere ampiamente. «No, no! Mi fa piacere – la sua mano scivola lentamente per trovare la mia – ero solo sorpreso, tutto qui. Allora, dove vuoi andare?».
Faccio spallucce, indecisa, e, dopo essermi guardata intorno per qualche istante, «Di là!», indico la strada alla nostra destra che porta alla periferia della città.
Lui annuisce e ci avviamo in silenzio in quella direzione, le mani intrecciate dentro la tasca della sua felpa e il passo lento, come a voler diradare ogni istante del nostro pomeriggio.
Penso che da lontano, visti da un estraneo che non ha mai avuto niente a che fare con nessuno dei due, dobbiamo sembrare proprio una coppia normale; di quelle che si siedono in un bar e ordinano due cioccolate calde con panna, che si accoccolano sul divano di fronte ad un film qualsiasi, che litigano per stupidaggini e il sabato sera, quando tornano a casa, devono fare piano per non svegliare i genitori e beccarsi una strigliata.
Ma a pensarci bene, poi, tutte le coppie da lontano sembrano normali: e nessuno può mai sapere quali segreti e quali dolori si celano sotto la pelle, tra dieci dita unite con più o meno fragilità. E magari, di coppie "normali" non ne esistono, perché abbiamo tutti paure, segreti e scheletri nell'armadio che fanno rabbrividire, e siamo tutti un po' spezzati.
«Com'è andata da Wilson?» domando mentre imbocchiamo una stradina laterale.
Harry sospira. «Come sempre – dice, con fare pensieroso – continua a pensare che sia meglio che lo veda tutti i giorni, almeno per le prossime due settimane».
Annuisco, piano. «E tu... che ne pensi?» chiedo, avendo avvertito una nota di stanchezza nella sua voce.
«Non granché. A dire il vero speravo in un altro esito, considerato che mi sta imbottendo di antidepressivi in questi giorni; non potrei far del male ad una mosca neanche se volessi» ride, forse col tentativo di sdrammatizzare un discorso che sembra quasi surreale alle mie orecchie.
«Suppongo che voglia accompagnare i farmaci con una terapia intensiva» ipotizzo, facendo spallucce. L'idea che Harry sia costretto a prendere quella roba non mi piace per niente, ma so anche che, se Wilson ha deciso di prescriverli per lui, dovevano essere strettamente necessari – e quest'ultimo pensiero mi piace ancor meno.
Harry si lascia andare ad un breve sospiro. «Lo so – ammette – ma gli ultimi test a scuola sono tra qualche settimana e speravo di poter studiare, in questi giorni. Se non prendo almeno una C in Geografia, Chimica, Storia e Letteratura, mi toccherà ripetere l'anno».
Aggrotto le sopracciglia. «Davvero sei a rischio bocciatura?».
Solleva le spalle. «L'ultimo mese ho perso troppe lezioni, visto che il mio corpo ha allegramente deciso di farmi andare in esaurimento nervoso – ridacchia leggermente – e poi, lo sai, non sono mai stato uno studente modello. Speravo di potermela cavare, più che altro perché sono stufo del liceo. Ma va beh... amen».
«Io posso aiutarti» dico, appena dopo qualche attimo di silenzio.
«No guarda, non devi-»
«Ascolta: anch'io devo fare quei test. Possiamo studiare insieme. Non sarò una mente, e dopo tutto rischio anch'io di essere rimandata in qualche materia, ma se ci mettiamo di impegno tutti e due possiamo farcela».
«Sei veramente un angelo – Harry mi guarda e sorride, prima di chinarsi nella mia direzione e lasciare un bacio sulle mie labbra – e poi è impossibile che ti boccino in qualcosa, sei troppo intelligente».
Sorrido lusingata, avvertendo le guance arrossire un poco. «Dimentichi i miei impedimenti» gli faccio presente, ticchettando con un dito sulla mia tempia.
Solleva gli occhi al cielo. «Le amnesie sono praticamente svanite, Len: spaccherai a quei test. Farai meglio a scegliere un'università in fretta» sorride, stringendo più forte la mia mano nella sua.
Stringo le labbra. «E tu, che vuoi fare dopo il diploma?».
«L'università non fa per me – solleva le spalle, un po' incerto – Credo che lavorerò a tempo pieno in libreria, se mia zia è d'accordo. Devo ripagare i miei per tutte le cure dell'ultimo mese; mio padre ha dovuto fare gli straordinari a lavoro per poter comprare quelle maledette medicine. Glielo devo, come minimo».
