It's a cold and it's a broken Halleluja

di DanielleNovak221
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nothing better from God ***
Capitolo 2: *** Progress ***
Capitolo 3: *** ... Makes you wish you were dead ***
Capitolo 4: *** Flashbacks ***
Capitolo 5: *** the Past ***
Capitolo 6: *** So... confused! ***
Capitolo 7: *** Just to see you ***
Capitolo 8: *** Decisions ***
Capitolo 9: *** Opening eyes ***
Capitolo 10: *** What about angels? ***
Capitolo 11: *** Step back ***
Capitolo 12: *** Runaways ***



Capitolo 1
*** Nothing better from God ***


Dean non aprì gli occhi. Sapeva che quello che avrebbe trovato nel mondo non sarebbe stato nulla di buono.

Già solo per il fatto che l'aria era satura di disinfettante e faceva decisamente troppo caldo, era inequivocabile che l'incidente e lo stato comatoso in cui si trovava non erano stati un brutto e lunghissimo incubo.

Era in un ospedale, questa notizia non era nuova. Quanto tempo sarà rimasto in coma, due ore? Una settimana? Se si fosse svegliato il trambusto di dottori ed infermiere sarebbe stato tale da fargli desiderare di essersi liquefatto nell'incidente come suo padre, cosa a cui, apparentemente, era andato molto vicino.

Ha sentito Sammy dirlo, il giorno in cui gli aveva raccontato di essere bloccato su una sedia a rotelle con un braccio ed una gamba ingessati, sei costole incrinate ed il peso del lutto sullo stomaco.

Dean era sempre nel suo stato vegetativo-inattivo, ma i suoi sensi erano stranamente funzionanti, o perlomeno, l'udito lo era. Era solo questione di concentrazione, se si focalizzava abbastanza, arrivava ad afferrare intere conversazioni.

Sapeva di aver pianto, quando gli avevano riferito che John non ce l'aveva fatta. Ricordava anche l'infermiere che gli aveva tamponato il viso e la sua voce esageratamente apprensiva che tentava di consolare un Sam letteralmente sconvolto, catalogando le grosse lacrime come nientemeno che un riflesso incondizionato del coma vigile.

Riflesso incondizionato un corno, imbecille! Aspetta solo che mi rimetta in piedi e quel fazzoletto te lo metto...” poi gli avevano rifilato una dose massiccia di calmanti perché la macchina accanto al letto aveva cominciato a bippare forsennatamente come se stesse traducendo in Morse le sue parole enfatizzandone la frustrazione.

Ora che si era svegliato anche il suono più lieve gli rimbombava nelle orecchie come uno sparo, gli odori di quel posto orrendo erano penetranti al punto da soffocarlo e fargli lacrimare ancora gli occhi. Il tampone che continuava a picchiettargli la faccia regalava la piacevole sensazione di una serie di mattonate sugli zigomi.

Okay, Winchester, è ora di alzarsi.

Se lo disse con ferrata convinzione, ma quando decise di aprire gli occhi la sua sicurezza vacillò paurosamente. Uno spiraglio di quella luce bianca ed accecante bastò a convincerlo che non era decisamente pronto per affrontare il mondo di nuovo, e serrò le palpebre facendo ripiombare l'oscurità.

– Accidenti, Dean! Siamo più reattivi del solito! – la voce dell'infermiere (sulla ventina, probabilmente un tirocinante) gli giunse come un coro di trombe da stadio sparate direttamente nel suo orecchio. Inspirò profondamente, il rumore del tubo attaccato al naso ed alle narici risuonò come un sibilo irritato, mentre all'aria della macchina veniva mescolato quell'odore pungente e lacrimogeno di limone ed acido.

La pioggia di meteoriti che si scatenava ogni volta che il tampone gli premeva sul viso sembrò diradarsi, lasciando solo la sensazione della carta che gli accarezzava delicatamente la pelle.

Decisamente, odiava gli ospedali.

Ma era anche vero che più si fingeva una lattuga lessa senza mostrare segni di vita, più a lungo sarebbe rimasto incastrato lì, dove tutto gli ricordava la morte di suo padre ed il motivo per cui era accaduto quel disastro.

Prima di aprire definitivamente gli occhi, Dean aspettò che l'infermiere gli togliesse le mani dalla faccia, cosa che impiegò altri due minuti per accadere. Aveva ripreso coscienza da meno di un quarto d'ora e già ne aveva abbastanza.

Okay, Dean, si disse, adesso o mai più.

Desiderò immediatamente di non averlo fatto.

 

Fu come se i fanali del camion lo stessero investendo di nuovo, travolgendolo con un muro di luce bianca che gli bruciava le cornee fino alla cecità.

Annaspò furiosamente, gli occhi sbarrati all'inverosimile, le dita che artigliavano il lenzuolo nel tentativo di scappare dall'incubo ad occhi aperti che si avvicinava sempre di più in uno stridio di freni e odore di gomma bruciata sull'asfalto, il suono prolungato ed assordante di un clacson, il freddo del vetro che si schiantava contro la sua fronte in un'esplosione di schegge e, infine, il mondo che si capovolgeva e ribaltava nel fango del ciglio della strada. Quando il tubo smise di soffocarlo, riuscì ad urlare tutta la paura che quell'attimo troppo veloce non gli aveva permesso di liberare, e il grumo incandescente di angoscia, panico e solitudine che dall'esatto momento in cui aveva perso conoscenza gli aveva roso lo stomaco si estinse in quell'unico grido.

Era vivo, e vivere era la cosa più dolorosa ed insopportabile che il mondo gli avrebbe mai chiesto di fare.

Ora era Dean Winchester, orfano di entrambi i genitori, bloccato in un letto d'ospedale a rincorrere l'andamento del mondo ormai troppo veloce per le sue gambe malferme, la morte di suo padre sulla coscienza, il destino suo e di suo fratello fra le mani.

Gli bastò una manciata di secondi per pensare tutto ciò, e fu l'arco di tempo peggiore della sua vita, in diciannove anni non si era mai sentito così solo, distrutto, in colpa e desideroso di essere morto al posto di qualcun altro. Non solo era inutile, ma anche colpevole, condannato a rivivere quel suo piccolo inferno personale fino al giorno in cui la morte di suo padre nell'incidente, e quella di sua madre nell'incendio proiettati come cortometraggi nel vuoto delle palpebre ogni volta che le avesse chiuse, non lo avrebbero indotto al suicidio.

Sperava solo che quel giorno non tardasse ad arrivare.

Diavolo, Dean, non pensarci nemmeno. Sammy ha bisogno di te, puoi ancora espiare la tua colpa, prendendoti cura di lui.

Quel pensiero attraversò la sua mente come un lampo, il genere di folgore che illumina il buio fino a rischiararlo completamente dalle tenebre di un temporale.

Si costrinse a respirare piano, nonostante un paio di dottori avessero cominciato le loro manovre , infilando qualcosa nella flebo con una siringa enorme, allentando il respiratore e avvolgendogli uno strap blu intorno al braccio, picchiettandogli sulle dita e sulla fronte per verificare i riflessi, misurare le funzioni vitali e mio Dio, Dean detestava essere toccato, odiava il fatto che quegli estranei gli stessero addosso e gli infilassero le mani ovunque, si sentiva violato, umiliato ed esposto, mentre la maglia gli veniva sbottonata e sfilata ed altri tizi in mascherina gli sondavano il corpo. Un freddo subdolo ed invadente lo fasciò da capo a piedi, lo sbalzo di temperatura gli strinse la gola, gli fece irrigidire i muscoli fino all'ipertensione e gli impediva persino di pensare, il che fu ancora più sconfortante: pensare era l'unica cosa che fino a quel momento era stato in grado di fare.

Mentre il suo corpo veniva tastato, misurato, toccato e maneggiato come se non gli appartenesse più, Dean cominciò , per la prima volta in vita sua, a pregare per davvero.

Pregò Dio che Sam stesse bene. Che tutta quell'agonia finisse. Che il freddo lo ghiacciasse in un'ibernazione vischiosa e lenta sulla quale il mondo esterno non aveva influenza, ma allo stesso tempo, che tutto finisse bene.

Pregò il Dio che prima di quel momento non aveva mai minimamente considerato, di mandargli un angelo.

***

 

Più Dean tentava di muoversi, più i suoi muscoli sembravano non essere intenzionati a collaborare, ed il suo stesso corpo divenne la sua bara.

La stanza in cui era cominciò a muoversi, e mentre ogni sua cellula urlava in preda al caos, alla paura ed alla confusione, fu portato in un altro locale dove altri medici e le loro fottutissime lampade che gli si marchiavano a fuoco nella testa lo invasero come un campo di battaglia.

Il tempo passava, e Dean aveva l'impellente bisogno di reagire. I suoi occhi verdi vagarono impazziti facendosi strada in un labirinto di voci apprensive che gli parlavano come se si stessero rivolgendo a un pesce rosso, che però sembravano finalmente abbinarsi al viso corrispondente.

Quando si aprì uno spiraglio tra quella foresta di braccia, mani, dita e camici bianchi, vide Sam, sulla sua sedia a rotelle, il viso pietrificato dall'orrore, e accanto a lui lo zio Bobby.

L'uomo lo fissava ancora più spaventato ed impotente, l'espressione tradiva la fatica di trattenersi dal sgominare quel gruppo di medici e portarlo via.

– Saaaa... – la sua voce uscì dalla bocca come una sorta di muggito assonnato, ma fu ben chiaro quale nome stesse chiamando.

Una delle dottoresse sorrise fin troppo dolcemente e parlò con voce talmente affettuosa e comprensiva che gli avrebbe fatto venire il diabete: – Ehi, ma che dormiglione! Ricordi che dobbiamo metterci la mano davanti alla bocca quando si sbadiglia, eh? –

Dean sentì una rabbia pulsante rombargli nelle orecchie come un maremoto.

Toglietevi tutti quanti di dosso o giuro che non appena ritornerò interamente funzionante vi piscerò in faccia, EHI, STRONZO LEVA LE MANI DA Lì, e tu odiosa strega indemoniata, non parlarmi come se fossi un povero demente, abbiamo già appurato che se non è sufficiente un camion ad ammazzarmi, posso farti passare un brutto quarto d'ora!

Il tutto riassunto in un unico, lapidario e più che comprensibile: – Levatevi dai coglioni.

La dottoressa, che più di tutti aveva sentito, trattenne il respiro fintamente scandalizzata.

– Avete sentito?

– Ha ripreso in fretta!

– Vai così, Dean!

E da lì un coretto di esclamazioni esaltate e complimenti partirono fino a sommergerlo, ma in un attimo quelle cinque paia di mani lo stavano di nuovo studiando come per prepararlo ad una vivisezione.

Dean sentì ancora la rabbia scaturire sul fondo dello stomaco e salire velocemente alla testa. Avrebbe voluto urlare a tutti di scansarsi e lasciarlo respirare, perché davvero, non ci riusciva (E si chiedono anche perché abbia un apporto scarso di ossigeno nel sangue?! Dove diavolo avete i neuroni?!) ma aveva esaurito le sue capacità vocali in quell'unico, rauco e patetico tentativo di ribellione.

Boccheggiò in preda al panico, sapendo che assillato com'era sarebbe durato ancora poco, finché un dottore non venne trascinato via di peso e spinto lontano.

L'aria ormai assente gli impedì di vedere granchè, ma potè udire una voce imporsi sulle altre con autorità.

– Sta soffocando, lasciatelo respirare!! – l'equipe di medici cominciò a disperdersi.

– Ehi, novellino, – disse uno, riprendendo in mano il fonendoscopio – lasciaci lavorare e tornatene a scuola. –

Ora che c'era più spazio, l'ossigeno si riversò a fiumi nei polmoni di di Dean, e se tutto ciò non lo avesse fatto stare immensamente meglio, avrebbe detto di stare affogando.

Allora Dio lo aveva ascoltato! Grazie, vecchio!

Voltò appena la testa ed immediatamente la voce di SoloUnRiflessoIncondizionato venne collegata al volto dell'infermiere con la tenuta bianca da tirocinante. Non era esattamente l'aiuto che si aspettava dal signore, ma doveva accontentarsi.

– Non vedete che ora che vi siete allontanati ha ripreso a respirare? – esclamò, più preoccupato che arrabbiato. Si avvicinò un po' titubante e schiacciò un bottone sulla macchina accanto al letto, che immediatamente rilasciò altro ossigeno nella gola desertica di Dean.

– Andiamo, Crocerossina Novak, tranquillo che nessuno toccherà il tuo paziente preferito, sono tutti test di protocollo e se avessi fatto i compiti lo sapresti! – lo schernì il medico più giovane, un tizio allampanato e con l'espressione beffarda e maliziosa di chi ha tanto da rinfacciare a qualcuno.

Dean avrebbe voluto dire “Ehi! Dategli ascolto e lasciatemi morire!” ma ovviamente le sue batterie si erano già scaricate e la stanza cominciava a tremolare.

– Dottor Lucifer, non potete negare che abbia ragione. L'attività cardiaca e cerebrale è decisamente migliorata. – borbottò sommessamente un medico panciuto, che fece rapidamente cenno agli altri di andarsene non appena ebbe scribacchiato qualcosa sulla cartellina agganciata al letto.

Dean avrebbe voluto ringraziarlo, ma aveva già abbastanza da ringraziare lo stesso Dio che non aveva mai pregato per averlo degnato di attenzione, e le forze di parlare attualmente non le aveva.

Certo, meglio di così, in fondo! Non aveva energie, non aveva aria, e a giudicare da quanto scarno il suo corpo riflesso nella lamina argentea della parete apparisse, non aveva nemmeno più muscoli, ma era certo di avere una fame assassina.

I dottori vennero congedati dalla sala di terapia intensiva, e dopo che il pancione che aveva dato ragione all'infermiere scambiò due parole con il suo salvatore, anche Sam e Bobby furono costretti ad andarsene.

Dean rimase solo con il tizio del Riflesso Incondizionato, che sembrava essere incredulo di sé stesso e di quello che aveva appena fatto. Trafficò con un altro paio di macchine e regolarizzò il rilascio d'aria nei tubi, alzò leggermente lo schienale del letto e preparò una siringa sul tavolo poco distante, sotto lo sguardo costernato del ragazzo.

Quest'ultimo ne approfittò per guardarlo meglio, ora che la vista si era ristabilizzata: doveva avere uno, al massimo due anni in più di lui, e pareva proprio il classico studente un po' imbranato ma incredibilmente devoto al suo lavoro.

Aveva i capelli neri e scompigliati, e aveva un portamento un po' strano, il mento e lo sguardo proiettati verso l'alto, come i sognatori. Gli occhi azzurri erano accesi in un modo che Dean non aveva mai visto in nessun altro, ma sembravano, soprattutto in quel momento, rilassati e concentrati insieme, a dire il vero quasi un po' persi, come se avesse tanto a cui pensare e tutto ciò che lo teneva legato alla realtà era il suo obbiettivo ed il controllo dello stantuffo della siringa.

Indossava, come tutti i tirocinanti, una semplice divisa bianca composta da pantaloni e maglietta che tradivano leggermente il suo fisico asciutto.

Dean fu beccato in flagrante ad osservarlo, e per un secondo temette di ricevere nient'altro che uno sguardo di rimprovero, che quelle iridi di cobalto avrebbero reso glaciale come l'Antartide. Invece, la sua sfacciataggine fu accolta da un sorriso ampio e sereno.

– Pronto, Dean? – fece Riflesso Incondizionato, portando di nuovo il mento in alto e lo sguardo alle tacche sul cilindro di plastica. Il diretto interessato rimase spaesato per un secondo, colpito dal tono con cui l'infermiere si era a lui rivolto, come se si conoscessero da anni.

Avrebbe annuito, ma ovviamente il suo corpo era ancora immobilizzato. Riuscì a mugolare un qualche strano verso che lo fece sentire terribilmente idiota, e ancor di più la risata del ragazzo. Non gli piacque nemmeno un po' che ridesse delle sue talmente pietose condizioni da non essere nemmeno in grado di comunicare, e se avesse potuto gli avrebbe mollato un ceffone.

L'infermiere si avvicinò brandendo la siringa, e Dean si sentì andare nel panico. Lui odiava le iniezioni, i prelievi, le flebo (era un bene che gliele avessero fatte mentre era in coma) e tutto ciò che avesse a che fare con gli aghi, ma come faceva a dirlo? Insomma, magari esisteva una pastiglia o qualcosa del genere dello stesso tipo e non lo avrebbe mai saputo.

Sbarrò gli occhi più che poteva ed irrigidì i muscoli sotto le dita fredde del ragazzo che aveva iniziato a massaggiargli la spalla, sperando che il messaggio fosse chiaro.

Infatti, lui si bloccò a metà e lo fissò vagamente divertito. – Andiamo, non dirmi che hai paura degli aghi! Fino adesso non ti sei mai lamentato! –

Forse si conoscevano davvero da più tempo di quanto Dean credesse possibile. Eppure lui non se lo ricordava.

Ovvio, babbeo, fino a mezz'ora fa ero ancora bello che andato!

Tutto ciò tradotto con un rantolo soffocato.

– Suvvia, non farà male... ecco! Visto? Sei vivo no? – esclamò Riflesso Incondizionato, cacciandogli l'ago nella carne della spalla con un gesto misurato ed esperto.

Dean non emise un fiato, ma se avesse potuto lo avrebbe fatto eccome.

Credimi, preferirei non esserlo.

Si maledisse subito per quel pensiero, Sammy aveva ancora bisogno di lui. O forse il contrario. Meglio entrambi, sì.

RI gettò via la siringa e si tolse i guanti, protendendosi per un paio di secondi sul letto per svitare la valvola della flebo. Dean lesse velocemente il nome sul cartellino appuntato sul petto del ragazzo: Castiel Novak. Non sembrava troppo difficile.

– C... C-Caaaaas... – biascicò, strappando un altro sorriso al suo infermiere.

– Certo, Dean, sono Castiel, o Cass, se ti è più facile così. Non mi stupirebbe se non ti ricordassi di me, e non voglio prendermi il merito di nulla, ma mi piacerebbe che tu sapessi che in questi due mesi di coma, mi sono preso cura io di te. E penso che continuerò a farlo. –

Due mesi? Grandioso! Ehi, Castiel Riflesso Incondizionato, che è successo mentre io ero a Comalandia? Non vorrei riprendere a camminare nel bel mezzo di una guerra nucleare, sai com'è.

E, ovviamente, tutto quello che una meschina cospirazione fra stomaco e cervello gli rese possibile dire fu: – Toooortaa.

Castiel fece un sorriso sghembo, continuando a sbrigare le sue incombenze.

– Ehi, amico, con calma e andiamo per gradi!

Ehi, vai per gradi pure tu, “amico” è già troppo forzato, dato che Dio non ha trovato niente di meglio da mandare quaggiù.

 

BUOOONGIORNO/SERA/POMERIGGIO/NOTTE a seconda dell'orario in cui leggerete (da me è mezzanotte e dodici hihi)

Allora, spero di non aver combinato un casino con questa prima ff Destiel (si capisce che è destiel? Andiamo per gradi anche noi, allora), e spero che possa piacervi, onestamente non so se qualcuno aveva già scritto una cosa del genere, perché all'inizio come trama mi sembrava giusto un pizzico scontata, ma ho alcune idee e un paio di capitoli pronti che potrebbero renderla già più originale...

inutile dire che gradirei un sacco sapere il vostro parere, quindi lasciate una recensione!!!

inoltre ci tenevo a dirvi che il rating potrebbe cambiare a seconda dei capitoli, e visto che siamo partiti abbastanza “soft”, me che penso aumenterà, ve la faccio partire verde...

ultima avvertenza, il carattere psicologico dei personaggi non sarà sicuramente uguale a quello della serie tv, ma il livello di imbranataggine (a dir poco adorabile) di Cass tenterò di lasciarlo tale e quale...

ripeto, lasciate una recensione, voglio davvero sapere che ne pensate!!

un bacione da Danielle!

 

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Capitolo 2
*** Progress ***


Dean aveva saputo sin da subito che il cibo gli sarebbe mancato, ma non aveva immaginato quanto questa nostalgia si sarebbe fatta sentire.

Non solo il rimpianto della sensazione del solido e del sapore gli rodeva letteralmente lo stomaco, ma quando il suo corpo si arrese alla ferrea legge dettata dai medici e smise addirittura di provare appetito, Dean era ancora più convinto del fatto che rimanere nel suo coma senza essere disturbato sarebbe stato molto meglio.

I test erano stati una tortura, una vera e propria violazione del suo corpo, e se il ragazzo avesse potuto anche solo azzardare un qualche tipo di reazione, di sicuro i tentativi sarebbero stati vani: persino Castiel Riflesso Incondizionato si era arreso, e dopo che gli aveva somministrato un lieve sonnifero (come se avesse avuto bisogno di dormire...) quella sera , non si era fatto più vedere.

Non che a Dean dispiacesse. Non lo conosceva, era solo un infermiere tirocinante come un altro, ma il modo in cui gli aveva detto che si sarebbe preso cura di lui e certo, anche il soprannome affibbiatogli dal Dottor Lucifer durante la prima sessione di controlli, lo lasciavano perplesso, e non poco.

Ovviamente, non lo sopportava.

Solo il modo in cui il suo essere rincoglionito lo divertiva gli faceva voglia di cantargliene quattro, ed il fatto che lo avesse chiamato amico, che lo trattasse come se si conoscessero da anni, era troppo confidenziale, lo metteva decisamente a disagio. Specie perché nelle sue condizioni non poteva esprimere un libero arbitrio degno di questo nome, ovverosia avvalersi di un'opinione grammaticalmente articolata in proposito.

Nelle abbondanti trentasei ore che seguirono, usò una mezz'oretta del suo tempo per pensare tutto ciò. Fu una fortuna che decise di arrendersi quasi subito, un po' perché non gli pareva sensato farsi troppe domande su qualcuno che non conosceva, un po' perché semplicemente, nonostante avesse passato gli ultimi due mesi in stato mentalmente iperattivo, la sua testa faticava a riabituarsi al diverso ritmo di quella giostra selvaggia che era il mondo. Era tutto troppo veloce, con troppi pochi perché e decisamente caotico.

Il resto di quella che parve un'eternità lo trascorse fissando il soffitto e impegnandosi a non cadere intrappolato nel suo incubo, che in orario spaventoso si ripresentava dietro alle palpebre ogni volta che chiudeva gli occhi. Dopodichè, altri test.

Puntualmente, il Dr. Lucifer si presentava con il suo sorriso beffardo e la scusa di dover riempire moduli e verificare le funzioni vitali, solo per passare una buona oretta ad irritarlo. Gli pizzicava le nocche finché Dean non stringeva i pugni (cosa che poteva fare subito, ma per orgoglio non si sognava di dargliela vinta), gli puntava la maledetta pila gialla in un occhio e la toglieva a un nulla dal suo barbecue oculare, gli ginnasticava le braccia e le gambe, alzava lo schienale del letto per metterlo seduto.

Il ragazzo si sforzava di fare il bravo, ma se doveva proprio passare così due ore della sua giornata, almeno voleva divertirsi anche lui, e ogni tanto fingeva di accasciarsi pesantemente sulla sua spalla oppure gli sbavava su una mano. Forse era un po' schifoso, ma vedere quel tizio detestare il suo lavoro, l'unica ragione di superbia personale che avesse, gli faceva recuperare più velocemente di qualsiasi medicina.

Alle due del pomeriggio del giorno dopo ancora, finalmente a Sam e Bobby fu concessa la tanto pregata visita, e si fiondarono letteralmente nel reparto di terapia intensiva al suo capezzale. Era stato davvero un travaglio, ma alla fine erano riusciti a farsi accettare come ospiti, ben due giorni dopo il suo risveglio.

– Ehi, Dean! Va tutto bene, ci siamo qui noi, adesso. – Sam si sospinse un po' faticosamente accanto al letto, mentre Bobby lo circumnavigava con la sua andatura un po' zoppicante per raggiungerlo dall'altra parte.

– Coraggio, ragazzo, ce l'hai fatta, è tutto finito. – disse, mettendo nella voce tutta la convinzione possibile.

Magari fosse tutto finito...

Voltò la testa con lentezza esasperante e con la coda dell'occhio inquadrò il fratellino, un ragazzetto di quindici anni smilzo e mezzo ingessato, la zazzera di capelli castano scuro più scompigliata che mai e gli occhi chiari preoccupati e smarriti.

Il viso era scarno ed emaciato, aveva una cicatrice sulla fronte e il mento gli tremava un po', come se avesse tante cose da dire e non sapesse da cosa cominciare.

– Dean... papà è morto. – disse, con un filo di voce. Bene, era partito dalla cosa peggiore.

Dean sentì una fitta partire dalla bocca dello stomaco ed attraversargli il corpo fino al cuore come una saetta, per raggiungere il cervello e da lì rimbalzare alla spina dorsale.

Mio Dio, Sammy, cosa ti ho fatto... è tutta colpa mia se siamo ridotti così, se sembri la copia mummificata di Harry Potter con quella cicatrice e quegli occhi verdi, è colpa mia se papà non c'è più e sei qui a raccontarmelo ancora come se non sapessi nulla...

– Penso che sia successo subito. Il funerale c'è già stato... – proseguì Sam con voce sempre più rotta, come la prima volta.

Ti prego, non dirmi cose che già so, fai male a te stesso quasi quanto te ne abbia fatto io... eh no, dai non piangere, per favore, altrimenti potrei cedere anche io e tornerebbe il tizio del Riflesso Incondizionato a mattonarmi la faccia!

– N-non...p-piangere... – balbettò, spostando una mano quanto bastava per poter prendere quella del fratello che aveva cominciato a stringere convulsamente la coperta.

Sentiva le lacrime inumidirgli lo zigomo destro e portò il polso alla faccia per asciugarle. Non era certo di cosa facesse più male, la morte di suo padre, o la voce distrutta di Sammy.

Quest'ultimo alzò su di lui uno sguardo incredulo e finalmente sorrise, guardando Bobby che aveva steso le labbra a sua volta.

– Grandioso, campione! Sembra proprio che ti stiamo riprendendo, eh? – disse con il suo tono leggermente borbottato, calcandosi meglio il berretto sgualcito sulla testa come faceva quando era soddisfatto di qualcosa.

– Senti bene, so che non avete voglia di parlarne, specialmente ora che Dean ha detto le sue prime parole... –

– I-idiot... –

– … Sì, scusa, vecchio mio, comunque, dal momento che il bell'addormentato ha ripreso un po' di reattività, penso che sarebbe ora di dirvi che ho firmato tutte le inutili scartoffie per farvi venire a casa con me. Se non altro, mi assicurerò che non diventiate un problema per i federali o per la NASA, in futuro. –

Era esattamente il genere di notizia che volevo sentirmi dire, allora c'è davvero qualcuno appollaiato fra le nuvole, che mi ascolta! Sarebbe anche ora, no?!

– Gr... Grazie! – riuscì ad articolare, abbozzando addirittura un sorriso sghembo.

Perlomeno riusciva a muovere le braccia, la testa e a proferire qualche parola.

Improvvisamente si sentì pervaso dal desiderio di muoversi e fare quello che doveva fare. Sapeva che era doloroso, sapeva che ci avrebbe messo una vita a tornare in piedi, ma chi ben comincia è a metà dell'opera.

– Bene, campione. Adesso dobbiamo andare, Sam ha una visita e io devo cominciare a liberare un paio di stanze dalle metropoli di polvere che le infestano. Ci rivediamo stasera, eh? Non combinare casini. – disse Bobby, proprio quando nessuno sembrava avere più nulla da dire, scompigliandogli i capelli e dando una lieve pacca alla schiena del ragazzino.

Lui e Dean si squadrarono per un attimo, entrambi imbarazzati, poi Sam scivolò indietro.

– Vado anche io, devo farmi fare un paio di lastre... se hai bisogno, Castiel ha detto di chiamare lui. – e se ne andò con.. ehi, che razza di sorrisino è mai quello?!

Il ragazzo alzò di poco la testa per vedere l'ombra sparire nel corridoio, poi si lasciò ricadere sul cuscino.

Ma chi era mai quel Castiel per autoeleggersi la sua guardia del corpo?! Lui era Dean Winchester, non era esattamente un ragazzaccio, ma sapeva come usare le mani, e se necessitava lui di un bodyguard dopo che nemmeno un camion l'aveva spedito all'inferno, c'era qualcosa di cui preoccuparsi.

Cancellò dalla testa quella breve sfuriata e, con un colpo di reni, riuscì a puntellarsi sui gomiti, per raggiungere una posizione a metà fra il seduto e lo sdraiato.

Non ci volle molto perché le braccia cominciassero a fargli male, ma decise di spingersi al limite. Fece ancora più pressione e, con un ultimo, dolorosissimo sforzo, si issò a sedere.

Sorrise compiaciuto dei suoi progressi in soli due giorni e si studiò attentamente le mani, che erano l'unica cosa che ancora non aveva esaminato con cura nella stanza.

Dovevano averlo tenuto ben nutrito (surrogato di crostata, forse? Quasi ci sperava...), perché non era proprio così magro come pensava. Okay, le braccia avevano perso tre quarti dei loro muscoli, ma non si doveva lamentare. Poteva essere morto, in quel momento.

Riuscì ad allungarsi fino al tavolino e, senza che nessuno lo aiutasse, senza che fosse seguito da un qualche dottore psicopatico, accese la televisione.

Fu allora che la vista gli si annebbiò e crollò pesantemente sul cuscino, l'aria che pian piano svaniva dai suoi polmoni ed il corpo in preda ad una serie di spasimi incontrollati.

 

– Andiamo, Novak, non dirai sul serio! – esclamò Bryan, accavallando le gambe aprendo le labbra in una risata.

Castiel sorrise imbarazzato, distogliendo lo sguardo dal viso del compagno e puntandolo sul bicchiere di carta fumante di fronte a lui. – Scusami, ma sul serio, non l'ho capita. – disse, cercando di sembrare non sembrare troppo imbranato.

L'altro tirocinante sistemò le schede che aveva sparpagliato davanti a sé per poterle firmare tutte e rimase in silenzio, rendendo visibile la sua divertita arrendevolezza nello spiegargli una battuta solo tramite un'espressione di puro stupore.

– Amico, se continui di questo passo resterai single per eoni! Guarda che le pollastre adorano i ragazzi ironici! – replicò Bryan, fregandogli il caffè e traendone un piccolo sorso.

Storse la bocca disgustato, forse per il fatto che Castiel non amava zuccherarlo troppo, quindi il sapore restava piuttosto amaro. Il che gli ricordava sempre tutti gli altri bocconi indigesti che in vita sua aveva dovuto ingoiare per ironia della sorte, ma andava bene. Se il passato aveva una minima possibilità di incentivare il suo futuro, doveva farselo andare bene per forza.

– Ehi, mica è colpa mia se non capisco le battute ed il sarcasmo. Sono fatto così, sono... realista. Credo a ciò che ritengo realizzabile. E nel sarcasmo nulla è mai realizzabile. – fece in risposta, riprendendosi il caffè e bevendone la metà sotto lo sguardo fintamente disgustato dell'amico.

Sì, amaro come la sua vita, ma che poteva farci.

Da quando suo fratello Gabriel era morto e lui aveva bevuto fino al coma etilico, ogni cosa prendeva il sapore bruciante dell'alcool, ed era sempre un incendio. Più restava impassibile, più dall'esterno nessuno notava nulla. Il caffè nero era l'unica cosa amara che beveva senza che gli scheletri del suo armadio riprendessero a seguirlo e ad appostarsi dietro agli angoli.

Ecco cosa lo incentivava: il fuoco dentro di te tornerà, se non ti concentri su qualcosa di reale e concreto: impara da quell'errore.

Focalizzandosi troppo sulla morte di Gabe, il mondo intorno a lui lo aveva lasciato indietro, il dolore era tale da rendere l'alcool l'unica cosa tangibile che procurasse un male maggiore di quello. Non era stato un alcolizzato. Il coma etilico corrispondeva all'unica volta in cui aveva bevuto, e in assoluto, l'ultima volta in cui lo avrebbe fatto.

Aveva mandato a puttane la sua astemia perché tutto era troppo concreto perché potesse seguirlo. Anche quel fuoco era stato concreto, ma in modo diverso, e lo aveva capito troppo tardi: era reale dentro di lui, non fuori, e questa sottile differenza lo aveva quasi ucciso.

– Sai cosa c'è di divertente? – disse, distogliendosi da quei pensieri. – Il fatto che dopo un anno di tirocinio insieme, tu continui a fregarmi il caffè, a denigrarlo perché non è abbastanza dolce per il tuo palato raffinato, e a guardarmi stranito perché a me piace così. – disse, finendo il contenuto del bicchiere con un unico sorso.

Bryan inarcò le sopracciglia, ma sorrise e alzò le mani come a dire “touché” senza mettersi a discutere.

– Ciao, Cass! – la voce del piccolo Winchester lo chiamò da sotto il bancone, ed il ragazzo si sporse oltre per incontrarlo finalmente più allegro del solito.