Annuisco. Non posso fare a meno di pesare a cosa ne sarà di noi due, una volta che io comincerò l'università da qualche parte. A dire il vero, una mezza idea ce l'ho già (anche se non ho ancora avuto il coraggio di confessarla a qualcuno), ma sono ben lungi dall'essere certa al cento per cento che sia questa la strada giusta per me.
Io e Harry non parliamo mai del futuro: forse perché, dalle nostre esperienze personali, abbiamo imparato che è una cosa imprevedibile e che è inutile fare qualsiasi tipo di progetto, o forse perché abbiamo capito che la vita è una cosa talmente labile che preoccuparsi di ciò che viene "poi" è solo uno spreco di tempo.
«Ti va di accompagnarmi in un posto?» domando, di punto in bianco, spiando la sua espressione con la coda dell'occhio.
Lui sembra per un attimo pensieroso. «Certo. Dove?»
Non rispondo, piuttosto comincio ad avviarmi nella direzione del piccolo crocifisso in lontananza. Quando arriviamo alla cancellata, siamo costretti a scavalcare perché il comune non ha ancora nominato il nuovo custode, quindi ci facciamo strada tra l'erba troppo alta e Harry, che ha capito, mi stringe la mano con più forza del solito.
La lapide piccolina di Jonah Hawkins è proprio in fondo, quindi superiamo tutte le altre pietre ricoperte di muschio e vecchiaia, per poi giungere ad una pietra più nuova, ancora non contaminata dalla tristezza acerba del posto; ci sediamo per terra.
Sollevo un angolo delle labbra, in un sorriso forzato. «Ciao Jonah» sussurro, e al mio fianco sento Harry che s'irrigidisce. «Scusa, ma ho pensato che era da molto che non venivo qui. Spero non ti dispiaccia» aggiungo, stavolta rivolgendomi al ragazzo che mi sta accanto.
Scuote lentamente la testa, appoggiando una mano sulla mia gamba. «Non mi dispiace...» dice soltato, eppure avverto la sua voce sospesa a mezz'aria, proprio all'inizio di una frase repressa.
«Sai – dico, dopo essermi lasciata andare ad un lieve sospiro – quando è successo ho smesso di parlare, per qualche settimana. Non riuscivo a smettere di incolparmi per quello che era capitato...»
Aggrotta le sopracciglia. «Tuo fratello è caduto giù da un dirupo. Come avrebbe potuto essere colpa tua?»
«Avrei potuto fermarlo. Pensavo che... in qualche modo, potesse essere anche colpa mia. Non dormivo la notte, non facevo altro che pensare che se non fossi stata ferma con le mani in mano, il mio fratellino avrebbe ancora potuto essere accanto a me. Quel senso di colpa, così lacerante... è stata una delle ragioni per cui sono finita nel baratro. Ma poi ho parlato con mio padre, e mi ha fatto capire che se io avrei potuto fermarlo, i miei avrebbero potuto educarlo meglio da piccolo in modo che non fosse così indisciplinato; e le autorità avrebbero potuto costruire delle barriere più sicure. La colpa è un po' di tutti e un po' di nessuno» sollevo le spalle, sforzandomi di trattenere le lacrime. Non voglio essere insensibile, solo... forte. «Io lo so che sei ancora convinto che la colpa sia tua. E forse un po' lo è visto che hai influito sugli eventi di quella notte. Ma non avevi tu quel coltello, non sei stato a guardare e basta, hai fatto di tutto perché si fermassero, semplicemente non ci sei riuscito. Non l'hai uccisa tu, Harry. E lo sai».
«Perché mi dici questo?» la sua voce trema leggermente, lo sguardo fisso sui caratteri scuri incisi nella pietra bianca di fronte a noi.
Sospiro. «Perché so come la pensi; e so che anche se dici che è tutto a posto non è davvero così, che ci sono ancora pensieri brutti e fantasmi che t'inseguono – prendo la sua mano nella mia, stringendola con delicatezza – e non mi piace vedere tutto questo, perché se c'è una cosa che ho imparato da Wilson è che non c'è niente di male a voler stare bene».
Respira piano e cautamente, prima di tirare su col naso. «Io non...»