– Ehi, Sam! Ti vedo bene, oggi! – disse, scompigliandogli i capelli. Sapeva che la cosa lo irritava, ma ormai si conoscevano e il ragazzino non ci dava più peso.

– Puoi ben dirlo! Dean parla, e si muove anche. Ha pianto un po' sapendo di nostro padre, ma almeno sta migliorando... gli ho detto quello che mi hai chiesto. – disse, bloccandosi un attimo al fatto che il fratello maggiore avesse pianto.

– Cass?

– Dimmi.

– Non è che andresti a controllare che stia bene, fra poco?

Il suo sguardo innocente e spaesato gli fece tenerezza, e si ritrovò ad annuire nonostante la consapevolezza di avere una vagonata di cose da fare.

Proprio per quello non era riuscito a visitare personalmente il maggiore dei Winchester in quei due giorni, era stato sovraccaricato di lavoro in tre sezioni diverse, e quell'anno il personale fornito dall'università era anche abbastanza scarso.

In quel reparto erano solo in tre, fra i tirocinanti; lui, Bryan e Meg, che si era beccata un turno in cardiologia quindi in giro non la si vedeva.

Fece notare a Bobby, per la sesta volta, quali fossero gli orari di visita e salutò, tornando ad accomodarsi sulla sedia e a godersi quei pochi minuti di tregua che gli erano concessi.

– Uhu... – lo schernì subito il compagno. – Crocerossina Novak torna all'attacco! –

Castiel roteò gli occhi. – è così divertente?

– Suvvia, Cass, si fa per dire. In realtà e bello il fatto che tu ci metta così tanto impegno nel prenderti cura dei pazienti, un sacco di persone dovrebbero prendere esempio da te. – disse, controllando l'orologio ed alzandosi.

– Dici sul serio?

– Ovvio. È ora di cominciare il turno di ispezione. Il corridoio a destra è tuo come sempre, eh?

– Già.

– D'accordo. Salutami quella macchina da guerra del tuo amico, allora! – e si allontanò.

Castiel si diresse immediatamente da Dean, saltando mezzo corridoio di stanze sperando che non lo beccassero a fare “enormi” preferenze, o il caporeparto glie ne avrebbe dette un po'.

Scivolò dentro aspettandosi di trovarlo sveglio, invece stava dormendo.

Era assopito in modo strano, come se addormentarsi fosse stata una sofferenza più fisica che mentale e dovuta agli incubi, ma cercò di non essere paranoico.

Fu quando si avvicinò al letto che notò qualcosa che non quadrava. Il telecomando era chiuso fra le dita del ragazzo, ma non era stretto saldamente, quindi poteva non aver avuto un incubo.

Strano però, il telecomando era sempre stato sul tavolo, ma forse glie l'aveva passato Bobby, o Sam.

Sei paranoico, Castiel, è ufficiale.

Altra cosa che non andava. E stavolta, che non andava sul serio.

La macchina che segnalava il battito cardiaco bippava decisamente troppo piano, il lasso di tempo fra una pulsazione e l'altra era tale da farsi percepire come un'eternità.

Si lanciò a controllare le funzioni vitali del ragazzo, e quando si accorse che non respirava nonostante la cannula di gomma per il naso fosse al suo posto tra le narici ed il labbro superiore, sentì il mondo crollargli addosso.

Immediatamente svitò la valvola per aumentare l'apporto di ossigeno, ma sulle prime parve non bastare. I muscoli delle braccia erano ancora irrigiditi, forse aveva provato ad alzarsi e lo sforzo gli era costato troppa aria.

Castiel non perse tempo, per prima cosa premette il bottone rosso sul telecomando agganciato al letto, poi prese il respiratore orale e lo incastrò fra le labbra del ragazzo, cercando di domare il panico che cresceva nel petto. Azionò un minimo rilascio di ossigeno e procedette con una comune manovra a pressione, nella speranza che il diaframma riprendesse a lavorare da sé. Le mani giunte appena sotto allo sterno, spinse uno, due, tre, quattro, cinque... dieci colpi, obbligandosi a mantenere l'autocontrollo necessario in situazioni del genere.

Dean riprese a respirare con un singulto strozzato nell'esatto momento in cui il Dr Lucifer faceva irruzione seguito da altri due medici in camice e guanti di lattice, e Castiel si lasciò andare alla meravigliosa sensazione che il sollievo gli stava regalando. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si trattenne e continuò a lavorare sperando che la sua euforia non fosse troppo evidente.

Gli altri tre rimasero impalati sulla porta a scrutandolo riavvitare leggermente le valvole, a togliere il tubo dalla bocca e posizionare una semplice mascherina, il tutto guardando il paziente dritto negli occhi come a comunicargli telepaticamente che andava tutto bene, che non c'era nulla di ci preoccuparsi più.

Castiel completò le ultime operazioni convincendosi che era riuscito a salvare una vita dal soffocamento, provando il meschino desiderio di rinfacciarlo al medico, il quale si affiancò al letto e squadrò la situazione con occhio critico, alla ricerca di un qualche errore. Quando non ne trovò nessuno non fece altro che il suo solito sbuffo di scherno e se ne andò con uno svolazzo del camice.

– Cass... – Sentì un leggero tuffo al cuore quando Dean pronunciò il suo nome e fu subito lì da lui.

– Ehi, non sforzarti troppo. Non respirare troppo profondamente... così, bravo.

– Cass...? –

Castiel alzò gli occhi su quelli verdi, lucidi, iniettati di sangue ma pieni di gratitudine di Dean. – Grazie. –

E quel grazie valeva di più di qualsiasi altra forma di pagamento per le sue azioni al mondo.

 

 

HOLA CHICOS

ho aggiornato davvero in fretta, godetevi questa pacchia finché è possibile!

Che dire, ora sappiamo qualcosa anche sul nostro angioletto, mi fa sempre piacere sapere che ne pensate quindi non siate timidi e recensite!!

vorrei poter dire di più ma attualmente sono le due di notte e ogni minuto è buono per essere sgamata da mia mamma...

buon anno a tutti e un altro bacione da Danielle!!

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Capitolo 3
*** ... Makes you wish you were dead ***


BUON 2015 A TUTTI GENTE BELLISSIMAAAAAA

Dunque, nell'ultimo capitolo ho un po' tirato via le note finali, quindi preciserò qui un paio di punti che non ho fatto in tempo ad esporre perché mia mamma mi ha sgamata sul serio a scrivere alle due di notte...

Allora, abbiamo conosciuto finalmente il nostro Cass, e mi sono sforzata di non cambiarne troppo il carattere proprio perché Castiel è un bel personaggio così com'è.

Devo ammettere che con tutte le versioni di lui che abbiamo conosciuto (talmente tante da fare concorrenza alle 50 shades of Sam :')) è stato un po' difficile avere un'inquadratura precisa, soprattutto perché durante la serie e tutte le sue esperienze subisce come un'evoluzione, quindi sì, mi ci sono soffermata per un bel po'...ma alla fine questo è il risultato, spero che vi piaccia!

Sul suo passato ne sapremo più avanti, per il momento abbiamo solo un'idea di quello che è successo *suspence*

Ecco il capitolo, grazie a chi ha recensito/ seguito!!

 

– Come ti chiami, giovanotto?

– Dean Winchester.

E gradirei che ti abbottonassi la camicia. Datti un contegno, nonna.

– Quanti anni hai? – sorriso apprensivo, rossetto acceso stirato male su quelle labbra sottili.

– Diciannove. – Sguardo scocciato, palpebre socchiuse, sopracciglio inarcato. Decisamente, non dell'umore di subire una visita psicologica.

Non ne ho tre, chiaro?

La dottoressa Rowena sfilò gli occhiali e si chinò verso di lui, fissandolo con falso rimprovero. – Stiamo solo cercando di aiutarti, dolcezza. Coraggio, non fare quella faccia, eh? – disse la psicologa, in tono smielato, passandogli un dito laccato di carminio sotto al mento. Dean si scansò leggermente.

Ecco perché odiava gli ospedali. Tutte le persone che vi lavoravano erano incomprensibilmente ed irrimediabilmente finte. Finti i loro sorrisi comprensivi, finti i loro “capisco il dolore della perdita”, le loro raccomandazioni ed assicurazioni. Uno stuolo di idioti che credevano di prendere in giro il primo comatoso di passaggio solo perché era... beh, sufficientemente comatoso da non afferrare appieno la falsità delle loro parole.

Okay, d'accordo, forse Castiel faceva eccezione.

Nah, cerchi solo di guadagnare. Per cinquanta dollari balli o te ne vai?

– Okay – bofonchiò, distogliendo lo sguardo dalla camicia mezza sbottonata della cinquantenne di fronte a lui. Di solito non era il tipo che faceva tanto lo schizzinoso, ma diavolo, donna, è questa la tua idea di crisi di mezza età?

– So che è noioso, ma dobbiamo rialzarci in piedi, no? E dobbiamo verificare che quella testolina funzioni ancora. – proseguì lei, accavallando le gambe e sorridendo languida.

Dean roteò gli occhi e incrociò le braccia, dando ad intendere che aveva eretto un muro che non voleva essere distrutto.

– La mia testa funziona anche troppo bene. – disse, alzando un sopracciglio.

– Questo lascialo decidere a me. – replicò lei, serafica. – hai passato due mesi in blocco psicologico e fisico, una settimana fa biascicavi appena parola e adesso stai addirittura seduto. Dobbiamo appurare che vada tutto bene, dolcezza. – ribadì, accennando alla sedia a rotelle su cui l'avevano sistemato, i cui braccioli stavano per diventare vittime dell'ira di Dean.

Blocco psicologico, ma che cazzo hai nella testa, segatura?!

– Senta bene, io non so se lei abbia mai avuto un'esperienza del genere, ma mi creda, se fosse così saprebbe che quei due mesi sono stato tutt'altro che in blocco psicologico. Posso andarmene o lo fa lei? – sbottò, puntandole addosso uno sguardo assassino.

Rowena non sembrava affatto impressionata, ma fece un gesto tranquillo per indicargli la porta, come ad invitarlo ad uscire da solo. Dean avrebbe voluto essere alla guida di un bulldozer e passarle sopra, invece che su una stupida carrozzina sgangherata che riusciva a malapena a spingere avanti, ma dovette accontentarsi.

Cercò di non dare a vedere il suo sforzo e indirizzò le ruote verso l'uscita, trascinandosi poi flemmaticamente fuori sotto il suo sguardo divertito e denso di finta compassione.

Con una lieve torsione si voltò a chiudere la porta e, una volta fuori dalla portata di quegli occhi civettuoli, si rilassò contro lo schienale. Sentiva l'aria mancargli ed il cuore esplodergli in una serie di tumulti impetuosi, quindi si costrinse a calmarsi e controllò che la cannula fosse al suo posto, dove doveva essere.

Tutto regolare, nel giro di un paio di minuti respirava già meglio. Cercò di non dare peso al fatto che la sua vita dipendesse da un tubicino di gomma che gli entrava nel naso e fece per riprendere la sua passeggiata, ma le braccia erano tornate blocchi di ghisa impossibili da sollevare.

In parole povere, era incastrato davanti all'ufficio della dottoressa Rowena, l'ultimo posto in cui avrebbe dovuto essere e avrebbe voluto trovarsi, e stava per riperdere la sua breve funzionalità muscolare. Anzi, tecnicamente l'aveva già persa.

Reclinò indietro la testa e sbuffò.

Sam e Bobby non c'erano nemmeno, quindi il suo destino era aspettare che qualche buon samaritano passasse per scroccargli una spintarella, ma ovviamente il personale era in pausa.

Andiamo, come si può essere in pausa in un'ospedale dove ogni pretesto è buono per un povero ragazzo barra vegetale di restare bloccato in mezzo al corridoio?

Mugolò qualcosa fra sé e sé, cercando di nuovo di spingere la carrozzina, ma questa restava saldamente ancorata al pavimento lucido.

– Serve una mano? – lì per lì credette che la Rowena avesse deciso di aprire la porta in un puro atto di misericordia, ma riconobbe subito che la voce era maschile e decisamente priva di sottintesi e malizia com'era quella della dottoressa.

Alzò appena lo sguardo ed i suoi occhi incontrarono quelli azzurri e luminosi di Castiel.

– Fanatico della puntualità? – biascicò, abbandonandosi allo sconforto nella sua sedia a rotelle, mentre l'infermiere lo spingeva lungo il corridoio.

– In realtà no. Dovevo passare a rendere un paio di cartelle nell'ufficio del caporeparto, ma nessuno si lamenterà se va Bryan al posto mio. – disse sereno.

Dall'episodio del suo quasi-soffocamento, meno di una settimana prima, Castiel era passato molto più frequentemente, occupandosi personalmente di lui come se fosse il figlioletto con il raffreddore. Era premuroso, nei suoi confronti, ma non in modo troppo eccessivo, faceva il suo lavoro come gli altri, ma il fatto che puntualmente il ragazzo compariva quando ne aveva bisogno (e anche in occasioni in cui non ne aveva), era come se un certo senso lo stesse privando della sua possibilità di tornare indipendente.

Era lampante che Castiel provasse simpatia per lui, e dopo un po' anche Dean aveva cominciato ad abituarsi ai suoi instancabili via vai, ma sembrava essere deciso a non mostrare troppo la sua “predilezione”. Era un Favoritismo Moderato.

Cass dal canto suo, cercava di fare quello che da sempre aveva ritenuto giusto: aiutare il prossimo. Questa sua missione spesso gli aveva causato qualche problema, a volte temeva di non fare abbastanza e invece faceva addirittura troppo senza curarsi delle conseguenze finché queste non arrivavano, e di solito era troppo tardi. Era anche capitato che qualcuno restasse ferito, e di ripetere la cosa era fuori discussione.

Sembrava che più si impegnasse, più i guai arrivassero, ma Castiel non si era mai arreso.

Era deciso ad aiutare Dean, un po' perché era evidente quanto il ragazzo avesse bisogno di aiuto, un po' perché anche lui ne aveva.

Tutto ciò o faceva sentire meglio, più utile e di sicuro teneva impegnata la sua mente.

In breve tornarono nel reparto Osservazione dove il ragazzo era stato spostato, in una stanza piccola e singola con una grande finestra e la tv.

– Che palle. – dichiarò Dean, passandosi una mano sulla faccia.

Castiel si accomodò sulla sedia e spuntò una casella della scheda di perlustrazione lasciata sul tavolo, poi gli rivolse uno sguardo interrogativo.

– Tutto bene?

– Insomma. Senti una cosa, Castiel... – l'infermiere drizzò le orecchie e lo osservò mentre si spingeva a fatica vicino alla finestra. Non che la strada fosse lunga, ma i pochi muscoli che aveva ancora sembravano essere tesi al massimo lungo i bicipiti.

– Quel parco lì sotto appartiene all'ospedale?

Il ragazzo si alzò e guardò giù. C'era un bel sole, e dato che era giugno anche la temperatura sembrava piacevole. Effettivamente, quell'ampio rettangolo verde munito di panchine e lastricati che si intrecciavano in una scacchiera di piccoli marciapiedi, occupava tutto il lato ovest dell'edificio, ed era accessibile abbastanza facilmente.

Castiel sorrise. – Vuoi che ti porti a fare un giro?

– Non sentiranno la tua mancanza?

– Nah, ma figurati. Vuoi andare o no?

– E me lo chiedi?

Castiel fece un mezzo sorriso. – Sai, non capisco questa tua tendenza a rispondere alle domande con altre domande, Dean.

 

Decisamente, una boccata d'aria vera e non erogata da una bombola gli fece molto bene.

La sensazione del sole sulla pelle dopo tanto tempo rinchiuso in quell'ospedale che non assomigliava per niente alla figata di Dr House, era paradisiaca, specie perché ebbe il permesso di cavarsi la cannula per un po', almeno finché non ebbe nuovamente difficoltà.

Quel tepore lo fece sentire meglio già cinque minuti dopo che se ne stava placidamente seduto ed esposto ai raggi estivi, mentre Castiel si sistemava sulla panchina al suo fianco.

Subito, i suoi occhi viaggiarono verso l'alto e si agganciarono ad un punto indefinito appena sopra il profilo frastagliato che la città regalava all'orizzonte.

Dean studiò il suo profilo, chiedendosi se ci fosse qualcosa che il ragazzo si aspettava di vedere, o se stesse pensando a qualcuno, perdendo gli occhi azzurri nel cielo soprastante.

– Stai bene, Cass?

Lui non rispose subito. Stava pensando a Gabe, quindi non stava bene. Decise di tacere quel particolare.

– Sì. Sto abbastanza bene. Certo il lavoro è pesante, ma ho la possibilità di aiutare qualcuno.

Dean lo fissò con un mezzo sorriso. Non era certo che gli stesse dicendo la verità, ma non lo fece notare.

– E tu, Dean? Come stai tu?

Il ragazzo si rese conto che era la prima volta che qualcuno glie lo chiedeva. Fino a quel momento erano stati solo dei “come va?”, intesi come un riferimento abbastanza generale.

Cass invece aveva chiesto come stava lui. Forse l'infermiere non aveva fatto caso al dettaglio, quindi non voleva dire nulla, ma gli sembrava strano come aver rischiato la vita lo rendesse più attento a quel genere di piccolezze.

– Non lo so. Sul serio, non ne ho idea. – giunse le mani sulle ginocchia e si appoggiò di peso allo schienale, puntando anche lui gli occhi verdi al cielo terso. Forse suo padre lo stava guardando in quel momento, forse ce l'aveva a morte con lui per essere la causa della sua fine, anzi, di sicuro lo odiava e lo disprezzava per essere vivo quando doveva essere lui quello rinchiuso in una bara.

– Cosa intendi? – Chiese Castiel, senza abbassare il mento.

– Intendo dire che da una parte sto bene, sono felice dei miei progressi e via dicendo, ma d'altra parte... non posso fare a meno di pensare che qui sono fuori posto. –

lo sguardo dell'altro non mutò, restava sempre un po' confuso mentre gli rivolgeva quei suoi grandi occhi blu per qualche secondo, prima di rivolgerli nuovamente all'orizzonte.

– Forse dovrei essere morto io. Non merito niente di tutto questo. –

Castiel scollò definitivamente gli occhi dal cielo, o qualsiasi altra cosa stesse fissando, e corrugò la fronte.

– Non dirlo nemmeno per scherzo. Tutti meritiamo di vivere. – disse, con abbastanza convinzione da influenzare anche Dean.

– No, non me la bevo. Anche Lucifer?

Ridacchiarono entrambi, sperando che nessuno li avesse sentiti, scambiandosi solo una breve occhiata.

– Magari lui no. – piombò un silenzio un po' teso. – è stato davvero terribile, eh? No, anzi, non rispondere. Non sono affari miei. – si corresse immediatamente e tornò a scrutare quel qualcosa sopra di sé, facendo finta di non aver detto nulla.

– Ehi, amico, non ti preoccupare. Sì, insomma, bello non è stato. – sospirò Dean.

No, era stato davvero terribile, tremendo. In breve sentì una morsa di panico chiuderglisi come un cappio attorno alla gola e sperò solo che si stringesse abbastanza da strangolarlo, mentre i ricordi di quella sera affioravano nella sua mente e minacciavano di portarlo via.

Si prese il viso fra le mani e premette i palmi per scacciarle, arrivando a graffiarsi febbrilmente la fronte con le unghie, ed emise un ringhio rabbioso colmo di dolore e collera. – Diavolo, è stata tutta colpa mia. Mio dio, no che non merito niente, Cass, non voglio più vivere basta, basta, per favore, tutti questi medici pretendono di sapere come aiutarmi, ma la verità è che non mi si può aiutare, non c'è rimedio per quello che ho fatto, ho ucciso mio padre e ho ridotto così Sammy, rendendolo un orfano... – la sua bocca vomitò un intero profluvio di parole, il suo blocco che credeva essersi dissolto nel nulla premeva per uscire, persistente e reale, doloroso, l'angoscia che si impossessava di lui rendendolo indifeso e tremante, solo contro sé stesso.

– Dean, basta così! – esclamò immediatamente Castiel piazzandosi di fronte a lui e afferrandogli le spalle. Il ragazzo riuscì a fermarsi, ma si sentiva in preda a una crisi respiratoria, e cominciò a singhiozzare convulsamente. – Avanti, respira. Piano, Dean, piano, così. – l'infermiere tornò a sedersi sulla panchina, proteso verso di lui, e gli appoggiò un braccio sulle spalle, mentre con l'altra mano continuava a stringergli la spalla sinistra come se volesse lasciarvi un'impronta.

– Adesso voglio che tu mi ascolti bene. Che ti piaccia o no sei vivo, quindi non farti venire strane idee in testa. Capisco che cosa hai passato, le perdite che hai subito, e ti garantisco che lo so e maledizione, respira! Lo so che cosa provi non solo perché è la tipica frase di circostanza, ma perché io stesso ci sono passato. Se sei vivo è perché sei abbastanza forte per farlo, e ti assicuro che finché non avrai cambiato idea e non ti sarai rimesso in piedi forte come tuo fratello mi ha detto che sei, tu sarai sotto la mia stretta sorveglianza. Potresti anche avere ragione, ma autocommiserarti non vi aiuterà. – Concluse, con impeto che Dean non sarebbe mai stato in grado di riconoscergli. Sollevò lo sguardo e la faccia su di lui, sui suoi occhi decisi, convinti di poter fare del bene anche laddove c'era solo del male.

Aveva ripreso a respirare quasi normalmente, ma la sua mano era ancora lì, serrata alla sua spalla, dove del resto voleva che rimanesse. Quel contatto lo faceva sentire molto più tranquillo, forse perché in quei giorni si era abituato ad associare l'idea di tranquillità all'infermiere del Riflesso Incondizionato.

– Perchè mi stai dicendo questo?

Cass prese tempo.

– Che tu ci creda o no, ho imparato a conoscerti, mentre eri in coma, tramite tuo fratello. È un ragazzino forte, ma aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, e visto che la Rowena non era di grande supporto, ho lasciato che si rivolgesse a me. Ti considero un amico, e non posso vederti commettere lo stesso errore che ho commesso io senza provare a fare qualcosa. – ammise, il tono di voce nuovamente pacato, com'era da lui.

Dean restò in silenzio. Non gli importava che Sammy avesse detto tutto quanto a Cass, anzi, gli faceva piacere. Non avrebbe dovuto farlo lui, almeno, ma adesso provava un'enorme ed egoistica curiosità per quanto riguardava il passato dell'amico.

Tornarono entrambi a rivolgersi a quel qualcosa che stavano osservando fino a poco prima, e quando Cass lasciò andare la presa, Dean si sentì un attimo perso. Una parte di lui avrebbe davvero voluto che restasse l'impronta della sua mano, guardarla gli avrebbe fatto ricordare le sue parole.

– Alla fine, – disse, – è solo un preconcetto delle persone quello secondo cui “ciò che non ti uccide ti fortifica”.

– Dio, non sanno quanto. –

– Alla fine, ciò che veramente non ti uccide...

– ...Ti fa solo desiderare di essere morto*.

Si guardarono per un secondo, poi rimasero in silenzio, condividendo nient'altro che i propri fantasmi e l'orizzonte di fronte a loro.

 

Errieccome :')

Dunque, per questo non c'è moltissimo da dire, Cass e Dean hanno finalmente cominciato la loro amicizia, ora non resta altro che decollino!

Come sempre, lasciate una recensione, mi fa piacere sapere cosa ne pensate.

 

*= What doesen't kill you makes you wish you were dead..

è la prima frase di Drawn, la canzone dei Bring me The Horizon che mi ha ispirato la fan fiction (anche nome di questo capitolo, mentre il titolo dell'intera fic è una frase di Halleluja)

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Capitolo 4
*** Flashbacks ***


Ci vollero due mesi interi di fisioterapia per rendere di nuovo Dean in grado di camminare.

E probabilmente fu il periodo più estenuante e faticoso di tutta la sua vita, anzi, in futuro non avrebbe avuto problemi ad ammetterlo.

Fu un susseguirsi di ore di ginnastica correttiva e indicata al suo tipo di problema e pasti disgustosamente liquidi, e per il ragazzo fu un po' come tornare un bambino, con l'unica differenza che ad insegnarli a stare in piedi non c'era sua madre ma il Dr. Balthazar, seguito come un'ombra da Castiel.

La cosa più demoralizzante furono gli esercizi che man mano gli venivano assegnati: erano per lo più pesi, ma normalmente gli sarebbero sembrati talmente leggeri che in quel momento essere a malapena in grado di staccarli dal pavimento lo faceva sentire una specie di budino molle e malfermo.

Avendo riacquistato una certa autonomia, avevano sostituito la ridicola vestaglia azzurra con una sorta di pigiama a maniche corte color menta, in realtà abbastanza simile alla divisa degli infermieri. Il giorno in cui si era cambiato ( – Ho detto che faccio da solo, Cass! – )

aveva potuto notare, con sommo orrore, le numerose cicatrici che aveva lungo il corpo. Sotto all'orecchio e sulla tempia, dove aveva sbattuto contro il finestrino, quindi rompendolo, le schegge di vetro conficcatesi della carne avevano lasciato tagli e sfregi di diverse dimensioni, creando così la curiosa trama di una costellazione, mentre lungo il fianco destro fino all'altezza dello stomaco un lungo taglio di trenta centimetri era stato ricucito da mani esperte con una serie di piccoli punti, e ogni tanto aveva come il timore che piegandosi troppo, il filo chirurgico mollasse e riaprisse la ferita.

Il danno più grave era stato un discreto buco nello stomaco, ragion per cui gli venivano vietati i cibi solidi ed era costretto ad ingurgitare poltiglie fumanti per tre volte al giorno.

Quando non aveva nulla da fare, Dean scandagliava il suo corpo alla ricerca di cicatrici che ancora non aveva catalogato, oppure scrutando attentamente quelle già conosciute. Una in particolare, all'interno del gomito, gli ricordava uno strano segno tribale che aveva visto in un museo durante una gita scolastica. Passandovi il dito sopra, il rilievo della slabbratura ricucita gli provocava un lieve solletico al polpastrello. Questa operazione gli ricordava vividamente l'incidente, ma il panico provato nei primi giorni in cui il senso di colpa gli annodava le viscere facendogli desiderare di essere morto, lo aveva come... abbandonato.

Di sicuro, Castiel aveva contribuito. Ora il problema sorto era quello dei Flashback, ma andiamo per gradi.

Come gli aveva indirettamente promesso, rendeva ogni pretesto buono per passare a fargli visita ed assicurarsi che i suoi istinti suicidi non avessero preso il sopravvento spingendolo ad impiccarsi con la cannula che, solo per inciso, aveva quasi smesso di usare.

Non restava mai deluso, ed era sinceramente entusiasta dei visibili progressi che Dean stava facendo.

Per quanto lo riguardava, Dean si poteva dire quasi orgoglioso di sé stesso: poteva camminare, anche se si stancava molto in fretta, e le attenzioni che Castiel gli rivolgeva, non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, gli facevano piacere. Nonostante la sua indisposizione a una buona parte dei giochi di parole e battute in genere, l'infermiere era davvero di compagnia. Scendevano nel parco sotto alla finestra di Dean tutti i giorni, guardavano la televisione quando il tempo non era molto favorevole e passavano ore intere a discutere del più e del meno in compagnia di Bobby e Sam.

Ma i momenti migliori (e questo entrambi non lo avrebbero ammesso nemmeno sotto tortura), e purtroppo anche peggiori, li passavano da soli.

 

– Andiamo, Clarence, scegli tu un posto! – fece Meg, per la sesta volta in un quarto d'ora, con la sua voce languida e leggermente strascicata. Era appoggiata sopra al bancone, i capelli biondi freschi di tinta che scivolavano oltre il bordo e il mento appoggiato sulle braccia incrociate, mentre gli occhi castani e maliziosi bombardavano il viso di Castiel di occhiatine provocanti nel tentativo di catturare l'attenzione del ragazzo, che sembrava concentrato su tutt'altro.

Quando finalmente sollevò lo sguardo, le sue iridi azzurre la trafissero letteralmente.

– Mi chiamo Castiel. Non capisco se lo fai apposta oppure hai problemi di comprendonio. – disse, con assoluta serenità. Meg non si lasciò offendere.

Reputava quel suo innocente cinismo e la sua necessità di rendersi utile assolutamente sexy, come del resto qualsiasi altra cosa che fosse ricollegabile a lui. Il fatto che fosse single gli regalava poi un livello ancora più alto di fascino.

– Lo so, ti stavo solo prendendo in giro! Allora, quando e dove usciamo? – disse, stampandosi un sorrisetto eloquente in faccia, lasciando intendere che non voleva ricevere un due di picche per nulla al mondo.

Castiel continuò imperturbabile a completare l'ennesima scheda che gli era stata data, ma quella gli interessava molto di più delle altre: di certo Dean non avrebbe apprezzato la dose di antidolorifici per lo stomaco sotto forma di iniezione, ma non poteva fare a meno di trovarlo adorabile quando si ritraeva all'ago con i suoi occhioni verdi da bambino spaventato. In ogni caso le regole non le faceva lui, e se voleva seguirlo e prendersi cura dell'amico personalmente avrebbe dovuto inimicarselo per quei cinque minuti in cui di solito opponeva resistenza alla fantomatica puntura.

Quasi non si accorse di avere un sorriso un po' ebete ad increspargli le labbra, cosa che ovviamente fu male interpretata da Meg. – Ah, devi aver avuto una buona idea! Sentiamo? –

Castiel si riscosse. – Cosa? Quale idea?

La ragazza tradì un attimo di scocciatura. – Sul dove andare stasera.

Nah. Quella sera aveva un po' di tempo per restare a fare nulla con Dean, dopo aver finito i turni, dato che né Sam né Bobby potevano rimanere in ospedale: il primo perché l'indomani avrebbe avuto un compito importante di geografia, il secondo perché lo sceriffo di Sioux Falls, Jody Mills[*], aveva espressamente richiesto il suo aiuto per un caso ad alcuni chilometri da lì. Quando Bobby lo aveva detto sia a lui che a Dean, avevano aspettato che fosse uscito dalla stanza per mettersi a ridere. Di sicuro gli ultimi mesi li avevano tagliati fuori dal mondo oltre il perimetro dell'ospedale, ma sicuramente sapevano riconoscere un appuntamento mal giustificato. Avevano passato la seguente ora a farsi cinema mentali su come sarebbe andata la serata fra i due, non escludendo particolari un po'... piccanti, ecco.

Prima di sogghignare nuovamente ricordando quel pomeriggio, se ne uscì con un lapidario : – Scusami, ma stasera ho da fare.

Il sorriso di Meg si afflosciò un po'. – Oh, ehm... allora, domani? Insomma, io sono libera tutta la settimana! Fai tu un giorno. –

Non era la prima volta che Castiel tentava di tirare educatamente buca a una ragazza che cercava di attaccare bottone con lui ignare del suo orientamento sessuale, ma si aspettava che dopo un anno di collaborazione, quella gatta avesse capito l'antifona e trovato un'altra lucettina da rincorrere, nonostante fosse molto bravo a nascondere quella sua parte di lui.

Come doveva reagire? Essere sincero e ammettere apertamente di essere gay, rischiando di perdere l'unica amica che aveva oltre a Bryan e Dean, oppure mentire per l'ennesima volta in vita sua?

Si passò una mano fra i capelli, rendendoli più scompigliati di quanto già non fossero.

– In realtà questa settimana sono davvero occupato, mi dispiace... sai, dei parenti vengono a stare da noi, e visto che oggi manca Bry, -cosa vera, in realtà... - devo fare anche parte dei suoi turni. Sono davvero dispiaciuto. – in realtà era dispiaciuto solo di vederla nascondere la demoralizzazione con una maschera di schiettezza e strafottenza.

– Ah, non fa nulla. Chi viene a trovarti?

Castiel rimase in silenzio, sentendosi in trappola come un topo. Una bugia cominciava a tirare l'altra ed il guaio era grosso, considerata la sua goffaggine mentire non era esattamente il suo forte. Se avesse fatto un passo falso, si sarebbe trovato con le spalle al muro e avrebbe dovuto sputare il rospo.

– Ehm... – cercò di guardarla negli occhi, costringendosi ad apparire risoluto. – I miei zii, e mia cugina Claire. –

Meg inarcò le sopracciglia e fece il giro del bancone, lasciandosi crollare su una sedia di fianco a lui.

– D'accordo. Ma sappi che se non vuoi uscire con me, non devi per forza fingere una qualsiasi giustificazione. Non mi offendo mica, io! Volevo solo avere qualcosa da fare! – disse, dando una gomitata a Castiel, che avvampò violentemente. Sapeva che stava mentendo anche lei, se non era bravo a raccontare balle, almeno si considerava un asso nel saperle riconoscere.

L'unica differenza era che aveva lo scrupolo di non farglielo sapere, ecco.

– Dunque... hai già una ragazza?

Oh, mio dio. Che faccio ora?

– No, in realtà. Ma davvero, ti giuro che stasera ho anche la metà dei turni di Bry, su questo non ho mentito! – disse, alzando le mani in segno di difesa, nella rimota speranza di cambiare argomento.

– Quindi sei single!

– Sì.

– E non ti piace nessuna?

– No.

– Proprio nessuna? Mi rifiuto di crederti.

– Ti garantisco che è così. – replicò, cercando di non sembrare imbarazzato, avendo però poco successo.

Per piacere, molla l'osso, se mi costringi a parlare, quello che dirò non ti piacerà...

Meg rimase in silenzio, facendosi improvvisamente pensierosa. – Ma andiamo, – scattò,

– non sarai mica gay! –

Stavolta sentì il cuore fare una vera e propria capriola ed rimbalzando dolorosamente da stomaco a polmoni come in un flipper impazzito. Se avesse tentato di spiegare avrebbe vomitato di sicuro, quindi rimase stupidamente in silenzio.

– Castiel?

Nessuna risposta. Nemmeno un'alzata di spalle.

– Castiel, proprio tu?!

– Ehm...

– Tu che sei il sogno erotico della metà delle infermiere?! Sei un mito! –

okay, Cass si aspettava un po' di tutto da una persona imprevedibile come Meg, ma quello mai.

– C..che cosa?

– Ma certo! Per aver tirato talmente tanti bidoni, dovevo accorgermene prima ma lasciati dire che lo nascondi bene.

– Stai dicendo che non mi odi solo perché mi piacciono i ragazzi?

La ragazza scoppiò a ridere, tirandolo verso di sé e chiudendolo in un mezzo abbraccio.

Gli stampò un bacio quasi fraterno sullo zigomo e gli strofinò i capelli.

– Ma sei scemo? Con tutti i bei tipi che circolano il sangue deve aver smesso di andarti al cervello e cambiato direzione, ma perché mai dovrei odiarti? Okay, mi piaci molto, ma almeno non passerò la mia vita a chiedermi se avessi avuto una minima possibilità con te e soprattutto non corro il rischio di vederti pomiciare con Hanna del reparto di cardiologia!

Castiel sorrise e storse la bocca fintamente disgustato.

– Naaah. Ma figurati!

Risero entrambi, finalmente quel peso che gli era rimasto incastrato fra diaframma e polmoni si fece un po' più sopportabile e potè respirare meglio.

– Grazie, Meg.

– Per cosa?

– Per non detestarmi. Non ridere, guarda che cominciavo ad essere disperato, lo sai? Non è una cosa che si va a sbandierare in giro con tanta leggerezza! Solo... Non dirlo a Bryan. Non so come potrebbe prenderla, e di certo non voglio saperlo.

 

Dean aveva subito capito, da quando aveva preso la decisione che non avrebbe tentato il suicidio e che avrebbe lasciato Cass fare a modo suo, che il tempo a sua disposizione finché sarebbe rimasto nell'ospedale si sarebbe diviso tra periodi di fatica e dolore assoluti, e periodi di noia.

Quando arrivò il suo amico, stabilì che stava attraversando un momento di noia semplicemente perché il solo vederlo attraversare la porta senza nemmeno bussare esultò.

– Grazie a Dio, mi stavo fossilizzando! – esclamò, dalla sua postazione di fronte alla tv, semi-sdraiato sul letto.

Stavano mandando in onda uno di quei quiz televisivi in cui di solito si vincono milioni di dollari, se si danno tutte le risposte giuste, o una cosa del genere.

Sam una volta le aveva date tutte giuste, mentre seguivano il programma in un motel, sulla strada per il Wyoming. John era con loro, il ventinove marzo, aveva comprato tre hamburger a sei piani a dir poco enormi, di quelli che se riesci a trangugiare senza fermarti in un determinato lasso di tempo, ti scattano una foto e la appendono alla Muro della Fama del bar, e che avevano dovuto sezionare per mangiarli più comodamente. Aveva permesso loro di mangiare sdraiati sul letto, e una delle volte in cui quell'uomo aveva condiviso una serata con i suoi ragazzi, lasciando loro fare quello che volevano. Con il suo mestiere era costretto a lavorare molto, era un veterinario[**] (ed un cacciatore, situazione leggermente ossimorica, ma non glielo faceva notare nessuno) molto famoso in cinquanta stati, e dove poteva aiutare, andava. Aveva sempre molto da fare, ma quando poteva passava del tempo con i suoi figli, come quella volta.

Tutti e tre stravaccati sui letti, la tv accesa su quello stesso identico programma, ed un foglio su cui appuntare quante risposte giuste ognuno di loro dava.

Sammy era riuscito ad azzeccarle tutte, Dean come premio gli aveva ceduto metà delle sue patatine, e suo padre gli aveva fatto assaggiare la birra, nonostante avesse solo quindici anni.

Due sere prima dell'incidente.

Nell'arco di tempo in cui il ricordo si riavvolgeva come un nastro nella sua mente e tornava a scorrere sotto i suoi occhi aperti, distorcendo la realtà, rimase in un catatonico silenzio.

Castiel si era seduto sul letto, aspettando che la fase, spesso ricorrente, passasse, come tutte le altre volte. Non era riuscito a dare preciso un nome a quegli episodi in cui Dean veniva catturato per un minuto circa, o anche due, in un suo flashback, che lo rendeva distante, assente, a anni luce e migliaia di miglia dalla stanza in cui si trovavano. Quando lo trovava così, non se la sentiva mai di scuoterlo e svegliarlo, perché semplicemente non ci riusciva. Vederlo in quello stato semicosciente gli provocava sempre una stretta al cuore, aveva paura che tutto ricominciasse d'accapo. E il flashback fece visita anche a lui.

 

– Non ce la posso fare, Castiel.

10 giugno, ore 17:26

– Basta, per favore.

Castiel lo fissò in silenzio. Doveva essere stato davvero un bel ragazzo, non che adesso non lo fosse, ma scarno ed emaciato com'era, lo sguardo perso nel vuoto, le lacrime agli occhi, le unghie conficcate a sangue nei palmi delle mani e l'espressione che tradiva uno strazio atroce erano sufficienti a renderlo appena un fantasma.

– Fa troppo male, Castiel. Fa davvero troppo male.

Continuava a ripetere che sentiva un male tremendo, diceva di non poterci riuscire; quando entrava, lo trovava solo, spaesato, piegato in due, gli occhi che vagavano nella stanza alla ricerca di qualcosa che lo condannasse, e Cass sentiva un dolore assurdo percuotergli le membra, sentiva la sua mente implorare il corpo di andarsene e di fare finta di niente, di non farsi più del male come in passato gli era già successo, perché anche lui di dolore ne aveva provato abbastanza.

Eppure non se ne andava, quel dolore era sano. Lo rendeva forte, lo rendeva convinto ad andare avanti, gli ricordava Gabe, e l'unica volta in cui si era lasciato paralizzare, l'unica volta in cui non aveva fatto nulla per aiutare qualcuno, e suo fratello era morto.

Era stupido come per avere un po' di forza in più, sufficiente a spingerlo fuori dal letto la mattina, dovesse autodistruggersi così.

Si sedette di fianco a lui, gli chiuse le dita sulla spalla sinistra, la strinse leggermente,

“sono qui, Dean, solo perché tu lo sappia.” e aspettava che la ricaduta, o il flashback finisse. “Nel tuo mondo non so cosa ci sia, ma sappi che qui nella realtà io ci sono se hai bisogno di me e...” a quel punto la sua voce si ruppe, sperava che Dean, nella sua piccola dimensione, non lo sentisse. “...e aiuto... ho bisogno di aiuto, fa male, Dean, hai ragione, cazzo, fa malissimo, forse morire sarebbe davvero più facile, ma possiamo uscirne, e se non ci riusciremo, almeno penseremo di averci provato, ma per favore, ho davvero bisogno di te. Dammi la forza necessaria, e ti tirerò fuori da dove sei adesso, chiuderemo le porte di quell'inferno. Mio dio, fa dannatamente male, potrei morire adesso e l'unica cosa che rimpiangerei sarebbe il non essere riuscito a salvarti”

l'immagine di Gabriel lo aggredì brutalmente, e più cercava di scacciarla più affogava in essa e in tutto il dolore che costituiva le sue giornate.

Appoggiò la testa alla spalla di Dean e attese che si riprendesse. Quando accadde, rimasero entrambi in silenzio, ognuno col proprio dolore, distanti un susseguirsi di oceani, ma vicini lo spazio di un respiro.

 

– Cass?

Si scosse un secondo, la voce di Dean fu come un fischio nella nebbia. Perse diversi secondi a scrutarlo attentamente, e in lui non vide nulla che non funzionasse: sembrava quasi sereno, gli occhi verdi brillavano di vitalità, i capelli biondo scuro assumevano screziature ramate alla luce del sole che entrava dalla finestra, si era appena fatto la barba e sì, tutti gli allenamenti e la fisioterapia gli stavano restituendo, seppur molto lentamente, i suoi muscoli. Allora stava davvero aiutando il suo amico. Dopo mesi di coma e le sue ricadute, i loro sforzi combinati davano davvero dei frutti. Si sentì in vena di lasciarsi un po' andare.

– Sì, Dean?

– Stai bene?

– Ehi, tu hai i tuoi flashback, io ho i miei, amico. – disse, cercando di sorridere. Affiorarono gli avvenimenti della giornata e quello strano sollievo della chiacchierata con Meg lo risvegliò completamente. D'un tratto il suo sorriso divenne decisamente più spontaneo.

– Buon per noi, allora. Che si fa oggi, Crocerossina Novak? – disse, accennando ad una punta di scherno.

– Andiamo, non ti ci mettere pure tu. In ogni caso, non ne ho idea. – si lasciò cadere sul bordo del letto, dove Dean era seduto a gambe incrociate.

Rimasero entrambi pensierosi per alcuni attimi, poi il biondo sorrise con espressione che non prometteva granchè di buono.

– Mh...che ne dici se combinassimo un qualche guaio? – Castiel scattò sugli attenti e lo fissò con rimprovero.

– Che vorresti combinare, di preciso? – fece, preoccupato.

– Mettiamola così, è clinicamente catalogato che sono in grado di camminare, Sam e Bobby non ci sono, e il personale te escluso è in pausa. –

– Vai avanti. – Castiel non voleva mostrarsi interessato, ma gli sarebbe almeno piaciuto sapere cosa quella piccola mente da furfante avrebbe partorito.

– E andiamo a mangiare. – concluse, come se fosse dannatamente ovvio.

Cass si lasciò andare a una fragorosa risata, intenerito da quanto Dean fosse ancora più infantile quando il suo stomaco prevaleva sulla supremazia cerebrale.

– Non ci trovo nulla di divertente, è da quattro mesi che non faccio un pasto decente, il mio stomaco è guarito e se fosse ancora bucato dubito che sentirei tutti questi echi al suo interno! – esclamò indignato.

Castiel riuscì a darsi un contegno e gli diede una pacca sulla spalla. – Amico, non mi è chiaro cosa c'entrino gli echi in tutto questo ma credimi, il tuo stomaco è tutt'altro che guarito. Hai sentito il medico, no? I cibi solidi potrebbero danneggiarlo, e finché non sarà appurato che non è necessario un altro intervento, sei destinato al purè di patate. –

Dean si prese la testa fra le mani, esasperato.

– CAAASS HO FAME! – urlò, strappando un'altra risata all'amico.

– Aspetta che mi vesto, poi troveremo un modo per andare e tornare senza che si accorgano di nulla. – e senza riuscire nemmeno a protestare, Castiel rimase solo nella stanza, mentre Dean spariva in bagno con i vestiti che di solito usava nelle loro uscite al parco.

 

 

SHALVE A TUTTI

Finalmente ho trovato un pretesto per far confessare a Castiel la sua omosessualità, sarò rimasta a pensarci due ore!!

questo capitolo è stato un po' travagliato, un po' perché è piu lungo degli altri, un po' perché ho dovuto cercare di mettere la relazione giusta tra la fic e la serie, quindi tanti auguri a me, e non uccidetemi, so di essere colpevole.

 

...Secondo, diamo un senso a:

*: E niente, volevo solo precisare quanto shippo Bobby e Jody... non che sia importante, insomma.

**: questo richiede un intero sproloquio, sopportatemi ancora un po'... perché John il Veterinario?

Avrei potuto scegliere il medico, ma così non avrebbe avuto ragione di scorrazzare da uno stato all'altro perché esistono gli ospedali apposta, mentre con gli animali di grossa taglia, ad esempio i cavalli, è più difficile per i padroni raggiungere la clinica.

Ma per quale insana ragione, vi starete chiedendo, questa idiota che scrive è passata dal cacciatore al veterinario?

Il mio ragionamento ha avuto origine grazie a Conan Doyle, l'autore di Sherlock Holmes. Il mestiere dei Winchester è molto simile a quello dei detective, perché prima di trovare il colpevole, devono indagare, scartabellare, rompersi i maroni a cercare nei libri e a fare interrogatori alle famiglie delle vittime.

Seguendo il ragionamento dello scrittore sopracitato, il detective ed il medico in generale si somigliano molto, dal momento che entrambi seguono un procedimento molto simile: il dottore cerca le prove (i sintomi), fa delle supposizioni (diagnosi), e cerca di arrestare il criminale (cura).

Spero che non vi sembri troppo sgangherato, e spero che il capitolo sia all'altezza degli altri...

recensite!!!!

un bacione a tutti!

 

 

 

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Capitolo 5
*** the Past ***


ATTENZIONE 
il rating della storia cambia, anche ad avviso dei capitoli futuri: ARANCIONE (per il momento muaha)


Castiel sapeva perfettamente che quella di Dean era una pessima idea. Poteva capire la fame assassina, c'era passato anche lui, ma quel suo piano offriva più contro che pro: in primo luogo, se li avessero beccati, lui avrebbe perso il lavoro e lo avrebbero come minimo denunciato, ma quello era il male minore. Nell'incidente, il suo amico aveva subito un grave colpo che aveva causato la lacerazione dello stomaco. Era quasi morto, se l'equipe di chirurgi non fosse intervenuta rapidamente, ora non sarebbe stato lì, e se si fosse strafogato com'era chiaro che aveva intenzione di fare, poteva peggiorare quella che era una situazione ancora precaria.

Attese che Dean uscisse dal bagno, vestito solo di un paio di jeans, una maglietta ed una camicia che gli ricadevano leggermente abbondanti sul corpo dimagrito, ma Cass rimase un secondo in silenzio. Quella era l'immagine di Dean che più si avvicinava al ragazzo che era prima dell'incidente, forse stava facendo la cosa giusta.

– Non è affatto una buona idea. – sentenziò, cercando di impuntarsi.

– Già, ma lo sai no, che le brutte idee sono il mio forte. Pensi di uscire vestito così? Ti riconosceranno subito. – il suo tono non ammetteva repliche, anzi, lo stava incitando a diventare complice di quell'idiozia abissale contro la sua stessa volontà.

Castiel valutò le opzioni che aveva: rinchiuderlo a chiave li dentro gli avrebbe assicurato un'eternità di occhiatacce e di sicuro, aiutarlo sarebbe diventata una missione inattuabile, ma valutò lo stesso quel possibile scenario. Se non lo avesse tenuto d'occhio, sarebbe uscito di sua iniziativa, e se fosse accaduto qualcosa, era materialmente impossibile che lui potesse intervenire. La scelta più logica sembrava contemporaneamente quella più illogica.

– Okay, vado a cambiarmi. Ma sia chiaro, andiamo nel bar dall'altra parte della strada, alcolici assolutamente vietati, e qualsiasi cosa tu voglia mangiare dovrà essere approvata dal sottoscritto, intesi? – Non attese risposta ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Tornò cinque minuti dopo, la divisa bianca da infermiere al suo posto coperta semplicemente da un lungo impermeabile beige.

Dean lo scrutò da capo a piedi, fingendosi a dir poco ammaliato. Si avvicinò e con fare teatrale lo abbracciò. – Questo meraviglioso trench solo per me? Amico mio, così mi commuovi! – e se la filò sgusciando fuori dalla porta, seguito da un imperturbabile Castiel.

 

Il primo passo del folle piano di Dean era evitare di farsi riconoscere e uscire senza notare da chiunque. Decisamente, l'ingresso principale era fuori discussione.

Optarono subito per le uscite di servizio, dove era meno probabile essere visti, ma dove era anche possibile trovare dei colleghi di Castiel.

Come, difatti, accadde.

Era un susseguirsi di corridoi secondari, dove a quell'ora il personale non c'era perché stavano tutti o prendendo un caffè, oppure facendo il cambio di turno con qualcun altro.

Non mancava molto, a detta dell'infermiere, ma quando incrociarono Meg lungo l'ultimo passaggio, il ragazzo sentì il mondo crollargli sulle spalle.

Fantastico, adesso chissà che razza di idee pervertite andrà a farsi.

Dean la fissò attentamente, facendo passare lo sguardo da lei a Castiel, sperando che l'amico avesse una qualche soluzione, un asso nella manica, o che almeno conoscesse il karate.

Non era molto alta, gli arrivava appena alla spalla, aveva gli occhi castani ed i capelli biondi, e a prima vista, dallo sguardo furbo e malizioso, non sembrava qualcuno di cui ci si potesse fidare ciecamente.

– Ma tu guarda! Ti sei dato da fare, Cassie? – Castiel a quelle parole avvampò, e la trascinò lontano afferrandola per un gomito, facendo cenno a Dean di spettarli.

Una volta che non furono più a portata d'orecchio, all'interno di uno stanzino semivuoto (probabilmente il locale caldaia, ma dalla penombra non si capiva), attesero qualche secondo di silenzio prima di parlare.

– Davvero niente male. Accidenti, i più fighi li trovi tutti tu, sei il finocchio più fortunato del mondo. – commentò Meg, annuendo solennemente con fare scherzoso e birichino e dandogli un buffetto sulla guancia.

– Piantala, non è come sembra. – replicò il moro, ignorando l'ironia nelle sue parole.

– Sul serio? Perché a me sembra esattamente così, invece.

– Zitta e ascolta. È una storia lunga, e te la racconterò soltanto se non mi farai buttare fuori, okay? – disse Castiel, sull'orlo di una crisi di nervi.

Meg fece una faccia contrariata, incrociando le braccia all'altezza dello stomaco. – Se ci scoprono...

– Non succederà. Davvero, saranno solo quindici minuti.

La ragazza sbarrò gli occhi e trasse un profondo sospiro di sollievo, abbandonando la schiena contro al muro e ridendo sommessamente. – E io credevo aveste affittato una stanza in un qualche albergo! Ma sì, hai ragione anche tu, meglio un passo alla volta.

Castiel ebbe quasi un colpo. – Ma sei matta? Cosa ti fa pensare che io... che lui... ah, sai che c'è? Limitati a tenere la bocca chiusa. – e uscì con trasporto dalla stanza.

Dean fece appena in tempo a scansarsi di alcuni metri dalla porta ed accogliere Cass con un sorriso innocente. Senza una parola, si avviarono verso l'uscita, il silenzio era tale che Dean temesse che i battiti forsennati del suo cuore fossero udibili dall'esterno.

Insomma, aveva capito bene, o aveva solo frainteso?

 

A fine estate, precisamente a metà agosto, in quel periodo in cui l'afa generalmente veniva rimpiazzata dai primi profumi di vento che segnavano l'imminenza dell'autunno, il momento migliore era esattamente quello, le otto di sera.

C'era una brezza fresca, non come a luglio in cui anche col cielo mezzo oscurato era come ritrovarsi un phon acceso puntato sulla faccia. L'aria era respirabile, gli scivolava sul viso lasciandolo sereno e rilassato, regalandogli il piacere di una camminata senza doversi lamentare del caldo.

Dean si sentì immediatamente rinato. Anche Castiel sembrava essersi disteso i nervi, e quello che dava a vedere era nient'altro che finta ed esagerata disapprovazione.

– Hai un quarto d'ora Dean, fossi in te me lo godrei. – gli fece notare, aspettando che il semaforo diventasse bianco.

Attraversarono la strada spalla contro spalla e si infilarono nel primo bar che incrociarono lungo il marciapiede, a pochi passi dall'ospedale, e sedendosi ad un tavolo vicino alla finestra.

Non era per nulla affollato, la giusta quantità di persone che consentiva alla maggior parte dei posti di rimanere vuoti, e questo a Castiel andava benissimo. Più di una volta, fermandosi a fare colazione in quel locale, aveva incontrato alcuni colleghi che la mattina presto bevevano un caffè e leggevano il giornale, e se li avesse incrociati in quel momento, con quella che poi si era rivelata essere la star del reparto, lo avrebbero appeso ad un ventilatore per il resto dei suoi giorni.

Dean era estremamente soddisfatto, e sfogliava il menu con un sorriso sornione a stendergli le labbra. Si soffermò guardingo sulla pagina dei dolci, esaminando con occhio esperto la vasta gamma di torte che il bar offriva. Una volta deciso, piazzò il quadernetto aperto in mezzo a loro e puntò il dito sulla voce “meringata alla panna”.

– Alt! Hai detto nulla che potesse mandarmi in cancrena il cratere che ho nello stomaco, ebbene eccoti servito! – disse, prima che Castiel potesse trovare una sola lamentela al riguardo.

– Stavo solo per dire che questa tua ossessione per le torte è quasi preoccupante. Pensavo avresti preso... che ne so, un triplo cheeseburger, o una cosa del genere. – si giustificò l'infermiere, togliendosi il trench e appallottolandolo sulla panca di fianco a lui.

Dean scrollò le spalle, indifferente.

– Oggi mi hai propinato quella che aveva tutta l'aria di essere carne frullata, penso che eviterò l'hamburger per un po'. Sono ancora in trauma alimentare. –

Cass annuì in segno di approvazione, passando a dare uno sguardo al menu.

Lui non aveva tanta fame, in realtà quando aveva appetito tendeva a mangiare abbastanza da rimanere pieno per una settimana, e visto che si era già strafogato almeno dieci giorni prima, ordinò un semplice caffè shakerato con ghiaccio.

Era un'abitudine che aveva preso sin da bambino, i giorni in cui era certo di essere affamato, mangiava il più possibile da non dover perdere tempo a farlo dopo. Se Castiel si sentiva sazio, la sensazione gli restava cucita addosso per un bel po' di tempo.

Rimasero in silenzio per qualche secondo, Dean era ancora un po' perplesso su quello che aveva sentito prima fra lui e Meg. Non gli dava fastidio che Cass fosse gay, se davvero la ragazza era stata sincera, ma non poteva chiedere a sé stesso di non guardarlo con occhi diversi, da quel momento in avanti. Ora non era più solo Castiel Novak, il suo migliore amico, era Castiel Novak, il ragazzo che forse, un giorno, si sarebbe potuto innamorare di lui. Non si stava dando delle arie, ma era così che spesso andava a finire nelle amicizie come la loro.

Dean non si era mai apertamente dichiarato etero, ma fino a quel momento era solo uscito con delle ragazze, e la disponibilità maschile intorno a lui non aveva mai avuto peso, ma se adesso ci pensava, e questo non vuol dire che pensasse proprio a lui, la cosa lo metteva tremendamente a disagio. E non perché il vedere sé stesso stare con un maschio lo disturbasse, ma perché istintivamente pensava a Cass, e Cass era il migliore amico che avesse mai avuto. Poteva sembrare presto per dire una cosa del genere, ma nonostante si conoscessero da poco più di due mesi, quattro se si contavano quelli del coma, era abbastanza certo dell'importanza del ragazzo seduto di fronte a lui. Se immaginava che il loro rapporto sarebbe cresciuto fino a quel punto, un giorno avrebbe dovuto respingerlo, e ciò significava fargli del male, perderlo. E il suo amico sembrava aver provato abbastanza dolore per una vita intera.

Mentre Dean si arrovellava sulla propria sessualità e su cosa sarebbe successo in futuro fra di loro, Castiel, inaspettatamente, ridacchiò fra sé e sé.

Per un attimo il biondo temette di aver pensato ad alta voce, e che stesse ridendo di lui.

– Cosa?

Cass si passò una mano sulla faccia, ridendo sommessamente con sguardo sognante.

– Scusami, ma mi era tornato in mente della serata speciale di Bobby e non potevo fare a meno di...

– Ehi, ma sei un pervertito! – lo interruppe subito, i loro porno mentali che gli tornavano alla memoria con suo sommo orrore. Quel pomeriggio si erano davvero lasciati prendere la mano, e per di più era stato uno spasso.

Ripercorsero sottovoce alcuni dei momenti clou, cercando di non dare nell'occhio e soprattutto zittendosi e sorridendo angelicamente quando la cameriera portò loro l'ordine, ammiccando in direzione di entrambi.

Dean afferrò il cucchiaio e vangò una discreta dose di quella nuvola di panna e meringhe, mettendosela tutta in bocca ed assaporando lentamente. Il gusto dolce dello zucchero gli esplose nella bocca, masticò gli spumini croccanti reclinando indietro il capo e mugolando soddisfatto.

E andiamo, cazzo, non puoi farmi questo! Pensò Castiel, cercando di non ridere per quell'insolita situazione ed escludendo categoricamente dalla sua testa i lampanti doppi sensi dei versi che Dean stava emettendo.

Cominciò a bere il caffè senza zuccherarlo, come piaceva a lui, il sapore deciso ed amarissimo della bevanda fredda e leggermente schiumosa che gli scendeva in gola lo rilassò improvvisamente dallo stress accumulato nei venti minuti in cui avevano deciso (pardon, Dean aveva deciso) di marinare l'ospedale.

Nel giro di cinque minuti, il piattino di Dean era quasi vuoto, e il ragazzo sembrava stare bene: non accusava male all'addome e deglutire non gli provocava alcun fastidio. Optare per un dolce soffice e zuccherato era stata la scelta giusta.

– Cass, posso farti una domanda?

Tolse le labbra dalla cannuccia ed annuì, notando l'improvvisa serietà dell'amico.

– Mi ricordo che cosa mi hai detto quando ho avuto una delle mie ricadute, il primo giorno in cui siamo usciti nel parco. Dicevi di esserci passato anche tu. So che non vuoi parlarmene, e non voglio che tu lo faccia, ma la mia domanda è questa: adesso, in questo momento a prescindere dal passato e da tutte le sue carognate, stai bene? –

Castiel abbassò subito lo sguardo, entrambe le mani che si stringevano attorno al bicchiere di carta.

– Adesso adesso? Sì, Dean, sto bene. Davvero, forse è il distrarmi un po', ma davvero, in questo esatto momento io mi sento bene. –

Dean sorrise complice. – Non sono affari miei che cosa ti è successo, e se non sei tu a prendere l'iniziativa, io non voglio che tu me lo dica. Ma sappi che se hai bisogno di qualcosa senza dover fornire spiegazioni, il tuo amico torta-dipendente è nel solito posto.

Castiel riprese la cannuccia fra le labbra e si fece pensieroso, soffiando le bollicine con il caffè come quando era piccolo e lo faceva con i frullati alla fragola.

Poi, improvvisamente, strappò il cucchiaio dalle mani di Dean, si sporse sul tavolo e divise a metà il pezzo di dolce rimasto, cacciandone una parte nella bocca dell'amico.

Questi annaspò, colto di sorpresa, masticando in difficoltà con un'evidente sbaffo di panna sulla faccia, sul punto di mettersi a ridere.

– Non ho bisogno dei tuoi sentimentalismi, pappamolla con lo stomaco a buchi. Ma grazie lo stesso. – disse, piantando la posata sul cubetto di torta rimasto e alzandosi per pagare.

Finì velocemente il caffè e abbandonò il bicchiere sul tavolo, aspettando che Dean lo raggiungesse, ancora con gli occhi lucidi.

Aveva ancora una macchia bianca fin sullo zigomo ma non sembrava di essersene accorto. Castiel aspettò che fossero fuori, dove occhi indagatori non potessero vederli, per passargli il pollice sulla guancia e mettendosi in bocca quella traccia di panna, gustandosi sia il sapore dolce che la faccia interdetta di Dean.

– L'avrei mangiata io se mi avessi avvertito! – protestò, mentre attraversavano la strada.

Furono di nuovo dentro nel giro di pochi minuti, nessuno che sospettasse nulla, nessuno che si fosse accorto della loro assenza, nessuno che li fissasse stupefatti di vederli entrare vestiti quasi di tutto punto.

Castiel si fermò prima per mettere via il trench, mentre Dean lo aspettava facendo il palo fuori dalla porta, poi ripercorsero i corridoi di poco prima a ritroso.

Una volta nella stanza del biondo, anche lui nuovamente in quel buffo pigiama che gli ricadeva un po' abbondante sulle spalle, poterono trarre un sospiro di sollievo.

– Dobbiamo farlo più spesso. Mamma mia, quella torta era da visibilio. – disse Dean, stravaccandosi sul letto.

Castiel si sedette sulla sedia lì accanto, spostando indietro la testa e chiudendo gli occhi per un momento, sollevato. Fece scorrere i messaggi sul cellulare, trovandone uno di Meg in cima agli altri: Appena il tuo ragazzo dorme, torna qui al banco e VOGLIO. I. DETTAGLI.

Fece subito marcia indietro, sperando che Dean non avesse visto nulla, ma appena i suoi occhi tornarono a posarsi sul display, notò che aveva ancora le conversazioni di Gabe. Sentì una morsa stringerlo per intero, poteva distintamente udire le ossa scricchiolare, il cuore esplodere, la pressione polverizzarlo completamente.

Rimase bloccato, il cellulare in mano a leggere gli ultimi messaggi di suo fratello e la paura lo aggredì. Se lo fissava per troppo tempo, poteva cadere di nuovo nella trappola che lo seguiva ovunque andasse, ma non riusciva a smettere di far scorrere gli occhi sulle parole di Gabe.

– Cass, è tutto okay? – chiese Dean allarmato.

Silenzio per qualche secondo, poi: – avevo anche io un fratello, era più grande di me.

Il biondo rimase zitto, colpito da quella frase.

– Come si chiamava?

– Gabriel. Dean, poco fa hai detto che se io avessi voluto raccontartela, tu avresti ascoltato la mia storia. Eccola qui.

 

Sono nato a Pontiac, nel Michigan, e per quello che so, non ho mai avuto un padre. Voglio dire, non era il solito bastardo che lascia incinta la sua ragazza e poi svanisce nel nulla, ma io non credo di averlo mai visto, perché lavorava all'estero, l'unico contatto che avevamo era una telefonata ogni tanto. Io e Gabe eravamo rimasti soli con mamma, i nostri due fratelli erano tutti nella marina, quindi si vedevano poco in giro, e siamo cresciuti più o meno da soli. Gabriel era la mia famiglia, perché mia madre... insomma, mia madre era il genere di persona che rendeva ogni scusa buona per alzare un po' il gomito, lavorava abbastanza da mantenerci, ma come supporto psicologico non potevamo contare su di lei.

Lui era più grande di me di sei anni, quindi era già responsabile e prendersi cura di me lo rendeva felice, orgoglioso di sé stesso, e anche se eravamo praticamente orfani, stavamo bene. Non ci siamo mai spostati da Pontiac, ho frequentato lì le elementari, medie e i primi anni delle superiori.

Gabriel era un tipo un po' fuori di testa, ma trovava il modo di farmi ridere, sempre, mi ha insegnato un sacco e grazie a lui sono cresciuto più in fretta dei miei coetanei. Molte cose io imparavo a farle prima perché lui me le insegnava, continuava a ripetere che se un giorno saremmo dovuti andarcene, almeno in un'ipotetica nuova scuola non sarei rimasti indietro con il programma. Per i primi anni non capivo, poi ho cominciato ad avere una visione più chiara ed ampia quando, ai miei tredici anni, Gabe aveva cominciato a tornare a casa con Balthazar – sì, Dean, il fisioterapista. Ci credi che ogni tanto mi telefona? – . Okay, lo ammetto, all'inizio davvero, non ci saltavo fuori, ma quando ho capito che stavano insieme mi sono sentito sollevato, perché cominciavo a preoccuparmi per lui, e perché Balth lo rendeva anche più felice di quanto già non sembrasse.

I guai sono arrivati un anno dopo, quando sono cominciati i primi commenti, le occhiatacce, le voci, e poi i messaggi minatori. E quel che è peggio, minacciavano Gabriel di fare del male a me. Balthazar ha capito subito che tutta quella storia era nata da quando si era saputo della loro relazione, e si è trasferito da queste parti, sperando che tutto si placasse. Per qualche settimana è stato così, poi però sono ricominciati.

Ci odiavano a morte, Dean, immaginati con la società di adesso, due fratelli omosessuali – sì, entrambi, Dean... – , che cosa potevano scatenare inconsciamente.

Un paio di volte in cui mi trovavo fuori casa, sono stato picchiato. Ho ancora una cicatrice, mi hanno mandato all'ospedale, ma in qualche modo me la cavavo sempre, e cercavo di dimenticarmene, per non dover pontare rancore a persone che non meritavano nessun tipo di considerazione. Speravo che così mi avrebbero lasciato perdere. Quando hanno visto che non mi sfioravano minimamente, che non reagivo alle loro provocazioni però, si sono solo incazzati di più.