«La sai una cosa? – lo interrompo di scatto, il tono determinato e la stretta delle nostre mani sempre più serrata – tu mi hai fatta guarire. Per un po' ho cercato di negarlo a me stessa perché credevo che stare con te significasse dimenticare per sempre Jonah, e questo mi spaventava – guardo la lapide di fronte a noi – ma tu sei il motivo principale per cui ho smesso di avere quelle amnesie, e grazie al quale ho capito che restare ancorata al passato non mi rendeva più vicina a mio fratello, ma mi distruggeva e basta».
Cerco il suo sguardo, e per un istante, uno solo, riesco a coglierlo, prima che si perda di nuovo da qualche altra parte. Inspira ed espira profondamente, per poi scuotere la testa più volte.
«Aveva gli occhi blu, sai? – dice dopo svariati istanti, cogliendomi completamente alla sprovvista – Rachel, intendo. Di un blu profondissimo, come il mare che vedi quando sei in crociera (non che io sia mai stato in crociera) e il cielo quando si fa buio e riesci a distinguere perfettamente le stelle. Non li ho visti, io, quella sera, perché era troppo buio: me ne sono accorto solo guardando la foto che hanno fatto vedere al telegiorale, dei suoi occhi bellissimi, quando hanno annunciato che quella ragazza era stata assassinata da un gruppo di ragazzi sotto l'effetto di stupefacenti – si ferma, e sento la sua voce spezzarsi – Come faccio a dimenticare tutto questo, Lena?»
Lo osservo incerta, il respiro affannato e triste, eppure in qualche modo... calmo. Anche in una situazione del genere, non riesco ad essere grata per gli antidepressivi: preferirei vederlo scalciare e gridare piuttosto che osservarlo piangere e basta, perché è l'unico modo che ha di sfogarsi, imprigionato in quest'ovatta di sedativi. Gli accarezzo una guancia, asciugando l'unica lacrima solitaria che è riuscita a sfuggire al mare dei suoi occhi.
«Lo so che non si può dimenticare – dico piano, annuendo – ma so anche, anzi ne sono sicura, che puoi perdonarti. E sarà lungo e difficile, ma ci siamo io ed il dottor Wilson e tutti gli altri. Va bene?»
Solleva un angolo delle labbra. Prima che possa renderemene conto, sono stretta al suo petto in un abbraccio mozzafiato, e sento il suo cuore che batte forte sulla mia guancia. E così, a mezza voce, con il respiro soffocato dal materiale della mia felpa, lo sento pronunciare parole sottili e sommesse.
«Ho deciso che ti amo».

 


Note.
Suppongo che chiedere scusa immenso per l'assenza infinita sia troppo poco, giusto? Non cerco neanche di giustificarmi, voglio solo dire che mi dispiace davvero tanto e prometto di impegnarmi a finire il più presto possibile!
Detto questo, scusate per il capitolo un po' cortino: non è il miglior modo di ritornare dopo più di un mese, ma ho preferito che questo capitolo fosse incentrato su Lena e Harry piuttosto che aggiungerci altre cose. Il risultato è un capitolo che non è uno dei miei migliori, ma mi rifarò, promesso.
Vorrei ringraziare quei quattro gatti che saranno rimasti qui a leggere dopo la mia assenza infinita........ se ci siete ahah.
Nel caso sia ancora rimasto qualcuno a leggere questa storia, ho postato una os/missing moment che ha come protagonisti Wilson e Harry, se volete leggerla cliccate qui: Simple pleasures.
Fatemi sapere se questo capitolo vi è piaciuto/vi ha fatto schifo. Un bacio!
Carla
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Capitolo 24
*** Di porcellana ***



 

 

«Sicura che non sia troppo esagerato?»
Sorrido con gentilezza, poi scuto la testa nuovamente. «Sta' tranquillo, Yurim – dico, e accompagno le mie parole con un'amichevole pacca sulla spalla – è perfetto».
Il ragazzo assottiglia lo sguardo, soffermandosi un'ultima volta ad esaminare l'abito sostenuto dalla gruccia che aveva in mano. Si tratta di un completo costituito da giacca e pantaloni neri, più un papillon dello stesso colore: estremamente semplice, e per questo anche estremamente chic, forse tanto da far preoccupare il ragazzo di strafare.
«Il ballo scolastico è comunque qualcosa di elegante – dico – non devi preoccuparti di sembrare un idiota. Lo saranno un po' tutti» sorrido e lui si lascia scappare una leggera risata.