Quel loro odio irrazionale li ha spinti talmente oltre che mi fanno quasi pena, ovunque siano finiti adesso, erano solo dei coglioni, e per quanto mi riguarda potevano benissimo esserlo finché gli aggradava, bastava che lasciassero noi due in pace. Ovviamente, non fu così.

Un giorno vennero armati. Il loro capo aveva una pistola, infilata nella cintura dei pantaloni sotto alla felpa, e mi costrinsero ad andare con loro. So che l'aveva messa lì perché se l'era slacciata. Ho cercato di rimuovere tutto, Dean, ma dopo quasi sette anni, ho ancora gli incubi. Sono stato violentato dal primo omofobo sulla terra, e ti giuro che per concentrarmi su qualcosa che non fosse il dolore, o le sue mani che mi toccavano e che violavano il mio corpo, o le sue parole, il suo odore, la sua risata cercavo di capire quanto tutto ciò fosse insensato, perché era assolutamente illogico. Gabe è arrivato una mezz'oretta dopo, perché ero sparito da un po' e avevo il gps acceso.

è stato un colpo, Dean. Solo uno. Un solo sparo, e mio fratello è morto davanti ai miei occhi. E io non ho fatto nulla. Capisci? Non ho fatto assolutamente niente, potevo tentare di fermarlo, potevo mettermi in mezzo, potevo calciare lontano la pistola, e invece sono rimasto fermo a guardare.

Poi, non so perché, se ne sono andati, mi hanno lasciato lì in compagnia del cadavere di Gabriel. La polizia ha fatto irruzione nel granaio dove eravamo un'ora dopo.

Li per li pensai che forse il dolore sarebbe stato tale da annientarmi, ma mi sentivo stranamente vuoto. Mi sentivo privato della mia stessa umanità, e quegli echi della mia coscienza azzerata facevano un male tremendo così, tanto perché di idiozie non ne avevo già fatte abbastanza, mi sono rifugiato in un bar e ho cominciato a bere. Non ho idea di quanti litri io abbia scolato, ma furono abbastanza da mandarmi in coma etilico per un mese.

Poi, appena riabilitato, ho finito gli studi, come se nulla fosse, ho cominciato l'università, ed ora eccomi qui.

Mia mamma si è data una regolata, e da quando se n'è andato, è il genitore modello: ci siamo trasferiti vicino a queste parti, abbiamo ricominciato d'accapo. Mio padre non si è fatto vivo.

Ma ti assicuro, che due cose non sono mai cambiate:

la prima, è il mio compito di aiutare gli altri. Ho sempre avuto questa missione prefissata, aiutare il prossimo con tutte le mie forze. Con Gabe non ci sono riuscito, quindi devo recuperare, e il caso ha voluto che tu fossi la fortunata cavia.

La seconda, è la sensazione di vuoto, e il dolore che reca. Alla fine non mi ha mai annientato, perché di me non restava nulla da annientare. Ma fa sempre male.

 

 

Dean lo fissava rapito.

Non si era mai soffermato troppo a pensare al passato di Cass, ma ora che lo vedeva era certo di avere davanti la persona più forte e distrutta che conoscesse. Era lì, con un sorriso malinconico ad increspargli le labbra, i suoi pezzi che si tenevano su per miracolo, e andava avanti con il vuoto ed i fantasmi che gli sbarravano la strada, inerpicandosi lungo una via che poteva solo fargli altro male.

Non provava pena per lui, fra amici la pietà non deve esistere, ma sentiva che stava condividendo quel dolore, e di questo Dean si sentiva orgoglioso. Se fino a quel momento Castiel lo aveva aiutato, adesso anche lui aveva l'occasione di pareggiare i conti col suo strazio, e insegnargli che entrambi meritavano di stare lì, e di essere vivi.

Come al solito, quando il silenzio fra di loro giocava un ruolo più grande delle parole, rimasero zitti.

Dean gli cinse le spalle con un braccio, sfregando piano il palmo sulla pelle scoperta appena sotto alla manica, poi si chinò su di lui e gli sfiorò lo zigomo con le labbra. Fu un contatto dolce, casto, ma l'infermiere percepì il suo cuore perdere un battito, tentando di memorizzare il tocco morbido sul suo viso, il respiro che gli accarezzava la pelle, l'impellente bisogno di stringerlo ancora di più a sé.

Castiel si rilassò ed appoggiò la testa al fianco di Dean, mentre il suo braccio si serrava deciso e confortevole contro le sue scapole, sperando che l'amico non notasse le lacrime che gli rigavano il viso.

 

 

*Shippa Destiel con bandierine*

e niente, fatemi sapere cosa ne pensate, ma per piacere non uccidetemi, ci penso da sola. Lo so, sono perfida, e di questo mi vergogno un sacco.

L'ispirazione mi è venuta ascoltando Take Me To Church, come se di tristezza non ce ne fosse a sufficienza.

Recensite, è gratis e mi fa felice!!

Un bacione!!
scusate tanto per lo scorso capitolo tutto in corsivo, ma l'editor mi ha dato problemi...

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Capitolo 6
*** So... confused! ***


Dean passò un altro mese e mezzo in ospedale, e furono quaranta giorni particolarmente intensi.

Castiel non sembrava dare alcuna importanza, perlomeno apparente, alla sua confessione, e dopo averne parlato una volta non tornarono più sull'argomento, nessuno se ne lamentò.

L'infermiere era a suo agio con Dean più di quanto non fosse mai stato, l'essersi tolto un peso del genere lo faceva sentire leggero come l'aria e l'amico non aveva cambiato il suo atteggiamento ironico e un po' spaccone nonostante si ritrovasse un amico gay per le mani, anzi, avevano considerato entrambi la cosa come un pretesto per avvicinarsi l'uno all'altro.

Era un intento gelosamente nascosto, custodito negli animi di entrambi, ignari del fatto di avere lo stesso obbiettivo e che si sarebbero incontrati alla meta: volevano vedersi felici, senza fantasmi e ombre negli occhi, senza la paura che tutto il dolore potesse tornare ed aggredirli come una belva dilaniandoli con artigli di ricordi taglienti.

E quei demoni erano soliti ritornare, per entrambi, per distruggerli, ma c'era di buono che forse, l'uno sarebbe stato presente per rialzare l'altro, e la sensazione della presenza dava una strana convinzione che li portava ad esorcizzare tutta quell'oscurità.

Dean non poteva fare a meno di ammirare Cas per quella forza che aveva, quella sua ricerca disperata di una qualsiasi distrazione che non lo lasciasse annegare in sé stesso, per quella sua persuasione che auto riscattarsi lo avrebbe aiutato a stare bene nonostante tutto, come se alla fine di ogni giornata il tramonto morente gli ricordasse che poi sarebbe rinato, e che avrebbe avuto un'altra occasione.

Più tempo passavano insieme e più si accorgeva dei segni che gli erano rimasti marchiati a fuoco nello sguardo, e più si rendeva conto di quanto quegli occhi dannati fossero fottutamente belli, luminosi, azzurri e profondi. Di come gli scavassero dentro ansiosi di sapere tutto ciò che non andava per poter anche solo provare a ripararlo.

Ma Dean non ce la faceva ad aprirsi. Non aveva visto e subito le stesse cose di Cas, ma non riusciva a parlarne apertamente. Avrebbe voluto, ma solo pensarci lo uccideva. E pensandoci ogni giorno, ogni suo tramonto morente, equivaleva ad una pugnalata. E più sangue perdeva, più la sua volontà si affievoliva, e il passato vinceva su di lui.

Aveva bisogno di aiuto, e non riusciva nemmeno a dirlo.

 

Castiel non avrebbe mai saputo dire come, e soprattutto quando, si era innamorato di Dean. Nell'esatto momento in cui l'aveva visto, sapeva che sarebbe accaduto, e fino a quel momento aveva aspettato che succedesse, come tenendosi pronto ad un'esplosione nucleare, l'ennesima che tentava di espandergli il torace e farlo esplodere lasciandone soltanto un buco nero di terrorizzato silenzio.

Invece, non era mai successo, e la cosa lo sconcertava ancora di più. Quando aveva realizzato, si era tragicamente accorto che quella sorta di stretta allo stomaco l'aveva sempre provata, quindi era come se ogni momento da quando lo conosceva si fosse distillato in un unico lasso di tempo che poteva equivalere ad una frazione di secondo oppure ad un anno intero, ma poco importava. Era sempre stato innamorato di Dean.

Quel casino peggiorava solo quello che era già un equilibrio mentale un po' incrinato: i sentimenti troppo forti gli avevano sempre fatto del male, e aveva paura che subire un altro colpo lo avrebbe ricondotto alla sua vecchia trappola.

Nonostante questo, il solo pensiero di allontanarsi da quel ragazzo era fuori discussione: aveva più bisogno lui del Winchester di quanto quest'ultimo ne avesse di lui, e in ogni caso, finché non si era ancora rimesso, aveva del lavoro da fare.

Da quando gli aveva dato quel bacio sulla guancia aveva cercato di rimanere impassibile, come se nulla fosse accaduto e fosse stato solo un gesto circostanziale, anche se la sua parte più fantasiosa continuava a ribadire che non era il genere di cosa che si fa fra ragazzi: insomma, di solito è un abbraccio, una stretta alla spalla, ma niente di così... intimo.

Cercava di non lasciarsi andare ad inutili fantasie, perché ovviamente nessuna di esse era realmente fondata, e sarebbe stato solo un suicidio, ma gli piaceva pensare che forse, molto forse, anche Dean cominciava a provare qualcosa per lui.

Il problema arrivò quando Cas si rese conto che più andava avanti con quel sentimento che cresceva, più diventava insostenibile. La speranza di poter essere ricambiato lo rodeva letteralmente, e se Dio era finalmente d'accordo, tutto ciò lo allontanava da ciò che era successo in passato, e lo proiettava sul futuro più concretamente che mai. E quel futuro prevedeva che, presto o tardi che fosse, Dean avrebbe lasciato l'ospedale, e sarebbe andato chissà dove, forse a Sioux Falls con Bobby e Sam, ma di certo non sarebbe rimasto lì a Minneapolis.

E faceva male, sì.

 

***

Quella sera, per poco il dottor Lucifer non li beccava nel bar sotto all'ospedale.

Visto che lo stomaco di Dean era quasi guarito, il ragazzo si concedeva qualche rischio, ordinando anche un hamburger di tanto in tanto, e nonostante da qualche settimana il suo appetito aveva cominciato a scarseggiare paurosamente per venire rimpiazzato da una nausea tenace, cercava di mangiare qualcosa soprattutto per rimettersi in forze; il che li portava sempre da Hellen, la proprietaria del locale.

La donna li squadrava sospettosa già da un po', il suo sesto senso le diceva che quei due non stavano esattamente rispettando le regole, e ancor di più quando quello stesso sabato, si erano improvvisamente lanciati fuori abbandonando una banconota da venti sul tavolo, camminando speditamente con tutta l'impressione di non voler essere notati dall'uomo che era appena entrato come se tutto ciò che era sotto i suoi occhi gli appartenesse.

Aveva ridacchiato a quella scena, e il Dr. Lucifer, che conosceva dopo tutti gli anni che frequentava il suo locale, non l'aveva presa molto bene.

Mentre Cas e Dean si allontanavano di gran carriera, scoppiarono a ridere, aspettando di essere dentro per fermarsi.

– Porca puttana, ci è mancato davvero poco... – biascicò Dean, appoggiandosi alla parete ed abbandonandosi sul pavimento. Reclinò la testa all'indietro e respirò profondamente, sorridendo rilassato.

Castiel lo osservò intensamente, rendendosi conto per l'ennesima volta di quanto l'amico diventasse più bello man mano che guariva.

– Stai bene? – fece, allarmato, quando non accennò a rialzarsi.

– Sì, insomma, è un po' che non correvo così. – ammise, stringendosi leggermente lo stomaco con le braccia, mentre i suoi respiri rallentavano.

Cas lo aiutò a rialzarsi e si infilarono nella solita stanza, richiudendosi la porta alle spalle facendo il meno rumore possibile.

– Diavolo, non bevevo un milkshake così buono da un sacco! – esclamò abbandonandosi sul letto.

– Da martedì, in realtà. – precisò Castiel, trascinando vicino la sedia e sedendosi con lo schienale contro il torace, incrociando le braccia sotto al mento.

Dean roteò gli occhi, senza stupirsi troppo del fatto che non avesse colto la nota di ironia e facendo piuttosto scorrere lo sguardo sul suo viso, perdendosi nei suoi capelli scompigliati in ogni direzione del creato, negli occhi azzurri che brillavano anche nella penombra, nelle sue labbra storte in un mezzo sorriso...

lo ripercorse due volte, e sentì il letto mancargli da sotto l'intero corpo quando i loro sguardi si incrociarono.

– Che c'è? – chiese l'amico, leggermente confuso, e imbarazzato quanto lui.

Oh, nulla, sei solo incredibilmente carino.” il biondo si maledisse immediatamente per quel pensiero, lo sconcerto gli scombussolò quelle poche certezze che aveva e che riguardavano la sua sessualità non poco bruscamente.

Sì, doveva ammetterlo, era seriamente attratto da Castiel, e questo lo lasciava con una discreta dose di dubbi con cui fare quattro chiacchiere. Non fremeva affatto all'idea di doverli affrontare, anzi, sperava solo che quella in cui si trovava fosse null'altro che una fase dovuta alla mancanza di incontri diretti con altre persone al di fuori di lui, Bobby e Sam.

– Niente. Controllavo se stavolta eri tu ad avere uno sbaffo di panna sulla faccia. – disse, stringendosi nelle spalle ed ignorando il pizzicore acuto che cominciava a farsi strada all'altezza del taglio. Si sentì leggermente andare nel panico, ma si disse che avere lo stomaco realmente soddisfatto dopo molto tempo era qualcosa a cui doveva ancora abituarsi.

Cas distolse lo sguardo e si alzò, piegando il trench sottobraccio.

– Ho finito il turno, sabato ho quello di giorno.

– Lo so, e allora?

– E allora niente, devo tornare a casa.

Dean si tirò su di scatto, non badando ad un'altra lieve scossa che gli attraversava la carne sotto alla cicatrice in tutta la sua lunghezza. – Non avrai intenzione di lasciarmi da solo! – esclamò indignato, le parole proruppero fuori dalla sua bocca prima che potesse fermarle. In realtà sentiva solo che Castiel se ne stava andando troppo presto, e voleva trattenerlo ancora.

E Cas, dopotutto, non aveva davvero voglia di andarsene, ma il giorno dopo avrebbe avuto il turno di notte, e già sentiva le gambe cedergli, aveva assolutamente bisogno di riposarsi.

Fissò Dean interdetto per qualche secondo, poi la sua espressione si addolcì notando l'imbarazzo dell'amico.

Si sedette sul bordo del letto, passandosi una mano sulla faccia e fra i capelli, scompigliandoli di più. – No, Dean, ma sono sfinito. – ammise, cercando si non dare troppo peso alla cosa.

– Ehi, stavo scherzando! Coraggio, vatti a riposare! – disse il biondo precipitosamente, facendo risuonare una pacca sulla sua spalla.

Cas obbedì con un sorriso tirato e stanco, e prima di allontanarsi fece una cosa che Dean si sarebbe ricordato per il resto della sua vita: si chinò verso di lui, e gli baciò la guancia.

Esattamente come era già successo, ma stavolta era diverso, e meno circostanziale, decisamente più intimo. Veloce, casto, e per un attimo ebbe l'estraneo ma non poi così orrendo impulso di acchiapparlo per il colletto e fargli vedere come si baciava per davvero una persona. Dean si toccò incredulo e sì, leggermente euforico, la gota, felice che l'amico non fosse lì per vederlo, anche se in realtà non avrebbe mai voluto che se ne fosse andato.

***

 

Fu talmente improvviso che probabilmente ingoiare una granata senza la sicura sarebbe stato meno traumatico e doloroso. Si svegliò che forse erano le due passate, fatto stava che le fitte all'addome erano un lampeggiare costante di fucilate laddove il taglio teneva miracolosamente insieme quelli che ormai erano solo i brandelli del suo stomaco, e si ritrovò ad urlare per il dolore, il viso inondato di lacrime mentre una belva assetata del suo sangue gli azzannava le viscere strappandole dalla carne, e le mani cadevano in preda agli spasimi incapaci di trovare il bottone rosso per le emergenze in quel cacchio di telecomandino grigio. Armeggiò per qualche interminabile secondo, poi le sue dita non ce la fecero più, e il dolore si espanse vertiginosamente oltre il diaframma mentre come il veleno che si insinuava subdolamente nella circolazione, quell'agonia si irradiava nel suo corpo.

Dean non capiva. Era andato in bagno, poco dopo che Cas se n'era andato, allora perché il suo stomaco gli giocava quello scherzo orrendo solo sei ore dopo? E inoltre aveva solo bevuto un milkshake!!

Con un braccio si strinse l'addome, mentre con l'altro si puntellò su un gomito, cercando disperatamente di girarsi, e vomitò sul pavimento mentre il sapore del sangue gli inondava la bocca ed il liquido scuro nella penombra disegnava un motivo a chiazze sulle piastrelle bianche.

Avrebbe voluto gridare aiuto, ma contrarre i polmoni per prendere aria fu come passarli al tritacarne. Doloroso, e ovviamente una pessima idea.

Fu solo cinque lunghissimi minuti dopo che Meg si precipitò dentro, accendendo la luce e premendo il bottone per le emergenze.

Dean sputò un'altra boccata di vomito e sangue, sperando di non affogarvici dentro mentre le mani della ragazza, così diverse di quelle di Castiel, cominciavano ad armeggiare con anestetici e siringhe, un vociare allarmato che serpeggiava nel corridoio.

Lucifer entrò subito, osservando la scena con occhio esperto per mezzo secondo, poi ordinando agli altri due medici di sedarlo, e di portarlo via.

Via dove? Dove, gente, dove diavolo volete portarmi? Che sta succedendo, è questa la fine? Per piacere, qualcuno chiami Castiel, ho bisogno di lui!”

e come alcuni mesi prima, di un intero pensiero la sua voce gorgheggiò un unico e flebile:

– Cas... – prima che si addormentasse con lo stomaco immerso in un rogo.

 

Il bip-bip-bip della macchina lo svegliò con flemma quasi esasperante. Non appena le sue palpebre si liberarono della pesantezza regalata dalla doppia dose di morfina, lasciarono che i suoi occhi intravedessero nient'altro che un soffitto bianco e riflettente. Non che quell'indizio fosse d'aiuto, nell'ospedale era tutto irrimediabilmente di quel bianco abbacinante che lo accecava a ogni suo risveglio, ma almeno, il saperlo riconoscere ed il consueto -vaffanculo- che aveva dardeggiato nella sua mente come i primi giorni dal suo ri-ingresso nel mondo erano una prova certa del fatto che fosse vivo.

Il dolore era sparito, rimpiazzato solo da una spaventosa sensazione di vuoto e feroce appetito. Si guardò intorno leggermente spaesato, riconoscendo in tutto quell'insopportabile bianco latteo una chiazza nera e abbastanza indefinita che era comparsa vicino al suo braccio. Strizzò le palpebre ed i contorni del viso di Castiel andarono definendosi: la guancia premuta contro al lenzuolo era pallida, ma non si radeva da almeno due giorni, le pesanti occhiaie sotto agli occhi chiusi tradivano un sonno pesante e vischioso come il miele, i capelli, chi l'avrebbe mai detto?, ribelli di protocollo, una mano sotto al capo faceva da cuscino improvvisato.

A Dean venne da sorridere. Fotografò l'immagine di Cas con la mente, ogni singolo millimetro di ciò che vedeva impresso come un sigillo nella sua testa. Probabilmente una delle poche cose belle in mezzo alle vecchie cicatrici degli altri marchi che ricordavano cose per nulla piacevoli. L'incendio in cui era morta sua mamma, l'incidente,... meglio non pensarci.

Sollevò piano una mano e, come negli ultimi tempi aveva ardentemente desiderato fare, la immerse fra le ciocche di capelli scuri, trovandoli incredibilmente morbidi. Accarezzò la testa di Castiel facendo scorrere le dita fin sulla nuca, poi tornando su e strofinando piano i polpastrelli in una sorta di massaggio.

Il ragazzo mugolò piano, visibilmente soddisfatto, e nel sonno serrò una mano intorno a quella di Dean, in una stretta confortevole.

Quest'ultimo sorrise divertito, stringendo a sua volta.

Cas aprì gli occhi lentamente, sbattendo più volte le palpebre come perplesso e facendo vagare un sguardo confuso intorno a sé, soffermandosi a guardare le loro mani chiuse l'una nell'altra come se fosse qualcosa che una parte di lui si era aspettato, ma a cui non voleva credere.

Oh mio Dio, non sta succedendo davvero.”

– Da quanto tempo sei qui? – chiese Dean, la voce rauca, per nulla intenzionato ad interrompere quel contatto. Castiel si raddrizzò, la schiena che scricchiolava come quella di un vecchio decrepito contro lo schienale di plastica della sedia.

– Da quando Meg mi ha telefonato... un'oretta dopo che hanno riparato al mio casino. – disse, leggermente abbattuto. – Avevi bevuto solo un frullato, per fortuna non sospettano nulla. – disse, stringendo involontariamente la mano di Dean, che ricambiò quasi subito.

Nessuno dei due sembrava imbarazzato da volersi lasciare, e andava bene così.

– Allora cosa è successo?

Castiel abbassò subito lo sguardo, facendo per abbandonare la sua mano, ma nonostante fosse ancora mezzo fatto di morfina, Dean la tenne saldamente nella sua.

– Castiel? – l'infermiere si sentì affondare. Era una vita che non lo chiamava col suo nome completo, anzi, non l'aveva mai chiamato così salvo in rare occasioni.

– Mentre eri addormentato, Lucifer ha revisionato la ferita, e ha controllato le condizioni del tuo stomaco. – disse, la voce leggermente incrinata.

– E...?

Cas attese qualche secondo. – è un'ulcera, Dean. È dovuta sia al trauma fisico subito, che a quello emotivo. Mangiare non l'ha peggiorata, ma ha solo aumentato il dolore, e stanotte si è estesa fino ai punti, lacerandone un paio. – spiegò, evitando il suo sguardo.

Il ragazzo percepì il cuore saltare un battito, regalandogli una mostruosa manciata di attimi con il vuoto nel torace. Espirò forte, cercando di non sembrare turbato quanto era realmente. – è grave? Posso guarire?

Castiel strinse anche l'altra mano intorno alla sua alzandosi in piedi ed avvicinandosi e Dean si rese conto di quel contatto così forte solo in quel momento, trovandolo caldo e anche un buon espediente per distrarsi.

– è grave, ma non è nulla di ingestibile, e le prime iniezioni di antibiotico stanno già facendo effetto. Le condizioni fisiche e psicologiche a cui sei stato esposto dopo l'incidente hanno agito indirettamente sullo sviluppo del batterio, quindi da oggi in poi resterai sotto osservazione. – disse.

Dean si sentì leggermente sollevato, almeno aveva speranza di guarire.

Si lasciò andare ad un sorriso, abbandonandosi di peso contro il cuscino. – Mh, vedo che hai studiato. – disse, con fare compiaciuto.

Lasciò scivolare gli occhi sulle loro mani ancora intrecciate e si sentì lo sguardo di Cas addosso, ma non se ne imbarazzò, ma cominciò ad accarezzare il dorso della sua con il pollice, piegando la testa di lato.

Udì un breve sbuffo, ed immaginò che l'amico stesse sorridendo soddisfatto di quel complimento, ma anche un po' in imbarazzo. A Dean piaceva quel lato di lui sempre un po' timido ed impacciato, non poteva fare a meno di trovarlo adorabile e di darsi del matto per quei pensieri così poco Winchester, perché insomma, quella chimica tra di loro (sì, di chimica ce n'era davvero, eh) lo spaventava a morte.

– Ti senti meglio?

Il ragazzo non sapeva cosa rispondere. Alzò lo sguardo e notò che Castiel era più vicino, e gli sembrò di capire che quel buco nero all'altezza dello sterno non era dovuto all'ulcera o a quel milkshake che aveva bevuto... quanto? Due giorni prima? Non aveva importanza, sapeva solo che quella brevissima distanza lo metteva a disagio, e se c'era una cosa che odiava era il sentirsi così con le persone a cui voleva bene.

Puntò gli occhi tra le pieghe del lenzuolo e deglutì. – Sì, sono solo preoccupato. –

Cas sospirò, piano.

– Non devi esserlo, ci sono io. – disse, con la sua solita convinzione e, (“oddio”) con qualcosa di più nella voce.

– La mia unica fortuna. – ammise Dean, dando voce ad un pensiero che sarebbe dovuto rimanere seppellito nei recessi del suo cervello fino alla fine dei suoi giorni.

Ebbe circa due secondi per vedere (nah, meglio ammirare) gli occhi di Castiel brillare più che mai, incredibilmente vicini e luminosi, poi ogni sua percezione sparì nell'esatto istante in cui le loro labbra entrarono in contatto.

Quella piccolissima parte della sua mente ancora attiva constatò subdolamente quanto fossero morbide e di quanto baciare un ragazzo sembrasse appagarlo di più che baciare una ragazza, di quanto cavolo la barba ruvida contro il suo mento fosse eccitante, e se non fosse stato per quell'angolino di razionalità avrebbe sicuramente ceduto alla tentazione di trascinarlo nel letto e il resto lo sapeva solo lui; tuttavia avvolse la mano rimasta libera attorno alla sua nuca e lo attrasse a sé per approfondire il bacio, mentre i loro respiri affannati si mescolavano. Quel contatto così intenso lasciò Dean spiazzato delle sue stesse azioni, e quando Cas si scostò con un debole sorriso, non potè fare a meno di voltare la testa al limite dell'imbarazzo, le guance rosse come non lo erano mai state.

Diamine, aveva appena baciato un ragazzo, era stato tremendamente bello, aveva immancabilmente contribuito alla cosa e non aveva il coraggio di ammetterlo nemmeno con sé stesso.

– Dean? – la sua voce gli parve lontana anni luce, dal tanto che l'apocalisse nella sua testa sfuriava selvaggiamente. Ogni singolo istante era impresso nella sua memoria e più ci ripensava più quella creatura annidata scomodamente in tutto il suo busto faceva le fusa soddisfatta ed eccitata all'inverosimile, più si sentiva male.

Le domande vorticavano nella sua testa come mosse da una centrifuga. Lo avrebbe rifatto? Oh, il suo cervello si rifiutava categoricamente, ma quel gorgogliare quasi felino dentro di sé inviò un discreto sussulto di interesse verso l'inguine, e maledì il suo corpo che ultimamente sembrava ovunque tranne che collegato al centro di comando.

Gli era piaciuto, poi? “Non risponderti, Winchester.”

Quando riuscì a riprendere parte della sua presenza corporea, si sentì sprofondare: Cas aveva un'espressione indecifrabile, quasi confusa, o spaventata, ma euforica, e un sacco di altre cose che lasciavano i suoi occhi nascosti in un velo di impassibilità.

Sentì solo i suoi passi allontanarsi ed uscire dalla stanza, la mano improvvisamente vuota era come sprofondata nell'Antartide.

 

 


 

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Capitolo 7
*** Just to see you ***


Dean passò la notte seguente a tormentarsi su quale senso avrebbe assunto la sua esistenza da quel momento in poi.

Avrebbe voluto pensare che altri baci in vita sua lo avevano sconvolto a tal punto, ma avrebbe mentito a sé stesso e basta, il che nella sua situazione non era molto d'aiuto.

Passò ore ed ore in guerra con testa, stomaco e, sebbene non amasse ammetterlo, con il cuore: il suo corpo lo stava decisamente tradendo, e sentirsi così combattuto gli faceva pensare che se fino a quel momento aveva passato momenti di dubbio, allora era chiaro che mai si sarebbe aspettato di incappare in una situazione simile.

Cercava di distrarsi pensando all'ulcera, a Sammy che era uscito con una ragazza per la prima volta in vita sua ed era così felice, a Bobby che aveva deciso di prenderli con sé a Sioux Falls, ma tutto lo riconduceva a quegli occhi dannatamente azzurri ed intensi, tanto da essere un chiodo fisso nella sua mente e i suoi pensieri una calamita ad esso naturalmente attirata.

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto fare luce su quella storia, quindi tanto valeva farlo immediatamente.

Non poteva negarlo: se non fosse stato tanto in confusione con sé stesso lo avrebbe rifatto. Alla fine quella sensazione che si era impadronita di lui non era poi stata tanto male, ma se il problema fosse stato solo quello, si sarebbe addormentato da un pezzo.

Il problema erano i sentimenti che provava nei confronti di Castiel.

Erano contrastanti, da una parte lo considerava quasi un fratello, e quel bacio era stato come oltrepassare un enorme muro in una sola mossa: elettrizzante, ma pericoloso.

D'altra parte, lo detestava, perché era la prima persona che gli causava tanti grattacapi, ed avere così tanto tempo per risolverli lo faceva impazzire.

Gli voleva davvero troppo bene per perderlo così, ma se davvero gli importava al punto da non osare pensare cosa sarebbe successo quando sarebbe stato dimesso, allora non era solo amore fraterno quello che sentiva.

La verità era che Dean Winchester era irrimediabilmente attratto dall'infermiere, e non aveva idea di come gestire quella situazione, perché fino a quel momento aveva sempre creduto di essere un tipo da ragazze, e invece si stava riscoprendo un tipo da Castiel.

Dopo un attento esame di coscienza realizzò che era inutile continuare a negarlo: lui non voleva le donne, nemmeno gli uomini probabilmente, anche se ripensandoci bene in giro non c'era davvero niente di male, fatto stava che lui voleva Cas.

E questo suo desiderio non faceva che lasciarlo spiazzato, senza una minima idea di come agire, né di come comportarsi.

Che cazzo di casino.

 

Castiel non ci mise troppo tempo a rendersi conto che c'erano buone probabilità che avesse fatto la stronzata del secolo. Non sarebbe nemmeno stata la prima volta, ma quella avrebbe decretato la perdita di qualcosa che per lui si era rivelata era veramente importante, e di questa sua sfortuna che lo portava immancabilmente a soffrire ne aveva ufficialmente piene le tasche.

Tra l'altro, non poteva nemmeno essere sicuro che Dean fosse arrabbiato con lui, perché era stato lui, era stato lui insomma!, che aveva risposto al bacio, e mica gli aveva chiesto di farlo.

Era stato il gesto più avventato che avesse fatto dall'inizio della sua seconda vita, e se ne stava pentendo. Da quando era uscito dalla stanza, la sera prima, non era più passato da Dean, semplicemente perché non sapeva come si sarebbe dovuto comportare.

Lui era innamorato di Dean, ma era evidente che quel sentimento non era ricambiato, e che per il ragazzo non era nient'altro che un buon amico, e la sua frustrazione doveva essere visibile anche dall'esterno.

– Castiel! Vuoi stare attento?! – esclamò Meg stizzita, strappandogli il flacone dalla mano e rovesciando le gocce nella spazzatura, mettendone altre nel bicchierino del paziente giusto.

– Stavi per dare del Valium al signor Baldwin! – gli fece notare, con accentuato tono accusatorio. Sistemò gli ultimi farmaci sul carrello di ronda e controllò un'ultima volta che Castiel non avesse fatto altri casini.

– E allora? – chiese, leggermente scocciato, cominciando a spingerlo lungo il corridoio.

– E allora il signor Baldwin ha 97 anni, se gli propini del Valium ci lascia prima del tempo. – replicò la ragazza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Castiel alzò le spalle, indifferente e troppo immerso nei suoi pensieri per preoccuparsi dell'imminente trapasso del Più Anziano Del Reparto.

– Mi vuoi spiegare che cosa ti prende oggi? Sei distratto ed indisponente, cerca di svegliarti! – lo rimproverò la ragazza, fermandolo all'improvviso.

– Niente, Meg, sto bene. Sono solo stanco e tra poco ho gli esami, ho il diritto di essere frustrato! – sbottò, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto.

Meg alzò un sopracciglio, non aspettandosi tale reazione da una persona solitamente pacata come Castiel Novak. Doveva essere successo qualcosa.

– Pensi di darmela a bere? Lo so che ci sono gli esami, ma secondo me è qualcos'altro che ti turba. – disse, con un sorrisetto malizioso.

Cas la fissò a lungo con i suoi occhi azzurri e penetranti, che la misero in soggezione per qualche secondo, ma si concentrò a mantenere lo sguardo senza cedere.

– Può darsi. Dì che ho la febbre, vado a casa. – disse lui, mollando il carrello ed avviandosi nella direzione opposta senza guardarla più.

Meg aprì la bocca, allibita. Doveva essere qualcosa di grosso se proprio lui si rifiutava di fare quello che amava fare, oppure stava solo per arrivare l'apocalisse e quelli erano i primi segnali.

– Mi lasci a fare tutto il lavoro?! – sibilò, per non dover urlare nel bel mezzo del reparto.

– Esatto! –

– Parlarne ti farebbe bene!

– Non penso.

– Almeno passa a salutare Dean, non ci sei andato oggi, e sono le due del pomeriggio!

– Nah, non gli mancherò nemmeno.

– Allora è questo il tuo problema!

Castiel si fermò improvvisamente, voltandosi per guardarla. Aveva gli occhi leggermente umidi, ma non avrebbe pianto.

– Può darsi. – allargò le braccia in segno di resa, sbuffando sonoramente.

– Che è successo? – la voce di Meg era incredibilmente dolce, adesso che era vicina a lui.

– Ho combinato un casino. – borbottò, premendo le dita contro la base del naso, come se avesse mal di testa.

– Cioè?

– L'ho baciato. – disse, cercando di non guardarla in faccia.

Meg sospirò. – Ahi... e gli hai detto che fra una settimana lasci l'ospedale?

 

 

Ovviamente no.

Come avrebbe potuto?

Aveva terminato il tirocinio, doveva consegnare gli esami, e se tutto andava bene, sarebbe tornato in quell'ospedale come infermiere professionista, ma solo quando Dean se ne sarebbe andato da un pezzo. La verità era che non aveva speranze di rivederlo, e anche se avrebbe voluto che non fosse così, era del tutto impotente. La verità era che aveva baciato Dean perché desiderava farlo prima che partisse, gli era piaciuto un sacco, e ora si pentiva di averlo fatto perché non poteva più andarsene, non senza stare male.

In tutti quei momenti in cui si era ritrovato la mente vuota, ecco che il ricordo delle sue labbra si faceva spazio quasi a gomitate nella sua testa invadendola, colonizzandola e senza alcuna intenzione di lasciarla.

Più ci pensava, più quel groppo in gola aumentava, soprattutto pensando che sarebbe stato qualcun altro a prendersi cura di Dean, qualcuno che non avrebbe fatto caso alle sue ricadute e le avrebbe catalogate con semplici blocchi psicologici, guaribili solo dal tempo, e non gli sarebbe stato vicino aspettando che si riprendesse per raccogliere i suoi pezzi e rimetterli insieme.

Nessuno avrebbe più salvato Dean, e nessuno avrebbe più salvato lui, che già sentiva l'ombra di Gabriel incombere su di lui e lo sparo della pistola risuonare nelle sue orecchie.

Una settimana dopo, se ne andò, senza riuscire a salutarlo.

 

 

Dean soffrì di ansia da separazione ed anemia per quasi due settimane. Il suo apporto di sangue era decisamente basso dal momento che ne vomitava in quantità copiose un giorno sì ed uno no, il che lo rendeva pallido come un cadavere e flaccido come uno straccio bagnato. Ebbe bisogno di due trasfusioni, ed il ricovero fu davvero estenuante, specie perché aveva di nuovo il suo corpo fuori controllo, non sapeva come comportarsi in quel genere di situazione e soprattutto, faticava a muoverlo.

Ogni giorno il dottor Lucifer lo costringeva ad ingurgitare sei o sette farmaci diversi divertendosi ad approfittare della sua blanda autonomia, osservandolo sadicamente strozzarsi con l'acqua o sputare le pillole in segno di protesta per poi minacciarlo con un ago lungo e spaventoso di dover fare il dottore cattivo perché era stato costretto dal suo comportamento infantile, come se si stesse rivolgendo ad un bambino di tre anni.

Veniva continuamente sottoposto a scomodi test e radiografie, al termine dei quali le espressioni sconsolate sulle facce dei dottori lo convincevano che nulla stava andando come avrebbe dovuto, e anche se non gli venivano forniti tutti i dettagli, sapeva che la sua situazione stava lentamente degenerando.

Perdeva peso velocemente, era sazio dopo pochi bocconi ad ogni pasto, il mal di stomaco lo faceva soffrire come un cane, e corse il rischio di ammalarsi seriamente.

Quei quaranta giorni che credeva ci sarebbero voluti per rimettersi, divennero altri due mesi. All'inizio del primo mese subì un intervento chirurgico che gli asportò un terzo dello stomaco: non andò a finire bene.

Aveva una carenza di sangue spaventosa ed una riduzione del midollo osseo, quindi non solo la sua pelle sembrava un sacco vuoto per come muscoli e vene erano rimasti impoveriti lasciando la pelle sottile e fragile e vuota come le foglie che restano su un marciapiede per troppo tempo, ma il suo sistema immunitario era anche stato compromesso.

Passò due settimane in coma farmacologico.

Due settimane di buio e via vai di voci, come aspettando un passaggio sul bordo di un'autostrada: lo notavano, ma nessuno sembrava volersi fermare. Lo guardavano impietositi, ma tutti si rendevano conto di essere di fretta per qualcosa, e scappavano via veloci, sperando che ci fosse qualcun altro senza nessuno verso cui guidare che si fermasse a dargli un passaggio.

Quattordici giorni in cui sperava che Castiel tornasse col suo fottuto tampone a ricordargli che le lacrime erano un riflesso incondizionato del coma, lui avrebbe pensato che era un idiota, ma almeno sapeva di volergli bene e sarebbe passato sopra al fatto che gli stesse bombardando la faccia di pugni che in realtà erano solo tocchi leggeri.

Castiel si era fermato, invece, molto a lungo, ma poi aveva fatto i bagagli, e senza nemmeno salutarlo era ripartito lasciandosi dietro tutte le domande che Dean aveva da fargli.

Lo odiava per questo, sentiva che era scappato da lui, per una questione che, seppur complicata, avrebbero benissimo potuto risolvere a parole, o urlandosi, o in silenzio, o baciandosi selvaggiamente fino a fare l'amore, non aveva escluso l'ipotesi, e gli era indifferente, ma di certo non potevano risolverla con la distanza. Non ricevette nemmeno una sua visita, una sua chiamata, un suo messaggio da parte di Meg, che ogni tanto fra libri ed esami al college si faceva presente per controllare che fosse ancora vivo.

Dean si sentiva come ogni altra volta che qualcuno gli aveva voltato le spalle, solo che quella faceva dieci volte più male, sentiva quella sensazione tutte le volte che gli veniva male all'addome, e cercava di resistere finché non era costretto a vomitare corpo ed anima, finché le mani non erano colte dagli spasimi della febbre e finché non si addormentava, con quello che non poteva che identificare come senso di colpa a stringergli la presa sul ventre. Perché sì, sotto sotto si sentiva in colpa.

 

I primi miglioramenti furono visibili una settimana dopo essersi svegliato dal coma.

Riprese subito peso ed appetito, e finalmente le trasfusioni ebbero l'effetto sperato, facendogli riacquistare colorito e peso. Persino le lentiggini non tardarono a riaffacciarsi sul suo viso, ma per quelle ci volle un po' di tempo.

Se non poteva più contare su Castiel (non gli piaceva quell'idea, e non sarebbe mai riuscito a farci l'abitudine), almeno Sam non si risparmiava: da quando Dean aveva cominciato a stare male sul serio, passava tutto il pomeriggio insieme a lui, facendo i compiti e studiando come un matto per quella difficile scuola che da bravo secchione era andato a scegliersi.

Guardarlo arrovellarsi su disequazioni lineari e confini geografici rilassava Dean. Era bello sapere che Sammy non aveva lasciato che le circostanze influenzassero negativamente il suo rendimento scolastico, che puntava a medie stellari come sempre, e vederlo impegnarsi tanto lo rendeva pieno di orgoglio traboccante, che per qualche minuto lo distraeva da tutto ciò che fino a quel momento era andato storto.

Aveva ripreso a camminare da un po', anche se si stancava dopo una breve corsa, cercava di nascondere il suo sforzo con un sorriso timido.

La ragazza con cui si era visto per il suo primo appuntamento, Jessica, aveva dovuto seguire il padre in Kansas, quindi avevano logicamente smesso di sentirsi e vedersi, ma da qualche tempo usciva con una certa Ruby che una volta era passata anche in ospedale.

Dean non la trovava granchè, il suo carattere non gli piaceva, ma stravedeva per Sam e poteva renderlo felice, chiedeva soltanto quello.

Bobby non poteva mai trattenersi a lungo: ora che aveva “adottato” i due fratelli, doveva lavorare di più, non che la paga non fosse buona, ma era sempre meglio avere qualcosa da parte, e si sforzava di regalare loro la serenità che meritavano.

E nonostante Cas continuasse ad essere il suo chiodo e i suoi pensieri una maledetta calamita, Dean forse stava tornando ad essere qualcosa di vagamente simile ad un uomo felice.

 

 

Fu scagionato una settimana prima della vigilia di Natale.

Aveva davvero trascorso così tanto tempo in ospedale da non rendersi conto che le stagioni erano passate e che per le strade cominciavano a risuonare quei motivetti che solo dopo tre giorni ad ascoltarli poteva tornargli l'ulcera?

Doveva assolutamente rimettersi al passo con il mondo che lo circondava, e visto che sarebbero rimasti a Minneapolis per un po', almeno due lune, come aveva sottolineato Bobby, ne avrebbe approfittato per estendere il suo itinerario oltre al bar sotto all'ospedale che aveva assiduamente frequentato con Castiel.

Assicurandosi di avere abbastanza soldi in tasca da poter comprare un regalo alla sua famiglia, si avviò per le strade innevate guardandosi attorno meravigliato, constatando quanta roba si fosse perso durante la sua permanenza.

Si era lasciato indietro una moltitudine di suoni, colori, odori e sensazioni che non ricordava più di aver visto o sentito, e si sentì colto alla sprovvista da tutte quelle variegature di cui era stato ingiustamente privato negli ultimi mesi.

La neve che affondava sotto gli scarponi faceva un rumore che fino a poco prima reputava inesistente, il sale dei marciapiedi scricchiolava forte, il profumo della cioccolata calda che arrivava dai chioschi sui cigli della strada, le risate dei bambini che si lanciavano palle di neve approfittando delle strade chiuse -una lo colpì ad una gamba inzuppandogli il ginocchio, e convisse con i brividi per una mezz'ora intera: per quanto fosse fastidioso, riprovare certe sensazioni era come tornare a vivere.

Girò un po' di negozi, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto l'albero.

Per Sammy non dovette dannarsi troppo: sapeva quanto gli sarebbe piaciuto l'ultimo libro di Game of Thrones, e decise che era la scelta migliore. Si assicurò che il commesso togliesse il prezzo dal retro della copertina senza lasciare tracce di adesivo, controllò che le pagine non fossero piegate e non lo fece incartare: era una cosa che aveva sempre fatto lui, non intendeva annullare quella sua tradizione.

Per Bobby dovette sforzarsi un po' di più. Conosceva bene l'uomo, ma si ritrovò a girare tre negozi diversi per trovare il regalo giusto: una fiaschetta per tutto ciò che di alcolico aveva in casa e che volesse mescolarvi dentro, e visto che c'erano i saldi, potè farci fare un'incisione sopra senza dover spendere un patrimonio.

Grazie, per non averci abbandonati.

 

Dean non amava fare troppo il sentimentale, ma per una volta poteva lasciarsi andare.

Sapeva che Bobby lo avrebbe apprezzato, e che avrebbe fatto il burbero nonostante la soddisfazione, com'era esattamente da lui.

Dopo aver sbrigato quell'ultima commissione, si fermò in un bar per riposarsi. Si stancava ancora abbastanza in fretta, e nonostante avesse tentato di tenere duro, alla fine le sue gambe lo stavano implorando di fermarsi per dieci minuti soltanto.

Il locale era grande e molto affollato, ci mise un po' a trovare un tavolo libero, ma quando si sedette ed i suoi muscoli intorpiditi dal freddo e dalla stanchezza si rilassarono, potè trarre un sospiro di sollievo.

Abbandonò le sportine accanto a sé, aprendo distrattamente il menu per vedere se le figure di piatti decisamente prelibati gli stuzzicassero un po' l'appetito, ma rimase deluso: non aveva fame, e non poteva farci nulla. Decise di ordinare un decaffeinato tanto perché se era lì per fare nulla gli avrebbero chiesto di andarsene, e quando gli fu portato dovette decisamente compiere un enorme sforzo per arrivare a metà del bicchiere.

Alla fine lo abbandonò tristemente davanti a sé, maledicendo il suo stomaco corrotto di non essere mai d'accordo con il cervello. Si sfilò la sciarpa e fece perlomeno finta di bere quando una cameriera lo squadrò con occhio critico, poi cercò di organizzare i suoi piani.

Probabilmente sarebbe tornato al motel facendo il giro lungo, tanto per poter guidare l'Impala un po' più del necessario e godersi la familiarità della sua piccola cercando di recuperare i mesi che aveva perso a bordo di una sedia a rotelle.

Dopo altri dieci minuti di riflessione, si alzò, pagò il caffè ed uscì, stringendosi nella giacca a vento per ripararsi dal freddo pungente che si insinuava sotto ai vestiti per pizzicargli la pelle.

Attraversò un paio di incroci, gettando brevi occhiate alle vetrine, quando lo vide: il negozio non era tanto grande, quindi il telescopio occupava tutto lo spazio di esposizione accanto alla porta. Fermo su un treppiede metallico, era bianco ed aveva l'aria di essere qualcosa di molto costoso e professionale, ma non fu quello ad attirare la sua attenzione.

Era un manifesto affisso all'interno del vetro con lo scotch di carta, e grosse lettere bianche e fluorescenti lampeggiavano il titolo, visibile a miglia di distanza:

Esposizione esclusiva al nuovo planetario

di Minneapolis,

con osservazione dal vivo della volta celeste!

Mercoledì 27 dicembre, dalle 20.30,

G. Washington Street, 99,

Biglietti disponibili nei punti vendita degli sponsor!

 

Sarebbe stato impossibile notarlo senza pensare immediatamente a Castiel: lui amava tantissimo tutto ciò che avesse a che fare con lo spazio e che appartenesse all'infinità del cielo, non c'era costellazione che non conoscesse e una volta gli aveva detto che se non fosse riuscito a diventare medico o infermiere, avrebbe lavorato nel campo dell'astronomia.

Era quello il motivo per cui il suo sguardo vagava sempre verso l'alto: sapeva che tutto ciò che c'era sopra alla sua testa era bello e misterioso, assolutamente incomprensibile e così affascinante da attrarlo come la luce attrae le falene.

Dean agì senza pensare: si infilò nel negozio e, esultando al fatto che vi fossero poche persone in coda alla cassa, comprò due biglietti. Fremeva d'agitazione al pensiero di cosa stava facendo, ma doveva buttarsi, finchè era ancora in città. Il giorno dell'esposizione ci sarebbe tornato in macchina, o sarebbe partito la sera del 25 per poi rimanere in un motel.

Se voleva davvero rivedere Cas, aveva bisogno della scusa adatta, e dell'occasione adatta. Era inutile continuare a rimuginarci su: il ragazzo non tornava da lui? Ebbene, sarebbe stato Dean a tornare da quell'imbranato del suo Riflesso Incondizionato.

 

Ma ciao a tutti, ragassuoli!

Ebbene sì, sono tornata, ecco il nuovo capitolo!!

come al solito, ci tengo a sapere che ne pensate, quindi fatemi sapere, e credo di non dover specificare nulla, oggi... quindi vi lascio!

Grazie a chi ha recensito/seguito/messo nelle preferite eccetera!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Decisions ***


Okay, gente, questo capitolo è degno di essere quasi a rating arancione, ma giusto un pizzichino almeno, per come la vedo io.

Personalmente, la prima parte è stata sofferta. No spoiler, Danielle!!

 

 

Un mese prima – durante il coma farmacologico, al termine della prima settimana.

Il corpo di Castiel tremava violentemente, ogni centimetro di pelle era coperto da un velo sottilissimo di sudore freddo che lo avvolgeva in una sensazione tetramente spiacevole, ed il suo cuore batteva talmente forte che anche nell'incubo aveva assunto quel ritmo galoppante e forsennato.

Si dimenò sperando di riuscire a liberarsi, ma le mani di Dick Roman erano ovunque, comparivano da ogni angolazione in cui il suo sguardo potesse vagare alla ricerca di uno spiraglio di libertà. Continuavano ad avvicinarsi, a stringersi attorno a lui intrecciandosi in una rete che lo intrappolò bloccandolo al suolo sporco, dove cominciò a tossire la polvere che gli entrava nel naso e che gli faceva bruciare gli occhi a fuoco.

Più si muoveva, più la sensazione di impotenza fisica aumentava, e quella risata gli risuonò nelle orecchie, nella testa, echeggiò nella gabbia toracica fino a percorrergli le gambe come una scarica elettrica, mentre quelle mani cominciarono a ritrarsi dietro di lui dove non potesse vedere che cosa gli avrebbero fatto. Un altro scoppio di risate, stavolta non solo quella di Roman, ma anche altre, tutte animalesche e sguaiate.

Poi all'improvviso sentì le mani, più concrete e gelide che mai, infilarsi sotto la sua camicia, facendosi spazio fra le pieghe del maglione e della stoffa, sgusciando velocemente fino alla pelle e tastandola languidamente fino a sollevarlo da terra e costringendolo a girarsi, continuando a scorrere su e giù, accarezzando profondamente arrivando senza preavviso al bordo dei pantaloni, slacciandoli con un'unica mossa.

Castiel si divincolò, ma come prima fu tutto inutile, e più urlava più quelli ridevano smorzando la sua voce come cacciandogli la testa sott'acqua.

Tolto l'ingombro dei jeans, quelle mani, quelle maledettissime mani cominciarono a toccarlo con invadenza avventurandosi all'interno dei boxer, aspettandosi una qualsiasi reazione che però non arrivò. Cas era paralizzato dal terrore, spaventato da quello che stava succedendo e dalla pistola che era abbandonata lì sulla polvere, poco lontana da lui e che Dick avrebbe benissimo potuto prendere per mettere fine a quello strazio.

– Ehi... finocchio... – la sua voce aveva qualcosa di morboso, maniacale, era appesantita e strascicata, praticamente ansimante. – Non ti ecciti nemmeno un po'?

Castiel mosse un tentativo di evasione da quella gabbia di mani, inutilmente.

Roman fu molto più veloce e, senza alcun genere di preavviso, senza che il ragazzino potesse prepararsi a quello che stava per succedere, affondò in lui tutto in un'unica volta.

Era strano, come il sogno si interrompeva sempre in quel punto, come se anche la volta in cui era realmente accaduto, avesse chiuso gli occhi dirottando la sua mente verso ad un qualche pensiero che lo distraesse da quel dolore invasivo e forzato.

Era assolutamente senza senso. Aveva scoperto da un paio d'anni di essere omosessuale, e da un paio d'anni quel gruppetto di mostri lo punzecchiavano e lo minacciavano facendogli pesare il fatto che Dio l'avesse voluto così e poi gli vietasse di pregarlo. Infatti in quel momento non stava pregando, stava solo pensando che era stupido che le uniche persone che gli avessero dato veramente fastidio rendendo l'essere lui una maledizione, fossero lì a fargli del male... così. Forse Dick Roman lo odiava fino a tal punto perché in fondo era invidioso del fatto che quel ragazzino piccolo e magrolino avesse avuto più fegato di lui dichiarandosi apertamente gay, senza fermarsi ad ascoltare alcun genere di critica.

Ad ogni spinta, il dolore aumentava, le sue mani continuavano a stringerlo per i fianchi affondando le unghie nella pelle mentre lo penetrava sempre più a fondo, e i suoi sforzi per distogliere la sua attenzione si moltiplicavano, fino ad annullare completamente quasi ogni percezione.

Ogni volta che l'incubo si presentava, lo sparo svegliava quel suo intorpidimento denso e vischioso, trascinandolo nella realtà alternativa che il suo cervello continuava a proporgli come per indurlo al suicidio.

La porta del granaio, che a dirla tutta sembrava più un magazzino polveroso, scivolò di lato velocemente, e la figura di Gabriel si stagliò contro la luce pallida dei lampioni all'esterno.

– Castiel! – la sua voce racchiuse in una parola un sacco di tonalità diverse: shock, attonimento, sconcerto, rabbia, paura. Le contrastò coraggiosamente e, nonostante fosse uno contro quattro, si fiondò all'interno verso suo fratello.

Poi lo sparo, il silenzio, la testa che martellava.

E niente, da quel momento in poi, lentamente e come tutte le volte, Cas riprese coscienza, trovandosi metà avvolto dalle coperte e con i sudori freddi, il battito a mille e tutte le sensazioni di quella notte che scoppiavano come granate nel suo cervello. Man mano che lo facevano, riusciva ad identificarle, e la cosa lo sconcertava non poco.

All'inizio era un vago desiderio di essere morto, poi ebbe la stessa impressione che si ha quando si salgono le scale e si crede che ci sia un altro gradino che però non esiste, e ci si sente precipitare spaventosamente in avanti, ma queste due facevano soltanto da sfondo alle altre, che comprendevano una collera assurda, la negazione e la speranza che tutto ciò fosse soltanto frutto della sua immaginazione, e poi, quei lunghi attimi di totale assenza: semplicemente, era talmente allibito che non poteva credere ai suoi occhi, Gabe non era davvero riverso nella polvere con un buco all'altezza del cuore, il sangue che usciva a fiotti impregnando lo sporco ed impastando i suoi vestiti non era veramente suo.

I suoi occhi sembravano incantati, imbambolati quasi come quando vedeva arrivare Balthazar, solo che in quel caso, erano privi di vita e le pupille non erano dilatate, il suo cuore non batteva all'impazzata, perché il suo cuore era stato fermato da un cazzo di proiettile, e il suo sguardo abbracciava tutto intorno a sé tranne che lui, come a dirgli che era colpa sua, che non era stato prudente e che se ora non avrebbe potuto aggiustare tutto quello che si era rotto nelle loro vite, era soltanto perché Castiel era un'irresponsabile egocentrico, che si credeva al sicuro quando per loro di fortuna non ce n'era mai stata a sufficienza da poter sopravvivere nel mondo.

Cas strinse le palpebre e si passò una mano fra i capelli, sperando che quei ricordi si incastrassero fra le dita e rotolassero via lungo la sua spina dorsale.

Scostò le coperte, appoggiando le piante dei piedi per terra ed attendendo che quel fastidioso gelo che rimbalzava dalle dita alle ginocchia scomparisse, per poi alzarsi e dirigersi verso il bagno. Doveva essere davvero molto presto, a giudicare dal colore vagamente azzurrognolo che l'orizzonte oltre la finestra stava prendendo, appena le cinque, ma visto che sua mamma si sarebbe svegliata di lì a poco, decise di fare una doccia lo stesso.

Si spogliò velocemente, esaminando il suo corpo come a cercare i graffi che quella sera gli aveva lasciato, ma non trovò nulla di eclatante, e si infilò sotto al getto d'acqua fredda.

Le sue membra furono percosse da un tremito, ma questo bastò a svegliarlo un po' di più, e reclinò la testa all'indietro lasciando che l'acqua gli scorresse sul viso, scendendo sulle spalle e seguendo il profilo di quel minimo minimo di addominali che si ritrovava. Avendo passato la vita a correre (dai bulli, per prendere il treno, o perché non era esattamente un tipo puntuale) e ad allenarsi in palestra, aveva sviluppato la resistenza fisica che gli consentiva di sopportare i turni di notte all'ospedale e a restare alzato fino a tardi per studiare, o per armeggiare con tutta la sua attrezzatura astronomica che sì, aveva, e ci erano voluti anni di lavoretti part-time per assemblare.

In realtà, se suo padre avesse mai avuto un minimo di importanza in quella famiglia, era solo perché lavorando ora in Giappone, ora in Germania, ora ovunque tranne che accanto a loro, poteva permettersi di sperperare soldi come se fossero state caramelle.

Tutti i mesi inviava a sua madre un assegno ingente che loro potevano usare come volevano. Avevano una bella casa, Castiel frequentava un'università prestigiosa (vietandogli di usare i soldi della borsa di studio), i suoi fratelli erano ufficiali della marina e Heather Novak aveva smesso di usare quei soldi senza un minimo ritegno qualche mese dopo la morte di Gabe e la quasi-morte di Cas, per regalare a suo figlio una vita migliore, ed essere più presente.

Nel profondo, lui non si era mai sentito veramente felice, ma stava bene: mamma era sempre stata l'unica donna che avesse mai amato, anche se per i primi quattordici anni non era una colonna molto salda, se decideva di rimediare, sapeva esattamente come farlo, e entrambi sapevano che quei soldi che arrivavano dal conto bancario del padre erano solo un optional. Qualunque madre può fare miracoli, solo seguendo l'istinto materno.

Quando anche lei si svegliò, Castiel era alla ricerca di un paio di pantaloni, ma con tutti i pensieri che aveva in testa continuava ad aprire l'anta sbagliata dell'armadio e quell'unica volta che ci aveva preso, si era dimenticato di quale indumento avesse bisogno.

– Castiel? – la voce assonnata di Heather gli giunse leggermente distante ed ovattata, ma la sentì lo stesso. Mugolò un breve “buongiorno” in risposta, appoggiando la fronte all'anta dell'armadio, vinto dalla stanchezza nonostante la doccia fredda.

– Tutto bene? – stavolta era più vicina, e gli fece uno strano effetto sentire la sua presenza nei pressi del suo corpo.

Si voltò lentamente e la fissò come se non la vedesse da giorni.

Era una donna piuttosto bassa, sulla cinquantina, dai capelli biondo scuro e gli occhi castani, le guance leggermente paffute e pallide a causa del sonno. La somiglianza con Gabriel lo sconcertava ogni volta. Nemmeno lui era troppo alto, con gli occhi marroni e docili nonostante brevi e ricorrenti lampi di malizia, i capelli color cioccolato ed il sorriso gioviale.

Come al solito, cercò di non lasciarsi sopraffare dall'elenco di similitudini che il suo cervello cominciò automaticamente a snocciolare e si decise a tirar fuori un paio di pantaloni dall'armadio, cominciando ad infilarseli.

– Sono solo stanco. – rispose, mentre lottava con l'asola.

Heather Novak inclinò la testa di lato, come del resto faceva anche Castiel di tanto in tanto, e lo squadrò insospettita. – Hai studiato di nuovo fino alle due? – chiese, puntando le mani sui fianchi senza distogliere il suo mirino accusatorio.

– No, tranquilla. So che non rendo bene quando lo faccio. – rispose il figlio, richiudendo l'armadio e sedendosi sul materasso per infilarsi le scarpe.

– Quindi hai dormito male. Di nuovo. – appurò la madre, catalogando come avvisaglie di una notte passata fra incubi e dormiveglia le occhiaie scure ed il pallore spettrale sul volto del ragazzo.

– Non è una novità. – disse Castiel, evasivo.

– Lo so, ma nemmeno quello ti fa rendere al massimo. Non pensi sia meglio prendere un po' di valeriana, prima di andare a letto? – propose lei, avvicinandosi e circondandogli le spalle con un braccio. Appoggiò la testa sulla sua spalla e strofinò il palmo lungo la schiena tesa di Cas, sentendo i muscoli contratti rilassarsi un po'.

– Non servirebbe. Credo che la valeriana non possa grachè contro questo genere di disturbo post-traumatico. Ma apprezzo l'interessamento. – puntualizzò, baciandole i capelli.

– Sono passati otto anni, ormai! – protestò la madre, tuttavia inascoltata.

– Devo andare a scuola, ci vediamo oggi pomeriggio? – il ragazzo si alzò dando chiaramente a vedere di non essere dell'umore di parlarne facendo per uscire, ma Heather scattò in piedi al suo seguito piazzandosi in mezzo alla porta senza alcuna intenzione di lasciarlo passare.

– Pensi di saltare la colazione? – chiese, un sopracciglio alzato con fare minaccioso.

Castiel si concesse una breve risata, alzando gli occhi al cielo: doveva davvero troppo a quella donna, ma quando lo costringeva a fare colazione come uno scolaretto delle elementari diventava davvero insopportabile.

 

 

Non poteva farci nulla: Dean gli mancava, e quel che era peggio, sentiva di essere ancora innamorato di lui nonostante fossero passati quasi due mesi dall'ultima volta in cui l'aveva visto. Il ricordo del bacio era ancora impresso nella sua mente come un gigantesco cartello al neon: anche se gli dava le spalle, quel caleidoscopico lampeggiare gli ricordava che c'era, e più tentava di seppellirlo nelle profondità del suo subconscio, più continuava ad illuminargli a giorno tutti i pensieri.

Sentiva di aver fatto una cretinata ad andarsene così di punto in bianco senza nemmeno salutarlo, da quel giorno in cui era tornato all'università per consegnare gli ultimi esami non aveva più avuto sue notizie. Meg andava spesso a trovarlo, e tutte le volte che tentava di dirgli qualcosa in proposito, o cercava di farlo parlare, Castiel si rinchiudeva senza lasciar entrare nessuno nella sua bolla fatta delle convinzioni che aveva:

a. amava Dean.

b. era un imbecille.

c. doveva muovere il culo e tentare di fare qualcosa.

 

Per quanto obbiettasse, isolarsi così ogni volta che l'argomento era nel raggio d'azione dei suoi radar faceva solo in modo di rimandare il punto c., ma era deciso a darci un taglio.

Doveva tornare da Dean, il quale probabilmente lo avrebbe odiato con ogni fibra del suo corpo, e avrebbe tentato di farsi perdonare, di riscattarsi.

La verità era che aveva avuto tanta paura di sé stesso e quello che aveva fatto a lui da non riuscire più a trovare il coraggio di spiegarsi.

Attraversò la hall principale della scuola e si diresse verso la sua classe, dove avrebbe frequentato i corsi terminali prima degli esami del secondo anno a marzo[1], salutando di tanto in tanto le persone che conosceva.

Per certi versi, era bello essere tornato in quel posto, dove la probabilità di veder morire delle persone era relativamente più bassa rispetto a quella dell'ospedale.

La lezione passò con discreta velocità, di sicuro meglio della normale flemma con cui di solito si trascinava lungo i minuti, ma solo perché il cervello di Castiel era in piena fase lavorativa.

Doveva trovare un modo per vedere Dean, inventarsi un copione del suo discorso valutando tutte le probabilità di risposta, ed assicurarsi di non essere picchiato a sangue prima ancora di iniziare a parlare.

Non voleva esagerare, ma sapeva che il ragazzo era incazzato nero solo perché lui lo sarebbe stato, al posto suo, e si sentiva tremendamente in colpa per questo.

Alla fine, visto che la sua mente non aveva partorito nessuna buona idea, decise di rifugiarsi nella tavola calda del campus per mangiare qualcosa. Magari a stomaco ancor più pieno di quanto già non fosse, sarebbe riuscito ad inventarsi qualcosa.

– Lascerai che ti parli del tuo ragazzo, adesso?! – Castiel per poco non si strozzò con il caffè.

Meg era in piedi alle sue spalle, lo fissava con rimprovero degno di sua madre e gli occhi ridotti a fessure non ammettevano alcun genere di replica o protesta.

Senza essere invitata, si sedette al tavolino, chiudendosi la porta del locale alle spalle facendo entrare una ventata gelida di novembre, che colse Cas senza sciarpa e lo fece rabbrividire. Strinse le dita attorno al bicchiere di carta, giocherellando distrattamente con il bordo del coperchio scuro.

– Ci stavo pensando. – disse, quasi in un bisbiglio. Meg accavallò le gambe.

– A cosa?

– A Dean. A cosa potrei fare. – ammise.

La ragazza sbuffò, ridacchiando sarcasticamente. – Sarebbe anche ora. Vuoi sapere com'è messo, o ti inventerai una scusa per nasconderti da qualche parte ad autocommiserarti per la tua pessima scelta di abbandonarlo a sé stesso? – attaccò, acidamente.

Castiel alzò le mani in segno di resa, facendole comunque notare che quello era un colpo basso. – Come vuoi. – sorseggiò lentamente il caffè, aspettandosi col cuore a mille che Meg cominciasse subito a parlare, cosa che non accadde.

Prima, sospirò.

– è in coma farmacologico. Lo hanno operato sei giorni fa. – Cas alzò lo sguardo, fissandola allibito, sentendosi sbiancare in viso e la terra mancare sotto i piedi.

– Cosa? – la sua voce era flebile come non mai.

– L'ulcera è peggiorata da quando te ne sei andato. Sai, no? Ansia da separazione. Fatto sta che gli hanno asportato un terzo dello stomaco, e i dottori hanno paura ad interrompere il coma. Sai perché? –

Castiel rimase solo qualche secondo fermo a quell'“ansia da separazione” , ma certo, che lo sapeva, e più perché l'aveva studiato, perché la sua stessa pelle aveva un'idea abbastanza precisa dell'effetto di quelle parole.

Quando aveva rischiato di morire, a causa del coma etilico, era stato anche lui costretto a quel sonno altalenante in cui il mondo esterno era accessibile solo uditivamente: ricordava bene quando un medico aveva detto alla madre che interromperlo avrebbe potuto costargli un enorme sforzo fisico, che lo avrebbe portato ad un arresto cardiocircolatorio e respiratorio, e che quindi era meglio attendere che il suo corpo si rivelasse pronto a rispondere agli stimoli per farlo tornare alla tragica realtà.