«Lo so, è che davvero non sono pratico di queste cose; e non vorrei far brutta figura con Taylor» nel sentirgli pronunciare l'ultimo nome scorgo un colorito più roseo sulle sue guance, e non posso fare a meno d'intenerirmi. Non ho mai avuto un vero e proprio rapporto d'amicizia con Yurim, o meglio non come quello che sono riuscita ad instaurare con Taylor, Jean e – anche se in maniera più controversa – Adam, un po' per via della sua età e un po' perché, nonostante sembri sempre aperto e disponibile con tutti, dalla battuta pronta, in fondo è un ragazzo molto timido. Per questo motivo non ho nascosto la mia sorpresa nel momento in cui mi ha chiesto di dargli una mano a scegliere il vestito da indossare al ballo scolastico di fine anno, al quale andrà con Taylor.
«Ma che dici – lo rassicuro, con un sorriso – La conosci Taylor, no? Non fa proprio caso a queste cose. Vuole solo trascorrere una bella serata insieme a te e divertirsi».
Annuisce. «Hai ragione. Allora prendo questo» solleva la gruccia che ha per le mani e, dopo aver richiamato l'attenzione del commesso, chiede di poter pagare.
«Grazie mille per tutto, Len – esordisce una decina di minuti più tardi, mentre camminiamo insieme sul marciapiede, lui con in mano una gigantesca busta contenente il vestito appena affittato – non sapevo proprio a chi altri chiedere. Sei l'unica persona di buon gusto che conosco».
Gli sorrido, lusingata. «Nessun disturbo. Anzi, mi ha fatto piacere accompagnarti» dico sincera.
«A dire il vero avevo pensato di chiedere ad Harry. Ma, a dire la verità, sono ancora un po' spaventato da lui» ridacchia, e io, gli occhi strabuzzati, lo seguo, divertita dall'ilarità della situazione.
«Non c'è da spaventarsi, sul serio – scuoto la testa seria, ma anche comprensiva, perché effettivamente Yurim non ha tutti i torti – ad Harry piace stare un po' sulle sue, ma sa anche essere gentile, a volte. In ogni caso non so quanto sarebbe potuto esserti d'aiuto nella scelta di un vestito per il ballo, considerato che questa non è esattamente la sua specialità».
A discapito del rapporto costruito (accidentato), non mi sento in grado di poter dire se, di fronte ad una richiesta del genere da parte di Yurim, Harry l'avrebbe aiutato di buon grado, o se piuttosto sarebbe rimasto il solito scorbutico annoiato, finendo col mandare a quel paese il povero ragazzo e il suo stupido ballo. Personalmente, mi piace pensare che negli ultimi mesi qualcosa sia cambiato, e che la sua reazione sarebbe stata la prima – se non altro, per merito dei numerosi sedativi con i quali è costretto ad imbottirsi ogni giorno.
Yurim aggrotta le sopracciglia. «Beh, Harry dovrà comunque affittare un vestito per sé, no?» chiede, ma io scuoto la testa prontamente. «Ne ha già uno?» domanda allora.
«Io e Harry non veniamo al ballo» dico, provocando una reazione di sorpresa inaspettata negli occhi del mio interlocutore.
«Sei sicura? È il vostro ultimo anno... davvero volete perdervelo?»
Sollevo le spalle, noncurante. «Non ci teniamo poi così tanto... E poi questo potrebbe anche non essere il nostro ultimo anno, se non ci mettiamo sotto con lo studio» scherzo.
Yurim scuote la testa, incredulo. «Fammi capire: davvero state rinunciando a questa serata per... studiare? Andiamo, anche i peggiori secchioni della scuola verranno!»
«Tecnicamente dobbiamo anche lavorare – preciso io – abbiamo entrambi il turno alla libreria di sera perché la zia di Harry ha l'influenza, e dopo aver chiuso lì andiamo da me per studiare» spiego.
Ride piano. «Che serata interessante» commenta con fare ironico, mentre io mi stringo nelle spalle. «Sei sicura che quello che mi hai raccontato non sia piuttosto l'alibi di un programma più... piccante?» scherza, e stavolta è il mio turno di arrossire.
«Sicura» dico piuttosto imbarazzata, portandomi una ciocca di capelli all'indietro.