E lui per Dean non poteva fare nulla? No, qualcosa avrebbe potuto fare, sarebbe andato a trovarlo, ma forse c'era qualcos'altro che avrebbe tentato. All'improvviso, l'ispirazione fu come una folgore.

– Sì, lo so. – rispose, con un fil di voce. – Ma so anche che ce la farà. – continuò, convinto. – Ne sono incondizionatamente certo. E ho in mente qualcosa che potrebbe incentivarlo.

 

 

L'idea era appena una bozza, nient'altro che una candela nel buio che gli consentiva di vedere solo un po' di questo e un po' di quello che sarebbe stato il quadro finale, ma aveva un'idea abbastanza precisa del contesto in cui intendeva muoversi.

Se lui aveva la sua fissazione per l'astronomia, anche Dean gli aveva raccontato di un suo piccolo progetto che avrebbe cercato di inserire nel suo futuro: da una parte, avrebbe desiderato seguire le orme di suo padre, e studiare zoofilia, ma dall'altra, ogni cosa che potesse essere assemblata, smontata, costruita secondo uno schema anche di precisione millimetrica, aveva su di lui un enorme ascendente, e avendo passato tutta la vita attorno alle macchine nella rimessa di Bobby, ad aiutarlo a costruire interi motori e a riportare allo splendore vecchie carcasse che avevano tutta l'aria di non poter correre mai più.

Gliene aveva accennato, ma ricordava molto bene come si erano illuminati i suoi occhi, parlandone. L'unica volta che aveva detto qualcosa in proposito, era stato durante una delle loro scappatelle al bar, perché Dean si sentiva a suo agio in quell'ambiente nonostante fosse un tipo estremamente riservato ed incline a tenersi molte cose per sé.

Se quello era il punto da cui Cas intendeva partire, la meta era altrettanto precisa: nella sua stessa università, c'era la facoltà di ingegneria clinica.

E più ci pensava, più era certo che quella facoltà fosse perfetta per Dean Winchester.

 

Allora: partiamo dal nostro punto [1]:

l'ho messo semplicemente per avvisarvi che per quanto riguarda i sistemi scolastici ed universitari americani, io sono piuttosto ignorante, quindi se qualcuno di voi è evidentemente più informato di me, non spaventatevi perché ho scritto ad intuito.

 

E arriviamo alle note:

come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e abbiamo visto che anche Cas si è deciso a fare qualcosa, e a quanto pare sta pensando in grande! Non è un caso che entrambi abbiano deciso di basarsi sulle loro passioni nascoste, ma staremo a vedere che cosa succederà più avanti... per questo continuate a seguire, e voglio sapere cosa ne pensate, quindi recensite!!!

Ciao ciao, un bacione a tutti!!

-D

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Capitolo 9
*** Opening eyes ***


*Si nasconde dietro al Bodyguard*

*si rende conto che no, non ha un bodyguard*

*Ammette di essere in un ritardo abissale e si decide ad arrivare al sodo*

vorrei solo avvertire che in questo capitolo potrebbero risultare un po OOC i personaggi!

Buona lettura!!

 

Quando Sam sollevò la testa dal libro di trigonometria avrebbe giurato di essere sull'altro capo della terra, perché eccetto per la luce gialla e fioca della lampada, la stanza del motel era immersa in un buio bluastro dalla sfumatura delle sei di sera. Erano le undici di mattina quando aveva iniziato, il suo stomaco era vertiginosamente vuoto e la sensazione della fame assassina che lanciava cupi brontolii dal suo ventre gli ricordò che se non si fosse controllato, avrebbe potuto mangiare una persona.

Si passò le dita fra i capelli castani, che per la cronaca non vedevano l'ombra delle forbici da parecchie settimane, mentre con l'altra mano chiudeva a fatica l'enorme tomo che nel giro di qualche giorno gli avrebbe sicuramente fatto colare ciò che restava del suo cervello giù da un orecchio. Quel giorno era rimasto solo: Bobby era tornato a casa, per finire di sistemare, mentre Dean aveva deciso di andare in giro per la città abbandonandolo in compagnia della famiglia di ragni stanziati nell'angolo del soffitto e del turbinare ciclonico di pensieri nella sua testa.

Si alzò in piedi, stirò leggermente la schiena eseguendo una semplice torsione ed aprì il laptop, sperando che una qualche serie tv lasciata a metà gli impedisse di pensare.

Ma non si può smettere di pensare, realizzò.

Eh, troppa grazia.

Sam Winchester aveva sempre il cervello in moto, quindi non poteva fermare tutto quel frullare selvaggio che era diventata la sua testa, e se prima era un pensatore di prima categoria, dopo l'incidente le cose verso cui dirottare la sua mente si erano moltiplicate.

Gli bastava compiere uno sforzo infinitesimamente piccolo, e il suo corpo diventava una voragine colma di assoluto caos traboccante.

Da quando suo padre era morto, si era concesso un po' di tempo per piangersi addosso, non poteva negarlo perché lo aveva fatto, ma il resto lo aveva passato accanto a Dean in attesa che si svegliasse, e per quello aveva dovuto essere forte, per sé stesso ma anche per suo fratello. Vederlo ogni giorno più magro e scarno, più vicino all'essere un'entità fredda e senza vita, prosciugata da ogni energia, lo aveva letteralmente segnato, forse più della scomparsa di John.

Aveva avuto una paura folle, ma non era quella grossolana che lo coglieva come una valanga e lo lasciava soffocato sotto a mille domande e zero risposte, era il genere di paura che come un respiro gelido gli si insinuava nel colletto della camicia e penetrava sotto pelle, ricoprendo di brina ogni sua parte, facendogli perdere la funzionalità del suo intero corpo lasciando però il suo subconscio spaventosamente attivo. Era il genere di angoscia sottile che gli paralizzava le membra e veniva covata dalla sua stessa mente, crescendo ogni giorno un po' di più fino a colonizzare tutte le sue cellule.

Non ci aveva nemmeno provato, a scacciarla. Aveva attecchito saldamente a lui e non poteva fare nulla per salvarsi, e nemmeno per salvare Dean: l'incertezza di cosa sarebbe successo poi aveva graffiato la sua anima rendendola un mucchio di brandelli, finché non si era reso conto che per tutto quel tempo si era sbagliato.

La paura era solo un involucro di ghiaccio, una maschera dal volto contorto che racchiudeva come un fascio di catene tutta la rabbia che si stava costringendo a reprimere, e che aveva bisogno di sfogare.

Appena riebbe indietro l'uso della parte inferiore del corpo, o perlomeno quella che per un po' era andata in vacanza, dopo che suo fratello si era svegliato, aveva cominciato a frequentare la palestra vicino all'ospedale, così da poter raggiungere Dean in qualsiasi momento. Se non altro era un buon modo per scaricare tutta la frustrazione che gli avvenimenti di quell'estate avevano accumulato dentro di lui.

Aveva portato il modulo a casa e aveva chiesto a Bobby di firmarlo, che sembrava contento di vedere Sam tentare di andare avanti, e già quello stesso giorno aveva cominciato.

Non dicendo nulla a Dean, che doveva pensare a sé stesso ed alla sua ripresa senza preoccuparsi dei suoi pomeriggi impiegati nello scaricare la rabbia, passava un paio d'ore come minimo ai pesi, o al sacco da box, o al bilanciere, e tutto ciò si stava rivelando una cura migliore di qualunque medicina. Non era un toccasana solo per la sua mente, ma anche per la sua forma fisica, che migliorò nel giro di poche settimane, tonificando il suo corpo magro e regalando al suo fisico già abbondantemente slanciato una discreta muscolatura.

 

 

Quel giorno in particolare, non sapeva che ci avrebbe incontrato Castiel.

Lo individuò immediatamente, poiché se nella sala le persone erano quantomeno radunate o spostate da un lato, il ragazzo era completamente in disparte, a fronteggiare il sacco da boxe con sguardo concentrato ed assetto scattante. Il busto era piegato in avanti, la guardia alta nei guantoni rosso sbiadito nascondeva parte del viso, i muscoli della schiena guizzavano per la tensione contro il cotone grigio della maglietta, il respiro sottile, regolare, tutto della sua figura emanava forza e resistenza.

Sam si avvicinò titubante, osservandolo sferrare un pugno al sacco emettendo un gemito per lo sforzo, mentre quello si piegava e rimbalzava indietro, ritornando poi in direzione del ragazzo che lo schivò e lo rimise fermo con le mani.

Si preparò di nuovo, mosse agilmente le gambe e colpì di nuovo, stavolta piazzando due ganci consecutivi contro il tessuto che rivestiva il sacco.

– Ehi, Castiel. – Sam si sedette sulla panca, cominciando a tirare fuori i guanti, sorridendo debolmente al ragazzo che si voltò verso di lui piuttosto stupito di vederlo lì.

– Ciao, Sam. Come stai? – Castiel dovette compiere un grosso sforzo per apparire impassibile, ma conosceva Sam e sapeva quanto il più giovane dei Winchester fosse intelligente: non se la sarebbe bevuta nemmeno per finta.

– Non mi lamento. – dichiarò il ragazzino, lapidario, e puntando -per quanto fosse dura- lo sguardo negli occhi azzurri ed infiniti di Castiel. – Dove sei stato?

Ecco, Cas se l'aspettava. Non doveva essere preoccupato per quello che avrebbe potuto dirgli, ma Sam era molto più maturo, aveva visto più cose di molti ragazzi della sua età, e in tutta onestà una ramanzina da parte sua lo spaventava un po'.

– All'università, ho finito il tirocinio. – disse, come se fosse assurdamente ovvio. Sferrò un pugno al sacco, un po' meno convinto dei precedenti, ma non si scompose.

Per quanto tentasse di evitare lo sguardo di Sam, i suoi occhi verdi lo attrassero come una calamita, e vi lesse rimprovero e disappunto.

– Che c'è? – chiese, forse la sua voce suonò un po' troppo frustrata.

– Dean ha rischiato di morire. Di nuovo. Non saperti lì è stato devastante per lui. – La voce del giovane Winchester suonava piatta e tagliente.

Castiel distolse gli occhi ed abbandonò le braccia lungo ai fianchi, come se si fosse scordato come usarle contro il sacco da boxe. Corrugò la fronte, pensando a come scappare da quella situazione sia imbarazzante che dolorosa, e il sorprendersi a tentare di scappare per l'ennesima volta fu come ricevere la scossa.

Rimase impalato lì a fissare un punto indefinito appena sopra la linea del suo sguardo, come cercando un appiglio nel vuoto di fronte a sé.

– Lo so. Meg me lo ha detto. – disse, la sua voce suonò roca e bassa, colpevole.

Sam inarcò un sopracciglio. – Ed era troppo impegnativo passare anche solo ogni tanto? Sa che hai molti esami, avrebbe capito se glie lo avessi spiegato di persona, non si sarebbe arrabbiato. – si alzò di scatto, stringendo lo strap dei guanti e piazzandosi dall'altra parte del sacco.

– Non ho idea di quello che stia succedendo fra voi. – disse, poi vibrò un pugno al centro della X fatta con lo scotch nero con tutta la forza che aveva nel braccio. – Ma Dean è stato male, ed il modo in cui te ne sei andato lo ha ferito. – un altro pugno, il sacco vacillò avanti ed indietro, assumendo un ritmo altalenante.

Castiel lo fissò, impassibile. – Pensi che non lo sappia? – con un gancio preciso ed esperto, lo rispedì verso il ragazzo. – Pensi che io lo abbia fatto con leggerezza? –

Sam si scansò dalla traiettoria dell'attrezzo e lo fermò con le mani. Caricò indietro il gomito, ma Castiel lo fermò e lo aggirò, fermandosi davanti a lui.

Rimase un attimo perplesso dal fatto che lo stesse raggiungendo in altezza, ma decise di non darci troppo peso. – In questo modo, – iniziò, con fare pratico, sfilandosi i guanti. L'aria fresca a contatto con le mani accaldate lo rilassò un attimo. – Rischi di slogarti una spalla. – continuò. Ignorando la riluttanza di Sam a farsi prendere i polsi, glieli sollevò davanti al viso, posizionandoli nel tipico atteggiamento della guardia alta. – Muovi i piedi, spostando il peso da una parte all'altra, così. In questo modo sei sempre pronto a schivare. Ora piegati leggermente in avanti, e fletti le ginocchia... bravo. Adesso prova a colpirmi. – Il ragazzo, che fino a quel momento aveva diligentemente assecondato le sue spiegazioni, si bloccò. – Cos...?

– Non mi farai male, tranquillo. – Castiel alzò i pugni chiusi davanti alla faccia, squadrandolo attentamente attraverso il bordo delle nocche sbiancate. Sam però rimase immobile, titubante.

– Avanti, Winchester, colpiscimi! – esclamò, incitandolo, e Sam spostò indietro il gomito, mirando al suo viso. Fu un attimo, ed il suo colpo incontrò l'aria a pochi centimetri dall'orecchio di Castiel, che con uno scatto laterale aveva schivato a sufficienza da non essere preso sul naso.

Il ragazzo lo fissò esterrefatto. – Ci ho messo tutta la forza possibile! – disse, passandosi il dorso del guanto sulla fronte per scostare i capelli.

– È questo il tuo errore: non devi essere forte, ma veloce, e strategico. Puoi colpire con tutta l'energia dei tuoi muscoli, ma se l'avversario ha più forza di te ed una migliore difesa, non puoi nulla contro di lui. Velocità, costanza e strategia. – Replicò, riportando i polsi davanti al viso.

– Cerca di tenere i gomiti un po' più aperti.

Sam rimase pensieroso per qualche istante, poi annuì energicamente.

Fecero qualche altra prova, e nel giro di una mezz'oretta Castiel capì che forse era meglio adottare una tecnica diversa quando per poco il ragazzo non gli ruppe il naso sul serio. Si piazzò dietro al sacco e distribuì il suo corpo sopra di esso per tenerlo fermo, facendo cenno a Sam di avvicinarsi.

– Proviamo in questo modo: io lo blocco, così non si sposta, tu cerca di colpirlo velocemente e resistendo il più possibile. –

Nel giro di poco, i ganci di Sam si fecero più dritti e precisi, più veloci e anche più forti, quasi costantemente. Durò una decina di minuti, finché non si abbandonò sulla panca stremato dallo sforzo di dosare la forza e di tenere ogni sua parte del corpo in allerta, mantenendo il ritmo degli spostamenti e dei pugni finché le braccia e le spalle non cominciarono a fare parecchio male e dovette chiedere il timeout.

Si tolse i guanti e fece flettere le dita indolenzite, passandosi una mano fra i capelli che si erano appiccicati alla fronte per il sudore. Anche Castiel sembrava stanco, ma quando era entrato si stava già allenando da un po', quindi era comprensibile che avesse il fiatone quanto Sam.

– Sei bravo, sai? Impari molto in fretta.

Sam prese un sorso dalla bottiglietta d'acqua e la offrì a Cas, che rifiutò con un gesto della mano. – Tu sei un buon insegnante. Da quanto pratichi la boxe?

– Da cinque anni, ma mi son sempre limitato ai semplici allenamenti. Non mi interessavano gli scontri. – disse, passandosi una mano sul viso sudato.

– Ah, no? – il ragazzo era perplesso.

– Già, – confermò – se devo essere onesto, avevo solo bisogno di imparare a difendermi. – ammise, abbandonando la schiena contro al muro.

Calò un silenzio leggero e rilassato, nulla di imbarazzante, mentre Sam cominciava a sistemare i guanti nella borsa ai suoi piedi cercando di interpretare le parole di Castiel.

– Papà lo diceva spesso, a me e a Dean. – mormorò, abbassando lo sguardo facendosi improvvisamente serio. – Che dovevamo saperci difendere. Dean era la sua ombra, venerava tutto ciò che faceva, ma io non reputavo le mani un buon modo per risolvere i problemi e mi rifiutavo di imparare. – abbozzò un sorriso amaro e nostalgico, privo di vera felicità nel ricordare tutte le discussioni che erano state parte del suo rapporto con John Wincester e che lo avevano, nonostante tutto, cresciuto al meglio.

Castiel lo stava fissando. – Avevi il diritto al libero arbitrio.

– Lo so, ma era mio padre! Non avrei dovuto dargli tante delusioni.

– Scommetto che non lo hai fatto davvero.

– L'ho fatto, e non ci avrei nemmeno pensato se avessi saputo che sarebbe finita così. – replicò Sam, inamovibile. Appoggiò la testa al muro, reclinandola all'indietro e chiudendo gli occhi.

– Andiamo, come potevi saperlo? Non ci si deve colpevolizzare per qualcosa che non abbiamo commesso. – disse Castiel, sorridendo debolmente, ma in modo pur sempre rassicurante. Il ragazzo rimase in silenzio, schiudendo le palpebre e squadrandolo sospettoso come indagando sul suo viso alla ricerca di chissà quale indizio.
– Allora, se è come dici tu, nemmeno Dean dovrebbe colpevolizzarsi per il fatto che tu lo abbia abbandonato a sé stesso. – Scattò, piantando il suo sguardo di rimprovero negli occhi azzurri dell'infermiere.

Cas sussultò, spiazzato. Era stato messo all'angolo, con le spalle al muro e privo di qualsiasi via d'uscita senza nessuno sforzo da parte del giovane Winchester, che sembrava essere perfettamente a conoscenza della svolta che quella conversazione avrebbe preso. Lo fissò spaesato, sentendosi tremendamente esposto ed insalvabile.

– Stai dicendo che lui si sente in colpa perché io sono un idiota? Questa è buona, l'ho capita persino io. – disse, sorridendo sarcastico (sul serio, aveva fatto del sarcasmo? Okay, magari no, ma ci era andato vicino!).

– Esatto. Non ho idea di che cosa dovrebbe accusarsi, ma il fatto che tu sia sparito così all'improvviso e non ti sia fatto più vedere ha influito sulla sua guarigione! – Esclamò Sam, intendendo nessun tipo di replica da parte di Castiel.

– Senti, non voglio parlare di Dean. È stata una decisione sofferta anche per me, e sembra che tu mi stia accusando di omicidio indiretto! – Rispose comunque, sentendosi un po' a disagio discutendo del ragazzo per il quale aveva più di una semplice cotta con il fratello minore, che oltre ad avere sei anni in meno di lui era anche al suo stesso livello di maturità.

– Bè, non è che tu abbia lasciato ad intendere di essertene veramente fregato, voglio dire, avevi finito la carta da lettere o cos'altro? – Sam alzò la voce, tirandosi in piedi e puntando le mani sui fianchi, gettandò una breve occhiata al resto della sala che, con l'avvicinarsi dell'orario di chiusura, si era vuotata.

L'espressione di Castiel si fece improvvisamente perplessa. – Non si spediscono più le lettere, o almeno non in queste circostanze. – gli fece notare.

Sam alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla: da quel punto di vista era assolutamente senza speranza.

– Il punto è che avresti anche potuto salutare invece che volatilizzarti senza dare più tue notizie! Dean ha creduto che fosse colpa sua, quando in realtà era soltanto tua, e l'ho visto morire di nuovo, Castiel! Ho avuto paura che se ne andasse davvero, che mi lasciasse solo! Capisco che non te ne fregasse niente, ma non credo nemmeno tu sappia cosa si provi. –

Quando vide l'ennesima mutazione sul viso di Cas, Sam si pentì immediatamente di ciò che aveva detto. C'erano un miliardo di sensazioni almeno che balenavano nello sguardo del moro, facendo sembrare i suoi occhi infiniti e tempestosi come l'oceano.

Rabbia, paura, nostalgia, confusione, incredulità, tristezza, angoscia, ed il Winchester ebbe quasi paura che si fosse bloccato, o che non sapesse cosa dire.

Non sapeva nulla di Castiel, non aveva il diritto di giudicarlo così, e considerando il modo in cui la sua espressione sembrava persa come smarrita in un mare senza bussola, aveva fatto male.

Avrebbe accettato una sfuriata, o una predica, qualsiasi cosa, lui era adulto e non meritava di essere trattato così da un ragazzino, ma se la possibilità di un Castiel veramente incazzato era inimmaginabile e lo spaventava, quello che accadde lo lasciò ancor più di sale:

sembrava stranamente apprensivo, quasi mite, ma sotto quello sguardo sornione era celata la più infinita tristezza che Sam avesse mai visto negli occhi di un essere umano, incluso suo fratello.

– Ho visto mio fratello venire assassinato davanti ai miei occhi. So cosa si prova, e questo è il primo punto su cui sei in errore, Sammy. Il secondo, è il fatto che Dean, in queste settimane è diventata una delle persone più importanti della mia seconda vita. Ma per il resto è tutto vero, è colpa mia se me ne sono andato senza dire nulla. Lui non ha nulla di cui rammaricarsi.

Sistemò la borsa e chiuse la lampo con un gesto sbrigativo che tradiva la sua frustrazione, se la issò in spalla ed attraversò la stanza. Sam rimase impalato senza dire nulla, troppo sconvolto ed ancora incapace di metabolizzare quello che aveva appena sentito.

Quando si riscosse, Castiel era sulla porta, con le dita chiuse attorno alla maniglia, e stava uscendo.

– Cas, aspetta!

Il ragazzo si bloccò sulla soglia.

– Mi dispiace. Mi dispiace davvero, io non lo sapevo, e sono mortificato. Se sei arrabbiato con me, ne hai tutto il diritto, e non te lo negherò. Ma Dean è mio fratello, è la mia famiglia, e non potrei volergli più bene di così. E vederlo soffrire in quel modo, più per la tua sparizione che per la malattia mi ha devastato, e sto cercando di intuire come sono andate le cose perché voglio aiutarlo. È stato dimesso, ma si vede un miglio che ancora gli manca qualcosa. O qualcuno. Diamine, io non capisco più nulla. – si passò una mano fra i capelli e tornò verso la panca, sollevandoci sopra la borsa e sistemando le ultime cose, aspettandosi che Castiel se ne fosse andato mentre lui gli dava le spalle.

Invece era ancora lì, e studiava i suoi movimenti con il capo inclinato e lo sguardo perplesso.

– Se era solo capire, ciò che volevi, avresti potuto chiederlo prima. – disse, rassegnato.

– La verità è che amo tuo fratello in tutto ciò che lo caratterizza, e proprio perché sono innamorato di lui non posso costringerlo ad essere qualcosa che non è.[*] –

sorrise brevemente, spostò lo sguardo imbarazzato sul pavimento e, senza attendere nessuna risposta, se ne andò.

– In ogni caso, sto cercando di riaggiustare tutto! – disse, dal corridoio.

Sam rimase immobile, completamente paralizzato e basito, i circuiti del cervello andati in vacanza con un biglietto di sola andata.

La verità è che amo tuo fratello.

Amo tuo fratello.

Amo.

Sono innamorato di lui.

Qualcosa che non è.

Inaspettatamente, il suo cervello riprese a funzionare, tutti i suddetti circuiti ritornati in sede operativa che collegavano rapidamente ogni concetto ed ipotesi, immagine e spiegazione.

Sorrise divertito, picchiandosi una mano in fronte come se si fosse ricordato come disinnescare una bomba sul punto dell'esplosione, scuotendo la testa con gli occhi al cielo.

– Ecco cosa ti è preso, Dean! – disse fra sé e sé, come se si aspettasse che comparisse al suo fianco una volta pronunciatone il nome.

– Invece che farmi dannare, potevi dirlo subito di avere una cotta per lui!

 

 

Lo ripeto, sono imperdonabile, ma siate buoni...

[*] allora, questa frase ho paura di averla sentita o letta, se senza rendermene conto l'ho presa da una qualche altra fic, non esitate a dirmelo e la cambierò subito. Scusatemi in anticipo, ragazzi...

 

Allora. So che probabilmente vi aspettavate qualcos'altro, ma era da un po' che volevo dedicare un capitolo a Sam perché... chi non lo ama? Comunque, anche nella serie tv, mi è sempre piaciuto il rapporto di amicizia che, seppur incomparabile alla Destiel, c'è fra lui e Cas, ed ho voluto rendergli giustizia :)

Scuse infinite a tutte le shippers che aspettavano per l'incoronazione dei nostri amati, ma non temete, il loro momento arriverà...

mi hanno fatto piacere molto le ultime recensioni, ne aspetto altre!!

bacioni, Danielle

 

 

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Capitolo 10
*** What about angels? ***


Alastair Rolston era un uomo che amava fare del sarcasmo, e ancor di più, stuzzicare le persone fino a far perdere loro ogni tipo di controllo.

Questo non voleva dire che fosse un tipo con cui si potesse scherzare.

La sua posizione non gli impediva certamente di riservare a, beh, chiunque, qualsiasi tipo di trattamento, più che per altro a seconda dell'umore, ma la medesima sopracitata posizione gli consentiva di spaventare a sufficienza da non essere perculato a sua volta, il che gli era di notevole aiuto.

Nonostante ciò, Castiel non aveva paura di lui. Poteva anche essere lo stereotipo di preside tirannico con cui nessun universitario volesse avere a che fare, ma aveva imparato che alla fine era solo questione di autocontrollo e di vedere le persone per come erano veramente: e quel tipo non era altro che un omuncolo vestito di un'armatura che lo rendeva grande ed inattaccabile. Ma era pur sempre un essere umano. E a soffermarsi sui dettagli, non faceva davvero paura.

Non era troppo alto, aveva i capelli radi ed un sorrisetto di scherno e leggermente inquietante stampato sulla faccia, e gli occhietti strateghi viaggiavano a snocciolare ogni dettaglio ed ogni informazione sull'interlocutore semplicemente guardandolo, ma non essendo Cas un tipo impressionabile (non troppo, almeno), davanti alla sua figura restava più impassibile di gran parte delle persone che lo conoscessero.

Aveva sentito che i suoi esami fossero vere e proprie torture infernali.

– Cassie! – questo soprannome si guadagnava una sottospecie di sopracciglio alzato ogni volta che veniva pronunciato, ma il ragazzo non si lamentava perché ne aveva sentiti girare di peggiori.

Sentendosi chiamato in causa, si avvicinò alla porta del suo ufficio, dove Alastair lo attendeva appoggiato allo stipite con fare intimidatorio.

– Buongiorno, signore. – disse Castiel, sostenendo lo sguardo senza segni di cedimento.

Il preside lo osservò con un ghigno beffardo e lo fece entrare, invitandolo ad accomodarsi mentre chiudeva la porta.

– Allora, Novak, a cosa devo questa visita? – disse, sedendosi alla scrivania con in mano un sottile tagliacarte, studiandolo nella sua forma affusolata e passando gli occhi indagatori dall'oggetto al ragazzo come se escogitasse l'angolatura migliore da cui infilzarlo.

Cas rimase in silenzio. Doveva cercare di ponderare le parole, aveva solo un'occasione e si era preparato per ore davanti allo specchio per suonare convincente e sicuro delle intenzioni che aveva. Per quello che doveva chiedere, gli ci sarebbe voluta ben più della fortuna: doveva prenderlo per il verso giusto.

– Avevo bisogno di parlarle, signore. – disse, calcando sull'ultima parola.

Alastair Rolston si dondolò sulla schiena, annuendo piano. Visto che non sembrava intenzionato a prendere parola, Castiel si schiarì leggermente la voce e decise di andare avanti.

– Si tratta di un favore. – quest'affermazione parve stuzzicare l'interesse del preside.

– Sei uno dei miei studenti migliori, un fiore all'occhiello. – disse, facendo scorrere un po' lascivamente gli occhi su di lui, su tutto lui. Il ragazzo rabbrividì, ma mantenne un'espressione seria e determinata. – Chiedimi quello che vuoi.

Non potè non notare che la sua voce suonava minacciosa. Era come una specie di retrogusto per il suo udito, e lo avvertiva che qualcosa non andava.

– Si tratterebbe di garantire un posto.

– E di far saltare la lista d'attesa? Diavolo, è una richiesta piuttosto ambigua e leggermente... inesaudibile. – Alastair continuava a fissarlo, ma stavolta aveva un sopracciglio alzato.

– Ne sono a conoscenza, signor preside, ma la verità è che questa agevolazione è una cosa a cui io tengo davvero, e a non trascurare dettagli, anche mio padre è particolarmente interessato. – ecco, lo aveva detto.

Castiel sentì lo stomaco aggrovigliarsi non appena menzionò James Novak, e dovette fare un grosso sforzo perché la sua voce non suonasse come un ringhio. Non si era mai – mai – giocato la carta del padre ricco, in tutta la sua vita aveva sempre fatto finta che non esistesse nemmeno, e adesso che si ritrovava ad usarlo come termine di ricatto nei confronti del preside si sentiva una sottospecie di verme.

È per Dean, ricordatelo.

Mantenne la sua postura eretta e lo guardò negli occhi, aspettando una risposta. Quell'informazione aleggiò nell'aria, come se stesse prendendo il suo tempo ad entrare nelle orecchie di Alastair. Poi le sue labbra sottili si stirarono in un sorriso strano – poteva voler dire qualsiasi cosa, ed a Cas non piaceva per niente.

– Hai un bell'asso nella manica, Castiel.

– Uhm...

– Ma sai anche giocarlo alla mano giusta?

Lui rimase in silenzio tentando disperatamente di decifrare quella metafora, maledicendosi per il suo insensato razionalismo e per la sua incapacità nel capire i giochi di parole.

Niente da fare, due idiomi in un colpo solo erano impossibili per lui, e sentì il cuore accelerare nel petto, vibrando contro le costole le sue pulsazioni ansiose.

Fu il primo passo verso il baratro.

– Dunque, di chi si tratta? Un parente? – disse il preside notando il suo attonimento. Si alzò con la sua camminata un po' dondolante e aggirò la scrivania, senza smettere di giocherellare con il tagliacarte.

– No, di un amico. – asserì il ragazzo.

– Ah! Il fidanzatino, ora tutto ha un senso.

– Lui non è... – ma il tagliacarte si ritrovò a pochi centimetri dalla sua fronte nel giro di un attimo, e prima che potesse terminare la frase Alastair stava distrattamente attorcigliando una ciocca dei suoi capelli attorno al filo sottile e tagliente.

– Sarebbe in grado di pagarsi la retta?

Cas annuì: aveva discusso con Bobby, motivo per cui non era passato all'ospedale negli ultimi mesi (per programmare quel giorno avrebbe avuto bisogno di ogni dettaglio a suo favore, e con tutte le ricerche che aveva fatto, più gli studi per l'esame, gli era stato impossibile). A quanto il vecchio Singer gli aveva detto, c'era un deposito in banca, a nome dei fratelli Winchester, probabilmente soldi risparmiati dal padre per permettere loro gli studi.

– E dimmi, in che cosa, esattamente, tuo padre sarebbe interessato? – il suo sguardo lo trapassò come una lama, e mantenere la calma si stava rivelando veramente faticoso.

L'uomo era troppo vicino, le loro gambe si toccavano e quel contatto lanciava allarmi di allerta al suo cervello, imponendogli di alzarsi ed andarsene finché la situazione era ancora gestibile. Ma Castiel rimase al suo posto, deciso ad arrivare fino in fondo.

– Lui è uno dei maggiori finanziatori di questa scuola, ed a seconda della decisione che prenderà potrebbe interferire sui fondi annuali che lei riceve. – disse, con la poca convinzione che gli era rimasta.

– In poche parole, mi stai ricattando? – Si appoggiò al bordo della scrivania, fissandolo con un sorriso lascivo e malevolo ad increspargli il volto dall'alto al basso. Ora Cas poteva sentire il suo respiro contro il viso.

– Tecnicamente no, dal momento che parte della trattativa prevede una situazione più favorevole per lei. – Rispose, nonostante la voce cominciasse a tremargli.

– Ottimo relatore davvero, signor Novak. – ammise Alastair, lasciando scivolare una mano sul colletto della sua camicia. Fu qui che Castiel si sentì veramente sull'orlo di un baratro infinito, tremante da capo a piedi e col cuore sul punto di esplodere.

Il contatto di quelle dita fredde contro la pelle gli fece venire la pelle d'oca, ed il suo cervello continuava ad urlare istericamente che era ora di andarsene, ma il suo corpo era completamente sconnesso, ed agiva per conto suo.

Immobile come una statua, lasciò che Alastair gli sfilasse dalle asole i primi due bottoni, facendo scorrere la punta del tagliacarte sull'epidermide pallido, lungo il profilo della clavicola e poi su a tracciare il pomo d'Adamo fino al mento.

Una lieve pressione dello strumento di metallo lo costrinse ad alzare gli occhi su di lui e sentì il panico montare veloce ed imponente come la marea, affogandolo lentamente all'interno del suo stesso corpo.

– Sto toccando una ferita scoperta, Novak? – il suo respiro sapeva leggermente di alcol, Castiel cercò di concentrarsi su questo per non dover incassare tutto in una volta il colpo al cuore che gli venne assestato quando sentì una mano stringergli il cavallo dei pantaloni.

Gemette per la sorpresa e si spostò sulla sedia,cercando di alzarsi, ma l'altra mano fu subito sulla sua spalla e lo incastrò contro lo schienale.

Il suo sguardo vagò terrorizzato intorno a sé alla ricerca di una scappatoia, ma ovunque spostasse gli occhi, Alastair troneggiava su di lui tenendolo bloccato.