Sicura perché, e questo Yurim non lo sa, io e Harry non siamo mai andati oltre le carezze. Sicura perché, anche se sta migliorando e stiamo crescendo, lui sente comunque il peso del passato non appena ci spingiamo più in là, se, per istinto naturale o per abitudine, mi tocca in maniera meno casta del solito.
Sono una bambola di porcellana.
«Tu, piuttosto, trattami bene Taylor»
Lui annuisce e, in un sorriso imbarazzato, ammette: «Lei mi piace molto. So di essere più piccolo, però...»
Sbuffo con forza. «Ancora con questa storia? Te l'ho già detto, non hai di che preoccuparti. Ti fai troppe paranoie; e non dovresti, considerato che Taylor è già un tipo insicuro di suo».
Annuisce, abbassando lo sguardo verso l'asfalto. «A proposito... Sai che le prende ultimamente?» mi domanda, improvvisamente fattosi più serio. Gli rivolgo uno sguardo interrogativo, suggerendogli di continuare. «Non so... La vedo sempre inquieta, e mangia sempre meno. So che non si sente a suo agio con il proprio corpo, ma non credo sia questa la strada giusta; e non so cosa dirle. Non è che tu ne sai qualcosa?».
M'irrigidisco di scatto, gli occhi puntati sulla strada di fronte a noi. «No – biascico poco convinta, rivolgendomi verso di lui – non ne so proprio niente».



«Ciao principessa»
Sorrido alla cornetta al suono della voce familiare e a quel saluto che nonostante il tempo, nonostante tutto, è rimasto quello di anni fa.
«Ciao papà – lo saluto con calore, spostando il telefono dall'orecchio sinistro a quello destro, per poi buttarmi sul letto a peso morto – come stai?»
«Tutto bene. Un po' stanco, però» risponde la voce di mio padre dall'altra parte.
Annuisco, comprensiva. «Il lavoro?» chiedo.
«Sì, è un periodo molto pieno – spiega con una nota di stanchezza nella voce, poi sospira e, seppur dall'altra parte, sento il suo tono alleggerirsi da tutte le preoccupazioni e i pensieri che non riguardano questo momento – Ma non parliamo di me. Tu come stai, dolcezza?»
Sollevo le spalle. Come sto?
«Anche io un po' stanca» dico, credendo che quest'affermazione sia più o meno simile alla verità. La verità, ammetto tra me e me, è che ormai da un po' di tempo ho smesso di domandarmi come sto.
«Colpa della scuola?» ipotizza lui, e io sospiro.
«Anche – dico – devo recuperare alcune materie prima della fine, per cui ho tanto da studiare»
«Tranquilla, sono sicuro che riuscirai a riparare tutto. Sei sempre stata una studentessa modello – sorrido istintivamente alla sua affermazione: com'è palese che quest'ultimo anno l'abbiamo passato lontani – La mamma come sta?»
Resto qualche istante ad ascoltare il suo respiro regolare, mentre osservo il quadro appeso alla parete di fronte a me, il quale raffigura due ballerine in tutù intente ad esercitarsi in una sala da ballo, elegantissime. Ho sempre adorato quel quadro. «Bene, suppongo» dico infine, cercando di essere il più sincera possibile.
«Suppongo?» domanda lui a sua volta, con un tono a metà tra il curioso e l'apprensivo.
Sollevo le spalle. In realtà non c'è niente di cui preoccuparsi, gli rispondo normalmente. «Il fatto è che non ci vediamo spesso. Io non passo molto tempo in casa, e quando ci sono lei è sempre a lavoro, e la sera ogni tanto esce con quel tipo del supermercato» spiego.
«Tua madre si sta vedendo con qualcuno?»
Sollevo le spalle. «Si chiama Julian, credo. Sembra una brava persona, anche se secondo me è un po' troppo giovane per lei»
«Lena» mio padre mi ammonisce, notando il tono piccato nella mia voce. «Non state ancora litigando, vero?»
Sospiro, giocherellando con una ciocca dei miei capelli. «No... litigando no. Semplicemente non ci parliamo» preciso.
Dall'altra parte, avverto il suo respiro farsi più pesante «Lena-»
«Papà – gli impedisco di continuare, perché conosco già a memoria ciò che segue – lo so che ognuno reagisce a modo proprio. So anche che sia tu che mamma mi volete bene incondizionatamente, e che entrambi state ancora soffrendo molto, anche se in modi diversi. Solo che... è difficile con lei».