– D'accordo, Novak, d'accordo. – la pressione aumentò, e con essa la paura di Castiel. – Il tuo ragazzo avrà il suo posto in questa scuola, se riuscirà a pagare la retta, ovviamente. Tuo padre aumenterà i finanziamenti. E tu faresti meglio a guardarti le spalle. –

il suo viso era talmente vicino che poteva vedere ogni ruga sottile, ogni screziatura ed ogni nervatura rossa negli occhi, ogni millimetro del suo sorriso beffardo e minaccioso.

In un impeto di paura sconsiderata, se lo scansò di dosso e si alzò, gli occhi colmi di paura. Non si fermò nemmeno per riallacciarsi i bottoni o stringersi la cravatta, uscì con il trench sottobraccio ed ebbe cura di non salutare e sbattere la porta sin a farla tremare sui cardini. La segretaria gli lanciò un'occhiataccia, e lui non la degnò nemmeno di uno sguardo. Uscì fuori il più velocemente possibile, scansando le persone nei corridoi nemmeno ce ne fossero così tante. La verità era che aveva le lacrime agli occhi e la vista annebbiata, aveva paura come non mai, e lo sparo cominciò a risuonare ripetutamente nella sua testa.

Si fiondò all'esterno della hall e solo una volta nel gelo di dicembre, l'aria ghiacciata che penetrava dai bottoni slacciati e le palpebre umide che bruciavano, riprese a respirare veramente.

Okay, Castiel. Va tutto bene, sei fuori, non ti ha fatto nulla, ti ha a malapena toccato.

Si appoggiò al muro alle sue spalle, passandosi una mano sul viso e poi tirando indietro i capelli che gli erano scivolati sulla fronte. Il suono di quella minaccia era davvero terrificante, ma quando ripercorse lentamente ogni attimo di quella conversazione ed udì il d'accordo rimbombare nelle orecchie, lasciò che il sollievo lo pervadesse.

Aveva rischiato, ma ce l'aveva fatta.

 

 

Dean fissava il cellulare intontito. Aveva scritto e cancellato il messaggio decine di volte, ma ognuna di esse c'era sempre qualcosa che non andava: troppo diretto, troppo lungo, troppo breve, troppo sentimentale.

Ogni volta che eliminava le sue parole, cercava di focalizzare l'obbiettivo, ovverosia quello di chiedere a Castiel di vederlo nei pressi dell'ospedale.

Si maledisse per la sua inesperienza: non lo avrebbe mai sospettato prima, ma con le ragazze era tutto immensamente più facile. Le conosceva, sapeva cosa le faceva impazzire di rabbia e cosa di piacere, sapeva come tenere le mani e come funzionavano i preliminari e le uscite.

Con i ragazzi, e con Castiel in particolare, era tutto un altro paio di maniche.

Castiel era tremendamente diverso dal genere umano in sé, a dire il vero. Se con gli altri le battute erano un trucco infallibile per ammaliare e per farsi piacere, con lui non sortivano nessun effetto, e lo mandavano solo in confusione. Ed era un punto della lunga lista.

Quando scrisse il messaggio per la dodicesima volta, non lo rilesse nemmeno: lo inviò e basta, tanto per cavarsi il dente una volta per tutte.

Poi mise via il cellulare e prese le chiavi dell'Impala, forse facendo un giro in macchina avrebbe allentato un po' di quell'assurda ed insensata tensione che gli tirava i nervi come corde di violino.

 

 

Il trillo del cellulare lo colse di sorpresa. Non aspettava nessuna chiamata, da quando era tornato a casa diverse ore prima aveva passato la giornata gironzolando dalla sua stanza, il suo covo di lettura, alla cucina, perché aveva sentito l'improvviso bisogno di mangiare.

In realtà era in bagno, quando ricevette il messaggio di Dean. Il solco dei denti oltre le nocche era più accentuato che mai, e gli faceva male la gola dove aveva appena fatto pressione con le dita. Si lavò le mani e diede un'occhiata, con il cuore in tumulto.

 

Il 27 alle 18.30, avrei bisogno

che mi vedessi davanti

all'ospedale.

Ho una cosa da mostrarti.

-D

 

Oh, e buon Natale, Cas :)

...

Merda.

 

 

Castiel arrivò al luogo dell'appuntamento (perché è un appuntamento, vero?) con mezz'ora d'anticipo e lo stomaco che borbottava per la fame. Dal giorno in cui aveva ricevuto il messaggio, aveva veramente smesso di mangiare salvo nelle occasioni in cui le gambe a malapena lo reggevano, quindi in quel momento il suo appetito aveva raggiunto livelli a dir poco biblici. Nemmeno il giorno di Natale era riuscito a buttare giù molto, e da quello spiacevole incontro con il preside sentiva sempre il bisogno morboso di vomitare tutto.

Ovviamente lo assecondava.

Ogni volta che alzava lo sguardo sul suo riflesso nello specchio si vedeva spaventato e patetico, e provava talmente tanta pena di sé stesso che faticava a mantenere lo sguardo sulla sua figura per più di qualche secondo. Non era più un adolescente, era adulto e vaccinato, e si ritrovava di nuovo all'inizio di quel circolo vizioso che già si era ritrovato ad affrontare anni prima. Il suo passato di “ragazzino depresso e problematico” tornava a galla dai recessi dei suoi ricordi dove lo aveva sepolto e lo aggrediva.

Era effettivamente stato depresso, per un periodo. Insomma, il scoprire di essere gay con ogni sua conseguenza, aveva lasciato il segno. La cosa in sé non lo aveva spaventato, nemmeno lo imbarazzava, ma se la gente lo notava, si ritrovava chiunque contro, e da solo non aveva potuto contrastarli. Problematico, perché era sempre stato più intelligente, aveva uno sviluppato senso della logica, e questo aveva interferito nelle sue relazioni interpersonali.

Scacciò ognuno di quei cupi pensieri e, visto che faceva freddo, si rifugiò nella sala d'aspetto all'ingresso dell'ospedale, cercando di ignorare il martellare selvaggio che aveva nel petto.

Dean sarebbe arrivato nel giro di pochi minuti, e non aveva idea di come si sarebbe dovuto comportare. Forse voleva soltanto dirgli quanto la sua assenza lo aveva ferito, ed in fin dei conti non poteva nemmeno giustificarsi, o avrebbe dovuto raccontare dell'università e di Alastair. Non avrebbe retto.

– Castiel?

Oddio, apostoli del signore aiutatemi.

La voce di Dean era più bella di quanto la ricordasse. Forse perché in quel momento non era sballata dalla morfina, o perché era guarito per davvero, stavolta.

Si voltò lentamente. La sua voce non era l'unica cosa bella che avesse.

Dean era bello. Era veramente uno splendore, e rimase immobile per qualche secondo indeciso sul da farsi.

– Dean. – riuscì a malapena ad abbozzare un sorriso.

Il ragazzo lo stava fissando, le mani affondate nelle tasche della giacca a vento, le labbra leggermente piegate all'insù, gli occhi verdi luminosi. La cosa che lo stupì maggiormente fu che mai si sarebbe immaginato Dean Winchester indossare un berretto, ed invece eccolo lì, con qualche ciocca di capelli biondo cenere che sfuggiva dal cotone grigio e ricadeva sulla fronte.

Si alzò in piedi e lo osservò più attentamente, senza trovare nulla di troppo sensato da dire.

– Sei pronto? – quello che all'inizio gli era sembrato un sorriso, con la vicinanza si trasformò in un'espressione quasi pietrificata. Sembrava quasi interiormente combattuto.

La verità era che nonostante fosse ancora incazzato con lui e con sé stesso, Dean lo trovava davvero adorabile, stretto nel suo imbarazzo.

Era sempre il solito Castiel, quello che si era preso cura di lui durante la permanenza in ospedale, quello che non capiva le battute e che aveva provato più dolore di quanto ne meritasse, con i suoi grandi occhi azzurri da cucciolo smarrito ed i suoi capelli nel loro costante disordine. E suo malgrado era lo stesso Cas che se n'era andato senza dire una parola e farsi sentire per mesi.

Dean non riuscì nemmeno a formulare per esteso il pensiero “O lo bacio adesso, oppure...” che gli sferrò un pugno diretto al viso, accecato dalla frustrazione improvvisamente liberata.

Con suo sommo stupore, Castiel lo schivò e gli afferrò il gomito, trascinandolo al suolo.

– Che diavolo stai facendo?! – domandò, più basito per la sua velocità di reazione che per l'attacco del ragazzo. Quest'ultimo si alzò in piedi traballante, gli occhi spalancati come se avesse a che fare con un alieno di Star Trek.

– Che sto facendo io?! – Dean si guardò un secondo intorno, ma la sala era deserta fatta eccezione per una segretaria troppo occupata a telefonare con un'amica per notare che i due erano sul punto di darsele di santa ragione. – Tu piuttosto, mi vuoi spiegare dove cazzo sei stato? Hai idea di come io mi sia sentito? – si levò il berretto e passò una mano fra i capelli, puntando una mano sul fianco, aspettando una risposta. Castiel lo fissò, con ancora il respiro accelerato. – Certo che ne ho idea. E dove sono stato... tu non devi saperlo. – disse, con fermezza.

Lo sguardo di Dean vagò come imbambolato su tutta la sua figura.

– Mi hai abbandonato, Castiel. – disse, in tono grave. Cas non smise di fissarlo, ma assunse un'espressione colpevole.

– Pensi che mi sia sentito bene nel farlo? – abbandonò le braccia lungo i fianchi, lo sorpassò ed uscì. Una ventata d'aria gelida lo investì scompigliandogli i capelli non appena fu fuori, e si concesse un attimo per respirarla appieno nonostante i brividi che lo assalirono. Si strinse nella giacca e soffiò una pallida nuvoletta di fumo, cercando di riordinare i pensieri che gli turbinavano in testa, ma era difficile.

– Io non capisco cosa ti è preso, Cas. Vorrei solo sapere questo. – disse Dean gentilmente, raggiungendolo. Non sembrava più arrabbiato, solo molto preoccupato.

– Non mi importa quello che hai fatto in queste settimane, ma se c'è qualcosa che non va ti posso aiutare. – si fermò un secondo. – Ti voglio aiutare. –

Castiel riuscì finalmente a fare un sorriso sghembo. – è paradossale che tu me lo dica cinque minuti dopo aver tentato di rompermi il naso, lo sai?

Sentì il respiro del ragazzo dietro di sé accelerare in una risata, e rise anche lui.

– Ero solo confuso, Dean. Non ho mai avuto un amico come te, oltre a Gabe, e dopo il... –

non riusciva nemmeno a pronunciarlo, e questo lo faceva sentire anche più idiota di quanto già non fosse.

– … Il bacio? – concluse Dean per lui.

– Ehm... sì, esatto, insomma, temevo di averti perso e non sapevo come comportarmi. – specificò. – In ogni caso avevo finito il tirocinio, ho passato giornate intere a studiare ed ho dovuto occuparmi di una faccenda importantissima. Non sto cercando scusanti, Dean, quello che ho fatto è stato imperdonabile. – soffiò di nuovo una nuvoletta, ricordandosi quanto da bambino lo divertisse.

Dean osservò il suo profilo attentamente, realizzando quanto Castiel gli piacesse. Mannaggia, quel ragazzo aveva mandato a puttane ogni sua convinzione semplicemente guardandolo, e da una parte per questo lo odiava. Era come se dovesse cominciare da zero, come se navigasse senza bussola in acque sconosciute. Ma dall'altra parte era contento che fosse lui e non qualcun altro.

– Nah, ma figurati! Ci vuole ben più di questo per togliersi dalle scatole Dean Winchester! – esclamò il biondo, calzando di nuovo il berretto sulle orecchie.

– Ma io non dovevo mostrarti qualcosa? Prima mangiamo, però.

 

 

Non cenarono nel solito bar lì vicino all'ospedale, ma in uno all'imbocco di George Washington Street, la zona sud della città dove Castiel molto raramente si era spinto.

Non conosceva affatto bene la zona, ma Dean si muoveva velocemente come se vivesse da quelle parti da più tempo di lui, attraversando con sicurezza le strade e svoltando senza indugi agli incroci.

La tavola calda dove si fermarono, Heavens' Clouds, era un posto molto accogliente, che Dean aveva cominciato a frequentare da quel pomeriggio di compere natalizie, ma a differenza della prima volta in cui c'era stato, era decisamente meno affollato.

Si sedettero in un tavolo in disparte, giusto perché le critiche non se le sarebbe risparmiate nessuno, e da lì cominciarono a parlare.

Sembrava che quei due mesi non fossero affatto passati, era come se di tutto ciò che aveva compromesso il loro rapporto nulla fosse mai accaduto. E Dean non riusciva a scollare lo sguardo dagli occhi di Castiel.

Erano di un azzurro talmente intenso che potevano contenere le infinità abissali dell'universo, ed il proprietario si comportava come se non ne avesse idea.

Non sfiorarono l'argomento bacio, né tanto meno l'assenza di Castiel: Dean fece solo un resoconto più dettagliato delle ultime settimane, poi cambiarono argomento.

Castiel riscoprì quanto fosse bello parlare con qualcuno, ascoltare qualcuno, guardare qualcuno: era inutile, per quanti tentativi di discrezione facesse, non poteva, non voleva distogliere lo sguardo da Dean.

Fu verso le otto che il ragazzo fece un salto sulla sedia con gli occhi sbarrati, fissando l'orologio come se stesse andando a fuoco.

– Porca puttana... Castiel, dobbiamo andare! – Cas lo guardò interrogativo, ma senza avere il tempo di fare domande fu preso per mano e trascinato di peso fuori dal locale. Il suo cuore smise di battere, e si lasciò guidare lungo Washington St. in tutta la sua lunghezza, ammaliato dalla schiena di Dean e dal suo sguardo ogniqualvolta che si voltava per sorridergli con fare cospiratorio.

– Dean... ti dispiace dirmi dove stiamo andando? – chiese, mentre schivava un passante cercando di non scoppiare a ridere.

– Oh, lo vedrai! – la sua mano si serrò di più attorno a quella di Castiel.

Qualche decina di metri più avanti, verso un luogo piuttosto isolato, la strada si fece più affollata ed un grande via vai di persone incuriosì Cas. Approfittò del fatto che Dean stesse rallentando per allungare il collo e dare una sbirciatina. Riuscì a vedere solo un lungo manifesto blu elettrico, ma la folla stava aumentando, ed il suo amico lo aveva improvvisamente fatto voltare verso di lui.

Lo osservò con il capo leggermente piegato, sottolineando il suo disorientamento. Dean sembrava leggermente imbarazzato dalla loro vicinanza, ma non potè stabilire se i suoi occhi gli avessero giocato o no uno scherzo, perché venne bendato.

– Ehm... devo chiamare un avvocato? – sentì le dita bloccarsi appena dietro alla sua nuca mentre armeggiavano con il nodo di quello che sembrava un fazzoletto di cotone, scivolare ai lati del suo viso ed accarezzargli le guance... poi ricevette una manata sul fondoschiena.

– Non posso crederci, hai appena fatto una battuta! Questa sì che è da festeggiare! – Dean sembrava entusiasta quanto lui.

– Se per farmi toccare il culo da te mi basta fare una battuta, ben venga! – si lasciò sfuggire Cas, e la risata cristallina del ragazzo gli riempì le orecchie, la testa, il corpo, vibrò contro le costole, espanse il cuore fino allo spasimo, rendendolo ubriaco di quel suono meraviglioso.

Lo prese per mano e lo guidò attraverso la folla, più di curiosi che di visitatori veri e propri, ignorando gli sguardi interrogativi che li seguivano osservando il ragazzo bendato. Passò alla receptionist i due biglietti comprati nel negozio di astrologia, mettendosi un dito sulle labbra per farle capire di stare in silenzio. Lei lo fissò confusa solo all'inizio, poi sorrise complice e strizzò l'occhio, sorridendo intenerita.

Come programmato, seguì l'ultimo gruppo di visitatori, senza mollare la mano di Cas e tenendosi il più indietro possibile perché non sentisse le spiegazioni scientifiche della guida, sia perché era tutta roba che sicuramente lui conosceva sia perché non era ancora il momento che capisse dove si trovavano.

Solo quando l'uomo a capo della combriccola tacque, si avvicinò e condusse Castiel nella sala principale: era una grossa sfera incastrata su quello che dall'esterno somigliava ad un cilindro, già internamente immersa in una penombra eterea.

Lo guidò fino ai posti loro riservati, una delle file più interne dei cerchi concentrici di sedie predisposte, e lo fece accomodare, con gesti misurati ed attenti, poi prese posto ed aspettò che la presentazione cominciasse.

Castiel continuava a girare la testa, cercando di intuire dove si trovasse, ma le persone che parlavano una sopra all'altra gli impedivano di fare un'ipotesi precisa, quindi si arrese.

Il relatore salì sul palco al centro della sala, e fece spegnere completamente le luci lasciando acceso un lume sulla scrivania dove aveva sparso i suoi appunti.

Dean valutò che fosse quello il momento migliore, quindi si sporse oltre il bracciolo della sedia e sfilò la benda dagli occhi di Castiel, assicurandosi di scompigliargli i capelli, e si godette i suoi occhi blu luminosi nonostante il buio venire attraversati dallo stupore.

Voltò la testa da una parte e dall'altra, su percorrendo il profilo sinuoso della sfera e poi posarsi sul palco al centro,non troppo lontano da loro.

– Oh, Gesù... – non riusciva a proferire una frase di senso compiuto, era elettrizzato, basito, esterrefatto.

– Quello è...

– Sì. – confermò Dean, contemplando la felicità di Castiel. – Quello è proprio Carver Edlund.

Cas si girò a guardarlo, e mentre il relatore cominciava a fare il suo discorso, sillabò un grazie con le labbra.

Edlund, che era un famoso scrittore del campo sia astronomico che astrologico, presentò il suo ultimo libro e fece un breve riassunto del programma della serata, avvicinandosi poi al computer collegato al proiettore e cominciando a smacchinarci sopra, aiutato da un paio di tecnici.

Dean non spostò gli occhi da Castiel per parecchi minuti. Il ragazzo stava osservando con la bocca semiaperta il signor Edlund parlare con le persone al suo fianco di calcoli matematici corretti, probabilità meteorologiche, stabilità del sistema, come se dopo anni di rassegnazione avesse trovato un altra persona in grado di parlare la sua lingua. Il che, probabilmente, era vero.

Dean aveva sempre tentato di capirci qualcosa quando l'amico gli raccontava ciò che sapeva sulle stelle, e a dirla tutta alcune cose gli erano anche rimaste impresse, ma altre per lui erano veramente inconcepibili. Come faceva a capire la differenza fra una supergigante rossa ed una nova? E malgrado si sforzasse tanto, non coglieva assolutamente il perché e percome un giorno il sole sarebbe esploso, ma neppure Castiel sembrava aver mai avuto una certa sicurezza in proposito; la volta in cui ne avevano parlato, l'infermiere era sembrato piuttosto diviso a metà fra un'apocalisse scientificamente spiegata ed una che avesse a che fare con la religione, perché sì, Castiel era un tipo religioso. Non bestemmiava mai, e quando a Dean capitava, lo guardava storto. Se ripensava a quell'episodio, il Winchester sorrideva rievocando il suo tentativo di dire qualcosa raccontando di un sogno che aveva fatto in una delle poche notti tranquille che aveva avuto: loro due e Sam che fermavano l'armageddon sconfiggendo le forze oscure di un mondo fantasy. Cas aveva riso, ricordava ancora il suono.

Anche adesso Cas aveva un bel sorriso stampato in faccia, e spostava gli occhi da Carver Edlund alla superficie liscia della sfera sopra di loro a Dean, picchiettando nervosamente le dita sul bracciolo della sedia per l'impazienza.

Altri due minuti dopo, che il biondo sfruttò fino all'ultimo attimo per stamparsi nella testa l'immagine di Castiel per ricordarsela anche nell'ombra della presentazione, le luci si spensero completamente, e l'estensione perlacea intorno a loro, sparì per mostrare le stelle.

Era solo una foto scattata da un satellite, ma porca puttana! Entrambi, come del resto ognuno dei presenti nella sala, trattennero rumorosamente il respiro, lasciandosi in un coro di “ooooh!” di meraviglia. Era come se una mano gigante avesse teso un velo nero ad una distanza imprecisa fra loro e l'infinito che c'era dopo, e ci avesse sparso sopra una manciata di piccoli diamanti luminosi di diverse grandezze e brillanti come fari.

Le sedie su cui erano vennero leggermente reclinate all'indietro così da non dover mantenere troppo a lungo una posizione quantomeno scomoda (anche se tutti sembravano non farci più caso), e Dean si voltò a guardare gli occhi di Castiel. E rimase incantato.

Era buio, sembrava che fosse notte e che nessuno degli altri spettatori fosse lì con loro, e a dispetto di quel nero a malapena sfumato dalla presenza delle stelle, riflettevano tutta quella luce che sospesa nella singolarità di ogni corpo celeste appariva talmente effimera e piccola, rendendo le sue iridi azzurre ancora più intense, affascinanti e magnifiche che Dean non poteva, non voleva perdersi quello spettacolo.

Osservava le profondità dell'universo riflesse negli occhi di Castiel, e se fino a quel momento l'idea di uno spazio così grande e di un oblio talmente vasto da inghiottire ogni esistenza lo avevano intimorito, ora ne era ammaliato, sconcertato, rapito. Innamorato.

Distolse lentamente lo sguardo e seguì solo vagamente le spiegazioni di Edlund su come quello è Orione, quella è l'Orsa Major e quello è il capricorno, collegando le stelle fotografate con delle linee come se stesse facendo quel gioco di unire i puntini e colorare la figura che viene fuori.

All'inizio la cosa lo annoiava un po', poi però i suoi occhi vagarono in lungo ed in largo immaginandosi cosa potesse esserci oltre quell'immagine, quanto l'infinito fosse veramente infinito e quanto lo mettesse a disagio, allora si rifugiava nel fulgore degli occhi di Cas e si sentiva meglio.

La parte peggiore arrivò quando i tecnici spostarono la fotografia per osservare le costellazioni da un'altra angolatura, e l'immagine slittò lungo la superficie della sfera che però era impossibile da vedere perché si aveva la parvenza di essere sdraiati sotto un cielo vero, quindi per Dean fu come venire ribaltato a testa in giù e sballottato di lato nonostante fosse perfettamente immobile. Sentì lo stomaco ribellarsi contro lo sterno.

Cacchio, la sua paura di volare era così grave da attanagliarlo anche se era fermo e saldamente ancorato al suolo? La foto continuò a muoversi, procedendo poi in avanti come se stesse effettivamente attraversando lo spazio grazie alle tecnologie satellitari, sfrecciando in uno zoom velocissimo che gli fece contrarre le viscere. Ebbe l'improvviso bisogno di uscire. Ma era lì per Castiel, e fino a poco prima si stava divertendo anche, quindi si costrinse a non muovere un muscolo e serrò le palpebre.

Quando le riaprì, la panoramica era diversa, inquadrava quello che doveva essere Saturno, ed era tutto fortunatamente stabile. Trasse un sospiro di sollievo.

– Dean? – la voce di Cas lo chiamò alla sua destra. Lo stava guardando, leggermente preoccupato. – Tutto okay?

Il Winchester annuì con un mezzo sorriso, ma Castiel sembrava poco convinto. Così gli prese la mano, e tornò a guardare sopra di sé come se nulla fosse.

E con questo, caro Dean, dì addio alla tua eterosessualità. Pensò, il biondo, ma non era affatto amareggiato come forse in circostanze diverse si sarebbe sentito. Aumentò la presa sulla mano di Cas e tornò a concentrarsi sulla composizione di asteroidi e materia ignota degli anelli del pianeta.

Gli venne da ridere pensando a quando, a dodici anni, andava ancora convinto del fatto che fossero piste per le macchinine degli alieni. Poi la spaventosa franchezza di un piccolo e petulante Sam gli aveva aperto gli occhi. Scoprire dell'inesistenza di Babbo Natale lo aveva sconvolto meno.

Si ritrovò a ridacchiare.

– Cosa? – bisbigliò Cas, voltandosi di nuovo.

– Niente, è solo che... da bambino credevo fossero circuiti automobilistici. – rise piano, sperando che le persone intorno a loro non si lamentassero. Anche Cas rise.

Passarono alcuni minuti, poi l'immagine ricominciò a muoversi ed a ruotare, facendo precipitare Dean per poi ricatapultarlo in aria. Alla fine, dovette alzarsi.

Si odiava per lasciare Castiel lì da solo, si odiava per essere così debole, ma aveva bisogno di respirare e di sentirsi stabilmente con i piedi per terra, quindi abbandonò la mano dell'amico (forse a breve non sarebbe più stato degno di quel nome – Dean ci sperava) ed uscì.

Chiese indicazioni non appena fuori e si fece guidare sulla terrazza, innalzata sopra alla sfera, così da potersi godere un grande panorama della serata limpida. Era addirittura vuoto, ed il perché non era un mistero: si gelava.

Aveva la giacca, ma erano quasi le nove di sera, dicembre, e quel freddo subdolo ed invasivo si infiltrava sotto gli strati di vestiti e gli faceva venire la pelle d'oca.

Si appoggiò al parapetto e seguì l'orizzonte con gli occhi, respirando profondamente. La sensazione del vuoto sotto di sé sparì quasi subito, e puntellò la ringhiera con i gomiti, alzandosi in punta di piedi per potersi sistemare meglio. Le stelle sopra di lui occhieggiavano dall'alto, più lontane di quelle di poco prima, ma pur sempre bellissime.

– Ti senti bene? – Castiel era sulle scale, e lo fissava allarmato come se si aspettasse di vederlo stramazzare al suolo. Lo raggiunse con circospezione, affiancandosi a lui.

– Sì, Cas. Dannazione, scusami, è solo che ho avuto un capogiro. Niente di che, adesso torniamo dentro. – disse, facendo per andarsene, ma Cas era più forte di quanto si aspettasse e lo bloccò per un braccio. – Restiamo qui, invece. È bello qua fuori. –

Dean smise di opporre resistenza subito, senza nemmeno pensare di volerlo fare.

Accidenti a te, ai tuoi occhioni bellissimi, ai tuoi capelli, alle tue labbra, alle tue spalle, alle tue braccia. Vai a farti fottere, Castiel. Pensò con rabbia, tornando a voltarsi verso il cielo.

Rimasero entrambi in silenzio per qualche minuto, senza sapere esattamente cosa dire.

– Mia mamma pensava che fossero angeli. – fu proprio il biondo ad incrinare quella quiete piatta e tesa che galleggiava nell'aria tra di loro. Sentì lo sguardo di Castiel su di sé.

– Diceva che le stelle erano angeli, e quando ne vedevo una cadere, dovevo esprimere un desiderio, cosicché l'angelo caduto sulla Terra sarebbe arrivato apposta per esaudirlo. –

sentì gli occhi pizzicare leggermente, ma ingoiò le lacrime.

– Ne hai mai vista una? – chiese Cas, cautamente.

– Sì. Ma non è arrivato nessun angelo. Non subito, almeno.

– Cosa avevi chiesto?

Dean rimase in silenzio. Non era un tipo sentimentale, aveva i Geni Winchester in corpo, solo Samantha si lasciava andare a inutili confessioni strappalacrime da Pigiama Party.

Ma forse quella era la volta buona per cambiare registro.

– Che mamma tornasse con noi. – ecco. Dean si stava rompendo di nuovo, piegato sotto la forza di un passato per lui incontenibile e che aveva minacciato di spezzarlo lasciandolo agonizzante senza alcuna cura.

– Non sei tenuto a rispondere, se non vuoi parlarne. – Mise in chiaro Castiel, cercando il suo sguardo, che incrociò il suo scollandosi da quello delle stelle.

– E tu? Hai mai visto un angelo cadere?

– Guardo sempre le stelle. Ne ho visti tanti, sì.

Dean emise un suono strano, a metà fra uno sbuffo ed un gemito strozzato. – Sai, credo di aver capito perché le fissi in continuazione, quando non sai dove altro posare lo sguardo.

Castiel sembrava confuso. – Ah sì?

– Perchè anche tu vieni da lì. – Dean non poteva trattenerle a lungo. Aveva già la voce incrinata, sentiva i suoi scricchiolii avvertirlo dell'imminente rottura. Una lacrima scavò la sua guancia, disegnando il profilo della mandibola e staccandosi dalla pelle per atterrargli sul petto. – Sei un angelo, vero Cas?

Lui non rispose, si limitò a circondargli le spalle con un braccio.

– Dean...

– Mamma è morta in un incendio. Avevo sette anni, Sammy tre. Avevo promesse non mantenute. Avevo giurato di aiutare papà a sistemare la rimessa, avevo giurato di finire le verdure anche se mi facevano schifo, di imparare la tabellina del due entro sabato. E tutte le volte che venivo a meno ad una promessa, lei metteva le mani sui fianchi e piegava la testa di lato, con la fronte corrugata, e faceva la voce grossa per suonare più arrabbiata. – sorrise nostalgicamente. – poi però, dieci minuti dopo che mi aveva messo in castigo nella mia stanza, si intrufolava dentro e mi faceva il solletico, e allora mi aiutava lei a mantenere quelle promesse. Ho aiutato papà a mettere in ordine la rimessa, ho finito quelle verdure disgustose, e mi ha insegnato le tabelline. Se avessi saputo in anticipo quanto poco tempo avevo con lei, avrei evitato di farla arrabbiare. Poi d'estate, mi portava nel giardino sul retro, dove c'era la campagna dietro casa, e ci stendevamo sull'erba, e mi parlava degli angeli. Mi raccontava anche dei mostri, ma nelle sue storie c'erano cacciatori armati di pugnali magici che li sconfiggevano, ed alla fin fine ci metteva sempre un angelo. Dopo che è morta ho guardato le stelle solo una volta, ed ho espresso quel desiderio che non si è mai avverato.

Non ho mai più avuto il coraggio di alzare la testa e voltare pagina. Pensavo che se fossi stato indiscreto nei confronti degli angeli, non mi avrebbero mai concesso di rivederla.

Papà invece è morto nell'incidente. Se n'è andato mentre lo guardavo. Stavamo litigando, io volevo ascoltare gli AC/DC, mentre lui stava cercando di mettere su gli Asia, ma non abbiamo mai deciso. Ha attraversato un incrocio senza guardare. Perché era impegnato a guardare me, e le cassette. – Castiel lo osservava raccontare con voce piatta e lo sguardo perso nel vuoto, mentre di tanto in tanto una lacrima gli solcava la guancia.

– Quando mi sono svegliato dal coma, sapevo che sarei dovuto scendere a patti con una vita che non volevo mi appartenesse più, e per la prima volta mi sono messo a pregare, ho pregato così disperatamente che mi faceva male la testa. Poi Dio mi ha mandato un angelo. – Castiel trattenne il fiato, stringendo la mano attorno alla spalla, facendo sentire che era lì, che non se ne sarebbe andato.

– Dio ascolta sempre chi ha bisogno di aiuto. – affermò dopo un istante di silenzio.

– Io non avevo bisogno di aiuto, avevo bisogno di morire. Ne. Avevo. Bisogno. Poi il mio angelo mi ha costretto a rimettermi in piedi, mi ha insegnato a guardare il cielo, Mi hai insegnato che le stelle sono sempre le stesse, mi hai mostrato che anche voltando pagina, non mi abbandonano mai. – Dean emise un respiro tremolante, rannicchiandosi contro la stretta di Castiel, che rispose tirandoselo contro il petto e serrandogli le braccia attorno alla schiena.

Si sciolsero dall'abbraccio qualche minuto dopo, quando Dean voltò la testa per vedere se effettivamente, le stelle erano ancora lì. E c'erano, brillavano più che mai. Si allontanò e raggiunse un punto più esposto della terrazza, dove la vista sembrava, se possibile, ancora migliore. Castiel lo seguì, tenendosi un po' a distanza ma continuando ad osservarlo, senza avere esattamente idea di cosa fare.

– Sei un angelo? Cas? – chiese nuovamente Dean, fissandolo leggermente perso, con gli occhi spalancati come se tentasse di trattenersi da qualcosa.

– Io...

– Perchè se sei un angelo, allora ti prego, non andartene.

– Dean. – perché avevano entrambi il respiro affannato? Perché i loro cuori battevano troppo forte o perché … – Non vado da nessuna parte.

– Ho bisogno di te.

Probabilmente Castiel aveva il fiato leggermente corto perché erano più due due ore e mezza che si tratteneva con ogni cellula del suo corpo dal baciare Dean, ma sapeva che prima o poi avrebbe ceduto. Dean si avventò sulle sue labbra nello stesso momento in cui lo fece lui, assaporandole come l'ultima volta era troppo sconvolto per fare, lasciando che le mani si insinuassero sotto la giacca a vento per serrarsi attorno alla sua vita ed attrarlo a sé, facendo coincidere i loro corpi, mentre Castiel cercava il ritmo del bacio come se fosse l'aria che da sempre gli era stata portata via. Le loro bocche collidevano perfettamente, le lingue calde scorrevano avidamente l'una contro l'altra ed i respiri che poi tanto respiri non erano perché emettevano a malapena una molecola d'ossigeno, si mescolavano.