«Lo capisco, tesoro».
«Io credo che abbiamo entrambe bisogno di una pausa, l'una dall'altra. Se andiamo avanti così non faremo altro che farci del male a vicenda. Ma io le voglio bene, davvero. Solo... sento la necessità di una tregua».
«Che intendi dire?» chiede, curioso.
Chiudo gli occhi un istante, prima di prendere un lungo respiro. «Vorrei fare domanda per entrare all'università di Dover – resto un attimo in silenzio, ascoltando il suo respiro che, da regolare, si blocca all'improvviso – Voglio venire a vivere con te, papà».



«Puoi spiegarmi la ragione per cui quest'idiota dovrebbe scrivere un libro di cucina? E, soprattuto, per quale assurdo motivo mia zia deve venderlo qui dentro?»
Nel sistemare l'ultimo volume sullo scaffale, mi lascio andare ad un lungo sospiro. Osservo con soddisfazione gli scatoloni vuoti ai miei piedi e li prendo, per poi dirigermi nella stanza successiva, dove un Harry seduto per terra a gambe incrociate è intento a sfogliare con aria disgustata uno dei tanti libri.
«Forse perché questa è una libreria... e qui si vendono libri» dico divertita, abbandonando gli scatoloni vuoti da una parte, per poi chinarmi su quelli ancora pieni di Harry.
Quest'ultimo, distratto dal mio arrivo, fa vagare il suo sguardo da me, agli scatoloni vuoti che ho depositato poco fa lontano da lui, ai suoi ancora stracolmi di merce. «Ehi, come hai fatto a finire così in fretta?»
Roteo gli occhi al cielo. «Io non mi trastullo come invece fai tu» dico prendendo il libro che mi sta passando, per poi allinearlo con gli altri sullo scaffale.
Osservo la sua espressione annoiata. «Se ti dessi una mossa potremmo anche chiudere prima e metterci a studiare» gli ricordo, provocando in lui una smorfia disgustata.
«Possiamo almeno fare storia? Biologia mi dà seriamente la nausea» propone, e io annuisco con fare accondiscendente.
Gli ultimi giorni si assomigliano moltissimo, tra di loro. Tutto quello che io ed Harry facciamo è andare a scuola, poi in libreria insieme – eccetto quando uno dei due ha una seduta da Wilson – e infine da qualche parte a studiare una delle tante materie che dobbiamo recuperare.
Si potrebbe dire che giornate del genere siano noiose, ma la verità è che, in questo momento, ho bisogno solo di questo.
«Harry?» domando, mentre rientra in libreria, dopo aver gettato gli scatoloni ormai vuoti nel cassonetto di fronte.
«Mhm?» è la sua risposta distratta, mentre si siede al computer per digitare qualcosa. Mi appoggio con i gomiti al suo tavolo, e per un po' lo osservo lavorare in silenzio, prima di parlare.
«Avresti voluto andare al ballo della scuola, questa sera?»
«Eh?» chiede, restando però concentrato sullo schermo del computer.
Sospiro, sollevando un angolo delle labbra in un mezzo sorriso. «Stasera volevi andare al ballo?» ripeto, con più enfasi nella voce.
Lui stavolta solleva il capo e mi rivolge il proprio sguardo, curioso, prima di inarcare un sopracciglio. «Perché questa domanda?» chiede, prima di chiudere una finestra con il mouse e alzarsi dalla sua postazione. Fa il giro in modo da essermi vicino, e si appoggia alla scrivania con il bacino, le braccia incrociate al petto.
Sollevo le spalle, osservando la superficie liscia del tavolo al quale sono appoggiata. «Non so, dato che non ne abbiamo parlato... Io ho dato per scontato che tu non volessi andare, visto che neanche a me interessava. Non volevo fare la despota e decidere per te, solo che-»
Il mio discorso viene interrotto dalla sua risata, ed io sollevo lo sguardo, per poi vederlo, i ricci schiacciati sotto al suo solito beanie grigio topo, che ride di gusto.
«Che c'è?» chiedo, piccata.
Lui mi sorride. «Davvero credi che mi potesse interessare una stronzata del genere? Mi diverto molto di più da solo con te e la rivoluzione industriale, piuttosto che in mezzo a quel branco di pecore a ballare canzoni melense e noiose». A queste ultime parole mi prende per mano e, con una manovra poco elegante, mi costringe a fare una piroetta alquanto goffa, per poi avvicinarmi a sé. 