Dean staccò una mano dal fianco di Cas per far scorrere le dita fra i suoi capelli, e scoprì che era passato così tanto tempo da quando lo aveva fatto che aveva vissuto un'intera astinenza senza rendersene conto; Castiel emise un gemito senza smettere di a baciarlo con foga, mordendogli il labbro inferiore e stuzzicando la lingua con la sua, poi si allontanò, completamente a secco d'aria nei polmoni. Dean lo fissava, aveva ancora gli occhi lucidi ma sorrideva compiaciuto, ed aveva le gote rosse quasi quanto quelle di Cas.

Non aspettò nemmeno cinque secondi che riprese a baciare le sue labbra stavolta piegando la testa dall'altra parte, creando una sorta di incastro perfetto fra i loro corpi che si muovevano all'unisono, spingendo la lingua nella bocca del compagno, sondandogli il palato, ascoltando le sue mani afferrarlo saldamente per i fianchi. Andarono avanti così per parecchi minuti, vinti da qualcosa che a malapena riuscivano a denominare, ma che aveva il sapore delle loro labbra.

Smisero appena in tempo per vedere un paio di ragazzini fiondarsi sulla terrazza per ammirare il panorama seguiti dai genitori che li fissavano sospettosi, per poi scambiarsi uno sguardo eloquente ed unirsi agli altri visitatori nel giro conclusivo.

 

 

 

Pensavate di esservi liberati di me? NAAAAAAAH

Sono stata buona e gentile e non vi ho spezzato a metà il capitolo, in compenso questo è più del doppio degli altri, spero sia una sorpresa gradita!!

grazie a tutti i nuovi recensori e a quelli vecchi, non vedo l'ora di sentire cosa ne pensate!! scusate per l'OOC

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Capitolo 11
*** Step back ***


In una maniera o nell'altra, Dean smise finalmente di chiedersi cosa diavolo stesse facendo. 
Con la sua vita, con le sue non-più-convinzioni, con Castiel. Forse, in differenti circostanze, si sarebbe posto quella domanda fino a diventare paranoico (cosa che già un po' era), trasformandosi in una specie di eremita scontroso con apparenti istinti suicidi. La sua testa era incasinata, questo sì, semplicemente aveva deciso di fregarsene.
Era etero? Magari non più. Gay? Perchè no, anche se alla fine poco importava. La verità era che non aveva senso soffermarsi troppo su quel dettaglio, non era importante dare un'etichetta a quello che gli stava accadendo. Alla fine, potevano continuare a piacergli le donne, ma ciò che provava per Castiel era qualcosa che non sentiva essere in grado di condividere con nessun altro essere umano in generale. Nemmeno con suo fratello.
Cavolo, se vedendo Sam il suo cuore avesse cominciato a fare salti mortali di livello olimpico o se avesse provato l'incontrastabile desiderio di afferrarlo per il colletto e baciarlo, si sarebbe preoccupato molto. Lo amava, ma era un genere di sentimento diverso da quello che provava per Cas.

Castiel, dal canto suo, avrebbe dovuto essere felice. E lo era, eccome! 
Il problema arrivava sempre quando Dean lo lasciava a casa, o quando era da solo in generale. In quei momenti, ogni preoccupazione che la presenza del ragazzo avevano fatto scemare, riprendevano solidità nella sua mente, costringendolo ad una frenetica fuga da qualcosa che non sapeva nemmeno cosa fosse di per certo.
Ne ebbe la conferma solo qualche ora più tardi.

Dean riuscì a convincere Bobby a lasciargli un po' di libertà nonostante il freddo lo facesse rabbrividire, e si diresse a passo un po' troppo spedito verso il pub dove doveva incontrare Castiel, che aveva promesso di accompagnarlo all'ennesima visita di controllo nell'ospedale dove aveva fatto il tirocinio.
A pochi metri dalla destinazione, dovette reggersi una manciata di secondi al muro alla sua sinistra, cercando di riprendere il fiato che sembrava compiere un grosso sforzo per circolare dentro e fuori dai polmoni.
– Dean? Tutto a posto?! – la voce come al solito eccessivamente allarmata di Castiel fu un balsamo che lenì il suono rombante del sangue nelle sue orecchie. Sollevò lo sguardo per trovarselo accanto, con i suoi occhioni blu nella più completa apprensione ed il bavero del trench messo male, probabilmente per la fretta di arrivare in orario.
– Ehi, sono umano. Dammi il tempo di riprendermi. – disse staccandosi dal muro e controllando che non ci fossero troppe persone in giro, ma siccome era presto ne giravano veramente poche, specie in prossimità di un ospedale. Decise che poteva rischiare, nonostante quel genere di pudore fosse una cosa abbastanza nuova per lui.
Fece scivolare una mano lungo la linea della mandibola di Castiel e lo avvicinò a sé, premendo insieme le loro labbra. Lo sentì rilassarsi immediatamente e ricambiare entusiasta il bacio, finché non si separarono per sorridersi timidamente.
Quando entrarono nel bar, lo trovarono fortunatamente semivuoto, e si appartarono in un angolo in fondo. Una parte di lui avrebbe voluto tenerlo per mano, ma dovette arrendersi al fatto che quel bacio nel bel mezzo della strada era quanto di più romantico si sentisse in grado di fare in pubblico. Per quel giorno, almeno.
Visto che il menu della settimana sembrava promettere bene ed il suo stomaco era quasi completamente rimesso a nuovo, decise di sgarrare la dieta di “cibi morbidi e facilmente digeribili” imposta da Sam e Bobby, quindi ordinò un'abbondante fetta di crostata alla fragola.
Dovette trattenersi dal lanciarsi sul piatto, perché con tutti i passati di verdura ed i biscotti secchi che da ormai parecchie settimane rifilava al suo stomaco aveva veramente una  fame tremenda. Castiel lo fissava, non riuscendo a mascherare un sorriso intenerito.
– Ehi. Tu non prendi niente? – chiese Dean sorridendo con la bocca piena, offrendogli una forchettata, che il moro respinse cortesemente.
Aveva mangiato un paio di giorni prima, aveva vomitato tutto, poi aveva spiluccato qualcosa e basta. Non si sentiva pronto a condividere la storia dei suoi disturbi alimentari, nemmeno con Dean che ormai lo conosceva meglio di chiunque altro. Parlare delle sue ansie, dei suoi attacchi di  panico, del senso di inadeguatezza, non era certo gli facesse bene, quindi per non correre rischi decise di tacergli quei dettagli.
– Non ho fame. Sono un po' emozionato per gli ultimi esami. – borbottò, fissando il tavolo sperando che non gli si leggesse in faccia il disperato tentativo di mentire. Il suo guaio era appunto l'assoluta incapacità nel farlo.
– Cas, se ci sono problemi puoi dirmelo. Ho fatto qualcosa di sbagliato? – chiese il biondo precipitosamente. – Davvero, qualsiasi scemenza io abbia combinato ci sto lavorando, è una situazione nuova e... –
– Dean. – Come cavolo faceva Castiel a zittirlo così facilmente? – Non hai fatto nulla di sbagliato, e anche se fosse, mica me la prenderei. Te l'ho detto, sono solo gli esami. –
  ma il ragazzo continuava a fissarlo di sbieco, la forchetta a mezz'aria con un'espressione dubbiosa che non gli lasciava il viso. 
– Okay. – Capitolò. – dunque, pensi di digiunare?
– Per oggi, ho paura di sì. – Rispose laconico Castiel, senza aggiungere quello che nella sua mente continuava in un cupo pensiero: e nemmeno domani, forse, e se mi reggerò ancora, nemmeno dopodomani.
Dean finì in fretta di fare colazione masticando le briciole della crosta di pasta frolla, estrasse i cinque dollari di tasca e li lasciò al bancone. Fece per uscire, afferrando la maniglia e tirando verso di sé la porta per lasciar passare Cas prima di lui, ma quando si voltò appena notò che lui non sembrava aver mosso un muscolo. Invece, stava indietreggiando piano, gli occhi sbarrati tradivano in parte il sopraggiungere allarmante del panico, in parte una rabbia cieca e quasi incontrollata che, Dean era pronto a giurarlo, non gli aveva mai visto dipinta in viso.
Continuò a fare piccoli passi verso l'area più nascosta dalle finestre, senza smettere di fissare il traffico animarsi nel freddo degli ultimi di dicembre, come se avesse appena puntato un potenziale pericolo che doveva assolutamente eliminare.
– Castiel, cosa succede? – la voce di Dean suonò spaventata da quel comportamento anomalo, mentre i pugni del moro si serravano e le sue spalle si irrigidivano. Guardò fuori a sua volta, ma non c'era niente di strano a parte un piccione miope che per poco non andò a sbattere contro la porta di un negozio dall'altra parte della via.
– Dean, voglio andarmene. Dobbiamo andarcene. Adesso.



Dovette fare appello alla forza di volontà in ogni sua singola cellula per non perdere il controllo ed aggredirlo in mezzo alla strada, riempiendolo di botte fino ad ammazzarlo, oppure sciogliersi sul pavimento e cominciare a tremare come una foglia implorando la sua buona stella di salvarlo (di nuovo).
Matt era sul marciapiede opposto, scompostamente appoggiato al muro di un edificio poco lontano dall'ospedale, con un piede contro la parete ed una sigaretta che penzolava dalla bocca. La rivide ridere, ridere ebbra di piacere mentre incitava il compagno a prenderlo a sberle. La stessa bocca  storta che gli aveva urlato “frocio!” talmente tante volte da fare di quella parola il suo unico vocabolario. No, doveva stare calmo. Era tutto successo quasi otto anni prima, non c'era dubbio che l'avrebbe riconosciuto, e non c'era motivo di farsi prendere dalle emozioni.
“E' solo un frocio. Dick, bisogna gonfiarlo!” emise un verso sguaiato mentre lo spintonavano verso il magazzino, serrandogli le mani intorno ad un braccio come se volesse affondare le unghie nella carne. “Guarda un po' che ho trovato nella cassaforte del mio vecchio!” estrasse l'oggetto argenteo di piccole dimensioni, dalla canna lucida e la bocca scura pronta a fare fuoco. La porse a Dick, che davanti a lui camminava con la sua andatura gongolante. “Bel bastardo, quel rompipalle. Sembra essersi reso utile alla  causa, bravo!” la prese e se la infilò nei pantaloni. “Se c'è un qualche cane da spaventare, sappiamo come intervenire.” si voltò verso Castiel, che non riusciva più a divincolarsi per il male al braccio. “Ehi, frocetto, pronto a divertirti? Matt, dove cazzo è quel fottuto magazzino?”
Matt rise di nuovo, con l'amaro dell'alcool nel fiato. “prendi la destra, poi lo vedi già da subito”.
– Castiel, porca miseria, riprenditi! – la voce di Dean interruppe il flusso di immagini.
– Dean, andiamocene. – senza attendere alcuna reazione, afferrò la sua mano e lo trascinò fuori, ignorando lo sguardo perplesso della barista e le proteste del biondo. Camminarono a passo spedito lungo il marciapiede costeggiando il lato destro, proseguendo nella direzione opposta dell'ospedale senza voltarsi.
– Cas, mi stai spaventando a morte, e posso garantirti che non è così facile. Mi dici cos'hai? Fermati! – un forte strattone e riuscì ad arrestare la sua implacabile avanzata. Quando si girò verso di lui, aveva gli occhi rossi, gli tremava la voce ormai non più decisa come prima.
– Non posso fermarmi. Arriviamo a casa mia, poi ti dico tutto ma adesso non posso fermarmi. Se mi vede sono morto, o è morto lui perché potrei benissimo ammazzarlo, ma per favore, per favore, ti prego, andiamocene via prima che mi senta male per davvero. – il flusso di parole incrinato dal timbro rotto e spezzato lo investì lasciandolo più sconvolto di quanto riuscisse ad ammettere. Gli afferrò i polsi fermando tutto quel frenetico gesticolare  e passarsi le mani fra i capelli e allentare il colletto della camicia, ripercorse la curva delle braccia fino alle spalle e lo strinse a sé, parlandogli con metà del viso immerso nei suoi capelli. – Senti, ho bisogno che tu ti dia una calmata. Adesso ce ne andiamo, non ne parliamo finché non ritieni di essere al sicuro, ma cerca di rimanere lucido, okay? Dimmi solo chi è.
Castiel premette il viso contro la sua spalla, emettendo un respiro tremolante, cercando di domare i tremiti di rabbia e paura che lo invadevano senza pietà
– Ma guarda un po'! – una voce beffarda e strascicata colpì le spalle di Dean, troppo vicina perché non potesse rivolgersi che a loro. – Allora è proprio vero, che chi non muore si rivede!

Castiel sentì il suo cuore svuotarsi di tutto il sangue e rimanere tristemente vuoto, incapace di mantenerlo in piedi. Dovette reggersi un paio di secondi alla figura solida di Dean per non scivolare per terra, ma quando constatò di potercela fare da solo vestì la sua maschera più impassibile e scosse brevemente la testa.
– Sparisci immediatamente. – intimò, il tono di voce incredibilmente basso. L'altro rise sonoramente, in modo da riportargli alla memoria gli echi di quella notte come un disco programmato per la tortura dell'ascoltatore.
– Ehi ehi! Al frocetto sono spuntate le palle! Come sta Baby Gabey? È un po' che non lo si vede in giro...
Dean dovette afferrare Castiel con entrambe le braccia per impedire di saltargli addosso e ridurlo ad una macchia deforme spalmata sull'asfalto. Nel farlo sentì le membra del ragazzo tendersi come mai prima d'ora, smaniose di vendicarsi, quasi troppo forti perché lui potesse tenerlo a bada troppo a lungo. 
– Ehi, amico. – s'intromise il biondo, fissandolo torvo, – lo hai sentito, o sparisci o ti pestiamo in due. Fossi in te sceglierei la prima opzione. – disse scandendo le parole, mollando gradualmente la presa sulla vita del compagno, facendo aderire le mani al suo corpo per rendersi presente. Il contatto sembrò rilassarlo leggermente, quidni continuò gentilmente ad esercitare una lieve pressione sui suoi fianchi.
Il tizio spostò una ciocca di capelli castani dalla fronte, mostrando un sorriso da ubriaco.
– Come ti pare, puttanella. Non sono da queste parti per completare l'opera, Cassy. – la sua voce sembrava quella di un rospo sul punto di vomitare. – A quello ci penserà Dick. Io sono solo venuto qui per dirtelo, gli dovevo un favore. Quanto lontano potrai scappare, troietta? – A quel punto fu Dean a perdere il controllo. Senza dover nemmeno pensarci troppo, gli sferrò un pugno alla mandibola che lo ribaltò sul marciapiede con un impatto che gli grattugiò mezza faccia.
Il biondo si fece scrocchiare le nocche, ma visto che era tanto che non scatenava una rissa, decise almeno di finire il lavoro con classe. Si chinò verso di lui in modo da sussurrargli nell'orecchio, cercando di non infierire ulteriormente. Non era una cosa leale, nemmeno nei confronti di quel tizio, qualsiasi cosa avesse fatto. Nulla di buono sicuramente, se conosceva Dick. – Ti conviene non farti vedere in giro per un po'. Se ti becco da solo la prossima volta non ti darò nemmeno il tempo di pentirtene. 
Detto questo si voltò verso Castiel, per riprendere la loro strada. Quando però lo trovò in lacrime contro il muro, nel bel mezzo di un attacco di panico, il respiro irregolare, le mani premute sulle orecchie come se cercasse di reprimere voci nella sua testa che come mani formicolanti lo graffiavano di parole, dovette attuare un piano B.






No. non sono morta.
Lo so, sono la quintessenza dell'imperdonabilità, ma abbiate pazienza, la scuola mi sta uccidendo la vita(?)...
scusate anche se questo capitolo è più corto, ma ahimè, siam messi cosi... Che dire, le cose si fanni difficili, interessanti... restate sintonizzati ;)  !
ciao ciao!!
Dan 

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Capitolo 12
*** Runaways ***


In una notte buia e tempestosa (mica tanto) la vostra Dan emerse dalle ombre reduce da quello che probabilmente avevate immaginato come un pellegrinaggio verso Giove, visto quanto tempo non mi sono fatta sentire, ma ehi. Avevo perso la Password dell'account, sul serio vi aspettavate che mi mettessi avanti come ogni persona sana di mente avrebbe fatto?

Faccio schifo, lo so. Specie perché invece che continuare questa, in attesa della sacra illuminazione divina salvatrice di account, ne ho iniziata un'altra. Qualcuno mi conoscerà anche come Billie Edith Sbster (si, proprio quella sadica lì) per aver scritto http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3123369&i=1 ('Se questo è un angelo', non ho ancora capito come fare i collegamenti, povera capra) e mi odierà anche per questo; magari passate a darci un occhio, se vi va.

COMUNQUE, visto che di roba da fare non ne avevo abbastanza, cercherò di mandarle avanti entrambe. Non so con la scuola quanto questo sarà possibile, non farmi detestare più di quanto già non faccia sarà l'impresa epica della prossima Eneide (scritta da Chuck il Dio Appollaiato Fra Le Nuvole, nelle librerie dell'universo a settembre dell'anno duemilaventordici).

Va bene, va bene, me ne vado.

Solo, capitolo cortino perché sono le due di notte, accidenti a me.

Dan

 

12.

Qualcosa gli vibrava in tasca.

Fu la prima sensazione che percepì, un insistente e fastidioso tremore che si scuoteva contro il suo fianco e lo svegliava lentamente. Ad intervalli regolari si interrompeva e riprendeva, ogni volta sembrava sempre più sistematicamente aggressivo.

Cercò di distrarsi allontanando il ronzare molesto dalla sua mente, concentrandosi piuttosto su quale parte del corpo in quel momento gli stesse facendo più male. Un dissonante concerto di dolori grossolani e pungenti si davano a gara nel suo cranio, come se una serie di pallonate si abbattesse direttamente contro la testa, prima contro le tempie, ora sulla nuca, ed in un qualche modo anche alle orbite e alla mandibola.

Il resto era solo un grumo informe di malessere. Lo stomaco era stretto in un nodo, il cuore sobbalzava. I suoi muscoli erano tesi, e piccole macchioline nere ingombravano la sua vista.

Non si rese conto di dove fosse finché, con la coda dell'occhio non scorse Dean raggomitolato in una poltrona poco distante da lui, con il telecomando in mano e gli occhi puntati sulla televisione. Probabilmente non aveva sentito il cellulare ronzare, perché era schiacciato fra il divano e il suo fianco e perché il volume moderato emetteva il suono fischiante e fragoroso di una corsa automobilistica.

La presenza del ragazzo lo aiutò a tranquillizzarsi, ma ancora non aveva idea di dove si trovasse. Vedeva una finestra incorniciata di legno con tende bianche tirate a metà, la luce del sole entrava timidamente gettando ombre opache sul pavimento. C'erano scaffali stracolmi di libri impolverati, anticaglie disseminate più o meno ovunque, attrezzi da meccanico su quella o questa mensola. Spostando lo sguardo, notò le assi del pavimento leggermente scheggiate, il tappeto spesso su cui poggiavano il divano e la poltrona, la tv era un modello abbastanza vecchio ed era appollaiata su un tavolino di legno. C'era un odore caldo, probabilmente quello delle persone che ci vivevano mescolato alla carta vecchia, le braci morenti del camino e mobili d'antiquariato.

Spalancò del tutto le palpebre.

Il tedioso vibrare era cessato all'improvviso.

Il dolore alla testa serpeggiò verso il basso raggomitolandosi fra le spalle, il che costituì un netto miglioramento.

Si mise a sedere lentamente, cercando di controllare i conati di vomito. Ricordava molto bene quello che era successo, quello che non si spiegava era perché fosse sdraiato su un divano in una casa in cui non era mai stato. Dean lo stava fissando.

– Alzati e splendi, hai dormito quasi quattro ore. – disse, entusiasta di vederlo più attivo di una cozza. Castiel si strofinò la faccia con una mano e appoggiò i piedi per terra, ancora confuso e mezzo intorpidito.

Aveva indosso solo i suoi pantaloni e la camicia. Il trench era scomparso chissà dove e così anche la cravatta. Non che i suoi indumenti fossero la priorità numero uno in quel momento.

– Dove siamo? – Biascicò, continuando a guardarsi attorno.

Dean si alzò in piedi, circumnavigando la poltrona per sedersi accanto a lui. – A Sioux Falls. – disse, lentamente. Castiel lo guardò disorientato, quindi decise di continuare, soppesando le parole con accuratezza. – A casa di Bobby. Sammy è di sopra nella sua stanza, e il vecchio è in città.

Cas normalmente avrebbe lasciato che la consapevolezza di non essere a lezione, o a casa a studiare o con Dean dal medico lo gettasse nel panico, ma in quel momento decise di accantonare il pensiero. Il ragazzo gli aveva circondato le spalle con un braccio e si stava stringendo contro di lui, perché avrebbe dovuto consentire a pensieri cupi come quelli il primo posto nella sua mente? Ora gli stava baciando la fronte. Una pace improvvisa scese su di lui e lo avvolse.

– Qui è… curioso. È caotico, eppure tutto sembra dove dovrebbe essere. – commentò, cercando di leggere i titoli degli spessi volumi ammassati sulle mensole.

– Dean, perché mi hai portato a casa di Bobby? Perché non da me? Avevo le chiavi in tasca, sai che non mi sarei arrabbiato se… –

– Perchè ho bisogno di parlare. – Lo interruppe Dean più bruscamente di quanto avrebbe voluto.

Il cuore di Cas fece una capriola.

Dean gli prese la mano, nonostante non sembrasse ancora particolarmente sicuro di sé era anche deciso a lasciarsi ogni dubbio alle spalle, inclusi i lunghi monologhi interiori su come tutto intorno a lui sembrasse vorticare velocemente.

– Castiel, chi era quello? Il tizio che ha parlato di tu sai chi? – Il riferimento ad Harry Potter lo fece quasi sorridere, ma fu più impegnato ad apprezzare il fatto che non avesse direttamente pronunciato il nome di Dick Roman. Ciononostante, si sentì impallidire.

– Cas, non devi preoccuparti, qui sei al…

– Era lì.

Dan non si aspettava di venire interrotto, quindi lo fissò perplesso.

– Era lì quella notte. Era con Dick. Lo spronava a farmi del male. – la sua voce, nonostante gli appartenesse, suonava lontana anni luce. Guardava il pavimento perché Dean non leggesse tutta l'angoscia che aveva negli occhi.

– La notte che sono stato violentato, e Gabe è stato assassinato, Dick era con altre quattro persone. Due di loro si erano limitati a tenermi fermo quando cercavo di scappare, e sono stati i primi ad andarsene. Probabilmente sono già in libertà, ma di loro non mi interessa granché. Matthew Fergus MacLeod, che gli altri chiamavano Crowley, era un ragazzotto di ricca famiglia inglese che si credeva il re di tutto ciò su cui posasse gli occhi. Probabilmente era l'unica persona che Dick temesse, anche se in fin dei conti il loro rapporto era solido perché si temevano a vicenda. Quella sera, in un qualche modo, era riuscito a ficcare le mani nella cassaforte di suo padre, e si era presentato con una pistola. Pensava fosse una comune scacciacani, ma in realtà penso fosse una rivoltella, perché una scacciacani fa solo rumore ed un po' di fumo. Ha dato lui la pistola a Dick, gli ha dato lui il potere di uccidere mio fratello.

Dean gli strinse una spalla. – Per questo ti sei spaventato ed arrabbiato così tanto?

Cas annuì piano. – Ho rivisto il momento in cui gli ha passato l'arma. È stato il momento in cui ho pensato volessero portarmi in un luogo isolato per uccidere me.

Dean sciolse la stretta, lasciando che una mano vagasse sul suo braccio con fare rassicurante. – Io ti ho visto talmente scosso che l'idea migliore che mi è venuta sul momento è stata portarti il più lontano possibile per qualche giorno. Non pensare all'università, datti malato. Devi pensare anche alla tua salute.

Scese il silenzio. Dean non diceva nulla perché si aspettava un minimo di assenso, ma Castiel sembrava assorto in chissà quale altro distruttivo pensiero.

– Sei stato molto coraggioso a parlarne, Castiel. Ma adesso cerchiamo di fare qualcosa di rilassante, vuoi?

Dopo quasi un minuto, il moro prese parola: – d'accordo. Sei sicuro che non sarà un problema?

Dean si illuminò, le labbra si stesero in un sorriso. – Certo che no, la casa di Bobby è grande e un paio di braccia in più aiutano sempre. Andiamo di là, così prendiamo un boccone.

Per la seconda volta, il cuore di Castiel affrontò un doppio salto mortale e sprofondò all'altezza dello sterno.

Il suo appetito era pari a zero, tanto per cambiare, e dopo gli ultimi avvenimenti non c'era dubbio che sarebbe riuscito a forzarci dentro nemmeno una ciliegia senza rimettere l'anima.

– Non ti disturbare, non ho fame. Mangia solo tu.

Dean si bloccò sulla soglia della porta, si voltò verso di lui con la fronte corrugata.

– Scherzi? Sei svenuto in mezzo alla strada ed hai dormito quattro ore, devi assolutamente mettere qualcosa nel tuo organismo! – Obbiettò contrariato, tornando verso il divano ed allungando una mano verso di lui.

– Sembra che fra noi due il medico sia tu. Dean, ti ringrazio per la cortesia ma dico sul serio, non ho appetito.

Dean non sembrava affatto convinto. Prese la sua mano e lo costrinse ad alzarsi, portandolo nuovamente contro di sé ed accompagnandolo in cucina. – Okay, va bene. Ma un the lo devi per forza bere, anche solamente due sorsi. Sei pallido come un lenzuolo.

Castiel non si perse a cercar di capire che relazione di pallore ci fosse fra lui ed un lenzuolo, e si lasciò accompagnare docilmente in una stanza ampia dai mobili chiari. Si sedette al tavolo ed osservò il biondo armeggiare con i cassetti e le pentole, muovendosi con sicurezza e disinvoltura.

Sembrava trovarsi a suo agio fra i fornelli, le sue spalle larghe erano rilassate e sciolte, i passi meno rigidi. Ora che era a casa, il portamento severo e militare che gli aveva visto ogni tanto qualche mese prima sembrava essersi dissolto. Come se si fosse spogliato di un'armatura lasciando intravedere da che parte fosse più propenso ad appoggiare il peso del corpo, quale posata usava con quale mano, la lieve torsione della schiena.

Dean intanto, approfittava del fatto che Cas non potesse vederlo in viso per pensare.

Ora che ci faceva veramente caso, da quando lo conosceva non lo aveva mai davvero visto mangiare cibi solidi. Il caffè o i milkshake nel bar di fronte all'ospedale non contavano. Tutte le volte lo liquidava con un atono “non ho fame”. Di sicuro sapeva che al campus dell'università non consumava alcun genere di pasto perché non ci si fermava se non per prendere da bere la mattina, glielo aveva detto lui, e fra lo studio ed il tirocinio tornava a casa per poche ore. Ne avevano parlato la sera del planetario: anche nei mesi in cui Cas aveva smesso di farsi vedere in ospedale aveva passato giorno e notte a studiare, e stava il più tempo possibile in biblioteca dove poteva consultare quanti più libri possibile. Quindi, anche a casa, ci andava appena per dormire, perché la madre lavorava a tempo pieno e prendeva il pranzo alla tavola calda vicino alla libreria dove faceva la commessa, quindi in casa non c'era mai nessuno ed il frigo era quasi sempre vuoto. Castiel gli aveva assicurato che mangiava sempre fuori, ma non ne era più tanto sicuro, ed un improvviso e pericoloso dubbio si insinuò nella sua mente.

Era impossibile che non mangiasse assolutamente nulla, perché era comunque allenato e andava regolarmente in palestra, e i turni di notte non si superavano con solo caffè.

Si voltò lentamente, scuro in viso, gli porse la tazza. Castiel sorrise e la prese, soffiando appena sul vapore per raffreddare la bevanda, prima di prenderne un paio di sorsi.

Fu allora che li vide.

Dean si diede mille volte dell'idiota per non averli notati prima.

– Cas, posso vedere la tua mano?

Il ragazzo gelò sul posto, fissandolo stranito. – come mai?

– Fallo e basta.

Gliela porse, ubbidendo diligentemente, ma Dean la respinse e gli chiese l'altra.

Con enorme riluttanza, ubbidì anche quella volta.

Dean la prese fra le sue e, dopo averla accarezzata per un paio di secondi, la voltò, esaminando con occhio indagatore le nocche.

Non ci aveva visto male. La zona intorno alle nocche dell'indice e del medio erano piene di solchi, in certi punti quasi scorticate.

– Da quanto tempo rimetti tutto quello che mangi? – chiese, a mezza voce, spaventato dalla risposta.

– Dean…

Da. Quanto. Tempo.

Cas sospirò, ritraendo la mano e avvolgendola attorno alla tazza tiepida. Sentiva la voce tremargli : – Quasi otto anni.

E prima che Dean potesse intavolare un qualsiasi discorso o fargli una scenata o anche solo dirgli che tutto si sarebbe sistemato, cercando di indorare la pillola di indistruttibile ottimismo, si alzò ed uscì.

Aveva bisogno di cinque minuti, perché la sua testa stava riprendendo a ridere di voci che non erano la sua e vedeva il sangue raggrumarsi nella polvere del su personale pezzetto d'inferno.

***

Sam stava guardando Doctor Who con le cuffie (riconobbe un Dalek passando di fronte alla sua stanza), quindi non udì i suoi passi, o forse semplicemente li ignorò.

Si avventurò alla ricerca di una stanza vuota, che trovò in fondo al corridoio, con la porta pesante di legno mezzo consunto dischiusa. Sembrava un piccolo studiolo, anch'esso pieno zeppo di libri e fogli e qualche candela qui e là e le ragnatele che piovevano dalla lampada. L'abat-jour aveva il filo tutto mangiucchiato da un qualche topo avventore, ma come tutti gli altri ambienti di quella casa, non poteva che affascinarlo. Tutto era in disordine, ma non c'era nulla fuori posto. Ogni cosa era dove sarebbe dovuta essere.

Di diverso c'era solo un pianoforte vecchio stile, chiuso e messo a prendere polvere in un angolo. Sentì un groppo in gola, gettò un'occhiata alle sue spalle. Dean non l'aveva seguito. Non che se l'aspettasse.

Si avvicinò con le gambe che sembravano di gomma, la testa era sul punto di esplodere e quel maledetto proiettile continuava ad affondare nella carne e lacerare e strappare e fare male avvelenandogli i pochi pensieri razionali che c'erano nella sua testa mandandoli al deraglio e prima che potesse rendersene conto piangeva silenziosamente e il cuore che minacciava di scoppiare. Poi, le sue dita erano sui tasti.

Si muovevano con agilità toccandoli quel tanto che bastava per emettere un suono appena accentuato e flebile, perché potesse sforzarsi di sentirlo e connettere la sua mente a qualcosa di esterno. Piccole nuvolette di polvere si sollevavano ad ogni nuova ottava, le legature si infilavano fra le battute allacciandole fra di loro creando suoni liquidi e veloci, poi ecco una pausa ed il vuoto occupava un'altra battuta, lasciandosi esprimere nell'attesa di un'altra riga di un pentagramma invisibile che Castiel non aveva ormai più bisogno di leggere.

Andando avanti la sua mano affondava sempre di più sui tasti, le note erano più forti, aggressive e cristalline, il ritmo incalzante scandito da attimi di sciolta lentezza.

C'era qualcosa in quella melodia, o meglio, quell'armonia di suoni che credeva di aver dimenticato, ma che erano stati seppelliti con violenza inaudita nei recessi più reconditi del suo subconscio.

“– Ricordati, Cassie, che non esiste un solo modo per esprimersi, così come non esiste un solo modo di amare, o provare dolore, o morire, o guarire. Puoi sceglierne uno alla volta e dargli una durata lunga e flemmatica così come puoi creare accordi e combinarli fra di loro, facendo parlare con più voci ciò che vuoi dire. Puoi connettere tutto quanto e poi far aspettare il tempo che ritieni necessario, un sospiro o una vita intera. Non c'è limite a quello che puoi fare con quello che hai nella mente, Castiel. –

D'accordo, Gabe.”

Probabilmente era stata in tutta la sua vita l'unica metafora che era riuscito a comprendere senza indagare sul significato di ogni parola.

Quando finì, quando decise che era abbastanza calmo da tornare di sotto e scusarsi con Dean, si rese conto di non aver mai aperto gli occhi, mentre aveva suonato.

Se l'avesse fato, lo avrebbe sicuramente visto appoggiato allo stipite della porta con lo sguardo incantato e pieno di lacrime.

 

 

Spero di essermi fatta perdonare, ditemi che ne pensate :)

Buon anno a tutti!

Dan

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