«Che gran ballerino» commento ironica, prima di lasciare che le nostre labbra s'incontrino con tenerezza.
«Te l'ho detto» ride piano sollevando le spalle e mi abbraccia, lasciando che appoggi la testa sul suo petto. Mi stringo a lui, tra le sue braccia comode, beandomi del ritmo del suo cuore contro la mia guancia.
Credo che siano proprio questi momenti, quelli che fanno sì che ne valga la pena. Rinunciare al ballo, restare serate intere a impilare libri su libri, tenerci per mano solo quando è strettamente necessario, studiare fino a tardi formule che tra qualche mese non riconosceremo più, seduti sul mio letto con la sola lampada da studio accesa, e parlare piano per non svegliare mia madre che, nella stanza accanto, dorme già da qualche ora. Ne vale la pena, essere quelli che «E chi lo avrebbe mai detto?», trovare l'equilibrio millimetrico perfetto al vertice di un triangolo, e tenerci stretti perché, se cadiamo, tanto vale cadere insieme.
La paura, i rimpianti, e i dolorosi se sono sopportabili quando alla fine possiamo ritrovarci così, silenziosi ad ascoltare la musica dei nostri respiri.
Il rumore di una breve suoneria interrompe la quiete che regna nella stanza. Lui, senza sciogliere l'abbraccio, con una mano recupera il cellulare dalla scrivania per leggere il messaggio ricevuto. E, proprio mentre mi sento cullata dal suo corpo, quest'ultimo si irrigidisce.
Sollevo lo sguardo con fare indagatorio, per incontrare il suo, un po' perso.
«Harry? – lo richiamo, le sopracciglia aggrottate e l'aria confusa – Che succede?»
Resto in attesa, mentre il suo petto si gonfia in un respiro teso. «È il mio avvocato – spiega – dice che devo andare a Manchester, giovedì»
«E per quale motivo?» chiedo, accigliata.
Solleva le spalle, prima di parlare con estrema lentezza, una mano sulla nuca e un respiro bloccato. «Adesso che sono maggiorenne, i servizi sociali smetteranno di farmi visita ogni due mesi. Devo andare a firmare gli ultimi documenti».
Spalanco gli occhi. «Ma è fantastico, no? – sorrido, stringendolo di più dalla vita – dopo questo sarai libero».
Abbozza un sorriso, mentre mi guarda. «Suppongo di sì – dice, lasciandosi andare ad un sospiro leggero – è solo che... è sempre un po' difficile tornare lì».
«Voglio venire con te» dico, di punto in bianco.
«Cosa? – aggrotta le sopracciglia, poi scuote la testa – Non è necessario, devo solo firmare qualche documento».
Sollevo le spalle, poi gli sorrido debolmente. Per qualche motivo, non sembra essere contento quanto me di quella che, in fin dei conti, è proprio una bella notizia; e qualcosa mi dice che ha bisogno di un supporto. «Voglio esserci, quando firmerai. Ci pensi? È l'ultimo sforzo Harry, l'ultimo e dopo non dovrai più preoccuparti».
Resta in silenzio, mentre mi guarda parlare. Alla fine non si oppone, non ribatte, semplicemente si avvicina e mi bacia.

 




Note.
Salve! Immagino che a questo punto sia inutile trovare giustificazioni e spiegarvi che la colpa dell'immenso ritardo è da attribuire a scuola/patente/progetti vari/niente ispirazione; più che altro mi scuso con tutti voi per avervi fatto aspettare così tanto. Non voglio fare promesse vane, piuttosto mi impegno a finire la storia il più presto possibile, impegni e ispirazione permettendo, ovviamente! Dopo questo, mancano soltanto altri due capitoli più l'epilogo alla fine della storia.
Volevo ringraziarvi tantissimo, perché mi dimostrate in tutti i modi che questa storia continua a piacervi, tramite fb o ask, e questa cosa mi fa davvero tanto tanto piacere. 
Sul capitolo: è un po' un capitolo di passaggio, i prossimi saranno sicuramente più intensi, però c'è un elemento molto importante. Lena ha preso una decisione definitiva circa l'università, anche se ancora l'unico a saperlo è suo padre.
Spero che, nonostante tutto, il capitolo vi sia piaciuto, e che stiate trascorrendo delle buone feste con i vostri cari.
Un bacio
Carla
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